Marzo 2005 - Ordine dei Giornalisti
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Marzo 2005 - Ordine dei Giornalisti
Ordine Anno XXXV n. 3 Marzo 2005 Direzione e redazione Via A. da Recanate, 1 20124 Milano Telefono: 02 67 71 37 1 Telefax: 02 66 71 61 94 http://www.odg.mi.it e-mail:[email protected] dei giornalisti della Lombardia Poste Italiane SpA Sped.abb.post. Dl n. 353/2003 (conv. in L. 27/2/2004 n. 46) art. 1 (comma 2). Filiale di Milano Associazione “Walter Tobagi” per la Formazione al Giornalismo Istituto “Carlo De Martino” per la Formazione al Giornalismo INPGI SCONFITTA PER L’ISTITUTO VINCE LA LINEA SOSTENUTA DA ANNI DALL’ORDINE DELLA LOMBARDIA Tribunale civile di Milano: ai giornalisti iscritti all’Inpgi spetta la “libertà di cumulo” tra pensione e redditi da lavoro L’Inpgi deve osservare le stesse regole dell’Inps in tema di libertà di cumulo: questo è il significato di una sentenza del Tribunale civile di Milano depositata ilo 10 febbraio.Queste le valutazioni di Franco Abruzzo: “L’applicazione ai giornalisti dipendenti di un regime in materia di cumulo così diverso in senso peggiorativo da quello previsto per i lavoratori comuni configura una disparità di trattamento che il principio di coordinamento – sancito dal punto 4 dell’articolo 76 della legge n. 388/2000 – appare diretto a prevenire. La sentenza rispecchia i principi affermati dalla sentenza n. 437/2002 della Corte costituzionale sulla libertà di cumulo nell’ambito della cassa dei ragionieri. Da Milano parte un segnale forte: l’Inpgi è con le spalle al muro, perché non può negare ai propri iscritti quei trattamenti (come la libertà di cumulo) che sono riconosciuti dall’Inps. L’uguaglianza è un valore costituzionale inviolabile, fondamentale e intangibile”. A PAG. 2 Ministeri del Lavoro e dell’Economia: il bilancio dell’Inpgi “tende al peggioramento” Roma, 2 febbraio 2005. Dal 3 gennaio sul tavolo del presidente dell’Istituto c’è una lettera firmata dal direttore generale del Ministero del Lavoro, Maria Teresa Ferraro, che scrive anche per conto del Ministero dell’Economia. In breve, secondo i due Ministeri, il bilancio dell’Inpgi “tende al peggioramento”. Sono necessari “interventi con urgenti e incisive misure sulle contribuzioni e/o sulle prestazioni”. In sostanza bisogna tagliare le pensioni e aumentare i contributi versati dalle aziende oppure bisogna tagliare le pensioni o alternativamente aumentare i contributi. Le scelte sono ineludibili. Non c’è una terza via. IL TESTO DELLA LETTERA DEL DIRETTORE GENERALE DEL MINISTERO DEL LAVORO A PAG. 3 L’Assemblea degli iscritti giovedì 24 marzo 2005 “Oro” a 21 colleghi per 50 anni di Albo Milano, 15 febbraio 2005. Sono 21 i colleghi (14 professionisti e 7 pubblicisti) che quest’anno compiono i 50 anni di iscrizione negli elenchi dell’Albo. Riceveranno la medaglia d’oro dell’Ordine della Lombardia in occasione dell’assemblea annuale degli iscritti che si terrà giovedì 24 marzo (h 15) al Circolo della Stampa. A PAGINA 8 LE INTERVISTE Comunicato dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia Accolta la richiesta di danni della Sandrelli per le foto rubate Bando per il XV biennio (2005 - 2007) dell’Istituto “Carlo De Martino” per la Formazione al Giornalismo. Le iscrizioni dal 1° marzo al 30 giugno 2005 aperte anche ai cittadini comunitari. La tassa annuale di frequenza è di 50 euro, che va versata interamente alla Regione Lombardia. Illecito pubblicare abusivamente foto di un’attrice La Scuola in 28 anni di vita ha creato 563 giornalisti professionisti (tra questi: 35 direttori, 22 addetti stampa, 4 vicedirettori, 77 capiredattori, 42 inviati o corrispondenti dall’estero, 88 capiservizio, 2 segretari di redazione, 193 redattori ordinari, 19 cococo e 6 “vari”). Giornalisti si diventa a Milano, capitale dell’editoria Milano, 15 febbraio 2005. Sono aperte dal 1° marzo fino al 30 giugno 2005 le iscrizioni al concorso di ammissione al XV biennio (20052007) dell’Istituto “Carlo De Martino” per la Formazione al Giornalismo (Ifg). Il corso, sostitutivo del praticantato tradizionale, è promosso dall’Ordine dei giornalisti della Lombardia in collaborazione con la Regione Lombardia. L’Ifg è il centro di formazione professionale gestito dall’Associazione “Walter Tobagi” per la formazione al giornalismo. Al termine dei due anni di corso, e superato l’esame di Stato, gli allievi-praticanti verranno iscritti all’elenco professionisti dell’Albo dei giornalisti. Al termine del biennio i praticanti affronteranno un esame interno finale, scritto e orale. Della Commissione giudicatrice (nominata dal Consiglio dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia d’intesa con la direzione dell’Istituto) farà parte anche un rappresentante della Regione Lombardia. La direzione della scuola, tenendo conto dei risultati dell’esame finale, rilascerà un certificato di frequenza e profitto. La prova, propedeutica all’esame di Stato, condiziona il rilascio, da parte del presidente dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia, del certificato di fine praticantato. L’Ifg, scuola di eccellenza europea, cerca 40 giovani laureati, determinati, con un ottimo curriculum di studi e che sappiano cogliere le nuove opportunità della professione giornalistica Il testo del bando nelle pagine centrali ORDINE 3 2005 Roma, 19 gennaio 2005. La pubblicazione non autorizzata di foto di un’attrice tratte da un film è illecita e dà diritto al risarcimento dei danni per lesione del diritto all’immagine. Lo ha stabilito la prima sezione civile della Corte di cassazione (sentenza n. 22513/2004) accogliendo il ricorso di Stefania Sandrelli (nella foto) contro un noto settimanale per soli uomini che aveva pubblicato, senza il consenso dell’attrice, foto tratte dal film La chiave. La Corte di appello di Roma aveva infatti escluso il diritto al risarcimento sulla base del fatto che l’attrice aveva rifiutato di consentire alla pubblicazione, dimostrando, secondo i giudici di merito, la volontà di abbandonare il proprio diritto. La Suprema corte ha invece ribaltato il ragionamento dei giudici dell’appello, ricordando che “chiunque pubblichi abusivamente il ritratto di una persona nota per finalità commerciali, è tenuto al risarcimento del danno, la cui liquidazione deve essere effettuata tenendo conto anzitutto delle ragioni della notorietà di cui si tratta, soprattutto se questa è connessa alla attività artistica del soggetto leso, alla quale si collega normalmente lo sfruttamento esclusivo della immagine stessa”. SOMMARIO Incontri Tettamanzi: “No alla moltiplicazione della chiacchiera e del pettegolezzo” Professione La nuova Carta dei Doveri dell’informazione economica pag. 4 pag. 15 Diffamazione, la fretta non giustifica la pubblicazione di una notizia non vera pag. 15 Premi A Ugo Tramballi l’Oscar degli inviati pag. 16 Intervento L’italiano invaso da 9mila anglicismi pag. 17 Ordine Dai compensi negati per le collaborazioni (articoli, uffici stampa) fino al riconoscimento del diritto d’autore disinvoltamente violato pag. 18 Dibattito Quando “i cari colleghi assunti” diventano kapò pag. 19 Mostre 1944, la democrazia italiana riparte dal Sud Tesi di laurea Leonardo Sciascia, uno scrittore in redazione La storia Ordine pag. 22 pag. 26 Le stragi degli anni Venti. Quando il terrorismo colpiva Milano pag. 32 La sala del Consiglio dedicata a Nino Nutrizio pag. 34 La Libreria di Tabloid pag. 35 1 Segue dalla prima pagina Tribunale civile di Milano: INPGI ai giornalisti iscritti all’istituto spetta la “libertà di cumulo” tra pensione e redditi da lavoro Milano, 10 febbraio 2005. L’Inpgi deve osservare le stesse regole dell’Inps in tema di libertà di cumulo, come prescrive l’articolo 76 (punto 4) della legge 23 dicembre 2000 n. 388, in forza del quale “le forme previdenziali gestite dall’Inpgi devono essere coordinate con le norme che regolano il regime delle prestazioni e dei contributi delle forme di previdenza sociale obbligatoria, sia generali che sostitutive”. Questo è il significato di una sentenza, firmata dal giudice del lavoro R. Punto del tribunale di Milano e depositata oggi in cancelleria, che ha accolto le ragioni del giornalista E.C., difeso dall’avvocato Patrizia Sordellini. Il giudice ha depositato il dispositivo della sentenza, che dice: “Il tribunale di Milano, disattesa ogni altra domanda ed eccezione, dichiara che il regime di incumulabilità tra pensioni e redditi di lavoro applicato al ricorrente è in contrasto con l’articolo 76 legge n. 388/2000, condanna il convenuto (Inpgi, ndr.) a restituire quanto al periodo pregresso gli importi decurtati dal trattamento pensionistico”. Il giudice ha dichiarato compensate le spese di giudizio (data la novità della causa). In sintesi, la controversia verteva sulla legittimità del comportamento dell’Inpgi che, a partire dal gennaio 2002, ha applicato nei confronti del giornalista/ricorrente, un trattamento in materia di cumulo oggettivamente peggiorativo rispetto a quello previsto dalla disciplina comune. Più precisamente, anziché applicare per il periodo da gennaio 2002 a dicembre 2002, una trattenuta nella sola misura del 30% sul rateo mensile di pensione dovuto in conformità all’art. 72 (2° comma) della legge 23 dicembre 2000 n. 388 (c.d. Finanziaria 2001) nonché consentire per il periodo successivo il pieno cumulo fra rateo pensionistico e reddito da lavoro dipendente – secondo quanto previsto dall’articolo 44 della legge 27 dicembre 2002 n. 289 (c.d. Finanziaria 2003) – l’ente previdenziale ha operato, all’inizio, una decurtazione del rateo pensionistico spettante al ricorrente nella misura del 50%, applicando l’articolo 15 del proprio Regolamento approvato con D.M. 24 luglio 1995 e, successivamente, ha azzerato l’erogazione del trattamento pensionistico. Di fronte alla richiesta del giornalista di corrispondere quanto illegittimamente trattenuto nel periodo pregresso, nonché di usufruire per il tempo futuro del medesimo trattamento previsto dalla disciplina comune in materia, l’Inpgi si è fatta scudo dietro l’autonomia che, a suo dire, le riconoscerebbe in materia l’articolo 44 (comma 7 della legge del 27 dicembre 2002 n. 289), laddove prevede che “gli enti previdenziali privatizzati possono applicare le disposizioni di cui al presente articolo nel rispetto dei principi di autonomia previsti dal decreto legislativo 30 giugno 1994”. Ad avviso di questa difesa, la difesa della convenuta si rivela destituita di ogni fondamento anche alla luce dell’attuale dato positivo. Queste le valutazioni di Franco Abruzzo, presidente dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia: “L’applicazione ai giornalisti dipendenti di un regime in materia di cumulo così diverso in senso peggiorativo da quello previsto per i lavoratori comuni configura una disparità di trattamento che il principio di coordinamento – sancito dal punto 4 dell’artico- lo 76 della legge n. 388/2000 – appare diretto a prevenire. La sentenza rispecchia i principi affermati dalla sentenza n. 437/2002 della Corte costituzionale sulla libertà di cumulo nell’ambito della cassa dei ragionieri. Da Milano parte un segnale forte: l’Inpgi è con le spalle al muro, perché non può negare ai propri iscritti quei trattamenti (come la libertà di cumulo) che sono riconosciuti dall’Inps. L’uguaglianza è un valore costituzionale inviolabile, fondamentale e intangibile”. La sentenza n. 437/2002 della Corte costituzionale è eloquente: “È, infatti, da osservare anzitutto che il perseguimento dell’obiettivo tendenziale dell’equilibrio di bilancio non può essere assicurato da parte degli enti previdenziali delle categorie professionali – e, in particolare, da parte della Cassa di previdenza a favore dei ragionieri e periti commerciali – con il ricorso ad una normativa che, trattando in modo ingiustificatamente diverso situazioni sostanzialmente uguali, si traduce in una violazione dell’articolo 3 della Costituzione. L’iscrizione ad albi o elenchi per lo svolgimento di determinate attività è, infatti, prescritta a tutela della collettività ed in particolare di coloro che dell’opera degli iscritti intendono avvalersi. In secondo luogo, si rileva che le norme concernenti il cumulo tra reddito da lavoro e prestazione previdenziale presuppongono la liceità dell’esercizio dell’attività lavorativa da parte del pensionato ed operano quindi su un piano diverso ed in un momento successivo a quelle del tipo della disposizione censurata, finalizzate ad impedirne lo svolgimento”. Due delibere del Consiglio d’amministrazione Sì al superbonus, cumulo sino a 8.509 euro Roma, 10 febbraio 2005. Sì al superbonus, mentre resta invariato il tetto al cumulo tra pensione e redditi di lavoro autonomo. Lo ha deliberato oggi il Consiglio di amministrazione dell’Inpgi, l’Istituto di previdenza dei giornalisti italiani: le deliberazioni saranno portate alla ratifica dei ministeri vigilanti. Prima di assumere una decisione sul superbonus, l’Inpgi - spiega una nota - ha dovuto far accertare attraverso una valutazione attuariale se, adottando la regola del bonus, potesse essere messa a rischio la stabilità dell’Ente. ‘’Lo studio - sostiene l’Inpgi - ha evidenziato gli aspetti positivi del recepimento del decreto, e, di conseguenza, il Cda ha deliberato di estendere agli iscritti all’Inpgi il diritto di richiedere l’applicazione del superbonus’’. In particolare, secondo l’istituto, ‘’è emerso che nel periodo 2005-2010 la spesa previdenziale si ridurrebbe di 72 milioni a fronte di una riduzione di entrate contributive pari a 27 milioni (saldo attivo di 45 milioni). Dal 2011 al 2032 la spesa aumenterebbe leggermente, ma sarebbe ampiamente compensata, con notevole vantaggio, dalla crescita del patrimonio, realizzata nel periodo di applicazione del bonus’’. ‘’Nell’approvare il recepimento della norma, il Consiglio di amministrazione dell’Inpgi - continua l’ente a proposito del superbonus - ha anche tenuto conto del forte aumento dei pensionamenti di anzianità verificatosi negli ultimi due mesi a causa dell’iniziativa assunta da varie aziende, le quali hanno stimolato le dimissioni di giornalisti con diritto alla pensione, offrendo loro consistenti buonuscite. Ciò minacciava di diminuire sostanzialmente, rispetto al passato, le entrate contributive, aumentando contemporaneamente la spesa previdenziale. Un doppio danno che il bonus potrà ridurre efficacemente’’. Quanto alla seconda delibera, che riguarda il cumulo tra pensione e redditi da lavoro autonomo, l’Inpgi spiega che ‘’nel maggio 2004 il Consiglio di amministrazione dell’Inpgi recepì un accordo tra la Fnsi e la Fieg, con il quale veniva elevato a 13.000 euro annui il massimale dei redditi cumulabili con la pensione. Il ministero dell’Economia, ricevendo la delibera, richiese tuttavia una verifica la quale dimostrasse che ciò non avrebbe rischiato di creare danno alla stabilità dei bilanci futuri dell’Ente. Lo studio attuariale non è stato in grado di dare questa sicurezza e quindi il Consiglio di amministrazione dell’Inpgi ha confermato oggi il precedente tetto riferito al 2001 di 7.746 euro, che a suo tempo era stato già oggetto di valutazione positiva da parte del ministero dell’Economia. Ad oggi il massimale è stato comunque rivalutato, anno dopo anno, per effetto delle aliquote di perequazione nelle seguenti misure: 2001, euro 7.746,85; 2002, euro 7.956,02; 2003, euro 8.146,96; 2004, euro 8.350,64; 2005, euro 8.509,30’’. (ANSA) Appello a Siniscalco e Maroni “L’Inpgi continua a violare il principio costituzionale dell’uguaglianza, limitando il diritto alla libertà di cumulo. Qualcuno deve pur dire la verità ai giovani giornalisti” Milano, 10 febbraio 2005. Appello di Franco Abruzzo, presidente dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia, ai ministri dell’Economia e del Lavoro, Domenico Siniscalco e Roberto Maroni: “Oggi il Consiglio di amministrazione dell’Inpgi ha approvato due delibere: una che estende il superbonus anche ai giornalisti e la seconda, che limita il diritto alla libertà di cumulo pensione-redditi da lavoro, fissata negli articoli 72 della legge n. 388/2000 e 44 (comma 7) della legge n. 289/2002. I giornalisti possono cumulare fino a 8.509 euro. Con questa seconda delibera, il Consiglio d’amministrazione dell’Istituto ha violato ancora una volta e clamorosamente l’articolo 3 della Costituzione (uguaglianza) e la sentenza n. 437/2002 della Corte costituzionale. Proprio oggi il Tribunale del lavoro di Milano ha sancito che l’Inpgi deve comportarsi come l’Inps, in tema di libertà di cumulo, nel rispetto del punto 4 dell’articolo 76 della legge n. 388/2000. L’Inpgi è l’unica cassa sostitutiva dell’Inps. Se è una cassa deve comportarsi come le casse degli avvocati e dei ragionieri, costrette dalla Corte costituzionale a riconoscere la libertà di cumulo ai propri iscritti; se è sostitutiva dell’Inps deve comportarsi come l’Inps. Non c’è una terza via. Signori ministri, attenti! I vertici dell’Inpgi vi diranno che la Fondazione non ha soldi; che le perizie attuariali del prof. Gismondi non consigliano di appli- 2 care la libertà di cumulo; che il direttore generale del ministero del Lavoro, Maria Teresa Ferraro, ha suonato l’allarme sul futuro dell’Istituto. Se è così, l’Inpgi deve tornare pubblico come era fino al 1995, applicando le regole dell’Inps (40x2=80%) e non l’assurda quanto splendida regola che parifica 30 anni di versamenti all’Inpgi ai 40 dell’Inps. L’Inpgi per fare 80% moltiplica 30x2,66. Il coefficiente del 2,66 è un lusso che un piccolo gruppo sociale, qual è quello dei giornalisti professionisti, non può più, purtroppo, permettersi. Signori ministri, intervenite, è un vostro dovere, è un vostro obbligo giuridico. Qualcuno deve pur dire la verità ai giovani giornalisti. Io mi assumo le mie responsabilità”. ORDINE 3 2005 Segue dalla prima pagina Ministeri del Lavoro INPGI e dell’Economia: il bilancio dell’ente “tende al peggioramento” Questo il testo della lettera della dott.ssa Ferraro: OGGETTO: Bilancio tecnico al 31/12/2003 della gestione principale dell’Inpgi È stato analizzato il bilancio tecnico della gestione principale di codesto Istituto, trasmesso con nota n. 262 del 27 settembre 2004, per il parere di competenza. La situazione gestionale dell’Istituto, che, in base alle risultanze del bilancio consuntivo, chiude l’esercizio 2003 con un avanzo di 63,775 milioni di euro ed un patrimonio netto pari a 1.122,828 milioni di euro, evidenzia, tuttavia, alcuni segnali negativi, di cui non si può non tener conto: ■ la rallentata crescita dei contributi (da + 6,06% nel 2002 a + 5,14% nel 2003); ■ l’incremento della spesa previdenziale (da + 4,32% nel 2002 a + 5,12% nel 2003). La flessione delle entrate contributive, nonostante la serie di interventi che hanno interessato sia la base contributiva (ingresso nell’Inpgi nel 2001 dei giornalisti pubblicisti con contratto di lavoro subordinato), sia l’aliquota Ivs (1% in più dal 01/01/2005) è principalmente dovuta ai nuovi rapporti di lavoro che, pur in crescita, non riescono a costituire il gettito contributivo necessario per il pagamento delle pensioni in essere. L’incremento della spesa pensionistica, che costituisce il 90,2% delle entrate contributive, è da imputare, oltre alla perequazione di legge (2,4% nel 2003), ai seguenti fattori: ■ incremento del numero di trattamenti pensionistici; ■ maggior importo delle nuove pensioni rispetto a quelle cessate; ■ passaggio da trattamenti ridotti ad interi; ■ liquidazione dei supplementi di pensione; ■ incremento delle retribuzioni per il calcolo della media pensionabile; ■ onere dei prepensionamenti a totale carico dell’Inpgi (pari a 18,4 mln di euro). Nonostante la contribuzione Ivs abbia fatto registrare un trend in crescita (4,85 in più rispetto al 2002), nel 2003 sono cresciute anche le prestazioni Ivs, con una percentuale del 5,12% rispetto all’anno precedente, con conseguente disallineamento che, se dovesse divenire sistematico, farebbe registrare un peggioramento progressivo della gestione. Analizzando i flussi di contributi e prestazioni per l’esercizio 2003, emerge che il 91,5% delle contribuzioni totali proviene dalla gestione Ivs, mentre il 95,4% delle prestazioni totali è costituito da prestazioni Ivs, che assorbono, quindi, circa il 4% dei finanziamenti destinati alle altre prestazioni (disoccupazione, tbc etc.). Dall’analisi del bilancio tecnico al 31/12/2000, già si evidenziava uno squilibrio a partire dal 2020. Di conseguenza, questo ministero aveva richiesto l’adozione di idonei provvedimenti correttivi sul versante delle prestazioni e/o contribuzioni. Il disavanzo gestionale è stato nuovamente confermato dal bilancio tecnico attuariale al 31/12/2003, che anticipa il punto di criticità nel 2018 con un saldo previdenziale, cioè la differenza tra contributi e prestazioni, già negativo nel 2017, non rispettando neanche l’arco temporale di quindici anni previsto dall’art. 3, comma 12, della legge 335/95. Nel 2029 il patrimonio non copre più le prestazioni correnti e si azzera nel 2034. L’aumento dell’1% dell’aliquota Ivs, che dal 1° gennaio 2005 si attesta al 28,97%, non è sufficiente ad assicurare l’equilibrio e risulta, comunque, inferiore a quella del Fpld che, al 01/01/2004 come aliquota contributiva ordinaria applica il 32,70% (23,81% a carico del datore di lavoro e 8,89% a carico del lavoratore). Pertanto, la rilevata tendenza al peggioramento della gestione previdenziale rende ineludibile come, peraltro, sottolineato dal covigilante ministero dell’Economia e Finanze, la necessità di intervenire con urgenti ed incisive misure sulle contribuzioni e/o sulle prestazioni, ai sensi del richiamato art. 3, comma 12, della legge n. 335/95. IL DIRETTORE GENERALE (dott.ssa Maria Teresa FERRARO) Ed ora mano alla riforma previdenziale dei giornalisti di Ezio Chiodini “…Pertanto, la rilevata tendenza al peggioramento della gestione previdenziale rende ineludibile come, peraltro sottolineato dal covigilante ministero dell’Economia e Finanze, la necessità di intervenire con urgenti ed incisive misure sulle contribuzioni e/o sulle prestazioni, ai sensi del richiamato art. 3, comma 12, della legge n.335/95”. Parole della dottoressa Maria Teresa Ferrraro, direttore generale per le politiche previdenziali del ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali. Parole scritte a conclusione della lettera ricevuta dell’Inpgi il 3 gennaio scorso, lettera con quale la Ferraro, cioè il ministero del Lavoro e delle Politiche sociali ha espresso il proprio parere (anche a nome del ministero dell’Economia) sul bilancio tecnico al 31 dicembre 2003 dell’Istituto di previdenza dei giornalisti. Insomma, anche la Ferraro ne è convinta: l’Istituto non gode affatto di buona salute. Anzi! E, forse non lo sa, ma dopo aver fatto preoccupanti affermazioni sul futuro dell’istituto la Ferrario sarà anch’essa iscritta d’ufficio a quel club dei corvi che, secondo autorevoli esponenti dell’Inpgi, godrebbero nel vedere il nostro istituto trasformato in cadavere. Ma lasciamo stare i corvi, e lasciamo stare anche i becchini e gli imbonitori e occupiamoci, invece, del nostro istituto. Per dire che anche la Ferraro (vedere la lettera integrale pubblicata qui sopra) giunge a conclusioni ormai sottoscritte da molti: così com’è la gestione dell’Inpgi non può più andare avanti. Bisogna mettere mano, e subito, ai conti, perché prevedendo un saldo già negativo nel 2017 “non si rispetta neanche l’arco temporale di quindici anni previsto dall’art.3, comma 12, della legge 335/95…”. E “l’aumento dell’1% dell’aliquota Ivs (cioè quanto si paga sullo stipendio lordo a fini previdenziali, ndr), che dal primo gennaio si attesta al 28,97%, non è sufficiente ad assicurare l’equilibrio e risulta, comunque, inferiore a quella del Fpdl (cioè il fondo di previdenza dei lavoratori dipendenti che fa capo all’Inps, ndr) che come aliquota contributiva ordinaria applica il 32,70% (23,81% a carico del datore di lavoro e 8.89% a carico del lavoratore)”. C’è poco da aggiungere a quanto scritto chiaramente dalla Ferraro. Casomai c’è molto da riflettere. Anche sull’intervento di Pierluigi Franz (consigliere dell’Inpgi) apparso sull’ultimo numero di Ordine Tabloid. In quell’intervento Franz scrive, fra l’altro, che “nei prossimi mesi l’Inpgi dovrà pronunciarsi su una serie di importanti questioni molto attesa dalla categoria: superbonus, correzione del divieto di cumulo pensione/lavoro, riforma delle pensioni, probabile aumento del costo dei contributi volontari figurativi, revisione del meccanismo di adeguamento dei vitalizi…” Insomma, nei prossimi mesi si metterà mano alla riforma previdenziale dell’Inpgi. Ma “chi” vi metterà mano? E in quale contesto? Può una riforma del genere essere partorita soltanto ed esclusivamente da un consiglio di amministrazione, può essere il risultato di una mediazione fra poteri diversi? E quali poteri? O deve essere, invece, una riforma che si ispiri a principi e poteri di equità, di trasparenza e di democrazia, una riforma dibattuta e fatta propria dai giornalisti iscritti all’Inpgi? La risposta, a nostro giudizio, è ovvia. E allora, occhio alla riforma, ma anche a come verrà gestita e proposta. Età pensionabile a 65 anni (maschi) e a 60 anni (donne) dall’1.1.2007 (5mila giovani già con il contributivo) Dal 1° gennaio 2001 i giornalisti conseguono la pensione di vecchiaia a 65 anni e le giornaliste a 60 anni (con un minimo di 20 anni di contributi). La pensione di vecchiaia anticipata (quest’anno scatta per chi ha 63 anni e 30 anni di contributi) scomparirà alla fine del 2006. Dal primo gennaio 2007, quindi, i giornalisti andranno in pensione tutti a 65 anni (se maschi) e a 60 (se donne). ORDINE 3 2005 Ai giovani giornalisti assunti per la prima volta dopo il 25 luglio 1998 (sono oltre 5mila, un terzo dei giornalisti attivi) si applica già il calcolo contributivo con il risultato che gli stessi percepiranno una pensione inferiore del 22-24 per cento rispetto a quelle erogate oggi ai colleghi meno giovani. Nessuno dice che se le cose dovessero andare male (faccio scongiuri), lo Stato garantirà il diritto alla pensione (ma non il quantum) e darà ai giornalisti Inpgi soltanto l’assegno sociale (meno di 500 euro al mese). Perché dobbiamo correre simili paurosi rischi? Perché non riflettere sulla necessità di ritornare al pubblico e al “come eravamo” fino al 1995? L’Inpgi non ammette la pericolosità attuale dei bilanci (incassiamo 100 e spendiamo 92). 3 IL CARDINALE HA INCONTRATO IL 29 GENNAIO GLI ALLIEVI PRATICANTI DELLE TRE SCUOLE DI GIORNALISMO DI A sinistra: il cardinale Dionigi Tettamanzi durante l’incontro con giornalisti e studenti delle scuole di giornalismo in occasione della festa di san Francesco di Sales. Qui sopra, da sinistra: il prof. Ruggero Eugeni, in rappresentanza della direzione della scuola di giornalismo dell’Università Cattolica; Gigi Speroni, direttore dell’Istituto di formazione al giornalismo Carlo De Martino; l’arcivescovo di Milano, card. Dionigi Tettamanzi; il prof. Angelo Agostini, direttore della scuola di giornalismo allo Iulm, don Gianni Zappa. Nella foto in basso il cardinale con il presidente Franco Abruzzo. (foto ITL/mariga) Tettamanzi: “No alla moltiplicazione direttore dell’Istituto De Martino, a ricordare come il tempo trascorso nelle aule debba “avere non solo una valenza formativa, ma anche una valenza sociale”: la crescita professionale non deve essere disgiunta da un arricchimento personale, interiore. Non a caso, lo slogan di Carlo De Martino era proprio “formare i giornalisti di domani”. Argomentazioni che hanno trovato il consenso di Ruggero Eugeni, intervenuto in rappresentanza della Cattolica: “La nostra scuola – ha detto – cerca di coniugare la fedeltà al progetto culturale della Chiesa con la sua natura di bottega redazionale”. Mentre Angelo Agostini, direttore del master in giornalismo allo Iulm, ha sottolineato la “vocazione sperimentale” della più giovane tra le scuole di giornalismo milanesi. di Emanuele Buzzi e Daniele Lorenzetti Milano, 29 gennaio 2005. Raccontare la verità, anche quando essa ci sfugge o non piace, raccontare la verità anche se si è circondati da retaggi di ipocrisia e scelte di comodo: questo dovrebbe essere il lavoro del giornalista. Non un imperativo categorico, ma un assioma che a volte viene trascurato o dimenticato. Sono passati i tempi in cui Balzac sosteneva che “se la stampa non esistesse, bisognerebbe non inventarla, ma ormai c’è e noi ci viviamo”: oggigiorno l’informazione è una necessità, una necessità su cui riflettere. Lo ha fatto con gli allievi e i docenti delle scuole di giornalismo di Milano – Istituto Carlo De Martino, Cattolica e Iulm – il cardinale e arcivescovo Dionigi Tettamanzi. L’incontro, organizzato in occasione della festa del patrono dei giornalisti san Francesco di Sales e dedicato a “passione e coraggio della verità”, si è tenuto al seminario arcivescovile di Milano. La “lectio” del cardinale La lezione dell’Arcivescovo Saluto ciascuno di voi con viva cordialità. E vi ringrazio perché avete accolto l’invito a questo incontro, in occasione della festa di san Francesco di Sales, patrono dei giornalisti. In particolare saluto gli studenti e i docenti delle tre scuole di giornalismo presenti a Milano. Sono grato ai direttori e ai loro rappresentanti per avermi delineato, sia pure brevemente, la fisionomia, le caratteristiche e le finalità delle singole scuole. Ho potuto così cogliere come le vostre scuole non si limitano ad una istruzione giornalistica di carattere tecnico, cioè – potremmo dire – non si limitano ad insegnare a “fare” i giornalisti, ma si impegnano anche e soprattutto a far nascere e crescere negli studenti il senso di responsabilità di “essere” giornalisti. Mi pare, questo, un tratto importante, anzi decisivo di una valida e seria scuola di giornalismo. Sono convinto che per “fare” il giornalista sia del tutto necessario “essere” giornalista! Secondo l’antica massima: agere sequitur esse. Questa mia conversazione familiare desidera avere, come primi e privilegiati interlocutori, voi studenti e docenti delle scuole milanesi di giornalismo. Amo però pensare che le riflessioni che condivido con voi possano essere di qualche interesse e utilità anche per chi, ormai da tempo, esercita la professione di operatore dei media. Francesco di Sales: un giornalista esemplare anche per il nostro tempo A mo’ di introduzione, non posso tralasciare di spendere una parola sul santo di cui in questi giorni la Chiesa ha fatto memoria. È Francesco di Sales, vescovo di Ginevra, che nel 1923 è stato proclamato patrono dei giornalisti e degli scrittori per una evidente “affinità” del santo con queste categorie di persone. Anch’egli, infatti, ha coltivato l’arte del giornalismo e della stampa. L’ha fatto come era possibile ai suoi tempi: siamo negli anni del millecinque-seicento (è morto, a 56 anni, nel 1622); e l’ha fatto attraverso una fittissima corrispondenza e una serie di lettere ai fedeli della sua diocesi, lettere che poi diventavano fogli stampati e largamente diffusi. Nella sua opera “giornalistica” – se così possiamo esprimerci – ci sono dei tratti di particolare interesse. Così la sua 4 La “lectio” del cardinale è stata preceduta da una breve introduzione dei rappresentanti delle tre scuole. È stato proprio Gigi Speroni, Più che «fare» i giornalisti, bisogna «essere»... “Più che «fare» i giornalisti, bisogna «essere» giornalisti” – ha fatto eco Tettamanzi: se comunicare vuol dire donare qualcosa di noi agli altri, “nel vostro caso significa contribuire a far crescere la comprensione della realtà in cui si vive”. Insomma, bisogna essere obiettivi, senza per questo dirsi neutrali. Anzi. Proprio il fatto di essere al servizio dell’uomo, di essere un mezzo per comprendere “Per essere giornalisti auten singolare capacità di armonizzare la limpidità e il vigore dell’annuncio della verità con la bontà e la soavità del suo animo: una linea, questa, da attribuirsi non solo al suo temperamento, ma anche alla disciplina da lui continuamente coltivata e dimostrata soprattutto nei dibattiti e nelle contese con i protestanti del suo tempo. Così ancora il suo desiderio di arrivare a tutti e la sua capacità effettiva di raggiungere il più largo numero di persone, come pure l’impegno a diffondere “il messaggio” evangelico e umano anche nelle situazioni più complesse e difficili. Era estremamente abile nell’esprimersi in modo chiaro, così da essere compreso da tutti. E, infine, la sua ferma determinazione a servire la verità con passione e con coraggio. Questi e altri motivi hanno indotto il papa Pio XI a proclamare san Francesco di Sales quale patrono dei giornalisti e, in tal modo, a proporlo agli operatori della comunicazione sociale come esempio e aiuto. Ed è proprio pensando alla figura e all’azione di questo santo che ho scelto come argomento della nostra riflessione e del nostro dialogo un argomento, forse arduo ma assolutamente essenziale per il vostro “essere” giornalisti: la passione e il coraggio della verità. Il bene primario della comunicazione e la verità Penso che il punto di partenza della nostra riflessione debba essere la consapevolezza che l’informazione-comunicazione è per tutti noi un bene primario: per le singole persone e per l’intera società. Vorrei citare un documento della Conferenza episcopale italiana, che offre gli orientamenti pastorali per questo primo decennio del 2000, dal titolo Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia. Al numero 39 leggo: “La possibilità di comunicare in modo nuovo e diffuso è un bene di tutta l’umanità e come tale va promosso e tutelato. Quanto più potenti sono i mezzi di comunicazione tanto più deve essere forte la coscienza etica di chi in essi opera e di che ne usufruisce. È necessario pertanto che la comunicazione sociale non sia considerata solo in termini economici o di potere, ma resti e si sviluppi nel quadro dei beni di primaria importanza per il futuro dell’umanità”. Ma perché l’informazione-comunicazione è un bene primario per tutti noi? Perché l’essere informati significa esprimere e vivere una dimensione essenziale della persona: la dimensione della relazionalità. Certo la persona è persona per la sua “razionalità”, ma non meno per la sua “relazionalità”, ossia per la sua capacità e realtà di entrare in rapporto con gli altri e con l’intera realtà. Ora i media, come efficacemente è stato scritto, sono “il biglietto di ingresso di ogni uomo e di ogni donna alla moderna piazza di mercato dove si esprimono pubblicamente i pensieri, dove si scambiano le idee, vengono fatte circolare le notizie e vengono trasmesse e ricevute le informazioni di ogni genere” (Giovanni Paolo II, Messaggio per la 26° Giornata mondiale delle comunicazioni sociali, 1992). Proprio così: è con l’informazione che noi entriamo in relazione con i più diversi fatti ed eventi che accadono; con i pensieri, i progetti, i sentimenti, le scelte e le azioni, in una parola con la vita degli altri; con le situazioni economiche, sociali, politiche del momento storico che stiamo vivendo; con le diverse culture che alimentano, mediante il dialogo o lo scontro, le interpretazioni e le decisioni in atto tra le persone, i gruppi, i popoli. E tutto questo incrociarsi di informazioni che rendono così viva e vivace quella che abbiamo ora chiamata “la moderna piazza di mercato” diviene una “provocazione”, un’occasione – cercata o, comunque, data – che chiede di essere assunta responsabilmente, un appello cioè a partecipare attivamente – in rapporto alle proprie risorse e nei propri ambienti di vita – ai processi che orientano e ultimamente decidono i percorsi della cultura, della convivenza civile, della politica, della storia. In questo senso, l’informazione deve dirsi un bisogno, al quale non si può rinunciare, analogamente al cibo d’ogni giorno. Ma come è necessario che il cibo da noi assunto quotidianamente sia buono, non ci faccia male, anzi ci dia l’energia indispensabile per svolgere il nostro lavoro e tutte le altre nostre attività, così è necessario che l’informazione che riceviamo e che offriamo sia buona, ci permetta cioè di possedere tutti gli elementi corretti necessari per conoscere e per capire la realtà in cui viviamo, in ordine poi a divenire protagonisti responsabili della crescita umana integrale di ciascuno di noi e di noi tutti insieme. Questo significa che la comunicazione non può avere altro obiettivo che quello di servire l’uomo e di contribuire, in ORDINE 3 2005 MILANO (CON I LORO DIRETTORI) Milano, 29 gennaio 2005. A tu per tu con il lato oscuro della notizia, con le insidie della spettacolarizzazione e del pressappochismo, malattia ricorrente del giornalismo. È stato un incontro senza convenevoli, quello con l’arcivescovo di Milano. Che ha mirato dritto al cuore del problema. Il cardinale Tettamanzi non si è accontentato di una semplice lezione, ma ha voluto rispondere a viso aperto alle domande dei cronisti e degli studenti presenti al Seminario Arcivescovile, in omaggio a un principio (e un consiglio) da tenere stretto: “Un buon comunicatore è chi sa prima di tutto ascoltare attentamente”. Spazio al microfono, dunque, per un botta e risposta con l’uditorio sullo stato di salute del mestiere. Chiede Alberto Comuzzi, presidente dall’Unione cattolica della stampa italiana: “L’arcivescovo di Milano è soddisfatto di come la comunità dei credenti viene raffigurata nella grande stampa?” Da Tettamanzi nessuna concessione alla polemica o alle lamentele, ma parole chiare sì: “Un certo grado di semplificazione è inevitabile – è la riflessione dell’arcivescovo – talora tuttavia diventa voluta. Basti pensare alla catalogazione dei vescovi per tendenza politiche. Si dice: “Un buon comunicatore è chi sa prima di tutto ascoltare attentamente” questo è di destra, quello di sinistra… Questi schemi sono già inadeguati nelle organizzazioni umane, e a maggior ragione lo sono per una realtà spirituale come la Chiesa!”. Certo, i principi dell’etica sono ardui da rispettare nel lavoro quotidiano, quando la pressione dei capi si fa spasmodica e la coscienza vacilla. Tanto più in una realtà editoriale dove il potere, come ha sottolineato l’inviato di Repubblica, Carlo Brambilla, è concentrato nelle mani di pochi. “Cosa fare quando non si può far bene? Dire di no al direttore?” si è chiesta a nome di tanti una cronista in sala. “Non voglio cercare un alibi – ha replicato Tettamanzi – ma il compito di applicare questi criteri alle situazioni concrete spetta a ciascuno di voi. La risposta forse si può trovare meglio facendosi forza in gruppo”. Inevitabile poi un cenno all’attualità più stretta, quando un praticante dello Iulm, Martino Cello, ha allargato la discussione a un tema scottante, alla vigilia dei referendum sulla procreazione assistita: “Con quali criteri giudicare la comunicazione nel campo della bioetica?”. “Mi dà fastidio questa immediata e costante contrapposizione tra laici e cattolici – ha risposto Tettamanzi – quando l’argo- mento che si dibatte è essenzialmente umano. Ci sono tante bioetiche e tutte dipendono dalla concezione che uno ha dell’uomo”. Già, la questione antropologica. Chiedetevi chi è l’uomo e avrete la risposta, suggerisce Tettamanzi. E per farlo non serve necessariamente la fede, “poiché è la stessa ragione – soggiunge con forza suggestiva – a porsi sulla soglia del mistero”. Il sasso, insomma, è lanciato: non è detto che basti per trovare un accordo sui valori, ma certo è un bel viatico per una discussione aperta e civile. e.b. d.l. della chiacchiera e del pettegolezzo” ciò che ci circonda, rende necessarie le opinioni, perché “il giornalista non può limitarsi ad essere un burocrate della comunicazione”. Ecco allora che ci si trova di fronte un terreno ostico, dove è facile scivolare, cadere nella spettacolarizzazione della notizia o in una pericolosa sovrapposizione tra il proprio pensiero e la verità dei fatti. Bisogna quindi sapere distinguere la verità dall’opinione, sapersi mettere al servizio degli altri. Tettamanzi traccia la linea di confine su cui orientarsi, una linea sottile, fondata sull’etica: “La verità, nel nostro caso, altro non è che l’uomo stesso. Sì, l’uomo stesso, ma l’uomo quale è nella sua struttura essenziale, nei suoi dinamismi più profondi e nelle sue intrinseche finalità: ossia l’uomo come essere intelligente e libero, chiamato ad essere «con» e a vivere «per» gli altri”. ... è facile In un mondo dominato dalle frivolezze è facicadere le, tuttavia, cadere in tentazione. Tettamanzi in tentazione si scaglia contro quel tipo di giornalismo che produce solo “la moltiplicazione della chiacchiera e del pettegolezzo, la ricerca ossessiva dello scoop, la tendenza a omologare tutto e a sostituire ciò che è rilevante e utile con ciò che è pura e vuota curiosità”, un giornali- smo “destinato a creare emozioni più che ad aiutare le persone a pensare, a capire, a discernere”. È una presa d’atto sicura, decisa, schietta, anche se i toni sono paterni e affabili. Una sirena d’allarme contro i rischi che si affacciano numerosi in una professione che vive a stretto contatto con interessi politico-economici. Non bisogna cedere alle lusinghe, né “rassegnarsi di fronte a un sistema troppo grande e potente”, né “ricercare cinicamente il successo personale e la carriera con qualunque mezzo e ad ogni costo”. Asservirsi al sistema economico e commerciale “fino a diventarne per molti spetti dipendenti” equivale all’annullamento della dimensione etica e umana del giornalista. ... il detto latino “agere sequitur esse” In sala i giovani sono attentissimi, c’è chi prende appunti e chi annuisce. Tettamanzi ricorda il detto latino “agere sequitur esse”, ciò che facciamo, ciò che siamo è sempre una conseguenza di ciò che siamo. In fondo, voler comunicare, fornire cibo per la mente, è una “vocazione”, che va incoraggiata e accresciuta, ricordandoci che il nostro fine e il centro della nostra attività sono “le persone concrete”. È necessario, quindi, “coltivare dentro di sé i valori che sono a fondamento della propria umanità e dell’umanità degli altri”. È un messaggio di speranza, una speranza tangibile, concreta che sembra trasparire dallo sguardo del cardinale, un plauso “ad esercitare una vigilante funzione critica”, essendo consci che non sarà semplice farlo. Etica e umanità sono parole che risuonano dure anche a chi dovrebbe averle nel proprio Dna come patrimonio, sono valori offuscati dalla realtà contemporanea, concetti che richiedono, appunto, “coraggio e passione”. ... esorta a non piegarsi di fronte alle difficoltà... Tettamanzi esorta a non piegarsi di fronte alle difficoltà e ricorda le parole di Giovanni Battista Montini in un incontro nella tipografia del quotidiano L’Italia di 50 anni fa: oggi come allora è fondamentale “avere la carità della verità. Bisogna amare quelli a cui si rivolge la parola; amare nel dono, nell’offerta di qualche cosa di vero”. Un suggerimento che trova eco nelle coscienze di chi in sala applaude e si avvia, cappotto sulle spalle, verso un futuro pieno di incognite. Fuori il freddo punge le ossa e scava in profondità, così come l’appello del cardinale penetra negli animi di chi vuole affrontare con passione, coraggio, dignità e verità il proprio domani. tici la passione e il coraggio della verità” misura non certo piccola ma determinante, a creare le condizioni perché l’uomo diventi sempre più uomo, ossia sempre più maturo nella coscienza della sua dignità personale e sempre più responsabile nell’uso della sua libertà: ORDINE 3 2005 una libertà che, per essere veramente e pienamente umana, comporta in definitiva che l’uomo viva come essere “con” gli altri, anzi come essere “per” gli altri. In altri termini, una libertà che coincide con la responsabilità stessa come dono di sé agli altri, e dunque apertura a tutti, comunione e solidarietà con tutti, “compassione” – nel senso più nobile della parola – e “servizio” nel senso più esaltante e impegnativo del termine. Ora la consapevolezza di questo obiettivo – servire l’uomo perché diventi sempre più uomo – ha come suo primo sbocco l’impegno a non gettare nel mucchio qualsiasi comunicazione, più radicalmente a non confondere la verità con qualsiasi opinione, bensì a riconoscere e onorare i valori della verità e del bene, e dunque del rispetto della dignità personale di tutti e di ciascuno, come valori costitutivi del proprio essere operatori della comunicazione sociale. Da quanto abbiamo detto risulta che la questione della verità è centrale e decisiva per una comunicazione umana e umanizzante, ossia posta al servizio dell’uomo. C’è solo – ma è un punto capitale, questo – da non pensare in modo astratto la verità, come qualcosa di lontano o di estraneo alla nostra vita, ma da pensare in modo concreto, concretissimo: la verità, nel nostro caso, altro non è che l’uomo stesso. Sì, l’uomo stesso, ma l’uomo quale è nella sua struttura essenziale, nei suoi dinamismi più profondi e nelle sue intrinseche finalità: ossia l’uomo come essere intelligente e libero, chiamato ad essere “con” e a vivere “per” gli altri. In questo senso si può e si deve distinguere tra verità e opinione. Penso che la nostra riflessione e la nostra stessa esperienza di vita ci fanno sottoscrivere quanto dice il recente Direttorio della Cei Comunicazione e missione: “Se il rapporto con l’altro si riduce al semplice sovrapporsi di pareri e sensazioni individuali, la relazione sarà il luogo non della ricerca della verità, ma del confronto-scontro delle opinioni o peggio ancora della prevaricazione e della manipolazione. Alla ricerca della verità si sostituisce un percorso ambiguo e strumentale che conduce a una sorta di ‘moltiplicazione delle verità’ o ad un azzeramento del riferimento alla verità. Ne sortiranno visioni del mondo e della vita legate sempre più a opinioni e sondaggi, del tutto relativi o imposti a colpi di maggioranza. Così la verità rischia di finire confinata nell’ambito della coscienza individuale e di essere esclusa dall’arena sociale e politica” (n. 22). L’attuale sistema della comunicazione mediatica e la tensione etica Nel contesto socio-culturale ora detto, diventano inevitabili alcuni interrogativi: il sistema della comunicazione mediatica, così come oggi è organizzata, ci aiuta o ci ostacola nel coltivare la passione e il coraggio della verità? Fino a che punto si può essere condizionati da un sistema che è in perenne movimento, che si configura come sempre più frenetico, che consuma in pochissimo tempo quanto produce, che accende ed alimenta l’ansia spasmodica di dare la notizia per primi, perché la prima notizia è comunque sempre quella vincente? All’immagine popolare – e per certi versi romantica – del giornalista che viaggia, che fotografa, osserva, si informa, conosce, verifica, riflette e poi – finalmente – comunica i risultati della sua paziente e laboriosa ricerca, si è sostituita quella dello stare in redazione, legati ad una sedia davanti al monitor, a leggere e a “cucinare” notizie di agenzia, a vedere cosa succede alla televisione, diventata ormai sempre più il luogo dove vengono “dettati” gli argomenti da comunicare e da sottolineare. Come sappiamo, questa trasformazione è la conseguenza dello straordinario sviluppo tecnologico, che ha creato e incessantemente crea nuovi e sempre più veloci sistemi di comunicazione e, insieme, ha realizzato e continua a realizzare strumenti mediatici sempre più potenti e ovunque diffusi. Noi non siamo né ottimisti né pessimisti a priori e ad oltranza. Siamo, semplicemente, realisti. Ora, da una parte, questo sviluppo rappresenta una grande opportunità e i nuovi mezzi costituiscono una preziosa risorsa: permettono, tra l’altro, di allargare la cerchia delle conoscenze, di favorire l’incontro e il dialogo con persone lontane o lontanissime e dalle più diverse culture, di sviluppare la consapevolezza di una interdipendenza che lega uomini e popoli. Ma, dall’altra parte, questo stesso sviluppo e questi stessi nuovi mezzi presentano non pochi rischi e possono aprire derive problematiche. E non è mistero per nessuno che simili rischi e derive problesegue 5 Il cardinale ha incontrato il 29 gennaio gli allievi praticanti delle tre scuole di giornalismo di Milano (con i loro direttori) Tettamanzi: “No alla moltiplicazione della chiacchiera e del pettegolezzo” “Per essere giornalisti autentici la passione e il coraggio della verità” matiche si fanno particolarmente evidenti e inquietanti quando le tecnologie e i processi di comunicazione sociale si collegano sempre di più con il sistema economico e commerciale, fino a diventarne per molti aspetti dipendenti. Al riguardo leggo nel citato Direttorio della Cei: “Il vorticoso aumento degli investimenti e degli introiti conduce alla creazione di gruppi oligopolistici, con il rischio che condizionino la visione e l’interpretazione della realtà, proponendo modelli distorti dell’esistenza umana, della famiglia e della società” (n. 8). Davanti a questa deriva è possibile e di fatto si dà una perdita di tensione etica: una perdita che in non pochi casi risulta essere, più propriamente, una cancellazione dei valori e delle esigenze etiche, cioè umane. È in riferimento ai media sempre più sofisticati, ma anche sottoposti a pressioni economiche e politiche, che il Direttorio Cei già citato scrive: “Così la questione etica si fa sempre più attuale e sentita. Non si tratta solo di vincolare i media a regole che tutelino in particolare i soggetti meno garantiti e le categorie più marginali. In agguato sono nuove e pesanti forme di alienazione, che possono condurre alla reificazione dell’uomo, ossia alla riduzione della persona a cosa, a oggetto, a merce. Occorre stabilire regole precise per l’uso degli strumenti e più ancora per definirne le responsabilità sociali. L’etica si erige pertanto a via per l’umanizzazione di processi altrimenti destinati a provocare conseguenze fortemente negative, sul piano personale, relazionale e sciale” (n. 87). Il rischio della perdita di tensione etica diventa per i giornalisti una vera e propria sfida etica che devono saper affrontare. Nessuno è esente dalle tentazioni. E nel campo dei media le tentazioni sono, tra le altre, quella di rassegnarsi di fronte a un sistema troppo grande e potente e quella di ricercare cinicamente il successo personale e la carriera con qualunque mezzo e ad ogni costo, in particolare asservendosi al sistema che appare vincente perché più ricco. Le conseguenze della perdita della tensione etica sono numerose e diverse. Mi limito a segnalare soltanto quella che sembra la più evidente, cioè l’assecondare o il cedere totalmente alla spettacolarizzazione dei media. Questi, allora, più che comunicare per informare, producono lo “spettacolo” della comunicazione con l’obiettivo di vendere e di guadagnare sempre più. Da qui la moltiplicazione della chiacchiera e del pettegolezzo, la ricerca ossessiva dello scoop, la tendenza a omologare tutto e a sostituire ciò che è rilevante e utile con ciò che è pura e vuota curiosità. Da qui, ancora, un linguaggio forzato, destinato a creare emozioni più che ad aiutare le persone a pensare, a capire, a discernere. Da qui, infine, il moltiplicarsi inarrestabile di parole, di suoni, di immagini che rendono difficilissimi, se non quasi impossibili, un ascolto attento e una comprensione razionale del tema trattato, salvo poi archiviarlo in un attimo come se non esistesse più, per passare allegramente ad altro. Le persone come vere protagoniste dei media Certamente il sistema della comunicazione sociale, nel quale opererete o già operate, si presenta oggi particolarmente difficile. Tuttavia bisogna riconoscere che i veri protagonisti sono, e devono continuare ad essere, le persone concrete, i comunicatori appunto; così come bisogna riconoscere che la qualità “vera” e “buona” della comunicazione dipende sempre dalle persone. “I mezzi di comunicazione sociale non fanno nulla da soli. Sono strumenti, mezzi utilizzati nel modo in cui le persone scelgono di utilizzarli” (Etica nelle comunicazioni sociali, 4). Ci troviamo in un sistema che non si è costituito da sé, ma che, comunque, è in larga parte il risultato di concrete azioni umane, cioè di scelte libere operate da esseri pensanti, che si pongono precisi obiettivi e che attivamente li perseguono. Per questo, come in ogni altro settore, anche nell’ambito dei media occorre operare a partire da un progetto di “vita buona, un progetto cioè che si basa sulla “verità dell’uomo”, o meglio sulla “verità che è l’uomo stesso”. Un progetto che mette a fondamento quei valori e quelle esigenze che sono scolpiti indelebilmente dentro la struttura dinamica e finalistica dell’uomo, che definiscono il contenuto della inviolabile dignità personale propria e altrui, che costituiscono l’ispirazione di senso delle proprie scelte e delle proprie azioni. Prima ancora, dunque, di ricercare e di individuare i criteri per applicare la dimensione etica all’esercizio della professione; prima ancora di elaborare dei codici deontologici per gli operatori dei media, è necessario coltivare dentro di sé i valori che sono a fondamento della propria umanità e dell’umanità di tutti gli altri. E questo significa, certamente, allargare gli spazi del proprio 6 crescere in umanità; significa coltivare una interiorità e, oserei dire, una spiritualità che ci spinga alla ricerca della verità come insopprimibile aspirazione e, insieme, come prima obbligazione del nostro essere uomini. Tutti gli uomini, dunque, sono chiamati a questa cura della interiorità, perché tutti sono chiamati alla ricerca della verità. Sono una cura e una ricerca assolutamente indispensabili affinché il nostro agire non sia in balia del caos o del caso, ma sia l’espressione coerente del nostro essere intelligente e libero. Una simile cura e ricerca sono tanto più necessarie quanto più l’esercizio della propria attività professionale avviene in un ambito di forte responsabilità per le conseguenze derivanti dalle proprie scelte e azioni e per la particolare complessità dovuta all’intrecciarsi di interessi diversi. In questo senso, sono convinto che un operatore dei media che non vuole essere asservito o schiacciato da un sistema complesso, potente e pieno di insidie come quello della comunicazione sociale, deve fortemente coltivare la propria personalità morale e spirituale, deve continuamente far crescere la propria umanità nell’esercizio quotidiano delle sue responsabilità e dei suoi doveri, deve ricercare ciò che è vero, giusto, buono, bello. In fondo, buon giornalista può essere chi, anzitutto, è uomo maturo, interiormente ricco, equilibrato e colto. Del resto la vostra, per sua natura, è una professione che non può non coinvolgere la totalità – più precisamente la “totalità unificata” – della persona. Voi non offrite semplicemente una penna: voi offrite la vostra intelligenza. Non mettete a disposizione semplicemente qualche cosa di voi: mettete a disposizione i vostri pensieri, le vostre emozioni, il vostro modo di vedere e di interpretare la realtà. Si potrebbe dire che quella del giornalista, prima di essere una professione tra le altre, è una vera “vocazione”, cioè un mettere a disposizione se stessi per il bene degli altri, dove l’interesse principale è contribuire a far crescere la retta comprensione della realtà in cui si vive, come passo necessario per vivere poi una vera libertà nelle scelte e nei comportamenti dell’esistenza quotidiana. La passione e il coraggio della verità sono parte essenziale della crescita integrale della persona: sono, dunque, da coltivarsi da tutti noi, anzitutto in noi stessi. Frutti ed esigenze della passione per la verità Non è difficile, a questo punto, avvertire che cosa di bello e di entusiasmante può derivare al giornalista quando, nell’esercizio della sua professione, è animato da una interiore passione per la verità. Ne deriva, anzitutto, un concreto impegno per la “obiettività”. “Parlare di obiettività non significa pensare che il compito del giornalista sia quello di scrivere in modo assolutamente e radicalmente neutrale rispetto a qualsiasi asse di valori, come invece la formulazione letterale di alcuni codici deontologici porterebbe a pensare”. Il giornalista è sempre un mediatore che sceglie, seleziona, sottolinea secondo il suo punto di vista. Ma finalizza questa sua attività a nessun altro interesse che non sia il vero bene degli altri. Suo obiettivo ultimo da perseguire è cercare di far diventare migliore l’uomo, cioè più maturo spiritualmente, più cosciente della sua eccelsa dignità personale, più libero e responsabile, più giusto e più solidale. Il comunicare non può ridursi a una vuota formalità. Deve partire dalla percezione di un bene, almeno dalla convinzione che è un bene divulgare una certa notizia in un determinato modo, e che non può non fare riferimento ai valori di cui si è convinti. La correttezza dell’informazione non è, quindi, data da un’asettica neutralità – cosa peraltro impossibile –, ma dalla trasparenza del proprio punto di vista e dalla prospettiva a partire dalla quale si seleziona e si trasmette la notizia. In secondo luogo, ne deriva l’impegno ad esercitare una vigilante funzione critica in vista del vero bene delle persone cui ci si rivolge. La vigilanza critica rappresenta un’essenziale esigenza dell’etica, chiamata a riconoscere, a rispettare e a promuovere la verità e il bene. Di nuovo vorrei citare il Direttorio della Cei, là dove scrive: “Gli operatori dei media possono a volte servirsi del loro potere per personalizzare indebitamente la comunicazione, sostituendosi al messaggio. Tale deriva può determinare una certa dipendenza dell’utente, la cui autonomia di giudizio e di scelta può essere compromessa. ‘Per questo è dovere di coscienza per tutti i comunicatori […] procurarsi una seria competenza in materia; dovere tanto più grave quanto più grande è l’influenza del comunicare, per motivo del suo ufficio, sulla qualità della comunicazione’ (Communio et progressio 15). Le buone intenzioni non garantiscono di per sé una buona informazione; le notizie vanno date con competenza professionale, nel rispetto pieno e profondo della verità. Questo accade spesso, soprattutto in riferimento allo stesso fondamentale diritto alla vita, per il quale ‘la coscienza morale, sia individuale che sociale, è oggi sottoposta, anche per l’influsso invadente di molti strumenti della comunicazione sociale, a un pericolo gravissimo e mortale: quello della confusione tra il bene e il male’ (Evangelium vitae, 24)” (n. 88). Il giornalista non può limitarsi ad essere un burocrate della comunicazione. Sì, va bene discutere paritariamente nei media; ma a patto che ciò avvenga nel rispetto di chi legge o ascolta: questi non è certamente aiutato quando, per esempio, deve assistere non a dibattiti pacati e istruttivi ma a litigi confusi e nient’affatto dignitosi. Infine, ne deriva lo stimolo ad una presenza nell’ambiente dei media e ad un esercizio della professione che assumano i contorni della testimonianza. Ciò significa un impegno quotidiano che tenga presenti nel lavoro tutto l’orizzonte dei valori e i riflessi che le nostre scelte hanno sui singoli e sulla società, e non soltanto una correttezza immediata, asettica e formale nel seguire le procedure che i codici impongono come limiti. È proprio in questa linea della testimonianza che ho volutamente usato i termini di “passione” e di “coraggio” della verità. Infatti, sono termini coinvolgenti, termini che lasciano trasparire la non rassegnazione e la disponibilità concreta a pagare di persona, perché la coerenza con la propria dignità e il rispetto e l’onore – anzi la venerazione – dovuti all’eguale dignità delle persone cui ci si rivolge non hanno prezzo. Conclusione: la carità della verità Desidero concludere con una specie di esortazione, nel segno di una grande speranza che ripongo in tutti voi e di un sincero affetto che nutro per voi. Sono sicuro che volete impegnarvi seriamente nella professione giornalistica, che volete non solo “fare” i giornalisti ma “essere” giornalisti. Per questo sento di dovervi chiedere di nutrire un’autentica passione per la verità e di avere un instancabile coraggio di ricercarla e di perseguirla, anzitutto in voi stessi. Di conseguenza, dovete sentirvi impegnati a diventare sempre più attenti ascoltatori e sottili osservatori delle persone e dei fatti. Il buon comunicatore sa, per prima cosa, ascoltare attentamente. E sa vedere e scrutare, anche di là dall’immagine che immediatamente si propone. L’esercizio della vostra professione potrà apparirvi oggi meno creativa, perché più dipendente dalla tecnica. Ma sta proprio qui il vostro protagonismo: tocca a voi dar vita ad un esercizio della professione che sia ripieno di autentica umanità; dipende da voi imprimere solchi e tracce di voi stessi – della vostra umanità - nel vostro lavoro e nella vostra fatica quotidiana. Più che l’esattezza matematica dei dettagli, fate trasparire la vostra volontà comunicativa, e la vostra intelligenza più che la diligenza meccanica. Chi legge o chi ascolta si accorge subito se il comunicatore è coinvolto con la sua “passione”, oppure se opera solo per “dovere” o addirittura per una “necessità” cui non può sottrarsi. Un’ultima citazione – è storica, e come tale può suscitare l’interesse dei giornalisti – la prendo da un discorso rivolto ai giornalisti, durante la messa in occasione della festa di san Francesco di Sales celebrata a mezzanotte nella tipografica del quotidiano L’Italia, dall’allora arcivescovo di Milano monsignor Giovanni Battista Montini, dopo pochi giorni dal suo ingresso nella nostra città. Così diceva il 31 gennaio 1955: “Cerchiamo di dare alla professione, non già una semplice caratteristica direi tecnica, puramente improntata alla fretta, alla genialità, alla curiosità, alla attualità, ma siamo dei finalisti, cioè della gente che pensa dove arrivano le parole, che effetto hanno, che cosa producono. E allora il messaggio di san Francesco di Sales non sarà inutile a noi. Egli insegna che bisogna avere soprattutto la carità della verità. Bisogna amare quelli a cui si rivolge la parola; amare nel dono, nell’offerta di qualche cosa di vero; vero perché si è sentito, vero perché si è studiato”. E ancora: “San Francesco di Sales dice in altre sue pagine che bisogna conoscere assai le cose prima di scrivere. E non so se questa sia norma di tutti i giornalisti. Ma in ogni caso diciamo che tutta questa onestà di pensiero e di parola deve essere sempre presente al nostro spirito nell’esercizio della nostra sublime professione di diffusori di notizie e di idee; soprattutto ci deve premere di fare sempre del bene ai nostri concittadini”. + Dionigi card. Tettamanzi ORDINE 3 2005 Nuova condanna per l’editore Caltagirone Lo ha stabilito il giudice del tribunale del lavoro “Quotidiano”: il giudice ordina Tribunale di Roma alla Rai: “Santoro torni al suo posto” il reintegro di Roberto Guido Lecce, 28 gennaio 2005. È “inefficace” il licenziamento di Roberto Guido, vicepresidente vicario dell’Assostampa di Puglia, il sindacato dei giornalisti, reintegrato nel suo posto di lavoro al Nuovo Quotidiano di Puglia. Lo ha stabilito il Tribunale di Lecce (giudice del lavoro Silvana Botrugno) con una sentenza che ha disposto “l’immediato reintegro del ricorrente nel posto di lavoro occupato al momento del licenziamento”, condannando altresì la società Alfa editoriale (del gruppo Caltagirone) al risarcimento del danno con il pagamento dell’intera retribuzione dal momento del licenziamento ad oggi e alla regolarizzazione della posizione assicurativa e previdenziale. Il licenziamento, datato 7 marzo 2002, fu adottato con strumentali e infondati pretesti nei confronti di Guido, “colpevole” soltanto di aver preteso fin dal ‘98 (insieme ad altri nove giornalisti) di essere regolarmente reintegrato in servizio, nel suo posto di lavoro, secondo quanto disposto dalla magistratura fin dal dicembre ‘98 (ordine di reintegro confermato dalla Corte d’appello-Sezione Lavoro proprio alcuni giorni fa). Guido si è scontrato con l’ingiustificabile ostinazione dell’editore Caltagirone a non voler applicare le sentenze della magistratura, con il conseguente atteggiamento vessatorio. La vertenza ha origine nell’anomala vendita della Stampa specializzata: 150 milioni di copie distribuite in un anno testata con la parallela ristrutturazione selvaggia di Quotidiano che prevedeva l’espulsione di otto professionisti dalla redazione con la liquidazione di ogni esperienza sindacale. “Questa sentenza”, afferma Felice Salvati, presidente dell’Assostampa di Puglia, “indica senza ombra di dubbio come il collega Roberto Guido sia stato ingiustamente licenziato da un editore che ha tentato in tutti i modi di sbarazzarsi del sindacato, usando fin dal ‘98 l’arma della contrattazione individuale per dividere e dominare la redazione con l’obiettivo di eludere e depotenziare disinvoltamente lo stesso contratto collettivo”. “Nell’attesa di conoscere le motivazioni della sentenza”, aggiunge Salvati, “il reintegro ristabilisce un quadro di legalità e di rispetto delle regole che può aprire la strada ad un sereno e corretto confronto sindacale, archiviando una volta per tutte quella pagina nera del giornalismo pugliese in cui si è consumata una catena di vessazioni verso quei colleghi che hanno sempre messo al primo posto i principi di solidarietà e di autonomia, gli unici in grado di garantire ai cittadini un sistema dell’informazione maturo e indipendente”. Roberto Guido è patrocinato in giudizio dagli avvocati Domenico D’Amati del Foro di Roma, Giuseppe Giordano del Foro di Brindisi e Nicola De Pietro del Foro di Lecce. Milano, 1 febbraio 2005. Sono 150 milioni (60% del totale dei fascicoli prodotti) le copie della stampa specializzata, tecnica e professionale, distribuita via posta in un anno. Il dato emerge dal monitoraggio svolto dall’Associazione nazionale editoria periodica e specializzata (Anes) per misurare il peso dei vari canali di distribuzione delle pubblicazioni associate, in particolare quelle postali. I fascicoli prodotti dagli Associati Anes sono in totale 250 milioni. Il peso medio ponderato per copia è pari a 300 grammi. Tenendo conto della ripartizione territoriale i dati registrati sono i seguenti: Nord Ovest 37,4%, Nord Est 24,5%, Centro 17,5%, Sud 14,3%, Isole 6,2%. La Lombardia ha un’ incidenza sul sistema nazionale del 26%, comportando la distribuzione sul territorio della regione di circa 39 milioni di copie. Segue il Veneto, che pesa per il 10%. Nord Ovest e Nord Est fanno registrare una movimentazione complessiva di 92.899.592 di copie, pari al 62% del totale. A margine dell’esposizione dei dati, Giuseppe Nardella, presidente dell’Anes, ha dichiarato: “La stampa tecnica specializzata si sta sempre più rivelando sia uno strumento di comunicazione privilegiato per la Pmi sia di formazione per le nuove generazioni in procinto di entrare nel mondo del lavoro”. A questo proposito Nardella auspica “una sempre maggiore diffusione di questa tipologia editoriale nella scuola media superiore italiana. Esempi di integrazione tra mondo del lavoro e scuola - conclude il presidente di Anes - sono frequenti nei Paesi europei a noi vicini: in Francia la stampa di questo tipo dal 1970 è largamente diffusa presso le scuole, i centri di formazione, le biblioteche sia pubbliche sia private”. (ANSA) Roma, 26 gennaio 2005. La Rai deve reintegrare Michele Santoro: lo ha stabilito il giudice del tribunale del lavoro di Roma, Billi. Secondo quanto indicato dal giudice nel dispositivo, la Rai è tenuta a reintegrare Santoro nelle funzioni svolte prima dell’interruzione del rapporto e dunque per la conduzione di programmi di approfondimento in prima e/o seconda serata. Secondo il giudice Stefania Billi, Santoro deve essere reintegrato al lavoro «come realizzatore e conduttore di programmi televisivi di approfondimento dell’informazione di attualità di prima serata, di programmi di reportage di seconda serata, in particolare Sciuscià Edizione Straordinaria e Sciuscià, come si legge nel dispositivo della sentenza, cioè nelle mansioni esercitate «fino alla stagione televisiva 2001/2002». La Rai deve anche pagare al giornalista un risarcimento da 1,5 milioni di euro (fra risarcimento del danno, restituzione dei quattro giorni di sospensione dal lavoro nel 2002 e della decurtazione dello stipendio, anche questa dal 2002, con i relativi interessi. L’azienda è tenuta anche a pubblicare il dispositivo della sentenza su Corriere della Convenzione con Alitalia: sconti fino al 30 per cento. Basta la tessera dell’Ordine Sera, Repubblica e Stampa entro dieci giorni dalla pubblicazione e pagare le spese processuali. La vicenda Santoro mette a nudo una realtà “sommersa”. “A inizio 2004, ha dichiarato Roberto Natale segretario dell’Usigrai, le cause intentate dai precari in attesa di assunzione erano circa 60: la stima degli stessi uffici Rai era di una percentuale dell’80% di ‘soccombenza’ per l’azienda, cioè 50 su 60. E sempre secondo le stime aziendali, ciascuna causa persa valeva 250 milioni delle vecchie lire, per un totale di 12 miliardi e mezzo di vecchie lire’’. Inoltre, ha detto ancora Natale, su 30 assunzioni disposte nel 2004, 14, cioè quasi la metà, sono state effettuate su decisione della magistratura, cosa mai capitata prima nella storia dell’azienda’’. Anche sul versante Inpgi, ha aggiunto il segretario della Fnsi Paolo Serventi Longhi, la situazione non migliora: “Si calcola che ammonti a oltre un milione e mezzo di euro la violazione contributiva da parte della Rai, e a oltre 10-15 milioni di euro quella accumulata dall’azienda negli ultimi due o tre anni’’. (ANSA) Roma, 9 febbraio 2005. L’Ordine nazionale dei giornalisti ha stipulato una convenzione con l’Alitalia. L’accordo (validità 2005) riguarda i voli nazionali del Gruppo, escluso il collegamento Roma-Cagliari-Roma. Tutti gli iscritti all’Ordine dei giornalisti (previa esibizione del tesserino rinnovato per l’anno in corso) potranno usufruire delle seguenti condizioni: 1) Sconto del 20 per cento sulla tariffa piena Alitalia per i viaggi di tipo OW (viaggi di sola andata). Tale tariffa è identificabile con il codice BPSN, prenotabile in classe B, con la possibilità di cambio di prenotazione senza pagamento della penale; 2) Sconto del 30 per cento sulla tariffa piena Alitalia per i viaggi di tipo OW (viaggi di sola andata) e per quelli di tipo RT (andata e ritorno). Tali tariffe sono identificabili con i codici MPSOWN e MPSRTN, prenotabili in classe M, con la possibilità di cambio di prenotazione senza pagamento della penale (rimborso non consentito, passaggio alla tariffa economica piena in classe Y). I biglietti a tariffa scontata potranno essere acquistati presso tutte le agenzie di viaggi in Italia e presso le biglietterie sociali Alitalia. Per le prenotazioni sono attivi due numeri “riservati”: 0665648 (per chi telefona da Roma) oppure 848865648 (per chi telefona da fuori Roma). Si può accedere al servizio dal lunedì al venerdì, dalle ore 9.00 alle 19.00. (g.c.) Sesta edizione Il premio Neos-Porsche Italia a Gianni Minà Comunicazione sociale il premio speciale a Toni Capuozzo (Tg5) Milano, 15 febbraio 2005. In occasione della Borsa internazionale del turismo, i giornalisti di Neos hanno premiato Gianni Minà. Partner ufficiale del premio Neos è Porsche Italia. Il premio Neos-Porsche Italia viene assegnato ogni anno (in occasione della Bit, Borsa italiana turismo) a un giornalista che si sia distinto per il suo lavoro, la sua professionalità, la sua integrità nel campo del giornalismo. Il premio ha per tema i viaggi e la conoscenza del mondo. La giuria del premio è composta dal Consiglio direttivo di Neos–giornalisti di viaggio associati. Il Consiglio, presieduto da Massimo Pacifico, è composto da altri sei giornalisti operanti nel settore viaggi. Il premio è giunto quest’anno alla sesta edizione Gianni Minà è stato per quarant’anni uno dei più stimati inviati speciali della Rai, ed ha raccontato, con reportages e inchieste, le realtà sociali e culturali degli Stati Uniti e dell’America Latina. Da ricordare, fra gli altri, Storie del jazz, e Facce piene di pugni (la storia della boxe). Nel 1987 ha realizzato uno storico documentario intervistando per 16 ore il presidente cubano Fidel Castro. Tre anni dopo, nel 1990, lo ha incontrato nuovamente per un approfondimento dopo il tramonto del comunismo. Tra i suoi lavori più famosi: Muhammad Alì, una storia americana; Fidel racconta il Che; Il Che 30 anni dopo; Marcos: “Aqui estamos”, sulla lunga marcia degli insorti zapatisti attraverso il Messico (realizzato in collaborazione con Manuel Vazquez Montalban); Rigoberta Menchù, una donna Maya per la pace; Diego Maradona: “Non sarò mai un uomo comune” e C’era una volta il cinema: Sergio Leone e i suoi Milano, 7 febbraio 2005. Il giornalismo che si occupa degli ultimi, di emarginazione, dei fenomeni economici e sociali che, in sordina, cambiano l’Italia, è stato premiato oggi a Milano. Il riconoscimento, Premio giornalismo per il sociale, assegnato per il terzo anno per iniziativa di Sodalitas, ha voluto ricordare anche Enzo Baldoni e Maria Grazia Cutuli, due giornalisti uccisi che affrontavano il loro lavoro con umanità e professionalità. Tra i 600 articoli inviati, la giuria ha scelto i vincitori divisi per sezione. Per la categoria Stampa e Web è stato premiato Emiliano Fittipaldi (Corriere della Sera) per la serie di inchieste ‘Profondo Italia’, con le quali è stato descritto il fenomeno delle nuove povertà. Per la categoria Radio e Tv il premio è andato a Lorenzo Montersoli (Verissimo/Tg5) per il servizio ‘Neo capolarato a Milano’. Segnalazione speciale a Gabriella Simoni per il servizio trasmesso da Lucignolo-Italia1, ‘San Valentino’. Per la sezione Giovani giornalisti è stata premiata Antonia Casini (Resto del Carlino, Il Giorno, La Nazione), per il servizio sui bambini abbandonati in Italia. Il Premio speciale è andato all’inviato del Tg5 Toni Capuozzo. Prima della consegna dei premi il tema della comunicazione sociale è stato discusso in una tavola rotonda, presieduta dal presidente di Sodalitas Federico Falck, con Paolo Anselmi (Eurisko), Aldo Bonomi (Communitas), Enrico Deaglio (Diario), Xavier Jacobelli (Il Giorno), Cristina Parodi (Verissimo), Dario di Vico (Corriere della Sera) e Don Gianni Zappa (Arcidiocesi Milano). (ANSA) ORDINE 3 2005 film, un documentario dove oltre al regista, intervengono tra gli altri Clint Eastwood, Robert De Niro, Claudia Cardinale ed Ennio Morricone. Nel 1982 Sandro Pertini gli ha consegnato il premio Saint Vincent di giornalismo. Nel 2004 ha vinto il premio Flaiano, il premio Vittorini, e con il filmdocumentario In Viaggio con Che Guevara il festival di Montreal e il Nastro d’argento, il riconoscimento dei critici cinematografici italiani. Attualmente è direttore della rivista trimestrale di geopolitica Latinoamerica e della collana Continente Desaparecido per la casa editrice Sperling & Kupfer. Fra i suoi libri pubblicati in molti paesi del mondo ricordiamo Fidel, Un continente desaparecido, Marcos e l’insurrezione zapatista (con Jaime Avilés), Il Papa e Fidel, e Un mondo migliore è possibile, tutti editi in Italia da Sperling & Kupfer. Neos-giornalisti di viaggio associati è stata fondata nel 1998.L’acronimo si rifà ai quattro punti cardinali, che a loro volta rappresentano simbolicamente il campo d’azione dei soci. Giornalisti di redazione delle più importanti riviste di viaggio italiane e straniere, fotografi e freelance che viaggiano e documentano in maniera professionale le loro esperienze. I giornalisti premiati nelle precedenti edizioni sono stati: 2000: Fosco Maraini, fotografo, scrittore e noto orientalista 2001: Walter Bonatti, giornalista, esploratore e alpinista 2002: Folco Quilici, scrittore, documentarista, fotografo 2003: Ettore Mo, inviato speciale del Corriere della Sera 2004: William L. Allen, direttore National Geographic 7 Assemblea 24 marzo 2005 Professionisti Medaglia d’oro Milano, 15 febbraio 2005. Sono 21 i colleghi (14 professionisti e 7 pubblicisti) che quest’anno compiono i 50 anni di iscrizione negli elenchi dell’Albo. Riceveranno la medaglia d’oro dell’Ordine della Lombardia in occasione dell’assemblea annuale degli iscritti che si terrà giovedì 24 marzo (h 15) al Circolo della Stampa. Ed ecco i loro nomi: PROFESSIONISTI Liana Bortolon, Adone Carapezzi, Giovanni Cesareo, Emilio Fede, Nicolino Fudoli, Mario Lodi, Gualtiero Mantelli, Armando Mariotto, Enrico Morati, Gaetano Neri, Mario Pancera, Andreina Araldi Pinotti, Luigi Pizzinelli. PUBBLICISTI Giancarlo Armuzzi, Ermanno Comizio, Mario Conter, Antonio Dorsa, Emilio Mariano, Alcide Paolini, Pasquale Scardillo. Nel corso dell’assemblea verranno premiati anche i vincitori del “Concorso Tesi di laurea sul giornalismo”. All’ordine del giorno dell’assemblea degli iscritti all’Albo figura l’approvazione del bilancio preventivo 2005 e del conto consuntivo 2004. Ventu EMILIO FEDE «Il bravo giornalista non possiede l’orologio» di Silvia Bernasconi L’appuntamento è al Casinò di Campione d’Italia. Ma al tavolo verde non si avvicina nemmeno. Si dice abbia smesso. “Continuo a essere un giocatore d’azzardo nella vita, nel lavoro, nelle amicizie, in politica”. Emilio Fede sorride. Al suo fianco la statuaria Teodora Rutigliano, sua ultima scoperta televisiva. Elegante, abbronzatissimo dopo le vacanze alle Maldive dove è scampato alla furia dello tsunami – “anche quella è stata questione di fortuna”, precisa – comincia a ripercorrere i suoi cinquanta anni di giornalismo. Una vita. “Nel giornalismo ci sono nato, ragazzino racconta - e non dimentico mai da dove vengo né la fatica fatta per arrivare. Non dimentico quando mi improvvisavo cronista in Sicilia, né i primi anni di lavoro gratuito e di sacrifici. Ci sono voluti cinque anni perché firmassi il mio primo articolo, solo con la sigla naturalmente”. E adesso? “Più di ogni altra cosa mi sento ancora un inviato. Sono soddisfatto, fiero di essere protagonista dell’informazione e ho tanto entusiasmo, così come ho iniziato all’età di quattordici anni. Ogni mattina quando mi alzo, mi sembra il primo giorno”. Eppure ne ha fatta di strada dal primo giorno. Trentatré anni di Rai, sedici di Mediaset, sette libri pubblicati e un ottavo in cantiere. “Ma i conti non facciamoli!”, scherza. Assunto alla Rai come conduttore a contratto nel 1954, agli esordi della televisione italiana, dal 1961 diventa giornalista fisso del telegiornale. Ricorda i servizi di cronaca, le inchieste per il settimanale Rai Tv7, gli otto anni come inviato speciale in Africa, il primo telegiornale a colori e i cinque anni di conduzione del Tg1, che ha poi diretto dall’aprile 1981 all’agosto 1983. Da mamma Rai si dimette nel 1987. Dopo un breve passaggio al notiziario di ReteA, l’ap- prodo in Fininvest. E l’incontro con Silvio Berlusconi. “Berlusconi per me è la famiglia, gli amici, tutto. Quindi mi sento a casa”, confessa. Del resto la sua devozione incondizionata per Berlusconi il fido Emilio – o “Emilio Fido”, come l’hanno soprannominato le male lingue – non l’ha mai nascosta, anzi l’ha sottolineata e ostentata a tal punto da costruirsi il personaggio di servitore fedele. Senza mai un ripensamento, almeno non davanti alle telecamere. “L’informazione Fininvest è nata con me”, continua. E ricorda l’ideazione di Studio Aperto su Italia1 che poi ha fatto da modello ai programmi di informazione delle tre reti. La soddisfazione più grande è stata la copertura della prima guerra del Golfo nel 1991, quando ha dato per primo le notizie dell’attacco aereo americano su Bagdad e della cattura dei due piloti italiani Bellini e Cocciolone. L’emozione più forte quando il papa lo ha ricevuto nella sua cappella privata, il 23 dicembre 1981. “Da quel momento ho imparato a essere un po’ meno presuntuoso e meno egoista, a rispettare di più i colleghi”. Direttore del Tg4 dal 1992, Emilio Fede è in onda ogni sera alle 19 dallo studio di Cologno Monzese. Ed è proprio qui che, a dispetto di ogni regola del giornalismo anglosassone, ha coniato una formula personalissima – e altrettanto contestata – di notiziario che coniuga fatti e opinioni, informazione e spettacolo. Il Fede-conduttore accompagna le notizie con commenti, le condisce con sguardi eloquenti e gesti vistosi, si rivolge al pubblico a casa, apostrofa i colleghi in redazione e gli operatori in studio. Un’identificazione totale, senza riserve. Se non fosse al Tg4 dove sarebbe? “Al Tg4!”, risponde senza indugio. Poi ci ripensa. Vorreb- GAETANO NERI 1955 2005 «Così funzionavano i quotidiani del pomeriggio» di Silvia Ortoncelli Attraversare piazza Cavour, sgattaiolare dentro la redazione prima del Corriere lombardo, poi della Notte, scendere le scale che portano al fracasso e alla concitazione della tipografia, stanzoni enormi dove, con la composizione a caldo, più di seicento operai impaginavano il giornale, respirando vapori di piombo. Per trentatré anni, dal 1952 al 1985, Gaetano Neri, un settantaseienne esile, dai modi affabili e discreti, ha confezionato i quotidiani del pomeriggio: “era un giornalismo d’urgenza, con frequenti ribattute”, racconta con un filo di voce. Quando Neri entra per la prima volta come impaginatore al Corriere lombardo, nel 1952, in piazza Cavour “c’erano sempre parcheggiate soltanto tre auto e una moto”. Una sorta di filo rosso lega la sua personale interpretazione del giornalismo a quella piazza, che ancor oggi ospita il Palazzo dell’informazione: “Mi piaceva moltissimo lavorare in tipografia, dove si stava gomito a gomito con personaggi straordinari”. Dalle viscere de Il Corriere lombardo, dal 1966 assorbito dalla Notte, Neri ha vissuto tutte le fasi dell’impaginazione, dalla composizione a caldo, a piombo, a quella a freddo per passare infine all’attuale sistema informatico: be andare lontano, magari in Africa, quel continente che gli è rimasto dentro per “il senso di libertà, i suoi colori e l’atmosfera”. L’Africa che già conosceva da bambino, essendo vissuto ad Addis Abeba con la famiglia fino al 1942, e che ha riscoperto da inviato. A questo punto non può mancare una battuta su “Sciupone l’Africano”, il soprannome che si è conquistato inviando alla Rai non solo reportage, ma anche note spese chilometriche. Emilio Fede sta al gioco e rincara la dose: “Se è per questo, mi chiamavano anche ammogliato speciale al posto di inviato”. E il riferimento è a Diana De Feo, figlia dell’allora vicepresidente della Rai Italo De Feo, che ha sposato nel 1964 a dalla quale ha avuto due figlie, Simona e Sveva. “Non ero l’unico però ad avere soprannomi divertenti – corre ai ripari – Lubrano era diventato il banale di Suez e Zavoli il D’Annunzio mortuario o il lotto continuo perché continuava a comprare appezzamenti di terreno”. Insieme all’Africa il ricordo va anche ai pericoli scampati. “Ho rischiato più volte ma ho sempre riportato a casa la vita. Da inviato in Africa sono saltato su una mina. Questa medaglia d’oro vorrei dedicarla alla memoria dei colleghi caduti, in particolare a Ilaria Alpi e Maria Grazia Cutuli”. Quali sono secondo Emilio Fede le doti per essere un buon giornalista? “Non deve possedere l’orologio – risponde – perché il giornalismo è come un rapporto con una donna che si ama. Quando chiama alle tre di notte, tu corri anche in pigiama”. Un’ultima cosa: “Guai a tentare di restare alla ribalta. È importante capire qual è il momento giusto per dire arrivederci”. E non si capisce se lo dica come una frecciatina indirizzata a qualche collega o come ammonimento rivolto a se stesso. “Quegli oltre seicento operai, corpulenti e sporchi di piombo, diventarono degli asettici farmacisti in camice bianco. Ed oggi, nei locali che per quarant’anni hanno ospitato le rotative dei giornali, c’è un centro fitness”. Da quando è in pensione, Gaetano Neri scrive e dipinge. Ha già pubblicato cinque libri, quasi tutti presso l’editore “Marcos y Marcos”. Si tratta di raccolte di racconti brevissimi: una serie di fermi immagine sulle piccole idiosincrasie della quotidianità, descritti in chiave fantastica e ironica. Due gocce di Oblion, il micro racconto che dà il nome ad un libriccino edito in proprio e del quale Neri ha realizzato anche le illustrazioni (otto xilografie) descrive la serata di Piero e Luisa, impiegati in un ufficio governativo in una città “come le altre” dove non si può camminare per le strade e i negozi restano aperti solo se c’è polizia. Per alleggerire il peso della giornata, i due decidono di andare al cinema: i film proiettati sono tutti assai noti e c’è sempre qualcuno che conosce a memoria l’intera pellicola; a costoro “un inserviente depone sulla lingua due gocce di Oblion, il film diventa come nuovo e finalmente si può ricominciare”. E la prosa di Neri, aggraziata e surreale, sembra proprio voler sgravare il grigiore e il peso della quotidianità. gente, vi erano quadri di artisti che aveva segnalato. Per Grazia Liana Bortolon ha scritto per più di trent’anni: inizialmente rievocazioni di pittori dell’800, poi ricostruzioni di artisti del primo ‘900, infine di artisti contemporanei. Liana Bortolon ha 82 anni ora, ma il portamento, lo sguardo e il sorriso rivelano un guizzo giovane. «Si parlava sempre di uomini, io iniziai a parlare di donne: di Felicita Frai prima, di Federica Galli poi e delle sue vedute di Venezia». Liana Bortolon si lascia andare ai ricordi: a ogni città associa uno o più artisti. A Roma Mario Mafai e la moglie, ancora agitati per la nascita della loro nipote, figlia di Giulia. A Torino Francesco Casorati e Enrico Paolucci e quest’ultimo ad iniziarla ai club della città. «Man Ray me lo ricordo vecchissimo, nella sua stamperia a firmare litografie. Io avevo con me una Polaroid nuova e non sapevo come usarla. Vedendomi impacciata, mi venne incontro e fece da sé le foto», ricorda col sorriso. Liana Bortolon racconta divertita anche l’incontro con Marc Chagall nella cappella di Vence. «Noi giornalisti eravamo come segregati. Quando finalmente ebbi modo di parlare con Chagall, gli chiesi quanti quadri avesse dipinto. Lui rispose con un’allusione pungente a Picasso : “Beaucoup de moins du peintre espa- gnol”». Infine ricorda il suo «grande amico» Massimo Campigli e di quando, anni dopo la sua morte, il figlio Nicola trovò, sepolti in fondo ad uno dei suoi cassetti che nessuno aveva mai aperto prima, un centinaio di fogli in carta velina. «Vi era scritta la sua vita, complessa, affascinante e triste. Da quel manoscritto e dai miei appunti nacque Campigli e il suo segreto, la biografia critica più nutrita che abbia mai scritto». Liana Bortolon, infatti, di monografie ne ha scritte molte: su Raffaello, Tiziano, Leonardo, Carriera, Morlotti, Sassu, Gentilini, Guidi e altri. Ai ricordi degli artisti si alternano flash di avventure: un viaggio nel deserto dei Gobi, in Mongolia – «prati immensi, ciclamini che nascevano tra lo sterco di cavalli» – e di quando, appena ventenne, prese parte alla Resistenza “bianca” a Feltre, portando in bicicletta rifornimenti ai partigiani. Dei soggiorni in America, ricorda gli artisti della West Coast e «un albergo vittoriano solo per signore nella 57a strada di New York». Dà l’impressione di essersi molto «divertita» in questi cinquant’anni e più di giornalismo, «seppure – precisa – non siano mancati i lati seri». «Ho sempre lavorato con grande entusiasmo. Ho incontrato tantissimi artisti e, riguardo ad alcuni, sono stata un po’ pioniera. Mi è LIANA BORTOLON Il coraggio di scrivere d’arte su un settimanale femminile di Rosalba Castelletti «Questo da dieci anni è il mio mondo»: Liana Bortolon vive con un gatto a Milano in una villetta a schiera a due piani lontana dal caos cittadino. È stato il giardino dal verde traboccante a convincerla a lasciare la mansarda in piazza Oberdan dove aveva vissuto per trent’anni. Liana Bortolon è nata a Feltre, in provincia di Belluno. A Milano si è trasferita per conseguire la laurea in lettere moderne. Ed è stato proprio all’Università Cattolica che ha iniziato ad apprendere i primi rudimenti del giornalismo, lavorando come segretaria editoriale e redattrice di Vita e pensiero a fianco di padre Agostino Gemelli. «Mi occupavo della correzione delle bozze – spiega. Prendevo contatti con autori e editori. Talora scrivevo 8 anche articoli letterari. Ma continuavo sempre a mirare ai giornali». E così nel 1957 arriva al settimanale Gente come critica d’arte. Poi nel 1959 lascia definitivamente l’Università per scrivere, sempre d’arte, su Grazia. «L’idea di scrivere c’era sempre stata. Anche quella di dipingere. Da bambina prendevo lezioni di disegno. Scrivendo di artisti, ho unito il desiderio di scrivere e di dipingere». Scrivere d’arte in un settimanale femminile fu coraggioso: «Nessuno parlava d’arte allora. Io dovevo fare critica d’arte sì, ma in maniera semplice. Dovevo legare cultura e divulgazione. L’intuizione critica c’era. Eppure, quando una giovane scrisse una tesi su di me, si trovò a sfidare l’ostilità della critica ufficiale contro la divulgazione». La pagina di critica d’arte su Grazia fu ad ogni modo un «successo» confermato dal fatto che, nelle case di amici e della ORDINE 3 2005 uno penne d’oro GIANFRANCO CARMIGNANO ADONE CARAPEZZI «Esperienze troppo numerose Quanti campioni per un solo mosaico» al suo microfono di Emanuele Buzzi di Simone Battaggia Ad ascoltare le sue esperienze storia per storia, anno dopo anno, si ha l’impressione di raccogliere la testimonianza di tante persone diverse. Tessere che sembrano troppo numerose per appartenere a un solo mosaico. Una vita segnata dal giornalismo, quella di Gianfranco Carmignano: dai quotidiani all’agenzia, dai periodici alla radio. “È una passione che avevo nel sangue fin da bambino” – spiega – “e che è poi proseguita all’università”. Una carriera iniziata nel 1946, nella sua Milano, come collaboratore sulle pagine sportive del Corriere lombardo, e non ancora conclusa. Una carriera influenzata – almeno un po’ – da suo padre, giornalista da cui ha ereditato l’amore per la notizia. Intrecci di famiglia, che lo spingono a lavorare oggi, a quasi settantotto anni con sua moglie: “Ora come ora, nonostante sia andato in pensione sedici anni fa, sono proprietario e direttore di due bimestrali Private label in Europe e I quaderni della distribuzione, due pubblicazioni di carattere economico”. D’altronde, la passione per i temi di natura economica – su cui ha scritto anche alcuni volumi, oltre ai libri Sulla stampa e Come nasce il giornale – è uno dei fili conduttori che ha accompagnato Carmignano in oltre cinquant’anni di professione. Proprio mezzo secolo fa, è tra i fondatori dell’agenzia di stampa Mercurius, ma l’avventura dura poco: “Mi diverto a cambiare lavoro, trovo molto stimolante confrontarsi sempre con sfide e argomenti nuovi. Il rischio è elevato, ma almeno hai la sensazione di creare qualcosa di tuo, di lasciare una traccia”. Impegnandosi sempre con abnegazione e costanza. Segue le orme di famiglia e viene assunto come caporedattore a Idea nazionale – dove suo padre aveva lavorato qualche decennio prima –, tuttavia anche qui rimane solo poco tempo. Così, nel ‘60 approda in Rizzoli, poi in poco più di un decennio è la volta di Mondadori, del mensile Espansione, di Staff. In seguito è direttore di Manager e Uomo più, un maschile ante litteram. Nel frattempo, parallelamente alla girandola di testate (che comprende anche Obiettivo Marca, Market espresso, Radio Kelly e Il nuovo milanese), Carmignano diventa una colonna portante dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia: per dodici anni ne è consigliere. Vive da protagonista una stagione di grandi cambiamenti. Qui incontra Carlo De Martino – che ricorda come “un ottimo giornalista, ma anche una persona con una carica contagio- La medaglia non la vuole, per motivi personali e familiari. Dice che è un riconoscimento alla salute e che, in cinquant’anni, premi non ne ha mai ricevuti, al contrario di tanti altri colleghi meno famosi e popolari di lui. Della sua esperienza giornalistica però Adone Carapezzi parla volentieri, ed è uno spasso ascoltarlo mentre saltella da un ricordo all’altro, spizzica aneddoti, descrive i grandi campioni che sono passati davanti al suo microfono dall’inizio degli anni Cinquanta. Per decenni Carapezzi è stato redattore e inviato della redazione sportiva del giornale radio Rai. “Feci il concorso nel 1946. Ricordo che all’epoca l’esame consisteva anche nel raccogliere interviste in piazza Duomo. Iniziai come collaboratore, ma venni assunto solo il 1° ottobre 1955. Ero un cane sciolto, e per ottenere il praticantato bisognava essere in quota”. È esistito anche un “caso Carapezzi”: la Rai e l’interessato chiedevano il praticantato, la Sottocommisione per la tenuta dell’Albo (che era presso il sindacato: l’Ordine non esisteva) non lo concedeva soprattutto per mancanza della “quota” (un praticante ogni 10 redattori). Carapezzi aveva frequentato il suo corso di capocenturia negli Arditi distruttori della Regia aeronautica a Guidonia (“dove conobbi Gianni Brera, che era della Folgore e faceva già il giornalista”). Il problema comunque si risolse nel 1954, quando si liberò un posto grazie all’assunzione come professionista di Paolo Valenti. A pensarci bene, la storia recente dello sport italiano non è passata soltanto davanti al microfono di Carapezzi, ma anche al suo fianco. “Ho lavorato con Adriano De Zan, Sandro Ciotti, Nando Martellini, Piero Angela. Dividevo il mio ufficio di corso Sempione con Beppe Viola”. Con questa nobile compagnia, Carapezzi girava l’Italia e raccontava i grandi personaggi sportivi sa, senza dubbio il professionista che stimo di più”, si batte per facilitare l’accesso alla professione (cercando di riconoscere nei giusti casi la validità del praticantato d’ufficio), fa parte della commissione per il contratto di lavoro, chiede con insistenza la creazione di una scuola legata all’Ordine. Quella scuola è oggi l’Istituto Carlo De Martino: “Sono felice che sia dedicata a lui: non potevano fare scelta più opportuna. A mio avviso è la scuola migliore in Italia”. Nuovi flash, nuove polaroid della memoria: un giornalista non vive solo di carriera e di battaglie, cambia piglio quando rammenta gli anni trascorsi a Scienze politiche in Cattolica (dove era redattore del giornale Libro e moschetto dei gruppi universitari fascisti), le sue avventure come azzurro di hockey nei primissimi anni Cinquanta. Ma il suo percorso gli sembra segnato da sempre: “Sono nato direttore”, sostiene. E si lascia trasportare dagli aneddoti, come quando progettava con Gaetano Afeltra un quotidiano che poi non ha mai visto la luce. Il treno di memorie passa veloce come lui, sempre iperattivo, sfuggente. Gli impegni del futuro lo attendono, la nostalgia riservata al passato è già scemata. Altri tempi, tempi in cui i giornali non erano sovraffollati come al giorno d’oggi, anche se – afferma Carmignano – “Ora si sta meglio, sono i giovani che vogliono tutto subito. Alla mia epoca si lavorava per anni senza avere un contratto decente”. Una cosa, comunque, accomuna le nostre generazioni, quella “passione” per la notizia che ha accompagnato Carmignano per tutta la vita, un fuoco che ancora arde, che lega chi sente veramente questa professione, la speranza di essere testimoni preziosi dei nostri giorni. 1955 2005 del suo tempo. “Ho intervistato Villoresi e Ascari alla Mille Miglia, Coppi e Bartali al Tour de France, ho seguito la trasferta del Milano basket in Russia, nel 1948, quando c’era Stalin e nessuna squadra era ancora entrata in Unione Sovietica”. Qual è stato lo sportivo che l’ha colpita di più? “Fausto Coppi. Era leggermente gobbo, con le spallucce strette, il torace a punta. Sembrava fatto per la bici. Quando mi capitò di parlargli, mi fece una grande impressione”. Dopo più di tre decenni, l’esperienza alla Rai finì, e male. Nel 1982 Carapezzi passò a Tele Montecarlo. “Sono stati gli anni più belli. Facevo telecronache di sci, ippica, fui inviato al Tour de France. Quando andavo nel Principato mi facevano dormire nell’hotel della Callas e di Onassis. E mi diedero anche una “carta d’oro” per entrare al Casinò gratis”. Cinquant’anni di avventure sportive, esperienze di tutti i tipi che suscitano ammirazione e invidia. Un bagaglio sufficiente per dare uno sguardo allo sport di oggi, ai suoi personaggi e alle sue manie, e di confrontarlo con quello di ieri. “Oggi ci sono ciclisti e calciatori che parlano come laureati, mentre ai miei tempi c’era solo il dialetto. E poi le loro parole erano sincere, essenziali. Dopo una partita del Milan, chiesi a Nordhal di raccontarmi una sua rete. “Semplice. Preso palla, guardato porta, tirato, fatto gol”. Quante cose sono cambiate, in cinquant’anni. NICOLA FUDOLI Il turismo e i viaggi nel “Giornale” di Montanelli di Anna Bernasconi De Luca sempre piaciuto seminare. Sono portata a cominciare le cose e poi ad abbandonarle. O andare avanti. Si può chiamare in molti modi. E intanto – aggiunge – gli anni sono passati e mi sono ritrovata sola con tutte le mie cose che non avrei mai dato via. Poi ho capito che la vita mi avrebbe portato a separarmene e c’è stato un ripensamento. Ho donato 3791 volumi alla biblioteca dell’Università Cattolica di Milano, a Feltre regalerò 30 quadri ad olio ed opere su carta». La biblioteca è nel pianterreno. Gli scaffali, in seguito alla donazione, sono oramai semi vuoti. Al centro della stanza, uno scrittoio e sopra una macchina per scrivere. ORDINE 3 2005 Della sua lunga carriera giornalistica che lo ha portato a viaggiare per tutto il mondo, sono due i momenti che Nicola Fudoli definisce «esaltanti». Innanzitutto, l’esperienza alla Gazzetta del Sud come responsabile della redazione all’inizio degli anni Sessanta. «Tempi in cui Aldo Moro era segretario della Democrazia cristiana e là, in provincia, la Dc stava tentando l’apertura a sinistra». E tempi in cui questo professionista nato a Ciminà (Reggio Calabria) si trovava a «interpretare il pensiero dei lettori, esponendosi politicamente», fino a dover lasciare il giornale che ha segnato il suo esordio. Quindi la “chiamata” a Milano, quella «irresistibile e irrinunciabile» per uno che è «nato giornalista»: quella a lavorare con e accanto a Indro Montanelli nella fondazione del Giornale, nel 1954. Al «giornale dei giornalisti», Fudoli ha svolto incarichi agli Esteri, prima di diventare responsabile del settore “Turismo e Viaggi”. Anni di lavoro intenso, dei quali ricorda le serate dopo la chiusura, quando tutta la redazione si raccoglieva in cerchio attorno al maestro «per ascoltare i suoi racconti, pendendo dalle sue labbra». Tra quelli che Montanelli chiamava i suoi «ragazzi», c’erano «Bettiza, Vergani, Corradi, Zapulli…». Quindi la pensione nell’87 e la decisione, dal momento che per lui «il giornalismo è un hobby», di creare il Centro del Turismo di Milano, dove si occupa delle pubblicazioni. L’avvento del computer non ha trovato impreparato Fudoli, che oggi dirige anche la rivista telematica www.ViaggiVacanze.info e dal suo terminale in zona Loreto collabora al periodico Chi, come redattore della rubrica dedicata al turismo. 9 Assemblea 24 marzo 2005 Professionisti Medaglia d’oro Ventuno penne ENRICO MORATI MARIO PANCERA «Oggi si oscura tutto, compresa la satira» «Ma oggi la televisione è tutta uguale» di Andrea Fanì di Valeria Morselli All’entrata di casa una scultura nera, in metallo, con molte sporgenze: «Per appendere cappotti», mi dice. Lo faccio. Il salotto è pieno di quadri, la luce del mattino li accarezza, penetrando nella stanza da due grandi finestre. «Arte e libri sono le mie passioni», dice Mario Pancera: in tutto ne ha scritti 17. «Il giornalismo mi ha dato la precisione e i tempi giusti per i miei libri. E il mestiere di scrittore mi ha insegnato il rigore della ricerca». È in uscita l’ultimo lavoro, Primo Mazzolari e “Adesso”. 1949-1951; ne ha già in cantiere un altro, titolo provvisorio, Le donne di Marx. Pancera non si è mai fermato: neanche ora, dopo 50 anni di carriera. Con quel carattere forte che sale dalle parole e dagli occhi. Mette soggezione, anche. Ha in mano una matita. La gira tra le dita e racconta. Da Bozzolo, nel mantovano, dove è nato nel 1930, si è trasferito a Milano nel ‘45. «Al liceo mi piacevano le parole, la scrittura». Infatti comincia con un racconto. «Nel 1947 lo mando al Popolo, quotidiano della Democrazia Cristiana, direttore Vittorio Chesi. Pensavo lo buttassero. Finì in terza pagina. Poi mi hanno commissionato racconti gialli». Anno 1950, dal giallo «alla cronaca giudiziaria. Mi dividevo tra la redazione e gli studi alla Cattolica. Pagato a righe. Colleghi più anziani mi facevano firmare qualche pezzo non mio. Per arrotondare». Nel ‘53 il «fattaccio»: «Dovevo diventare praticante. Invece il mio posto fu preso da un altro. Lui aveva la tessera. Io no…». Un anno si può aspettare. Praticante dal ‘54, professionista dal ‘55. Nell’organo ufficiale della DC: «Nessuna pressione, in cronaca. Andavo in questura, nei tribunali. Mi sono occupato anche del processo a Giovanni Guareschi». Guareschi e la sua satira. Oggi la satira la oscurano: «Oggi oscurano tutto. Non che ci sia censura, ma i giornali mi sembrano più grigi, scritti male». Pancera professionista negli anni del boom economico e della televisione: «Lo sviluppo economico permise agli editori di aprire nuove testate. La tv? Era presa con leggerezza, le pagine degli spettacoli parlavano soprattutto di teatro». I giornalisti televisivi? «Nessuno li invidiava. Io collaborai ad una sceneggiatura. Potevo entrare in quel mondo, ma presi un’altra strada». L’altra strada porta a La Notte di Nino Nutrizio. «Era il ‘57. Il Popolo stava chiudendo; io, che non ho mai saputo chiedere aumenti, coglievo tutte le opportunità. Alla Notte facevo prima e terza pagina. Non ero di destra, come Nutrizio: per un po’ mi tennero d’occhio, imparando a fidarsi. Curavo anche una pagina d’inchieste. Belle e utili». E delle inchieste di oggi cosa pensa? «Sono leggere, forse fatte più cercando in archivio che indagando». Usciva il primo libro, Gino Bartali. La mia storia, scritto con Ginettaccio, «uomo di bontà unica, ma di cui molti approfittavano». Con una famiglia a carico, i soldi non erano mai troppi, lavorare era importante. Nel ‘62 lo chiama Rusconi per un posto a Gente: lui accetta, il rotocalco era in espansione e insidiava le vendite di Oggi, targato Rizzoli. Passano sei anni e «viene da me Benedetto Mosca, di Oggi. Mi dice che Carraro, braccio destro di Rizzoli, vuole incontrarmi. All’appuntamento Carraro mi presenta un foglio con l’accordo fatto. Rusconi non la prese bene, ma io avevo bisogno di garanzie, e Rizzoli ne dava. Una volta volammo a Parigi a prendere delle foto arrivate dalla Colombia. Impaginammo sull’aereo privato del cumenda. All’atterraggio avevamo il menabò fatto». Dieci mesi e arriva la nomina a redattore capo di Annabella. «Mai scritto di moda, prima. Mi occupavo di musica, pittura, scultura. Ma era una sfida, accettai». Nel frattempo altri libri e una carriera solida. Gli incarichi si susseguono, Famiglia Cristiana, la rubrica Dizionarietto su Amica, e, nel “Oh signor, cosa le racconto adesso?”, mi ha chiesto. “Facile, 50 anni di giornalismo”, ho risposto. È iniziato così il mio colloquio con Enrico Morati. Ed è difficile credere che un giornalista per passione come lui, che ha iniziato la sua brillante carriera a 14 anni correggendo le bozze de L’Azione Giovanile (il quindicinale dell’Azione Cattolica che rifletteva le posizioni e gli impegni dei giovani), non abbia nulla da dire. Forse vuole proteggere i suoi ricordi da “questo giornalismo che cambia e che speriamo si salvi”, come dice lui stesso. Ma alla fine inizia a parlare ed è un fiume in piena: memorie che si conservano intatte nonostante le sfumature del tempo, memorie di un giovane cronista, diventato poi segretario di redazione in Rai, che ha fatto dell’amore per la verità il suo cavallo di battaglia. E inizia lontano il suo racconto. Nel 1952 quando approda, già dal primo giorno giorno, a La Notte. Lì ha modo di imparare la professione sotto la guida del direttore e maestro Nino Nutrizio, per il quale prova ancora un sentimento di profonda riconoscenza e stima. Passa quasi subito alla cronaca giudiziaria, dove rimane per 10 anni. “La giudiziaria è stata una grande scuola. Entrare a Palazzo di Giustizia in quegli anni mi ha permesso di capire cos’era Milano attraverso i processi civili”, spiega. Si è occupato, infatti, di due grandi scandali dell’epoca: “il processo dell’Oro di Dongo” e il “processo Fenaroli”. “Il primo, ricorda, è stato molto faticoso. Mi sono salvato perché essendo inviato di un giornale del pomeriggio, a metà dovevo uscire a dettare il pezzo. Per fortuna il collega Passanisi mi ha messo a disposizione i fascicoli dell’istruttoria”. In quel periodo ha fatto anche alcuni scoop, ad esempio quello su Bartali. Girava voce allora che il prode ciclista non stesse molto bene. Nessun cronista ha dato credito a queste voci, eccetto Morati: “a giorni Bartali sarà operato per un blocco intestinale”, ha scritto. Ed è stato così. Ma lo smacco più grande la redazione de La Notte lo ha rifilato proprio al Corriere. Il caso è la “rapina di via Osoppo”. La Notte a quel tempo usciva ancora alle 17 del pomeriggio. Alle 13 arriva la notizia dell’arresto dei colpevoli. E mentre la redazione del quotidiano pomeridiano presidiava la telescrivente (l’antenata dell’Ansa odierna) al Corriere erano tutti fuori per pranzo. Risultato: La Notte uscì con il titolo dell’arresto, spiazzando la concorrenza. Un grande colpo frutto dello spirito di coesione che c’era nella redazione e che ci ha permesso di sopravvivere così a lungo. La Notte era nato per vivere 5 mesi, alla fine ha compiuto 25 anni, ha commentato Enrico Morati. Altro capitolo è il trascorso a L’Italia, dove è rimasto 10 ‘72, il Corriere d’Informazione: «C’erano De Bortoli e Feltri, molto promettenti. Io facevo le pagine culturali». Sei anni, e nel ‘78 è ancora Mosca a chiamarlo, stavolta alla Domenica del Corriere. Giornale glorioso, ma in calo: «La direzione di Maurizio Costanzo fu un errore. Bravissimo in tv, ma con la Domenica sbagliò. Voleva fare un settimanale per “la mia portinaia”, diceva. La qualità ne risentì. Il giornale non si è più ripreso». Nel 1984 è a Salve, pochi mesi: il richiamo delle vecchie passioni, quadri e sculture, è troppo forte. Arte è il posto ideale. «Undici anni, dall’84 al ‘95, come direttore, fino a che sono andato in pensione». Pancera, però, di stare fermo non ha intenzione. «Cominciai a collaborare con La Repubblica, poi Il Giornale». È storia di oggi. «Un giorno vado alla Stampa, qui a Milano. Propongo al capo della redazione cultura una rubrica sul rapporto tra arte e mercati. Ci accordiamo sul taglio: avrei parlato di opere e prezzi. Il compenso? Diciannove euro ad articolo». Come uno che ha appena cominciato… 1955 2005 6 anni. “Una parentesi non molto felice. Sono passato lì quando è diventato direttore Lazzati. Ma mi sono trovato in grande difficoltà: quasi non riuscivo a scrivere”. In queste poche parole il riassunto dell’esperienza. Poi è arrivata la Rai. Un matrimonio durato ben 21 anni. Prima all’Ufficio stampa con Dino Salvatore Beretta, poi come segretario di redazione e, negli ultimi tre anni, alla rubrica “Azienda Italia”, un programma di venti minuti dedicato al lavoro visto dall’interno. Come segretario di redazione ha portato avanti due battaglie molto importanti: la prima sul piano umano, cercando di migliorare i rapporti giornalistitecnici, la seconda sul piano professionale per far diventare giornalisti anche gli operatori. A quel periodo sono legati ricordi divertenti. Per esempio, quando un operatore, Mario Sacchi, impegnato nelle riprese di una gru che sollevava una bomba aerea inesplosa, ha avuto un sussulto di paura quando improvvisamente è caduto l’ordigno. Fortunatamente inesploso, per la seconda volta. Per due anni è stato anche direttore del Gazzettino Padano. “Un’esperienza bellissima, andavamo in giro con delle macchine scassate con enormi cassoni dietro che servivano da ripetitori”, ricorda. Una vita giornalistica, insomma, a tutto tondo nella carta stampata, nella radio e in tv. Con tre punti fermi: ricerca della verità, rispetto per gli altri e passione. Un’esperienza cinquantennale che oggi gli fa dire, con un po’ di amarezza, che “la tv di allora era molto più culturale, forse più scolastica, ma oggi è tutta uguale. Un tempo si diceva che la radio era la sorella cieca della tv. Oggi dico che la tv è una radio che si vede”. ARMANDO MARIOTTO «Tecnica ed economia le passioni di una vita» di Andrea Celauro Nato a Milano nel febbraio del 1931, Armando Mariotto ha seguito fin da giovane le orme di papà Igino: messa in tasca la laurea in giurisprudenza, infatti, si è dedicato a quella che è stata la passione della sua vita, il giornalismo. L’odore d’inchiostro e il ticchettio della macchina per scrivere, irresistibile per chi cresce a pane e quotidiani, lo spinge a farsi le ossa, ancora ventenne, al giornale La Patria, dove rimane per ventiquattro mesi. Poi la svolta, nella Milano della riconversione delle fabbriche, della Rinascente e della Lambretta: nel 1954, Armando Mariotto entra in forze al Corrierone. È qui che trascorre i canonici diciotto mesi di praticantato ed è qui che, passato tra le file dei professionisti nel ‘55, affina la tecnica per altri due anni, fino all’estate del ‘57. Negli anni successivi, Mariotto non si fa mancare nulla: interviste ai campioni dello sport per le sue collaborazioni con i settimanali sportivi, inchieste di cronaca nera per Gente e pubbliche relazioni per la Sipra e per il Mercato internazionale del tessile (Mitam). E mentre nel Belpaese esplode il boom economico, dalle colonne del mensile Quattrosoldi - dove rimane per sei anni, tra il ‘62 e il ‘68, come redattore e caposervizio ORDINE 3 2005 d’oro GIOVANNI CESAREO GUALTIERO MANTELLI Un’esperienza multiforme, Una vita da manovratore «ma in fondo resto un cronista» alla scrivania dell’Unità di Eleonora Barbieri di Palmira Mancuso “Alla fine, sono rimasto un cronista: ciò che più mi piace è scrivere e, soprattutto, riuscire a guardare i fatti, raccoglierli e analizzarli. Insomma, fare inchieste, in senso lato”. Così Giovanni Cesareo dichiara la sua passione per il giornalismo, rimasta viva e predominante fra le numerose attività della sua movimentata carriera. Dal teatro, suo primo amore, alla letteratura, dalla critica televisiva alle questioni scientifiche, dalle battaglie sociali allo studio e all’insegnamento della sociologia delle comunicazioni di massa, passando per l’impegno politico e la pubblicazione di numerosi libri: attività diverse, accomunate dall’appassionata e inesauribile curiosità per le cose, i fatti, il mondo. Le radici di Giovanni Cesareo sono in Sicilia, a Palermo, dove nasce nel 1926. Ma il lavoro è a Roma, dove si trasferisce all’età di tredici anni, e a Milano. A diciotto anni si trova nella capitale: è il 1944 e, con l’arrivo degli americani, inizia a lavorare, dapprima come guida, quindi come traduttore e, infine, come capoufficio per l’Organizzazione dei profughi. L’anno successivo, con la fine della guerra, si iscrive a Filosofia e, in Università, partecipa a un gruppo teatrale. È così che il suo primo lavoro, Dolore, viene messo in scena. Nel 1948 l’iscrizione al Pci e le prime collaborazioni con la terza pagina dell’Unità. “Studiare, prima o poi, si rivela sempre utile”: così l’inglese gli apre il mondo della letteratura americana. L’anno successivo è costretto a lasciare l’occupazione presso l’Organizzazione dei profughi: l’affissione illegale di alcuni manifesti promossi dal Pci (“Le mani di Scelba grondano sangue”) gli costa cinque mesi di carcere a Regina Coeli. Nel 1950, grazie a una sostituzione estiva, diventa praticante all’Unità, dove si occupa di critica teatrale. La svolta è nel 1953, quando è chiamato a riorganizzare, da capocronista, la redazione della cronaca di Roma. “Ero terrorizzato”, racconta. Ma, da allora, la passione è rimasta, intatta, insieme alla tentazione, mai sopita, di seguire sempre la propria strada, la propria curiosità. Così, quando, nel 1957, viene assegnato alla sezione politica del quotidiano, decide di lasciare l’Unità per Noi donne, settimanale dell’Unione donne italiane. “Fu un’esperienza bellissima: lavoravo come inviato, scrivevo reportage, conducevo inchieste”. Un periodo intenso, che, nel 1963, sfocia in un libro, La condizione femminile. Nel 1961 torna all’Unità, come critico televisivo per la redazione milanese e come inviato per il settimanale Vie nuove. Lasciata la rivista, fino al 1975 si occupa esclusivamente di spettacoli presso la redazione romana. Continua a collaborare come critico televisivo anche dopo le Due caffè di fila e poco più di un’ora per ripercorrere una vita trascorsa all’Unità. Gualtiero Mantelli, Walter (ma solo per gli amici), è di quei giornalisti concreti ed intellettualmente vivaci che fanno un giornale. Non è una “firma”, non è stato un “grande inviato”, ma la sua carriera si è sviluppata dietro una scrivania, a coordinare, decidere, mandare avanti la “macchina”. Prima la responsabilità di firmare il giornale, dai primi anni 60, poi la condirezione con Aniello Coppola, un’amicizia durata fino agli ultimi anni di vita del giornalista che fu anche direttore di Paese Sera. E tante avventure umane e professionali, consumate tra pacchetti di sigarette, telefoni che squillano e l’ultima ribattuta. «Mi piaceva fare il giornale, vederlo prendere forma, seguirne le fasi dal menabò alla prima copia ancora calda, appena uscita dalla rotativa». Dietro gli occhiali spessi, lo sguardo è quello soddisfatto di chi rifarebbe tutto con la stessa passione. Quella che lo ha portato, ancora ragazzino, a fare il “cronista del porto”, a cercare le notizie “in quell’aria spessa, carica di sale, gonfia di odori” della Genova di Fabrizio De Andrè. «È tra quei moli che ho imparato a scrivere – dice, come a sottolineare che il giornalismo non è cosa da manuali – e quando l’Unità di Genova chiuse e mi chiesero di fare una scelta, decisi di andare a Milano, di lavorare nel cuore del giornale, occupandomi delle pagine della Liguria». Dalla redazione di piazza Cavour lo sguardo era rivolto all’Italia intera, quella degli anni delle grandi lotte sindacali, degli scontri tra studenti e polizia, delle Br. Anni di polemiche nel Partito comunista di Berlinguer, da cui gli “ingraisti” Pintor e Rossanda presero le distanze lasciando l’Unità per fondare il Manifesto. Gualtiero Mantelli anche allora era in redazione, a seguire gli avvenimenti, a costruire pagina per pagina il giornale, a coordinare il lavoro degli inviati. Come quando chiamò Tina Merlin, chiedendole di raggiungere il Vajont, che c’era stata una frana: fu la prima vera inchiesta sul disastro annunciato. «Io non sono stato sui luoghi dei fatti – continua Mantelli – ma la partecipazione era la stessa: il contatto costante con gli inviati, il susseguirsi di notizie, le foto da impaginare. Una frenesia diversa, ma era quella che volevo sentire». Partecipazione, dunque. E responsabilità. Perché un giornale è fatto anche di uomi- dimissioni dal quotidiano del Pci, nel 1969. Da quell’anno inizia anche a dedicarsi a nuove iniziative: Sé, supplemento ‘ecologico’ della rivista Abitare, che rende vivo insieme a un gruppo di intellettuali milanesi; un nuovo libro, Anatomia del potere televisivo; lo studio e l’attenzione verso le comunicazioni di massa, con la promozione delle ‘unità di base’, gruppi legati a scuole, fabbriche e quartieri che facevano comunicazione insieme alle prime radio libere. Lasciato Sé, nel 1974 passa a Sapere, insieme a Giulio Maccacaro, con cui conduce numerose campagne di denuncia, come quella contro il nucleare e contro il disastro di Seveso e, alla fine degli anni ‘70, comincia l’esperienza di Ikon, rivista trimestrale dell’Istituto Gemelli. Nuovi contrasti, con l’editore di Sapere e con la direzione dell’Istituto, insieme all’abbandono del Pci nel 1981, portano alla fondazione di una nuova rivista, Se – Scienza esperienza, alle collaborazioni alle trasmissioni di Rai Educational, Mediamente e Parlato semplice, e all’attenzione sempre crescente per il mondo dello spettacolo, con la fondazione del Festival Teleconfronto di Chianciano e del Myst Fest di Cattolica. L’ultima sfida è quella dell’insegnamento, con la cattedra di Sociologia delle comunicazioni di massa, prima all’Università di Torino e, poi, alla facoltà di Design del Politecnico di Milano. Un impegno appena lasciato, quello al Politecnico: “Sarò ancora presente solo per l’ultima sessione di esami”. I progetti, però, non mancano: “Vorrei scrivere ancora qualcosa, forse sulla comunicazione”. O forse… “Forse vorrei tornare alle origini e scrivere un libro di racconti su quel primo anno degli americani a Roma”. ni come Mantelli, che all’Unità ha svolto i ruoli più diversi, girando dagli interni alle cronache, alla politica. Ogni giorno alle 11 la prima riunione di redazione «e il pacco dei giornali sullo zerbino di casa già alle sette... perché bisognava aver letto tutto prima d’incontrarsi». Poi un rapporto privilegiato con i lettori: la rubrica delle lettere, per un decennio, dal 1980 al 1990. Ma anche l’idea, ripresa da altre testate, di una rubrica settimanale: “Leggi e contratti”. «Avevo pensato di creare uno spazio per parlare e cercare di risolvere i problemi di lavoro. Un esperimento riuscito, che ha avuto successo grazie anche alla rete di esperti che avevo messo in piedi per rispondere ai lettori. Ricordo in particolare Massimo D’Antona, che spesso coinvolgevo per le questioni di diritto del lavoro». Dopo la pensione, difficile per il vulcanico Gualtiero Mantelli troncare i rapporti con il “suo” giornale. Ed anche all’Unità non vogliono fare a meno della sua esperienza e della sua capacità organizzativa. Però adesso, da collaboratore, si dedica alle sue passioni: i libri. Così, per un altro decennio, fino al 2000, Mantelli resta ancora al giornale, in quella squadra di professionisti che è stata, accanto alla famiglia, la sua vita. «Mi piaceva fare scrivere gli altri, scegliere chi far scrivere. E poi sono stato felice di contribuire all’inserto sulla lettura, perché ho anche avuto modo di conoscere da vicino letterati e critici che stimavo e stimo, in un rapporto di collaborazione reciproca». ANDREINA AIRALDI PINOTTI Quando la famiglia conta più della professione Armando Mariotto mostra agli italiani cosa fare della loro nuova agiatezza. È l’era del turismo di massa e della corsa al frigorifero: dalle inchieste sulla pulizia dei mari a quelle sugli alimenti, gli elettrodomestici e il settore tessile, sono molti i temi curati da Mariotto per la rivista dell’editrice Domus. E l’interesse per la tecnica e l’economia lo accompagna anche nella successiva esperienza al mensile economico-finanziario Espansione della Mondadori. Qui inizia da redattore, ma diventa ben presto caposervizio e poi redattore capo, grazie ai lavori d’inchiesta e alle interviste ai “grandi nomi” del settore tessile, meccanico, turistico e alimentare. ORDINE 3 2005 di Giuseppe Maria Cieri “Ho sempre amato questo modo di lavorare, questo modo di vivere, questa professione”. Andreina Airaldi Pinotti ha ottantatré anni, e ricorda con calore e nostalgia la sua vita da giornalista, forse abbandonata troppo presto. Nata il 5 novembre del 1921 a Porretta Terme, in provincia di Bologna, Pinotti sviluppa la passione per questa professione fin da giovane. Dopo una prima esperienza a Brescia, la svolta avviene nel 1946, quando viene assunta come praticante presso la redazione milanese del quotidiano l’Unità, allora organo del Partito Comunista Italiano. Dopo i diciotto mesi di praticantato arriva il contratto a tempo indeterminato. Vi resterà fino al 1962, quando si apre per lei la seconda svolta della sua vita: la nascita della figlia, quando ormai aveva 41 anni. Da qui la scelta di lasciare la vita di redazione, per dedicarsi completamente alla sua piccola. Ma l’amore per il giornalismo non la ha mai abbandonata. L’ha coltivato dentro di sé, continuando a studiare e a informarsi, e dedicandosi, quando poteva, a scrivere qualche articolo. E ancora oggi, a ottantatré anni, ha vivo il ricordo di una vita che avrebbe voluto continuasse, a cui ha dovuto rinunciare per metterne al mondo un’altra. 11 Assemblea 24 marzo 2005 Professionisti Medaglia d’oro Ventuno penne MARIO LODI nei piani dell’editore doveva essere «la rifondazione del giornale». E non c’è dubbio che lo fu. Il passaggio dalle 10.500 copie alle 20 mila in pochi anni, lo spostamento dalla vecchia alla nuova e attuale sede di via Tamagno, l’ammodernamento della tipografia, tra le prime in Italia a passare dalla lavorazione a caldo delle linotypes a quella a freddo. Ma soprattutto gli anni della concorrenza tra il ‘73 e il ‘76, la sfida lanciata dalla nuova testata varesina Il Giornale omonima di quella che da lì a poco fonderà Indro Montanelli. Primo e unico vero tentativo nella storia della stampa varesina di spodestare la Prealpina dal monopolio dell’informazione sul territorio. «La sfida era lanciata e la raccogliemmo facendo squadra». I suoi occhi si illuminano ricordando quegli anni. Ossessione e obiettivo delle giornate in redazione era «dare il “buco ai rivali”». E ogni volta che ci si riusciva «era festa grande». E i motivi per stappare bottiglie non mancavano: nel 1976 Il Giornale chiude, la sfida raccolta è vinta. «Ci sorresse in quegli anni l’amicizia: ricordo notti in cui quei “bravi fioeu”, finita una lunga giornata di lavoro, si fermavano a giocare a carte con i tipografi tirando le quattro o le cinque del mattino». Amarcord di un giornalismo passione e vita che Lodi racconta nel suo ultimo articolo apparso sulla Prealpina il 24 dicembre 2003. Esattamente vent’anni dopo essere andato in pensione. Come editori a Cattaneo erano succeduti, negli anni, Stefano Ferrario prima («la sua filantropia lasciò segni tangibili nella provincia di Varese») e il nipote Roberto Ferrario poi (oggi editore e direttore del giornale). Nel 1983, quando Lodi varcò per l’ultima volta le porte di via Tamagno la città mormorò. Lodi non vuole ritornare a quelle polemiche, solo una precisazione: «Nessuno mi ha cacciato, fui io ad andarmene». Lasciato il giornalismo attivo, è il senso civico a occupare oggi le sue giornate. Impossibile elencare ogni attività che ha svolto parallelamente al giornalismo e che continua a svolgere ancora oggi, a riposo solo per la stampa. Impossibile elencare ogni riconoscimento, premio od onorificenza che la città gli ha consegnato in questi anni con un senso di gratitudine. «Per due volte ebbi l’occasione di poter andare a lavorare per testate nazionali. Rifiutai. Per tre volte mi proposero di candidarmi a deputato: rifiutai, dicendo che servivo più al territorio, alla Prealpina che a Roma». Le uniche volte in cui Mario Lodi disse di no alla gente. Ma non c’è nessun rimpianto nei ricordi di chi considera, «senza nessun campanilismo», lo squarcio paesaggistico prealpino del Monte Rosa che si specchia sul Lago di Varese «uno degli scenari più belli al mondo». ressava più il rapporto cordiale e affettuoso con le persone che la firma». Un’allusione basta, ed ecco il profluvio di ricordi e aneddoti: i quattro anni passati con Dino Buzzati. «Penetrante con lo sguardo prima ancora che con le domande», lo scolpisce. «Era lui a tirar fuori l’idea che reggeva ogni numero del settimanale. Molto signorile, una sensibilità rara. Un giorno mi affidò il suo bulldog, Napoleone II. Voleva sbarazzarsene. Lo incontrai tempo dopo. “Sai, - mi disse - io ho una colpa, quella di non averti chiesto come sta Napoleone II”. “È morto”, risposi. Si alzò di scatto e se ne andò via». Si ferma. Riprende. Racconta qualche altro episodio, meno curioso e più riservato. «Ma anche Vergani mi ha dato tanto – devia poi il corso della nostalgia. – Di quella razza non ne esistono più. Mi diceva “Pizzinelli, chieda, chieda sempre. A chiedere si ottiene”. E che dire di Afeltra, un uomo dal rigore del tutto particolare. Sapeva sgridare ma non umiliare, era prepotente al punto giusto, in un modo che gli permetteva di ottenere il meglio dagli altri». C’è spazio anche per le opere didascaliche, esito di una naturale propensione per la storia. «Soprattutto la storia d’Italia e dell’Ottocento. Con Leonardo Vergani ho curato il volume antologico per il centenario della nascita di Eleonora Duse, edito da Martello. Ho scritto Robespierre per la collana I grandi della storia di Mondatori. Tra il 1965 e il 1969, con il collega Bartolomeo Pieggi, ho preparato i cinque album poi riuniti nel volume Cara Domenica, documento storico cronistico sui primi cinquant’anni del ventesimo secolo. Per conto del circolo Alessandro Volta ho curato Ottant’anni del circolo A. Volta in ottant’anni di vita milanese, 1963, aggiornata e riedita vent’anni più tardi con il titolo Il centenario». Oggi Pizzinelli svolge ricerche bibliografiche su commissione. Appena può, nel fine settimana, va a prendere una boccata d’ossigeno nella sua casa di Palazzago, provincia di Bergamo. Ha smesso di andare a cavallo e basta coi giornali. Corriere sottobraccio, superata la soglia di casa divora l’editoriale, Claudio Magris per la cultura e la Latella per la politica. Ma di collaborare ancora non se ne parla. «Mi sembrerebbe di strappare qualcosa ai giovani». Incompatibile con i principi di un uomo che ha due vanti: «Non aver mai preso querele ed essermi sempre comportato in modo corretto e onesto. Non ho mai dato spallate, non ho intralciato la carriera di nessuno, e mi sono dedicato a una continua e intensa attività sindacale, in difesa dei diritti altrui. Per vent’anni consecutivi sono stato eletto membro del comitato di redazione del Corriere. Nell’ambito delle strutture e degli organismi di categoria, ho fatto parte del collegio dei Probiviri della Lombardia e della Federazione nazionale della stampa come consigliere dell’Ordine nazionale dei giornalisti. Dal 1975 al 2001 sono stato revisore dei conti della Casagit e attualmente, per il terzo mandato, sono presidente del Collegio dei sindaci dell’associazione lombarda giornalisti». Giornalismo uguale carta stampata, anche ora e più di ieri, quando la tv, che si affacciava intaccando i periodici con il culto dell’immagine, non rappresentava ancora un’insidia riconosciuta. Lui, che i cinquant’anni di tv li ha seguiti tutti, è ingeneroso. «Soporifera. Dal punto di vista informativo, immediata ma scarsa». E ha una certezza che rincuora. «Non potrà mai soppiantare il giornale». Una vita alla Prealpina senza mai dire no a nessuno di Davide Cionfrini Quando i ricordi di un giornalista sono storia di un territorio. «Ho sempre amato la mia città, profondamente e intimamente». Un sentimento che si accompagna «all’infatuazione per un mestiere» che Mario Lodi ha svolto per 35 anni nel quotidiano di Varese la Prealpina. Non si può comprendere il personaggio senza tenere presente questi due legami ai quali ha dedicato un’intera vita. Classe 1919, Mario Lodi è stato per 24 anni (dal 1960 al 1983) direttore del quotidiano varesino. Seduto alla scrivania del piccolo studio di casa, il racconto della sua carriera si lega alla storia di una città di cui ha descritto le piccole vicende di cronaca e narrato i grandi fatti salienti che l’hanno cambiata. Sin dal 1945 quando Lodi, al rientro dalla guerra combattuta sul fronte croato, abbandona la strada tracciata dai suoi studi che lo hanno portato al diploma di geometra. Quella che lui stesso definisce una «vera e propria passione per la scrittura» lo spinge a collaborare per il settimanale varesino Il Mattocco di cui diverrà redattore prima e direttore poi, solo per qualche settimana, però. Nel 1948 l’attrazione per il prestigio della Prealpina lo porta al salto di qualità. Diventa collaboratore esterno del quotidiano. Sono gli anni d’oro dello sport varesino: il ciclismo, il calcio, la squadra di basket che cresce creando le basi per i successi degli Anni ‘60 e ‘70. Questi gli avvenimenti che Lodi racconta non solo sulle pagine del giornale varesino. Anche lo Stadio di Bologna, Tutto Sport e la Gazzetta dello Sport si avvalgono delle sue corrispondenze ai piedi del Monte Rosa. L’assunzione arriva nel 1953. Lodi diventa praticante alla Prealpina e nel 1955 professionista. Proprietaria della testata è la Società editoriale varesina allora presieduta da Achille Cattaneo che nel 1959 gli propone di fondare l’edizione del lunedì. «Mi è sempre dispiaciuto dire di no alla gente». Così s’imbarca in quell’avventura che porta a compimento il 16 novembre del 1959 con la prima uscita. Il successo è subito premiato e a fine anno è designato come direttore responsabile del quotidiano. Il primo ricordo di quello che è indiscutibilmente il momento più importante della sua carriera non è per lui. L’arrivismo cede il posto al sentimento e alla riconoscenza che Lodi tutt’oggi, a oltre 40 anni di distanza, ancora prova per Mario Gandini il direttore di cui prese il posto ufficiosamente all’inizio del 1960. La memoria va a quando «Cattaneo ebbe un riguardo particolare verso Gandini, che compiva 70 anni il primo gennaio. Mi disse “lasciamogli la firma del giornale anche per questo giorno”». E a Mario Lodi dà fastidio dire di no alla gente così «iniziai il lavoro di direttore il 2 gennaio, firmando il giornale del 3». Un battesimo di fuoco per Lodi, che iniziò la sua avventura alla direzione proprio nel giorno in cui morì Fausto Coppi «mio coetaneo e idolo fin da quando ero ragazzo». Comincia quella che LUIGI PIZZINELLI Il carabiniere mancato che lavorò con Buzzati e Vergani di Sara Bracchetti Ci sono persone che aiutano il caso a trasformarsi in passione. A lui la sorte ha dato il carisma fascinoso di Dino Buzzati, «la persona che forse mi ha lasciato di più, assieme a Orio Vergani». Luigi Pizzinelli, 87 anni e 37 vissuti alla scrivania dell’editoriale Corriere della Sera, non scansa la verità. Ammette che, da ragazzo, al giornalismo nemmeno pensava. «Dovevo diventare ufficiale dei carabinieri», rivela anzi, accennando ai «cinque anni in guerra rubati agli studi universitari». Accadde poi che «tornai a casa in licenza e incontrai Vincenzo Gibelli, mio vecchio amico e all’epoca presidente del Comitato di liberazione del Corriere della Sera. “Carabiniere?” mi disse. “No, tu vieni qui”. Presi congedo dall’esercito il 1°ottobre 1945. Il 1°febbraio 1946 entrai al Corriere». Ieri una fortunosa coincidenza, oggi «una malattia: esco alle sette per comprarlo». Il Corriere, presto preferito alle ambizioni di carriera accademica, capace di contagiare senza colpo ferire idee e abitudini. Nel bene, nel male. «Ho visto mio figlio quando ormai aveva tredici anni», sorride, sottintesi i turni di notte in redazione che, una volta sposato e padre, gli intralciarono una vita familiare normale. Rimpianta, ma non al punto da premetterla a un lavoro fatto di persone amiche prima ancora che di nomi illustri. Lungo il suo percorso professionale, non scarseggiarono. «Dal 1954 al 1959 fui anche segretario dello scrittore Orio Vergani, modello ineguagliabile di giornalismo e persona di grandissima umanità. Poi venni chiamato da Gaetano Afeltra, indimenticabile maestro al Corriere d’Informazione. E nel 1960 Dino Buzzati, vicedirettore della Domenica del Corriere, mi volle accanto a sé come redatto- 12 re di quella prestigiosa testata. La prima televisione degli italiani, la definì Enzo Biagi. Vendeva un milione di copie ogni settimana, il suo segno distintivo era una copertina a colori che arrivava dove i fotografi non erano arrivati. Ci sono rimasto fino alla pensione, nel 1983, lavorando sotto la direzione di Zucconi, Nascimbeni, Bertoldi e Antonio Terzi». Tanto lavoro di cucina. Una rubrica tutta sua, “Fatti e parole”, gestita per quattordici anni. Articoli di vario genere e perfino qualche servizio redatto all’estero. «Sono stato in Russia, Inghilterra, nel ‘69 andai a Sarajevo - elenca pescando a caso nella memoria - Quando ero fuori Milano, però, stavo come sulle spine. La verità è che io l’inviato non lo volevo fare». E pensare che l’offerta non mancò. «Me lo propose Zucconi. È che sono troppo scrupoloso, ogni volta in cui mi trovavo a compilare la nota spese mi sentivo in debito. A viaggiare con i soldi degli altri, senza poter decidere liberamente dove andare e che cosa vedere, finisce che non si gusta più niente». Ma lui, che si fa modesto e schermisce con pudore al momento di annotare i meriti, non si pente della rinuncia. «Io sono pago del mio lavoro redazionale», dice. Non invidia il fratello, Corrado, che l’inviato l’ha fatto sul serio, alla Nazione e al Resto del Carlino. «Il primo giornalista a entrare da solo in Cina, nel 1956», fa di lui sfoggio orgoglioso. «A me invece inte- 1955 2005 ORDINE 3 2005 d’oro GIANCARLO ARMUZZI Assemblea 24 marzo 2005 Pubblicisti Medaglia d’oro MARIO CONTER Medico per passione, Come condensare in trenta righe giornalista (sportivo) per caso le emozioni di un concerto di Elisa Costanzo di Gabriella Persiani “Tutto è nato da una grande passione, che è un po’ anche una malattia: l’Inter”. Giancarlo Armuzzi è nato a Milano nel 1931. Deve la sua carriera di giornalista sportivo soprattutto al caso. “Mia madre era molto amica della figlia del generale Pozzani, allora presidente dell’Inter. Così, fin da ragazzino, sedevo in tribuna all’Arena vicino a lui”. Ma viene la guerra e le cose si complicano. Dal febbraio al giugno 1944 Armuzzi entra nel collegio dei rosminiani per evitare di perdere l’anno scolastico. La passione del calcio torna a farsi sentire. Viene a sapere che due squadre disputano il torneo del collegio e giocano in cortile durante il pranzo. Armuzzi si offre per fare la cronaca delle partite e dopo pochi giorni è la star del collegio. Finita la guerra, nel 1949 si iscrive all’Università: dermatologia. “Già mio padre era dermatologo, era logico che lo facessi anch’io”. Ma è il 1952 l’anno decisivo: suo padre viene a sapere da un suo paziente redattore alla Gazzetta dello Sport che Gianni Brera sta cercando giovani. Armuzzi si presenta alla Gazzetta e subito viene messo alla prova: raccontare una partita a Corsico. Quando arriva, la confusione è tanta e non riesce neanche a vedere il campo. Allora azzarda: torna indietro, si informa dei risultati e si inventa tutta la cronaca. Un successo che gli apre le porte del giornale: Brera si complimenta con lui e gli chiede di collaborare tutte le domeniche pomeriggio. Qualche anno dopo, tramite alcuni amici, passa a Milan-Inter, settimanale sportivo dedicato interamente alle due squadre milanesi che quando usciva, di lunedì, superava nelle vendite anche il Corriere della Sera. Qui scrive cronache più importanti e per circa sei mesi diventa anche direttore. “Ero appena laureato in medicina. La domenica stavo al giornale tutto il giorno, fino alle sette del lunedì. Poi tornavo a casa, prendevo un cappuccino e alle otto andavo in clinica”. Nel 1954 passa al Corriere lombardo, che condivideva la tipografia con Milan-Inter e l’Unità. Qui trascorre tutte le domeniche, passa a seguire le squadre della serie A e rimane in tipografia fino a notte inoltrata, fra proto e linotipisti. Il lavoro gli piace, ma gli impegni universitari alla fine hanno la meglio. Musica e giornalismo, le passioni a cui Mario Conter, pubblicista bresciano, ha dedicato tutta la sua vita. Fino ad oggi, alla soglia dei 50 anni di iscrizione all’Ordine. Volendo parlare per immagini, a due oggetti si può ricondurre la sua esistenza: una bacchetta da direttore d’orchestra e una penna da critico musicale per il quotidiano della sua città. Appena diciottenne, diplomato maestro elementare e pianista al Conservatorio della sua città, “l’attrazione per la scrittura” lo porta ad esordire nel mondo del giornalismo: “I tempi erano diversi – ci racconta la figlia Fulvia Conter, musicista e giornalista come il padre, il quale per alcuni problemi di salute ha demandato a lei l’incarico di “raccontare” il Conter giornalista – c’erano poche manifestazioni musicali, ma cercavano giovani culturalmente e musicalmente preparati e veloci che seguissero la stagione lirica bresciana. Così mio padre iniziò la sua carriera nel mondo dell’informazione”. Perché “veloci”? “Bisognava consegnare il pezzo subito dopo aver assistito allo spettacolo, con le emozioni ancora dentro. Via, di corsa in redazione, entro mezzanotte, per dare al proto i foglietti scritti a mano, che venivano stampati al torchio uno per uno. Questo il ricordo che ha mio padre dei suoi primi passi al Giornale di Brescia, con cui dal 1952 collabora per la pagina degli spettacoli”. Non solo sul giornale cittadino della “leonessa d’Italia”, il Maestro Mario Conter ha pubblicato le sue critiche e recensioni, ma anche su vari periodici: dal 1954 come corrispondente de La Scala, rivista dell’Opera di Milano, oltre che sul quotidiano milanese L’Italia, nella pagina bresciana, dal 1946 al 1952. “Ma il suo cruccio, giornalisticamente parlando – continua Fulvia Conter – è stato sempre quello di pesare ogni vocabolo, ogni aggettivo nel tentativo di condensare le emozioni di un concerto in 30 righe, perché sentiva grande la responsabilità di poter esaltare o rovinare la carriera di un musicista, soprattutto di un giovane esordiente. Perché ai giovani ha sempre tenuto”. E a dimostrarlo ci sono i 40 anni spesi nell’insegnamento al conservatorio di Brescia, fino al 1985, anno della pensione. I tempi bui della seconda guerra mondiale e l’internamento in Svizzera non hanno piegato la forte tempra di Conter, che tra il 1947 e il 1948 ha dato vita, con la moglie Lydia, ad un duo pianistico con il quale ha girato il mondo fino al 1985, raccogliendo successi e il plauso internazionale. Nel 1970 il Maestro fonda i “Cameristi lombardi”, che, da direttore d’orchestra, porta a suonare in importanti sedi italiane e in tournée in Svizzera, Belgio, Francia, Spagna, Turchia, Giappone, Hong Kong fino a New York e Mosca. Presiede a tutt’oggi la Fondazione Romano Romanini di Brescia, nata nel 1976 con lo scopo di organizzare il concorso biennale per violino “Città di Brescia” e che programma corsi di alto perfezionamento per vari strumenti e stagioni di concerti. Una carriera artistica da sempre intensa, dunque, coronata di successi che, però, non ha mai distolto il Maestro dall’amore per la carta stampata, ancora vivo dopo cinquant’anni. cia una panoramica della musica da film ed è stato un lavoro pionieristico, il primo nel suo genere in Italia, per scrivere il quale ho usato libri stranieri e un archivio che mi sono costruito negli anni. Un altro libro cui sono molto legato è il Dizionario dei musicisti, che è stato presentato alla Mostra del Cinema di Venezia l’anno scorso». Mezzo secolo passato a scrivere di cinema e teatro offre a Comuzio uno speciale punto d’osservazione su come si sia trasformata la pagina degli spettacoli sui giornali. «È cambiato tutto», dice subito. E poi spiega: «Una volta le recensioni erano puntuali e uscivano sempre il giorno dopo una prima visione. Erano collocate in una posizione importante e lo spazio era quello che voleva il critico. Oggi in quasi tutti i giornali le recensioni sono conglobate in un’unica pagina, gli si dà scarsa importanza, si stringono, si asciugano. Questo essere spinti un po’ ai margini è una cosa di cui si lamentano tanti critici autorevoli». Ma non è solo il modo di raccontare il cinema sui giornali che delude Comuzio. È il cinema contemporaneo a non essere all’altezza dei capolavori del passato. «Ci sono ancora lavori seri, ma in mezzo all’invasione degli effetti speciali. Ormai siamo al cinema di riporto, al post-moderno. I generi vengono ripresi e rimescolati: l’horror diventa politico, il mystery diventa avventuroso, il western drammatico, il musical horror e così via». Nel cinema moderno, pressato dalle promozioni pubblicitarie e influenzato da logiche commerciali, il ruolo del critico viene sempre più ridimensionato. Una volta invece era diverso: «Spesso i lettori decidevano se andare al cinema in base alla recensione e alla fiducia nel critico. Anche pensando che se il tale aveva definito bello un film, era meglio non andarlo a vedere». “Era il 1962 e ho deciso di prendere la libera docenza. Ho dovuto dire addio a malincuore al giornalismo sportivo perché mi sono trovato presto a lavorare anche la domenica”. Ma la penna non l’ha messa nel cassetto. Dagli anni Sessanta fino a poco tempo fa è passato a rispondere periodicamente alle lettrici di Oggi, Annabella e Marie Claire che gli chiedevano consigli sulla salute della pelle. Oggi continua a esercitare la professione e aspetta di ricevere un riconoscimento per i 50 anni di carriera anche dall’Ordine dei medici. Ma non si è mai pentito della sua scelta? “No. Il giornalismo sportivo mi piaceva per la creatività della scrittura e la frenesia della domenica sera. Adoravo lavorare fisicamente sul giornale e cambiare i titoli. Ma l’ho sempre vissuto come un gioco. Non avrebbe potuto diventare una professione. Il lavoro è una cosa seria”. Detto fuori dai denti, oggi Armuzzi ringrazia il giornalismo sportivo anche per un altro motivo: i soldi. “Negli anni cinquanta come assistente straordinario all’Università prendevo 40mila lire al mese. Senza lo stipendio da giornalista – che superava abbondantemente quello da ricercatore – non avrei potuto comprarmi il primo appartamento in via Morosini e forse neanche sposarmi”. ERMANNO COMUZIO Mezzo secolo passato a scrivere di cinema e teatro di Cristiano Dell’Oste «Andavo a teatro e lo spettacolo spesso finiva a mezzanotte… Scrivevo il pezzo la sera stessa e lo passavo alla tipografia». C’è un po’ di nostalgia nelle parole di Ermanno Comuzio, 81 anni, bergamasco, saggista e critico cinematografico e teatrale. «Ricordo il lavoro al tavolo dei tipografi… Se l’articolo era lungo io gli dicevo dove tagliare e loro toglievano i blocchetti di piombo con le pinze. Se era corto scrivevo le frasi da aggiungere e le dettavo al linotipista. Adesso collaboro ancora, ma mando i miei articoli con l’email». Era un altro mondo, un altro giornalismo. E forse non tutte le innovazioni tecnologiche l’hanno cambiato in meglio. «Al giorno d’oggi si è perso il contatto diretto con la fucina del giornale. Una volta il lavoro era più avventuroso. Quando ero inviato alla Mostra del Cinema di Venezia, subito dopo la proiezione del film telefonavo in redazione e dettavo l’articolo, così, sul tamburo. È un periodo che ricordo ORDINE 3 2005 con affetto e rimpiango i tempi in cui lavoravo per un giornale di provincia. Ma oggi non so se lo rifarei». La carriera di Comuzio è cominciata nel 1953 al Giornale di Bergamo, per il quale ha curato la rubrica dedicata a cinema e teatro fino al 1983. Poi è passato a Bergamo Oggi e di nuovo al Giornale di Bergamo. Oggi collabora con la pagina che Il Giorno dedica alla cronaca bergamasca. La passione per la musica e il cinema è il filo conduttore intorno al quale si snoda la sua attività di giornalista. Una passione antica e intrecciata alle origini familiari. «In casa avevo dei musicisti, mio padre e mio zio si sono sempre occupati di musica e teatro e io ho cominciato a seguirla fin da ragazzo». Iscritto nel 1955 all’Albo dei pubblicisti, ha scritto numerosi saggi e curato voci di enciclopedia e dizionari specializzati. Tra i tanti libri che ha scritto ne ricorda due su tutti. «Quello che ha richiesto più lavoro è stato Colonna sonora – Dizionario ragionato dei musicisti cinematografici, pubblicato nel 1980, che trac- 13 Assemblea 24 marzo 2005 Pubblicisti Medaglia d’oro PASQUALE SCARDILLO «Fu Andreotti a suggerirmi l’almanacco del calcio» ANTONIO DORSA L’avvocato con il terrore della routine redazionale di Roberta Marilli di Tiziana Cauli Ogni domenica da più di trent’anni un uomo attraversa la soglia del palazzo del Corriere della Sera in via Solferino. Sale al terzo piano, alla redazione dello Sport, siede a una scrivania e sintonizza la sua radiolina su “Tutto il calcio minuto per minuto”. Dopo alcuni minuti, alle voci dei telecronisti inviati negli stadi di serie A, si aggiunge il suono inconfondibile del ticchettio di una macchina per scrivere. Quell’uomo è Pasquale Scardillo. Pubblicista per scelta “Per non perdere l’entusiasmo” - spiega fiero. Nato a Napoli il 25 gennaio del 1931, Scardillo non è un collaboratore come gli altri. Chiedete di lui anche all’ultimo arrivato in via Solferino e vi risponderà: “Pasquale? E chi non lo conosce?” Entusiasmo è la parola giusta per definire il sentimento che lega Scardillo al giornalismo sin dal 1948, quando iniziò come correttore di bozze e impaginatore al Corriere del Giorno a Taranto, città nella quale ha vissuto per molti anni. Grazie alla sua intraprendenza riuscì a diventare in poco tempo corrispondente sportivo dalla perla del Golfo per almeno una quindicina di testate, tra le quali il Corriere lombardo, Sportsud (fondato e diretto da Gino Palumbo), Lo stadio di Roma, il Guerin Sportivo e Milan-Inter. Nel 1957 avviene l’incontro che cambierà il corso della sua vita; conosce, infatti, Sergio Turone, caporedattore del Guerin Sportivo che è a Taranto al seguito del Giro d’Italia e che gli consiglia di trasferirsi al Nord per avere maggiori opportunità: “Dopo cinque giorni dal mio arrivo a Milano – racconta Scardillo - mi ritrovai a seguire la partita di serie B Simmenthal Monza-Milano per il Corriere lombardo. Vinsero i padroni di casa per uno a zero; ricordo ancora il titolo del servizio: La Simmenthal inscatola il delfino tarantino. Intanto viene assunto alla Rizzoli come impiegato tecnico e impaginatore dove rimarrà per 25 anni, fino al 1984. Ma non ha mai pensato di abbandonare quello Quando lui iniziò a lavorare in Rai “la televisione esisteva soltanto nella testa di Mike Bongiorno”: Ci tiene a puntualizzarlo Antonio Dorsa, avvocato e pubblicista, nato lo stesso anno del celebre conduttore, il 1924. Sugli schermi non è mai apparso, e nessuno ha mai ascoltato la sua voce in radio. “Lavoravo all’ufficio stampa e propaganda”, spiega, ricordando gli anni della sua vita trascorsi a Roma, dov’era arrivato per fare il giornalista quando ancora non aveva le idee chiare sul suo futuro. Si laureò in legge nel 1948, con una tesi sulla “sovranità popolare” discussa all’Università di Napoli. E iniziò presto a lavorare al Popolo, dopo essersi trasferito nella capitale per una serie di coincidenze, prima fra tutte un’amicizia nella redazione del quotidiano della Dc, dove lui si occupò per sei anni di cronaca bianca. Che nello specifico, per usare le sue parole, significava “scrivere semplicemente i resoconti di congressi e assemblee”. Niente di entusiasmante, tanto che fra i colleghi di allora Dorsa ne ricorda tanti che facevano i giornalisti soltanto per poter entrare gratis in ristoranti e sale da ballo. E anche adesso, assicura, quella categoria esiste. “Avvicinarsi a questo mestiere se si ha dentro il desiderio di affermarsi va bene. Ma se uno vuole fare il giornalista per entrare in discoteca senza pagare. Allora è un altro discorso”. Anche perché, continua, “quando ho iniziato io non c’era nessuno, adesso i giovani aspiranti sono una folla”. Sono trascorsi cinquant’anni da quando Antonio Dorsa si iscrisse all’Ordine dei giornalisti. A Roma, ma lui è calabrese, di Civita, in provincia di Cosenza, e presto sarebbe approdato a Milano.”Dopo l’assunzione in Rai, negli anni Sessanta, iniziai a lavorare all’ufficio stampa della Montecatini-Edison, poi mi destinarono al servizio fiscale”. Perché il campo in cui Dorsa è più esperto, e che gli avrebbe permesso di aprire uno studio legale ancora attivo nel capoluogo lombardo, è senza dubbio quello tributario. Conserva gelosamente, nella libreria del suo ufficio, due volumi pubblicati nei primi anni Settanta. Commento e interpretazio- che, confessa, è sempre stato per lui non un lavoro, ma un diletto. Continua a collaborare così, con vari giornali: Milan-Inter, La Notte, L’Italia e Football, il mensile finanziato da Angelo Moratti del quale diviene anche segretario di redazione. Nel 1968 Scardillo inizia a collaborare con la redazione sportiva del Corriere della Sera guidata da Gino Palumbo. E, con il successivo passaggio di Palumbo alla Gazzetta dello Sport nel 1976, avvia il suo sodalizio anche con la “rosea”. Intanto pubblica, insieme a Pericle Fratelli, Il libro azzurro del calcio italiano. Un successo, visto che le 80mila copie della prima edizione vanno esaurite in poco tempo. L’idea di questo almanacco, fonte autorevole ancora oggi per cronisti e appassionati, però, non fu sua: “Avevo cominciato a scrivere una storia della nazionale azzurra a puntate – racconta Scardillo – sulla rivista Concretezza, fondata e diretta da Giulio Andreotti. Fu proprio il sette volte presidente del Consiglio e senatore a vita a suggerirmi di raccogliere tutto il materiale pubblicato in un volume”. EMILIO MARIANO ALCIDE PAOLINI Mezzo secolo tra libri, riviste ed archivi Critico di lettere e arte ma anche romanziere di Beatrice Nencha di Luigi dell’Olio Una vita spesa tra libri, riviste, archivi ed epistolari. È stata inesauribile, in questi oltre 50 anni di carriera, la passione intellettuale di Emilio Mariano, critico letterario e giornalista pubblicista dal 1954. Una vita attraversata da un filo rosso, l’amore per l’opera di Gabriele d’Annunzio, che da ossessione si è tramutato in destino. Quando sposa una nipote del Vate, incontrata proprio sui gradini del Vittoriale degli italiani a Gardone Riviera. La magionerifugio dove il poeta pescarese visse dal ‘21 al ‘38 e di cui Mariano è stato sovrintendente dal 1956 oltre che presidente della Fondazione. Laureato in Lettere e filosofia alla Statale di Milano, Mariano ha collaborato a riviste prestigiose come Nuova Antologia e ha diretto I quaderni dannunziani. Nel suo curriculum figurano numerose pubblicazioni: un volume su Riccardo Zandonai, direttore d’orchestra del primo Novecento , la raccolta Italia dei poeti, oltre ad aver tradotto per il teatro Maria Stuarda di Schiller e aver curato il carteggio tra il Vate e Badoglio. Autore per la neonata tv del programma “Incontri con la poesia”, Mariano è stato anche un infaticabile promotore di conferenze Scrittore, giornalista e autore di soggetti letterari. La carriera di Alcide Paolini si è snodata attraverso molteplici generi artistici. Nato a Udine nel 1928, ha iniziato l’attività letteraria come poeta nel 1952. Tra le sue collaborazioni, Comunità, Belfagor, La fiera letteraria, Il Giorno e Corriere della sera con inchieste, articoli di critica letteraria e d’arte, racconti e note di costume. A 30 anni ha fondato e diretto a Udine la rivista di cultura e poesia La situazione che per quattro anni svolse un’opera di mediazione tra scrittori di diverse tendenze. Quindi nel 1965 si è trasferito a Milano, dove risiede tuttora. Ha esordito come romanziere nel 1967 con Controveglia, cui sono seguiti Verbale d’amore (1969), Lezione di tiro (1971), La gatta (1974), Paura di Anna (1976), La bellezza (1979), L’eterna finzione (1983), La donna del nemico (1985), Una strana signora (1993), Il paese del cuore (1994). Ha pubblicato anche un libro di sociologia letteraria, La mistificazione (Milano 1961), ed alcuni volumi per bambini e ragazzi tra cui Pablo e il cane Dik- Dik (1979) e Il paese abbandonato (1980, Premio Monza). 14 ne di una legge non ancora in vigore che avrebbe presto introdotto nel sistema fiscale italiano la cosiddetta imposta sul valore aggiunto. “Non mi sono divertito molto a scriverli”, precisa, “ma sono stato il primo esperto di Iva in Italia”. Da allora Antonio Dorsa, iscritto all’albo degli avvocati, ha sempre esercitato la professione legale, alternandola, nel tempo libero, a qualche collaborazione giornalistica. “Alla fine degli anni Settanta diventai consulente fiscale gratuito dell’Associazione stampa. Lo facevo come favore ai colleghi con problemi fiscali”. Ma non ha rimpianti, Dorsa, per non aver optato per la professione giornalistica. “Avrei fatto il giornalista a tempo pieno soltanto ad una condizione: di non essere compresso dall’ingranaggio redazionale”. Oltre che per leggi dello stato per il sistema tributario Dorsa maturò presto un’altra passione, quella per i romanzi gialli. Che leggeva, e pubblicava. “Scrivevo per la pagina dei gialli del giovedì. Ho anche pubblicato alcuni volumetti. Poi hanno iniziato ad arrivarmi delle telefonate della redazione che mi chiedevano di trattare certi soggetti…Insomma, delle richieste, e allora ho interrotto”. tra cui un convegno dedicato al suo professore di germanistica, Vincenzo Errante . Frutto di un lavoro di approfondimento durato cinque anniMariano ha in preparazione un corposo volume su Il fuoco. Il romanzo autobiografico con cui d’Annunzio ha consegnato ai posteri la descrizione della sua tempestosa storia d’amore con una delle donne più fatali del Novecento, Eleonora Duse. È stato direttore della collana di narrativa per ragazzi di Mondatori, casa editrice con cui ancora collabora. Dal 1994 è editorialista per il Messaggero veneto: fino al 1999 con la rubrica letteraria “Detto e fatto” e attualmente come notista politca. Nel 1962 ha ottenuto il premio Prove-Rapallo con una raccolta di poesie, mentre nel 1989 ha ricevuto il Premio Friûl Aquila d’oro come romanziere. ORDINE 3 2005 Delibera del Consiglio nazionale La nuova Carta dei Doveri dell’informazione economica Roma, 8 febbraio 2005. C’ è una nuova Carta dei doveri per i giornalisti dell’informazione economica e finanziaria. L’ha approvata il Consiglio nazionale nella riunione odierna. Il testo integra ed amplifica le norme in materia già contenute nella Carta del 1993. A suggerire l’ ampliamento è stata la circostanza che il Parlamento sta per approvare definitivamente la Direttiva Ue sul market abuse cioè sulla turbativa di mercato prodotta dalla diffusione,dolosa o colposa, di notizie che tendano ad alterare l’andamento delle quotazioni di borsa o a nascondere situazioni di dissesto come è accaduto per Cirio e Parmalat. La normativa (se dovesse passare così com’è prevista oggi) non solo infliggerebbe severe sanzioni penali ma delegherebbe alla Consob il compito di comminare ai giornalisti pesantissime multe da 20mila a 5 milioni di euro. Così la Commissione per la Borsa assumerebbe il compito di controllore dei giornalisti economici e finanziari sostituendo, in pratica, l’Ordine. La normativa comunitaria stabilisce, però, la competenza deontologica ordinistica in presenza di specifiche e rigorose norme di autoregolamentazione. Da qui la necessità della nuova Carta approvata oggi. Le nuove regole sono fin d’ora vincolanti per tutti i giornalisti. Si invitano però i comitati di redazione e i direttori ad aprire un tavolo di confronto sui temi della trasparenza con l’obiettivo di arrivare all’ approvazione di un codice di autoregolamentazione interno che adatti eventualmente la Carta appena approvata alle peculiarità della testata e ne allarghi la portata ad altri temi come la trasparenza sull’ assetto proprietario nonché dei principali inserzionisti pubblicitari. Obiettivo principale di tale confronto è quello di ottenere la pubblicazione degli azionisti di controllo nella gerenza del giornale e in modo adeguato nel settore audiovisivo. L’ Ordine resta in attesa di eventuali deliberazioni adottate dalle assemblee di redazione e auspica un ampio dibattito tra tutti i colleghi sui temi della trasparenza e della correttezza dell’ informazione. HachetteRusconi: accordo. Cigs per 21 giornalisti, ma c’è impegno a reinserirli iniziative pubblicitarie incompatibili con la credibilità e autonomia professionale. Sono consentite, invece, a titolo gratuito, analoghe iniziative volte a fini sociali, umanitari, culturali, religiosi, artistici, sindacali o comunque prive di carattere speculativo. Ecco la nuova carta dei doveri dell’informazione economica 1 Il giornalista riferisce correttamente, cioè senza alterazioni e omissioni che ne alterino il vero significato, le informazioni di cui dispone, soprattutto se già diffuse dalle agenzie di stampa o comunque di dominio pubblico. L’obbligo sussiste anche quando la notizia riguardi il suo editore o il referente politico o economico dell’organo di stampa. 2 Non si può subordinare in alcun caso al profitto personale o di terzi le informazioni economiche e finanziarie di cui si sia venuti a conoscenza nell’ambito della propria attività professionale né si può turbare l’andamento del mercato diffondendo fatti o circostanze utili ai propri interessi. 3 Il giornalista non può scrivere articoli che contengano valutazioni relative ad azioni o altri strumenti finanziari sul cui andamento borsistico abbia in qualunque modo un interesse finanziario, né può vendere o acquisire titoli di cui si stia occupando professionalmente nell’ambito suddetto o debba occuparsene a breve termine. 4 Il giornalista rifiuta pagamenti, rimborsi spese, elargizioni, vacanze gratuite, regali, facilitazioni o prebende da privati o enti pubblici che possano condizionare il suo lavoro e la sua autonomia o ledere la sua credibilità e dignità professionale. 5 Il giornalista non assume incarichi e responsabilità in contrasto con l’esercizio autonomo della professione, né può prestare nome, voce e immagine per Milano, 10 febbraio 2005. Ieri all’alba è stato siglato l’accordo per risolvere l’emergenza occupazionale in Hachette-Rusconi determinata dalla decisione dell’azienda di chiudere quattro testate: Donna, Vitality, Il nostro budget e Photo. Dopo quasi due mesi di trattative, l’intesa raggiunta tra il Cdr di Hachette-Rusconi, affiancato dall’Associazione lombarda dei giornalisti e dalla Fnsi, e la casa editrice, assistita dalla Fieg, prevede l’apertura dall’1° marzo della cassa integrazione per 21 giornalisti, rispetto ai 33 previsti dall’azienda, e un meccanismo articolato di interventi per garantire il reinserimento dei colleghi nelle altre testate del gruppo Hachette-Rusconi. Le misure definite nell’accordo partono dal blocco del turn-over, che impone all’azienda di richiamare i giornalisti in Cigs per qualsiasi esigenza occupazionale, e prevedono, tra le altre cose: incentivi per i colleghi con i requisiti per accedere alla pensione di anzianità o di vecchiaia e loro automatica sostituzione con giornalisti in Cigs; possibilità di trasformare il rapporto di lavoro da tempo pieno a parziale, oppure da articolo 1 ad articolo 2, con conseguente riassorbimento dei colleghi in Cigs; sostituzione temporanea con giornalisti in Cigs per assenza per maternità o per lo smaltimento di ferie arretrate; sospensione dell’esclusiva per i colleghi in Cigs, che potranno così collaborare con giornali esterni al gruppo Hachette-Rusconi; un’integrazione economica per i giornalisti che dovessero restare in Cigs per più di 6 mesi. L’Associazione lombarda dei giornalisti “esprime forte solidarietà ai 21 colleghi che entreranno in cassa integrazione, ma si dice altresì convinta che il meccanismo di interventi concordati con Hachette-Rusconi sarà capace di garantire, con l’impegno e la determinazione di tutti, dal sindacato ai singoli colleghi, così come dell’azienda e dei direttori di testata, il rapido riassorbimento all’interno del gruppo di tutti i giornalisti collocati in Cigs”. 6 Il giornalista, tanto più se ha responsabilità direttive, deve assicurare un adeguato standard di trasparenza sulla proprietà editoriale del giornale e sull’identità e gli eventuali interessi di cui siano portatori i suoi analisti e commentatori esterni in relazione allo specifico argomento dell’articolo. In particolare va ricordato al lettore chi è l’editore del giornale quando un articolo tratti problemi economici e finanziari che direttamente lo riguardino o possano in qualche modo favorirlo o danneggiarlo. 7 Nel caso di articoli che contengano raccomandazioni d’investimento elaborate dallo stesso giornale va espressamente indicata l’identità dell’autore della raccomandazione (sia esso un giornalista interno o un collaboratore esterno). Occorre inoltre, nel rispetto delle norme deontologiche già in vigore sulla affidabilità e sulla pubblicità delle fonti, che per tutte le proiezioni, le previsioni e gli obiettivi di prezzo di un titolo siano chiaramente indicate le principali metodologie e ipotesi elaborate nel formularle e utilizzarle. 8 La presentazione degli studi degli analisti deve avvenire assicurando una piena informazione sull’identità degli autori e deve rispettare nella sostanza il contenuto delle ricerche. In caso di una significativa difformità occorre farne oggetto di segnalazione ai lettori. Emilia Romagna applica a 20 giornalisti il contratto Fnsi-Fieg Bologna, 4 febbraio 2005. Da questo mese oltre venti giornalisti, che svolgono la loro attività nelle strutture di informazione della Regione Emilia-Romagna, sono transitati dal contratto di lavoro per il personale delle Regioni e delle Autonomie locali a quello giornalistico, sottoscritto dalla Fnsi e dalla Fieg. Il sindacato dei giornalisti dell’Emilia-Romagna ha espresso soddisfazione per la decisione della Regione, assunta anche nel quadro della legge 150 del 2000, e nel contempo si augura che analogo provvedimento venga presto assunto da altre regioni, a partire dalla Toscana, dove un provvedimento analogo a quello dell’Emilia Romagna è stato bloccato mentre sembrava in dirittura d’arrivo. (AGI) CASSAZIONE PENALE (SEZ. V, 9 NOVEMBRE 2004, N. 48095) Diffamazione, la fretta non giustifica la pubblicazione di una notizia non vera “ll diritto di cronaca tutelato dal vigente ordinamento esige la rigorosa osservanza di precisi limiti che hanno fondamento nell’ordinamento stesso e nell’etica deontologica professionale. Il giornalista non può disinvoltamente e indiscriminatamente trasmettere la notizia a lui pervenuta senza verificare - attraverso l’esame e il controllo delle fonti di informazione - la loro rispondenza al vero; né ripararsi dietro l’esigenza di una rapida divulgazione della notizia, perché se non è in grado - a ragione della ristrettezza dei tempi - di compiere ogni accertamento atto a fugare ogni dubbio o incertezza in ordine alla verità sostanziale del fatto deve semplicemente astenersi dal divulgare la notizia, e non può trasmetterla al pubblico con il rischio di una sua eventuale non rispondenza al vero”. Milano, 22 gennaio 2005. La fretta non giustifica la pubblicazione di una notizia non vera e, quindi, diffamatoria. Questo principio è stato fissato dalla V sezione penale della Cassazione. Nella sentenza si legge: “Con l’impugnata sentenza è stata confermata la dichiarazione di colpevolezza di (omissis) in ordine al reato di cui agli artt. 57595 Cp, contestatogli “per non aver impedito, nella qualità di direttore responsabile del quotidiano (omissis), che con la pubblicazione, in data (omissis) di un articolo dal titolo (omissis), venisse offesa la reputazione di (omissis) indicato, contrariamente al vero, come persona denunciata in passato per ricettazione”. Ricorre per Cassazione il difenORDINE 3 2005 sore dell’imputato proponendo un unico mezzo di annullamento col quale denuncia violazione di legge in relazione all’art. 51 Cp. Dalla sua illustrazione si evince che, col mezzo, si addebita alla Corte di merito di non avere considerato che non può configurarsi un omesso controllo su fatti e circostanze (nella specie, il riferimento alla denuncia di ricettazione) assolutamente secondari alla notizia principale (quella, vera, dell’incendio doloso). E si aggiunge che il concetto di verità oggettiva deve tener conto della peculiare natura dell’attività giornalistica ed in particolare della necessaria rapidità nell’acquisizione, verifica e divulgazione della notizia. I riassunti profili di censura devono esse- re respinti. Il primo è inammissibile. Propone infatti una questione non prospettata nelle fasi di merito. Che è peraltro manifestamente infondata. La giurisprudenza di questa Corte ha avuto modo di affermare che i dati superflui, non unificanti, ovvero secondari, cioè incapaci da soli di immutare, alterare, modificare la verità oggettiva della notizia, non possono essere presi in considerazione, per ritenere valicati i limiti dell’esercizio del diritto di informazione ed escludere l’operatività della causa di giustificazione di cui all’art. 51 c.p., anche in termini di putatività ex art. 59, u.c., c.p. Ma il richiamo a siffatto principio si palesa del tutto incongruo e non pertinente con riferimento al caso di specie, in ordine al quale l’elemento asseritamente secondario non riguarda l’essenza e la sostanza della notizia ritenuta principale, ma se ne distacca completamente risolvendosi nell’aggiunta di un distinto dato del tutto autonomo ed anzi eccentrico, ed inoltre dotato (come non contestato) di sicura valenza offensiva, ove si tenga conto che la tutela della reputazione non può venir meno neppure nei confronti di coloro che abbiano eventualmente già subito un certo discredito. Quanto all’altro aspetto, occorre ricordare che il diritto di cronaca tutelato dal vigente ordinamento esige la rigorosa osservanza di precisi limiti che hanno fondamento nell’ordinamento stesso e nell’etica deontologica professionale. Il giornalista non può disinvoltamente e indiscriminatamente trasmettere la notizia a lui pervenuta senza verificare - attraverso l’esame e il controllo delle fonti di informazione la loro rispondenza al vero; né ripararsi dietro l’esigenza di una rapida divulgazione della notizia, perché se non è in grado - a ragione della ristrettezza dei tempi - di compiere ogni accertamento atto a fugare ogni dubbio o incertezza in ordine alla verità sostanziale del fatto deve semplicemente astenersi dal divulgare la notizia, e non può trasmetterla al pubblico con il rischio di una sua eventuale non rispondenza al vero. Di cui la infondatezza della centra in esame. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento. Così deciso in Roma, il 9 novembre 2004. Depositato in Cancelleria il 14 dicembre 2004”. 15 XXIV EDIZIONE DEL PREMIO NAZIONALE “MAX DAVID” PATROCINATO DALLA PROVINCIA DI MILANO Ecco i “numeri” del Pulitzer italiano Il premio Max David nasce in Versilia nel 1980, per iniziativa del poeta e pittore Vittorio Grotti, sotto l’egida della Fondazione Lorenzo Viani, in collaborazione con la Rai e con il contributo di Linda David Locatelli, vedova di Max David, il grande inviato (oltre 40 anni di servizio, dei quali 25 al Corriere della Sera) originario di Cervia, nato nel 1908 e morto nel 1980. Riservato agli inviati speciali, è particolarmente ambito e prestigioso, tanto da essere citato come il Pulitzer italiano. Il primo riconoscimento è assegnato, da una giuria di cento giornalisti, a Lucio Lami. Nel 1982, scomparso Grotti, Linda David chiede a Lami di garantire la vita del premio, che quello stesso anno si decide di trasferire a Cervia. Nel 1984, secondo, e definitivo, trasferimento nel capoluogo lombardo, dove il premio viene tuttora celebrato, con il patrocinio e il contributo della Provincia di Milano. È emanazione dell’Associazione Max David per il giornalismo, presieduta da Lucio Lami, mentre il vicepresidente è Max Victor David, figlio del giornalista. Nelle passate edizioni, i vincitori sono stati: Lucio Lami, Ettore Mo, Piero Accolti, Bernardo Valli, Franco Ferrari, Piero Benetazzo, Frane Barbieri, Vittorio Zucconi, Mimmo Candito, Egisto Corradi (alla memoria), Lucia Annunziata, Vittorio Dell’Uva, Paolo Rumiz, Antonio Ferrari, Valerio Pellizzari, A. Pasolini Zanelli, Carmen Lasorella, Renzo Cianfanelli, Renata Pisu, Giovanni Porzio, Toni Capuozzo, Guido Rampoldi. Da sinistra: Alberto Mattioli (vicepresidente della Provincia di Milano), Ugo Tramballi (vincitore del premio Max David 2004 e inviato de Il Sole 24 ore), Ettore Mo (componente della giuria e decano degli inviati speciali), Ferruccio De Bortoli (direttore de Il Sole 24 ore). Da 22 anni nei punti “caldi” del mondo Consegna del premio Max David: (da sinistra) Ettore Mo (seduto), Max Victor David (figlio di Max David), Ugo Tramballi (vincitore), Alberto Mattioli (vicepresidente della Provincia di Milano), Lucio Lami (presidente del Comitato del premio), Sergio Zavoli (seduto) presidente della giuria. Ugo Tramballi nasce a Milano il 19 febbraio 1954. Nel 1976 entra a il Giornale di Indro Montanelli come cronista nelle pagine milanesi; nel 1983 diventa inviato, soprattutto per il Medio Oriente, l’India, il Pakistan, l’Afghanistan e il Sudafrica; dal 1987 al ‘91 è corrispondente a Mosca. Nel 1991 passa a Il Sole 24 Ore. In qualità di inviato e commentatore di questioni internazionali, segue il processo di pace israelo-palestinese e l’Intifada; la Russia nell’era Eltsin; la fine dell’apartheid e la transizione democratica in Sudafrica; la crisi balcanica; le riforme economiche indiane; la crescita della Cina e il passaggio di poteri a Hong Kong; la crisi asiatica e l’impatto della globalizzazione sulle politiche mondiali; la politica estera delle amministrazioni Clinton e Bush; le crisi del Golfo e il confronto fra Occidente e Mondo Arabo. È membro dell’Istituto Affari internazionali di Roma e del Centro per la pace in Medio Oriente a Milano. Ha scritto i libri: Dentro l’India, Pagus, 1988; Quando finirà l’inverno: la Russia di Eltsin, Il Sole 24 Ore Libri, 1999; L’ulivo e le pietre, sul conflitto israelo-palestinese, Marco Tropea, 2002. A Ugo Tramballi l’Oscar degli inviati di Patrizia Pedrazzini “A Ugo Tramballi per il suo impegno di inviato speciale, costante e attento, grazie al quale ha fornito ai lettori del suo giornale resoconti puntuali ed ineccepibili sul confronto tra Occidente e mondo arabo, sulle vicende del Golfo e sull’impatto della globalizzazione sulla politica internazionale”. Questa la motivazione con la quale il giornalista de Il Sole 24 Ore Ugo Tramballi ha ricevuto, la sera del 28 gennaio a Milano, il “Max David”, il prestigioso premio nazionale per l’inviato speciale, giunto quest’anno alla sua XXIV edizione. Considerato il “Pulitzer” italiano, dichiaratamente apolitico, assegnato da una giuria composta in prevalenza da inviati, molti dei quali ex vincitori, il premio, patrocinato dalla Provincia di Milano, è stato consegnato nel corso dell’annuale cerimonia all’Excelsior Hotel Gallia, alla presenza di autorità civili e militari, di rappresentanti diplomatici, di esponenti della letteratura italiana, dell’arte e delle tradizioni milanesi. Oltre che, naturalmente, del giornalismo, anche se, quest’anno, sono È di casa, il giornalismo, nella famiglia Tramballi. Prima il nonno Ugo, poi il padre Gualtiero (La Notte, Epoca, il Giornale di Bergamo, del quale fu direttore) e lo zio Giulio (Italia, quindi Avvenire). Adesso ancora Ugo. E siamo alla terza generazione. Solo che il vincitore della XXIV edizione del premio Max David ha anche sposato una giornalista (Raffaela Carretta, vicedirettore di io donna) e ha due figli maschi, di 16 e 10 anni. Che anche loro finiscano per subire il fascino del mestiere? Mah! È presto per dirlo. Certo, hanno interessi classici che rischiano di portarli su questa strada. Ma, sinceramente, non ho fatto e non farò nulla per incentivarli. Credo che a un certo punto sia giusto cambiare. Con loro saremmo alla quarta generazione: un po’ eccessivo. E poi, in verità, si ha paura che i figli non riescano bene come siamo riusciti noi, mentre per loro si desidera il massimo. Mio padre non mi ha mai incentivato proprio per questo. Come sei arrivato al giornalismo? Non per passione, direi piuttosto per caso. 16 stati numerosi gli inviati che non hanno potuto partecipare, trattenuti a Baghdad dalle recenti elezioni. Aprendo la serata, il presidente dell’Associazione Max David (e primo insignito, nel 1980’81, del premio) Lucio Lami, affiancato dal vice-presidente Max Victor David, figlio del grande giornalista, non ha mancato di sottolineare il tributo di sangue che questo mestiere continua a pagare. “Il 2004 – ha detto – è stato l’anno record dei non ritorni. 129 inviati sono rimasti sul campo o sono stati assassinati in servizio: quattro in Africa, dieci in Europa e negli ex Paesi sovietici, 26 in America Latina, 35 in Asia e nel Pacifico, 54 in Medio Oriente, compreso il nostro Enzo Baldoni”. Di qui il particolare valore di questo premio: “Riconoscere il merito di chi, per testimoniare la realtà, ha accettato una professione che, nel migliore dei casi, è difficile, delicata e pregna di responsabilità e, nel peggiore, è di grande fatica e molto rischiosa”. Un mestiere duro e pericoloso, quello dell’inviato, ma non solo: un mestiere che sta anche vivendo tempi difficili. Lo ha rimarcato il presidente onorario della giuria Sergio Zavoli che, dopo aver riconosciuto il contributo dato a questa categoria professionale, negli ultimi dieci anni, dalle donne, ha evidenziato come vada scomparendo, oggi, la figura classica dell’inviato, e come questo rappresenti un “segno di precarietà di una grande professione, sul cui futuro non si può dire niente di certo”. Anche se, ha poi aggiunto, proprio “la velocità dell’informazione quotidiana, e la scarsissima traccia che lascia, fa sì che la figura dell’inviato speciale diventi ancora più importante”. Inviati speciali. “Professionisti che cercano risposte laddove è difficile o addirittura pericoloso fare domande”: così li ha definiti, nel suo intervento, il vicepresidente della Provincia di Milano, Alberto Mattioli, il quale ha voluto anche ringraziare, nell’occasione, il presidente dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia Franco Abruzzo e il direttore della Scuola di giornalismo Gigi Speroni, entrambi presenti alla cerimonia. “Un sentito grazie – ha detto – a Franco Abruzzo, che governa con instancabile generosità e saggezza l’Ordine e che, con altrettanta disponibilità, si dedica a trasferire entusiasmo e disciplina ai molti giovani attratti da un mestiere tanto “Senza libertà di stampa, questo mestiere muore” Pensavo, allora, alla carriera diplomatica, ma volevo rendermi autonomo presto, e la strada non era delle più brevi. Mi sarebbe anche piaciuto pilotare gli aerei, ma all’Accademia di Aeronautica militare era tutta ingegneria, e io in matematica non sono mai stato un asso. Così, visto che mio padre era giornalista, l’ho fatto anch’io. Ma solo dopo i primi tre-quattro anni ho capito di avere i numeri per riuscire. È stato allora che mi sono innamorato del mestiere. Prima mi piaceva e basta. Mi piaceva il tipo di vita che facevo, le uscite sui fatti di nera con l’autista, gli orari impossibili. Ricordo ancora il primo morto, un suicida alla Stazione Centrale: non sapevo che, poi, ne avrei visti tanti. Ho amato il giornalismo e, soprattutto, ho fatto mia la lezione di mio padre, che mi ha insegnato ad avere rispetto per questo mestiere, e a pretendere che gli altri l’abbiano per noi che lo facciamo. Un reportage che ricordi in modo particolare. Tantissimi. Il periodo nel quale sono stato corrispondente a Mosca negli anni della Perestrojka: è stato straordinario vedere lo svegliarsi di un popolo da sempre paralizzato. E l’avventura di Nelson Mandela. E il contatto continuo e quotidiano con israeliani e palestinesi, dai rappresentanti politici alla gente comune. Quello dell’inviato è un mestiere ad alto rischio. Sarà capitato anche a te di vedertela brutta. affascinante quanto difficile e delicato”. “E a Gigi Speroni che, con grande serietà e rigore, dirige una Scuola di giornalismo che la sua fatica consente di confermare tra le più autorevoli e rinomate, non solo di Milano o della Lombardia, ma dell’intero Paese”. Fra i numerosi partecipanti alla cerimonia di premiazione, anche il professor Ermanno Arslan, sovrintendente del Castello Sforzesco; il presidente de il Giornale Gian Galeazzo Biazzi Vergani; Francesco Saverio Borrelli, già procuratore generale della Repubblica di Milano; il pittore Mario Donizetti; il sovrintendente alla Scala Carlo Fontana; il comandante della Regione Carabinieri Lombardia, generale Antonio Girone; il comandante del Presidio militare, generale Roberto Jacomino; il console di Francia Renaud Levy; il console della Federazione russa Alexander Nurizade; il direttore de Il Sole 24 Ore Ferruccio de Bortoli; l’editorialista de il Giornale Mario Cervi; l’editorialista del Corriere della Sera, ed ex direttore, Piero Ostellino. Oltre a due studenti del master in giornalismo che Lucio Lami tiene all’Università Cattolica del Sacro Cuore, “premiati” dal loro docente con due inviti alla serata. Tante volte, ma preferisco non parlarne. La paura mi accompagna sempre, ritengo che sia sano avere paura, solo gli stupidi non ce l’hanno. Prudenza? No, quella no. Si va avanti, ci si muove con paura e, direi, con una fatalistica imprudenza. Non si può fare diversamente. Hai posto l’accento, ritirando il premio, sul problema della libertà di stampa, e hai detto che, senza libertà di stampa, il mestiere dell’inviato muore. Certo. Il “politicamente corretto” è una contraddizione in termini con questo lavoro. Non puoi fare l’inviato, scrivere, raccontare da inviato, tenendo conto di questo o di quel limite imposto da questa o da quella linea politica. All’estero? No. Nei Paesi anglosassoni, in Francia, in Germania, c’è molta più autonomia. Un esempio. In occasione delle elezioni americane la Fox, che è la televisione più vicina a Bush, due giorni prima del voto uscì con la notizia che un sondaggio dava vincitore Kerry. Non so se in Italia, in una situazione analoga, sarebbe accaduta la stessa cosa. ORDINE 3 2005 I N T E R V E N T O Proposta: l’Ordine dei giornalisti costituisca un gruppo di lavoro per segnalare i casi più macroscopici di abuso linguistico “ Usate a proposito e a sproposito, le parole stanno perdendo gran parte del loro significato. I termini enfatici, come esclusivo, speciale, eccezionale, strepitoso, storico e così via esclamando, a furia di essere abusati perdono la loro forza e, se si vuole effettivamente enfatizzare, bisogna fare come quella marca di yogurt che offre puro pleasure, perché il piacere e il gusto non sono più sufficienti ad esprimere il concetto che si intende vendere” “ Perché questo intervento non rimanga uno sterile pianto, mi permetto di proporre all’Ordine l’istituzione di un ristretto gruppo di lavoro che segnali direttamente ai direttori e ai colleghi interessati i più macroscopici casi di abuso linguistico, suggerisca le correzioni e, magari su questo stesso giornale, con una rubrichina di pochissime righe, faccia delle proposte concrete, alternative all’inarrestabile pressione di neoanglicismi” L’italiano invaso da 9mila anglicismi di Michele di Pisa el 2000 in tutto il mondo si parlavano circa 6.700 lingue. Oggi dovrebbero essere un centinaio meno, se è vero, come sostiene l’Unesco, che ne muore una ogni due settimane. Il 60% delle lingue sono parlate da meno del 4% della popolazione mondiale e sono a rischio di estinzione. L’italiano, per nostra fortuna, non fa parte di questo gruppo, ma a volte si ha la sensazione che stiamo facendo di tutto per fare perdere alla nostra lingua quella massa critica che le impedisce di collassare nel giro di pochi decenni. La maggior parte delle lingue muore insieme alle comunità che le parlano. Nel caso dell’italiano, invece, il rischio è la permeazione, l’annacquamento, come un buon vino che diventa acqua e in essa si annulla a furia di allungarlo. Nuovi anglicismi, ogni anno, entrano nella nostra lingua; alcune per arricchirla a fronte di prodotti prima inesistenti, altri semplicemente per sostituire termini comuni non più alla moda. In totale le voci del Dizionario delle parole straniere di Tullio De Mauro sono 10.650, inglesi nell’82,5% dei casi. “Poca cosa”, assicura il professor De Mauro, per il quale 8.800 parole inglesi non rappresentano un rischio. Non la pensava così, invece, Arrigo Castellani, scomparso lo scorso giugno, il quale già in un saggio del 1987 manifestava una seria preoccupazione per lo stato di salute della nostra lingua. Affermare che quasi 9.000 anglicismi non costituiscano un pericolo ha senso e non ha senso. Dal punto di vista statistico, indubbiamente, su un corpus di 800.000 tra lemmi ed accezioni, quanti ne registra il dizionario della Treccani, rappresentano una percentuale sopportabile. Ma, se li riferiamo ad un universo più ristretto possono destare delle preoccupazioni. L’italiano medio, ad esempio, non usa più di 2.000 parole, per cui quello che bisognerebbe vedere è quanti di tali anglicismi sono o stiano per entrare nel linguaggio quotidiano. N lcuni anni fa, con alcuni collaboratori d’una mia rivista d’informatica, ho lavorato a costruire un dizionario di correzione ortografica per gli utenti del sistema operativo libero Linux. Per frullare le parole necessarie abbiamo messo in un computer tutti gli articoli pubblicati in anno dal Corriere della Sera e da tre grandi settimanali disponibili in rete, oltre ad un migliaio di libri variamente assortiti. Ne è venuto fuori, fra l’altro, che il vocabolario usato dalle quattro testate prese in considerazione era di circa 6.000 parole, di cui 1.400 verbi. Purtroppo allora non ho pensato di conteggiare gli anglicismi. Ma è in rapporto a queste 6.000 parole che gli 8.800 termini inglesi potrebbero essere preoccupanti. A Non potendo ripetere l’operazione fatta alcuni anni fa (che ha impegnato per un bel po’ di mesi un paio di persone), ultimamente ho provato a contare le parole inglesi presenti nei titoli del Corriere e nelle pubblicità tv di prima serata. Nulla di scientifico. Ma i risultati possono rappresentare un’indicazione. Su una media quotidiana di 150 titoli, 11 contenevano almeno un termine inglese. Il rapporto però saliva a 4 su 18 nelle pagine degli spettacoli. Con gli applausi, ad esempio, che diventano regolarmente “ovation” e debbono essere necessariamente “standing”, anche se gli spettatori sono quattro gatti e rimangono comodamente stravaccati nelle loro poltrone. (Chissà se i colleghi che non sanno resistere all’impellenza di aggregarsi a queste mode ricordano che “ovation” viene dagli ovini che gli antichi romani sacrificavano in onore del trionfatore.) Neanche nei titoli di Ordine-Tabloid mancano gli anglicismi. n Tv, con riferimento alle sole emittenti nazionali, e con l’esclusione di Videomusic e Rete A, l’8% dei titoli delle trasmissioni sono in inglese o contengono termini inglesi; il 30% dei film in programmazione nelle sale durante gli ultimi tre mesi del 2004 sono o contengono termini americani, mentre 6 titoli su 10 delle canzonette mandate in onda dalle tv per giovani sono totalmente in inglese. Non parliamo della pubblicità, in particolare quella tv. Su 40 messaggi di prima serata, ne ho contato almeno 3 totalmente in inglese, 10 con sottofondo di canzoni inglesi e 15 con almeno una parola in questa lingua, in particolare nella frase conclusiva, il cosiddetto payoff. Mi ha colpito in particolare la pubblicità di uno yogurt che prometteva del puro “pleasure”, come se il consumatore l’equivalente italiano “gusto” o “piacere” non l’avrebbe capito. Ma torniamo ai giornali. Dei tre lanci importanti effettuati ultimamente dalla Mondadori, tanto per non fare nomi, due, Vanity Fair e Flair, hanno una testata inglese. Non dovrei essere io a strapparmi le vesti. La prima testata che ho lanciato, nel ‘75 si chiamava (e si chiama ancora) Data Manager. Poi ne ho lanciato altre due con termini inglesi. Ma già tra il 1982 e l’83 avvertivo l’esigenza di un Dizionario dell’informatica inglese-italiano che ho avuto il piacere di firmare assieme ad altri due pionieri di questa materia. Molti termini oggi correnti li coniammo o li ufficializzammo in quell’occasione: così “cartella” per “file”, “chiocciola” per il simbolo @. Numerose altre nostre proposte sono cadute nel vuoto o sono state superate da proposte migliori. Ma quelli erano anche anni particolari. I giornali si riferivano al computer col termine “cervellone” e una delle più prestigiose firme del giornalismo italiano bacchettava la mania di chiamare “hardware” il pentolame e “software” la biancheria (sic!). Certamente avremmo dovuto fare come i francesi che hanno inventato il “materiel” e il “logiciel”, I ma non abbiamo avuto abbastanza coraggio. In Francia, però, questo compito se l’era assunto il governo, mentre da noi, in particolare in questi ultimi anni, imperversano le authority, i ticket, il welfare, la devolution… Sembriamo tutti orfani dell’inglese. O ci vergogniamo delle nostre radici. Se, in un paese che non innova, il linguaggio tecnico e specialistico arriva di peso dagli Usa, non dovrebbe essere così quando si tratta di moda o di pettegolezzi femminili. Indubbiamente gli uomini del marketing avranno avuto le loro brave ragioni, ma testate come Vanity Fair (chiedo scusa ai colleghi che ci lavorano: desidero solo fare un esempio) per il lettore sono un danno doppio. Da un lato, perché inquinano la lingua italiana; dall’altro perché imbarbariscono le conoscenze d’inglese degli italiani. Nella pubblicità televisiva fatta a questa testata, la pronuncia era un ibrido (Vànity Féar) che non potrà mai consentire all’italiano medio di capire un americano che si riferisce all’equivalente Usa pronunciando “Væn’ri Fèa:”. Nell’ascoltatore, infatti, si crea un vissuto di suoni estremamente diseducativo ai fini della comprensione dell’inglese parlato. Molti italiani conoscono bene l’inglese scritto, ma non riescono a sostenere una conversazione proprio perché c’è uno iato tra il parlato che si aspettano di sentire e quello dell’interlocutore. Prendiamo un altro termine che incontriamo quasi quotidianamente: report (ma lo stesso vale per express, control, e così via). In Rai c’è anche un’ottima trasmissione giornalistica che si chiama Report. Bene. Quando ci si limita a scriverlo, nessun problema. Sta al lettore sapere come si legge e, se non lo sa, peggio per lui. Il problema sorge per i colleghi delle radio o della tv. Per i quali la pronuncia corrente è “réport”, senza che a nessuno venga il sospetto che magari un inglese o un americano possa leggere “r’pòrt”. E così (i)xprèss, kantròl, ecc. E ancora Sciumàkhær (che però è tedesco, ma fa lo stesso), invece dello Sciùmacher che imperversa tra i cronisti sportivi. Quello delle sdrucciole, in effetti è una vera iattura. In quanto ad accenti sembra che l’italiano si stia lentamente magiarizzando. Le parole piane e quelle tronche non sono più di moda. Tutto va sdrucciolato sulla terzultima. urante la guerra del Kossovo, era difficile ascoltare qualcuno che pronunciasse Kossòvo. Tutti Kòssovo, perché suona meglio. Eppure la pronuncia sdrucciola corrisponde a quella serba e implicitamente, in bocca ad un politico o un diplomatico, vale a riconoscere il diritto dei serbi su quella regione, così come l’accento piano di Kossòvo, essendo quello albanese, equivale a sostenere le rivendicazioni autonomistiche di questo popolo. Quand’ero ragazzo parlavo anche albanese, perciò preferisco Kossòvo. Come se non bastasse, c’è l’usura, la banalizzazione della lingua. Usate a proposito e a sproposito, le parole stanno perdendo gran D parte del loro significato. I termini enfatici, come esclusivo, speciale, eccezionale, strepitoso, storico e così via esclamando, a furia di essere abusati perdono la loro forza e, se si vuole effettivamente enfatizzare, bisogna fare come quella marca di yogurt che offre puro “pleasure”, perché il piacere e il gusto non sono più sufficienti ad esprimere il concetto che si intende vendere. Per evitare di pensare che ciò valga solo per i pubblicitari, prendiamo un esempio tipico del linguaggio giornalistico. Negli anni ‘60, due fatti avevano colpito fortemente l’opinione pubblica: la conquista della cima (o vertice) del K2 e l’incontro di due vertici della politica mondiale, i 2 K, ossia Kennedy e Krusciov. Il loro fu il primo vertice di cui ricordo avere letto sui giornali. Poi i vertici si sono via via abbassati, e oggi sulle pagine di cronaca quotidianamente si registrano vertici tra sindaco e prefetto, tra maresciallo dei carabinieri e comandante dei vigili urbani, tra capo degli accalappiacani e funzionario del canile municipale. Anche questo è un modo per fare morire una lingua. Non si tratta di evoluzione linguistica, perché la gente non partecipa a questo processo: lo subisce soltanto. Infine la grammatica. In edicola oggi tutto è in vendita a “soli” due, tre, quattro o cinque euro (prima erano a “sole” quattro mila lire, ecc.). ossibile che non ci si ricordi che gli avverbi non vanno declinati? Sì, forse l’italiano non morirà. Ma se indeboliamo fortemente la lingua che è la nostra materia prima, come potremo difendere i livelli di occupazione, quando in un’Italia totalmente anglofona la percentuale delle copie di giornali e riviste fatte e stampate in Inghilterra o negli Usa supererà quella di produzione italiana? È già quanto sta succedendo con la stampa medica, un tempo fiorente, e con quella scientifica in genere. Nessun ricercatore italiano che si rispetti e scopra un’acqua un po’ meno tiepida di quelle che conosciamo si sogna di darne l’annuncio sulle riviste italiane. Tutte le nuove scoperte debbono prima essere proposte (in inglese) alle varie Nature, Science, JAMA, BMJ, e così via. Alle testate italiane resta solo l’onore di pubblicare i risultati delle ben più modeste ri-sperimentazioni cliniche ponsorizzate o caldeggiate dalle case farmaceutiche. Chi vuole un aggiornamento di prima mano deve abbonarsi alle pubblicazioni inglesi. Vent’anni fa non era così. Perché questo intervento non rimanga uno sterile pianto, mi permetto di proporre all’Ordine l’istituzione di un ristretto gruppo di lavoro che segnali direttamente ai direttori e ai colleghi interessati i più macroscopici casi di abuso linguistico, suggerisca le correzioni e, magari su questo stesso giornale, con una rubrichina di pochissime righe, faccia delle proposte concrete, alternative all’inarrestabile pressione di neoanglicismi. P UGIS: IL VERTICE DEI GIORNALISTI SCIENTIFICI Paola De Paoli confermata presidente Milano, 25 gennaio 2005. L’Unione dei giornalisti italiani scientifici (Ugis), che raccoglie oltre 150 giornalisti che scrivono di scienza e tecnologia, ha attribuito le cariche per il triennio 2005-2007 nell’ambito del nuovo Consiglio direttivo, eletto dall’assemblea di fine 2004. Confermata Paola De Paoli alla presidenza (carica che ricopre dal 1984), il Consiglio direttivo ha nominato vice-presidenti Giovanni Anzidei e Adriana Bazzi. Giorgio Santocanale è il nuovo segretario-tesoriere. Il Consiglio è completato da Furio Reggente e Isabella Vannutelli, consiglieri. Presidente del Collegio dei probiviri è stato confermato Giuseppe Prunai, cui si affiancano Luca Ottenziali e Adriana Giannini. Eugenio Sorrentino è il nuovo presidente del Collegio dei sindaci revisori, coadiuvato da Emanuele ORDINE 3 2005 Vinassa de Regny e Carlo Di Nardo come sindaci effettivi, mentre Alberto Pieri e Gabriella Fiecchi sono supplenti. Paola De Paoli ha così sintetizzato la visione che guida l’Ugis, a commento dell’attività 2004 e in preparazione dei programmi di quest’anno: “Le finalità istituzionali dell’Ugis sono uscite rafforzate, nel 2004, anche a livello internazionale grazie all’interscambio con le associazioni dei giornalisti scientifici di altri Paesi. È una conferma che solamente attraverso la collaborazione e la comunanza tra colleghi si può favorire l’aggiornamento professionale mediante incontri, promossi e organizzati dall’Ugis, con scienziati e tecnologi. Notiamo, inoltre, un particolare impegno dei più giovani tra i giornalisti scientifici italiani nell’approfondire i temi e allargare i contatti necessari al loro lavoro quotidiano, che – però – non sempre viene adeguatamente ricompensato”. L’Ugis, costituita nel 1966 con Giancarlo Masini primo presidente, ha lo scopo di stimolare la divulgazione scientifica attraverso i media italiani, curando l’aggiornamento professionale dei soci attraverso seminari, giornate di studio, incontri con scienziati e ricercatori in tutto il mondo. Fa parte dell’Eusja (European union of science journalist associations, con sede a Strasburgo) di cui è tra i fondatori. Per ulteriori informazioni: Dario Andriolo, segreteria tecnica Ugis, corso Sempione 39, 20145 Milano, tel. 02 33611607, fax 02 3314505, e-mail: [email protected]; www.ugis.it 17 di Annamaria Delle Torri Bilancio positivo dell’assistenza legale dell’Ordine: numerose le sentenze ottenute - che fanno giurisprudenza a favore dei giornalisti Maggiori garanzie per i free lance, più certezze, dal punto di vista giuridico, per chi collabora a quotidiani e periodici. Ora gli editori che non pagano hanno meno possibilità di farla franca. Il servizio istituito cinque anni fa dall’Ordine della Lombardia (su iniziativa del suo presidente e del Consiglio regionale e gestito dall’avvocato Luisella Nicosia) per fornire assistenza legale gratuita ai propri iscritti, al fine di recuperare i crediti professionali e di far rispettare dagli editori le tariffe professionali, approvate annualmente dal Consiglio nazionale, ha dato rilevanti frutti, sia per quanto riguarda le somme effettivamente riscosse, grazie all’azione promossa in sede giudiziale, sia soprattutto per quanto riguarda – ed è questo un aspetto di rilevante importanza – l’affermazione di una linea di giurisprudenza sempre più consolidata. Tra le tante sentenze pronunciate in questi anni a favore di molti colleghi (abbiamo riferito il mese scorso della decisione del giudice milanese che ha condannato Il Mattino di Napoli a “saldare il conto” con una giornalista alla quale aveva negato il compenso per le proprie collaborazioni), le più significative riguardano l’accoglimento del principio di legge previsto dall’art. 2225 e seguenti del nostro Codice civile, in base al quale, in assenza di accordo diverso, vanno applicate alle prestazioni giornalistiche le tariffe professionali, senza possibilità per il giudice di negarle, se non con adeguata motivazione. Circostanza importante, destinata, nel lungo periodo, a scoraggiare comportamenti di arbitrio e di unilateralità nella determinazione ex post dei compensi, così diffusa tra editori e committenti a danno e a scapito della professionalità dei giornalisti che operano come liberi professionisti. Dai compensi negati per le collaborazioni fino al riconoscimento del diritto d’autore Gli editori che non pagano hanno ora meno possibilità di farla franca. Affermato il principio di legge della legittimità delle tariffe profes Ufficio stampa per aspirante deputato europeo Vediamole, nella loro specificità, alcune di queste sentenze. Si riferiscono, in prevalenza, all’affermazione del diritto (e delle buone ragioni) dei giornalisti ad ottenere il giusto compenso per la pubblicazione di articoli, redatti su commissione, da editori insolventi. Ma riguardano anche un più ampio ventaglio della collaborazione giornalistica, dalla esecuzione di servizi fotografici alla organizzazione e alla pratica gestione di uffici stampa. A quest’ultimo proposito merita attenzione una pronuncia del Tribunale di Milano, a favore del giornalista P.C., che si era indirizzato al servizio legale dell’Ordine, per rivendicare un credito professionale maturato nei confronti di R.L., candidato alle elezioni europee del 1999 che si era rivolto al giornalista incaricandolo di costituire un ufficio stampa per sostenere e promuovere la sua campagna elettorale. A conclusione del proprio lavoro, non avendo ricevuto il compenso spettantigli (da liquidarsi, secondo previo accordo verbale con il committente, alle tariffe professionali in vigore), P.C. inviava al candidato-committente la propria notula, già liquidata dall’Ordine di appartenenza, per la complessiva somma di lire 15.300.000. Ma si vedeva negare il pagamento. Rivoltosi al servizio legale dell’Ordine della Lombardia, inviava regolare diffida al debitore. Ma anche questo sollecito cadeva nel vuoto. Con il patrocinio dell’avvocato Luisella Nicosia, il giornalista ricorreva allora al giudice per ottenere ingiunzione di pagamento. Notificato il provvedimento, lo stesso veniva opposto e si instaurava regolare giudizio di merito al fine di accertare l’effettività delle prestazioni rese e la fondatezza della domanda riconvenzionale di danni svolta dalla controparte in sede di cognizione. Il candidato-committente, infatti, in sede di opposizione, non solo sosteneva di non aver mai conferito alcun incarico professionale a P.C. in qualità di responsabile dell’ufficio stampa, ma addirittura negava di avere mai chiesto a P.C. di svolgere qualsivoglia altra attività di natura giornalistica. E rivendicava la pretesa gratuità delle prestazioni rese dal giornalista. Questi - stando alla versione del candidato-committente - avrebbe svolto un semplice ruolo di segreteria, dichiarandosi disposto a rinunciare ad ogni compenso in denaro in cambio di un non bene precisato vantaggio indiretto conseguibile in caso di successo elettorale del signor R.L.. Il candidato chiedeva, inoltre, il riconoscimento e la liquidazione a suo favore di un risarcimento del danno, provocato, a suo dire, dal comportamento tenuto dal giornalista durante il suo rapporto di collaborazione. 18 Costituitosi in giudizio il giornalista, contestate tutte le eccezioni di controparte, insisteva nella conferma del decreto opposto, rilevando di aver svolto un complesso di attività strettamente connesse alla propria qualifica di giornalista e quanto al compenso ribadendo di aver agito in via monitoria secondo il parere di congruità liquidatogli dall’Ordine, ai sensi degli articoli 2225 e 2233 Codice civile. In sede istruttoria venivano assunte prove orali, dalle quali emergevano l’assoluta infondatezza di qualsivoglia eccezione difensiva del debitore (e tanto meno della pretesa richiesta di danni) e l’effettività del conferimento dell’incarico professionale e dell’esecuzione dello stesso. All’esito del giudizio, il Tribunale di Milano riconosceva provato il credito del giornalista, ritenendo insussistente qualsivoglia dubbio in ordine al conferimento dell’incarico da parte di R.L. a P.C. di responsabile dell’ufficio stampa, sia per le prove testimoniali assunte, sia per le emergenze documentali in atti. È stato dimostrato - secondo il giudice che il giornalista, nei mesi di svolgimento dell’incarico professionale, si recava quotidianamente nell’ufficio elettorale del candidato, seguendo lo stesso a tutti gli incontri di promozione e presentazione, occupandosi del sito internet, preparando i comunicati stampa. A giudizio del Tribunale, “tutta l’attività sopra elencata rientra sicuramente nell’ambito di competenza propria del giornalista professionista e come tale va remunerata se non vi sono diversi accordi tra le parti, secondo quanto previsto dall’art. 2235 c.c. sulla base della tariffa professionale”. Il giudice ha altresì chiarito che “in atti vi è la liquidazione e di qui il vaglio di conformità da parte dell’Ordine dei giornalisti, quindi poiché parte opponente si è limitata a contestare genericamente il quantum senza alcuna specifica contestazione, si ritiene che non vi siano ragioni per discostarsi dalla valutazione già effettuata dall’Ordine professionale, alla quale anche il giudice è tenuto, salvo una manifesta incongruità della liquidazione, che peraltro non emerge”, condannando pertanto il debitore al pagamento a favore del giornalista della somma di euro 5.846,00 (decurtata dalla parcella una minima somma relativa a rimborsi spese già percepiti), oltre contributo previdenziale Inpgi, Iva, ritenuta d’acconto ed interessi legali dal 12.07.1999 al saldo, rigettando in toto la domanda riconvenzionale proposta da R.L. (Trib. Milano n. 8532/02). La sentenza - è utile precisarlo - risulta importante, per la stessa particolare attività svolta dal giornalista, relativa a prestazioni di ufficio stampa, spesso oggetto di contestazioni in sede giudiziale e di non sempre facile dimostrazione per la loro stessa peculiarità. Direttore responsabile di rivista Sulla stessa linea, una sentenza del Giudice di pace di Monza, che ha riconosciuto il credito di un giornalista, che aveva prestato la propria attività in via occasionale come direttore responsabile di una rivista (Percorsi italiani, edita a Firenze), per l’uscita di un numero della stessa. Il giornalista W.S., dopo aver terminato il proprio lavoro, regolarmente data alle stampe la rivista, si vedeva contestare dall’editore la parcella, con l’arbitraria pretesa di ridurre il compenso già concordato e liquidato dall’Ordine professionale. W.S. decideva perciò di rivolgersi al servizio legale dell’Ordine della Lombardia. Veniva richiesto a Percorsi Italiani il pagamento di quanto dovuto al giornalista e, alla scadenza infruttuosa del termine indicato, veniva richiesto, con l’assistenza dell’avvocato Luisella Nicosia, il decreto ingiuntivo di pagamento per la somma di 1.579,19 euro nei confronti dell’editore fiorentino, il quale si opponeva eccependo preliminarmente il difetto di competenza territoriale del giudice adito in quanto, a suo dire, l’incarico era stato conferito e doveva essere eseguito in Firenze, sede legale della pubblicazione. Inoltre l’editore sosteneva che, non essendo stato pattuito il luogo di pagamento della prestazione, questa dovesse, per consuetudine, essere attribuita a Firenze. Nel merito il debitore sosteneva l’infondatezza del credito di W.S. per pretese manchevolezze nell’esecuzione dell’incarico assegnatogli. Secondo la difesa dell’editore, infatti, W.S. non avrebbe adempiuto alle obbligazioni contrattualmente assunte in qualità di direttore responsabile; per ciò non avrebbe avuto diritto ad alcun compenso. Costituitosi in giudizio il giornalista contestava le istanze avversarie e ne chiedeva il rigetto, con conseguente conferma del decreto ingiuntivo. Il giudice, ritenuta la propria competenza territoriale (essendo da intendersi quale luogo di esecuzione del pagamento il domicilio del creditore ex art. 1182 c.c., nel caso di specie Monza, appunto), accoglieva l’istanza di provvisoria esecuzione, non essendo l’opposizione fondata su prova scritta né di facile soluzione. All’esito del giudizio, il Giudice di pace riteneva “destituita da ogni fondamento la tesi sostenuta dalla rivista Percorsi Italiani; infatti dalla documentazione prodotta e dalle testimonianze rese in istruttoria si ha la conferma che W.S. ha svolto regolarmente il proprio incarico di direttore responsabile della rivista Percorsi Italiani, provvedendo altresì alla revisione degli articoli pubblicati sulla rivista, come hanno confermato i testi escussi. E non risulta che tale sua attività sia stata in alcun modo limitata od ostacolata dalla circostanza di essere stata eseguita prevalentemente a Milano; “tale circostanza, dedotta dalla opponente, è da ritenersi ininfluente perché il giornalista ha svolto ugualmente il lavoro affidatogli”. Tutto ciò ha portato alla conferma del decreto opposto, con il rigetto dell’opposizione infondata e la conseguente condanna dell’editore al pagamento di quanto dovuto al giornalista, come da sua parcella (Giudice di pace di Monza n. 3210/02). Ancora una volta, abbiamo dunque assistito al rigetto di eccezioni pretestuose sull’attività di un giornalista, svolte al solo fine di sottrarsi a un pagamento dovuto e di opporsi giudizialmente con ogni mezzo al riconoscimento del credito professionale maturato dal professionista. Diritto d’autore: perde Rti (Fininvest-Mediaset) Di altro genere, seppure sempre annoverata tra le sentenze rese in forza di un giudizio radicato grazie al patrocinio fornito ai propri iscritti dall’Ordine della Lombardia e con l’assistenza dell’avvocato Luisella Nicosia, è la pronuncia di condanna a carico della convenuta Rti Spa (Fininvest-Mediaset) e del terzo chiamato A. D., resa dal Tribunale di Monza, in merito a un risarcimento del danno per illegittimo utilizzo di opera dell’ingegno altrui. Nel caso di specie, il giornalista P. D., esperto disegnatore e vignettista, rilevava l’indebita utilizzazione di proprie illustrazioni nell’ambito di un programma trasmesso su Canale 5. Si trattava di una serie di immagini realizzate dal giornalista, che vanta un ampio curriculum professionale, per un inserto commissionato da una rivista di altro editore. P.D., constatato l’uso arbitrario e non autorizzato del proprio lavoro, citava in giudizio Rti, chiedendo la condanna della stessa al risarcimento del danno e assumendo che si trattava di opere dell’ingegno ai sensi della L. 633/41, utilizzate in palese violazione del dettato normativo, non essendo mai stato chiesto il consenso dell’autore, né essendo tantomeno citato il suo nome nel corso della trasmissione, né il titolo dell’opera da cui erano state tratte le illustrazioni. Il fatto, che doveva ritenersi lesivo del diritto d’autore, non poteva giustificarsi con finalità asseritamente culturali, in quanto Canale 5 è una rete televisiva commerciale e nell’ambito del programma che aveva utilizzato le illustrazioni erano anche stati inseriti spot pubblicitari relativi a prodotti strettamente connessi alle immagini di P.D.. Le sei illustrazioni indebitamente utilizzate erano state valutate dall’Ordine regionale dei giornalisti quali disegni originalissimi, sotto il profilo della creatività, della novità ORDINE 3 2005 D I B A T T I T O Quando “i cari colleghi assunti” diventano kapò di Anna Mannucci (articoli, uffici stampa) disinvoltamente violato ssionali approvate annualmente dal Consiglio nazionale dell’Ordine e dell’impatto sul lettore ed era stato ritenuto congruo un compenso di lire 2.000.000 lorde cadauna. Rti, chiedendo, dal canto suo, il rigetto delle domande attoree, sollecitava la chiamata in causa di A.D.P., l’autore del programma, che aveva scelto le immagini e i disegni da mandare in onda, secondo un contratto che legava autore ed emittente. Il terzo chiamato si costituiva in giudizio, chiedendo a sua volta il rigetto delle domande nei suoi confronti, assumendo di aver consegnato già quindici giorni prima della messa in onda le immagini alla responsabile del programma, affinché ne valutasse la correttezza per la messa in onda. Sulla base delle risultanze istruttorie, documentali e testimoniali, il Tribunale di Monza giudicava fondata la domanda dell’attore, “ritenendo ravvisabile la violazione del diritto morale d’autore, che sussiste anche dopo la cessione del diritto di utilizzazione economica dell’opera (nel caso di specie ceduto genericamente - a detta del giudicante - all’editore terzo estraneo al giudizio) e attribuisce il diritto di rivendicare la paternità dell’opera e di opporsi a qualsiasi deformazione, mutilazione, modificazione o ad ogni atto a danno dell’opera stessa che possano essere di pregiudizio all’onore e alla reputazione dell’autore”. La visione della videocassetta con la registrazione della trasmissione, effettuata nel contraddittorio delle parti, ha consentito infatti di verificare che, durante la trasmissione, erano state mostrate le illustrazioni prodotte dall’attore, “senza alcun riferimento né all’autore, né alla pubblica- zione dalla quale erano state tratte, né tantomeno potendosi invocare la libera riproducibilità delle immagini, per finalità di critica, insegnamento, discussione, non ravvisabili nel programma in oggetto”. Il Tribunale ha quindi riconosciuto la lesività ai danni della reputazione dell’autore del contesto in cui sono state trasmesse le immagini, che non ha alcun connotato scientifico. “Nel caso di specie, era palese la mancata menzione dell’autore e dell’opera da cui erano state tratte le illustrazioni, circostanza facilmente verificabile dalla convenuta Rti con un minimo di diligenza, il che già la esponeva a responsabilità, non essendo tale comportamento consentito nemmeno nei casi di libera utilizzazione dell’opera ai sensi dell’art. 70 L. autore”. “Passando alla liquidazione dei danni, non può prescindersi da una valutazione equitativa, che deve tener conto del fatto che la trasmissione delle illustrazioni è stata brevissima e che il pregiudizio alla reputazione dell’attore è per ciò stesso limitato, avvertito sicuramente dall’autore ma senza affetti nella generalità dei consociati. Per tali motivi, si condanna RTI a pagare a P.D. la somma di lire 6.000.000, oltre interessi legali dalla data del fatto al saldo effettivo. Quanto al terzo, lo stesso deve essere condannato a pagare a RTI le somme che la stessa dovrà pagare in esecuzione della sentenza, trattandosi di rapporto contrattuale che legava le parti, per il cui inadempimento agli obblighi il terzo chiamato non ha fornito la prova liberatoria richiesta”. (Trib. Monza 2983/02). Ufficio stampa Zetesis Per tornare al tema degli uffici stampa, è certamente importante una recente pronuncia del Tribunale di Milano a favore di L.M., giornalista che ha prestato attività di consulenza (con incarico di ufficio stampa e rapporti con i media) per una società - Zetesis. com Spa - sulla base di un contratto regolarmente siglato tra le parti. Le prestazioni che contemplavano un impegno per il professionista per un anno solare in realtà si sono interrotte prima della scadenza, per l’intervenuta dichiarazione di messa in liquidazione volontaria della società. In tale caso, il giornalista, assistito dall’avvocato Luisella Nicosia, ha chiesto in via giudiziale la condanna di Zetesis.com S.p.a. al pagamento delle proprie notule relative ai mesi di lavoro, nonché il riconoscimento, a titolo di danno per il mancato guadagno, di quanto ancora contrattualmente previsto fino alla scadenza del contratto. All’esito del giudizio, il Tribunale, ritenuta provata la fondatezza della pretesa creditoria azionata mediante la produzione in giudizio del contratto di conferimento dell’incarico di responsabile dell’ufficio stampa e l’avvenuto espletamento delle prestazioni ORDINE 3 2005 pattuite dal gennaio al settembre 2001, anche per quanto dichiarato dai testimoni, condannava la società convenuta al pagamento di quanto dovuto per i mesi di attività (15.893,65 euro), oltre alla corresponsione degli interessi legali dalle singole scadenze al saldo effettivo. La Zetesis com S.p.a veniva altresì condannata al pagamento, a favore dell’attore, della somma di 8.521,54 euro, quale importo dovuto per gli ulteriori tre mesi di vigenza del contratto. Anche in questo caso venivano riconosciuti, in aggiunta, gli interessi legali dalla messa in mora al saldo effettivo, ritenendo che “poiché il contratto contemplava una naturale scadenza al dicembre 2001 ed un corrispettivo complessivo, da pagarsi con scadenza mensile, si deve affermare la non recedibilità ad nutum dal rapporto per mero arbitrio del committente, con conseguente suo obbligo di provvedere al pagamento del corrispettivo dovuto per l’intero periodo. Nella specie, ritenuto applicabile l’art. 2237 c.c. (trattandosi dell’impegno a fornire non un’opera bensì una prestazione professionale) deve ritenersi che le parti abbiano pattiziamente derogato alla facoltà di reces- Come sono cattivi gli editori! È uno dei temi centrali delle lamentele e delle rivendicazioni sindacali dei giornalisti, spesso associato alla indifferenza del governo e all’ingiustizia del mondo. Raramente ci si chiede come si comportano i giornalisti verso gli altri giornalisti. Le lamentele contro gli editori e il mondo talvolta coprono la mancanza di senso di responsabilità e la pavidità dei giornalisti garantiti, quelli assunti. Non sto parlando di eroismo o di sacrificarsi per gli altri ma di un minimo di correttezza, che infatti alcuni hanno, senza perdere il posto e nessuna conseguenza drammatica sulla carriera. Io sono una freelance, professionista, faccio questo lavoro da tanto tempo, per decine di testate, ho frequentato e sono stata anche al desk di molte redazioni. Insisto a dire che il 90% dei problemi dei freelance sono causati dai cari colleghi giornalisti assunti. Un capo con un minimo di senso di responsabilità permette una vita professionale e umana decente. Un capo scorretto – a questo punto un kapò – rende la vita indecente. Per quel che riguarda i compensi, la dignità, la valorizzazione delle competenze e così via. Esempi: partiamo da un argomento a cui tutti sono molto sensibili, il borderò. Ci sono quelli che ti danno il minimo e quelli che ti danno dieci euro in più (si parla di cifre miserevoli, a cui l’editore è totalmente indifferente). Ci sono quelli che si dimenticano di “segnare” l’articolo pubblicato, ci sono quelli che dicono “ma io credevo che tu avessi un contratto e dunque non ti mettevo a pagamento i singoli pezzi”. Ci sono quelli che ti pagano anche i pezzi non pubblicati, se accettati, e quelli che non lo fanno. Con lo stesso editore, nella stessa testata. Dunque, la colpa non è dell’editore e del destino cinico e baro. Un esempio che mi sta particolarmente a cuore: le idee rubate. Ci sono capi che ripetutamente si appropriano delle idee dei freelance e fanno fare l’articolo a qualcun altro. Senza pagarle, ovviamente, e spes- so senza neanche avvisare, così c’è anche l’umiliazione del freelance che si presenta a fare l’intervista e si sente dire “È già venuto un suo collega”. Come reagire? Facile rispondere di non proporre più idee, le idee dovrebbero essere il senso del lavoro del freelance. Stupido rispondere di fare causa, è come consigliare di non lavorare più. Se si litiga e si va in causa con una testata non si lavora più per tutto il gruppo e le consociate e tutti gli altri giornali che in qualche modo hanno legami con la proprietà o gli azionisti o chissà chi. E se poi il capo con cui litighi passa a un altro giornale, sei rovinato anche lì. Un/a freelance dovrebbe valere per le sue idee, per l’originalità e le qualità delle sue proposte, per le sue competenze, specializzazioni ecc. Invece siamo considerati alla stregua dei braccianti di una volta, usati perché costiamo poco e non possiamo avere nessuna pretesa, altrimenti il giorno dopo rimaniamo sulla piazza, a offrire le nostre braccia ma nessuno ci prende. Troppo spesso siamo dei “vù cumprà”, offriamo merce a basso prezzo, che sia scadente o di qualità fa poca differenza. Troppo spesso siamo ridotti a riempire gli spazi tra le pubblicità. E qui potremmo trovare un collegamento con i colleghi garantiti: la qualità del nostro lavoro, per cui bisognerebbe lottare molto più che per gli scatti di anzianità o il buono mensa. Una massa di precari impossibilitati a dire di no, costretti a non avere senso critico o perlomeno a non esprimerlo, obbligati a stare con la schiena piegata per poter sopravvivere, rischia di diventare un enorme problema per la libertà di informazione e forse, a dirla grossa, per la libertà. I cari colleghi assunti, i Cdr (esiste un cdr, uno, che si sia informato, non dico che abbia fatto qualcosa, della situazione dei freelance?) dovrebbero cominciare a preoccuparsi dei freelance, se non per solidarietà, per salvaguardare il diritto generale di fare buona informazione e il diritto dei cittadini a essere informati. “ I redattori, non gli editori, umiliano spesso i freelance e si appropriano anche delle loro idee e proposte “ so ad nutum riconosciuto al cliente, con conseguente impossibilità di sciogliersi dal vincolo contrattuale sino alla pattuita scadenza, salvo il sopravvenire di giusta causa (nella specie non allegata) (Trib. di Milano, n.8864/04). La pronuncia del giudice milanese risulta particolarmente importante - anche in questo caso - in quanto ribadisce una linea già più volte fatta propria dalla Corte di Cassazione che consolida un fondamentale principio giuridico. Secondo questo indirizzo interpretativo, infatti, il professionista che spende tutte le proprie energie lavorative a favore di un unico cliente di particolare rilievo o di un numero ristretto di clienti, trascurando altre occasioni di reddito, attende giustamente in cambio la certezza di un conveniente periodo di lavoro, che non venga meno, improvvisamente, per scelta unilaterale del committente, privandolo di colpo di ogni risorsa. La definizione di un termine nel contratto di collaborazione, in buona sostanza, basta a derogare dalla facoltà di recesso di cui all’art. 2237 c.c., senza bisogno di un ulteriore patto espresso ed univoco in proposito (vedi Cassazione n. 9701/96). 19 REGIONE LOMBARDIA - ORDINE DEI GIORNALISTI DELLA LOMBARDIA Bando per il XV biennio (2005-2007) dell’«Istituto Carlo De Martino per la Formazione al Giornalismo» La Scuola in 28 anni di vita ha creato 563 giornalisti professionisti (tra questi: 35 direttori, 22 addetti stampa, 4 vicedirettori, 77 capiredattori, 42 inviati o corrispondenti dall’estero, 88 capiservizio, 2 segretari di redazione, 193 redattori ordinari, 19 cococo e 6 “vari”…) Giornalisti si diventa a Milano, capitale L’Ifg, scuola di eccellenza europea, cerca 40 giovani laureati, determinati, di studi e che sappiano cogliere le nuove opportunità della professione Bando di concorso XV biennio 2005-2007 È bandito il concorso di ammissione al XV biennio di formazione al giornalismo con l’attribuzione della qualifica di “praticante giornalista” ai sensi di legge, secondo le norme qui di seguito esposte. I posti a concorso per il biennio 2005-2007 sono fissati in 40. Sono ammessi al concorso i cittadini italiani e dell’Unione europea (questi ultimi con perfetta conoscenza della lingua italiana) in possesso almeno di diploma di laurea triennale (direttiva 89/48/Cee) e nati dal 1° gennaio 1975. I diplomi di laurea devono essere riconosciuti dalla Repubblica italiana. Le domande d’iscrizione, corredate di copia del titolo di studio e della ricevuta di versamento della tassa d’iscrizione, debbono pervenire all’Ifg a partire dal 1° marzo e non oltre il 30 giugno 2005. NOTIZIE PRELIMINARI Norme sulla professione giornalistica 1 La legge istitutiva dell’Ordine dei giornalisti prescrive, per diventare giornalisti professionisti, una prova di idoneità professionale equivalente all’esame di Stato (di cui all’articolo 33, V comma, della Costituzione). Per accedere a tale esame la procedura consiste nell’essere assunti da un’azienda editoriale (o frequentare una scuola di giornalismo o un master biennale universitario in giornalismo riconosciuti dall’Ordine nazionale) e svolgere diciotto mesi di praticantato. L’esame di idoneità professionale è organizzato dal Consiglio nazionale dell’Ordine ed è affidato ad una Commissione formata da due magistrati e cinque giornalisti. Si svolge a Roma in due sessioni annuali (primavera e autunno) e comprende prove scritte e una prova orale. Superato l’esame, il praticante, a sua domanda, viene iscritto nell’elenco professionisti dell’Albo. - Associazione 2 L’Afg “Walter Tobagi” per la Formazione al Giornalismo L’Associazione “Walter Tobagi” per la formazione al giornalismo (Afg) gestisce l’Istituto “Carlo De Martino” per la formazione al giornalismo (Ifg) il cui corso biennale di studi è parificato allo svolgimento del praticantato tradizionale. L’Afg è un’istituzione riconosciuta dalla Regione Lombardia (con delibera della Giunta Regionale n. 11854 del 4/10/1977 a norma della legge regionale del 16/6/1975 sulla formazione professionale). È inoltre accreditata presso la Regione Lombardia per la formazione professionale e certificata secondo la norma ISO 9001:2000. Il corso dell’Ifg, di livello universitario, è stato promosso dall’Ordine dei giornalisti della Lombardia con delibera del 27/11/1974. L’Afg è un ente privato senza scopo di lucro, che trae la maggior parte dei mezzi di finanziamento da un contributo annuale della Regione Lombardia (ai sensi della legge regionale n. 95/80) nell’ambito della politica per la formazione professionale. L’Afg è sostenuto economicamente anche dal Consiglio dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia. Gli allievi partecipano, nel corso del biennio, a concorsi per borse di studio interne ed esterne. 3 L’Ifg - Istituto “Carlo De Martino” per la Formazione al Giornalismo Obiettivo dell’Ifg è la preparazione di giornalisti polivalenti della carta stampata, delle agenzie di stampa, della televisione, della radio, dell’informazione on line e degli uffici stampa, non disgiunta dal progressivo avviamento alle specializzazioni classiche della professione. Gli allievi, in quanto redattori nelle testate-laboratorio edite dall’Ifg, sono iscritti nel Registro dei praticanti per cui, ottenuto l’attestato di compiuto praticantato al termine del biennio, possono sostenere l’esame di Stato per l’accesso alla professione di giornalista (salvo le eventuali inadempienze previste dal Regolamento interno dell’Ifg sulla base delle regole stabilite dalla legge regionale n. 95/1980 e accertate dalla direzione dell’Istituto). Il rapporto dell’allievo con l’Ifg cessa al termine del biennio. I programmi di studio e le esercitazioni pratiche sono elaborati dal direttore, giornalista professionista d’intesa con la Commissione didattica e sono approvati dal Consiglio di presidenza dell’Afg, nel rispetto del “Quadro di indirizzi per il riconoscimento delle strutture di formazione al giornalismo” emanato il 17 aprile 2002 dal Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti. Il corpo docente è formato da giornalisti professionisti con almeno 10 anni di iscrizione all’Albo, da docenti universitari ed esperti della comunicazione e delle altre Questo bando, il modulo di iscrizione e altre informazioni sono disponibili sui siti: discipline inserite nel programma. 4L’Ifg. Il corso di studi DISCIPLINE TEORICHE ED ESERCITAZIONI Il XV biennio di formazione al giornalismo dell’Ifg avrà inizio nel mese di novembre 2005 e terminerà nell’ottobre 2007 con l’ammissione alla sessione autunnale dell’ esame di Stato. I posti a disposizione sono 40. La frequenza degli allievi è obbligatoria e a tempo pieno. Ogni assenza va giustificata per iscritto. Un numero di assenze superiore al 25% comporta l’esclusione dal corso. Il calendario delle lezioni viene stabilito dalla Direzione in base al programma didattico. Il programma di studi mira ad armonizzare la specifica formazione professionale dell’allievo con il completamento della sua preparazione culturale attraverso cicli di lezioni, corsi e seminari a livello universitario. Aspetti qualificanti del programma sono le sistematiche esercitazioni pratiche con l’uso di aggiornate attrezzature dell’editoria informatica, di uno studio di registrazione radiofonico e di supporti televisivi. L’Ifg dispone di un sistema editoriale integrato in grado di garantire la gestione dell’intero ciclo produttivo di qualsiasi pubblicazione quotidiana, periodica e monografica. Ogni allievo ha in dote una postazione informatica basata su computer dell’ultima generazione con collegamenti internet in fibra ottica e risorse condivise per l’archiviazione e la stampa. Può inoltre utilizzare postazioni dedicate per il montaggio video e il montaggio radio. Alle esercitazioni pratiche si aggiungono lezioni e seminari su materie ritenute particolarmente utili ai fini della professione. Il XV biennio porrà attenzione anche alle tecniche e alla gestione degli uffici stampa, settore che si prospetta come promettente fonte di occupazione. Al termine del biennio, gli allievi potranno partecipare, gratuitamente, al corso di preparazione all’esame di Stato organizzato dall’Ordine dei giornalisti della Lombardia. Nel corso del biennio, in osservanza anche delle indicazioni del Consiglio nazionale dell’Ordine e delle norme che presiedono al funzionamento dell’Istituto, sono impartite lezioni teoriche di base o di approfondimento, nelle seguenti aree disciplinari: - Giornalistica (istituzioni professionali, deontologia-privacy, analisi critica e comparata dei media, tecniche professionali, modelli redazionali, sistemi editoriali, tecniche di gestione degli uffici stampa; infografica e photo-editor). - Grafica, Informatica e innovazione (architettura dell’informazione; design dell’informazione; produzione, selezione e trattamento delle immagini; comunicazione visiva; strumenti e tecnologie dell’informazione visiva; storia dell’informazione visiva; tecniche avanzate di informatica applicata al giornalismo; teorie e tecniche del fotogiornalismo e del videogiornalismo; comunicazione multimediale; tecnologie dell’immagine digitale). - Linguistica (tecniche dei linguaggi del giornale quotidiano e del periodico, delle agenzie di stampa, del web e degli uffici stampa. Tecniche del linguaggio televisivo, radiofonico e fotografico; semiotica del testo scritto e visivo). - lingue straniere (conoscenza funzionale di inglese e spagnolo). - Storica (storia del giornalismo e delle comunicazioni di massa. Elementi di storia moderna e contemporanea). www.odg.mi.it 20 www.ifg.mi.it - Geografia politica ed economica, globalizzazione e relazioni internazionali. ORDINE 3 2005 ASSOCIAZIONE “WALTER TOBAGI” PER LA FORMAZIONE AL GIORNALISMO Le iscrizioni dal 1° marzo al 30 giugno 2005 aperte anche ai cittadini comunitari. La tassa annuale di frequenza è di 50 euro, che va versata interamente alla Regione Lombardia MODALITÀ DI PARTECIPAZIONE AL CONCORSO PER L’AMMISSIONE AL XV BIENNIO (2005-2007) L’allievo svolge periodi di tirocinio concordati dalla Direzione con le testate giornalistiche. dell’editoria , con un ottimo curriculum giornalistica - Giuridica (elementi di diritto costituzionale, di diritto comunitario, di diritto del giornalismo e dell’editoria, di diritto penale e di procedura penale, di diritto amministrativo con riguardo anche al ruolo delle autorità indipendenti, di diritto privato). - Sociologica-psicologica (elementi di scienza dell’opinione pubblica e dei sondaggi; di sociologia della comunicazione; di psicologia della comunicazione). - Economica-finanziaria (elementi di economia politica, storia economica, marketing, economia dei media e delle imprese editoriali, diritto pubblico dell’economia, mercato del risparmio e degli investimenti familiari con riguardo particolare al mercato borsistico, dei fondi di investimento e della gestione del risparmio). - Sindacale (con attenzione particolare al contratto e al sistema previdenziale/previdenziale complementare/assistenziale integrativo sanitario dei giornalisti). Gli allievi dovranno affrontare un esame al termine di ogni singola materia in base a un calendario stabilito dalla Direzione. I singoli esami verranno annotati nel libretto personale dello studente. Gli esami potranno essere ripetuti, in caso di bocciatura, a distanza di un mese. La preparazione degli allievi/praticanti verrà valutata, ogni mese, dai rispettivi tutor. Al termine del primo e del secondo anno agli allievi verrà rilasciato un certificato di frequenza con l’attestato del superamento delle materie del programma. Al termine del biennio i praticanti affronteranno un esame finale, scritto e orale. Della Commissione giudicatrice (nominata dal Consiglio dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia d’intesa con la direzione dell’Istituto) farà parte anche un rappresentante della Regione Lombardia. La direzione della scuola, tenendo conto dei risultati dell’esame finale, rilascerà un certificato di frequenza e profitto. La prova, propedeutica all’esame di Stato, condiziona il rilascio, da parte del presidente dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia, del certificato di fine praticantato. PRATICA GIORNALISTICA Momento fondamentale delle esercitazioni pratiche professionali è il lavoro di redazione per le testate-laboratorio. Le testate laboratorio dell’Ifg Ifg Tabloid – inserto del mensile Ordine Tabloid, organo del Consiglio dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia Milano Ore 13 – quotidiano d’informazione del pomeriggio a diffusione locale Ifg Notizie – agenzia quotidiana del pomeriggio di servizi giornalistici, inchieste e attualità, diffusa fra 45 testate nazionali e locali. Speciale Video – servizi televisivi realizzati in proprio e trasmessi da canali regionali. Speciale Fm – testata radiofonica di notiziari, inchieste e servizi, forniti a emittenti private. Ifg on line – quotidiano telematico che comprende anche la versione on line di tutte le altre testate. . È prevista la realizzazione di inchieste televisive con strutture dell’Ifg e con la collaborazione di esperti del settore e di emittenti nazionali e regionali. Gli stages Strumento formativo importante è anche la pratica guidata (stage). Nel biennio gli stages esterni (regolati dalla legge n. 196/1997) dovranno avere durata complessiva non inferiore a sei mesi, come stabilito dal Quadro di indirizzi dell’Ordine nazionale dei giornalisti. ORDINE 3 2005 1. Requisiti per l’iscrizione al concorso Le iscrizioni al concorso di ammissione al XV biennio sono aperte dal 1° marzo al 30 giugno 2005. I candidati che intendono iscriversi al concorso devono essere nati a partire dal 1° gennaio 1975. I candidati devono essere cittadini italiani o di uno stato membro dell’Unione europea (per questi ultimi è obbligatoria la perfetta conoscenza della lingua italiana, che sarà accertata dall’Ifg nel corso delle prove di ammissione). Può presentare domanda di ammissione chi, al 30 giugno 2005, è in possesso almeno di diploma di laurea triennale. Saranno accettate sub condicione anche le domande dei candidati che prevedono il superamento dell’esame di laurea entro il 31 luglio 2005. In questo caso, il certificato rilasciato dall’Università che accerta il conseguimento del diploma di laurea, dovrà essere inviato alla segreteria tassativamente entro il 18 agosto 2005. Per la data di spedizione fa fede il timbro postale. Le lauree conseguite all’estero saranno riconosciute valide solo se risulteranno conformi alle norme italiane. 2. Modalità di iscrizione al concorso Per partecipare al concorso è necessario ritirare il bando e il modulo di iscrizione (o richiederne l’invio per posta allegando 6 euro in francobolli). In alternativa il bando e il modulo di iscrizione sono disponibili nei siti www.ifg.mi.it oppure www.odg.mi.it. Dopo aver preso visione del bando di concorso e compilato il modulo di iscrizione in tutte le sue parti: - spedire il modulo, esclusivamente per via postale, entro il 30 giugno 2005 (fa fede il timbro postale), allegando: a) fotocopia del titolo di studio (non saranno accettati titoli di studio prodotti in originale); b) ricevuta di versamento sul c/c postale n° 10519205, intestato a: Associazione Formazione Giornalismo - via Fabio Filzi, 17 - 20124 Milano di 150 (centocinquanta) euro per spese postali e di segreteria, non rimborsabili; c) eventuali attestati di frequenza ad altri corsi (con preferenza per lingue straniere e informatica); d) per i pubblicisti, fotocopia della tessera di iscrizione all’Ordine. L’ammissione sarà deliberata da un’apposita Commissione di selezione presieduta da un giornalista professionista e nominata dal Consiglio dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia. Chi collabora a giornali e riviste, a radio e tv potrà allegare documentazione del lavoro svolto e certificazione di legge dei compensi percepiti per tale lavoro. La Commissione di selezione terrà conto delle collaborazioni a condizione che si tratti di testate registrate il cui direttore sia giornalista professionista (o pubblicista). N.B. - Non sarà ritenuta valida la produzione di documenti successiva al 30 giugno 2005 salvo quanto previsto per i laureandi di luglio 2005 (vedi pagina 13). Tutti i documenti presentati diventano di proprietà dell’Ifg e non saranno restituiti. Il mancato invio del documento o dell’attestazione comprovante il diploma di laurea o il mancato versamento della tassa d’iscrizione, escluderanno i candidati dalla partecipazione al concorso di ammissione. 3. L’ammissione alle prove di selezione La Commissione di selezione, il cui giudizio è insindacabile, effettua la verifica dei titoli e dei requisiti soggettivi, quali risultano dal modulo d’iscrizione e dai documenti presentati e convoca per iscritto i candidati ammessi spese d’esame, non rimborsabili anche se il candidato non dovesse concludere la prova scritta. Le prove scritte si svolgeranno in un’unica giornata e consistono in: a) un tema-articolo su argomenti d’attualità (politica interna ed estera, cultura, costume, economia, cronaca, spettacoli, sport), scelto tra quelli proposti dalla Commissione. Tale articolo non deve superare le 60 righe (da 60 battute ciascuna); b) un test di domande su argomenti di attualità; c) la sintesi di un articolo o di un servizio giornalistico (contenuta in un massimo di 20 righe, da 60 battute ciascuna). Gli elaborati dovranno essere rigorosamente anonimi. Le generalità del candidato andranno in busta piccola inserita nella busta grande con gli elaborati. Ogni segno che permetta l’identificazione del candidato ne comporterà l’esclusione. Per quanto non espressamente indicato valgono le norme sancite dal Dpr n. 115/1965 e dal Dpr n. 487/1994. La Commissione di selezione attribuisce ad ogni prova scritta un punteggio. La somma delle tre prove determina il punteggio complessivo. Solo a questo punto verranno aperte le buste contenenti i nomi dei candidati per poter stabilire la graduatoria. I primi 90 candidati della graduatoria saranno convocati per sostenere la prova orale (che è pubblica) nella sede dell’Ifg (via Fabio Filzi, 17 – Milano). Le prove scritte e orali sono soggette alle norme previste dalla legge 241/1990 sulla trasparenza. Le prove orali di selezione L’esame orale consiste in un colloquio tendente ad accertare le attitudini complessive alla professione giornalistica, il grado di cultura generale del candidato e la sua attenzione per i problemi dell’attualità politica, economica, sociale e culturale nelle loro dimensioni storiche, nonché il grado di conoscenza dell’ inglese. In base al risultato delle prove scritte e dell’orale, la Commissione compilerà una graduatoria degli idonei, che verrà resa pubblica. Alla formazione della graduatoria delle prove scritte concorrerà anche il punteggio complessivo acquisito dal candidato secondo le valutazioni della tabella che segue: Seconda laurea 12 punti Pubblicisti 4 punti Collaborazioni giornalistiche (senza iscrizione all’Albo) per una durata inferiore ai due anni 2 punti GLI AMMESSI AL XV BIENNIO I primi 40 candidati in graduatoria saranno ammessi a frequentare il XV biennio dell’Ifg. Valgono, comunque, per quanto applicabili, le regole fissate dagli articoli dal 47 al 54 del Dpr n. 115 del 1965 (e successive modificazioni) per l’esame di giornalista professionista, nonché dagli articoli dall’11 al 15 del Dpr 487/1994 sui concorsi pubblici. ADEMPIMENTI PRELIMINARI DEGLI AMMESSI AL XV BIENNIO 1 - Periodo di prova È previsto un periodo di prova della durata di 3 mesi, al termine del quale il Consiglio di Presidenza dell’Afg, su proposta della Direzione dell’Istituto, può escludere il candidato ritenuto inidoneo o che abbia violato lo spirito e la lettera del Regolamento interno dell’Ifg, e della legge regionale n. 95/80. In queste ipotesi e nel caso di dimissioni volontarie, subentreranno i primi esclusi della graduatoria. Le prove scritte di selezione 2 - Tassa di iscrizione Il candidato ammesso alle prove scritte, che si svolgeranno entro la prima quindicina di settembre 2005, sarà convocato a Milano per sostenere gli esami, nel giorno e nella sede indicati nella lettera di convocazione. Il candidato potrà affrontare la prova scrivendo a mano (con grafia leggibile, meglio se in stampatello) o con una macchina per scrivere meccanica. Dovrà inoltre esibile la lettera di convocazione e presentare la ricevuta di versamento sul c/c postale n 10519205 intestato a: Associazione Formazione Giornalismo – via Fabio Filzi 17 – 20124 Milano di ulteriori 200 (duecento) euro per All’atto di iscrizione al corso l’allievo dovrà presentare la ricevuta del versamento di 50 (cinquanta) euro (salvo modifiche della Regione Lombardia) direttamente alla Regione Lombardia su bollettino di c/c postale n. 25981200 intestato a: Tesoreria Regione Lombardia gestita dalla Banca Intesa 20154 Milano Tale importo è dovuto da ciascun allievo in adempimento alla delibera della Giunta regionale n. 12510 del 9/9/1986. 21 (25) DAL CONGRESSO DI BARI DEI CLN AL 1° CONVEGNO MERIDIONALISTA M O S T R A La mostra documentaria “Dal Congresso di Bari dei Cln al 1° Convegno meridionalista” è stata inaugurata lo scorso 11 febbraio a Bari e sarà ospitata nella sede dell’Archivio di Stato (via Demetrio Manin, 3) fino al prossimo 15 aprile L’evento è stato curato dall’Istituto pugliese per la storia dell’antifascismo e dell’Italia contemporanea (Ipsaic), dall’Archivio di Stato di Bari, dall’Ordine dei giornalisti della Puglia e dalla Biblioteca del Consiglio regionale Orario d’apertura: 9-12 (tutti i giorni), 15-17 (lunedì e mercoledì); info tel: 080-5023546; ingresso libero 1944, la democrazia italiana di Massimiliano Ancona Due eventi storici in un anno. Un anno, il 1944, in cui a Bari si scandì la storia d’Italia e del Mezzogiorno. Poco più di dieci mesi (dalla fine di gennaio del ‘44 ai primi giorni di dicembre dello stesso anno) in cui il capoluogo pugliese diventò prima centro di riferimento della vita politica, culturale, editoriale e amministrativa del Regno del Sud, poi la sede per rilanciare l’attualità della cosiddetta “questione meridionale”. Sono i temi della mostra documentaria “Dal Congresso di Bari dei Cln al 1° Convegno meridionalista”, organizzata a Bari per celebrare il 60° anniversario della liberazione e inaugurata lo scorso 11 febbraio da Oscar Luigi Scalfaro, senatore della Repubblica e presidente dell’Istituto nazionale per la storia del movimento di Liberazione in Italia (Insmli). La “questione istituzionale” e il passaggio alla Repubblica Il 28 e il 29 gennaio di 61 anni or sono, infatti, il teatro Piccinni di Bari ospitò il congresso dei Comitati di liberazione nazionale (Cln) - il primo nell’Europa affrancata dal giogo nazifascista -, che affrontò la fino ad allora inedita “questione istituzionale”, poi “risolta” due anni e mezzo più tardi dal referendum del 2 giugno 1946 che avrebbe sancito il passaggio dalla monarchia alla repubblica. Il congresso fu inaugurato dall’orazione di Benedetto Croce e vi partecipò - tra gli altri il conte Carlo Sforza, che sarebbe stato ministro degli Esteri con Alcide De Gasperi. A Bari si confrontarono i maggiori esponenti sindacali, come quelli della Confederazione generale del lavoro (Cgl), ricostituitasi grazie all’appoggio del Cln barese, e dei gruppi politici antifascisti: da quelli del Partito d’azione, composto dalle correnti liberal-socialista (Tommaso Fiore, Guido Calogero, Domenico Loizzi, Aldo Capitini e Michele Cifarelli, che fu tra i principali promotori del Congresso) a quelli di Giustizia e Libertà (Vincenzo Calace, Michele Partipilo, presidente dell’Ordine dei giornalisti di Puglia e caporedattore centrale della Gazzetta del Mezzogiorno è tra gli organizzatori della mostra “Dal Congresso di Bari dei Cln al 1° Convegno meridionalista”. L’ha voluta, insieme allo storico Vito Antonio Leuzzi, direttore dell’Istituto pugliese per la storia dell’antifascismo e dell’Italia contemporanea (Ipsaic), per celebrare il 60° anniversario della liberazione e ricordare quanto avvenne a Bari tra il gennaio e il dicembre 1944. Presidente Partipilo, perché questa mostra? «Questa mostra rappresenta un po’ la continuazione di quella organizzata l’anno scorso (“Le prime voci dell’Italia libera”, ndr). Non solo per ricordare quei due eventi così importanti (il Congresso dei Cln e il primo Convegno meridionalista, ndr). Ma anche, anzi soprattutto, per ridare dignità storica a un periodo fondamentale nella storia del Mezzogiorno. Storia che, nonostante i libri di testo non la riportino, non può assolutamente essere definita minore. L’abbiamo voluta anche per restituire visibilità e dignità storica agli uomini che orga- 22 (26) altro promotore del congresso, nonché reduce da una decennale persecuzione fascista vissuta tra carcere e confino). Ma furono presenti anche i comunisti, che raccolsero adesioni fra gli operai, raggiungendo i 12.000 iscritti in pochi mesi, i socialisti italiani di unità proletaria (Psiup) e i liberali di Benedetto Croce (Giuseppe Laterza, figlio di Giovanni, fondatore della omonima casa editrice), senza dimenticare i demoliberali, schierati su posizioni filomonarchiche, e la Democrazia cristiana - per la quale era già attivo un giovane di origine salentina, Aldo Moro - e nel cui ambito si distinse Natale Lojacono, futuro sindaco di Bari. Il Congresso del gennaio 1944, come scrisse Cifarelli, «assolse la decisiva funzione di convogliare le energie politiche più sane e moderne verso la soluzione pacifica della questione istituzionale», legittimando la propria presenza sul piano interno e internazionale. Tanto che “Radio Londra” lo definì «il più importante avvenimento nella politica internazionale italiana dopo la caduta di Mussolini», il New York Times ne pubblicò la mozione finale e il Times di Londra ne evidenziò la richiesta secondo cui «presupposto innegabile della ricostruzione morale e materiale italiana è l’abdicazione immediata del re, responsabile delle sciagure del Paese». “Gli Stati Uniti lasciano ogni decisione al popolo italiano” Mentre il presidente americano Franklin Delano Roosevelt, riconoscendone le conclusioni, disse che «gli Stati Uniti sono ora [...] fermamente determinati a lasciare ogni decisione al popolo italiano». Il Congresso dei Cln svoltosi a Bari il 28 e il 29 gennaio 1944 fu quindi un evento fondamentale nella storia dell’Italia (nuova) che stava nascendo. Eppure risulta quasi assente nelle analisi e nel dibattito storiografico nazionale. Proprio come il primo Convegno meridionalista del dopoguerra che, neanche dieci mesi dopo, il 3 dicembre 1944, si svolse nel capoluogo pugliese. «Questa mattina s’inaugura, Partipilo: “Vogliamo recuperare la memoria” alle ore 10 precise, nella sala consiliare del Municipio l’annunciato convegno di studi sui problemi del Mezzogiorno»: così La Gazzetta del Mezzogiorno annunciò l’inizio dei lavori che sarebbero stati inaugurati da Adolfo Omodeo e che avrebbero avuto in programma – fra i tanti – gli interventi del sindaco Natale Lojacono, di Vittore Fiore (figlio di Tommaso), di Giuseppe Papalia, del già citato Cifarelli. E poi di Mario Dilio oltre che di Guido Dorso, Manlio Rossi-Doria, Federico Comandini e Filippo Caracciolo. Dalla riforma agraria a quella della giustizia «A Bari in occasione di quel convegno – ha detto lo storico Vito Antonio Leuzzi, direttore dell’Istituto pugliese per la storia dell’antifascismo e dell’Italia contemporanea (Ipsaic), nonché tra i maggiori curatori della mostra – vennero gettate le basi per molte delle tappe successive che riguardarono l’Italia e il Mezzogiorno. Si impostarono i problemi della questione meridionale, del risanamento che portò al piano Marshall, ma anche alla riforma agraria, a quella della giustizia, al voto delle donne e al referendum istituzionale». Ancora una volta, dunque, Bari fu la sede di un avvenimento storico. «Enorme e importante è il materiale documentario di rilievo nazionale di cui ci siamo serviti per ricostruire e illustrare questa sorta di storia minore – ha detto ancora Vito Antonio Leuzzi –. Si tratta di giornali, radiogiornali, atti di convegni, documenti relativi alla ricostruzione dei partiti che forniscono uno spaccato della Bari del secondo dopoguerra. La città era disastrata, quasi tutto l’apparato produttivo era stato per anni requisito dagli alleati. La stessa casa editrice Laterza non pubblicò gli atti del convegno perché la sua sede fu requisita dagli angloamericani fino al 1946. Nonostante le enormi difficoltà e la scarsa attenzione che a livello nazionale le veniva rivolta, la Puglia ha dato un grande apporto alla ricostruzione nazionale». Un apporto dimenticato dai libri di storia. nizzarono il Congresso dei Cln e il primo Convegno meridionalista in una città come Bari, che troppo spesso perde la memoria di se stessa». In che misura la mostra è o può essere utile ai giornalisti? «È importante sottolineare il ruolo che i quotidiani ebbero allora e debbono avere oggi. All’epoca dettero notizia del Convegno meridionalista per evidenziare la ricostruzione, il tentativo di mettere in piedi il Paese e porre all’attenzione nazionale il problema del Mezzogiorno. Senza dimenticare che proprio a Bari, in seguito all’armistizio, cominciarono a stamparsi i primi giornali nuovamente liberi dopo il ventennio fascista. Dalla Gazzetta del Mezzogiorno – che non sospese mai le pubblicazioni – a L’Italia libera, da Civiltà proletaria a l’Unità, senza dimenticare la Rassegna del Popolo, Il Risveglio e l’Avanti!. Adesso i giornali devono ridare dignità e pubblicità a quegli eventi. Bisogna riconoscere all’informazione il merito di aver saputo veicolare notizie che altrimenti non avremmo mai letto». M. An. ORDINE 3 2005 A sinistra: il teatro la mattina dell’apertura del Congresso. Qui sotto, un carabiniere presidia l’edificio di Radio Bari. riparte dal Sud il 1° agosto 1943. A Caltanissetta viene pubblicato il primo giornale dell’Italia liberata dal fascismo: si chiama La Sicilia ed è poco più che un foglietto stampato con mezzi di fortuna. Qualche giorno dopo (6 agosto) a Palermo va a ruba un altro giornale: Sicilia liberata. Sono queste le prime realtà della stampa italiana – cui si aggiunge Radio Palermo –, la cui libertà era stata soffocata da venti anni di regime. Così, seguendo l’avanzata da sud delle truppe angloamericane, pian piano anche in altre città e in altre regioni tornano a esserci realtà editoriali, peraltro sotto il controllo del Psychological warfare branch (Pwb). Mentre La Sicilia dura pochi mesi, Sicilia liberata – con due pagine e una colonna stampata in inglese – prosegue le pubblicazioni fino al giugno 1944. A Catania e a Messina, ultime città della Sicilia a essere liberata, compaiono poco dopo la metà di agosto e sempre sotto il controllo alleato del Pwb, il Corriere di Sicilia (vecchia testata prefascista) e Movimento di Sicilia libera che ha vita breve. È nche perché dal 23 ottobre del ‘43 viene stampato per tre volte alla settimana il Notiziario di Messina. Nel frattempo, però, anche la Calabria è stata affrancata dal regime fascista. Il 10 settembre a Reggio Calabria viene pubblicato il quotidiano Calabria libera, diretto da un intraprendente comunista, Carlo La Cava. A Catanzaro, invece, dal 27 ottobre compare La Nuova Calabria con il concorso di tutti i partiti, dal comunista al monarchico. Mentre il 22 novembre trova spazio Il Corriere di Calabria, diretto da Franco Cipriani e di ispirazione cattolica e liberale. A quest’ultimo giornale, come al succitato Calabria libera, il governatore alleato ritira l’autorizzazione alla pubblicazione per le continue beghe politiche in un periodo in cui le operazioni belliche continuano e sono ancora vicine, concedendola al democristiano Voce della Calabria. A on il successo nella battaglia seguita allo sbarco di Salerno (8 settembre ‘43), il territorio italiano liberato comprende – oltre a Sicilia e Calabria – anche Basilicata, quasi tutta la Campania e la Puglia, quattro province della quale (Brindisi, dove è scappato re Vittorio Emanuele III, Bari, Taranto e Lecce) compongono il Regno del Sud. Proprio a Bari, nonostante gli scontri e la confusione seguiti alla caduta del regime (25 luglio) e all’armistizio (8 settembre), il quotidiano La Gazzetta del Mezzogiorno è riuscito a non interrompere le pubblicazioni neanche per un giorno, unico caso in Italia. Diventa così il giornale più diffuso nel Regno del Sud. Oltre che l’organo ufficiale del governo Badoglio, che ha sede nella vicina Brindisi. Ma il suo direttore, Luigi De Secly, pur seguendo una linea moderata, che si ispira a Benedetto Croce, mantiene buoni rapporti con vari esponenti antifascisti che sono molto polemici nei riguardi del capo del governo. Quasi contemporaneamente e almeno sino alla metà di febbraio 1944, Radio Bari – pur essen- C ORDINE 3 2005 La stampa italiana nelle regioni meridionali dopo l’8 settembre do sotto il controllo del Pwb – resta l’unica radio davvero “libera” dell’Italia, contando sull’impegno profuso – tra gli altri – dal magistrato Michele Cifarelli che con il suo programma “L’Italia combatte” propone un laboratorio di idee e contribusce alla rinascita delle istituzioni. Da ricordare è anche la vicenda del settimanale Il Secondo Risorgimento di Vittore Fiore (figlio di Tommaso). L’autorizzazione concessa dal Pwb è bloccata dal prefetto di Bari (ispirato da Badoglio), perché il direttore della testata aveva avanzato una richiesta di modifica del nome del settimanale (da Il Secondo Risorgimento a Il Nuovo Risorgimento). Nonostante l’intervento del responsabile dello stesso Pwb, che in una nota al prefetto sollecita la comunicazione agli interessati dell’avvenuta autorizzazione (marzo ‘44), il settimanale compare solo dopo un paio di mesi (giugno ‘44). iprendono le pubblicazioni, intanto, anche in Sardegna. L’Unione sarda di Cagliari ricompare il 14 novembre 1943 aprendosi a tutte le forze antifasciste. Mentre L’Isola di Sassari, pur aprendo le sue colonne alle diverse tendenze (vi collaborano – tra gli altri – Mario Berlinguer e Antonio Segni), resta soprattutto il portavoce del ceto moderato e conservatore. Ma, secondo, quanto scritto da Paolo Murialdi, giornalista e storico dell’informazione, «la prima voce che interpreta più coerentemente i temi dell’antifascismo e della lotta per il ritorno alla libertà si leva a Napoli, dove il 4 ottobre 1943, subito dopo la cacciata dei tedeschi e l’arrivo degli angloamericani […] esce Il Risorgimento». Una creatura, come ha scritto Salvatore Rea «un po’ degli Alleati, volti a intavolare un colloquio con gli italiani, un po’ del Comitato di liberazione nazionale, che al Governo militare alleato fece comprendere la necessità di una nuova testata». Il Risorgimento si presenta con un linguaggio nuovo e resta per otto mesi l’unico quotidiano di Napoli. Vi collabora – tra gli altri – lo storico Adolfo Omodeo, membro del Partito d’azione che presiederà il primo Convegno meridionalista svoltosi a Bari nel dicembre ‘44. Ma alle spalle del giornale c’è il filosofo Benedetto Croce. R opo la liberazione (4 giugno 1944), Roma si trova in un vortice di iniziative editoriali. Da L’Unità a l’Avanti!, da L’Italia libera a La Voce repubblicana, senza dimenticare Il Popolo, Risorgimento liberale, Ricostruzione e Il Tempo è un pullulare di pubblicazioni unite a Il Messaggero, al Giornale d’Italia e al Popolo di Roma. Le ultime tre testate con solerzia cambiano orientamento dopo essere state fino al giorno prima al servizio del feldmaresciallo Albert Kesselring, comandante in capo delle forze naziste in Italia, e dei fascisti di Salò. In questo clima, almeno in mezza Italia, si ritrova la libertà. E si ricomincia a esprimerla anche attraverso la stampa. M. An. D 23 (27) I NOSTRI LUTTI È morto il giornalista del Corriere: dai fumetti alle nuove frontiere della spiritualità L’autore delle Piccole porte aveva 61 anni. Un protagonista della scena culturale arrivato giovanissimo in via Solferino Il giornalista del Corriere della Sera Cesare Medail, scomparso il 5 gennaio a Milano (foto di Gianluigi Colin). Cesare Medail, l’intellettuale laico che capiva la magia di Giulia Borgese Chi ha letto il libro di Cesare Medail, Le piccole porte (edito da Corbaccio nel febbraio dell’ anno scorso) deve essere rimasto colpito dal lucido, rigoroso e insieme appassionato cammino spirituale che ne è la trama. Vi si ritrova intatto l’amore di Medail per la parola, sia scritta che parlata, il piacere nel riferirci, appena tornato in redazione dopo aver fatto una delle sue mirabili interviste a tutto tondo (lo avevamo ribattezzato Medaglione), ogni particolare del personaggio che aveva incontrato, dell’ambiente in cui viveva, perfino di che cosa avevano mangiato a pranzo insieme... Il parlare era per lui una specie di prova di quello che subito avrebbe scritto, sulla sua scrivania tutta piena di libri, di notes e foglietti con numeri di telefono, con la sua rara capacità di comunicare, di rendere comprensibile, «giornalistico» nel senso migliore, anche il pensiero meno semplice di quei rappresentanti di ogni religione del mondo quasi sempre perseguitati dall’ istituzione o relegati ai margini, che solo lui andava a scovare in qualche posto segreto. Oggi, inevitabilmente, questo libro singolare diventa il suo testamento spirituale, e riprendendolo in mano, il finale che ci aveva turbato, adesso che lui ci ha lasciati assume un altro significato: «Vorrei solo congedarmi con un’immagine che mi corrisponde. In uno degli angoli più incantevoli del Far West, vicino alla cittadina new age di Sedona (Arizona) ma lontano dai supermarket del melting pot neospiritualista, in cima a uno sperone di roccia rossa sorge la chiesa cattolica di Holy Cross, progettata negli anni Trenta da un’ architetta americana. Si chiama così perché una gigantesca croce affonda nella roccia [...] Il canto gregoriano si diffonde a tutte le ore fra rupi, deserti e foreste; ma non vi si celebrano funzioni perché la chiesa è sempre aperta agli uomini di qualsiasi vocazione spirituale o religiosa. La Grande Croce abbraccia tutti, cristiani e non. E lì, confesso, mi sono trovato benissimo». Non è stata una conversione, la sua - ci teneva a spiegare - piuttosto il percorso di un intellettuale laico, curioso e aperto ai contenuti del libero pensiero spirituale. «Malgrado le guerre, i terrorismi, gli egoismi nazionali che procurano sofferenza e morte ai popoli derelitti, malgrado gli oltraggi ecologici in nome del tornaconto speculativo, io penso che dagli anni Settanta a oggi numerose persone stiano vivendo quella che Elémire Zolla definisce “rinascenza religiosa”, anche fuori dalle grandi tradizioni. In diversi angoli del mondo sono sempre di più quelli che hanno scoperto dentro di sé una natura diversa, e la manifestano ripudiando gli idoli della guerra, del potere, dei consumi, della brama di piacere e di ricchezza». Cesare Medail era approdato al Corriere della Sera molto giovane (era nato nel 1943 vicino a Venezia dove la famiglia si era rifugiata durante la guerra in una grande villa settecentesca) nei primi anni Settanta, al settore culturale. In breve era diventato un bravissimo artigiano del giornale: la scelta degli argomenti da trattare, l’ organizzazione del lavoro dei collaboratori, la titolazione arte difficile in cui era ineguagliabile -, la ricerca delle immagini, tutto gli piaceva. Il giornale era una parte importante della sua “Cesare ci manca, ci manca terribilmente” Il gesto più bello lo hanno compiuto, spontaneamente, i suoi lettori. Persone che negli anni avevano imparato ad apprezzare Cesare Medail. Hanno preso carta e penna e hanno scritto poche righe. Il senso era uno solo: “Ci mancherà”, “era diventato un amico”, “ci fidavamo”: era proprio così. Era così anche per noi, per i suoi amici e colleghi della redazione Cultura. Negli anni Cesare aveva assunto un ruolo di guida, di punto di riferimento. Di legame con una tradizione carica di valori. Era il collega cui chiedere un consiglio, la cortesia di rileggere il pezzo, di dirci francamente se andava bene. Cesare faceva tutto questo con grande generosità, con scrupolo e con serietà. Amava il suo mestiere più di ogni altra cosa al mondo. E questo atteggiamento finiva per contagiare tutti. Ci manca, ci manca terribilmente Cesare; manca agli anziani come ai più giovani. E questo è raro, molto raro. Succede soltanto per pochi. Antonio Troiano Ennio Elena, cronista e acuto epigrammista di Oreste Pivetta Ennio Elena ci ha lasciato. È morto nel cuore della notte, il 3 febbraio scorso, nella sua casa alla periferia di Milano. Era stato uno dei cronisti più attenti e brillanti dell’Unità, dal dopoguerra agli anni novanta, testimone e narratore di vicende grandi e piccole, di sentimenti e di storie, presentate con uno scrupolo assoluto, con una documentazione attentissima, ma anche con una scrittura di grande qualità. Era, nelle pause del lavoro, un inesauribile inventore di epigrammi, molti dei quali finirono nelle fortunate pagine di Tango prima e di Cuore poi. Di un evento in particolare si era occupato: della tragica vicenda della diossina, la nube tossica che si sprigionò da un reattore della 24 (28) vita, come lo erano le cene con gli amici, i lunghi viaggi con la moglie Claudia, sempre fuori dalle rotte del turismo di massa, il riposo nella casetta sopra il lago Maggiore tra i boschi dove si divertiva a fare lunghe camminate in cerca di funghi, le visite a Verona, la città in cui era cresciuto dall’adolescenza fino a quando era venuto a Milano a fare il giornalista (apprendistato ad Amica), per andare a trovare la madre. Fin da ragazzo aveva scelto l’impegno civile, dapprima nei partiti borghesi come i liberali e i repubblicani dove «mi ritrovai sempre all’ opposizione di sinistra, prima di andarmene in silenzio e senza mai sbattere la porta», poi nei movimenti non violenti dei radicali. Aveva scritto anche un’inchiestasaggio sui diritti civili nelle forze armate, di ispirazione pacifista, Sotto le stellette, pubblicato da Einaudi nel 1977, e aveva fondato un periodico mensile, Arcana, dedicato al mistero e ai filoni spirituali emergenti in quegli anni. Tra i suoi primi interessi di giornalista, mai abbandonati, ci sono senz’ altro i fumetti: da Topolino ad Andrea Pazienza, da Tex Willer a Charlie Brown, era un mondo che conosceva in ogni aspetto, anche, se così si può dire, in profondità. Del resto tutto ciò che era fantastico, strano, fuori dalle esperienze multinazionale chimica Roche, nello stabilimento di Seveso. Ennio Elena si era dovuto muovere tra silenzi e omertà, tra banali semplificazioni e occultamenti, riuscendo attraverso una paziente ricerca di giorni e mesi a ricostruire il quadro completo (e delittuoso) di quella storia (che finì in un bel libro), sempre rivivendola dalla parte delle vittime, di quanti erano stati espropriati della loro salute, di un ambiente vivibile, persino delle loro case. Proprio il tema della salute, legato inevitabilmente a quello della sanità, era diventato il suo prediletto campo di lavoro e di ricerca. In cronaca a Milano, attraverso le pagine del giornale, era riuscito a documentare lo stato della sanità nel nostro paese, s’era occupato di medicina del lavoro, s’era avvicinato, dopo Seveso, ai grandi problemi dell’ecologia. quotidiane lo affascinava: le Guerre stellari di Lucas come E.T. e gli Incontri ravvicinati del terzo tipo di Spielberg. E proprio la lunga carriera di giornalista gli aveva permesso incontri ravvicinati con i più grandi studiosi del significato della vita umana. Tra questi lo storico delle religioni Mircea Eliade, colui che per primo lo aveva spinto a prendere in mano le sacre scritture; Elémire Zolla, l’esploratore delle tradizioni religiose ed esperienze mistiche, di cui divenne amico e un po’ anche discepolo; il filosofo Roger Garaudy, già comunista poi marxista eretico, quindi cristiano e infine convertito all’Islam incontrato a Cordova insieme al grande teologo tedesco Hans Küng che la Chiesa aveva sospeso dall’ insegnamento; il biblista autodidatta Sergio Quinzio, tanto radicato nella fede cristiana quanto radicale nella critica delle sue espressioni istituzionali; il misterioso scrittore Carlos Castaneda, famoso per aver raccontato al mondo «civile» la sua iniziazione alla stregoneria dell’antico Messico, che viveva nascosto da qualche parte a Los Angeles e si negava qualsiasi contatto con i mass media; il priore della comunità di Bose, padre Enzo Bianchi, profeta di un rinato bisogno del sacro, di esperienza del divino, che presto divenne anche lui suo amico; e infine il vecchio monaco buddista Thich Nhat Hanh, capo spirituale della chiesa vietnamita, in esilio a Bordeaux, che nel 1966 era andato fino alla Casa Bianca per chiedere di aprire una conferenza di pace e di smettere i bombardamenti: non fu ascoltato, ma molti veterani sarebbero diventati suoi discepoli. Adesso che Cesare non c’ è più, chi andrà a scovare per noi questi personaggi così appartati eppure fondamentali per la loro sapienza spirituale, di cui tutti vorremmo conoscere la parola? A noi che lo abbiamo avuto come «compagno di banco» per una vita qui al Corriere, mancherà tantissimo il collega attento e pieno di interessi, l’ amico molto buono e generoso, l’ intellettuale fine e sensibile, pronto sempre a condividere ogni azione volta a combattere violenze e volgarità. (Corriere della Sera del 6 gennaio 2005) Ennio Elena avrebbe compito settantotto anni fra qualche mese. Era nato ad Alassio il 30 maggio 1927. Nel dopoguerra era diventato funzionario della federazione comunista di Savona. S’occupava di propaganda e, come spesso capitava allora a chi si doveva appunto occupare di propaganda, aveva iniziato a collaborare con l’Unità, come corrispondente. Cominciò a lavorare più tardi a tempo pieno per il giornale, alla redazione della pagina di Savona. Conclusa quell’esperienza, accettò nel 1960 il trasferimento a Milano. Savona e la Liguria gli rimasero nel cuore e nella parlata (oltre che nella fede calcististica, sampdoriana). A Milano iniziò nel servizio interni e passò quindi in cronaca, facendo esperienza di questa città, della sua vicenda politica e sociale, negli anni più intensi delle lotte sindacali, delle contestazioni giovanili, poi della strategia della tensione e del terrorismo, delle giunte di sinistra. Divenne di Milano un profondo conoscitore e un acutissimo narratore. Alla pensione non lasciò il giornalismo, continuò a scrivere, prestò la sua cultura e la sua intelligenza al Triangolo Rosso, la rivista dei deportati nei campi di sterminio nazisti. ORDINE 3 2005 I NOSTRI LUTTI Nel lontano1961 l’assunzione prima al Corriere d’Informazione, per il rodaggio, poi al Corrierone Direttore prima, nel 1976, all’Eco di Padova poi all’AltoAdige. Finché fu chiamato alla guida della Prealpina Mino Durand al ristorante “Il Rigolo” a Milano in compagnia di Franco Berutti nel 1999 (foto di Angelo Mereu). Mino Durand, il ritratto di «gambamatta» è di quelli che scaldano il cuore di Sandro Rizzi Se dovessi fare un film sui vecchi cronisti dell’era pre-elettronica lo ambienterei a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta, quando la nascita del Giorno (1956) ebbe sul Corriere l’effetto d’un secchio d’acqua gelida che bruscamente interrompe la pennichella postprandiale. L’improvviso attacco d’un manipolo di guastatori ben addestrati costrinse i sonnolenti e appagati strateghi di via Solferino a reagire. Fu la stagione in cui il capocronista Franco Di Bella scatenò i suoi assaltatori. Tutti fuori a caccia i leg men, i cronisti «di gambe», per rifornire con i loro appunti i write men, cronisti di penna, che ricomponevano il puzzle senza perdere un tassello. Allora liceale, «battevo» commissariati ben più provinciali, ma la lettura della cronaca milanese del Corriere era per gli aspiranti giornalisti come una lezione quotidiana di quelle scuole che in Italia sarebbero spuntate soltanto una ventina d’anni dopo. Nel cast della sceneggiatura, uno degli interpreti con il nome in lettere maiuscole sarebbe senz’altro Mino Durand, «il Mino» come si annunciava al telefono. Se n’è andato il 15 gennaio, a 68 anni, tradito dal fegato a lungo bistrattato, ma il suo ricordo è di quelli che scaldano il cuore. Dai modi un po’ rudi del suo «capo» aveva imparato a scattare alla carica, con quel tanto di incoscienza che dà forza agli intrepidi. E quando, qualche volta controvoglia, «capo» lo è diventato, per i suoi uomini si è sempre considerato solo «il fratello» che sapeva infondere entusiasmo anche nei momenti più duri. Se strapazzava qualcuno, dieci minuti dopo se n’era dimenticato e lo invitava a bere un whisky. Come si inserisce in una trama che prevede mobilissimi, agili reporter un ragazzo con una gamba di legno? Mino non conosceva le ipocrisie del «politically correct», si definiva ridendo «gambamatta», e via a sfidare concorrenti agguerriti ma forse un po’ meno smaliziati. Saltava sulle macerie del Friuli terremotato e ogni giorno aveva la storia più vera, oltre alle anteprime sulle mosse dei soccorritori. Sì, perché, come un mastino che non molla mai la presa, s’era messo alle costole di quello Zamberletti, varesino, che sull’esperienza in Friuli avrebbe reinventato la Protezione civile italiana. Divennero amici. Al volante della sua «Daf» bordeaux adattata, era un guidatore spericolato. Come spericolato era il suo personaggio di moderno moschettiere: eleganza vistosa, raffinata, mantellone a ruota, cachecol vaporoso, lunghe sciarpe bianche, gemelli ai polsini, bastone con pomolo d’avorio o d’argento. Generoso anfitrione al ristorante (da Rigolo aveva tavolo fisso, con l’arguto Franco Berutti, Arnaldo Giuliani, cronista figlio d’arte, e il giovane Angelo Mereu, artista dell’oro e della fotografia) e in casa (quanti pranzi e cene ha dovuto improvvisare, a tutte le ore, la moglie Nora), prodigo di consigli con i giovani che cominciavano la gavetta. Ricordando la sua voglia di fare il mestiere. Voglia di vivere, forza di volontà, ecco «il Mino». Amava raccontare - come ha ricordato sul Corriere Fabio Mantica, suo inseparabile compagno nella Grande Cronaca - che da piccolo, a 8 anni, dopo una caduta in cui aveva battuto un ginocchio, un giorno l’avevano dato per spacciato e pietosamente ricoperto con un lenzuolo. Fu un medico, nel dargli l’ultimo saluto, ad accorgersi che respirava ancora. Lo restituì al mondo, ma ci volle una battaglia di quattro anni in ospedale, con l’uso di una delle prime dosi di penicillina in Italia, per arrestare i danni irreversibili del virus che aveva menomato la gamba ferita. «Vista la situazione - racconta la figlia Giuliana, avvocato, che gli ha dato un nipotino (il figlio maschio, Danilo, è allenatore di pallavolo) nonno Giulio, suo padre, direttore di banca, lo iscrisse a ragioneria, nella loro Sanremo, pensando che l’unico sbocco fosse un lavoro sedentario in banca. Ma è famoso il fatto che Mino, il nome vero era Gerolamo, non ha mai saputo fare le addizioni e meno che meno conosceva le tabelline: la sua fortuna è stata la sua insegnante di italiano che, ricambiato, lui ha adorato; i temi li scriveva per tutta la classe e li passava... Quando arrivavano i compiti in classe di mate- matica incrociava le braccia ed attendeva speranzoso... Il gioco ha funzionato per un po’, ma poi lo hanno “sgamato”. Lui sognava solo di fare il giornalista. Sognava solo il Corriere. Esonerato dalle lezioni di educazione fisica, correva a lavorare all’Eco della Riviera. E così quando conobbe Enzo Grazzini, grande inviato del Corriere, che gli propose di partire con lui non esitò. Doveva diplomarsi. Tramite amici influenti riuscì a convincere il preside a non bocciarlo (visto che la matematica era una materia fondamentale)... giurandogli che non avrebbe mai “esercitato” l’attività di ragioniere e che non si sarebbe più fatto vedere. Si iscrisse a Economia e commercio a Genova, ma non frequentò». Grazzini era inviato del Corriere per varietà, costume, festival e manifestazioni canore e culturali. Mino gli si incollò al seguito, anonimo portaborraccia: fiutava le notizie come un segugio i tartufi e al momento in cui Grazzini si metteva a scrivere lui gli aveva già fornito tutti gli ingredienti, spezie comprese. Affabulatore nato, ispirava fiducia, con lui tutti si confidavano. Ci vollero quattro anni, poi nel 1961 arrivò l’assunzione (contemporaneamente a Roberto Gervaso): prima al Corriere d’Informazione, per il rodaggio, poi al Corrierone. Ne è rimasto orgoglioso per tutta la vita, mai dimenticando la faticaccia: se ne vantava sempre, ma senza spirito di rivalsa, senza alcun rancore. Anzi. Nel ‘68, nei giorni della contestazione all’università uno dei capi gli offrì una laurea facile facile. Ne ebbe uno sdegnoso rifiuto: «Al Corriere sono arrivato senza essere dottore. Mi basta». Era stimolato ad insegnare agli altri, e per farlo non si tirava mai indietro, anche quando qualche gallone appuntato sulla divisa glielo avrebbe consentito. In redazione era sempre di guardia notturna, fino all’ultima chiusura, le 4. A quell’ora lo stanzone della cronaca era una sala da gioco, con il vantaggio che, se succedeva qualcosa, il pronto intervento era assicurato... senza svegliare nessuno e senza pagare straordinari. A conclusione della giornata, spesso il gruppo si trasferiva in qualche ristorante per nottambuli. Fino all’alba, e Mino non mancava. Il Festival di Sanremo, per competenza terri- toriale, rimase a lungo un servizio «suo» (nel ‘67 fu testimone della morte di Tenco). Lo ricordo quando andava in giro per l’Italia (nel 1974, fu con Giampaolo Pansa, il primo a comunicarci da Genova la liberazione del giudice Sossi, rapito dalle Br). Negli anni di piombo fu più volte minacciato: non rifiutò mai un servizio. Così come era sempre pronto a partire quando da Milano chiamava il capo degli Interni: «Già che sei lì a Trento... perché non vai a Trieste...?... Voglio il pezzo alle otto». E alle otto: «Sono il Mino... passami gli stenografi». Qualche mugugno, mai un’impuntatura. Alla scuola Di Bella era «uso ad obbedir tacendo», come i Carabinieri (e profonda era la sua ammirazione per l’Arma, fonte preziosa di notizie). Anche per sottrarlo alle minacce lo «inviarono» a fare il direttore. Prima, nel 1976, all’Eco di Padova, quotidiano creato e presto sacrificato da Rizzoli per strategie editoriali, poi lo lasciarono scegliere tra il Mattino di Napoli e l’Alto Adige. Scelse quest’ultimo e si conquistò una redazione sulle prime ostile. Unica richiesta all’editore, la promessa di tornare al Corriere. Tornò nell’84, capo degli Interni. Ma continuava a invidiare gli uomini che spediva sul campo. Finché fu chiamato a Varese, dall’editore Ferrario, alla guida della Prealpina. Accettò con entusiasmo, ma scese piangendo lo scalone del Corriere, che da più di vent’anni era stato la sua vera casa. A due riprese, fra baruffe e riconciliazioni con l’amico proprietario, rivitalizzò l’antico quotidiano (quante volte, davanti a casi incerti, mi ha chiamato per sentire cosa facevamo noi «in Solferino»): quando un «fratello» andava a trovarlo, per lavoro o per un saluto, gli si metteva a disposizione, memore delle ospitalità che da inviato del Corriere aveva avuto nel suo peregrinare nelle province. Era un modo di sentirsi sempre corrierista, e cronista. A Varese, una mattina, arrivando al giornale, trovò in Cronaca due giovanissime colleghe al computer: «Che cosa fate lì? Fuori! fuori! andate in giro a cercare roba. Ricordatevi che non siete impiegate del catasto». Questo era «il Mino». Incapace di stare fermo. Mirella Savà, un ricordo su Tabloid come aveva chiesto di Francesca Romana Mezzadri Non è facile scriverle, ma queste quaranta righe sono dedicate a mia nonna, Mirella Savà, giornalista e donna meravigliosa, che si è spenta improvvisamente lunedì 1° febbraio. Da bambina, il pavimento della mia camera era tappezzato di giornali. Erano la sua mazzetta, e io li sfogliavo, li leggevo, ritagliavo scritte e figure: erano il mio gioco preferito. Che si trattasse di una copia di Grazia o di Epoca, poco cambiava: li divoravo letteralmente. È stato così che la mia nonna giornalista (come mi è sempre piaciuto chiamarla) mi ha trasferito l’amore per una professione dalle mille facce, tante quante quelle che lei ha esplorato nella sua lunga carriera.Subito dopo la guerra, rimaORDINE 3 2005 sta sola con una bimba piccola, aveva iniziato a scrivere novelle. Da lì al giornalismo, la strada è stata per lei naturale. Pubblicista dal 1956, fu una precaria ante litteram, sempre combattiva e determinata nonostante già allora entrare in una redazione e ottenere il praticantato non fosse un’impresa facile: e infatti, divenne professionista, con Carlo De Martino, solo nel 1974, quando era inviato di Grazia e girava il mondo facendo interviste e reportage sempre percorsi da una vena di curiosità, arguzia, sensibilità, ironia.Tra le tappe della sua carriera, che più amava ricordare, le pubbliche relazioni tenute per Chatillon, La Castellana, Abital, La Faini, il concorso di Miss Italia e tanti altri. E poi, le collaborazioni con Grand Hotel e Stop negli anni del boom dei settimanali popolari. Ma anche quelle con Novella e Marie Claire, la bella esperienza a Grazia e i lunghi anni in redazione a Confidenze. Era una donna spiritosa e intelligente, come ricordano quanti le sono stati vicini e hanno lavorato con lei. Per i quali, ne sono sicura, è stata ben più di una collega. Perché si è sempre prodigata per dare una mano a chi ne aveva bisogno, e spesso per trovare un posto o una collaborazione a chi se lo meritava. In una lettera che abbiamo trovato dopo la sua morte, mi chiedeva di far pubblicare un suo ricordo su queste pagine: un modo per salutare le tante persone incontrate negli anni, e per accomiatarsi da un lavoro che è stato la sua vita. Io lo faccio, con la malinconia e la tristezza di un momento per me difficile, ma con la gioia e la gratitudine per ciò che mi ha insegnato, come giornalista ma, soprattutto, come donna. 25 (29) T E S I D I L A U R E A Università degli studi di Messina, facoltà di Lettere e filosofia, corso di laurea in Lettere moderne. Relatore prof. Lucrezia Lorenzini, correlatore prof. Giuseppe Amoroso. Anno accademico 2001-2002 di Palmira Mancuso “Andare, osservare e raccontare” riassumono il cuore dell’attività giornalistica nella sua immagine più romantica. Spinti da questa innata esigenza diversi scrittori si cimentarono nel giornalismo, viaggiando come inviati speciali tra rivoluzioni, guerre, morte e carestie. Sciascia, invece, non si spostò mai, almeno idealmente, da Racalmuto, il suo piccolo paese natale, sperduto nella profonda Sicilia, il luogo che più di ogni altro è stato al centro delle sua esperienza narrativa, la base da cui partiva e a cui puntualmente faceva ritorno. Eppure, in questo microcosmo siciliano lui è stato un “inviato speciale”: da lì ha osservato il mondo, ne ha raccontato la rivoluzione attraverso i suoi personaggi più “eretici”, le guerre di mafia, la morte nelle miniere di sale, le carestie di una terra povera e ingiusta, una “valle di zolfo e d’ulivi” dove scorrono “acque gialle di fango / che i greci dissero d’oro”. Nel piccolo paese di Racalmuto, paese di zolfatari e contadini, il giovane Leonardo Sciascia, che fin da piccolo dimostra la sua passione verso i libri e la lettura in genere, trova nel “Circolo Unione” un luogo privilegiato da cui osservare e decodificare la realtà. Nonostante l’asfittico ambiente piccolo-borghese, il circolo concorre, con il cinematografo e con i libri, alla formazione dello scrittore. È qui che comincia il suo contatto con i giornali e lui stesso, nelle parrocchie di Regalpetra, lo testimonia: “Il popolo lo chiama ancora circolo dei nobili (o dei galantuomini dei civili dei don); i soci lo chiamano semplicemente casino. È situato sul corso, nel punto più centrale: consiste di una grande sala di conversazione, con tappezzeria di color perso e poltrone di cuoio scuro, una sala di lettura, tre sale da giuoco: nella sala di lettura c’è la radio, quasi sempre accesa, la possibilità di far profittevole lettura è molto vaga: sul tavolo si trovano i quotidiani Il Tempo di Roma e il Giornale di Sicilia; i settimanali Epoca, Oggi e La Domenica del Corriere; le riviste L’Illustrazione italiana e Il Ponte, quest’ultima rivista pochissimo e letta e sdegnosamente tollerata vi si trova, in grazia della concordia da cui il circolo prende nome, per volontà di una diecina di giovani. Alla fine di ogni anno c’è il tentativo di cassare l’abbonamento al Ponte dal bilancio, ma i giovani stanno all’erta e ripresentano alla deputazione l’istanza del rinnovo; purché la concordia non venga meno gli altri sopportano lo scandalo di una simile rivista”. Immaginiamo i buoni borghesi riuniti al circolo, che leggono i tipici giornali del moderatismo anni cinquanta, ad esclusione della rivista Il Ponte, l’unico abbonamento che Sciascia riesce a strappare agli amministratori, nel suo costante intento di modificare le pigrizie culturali dei soci, dei quali osserva le miserie morali ed il conformismo. Leonardo Sciascia GIORNALISTA FUORI “ALBO” Prima di analizzare l’esperienza di Sciascia nelle singole testate, a cui abbiamo fatto riferimento, è bene ricordare anche l’esperienza nella redazione de Il Giornale di Sicilia, con un aneddoto raccontato da Roberto Ciuni, all’epoca direttore della testata palermitana, che ricorda “quel giornalista da prima pagina” in un articolo scritto per Malgrado Tutto in occasione del decimo anniversario della morte dello scrittore racalmutese, e spiega come mai Sciascia, iscritto all’elenco dei praticanti dell’Ordine nazionale dei giornalisti (passo che precede l’iscrizione all’elenco professionisti) rifiuta il “tesserino” professionale. Al centro di tutto, come sempre, “una questione di giustizia”… “All’inizio del 1972 quasi ogni mattina passavo a prendere il caffè in casa di Leonardo Sciascia, a Villa Sperlinga […] Di tanto in tanto Sciascia mi scriveva delle noterelle che pubblicavo in prima pagina, così come Renato Guttuso mi illustrava gratis delle pagine ricostruttive di storia dell’isola con bellissimi disegni. Chiacchierando durante il caffè, un giorno prendemmo l’argomento Moravia: il Corriere della Sera l’aveva fatto praticante. Per quanto uno scrittore italiano avesse successo e guadagnasse bene, né i romanzi, né alcun genere di saggistica (il fenomeno Eco era ancora lontano), potevano dare la sicurezza del futuro che dava il sistema giornalistico – dallo stipendio alla previdenza e, infine, alla pensione. Se ne parlava, da parte sua, con la naturale ritrosia a mettersi sul mercato editoriale, quindi con la convinzione di non poter contare sui redditi elevati nonostante le ottime vendite dei libri, e, da parte mia, con la speranza di replicare in Sicilia uno schema nobilmente applicato a Milano dal Corriere della Sera: quello dello scrittore assunto da un giornale in pianta stabile per far soltanto lo scrittore, non per inseguire notizie o impaginare. Lo convinsi, la mia proposta fu accettata dagli editori Pietro Pirri e Federico Ardizzone, rappresentanti delle due anime proprietarie del giornale, e firmai la lettera d’inizio del praticantato. Sciascia volle impegnarsi in una rubrica di prima pagina intitolata ai suoi vecchi zii di Sicilia, quasi che adesso lo zio fosse lui che la redigeva. E – ricordo – scrisse un fondino alla caduta del DC9 a Punta Raisi che riprendeva il tema del ponte di San Louis Rey. Piano piano s’accorse però della differenza assai marcata tra la sua posizione di privilegio – frequentava il giornale solo per portare un articolo, scriveva o non scriveva a secondo dell’argomento e 26 (30) della voglia – e quella dei redattori, soprattutto gli altri praticanti, costretti a fare fatiche inaudite, cosa consueta nei giornali regionali, sui cumuli di lavoro da smaltire. Passati un po’ di mesi mi disse che la cosa gli sembrava ingiusta e il suo praticantato finì così, con mio grande dispiacere.” RECENSORE DI TEATRO PER L’ ESPRESSO Ancora una parentesi nell’attività giornalistica di Sciascia, che dal novembre del 1978 al maggio 1983 fu anche recensore di teatro per L’Espresso, alternandosi settimanalmente con la giovane redattrice Rita Cirio. Venti in tutto gli articoli che ha scritto, dopo aver accettato l’incarico con qualche perplessità, affermando di cimentarsi in questa attività “per verificare, dopo tanti anni, se il mio amore al teatro, la mia passione per il teatro, ancora esiste o se oggettivamente il teatro che oggi si fa offre ragioni a che resista e si rinnovi”. Probabilmente lo scrittore, dopo le furiose polemiche seguite alla pubblicazione dell’ Affaire Moro, considerò questo impegno come una buona opportunità per dedicarsi ad “altra scrittura, ad altro testo”. INFLUENZA DEGLI SCRITTORI-GIORNALISTI AMERICANI Negli Stati Uniti inizia una nuova stagione per la comunicazione, soprattutto con l’esperienza degli inviati sui fronti di guerra, e la “moderna letteratura americana” concorre alla formazione del giovane Sciascia. La famiglia Sciascia, infatti, nel 1935 si trasferisce a Caltanissetta per permettere ai figli di studiare e Leonardo si iscrive all’Istituto Magistrale IX Maggio, dove incontra figure decisive per la sua formazione, tra cui anche Vitaliano Brancati, che insegna in un’altra classe dello stesso istituto. Sciascia lo spia e lo legge ogni settimana sulle colonne di Omnibus, il celebre rotocalco di Longanesi, dove una pattuglia di scrittori trentenni sapeva guardare altrove, alla letteratura nordamericana, alla grande letteratura memorialistica francese, alle inquietudini e alle introspezioni della Mitteleuropea. Una lira. Ma ne valeva la pena: Barilli e Savinio, gli articoli di Vittorini sugli scrittori ameri- Sciascia fotografato da Ferdinando Scianna a Racalmuto, 1964. cani, i racconti di Caldwell e Saroyan, di un Giovanni Drogo che credo fosse Dino Buzzati, certi rapporti sull’America di Moravia e De Chirico; e che delizia le lettere di Brancati al direttore! “Caro direttore…” ed era come se da quel tessuto di noia che era la nostra vita di ogni giorno, improvvisamente balzasse nel fuoco una lente, che lo ingrandiva e lo deformava, un particolare della trama un nodo o una smagliatura. Pensavo: così si deve scrivere, così voglio scrivere. Questo è anche il periodo della guerra in Spagna, della scoperta dell’antifascismo, delle letture di Faulkner, Caldwell, Steinbeck, Dos Passos ed Hemigway, che furono, questi ultimi in particolare per Sciascia, modello di ardite sperimentazioni strutturali e linguistiche. Ed ancora Sciascia, in una pagina di Nero su Nero, a proposito delle foto che gli inviati dei giornali americani e inglesi fecero durante la campagna di Sicilia, nel 1943, scrive: “Queste due fotografie dicono tutto. E non ci sono soltanto il pastore, il paesano, i soldati che allegramente si arrendono: ci siamo anche noi, ventenni, col mito dell’America che non ci veniva dai parenti e dagli amici (degli amici), ma dalle appassionate letture, cui Vittorini e Pavese ci avevano avviato, di Faulkner, di Hemingway, di Steinbeck, di Caldwell, di Saroyan. Che ve ne sembra dell’America? chiedeva il titolo di un libro di Saroyan tradotto da Vittorini. La libertà, la democrazia, il new deal, la frontiera verso il mondo nuovo – era la nostra risposta.” Dunque, anche se in maniera indiretta, lo stile di questi scrittori-giornalisti ha influenzato Sciascia, soprattutto nella sua tecnica ORDINE 3 2005 Sono gli anni della seconda guerra mondiale, gli anni del diploma magistrale e del primo impiego, nel 1941, presso il consorzio agrario di Racalmuto. In questo stesso anno Sciascia viene ammesso ai corsi universitari della facoltà di Magistero a Messina, con un tema sul teatro dedicato all’opera di Wilder Piccola Città. “Con l’Università ha chiuso subito, ai primi deludenti esami. […] rimedia un 18 in filosofia […] è bocciato in letteratura italiana […] quando Sciascia sarà in fin di vita e la facoltà di Lettere delibererà di assegnargli la laurea ad honorem in Lettere, lui farà in tempo a dire: “Mi sarebbe piaciuto averla in Legge” (la laurea honoris causa alla memoria è stata conferita a Messina l’8 giugno 2000). Nel 1944 si sposa con Maria Andronico e in questo periodo comincia a pubblicare articoli politico-letterari sui giornali Vita Siciliana, Sicilia del Popolo e Unità. “Sono testi che risentono molto dell’epoca in cui furono scritti, connotati da un’intensa aspirazione alla libertà e alla pace universale e lo stile del giovane Sciascia è ancora debitore della prosa rondesca”. È il 1946 quando Leonardo Sciascia, spinto da un sentimento di civile indignazione, invia un articolo al Politecnico, la rivista diretta da Elio Vittorini. L’articolo, che non sarà pubblicato ma che verrà citato nella rubrica della posta, è un primissimo esempio di come lo scrittore creda nella forza del giornalismo e della scrittura, della sua funzione pedagogica e moralizzatrice; infatti, dalle righe dell’articolo leggiamo: “Vorrei richiamare di più l’attenzione su quello che è l’isola: un verminaio di reazione affannata a raccogliere nomenclatura nuova che mascheri i vecchi vizi”. Intanto da Racalmuto Leonardo Sciascia arriverà a collaborare ad alcune tra le principali riviste letterarie del tempo (Nuovi Argomenti, Letteratura, Nuova Corrente, Officina, Il Ponte, Tempo Presente) con testi creativi o recensioni e scriverà anche per Il Raccoglitore, l’inserto culturale del quotidiano La Gazzetta di Parma, che all’epoca gode di un certo prestigio.Nel 1949 è tra i fondatori della rivista Galleria, stampata a Caltanissetta da un suo omonimo, Salvatore Sciascia, che dal 1950 dirigerà fino alla morte, garantendosi la collaborazione di prestigiosi scrittori e critici, da Mario Guidotti a Luigi Russo, a Cesare Zavattini. Nei decenni successivi la collaborazione dello scrittore con le riviste letterarie si dirada, anche se da segnalare è la condirezione con Moravia ed Enzo Siciliano della terza serie di Nuovi Argomenti, lasciando spazio al suo impegno di “cronista” per i quotidiani. L’esperienza giornalistica di Sciascia, che attraversa tutto l’arco della sua vita, per semplicità d’esame, possiamo suddividerla in quattro fasi, caratterizzate da quattro diverse testate, anche se, come vedremo, l’autorevole firma di Sciascia è richiesta e ospitata da più giornali contemporaneamente: 1 L’Ora di Palermo, con cui ha iniziato a collaborare nel 1955 e dove ha curato una rubrica, dal 1964 al 1968, che lui stesso ha scelto di chiamare semplicemente “Quaderno”; questa esperienza sarà importante per il giovane scrittore che, in una Sicilia dove la Democrazia Cristiana è partito di maggioranza assoluta, trova in questo giornale d’opposizione, spazio per esprimere quel suo impegno civile, che poi culmina nella pubblicazione, nel 1961, del suo libro più famoso, Il giorno della Civetta, libro da cui “sono nate tutte le antimafie”; 2 Il Corriere della Sera, dove la sua collaborazione è alterna: dal 1969 al 1972, quando alla direzione c’è Giovanni Spadolini, e poi, dopo qualche anno, sotto la direzione di Piero Ottone, che ospita voci e istanze nuove, cambiando ruolo alla figura del letterato, che dalla pagina tre si sposta in prima pagina; gli anni del Corriere sono segnati da grandi tensioni sociali e politiche, a cui Sciascia partecipa in prima linea proprio dalle pagine del quotidiano milanese, da cui si allontana “simbolicamente” il 10 gennaio 1987, giorno della pubblicazione dell’articolo sui “professionisti dell’antimafia”, che dà inizio ad una delle polemiche più feroci nei confronti di Sciascia, la cui fiducia nei giornali e nei giornalisti va via via diminuendo; 3 4 La Stampa, con cui, nonostante suoi articoli compaiono già dal 1972, collabora in maniera più intensa dopo aver rotto i ponti con il Corriere della Sera; questo periodo, che coincide anche con gli ultimi anni della sua vita, vede Sciascia meno polemista, più propenso a scrivere di letteratura, a parlare di Manzoni, a ricordare la lezione di libertà lasciata da Brancati, a recensire testi inediti di Savinio… Malgrado Tutto, che sancisce il ritorno alla dimensione paesana, a quella Racalmuto che lo stava ancora aspettando e che ne voleva raccogliere l’eredità, attraverso un piccolo periodico cittadino di commento e cultura, di cui Sciascia segue le sorti fin dalla nascita e a cui collabora, affidando ai giornali locali il ruolo di opposizione concreta, in polemica con le testate nazionali di cui denuncia l’uniformità. Uno scrittore in redazione di realismo narrativo che appartiene alla sua scrittura degli esordi, quando lo stesso scrittore sente il peso dei “latinucci” da cui ancora non riesce a staccarsi. Ma se “tecnicamente” la vicenda americana ha avuto un ruolo per la codificazione del linguaggio giornalistico moderno e per la sua interpretazione critica sicuramente è molto lontana dall’esperienza dello scrittore di Racalmuto, che sul giornalismo e sul ruolo del giornalista aveva opinioni precise, che non esitava a puntualizzare ogni qual volta ne avesse l’occasione. Così, in un articolo del Corriere della Sera, datato 14 ottobre 1983, leggiamo che “lo scoprire altari ed altarini dovrebbe essere funzione assidua di coloro che hanno a che fare con la carta stampata e con altri mezzi che comunicano e formano opinione”. Sempre in un articolo del 1983, pubblicato su l’Espresso il 20 febbraio, Sciascia ribadisce che tra i compiti del giornalista c’è quello di saper leggere la realtà, di capirla, di farne giudizio e che “nell’ambito della carta stampata, di coloro che vi lavorano, l’ignoranza – anche se c’è – non è da ammettere, come non è ammessa di fronte alle leggi”. RADIO E TV: MA LA COMUNICAZIONE PER SCIASCIA RESTA SCRITTA Leonardo Sciascia ebbe la capacità, da grande intellettuale qual era, di utilizzare con facilità tutti i mezzi di comunicazione, se questo rispondeva alla necessità di spingere sempre oltre il suo pensiero, rivolto, quasi in maniera ossessionante, alla giustizia. Prendiamo, ad esempio, la sua esperienza a Radio Radicale e riportiamo una testimonianza di Valter Vecellio, allora direttore di Notizie Radicali, che ricorda: “Si era tra il 1980 e il 1981. Le Brigate Rosse avevano rapito il giudice Giovanni D’Urso; […] Sciascia, che pure era uno scrittore affermato, le cui collaborazioni erano contese, in quell’occasione non trovò nessuno che fosse disposto a pubblicare i suoi scritti, i suoi appelli diretti alle Br perché liberassero senza condizioni D’Urso. E lui, pur così refrattario a parlare davanti ad un microfono, veniva alla Radio Radicale. Con quella sua voce un pò roca, la cadenza lenta, si rivolgeva direttamente alle Br; in nome del diritto, della ragione.” È opportuno, dunque, analizzare il rapporto che lo scrittore aveva con i mezzi di comunicazione diversi dalla carta stampata. Dobbiamo constatare, infatti, che non era certo un personaggio da talk show televisivo e le sue apparizioni in tv sono state veramente poche. Dalle parole della moglie Maria Andronico, scopriamo addirittura che ORDINE 3 2005 in casa Sciascia, in contrada “Noce” a Racalmuto, non c’era neanche la televisione: “Leonardo non lo voleva qui. Mentre a Palermo ne abbiamo uno che tanti anni fa ci regalò il giornale L’Ora. Leonardo lo accendeva solo per seguire i telegiornali. Per le dirette dedicate alle elezioni mostrava però un grande interesse”. Per Sciascia il mondo della comunicazione era a senso unico: non poteva prescindere dall’informazione, intesa soprattutto come esperienza scritta. Del suo scetticismo nei confronti della tv lo stesso Sciascia parla con la solita ironia: “ Ai primi fasti della televisione, quando nelle famiglie e nei circoli tutti – come ora – vi stavano attaccati, ma si pensava per amore alla novità, ho sentito questo giudizio di contadina saggezza: “la televisione è come il porco; niente va perduto” – e cioè che come ogni parte del porco viene consumata o utilizzata, così ogni cosa che la televisione trasmette. E così continua ad essere; e anche peggio se il cancelliere Schmidt ha rivolto un discorso ai tedeschi esortandoli a un digiuno televisivo di almeno un giorno la settimana. Mai preoccupazione di un uomo di governo è stata più giusta. E dico di più: mai un uomo di governo si è preoccupato del declino d’intelligenza dei governati e dell’aumento del tasso di stupidità, come lui nei confronti della televisione. […] E speriamo almeno che passi anche questa del digiuno televisivo: tanto necessario quanto, secondo il Corano, il non mangiare carne di porco in Arabia.” Da attento osservatore qual è sempre stato, con questo scritto di trenta anni fa, Sciascia si conferma profetico nel proporre un dibattito che oggi è all’ordine del giorno; del potere di assuefazione e di livellamento intellettuale della televisione lo scrittore aveva addirittura una certa paura, di cui parla a Davide Lajolo in Conversazione in una stanza chiusa, un libro-intervista che ripercorre l’impegno civile e culturale dello scrittore e dove, tra le tante cose, afferma: “La mia paura è più della massa davanti ai televisori che della massa sotto un dittatore. Le tirannie fanno sì che molti individui si sciolgano dalla massa, ma i televisori no. E poi c’è la parola. Massa. Far massa. In elettricità, mi pare, non è niente di buono.” Possiamo dedurre che i mezzi di informazione per Sciascia hanno essenzialmente una valenza pedagogica, conoscitiva, priva di intenti ricreativi, che sono invece, ma in un’accezione positiva, nella scrittura. Un’idea, quest’ultima, che l’autore siciliano riprende da Montaigne (“non faccio nulla senza gioia”), per cui il lavoro letterario equivale al dilettantismo, al fare le cose per diletto, con gioia. “Per quanto amare, dolorose, angoscianti siano le cose di cui si scrive, - dice Sciascia - lo scrivere è sempre gioia, sempre “stato di grazia”. O si è cattivi scrittori.” 1 Leonardo Sciascia e L’Ora “Il L’Ora”, così lo chiamavano i palermitani, era un quotidiano indipendente della sera. Fu fondato nell’aprile del 1900 dalla famiglia Florio, capofila di una nuova borghesia illuminata ed antiproibizionistica, che in esso aveva trovato il proprio organo d’informazione. Aveva poi attraversato il fascismo, facendo viva opposizione, fino a quando aveva potuto. La sua stagione di gloria ebbe inizio nel dopoguerra, quando la Sicilia tornò a rinascere, con l’autonomia regionale, la riforma agraria, la tentata industrializzazione. Giornale dichiaratamente di sinistra, l’editore era il Partito comunista italiano, L’Ora si fece interprete di questo spirito di rinnovamento, scegliendo di schierarsi contro la faccia negativa di quello stesso rinnovamento: la nuova mafia, il clientelismo, la nascita di nuovi potentati economici che basavano le proprie risorse sulla spesa regionale. Non fu un’operazione semplice e la testata pagò a caro prezzo la sua perseveranza nel denunciare piccoli e grandi scandali di una società corrotta e di una politica collusa, non soltanto in termini di querele, che a decine e decine arrivavano in redazione a seguito delle coraggiose inchieste che quotidianamente venivano pubblicate, ma anche in termini di sacrifici umani: L’Ora è il quotidiano che nella storia della stampa italiana annovera il più alto numero di giornalisti uccisi dalla mafia: Mauro De Mauro, Cosimo Cristina e Giovanni Spampinato. Il quotidiano di Palermo ha rappresentato un’informazione di frontiera, che attraverso le inchieste, i servizi, l’indagine, si è battuta contro i poteri occulti, specie quelli mafiosi, facendo del giornalismo uno strumento di lotta politica. La stagione più importante de L’Ora è legata al nome di Vittorio Nisticò, direttore del quotidiano palermitano nel ventennio che va dal 1954 al 1975, un giornalista attentissimo e autorevolissimo, che fece guadagnare alla testata prestigio nazionale. In questo arco di tempo sono stati tanti gli avvenimenti politici e di cronaca puntualmente registrati dal quotidiano d’opposizione: dal “milazzismo” (l’operazione politica che estromise la DC dal governo della Regione) all’uccisione del procuratore capo Pietro Scaglione, dal “sacco” edilizio dei Lima e dei Ciancimino al sisma del Belice. Quando nel 1958 uscì la sua prima grande inchiesta sulla mafia, di questo fenomeno cruento e inquinatore della politica nessun media faceva cenno, giungendo pure a negarne l’esistenza. E scrivere questa parola, a chiare lettere, sulle pagine del giornale, provocò la reazione di Cosa Nostra, che collocò una bomba tra la redazione e la tipografia. La risposta del quotidiano fu altrettanto chiara : “La mafia ci minaccia, l’inchiesta continua”; vennero ripubblicate in un inserto anche tutte le puntate precedenti. Questo episodio portò il Presidente della Repubblica Saragat a dichiarare che “ci voleva questo attentato per capire che la mafia c’è”, dando vita alla commissione parlamentare d’inchiesta sulla mafia, che poi, malgrado i tentativi di opposizione al disegno di legge istitutivo, da parte di deputati e senatori della Democrazia Cristiana, che la reputarono “inutile, offensiva e incostituzionale”, diventò permanente. Insomma, L’Ora di Nisticò ha avuto anche questo merito, quello cioè di portare a conoscenza dell’intera nazione che la mafia in Sicilia c’era, ma che c’erano anche siciliani disposti a combatterla. Ma L’Ora non fu solo questo: la redazione palermitana è stata anche un centro di cultura e di aggregazione intellettuale; basti pensare non solo a Leonardo Sciascia, ma anche a Michele Perriera, Gioacchino Lanza Tomasi, Danilo Dolci, Giuliana Saladino, Vincenzo Consolo, “scoperti” e apprezzati da Nisticò prima che diventassero gli autori che oggi conosciamo, e che arricchivano il giornale di tutti quei temi leggeri, ma non futili, che riguardavano il mondo dell’arte e del costume. Accanto a queste “penne” vi erano anche i “pennelli” di Renato Guttuso e le “matite” di Bruno Caruso, che spesso illustravano i fatti di cronaca più importanti. L’Ora non esiste più, ma la sua lezione di giornalismo continua ad essere presente, attraverso molte “firme” sui più autorevoli quotidiani nazionali, di giovani cresciuti nel “laboratorio” giornalistico siciliano, come l’attuale direttore de La Stampa di Torino, Marcello Sorgi, che ha scritto di come a 27 (31) T E S I D I L A U R E A Leonardo Sciascia, uno 2 Leonardo Sciscia (foto di Giacomo Fotogramma) caratterizzare l’identità del quotidiano era “il mix di politici, intellettuali, artisti e scrittori che si affacciavano nel pomeriggio…”. Dell’ultima generazione di cronisti, formatisi nella redazione del quotidiano siciliano, ricordiamo Gianni Riotta, Attilio Bolzoni, Antonio Calabrò, Alberto Stabile, e Francesco La Licata, solo per citare alcuni tra quelli più conosciuti. Ed è con orgoglio che, ricordando l’esperienza de L’Ora, La Licata, giornalista esperto di storia della mafia, incontrato a Roma proprio in occasione di questa mia ricerca, mi dice come l’appartenenza a quel giornale “non era questione di essere militanti; negli anni ‘70 essere contro la mafia era un dovere”. E l’adesione al partito comunista, voleva dire schierarsi contro il potere, soprattutto contro il potere mafioso. Erano gli anni in cui la Democrazia Cristiana spadroneggiava e dove a Palermo “la parola d’ordine nei confronti del giornale d’opposizione era ostracismo”, come ricorda il cronista - poeta Mario Farinella. “Fu in quell’atmosfera e a dispetto di quell’atmosfera che Leonardo Sciascia cominciò a scrivere per L’Ora. Era l’inizio di una collaborazione che doveva durare per più di trent’anni, sino a qualche ora prima della morte”. Sulle pagine del quotidiano del 3 aprile 1965, a chi gli chiedeva il perché di una così convinta consuetudine con L’Ora, Sciascia rispondeva scrivendo: “L’Ora sarà magari un giornale comunista, ma è certo che mi dà modo d’esprimere quello che penso con una libertà che difficilmente troverei in altri giornali italiani. In quanto al mio essere di sinistra, indubbiamente lo sono: e senza sfumature”. A proporre allo scrittore una collaborazione regolare fu, all’inizio del 1955, l’allora neodirettore Vittorio Nisticò su indicazione di Gino Cortese, l’intellettuale comunista nisseno, che tanto aveva saputo influire sul giovane Sciascia nella sua presa di coscienza antifascista. Brancati era appena morto e sarà lo scrittore racalmutese a prendere il suo posto, scrivendo di tutto, note critiche, ma anche riflessioni culturali, politiche, inchieste e reportage. Riguardo alla data del primo articolo pubblicato da Sciascia esistono delle fonti discordanti tra loro, tranne che per l’anno di pubblicazione che resta il 1955. Così Matteo Collura, nel Maestro di Regalpetra, riferisce quella del 23 febbraio, dove Sciascia dedica una nota letteraria al poeta dialettale catanese del Settecento, Domenico Tempio; mentre nella raccolta “Quaderno” di Leonardo Sciascia, pubblicata dalla Nuova Editrice Meridionale nella collana “Dalle pagine de L’Ora”, l’Editore riferisce dello stesso articolo, ma con la data del 25 febbraio. C’è poi la testimonianza di Vittorio Nisticò che sposta la data al 24 marzo: si tratta ancora di una nota letteraria, ma su un libro di Vittorio Fiore, Ero nato sui mari del tonno. Di certo, dunque, il 1955 segna l’inizio della carriera giornalistica di Sciascia, ancora praticamente sconosciuto (solo un anno dopo avrebbe pubblicato Le Parrocchie di Regalpetra) e segna anche l’inizio di un 28 (32) amichevole rapporto tra lo scrittore e il direttore del quotidiano siciliano. Vittorio Nisticò in un libro recentemente pubblicato da Sellerio, dove ripercorre i suoi venti anni di direttore al L’Ora di Palermo, ricorda così la nascita di questo duraturo e proficuo rapporto: “Per conoscerlo e concordare la collaborazione ero andato a trovarlo in una sua casetta di campagna nei pressi di Racalmuto, in compagnia di un comune amico, Gino Cortese, deputato comunista al parlamento siciliano”. La presenza di Sciascia in redazione era sempre molto discreta e rispecchiava la personalità sobria e riservata dello scrittore, che pareva “quasi timoroso di infastidire”. Scrive ancora Nisticò: “Sciascia era per tutti noi – da me al cronista più giovane – uno di casa: sempre pronto ad intervenire anche nella cronaca diretta o nel fuoco delle polemiche, con le sue riflessioni stringenti e in più di un caso le sue ire, e sempre con un rispetto puntiglioso della puntualità. Insomma facendo alto giornalismo. E questo me lo rendeva, ce lo rendeva particolarmente vicino”. Sarà per il giornale palermitano che lo scrittore, a poche ore dalla morte, dettò quello che può considerarsi la sua ultima riflessione pubblica, ovvero la prefazione, richiestagli da tempo, per il volumetto di scritti di Borgese apparso poi nella collana “Dalle pagine dell’Ora”. IL “QUADERNO” DI SCIASCIA Sciascia era ancora un intellettuale in crescita, quando entra a far parte della redazione de L’Ora. Sebbene le sue doti indiscusse di scrittore fossero già evidenti e certe scelte ideologiche già ben chiare, il giornale palermitano fu una palestra dove far “pratica” e “imparare a scrivere”, utilizzando un linguaggio sempre più giornalistico, più diretto, esercitando la sintesi, esplorando le tecniche di realizzazione di un’inchiesta, osservando i criteri necessari a fare indagine. Dall’ottobre del 1964 al novembre del 1968 Sciascia tenne una rubrica, che volle chiamare Quaderno: quattro interventi al mese, che, come nel suo stile, sono spunti di conversazione, di polemiche, che gli vengono suggeriti dagli eventi politici, sociali, ma anche dai fatti di cronaca. “Il nome quaderno – scrive Vincenzo Consolo nella prefazione alla raccolta di questi scritti – al di là della versione francese “cahier” che in tanti altri sensi lo fa risuonare, vogliamo credere alluda al pirandelliano Quaderni di Serafino Gubbio operatore. Ma quaderno anche nel senso di diario, di lettere al direttore, come quelle che dal suo volontario esilio inviava Brancati alla rivista Omnibus”. Il contenuto di questi interventi è vario, ma comune a tutti è la sottile ironia, mediata attraverso la citazione letteraria o storica. Così notiamo che, quando Sciascia tratta argomenti letterari sembra di leggere tra le righe un ammonimento, un richiamo alla realtà; quando commenta fatti di cronaca lo fa alla luce della “verità” letteraria. Il Corriere della Sera: una stagione di polemiche È il 1969 quando Sciascia inizia a collaborare con il Corriere della Sera. La sua fama di scrittore continua a crescere: dopo il successo de Il giorno della civetta, pubblicato nel 1961, esplora nuove strade dando alle stampe nel 1963 un romanzo storico, Il Consiglio d’Egitto, e nel 1964 un’inchiesta storica, fondata su documenti d’archivio, Morte dell’inquisitore. Nel 1966 Sciascia pubblica un’altra storia di mafia, un altro fortunato romanzo poliziesco, A ciascuno il suo, ispirato all’omicidio del commissario di Pubblica Sicurezza agrigentino Cataldo Tandoj (1960). Questi sono gli anni in cui dalla dimensione “siciliana” Sciascia approda a quella nazionale ed europea; rifiuta pubblicamente e polemicamente l’etichetta di “mafiologo”, allargando la sua riflessione alla realtà dell’Italia intera, alle sue tragiche contraddizioni. Nel 1970, a quarantanove anni, Sciascia abbandona la scuola e va in pensione, dedicandosi quindi a tempo pieno all’attività letteraria e giornalistica. Intanto già un anno prima Giovanni Spadolini, nominato direttore del Corriere della Sera, lo chiama tra i suoi collaboratori e, ci fa sapere Matteo Collura, “lui è orgoglioso di vedere la sua firma sul giornale che aveva ospitato quelle di Borgese, Brancati, di Pirandello”. Per il Corriere, dalla cui redazione viene accolto con gli onori riservati ai grandi personaggi della cultura, scrive elzeviri di grande interesse, alcuni dei quali faranno parte de “La Corda Pazza”, una raccolta di ventotto studi scritti tra il 1963 e il 1970 dedicati a scrittori e cose della Sicilia. Questo titolo è anche il titolo del primo intervento di Sciascia pubblicato sul Corriere della Sera il 4 febbraio 1969 e dedicato al barone Pietro Pisani, un uomo “saggio al punto da riconoscersi folle, e abbastanza folle da ritenersi tra i folli il più saggio”, che dedica la sua esistenza a rendere più umana l’istituzione manicomiale della ottocentesca Real Casa dei Matti di Palermo, e la cui concezione della vita “molto si avvicina a precorrere quella di Pirandello”, come scrive lo stesso Sciascia, che aggiunge: “In due battute pirandelliane si può infatti riassumere la visione della vita, e il modo di vivere e di operare, del barone Pisani: ‘Deve sapere che abbiamo tutti come tre corde d’orologio in testa. La seria, la civile, la pazza’; ‘E via, sì, sono pazzo! Ma allora, perdio, inginocchiatevi! Vi ordino di inginocchiarvi tutti davanti a me – così! E toccate tre volte la terra con la fronte! Giù! Tutti, davanti ai pazzi, si deve stare così!’. La prima è del Berretto a sonagli, cioè di una commedia precisamente localizzata e che assume e scioglie il tema della “follia” nella tipicità della vita siciliana, delle sue regole; la seconda dell’Enrico IV, in cui il tema trascorre dal caso clinico all’esistenza stessa”. Ancora una testimonianza del rapporto con Pirandello e con quel “pirandellismo di natura”, a cui Sciascia all’inizio della sua carriera cercava di ribellarsi, come un adolescente si ribella al padre. Spadolini fu per tre anni direttore di Sciascia fino al 1972, quando divenuto senatore nel Partito Repubblicano Italiano venne allontanato dal giornale per volontà degli editori. Per dimostrare la lealtà dello scrittore nei suoi confronti, Spadolini dirà che “Sciascia, con un’interpretazione di fedeltà ombrosa e rigorosa che era assolutamente di altri tempi, lasciò via Solferino dopo la mia rottura col quotidiano milanese e passò alla Stampa”. In effetti Sciascia interrompe per qualche anno la sua collaborazione non “per fedeltà”, ma in segno di protesta per il modo in cui gli editori lo avevano liquidato; “lo scrittore considerava Spadolini una sorta di “bigotto laico” scrive Matteo Collura - e il perché stava proprio nel suo rapporto di collaborazione con la testata da lui diretta. Ogni qual volta lo scrittore faceva avere un suo articolo al Corriere, Spadolini gli inviava un telegramma per ringraziarlo. Un rituale che si era interrotto allorchè Sciascia aveva mandato un articolo dedicato ad un oscuro episodio avvenuto nella Sicilia del XVIII secolo: una macchia nella storia, irta di inquietanti analogie con la realtà politica e istituzionale di quei giorni. Lo scritto si concludeva con un’amara riflessione rivolta al presente, in cui lo Stato veniva definito “cadavere”. Una rosa per Matteo Lo Vecchio s’intitolava quel racconto, che avrebbe costituito uno dei capitoletti della “Corda Pazza”: giaceva il “cadavere dello Stato”, alla fine dell’articolo, accanto a quello di uno sbirro, Matteo Lo Vecchio, emblematicamente assassinato in nome di uno stato già decomposto. L’allusione a Spadolini non era piaciuta; e ne era rimasta come un’ombra nei suoi rapporti con Sciascia, che pure con tanta sollecitudine aveva invitato a collaborare con il Corriere della Sera”. DA OTTONE ALLA P2 La collaborazione di Sciascia con il Corriere subisce fasi alterne: si interrompe, come abbiamo riportato, la prima volta nel 1972, quando la firma dello scrittore si sposta su La Stampa di Torino. Lungo gli anni settanta e ottanta, poi, alternerà fasi di collaborazione esclusiva a uno dei due giornali a fasi in cui distribuisce i suoi articoli fra l’uno e l’altro quotidiano. E il passare da una testata giornalistica ad un’altra, da un editore ad un altro, danno idea del carattere di Sciascia che, evidentemente, sceglieva in assoluta libertà, e non per ragioni economiche, di pubblicare con un editore piuttosto che con un altro. Nuovo direttore del Corriere è dal 1972 Piero Ottone, che in un certo senso apporta una rivoluzione nel quotidiano milanese, all’insegna di un giornalismo liberale, senza conformismi e pregiudizi. Il nuovo corso procura nuovi lettori di tendenze progressiste e influenza altri quotidiani, come La Stampa e Il Messaggero. Una novità fu senza dubbio il nuovo ruolo degli intellettuali e scrittori che dalla terza pagina passarono alla prima, allargando il loro campo d’azione dagli aspetti meramente culturali, alle vicende politiche e sociali del Paese. In questi anni Sciascia cura la rubrica “Nero su Nero”, che successivamente diventerà un libro, costituito da pagine uscite sui giornali fra il 1969 e il 1979. Nel luglio del 1974 Andrea Rizzoli acquista il Corriere. Rizzoli si presenta come un editore puro, moderno e aperto. Nel contempo però intesse buoni rapporti con i partiti che contano. Il problema vero, comunque, è il bisogno di soldi. Decisiva per il catastrofico futuro del gruppo è la scelta dell’espansione editoriale. La scelta si concretizza nel potenziamento del Corriere, nell’acquisizione di testate, nei tentativi di inserirsi nel campo televisivo. L’impero è basato sui deficit e sugli intrecci politici. Nel 1977 avviene un’opera di ricapitalizzazione. Chi ha fornito i soldi? Ottone si dimette nell’ottobre del 1977. Nuovo direttore è Franco Di Bella: la sua scelta appare il segno della definitiva chiusura di un ciclo liberale. Il 20 maggio 1981 il Presidente del Consiglio, Forlani, rende pubblico l’elenco degli iscritti alla P2 trovato nell’archivio di Licio Gelli. Nell’elenco compaiono 28 giornalisti e 4 editori, tra cui Rizzoli. Di Bella deve lasciare il giornale, Rizzoli vuole vendere, ma la guerra che si scatena tra i vari partiti blocca diverse trattative. Per il salvataggio bisogna ricorrere all’amministrazione controllata nell’ottobre 1982, che dura due anni. Questo avvenimento segna l’inizio, in Sciascia, di una più profonda sfiducia nei giornali, dal momento che anche lui, come milioni di Italiani, era rimasto colpito dalla consapevolezza di avere scritto liberamente su un ORDINE 3 2005 scrittore in redazione giornale controllato da una loggia massonica segreta, un quotidiano su cui aveva anche potuto sostenere le sue idee sul caso Moro, in dissenso dalla linea ufficiale del giornale, che era quella della cosiddetta “fermezza”. Sciascia abbandona, dunque, il Corriere, così come altri illustri collaboratori; tornerà a scrivere solo quando il giornale, in amministrazione controllata, sarà affidato alla direzione di Alberto Cavallari, già inviato speciale. “Quello di Sciascia fu un ritorno giustamente enfatizzato dal giornale e che coincise significativamente con la pubblicazione dell’articolo sulle Anime morte e sul rileggere. Ma questo tarlo dovette continuare a roderlo, se Sciascia si pronunciò su questa vicenda solo in un’inchiesta di Nuovi Argomenti, per invitare a considerare la scoperta della P2 come un problema “prima che morale e politico, di diritto”, distinguendo le responsabilità di Gelli e dei vertici politici dell’operazione da quelle dei comuni iscritti che credevano di essere semplici massoni”. NERO SU NERO: UN VIAGGIO TRA I NERI PENSIERI DI SCIASCIA Sciascia, pur affidando alle pagine dei quotidiani i suoi interventi, comincia a raccogliere in volume gli articoli che ritiene più meritevoli di essere “salvati” dalla effimera durata del giornale e della rivista e di essere conservati in un libro. Dopo la pubblicazione de La Corda Pazza, in cui risalta la dimensione saggistica di Sciascia, è la volta di Nero su Nero, pubblicato da Einaudi; un libro costituito da pagine uscite sui giornali fra il 1969 e il 1979, il cui titolo si rifà alla rubrica - diario che Sciascia ha tenuto sul Corriere e che, successivamente, è diventato fondamentale per gli studiosi dello scrittore. Infatti, da questo “diario in pubblico” che continua con accenti più pessimistici la rubrica “Quaderno”, è possibile conoscere ciò che Sciascia pensa dello scrivere, della letteratura, dei giornali, ma anche della realtà pubblica che lo circonda: l’Italia come “paese senza verità” (come lui stesso lo ha definito in una intervista rilasciata nel 1979 sul giornale Contro del 10 novembre) dal caso del bandito Giuliano al sequestro di Aldo Moro, che occupa gli ultimi interventi e che verrà coraggiosamente affrontato nel libro L’Affaire Moro. Il titolo, alludendo alla “nera scrittura sulla nera pagina della realtà”, fa riferimento al pessimismo che in Sciascia, in questo decennio, è sempre più evidente e di cui spesso viene pubblicamente accusato; un pessimismo che investe anche il mondo del giornalismo, che Sciascia conosce ormai molto da vicino. In effetti, se il caso Moro aveva reso più amare le riflessioni dello scrittore sulla libertà di stampa, era già maturata nell’intellettuale la sfiducia nei giornali, che risulta evidente alla lettura di un articolo dedicato proprio a questo argomento: “La lettura dei giornali mi dà neri pensieri. Neri pensieri sui giornali appunto, sul giornalismo. I giornali mi si parano davanti come un sipario. Più esattamente come un velario, poiché qualcosa di quel che si muove dietro, degli oggetti che ci stanno, della scena che si prepara, la lasciano intravedere. Solo che ci vuole un occhio abituato, un occhio allenato. Non acuto, chè non basta. Esperiente. Di un’esperienza che non tutti hanno. C’è poi, impressionante l’uniformità. Qualche differenza nel riferire i fatti si può cogliere. Ma raramente nel giudizio sui fatti. Parlo, naturalmente dei giornali più diffusi. Tra i piccoli e meno diffusi, la valutazione dei fatti muta da giornale a giornale. Dovremmo abituarci a leggere i piccoli e meno diffusi e a trascurare quelli dalle alte tirature? Una indefinita paura sembra attanagliare i giornali. La paura di avere una linea, di assumere i fatti in un giudizio preciso. È come la paura di fare il giuoco di qualcuno o di qualcosa, di mettere in discussione quel che è pericoloso discutere, in pericolo quel po’ di sicurezza cui ci si vuole aggrappare. E in realtà il maggior pericolo sta appunto in questo: nell’aver paura di un pericolo.” Il giudizio su come viene gestita l’informazione in Italia si farà ancora più severo, come vedremo, negli ultimi interventi dello scrittore. ORDINE 3 2005 “L’AMMIRAGLIA DELLE POLEMICHE”: SCIASCIA E “I PROFESSIONISTI DELL’ANTIMAFIA” È sabato 10 gennaio del 1987 quando sulla terza pagina del Corriere della Sera viene pubblicato un articolo, a firma di Sciascia, destinato a suscitare una delle polemiche “più appassionate e dolorose del dopoguerra, l’ammiraglia delle polemiche”, il cui titolo a sei colonne ha segnato un capitolo nella storia della lotta alla mafia. Un titolo caustico: “I professionisti dell’antimafia” che da quel momento in poi si affiancherà, a torto o a ragione, al nome di Leonardo Sciascia. In questo articolo lo scrittore commenta un saggio sulla mafia nel ventennio fascista, “pubblicato da un editore di Soveria Mannelli, in provincia di Catanzaro: Rubbettino”, scritto da un giovane ricercatore dell’Università di Oxford, Christopher Duggan, allievo dello storico Denis Mack Smith, di cui nella stessa pagina viene riportata l’introduzione al volume chiamato appunto La mafia durante il fascismo. A creare il titolo, che diventa un vero e proprio slogan, non è Sciascia, ma il redattore culturale del Corriere della Sera Cesare Medail. Lo stile provocatorio dell’articolo è subito chiaro fin dalle prime righe, in cui, come peraltro raramente accade, Sciascia fa delle “autocitazioni, da servire a coloro che hanno corta memoria o/e lunga malafede e che appartengono prevalentemente a quella specie (molto diffusa in Italia) di persone dedite all’eroismo che non costa nulla e che i milanesi, dopo le cinque giornate, denominarono ‘eroi della sesta’”. Sembra quasi che già sapesse Sciascia quale terremoto avrebbe scatenato con quello che stava per dire e che, avvertiva i lettori, non poteva essere inteso se non alla luce di quanto già lui stesso aveva dichiarato sui suoi libri, a partire da Il giorno della civetta, in cui il capitano Bellodi, antesignano di tutti gli eroi antimafia, dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa a Giovanni Falcone, è già un martire che a voce alta grida il suo amore per la Sicilia, una terra su cui “si romperà la testa”. Un investigatore modernissimo, che indaga sui flussi finanziari, sulle banche, sulla gestione degli appalti; un uomo coraggioso che “per tradizione repubblicano, e per convinzione, faceva quello che in antico si diceva il mestiere delle armi, e in un corpo di polizia, con la fede di un uomo che ha partecipato a una rivoluzione e dalla rivoluzione ha visto sorgere la legge: e questa legge che assicurava libertà e giustizia, la legge della Repubblica, serviva e faceva rispettare”. Ancora una volta in Sciascia la letteratura si fa pagina di giornale e il giornalismo diventa letteratura dal momento che essa è ormai la più assoluta forma che la verità possa assumere. Sciascia in questo articolo è più che mai un “eretico”, un miscredente della sua stessa fede, un intransigente nemico dei luoghi comuni e del manierismo, anche nel caso della lotta alla mafia. Non basta essere mafiosi o antimafiosi, troppo semplice per Sciascia che al bianco e al nero preferisce sempre i colori intermedi, le sfumature che hanno bisogno di interpretazione, che suggeriscono e non danno conferme o omologazioni. E ci vuole coraggio a scrivere che esiste il rischio di parlare troppo di mafia, di esibirsi in atteggiamenti antimafiosi, quando l’ammonimento arriva da un “esperto”, da un “guru” diremmo oggi, da un fautore della lotta all’omertà che nell’interpretare i fatti di Cosa Nostra è stato sempre chiamato in causa. Ma la libertà di pensiero e il candore della coscienza si fanno inchiostro e parole, e squarciano la pigrizia mentale per stimolarne il ragionamento, la ricerca, il dubbio. Sciascia, da buon maestro elementare, accompagna i suoi alunni – lettori alla deduzione, che spesso, come in questo articolo, diventa paradosso. E i passaggi sono semplici, lineari e partono dai dati di cronaca, dalla storia di cui bisogna far tesoro: in questo caso dalla repressione del prefetto Cesare Mori, un personaggio che Sciascia ritrova anche nei suoi ricordi di ragazzo, un fascista che, pur di ottenere l’ordine necessario, scendeva a patti con i “campieri”, “le guardie del feudo”, gli uomini che erano “prima insostituibili mediatori tra la proprietà fondiaria e la mafia e, al momento della repressione di Mori, insostituibile elemento a consenti- BIBLIOGRAFIA • “A futura memoria” giornale dell’Associazione Amici di Leonardo Sciascia n° 5 marzo 2000 “Ricordi del tempo presente: la memoria di Sciascia” a cura di Francesco Izzo • “Il Corriere della Sera”, annali 1969 – 1997 • “L’indipendente”, 1993 • “La Repubblica”, annali 1969 – 1997 • “La Stampa”, annali 1972 – 1989 • “Malgradotutto”, periodico cittadino di commento e cultura, 1989 – 2002 • Ambroise C., Leonardo Sciascia, Opere 1956-1971, Classici Bompiani 2000 • Ambroise C., Leonardo Sciascia, Opere 1971-1983, Classici Bompiani 2001 • Ambroise C., Leonardo Sciascia, Opere 1984-1989, Classici Bompiani 2002 • Amoroso G., Narrativa Italiana 1984-1988, Mursia Milano 1989 • Collura M., Alfabeto Eretico, Longanesi, 2002 • Collura M., Il maestro di Reagalpetra, Longanesi & C, terza edizione dicembre 1996 • Guarrera C., Lo stile della voce, Sicania, Messina 1996 • Lajolo D., Conversazione in una stanza chiusa, Sperling & Kupfer, Milano 1981 • Lorenzini L., La “ragione” di un intellettuale libero. Leonardo Sciascia; Rubbettino Editore, febbraio 1992 • Nisticò V., Accadeva in Sicilia: gli anni ruggenti de “L’Ora” di Palermo, Sellerio Editore, 2001 • Onofri M., Sciascia, Einaudi 2002 • Onofri M., Storia di Sciascia, Laterza, Roma-Bari 1994 • Papuzzi A., Letteratura e giornalismo, Editori Laterza, gennaio 1998 • Savatteri G. e Bianconi G., L’attentatuni, storie di sbirri e di mafiosi, Baldini & Castoldi, 1998 • Savatteri G. e Grasso T., Ladri di vita, storie di strozzini e disperati, Baldini & Castoldi, 1996 • Savatteri G., La congiura dei loquaci, Sellerio editore, Palermo, ott 2000 • Sciascia L., Le Parrocchie di Regalpetra, Adelphi, 2000 • Sciascia L., A futura memoria, Bompiani IIIedizione 2000 • Sciascia L., Il giorno della civetta, edizione speciale per il Corriere della Sera, RCS editori 2002, prefazione di Francesco Merlo • Sciascia L., La corda pazza, Adelphi, Milano 1991 • Sciascia L., Leonardo Sciascia e Malgrado tutto, scritti di Leonardo Sciascia sul giornale del suo paese, introduzione di Gesualdo Bufalino, editoriale “Malgradotutto”, Racalmuto 1991 • Sciascia L., Nero su nero, Biblioteca Adelphi, Azzate 1991 • Sciascia L., Quaderno, introduzione di Mario Farinella, Nuova Editrice Meridionale • Sciascia L., Il giorno della civetta, Einaudi Nuovi Coralli 19a ristampa,1988 • Traina G., Leonardo Sciascia, Bruno Mondadori, 1999. re l’efficienza e l’efficacia del patto”. E appare chiaro come il pensiero di Sciascia si ribelli all’idea di giustificare l’uso della violenza per contrastare altra violenza, l’uso di una mafia per contrastarne un’altra, e il suo ragionamento è logico: “l’innegabile successo delle sue operazioni repressive […] nascondeva anche il giuoco di una fazione fascista conservatrice e di vasto richiamo contro altra che approssimativamente si può dire progressista e più debole. Sicché se ne può concludere che l’antimafia è stata allora strumento di una fazione, internamente al fascismo, per il raggiungimento di un potere incontrastato e incontrastabile. E incontrastabile non perché assiomaticamente incontrastabile era il regime – o non solo: ma, perché talmente innegabile appariva la restituzione all’ordine pubblico che il dissenso, per qualsiasi ragione e sotto qualsiasi forma, poteva essere facilmente etichettato come “mafioso””. Fin qui c’è poco da scandalizzarsi, ma qualcuno sarà sobbalzato sulla sedia alla lettura del periodo che segue, in cui senza mezzi termini viene spiegata la morale della favola: “l’antimafia come strumento di potere. Che può benissimo accadere anche in un sistema democratico, retorica aiutando e spirito critico mancando.” Lapidario Sciascia; e in queste righe c’è già la provocazione dello scrittore, che sta per fare un esempio a sostegno della sua tesi: se stesso. È lui che non conforma il suo pensare al comune pensare, è lui che in nome del diritto al dissenso sceglie la via più difficile e più soggetta alla cattiva interpretazione, denunciando l’esistenza di “avvisaglie” di come era sempre più difficile andare contro chiunque si dichiarasse antimafioso: il rischio era quello di essere considerato mafioso. Ed è proprio ciò che avviene a Sciascia dopo aver scritto di come “un sindaco che per sentimento o per calcolo cominci ad esibirsi – in interviste televisive e scolastiche, in convegni, conferenze e cortei – come antimafioso: anche se dedicherà tutto il suo tempo a queste esibizioni e non ne troverà mai per occuparsi dei problemi del paese o della città che amministra (che sono tanti, in ogni paese, in ogni città: dall’acqua che manca all’immondizia che abbonda), si può considerare in una botte di ferro. Magari qualcuno, molto timidamente, oserà rimproverargli lo scarso impegno amministrativo: e dal di fuori. Ma dal di dentro, nel consiglio comunale e nel suo partito, chi mai oserà promuovere un voto di sfiducia, un’azione che lo metta in minoranza e ne provochi la sostituzione? Può darsi che alla fine, qualcuno ci sia: ma correndo il rischio di essere marchiato come mafioso, e con lui tutti quelli che lo seguiranno.” Ancora più “scandaloso” il suo esempio su come “ nulla vale di più, in Sicilia, per far carriera nella magistratura, del prender parte a processi di stampo mafioso”, in cui Sciascia fa il nome di Paolo Borsellino e riflette sulla sua nomina a Procuratore della Repubblica a Marsala, nonostante ci fossero candidati più anziani. È chiaro che è difficile leggere queste righe alla luce di quanto successe al giudice, ucciso dalla mafia nella strage di via d’Amelio nel 1992, a pochi giorni dall’altro terribile assassinio del giudice Falcone; ma questo articolo si deve leggere senza quella “malafede”, di cui lo stesso Sciascia aveva non tanto timore, quanto una rassegnata consapevolezza. Nei giorni seguenti la pubblicazione del “pezzo”, su tutti i quotidiani si leggono titoli che riferiscono della polemica scoppiata frattanto tra lo scrittore e il coordinamento antimafia, “una polemica contro i suoi stessi figli, contro i rampolli del Giorno della civetta e del capitano Bellodi appunto: Sciascia contro gli sciasciani, la voce contro la sua eco, l’originale contro la copia”. È sulle pagine dei giornali che si affrontano “a colpi di penna” l’ “eretico” ed i suoi “inquisitori”, stimolando un dibattito nazionale che poi trascenderà il contenuto dell’articolo per focalizzare l’opinione sullo scrittore, che verrà addirittura “collocato ai margini della società civile” e definito “quaquaraquà”, che, nella scala dei valori elencata da don Mariano Arena, nel Giorno della civetta, è il più infimo degli uomini. Eppure, lo stesso Sciascia aveva dichiarato che sulla mafia e sul modo di combatterla la pensava esattamente come “allora”, cioè come quando aveva scritto Il giorno della civetta e A ciascuno il suo. Ed è datata 16 gennaio 1987 “l’apertura” in prima pagina dal titolo “Perché siamo con Sciascia”, dove l’intera redazione del Corriere della Sera si schiera “contro i chierici dell’intolleranza” e dove tra le altre cose si legge: «Di fatto, si rimprovera a Sciascia di aver adempiuto alla sua funzione di uomo di cultura, cioè di aver rimesso in discussione i luoghi comuni, la retorica, che nascono, all’interno della collettività civile, anche in rapporto a iniziative rispettabilissime. E la tecnica usata è quella di sempre: l’equiparazione dell’anticonformista al “nemico”. È una vecchia storia che si ripete. […] Non ci sorprende, dunque, che ci sia chi scrive di non “riconoscerlo più” perché, in realtà, non lo ha mai conosciuto. Sciascia è di un’altra pasta rispetto ai suoi detrattori, ai chierici del “pensiero totalizzante”. Per questo noi lo amiamo oggi come lo abbiamo amato ieri. Per essere chiari: lo Sciascia del Giorno della civetta, di Todo Modo, e quello dell’articolo sull’antimafia.» Lo scontro verbale tra gli schieramenti pro e contro l’articolo, e i pesanti giudizi sul presunto disimpegno nella lotta alla mafia lasceranno sempre una certa amarezza nello scrittore, che tuttavia non manca di commentare con quel distacco che la sua pungente ironia gli consente. Quando lo scrittore è ancora in vita (ricordiamo che morirà il 20 novembre 1989) avrà modo di chiarire le sue ragioni con il procuratore di Marsala, e sarà lo stesso Borsellino a parlare in difesa dello scrittore anche dopo la sua scomparsa. 29 (33) T E S I 3 D I La stampa e la sfiducia nei giornali: gli ultimi anni di Sciascia Gli articoli di Leonardo Sciascia appaiono sulle pagine de La Stampa già negli anni ‘70, ed è datato 7 aprile 1972 il primo articolo apparso sulle pagine del quotidiano di Torino dal titolo “Il sistema al guinzaglio”. I suoi interventi vengono pubblicati sempre in terza pagina e le riflessioni letterarie sugli amati Pirandello, Petrarca, Stendhal si alternano alle ironiche osservazioni sulla politica e la società, che trovano posto nella rubrica “Taccuino”. Nel 1975 si registra la pubblicazione a puntate del “Giallo filosofico” di Ettore Majorana, dal 31 agosto al 7 settembre, a cui seguirà un articolo dedicato al Premio Nobel Eugenio Montale, pubblicato il 25 ottobre, per tornare a parlare di Majorana con un articolo del 24 dicembre, con cui Sciascia conclude la polemica sullo scienziato scomparso. Dal 1972 al 1978 compaiono su La Stampa quarantotto articoli in tutto per una collaborazione, che va via via facendosi sempre meno intensa: ad esempio nel 1976 si registra un solo intervento. I rapporti con La Stampa riprendono nel 1988, dopo cioè che Sciascia, reduce da una stagione di polemiche iniziate con il sequestro di Aldo Moro e culminate con i violenti attacchi seguiti all’articolo sull’antimafia, si rende conto di come il Corriere, che prima si era schierato pubblicamente a suo favore, adesso, con il nuovo direttore Ugo Stille, continua a pubblicare i suoi articoli solo perché giornalisticamente fanno comodo. Il 12 gennaio 1988 viene assassinato dalla mafia l’ex sindaco di Palermo Giuseppe Insalaco, ucciso da due sicari su una moto nel centro di Palermo. Insalaco, che si era dimesso dopo aver denunciato le pressioni di un “comitato di affari” interessato ai grandi appalti del Comune, è stato uno di quei democristiani che, cercando di sottrarsi al condizionamento mafioso, ha pagato prima con la solitudine politica e poi con la morte, il suo coraggio. “Si era pirandellianamente calato nel piacere dell’onestà”, dirà Sciascia. Questo omicidio, che ripropone una maggiore attenzione verso la politica siciliana e impone una riflessione sul fronte della lotta alla mafia, riporta sulle pagine dei giornali il nome di Leonardo Sciascia, di cui si cerca un parere, un’interpretazione dei fatti. A Sciascia, che in quegli anni comincia a soffrire per la malattia che poi lo condurrà alla morte, non piace essere considerato “un esperto” e si concede poco ai giornali, ancora amareggiato per le ultime vicende con il Corriere della Sera. Il 15 gennaio rilascia un intervista al TG1, di cui i quotidiani riportano la notizia. In questo periodo comincia a collaborare con La Stampa di Torino Francesco La Licata, allora giovane giornalista formatosi sulle pagine de L’Ora di Palermo, che dal capoluogo siciliano segue l’inchiesta sull’omicidio Insalaco e che propone al direttore di realizzare un’intervista a Leonardo Sciascia. È lui stesso a raccontarmi i retroscena di quell’intervista, che segnerà l’inizio di un nuovo rapporto con il quotidiano di Torino. “Quando la proposi all’allora direttore Scardocchia, lui ne fu entusiasta, intravedendo la possibilità di portare Sciascia alla Stampa” – dice La Licata – “ Io sapevo quanto Sciascia fosse deluso dai giornalisti, a cui non risparmiava ironia accusandoli di superficialità, e per evitare equivoci, inviai per fax le domande a cui lui rispose scrivendo a macchina, e aggiungendo qualche correzione a penna. Anche il titolo è suo…” Così nasce l’intervista, pubblicata martedì 2 febbraio 1988, dal titolo sciasciano “I polli di Renzo nel pugno mafioso”: ancora una volta una metafora manzoniana per rispondere alla domanda di La Licata sull’insorgere di un “patriottismo siculo”, di cui il giornalista parla sottolineando che “i siciliani si offendono con Forattini, gli studenti se la prendono con Sciascia, Nicolosi denuncia che la la mafia è anche a Milano, in Borsa”. Così risponde Sciascia: “Succede un po’ come ai 30 (34) L A U R E A polli di Renzo, nei Promessi Sposi. Persone che di fatto stanno nella stessa barca – o stretti nello stesso pugno, per stare nell’immagine manzoniana – provano un certo gusto a beccarsi reciprocamente. Io questo gusto non lo sento per nulla. In quanto all’antisicilianismo, e al conseguente risvegliarsi del patriottismo siculo, credo che l’uno e l’altro, insieme, rappresentino una grande remora”. Questa intervista è l’ultima ad apparire su un quotidiano ed è importante anche per cogliere lo stato d’animo dell’ “ultimo” Sciascia, un uomo “condannato” a tormentarsi di continuo per l’ingiustizia che vede intorno, a soffrire per la morte violenta di tanti suoi conoscenti, funzionari di polizia, giornalisti, magistrati, politici; un uomo, che continua a ribadire, ogni qualvolta gli è possibile, che non ha mutato giudizio sulla mafia, sulla necessità di combatterla e di darsi delle regole. L’intervista ebbe anche il merito di servire da occasione per “avvicinare” Sciascia al giornale. Ciò che successe alcuni giorni dopo la pubblicazione dell’intervista e che prelude a quella che sarà l’ultima attività giornalistica di Sciascia. Di questi “ultimi articoli” ricordiamo, nel marzo 1989, la polemica con lo storico Luciano Canfora, a proposito dell’autenticità di una lettera di Ruggero Grieco a Gramsci, ma anche le recensioni di libri, di amici (come Consolo, Bufalino, Lidia Storoni) o di scrittori più giovani che sente affini (come Giampaolo Rugarli, autore di La Troga). E su La Stampa del 6 agosto 1988, Sciascia risponde ad un attacco di Scalfari, che lo aveva accusato di essere responsabile di un calo di tensione nella lotta alla mafia. Lo scrittore risponde con spietata e divertente ironia, facendo del direttore di Repubblica un nuovo Casanova in visita da Voltaire. Il titolo dell’articolo è “Tradimenti e fedeltà” e si conclude con questa frase: “Non ho, lo riconosco, il dono dell’opportunità e della prudenza, ma si è come si è.” IL “GRANDE GIORNALISTA”: ULTIMO “SBERLEFFO” DI SCIASCIA AI “PROFESSIONISTI” DELL’ INFORMAZIONE “Rampante e schiumante come un purosangue capitato in una stalla di brocchi”: così appare il Grande Giornalista, un ridicolo personaggio nato dalla mente di Sciascia per arricchire quella serie di profili umani, che compongono quello che è stato definito “il capolavoro testamentario” dello scrittore di Racalmuto: Il cavaliere e la morte. Quest’opera è una sotie, che Sciascia scrive, carta e penna in mano, durante un soggiorno in Friuli, e che poi riscrive al suo rientro in Sicilia, riducendola e sfoltendola di molte pagine. In questo giallo sono presenti tutti i temi cari a Sciascia, che in questa fase della sua esistenza sente l’avvicinarsi della morte e cerca di farla diventare un’esperienza narrabile. Innanzitutto c’è la figura del Vice, al centro del racconto: quasi un alter ego dello scrittore, “una figura di funzionario un po’ arreso, malato, posto in uno stato di subordinazione di fronte al Capo, di cui l’umbratile personaggio non condivide le abitudini poliziesche, i metodi bruschi e sbrigativi. Entrambi tuttavia hanno menti simili, ‘adusate alla diffidenza, al sospetto, all’armar trappole di parole o a coglierne qualcuna che poteva diventar trappola’”. Il Vice è anche un disobbediente, che non segue gli ordini imposti dal potere e continua ad indagare sull’omicidio dell’influente avvocato Sandoz, individuandone subito il colpevole nel poten- Leonardo Sciascia, uno tissimo industriale Aurispa, nonostante i depistaggi del Commissario Capo che indaga solo sui terroristi, i famigerati “figli dell’ottantanove”. A rendere credibile l’esistenza dei “figli dell’ottantanove” concorrono senza dubbio i giornalisti, che in questo racconto vengono rappresentati come cronisti frenetici e dagli sguardi avidi, “aggrumati” nel corridoio della Questura, che non si muovono per sapere la verità, ma aspettano che qualcuno gli dia “la notizia”, la verità che il potere ha scelto di diffondere. Anche questo verbo “aggrumati” dà l’idea del disprezzo di Sciascia nei confronti della categoria, evocando l’immagine del sangue che si rapprende in grumi, di qualcosa che è “malato”, che è raffermo. E poi ancora usa il termine “turba”, quasi a suggerire gli ignavi danteschi, privi di ideali, all’inseguimento perenne di una bandiera. E per essere ancora più impietoso crea anche il Grande Giornalista, una vera e propria caricatura, attraverso cui è esplicitata la disillusione dell’autore nella possibilità di trovare verità nelle pagine dei giornali, anche quando questa verità esiste nella mente del giornalista. Infatti è solo questione di prezzo, dal momento che anche essere un grande giornalista voleva semplicemente dire che “dai suoi articoli, cui settimanalmente i moralisti di nessuna morale si abbeveravano, gli era venuta fama di duro, di implacabile; fama che molto serviva ad alzarne il prezzo, per chi si trovava nella necessità di comprare disattenzioni e silenzi”. A mettere a nudo il Grande Giornalista, ad umiliarlo tanto da farlo diventare “rosso di collera” è la “candida” verità del Vice, che già all’inizio del libro e delle indagini ha la chiave per interpretare i fatti, quando chiede al Capo se “i figli dell’ottantanove sono stati creati per uccidere Sandoz o Sandoz è stato ucciso per creare i figli dell’ottantanove”. Il Grande Giornalista resta disorientato dalle dichiarazioni ricevute “per amore di verità” dal Vice, che, assunto ormai il ruolo di “provocatore”, aggiunge con amara ironia: “Domani, comunque, spero di poter leggere un suo articolo con tutti i sospetti e i dubbi che io, per opinione personale, le ho confermato”. Altrettanto amara, per il lettore, la risposta del Grande Giornalista: “Lei sa bene che non lo scriverò”. Ma è nelle ultime battute di questo dialogo che emerge, forte, la presenza di Sciascia: non credo ci sia ironia, quando fa dire al Vice di avere ancora “tanta fiducia nel genere umano”. Mi sembra di risentire le parole dette dallo scrittore a proposito della redimibilità della Sicilia e dei siciliani, della speranza che le cose possano cambiare. E la fede nella scrittura, nel suo essere scrittore, né è la prova. Le ultime parole del Vice al Grande Giornalista, che gli rivolge “l’accusa” di “essere sulla stessa barca”, rappresentano uno dei tanti momenti in cui al personaggio si sovrappone l’immagine di Sciascia stesso: “Non lo creda: sono già sbarcato su un’isola deserta”. Lo scrittore è consapevole di aver fatto una scelta di solitudine, lo ha sperimentato più volte nella sua vita: l’intellettuale è sempre un uomo “solo”. Dunque, la fiducia nel ruolo della stampa, che ha caratterizzato l’inizio dell’attività di Sciascia, tramonta abbastanza presto, già all’epoca del sequestro di Aldo Moro fino a scomparire del tutto alla fine della sua vita, quando ebbe parole severissime nei confronti dei giornali quotidiani, su cui pure continuava a scrivere. Una testimonianza sono, appunto, i suoi due ultimi lavori, in cui i protagonisti confrontano la loro verità con quella dei giornali e si sentono come impotenti, vittime di un potere capace di manovrare l’informazione. A FUTURA MEMORIA Sciascia sentiva l’avvicinarsi della morte e su questo tema numerosi sono stati i critici e i biografi, che hanno evidenziato come lo scrittore se da un lato aveva voglia di combattere, di non cedere alla malattia, dall’altro aveva rifiutato la “medicalizzazione”, accorgendosi che era un’inutile illusione. La morte divenne il suo unico pensiero, il pensiero: e i suoi due ultimi racconti lo testimoniano. In Il cavaliere e la morte, Sciascia, come ha scritto Ambroise, “è un inquisitore della morte”, la affronta cercando di trasformarla in un’esperienza letteraria. In Una storia semplice, scritta nel 1989, nell’ultima estate della sua vita, affida al prof. Franzò una battuta, un’ultima riflessione sulla morte ormai incombente: “ad un certo punto della vita non è la speranza l’ultima a morire, ma il morire è l’ultima speranza”. “L’appressamento della morte comporta anche una riscoperta memoriale della propria generazione, degli anni della formazione” come suggerisce Traina: e in questo senso si colloca la pubblicazione di Fatti diversi di storia letteraria e civile, che raccoglie i testi sull’arte, la letteratura, le figure storiche e i luoghi più cari allo scrittore. Così i due versanti della pubblicistica sciasciana si dividono nettamente e i testi di polemica civile e politica, compresi quelli su mafia e antimafia, vengono raccolti e pubblicati in A futura memoria (se la memoria ha un futuro), un libro nato dalla consapevolezza dello scrittore di quanto necessario sia ricordare, dal momento che al potere la mancanza di memoria fa sempre comodo. È lo stesso Sciascia, nella introduzione, a presentare il libro: “Questo libro raccoglie quel che negli ultimi dieci anni io ho scritto su certi delitti, certa amministrazione della giustizia e sulla mafia. Spero venga letto con serenità.” La raccolta si apre con un ricordo del magistrato Cesare Terranova, ucciso dalla mafia, e si chiude con un ricordo del generale Renato Candida, ucciso da un male incurabile, un anno prima che lo stesso Sciascia morisse. Ci sono anche gli articoli scritti in difesa di Enzo Tortora, vittima dell’impunibile superficialità dei giudici e di un uso disinvolto del “pentitismo”; una lunga analisi del suicidio del banchiere Calvi, in cui Sciascia esclude il coinvolgimento della mafia; gli articoli sul maxi processo, le polemiche con Nando Dalla Chiesa a proposito degli errori commessi dal generale Dalla Chiesa, la difesa di Adriano Sofri dall’accusa di essere il mandante dell’omicidio Calabresi. Questo libro non solo documenta le ultime battaglie civili e politiche di Sciascia, ma testimonia il gusto della provocazione, che nello scrittore non è mai mancato, fino a quel fatidico 20 novembre 1989, anzi, anche dopo, se pensiamo all’epigrafe che ha chiesto si scrivesse sulla sua tomba: “Ce ne ricorderemo di questo pianeta”. A futura memoria è importante per diversi motivi: intanto la scelta dello scrittore di eternare l’articolo di un giornale dandogli dignità letteraria, non soltanto a favore di interventi prettamente letterari, ma soprattutto, in questo caso, di articoli che hanno toccato il cuore delle vicende politiche e sociali dell’Italia degli ultimi quindici anni; è in questo ultimo libro, che Sciascia, avendo scelto uno ad uno gli articoli da inserire, compie da letterato una scelta anche di “stile”: tutti gli articoli parlano di giustizia o di ingiustizia, e, se si pensa che per Sciascia “la letteratura è la più assoluta forma che la verità possa assumere”, penso che pubblicando questi articoli, rendendoli un libro, un luogo deposto alla letteratura, abbia voluto legittimare la verità di quelle pagine. E a proposito della sua interpretazione di giornalismo, qua e là vi sono spunti di riflessione, a partire dalla citazione di Bernanos “preferisco perdere dei lettori, piuttosto che ingannarli”, che Sciascia utilizza come chiave di lettura degli articoli raccolti, ribadendo ancora una volta che è necessario dire la verità anche quando è scomoda (“sono stanco di essere frainteso, di essere accusato di “alleanze oggettive” con questi o con quelli”, si legge in un articolo su Il Globo del 24 luglio 1982). Nelle pagine di A futura memoria è facile scoprire che lo scrittore di Racalmuto aveva un’ idea ben chiara di giornalismo, ormai in aperta polemica con i “tanti che scrivono libri o articoli che non sono in grado di leggere la realtà, di capirla, di farne giudizio”, e puntualizzando che “nell’ambito della carta stampata, di coloro che vi lavorano, l’ignoranza – anche se c’è – non è da ammettere, come non è ammessa di fronte alle leggi”. Ed ancora scrive: “lo scoprire altari e altarini dovrebbe essere funzione assidua di coloro che hanno a che fare con la carta stampata e con altri mezzi che comunicano e fanno opinione”. C’è poi un articolo del 16 febbraio 1986, pubblicato sul Corriere della Sera, in cui Sciascia osserva da fuori il lavoro dei cronisti durante il maxi processo, ironizzando sul fatto che “ci vorrà almeno un mese perché entri nel vivo e ancora molti mesi perché l’istruttoria si svolga nel dibattimento. Intanto, gli inviati dei giornali non sanno che fare per animare i loro resoconti, per colorirli, per dargli quella vivacità che i lettori si aspettano”. ORDINE 3 2005 scrittore in redazione Leonardo Sciscia (foto di Giacomo Fotogramma). 4 Sciascia e i ragazzi di Malgradotutto In definitiva, i giornali appaiono a Sciascia come lo specchio del trasformismo, della sottomissione al potere politico, dell’opportunismo: ma, lui confida ancora nella memoria e nella possibilità che anche attraverso la realtà locale si possa realizzare quella libertà di stampa che lui vede assente già dai tempi del caso Moro. E questa speranza si concretizza nell’ultima fase della sua vita, quando nel piccolo paese di Racalmuto, a cui sempre è rimasto legato e della cui vita è stato sempre partecipe, nasce un giornalino, il cui nome Malgradotutto sarà definito dallo stesso Sciascia “il più bel titolo che si sia mai stato trovato per un giornale”. “Era contento, Leonardo - scrive Gesualdo Bufalino - perché quel titolo di giornale, seppure non suggerito da lui, da lui, dalla sua opera tutta, era in ogni caso ispirato. Nel senso che, contro le insufficienze degli uomini e la cecità della storia, riproponeva un imperativo di lotta, rifiutava il disinteresse e la resa. In termini di ideologia, è quello che si suol chiamare “l’ottimismo della volontà” in contrapposizione a quel “pessimismo della ragione”, cui quotidianamente le prime pagine dei giornali ci invitano.” Nel suo amato paesino, quel “cuore” della Sicilia che Sciascia ha cantato, un gruppo di ragazzi raccoglie l’eredità “giornalistica” dello scrittore, che non perse mai di vista il mondo dei giovani, a cui si concedeva più volentieri che ai critici o ai giornalisti affermati : basti pensare ai tanti incontri che ebbe con gli studenti e nelle scuole, nel corso della sua vita, soprattutto per parlare di mafia, di legalità, di giustizia, forse nella speranza che le future generazioni non facessero gli errori delle precedenti. Questi “ragazzi” sono Carmelo Arrostuto, Giancarlo Macaluso, Gaetano e Gigi Restivo, e Gaetano Savatteri. A raccontarmi della nascita di Malgradotutto è Gaetano Savatteri, oggi affermato giornalista e scrittore. A Roma, in una piccola trattoria, un buon bicchiere di vino e il pesce spada affumicato evocano i sapori della Sicilia, ed è facile ricordare l’entusiasmo, la sua adolescenza a Racalmuto, così fortemente segnata dalla presenza di Sciascia. “Racalmuto è un paese con poco più di diecimila abitanti, la cui ricchezza è tramontanta con il tramonto delle zolfare e delle saline, su cui si reggeva l’economia. Noi ragazzi sapevamo di Sciascia, leggevamo i suoi libri, lo incrociavamo per strada… ed era impressionante per noi ritrovare sulle sue pagine la vita di ogni giorno…” Gli chiedo come mai questo titolo, così “sciasciano”… “malgradotutto” perché non ci credevamo nemmeno noi, mentre ne parlavamo sul treno che ci portava ogni giorno da Racalmuto ad Agrigento, dove sbrigavamo i nostri latinucci quotidiani… avevamo sedici anni… che ne sapevamo noi di giornali e giornalismo?!” - sorride Gaetano Savatteri, ripensando forse a quell’ingenua spavalderia di chi ha poca età, quella stessa presunzione che però ti fa uscire dalla noia e ti da la forza di sognare. Dunque, è la primavera del 1980 quando l’idea del giornale prende corpo… “In effetti, non sapevamo esattamente da dove cominciare, ma sapevamo che “ci voleva un giornale”, e lo mettemmo assieme raccogliendo poche idee, scopiazzando i temi che si dibattevano sui quotidiani, rivolgendoci ai fratelli maggiori e ai cugini più grandi per trovare qualche firma più autorevole di noi. Poi, attraverso la mediazione di un genitore, riuscimmo a chiedere un “pezzo” a quell’uomo silenzioso e riservato, che avevamo visto qualche volta in piazza, che tutti chiamavano Nanà o “u prufessuri”. Sapevamo chi era, avevamo letto i suoi libri e chissà quanto ne avevamo capito allora…” ORDINE 3 2005 Così chiedete a Sciascia di scrivere un articolo tutto per voi… “Più che un articolo, eravamo tanto abituati alle cose di scuola che gli “assegnammo” un tema: “L’uomo del sud”. Sciascia si mise a scrivere a mano, buttò giù una cartellina che Giancarlo Macaluso dovrebbe pure avere conservato da qualche parte. Ci spiegò che l’uomo del sud non esiste. Ci sentimmo mortificati, forse l’avevamo irritato con quella richiesta così tassativa. E in risposta ne avevamo avuto la demolizione. Ma ormai era fatta. Quello era l’ultimo articolo per passare alle stampe.” È nella Chiesa del Carmelo con l’aiuto di padre Martorana che il ciclostile lavora senza sosta per permettere ai ragazzi di Malgradotutto di raggiungere la “tiratura” di duecento copie, da vendere durante la festa della Madonna del Monte, quando la gente è in piazza. È il mese di luglio del 1980 e Racalmuto ha il suo “giornale”… “Noi ci sentivamo davvero il centro del mondo…Trovammo anche un direttore ed un amico in Egidio Terrana, più grande di noi, che è tuttora il responsabile della pubblicazione del giornale. Un giornale che nasceva dalle nostre chiacchiere, dalle chiacchiere di un paese, dall’amore e dal fuoco della discussione.” Malgradotutto assieme a quella di Sciascia, ha ospitato le firme di Bufalino, Consolo, Collura, Di Grado… “E ciascuno di noi ne ha portate altre, di amici e colleghi che per una volta emigrano dalle loro testate regionali e nazionali per scrivere su un piccolo giornale di provincia.” Un piccolo giornale di provincia, che pure rappresenta la coscienza critica della comunità di Racalmuto. Un giornale, che ha vissuto con il paese la lacerazione degli affetti e delle vite quando la mafia a ripreso a sparare… “ Venti morti ammazzati in due anni, una ferita ancora aperta nelle carni di Racalmuto. Malgradotutto ha dovuto raccontare anche questo. E ha continuato a dire che contro la mafia, anche ora che tutto sembra tornato nel silenzio, bisogna tenere gli occhi aperti.” SCIASCIA E IL RUOLO DEI GIORNALI LOCALI: OPPOSIZIONE CONCRETA La capacità di indignarsi e di guardare con attenzione alla giustizia: sono questi i “lasciti” di uno scrittore come Sciascia, che da giornalista si è posto diverse questioni etiche, affidando infine ai giornali locali il ruolo di “opposizione concreta”. E alle pagine di Malgradotutto Sciascia consegna le sue ultime riflessioni sul giornalismo, su ciò che è, su ciò che vorrebbe fosse. Un articolo, che raccoglie tutta l’esperienza nel campo della carta stampata, non solo da cronista, ma anche da lettore e in qualche occasione da protagonista. Riporto integralmente il contenuto dell’articolo, sottolineando come una lettura attenta del brano permette di cogliere alcuni aspetti della personalità dell’autore, la cui sensibilità all’ingiustizia e alla mancanza di verità si è formata proprio in un periodo in cui era assente la libertà di stampa. Anche questo articolo, così come tutti gli scritti di Sciascia, siano essi libri o saggi o interventi giornalistici, è un unicum dove si ritrovano i principali elementi dell’opera sciasciana: l’ironia, amara e pungente, la storia, memoria e chiave per interpretare il progredire del pensiero umano, la letteratura, verità e ragione, l’etica, la funzione educatrice e moralizzatrice della scrittura e del giornalismo. Ecco il contenuto dell’articolo: “Posso cominciare con un aneddoto che è piuttosto significativo: uno dei più intelligenti, colti ed onesti giornalisti italiani, che si è trovato a dirigere uno dei più grandi giornali (Mario Missiroli - Corriere della Sera, ndr) di questo paese, quando ci incontravamo proprio nel tempo in cui dirigeva questo giornale, facendo delle considerazioni sulla situazione italiana o su situazioni particolari di questo paese, a conclusione delle sue considerazioni mi diceva sempre: “Ci vorrebbe un giornale”. Questo vuol dire che il giornale che lui dirigeva non corrispondeva ai suoi intenti e non consentiva di dire quello che lui voleva dire. A me - scrive Sciascia - questo pare molto significativo e credo che lo si possa ripetere considerando la stampa nazionale: ci vorrebbe un giornale. Perché in Italia col caso Moro in effetti la libertà di stampa è venuta a mancare : questa è una terribile e grave verità. Col caso Moro la stampa italiana si è uniformata; è un po’ diventata come ai tempi di quello che è chiamato il “Minculpop”, per dire Ministero della Cultura Popolare del tempo fascista quando si diramavano le veline e ogni giornale era tenuto a rispettare quell’ordine. Le veline non ci sono state credo nemmeno durante il caso Moro; però la stampa italiana ha acquistato una uniformità, un conformismo che ancora oggi continua: prima uno che voleva farsi un’idea di una cosa acquistando tre o quattro giornali poteva farsela; oggi basta acquistarne uno; per non farsi l’idea, non per farsela.” A rafforzare questa sua idea di uniformità della stampa Sciascia chiama in causa uno scrittore da lui tanto amato, Borgese, suggerendo di leggere un libro (consiglio che dava spessissimo a chiunque gli chiedesse suggerimenti di qualsivoglia natura): “Voglio ricordare anche, per chi non lo conosce, che c’è un libro sul fascismo scritto da un grande intellettuale italiano, Giuseppe Antonio Borgese, in cui tra l’altro è raccontata come finì la libertà di stampa in Italia: non c’è stata nessuna legge che la facesse finire. È finita automaticamente, per conformazione e conformismo. Questa è una considerazione preliminare : in Italia ci vuole un Giornale.” Se fin qui Sciascia è il “pessimista della ragione”, nelle parole successive si intravede un certo ottimismo, sulla funzione appunto, della stampa locale, a cui non manca di dare suggerimenti: “Per fortuna contemporaneamente a questa carenza sono nate iniziative locali, che però non possono sostituire la mancanza di una grande stampa nazionale libera, non conformista, capace di passare al vaglio critico tutto. Non la possono sostituire, però è già qualcosa. L’importante – sottolinea Sciascia – è che ogni giornale di questo tipo resti un giornale locale; che non dia fondo ai problemi del mondo e della nazione, ma che osservi criticamente e onestamente la realtà locale. Che poi da ciò, tirando le somme, si può anche estrarre una verità di più ampio respiro.” Anche in queste righe, scritte soprattutto ai “ragazzi di Malgradotutto” che a lui si rivolgevano per avere consigli e pareri, Sciascia rimane fedele alla sua visione delle cose: la conoscenza del microcosmo di Racalmuto ha infatti permesso allo scrittore la conoscenza del macrocosmo siciliano e nazionale, facendo divenire la piccola realtà locale una metafora della vita. Questo articolo continua facendo riferimento al giornalismo americano, alla figura dell’inviato in guerra, che evidentemente ha suscitato interesse in Sciascia fin da ragazzo, risolvendosi in una idea “romantica” di giornalismo: “Io ho citato spesso come esempio di giornalismo quello che, tra l’altro, racconta un grande giornalista americano del New York Times, Herbert Mathews, un uomo che si è trovato sempre dalla parte giusta. […] Mathews, che ha scritto una specie di manuale attraverso il racconto della sua esperienza, ha scritto un manuale del giornalismo, se così si può dire. E racconta un episodio molto significativo per dire che cosa è il giornalismo. Lui che si è trovato sempre dalla parte giusta – continua Sciascia – si trovò anche dalla parte della Repubblica Spagnola: perché i giornali americani avevano inviati che stavano dalla parte di Franco e inviati che stavano dalla parte della Repubblica. Mathews aveva una grande simpatia per la causa repubblicana, ma comunque faceva il suo mestiere di giornalista con assoluto scrupolo. Un giorno i giornali che avevano corrispondenti dalla parte di Franco, diedero la notizia che un paese, un piccolo paese spagnolo era stato occupato dalle truppe franchiste. Mathews sapeva che non era vero. Allora prese la macchina e andò in quel paese e dall’ufficio telegrafico fece un telegramma al New York Times per dimostrare che quel paese era ancora in mano ai repubblicani. Quando uscì dall’ufficio telegrafico le avanguardie fasciste stavano entrando dall’altro capo della strada, però Mathews dice: “Io ho smentito la notizia”. Perché il giornalismo è questo: è la verità del momento; a quell’ora il paese non era ancora in mano ai franchisti, un’ora dopo lo era, ma Mathews smentì la notizia. Ecco, - continua Sciascia questo è il giornalismo praticato con oggettività, con serenità, con scrupolosità. Oggi invece il giornalismo si pratica in un certo modo, e specialmente in rapporto all’amministrazione della giustizia, che è una cosa su cui si deve vigilare più intensamente e anche a livello locale.” L’articolo si conclude, focalizzando l’attenzione sui giornali locali: “ la carenza che ritrovo nei giornali locali è questa: poca attenzione all’amministrazione della giustizia e tanta attenzione a episodi di sottocultura. Ci si deve augurare che questi giornali siano sempre più attenti ai fatti locali e facciano “opposizione”: i giornali nazionali, i grandi giornali e anche quelli medi, sono diventati ingovernabili per la presenza e la compromissione partitica. I giornali locali dovrebbero fare opposizione seria sui fatti quotidiani, sulle cose da fare, prendendo così il ruolo di opposizione vera che in molte amministrazioni viene mancando. Opposizione quindi non per principio, per il gusto di farla: ma opposizione sulle cose concrete.” Chiaro e senza fronzoli Sciascia ha detto anche in questa occasione ciò che pensava, tracciando infine una strada da percorrere a quei “ragazzi” che avevano pensato di dar vita al giornale del paese, che non fu mai sottovalutato dallo scrittore, che, anzi, in quei giovani vedeva avanzare il futuro di Racalmuto. Questo articolo è forse l’intervento più appropriato per concludere questa ricerca su Sciascia e il giornalismo, dal momento che riassume l’opinione e l’esperienza dello scrittore siciliano riguardo il mondo dell’informazione. È quasi un “testamento spirituale” consegnato ai giovani del suo paese, che a distanza di anni non hanno mai dimenticato i consigli di Sciascia, un maestro che diceva di essere stato in un certo senso un “pessimo maestro”, “senza eccessiva vocazione”. 31 (35) OLTRE ALLE BOMBE DEL 1969 ALTRE DUE VOLTE LA CITTÀ HA PIANTO DECINE L A S T O R I A Prima del 12 dicembre 1969, la cieca violenza del terrorismo aveva ferito Milano altre due volte. Accadde negli anni Venti. La prima nel 1921; la seconda nel 1928. Quella del 1921 è passata alla storia come la strage del Teatro Diana; l’altra, del 1928, è nota come l’attentato alla Fiera. I due atti criminosi provocarono quarantuno morti e centoventi feriti. Soltanto nel primo caso si riuscì ad acciuffare i responsabili. Quanto al misfatto della Fiera (com’è accaduto per piazza Fontana), gli autori non furono mai individuati. In quest’ultimo caso, la rozzezza impiegata dagli inquirenti nella conduzione delle indagini, provocò la Le stragi degli anni Venti. Quan 23 marzo 1921 di Enzo Magrì Il programma al Teatro Diana era intenso la sera del 23 marzo 1921. La compagnia Daclee dava l’ultima rappresentazione di Mazurca blu di Franz Lehar. A metà recita, fra il secondo e il terzo atto dell’operetta, il maestro Giuseppe Berrettoni, in onore del quale era dedicata la serata, avrebbe diretto una sinfonia. Alle 22,25 calò il sipario di velluto verde e i venti orchestrali si dispersero nella sala per salutare amici e colleghi. Quando, dieci minuti più tardi si sente il trillo che richiamava tutti al proprio posto, la ripresa subisce un ritardo inaspettato. I professori minacciano uno sciopero per licenziamento d’un loro collega. Il maestro Berrettoni deve usare tutta la sua influenza per convincere gli orchestrali a riprendere i loro posti. Manca qualche minuto alle 23. Il sipario sta per alzarsi quando il teatro è investito da uno scoppio avvertito da gran parte della città. Una potente bomba collocata in via Mascagni, provoca, lungo il lato destro della sala, una vasta breccia fra la buca dell’orchestra e le prime file delle poltrone. La deflagrazione uccide all’istante diciassette persone fra orchestrali e spettatori. Saliranno a ventuno nei giorni successivi. I feriti sfiorano il centinaio. Lo scoppio provoca il crollo del grande lampadario centrale ma lascia accese le luce laterali che offrono l’immediata, tragica, immagine della sala: poltrone rovesciate, scheggiate o strappate dai loro posti, leggii dell’orchestra contorti e sepolti fra i calcinacci caduti dal soffitto, corpi sfregiati e straziati. Dalla via Mascagni, attraverso i telai senza vetri delle finestre, è possibile scorgere le quinte del palcoscenico e gli scenari lacerati e tagliuzzati dalle schegge della bomba. Tra i feriti leggeri c’è l’attrice Dina Galli che era seduta su una poltrona di quarta fila accanto alla figlia rimasta incolume. Quasi alla stessa ora scoppia un altro ordigno sotto il muro di cinta della centrale elettrica di via Gadio che provoca solo danni materiali. La strage è presa come pretesto da alcuni squadristi per eseguire una spedizione punitiva contro la sede del giornale anarchico Umanità Nova in via Goldoni e contro la nuova redazione dell’Avanti in via san Damiano. Una pattuglia di poliziotti posta a presidio del giornale socialista blocca in corso Manforte una carrozza con tre persone a bordo. Gli sconosciuti, scesi dal mezzo, scappano inseguiti da un drappello di agenti mentre il resto della pattuglia perquisisce la vettura dove trova due rivoltelle ed alcune bombe a mano. L’inseguimento dei fuggitivi dà esiti inaspettati: uno di loro, che si è gettato nel naviglio asciutto, è bloccato dalle guardie. Si chiama Antonio Pietropaolo ed è uno studente della Bocconi. Non è un fascista bensì un anarchico che insieme con altri due compagni di fede avrebbero dovuto incendiare la redazione dell’Avanti. Si scoprirà più tardi che l’attentato al giornale socialista faceva parte d’un piano terroristico anarchico la cui prima parte era stata già attuata con la collocazione della bomba al Teatro Diana e dell’altra alla centrale elettrica di via Gadio. Nel volgere d’una settimana la polizia risolve il caso e arresta gli autori della strage. Sono Giuseppe Mariani, 23 anni di Mantova, un frenatore delle Ferrovie, denunciato quale disertore della guerra 1915-1918, Giuseppe Boldrini, 23 anni, anche lui di Mantova (che si proclamerà sempre innocente) ed Ettore Aguggini, 25 anni di Brescia. Mariani e Aguggini, l’anno precedente avevano realizzato altri due attentati senza vittime: uno al bar Cova e l’altro in piazza Cavour. In carcere finiscono altre quattordici persone accusate di complicità con gli autori dei delitti del 23 marzo e di altre scelleratezze attuate nei mesi precedenti. Le indagini accertano inequivocabilmente che la bomba collocata in via Mascagni dietro le mura del teatro non era diretta a provocare la strage degli spetta- 32 (36) tori che il Diana ospitava quella sera bensì ad uccidere il questore Giovanni Gasti, ritenuto uno dei responsabili della lunga e immotivata detenzione di tre anarchici: Errico Malatesta, Armando Borghi e Corrado Quaglino. Quando Malatesta viene a conoscenza del massacro esprime “il suo sdegno per il delitto esecrando che giova solo a chi opprime i lavoratori e a chi perseguita il nostro movimento”. L’attentato contribuirà effettivamente a imprimere un forte impulso al movimento fascista che l’anno successivo conquisterà il potere con la marcia su Roma. Tra i fondatori di Umanità nova, esponente di punta dell’anarchismo italiano, Errico Malatesta, era rientrato dall’Inghilterra il 24 dicembre 1919. Casertano, amico di Bakunin, era stato uno dei dirigenti della I Internazionale. Aveva fatto parte della banda del Matese. Più volte arrestato, si era sovente allontanato dall’Italia per non finire in galera a causa della sua attività politica. Nel caoti- socialista l’Avanti e l’albergo Diana, in via Mascagni, nei pressi del teatro. Il più impegnativo di questi gesti avrebbe dovuto essere quest’ultimo che aveva come obiettivo un questore. Questi era Giovanni Gasti, un alessandrino considerato un funzionario inflessibile. Studioso di criminologia era ritenuto dagli anarchici amico di Mussolini. In realtà Gasti era una sorta di Javert, “l’uomo del dovere” dei Miserabili. Egli infatti era stato implacabile anche nei confronti del futuro duce. Per la Direzione centrale della Polizia aveva redatto un rapporto informativo sulla vita del futuro duce alquanto sfavorevole: non aveva trascurato di annotare nulla dei suoi burrascosi trascorsi. Il questore abita in un appartamento sopra l’entrata dell’hotel Diana. La bomba per uccidere il poliziotto è preparata da Mariani e Aguggini. Nel gruppo c’è anche una donna Elena Melli che ha funzioni di collegamento. L’ordigno esplosivo consiste in 160 candelot- Attentato al Teatro Diana (21 morti). Responsabili in galera Foto Olympia L’obiettivo era il questore Giovanni Gasti, ritenuto uno dei responsabili della lunga e immotivata detenzione di tre anarchici (Errico Malatesta, Armando Borghi e Corrado Quaglino). co dopoguerra, egli aveva assolto un ruolo determinante alla guida del movimento anarchico tanto da sollevare preoccupazioni nell’establishment italiano. Per questa ragione, il 17 ottobre 1920 era stato arrestato a Milano insieme con i due compagni di fede Borghi e Quaglino, redattori di Umanità Nova. Nonostante la mancanza d’un’imputazione determinata, i tre sono tenuti nel carcere di San Vittore. Per protesta contro l’illegale misura che si protrae per cinque mesi, il 13 marzo i tre iniziano uno sciopero della fame. In loro favore comincia in diverse parti d’Italia una vasta agitazione con scioperi a Carrara, Piombino, Valdarno e Liguria. Gli anarchici milanesi, decidono di esprimere la loro solidarietà con i detenuti mettendo a segno una terna d’attentati che hanno per obiettivo la centrale elettrica di via Gladio, il giornale ti di gelatina (una ventina di chili di materiale) sistemati in un cestone coperto di paglia sopra la quale sarebbero state deposte alcu ne bottiglie vuote. Ancora il 21 marzo, gli attentatori sono indecisi sulle modalità con cui operare: dapprima pensano di noleggiare un carretto a mano, caricarvi il cesto, posteggiare il veicolo nella stradina in cui s’affaccia l’Hotel sotto l’appartamento di Gasti, accendere la miccia e scappare. L’altra soluzione è quella di portare la valigia con la bomba dentro la Questura, il più possibile vicino all’ufficio del funzionario e farla brillare. Passa la prima soluzione. Ma anziché in un cesto, l’esplosivo è sistemato in una valigia. L’hotel Diana faceva corpo con il teatro dal quale era separato da una semplice parete. La sera del 23 marzo, Mariani e Aguggini, che hanno preparato la bomba a Mantova e l’hanno portata a Milano affidandola a Boldrini, prelavano da quest’ultimo la valigia e la portano in via Mascagni. Secondo il piano l’ordigno avrebbe dovuto essere collocato dietro la prima saracinesca dell’hotel, quella più vicina al teatro, per far saltare l’ala dell’albergo dove i tre credono vi sia l’appartamento in cui alloggia Gasti. Poiché sopraggiungono alcune persone, Mariani, per liberarsi subito dell’esplosivo, lascia il bagaglio dietro una porta che immette nella platea del teatro. Poco prima delle 23, il ferroviere innesca la miccia, scappa insieme con l’Aguggini, raggiunge Boldrini che se ne sta poco discosto (ma questi negherà sempre d’essere stato presente alla collocazione della bomba) e tutti e tre si perdono nel buio. La strage farà inorridire anche i suoi autori. Boldrini, ripeto, si proclamerà sempre innocente. Dirà che egli, pur non negando la sua fede anarchica, non aveva preso parte all’attentato, e che almeno quattro persone sapevano dove egli si trovasse al momento dello scoppio dell’ordigno. Faceva riferimento a testimoni che non nominava ma attendeva che sentissero il dovere di presentarsi alla Giustizia. Gesto questo che gli sconosciuti, ammesso che fossero mai esistiti davvero, non fecero mai. Il processo contro Mariani, Boldrini, Aguggini e altri quattordici, cui fu imputata la strage del teatro Diana, la collocazione della bomba alla centrale elettrica di via Gadio, il mancato attentato all’Avanti e le esplosioni di alcuni ordigni avvenute l’anno precedente (tranne quelle al Cova per le quali era stato condannato a 24 anni di carcere il ferroviere), fu celebrato a Milano dal 9 al 31 maggio 1922. Mariani fu condannato all’ergastolo, Boldrini e Aguggini a trent’anni. A tutti gli altri furono comminate pene dai sedici ai due anni di carcere. Sinceramente pentito, il ferroviere dopo la sentenza dichiarerà che al processo avrebbe preferito avere come giurati i parenti delle vittime, “perché se lo avessero ritenuto giusto avrebbero potuto fare giustizia sommaria”. Sconterà venticinque anni di carcere. Entrato ventitreenne all’ergastolo di Santo Stefano di Ventotene, ne uscì quarantottenne nel luglio del 1946 graziato dal presidente provvisorio della Repubblica, Enrico De Nicola. Appena lasciato il carcere, dichiarò di “abiurare all’idea che il terrorismo possa essere una necessità rivoluzionaria”. Si dichiarò persuaso “del suo valore negativo tra i fattori di lotta contro la società borghese e che esso sta alla rivoluzione come il furto all’espropriazione”. Poco dopo aver conquistata la libertà, scrisse un libro, Memorie di un ex terrorista, in cui puntualizza alcuni aspetti dalla sua vicenda. La strage del Diana fu uno di quegli eventi che favorirono sicuramente l’ascesa del fascismo. Furono in molti tra gli antifascisti ad azzardare l’ipotesi che i terroristi fossero stati addirittura “orientati” dalla polizia. Questa per esempio è la convinzione del prefatore del libro di Mariani; Gigi Damiani. Scrisse: “Fu la polizia a condurre per mano gli esacerbati terroristi fino davanti alle griglie del teatro Diana”. Onestamente Mariani però confessò: “Non ho mai pensato, come sempre hanno fatto alcuni miei compagni, in base ad elementi che mi hanno detto positivi, fino a credere possibile una revisione del processo, d’incolpare qualcuno che vicino a noi sapesse manovraci tanto bene da farci credere che avremmo colpito il questore e altre personalità e che invece ci facevano colpire delle povere persone innocenti intente solo a divertirsi”. Un fatto tuttavia è incontestabile. Elena Melli, la donna che frequentava il gruppo anarchico e che prese parte attiva alla preparazione degli attentati, non comparve fra gli imputati del processo. Non fu neppure denunciata. Fuggita in Sudamerica, di lei non si seppe mai più nulla. ORDINE 3 2005 DI VITTIME morte di due innocenti. Il primo morì nei giorni che seguirono l’atto criminale per le botte subite durante gli interrogatori: era Romolo Tranquilli, fratello di Ignazio Silone. La seconda vittima fu un chimico milanese, Umberto Ceva. La polizia fascista lo aveva fermato per un attentato dimostrativo che esponenti di G.L. avrebbero dovuto compiere nei primi mesi del 1930 e che l’avvocato Carlo Del Re, la “spia del regime” aveva denunciato all’Ovra. Forzando labili connessioni, il fascismo aveva tentato di accollargli la strage della Fiera. Profondamente turbato da quel sospetto, il professionista si tolse la vita dopo aver lasciato una nobile lettera alla moglie. do il terrorismo colpiva Milano 12 aprile 1928 di Enzo Magrì La mattina del 12 aprile 1928 Milano è pavesata di bandiere e di orifiamma. Vittorio Emanuele III deve recarsi ad inaugurare la IX Fiera. Secondo il programma, il sovrano dovrebbe giungere alla Campionaria alle 9,50 entrando da piazzale Giulio Cesare. Per le consuete precauzioni che la polizia adotta in queste circostanze, l’orario d’arrivo del corteo è ritardato di cinque minuti. Quando scocca l’ora ufficiale della visita, nel piazzale esplode una bomba che semina morte tra le decine di persone in attesa di vedere il re: si conteranno venti cittadini deceduti e oltre quaranta feriti. Una bimba è mutilata; di una famiglia di cinque persone resta un solo superstite; tutt’intorno c’è morte e distruzione. Il regime si mobilita per la caccia ai colpevoli. Il capo della polizia Arturo Bocchini spedisce a Milano due suoi abili ispettori: Giuseppe Valenti e Francesco Nudi. Per le leggi straordinarie del 25 novembre 1926, la strage è di competenza del Tribunale speciale per la difesa dello stato. Il nuovo organismo rivendica a sé “l’onore” dell’istruttoria e si trasferisce a Milano. Nel capoluogo lombardo giunge pure il sottosegretario agli Interni Michele Bianchi. Mussolini invia un telegramma con il quale attribuisce la responsabilità agli antifascisti. Contemporaneamente affida le indagini alla Milizia ferroviaria e spedisce nel capoluogo lombardo il capo di stato maggiore, console Valerio Lucchini. L’incarico conferito alla massima carica del corpo speciale impegnato con esercito e polizia al mantenimento dell’ordine interno, è giustificato con il ritrovamento, avvenuto qualche giorno prima sotto i binari della Milano-Piacenza, d’una bomba ad orologeria. Agli inizi di aprile un ordigno era stato scoperto nella cantina dell’arcivescovado mentre in marzo un altro era esploso ai piedi del monumento a Napoleone III, collocato nel cortile del Senato dove era stato lasciato anche uno scritto inneggiante alla libertà. Frammenti di quest’ultima bomba e parti di quelle inesplose, erano stati affidati a un perito, il generale d’artiglieria Alfredo Torretta che aveva trovato delle analogie nella loro fabbricazione. Sotto la guida della milizia, polizia e carabinieri orientano le ricerche dei colpevoli verso comunisti, anarchici e repubblicani. La magistratura dal canto suo incarica della perizia sulla bomba di piazzale Giulio Cesare il tenente colonnello Mario Grosso, perito balistico della sezione staccata d’artiglieria di via Calatafimi. L’esperto stabilisce che si tratta d’una bomba “detonante”, formata da una certa quantità di gelatina racchiusa in un sottile involucro di tela cerata. Il pacco era stato collocato nello spazio vuoto fra un palo della luce e il suo basamento in ghisa: vi era stato introdotto attraverso lo sportello di facile apertura e di altrettanta facile chiusura e appoggiato verso il lato del piazzale dove sorge l’edificio con il civico numero 18. L’esplosivo era collegato, attraverso un filo elettrico, a un congegno ad orologeria. Secondo l’esperto, la carica del movimento a tempo non poteva essere superiore alle dodici ore: il convincimento fu comunque che quell’ordigno dovesse essere stato infilato nel basamento del palo attorno alle cinque del mattino. Durante lo svolgimento delle indagini sono fermate e rilasciate più di cinquecento persone. Lo zelo degli inquirenti nel volere trovare a tutti i costi i colpevoli è così eccessivo da stravolgere le esistenze di parecchi innocenti. Uno di questi è Romolo Tranquilli, il ventiseienne fratello di Secondino Tranquilli, Ignazio Silone. Romolo “è un giovane di sentimenti cattolici, vagamente antifascista, più amante dello sport che della politica”. Il fratello Secondo lo aveva sistemato presso il don Orione, a Venezia, in una casa per giovani artisti.Temendo che il suo antifascismo avrebbe potuto nuocere al giovane congiunto, lo scrittore aveva deciso di mandarlo in Svizzera. A portarlo fuori dall’Italia era stato incaricato un amico di Silone, un comunista che avrebbe dovuto incontrarlo sul ORDINE 3 2005 lungolago di Como; il luogo dell’appuntamento era stato segnato in una cartina. Fermato dalla polizia, Romolo fu trasferito a Milano. La piazza di Como antistante il lago, luogo del rendez vous, fu scambiata dagli inquirenti per piazzale Giulio Cesare ed il giovane fu sottoposto a brutali interrogatori. I suoi onesti, insistiti, dinieghi furono presi per omertosi segni di complicità con gli assassini. Picchiato con sacchetti di sabbia “che non lasciavano tracce estreme ma scardinavano l’interno”, riportò la frattura d’una costola. Morì in carcere. Delle cinquecentosessanta persone arrestate, trecento sono subito rilasciate e soltanto due, gli anarchici Gino Nibbi, originario di Massa e Libero Molinari (il cui padre, anche lui anarchico, era un chimico di valore, amico di Errico Malatesta) sono considerati implicati nell’attentato. Più che la scoperta dei colpevoli, l’indagine mette in luce le frizioni tra gli inquirenti che si dividono tra duri e moderati. Guido Leto, alto funzionario addetto ai servizi politici della dire- mai di stimolare i suoi collaboratori affinché non trascurassero nulla per far luce sull’attentato”. Le stragi i cui autori restano sconosciuti scatenano (la storia del dopoguerra annovera parecchi esempi) ridde di ipotesi nelle quali l’uomo della strada ha difficoltà ad orientarsi. La stessa cosa avvenne per l’attentato alla Fiera. Una delle più accreditate fu quella che formulò Cesare Rossi, prima addetto stampa di Mussolini quindi perseguitato e arrestato dal fascismo. Raccontò che il vice questore di Milano Salvatore Haro, parlando dopo la Liberazione, della strage con Luigi Gasparotto, deputato alla Costituente, più volte ministro prima e dopo il fascismo, se ne uscì con questa frase: “Cosa vuole onorevole. Ad un certo punto ci siamo dovuti fermare. Andando avanti ci saremmo imbattuti nei fascisti, gente di Giampaoli”. Mario Giampaoli, squadrista, era a quel tempo il segretario federale di Milano. A suffragare l’ipotesi che l’attentato potrebbe essere stato eseguito dagli stessi fascisti (ma, Attentato alla Fiera (20 morti). Impunito come piazza Fontana Vittorio Emanuele III sfugge alla bomba, perché è in ritardo zione di Polizia e dal 1938 capo dell’Ovra, scrisse che “la polizia non si lasciò mai abbacinare da inchieste fatte da altri organi dilettantistici più o meno politici”. Il poliziotto allude alla milizia, a Lucchini e al procuratore generale del Tribunale speciale Balzamo i quali ritenevano che esistessero le prove per mandare subito davanti ai giudici dello speciale organismo Nibbi e Molinari. Contro questa tesi militava il capo della Polizia Arturo Bocchini. Attraverso i suoi collaboratori faceva presente la necessità che si procedesse almeno con il rito formale. Alla fine la spuntò lui. Più tardi i due imputati furono assolti in istruttoria. Gli autori della strage di piazzale Giulio Cesare non sono mai stati scoperti. “Il più grave cruccio di Bocchini” ricorda Leto nelle sue memorie” fu di non essere riuscito a vedere chiaro in questo tragico episodio ed egli non si stancò Foto Olympia ripeto è una delle tante ipotesi) qualcuno ricorda un episodio alquanto misterioso avvenuto il giorno dopo la strage di piazzale Giulio Cesare. In una caserma della Milizia di via Mario Pagano si verificò un episodio oscuro: due militi furono uccisi e due rimasero feriti dalla pallottola accidentalmente sparata dal moschetto d’un loro commilitone. Poiché risultava difficile credere che una sola fucilata avesse potuto colpire quattro persone, nacque la supposizione che quell’evento fosse in relazione con la strage. Nel 1930 si tentò di attribuire la responsabilità dei morti della Fiera ad un gruppo di antifascisti denunciato all’Ovra dalla “spia del regime” Carlo Del Re. Questi, fingendosi contrario alla dittatura, aveva indotto una schiera di persone legata a G.L., a preparare alcuni attentati dimostrativi. Facevano parte della squadra Ernesto Rossi, Riccardo Bauer, Ferruccio Parri e altre ventuno persone tra le quali Umberto Ceva, un chimico che, come scrisse Rossi, “mise a disposizione della cospirazione la sua cultura tecnica preparando tra l’altro nuove formule d’inchiostro simpatico e di reagenti. La scoperta nel dicembre del 1930 della cellula milanese di Giustizia e Libertà (nel comunicato della polizia compare per la prima volta l’acronimo Ovra) che aveva congegnato un paio di bombe per gli attentati dimostrativi sollecitati da Carlo del Re, non poteva non richiamare alla mente degli inquirenti la carneficina di piazzale Giulio Cesare. Tanto più che tra gli uomini che avevano avviato le prime indagini nel 1928 c’era Francesco Nudi divenuto nel frattempo capo della polizia politica milanese. Il poliziotto era naturalmente a conoscenza delle ipotesi formulate due anni prima. L’occasione è troppo ghiotta perché Nudi se la lasci sfuggire. Lui e il capo della polizia sono sempre alla ricerca dei veri colpevoli della strage e ancora impegnati a fare vedere a quei dilettanti della milizia ferroviaria che avevano avuto torto. La dimostrazione di un’eventuale compatibilità tra gli ordigni del 1928 e quelli preparati da Umberto Ceva avrebbe permesso all’uomo dell’Ovra di fare un colpo grosso. Nudi affida al generale Alfredo Torretta la perizia sul materiale infiammabile sequestrato nell’abitazione del chimico e di quell’altro che era stato recuperato nelle acque d’una roggia. Qualche mese più tardi, l’esito della perizia lo fa sobbalzare. In un capitolo dal titolo “Altri rilievi”, l’alto ufficiale ricorda che negli attentati di Milano, e “in particolare in quello di piazzale Giulio Cesare, si erano trovati congegni somiglianti”. Quindi rileva: “Mette però anche in evidenza un insieme di circostanze e di analogie talmente sorprendenti, anzi di identità tali, da far dubitare che quei tristi ordigni, che miravano a colpire cosi in alto e che causarono la morte di tante innocenti persone, avessero un’origine comune con questi, ora repertati”. Quel dubbio, esternato in una brutta frase dal perito, offre al poliziotto l’occasione per puntare i riflettori su Umberto Ceva lasciando per il momento nell’ombra tutti gli altri accusati. Secondo l’ispettore egli è il personaggio ideale per compiere l’azzardoso esperimento di stabilire la connessione tra la terribile strage del 12 aprile 1928 e gli esponenti di G.L. Ceva è un trentenne bruno, dal viso serio di pensatore e dagli occhi cerchiati da un paio d’occhiali a stanghetta. Al momento del suo arresto è sereno, tranquillo. Se una pena lo strugge è il pensiero della moglie Elena e dei due figli, Edoardo di 4 anni e Michele di 8 mesi. Tradotto a Roma come tutti gli altri, è confinato in una cella del raggio dei detenuti politici. Poi il presentimento d’un’ineluttabile sorte s’impadronisce di lui. Per logorarne la volontà e spegnerne la determinazione, il detenuto è lasciato in isolamento. Il 4 dicembre, lo stesso giorno in cui appare sulla stampa italiana il comunicato dell’Ovra, il chimico subisce un duro interrogatorio. “Non ho compiuto altro atto all’infuori di quelli che io stesso ho confessato, come ho già esposto” dichiara. Il 5 dicembre la moglie è convocata a Roma per il primo colloquio. I due s’incontrano la mattina del 7. Appena Elena Ceva vede entrare lo sposo nella stanza è colpita “da uno strano turbamento come di chi si trovi all’improvviso dinanzi a qualcuno che è ormai staccato dalla terra, che sfiora appena con passo lieve”. Il colloquio durò una quindicina di minuti. Il detenuto era presente e padrone di sé tanto da non lasciarsi sopraffare dalla commozione. Nell’abbracciarlo, alla fine dell’incontro, la sposa gli sussurrò all’orecchio che stesse tranquillo “perché si sarebbe fatto il possibile per aiutarlo”. Egli la guardò “come se quelle parole non avessero alcun significato per lui”. Lei afferrò le mani del congiunto, lo guardò negli occhi, mormorò: “Sempre cosi”. Lui rispose: “Va, va”. Umberto Ceva si avvelenò la notte di Natale del 1930. In una lettera all’ispettore Nudi scrisse: “Non ho fatto nulla, non ho visto nulla, non ho saputo che altri abbia fatto del male a una creatura umana”. 33 (37) DELIBERAZIONE DELL’ORDINE DEI GIORNALISTI DELLA LOMBARDIA La sala del Consiglio dedicata a Nino Nutrizio Milano, 25 gennaio 2005. Il Consiglio dell’OgL, nella seduta di ieri, ha deliberato all’unanimità di dedicare la sala dove si riunisce, a Nino Nutrizio, il grande giornalista di origine dalmata, che ha fondato e diretto La Notte per 27 anni (dal 1952 al 1979). Nutrizio è stato uno dei più prestigiosi inquilini del Palazzo dei Giornali di via Antonio da Recanate 1, dove oggi l’Ordine della Lombardia ha i suoi uffici. Nel sito dell’OgL (www.odg.mi.it) la biografia di Nino Nutrizio (a firma di Massimo Emanuelli) e un articolo di Michelangelo Bellinetti sulla storia dei giornali dal 1950 in poi ospiti del palazzo di via Antonio da Recanate, 1 (La Patria, Il Tempo, L’Italia, La Notte, L’Avvenire, Gente, Guerin Sportivo). Muscau: “Gli devo tutto. Ha segnato la mia vita” Caro Franco, sai che sono di poche parole, visto anche il nostro passato, ma la tua e vostra scelta mi ha commosso. Nino Nutrizio ha segnato la mia vita: nel 1971 mi prese nel suo giornale senza conoscermi. Accettò di ricevermi (grazie alla sollecitazione di Mario Bertoli, altro allevatore di giornalisti, strambo, ma ingiustamente dimenticato) solo per aver scritto una lettera in cui spudoratamente chiedevo di fare il giornalista. Non avevo la benché minima idea di che cosa fosse un giornale. Non mi chiese che idee politiche avessi (ero di sinistra) né che cosa sapessi fare (niente!). Semplicemente mi accettò perchè ero..sardo e con tanta voglia di lavorare. Assieme a me, lo stesso giorno, 1° luglio 1971, cominciò la sua carriera Giorgio Carbone. Allora a La Notte c’erano Vittorio Feltri (che mi insegnò e tanto), Fernando Mezzetti, Salvatore Scarpino, Arrigo Galli e tanti altri fior di giornalista. Se oggi nella mia carriera ho salito qualche gradino lo devo esclusivamente a Nino Nutrizio. E pensare che al primo colloquio litigammo, perfino, proprio sulla Sardegna. «Dove avete frequentato il liceo?», mi chiese, dandomi del Voi, da signore e galantuomo vecchio stampo. «A Bosa», risposi. «Sulla costa orientale della Sardegna, vero?» ribatté. «No, sulla costa occidentale», replicai - se permette la mia isola la conosco bene». «Anche io», rispose (all’epoca si mormorava avesse una celebre amica in Costa Smeralda) «Non come me» feci di rimando. Si alzò con una bacchetta, la puntò sull’ampia carta geografica dell’Italia che aveva alle spalle, cercò Bosa, la indicò e mi disse serio: «Avete ragione, potete andare». Era la fine del giugno 1971. Il colloquio era finito. Il 1° luglio successivo varcai il portone del palazzaccio di piazza Cavour. Assunto. Grazie, Franco. Costantino Muscau Sulas: “Ero ragazzo quando mi assunse” Nino Nutrizio, mitico direttore de La Notte, è stato un grande giornalista, un grandissimo uomo e un vero signore. Ero un ragazzo quando mi assunse alla Notte nel 1973, il giorno in cui a Bergamo fu rapito Mirko Panattoni e il Milan (di cui Nutrizio era tifoso) perdeva lo scudetto a Verona. Per 12 anni ho lavorato nella redazione di Bergamo, la città dell’editore Carlo Pesenti. Mai un problema, Ordine/Tabloid ORDINE - TABLOID periodico ufficiale del Consiglio dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia Poste Italiane SpA Sped.abb.post. Dl n. 353/2003 (conv. in L. 27/2/2004 n. 46) art. 1 (comma 2). Filiale di Milano Anno XXXV Numero 3, Marzo 2005 Direttore responsabile FRANCO ABRUZZO Direzione, redazione, amministrazione Via A. da Recanate, 1 20124 Milano Centralino Tel. 02 67 71 371 Fax 02 66 71 61 94 Consiglio dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia Franco Abruzzo presidente; Cosma Damiano Nigro vicepresidente; Sergio D’Asnasch consigliere segretario; Alberto Comuzzi consigliere tesoriere. Consiglieri: Michele D’Elia, Letizia Gonzales, Laura Mulassano, Paola Pastacaldi, Brunello Tanzi Collegio dei revisori dei conti Giacinto Sarubbi (presidente), Ezio Chiodini e Marco Ventimiglia Direttore dell’OgL Elisabetta Graziani Seg. di redazione Teresa Risé Realizzazione grafica: Grafica Torri Srl (coordinamento Franco Malaguti, Marco Micci) 34 (38) Stampa Stem Editoriale S.p.A. Via Brescia, 22 20063 Cernusco sul Naviglio (Mi) Registrazione n. 213 del 26 maggio 1970 presso il Tribunale di Milano. Testata iscritta al n. 6197 del Registro degli Operatori di Comunicazione (ROC) Comunicazione e Pubblicità Comunicazioni giornalistiche Advercoop Via G.C.Venini, 46 20127 Milano Tel. 02/ 261.49.005 Fax 02/ 289.34.08 La tiratura di questo numero è di 24.225 copie Chiuso in redazione il 21 febbraio 2005 Nino Nutrizio (secondo da destra) con un gruppo di colleghi a metà degli anni Cinquanta al Circolo della Stampa di Milano. mai una grana perchè il direttore era un Giornalista e un Signore. E che giornale che ci faceva fare! Sono stati gli anni più belli, intensi e di enormi soddisfazioni. Che rimpianto per quell’Uomo che ci dava del Voi, che incuteva soggezione e rispetto ma che trasudava Umanità. Finalmente qualcuno si è ricordato. Meglio tardi che mai. Complimenti al presidente Abruzzo! Giangavino Sulas Di Grazia. “Ammirevole decisione” Caro presidente, ammirevole decisione: un Fiumano, un Italiano! Luca di Grazia Lanza: “Non ne sono contento” Non ne sono contento: non posso dimenticare gli orrendi falsi che pubblicò sul suo giornale su Valpreda e su Pinelli. È sempre stato un giornalista “orrendamente” schierato. Sicuramente non verrò mai in quella sala a lui dedicata. Luciano Lanza De Vidovich: “Un amicizia dalmata” Gentilissimo dottor Abruzzo, con una certa commozione, leggo sull’ultimo numero di Tabloid le pagine dedicate a Nino Nutrizio, il “mitico” direttore della Notte, al quale ero legato da una amicizia nata dalla stima che avevo per lui come giornalista e dal fatto che provenivamo tutti e due dalla Dalmazia, lui nato a Traù ed io a Zara: da qui una più che modesta collaborazione, favorita allora dalla comune amicizia con Umberto Frugiuele, direttore dell’Eco della Stampa. Fra i vari ricordi personali, mi piace ricordare quello avuto con lui e con Frugiuele al Circolo della Stampa di Milano a metà degli anni ‘50, del quale conservo la fotografia (che riproduciamo qui sopra, ndr) che mi pare utile inviare a lei in copia: mi creda, non è per un non esistente esibizionismo personale, ma solo per aggiungere, un modesto contributo al ricordo dedicato a Nino Nutrizio dal suo Ordine in occasione del trasferimento di sede. Gradisca i miei cordiali ed augurali saluti Mario de Vidovich 4° “Premio giornalistico Mauro Gavinelli” BANDO DI CONCORSO Il Gruppo Altomilanese giornalisti (Gag), istituito nel 1993, con sede in Legnano, intende ricordare la figura di Mauro Gavinelli, che fu tra i soci fondatori e il primo presidente del Gag. A tale scopo, bandisce (con il sostegno del Comune di Legnano e dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia) la quarta edizione del “Premio giornalistico Mauro Gavinelli”. REGOLAMENTO art.1 - Il concorso premia il miglior articolo giornalistico, pubblicato su un quotidiano o un periodico italiano, che affronti un tema inerente l’attualità politica, economica, sociale, sportiva della Lombardia. art. 2 - Il premio è riservato ad autori fino a 35 anni d’età (compiuti entro il 21 marzo 2005), non necessariamente iscritti all’Ordine dei giornalisti, nell’intento di valorizzare le intuizioni e l’impegno di Mauro Gavinelli sulla formazione professionale dei giovani colleghi e degli aspiranti giornalisti. art. 3 - Il vincitore del premio riceverà la somma di euro 2.500 (duemilacinquecento). art. 4 - L’iscrizione al concorso è gratuita. art. 5 - Ogni concorrente può partecipare presentando un solo articolo che sia stato pubblicato tra il 1° marzo 2004 e il 20 aprile 2005. art. 6 - Non sono ammessi articoli già premiati in altri concorsi giornalistici. art. 7 - Entro il 30 aprile 2005 ogni concorrente dovrà far pervenire alla segreteria del premio – recapitata a mano o servendosi del servizio postale (fa fede la data del timbro) – una copia originale del giornale sul quale è stato pubblicato l’articolo firmato o siglato, accompagnata da : a) una breve domanda d’iscrizione al concorso redatta in carta semplice, corredata dai dati anagrafici, dal curriculum vitae e dal recapito del concorrente; b) cinque fotocopie dello stesso articolo con cui si intende concorrere al Premio. Copie originali dei giornali e fotocopie inviate non saranno restituite. art. 8 - La segreteria del premio, alla quale indirizzare domanda d’iscrizione, articoli in concorso e relative fotocopie è fissata nelle sede legale del Gag: presso Studio avvocato Fabrizio Conti, via della Liberazione 13, 20025 Legnano (MI). art. 9 - Ogni concorrente conserva la proprietà letteraria dell’articolo in concorso. art. 10 - La Giuria del concorso, che valuterà gli articoli giunti alla segreteria stabilendo il vincitore del premio, è composta da tre componenti del Consiglio direttivo del Gag fra cui il presidente in carica, da componente della famiglia Gavinelli – la quale finanzia l’iniziativa – e dal presidente dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia o da giornalista da questi indicato. Il giudizio della Giuria è insindacabile e inappellabile. art.11 - La presidenza della Giuria è affidata al presidente del Gag. La vice presidenza è ricoperta dal componente designato dalla famiglia Gavinelli. art. 12 - Tutti i partecipanti al concorso riceveranno l’invito alla cerimonia di premiazione che si terrà entro la fine di giugno 2005. art. 13 - La partecipazione al Premio implica la piena accettazione delle norme contenute nel presente regolamento. La non osservanza di quanto richiesto comporterà l’esclusione dal concorso, senza che sia dovuta comunicazione al concorrente. Ulteriori informazioni sul concorso possono essere richieste telefonicamente (347.4205085, Francesco Chiavarini) ORDINE 3 2005 L A Katia Ferri Lavorare da casa di Giacomo Ferrari Fino a qualche anno fa il concetto di telelavoro era ancora un po’ astratto. Tutti ne parlavano ma nessuno sapeva bene come e quando poteva essere applicato nella pratica. C’erano soltanto dei tentativi, anche qualche esempio concreto, circoscritti però ad attività particolari. Soprattutto non esisteva una normativa. Ebbene, nel giugno del 2004 il telelavoro ha acquisito dignità giuridica. Confindustria e sindacati (le parti sociali anche in questo caso hanno anticipato il legislatore) hanno siglato un accordo generale che, oltre a riconoscere ufficialmente la nuova modalità professionale, ha regolamentato per la prima volta la possibilità di “lavorare da casa”. E proprio questo slogan è il titolo del volume, arrivato in libreria lo scorso autunno, realizzato con grande tempismo da Katia Ferri, una giornalista che da anni si occupa della cosiddetta economia di servizio su testate specializzate come Il Sole-24 ore, Investire, Banca & Finanza. L’analisi della Ferri parte da una constatazione: oggi in Italia i lavoratori dipendenti che si avvalgono della possibilità di fornire la propria opera a distanza sono almeno 50 mila. E addirittura 400 mila sono i telelavoratori autonomi o atipici. Chi lavora da casa può distribuire il proprio tempo come vuole. Può insomma lavorare di sera o durante il weekend: importante è infatti raggiungere l’obiettivo finale, cioè produrre una determinata quantità di documenti, o altro, entro un tempo stabilito. L’azienda, da parte sua, risparmia in termini di spazi, attrezzature e servizi per il personale. Senza contare il vantaggio “sociale” della riduzione della mobilità delle persone, con vantaggi per il traffico e per l’efficienza dei trasporti pubblici. Insomma, il telelavoro ha molti vantaggi. Uno solo l’aspetto negativo: negli uffici le persone comunicano fra loro costantemente, socializzano e si scambiano opinioni ed esperienze. Farlo attraverso il telefono o l’e-mail non è la stessa cosa… Katia Ferri, Lavorare da casa, Sperling & Kupfer, pagine 220, euro 13,50 L I B R E R I A Fra i sei nuovi santi canonizzati il 16 maggio scorso ci sono quattro italiani: due sacerdoti, don Luigi Orione e don Annibale di Francia, e due donne lombarde, Paola Elisabetta Cerioli e Gianna Beretta Molla, medico pediatra, che a trentanove anni sacrificò la propria vita a quella della creatura che portava in grembo. Come dice il cardinale Tettamanzi nell’introduzione al libro, quella di Gianna Beretta Molla è l’esempio di una vita “normale”. Nata nel 1922 a Magenta da famiglia numerosa (tredici tra fratelli e sorelle, tre dei quali presero i voti), Gianna Beretta crebbe in un clima di spiritualità francescana. Pur essendo di agiate condizioni economiche (il padre, Alberto, era un importante dirigente del Cotonificio Cantoni), i Beretta avevano improntato la vita familiare alla solidarietà sociale e a una parsimonia operosa, di stampo lombardo. La madre, Maria, confezionava da sé i capi di vestiario per i figli, che solo in quinta ginnasio avevano diritto all’abito “pulcro”, un’usanza oggi scomparsa in cui il rito di passaggio all’età adulta era contrassegnato da un vestito realizzato da un buon sarto. Nel libro di GiuORDINE 3 2005 liana Pelucchi la biografia (non agiografica, raccontata con semplicità attraverso le parole del marito e dei familiari) di santa Gianna Beretta Molla è anche occasione per rivivere momenti di storia quotidiana del secolo scorso. Da ragazza, Gianna viveva felice nella sua bella famiglia d’origine, in belle case fra Magenta, Milano, Bergamo e Genova, dove frequentò il liceo classico. Dopo i devastanti bombardamenti dell’agosto 1941, i Beretta lasciarono Genova per stabilirsi nella casa dei nonni materni sul colle di San Vigilio, a Bergamo. Da studentessa liceale, Gianna Beretta era un punto di riferimento nei gruppi giovanili dell’Azione Cattolica. Nel 1949 si laureò in Medicina a Pavia, e meno di tre anni dopo si specializzò in Pediatria. Suo fratello Enrico, medico missionario, aveva ricevuto dal cardinale Schuster l’incarico presso una diocesi del Brasile. La sorella Virginia, suora canossiana e anche lei medico, stava per partire per l’India. A trentadue anni, Gianna Beretta esercitava con entusiasmo la professione medica nell’ambulatorio di Mesero, presso Magenta. Per tutti i suoi pazienti aveva una parola di speranza, e spesso interveniva aiutandoli concretamente in situazioni di necessità. TA B L O I D Gian Luigi Falabrino Il design parla italiano di Michele Giordano Domus riveste un ruolo importante nella storia del giornalismo italiano. Basti pensare che l’intuizione di investire in quell’impresa editoriale promossa nel 1928 dall’architetto Gio Ponti, l’autore del Pirellone, fu di Gianni Mazzocchi che, diciassette anni dopo, fonderà L’Europeo, quello di Arrigo Benedetti, e, ventuno anni dopo, Il Mondo di Mario Pannunzio. La oggi settantasettenne rivista di architettura e design, oltre al primato nella diffusione della nostra cultura del costruire e dell’inventare nel mondo, dunque un primato decisamente giornalistico, può vantarne per lo meno un altro: aver dato il nome a Domus Academy, anche se la scuola è del tutto indipendente dalla rivista e dalla casa editrice. Domus Academy, se non fu in senso stretto la prima scuola italiana di design (erano già nate, via via, quella dell’Umanitaria; la Politecnica del Design di Nino Di Salvatore; l’Istituto europeo del Design) fu certamente quella più ad ampio Giuliana Pelucchi L’amore più grande di Olimpia Gargano D I respiro, soprattutto dal punto di vista della sua internazionalità. Gian Luigi Falabrino, giornalista, già direttore delle riviste politico-culturali Diogene e Mondo Nuovo e oggi docente di Storia della comunicazione visiva alla facoltà di Architettura del Politecnico di Torino, di Teorie e tecniche della comunicazione pubblicitaria al Dams di Imperia e di Storia del giornalismo all’Ifg Walter Tobagi dell’Ordine lombardo, ha tracciato della Domus Academy una storia ragionata in Il design parla italiano, libro edito, con traduzione in inglese a fronte, da Scheiwiller. Quel che si proponeva Domus Academy alla sua nascita, fortemente voluta da Maria Grazia Mazzocchi con Alessandro Mendini, Valerio Castelli e Alessandro Guerriero, era, come spiega Gillo Dorfles nella prefazione, l’obiettivo di “colmare la lacuna esistente nell’insegnamento del design - in tutte le diverse branchie di graphic, product, fashion design - a un livello didattico, peraltro, che fosse decisamente post-universi- tario (postgraduate), dunque che presupponesse la presenza di una laurea ottenuta in una università italiana o straniera. Inoltre, fin dalle origini, venne affiancato alla scuola un Centro ricerche (che dal 2004 ha preso il nome di Darc), vennero organizzate importanti mostre come Moda Italia: creatività, impresa, tecnologia nel sistema italiano della moda, che si tenne nel 1988 al Pier 88 di New York, esponendo i maggiori nomi dei designer del settore made in Italy come Armani, Biagiotti, Fendi, Ferrè, Krizia, Missoni, Valentino e Versace. Meritato e ambitissimo premio, nel 1994, Domus Academy ricevette il Compasso d’Oro alla carriera offerto dall’Adi, l’associazione per il disegno industriale. E sono centinaia i giovani che, usciti da Domus Academy, hanno fatto conoscere al mondo la professionalità innovativa del designer italiano. Il libro di Falabrino ripercorre e sviscera le vivende della scuola e degli eventi di cui fu protagonista, grazie anche alle testimonianze dei protagonisti: fra gli altri, Guido e Valerio Castelli, Gianfranco Ferré, Alessandro Mendini. Segue un’appendice con seminari, conferenze, mostre, iniziative ideate da Domus Academy nei suoi oltre vent’anni di attività culturale. I giovani aspiranti designer interessati possono trarre ispirazioni e informazioni sul sito www.domusacademy.it. Gian Luigi Falabrino, Il design parla italiano. Vent’anni di Domus Academy, Libri Scheiwiller, Pagine 328, euro 30,00 Maria Martello Intelligenza emotiva e mediazione di Franz Foti Quando le restava tempo, amava dipingere e suonare il pianoforte. La sua vita scorreva serena, in attesa, diceva lei, che Dio le facesse riconoscere la sua vocazione. Per qualche tempo prese in considerazione l’idea di seguire la via intrapresa dai suoi fratelli missionari. Poi, l’incontro con Pietro Molla, e l’intima certezza di sentirsi chiamata a essere moglie e madre cristiana. Madre, Gianna Beretta Molla lo fu fino all’estremo sacrificio di sé, quando durante la sua quarta gravidanza un grave problema di salute la pose di fronte alla scelta fra la propria vita e quella del nascituro. “Se devi decidere fra me ed il bambino, non avere esitazioni: scegli - e te lo chiedo - il bambino”, disse al marito pochi giorni prima del parto. Il 28 aprile 1962, una settimana dopo aver dato alla luce una bella bambina, Gianna Beretta Molla si spegneva. La sua immagine è diventata, in Italia e nel mondo, simbolo di maternità radiosa e tenace. Giuliana Pelucchi, L’amore più grande, Paoline Editoriale Libri, pagine 206, euro 11,00 Leggendo il lavoro di Maria Martello potete essere certi di imbattervi in un lavoro originale, che lascia poco spazio agli accostamenti con Goleman. Qui l’intelligenza emotiva si conficca nelle radici scoperte del vivere quotidiano, percorre i cunicoli emotivi e razionali dell’agire per poi risalire in superficie, con una proposta di formazione capace di dare risposte a molti interrogativi. Al centro dello studio c’è, naturalmente, la vita con i suoi conflitti, con i suoi bisogni di comprensione e di mediazione. L’umanità è attraversata da sentimenti. Taluni forti, altri più deboli e non per questo meno duraturi, meno presenti nell’animo di chi li nutre. Ma in tutti gli ambiti dell’esistenza, delle relazioni umane, il conflitto assorbe molta parte delle energie degli uomini. Forse si trascorre più tempo nel confitto che nell’armonia. Martello circoscrive tre ambiti d’osservazione del conflitto, i più importanti: la scuola, la famiglia e il luogo di lavoro. Ma per gestire il conflitto bisogna anzitutto saperlo riconoscere. E riconoscerlo significa considerarlo nei modi e con i tempi giusti, cogliere con intelligenza la conoscenza del mondo dell’altro, precisare a se stessi il senso profondo del proprio agire sia nelle azioni che nelle reazioni. Una volta tracciati i confini del conflitto bisogna sviluppare l’arte della mediazione per riportare le “parti” a riconsiderare le reciproche ragioni e trovare una via d’uscita che mantenga il loro “equilibrio emotivo”, evitando di stabilire sconfitti e vincitori. Per fare tutto ciò occorre però dispiegare una ragnatela emotivamente intelligente, capace di maturità propria. E dunque necessita un mediatore che abbia consapevolezza delle proprie emozioni, che sappia classificarle e razionalizzarle, che sia in grado di controllarle. In questo modo si potrà essere attenti alle emozioni degli altri. Se si è in grado di riconoscere il proprio malessere, fissandone le coordinate principali, si potrà accogliere il malessere dell’altro. Il mediatore d’emozioni “è colui che sta in mezzo come spazio partecipato, in cui si assume “questo e quello” per capire le ragioni delle parti, per trovare le differenze e stimolare la ripresa della comunicazione interrotta cercando di giungere alla risoluzione pacifica dei conflitti”. Secondo Martello, bisogna riordinare e ricollocare le situazioni entro schemi razionali dopo averle inquadrate e ridisegnate non solo sulla base dei dati oggettivi, ma di quelli intuitivi. E questo significa indagare tra le pieghe dell’agire e del pensare, considerare con attenzione ciò che appare confuso o poco comprensibile, dare valore alle proprie reazioni soggettive, non chiudersi nella ricerca di soluzioni esclusivamente razionali. Come si perviene allo sviluppo dell’intelligenza emotiva e alla mediazione? Maria Martello è perentoria: solo con la formazione! È a questo punto che viene in evidenza il modello umanistico proposto in questo lavoro che consiste nell’approfondire la propria formazione umana e professionale, nel rivedere ed elaborare i propri conflitti archiviati, nello sviluppare le proprie capacità di relazione, nell’esercitazione dell’espressione della propria intelligenza emotiva. Si tratta di un volume che è rivolto a tutti coloro che vogliono migliorare il proprio quotidiano, sentendo riconosciuta la propria dignità e soddisfatto il bisogno di condivisione e complicità. Maria Martello. Intelligenza emotiva e mediazione. Una proposta di formazione, Giuffrè Editore, euro 18,00 35 (39) L A L I B R E R I A D I TA B L O I D Matteo Collura In Sicilia di Ottavio Rossani Matteo Collura ci ha regalato, nel suo più recente libro, un modo diverso di vedere la Sicilia. È possibile perché ci consegna lenti speciali fatte di scrittura evocatrice, denunciante, smitizzante: sono lenti paraboliche che permettono una visione d’insieme, ma in contemporanea anche visioni singole, parziali, delimitate. Sono lenti che ci inducono a viaggiare in Sicilia dall’alto ma anche dal basso, che ci concedono di parlare con i presenti e con gli assenti, con i contemporanei e con li trapassati. Queste lenti non attengono agli occhi ma alla mente: amplificano i pensieri, le memorie, le opere d’arte, gli eventi, i personaggi. Nel libro In Sicilia lo scrittore-giornalista siciliano, che ormai da 30 anni è diventato “milanese”, con una lunga militanza di giornalismo culturale al Corriere della Sera, propone un itinerario letterario/entomologico che disvela illumina i chiaroscuri dei siciliani e della Sicilia, spiega le contraddizioni, motiva i rifiuti e l’indifferenza, sfata luoghi comuni, denuda il sistema osseo su cui si innerva un paesaggio perfettamente aderente al carattere dei siciliani. Collura estrae da questo viaggio l’essenza stessa dei siciliani, come popolo invaso, conquistato, stuprato, sottomesso, amministrato, visitato, apprezzato o disprezzato. Insomma lo scrittore fa da guida al lettore, ma non per un tour turistico, bensì per un’immersione storica, letteraria, etnologica, archeologica, geografica. Tutti questi aspetti non sono in successione logica o cronologica o per capitoli. La narrazione, che di questo si tratta, è un tutt’uno di sentimenti, umori, ricordi, citazioni. In Sicilia è il libro “totale”, connaturato alla nascita e al primo vissuto, che prima o poi ogni scrittore vorrebbe scrivere. Il libro in cui l’autore ritrova le origini, gli amici, i maestri, i paesaggi, i sogni, le delusioni. Alla fine di questa esplorazione a tutto tondo restano soprattutto i lampi della disperazione per l’immutabilità delle cose e dei comportamenti, resta la sensazione e la convinzione dell’ “irredimibilità” del paesaggio siciliano, già sanzionata da Giuseppe Tomasi di Lampedusa, che Matteo Collura assume a paradigma per la comprensione dell’universo-Sicilia. È proprio il paesaggio la chiave di lettura. I siciliani vivono in un paesaggio che i visitatori stranieri considera- Lido Picarelli Cetraro Nova di Filippo Senatore Il ritratto più efficace della piccola borghesia intellettuale del Mezzogiorno viene disegnato con fosche linee da Gaetano Salvemini su La Voce del 3 gennaio 1909, rivista d’orientamento ostile a Giovanni Giolitti, fondata nell’anno precedente da Giuseppe Prezzolini. Forse l’amarezza di Salvemini, storico e meridionalista pugliese, è accentuata dalla perdita recente della moglie e dei figli sotto le macerie del terremoto di Messina. Giolitti, nel biennio 1909/1910, pur rimanendo nell’ombra come il più potente uomo politico di quegli anni, lascia la presidenza del Consiglio prima a Sydney Sonnino e poi a Luigi Luzzatti. Siamo in epoca di grandi mutamenti economici e sociali. Decollo industriale, emigrazione, riordinamento del sistema bancario e crescita del reddito sino alla crisi del 1907. Arrivano le leggi speciali per il Mezzogiorno, la statizzazione delle ferrovie, la conversione della rendita, il monopolio statale delle assicurazioni sulla vita, la riforma scolastica Daneo- 36 (40) Credaro e l’introduzione del suffragio universale maschile. Un riformismo, quello di Giolitti, non privo di limiti e una politica economica che avrebbero favorito l’industria protetta e la grande proprietà terriera, tutelata dal dazio sul grano. Al riformismo empirico di Giolitti, Sonnino contrappone un programma non privo d’aperture sociali, attento ai problemi del Mezzogiorno ed alle condizioni delle classi rurali. Che cosa avviene in quel tempo a livello locale, in una piccola cittadina meridionale? Lido Picarelli, infaticabile cronista, ha scoperto la vita intensa, ma breve di una rivista edita a Cetraro, in provincia di Cosenza tra il 1909 e il 1910.Tre giovani studenti universitari, appartenenti alla borghesia cittadina decidono di fondare un periodico, Cetraro Nova. Non si tratta dei Cocò, figli di papà sbeffeggiati da Salvemini nel citato articolo de La Voce, ma al contrario di una nuova generazione che contesta, sia pure in modo garbato e moderato il potere amministrativo del municipio lanciando proposte concrete per il miglioramento a livello sociale del consorzio ci- no di straordinaria bellezza ma a loro è pressoché indifferente. Leonardo Sciascia a questo proposito parla di “invisibilità dell’evidenza”. Tomasi di Lampedusa, come già detto, definisce il paesaggio siciliano “irredimibile”. E Collura dice: “Ho voluto verificare se è vero che è ‘irredimibile’, e conclude: “Sì è vero, esiste un legame tra un determinato paesaggio e il carattere della gente che lo anima. Ma non esiste, non può esistere, un rapporto tra quel paesaggio e il sentire morale di quella stessa gente. La Sicilia, ora so, in questo non fa eccezione; e se quel rapporto vi appare connaturato è perché è stato sistematicamente violentato, corrotto, avvelenato dalla storia. Ecco il perché di tanto stravolgimento, di tanto oltraggio al paesaggio. Si illudono così di cambiare casa, gli inquilini della storia, mentre è questo nostro tempo a sfrattarli, togliendo loro una consapevolezza di cui andare fieri, e nello stesso tempo, di cui diffidare”. Collura si mette in cammino avendo addosso e negli occhi le percezioni già tramandate dai grandi scrittori che in passato hanno visitato e cercato di capire la Sicilia. Uno su tutti: Goethe, per il quale se si vuol capire qualcosa dell’Italia bisogna guar- dare la Sicilia, nulla accade in Italia che non sia già accaduta in Sicilia. Ma Collura fonda la sua capacità d’indagine sulla percezione della storia e dei comportamenti; pertanto i riferimenti culturali gli servono solo per sfatare le stupidità, per denunciare gli abusi, per stigmatizzare le abbiezioni lungo i secoli. Così sono presenti, in questo racconto che scopre le filigrane morali ed estetiche dell’isola e dei suoi abitanti, i numi tutelari della sua esperienza letteraria (Verga, Pirandello, Brancati, Tomasi di Lampedusa, Sciascia, Vittorini, Calvino, Malaparte, ecc.), e i luoghi che hanno colpito la sua immaginazione: da Portella della Ginestra alla Chiesa dei Cappuccini a Palermo con le mummie appese in una mostra macabra e sconvolgente; dalla cittàcapitale Palermo, “teatro di teatri” come la Vucciria o piazza Bellini, a Cassibile con la sua storia dimenticata di un problematico armistizio con il successivo sbarco degli Alleati; dal manicomio di Agrigento al sacco della Valle dei templi. Collura ci sorprende nella bellezza di Iblea che stordisce, ma anche con la sottile e onnipresente invadenza delle targhe e delle lapidi. Gli aspetti sono molti, i passaggi innumerevoli. Solo per fare tre esempi: la storia di Cagliostro ripercorsa attraverso la testimonianza di Goethe, la vicenda del principe “mago” Raniero Alliata, la battaglia di Calatafimi e il trascurato mausoleo. Sotto a questo affresco, viaggiano insieme allo scrittore, dall’inizio alla fine, la bellezza del paesaggio co- me metafora della morte, in quanto la bellezza viene profanata soprattutto dal disinteresse della gente che abita quel paesaggio e la questione etica degli “inquilini derlla storia” che attendono “irredimibilmente” di essere sfrattati da quel paesaggio che non vedono e che hanno comunque coartato. Si leggano le intense pagine narrative che riguardano gli eucalipti come simboli di morte. Scrive Collura: “È un albero che ben si adatta a questo clima, l’eucalipto, e che cresce rapidamente, inibendo presso di sé la presenza di altre piante. Gli uccelli raramente vi nidificano, per questo il suo già triste aspetto è ancora più desolato. Non vi è vita negli eucalipti, al contrario – ed è un paradosso constatarlo – dei cimiteriali cipressi, vivi al loro interno del frullare di molte specie volatili. Dimorano gli eucalipti, nella desolata scarpata dove un branco di assassini troncò la vita del giudice Livatino; ed eucalipti ho visto ergersi affranti in un giornio di luce livida tutt’intorno ai resti della miniera di zolfo dove Giuseppe Sciascia si uccise; e queste stesse dolenti piante copiosamente costeggiano la strada che conduce a Portella della Ginestra”. Singolare analisi letteraria, ma proprio perciò molto reale, di una costante sul territorio dell’isola: dove c’è la morte c’è luce, anzi c’è una luce eccessiva. Dove ci sono stati aggressione, stupro, violazione, conquista, repressione, ricatto, delitto, ecco, c’è sempre stata una luce accecante. Non si può disgiungere la luce della Sicilia dall’e- vento di morte. E dove c’è morte ci sono eucalipti. La morte, la luce, l’ingiustizia, i personaggi “folli”. Pirandello ha dato l’interpretazione autentica dei siciliani: quando non possono risolvere razionalmente i problemi trovano la via d’uscita nella follia. I siciliani amano allo stremo la loro terra. E tuttavia non vedono l’ora di abbandonarla, perché è l’unico modo di salvarsi dalle storture, dalle imposture, dalla violenza, dalla mafia. Conclusione pessimista, come d’altronde era la visione del “Gattopardo” Tomasi di Lampedusa, ma che nasce da un amore sconfinato dell’autore per la sua terra e dal dispiacere di vedere l’immutabilità delle cose. Il viaggio quindi si conclude con l’ammissione di questo grande amore ma con la convinzione che si tratta di un amore perduto, impossibile, che fa parte di sé ma è ormai fuori di sé. Un lento e inesorabile abbandono di questa donna bella ma infernale, che non sa mantenere le promesse. E la ragione di un simile viaggio “estraniante”? Eccole: “Un viaggio negli anni perduti, alla ricerca di un senso da dare allo sfacelo che mi si apre davanti ogni qual volta, come fosse un bisogno dell’anima, mi predispongo a rivedere il mio modestissimo aleph, quel luogo – dice Borges – «dove senza confondersi si trovano tutti i luoghi della terra, visti da tutti gli angoli» “. vile. Il limite dei tre studenti, giornalisti dilettanti, è il soffermarsi verso una quotidianità locale non sempre riflesso di problematiche sociali e politiche generali. Il merito è tuttavia quello di affermare una voce critica nuova in un contesto di arretratezza e miseria della Calabria di quegli anni che l’8 settembre 1905 viene colpita da un terremoto con epicentro a Monteleone Calabro, ma che s’irradia in gran parte della regione. Morti, feriti e devastazione in una terra già colpita da alluvioni, malaria e dal mal governo del territorio. La stampa nazionale dà rilievo all’evento, lanciando comitati di soccorso per raccogliere aiuti da portare nelle zone del sisma. Il re Vittorio Emanuele III accorre sui luoghi della sciagura con molti giornalisti al seguito compreso Luigi Barzini, mitico corrispondente del Corriere della Sera, appena rientrato dal fronte della guerra russo-giapponese. La legge 25 giugno 1906 stabilisce i provvedimenti a favore della Calabria per le zone terremotate con l’avvio di opere pubbliche edificative e ricostruttive.Alla piccola città di settemila anime, Cetraro, uno sperone di roccia affacciato sul Tirreno, spetta qualche briciola per la bonifica di un fatiscente borgo marinaro, l’edificazione di nuove case per pescatori e il completamento delle strade vicinali. La burocrazia parassitaria ed inefficiente, sia statale sia locale, rallenta il corso delle opere pubbliche. A parte la rife- rita legge del 1906, i giovani cetraresi non dicono nulla negli articoli della rivista. Tacciono sui presunti danni sismici riportati nell’area di Cetraro. Quello che è incredibile è il silenzio totale sul più devastante e coevo terremoto di Messina del 1908. Sembrerebbe che i giovani giornalisti abbiano una sorta di senso di rimozione. Le graziose elargizioni del governo al borgo cetrarese, colpito marginalmente dal terremoto, portano ad una sorta di complice silenzio. Se si dovesse parlare delle zone più colpite, al piccolo campanile non spettebbe alcun finanziamento, ma la politica giolittiana ha bisogno di qualche elemosina per ingraziarsi le popolazioni, comunque colpite dall’arretratezza economica e culturale. Le punzecchiature al notabile del luogo esprimono il dissenso verso i politicanti. I tre giovani giornalisti Francesco Aita, Attilio De Caro e Luigi Losardo nel primo editoriale del 16 aprile 1909, denunciano l’arretratezza della propria regione rifiutando pietismi ed autocommiserazioni. C’è la consapevolezza e la condivisione della denuncia salveminiana che individua come male principale la classe dirigente locale, definita da coraggiosi cetraresi “accattoni nei crocicchi” che sbarrano il passo “a quel burbero benefico che sarebbe lo Stato, per chiedergli l’elemosina di una legge speciale”. In un altro corsivo si individuano le ragioni verriane illuministe della miseria. “La ricca Sviz- zera era una regione poverissima, non aveva che giogaie aride e nevose, la nostra Lombardia era un pantano”. Tale approccio non dimentica la lezione di Giustino Fortunato, altro grande meridionalista lucano il quale avverte di non trasformare la denuncia delle condizioni di arretratezza del Mezzogiorno in una lamentosa giaculatoria scioccamente colpevolizzatrice e vittimistica. La rivista calabrese individua nelle cronache locali disservizi burocratici che portano a sprechi di risorse e al rallentamento ulteriore di un timido sviluppo economico di un’area tagliata fuori, nonostante la ferrovia e le potenzialità del trasporto marittimo. Per non parlare delle strade pubbliche incomplete che per pochi metri tagliano fuori del sistema di sviluppo intere aree interne. Sono questioni molto attuali e i tre giovanotti pazientemente suggeriscono soluzioni di buon senso. Altre descrizioni pittoresche ed eventi minori, denunciano carenze igieniche, mancanza di formazione del personale sanitario, la delazione anonima: uno dei mali della giustizia e le piccole lobby e le camarille di paese. Lido Picarelli riesce a decifrare gli articoli con un’ampia annotazione storico-politica, valorizzando ed attualizzando il patrimonio di una memoria che va preservata ed interpretata per comprendere il presente. Una lezione etica di giornalismo. In questi brevi anni d’inizio se- colo la rivista riesce ad autosovvenzionarsi con le inserzioni commerciali in aumento e con l’apporto di un pubblico di lettori non numeroso, ma assiduo. Picarelli s’interroga senza esito della rottura del sodalizio che porta alla chiusura della rivista. Il libro si conclude con un breve cenno alla rivista concorrente l’Aurora. Al di là dei limiti, Cetraro Nova, (reperibile solo nella biblioteca cittadina: una rarità) fotografa l’anelito e le speranze di quegli anni di un popolo semplice che vince gli stenti con la poesia dei canti e dei balli senza perdere di vista la cruda realtà. “Si è levato subito un grido: Viva Milano! Quando siamo partiti, la popolazione è corsa per una scorciatoia gridandoci ancora:Viva Milano! come ultimo saluto. Per alcuni minuti nessuno di noi ha potuto articolare parola, tanto la gola era serrata dal pianto. E questi sono i calabresi dalla fama così sinistra! E non vi è più buona gente nel mondo... questo popolo che ha conservato nella sua isolazione i più puri tesori di virtù” (Luigi Barzini, da una cronaca in prima pagina del Corriere della Sera, 18 settembre 1905). Matteo Collura, In Sicilia, Longanesi 2004, pagine 222, euro 14,00 Lido Picarelli, Cetraro Nova. Lettura critica del periodico fondato e redatto nel 1909 – 1910, Amministrazione Comunale e Pro Loco di Cetraro, pagine 183 ORDINE 3 2005 L A L I B R E R I A Stefano Jesurum Israele nonostante tutto di Vito Soavi Il mio parroco, che è un eminente teologo, riteneva che Ben Gurion fosse approdato in Palestina nel 1946, quando, nella realtà, vi arrivò quarant’anni prima. Il Museo Diocesano di Milano ha recentemente ospitato una mostra fotografica, titolata “Anima mundi “, un bellissimo reportage alla ricerca delle manifestazioni di fede e spiritualità delle religioni di tutto il mondo, con una sorprendente lacuna: all’ebraismo è stata dedicata una sola immagine, ripresa nel cimitero di Venezia. Cito questi episodi per evidenziare qunto la pubblica opinione, a tutti i livelli, sia tendenzialmente poco informata e poco sensibile alle secolari traversie del popolo ebraico e quini facile “preda” di chi si fa sentire di più, con le grida e, purtroppo, con gli attentati suicidi. Dove sono realmente le ragioni e dove i torti? Stefano Jesurum tenta, con molto equilibrio, di individuare le realtà attraverso il resoconto di un suo recente viaggio in Terra Santa, uscito in libreria con il titolo “Israele nonostante tutto”. Prendendoci per meno ci accompagna nei sobborghi arabi di Gerusalemme, ci fa at- traversare le strade affollate di una modernissima Tel Aviv, viaggiare nel deserto del Neghev, “location” dei più celebri film westrn americani, raggiungere sperduti kibbutz dove la sabbia è stata miracolosamente trasformata in terreno fertile, respirare un’aria diversa visitando i grandi magazzini Ikea, frequentati da arabi e mussulmani, fedeli ed infedeli, pacifisti e nuovi zeloti, fino a farci sostare davanti al “Muro invisibile”, la moderna barriera che è diventata simbolo, a secondo da dove la si guardi, di oppressione o di sicurezza. Il racconto si sviluppa in trenta capitoli, in ognuno dei quali vi è protagonista un personaggio, tessera di un vivacissimo mosaico che ritrae la realtà di un paese rispettoso, al di sopra di tutto, dei principi della democrazia. In questa carrellata speravo di trovare un accenno a Nevè Shalom Wahat As Salam, insediamento collocato fra Gerusalemme e Tel Aviv, da trent’anni convivenza, in pace e in armonia, di arabi ed israeliani, e dove è sorta una importante scuola che è meta sempre più ambita per i figli dei benpensanti cittadini di Israele, ed anche al frequentatissimo Circolo dei Genitori di Gaza, aperto a coloro che hanno perso un figlio in guer- D I TA B L O I D Benito Melchionna Sul treno. Muoversi nell’ambiente Peccato che non si trovi in libreria, perché questo bel volume dedicato al treno e realizzato su iniziativa delle Ferrovie Nord Milano si fa leggere che è un piacere. Se poi la lettura avviene giusto durante un viaggio su strada ferrata, come è capitato a chi scrive, potrebbe quasi riconciliarci con quello che fra i moderni mezzi di trasporto è il più suggestivo ma - almeno in Italia - non altrettanto soddisfacente quanto a puntualità e servizi. Benito Melchionna, magistrato umanista, conosce il piacere del racconto, e lo esercita in questo suo nuovo saggio che è al tempo stesso una storia di emozioni e ricordi collettivi legati all’esperienza del viaggio ferroviario, ripercorsa attraverso riferimenti che vanno dall’arte alla letteratura alla canzone d’autore (una per tutte, Azzurro di Paolo Conte, portata al successo da Celentano, che se esistesse un inno nazionale del viaggiatore potrebbe essere la canzone ufficiale delle ferrovie italiane). Melchionna, Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Crema e docente di Diritto dell’informatica alla Statale di Milano, si occupa per passione oltre che per professione di tematiche ambientali e sviluppo sostenibile. In questa ottica, basandosi su testi normativi e piani di intervento, l’autore evidenzia i vantaggi del trasporto ferroviario rispetto a quello automobilistico e aereo: più sicurezza, meno danni all’ambiente (grazie a un minore livello di emissioni inquinanti). Con adeguati interventi infrastrutturali, il trasporto ferroviario potrebbe inoltre contribuire a decongestionare un traffico automobilistico ormai ai limiti della paralisi (secondo previsioni ministeriali, senza adeguate strategie di intervento l’Italia rischia il blocco della mobilità entro il 2015). Al suo primo apparire, il treno suscitò reazioni sbigottite, se non vero e proprio panico. Basta ricordare il famoso episodio avvenuto durante la prima proiezione cinematografica dei fratelli Lumière, quando vedendo arrivare sullo schermo una locomotiva metallica sbuffante di vapore gli spettatori fuggirono terrorizzati credendo che il treno piombasse nella sala. “Cavallo d’acciaio”, lo chiamavano gli indigeni delle praterie americane che lo vedevano solcare sferragliando orizzonti a perdita d’occhio. In Italia il primo tronco ferro- viario (8 chilometri sul tratto Napoli - Portici) fu inaugurato il 3 ottobre 1839 da Ferdinando II di Borbone. Forte di una storia ormai bicentenaria, il treno punta dritto verso il futuro. Un futuro che è già in corsa sui binari a levitazione magnetica delle ferrovie cinesi e giapponesi, dove i treni “sospesi” a dieci millimetri dal suolo possono superare i 400 km orari. In Europa il primato dell’alta velocità spetta alla Francia, dove i treni TGV, che già in alcuni tratti viaggiano a 300 km l’ora, potrebbero sfiorare i 600 una volta risolti i problemi relativi ai binari e alla linea di alimentazione. Entro breve tempo, il treno diventerà un mezzo di comunicazione sempre più “globale”, visto che sono già in fase di allestimento carrozze ferroviarie collegate a Internet via satellite, per consentire al passeggero di essere informato in tempo reale su quanto avviene in ogni parte del mondo. nuare, riteneva Mancini, un’aspirazione dei socialisti a diventare – nel lungo periodo – alternativi sia ai democristiani sia ai comunisti. Egli era convinto – e lo dimostrò nella lunga esperienza alla guida di ministeri di “peso” come Sanità, Lavori Pubblici e Mezzogiorno a partire dal 1963 e nella breve stagione (1970) durante la quale fu segretario del Psi – che un socialista con responsabilità di governo doveva dar prova di autentica “discontinuità” rispetto alle precedenti impostazioni, ai suoi occhi moderate se non conservatrici. Lo spirito antiburocratico e la forte attenzione all’Italia meridionale che caratterizzarono la sua presenza negli esecutivi del centro-sinistra, al di là delle critiche – talvolta fondate – che suscitarono, vanno ricondotte a questa impostazione. A Nenni che gli chiedeva come mai si interessasse tanto alla Calabria – ricorda il figlio Pietro – Mancini rispose: “Avrei potuto farlo meno, se il Psi lo avesse fatto di più”. E, ormai vecchio, nel Duemila affermava con toni autocritici: “La mia idea del socialismo parte sempre dalla considerazione dei problemi meridionali rispetto ai quali, con l’eccezione di Rodolfo Moranti, vi è stata, storicamente, un’azione inadeguata del Psi e dei suoi massimi dirigenti”. Una terza costante dell’impegno di Mancini è rappresentata dal deciso spirito garantista. Per questo egli sposò con foga le ragioni de l’Espresso quando il settimanale romano denunciò lo scandalo Sifar-De Lorenzo sino a scontrarsi duramente con Aldo Moro; per gli stessi motivi, molti anni più tardi, si schierò in difesa di Enzo Tortora e poi si batté apertamente per la concessione della grazia ad Adriano Sofri. Mancini, del resto, fu tra i pri- mi, nel mondo della sinistra, a comprendere l’importanza che, per la modernizzazione civile del Paese, rivestivano le battaglie per lo sviluppo dei diritti civili, a cominciare da quella in difesa della legge sul divorzio, al cui vittorioso esito contribuì non poco. Il leader calabrese fu insomma un politico scomodo e, per molti versi, dotato di vista lunga. Figure come la sua mostrano perciò come sia superficiale l’approccio liquidatorio con cui in tempi recenti è stata, da tante parti, bollata la politica del centro-sinistra. Merito indubbio del piccolo saggio che a Mancini ha dedicato il figlio è di contribuire a un esame più attento di questa lunga stagione di vita italiana. Riflessione utile non solo per la corretta comprensione storica ma anche per meglio affrontare i problemi che incombono, oggi, sul Paese. Pietro Mancini, Giacomo Mancini, mio padre, Rubbettino Editore, 2004 pagine 109, euro 8,00 di Olimpia Gargano ra, sia da parte israeliana che da parte araba. Come si legge nella presentazione che trova spazio nei risguardi di copertina di questo libro, sorge alla fine, spontaneo, il desiderio di innalzare un canto d’amore a questa terra straordinaria, perchè in chi ha avuta la sorte fortunata di visitarla, come chi scrive queste note, rimane per lei una sottile penetrante nostalgia. Così ho deciso che regalerò il libro di Jesurum al mio parroco teologo, certo che lo gradirà, e forse anche al direttore del Museo Diocesano. Stefano Jesurum, Israele nonostante tutto, Longanesi & C. ottobre 2004, pagine 196, euro 14,50 Benito Melchionna, Sul treno. Muoversi nell’ambiente, Edito da M&B Publishing, pagine 116, s.i.p. Pietro Mancini Giacomo Mancini, mio padre di Antonio Duva Il 22 dicembre del 1966 Pietro Nenni annota nel suo diario: “Giornata di intenso lavoro al Consiglio dei ministri… Nel pomeriggio approvata la riforma urbanistica proposta da Mancini. Fino all’ultimo minuto c’è stata una discussione minuziosa. Per parecchi ministri si è trattato di un boccone amaro da inghiottire, per Mancini di un successo, anche se sarà attaccato da sinistra non meno che da destra”. Sono soltanto poche righe, sufficienti tuttavia, per l’anziano leader socialista, a dare un’immagine incisiva dell’azione di Giacomo Mancini e dei suoi motivi ispiratori: tenacia, concretezza e voglia di affermazione, per sé certamente, ma anche per la sua terra, la Calabria, e per il suo partito, il Psi, ai cui ideali Mancini fu sempre profondamente legato anche per ragioni familiari, in quanto figlio di Pietro, uno dei padri fondatori del socialismo nel Mezzogiorno. ORDINE 3 2005 Ma dal passo del diario di Nenni si coglie anche un altro elemento che accompagnò Mancini nel corso della sua lunghissima battaglia politica (dalla lotta antifascista sino ai primi anni del nuovo secolo) : la capacità di suscitare – come capita spesso agli autentici riformisti – talvolta consensi ma anche feroci ostilità, come appunto rilevava Nenni, “a sinistra non meno che a destra”. Questi tratti di fondo del leader socialista calabrese sono posti bene in luce da un agile volume che il figlio Pietro gli ha dedicato a due anni dalla scomparsa, avvenuta nell’aprile 2002. Il forte legame familiare, che dà sapore all’intero volume ed è del resto evidenziato sin dal titolo, non va a detrimento della chiarezza dell’analisi e l’amor filiale non offusca la professionalità dell’autore, lucido e sperimentato giornalista, per lunghi anni a Il Giorno e da tempo alla Rai. Il lettore si trova perciò di fronte, più che a una biografia in senso stretto, a una lunga inchiesta sul Mancini politico del cui operato sono ricordati, accanto ai numerosi successi, anche le sconfitte e i giorni amari che non mancarono certo nel corso di quasi sei decenni di continuo impegno. “Non si tratta di un monumento all’uomo infallibile”, ha giustamente osservato Santino Salerno, presentando il libro di Pietro Mancini nel quale sono infatti registrati anche “i momenti difficili dell’uomo di potere, fatto bersaglio di numerose campagne scandalistiche”. Un ritratto, insomma, a tutto tondo dedicato a una figura controversa e tuttavia sicuramente significativa dell’Italia repubblicana. Di Mancini colpiscono alcuni tratti peculiari: in primo luogo la sua fedeltà assoluta verso il socialismo che spicca in un mondo politico che, specie nella fase di trapasso dalla prima alla seconda Repubblica, si dette con larghezza alla pratica del trasformismo. Poi la sua visione della politica di centro-sinistra: l’alleanza con la Dc non avrebbe dovuto in nessun caso atte- 37 (41) L A L I B R E R I A D I Claudio Stroppa La città degli angeli. Il sogno utopico di fra’ Gioacchino da Fiore di Salvatore Angelo Oliverio Il volume di Claudio Stroppa si svolge lungo il tracciato del pensiero utopico dal XIII al XVII secolo, ma ha nel profetico messaggio dell’abate calabrese il focus tematico nel quale più o meno direttamente vengono comparate le ispirazioni e i progetti delle proposte e dei movimenti utopici europei. I capitoli dal terzo al quinto sono dedicati al confronto fra sant’Agostino, Gioacchino da Fiore e Tommaso Campanella. Non c’è dubbio che l’abate di Fiore si sia collegato ad Agostino in molti aspetti della sua teologia trinitaria, ma, come si evince dalla lettura del libro di Stroppa, diverge nettamente da lui per quanto riguarda le sue linee di teologia della storia. Come Agostino, Gioacchino accetta la divisione in sette tempi della storia della salvezza e rigetta l’interpretazione secolarizzata ed edonistica dei Millenaristi o Chiliasti, che avevano prospettato il millennio dell’Apocalisse di Giovanni come un periodo finale di gioie mondane. Ma, diversamente che per Agostino, che aveva individuato il millennio apocalittico nel tempo della Chiesa a partire da Costantino, per Gioacchino il regno sabatico dell’Apocalisse è solo il settimo ed ultimo tempo della storia, tempo di pace fondata sulla giustizia, di giustizia fondata sulla carità, di carità sostenuta dal soffio potente dello Spirito Santo che avrebbe fatto nuove tutte le cose. La settima età o Età dello Spirito, è per Gioacchino la massima compenetrazione possibile tra la città di Dio e la città terrena che in Agostino rimangono irriducibilmente lontane e contrapposte. Nel riportare all’interno della storia il tempo sabatico, che Dario Fertilio La morte rossa di Gigi Speroni L’orrore del XX secolo è timbrato da due sigle burocraticamente asettiche: GULAG (Glavnoe Upravlenie LAGerei: “Amministrazione generale dei campi di lavoro” e SS (Schutz Staffel: “Squadre di difesa”). Delle SS sappiamo, sono legate allo sterminio di sei milioni di ebrei annunciato da Hitler nel 1935 con le leggi antisemite, pianificato nel 1942 dalla “soluzione finale”, rivelato al mondo nel 1945 durante il processo di Norimberga ai responsabili di quello che venne definito un genocidio (da ghènos, razza, popolo e caedère, uccidere). Le date ci dicono che il primo genocidio riconosciuto e denunciato dalle Nazioni Unite come “un crimine contro l’umanità” fu programmato e realizzato in dieci anni e venne conosciuto soltanto quando le truppe anglo americane e russe entrarono nel lager nazisti, scopren- 38 (42) do una Shoah, un massacro imprevisto e, come tale, di un impatto psicologico inimmaginabile. Non così avvenne per l’altro orrore, anche lui timbrato da una sigla asettica: Gulag. Secondo Dario Fertilio il fatto “si spiega con la diversità del comunismo. Anziché esplodere con la violenza di un’epidemia, come il nazismo, segue l’andamento di un’infezione latente, ideologica, capace di distribuire la sue vittime lungo percorsi tortuosi e imprevedibili”… “Qualcuno dice che i morti siano stati ottantadue milioni, altri duecento, se consideri tutti i continenti e i periodi di guerra dalla rivoluzione d’ottobre in poi … ma chi può saperne veramente qualcosa? Non c’è modo di mandare un esperto di statistiche a contare le tombe. E poi, queste cifre non sembrano credibili per almeno due motivi. Il primo è che la dimensione dell’orrore genera un senso di assuefazione, disgusta e disorienta. Se un crimine si ri- TA B L O I D Due libri sul frate calabrese “di spirito profetico dotato” Agostino aveva collocato fuori dalla storia e interpretato come la Gerusalemme celeste, il messaggio di Gioacchino assume una forte carica utopica e politica che non eserciterà un forte richiamo su uomini e movimenti dell’utopismo europeo a partire dalla corrente dello spiritualismo frances c a n o . Stroppa rileva la diversità dell’utopia di Campanella, che, pur avendo un fondamento di teologia trinitaria, è politicamente e socialmente strutturata. Secondo Stroppa, la potenza della visione gioachimita di una società religiosa riformata illustra le capacità metamorfiche del tempo escatologico e fa nascere la coscienza di una Chiesa carnale e mondanizzata che avrebbe poi provocato la reazione di Martin Lutero. Claudio Stroppa, La città degli angeli. Il sogno utopico di fra’ Gioacchino da Fiore, Rubbettino editore, Soveria Mannelli, 2004 pete all’infinito, ai nostri occhi comincia a non apparire più tanto un delitto, quanto una fatalità storica e naturale. A ogni cosa si fa l’abitudine, persino all’orrore”… Ma davvero la morte bruna, quella di Auschwitz, non c’entra con la rossa, quella di Kolyma? Le fosse senza nome di Treblinka hanno diritto a un posto più alto, nella collina della memoria, rispetto a quelle di Goli Otok? Ritengo che questi concetti, tratti dall’ultimo libro di Dario Fertilio, La morte rossa, siano una delle più lucide e sintetiche diagnosi dello sterminio di massa avvenuto nell’Unione Sovietica. Secondo l’autore, se la diversità del comunismo “fa paura è perché i suoi percorsi di contagio cambiano: non si propaga attraverso i regimi e i partiti, ma può affidarsi a singoli intellettuali, poeti, idealisti, gruppi di amici, ambiziosi e umili comprimari, personaggi corrotti e brava gente, dilatandosi a volte per intere generazioni. Così è diventato parte dell’occidente, contaminando menti e anime”. Fa paura soprattutto nel rivisitare quel comunismo che arrivò a stritolare gli stessi compagni di lotta: uomini e donne che avevano creduto, combattuto, sofferto per un ideale, e alla fine di questo percorso di speranze, illusioni, s’erano ritrovati vittime della mostruosa macchina del po- Gian Luca Potestà Il tempo dell’Apocalisse. Vita di Gioacchino da Fiore di Salvatore Angelo Oliverio Il pensiero dell’abate calabrese fu in permanente movimento. Il lavoro cerca di seguirne da vicino l’evoluzione dottrinale e di decifrare le ragioni profonde di essa. In questa prospettiva il saggio esamina l’intera sua produzione, disponendola in ordine cronologico. Si tratta di un lavoro in gran parte nuovo per le modalità attraverso cui è stato realizzato e per gli esiti cui perviene. Finora la datazione delle grandi opere, composte in parte parallelamente, era nota solo a larghe spanne. Il libro giunge invece a scandirne con precisione le diverse fasi compositive, connettendole all’evoluzione personale dell’autore e al mutare delle sue idee e scelte istituzionali. Quanto alle opere minori, alcune di esse vanno considerate come semplici “contenitori” di testi composti in fasi diverse e successivamente assemblati. Restituendo le singole sezioni ai contesti originari, il libro giunge a una ricostruzione completa e coerente del percorso dell’’utore. Dalla fine degli anni ‘80 l’abate calabrese diviene oggetto di disparati attacchi. Innanzi tutto da parte di un anziano e pericoloso abate cistercense, Goffredo di Auxerre, che cercò di bollarlo come ebreo mal convertito e di dare avvio a un procedimento di condanna ecclesiastica nei suoi confronti. Il tentativo abortì, probabilmente per i sostegni di cui Gioacchino poteva godere in curia e in ambienti monastici italiani. In polemica con i cistercensi transalpini, egli annunciò allora apertamente l’imminente ritorno della perfezione monastica dalla Gallia all’Italia e in questo senso avviò un tentativo di riforma monastica in Calabria. Nel 1189 prendeva così inizio sulla Sila Fiore (“nuova Nazareth”), nel segno dell’eremitismo, del rigore e della povertà. Nel frattempo l’abate entrava in aperta polemica anche con il maestro parigino Pietro Cantore. L’elezione di Innocenzo III (1198) segnò una svolta di notevole portata anche per Gioacchino. Le posizioni del papa, che del Cantore era stato allievo diretto, si differenziavano da quelle da lui difese negli anni precedenti intorno a questioni di rilevanza strategica, quali l’atteggiamento da tenere nei confronti dei tedeschi e nei confronti degli ebrei. Gioacchino scris- tere che avevano contribuito a creare. «In questa vita non è difficile morire. Vivere è di gran lunga più difficile» scrisse Vladimir Majakovskij. Bolscevico entusiasta, oppresso dal controllo del partito sulla cultura, il poeta s’uccise a 37 anni: nel 1930, all’alba tragica dei processi/farsa inventati da Stalin per eliminare i concorrenti interni, condannati a morte immediata tramite fucilazione o a morte lenta nei gulag, come traditori, deviazionisti, spie… Per non dimenticare quello che è stato un orrore che, unicamente inquadrato nei grandi numeri genera assuefazione, fatalismo, Fertilio ha percorso una strada giornalistica e pregnante, in quanto a noi più vicina. Non ci parla delle note vittime dello stalini- smo, come Bucharin o Rykov, ma della tragedia di venti italiani misconosciuti. Storie emblematiche di compagni che, dopo aver combattuto contro il fascismo, una volta riparati in quello che credevano il paradiso sovietico, vennero coinvolti dalle grandi purghe, costretti a confessare colpe inesistenti, allucinanti misfatti. O, rifugiati in Jugoslavia, quando Tito si staccò dal Cominform furono eliminati con l’accusa di essere al servizio di Mosca. Ma anche assassinati senza processo, punto e a capo. Ogni vittima con un suo percorso diverso, tutte la stessa, fatale destinazione. Sostiene Fertilio che quelle che ha scelto sono “storie tutte vere. Nel senso che i luoghi, la maggior parte dei nomi e delle situazioni corrisponde a fatti precisi. Ma sono anche tutte false, dal momento che una storia non puoi raccontarla basandoti soltanto su un documento, altrimenti la tradisci. Bisogna fare in modo che ognuna abbia una sua forma, tocchi un suo culmine drammatico. Altrimenti dopo tanti anni non riuscirebbe ad attraversare il muro dell’indifferenza e del silenzio”. Ed ecco, quindi, i venti racconti, ognuno con un taglio particolare, alcuni brevi, un semplice momento, altri più descrittivi. Tutti emotivamente coinvolgenti. se infine un testamento a futura memoria (1200), in cui proclamava di volersi sottomettere in tutto al giudizio della Chiesa romana. Gli ultimi scritti, rivolti a una cerchia limitata e ristretta di ascoltatori fidati, lasciano peraltro trasparire una profonda presa di distanza da Innocenzo III, denotando nell’anziano abate un’attitudine velatamente critica nei confronti del papa. In conclusione, l’opera reinserisce Gioacchino nel vivo delle vicende ecclesiasticopolitiche cui partecipò da protagonista, mostrandone i legami profondi e contraddittori con i poteri ecclesiastici e civili dominanti in Italia nell’ultimo scorcio del secolo XII; e fornisce una chiave per accedere alla piena comprensione del suo complesso universo dottrinale, della sua teologia simbolica e visiva, delle sue proiezioni apocalittiche, rivelandone gli intenti polemici e riformatori e la vastità degli orizzonti, aperti alla riconciliazione con l’Ebraismo e dominati dalla duplice minaccia dell’eresia (catari, valdesi) e dell’Islam. Gian Luca Potestà, Il tempo dell’Apocalisse. Vita di Gioacchino da Fiore, Laterza editore, Bari, 2004 Un consiglio molto personale: prima di leggerli credo valga la pena ripercorrere la succinte biografie pubblicate nelle ultime pagine per incorniciare, nel loro contesto più globale, i drammi che hanno vissuto i suoi protagonisti. Ecco le storia di Ugo Citterio, comunista sin al 1922, arrestato dai fascisti, riparato a Parigi, poi in Unione Sovietica, combattente in Spagna, ritornato a Mosca, arrestato nel 1940 per trotzkismo, condannato a otto anni e spedito in un lager dove morì tre anni dopo. Di Pietro Renzi, nato a Pola, militante rivoluzionario, deportato dai nazisti, sopravvissuto all’inferno di Dachau per finire nelle galere di Tito con l’accusa di cominformismo, in realtà perché chiedeva rispetto per gli italiani che vivevano nei territori passati alla Jugoslavia. Il suo cadavere non venne mai trovato. E via dicendo. Che dire ancora? La morte rossa è, nel contempo, un saggio storico nella parte documentale e un’opera letteraria nei racconti dalla robusta, appassionante scrittura. Un libro che riesce ad attraversare, eccome, il muro dell’indifferenza e del silenzio. Dario Fertilio, La morte rossa. Storie di italiani vittime del comunismo, postfazione di Frediano Sessi, Marsilio, 2004, euro 17,00 ORDINE 3 2005 L A L I B R E R I A Censis-UCSI Italiani & Media. Le diete mediatiche per gruppi e tribù di Patrizia Pedrazzini Italiani e mezzi di comunicazione. Un rapporto ormai talmente stretto da essere diventato quasi vitale. Se infatti, allo stato attuale, i media, nella loro accezione più ampia – televisione, giornali, radio, libri, computer, cellulare, Internet, Tv satellitare – costituiscono un elemento base dell’ambiente nel quale viviamo, avvicinarsi a questo complesso e variegato universo, e fruirne, consente, al di là dell’arricchimento informativo e culturale che immediatamente ne deriva, di acquisire quelle capacità di orientamento cognitivo, ma anche relazionale ed emotivo, che ci permettono di integrarci nel nostro contesto sociale. Questa la considerazione che sta alla base del Secondo rapporto sulla comunicazione, con il quale il Censis e l’Ucsi, l’Unione cattolica della stampa italiana, proseguono il monitoraggio della diffusione e delle modalità d’impiego dei maggiori media in Italia. E che spiega il titolo del lavoro: Italiani & Media. Le diete mediatiche per gruppi e tribù. Ovvero: come solo variando la nostra alimentazione possiamo essere sicuri di assumere tutti gli elementi nutritivi dei quali abbiamo bisogno, così solo attraverso il contatto con i diversi mezzi di comunicazione, e con i relativi linguaggi, possiamo acquisire il maggior numero di competenze e di conoscenze che i media ci trasmettono. Di qui la domanda: di che cosa si nutrono, mediaticamente parlando, gli italiani? Al quesito il Rapporto, realizzato in collaborazione con Mondadori, Ordine dei giornalisti, Rai, Telecom e con la partecipazione di Ansa e Ansaweb, risponde con i risultati di un’indagine condotta, nel 2002, su un campione di 1.150 italiani tra i 14 e gli 85 anni. Una mole di questionari e di interviste che ha consentito l’elaborazione di 233 tabelle e 20 grafici, di svelta ed esauriente lettura, per un volume di 272 pagine. Ogni mezzo di comunicazione (i giornali sono suddivisi in quotidiani, settimanali e mensili) è stato “fotografato” in tutte le possibili angolazioni di utilizzo, o meno, da parte degli italiani: dai luoghi ai momenti della giornata, dagli argomenti alla distribuzione per aree geografiche, per sesso, per età, per titolo di studio. Si apprende così, per esempio, che, in rapporto alle aree geografiche, il genere televisivo più “gettonato” dagli italiani Mino Fuccillo Fenomenologia di Bruno Vespa di Emilio Pozzi A tutta prima viene in mente il titolo, analogo, di un saggio dedicato a Mike Buongiorno, il più incrollabile mito della Tv, da Umberto Eco nel lontano 1961, che divenne emblema, attraverso il personaggio preso a modello, delle mutazioni di una certa società italiana di quegli anni. Il richiamo, anche come metafora, è talmente scontato che nelle prime pagine di questo libro ci si imbatte in una quasi letterale parafrasi di quel saggio: il fenomeno però, stavolta, è Bruno Vespa. “Libera, modificata, interpolata, aggiornata, parafrasi” la definisce Mino Fuccillo che ha voluto giocare, (‘una licenza’ dice) ricalcando le orme di un testo e un metodo di analisi. Sono cinque pagine da andare a leggere subito. Poi però si ricomincia da capo e si va fino in fondo. L’idea del gioco, in altro modo, ci contagia. Prendiamo alcuni ORDINE 3 2005 evidenziatori e ripassiamo il testo, scomponendolo in quattro filoni, ciascuno con un colore: azzurro, giallo arancione, verde. Non uno quindi, ma quattro libri: il primo, intriso di rabbia repressa e di delusione, esprime il giudizio critico dell’autore sui fatti e i misfatti della storia italiana degli ultimi decenni, il secondo analizza il personaggio Vespa, nell’humus del suo impero televisivo, il terzo analizza le fruttuose incursioni dell’onnipotente maggiordomo nel mondo della carta stampata, il quarto infine esplora il paesaggio dei mass-media e dei suoi abitanti (giornalisti, politici nell’incrocio dei poteri palesi e occulti, senza risparmiare aneddoti che riguardano il quotidiano dove ha lavorato per una ventina d’anni), con qualche spolverata di consigli e di delucidazioni sui segreti del mestiere. Queste “istruzioni per l’uso” mi sono state suggerite anzitutto dalla lettura della sinte- è il film (64,4%), seguito dai telegiornali (55,1%) e dagli eventi sportivi (24,7%), mentre la fiction si colloca all’ultimo posto della classifica, con un modestissimo 4,9%. E che, se gli argomenti preferiti dai lettori di quotidiani rimangono, sempre a livello di distribuzione geografica, la cronaca nazionale (57,1%) e i fatti di nera e locali (45,8%), i settori sui quali si concentra l’attenzione dei lettori di settimanali sono invece quello televisivo, e più in generale relativo agli spettacoli (29,5%), quello attinente le tematiche femminili (20,4%), la moda (19,4%). Quanto al “popolo mediatico”, il Rapporto lo ha suddiviso in cinque fasce, a seconda del numero di media utilizzati. Ecco allora i Marginali, pari al 9,1% della popolazione, e fruitori di un solo mezzo di comunicazione; i Poveri di media (37,5%, due-tre media); i Consumatori medi (36,3%, quattro-cinque media), gli Onnivori (14,8%, seisette media); i Pionieri (2,3%, otto e più media). Un intero capitolo dello studio è poi dedicato al profilo del futuro giornalista, così come risulta da un’indagine condotta su un campione di 212 giovani che frequentano, o hanno frequentato, una delle sette scuole di giornalismo fra tica e asprigna autobiografia dell’autore, in quarta di copertina: “Una carriera accademica formato bonsai, una ventina d’anni a Repubblica, molto scrivendo e qualcosa organizzando, una direzione lampo de l’Unità, poi una piccola radio e ora i quotidiani locali del gruppo l’Espresso”. Se poi le collego al post scriptum, decisamente amaro, con il quale si chiude il libro, mi pare che, a seconda dei gusti e degli interessi personali, l’intuizione di individuare i quattro percorsi non sia inopportuna. Scrive Fuccillo: “Qualcuno, ogni tanto, conoscente o incontrato per caso per lavoro, mi chiede perché io giornalista non scriva più come prima. La risposta, per quel poco che conta e per quei pochi cui interessa, è anche in queste pagine, neanche tanto nascosta”. In ognuno dei quattro filoni indicati - questo è un altro gioco da proporre al lettore si potrebbero contare i sassolini che Fuccillo si toglie dalle scarpe (il plurale è d’obbligo perché i sassolini sono tanti. Se invece si volessero mescolare i colori (ma non si otterrebbe comunque un consolante arcobaleno), senza pregiudizi, il risultato può essere comunque intrigante. A prescindere, come diceva Totò. Non intendo, a questo punto, le nove riconosciute dall’Ordine nazionale, incluso l’istituto Carlo De Martino di Milano. Ne emerge che il nuovo professionista ha fra i 25 e i 30 anni, è laureato e ha scelto di diventare giornalista per vocazione, convinto che questo mestiere, a volte tanto criticato, possa offrire comunque soddisfazioni personali ed essere ancora utile per la società. Che alla professione, oggi, si avvicinano più le donne (il 53,8%) degli uomini; che il 90% è laureato, soprattutto in Lettere (33,7%), Sociologia o Scienze della comunicazione (18,9%), Scienze politiche (13,7%); che la maggioranza (il 64,4%) ritiene le competenze acquisite prima del lavoro giornalistico vero e proprio “fondamentali per inserirsi direttamente nel settore”. E ancora: che la maggior parte lavora nei quotidiani (34,1%), nelle televisioni (19,3%), nelle radio (16,5%), mentre solo l’1,7% è occupato in un service; che i media a stampa sono, per il 46,2% di questi giovani, i più adatti a veicolare un’efficace informazione, seguiti dalle televisioni (41,9%), dalle radio (8,1%) e solo da ultimo da Internet (3,8%). E, comunque, come afferma il 41,6% degli intervistati, che “il mestiere si impara essenzialmente sul campo”. Censis-UCSI, Secondo rapporto sulla comunicazione, Italiani & Media. Le diete mediatiche per gruppi e tribù, Franco Angeli 2003, pagine 272, euro 22,00 far il controcanto a Fuccillo. Molti giudizi sono da condividere ed è gustoso leggerli integralmente, senza rischiare di togliere loro sapore, riassumendoli. Certo che, riflettendo su altri episodi, avvenuti dopo la pubblicazione del libro, verrebbe voglia di chiedere un aggiornamento: la fenomenologia di Vespa, si arricchisce, si fa per dire, di altri clamorosi esempi, indicativi del progressivo e inarrestabile degrado della TV (specchio della società, non dimenticatelo, ammoniscono i più). Anche la fenomenologia sui personaggi che hanno scandito i tempi della Tv (da Buongiorno a Costanzo, dalla Carrà a Baudo, da Fiorello a Vespa) si è svilita al punto che, recentemente, Francesco Merlo ha usato il paludato termine, una volta usato ai piani alti della cultura, per occuparsi delle sorelle Lecciso, arrivate, guarda caso, ad essere protagoniste di “Porta a Porta”. Quando sarà pubblicata questa nota c’è da augurarsi che la loro effimera gloria si sia già spenta e qualcuno chieda “Lecciso, chi?”. Mino Fuccillo, Fenomenologia di Bruno Vespa, Nutrimenti, Roma, pagine 220, euro 12,00 D I TA B L O I D Sergio Romano Giovanni Gentile. Un filosofo al potere negli anni del regime di Dario Fertilio Un morto ingombrante, Giovanni Gentile: anche sessant’anni dopo quel 15 aprile 1944, quando venne assassinato dai gappisti davanti al cancello della sua villa di Montalto al Salviatino. Un profilo problematico, il suo, per qualunque ritrattista; e una cornice ideologica difficile da trovare.Va inserito nella galleria delle glorie culturali italiane, è un filosofo da affiancare idealmente a Benedetto Croce? Oppure gli si deve riservare il trattamento peggiore, come un reprobo fiancheggiatore della Repubblica sociale e di Mussolini? O addirittura deve essere fatto sfilare simbolicamente tra i maledetti del novecento, i pensatori alla Céline, Pound o Knut Hamsun, che non esitarono a schierarsi dalla parte sbagliata? La biografia che gli dedica Sergio Romano non tradisce le aspettative dei tanti che amano il suo stile, un certo modo di fare storia: chiarendo molti dubbi, ma lasciando aperta al lettore la via delle deduzioni personali. E cominciando con lo sgomberare il campo da uno dei misteri italiani più antichi e inquietanti: l’identità, cioè, e il movente dei suoi assassini. Sergio Romano, pur ricordando le motivazioni di coloro che avvalorarono per molto tempo l’ipotesi di una vendetta fascista (Gentile infatti si era dichiarato pubblicamente contrario agli eccessi e alle torture commesse dai repubblicani di Salò), attribuisce razionalmente la responsabilità ad ambienti comunisti, gli stessi che – manipolando una dichiarazione di Concetto Marchesi – diffusero attraverso un volantino la motivazione della “sentenza di morte”. Gli assassini colpirono in lui un intellettuale che, tentando di mostrare il lato “umano” del fascismo e appellandosi ai valori dell’onore e della fedeltà nazionale, poteva apparire un nemico più subdolo e pericoloso dei macellai e torturatori in camicia nera, come ad esempio quelli che obbedivano agli ordini di Mario Carità. Tuttavia il cuore dell’argomentazione di Sergio Romano è più filosofica che storica: egli dimostra come Gentile sia “servito” involontariamente alla causa comunista, e specificamente a Togliatti, quando nel primo dopoguerra si trattò di raccogliere la sua eredità. Certi caratteri del suo insegnamento, a partire dall’attualismo, furono volti in filosofia della prassi; l’idea fascista dello Stato etico potrà trasformarsi, mutando di segno, nel “partito nuovo” comunista; l’idea del filosofo militante genererà quella dell’intellettuale organico, teorizzato anche da Gramsci. Persino la suggestione del “ritorno a Marx”, accompagnata dalle sue riflessioni sull’umanesimo del lavoro, consentirà al suo migliore allievo, Ugo Spirito, di proclamarsi allo stesso tempo comunista e gentiliano. Se aggiungiamo a questo innesto ideologico spericolato la durezza dello scritto con cui Togliatti commentò l’assassinio (in cui chiamava Giovanni Gentile “canaglia” aggiungendo che era stato “giustiziato come traditore della patria”), comprendiamo il senso inquietante di quella che presto sarebbe diventata l’”ideologia italiana” del Pci togliattiano. Si sarebbe trattato cioè di distruggere il magistero di Gentile e Croce per meglio recuperarne la lezione, offrendo agli intellettuali che ne erano stati influenzati una straordinaria via d’uscita verso il futuro. In questa spericolata, e in parte riuscita, lotta per l’egemonia culturale comunista Sergio Romano individua il nocciolo del destino filosofico di Giovanni Gentile. Paradossale anche decenni dopo la morte e fino ad oggi: quando la destra lo adotta nel suo pantheon senza seguirne gli insegnamenti, mentre la sinistra marxista lo aborre adottando però nella sostanza il cuore del suo sistema concettuale. Resta il disagio, che neppure questa biografia riesce del tutto a dissolvere, per un filosofo inesorabilmente inattuale, che si colloca però al centro delle polemiche culturali per il modo in cui andò volontariamente, e con coraggio, incontro alla rovina e alla morte. Oltretutto, quello stesso assassinio, il modo in cui fu progettato, eseguito e rivendicato ricordano in modo inquietante e macabro il rituale più tardi adottato, dietro a simili paraventi ideologici, dai killer convinti di servire il “partito comunista combattente”. Sergio Romano, Giovanni Gentile. Un filosofo al potere negli anni del regime, editore Rizzoli, pagine 439, euro 19,00 39 (43)