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Città di Pace e per la Scienza ERICE JOURNAL OF POLITICS PEACE AND HUMAN RIGHTS Erice journal of politics peace and human rights preview num e r o 0, 1 9 lu glio 2 01 4 ERICE JOURNAL OF POLITICS PEACE AND HUMAN RIGHTS Città di Pace e per la Scienza SOMMARIO Editoriale: ignoti nulla cupido Una terra senza confini è una TERRA BELLISSIMA Il mediterraneo della fede ERICE JOURNAL OF POLITICS PEACE AND HUMAN RIGHTS Anno 1, n. 0, Luglio 2014 DIRETTORE RESPONSABILE prof. Giorgio Scichilone COMITATO DI DIREZIONE Lucia Martines, caporedattore Luana Alagna, redattore Giorgio La Neve, redattore Andrea Lo Bianco, redattore Gabriele De Luca, redattore Si ringraziano per la collaborazione: Giacomo Tranchida, Sindaco di Erice Monsignor Domenico Mogavero, Vescovo di Mazara del Vallo, Presidente del CEMSI Yahya Pallavicini, Vice Presidente Co.re.is, Imam della moschea al-Wahid di Milano Pasquale Hamel, scrittore e saggista Minoo Mirshahvalad, studentessa iraniana presso Università degli Studi di Bologna Shady Hamadi, scrittore 04 07 11 Unicità di Dio, ospitalità sacra e riconoscimento reciproco 14 Il rapporto tra relativismo culturale e diritti umani nel Mediterraneo 18 Gaza: all’ombra della shalom il vento alimenta il fuoco 23 Il Mediterraneo di Davide Abulafia 26 Mediterraneo confine tra Oriente e Occidente: la battaglia di Lepanto del 1571 29 Sic gloria transit La Sicilia araba 31 37 e-mail redazione: [email protected] www.facebook.com/ericejournal www.comune.erice.tp.it/ericejournal Fotografie e illustrazioni: L’editore si dichiara disponibile a regolare eventuali spettanze per quelle immagini di cui non sia stato possibile reperire la fonte. A Glance at the Ancient History of the Suez Canal 40 La pace dei salvati 42 E d i to r i a l e Ignoti nulla cupido di Giorgio Scichilone Diodoro Siculo narra che Erice, nato da Venere e Buta, un re siciliano, costruisse su un monte un tempio in onore della dea e che da quel luogo il culto di Venere, divinità orientale dell’amore, della bellezza, della fecondità, poi Venere Ericina, si fosse diffuso a Roma e quindi in Europa. È una delle varianti delle origini, racconti leggendari delle fondazioni. Tucidide e Virgilio si aggiungono a questo ventaglio di possibilità. I miti sono narrazioni ancestrali di eventi primordiali, notturni. Sublimano scontri e raccontano incontri. Ciò che qui rimane è l’idea che l’amore può fecondare, costruire, una città, il luogo della convivenza ordinata degli uomini. I miti, come le epoche, si sovrappongono, ed esprimono passaggi di civiltà. San Giuliano era il nome antico di Erice. Il santo protesse il paese dalle invasioni dell’Islam grazie a dei cani inviati dal cielo. La Sicilia, isola di confine nel cuore del Mediterraneo, era il teatro inevitabile dell’urto tra due religioni nell’epoca in cui profeti e santi venivano arruolati per conquistare e difendere il territorio sacro dei padri e dei figli. Una fede contraria che può inghiottire la propria, la minaccia dell’ignoto sotto le sembianze del diverso da sé scatena una paura formidabile che solo una forza sovrumana può superare. il quale ciascuno ha partecipato a una storia più ampia e condivisa, che si rintraccia nei templi greci di Eraclea Minoa, nelle cupole arabe sparse tra le coste nordafricane, nelle musiche di Siviglia o Napoli, tra i riti della Cappadocia e quelli latini. Pur nella specificità di ciascun popolo, nell’unicità di ogni tradizione, e nonostante le lotte e gli scontri, si è edificata, tra Gerusalemme, Atene e Roma, nei credi religiosi, nelle manifestazioni artistiche, speculazioni filosofiche, codificazioni giuridiche, nelle edificazioni urbanistiche, negli usi alimentari, dal Libano a Gibilterra, da Marsiglia ad Algeri, da Venezia ad Istanbul, attraverso contaminazioni e fratture, un’identità e una cultura comune. Questo patrimonio geo-storico può divenire un paradigma forte per costruire un dialogo tra i popoli. La cronaca ce lo ricorda quotidianamente e drammaticamente, da Lampedusa alla Palestina, quanto sia urgente l’approdo a delle condizioni di giustizia e di pace. Un dialogo basato sulla ricerca dei diritti umani è la prospettiva politica per realizzare la pace tra i popoli. Un dialogo che intende sconfiggere la paura dell’altro, il pregiudizio generato dal diverso, che a sua volta produce diffidenza e ostilità. Un dialogo che serve per far conoscere storie e linguaggi lontani, punti di vista stranieri, e renderli familiari e amici. Perché non c’è passione, amore o amicizia, per ciò che non si conosce: ignoti nulla cupido. Per scoprire la bellezza dell’altro, con le sue ragioni e i propri bisogni. E il journal, aperto e plurale, libero, intende mettere in contatto e far conoscere popoli e persone diverse e che tuttavia appartengono allo stesso mare. Che è il mediterraneo. O, in un’altra metafora, quello dell’umanità. Da quel monte, il monte di San Giuliano, sopra la punta occidentale della Trinacria, si gode di un panorama irresistibile: due mari che si congiungono, confondono, da Sud a Nord, tra Oriente e Occidente. È un fatto geografico, naturale. Può essere una metafora, o un destino. Può essere declinata come una vocazione e un’opportunità. Erice oggi promuove, con il patrocinio dell’università di Palermo, un journal on line. E vuole trasformare una storia antichissima, la propria, in cui si sedimentano vari stadi di civiltà, in un luogo aperto e plurale, come il mare al centro del quale è posta la Sicilia. Il mare tra le terre è il mare di tutti i popoli che vi confluiscono, il mare attraverso ERICE JOURNAL OF POLITICS PEACE AND HUMAN RIGHTS Erice - Castello di Venere e Torretta Pepoli ERICE JOURNAL 5 Una terra senza confini è una TERRA BELLISSIMA Saluto del Sindaco Di Erice, Giacomo Tranchida Il benvenuto della comunità ericina vuole significare, da un lato il saluto affettuoso di una comunità più vasta, che oltrepassa gli attuali confini geopolitici territoriali dello stesso ex agro ericino, fra il cielo e il mare, territorio comunale un tempo esteso fino a Monreale, dall’altro rappresenta un saluto al plurale, colorato e variegato, senza confini e limiti. Come i colori dell’arcobaleno, che hanno formato quelli della mia generazione. Come il simbolo di una colomba che nel becco porta un ramoscello di ulivo, a contraddistinguere lo stemma identificativo della cultura di Erice (Città di Pace e per la Scienza) ma anche e soprattutto immaginando come anche “due monti”, come fossero due mondi separati, possano incontrarsi. Possono realmente farlo? E’ questa la prima domanda che mi pongo e pongo ai “Dialoghi di ERICE JOURNAL OF POLITICS PEACE AND HUMAN RIGHTS Pace” proposti intensamente da S.E. il Vescovo Mogavero. Le risposte possono essere trovate anche attraverso visuali e punti di vista differenti. Come quelli suggeriti dal maggiore Luca Parmitano, che ci riporta all’immagine della TERRA vista dallo SPAZIO: “BELLISSIMA” poiché “SENZA CONFINI”. Una visione che può diventare pratica quotidiana, cultura del nostro agire, stella polare dei Governi e delle potenze mondiali? Ed eccoci alla seconda domanda, alla quale possiamo rispondere solo contrapponendo allo scetticismo universale tipico di questo tempo, la speranza della bellezza del sogno di pochi, che può diventare gradualmente il sogno di tanti, ovvero la realtà voluta da tutti ! Ma per “sognare” (ora, come allora, seppur in mutate condizioni sociali, economiche e politiche) c’è bisogno di riscoprire una tensione ideale, ERICE JOURNAL 7 culturale, sociale e politica. C’è bisogno di interagire con e nei processi di comunicazione della realtà contemporanea, che diversamente vengono omologati alla legge dei più forti e degli interessi dei potenti, schiacciando i diritti dei più deboli, i sogni e le speranze di futuro di tutti. Perché, se da un lato la globalizzazione detta i tempi anche della nostra vita, trasformando il tutto in frenesia, numeri, calcoli e statistiche, questa terrena vita non può non esaltare la sua propria esistenza: la vita delle persone, delle donne e degli uomini, il loro futuro. Non si può fermare il tempo, ma Libertà e Giustizia, Democrazia e Diritti, non sono e non possono diventare bandiere scolorite. Dietro ognuna di queste bandiere c’è la condizione di vita di una persona, di un popolo, di un futuro che bisogna sapere leggere con gli occhi spalancati di un bambino e non accecati dalla rincorsa globale a tutela degli interessi di pochi, sperando di essere invitati a quella corte. La vita è una sola e merita di essere vissuta dando un significato al valore della stessa. C’è bisogno di percorrere con slancio una fase avanzata: c’è bisogno di un nuovo inizio! L’immagine del volo di una colomba, con un ramoscello di ulivo nel becco, ha fatto incontrare due monti. Si potrebbe obiettare che si tratta di un immagine antica, un sogno lontano. Ebbene, non sono studioso del settore, ma sono certo che non saranno mai i missili e/o gli equilibrismi internazionali a far incontrare palestinesi e israeliani. La Pace armata, da sempre, ha rappresentato solo un armistizio, un compromesso labile, oserei dire volubile. Uno stato di incubo permanente. In queste ore aumenta ERICE JOURNAL OF POLITICS PEACE AND HUMAN RIGHTS progressivamente il numero dei morti sulla Striscia di Gaza e in altri territori di guerra, dove non vengono risparmiati neppure i bambini che giocano, dove le guerre di religione non consentono di istaurare un dialogo tollerante fra le stesse. Se il mondo scientifico ha dato un contributo nel frantumare i muri della guerra fredda, partendo anche da questo monte. Se da EST il Papa Santo, interpretando anche un sentire laico, popolare e sociale, ha coinvolto e indirizzato le scelte di pochi ma illuminati leader delle terre della ex super potenza sovietica, da OVEST altri, al tempo, hanno saputo raccogliere gli inviti e fatto la loro parte, anche in modo autonomo rispetto alla logica dei blocchi contrapposti dettati dalle superpotenze americane e russe. Quell’ovest illuminato, che ha dato vita all’Europa e che oggi è preso dalla rincorsa sulle faccende di casa propria, avvitato nel ricorrere spread, fiscal compact, patti di stabilità. L’occidente che, paradossalmente, mostra i muscoli con chi vive di stenti e, attuando una politica strabica, si prostra ai desideri e agli eccessi dei mercati finanziari, delle sue regole speculative. Essere europeisti convinti, oggi, non significa scimmiottare una pseudoglobalizzazione americana, che invece rischia di rivelarsi una “amerikanata”, come si usa dire dalle nostre parti. Anche riguardo al dramma di una “guerra” quotidiana, silenziosa: quella dell’esodo dei migranti. Una guerra “armata”, in minima parte contenuta nei danni enormi generati, dall’ottimo coordinamento interforze delle nostre Istituzioni locali, forti dello spirito e della generosa accoglienza delle “ C’è bisogno di percorrere con slancio una fase avanzata: c’è bisogno di un nuovo inizio! ” nostre comunità. Una guerra che rischia però di scoppiare, in tutta la sua drammaticità, causando ben altri effetti e danni. Non possiamo accogliere tutti, ma questo non giustifica il cinismo dei Governanti europei nell’evitare di guardare quello che ti accade attorno, magari sulle rive delle stesse coste europee, bagnate dallo stesso mare, e dalle stesse culture di cui l’Europa stessa è intrisa. E mi auguro proprio che, da Ambasciatore italiano per il semestre di Presidenza europea, il maggiore Luca Parmitano riesca a spiegare ai governanti europei che, da lassù “la terra non ha confini ...è bellissima”. Erice - Castello di Venere ERICE JOURNAL 9 Il mediterraneo della fede di Monsignor Domenico Mogavero* In questi anni di episcopato a Mazara del Vallo ho scoperto il grande valore del Mediterraneo. Di questo mare che - confesso - prima d’ora non avevo mai visto ma ne avevo sentito parlare per fatti di cronaca legati agli sbarchi e alle vicissitudini di alcuni pescherecci della marineria locale. Di questo Mediterraneo ho iniziato sin da subito ad apprezzarne il vero valore, non tanto quello esteriore quanto intimo, di luogo di convergenze tra Stati e religioni diversi. L’impegno nel Mediterraneo è diventato così una priorità pastorale per la mia Diocesi nella quale opera la principale flotta peschereccia italiana e per un’isola, la Sicilia, che ha ricevuto il Vangelo dalle Chiese, una volta floride e dinamiche, della sponda sud. “Nuovo umanesimo” continuo a ribadire da alcuni anni, dopo le esperienze che la mia Chiesa ha vissuto nel tempo, ERICE JOURNAL OF POLITICS PEACE AND HUMAN RIGHTS di vicinanza, di accoglienza, di dialogo. In questo ci credo. Costruire la pace senza questi valori sarebbe soltanto un’utopia. Il dialogo interreligioso credo sia un fondamento necessario per un percorso di pace condiviso. Uno strumento di incontro finalizzato a creare le condizioni affinché le tre grandi religioni monoteiste non solo non si combattano, ma positivamente trovino forme e modi per evidenziare la loro adesione all’unico Dio e per mostrare all’opinione pubblica mondiale che la fede in Dio incide in modo determinante nella qualità della vita. Nello stesso tempo il dialogo interreligioso deve far sì che nel nome dell’unico Dio le tre religioni non trovino motivi o pretesti per combattersi, ma ragioni per mettersi insieme a servizio dei valori e degli ideali che esaltano l’uomo, creato a immagine e somiglianza di Dio, e che titolo ERICEtematico JOURNAL 11 “ consentono di dare alla terra un volto di speranza, creando le condizioni per vivere nella giustizia, nella pace, nella solidarietà. Mi pare di poter affermare che il dialogo interreligioso è uno strumento necessario, oggi più che in altre epoche storiche, per dare concretezza alle aspirazioni più grandi della persona. Un presupposto fondamentale è, però, quello del rispetto reciproco, proprio perché non è pensabile di affrontarsi in armi per parlare di Dio, della verità, della morale, della spiritualità e della vocazione eterna dell’uomo. In questo ambito un elemento di criticità è dato dall’esigenza - non sempre rispettata - della reciprocità, cioè dalla necessità che nei diversi contesti si riconoscano alle religioni minoritarie i diritti di libertà necessari per professare, a livello personale e in pubblico, la propria fede e per praticare le opere, cultuali e non, ad essa connesse. Un punto delicato del dialogo interreligioso, concerne la coscienza di ciascuna delle tre religioni di essere depositaria di tutta la verità e, di conseguenza, della difficoltà di riconoscere la verità presente nelle altre. La Chiesa cattolica ha affrontato questo snodo affermando che essa «nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni. Essa considera con sincero rispetto quei modi di agire e di vivere, quei precetti e quelle dottrine che, quantunque in molti punti differiscano da quanto essa stessa crede e propone, tuttavia non raramente riflettono un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini», ribadendo nello stesso tempo che la sua missione irrinunciabile è quella di «annunciare, il Cristo che è via, verità e vita» (Gv 14,6), in cui gli uomini devono trovare la «pienezza della vita religiosa e in cui Dio ha riconciliato con se stesso tutte le cose» (Dichiarazione sulla libertà religiosa, n. 2, del Concilio Vaticano II). Occorre considerare che il patrimonio di spiritualità presente nelle tre religioni monoteistiche è considerevole, sia sotto il profilo delle testimonianze degli uomini di fede, sia per quanto attiene ai testi pervasi di un afflato mistico, davvero affascinante. Sul tema del dialogo, ad esempio, l’Occidente non può avere una visione distorta dell’Islam. Il primo fattore negativo è il condizionamento dei luoghi comuni, tanto più grave quanto meno si conosce, attraverso fonti e canali autentici, il patrimonio religioso e culturale dell’islam. Un altro elemento di rischio è la paura dei musulmani visti, sotto la spinta di un’ipotetica guerra santa, come potenziali invasori e sovvertitori del mondo occidentale. Un terzo punto è quello di pensare tutti i fedeli islamici come fondamentalisti, nemici del cristianesimo. Penso che una pur minima conoscenza del patrimonio religioso e culturale dell’Islam e l’instaurazione di rapporti ERICE JOURNAL OF POLITICS PEACE AND HUMAN RIGHTS normali con esponenti islamici gioverà sicuramente a guardare con obiettività a questo mondo, così diverso dal nostro. Bisogna evitare che la libertà di culto possa rappresentare un potenziale punto di partenza per uno scontro interculturale, o alimentare pericolose forme di integralismo religioso. Se la religione e la religiosità diventano bandiere da far sventolare, e non valori che esaltano la natura umana, il rischio di nuovi integralismi e di guerre di religione è dietro l’angolo. Se, al contrario, religione e religiosità sono accettate e vissute nell’ottica dei diritti fondamentali della persona, e più precisamente tra i diritti di libertà, allora la libertà religiosa non può essere confusa con il qualunquismo o l’indifferentismo, ma costituirà il terreno di coltura nel quale far attecchire la pianta buona della tolleranza e del rispetto in tutte le sue forme. La Sicilia può avere un suo ruolo di primaria importanza in tutto questo. Perché ha una storia di pacifica convivenza tra popoli e religioni diverse, favorita dall’azione saggia di sovrani illuminati e dall’opera pacificante di guide religiose lungimiranti. Inoltre, per la sua posizione geografica da sempre è stata luogo di incontro di popoli e culture diverse, nonché ponte di collegamento e di scambi, scoprendo in questa sua ubicazione al centro del Mediterraneo la vocazione a essere piattaforma per aprire nuovi orizzonti di civiltà e per proporre sintesi esistenziali prodotte …il dialogo interreligioso deve far sì che nel nome dell’unico Dio le tre religioni non trovino motivi o pretesti per combattersi, ma ragioni per mettersi insieme… ” dall’incontro di umanesimi di diversa matrice. Anche oggi questi tratti identitari mantengono intatta la loro attualità e validità. L’esperienza di Mazara del Vallo è esemplare. La nostra città, punta avanzata dell’Europa continentale verso l’Africa, oggi può permettersi di offrire un modello di convivenza pacifica e costruttiva tra persone di diversa matrice culturale e religiosa. Questo modello è il frutto di un movimento migratorio che, tra fine ‘800 e i primi decenni del ‘900, conobbe un flusso verso l’Africa, in particolare verso la Tunisia. E che, a metà del secolo scorso, registrò un’inversione di tendenza verso le nostre coste, in una sorta di reciprocità che ricambiò con uguale atteggiamento l’accoglienza ricevuta. Ecco, forse il segreto della nostra singolare situazione sta proprio qui. *Vescovo di Mazara del Vallo e Presidente del Cemsi ERICE JOURNAL 13 Unicità di Dio, ospitalità sacra e riconoscimento reciproco Yahya Pallavicini Desidero iniziare questa mia relazione con una citazione tratta dall’opera dell’imam Abu Hamid Muhammad Al Ghazali sul Rinnovamento delle scienze religiose, Ihya ulum al-din. Il maestro dedica un libro al tema dell’unicità di Dio e l’abbandono fiducioso nel quale è contenuto questo insegnamento: «Colui al quale appare la vera realtà del mondo sa che il vento è fatto di aria, che non si muove da sé ma a causa di un motore, e così pure questo motore, sino a giungere al Motore Primo - Potente e Glorioso! - che non è mosso da nulla, né in Se Stesso Si muove. Il fedele che si rivolge al vento per salvarsi è simile a quel tale che fu catturato perché gli fosse tagliata la testa; il re firmò l’ordine per graziarlo e liberarlo, e costui prese a citare l’inchiostro, la carta e il calamo con cui l’ordine era stato scritto, dicendo: “Se non fosse stato per il calamo non sarei scampato”, credendo che la sua salvezza fosse dovuta al calamo, non a chi l’aveva mosso, e ciò è il colmo dell’ignoranza. Ma chi sa che il calamo non ha potere in sé ma è asservito alla mano di chi scrive, non gli baderà affatto, e ringrazierà soltanto lo scrivente. Anzi la gioia della salvezza e il ringraziamento dovuto al re e allo scrivano potrebbero fargli dimenticare del tutto calamo, inchiostro e calamaio. Anche il sole, la luna, le stelle, la pioggia, le nubi, la terra, tutti gli animali e i corpi inanimati sono asserviti alla Sua Potenza (qudra), come il calamo lo è alla mano dello scrivano. Questo paragone riguarda proprio te, che ritieni che l’ordine sia scritto dal re che lo firma. In verità Iddio, sia Egli benedetto e esaltato, è Colui che scrive». Questo insegnamento può esprimere alcuni aspetti utili a comprendere il fondamento dell’unicità divina nell’Islam. Si tratta di un principio assoluto, il Principio di Dio, Unico Principio da cui tutto dipende. L’unicità di Dio non è soltanto un principio numerico che dà origine a tutta la logica matematica ma è un Principio che prescinde dalla scienza dei numeri pur essendo imprescindibile dalle innumerevoli operazioni aritmetiche e algebriche che regolano questo Suo regno (mulk) della quantità. Tutto l’universo si rivolge “verso l’Uno” ma è soprattutto parte integrante dell’unicità divina al di fuori della quale non c’è nulla. Allo stesso modo, si è detto che solo Iddio scrive, scrive su una Tavola e comunica la ERICE JOURNAL OF POLITICS PEACE AND HUMAN RIGHTS Verità ai lettori della Tavola i quali possono imparare la Sua logica e tradurla in grammatica e scienza delle lettere e linguaggi e dialetti e metodi e mezzi di comunicazione e trasmissione ma tutto dipende solo dalla Sua Scienza, dalla Sua Parola, dal Suo Verbo, dal Suo ordine: Io scrivo, dunque voi leggete. “Leggi! Per il tuo Signore che è il più Generoso, Colui che ha insegnato mediante il Calamo, ha insegnato all’uomo ciò che non sapeva” (Corano: XCVI, 3-5). “Dì: se il mare fosse inchiostro per le parole del mio Signore, finirebbe il mare prima che si esauriscano le parole del mio Signore, anche se aggiungessimo altrettanto inchiostro - Dì: Io sono un uomo come voi. Mi è stato rivelato che il vostro Dio è un Dio unico, dunque chi spera di incontrare il suo Signore compia azioni pure, e non associ nessuno al culto del suo Signore” (Corano: XVIII, 109-110). Avere fede in Dio corrisponde al dono di credere in un Principio Assoluto, Metanumerico, Metalinguistico, Metafisico che comprende tutta la scienza delle cifre e delle lettere e della creazione. Nessun numero e lettera e segno dell’universo ignora la Sua Onnipotenza, il Suo mistero creativo. L’errore degli idolatri che attribuiscono un “potere” ad un numero, ad una parola, ad una o più cose è quello di dissociare la forma dell’oggetto dall’Onnipotenza del Dio Unico e di associarne la “potenza” alla propria soddisfazione e immaginazione individuale proprio come l’ignorante che ha fede nel calamo o nella calligrafia o nella teologia o nella dialettica o, peggio ancora, nel tablet o nel digitale o nella comunicazione wireless, “senza fili”. Da un lato, si pretende misconoscere la realtà ortodossa della comunicazione spirituale, simbolica e sottile mentre, dall’altro lato, diventiamo schiavi dell’emozione del touchscreen, dove abbiamo la sensazione di potere governare la “nostra” vita e il “nostro” mondo con il “nostro” dito indice che naviga su una rete, in un social network, “virtuale e multimediale”, due termini che sembrano rappresentare proprio un politeismo. Testimoniare l’unicità divina all’umanità contemporanea equivale, come in altri tempi, a liberare i popoli dalla schiavitù dell’idolatria e dalla crisi della dimenticanza di Dio. Occorre suscitare o resuscitare il ricordo della grazia della Sua presenza spirituale ed educare alla scoperta o alla riscoperta della natura e della funzione dell’uomo sulla terra, come insegnava il nostro maestro lo shaykh Ahmad Ibn Idris al Hasani al Fasi: “siamo di passaggio in questo mondo”. In questa condizione, il dialogo tra credenti e autorità religiose assume una nuova responsabilità, una missione di salvaguardare il carattere e la ragione della sacralità della vita dell’uomo e della donna nella nobile gestione della creazione di Dio. Una di queste azioni comuni e condivise può essere rappresentata dalla tradizione dell’ospitalità sacra. Chi è il soggetto che ospita e chi è l’oggetto dell’ospitalità? ERICE JOURNAL 15 Essere ospitali può essere sinonimo di fratellanza spirituale senza scadere in cerimonie o in sentimentalismi o in opportunismi? “I Nostri inviati hanno portato ad Abramo il lieto annuncio. Gli dissero: «Pace». «Pace», rispose, e non tardò a portare un vitello arrostito. - Ma quando vide che non lo toccavano si insospettì di loro e ne ebbe paura. Dissero: «Non avere paura, siamo stati inviati al popolo di Lot». Sua moglie stava in piedi lì vicino e rise, e allora Noi le demmo il lieto annuncio di Isacco, e di Giacobbe dopo Isacco. Disse: «Guai a me, avrò un figlio quando sono anziana e sterile e il mio signore è vecchio? Davvero una cosa strana». - «Ti meraviglia l’ordine di Dio?» le chiesero. «La misericordia di Dio e le Sue benedizioni siano su di voi, gente di questa casa, Egli è degno di lode, degno di gloria».” (Corano: XI, 69-73). Da questa annunciazione che gli angeli rivolgono alla prima moglie Sara del profeta Abramo che la Rivelazione islamica tramanda, possiamo riscoprire con gli ebrei e i cristiani alcune radici comuni. Innanzitutto c’è la radice della profezia e della famiglia del patriarca del monoteismo, Abramo, da cui derivano le famiglie delle nostre rispettive comunità religiose. Poi c’è il riferimento alla presenza e alle visite degli spiriti angelici che è parte integrante delle nostre dottrine e delle nostre vite e ritualità. Troviamo il saluto tradizionale di Pace, lo stupore dei fedeli davanti al miracolo di Dio, la discendenza e la ritrasmissione dei profeti, la benedizione della residenza e tutto questo è parte integrante dell’ospitalità che il profeta Abramo offre ai suoi visitatori sconosciuti, ad alcuni viaggiatori di cui ignora il luogo di partenza e di destinazione e la ragione del loro arrivo, a queste creature di cui non conosce l’identità, egli offre ospitalità, Abramo tratta come ospiti tre figure angeliche. ERICE JOURNAL OF POLITICS PEACE AND HUMAN RIGHTS Secondo l’interpretazione dei maestri musulmani, il profeta Abramo a cui viene attribuito il titolo di khalilAllah, amico di Dio, riceve proprio in questa circostanza il conferimento di questa stazione di amicizia intima che viene sintetizzato molto simbolicamente dallo scambio di “Pace” tra angeli e profeti. Questa Pace che non è “come la dà il mondo” ma è l’irruzione di una presenza del Pacificatore persino sulla terra e tra i credenti che si dispongono a diventare ospiti e ospitanti della Pace dello Spirito. Il simbolo del vitello offerto in sacrificio da Abramo ai suoi ospiti ha una profonda corrispondenza con il sacrificio che ogni fedele può ritrovare e soprattutto onorare nella propria tradizione religiosa e significa offrire ciò che c’è di più caro per ospitare l’Ospite o amare l’Amato. L’ospitalità (al-diyafa) nella tradizione islamica ha assunto un dovere per chi la offre e un diritto per chi la riceve ed è parte degli aspetti nobili del carattere di un credente che segue l’esempio dei profeti, dei santi e dei maestri. Alcuni di questi maestri, come il commentatore del Sacro Corano, al-Qushayri, o lo shaykh al-akbar Muhyiddin Ibn ‘Arabi, fanno risalire proprio ad Abramo il modello di ospitalità per eccellenza, conseguenza dell’amicizia che Dio gli ha concesso in forma privilegiata. L’amico di Dio Abramo ha saputo insegnare ad ebrei, cristiani e musulmani come si offre l’ospitalità agli angeli, alla famiglia dei profeti, alle comunità religiose e alle creature tutte dando, ritrasmettendo e custodendo il segreto dell’Ospitalità di Dio per lui e per tutti noi. Questo segreto si svela nell’estrema abnegazione del fedele e nella generosa abbondanza del Creatore quando distribuisce i Suoi favori (al-Razzaq) in modo incommensurabile tra le genti che Lo accolgono. Riconoscere questa grazia spirituale e materiale tramite l’ospitalità sacra permette di riconoscere gli angeli tra gli ospiti e, di conseguenza, scoprire l’Unicità di Dio tramite l’universalità della creazione, senza confondere il calamo o lo scrivano con la Misericordia del Signore. Lo stesso Abramo non seppe riconoscere immediatamente la natura spirituale dei suoi ospiti se non al momento in cui sembrava che essi non accettassero la sua ospitalità quando si astenevano dal toccare il cibo offerto ed “ebbe paura”. Allo stesso modo, sua moglie Sara, non sembra poter riconoscere la propria maternità futura mentre vede se stessa secondo la sua percezione delle forze naturali. Si tratta anche per noi, come per Abramo e Sarah, di saper vedere noi stessi e i nostri fratelli per quello che siamo veramente, secondo la natura divina, e non solo secondo le sembianze dei costumi o del tempo. Vedere Abramo e Sarah come essi hanno saputo vedere l’amicizia di Dio e gli angeli che benedicono la casa e la famiglia equivale anche per noi musulmani a ritrovare l’ospitalità tradizionale nella fratellanza spirituale con altri maestri e altri credenti nel Dio Unico. Si tratta di rispettare le provvidenziali differenze ma riconoscere il Principio Unico che ci unisce evitando di idolatrare la nostra religione come fosse l’unico calamaio per tutti. Un maestro musulmano che ha ispirato uno dei più antichi ordini contemplativi islamici, lo shaykh Abd al-Qadir al Jilani, ha scritto: “Quale via sarebbe perfetta senza compagni? E come trovare la giusta direzione per tutti se non ci viene donata? E un retto cammino diverso da quello che noi seguiamo? E l’attenzione all’istante senza slancio spirituale? Fidati, la sincerità è del più alto rango per chi desidera giungere fino in fondo. Ricorda dunque le mie parole”. “Quale via sarebbe perfetta senza compagni?” chiede il maestro e invita i suoi interlocutori ad estinguere l’individualismo, l’isolamento, la solitudine, a scoprire il beneficio della compagnia spirituale, della fratellanza, dell’ospitalità tradizionale come mezzi per avanzare nella via della perfezione. Sono tutti sinonimi di coesione e dialogo all’interno e all’esterno della propria comunità d’appartenenza, ma affinché diventino veramente utili, il maestro ci insegna a qualificare queste azioni e questi strumenti con la sincerità, qualità spirituale che permette ad ogni credente di ritrovare la sua coesione interiore e il conforto prezioso del dialogo tra i compagni, solo così si realizza una armonia sociale e una affinità intima con il Verbo di Dio. Quest’ultima condizione è quella che alcuni maestri musulmani anticipano descrivendo il ritorno di Gesù figlio di Maria alla fine dei tempi, un ritorno che coincide con la venuta del Messia atteso dai nostri fratelli ebrei. La preparazione congiunta a questo momento costituisce una motivazione fondamentale per un dialogo e una coesione che sappia arginare le forze della disgregazione o della dissoluzione, gli errori del relativismo e del sincretismo. Il dialogo interreligioso non è uno scambio convenzionale di buoni propositi o un programma di lavoro ma rappresenta la preziosa verifica fraterna del colloquio interiore ed esteriore del credente con il proprio Signore. Esteriormente si può esprimere con la solidarietà, l’ospitalità o la collaborazione, interiormente con la carità, la preghiera e il ricordo di Dio. ERICE JOURNAL 17 Il rapporto tra relativismo culturale e diritti umani nel Mediterraneo di Lucia Martines Il mar Mediterraneo non si limita ad essere un’area meramente geografica, ma è lo scenario per eccellenza del confronto tra importanti e diverse culture millenarie. L’incontro tra culture, sia in epoche storiche ben lontane da quella in cui viviamo, sia ancor di più in un mondo attuale che si contraddistingue per la molteplicità di situazioni che permettono continui contatti multiculturali, ha generato e continua a generare, insieme ad un arricchimento reciproco, anche incomprensioni e contrasti. Al fine di permettere un confronto positivo e costruttivo tra orizzonti culturali diversi, è necessario trovare una “piattaforma comune”, accettata da tutti nel rispetto delle diversità. I diritti umani rappresentano il comune denominatore, il possibile punto di congiunzione tra le culture in virtù della loro pretesa universalità. In luce del particolare background storico e sociale e della sensibile differenza delle fonti e dei quadri di riferimento tradizionali da cui ogni cultura attinge i propri codici e la validità dei propri precetti, si riscontrano notevoli ostacoli nel tentativo di formulare un insieme di principi universali in grado di superare i particolarismi culturali. A partire da questi presupposti, bisogna oggi verificare se nella realtà è possibile rintracciare una serie di principi ritenuti validi dall’intera comunità o se, al contrario, è impossibile elaborare un condivisibile linguaggio comune in tema di diritti umani, alla luce della profonde differenze che esistono tra una cultura e l’altra. Ulteriore elemento di difficoltà è il grado in cui una determinata tradizione culturale è influenzata dalla sfera religiosa: in alcune culture, infatti, determinate concezioni sono radicate profondamente a causa di un ossequio religioso percepito come immutabile ed unico, in cui diritti e doveri che ne scaturiscono sono considerati di natura divina e dunque non negoziabili tra individui. In presenza di simili atteggiamenti è estremamente complesso avviare un processo che porti ad individuare una serie di principi condivisibili. E l’Islam, una tra le tre grandi culture del Mediterraneo, è una società ascrivibile all’interno di questo genere, contraddistinto da una ERICE JOURNAL OF POLITICS PEACE AND HUMAN RIGHTS profonda connessione tra sfera temporale e religiosa. Culture profondamente diverse tra loro come l’Islam e la società occidentale, sebbene d’altra parte con cospicui, seppur ben celati, elementi comuni, hanno sviluppato diverse, e spesso contrastanti, concezioni dei diritti umani. Neppure la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948, redatta dalle Nazioni Unite all’indomani della seconda guerra mondiale al fine di stabilire una serie di diritti umani fondamentali riconosciuti a livello universale, può essere considerata davvero condivisibile da tutte le culture del globo, in quanto percepita come un’espressione elaborata unicamente sulla base della tradizione occidentale, non applicabile al di fuori della stessa sfera culturale e, dunque non riconosciuta all’interno dei Paesi aderenti all’Islam. Per tale ragione, l’esigenza di ribadire una visione alternativa dei diritti umani, ha condotto la società islamica a produrre una serie di dichiarazioni attraverso cui promuovere la legittimazione di tali diritti a livello internazionale. Prima tra tutte la Dichiarazione islamica universale dei diritti dell’uomo del 1981 elaborata dal Consiglio Islamico d’Europa e, a seguire, una serie di ulteriori documenti, tra cui la Dichiarazione del Cairo del 1990 e la Carta Araba dei diritti dell’uomo del 1994. In una società caratterizzata da una forte tendenza al pluralismo è necessario, al fine di garantire una convivenza pacifica tra culture differenti, oltrepassare il relativismo. Per i fautori della ricerca di una visione condivisa dei diritti umani, è individuabile un nucleo di leggi della natura in grado di garantire una serie di diritti fondamentali ammissibili da ogni cultura, in quanto propri dell’essere umano senza distinzione alcuna. Finché prevarrà, all’interno di ogni singola cultura, un atteggiamento etnocentrico, tendente a riconoscere esclusivamente la propria concezione come valida e ad escludere ogni altra posizione differente, sarà arduo concretizzare gli sforzi fin ad oggi fatti per trovare dei punti di condivisione. L’atteggiamento auspicabile è quello, secondo una definizione elaborata da Gutmann, dell’ “universalista deliberativo”, colui che sebbene riconosce le profonde differenze presenti tra le culture e l’esistenza di elementi non uniformabili, allo stesso tempo ammette la presenza di alcune sfere negoziabili attraverso lo scambio reciproco. ERICE JOURNAL 19 “ L’universalismo dei diritti umani è un valore a cui aspirare, il relativismo, tuttavia, è un fattore con cui è inevitabile, d’altro lato, confrontarsi. ” Accettata dunque, la concezione di un necessario confronto, rimane ancora controversa la modalità attraverso cui è possibile mettere in discussione il relativismo connaturato in ogni cultura. Tra le varie proposte avanzate è di estremo interesse richiamare il contributo di due illustri filosofi contemporanei, il primo di matrice culturale occidentale, John Rawls, ed il secondo di connotazione islamica, Abdullahi Ahmed An-Na’im. Secondo Rawls è possibile elaborare una forma di accordo su alcuni principi che possono essere considerati accettabili anche da chi professa convinzioni diverse attraverso il cosiddetto “overlapping consensus”, ovvero un consenso per intersezione al quale si può giungere attraverso un’elaborazione tra dottrine comprensive basate sulla ragionevolezza. La ragionevolezza è il presupposto indispensabile affinché si possa riuscire a cooperare con gli altri, attraverso il confronto su termini accettabili e giustificabili da tutti. Soltanto in funzione di tale elemento è possibile individuare quell’insieme di diritti che, superando ogni cultura, possono ERICE JOURNAL OF POLITICS PEACE AND HUMAN RIGHTS essere imparziali e rispettati dall’intera collettività. AnNa’im privilegia, invece, un “cross-cultural approach” ovvero un approccio secondo cui le differenze culturali non costituiscono una negazione dei valori universali, ma una forma particolare di cultura che non si pone in contrasto con le altre perché caratterizzata da un atteggiamento tollerante. Secondo il filosofo sudanese attraverso il confronto, che avviene per mezzo del dialogo, è possibile giungere ad una comprensione tra sistemi culturali diversi. Affinché questo dialogo sia possibile è necessario l’unanime riconoscimento di due valori ritenuti comuni a tutte le culture perché fondati sul principio di reciprocità: dignità e integrità dell’essere umano. Da tali valori hanno origine tutti gli altri diritti. Dunque, per entrambi l’ostacolo scaturito dai particolarismi in ambito dei diritti umani è superabile attraverso la deliberazione pubblica. L’universalismo dei diritti umani è un valore a cui aspirare, il relativismo, tuttavia, è un fattore con cui è inevitabile, d’altro lato, confrontarsi. La sfida per il futuro è quella di abbandonare una visione fissa, immutabile ed indiscutibile dei propri orizzonti interpretativi e dei propri insiemi di riferimento e di sviluppare, attraverso uno scambio ed un riconoscimento reciproco, un insieme di diritti umani che sia universalmente condiviso dentro e fuori dai confini del Mediterraneo. 1 2 3 4 5 6 1. La Valletta - panorama 2. Barcellona - panorama 3. Monte Cofano - veduta dal Castello di Venere 4. Palermo - Statua della Santuzza 5. Palermo - Cortile Steri 6. Palermo - panorama ERICE JOURNAL 21 Gaza: all’ombra della shalom il vento alimenta il fuoco di Luana Alagna L’inerzia del mondo intero diventa complice di una strage annunciata se non si risveglia in noi quell’umanità che ci permette di andare oltre l’appartenenza ad un credo religioso Quattro vite stroncate, tre giovani israeliani e un ragazzo palestinese, vittime dell’efferatezza di un conflitto tra due popoli in cerca della propria autoaffermazione territoriale è la notizia che affolla i media e solleva scalpore nel contesto mondiale, muto e sordo ai prodromi dell’imminente conflitto. Da un lato Israele, il popolo che ha subito sofferenze indicibili e che adesso si trova a dover infliggere ritorsioni che possono avere conseguenze non meno disumane di quelle precedentemente ricevute. Dall’altro Hamas, etichettato, non senza ragione, «organizzazione terroristica», e l’Autorità Nazionale Palestinese più moderata, che rappresentano le varie anime di un popolo senza stato e senza territorio. Una rivalità intricata, ormai secolare che non accenna a ERICE JOURNAL OF POLITICS PEACE AND HUMAN RIGHTS sedarsi, e che oggi, per l’ennesima volta, si risveglia con il boato dei razzi lanciati dalla striscia di Gaza contro Israele, nebulose di terriccio che nascondono vite innocenti ormai spente e con i raid aerei di Netanyahu seguiti da minacce di ritorsioni via terra. Da 66 anni Israele e la Palestina sono i protagonisti di un conflitto che ha alternato momenti di latente tregua a momenti di guerra aperta, il tutto intervallato da continui attacchi terroristici e ripetute manifestazioni di forza bruta per l’affermazione egemonica del potere su di un territorio dal biblico valore simbolico. Sia Israele che la Palestina rivendicano il proprio diritto alla difesa a seguito di azioni offensive precedentemente ricevute, in un groviglio nel quale è impossibile stabilire chi abbia sferrato il primo attacco. ERICE JOURNAL 23 “ L’unica soluzione possibile infatti passa per la reciproca legittimazione ad abitare luoghi comuni in modo pacifico. ” Entrambi esigono il diritto alla comune affermazione come Stato sovrano il cui presupposto sarebbe la pacifica convivenza nei medesimi luoghi. Ad ostacolare tra l’altro il processo di pace emergono posizioni xenofobe e razziste, frange estremiste che giustificano lo sterminio di un’etnia e la superiorità dell’altra, un refrain che richiama alla memoria la negazione della comune umanità avvenuta nei campi di concentramento, che anche questa volta vede contrapposti due popoli. A cambiare è solo l’aggettivo che li connota: israeliani e palestinesi. Grande protagonista anche questa volta è la politica americana che appoggia la linea d’azione israeliana, condanna il terrorismo palestinese ma impedisce che esso venga effettivamente debellato intervenendo per fermare l’avanzata israeliana oltre quel limite che potrebbe compromettere i rapporti tra gli USA e gli stati arabi alleati. Dall’altro lato il vecchio continente, carente di una politica comune europea in Medio Oriente, che in parte sostiene il diritto all’esistenza di Israele ERICE JOURNAL OF POLITICS PEACE AND HUMAN RIGHTS ma contemporaneamente cerca di mantenere in vita le relazioni commerciali con gli arabi attuando una politica nonpartisan. La soluzione militare del casus belli sarà palesemente impossibile visti i molteplici interessi economici, ideologici e politici. È evidente che l’unico rimedio sarebbe l’affermazione della libertà del popolo palestinese, la nascita e il riconoscimento di uno Stato democratico con un governo in grado di governare il proprio territorio e controllare le sempre più forti cellule terroristiche, insieme al riconoscimento all’esistenza dello stato d’Israele. Occorre uno sforzo comune nel non giustificare la giustezza di una ritorsione a seguito dell’offesa ricevuta, nel non cercare una motivazione all’astio di uno dei due schieramenti. L’unica soluzione possibile infatti passa per la reciproca legittimazione ad abitare luoghi comuni in modo pacifico. Dovremmo essere tutti un po’ più partigiani, ma della pace. Ed è dunque inutile cercare di individuare il colpevole per legittimare le nefandezze che si stanno perpetrando ormai da troppo tempo; la giustizia non si realizza con la vendetta, che non fa altro che alimentare il livore tra i due popoli. L’inerzia del mondo intero diventa complice di una strage annunciata se non si risveglia in noi quell’umanità che ci permette di andare oltre l’appartenenza ad un credo religioso, di andare al di là degli interessi economico-diplomatici animati ancora dal ristagno della guerra fredda. Affinché ciò avvenga è indispensabile un’effettiva volontà di pace, che sia Israele che la Palestina non hanno ancora pienamente dimostrato. Se avessero realmente voluto una declinazione civile dell’antica rivalità tra ebrei e musulmani non avremmo assistito a tanta violenza gratuita, e alla strage di civili innocenti si sarebbe sostituita una convivenza multietnica pacifica. Risuonano come una eco le parole pronunciate da Papa Bergoglio in occasione dello storico incontro di pochi giorni fa, nei Giardini Vaticani, tra il presidente israeliano Shimon Peres e il presidente palestinese Abu Mazen: «l’inizio di un nuovo cammino alla ricerca di ciò che unisce, per superare ciò che divide». Quel cammino trapuntato di morte e ingiustizie non si è arrestato per rinascere sotto l’insegna della shalom, ma continua il suo triste percorso in cui l’essere umano vede negata ancora una volta la sua dignità. Striscia di Gaza ERICE JOURNAL 25 Il Mediterraneo di Davide Abulafia di Pasquale Hamel Credo che l’aspirazione di ogni grande storico sia quella di tracciare una storia lunga, dove i vari passaggi trovino razionale collocazione non solo cronologica ma soprattutto logica, la riduzione cioè della molteplicità ad unità cogliendo nel divenire degli eventi quel filo rosso che indissolubilmente li lega e che ne è causa ed effetto. Ci ha pensato David Abulafia, storico inglese che non dimentica di sottolineare le proprie ascendenze ebraiche e meridionali, e indimenticabile autore di una biografia del cosideddetto “stupor mundi” che strappa al mito l’imperatore svevo e lo riconsegna alla nuda realtà. Il suo ponderoso volume “Il Grande mare” soddisfa questa aspirazione e ci consegna un’opera che sarà riferimento imprescindibile per chi in futuro indagherà sul Mediterraneo, quello che Fernand Braudel definisce “il continente liquido”. Migliaia di anni di storia, l’emergere dall’indistinto prestorico di un’area in cui civiltà raffinate si sono affermate, indagati con un approccio pluridisciplinare e narrate con una cifra di scrittura di esemplare valore letterario, é questo il risultato che Abulafia riesce a cogliere con la sua monumentale opera. E’ proprio nel confronto col citato Braudel, che lo storico inglese tiene a riferimento, si evidenzia l’originalità dell’opera di Abulafia. Braudel sforzandosi di capire il Mediterraneo come “luogo della storia” resta fortemente ancorato al contesto ambientale, in poche battute considera le caratteristiche fisiche dello spazio mediterraneo la causa scatenante dell’emergere delle civiltà che esso ha generato. «Che cos’è il Mediterraneo? Mille cose insieme. Non un paesaggio, ma innumerevoli paesaggi. Non un mare, ma un susseguirsi di mari. Non una civiltà, ma una serie di civiltà accatastate le une sulle altre». Incipit elegiaco del Mediterraneo di Braudel. Abulafia, pur non rinnegando questa tesi fascinosa, pone l’accento soprattutto sugli uomini che hanno abitato e attraversato questo “mare fra le terre” che solo in un momento storico, quando i Romani lo fecero proprio ( appunto “mare nostrum”), ha trovato la sua unità. Proprio questi uomini, come afferma l’autore, hanno reso questo luogo “forse il più dinamico luogo di interazione fra società diverse sulla faccia del pianeta”. Scrive Halikarnas Balikcisi che «il Mediterraneo, come le sue acque, é una storia blu e fluida dell’umanità». E proprio questa condizione di essere luogo di scambio e di incontro che spinge Abulafia a ritenere errata l’idea di un’identità mediterranea statica ed astratta. La sua vera vocazione del Mediterraneo, il suo destino, termine volutamente scelto da Scipione Guarracino nel suo Mediterraneo, è proprio quello di mettere in comunicazione popoli, culture, lingue, religioni, esperienze ideali e culturali. È, dunque, proprio questa condizione, ben evidenziata da Abulafia, che da contezza di quella lucida interpretazione di Paul Valery circa l’idea di mediterraneità al cui centro l’intellettuale francese pone “la diversità e lo scambio”. La forza del Mediterraneo è dunque quella capacità di accostare i diversi e, fatto oltremodo significativo, quello di accogliere e “mediterraneizzare” quanti vengono da fuori. E da qui un’altra specificità che fa del Mediterraneo un unicum, il suo riproporsi nella sua sempre presente attualità nella storia, l’illusione di un tramonto cui corrisponde un continuo risorgere, ciò che significa la conferma di una centralità, talora segnata da tragici eventi, che né i fatti politici, né i mutati contesti economici, riescono a scalfire. Pur depauperato delle sue risorse e segnato dai richiami irrazionali del fondamentalismo, ancora su questo Mediterraneo, raccontato da Abulafia non solo attraverso i grandi personaggi o i grandi eventi con la puntuale narrazione della vita minuta della gente comune, ancora una volta oggi si giocheranno il futuro delle nostre civiltà. David Abulafia Mediterraneo confine tra Oriente e Occidente: la battaglia di Lepanto del 1571 Comprendere e interpretare gli avvenimenti del passato risulta decisivo per una corretta analisi degli scenari contemporanei. La storia del Mediterraneo è segnata, nella sua unicità, dal dialogo e dall’aspro conflitto scaturiti dal necessario incontro fra culture, saperi, religioni e sistemi di potere tanto lontani e diversi tra loro. Le lotte ideologiche e di pensiero si intrecciano a quelle politiche e commerciali, si infiammano e si contestualizzano in luoghi ben precisi. La battaglia di Lepanto del 7 ottobre 1571 è tra gli eventi che lasciano un’impronta indelebile. Assume significati che oltrepassano la mera logica della conquista territoriale per riguardare, piuttosto, la dimensione del confronto tra popoli e società. A fronteggiarsi furono, da una parte, la cosiddetta Lega santa (costituitasi il 27 maggio 1571) che si avvaleva delle forze della Repubblica di Venezia, dell’Impero spagnolo e dello Stato pontificio ERICE JOURNAL OF POLITICS PEACE AND HUMAN RIGHTS di Giorgio La Neve - in quanto principali sottoscrittori dell’accordo - e dell’appoggio della Repubblica di Genova, dei Cavalieri di Malta, del Ducato di Savoia, del Granducato di Toscana e del Ducato di Urbino; dall’altra, l’impero ottomano, proiettato nell’obiettivo di sviluppare ulteriormente i propri possedimenti nei Balcani e nel Mediterraneo. Dopo Belgrado, Rodi, Algeri, Tunisi, Djerba e Tripoli, i turchi giunsero a minacciare Cipro, avamposto della cristianità contro il pericolo musulmano, scatenando la reazione del papato, di Filippo II e di Venezia che, seppur per diverse motivazioni, organizzarono la controffensiva. Respingere l’avanzata islamica divenne, infatti, un obiettivo prioritario sia per Pio V, che sull’onda della spinta controriformista assunse la regia dell’intera operazione, sia per il cattolicissimo Impero spagnolo che in quegli stessi anni aveva pianificato e realizzato la cacciata dei moriscos dalle proprie terre, sia per i veneziani, i quali, ERICE JOURNAL 29 pur avendo nei turchi il principale partner commerciale, non potevano esitare dinanzi alla concreta minaccia portata ai danni di un loro possedimento. Il I agosto del 1571 cadeva Famagosta, ultima roccaforte della resistenza cipriota e le notizie che da lì provenivano, ai limiti del leggendario, davano conto di terribili efferatezze. Il comandante Marcantonio Bragadin - reo d’aver denunciato le condizioni troppo inique inflitte ai veneziani - era stato scorticato vivo e innalzato sul pennone dell’Ammiraglia turca che faceva rientro a Costantinopoli e tutti i capitani al suo seguito erano stati decapitati. La flotta della Lega, capitanata da don Giovanni d’Austria (figlio naturale di Carlo V e fratellastro di Filippo II) si radunò presso il porto di Messina nel luglio del 1571 e, sotto il vessillo pontificio (ancora oggi conservato presso il museo della cittadina di Gaeta, nel Lazio), partì alla volta di Lepanto il 16 settembre di quello stesso anno. Lo scontro con la flotta turca, comandata da Mehmet Ali Pascià, si consumò il 7 ottobre e i “soldati della fede cristiana” ne uscirono vincitori. La forza militare dell’Impero ottomano subì un duro colpo, ma ciò che in realtà venne intaccata fu la fama di invincibilità che si era guadagnata in quegli anni. Il gigante turco - che pure era riuscito a mantenere il controllo di Cipro grazie ai successivi contrasti tra Filippo II e la Repubblica di Venezia - cominciava a barcollare. A partire dalla battaglia di Lepanto ha, infatti, inizio il lento declino di un sistema di governo che aveva fatto della tolleranza e dell’efficienza i propri punti di forza; al suo interno convissero pacificamente musulmani, cristiani ed ebrei a testimonianza del possibile incontro tra universi apparentemente paralleli. L’area mediterranea è stata - oltre che il palcoscenico per innumerevoli accadimenti storicamente paradigmatici - un laboratorio di diversità e condivisione di straordinaria importanza. Ciò che non è stato compreso in passato e che deve essere al centro della lezione impartitaci dalla storia, è che la ricchezza del pluralismo va coltivata oltre ogni ostacolo e ogni incomprensione perché è risorsa insostituibile e fonte inesauribile di conoscenza e progresso. Studiare le sanguinose lotte che hanno macchiato il Mare di mezzo e le logiche che le hanno portate a compimento è un esercizio utile a comprendere quanto il pregiudizio e la diffidenza possano compromettere i rapporti in modo detestabile e illogico. Il Mediterraneo fu il luogo del sospetto, dell’opposizione e della prevaricazione; lentamente si è trasformato da confine invalicabile a mezzo di collegamento, ma ancora molto può e deve essere fatto per cogliere e sfruttare a pieno le sue straordinarie e molteplici potenzialità. ERICE JOURNAL OF POLITICS PEACE AND HUMAN RIGHTS Sic gloria transit di Andrea Lo Bianco Io penso che il mare, così come si può amarlo e vederlo, sia il più grande documento esistente sulla sua vita passata. Cosi, Fernand Braudel, uno tra i più innovativi e controversi storici del XX secolo, inaugura il suo primo tentativo di ristrutturazione storiografica, nel metodo e nella prassi, dedicato proprio al mar Mediterraneo, “La Méditerranée et le monde mediterranéen à l’époque de Philippe II”. Il Mare Nostrum, è stato per lungo tempo crocevia primario di scambi economici ed incredibili avventure finanziarie, epicentro di rivoluzioni sociali e politiche, centro propulsore di innovazioni tecniche e tecnologiche, in grado di modificare radicalmente ed a vari livelli l’esistenza umana. Dalla Antica Grecia all’Impero Romano, dal capitalismo monopolistico di stato veneziano alla (proto-) egemonia genoana, il Mediterraneo rappresentava il “mondo” dove tutto accadeva e dove tutto era possibile. Basta volgere lo sguardo proprio al “caso” genoano per comprendere quanto di eccezionale ed inaspettato poteva svilupparsi tra le popolazioni che solcavano con le proprie imbarcazioni quel piccolo specchio d’acqua. Da una minuscolo lembo di territorio costiero italiano, originariamente debole, divisa a livello sociale, ed abbastanza priva di risorse strategico - militari al confronto delle grandi potenze europee del tempo, Genova fondò un impero di formidabile forza: la sua grande capacità, quasi di natura tentacolare, di costituire reti finanziarie e commerciali estremamente ampie, strutturate sulle cosiddette “fiere internazionali” (fiere di Anversa, Francoforte, Lione e soprattutto di Besancon), permise nel XVI secolo, alla piccola città-stato italiana di volgere a suo favore la competizione “internazionale”: il primato assoluto, congegnato su sofisticate transazioni monetarie e finanziarie definivano un sistema creditizio “in grado di far circolare rapidamente una massa di cambiali e di prestiti”, stimolato dall’incredibile volume di metalli preziosi in arrivo da oltre oceano. Il “secolo genovese” fu comunque breve: la rete genoana si sgretolò tanto velocemente quanto funambolica fu la sua ascesa: da polo commerciale locale, a potenza (proto-) ERICE JOURNAL 31 egemonica in poco più di mezzo secolo. Genova cederà così la supremazia nel 1621, in favore del futuro proto-stato/nazione delle Province Unite. Da questo momento in poi, il Mediterraneo perderà il suo primato di centralità, che non verrà mai più recuperato. Sarà l’Atlantico infatti, la nuova e sconfinata distesa marina sul quale originariamente verteranno le battaglie per l’egemonia sistemica. Il glorioso passato del Mare Nostrum non ci deve far dimenticare il presente. Oggi il Mediterraneo rappresenta una delle aeree in parte semi-periferiche (l’Italia è ormai discesa ai margini superiori della semi-periferia, ma soprattutto Spagna, Grecia, Turchia, ex Jugoslavia, ecc), in parte periferiche (nord-Africa e medio oriente) del sistemamondo: tutti i fenomeni interni a quest’area segnalano proprio l’inferiore, o la mediana posizione gerarchica occupata all’interno di un sistema, concretizzatosi dopo Vestfalia (1648), inizializzato dall’Olanda nel XVII secolo, ampliato fino a ricoprire l’intero globo dalla impero britannico nel XIX e infine definitivamente consolidato dagli Stati Uniti d’America nel XX secolo. Le generiche proprietà che permettono il funzionamento di tale ordine strettamente gerarchico di relazioni le si ritrovano in una sostanziale ineguaglianza nei processi economici e quindi politici che impongono uno scambio ineguale, ovvero un enorme trasferimento di plusvalore prodotto da tali zone, in particolari quelle periferiche, verso quelle cd. Centrali (USA, ormai Cina, Giappone, Germania, ecc), alimentandone la vitalità. Da ciò discende una logica circolare autoalimentante nell’accumulazione e quindi nella produzione di ricchezza, strettamente oligarchica (Roy Harrod), legata indissolubilmente a processi di sfruttamento (materie prime e lavoro) da una parte, che impediscono un avanzamento quantomeno relativo della posizione di tali stati nella gerarchia. Ciò è direttamente connesso alla marginalità dei benefici che tali stati riescono ad ottenere attraverso la partecipazione alla divisione mondiale del lavoro dell’economia-mondo. Dall’altra, la ferrea staticità nella posizione è determinata da processi di esclusione, ovvero la conseguente capacità degli stati avanzati, grazie al monopolio sulle risorse naturali e fisiche, di escludere gli stati posizionati negli strati inferiori dall’utilizzo delle stesse, impedendone pertanto un reale ed autonomo sviluppo, frenandone conseguentemente la mobilità all’interno della gerarchia. I processi di sfruttamento quindi forniscono i mezzi alle zone centrali per alimentare l’esclusione. I processi di esclusione impediscono la possibilità di avanzamento e sviluppo a causa della mancanza di mezzi alimentando i processi di sfruttamento. Preme comunque sottolineare che questi processi, in particolari situazioni (transizioni e crisi egemoniche), ERICE JOURNAL OF POLITICS PEACE AND HUMAN RIGHTS operano in maniera inefficiente, consentendo un apparente sviluppo delle zone povere. Ad ogni modo, i risvolti generali di tale struttura di relazioni presentano una doppia natura: dal punto di vista economico, gli stati semi-periferici competono instancabilmente per raggiungere le capacità economico-finanziaria e la stabilità politica e sociale tipica degli stati centrali, e dall’altra, lottano permanentemente per non cadere nel baratro della periferia mondiale. Gli stati periferici, esportatori di materie prime e/o fornitori di forza lavoro a basso costo, sussistono in una condizione di permanente instabilità politica, segnata da continui sconvolgimenti, guerre e colpi di stato, ed in una costante inefficienza economica. Quindi, la modernizzazione (leggi industrializzazione) forzosa imposta dopo il secondo conflitto mondiale dalla neo potenza egemonica statunitense a molti paesi del sud e dell’est del mondo, compresi quelli della fascia mediterranea, non solo non ha ridotto il divario di ricchezza esistente tra nord (centro) e sud/est (periferia) del mondo come era stato garantito dai suoi sostenitori, ma lo ha ampliato. I nuovi standard di ricchezza fissati all’interno dell’economia-mondo dagli stati più avanzati permisero al neo-nato paradigma politico-economico dello sviluppo, che prometteva benessere e crescita, di attecchire in tali paesi: il modello degli stadi lineari di sviluppo di Rostow rappresentava il fondamento accademico-teorico della prassi sviluppista, diffusa in tutto il globo dal liberismo egemonico statunitense. Originariamente, i paesi più poveri del mondo, come in altri modi la semi-periferia del sistema-mondo, godettero di questo “American Dream” globale, tramite l’accesso facilitato a risorse di natura finanziaria oltre che più concretamente economicomateriali provenienti dalle regioni più ricche. Tralasciando le ragioni di questo ingente spostamento di risorse verso le zone periferiche, il meraviglioso sogno di ricchezza sfiorato da queste aree svanì (tralasciamo anche qui il perché, segnalando come cause generali il cambio di rotta politico statunitense determinato dal Washington consensus e dalla rivoluzione neoliberista), segnando la crisi mondiale, seppur non pienamente riconosciuta, dell’ideologia dello sviluppo. Diversi e di diversa natura, politica, economica, sociale, religiosa, sono stati gli effetti generati da questa improvvisa metamorfosi del sogno in incubo: l’esito comunemente riconosciuto a livello mediatico lo si ritrova nella personale risposta del mondo islamico alla fine dell’illusione: il fondamentalismo. Esso risultò il meccanismo attraverso il quale le varie regioni africane e medio orientali, ma non solo, affrontarono la “crisi di identità” derivante da un processo di modernizzazione iniziato e mai finito. Il rifugio di un atteggiamento fortemente reattivo verso la modernità dei gruppi religiosi islamici, rappresentò e continua a rappresentare quindi un vero e proprio strumento di difesa identitaria per tutti coloro cui la modernità (occidentalizzazione) aveva ERICE JOURNAL 33 “ I “boat people” cosi come denominati da Immanuel Wallerstein, saranno in continua crescita. ” radicalmente modificato costumi e stili di vita. Questo processo incompleto e forzoso è quindi alla radice dei più gravi problemi affrontati oggi dagli stati del sud e dell’est del mondo. In base a quanto detto allora, il Mediterraneo può essere definito come un insieme permanentemente antagonistico di relazioni socio-politiche ed economiche, un luogo di confronto e scontro permanente di civiltà diverse. A questo proposito già qualche decennio fa, Samuel Huntington, rovesciando la tesi di Fukuyama sulla fine della storia, notò un profondo e quanto mai vivace mutamento nel sistema di relazioni interstatali ed inter-nazionali, tale da teorizzare, preannunciandola, una vera e propria “guerra di faglia” tra civiltà, un vero e proprio “clash of civilization”, di cui il Mediterraneo, nel suo piccolo, ne rappresenta il paradigma. L’inasprirsi della povertà, degli scontri politici e guerre civili spiegano inoltre un ulteriore fenomeno che oggi anche nel Mediterraneo, ha assunto proporzioni inimmaginabili e che in futuro non potrà che amplificarsi ulteriormente: ERICE JOURNAL OF POLITICS PEACE AND HUMAN RIGHTS l’immigrazione. I “boat people” cosi come denominati da Immanuel Wallerstein, saranno in continua crescita. Il divario, comunque crescente, nella ricchezza tra nord e sud definirà le rotte di questa enorme massa di persone in cerca di miglioramento, se non di salvezza. Di fronte ad un flusso così imponente, si dubita che una qualche politica statale di contenimento possa risultare efficace. Ecco profilarsi all’orizzonte un grave disordine, anche all’interno dei paesi del centro capitalistico, e fino ad ora relativamente al riparo, determinata dal cd. Fenomeno del “terzo mondo interno”. Nel più vicino ed ambito tra gli approdi iniziali dei migranti, l’Italia, l’emergenza e la gravità del fenomeno già lascia presagire questa conclusione. Un’epoca di tumulti e disordini sociali si prospetta nel più prossimo dei futuri. L’incapacità del governo italiano e della Comunità Europea di trovare una soluzione o quanto meno arginare il fenomeno è sintomatica di una debolezza ormai manifesta delle strutture politicoeconomiche sul quale l’attuale sistema storico si regge. Le contraddizioni che caratterizzano il suo funzionamento sono divenute a questo punto incorreggibili e quindi insostenibili. I tipici meccanismi utilizzati dall’economiamondo per ritrovare i propri equilibri interni sono divenuti talmente onerosi sotto tutti punti di vista che i benefici derivanti dall’investimento in tale direzione risulterebbero praticamente nulli. Ciò che sta accadendo oggi nel Mediterraneo, è una delle tipiche manifestazioni, rinvenibili in tutto il globo, di una crisi complessiva di un sistema ormai giunto al termine della sua lunga esistenza. Bibliografia Arrighi, Giovanni 2009: Capitalismo e (dis)ordine globale. Roma: Manifestolibri Arrighi, Giovanni, 2014: Il lungo XX secolo. Denaro, potere e le origini del nostro tempo. Milano: Il Saggiatore Braudel, Fernand 2010: Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II. Torino: Enaudi Braudel, Fernand 2013: La dinamica del capitalismo. Bologna: Il Mulino Chomsky, Noam 2008: Capire il Potere. Milano: Il Saggiatore Huntington, Samuel 2000: Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale. Milano: Garzanti Wallerstein, Immanuel 2012: Capitalismo storico e civiltà capitalistica. Trieste: Asterios editore Wallerstein, Immanuel, 2010: Alla scoperta del sistema-mondo. Roma: Manifestolibri ERICE JOURNAL 35 La Sicilia ARABA Una delle principali tematiche della storiografia contemporanea siciliana è lo studio dell’influenza che la cultura araba e la religione islamica hanno avuto sullo sviluppo politico e sociale della regione. Il continuo ruolo di mediatore, volontario o meno, che i vari governi siciliani hanno ricoperto nei confronti del mondo arabo, impone agli studiosi delle relazioni con la sponda sud del Mediterraneo di assumere anche una prospettiva storica. Per via della sua peculiare collocazione geografica e dei vari sistemi politici da cui è stata amministrata, l’isola si è infatti sempre trovata al centro dei principali traffici commerciali e dei percorsi di scambio intellettuale tra i paesi di cultura prevalentemente islamica e quelli a prevalenza cristiana. Le prime tracce di contatti tra i regni berberi e la provincia bizantina della Sicilia appaiono già nel VII secolo, ma ERICE JOURNAL OF POLITICS PEACE AND HUMAN RIGHTS Di Gabriele De Luca l’influenza della cultura arabo-islamica sulla Sicilia raggiungerà il suo apice soltanto in seguito, e nello specifico tra il IX e l’XI secolo. Sebbene delle piccole scaramucce e delle razzie piratesche avessero già interessato i rapporti tra i Bizantini di Sicilia e il Maghreb islamico, è solo con l’invasione su larga scala dell’827 che inizia la transizione del potere politico dalle mani del governatorato bizantino a quelle dell’amministrazione araba che vi succederà. Sbarcati nei pressi di Mazara del Vallo nell’estate di quell’anno, le armate berbere e le truppe arabe comandate dal magistrato Al-Furat iniziarono una lunghissima campagna di espansione nell’entroterra siciliano che le portò ad acquisire il controllo della Sicilia occidentale nel giro dei quindici anni successivi, e a completare la conquista non meno di un secolo dopo. ERICE JOURNAL 37 “ …l’isola si è infatti sempre trovata al centro dei principali traffici commerciali e dei percorsi di scambio intellettuale tra i paesi di cultura prevalentemente islamica e quelli a prevalenza cristiana. ” Sebbene la definitiva capitolazione dei Bizantini non avvenne prima del X secolo, il reale potere politico in Sicilia era già posseduto dagli Aghlabiti nel momento dell’elezione di Palermo a capitale della Siqilliyya, nome arabo della Sicilia, avvenuta in seguito alla conquista della città nell’831. Inizialmente, e in netto contrasto con il comportamento da loro successivamente mantenuto, i conquistatori arabi imposero con forza la propria autorità alla popolazione locale, in parte per necessità di controllo politico e in parte per spirito di saccheggio. Nella sua “Storia dei musulmani di Sicilia”, l’illustre storico Amari scrive infatti che, dopo la resa delle città siciliane, il loro territorio “fu tolto ai naturali, per esser tutti o fuggiti o fatti schiavi”. Dopo una tale fase caratterizzata da particolare violenza, l’amministrazione della cosa pubblica fu però generalmente condotta nel senso ERICE JOURNAL OF POLITICS PEACE AND HUMAN RIGHTS di una convivenza pacifica tra le varie componenti etniche e religiose della popolazione siciliana. Nel corso degli anni successivi si susseguirono in Sicilia una moltitudine di governi appartenenti a diverse dinastie. Il governo Aghlabita, prima dinastia che amministrerà l’isola fino al 910, fu caratterizzato dalle lunghe campagne di espansione verso la Sicilia orientale. Durante l’amministrazione Aghlabita i Bizantini si ritireranno nell’estremità nord-orientale della regione dove rimasero fino alla caduta di Taormina e Rometta,rispettivamente nel 962 e 965. Il successivo governo sciita dei Fatimiti rimase in carica per meno di quarant’anni, e si caratterizzò per l’incapacità di gestire le periodiche rivolte che ebbero luogo nella regione e per i gravi contrasti tra l’amministrazione centrale e l’aristocrazia locale. La dinastia kalbita in Sicilia iniziò invece nel 948, quando il generale Abull-Kasem Hasan Hosein ricevette il governo dell’isola come ricompensa per avere sedato la ribellione nekkarita iniziata quattro anni prima. Subendo varie riforme amministrative ed ulteriori suddivisioni, il governo dei kalbiti rimarrà al potere fino alla fine dell’XI secolo quando i Normanni espugneranno l’isola e porranno fine all’amministrazione araba della Sicilia. Durante l’amministrazione araba l’economia siciliana vide un notevole sviluppo della produzione in almeno due importanti settori: l’agricoltura e la manifattura. Nel campo dell’agricoltura, tra le principali innovazioni apportate dagli arabi possiamo contare i sistemi di irrigazione sotterranei che prendono il nome di Qanat, i quali permisero un estensivo sfruttamento a fini agricoli delle poche risorse idriche presenti nella regione. Altrettanto importante, soprattutto per i suoi odierni effetti sulla produzione economica locale, fu l’introduzione da parte degli arabi delle coltivazioni di agrumi, presumibilmente importate in Sicilia dal sud-est asiatico. Dal punto di vista manifatturiero esisteva invece una florida produzione di seta, le cui testimonianze sono state ritrovate sotto forma di drappi commerciati con l’Africa del nord, e la coltivazione e successiva tessitura del cotone. Dopo la cacciata degli arabi da parte dei normanni, l’eredità da essi lasciata continuò a produrre effetti sulla vita pubblica siciliana per molto tempo. I normanni infatti integrarono ed assorbirono molta della sapienza araba nel campo delle scienze giuridico-filosofiche e dell’arte, e questa integrazione diede vita ad un unicum artistico, politico e culturale non ritrovabile in altre aree del Mediterraneo. Sfax - panorama ERICE JOURNAL 39 A Glance at the Ancient History of the Suez Canal Minoo Mirshahvalad Darius I the Great was the third king of kings of the multinational Achemenid Empire. Under his domination the local authorities continued to enjoy their relative liberty, however, they were subjected to a reorganized administration which abandoned the former local self-government system1. In the wake of such an approach the provinces and the central power witnessed some new adventures. The ancient civilization of Egypt, already part of the Achemenid Empire, for a long while had been cultivating the ambition of connecting the Nile River to the Red Sea. Hence they had stabilized some narrow watercourses, though employable just for boats, between the two waters. According to Herodotus (II. 158.1 & IV.39.1), the credit of the first attempt to create an artificial sea-level water way between the Nile River and the Ἐρυθρὰ θάλασσα belongs to Necho II2. The Egyptian launched the project, but had to stop it due to the risks of coastal flooding following the excavation that could submerge the plateau3. However, the work did not sink into oblivion forever. Almost hundred years later, after his European expeditions, Darius I the Great, less concerned about the Northern provinces noticed the African satrapy. He needed great connections to control his giant territory expanded from India to Libya. Despite the road in the north of Anatoly, which had connected Susa to Sardis, Egypt, was still barely reachable from Persia. Besides lying far to the west, it required travelers to cross a dangerous desert. Apparently these problems motivated Darius to think about the maritime possibilities to reach Egypt. More over some reports about the economic potentialities of the African province for the central power gave an additional incentive to the Persian to take into account such a waterway4. As a result he resumed the Egyptians’ initiative. In 518 BC the king of kings ordered a canal to be dug -a forerunner model of the modERICE JOURNAL OF POLITICS PEACE AND HUMAN RIGHTS ern Suez Canal- to conjoin the Nile River and the Red Sea5. Considering the importance of the initiative, the emperor erected huge memorial stones along the canal to Pithôm -Tell Maskhouta ( )ةطوخسملا لتto commemorate its completion and successful operation. One of those inscribed memorials was found in 1866 during the excavation of the modern Suez Canal. The granite stele with at least 3 meters high, 2,30 meters wide, and 78 centimeters in thickness bears some lines in old Persian, in Elamite and in Akkadian and on the reverse side stood a longer inscription in Egyptian hieroglyphics6. By means of this new isthmus, Darius furnish a safe and facilitate maritime trade between the Persian Gulf, the Red Sea and the satrapy of Egypt. Today one can argue that the primary goal of the construction of such a canal could not be merely economic motives. The motivations of the adventure, according to studies, can include the desire to show the Persian ability in military projects7, establishing the Persian domination along the Mediterranean coast8 or an attempt to link the two parts of the empire9. However, the economic benefits of the isthmus should not be overlooked. The new waterway was being used for transit of merchandise, building materials and artistic goods. The economic and commercial progress of Persia and Egypt can attest the importance of the canal at that time10. 1 Cfr. A.S. Shahbazi, Darius I the Great, «Enciclopedia Iranica», 7(2012)1, pp. 41-50. 2 Al-Bīrūnī recognized Sesostris as the first contributor of the two seas’ connection. In this way, he lengthened even more the history of the channel Cfr. R. Velayati, How Darius Build the Suez Canal? Its Political-Economic Impact In Achaemenid Period, «Journal of Archeological Studies», 1(2010)2, pp. 177-201, p.196. 3 Cfr. Velayati, p.198. Herodotus as a reason of the initiative’s abandonment recognizes the warning of an oracle that signals Nicho the benefit that the canal could have for the “barbarians” (II.158.5). 4 Cfr. Velayati, cit., pp.198-199. 5 Cfr. M. Cuidetti, Storia del Mediteranneo nell’Antichità, Milano: Jaca Book, 2004, p.66. 6 Cfr. R.G. Kent, Old Persian Texts, «Journal of Near Eastern Studies», 1(1942)4, pp.415-423, p.415. 7 Cfr. Shahbazi, cit., pp. 41-50. 8 Cfr. O.Lipschits & M.Oeming, Judah and the Judeans in the Persian Period, Winona Lake: Eisenbrauns, 2006, p.26. 9 Cfr. Velayati, cit., p.199. 10Cfr. J. Barthélemy & S.Hilaire, Egypt and the Great Suez Canal, London: R. Bentley, 1857, p.1. Canale di Suez ERICE JOURNAL 41 La pace dei salvati di Shady Hamadi Nel 1968, un giovane di 25 anni lasciava la sua famiglia, il suo paese, pensando, forse, di farvi ritorno in breve tempo. Purtroppo, ci vollero 35 anni prima che quel ragazzo, ormai diventato un uomo e padre di un figlio, potesse rimettervi piede. La distanza dei decenni, l’esilio, produsse al ritorno in patria, il giusto sguardo per osservare quella società che non era cambiata. Quell’uomo è mio padre, Mohamed. Torturato nelle carceri siriane a causa delle sue opinioni. Una volta uscito dalla Siria, sperimentò, ancora una volta, il carcere e le torture in Kuwait perdendo, ancora una volta, quel poco di fortuna ritrovata. Se non avesse abbandonato la Siria e il Kuwait lui sarebbe morto, ucciso. Io sono un salvato, mio padre un sopravvissuto. Padre Paolo dall’Oglio, quando incontrava mio padre, si sedeva con lui a parlare. In particolare, ricordo un episodio nel quale padre Paolo stava tenendo una conferenza nella sala di una chiesa e io e mio padre ci sedemmo, come d’abitudine, nell’ultima fila. Quando vide mio padre, padre Paolo interrupe quello che stava dicendo e disse ad alta voce a papà se voleva raccontare qualcosa della sua esperienza. Mio padre gli rispose di no, come al solito. Chi viene torturato e privato della libertà può rimanerne vittima o può incanalare questa esperienza diventando un protagonista di pace. Al monastero di Mar Musa, nella amata valle del Nabek, padre Paolo ha sempre ospitato giovani torturati nelle carceri siriane, creando in quel monastero un ricovero per l’anima. L’esperienza di mio padre mi ha insegnato la potenza della parola, capace di portare il cambiamento. Ed è proprio a causa di questo cambiamento che la Siria viene violentata e uccisa ogni giorno. Già nel lontano 2001 diversi intellettuali siriani, rinchiusi per anni nelle carceri, chiesero un cambiamento, un’apertura verso una transizione democratica, vedendo in Bashar al Assad un possibile traghettatore. ERICE JOURNAL OF POLITICS PEACE AND HUMAN RIGHTS Tutti quegli intellettuali, scrittori, giovani e artisti furono incarcerati. Le prigioni di Palmira e Adra furono gli oscuri pozzi dove questa gente fu calata per essere, nuovamente, torturata. In quel 2001, la primavera di damasco si spense nelle carceri siriane e la società civile capii che Bashar al Assad avrebbe continuato a dirigere, dal suo palazzo sulle colline di damasco, quello che è, e continua a essere, il regno del terrore. Mustafa Khalifa, cristiano siriano, trascorse 12 anni nel carcere di Palmira, accusato di essere un fratello musulmano. Una volta uscito, scrisse un libro, la conchiglia, dove raccontava l’orrore di quel carcere, oggi più attivo che mai. Se Primo Levi ha saputo narrarci la disumanità dei campi di concentramento, allora Mustafa Khalifa ci ha donato qualcosa di analogo al quale noi dobbiamo attingere. Come tutti voi sapete e vedede, la sicilia è diventata una terra di salvezza per migliaia di profughi. Oggi, mai lo avrei pensato, sono i siriani ad approdare qui. Vogliono rinascere e trovare un nuovo posto da chiamare casa. In questi mesi ho parlato con decine e decine di loro. Siriani drusi, musulmani, crisitiani e ismaeliti. Mi hanno riempito di storie. Milano è diventata uan tappa di passaggio per loro perchè da lì continuano il loro viaggio verso il nord europa. Nell’agosto del 2013, trovai una ventina di persone, 15 bambini e 5 adulti, sotto un albero del parco vicino alla stazione di Milano. Mi avvicinai a parlare con loro. Il più grande, un uomo di 70, era il capo famiglia. Mi disse che sua figlia era morta sul barcone a causa del diabete e che oggi, mentre lui parlava con me, l’avrebbero seppellita. Gli chiesi come mai non fosse rimasto per il funerale e mi disse che gli era stato consigliato di partire subito, anche a causa della presenza di 15 bambini. Con altri amici, riuscì a stento a trovare un alloggio per queste 20 persone che avevano passato la notte sotto quell’albero. Oggi le cose sono cambiate. Si è attivato un meccanismo organizzativo da parte del comune di Milano e altre associazioni per l’accoglienza dei profughi siriani. In Italia, come sappiamo, si parla di emergenza solo quando ci troviamo di fronte a un flusso costante. Si pensa alle soluzioni quando emergono i problemi e non si pensa a come prevenirli. Nel novembre dell’anno scorso, suggerì ad alcuni rappresentanti del governo italiano di sbrigarsi a presentare la richiesta in unione europea per l’apertura di un corridoio umanitario per i siriani che sarebbero arrivati a migliaia. Mi dissero di “sì, ce ne stiamo già occupando”. Come vedete e sapete questo corridoio non è mai stato aperto e migliai di persone rischiano la vita in ERICE JOURNAL 43 mare quando, e me lo dissero tutti i siriani incontrati, sarebbero disposti a pagare perfino una tassa all’italia per transitare sul nostro territorio. Oggi, se vogliamo salvare delle vite innocenti e davvero aver a cuore la pace, dobbiamo sottrarre le vite di questa gente ai mercanti di uomini: serve un permesso di transito temporaneo, ora! Serve che l’Europa, che ha scelto di non aiutare le società civili arabe lasciandole preda di spietati regimi , falsamente,”laici” e del fondamentalismo, diventi oggi una terra di accoglienza. Ma, la verità, e che comunque sarebbe una scelta di ripiego. In realtà, bisogna risolvere il problema dei siriani a monte. “Dove?” vi domandate, visto che parrebbe che in Siria ci sia solo caos. Nel 2011, la società civile scese in piazza a manifestare per ottenere: uguaglianza, pari diritti, dignità e libertà. Cristiani, come Micheal Kilo, per dieci anni dentro le carceri siriane, alawiti, come Fadwa Soleiman, attrice della televisione siriana, misero in gioco tutto per il cambiamento. Eravamo sicuri fin dall’inizio che il regime avrebbe risposto alle richieste del popolo con il pugno di ferro, grazie al sostegno dei suoi alleati: iran e russia in testa. In quel lontano 2011, girai l’italia e andai fino al parlamento di Bruxelles a chiedere che la società civile europea e la Ue, sostenessero la società civile siriana in nome di quel diritto alla felicità che è dell’uomo. Non ottenni nulla. I nostri ragazzi, tanti amici e famigliari, morirono massacrati dai servizi di sicurezza. Il grande movimento pacifista fu messo all’angolo e i nostri giovani imbracciarono le armi, consapevoli della strada oscura che questa scelta porta. Oggi 200mila persone sono morte, non c’è città siriana che non sia risparmiata dai bombardamenti aerei dell’aviazione del regime ma è evidente che quegli aerei non indignano. 6 milioni di siriani hanno lasciato il paese, altri 5 sono sfollati interni. Il fondamentalismo, spauracchio dell’Occidente, dopo l’11 settembre, è arrivato in Siria. Il fondamentalismo sta combattendo una guerra soltanto contro la società civile siriana e le forze della rivoluzione. Non vi sono scontri armati tra il regime e lo stato islamico del levante,quasi ci fosse una pax e una convenienza reciproca. Il regime siriano manda un messaggio all’occidente: “noi proteggiamo le minoranze e senza di noi il fondamentalismo pulirebbe la Siria dalle minoranze”. Così, Khaled Haj saleh, paolo dall’oglio e altre migliaia di oppositori al regime sono nelle carceri dello stato islamico del levante. Io, dario fo, il vescovo Mogavero e altri intellettuali firmammo un appello pochi mesi fa proprio per chiedere alla comunità ERICE JOURNAL OF POLITICS PEACE AND HUMAN RIGHTS internazionale il sostegno alla società civile che rigetta il fondamentalismo e il regime. Nessuno ci ascoltò. L’unica via oggi, per uscire dalla spirale di violenza in Siria e per rendere i siriani protagonisti del loro futuro è sostenerli. Non lo abbiamo fatto per 4 anni, cominciamo da oggi aprendo un corridoio umanitario. Voglio ricorda Bara’a e Adnan, due cugini di Damasco che oggi si trovano in Svezia. Adanan, 19 anni, lo incontrai in un centro per profughi a Milano. Mi raccontò che due anni prima, a Damasco, era stato arrestato perchè aveva preso parte a una delle tante manifestazioni pacifiche ignorate da tutti. Condotto in carcere, insieme a centinaia di altri ragazzi, fu fatto spogliare, rimanendo in mutande, e per lui, insiema a altre centinaia di ragazzi mezzi nudi, cominciò il suplizio. Uscito dal carcere, grazie a una forta somma di denaro pagata dal padre a un ufficiale del servizio segreto, Adnan scappo dal paese, andando in Egitto. Lì, partecipò a un provino di Arab Got Talent, uno show, per aspiranti cantanti e vinse. Li proposero di andare a Beirut per partecipare al programma ma Adnan non aveva soldi perchè li aveva spesi per pagarsi il viaggio. Il giorno dopo partì su un nave dall’Egitto. Quando lo vidi mi mostrò i segni delle torture sulla schiena ma , nonostante, il rischio di morire il carcere e in mare, Adnan si volle esibire insieme a Bara’a in una canzone. Adanan è un salvato. Noi abbiamo il dovere morale e storico di comprendere questi giovani, di stargli accanto, visto che il mondo pare disposto ad accettare il loro massacro. I siriani non devono essere morti si serie C. Dobbiamo fare di tutto per cancellare quell’idea che disegna la Siria come la terrà del caos: un paese dove si dice di tutto il contrario di tutto. Se noi manterremo questa opinione, scgliendo la neutralità, allora avvalleremo il massacro e noi siriani, saremo condannati a pagare un prezzo altissimo. L’anno scorso, incontrai la vedova di Samir Kassir, intellettuali libanese di sinistra, morto in un attentato a Beirut. Mi disse che suo marito aveva previsto questo cambiamento e che sulla pelle dei siriani, sulle nostre buone intenzioni, molti avrebbero giocato. Se la Siria diventa un paese democratico, libero e di tutti i siriani, allora vedremo sorgere un rinascimento per gli arabi del levante e, se l’europa vuole, il mediterraneo potrebbe trasformarsi a essere un mar nostrum. Se sceglieremo la strada dell’incomprensione e dell’abbandono, allora la Siria sarà un buoco nero. Chi si è salvato tra i siriani, sà che non vi è Siria senza una vera riconcigliazione. Progetti in questo senso sono già partiti in Siria e fuori, in Libano e Giordania. Sarebbe bello se ci fossero dei gemellaggi fra le nostre città e i campi profughi e le città libere dal fondamentalismo e dal regime per lo scambio di idee e di sostegno perchè vorrebbe dire lasciar parlare questi siriani invisibili e ascoltarsi. ERICE JOURNAL 45 Città di Pace e per la Scienza ERICE JOURNAL OF POLITICS PEACE AND HUMAN RIGHTS