Il futuro dei porti e del lavoro portuale - TRAIL
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Il futuro dei porti e del lavoro portuale - TRAIL
La ricerca è stata realizzata da un gruppo di lavoro coordinato da Andrea Appetecchia e composto da Dania De Ascentiis e Flaviana Pessina. Tale gruppo per la realizzazione delle indagini di campo ha potuto contare sul supporto organizzativo e logistico dei delegati sindacali dislocati presso i porti analizzati, in particolare per Genova Fabio Allegretti e Giacomo Santoro (Filt Cgil), Maurizio Diamante (Fit Cisl); per Gioia Tauro Giuseppe Rizzo (Uil Trasporti); per Napoli Emanuele Fernicòla (Filt Cgil) e Antonio Jovine (RSA); per Ravenna Ivano Pretolani (Uiltrasporti), Danilo Morini, Denis Di Martino, Fulvio Casadio e Paolo Gardella (Filt Cgil); per Trieste Renato Kneipp e Luigi Barichievich (Filt Cgil). Un ringraziamento, inoltre, alle Segreterie Nazionali Filt-Cgil, Fit-Cisl, Uiltrasporti e in particolare a Massimo Ercolani, Maurizio Colombai, Claudio Tarlazzi, Giuliano Galluccio, Ettore Torzetti e Ugo Milone. Il testo che segue è stato redatto da Andrea Appetecchia (Introduzione e Parte prima), Dania De Ascentiis (Parte seconda) e Flaviana Pessina (Parte terza), mentre Angela Cesaroni ne ha curato l’editing. Un grazie anche a Massimo Procopio per la paziente rilettura del testo. Si ringrazia infine la Fondazione BNC per aver sostenuto finanziariamente l’indagine attraverso le risorse messe a disposizione di Isfort nell’ambito del programma annuale delle attività istituzionali ed in particolare dell’Osservatorio nazionale sul trasporto merci e la logistica. INDICE Nessun vento è favorevole per il marinaio che non sa verso quale porto andare Parte prima LA NUOVA FRONTIERA 1. L’avvento dei percorsi logistici integrati 1.1. Premessa 1.2. L’estensione del perimetro portuale 1.3. La resistenza alla contaminazione 1.4. L’annessione 1.5. Verso un nuovo modello di mercato 1.6. Lo sgonfiamento del lavoro portuale 2. L’Italia, i porti ed il nuovo mercato 2.1. Premessa 2.2. La domanda di trasporto tra mare e terra 2.3. Il “limbo” del transhipment 2.4. Di quanti porti ha bisogno il Paese? 3. ll lavoro portuale 3.1. Premessa 3.2. Gli addetti e l’evoluzione del ciclo portuale 3.3 Il quadro normativo nazionale 3.4. Le incertezze nell’implementazione della riforma 3.5. Le difficoltà di un’indagine diretta 3.6. I rischi e le opportunità della fine di un periodo Parte seconda L’ORGANIZZAZIONE DEL LAVORO NEI PORTI ITALIANI 1. Introduzione 2. Uno, nessuno e centomila…: il perché di tanti “modelli” 3. L’organizzazione del lavoro tra nuove tecnologie, fattore umano e flessibilità 4. Lo schema operativo: traffici, imprese portuali, forza lavoro, operations 5. I “modelli” 6. L’impatto della riforma portuale e l’applicazione del contratto nazionale: un successo solo a metà 7. Alcune considerazioni al termine delle visite nei porti 8. I casi di studio i 1 3 5 5 6 9 12 14 16 20 20 21 26 28 31 31 31 34 39 41 45 53 55 57 62 74 80 86 93 100 Parte terza MODELLI DI GOVERNANCE DEI SISTEMI PORTUALI EUROPEI ED EVOLUZIONE DEI TRAFFICI MARITTIMI 1. Introduzione 2. I modelli di governance portuale 2.1. L’articolazione delle competenze pubbliche e private 2.2. L’approfondimento del ruolo e delle funzioni degli organi di governo portuale 3. La declinazione operativa dei modelli 3.1. I porti della regione latino-mediterranea 3.2. I porti della regione anseatica 3.3. Il caso inglese 3.4. L’area orientale: Mar Nero, Mar Baltico e versante orientale dell’Adriatico 3.5. La sponda meridionale e mediorientale del Mediterraneo 4. Le dinamiche dei traffici marittimi 4.1. L’evoluzione del quadro dello scambio di merci a livello internazionale 4.2. I traffici marittimi: la lenta ripresa dopo la crisi Allegati SCHEDE DEI PAESI 151 153 154 154 163 169 171 176 179 181 183 185 185 191 203 ii Nessun vento è favorevole per il marinaio che non sa verso quale porto andare1 La metafora di Seneca, formulata per esprimere il travaglio dell’animo umano, ha il merito di cogliere, suo malgrado, il dilemma della scelta del porto per le navi e delle modalità per orientare tale scelta da parte dei sistemi portuali. L’attitudine e la capacità di un porto di accogliere le navi rappresentano le ragioni, o meglio, l’orizzonte strategico all’interno del quale si inscrive l’evoluzione del lavoro in porto. Le caratteristiche fisiche delle imbarcazioni, la loro frequenza di arrivo e di partenza e la tipologia di merci che caricano e/o scaricano determinano la modalità, l’intensità e la continuità delle prestazioni degli addetti. Affrontare la questione del lavoro portuale richiede pertanto una riflessione sulle dinamiche del commercio internazionale, sulle attuali caratteristiche del mercato dei trasporti e, infine, sulla configurazione delle reti logistiche planetarie di congiunzione tra bacini regionali di produzione e di consumo. Le pagine che seguono si propongono dunque di offrire, non solo agli attori dei sistemi portuali (imprese, addetti e autorità di policy e di governance), ma anche a quanti hanno a cuore i destini del Paese, gli elementi necessari per mettere a fuoco il futuro ruolo dei porti al fine di maturare un proprio “punto di vista originale 2 ” sui cambiamenti in atto. Il contributo che segue cerca infatti di superare il dibattito circa la contrapposizione tra lavoro temporaneo, gestito in Italia soprattutto dalle imprese compagnie portuali, e quello “strutturato” delle altre imprese terminaliste. Tale contrapposizione appare infatti sterile se confrontata con il nodo centrale da affrontare per il futuro, ovvero l’estensione del modello di flessibilità, di competitività e di dignità del lavoro - consolidatosi nei porti italiani ed europei - al complesso delle catene logistiche integrate che oggi supportano il frenetico spostamento delle merci a livello internazionale, ma lamentano condizioni di lavoro piuttosto precarie e talvolta a limite della legalità. Il porto e la sua gente sono oggi chiamati a guardare oltre i “varchi” che li separano dal “resto del mondo” in ragione della loro esperienza maturata in secoli di storia nel corso dei quali sono stati in grado di superare passaggi 1 2 L. A. Seneca, Epistulae morales ad Lucilium, LXXI. P. Batini, “L’occasionale, storia di un porto e della sua gente”, Marietti, Genova 1991. 1 complessi ed aspri, le cui tensioni hanno rischiato, in più occasioni, di schiacciare il sistema. Anche oggi, le innovazioni che stanno interessando le geometrie logistiche planetarie, richiedono uno slancio e una rinnovata coesione tra le anime che sostengono la scena portuale al fine di salvaguardare non solo il lavoro degli addetti all’interno del porto, ma soprattutto per stimolare una rinnovata attenzione per tutto il mondo del lavoro logistico, lato mare e lato terra, valorizzando, oltre al lavoro, anche l’imprenditorialità e il know how accumulato. Qualità del lavoro, competenza e spirito imprenditoriale rappresentano infatti il principale valore aggiunto che i porti garantiscono ai territori che li ospitano. ******* Il rapporto che segue raccoglie gli elaborati messi a punto nel corso della ricerca sul lavoro portuale in Italia svolta nell’ambito della IX annualità dell’Osservatorio nazionale sul trasporto merci e la logistica promosso da Isfort. La prima sezione di tale rapporto descrive lo scenario all’interno del quale si colloca la vicenda dei porti e del lavoro portuale in Italia, sia di quello svolto dai dipendenti delle imprese terminaliste che dai soci e dipendenti dei pool di lavoro temporaneo; la seconda riferisce dell’indagine diretta svolta presso cinque realtà portuali rappresentative del complesso della portualità nazionale; la terza, infine, con l’obiettivo di meglio apprezzare le peculiarità del contesto italiano, ricostruisce il quadro dei modelli di governance portuale presenti nel panorama internazionale e, in estrema sintesi, riassume gli andamenti recenti del traffico marittimo mondiale. 2 Parte prima LA NUOVA FRONTIERA 1. L’avvento dei percorsi logistici integrati 1.1. Premessa L’evoluzione tecnologica del trasporto marittimo e l’integrazione del porto con le catene logistiche intermodali terrestri hanno profondamente cambiato l’oggetto ed il peso del lavoro portuale nel contesto della movimentazione di merce a livello internazionale. Gli operatori della logistica globale richiedono ai lavoratori portuali di aumentare la produttività del loro lavoro comprimendo al massimo i costi indiretti (Fig. 1). Fig. 1 – I fabbisogni del mercato e l’organizzazione del lavoro portuale Organizzazione interna al sistema portuale Fabbisogni del Mercato - Compagnie di navigazione - Terminalisti Portuali - Spedizionieri - Intermediari del trasporto Costi indiretti del lavoro portuale (da contrastare) - Perdita di traffico dovuta all’assenza di lavoratori temporanei disponibili - Scioperi - Assenteismo - Assenza dal lavoro dovuta ad incidenti o malattie Efficacia del lavoro in porto (da incentivare) - Produttività del lavoro (compresa la capacità/abilità di innovazione nella gestione dei carichi e nella identificazione di soluzioni logistiche) - Flessibilità del lavoro in termini di ore lavorate, quantità di lavoro e caratteristiche funzionali - Valore dei carichi trattati per addetto portuale (creazione di valore aggiunto) Contesto legislativo - Legislazione sull’uso delle riserve di manodopera in ambito portuale - Legislazione sull’orario di lavoro in porto - Legislazione sulla sicurezza, ecc. Contesto esterno al sistema portuale Costi diretti del lavoro portuale (da razionalizzare) - Costo orario per tonnellata trattata - Costi di gestione del pool di lavoro temporaneo Contesto sociale - Condizioni di lavoro - Formazione - Gestione risorse umane (motivazione, coinvolgimento, modelli di governance) Fonte: Theo Notteboom, Dock Labour and port-related employment in the European seaport system, ESPO - Brussels 2010 5 Il lavoro in porto si mantiene in bilico tra l’esigenza di accrescere la produttività e la volontà di mantenere elevato lo standard di qualità delle prestazioni erogate. E’ dunque necessaria una nuova visione del lavoro portuale in grado di adattarsi all’evoluzione del mercato mantenendo saldi i principi di legalità, di dignità e di sicurezza acquisiti nel corso degli anni 3 . Indubbiamente la quota di attività manuale è sostanzialmente diminuita rispetto al passato, così come è avvenuto per le altre attività industriali e di servizio, mentre il livello di specializzazione e di competenza tecnica richiesto per la gestione della nave in porto è notevolmente cresciuto. Il livello di flessibilità e di discontinuità del lavoro rimane ancora consistente sicuramente molto più elevato rispetto ai livelli medi delle imprese industriali - nonostante il processo di “industrializzazione” delle attività di carico e di scarico e di standardizzazione delle unità di trasporto abbia sostanzialmente modificato il ciclo portuale. 1.2. L’estensione del perimetro portuale I criteri di scelta del porto da scalare per una nave sono molti e, a loro volta, i soggetti che a diverso titolo ne determinano le priorità sono una moltitudine, non solo armatori o personale di bordo. Tra questi si possono ricordare: 1. gli intermediari del trasporto (shippers); 2. le compagnie di navigazione (shipping companies); 3. i trasportatori (forwarders); 4. i terminalisti portuali (terminal operators). I motivi che guidano le scelte di ciascun soggetto sono spesso determinati da valutazioni, in prima istanza quantitative (quanto costa, quanto tempo richiede) e, in seconda battuta, qualitative (completezza ed efficacia dei servizi erogati), tuttavia, in estrema sintesi, i criteri in base ai quali si sceglie un porto sono: 1. il costo; 2. la localizzazione; 3 T. Notteboom, Dock Labour and port-related employment in the European seaport system, ESPO - Brussels 2010. 6 3. le operazioni portuali qualità/affidabilità; 4. la velocità, la disponibilità e l’efficienza di servizi e di infrastrutture; 5. i collegamenti intermodali con il retroterra; 6. le Information Communication Technologies; 7. il livello di congestione. Gli shippers e le compagnie di navigazione sono di gran lunga gli attori più influenti, mentre i criteri che orientano prioritariamente la scelta del porto da scalare sono i costi, la qualità dei servizi portuali e la localizzazione 4 . Tariffe competitive ed eccellenza della qualità dei servizi erogati però non sono sufficienti nella competizione con altri porti. Infatti la scelta dell’approdo non è che una tra le tante scelte necessarie per costruire un percorso logistico integrato efficiente, composto da una pluralità di spostamenti per terra, per aria e per mare 5 che inizia e finisce spesso molto lontano dal mare (Fig. 2). Fig. 2 – Schema di percorso logistico integrato Fonte: Ports and their Connections within the TEN-T Stakeholder Consultation Report, NEA, Giugno 2010 4 5 R. Aronietis, E. van de Voorde, T. Vanelslander (2010), “Port Competitiveness Determinants of Selected European Ports in the Containerized Cargo Market”, paper presented at IAME 2010. H. Meersman, E. van de Voorde, T. Vanelslander (Department of Transport and Regional Economics, University of Antwerp), “Maritime transport market”, SKEMA Coordination action plan. 7 Tali percorsi costituiscono lo scheletro portante delle economie globalizzate: le moderne vie della seta (Fig. 3). La competizione, nell’era della globalizzazione, dunque non riguarda più i singoli porti ma il complesso dei percorsi logistici integrati di congiunzione tra luoghi di origine e di destinazione di materie prime, di semi-lavorati e di prodotti finiti. Fig. 3 – L’area competitiva dei percorsi logistici integrati Fonte: Ports and their Connections within the TEN-T Stakeholder Consultation Report, NEA, Giugno 2010 Il vantaggio competitivo di un percorso non si gioca tanto sulla localizzazione o sull’efficienza del singolo porto, ma sul valore medio dei risparmi di tempo e di costo che il percorso nel suo insieme riesce a totalizzare, cui si aggiungono l’efficacia dei servizi erogati lungo tutto il percorso (porti, centri intermodali, aeroporti, vie di comunicazione, ecc.). Pertanto il porto pur offrendo tariffe vantaggiose e servizi eccellenti, potrebbe essere valutato non sufficientemente competitivo se, ad esempio, i suoi collegamenti con il retroterra fossero inefficienti, oppure la sua localizzazione fosse distante dalle principali rotte marittime o da snodi logistici terrestri ben integrati alla rete trasportistica dell’entroterra. E’ questo in fondo il metodo che ha guidato i consulenti della Commissione Europea nella selezione dei 40 porti prioritari nel quadro dello sviluppo dei Corridoi TEN-T (Fig. 4). 8 Fig. 4 – Ipotesi di 40 porti prioritari dei Corridoi TEN-T Fonte: Ports and their Connections within the TEN-T Stakeholder Consultation Report, NEA, Giugno 2010 1.3. La resistenza alla contaminazione Il passaggio della competizione dai porti ai percorsi logistici integrati è stato provocato da un complesso di fattori che vanno oltre la progressiva standardizzazione dei carichi, di solito sintetizzata nel processo di “containerizzazione” del trasporto e sostanzialmente riguardano: l’evoluzione tecnologica dei mezzi e degli utensili, l’avanzamento nei mercati mondiali di nuovi poli di produzione e di consumo (i cosiddetti paesi emergenti) e la concentrazione del mercato del trasporto (soprattutto quello marittimo) in un numero ristretto di operatori. Sebbene il processo di integrazione dei percorsi proceda rapido, il controllo del ciclo portuale non è stato ancora “contaminato” dal resto delle attività logistiche. Il porto rimane ancora oggi un punto di frattura. La merce istradata nel percorso logistico integrato, prima di entrare in porto, si affida al sistema portuale, per poi riprendere il suo itinerario una volta che ne è uscita. 9 Il porto, in Italia, in Europa e nel resto del mondo, nonostante la straordinaria forza commerciale ed imprenditoriale dei grandi operatori della logistica globale, è ancora oggi controllato da una pluralità di operatori con cui i Global carrier 6 devono entrare in relazione (Fig 5). Fig. 5 – Le relazioni tra gli attori presenti in porto Agenti marittimi Compagnie di Shipping Terminal Operator Vettori terrestri Attori principali Armatori Spedizionieri Mediatori del trasporto Agente doganale Altri servizi marittimi Dragaggio Rifornimento carburante Costruzioni riparazioni navali Altre attività di supporto Altri operatori di servizio Banche Assicurazioni Broker Fonte: Maritime transport market - SKEMA Coordination action plan, Brussels 2010 Entrare in un Porto con una nave, caricare e/o scaricare le merci e ripartire non è così semplice, non tanto da un punto di vista tecnico-operativo, quanto piuttosto, per una serie di procedure, piuttosto complesse e, a volte, farraginose, che hanno giustificato (e tutt’oggi giustificano) l’esistenza di una pluralità di soggetti che si occupano per conto di armatori, delle compagnie di shipping e dei terminalisti del transito della nave in porto. 6 Rispetto al tradizionale common carrier che sostanzialmente rappresenta nella giurisprudenza anglosassone la persona fisica o l’impresa che si occupa del trasporto di beni per conto terzi, il global carrier è una sorta di holding del trasporto in grado di controllare su scala mondiale una pluralità di imprese specializzate in una o in più componenti della catena marittimo-logistica (intermediario del trasporto, spedizioniere, compagnia di navigazione, terminalista portuale). 10 In una recente indagine curata da Isfort in collaborazione con l’ISTAO sono stati contati, nel caso del Porto di Ancona, circa 26 documenti da riempire cui corrispondono una quantità impressionante di procedure, non sempre informatizzate, da eseguire 7 (Fig. 6). Fig. 6 - Procedure di ingresso, stazionamento e uscita della nave in porto (Ancona) FASE DOCUMENTO Capitaneria AP Polizia F. Dogana Sanità Marittiima Altri Domanda di accosto Richiesta di accosto Terminalista Pre-arrivo ISPS Code Informativa rifiuti a bordo Richiesta di libera pratica sanitaria Arrivo della nave Via internet IMO Via fax Manifesto di arrivo + store list Partenza della nave Via telefono Manifesto di partenza+ store list Consegna documento cartaceo Fonte: Isfort-Istao, Develop-med, 2011 La collaborazione tra i vari uffici pubblici preposti al controllo, le agenzie di intermediazione, le compagnie di navigazione e i terminalisti portuali rappresenta la chiave di volta per un reale snellimento delle procedure e soprattutto per l’adempimento di una serie di formalità ineludibili legate alla sicurezza, all’attraversamento dei confini di stato, ecc.. 7 Isfort-Istao, “Ancona piattaforma logistica della macro-regione medio adriatica”, Contributo della Regione Marche al progetto europeo “Develop-Med” (www.developmed.eu), Ancona 2011. 11 Ciò che appare evidente, considerando il quadro evolutivo fin qui delineato, è che un sistema scarsamente informatizzato 8 , complesso e insidioso dal punto di vista procedurale ed amministrativo non può reggere a lungo in un mondo in cui la velocità di esecuzione, la certezza dei tempi e la riduzione dei costi rappresentano i criteri di fondo per la scelta di un porto. 1.4. L’annessione Malcolm McLean quando negli anni ‘50 intuì le potenzialità della unitizzazione dei carichi nel trasporto delle merci si proponeva di migliorare e rendere più agili i passaggi di consegna tra una modalità e l’altra al fine di aumentare i propri profitti e non certo di controllare il trasporto a 360°. Gli effetti economici di questa sua intuizione non tardarono a mostrarsi. Già nel 1956 gli operatori si accorsero che caricare una tonnellata di merce alla rinfusa su una nave di medie dimensioni costava 5,86 dollari, mentre la medesima tonnellata poteva essere caricata su un nuovo container di McLean per circa 16 centesimi di dollaro 9 . Da allora ad oggi, il container ha progressivamente invaso il mercato. Guardando ai dati di traffico dei principali porti mondiali la quota dei container sul totale della merce varia (General Cargo) si attesta tra il 60 ed il 70% 10 . Nei porti italiani tale quota si riduce a circa il 50% (ma già nel Porto di Genova ad esempio si attesta a quasi il 65% 11 ). La visione di McLean però coglie solo una parte delle esigenze attuali di movimentazione della merce e soprattutto non poteva considerare gli effetti della drastica riduzione dei costi di trasporto, sia sul lato della domanda, sia sul quello dell’offerta. I processi di globalizzazione dei mercati e di delocalizzazione dei poli produttivi delle imprese multinazionali sono stati in buona parte possibili grazie alla riduzione dei costi di trasporto. Ma l’integrazione dei mercati ha anche favorito l’emersione di nuove economie, in passato poste ai margini 8 A tal proposito è opportuno segnalare che il livello di informatizzazione delle procedure nei porti italiani è piuttosto disomogeneo. Il porto di Genova, ad esempio, ha ormai da anni avviato un complesso progetto di informatizzazione finalizzato ad agevolare la gestione delle pratiche in porto (e-port sistema telematico del Porto di Genova). 9 M. Levinson , “The Box, la scatola che ha cambiato il mondo”, Egea, Milano 2007. 10 Drewry Shipping Consultants, 2004. 11 Autorità portuale di Genova, 2010. 12 del commercio internazionale. La recente crisi del 2009 se, da una parte, ha profondamente scosso le economie mature, dall’altra ha dato nuovo impulso alle nuove economie di recente sviluppo. Fino alla fine del secolo scorso e per i primi anni del XXI secolo le economie del Nord America, dell’Europa e del Sud Est Asiatico si sono scambiate più dell’80% del complesso delle merci in movimento nel Pianeta. Nel prossimo futuro questo equilibrio è destinato a mutare in favore di nuovi mercati per lo più collocati nella parte meridionale del Pianeta (Sud America, Africa e Resto dell’Asia). Se la domanda di trasporto esplode e si diffonde nel pianeta, l’offerta, al contrario tende a concentrarsi. La riduzione del costo del trasporto e dei margini di guadagno hanno imposto alle imprese di trasporto un esasperato controllo dei costi per salvaguardare i profitti e garantire la remunerazione dei propri investimenti. La frammentazione dell’offerta lungo una catena di operatori e di intermediari, tipica dei sistemi portuali, limita fortemente la possibilità di comprimere ulteriormente i costi. Il fenomeno della concentrazione del mercato delle shipping companies e dei terminal operators non è recente, ma oggi è piuttosto evidente, i 2/3 (64,6%) dei contenitori in transito nei porti mondiali è gestito dai primi 10 terminal operators, mentre il 58,7% della flotta mondiale è controllata dalle prime 10 compagnie di shipping. Inoltre il fenomeno di fusione tra le attività di movimentazione delle merci in porto e di trasporto via mare sembrerebbe avanzare rapidamente; infatti 5 delle prime dieci shipping companies controllano altrettanti terminal operators collocati ai vertici della omologa graduatoria mondiale (Tab. 1). Tab. 1 – Controllo della flotta e delle movimentazioni portuali (2009) Terminal operator Hutchinson Whampoa Port Holding AP Moeller Terminal Port of Singapore Authority Dubai Port World Cosco Pacific MSC Eurogate Evergreen SSA Marine CMA-CGM Totale primi dieci Milioni di TEU movimentati Facenti (%) parti del Mercato medesimo globale gruppo Shipping Company Capacità della flotta in (%) Milioni di Flotta TEU mondiale 64,2 56,9 13,6 12 Maersk Line MSC 2,0 15,0 1,5 11,3 55,3 45,2 32,5 16,4 11,7 8,6 7,7 7 305,5 11,7 9,5 6,9 3,5 2,5 1,8 1,6 1,5 64,6 CMA CGM Evergreen APL Hapag-Lloyd Cosco CSCL NYK Hanjin Shipping 1,0 0,6 0,5 0,5 0,5 0,4 0,4 0,4 7,6 4,4 3,9 3,5 3,5 3,3 3,1 3,0 Totale primi dieci 7,9 58,7 Fonte:Elaborazioni Isfort su dati Notteboom e Rodriguez, 2009 e AXS Alphaliner, 2009 13 1.5. Verso un nuovo modello di mercato Eivind Kolding - partner del gruppo AP Moeller-Maersk e responsabile del mercato container dello stesso gruppo - ha di recente illustrato la strategia della compagnia in poche parole: l’obiettivo del gruppo danese è quello di soddisfare il desiderio dei propri clienti di poter facilmente prenotare l’invio di un container on-line così come comprano un libro da Amazon.com 12 . La frase, senza dubbio efficace, getta una luce sugli scenari evolutivi del trasporto e della logistica che consente di mettere a fuoco il mercato dei trasporti del futuro; una visione che, a seconda del punto di vista da cui la si osserva, può essere esaltante o, al contrario, preoccupante. A partire dall’approccio “web-oriented” di Kolding il percorso della merce dal punto di origine a quello di destinazione si smaterializza e scompare non solo dalla vista, ma anche dalla percezione del cliente, il quale potendo seguire tramite sistemi georeferenziati sul proprio computer l’avanzamento della spedizione fino al destino finale, sarà completamente tagliato fuori dall’esperienza reale dello spostamento della sua merce. Tutto sarà controllato da chi riceve l’ordine via internet prendendo in consegna il container. Dal punto di vista della domanda indubbiamente si possono apprezzare gli aspetti positivi di questa evoluzione, ma da quello dell’offerta la riorganizzazione potrebbe comportare un vero e proprio stravolgimento del mercato con costi sociali non indifferenti. Gli effetti sui sistemi portuali si possono facilmente immaginare, visto che, ancora oggi, l’attività di movimentazione delle merci rappresenta la principale ragione d’essere di un porto di medio-grandi dimensioni. Il percorso ideale attraverso il quale arrivare all’e-marittime enfatizzato dalla Maersk passa per il progressivo assorbimento da parte del global carrier del controllo di tutti gli operatori posti lungo la filiera del percorso logistico intergrato (Fig. 7). 12 E. Kolding, intervento al decimo incontro annuale della Trans-Pacific Maritime Conference, Long Beach 2010. 14 Fig. 7 – L’evoluzione del quadro degli attori del mercato dei trasporti Porto Mare Terra Agente Marittimo Centro di distribuzione Spedizioniere Agente doganale Compagnia di shipping Terminalista portuale Impresa di trasporto a terra (Ferrovia, Camion) Ultimo miglio (Camion) Cliente (destinazione finale) Modello organizzativo attuale Inland Terminal Compagnia di shipping Terminalista portuale Cliente (destinazione finale) Ultimo miglio (Camion) Impresa di logistica Preferibilmente collegamento ferroviario Piattaforma logistica regionale INTEGRATORE LOGISTICO / GLOBAL CARRIER Cliente (destinazione finale) Modello organizzativo “Amazon.co Fonte: Isfort (2011) adattato da Notteboom & Rodriguez (2004) L’obiettivo principale della Maersk, come d’altronde di tutti i global carrier, è quello di controllare l’efficienza (costi) e l’efficacia (qualità) del complesso del percorso logistico integrato per assicurare ai propri clienti un servizio a costi competitivi (tariffe più economiche) ed affidabile (performance migliori) rispetto a quello offerto dai competitors nelle singole componenti del percorso (intermediari, spedizionieri, compagnie di navigazione e terminalisti portuali) 13 . Sebbene - come argomentato nel precedente paragrafo - i sistemi portuali tentino di resistere all’assorbimento da parte dei global carrier, tale resistenza rischia di non poter reggere a lungo l’”assedio” di una concorrenza fortemente interessata e in grado di mobilitare risorse rilevanti. Guardando alla composizione azionaria degli operatori portuali dei maggiori porti del pianeta si nota che le società richiamate nella tabella precedente (Tab. 1) hanno acquisito il controllo o partecipazioni azionarie rilevanti delle imprese titolari delle concessioni. 13 C. van Althena – Maersk Line, “Ocean Carrier and inland terminal strategies”, Neuss, 24 aprile 2008. 15 Nella figura che segue viene riportato il caso dei tre porti europei: Anversa, Rotterdam e Zeebrugge. La figura illustra in modo abbastanza efficace il livello di penetrazione di tali porti che fra l’altro, nel caso di Rotterdam e Anversa, rappresentano i principali poli di attrazione del traffico marittimo europeo (Fig. 8). Fig. 8 – Partecipazioni azionarie dei Global carrier nei porti di Rotterdam, Anversa e Zeebrugge HUTCHINSON PORT HOLDINGS AUTORITA’ AUTORITA’ PORTUALE DI SINGAPORE (PSA) 20% PSA HNN Azionista di maggioranza Europe Container Terminal (ECT) MSC 50% Azionista di minoranza NYK 100% Delta Terminal 100% Waal-and Eemhaven DP World 50% Euromax (Prima Fase) 60% Rotterdam World Gateway (Maasvlakte 2) Operativo dal 2013 COSCO Pacific 10% 100% Terminal 1 (Maasvlakte 2) Operativo dal 2014 100% 42,5% 20% CMA-CGM APM Terminal Maasvlakte ROTTERDAM 100% APM Terminals 10% MSC Home terminal 50% North Sea terminal 100% Europe terminal 100% Deurganck terminal 100% Terminal Internazionale di Anversa (AIT) 50% DP World Delwaidedock Gateway di Anversa ANVERSA 35% (AP Moeller Group) Porti Terminal 60% Compagnie di navigazione Terminalisti portuali Terminalisti di proprietà di global carrier CHZ 65% Albert II molo nord (In costruzione) 100% APM terminal ZEEBRUGGE Fonte: Notteboom e Rodriguez “The corporate geography of global terminal operators: rentseeking through location choice and network structures”, Brussels 2009 1.6. Lo sgonfiamento del lavoro portuale Gli impatti sul lavoro portuale dell’insieme dei processi fin qui descritti sono sicuramente rilevanti, tuttavia le analisi circa le conseguenze effettive in termini di innovazione delle modalità e dei contenuti del lavoro in porto, nonché di incremento/decremento dell’occupazione, delle competenze e delle conseguenti retribuzioni riconosciute sono piuttosto rari. 16 A tal proposito l’esperimento portato a termine da Theo Notteboom dell’Università di Anversa di analizzare il lavoro portuale in Europa e di recente tradotto in italiano dal Centro studi dell’Autorità portuale di Genova rappresenta un punto di riferimento importante per approfondire l’argomento 14 . Tuttavia non è sufficiente a colmare un vuoto informativo piuttosto evidente. Il progetto avviato da Notteboom descrive, infatti la cornice di un tema ed una prima scrematura delle informazioni disponibili con livelli di approfondimento piuttosto disomogenei, il caso italiano, ad esempio, è totalmente assente. Al di là di questo, mancano informazioni di carattere quantitativo omogenee per tutto il contesto europeo circa il numero degli addetti diretti (di frequente è piuttosto complesso articolare la forza lavoro tra impiegati operativi e amministrativi) anche per stabilire chiaramente la produttività dei lavoratori attivi in porto. Nelle pagine che seguono si è tentato di elaborare una stima, ma si tratta di una ipotesi, ancora molto “grossolana” tutta da verificare (cfr. Tab. 3 a pag. 33). Come sarà meglio argomentato nei capitoli che seguono il lavoro portuale si è sostanzialmente contratto a partire dagli anni ’70 in Italia, in Europa e nel resto del mondo; l’ingresso del contenitore, la standardizzazione dei carichi ed il successivo avvento dei percorsi logistici integrati quali assi portanti della globalizzazione dei mercati hanno contribuito a mutare il peso ed il valore del lavoro nelle operazioni portuali. Ma si è trattato di una riduzione complessiva del peso delle prestazioni di lavoro lungo tutta la catena logistica del percorso integrato, oppure di una redistribuzione dei carichi all’interno delle fasi di tale catena? Per trovare un’analisi in grado di stimare con una base informativa sufficientemente ampia e dettagliata l’impatto dei percorsi logistici integrati sul lavoro portuale è necessario abbandonare l’Europa per dirigersi verso le coste pacifiche del Nord America. Presso l’Università di Vancouver in Canada Peter V. Hall si è occupato dell’evoluzione del lavoro portuale nelle grandi aree portuali degli Stati Uniti andando a verificare se l’incremento dei traffici commerciali gestiti in tali aree negli ultimi trenta anni abbia prodotto effetti significativi sugli addetti in termini di aumento dei posti di lavoro e delle retribuzioni 15 . 14 Autorità portuale di Genova, “Numero monografico sul lavoro portuale”, Quaderni portuali, Genova 2011. 15 P.V. Hall, “Container ports, local benefits and transportation worker earnings”, Geojournal 74 (1), 2009. 17 Hall ha analizzato in prima battuta l’evoluzione del numero degli addetti presenti nei percorsi logistici (lavoratori portuali, camionisti e addetti ai servizi logistici) ed in seconda battuta ne ha confrontato la variazione del valore delle retribuzioni rispetto a quelle degli altri addetti con mansioni equivalenti in tutti gli altri settori (non trasporti) della medesima regione (retribuzione relativa). I risultati dell’analisi offrono una risposta interessante nel quadro della presente analisi. Infatti se il dato relativo alla decisa contrazione degli addetti portuali dal 1977 al 2005 non sorprende, è invece importante notare che le retribuzioni di tali addetti, già alla fine degli anni 70 più elevate rispetto a quelle degli altri settori, negli anni a seguire hanno ulteriormente incrementato questo distacco. Gli addetti portuali diminuiscono, ma le competenze richieste sono sempre più specialistiche ed elevate così come il livello delle retribuzioni. Al contrario, il numero dei camionisti è sostanzialmente rimasto invariato, ma il valore del reddito è sceso, mentre, ed è questa l’informazione che richiede qualche ulteriore considerazione, gli addetti alla logistica nelle piattaforme logistiche esterne ai porti sono aumentati notevolmente (quasi decuplicati rispetto agli anni ’70) ed il loro reddito oltre a scendere di valore è anche diventato più basso rispetto a quello percepito dai pari grado in altri settori produttivi e dei servizi (Fig. 9). Fig. 9 - Evoluzione del lavoro nei percorsi logistici integrati Regioni portuali degli Stati Uniti d’America (1975-2005) Lavoratori portuali nelle regioni con grandi porti: aumento delle retribuzioni relative e riduzione dei posti di lavoro Addetti ai servizi logistici nelle regioni con grandi porti: diminuzione delle retribuzioni relative e aumento dei posti di lavoro Indice relativo all’evoluzione de numero di impiegati (1977=100) Comparazione del reddito con quello di altri addetti non dei trasporti della stessa regione Fonte: P.V. Hall, 2009 18 Il lavoro nei percorsi logistici integrati non si è ridotto lungo tutte le fasi della movimentazione delle merci, ma è in buona sostanza trasmigrato dalle banchine verso le aree di lavorazione logistica delle merci (distripark, magazzini, piattaforme logistiche, ecc.). I grandi porti sono diventati snodi cruciali dei percorsi logistici integrati, in cui il trasferimento modale dalla nave alle altre modalità di trasporto richiede una forza lavoro altamente specializzata e tecnicamente preparata, ma piuttosto ridotta. Le lavorazioni logistiche ad alto valore aggiunto avvengono al di fuori dell’area portuale nei magazzini e nelle piattaforme logistiche dove gli addetti alla logistica hanno livelli di specializzazione sostanzialmente più contenute e soprattutto meno pagate. In altre parole il valore aggiunto generato dalle lavorazioni sembrerebbe non influire sul lavoro il quale al contrario, secondo i dati dell’analisi di Hall, è modestamente retribuito. 19 2. L’Italia, i porti ed il nuovo mercato 2.1. Premessa La straordinaria posizione baricentrica dell’Italia e dei suoi molti porti rispetto alle principali linee marittime di collegamento East-bound e Westbound che attraversano il Mediterraneo, ha stimolato - ormai da qualche anno - la fantasia di esperti, di enti di ricerca (tra cui anche chi scrive 16 ), di politici e di amministratori circa le notevoli potenzialità della cosiddetta “Piattaforma logistica italiana”. Mentre l’“intellighenzia” si prodigava a tracciare linee, stimare flussi, progettare infrastrutture, programmare l’attivazione di servizi intermodali volti a sottrarre il traffico ai porti del nord Europa per la conquista dei servizi logistici continentali (senza mai arrivare all’implementazione di quanto stabilito sulla carta), il sistema dei porti italiani non si è trasformato in una piattaforma logistica intercontinentale integrata, in parte perché tale ipotesi richiedevano investimenti rilevanti che né il pubblico, né il privato sono stati in grado di mobilitare ed in parte perché non era poi così necessario farlo. Lasciando da parte l’ironia, le valutazioni circa la credibilità delle ipotesi formulate e la necessità di colmare il famoso “gap” che ci separa dai porti del nord Europa, si deve avere il coraggio di ammettere che, mentre si narrava il “mito della piattaforma”, i sistemi portuali nazionali ed i loro attori tradizionali hanno di fatto scelto di continuare per la loro strada. Una strada percorsa in silenzio senza contraddire chi alimentava, giustificandolo, tale mito, anche perché si è rilevato piuttosto utile per giustificare e rinforzare gli investimenti lato mare e terra previsti nei Piani triennali portuali. 16 Isfort, “Opzione Mediterranea, rotta di collegamento Far-East – New-York via landbridge Europei”, Roma 2001. 20 2.2. La domanda di trasporto tra mare e terra I porti in Italia sono sempre stati (e continuano ad essere) il principale gate di rifornimento energetico di un Paese “energivoro”, ma povero di risorse proprie. I porti in questo senso non hanno mai rinunciato al loro ruolo, rifornendo famiglie e imprese della energia necessaria e supportando lo scambio internazionale di materie prime, semi lavorati e prodotti finiti. Nella fase della grande industria i porti hanno attirato l’installazione delle grandi imprese di trasformazione nelle loro immediate vicinanze: Genova, Venezia, Napoli e Taranto (solo per citare le principali) sono state le sedi della siderurgia italiana, della chimica, della grande cantieristica, ecc.; a partire dagli anni ’80, la crisi della grande industria ha costretto i porti a cambiar pelle e a guardare oltre gli stabilimenti delle grandi imprese. Si trattava di coprire un territorio più vasto e soprattutto polverizzato, sia in termini di punti di origine e di destinazione, sia di concentrazione di volumi. Grazie ad un partner prezioso come il camion, i porti hanno iniziato a distribuire la merce sbarcata dalle grandi navi verso una pluralità di destinazioni sparse nell’entroterra. Le ferrovie, prima utili per servire la grande impresa fortemente concentrata sul territorio ed in grado di generare ingenti flussi di traffico, si sono rivelate inefficaci per raggiungere destinazioni piuttosto “sparpagliate” con volumi di merce piuttosto contenuti. Questa mutazione di mercato si avverte nell’organizzazione interna dei porti italiani dove le connessioni ferroviarie hanno perso di importanza divenendo residuali. Mantenendo salda questa vocazione la rete dei Porti nazionali ha seguito e alimentato l’evoluzione industriale del Paese mettendosi a servizio, prima, della grande industria e, in seguito, di quel tessuto capillare di piccole e medie imprese, per lo più concentrate nei quadranti centrale e settentrionale della penisola, che colloca l’Italia ai vertici delle classifiche europee ed internazionali del commercio estero (Tab. 2). 21 Tab. 2 – Il posizionamento dei Paesi nel Trade Performance Index 17 2006 Categoria merceologica Mezzi di trasporto Meccanica non elettronica Chimica Prodotti manufatti di base Prodotti diversi Meccanica elettrica ed elettrodomestici Information Technology ed elettronica di consumo Minerali e combustibili Prodotti alimentari lavorati Prodotti in legno 1° Germania Germania Germania Germania Germania Germania Olanda Italia Italia Italia 3° Corea del Sud Svezia Francia Svezia Svizzera Francia Germania Cina Singapore Australia Olanda Germania Russia Germania Finlandia Danimarca e Nuova Zelanda Germania Cina Cina Norvegia Francia Svezia Agricoltura ed alimenti freschi Olanda Tessili Abbigliamento Cuoio, pelletteria e calzature Italia Italia Italia Fonte: Paesi classificati 2° Francia Italia Taiwan Romania Vietnam elaborazione Fondazione Edison su dati UNCTAD-WTO International Trade Centre, 2006 Le merci sbarcate hanno quale destino finale le immediate vicinanze del porto, così come quelle imbarcate, provengono dai territori limitrofi: - oltre l’80% dei containers transitati nel porto di Genova raggiunge regioni quali la Lombardia, l’Emilia Romagna e il Veneto, mentre il resto della merce viene suddiviso soprattutto tra il territorio ligure, quello piemontese e la Valle d’Aosta (la sola Lombardia assorbe circa la metà dei container) 18 ; 17 Il Trade Performance Index (TPI) elaborato congiuntamente dall’Agenzia delle Nazioni Unite per il Commercio (UNCTAD) e dall’Organizzazione Mondiale per il Commercio (WTO) riguarda i 14 principali macrosettori in cui è stato suddiviso il commercio internazionale. Per ogni macrosettore di ciascun Paese è stato costruito un indice composito basato su 5 sottoindicatori: il saldo commerciale; l’export pro capite; la quota nell’export mondiale; il livello di diversificazione di ogni macrosettore in termini di numero di prodotti in esso contenuti; il livello di diversificazione dei mercati. In tal modo il TPI tiene conto non solo del valore assoluto dell’interscambio, ma anche della dimensione dei vari Paesi e della loro specializzazione, nonché di eventuali loro elementi di debolezza derivanti da una eccessiva concentrazione dell’export su pochi prodotti o su pochi mercati di destinazione degli stessi. (Fondazione Edison - Symbolia, Geografie del Nuovo Made in Italy, Maggio 2009). 18 Regione Piemonte, “Piano regionale per la logistica”, Febbraio 2008. 22 - - nel porto di Napoli circa il 65% delle merci ha origine o destinazione nel territorio campano e la quasi totalità riguarda al massimo, oltre alla Campania, le regioni contermini 19 ; i contenitori sbarcati nel porto di La Spezia sono per il 28% diretti in Lombardia, per il 26% in Emilia Romagna, per il 15% in Toscana, per il 12,6% in Veneto, per l’8,6% in Liguria, per il 5,3% in Piemonte e solo il 4,5% è diretto verso altre destinazioni soprattutto nazionali 20 . I contenitori sbarcati nei porti italiani, al netto dei traffici dei porti di transhipment (Gioia Tauro, Taranto e Cagliari), nell’anno passato sono stati meno di 6 milioni (5.777.300 TEU), circa sette container su dieci (67,5%) di tali traffici sono stati movimentati nel quadrante settentrionale del Tirreno (Savona-Vado, Genova, La Spezia e Livorno). Il resto dei contenitori si è diretto verso gli altri quadranti: - 14%, Tirreno centro meridionale (Civitavecchia, Napoli e Salerno); - 11,7%, Adriatico settentrionale (Venezia, Monfalcone e Trieste); - 5,1%, Adriatico centro meridionale (Ravenna, Ancona, Bari e Brindisi). La distribuzione dei contenitori sembra seguire la geografia industriale del Paese 21 ed essere attirata dalle aree dove più elevata è la domanda di trasporto (Fig. 10). 19 Logica, Isfort, RFI “Studio sul trasporto ferroviario delle merci nel bacino campano” Dicembre 2005. 20 Autorità portuale La Spezia, “Traffico mercantile 2010”, gennaio 2011. 21 I sistemi locali del lavoro 2001 dell’Istat. I sistemi locali del lavoro sono ottenuti da aggregazioni di comuni a partire dai dati relativi al pendolarismo dei componenti delle famiglie per motivi di lavoro ricavati dagli appositi quesiti posti nel Censimento Generale della Popolazione del 2001. I due criteri principali adottati per la definizione dei SLL sono: l’auto-contenimento per il quale il SLL concentra sul suo territorio le attività produttive e di servizi in quantità tali da offrire opportunità di lavoro e residenziali alla maggior parte della popolazione che vi è insediata; la contiguità fisica dei comuni all’interno di un SLL. I sistemi locali del lavoro così come i distretti industriali determinati dall'Istat (che dai SLL discendono) sono scevri da vincoli amministrativi, essi possono essere formati anche da comuni appartenenti a province o regioni diverse. La classificazione per regione avviene secondo il comune capoluogo del SLL, individuato in base alla numerosità di persone che vi si dirigono per motivi di lavoro. 23 Fig. 10 – Ripartizione dei transiti contenitori nei porti italiani al netto dei porti di Transhipment e collocazione dei Sistemi Locali del Lavoro di Grande, Media e Piccola Impresa (2010) Savona, Genova, La Spezia, Livorno Trieste, Monfalcone, Venezia, 11,7% Ravenna, Ancona, Bari Brindisi 67,5% 5,1% 14,7% Civitavecchia, Napoli, Salerno Fonte: elaborazione Isfort su dati Istat e Assoporti, 2010 L’articolazione del resto del traffico non containerizzato (RO-RO 22 in particolare) sembrerebbe, al contrario, essere influenzata dalla concentrazione degli insediamenti umani (Fig. 11). L’integrazione navecamion per il trasporto della merce non containerizzata si rivolge prevalentemente al mercato dei consumi finali delle famiglie, piuttosto che alle imprese industriali ed è pertanto più diffusa sul territorio nazionale. 22 Si tratta dell’acronimo del termine tecnico inglese Roll Off – Roll On che indica la modalità di carico dei camion e dei semirimorchi direttamente nella stiva dei traghetti senza l’ausilio di mezzi meccanici, per l’appunto solo grazie allo scivolamento delle ruote dei camion stessi o delle ralle per i semirimorchi. 24 Fig. 11 - Ripartizione dei transiti RO-RO nei porti italiani e densità della popolazione residente (2010) Trieste, Monfalcone, Venezia 9,0% Savona, Genova, La Spezia, Livorno Ravenna, Ancona, Bari Brindisi 24,5% Olbia e Cagliari 10,3% 20,7% Civitavecchia, Napoli, Salerno 12,7% Fonte: Istat e Assoporti, 2010 Messina, Catania, Palermo 21,3% Guardando ancora la distribuzione del traffico di merci trasportate in modalità RO-RO, i porti della zona centrale e meridionale dell’adriatico fanno registrare valori di traffico non residuali come nel caso dei contenitori, così come tutta l’area centrale e meridionale del tirreno da Salerno fino a Civitavecchia. Trattandosi di traffico che viaggia su camion dai Porti verso l’entroterra italiano e viceversa anche la differenza di circa 100 km di tragitto su strada può far scegliere un porto piuttosto che un altro. A tal proposito è interessante richiamare le dinamiche competitive nel trasporto RO-RO di tre porti adriatici collocati in una fascia costiera di poco più di 700 km (Bari, Ancona e Ravenna). I tre porti si dividono, insieme a Trieste, i traffici RO-RO/ferry verso i Balcani, la Grecia e la Turchia. In questo genere di traffici il porto dorico subisce da una parte la concorrenza, a nord, del porto di Ravenna che risulta più competitivo di quello di Ancona perché può contare su servizi di linea tutto merci che, sebbene siano indubbiamente più lenti (non realizzando, come accade nel caso del porto dorico, un servizio passeggeri che implica necessariamente velocità di crociera più elevate), risultano inevitabilmente più economici. A sud il porto concorrente è rappresentato dallo scalo barese. Il porto pugliese realizza servizi di linea misti (RO-RO e Passeggeri) più rapidi e più economici del porto di Ancona, 25 pur considerando nel computo i costi stradali aggiuntivi determinati dal tragitto stradale Bari-Ancona. Il costo stradale di un container o di un semirimorchio trainato da motrice è di circa 1,40 €/km (gasolio più costi di gestione complessiva del mezzo) 23 . In un mercato in cui i margini di guadagno su ogni singolo container o semi-rimorchio trasportato si aggira intorno a poche centinaia di euro, la differenza anche solo di 100 km può rappresentare un vantaggio economico non di secondo piano nella valutazione dell’efficienza del percorso logistico integrato. 2.3. Il “limbo” del transhipment L’evoluzione dei traffici di transhipment nei sistemi portuali nazionali, nel quadro dell’analisi fin qui svolta, merita un approfondimento a parte. Fermo restando che pressoché tutti i porti nazionali ed esteri dedicano una parte, più o meno rilevante, dell’attività portuale al mero trasferimento dei container dalla nave madre alla nave feeder, nel corso degli ultimi decenni si sono affermati sistemi portuali in cui questo segmento di traffico rappresenta la principale (in alcuni casi quasi esclusiva) attività del porto. La crescita del transhipment in Italia è stata piuttosto rapida fino a raggiungere nel 2005 quasi la metà delle complesso delle movimentazioni portuali italiane (47%). Nonostante tale quota si sia progressivamente ridotta dal 2005 in poi, attestandosi lo scorso anno poco al di sopra del 40%, il transhipment rimane ancora oggi una componente fondamentale e caratteristica della portualità italiana (Graf. 1). Il porto più importante del settore è Gioia Tauro, nato proprio per servire questa tipologia di traffico, cui si sono aggiunti, più di recente, Taranto e Cagliari, che invece hanno utilizzato questa tipologia di traffico per sostituire precedenti specializzazioni in declino. La localizzazione del porto in cui svolgere la movimentazione delle merci containerizzate tra navi di diversa dimensione non è legato alla domanda di trasporto generata dai contesti economici locali, ma risponde 23 Secondo l’indagine conoscitiva sui costi e sulla fiscalità dell’autotrasporto del Comitato centrale dell’Albo degli Autotrasportatori il costo chilometrico di un camion (autoarticolato a cinque assi composto da motrice e semirimorchio) si attestava nel giugno del 2005 a 1,354 €. 26 esclusivamente alle esigenze delle grandi compagnie di shipping ed alle loro strategie di mercato e di organizzazione dei flussi. L’hub di transhipment rappresenta un nodo fondamentale nel quadro dell’equilibrio fra efficienza e efficacia di un percorso logistico integrato, ma al contrario dei porti di destino finale, si gioca tutto il suo vantaggio competitivo sul tempo e sul costo delle operazioni di trasbordo. Graf. 1 - Distribuzione traffico container nei porti italiani (TEU, Porti di transhipment e Porti hub) 7.000.000 6.000.000 5.000.000 4.000.000 3.000.000 2.000.000 1.000.000 0 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 Porti di transhipment (Gioia Tauro, Taranto e Cagliari) 2007 2008 2009 2010 Porti hub (tutti gli altri porti) Fonte: Elaborazioni Isfort su dati Assoporti, 2011 Pertanto quanto finora argomentato circa il quadro evolutivo della portualità italiana non riguarda questi porti, i quali dipendono interamente dall’incontro tra la domanda delle compagnie di navigazione e l’offerta dei terminalisti portuali. Un’offerta che può essere sempre superata dall’ingresso di nuovi competitor collocati in prossimità delle principali rotte marittime di collegamento intercontinentale. La modesta relazione con l’entroterra rappresenta dunque, per alcuni attori del mercato, un vantaggio, per altri, un limite: un vantaggio per i Global carrier (compagnie di shipping e terminalisti portuali) che possono collocare i propri servizi un po’ ovunque (sono fondamentali – oltre alla vicinanza alle rotte – i fondali adeguati e gli spazi per la movimentazione e lo stoccaggio a terra dei 27 container in transito); un limite per il territorio che ospita tali strutture perché il valore aggiunto generato da queste attività non si irradia su un indotto locale, eccezion fatta per la creazione dei posti di lavoro necessari per garantire l’operatività dei terminal. Posti di lavoro che però, rappresentando una voce di costo non secondaria nella gestione del terminal, sono esposti alle aspre dinamiche competitive di questa nicchia del mercato marittimo. Il futuro dei porti italiani di transhipment, così come per gli altri sparsi per il pianeta, appare dunque sostanzialmente legato alla volontà dei terminalisti che vi si insediano di investire sugli approdi nazionali e delle compagnie di shipping di valutare tali approdi convenienti rispetto alle loro strategie di mercato. La possibilità degli enti locali e dei lavoratori di essere parte attiva all’interno di questa competizione dovrebbe essere vincolata a piani di investimento di media lunga durata e soprattutto alla volontà di compagnie di navigazione e dei terminalisti portuali di coinvolgerli nella definizione dei loro orientamenti strategici. La partecipazione attiva dell’amministrazione di livello nazionale e locale dovrebbe però essere inquadrata all’interno di una politica dei trasporti nella quale siano ben definiti i costi da sostenere ed i benefici attesi dal territorio. Una prospettiva al momento ancora lontana. La crescita impetuosa della prima metà del decennio passato si è fermata all’inizio della seconda metà e, l’anno passato, mentre gli altri porti hanno ripreso la loro crescita, dopo la crisi del 2009, i porti di puro transhipment hanno continuato a perdere traffico, così come l’opportunità di capire in concreto, e non solo a parole, quale sia l’orientamento della politica nazionale e locale dei trasporti sull’argomento. 2.4. Di quanti porti ha bisogno il Paese? La configurazione attuale della portualità nazionale, in buona sostanza, se si escludono come ricordato poc’anzi i porti di transhipment, segue la localizzazione della domanda di mobilità delle merci espressa dal Paese. La dispersione degli approdi nazionali, di cui di solito ci si lamenta, allora non è solo un vizio, ma anche una virtù della portualità italiana. Un Paese con un’elevata vocazione al commercio estero, con una produzione diffusa sul territorio forse non patisce la frantumazione dell’offerta, ma al contrario se ne giova. La produzione italiana ha bisogno di un modello logistico 28 antitetico a quello fortemente concentrato e rivolto alla grande industria di trasformazione tipico dei porti dell’area anseatica. Il fatto che siano antitetici non rappresenta a priori un punto di debolezza. L’attenzione per il mercato italiano è dimostrato dall’ingresso massiccio dei principali operatori mondiali del settore nel business dei trasporti nazionali. Nel corso dell’ultimo decennio buona parte degli operatori logistici e del trasporto italiani sono stati acquisiti da grandi operatori internazionali. DHL, CEVA Logistics, Geodis, ecc. presidiano ormai da anni il settore. Allo stesso modo nei porti italiani sono presenti i principali terminal operators mondiali (Fig. 12). Fig. 12 - Presenza dei principali mondiali nei porti italiani Terminal operators Venezia Genova La Spezia Savona-Vado Ravenna PSA (Autorità Portuale di Singapore – Cina) HUTCHINSON WHAMPOA HOLDING (Hong Kong – Cina) Taranto Salerno APM TERMINALS (AP Moeller Maersk Group – Danimarca) Cagliari Gioia Tauro EUROGATE (Eurokai Germania) Fonte: Buck Consultants International, 2009 Si tratta di un mercato di altissimo interesse all’interno del Mediterraneo (nessun altro Paese compreso nel bacino raggiunge complessivamente i livelli di traffico generati dall’economia italiana) e non di secondo piano a livello europeo, considerando dunque anche gli altri Paesi del quadrante settentrionale del continente. 29 I porti dunque sono parte integrante del modello logistico italiano, il quale, come ha segnalato l’Osservatorio nazionale sul trasporto merci e la logistica 24 , se, da una parte, ha avuto il merito di sostenere il successo del Made in Italy e di consentire le positive performance nel commercio internazionale, dall’altra, ha avuto il limite di penalizzare alcuni attori della filiera, favorendone altri. Il modello logistico nazionale poggia sostanzialmente su due assunti fondamentali: - il trasporto e gli addetti ai servizi logistici devono mantenersi a livelli di costo contenuti ed essere in grado di attivarsi e disattivarsi a seconda dei volumi di domanda espressi dai clienti; - i vincoli al consumo del territorio non devono essere ‘eccessivi’. Questi assunti di fondo rendono tale modello ‘a rischio’ nel medio-lungo periodo quando essi diventeranno insostenibili da un punto di vista sociale e ambientale. La contaminazione tra modello di flessibilità “terrestre” e “portuale” potrà avvenire, sia in presenza dei grandi operatori dello shipping mondiale, sia nell’attuale configurazione dei sistemi portuali. Per quanto riguarda la “logistica terrestre” l’ingresso delle grandi imprese internazionali infatti non ha inciso minimamente nella gestione dei flussi (ad esempio sul versante dell’uso intensivo del camion), né tanto meno sulle condizioni di lavoro degli addetti. 24 A. Appetecchia e D. De Ascentiis “Eppur si muove, Genesi e sviluppo del modello logistico italiano: tra spinte innovative, capacità di adattamento e rischi di sostenibilità”, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2009. 30 3. Il lavoro portuale 3.1. Premessa L’imponente crescita dei Global carrier mondiali e il loro interesse per una gestione diretta, senza il ricorso ad intermediari, dei percorsi logistici integrati che hanno come origine o destinazione l’Italia è oggi un dato di fatto. Di fronte a tale scenario, l’astuzia, la creatività, l’ingegno ed il radicamento storico nei contesti portuali delle piccole imprese portuali nazionali, potrebbero non bastare nel confronto con quelle globali. La galassia di imprese e di professionisti che oggi vivono delle attività del porto rischiano di rimanere schiacciate dalla pressione esercitata dagli interessi in gioco. Il mondo portuale nazionale si trova dunque di fronte ad una nuova congiuntura critica, per certi versi simile a quella da cui nacque il progetto di riforma del 1994. Di fronte a questa prospettiva tale mondo ha ancora le capacità, le competenze per gestire con intelligenza l’ingresso dei percorsi logistici integrati nei porti senza essere spazzato via. Serve, oltre la volontà di farlo, anche la convinzione che i principali pezzi dell’attuale configurazione dei sistemi portuali (autorità di governo, imprese e lavoratori) sono necessari per superare l’attuale congiuntura. 3.2. Gli addetti e l’evoluzione del ciclo portuale Il settore in tutto il mondo ha visto sostanzialmente contrarsi la consistenza della forza lavoro e quindi non solo negli Stati Uniti, come ha rilevato Hall. In Italia tra il 1983 ed il 2001 oltre 20.000 lavoratori di quelle che allora venivano chiamate Compagnie portuali, Enti e Aziende Mezzi Meccanici, sono usciti dal lavoro attraverso provvedimenti di prepensionamento. La forza lavoro all’interno dei Porti italiani è cambiata sostanzialmente al punto che oggi l’età media degli addetti presenti nei porti è notevolmente diminuita rispetto a quella prima della riforma. Il dato interessante è che dal 1983 in poi la forza lavoro in porto, si è prima contratta, per poi riassumere la consistenza degli anni passati. Nei porti italiani, prima dell’avvio degli esodi, i lavoratori in forza erano 21.824 (soci delle 31 compagnie e dipendenti degli operatori). Nel 1997 tale forza non arrivava a 5.000 unità (4.812) 25 . In nessun settore produttivo, si è assistito ad un fenomeno tanto tumultuoso. Non si è trattato dunque solo di una ristrutturazione, ma di una vera e propria mutazione genetica dell’assetto giuridico, economico ed organizzativo delle condizioni di lavoro, cui si è sovrapposto l’ingresso di nuove tecnologie che hanno in buona parte sostituito il lavoro umano, ridefinendo ruoli, funzioni e status degli addetti portuali. Gli Enti Portuali si sono ritirati da ogni funzione operativa, trasformandosi in Autorità Portuali e le Compagnie Portuali, che operavano come organismi di natura pubblica, sono diventate imprese di diritto privato, mentre la gestione delle operazioni portuali è stata affidata a società private. E’ difficile trovare nel contesto italiano un processo analogo di devolution, di privatizzazione e di apertura al mercato così radicale e contemporaneo. Si è trattato di un processo profondo, doloroso, oneroso, complesso, lacerante 26 . Oggi è il momento di valutare con serenità il rapporto tra competitività del porto e lavoro portuale, apprezzare il contributo dei lavoratori per il miglioramento dei servizi portuali e l’impatto sui sistemi economici e occupazionali locali e nazionali. Un primo aspetto da valutare riguarda il dimensionamento della forza lavoro. Come già anticipato, prima della riforma i lavoratori riconosciuti in porto erano più di ventimila. Uno degli obiettivi della riforma portuale è stato anche quello di ridimensionare gli addetti presenti nelle compagnie portuali in relazione all’abbassamento della domanda di prestazioni di lavoro dovuto alla moderna organizzazione del ciclo operativo portuale. Tale risultato è stato pienamente raggiunto tanto che nel 1997 gli esodi corrispondevano a ¾ della forza lavoro presente prima della riforma. Tuttavia, concluso il processo di ristrutturazione, dal 1997 in poi, anche grazie alla crescita del volume di merce movimentata nei porti italiani, la forza lavoro presente nei porti è tornata a crescere, tanto che nel 2006 il totale degli addetti diretti ai servizi portuali si attestava nuovamente intorno a 20.000 (19.965) 27 , mantenendosi sostanzialmente inalterata fino al 2009 25 G. Rossi e G. Vezzoso, “Il lavoro portuale in Italia”, in Porti italiani e la sfida dei mercati a cura di G. Sciutto, Sciro edizioni, 2002. 26 Ancip-Isfort, “Opzione Mediterranea 2006, alla ricerca della competitività del sistema logistico italiano oltre l’alibi del gap infrastrutturale”, Roma, 2006. 27 Assoporti/Censis, “La portualità come fattore di sviluppo e modernizzazione”, Roma, 2008. 32 (considerando i dati delle ex compagnie portuali e delle associazioni dei terminalisti portuali) 28 . Ciò che è sostanzialmente cambiato è l’organizzazione del lavoro. Infatti mentre nel 1983 dei 21.824 addetti, 20.831 erano soci delle Compagnie portuali e solo 993 dipendenti di altre imprese, nel 2009 dei 20.000 addetti solo 3.644 sono soci o dipendenti delle imprese di lavoro portuale temporaneo (imprese ex art.17) 29 . La riconversione degli addetti in porto non è servita tanto a ridimensionare gli organici, quanto piuttosto ad articolare diversamente la distribuzione di questi ultimi tra addetti alle dirette dipendenze delle imprese e quelli avviati alle attività portuali con l’intermediazione dei pool di lavoro temporaneo. Nessuno oggi segnala la necessità di un nuovo ridimensionamento. Infatti la forza lavoro attualmente presente, in relazione ai volumi di traffico gestiti complessivamente dai porti italiani è assolutamente compatibile ed allineata con i livelli di produttività degli efficienti porti del nord Europa (Tab. 3). Tab. 3 – Produttività del lavoro nei principali porti europei (dati 2009) Paese/porto Anversa Rotterdam Hamburg Genova Numero addetti diretti 15.000 15.000 10.000 3.071 Tonn. movimentate x 1000 (escluse le rinfuse liquide) Numero di tonnellate per addetto 118.285 122.239 95.991 27.167 7,9 8,1 9,6 8,8 Fonte: Stima Isfort su dati Autorità Portuali, Ancip ed altri, 2009 Oggi dunque i lavoratori temporanei, sono meno di quelli strutturati. La maggior parte degli addetti dipende direttamente dalle imprese e solo una quota contenuta (meno di 2 lavoratori su 10) viene avviata al lavoro da parte delle imprese che erogano prestazioni di lavoro temporaneo (presenti fra l’altro non in tutti i porti) 30 . 28 M. Sommariva intervento al convegno “Il lavoro portuale” Livorno, settembre 2010 Fonte, Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, 2010. Secondo le ultime rilevazioni dell’Ancip di marzo 2011, i soci lavoratori e i dipendenti delle imprese iex art. 17 che possono ottenere l’indennità di mancato avviamento sono 2.271, a questi devono essere aggiunti gli interinali a cui le imprese in questione ricorrono in caso di esaurimento dei soci disponibili. 30 Circa il numero dei lavoratori temporanei effettivamente presenti nei porti italiani, alcuni osservatori qualificati consultati nel corso delle indagini di campo, riportati nella parte 29 33 Si tratta di una mutazione importante che si misura con i nuovi ritmi del servizio al trasporto e con la riduzione del tempo a disposizione per caricare e scaricare una nave. I costi di gestione della medesima, sia in navigazione che in porto, sono notevolmente cresciuti così come il valore economico dei danni subiti da merci e mezzi 31 . L’innovazione tecnologica ha modificato qualità ed intensità del lavoro in porto, ma non ha eliminato, né tanto meno ridotto all’osso, l’esigenza di addetti specializzati al trattamento delle merci in porto. La riforma portuale ha aperto i servizi portuali al mercato sottraendoli al controllo diretto degli enti pubblici. Il lavoro in porto è stato parte di questa mutazione anche se oggi è difficile stabilire se i risultati positivi e negativi dello sforzo compiuto dal complesso degli attori dei sistemi portuali siano stati equamente ripartiti. 3.3 Il quadro normativo nazionale Gli aspetti essenziali della governance portuale in Italia sono stati stabiliti, come già più volte ricordato, con la legge 84 del 1994. Il dispositivo normativo in buona sostanza con l’obiettivo di recuperare la competitività del sistema, ha trasformato i precedenti Enti portuali in Autorità portuali, privatizzato i servizi di movimentazione delle merci e trasferito parte delle competenze dal pubblico al privato, con una conseguente ridefinizione dei quadri organici. Tale legge ha avuto il compito di accompagnare i porti nazionali verso la privatizzazione dei terminali dando ad essi l’opportunità di migliorare la propria competitività e quella delle imprese rientranti nella zona di influenza portuale, in uno scenario internazionale di profondi mutamenti strutturali ed organizzativi. Sono dunque state istituite nuove norme in materia di: - classificazione dei porti, con connessa nuova normativa in materia di piani regolatori portuali e di realizzazione di nuove opere; seconda del presente testo, hanno segnalato la difficile collocazione degli addetti di alcune imprese ex art. 16, le cui attività portuali in alcuni casi si avvicinano, per flessibilità della prestazione e la ridotta autonomia di organizzazione del lavoro, ad una intermediazione di manodopera. 31 La logistica ed il lavoro portuale, in Isfort – Federazione del Mare “Le risorse umane nel processo evolutivo del cluster marittimo”, Franco Angeli, Roma 2007. 34 - prestazioni dei lavoratori portuali (operazioni portuali), superando il regime della riserva di cui all'art. 110 del codice della navigazione; - svolgimento delle operazioni portuali e delle concessioni di aree portuali e banchine. Le Autorità portuali nascono come enti con personalità giuridica pubblica ad ordinamento speciale 32 e sottoposti alla vigilanza del Ministro dei trasporti e della navigazione, Dipartimento della Navigazione marittima ed interna, Unità di gestione delle infrastrutture per la navigazione ed il demanio marittimo. Rimane sancito il divieto per esse di esercitare la gestione delle operazioni portuali e di ogni altra attività strettamente connessa a tali operazioni. Le Autorità portuali – presenti nella classificazione dei porti di I e II categoria e con natura di ente pubblico non economico – hanno assunto così il ruolo di promotori dello sviluppo locale, attraverso la promozione e la programmazione delle attività economiche che gravitano intorno al porto, svolgendo in sostanza le seguenti funzioni (art. 6) di: a. indirizzo, programmazione, coordinamento, promozione e controllo delle operazioni portuali e commerciali, ossia attività economiche che gravitano intorno al porto; b. manutenzione ordinaria e straordinaria (investimenti infrastrutturali) delle parti comuni; c. gestione del suolo pubblico e quindi assegnazione di aree agli operatori privati ed ai terminalisti (funzione di landlord 33 ). Tali funzioni nascono con l’intento di favorire la privatizzazione portuale (dei terminali) aumentandone l’efficienza e la competitività; l’autonomia decisionale e finanziaria; il rinnovamento infrastrutturale, l’occupazione e lo sviluppo coordinato di sistemi portuali integrati. I principali organi di governo dell’Autorità portuale italiana sono: - il Presidente (nominato dal Ministero delle Infrastrutture e Trasporti, previa intesa di Regione, Province e Comuni) il quale - con carica di quattro anni e riconfermabile una sola volta - rappresenta l’AP; ha 32 Pur essendo enti di natura pubblica il personale alle dipendenze delle Autorità portuali non rientrano nelle norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni (Decreto Legge n. 165 del marzo 2001). 33 cfr. Terza sezione: Modelli di governance dei sistemi portuali europei ed evoluzione dei traffici marittimi pag. 151. 35 funzioni propositive nei confronti del Comitato Portuale al quale sottopone il piano operativo triennale, il piano regolatore portuale e le delibere riguardanti il bilancio preventivo e il conto consuntivo; propone il rilascio delle autorizzazioni per l’espletamento di servizi a favore delle merci e delle concessioni di aree e banchine superiori ai quattro anni; - il Comitato Portuale, organo collegiale di cui fanno parte numerosi soggetti rappresentanti gli interessi pubblici e privati gravitanti nel porto. Esso ha funzioni deliberative, ovvero approva il piano operativo triennale e il bilancio preventivo; adotta il piano regolatore portuale; delibera sulle concessioni inerenti alla manutenzione, sulle autorizzazioni per l’espletamento di servizi a favore delle merci e delle concessioni di aree e banchine superiori ai quattro anni; viene convocato dal Presidente normalmente una volta al mese; - il Segretariato Generale (della durata di quattro anni e rinnovabile una sola volta), è composto dal Segretario generale e dalla Segreteria tecnico-operativa. I suoi compiti principali sono quelli di provvedere agli adempimenti necessari al funzionamento dell’AP e ha compiti informativi nei confronti del comitato; - il Collegio dei Revisori dei conti (della durata di quattro anni) provvede agli atti di gestione e accertamento della regolare tenuta dei libri e delle scritture contabili; - le Commissioni consultive, le quali esprimono pareri sulle autorizzazioni e concessioni, in merito all’organizzazione del lavoro nel porto e alla formazione professionale dei lavoratori. Le principali innovazioni Tra le attività spettanti alle Autorità portuali, pertanto, vi è il rilascio delle autorizzazioni ad esercire le operazioni portuali (art. 16) e il rilascio delle concessioni di aree e banchine alle imprese portuali - i cosiddetti terminalisti - (art. 18); a tale proposito, per il conseguimento delle concessioni ex art. 18 le imprese devono possedere un programma di attività assistito da idonee garanzie, adeguate attrezzature tecnico organizzative, organico di lavoratori rapportato al programma di attività. La legge 84/94, infatti, ha posto fine al monopolio delle compagnie portuali nell’organizzazione del lavoro in porto sancendo l'abrogazione degli articoli 110, ultimo comma e 111 ultimo comma del Codice della navigazione. In precedenza, infatti, l’esercizio delle operazioni portuali era riservato alle maestranze portuali costituite in compagnie che avrebbero dovuto svolgere 36 funzioni di avviamento. Le compagnie, pur rimanendo sotto il controllo dell’Ente Porto che autorizzava e controllava le loro attività, operavano come imprese gestendo la forza lavoro e riscuotendo le relative tariffe per le attività svolte. Con la Legge 84/94, dunque, si è passati così dal monopolio del lavoro portuale ad un regime di concorrenza affidato a società private dotate di proprio personale. É stata eliminata la riserva di lavoro portuale prevedendo la possibilità di ricorso da parte delle imprese portuali alla fornitura di lavoro temporaneo. Tra le modifiche, infatti, è stata inserita anche una integrazione alla disposizione originariamente contenuta nell'art. 17 della legge n. 84/94 in materia di disciplina della fornitura del lavoro portuale temporaneo. In base ai commi 1 e 2 della nuova formulazione di tale articolo, si provvede infatti alla creazione di un pool di lavoro portuale temporaneo che possa consentire alle imprese portuali di fare fronte alle variazioni imprevedibili di domanda, alternativamente tramite la trasformazione della pre-esistente compagnia portuale in impresa di prestazione di lavoro temporaneo oppure con la promozione di un'agenzia per l'erogazione di prestazioni di lavoro temporaneo. La “recante disciplina della fornitura del lavoro temporaneo”, pertanto, dispone l’istituzione di un’apposita impresa autorizzata, da individuarsi secondo una procedura accessibile ad imprese italiane e comunitarie, realizzando così concorrenza per l’accesso secondo le norme sulle gare pubbliche. Tale impresa viene a detenere una posizione di monopolio nonostante non debba essere considerato «servizio d’interesse economico generale» e la presenza di un fornitore di lavoro portuale temporaneo non pare obbligatoria. Essa deve limitarsi esclusivamente a fornire lavoro e non può esercitare né direttamente né indirettamente le attività svolte da imprese portuali autorizzate o dai concessionari; inoltre il controllo tariffario avviene attraverso l’applicazione delle disposizioni approvate dall‘Autorità portuale. A sostegno di questa categoria di lavoratori sono stati previsti l’indennità di mancato avviamento (IMA) che fornisce garanzia di salario minimo e il contratto collettivo dei lavoratori nei porti. In sostanza, la legge 84/94 ha prodotto un profondo mutamento sugli assetti istituzionali ed operativi nei porti, apportando un equilibrio tra regole e mercato, tra imprese e lavoro. È stata tolta agli enti portuali la possibilità di svolgere direttamente le operazioni portuali con conseguente loro privatizzazione; da tutto ciò ne sono derivati complessivamente una serie di fenomeni positivi quali efficienza e contenimento dei costi, qualità dei servizi, crescita dei traffici, contributo in termini di investimenti privati. 37 Ma, se da una parte la privatizzazione delle aree concesse ai terminalisti ha funzionato bene rispetto alla redditività del servizio effettuato dagli stessi, dal punto di vista delle Autorità portuali, che restano pubbliche, in molti casi gli effetti economici del porto nel suo complesso sono risultati meno efficienti. La legge 84/94 è stata comunque la prima pietra di un edificio giuridico nuovo che ha unificato le precedenti forme di conduzione gestionale, molto differenti le une dalle altre, dei porti italiani. Inoltre, il processo di privatizzazione dei terminali, che ha trovato impulso in tale legge, ha comunque indotto un notevole sviluppo delle attività marittime in Italia. Di contro, non sono mancate alcune problematiche legate prevalentemente alle forme di difficile gestione tra gli attori coinvolti, nonché alla questione dell’autonomia decisionale delle Autorità portuali. Con la legge 186/2004, poi, viene modificata la legge di riordino dei porti e viene dato un potere determinante ai presidenti regionali nello spirito della devolution. Infatti con la modifica del titolo V della Costituzione italiana, le materie concernenti “porti e aeroporti civili” diventano di competenza normativa concorrente, per cui competente ad adottare la normativa in tale settore è la Regione che tuttavia dovrà rispettare le linee di indirizzo del governo. La situazione, però, resta ancora ambigua in questo contrasto fra poteri centrali e regionali, pur avendo chiarito che anche se non esiste una unica regola di good-governance, per realizzarla è essenziale il rapporto che si instaura soprattutto con la Regione ove è ubicato il porto. In Italia c’è sempre stata una politica portuale svolta a livello ministeriale con conseguente predominio dei poteri centrali su quelli periferici. Questo ha fatto sì che, attualmente, le Autorità portuali, in una struttura mutata e caratterizzata da una politica di decentramento, non realizzino effettivamente le strategie opportune a conseguire detti obiettivi, ma, al contrario, privilegino spesso obiettivi di parte favorendo le scelte di alcuni gruppi economici o politici. Proposte di riordino In Italia, si parla da anni di avviare una globale ed ampia riforma del sistema portuale e della sua governance, in particolare in merito ad alcuni nodi cruciali quali l’autonomia finanziaria dei porti. L’attuale Governo ha presentato un Disegno di legge nell’ottobre del 2010, il quale si configura sostanzialmente come una parziale modifica della legge 38 84/94, che non incide sostanzialmente sulla distribuzione dei ruoli e delle competenze, evita di toccare l’assetto amministrativo delle Autorità portuali, e non produce effetti evidenti in merito alla tanto attesa autonomia finanziaria. Ad oggi, in Italia, molti soggetti interni al settore concordano nel ritenere urgente e necessaria, invece, una riforma solida, che non si limiti a modificare la legge vigente, ma che apporti profondi cambiamenti per evitare che il nostro Paese rimanga con la normativa più vecchia d’Europa e inadeguata alla realtà attuale. Una riforma che, ad esempio, intervenga sul lavoro temporaneo apportando un cambiamento alle norme che regolano attualmente l’organizzazione del lavoro portuale, risolvendo quelle ambiguità che spesso si verificano tra chi opera sotto l’art. 16 e chi sotto l’art. 17; una riforma che agisca verso lo snellimento delle procedure burocratiche e doganali, sull’esempio dei porti del Nord Europa, perseguendo la certezza dei tempi nave e di consegna della merce a destino, e modificando la normativa procedurale sui dragaggi al fine di consentire un evidente miglioramento dell’attrattività degli scali. 3.4. Le incertezze nell’implementazione della riforma Il quadro normativo, assolutamente innovativo quando venne promulgato nel lontano 1994, è stato implementato, negli anni a seguire, in modo piuttosto approssimativo, discontinuo e incompleto non riuscendo così a raggiungere l’obiettivo prioritario che si proponeva, ovvero l’avvio della libera concorrenza all’interno del porto nel quadro di un rinnovato impulso all’infrastruttura portuale quale nodo strategico per lo sviluppo sociale ed economico del Paese e dei contesti locali in cui i porti sono incastonati. Dopo quasi vent’anni, le imprese che hanno fatto ingresso nei porti a seguito della privatizzazione sono sempre le stesse, al massimo hanno cambiato proprietà o modificato la ripartizione delle quote sociali. Il complicatissimo iter di implementazione della norma è stato sostanzialmente interpretato dagli attori dei sistemi portuali nazionali come un’opportunità per costruirsi, in piena autonomia, un impianto regolamentare in grado di rispondere efficacemente alle proprie esigenze operative. Ogni porto ha un suo modo di essere, che è il risultato di interpretazioni originali delle disposizioni normative e di trasformazioni delle consuetudini in prassi consolidata. 39 Secondo Assoporti, l’associazione delle Autorità portuali italiane, è la stessa legge di riforma che ha inteso lasciare - all’interno di un quadro di regole condiviso a livello nazionale - ampi margini di autonomia nell’attuazione di tali norme nei contesti locali. Ciò anche in ragione delle notevoli difformità di organizzazione del lavoro e delle attività pre-esistenti alla legge di riforma che richiedevano un impianto normativo “a maglie larghe” in grado di riformare il sistema, senza stravolgere le peculiarità di ciascuna sede portuale. In questo contesto, oggettivamente complesso, la funzione principale di questo rinnovato quadro normativo è stata quella di liberare la portualità nazionale dal monopolio dell’attività di impresa e dell’organizzazione del lavoro da parte dell’Ente porto. Questo nuovo approccio alla governance portuale ha avuto un impatto immediato, consentendo di uscire dall’empasse in cui era piombato il cluster marittimo alla fine degli anni ’90. Dopo oltre quindici anni dalla promulgazione di quella legge il sistema portuale nazionale si trova di fronte ad un nuova fase cruciale determinata, in parte da fattori esterni, ed in parte da fattori interni a tale sistema. I porti, anche in relazione alla loro millenaria tradizione, sono i luoghi in cui sono state affrontate, prima che altrove, le questioni della dignità e della stabilità del reddito per lavoratori chiamati ad operare in un segmento vitale per l’economia, ma assolutamente imprevedibile, volatile e rischioso per chi vi opera. Il modello dell’autonomia portuale sotto l’egida dell’Autorità portuale nelle intenzioni del legislatore avrebbe dovuto mantenere questo spirito, dando maggiore spazio all’iniziativa privata, senza derogare sui principi di equità sociale e reciproco rispetto. Prima di approfondire le responsabilità a livello locale non si deve trascurare che anche gli organi di governo nazionale hanno avuto la loro parte. In linea di principio la legge 84 del 1994 si proponeva di inscrivere la portualità nazionale all’interno di quel gruppo di Paesi in cui la privatizzazione dei servizi portuali avveniva nell’ambito di una chiara separazione di competenze: da una parte, l’amministrazione pubblica manteneva la proprietà ed il controllo dell’infrastruttura porto definendone anche le prospettive di sviluppo tramite i piani triennali che ciascun Autorità portuale era chiamata a redigere; dall’altra, le imprese private concorrevano allo sviluppo del Porto gestendo in un regime di libera concorrenza le attività portuali. L’approccio scelto considerava i porti una risorsa vitale per il Paese. Si tratta di un’opzione non banale, che altri Paesi europei (il Regno Unito, ad esempio) non hanno scelto, ma che tuttavia avrebbe richiesto una chiara definizione di una strategia nazionale in base alla quale definire le priorità e 40 la dotazione finanziaria necessaria a raggiungere gli obiettivi identificati. Questo è indubbiamente mancato. Le Autorità portuali, le imprese e gli enti locali sono stati, invece, disorientati da una pluralità di “pezzi di carta” (piani nazionali, programmi di intervento dei trasporti, della logistica e dei porti) accompagnati da quadri di finanziamento (o meglio ipotesi di finanziamento) le cui effettive disponibilità erano tutte da verificare. E in questo purtroppo non c’è stata grande differenza tra governi di centrodestra e di centro-sinistra. La ricostruzione delle modalità di attribuzione delle risorse ai vari porti e le tipologie di intervento scelte, non consentono di apprezzare la strategia o le strategie di fondo che hanno animato e motivato l’azione dell’amministrazione nazionale sul tema, in termini di potenziamento dell’offerta infrastrutturale e di integrazione di sistema (lato mare e lato terra). I propositi del legislatore sono stati pertanto disattesi. Il modello cui si ispirava la legge prevedeva un quadro strategico di riferimento nazionale in grado di ordinare gerarchicamente il sistema portuale nazionale. Nella pratica le realtà locali sono state lasciate al loro destino. A livello locale, in assenza di tale quadro, l’intraprendenza degli attori presenti nei porti (che comunque c’è stata, altrimenti i porti sarebbero tornati nell’empasse da cui erano appena usciti) è stata di fatto ridotta, non tanto dalla reclamata autonomia finanziaria, quanto piuttosto da un limite più istituzionale che economico, legato alla collocazione ambigua della politica portuale a metà strada tra le competenze ancora in capo al governo nazionale e quelle devolute ai governi regionali e locali. Se si esclude la questione della nomina dei Presidenti delle Autorità portuali in merito alla quale, sia il Governo nazionale, sia le autorità locali non hanno mai rinunciato ad esercitare tutta le loro competenze, per il resto il nodo rimane ancora da sciogliere. I porti attengono le politiche nazionali (secondo il modello Puertos del Estado della vicina Spagna), oppure i Governi regionali o municipali (secondo il modello anseatico)? 3.5. Le difficoltà di un’indagine diretta I risultati dell’indagine condotta da Isfort con il supporto delle organizzazioni sindacali di cinque porti italiani (Genova, Napoli, Gioia Tauro, Ravenna e Trieste) esprimono piuttosto chiaramente l’ambiguità di fondo che ha caratterizzato l’implementazione del disegno di riforma rilevando inoltre la fase di transizione che sta vivendo il mondo portuale. Tuttavia ciò 41 che non emerge con pari chiarezza è l’orientamento di tale fase i cui driver di cambiamento potrebbero essere fortemente influenzati da fenomeni che vanno ben oltre le volontà degli attori presenti oggi nelle realtà portuali italiane. Le condizioni di lavoro in porto rilevate nel corso dell’indagine, nonostante si adotti il medesimo contratto di lavoro nazionale, sono scarsamente omogenee sul territorio nazionale. La gestione dei rapporti tra lavoro temporaneo e strutturato nei cinque porti oggetto di indagine è sostanzialmente diversa. L’impresa erogatrice di prestazioni di lavoro temporaneo: - a Genova ha convenuto, con la compartecipazione delle imprese presenti in porto, la determinazione del valore economico della giornata di lavoro (stabilendo una tariffa massima) nell’ambito di un accordo quadro generale di fornitura del lavoro temporaneo; - a Ravenna rappresenta la gran parte della forza lavoro presente in porto; - a Trieste, invece, ha subito una tale contrazione degli avviamenti al lavoro che l’ha costretta a dichiarare fallimento; - a Napoli, è stata esclusa dal principale terminalista specializzato nella gestione dei container (CONATECO 34 ) che ha deciso di svolgere tutta la propria attività con dipendenti propri senza richiedere avviamenti temporanei alla impresa fornitrice di lavoro temporaneo presente in porto; - infine a Gioia Tauro pur non esistendo, si deve comunque segnalare che i livelli di flessibilità di prestazione del lavoro da parte di alcune imprese art. 16 si avvicinano molto al lavoro temporaneo. Le ragioni di comportamenti diametralmente opposti possono essere in parte spiegate dalla trasformazione in imprese private delle compagnie portuali, le quali dunque sono sottoposte alle leggi del mercato, tuttavia non si può trascurare che le ex-compagnie rappresentino una parte centrale della storia dei porti. Pertanto l’evoluzione del rapporto tra imprese e pool di lavoro temporaneo non può essere limitato alle tradizionali logiche di mercato della domanda e dell’offerta. Fra l’altro, anche guardando all’evoluzione della domanda, ovvero del traffico merci, non si notano tra i 34 Il Consorzio Napoletano Terminal Container (CoNaTeCo), fondato nel 1995, è oggi di proprietà di due compagnie di navigazione (COSCO e MSC) che detengono ciascuna il 50% delle quote sociali. 42 porti considerati sostanziali divergenze. Napoli, per esempio, non ha nulla da invidiare a Ravenna dal punto di vista della capacità di attirare le navi in porto. Allo stesso modo Trieste non ha visto negli ultimi anni crollare il proprio mercato, certamente potrebbe fare di più, vista la posizione, ma non per questo non è più utile la presenza di un pool di addetti alle operazioni portuali, visto che uno dei settori di punta del porto, oltre al petrolio, è il traffico RO-RO particolarmente bisognoso dell’assistenza di operatori specializzati nella manipolazione di tale traffico. Il caso di Genova dimostra, inoltre, come il patto per il lavoro non rappresenti un freno alla competitività del Porto. Genova prima e dopo la stipula di tale patto è sempre rimasta ai vertici della portualità nazionale e mediterranea. Così come la sostanziale predominanza del lavoro temporaneo rispetto a quello strutturato nel porto di Ravenna non ha ingessato l’attività del porto. Le condizioni di lavoro, l’utilizzazione o meno del lavoro temporaneo non incidono sulle performance del Porto e neanche sulla redditività delle attività in esso svolte. Infatti se è vero che l’impresa fornitrice di lavoro portuale temporaneo di Trieste è fallita, non è fallito nessun terminalista portuale (art. 18), e nessuna di quelle attive ha rinunciato alla concessione. Nonostante le frequenti lamentazioni circa la incertezza dei traffici e la scarsa produttiva dei lavoratori portuali, è difficile trovare nel panorama nazionale imprese in difficoltà che abbiano rinunciato alla concessione, più proficuamente preferiscono mettere in vendita l’impresa titolare della concessione. Le Autorità portuali che vivono della rendita generata dai canoni di concessione di fatto sono interessate, per la loro sopravvivenza, a concedere spazi crescenti delle aree portuali tanto che gli spazi pubblici (banchina pubblica a disposizione) sono in molti porti o particolarmente ridotte (Ravenna) o inesistenti (Genova). La disponibilità di un’impresa capace di fornire lavoro temporaneo in porto si è rivelata fondamentale, sia nelle fasi di picco della domanda, sia in quelle di crisi. Nel corso di un anno particolarmente critico come il 2009, l’opportunità concessa dalla previdenza sociale ai lavoratori delle imprese di lavoro portuale temporaneo di poter ottenere una indennità pari al massimo della cassa integrazione guadagni (CIG) in caso di mancato avviamento al lavoro, ha consentito, nel porto di Genova, a quasi tutte le altre imprese portuali di non fare ricorso alla CIG, mentre l’impresa ex art. 17 del medesimo porto ha notevolmente incrementato l’incidenza delle indennità di mancato avviamento sul totale delle giornate di lavoro dai lavoratori di tale impresa. 43 L’incremento delle indennità nel corso del 2009, proseguito anche nel 2010, mette in evidenza la necessità di tenere insieme la fluttuazione della domanda, la flessibilità dell’offerta di servizio e la necessità di salvaguardare la continuità del rapporto di lavoro e della conseguente retribuzione degli addetti. Il problema allora non è dunque della domanda di trasporto, che - come già enunciato - non si è mai allontanata dai porti italiani e tradizionalmente ha un andamento discontinuo, quanto piuttosto la gestione delle modalità attraverso la quale l’offerta si adegua alla volatilità del mercato in un contesto di equa competizione, rispetto dei diritti e dei doveri di operatori, utenti e addetti presenti nel porto. L’équipe di Isfort nel tentativo di ricavare informazioni dagli attori presenti nei porti selezionati ha avuto modo di apprezzare la scarsa disponibilità ad essere osservati, quasi che la diffusione delle informazioni circa la vita del porto potesse in qualche modo incidere sui complessi e faticosi equilibri sui quali si regge l’attività portuale. Ad essere onesti nonostante il supporto delle organizzazioni sindacali e, nella maggior parte dei casi, anche degli uffici delle Autorità portuali, le imprese si sono dimostrate scarsamente collaborative, in alcuni casi hanno negato la disponibilità a rispondere alle domande contenute negli strumenti tecnici di rilevazione, ed in altri casi, infine, si è avuta la netta sensazione che gli operatori avessero in qualche modo “condiviso” le modalità di risposta alle domande più sensibili del questionario. Realizzare interviste dirette “face to face” presso le aziende non è mai facile, proprio perché l’impegno concreto nella produzione e nella gestione dei complessi processi industriali lasciano poco spazio per attività extra “core-business”, tuttavia un atteggiamento così resistente, al limite della reticenza, era difficile da immaginare. La riservatezza e la diffidenza verso gli osservatori esterni degli attori presenti in porto allarma se si considera che il lavoro portuale, nonostante il progresso tecnologico, la modernizzazione dei cicli portuali e la specializzazione degli addetti, rimane ancora oggi un lavoro rischioso. Nell’ambito della definizione del Piano di prevenzione rischi sul lavoro della Regione Liguria la Asl 3 di Genova che si occupa dell’area portuale ha messo in evidenza che il rischio infortunistico del settore portuale risulta nettamente superiore alla media regionale riferita a tutti i comparti produttivi. Prendendo in considerazione l’ultimo dato disponibile relativo al 2007 elaborato dall’INAIL (Istituto Nazionale di Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro) in ambito portuale sono stati riscontrati ogni 1.000 44 addetti 124 infortuni mentre la media degli altri comparti si attesta intorno ai 29 incidenti ogni 1.000 addetti 35 . Circa l’incidenza degli infortuni più o meno gravi in ambito portuale, su cui le stesse associazioni di rappresentanza delle imprese portuali hanno una diversa percezione del livello di rischio rispetto alla Asl 3 di Genova, l’indagine Isfort rileva comunque una notevole disomogeneità delle modalità di registrazione ed elaborazione delle informazioni. Manca una banca dati aggiornata sull’argomento, anche perché, in molti casi, l’esercizio di investigazione si deve più alla buona volontà dei singoli piuttosto che ad una prescrizione. Alcuni testimoni privilegiati, tra cui Assoporti e Assiterminal, riferiscono di un tentativo di raccolta delle informazioni da parte del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, di cui però al momento si è persa traccia. Nel corso della rilevazione condotta nei cinque porti è emerso chiaramente che ciascun porto ha tipologie proprie di raccolta, di analisi delle informazioni ed in alcuni casi è addirittura assente un archivio aggiornato sul tema. Ciò in parte è dovuto all’evoluzione della normativa in materia di prevenzione dei rischi in ambito portuale, in passato contenuta in una pluralità di provvedimenti normativi, in seguito accorpati all’interno della legge 272 del 1999 la cui specificità integra il Testo unico sulla sicurezza del lavoro legge 81 del 2008. Quest’ultimo passaggio normativo non è stato ancora pienamente completato dal Governo poiché il lavoro di aggiornamento svolto dai Ministeri competenti in collaborazione con le parti sociali non è stato ancora trasformato in un dispositivo normativo attuativo. 3.6. I rischi e le opportunità della fine di un periodo Gli attori dei sistemi portuali sono poco inclini a fornire informazioni, ritengono che rimanere all’interno del “cono d’ombra”, che oggi adombra lo scenario portuale nazionale, li mantenga al riparo dai cambiamenti e consenta loro di conservare inalterato nel tempo lo status quo che hanno contribuito a costruire. La vita in porto è governata - grazie ad un quadro 35 Regione Liguria – Dipartimento Salute e Servizi Sociali, Settore Prevenzione, Sanità Pubblica e Fasce Deboli, “Prevenzione degli eventi infortunistico in ambito lavorativo e delle patologie correlate” – Piano Regionale Prevenzione 2010-2012 (Delibera G.R. n. 1545 del 17/10/2010) – Macroarea 2 – Piano regionale di prevenzione infortuni nel lavoro portuale. 45 normativo e regolamentare, in costante divenire, ma sostanzialmente poco efficace - da un sistema di relazioni storicamente consolidate, di interpretazioni delle regole, talvolta al limite della forzatura, che ha consentito agli operatori presenti in porto di mantenersi al riparo in mercato piuttosto competitivo ed aggressivo. Una posizione difensiva che considera ineluttabile la forza delle lobby locali rispetto al destino dei porti e, soprattutto poco consapevole dell’appetibilità del mercato dei trasporti nazionale, nel quadro dei percorsi logistici integrati planetari, e quindi dell’interesse di altre lobby ben più potenti e di rilevanza mondiale. Il commercio estero delle imprese italiane, dopo il periodo di crisi della fine dello scorso decennio, sta lentamente riprendendo il suo trend di crescita. Nuovi mercati conquistano quote rilevanti dell’import-export nazionale. I dati aggiornati dell’indice sulle eccellenze competitive - su cui sta lavorando la Fondazione Edison - confermano la posizione di leadership della manifattura italiana anche dopo la crisi 36 . L’Italia era - e rimane - un punto di origine e di destinazione rilevante nel quadro del network internazionale dei percorsi logistici integrati. La convenienza dell’accesso ai luoghi di produzione ed ai bacini di consumo del Paese attraverso i porti nazionali è evidente, anche se, come si evince dalla figura che segue, potrebbe essere messa in discussione dall’estensione dei percorsi logistici provenienti dai porti concorrenti del Nord Europa (Fig. 13). Si tratta di un’ipotesi, in parte già realizzata grazie a servizi ferroviari periodici di collegamento tra terminal ferroviari italiani e porti anseatici che tuttavia non riguarda quote sostanziali di traffico. Sembra essere più conveniente per gli operatori internazionali acquisire, come molti hanno già fatto, il controllo degli approdi nazionali, piuttosto che incrementare costosi servizi di collegamento tra nord e sud Europa. L’interesse del mercato per il controllo dei terminali italiani di percorsi logistici integrati è piuttosto evidente. Le compagnie di shipping si stanno accostando con grande interesse ai porti italiani. 36 La Fondazione Edison ha di recente elaborato i dati relativi al commercio internazionale per l’anno 2009 aggiornando il Trade Performance Index riportato nella Tab. 2 a pag. 22. In base a tali dati l’Italia occupa la prima posizione a livello mondiale per quanto riguarda l’esportazione di 249 prodotti (su un totale di 5.517), mentre per altri 734 si colloca al secondo o al terzo posto (www.fondazioneedison.it). 46 Fig. 13 – Hinterland delle regioni portuali Bacino di utenza Porti Nord Europa Bacino di utenza Porti Mediterraneo Centrale Bacino di utenza Porti Mediterraneo Occidentale Felixstowe Brema Amburgo Anversa Rotterdam Arena competitiva Genova Trieste Marsiglia Barcellona Costanza Livorno Valenzia Algesiras Istanbul Taranto Gioia Tauro Pireo Fonte: Elaborazione Isfort su figura di Buck consultants International, 2008 La MSC, seconda nel mondo solo alla Maersk nel comparto del trasporto di contenitori, è proprietaria insieme alla compagnia COSCO (anch’essa tra le prime dieci compagnie di shipping mondiali) della CONATECO, impresa terminalista del Porto di Napoli specializzata in movimentazione di contenitori. Inoltre, sempre MSC ha più volte segnalato l’interesse ad entrare nella compagine azionaria di Medcenter di Gioia Tauro 37 . La stessa Maersk intende attivare nuove banchine specializzate nella movimentazione di container per meganavi da oltre 10.000 TEU nei porti di Savona-Vado e di Trieste-Monfalcone, mentre tutti i principali player mondiali del segmento dei terminal sono già presenti nel mercato nazionale (cfr Fig. 12 pag 29). Altri sistemi portuali, come Ravenna, Napoli e Venezia si stanno attrezzando per predisporre aree di movimentazione del traffico contenitori in grado di accogliere navi di medio-grande dimensione delle principali compagnie di navigazione mondiali, con conseguenti ingenti aumenti di traffico, ma anche di investimenti. Nel segmento del trasporto terrestre e dei servizi logistici l’ingresso degli operatori stranieri – come già ricordato - non ha migliorato le criticità del modello logistico italiano (legate, come già ricordato, alla precarietà del 37 Il Medcenter Container Terminal ha due azionisti: uno di maggioranza, Gruppo Contship Italia (77% delle quote) e uno di minoranza, Gruppo Maersk (33% delle quote). 47 lavoro e ad un uso intensivo dell’autotrasporto) e non ha introdotto novità significative dal punto di vista dell’organizzazione della filiera e dell’innovazione tecnica e tecnologica. Le esperienze già maturate in ambito portuale segnalano il medesimo atteggiamento dei terminalisti portuali. I grandi operatori modellano il proprio modus operandi in relazione al contesto sociale e giuridico amministrativo locale (cfr Fig. 1 pag 5). I principali Global carrier si rivolgono pertanto al mercato italiano dei trasporti con interesse e ritengono che i nodi portuali rappresentino la chiave di volta per presidiare un bacino di origine e di destinazione delle merci di primaria importanza nel panorama internazionale. Un interesse confermato già da investimenti importanti effettuati da imprese estere. I terminalisti italiani al momento della promulgazione della legge 84/94 erano sostanzialmente imprese ed imprenditori di piccole e medie dimensioni già presenti nelle attività marittimo-portuali (agenti marittimi, armatori, ecc.). Se si esclude il caso del terminal di Voltri di Genova, che faceva capo al gruppo Fiat, gli altri porti non hanno visto, allora, l’ingresso di nuovi operatori all’interno dei porti. Oggi le imprese sono le stesse ma la proprietà di quelle in grado di gestire un traffico medio superiore a 300 mila TEU, se si escludono il Terminal SECH di Genova e il Terminal Darsena Toscana di Livorno, hanno cambiato proprietà e oggi sono parte di grandi gruppi esteri 38 . I principali terminal nazionali sono già passati in buona parte sotto il controllo dei Global carrier attraverso l’acquisizione di partecipazioni azionarie o del controllo completo di imprese esistenti, ma cosa accadrà quando, come nel caso di Savona-Vado, o di Monfalcone-Trieste, un global carrier come la Maersk attiverà un nuovo terminal portuale collocato al di fuori dei porti storici. Entrambi i progetti ipotizzano livelli di traffico di circa 3 milioni di TEU annui. Concentrando l’attenzione su questi ultimi progetti, senza aggiungerci quelli degli altri porti italiani cui si è fatto menzione poc’anzi, si deve tenere presente che nel 2010 i porti di Savona, di Genova, di La Spezia e di Livorno hanno movimentato quasi 4 milioni di TEU (3.899.000). Qualora Maersk intendesse, invece, utilizzare Vado solo per movimentazioni di transhipment, non si deve dimenticare che sempre nel 2010 il complesso del traffico di transhipment in Italia si è attestato poco sopra i 4 milioni di TEU (4.009.289). 38 L. Robba, “Imprese e lavoro portuale dalla riforma ad oggi”, Livorno 12 novembre 2010. 48 In entrambi i casi, sia che si tratti di un mero scalo di trasferimento, sia che si tratti di un hub di destinazione finale, l’impatto sul sistema portuale nord tirrenico e nazionale sarà comunque notevole per le imprese e per i lavoratori. E’ poco probabile, infatti, che tutto il traffico gestito dal terminal di Vado possa aggiungersi a quello attuale e pertanto è opportuno chiedersi come riusciranno i porti dell’arco tirrenico settentrionale e gli altri porti di transhipment a reggere la competizione e quali possono essere gli strumenti che consentiranno alle amministrazioni locali e nazionali di monitorare l’equità della distribuzione degli impatti positivi e negativi sul territorio di un investimento infrastrutturale ed imprenditoriale di tale portata. Il nodo non è tanto la difesa della nazionalità della proprietà delle imprese di logistica portuale che, all’interno di un mercato globalizzato e nel quadro della progressiva integrazione dei Paesi membri dell’Unione Europea, ha un valore relativo, quanto piuttosto del radicamento delle realtà portuali nel contesto territoriale che li ospita ed il rischio di disperdere il patrimonio di conoscenze, di competenze e di organizzazione del lavoro accumulata nei porti del Paese. I soggetti che possono svolgere un ruolo attivo per rendere meno traumatico il passaggio del mondo portuale nella nuova dimensione dei percorsi logistici integrati sono sostanzialmente tre: le amministrazioni di livello centrale (Comunità europea e governi nazionali); le autorità locali e le imprese; le organizzazioni dei lavoratori. Le amministrazioni di livello centrale La Commissione ed il Parlamento europeo hanno in più occasioni manifestato il proprio interesse per la rete portuale continentale e per le condizioni di lavoro degli addetti presenti in porto. Le comunicazioni pubblicate sull’argomento 39 e gli studi 40 commissionati esprimono in modo sufficientemente chiaro la preoccupazione più volte ribadita dalle istituzioni 39 Comunicazione della Commissione Europea sulla politica europea dei porti COM(2007) 616, Bruxelles, 18 ottobre 2007; Libro Bianco, “Tabella di marcia verso uno spazio unico europeo dei trasporti – Per una politica dei trasporti competitiva e sostenibile”, COM (2011) 144 - punto 2.3. Condizioni eque di concorrenza a livello mondiale per i trasporti sulle lunghe distanze e il traffico merci intercontinentale. 40 Parlamento Europeo, Direzione Generale Politiche Interne, Unità tematica politiche di coesione, “Evoluzione degli scali marittimi dell’Unione Europea nell’ambito della logistica marittima globale”, Bruxelles, Ottobre 2009. 49 comunitarie circa l’impatto sociale ed economico dell’evoluzione delle attività portuali sul mondo del lavoro. La percezione della criticità dei sistemi portuali non ha però impedito di affrontare questioni piuttosto “spinose” legate alla tutela della libera concorrenza all’interno delle aree portuali per quel che riguarda l’uso dei pool di lavoro temporaneo e l’opportunità di autoproduzione dei servizi portuali da parte delle compagnie di navigazione. Si tratta di nodi ancora aperti rispetto ai quali non si è riusciti a trovare un punto di accordo in grado di mantenere saldi i principi liberali che sono alla base del patto comunitario e le peculiarità dei contesti portuali continentali. Circa i limiti dei governi nazionali che dal 1994 si sono succeduti si è detto poc’anzi e pertanto il contributo che l’amministrazione centrale potrebbe offrire, per agevolare l’avanzamento della portualità italiana, cogliendo l’occasione dell’aggiornamento e revisione della stessa legge n. 84, non dovrebbe giungere direttamente alle conclusioni della concessione di una gestione autonoma delle risorse finanziare, quanto piuttosto essere preceduta dalla definizione della collocazione dei sistemi portuali tra le competenze del governo centrale, oppure, nel quadro della riforma federale del Paese, dei governi regionali. Le autorità locali e le imprese L’associazione dei porti europei nella sua ultima indagine sui modelli di governance dei propri associati, rileva sostanzialmente quattro funzioni dell’Autorità portuale: tre di tipo tradizionale (proprietario, regolatore, operatore) ed una di tipo innovativo (community manager) 41 . Le prime tre funzioni garantiscono la valorizzazione degli assets (demaniali e immobiliari), il rispetto delle regole e la libera ed equa concorrenza; la quarta funzione mira, non solo alla gestione ed alla salvaguardia della pace sociale tra gli stakeholder presenti in porto, ma anche all’integrazione tra le attività portuali e la comunità più vasta in cui esso è collocato. La mission delle autorità preposte al governo del sistema portuale nazionale, di fronte all’avanzamento di un mercato fortemente concentrato nell’ambito di pochi global carrier, dovrebbe sostanzialmente riguardare, da una parte, la gestione dell’integrazione della comunità portuale nei percorsi logistici integrati, dall’altra il controllo degli impatti dei mutamenti in corso sull’indotto portuale e sul contesto territoriale di riferimento. 41 ESPO, “European port governance, Report of an enquiry into current governance of European Seaports”, Brussels 2010. 50 Gli enti pubblici dovrebbero pertanto (finalmente) assumere il ruolo che gli compete, ovvero di Authority indipendenti: senza scendere nell’arena delle contrapposizioni tra le lobby locali, e senza volersi costruire un ruolo di agenzia commerciale o di promozione 42 (che invece potrebbe essere svolto da strutture tecniche dedicate). Serve invece una “regia” in grado di orientare le dinamiche commerciali presenti porto verso gli obiettivi di sviluppo e crescita sociale del territorio in cui il porto è inserito, oltre che un “arbitro” in grado di garantire l’equità della competizione, il rispetto delle regole, nonché la tutela dei diritti; un “civil servant” capace di promuovere il porto e di misurarsi con i cambiamenti in atto, salvaguardando, allo stesso tempo, gli interessi della comunità locale, tutelando il territorio e verificando le ricadute sociali ed economiche delle attività portuali nelle aree retro portuali. L’Autorità dovrebbe essere un faro che illumina la scena portuale (sgombrandola dai coni d’ombra) mettendo in risalto il valore degli attori presenti e consentendo una maggiore integrazione tra porto e territorio. Nascondersi, o confondere le acque serve a poco, gli interessi in gioco sono troppo rilevanti e l’opportunità di evitare il confronto o la competizione poco credibile. Le organizzazioni dei lavoratori Non sono solo le autorità di governo e le imprese che devono misurarsi con le nuove sfide del mercato, ma anche le organizzazioni di rappresentanza dei lavoratori. A tale proposito non si può nascondere il fatto che in Italia le condizioni di lavoro nella filiera logistica siano disomogenee. Ad esempio, le modalità di gestione della flessibilità delle prestazioni di lavoro dei soci lavoratori delle cooperative che erogano prestazioni di lavoro temporaneo (ex art. 17) all’interno dei porti sono sostanzialmente diverse da quelle delle cooperative di servizi che lavorano all’interno delle piattaforme logistiche nell’hinterland 43 . Questo squilibrio dovrebbe essere recuperato grazie ad un riallineamento delle condizioni di sicurezza, di tutela dei diritti e soprattutto di dignità del lavoro, altrimenti il rischio, non poi così lontano, di mettere in contrapposizione i due modelli limitando il confronto al costo 42 A. Santuari, “La riforma dei porti: un'opportunità per lo sviluppo competitivo del territorio”, Venezia, 2010. 43 S. Bologna, “Il rapporto sul lavoro portuale dell’ESPO preparato dal prof. Notteboom: qualche osservazione integrativa sul caso italiano”, in Quaderni portuali - Numero monografico sul lavoro portuale 2011, Autorità portuale di Genova. 51 del lavoro, rischia di peggiorare le condizioni di lavoro lungo tutta la filiera logistica. Un nuovo inizio La compattezza del sistema portuale, oltre a consentire di gestire, senza subire, l’ingresso o l’interessamento dei principali operatori mondiali, servirebbe poi per affrontare con maggiore convinzione alcune questioni fondamentali per lo sviluppo dei porti, quali: - i costi esterni generati dai transiti in porto delle navi e dal loro stazionamento in banchina 44 ; - l’ingresso e l’egresso dei camion; - l’uso più intelligente della risorsa ferroviaria ad esempio per agevolare l’integrazione con le aree di lavorazione logistica delle merci al fuori del perimetro portuale; - la formazione degli addetti volta ad accrescere le competenze per contrastare la riduzione dei posti di lavoro; - una più determinata e soprattutto omogenea attenzione alla sicurezza del lavoro in porto. I sistemi portuali nazionali se intendono approfittare delle opportunità legate al mercato nazionale ed internazionale dei trasporti, devono dunque recuperare quello spirito di collaborazione e di pace sociale che ha consentito loro di superare le difficoltà che nel corso della loro millenaria storia hanno dovuto affrontare: serve dunque una comunità portuale più coesa, più attenta alle prospettive del porto di domani, piuttosto che a prevalere nei contenziosi attuali. Solo attraverso uno sforzo comune sarà possibile accogliere i percorsi logistici integrati in partnership con i grandi operatori della logistica globale. Altrimenti la portualità nazionale, così come in parte già è avvenuto per buona parte della logistica lato terra, rischia di essere “annessa” all’interno di schemi e di priorità strategiche decise altrove. 44 Libro Bianco, “Tabella di marcia verso uno spazio unico europeo dei trasporti – Per una politica dei trasporti competitiva e sostenibile”, COM (2011) 144 - punto 2.3. capoverso 29 “…riduzione delle emissioni di CO2 dovute al trasporto marittimo del 40% (e se praticabile del 50%) entro il 2050 rispetto ai livelli del 2005…”. 52 53 Parte seconda L’ORGANIZZAZIONE DEL LAVORO NEI PORTI ITALIANI 1. Introduzione Per chi ne è estraneo il porto ha sempre rappresentato un luogo esotico, impenetrabile, indefinibile nei meccanismi che ne regolano il funzionamento. E nell’immaginario collettivo il duro lavoro che al suo interno si svolge ha coinciso per lungo tempo con lo sfondo ricreato in Fronte del Porto, film degli anni Cinquanta dove il lavoro in banchina era sfruttamento, caporalato e asservimento alla mafia di turno. Oggi quel ritratto del lavoro portuale, datato e romanzato, mal si attaglia all’immagine efficiente che gli scali moderni restituiscono all’esterno. Eppure addentrandosi nei porti odierni qualche traccia di quella realtà alterata raccontata in pellicola si avverte e si rinviene nelle pieghe di una portualità nazionale che non sembra aver trovato ancora un sano e soddisfacente equilibrio sul fronte del lavoro. Con un’indagine avviata nel 2010 e terminata nei primi mesi del 2011, l’Isfort, attraverso l’Osservatorio nazionale sul trasporto merci e la logistica 1 , ha affrontato il tema dell’organizzazione del lavoro in porto – sulla scia delle novità introdotte dalla legge di riforma e dal contratto dei lavoratori portuali – esaminandone i meccanismi di funzionamento in alcuni dei principali scali nazionali. Il ramo field dell’indagine ha interessato i porti di Ravenna, Trieste, Genova, Napoli e Gioia Tauro e si è svolto attraverso la somministrazione di un questionario e la realizzazione di interviste face to face 2 . La scelta di coinvolgere nella rilevazione tali porti è stata determinata dall’intento di studiare modelli di organizzazione del lavoro che, si intuiva, sarebbero stati almeno parzialmente divergenti, dunque, più ricchi e stimolanti ai fini dell’indagine che proseguirà nel 2011 con una seconda annualità. Per un altro verso ha giocato un ruolo il fatto di poter contare sulla presenza di contatti in loco 3 che hanno assistito l’equipe Isfort nei primi approcci con gli operatori nella fase di avvio dell’indagine. 1 2 3 http://www.isfort.it/sito/osslog Oltre ai soggetti che hanno compilato il questionario e che operano a vario titolo in porto (Autorità Portuale, Imprese portuali, ecc. ), sono stati intervistati alcuni osservatori esterni ma esperti conoscitori delle singole realtà portuali che hanno concorso a contestualizzare le informazioni fornite dagli operatori. A loro vanno i ringraziamenti dell’equipe Isfort. Si tratta di Cinzia Valbonesi (Confindustria Ravenna), Angelo D’Adamo e Rosario Gallitelli (Filt-Cgil Trieste e Fit-Cisl), Michele Albanese (Il quotidiano della Calabria), Antonio Pronesti (Sindacato Unitario Lavoratori) e Massimo Minella (Repubblica). Sono stati coinvolti i delegati sindacali delle tre sigle Filt-Cgil, Fit-Cisl e Uiltrasporti. 55 Nel Paese il lavoro portuale rimane una materia ancora poco studiata. La ritrosia degli operatori a raccontare il porto e a raccontarsi ha concorso ad impedire, almeno in Italia, una trattazione sistematica della materia su scala nazionale. Molti operatori, intervistati nel corso della rilevazione, hanno manifestato riluttanza a concedere informazioni, soprattutto se di tipo quantitativo. In alcuni casi l’atteggiamento preclusivo ha impedito di censire un’intera categoria di imprese portuali e, più in generale, di acquisire una visione esaustiva della realtà indagata 4 . Appare tuttavia chiaro che i porti italiani tendono a muoversi, a distanza di più di quindici anni dalla liberalizzazione del settore, in un magma ancora eccessivamente indefinito tanto da rendere difficile agli osservatori esterni la definizione chiara di ruoli e di funzioni e una lettura qualitativa e quantitativa del progredire (o del regredire) dei porti per effetto della riforma. La sensazione è che la portualità nazionale si trovi a metà strada tra una politica nazionale di settore incerta e solo a parole determinata ed una politica locale priva degli strumenti e delle risorse necessarie per affrontare con determinazione lo sviluppo dei Porti. In questa terra di nessuno i Porti selezionati a volte sembrano muoversi con una certa disinvoltura e, talvolta, esercitando controlli laschi offrono un’immagine di sé all’osservatore esterno poco trasparente e priva di regole certe. Tutti elementi che concorrono a formare in chi ha osservato da vicino – per quanto è stato consentito – una percezione di diffuse, quanto dissimulate, interpretazioni originali delle libertà di accesso al mercato che hanno dato luogo a declinazioni differenti sia del rapporto con le aziende che delle condizioni di lavoro. 4 Sono stati somministrati quattro diversi questionari: ognuno di essi è stato calibrato su una delle categorie di soggetti intervistati (Autorità portuale, imprese portuali, impresa di fornitura di lavoro temporaneo, presidio sanitario). Nel complesso sono stati avviati più di quaranta contatti, ma solo la metà di essi ha portato a realizzare materialmente l’intervista. 56 2. Uno, nessuno e centomila…: il perché di tanti “modelli” Se sul lato della governance i porti italiani sono riconducibili ad un modello di landlord management 5 , sul lato del lavoro non è possibile rilevare un modello unico di funzionamento. Ciascun porto, infatti, tende ad autoorganizzarsi seguendo proprie regole, relazioni e convenienze e dando vita ad un proprio modello di organizzazione del lavoro, frutto di una particolare sintesi tra le macroindicazioni espresse dalla riforma portuale e le specificità locali. L’attuale assetto dei porti è stato determinato dalla loro storia. Gli assetti relazionali al loro interno, la tipologia dei traffici, il peso di quella che un tempo era la Compagnia portuale, ma anche la domanda di trasporto marittimo espressa dal contesto produttivo di riferimento sono tutti elementi che hanno concorso a modulare, financo a distorcere, quanto previsto dalla L. 84/94. La Riforma del sistema portuale italiano ha rappresentato lo spartiacque tra: 1) un modello di organizzazione del lavoro sostanzialmente pubblico che aveva come soggetto di riferimento esclusivo per il lavoro in porto la Compagnia portuale, cui competeva l’organizzazione della forza lavoro e lo svolgimento delle operazioni portuali, sebbene sotto l’egida di soggetti sovra-ordinati come l’Ente Porto; 2) e un nuovo modello di organizzazione del lavoro privatistico contraddistinto dalla presenza di una pluralità di soggetti di emanazione pubblica e privata il cui livello di integrazione funzionale e la diversa combinazione ha dato luogo a più schemi operativi. Con la legge 84/94 i porti nazionali sono divenuti accessibili all’impresa privata alla quale è stato consentito di entrare in veste, o di soggetto incaricato allo svolgimento di operazioni e/o di servizi portuali (impresa art. 16 o 16bis), o di terminalista (impresa art. 18). Un ruolo, quest’ultimo, che ricomprende oltre allo svolgimento delle operazioni in banchina anche la gestione di un’infrastruttura demaniale (banchina o, più genericamente, aree portuali). La Compagnia portuale, laddove presente nei porti considerati, nel frattempo ha assunto, in osservanza ai contenuti della L. 84/94 e mediante procedura concorsuale, un nuovo status giuridico che la 5 Per approfondire il tema dei modelli di governance portuale applicati in Europa si rimanda alla lettura della Parte III del presente documento. 57 norma ha legittimato attraverso l’istituzione di una nuova funzione in ambito portuale: il servizio di somministrazione del lavoro temporaneo (impresa art. 17). L’organizzazione del lavoro in porto poggia, dunque, sulle convenienze di tipo economico, ma come si avrà modo di vedere anche di ordine sociale, che le diverse combinazioni operative di questi soggetti sono in grado di offrire. La difformità di tali aggregazioni funzionali che dipendono anche da elementi attuali e di contesto comuni a tutti i cinque scali considerati (dalla crisi dei traffici all’automazione del lavoro, dalla formazione dei lavoratori alla flessibilità delle attività) sono tuttavia il risultato, prevalentemente, di prassi operative e consuetudini relazionali tipicamente locali che si sono sedimentate nel tempo. L’evoluzione storica del porto è, dunque, uno degli elementi di partenza di cui è necessario tenere conto per comprendere come mai la riforma ha dato vita a modelli organizzativi così diversi da porto a porto. La legge 84/94 è stata interpretata ed applicata a livello locale a partire dalle peculiarità storiche, sociali e culturali che hanno caratterizzato lo sviluppo del porto nel corso della sua storia e che hanno fatto di ciascuno scalo una realtà a parte, con propri e specifici equilibri interni. Senza ricostruire la storia di ciascun porto – aspetto che esula dagli intenti dell’indagine –, è sufficiente osservare che con l’entrata in vigore della riforma tali equilibri sono stati in parte preservati, come è accaduto nello scalo di Ravenna dove le relazioni tra i diversi attori sono rimaste sostanzialmente immutate, o sono stati in parte rovesciati a favore di altri soggetti. A Trieste, ad esempio, alla progressiva perdita di ruolo della Compagnia portuale – evento che si è verificato a partire dal 2007-2008 quando assunse la funzione di art. 17 – ha corrisposto un nuovo protagonismo, quello dei terminalisti che oggi determinano gli asset tangibili e intangibili dello scalo giuliano. Se si tralascia per il momento il porto di Gioia Tauro, la cui recente istituzione non lascia spazio a riflessioni su quale impatto la L. 84/94 possa avervi prodotto 6 , negli altri due porti analizzati (Napoli e Genova) la riforma ha aperto scenari di instabilità sul piano del lavoro ad oggi solo parzialmente risolti. Sono recenti a Genova l’istituzione del nuovo contratto di lavoro portuale temporaneo e la trasformazione della Compagnia Unica in impresa art. 17. Fino ad allora, a 6 L’idea di istituire uno scalo marittimo a Gioia Tauro risale al 1971 ma la struttura è stata collaudata nel 1992. Per maggiori approfondimenti si veda la scheda analitica sul porto calabrese. 58 partire dalla riforma, la Compagnia Unica ha oscillato in un limbo operativo tra il modus operandi che caratterizzava il lavoro in porto prima della riforma e il nuovo regime imposto dalla L. 84/94 di “prestatore di lavoro temporaneo” (come previsto dall’art. 21b). I due eventi in questione hanno favorito l’intrapresa di un nuovo percorso di convergenza operativa fra gli operatori, una convergenza in passato indebolita anche dalla difficoltà della Compagnia Unica di adattarsi al rinnovato quadro normativo trasformandosi in un soggetto nuovo che fosse però, per forma e funzione, coerente con le sue radici e battaglie storico-culturali. Un altro elemento determinante per i nuovi assetti organizzativi all’interno degli scali sono state le compagnie portuali. Le compagnie nascono come forme di autorganizzazione dei lavoratori di antica memoria e si sviluppano all’ombra del pubblico. Utilizzate successivamente dal legislatore per circoscrivere il numero di addetti, le compagnie sono sempre state strutture caratterizzate da una forte coscienza sindacale ed hanno avuto per anni l’esclusiva della gestione operativa dei traffici 7 . L’apertura al privato non è stata quindi priva di contrapposizioni: una forte diminuzione di soci e dipendenti ha consegnato ai tempi recenti compagnie più snelle che tuttavia, anche sulla scia della crisi internazionale, hanno faticato a mantenere i livelli occupazionali del proprio bacino di forza lavoro. Nei porti esaminati, anche dopo l’applicazione della L. 84/94, la Compagnia portuale (in seguito trasformatasi in impresa di fornitura di lavoro portuale temporaneo) ha continuato a rivestire un ruolo centrale nella questione del lavoro, condizionando con la sua presenza (o assenza) il nuovo modello organizzativo del lavoro in porto. Diversi sono stati gli esiti della sua trasformazione in art. 17. Se a Ravenna ha mantenuto in linea generale ruolo e funzioni che le erano propri prima della riforma, a Genova e Napoli ha dovuto difendere il proprio spazio di intervento in banchina a tutela del pool di lavoro temporaneo con maggiore determinazione. A Trieste l’Impresa Compagnia Portuale trasformatasi anch’essa in art. 17 è divenuta progressivamente marginale nell’operatività dello scalo per scarsità di chiamate: la sua liquidazione da volontaria diventa coatta amministrativa e la funzione di somministratore di lavoro temporaneo viene assunta da una società di nuova costituzione riconducibile all’entourage di alcuni dei principali terminalisti che operano nello scalo giuliano e, impropriamente, da più società multiservizi. Infine Gioia Tauro: qui l’assenza di una Compagnia portuale è stata in qualche modo colmata da organici più strutturati ma anche dalla richiesta alle imprese art. 16 di un regime di operatività ai limiti dell’intermediazione. 7 Il Codice della Navigazione concedeva alla Compagnia Unica l’esclusiva del lavoro portuale. 59 Oggi le imprese compagnie portuali sono percepite da alcuni terminalisti come un elemento di vischiosità e un ostacolo alla piena liberalizzazione dei porti. L’esistenza stessa dell’art. 17 è al centro del dibattito istituzionale anche se tale istituto ha rappresentato proprio in questi ultimi anni, caratterizzati da una pesante fluttuazione dei traffici mondiali, un importante ammortizzatore per le altre imprese portuali. Ha consentito, infatti, soprattutto ai terminalisti di operare con un organico contenuto che nei periodi di espansione del commercio mondiale è stato integrato dal pool di lavoro temporaneo e nei periodi di flessione ha visto diminuire sostanzialmente gli avviamenti dell’art. 17. Nei porti esaminati, rispetto all’entità della crisi del commercio mondiale, gli interventi di ridimensionamento del personale o di messa in Cassa Integrazione Guadagni da parte delle imprese portuali sono stati, secondo gli intervistati, nel complesso contenuti. Al contrario l’Indennità di Mancato Avviamento (IMA) 8 , il cui valore sintetizza le mancate chiamate al lavoro sopportate dal pool di lavoro temporaneo, ha fatto registrare nel 2009 un’impennata significativa come si può osservare nella Tab. 1. Tab. 1 – Le giornate di mancato avviamento all’acme della crisi Compagnia portuale 0 18.130 var. % 2009-2008 - 3.129 10.245 227,4 10.514 28.178 168,0 2.112 4.241 100,8 2008 Genova - CULMV Paride Batini Soc. Coop Napoli - Compagnia Unica Lavoratori Portuali CULP Coop. Arl Ravenna - Coop. Portuale Soc. Coop. a r.l. Trieste - Compagnia Portuale di Trieste Soc. Coop.+ Minerva Servizi Srl 2009 Totale Porti Ancip** 77.498 147.868 90,8 * Alla Compagnia Unica di Genova l’IMA nel 2008 non è stata erogata perché la sua natura non è stata ritenuta in linea con quanto richiesto dall’art. 21 comma b della legge 84/94. Nel 2009, altresì, è stata erogata (come accade a qualsiasi altra impresa) la CIG da marzo a ottobre e da novembre (quando la Compagnia è diventata ufficialmente Impresa art. 17) fino a fine anno è stata erogata l’IMA. ** Sono 33 i porti associati Ancip (Associazione Nazionale Compagnie Imprese Portuali) Fonte: elaborazione Isfort su dati Ancip 2010 8 Si tratta di una indennità corrisposta ai dipendenti e ai soci delle imprese e delle agenzie fornitrici di lavoro temporaneo che operano nei porti per le giornate di mancato avviamento al lavoro. Viene riconosciuta e autorizzata anno per anno per consentire la continuità del pool di lavoro portuale temporaneo. 60 In generale la flessione del numero di avviamenti che ha interessato i pool di lavoro temporaneo è stata, secondo alcuni intervistati, superiore all’entità della contrazione dei traffici. Tale divergenza è indicativa del fatto che il lavoro temporaneo è entrato nel ciclo produttivo in porto in via ordinaria e non solo nei momenti di picco della domanda. Il fatto che rappresenti un fattore di produzione stabile e concentri al proprio interno un livello di esperienza e polivalenza del lavoro in porto difficilmente rintracciabili altrove, rende il pool di lavoro temporaneo un elemento di valore ai fini della definizione di un modello operativo in banchina che sia competitivo. Infine un ulteriore elemento di determinazione del modello organizzativo del lavoro in porto è rappresentato dalla tipologia dei traffici che caratterizza le attività commerciali di uno scalo. In Italia i porti, ad eccezione di quelli di transhipment, presentano una varietà di traffici che raramente vede una tipologia prevalere nettamente su un’altra. I traffici preponderanti per tonnellaggio negli scali esaminati sono legati, con l’eccezione di Gioia Tauro naturalmente, al movimentato tradizionale (rinfuse, traffico RO-RO, merci varie). Ciascuna tipologia di traffico, come si avrà modo di vedere più avanti, implica diversi livelli di programmabilità delle operazioni e di standardizzazione quindi del processo produttivo in porto e tendono ad orientare le imprese portuali in una organizzazione del lavoro specifica. Non è raro infatti rinvenire all’interno degli scali più schemi operativi in banchina in funzione delle diverse tipologie di traffico presenti. La distinzione di massima è stata rilevata tra il traffico container e le altre tipologie di movimentato tradizionale (RO-RO, rinfuse, merci varie). Tendenzialmente, infatti, nel traffico container le attività del ciclo produttivo sono svolte in via prevalente – in alcuni casi in via esclusiva come è stato osservato, ad esempio, nello scalo napoletano – dai dipendenti del terminal con conseguente limitato ricorso al lavoro temporaneo e all’appalto di servizi. Tale comportamento, sebbene con modulazioni diverse, tende a replicarsi in tutti gli scali analizzati con l’unica eccezione di quello ravennate dove il containerizzato appare allineato a tutte le altre tipologie di traffico: qui nell’organizzare il lavoro portuale si fa ampio ricorso alla professionalità del pool di lavoro temporaneo che trova stabile impiego nel ciclo delle operazioni in banchina. 61 3. L’organizzazione del lavoro tra nuove tecnologie, fattore umano e flessibilità L’impatto della tecnologia sul lavoro portuale I sistemi informatici e l’evoluzione tecnologica hanno concorso a ridisegnare in modo rilevante il lavoro portuale nel corso degli ultimi decenni. Ancor prima dell’applicazione della L. 84/94, i porti hanno dovuto fare i conti con la modernizzazione dei mezzi meccanici che, a fronte di un incremento sensibile della produttività in banchina, ha determinato una riduzione importante della forza lavoro in porto. Già negli anni Sessanta l’introduzione delle prime pompe aspiranti, finalizzate a velocizzare lo sbarco di alcune tipologie di rinfusa e la pulitura delle stive, modificò drasticamente la necessità di maestranze in porto con un effetto di sostituzione del lavoro umano piuttosto rilevante. Con l’introduzione di tali automatismi un lavoratore portuale era in grado di svolgere il lavoro precedentemente assolto da dieci addetti. Sempre in quegli anni il ricorso alla movimentazione di merce in container, che fu da subito un segmento di traffico ad elevata automazione, sottrasse volumi significativi al movimentato tradizionale. I risvolti sulla forza lavoro, anche in quel caso, furono considerevoli sugli operativi in banchina. Anche se più tardi, tale segmento di traffico esprimerà la richiesta di nuove figure professionali: meno operative e più orientate all’uso di strumenti informatici per la pianificazione dei flussi intercontinentali di merce. Negli ultimi anni l’ingresso dei sistemi informatici e l’evoluzione tecnologica dei mezzi e degli strumenti di movimentazione della merce in porto hanno influito sulla determinazione dell’organizzazione del lavoro all’interno degli scali. Da un lato è proseguita la costante riduzione della forza lavoro in banchina, dall’altro si è fatto strada un processo di revisione di ruoli e funzioni dei lavoratori portuali che ha mutato gli equilibri nell’operatività in banchina tra le diverse imprese portuali, ma anche all’interno della singola realtà aziendale. La discriminante per una lettura articolata del fenomeno è riconducibile alla tipologia di traffico. L’impatto della tecnologia in termini di sostituibilità del capitale umano è stata rilevante in questi ultimi anni nel segmento delle rinfuse solide e in alcune (poche) tipologie di merci trattate come varie (prodotti ortofrutticoli ad esempio) dove la movimentazione del carico avviene ricorrendo a impianti ampiamente automatizzati; è stato invece poco incisiva, secondo gli intervistati, sulle merci varie nel loro 62 complesso e sul traffico RO-RO dove la movimentazione dei carichi continua ad essere svolta con gru che necessitano per la manovra del supporto di personale di stiva e di banchina (Figg. 1-2). Nel segmento container, in particolare, l’effetto della tecnologia negli anni più recenti è stato non tanto quello di subentrare con nuovi automatismi al lavoro umano quanto di produrre una riorganizzazione delle mansioni con effetti a livello di distribuzione del lavoro tra imprese e all’interno dell’azienda. Con l’avanzare del processo di automazione e di impiego di strumentazioni e mezzi sempre più sofisticati le imprese portuali hanno manifestato la necessità di avvalersi di figure specializzate dotate di una preparazione high-tech. Fig. 1 - Impatto dell’innovazione tecnologica sull’organizzazione del lavoro Ha ridefinito ruoli e funzioni ma non ha sostituito una parte realmente consistente del lavoro umano ▪▪▪▪▪▪▪▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫ Ha sostituito una parte consistente del lavoro umano e ridefinito ruoli e funzioni ▪▪▪▪▪▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫ Ha sostituito una parte consistente del lavoro umano ▪▪▪▪▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫ ▪▪▪▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫ Non ha comportato alcuna sostanziale variazione nell’organizzazione del lavoro Legenda: Impatto da alto ▪▪▪▪▪ a n ul l o ▪ Fonte: Indagine Isfort 2010 Fig. 2 - Impatto sull’organizzazione del lavoro per tipologia di traffico Rinfuse solide Merci containerizzate Merci varie e RO-RO: Legenda: Impatto da alto ▪▪▪▪▪ a n ul l o Fonte: Indagine Isfort 2010 63 ▪▪▪▪▫ ▪▪▪▫▫ ▪▪▫▫▫ ▪ Terminal container yard & planner, pesatore con obblighi doganali, gruisti, carrellisti e spuntatore merci, ma anche addetti allo stivaggio, rizzaggio e derizzaggio sono figure professionali che richiedono al lavoratore la capacità di gestire con abilità tecnologia e strumentazioni informatiche sebbene venga richiesto un diverso grado di capacità high-tech in relazione alla mansione da svolgere (più elevata per lo ship-planner, meno elevata per l’addetto al rizzaggio; Fig. 3). Non solo. Se da un lato la sostituibilità delle risorse umane a fronte dell’introduzione di automatismi interessa soprattutto le mansioni di basso rango (comunque caratterizzate da un certo grado di specializzazione), dall’altro la gestione logistica del carico si fa sempre più sofisticata e cresce il fabbisogno di profili di alto livello. Fig. 3 - Livello di formazione high-tech per figura professionale Vessel/yard/rail TC planner ▪▪▪▪▪ Gruista, Carrellista, Spuntatore merci, Pesatore con obblighi doganali ▪▪▪▫▫ Addetto a stivaggio, rizzaggio e derizzaggio ▪▫▫▫▫ Legenda: Livello da alto ▪▪▪▪▪ a basso ▪ Fonte: Indagine Isfort 2010 Nell’ottica di una politica attiva di crescita professionale delle risorse umane interne all’impresa, i terminalisti tendono a valorizzare il personale dipendente sostenendone l’ampliamento delle competenze. I ruoli di shipplanner o dispatcher 9 , così come quello di capo-turno, sono spesso assegnati ad ex operai dipendenti dell’impresa che precedentemente erano addetti al ruolo di gruista o alla conduzione di ralle. 9 Lo ship-planner è addetto alla redazione del piano di carico della nave ovvero deve valutare il tipo e il peso della merce, la stabilità della nave e l’ottimizzazione dello spazio a bordo. Il dispatcher è addetto alla programmazione delle partenze delle navi in base alle condizioni meteorologiche e nell'interesse di un servizio efficiente. 64 Tutto ciò ridisegna anche il rapporto tra terminalista e pool di lavoro temporaneo. Le professionalità-chiave sono ricoperte dal personale interno, mentre al pool di lavoro temporaneo viene chiesto – e in prospettiva ciò accadrà sempre più frequentemente secondo alcuni intervistati – di svolgere per lo più mansioni strettamente operative caratterizzate da un minore livello di qualificazione professionale (sebbene contraddistinte comunque da livelli di specializzazione). La conseguenza nel lungo termine potrebbe essere quella di assistere, almeno nel segmento container, ad un progressivo depauperamento professionale a carico del pool di lavoro temporaneo a seguito della riduzione delle chiamate per la copertura di ruoli e mansioni caratterizzati da maggiore competenza e specializzazione, ma anche al graduale attenuarsi della domanda di ruoli e mansioni di “basso livello” per il crescente automatismo che tende a sostituire il lavoro umano. Tutto ciò non potrà non avere riflessi importanti sulla sostenibilità economica delle imprese compagnie portuali. Il fattore umano In linea generale il ricorso sempre più massiccio all’impiego di tecnologia in porto ha richiesto un affinamento della preparazione professionale dei lavoratori portuali che il ricambio generazionale in porto ha contribuito in parte a realizzare. Nonostante l’uscita dal mercato del lavoro, stimolata dallo scioglimento delle compagnie portuali, del personale prossimo ad aver maturato la pensione abbia determinato la perdita di capacità polivalenti e l’’estinzione’ di professionalità abili soprattutto nella movimentazione delle merci varie (quelle che generano maggiore ricchezza in termini di lavoro perché richiedono una specializzazione elevata nella movimentazione manuale), dall’altro lato ha prodotto l’inserimento in porto di lavoratori con un livello di istruzione complessivamente più elevato e una attitudine maggiore all’uso di mezzi e apparecchi informatici. Il livello di istruzione dei lavoratori portuali viene giudicato discreto dagli intervistati, ma il bisogno di professionalità ancor più qualificate emerge dalla tendenza delle imprese ad acquisire personale con titoli di studio più elevati. Ad oggi tra il personale dell’impresa portuale risultano prevalenti i lavoratori che hanno maturato la licenza media o hanno conseguito un diploma di istruzione secondaria. Sono profili di cui l’impresa portuale intende avvalersi anche in futuro sebbene l’orientamento sia quello di completare il quadro professionale interno con lavoratori in possesso del diploma universitario o di diploma di laurea (Figg. 4-5). 65 Fig. 4 - Livello di istruzione presente all’interno delle imprese portuali e profili maggiormente ricercati PPrrooffiillii pprreesseennttii Licenza elementare Licenza media Diploma istituto professionale Diploma di istruzione secondaria superiore Diploma universitario Laurea e post-laurea poco presenti mediamente presenti molto presenti PPrrooffiillii rriicceerrccaattii Li cenza elemen tare Licenza media Diploma istituto professio nale Diploma di istruzione secondaria superiore Diploma universi tario Laurea e post-la urea poco ricercati mediamente ricercati Fonte: Indagine Isfort 2010 66 molto ricercati Fig. 5 - Giudizio sulla formazione professionale Ottima ▪▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫ Discreta ▪▪▪▪▪▪▪▪▪▪▪▪▫▫▫▫▫ Sufficiente ▪▪▪▪▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫ Insufficiente ▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫ Gravemente insufficiente ▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫ Fonte: Indagine Isfort 2010 Il capitale umano sta assumendo progressivamente maggiore valenza in porto e sembra destinato a diventare un differenziale importante per accrescere la competitività degli scali. L’introduzione di nuove figure professionali ad elevata competenza e specializzazione, di recente valorizzazione nel panorama lavorativo portuale – dallo ship-planner al terminal container & yard planner –, ne sono testimonianza. Sono figure caratterizzate dall’essere knowledge intensive e pertanto l’incidenza del fattore “saperi” ai fini della produzione di valore acquisisce un peso rilevante rispetto a quella dei fattori materiali. In quanto alla formazione sul campo essa rappresenta, oggi come ieri, un momento fondamentale di apprendimento per il lavoratore a prescindere dal livello di istruzione. Ma come deriva dell’impatto della tecnologia sulle attività del porto, la formazione tende in prima battuta a creare specializzazioni e solo successivamente a generare personale multitasking. La formazione di un lavoratore, perché questi possa acquisire ulteriori competenze e specializzazioni, rappresenta infatti un costo importante per l’impresa portuale. Alcuni operatori tendono, con lungimiranza, a diversificare le specializzazioni in capo ai propri lavoratori dipendenti per poter disporre di personale più flessibile in funzione della programmazione dei turni di lavoro. Si tratta, tuttavia, di un processo lento e che non tutte le imprese sono disponibili ad intraprendere preferendo ricorrere, in questo caso al pool di lavoro temporaneo. Tale approccio è comune anche alle imprese compagnie portuali. La formazione dei lavoratori interinali, infatti, segue logiche analoghe: o sono privi di una formazione specifica e pertanto 67 vengono avviati a lavori dove il livello di specializzazione è piuttosto basso (in genere tutti i ruoli che non prevedono l’impiego di mezzi meccanici) oppure l’impresa art. 17 si incarica di specializzare quegli interinali – e di accrescerne progressivamente le competenze – che integrano fattivamente il pool di lavoro temporaneo e con il quale intrattengono un rapporto di lavoro continuativo. La centralità della specializzazione nel lavoro portuale si traduce sul lato dei fabbisogni di professionalità delle imprese nella ricerca sul mercato di un profilo di operaio specializzato la cui domanda sembra superare l’offerta. Tra gli operai specializzati le figure più difficili da reperire sono a detta degli intervistati il gruista, l’addetto allo stivaggio e al rizzaggio/derizzaggio e altre figure di rango più elevato tra cui il Tc&yard planner (Fig. 6). Mentre la domanda delle prime due figure è massima da parte delle imprese artt. 16 e 17 cui viene demandata prevalentemente - è già stato accennato - lo svolgimento di tali mansioni, la ricerca del Tc&yard planner rimane una prerogativa essenzialmente delle imprese che gestiscono terminal container. Fig. 6 - Profili e figure professionali di difficile reperimento sul mercato PPrrooffiillii FFiigguurree 1. Operaio specializzato 1. Gruista 2. Operaio portuale 2. Addetto stivaggio, rizz./derizz. 3. Capo-squadra 3. Altro (TC Planner, manipolatore merci varie, driver, operaio polivalente) Fonte: Indagine Isfort 2010 I momenti formativi si concentrano nella fase iniziale del rapporto di lavoro e spesso rimangono unici poiché, non mutando la mansione svolta dal lavoratore all’interno del ciclo produttivo, l’impresa non ritiene necessario procedere con ulteriori momenti formativi. Esistono ovviamente delle eccezioni, ma la gran parte degli intervistati ha riportato come prassi consolidata l’avviamento al lavoro come principale e unico momento di reale formazione per il lavoratore. 68 Variabilità dei traffici e flessibilità organizzativa Premettendo che il lavoro portuale è per sua natura variabile perché ha a che fare con le navi e con il mare, quindi non riconducibile ad un modello organizzativo di tipo industriale, è tuttavia possibile declinare diversi livelli di programmabilità del ciclo produttivo in banchina in virtù delle diverse tipologie di traffico. La composizione dei traffici negli scali analizzati, ma più in generale nella portualità nazionale, si presenta piuttosto variegata. Negli scali italiani permangono, infatti, quote significative di movimentato tradizionale (RORO, rinfuse, merci varie) al quale si affianca il traffico container in misura più o meno rilevante, ma mai preponderante (fa eccezione chiaramente il porto di transhipment). Come è emerso dalle interviste, i segmenti RO-RO e container sono tra le tipologie di traffico più programmabili, ovvero sono ambiti che si caratterizzano per operazioni di carico e scarico in banchina contrassegnate da un minor numero di imprevisti. Secondo gli intervistati è possibile programmare con una certa attendibilità le attività relative al traffico RORO perché si tratta prevalentemente di traffico di linea e di breve-medio raggio: il collegamento si esaurisce per lo più in ambito nazionale o nelle aree immediatamente limitrofe. Risultano invece caratterizzate da un livello medio di programmabilità le attività relative alla movimentazione dei container, essenzialmente perché si tratta di merci che compiono tragitti di medio-lunga percorrenza con un numero elevato di scali che determinano ritardi quasi fisiologici sulla tabella di marcia. In questo segmento di traffico, in media, la gran parte delle imprese terminaliste tende ad avvalersi del proprio personale dipendente per svolgere le attività del ciclo produttivo. Con il lavoro diretto punta, peraltro, a coprire anche i picchi della domanda, ricorrendo al lavoro temporaneo solo occasionalmente (si registrano alcune eccezioni: è il caso di Ravenna dove una quota importante è affidata al pool di lavoro temporaneo e di Genova dove il fenomeno appare meno rilevante). Ciò è in parte determinato anche dalla volontà delle grandi compagnie di navigazione di ottenere una piena integrazione verticale, vale a dire un pieno controllo della catena logistica dal punto di origine al punto di destinazione finale della merce. Controllare le operazioni di movimentazione in banchina per questi operatori vuol dire appropriarsi di uno snodo logistico importante che spesso rappresenta una strozzatura nella fluidificazione dei flussi perché tende ad assorbire tempo, accumulando ritardi e inefficienze. 69 Nel porto di Napoli, infatti, il terminal container ha escluso del tutto dal proprio ciclo produttivo il pool di lavoro temporaneo. Mentre a Genova, dove comunque gli avviamenti nel segmento container sono ancora piuttosto consistenti, si percepisce una volontà di progressiva marginalizzazione del ruolo del pool nelle operazioni in banchina. Diversamente accade nel segmento delle rinfuse solide e delle merci varie, dove l’incertezza dei tempi di navigazione lascia aperti ampi margini di indeterminatezza che i terminalisti devono necessariamente trasferire sul lavoro temporaneo. Sono le tipologie merceologiche meno programmabili: il loro spostamento avviene spesso con volandiere trattandosi raramente di traffico di linea (Fig. 7). Fig. 7 – Livello di programmabilità RO-RO (trailer) ▪▪▪▪▪ Merci containerizzate ▪▪▪▪▫ Rinfuse solide, Merci varie ▪▫▫▫▫ Legenda: Livello di programmabilità alto ▪▪▪▪▪ Livello di programmabilità nullo Fonte: Indagine Isfort 2010 La scarsa programmabilità richiede l’impiego di lavoro temporaneo che per la gran parte degli intervistati è addebitabile all’insufficienza del personale dipendente rispetto ai picchi di domanda ma anche all’elevato numero di navi che giungono in porto contemporaneamente. Tralasciando i traffici occasionali chiaramente non prevedibili con largo anticipo ai fini della programmazione del lavoro in banchina, anche nel caso delle navi di linea sono da considerarsi ordinari gli approdi oltre la data prevista di arrivo (ETA – Expected Time Arrival) considerando che le portacontainer, ad esempio, compiono anche 20-30 scali prima di giungere a destinazione. Non sono invece elementi determinati di ricorso al lavoro temporaneo l’inadeguatezza dei mezzi di sollevamento (perché scarsi o obsolescenti) o l’incertezza della quantità e della tipologia di merce da scaricare visto che i mezzi odierni di comunicazione consentono una informazione in merito chiara e tempestiva (Fig. 8). 70 Fig. 8 - Il ricorso al lavoro temporaneo nel porto èèè d * o u p o o u o d *::: o aaa* utttttto prrraaattttttu op o ssso uttto ovvvu do Insufficienza del personale dipendente rispetto ai picchi di domanda ▪▪▪▪▪▪▪▪▪▪▪▪▫▫▫ Elevato numero di navi che giungono contemporaneamente in porto ▪▪▪▪▪▪▪▪▪▪▫▫▫▫▫ n u o o d m n o n uttto o aaa::: ovvvu do maaaiii d n èèè m on no Scarsa numerosità e/o obsolescenza dei mezzi di sollevamento e di movimentazione ▪▪▪▪▪▪▪▪▪▪▪▪▪▫▫ Incertezza circa la quantità di merce da caricare/scaricare o variabilità delle tipologie di merce da caricare/scaricare ▪▪▪▪▪▪▪▪▪▪▪▫▫▫▫ *rispondenti: “spesso” + “a volte” Fonte: Indagine Isfort 2010 La necessaria flessibilità per far fronte alla domanda di svolgimento di operazioni e servizi portuali è tale che il principale criterio di selezione del personale da parte delle imprese portuali risulta essere la verifica della flessibilità del lavoratore su turni e mansioni. Solo in seconda battuta si considera l’affidabilità del lavoratore, quindi l’esperienza. Tale indeterminatezza si riflette inevitabilmente sull’organizzazione del lavoro all’interno dell’azienda. In media la comunicazione turni risulta prevalentemente giornaliera, le variazioni di turno abbastanza frequenti e i tempi medi di comunicazione per lo più riconducibili al giorno prima. Nonostante la variabilità delle attività richieda flessibilità all’organico aziendale, ciò non incide in misura spropositata sull’entità del lavoro straordinario che, in media, rimane confinato in un range inferiore al 20% del totale delle ore lavorate in un mese (Figg. 9-10). Fig. 9 - Criteri di selezione dei lavoratori portuali 1. Disponibilità/flessibilità su turni e mansioni 2. Affidabilità 3. Esperienza ▪▪▪▪▪▪▪▫▫▫▫▫▫▫▫▫ ▪▪▪▪▪▪▪▫▫▫▫▫▫▫▫▫ ▪▪▪▪▪▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫ *rispondenti: “spesso” + “a volte” Fonte: Indagine Isfort 2010 71 Fig. 10 – Effetti della flessibilità sull’organizzazione interna del lavoro C C o m u n o n d u n Co om mu un niiicccaaazzziiio on neee d deeeiii tttu urrrn niii Giornaliera Atro Mensile Settimanale ▪▪▪▪▪▪▪▪▪▪▫▫▫▫▫▫ ▪▪▪▪▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫ ▪▪▪▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫ ▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫ V V o n u n o Vaaarrriiiaaazzziiio on niii tttu urrrn no o Abbastanza frequente Molto frequente Molto rara Sporadica ▪▪▪▪▪▪▪▪▫▫▫▫▫▫▫▫ ▪▪▪▪▪▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫ ▪▪▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫ ▪▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫ T T m p m d o m u n o n o n u n o Teeem mp piii m meeed diii ccco om mu un niiicccaaazzziiio on neee vvvaaarrriiiaaazzziiio on neee tttu urrrn no o Il giorno prima Qualche ora prima Un paio di giorni prima Una settimana prima ▪▪▪▪▪▪▪▪▪▫▫▫▫▫▫▫ ▪▪▪▪▪▪▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫ ▪▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫ ▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫ IIIn n d n % m d o o d n o u o o o m nccciiid deeen nzzzaaa % %m meeed diiiaaa o orrreee ssstttrrraaao orrrd diiin naaarrriiio o sssu u ttto otttaaallleee o orrreee lllaaavvvo orrraaattteee///m meeessseee M e n o de l 5 % Tra 6% e 20% Tra 21% e 50% Oltre 50% Fonte: Indagine Isfort 2010 72 ▪▪▪▪▪▪▪▪▪▫▫▫▫▫▫▫ ▪▪▪▪▪▪▪▫▫▫▫▫▫▫▫▫ ▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫ ▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫ Osservando tali informazioni si possono tracciare alcuni schemi di organizzazione interna del lavoro cui corrispondono i diversi profili di impresa portuale (artt. 16, 17, 18). In linea generale le imprese terminaliste presentano un’organizzazione interna del lavoro più statica e meno soggetta a variazioni che, anche quando si verificano, mantengono il carattere occasionale. Di fatto tali imprese trasferiscono gli effetti della flessibilità del lavoro portuale sugli altri operatori, come prevede la stessa Legge 84/94. Esistono tuttavia misure diverse di ricorso al lavoro temporaneo: dall’impiego nullo o molto contenuto all’impiego vasto e continuato. In quest’ultimo caso, all’uso frequente e consistente del pool, finalizzato in genere a coprire oltre ai picchi della domanda anche l’ordinaria attività in banchina, corrisponde un terminalista che dispone di un organico operativo piuttosto contenuto (rispetto al proprio programma di attività) e che tende a realizzare una programmazione interna del lavoro di tipo annuale con scarse variazioni di turno. L’impatto dell’imprevedibilità del lavoro portuale viene così trasferito totalmente o quasi sul pool di lavoro temporaneo e, talvolta, può accadere che lo si trasferisca anche sulle imprese art. 16. Accanto alle imprese art. 17 che, per la funzione che sono chiamate a svolgere ovvero quella di fornire lavoro temporaneo alle altre imprese portuali, presentano una programmazione interna massimamente flessibile su turni e mansioni, si è registrato infatti nel corso della rilevazione la presenza di imprese art. 16 che presentano una programmazione interna del lavoro altrettanto flessibile (comunicazione turni giornaliera, variazioni turni molto frequenti, ecc.). Ciò accade soprattutto dove si registrano forme ambigue di lavoro in banchina e dove l’indeterminatezza dei ruoli e delle funzioni in porto rende labili i limiti dettati dalla norma per l’erogazione dell’uno (lavoro temporaneo) e dell’altro servizio (appalto di servizi). 73 4. Lo schema operativo: traffici, imprese portuali, forza lavoro, operations La distinzione tra le diverse tipologie di traffico, come già accennato, ha una sua significatività in funzione della programmabilità delle attività con riflessi diretti sul livello di flessibilità nell’organizzazione interna del lavoro. Escludendo il porto di Gioia Tauro dove l’attività di transhipment assorbe la quasi totalità del movimentato dello scalo, negli altri quattro porti esaminati le rinfuse, le merci varie e il segmento RO-RO rappresentano i volumi maggiori di movimentato. A Ravenna e Trieste rappresentano il 90% circa dei traffici complessivi, a Genova il 67% e a Napoli il 78% del totale delle merci che transitano in porto. Non considerando le rinfuse liquide che, per quelli che sono gli obiettivi dell’indagine, sono di scarso interesse si può osservare che a Ravenna quasi il 70% del traffico è composto da rinfuse solide e merci varie, proprio le tipologie di traffico meno programmabili e per di più il traffico di linea nel porto romagnolo rappresenta una quota di appena il 14%. Trieste e Genova presentano una prevalenza di traffico container e RO-RO, Gioia Tauro come scalo di transhipment concentra i propri traffici nel containerizzato, mentre lo scalo napoletano presenta una specializzazione nei traghetti (rappresentano il 33% del movimentato complessivo) e una ripartizione abbastanza equilibrata tra rinfuse solide e container cui si aggiunge un’altrettanto equilibrata ripartizione tra traffico di linea e non di linea (la ripartizione tra liner e non liner è di 51% e 49%; Tav. 1). Modello di struttura della forza lavoro L’organizzazione del lavoro dipende, oltre che dalla tipologia di traffico, anche dalla diversa combinazione di lavoro strutturato, temporaneo e in outsourcing (quest’ultimo demandato alle imprese art. 16) che stabilisce i ruoli e la distribuzione del lavoro fra le imprese presenti nello scalo. A tale proposito è importante tenere conto del ruolo e del differente “peso” all’interno delle dinamiche portuali delle diverse imprese. Tale ruolo si può apprezzare attraverso le modalità con cui viene organizzata la forza lavoro. 74 Tav. 1 - Il Porto in sintesi: traffici, imprese portuali, forza lavoro, operations Ravenna Trieste Genova Napoli Gioia Tauro TRAFFICI(1) 1. 2. 3. 4. 5. Traffici (distribuzione % tonn.) Traffici Liner Non-liner Rinfuse solide 45% Merci varie 23% Rinfuse liquide 19% Container 10% RO-RO 3% 14% 86% 1. Rinfuse liquide 77% 2. RO-RO 11% 3. Container 7% 4. Rinfuse solide 4% 5. Altre merci varie 1% 1. 2. 3. 4. 5. Rinfuse liquide 39% Container 33% RO-RO 17% Rinfuse solide 10% Altre merci varie 2 1. 2. 3. 4. RO-RO 33% Rinfuse solide 24% Rinfuse liquide 22% Container 22% 1. Container 96% 2. Rinfuse liquide 2% 3. RO-RO 1,5% 4. Rinfuse solide 0,5% 51% 49% 100% 0% 12 11 19 7 7 2 30-50 2.217 1.541 990 2% 741 465 96 10% 1.359 1.140 - 2,2 7,7 - Nullo(7) - Medio 40% Medio 30% - <10% 1-2% IMPRESE PORTUALI Impresa art. 17 N. imprese art. 16+16bis(2) N. imprese art. 18(3) Concessioni: durata min e max 5 17 19-21 29 16 FORZA LAVORO Addetti Imprese Portuali Di cui addetti Imprese art. 18(4) Addetti(5) Impresa art. 17 Quota interinali/addetti I. art. 17 Indice di frequenza del ricorso al lavoro temporaneo(6) 622 439 25% 25 1,4 OPERATIONS Livello diffusione Appalti Quota lavori appaltati Banchina pubblica Quota traffico banchina pubblica 1) 2) 3) 4) 5) 6) 7) Basso <30% 6,7% Elevato 30-50% Dati al 2008 per depurare le informazioni dal fenomeno distorsivo della crisi. I restanti dati sono relativi al periodo di rilevazione, ovvero al 2010. Escluse dal computo le imprese art. 16 che sono anche concessionarie (art. 18) Sono esclusi i terminalisti addetti al traffico di rinfuse liquide Nel caso di Ravenna il dato è mancante perché il n. di addetti fornito non è disaggregabile per le diverse imprese portuali (artt. 16 e 18) Soci+dipendenti. Nel caso di Ravenna sono compresi 85 interinali che lavorano in modo continuativo con l’impresa art. 17 (N. dipendenti terminalisti + n. addetti imprese art. 16)/ n. addetti imprese art. 17 Salvo prestazioni specialistiche Legenda: Presente Fonte: Indagine Isfort 2010 Assente Dato non pervenuto L’indice di frequenza del ricorso al lavoro temporaneo (calcolato rapportando la numerosità del lavoro strutturato delle imprese artt. 16 e 18 a quella del pool di lavoro temporaneo) esprime indirettamente, come si vedrà più avanti, parte dello schema organizzativo del lavoro in porto tanto più se si parte dal presupposto che la forza lavoro complessiva nello scalo sia adeguata al traffico che vi si realizza. Alcuni numeri di scenario sulle imprese e sulla forza lavoro in porto possono tornare utili per comprendere tali dinamiche sebbene, è opportuno segnalarlo, si tratti di dati ancora allo stato grezzo. Tuttavia consentono alcune riflessioni di massima. Nei porti esaminati la somministrazione di lavoro temporaneo è presente in quattro scali su cinque. In tutti i casi si è trattato della trasformazione della vecchia Compagnia portuale in art. 17. E’ assente solo a Gioia Tauro dove non si è manifestata alcuna esigenza di istituirla riuscendo a sopperire attraverso l’appalto di servizi (imprese art. 16) e il ricorso agli interinali. La numerosità del pool di lavoro temporaneo varia sensibilmente da porto a porto: il meno numeroso è quello di Trieste (25), il più numeroso si registra a Genova (990). In merito alle altre imprese portuali anch’esse sono presenti nei cinque porti esaminati in misura variabile. Il loro numero tuttavia è inferiore a quello delle imprese art. 16 con l’unica eccezione di Ravenna dove accanto ai 17 terminalisti si registra una presenza in porto di 5 imprese art. 16. La forbice maggiore tra le due tipologie di impresa si registra a Trieste e a Napoli. Nello scalo giuliano la numerosità degli art. 16 è nettamente superiore a quella degli art. 18 e si esprime in un rapporto di 29 a 16, mentre nello scalo campano la proporzione è di 19 a 7. Il dato più significativo rimane senza dubbio la forza lavoro portuale. Anch’essa si presenta piuttosto eterogenea: meno numerosa a Napoli dove gli addetti sono 837 (calcolati sommando agli addetti delle imprese artt. 16 e 18 quelli dell’impresa fornitrice di lavoro temporaneo), più copiosa a Genova dove raggiunge i 3.207 addetti, il numero massimo di lavoratori portuali riscontrato nei cinque porti esaminati. Il rapporto tra addetti delle imprese portuali e pool di lavoro temporaneo, che esprime l’indice di frequenza del ricorso al lavoro temporaneo mette in luce uno squilibrio nella struttura della forza lavoro in porto in alcuni degli scali analizzati che si sostanzia in un sovradimensionamento del pool di 76 lavoro temporaneo a fronte di una inadeguatezza numerica dell’organico delle imprese art. 16 e dei terminalisti presenti in porto 10 . L’indice risulta piuttosto basso a Ravenna e a Genova. Più è basso il valore dell’indice, più la dipendenza delle imprese terminaliste e di servizi dal lavoro temporaneo risulta elevata. Nei due porti, d’altro canto, l’impresa art. 17 – una volta Compagnia portuale – ha una centralità “storica” nell’ambito del lavoro portuale ed assorbe una quota di attività in banchina non riconducibile esclusivamente ai picchi di domanda, ma tende ad inserirsi stabilmente e in maniera continuativa nei cicli produttivi dei terminalisti. A Ravenna si registra il valore più basso di 1,4: vale a dire che le imprese portuali (artt. 16 e 18) sono in grado di affiancare ad un lavoratore del pool di lavoro temporaneo 1,4 lavoratori per lo svolgimento delle operazioni in banchina. Tuttavia è bene tenere presente che Ravenna presenta un modello organizzativo alquanto particolare del quale si dirà più avanti. Diversamente accade a Napoli dove l’esito del rapporto indica che la quota di lavoro strutturato è sensibilmente più consistente del lavoro temporaneo: accanto a 7,7 addetti impiegati nelle imprese artt. 16 e 18, il pool di lavoro temporaneo è in grado di schierare a supporto del ciclo in banchina un lavoratore. L’indice nel caso dello scalo napoletano può essere in parte raffinato: considerando che oltre ad avere un organico piuttosto copioso, il principale terminal container campano non ricorre al pool di lavoro temporaneo ma svolge le operazioni in banchina senza ricorrere agli avviamenti, si può pensare di ottenere un indice maggiormente rappresentativo della struttura della forza lavoro nello scalo sottraendo dalla forza lavoro portuale complessiva il numero degli addetti del terminal container. Detraendo tale numero l’indice di frequenza del ricorso al lavoro temporaneo si ridimensiona sensibilmente scendendo da 7,7 a 3,7. Anche in questo caso, tuttavia, il ricorso al lavoro temporaneo da parte dello scalo campano risulta comunque meno rilevante rispetto a quanto registrato negli scali di Ravenna e Genova 11 . 10 La legge 84/94 all’art. 18 comma 6 ha chiaramente indicato che ai fini del rilascio delle concessioni il soggetto che ne fa richiesta deve soddisfare tra gli altri il requisito di essere dotato di un organico rapportato al programma di attività dichiarato. Così come ha dichiarato la necessità di “personale adeguato alle operazioni da svolgere” come uno dei criteri per ottenere l’autorizzazione ad esercitare operazioni e servizi portuali in c/proprio e in c/terzi all’interno dello scalo. 11 Per completezza si ricorda che Gioia Tauro non presenta alcun indice perché risulta assente l’impresa art. 17, mentre il porto di Trieste non ha fornito i dati necessari per calcolare detto indice e quindi non è possibile darne conto. 77 Indirettamente tale indice esprime il peso dell’impresa art. 17 nello svolgimento delle attività in banchina (e di converso può rappresentare una misura dell’adeguatezza dell’organico dei terminalisti in funzione del movimentato dello scalo). Guardando ad esso, l’impresa di somministrazione del lavoro temporaneo riveste un ruolo nello svolgimento del lavoro portuale che si può definire prevalente nello scalo ravennate, consistente a Genova, importante ma non centrale a Napoli, marginale a Trieste 12 e chiaramente inesistente a Gioia Tauro. Il livello di centralità dell’art. 17 è correlato dunque ad un altro elemento di riflessione. La congruità dell’organico dei terminalisti in relazione a quelle attività in ragione delle quali è stata rilasciata la concessione. Il numero medio dei dipendenti per terminalista varia dai 66 di Napoli ai 140 di Genova ai 570 di Gioia Tauro. In realtà scorporando, laddove possibile, gli addetti dei terminal container che come noto sono significativamente numerosi e tendono a lavorare con personale proprio, l’organico medio di cui un terminalista si avvale in porto risulta piuttosto basso: 13 a Napoli, 15 a Ravenna 13 . Operations A completamento del quadro, l’analisi del livello di diffusione dell’appalto di servizi, vale a dire l’affidamento a terzi di parti del ciclo produttivo, sembra anch’esso variare da porto a porto. Le informazioni raccolte sul processo di outsourcing sono state in ogni porto piuttosto contenute e contraddittorie. In linea di massima l’affidamento a terzi di parte del ciclo produttivo ha per protagonisti, da un lato, il terminalista e, dall’altro, un’impresa art. 16 (è stato giudicato raro dagli intervistati che un terminalista assegni ad un altro art. 18 parte delle attività in banchina), ma in alcuni casi l’uso di “famiglie” provenienti dalla ex compagnie appare molto vicino all’affidamento di parti del ciclo. 12 Nonostante non si disponga del numero di addetti delle imprese portuali artt. 16 e 18, la numerosità ridotta del pool di lavoro temporaneo (25 addetti) consente di stimare come marginale il ruolo dell’impresa cui è stato demandato il compito di somministrare lavoro temporaneo all’interno dello scalo. Tale assunto è peraltro confermato da interviste dirette. 13 Dal calcolo è stata esclusa l’unica impresa che ha dichiarato un organico di 300 persone perché significativamente fuori profilo guardando alle dimensioni delle altre imprese portuali. 78 Nel complesso la pratica dell’appalto risulta presso che nulla a Ravenna dove gli intervistati l’hanno definita piuttosto rara, mentre si registra un livello di diffusione elevato a Trieste dove si configura un grado di frammentazione del ciclo produttivo piuttosto elevato. Nel porto romagnolo la centralità dell’impresa art. 17 ha lasciato poco spazio alle attività di appalto, mentre nello scalo giuliano proprio la marginalità dell’art. 17 ha giustificato la diffusione di forme di appalto più o meno flessibili (in realtà il mancato ricorso all’art. 17 è stato determinato dalla disponibilità di un’offerta nutrita di cooperative di servizi a basso costo). A Napoli e Gioia Tauro il processo di terziarizzazione risulterebbe di media entità mentre a Genova è nullo salvo per le prestazioni specialistiche 14 . La quota di lavori appaltati, con l’eccezione di Trieste dove arriva a toccare il 50%, oscilla intorno al 30-40% 15 : è difficile immaginare una quota inferiore tenuto conto che in genere non sono poche le imprese autorizzate a svolgere operazioni e servizi portuali e, considerato che la banchina pubblica anche quando presente è nella pratica sottoutilizzata (a Ravenna passa di lì il 67% del traffico complessivo, a Gioia Tauro l’1-2%, meno del 10% a Napoli e a Genova è assente) è chiaro che tali imprese devono vivere necessariamente o dello svolgimento di attività in conto proprio presso i terminal dei concessionari o dell’appalto di servizi, altrimenti non avrebbero convenienza a rimanere in porto. Molti degli intervistati, peraltro, non hanno cognizione della presenza di una banchina pubblica, a riprova della marginalità del traffico movimentato dal porto al di fuori di quanto gestito dai terminal in concessione. Il regime dei terminal in concessione, per come è gestito, viene percepito da diversi intervistati limitativo della libera concorrenza all’interno degli scali. Secondo tali operatori verrebbero lasciate per uso pubblico le banchine meno appetibili che risultano inadeguate, per ampiezza e dislocazione, alla gestione dei traffici con l’esito di inibire talvolta l’accosto precludendo al porto nuovi traffici aggiuntivi. Anche la durata delle concessioni – in alcuni casi l’estensione temporale raggiunge i 50 anni – e le forme di sub-ingresso mediante l’acquisizione di società già concessionarie di terminal (con un rilascio quasi automatico della concessione alla “NewCo”) concorrono a contenere - sempre secondo gli intervistati - la possibilità ai nuovi operatori di operare in porto disattendendo lo spirito della legge di riforma finalizzato a massimizzare il regime di concorrenza all’interno degli scali. 14 Si tratta di servizi complementari o accessori al ciclo produttivo in banchina come mezzi speciali, trasporti eccezionali, pulizie contenitori, raccolta di legname in magazzino, ecc.. 15 Si tratta di cifre meramente indicative da prendere con le dovute cautele visto che tali quote di lavoro appaltato non collimano molto tra quanto dichiarato dagli intervistati. 79 5. I “modelli” La confluenza di questi elementi, sui quali si sono innestate le spinte riformatrici della L. 84/94, ha generato diversi modelli di funzionamento del lavoro in porto. Dalle osservazioni condotte nei cinque porti sono riconoscibili due modelli di organizzazione del lavoro apertamente antitetici – quelli di Ravenna e Trieste –, un modello assolutamente esclusivo, quello di Gioia Tauro, e i due restanti di Napoli e Genova che si possono definire intermedi perché, in funzione della diversa gradazione di alcuni fenomeni, tendono più verso il modello organizzativo ravennate o verso quello triestino. A Ravenna il processo produttivo in banchina appare fortemente integrato. Tra terminalista ed impresa art. 17 esiste una suddivisione di ruoli e funzioni consolidata che esula dal picco di lavoro ma presenta una validità costante. L’Impresa Compagnia Portuale riveste un ruolo di primo piano e non lascia spazio a forme di appalto di servizi. Fornisce lavoro temporaneo (spesso anche i mezzi meccanici) ai terminalisti svolgendo buona parte del ciclo produttivo in banchina. Talvolta, per come si configura – autonomia organizzativa, fornitura di mezzi, impiego di più squadre – la sua attività è assimilabile all’appalto di servizi. Le viene richiesto con elevata frequenza l’invio di intere squadre in banchina più che la fornitura di singole mansioni. Nel caso del terminal container le squadre inviate dal pool, ad esempio, tendono ad essere composte sempre dai medesimi lavoratori (le c.d. “famiglie”) che risultano, stando agli intervistati, stabilmente inseriti nel ciclo in banchina tanto da programmare la propria “turnistica” in funzione del traffico container. L’impatto della L. 84/94 non ha di fatto modificato sostanzialmente il ruolo della Compagnia ante legem, ma va riconosciuto che tale assetto all’interno del porto di Ravenna è stato sostenuto e condiviso dagli operatori – istituzionali e di mercato – secondo una consuetudine operativa in essere nello scalo ravennate già da tempo. Trieste rappresenta il modello organizzativo opposto. Ampiamente frammentato – al suo interno figurano 29 imprese art. 16 –, a fronte di un numero più contenuto di art. 18, registra una forte presenza di cooperative che prestano servizi secondo un regime di lavoro già di per sé molto flessibile e assai divergente in quanto a tipologie contrattuali applicate. Tali cooperative, la cui attività era relegata in passato all’area del Porto Emporio (magazzini), si sono progressivamente inserite in banchina nello svolgimento delle operazioni portuali e, secondo l’opinione di alcuni 80 testimoni privilegiati legati al mondo sindacale, hanno dato vita ad una competizione interna giocata sulla tariffa il cui ribasso ha corrisposto indirettamente ad una contrazione dei costi per la sicurezza dei lavoratori e persino al fallimento di alcune società. I terminalisti a fronte dell’elevata offerta di servizi, determinano, di fatto, la tariffa. In tale contesto il ruolo dell’Impresa Compagnia Portuale, già autorizzata art. 17, risulta marginale. Con il progressivo minore ricorso alla prestazione temporanea di lavoro, si è decretata la messa in liquidazione della Compagnia sostituita di recente nelle funzioni da una nuova impresa collegata in termini di assetti societari a quattro tra i principali terminalisti dello scalo. Il maggiore ricorso all’impresa art. 17 registratosi nell’ultimo anno (è stata richiesta autorizzazione al Ministero per un incremento di personale) e una serie di ordinanze con le quali l’Autorità portuale tenta di razionalizzare la presenza delle cooperative all’interno del porto (innalzando, ad esempio, il limite minimo di capitalizzazione) sembra disegnare una riorganizzazione interna dei soggetti intorno ai principali terminalisti. In questo caso, con l’applicazione della Riforma, sembra essersi sostituito al monopolio della Compagnia una forma di esclusiva ad opera dei terminalisti. Tra i due modelli antitetici, si rinvengono i tre modelli intermedi. Genova e Napoli presentano alcune similitudini con il modello ravennate per la presenza di una Impresa Compagnia Portuale con peso e ruolo rilevanti. A Genova l’Impresa Compagnia Portuale ha tuttora una centralità relazionale ed operativa, continua ad essere il soggetto protagonista in porto, il perno operativo, l’anima storica dello scalo. A differenza di quella ravennate, che ha sempre avuto un ruolo rilevante ma mai preminente (da sempre ha partecipato allo sviluppo del porto in un’ottica di collaborazione fattiva e paritetica con gli altri attori in porto), risulta meno integrata con gli altri soggetti. Incapace di rinunciare al ruolo di “Compagnia Unica”, ovvero di protagonista e gestore unico del lavoro in porto, fatica a trovare una nuova dimensione e non riesce a ricostruirsi intorno quel consenso che invece ha consentito all’Impresa Compagnia Portuale ravennate di sopravvivere ai mutamenti epocali (dalla automazione del processo produttivo alla riforma portuale). Nonostante sia inserita nei processi produttivi di diversi terminalisti l’Impresa Compagnia Portuale ha visto progressivamente diminuire la chiamata al lavoro negli anni di crisi. Alla base del minore impiego del pool di lavoro temporaneo, oltre al ridimensionamento dei traffici, vi sono da un lato l’obiettivo di una maggiore autosufficienza operativa che le imprese terminaliste stanno perseguendo attraverso l’introduzione di forme di razionalizzazione dei processi operativi e l’impiego più efficiente del personale dipendente; 81 dall’altro il tentativo di rimuovere rallentamenti in banchina attraverso una gestione meno frammentata del ciclo operativo. Per alcuni versi sorte analoga sembra toccare alla Compagnia del Porto di Napoli. Il ricorso al pool di lavoro temporaneo permane per la gran parte dei traffici tradizionali – soprattutto per il RO-RO – sebbene ruolo e occupazione risultino sempre più marginali. L’Impresa Compagnia Portuale mantiene rapporti di lavoro continuativi con il segmento dei traghetti ed ha uno spazio privilegiato di lavoro nella movimentazione di cellulosa proveniente da Nord Europa e Canada. Finché è riuscita a mantenere un ruolo anche nel ciclo a banchina del segmento container, è stato possibile allontanare lo spettro della Cassa Integrazione Guadagni. Ma, al contrario di Genova, l’intento del segmento container di produrre esclusivamente con personale diretto a Napoli si è già realizzato: il principale terminal container campano, che movimenta la quasi totalità del containerizzato nello scalo napoletano e che in precedenza assorbiva il 50-60% del pool di lavoro temporaneo, ha ampliato progressivamente l’organico diretto raggiungendo nel 2007 una completa autonomia operativa che ha estromesso dal ciclo in banchina il lavoro temporaneo. Infine, il Porto di Gioia Tauro. L’assenza di una Compagnia portuale, la recente costituzione dello scalo, la tipologia di traffico di transhipment lo rendono già sostanzialmente diverso dagli altri porti. Al suo interno prevale una logica fortemente privatistica: l’organizzazione del lavoro risulta abbastanza lineare. Ruota, infatti, intorno ai due terminalisti – MedCenter che movimenta container e Ico Blg per l’automotive – che si avvalgono prevalentemente di poche imprese art. 16, quasi una sorta di loro appendice operativa. Tali imprese, vista l’assenza di un’impresa art. 17, sembrano assumerne indirettamente la funzione attraverso una pratica dell’appalto di servizi oltremodo flessibile (Tav. 2). Nel complesso, nonostante le evidenti difformità registrate tra un porto e l’altro, tali “modelli” di organizzazione del lavoro hanno trovato pur nella loro anomalia e singolare specificità la capacità di rendere produttivi gli scali. I livelli di produttività registrati nei 5 porti esaminati sono allineati e, in alcuni casi, superiori a quanto fatto registrare dalla media italiana (12,7) e da alcuni porti del Nord Europa come si può osservare dalla Tab. 2 a pag. 84 e dalla Tab. 3 a pag. 33 del presente documento. Sebbene il calcolo dell’indice di produttività sia abbastanza artigianale (è stato ottenuto rapportando le tonnellate di merce complessivamente movimentata in porto – senza includere le rinfuse liquide – al numero complessivo di lavoratori portuali) pone alcuni interrogativi. 82 Tav. 2 - L’assetto organizzativo in sintesi Porti Schema operativo Criticità Punti di forza Elevato pluralismo di imprese art. 18, contenuta presenza di imprese art. 16, protagonismo dell’art. 17. Bassa diffusione dell’appalto di servizi - Elevato ricorso alla somministrazione di lavoro temporaneo che svolge le attività in banchina con modalità assimilabili all’appalto di servizi Trieste Elevato pluralismo di imprese art. 16 e 18, elevata presenza di cooperative di servizi, art. 17 marginale. Forte controllo del sistema da parte dei principali terminalisti (art. 18) - Elevata parcellizzazione degli operatori - Frammentazione spinta del ciclo operativo - Elevato ricorso all’appalto al cui interno si cela talvolta la prestazione di lavoro temporaneo - Applicazione di vari tipi di contratto, anche atipico - Presenza dei punti franchi - Elevata professionalità nella movimentazione manuale di merci non unitizzate Genova Equilibrio tra pluralità di imprese art. 18 e imprese di servizi (art. 16), centralità dell’art. 17. Basso ricorso all’outsourcing, fatta eccezione per le prestazioni specialistiche - Elevato ricorso al lavoro temporaneo - Contenuta integrazione operativa tra lavoro temporaneo e lavoro strutturato - Rapporti di forza equilibrati tra soggetti datoriali e pool di lavoro temporaneo Napoli Contenuta presenza di imprese art. 18, pluralismo di imprese art. 16, centralità dell’art. 17. Livello medio di diffusione degli appalti - Utilizzo dell’art. 17 solo in alcuni settori - Container terminal autonomo e fortemente integrato con la Compagnia di navigazione - Buon equilibrio nella struttura della forza lavoro (buona distribuzione tra lavoro strutturato e lavoro temporaneo). Gioia Tauro Contenuta presenza di imprese terminaliste, in proporzione elevato numero di imprese di servizi, forte controllo del sistema da parte del principale terminalista. Assenza art. 17 - Elevata dipendenza del porto dai pochi terminalisti presenti nello scalo - Prestazione di lavoro contenuta all’interno del rapporto di appalto oppure all’interno della stessa fornitura di servizi - Sebbene si tratti di un modello pubblico le scelte portuali sono molto sollecitate dagli operatori portuali Ravenna Fonte: Indagine Isfort 2010 - Coesione interna fra soggetti - Elevata integrazione operativa Tab. 2 - Produttività in porto(1). Anno 2009 Porti Genova Ravenna Trieste Napoli Gioia Tauro Italia (1) Tonnellate movimentate (escluse rinfuse liquide) Addetti N. tonnellate per addetto (x1.000 tonn) 27.167.183 14.071.074 9.367.870 15.159.125 29.569.730 3.260 1.061 837 1.359 8,3 13,3 18,1 21,7 254.776.000 20.000 12,7 Indice di produttività (media=100) 57 91 124 149 Il numero di addetti è riferito, tranne nel caso di Genova, al 2010. Fonte: Indagine Isfort 2010 La produttività rilevata nei porti considerati appare più elevata dei concorrenti del Nord Europa ad eccezione di Genova che risulta in linea con essi. Tale maggiore produttività dei porti italiani è reale perché corrisponde a tipologie di traffico che tendono ad innalzare il livello di produttività (ad esempio le rinfuse solide) oppure è lecito ipotizzare anche una presenza di lavoro grigio nelle banchine dei porti esaminati? E’ probabile che uno schema operativo equilibrato in quanto a composizione della forza lavoro impiegata e improntato alla compartecipazione al ciclo operativo da parte di tutte le imprese portuali (art. 16, 17, 18) possa determinare un livello di produttività più elevato? Se così fosse, un livello elevato di produttività potrebbe essere successivamente inficiato dall’inefficienza di alcuni servizi di matrice pubblica (dogana, autorità fitosanitarie, ecc.) che compongono la catena logistica interna allo scalo? Il basso indice di Genova, che è il principale porto italiano, rapportato a quello degli altri scali esaminati ma ancor di più alla media Italia potrebbe indurre a ritenere che per il traffico movimentato nello scalo ligure la numerosità dei lavoratori portuali sia nel complesso eccedente rispetto alle reali necessità dello scalo; proprio a Genova secondo alcuni intervistati esistono importanti margini di incremento della produttività in banchina ricorrendo ad un ampliamento della tecnologia già in uso, ma che ragioni di stabilità sociale e di conservazione di posti di lavoro ne inibiscono la realizzazione; d’altro canto Genova, tra i porti esaminati, risulta essere quello maggiormente allineato con i livelli di produttività espressi da una portualità di prim’ordine come Anversa (7,9 tonn/add.), Rotterdam (8,1), Amburgo (9,6). 84 Al contrario l’indice di produttività dello scalo napoletano (il più elevato dopo quello registrato a Gioia Tauro che inglobando le distorsioni di computo doppio in quanto scalo di transhipment è il caso di tralasciare) potrebbe celare una quota di sommerso oppure, osservando la composizione delle imprese portuali potrebbe testimoniare come a fronte di un migliore equilibrio delle forze in campo si registri un più alto livello di produttività. A Napoli l’indice di frequenza del ricorso al lavoro temporaneo è il più elevato, il che potrebbe significare che esiste una migliore ripartizione delle attività tra lavoro strutturato e lavoro temporaneo, e che quest’ultimo non rappresenta una forma di integrazione “occulta” dell’organico del terminalista, ma che anzi la compartecipazione di tutti i soggetti alle attività (art. 16, 17 e 18), presumibilmente ognuna nel rispetto della propria specificità funzionale (appalto di servizi, lavoro temporaneo, lavoro strutturato) ha dato vita ad un modello di organizzazione del lavoro più efficace. Si tratta chiaramente di supposizioni che meriterebbero un approfondimento, ma che al momento non è stato possibile realizzare per l’indisponibilità di dati e informazioni validi. 85 6. L’impatto della riforma portuale e l’applicazione del contratto nazionale: un successo solo a metà L’impatto della L. 84/94 su porti e lavoro A quindici anni dalla Riforma che ha liberalizzato i porti italiani e che ha ridisegnato l’organizzazione del lavoro all’interno degli scali, il giudizio di chi vive quotidianamente i riflessi di tale trasformazione non appare unanime e non risulta né particolarmente positivo, né apertamente negativo. La Legge 84/94 non ha rappresentato un successo pieno ma, secondo gli intervistati, avrebbe conseguito un risultato modesto perché pur avendo avuto il grande merito di cogliere e rispondere alle esigenze di rinnovamento dei porti, non ha fornito tutti gli strumenti necessari a creare un nuovo e più efficace modello di governance, né un reale ed ampio rinnovamento organizzativo al loro interno (Fig. 11). La principale critica mossa dagli operatori nei confronti della riforma denuncia un eccesso di autonomia di cui la legge avrebbe investito le autorità portuali, un eccesso amplificato dalla carenza di decreti attuativi che avrebbero dovuto arginare interpretazioni arbitrarie e contrarie allo spirito della legge stessa. Sul fronte dell’organizzazione del lavoro la riforma da un lato ha consentito una maggiore flessibilità operativa, soprattutto grazie all’inserimento del lavoro temporaneo in porto, ma dall’altro non ha comportato nei contenuti modifiche rilevanti: negli scali esaminati o i vecchi privilegi sono stati preservati sebbene sotto una veste completamente nuova o ai vecchi privilegi se ne sono sostituiti di nuovi. L’esito è che secondo l’opinione della gran parte degli intervistati, sotto il profilo del lavoro la legge andrebbe rivisitata totalmente o anche solo in parte. La principale defaillance è rappresentata dall’assenza di strumenti di controllo sull’impiego dei lavoratori all’interno degli scali e sulle assunzioni all’interno delle imprese (Fig. 12). Tuttavia alla legge di riforma viene riconosciuto il merito di aver aperto le porte ai privati grazie ai quali gli scali hanno potuto avviare un processo di rinnovamento dei mezzi meccanici e dei cicli produttivi e più in generale di miglioramento del lavoro e della qualità dei servizi in porto. E’ venuto invece a mancare il contributo alla competitività del porto della parte pubblica. Tutti i soggetti, compresa l’Authority, hanno ricevuto dagli intervistati una maggiore frequenza di giudizi sfavorevoli. 86 Fig. 11 – L’impatto della L. 84/94 La L. 84/94 ha rappresentato un successo sotto il profilo dell’assetto: falso vero Giuridico ▪▪▪▪▪▪▪▪▪▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫ ▪▪▪▪▪▪▪▪▪▪▪▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫ Economico ▪▪▪▪▪▪▪▪▪▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫ ▪▪▪▪▪▪▪▪▪▪▪▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫ Organizzativo del lavoro ▪▪▪▪▪▪▪▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫ ▪▪▪▪▪▪▪▪▪▪▪▪▪▫▫▫▫▫▫▫▫ Altro ▪▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫ ▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫ Il successo è stato: E’ stata un insuccesso perché: - minimo perché ha avuto il merito di rispondere all’esigenza reale di rinnovamento dei porti, ma di fatto non ha consentito né l’implementazione di nuovi modelli di governance, né un rinnovamento organizzativo - la carenza di decreti attuativi ha dato spazio ad interpretazioni operative locali da parte di ciascuna Autorità portualeche hanno determinato modelli di organizzazione portuale molto differenti tra loro La riorganizzazione del lavoro portuale ha contribuito, secondo le sue percezioni, al rilancio competitivo dei porti italiani? Si, ha consentito al porto di uscire da un modello rigido di organizzazione del lavoro, rendendolo più flessibile e in grado di competere su mercati volatili e fortemente competitivi Non ha comportato alcuna modifica rilevante No, ha peggiorato la situazione Non so Fonte: Indagine Isfort 2010 87 ▪▪▪▪▪▪▪▪▪▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫ ▪▪▪▪▪▪▪▪▪▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫ ▪▪▪▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫ ▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫ Fig. 12 - Per quel che concerne l’organizzazione del lavoro in porto la L. 84/94 andrebbe aggiornata? Andrebbe rivisitata totalmente Andrebbe rivisitata solo in parte Dovrebbe essere solo attuata Non servono ulteriore interventi legislativi o attuativi ▪▪▪▪▪▪▪▪▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫ ▪▪▪▪▪▪▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫ ▪▪▪▪▪▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫ ▪▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫ Fonte: Indagine Isfort 2010 Per giudizio sfavorevole si è inteso tanto una valutazione apertamente negativa quanto un giudizio di indifferenza. Nell’uno e nell’altro caso si decreta di fatto il mancato supporto di tali soggetti alla competitività dello scalo. L’autorità fitosanitaria, in particolare, è stato il principale attore di emanazione pubblica che avrebbe mancato nel proprio ruolo. Ma tale defaillance è imputabile generalmente a condizioni logistiche sfavorevoli che rallentano il flusso di movimentato all’interno del porto. Può capitare che i controlli fitosanitari vengano effettuati al di fuori dell’area portuale, addirittura in altre province/regioni rispetto a quelle di appartenenza dello scalo. Al contrario, appare più critica la posizione degli intervistati nei confronti dell’Authority: la critica più pesante rileva il mancato svolgimento del proprio ruolo di controller sul mercato del lavoro – la gran parte degli intervistati rileva ad esempio un controllo sporadico sull’applicazione del Contratto dei lavoratori portuali –, più in generale sulle regole che sono a fondamento della concorrenza all’interno dello scalo (Fig. 13). Anche sul lato della sicurezza del lavoro portuale, nonostante le competenze attribuite all’Authority dalla legge di riforma, il presidio da parte dell’Autorità portuale non appare esaustivo. Con l’eccezione di Gioia Tauro e, soprattutto, di Trieste – l’Autorità portuale dello scalo giuliano dispone di una casistica quantitativamente e qualitativamente esauriente sugli incidenti e gli infortuni in porto – nel resto degli scali esaminati la tematica non è ancora stata affrontata in modo sistematico dall’Authority. 88 Fig. 13 – Il contributo dei soggetti pubblici e privati alla competitività portuale Positivo/molto positivo Indifferente/negativo Privati Introduzione innovazioni tecnologiche nei cicli operativi Rinnovamento mezzi e servizi Miglioramento condizioni di lavoro Innalzamento qualità dei servizi ▪▪▪▪▪▪▪▪▪▪▪▪▪▪▪▫▫▫▫▫ ▪▪▪▪▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫ ▪▪▪▪▪▪▪▪▪▪▪▪▪▪▪▪▫▫▫▫ ▪▪▪▪▪▪▪▪▪▪▪▪▪▪▫▫▫▫▫▫ ▪▪▪▪▪▪▪▪▪▪▪▪▪▫▫▫▫▫▫▫ ▪▪▪▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫ ▪▪▪▪▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫ ▪▪▪▪▪▪▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫ ▪▪▪▪▪▪▪▪▪▪▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫ ▪▪▪▪▪▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫ ▪▪▪▪▪▪▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫ ▪▪▪▪▪▪▪▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫ ▪▪▪▪▪▪▪▪▪▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫ ▪▪▪▪▪▪▪▪▪▪▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫ ▪▪▪▪▪▪▪▪▪▪▪▪▪▪▪▫▫▫▫▫ ▪▪▪▪▪▪▪▪▪▪▪▫▫▫▫▫▫▫▫▫ ▪▪▪▪▪▪▪▪▪▪▪▫▫▫▫▫▫▫▫▫ ▪▪▪▪▪▪▪▪▪▪▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫ Pubblico Autorità portuale Autorità fitosanitarie Dogana Pubblica sicurezza Capitaneria di porto Fonte: Indagine Isfort 2010 A Napoli è in fase di start up un progetto di ricognizione del fenomeno incidentale in porto (ad oggi sono stati raccolti alcuni dati di massima), così come a Ravenna è in via di approntamento una sistematica raccolta degli eventi infortunistici presso l’Autorità portuale. Al momento nello scalo romagnolo si registra un monitoraggio costante dell’incidentalità in banchina presso i principali terminal da parte dei rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza di sito (RLSS). A Genova la presenza di un osservatorio – il Nucleo Operativo Porto di Genova – disposto dalla ASL 3 e particolarmente attivo sul fronte del lavoro in banchina colma le lacune informative dell’Authority. 89 L’applicazione del CCNL portuali Nei cinque porti esaminati il CCNL portuali è stato in linea generale applicato a tutti i lavoratori impegnati nei servizi e nelle operazioni portuali che trovano svolgimento all’interno dell’area demaniale. Salvo riscontrare in alcuni scali situazioni di non applicazione giocate su elementi di ambiguità. All’applicazione del contratto sovrintende l’Autorità portuale ma solo al momento del rilascio delle autorizzazioni o delle concessioni. In sostanza tutti coloro che operano in banchina ne usufruiscono, mentre a chi è addetto ad altre attività, seppure collegate al ciclo portuale ma che trovano svolgimento al di fuori dell’area demaniale, si applicano altre tipologie contrattuali: prevalentemente il Contratto Multiservizi, ma ci sono episodiche applicazioni anche del Contratto Logistica, Trasporto merci e Spedizioni. L’obbligatorietà dell’applicazione del Contratto del Lavoratori portuali, pertanto, varia da porto a porto. A Ravenna solo i primi 20 metri dalla banchina (50 m nella parte nuova) sono considerati area demaniale (quindi i piazzali, che sono oltre la banchina, sono esclusi anche se in essi si svolgono comunque operazioni di movimentazione merci), mentre a Trieste la stessa area è circoscritta dalla cosiddetta “linea gialla” che esclude la parte dei magazzini dal porto vero e proprio. Il CCNL portuali è stato giudicato in maniera eterogenea dagli intervistati in virtù del ruolo che ricoprono e del porto di provenienza (Fig. 14). In generale non si registra particolare entusiasmo nel valutare gli effetti su imprese e competitività portuale. Risulta, tuttavia, positivo per le imprese terminaliste se completato da una contrattazione di 2° livello adeguata a garantire quella flessibilità che il lavoro e il mercato richiedono e a controbilanciare l’eccessiva rigidità del Contratto del Lavoratori portuali in tema soprattutto di orario di lavoro. La contrattazione di 2° livello risulta infatti piuttosto diffusa negli scali e, nel complesso, pesa tra il 10 e il 30% sulla retribuzione complessiva (Fig. 15). Laddove, al contrario, non venisse applicata al lavoratore portuale verrebbe comunque riconosciuto un importo integrativo. In merito ai lavoratori, invece, il giudizio è unanime. Il Contratto del Lavoratori portuali viene ritenuto positivo o molto positivo soprattutto perché si traduce in un ambito di regolamentazione tanto più valido nei periodi di crisi. 90 Fig. 14 - Impatto dell’applicazione del CCNL portuali su: Molto positivo Positivo Indifferente Negativo Molto negativo Imprese Lavoratori Competitività del Porto ▪▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫ ▪▪▪▪▪▪▪▪▫▫▫▫▫▫▫ ▪▪▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫ ▪▪▪▪▪▪▪▪▪▪▪▪▪▪▫ ▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫ ▪▪▪▪▪▪▪▫▫▫▫▫▫▫▫ ▪▪▪▪▪▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫ ▪▪▪▪▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫ ▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫ ▪▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫ ▪▪▪▪▪▪▪▪▫▫▫▫▫▫▫ ▪▪▪▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫ ▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫ ▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫ ▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫ Fonte: Indagine Isfort 2010 Fig. 15 - La contrattazione di II livello E 2 d n o n o d m o d n o n o o E 2°°° llliiivvveellllllo diii 2 neee d on ntttrrraaattttttaaazzziiio on diii ccco meee d orrrm diii FFFo nzzzaaa d osssccceeen no on o??? E’’’ aaa ccco Sì/Si ma solo nella mia azienda No/non so ▪▪▪▪▪▪▪▪▪▪▪▪▪▪▪▫ ▪▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫ Q n o n o n p d o n o p u q d p m n u o q d p m o u Q neee nneeelll ccco on ntttrrraaattttttaaazzziiio on n od po diii ccco ntttiii iiin o tttiiip prrreeessseeen ueeesssttto qu diii q prrreeessseee p mp nzzzaaa d deeelllllleee iiim ueeen od qu pllleeesssssso mp om uaaalll èèè lllaaa fffrrreeeq Qu p o o p o??? orrrttto po Molto frequente Piuttosto frequente Limitata ad alcuni settori Rara ▪▪▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫ ▪▪▪▪▪▪▪▫▫▫▫▫▫▫▫▫ ▪▪▪▪▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫ ▪▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫ IIIn o n o d o m u q d p m o o p n o u b u q u d m n n on ntttrrraaattttttaaazzziiio on diii ccco maaa d orrrm ueeessstttaaa fffo qu diii q pllleeessssssiiivvvaaa mp od om peeessso neee ccco on uzzziiio bu uaaalll èèè iiilll p qu ullllllaaa rrreeetttrrriiib diiiaaa q meeed neee sssu nm d d d g d deeettttttiii??? dd gllliii aaad deeeg Molto rilevante (>50% stipendio) Rilevante (c.a. 50% stipendio) Significativa (c.a. 30% stipendio) Non significativa (c.a. 20% stipendio) Marginale (c.a. 10% stipendio) ▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫ ▪▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫ ▪▪▪▪▪▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫ ▪▪▪▪▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫ ▪▪▪▪▪▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫▫ Fonte: Indagine Isfort 2010 91 Se prima della sua introduzione il lavoratore portuale veniva compensato a “cottimo”, con l’aggiunta di alcuni elementi equilibratori che garantivano un salario minimo giornaliero, già prima della L. 84/94 si avvertì l’esigenza di formulare una tariffa standardizzata, il “costo senza riserva”. Sotto il profilo quantitativo, il CCNL portuali viene ritenuto ugualmente premiante dagli intervistati se tuttavia completato da adeguate forme di incentivo di produzione. 92 7. Alcune considerazioni al termine delle visite nei porti Pur ribadendo le difficoltà di lettura delle realtà esaminate, è stato possibile tuttavia tracciare una prima bozza di come si presenta l’organizzazione del lavoro nei porti a diversi anni dalla promulgazione di quella legge che ha rappresentato la prima vera cesura ai fini riformistici del sistema portuale. Le osservazioni presentate di seguito hanno il duplice scopo di trarre alcune prime conclusioni – in attesa di una 2° annualità di ricerca sul tema che possa completare il quadro conoscitivo – ma anche di stimolare dibattiti e confronti sugli aspetti più controversi. Innanzitutto per le diverse condizioni di partenza che caratterizzano i singoli scali, la riforma portuale non avrebbe potuto produrre da subito assetti ed effetti omogenei a livello nazionale. L’apertura degli scali ai privati doveva necessariamente essere improntata alla progressione e all’ammissione di interventi e strumenti discrezionali che, anche se non propriamente ortodossi ed uniformi a livello nazionale, avrebbero dovuto essere funzionali a conciliare i conflitti anche di tipo sociale che, generalmente, si accompagnano ai periodi di transizione. Tale stato di adattamento compromissorio è sembrato, tuttavia, durare oltre il pur fisiologico tempo di aggiustamento, contribuendo ad alimentare alcune distorsioni competitive rilevate all’interno degli scali. Alcune di esse sono riconducibili alla diversa applicazione dei contratti e delle tutele del lavoro, nonché delle tariffe dei servizi in virtù di una interpretazione discrezionale dell’ambito portuale. Non ne esiste ancora una definizione univoca, ma la norma (art. 18 della L. 84/94) e la prevalente dottrina sembrano orientate a considerare l’ambito portuale non esclusivamente in chiave territoriale, bensì in chiave funzionale. In sintesi, nella definizione di ambito portuale sembrerebbero comprese anche le aree esterne all’area demaniale purché interessate da attività collegate al ciclo operativo. Nei porti esaminati, invece, perdura una definizione territoriale che genera disuguaglianze che minano la concorrenza all’interno dello scalo. Altre distorsioni sono legate all’operatività in banchina che si presenta, talvolta, ambigua nelle forme e nei ruoli. Una generale indeterminatezza che investe ruoli e funzioni e che rende possibile agli operatori portuali muoversi entro confini “fluidi”. Se tale estrema adattabilità poteva avere una sua impronta utilitaristica nel momento di passaggio verso il mercato, oggi rischia di trasformarsi in un ostacolo al libero sviluppo della portualità nazionale. 93 In tutti i porti esaminati infatti si è registrato uno svolgimento delle attività portuali secondo forme di lavoro ambigue sebbene la stessa L. 84/94, pur nel suo essere legge-cornice, indichi chiaramente quali sono i ruoli e quali sono i limiti in capo a ciascun soggetto. E’ chiaro che si tratta di sovrapposizioni di ruolo e di funzioni formalmente difficili da rilevare e che, se nel breve hanno consentito ai porti nazionali di progredire, nel lungo termine rischiano, proprio per i confini labili che presentano, di risultare svantaggiosi per i porti nazionali. I grandi player della logistica mondiale, muovendosi nel proprio interesse e secondo logiche globali, tendono inizialmente ad inserirsi nei porti nazionali mantenendo gli equilibri sociali e operativi che trovano all’interno degli scali. Ma nel tempo tendono a fare propri quegli aspetti organizzativi e funzionali che risultano efficaci ai fini della gestione dei traffici (soprattutto ciò accade nel segmento container) e ad estromettere quelli che, al contrario, possono divenire penalizzanti ai fini di una gestione ottimale della propria catena logistica. L’applicazione della legge 84/94 è stata indebolita da maglie prescrittive troppo larghe e dall’assenza di regole certe cui attenersi. Le Autorità portuali si sono mosse secondo un proprio sentire, all’interno della cornice normativa, ma contravvenendo talvolta allo spirito della legge. Una legge che ha lasciato, da un lato, ampi margini di discrezionalità all’Authority, ma dall’altra ne ha limitata l’operatività con l’istituzione di un organo eccessivamente articolato qual è il Comitato portuale. Quest’ultimo, pur consentendo a tutte le parti in causa di partecipare attivamente allo sviluppo del porto, per i tanti, variegati e contrapposti interessi che in esso sono rappresentati, ha concorso ad ingessare in una sorta di immobilismo l’attività dell’Autorità portuale. Tre sono le considerazioni che emergono a valle dell’indagine. UN’ARCHITETTURA DEL LAVORO PORTUALE PLURALISTA ED EQUILIBRATA, CHE VALORIZZI LE SPECIFICITÀ DELLE IMPRESE PORTUALI, RAPPRESENTA UN VANTAGGIO COMPETITIVO PER IL PORTO. Nel corso dell’indagine sono stati osservate le relazioni e le diverse combinazioni di imprese portuali (artt. 16, 17, 18): la percezione che ne è derivata è che il porto che si affida ad uno schema operativo di tipo pluralistico, al cui interno confluiscono più profili di impresa portuale che operano nel rispetto dei ruoli e delle funzioni di ciascuna di esse, può avere qualche chance in più degli altri di tenere testa, nel lungo termine, alla competizione globale. 94 Tutte le imprese portuali hanno una propria specifica valenza. In questo senso la L. 84/94 è stata lungimirante e, in questo senso, andrebbe solamente applicata pur con l’inserimento di alcuni accorgimenti finalizzati a fissare alcuni “paletti” che rendano meno discrezionali gli interventi a livello locale e più equilibrata la compresenza delle imprese portuali negli scali. Innanzitutto dai modelli di organizzazione del lavoro portuale esaminati, il pool di lavoro temporaneo si configura come un elemento di valorizzazione della struttura porto. a. Consente ai porti di funzionare in maniera efficiente perché offre flessibilità nel lavoro in banchina permettendo alle altre imprese portuali (art. 16 e art. 18) di non dover gestire un organico eccedente rispetto alle ordinarie attività di traffico, bensì di poter contare su una forza lavoro addizionale nei momenti di picco della domanda. I vantaggi del lavoro temporaneo sono stati particolarmente evidenti in occasione della crisi durante la quale il pool di lavoro temporaneo ha assorbito le contrazioni dei traffici evitando che si ripercuotessero sugli organici dei terminalisti. b. Rappresenta un quid importante per la competitività del porto qualificando l’offerta dello scalo attraverso una forza lavoro altamente professionalizzata. In Italia il traffico container – che tende ad escludere il lavoro temporaneo dal proprio ciclo produttivo (anche se questo non accade in tutti i porti esaminati) – è solo uno dei traffici attivi ed il pool di lavoro temporaneo risulta fondamentale proprio negli altri traffici, quelli tradizionali, dove è tuttora necessaria una abilità di movimentazione e un’abilità di movimento in ambienti navi non standardizzati che si acquisiscono attraverso un’esperienza pluriennale che manca alle nuove leve della forza lavoro in porto. c. La professionalità del pool di lavoro temporaneo può essere integrata ma non sostituita con le prestazioni dei lavoratori interinali: la discontinuità nel lavoro in porto (tipica della prestazione interinale) implica, oltre ad una minore specializzazione, anche una minore esperienza che si rifletterebbero inevitabilmente anche sul livello di sicurezza del lavoratore. Ciononostante tale soggetto continua a godere (sebbene non più in quanto Compagnia portuale ma generalmente in quanto impresa art. 17) di una serie di sostegni - dalla possibilità di accedere all’Indennità di Mancato Avviamento al fatto di essere l’unico soggetto in porto a poter svolgere la somministrazione di lavoro temporaneo - che sono retaggio del passato sebbene la sua attuale condizione di soggetto imprenditoriale richieda l’applicazione di regole scevre da certe prerogative. Se l’assenza di 95 concorrenza nella somministrazione di lavoro temporaneo in un momento di transizione può avere avuto un senso per rendere più agevole la trasformazione della Compagnia portuale in un soggetto di natura più spiccatamente imprenditoriale, oggi potrebbe sembrare anacronistico e addirittura contrario rispetto allo spirito di liberalizzazione del mercato portato avanti dalla riforma. Proprio in virtù di tali prerogative, andrebbe perseguita una maggiore trasparenza tanto nel meccanismo di assunzione del personale o di entrata dei soci-lavoratori nella compagine dell’Impresa Compagnia Portuale, quanto nella determinazione del pool di lavoro temporaneo da parte dell’Autorità portuale la cui entità andrebbe commisurata alle effettive necessità del porto (volumi e tipologia dei traffici, modello di organizzazione del lavoro in porto) e non rappresentare una risposta alle pressioni lobbistiche che possono determinarsi all’interno dello scalo. Anche in un’ottica di riequilibrio nella composizione dei profili e delle mansioni che le diverse imprese portuali sono chiamate a rappresentare e a svolgere, in alcuni scali il pool di lavoro temporaneo avrebbe necessità di un dimensionamento dell’organico strettamente commisurato al volume dei traffici movimentati per poter essere competitivi sul libero mercato, così come in altre realtà portuali potrebbe essere auspicabile una razionalizzazione delle imprese art. 16. Un esubero di imprese art. 16 rispetto alle reali esigenze dello scalo tende, in alcune realtà portuali, a soffocare un lavoro temporaneo appesantito da costi fissi più elevati e sfavorito dalle tariffe maggiormente concorrenziali che le cooperative di servizi riescono praticare grazie anche a controlli che, nelle percezioni degli intervistati, appaiono meno rigorosi. Due le strade da percorrere: 1) o si fissano dei criteri univoci validi in tutti i porti per quantificare il pool di lavoro temporaneo e il set di imprese art. 16 necessari per lo svolgimento delle attività portuali a partire dalla tipologia e dal volume di traffici; 2) oppure, più opportunamente, poiché la norma lascia a ciascun porto, sulla scorta delle dinamiche di convenienza locale, decidere se e quanto alimentare (anche in termini di bacino di forza lavoro) le diverse imprese portuali 16 , si può individuare nella trasparenza e nella certezza delle regole, dei ruoli e delle funzioni l’elemento di razionalizzazione del sistema imprenditoriale in porto. 16 È nella discrezionalità delle Autorità portuali, infatti, decidere quale offerta di imprese art. 16 soddisfi al meglio le reali esigenze dello scalo (ciascuna AP decide il numero di autorizzazioni da rilasciare), così come stabilire qual è la dimensione ottimale del pool di lavoro temporaneo in relazione alle attività dello scalo. 96 L’applicazione di regole certe e univoche ed una puntuale attività di controller svolta dall’Autorità portuale sulle imprese portuali affinché competano secondo quanto prevede il quadro normativo - erogando servizi diversi e distinti (lavoro temporaneo da un lato e appalto di servizi dall’altro), operando in piena trasparenza (senza commistioni di alcun tipo tra imprese portuali) e svolgendo ciascuna il ruolo e la funzione che le sono propri (addivenendo ad una interpretazione univoca di cosa si intende per somministrazione di lavoro temporaneo, per organico adeguato al programma di attività, ecc.) – possono essere sufficienti a creare un adattamento e una selezione “naturale” delle imprese portuali ad opera del mercato in base a criteri di efficienza e convenienza a livello di singolo porto. SOLO UNA AUTORITÀ PORTUALE TERZA E INDIPENDENTE PUÒ GARANTIRE LA LIBERA CONCORRENZA IN PORTO. Uno scenario di trasparenza in porto può avere possibilità di riuscita solo in presenza di una Autorità portuale che si eleva al di sopra degli operatori portuali che vanno soggetti al suo controllo divenendo un soggetto realmente terzo rispetto alle dinamiche, spesso contrapposte, interne al porto. Al contrario, come è emerso anche nel corso delle interviste, la presenza di gruppi di interesse contrapposti all’interno dello scalo che trovano (una pur giusta) rappresentanza in Comitato portuale – al quale prendono parte anche rappresentanti di armatori, industriali, imprese artt. 16 e 18, spedizionieri, ecc. – tendono a generare un immobilismo che condiziona l’attività stessa dell’Autorità portuale. L’introduzione di meccanismi che, pur garantendo la rappresentanza di tutte gli stakeholder presenti in porto, alleggeriscano l’attività del Comitato potrebbe produrre riverberi positivi sull’operatività stessa dell’Autorità portuale. L’amministrazione portuale in Italia si configura, sulla scia di quanto avviene per i porti spagnoli e anseatici del Nord Europa, come una Landlord Port Authority. Ovvero all’Autorità portuale è demandata in linea generale la valorizzazione e lo sviluppo del territorio ma non la gestione dei traffici commerciali che viene lasciata alle imprese commerciali. In questo modo la L. 84/94 ha inteso introdurre una separazione netta, come già detto, tra le funzioni pubbliche e quelle operative e gestionali di natura imprenditoriale, assegnando all’Authority – che ha personalità giuridica di diritto pubblico - il ruolo di arbitro del mercato delle operazioni portuali e di garante della concorrenza tra le imprese che forniscono servizi alle merci. 97 Tuttavia ha anche rimesso all’approvazione del Comitato portuale una serie di strumenti di governo dell’ambito portuale impedendo nei fatti all’Autorità portuale di disporne in piena autonomia. Il piano operativo triennale, il piano regolatore portuale, l’attività promozionale, ma anche le autorizzazioni e le concessioni rilasciate agli artt. 16 e 18 vanno soggetti a pareri, adozioni, approvazioni o delibere da parte del Comitato portuale che ne condiziona inevitabilmente l’operato. L’Autorità portuale appare, nelle parole degli intervistati, imbrigliata da lacci e lacciuoli non solo di natura burocratica ma anche e soprattutto lobbistica. In quest’ambito, probabilmente, una rivisitazione ad hoc della L. 84/94 – finalizzata a dotare l’Authority di maggiori poteri decisionali e sanzionatori in tema di libera concorrenza all’interno del porto, sicurezza e lavoro – potrebbe produrre l’accelerazione riformistica auspicata dalla L. 84/94 che tarda a realizzarsi nella portualità nazionale. UNA GESTIONE UNITARIA DELLA FILIERA DEI SERVIZI PUBBLICI AUMENTA LA PRODUTTIVITÀ DELLO SCALO. Infine, ma non si tratta di un elemento residuale, anche la componente pubblica dei servizi che si snoda all’interno del porto in una catena di soggetti/servizi di varia natura – Autorità portuale, dogana, uffici fitosanitari, pubblica sicurezza, ecc. – ha una sua rilevanza nella competitività del porto. Anch’essa si lega, seppur indirettamente, al livello di produttività dello scalo. E’ fuorviante pensare che sia sufficiente razionalizzare la presenza delle imprese portuali con l’intento di produrre una combinazione “vincente” (efficiente e conveniente) del fattore lavoro in banchina e ottenere una maggiore trasparenza delle attività in porto attraverso una rinnovata e più penetrante azione di controllo da parte dell’Authority, senza intervenire sul contesto generale dei servizi pubblici. L’indagine a tale proposito ha rimandato un’immagine poco confortante della filiera dei servizi pubblici che rallenta, stando a quanto riportato dagli intervistati, il transito delle merci all’interno dello scalo in modo evidente soprattutto se in confronto con i porti del Nord Europa. Migliorare l’organizzazione del lavoro in porto comporta, se l’obiettivo è anche un più elevato livello di produttività dello scalo, un intervento a più ampio raggio che coinvolga oltre alla componente privata anche la componente pubblica degli operatori. Si tratta di uno dei principali elementi di valutazione in base ai quali i grandi operatori dello shipping mondiale tendono a scegliere uno scalo piuttosto che un altro. 98 In questo senso la componente pubblica dei servizi andrebbe trattata come un unicum. Basta il disservizio anche di un solo soggetto della catena per danneggiare tutti gli altri rallentandone il lavoro e, di conseguenza, il transito della merce lungo la catena. Per questo motivo ha senso – in un’ottica di perfezionamento del modello di organizzazione del lavoro portuale – parlare di gestione unica telematica e di ottimizzazione del layout dei servizi interni al porto con l’intento di eliminare ripetizioni o sovrapposizioni attraverso un progetto di qualità interna allo scalo. 99 8. I casi di studio IL PORTO DI RAVENNA ISTANTANEA DEL PORTO. Il Porto di Ravenna è specializzato nella movimentazione di merci rinfuse e varie e ha sviluppato nell’ultimo decennio una costante crescita di traffico che ha raggiunto nel 2008 una movimentazione pari a 26 milioni di tonnellate di merci complessive e 214mila TEU. Il trasporto delle merci avviene prevalentemente in modalità non liner; l’86% del traffico viaggia infatti su navi volandiere e il restante 14% attraverso un trasporto di linea regolare. Nel 2009, tuttavia, i traffici hanno subito una pesante flessione a causa della crisi internazionale. Un calo del 40% di movimentato (-16% nel caso dei container) che ha determinato riflessi importanti anche sul lavoro all’interno del porto. Organizzato secondo un modello di porto di orientamento privatistico, sebbene dotato di una forte componente pubblica 17 , lo scalo ravennate presenta una relazionalità stabile e coesa tra gli operatori istituzionali e di mercato. Ciascuno opera nell’ambito di un proprio spazio di attività definito e in piena complementarità con le funzioni svolte dagli altri soggetti. Non si registra una totale assenza di conflittualità tra gli attori (sebbene rispetto agli altri porti analizzati i contrasti appaiono decisamente più attenuati), ma si percepisce una volontà di cooperazione per rispondere al meglio alle sollecitazioni competitive esterne e un generale equilibrio tra le parti sociali. Tale equilibrio, tuttavia, non è casuale. E’ il frutto di un vissuto storico che ha concorso, vista l’assenza di un Ente Porto e grazie all’abilità degli artefici della crescita del Porto di Ravenna dal Dopoguerra ad oggi 18 , ad assegnare allo scalo una evidente impronta privatistica che ha reso più fluido il passaggio dal regime di monopolio a quello di libero mercato dettato dalla legge di riforma del sistema portuale 19 . 17 Ravenna ben prima dell’introduzione della L. 84/94 operava con terminali privati e con un’area demaniale ristretta alla sola banchina. 18 Da Cavalcoli a Zaccagnini, da Monti a Ferruzzi. 19 Privo di un Ente Porto, che non gli consentirà di accedere ai finanziamenti pubblici, lo scalo ravennate si sviluppa attraverso l’attività dei privati e su aree demaniali limitate alla sola banchina. 100 A Ravenna ciò è stato possibile anche grazie al mantenimento di alcuni ambiti di azione “riservati” più o meno formalmente a quella che una volta era la Compagnia portuale tramite “accordi locali che inseriscono la Compagnia portuale nel ciclo operativo di tutti i terminalisti” 20 o vincoli di operatività (è il caso dei gruppi societari presenti nello scalo impossibilitati a traslare lavoratori da un’impresa all’altra), che costringe i terminalisti ad avvalersi dei suoi servizi. Di fatto, l’applicazione della L. 84/94 non sembra aver modificato nella sostanza gli equilibri pre-esistenti: la vecchia Compagnia portuale, ammantata di una nuova veste giuridica, sembrerebbe aver mantenuto gli spazi di azione ante legem, sebbene abbia dovuto sottostare ad un ridimensionamento dell’organico dettato, in parte, dall’inevitabile processo di meccanizzazione del lavoro portuale. FORZA LAVORO. In porto oggi operano 1.061 lavoratori, tra dipendenti delle imprese portuali autorizzati a lavorare in banchina 21 (622) e addetti impiegati dall’Impresa Compagnia Portuale (439 22 ). Dei 439 addetti, 340 sono soci della nuova Cooperativa, 14 ne sono dipendenti e 85 sono gli interinali impiegati in maniera continuativa. Le imprese portuali che usufruiscono del lavoro della Impresa in questione sono per il 95% imprese terminaliste. Una percentuale elevata dovuta al fatto che la quasi totalità delle imprese portuali ravennate dispone di una banchina in concessione. Il 75% delle attività sono svolte dai soci/dipendenti dell’Impresa e il restante 25% da personale avviato dalla Impresa ma proveniente da altre agenzie interinali. MODELLO ORGANIZZATIVO. Il sistema portuale ravennate si fonda su un sistema di 22 imprese autorizzate all’esercizio di operazioni portuali - 17 delle quali concessionarie di banchina23 - e allo svolgimento dei servizi portuali. Le 5 imprese portuali non concessionarie ricorrono, per lo svolgimento delle attività, alle due banchine pubbliche di cui il Porto di Ravenna dispone, l’una dislocata in Darsena di Città, l’altra nella Piallassa del Piombone. Si tratta, tuttavia, di traffici residuali considerato che rappresentano meno del 7% della movimentazione merci complessivamente realizzata dal porto. 20 “Il Porto di Ravenna” a cura di Maurizio Mauro, Adriapress Ed., 2002 pg. 219. Le imprese che presentano istanza di autorizzazione a lavorare in porto sono tenute a comunicare all’Autorità portuale il numero di addetti che intende impiegare all’interno dell’area portuale. Nel caso del Porto di Ravenna è demanio portuale la sola banchina (i primi 20 metri). Pertanto nei numeri citati non sono compresi gli addetti che svolgono attività al di fuori della banchina (ad esempio nei piazzali). 22 Oggi la Impresa Compagnia Portuale impiega 439 addetti a fronte dei 512 approvati dal comitato portuale quale organico adeguato qualitativamente e quantitativamente all’espletamento delle attività portuali. 23 Le concessioni hanno una durata che varia dai 19 ai 21 anni, con scadenze che vanno dal 2018 al 2026. Fa eccezione una sola concessione della durata di 11 anni con scadenza al 2015. 21 101 La presenza di un numero maggiore di imprese terminaliste (numero che tende a ridursi se si considera che diverse di esse appartengono a gruppi societari 24 ) a fronte di un numero più contenuto di imprese art. 16 concorre a garantire una centralità di ruolo all’impresa art. 17. La pratica dell’appalto di parte del ciclo operativo dei servizi portuali appare, infatti, poco o per nulla diffusa nello scalo ravennate. Tale schema dell’organizzazione del lavoro fondata prevalentemente sulla somministrazione di lavoro temporaneo, sembrerebbe concorrere alla generale stabilità della struttura portuale. Il lavoro all’interno del porto si percepisce (e tale percezione è confermata dalle interviste) rigidamente e stabilmente ripartito: l’organizzazione a bordo nave è appannaggio della Impresa Compagnia Portuale, l’organizzazione a terra è a carico dell’impresa terminalista e per le attività di piazzale è ammesso l’utilizzo di cooperative esterne (non portuali). Nel porto ravennate, infatti, solo i primi 20 metri dalla banchina sono considerati area demaniale soggetta a vincoli autorizzativi 25 . Nella restante area l’impresa portuale opera in piena autonomia organizzativa e funzionale secondo i dettami del regime privatistico. La storica Compagnia portuale, che in seguito alla liberalizzazione del settore si è trasformata in tre diversi soggetti di diritto 26 , fornisce attraverso la Cooperativa portuale la forza lavoro (e talvolta i mezzi 24 Alcune imprese terminaliste che operano nel Porto di Ravenna appartengono a gruppi societari nati per bypassare una limitazione imposta dalla stessa Autorità portuale di Ravenna che rilascia nuove banchine in concessione ai terminalisti presenti in porto solo se i traffici aggiuntivi interessano nuovi segmenti merceologici. L’intento dell’Autorità portuale di diversificare, attraverso tale provvedimento, i traffici a beneficio dello sviluppo commerciale del Porto stesso, non agevola tuttavia un approccio d’impresa tipico del gruppo aziendale evidente soprattutto in caso di crisi importanti come quella vissuta nel recente 2009. In questo caso il vantaggio di un’impresa terminalista di poter impiegare personale eccedente su un terminal interessato dalla contrazione dei traffici sul terminal di una sua controllata viene meno. Ad avvantaggiarsi di tale limitazione è la ex Compagnia Portuale alla quale i terminalisti devono affidarsi per effettuare le attività in esubero. 25 Fu un’intuizione di Cavalcoli a far sì che l’area di demanio pubblico veniva limitato alla fascia di 20 metri dalla banchina (convenzione del 1962 tra Ministero LLPP e Sapir in seguito a L. Zaccagnini) il che rendeva i costi delle operazioni molto più competitivi rispetto agli altri porti. 26 La Compagnia Portuale, in ottemperanza agli obblighi di legge, si è trasformata in tre diverse società: la Cooperativa portuale Scarl, con funzione di impresa art. 17, che ha assorbito i soci della passata Compagnia Portuale; la Compagnia portuale Srl che gestisce i beni mobili (mezzi meccanici) e immobili della ex Compagnia P. e porta avanti il piano di investimenti in nuove attrezzature; la Impresa Compagnia Portuale che, con funzione di impresa art. 16, eroga servizi portuali. 102 meccanici) necessaria ai terminalisti per svolgere parte del ciclo produttivo. La sua attività consiste prevalentemente nello svolgimento delle operazioni di banchina e si configura, non formalmente ma nei fatti, simile all’appalto: il servizio di carico e scarico in banchina viene svolto in completa autonomia, senza intervento di tipo “operativo” da parte dei dipendenti delle imprese terminaliste. A questi ultimi spettano, invece, le attività di supporto alle operazioni di banchina – è il caso dell’attività di pianificazione e controllo del ciclo navetreno/gomma per il segmento container –, oppure rivestono ruoli di capoterminal o operatore pese o, ancora, svolgono attività di piazzale, manutenzione, sicurezza, information technology e, ovviamente, amministrazione. Il ruolo rilevante assegnato alla Cooperativa portuale nello svolgimento delle operazioni in banchina è evidente osservando come la dimensione media delle imprese portuali ravennati (considerando i soli dipendenti autorizzati a lavorare in banchina) sia di appena 15 unità 27 . Con un organico così ridotto è inconfutabile che l’impresa terminalista ricorra in modo massiccio ai prestatori d’opera e che, peraltro, il ricorso non sia affatto sporadico e legato ai picchi di lavoro bensì continuativo e sistematico. Il ruolo che si delinea per la Cooperativa portuale va, quindi, ben oltre quello di mero prestatore d’opera 28 (Fig. 16). LA FLESSIBILITÀ. Tale centralità di ruolo tende a scaricare sulla Cooperativa portuale, sollevandone nei fatti le imprese terminaliste, gli effetti di due fenomeni scarsamente governabili: - l’esubero di personale in seguito a repentine contrazioni della domanda, come si è avuto modo di osservare in occasione dell’ultima crisi i cui effetti sull’occupazione sono stati di fatto assorbiti unicamente dall’impresa art. 17; 27 Dal calcolo è stata esclusa l’unica impresa che ha dichiarato un organico di 300 persone perché fuori profilo rispetto alle restanti imprese portuali. 28 Per esemplificare, il terminal container che movimenta il 99% dei container in entrata e in uscita dal porto di Ravenna, affida alla Cooperativa portuale, attraverso un contratto di fornitura, tutte le operazioni in banchina e in piazzale, dal carico/scarico alla guida di navette che effettuano servizi interni al porto e di mezzi/strumenti di sollevamento. Oltre ai servizi di lavoro temporaneo, che si stima impegni 100-120 lavoratori, la Cooperativa portuale fornisce i mezzi impiegati in tali operazioni se si eccettuano le 8 gru di proprietà di TCR (4 in banchina, 4 in piazzale). 103 - e la necessità di un’elevata flessibilità del lavoro per rispondere agli andamenti irregolari in particolare di alcune tipologie di traffico che risultano scarsamente programmabili – le rinfuse solide e le merci varie – che a Ravenna rappresentano una quota rilevante del movimentato in porto. Come conseguenza dell’elevata flessibilità della programmazione del lavoro, i soci della Cooperativa, che ricevono la comunicazione dei turni con cadenza giornaliera, rispondono con una particolare elasticità alla domanda di forza lavoro: vanno soggetti a variazioni di turno molto frequenti comunicate con sole poche ore di anticipo, tanto in caso di slittamento che di anticipazione del turno. Mentre l’incidenza media delle ore di straordinario sul totale delle ore lavorate è inferiore al 5%. Fig. 16 - Modello Ravenna. Stralcio delle relazioni funzionali in banchina T1 T2 Interinali Impresa art. 17 ……… Tn LEGENDA T = terminalista; IS = impresa servizi (art. 16); = presenza banchina pubblica Fonte: Indagine Isfort 2010 Il ricorso al lavoro temporaneo in porto è legato non tanto ai picchi di lavoro, bensì all’incompatibilità di fondo della programmazione di lungo periodo con le caratteristiche del trasporto marittimo, alla difficoltà delle compagnie a programmare sbarchi e imbarchi e all’elevato numero di navi che possono giungere contestualmente in porto. Al contrario i terminalisti, indipendentemente dal tipo di traffico trattato, presentano una comunicazione turni di tipo annuale, proprio perché l’alea dei traffici viene trasferita sull’impresa art. 17. 104 L’IMPATTO DELLE NUOVE TECNOLOGIE. L’ingresso dei sistemi informatici e l’evoluzione tecnologica di mezzi e strumenti dedicati alla movimentazione delle merci ha influito negli ultimi anni sull’organizzazione del lavoro nel porto di Ravenna determinando in generale la sostituzione di una parte rilevante di lavoro umano. L’impatto è stato considerevole nel segmento delle rinfuse solide e nel containerizzato: in quest’ultimo ha determinato anche una ridefinizione di ruoli e funzioni. Mentre è stato definito dagli intervistati di medio livello per le merci varie e di livello basso o praticamente nullo nel traffico RO-RO. L’offerta di nuove strumentazioni tecnologiche ha imposto peraltro nuovi standard formativi sugli elementi high-tech divenuti una componente di base per diverse figure professionali: terminal container yard & planner, spuntatore, controllore merci e pesatore con obblighi doganali sono le figure professionali dove le nuove tecnologie tendono prevalentemente a concentrarsi. Risultano, invece, mediamente presenti nella formazione di carrellisti e gruisti e presenti, ma in modalità più contenuta, in quella degli addetti alle attività di rizzaggio/derizzaggio. PROFESSIONALITÀ E FORMAZIONE. La formazione professionale dei lavoratori del porto di Ravenna risulta, a giudizio degli intervistati, discreta. In generale i dipendenti presentano un profilo di istruzione mediamente più elevato nelle imprese terminaliste e, tra quest’ultime, all’interno delle imprese che movimentano container. L’impresa art. 17 presenta, invece, una prevalenza di lavoratori in possesso di licenza media, ma al pari delle imprese terminaliste tende a ricercare sul mercato lavoratori caratterizzati da profili di istruzione più elevati: diplomati e laureati. Nonostante il porto di Ravenna abbia tradizioni secolari, il mercato locale appare carente di alcuni profili e figure professionali. I fabbisogni delle imprese portuali sono riconducibili ad alcune fattispecie in particolare: operai specializzati e caposquadra da un lato e gruisti e pesatore con obblighi doganali dall’altro. Nel segmento container, tuttavia, al pari di quanto accade in altri scali, la domanda sembra essere massima in relazione ad una figura professionale di più recente istituzione: il vessel, yard and rail planner. L’APPLICAZIONE DEL CCNL PORTUALI. Gli addetti autorizzati a lavorare in banchina – compresi, quindi, i lavoratori della Cooperativa portuale – usufruiscono del contratto dei lavoratori portuali sulla cui effettiva utilizzazione da parte delle imprese autorizzate ad operare in porto l’Autorità portuale è preposta a vigilare. A Ravenna l’applicazione del CCNL portuali sembrerebbe avere avuto effetti positivi nelle percezioni degli intervistati per i soli lavoratori, soprattutto per quanto attiene ai riflessi che ha determinato sulla sicurezza del lavoro in porto, meno per le imprese. Per quest’ultime poco è cambiato in termini di definizione di quegli elementi di maggiore interesse che continuano ad essere oggetto di contrattazione a 105 livello di singola azienda. Nei fatti le aziende che non ricorrono al contratto integrativo sono tenute comunque a corrispondere un importo aggiuntivo. Nondimeno l’applicazione del contratto dei lavoratori portuali sembrerebbe aver danneggiato la competitività dello scalo ravennate in relazione proprio all’applicazione di alcuni elementi di safety insiti nel contratto (ad esempio l’orario di lavoro). Il Porto di Ravenna ha fatto della safety un punto fondamentale della propria attività. Ma le procedure adottate dagli operatori locali non sono osservate, stando alle percezioni degli intervistati, nella medesima misura in scali concorrenti creando, di fatto, una distorsione nel processo competitivo fra porti. GLI EFFETTI DELLA L. 84/94. La riorganizzazione del lavoro portuale in base all’applicazione della L. 84/94 viene considerata dagli intervistati complessivamente positiva per il porto ravennate. La L. 84/94 ha favorito un processo di modernizzazione dell’organizzazione dei servizi, un accrescimento tecnologico dei mezzi e delle strutture presenti in porto e, più in generale, un miglioramento delle condizioni di lavoro. In realtà, ripercorrendo la storia del porto ravennate, una forma di ottimizzazione costante dei fattori produttivi ha sempre caratterizzato il modo di fare degli operatori presenti all’interno dello scalo 29 . Semmai allo sviluppo dei traffici è venuto a mancare un supporto più attivo da parte della compagine pubblica. Alla base la carenza di personale e di mezzi, le procedure arcaiche, ma anche un assetto logistico penalizzante nel caso dell’USMAF 30 (i laboratori di analisi sono eccessivamente distanti dal porto e creano gravi disservizi soprattutto per le merci deperibili): tutti elementi che concorrono a determinare una vischiosità all’interno del sistema. A Ravenna, similmente a quanto accaduto in altri porti nazionali, l’agevolazione all’uscita dal lavoro portuale ha provocato una riduzione della forza lavoro ed un elevato turn over che ha prodotto effetti rilevanti sulla sicurezza del lavoro in porto, ma anche sulla qualità dei servizi erogati ai 29 Il Patto non scritto a livello locale prevede che gli imprenditori facciano investimenti per i mezzi meccanici fissi (gru portuali e carri ponte) mentre la Compagnia Portuale provvederà alla meccanizzazione leggera mobile ed alle attrezzature. I lavoratori, quindi, sono “direttamente” inseriti anche a livello imprenditoriale nel porto e sono coinvolti nei risultati economici. La professionalità cresce e si sviluppa per far fronte alle nuove esigenze tecnologiche e c’è un reciproco interesse tra imprenditoria privata e Compagnia a programmare gli investimenti, a favorire nuovi insediamenti e a perseguire l’acquisizione di nuovi traffici. 30 Uffici di Sanità Marittima, Aerea e di Frontiera: sono uffici periferici del Ministero della Salute che si occupano del controllo sanitario su passeggeri e merci che transitano attraverso i punti d'ingresso transfrontalieri. 106 terminal. Gli effetti negativi della legge sono dunque riconducibili essenzialmente alla perdita di mestiere e mentalità: tale mutamento di approccio, secondo gli operatori, si è riflettuto anche sulla sicurezza in porto. Su Ravenna la L. 84/94 ha avuto minori effetti positivi in termini economici perché ha sancito una liberalizzazione di risorse in parte già libere e presenti. Al contrario, avendo determinato in questo senso impatti positivi sugli altri porti, ne ha accresciuta la loro competitività a danno dello scalo ravennate. SICUREZZA. Non disponendo di dati complessivi, l’andamento degli infortuni nel porto di Ravenna può essere letto attraverso il trend degli incidenti che hanno interessato gli addetti della Cooperativa portuale. Tale dato, infatti, può considerarsi una buona proxi dal momento che il pool di lavoro temporaneo svolge la gran parte delle operazioni portuali all’interno dello scalo ravennate. Nell’ultimo quinquennio l’Impresa Compagnia Portuale ha registrato un leggero calo (-6%) di infortuni rispetto al 2001-2005. In tale quinquennio gli addetti della Cooperativa portuale (tra soci, dipendenti e interinali) hanno subito 504 infortuni per più di 14mila giorni di assenza, ovvero una media di 28 giorni di astensione lavorativa per infortunio. Tra il 2006 e il 2010 si sono registrati 472 eventi infortunistici per quasi 12mila giornate di assenza: in questo caso il numero medio di giornate di astensione dal lavoro si riduce scendendo a 25 giorni. Tale flessione è imputabile probabilmente più al calo dei traffici e al conseguente minor numero di ore uomo avviate al lavoro che non ad una diminuzione del fenomeno incidentalità in quanto tale. Considerando peraltro che il numero di incidenti occorsi ai dipendenti dei principali 11 terminal nel corso di operazioni portuali è rimasto presso che invariato tra il 2007 e il 2010 – in media si registrano 27 infortuni all’anno – e considerando una flessione nel 2009 del 40% dei traffici, è presumibile che in occasione della crisi i dipendenti dei terminalisti hanno assorbito la quota di lavoro destinata al pool di lavoro temporaneo: il fatto che il numero di incidenti a loro carico sia rimasto invariato nonostante la contrazione dei traffici può essere in tal senso indicativo. 107 Il Porto di Ravenna in sintesi(1) Traffici Traffici (distribuzione % tonn.) Traffici 1. Rinfuse solide 45% 2. Merci varie 23% 3. Rinfuse liquide 19% 4. Container 10% 5. RO-RO 3% Liner 14% Non-liner 86% Imprese portuali Impresa art. 17 N. imprese art. 16+16bis(2) 5 (3) N. imprese art. 18 17 Concessioni: durata min e max 19-21 Forza lavoro Addetti Imprese Portuali 622 (4) Di cui addetti Imprese art. 18 Addetti(5) Impresa art. 17 439 Operations Livello diffusione Appalti Basso Quota lavori appaltati <30% Banchina pubblica Quota traffico banchina pubblica 6,7% 1) 2) 3) 4) Dati al 2008 per depurare le informazioni dal fenomeno distorsivo della crisi Escluse dal computo le imprese art. 16 che sono anche concessionarie (art. 18) Sono esclusi i terminalisti addetti al traffico di rinfuse liquide Il dato è mancante perché il n. di addetti fornito non è disaggregabile per le diverse imprese portuali (artt. 16 e 18) 5) Soci+dipendenti+85 interinali che lavorano stabilmente con l’impresa art. 17 LEGENDA: Presente Assente Fonte: Indagine Isfort 2010 108 Dato non pervenuto PORTO DI TRIESTE 31 ISTANTANEA DEL PORTO. Nonostante il Porto di Trieste si caratterizzi per l’eterogeneità dei traffici e per alcuni vantaggi competitivi rilevanti – dai fondali più alti d’Europa alla posizione strategica per l’accesso ai mercati del Centro-Nord Europa – non è stato tuttavia preservato dall’ultima crisi internazionale anche se, guardando l’andamento dei traffici nell’ultimo decennio, alcuni segnali di stasi erano già presenti. Nel 2009 il porto ha registrato rispetto all’anno precedente una flessione dell’8% movimentando più di 44 milioni di tonnellate di merce. La contrazione dei traffici ha interessato tutti i comparti, sebbene l’entità della flessione sia stata diversa: -6% per le rinfuse liquide, -14,6% per quelle solide, -15% per le merci varie e -13% per i RO-RO/ferry. Il settore dei container, anch’esso in perdita (-17,5%) ha registrato nel 2009 un traffico di 277mila unità (che rimane comunque il miglior risultato di sempre dopo quello del 2008) 32 . Lo scalo triestino ha sempre rappresentato una realtà portuale di più complessa lettura rispetto alla media dei porti italiani. I riflessi storici che assegnarono al porto una condizione di quasi indipendenza (free port), la collocazione dello scalo in una città di confine, la stessa articolata composizione interna tra punti franchi e Porto Emporio hanno contribuito a costruire e a sedimentare nel tempo una realtà intessuta di contraddizioni. A partire dal Porto Franco 33 che ha contraddistinto lo sviluppo dello scalo triestino. La stessa legge 84/94 fa espresso riferimento alle specificità del Porto di Trieste salvaguardando la disciplina dei punti franchi compresi nell’area portuale. Ma, sebbene dotata di tale istituto, il porto non ne ha mai tratto appieno i vantaggi di cui avrebbe potuto beneficiare riducendolo sostanzialmente al magazzinaggio gratuito. Anche la storica presenza delle cooperative di facchinaggio, un tempo impiegate nei magazzini del Porto 31 Per il Porto di Trieste alcune informazioni riportate nel testo non sono di fonte diretta per la mancata partecipazione alla rilevazione da parte dell’Autorità portuale e dei terminalisti. Pertanto alcuni dati sono stati reperiti nei siti o nei documenti ufficiali, altri sono stati raccolti nel corso delle interviste ai testimoni privilegiati che hanno accettato di ricostruire, sebbene con ovvie approssimazioni, l’articolazione degli operatori all’interno dello scalo sia sotto il profilo delle attività che della forza lavoro. 32 Fonte: http://www.porto.trieste.it 33 L’istituto è stato introdotto dalla monarchia asburgica nel 1719 e riconosciuto dai successivi Trattati di Pace, dall'Atto Costitutivo della Comunità Europea e dallo Stato italiano. Gran parte del territorio portuale è soggetto a questa normativa (Punto Franco Vecchio, Punto Franco Nuovo, Punto Franco Scalo Legnami, Punto Franco Oli Minerali, Punto Franco Industriale) e ricade pertanto al di fuori del territorio doganale dell'Unione europea con tutti vantaggi che ne derivano (fonte: http://www.porto.trieste.it/). 109 Emporio, ha concorso con una presenza sempre più estesa – dai magazzini alla banchina –, a decretare l’attuale scenario interno allo scalo che vede una pluralità di soggetti partecipare al ciclo produttivo con una frantumazione d’impresa e del lavoro che comincia ad avere riflessi indiretti anche sulla competitività del porto. FORZA LAVORO. Non è stato possibile addivenire ad un calcolo neppure approssimativo dell’entità della forza lavoro impiegata nel Porto di Trieste. L’Autorità portuale e le principali imprese terminaliste non hanno partecipato alla rilevazione. ORGANIZZATIVO. Nello scalo triestino l’architettura MODELLO dell’organizzazione del lavoro si caratterizza per un’elevata frammentazione interna di natura sia soggettuale che operativa. Si compone, infatti, di 45 imprese art. 16 (di cui diverse cooperative) autorizzate allo svolgimento di operazioni e/o ai servizi portuali e di queste 16 sono anche imprese art. 18 ovvero concessionarie di terminal. L’elevata parcellizzazione degli operatori ha determinato un’ampia frammentazione del ciclo operativo ed una conseguente precarizzazione dei rapporti di lavoro. Questo perché la nutrita presenza di cooperative – le cui attività in porto un tempo erano limitate ai soli magazzini del Porto Emporio, mentre oggi si estendono anche alle operazioni in banchina - ha ingenerato nello scalo, secondo più intervistati, una competizione fondata prevalentemente sul ribasso in tariffa. L’esito è stato un minore livello di professionalità e specializzazione del lavoro con effetti destabilizzanti anche, non mancano di sottolineare gli intervistati, sul livello di sicurezza in porto. Tale fenomeno è peraltro accentuato, secondo alcuni osservatori, dal ricorso all’istituto del distacco 34 dei lavoratori tra le imprese art. 16 per cui accade che lavoratori specializzati nello svolgimento di una specifica mansione vengano addetti a mansioni diverse per le quali manifestano minore competenze. In tale contesto il ruolo dell’Impresa Compagnia Portuale è divenuto progressivamente marginale. La copiosa offerta di imprese art. 16, in grado di praticare tariffe più contenute, ha di fatto decretato la “morte” del pool di lavoro temporaneo tanto da giungere alla messa in liquidazione dell’Impresa Compagnia Portuale la cui funzione (ma non la titolarità) di somministratore di lavoro temporaneo è stata assunta da una impresa di recente costituzione, la Minerva Servizi, partecipata da soggetti 34 Il distacco di un lavoratore rientra nella generale pratica delle esternalizzazioni ed è legato prevalentemente all’organizzazione del lavoro. Nella pratica un datore di lavoro (distaccante) mette a disposizione di un altro soggetto (distaccatario) un proprio lavoratore. 110 riconducibili, secondo gli osservatori qualificati intervistati, all’entourage di alcuni dei principali terminalisti dello scalo giuliano. Nel frattempo è stato avviato un processo di riforma del sistema vigente finalizzato a razionalizzare soggetti e operatività in un’ottica di maggiore efficienza e trasparenza. Fig. 18 - Modello Trieste. Stralcio delle relazioni funzionali in banchina IS1 T1 IS2 T2 IS3 T3 IS4 T4 IS5 …….. ………… Tn ………… Impresa art. 17 LEGENDA T=terminalista; IS=impresa servizi (art. 16); =presenza banchina pubblica Fonte: Indagine Isfort 2010 Negli ultimi anni la modalità dell’appalto di parti del ciclo produttivo è migliorata assumendo contorni più aderenti ai dettati della legge. L’Autorità portuale, da parte sua, ha emanato alcune ordinanze per definire in modo più netto i contorni e gli ambiti di azione delle imprese art. 16 (il decreto 1171/2003 ne sancisce le prestazioni d’opera) attraverso, ad esempio, l’apposizione di una soglia di capitalizzazione di almeno 150mila euro che già di per sé opera una selezione a monte. Al contempo sta tentando di mettere le imprese art. 18 in condizione di ricoprire realmente il ruolo che compete loro, a partire dalla dotazione di un organico adeguato a svolgere almeno una parte consistente delle attività in terminal. La numerosità degli 111 addetti operativi autorizzati e destinati alle operazioni in banchina risultano davvero esigui. I dati riportati nella Tav. 3, ancorché indicativi perché non di fonte diretta, e relativi ai principali terminalisti sono esemplificativi in merito. L’organico dei terminalisti, per quel che concerne il lavoro in porto, varierebbe, secondo gli osservatori qualificati, da 2 a 15 unità destinate nella gran parte dei casi a ruoli di controllore o di coordinatore delle attività svolte in banchina. Pur essendo sicuramente approssimativi 35 sono comunque numeri tendenziali che lasciano intuire lo schema funzionale del lavoro in porto. L’accresciuto ricorso ai prestatori d’opera nel corso dell’ultimo anno da parte delle imprese terminaliste concorre a ridisegnare lo scenario all’interno dello scalo. Accanto ad una razionalizzazione delle imprese art. 16, sembra registrarsi, infatti, un orientamento finalizzato a rafforzare il pool di lavoro temporaneo ora che, di fatto, si configura come un’appendice operativa di alcuni terminalisti presenti in porto. L’esito, nel tempo, potrebbe essere quello di una riorganizzazione interna dei soggetti e delle funzioni portuali intorno alle principali imprese art. 18. Tav. 3 – Alcune delle principali attività terminaliste T1 - Nota casa di spedizioni, ha assunto anche il ruolo di terminalista. Gestisce il traffico traghetti da e per la Turchia e l’invio su ferro di truck & trailer in direzione Germania (comprese merci in colli). In porto dispone di circa 15 addetti e fuori porto di 80. Applica il contratto Merci e spedizioni anche in porto. Per strategia aziendale non accoglie traffici di altri operatori. Ciò, unitamente alla contrazione dei traffici e alle attività di riconversione delle strutture (abbattimento magazzini e ricompattamento banchina), ha concorso alla crisi del terminal per scarsità di lavoro. La sua concessione ha durata di 25 anni con scadenza 2034. T2 - Gestisce il traffico di prodotti ortofrutticoli (patate) dall’Egitto – un servizio di linea, diretto e programmato che cade nel I semestre dell’anno –, di materiali non ferrosi a cui si aggiungono traffici spot. Nel 2009 ha movimentato 110mila tonnellate di merci, negli anni precedenti ha fatto registrare una movimentazione di 170-180mila tonnellate. Per la movimentazione dei suoi carichi utilizza principalmente due imprese art. 16 a cui appalta le attività di sbarco, imbarco e immagazzinamento. Dispone di 3 dipendenti in porto di cui 2 coordinatori di magazzino assunti dalla Impresa Compagnia Portuale. Il Terminal è stato rilevato dal Gruppo Gavio. T3 - Effettua attività di rizzaggio e derizzaggio di camion e traini su traghetti. Per tale attività ricorre ad imprese art. 16. Il suo traffico (circa 230mila traini tra sbarco e imbarco) è rimasto presso che invariato rispetto al periodo pre-crisi. Si avvale di circa 5 dipendenti in porto, tutti addetti a mansioni amministrative. T4 - Movimenta materiale non ferroso. Ha acquisito la concessione dell’Adria Terminal (unico operatore in Porto Vecchio). Si avvale di un dipendente coordinatore delle operazioni portuali. T5 - Acquisita di recente da un gruppo svizzero, movimenta metalli. Dispone di circa 40 dipendenti di cui 2 lavorano in porto. T6 - Gestisce il traffico container, lavorando anche per Maersk, Evergreen, MSC. 35 I dati non sono stati rilasciati dai terminalisti che hanno rifiutato la compilazione del questionario, bensì raccolti nel corso di interviste ad osservatori privilegiati esperti della realtà portuale. 112 L’IMPATTO DELLE NUOVE TECNOLOGIE. L’applicazione di strumentazione e mezzi di nuova generazione e l’ampliamento dell’area di applicazione dei sistemi informatici ha prodotto una rivisitazione del modello di organizzazione del lavoro in porto. La sostituzione del lavoro umano è uno degli effetti più evidenti dell’automazione, ma anche la ridefinizione dei ruoli e delle funzioni dei lavoratori portuali ha subito importanti revisioni. Nel Porto di Trieste, come si è registrato anche in altri porti, l’avanzamento tecnologico ha provocato scarsi effetti sul segmento traghetti e sul traffico dedicato ai carichi eccezionali dove la componente umana del lavoro rimane prevalente e poco sostituibile; al contrario ha determinato effetti di medio livello sulle rinfuse solide e su alcune tipologie di merci varie (prodotti ortofrutticoli, casse, ecc.) dove l’introduzione di mezzi meccanici tecnologicamente più avanzati ha causato un effetto sostituzione importante. A livello formativo, gli effetti di un maggiore inserimento dell’elemento high technology ha toccato alcuni profili professionali in modo particolare: il pesatore con obblighi doganali, carrellisti e gruisti sono professionalità che richiedono più di altre una formazione di base high-tech. LA FLESSIBILITÀ. Secondo l’esperienza degli intervistati, il livello di programmabilità delle attività portuali risulta per le merci containerizzate e per i traghetti mediamente elevato, per le merci varie e per le rinfuse solide basso, mentre per i carichi eccezionali si registra l’assenza di programmabilità. La specificità e la singolarità già insite nei carichi eccezionali, nonché l’elevata variabilità trattandosi di carichi spot, si riflette sull’organizzazione del lavoro all’interno dell’impresa che risulta priva di “turnistica”. Nei fatti i dipendenti del terminal lavorano quando il carico arriva o parte. Per l’impresa art. 17, invece, la comunicazione dei turni ai propri lavoratori è giornaliera, le variazioni di turno sono abbastanza frequenti e lo slittamento o l’anticipazione del turno viene comunicato al lavoratore qualche ora prima. Il ricorso allo straordinario incide tra il 6 e il 20%. Mentre sul lato delle imprese art. 16 l’organizzazione interna del lavoro pare assorbire meno gli effetti della flessibilità come accade per l’impresa art. 17. In questo caso la comunicazione dei turni è mensile, la variazione di turno risulta frequente e comunicata al lavoratore il giorno prima, il ricorso alle ore di straordinario è abbastanza contenuto - incide fino al 5% sul totale delle ore lavorate in un mese -, ma possono toccare in alcuni casi anche range più elevati sebbene mai superiori al 20%. 113 Al lavoro temporaneo il terminalista ricorre spesso per insufficienza di personale rispetto ai picchi della domanda e per l’elevato numero di navi che giungono contemporaneamente in porto; qualche volta per una convenienza economica o per la difficoltà delle compagnie di navigazione a programmare sbarchi e imbarchi. Nel caso dei traffici eccezionali, dove il pericolo di danneggiamenti dei carichi è elevato e comporterebbero danni ingenti trattandosi di merceologie di un certo valore (parti di motori, turbine eccezionali, ecc.) in presenza di condizioni meteo-marine avverse il terminalista può decidere di avvalersi anche del supporto di lavoratori temporanei. PROFESSIONALITÀ E FORMAZIONE. Nello scalo giuliano, stando alle percezioni degli intervistati, la professionalità dei lavoratori portuali tenderebbe progressivamente ad impoverirsi con riflessi, in futuro, anche importanti sulla competitività del porto. Alcune cooperative di servizio effettuano la formazione solo ad inizio del rapporto di lavoro. Non modificandosi le condizioni di lavoro nel corso del rapporto, non ritengono necessario procedere con una formazione “continua”. E’ in via di “estinzione”, secondo gli operatori locali, soprattutto la professionalità nella movimentazione delle merci varie, quelle che generano maggiore ricchezza anche in termini di lavoro perché richiedono una elevata specializzazione. Chi ha questo tipo di specializzazione o è andato in pensione o è prossimo alla pensione. I nuovi assunti non hanno avuto occasione di formarsi nella movimentazione di merci varie a causa della contrazione dei traffici di legname, cellulose, ecc. La scarsa professionalità delle imprese art. 16 è una delle criticità segnalate dagli osservatori qualificati (in alcune cooperative i lavoratori hanno assunto il ruolo di saldatori dopo un corso di sole 30 ore). La formazione professionale tuttavia viene giudicata complessivamente sufficiente e il livello di istruzione, risulta in linea con quanto registrato in altri porti: ovvero si registra una numerosa presenza di lavoratori con licenza media inferiore e diploma di istruzione tecnica secondaria. Nondimeno secondo gli osservatori intervistati, il titolo di studio non influisce, paga semmai di più l’esperienza soprattutto in porto come quello giuliano dove alcune tradizionali tipologie merceologiche (una per tutte il caffè che viene movimentato in sacchi) richiedono essenzialmente esperienza, forza fisica e abilità nella movimentazione. APPLICAZIONE DEL CCNL PORTUALI. Nello scalo triestino il CCNL portuali viene applicato ai lavoratori che, operando all’interno dell’area dello scalo riconducibili giuridicamente alla definizione di porto, necessitano di autorizzazione per lavorarvi. Ovvero a coloro che svolgono operazioni e 114 servizi portuali nell’area demaniale delimitata, nello specifico scalo, dalla cosiddetta “linea gialla” che tende a distinguere l’area dei magazzini dal resto del porto. A chi opera “fuori porto” si applicano contratti alternativi per lo più riconducibili al Multiservizi, ma trova applicazione anche il contratto logistica, trasporto merci e spedizioni. Quest’ultimo è il caso del terminalista che gestisce la movimentazione di carichi speciali in un’area collocata “fuori porto” e che pertanto ricorre ad un contratto diverso da quello dei portuali sebbene i lavoratori che operano nel terminal espletino mansioni di carico e scarico merce in banchina (ma non a bordo nave). Ancorché questo sia lo scenario prevalente che emerge dai dati acquisiti attraverso la compilazione dei questionari, si sono rilevati ambiti di non applicazione del CCNL portuali anche in area porto 36 . In sua vece è stato applicato il contratto logistica, trasporto merci e spedizioni: in questo caso il terminalista ha sfruttato evidentemente anche il fatto di essere spedizioniere. L’applicazione del Contratto dei lavoratori portuali non ha, tuttavia, raccolto gli entusiasmi degli operatori locali. E’ stato giudicato infatti foriero di riflessi nulli o negativi sulla competitività del porto e sulle imprese. Mentre gli è stato riconosciuto un effetto di positività per i lavoratori. Il controllo dell’applicazione del Contratto dei lavoratori portuali o di contratti equipollenti viene realizzato, secondo gli intervistati, con scarsi risultati da parte dell’Autorità portuale. Le verifiche risultano saltuarie e poco efficaci. GLI EFFETTI DELLA L. 84/94. Nello scalo giuliano il giudizio degli intervistati in merito agli effetti prodotti dalla legge di riforma del sistema portuale si presenta prevalentemente negativo e ritengono che L. 84/94 abbia rappresentato un insuccesso sotto il profilo economico e organizzativo del lavoro. Non ha consentito l’avvio di nuove forme di governance né un reale rinnovamento e rilancio dei porti. Anche la revisione organizzativa del lavoro non ha concorso a rilanciare lo scalo triestino: l’assenza di decreti attuativi efficaci ha prodotto, infatti, un’applicazione della norma eccessivamente eterogenea negli scali nazionali. Tuttavia, la legge di riforma ha raggiunto alcuni degli obiettivi che si era preposta. L’apertura ai privati ha portato nello scalo triestino un miglioramento delle condizioni di lavoro e un processo di rinnovamento dei mezzi meccanici. Il progresso registrato nella qualità dei servizi è stato determinato dall’ampliamento del numero di imprese in porto, ma anche dalla professionalità di imprese e addetti. E’ venuto, invece, a mancare 36 Le informazioni sono state raccolte attraverso interviste qualitative a testimoni privilegiati. 115 proprio il supporto della parte pubblica. L’apporto alla competitività del porto dei soggetti pubblici (Autorità portuale, autorità fitosanitaria, ecc.) è stato giudicato indifferente nel migliore dei casi. La liberalizzazione, infine, ha comportato una ridefinizione delle tariffe dei servizi e delle operazioni portuali, che sono rimaste stabili nel 2001-2005 e tendenzialmente aumentate nel quinquennio 2006-2010 (qualcuno registra anche una diminuzione). SICUREZZA. Come spesso accade, anche a Trieste è stato un evento infortunistico grave accaduto circa 3 anni fa, a produrre una virata sostanziale sul tema della sicurezza. In quell’occasione il porto si mosse compatto e intraprese una serie di azioni: I) vennero individuati 3 rappresentanti per la sicurezza di sito con l’obiettivo di dedicarsi esclusivamente ad attività di controllo, superando in tal senso anche gli RLSU dei singoli terminal; II) vennero istituiti il Comitato di igiene e sicurezza e il Coordinamento Organi Ispettivi (COI); III) venne intrapreso un percorso di valutazione dei carichi di lavoro (materia complessa vista la difficoltà di stimare quanto ogni singolo uomo può sopportare) per definire il minimo e il massimo carico sopportabile da sfruttare anche come elemento di regolazione della concorrenza all’interno del porto. Non è facile definire il livello di sicurezza sul lavoro raggiunto nel porto triestino, né misurare nel corso degli anni come è andato mutando. In linea generale sembrerebbe migliorato: gli infortuni complessivamente accaduti in porto sono diminuiti scendendo da 161 nel 2001 a 90 nel 2009. Se si scorporano gli incidenti occorsi ai lavoratori nell’ambito delle operazioni portuali si osserva che anche in questo caso l’evento infortunistico risulta meno frequente: furono 112 nel 2001, sono stati 76 nel 2009. Più complicato risulta stimare il numero di incidenti in itinere: si calcola che rappresentino il 20% degli incidenti complessivi (anche di più considerando che non vengono denunciati per evitare maggiorazioni dell’assicurazione), ma che tendano a diminuire. Da una parte è cresciuta la cultura del lavoratore ed è stato avviato un percorso di conoscenza e diffusione di dati anche attraverso le statistiche e gli indici sugli infortuni prodotti (uno dei pochi casi in Italia) dall’Autorità portuale. Sul lato impresa, invece, è aumentata l’attenzione per la costruzione dei piani di sicurezza e per le interferenze tra piani di sicurezza diversi, ma soprattutto il piano è diventato uno strumento attivo e non più un mero adempimento burocratico. Tuttavia se si guarda l’evoluzione degli indici infortunistici negli ultimi 12 anni sono più o meno rimasti invariati: sono diminuiti l’indice di frequenza (80,6 nel 1996; 45 nel 2008) e l’indice di gravità (2,9 nel 1996; 1,5 nel 2008) anche se tende all’aumento l’inabilità per infortunio (37 nel 1996; 66 nel 2008) che si aggira intorno ad una media di 30-35gg. 116 Fig. 19 – Andamento degli infortuni in porto 161 147 135 133 117 112 105 98 61 2001 2002 2003 90 88 79 90 75 74 56 52 2004 76 2005 n° infortuni complessivi in porto 2006 2007 2008 2009 n° infortuni in operazioni portuali Fonte: elaborazione Isfort su dati AP Trieste 2010 Fig. 20 – Giornate di inabilità 8200 7325 7200 6200 6309 5695 5200 4200 4201 4006 3200 4658 4893 2911 2200 2001 2002 2003 2004 2005 2006 n° giornate inabilità Fonte: elaborazione Isfort su dati AP Trieste 2010 117 2007 2008 2009 Fig. 21 – Giornate di inabilità media 66,12 49,83 48,68 44,36 39,19 40,88 36,85 31,59 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 I. inabilità media (incidenti complessivi) Fonte: elaborazione Isfort su dati AP Trieste 2010 Gli elementi che negli ultimi anni hanno inciso sulla sicurezza sono diversi. Oltre alla frantumazione dell’impresa che può essere indicata come una causa dell’incidentalità odierna, è cambiato anche il modo di trasportare le merci: oggi si manipola meno, il che diminuisce l’esposizione al rischio, ma il lavoro è più usurante e le turnazioni pesanti: in precedenza 2 lavoratori si alternavano sul sollevatore, ciascuno per un turno di 3 ore; oggi un unico lavoratore effettua a bordo del sollevatore le 6 ore turno. Ma non si investe sufficientemente in formazione: a tale proposito l’Autorità portuale di Trieste sta provvedendo a rendere obbligatoria la formazione attraverso l’emanazione di una serie di ordinanze che includano anche una certificazione stessa dell’attività di formazione (L. 272/99). Guardando la casistica nel dettaglio si può osservare che: - esiste una concentrazione di infortuni nell’ambito delle operazioni portuali. Le imprese maggiormente toccate dagli infortuni sono le imprese art. 16 e art. 17. Le prime svolgono a Trieste la gran parte del ciclo operativo nei terminal (l’organico dei terminalisti in banchina è sostanzialmente insufficiente a svolgere parti del ciclo produttivo); la seconda (l’art. 17) si caratterizza per una maggiore stabilità di lavoro a cui corrisponde un minor numero di incidenti; - gli incidenti accadono prevalentemente nelle banchine e nei piazzali operativi (40%), nella viabilità delle aree di transito (20%), nei magazzini (14%) o nelle officine (8%), il resto fuori dal porto; 118 - le determinanti (guardando ad una casistica prodotta dall’Autorità portuale per l’anno 2007) sono riconducibili a stiramenti muscoloscheletrici ovvero infortuni da sforzo (ne vanno soggetti principalmente i più anziani; 26%); scivolamenti o inciampi (24%); cadute su superficie piana (10%), guida dei mezzi meccanici (10%), manipolazione delle merci (10%), urto contro la merce (10%), urtati dalle merci (10%). Il Porto di Trieste in sintesi(1) Traffici Traffici (distribuzione % tonn.) 1. Rinfuse liquide 77% 2. RO-RO 11% 3. Container 7% 4. Rinfuse solide 4% 5. Altre merci varie 1% Liner Traffici Non-liner Imprese portuali Impresa art. 17 N. imprese art. 16+16bis(2) 29 N. imprese art. 18(3) 16 Concessioni: durata min e max Forza lavoro Addetti Imprese Portuali Di cui addetti Imprese art. 18 Addetti(4) Impresa art. 17 25 Operations Livello diffusione Appalti Elevato Quota lavori appaltati 30-50% Banchina pubblica Quota traffico banchina pubblica 1) 2) 3) 4) Dati al 2008 per depurare le informazioni dal fenomeno distorsivo della crisi Escluse dal computo le imprese art. 16 che sono anche concessionarie (art. 18) Sono esclusi i terminalisti addetti al traffico di rinfuse liquide Soci+dipendenti LEGENDA: Presente Assente Fonte: Indagine Isfort 2010 119 Dato non pervenuto PORTO DI GIOIA TAURO ISTANTANEA DEL PORTO. Il Porto di Gioia Tauro è una recente istituzione nel panorama portuale nazionale. Concepito nel 1971 come porto al servizio del V centro siderurgico Finsider (che avrebbe dovuto produrre 4,5 mln di tonnellate di acciaio e dare occupazione a 7.500 lavoratori), lo scalo venne completato nel 1986, ma collaudato solo nel 1992. Venne dotato di ampi spazi e costruito in funzione di macroattività economiche a bocca di porto, incorporando da subito una destinazione d’uso univoca. Fallita la destinazione siderurgica in seguito alla crisi di sovrapproduzione mondiale dell’acciaio degli anni Settanta, il porto fu ripensato come terminal carbonifero a supporto di una ipotizzata megacentrale termica dell’Enel che non trovò realizzazione. Rimasto di fatto privo di progetti di utilizzo produttivo nel 1993 Angelo Ravano, allora presidente del gruppo tedescogenovese Contship, intravide la possibilità di destinare il porto di Gioia Tauro - da lui stesso definito “la più bella banchina d’Europa dopo quella di Rotterdam” - a maxiscalo di transhipment container per il Mediterraneo. Nel 1995 lo scalo movimentò 16mila TEU, l’anno successivo oltre mezzo milione. Oggi lo scalo movimenta circa 2,8 milioni di TEU, ma ha raggiunto anche punte di 4,5 milioni di TEU. All’interno dello scalo sono presenti due imprese terminaliste: una attiva nel traffico container 37 e titolare di una concessione cinquantennale con scadenza nel 2044 e l’altra che gestisce il traffico automotive 38 ed è titolare di una concessione di durata trentennale con scadenza nel 2030. Intorno alle due imprese terminaliste ruotano sette imprese art. 16 autorizzate a lavorare in porto, ma solo tre di esse hanno l’autorizzazione a svolgere operazioni portuali. Le altre svolgono attività di servizio legate in buona parte alla riparazione e manutenzione di contenitori o allo shuttle merci. 37 La società, MCT S.p.a., nata nel 1995, movimenta il 100% dei container di Gioia Tauro. Il transhipment rappresenta il 96% del suo movimentato complessivo che a settimana, in media, si aggira sui 36mila container. Nel 2009, a causa della crisi, ha movimentato 1.182 TEU con una riduzione rispetto al 2007 del 20-25%. I lavoratori sono stati sottoposti a due periodi di CIG di 13 settimane ciascuno che hanno interessato, una prima volta, circa 130 lavoratori, la seconda 160-170 addetti. Nel 2010, comunque, il traffico si è attestato sui livelli del 2008. La società ha in organico 1.100 dipendenti diretti, di cui 600 addetti alle operazioni di piazzale (opertivi+planner+coordinatori). Considerando anche l’indotto (manutenzione, fornitori, ecc.), complessivamente la MCT S.p.a. da occupazione a circa 3mila addetti. 38 La ICO Blg, che ha incorporato la BLG Italia Srl già concessionario del terminal con atto del 28/11/2000, attraverso un atto di sub-ingresso del 14/5/2008 ha assunto la titolarità della concessione del terminal. 120 Oltre ai due terminali in concessione è operativa all’interno dello scalo una banchina pubblica 39 , la Banchina di Ponente, che tuttavia movimenta una quota marginale del traffico complessivo (1-2%). FORZA LAVORO. I lavoratori in porto (addetti delle imprese portuali ex artt. 16 e 18 della L. 84/94) sono 1.359 40 di cui 1.140 sono dipendenti dei due terminalisti e i restanti 219 delle imprese ex art. 16. Dal 2001 al 2010 nelle imprese intervistate 41 l’occupazione ha registrato un andamento eterogeneo: è cresciuta complessivamente nel segmento container tanto presso il terminalista (+37,5%) che nella principale impresa di servizio collegata 42 che realizza il 70% delle attività di rizzaggio/derizzaggio al terminal contenitori; è diminuita nelle restanti imprese portuali. La crisi dei consumi che ha interessato anche il settore automotive è stata parte in causa anche se la società di servizi ad essa collegata ha visto diminuire gli occupati con un andamento costante a partire dal 2005 senza, quindi, un apparente nesso con la crisi degli ultimi anni. I rapporti di lavoro tendono a configurarsi prevalentemente in assunzioni a tempo indeterminato a cui si affiancano quote marginali di apprendistato professionalizzante (il 5% presso uno dei due terminalisti) e di assunzioni a tempo determinato. Nel quinquennio 2005-2010, nel segmento container, i diversi rapporti di lavoro hanno teso a stabilizzarsi lasciando crescere esclusivamente l’affidamento del lavoro a terzi esterni all’impresa, mentre nel segmento automotive, la riduzione dei traffici è stata compensata con una riduzione di assunzioni a tempo determinato. MODELLO ORGANIZZATIVO. Il modello di organizzazione del lavoro riscontrato nel Porto di Gioia Tauro si articola in poche banchine, pochi operatori, chiarezza di rapporti. Nello scalo calabrese, come già segnalato, 39 Non tutte le imprese portuali sembrano a conoscenza della presenza in porto di una banchina pubblica. 40 Il numero di addetti operativi in porto è stato comunicato dall’Autorità portuale ed è aggiornato al Maggio 2010. 41 Hanno compilato il questionario le due imprese terminaliste e due imprese art. 16. 42 La società in questione svolge attività per entrambi i terminalisti. Il terminal container rappresenta l’85% della sua attività aziendale complessiva: per essa svolge prevalentemente lavoro manuale (rizzaggio/derizzaggio) anche perché le mansioni a più elevato contenuto tecnologico (checker) non vengono terziarizzate, ma sono svolte internamente dal terminalista. Per l’altro terminalista effettua attività di rizzaggio/derizzaggio, driver, pulizia mezzi e riempimento contenitori merci pericolose (IMO). Nata nel 1999, l’impresa presenta un organico di 42 addetti di cui 37 operativi. 121 vi sono due soli terminali in concessione, l’uno destinato al traffico container, l’altro al traffico automotive. All’interno dello scalo le attività di movimentazione merci sono svolte quota parte dai terminalisti con proprio organico, quota parte affidando a terzi (imprese art. 16) segmenti del ciclo operativo attraverso la procedura dell’appalto che risulta abbastanza diffusa nello scalo. Considerato il volume complessivo delle attività svolte all’interno dello scalo, la percentuale di attività appaltata non supera il 30% 43 . Le attività terziarizzate dal terminalista richiedono generalmente un livello medio di specializzazione: una parte rilevante di esse (si ipotizza un 70-80%) sono riconducibili ad attività di rizzaggio/derizzaggio. Se necessario, mancando il pool di lavoro temporaneo (impresa art. 17), le imprese portuali dello scalo calabrese tendono a ricorrere con maggiore frequenza a rapporti di lavoro atipici e a tempo determinato. In quanto alle modalità di esecuzione, da pochi anni nella movimentazione dei container, il lavoro è stato organizzato in famiglie: ciascuna famiglia (composta da un gruista, un deckman, un cocker, 3 carrellisti più un capoturno coordinatore) movimenta in media 22 container l’ora. Tale articolazione del lavoro, introdotta per accrescere la produttività, ha dato luogo a episodi di concorrenza spinta finalizzati all’ottenimento di superminimi e premi di produzione. Fig. 22 - Modello Gioia Tauro. Stralcio delle relazioni funzionali in banchina IS1 Interinali T1 IS2 T2 …….. ISn LEGENDA T=terminalista; IS=impresa servizi (art. 16); =presenza banchina pubblica Fonte: Indagine Isfort 2010 43 Secondo l’Autorità portualesi attesterebbe intorno al 10%, secondo altri operatori anche al 50-70%. 122 Esaminando alcuni fattori di determinazione dell’organizzazione del lavoro in porto – nuove tecnologie, fattore umano, flessibilità – si sono registrate alcune divergenze sia tra le due imprese terminaliste (che effettivamente trattano tipologie di traffico profondamente diverse), sia tra queste e le imprese art. 16 di cui si avvalgono. L’IMPATTO DELLE NUOVE TECNOLOGIE. Nel traffico container l’impatto delle nuove tecnologie sembra sia stato sensibilmente rilevante. Ha comportato tanto la sostituzione di una parte consistente del lavoro umano 44 , quanto una ridefinizione di ruoli e funzioni degli addetti portuali e, nel complesso, ha inciso in modo rilevante anche sull’incremento di traffico in porto. L’offerta di nuove strumentazioni tecnologiche ha imposto evidentemente una revisione dei modelli formativi: per alcune figure professionali la componente high tech è divenuta parte integrante e fondamentale della formazione di base. Nel segmento del traffico container ciò vale soprattutto per il planner/gestore e per il carrellista, sebbene per il primo la componente tecnologica sia più sofisticata e di più complesso utilizzo perché finalizzata al controllo e al coordinamento di tutte le attività operative, mentre per il secondo si limita all’impiego di strumentazioni di uso più comune dalla tecnologia wireless al GPS. Di altra natura è stato l’impatto delle nuove tecnologie sul traffico auto motive. Qui i sistemi informatici e l’evoluzione tecnologica, pur determinando una ridefinizione di ruoli e funzioni, non ha tuttavia comportato la sostituzione di una parte rilevante del lavoro umano, che risulta ancora centrale nella movimentazione di tale merceologia, né ha avuto un impatto rilevante sull’incremento del traffico in porto. L’accortezza necessaria nelle attività di movimentazione del prodotto automobile tende a concentrare la massima presenza di tecnologia nelle attività di stivaggio, rizzaggio e derizzaggio ed una presenza comunque di livello medio-alto nella mansione che è propria del driver. E’ interessante notare come le imprese art. 16 danno una misura più contenuta dell’impatto della tecnologia sul lavoro rispetto ai due terminalisti. La loro percezione è evidentemente condizionata dallo svolgere esse le mansioni meno qualificate, dove l’apporto umano è ancora prevalente e sulle quali l’impatto della tecnologia in effetti risulta meno incisivo. 44 Nella movimentazione dei container il rapporto è di 3 a 10: oggi 3 addetti svolgono, lavorando 6 ore al giorno per 36 ore settimanali (orario ormai valido per tutte le figure professionali), il lavoro che un tempo era svolto da 10 addetti. 123 LA FLESSIBILITÀ. Per le merci containerizzate il livello di programmabilità delle attività portuali è abbastanza elevato tanto da consentire una comunicazione turni ai propri dipendenti di tipo mensile. La frequente variazione di turno, comunicata al lavoratore un paio di giorni prima, è da imputarsi prevalentemente alle richieste di cambio turno e al fenomeno dell’assenteismo che risulta particolarmente elevato nello scalo di Gioia Tauro (si aggira, secondo gli intervistati, intorno al 17%). Tuttavia poiché il ricorso alle ore di straordinario è abbastanza contenuto – incide meno del 5% sul totale delle ore lavorate in un mese – è evidente che gli effetti della flessibilità ricadono sulla componente di lavoro esterna all’impresa. Al lavoro occasionale il terminalista ricorre spesso per motivi economici – questo accade quando insieme ai container giungono in porto altre tipologie di merce (macchinari, ecc.) per la movimentazione delle quali è economicamente più conveniente avvalersi di lavoratori occasionali –; saltuariamente per far fronte all’insufficienza del personale interno in occasione di picchi della domanda. Il traffico RO-RO, invece, consente un livello di programmabilità medio delle attività. Ciò trasferisce la necessità di una maggiore flessibilità sul lavoratore interno: la comunicazione dei turni è, infatti, giornaliera e ciononostante le variazioni di turno risultano comunque molto frequenti. Anche lo straordinario viene richiesto con maggiore frequenza: nel caso dell’automotive incide tra il 6 e il 20% del totale delle ore lavorate. In questo caso il ricorso al lavoro occasionale è dovuto spesso alla variabilità della dimensione delle navi da caricare/scaricare e all’insufficienza del personale dipendente rispetto ai picchi della domanda; a volte è determinato dall’elevato numero di navi che giungono in porto e da una convenienza economica da parte del terminalista. Le imprese art. 16, a differenza dei due terminalisti, sottolineano la maggiore incidenza della flessibilità sull’organizzazione del lavoro in porto. Tali valutazioni sono riconducibili al ruolo che siffatte imprese ricoprono nell’ambito dell’organizzazione del lavoro portuale: sono deputate ad assorbire la variabilità della domanda svolgendo, vista l’assenza nello scalo calabrese di un art. 17, un ruolo vicino a quello del prestatore di lavoro temporaneo. Pertanto il loro livello di programmabilità delle attività è realmente più contenuto: ad esse i terminalisti ricorrono per coprire le ferie dei dipendenti o per rispondere ai picchi della domanda, ma anche perché di fondo una programmazione di lungo periodo non è compatibile con le caratteristiche del trasporto marittimo. La loro organizzazione interna del lavoro si presenta necessariamente più elastica tanto nel caso del traffico container che del RO-RO: la comunicazione turni è giornaliera, i turni possono variare con una frequenza elevata e la variazione di turno è comunicata il giorno prima o qualche ora prima. L’incidenza dello straordinario sulle ore lavorate è inferiore al 20%. 124 PROFESSIONALITÀ E FORMAZIONE. Nonostante i progressi tecnologici, il processo produttivo in porto presenta spazi di variabilità nella programmazione delle attività ancora elevati. Ciò si riflette anche sui criteri in base ai quali le imprese terminaliste selezionano i lavoratori: la determinante principale sulla quale concordano tutti gli intervistati è rappresentata dalla disponibilità che il lavoratore manifesta in ordine a turni e mansioni. Solo in seconda battuta subentrano altri fattori di scelta come l’affidabilità (a Gioia Tauro il tasso di assenteismo in porto è molto elevato come già sottolineato) e la multi-professionalità. La richiesta di multiprofessionalità può essere imputabile alla scarsa offerta di figure professionali specializzate. Il mercato locale non ha una tradizione portuale alle spalle e gli addetti alle attività di stivaggio, rizzaggio/derizzaggio, ma anche il pesatore con obblighi doganali (container) e il driver (auto motive) sono i profili che creano le maggiori difficoltà di reperimento sul mercato agli operatori portuali. In quanto all’istruzione, all’interno delle imprese terminaliste il livello di formazione è sensibilmente più elevato rispetto alle imprese art. 16: nelle prime si registra una presenza maggiore di diplomati, nelle seconde una maggiore concentrazione di personale con licenza media. I profili ricercati presentano la medesima analogia: le imprese terminaliste tendono a selezionare per il proprio organico profili di istruzione più alti, diplomati e laureati da destinare alle mansioni più qualificate; mentre le imprese art. 16 che di fatto ricoprono mansioni di livello inferiore all’interno del ciclo produttivo ricercano livelli di istruzione meno elevati: licenza media o diploma di istruzione professionale/secondaria superiore. In generale, la formazione professionale dei lavoratori portuali viene ritenuta discreta dagli intervistati, anche perché sono le stesse imprese portuali a formare “sul campo” i propri lavoratori. APPLICAZIONE DEL CCNL PORTUALI. A tutti i dipendenti delle imprese intervistate viene applicato il CCNL portuali. L’Autorità portuale verifica l’effettiva utilizzazione del CCNL portuali o di contratti equipollenti quando rilascia l’autorizzazione a lavorare in porto. Tali controlli risultano, a detta degli intervistati, puntuali per quanto attiene alle imprese art. 16, mentre risultano meno efficaci e costanti nei confronti delle imprese terminaliste. Sugli effetti dell’applicazione del CCNL portuali i pareri degli intervistati risultano concordi nell’esprimere una sostanziale ininfluenza sulla competitività del porto, ma piuttosto discordanti per quanto attiene all’impatto che esso ha prodotto tanto sulle imprese che sui lavoratori. In merito alle prime, il CCNL portuali può ritenersi abbastanza soddisfacente ma solo se integrato da una contrattazione di 2° livello che garantisca quella flessibilità che il lavoro e il mercato richiedono. Tali forme sono abbastanza diffuse in porto sebbene limitate ad alcuni settori. Sul peso che 125 tale forma di contrattazione ha sulla retribuzione complessiva degli addetti non vi sono risposte concordanti: risulta variabile e comunque non superiore al 30%. In merito ai secondi, anche se prevale un giudizio genericamente positivo, non mancano critiche legate prevalentemente all’inadeguatezza economica del contratto ritenuto penalizzante per i lavoratori (anche perché la competitività del porto si fonda su tariffe più basse rispetto alla concorrenza a fronte di una qualità equivalente). GLI EFFETTI DELLA L. 84/94. Il Porto di Gioia Tauro è relativamente giovane per consentire l’espressione di un giudizio sull’impatto che la L. 84/94 avrebbe avuto sullo scalo calabrese. Tuttavia un parere sulla riforma del sistema portuale italiano è stato fornito dagli intervistati e la valutazione nel complesso non può dirsi pienamente favorevole. Secondo gli intervistati, la norma non è stata in grado di raggiungere quegli obiettivi di rinnovamento organizzativo e di implementazione di un nuovo modello di governance che si era riproposta, né ha dato sufficiente spazio ai privati perché potessero con il loro operato originare un modello organizzativo più competitivo. Gli effetti sulla riorganizzazione del lavoro portuale non hanno concorso a rilanciare i porti italiani e, in generale, la legge per quanto attiene all’organizzazione del lavoro andrebbe totalmente rivisitata avendo posto dei vincoli troppo stringenti soprattutto se letti in un’ottica di competizione con i porti emergenti del Nord Africa. Nello specifico, la legge di riforma non sembrerebbe aver centrato tutti gli obiettivi di ammodernamento dei servizi e di miglioramento tecnologico dei mezzi e delle strutture presenti nello scalo (un esempio per tutti, l’assenza di cablatura informatica). Con i privati lo scalo ha raggiunto migliori condizioni di lavoro ed una qualità dei servizi più elevata, ma non ha prodotto né un rinnovamento costante dei mezzi di servizio - a Gioia Tauro l’aggiornamento del parco mezzi è critico: i sistemi di movimentazione di piazzola cominciano ad essere obsoleti e a rallentare il processo produttivo - né un adeguamento tecnologico nei cicli operativi rimasto a metà tra l’orientamento privatistico che i terminalisti sembrerebbe esprimere quando si tratta di ottenere forme di liberalizzazione e l’orientamento pubblicistico quando si tratta di investire. Mentre sul contributo dei soggetti pubblici (AP, Dogana, Capitaneria di porto, ecc.) il giudizio non è uniforme: in taluni casi viene giudicato indifferente, in altri addirittura negativo (autorità fitosanitarie, dogana) 45 . 45 Gli operatori lamentano in generale le lungaggini burocratiche sia della Dogana che, sottoposta ad un regolamento di fine ‘800, impiega 4 giorni per eseguire le verifiche sulle automobili, mentre nei porti del Nord Europa vengono eseguite telematicamente; anche i servizi fitosanitari rappresentano un elemento di impasse per Gioia Tauro: i servizi fitosanitari sono infatti ubicati a Reggio Calabria e, in alcuni casi, i campioni vengono inviati a Napoli. 126 L’applicazione della legge di riforma non ha comportato una ridefinizione delle tariffe dei servizi e delle operazioni portuali rimaste stabili dal 2001 ad oggi, secondo la maggioranza degli intervistati. Ha avuto invece effetti rilevanti sulla sicurezza in porto ma deboli sulla qualità dei servizi erogati dai terminal a causa dell’ampliamento del numero di imprese in porto e della conseguente minore competenza e professionalità sia delle imprese che degli addetti. SICUREZZA. Nel Porto di Gioia Tauro il maggior numero degli infortuni avviene durante le operazioni di movimentazione container essendo lo scalo un hub dedicato al transhipment. Pur esistendo rischi anche in relazione alla presenza nei parchi di stoccaggio di merci IMO (il 2,5% del movimentato in porto), il maggior numero di eventi infortunistici sono riconducibili ad eventi traumatologici legati in particolare alle attività di rizzaggio e derizzaggio a bordo nave e a terra (un asse che cade e rompe l’elmetto del lavoratore che si trova sotto la gru, schiacciamento delle dita con twister di 3-5 kg, inciampo causa grasso durante discesa in stiva o salita sulle gabbie). Si tratta di pericoli connaturati al tipo di lavoro, in parte sono, secondo gli operatori, inevitabili. A determinarli sono soprattutto i comportamenti a rischio compiuti dai lavoratori portuali, per lo più riconducibili a movimenti impropri generati da distrazione e sottostima del pericolo che rappresentano, secondo le statistiche dell’Autorità portuale, il 90% delle determinanti. L’andamento degli incidenti accaduti nello scalo calabrese nel corso delle operazioni portuali presenta, tra il 2001 e il 2009, una progressiva tendenza alla riduzione degli eventi infortunistici. Fatta eccezione per il 2001 che ha registrato 105 eventi, dal 2002 – anno in cui si è toccato il picco con 334 infortuni – in avanti, il trend è stato tendenzialmente decrescente. Si è registrato un secondo picco nel 2007, sebbene meno significativo del precedente (169 incidenti) che trova spiegazione nell’acquisto di gru di nuova generazione. La minore dimestichezza con i nuovi mezzi ha determinato, secondo i medici che operano nel presidio sanitario all’interno dello scalo, un’incertezza operativa che si è tramutata in un incremento degli eventi infortunistici 46 . 46 I dati sono stati forniti dall’Autorità portuale e sono relativi al numero di eventi infortunistici accaduti nel corso di operazioni portuali a tutti coloro che lavorano presso i terminal, siano essi dipendenti diretti del terminalista o addetti delle imprese di servizio a cui il terminalista ha appaltato parti del ciclo produttivo. In seguito ad una ordinanza dell’Autorità portuale, i terminalisti sono tenuti a comunicare a quest’ultima l’accadimento di incidenti nel proprio terminal. A sua volta, l’Autorità portuale comunica i dati al Ministero che provvede ad inviarli all’Inps. 127 L’indisponibilità dei dati di traffico non consente di verificare se la riduzione degli infortuni sia da addebitare ad una riduzione dei traffici (come è ipotizzabile) piuttosto che a comportamenti più virtuosi sul lavoro 47 . Fig. 23 - Andamento degli incidenti operazioni portuali accaduti nel corso di 334 258 153 105 2001 157 147 169 133 1.007 2002 2003 129 578 2004 2005 2006 2007 2008 2009 Fonte: elaborazione Isfort su dati AP Gioia Tauro, 2010 Se si disaggrega il dato per le imprese portuali che operano all’interno dello scalo, si può osservare che l’85% degli infortuni accade al personale del terminal container. Il risultato è in linea sia con il volume di movimentato che con il numero di addetti impegnati nel traffico container ben superiori, in entrambi i casi, al traffico automotive. Tuttavia anche il tasso di incidenza – che depura il dato dalle distorsioni derivanti dalla diversa numerosità degli addetti – rivela un tasso di incidentalità maggiore nel terminal che gestisce il traffico container che trova conferma in un tasso di 47 ICO Blg manifesta una spiccata attenzione per le procedure di sicurezza che tendono a tutelare oltre che il personale, anche l’integrità della merce incrementando la qualità del servizio offerto al cliente. La società realizza un’attività di informazione su safety e security della durata di 5 giorni al momento dell’assunzione. Annualmente vengono riproposti brevi flash di circa 2 giorni su strumenti e indumenti di protezione (maschere, elmetti, tappi, ecc.) e attività di aggiornamento. I lavoratori vengono obbligati, attraverso richiami verbali, contestazioni formali, ecc., a tenere atteggiamenti sicuri sul posto di lavoro. ICO Blg applica al proprio interno forme di sicurezza non espressamente previste dalla legge italiana, ma riprese da porti più avanzati e virtuosi sul tema (ad es. i porti di Brema, Zeebrugge): non consente l’uso (come accade in Giappone) di indumenti con cerniera ai lavoratori perché soggetti ad aggancio da parte dei mezzi meccanici; effettua un briefing giornaliero iniziale di 15 minuti per ricordare ai lavoratori le principali regole di sicurezza; invia una squadra di 3 persone esperte a valutare e risolvere rischi potenziali. 128 incidenza praticamente identico (20,5 per MCT; 20,7 per le imprese ex art. 16) calcolato a carico delle imprese portuali art. 16 che lavorano prevalentemente per il terminal container. In quanto agli incidenti a mezzi e merci, a detta degli intervistati, quest’ultimi sono rimasti stabili tanto nel quinquennio 2001-2005 che nel periodo successivo 2006-2009. Fig. 24 - Distribuzione degli infortuni tra imprese portuali. Anno 2008 Altre imprese portuali 13,5% ICO Blg 1,5% MCT 85,0% Fonte: elaborazione Isfort si dati AP Gioia Tauro Tab. 3 - Operazioni portuali. Tasso incidenza infortuni. Anno 2008 Imprese portuali Terminal container Infortuni (v.a.) Totale Tasso incidenza infortuni* 113 550 20,5 2 49 4,1 Terminal automotive Altre imprese portuali** Addetti operativi (n°) 18 87 20,7 133 686 19,4 * n° infortuni ogni 100 addetti ** il n° di addetti operativi è relativo a due sole imprese ex art. 16 anche se le imprese coinvolte sono state 4; tuttavia la gran parte degli infortuni è accaduta agli addetti di tali imprese impiegati in via prevalente se non assoluta alla movimentazione di container Fonte: elaborazione Isfort su dati vari, 2010 129 Il Porto di Gioia Tauro in sintesi(1) Traffici 1. 2. 3. 4. Traffici (distribuzione % tonn.) Traffici Liner Container 96% Rinfuse liquide 2% RO-RO 1,5% Rinfuse solide 0,5% 100% Non-liner 0% Imprese portuali Impresa art. 17 N. imprese art. 16+16bis(2) 7 N. imprese art. 18(3) 2 Concessioni: durata min e max 30-50 Forza lavoro Addetti Imprese Portuali 1.359 Di cui addetti Imprese art. 18 1.140 Addetti(4) Impresa art. 17 Operations Livello diffusione Appalti Medio Quota lavori appaltati 30% Banchina pubblica Quota traffico banchina pubblica 1-2% 1) Dati al 2008 per depurare le informazioni dal fenomeno distorsivo della crisi 2) Escluse dal computo le imprese art. 16 che sono anche concessionarie (art. 18) 3) Sono esclusi i terminalisti addetti al traffico di rinfuse liquide 4) Soci + dipendenti Presente Assente Dato non pervenuto LEGENDA: Fonte: Indagine Isfort 2010 PORTO DI NAPOLI ISTANTANEA DEL PORTO. Seconda marineria d’Italia e tra i primi scali del Paese a poter vantare al suo interno un’impresa terminalista, il Porto di Napoli ha anticipato i contenuti della riforma portuale aprendo ai privati già negli anni Cinquanta quando la De Luca & C. Srl entrò nello scalo campano con un servizio, tuttora attivo, di terminal traghetti. 130 Oggi lo scalo movimenta quasi 20 milioni di tonnellate di merce più o meno equi-ripartite tra merci in entrata e merci in uscita (c’è una prevalenza di traffico in entrata) e poco meno di 400mila TEU 48 . Il 60% delle merci in entrata si configura come traffico di linea, mentre il medesimo volume delle merci in uscita (60%) è il risultato del traffico non di linea. Negli ultimi 10 anni, il traffico liner è cresciuto mentre è rimasto stabile quello non liner. In quanto ai mercati di origine e destinazione, il traffico RO-RO si esaurisce tutto all’interno dell’ambito nazionale, le rinfuse liquide sono movimentate anch’esse all’interno del bacino nazionale (85%) o mediterraneo (15%) e le rinfuse solide ed altre merci varie (cellulosa, ecc.) provengono e sono destinate a mercati extraeuropei, nello specifico il 20% in Estremo Oriente e l’80% nel resto del mondo. All’interno dello scalo, oltre all’impresa art. 17 (la Coop Culp Srl) sono attive 7 imprese terminaliste 49 (nel numero è compreso il terminal traghetti per il trasporto di passeggeri da e per le isole minori) e 19 imprese art. 16. Dei 7 terminal, 2 sono dedicati al traffico di legnami e cellulosa, 2 a quello di prodotti cerealicoli e 3 al containerizzato (di cui 2 specializzati nel traffico lo-lo presso il Molo Bausan e Flavio Gioia e 1 specializzato nel traffico RORO presso il Molo Bausan). Nel porto, oltre al piazzale ferroviario (anch’esso area pubblica), è disponibile per le imprese che non dispongono di un terminale in concessione, un’area adibita a banchina pubblica che tuttavia viene poco utilizzata visto che movimenta una quota marginale del traffico complessivo. FORZA LAVORO. Secondo i dati forniti dalla Autorità portuale, lavorano all’interno dello scalo campano 837 addetti: 276 dipendenti delle imprese autorizzate ad operare in porto come art. 16, 465 dipendenti dei terminalisti (art. 18) e 96 tra soci e dipendenti dell’impresa art. 17 che rappresentano il pool di lavoro temporaneo. Sull’andamento dell’occupazione i dati a disposizione sono scarsi 50 . Tuttavia è stato possibile osservare nel decennio 2001-2010 un incremento dell’occupazione nel terminal container dove è in sostanza raddoppiata e, contestualmente, il calo del numero di ore uomo avviate al lavoro da parte dell’Impresa Compagnia Portuale. Da 30mila turni registrati nel 2001, il 48 Dati al 2008. Compagnia Marittima Meridionale, CO.NA.TE.CO. Spa, Magazzini Generali Spa, Silos Napoli Srl, SO.TE.CO. Srl, TFG Spa, Terminal Traghetti Napoli Srl (RO-RO). 50 Si dispone dei soli dati sull’occupazione del terminal contenitori e della Compagnia Unica Lavoratori Portuali (CULP). 49 131 pool di lavoro temporaneo è sceso a 15mila nel 2009: la scelta del terminalista addetto ai container di raggiungere un’autonomia operativa ha avuto ripercussioni pesanti sulla Impresa Compagnia Portuale 51 sebbene non sia stato l’unico elemento a cagionare tale flessione. Il rapporto di lavoro che caratterizza gli addetti del terminal contenitori è l’assunzione a tempo indeterminato. Tanto nel quinquennio 2001-2005 quanto nel successivo 2006-2010, tale tipologia di rapporto è cresciuta all’interno della società. Mentre presso la Compagnia Unica Lavoratori Portuali, gli addetti sono per il 79% soci e per il restante 21% dipendenti a tempo indeterminato. Il numero dei lavoratori assunti a tempo indeterminato è rimasto stabile tra il 2001 e il 2010, mentre sono diminuiti i contratti a tempo determinato (tra il 2001 e il 2005) e il ricorso al lavoro interinale tra il 2006 e il 2010. In entrambe le imprese, il contratto applicato è il CCNL portuali. MODELLO ORGANIZZATIVO. Nello scalo napoletano, escludendo il terminal container che ha una operatività completamente autonoma, la distribuzione della forza lavoro tra imprese terminaliste – 82 addetti per 6 imprese (una media di circa 13 addetti per unità aziendale) – e imprese art. 16 e art. 17 (372 addetti) è sicuramente indicativa del modello operativo adottato nello svolgimento delle operazioni portuali. Le imprese terminaliste tendono ad appaltare abbastanza frequentemente parte del proprio ciclo operativo ad altre imprese art. 16 e 18 e molto spesso ad imprese art. 16bis. Nel primo caso il volume del lavoro appaltato oscilla tra il 50 e il 70% delle attività svolte in porto, nel secondo caso rappresenta meno del 30% della mole complessiva. La specializzazione richiesta nello svolgimento dell’appalto è, in generale, di medio livello. Il ricorso al pool di lavoro temporaneo permane per la gran parte dei traffici tradizionali – soprattutto per il RO-RO – sebbene ruolo e occupazione risultino via via più marginali. La CULP mantiene rapporti di lavoro continuativi con i traghetti ed ha uno spazio privilegiato di lavoro nella 51 Fino al 2004 il ricorso alla Cassa Integrazione Guadagni da parte dell’impresa art. 17 è stata saltuaria e di lieve entità: in sostanza finché il terminal contenitori si è avvalsa del pool di lavoro temporaneo assorbendo circa il 50-60% del personale della ex Compagnia per quest’ultima non ci sono stati particolari problemi di tenuta dell’occupazione. Dal 2004, quando il terminal contenitori ha cominciato a strutturarsi con proprio personale oggi la società opera in totale autoproduzione –, sono iniziate le difficoltà che si sono accentuatesi nell’aprile 2007 quando il pool ha cessato di lavorare alla movimentazione dei container. 132 movimentazione di cellulosa proveniente da Nord Europa e Canada 52 . Altamente specializzati per tale tipologia di carico, la CULP è dotata di mezzi all’avanguardia (fork lift e pinze di dimensioni sempre maggiori) e copre per intero il ciclo operativo. Fino a quando è riuscita a mantenere un ruolo anche nel ciclo a banchina del segmento container, è stato possibile allontanare lo spettro della Cassa Integrazione Guadagni. Ma, al contrario di Genova, l’intento di lavorare esclusivamente con personale interno nel segmento container a Napoli si è già realizzato: il terminal contenitori, che movimenta la quasi totalità del containerizzato nello scalo napoletano e che in precedenza assorbiva il 5060% del pool di lavoro temporaneo, ha ampliato progressivamente l’organico raggiungendo nel 2007 una completa autonomia operativa che ha reso non più necessario l’impiego del pool di lavoro temporaneo in banchina. Negli ultimi due anni il lavoro dei prestatori di lavoro temporaneo è stato assorbito per il 60% dal segmento RO-RO, per il 30% dalle merci varie e per il restante 10% dalle rinfuse solide. Sono i terminalisti i principali utilizzatori del lavoro temporaneo in porto (assorbono l’80% della forza lavoro, le imprese art. 16 solo un 20%) che per il 90% è rappresentato da soci e dipendenti dell’impresa art. 17 e per meno del 10% da lavoratori interinali 53 . L’IMPATTO DELLE NUOVE TECNOLOGIE. In generale l’impatto delle nuove tecnologie è stato giudicato dagli intervistati sostanzialmente rilevante. Ha incrementato la produttività e ha comportato tanto la sostituzione di una parte consistente del lavoro umano – incidendo in modo particolare sull’organico dell’impresa art. 17 – quanto una ridefinizione di ruoli e funzioni. Questo è accaduto soprattutto nei traffici tradizionali – in modo particolare nel RO-RO –, mentre nel traffico container, l’impatto sembrerebbe essere stato meno incisivo sulla forza lavoro e ancor meno sull’incremento dei traffici, ma particolarmente significativo nel rivedere l’articolazione di ruoli e funzioni. L’offerta di nuove strumentazioni tecnologiche ha determinato l’innalzamento degli standard formativi in materia di high tech: per alcune figure professionali – in particolare carrellisti, gruisti e pesatore con obblighi doganali – la componente tecnologica è divenuta parte integrante e fondamentale della formazione di base. 52 I carichi di cellulosa provengono dalle foreste del Nord Europa (Norvegia), ma anche da Argentina e Canada. Lo stoccaggio avviene in porto, poi la cellulosa viene smistata in tutta Italia (Sora è la destinazione più vicina) su gomma. 53 Per il lavoro interinale si ricorre alla Agenzia Intempo (sede principale a Livorno). 133 Fig. 23 - Modello Napoli. Stralcio dei rapporti funzionali in banchina Napoli T1 Interinali T2 IS1 T3 IS2 …….. …. Tn ISn I.art. 17 Terminal Container Fonte: Indagine Isfort 2010 LA FLESSIBILITÀ. Per le merci containerizzate il livello di programmabilità delle attività portuali è giudicato medio dagli addetti ai lavori: la comunicazione dei turni ai dipendenti è di tipo mensile, la variazione di turno abbastanza frequente, comunicata al lavoratore il giorno prima e il ricorso alle ore di straordinario incide tra il 6 e il 20% sul totale delle ore lavorate in un mese. Non ricorrendo da alcuni anni a questa parte al lavoro temporaneo in porto, la flessibilità delle attività portuali viene completamente assorbita e risolta dal personale interno. 134 Nel traffico RO-RO, invece, il livello di programmabilità delle attività viene giudicato abbastanza elevato, sebbene il livello di attendibilità possa andare soggetto a variazioni da un armatore all’altro. La comunicazione dei turni ai dipendenti è settimanale, le variazioni di turno sono sporadiche e comunicate il giorno prima. Lo stesso straordinario risulta abbastanza contenuto: è inferiore al 5% del totale delle ore lavorate. In quanto al pool di lavoro temporaneo, la sua organizzazione interna del lavoro per far fronte alla variabilità della domanda risulta meno scomoda per i lavoratori di quanto accada in altri porti: la comunicazione dei turni è giornaliera ma la variazione di turni è bassa perché il lavoro è stato armonizzato sulle esigenze del traffico traghetti che presenta orari certi ed assorbe il 60% di forza lavoro nell’ambito del pool di lavoro temporaneo anche se il traffico di merci varie, che presenta un più elevato tasso di aleatorietà, assorbe circa un terzo della forza lavoro del pool. In linea generale le variazioni turno vengono comunicate il giorno prima e il ricorso allo straordinario risulta piuttosto sporadico per i motivi poc’anzi citati. Gli addetti in carico alla CULP lavorano infatti a turni continui (4 turni h24) e lo straordinario scatta raramente – ad esempio quando la nave è da finire – e comunque in genere le ore di straordinario incidono meno del 5% sulle ore lavorate nel mese. I motivi che inducono le imprese portuali a ricorrere al lavoro temporaneo sono principalmente l’insufficienza di personale dipendente rispetto ai picchi di domanda e la convenienza economica per il terminalista. PROFESSIONALITÀ E FORMAZIONE. E’ all’esperienza che si guarda più che al titolo di studio ed è proprio l’esperienza, secondo gli intervistati, la principale determinante in base alla quale i terminalisti tendono a selezionare i lavoratori in porto. Accanto alla competenza tre sono gli altri criteri di scelta prevalenti: la convenienza economica per l’impresa terminalista, l’abilità del lavoratore nell’uso di strumentazioni e tecnologie informatiche e il livello di specializzazione. Carrellisti e gruisti ma anche il manutentore di mezzi meccanici sono le figure professionali di più difficile reperimento sul mercato che risulta carente di operai specializzati. In quanto all’istruzione, all’interno delle imprese terminaliste il livello di conoscenza è più elevato rispetto a quanto registrato nelle altre imprese. Negli organici dei concessionari la presenza di lavoratori con licenza media è prevalente; in seconda battuta il gruppo più nutrito risulta essere quello dei lavoratori con diploma e tra i profili ricercati primeggiano i laureati e diplomati. Nelle altre imprese, si rileva invece una maggiore concentrazione di personale dotato di licenza elementare, quindi con l’attestato di licenza media. 135 In linea generale, la formazione professionale dei lavoratori portuali viene ritenuta sufficiente/discreta dagli intervistati. Tendenzialmente sono le stesse imprese portuali a formare “sul campo” i propri lavoratori. Nel caso dell’impresa art. 17, anche gli interinali vengono sottoposti a formazione prima di essere inviati in banchina a lavorare ma si tratta di una formazione generica. Formare un profilo specializzato costa e i lavoratori saltuari, poiché vengono chiamati sporadicamente, non vengono specializzati (tanto che non vengono avviati di fatto all’uso di mezzi meccanici). APPLICAZIONE DEL CCNL PORTUALI. Stando alle dichiarazioni degli intervistati, a tutti i dipendenti che operano all’interno dello scalo viene applicato il CCNL portuali. Risulta, tuttavia, mancare un’azione puntuale di controllo, programmata e costante, da parte dell’Autorità portuale deputata alla verifica dell’applicazione del CCNL portuali o di contratti equipollenti. I controlli risultano infatti saltuari e sporadici. In merito agli effetti prodotti dall’applicazione del CCNL portuali, secondo gli intervistati ha prodotto risvolti positivi per porto, imprese, lavoratori. Semmai è risultato “troppo” unico nel senso che la varietà di traffici e di lavoro avrebbe necessitato di contratti più specifici, meglio modulati sulle esigenze anche organizzative di ogni segmento di traffico. Tuttavia, anche se agli inizi, il CCNL portuali non ebbe un’accoglienza ampiamente favorevole, ma per i lavoratori portuali ha rappresentato un elemento di indiscussa positività. La contrattazione di 2° livello sembra piuttosto diffusa tra le imprese portuali dello scalo campano. Nel segmento container tende ad integrare la contrattazione collettiva solo per alcuni settori e con un peso che si aggira, rispetto alla retribuzione complessiva degli addetti, intorno al 30%. Nel resto dei traffici appare ampiamente diffusa, ma la sua incidenza sulla contribuzione totale appare anche molto discordante: secondo gli intervistati può essere marginale (inferiore al 10% della retribuzione complessiva) ma raggiungere anche il 50%. GLI EFFETTI DELLA L. 84/94. Il giudizio degli intervistati in merito agli effetti prodotti dalla legge di riforma del sistema portuale si presenta ampiamente eterogeneo sebbene si rinvenga uniformità di vedute su un elemento non secondario. Secondo alcuni la L. 84/94 ha rappresentato un successo sotto tutti i profili: economico, giuridico e dell’organizzazione del lavoro. Secondo altri ha prodotto, invece, un clamoroso insuccesso. Chi ne ha dato un giudizio positivo, ha addotto quale principale buon risultato la revisione che la norma ha comportato sul modello interno di organizzazione in porto con effetti vantaggiosi anche per la competitività dello scalo. Chi ne ha dato invece un giudizio negativo ha identificato la principale 136 defaillance della legge con la mancanza di decreti attuativi che avrebbero dovuto portare ad un’applicazione della norma univoca in tutti gli scali. Ma l’elemento che raccoglie la critica condivisa da ambo le parti, riguarda proprio il tema del lavoro in porto. La mancanza di equilibrio e di strumenti di controllo dell’utilizzo del lavoro all’interno dello scalo e delle assunzioni all’interno delle imprese è la principale critica mossa alla riforma dagli intervistati. A Napoli gli operatori hanno percepito l’assenza di controllo del mercato del lavoro, di un regolamento per l’esercizio d’impresa all’interno dello scalo e, più in generale, di un coordinamento delle attività portuali da parte dell’Authority. Tuttavia, la legge di riforma ha raggiunto alcuni degli obiettivi che si era preposta. L’apertura ai privati ha portato nello scalo napoletano sicuramente un processo di rinnovamento dei mezzi meccanici e dei cicli operativi attraverso l’introduzione di innovazioni tecnologiche. Con i privati lo scalo ha raggiunto anche migliori condizioni di lavoro ed una qualità dei servizi più elevata dovuta prevalentemente alla competenza e professionalità sia delle imprese che degli addetti. E’ venuto, invece, a mancare proprio il supporto della parte pubblica. L’apporto alla competitività del porto da parte dell’Autorità portuale dell’autorità fitosanitaria è stato giudicato indifferente. L’applicazione della legge di riforma ha comportato una ridefinizione delle tariffe dei servizi e delle operazioni portuali, che sono tendenzialmente aumentate dal 2001 ad oggi (meno nel quinquennio 2006-2010). SICUREZZA. Nel Porto di Napoli non esiste un’attività di monitoraggio statistico sulla sicurezza sul lavoro all’interno dello scalo. Per colmare il vuoto informativo l’Autorità portuale ha deciso di avviare, a partire dal 2011, un progetto di ricognizione statistica sull’evento infortunistico come accade in altri (pochi per la verità) porti italiani. I pochi dati disponibili sugli infortuni complessivi in porto raccontano di 55 infortuni accaduti nel 2008 nei principali 3 terminal dello scalo campano e di 53 nel 2009. Le determinanti dell’incidente sono riconducibili secondo l’Autorità portuale alla disattenzione del lavoratore. I luoghi dell’accadimento sono quelli canonici dove vengono svolte le operazioni portuali: piazzale, nave e bordo banchina. Nel segmento container il numero di incidenti mostra un andamento crescente che non sembrerebbe legato al crescere del traffico e degli addetti. Nel quinquennio 2001-2005 il tasso di incidenza è risultato pari a 10, vale a dire ogni 100 addetti si sono verificati 10 incidenti in media all’anno; nel quinquennio successivo – 2006- 137 2010 – l’indice di incidenza è salito a 13 e contemporaneamente si è registrato anche un innalzamento del numero medio di ore di assenza per infortunio in un anno passate da 155 a 165 ore. Un andamento analogo si riscontra nel lavoro temporaneo. Tra i lavoratori avviati dall’impresa art. 17 il tasso di incidenza è aumentato passando nell’arco del decennio da 0,037 incidenti ogni 100 ore uomo avviate al lavoro (2001-2005) a 0,046 (2006-2009), così come è aumentato il numero medio di ore di assenza dal lavoro per infortunio passate da 30 a 34. 138 Il Porto di Napoli in sintesi(1) Traffici Traffici (distribuzione % tonn.) Traffici 1. RO-RO 33% 2. Rinfuse solide 24% 3. Rinfuse liquide 22% 4. Container 22% Liner 51% Non-liner 49% Imprese portuali Impresa art. 17 N. imprese art. 16+16bis(2) 19 (3) N. imprese art. 18 7 Concessioni: durata min e max Forza lavoro Addetti Imprese Portuali 741 Di cui addetti Imprese art. 18 465 (4) Addetti Impresa art. 17 96 Operations Livello diffusione Appalti Medio Quota lavori appaltati 40% Banchina pubblica Quota traffico banchina pubblica 1) 2) 3) 4) <10% Dati al 2008 per depurare le informazioni dal fenomeno distorsivo della crisi Escluse dal computo le imprese art. 16 che sono anche concessionarie (art. 18) Sono esclusi i terminalisti addetti al traffico di rinfuse liquide Soci+dipendenti LEGENDA: Presente Assente Dato non pervenuto Fonte: Indagine Isfort 2010 139 PORTO DI GENOVA ISTANTANEA DEL PORTO. Il porto di Genova ha avuto un ruolo importante e, spesso, dirompente nelle vicende della portualità nazionale. Porto “precursore”, è stato il primo scalo ad essere privatizzato in Italia e ad accogliere al suo interno la figura del terminalista. La sua storia è anche la storia della Compagnia Unica Paride Batini, una Compagnia che ha avuto grande influenza sugli equilibri sociali sia all’interno che all’esterno del porto genovese quando le vicende del porto erano le vicende della città stessa. Oggi l’influenza dello scalo sul contesto cittadino pare vada attenuandosi. Le nuove generazioni non sembrano riconoscersi come in passato in tale realtà, né tendono a “mitizzarla”. E la storica Compagnia, vuoi per il processo di liberalizzazione cui la riforma ha dato voce, vuoi per l’avanzare dei processi di automazione del lavoro portuale, ma anche per un contesto di mercato sfavorevole che spinge le imprese terminaliste a sperimentare forme nuove di organizzazione del lavoro, ha ceduto alla trasformazione assumendo il ruolo di somministratore di lavoro temporaneo (impresa art. 17). In quanto ai traffici, dopo la flessione del 2009 (-12,5%), il loro volume è tornato a crescere nel principale scalo ligure. Nel 2010, lo scalo ha movimentato 50 milioni di tonnellate di merce complessiva – il 70% dei traffici in entrata, il 30% in uscita – facendo registrare un incremento del 6,8% sull’anno precedente. Anche il traffico container è cresciuto del 13,3% arrivando ad una movimentazione di 1,7 milioni di TEU che sfiora il movimentato del periodo pre-crisi. All’interno dello scalo, le imprese che hanno in concessione un terminal per la movimentazione di merce 54 sono 11 e 12 sono le imprese autorizzate a svolgere operazioni e servizi portuali. Di quest’ultime 3 sono autorizzate allo svolgimento dei servizi portuali e 9 allo svolgimento delle operazioni portuali. Oltre alle imprese portuali artt. 16 e 18, opera all’interno dello scalo l’impresa art. 17, la Compagnia Unica Lavoratori Merci Varie Paride Batini s.c.r.l autorizzata alla fornitura, in via esclusiva, di lavoro portuale temporaneo alle imprese autorizzate di cui agli artt. 16 e 18 per l’esecuzione delle operazioni e dei sevizi portuali nel porto di Genova. 54 Sono stati esclusi dal computo le imprese concessionarie di aree demaniali e banchine dedicate a depositi e stabilimenti di prodotti petroliferi e chimici allo stato liquido e le imprese autorizzate allo svolgimento del ciclo operativo di prodotti liquidi alla rinfusa ad uso alimentare. 140 Nel porto non è disponibile alcuna banchina pubblica e le imprese che non dispongono di un proprio terminal in concessione, espletano i propri servizi soprattutto all’interno di banchine in concessione di imprese art. 18. FORZA LAVORO. I lavoratori impiegati in porto nel 2009 sono 3.260, di cui 2.181 fanno parte dell’organico delle imprese portuali e i restanti 1.079 fanno riferimento alle Imprese Compagnie portuali di cui 990 sono i lavoratori in organico al pool. Dei 990, il 98% è rappresentato dai soci lavoratori e il 2% da lavoratori interinali avviati al lavoro dall’art. 17. Dal 2001 al 2009 nelle imprese l’andamento complessivo degli addetti è cresciuto, ma disaggregando il dato tra imprese portuali e Imprese Compagnie si osserva che nel caso delle prime l’incremento è stato del 35%, nel caso delle seconde la forza lavoro è rimasta presso che stabile facendo registrare un lieve incremento del 2%. In particolare per il pool di lavoro temporaneo tra il 2006 e il 2010 si è registrata una flessione nel ricorso agli interinali. L’occupazione nel segmento container è cresciuta sopra la media: una delle imprese che movimenta il containerizzato è cresciuta del 40%. MODELLO ORGANIZZATIVO. A Genova le imprese portuali (artt. 16 e 18) si avvalgono per lo svolgimento delle attività relative al proprio ciclo operativo dell’organico interno e del pool di lavoro temporaneo, mentre non risulta diffusa la pratica di appaltare parte del ciclo operativo ad altre imprese portuali stando a quanto riportato dagli intervistati fatta eccezione per le prestazioni specialistiche 55 . L’Impresa Compagnia Portuale presta lavoro temporaneo in diversi segmenti di traffico: partecipa, infatti, a tutti i cicli con l’eccezione delle rinfuse solide e liquide. Nello specifico il segmento dei container assorbe il 58% degli avviamenti, il segmento dei RO-RO il 26% e le merci varie il residuale 16%. Quasi l’80% del lavoro del pool ha come destinatarie le imprese terminaliste (che operano anche come art. 16), mentre il restante 21% viene assorbito dalle imprese di servizi (art. 16). Nonostante sia inserita nei processi produttivi di diversi terminalisti, ha visto diminuire progressivamente gli avviamenti. Alla base del minore impiego del pool di lavoro temporaneo si registra, da un lato, il ridimensionamento dei traffici che ha spinto le imprese terminaliste ad una maggiore autosufficienza operativa attraverso l’introduzione di forme di razionalizzazione dei processi 55 Si tratta di prestazioni che il pool di lavoro temporaneo non effettua riconducibili all’utilizzo di mezzi speciali, trasporti eccezionali, pulizie contenitori, raccolta di legname in magazzino, ecc.. Più in generale si tratta di servizi complementari o accessori al ciclo produttivo in banchina. 141 operativi e l’impiego “spinto” del personale dipendente; dall’altro, il tentativo di rimuovere rallentamenti in banchina che le modalità operative del pool di lavoro temporaneo, poco integrato all’organico del terminalista, sembrerebbe determinare all’interno del ciclo operativo aziendale, in particolare nel segmento container. Per un ciclo nave – ferrovia - autotrasportatori, nel 2009 una delle principali società di movimentazione container ha impiegato 350 lavoratori diretti (h24) che hanno rappresentato l’80% della forza lavoro in campo; il restante 20% è stato reperito presso la Compagnia Unica, attraverso il lavoro a chiamata. Prima della crisi il 60% della forza lavoro era diretta e il 40% a chiamata. Si è registrata, dunque, una riduzione del lavoro a chiamata a fronte in un aumento del numero dei movimenti: è migliorata l’efficienza del lavoro (da 17-18 movimentati/ora a 22) svolto dai dipendenti dell’impresa grazie alla polivalenza dei lavoratori diretti, in grado di coprire tutto il ciclo produttivo e alla diversa organizzazione delle modalità di ricezione della merce che ha visto non più un lavoro di carico/scarico in contemporanea su più navi, ma la lavorazione di una nave per volta. Il risultato è stato quello, non solo di evitare la CIG, ma anche di poter assumere a tempo indeterminato un numero importante di lavoratori a tempo determinato. Nel 2010 nonostante la ripresa dei volumi, l’impiego del pool si è ridotto (se si fa eccezione per un incremento anche importante di avviamenti nel segmento dei container). Grazie al crollo dei noli, i terminalisti hanno potuto far attendere le navi in porto operando su una nave alla volta con l’impiego esclusivo di personale interno. Nei piccoli terminal adibiti alla movimentazione di metalli, frutta o merci varie dove attracca una nave a settimana, è stato impiegato il personale interno in un doppio turno (2 giornate) lasciandolo a casa nei giorni a seguire. Nei primissimi mesi del 2011, tuttavia, almeno nel segmento container sembra registrarsi un incremento di chiamate per il pool di lavoro temporaneo per un inatteso quanto consistente incremento del traffici (Fig. 24). L’IMPATTO DELLE NUOVE TECNOLOGIE. L’introduzione di nuovi sistemi informatici e l’evoluzione tecnologica dei mezzi hanno, secondo parte degli intervistati, avuto un effetto importante sulla rimodulazione dei ruoli e delle funzioni dei lavoratori portuali, ma non avrebbe comportato una sostituzione davvero rilevante della componente di lavoro umana, almeno per quanto attiene al containerizzato dove, nell’ambito delle attività di accettazione documentazioni e gate, esistono ancora spazi di applicazione della tecnologia, di fatto, non applicata per tutelare posti di lavoro. 142 Diversa l’opinione dell’art. 17 che avrebbe registrato proprio nel containerizzato una flessione di chiamate al lavoro. Semmai, in tale segmento di traffico, il fattore high-tech avrebbe influito, in termini di incremento, sull’entità dei flussi in entrata e in uscita dal Porto di Genova. Laddove, nel traffico RO-RO, l’effetto sarebbe risultato nullo sia sotto il profilo di sostituzione del lavoro umano che sotto il profilo dell’intensificarsi dei traffici. Guardando all’impatto delle tecnologie sulla formazione delle figure professionali, gli esiti di maggiore rilevanza si registrano a carico dei carrellisti, gruisti, spuntatori e planner per i quali la conoscenza delle componenti high-tech di base è divenuta imprescindibile per poter lavorare in porto. Fig. 24 – Modello Genova. Stralcio dei rapporti funzionali in banchina Genova T1 T2 T3 Interinali I.art. 17 IS – Prest.ni specialistiche …….. Tn LEGENDA T=terminalista; IS=impresa servizi (art. 16); =presenza banchina pubblica Fonte: Indagine Isfort 2010 LA FLESSIBILITÀ. Per le merci containerizzate la programmabilità delle attività portuali è giudicata di medio livello dagli operatori, mentre per il traffico traghetti è ritenuta elevata. La programmazione del lavoro del personale dipendente risente, tuttavia, anche del maggiore o minore ricorso al lavoro temporaneo. Laddove il ricorso al pool di lavoro temporaneo è sistematico e la programmabilità dei traffici abbastanza elevata, il terminalista ha potuto concedersi una comunicazione turni annuale: in questi casi le variazioni di turno possono essere abbastanza frequenti e vengono comunicate al dipendente qualche ora prima, mentre il ricorso alle ore di straordinario incide, in media, nella misura del 10%. Laddove, invece, il ricorso al pool di lavoro temporaneo risulterebbe, 143 sebbene costante, più variabile in termini di forza lavoro impiegata, la comunicazione dei turni è giornaliera, le variazioni turno molto rare, ovviamente, e comunicate il giorno prima (regime flex). Il ricorso allo straordinario incide in questo caso meno del 5%. La flessibilità del lavoro, in questo modo, viene in buona parte gestita all’interno dell’impresa terminalista e la flessibilità delle attività portuali viene completamente assorbita e risolta dal personale interno. In questo caso l’organizzazione interna del lavoro – prendendo a riferimento il segmento container – si può presentare articolata secondo il seguente schema: - i dipendenti operativi lavorano “h24” per 36 ore settimanali (+1 ora di vestizione indumenti) e svolgono 6 turni jolly non programmati (con chiamata poche ore prima) più una settimana di flessibilità (il lavoratore chiama il numero verde per sapere a quale turno è assegnato); - i dipendenti che non partecipano al ciclo operativo bensì al ciclo documentale/amministrativo lavorano “38h” settimanali. Per il pool di lavoro temporaneo gli effetti della flessibilità della programmazione sull’organizzazione interna del lavoro danno luogo ad esiti ben diversi, in linea con quanto registrato a carico delle imprese art. 17 negli altri scali esaminati. La comunicazione turni infatti è giornaliera, le variazioni di turno molto frequenti e comunicate qualche ora prima. Al pool di lavoro temporaneo le imprese portuali si rivolgono principalmente per l’insufficienza del personale interno rispetto ai picchi della domanda o perché si trovano a gestire l’arrivo contemporaneo di un numero elevato di navi. A volte il lavoro temporaneo serve a supplire la difficoltà delle compagnie di navigazione a programmare sbarchi e imbarchi e, ma ciò accade di rado, per l’incompatibilità della programmazione di lungo periodo con le caratteristiche del trasporto marittimo. Non accade mai, a differenza di quanto registrato in altri porti, che il terminalista ricorra al lavoro temporaneo per una propria convenienza economica. PROFESSIONALITÀ E FORMAZIONE. La disponibilità/flessibilità su turni e mansioni è il principale criterio di selezione del personale da parte delle imprese terminaliste. Solo in seconda battuta si tiene conto nel processo di valutazione del lavoratore della affidabilità e della multi professionalità. Caposquadra, operaio portuale (vale a dire operaio con attestazione di qualifica di lavoratore portuale) e operaio polivalente sono i profili di più difficile reperimento sul mercato, mentre i gruisti lo sono tra le figure professionali. Per questo motivo, ma anche per una accorta politica delle risorse umane, si tende ad investire sui dipendenti privilegiando la crescita interna: i caposquadra sono formati tra i dipendenti dell’impresa (non solo 144 perché sono difficili da reperire fuori) così come i planner provengono spesso dal pool operativo. Il ruolo di ship-planner (ideale se il lavoratore ha un passato da marittimo) o di dispatcher, così come di capo-turno, è spesso assegnato ad ex operai dipendenti dell’impresa. In quanto al livello di istruzione, negli organici delle imprese terminaliste addette alla movimentazione di container e RO-RO si registra una prevalenza di lavoratori diplomati, sia presso gli istituti professionali che presso gli istituti secondari superiori. Sebbene il livello di istruzione interno venga ritenuto sufficiente ma anche discreto dagli intervistati, i terminalisti tendono a ricercare sul mercato profili di istruzione leggermente più elevati. L’orientamento è quello di consolidare all’interno dell’azienda la presenza di lavoratori in possesso di diploma di istruzione secondaria superiore e di avvalersi, in misura maggiore rispetto all’attuale, di lavoratori laureati. In particolare, lo spostamento del ciclo operativo sempre più verso elementi tecnologici richiederà per i container l’impiego di un numero crescente di laureati/diplomati. APPLICAZIONE DEL CCNL PORTUALI. Nel Porto di Genova il CCNL portuali viene generalmente applicato con l’unica eccezione dei lavoratori della Impresa Compagnia Portuale che hanno adottato dapprima un regolamento interno (con retribuzioni e premi di risultato a giornata equiparabili per valori a quanto stabilito dal Contratto dei lavoratori portuali), più recentemente il nuovo contratto di lavoro portuale temporaneo che rappresenta una formalizzazione del precedente regolamento interno. I dipendenti delle imprese intervistate usufruiscono del Contratto dei lavoratori portuali sulla cui applicazione – o sull’applicazione di contratti equipollenti – vigila l’Autorità portuale che, tuttavia, sembra mancare di un’azione di controllo costante e puntuale effettuando, stando alle dichiarazioni degli intervistati, controlli sporadici e saltuari. I giudizi espressi dagli operatori sui risultati che derivano dall’applicazione del Contratto dei lavoratori portuali sono piuttosto divergenti. Se le conseguenze della sua applicazione sono riconosciute in generale come positive per i lavoratori, sulle imprese e sulla competitività del porto hanno avuto esiti da positivi ad indifferenti. Secondo l’opinione espressa da alcuni dei terminalisti intervistati, sulle imprese il contratto ha inciso molto in termini di costi, soprattutto di costi indotti, e sull’orario di lavoro; non potendo infatti richiedere al lavoratore oltre un certo numero di domeniche al lavoro, e considerando che gli amministrativi lavorano 38h settimanali (turni giornalieri senza notte) e gli h24 36h settimanali (ad es. in control room lavorano h24), viene richiesto all’impresa un notevole dispendio economico per coprire turni di lavoro domenicale che, ad esempio, 145 avrebbero avuto copertura quasi totale con sole 38h settimanali per gli h24. La contrattazione di 2° livello sembra invece piuttosto diffusa e nel segmento container tende ad integrare la contrattazione collettiva con un peso che si aggira, rispetto alla retribuzione complessiva degli addetti, tra il 20 e il 30%. GLI EFFETTI DELLA L. 84/94. Il giudizio degli intervistati in merito agli effetti prodotti dalla legge di riforma del sistema portuale si presenta abbastanza concorde. In linea generale la L. 84/94 ha rappresentato nel Porto di Genova un successo solo parziale. Pur dando vita a nuovi modelli di governance, nei fatti non è riuscita a scardinare i modelli di organizzazione interna preesistenti, né ha supportato i porti nel necessario processo di rinnovamento. Piuttosto, secondo alcuni intervistati, sembrerebbe aver concorso ad agevolare gli interessi economici dei gruppi privati dello shipping portuale locale. Il risultato è stato indebolito da decreti attuativi che hanno lasciato un eccesso di spazio interpretativo ai singoli porti producendo interpretazioni e nuovi assetti piuttosto difformi gli uni dagli altri. Tuttavia, ha avuto il merito di rendere più flessibile il lavoro portuale con ripercussioni positive sul livello di competitività degli scali nazionali, anche se tale posizione non è condivisa da tutti gli intervistati. Andrebbe, nondimeno, rivisitata. Totalmente secondo il giudizio di alcuni intervistati, parzialmente – nella parte che attiene alla regolamentazione delle imprese artt. 16 e 17 (ampliamento delle funzioni dell’art. 17) – secondo quello di altri. Tuttavia, la legge di riforma ha raggiunto alcuni degli obiettivi che si era preposta. L’apertura ai privati ha prodotto nello scalo genovese un processo di rinnovamento dei mezzi meccanici e dei cicli operativi attraverso l’introduzione di innovazioni tecnologiche. Con i privati lo scalo ha raggiunto migliori condizioni di lavoro, una occupazione più stabile ed una migliore qualità dei servizi grazie alla competenza e professionalità di imprese e addetti, ma anche al maggior numero di imprese in porto che ha prodotto maggiore concorrenza all’interno dello scalo. Sono tutti concordi nel fatto che è venuto, invece, a mancare proprio il supporto della parte pubblica. L’apporto alla competitività del porto da parte dei soggetti di parte pubblica è stato giudicato indifferente nel migliore dei casi, negativo in diversi altri: autorità fitosanitaria, dogana, pubblica sicurezza sono i soggetti che avrebbero più di altri disatteso le aspettative degli operatori. La liberalizzazione ha influito sulle tariffe dei servizi e delle operazioni portuali. Dal 2001 al 2005 sono tendenzialmente aumentate tutte le tariffe, in alcuni casi quelle legate alle operazioni portuali sono rimaste stabili; nel 146 quinquennio 2006-2010, sono rimaste stabili le tariffe dei servizi mentre quelle delle operazioni portuali sono parzialmente diminuite. La contrazione, in alcuni casi anche drastica delle tariffe, a seguito della crisi e più specificatamente alla riduzione dei noli, ha portato a rivalutare i servizi “accessori” (pratiche doganali, sosta, ecc.) che non hanno mai rappresentato il core business delle imprese terminaliste ma che in momenti di difficoltà ha consentito alle imprese di fare fatturato. La sosta, in particolare, soprattutto nel caso dell’import (quando superata una certa franchigia, la sosta va pagata) comincia a rappresentare non più un servizio marginale ma un servizio sempre più importante. Nel complesso con la liberalizzazione nel settore delle rinfuse alcuni operatori ritengono che si sia lavorato sottocosto (oggi si applica una tariffa normalizzata massima di riferimento). SICUREZZA. La Asl 3 Genovese 56 realizza dal 1996, attraverso la struttura territoriale Nucleo Operativo Porto Genova, un’attività di monitoraggio sullo stato di salute e sicurezza all’interno del porto. In particolare segue l’evoluzione degli incidenti nella movimentazione merci e lavora alla caratterizzazione delle determinanti del rischio infortunistico portuale. Le analisi statistiche sono state svolte da tale osservatorio sulle 25 imprese autorizzate allo svolgimento di operazioni e servizi portuali (per complessivi 2.504 addetti operativi 57 ). Come emerge dai dati forniti dalla Asl, tra il 2001 e il 2009 il numero di incidenti è complessivamente diminuito così come è accaduto per il tasso di incidenza 58 (Fig. 25). Si è peraltro attenuata, fino ad eliminarsi, la forbice tra il tasso di incidenza, ben più elevato, espresso dalle Compagnie portuali 59 (40/100 addetti nel 2001) e quello espresso dalle imprese autorizzate allo svolgimento di operazioni e servizi portuali (30/100 addetti) 60 . 56 Le Asl hanno mandato di promozione della salute e sicurezza del lavoro attraverso l’adozione di strumenti multidisciplinari dissuasivi (vigilanza, controllo, indagine) e persuasivi (informazione, formazione, assistenza, facilitazione). Come organo di vigilanza è titolare di funzioni ispettive e di poteri di polizia giudiziaria. 57 Sono esclusi gli impiegati d’ufficio. 58 Si tratta del numero di infortuni ogni 100 lavoratori addetti. Si calcola n° infortuni/n° lavoratori * 100. 59 Vale a dire la Compagnia Unica Paride Batini e la Pietro Chiesa. Quest’ultima ha una dotazione di 36 addetti operativi e lavora esclusivamente all’interno del terminal che movimenta rinfuse solide (principalmente carbone). 60 Le imprese portuali – artt. 16 e 18 – hanno dato lavoro a 1.480 addetti operativi nel 2008. 147 Fig. 25 - Andamento del numero di infortuni in porto 826 735 573 549 555 515 449 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 n° infortuni in operazioni portuali 1 infortunio mortale Fonte: elaborazione Isfort su dati ASL3 Genova 2010 Nel 2009 il tasso di incidenza si è attestato per entrambe le categorie (imprese artt. 16 e 18 e Compagnie) sui 20 infortuni ogni 100 lavoratori addetti. Il risultato è apprezzabile considerando che nel 2001 il tasso di incidenza a carico delle Compagnie toccava i 50 infortuni/100 addetti. Un numero che, pur considerando alcune distorsioni riconducibili ad infortuni lievi o “impropri”, appare significativamente elevato. Come il tasso di incidenza, anche l’indice di gravità semplice 61 è diminuito, sebbene abbia registrato nel 2009 un innalzamento passando da un valore medio di poco più di 3 giorni di sospensione dal lavoro per infortunio ogni 1000 ore lavorate nel 2008 a poco più di 4 nel 2009 62 . Le cause degli 61 L’indice di gravità semplice non contempla gli eventi mortali cui andrebbe attribuita convenzionalmente una numerosità di giornate di inabilità così elevata da non consentire di monitorare la gravità relativa degli altri eventi. 62 “La valutazione del rischio nel settore portuale: l’esempio genovese” di R. Carcassi in Convegno nazionale ISPESL “La scienza e la tecnica rendono sicuro il lavoro”, Genova, 2930 ottobre 2009. I dati presentati al convegno, relativi al periodo 1999-2008, sono stati aggiornati successivamente al 2009. 148 infortuni, nell’esperienza del Nucleo Operativo Porto Genova, sono riconducibili a quattro macrodeterminanti: ambiente nave, viabilità, interazione uomo a piedi/mezzo portuale (in cui è ricompresa la casistica incidentale determinata dai carichi sospesi) e stivaggio-immagazzinamento merce. Oltre alla mancanza di visibilità (soprattutto in retromarcia, per conformazione del mezzo o per presenza di un carico che ostruisce) per la quale servono soluzioni tecnologiche innovative, la risposta più efficace nel caso di infortuni imputabili al fattore viabilità e interazione uomo/mezzo rimane, secondo l’osservatorio, una procedura di lavoro standardizzata e ben organizzata che guardi però alla complessità del sistema portuale. Sulle banchine si muovono mezzi portuali e mezzi esterni guidati da autotrasportatori non avvezzi a muoversi all’interno di un porto (spesso sono i soggetti che subiscono l’evento), in forte interferenza tra loro. Il risultato è spesso l’incidente tra mezzi o l’investimento di lavoratori che si muovono a piedi nei confronti dei quali interviene anche un altro tipo di pericolo riconducibile ai carichi sospesi. Il fatto è che all’interno del porto operano soggetti che non sono tra loro vincolati da contratti riconducibili ad appalti o prestazioni d’opera: il passaggio della merce da un soggetto all’altro è scollegata dalla catena di responsabilità reciproca dei soggetti (tra autotrasportatore e terminal non intercorre alcun contratto che chiarirebbe ruoli e responsabilità, ma comunque l’autotrasportatore rimane un soggetto funzionale al ciclo operativo del terminal dal quale dipende nei fatti in relazione alle procedure di sicurezza). Per l’ambiente nave, invece, gli interventi secondo gli esperti della Asl 3 sarebbero almeno due: l’uno di tipo tecnico legato alla progettazione della nave che viene realizzata senza tener conto della presenza della componente di lavoro umano a bordo; l’altro legato alla riduzione della manipolazione della merce da parte dell’uomo in situazione di piani di lavoro irregolari costituiti dalle merci stivate su cui i portuali operano in maniera ancora tradizionale. 149 Il Porto di Genova in sintesi(1) Traffici 1. Traffici (distribuzione % tonn.) Rinfuse liquide 39% 2. Container 33% 3. RO-RO 17% 4. Rinfuse solide 10% 5. Altre merci varie 2% Liner Traffici Non-liner Imprese portuali Impresa art. 17 N. imprese art. 16+16bis(2) 12 N. imprese art. 18(3) 11 Concessioni: durata min e max Forza lavoro (4) Addetti Imprese Portuali 2.217 Di cui addetti Imprese art. 18 1.541 Addetti(5) Impresa art. 17 990 Operations Nullo(6) Livello diffusione Appalti Quota lavori appaltati - Banchina pubblica Quota traffico banchina pubblica - 1) Dati di traffico al 2008 per depurare le informazioni dal fenomeno distorsivo della crisi. Dati addetti 2009 2) Escluse dal computo le imprese art. 16 che sono anche concessionarie (art. 18) 3) Sono esclusi i terminalisti addetti al traffico di rinfuse liquide 4) Sono ricompresi anche gli addetti della ex Compagnia Portuale Pietro Chiesa oggi impresa art. 16 5) Soci+dipendenti 6) Salvo prestazioni specialistiche LEGENDA: Presente Assente Dato non pervenuto Fonte: Indagine Isfort 2010 150 Parte terza MODELLI DI GOVERNANCE DEI SISTEMI PORTUALI EUROPEI ED EVOLUZIONE DEI TRAFFICI MARITTIMI 1. Introduzione Il decentramento nel settore portuale, avvenuto in tempi piuttosto recenti, ha dato vita ad una notevole varietà di tipi di strutture di governo ormai in atto in tutto il mondo. Da qui la difficoltà a valutare e definire il ruolo dei porti europei e non solo a causa del consistente numero di scali, ma soprattutto per la complessa governance dei sistemi portuali europei i quali fanno capo allo Stato, alle città o ancora ai privati, nonché alle specificità delle singole regioni portuali. In questo attuale contesto, sembra emergere la difficoltà e lo sforzo sia da parte dell’amministrazione governativa centrale (Commissione Europea), sia da parte degli operatori del settore (associazioni ed organizzazioni che riuniscono rappresentanti del settore marittimo e portuale) nel classificare e definire le funzioni e i ruoli delle numerose strutture portuali europee, elementi chiave del settore dei trasporti, all’interno dei quali dovrebbero vigere e prevalere, per quanto possibile, libere condizioni di mercato. Dall’analisi desk effettuata, infatti, risulta che - anche se più o meno collocabili all’interno di definiti modelli di governance - ogni sistema portuale differisce di fatto nel governo, nella gestione e nella organizzazione; insomma ogni paese sembra avere porti con storie e governance differenti. Se, da una parte, questa varietà è giustificata dalla secolare tradizione di città marittime e dalle caratteristiche geo-politiche e sociali di ogni territorio, dall’altra si evidenzia una certa necessità di poter individuare delle condizioni comuni o quantomeno simili all’interno di un mercato come quello europeo che dovrebbe invece essere caratterizzato da una indubbia unicità (Mercato Unico). Nel presente capitolo si è tentato, attraverso l’analisi di quanto prodotto dalla letteratura sull’argomento, di ricostruire ed esaminare i modelli messi in atto dai principali Paesi europei aventi una storia portuale alle spalle (sia di tradizione che recente). A tale proposito, si è partiti dai modelli individuati dalla Banca Mondiale, i quali si articolano in quattro alternative/strade indirizzate verso il pubblico o il privato in base alle diverse “storie” portuali. Si è passati poi - dopo aver visto anche quale tipo di approccio le autorità portuali possono utilizzare nell’esercitare le proprie funzioni e ruoli - ad analizzare come si collocano i sistemi portuali dei principali paesi europei sia dal punto di vista geografico che con riferimento ai modelli internazionali individuati, tenendo conto in maniera sintetica anche dei processi di riforma che, dagli anni Novanta in poi, hanno interessato il governo delle principali strutture portuali europee. Segue, infine, un aggiornamento dell’evoluzione dei traffici marittimi, i quali, dopo un momento di stasi, stanno avendo una lenta ripresa a seguito della crisi economico-finanziaria internazionale. 153 2. I modelli di governance portuale 2.1. L’articolazione delle competenze pubbliche e private La World Bank1 , individua quattro modelli di amministrazione dei porti e ne specifica punti di forza e di debolezza. La scelta del modello adottato in ciascun paese, secondo l’organismo economico mondiale, è influenzata dal modo in cui i porti sono organizzati, strutturati e gestiti. Tali fattori riguardano in particolare la struttura socio-economica di un paese, lo sviluppo storico del porto, la posizione (area urbana o posizione isolata) e i tipi di merci che vengono gestite (rinfuse solide, liquide, containers, ecc.). I modelli si differenziano a seconda che i servizi siano forniti dal settore pubblico, o da quello privato o di proprietà mista, dal loro orientamento (locale, regionale o globale), da chi possiede la sovrastruttura e i beni strumentali e da chi offre lavoro portuale e gestione. Prima di illustrare i differenti modelli di amministrazione e governo dei porti, appare opportuno specificare come qui di seguito con il termine ‘Autorità portuale’ si intenda, in maniera ampia e generale, un ente con responsabilità istituzionali che gestisce la proprietà marittima e terrestre di un porto, indipendentemente dal suo possesso o dalla forma giuridica. Più specificatamente, la Commissione Europea, in una proposta di Direttiva sull’accesso al mercato dei servizi portuali2 , definisce un’Autorità portuale come “l’ente che, in collaborazione o meno con altre attività, ha come obiettivo in base al diritto o al regolamento nazionale, la gestione e l’amministrazione delle infrastrutture portuali, il coordinamento e il controllo delle attività dei differenti operatori presenti nel porto”. Il Service (o Operating) port model Si tratta di un modello prevalentemente pubblico, in cui l'Autorità portuale possiede il suolo e il patrimonio (fisso e mobile) e svolge tutte le funzioni di regolamentazione del porto. Le operazioni di movimentazione del carico 1 In Mary R. Brooks, “The governance structure of Ports”, Review of Network Economics, Vol. 3, Issue 2 – giugno 2004. World Bank Port Reform Tool Kit, www.worldbank.org/transport/ports/toolkit/mod3.pdf 2 Cfr. COM(2004) 654 definitivo, “Proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio sull’accesso al mercato dei servizi portuali”, Bruxelles 13/10/2004 154 vengono eseguite da forza lavoro alle dirette dipendenze dell’Autorità portuale. Nel Service Port, l’Autorità è responsabile di tutte le manipolazioni della merce, mentre nell’Operating Port si occupa solo delle movimentazioni a terra. Il porto viene solitamente controllato dal Ministero dei Trasporti (e/o Comunicazioni); il presidente dell'Autorità portuale è generalmente un funzionario pubblico responsabile dell'amministrazione portuale e riferisce direttamente al ministro competente. In alcuni casi, i servizi di gestione e di trasporto merci sono svolti da enti pubblici; questa divisione di operazioni distinte tra soggetti pubblici può presentare problemi di gestione unica. Secondo tale modello, è la stessa organizzazione portuale che ha la responsabilità per l'esecuzione di regolamentazione di funzioni, lo sviluppo delle infrastrutture e sovrastrutture 3 e l'esecuzione operativa delle attività. In generale, non è assolutamente previsto il coinvolgimento del settore privato nelle attività portuali. Secondo lo studio, la forza di questo modello risiede nel fatto che lo sviluppo delle strutture e il loro funzionamento sono di competenza di un unico soggetto, rendendo l’approccio snello e coerente alla crescita della struttura nel complesso. D'altro canto, la scarsità di concorrenza interna (ruolo limitato o inesistente del settore privato) nelle operazioni di movimentazione della merce può condurre ad una amministrazione inefficiente, o ad una mancanza di innovazione e all’erogazione di servizi che non siano prevalentemente orientati ai clienti o al mercato. La dipendenza di finanziamento può generare, infatti, uno spreco di risorse o una sorta di sotto-investimento. Tale modello è ancora utilizzato in molti paesi in via di sviluppo o nei porti di alcuni paesi ex URSS (es. nel porto di Odessa), anche se molti scali che adottavano fino a poco tempo fa un modello di questo tipo si stanno indirizzando negli ultimi anni verso il modello “landlord”. 3 Per infrastrutture portuali si intendono la costruzione e la manutenzione di tutte le componenti del sistema dei trasporti aperto a tutti gli utenti all'interno della zona portuale e dei collegamenti con le reti di trasporto nazionali e internazionali; rientrano in particolare in tale contesto la valorizzazione e la manutenzione di aree destinate a scopi commerciali e portuali, la costruzione e la manutenzione di collegamenti stradali e ferroviari, la costruzione e la manutenzione, compreso il dragaggio, degli accessi e degli altri specchi d'acqua nel porto, la costruzione e la manutenzione degli ausili alla navigazione e dei sistemi di gestione del traffico, di comunicazione e d'informazione, nonché la costruzione e la manutenzione degli impianti per la raccolta dei rifiuti e dell'olio combustibile usato. Per sovrastrutture si intendono, invece, le attrezzature di carico/scarico merce, di movimentazione e messa a deposito della stessa, di avviamento ai collegamenti viari e ferroviari, nonché la realizzazione di edifici quali magazzini, uffici, depositi e di tutti i tipi di attrezzature fisse o semimobili. 155 Il Tool port model Si tratta di una tipologia di governance caratterizzata dalla divisione delle responsabilità operative. L'Autorità portuale pubblica possiede, sviluppa e gestisce sia le infrastrutture sia le sovrastrutture del porto, ivi comprese le attrezzature per la movimentazione delle merci, quali gru di banchina, carrelli elevatori, ecc. Le operazioni di “equipaggiamento” dell’Autorità portuale vengono di solito eseguite da forza lavoro dipendente, ma altre operazioni sono svolte da imprese private, generalmente di dimensioni contenute, che si occupano di movimentazione delle merci, a bordo delle navi, nonché sulla banchina e sull’area di stazionamento. Sostanzialmente, l’Autorità portuale – in questo modello – non è coinvolta nella manipolazione della merce, bensì deve fornire i mezzi necessari al trattamento della stessa alle imprese private. Il “Tool port model” ha una serie di analogie con il modello precedentemente illustrato (“Service port model”) in particolare nell’orientamento verso il pubblico/statale e nel modo in cui il porto viene finanziato. Ad oggi, tale modello può avere i suoi vantaggi soprattutto quando viene utilizzato come mezzo di transizione verso un modello “landlord”. Nel caso in cui il rischio di investimento è elevato e non vi è piena fiducia nel settore privato, esso infatti può rivelarsi un'opzione interessante riducendo l’iniziale fabbisogno di investimenti di capitale. Un altro esempio in cui il modello può rilevarsi utile è il caso in cui un governo tenta di accelerare le iniziative di riforma portuale, ma necessita di una vasta quantità di tempo per definire le normative e gli ordinamenti giuridici. Leggi e regolamenti sono indubbiamente più circostanziati dal momento che nessun bene dello Stato viene trasferito al settore privato, e ciò ne fa quindi un modello facilmente adottabile nella prima fase della riforma. In sintesi, mentre i risultati del modello appaiono buoni in assenza di duplicazioni di strutture - in quanto gli investimenti in infrastrutture e attrezzature vengono forniti dal settore pubblico - la frammentazione delle responsabilità per la movimentazione dei carichi può condurre a conflitti tra i piccoli operatori, le società di stivaggio e gli amministratori del porto. Gli operatori portuali, infatti, non possiedono attrezzature (nave/terra), quindi tendono a funzionare come pool di prestazione di lavoro temporaneo e vengono pertanto limitati nella futura espansione e nell’acquisire una solidità di tipo imprenditoriale. 156 Tale forma di governance portuale viene utilizzata soprattutto in alcuni porti statunitensi (Los Angeles, Seattle, Oakland, ecc.) o in Bangladesh (porto di Chittagong). Altri esempi di questo modello sono i porti autonomi francesi (Ports Autonomes), in particolare i terminals container che vengono gestiti, in alcuni casi (per i terminals meno nuovi), secondo i principi del “tool port”. Il Landlord port model Il modello portuale “landlord “è caratterizzato da un orientamento misto pubblico-privato. Secondo questo modello, l'Autorità portuale agisce come organo di regolamentazione e come “padrone di casa”, mentre le operazioni portuali (in particolare la movimentazione delle merci) vengono effettuate da aziende private. L'infrastruttura viene locata (data in concessione) a società che operano privatamente o ad industrie quali raffinerie, impianti chimici, terminal serbatoi. Il canone di locazione da versare all'Autorità portuale è solitamente un importo fisso per ogni metro quadrato annuale, il quale viene periodicamente indicizzato. Il livello di tale importo di locazione è relativo all’allestimento iniziale e ai costi di realizzazione (per esempio, la bonifica del terreno o l’edificazione del muro del molo). Gli operatori portuali privati forniscono e mantengono la loro propria sovrastruttura, inclusi gli edifici (uffici, capannoni, magazzini, stazioni di trasporto container, officine) e acquistano e installano anche le proprie attrezzature come richiesto dalla loro attività. La forza lavoro portuale è impiegata da terminalisti privati, sebbene in alcuni porti una parte del lavoro può essere fornita attraverso un più generale sistema di pool di lavoro. La positività di questo modello, secondo la Banca Mondiale, consiste nel fatto che un unico ente (il settore privato), da una parte, esegue le operazioni di movimentazione della merce e, dall’altra, possiede e gestisce gli impianti di movimentazione per il carico. In questo modo, i terminalisti restano maggiormente fedeli al porto e più propensi ad investire in conseguenza dei loro contratti a lungo termine. Inoltre le società private che gestiscono i terminali generalmente sono in grado in misura maggiore di far fronte alle esigenze e alle mutevoli condizioni del mercato. D’altro canto, la pressione di diversi e troppi operatori privati può provocare un eccesso di capacità del porto. Con questo modello è richiesto, pertanto, un maggiore coordinamento del marketing e della pianificazione al fine di 157 contenere le interferenze politiche, l’eccessiva burocrazia relativa alle procedure, le limitate risorse finanziarie, nonché la difficoltà nel riconoscere le potenzialità di sviluppo di ciascuna area locale. Oggi, è il modello dominante nei porti di grandi e medie dimensioni. Esempi di questa tipologia di modello sono Rotterdam, Anversa, i porti italiani, New York e, dal 1997, Singapore. Il Private service Port model In questo quarto caso si fa riferimento ad un modello in cui il settore pubblico (ossia lo Stato) non ha più alcun interesse nelle attività portuali. L’area portuale diviene proprietà esclusiva dei privati, i quali acquisiscono gli spazi portuali; essi si occupano di pianificare e realizzare le infrastrutture e le sovrastrutture, nonché della loro gestione. Ne risulta pertanto che tutte le funzioni di regolamentazione e le attività operative sono gestite dalle aziende private. I porti totalmente privati sono in numero esiguo e si trovano soprattutto nel Regno Unito e in Nuova Zelanda. La privatizzazione completa è considerata da molti, infatti, come una forma estrema di riforma portuale. Alcuni studi hanno evidenziato le insidie presenti in questo modello “laddove il governo scegliesse di privatizzare le funzioni di regolamentazione, queste ultime non potrebbero essere affidate al porto. Se ciò avvenisse - come spesso di fatto accade - la volpe avrebbe il compito di monitorare o sorvegliare il pollaio, e la possibilità di abusare della posizione di monopolio naturale di cui i porti possono godere aumenterebbe in maniera drammatica” (Baltazar and Brooks, 2001). Il Regno Unito decise, a suo tempo, di avviare un processo di completa privatizzazione per tre ragioni principali: - modernizzare le istituzioni e gli impianti, i quali erano in molti casi risalenti ai primi anni della rivoluzione industriale, al fine di renderli maggiormente rispondenti alle esigenze e alle necessità degli utenti; - conseguire la stabilità finanziaria e gli obiettivi finanziari, con una crescente quota di finanziamento proveniente da risorse private; - raggiungere un certo grado di razionalizzazione e di stabilità del lavoro, seguito da un maggior livello di partecipazione al lavoro nelle nuove imprese portuali. 158 Particolari punti di forza del modello sono rappresentati dal fatto che lo sviluppo portuale e le politiche tariffarie tendono ad essere orientate al mercato nonché vi è anche la massima flessibilità negli investimenti e nelle operazioni portuali, autonomia del processo decisionale e nessuna interferenza diretta del governo. Inoltre, in caso di riqualificazione dell’area, l’operatore privato potrebbe ottenere probabilmente una somma cospicua per la vendita di terreni portuali. D’altro lato, questo tipo di modello può condurre a comportamenti monopolistici così come a una perdita di coinvolgimento pubblico nelle politiche e nelle strategie economiche a lungo termine; inoltre, nel caso in cui si verificasse la necessità di riqualificare la zona portuale, il governo dovrebbe spendere somme considerevoli di denaro per ricomprare il terreno dell’area. Per di più, con la vendita del terreno portuale a privati, alcuni governi possono trasferire simultaneamente le funzioni di regolamentazione a nuove società private. In assenza di un soggetto regolatore portuale nel Regno Unito, ad esempio, le strutture portuali privatizzate sono essenzialmente autoregolamentate. Il rischio in questo tipo di accordi è che il terreno possa essere venduto o rivenduto per attività non strettamente di carattere portuale rendendo così difficile il recupero del suo uso originario marittimo. Inoltre, vi è anche la possibilità di speculazione edilizia, soprattutto quando l’area portuale è vicino o dentro una grande città. Qui di seguito vengono riassunte caratteristiche e tipologie delle responsabilità secondo i quattro modelli individuati dall’organizzazione mondiale. I porti di tipo “Service” e “Tool” si concentrano soprattutto sulla realizzazione di interessi pubblici. I porti “landlord” hanno un carattere misto e puntano a trovare un equilibrio tra interessi pubblici (Autorità portuale) e privati (industrie portuali). I porti a completa privatizzazione si dirigono esclusivamente verso interessi del privato (azionista). Tav. 1- Ripartizione delle diverse responsabilità secondo i modelli della Banca Mondiale Tipi di modello Infrastruttura Sovrastruttura Lavoro portuale Altre funzioni Public Service port Tool port Landlord port Private service port Pubblico Pubblico Pubblico Privato Pubblico Pubblico Privato Privato Pubblico Privato Privato Privato Di maggioranza pubblico Misto Misto Di maggioranza privato Nota: Misto=pubblico/privato Fonte : da World Bank Port Reform Tool Kit, module 3, p. 21, in M. Brooks, The Governance Structure of Ports, 2004. 159 Tav. 2 - Modelli di amministrazione dei porti individuati dalla Banca Mondiale Tipologia SERVICE/OPERATING PORT MODEL Caratteristiche Modello prevalentemente pubblico, in cui l'Autorità portuale possiede il suolo e il patrimonio (fisso e mobile) e svolge tutte le funzioni di regolamentazione del porto. La forza lavoro in banchina dipende direttamente dall’Autorità portuale. Punti di forza Punti di debolezza Paesi Lo sviluppo delle strutture e il loro funzionamento sono di competenza di un solo organismo, con un approccio snello e coerente alla crescita della struttura nel suo complesso. Nessun ruolo o quantomeno molto limitato, per il settore privato nelle operazioni di movimentazione merce. Paesi in via di sviluppo o paesi ex URSS (es. il porto di Odessa) Meno capacità di problem solving e flessibilità in caso di questioni legate al lavoro, in quanto l'amministrazione portuale è anche il principale datore di lavoro. Responsabilità - Infrastruttura Pubblico - Superstruttura Pubblico - Lavoro Pubblico - Altre funzioni + pubbl. - Infrastruttura Pubblico - Superstruttura Pubblico - Lavoro Privato - Altre funzioni Misto Rischio di inefficienza amministrativa o di mancanza di innovazione e di presenza di servizi poco orientati ai clienti o al mercato a causa della scarsità di concorrenza. Spreco di risorse o blocco degli investimenti a causa di interferenze del governo e dipendenza dal bilancio statale. TOOLPORT MODEL Modello caratterizzato dalla divisione Gli investimenti nelle delle responsabilità operative. infrastrutture e nelle attrezzature (nave/terra) L’Autorità P. svolge le funzioni di sono decisi e forniti dal organo di regolamentazione e di settore pubblico, evitando “padrone di casa” e deve fornire i così duplicazioni di mezzi necessari alla movimentazione strutture. della merce alle imprese private. efficace come I privati (piccole imprese) si occupano Risulta modello di transizione per di manipolare la merce (gestione del landlord ”. la tipologia “ carico a bordo delle navi, nonché sulla banchina e sull’area di stazionamento). La frammentazione delle responsabilità per la movimentazione dei carichi tra autorità portuali e società private può condurre a conflitti. Rischio del blocco degli investimenti e di mancanza di innovazione. Gli operatori privati, non possedendo attrezzature, tendono a funzionare come pool di prestazione di lavoro temporaneo e non come imprese in espansione e dai bilanci solidi. Alcuni porti statunitensi, porti in Bulgaria (fino in tempi recenti) Il lavoro è svolto alle dipendenze di privati. (segue) (continua) Tav. 2 - Modelli di amministrazione dei porti individuati dalla Banca Mondiale Tipologia LANDLORD PORT MODEL PRIVATE SERVICE PORT Caratteristiche Punti di debolezza Paesi Modello caratterizzato da un Il medesimo soggetto (il settore privato), da una orientamento misto pubblico-privato; parte esegue le L’AP mantiene la proprietà del porto, operazioni di mentre l’infrastruttura viene data in movimentazione della concessione a compagnie che operano merce e, dall’altra, privatamente. possiede e gestisce le L’AP ha il compito di fornire le attrezzature per il carico. infrastrutture di base, servizi tecnico I terminalisti privati sono nautici e altri servizi di comune interesse. di solito maggiormente Le aziende private devono fornire e in grado di far fronte alle mantenere la loro sovrastruttura e esigenze del mercato. acquistare e installare le proprie attrezzature. La forza lavoro portuale è impiegata da terminalisti privati, sebbene in alcuni porti una parte del lavoro può essere fornita attraverso un più generale sistema di pool di lavoro autonomo. Rischio di eccesso di capacità con la presenza di più operatori. Necessità di contenere le interferenze politiche, l’eccessiva burocrazia nelle procedure, le limitate risorse finanziarie, nonché la difficoltà nel riconoscere le potenzialità di sviluppo di ciascuna area locale. Porti europei occidentali Si tratta di una forma di privatizzazione Sviluppo portuale e piuttosto estrema in cui lo Stato non ha politiche tariffarie alcun interesse nelle attività portuali; “market-oriented”. tutte le funzioni di regolamentazione e le Massima flessibilità negli attività operative sono gestite dalle investimenti e nelle aziende private (dunque anche il lavoro). operazioni portuali, coerenza gestionale, autonomia del processo decisionale senza alcuna interferenza da parte del governo. Rischio di comportamenti monopolistici e di perdita di coinvolgimento pubblico nelle politiche e strategie economiche a lungo termine. Nel caso di necessità di riqualificare la zona portuale, il governo dovrebbe spendere considerevoli somme di denaro per ricomprare il terreno portuale. Rischio di vendere/rivendere il terreno per attività non strettamente di carattere portuale rendendo così difficile il recupero del suo uso originario marittimo. Rischio di speculazione edilizia e di sicurezza, soprattutto quando l’area portuale è vicino o in una grande città. Porti del Regno Unito e Nuova Zelanda Fonte: elaborazione Isfort su fonti varie, 2010 Punti di forza Responsabilità - Infrastruttura Pubblico - Superstruttura Privato - Lavoro Privato - Altre funzioni Misto - Infrastruttura Privato - Superstruttura Privato - Lavoro Privato - Altre funzioni +privato Oltre ai modelli della World Bank molti studiosi ed accademici hanno provato a definire, nel corso degli anni Novanta, altri modelli o comunque a tracciare altre delimitazioni e confini tra l’approccio pubblico e quello privato. Secondo alcuni di essi, difatti, la tipologia della Banca Mondiale era troppo semplificata e non forniva indicazioni al governo (di fronte alle pressioni di decentrare l’amministrazione portuale) in merito a quale approccio adottare per una determinata e specifica situazione locale. A tale proposito, Baltazar e Brooks, nel 2001, classificarono le attività connesse al porto in attività di regolazione (regulator), operative (operator) e di proprietà (landlord), distinguendo chiaramente le funzioni di regolazione da quelle portuali (operative e di proprietà). Tav. 3 - Matrice di decentramento amministrativo del porto (Baltazar and Brooks, 2001) Governance Pubblico Misto (pubblico/privato) Privato Funzioni portuali Funzioni di ‘regulator’ ‘Landlord’ Concessione di licenze e autorizzazioni Sicurezza del traffico marittimo Dogana e immigrazione Monitoraggio del porto Servizi di emergenza Protezione di pubblico interesse, a nome della comunità Determinazione della politica portuale e delle politiche ambientali applicabili ‘Operator’ Manutenzione dei litorali (es. Carico e gestione dei Compravendita, locazione, Pilotaggio e rimorchio Confini di movimentazione Servizi di sicurezza, dragaggio) strategie di sviluppo, pianificazione Manutenzione degli accessi al porto Sicurezza portuale Acquisto e smaltimento di terreni. passeggeri manutenzione e riparazione Marketing delle operazioni Smaltimento rifiuti Investimento di capitali in ormeggio e lato-città Fonte: Baltazar e Brooks, 2001 Generalmente infatti, in un porto governato in maniera pubblica, tutte le funzioni come regolatore (regulator) e proprietario (landlord) rientrano nel settore pubblico, mentre le funzioni di operatore (operator) possono essere svolte a seconda dei casi – in parte, del tutto o affatto dal settore privato; il controllo delle condizioni di funzionamento risiede nel governo. In un modello di privatizzazione parziale, invece, alcune funzioni di operatore (operator) e/o di proprietario (landlord) sono privatizzate, mentre di solito il settore pubblico mantiene il pieno controllo della funzione di regolatore. Nel livello di privatizzazione più completo, infine, tutte le funzioni di operatore e proprietario sono trasferite dal pubblico al privato. L’approccio dei due studiosi va aldilà di quanto descritto dai modelli della World Bank, in quanto non solo si prevede una divisione delle attività tra fornitori pubblici, privati o una combinazione tra i due, ma anche che i vari modelli possano incorporare diversi livelli di responsabilità/competenze. Tali competenze possono riguardare il monitoraggio di interesse pubblico, il finanziamento degli investimenti e così via, e possono essere condivise tra gli operatori. Si tratta dunque di tentativi ed ipotesi maggiormente flessibili rispetto all’impostazione della Banca Mondiale. Quest’ultima infatti non riconosce che differenti modelli di governance possano tener conto di diverse finalità strategiche, siano essi definiti dal governo o dall'ente porto ed ha difficoltà ad ammettere che, ad esempio, il modello completamente privatizzato possa non essere valido per tutti porti inglesi. 162 2.2. L’approfondimento del ruolo e delle funzioni degli organi di governo portuale Gli approcci tradizionali Come indicato in precedenza, le funzioni di “proprietario” e di regolatore”, anche se ne esistono altre, sono spesso messe in rilievo in molte definizioni di Autorità portuali. La diversità nella governance portuale viene dunque determinata, in larga misura, dai differenti obiettivi perseguiti dalle Autorità portuali i quali - oscillando dalla massimizzazione del profitto fino alla produzione di valore socio-economico - si relazionano poi con il modo in cui l’Autorità portuale assume le sue diverse funzioni. In altre parole, il porto deve definire la sua visione strategica ed il suo orientamento, e ciò dipende anche dal modello di governance e del contesto legislativo, economico e sociale all’interno del quale agisce. Anche l’ambiente in continua evoluzione in cui operano le Autorità portuali ha esercitato una forte pressione sul loro ruolo tradizionale; tali pressioni vengono messe in evidenza da alcuni studiosi ed appaiono essenzialmente connesse a tre tipologie di stakeholders 4 . Alcuni ricercatori 5 , nel 2000, identificarono tre possibili opzioni per le Autorità portuali: divenire partners integrali nella catena logistica, assumere un ruolo limitato nel sostenere le attività (sicurezza, utilizzo del suolo e politica della concessione) o scomparire del tutto dalla scena. Tradizionalmente, come è stato finora ricordato, esiste una distinzione tra le funzioni proprie della conduzione di un porto: proprietario (‘landlord’), regolatore/moderatore (‘regulator’) e gestore (‘operator’). Ad esse, inoltre, si è venuta ad aggiungere la funzione cosiddetta di ‘Community manager’, nell’ambito della quale l’authority si occupa oltre che della gestione dei rapporti all’interno del porto anche dell’integrazione tra struttura portuale e realtà circostante. Si tratta in sostanza di una funzione piuttosto innovativa, intrinsecamente legata alla natura mutevole della comunità portuale e dei suoi stakeholders e possiede sia una dimensione economica, sia sociale. 4 5 Cfr. Patrick Verhoeven, “Port governance and performance. Reflection from an EU perspective», 3 settembre 2009 Cfr. ESPO, European Port Governance, Report of an enquiry into the current governance of European Seaports, 2010. Si tratta dei seguenti ricercatori: Trevor Heaver, Hilde Meersman, Francesca Moglia e Eddy Van de Voorde. 163 Box 1 - Le pressioni degli stakeholders sul ruolo dei soggetti istituzionali presenti in porto OPERATORI DI MERCATO (spedizionieri, terminalisti, agenti logistici, ecc.) Caratteristiche - sempre più organizzati su scala globale, lottano per ottenere il controllo sulle reti logistiche indirizzate al porto. Rapporti con i soggetti istituzioni portuali – l’Autorità portuale, come anche gli altri soggetti istituzionali, viene considerata una collaboratrice nel raggiungimento dei propri obiettivi, ma più spesso può essere vista anche come un onere burocratico. Da sottolineare, nel confronto, il ruolo delle Autorità portuali che molto spesso appaiono spettatori locali con un’influenza piuttosto contenuta sui processi orientati al mercato. GOVERNO Caratteristiche – in quanto autorità di direzione ed amministrazione, mantiene il controllo attraverso posizioni di socio unico o di maggioranza, anche se in questa maniera viene coinvolto in misura minore e non è spesso in grado di apprezzare il valore strategico dei porti per l’economia del territorio (paese o regione che sia), riducendo anche, il più delle volte, la spesa pubblica nei loro riguardi. Rapporti con i soggetti istituzioni portuali – ad essi viene spesso concessa la delega della responsabilità della gestione portuale con diversi gradi di autonomia manageriale. L’Autorità portuale e gli altri enti presenti in porto possono, al contrario, essere considerati generatori di reddito per il bilancio dello stato o della città nel caso di governi particolarmente sensibili e interessati. GRUPPI DI INTERESSE SOCIALE (organizzazioni non governative, comunità locali, singoli cittadini, ecc.) Caratteristiche – la società civile, generalmente, non sempre considera e vede i porti come parte integrante dell’ambiente in cui vive e svolge le proprie attività, anzi sempre di più i porti sono divenuti territori sconosciuti. Rapporti con i soggetti istituzioni portuali - l’Autorità portuale e gli altri enti presenti in porto vengono considerati soprattutto come punto nodale per i reclami relativi alle esternalità negative generate dal porto, anche se queste spesso non ricadono direttamente all’interno delle responsabilità dell’Autorità portuale e degli altri soggetti istituzionali. Fonte: Patrick Verhoeven, 2009 La dimensione economica è caratterizzata dallo sviluppo degli operatori economici; fintanto che essi sono stati organizzati a livello locale e quindi impegnati per il benessere del porto, il ruolo delle Autorità portuali si è potuto limitare alle sue funzioni tradizionali ed essere piuttosto chiaro e diretto. Il processo di globalizzazione - caratterizzato da una lotta di potere tra vettori, terminalisti e operatori della logistica - ha però modificato radicalmente tutto ciò. Le grandi società multinazionali hanno soltanto limitato i legami con il porto che ha ridotto i loro sforzi per attrarre merci 164 nell'entroterra del porto. Esse, inoltre, sembrano mancare di affinità con le vicine città e comunità locali. La dimensione sociale è caratterizzata da interessi contrastanti con le parti sociali interessate. La funzione di community manager, pertanto, è essenzialmente una funzione di coordinamento con lo scopo di risolvere problemi di azione collettiva all'interno e all'esterno della zona portuale, come le strozzature dell’entroterra, la formazione e l’istruzione, l’ICT, il marketing e la promozione, nonché l'innovazione e l'internazionalizzazione (dimensione economica). Essa mira anche a risolvere i conflitti di interesse, al fine di difendere la 'licenza di operare' dell’Autorità portuale (dimensione sociale). Nello studio citato, si suddividono le Autorità portuali in tre tipologie secondo l’approccio e le funzioni da loro impiegati (Tav. 4). Un’Autorità portuale di tipo ‘conservativo’ convoglia le sue forze per divenire una buona “padrona di casa” (“housekeeper”) ed essenzialmente implementa in maniera passiva e meccanica le tre funzioni tradizionali di un’Autorità portuale a livello locale, con l’elevato rischio di essere marginalizzata e scomparire in futuro. Un’Autorità portuale del modello ‘facilitatore’ si configura come mediatrice e promotrice di interessi economici e societari. Essa inoltre guarda al di là del perimetro portuale e cerca di coinvolgere gli attori in partenariati strategici regionali. È il tipo di Autorità portuale che finora sembra trovare maggior sostegno nella letteratura per il giusto equilibrio che rappresenta. Un’Autorità portuale di carattere ‘imprenditoriale’, infine, combina le principali caratteristiche del tipo ‘facilitatore’ con un più esplicito atteggiamento commerciale in qualità di investitore, fornitore di servizi e consulente sia a livello locale che internazionale. Si tratta di un profilo ambizioso e innovativo che rischia maggiormente di incorrere in problemi causati da conflitti tra diverse funzioni. 165 Tav. 4 - Tipo di approccio delle Autorità portuali nella conduzione della struttura portuale TIPI ‘Conservatore’ ‘Facilitatore’ Landlord Manager Agente (“broker”) immobiliare attivo (continuità, manutenzione e miglioramento; agente di sviluppo e co-investitore; intermediazione immobiliare in ambito urbano e ambientale; proventi finanziari immobiliari su base commerciale) Mediatore nei rapporti commerciali tra fornitori di servizi e clienti portuali Collaborazioni strategiche con i porti di navigazione interna, porti a secco ed altri porti. Attivo Regulator Applicazione ed esecuzione Applicazione ed esecuzione attiva Applicazione ed esecuzione attiva di Applicazione meccanicistica Uso Uso Community Manager E’ Dimensione economica (risolvere le Come il ‘facilitator’, ma dimensione DIMENSIONE Local Local + Regional FUNZIONI immobiliare passivo (continuità e manutenzione; sviluppo prevalentemente lasciato ad altri; proventi finanziari immobiliari su base tariffaria) passiva di ruoli e regolamenti fissati principalmente da altre agenzie Proventi finanziari dal ruolo normale su base tariffaria Operator della politica concessionaria una funzione di coordinamento tesa a risolvere problemi di azione collettiva all'interno e all'esterno della zona portuale e a difendere la 'licenza di operare' dell’Autorità portuale, appianando i conflitti di interesse ‘Imprenditore’ di ruoli e regolamenti attraverso la cooperazione con agenzie di regolazione locali, regionali e nazionali + fissazione di norme e regolamenti propri Proventi finanziari dal ruolo normale su base tariffaria con scelte di tariffazione differenziata per la sostenibilità dinamico della politica concessionaria, insieme al ruolo di agente immobiliare (broker) ‘Leader in insoddisfazione’ per quanto riguarda le prestazioni di fornitori privati di servizi portuali Prestazione di servizi di interesse economico generale e servizi commerciali specializzati strozzature dell’entroterra; provvedere alla formazione e all’istruzione; fornire servizi IT; promozione e marketing; lobbying) Dimensione sociale (risolvere i conflitti di interesse) “sviluppatore” immobiliare (continuità, manutenzione e miglioramento; investitore diretto; sviluppo immobiliare in ambito urbano e ambientale; proventi finanziari immobiliari su base commerciale; entrate finanziarie da attività non core) Negoziazione commerciale diretta con clienti portuali (attivo perseguimento di nicchie di mercato) Investimenti diretti nei porti di navigazione interna, porti a secco e in altri porti ruoli e regolamenti attraverso la cooperazione con agenzie di regolazione locali, regionali e nazionali + fissazione di norme e regolamenti propri Come il ‘facilitator’ + vendita di conoscenze e di strumenti fuori dal porto Proventi finanziari dal ruolo normale su base commerciale dinamico della politica concessionaria, insieme al ruolo di ‘sviluppatore’ immobiliare Azionista di fornitori privati di servizi portuali Prestazione di servizi di interesse economico generale nonché di servizi commerciali Prestazione di servizi in altri porti economica con maggiore coinvolgimento commerciale diretto Local + Regional + Global GEOGRAFICA Fonte: ESPO, European Port Governance, Report of an enquiry into the current governance of European Seaports, 2010 166 Verso un nuovo modello di authority portuale in Europa Dall’indagine realizzata da ESPO (European Sea Ports Organisation) nel corso del 2010 presso 116 Autorità portuali presenti nei 26 Paesi aderenti, emerge come le funzioni tradizionali delle Autorità portuali abbiano avuto un cambiamento sostanziale. La funzione di landlord - caratterizzata dalla gestione, manutenzione e sviluppo del patrimonio portuale, dalla dotazione di infrastrutture e attrezzature così come dall’ideazione e attuazione di politiche e strategie di sviluppo legate all’utilizzazione del patrimonio - può essere considerata oggigiorno come la principale funzione delle Autorità portuali, per cui per buona parte di esse (in particolare quelle di tradizione anseatica ed anglosassone) è il più importante strumento di governance di cui dispongono, anche se ciò si traduce sovente nella capacità di appaltare il terreno a terzi (regime concessionario). La funzione di regolazione (‘regulator’), già ricordata, è in qualche modo contenuta nel termine stesso di ‘Autorità portuale’ e combina un insieme di funzioni e responsabilità sottoposte di solito alla sorveglianza, al controllo e all’ordine. Queste sono indirizzate a garantire sicurezza e protezione delle operazioni di trasporto e carico nel porto così come a rafforzare le leggi e i regolamenti applicabili in questo o in altri settori come la protezione ambientale. Le Autorità portuali possono sviluppare loro propri regolamenti in questi campi e impiegare le proprie forze dell’ordine per esercitare il controllo. La maggiore attenzione alle esternalità negative delle operazioni portuali, dunque, ha rafforzato il ruolo regolatore delle Authorities come di soggetti che emanano normative e regolamenti e ne verificano l’applicazione. La funzione ‘regulator’ sembra, dunque, tra le tre tradizionali funzioni, quella meno a rischio di assunzione da parte del settore privato. Comunque, va notato come, in molti casi, il ruolo di regolamentazione non sia eseguito solo dall’Autorità portuale, ma spesso in cooperazione con le agenzie governative. La funzione più operativa (‘operator’) si è ridotta per la maggior parte delle Autorità portuali. Le attività operative si focalizzano principalmente sulla fornitura di servizi ausiliari che possono essere collocati nella sfera pubblica, ossia a beneficio dell’intera comunità portuale, con prestazione di servizi ancillari di pubblica utilità. Per quanto riguarda, infine, la funzione di ‘community manager’, quest’ultima sembra essersi ormai ben radicata nel profilo funzionale delle Autorità portuali, con la sua duplice dimensione (economica e sociale). Sia la dimensione economica, indirizzata ad agevolare la comunità portuale e a 167 individuare e risolvere problemi di azione collettiva all'interno e all'esterno della zona portuale, sia la dimensione sociale, focalizzata sui ‘portatori di interesse’ esterni, infatti sono molto presenti e numerose Autorità portuali assumono un ruolo predominante in entrambe. L’indagine, infine, nell’applicare le tre tipologie di approccio delle Autorità portuali al governo del porto precedentemente citate (conservatore, facilitatore, imprenditore), giunge alla conclusione che sono pochi i porti che svolgono le loro funzioni al di là dei propri confini, intraprendendo investimenti nelle reti dell’entroterra o fornitura di servizi in altri porti, esportazione di regolamentazione e di altre competenze. In conclusione, in linea di massima, la maggior parte delle Autorità portuali si situa, secondo l’ESPO, tra la tipologia di governance di tipo ‘conservativo’ e quella definita di ‘facilitatore’, mentre molte poche si avventurano nel genere ‘imprenditoriale’. 168 3. La declinazione operativa dei modelli Le Autorità portuali europee, dunque, sono per lo più di natura statale/pubblica, in quanto l’assegnazione di aree a operatori privati e terminalisti (landlord management form) è la forma maggiormente diffusa nei porti del continente europeo. Nel primo capitolo sono stati esaminati i quattro modelli di amministrazione dei porti individuati dalla Banca Mondiale e come essi si collocano tra il livello totalmente pubblico e quello interamente privato. Ma, secondo l’analisi della letteratura esistente in materia, oltre alla classificazione dell’organizzazione mondiale, esistono numerosi altri modi di classificare i porti europei tra cui - a titolo di esempio e tra i più semplici e comunemente utilizzati - è possibile citare quelli che fanno riferimento ad un criterio tendenzialmente marittimo-geografico, riguardante sia i litorali marittimi del continente (Mar Baltico, Mare del Nord, Mediterraneo, Oceano Atlantico, Mar Nero), sia relativo al raggio di azione dei porti confinanti e concorrenti (es. Amburgo-Le Havre range o il Northen Range). Restando nell’ambito di una classificazione di carattere geografico – anche se con una catalogazione regionale stabilita sulla base di un approccio geogovernativo (geo-governance) che sembra maggiormente attinente al presente lavoro – è possibile identificare in Europa tre principali tradizioni di governance portuale 6 , riportate nella tav. 5. In tutti e tre i casi, il soggetto istituzionale preposto all’attività di governance, sia esso pubblico sia privato, svolge una funzione di organizzazione delle infrastrutture e degli spazi (landlord) o anche di gestione delle operazioni (port-operation). 6 Cfr. M. Vallesi, Università degli Studi di Bari, D. Cazzaniga Francesetti, Università degli Studi di Pisa, “La governance portuale in Europa, la concorrenza e i problemi di sicurezza”, GIET Genova 2004. Inoltre, in alcune realtà sistemiche portuali, si riscontra un’ulteriore forma di governo dei porti, la cosiddetta ‘Corporate Governance’ con le seguenti caratteristiche: punti di forza: struttura fortemente orientata al mercato, organismo intensamente cooperativo (corporate body), buon management delle forme di contabilità e controllo, discreta autonomia finanziaria; punti di debolezza: presenza di una marcata rappresentanza politica e degli Enti Locali nel Consiglio di Amministrazione. 169 Tav. 5 - Le forme di governo dei porti europei Forme di governo Caratteristiche Punti di forza Anseatica (landlord) Porto appartenente ad un organo originato dal governo locale (regione/ municipalità) che si relaziona con le imprese di trasporto (local organization) (Municipal – governed ports). Struttura decentralizzata e ottima conoscenza delle potenzialità locali. Punti di debolezza Interferenze politiche; burocratizzazione delle procedure; disponibilità di risorse finanziarie. limitata Forma dominante per i porti situati nell’area del Baltico e del Mare del Nord. Latino-mediterranea (landlord) Porto di proprietà pubblica e gestito da soggetti di origine statuale (State-governed ports); direttamente amministrato dallo Stato, a volte tramite un ente pubblico. E’ il caso dei porti francesi, spagnoli, greci e italiani (che si affacciano generalmente sul Mediterraneo). Anglosassone (private) Porto totalmente indipendente dai governi centrali e gestito interamente dai privati (selfgoverned ports). E’ considerata esclusivamente un’attività commerciale come ogni altro business o attività industriale e pertanto non è prevista la presenza di una Autorità Portuale o ente di amministrazione simile. È la caratteristica inglesi. dei Obiettivi di sviluppo portuale comuni per i porti cosiddetti ‘nazionali’ attuati, generalmente ma non sempre, attraverso una politica portuale coordinata a livello nazionale. Maggiore flessibilità e coerenza gestionale; autonomia nei processi decisionali; adeguata capacità a prezzi competitivi. Limitato riconoscimento delle potenzialità di sviluppo locali; possibilità di interferenze politiche; procedure burocratizzate e centralizzate. Limitata capacità nell’ottenere fondi e aiuti dai poteri pubblici e minori investimenti da parte dei privati rispetto al pubblico; drastico abbandono da parte del governo del ruolo di regulator. porti Fonte: elaborazione Isfort su fonti varie, 2010 Ad esse si aggiungono, secondo studi recenti, altre due tipologie sorte a seguito della caduta della cortina di ferro tra Est ed Ovest e con la conseguente irruzione nell’arena competitiva di alcuni nuovi porti collocati nel Mar Baltico, Mar Mediterraneo e Mar Nero, i quali, rimasti sotto l’influenza sovietica per oltre mezzo secolo, sono stati poi sottoposti a 170 processi di liberalizzazione a seguito del cambiamento di scenario politico. Alcuni studi la identificano come una “nuova forma anseatica” che comprende le Autorità portuali di regioni quali Polonia, Estonia, Lituania e Lettonia e di una “nuova forma latina” comprendente Autorità portuali quali quelle di Slovenia, Croazia, Bulgaria e Romania 7 . Gli anni Novanta, inoltre, sono stati caratterizzati da una serie di riforme che hanno riguardato la privatizzazione dei servizi di movimentazione delle merci, focalizzando il ruolo delle Autorità portuali sulle funzioni “landlord” e “regulator”. Inoltre, molte Autorità portuali hanno ottenuto l’attuale forma legale in tempi piuttosto recenti (in oltre la metà dei casi, infatti, essa è stata acquisita tra il 1990 e il 1999 e quasi un terzo di essi ha conseguito l’odierna struttura giuridica durante l’ultimo decennio) 8 . Ancora oggi sono in corso una serie di riforme nei principali porti di molti paesi europei, sia a livello nazionale sia locale (cfr. schede dei diversi paesi in allegato), alla realizzazione delle quali non è da escludere l’ipotesi che l’Unione Europea possa avere avuto una influenza indiretta. Il diritto europeo alla concorrenza, d’altronde, implica il fatto che le Autorità portuali impegnate in attività economiche siano considerate imprese, a prescindere dal loro stato giuridico o dalla loro proprietà. 3.1. I porti della regione latino-mediterranea In linea generale, i porti di tradizione cosiddetta ‘latina’, come si è detto, si fondano sostanzialmente sulla proprietà e mediazione dell’intervento governativo, attraverso un organo di direzione solitamente pubblico e centralizzato. In questi paesi il concetto di servizi di welfare pubblici ha prevalso e le autorità nazionali hanno agito sia come regolatori sia come fornitori di servizi, mediante un’autorità pubblica eletta e controllata dallo Stato. 7 8 ESPO, European Port Governance, Report of an enquiry into the current governance of European Seaports, 2010. In questo senso, alcuni studi come la già citata indagine ESPO fotografano alcuni elementi importanti per il governo di un porto, mettendone in evidenza alcune differenze e peculiarità dell’assetto istituzionale che hanno condotto all’attuale situazione nei porti europei. 171 La maggioranza di essi risponde indubbiamente al modello landlord, anche se all’interno dei singoli paesi sono numerose le differenze e le sfaccettature che caratterizzano le funzioni e le responsabilità sia da parte delle Autorità portuali, sia da parte del governo nazionale. Si va, ad esempio, da paesi caratterizzati da un processo decisionale fortemente centralizzato (è il caso della Grecia contraddistinto da un forte intervento e un notevole controllo da parte dello Stato e conseguente scarsa autonomia delle strutture portuali), al caso di porti ampiamente autonomi ed economicamente autosufficienti, contraddistinti da un processo decisionale autonomo (è il caso della Spagna dotata di una caratterizzazione economico-marittima e da una alta considerazione del settore portuale da parte delle politiche di governo). Per quanto riguarda la questione del lavoro, premesso che l'organizzazione del lavoro portuale ed i sistemi ad esso associati variano in tutta Europa come assai diverse sono le forme di governance degli scali, è da osservare come esista però un tratto piuttosto comune alle differenti forme di attività lavorativa portuale: il pool, struttura organizzativa governata centralmente con l’impiego obbligatorio di lavoratori registrati o no, più o meno aperta e autonoma nell’utilizzo di imprese autorizzate alla fornitura di impiego temporaneo, orari e tempi di lavoro flessibili e variabili. Per quanto riguarda i paesi latino-mediterranei viene fornito un sintetico quadro degli schemi di lavoro portuale utilizzati negli scali marittimi dell’area. A tale proposito, in allegato, vengono brevemente presentate le situazioni e, in alcuni casi, i percorsi dei principali paesi europei della tradizione latino-mediterranea nell’ambito del sistema portuale nazionale e, in particolare, del suo governo. Qui di seguito, invece, nel successivo quadro sinottico, si è provato a sistematizzare ed evidenziare le principali caratteristiche e differenze di alcuni paesi dell’area latino-mediterranea presi in considerazione. 172 Tav. 6 - Le principali caratteristiche e peculiarità dei sistemi portuali appartenenti ai paesi di tradizione latina Strutture portuali presenti GGRRREEECCCIIIAAA SSPPPAAAGGGNNNAAA AA FFRRRAAANNNCCCIIIA LLIIIAAA IITTTAAAL 2 porti trans-europei (Pireo e Salonicco); 47 Porti di Interesse Nazionale gestiti da 28 Autorità portuali. 8 porti principali; 17 porti di interesse nazionale; molti altri porti turistici, da diporto e di pescaggio (600 circa). 25 Autorità portuali + altri porti minori. ‘Associazione dei Porti Ellenici’, nata nel 2003 al fine di assicurare una forte collaborazione tra i porti, ma di fatto non è una struttura di raccordo. ‘Puerto del Estado’: agenzia pubblica che coordina e controlla l’efficienza del sistema portuale, nonché esegue la politica portuale del governo. L’’Union des Ports de France’, divenuta così nel 2008 mentre prima si chiamava ‘Union des Ports ‘Assoporti’, associazione a cui aderiscono: 40 porti nazionali; alcune CCIAA presenti sui territori ove esistono porti e le loro Aziende Speciali Portuali; l'Unione Italiana delle CCIAA (Unioncamere). Fine anni Novanta Legge 48/2003 1983-84 Legge 84/1994 I principali 12 porti vengono trasformati da ‘imprese di diritto pubblico’ in società a responsabilità limitata (però di proprietà del governo). Stabilisce i principi di autonomia gestionale e di autosufficienza finanziaria dei porti di interesse nazionale, nonché configura le entrate derivanti dalle tariffe portuali applicate ai privati come “tasse”. Trasferimento di responsabilità statali ai Dipartimenti (porti di pescaggio e di diporto) e ai Comuni (porti turistici); Passaggio di competenze da pubblico a privato con la privatizzazione dei terminali, una nuova classificazione dei porti e delle prestazioni dei lavoratori portuali. 10 porti di interesse nazionale + altri porti locali. Organi centrali nazionali Quadro legislativo e istituzionale Autonomes et des Chambres de Commerce et d’Industrie Maritimes’. 2004-2007 (L. 2004/809) Trasferimento dei 17 porti di interesse nazionale alle Regioni; 2008 (L. 2008/660) Trasformazione 8 porti autonomi in ‘Grands Ports Marittimes’ (GPM) e privatizzazione del personale e dei mezzi di movimentazione; trasferimento del possesso dei diritti di proprietà alle autorità locali. Modello di governo Modello Landlord Modello Landlord Modello Landlord Modello Landlord (continua) (segue) Tav. 6 - Le principali caratteristiche e peculiarità dei sistemi portuali appartenenti ai paesi di tradizione latina GGRRREEECCCIIIAAA SSPPPA AAG N G NAAA GN AA FFRRRAAANNNCCCIIIA LLIIIAAA IITTTAAAL Caratteristiche e specificità Forte presenza e controllo da parte dello Stato, azionista di maggioranza delle AP, il quale non ha di fatto sostenuto in modo adeguato la riforma di privatizzazione; Scarsa autonomia economica e gestionale dei porti; Processo decisionale centralizzato (procedure ferme e standardizzate, ingerenze burocratiche); Il settore portuale viene tradizionalmente considerato poco rilevante, le strutture sono da sempre sotto il controllo statale per cui vigono politiche orientate allo “statobandiera” piuttosto che allo “stato-porto”; Assenza di una struttura di raccordo che promuova la competitività portuale; Mancanza di una riforma del lavoro. Sistema portuale fortemente decentrato, distinto da un’ampia autonomia delle Autorità portuali, enti pubblici controllati e coordinati dal ‘Puerto del Estado’; Elevata autonomia economica e gestionale (nel processo decisionale e finanziario); Forme diverse di autofinanziamento; Importanza legislazione come supporto al sistema portuale; Ampio spazio agli interventi dei privati nei porti; Alta considerazione e impegno da parte delle politiche governative; Marcata caratterizzazione vocazionale dei singoli porti. Distinzione tra poteri dello Stato e funzioni delle Autorità locali (rispettivamente controllo dei bacini idrici e responsabilità di carattere terrestre); Lo Stato detiene il controllo economico e finanziario e interviene nelle questioni relative alla tutela ambientale, alla sicurezza pubblica, agli aiuti alla navigazione; Le autorità locali si occupano della gestione, manutenzione e pianificazione del porto e rilasciano concessioni per il suo effettivo funzionamento; Ruolo delle Camere di Commercio; Sistema complesso di governance portuale che prevede la partecipazione di più amministrazioni pubbliche (Stato, Autorità locali, Camere di Commercio). Ristretta autonomia decisionale delle Autorità Portuali; Mancanza di autonomia finanziaria; Difficile gestione degli attori coinvolti nel sistema portuale; Difficoltà nell’avviare una nuova riforma. Riforme recenti I porti greci sono ancora nella fase di assorbimento della riforma avvenuta a cavallo dei due secoli: superamento delle inefficienze a lungo termine e ricerca di una efficace strategia nel fornire servizi ed attirare investitori. In Francia, in realtà, il lungo e complesso processo di riforma verso la privatizzazione e il decentramento amministrativo è avvenuto in tre fasi, di cui l’ultima è tuttora in atto (dal 2008 a oggi). Ottobre 2010 – Proposta di riordino dei porti italiani Legge 33 - 5 agosto 2010 Rafforzamento di efficienza e competitività; regolazione autonomia finanziaria e fornitura di servizi; disposizioni sul lavoro portuale, tasse e servizi, delimitazione delle aree portuali. Da anni si parla di riformare il sistema portuale italiano, recentemente è stato proposto il DDL 2403 del 2010 che però, di fatto, non va ad intaccare l’assetto amministrativo delle Autorità portuali. (continua) (segue) Tav. 6 - Le principali caratteristiche e peculiarità dei sistemi portuali appartenenti ai paesi di tradizione latina Organizzazione del lavoro AA GGRRREEECCCIIIA SSPPPAAAGGGNNNAAA FFRRRAAANNNCCCIIIAAA IITTTAAALLLIIIAAA I porti greci non sono sostanzialmente fondati su un sistema di pool, con una limitata flessibilità nel lavoro. Esistono 2 categorie di lavoro portuale: i lavoratori permanenti (gruisti, addetti di officina, pianificatori, ingegneri, personale amministrativo) e i lavoratori portuali (capo-reparti, equipe di segnaletica), i quali sono entrambi assunti con contratti privati a tempo indeterminato. I pool di lavoro nei porti spagnoli sono recentemente passati all’esclusivo controllo delle imprese terminaliste (costituite come imprese private di loro proprietà senza capitale pubblico) ed autorizzati dalla legislazione spagnola a fornire servizi di movimentazione delle merci nei porti. Le Autorità portuali non vengono coinvolte direttamente, ma comunque continuano a avere una partecipazione all’interno del Consiglio di amministrazione. Il modello di lavoro portuale è L’attuale organizzazione del Fonte: elaborazione Isfort su fonti varie, 2010 stato avviato alla riforma negli anni ’92-’94 con il tentativo di abolire il sistema dei ‘pool di lavoro temporaneo’ e la possibilità per i lavoratori portuali di divenire staff ordinario salariato; tuttavia, oggi esistono ancora alcuni pool per i lavoratori che hanno lo status storico di “G card dockers” (es. porto di Marsiglia), destinato però a scomparire entro il 2020; in linea con la riforma del 2008 (cfr. sopra) si sta tentando di ottimizzare anche il lavoro portuale, trasferendo tutte le operazioni sotto la sola responsabilità delle imprese terminaliste, anche se ciò ha provocato scioperi e proteste; attualmente la classificazione dei lavoratori dipende dal loro ruolo nelle squadre, con flessibilità nei compiti, ma comunque i lavoratori vengono individuati in base alle specializzazioni; l’eccesso o la carenza di lavoratori portuali vengono gestiti da imprese di lavoro temporaneo. lavoro portuale, delineata dalla Legge 84/94, ha previsto la possibilità da parte di imprese portuali autorizzate (ai sensi dell’art. 17) di fornire lavoro portuale temporaneo, relativamente alle operazioni e ai servizi portuali; essa varia, però, secondo le diverse realtà locali; l’applicazione legislativa (compito delle Autorità portuali), infatti, non si è tradotta in un modello organizzativo e gestionale delle aree portuali comune ed omogeneo a livello nazionale (ma spesso ampia discrezionalità); ne consegue un indebolimento e una svalutazione del ruolo dei pool di lavoro, i soggetti autorizzati a fornire lavoro portuale flessibile, temporaneo e qualificato. 3.2. I porti della regione anseatica In linea di massima, i porti della cosiddetta tradizione anseatica sono caratterizzati dalla forte presenza economica e gestionale di dinamiche di conduzione locale e tradizione municipalistica. Si tratta anche in questo caso generalmente di sistemi portuali che si fondano sul modello landlord, ma che presentano anch’essi alcune specificità e differenze a seconda dei paesi di appartenenza o in alcuni casi all’interno della stessa nazione (differenze tra land in Germania o nei Paesi Bassi in cui sono state avviate riforme autonome, porto per porto). Si va dal caso della Germania in cui i porti non sono organismi indipendenti né dal punto di vista amministrativo né giuridico, e le funzioni pubbliche possono essere svolte in alcuni casi dai differenti dipartimenti delle amministrazioni centrali, fino al caso dei Paesi Bassi in cui la maggior parte delle strutture portuali sono amministrate da enti municipali od organi corporativi e in cui vi sono esperienze di riforma dell’assetto istituzionale e manageriale completamente differenti da porto a porto. Anche in questo caso, in allegato, vengono brevemente presentate le situazioni ed i percorsi dei tre principali paesi europei della tradizione anseatica nell’ambito del governo del sistema portuale nazionale. Qui di seguito, invece, nel successivo quadro sinottico, si è provato ad anticipare le maggiori informazioni e a sottolineare le principali caratteristiche e differenze dei tre Paesi dell’area nord europea/anseatica presi in considerazione, comprese le modalità relative all’organizzazione del lavoro portuale. 176 Tav. 7 - Le principali caratteristiche e peculiarità dei sistemi portuali dei paesi di tradizione anseatica BBEEELGI LLG O GIIO O G N M R G NIIIAAA MAAAN RM GEEER PPAAAEEESSSIII BBBAAASSSSSSIII Strutture portuali presenti 4 porti principali (Anversa, Zeebrugge, Ghent e Ostend); (3 aziende municipalizzate + 1 società per azioni gestita da privati) I porti tedeschi sono caratterizzati da differenti tipologie (appartenenti ad un Land, a una municipalità, ad entrambi, a società private, ecc.) Presenza di un “mainport”, ossia di un porto principale (Rotterdam) su cui la politica olandese punta in modo specifico. Organi centrali nazionali Nessuno Nessuno Nessuno Gennaio 1989 - La regione Fiamminga diviene Quadro legislativo e istituzionale responsabile della politica portuale. 1999 – “Flemish Port Degree” – fondamento della politica portuale: stabilisce regole e condizioni per una maggiore autonomia, uniformità delle condizioni lavorative; le autorità portuali assumono forma legale; chiara e trasparente relazione tra porti e governo. In Germania non è presente, in generale, un'unica modalità di conduzione e gestione dei porti: nei porti municipali, i responsabili sono i diversi dipartimenti dell’amministrazione centrale (es. Amburgo); nei porti dei ‘Lander’, i responsabili sono gli uffici portuali locali delegati dal Land o le organizzazioni private (es. Brema). Da enti governati tradizionalmente da organizzazioni pubbliche regionali o municipali, i porti olandesi divengono società per azioni di proprietà pubblica municipale. Modello di governo Modello landlord Caratteristiche e specificità Paese storicamente indirizzato ad investire sul sistema portuale dal punto di vista economico; limitato coinvolgimento dello Stato; Non sono enti amministrativi legalmente ed mancanza di una legge complessiva sui porti; economicamente autonomi; considerevole autonomia finanziaria e Il Governo fiammingo riveste un ruolo di funzioni pubbliche divise e differenti secondo le decisionale per i singoli porti; stimolo, facilitazione e coordinamento e concede diverse strutture portuali; porti amministrati da autorità portuali intese ampia responsabilità alle Autorità portuali. avvio del processo di privatizzazione dei come enti municipali, combinazioni di enti, od principali porti. organi corporativi; approccio governativo volto a valorizzare principalmente un solo porto (Rotterdam, ‘mainport”). Riforme recenti ‘Flanders Port Area’ Regionalizzazione/cooperazione tra Autorità portuali finalizzata a realizzare comuni politiche di investimento e di sostegno finanziario, nonché indirizzate alla promozione, ricerca e innovazione di tali politiche. Modello landlord 1995 Modello landlord Proposta di modifica della Legge del 25 giugno 2005 che ha sancito la nascita dell’Autorità portuale di Amburgo; 2004 – Privatizzazione del porto di Rotterdam; Piano Nazionale dei Porti 2011 – Privatizzazione di Zeeland Seaports (Nationaleshafenkonzept), (2010) elaborazione (Flushing e Terneuzen); di un complessivo punto di vista di livello a breve, privatizzazione anche del porto di nazionale sui porti e sulla cooperazione tra Amsterdam. essi; Riforma del porto di Brema – riduzione tasse portuali e blocco delle tariffe. (segue) (continua) Tav. 7 - Le principali caratteristiche e peculiarità dei sistemi portuali dei paesi di tradizione anseatica BBEEELGI LLG O GIIO O Organizzazione del lavoro G N M R G NIIIAAA MAAAN RM GEEER PPAAAEEESSSIII BBBAAASSSSSSIII Il sistema di lavoro portuale olandese è gestito da contratti collettivi in cui si richiede l’impiego Il ‘Wet major’ (Major Act, 1972) rappresenta il di lavoratori permanenti o di un pool di quadro legale comune in Belgio in base al lavoratori classificati nel contratto collettivo; quale, tendenzialmente, soltanto i lavoratori per gestire la ciclicità e imprevedibilità dei flussi portuali riconosciuti possono svolgere attività di merce, i datori di lavoro hanno perciò di movimentazione delle merci nelle aree elaborato un sistema flessibile che combini portuali; lavoratori permanenti e lavoratori temporanei; esistono poi differenze tra gli accordi collettivi atto del 1995, finalizzato a porre fine alla regionali e di settore (Codici), in cui si Decrescente incidenza o stabilità della forza precedente contribuzione portuale (finanziata descrivono in dettaglio i principali regolamenti lavoro dei pool sul numero complessivo dei in parte dallo Stato) e ad introdurre pool di del lavoro per ogni porto (es. nel sistema di lavoratori portuali e in alcune attività lavoratori portuali indipendenti; tale sistema ha reclutamento per i lavoratori saltuari, nella (magazzinaggio, distribuzione, logistica) è incrementato l’importanza dell’occupazione determinazione del numero di lavoratori stato favorito l’ impiego di lavoro temporaneo permanente nelle imprese terminaliste nel portuali registrati richiesti; in leggere non registrato; porto di Rotterdam, e più in generale nei porti differenze nel processo di riconoscimento dei nei porti tedeschi esiste una forza lavoro olandesi, e ha messo in crisi il ruolo del pool nuovi lavoratori portuali e nella tendenzialmente stabile e sono stati costituiti che è fallito agli inizi del 2009; considerazione del lavoro nei fine settimana); pool di lavoratori portuali ben formati e dopo il 1995 anche il porto di Amsterdam ha i lavoratori registrati sono divisi in due specializzati per ogni tipo di attività, i quali trasformato il pool di lavoratori in un’impresa categorie separate per tipologia di attività. Ad possono essere a tempo pieno, parziale o autonoma e orientata al mercato, che è fallita Anversa, ad esempio, il Contingente Generale impiegati come lavoratori permanenti delle nel 1997; attualmente vi è un pool più snello e il Contingente logistico, il primo dei quali è compagnie terminaliste, ad essi viene (90 lavoratori) da assumere durante i picchi di composto da lavoratori regolari e comunque garantito un salario minimo; domanda, in caso contrario possono essere permanentemente impiegati e da lavoratori nel porto di Brema/Bremerhaven esiste inoltre eccezionalmente impiegati all’aeroporto di temporanei che formano il pool (anche se un sistema di riserva cosiddetto ‘rote-karte’ per Schipol; molti lavorano come semi-regolari, assunti lavoratori, soprattutto studenti e disoccupati, generalmente, i lavoratori portuali olandesi dallo stesso datore di lavoro); genericamente formati e che viene utilizzata (permanenti o temporanei) vengono impiegati il pool di lavoro portuale temporaneo viene per operazioni di magazzino, compiti logistici e per i compiti connessi all’acqua, mentre le supportato, se necessario, dall’intervento per assorbire i picchi di attività. attività logistiche sono regolate da accordi statale con sussidi di disoccupazione dei collettivi a livello di singola impresa; lavoratori non impiegati e, in parte, anche dai nei porti gestiti da Zeeland Seaports vige una datori di lavoro tramite un fondo speciale; alto grado di flessibilità, sia nell’assunzione dei i porti belgi hanno una lunga tradizione di lavoratori portuali temporanei, sia nella dialogo sociale e i lavoratori portuali belgi composizione delle squadre, o nell’impiego di sono noti per la loro alta produttività lavoratori con diverse abilità; inoltre, i picchi di lavorativa e appartenenza al sindacato. domanda possono essere assorbiti da lavoratori forniti tramite imprese di lavoro temporaneo. Fonte: elaborazione Isfort su fonti varie, 2010 3.3. Il caso inglese In questa sotto-classificazione, rientrano generalmente i paesi di tradizione anglosassone quali Inghilterra, Irlanda, Nuova Zelanda, ecc., ma nel presente testo si è circoscritto il lavoro all’analisi della governance portuale del Regno Unito in quanto principale esempio di totale privatizzazione del sistema portuale presente in Europa. Si tratta di un modello in cui i porti sono considerati esclusivamente attività commerciali come ogni altro business o attività industriale, pertanto si è sostanzialmente verificato un trasferimento dal settore pubblico a quello privato della proprietà degli assets o del diritto di costruire e gestire attrezzature, dotazioni e infrastrutture portuali. L’istallazione di un governo di coalizione conservatori/liberaldemocratici nel 2010 ha, però, scatenato nuovamente il dibattito in merito alla privatizzazione dei restanti maggiori ‘trust ports’. Infatti, in questi ultimi anni, i risultati relativi alla privatizzazione mostrano come essa non abbia poi avuto un gran successo: - la maggioranza dei porti britannici non ha incrementato più di tanto le entrate dagli anni Ottanta ad oggi; - in un certo numero di porti privatizzati sembrano essersi creati veri e propri monopoli; - il metodo di privatizzazione dei porti adottato nel Regno Unito è unico in quanto ha coinvolto il trasferimento di tutte e tre le funzioni chiave del porto, ossia la proprietà, le operazioni portuali, l’attività di controllo e regolamentazione. Per attrarre investimenti privati, dunque, non è obbligatorio privatizzare i porti abolendo completamente la “cosa pubblica”, anche perché gli obiettivi principali di un “padrone di casa” esclusivamente privato sono completamente differenti da quelli in cui è presente, seppur in parte, il servizio pubblico (fare denaro e affari nel primo caso, generare benefici economici e commerciali per il paese, nel secondo caso). 179 Tav. 8 - Le principali caratteristiche del sistema portuale del Regno Unito REGNO UNITO Strutture portuali presenti Complessivamente circa 1000 porti, di cui 650 con poteri statutari e 120 circa attivi dal punto di vista commerciale. 1981 – Abolizione del National Ports Council Quadro legislativo e istituzionale 19 983 – Cessione di quote a privati da parte dell’Association British Ports 1991 – Ports Act in cui avviene la totale privatizzazione del settore Organi centrali nazionali Nessuno Modello di governo attuato Modello Private Caratteristiche e specificità Riforme recenti 2010 – Controverso dibattito in corso a proposito della privatizzazione dei restanti maggiori ‘trust ports’, scatenatosi in occasione dell’avvio del processo di privatizzazione del porto di Dover. Organizzazione del lavoro Maggioranza dei porti in mano ai privati; mancanza di un organo regolatore dei porti di carattere statale; distinzione in porti privatizzati (di proprietà di aziende private), porti in affidamento (‘trust ports’) e porti municipali; trattandosi in buona parte di porti governati secondo una concezione privatistica, il ruolo del governo dovrebbe limitarsi alla creazione di un ambiente di mercato adeguato e un mercato di tipo concorrenziale dovrebbe assicurare un’adeguata capacità a prezzi competitivi. Tradizionalmente, il sistema lavorativo portuale inglese è stato sempre saltuario e ‘casuale’; 1989 – abolizione del NDLS (Schema Nazionale del Lavoro Portuale) in cui la movimentazione della merce e il lavoro nell’area portuale dovevano essere svolti da lavoratori registrati e solo datori di lavoro registrati potevano impiegare tali lavoratori; da allora molte imprese terminaliste impiegano un loro nucleo di forza lavoro e gestiscono le proprie agenzie di collocamento per soddisfare i picchi di lavoro della domanda, nonché la formazione dei lavoratori temporanei; molti attribuiscono la rivitalizzazione dei porti britannici alla combinazione di privatizzazione, crescita di investimenti e abbondante offerta di lavoro. Fonte: elaborazione Isfort su fonti varie, 2010 180 3.4. L’area orientale: Mar Nero, Mar Baltico e versante orientale dell’Adriatico In tempi piuttosto recenti si sono affacciati sul mercato e sul traffico dei commerci internazionali alcune nuove realtà definite da alcuni le “nuove forme anseatiche” (comprendenti le autorità portuali di regioni quali Polonia, Estonia, Lituania e Lettonia) o le “nuove forme latine” 9 (comprendenti autorità portuali quali quelle di Slovenia, Croazia, Bulgaria e Romania). Si tratta dei paesi europei di economia emergente che stanno avendo anche loro una serie di cambiamenti e proposte di riforma all’interno del loro sistema portuale, per lo più indirizzati verso forme, anche se parziali, di privatizzazione. Tav. 9 - Le principali caratteristiche del sistema portuale delle nuove realtà del Mar Nero, Mar Baltico e versante orientale Adriatico BULGARIA ROMANIA POLONIA 5 porti nazionali e 24 di carattere regionale; marzo 200 4 - Legge sullo spazio marino, le vie navigabili interne e i 2004 porti” (‘SSIWP Law’) con cui si istituisce la Compagnia nazionale “Porti”, società a totale partecipazione statale con funzioni amministrative, governative e commerciali; tale legge ha favorito il passaggio da un modello di governance portuale di tipo ‘toolport’ ad uno di tipo ‘landlord’; realizzazione di varie riforme portuali volte a privatizzare i 2 porti principali di Varna e Bourgas; 2010 - sono state riunite tutte le responsabilità (anche nautiche) dell’Autorità portuale sotto un’unica società. 3 grandi porti nel Mar Nero e 3 di carattere anche fluviale; agosto 2003 - il porto di Costanza, porto più grande sul Mar Nero e quarto in Europa, è divenuto “Porto con Strutture Doganali” ottenendo agevolazioni e vantaggi per il suo sviluppo; 2010 (luglio) – revisione del quadro giuridico amministrativo portuale e utilizzo dell’ infrastruttura pubblica portuale (revisione Decr. 22/99) che ha condotto alla sub concessione della proprietà portuale ad aziende e operatori privati; modello landlord 3 porti di importanza nazionale e 10 minori; 1996 – “Atto sui porti e sui porti marittimi” che costituisce il fondamento della politica portuale polacca e stabilisce il ruolo degli enti governativi del porto; da allora la legge è stata modificata più volte ed è stata imposta la vendita di quote di società portuali; 2004 – Atto che stabilisce norme e regole in materia di tasse portuali; attualmente non esiste una procedura legislativa specifica, è ancora in corso l’esecuzione di alcune disposizioni dell’Atto, come ad esempio, la privatizzazione delle aziende derivate dalle autorità portuali, coinvolte nella movimentazione. (continua) 9 Cfr. European Port Governance, Draft version 10/11/2010, ESPO 2010. 181 (segue) Tav. 9 - Le principali caratteristiche del sistema portuale delle nuove realtà del Mar Nero, Baltico e versante orientale Adriatico ESTONIA LETTONIA LITUANIA RUSSIA U CR A I N A SLOVENIA CROAZIA I porti estoni sono gestiti come società per azioni fondate sul diritto societario (sia porti privati, municipali o statali); “Atto dei Porti” – disciplina gli obblighi delle autorità portuali nell’assicurare sicurezza e controllo; modello toolport 1994 –“Legge sui porti”, fondamento della legislazione e politica portuale lettone; modello landlord 1 porto principale (Klapeida); Il settore portuale viene governato dalla strategia a lungo termine di sviluppo e dal Piano Strategico di Attività della durata di 3 anni approvato dal Ministero dei Trasporti; modello landlord I principali porti della regione russa europea sono 3: San Pietroburgo e Kalingrad che si affacciano sul Mar Baltico e Novorossijsk sul Mar Nero; I porti, come il resto delle infrastrutture dei trasporti, sono di proprietà dello Stato; modello toolport 18 porti che si collocano principalmente sulle coste del, del Mare di Azov e sui fiumi Danubio, Pripyat e Nistro; mporti ucraini sono sotto l'Amministrazione del Ministero dei Trasporti e, per la maggior parte sono di proprietà statale. Il Governo intende trasformare i porti più importanti in porti franchi, creando zone economiche speciali nelle adiacenze. 1 porto principale per il traffico delle merci (Koper); 2001 – Codice della navigazione sloveno (CN) con cui i porti marittimi sloveni vengono principalmente disciplinati insieme alla legge disciplinante i diritti sulle acque. Tale Codice distingue tre tipologie di porti: i porti aperti al traffico internazionale e/o domestico, i porti destinati a finalità speciali e i porti militari; 8 - Decreto di riforma del regime della gestione e 200 2008 amministrazione del porto di Koper, per trasferire alcune competenze della società all’Amministrazione Marittima; il Ministero dovrebbe essere incaricato del rilascio delle autorizzazioni per l’espletamento delle attività commerciali mentre la società Luka Koper dovrebbe conservare la prerogativa dell’ adempimento delle maggiori attività portuali come la movimentazione della merce. Porti aperti al traffico pubblico (internazionale e/o domestico) e porti con finalità specifiche; 2003 – Legge sul demanio e i porti marittimi ed istituzione delle Autorità Portuali; 2004 – Codice marittimo. Fonte: elaborazione Isfort su fonti varie, 2010 182 3.5. La sponda meridionale e mediorientale del Mediterraneo Appare opportuno premettere che sono state ravvisate alcune difficoltà nel reperimento di documentazione e materiale in relazione alla gestione, manutenzione e organizzazione dei porti nei paesi di quest’area del mediterraneo, per cui il quadro informativo complessivo relativamente alla governance portuale in questi paesi non risulta certamente esaustivo e completo. Vengono di fatto presentati alcuni elementi utili per ricostruire una prima visione generale dell’organizzazione e del governo portuale in questa zona geografica, dando l’opportunità di intuire l’esistenza di un processo di trasformazione in atto in questo settore, senza però aver chiari di fatto gli specifici passaggi che ogni Paese sta realizzando. Non si può mancare di osservare, infine, come quest’intera area del Mediterraneo sia teatro, proprio in questi giorni, di trasformazioni e rivolgimenti politici e sociali che vanno ben oltre l’argomento del presente lavoro. Tav. 10 - Le principali caratteristiche del sistema portuale dei paesi della sponda meridionale e mediorientale del Mediterraneo TURCHIA TUNISIA ALGERIA Dei circa 160 complessivi porti turchi, i porti principali sono 5 (Izmir, Istanbul-Izmit, Iskenderun, Adana-Mersin e Samsun); è stato avviato, in Turchia, un ampio processo di privatizzazione di tali porti per cui l’amministrazione portuale di Mersin è stata privatizzata nel 2007, i porti di Bandirma, Samsun, Derince, e Izmir sono stati privatizzati per 36 anni nel 2010, il porto di Iskenderun ha completato gli studi tecnici ed ha avviato il processo per indire la gara per la privatizzazione. 8 principali porti commerciali commerciali (Bizerte, Menzel Bourguiba,,Tunis-Goulette-Radès, Sousse, Sfax Sidi Youssef, La Skhira, Gabès, Zarzis), 22 porti minori e un terminal petrolifero; 199 9 – Nuovo Codice dei porti marittimi commerciali, in cui vengono definite le regole di 1999 utilizzo delle proprietà pubbliche portuali; in sostanza, è incentrato a promuovere una politica di apertura al partenariato pubblico-privato; la politica marittima viene elaborata dalla Direzione Generale della Marina Mercantile composta da 8 compagnie nazionali, di cui 7 società private ed 1 impresa pubblica; 2002 – riforma del porto di Tunis-Goulette-Rades, principale porto di transito del traffico di container e traghetti tunisino (assicura il 16% del traffico portuale a livello nazionale), nella quale si è messo mano all’organizzazione delle procedure di funzionamento, alla crescita della capacità di deposito del porto, al rafforzamento delle attrezzature di manutenzione e semplificazione delle procedure. 9 porti principali, di cui il più importante, quello di Algeri, è in espansione; il sistema del trasporto marittimo in Algeria ha attraversato 3 fasi di ristrutturazione dal 1962 (anno dell’indipendenza) ad oggi: il cosiddetto sistema misto, il periodo di centralizzazione e la fase di decentramento; dal 1982 1982, nel corso della fase di decentramento, le imprese pubbliche nazionali operanti nei porti sono state sostituite da 8 imprese portuarie private che gestiscono uno o più porti (commerciali o dedicati alla pesca); 198 8 – tali imprese sono state trasformate in società per azioni; 1988 199 6 – trasformazione in holding del Fondo di partecipazione “servizi” da cui dipendono le 1996 imprese portuali; 1998 – Separazione tra i compiti di servizio pubblico e le attività commerciali aperte alla concorrenza; creazione di 3 Autorità portuali su base regionale (est, ovest, centro), istituti pubblici a carattere industriale e commerciale dotati di personalità giuridica e di autonomia finanziaria (Decreto esecutivo n. 99 dell’8 agosto 1999). (continua) 183 (continua) Tav. EGITTO 10 - Le principali caratteristiche del sistema portuale dei paesi della sponda meridionale e mediorientale del Mediterraneo MAROCCO GIORDANIA LIBANO ISRAELE in Egitto si contano, ad oggi, 14 porti specializzati nel traffico di prodotti petroliferi, 9 porti in quello di prodotti minerari, 8 porti per i prodotti della pesca e 11 porti specializzati nella gestione dei flussi di traffico turistico; i principali porti sul Mediterraneo sono quelli di Alessandria, Damietta, El Dekheila, Port Said e East Port Said, mentre il principale scalo per il transito di prodotti petroliferi è quello di Zeit, sul Mar Rosso; legge governativa (1996 1999) introducono una (1996) e Direttiva del Ministero dei Trasporti (1999 dettagliata regolamentazione per i porti specializzati in singole attività; processo di parziale liberalizzazione del settore portuale attraverso la concessione della gestione a soggetti privati dei porti di Ain Sukna, sul Mar Rosso a Sud di Suez (inaugurato nel 200 2), di East Port Said, all’ingresso del Canale di Suez (inaugurato nel 200 4), e di 2002 2004 Damietta, sul versante orientale dell’estuario del Nilo (inaugurato nel 200 4). 2004 24 porti che gestiscono il 98% del volume complessivo del commercio in Marocco; il principale porto, quello di Casablanca, assume un ruolo importante nei settori degli idrocarburi e dei fosfati; 2003 – lavori di completamento e ampliamento del porto di Tangeri-Med, secondo porto marocchino per dimensioni, divenuto operativo nel 200 7 e già con volumi di traffici elevati e 2007 molto concorrenziali. 1 solo porto, quello di Aqaba; 200 1 - Aqaba rientra nell’area di competenza della ‘Aqaba Special Economic Zone Authority’ 2001 (ASEZA); 2004 - sotto la tutela della ‘Aqaba Development Corporation’ (ADC), la quale ha intrapreso un progetto di ampie dimensioni, e del valore di 1 miliardo di dollari, per spostare a sud, a ridosso del confine con l’Arabia Saudita, le infrastrutture portuali esistenti al fine di liberare un’area da dedicare al flusso turistico e di ridisegnare ed espandere il porto; 2004 – il governo giordano decide di affidare la gestione delle aree dedicate ai containers e alle merci a compagnie private. I principali porti libanesi sono quello di Beirut (per il quale transita il 70% della merce), di Saida, Tripoli e Tyre; 2004 – l’amministrazione e la gestione del porto di Beirut viene affidata ad un consorzio di compagnie private inglesi, statunitensi e locali; i porti di Saida, Tripoli e Tyre sono invece gestiti da Autorità pubbliche. I principali porti in Israele sono quelli di Haifa, Eilat e Ashod, tradizionalmente governati da autorità nazionali di carattere statale; 200 4 – istituzione dell’’Israel’s Shipping and Port Authority Act’, una nuova struttura di 2004 gestione portuale finalizzata a promuovere una maggiore competitività del paese nel settore; Il Governo israelitico ha avviato un processo di riforme del sistema portuale, ancora attualmente in corso, volto a privatizzare i servizi di movimentazione delle merci; 2009 – avvio del processo di privatizzazione dei porti sul Mediterraneo di Haifa e Ashod; tale processo prevede di essere articolato in diverse fasi, la prima delle quali è stata inaugurata nel febbraio 2010 quando il 15% delle quote delle compagnie portuali è stato venduto sul mercato azionario, attraverso un’offerta pubblica; tale processo, che prevede altre due fasi, si concluderà nel 2020 quando lo Stato non sarà più il proprietario di maggioranza; la privatizzazione del porto di Eilat prevede la vendita della quota statale in maniera diretta a un investitore strategico. Fonte: elaborazione Isfort su fonti varie, 2010 184 4. Le dinamiche dei traffici marittimi 4.1. L’evoluzione del quadro dello scambio di merci a livello internazionale Un rapido sguardo all’andamento degli scambi internazionali nel contesto economico mondiale Le tensioni sui mercati internazionali, attivatesi dalla metà del 2008, hanno prodotto una serie di effetti a catena che si sono ben presto diffusi dal sistema finanziario a quello reale. Da ciò è conseguita non solo una contrazione del Pil mondiale (-0,6 per cento tra il 2009 e il 2008), ma anche una forte flessione degli scambi internazionali (-12,2%) (cfr. Graf.1). Graf. 1 - Crescita percentuale dello scambio di merci e del Prodotto Interno Lordo a livello mondiale Fonte: Rapporto ICE, L’Italia nell’economia internazionale 2009-2010 Tali effetti negativi - verificatisi in tempi molto rapidi - si sono poi estesi ad interi mercati e sistemi economici ormai interconnessi tra loro, permettendo così la contrazione della domanda di beni in tutto il mondo ed il conseguente rallentamento dell’attività economica. Questo scenario di difficoltà ed incertezza ha spinto pertanto i Governi e le Banche Centrali ad attuare massicce iniziative di politica economica che si sono però 185 differenziate nei diversi Paesi anche a causa della eterogenea situazione economica presentasi inizialmente. I paesi avanzati infatti presentavano una situazione di forte indebitamento e, di conseguenza, hanno avuto alcuni limiti d’intervento; al contrario molti tra i paesi emergenti hanno potuto adottare politiche economiche espansive senza temere in modo particolare per la loro sostenibilità nel lungo periodo grazie alle ingenti risorse a disposizione. Ci si è trovati di fronte, quindi, ad uno scenario particolarmente disomogeneo nel quale le economie emergenti sono state chiamate a svolgere la funzione di “volano” per la futura stabilizzazione del ciclo economico. Queste infatti, non solo hanno registrato tassi di crescita del Pil positivi per il 2009, ma sembra siano riusciti a mantenere una forte vivacità della loro attività produttiva anche nel biennio 2010-2011 a differenza di quanto sta accadendo per i paesi avanzati. Nello specifico, il continente asiatico sta andando a rafforzare la sua posizione sia in termini di crescita economica che di commercio internazionale, grazie al traino dell’India e della Cina. Quest’ultima, ad esempio, nel 2010 è divenuta il primo esportatore mondiale (superando la Germania) grazie a strategie commerciali particolarmente agguerrite che hanno permesso una progressiva erosione delle quote di mercato detenute dagli altri competitor internazionali. Tab. 1 - Quadro Macroeconomico (variazioni percentuali ove non altrimenti specificato) Prodotto Interno Lordo Aree e Paesi 2007 UNIONE EUROPEA di cui Area dell’euro 2008 2009 2010(1) Prodotto Interno Lordo (peso % sul totale)(2) 2007 2008 2009 2010(1) 2007 2008 2009 Saldo di conto corrente del Pil (%) 2010(1) 3,1 0,9 -4,1 1,0 22,4 23,0 22,4 22,7 -0,4 -1,1 -0,3 2,8 0,6 -4,1 1,0 15,9 16,4 15,9 16,2 0,4 -0,8 -0,4 -0,0 EUROPA CENTRALE E ORIENTALE di cui Russia 5,5 3,0 -3,7 2,8 3,6 3,8 3,7 3,8 -8,0 -7,8 -2,3 -3,5 8,1 5,6 -7,9 4,0 3,2 3,4 3,2 3,3 6,0 6,2 3,9 5,1 MEDIO ORIENTE E NORD AFRICA 5,6 5,1 2,4 4,5 4,7 5,0 5,2 5,5 15,7 15,5 17,6 52,5 AFRICA SUB-SAHARIANA di cui Sud Africa 6,9 5,5 2,1 4,7 2,3 2,5 2,5 2,7 1,2 0,9 -2,1 -1,7 5,5 3,7 -1,8 2,6 0,7 0,8 0,8 0,8 -7,2 -7,1 -4,0 -5,0 - - - - - - - - - - - - 2,4 -1,2 -5,2 1,9 6,5 6,6 6,3 6,4 4,8 3,2 2,8 2,8 10,6 7,9 6,6 8,7 20,0 22,1 23,8 26,0 7,0 5,7 4,1 4,1 13,0 9,4 9,6 7,3 8,7 5,7 10,0 8,8 10,8 4,5 12,0 5,0 13,2 5,3 14,7 5,8 11,0 -1,0 9,4 -2,2 5,8 -2,1 6,2 -2,2 USA 2,1 0,4 -2,4 3,1 -5,2 -4,9 -2,9 -3,3 AMERICA CENTRO-MERIDIONALE di cui Brasile 5,8 4,3 -1,8 4,0 8,5 9,1 9,0 9,4 0,4 -0,6 -0,5 -1,0 6,1 5,1 -0,2 5,5 2,8 3,0 3,0 3,2 0,1 -1,7 -1,5 -2,9 MONDO 5,2 3,0 -0,6 4,2 100,0 100,0 100,0 100,0 … … … … ASIA di cui Giappone ALTRI PAESI ASIATICI, di cui Cina India (1) (2) Stime FMI World Economic Outlook, Aprile 2009 su dati 2008. I valori sono basati sulla parità del potere di acquisto (PPP). Fonte: elaborazioni ICE su dati FMI, World Economic Outlook, Aprile 2010 186 21,3 21,8 21,5 22,4 -0,2 Dalla tabella si osserva come sia in atto una ripresa a due velocità in cui le economie avanzate si mantengono su un trend notevolmente inferiore rispetto a quello degli ultimi anni. Gli Stati Uniti, nonostante siano stati l’epicentro degli squilibri globali, hanno registrato una contrazione minore rispetto alla media risentendo positivamente del piano di stimolo governativo (le cui risorse sono state distribuite tra investimenti pubblici, tagli alle imposte e incentivi fiscali alle imprese) che dovrebbe essersi concluso entro la metà del 2010. L’area Euro, invece, ha segnato una netta contrazione del Pil nel 2009 che, oltre alla forte riduzione delle esportazioni (cfr. Graf. 2), ha sofferto la debole domanda interna come riflesso delle difficoltà nella spesa da parte delle famiglie. Per quanto riguarda la stabilità dell’area, l'intervento a favore della Grecia è andato ad allentare le tensioni relative ad un possibile fallimento di un paese membro e ha ridotto le ricadute negative per alcune banche europee detentrici di un elevato ammontare di titoli di debito pubblico ellenici. Ancora non è chiaro e sarà necessario osservare attentamente come nel medio periodo i mercati finanziari risponderanno a tali interventi e se altri paesi membri saranno coinvolti in situazioni simili a quelle della Grecia, come del resto sta avvenendo in questi giorni per il Portogallo e con il forte rischio di un eventuale coinvolgimento di altri paesi europei quali ad esempio la Spagna. In questo contesto di difficoltà internazionale, come già detto, Cina e India hanno mantenuto un ritmo di crescita positivo (anche se inferiore rispetto al passato) grazie alla rapidità nell’avvio di misure anti-crisi che hanno favorito una migliore stabilità interna e un continuo afflusso di capitali stranieri. Queste nuove risorse finanziare hanno, infatti, migliorato il processo di accumulazione e incrementato gli investimenti nei settori a elevato valore aggiunto. I paesi dell’Europa dell’Est hanno mostrato, invece, una serie di aspetti negativi: la Russia ha pagato l’eccessiva dipendenza dal settore energetico, mentre il crollo del sistema bancario ha prodotto notevoli difficoltà nelle altre economie dell’area. Se gli Stati baltici e l'Ucraina hanno scontato una netta flessione dell'attività economica durante il 2009, la Polonia sembra andare in controtendenza tanto da essere stato l'unico paese europeo a mantenersi su un sentiero di crescita positivo a seguito di una minore esposizione finanziaria sui mercati internazionali e del dinamismo del mercato interno, che è riuscito a compensare la contrazione delle esportazioni. 187 Graf. 2 - Importazioni ed esportazioni in valori e volumi Graf. 2 - Importazioni ed esportazioni in valori e volumi Fonte: Rapporto ICE, L’Italia nell’economia internazionale 2009-2010 Tutto ciò ha evidenziato come i paesi maggiormente integrati nel sistema finanziario internazionale e con una forte evoluzione del mercato creditizio sono risultati più vulnerabili alle turbolenze rispetto a quelli meno aperti. L’area mediorientale e quella africana, infine, nonostante il forte rallentamento rispetto al passato, hanno mantenuto nel 2009 un valore positivo del tasso di crescita a differenza di quanto è avvenuto all’interno dell’America Latina 10 . 10 Cfr. Rapporto Ice – Istat 2009-2010, L’Italia nell’economia internazionale. 188 Pertanto, viene confermato quanto rilevato anche nelle precedenti indagini dell’Osservatorio della logistica e dei trasporti; prossimamente il motore della crescita mondiale sarà ancora il continente asiatico. La buona tenuta durante il periodo di recessione è consolidata da un forte dinamismo nel biennio 2010-2011, prodotto non solo dalle manovre di stimolo ma anche dalla rinnovata crescita dei mercati di destinazione delle esportazioni e dall’ampia liquidità derivante dai continui afflussi di capitali stranieri. La spinta propulsiva all’economia regionale sarà fornita ancora una volta dall’India e, soprattutto, dalla Cina. Quest’ultima ha assunto infatti un ruolo importante per le altre aree asiatiche divenendo nel tempo uno sbocco non solo per i beni intermedi 11 , ma anche per quelli di consumo destinati all’ampio mercato interno 12 . Superato il picco acuto della fase recessiva, quest'anno gli scambi internazionali in volume sembra tornino a crescere, grazie soprattutto alla spinta dei paesi emergenti, ma saranno necessari almeno due anni prima di tornare ai livelli precedenti alla crisi. I dati preliminari del Wto – relativi al primo trimestre del 2010 – infatti indicano un incremento delle importazioni e delle esportazioni superiore al 20%. Nello specifico, grazie alla domanda asiatica e alla ripresa delle quotazioni delle commodity, le merci in uscita dall’Africa, dal Medio Oriente e dalla Comunità degli Stati Indipendenti mostrano una crescita di circa il 50% rispetto al corrispondente trimestre del 2009. Tab. 2 - Distribuzione dei flussi commerciali per aree geografiche (pesi percentuali sui valori a prezzi correnti) Aree geografiche Unione Europea Area dell’euro Paesi europei non UE Africa America settentrionale America centro-meridionale Medio Oriente Asia centrale Asia orientale Oceania e altri territori Mondo 2007 38,2 Esportazioni 2008 36,7 2009 36,7 2007 39,2 6,3 3,1 13,2 3,6 5,5 1,8 27,0 1,4 7,0 3,5 12,6 3,7 6,4 2,1 26,5 1,6 6,4 3,0 12,9 3,7 5,5 2,1 28,1 1,7 5,6 2,6 18,9 3,2 3,3 2,4 23,2 1,6 28,0 100,0 26,8 100,0 26,9 100,0 26,0 100,0 Importazioni 2008 38,1 25,4 6,0 2,9 17,6 3,6 3,6 2,8 23,7 1,6 100,0 Fonte: Rapporto ICE, L’Italia nell’economia internazionale 2009-2010 11 Gli scambi commerciali moderni sono caratterizzati dal notevole peso dei beni “intermedi” che rappresentano solamente una parte di un prodotto finale che successivamente sarà esportato nuovamente verso altri mercati. 12 D. Marconi e L.Painelli (2009), “Assessing the vulnerability of emerging Asia to external demand shocks: the role of China”, Banca d’Italia, Questioni di Economia e Finanza, n° 38. 189 2009 37,3 25,3 5,5 3,2 17,2 3,5 3,9 2,9 24,8 1,7 100,0 Il commercio mondiale, dunque, ha oggi ripreso la sua espansione, ma “la velocità della crescita è però molto diversa nelle varie aree mondiali, con i paesi emergenti, soprattutto quelli asiatici, a fare da “lepre” e quelli maturi, in particolare in Europa, nel ruolo di inseguitori. La maggior persistenza della crisi nel Vecchio Continente appare il fenomeno più preoccupante anche in ottica futura, in quanto la mancanza dei piani anti-crisi e la necessità per gli stati sovrani di recuperare almeno parte degli squilibri finanziari, andando a gravare sui bilanci di famiglie e imprese, costituiscono un elemento di forte preoccupazione circa la possibilità di un rafforzamento e una continuità della fase di recupero in atto” 13 . L’Asia avrà dunque la parte più rilevante nel guadagnare importanza nei nuovi mercati, ma anche l’America centro-meridionale, il Nord Africa, il Medio Oriente e gli altri paesi dell’emisfero australe, pur con un peso complessivo meno rilevante, sembrano intenzionati a mostrare una significativa dinamica di espansione. In sintesi, le dinamiche della domanda mondiale previste per i prossimi anni, anche se generalmente più basse rispetto a quelle sperimentate dal commercio mondiale pre-crisi, non evidenzieranno particolari mutamenti nello sviluppo atteso per i diversi paesi e settori. Ad essere cambiati profondamente saranno invece le dimensioni relative dei diversi mercati, con l’Asia che andrà sempre più rafforzando la propria posizione di assoluto rilievo. … e con particolare riferimento all’Europa La seconda fase della crisi - che ha condotto la quasi totalità delle economie mondiali ad attraversare una profonda recessione tra la fine del 2008 e i primi mesi del 2009 - ha pesantemente investito anche l’Unione europea (UE), riducendone drasticamente domanda interna, esportazioni e occupazione. Le difficoltà che sono derivate da questa situazione hanno messo in luce i limiti strutturali dell’ancora incompleto processo di costruzione dell’Unione europea sia sotto il profilo istituzionale sia sotto quello economico. La mancata convergenza economica e la scarsa coesione dell’area ha generato infatti instabilità prevalentemente tra alcuni paesi appartenenti all’Unione economica e monetaria. L’euro ha quindi subito un rapido deprezzamento, scontando l’incertezza che domina sui mercati circa l’efficacia delle strategie di uscita dalla crisi e la capacità dell’euro-area di mantenere il presente assetto. 13 Cfr. A. Dossena e A. Lanza di Prometeia spa , “Il commercio mondiale di manufatti: previsioni al 2012” in Rapporto Ice – Istat 2009-2010, L’Italia nell’economia internazionale. 190 Nel 2009 l’Unione europea si è confermata primo esportatore e primo importatore mondiale, ma gli scambi con l’estero hanno subito un sensibile arretramento. La persistente debolezza della domanda interna e la discesa dei prezzi delle materie prime rispetto al 2008 si sono riflesse sull’andamento delle importazioni che hanno fatto registrare flessioni più accentuate della media mondiale. Le esportazioni pur mostrando valori decrescenti sono state lievemente meno penalizzate, riuscendo a cogliere nella seconda parte del 2009 le opportunità presenti in mercati meno compromessi dalla crisi internazionale. Grazie a un andamento migliore rispetto a quello mondiale, l’Unione europea ha fatto segnare un piccolo recupero di quota di mercato sulle esportazioni mondiali. Tab. 3 - Importazioni ed esportazioni dell'UE (27 paesi) e dei maggiori paesi concorrenti (Valori in miliardi di euro e var. % sull'anno precedente) Unione europea(1) Variazione valori Variazione quantità Stati Uniti Variazione valori Variazione quantità Giappone Variazione valori Variazione quantità Cina(2) Variazione valori Variazione quantità Esportazioni 2006 2007 2003 2004 2005 869 953 1,053 1.159 - 9,6 9,7 10,5 7,3 641 655 - 2,2 8,2 417 455 - 9,0 13,5 Importazioni 2006 2007 2008 2009 2003 2004 2005 2008 2009 1.241 1.307 1.094 935 1.027 1.180 1.352 1.433 1.565 1.200 10,1 6,6 7,0 5,5 5,3 2,6 -16,2 -15,3 - 9,8 7,3 14,9 5,8 14,6 6,0 6,0 5,6 9,2 0,8 -23,3 -14,1 724 817 838 875 758 1.152 1.227 1.393 1.528 1.474 1.475 1.150 10,6 77,2 12,8 9,9 2,5 6,7 4,5 5,8 -13,4 -13,9 - 6,5 10,9 13,6 5,6 9,7 5,5 -3,5 1,1 0,1 -3,7 -22,0 -16,5 478 515 521 532 416 339 365 415 461 454 518 395 5,2 5,1 7,7 11,3 1,2 9,4 2,0 2,3 -21,7 -24,9 - 7,9 6,7 13,5 2,6 11,2 3,9 -1,6 1,3 14,2 -1,3 -23,8 -12,8 387 477 612 772 890 973 861 365 451 - 23,1 24,0 28,4 25,0 26,0 22,0 15,4 19,8 9,3 8,6 -11,4 -10,5 - 23,7 21,5 530 630 698 770 721 11,6 18,8 16,4 10,7 13,8 10,4 3,8 -6,4 2,8 17,6 (1) Esclusi gli scambi intra-UE27. (2) Le esportazioni includono le riesportazioni di Hong-Kong di origine cinese. Fonte: elaborazioni Isfort su dati OMC e Eurostat-Comext, 2010 4.2. I traffici marittimi: la lenta ripresa dopo la crisi Dopo un calo del volume degli scambi internazionali di oltre il 12% nel 2009, secondo le previsioni economiche effettuate dal FMI, la crescita del PIL mondiale corrisponde a circa il 4,5% per il 2010 e per il 2011. In particolare, il PIL dei paesi emergenti registrerà un aumento dell’8-9%, mentre nell’area euro la crescita del PIL sarà intorno all’1%. Una situazione economica così bloccata e negativa sembra derivi, come si è visto in precedenza, sostanzialmente da una serie di fattori quali la debolezza della domanda interna, la turbolenza dei mercati finanziari, le tensioni inflazionistiche dei paesi emergenti. 191 Di contro, la lieve ripresa sembra essere guidata dall’andamento del commercio internazionale. Esso, infatti, sembra avere un ruolo primario nella risalita dalla crisi economica, sia a livello internazionale sia per l’Italia. Il 2010, dunque, è stato caratterizzato dalla ripresa dei traffici marittimi a livello mondiale, anche grazie alla crescita del 15% dei commerci internazionali e le previsioni economiche di molti istituti addetti ai lavori (es. FMI, OECD, centro ricerche Deutsche Bank) prevedono anche che i traffici mondiali aumenteranno del 7-8% nel 2011. Secondo la stima 14 di Ihs Fairplay - società tedesca di studi statistici - a livello globale il traffico contenitori nel 2010 si è attestato intorno ai 115 milioni di TEU con una crescita dell'11,7% rispetto ai 103 milioni movimentati nel 2009 e con una previsione di incremento medio per anno, nei prossimi cinque anni, del 6,3%. L’indagine di Deutsche Bank fa previsioni, a livello mondiale, ancora più ottimistiche di Fairplay prefigurando nel 2011, una crescita della movimentazione di container del 7% e una media di +7-8% annuale fino al 2015. Tuttavia, sulle ottimistiche previsioni del mercato elaborate da tali istituti si inseriscono le ombre e le incertezze legate alla situazione in Nord Africa e in Medio Oriente, unite alle incognite dell'incidente nucleare in Giappone con i conseguenti rischi di contaminazioni radioattive dei container provenienti da porti giapponesi e cinesi. Appaiono da considerarsi dunque in maniera più cauta le valutazioni ottimistiche finora fornite, le quali sentiranno gli effetti della delicata situazione registrata in Nord Africa e le cui evoluzioni potrebbero modificare e condizionare in maniera piuttosto rilevante la geografia logistica nel Mediterraneo e nel pianeta 15 . I cambiamenti nella “classifica mondiale” per traffico containerizzato Anche nel 2010, come in passato, il continente asiatico si è confermato in pole position, con oltre 30 milioni di contenitori movimentati da e per i suoi porti, detenendo il 26,1% del mercato complessivo. La Cina, in particolare, ha chiuso l’anno con risultati significativi. I porti maggiori hanno segnato complessivamente un +10%, con 134 milioni di TEU movimentati. Il porto di Shanghai ad agosto è diventato il primo hub 14 Si tratta ancora di stime in quanto alcuni enti portuali non hanno reso pubblici i dati di traffico. 15 È da considerare infatti che nel 2009 il volume d'affari legato all'interscambio dell'Europa a 17 e i Paesi Nordafricani (Algeria, Egitto, Libia, Marocco e Tunisia) è stato pari a circa 209 miliardi di dollari, ossia il 4% del volume complessivo degli scambi commerciali dell'UE a 17. 192 per contenitori del mondo, scalzando Singapore. A novembre la crescita dello scalo cinese era del 21,9% rispetto all’anno precedente. Lo stesso porto di Singapore a ottobre cresceva “solamente” dell’11%, chiudendo i primi dieci mesi dell’anno con un parziale di 23,6 milioni di TEU. Nel 2010, quindi, come era già avvenuto nel 2009 (anno maggiore della crisi) e in precedenza, i primi quattro porti del mondo per traffico di contenitori sono cinesi. Tab. 4 - I primi cinque porti containerizzati nel mondo nel 2010 (risultati in TEU)(*) Classifica 1 2 3 4 5 (*) Paese e area commerciale Porto Shangai Singapore Hong Kong Shenzen Busan Cina (East Asia) Cina (Asia Sud Est) Cina (Asia Sud Est) Cina (East Asia) Corea (Asia Nord Est) 2010 2009 Var. % 29.050.000 28.400.000 23.600.000 22.500.000 25.002.000 25.866.400 21.040.000 18.250.100 11.954.861 16,2 9,8 12,2 23,3 n.d. n.d. Per l’anno 2010, sono disponibili al momento soltanto i dati relativi ai primi 5 porti. Fonte: elaborazioni Isfort su dati vari, 2010 La crescente quota della Cina nel mercato containerizzato globale non mostra pertanto alcun segnale di indebolimento, dato che le cifre recentemente pubblicate dal governo cinese mostrano che oltre 107,5 milioni di TEU sono stati movimentati nei terminal fluviali e nei porti costieri del paese nel periodo da gennaio a fine settembre di quest'anno. I primi 10 porti cinesi containerizzati hanno movimentato 87,2 milioni di TEU nel periodo gennaio-fine settembre 2010, con un aumento del 20,8% rispetto ai 72,2 milioni di TEU lavorati nel corrispondente periodo del 2009. Tab. 5 - Principali porti in Cina 2008-2010 (in TEU) Porto 2009 2008 Shanghai Shenzhen Guangzhou Ningbo-Zhousan Qingdao Tianjin Xiamen Dalian Lianyungang Yingkou 25.002.000 18.250.100 11.190.000 10.502.800 10.260.000 8.700.000 4.680.400 4.552.000 3.020.800 2.537.000 27.980.000 24.248.000 11.001.300 11.226.000 10.320.000 8.500.000 5.035.000 4.503.000 2.965.000 1.008.300 Totale 98.695.100 106.786.600 Var. % Gen/Set 2010 Gen/Set 2009 Var. % -10,6 -24,7 1,7 -6,4 -0,6 2,4 -7,0 1,1 1,9 151,6 -7,6 21.597.800 16.892.400 9.131.500 9.846.600 8.847.200 7.375.400 4.282.700 3.847.600 2.884.700 2.466.000 18.226.000 13.156.100 8.153.100 7.662.700 7.673.200 6.374.600 3.385.500 3.369.200 2.183.700 1.979.100 87.171.900 72.163.200 18,5 28,4 12,0 28,5 15,3 15,7 26,5 14,2 32,1 24,6 20,8 Fonte: www.portcontainer.cn e liner intelligence (www.ci-online.co.uk), 2010 193 Graf. 3 – Evoluzione mensile del traffico containerizzato nei principali porti cinesi Fonte: Informare, 2010 Il traffico container in Europa Venendo invece all’Europa, nel 2010, il traffico contenitori complessivo è stato pari a 70 milioni di TEU, in crescita del 18,6% rispetto ai 59 milioni movimentati nel 2009. Scendendo nel dettaglio, la crescita non è stata del tutto omogenea e i risultati conseguiti nel 2010 hanno variato a seconda delle aree geografiche. I porti del Nord Europa sembrano essere tornati alla normalità conseguendo una crescita complessiva del 12%, anche se con differenze notevoli per i singoli porti. A livello mondiale, infatti, il porto di Anversa è divenuto negli ultimi anni il secondo porto container europeo e il quindicesimo nel mondo, mentre Rotterdam che per molto tempo si è collocato alla settima posizione come primo porto non asiatico, seguito da quello di Amburgo, è sceso di qualche posizione già dal 2009 (in undicesima posizione). Come si evince dalla tabella successiva, il porto di Amburgo ha risentito della crisi economica e finanziaria generale più degli altri porti nord europei e la fase di recupero cominciata nel 2010 non ha ancora raggiunto i risultati sperati, anche se comunque la ripresa dell’economia tedesca e dei traffici con il Baltico e l’Europa orientale fanno sperare nel raggiungimento delle cifre di traffico del 2008, cosa che avverrà però probabilmente soltanto nel 2012. 194 Anche il porto di Brema-Bremerhaven non ha avuto i successi sperati, mentre il porto di Rotterdam, nonostante la perdita di posizioni a livello mondiale, ha ottenuto buoni risultati (+14%) ed è stato - con l’accoglienza di navi dal pescaggio profondo ed il trasbordo in aumento verso Regno Unito ed Irlanda - l’unico porto nord europeo, tra quelli che occupano di solito le prime posizioni, ad aver avuto una variazione complessiva del periodo 20082010 di segno positivo (+2,9%). Da osservare, infine, la crescita del porto di Zeebrugge in controtendenza con i valori di crisi delle altre realtà portuali (+13,1%). Tab. 6 - I principali porti del Nord Europa (in TEU). Anni 2007-2010 2007 Rotterdam Anversa Amburgo Brema Zeebrugge Le Havre 10.790.829 8.175.952 9.889.792 4.912.177 2.020.722 2.656.171 2008 10.783.825 8.662.890 9.737.110 5.529.159 2.209.715 2.488.664 2009 9.743.290 7.309.640 7.007.704 4.564.554 2.328.193 2.240.714 2010 11.100.000 8.468.475 7.896.000 4.871.297 2.500.000 2.400.000 Var. % 2008-2009 -9,6 -15,6 -28,0 -17,4 5,4 -10,0 Var. % 2009-2010 Var. % 2008-2010 13,9 15,9 12,7 6,7 7,4 7,1 2,9 -2,2 -18,9 -11,9 13,1 -3,6 Fonte: elaborazione Isfort su dati Autorità portuali, aprile 2011 La crescita complessiva dei porti del Mediterraneo occidentale, invece, si è attestata per il 2010 intorno al 14%, evidenziando una discreta ripresa di alcuni porti, ad esclusione di quelli di transhipment (cfr. Tab. 17). Il porto di Valencia ha avuto la crescita maggiormente positiva (+15,1%), insieme ai porti italiani di Genova (+ 14,5%) e La Spezia (uno straordinario +22,9%). Barcellona non è invece riuscita a recuperare pienamente la propria quota di mercato nei traffici marittimi di trasbordo perduta nel periodo più duro della crisi economico-finanziaria, non traendo vantaggio neanche dalle gravi agitazioni sindacali verificatesi nel corso del 2010 nel vicino porto di Marsiglia, cosa che invece sono riusciti a fare Anversa, La Spezia e Genova. Parlando dei porti spagnoli, Algeciras ha avuto un risultato (-5%) deludente, risentendo particolarmente della crescita del Nord Africa. Il porto del Pireo ha avuto, nonostante la forte crisi ellenica, una crescita del traffico containerizzato pari a circa il 30%, anche se è da considerare che un fortissimo calo era avvenuto per il porto greco tra il 2007 e il 2008. 195 Tab. 7 - I principali porti del Mediterraneo Occidentale (in TEU). Anni 20072010 2007 Valencia Barcellona Marsiglia Genova La Spezia Pireo 3.042.665 2.610.100 1.002.879 1.855.026 1.187.040 1.373.138 2008 3.602.112 2.569.549 851.425 1.766.605 1.246.139 433.582 2009 2010 3.653.890 1.800.662 876.757 1.533.627 1.046.063 664.895 4.206.937 1.931.033 953.435 1.758.858 1.285.155 863.808 Var. % 2008-2009 1,4 -29,9 3,0 -13,2 -16,1 53,3 2009-2010 2008-2010 15,1 7,2 8,7 14,7 22,9 29,9 16,8 -24,8 12,0 -0,4 3,1 99,2 Fonte: elaborazione Isfort su dati Autorità portuali, aprile 2011 Analizzando l’andamento dei principali porti in Europa (compreso il transhipment) negli ultimi venti anni circa, si osserva la crescita pressoché costante dei porti nordeuropei ad eccezione, come già sottolineato, del porto di Amburgo che perde qualche posizione nell’ultimo quinquennio, mentre segue il medesimo andamento (anche se con cifre minori) il porto di Zeebrugge e, tra quelli del mediterraneo, il porto di Valencia. Gli altri sembrano aver avuto un certo rallentamento negli ultimi cinque anni, soprattutto i porti di transhipment di Gioia Tauro ed Algeciras. Graf. 4 – Andamento quinquennale del traffico containerizzato dei principali porti europei (in migliaia di TEU). Anni 1990, 1995, 2000, 2005 e 2010 12.000 10.000 8.000 6.000 4.000 2.000 0 1990 1995 2000 2005 2010 Rotterdam Amburgo Anversa Brema/Bremerhaven Gioia Tauro Algeciras Valencia Le Havre Barcellona Zeebrugge Genova La Spezia Fonte: elaborazione Isfort su dati Autorità portuali, aprile 2011 196 Prendendo in esame, nello specifico, il traffico contenitori dei suddetti porti europei negli ultimi anni, si riscontra un generale calo nel 2009, a seguito della crisi mondiale economico-finanziaria. In particolare il porto di Amburgo sembra aver subito il calo di traffico maggiore (-28%), tanto da essere superato dal porto di Anversa, mentre i porti di Valencia e di Zeebrugge hanno proseguito (anche se con qualche rallentamento) la loro crescita. Graf. 5 – Andamento traffico contenitori dei principali porti europei (in migliaia di TEU). Anni 1990, 1995, 2000 e 2005-2010 12.000 10.000 8.000 6.000 4.000 2.000 0 1990 1995 2000 2005 2006 2007 2008 2009 Rotterdam Amburgo Anversa Brema/Bremerhaven Gioia Tauro Algeciras Valencia Le Havre Barcellona Zeebrugge Genova La Spezia 2010 Fonte: elaborazione Isfort su dati Autorità portuali, aprile 2011 Est Europa e Mar Nero Per quanto riguarda il versante orientale del Mediterraneo, i suoi porti hanno registrato le migliori prestazioni con una crescita complessiva di oltre il 21%. Da sottolineare la notevole crescita del porto di Koper (Capodistria), derivante dal consistente incremento economico dell’Europa Orientale e dal crescente supporto da parte dell’Europa centrale, nonché come sottolinea il 197 presidente del Porto G. Velselko “dalla nuova linea di collegamento con il Far East che nel 2010 ha rappresentato il 13% della movimentazione complessiva di TEU”. Anche i porti containerizzati della Turchia, sebbene con differenze tra le diverse realtà portuali, hanno registrato complessivamente considerevoli successi, dal momento che i traffici si sono ripresi soprattutto in Asia. In particolare, il principale sistema portuale per la movimentazione di container di Istanbul, Ambarli, ha incrementato la propria posizione quale porta di accesso all’Europa orientale e quale hub di trasbordo per il Mar Nero, con un volume di traffico nel 2010 pari a 2,54 milioni di TEU (+38% rispetto al 2009). Ed anche il porto di Mersin ha ridotto i costi, aumentato la produttività e incrementato la propria quota di mercato movimentando un record di 1,2 milioni di TEU (+21,4% sempre nel confronto con il 2009). Al contrario, Haydarpasa, infrastruttura portuale controllata dallo Stato e situata sull’altro lato del Bosforo rispetto ad Ambarli, ha invece continuato a perdere traffici a favore dei terminal privati sia al servizio del settore asiatico della città sia aldilà di esso (-5,8%). Inoltre, anche Izmir (Smirne), maggior porto per contenitori sulla costa mediterranea della Turchia ha perso traffici (-12%) (cfr. Tab. 8). Tab. 8 - I principali porti per traffico container nel Mediterraneo Orientale e nel Mar Nero (in TEU). Anni 2005-2010 Ambarli Costanza Haydarpasa Ismir Mersin Novorossiysk Odessa 2005 2006 2007 2008 2009 2010 1.185.768 768.099 340.629 784.377 596.289 161.756 280.000 1.446.269 1.037.068 400.067 847.926 643.749 226.570 395.564 1.940.000 1.411.370 396.637 892.217 782.028 342.183 523.000 2.262.000 1.380.935 360.000 895.000 844.632 381.000 572.142 1.835.986 594.299 187.365 826.645 843.917 307.188 255.461 2.540.000 556.694 176.468 727.675 1.024.171 471.400 351.600 % Var.2009-2010 38,3 -6,3 -5,8 -12,0 21,4 53,5 37,6 Fonte: elaborazione Isfort su dati Autorità portuali e Assoporti, aprile 2011 Il traffico contenitori in TEU che nel 2009 appariva diminuito anche nei porti del mar Nero (Odessa, Novorossiysk, Costanza), sembra si stia riprendendo in alcuni casi con buoni risultati (+53,4% nel porto di Novorossiysk e +37,6% nel porto di Odessa, ma ancora di segno negativo invece i dati relativi ai traffici 2010 nel porto di Costanza). 198 Graf. 6 – Andamento traffici containerizzati nel Mediterraneo orientale e nel Mar Nero. Anni 2005-2010 3.000.000 2.500.000 2.000.000 1.500.000 1.000.000 500.000 0 2005 Am barli 2006 Costanza 2007 Haydarpasa 2008 Izm ir Mersin 2009 Novorossiysk 2010 Odessa Fonte: elaborazione Isfort su dati Autorità portuali e Assoporti, aprile 2011 Sud Mediterraneo Infine, uno sguardo al traffico marittimo containerizzato nei porti della sponda sud del Mediterraneo. Dalla tabella e dal grafico successivi, si osserva come il porto di Tanger Med in Marocco abbia avuto un netto incremento (+68,5%) a discapito, come si è visto in precedenza, degli altri porti di transhipment della costa settentrionale del mediterraneo (Algeciras, Gioia Tauro, Taranto). I porti egiziani e quelli in Israele mostrano un andamento lievemente in crescita (ad eccezione del porto di Damietta). Su altri purtroppo non sono ancora stati resi disponibili i dati relativi al 2010 16 . 16 I risultati poco entusiasmanti a causa della crisi hanno spinto infatti alcuni porti a ritardare la diffusione dei dati statistici annuali. 199 Tab. 9 - I principali porti per traffico container nel Mediterraneo meridionale e nel Medio oriente (in TEU). Anni 2005-2010 2005 2006 2007 2008 2009 % 2010 Var.2009-2010 432.894 437.924 471.334 548.124 616.086 Ashdod 587.000 693.000 808.700 827.900 655.041 Beirut 282.624 339.174 444.169 527.209 591.190 599.433 1,4 1.129.595 830.050 894.185 1.124.969 1.139.018 1.060.053 -6,9 300.989 324.093 505.677 716.331 661.886 687.777 3,9 Haifa 1.123.000 1.053.000 1.170.000 1.395.900 1.251.158 1.263.552 1,0 Marsaxlokk 1.320.000 1.480.000 1.900.000 2.330.000 2.260.000 n.d. Port Said 1.521.855 2.660.449 2.755.805 3.186.589 3.300.951 3.474.792 5,3 - - 600.000 920.708 1.222.000 2.058.430 68,4 Damietta El Dekheila Tanger-Med 645.267 4,7 Alessandria n.d. Fonte: elaborazione Isfort su dati Autorità portuali e Assoporti, aprile 2011 Nel Mediterraneo, nel suo complesso, il porto che movimentato il numero maggiore di container è Valencia, seguito da Port Said ed Algeciras. Graf. 7 – Andamento traffici containerizzati nei porti del Mediterraneo meridionale (in TEU). Anni 2005-2010 4.000.000 3.500.000 3.000.000 2.500.000 2.000.000 1.500.000 1.000.000 500.000 0 2005 2006 2007 2008 2009 Alessandria Ashdod Beirut Dam ietta Haifa Marsaxlokk Port Said Tanger-Med Fonte: elaborazione Isfort su dati Autorità portuali e Assoporti, aprile 2011 200 2010 El Dekheila Il traffico containerizzato in Italia Venendo al nostro Paese, è da osservare in generale come il traffico merci nel 2010 sia cresciuto, ma la ripresa è ancora discontinua e i prezzi dei noli di container risultano in discesa. In particolare per quanto concerne il traffico in TEU, è aumentato del 20% circa nei primi sette mesi dell’anno, da settembre a novembre, invece si è avuto un rallentamento e la crescita non è stata superiore al 10%. Tuttavia, i porti italiani, se si escludono quelli di transhipment, hanno avuto un aumento del traffico containerizzato. A crescere sono stati, come già accennato, soprattutto i porti liguri e comunque il 90% dei container sono transitati per i porti dell’Alto Tirreno (Genova, La Spezia e Civitavecchia hanno registrato una crescita a doppia cifra). Complessivamente, i container movimentati nei porti della costa occidentale sono stati 8.798.000 TEU contro i 968.000 TEU dei porti dell’Adriatico. Tra i porti italiani, dunque, Genova è il maggiore porto, ma anche La Spezia nel 2010 ha ottenuto risultati sorprendenti grazie anche ai buoni collegamenti con l’hinterland; esso infatti detiene un importante primato a livello europeo riuscendo a movimentare il 30% di container per ferrovia con un notevole contributo ambientale nell’abbattimento dell’inquinamento atmosferico. Entrambi i porti liguri rientrano, come traffico container, nella classifica dei primi 15 porti europei. Graf. 8 – Andamento traffici containerizzati nei porti italiani (in TEU). Decennio 20002010 4.000.000 Savona-Vado Genova La Spezia 3.500.000 Marina di Carrara Livorno 3.000.000 Civitavecchia Napoli Salerno 2.500.000 Gioia Tauro Taranto 2.000.000 Brindisi Bari Ancona 1.500.000 Ravenna Venezia Monfalcone 1.000.000 Trieste Catania 500.000 Palermo Cagliari-Sarroch 0 2000 2001 2002 2003 Fonte: elaborazione Isfort su dati Assoporti , aprile 2011 201 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 Pertanto in Italia, nel 2010, si sono registrati traffici pari a 9,8 milioni di TEU, in aumento del 3,1% rispetto al 2009, ma comunque una media decisamente più bassa rispetto all'Europa. Nella tabella successiva, è possibile osservare nel dettaglio come siano variati, nei principali porti italiani, i traffici in termini di contenitori nel corso degli ultimi anni. Come già ricordato, i traffici nei porti di transhipment di Gioia Tauro e Taranto sono diminuiti nel biennio della crisi economica e finanziaria globale, mentre nel complesso i porti del versante tirrenico (soprattutto al nord) sembrano essere andati meglio di quelli del lato adriatico che, ad eccezione di Venezia, mostrano un sostanzioso calo. E’ da notare come, nel complesso, la situazione sia differenziata. In molti porti sembra esservi stata nel 2010 una ripresa, seppur lenta e modesta, come nel caso di tutti i porti del Tirreno ad eccezione di Salerno e Cagliari (in qust’ultimo, inaspettatamente, la variazione negativa si è avuta nel 2010 e non l’anno precedente) e nei porti adriatici di Venezia, Ancona e, molto debolmente, Trieste. Nel caso dei porti di Civitavecchia e Napoli, invece, non appaiono crolli o rallentamenti nell’andamento dei traffici container, il quale risulta piuttosto regolare, se non netta in crescita, come nel caso di Civitavecchia. I porti di media dimensione come Livorno, Salerno e Ravenna sembrano ancora lontani dal risalire la china. Tab. 10 - I principali porti italiani per traffico container (in TEU). Anni 2006-2010. Variazioni % 2008-2010 2006 TIRRENO Genova 1.657.113 La Spezia 1.136.664 Savona-Vado 227.197 Livorno 657.592 Civitavecchia 33.538 Napoli 444.982 Salerno 359.707 Gioia Tauro 2.938.176 Palermo 27.234 Cagliari-Sarroch 687.657 ADRIATICO Ancona Ravenna Venezia Trieste Taranto 76.458 162.052 316.641 220.310 892.303 2007 2008 1.855.026 1.187.040 242.720 745.557 31.143 460.812 385.306 3.445.337 31.767 547.336 1.766.605 1.246.139 252.837 778.864 25.213 481.521 330.373 3.467.824 32.708 307.527 87.193 206.786 329.512 265.863 755.934 119.104 214.324 379.072 335.943 786.655 2010 Var.% 2008-2009 Var.% 2009-2010 1.533.627 1.046.063 196.317 592.050 28.575 515.868 269.300 2.857.440 30.111 736.984 1.758.858 1.285.155 220.000 628.489 41.500 532.432 234.809 2.851.261 33.495 576.092 -13,2 -16,1 -22,4 -24,0 13,3 7,1 -18,5 -17,6 -7,9 139,6 14,7 22,9 12,1 6,2 45,2 3,2 -12,8 -0,2 11,2 -21,8 -0,4 3,1 -13,0 -19,3 64,6 10,6 -28,9 -17,8 2,4 87,3 105.503 185.022 369.474 276.957 741.428 110.395 183.041 393.913 281.629 581.936 -11,4 -13,7 -2,5 -17,6 -5,7 4,6 -1,1 6,6 1,7 -21,5 -7,3 -14,6 3,9 -16,2 -26,0 2009 Fonte: elaborazione Isfort su dati Assoporti, aprile 2011 202 Var.% 2008-2010 Allegati SCHEDE DEI PAESI All. 1 - Paesi dell’area latino-mediterranea GRECIA Nonostante la Grecia sia sempre stata una nazione marittima e geograficamente rivolta alla navigazione, l’amministrazione centrale ha sempre preso in scarsa considerazione gli investimenti infrastrutturali indirizzati allo sviluppo del trasporto marittimo, a causa delle contenute dimensioni che il paese riveste nel mercato globale. Il Ministero della Marina mercantile (MMM), principale rappresentante statale del settore, si è sempre concentrato su politiche di “Stato di bandiera” (“flag-state”) piuttosto che su politiche per la fornitura di servizi portuali (“port-state”), trascurando così il potenziale dei porti greci e l’opportunità di trasformarli in nodi focali per connettere l’Europa con il Far East. I porti greci sono organizzati - come del resto altri porti del Mediterraneo come ‘imprese di diritto pubblico’ regolate secondo il generale regime normativo di enti pubblici. In questo modello dunque, lo Stato agisce – attraverso l’Autorità portuale - come regolatore e insieme fornitore di servizi; fornitori esclusivi di ogni servizio sono sia il personale dell’Autorità portuale, sia le locali federazioni di lavoratori portuali. Il settore privato viene coinvolto nella prestazione di questi servizi esclusivamente quando le Autorità portuali non hanno le capacità o le attrezzature (es. servizi di rimorchio o movimentazione gru) per fornirgliele, mentre qualche servizio (es. pilotaggio) viene offerto dal Ministero della Marina. Alla fine degli anni Novanta, però, la Grecia ha avviato una grande riforma della governance portuale, con l’intento di ovviare alle numerose mancanze del suo sistema portuale nazionale (crescita della partecipazione dei porti greci nel trasporto marittimo mondiale, promozione di una più ampia partecipazione nella fornitura di servizi portuali). Innanzitutto, nel 1999, le due Autorità portuali trans-europee del Pireo e di Salonicco vengono convertite in società a responsabilità limitate e allo stesso tempo interamente di proprietà dello Stato greco (Legge 2688/99) 17 , mentre, nel 2001, altri dieci porti di interesse nazionale sono trasformati da Ports Funds in società (legge 2932/2001). Ogni società ottiene una partecipazione statale e può operare come impresa privata con l’obiettivo di sviluppare infrastrutture e fornire servizi competitivi e di qualità. 17 Nel 2003 il governo nazionale ha poi deciso di ridurre la sua partecipazione alle Autorità portuali del Pireo e di Salonicco al 74,5% e l’ha quotate alla Borsa di Atene (75% quota dello Stato, 25% di singoli privati). 205 Pertanto, dodici porti nazionali vengono di fatto trasformati da ‘imprese di diritto pubblico’ a imprese portuali di proprietà del governo. Essi partecipano all’Associazione dei Porti Ellenici, sorta nel 2003 al fine di assicurare una forte collaborazione tra i porti. Questi cambiamenti hanno avuto luogo in Grecia, però, soltanto quando il modello greco controllato dallo Stato è divenuto poco sostenibile e i progetti di modernizzazione del governo nazionale hanno coinciso con la volontà delle istituzioni europee di promuovere l’apertura del mercato nei porti internazionali, in quanto in questo Paese non vi è mai stata di fatto alcuna forma di mobilitazione pubblica per le riforme in un settore considerato ‘a basso interesse’. La trasformazione dei 12 principali porti greci in società a responsabilità limitata appare perciò un cambiamento importante; di tale riforma ne hanno beneficiato la qualità dei servizi e la competitività dei prezzi, per cui i porti greci si sono trovati ad agire come imprese commerciali, operanti in un mercato libero. Nello stesso tempo, la trasformazione ha condotto a una struttura maggiormente flessibile nella gestione dei porti, grazie al raggiungimento di un livello di autonomia che ha consentito alle Autorità portuali di decidere nell’immediato. Oltre a conservare la proprietà, lo Stato ha mantenuto il controllo attraverso meccanismi di livello nazionale, anziché affidare il potere alle autorità municipali/locali. Fin dai primi momenti della riforma (1999) entrambe le forze politiche succedutesi al governo, sia quella socialista (fino al 2004) sia quella liberale (2004-2009), hanno sostenuto gli enti portuali autonomi. Di fatto, però, nessun governo ha compromesso la propria cultura e formazione politica a favore del cambiamento, mantenendo comunque ferme le istituzionalizzate e consolidate tradizioni greche in uno stato di tipo interventista. Alcune forme d’intervento sono state, pertanto, di carattere informale e strettamente limitate alla necessità e all’impegno della Grecia nei confronti dell’integrazione europea. I porti greci hanno risposto alla tradizione ‘latina’ basata sulla proprietà e l’intervento del governo nazionale. Attraverso un ente manageriale, di solito governativo, il concetto di servizi di welfare pubblico ha prevalso e le autorità nazionali hanno agito sia da regolatori, sia da fornitori/operatori, mediante Autorità portuali pubbliche controllate ed elette dallo Stato, senza avviare quindi una vera e propria azione a sostegno della riforma di privatizzazione. Il modello marittimo greco tradizionalmente focalizzato su politiche di “stato di bandiera” a supporto dell’ampia flotta di proprietà statale, in sostanza, ha sempre considerato in maniera poco rilevante i porti. La particolare 206 posizione geografica dei porti greci, crocevia di tre continenti, e il loro potenziale portuale sono stati di fatto trascurati e si è conservato intatto fino alla fine degli anni Novanta un modello risalente agli anni Trenta. In merito alle strutture di azionariato e partecipazione, il governo greco ha tentato di preservare le proprie caratteristiche politiche. Piuttosto che essere governati da società ordinarie/imprese di diritto commerciale, le Autorità portuali sono supportate legalmente da leggi speciali emanate dai rispettivi parlamenti nazionali, che rimangono gli azionisti di maggioranza assicurandosi così il controllo delle società di Autorità portuale. Le inefficienze delle tradizioni dell’organizzazione portuale, le pressioni e i mutamenti dell’ambiente economico, nonché i contrasti fiscali, hanno contribuito alla riconsiderazione della policy portuale greca negli ultimi anni Novanta e hanno portato alla luce l’assenza di una potenziale struttura di raccordo che potesse promuovere la competitività portuale. L’attuale strategia dei porti greci è fondata sulla necessità di superare le inefficienze a lungo-termine. I porti greci hanno sperimentato nel passato un modello di strutture impersonali fordiste, regimi di lavoro inflessibili, e la mancanza di capacità di fornire numerosi servizi a valore aggiunto. Essi sono al momento interessati a intessere relazioni con gli utilizzatori dei porti (clienti), con potenziali investitori e/o con altri porti, al fine di fornire in maniera efficiente servizi di base e aggiuntivi. Inoltre tutti i porti sono alla ricerca di una strategia orientata all’efficacia che potrebbe migliorare le loro capacità di integrare le catene logistiche intermodali, e non da ultimo le relazioni con gli utenti portuali. Comunque, entrambe le strategie (quella attuale e quella auspicata) sono indebolite da un processo decisionale centralizzato, caratterizzate dalla standardizzazione delle procedure, nonché sottoposte a ingerenze burocratiche. Il coinvolgimento governativo non è limitato a complessivi aspetti finanziari, regolatori e di pianificazione. Uno stato di tipo interventista ostacola le decisioni strategiche e la vita quotidiana di un porto, come ad esempio nel caso dei porti quotati in borsa (Pireo e Salonicco), costretti a pubblicare piani aziendali e regole di responsabilità societaria più severe. Gli interventi ministeriali, inoltre, hanno condotto a una serie di scioperi e a una ‘guerra sul fronte portuale del Pireo’ nell’estate del 2005, che ha ulteriormente compromesso la posizione competitiva del principale porto greco. La mancanza di una riforma del lavoro e i ritardi nel riposizionamento dei vari attori (es. competizione all’interno del porto), inoltre, non sono irrilevanti e implicano notevoli costi politici. L’assenza di una struttura di raccordo contribuisce alle attuali difficoltà che i porti greci debbono affrontare per migliorare la propria competitività. 207 Tuttavia, la riforma nazionale portuale è ancora ‘giovane’ - essendo stata avviata di recente (cinque anni fa) - e la governance dei porti greci è ancora in continuo mutamento. I nascenti enti autonomi aziendali devono ancora portare a termine i loro piani aziendali, la struttura organizzativa e le strategie. Peraltro, entrambi gli assetti istituzionali - nazionale e internazionale - sono in transizione; i ruoli che potrebbero consentire un diretto coinvolgimento del settore privato nella fornitura di servizi portuali sono in corso di esame, sia a livello europeo sia nazionale. L’analisi del governo della portualità greca ha confermato che ambiente, strategia e struttura sono tre parametri interconnessi tra loro. Data la dinamica del contesto economico e politico e le sfide e opportunità che essi comportano per la gerarchia portuale, ulteriori modifiche legislative e una rinnovata considerazione delle pratiche politiche potrebbero ulteriormente modificare le strutture del settore, consentendo quindi ai porti greci di adeguare e migliorare le loro strategie 18 . SPAGNA Il territorio spagnolo presenta specifiche realtà geografiche marittime (e differenti rispetto all’Italia, anche se entrambe costituite per l’80% da regioni costiere) essendo il 55% delle sue coste bagnate dall’Oceano (comprese le Isole Canarie). Il sistema portuale in Spagna è formato da 47 Porti di Interesse Generale, gestiti da 28 Autorità portuali. Esso è caratterizzato da una struttura fortemente decentrata, in cui viene riconosciuta ampia autonomia alle Autorità portuali, enti pubblici posti sotto il coordinamento e il controllo di un’apposita agenzia di Stato dipendente dal Ministero dei Lavori Pubblici e dei Trasporti denominata “Puertos del Estado”, responsabile nei confronti del sistema dei porti di proprietà statale, competente per l’esecuzione della politica portuale del governo nonché per il coordinamento e il controllo dell’efficienza del sistema spagnolo degli scali marittimi. Accanto ai porti statali vi sono poi una serie di infrastrutture portuali - in genere costituite da porti pescherecci, da porti destinati ad attività di diporto e da porti rifugio - la cui titolarità spetta ai Governi delle Comunità autonome entro il cui territorio sono ubicati. 18 Cfr. Pallis A.A., “Port Governance in Greece” (2006), in Brooks M.R. and Cullinane K “Devolution, Port Governance and Performance” e Ng,K.Y.A. and Pallis A.A. “Port governance reforms in diversified Implementation Asymmetries” (2010). Institutional 208 Frameworks: Generic Solutions, Anche se la proprietà dei Porti di Interesse Generale appartiene all’Amministrazione Generale dello Stato, le autonome comunità regionali nominano il Presidente dell’Autorità portuale e una rilevante percentuale di membri del Consiglio d’Amministrazione. I Porti di Interesse Generale sono solitamente porti che corrispondono ad una o più delle seguenti condizioni: - porti che svolgono attività commerciali marittime internazionali; - porti in cui l’hinterland influenza in maniera significativa più di una regione autonoma; - porti che servono industrie o sistemi di importanza strategica per l’economia nazionale; - porti i cui rendimenti annuali e le caratteristiche delle attività marittime commerciali li classificano come contribuenti fondamentali dell’interesse economico complessivo dello Stato; - porti le cui specifiche condizioni tecniche o geografiche costituiscono elementi essenziali nella sicurezza del traffico marittimo, in particolare per le regioni insulari 19 . In Spagna, pertanto, vi è una profonda e marcata caratterizzazione geografica economico-portuale delle singole realtà portuali, accompagnata da una grande considerazione da parte del Governo nei confronti dei porti, visti come centri attrattivi e propulsivi di economie e congiunture economiche. È lasciata, innanzitutto, una consistente autonomia alle 28 Autorità portuali al fine di ottimizzare al massimo i porti. Per flessibilizzare la reazione della domanda-offerta dei porti, poi, viene dato spazio all’influenza del privato all’interno di essi, incentivato ad apportare migliorie infrastrutturali all’interno dello scalo marittimo tramite accordi variabili con l’Autorità portuale sul costo del servizio prestato. Di recente, è stata approvata la nuova “Ley de Puertos” (Legge n. 33 del 5 agosto 2010) in merito al regime economico e alla fornitura di servizi nei porti di interesse generale. Il nucleo centrale della nuova legge - che va a modificare la legge portuale n. 48/2003 - è costituito dalla messa in vigore di un regime tariffario maggiormente competitivo, con la possibilità per le Autorità portuali di definire autonomamente il livello delle tasse applicate in porto, in modo da rendere più attrattivi gli scali da esse gestiti ed economicamente più conveniente l’utilizzo dei porti da parte delle compagnie di navigazione e da altre categorie di utenti. La riforma trae 19 Cfr. ESPO, “Factual Report on the European port sector”, 2005 – FR-WP2: The framework governing port management. 209 origine dall’esigenza di assicurare ai porti spagnoli condizioni di maggiore efficienza e competitività rispetto agli altri porti del Mediterraneo, soprattutto quelli nordafricani, che ultimamente hanno sottratto consistenti quote di traffico ai porti spagnoli. Oltre alle tasse, le Autorità portuali potranno finanziarsi attraverso una serie di trasferimenti statali, ripartiti fra le stesse in base al grado di efficienza dimostrata nella gestione delle infrastrutture poste sotto il loro controllo e del livello di produttività di ogni scalo. I livelli delle tasse portuali dovranno in ogni caso rispettare la copertura almeno dei costi sostenuti per la gestione dei porti ed assicurare comunque il conseguimento di obiettivi di rendimento minimi, che spetterà al Ministero dello Sviluppo spagnolo (Ministerio de Fomento) di stabilire per ciascuna Autorità portuale, attraverso appositi ordini ministeriali. Le ‘Port Autorities’ sono chiamate, a tal fine, ad elaborare dei piani annuali (Plan de Empresa) nei quale andranno indicati, tra l’altro, le previsioni economico-finanziarie e gli obiettivi di gestione perseguiti, con una descrizione della situazione di partenza. Quest’ultima misura mira ad evitare l’indebitamento degli enti in questione, incentivandone la buona gestione, in termini di qualità ed efficienza dei servizi resi ai propri utenti. La nuova legge introduce infine l’obbligo per le Autorità portuali di elaborare un Rapporto di Sostenibilità, da accompagnare al Plan de Empresa, incentivando così lo sviluppo di buone pratiche ambientali. Per garantire la flessibilità e l’autonomia nei porti, perciò, nell’ultima riforma 20 si è data grande importanza alle diverse forme di autofinanziamento delle Autorità portuali, che risultano essere di molteplice origine rispetto, ad esempio, alle più limitate forme italiane. 20 La nuova legge mira a rafforzare l’efficienza e la competitività dei porti spagnoli e regola in maniera specifica l’autonomia finanziaria dei porti e la fornitura di servizi. A tal fine, essa contiene disposizioni dettagliate in merito ai diversi tipi di tasse e servizi portuali (es. riduzione dei canoni demaniali, della tassa portuale sulle merci sbarcate e imbarcate, della tassa di ancoraggio e della tassa erariale sulle merci), alla delimitazione delle aree portuali, nonché al lavoro portuale. Il provvedimento attribuisce grande importanza alle tariffe e introduce un meccanismo più competitivo che, ai fini della gestione, si avvale storicamente della collaborazione delle Autorità portuali a cui è demandato il compito di definire in assoluta autonomia il livello delle tasse da applicare. Il sistema punta a valorizzare l'uso dei porti da parte delle compagnie armatoriali rendendo più conveniente il ricorso alle infrastrutture, facendo leva sulla nota caratterizzazione decentrata del sistema portuale iberico che movimenta quasi il totale delle importazioni e la metà delle merci esportate. Si tratta dell’introduzione di una serie di modifiche strutturali, a carattere strategico, fondamentali in un Paese la cui economia dipende in larghissima misura dalla logistica, in specie quella dei porti di proprietà statale, dai quali passa circa l’85% del totale delle importazioni ed il 50% delle esportazioni del Paese (da varie fonti). 210 Le fonti di autofinanziamento dei porti spagnoli • Prodotti e rendite del patrimonio del porto • Tasse portuali • Entrate da rapporti con privati • Percentuali ricevute dal Fondo di Compensazione Interportuario • Sovvenzioni di diversa origine • Entrate da sanzioni effettuate • Donazioni, lasciti e altri apporti di entità privata • Altri proventi attribuiti all’ordinamento giuridico La legislazione, dunque, supporta il sistema portuale spagnolo con gli strumenti necessari per migliorare la sua posizione competitiva in un mercato aperto e globale, creando ampie facoltà di autogestione per le Autorità portuali che devono essere eseguite in base a criteri commerciali di affari. In questo quadro, i Porti di Interesse Generale debbono rispondere, come molti altri porti in Europa, al modello landlord. Questo particolare ed esclusivo uso della proprietà pubblica è consentito dai regimi di autorizzazione e concessione mentre i servizi portuali, che sono forniti da operatori privati, dipendono dal regime di contraente privato. Inoltre, la funzione dei porti va di là del loro tradizionale ruolo come meri punti per il carico e scarico delle merci e il trasferimento di passeggeri, per diventare piattaforme commerciali dove sono fornite una vasta gamma di attività che generano valore aggiunto per le merci, pienamente integrate nelle catene di trasporto logistico e intermodale. Il sistema portuale spagnolo è economicamente autosufficiente, per cui spese e investimenti nelle infrastrutture sono finanziate dai ricavi delle Autorità portuali, ossia dai porti stessi. La procedura decisionale nei porti spagnoli è basata su un modello che fornisce alle Autorità portuali un elevato grado di autonomia nel gestire i propri porti. Esse infatti hanno diretta competenza sullo sviluppo del porto, avendo come principale obiettivo, il miglioramento costante della competitività portuale in un contesto di concorrenza libera e leale tra porti. 211 FRANCIA La politica francese sui porti è stata caratterizzata da un processo di decentramento amministrativo avviato sin dagli anni Ottanta e verificatosi in fasi distinte. La prima, ha avuto luogo tra il 1983 e il 1984 e ha visto il coinvolgimento dei piccoli porti di pescaggio, carico e diporto limitandosi a trasferirne le responsabilità dallo Stato ai dipartimenti per la pesca e ai porti commerciali; ai Comuni invece è stata affidata la responsabilità per i porti turistici. Lo Stato ha concesso alle autorità governative locali il dominio pubblico del porto senza trasferire i diritti di proprietà che sono rimasti sotto il suo stretto controllo. Sebbene siano stati coinvolti in questa operazione circa 600 porti di piccole-medie dimensioni, i 25 più grandi non ne hanno risentito. La seconda fase si è collocata tra il 2004 e il 2007 ed è andata ad incidere in maniera piuttosto significativa sulla governance dei 17 porti cosiddetti di ‘interesse nazionale’. Si tratta principalmente di strutture di media dimensione, mentre gli 8 porti autonomi di notevoli dimensioni hanno continuato a mantenere il controllo dello Stato. Anche se ha coinvolto un limitato numero di porti 21 , tale fase di decentramento amministrativo dei porti ha assunto conseguenze importanti per molti governi di livello secondario (Bretagna, Alta e Bassa Normandia, Aquitania, Provenza-Costa Azzurra, Corsica). Tale fase di riforma è stata definita dalla Legge 2004/809 del 13 agosto 2004, relativa ‘alle libertà e responsabilità locali’ e contenente le linee guida per il trasferimento dei porti alle Regioni (porti commerciali) o ai Dipartimenti (porti dediti alla pesca); si tratta, in realtà, di una complessiva nuova ondata di ‘regionalizzazione’ che ha coinvolto diversi aspetti della politica sociale francese (sovvenzioni per gli alloggi e l’assistenza pubblica, come anche strade, porti, aeroporti). La terza fase, più recente, prende avvio nel 2008 ed interessa tutti i principali porti continentali francesi finora gestiti sotto lo status giuridico di ‘porti autonomi’ 22 ; in sostanza è il modello di gestione che può essere 21 Si tratta di circa una ventina di porti (17 porti metropolitani e 4 porti d’oltremare), commercialmente attivi e alcuni comprendenti una considerevole sezione portuale dedicata alla pesca; essi rappresentano il 22% circa del complessivo tonnellaggio nazionale. 22 I maggiori porti autonomi francesi (Marsiglia, Le Havre, Dunkerque, ecc.) sono organizzati come imprese pubbliche statali con competenze amministrative e commerciali e godono di uno specifico status giuridico anche nell’impiego di lavoratori privati e di una particolare indipendenza finanziaria; essendo inoltre imprese pubbliche sono soggette al controllo economico e finanziario dello Stato e rappresentano il 76% del tonnellaggio nazionale complessivo. 212 meglio comparato con gli altri porti europei. Si procede al completamento della privatizzazione dei mezzi di movimentazione e del personale (lavoro, attrezzature e autisti di gru) e alla modifica della governance dei maggiori porti (ex ‘ports autonomes’) che divengono ‘Grands Ports Maritimes’. La differenza principale con la precedente fase di riforma riguarda il trasferimento del possesso dei diritti di proprietà, fondato essenzialmente su due obiettivi: trasferire piena proprietà dei diritti al porto e trasferire specifiche aree di competenza. Il passaggio dei diritti di proprietà alle autorità locali è stato applicato alle aree all’interno dei limiti amministrativi dei porti; ciò ha incluso il suolo in ambito portuale insieme ad infrastrutture e sovrastrutture del porto commerciale o anche ai servizi pubblici relativi all’attività portuale collocate aldilà dei limiti amministrativi del porto. D’altra parte, vengono resi liberamente disponibili per lo Stato impianti ed attrezzature necessari per il controllo e la manutenzione della sicurezza. Dunque, lo Stato conserva i suoi diritti “regali” nelle questioni relative alla tutela ambientale, alla sicurezza pubblica, agli aiuti alla navigazione (controllo sul movimento navi), mentre le autorità locali, di contro, acquisiscono responsabilità nella gestione, manutenzione e pianificazione del porto. Inoltre, l’Autorità portuale - come livello locale - assume il compito di gestire il porto e rilasciare concessioni per il suo effettivo funzionamento, come anche la funzione di presidio dei terminals, di assegnazione dei posti barca e di destinazione dell’utilizzo di superfici portuali. Si tratta di responsabilità di carattere “terrestre”, al contrario delle funzioni mantenute dallo Stato che riguardano il controllo dei bacini idrici (movimenti delle navi, tutela ambientale e controllo delle merci pericolose). Oltre alla ripartizione tra poteri dello Stato e funzioni delle autorità locali, è importante anche la distinzione tra emittente della concessione e concessionario. Il processo di decentralizzazione infatti si occupa delle responsabilità di chi rilascia la concessione, comprese proprietà, gestione e pianificazione. Le autorità locali che hanno preso in gestione i porti assumono il compito di fornire concessioni per operare all’interno dell’area portuale, formalmente già in possesso dello Stato. In pratica, tutti i porti coinvolti in questo ultimo ciclo di decentramento sono gestiti in regime di concessione a lungo termine (oltre 50 anni) rilasciato dallo Stato attraverso le Camere di Commercio e dell’Industria. Questi istituti infatti hanno un particolare ruolo in Francia; ufficialmente sono enti pubblici di carattere amministrativo, il cui reddito deriva in parte da un prelievo aggiuntivo sulla tassa professionale (IATP). Pur mantenendo lo status di istituti pubblici, esse rappresentano gli interessi delle PMI e lo IATP è riscosso dalle imprese aderenti. La recente imposizione del diritto 213 comunitario europeo sulla legge francese (competition law), tuttavia, potrebbe mettere in discussione il monopolio delle Camere di Commercio sulle operazioni portuali ed aprire le concessioni ad offerte maggiormente competitive. Tale fase di decentramento in Francia ha permesso la partecipazione di una serie di amministrazioni pubbliche, producendo dunque un complesso modello di governance portuale. Pertanto risultano tre le parti coinvolte in tale processo, sintetizzate nello schema che segue. Il modello di governance portuale in Francia COLUI CHE RILASCIA LA CONCESSIONE, ossia il nuovo proprietario che assicura la pianificazione e la gestione del porto IL CONCESSIONARIO, ossia l’ente che organizza le operazioni del porto sotto il controllo finale del LO STATO, il quale svolge le funzioni di vigilanza e sicurezza PROPRIETARIO In conclusione, il ruolo degli enti pubblici nell’amministrazione portuale francese è multidimensionale e complesso e la Francia rappresenta un esempio dei nuovi legami esistenti tra i differenti livelli di pubblica amministrazione, in cui la politica di decentramento amministrativo e di cessione è stata condotta attraverso due tipi di sfide 23 . Nel primo caso, le cosiddette questioni ‘territoriali’. Gli enti pubblici coinvolti nel processo di decentramento non possiedono le stesse sequenze spaziali di azione – regione, dipartimento, città – e di conseguenza non hanno i medesimi interessi e obiettivi. La nascita di un nuovo istituto pubblico incaricato dell’amministrazione e della gestione dei porti introduce un nuovo attore spaziale, avviando un processo di ridefinizione della governance portuale tra una serie di enti pubblici. La seconda sfida è invece di natura finanziaria. A breve termine, vi è la questione dei trasferimenti di sostegno statale ai porti decentralizzati, la cui applicazione si è rilevata controversa; lo Stato non ha mantenuto le sue precedenti promesse riguardanti gli investimenti, e ciò ha creato un clima incerto per negoziati finanziari. Ancora più problematiche risultano le 23 Cfr. J. Debrie, E. Gouvernal, B. Slack, “Downloading Public Ports: challenges of governance for lower tiers of public administration”, WCTR, University of California, Berkeley – 24-28 giugno 2007. 214 questioni finanziarie a lungo termine: i porti sono attività poco redditizie, necessitano infatti di incrementare nuovi affari e ciò richiede investimenti. Le nuove Autorità portuali si troveranno ad affrontare finanziamenti ridotti dallo Stato e dall’Europa, e quindi quasi sicuramente dovranno cercare maggiori contributi di livello regionale. Ma i governi regionali saranno disposti a intraprendere un impegno del genere? In sintesi, il cambiamento della governance portuale in Francia ha implicato senza dubbio notevoli conseguenze, sia per il settore commerciale privato, sia per quello pubblico. 215 All. 2 – I Paesi dell’area anseatica/nord europea BELGIO In Belgio, i tre principali porti di Ostend, Antwerp, Ghent hanno lo status di autonome aziende municipalizzate (speciali entità istituite per legge, per cui è obbligatoria la pubblicazione annuale dei bilanci), mentre il porto di Zeebrugge è una società per azioni, gestita direttamente da privati. Dal gennaio 1989, la regione Fiamminga è divenuta responsabile per la politica portuale, includendo in questo settore i lavori pubblici, le vie di navigazione, i servizi di pilotaggio e di assistenza ai/dai porti oltre ai servizi marittimi di salvataggio e rimorchio. Il “Flemish Port decree” del 1999 costituisce il fondamento della politica portuale delle Fiandre e stabilisce regole e condizioni che dovrebbero condurre a: - l’acquisizione di maggiore autonomia per ogni singolo porto in merito a gestione e operazioni; - l’acquisizione di una forma legale per ogni porto; - l’uniformità delle condizioni lavorative per i singoli scali; - una chiara e trasparente relazione tra i porti fiamminghi da un lato e tra i porti e il Governo fiammingo dall’altro lato; Con il Port decree, una serie di disposizioni autorizza la regione Fiamminga a sostenere la funzione pubblica dei porti e, allo stesso tempo, permette di divenire conciliabile con la regolazione europea che riguarda il finanziamento dei progetti sui porti. In base ad esso, tutte le Autorità portuali devono assumere una forma legale (es. lo status di porti autonomi) in maniera compatibile con l’economia internazionale. Ciò permette la realizzazione di un numero di condizioni lavorative con riferimento a contabilità, gestione e rischi finanziari. Alcune Autorità portuali (Antwerp, Ostend e Ghent) si sono già avvalse di tali opportunità nel 1997 o nel 2000, mentre il porto di Zeebrugge ha già acquisito una forma legale, quella di società privata, fin dal 1895. Il decreto prevede anche il generale principio dei costi-benefici e fissa un numero di norme in modo da oggettivare e regolare in modo chiaro e trasparente la relazione tra il Governo fiammingo e le Autorità portuali. Con il decreto, insomma, il governo fiammingo chiarisce il suo ruolo, che non è quello di determinare strategie portuali individuali, bensì quello di stimolare, coordinare, facilitare. Dall’altro lato, il decreto stabilisce anche che saranno fornite più ampie responsabilità alle Autorità portuali rispetto all’organizzazione dell’infrastruttura commerciale. Recentemente, infine, il governo ha introdotto il concetto di ‘Flanders Port Area’ al fine di stimolare maggiormente la cooperazione tra Autorità 216 portuali. Nel 2009 è stata istituita la società a responsabilità limitata ‘FlemishPorts’ (‘Vlaamse Havens’) in cui autorità portuali individuali e governo partecipano al finanziamento congiunto di infrastrutture di base 24 . GERMANIA I porti tedeschi possono essere catalogati in: - porti appartenenti ad un Länd o ad una municipalità (ossia, città-stato come Brema o Amburgo); - porti che fanno parte di una municipalità; - porti che appartengono a un Länd e, parzialmente, ad una municipalità; - porti che sono membri di società a responsabilità limitata; - porti che fanno parte di società private. La maggior parte dei porti tedeschi non sono soggetti indipendenti né dal punto di vista economico, né giuridico. Le loro superfici terrestri e acquee appartengono principalmente alle autorità territoriali la cui giurisdizione si estende ben al di là dell’area portuale. Non ci sono Autorità portuali che ricoprono tutte le funzioni pubbliche relative al porto. Anzi, queste funzioni sono rivestite da dipartimenti differenti delle autorità territoriali come parti della loro amministrazione generale. Ad esempio, nel porto di Amburgo le questioni relative al porto sono di responsabilità di cinque differenti ministeri 25 . Poiché il porto in Germania non è un organo amministrativo indipendente, le varie funzioni di gestione portuale sono di solito preoccupazione delle agenzie legislative e delle autorità esecutive (finanze, trasporti, lavori pubblici, ecc.), responsabili per l’intera area dell’autorità territoriale in oggetto e non soltanto per il porto. La leadership politica di ogni autorità territoriale coordina le funzioni. 24 In particolare, si tratta di iniziative di cooperazione volte alla creazione di una piattaforma di conoscenza per la logistica portuale e la tecnologia, un sistema del carico per la comunità fiamminga e una piattaforma di consultazione per i programmi di formazione portuale. 25 Cfr. ESPO, “Factual Report on the European port sector”, 2005 – FR-WP2: The framework governing port management. 217 Alcuni esempi Il porto di BREMA ha avviato di recente una fase di cambiamento. La compagnia Bremenports GmbH & Co, fondata nel novembre 2001, è sovvenzionata interamente dalla Free Hanseatic City of Bremen (Città e stato federale tedesco) e ha cominciato ad operare nel 2002 all’interno dei porti di Bremen e Bremerhaven. Essa è stata sovvenzionata essenzialmente dal precedente “Ufficio portuale della città di Brema”, il quale ha agito come una società di gestione a nome della Free Hanseatic City of Bremen nel settore della costruzione e manutenzione delle infrastrutture nonché promozione dei porti di Bremen e Bremerhaven, inclusa l’offerta di numerosi servizi come quelli telematici, ad eccezione delle funzioni di capitaneria di porto e di ufficio di spedizioni. La forma legale di S.r.l. consente a Bremenports di operare nei mercati aldilà dei confini dello stato di Brema, di avere un’ampia flessibilità nella prevista espansione delle attività di commercio, come un quadro convincente per le operazioni commerciali; inoltre, essendo gestiti da un’azienda privata, i porti di Brema possono posizionarsi meglio all’interno di un’ampia rete di collaborazione tra porti. I porti della BASSA SASSONIA sono stati privatizzati nel settembre 2004. In seguito, si sono costituiti sotto la forma giuridica di società a responsabilità limitata in cui lo Stato è l’unico partner e detiene l’intera quota della compagnia, mentre alla fine del 2005 l’intero apparato (“hardware” e “software”) dei porti di Bassa Sassonia è stato trasferito dallo Stato alla compagnia portuale, trasformando il ruolo dello Stato da ente quotidianamente e direttamente coinvolto nelle operazioni portuali ad una funzione di supervisione e controllo; con tale operazione lo Stato si attende una maggiore flessibilità nelle decisioni e nel rendere i porti capaci di agire più velocemente alle esigenze del mercato. Il porto di AMBURGO ha progettato di unificare i compiti connessi al porto finora appartenenti al Ministero degli Affari Economici e al Ministero delle Finanze e di assegnarli all’Autorità portuale come soggetto giuridico separato al di fuori dall’amministrazione della città-stato. Vengono ricoperti sia la funzione commerciale di locazione del terreno, sia il servizio pubblico di pianificazione, costruzione e manutenzione della infrastruttura pubblica compreso il controllo del traffico portuale. Nei porti municipali, compreso quello di Amburgo, le funzioni pubbliche sono svolte dai differenti dipartimenti dell’amministrazione centrale. Nei porti appartenenti ai “Länder”, la responsabilità viene trasferita all’agenzia locale dell’amministrazione del “Länd” (ufficio portuale) o – come in Bassa Sassonia e a Bremen/Bremerhaven – ad una organizzazione privatizzata (Bremenports GmbH & Co.), in cui le responsabilità di carattere navale sono gestite dall’ufficio della capitaneria di porto, il cosiddetto “Hansestadt Bremisches Hafenamt” (autorità pubblica). Generalmente, nei porti situati nella Germania orientale, lo sviluppo delle infrastrutture e sovrastrutture portuali sono principalmente sotto la responsabilità delle società a responsabilità limitata. Gli azionisti sono soprattutto le municipalità. Nei porti situati nell’ex Germania occidentale, le attività di movimentazione delle merci vengono svolte da imprese private in 218 cui gli enti territoriali spesso detengono una quota o addirittura il pieno controllo (es. HHLA nel porto di Amburgo o BLG Logistics nel porto di Brema). Le loro tariffe sono fissate sulla base dei prezzi di mercato e senza nessuna interferenza da parte dell’ente territoriale. Il Governo Federale ha pubblicato nel 2010 il ‘NationalesHafenkonzept’, un lavoro sulla strategia dei porti nazionali. In realtà, anche se il documento non propone una riforma dei porti e della governance – questioni di cui si occupa esclusivamente il ‘Länder’ (stato Federale) – si tratta comunque della prima volta in cui il governo federale mette a punto un elaborato punto di vista in merito alla politica nei porti, all’interno del quale si affronta lo sviluppo delle capacità e si stimola la cooperazione tra porti. A livello locale, i governi di Amburgo e Brema hanno avviato nel 2010 una indagine su una più profonda cooperazione tra l’Autorità portuale di Amburgo e i porti di Brema, prevedendo la possibilità di una fusione tra le due Autorità portuali. PAESI BASSI Storicamente i porti olandesi sono stati sempre governati da pubbliche organizzazioni regionali o municipali. A partire dal 1995, è stato avviato un processo volto ad incrementare la loro autonomia finanziaria e decisionale, al termine del quale essi sono divenuti oggi Società per Azioni pubbliche. Attualmente infatti vi è un limitato coinvolgimento dello Stato (soltanto negli investimenti per grandi infrastrutture di rilevanza nazionale e nei progetti di espansione dei porti), il quale si occupa soprattutto della cooperazione tra le diverse Autorità portuali. I porti principali nei Paesi Bassi sono amministrati da Autorità portuali considerate sia enti municipali o combinazione di enti municipali e provinciali (“Havenschappen”), o ancora organi corporativi. Le Autorità portuali sono membri del Consiglio Nazionale dei porti olandesi (“NPC”), un comitato consultivo per le questioni portuali del Ministero dei Trasporti. Oltre ad essere formato dalle Autorità portuali, esso rappresenta i membri del settore portuale privato così come i ministeri competenti, non è però un’associazione nazionale dei porti. Esiste inoltre una ampia varietà di legislazione nazionale in merito alle questioni portuali quali quelle sulla sicurezza, la salvaguardia sociale e ambientale, la dogana, il pilotaggio, ma non esiste una legge complessiva sui porti 26 . 26 Cfr. ESPO, “Factual Report on the European port sector”, 2005 – FR-WP2: The framework governing port management. 219 Appare opportuno sottolineare come il processo di riforma che ha interessato i porti olandesi si sia svolto in maniera individuale ed autonoma (porto per porto). La riforma maggiormente significativa avvenuta di recente è stata la privatizzazione del porto di Rotterdam nel 2004, probabilmente la forma più avanzata di privatizzazione presente in una Autorità portuale europea di proprietà pubblica (l’amministrazione comunale di Rotterdam è azionista unico, anche se lo Stato si è riservato in futuro la possibilità di inserirsi come socio di minoranza per fornire investimenti per l‘ampliamento del porto; ciò ha portato a una maggiore flessibilità, responsabilizzazione e autonomia). In particolare l’assetto giuridico del porto – attraverso un processo di aziendalizzazione – è passato da dipartimento municipale a Public Corporation, facilitando una maggiore flessibilità, responsabilizzazione e autonomia. A seguito della suddetta riforma, pertanto, lo Stato olandese è divenuto co-azionista nell’Autorità portuale di proprietà comunale 27 . Un simile processo di privatizzazione dovrebbe avvenire nel 2011 per Zeeland Seaports, l’Autorità portuale che gestisce i porti di Flushing (Vlissingen) e Terneuzen. Anche Amsterdam sta prendendo in considerazione la privatizzazione della sua Autorità portuale; attualmente esso è amministrato e gestito da un’impresa municipale a sé stante denominata “Havenbefrijf” 28 . Altri porti sono diretti e coordinati da un organo statutario chiamato “Havenschap” (Consiglio Portuale) in cui sono rappresentati parecchie autorità (municipali e provinciali). Nei Paesi Bassi esistono poi numerosi porti privati, le cui quote azionarie appartengono prevalentemente ad aziende private e con una minoranza delle azioni di proprietà della provincia o comune. Le Autorità portuali olandesi sono responsabili della gestione del porto, ciò significa affittare il terreno, attrarre imprese all’interno del porto, guadagnare diritti portuali, prendere in seria considerazione la sicurezza, gestire il traffico navale, ecc.. Alcune importanti conseguenze del cambiamento degli assetti portuali sono rappresentate dal fatto che: - i porti affrontano meglio il crescente potere dei clienti; 27 Cfr. Pallis A.A., “Port Governance in Greece” (2006), in Brooks M.R. and Cullinane K “Devolution, Port Governance and Performance” e Ng,K.Y.A. and Pallis A.A. “Port governance reforms in diversified Institutional Frameworks: Generic Solutions, Implementation Asymmetries” (2010). 28 Cfr. ESPO, “European Port governance”, 2010. 220 - la comunità portuale diventa più internazionale; - i porti sono considerati maggiormente come organo regolatore e non più beni pubblici; - l'inflazione olandese cala e l'occupazione cresce. In generale il settore portuale è molto dinamico ed in continuo movimento. Le leggi locali e gli statuti dei porti sono rilasciati dal consiglio locale (comunale o provinciale). Esiste comunque una politica nazionale complessiva sui porti che rientra nel Piano nazionale dei trasporti o in alcuni casi di uno specifico Piano nazionale sui porti. Quotidianamente le decisioni su piccoli investimenti vengono prese dal governo locale, mentre le decisioni in merito ad investimenti più grandi e impegnativi vengono prese insieme da autorità locale e nazionale dopo una serie di studi di impatto economico, ambientale. ecc.. A livello nazionale, il governo olandese ha seguito di fatto un approccio rivolto alla valorizzazione di un porto principale (‘mainport’) individuato nel porto di Rotterdam. Di recente un organo consultivo al governo ha suggerito di costituire una holding portuale tra Rotterdam e Amsterdam ed inoltre vi è l’ipotesi di riunire sotto una unica Authority Rotterdam, Amsterdam e gli altri scali dei Paesi Bassi. Si tratta del cosiddetto Gateway Holland, su cui sta lavorando il governo dell’Aja e che dovrebbe fare del paese una grande piattaforma logistica 29 ; tale progetto, insomma, non guarda solamente alla sinergia fra porti, ma a un’integrazione più ampia dei nodi portuali con tutta la catena logistica. I Paesi Bassi sperano così di mantenere il primato europeo in questo settore, su cui hanno fondato la fortuna di tutta l’economia nazionale. L’esempio del porto di Rotterdam Il porto di Rotterdam, a seguito della riforma, è governato da un’Autorità portuale chiamata PoR. Essa è diretta da un Executive Board, controllato dal Supervisory Board (Consiglio di sorveglianza) che si assicura il primo lavoro secondo un assetto ibrido di compagnia privata con responsabilità pubblica («hybridsetting of a private company with public accountability»). L’unico monitoraggio del PoR è effettuato dal Consiglio Comunale. 29 Le Autorità portuali dei due principali scali marittimi olandesi, inoltre, hanno annunciato che uniranno i loro sistemi telematici affinché le Autorità e le Dogane possano scambiarsi le informazioni in modo più sicuro e veloce e da gennaio, i porti olandesi di Rotterdam, Amsterdam, Moerdijk e Dordrecht applicheranno sconti sulle tasse portuali alle navi oceaniche a basso impatto ambientale. 221 All. 3 – I Paesi dell’area anglosassone REGNO UNITO L’economia britannica è tra i primi posti nella classifica mondiale ed i suoi porti giocano un ruolo predominante nel trattare oltre il 95% del tonnellaggio di import ed export. Esistono approssimativamente circa 1000 porti e attrezzature portuali in Gran Bretagna; di questi, oltre 650 hanno poteri statutari e circa 120 sono attivi commercialmente. La maggior parte del commercio è concentrato nei porti più grandi e nel 2002 i primi 15 porti movimentavano il 79% di tutto il traffico del Regno Unito. Altri, minori, offrono strutture per il tempo libero, il turismo e la pesca e in Scozia vi sono numerosi “lavori in mare” che offrono strutture e servizi a navi traghetto tra le isole. Il settore, dunque, comprende una combinazione di porti privati, monopolisti e municipali che competono tra di loro come imprese commerciali indipendenti e autofinanziate. Il processo di privatizzazione è avvenuto a partire dal periodo di deregulation thatcheriana, secondo i seguenti passaggi: 1981: abolizione del National Ports Council (funzione di sviluppo di un piano nazionale dei porti), de-regolazione del lavoro, privatizzazione e aumento della concorrenza; i porti inglesi non vengono finanziati o gestiti dallo Stato e conservano indipendenza strategica dal governo. La politica del Governo è quella di regolamentare il settore, laddove appare necessario, e rimanere estranea alle decisioni commerciali e manageriali; 1983: cessione di quote dell’Associated British Ports a privati; 1991: con il cosiddetto Ports Act, il modello portuale inglese si avvicina alla totale privatizzazione del settore. Esso rappresenta il primo caso di vendita a privati, i quali vengono ad assumere tutte le responsabilità e i doveri statuari delle abolite Autorità portuali; inoltre ai privati è concesso di determinare da sé gli investimenti prioritari dei porti. Il Governo si limita ad azioni di supporto riguardo i processi di pianificazione di progetti portuali e sviluppa programmi sull’accessibilità trasportistica degli scali. L’approccio non interventista del governo britannico è stato confermato nel documento programmatico sui porti del 2000 intitolato “Modern ports”, dal quale sono nate numerose iniziative quali una serie di valutazione dei progetti per i porti o alcune migliori pratiche ambientali e statistiche. Dunque il Governo adotta, come già sottolineato, un approccio “hands-off” nelle decisioni sugli investimenti e la gestione dei porti, le quali vengono 222 prese dalle singole Autorità portuali e approvate dai loro stessi Consigli in base alla redditività commerciale della proposta. Sebbene la Gran Bretagna sia il paese che più si è spinto nel processo di privatizzazione, non esiste ad oggi, alcun specifico organo regolatore statale dei porti. Ai porti privatizzati si affiancano in via residuale i c.d. trust ports (12% del volume dei primi 20 porti in UK) e i municipal ports (7%). L’industria comprende un miscuglio di porti privati, di monopolio e municipali che competono tra loro e operano come imprese commerciali indipendenti e autofinanziate. Tipologia dei porti inglesi 30 1. Porti privatizzati o aziende di proprietà Questo settore rappresenta appena due terzi del tonnellaggio portuale del Regno Unito. Quattordici porti dei principali venti sono in questo gruppo. Tali porti sono liberi di ricercare finanziamenti per investimenti commerciali, a condizioni di mercato, indebitando il loro patrimonio o mediante l’emissione di azioni. Come per ogni azienda, sono obbligati a rendere conto agli azionisti dei loro fallimenti come anche dei loro successi. Poiché sono sottoposti a piena libertà e disciplina nel mercato del commercio, si aspetta in cambio da loro la creazione di profitti per incrementare il valore azionario straordinario. Hanno anche un’ampia scelta su come investire in benefici. La British Transport Docks Board era una industria pubblica di proprietà nazionale (come la British Railways) e soggetta alle normali costrizioni sugli investimenti e prestiti applicate a tutte le aziende di proprietà pubblica. E’ stata privatizzata nel 1981 ed è ora conosciuta come Associated British Ports. Il gruppo possiede e gestisce 21 porti britannici (Southampton, Hull, ecc.). Altri porti come Manchester o Felixtowe sono sempre stati a concessione privata. Il Ports Act del 1991 trovò il modo di concedere un’ulteriore privatizzazione e 7 ex porti in affidamento (trust ports) divennero privati tra il 1992 e il 1997. 2. Trust Ports I porti in affidamento (Trust Ports) rendono conto oggi per un quarto dell’industria da tonnellaggio. Sono organi statutari indipendenti, governati da un “Board di Trustees” (Consiglio di fondazione) volto a promuovere il benessere del porto e ad incontrare le necessità degli utenti e degli stakeholders. Qualsiasi eccedenza viene reinvestita per migliorare le strutture. Alcuni di essi sono importanti soprattutto in specifici settori di mercato: Dover ha trattato il 57% del traffico marittimo di passeggeri nel 2002 e ha raccolto il 41% delle merci e veicoli ferroviari internazionali traghettate. Alcuni importanti porti di questa categoria, come il porto di Londra, forniscono soltanto tutela e pilotaggio, con la movimentazione delle merci assicurata da operatori indipendenti. 3. Municipal ports Pochi porti commercialmente significativi sono di proprietà interamente municipale. Di queste strutture, gestite dalle autorità locali, beneficiano soprattutto le comunità locali di riferimento. 30 Cfr. ESPO, “Factual Report on the European port sector”, 2005 – FR-WP2: The framework governing port management. 223 All. 4 – I Paesi del Mar Nero, Mar Baltico e del versante orientale del Mar Adriatico 31 BULGARIA Il sistema portuale della Bulgaria comprende 5 porti di importanza nazionale e 24 porti di importanza regionale. La struttura legislativa per la gestione e la governance portuale ha avuto origine nel marzo 2004 con la “Legge sullo spazio marino, le vie navigabili interne e i porti” (‘SSIWP Law’), la quale ha stabilito la Compagnia nazionale “Porti” - società a responsabilità pubblica a totale partecipazione statale - la quale svolge funzioni amministrative, governative e commerciali ed opera sotto la guida del Ministero dei Trasporti e delle Comunicazioni. Tale legge ha creato le condizioni per il passaggio da un sistema tradizionale di tipo toolport ad un modello landlord; la Compagnia nazionale “Porti” gestisce la proprietà statale e la concede ad imprese private per operazioni a condizioni diverse (concessioni, joint-venture, contratti). Da quando la Bulgaria è divenuta un’economia di mercato aperta, dunque, si sono susseguite una serie di riforme portuali finalizzate fondamentalmente a privatizzare le operazioni nei due principali porti: Bourgas e Varna. Le responsabilità delle Autorità portuali sono divenute centralizzate a livello nazionale e hanno variato tra un’agenzia esecutiva per l’amministrazione marittima e una ‘azienda infrastrutturale’. L’ultima modifica (2010) riunisce tutte le responsabilità dell’Autorità portuale, inclusa quella nautica, sotto la ‘Società di Infrastrutture Portuali’ bulgara. ROMANIA La Romania dispone di 3 grandi porti al Mare Nero: Costanza, Mangalia e Sulina, mentre altri 3 porti, Braila, Galati e Tulcea, sono sia porti marittimi che porti fluviali. Il principale porto marittimo della Romania è il porto di Costanza, situato all’incrocio delle rotte commerciali che collegano i Paesi sviluppati dell’Europa Occidentale e i mercati emergenti dell’Europa Centrale con i fornitori di materie prime di CIS (Comunità Stati Indipendenti), Asia Centrale e Transcaucaso. Esso, oltre a essere il principale porto della Romania, è anche il porto più grande sul Mar Nero e tra i maggiori in Europa; gode di una posizione geo-strategica, essendo situato sulla rotta di due Corridoi di trasporto paneuropei: il Corridoio VII, fluviale (Danubio) e il Corridoio IV, ferroviario. 31 Cfr. ESPO, “European Port Governance”, 2010. Cfr. “Analisi comparativa della disciplina dei porti e del finanziamento pubblico degli Stati che si affacciano sul Mediterraneo”, Portus 2008. 224 Dal 22 agosto 2003, il porto di Costanza è divenuto “Porto con Strutture Doganali” (ai sensi della Decisione Legale n. 547/30.05.2002). Con questo nuovo status il porto di Costanza ha ottenuto una serie di vantaggi ed agevolazioni che gli permettono di servire più efficacemente da centro di distribuzione regionale e di diventare la Porta Orientale dell’Europa. Esso è inoltre un porto sia marittimo che fluviale, essendo collegato al fiume Danubio dal Canale Danubio-Mar Nero, il quale abbrevia di circa 400 km la rotta delle navi in arrivo dal Mar Nero e dirette ai porti sul Danubio dell’Europa Centrale, abbrevia di circa 4.000 km la rotta navigabile da Australia ed Estremo Oriente all’Europa Centrale, ed infine – attraverso l’apertura nel 1992 del Canale Reno-MaineDanubio – ha creato un efficace passaggio di navigazione europeo tra il porto di Costanza e i porti del Mare del nord. POLONIA Il sistema portuale in Polonia è composto da 13 porti, di cui soltanto tre giocano un ruolo centrale in termini di economia nazionale. L’”Atto sui porti e sui porti marittimi” (“Act of Seaports and Harbours”) del 1996 stabilisce il ruolo degli enti governativi del porto e costituisce la base della politica portuale nel sottolineare la funzione pubblica dei porti e nel proporre una serie di regole in merito a rapporti chiari e trasparenti tra il Governo polacco e le Autorità portuali. I porti che detengono una posizione di base in termini di commercio marittimo sono governati da Autorità portuali che hanno acquisito una forma di società di capitali con una quota minima di proprietà dello Stato. Il successivo Atto del novembre 2002, pubblicato nel 2004, stabilisce le norme e i regolamenti in materia di tasse portuali riscosse dagli enti di gestione portuale. Per l’individuazione di imprese per quanto riguarda il contratto di locazione o di varie forme che rendano le infrastrutture portuali e gli altri impianti portuali disponibili per l'uso, viene richiesto un contratto con l'Autorità portuale. Le Autorità portuali determinano dunque i termini per i contratti di locazione. Esse sviluppano autonomamente la politica di investimento, sono responsabili di piani strategici e di sviluppo e decidono in merito alla nomina dei soci in affari. ESTONIA I porti in Estonia sono gestiti (al di là del fatto se essi siano privati, municipali o di proprietà dello Stato) come società per azioni fondate sul diritto societario, rappresentato dal Codice di commercio estone e da altri atti giuridici della Repubblica di Estonia. 225 L’“Atto dei Porti” in Estonia disciplina gli obblighi delle Autorità portuali nel compimento dei requisiti di sicurezza e nelle procedure relative al controllo dello Stato all’interno dei porti. L'Amministrazione Marittima estone, un’unità governativa sotto il Ministero degli Affari economici e delle comunicazioni, mira a garantire la sicurezza della navigazione in acque territoriali e nell'entroterra. Essa controlla la sicurezza del traffico marittimo, offre servizi idrografici e di illuminazione (faro). Offre, inoltre, servizi di traffico marittimo, compresi il pilotaggio e il servizio di rompighiaccio. Secondo la legge portuale Estone, un'Autorità portuale è un organismo che possiede un porto ed organizza le sue attività nel complesso. I principi di gestione di una società sono indicati nel Codice di Commercio. Gli organi coinvolti nel processo decisionale sono tre: l'assemblea generale degli azionisti, il consiglio di sorveglianza e il consiglio di amministrazione. LETTONIA I porti in Lettonia operano come porti ‘landlord’ secondo la "Legge sui porti", adottata nel 1994 come legge quadro per il settore portuale. Questo modello di gestione portuale prevede che l'Autorità portuale, in qualità di ente non-profit, gestisca esclusivamente le infrastrutture e si occupi della regolamentazione delle operazioni portuali. La prestazione effettiva dei servizi portuali è di competenza del settore privato che affitta i siti dei porti dall’Autorità portuale. Le principali funzioni dell'Autorità portuale riguardano la manutenzione delle infrastrutture, la fornitura di sicurezza della navigazione, la raccolta di diritti portuali e delle tasse, la determinazione del regolamento del porto, il controllo e la prevenzione dell'inquinamento, l'emissione di licenze alle imprese che operano all'interno del porto (comprese le licenze Zona franca e il controllo della conformità alla normativa delle attività svolte). La politica governativa per lo sviluppo e il funzionamento di tutti i porti in Lettonia è coordinata dal Consiglio Portuale lettone, presieduto dal Primo Ministro e composto da quattro alti funzionari dei comuni, da un rappresentante dei Ministeri dei Trasporti, delle Finanze, dell’Ambiente e dell’Economia e da professionisti che operano nel settore. Subordinato al Consiglio è l'organo esecutivo, organo dell'Autorità portuale diretto dall’Amministratore delegato. 226 LITUANIA Klaipeda State Seaport è un porto di tipo “landlord” che opera sotto una apposita legge speciale della Repubblica di Lituania. Il Ministero dei Trasporti e delle Comunicazioni ha approvato Regolamenti in materia di operazioni portuali e di spedizioni marittime, che siano vincolanti per tutti gli utenti del porto. Al momento non sono previsti cambiamenti specifici a quanto è già in vigore. Le principali iniziative di sviluppo del porto sono descritte nella strategia a lungo termine di sviluppo dell’economia lituana. Misure più dettagliate vengono approvate dal programma del governo. Il KSSA - Piano Strategico di Attività copre un periodo di tre anni e viene approvato dal Ministro dei Trasporti e delle Comunicazioni. Il Ministro dei Trasporti e delle Comunicazioni nomina e revoca il direttore e il capo contabile dell'Autorità portuale, il suddetto ministro inoltre adotta, modifica ed integra gli articoli della Associazione delle Autorità portuali; approva il reddito annuo e stima le previsioni di spesa e la relazione annuale dell'Autorità portuale su operazioni portuali. RUSSIA In Russia l’intera rete dei trasporti è controllata dallo Stato. Il governo sovietico privilegiò strutture atte a spostare grandi quantitativi di merci e di persone con il minor costo possibile, a volte sacrificando la convenienza del consumatore in favore della massima efficienza. I principali porti civili russi sono Novorossijsk sul Mar Nero; San Pietroburgo e Kaliningrad sul Mar Baltico; Nahodka, Vostočny, Vladivostok e Vanino sulla costa del Pacifico, Murmansk e Arcangelo sulla costa artica. Il fiume Volga è la principale idrovia interna su cui si svolge la metà del traffico fluviale del paese. La navigazione lungo il Volga fu potenziata con la costruzione di alcune grandi dighe, del canale Volga-Don, che fornisce uno sbocco sul Mar Nero, e del canale Volga-Baltico. I principali porti sul Volga sono Rybinsk, Nižni Novgorod, Samara, Volgograd e Astrahan. Un altro porto di rilievo è Rostov, sul mare d’Azov, vicino alla foce del Don. I porti di Mosca sono collegati al sistema del Volga attraverso il canale di Mosca. In Siberia e nella Russia estremo-orientale i fiumi rappresentano gli unici sistemi di trasporto nelle zone che non sono percorse da reti ferroviarie. 227 SLOVENIA L'attuale modello della gestione portuale in Slovenia è regolato principalmente dal Codice di Navigazione (CN) del 2001 e dalla legge disciplinante i diritti sulle acque, sotto la specifica autorità del Ministero dei Trasporti, tramite la direzione marittima, e l’Amministrazione Marittima Slovena. I principali compiti di quest’ultima, istituita a Koper nel 1995, consistono nello sviluppo economico delle infrastrutture portuali, nella sicurezza nel mare, sulle vie navigabili interne e nei laghi, ed includono inoltre la sicurezza marittima, l’elaborazione della regolamentazione concernente il porto ed altre parti del mare territoriale e delle acque interne, lo sviluppo delle infrastrutture portuali, le operazioni di salvataggio e recupero, la prevenzione dell’inquinamento, il Port State Control, ecc.. Nel suddetto Codice i porti sono classificati in tre tipologie: porti destinati al trasporto pubblico, porti per gli scopi specifici e porti militari. Il Governo determina i requisiti dei porti aperti al trasporto pubblico internazionale e/o domestico (destinati al trasporto merci e/o persone e alle attività ad esso attinenti) e dei porti militari, mentre gli altri porti, ossia i porti per scopi specifici quali i porti turistici e da diporto ed i porti locali vengono regolati dagli enti locali nel cui territorio gli scali sono situati (art. 35 CN). La gestione dei porti militari non è disciplinata dal CN. Le infrastrutture portuali possono essere di proprietà della Repubblica slovena, del Comune e di soggetti di diritto privato. Nel 1994 la Repubblica di Slovenia, dopo un periodo di transizione, è tornata al regime della proprietà privata, mentre le infrastrutture del porto di Koper (Capodistria) sono state nazionalizzate, appartengono dunque allo Stato o ai Comuni. Il porto di Koper è il solo scalo marittimo internazionale sloveno dedicato al traffico di merci in cui le infrastrutture primarie appartengono allo Stato, mentre le infrastrutture secondarie (vie di accesso, binari ferroviari, recinzioni, impianti elettrici, ecc.) costituiscono patrimonio conferito dal Governo sloveno nel capitale societario della società Luka Koper privatizzata nel 1994. Questa società è un ente autonomo, indipendente dallo Stato, che agisce quale società privata quotata in Borsa, la quale fornisce tutti i servizi portuali, direttamente o tramite società partecipate, ad eccezione del pilotaggio e del rimorchio. A partire dal 2007 il Governo sloveno si è fortemente impegnato per promulgare un decreto volto a disciplinare le questioni più importanti relative alla gestione del porto di Koper ed al conferimento della concessione. Tale impegno è sfociato nel 2008 nell’adozione del Decreto governativo di riforma del regime della gestione e amministrazione del 228 principale porto merci sloveno, il quale ha l’intento di trasferire alcune competenze della società all’Amministrazione Marittima Slovena; il Ministero dovrebbe essere incaricato del rilascio delle autorizzazioni per l’espletamento delle attività commerciali mentre la società Luka Koper dovrebbe conservare il monopolio dell’espletamento delle maggiori attività portuali come la movimentazione della merce. CROAZIA La disciplina fondamentale del settore marittimo portuale in Croazia è costituita dal Codice marittimo del 2004 e dalla legge sul demanio marittimo e i porti marittimi del 2003. I porti sono suddivisi in due principali categorie: i porti aperti al traffico pubblico (internazionale e domestico) ed i porti con finalità speciali (porti turistici, da diporto, industriali con finalità peschereccia e dedicati alla cantieristica navale). A seconda delle loro dimensioni, i porti pubblici possono essere porti di particolare interesse economico, porti di importanza regionale e porti di importanza locale. Inoltre, nel 2003 in Croazia sono state istituite le Autorità portuali, la cui disciplina varia in base alla tipologia dei porti. 229 All. 5 – I Paesi della sponda meridionale e medio - orientale del Mediterraneo 32 TURCHIA La posizione centrale della Turchia tra Europa e Asia la rende un ponte dal punto di vista geografico, culturale ed economico. Il trasporto marittimo è uno dei vantaggi competitivi della Turchia, dal momento che il paese è circondato dal mare su tre lati, il Mediterraneo, l'Egeo e il Mar Nero, senza dimenticare lo stretto dei Dardanelli e quello del Bosforo. La lunghezza dei confini costieri della Turchia è pari a 8.333 km. Il trasporto via mare è il sistema di trasporto principale per le esportazioni e le importazioni del paese, con quote rispettivamente del 46,0 % e del 59,1 %. Tra i mesi di gennaio e novembre del 2009, il trasporto via terra ha interessato il 41,7 % delle esportazioni e il 23,6 % delle importazioni. Nonostante i servizi logistici siano stati introdotti da poco in Turchia, il settore registra una crescita rapida, tanto che, grazie alla sua posizione di crocevia delle più importanti rotte commerciali, in futuro il paese potrebbe diventare un importante centro logistico. I principali porti (su circa 160 complessivi) sono Izmir, Istanbul-Izmit, Iskenderun, Adana-Mersin e Samsun. L’Amministrazione portuale di Mersin è stata privatizzata nel 2007. I porti di Bandirma, Samsun, Derince, e Izmir hanno avviato la privatizzazione per 36 anni nel 2010. il porto di Iskenderun ha completato gli studi tecnici ed ha avviato il processo per indire la gara per la privatizzazione. TUNISIA La Tunisia è un paese al centro della congiunzione tra il bacino orientale e quello occidentale del Mediterraneo, a 140 km dall’Europa (canale di Sicilia); tale posizione geografica ne fa oggi un territorio strategico per i trasporti e la comunicazione. Il sistema portuale marittimo tunisino è composto da 8 principali porti commerciali (Bizerte, Menzel Bourguiba, Tunis-Goulette-Radès, Sousse, Sfax Sidi Youssef, La Skhira, Gabès, Zarzis), 22 porti minori e un terminal petrolifero. 32 Cfr. Formez “Governance delle reti in sei Paesi del Mediterraneo”, C.A.I.MED. Centre Administrative Innovation in the EuroMediterranean Region, 2004. 230 A partire dal 1992, la politica dei trasporti tunisina si è essenzialmente concentrata sulla deregulation del settore, la privatizzazione delle compagnie dei trasporti e l’adeguamento infrastrutturale. Il IX e X Piano di Sviluppo Socio-economico Tunisino hanno previsto un aumento significativo degli investimenti pianificati per il settore dei trasporti e delle telecomunicazioni. L’ufficio della Marina mercantile e dei Porti - Autorità portuale e marittima – si occupa del funzionamento e dello sviluppo dei porti commerciali tunisini, oltre alle altre funzioni dell’amministrazione marittima. Nel 1999 è stato introdotto il nuovo codice dei porti marittimi commerciali indirizzato verso una politica di apertura al partenariato pubblico-privato. Nel codice, infatti, vengono definite le regole di utilizzo delle proprietà pubbliche portuali e viene introdotto il regime di concessione della parte pubblica e dell’occupazione temporanea, con o senza obbligo di servizio pubblico, per la durata di 30 anni prorogabile a 50. Tale formula permette di ottenere dei diritti reali sulle opere, sulle infrastrutture e le sovrastrutture portuali per i concessionari e risponde anche alle attese degli investitori e degli operatori del settore. La manutenzione dei porti è affidata a STAM (Societé Tunisienne d’Acconage et de Manutention), la gestione invece è affidata all’OMMP (Office de la Marine Merchande et des Ports). I servizi portuali infine sono realizzati da 7 compagnie private e da una compagnia nazionale, la STAM che è stata riorganizzata e probabilmente verrà privatizzata. Le principali riforme effettuate durante il 2002 hanno riguardato essenzialmente il porto di Tunis-Goulette-Rades, in quanto principale porto di transito del traffico di container e traghetti, in tema di organizzazione delle procedure di funzionamento, crescita della capacità di deposito del porto, rafforzamento delle attrezzature di manutenzione e semplificazione delle procedure. Esso gioca un considerevole ruolo nella dinamizzazione dell’economia nazionale come punto di transito marittimo di grande importanza poiché assicura il 16% del traffico portuale a livello nazionale. La politica marittima è stata elaborata dalla Direzione Generale della Marina Mercantile che conta 8 compagnie nazionali di cui 7 società private ed un’impresa pubblica che detiene il 52% delle quote di mercato del trasporto internazionale. Il traffico marittimo delle merci che transitano per i porti tunisini è diviso in traffico internazionale e cabotaggio nazionale, che rappresenta il 4% del traffico globale. 231 Nell’ambito della sicurezza, il controllo statale sul porto può essere effettuato dalle autorità marittime. ALGERIA Il trasporto marittimo ha un ruolo fondamentale nello sviluppo economico dell’Algeria, dove la maggior parte degli scambi commerciali e delle esportazioni di petrolio e gas avvengono via mare. Il paese ha 9 porti principali, di cui quello di Algeri, il più importante, è in espansione. Dal 1962 – anno dell’indipendenza dalla Francia - il settore ha conosciuto tre diverse fasi di ristrutturazione: il sistema misto (1962-1970), il periodo di centralizzazione (1970-1982) e la fase di decentramento. Nel corso di quest’ultima, iniziata nel 1982, sono state soppresse ad opera del governo le imprese pubbliche del settore portuario operanti su scala nazionale, ossia l’Office National des Ports (ONP), la Société Nationale de Manutention (SONAMA) e la Compagnie Nationale Algérienne de Navigation (CNAN); esse sono state sostituite da 8 imprese portuarie. Alcune di queste imprese gestiscono più porti commerciali, mentre altre gestiscono uno o più porti per la pesca. Nel 1988 le imprese portuarie sono state trasformate in società per azioni che dipendono dal fondo di partecipazione “Servizi”, trasformato in holding nel 1996. Il Ministero dei Lavori pubblici esegue i lavori di costruzione finanziati dallo Stato e tutela gli investimenti che non sono trasferiti alle imprese portuali. Nel 1998 è stato introdotto (legge n. 98-05 del 25 giugno 1998) un nuovo schema organizzativo basato sulla separazione tra i compiti di servizio pubblico e le attività commerciali aperte alla concorrenza; sono state così create tre Autorità portuarie su base regionale (est, ovest e centro) incaricate del servizio pubblico, le quali partecipano anche ai lavori di manutenzione, ristrutturazione e sviluppo delle infrastrutture portuarie di cui prima si occupava esclusivamente lo Stato. Si tratta di istituti pubblici a carattere industriale e commerciale dotati di personalità giuridica e di autonomia finanziaria (Decreto esecutivo n. 99-1999 dell’8 agosto 1999). La nuova organizzazione dei trasporti marittimi è stata definita dai decreti 2000-327 e 2000-328 del 25 ottobre 2000 che fissano le competenze e l’organizzazione del Ministero dei lavori pubblici nonché dal già citato decreto n. 99-1999. 232 EGITTO La rete portuale egiziana assume un ruolo economico e strategico centrale per la posizione geografica occupata dal paese. Secondo uno studio commissionato dal Ministero dei Trasporti, il numero di navi merci che solcano le acque territoriali egiziane è destinato a triplicare tra il 2010 e il 2020. I porti marittimi sono ad oggi in grado di gestire oltre 80 milioni di tonnellate di traffico merci all’anno e smaltiscono tra l’85% e il 90% del commercio internazionale egiziano. Tuttavia, a fronte di un’inconfutabile centralità per il sistema economico del paese, la rete portuale conserva alcuni elementi di inefficienza ed elevati costi che finiscono per ostacolare il flusso delle merci da e per l’Egitto e che impongono la necessità di approntare una serie di investimenti. Il Governo egiziano ha dunque avviato un processo di parziale liberalizzazione del settore portuale concedendo in gestione a soggetti privati (sulla base di contratti BOT/BOOT) i porti di Ain Sukna, sul Mar Rosso a Sud di Suez, di East Port Said, all’ingresso del Canale di Suez, e di Damietta, sul versante orientale dell’estuario del Nilo. Il porto di Ain Sukna, inaugurato nell’ottobre del 2002, è il primo porto ad acque profonde dell’Egitto, in grado di accogliere ogni tipo di nave merci e concepito come snodo per il commercio internazionale e per l’esportazione delle merci provenienti dalla zona industriale ad esso prossima. Lo scalo di East Port Said, inaugurato nel 2004, è dotato delle infrastrutture per le gestione dei carichi delle navi container di ultima generazione ed è candidato a svolgere, in virtù della posizione strategica in cui si colloca, la funzione di fondamentale hub di trasbordo del Mediterraneo orientale per le navi merci che solcano le rotte di comunicazione tra Europa e Asia. Il porto di Damietta, infine, è stato inaugurato nel dicembre del 2004 ed è il primo porto marittimo egiziano completamente automatizzato, con numerose banchine di stazionamento inclusa una per le navi che trasportano prodotti petrolchimici, particolarmente importante vista la prossimità ad uno degli impianti per la produzione di gas naturale liquefatto più grandi al mondo. Gli investimenti privati nella rete portuale egiziana hanno compiuto un decisivo salto qualitativo nel marzo del 2005 con l’annuncio di un accordo tra la Hutchison Port Holding di Hong Kong – la più grande compagnia mondiale del settore – e un consorzio guidato dalla Alexandria Port Authority per la modernizzazione, l’ampliamento e la gestione dei due terminal merci di Alessandria e Dekhaila, nel quadro di un contratto BOT di venticinque anni. 233 I principali porti egiziani sul Mediterraneo sono quelli di Alessandria, Damietta, El Dekheila, Port Said e East Port Said, mentre il principale scalo per il transito di prodotti petroliferi è quello di Zeit, sul Mar Rosso. Per effetto di una legge del 1996 e di una direttiva del Ministro dei trasporti del 1999, l’Egitto ha introdotto una regolamentazione dettagliata per i porti specializzati in una precisa attività. In conseguenza della riorganizzazione che ne è scaturita si contano oggi 14 porti specializzati nel traffico di prodotti petroliferi, 9 porti in quello di prodotti minerari, 8 porti per i prodotti della pesca e infine 11 porti specializzati nella gestione dei flussi di traffico turistico. MAROCCO Le infrastrutture portuali apportano un contributo fondamentale al funzionamento del sistema economico del Marocco. Le ventiquattro strutture portuali esistenti gestiscono il 98% del volume complessivo del commercio marocchino, per un totale di oltre 56 milioni di tonnellate all’anno tra importazioni ed esportazioni. Un ruolo preponderante è svolto dal porto di Casablanca dal quale passa oltre il 35% del traffico mercantile in entrata ed in uscita dal territorio marocchino con un ruolo cruciale nei settori chiave degli idrocarburi e dei fosfati. Nel 2003 sono stati avviati i lavori di dragaggio e di costruzione per il completamento del porto ad acque profonde di Tangeri-Med presso Oued R’Mel sulla costa mediterranea in prossimità dello Stretto di Gibilterra. Il porto – secondo solo a quello di Casablanca per dimensioni – è divenuto operativo nel 2007. GIORDANIA Il porto di Aqaba – situato a 300 chilometri, in direzione sud, da Amman – rappresenta l’unica infrastruttura portuale della Giordania. Il volume delle merci che vi transitano ha superato nel 2004 la soglia di 2,5 milioni di tonnellate (con il livello delle importazioni più che doppio rispetto a quello delle esportazioni) e continua a far registrare un trend positivo sotto l’impulso della crescita dell’economia del Regno hashemita e in ragione del fatto che è divenuto il principale luogo di ingresso del traffico merci destinato in Iraq. Constatata l’incapacità delle Autorità portuali di gestire il marcato aumento dei flussi in entrata e in uscita da Aqaba e la conseguente congestione del porto, il governo giordano ha deciso di affidare l’incarico a soggetti privati. Nel 2004 la compagnia danese APM Terminals si è aggiudicata l’appalto per la gestione dell’area dedicata ai containers. Il risultato del primo anno di 234 attività di APM Terminals è stato l’abbattimento dei tempi di attesa, che sono scesi da 130 a 4 ore, incoraggiando le compagnie di navigazione internazionali a rimuovere le onerose sovrattasse che erano state costrette a introdurre. In ragione della maggiore efficienza nella gestione del porto APM Terminal nel 2005 poteva garantire di ricevere 420.000 containers, contro i 300.000 del 2003. Dal 2001 Aqaba rientra nell’area di competenza della Aqaba Special Economic Zone Authority (ASEZA) e il porto è sotto la tutela della Aqaba Development Corporation (ADC) dal 2004. La ADC ha intrapreso un progetto di ampie dimensioni, e del valore di 1 miliardo di dollari, per spostare a sud, a ridosso del confine con l’Arabia Saudita, le infrastrutture portuali esistenti al fine di liberare un’area da dedicare al flusso turistico e di ridisegnare ed espandere il porto. LIBANO Il trasporto marittimo è il sistema più utilizzato in Libano per il commercio con l’estero. La maggior parte delle merci (più del 70%) transita dal porto di Beirut. A causa della inefficiente gestione da parte dell’Autorità ad esso preposta, nel luglio del 2004 l’amministrazione del porto di Beirut è stata assegnata con un contratto di 10 anni a un consorzio formato dalla compagnia statunitense International Maritime Associates, dalla società britannica Mercy Docks e da un partner locale IPMB. Gli altri porti del paese, Saida, Tripoli e Tyre, sono gestiti da enti pubblici. In Libano non è presente un’autorità marittima e a causa dell’inefficiente controllo statale sulle bandiere il paese è collocato nella categoria “a rischio molto elevato” della lista nera del Memorandum of Understanding di Parigi. ISRAELE I porti principali sono governati da un’Autorità portuale nazionale, di proprietà dello Stato. Il governo ha cercato di riformare per lungo tempo il sistema portuale e, in particolare, privatizzare i servizi di movimentazione cargo nei porti nazionali; tale processo però non è stato ancora completato. Nel 2004 fu istituita, con l’Israel’s Shipping and Port Authority Act, una nuova struttura di gestione portuale al fine di promuovere una maggiore competitività del paese nel settore. A fine 2009 il Governo ha dato via libera alla privatizzazione dei porti sul mediterraneo di Haifa e Ashod; tale processo prevede di essere articolato in diverse fasi, la prima delle quali è stata inaugurata nel febbraio 2010 quando il 15% delle quote delle compagnie portuali è stato venduto sul 235 mercato azionario, attraverso un’offerta pubblica. Ai dipendenti viene dato il diritto di acquistare il 10% delle quote del rilascio o l’1,5% di quelle del porto. La fase successiva – che avverrà dopo almeno un anno dall’inizio, ossia nel 2011 – porterà a cedere il 34% delle quote portuali, lasciando lo Stato con il 51%. La terza fase è prevista per il 2020, quando lo Stato cesserà di essere il proprietario di maggioranza. Nel caso della privatizzazione del porto di Eilat lo Stato prevede invece di vendere la quota di controllo ad un investitore strategico in una vendita privata diretta 33 . 33 Cfr. ESPO, “European Port Governance”, 2010. 236
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