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Città di Pace e per la Scienza
ERICE JOURNAL OF POLITICS PEACE AND HUMAN RIGHTS
Erice journal of politics
peace and human
rights
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num e r o 0, 1 9 lu glio 2 01 4
ERICE JOURNAL OF POLITICS PEACE AND HUMAN RIGHTS
Città di Pace e per la Scienza
SOMMARIO
Editoriale: ignoti nulla cupido
Una terra senza confini
è una TERRA BELLISSIMA
Il mediterraneo della fede
ERICE JOURNAL OF POLITICS PEACE AND HUMAN RIGHTS
Anno 1, n. 0, Luglio 2014
DIRETTORE RESPONSABILE
prof. Giorgio Scichilone
COMITATO DI DIREZIONE
Lucia Martines, caporedattore
Luana Alagna, redattore
Giorgio La Neve, redattore
Andrea Lo Bianco, redattore
Gabriele De Luca, redattore
Si ringraziano per la collaborazione:
Giacomo Tranchida, Sindaco di Erice
Monsignor Domenico Mogavero,
Vescovo di Mazara del Vallo, Presidente del CEMSI
Yahya Pallavicini,
Vice Presidente Co.re.is, Imam della moschea al-Wahid di Milano
Pasquale Hamel, scrittore e saggista
Minoo Mirshahvalad,
studentessa iraniana presso Università degli Studi di Bologna
Shady Hamadi, scrittore
04
07
11
Unicità di Dio, ospitalità sacra e
riconoscimento reciproco
14
Il rapporto tra relativismo culturale
e diritti umani nel Mediterraneo
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Gaza: all’ombra della shalom
il vento alimenta il fuoco
23
Il Mediterraneo di Davide Abulafia
26
Mediterraneo confine tra Oriente e
Occidente: la battaglia di Lepanto del 1571
29
Sic gloria transit
La Sicilia araba
31
37
e-mail redazione: [email protected]
www.facebook.com/ericejournal
www.comune.erice.tp.it/ericejournal
Fotografie e illustrazioni: L’editore si dichiara disponibile a regolare eventuali spettanze per quelle immagini di cui non sia stato
possibile reperire la fonte.
A Glance at the Ancient History
of the Suez Canal
40
La pace dei salvati
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E d i to r i a l e
Ignoti nulla
cupido
di Giorgio Scichilone
Diodoro Siculo narra che Erice, nato da Venere e Buta, un re
siciliano, costruisse su un monte un tempio in onore della dea
e che da quel luogo il culto di Venere, divinità orientale dell’amore, della bellezza, della fecondità, poi Venere Ericina, si fosse diffuso a Roma e quindi in Europa. È una delle varianti delle
origini, racconti leggendari delle fondazioni. Tucidide e Virgilio
si aggiungono a questo ventaglio di possibilità. I miti sono narrazioni ancestrali di eventi primordiali, notturni. Sublimano scontri e
raccontano incontri. Ciò che qui rimane è l’idea che l’amore può fecondare, costruire, una città, il luogo della convivenza ordinata degli
uomini.
I miti, come le epoche, si sovrappongono, ed esprimono passaggi di
civiltà. San Giuliano era il nome antico di Erice. Il santo protesse il paese
dalle invasioni dell’Islam grazie a dei cani inviati dal cielo. La Sicilia, isola
di confine nel cuore del Mediterraneo, era il teatro inevitabile dell’urto
tra due religioni nell’epoca in cui profeti e santi venivano arruolati per conquistare e difendere il territorio sacro dei padri e dei figli. Una fede
contraria che può inghiottire la propria, la minaccia dell’ignoto sotto le
sembianze del diverso da sé scatena una paura formidabile che solo una
forza sovrumana può superare. il quale ciascuno ha partecipato a una storia più ampia e condivisa, che si rintraccia nei templi greci di Eraclea Minoa, nelle cupole arabe sparse tra le coste
nordafricane, nelle musiche di Siviglia o Napoli, tra i riti della Cappadocia e
quelli latini. Pur nella specificità di ciascun popolo, nell’unicità di ogni tradizione, e nonostante le lotte e gli scontri, si è edificata, tra Gerusalemme, Atene
e Roma, nei credi religiosi, nelle manifestazioni artistiche, speculazioni filosofiche, codificazioni giuridiche, nelle edificazioni urbanistiche, negli usi alimentari, dal Libano a Gibilterra, da Marsiglia ad Algeri, da Venezia ad Istanbul, attraverso contaminazioni e fratture, un’identità e una cultura comune.
Questo patrimonio geo-storico può divenire un paradigma forte per costruire un dialogo tra i popoli. La cronaca ce lo ricorda quotidianamente
e drammaticamente, da Lampedusa alla Palestina, quanto sia urgente
l’approdo a delle condizioni di giustizia e di pace. Un dialogo basato
sulla ricerca dei diritti umani è la prospettiva politica per realizzare la
pace tra i popoli. Un dialogo che intende sconfiggere la paura dell’altro,
il pregiudizio generato dal diverso, che a sua volta produce diffidenza
e ostilità. Un dialogo che serve per far conoscere storie e linguaggi
lontani, punti di vista stranieri, e renderli familiari e amici. Perché non
c’è passione, amore o amicizia, per ciò che non si conosce: ignoti
nulla cupido. Per scoprire la bellezza dell’altro, con le sue ragioni e i
propri bisogni. E il journal, aperto e plurale, libero, intende mettere
in contatto e far conoscere popoli e persone diverse e che tuttavia
appartengono allo stesso mare. Che è il mediterraneo. O, in un’altra metafora, quello dell’umanità.
Da quel monte, il monte di San Giuliano, sopra la punta occidentale della
Trinacria, si gode di un panorama irresistibile: due mari che si congiungono,
confondono, da Sud a Nord, tra Oriente e Occidente. È un fatto geografico,
naturale. Può essere una metafora, o un destino. Può essere declinata come una
vocazione e un’opportunità. Erice oggi promuove, con il patrocinio dell’università di Palermo, un journal
on line. E vuole trasformare una storia antichissima, la propria, in cui si
sedimentano vari stadi di civiltà, in un luogo aperto e plurale, come
il mare al centro del quale è posta la Sicilia. Il mare tra le terre è
il mare di tutti i popoli che vi confluiscono, il mare attraverso
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Erice - Castello di Venere e Torretta Pepoli
ERICE JOURNAL
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Una terra senza
confini è una
TERRA BELLISSIMA
Saluto del Sindaco Di Erice, Giacomo Tranchida
Il benvenuto della comunità ericina
vuole significare, da un lato il saluto
affettuoso di una comunità più vasta,
che oltrepassa gli attuali confini
geopolitici territoriali dello stesso
ex agro ericino, fra il cielo e il mare,
territorio comunale un tempo esteso
fino a Monreale, dall’altro rappresenta
un saluto al plurale, colorato e
variegato, senza confini e limiti. Come
i colori dell’arcobaleno, che hanno
formato quelli della mia generazione.
Come il simbolo di una colomba che
nel becco porta un ramoscello di
ulivo, a contraddistinguere lo stemma
identificativo della cultura di Erice
(Città di Pace e per la Scienza) ma
anche e soprattutto immaginando
come anche “due monti”, come
fossero due mondi separati, possano
incontrarsi. Possono realmente farlo?
E’ questa la prima domanda che
mi pongo e pongo ai “Dialoghi di
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Pace” proposti intensamente da S.E. il
Vescovo Mogavero. Le risposte possono
essere trovate anche attraverso visuali
e punti di vista differenti. Come quelli
suggeriti dal maggiore Luca Parmitano,
che ci riporta all’immagine della TERRA
vista dallo SPAZIO: “BELLISSIMA”
poiché “SENZA CONFINI”. Una visione
che può diventare pratica quotidiana,
cultura del nostro agire, stella polare
dei Governi e delle potenze mondiali?
Ed eccoci alla seconda domanda,
alla quale possiamo rispondere solo
contrapponendo
allo
scetticismo
universale tipico di questo tempo, la
speranza della bellezza del sogno di
pochi, che può diventare gradualmente
il sogno di tanti, ovvero la realtà voluta
da tutti !
Ma per “sognare” (ora, come allora,
seppur in mutate condizioni sociali,
economiche e politiche) c’è bisogno
di riscoprire una tensione ideale,
ERICE JOURNAL
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culturale, sociale e politica. C’è
bisogno di interagire con e nei
processi di comunicazione della realtà
contemporanea, che diversamente
vengono omologati alla legge dei
più forti e degli interessi dei potenti,
schiacciando i diritti dei più deboli, i
sogni e le speranze di futuro di tutti.
Perché, se da un lato la globalizzazione
detta i tempi anche della nostra vita,
trasformando il tutto in frenesia, numeri,
calcoli e statistiche, questa terrena vita
non può non esaltare la sua propria
esistenza: la vita delle persone, delle
donne e degli uomini, il loro futuro.
Non si può fermare il tempo, ma Libertà
e Giustizia, Democrazia e Diritti,
non sono e non possono diventare
bandiere scolorite. Dietro ognuna di
queste bandiere c’è la condizione di
vita di una persona, di un popolo, di
un futuro che bisogna sapere leggere
con gli occhi spalancati di un bambino
e non accecati dalla rincorsa globale a
tutela degli interessi di pochi, sperando
di essere invitati a quella corte. La vita
è una sola e merita di essere vissuta
dando un significato al valore della
stessa. C’è bisogno di percorrere con
slancio una fase avanzata: c’è bisogno
di un nuovo inizio!
L’immagine del volo di una colomba,
con un ramoscello di ulivo nel becco, ha
fatto incontrare due monti. Si potrebbe
obiettare che si tratta di un immagine
antica, un sogno lontano. Ebbene, non
sono studioso del settore, ma sono
certo che non saranno mai i missili
e/o gli equilibrismi internazionali a
far incontrare palestinesi e israeliani.
La Pace armata, da sempre, ha
rappresentato solo un armistizio,
un
compromesso
labile,
oserei
dire volubile. Uno stato di incubo
permanente. In queste ore aumenta
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progressivamente il numero
dei morti sulla Striscia di Gaza
e in altri territori di guerra,
dove non vengono risparmiati
neppure i bambini che giocano,
dove le guerre di religione non
consentono di istaurare un dialogo
tollerante fra le stesse.
Se il mondo scientifico ha dato un
contributo nel frantumare i muri
della guerra fredda, partendo anche
da questo monte. Se da EST il Papa
Santo, interpretando anche un sentire
laico, popolare e sociale, ha coinvolto
e indirizzato le scelte di pochi ma
illuminati leader delle terre della ex
super potenza sovietica, da OVEST altri,
al tempo, hanno saputo raccogliere
gli inviti e fatto la loro parte, anche in
modo autonomo rispetto alla logica
dei blocchi contrapposti dettati dalle
superpotenze americane e russe.
Quell’ovest illuminato, che ha dato vita
all’Europa e che oggi è preso dalla
rincorsa sulle faccende di casa propria,
avvitato nel ricorrere spread, fiscal
compact, patti di stabilità. L’occidente
che, paradossalmente, mostra i muscoli
con chi vive di stenti e, attuando una
politica strabica, si prostra ai desideri e
agli eccessi dei mercati finanziari, delle
sue regole speculative. Essere europeisti convinti, oggi, non
significa scimmiottare una pseudoglobalizzazione americana, che invece
rischia di rivelarsi una “amerikanata”,
come si usa dire dalle nostre parti.
Anche riguardo al dramma di una
“guerra” quotidiana, silenziosa: quella
dell’esodo dei migranti. Una guerra
“armata”, in minima parte contenuta
nei danni enormi generati, dall’ottimo
coordinamento interforze delle nostre
Istituzioni locali, forti dello spirito
e della generosa accoglienza delle
“
C’è bisogno di percorrere con
slancio una fase avanzata: c’è
bisogno di un nuovo inizio!
”
nostre comunità. Una guerra che rischia però di scoppiare, in tutta la sua
drammaticità, causando ben altri effetti e danni. Non possiamo accogliere
tutti, ma questo non giustifica il cinismo dei Governanti europei nell’evitare
di guardare quello che ti accade attorno, magari sulle rive delle stesse coste
europee, bagnate dallo stesso mare, e dalle stesse culture di cui l’Europa
stessa è intrisa.
E mi auguro proprio che, da Ambasciatore italiano per il semestre di
Presidenza europea, il maggiore Luca Parmitano riesca a spiegare ai
governanti europei che, da lassù “la terra non ha confini ...è bellissima”.
Erice - Castello di Venere
ERICE JOURNAL
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Il mediterraneo
della fede
di Monsignor Domenico Mogavero*
In questi anni di episcopato a Mazara
del Vallo ho scoperto il grande valore
del Mediterraneo. Di questo mare
che - confesso - prima d’ora non
avevo mai visto ma ne avevo sentito
parlare per fatti di cronaca legati agli
sbarchi e alle vicissitudini di alcuni
pescherecci della marineria locale. Di
questo Mediterraneo ho iniziato sin da
subito ad apprezzarne il vero valore,
non tanto quello esteriore quanto
intimo, di luogo di convergenze tra
Stati e religioni diversi. L’impegno nel
Mediterraneo è diventato così una
priorità pastorale per la mia Diocesi
nella quale opera la principale flotta
peschereccia italiana e per un’isola,
la Sicilia, che ha ricevuto il Vangelo
dalle Chiese, una volta floride e
dinamiche, della sponda sud. “Nuovo
umanesimo” continuo a ribadire da
alcuni anni, dopo le esperienze che
la mia Chiesa ha vissuto nel tempo,
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di vicinanza, di accoglienza, di dialogo.
In questo ci credo. Costruire la pace
senza questi valori sarebbe soltanto
un’utopia. Il dialogo interreligioso
credo sia un fondamento necessario
per un percorso di pace condiviso.
Uno strumento di incontro finalizzato
a creare le condizioni affinché le tre
grandi religioni monoteiste non solo
non si combattano, ma positivamente
trovino forme e modi per evidenziare
la loro adesione all’unico Dio e
per mostrare all’opinione pubblica
mondiale che la fede in Dio incide in
modo determinante nella qualità della
vita. Nello stesso tempo il dialogo
interreligioso deve far sì che nel
nome dell’unico Dio le tre religioni
non trovino motivi o pretesti per
combattersi, ma ragioni per mettersi
insieme a servizio dei valori e degli
ideali che esaltano l’uomo, creato a
immagine e somiglianza di Dio, e che
titolo
ERICEtematico
JOURNAL
11
“
consentono di dare alla terra un volto di speranza, creando le
condizioni per vivere nella giustizia, nella pace, nella solidarietà.
Mi pare di poter affermare che il dialogo interreligioso è uno
strumento necessario, oggi più che in altre epoche storiche, per
dare concretezza alle aspirazioni più grandi della persona. Un
presupposto fondamentale è, però, quello del rispetto reciproco,
proprio perché non è pensabile di affrontarsi in armi per parlare di
Dio, della verità, della morale, della spiritualità e della vocazione
eterna dell’uomo. In questo ambito un elemento di criticità è
dato dall’esigenza - non sempre rispettata - della reciprocità, cioè
dalla necessità che nei diversi contesti si riconoscano alle religioni
minoritarie i diritti di libertà necessari per professare, a livello
personale e in pubblico, la propria fede e per praticare le opere,
cultuali e non, ad essa connesse. Un punto delicato del dialogo
interreligioso, concerne la coscienza di ciascuna delle tre religioni di
essere depositaria di tutta la verità e, di conseguenza, della difficoltà
di riconoscere la verità presente nelle altre. La Chiesa cattolica ha
affrontato questo snodo affermando che essa «nulla rigetta di quanto
è vero e santo in queste religioni. Essa considera con sincero rispetto
quei modi di agire e di vivere, quei precetti e quelle dottrine che,
quantunque in molti punti differiscano da quanto essa stessa crede e
propone, tuttavia non raramente riflettono un raggio di quella verità
che illumina tutti gli uomini», ribadendo nello stesso tempo che la
sua missione irrinunciabile è quella di «annunciare, il Cristo che è via,
verità e vita» (Gv 14,6), in cui gli uomini devono trovare la «pienezza
della vita religiosa e in cui Dio ha riconciliato con se stesso tutte le
cose» (Dichiarazione sulla libertà religiosa, n. 2, del Concilio Vaticano
II). Occorre considerare che il patrimonio di spiritualità presente nelle
tre religioni monoteistiche è considerevole, sia sotto il profilo delle
testimonianze degli uomini di fede, sia per quanto attiene ai testi
pervasi di un afflato mistico, davvero affascinante. Sul tema del dialogo,
ad esempio, l’Occidente non può avere una visione distorta dell’Islam.
Il primo fattore negativo è il condizionamento dei luoghi comuni, tanto
più grave quanto meno si conosce, attraverso fonti e canali autentici, il
patrimonio religioso e culturale dell’islam. Un altro elemento di rischio è
la paura dei musulmani visti, sotto la spinta di un’ipotetica guerra santa,
come potenziali invasori e sovvertitori del mondo occidentale. Un terzo
punto è quello di pensare tutti i fedeli islamici come fondamentalisti,
nemici del cristianesimo. Penso che una pur minima conoscenza del
patrimonio religioso e culturale dell’Islam e l’instaurazione di rapporti
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normali con esponenti islamici
gioverà sicuramente a guardare
con obiettività a questo mondo, così
diverso dal nostro. Bisogna evitare che
la libertà di culto possa rappresentare
un potenziale punto di partenza per
uno scontro interculturale, o alimentare
pericolose forme di integralismo
religioso. Se la religione e la religiosità
diventano bandiere da far sventolare,
e non valori che esaltano la natura
umana, il rischio di nuovi integralismi
e di guerre di religione è dietro
l’angolo. Se, al contrario, religione e
religiosità sono accettate e vissute
nell’ottica dei diritti fondamentali
della persona, e più precisamente
tra i diritti di libertà, allora la libertà
religiosa non può essere confusa con
il qualunquismo o l’indifferentismo,
ma costituirà il terreno di coltura
nel quale far attecchire la pianta
buona della tolleranza e del rispetto
in tutte le sue forme. La Sicilia
può avere un suo ruolo di primaria
importanza in tutto questo. Perché
ha una storia di pacifica convivenza
tra popoli e religioni diverse, favorita
dall’azione saggia di sovrani illuminati
e dall’opera pacificante di guide
religiose lungimiranti. Inoltre, per la
sua posizione geografica da sempre
è stata luogo di incontro di popoli
e culture diverse, nonché ponte di
collegamento e di scambi, scoprendo
in questa sua ubicazione al centro
del Mediterraneo la vocazione a
essere piattaforma per aprire nuovi
orizzonti di civiltà e per proporre
sintesi
esistenziali
prodotte
…il dialogo
interreligioso deve
far sì che nel nome
dell’unico Dio le tre
religioni non trovino
motivi o pretesti
per combattersi, ma
ragioni per mettersi
insieme…
”
dall’incontro di umanesimi di diversa
matrice. Anche oggi questi tratti
identitari mantengono intatta la loro
attualità e validità. L’esperienza di
Mazara del Vallo è esemplare. La nostra
città, punta avanzata dell’Europa
continentale verso l’Africa, oggi può
permettersi di offrire un modello di
convivenza pacifica e costruttiva tra
persone di diversa matrice culturale
e religiosa. Questo modello è il
frutto di un movimento migratorio
che, tra fine ‘800 e i primi decenni
del ‘900, conobbe un flusso verso
l’Africa, in particolare verso la Tunisia.
E che, a metà del secolo scorso,
registrò un’inversione di tendenza
verso le nostre coste, in una sorta di
reciprocità che ricambiò con uguale
atteggiamento l’accoglienza ricevuta.
Ecco, forse il segreto della nostra
singolare situazione sta proprio qui.
*Vescovo di Mazara del Vallo e Presidente del Cemsi
ERICE JOURNAL
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Unicità di Dio,
ospitalità sacra e
riconoscimento reciproco
Yahya Pallavicini
Desidero iniziare questa mia relazione con una citazione tratta dall’opera dell’imam Abu Hamid Muhammad Al Ghazali sul Rinnovamento
delle scienze religiose, Ihya ulum al-din. Il maestro dedica un libro al
tema dell’unicità di Dio e l’abbandono fiducioso nel quale è contenuto
questo insegnamento: «Colui al quale appare la vera realtà del mondo sa
che il vento è fatto di aria, che non si muove da sé ma a causa di un motore, e così pure questo motore, sino a giungere al Motore Primo - Potente e
Glorioso! - che non è mosso da nulla, né in Se Stesso Si muove. Il fedele che
si rivolge al vento per salvarsi è simile a quel tale che fu catturato perché
gli fosse tagliata la testa; il re firmò l’ordine per graziarlo e liberarlo, e costui
prese a citare l’inchiostro, la carta e il calamo con cui l’ordine era stato scritto,
dicendo: “Se non fosse stato per il calamo non sarei scampato”, credendo che
la sua salvezza fosse dovuta al calamo, non a chi l’aveva mosso, e ciò è il colmo
dell’ignoranza. Ma chi sa che il calamo non ha potere in sé ma è asservito alla
mano di chi scrive, non gli baderà affatto, e ringrazierà soltanto lo scrivente.
Anzi la gioia della salvezza e il ringraziamento dovuto al re e allo scrivano potrebbero fargli dimenticare del tutto calamo, inchiostro e calamaio. Anche il sole,
la luna, le stelle, la pioggia, le nubi, la terra, tutti gli animali e i corpi inanimati sono
asserviti alla Sua Potenza (qudra), come il calamo lo è alla mano dello scrivano.
Questo paragone riguarda proprio te, che ritieni che l’ordine sia scritto dal re che lo
firma. In verità Iddio, sia Egli benedetto e esaltato, è Colui che scrive».
Questo insegnamento può esprimere alcuni aspetti utili a comprendere il fondamento dell’unicità divina nell’Islam. Si tratta di un principio assoluto, il Principio di Dio,
Unico Principio da cui tutto dipende.
L’unicità di Dio non è soltanto un principio numerico che dà origine a tutta la logica matematica ma è un Principio che prescinde dalla scienza dei numeri pur
essendo imprescindibile dalle innumerevoli operazioni aritmetiche e algebriche che regolano questo Suo regno (mulk) della quantità. Tutto l’universo
si rivolge “verso l’Uno” ma è soprattutto parte integrante dell’unicità
divina al di fuori della quale non c’è nulla. Allo stesso modo, si è
detto che solo Iddio scrive, scrive su una Tavola e comunica la
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Verità ai lettori della Tavola i quali possono imparare la Sua logica e tradurla in grammatica e scienza delle lettere e linguaggi e dialetti e metodi e mezzi di comunicazione
e trasmissione ma tutto dipende solo dalla Sua Scienza, dalla Sua Parola, dal Suo Verbo, dal Suo ordine: Io scrivo, dunque voi leggete.
“Leggi! Per il tuo Signore che è il più Generoso, Colui che ha insegnato mediante il Calamo, ha insegnato all’uomo ciò che non sapeva” (Corano: XCVI, 3-5).
“Dì: se il mare fosse inchiostro per le parole del mio Signore, finirebbe il mare prima
che si esauriscano le parole del mio Signore, anche se aggiungessimo altrettanto inchiostro - Dì: Io sono un uomo come voi. Mi è stato rivelato che il vostro Dio è un Dio
unico, dunque chi spera di incontrare il suo Signore compia azioni pure, e non associ
nessuno al culto del suo Signore” (Corano: XVIII, 109-110).
Avere fede in Dio corrisponde al dono di credere in un Principio Assoluto, Metanumerico, Metalinguistico, Metafisico che comprende tutta la scienza delle cifre
e delle lettere e della creazione. Nessun numero e lettera e segno dell’universo
ignora la Sua Onnipotenza, il Suo mistero creativo.
L’errore degli idolatri che attribuiscono un “potere” ad un numero, ad una parola, ad una o più cose è quello di dissociare la forma dell’oggetto dall’Onnipotenza del Dio Unico e di associarne la “potenza” alla propria soddisfazione e
immaginazione individuale proprio come l’ignorante che ha fede nel calamo
o nella calligrafia o nella teologia o nella dialettica o, peggio ancora, nel tablet o nel digitale o nella comunicazione wireless, “senza fili”.
Da un lato, si pretende misconoscere la realtà ortodossa della comunicazione spirituale, simbolica e sottile mentre, dall’altro lato, diventiamo
schiavi dell’emozione del touchscreen, dove abbiamo la sensazione di
potere governare la “nostra” vita e il “nostro” mondo con il “nostro” dito
indice che naviga su una rete, in un social network, “virtuale e multimediale”, due termini che sembrano rappresentare proprio un politeismo.
Testimoniare l’unicità divina all’umanità contemporanea equivale,
come in altri tempi, a liberare i popoli dalla schiavitù dell’idolatria e
dalla crisi della dimenticanza di Dio. Occorre suscitare o resuscitare
il ricordo della grazia della Sua presenza spirituale ed educare alla
scoperta o alla riscoperta della natura e della funzione dell’uomo
sulla terra, come insegnava il nostro maestro lo shaykh Ahmad Ibn
Idris al Hasani al Fasi: “siamo di passaggio in questo mondo”.
In questa condizione, il dialogo tra credenti e autorità religiose
assume una nuova responsabilità, una missione di salvaguardare il carattere e la ragione della sacralità della vita dell’uomo e
della donna nella nobile gestione della creazione di Dio. Una
di queste azioni comuni e condivise può essere rappresentata dalla tradizione dell’ospitalità sacra.
Chi è il soggetto che ospita e chi è l’oggetto dell’ospitalità?
ERICE JOURNAL
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Essere ospitali può essere sinonimo di
fratellanza spirituale senza scadere in
cerimonie o in sentimentalismi o in opportunismi?
“I Nostri inviati hanno portato ad Abramo il lieto annuncio. Gli dissero: «Pace».
«Pace», rispose, e non tardò a portare un
vitello arrostito. - Ma quando vide che
non lo toccavano si insospettì di loro e
ne ebbe paura. Dissero: «Non avere paura, siamo stati inviati al popolo di Lot».
Sua moglie stava in piedi lì vicino e rise,
e allora Noi le demmo il lieto annuncio
di Isacco, e di Giacobbe dopo Isacco. Disse: «Guai a me, avrò un figlio quando
sono anziana e sterile e il mio signore è
vecchio? Davvero una cosa strana». - «Ti
meraviglia l’ordine di Dio?» le chiesero.
«La misericordia di Dio e le Sue benedizioni siano su di voi, gente di questa
casa, Egli è degno di lode, degno di gloria».” (Corano: XI, 69-73).
Da questa annunciazione che gli angeli rivolgono alla prima moglie Sara del
profeta Abramo che la Rivelazione islamica tramanda, possiamo riscoprire con
gli ebrei e i cristiani alcune radici comuni. Innanzitutto c’è la radice della profezia e della famiglia del patriarca del
monoteismo, Abramo, da cui derivano
le famiglie delle nostre rispettive comunità religiose. Poi c’è il riferimento alla
presenza e alle visite degli spiriti angelici che è parte integrante delle nostre
dottrine e delle nostre vite e ritualità.
Troviamo il saluto tradizionale di Pace,
lo stupore dei fedeli davanti al miracolo
di Dio, la discendenza e la ritrasmissione dei profeti, la benedizione della residenza e tutto questo è parte integrante dell’ospitalità che il profeta Abramo
offre ai suoi visitatori sconosciuti, ad alcuni viaggiatori di cui ignora il luogo di
partenza e di destinazione e la ragione
del loro arrivo, a queste creature di cui
non conosce l’identità, egli offre ospitalità, Abramo tratta come ospiti tre figure
angeliche.
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Secondo l’interpretazione dei
maestri musulmani, il profeta
Abramo a cui viene attribuito il
titolo di khalilAllah, amico di Dio,
riceve proprio in questa circostanza il conferimento di questa stazione di amicizia intima che viene sintetizzato molto simbolicamente dallo
scambio di “Pace” tra angeli e profeti.
Questa Pace che non è “come la dà il
mondo” ma è l’irruzione di una presenza
del Pacificatore persino sulla terra e tra
i credenti che si dispongono a diventare
ospiti e ospitanti della Pace dello Spirito.
Il simbolo del vitello offerto in sacrificio
da Abramo ai suoi ospiti ha una profonda corrispondenza con il sacrificio che
ogni fedele può ritrovare e soprattutto
onorare nella propria tradizione religiosa e significa offrire ciò che c’è di più
caro per ospitare l’Ospite o amare l’Amato.
L’ospitalità (al-diyafa) nella tradizione
islamica ha assunto un dovere per chi
la offre e un diritto per chi la riceve ed
è parte degli aspetti nobili del carattere di un credente che segue l’esempio
dei profeti, dei santi e dei maestri. Alcuni di questi maestri, come il commentatore del Sacro Corano, al-Qushayri, o
lo shaykh al-akbar Muhyiddin Ibn ‘Arabi,
fanno risalire proprio ad Abramo il modello di ospitalità per eccellenza, conseguenza dell’amicizia che Dio gli ha concesso in forma privilegiata.
L’amico di Dio Abramo ha saputo insegnare ad ebrei, cristiani e musulmani come si offre l’ospitalità agli angeli,
alla famiglia dei profeti, alle comunità
religiose e alle creature tutte dando, ritrasmettendo e custodendo il segreto
dell’Ospitalità di Dio per lui e per tutti
noi. Questo segreto si svela nell’estrema
abnegazione del fedele e nella generosa
abbondanza del Creatore quando distribuisce i Suoi favori (al-Razzaq) in modo
incommensurabile tra le genti che Lo
accolgono.
Riconoscere questa grazia spirituale e materiale tramite l’ospitalità sacra permette di riconoscere gli angeli tra gli ospiti e, di conseguenza,
scoprire l’Unicità di Dio tramite l’universalità della creazione, senza confondere il calamo o lo scrivano con la Misericordia del Signore.
Lo stesso Abramo non seppe riconoscere immediatamente la natura spirituale dei suoi ospiti se non al momento in cui sembrava che essi non accettassero la sua ospitalità quando si astenevano dal toccare il cibo offerto ed
“ebbe paura”. Allo stesso modo, sua moglie Sara, non sembra poter riconoscere la propria maternità futura mentre vede se stessa secondo la sua percezione delle forze naturali. Si tratta anche per noi, come per Abramo e Sarah, di
saper vedere noi stessi e i nostri fratelli per quello che siamo veramente, secondo la natura divina, e non solo secondo le sembianze dei costumi o del tempo.
Vedere Abramo e Sarah come essi hanno saputo vedere l’amicizia di Dio e gli
angeli che benedicono la casa e la famiglia equivale anche per noi musulmani
a ritrovare l’ospitalità tradizionale nella fratellanza spirituale con altri maestri e
altri credenti nel Dio Unico.
Si tratta di rispettare le provvidenziali differenze ma riconoscere il Principio Unico che ci unisce evitando di idolatrare la nostra religione come fosse l’unico
calamaio per tutti.
Un maestro musulmano che ha ispirato uno dei più antichi ordini contemplativi
islamici, lo shaykh Abd al-Qadir al Jilani, ha scritto: “Quale via sarebbe perfetta
senza compagni? E come trovare la giusta direzione per tutti se non ci viene
donata? E un retto cammino diverso da quello che noi seguiamo? E l’attenzione
all’istante senza slancio spirituale? Fidati, la sincerità è del più alto rango per chi
desidera giungere fino in fondo. Ricorda dunque le mie parole”.
“Quale via sarebbe perfetta senza compagni?” chiede il maestro e invita i suoi
interlocutori ad estinguere l’individualismo, l’isolamento, la solitudine, a scoprire
il beneficio della compagnia spirituale, della fratellanza, dell’ospitalità tradizionale
come mezzi per avanzare nella via della perfezione. Sono tutti sinonimi di coesione e dialogo all’interno e all’esterno della propria comunità d’appartenenza, ma
affinché diventino veramente utili, il maestro ci insegna a qualificare queste azioni
e questi strumenti con la sincerità, qualità spirituale che permette ad ogni credente di ritrovare la sua coesione interiore e il conforto prezioso del dialogo tra
i compagni, solo così si realizza una armonia sociale e una affinità intima con
il Verbo di Dio.
Quest’ultima condizione è quella che alcuni maestri musulmani anticipano
descrivendo il ritorno di Gesù figlio di Maria alla fine dei tempi, un ritorno
che coincide con la venuta del Messia atteso dai nostri fratelli ebrei. La
preparazione congiunta a questo momento costituisce una motivazione fondamentale per un dialogo e una coesione che sappia arginare
le forze della disgregazione o della dissoluzione, gli errori del relativismo e del sincretismo.
Il dialogo interreligioso non è uno scambio convenzionale di buoni
propositi o un programma di lavoro ma rappresenta la preziosa
verifica fraterna del colloquio interiore ed esteriore del credente con il proprio Signore. Esteriormente si può esprimere con
la solidarietà, l’ospitalità o la collaborazione, interiormente
con la carità, la preghiera e il ricordo di Dio.
ERICE JOURNAL
17
Il rapporto tra
relativismo culturale e
diritti umani nel
Mediterraneo
di Lucia Martines
Il mar Mediterraneo non si limita ad essere un’area meramente
geografica, ma è lo scenario per eccellenza del confronto tra
importanti e diverse culture millenarie.
L’incontro tra culture, sia in epoche storiche ben lontane da
quella in cui viviamo, sia ancor di più in un mondo attuale che si
contraddistingue per la molteplicità di situazioni che permettono
continui contatti multiculturali, ha generato e continua a generare,
insieme ad un arricchimento reciproco, anche incomprensioni e
contrasti.
Al fine di permettere un confronto positivo e costruttivo tra
orizzonti culturali diversi, è necessario trovare una “piattaforma
comune”, accettata da tutti nel rispetto delle diversità. I diritti
umani rappresentano il comune denominatore, il possibile punto di
congiunzione tra le culture in virtù della loro pretesa universalità.
In luce del particolare background storico e sociale e della sensibile
differenza delle fonti e dei quadri di riferimento tradizionali da cui ogni
cultura attinge i propri codici e la validità dei propri precetti, si riscontrano
notevoli ostacoli nel tentativo di formulare un insieme di principi universali
in grado di superare i particolarismi culturali. A partire da questi presupposti,
bisogna oggi verificare se nella realtà è possibile rintracciare una serie di
principi ritenuti validi dall’intera comunità o se, al contrario, è impossibile
elaborare un condivisibile linguaggio comune in tema di diritti umani, alla
luce della profonde differenze che esistono tra una cultura e l’altra.
Ulteriore elemento di difficoltà è il grado in cui una determinata tradizione
culturale è influenzata dalla sfera religiosa: in alcune culture, infatti, determinate
concezioni sono radicate profondamente a causa di un ossequio religioso
percepito come immutabile ed unico, in cui diritti e doveri che ne scaturiscono
sono considerati di natura divina e dunque non negoziabili tra individui. In
presenza di simili atteggiamenti è estremamente complesso avviare un
processo che porti ad individuare una serie di principi condivisibili. E
l’Islam, una tra le tre grandi culture del Mediterraneo, è una società
ascrivibile all’interno di questo genere, contraddistinto da una
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profonda connessione tra sfera temporale e religiosa.
Culture profondamente diverse tra loro come l’Islam e la società occidentale,
sebbene d’altra parte con cospicui, seppur ben celati, elementi comuni, hanno
sviluppato diverse, e spesso contrastanti, concezioni dei diritti umani. Neppure
la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948, redatta dalle
Nazioni Unite all’indomani della seconda guerra mondiale al fine di stabilire
una serie di diritti umani fondamentali riconosciuti a livello universale, può
essere considerata davvero condivisibile da tutte le culture del globo,
in quanto percepita come un’espressione elaborata unicamente sulla
base della tradizione occidentale, non applicabile al di fuori della stessa
sfera culturale e, dunque non riconosciuta all’interno dei Paesi aderenti
all’Islam. Per tale ragione, l’esigenza di ribadire una visione alternativa
dei diritti umani, ha condotto la società islamica a produrre una serie
di dichiarazioni attraverso cui promuovere la legittimazione di tali
diritti a livello internazionale. Prima tra tutte la Dichiarazione islamica
universale dei diritti dell’uomo del 1981 elaborata dal Consiglio
Islamico d’Europa e, a seguire, una serie di ulteriori documenti, tra
cui la Dichiarazione del Cairo del 1990 e la Carta Araba dei diritti
dell’uomo del 1994.
In una società caratterizzata da una forte tendenza al pluralismo
è necessario, al fine di garantire una convivenza pacifica tra
culture differenti, oltrepassare il relativismo. Per i fautori della
ricerca di una visione condivisa dei diritti umani, è individuabile
un nucleo di leggi della natura in grado di garantire una serie
di diritti fondamentali ammissibili da ogni cultura, in quanto
propri dell’essere umano senza distinzione alcuna. Finché
prevarrà, all’interno di ogni singola cultura, un atteggiamento
etnocentrico, tendente a riconoscere esclusivamente la
propria concezione come valida e ad escludere ogni altra
posizione differente, sarà arduo concretizzare gli sforzi
fin ad oggi fatti per trovare dei punti di condivisione.
L’atteggiamento auspicabile è quello, secondo una
definizione elaborata da Gutmann, dell’ “universalista
deliberativo”, colui che sebbene riconosce le profonde
differenze presenti tra le culture e l’esistenza di elementi
non uniformabili, allo stesso tempo ammette la presenza di
alcune sfere negoziabili attraverso lo scambio reciproco.
ERICE JOURNAL
19
“
L’universalismo
dei diritti umani è un
valore a cui aspirare, il
relativismo, tuttavia,
è un fattore con cui è
inevitabile, d’altro lato,
confrontarsi.
”
Accettata dunque, la concezione di un
necessario confronto, rimane ancora
controversa la modalità attraverso cui
è possibile mettere in discussione il
relativismo connaturato in ogni cultura.
Tra le varie proposte avanzate è di estremo
interesse richiamare il contributo di due
illustri filosofi contemporanei, il primo
di matrice culturale occidentale, John
Rawls, ed il secondo di connotazione
islamica, Abdullahi Ahmed An-Na’im.
Secondo Rawls è possibile elaborare una
forma di accordo su alcuni principi che
possono essere considerati accettabili
anche da chi professa convinzioni
diverse
attraverso
il
cosiddetto
“overlapping consensus”, ovvero un
consenso per intersezione al quale si
può giungere attraverso un’elaborazione
tra dottrine comprensive basate sulla
ragionevolezza. La ragionevolezza è il
presupposto indispensabile affinché
si possa riuscire a cooperare con gli
altri, attraverso il confronto su termini
accettabili e giustificabili da tutti. Soltanto
in funzione di tale elemento è possibile
individuare quell’insieme di diritti
che, superando ogni cultura, possono
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essere imparziali e rispettati
dall’intera collettività. AnNa’im privilegia, invece, un
“cross-cultural
approach”
ovvero un approccio secondo
cui le differenze culturali non
costituiscono una negazione dei valori
universali, ma una forma particolare
di cultura che non si pone in contrasto
con le altre perché caratterizzata da
un atteggiamento tollerante. Secondo
il filosofo sudanese attraverso il
confronto, che avviene per mezzo del
dialogo, è possibile giungere ad una
comprensione tra sistemi culturali
diversi. Affinché questo dialogo sia
possibile è necessario l’unanime
riconoscimento di due valori ritenuti
comuni a tutte le culture perché
fondati sul principio di reciprocità:
dignità e integrità dell’essere umano.
Da tali valori hanno origine tutti gli
altri diritti. Dunque, per entrambi
l’ostacolo scaturito dai particolarismi
in ambito dei diritti umani è superabile
attraverso la deliberazione pubblica.
L’universalismo dei diritti umani è un
valore a cui aspirare, il relativismo,
tuttavia, è un fattore con cui è
inevitabile, d’altro lato, confrontarsi.
La sfida per il futuro è quella di
abbandonare
una
visione
fissa,
immutabile ed indiscutibile dei propri
orizzonti interpretativi e dei propri
insiemi di riferimento e di sviluppare,
attraverso uno scambio ed un
riconoscimento reciproco, un insieme
di diritti umani che sia universalmente
condiviso dentro e fuori dai confini
del Mediterraneo.
1
2
3
4
5
6
1. La Valletta - panorama
2. Barcellona - panorama
3. Monte Cofano - veduta dal Castello di Venere
4. Palermo - Statua della Santuzza
5. Palermo - Cortile Steri
6. Palermo - panorama
ERICE JOURNAL
21
Gaza:
all’ombra della shalom
il vento alimenta il fuoco
di Luana Alagna
L’inerzia del mondo intero diventa complice di una strage annunciata
se non si risveglia in noi quell’umanità che ci permette di andare oltre
l’appartenenza ad un credo religioso
Quattro vite stroncate, tre giovani
israeliani e un ragazzo palestinese,
vittime dell’efferatezza di un conflitto
tra due popoli in cerca della propria
autoaffermazione territoriale è la notizia
che affolla i media e solleva scalpore
nel contesto mondiale, muto e sordo ai
prodromi dell’imminente conflitto. Da
un lato Israele, il popolo che ha subito
sofferenze indicibili e che adesso si
trova a dover infliggere ritorsioni che
possono avere conseguenze non meno
disumane di quelle precedentemente
ricevute. Dall’altro Hamas, etichettato,
non senza ragione, «organizzazione
terroristica», e l’Autorità Nazionale
Palestinese più moderata, che
rappresentano le varie anime di
un popolo senza stato e senza
territorio. Una rivalità intricata,
ormai secolare che non accenna a
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sedarsi, e che oggi, per l’ennesima volta,
si risveglia con il boato dei razzi lanciati
dalla striscia di Gaza contro Israele,
nebulose di terriccio che nascondono
vite innocenti ormai spente e con i raid
aerei di Netanyahu seguiti da minacce
di ritorsioni via terra.
Da 66 anni Israele e la Palestina sono
i protagonisti di un conflitto che ha
alternato momenti di latente tregua
a momenti di guerra aperta, il tutto
intervallato
da
continui
attacchi
terroristici e ripetute manifestazioni di
forza bruta per l’affermazione egemonica
del potere su di un territorio dal biblico
valore simbolico. Sia Israele che la
Palestina rivendicano il proprio diritto
alla difesa a seguito di azioni offensive
precedentemente ricevute, in un groviglio
nel quale è impossibile stabilire chi abbia
sferrato il primo attacco.
ERICE JOURNAL
23
“
L’unica soluzione
possibile infatti passa
per la reciproca
legittimazione
ad abitare luoghi
comuni in modo
pacifico.
”
Entrambi esigono il diritto alla comune
affermazione come Stato sovrano il
cui presupposto sarebbe la pacifica
convivenza nei medesimi luoghi. Ad
ostacolare tra l’altro il processo di
pace emergono posizioni xenofobe
e razziste, frange estremiste che
giustificano lo sterminio di un’etnia e
la superiorità dell’altra, un refrain che
richiama alla memoria la negazione
della comune umanità avvenuta nei
campi di concentramento, che anche
questa volta vede contrapposti due
popoli. A cambiare è solo l’aggettivo
che li connota: israeliani e palestinesi.
Grande protagonista anche questa volta
è la politica americana che appoggia la
linea d’azione israeliana, condanna il
terrorismo palestinese ma impedisce
che
esso
venga
effettivamente
debellato intervenendo per fermare
l’avanzata israeliana oltre quel limite
che potrebbe compromettere i rapporti
tra gli USA e gli stati arabi alleati.
Dall’altro lato il vecchio continente,
carente di una politica comune
europea in Medio Oriente, che in parte
sostiene il diritto all’esistenza di Israele
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ma contemporaneamente
cerca di mantenere in vita
le relazioni commerciali con
gli arabi attuando una politica
nonpartisan.
La soluzione militare del casus
belli sarà palesemente impossibile
visti i molteplici interessi economici,
ideologici e politici. È evidente che
l’unico rimedio sarebbe l’affermazione
della libertà del popolo palestinese,
la nascita e il riconoscimento di uno
Stato democratico con un governo
in grado di governare il proprio
territorio e controllare le sempre più
forti cellule terroristiche, insieme al
riconoscimento all’esistenza dello
stato d’Israele. Occorre uno sforzo
comune nel non giustificare la
giustezza di una ritorsione a seguito
dell’offesa ricevuta, nel non cercare
una motivazione all’astio di uno dei
due schieramenti. L’unica soluzione
possibile infatti passa per la reciproca
legittimazione ad abitare luoghi
comuni in modo pacifico. Dovremmo
essere tutti un po’ più partigiani, ma
della pace.
Ed è dunque inutile cercare di
individuare il colpevole per legittimare
le
nefandezze
che
si
stanno
perpetrando ormai da troppo tempo; la
giustizia non si realizza con la vendetta,
che non fa altro che alimentare il
livore tra i due popoli. L’inerzia del
mondo intero diventa complice di una
strage annunciata se non si risveglia
in noi quell’umanità che ci permette
di andare oltre l’appartenenza ad
un credo religioso, di andare al di là
degli interessi economico-diplomatici
animati ancora dal ristagno della
guerra fredda. Affinché ciò avvenga è
indispensabile un’effettiva volontà di
pace, che sia Israele che la Palestina non
hanno ancora pienamente dimostrato.
Se avessero realmente voluto una declinazione civile dell’antica
rivalità tra ebrei e musulmani non avremmo assistito a tanta violenza
gratuita, e alla strage di civili innocenti si sarebbe sostituita una
convivenza multietnica pacifica.
Risuonano come una eco le parole pronunciate da Papa Bergoglio in
occasione dello storico incontro di pochi giorni fa, nei Giardini Vaticani,
tra il presidente israeliano Shimon Peres e il presidente palestinese Abu
Mazen: «l’inizio di un nuovo cammino alla ricerca di ciò che unisce, per
superare ciò che divide». Quel cammino trapuntato di morte e ingiustizie
non si è arrestato per rinascere sotto l’insegna della shalom, ma continua
il suo triste percorso in cui l’essere umano vede negata ancora una volta
la sua dignità.
Striscia di Gaza
ERICE JOURNAL
25
Il Mediterraneo
di Davide Abulafia
di Pasquale Hamel
Credo che l’aspirazione di ogni grande storico sia quella di
tracciare una storia lunga, dove i vari passaggi trovino razionale
collocazione non solo cronologica ma soprattutto logica, la
riduzione cioè della molteplicità ad unità cogliendo nel divenire
degli eventi quel filo rosso che indissolubilmente li lega e che
ne è causa ed effetto. Ci ha pensato David Abulafia, storico
inglese che non dimentica di sottolineare le proprie ascendenze
ebraiche e meridionali, e indimenticabile autore di una biografia
del cosideddetto “stupor mundi” che strappa al mito l’imperatore
svevo e lo riconsegna alla nuda realtà. Il suo ponderoso volume “Il
Grande mare” soddisfa questa aspirazione e ci consegna un’opera
che sarà riferimento imprescindibile per chi in futuro indagherà sul
Mediterraneo, quello che Fernand Braudel definisce “il continente
liquido”. Migliaia di anni di storia, l’emergere dall’indistinto prestorico
di un’area in cui civiltà raffinate si sono affermate, indagati con un
approccio pluridisciplinare e narrate con una cifra di scrittura di
esemplare valore letterario, é questo il risultato che Abulafia riesce a
cogliere con la sua monumentale opera. E’ proprio nel confronto col citato
Braudel, che lo storico inglese tiene a riferimento, si evidenzia l’originalità
dell’opera di Abulafia. Braudel sforzandosi di capire il Mediterraneo come
“luogo della storia” resta fortemente ancorato al contesto ambientale, in
poche battute considera le caratteristiche fisiche dello spazio mediterraneo
la causa scatenante dell’emergere delle civiltà che esso ha generato. «Che
cos’è il Mediterraneo? Mille cose insieme. Non un paesaggio, ma innumerevoli
paesaggi. Non un mare, ma un susseguirsi di mari. Non una civiltà, ma una
serie di civiltà accatastate le une sulle altre». Incipit elegiaco del Mediterraneo
di Braudel. Abulafia, pur non rinnegando questa tesi fascinosa, pone l’accento
soprattutto sugli uomini che hanno abitato e attraversato questo “mare fra
le terre” che solo in un momento storico, quando i Romani lo fecero
proprio ( appunto “mare nostrum”), ha trovato la sua unità. Proprio
questi uomini, come afferma l’autore, hanno reso questo luogo
“forse il più dinamico luogo di interazione fra società diverse
sulla faccia del pianeta”. Scrive Halikarnas Balikcisi che
«il Mediterraneo, come le sue acque, é una storia blu
e fluida dell’umanità». E proprio questa condizione di
essere luogo di scambio e di incontro che spinge Abulafia
a ritenere errata l’idea di un’identità mediterranea statica ed
astratta. La sua vera vocazione del Mediterraneo, il suo destino,
termine volutamente scelto da Scipione Guarracino nel suo Mediterraneo, è
proprio quello di mettere in comunicazione popoli, culture, lingue, religioni,
esperienze ideali e culturali.
È, dunque, proprio questa condizione, ben evidenziata da Abulafia, che
da contezza di quella lucida interpretazione di Paul Valery circa l’idea
di mediterraneità al cui centro l’intellettuale francese pone “la diversità
e lo scambio”. La forza del Mediterraneo è dunque quella capacità di
accostare i diversi e, fatto oltremodo significativo, quello di accogliere
e “mediterraneizzare” quanti vengono da fuori. E da qui un’altra
specificità che fa del Mediterraneo un unicum, il suo riproporsi nella
sua sempre presente attualità nella storia, l’illusione di un tramonto cui
corrisponde un continuo risorgere, ciò che significa la conferma di una
centralità, talora segnata da tragici eventi, che né i fatti politici, né i
mutati contesti economici, riescono a scalfire. Pur depauperato delle
sue risorse e segnato dai richiami irrazionali del fondamentalismo,
ancora su questo Mediterraneo, raccontato da Abulafia non solo
attraverso i grandi personaggi o i grandi eventi con la puntuale
narrazione della vita minuta della gente comune, ancora una volta
oggi si giocheranno il futuro delle nostre civiltà.
David Abulafia
Mediterraneo confine tra
Oriente e Occidente:
la battaglia di Lepanto
del 1571
Comprendere
e
interpretare
gli
avvenimenti
del
passato
risulta
decisivo per una corretta analisi degli
scenari contemporanei. La storia del
Mediterraneo è segnata, nella sua
unicità, dal dialogo e dall’aspro conflitto
scaturiti dal necessario incontro fra
culture, saperi, religioni e sistemi di
potere tanto lontani e diversi tra loro.
Le lotte ideologiche e di pensiero
si intrecciano a quelle politiche e
commerciali, si infiammano e si
contestualizzano in luoghi ben precisi.
La battaglia di Lepanto del 7 ottobre 1571
è tra gli eventi che lasciano un’impronta
indelebile. Assume significati che
oltrepassano la mera logica della
conquista territoriale per riguardare,
piuttosto, la dimensione del confronto
tra popoli e società. A fronteggiarsi
furono, da una parte, la cosiddetta
Lega santa (costituitasi il 27 maggio
1571) che si avvaleva delle forze della
Repubblica di Venezia, dell’Impero
spagnolo e dello Stato pontificio
ERICE JOURNAL OF POLITICS PEACE AND HUMAN RIGHTS
di Giorgio La Neve
- in quanto principali sottoscrittori
dell’accordo - e dell’appoggio della
Repubblica di Genova, dei Cavalieri
di Malta, del Ducato di Savoia, del
Granducato di Toscana e del Ducato
di Urbino; dall’altra, l’impero ottomano,
proiettato nell’obiettivo di sviluppare
ulteriormente i propri possedimenti
nei Balcani e nel Mediterraneo. Dopo
Belgrado, Rodi, Algeri, Tunisi, Djerba e
Tripoli, i turchi giunsero a minacciare
Cipro, avamposto della cristianità
contro
il
pericolo
musulmano,
scatenando la reazione del papato, di
Filippo II e di Venezia che, seppur per
diverse motivazioni, organizzarono la
controffensiva. Respingere l’avanzata
islamica divenne, infatti, un obiettivo
prioritario sia per Pio V, che sull’onda
della spinta controriformista assunse
la regia dell’intera operazione, sia per
il cattolicissimo Impero spagnolo che
in quegli stessi anni aveva pianificato e
realizzato la cacciata dei moriscos dalle
proprie terre, sia per i veneziani, i quali,
ERICE JOURNAL
29
pur avendo nei turchi il principale partner commerciale, non
potevano esitare dinanzi alla concreta minaccia portata ai
danni di un loro possedimento.
Il I agosto del 1571 cadeva Famagosta, ultima roccaforte
della resistenza cipriota e le notizie che da lì provenivano, ai
limiti del leggendario, davano conto di terribili efferatezze. Il
comandante Marcantonio Bragadin - reo d’aver denunciato le
condizioni troppo inique inflitte ai veneziani - era stato scorticato
vivo e innalzato sul pennone dell’Ammiraglia turca che faceva
rientro a Costantinopoli e tutti i capitani al suo seguito erano
stati decapitati. La flotta della Lega, capitanata da don Giovanni
d’Austria (figlio naturale di Carlo V e fratellastro di Filippo II) si
radunò presso il porto di Messina nel luglio del 1571 e, sotto il vessillo
pontificio (ancora oggi conservato presso il museo della cittadina di
Gaeta, nel Lazio), partì alla volta di Lepanto il 16 settembre di quello
stesso anno. Lo scontro con la flotta turca, comandata da Mehmet
Ali Pascià, si consumò il 7 ottobre e i “soldati della fede cristiana” ne
uscirono vincitori. La forza militare dell’Impero ottomano subì un duro
colpo, ma ciò che in realtà venne intaccata fu la fama di invincibilità
che si era guadagnata in quegli anni. Il gigante turco - che pure era
riuscito a mantenere il controllo di Cipro grazie ai successivi contrasti tra
Filippo II e la Repubblica di Venezia - cominciava a barcollare. A partire
dalla battaglia di Lepanto ha, infatti, inizio il lento declino di un sistema di
governo che aveva fatto della tolleranza e dell’efficienza i propri punti di
forza; al suo interno convissero pacificamente musulmani, cristiani ed ebrei
a testimonianza del possibile incontro tra universi apparentemente paralleli.
L’area mediterranea è stata - oltre che il palcoscenico per innumerevoli
accadimenti storicamente paradigmatici - un laboratorio di diversità e
condivisione di straordinaria importanza. Ciò che non è stato compreso
in passato e che deve essere al centro della lezione impartitaci dalla storia,
è che la ricchezza del pluralismo va coltivata oltre ogni ostacolo e ogni
incomprensione perché è risorsa insostituibile e fonte inesauribile di conoscenza
e progresso. Studiare le sanguinose lotte che hanno macchiato il Mare di mezzo e
le logiche che le hanno portate a compimento è un esercizio utile a comprendere
quanto il pregiudizio e la diffidenza possano compromettere i rapporti
in modo detestabile e illogico. Il Mediterraneo fu il luogo del sospetto,
dell’opposizione e della prevaricazione; lentamente si è trasformato
da confine invalicabile a mezzo di collegamento, ma ancora molto
può e deve essere fatto per cogliere e sfruttare a pieno le sue
straordinarie e molteplici potenzialità.
ERICE JOURNAL OF POLITICS PEACE AND HUMAN RIGHTS
Sic gloria transit
di Andrea Lo Bianco
Io penso che il mare, così come si può amarlo e vederlo, sia
il più grande documento esistente sulla sua vita passata.
Cosi, Fernand Braudel, uno tra i più innovativi e controversi
storici del XX secolo, inaugura il suo primo tentativo di
ristrutturazione storiografica, nel metodo e nella prassi,
dedicato proprio al mar Mediterraneo, “La Méditerranée
et le monde mediterranéen à l’époque de Philippe II”. Il
Mare Nostrum, è stato per lungo tempo crocevia primario
di scambi economici ed incredibili avventure finanziarie,
epicentro di rivoluzioni sociali e politiche, centro propulsore
di innovazioni tecniche e tecnologiche, in grado di modificare
radicalmente ed a vari livelli l’esistenza umana. Dalla Antica
Grecia all’Impero Romano, dal capitalismo monopolistico di stato veneziano
alla (proto-) egemonia genoana, il Mediterraneo rappresentava il “mondo”
dove tutto accadeva e dove tutto era possibile. Basta volgere lo sguardo
proprio al “caso” genoano per comprendere quanto di eccezionale ed
inaspettato poteva svilupparsi tra le popolazioni che solcavano con le
proprie imbarcazioni quel piccolo specchio d’acqua.
Da una minuscolo lembo di territorio costiero italiano, originariamente
debole, divisa a livello sociale, ed abbastanza priva di risorse
strategico - militari al confronto delle grandi potenze europee del
tempo, Genova fondò un impero di formidabile forza: la sua grande
capacità, quasi di natura tentacolare, di costituire reti finanziarie e
commerciali estremamente ampie, strutturate sulle cosiddette “fiere
internazionali” (fiere di Anversa, Francoforte, Lione e soprattutto
di Besancon), permise nel XVI secolo, alla piccola città-stato
italiana di volgere a suo favore la competizione “internazionale”:
il primato assoluto, congegnato su sofisticate transazioni
monetarie e finanziarie definivano un sistema creditizio “in
grado di far circolare rapidamente una massa di cambiali e di
prestiti”, stimolato dall’incredibile volume di metalli preziosi in
arrivo da oltre oceano.
Il “secolo genovese” fu comunque breve: la rete genoana si
sgretolò tanto velocemente quanto funambolica fu la sua
ascesa: da polo commerciale locale, a potenza (proto-)
ERICE JOURNAL
31
egemonica in poco più di mezzo secolo. Genova cederà così la
supremazia nel 1621, in favore del futuro proto-stato/nazione delle
Province Unite. Da questo momento in poi, il Mediterraneo perderà
il suo primato di centralità, che non verrà mai più recuperato. Sarà
l’Atlantico infatti, la nuova e sconfinata distesa marina sul quale
originariamente verteranno le battaglie per l’egemonia sistemica.
Il glorioso passato del Mare Nostrum non ci deve far dimenticare il
presente. Oggi il Mediterraneo rappresenta una delle aeree in parte
semi-periferiche (l’Italia è ormai discesa ai margini superiori della
semi-periferia, ma soprattutto Spagna, Grecia, Turchia, ex Jugoslavia,
ecc), in parte periferiche (nord-Africa e medio oriente) del sistemamondo: tutti i fenomeni interni a quest’area segnalano proprio
l’inferiore, o la mediana posizione gerarchica occupata all’interno
di un sistema, concretizzatosi dopo Vestfalia (1648), inizializzato
dall’Olanda nel XVII secolo, ampliato fino a ricoprire l’intero globo
dalla impero britannico nel XIX e infine definitivamente consolidato
dagli Stati Uniti d’America nel XX secolo. Le generiche proprietà che
permettono il funzionamento di tale ordine strettamente gerarchico di
relazioni le si ritrovano in una sostanziale ineguaglianza nei processi
economici e quindi politici che impongono uno scambio ineguale,
ovvero un enorme trasferimento di plusvalore prodotto da tali zone, in
particolari quelle periferiche, verso quelle cd. Centrali (USA, ormai Cina,
Giappone, Germania, ecc), alimentandone la vitalità. Da ciò discende
una logica circolare autoalimentante nell’accumulazione e quindi nella
produzione di ricchezza, strettamente oligarchica (Roy Harrod), legata
indissolubilmente a processi di sfruttamento (materie prime e lavoro) da
una parte, che impediscono un avanzamento quantomeno relativo della
posizione di tali stati nella gerarchia. Ciò è direttamente connesso alla
marginalità dei benefici che tali stati riescono ad ottenere attraverso la
partecipazione alla divisione mondiale del lavoro dell’economia-mondo.
Dall’altra, la ferrea staticità nella posizione è determinata da processi di
esclusione, ovvero la conseguente capacità degli stati avanzati, grazie al
monopolio sulle risorse naturali e fisiche, di escludere gli stati posizionati
negli strati inferiori dall’utilizzo delle stesse, impedendone pertanto un reale
ed autonomo sviluppo, frenandone conseguentemente la mobilità all’interno
della gerarchia. I processi di sfruttamento quindi forniscono i mezzi alle zone
centrali per alimentare l’esclusione. I processi di esclusione impediscono
la possibilità di avanzamento e sviluppo a causa della mancanza di mezzi
alimentando i processi di sfruttamento. Preme comunque sottolineare che
questi processi, in particolari situazioni (transizioni e crisi egemoniche),
ERICE JOURNAL OF POLITICS PEACE AND HUMAN RIGHTS
operano
in
maniera
inefficiente,
consentendo un apparente sviluppo
delle zone povere. Ad ogni modo,
i risvolti generali di tale struttura
di relazioni presentano una doppia
natura: dal punto di vista economico,
gli stati semi-periferici competono
instancabilmente
per
raggiungere
le
capacità
economico-finanziaria
e la stabilità politica e sociale tipica
degli stati centrali, e dall’altra, lottano
permanentemente per non cadere nel
baratro della periferia mondiale. Gli stati
periferici, esportatori di materie prime
e/o fornitori di forza lavoro a basso
costo, sussistono in una condizione di
permanente instabilità politica, segnata
da continui sconvolgimenti, guerre
e colpi di stato, ed in una costante
inefficienza economica.
Quindi, la modernizzazione (leggi
industrializzazione) forzosa imposta
dopo il secondo conflitto mondiale dalla
neo potenza egemonica statunitense
a molti paesi del sud e dell’est del
mondo, compresi quelli della fascia
mediterranea, non solo non ha ridotto
il divario di ricchezza esistente tra nord
(centro) e sud/est (periferia) del mondo
come era stato garantito dai suoi
sostenitori, ma lo ha ampliato. I nuovi
standard di ricchezza fissati all’interno
dell’economia-mondo dagli stati
più avanzati permisero al neo-nato
paradigma politico-economico dello
sviluppo, che prometteva benessere
e crescita, di attecchire in tali paesi:
il modello degli stadi lineari di
sviluppo di Rostow rappresentava
il fondamento accademico-teorico
della prassi sviluppista, diffusa in
tutto il globo dal liberismo egemonico
statunitense. Originariamente, i paesi
più poveri del mondo, come in altri modi
la semi-periferia del sistema-mondo,
godettero di questo “American Dream”
globale, tramite l’accesso facilitato
a risorse di natura finanziaria oltre
che più concretamente economicomateriali provenienti dalle regioni più
ricche. Tralasciando le ragioni di questo
ingente spostamento di risorse verso le
zone periferiche, il meraviglioso sogno
di ricchezza sfiorato da queste aree
svanì (tralasciamo anche qui il perché,
segnalando come cause generali il
cambio di rotta politico statunitense
determinato dal Washington consensus
e
dalla
rivoluzione
neoliberista),
segnando la crisi mondiale, seppur non
pienamente riconosciuta, dell’ideologia
dello sviluppo.
Diversi e di diversa natura, politica,
economica, sociale, religiosa, sono stati
gli effetti generati da questa improvvisa
metamorfosi del sogno in incubo: l’esito
comunemente riconosciuto a livello
mediatico lo si ritrova nella personale
risposta del mondo islamico alla fine
dell’illusione: il fondamentalismo. Esso
risultò il meccanismo attraverso il
quale le varie regioni africane e medio
orientali, ma non solo, affrontarono
la “crisi di identità” derivante da un
processo di modernizzazione iniziato e
mai finito. Il rifugio di un atteggiamento
fortemente reattivo verso la modernità
dei gruppi religiosi islamici, rappresentò
e continua a rappresentare quindi un
vero e proprio strumento di difesa
identitaria per tutti coloro cui la
modernità (occidentalizzazione) aveva
ERICE JOURNAL
33
“
I “boat
people” cosi come
denominati
da Immanuel
Wallerstein,
saranno in
continua crescita.
”
radicalmente modificato costumi e stili
di vita. Questo processo incompleto e
forzoso è quindi alla radice dei più gravi
problemi affrontati oggi dagli stati del
sud e dell’est del mondo.
In base a quanto detto allora, il
Mediterraneo può essere definito
come un insieme permanentemente
antagonistico di relazioni socio-politiche
ed economiche, un luogo di confronto e
scontro permanente di civiltà diverse. A
questo proposito già qualche decennio
fa, Samuel Huntington, rovesciando la
tesi di Fukuyama sulla fine della storia,
notò un profondo e quanto mai vivace
mutamento nel sistema di relazioni
interstatali ed inter-nazionali, tale da
teorizzare, preannunciandola, una vera
e propria “guerra di faglia” tra civiltà, un
vero e proprio “clash of civilization”, di
cui il Mediterraneo, nel suo piccolo, ne
rappresenta il paradigma.
L’inasprirsi della povertà, degli scontri
politici e guerre civili spiegano inoltre un
ulteriore fenomeno che oggi anche nel
Mediterraneo, ha assunto proporzioni
inimmaginabili e che in futuro non
potrà che amplificarsi ulteriormente:
ERICE JOURNAL OF POLITICS PEACE AND HUMAN RIGHTS
l’immigrazione.
I
“boat
people” cosi come denominati
da
Immanuel
Wallerstein,
saranno in continua crescita. Il
divario, comunque crescente, nella
ricchezza tra nord e sud definirà
le rotte di questa enorme massa di
persone in cerca di miglioramento, se
non di salvezza. Di fronte ad un flusso
così imponente, si dubita che una
qualche politica statale di contenimento
possa risultare efficace. Ecco profilarsi
all’orizzonte
un
grave
disordine,
anche all’interno dei paesi del centro
capitalistico, e fino ad ora relativamente
al riparo, determinata dal cd. Fenomeno
del “terzo mondo interno”. Nel più
vicino ed ambito tra gli approdi iniziali
dei migranti, l’Italia, l’emergenza e
la gravità del fenomeno già lascia
presagire questa conclusione. Un’epoca
di tumulti e disordini sociali si prospetta
nel più prossimo dei futuri. L’incapacità
del governo italiano e della Comunità
Europea di trovare una soluzione o
quanto meno arginare il fenomeno è
sintomatica di una debolezza ormai
manifesta delle strutture politicoeconomiche sul quale l’attuale sistema
storico si regge. Le contraddizioni che
caratterizzano il suo funzionamento
sono divenute a questo punto
incorreggibili e quindi insostenibili. I tipici
meccanismi utilizzati dall’economiamondo per ritrovare i propri equilibri
interni sono divenuti talmente onerosi
sotto tutti punti di vista che i benefici
derivanti dall’investimento in tale
direzione risulterebbero praticamente
nulli. Ciò che sta accadendo oggi
nel Mediterraneo, è una delle tipiche
manifestazioni, rinvenibili in tutto il
globo, di una crisi complessiva di un
sistema ormai giunto al termine della
sua lunga esistenza.
Bibliografia
Arrighi, Giovanni 2009: Capitalismo e (dis)ordine globale. Roma: Manifestolibri
Arrighi, Giovanni, 2014: Il lungo XX secolo. Denaro, potere e le origini del nostro tempo.
Milano: Il Saggiatore
Braudel, Fernand 2010: Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II. Torino: Enaudi
Braudel, Fernand 2013: La dinamica del capitalismo. Bologna: Il Mulino
Chomsky, Noam 2008: Capire il Potere. Milano: Il Saggiatore
Huntington, Samuel 2000: Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale. Milano:
Garzanti
Wallerstein, Immanuel 2012: Capitalismo storico e civiltà capitalistica. Trieste: Asterios
editore
Wallerstein, Immanuel, 2010: Alla scoperta del sistema-mondo. Roma: Manifestolibri
ERICE JOURNAL
35
La Sicilia
ARABA
Una delle principali tematiche della
storiografia contemporanea siciliana
è lo studio dell’influenza che la cultura
araba e la religione islamica hanno avuto
sullo sviluppo politico e sociale della
regione. Il continuo ruolo di mediatore,
volontario o meno, che i vari governi
siciliani hanno ricoperto nei confronti
del mondo arabo, impone agli studiosi
delle relazioni con la sponda sud del
Mediterraneo di assumere anche una
prospettiva storica. Per via della sua
peculiare collocazione geografica e
dei vari sistemi politici da cui è stata
amministrata, l’isola si è infatti sempre
trovata al centro dei principali traffici
commerciali e dei percorsi di scambio
intellettuale tra i paesi di cultura
prevalentemente islamica e quelli
a prevalenza cristiana. Le prime
tracce di contatti tra i regni berberi
e la provincia bizantina della Sicilia
appaiono già nel VII secolo, ma
ERICE JOURNAL OF POLITICS PEACE AND HUMAN RIGHTS
Di Gabriele De Luca
l’influenza della cultura arabo-islamica
sulla Sicilia raggiungerà il suo apice
soltanto in seguito, e nello specifico tra
il IX e l’XI secolo. Sebbene delle piccole
scaramucce e delle razzie piratesche
avessero già interessato i rapporti
tra i Bizantini di Sicilia e il Maghreb
islamico, è solo con l’invasione su
larga scala dell’827 che inizia la
transizione del potere politico dalle
mani del governatorato bizantino a
quelle dell’amministrazione araba
che vi succederà. Sbarcati nei pressi
di Mazara del Vallo nell’estate di
quell’anno, le armate berbere e
le truppe arabe comandate dal
magistrato Al-Furat iniziarono una
lunghissima campagna di espansione
nell’entroterra siciliano che le portò
ad acquisire il controllo della Sicilia
occidentale nel giro dei quindici anni
successivi, e a completare la conquista
non meno di un secolo dopo.
ERICE JOURNAL
37
“
…l’isola si è infatti
sempre trovata al
centro dei principali
traffici commerciali
e dei percorsi di
scambio intellettuale
tra i paesi di cultura
prevalentemente
islamica e quelli a
prevalenza cristiana.
”
Sebbene la definitiva capitolazione
dei Bizantini non avvenne prima
del X secolo, il reale potere politico
in Sicilia era già posseduto dagli
Aghlabiti nel momento dell’elezione
di Palermo a capitale della Siqilliyya,
nome arabo della Sicilia, avvenuta
in seguito alla conquista della città
nell’831. Inizialmente, e in netto
contrasto con il comportamento da
loro successivamente mantenuto, i
conquistatori arabi imposero con forza
la propria autorità alla popolazione
locale, in parte per necessità di
controllo politico e in parte per spirito
di saccheggio. Nella sua “Storia dei
musulmani di Sicilia”, l’illustre storico
Amari scrive infatti che, dopo la resa
delle città siciliane, il loro territorio “fu
tolto ai naturali, per esser tutti o fuggiti
o fatti schiavi”. Dopo una tale fase
caratterizzata da particolare violenza,
l’amministrazione della cosa pubblica fu
però generalmente condotta nel senso
ERICE JOURNAL OF POLITICS PEACE AND HUMAN RIGHTS
di una convivenza pacifica tra
le varie componenti etniche
e religiose della popolazione
siciliana. Nel corso degli anni
successivi si susseguirono in
Sicilia una moltitudine di governi
appartenenti a diverse dinastie. Il
governo Aghlabita, prima dinastia
che amministrerà l’isola fino al 910, fu
caratterizzato dalle lunghe campagne
di espansione verso la Sicilia orientale.
Durante l’amministrazione Aghlabita
i Bizantini si ritireranno nell’estremità
nord-orientale della regione dove
rimasero fino alla caduta di Taormina
e Rometta,rispettivamente nel 962 e
965. Il successivo governo sciita dei
Fatimiti rimase in carica per meno
di quarant’anni, e si caratterizzò per
l’incapacità di gestire le periodiche
rivolte che ebbero luogo nella regione e
per i gravi contrasti tra l’amministrazione
centrale e l’aristocrazia locale. La
dinastia kalbita in Sicilia iniziò invece
nel 948, quando il generale Abull-Kasem Hasan Hosein ricevette il
governo dell’isola come ricompensa
per avere sedato la ribellione nekkarita
iniziata quattro anni prima. Subendo
varie
riforme
amministrative
ed
ulteriori suddivisioni, il governo dei
kalbiti rimarrà al potere fino alla fine
dell’XI secolo quando i Normanni
espugneranno l’isola e porranno fine
all’amministrazione araba della Sicilia.
Durante
l’amministrazione
araba
l’economia siciliana vide un notevole
sviluppo della produzione in almeno
due importanti settori: l’agricoltura e la
manifattura. Nel campo dell’agricoltura,
tra le principali innovazioni apportate
dagli arabi possiamo contare i sistemi
di irrigazione sotterranei che prendono
il nome di Qanat, i quali permisero un
estensivo sfruttamento a fini agricoli
delle poche risorse idriche presenti nella regione. Altrettanto
importante, soprattutto per i suoi odierni effetti sulla produzione
economica locale, fu l’introduzione da parte degli arabi delle coltivazioni
di agrumi, presumibilmente importate in Sicilia dal sud-est asiatico. Dal
punto di vista manifatturiero esisteva invece una florida produzione di seta,
le cui testimonianze sono state ritrovate sotto forma di drappi commerciati
con l’Africa del nord, e la coltivazione e successiva tessitura del cotone.
Dopo la cacciata degli arabi da parte dei normanni, l’eredità da essi lasciata
continuò a produrre effetti sulla vita pubblica siciliana per molto tempo. I
normanni infatti integrarono ed assorbirono molta della sapienza araba nel
campo delle scienze giuridico-filosofiche e dell’arte, e questa integrazione
diede vita ad un unicum artistico, politico e culturale non ritrovabile in altre
aree del Mediterraneo.
Sfax - panorama
ERICE JOURNAL
39
A Glance at the
Ancient History
of the Suez Canal
Minoo Mirshahvalad
Darius I the Great was the third king of kings of the multinational Achemenid Empire. Under his domination the local authorities continued to enjoy their relative liberty, however, they
were subjected to a reorganized administration which abandoned
the former local self-government system1. In the wake of such an
approach the provinces and the central power witnessed some new
adventures.
The ancient civilization of Egypt, already part of the Achemenid Empire, for a long while had been cultivating the ambition of connecting
the Nile River to the Red Sea. Hence they had stabilized some narrow
watercourses, though employable just for boats, between the two waters. According to Herodotus (II. 158.1 & IV.39.1), the credit of the first
attempt to create an artificial sea-level water way between the Nile River
and the Ἐρυθρὰ θάλασσα belongs to Necho II2. The Egyptian launched the
project, but had to stop it due to the risks of coastal flooding following the
excavation that could submerge the plateau3. However, the work did not
sink into oblivion forever.
Almost hundred years later, after his European expeditions, Darius I the
Great, less concerned about the Northern provinces noticed the African satrapy. He needed great connections to control his giant territory expanded
from India to Libya. Despite the road in the north of Anatoly, which had connected Susa to Sardis, Egypt, was still barely reachable from Persia. Besides
lying far to the west, it required travelers to cross a dangerous desert. Apparently these problems motivated Darius to think about the maritime possibilities
to reach Egypt. More over some reports about the economic potentialities
of the African province for the central power gave an additional incentive to the Persian to take into account such a waterway4. As a result
he resumed the Egyptians’ initiative. In 518 BC the king of kings
ordered a canal to be dug -a forerunner model of the modERICE JOURNAL OF POLITICS PEACE AND HUMAN RIGHTS
ern Suez Canal- to conjoin the Nile River and the Red
Sea5. Considering the importance of the initiative, the
emperor erected huge memorial stones along the canal
to Pithôm -Tell Maskhouta (‫ )ةطوخسملا لت‬to commemorate
its completion and successful operation. One of those inscribed memorials was found in 1866 during the excavation of
the modern Suez Canal. The granite stele with at least 3 meters high, 2,30 meters wide, and 78 centimeters in thickness bears some lines in old Persian, in
Elamite and in Akkadian and on the reverse side stood a longer inscription in
Egyptian hieroglyphics6. By means of this new isthmus, Darius furnish a safe
and facilitate maritime trade between the Persian Gulf, the Red Sea and the
satrapy of Egypt.
Today one can argue that the primary goal of the construction of such a
canal could not be merely economic motives. The motivations of the adventure, according to studies, can include the desire to show the Persian
ability in military projects7, establishing the Persian domination along
the Mediterranean coast8 or an attempt to link the two parts of the
empire9. However, the economic benefits of the isthmus should not
be overlooked. The new waterway was being used for transit of merchandise, building materials and artistic goods. The economic and
commercial progress of Persia and Egypt can attest the importance
of the canal at that time10.
1 Cfr. A.S. Shahbazi, Darius I the Great, «Enciclopedia Iranica», 7(2012)1, pp. 41-50.
2 Al-Bīrūnī recognized Sesostris as the first contributor of the two seas’ connection. In this way, he lengthened even
more the history of the channel Cfr. R. Velayati, How Darius Build the Suez Canal? Its Political-Economic Impact In
Achaemenid Period, «Journal of Archeological Studies», 1(2010)2, pp. 177-201, p.196.
3 Cfr. Velayati, p.198. Herodotus as a reason of the initiative’s abandonment recognizes the warning of an oracle that
signals Nicho the benefit that the canal could have for the “barbarians” (II.158.5).
4 Cfr. Velayati, cit., pp.198-199.
5 Cfr. M. Cuidetti, Storia del Mediteranneo nell’Antichità, Milano: Jaca Book, 2004, p.66.
6 Cfr. R.G. Kent, Old Persian Texts, «Journal of Near Eastern Studies», 1(1942)4, pp.415-423, p.415.
7 Cfr. Shahbazi, cit., pp. 41-50.
8 Cfr. O.Lipschits & M.Oeming, Judah and the Judeans in the Persian Period, Winona Lake: Eisenbrauns, 2006, p.26.
9 Cfr. Velayati, cit., p.199.
10Cfr. J. Barthélemy & S.Hilaire, Egypt and the Great Suez Canal, London: R. Bentley, 1857, p.1.
Canale di Suez
ERICE JOURNAL
41
La pace dei
salvati
di Shady Hamadi
Nel 1968, un giovane di 25 anni lasciava la sua famiglia, il
suo paese, pensando, forse, di farvi ritorno in breve tempo.
Purtroppo, ci vollero 35 anni prima che quel ragazzo, ormai diventato un uomo e padre di un figlio, potesse rimettervi piede.
La distanza dei decenni, l’esilio, produsse al ritorno in patria, il
giusto sguardo per osservare quella società che non era cambiata. Quell’uomo è mio padre, Mohamed. Torturato nelle carceri siriane a causa delle sue opinioni. Una volta uscito dalla Siria, sperimentò, ancora una volta, il carcere e le torture in Kuwait
perdendo, ancora una volta, quel poco di fortuna ritrovata. Se non
avesse abbandonato la Siria e il Kuwait lui sarebbe morto, ucciso. Io
sono un salvato, mio padre un sopravvissuto. Padre Paolo dall’Oglio,
quando incontrava mio padre, si sedeva con lui a parlare. In particolare, ricordo un episodio nel quale padre Paolo stava tenendo una
conferenza nella sala di una chiesa e io e mio padre ci sedemmo, come
d’abitudine, nell’ultima fila. Quando vide mio padre, padre Paolo interrupe quello che stava dicendo e disse ad alta voce a papà se voleva raccontare qualcosa della sua esperienza. Mio padre gli rispose di no, come
al solito. Chi viene torturato e privato della libertà può rimanerne vittima
o può incanalare questa esperienza diventando un protagonista di pace.
Al monastero di Mar Musa, nella amata valle del Nabek, padre Paolo ha
sempre ospitato giovani torturati nelle carceri siriane, creando in quel monastero un ricovero per l’anima. L’esperienza di mio padre mi ha insegnato
la potenza della parola, capace di portare il cambiamento. Ed è proprio a
causa di questo cambiamento che la Siria viene violentata e uccisa ogni
giorno. Già nel lontano 2001 diversi intellettuali siriani, rinchiusi per
anni nelle carceri, chiesero un cambiamento, un’apertura verso
una transizione democratica, vedendo in Bashar al Assad un
possibile traghettatore.
ERICE JOURNAL OF POLITICS PEACE AND HUMAN RIGHTS
Tutti quegli intellettuali, scrittori, giovani e artisti furono incarcerati. Le prigioni di Palmira e Adra furono
gli oscuri pozzi dove questa gente fu calata per essere, nuovamente, torturata. In quel 2001, la primavera
di damasco si spense nelle carceri siriane e la società civile
capii che Bashar al Assad avrebbe continuato a dirigere, dal suo
palazzo sulle colline di damasco, quello che è, e continua a essere, il regno
del terrore. Mustafa Khalifa, cristiano siriano, trascorse 12 anni nel carcere di
Palmira, accusato di essere un fratello musulmano. Una volta uscito, scrisse
un libro, la conchiglia, dove raccontava l’orrore di quel carcere, oggi più attivo che mai. Se Primo Levi ha saputo narrarci la disumanità dei campi di
concentramento, allora Mustafa Khalifa ci ha donato qualcosa di analogo al
quale noi dobbiamo attingere. Come tutti voi sapete e vedede, la sicilia è
diventata una terra di salvezza per migliaia di profughi. Oggi, mai lo avrei
pensato, sono i siriani ad approdare qui. Vogliono rinascere e trovare un
nuovo posto da chiamare casa. In questi mesi ho parlato con decine e
decine di loro. Siriani drusi, musulmani, crisitiani e ismaeliti. Mi hanno
riempito di storie. Milano è diventata uan tappa di passaggio per loro
perchè da lì continuano il loro viaggio verso il nord europa. Nell’agosto
del 2013, trovai una ventina di persone, 15 bambini e 5 adulti, sotto
un albero del parco vicino alla stazione di Milano. Mi avvicinai a parlare con loro. Il più grande, un uomo di 70, era il capo famiglia. Mi
disse che sua figlia era morta sul barcone a causa del diabete e che
oggi, mentre lui parlava con me, l’avrebbero seppellita. Gli chiesi
come mai non fosse rimasto per il funerale e mi disse che gli era
stato consigliato di partire subito, anche a causa della presenza
di 15 bambini. Con altri amici, riuscì a stento a trovare un alloggio per queste 20 persone che avevano passato la notte sotto
quell’albero.
Oggi le cose sono cambiate. Si è attivato un meccanismo organizzativo da parte del comune di Milano e altre associazioni per l’accoglienza dei profughi siriani. In Italia, come
sappiamo, si parla di emergenza solo quando ci troviamo
di fronte a un flusso costante. Si pensa alle soluzioni quando emergono i problemi e non si pensa a come prevenirli.
Nel novembre dell’anno scorso, suggerì ad alcuni rappresentanti del governo italiano di sbrigarsi a presentare la
richiesta in unione europea per l’apertura di un corridoio umanitario per i siriani che sarebbero arrivati a migliaia. Mi dissero di “sì, ce ne stiamo già occupando”.
Come vedete e sapete questo corridoio non è mai
stato aperto e migliai di persone rischiano la vita in
ERICE JOURNAL
43
mare quando, e me lo dissero tutti i siriani incontrati, sarebbero disposti a pagare perfino una tassa all’italia per transitare
sul nostro territorio. Oggi, se vogliamo salvare delle vite innocenti e davvero aver a cuore la pace, dobbiamo sottrarre le vite
di questa gente ai mercanti di uomini: serve un permesso di
transito temporaneo, ora! Serve che l’Europa, che ha scelto di
non aiutare le società civili arabe lasciandole preda di spietati
regimi , falsamente,”laici” e del fondamentalismo, diventi oggi
una terra di accoglienza. Ma, la verità, e che comunque sarebbe
una scelta di ripiego.
In realtà, bisogna risolvere il problema dei siriani a monte. “Dove?”
vi domandate, visto che parrebbe che in Siria ci sia solo caos. Nel
2011, la società civile scese in piazza a manifestare per ottenere:
uguaglianza, pari diritti, dignità e libertà. Cristiani, come Micheal
Kilo, per dieci anni dentro le carceri siriane, alawiti, come Fadwa
Soleiman, attrice della televisione siriana, misero in gioco tutto
per il cambiamento. Eravamo sicuri fin dall’inizio che il regime
avrebbe risposto alle richieste del popolo con il pugno di ferro,
grazie al sostegno dei suoi alleati: iran e russia in testa. In quel
lontano 2011, girai l’italia e andai fino al parlamento di Bruxelles a
chiedere che la società civile europea e la Ue, sostenessero la società civile siriana in nome di quel diritto alla felicità che è dell’uomo.
Non ottenni nulla. I nostri ragazzi, tanti amici e famigliari, morirono
massacrati dai servizi di sicurezza. Il grande movimento pacifista
fu messo all’angolo e i nostri giovani imbracciarono le armi, consapevoli della strada oscura che questa scelta porta. Oggi 200mila
persone sono morte, non c’è città siriana che non sia risparmiata
dai bombardamenti aerei dell’aviazione del regime ma è evidente
che quegli aerei non indignano. 6 milioni di siriani hanno lasciato il
paese, altri 5 sono sfollati interni. Il fondamentalismo, spauracchio
dell’Occidente, dopo l’11 settembre, è arrivato in Siria. Il fondamentalismo sta combattendo una guerra soltanto contro la società civile
siriana e le forze della rivoluzione. Non vi sono scontri armati tra il regime e lo stato islamico del levante,quasi ci fosse una pax e una convenienza reciproca. Il regime siriano manda un messaggio all’occidente:
“noi proteggiamo le minoranze e senza di noi il fondamentalismo pulirebbe la Siria dalle minoranze”. Così, Khaled Haj saleh, paolo dall’oglio
e altre migliaia di oppositori al regime sono nelle carceri dello stato
islamico del levante. Io, dario fo, il vescovo Mogavero e altri intellettuali
firmammo un appello pochi mesi fa proprio per chiedere alla comunità
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internazionale il sostegno alla società civile che rigetta il fondamentalismo e il regime. Nessuno ci ascoltò.
L’unica via oggi, per uscire dalla spirale di violenza in Siria e per rendere
i siriani protagonisti del loro futuro è
sostenerli. Non lo abbiamo fatto per
4 anni, cominciamo da oggi aprendo
un corridoio umanitario. Voglio ricorda Bara’a e Adnan, due cugini di
Damasco che oggi si trovano in Svezia. Adanan, 19 anni, lo incontrai in un
centro per profughi a Milano. Mi raccontò che due anni prima, a Damasco, era stato arrestato perchè aveva
preso parte a una delle tante manifestazioni pacifiche ignorate da tutti.
Condotto in carcere, insieme a centinaia di altri ragazzi, fu fatto spogliare, rimanendo in mutande, e per lui,
insiema a altre centinaia di ragazzi
mezzi nudi, cominciò il suplizio. Uscito dal carcere, grazie a una forta
somma di denaro pagata dal padre a
un ufficiale del servizio segreto, Adnan scappo dal paese, andando in
Egitto. Lì, partecipò a un provino di
Arab Got Talent, uno show, per aspiranti cantanti e vinse. Li proposero
di andare a Beirut per partecipare
al programma ma Adnan non aveva soldi perchè li aveva spesi per
pagarsi il viaggio. Il giorno dopo
partì su un nave dall’Egitto. Quando lo vidi mi mostrò i segni delle
torture sulla schiena ma , nonostante, il rischio di morire il carcere e in mare, Adnan si volle
esibire insieme a Bara’a in una
canzone. Adanan è un salvato.
Noi abbiamo il dovere morale e storico
di comprendere questi giovani, di stargli accanto, visto che il mondo pare
disposto ad accettare il loro massacro.
I siriani non devono essere morti si serie C. Dobbiamo fare di tutto per cancellare quell’idea che disegna la Siria
come la terrà del caos: un paese dove
si dice di tutto il contrario di tutto. Se
noi manterremo questa opinione, scgliendo la neutralità, allora avvalleremo il massacro e noi siriani, saremo
condannati a pagare un prezzo altissimo. L’anno scorso, incontrai la vedova
di Samir Kassir, intellettuali libanese di
sinistra, morto in un attentato a Beirut. Mi disse che suo marito aveva previsto questo cambiamento e che sulla
pelle dei siriani, sulle nostre buone intenzioni, molti avrebbero giocato. Se
la Siria diventa un paese democratico,
libero e di tutti i siriani, allora vedremo sorgere un rinascimento per gli
arabi del levante e, se l’europa vuole,
il mediterraneo potrebbe trasformarsi
a essere un mar nostrum. Se sceglieremo la strada dell’incomprensione
e dell’abbandono, allora la Siria sarà
un buoco nero. Chi si è salvato tra i
siriani, sà che non vi è Siria senza
una vera riconcigliazione. Progetti in
questo senso sono già partiti in Siria
e fuori, in Libano e Giordania. Sarebbe bello se ci fossero dei gemellaggi
fra le nostre città e i campi profughi
e le città libere dal fondamentalismo
e dal regime per lo scambio di idee
e di sostegno perchè vorrebbe dire
lasciar parlare questi siriani invisibili e
ascoltarsi.
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Città di Pace e per la Scienza
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