LUSÉRN:in an stroach ista gest…
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LUSÉRN:in an stroach ista gest…
Linea di confine nel XII secolo Linea di confine nel XV secolo Annessione di loc. Brusolada al Principato di Trento (1556) 1 Viabilità principale: 1. Strada Imperiale Vicenza - Trento (assetto del 1226) 2. Valsuganese (strada militare o commerciale di ep. romana) 3. Diramazioni interne in direzione Pergine - Trento Strada della Val d’Assa (assetto del XVI secolo) 1 Collegamenti: a Tracciati antichi: a a a Valichi: Ponti: Castelli: 1. Strada di Campregheri 2. Strada di Centa 3. Vecio Lanzin 4. Novo Lanzin o Strada della Val Caretta (fine XVII secolo) 5. Strada delle Casare o di Folgaria 6. Menador di Caldonazzo o di Val Scura 7. Menador di Levico o del Rio Bianco 8. Strada del Rio Torto 9. Strada della Val Tora 10. Strada della Cingéla a. della Covela di Centa: b. viabilità interna a Lavarone: c. la via d’alpeggio di Porta Manazzo a. Oltresommo (Folgaria): b. Passo Cost (Lavarone) c. Porta Manazzo (Vallesella) a. Vattaro; b. Cueli (Folgaria); c. Casotto; d. Val Tora a. Vattaro; b. Brenta; c. Tenna; d. Torre dei Sicconi; e. Selva 1 Punti di guardia: 1. Maso Murari (Calceranica); 2. Covela di Centa; 3. Carbonare; 4. Covolo di Rio Malo (Lavarone); 5. Covolo delle Campane (Rio Torto); 6. Castello (Ciechi - solo toponimo); 7. Bischofswache (Lavarone - solo toponimo) 1 I dazi nel XVII secolo: 1. Casa della Decima (Caldonazzo, centro di giurisdizione); 2. Campregheri; 3. Dazio (Lavarone); 4. Casotto; 5. Inghiaie (Levico - con annessa quarantena per il bestiame) a I A Stanghe, catene: a. Lanzin (Lavarone); b. Val Caretta (XVII secolo); c. al Termine; d. al Bisele Ovili consortili: I. Lanzin; II. Carbonare; III. Piccoli Ospitali: A. Brancafora (X secolo) B. Lavarone (XIII secolo?) C. Monterovere (XV secolo) a cura di / hrsg. von MANUELA MIORELLI LUSÉRN: in an stroach ista gest… LUSERNA: c’era una volta… CENTRO DOCUMENTAZIONE LUSERNA O.N.L.U.S. tratto dal libro DIE DEUTSCHE SPRACHINSEL LUSERN di Josef Bacher DOKUMENTATIONSZENTRUM LUSERN Traduzioni dal tedesco a cura di Claudia Manica Traduzioni dal cimbro e consulenza linguistica a cura di Maria Luisa Nicolussi Golo dello Sportello linguistico del Comune di Luserna Andrea Nicolussi Golo Mu Immagini dei racconti e di copertina realizzate da Walter Codato © CENTRO DOCUMENTAZIONE LUSERNA O.N.L.U.S. DOKUMENTATIONSZENTRUM LUSERN Via Trento, 6 - 38040 Luserna/Lusern (TN) Tel. ++39 0464 789638 - Fax ++39 0464 788214 e-mail: [email protected] - www.lusern.it 1a edizione: 2006 Illustrazione di copertina: Walter Codato ISBN 978-88-88197-10-4 La pubblicazione di questo libro è stata resa possibile grazie al contributo dello Stato (Legge 482 del 15 dicembre 1999) e della Provincia Autonoma di Trento (Legge 4 del 30 agosto 1999). Die Herausgabe dieser Publikation wurde durch die Finanzierung der Autonomen Region Trentino-Südtirol – Assessorat für die Beziehungen zu den Sprachminderheiten – ermöglicht. INDICE / INHALTSVERZEICHNIS Vorkhöt / Prefazione. Luigi Nicolussi Castellan Premessa. L’Autore I. ...................................................... ................................................................................................................................................. pag. 9 pag. 11 Posizione e caratteristiche di Luserna .......................................................... pag. 13 II. Aspetti storici ................................................................................................................................................ pag. 21 III. I lusernesi e la loro abitazione, il cibo e il modo di vivere ................................................................................... pag. 43 Alcune ricette tipiche di Luserna ................................................................................................ pag. 59 Il ruolo della donna ........................................................................................................................................ pag. 61 ....................................................... pag. 71 ........................................................................................................ pag. 87 IV. Diritto, tradizioni e credenze popolari V. Fiabe, leggende, storielle Il rapporto tra sacro e profano ......................................................................................................... pag. 141 Le forze della natura ..................................................................................................................................... pag. 154 Le figure dell’immaginario ................................................................................................................... pag. 180 Bibliografia e sitografia ............................................................................................................................ pag. 243 VORKHÖT In lem von an lånt mak ’s vürkhemmen ke a mentsch lasst hintar eppas vo soinar arbat bo da no hundartar djar spetar khinnt gehaltet guat. Ummandar vo disan laüt is dar faff Josef Bacher bo da is gest atz Lusérn in di djardar 1893-1899, un bo da ’s djar 1905 hat ausgedrukht in Innsbruck in libar “Die deutsche Sprachinsel Lusern”. Dar hat kontart bia ’s ista gest ’s lem dise djar. Zo maga schaung vürsnen möchtma gedenkhan bas da is gest vorånahì. As bar schaung å bia sber sa håm’s gehat ünsarne altn mabar schetzan mearar bas bar håm est un haltnas gesengt von Gott dar Hear. Dar Josef Bacher hat o augesribet bas da di altn håm kontart in khindar sidar hundartar un hundartar djardar. Assar er nètt hebat’s getånt, beratnda gånt vorlort vil stordje bo da gedenkhan di baitn zaitn un zoang bia da ünsar kultur hat zo tüana pin fölkar von nord vodar Europa. Disar libar is khent ausgedrukht bidar atz taütsch vo dar Universität Wien in djar 1975, un di stördjela alumma soin khent ausgedrukht von “Circolo Culturale M. Gandhi” vo Lusérn, pit dar hilfe von prof. Alfonso Bellotto un von ünsarn djungen Fulvio Gasperi, Diego Paolaz un Giancarlo Moro as bi biar, atz belesch und in zimbar von sim kamöündar, in djar 1978 pin titl “I racconti di Luserna”. Dise zboa libadar soin ausgerift un soinda khummane mear zo khoava. Dar Dokumentationszentrum hat sa gemacht di ausstellung “Lusérn 1905”. Est drukhtar aus vor das earst mal atz beles bas da hat augesribet ünsar faff Don Josef Bacher vo bia ’s ista gest ’s lem atz Lusérn vor hundar djar. ’S khemmenda ausgedrukht o, as bi biar und atz beles, alle di stördjela vo dise djar. Dar kamou vo Lusérn hat hergerichtet, ausgenump vo dise stördjela, ’s staigele vo djese djar bo da gevallt asó vil in famildje pin khindarn. Nå in begele khemmenda gelek tafln in drai zungen, as bi biar, beles un taütsch, un khemmenda gemacht in ståmm von vaüchtn, dar peer, dar bolf, das basilisko, un a so vürsanen. Bas da hat gemacht dar faff Josef Bacher bart khemmen gedenkht no vor vil un vil djardar. Imen khöbar: vorgellt’s Gott, liabar don Josef Bacher! Dar Bürgermaistar Luigi - Luis Nicolussi Castellan PREFAZIONE Nella vita di una comunità può avvenire che l’opera di una persona venga considerata valida anche dopo centinaia di anni. Una di queste persone è Josef Bacher, che è stato parroco di Luserna-Lusérn negli anni 1893-1899 e che nell’anno 1905 ha dato alle stampe in Innsbruck il libro “Die deutsche Sprachinsel Lusern” (trad.: L’isola linguistica tedesca di Luserna), nel quale ha descritto la vita di quel periodo. Per guardare verso il futuro è necessario ricordare cosa c’è stato nel passato. Se teniamo conto di quanto difficile fosse la vita dei nostri antenati, possiamo apprezzare di più quello che ora abbiamo e considerarci fortunati, benedetti da Dio. Josef Bacher ha anche messo per iscritto quanto i nostri antenati raccontavano ai bambini da molti secoli. Se non lo avesse fatto lui sarebbero andati persi molti racconti che testimoniano il nostro substrato culturale comune con le popolazioni del nord Europa. Il libro di Bacher è stato ristampato dall’Università di Vienna nel 1975 ed i soli racconti sono stati stampati dal “Circolo Culturale M. Gandhi” di Luserna a cura del Prof. Alfonso Bellotto e con la collaborazione dei nostri giovani di allora Fulvio Gasperi, Diego Paolaz e Giancarlo Moro, in italiano e nel cimbro di Luserna-Lusérn e dei Sette Comuni Vicentini nel 1978 con il titolo “I racconti di Luserna”. Entrambe queste pubblicazioni sono completamente esaurite e quindi non più reperibili in commercio. Prendendo spunto da questo libro il Centro Documentazione Luserna nel 2005 ha allestito la mostra “Luserna 1905 - Emozioni da un’epoca passata”. Ora pubblica per la prima volta in italiano la descrizione della vita di Luserna di un secolo fa, preziosa testimonianza del parroco don Josef Bacher. Vengono anche pubblicati nel cimbro di Luserna ed in italiano tutti i racconti tramandatici. Prendendo riferimento da questi racconti il Comune di Luserna-Lusérn ha avviato l’allestimento del “Sentiero cimbro dell’immaginario”, che constatiamo piace tanto alle famiglie con bambini. Lungo il percorso sono state o saranno poste bacheche con tabelle con il testo trilingue cimbro, italiano e tedesco con disegni che illustrano alcune nostre leggende o racconti e realizzate in tronchi di abete delle sculture dell’orso, del lupo, del drago ecc. L’opera di Josef Bacher sarà ricordata ancora per tantissimi anni. A lui diciamo «Grazie di cuore, che Dio ti ricompensi, caro parroco don Josef Bacher». Il Sindaco Luigi Nicolussi Castellan PREMESSA Questo libro nasce, ed è giustificato, dall’attenzione con cui oggi si guarda al popolo, alla sua cultura, ai suoi costumi e alla sua lingua, nonché da una comparazione con il Dizionario del dialetto cimbro lusernese di J. Zingerle. I miei sei anni di permanenza a Luserna hanno rappresentato per me la migliore opportunità per conoscere a fondo i suoi abitanti: il linguaggio parlato è suonato sin dal primo giorno così gradevole al mio orecchio che ho voluto farlo mio. Così, con l’aiuto di Ursula Gasperi, mi sono dedicato alla traduzione della breve storia biblica del dott. Schuster e del piccolo catechismo cimbro e ho messo per iscritto fiabe e leggende in cimbro. Le mie relazioni con la comunità del luogo si sono svolte per la maggior parte nel dialetto lusernese, tanto che ben presto sono stato in grado di utilizzarlo anche in pratica nella scuola privata italiana. Debbo molto, per il mio libro, anche al preside pro-tempore della scuola tedesca di Trento, H. Matthäus Nicolussi, che al tempo dei suoi studi a Innsbruck è stato il garante di Zingerle. Preziose informazioni e/o contributi mi sono stati inoltre forniti da Christian Nikolussi, curato di Vadena, dal Prof. Dr. Nessier di Bressanone, dal Prof. Univ. Dr. Haus v. Voltelini di Innsbruck, da Maria e Josefa Gasperi e Luise Frick di Luserna. Oltre alle persone sopra citate, vorrei esprimere un grazie particolare ai professori universitari Dr. J. E. Wackernell e Dr. J. Schatz di Innsbruck per la loro preziosa collaborazione e i loro consigli. Per l’impostazione grammaticale ho preso a modello il valido libro di Schatz “Il dialetto di Imst”, attraverso il quale ho avuto anche accesso ai lavori di Lessiak e ad altri ausili letterari, ma dal quale ho tratto in particolare spunti per la rappresentazione fonetica del dialetto 1. Un grato pensiero lo dedico anche allo scomparso Prof. Dr. K. Weinhold di Berlino, che ha pubblicato i miei primi tentativi sulla sua “Zeitschrift für Volkskunde”. Il Prof. Dr. A. Braudl di Berlino, che ho conosciuto tramite il mio conterraneo J. Sigmund, parroco di St. Nikolaus (Innsbruck), mi ha messo in contatto con Weinhold e Wackernell. A tutti il mio più sentito grazie per l’interesse dimostrato al mio lavoro e l’amichevole supporto prestatomi. Il mio desiderio è che quest’opera sia considerata il lavoro di un profano che ha fatto del suo meglio, con onestà, per fornire informazioni affidabili sull’argomento trattato; mi auguro che il libro si faccia molti amici tra il popolo tedesco, cui è dedicato con animo sincero. Fennberg, maggio 1903 L’Autore In questo libro, la grafia fonetica si basa, ovviamente, soprattutto sul Lusernese; di conseguenza, non è previsto alcun segno proprio che si avvicini, ad esempio, alla ö velturuisches ö. 1 I POSIZIONE E CARATTERISTICHE DI LUSERNA Posizione e caratteristiche di Luserna 15 ’S lånt vo Lusérn vintze at 1.333 metre hoach von mer, zbischnen di hoachebene vo Folgràit un Lavròu un da sel vo Schlege. Lusérn is at n’an pon obar in Astetal. Biane bait, zuar in Vesan, ista ’s Bisele pitn Obarhaüsar, di Untarhaüsar un di haüsar von Galen. Da Trento si giunge in Valsugana con la ferrovia, passando per Pergine. Poco dopo Pergine la strada ferrata, che si estende proprio sul ciglio del bel lago di Caldonazzo (nella lingua di Luserna Kalnétsch), giunge fino alla località omonima. La stazione di questo paese, che si presenta bene, è capolinea per i comuni Centa (Tschint), Lavarone (Lavròu), per le frazioni Nosselari (Haslpch) e San Sebastiano (Sambastiò), per il comune di Luserna (Lusérn) e per i due comuni ancora austriaci della Val d’Astico: Brancafora o Pedemonte (lus. Tàl) e Casotto. Una buona carrozzabile 1 con molti tornanti porta da Caldonazzo in direzione sud, su per la montagna ripida fino a Lavarone. La strada è costeggiata da una profonda gola attraversata dal torrente Centa (di Tschint) che confluisce nel Brenta ad est di Caldonazzo. Al di qua della gola si scorgono il villaggio e i masi sparsi di Centa. A 1171 m di altezza la strada giunge ad un ripiano collinoso sul quale si allarga il comune di Lavarone con le sue numerose frazioni. Questa terrazza forma lo spartiacque tra il Centa e l’Astico, che scorrendo verso sudest costituisce per un tratto breve (fino a Casotto) il confine nazionale con l’Italia. Da Lavarone una carrozzabile per lo più piana, ben tenuta, passa per Capella, una frazione di Lavarone, e si inoltra in una breve valletta laterale della Val d’Astico. Dopo un’ora e mezza, al principio di detta valletta attraverso la quale il piccolo torrente Riotorto scorre verso l’Astico, la strada gira, portandosi sull’altro versante della valle e verso Luserna. La strada traccia dunque un percorso biforcato. Viandanti e viaggiatori a cavallo possono accorciare di molto la via da Caldonazzo a Luserna, camminando lungo la riva destra del Brenta, partendo da Caldonazzo ai piedi delle alte montagne, finché dopo 20 o 30 minuti vedono di fronte la città di Levico (Léve). Pur essendo il punto iniziale della salita tutto coperto da frane e detriti sicché da lontano non è facile scorgere il sentiero, lo si trova tuttavia nel modo più semplice continuando a camminare per un breve tratto nel greto di un piccolo torrente che fluisce verso il Brenta, precipitando dalla montagna attraverso profonde gole. La mulattiera (it. menadòr, lus. Laas), che sale con numerosi tornanti più o meno ripidi, non offre in estate protezione dal sole cocente ed è d’inverno pericolosa a causa delle valanghe, dato che il monte è privo di una fitta copertura boscosa. La mulattiera è comunque consigliabile per la bella vista panoramica sul fondovalle di Levico - 1 Si confronti la cartina che si trova in seconda di copertina. 16 Luserna: c’era una volta Caldonazzo fino a Pergine. I laghi di Caldonazzo e Levico accolgono l’osservatore con aspetto scintillante e gentile, dalle loro rive si protraggono in successione multicolore prati, campi e vigneti su per i terrazzamenti, custodendo nel loro mezzo villaggi chiusi e masi sparsi. L’orizzonte viene delimitato dalle vette dell’alta montagna le cui cime si ergono sobrie e maestose verso le nuvole. Dopo un’ora e mezza di salita, la mulattiera tende verso una sella boscosa e imbocca, al di là di essa nel punto d’origine della valletta del Riotorto già menzionata, la strada che proprio lì presenta la menzionata curva biforcata. Nelle vicinanze si trova anche l’osteria rustica Monterovere (lus. Monterùf). Qui si dirama una strada ad est verso l’osteria Vezzena (Vesan), la quale, in posizione isolata tra le alpi omonime, è al contempo stazione di confine della guardia di finanza imperial-regia. L’altra strada sopra toccata, che porta da Monterovere in direzione sud verso Luserna, è stata costruita in tempi più recenti. Il dislivello di 75 m è così ben diviso sul tratto lungo 5 km, che rimane impercettibile. Dopo un cammino di tre quarti d’ora si scorge a destra della strada la frazione Tètsch (it. Tezze) facente parte di Luserna, che rimane un po’ in disparte, e ben presto si intravede Luserna stessa. Nei pressi del villaggio (accanto al cimitero nuovo 2) termina la comoda strada piana e si sale al paese su un sentiero di montagna accidentato. Luserna è situata a 1333 m s.l.m., pressappoco sullo stesso meridiano di Innsbruck. La montagna che sale ripida dalla Val d’Astico è caratterizzata qui da un piccolo declivio sul quale si innalza il villaggio che con la frazione Tetsch conta 126 case e che ha, in base all’ultimo censimento (1900), 915 abitanti con diritto di residenza, tra cui 14 italiani. Il censimento ufficiale indica come popolazione presente 754 tedeschi e 14 italiani. All’entrata vi è la chiesa. Da qui parte una stradina con pavimentazione grezza in direzione nord, fiancheggiata da case su entrambi i lati. Questa parte del villaggio viene chiamata Ek ed i suoi abitanti de Ekar. Un’altra stradina fiancheggia il lato lungo della chiesa verso est, ma gira a sudest subito dietro la chiesa. Anch’essa è pavimentata grossolanamente, con case rade al suo inizio; ma ben presto le case diventano più fitte e formano, oltre alla via principale, varie viuzze laterali. La piazza, da dove queste si diramano, si chiama Pil e l’estremità della via principale a sudest dar Plètz. 2 Gli abitanti di Luserna non hanno sempre avuto la loro chiesa; fino al 1711, infatti i fedeli erano obbligati a recarsi nella chiesa di Brancafora sia per accedere alle funzioni domenicali, sia per ottenere e registrare battesimi, matrimoni e sepolture. La prima chiesa fu costruita all’inizio dell’attuale Piazza Marconi e fu consacrata nel 1715. Al curato non era tuttavia permesso di battezzare e dare sepoltura ai morti perché mancavano ancora il battistero ed il cimitero. Nel 1745 fu finalmente accolta la richiesta per la costruzione del primo cimitero, nell’area adiacente la chiesa. Negli anni 1880-1884, poiché gli spazi erano diventati insufficienti per le sepolture, venne costruito il nuovo cimitero, a cui si riferisce il Bacher, all’inizio del paese. Si confronti anche pag. 35. Fonte: “Luserna racconta… 7”. Posizione e caratteristiche di Luserna 17 Il piccolo declivio su cui si erge il paese di Luserna lascia poco spazio ai campi. Solo una minima parte di essi godono di una posizione pressoché piana, alcuni si estendono su alture collinose o ondulate, la maggior parte invece copre i pendii della montagna che dal paese cala direttamente nella Val d’Astico o dietro al paese sale verso nord e nordest. I lusernesi devono far economia con ogni pezzetto di suolo per strappare alla magra terra pressoché un quarto del loro fabbisogno alimentare. Chi si sposta dal paese sulla Pràch situata a sudest dello stesso, vede su creste brulle e perfino rocciose che separano le forre che scendono verso la Val d’Astico, innumerevoli campicelli, sui quali la terra è spesso stata trasportata faticosamente da lontano. Predisposti a terrazze uno sopra l’altro, i campi sono attraversati da numerosi muretti, in cui si è investito un considerevole capitale di lavoro. Anche i prati sono frazionati ed offrono, essendo il loro numero esiguo, solo per poche bestie il foraggio necessario per l’inverno, benché i lusernesi coltivassero i loro campi in modo molto razionale. Anche i pascoli sono troppo piccoli e troppo poco numerosi. La situazione non è migliore per quanto riguarda la legna. Anche se singoli privati possiedono alcuni pendii con qualche albero, non si tratta di boschi degni di menzione da cui ricavare annualmente la legna necessaria senza creare danno. Il bosco comunale basta ancora meno per l’intera popolazione, dato che l’amministrazione in parte deve coprire il fabbisogno nel bilancio comunale dalla vendita di legno commerciale. Una volta invece ricche foreste coprivano i lati nord ed est del monte che si erge dietro a Luserna e il pendio verso la Val d’Astico, sicché allora i lusernesi, che inoltre erano molto meno numerosi di oggi, non sapevano cosa fosse la mancanza di legna. Adesso questi posti sono brulli e cosparsi di numerose pietre calcaree, tra le quali si vede solo erba rada. Così i lusernesi sono costretti a scavare tronchi d’albero o a raccogliere fascine e rami secchi nei boschi comunali e in quelli vicini. Se nei boschi vicini si procede ad un consistente abbattimento di alberi, allora il comune acquista la legna di scarto e la cede per pochi soldi alle singole famiglie. Finora si è tentato in tre punti il rimboschimento di zone brulle; non è tuttavia possibile andare molto oltre per non compromettere il pascolo delle capre. La similitudine con i comuni delle zone carsiche, che risulta da quanto detto finora, si nota ancora di più nella mancanza d’acqua. Non si trovano per niente acque correnti nelle vicinanze di Luserna. Quanto occorre per bere e cucinare viene fornito da un’unica fontana che serve l’intero paese e spesso anche la frazione di Tetsch. È vero che in tempi recenti è stata costruita una seconda fontana, l’“Andreas Hofer-Brunnen”, vicino all’estremità sudest del paese 3, ma prende l’acqua comunque dalla stessa conduttura della fontana principale ed è 3 Stando alla ricostruzione dell’Associazione culturale “Kulturverein Lusérn”, tale fontana si trovava nella piccola piazzetta sul bivio tra via Cima Nora e vicolo Castellani. Fu costruita alla fine dell’800 e servì gli abitanti della zona fino agli anni Trenta, quando fu demolita a causa della scarsa funzionalità. Fonte “Luserna racconta… 4”. 18 Luserna: c’era una volta alimentata solo se quella riceve acqua in abbondanza. Basta tuttavia un poco di siccità e la fontana principale si affievolisce ben presto e addirittura smette di funzionare, cedendo solo, gorgogliante, acqua a singhiozzo. In tali tempi di emergenza bisogna ricorrere a cisterne che, murate con pietre scolpite, trattengono in profondità l’acqua raccolta in periodi di pioggia. Fanno parte di Luserna anche alcune malghe di Vezzena, nel loro complesso chiamate Bisele, che si trovano a ¾ d’ora sopra il paese in una conca valliva e sono una meta preferita per le gite dei lusernesi. Posizione e caratteristiche di Luserna Figura 1: Veduta di Luserna Fonte: Archivio Centro Documentazione Luserna. 19 II ASPETTI STORICI Aspetti storici 23 Di earstn laüt bo da håm gelebet at’n pèrge vo Lusérn soin da gerift vor draitausankh djar, no in ta’ vo haüt di slakkn bo ma ummar vent gedenkhanas di arbat bo sa håm gemacht. In di djardar tausankh, laüt von Taütschlånt soin khent zo leba at di perng zuar Schlege un obar Bern, spetar diese laüt soin khent gerüaft von Vescovo vo Tria, Friedrich von Wangen zo arbata at di ünsar perng. Pitn djardar zbischnen di Etsch un in Brenta, soinda khent z’ soina lai laüt bo da håm geredet a taütscha zung. Vor zboahundart djar soinda no gest zbuanzekhtausankh laüt bo da håm no geredet disa alta taütscha zung. In ta’ vo haüt disa zung is no lente lai ats Lusérn, un in di famildje von Lusernar bo da lem aus von lånt. A. L’estensione storica delle attuali colonie tedesche Luserna, nonché i comuni tedeschi del Tirolo italiano (Welschtirol) e dell’alta Italia formano oggi isole linguistiche, i cui abitanti vengono chiamati “cimbri” dagli italiani del regno (presumibilmente come derivazione da “Zimmermann” = carpentiere, nell‘etimologia popolare). Già nel XII secolo i poeti decantavano Vicenza quale “Cymbria”, e dal XIV secolo questo nome eroico dava filo da torcere agli studiosi italiani, generando le più azzardate supposizioni sulla sua origine. Si cercava di far passare i “cimbri” per discendenti di vari gruppi o orde straniere, diventati famosi o malfamati nella storia dell’Italia. Così si sviluppavano 7 opinioni sull’origine di questi tedeschi. Venivano considerati 1) Reti, Celti-Teutoni, 2) Cimbri, 3) Tigurini provenienti dalla Svizzera, 4) Alemanni, 5) Unni, 6) Goti, 7) coloni tedeschi di data successiva. Bergmann (Jahrb. d. Lit. 1847, Anzeigebl. p. 17) suggerisce come ottava ipotesi che questi tedeschi sarebbero arrivati nei monti vicentini dalla zona di Pergine dopo il 1166. Sarebbe anche plausibile la teoria che queste isole linguistiche tedesche siano resti di longobardi non italianizzati, avendo dimostrato W. Bruckner “D. Spr. d. Longob.” p. 13 s. che la lingua longobarda «attorno all’anno 1000 non era una lingua morta»; Brugier (Nationall. p. 3) avrebbe dedotto da “Deutsche Mundarten” di Frommann che la lingua longobarda ormai continuerebbe «solo nelle isole linguistiche tedesche nel Tirolo italiano e nel Veneto». La lingua di questi tedeschi tuttavia non conferma tale ipotesi. Le due parole lus. barba 4 e brikù prese dal longobardo esistono anche nella lingua italiana. 4 Nell’edizione originale del testo del Bacher “Die deutsche Sprachinsel Lusern” era compreso anche un dizionario di lingua cimbra: in tale testo i termini barba e brikù vengono tradotti rispettivamente con fratello del padre o della madre e con briccone. 24 Luserna: c’era una volta Tra coloro che si sono occupati di ricerche sulle odierne isole linguistiche tedesche nell’alta Italia va menzionata anche una illustre personalità, cioè l’arciduca Giovanni. Di lui scrive Kotzebue nelle sue “Erinnerungen” 1805, III, p. 287: «Nella zona di Verona ha svolto ricerche storiche sui misteriosi villaggi (chiamati sette comuni) che fanno derivare la loro origine fiabesca ancora dai cimbri e nei quali si parla un tedesco antichissimo. L’arciduca pensa di aver scoperto che gli abitanti di questi villaggi siano stati trasferiti in quelle zone ai tempi di Federico Barbarossa. Ha raccolto un vocabolario della loro lingua che naturalmente dev’essere di immenso interesse per il linguista e lo studioso dell’antichità. Comunicherà sia il vocabolario, sia i risultati dei suoi esami storici al nostro Johannes Müller, che onora chiamandolo suo amico». Per una derivazione immediata da antiche tribù tedesche non possono essere considerate le ipotesi 1 - 6, come fanno intendere gli odierni dialetti di questi tedeschi. Già Schmeller (in Bergmann loc. cit.) dice: «Quello che la lingua dei 7 e 13 comuni ecc. ha di antico, non risale in alcun modo a tempi precedenti lo stato in cui si trovava la lingua tedesca complessiva in quel periodo (XII - XIII secolo)». Non è chiaro che cosa Schmeller intendesse per “lingua tedesca complessiva” di allora; vedi al riguardo Paul Mhd. Gr. § 4. Il dialetto di Luserna e quello cimbro si rifanno spesso nel loro sviluppo, nei singoli suoni, negli idiomatismi ad altri dialetti della Germania meridionale, specialmente ai dialetti tirolesi, il che vale ancora di più per la Valle dei Mocheni. Tale concordanza tuttavia non sarebbe pensabile se queste isole linguistiche, il cui sviluppo si era concluso ai tempi dell’antico alto-tedesco o addirittura ai tempi precedenti l’antico alto-tedesco, si fossero sviluppate autonomamente. Se ne può dedurre che le attuali enclavi tedesche devono essere state una volta in diretto collegamento con l’intero corpo tedesco. Questa supposizione viene avallata dalla saga tedesca che nomina varie zone, ora italiane, come territorio tedesco. Nella leggenda di Ortnit molto spesso viene nominato il “Garten” (= Garda) e il “Gartensee” (lago di Garda). Qui Ortnit, re di “Lamparten” (= Lombardia) aveva il suo castello, qui ricevette l’armatura luminosa, qui festeggiò l’incoronazione della regina Sidrat che aveva sposato. I giovani draghi portati in questo luogo per vendetta erano stati allevati in una grotta sopra Trento (secondo l’attuale leggenda popolare, presso Mezzocorona o Vadena; vedi Schneller, Südtirol Landsch. p. 3 ss.). Il “Garten” ritorna in altre leggende; cfr. la leggenda di re Laurino, del Wormser Rosengarten e di Teodorico. L’ultima cita ad esempio anche “Bern” (= Verona) e “Raben” (= Ravenna) nell’alta Italia. All’immediato aggancio storico delle odierne isole linguistiche all’intero corpo tedesco ha già fatto riferimento Bergmann (loc. cit. p. 9 ss.), mentre la questione è stata trattata più dettagliatamente da Attlmayr (Ferdzs. quaderno XII e XIII), e ampiamente documentata; l’autore si basa per lo più sui numerosi nomi di località, di campo, di maso e di persone, per cui risulta che la zona di Lavarone, San Sebastiano e Centa, Vattaro, Calceranica e Costagnedo una volta era area linguistica tedesca, come pure Caldonazzo. Della parrocchia di Calceranica sussiste tuttora un documento tedesco di cessione dell’anno 1446, dove per Aspetti storici 25 “Calceranica” sta il nome di “Plaiff” che corrisponde esattamente all’attuale denominazione di questa località nel dialetto di Luserna 5. A Centa si trova ancora un fascicolo di fatture ecclesiastiche tedesche, come mi ha assicurato Don Carlo Rossi, ex curato di Centa. In Val dei Mocheni si sa che ci sono ancora 5 località in cui si parla il tedesco, e anche a Vignola (Walzurg) l’idioma tedesco non è del tutto scomparso. Anche più addentro nella Valsugana si trovano tracce tedesche della lingua tedesca di una volta: ad esempio a Selva (Zilf), Roncegno (Rotschài), Torcegno, Borgo (Burge) e Telve. Una precisa documentazione in merito, con nomi tedeschi di masi e di famiglia, ci perviene da J. Patigler (Ferdinzs. 28 p. 79). Sicuramente hanno origine tedesca gli abitanti di Piné che confinano con l’area fluviale dell’Avisio. Una volta questa località veniva costeggiata da una strada che da Pergine, passando per il dosso della montagna, raggiungeva Lavis. Anche il paese di Lavis era tedesco, si chiamava Navis, anche Nevis (la gente di Faogna lo chiama ancora oggi nèvas) e faceva parte dell’ufficio circondariale di Bolzano. L’Avisio, sulla sponda del quale si trova Lavis, attorno al 1500 costituiva ancora il confine tra le zone linguistiche tedesca e italiana in Tirolo. Paigler (p. 75) cita un passaggio dal Diarium di Massarelli (p. 134) che afferma espressamente che sull’Avisio l’italiano termina del tutto, mentre dall’Avisio fino a Verona e Vicenza si parla in parte tedesco, in parte italiano. Concorda ancora Goethe (“Viaggio in Italia” 11 settembre 1786): «Qui mi trovo dunque a Roveredo, dove la lingua si spartisce; più sopra si alternano ancora il tedesco e l’italiano». Anche per Trento Patigler svolge delle ricerche sulla base di un reclamo dei tedeschi lì residenti e dei comuni nel distretto urbano e scopre che ancora attorno al 1500 approssimativamente un quarto della popolazione di questa città sarebbe stata tedesca. È risaputo che nel prologo al Concilio di Trento la città viene chiamata «sentina Italorum et Germanorum». Si può con buona ragione affermare che perfino rappresentazioni teatrali tedesche di religiosità popolare, in grande stile, si siano svolte a Trento ancora nel XVI sec., il che è certo per Cavalese (Cafless) in Val di Fiemme (cfr. Wackernell, Altdeutsche Passionsspiele p. IX s.). Sotto Trento i comuni tedeschi si estendevano dai monti della Val d’Adige sinistra fin giù in pianura, come Folgaria (Folgràit), Terragnolo (Laim) e Vallarsa (Attlmayr p. 92 ss.). Per quanto riguarda l’estensione storica della lingua tedesca nell’alta Italia, Attlmayr scoprì in base al ricco materiale che l’ex direttore di posta austriaco J. G. Widter gli mise a disposizione a Vicenza, che si parlava tedesco non solo nei 7 e 13 comuni (presso Vicenza e Verona), ma anche sulle propaggini meridionali dei monti tra Verona e Bassano, nella Val d’Astico e addirittura nella pianura oltre Vicenza. Come documentazione cita il manoscritto di un conte Caldogno Il Bacher annota: «Il documento è stato trovato dall’uomo di fiducia della tedesca Schulvereinsgruppe Frankfurt a. M., dott. Lotz, a S. Sebastiano e acquistato per se stesso. A Luserna egli lo diede da leggere al maestro Sim. Nicolussi, al quale devo l’informazione». 5 26 Luserna: c’era una volta del 1598, che dovette viaggiare in queste zone e riferire al doge Grimani sulla capacità militare della stessa. Si legge in questo testo: «Gli abitanti dell’intera montagna vicentina parlano il tedesco, benché molti di loro comprendessero anche l’italiano, e non sarebbero passati ancora molti decenni da quando una parte di questi Cimbri o Goti, perfino in vicinanza della città (Vicenza), avrebbe abbandonato la loro madrelingua». Per “abitanti della montagna vicentina” non si intendono comunque solo i 7 Comuni, ma anche le valli Chiampo, Trissino (adesso Val d’Agno) con Recoaro, i cui abitanti egli chiama espressamente “tedeschi”. Secondo la sua relazione erano tedeschi anche i contadini delle valli “de’ Conti” e “dei Signori”, di Torrebelvicino e Enna, e indica come tedeschi anche gli abitanti di Lavarone e Brancafora sulle sorgenti dell’Astico. Sono noti, quale zona linguistica tedesca storica, anche i 13 Comuni Veronesi. Di questi, il manoscritto di Tecini dell’anno 1821 (cfr. Attlmayr XII, p. 118 ss.) poteva ormai menzionare solo tre località di lingua tedesca. È importante l’osservazione di Attlmayr che nell’intera zona finora discussa, né nel presente né nella storia o anche solo in una tradizione popolare vi si riscontri la pur minima traccia di un’enclave di origine italiana, latina o comunque non tedesca: «un fatto sul quale io che abito da anni ai piedi di queste montagne, ho sempre cercato di avere notizie quante più possibili, ottenendo solo la conferma che ovunque, ad esempio anche nella piccola valle laterale Ronchi presso Ala – come mi ha assicurato solo di recente un sacerdote di quella zona – siano presenti tracce documentabili della lingua tedesca, sicché la coabitazione compatta di soli ceppi tedeschi in un’area così vasta fa di per sé supporre che ci sia stata un’epoca in cui i tedeschi vi si trovassero anche oltre il piede di queste montagne nelle contigue valli e pianure» (loc. cit. XIII, 11 ss.). Widter prova nelle sue note per la località Monte di Malo, e così indirettamente per Malo stessa che si trova tutta in pianura, che qui una volta dominava la lingua tedesca; un documento del 1388 menziona come causa della separazione ecclesiale delle due località la diversità della lingua, che a Monte di Malo era quella tedesca. Allo stesso risultato giunge Widter grazie ai nomi di famiglia e di campo lì usuali, che aveva raccolto prevalentemente dai registri tributari. Anche del comune di Recoaro, Widter cita, a centinaia, nomi tedeschi di campi e di bosco (Attlmayr XIII, 12 s.). Infine vorrei citare ancora un passaggio di Tecini (Attlmayr XIII, 121 s.): «Ma non solo le località menzionate veronesi, vicentine e tirolesi utilizzavano in tempi remoti, come ancora oggi, la lingua tedesca, ma è anche probabile che l’intera alta Valsugana con Piné, una parte di Fiemme e le località in vicinanza di Trento sulla sinistra dell’Adige siano state tedesche, dato che gli antichi nomi dei campi, delle acque, dei monti, delle località e delle famiglie sono in gran parte tedeschi e uno dei monti, vicinissimo alla città (Trento) situato tra est e nord, viene ancora oggi chiamato il “Calisberg”. Che fino al XIII sec. il borgo di Pergine, allora chiamato, dal vicino torrente Fersina, “Ferzen” o “Persen”, e in tutti i paesi circostanti la lingua comune fosse il tedesco… lo dimostrano i nomi interamente tedeschi dei campi, dei paesi e di quasi ogni singolo maso, come appaiono nei documenti latini del XVI sec., accanto a cui però si trovano anche documen- Aspetti storici 27 ti in lingua tedesca di quell’epoca, e lo stesso vale per la parrocchia di Calceranica tra Pergine e Lavarone». È una documentazione estremamente importante dell’estensione storica della lingua tedesca nell’alta Italia, in un primo momento nelle diocesi di Vicenza e Padova, l’elenco dei curati di queste zone. Esso è stato preso dai relativi archivi vescovili (pubblicato da Padre Maccà nella sua “Storia del territorio vicentino”) e spazia dalla fine del XIV all’inizio del XVI sec. (reso noto per estratti da Attlm. XIII, 15 ss., e per intero da A. Bass “Deutsche Sprachinseln” ecc. p. 87 ss.). Ne ricaviamo che anche a sud ed est di Vicenza la lingua tedesca era in uso ancora nel XV sec. Molto significativo come prova per l’estensione storica della zona linguistica tedesca in alta Italia, in particolare presso Padova, è il fatto che dal 647 al 1123 su 38 vescovi a Padova 22 vengono espressamente chiamati ultramontani o franchi (Attlm. 42). A ciò si aggiunge l’opera storica di Bonato che (I, 172) sottolinea il fatto che ogni chiesa madre dei 7 Comuni (ad eccezione di St. Maria di Arsiè) si trova nella pianura circostante dell’alta Italia, che dunque i 7 Comuni in origine erano solo chiese filiali. Così, perfino l’attuale parrocchia tirolese Brancafora, accanto a Rotzo, Roana, Asiago, Gallio, Chiuppan, Cogolo, Pedescala, San Pietro, faceva parte della chiesa madre Caltrano. Le altre chiese madre dei 7 Comuni erano Breganze, Merostica, Campese, Arsiè (o Arsedo). Questi dati che Bonato ricavò dall’archivio vescovile di Padova, sono inconfutabili. Dunque anche Rotzo, Asiago e Gallio erano in origine solo chiese filiali, e le loro chiese madre si trovano al di fuori della zona dotata di privilegi dei 7 Comuni, eccetto la sola Campese. Ne deduciamo che i 7 Comuni siano stati colonizzati partendo dalla pianura. E questo basta per presupporre che al tempo della colonizzazione si parlasse ancora tedesco nella pianura dell’alta Italia. Analogo è il rapporto ecclesiale nei tedeschi del Sudtirolo, Calceranica era ad esempio la chiesa madre per Lavarone, Centa, Vigolo e Vattaro; Pieve di Lizzana per le valli Vallarsa e Terragnolo, Volano per Folgaria e le sue filiali attuali (Attlm. 21 ss.); da Pergine dipendono attualmente ancora, quali filiali, tutti i posti da curato del decanato. L’appartenenza di Luserna alla parrocchia di Brancafora verrà menzionata ancora una volta più avanti, p. 25 s 6. Lo stesso rapporto con certe chiese madre originali, che sussiste nei 7 Comuni e nelle enclavi tedesche del Tirolo italiano, si ha senza dubbio anche nei 13 Comuni veronesi. Dalle note di Widter risulta che vi sarebbero ancora tante tracce tedesche di questo tipo, che fornirebbero materiale a sufficienza per il ricercatore, nelle province venete, come pure nella zona di Vicenza specialmente verso Bassano (Attlm. 41). Si trovano ad esempio tali tracce della lingua tedesca a Fontaniva presso Cittadella, a Godego, Riése, Valla, Longhere, Rolle, Falze, Covolo, Canal di Brenta, inoltre nella Provincia di Padova: Cervarese sul Bacchiglione, nelle vicinanze del Montegaldella, presso Teolo, nei Colli Euganei, e più giù verso Monselice; anche presso Feltre e Belluno si incontrano fino ai tempi nostri residui perduranti della lingua tedesca a Rocca, cioè nelle frazioni Avedino e 6 In questa versione, a pagina 35. 28 Luserna: c’era una volta Dagonera facenti parte di Rocca, nella valle di Agordo (vicino al tir. BuchensteinLivinallongo). Nomi tedeschi di monti si protraggono oltre, fin dentro nel Bellunese. Fanno altrettanto parte della zona linguistica tedesca le località situate a nord di Udine, Sappada (con 13 frazioni) e Sauris. Riguardo alla parrocchia di Zahre (altro nome per Sauris) ricordo un libricino stampato di poesie nel dialetto tedesco della zona: “Liëdlan in der Zahrer Sproche vame Priëster Ferdinand Polentarutti, gedrucket za Beidn (= Udine) 1890”, con la dedica «Ime Pforrheare van der Zahre Monsignor Georg Plozzer in seine guldan jubljohr vünva im Avost MDCCCXC de do Liëdlan in seindar Donkborkat und vrade oupfert der Priëster Ferdinand Polentarutti». Colonie tedesche si trovano anche nel Piemonte (in Val Formazza; Pommat fino a Foppiano, Unterwald). Il dott. Aristide Baragiola indica nel suo libro “Il canto popolare a Bosco o Guriu, colonia tedesca nel cantone Ticino 1891” di queste colonie tedesche il numero degli abitanti dopo il censimento del 1885, con le seguenti cifre: Val Lesa 2453 cioè Gressoney la Trinité 160, Gressoney St. Jean 720, Issime-Gabi 1573 (nel comune di Issime è compreso anche Gabi, di cui solo 3 frazioni – Niel o Nelli, Pontetrenta e Zerta – parlano tedesco); Val Sesia 1929 cioè Alagna 643, Rima S. Giuseppe in Val Sermenta 252, Rimella in Val Nastalone 1034; Val d’Anza 765 in Macugnaga (nella frazione di Pestarena il tedesco è ormai scomparso, a Burca si sta estinguendo); Val d’Ossola 780, cioè Formazza (Val Formazza o Pommat 577, Salecchio o Saley (Val Devera) 80, Agaro o Ager (Val d’Antigorio) 123. Queste enclavi contavano dunque nel 1885 complessivamente 5927 tedeschi. Cento anni fa si parlava ancora il tedesco a Ornavasso (Baragiola fa derivare questo toponimo da “Ort-am-Wasser” - paese sull’acqua) poco distante dalla sponda occidentale del Lago Maggiore. Baragiola cita inoltre dall’opera storica di Bianchetti (vol. II, 275) che nel 1392 una commissione incaricata di seguire in Val d’Ossola i rilevamenti per la costruzione del duomo di Milano, riferisce quanto segue: «Videtur quod ad praesens sit emenda a teutonicis de Ornavaxio cuncta quantitas marmoris quam ad praesens habent et habebunt pro bono mercato, videlicet pro tertio minore pretio quam constat marmor de Fontana». Secondo lo stesso Bianchetti, Baragiola riporta ancora varie notizie su Ornavasso, tra l’altro che qui la lingua tedesca non dominava solo nei rapporti della popolazione, ma anche nel confessionale e nella predica fino al 1771. Nel 1839 solo pochi anziani parlavano il tedesco. Per “Ornavasso” si scriveva anche “Urlivaschen, Urnavasch, Urnäschen”, sulle carte geografiche a volte “Urnafas”. Riguardo al periodo dell’arrivo di questi tedeschi, Bianchetti è relativamente sicuro di poter indicare il VI sec. dopo Cristo. Di Gressoney dice il Baragiola che questa località si sarebbe conservata il carattere tedesco più delle altre enclavi tedesche in Piemonte, che i gressonesi sarebbero ben fieri della loro nazionalità, mentre gli altri tedeschi in Piemonte cercherebbero piuttosto di nasconderla nei contatti con estranei. Tedesca fino al midollo è anche Formazza i cui statuti del 1486 non concedevano ad estranei l’accoglienza nel Comune, a meno che non tutta la popolazione si fosse espressa a favore. Aspetti storici 29 Baragiola, dal cui libro (p. 11 - 18) sono tratte queste osservazioni sui tedeschi del Piemonte, li chiama “Walliser”. La loro lingua è molto simile a quella di Gurin, nel cui dialetto Baragiola riporta una novella del Boccaccio. Le vocali lunghe non sono dittongate, il diminutivo termina in -li ed anche per il resto si trovano molte similitudini con i dialetti in Svizzera. Si notano in modo particolare le vocali piene a, o, u, i in sillaba atona. Ne faccio menzione per il fatto che un uomo dei 7 Comuni che aveva frequentato queste enclavi tedesche del Piemonte, mi riferiva che lì avrebbe sentito parlare il “cimbro” e che avrebbe ben capito lo scambio di osservazioni tra queste persone, mentre sembrava che loro non se ne rendessero conto, considerandolo un estraneo. Si vede dunque con quanta prudenza occorre accogliere le assicurazioni di queste persone quando affermano che il loro dialetto sia uguale o assomigli a una o ad un’altra parlata. A quest’uomo comunque era bastato sentir parlare tedesco e capire singole parole per considerare “cimbro” il dialetto che sentiva. Gli insediamenti dei tedeschi in Piemonte forse non sono sempre stati colonie; è diversa però la situazione dei tedeschi nelle montagne e nelle valli tra l’Adige e Verona fino a Bassano. Una volta essi erano sicuramente uniti tra di loro come zona linguistica chiusa e abbastanza estesa, e per di più erano agganciati al corpo complessivo tedesco che si estendeva per l’intera valle dell’Adige del Tirolo e penetrava anche la Valsugana. Presumibilmente erano molto numerosi anche i tedeschi ad est di Bassano fin verso l’Adriatico. Pertanto non sembra aver esagerato lo studioso padovano Antonio Loschi che viveva attorno al 1400 e che definiva se stesso un “cimbro”, quando affermava che nella preistoria i “Cimbri” (cioè i tedeschi) si «estendevano dall’Adige fino all’Adriatico». A causa del regredire della lingua tedesca da Lavis fino a Salorno e del progressivo estinguersi della stessa nella Valle dell’Adige sotto Trento, in Valsugana, nella pianura dell’alta Italia, gli attuali resti della zona linguistica una volta così estesa appaiono staccati dal corpo complessivo e si presentano ora come insediamenti disseminati, come colonie. La loro storia tuttavia va considerata congiunta a quella globale dell’elemento tedesco in Italia, specialmente in alta Italia. Questo ci offre la base per il seguito della nostra ricerca che riguarda i ceppi a cui appartenevano i tedeschi dell’alta Italia e a cui va ricondotta l’origine degli attuali gruppi residui, insediati sulla sponda destra del Brenta. B. Ceppi Menzioneremo in un breve riassunto storico i popoli tedeschi il cui intervento nella storia dell’Italia è stato di effetto duraturo per l’alta Italia. Orde che attraversavano l’Italia solo temporaneamente, come i Cimbri e Teutoni, gli Unni, Vandali ecc., pertanto non verranno presi in considerazione in questo luogo. 30 Luserna: c’era una volta Gli insediamenti dei tedeschi in Italia sembrano aver inizio con la decadenza dell’impero romano d’Occidente. Le truppe mercenarie tedesche in Italia, Rugi, Eruli, Sciri e Turcilingi, chiedevano almeno un terzo delle terre italiane. Quando questo venne negato a loro dal generale Oreste, padre dell’ultimo imperatore romano d’Occidente Romolo Augustolo, lo sciro Odoacre promise ai suoi compagni di attuare le loro richieste se lo avessero sostenuto nell’ascesa al potere. Odoacre vinse Oreste e lo fece decapitare a Piacenza nel 476. Odoacre venne dunque proclamato capo dalle truppe mercenarie tedesche, mentre Romolo Augustolo venne deposto. Il senato a Roma, senza opporre resistenza, acconsentì a tutte le richieste dei tedeschi con l’attribuzione di un terzo delle terre italiane. Tuttavia, tali possedimenti tedeschi durarono poco, dato che “in breve tempo questi beni erano sperperati, venduti, di nuovo nelle mani degli italiani” (Weiß, Weltgesch., III, 613 s.). Comunque non erano del tutto prive di significato queste acquisizioni, per l’insediamento permanente dei tedeschi in Italia, formando almeno il primo anello della catena degli insediamenti tedeschi. Qualche anno più tardi, il re ostrogoto Teodorico condusse i suoi Goti in Italia, vinse Odoacre nel 489 sull’Isonzo, lo fece giustiziare dopo la presa della città fortificata di Ravenna nel 493, e fondò il regno degli Ostrogoti in Italia, che però sarebbe durato solo 60 anni. Quando dopo la battaglia, con esito infelice per i Goti, nei pressi del Vesuvio (552) le loro rimanenti truppe eroiche ebbero libera condotta, 1000 dei loro guerrieri raggiunsero Papia, molti si rifugiarono nell’odierna Uri, altri in Tirolo dove la zona di Merano non di rado veniva chiamata la terra degli Amelungi. Che ai tempi dell’Impero degli Ostrogoti in Italia vi fossero già insediati altri tedeschi, risulta da un passaggio nel panegirico del vescovo Enodio di Pavia (+ 516): «Quid quod a te Alemanniae generalitas intra Italiae terminos sine detrimento Romanae possessionis inclusa est, cui evenit habere regem, postquam meruit perdidisse. Facta est latialis custos imperii semper nostrorum populatione grassata. Cui feliciter cessit fugisse patriam suam, nam sic adepta est soli nostri epulentiam, adquisita est iis, quae noverit ligonibus tellus adquiescere» (in Bergmann loc. cit. vol. 120, Anzbl. p. 6). Dall’espressione “cui evenit habere regem, postquam meruit perdidisse” si può forse arguire che questi Alemanni siano gli stessi di cui il re degli Ostrogoti Teodorico scrive, tra l’altro, al re dei Franchi, con cui si congratula per la sua grande vittoria sugli Alemanni: «Estote illis remissi, qui nostris finibus celantur exterriti. Memorabilis triumphus est, Alamannum acerrimum sic expavisse, ut Tibi eum cogas de vitae munere supplicare. Sufficiat illum regem cum gentis suae superbia cecidisse» (Bergmann p. 5). Il re degli Alemanni cadde nella battaglia qui menzionata. Weiß (642) ipotizza che i profughi alemanni si fossero insediati nei Grigioni e nell’alta valle dell’Inn. Egli cita anche Eunodii Paneg. p. 975, ma allora si dovrebbe considerare un’esagerazione retorica le parole “nam sic adepta est soli nostri epulentiam”, qualora fossero riferite ai Grigioni e all’alta valle dell’Inn. Verso la fine dell’impero ostrogoto in Italia si menzionano lì, cioè in zona veneta, anche i Franchi. Cfr. il passaggio in Procopii bell. Gothic. lib. IV cap. 24 Aspetti storici 31 (edit. Venet. 1729, Tom. II 226) Bergmann p. 7: «Paulo ante Francorum Rex Theodebertus morbo obierat (+ 547), cum sibi multo negotio tributaria fecisset nonnulla Liguriae loca, Alpes Cottias, agrique Veneti partem maximam. Etenim Franci, arrepta belli, quo Romani Gothique erant impliciti, opportunitate, sine discrimine ditionem suam iis locis auxerunt, de quibus illi pugnabant. Venetorum pauca oppida Gothis supererant: nam Romani maritima, Franci caetera occuparant». Lo stesso storiografo indica anche Svevi residenti in Italia (Bergmann loc. cit.): «Liburnis proxima est Istria, deinde regio Venetorum ad Ravennam urbem porrecta. Atque hi sunt maris accoloe, supra quos Siscii et Suabi, non illi, qui Francis parent, sed ab iis diversi, interiores terrae tractus obtinent». Per breve tempo l’Italia, dopo la caduta del regno ostrogoto, era una provincia romana d’Oriente. Poi nacque un nuovo impero tedesco nell’alta Italia, il regno dei Longobardi (568 - 774). Quando i Longobardi ariani si convertirono al cattolicesimo, venne a cadere la barriera principale che prima aveva separato questo popolo dagli italiani cattolici. Il mescolamento che si ebbe ora, dei Longobardi con gli italiani, portò anche al passaggio graduale della lingua longobarda a quella latina. Dapprima l’idioma latino dominava quello longobardo nel meridione, dove gli insediamenti tedeschi non erano più così fitti come nel nord dell’Italia. Bruckner (Die Sprache d. Longob. 13 s.) fa risalire il calo della lingua tedesca, per le parti meridionali del regno longobardo, alla seconda metà del X sec., mentre indica per la scomparsa completa della stessa con certezza il periodo dopo il 1000. Il legame tra la casa regnante longobarda con quella bavarese nell’alta Italia deve aver portato anche ad un influsso bavarese. Dall’anno 653 in poi troviamo bavaresi della parentela di Teodolinda quali re dei Longobardi; ad esempio Ariperto, i suoi figli Gundeperto e Bertarido, poi Cuniberto. Liudeperto, il figlio di Cuniberto, venne assassinato. Ausprando, seguace del Liudeperto ucciso, ottenne dalla corte bavarese truppe ausiliari contro l’assassino, e giunse al potere che nel 713 passò a suo figlio, il valoroso Liutprando. Sebbene in seguito al cambio di religione dei Longobardi fosse facilitato il mescolamento con gli italiani, i primi conservarono tuttavia alcuni privilegi. Questi, nonché il loro diritto nazionale, venivano lasciati ai Longobardi perfino quando essi dovettero sottomettersi a Carlo Magno e riconoscerlo loro re (774). Solo quando i Longobardi nel 776 si ribellarono al dominio franco, Carlo sciolse la loro costituzione dell’impero, suddivise i ducati longobardi in piccole contee, introdusse la costituzione franca dei pagi e collocò Franchi a guarnigione nei punti più strategici. Carlo avrà effettuato anche qui spostamenti di massa, come nel caso dei Sassoni e Slavi? Sembra che fosse sua consuetidine prendere tale misura, e di fatto Dalpozzo (Memorie storiche p. 45) cita da Leben Karls des Großen 7 di Eginhart un trasferimento forzato di numerosi Sassoni con mogli e figli in Francia e in Italia, al che nel 804 seguì una seconda deportazione di 10.000 7 “Vita di Carlo Magno” di Eginardo. 32 Luserna: c’era una volta elementi ribelli. È facile immaginare uno scambio reciproco in questi spostamenti di massa. Rientra ancora nel periodo del regno carolingio in Italia un atto di donazione del vescovo padovano Rorius o Rorigo, che donava i suoi possedimenti in base alla legge salica. Questo documento (datato 2 maggio 874) presenta numerosi nomi tedeschi di servi della gleba di entrambi i sessi, nonché testimoni per lo più con nomi tedeschi (Bergm. p. 6 s.). Per il X sec. sono documentati anche nella valle del Brenta (presso Bassano) tedeschi liberi. In base ad un documento, l’imperatore Berengario del Friuli donava al vescovo padovano Sibico nel 917 il paese di Solane (ora Solagna sul Brenta, a nord di Bassano): «Nos … pretaxatas vias publicas iuris regni nostri pertinentes de Comitatu Tarvisianense iuxta Ecclesiam Beatissime Justine virginis non longe a fluvio Brenta valle nuncupate Solane … seu omnem terram iuris regni in predicta valle adjacentem de quibus libet Comitatibus tam in territorio Cenedense ad nostram iurisdictionem pertinentem, nec non et omnem iudiciariam potestatem tam Germanorum quam aliorum hominum, qui nunc in predicta valle Solane habitant aut habitaturi sunt, cum bannis et redditibus sancte nostre regie potestati pertinentibus, per hoc nostrum regale preceptum eidem Episcopo sancte Pataviensis Eccilsiae suppliciter offerimus et perdonamus ad de iure nostro concedimus …» (Bergm. p. 8). Dal 919 al 1024 in Germania regnavano re e imperatori del casato sassone. L’Italia, con le sue agitazioni, diede filo da torcere a questi principi. Il re (successivamente imperatore) Ottone I si trasferì in Italia nel 951, liberò la principessa Adelaide che aveva lasciato Ivrea per fuggire da Berengario II, assunse il titolo “re dei Longobardi”, separò Friuli e la Marca Veronese dall’Italia e li unì alla Germania. Dapprima entrambe le marche andarono al duca Enrico di Baviera, nel 995 vennero unificate con il ducato di Carinzia di nuova costituzione e rimasero con lo stesso per 200 anni. Che il numero dei tedeschi in Italia nell’XI sec. non fosse insignificante lo si evince dal fatto che sotto l’imperatore Corrado II i romani chiesero l’equiparazione con i tedeschi. A questo movimento si unirono anche piccoli vassalli che pretendevano l’ereditarietà feudale, e artigiani che volevano far parte dell’amministrazione cittadina di Milano, era lì infatti il focolaio di questo movimento. L’associazione, inizialmente segreta, dei malcontenti ben presto si ribellò apertamente all’arcivescovo di Milano, Eriberto, sconfiggendolo in una aperta battaglia campale. Come Corrado II, pure i re ed imperatori tedeschi dei casati sassone, franco e degli Hohenstaufen avevano spesso motivo per spostamenti in Italia, dato che soggiaceva al loro dominio. Così occuparono con dei tedeschi le posizioni strategiche. Tutto ciò portava a rafforzarvi l’elemento tedesco e a mantenere un costante, diretto collegamento con la Germania. Per citare un esempio, un Ezelo (Hezilo), figlio di un certo Arpone, si trasferì con Corrado II in Italia e vi si stabilì. Visse secondo la legge salica ed ottenne Bassano e dintorni come feudo. Già suo figlio ottenne che questo feudo diventasse ereditario e presto la famiglia degli Ezzelini raggiunse grande potere; gli Ezzelini rivestirono cariche di podestà a Vicenza, Treviso e Verona, Ezzelino III era vicario imperiale nella Aspetti storici 33 Marca Trevigiana. I suoi possedimenti comprendevano oltre che Bassano anche Padova, Vicenza, Verona, Brescia e Trento. Si attorniava di tedeschi come guardie del corpo. Tale Ezzelino tuttavia era malfamato a causa della sua crudeltà. Morì nel 1236 (Bergm. p. 10 s.). Anche nella zona degli odierni 7 Comuni si trovavano possedimenti ezzeliniani. Dopo il declino dei loro signori, questi beni e masi vennero venduti il 5 maggio 1261 dalla città di Vicenza. Begmann (p. 13) cita un documento in cui viene definita con maggiore precisione la posizione degli ex possedimenti ezzeliniani nella zona degli attuali 7 Comuni. Vi vengono menzionati, oltre ai villaggi Roana e de Roccio (Roana e Rotzo), anche nomi di montagna come mons Menatii (in it. ora Manazzo, nella parlata di Luserna Manétsch), Costa (lus. Kost), Portula o de Costa, m. Portule, m. Varine, m. Campi-rosati. Dal declino degli Ezzelini, nell’alta Italia sorsero città come Vicenza, che scacciò le truppe mercenarie di Ezzelino, Verona, dove Martino della Scala ottenne la carica di podestà e gli Scaligeri presto assunsero un ruolo importante. Il potere imperiale tedesco diminuisce sempre di più e accanto a Vicenza e Verona sorgono presto nell’alta Italia altri staterelli, la lingua italiana sviluppa una particolare forza di espansione: è vicina l’epoca di Dante, Petrarca e Boccaccio, con il suo apporto alla letteratura e lingua italiana. A causa dell’ascesa della lingua italiana diminuiva invece sempre di più la rilevanza del tedesco, la lingua si ritirò sempre di più in zone isolate ed aspre, in montagna, dove in parte, come ad esempio nella zona dei 7 Comuni, si trovavano già da tempo degli insediamenti. Già in un documento del 1085 è menzionata la località di Fugia (ora Fozza), un documento del 1175 parla della gente di Rotzo. I 7 Comuni devono già essere stati abbastanza popolosi ai tempi della loro appartenenza a Verona (1297 1387), dato che ottennero privilegi propri, che sicuramente non erano dovuti solo alla bontà dei signori veronesi o alla loro compassione con la popolazione povera, ma erano intesi a garantire una fedele e affidabile guardia ai confini. Intorno alla metà del XIV sec. la lingua tedesca nell’alta Italia era già stata spinta in zone così isolate che la loro presenza «in un angolo dell’Italia» veniva considerato «un fenomeno curioso» (Dalpozzo p. 1) dagli studiosi italiani. Da questi cenni storici si evince che i tedeschi dell’alta Italia appartenevano a vari ceppi; dunque anche nella lingua si deve aver avuto una simile mescolanza. Si aggiunsero poi influenze latine, sicché i dialetti tedeschi a sud del Brenta e ad est dell‘Adige risultano oggi un dialetto speciale, che alcuni definiscono longobardo (Frommann in Brugier), altri alemanno (Zingerle “Lus. Wb.” p. 4), gotico (A. Schiber in Zs. d. deutsch. und österr. Alpenvereins 1902 s.). Schmeller e Bergmann sembrano inclini a far rientrare questi dialetti tra quelli bavaresi, opinione sostenuta fermamente da Attlmayr, e occorre avvalorare questa ipotesi per motivi linguistici; solo il criterio linguistico offre certezza in tali casi di dubbio: i dialetti sono per tutta la loro base bavaresi, per cui anche i loro portatori originari lo devono essere stati. Per cui vanno presi in considerazione prevalentemente i coloni bavaresi. Già dalla panoramica storica si vede che la Baviera, specialmente dai tempi di Ottone I, aveva raggiunto un’influenza duratura sui tedeschi nell’alta Italia e sul territorio di Trento. Perciò 34 Luserna: c’era una volta Attlmayr presuppone che «gli immigranti bavaresi (nel Tirolo) avranno fatto un passo in più, oltre Salorno e Lavis, e avranno occupato i promontori meridionali dei monti sulla sponda orientale dell’Adige» (XII, p. 117). Rimane comunque incerto se tale immigrazione sia avvenuta solo verso la fine del XII sec. dai dintorni di Pergine, come ipotizza Bergm. (loc. cit. vol. 120 p. 16). L’odierna differenza della pronuncia (Cap. VI) nella zona tra la sponda destra del Brenta e quella sinistra dell’Adige da una parte e i dintorni di Pergine d’altra parte, rende dubbia la supposizione di una così tarda immigrazione. Nel contesto è particolarmente importante la pronuncia del suono “a”, che nel Bavarese (cfr. ad esempio Schatz, D. Ma. von Imst p. 47, e Kauffmann, Deutsch. Gramm. p. 40) già nel XII sec. si è ristretto in ƍ. Dato che negli altri mutamenti fonetici germanici (seconda rotazione consonantica del germanico, dittongazione) il meridione era avanti, si può presupporre analogamente la restrizione della “a” nelle zone meridionali, dove sussiste oggi, come è il caso nei dintorni di Pergine (å con metafonesi “a”). Immigranti di questa zona avrebbero dunque verso la fine del XII sec. portato almeno il germe di tale sviluppo. A Luserna invece, e a sud del Brenta si è conservata la “a” pura (con comune metafonesi “e”). C. Luserna Nella questione dell’appartenenza nazionale occorreva mettere in relazione Luserna con le altre tracce tedesche nell’alta Italia, ponendola così su una base storica più ampia. Ma anche sulla storia specifica dell’insediamento di questo paese non si trova niente di certo, plausibile, benché fosse un insediamento relativamente giovane. Nel XVII sec. appaiono su quest’altura singole famiglie, stando ai registri anagrafici della parrocchia di Brancafora dalla quale Luserna si rese indipendente solo nell’agosto del 1904. I registri risalgono al 1617; allora Luserna non aveva ancora una chiesa e un curato proprio ed era una frazione del comune di Lavarone. Una leggenda popolare, menzionata anche da Zingerle (Lus. Wörterb. p. 2), riferisce che un uomo di Lavarone di nome Nikolaus si sarebbe recato ogni estate sui suoi pascoli alpini di Luserna; lì avrebbe inizialmente costruito una stalla per il bestiame e un’abitazione rudimentale per sé e i suoi. Avrebbe con il tempo abitato questa costruzione provvisoria anche d’inverno. I discendenti di tale Nikolaus sarebbero stati chiamati Nicolussi. Attualmente la maggior parte delle famiglie di Luserna (più di 160) portano questo cognome; a ciò si aggiungono ca. altre 25 famiglie Gasperi e 6 Pedrazza. Non c’è motivo per dubitare del fatto che Luserna sia stata colonizzata partendo da Lavarone, dato che fin verso la fine del XVIII sec. Lavarone e Luserna formavano un unico comune; inoltre una delle molte frazioni di Lavarone porta il nome Nicolussi, un’altra Gasperi. Ma proprio questo suggerisce che i primi coloni di Luserna abbiano portato i loro cognomi già da Lavarone. Dato che complessivamente si riscontrano a Luserna solo i 3 cognomi sopra indicati, oc- Aspetti storici 35 corre aiutarsi con nomignoli o soprannomi per identificare una persona con precisione. Questo serve di più per i Nicolussi, poi anche per i Gasperi; i Pedrazza non hanno soprannomi, almeno nessuno che venga utilizzato anche in via ufficiale. Un tale nomignolo o soprannome è tra l’altro Khnap e in forma diminutiva Kneple (it. Caneppele). A Lavarone troviamo ugualmente “Caneppele”, ma come nome della casa. In questo sembra si possa ravvisare un cenno all’attività mineraria di una volta, infatti una conca valliva presso Luserna viene chiamata Milegrua (it. Millegrobe), e nei dintorni di Luserna si trovano singole scorie di metallo; anche alcune leggende sembrano poggiarsi sul ricordo dell’attività estrattiva, ad esempio schnaidarla (V, 29). Se vi è una relazione tra la tentata attività mineraria con l’insediamento di Luserna oppure se essa veniva già svolta prima, da Lavarone, non è possibile dirlo per mancanza di notizie certe. Del resto si interpreta il nome di milegrua(b)m anche come “Milchgruben” (cfr. lus. mile nel linguaggio infantile di solito milch = latte). Definire quest’alpe, consistente di svariate conche simili a fosse, “fosse del latte” per l’attività casearia sarebbe anche più naturale che derivare il nome dalla composizione dell’italiano “mille” con il tedesco “grua(b)m”. Sul nome di casa “Pedrazza” la tradizione popolare afferma che derivi da una famiglia che sarebbe immigrata dopo i primi coloni di Luserna, dal Laimtal (it. Terragnolo). Questo però viene contraddetto da un’iscrizione nel registro dei battezzati di Luserna (Tom. I) del 9 settembre 1763, dove appare un battezzato quale “Joannes, filius Petri quondam Christiani de Gasperis dicti Pedrazza». Una volta era diffuso un quarto nome di casa a Luserna, cioè “Osele”, che a Lavarone esiste ancora come nome di frazione. Come già menzionato, i lusernesi per molto tempo non avevano una chiesa o un loro curato. Dovevano recarsi nella lontana chiesa parrocchiale di Brancafora scendendo per un sentiero ripido, dissestato, e portare giù anche i morti; altrettanto difficile e d’inverno spesso pericoloso era il percorso lungo per matrimoni e battesimi. Perciò è comprensibile che i lusernesi cercassero di ottenere una loro chiesa con un curato stabile. Dall’ordinariato vescovile di Padova ottennero il 20 agosto 1711 il permesso di costruire una chiesa che venne inaugurata, ultimata la costruzione, il 7 ottobre 1715. Solo nel 1745 raggiunsero l’istituzione di una curazia con residenza stabile; i registri dei battezzati di Luserna iniziano il 13 luglio 1745, quale curato in carica appare Simon à via (Straßer), un nome che si riscontra nella Val d’Astico e viene scritto Strazzer in italiano. La chiesa finora utilizzata presto si rivelò piccola. Venne dunque ampliata e subito accanto venne ubicato il cimitero dal lato est fino al lato sud. La chiesa e il cimitero vennero consacrati il 7 ottobre 1782 da Adami, parroco a Brancafora, con autorizzazione vescovile. Il curato di allora, Giacomo Valzorgher (anche un nome che si riscontra nella Val d’Astico) iscrisse in lingua italiana l’atto di consacrazione nel registro dei battezzati. Pare strano che già allora venne dato al semplice parroco di Brancafora il titolo altosonante di “arciprete”. Con la parrocchia di Brancafora e la curazia di Casotto, Luserna fece parte della diocesi di Padova fino agli anni ottanta del XVIII sec. Ricordano ancora questa appartenenza i due patroni ecclesiali a Luserna, Sant’Antonio di 36 Luserna: c’era una volta Padova e Santa Giustina, inoltre il giorno della consacrazione, che tutte e due le volte cadde sul giorno commemorativo di Santa Giustina (7 ottobre). Lavarone tuttavia, alla quale Luserna era subordinata politicamente, ma non ecclesiasticamente, con quasi l’intera Valsugana faceva parte della diocesi di Feltre, dunque addirittura di un ambito ecclesiastico diverso da quello di Luserna. Da quando i lusernesi ottennero una loro chiesa ed un curato si ebbero svariati litigi con i parroci di Brancafora che ribadivano con energia i loro diritti parrocchiali perfino in casi in cui non erano più fondati a causa della curatia propria istituita a Luserna; i superiori ecclesiali più di una volta si videro costretti ad intervenire: così il 17 maggio 1745, il 16 aprile e l’8 giugno 1748; il curato in questi casi stava dalla parte dei lusernesi. Perfino oggi alcune diatribe non sono ancora appianate, anche se i parroci di Brancafora hanno dovuto ridurre sempre di più le loro pretese nel corso del tempo. Nel 1780, Luserna divenne indipendente dal comune di Lavarone, con l’assegnazione di una parte molto esigua del terreno comunale finora gestito in comune. Allora, la popolazione di Luserna deve dunque essere stata di numero ancora molto ridotto; oggi, visto il rapporto tra gli abitanti dei due comuni, Luserna avrebbe diritto ad un terzo dell’intero terreno comunale. I curati svolsero il loro incarico a Luserna senza riguardo alla lingua della popolazione. Benché singoli comprendessero e parlassero il dialetto di Luserna, nella chiesa e nella scuola tuttavia veniva usato esclusivamente l’italiano. Questo lo ribadisce oggigiorno spesso e volentieri il gruppetto dei locali schierati con gli italiani, quando si tratta di tuonare contro la “brutale oppressione della popolazione operata dai tedeschi” e contro la “germanizzazione”. Nel 1862 infine venne a Luserna, come curato, un sacerdote tedesco, Franz Zuchristian, oriundo di Oltradige presso Bolzano. Quanto si meravigliò di trovare nel suo attuale posto da pastore un dialetto tedesco (prima, fino al 1857, era stato curato a Faogna di Sotto, poi beneficiario a Magrè). Pubblicò questa “scoperta” su vari giornali, in modo molto approfondito sul “Boten f. Tirol und Vorarlberg”. In seguito, a Pasqua del 1866, visitarono l’isola linguistica il prof. dott. Ignaz Zingerle, raccoglitore appassionato di tradizioni popolari in Tirolo, e Chr. Schneller, allora professore di liceo a Rovereto, in seguito ispettore scolastico regionale di Innsbruck, che si era reso benemerito della raccolta e pubblicazione di fiabe e leggende del Tirolo italiano nonché delle ricerche sull’onomastica tirolese. Di conseguenza, Luserna veniva provvista di libri scolastici tedeschi. Già il 4 maggio 1866 la scuola che fino ad allora era stata italiana veniva trasformata in tedesca. Dato che in precedenza i curati, e fino al momento indicato anche il curato Zuchristian erano contemporaneamente maestri presso la scuola elementare italiana, non si poneva per la trasformazione il problema dell’insegnante; Zuchristian continuò ora la sua attività come insegnante tedesco, occupandosi delle classi superiori, mentre nella classe inferiore era in parte impegnata la sua governante, Elisabeth Spieß del Burgraviato, e in parte un dotato allievo della classe superiore. L’innovazione non incontrò alcuna obiezione nella rappresentanza comuna- Aspetti storici 37 le, che si dichiarò anzi espressamente a favore, come del resto tutta la popolazione. Purtroppo questa serenità e unanimità non durarono molto a lungo poiché nell’estate del 1878 arrivò a Luserna quale vicario un modenese che fece propaganda contro la scuola tedesca. In questa, il maestro a quel tempo non era più il curato Zuchristian, ma un giovane di Luserna, Simon Nicolussi, che nel frattempo aveva frequentato l’istituto magistrale ad Innsbruck ed era stato chiamato come insegnante nella sua terra, dove è tuttora attivo in questa funzione. L’agitatore italiano avvicinò anche questo giovane insegnante, chiedendogli di aiutarlo a rimuovere il curato Zuchristian dal suo posto. Senz’altro si sarebbe poi dovuta togliere la scuola tedesca; l’insegnante avrebbe comunque potuto assumersi la scuola italiana e qualora lui, il vicario, fosse diventato curato, avrebbe saputo trovare i mezzi e le vie per ricompensarlo del suo aiuto. Ma l’insegnante rifiutò indignato tali pretese sconvenienti e ben preso il vicario sparì da Luserna in seguito all’intervento del capitanato di Borgo. Il curato Zuchristian, che aveva un occhio aperto per le esigenze della popolazione povera di Luserna, ottenne con i suoi sforzi assidui che nel 1882 venisse istituita una scuola di merletti di tombolo e che questa nuova fonte di reddito tornasse a beneficio dei lusernesi. Solo che il fermento, una volta portato tra il popolo, aveva ormai plagiato alcuni elementi malcontenti e arrivisti come ce ne sono ovunque, e nell’autunno del 1883 si fecero notare le conseguenze della loro attività sediziosa; poiché da quell’anno si ebbe una netta separazione in due parti, cioè i sostenitori della scuola tedesca (i tedeschi) e i loro avversari (italiani). La lotta tra queste parti veniva spesso e volentieri condotta in modo assai astioso, sfociando non di rado in avversità personali che minavano gravemente la pace dell’isolato comune di montagna, sicché gli animi agitati fino ad oggi non hanno trovato pace. Non occorre trattare ampiamente quello che si presuppone sia la molla di questo movimento antitedesco a Luserna, dopo che il seme vi era stato impiantato nel 1878. Basti menzionare che l’attuale guida degli italiani a Luserna, alla nascita della scuola tedesca, aveva imparato con diligenza la lingua tedesca colta, e la parla bene. Quest’uomo venne una volta mandato dal comune a Trento, per una questione importante. Al rientro era completamente cambiato. Ora ad un tratto si vergognava della sua stessa madrelingua, vietava la lingua tedesca nella sua famiglia e introdusse l’italiano come lingua corrente. Da quel momento sviluppò una frenetica attività per danneggiare la causa tedesca. Quando gli italiani nel 1884 riuscirono alle elezioni comunali di ingannare il partito tedesco e di compilare il numero decisivo di schede elettorali a loro favore, la causa tedesca sembrava sconfitta. La rappresentanza comunale italiana si impegnava con ogni mezzo per eliminare la lingua tedesca quale lingua di insegnamento, cioè per abolire la scuola tedesca. Con massime come «per le esigenze del paese occorre soprattutto la lingua italiana, quella tedesca è invece utile solo in secondo luogo specie per i ragazzi, mentre per le ragazze è superflua», i nuovi potenti del comune cercavano di guadagnare il popolo per i loro veri obiettivi, nascondendo però il piano effettivo. Lo stesso anno 38 Luserna: c’era una volta (17 dicembre 1884), la rappresentanza comunale presentò un’istanza riguardante la scuola tedesca al consiglio scolastico provinciale. In essa si afferma che nei dintorni di Luserna si parlerebbe e si comprenderebbe solo l’italiano, che l’italiano sarebbe anche la lingua delle autorità, e poi da tempo immemorabile anche la lingua locale della chiesa; il dialetto di Luserna sarebbe stato usato sempre solo in secondo luogo; si ammette che in questo “dialetto rozzo” si incontrerebbe qualche radice derivante dal tedesco, prevarrebbero tuttavia le radici italiane. Il dialetto sarebbe inoltre privo di ogni regola grammaticale, per cui non capace di sviluppo, e ostacolerebbe addirittura lo studio del tedesco; non si desidererebbe comunque aprire dibattiti linguistici. La scuola tedesca non avrebbe riportato fino a quel momento neanche un minimo successo. I ragazzi, a scuola ultimata, non comprenderebbero né il tedesco, né l’italiano; ne risulterebbe un imbarbarimento religioso e morale, qualche ragazzo, a scuola ultimata, non saprebbe neanche le preghiere più importanti. Il comune pregherebbe dunque che nelle classi superiori sia dei ragazzi che delle ragazze venissero impiegati docenti che fossero qualificati per la lingua italiana e che avessero l’impegno di insegnare questa lingua ogni giorno per un’ora e mezza, inoltre che la catechesi venisse impartita solo in italiano. Nel caso questa richiesta non fosse accolta, i rappresentanti comunali chiederebbero l’autorizzazione di istituire con fondi comunali una classe superiore rispettivamente per i ragazzi e per le ragazze, con l’italiano come lingua d’insegnamento; per contro il comune dovrebbe essere esonerato da ogni contributo per la scuola tedesca. In merito a questo giudizio sul dialetto di Luserna cfr. infra il capitolo VI, in particolare i testi dialettali. Nella menzionata istanza si fa anche valere contro la scuola tedesca il fatto che i ragazzi non comprendono le spiegazioni tedesche della catechesi. Per mia esperienza personale di sei anni, posso affermare che è vero il contrario: nella scuola tedesca le spiegazioni della catechesi sono meno faticose che in qualche scuola di montagna del Tirolo tedesco; invece non si approda a nulla nella scuola di Luserna con le spiegazioni italiane di catechesi nelle classi inferiori; anche la maestra italiana doveva utilizzare la sua conoscenza linguistica del tedesco per spiegare ai piccoli i concetti con questo mezzo. Tali esagerazioni nell’istanza, lo sminuire della propria madrelingua a spese della verità, privilegiando l’idioma italiano straniero, dimostra quanto ci si sforzi a trovare una parvenza di prova; ma chi prova troppo, non prova nulla. In questo anno 1884, Luserna vide tre curati; Franz Zuchristian, che nell’inverno si dimise dall’incarico per motivi di età, poi Giuseppe Fruet, che vi rimase fino all’autunno. A lui seguì Joh. Bapt. Detomas fino all’anno 1886. Era di nazionalità italiana, ma aveva una perfetta padronanza anche del tedesco. Era un uomo calmo, mite, per cui la sua posizione a Luserna in questo periodo movimentato era motivo di grande imbarazzo per lui. Oltre che alla scuola tedesca, agli italiani era invisa anche la scuola dei merletti di tombolo; era un’istituzione tedesca, per la popolazione un beneficio e per questo atta a destare viva la simpatia della popolazione per i tedeschi. Gli elementi dominanti della rappresentanza comunale cercavano pertanto di ren- Aspetti storici 39 dere impossibile l’esistenza di questo istituto a Luserna, creando varie difficoltà. I tedeschi, in primo posto David Nicolussi Castellan, si impegnavano energicamente a favore dello stesso. Così si ebbero nuove liti e perfino un processo che si protraeva nel tempo. Così, la rappresentanza comunale filoitaliana aveva fatto tentativi per raggiungere le sue mete, ma senza ottenere un granché. Nel frattempo si avvicinava sempre di più il momento di nuove elezioni comunali (27 novembre 1887). Entrambi i partiti dovevano ora prepararsi all’evento e mobilitare tutte le forze disponibili. Il culmine dell’attività si ebbe nella notte precedente il giorno delle elezioni. Dato che i filoitaliani erano al timone, erano in vantaggio nei confronti dei tedeschi, avevano influenza decisiva nella nomina dei membri della commissione elettorale, nella stesura delle liste ecc. Il maestro Simon Nicolussi studiava molto attentamente la legge elettorale per impedire eventuali irregolarità ed evitare un annullamento delle elezioni previste. In questo modo si diffondeva una rigida disciplina tra gli elettori e un vivo interesse come forse si riscontra raramente in comuni di campagna. A Luserna era risaputo che gli italiani tentavano di comprare voti, il che dimostra i loro sforzi per salvare il loro stato patrimoniale. Il curato era allora Johann Steck, ora parroco a Magrè e consigliere provinciale, che di recente, sotto uno pseudonimo (Hans Etschwin), ha sorpreso gli amanti della bella letteratura con la poesia epica “Säben” (Sabiona). Egli dovette reclamare il suo diritto al voto dato che era stato ignorato nelle liste elettorali. L’elezione portò alla vittoria dei tedeschi; il rapporto dei voti era il seguente: Corpo elettorale Aventi diritto Voti espressi al voto Tedesco Italiano III 148 74 40 34 II 35 19 11 8 I 12 6 6 - Va aggiunto che l’elezione si svolse in un periodo in cui molti erano assenti perché impegnati in lavori altrove (vedi capitolo III). Alcuni di essi vennero ben chiamati anche da distanze considerevoli, ma non si poteva pretendere un tale sacrificio da tutti; ci si accontentava dell’attenzione per raggiungere una maggioranza di voti. Ma sebbene modesta, questa vittoria suscitò grande giubilo tra i tedeschi, veniva continuamente commentata e festeggiata in allegria, con del vino. Alle seguenti votazioni (1890) gli italiani parteciparono solo nel terzo corpo elettorale, ma senza successo; nell’anno 1893 e nelle elezioni che seguirono 6 anni dopo (11 gennaio 1900) non fecero nemmeno più un tentativo. Invece, si rivolsero all’associazione scolastica italiana “Pro patria”, raccolsero firme e gliele inoltravano con la preghiera di una scuola italiana. La Pro patria invitò poi, con articoli su alcuni giornali e con manifesti enormi ovunque, la popolazione al 40 Luserna: c’era una volta sostegno del Comune di Luserna italiano (!), gravemente minacciato dalle tendenze di germanizzazione. La petizione alla Pro patria sarebbe stata firmata da 56 capi famiglia, la Pro patria stessa indica il numero con «ben 60», che «hanno oltre 90 ragazzi in età scolastica» (ricorso della Pro patria contro il Comune di Luserna 24 nov. 1889). Più avanti faremo luce sulla faccenda dei “ben 60” capi famiglia e “90 ragazzi in età scolastica”. L’appello ebbe successo; nel Tirolo italiano veniva considerato una questione d’onore soccorrere il Comune di Luserna “italiano” minacciato. Intanto si acquistò terreno edificabile a Luserna, e il 6 agosto 1889 la Pro patria presentò una richiesta di licenza edilizia. Sulla storia seguente fino all’apertura della scuola italiana dispongo di oltre 50 pratiche, in base alle quali vorrei brevemente delineare il seguito. La rappresentanza comunale ora tedesca non aveva fretta di evadere la richiesta edile e cercava piuttosto di sventare il progetto della Pro patria. Questa però nella sua impazienza non poteva aspettare l’evasione della sua richiesta edile e voleva invece iniziare subito la costruzione. Il 31 agosto 1889 era indetto come giorno di festa per la posa della prima pietra. Allo scopo si riunirono a Luserna numerosi signori e signore di Rovereto, Calliano, Trento, Borgo e Lavarone. Di mattino presto, colpi di mortaretto annunciarono la giornata di festa; ma il giubilo venne soffocato sul nascere; i tiratori dovevano immediatamente presentarsi nella cancelleria del comune dove vennero messe a verbale le loro dichiarazioni e venne notificato un decreto ai due capi degli italiani, che vietava la costruzione, pena un’ammenda di 100 fiorini, anche se la costruzione consistesse solo nella posa della prima pietra. I due destinatari di questo decreto si degnavano ora di presentare una richiesta scritta, ma invano. In assenza del sindaco, i provvedimenti erano stati presi dall’insegnante e segretario comunale S. Nicolussi che nel frattempo aveva fatto avvisare il sindaco David Nicolussi-Castellan che si tratteneva nel “Wiesele”. Il sindaco giunse con Jakob Nicolussi-Galeno, ed entrambi si recarono immediatamente nella cancelleria del comune. Lì ben presto si presentarono alcuni partecipanti alla festa chiedendo il permesso per la posa della prima pietra e per la relativa festa. Il sindaco sottopose loro il decreto penale ricevuto. Volevano contrattare ma il sindaco dichiarò che non avrebbe ribassato la multa comminata neanche di un centesimo. Minacciavano di prendere di mira il sindaco su tutti i giornali, al che egli rispose tranquillo: «O, non mi fa proprio niente; sono talmente abituato a ciò che ci rimango male quando non succede». Ora la delegazione ne ebbe abbastanza; al loro ritiro, uno esclamò rabbioso: «Questo qua è il diavolo, non si ottiene niente». La festa era terminata. Il 12 novembre 1889 infine, il comune diede risposta negativa alla richiesta edile, e in lingua tedesca. La Pro patria vi fece ricorso, ed ora si susseguirono vari scritti di autorità, tentativi di giustificazione da parte del comune; tra l’altro al comune venne ordinato (6 dicembre 1889) dalla giunta provinciale di comunicare con le autorità e comuni del Tirolo italiano in lingua italiana. Si era ben capito che la questione edile veniva ritardata di proposito dal comune; perciò il 20 gennaio 1890 veniva comminata una pena pecuniaria di 20 fiorini al sindaco David Nicolussi-Castellan. I motivi e le obiezioni presentate dal comune contro la costruzione venivano definite insufficienti e irrilevanti; tuttavia non c’era ver- Aspetti storici 41 so per convincere il comune a rilasciare la licenza edilizia. Perciò la giunta provinciale stessa il 28 febbraio 1890 evase infine la petizione della Pro patria a suo favore. Due mesi dopo venne anche presa la decisione sulla questione linguistica di Luserna dalla suprema corte amministrativa, dopo che il comune aveva presentato ricorso (1 febbraio 1890) contro l’ordine sopra menzionato della giunta provinciale. Con la sentenza di questa istanza suprema venne confermato il provvedimento della giunta provinciale in merito all’evasione tedesca della richiesta della Pro patria, ma sospeso il suo ordine generale di evadere le pratiche per il Tirolo italiano solo in lingua italiana. A quanto pare, questa decisione soddisfece entrambe le parti a Luserna: il comune era contento di aver raggiunto almeno qualche cosa, mentre gli avversari pensavano di aver vinto la questione principale. L’edificio scolastico italiano venne iniziato subito dopo l’arrivo della licenza edilizia; ma anche per i tedeschi non erano più adeguate le aule scolastiche utilizzate fino a quel momento. Trovarono nell’Allg. Deutscher Schulverein un benefattore generoso che donava i mezzi per la costruzione di una nuova scuola e per la gestione di un asilo. A metà di aprile venne inaugurata la scuola privata italiana nella quale entrarono 27 ragazzi in età scolastica. Negli anni seguenti questo numero aumentò a 46, poi diminuì, e calò a 24 nel 1904. Quale divario tra queste cifre rispetto ai “90 ragazzi” che i sopra menzionati “ben 60” capi famiglia pretendevano di avere! A Luserna si trovavano anche membri paganti della “Lega Nazionale” (erede della “Pro patria”), ed era noto che il loro numero non raggiungeva nemmeno due dozzine, che di questi quasi la metà erano bambini in età scolastica e ancora più giovani, uno addirittura in culla, che anche questi bambini nella Lega Nazionale venivano chiamati, come gli adulti, “signor” e “signora”, che non tutti i membri sapevano di questa appartenenza alla Lega. Evidentemente tale manovra doveva far sembrare più alto il numero dei filoitaliani di quanto non lo fosse in realtà. Si presume che la situazione sia analoga per i “ben 60” capi famiglia. Mentre si lavorava ancora al nuovo edificio scolastico tedesco, avvenne l’inaugurazione dell’asilo tedesco (nel maggio 1893). Era provvisoriamente sistemato in un’ampia sala dell’appartamento degli insegnanti; quale prima maestra vi operava la signorina Mathilde Andrè (ora sposata v. Unterrichter). A lei toccava il compito gravoso di abituare i piccoli a questa novità e di educarli per la scuola. Lo assolveva brillantemente, con piena soddisfazione degli ispettori scolastici distrettuali e con la gioia dei genitori; perfino gli avversari riconobbero apertamente la sua bravura. Ancora adesso i lusernesi conservano un buon ricordo di lei. Anche le sue succeditrici si adoperavano per i bambini con zelo e abilità. Il 15 ottobre 1894 si poté occupare il nuovo edificio scolastico tedesco. Con i suoi muri spessi si presenta come una fortezza; a piano terra contiene due sale spaziose ed alte per l’asilo, al primo piano due aule e al secondo piano due appartamenti separati per le insegnanti della scuole elementare e dell’asilo. Nella scuola elementare hanno operato per alcuni anni varie insegnanti, ma nessuna si è guadagnata, per amore per la professione, per l’abilità nell’insegnamento e 42 Luserna: c’era una volta per una lunga perseveranza nell’importante posizione, il rispetto dei lusernesi quanto la signorina Luise Frick che è ancora lì attiva. La frequenza della scuola tedesca può essere considerata buona, nonostante la presenza della scuola italiana di opposizione. Il numero degli alunni dal 1893 non era mai sotto i cento. Attualmente (1904) ognuna delle due classi conta più di 60 ragazzi. Come risulta da quanto detto, specialmente David Nicolussi-Castellan si è sempre dimostrato, nei tempi tormentati delle lotte nazionali, un difensore della causa tedesca. Nel 1887 per la fiducia della popolazione era stato posto alla guida del comune. Solo su suo espresso desiderio impellente di potersi dedicare per qualche tempo di più alle faccende domestiche, si giunse nel 1893 alla decisione di cambiare il sindaco, scegliendo Jakob Nikolussi-Galeno, una figura imponente, l’immagine di un uomo pieno di forza, un carattere retto, aperto. Egli diede alla sua osteria il nome del suo eroe preferito Andreas Hofer. Troppo presto la morte lo portò via. Il suo successore nella carica era Joh. Bapt. Nicolussi-Paulaz, che purtroppo, a causa delle circostanze, per buona parte dell’anno non poteva soffermarsi a Luserna e dunque poteva occuparsi delle vicende comunali solo a periodi. Gli subentrò il molto giovane, ma abile Max Nicolussi-Galeno, figlio del summenzionato Jakob, dal carattere onesto e con una cultura che si trova raramente nei paesi di montagna. Alla sua morte precoce in seguito a disgrazia veniva pianto dappertutto. Gli succedette di nuovo il grande maestro David Nicolussi-Castellan nelle cui mani è ancora oggi la direzione del comune. Un avvenimento festoso nella storia più recente di Luserna è stata l’illustre visita dell’arciduca Eugenio il 27 luglio 1903. Quasi cento anni fa l’arciduca Giovanni aveva visitato Schlege (Asiago) “cimbro”, ed ora anche Luserna si pregia di aver ricevuto tra le sue mura, con grande entusiasmo e festosamente, un membro della casa imperiale. III I LUSERNESI E LA LORO ABITAZIONE, IL CIBO E IL MODO DI VIVERE I lusernesi e la loro abitazione, il cibo e il modo di vivere A. Costituzione fisica e costume tradizionale 45 8 Ats Lusérn das alt gerüsta is gånt vorlort, ma boast bia ’s is gest gemacht umbrom ’s issas khent au kontar. Dar Bacher khüt ke in di seln djar di månnen soin hèrta gest um di bèlt zo arbata un asó håmsa augenump ’s gerüsta von åndarn laüt un di baibar håmen au-gevlikt selbart di konsött pit gekhovaz geplettra, åna mear zo machas selbar in haus. I lusernesi sono generalmente di alta statura e hanno muscoli ben sviluppati. Anche nel sesso femminile non di rado si incontrano persone alte, tuttavia prevale tra di loro la statura media. Raramente si trovano comunque persone piccole. La carnagione del viso è fresca, bianca e rosea, anche fino ad un’età avanzata. Qua e là appaiono facce robuste, di colorito scuro, che vengono chiamati dar schwarz sia che si tratti di uomini o di donne (dunque con l’articolo maschile; salta agli occhi il o, mentre uno si aspetterebbe, come in altre parole, la “a” del medio alto tedesco). I capelli sono per lo più di un biondo scuro, meno spesso neri e più raramente ancora castani; capelli di un biondo chiaro o rosso acceso si trovano solo in singoli casi tra gli adulti. I bambini tuttavia sono in principio per lo più di un biondo dorato, ma già nell’età scolastica i capelli diventano un poco alla volta più scuri. Gli occhi sono prevalentemente grigi scuri, in un numero significativo di lusernesi anche “neri” (come si definisce normalmente questo colore scuro degli occhi), l’ideale di bellezza dei lusernesi; inoltre ci sono, in quantità decrescente, occhi castani, di color castano-ocra (grelate) e grigi-blu, raramente si trovano occhi di un bel blu. Sono molteplici anche le combinazioni tra il colore degli occhi e quello dei capelli. Vi sono persone biondo-scure dagli occhi neri, nere dagli occhi blu-grigi, castani scuri e neri. Il naso è in genere dritto, di lunghezza media, raramente curvo. Non si incontrano spesso nasini schiacciati. La bocca è comunemente di media grandezza; una bocca grande è considerata un’eccezione alla regola che viene notata e grossolanamente chiamata mumpft troge (boccata trogolo). È abbastanza rara anche una bocca piccola. Le labbra non hanno niente che dia nell’occhio, sono né carnose né sottili, e neppure si nota una particolare sporgenza degli zigomi o della mascella. I denti sono dritti e relativamente in asse gli uni sopra gli altri. Il viso è per lo più ovale, raramente tondo. Data la costituzione robusta, non di rado vengono dichiarati abili tutti i giovani alla visita di leva. Non si hanno persone deformi o malaticce. Una 8 Il Bacher descrive con ricchezza di particolari l’aspetto fisico e le caratteristiche degli abitanti di Luserna, fatto questo che non deve stupire in quanto all’epoca discipline come l’antropometria e gli studi sui legami fra caratteristiche fisiche e comportamentali (si pensi alle opere di C. Lombroso e A. Bertillon) godevano di notevole seguito all’interno della comunità scientifica. 46 Luserna: c’era una volta volta sposate, le ragazze di norma invecchiano rapidamente, il che è probabilmente dovuto – oltre al duro lavoro, all’alimentazione povera e ai molteplici pensieri – anche al lungo allattamento dei bambini che dura fino al quarto anno di età. Figura 2: David Nicolussi Castellan. Fonte: “Die deutsche Sprachinsel Lusern”. I lusernesi e la loro abitazione, il cibo e il modo di vivere 47 L’immagine raffigura è un esempio per il tipo di volto maschile; il tipo femminile è mostrato più avanti nell’immagine con il costume tradizionale, a pag. 41 9. Benché Luserna fosse molto isolata, non si è conservato l’antico abbigliamento. Nel sesso maschile è stata soprattutto l’attività lavorativa all’estero che ha comportato la modifica; la maggior parte dell’anno i lusernesi devono soffermarsi in terre lontane e preferiscono procurarsi lì un abbigliamento che non si distingua dagli altri e che poi, per fare economia, viene indossato anche a casa. Tuttavia, non pochi lusernesi andavano forse fieri di questi vestiti ritenuti migliori e più eleganti. Le donne venivano influenzate dai dintorni immediati nonché dal fiorire delle fabbriche. Trovavano che le stoffe di fabbrica erano meno costose e più piacevoli di quelle prodotte in casa. Ma alla maggiore raffinatezza delle stoffe non si addiceva più il taglio di una volta, sicché il costume antico è tramontato ormai più di una generazione fa. Come era fatto, lo sappiamo dalla tradizione orale, nel sesso femminile anche da rimanenze di pezzi di vestiario che tuttavia ben presto scompariranno del tutto. Io riferisco quanto ho potuto apprendere in merito dai racconti della gente. Gli uomini portavano pantaloni corti, ogni tanto anche in pelle, un gilet rosso (korpét), una giacca con lunghi lembi nella parte posteriore, lunghe calze bianche fin sopra il ginocchio e scarpe con fibbia di domenica, scarpe di legno invece nei giorni feriali. Per coprire il capo usavano un largo capello nero o portavano il berretto a punta (hås) con lunga nappa. I pantaloni venivano lavorati in lino colorato, il gilet in velluto rosso, la giacca in mezza lana (lana con filato colorato intessuto). Il costume femminile non era invece così semplice. Nelle donne, già il copricapo richiedeva maggiore cura. Le donne di Luserna portavano 4 - 5 trecce, di cui 2 - 3 dietro e 2 davanti. Da un orecchio, passando per la sommità del capo, fino all’altro orecchio tiravano la scriminatura a forma di mezzo cerchio. Le trecce anteriori venivano portate all’indietro e fissate sulla parte posteriore della testa con spilloni, dopodiché vi venivano avvolte attorno le trecce posteriori di modo che coprissero possibilmente l’intera nuca, mentre in tal modo da davanti la capigliatura si presentava liscia, pettinata indietro. Qua e là ancora oggi alcune donne anziane di Luserna portano i capelli in questo modo. Sulle trecce veniva posto il fiok (nappa), che però era un semplice nastro in seta, l’argenteo zitrar (il “tremolante”), due palline più grandi di piselli su fili metallici a forma di spirale; egualmente argentee erano le koraretschje (forcelle a forma di spada) fissate incrociate, lo steft (perno) e il kotschu (goccia), cioè due sfere della grandezza di ciliege, collegate da un asse lungo ca. 10 cm. La gonna una volta veniva confezionata dalle donne di Luserna nel modo seguente: cucivano una polák (corpetto) al quale fissavano le maniche per mezzo di cordicelle; così risultavano tante piccole patte attorno al braccio. Il seno veniva coperto con una vürplez (pettorina) ricamata, come la portano ancora oggi le donne del Ticino. Le don- 9 In questa versione del testo, l’immagine si trova a pagina 49. 48 Luserna: c’era una volta ne sposate avevano attorno al collo un bavero bianco che arrivava a coprire le spalle. Sotto le pieghe della gonna era fissata la boldù per rendere la gonna ampia ed indicare fianchi formosi. Le boldù erano cuscinetti riempiti con trucioli. Il grembiule (s’vürta) era rosso, fatto di filato cambrì. I piedi venivano coperti da calze bianche e scarpe basse. Questo era l’abbigliamento della domenica. Durante la settimana le donne di Luserna portavano una gonna di filato tinto nero e il grembiule di filaccia filata. Ai piedi portavano scarpe di legno o feltro e in testa un fazzoletto color scuro. Il bavero, negli uomini, era cucito sulla camicia; nella parte anteriore si eseguivano su entrambi i lati 2 - 3 piccole cuciture. Le camicie delle donne venivano fatte di lino grezzo e ornate al collo e alle maniche con pizzo bianco. – Per il ballo le ragazze si presentavano in gonna rossa, chiamata valèsch. – Il vestitino dei bambini era una camicia bianca, con sopra una gonnellina anch’essa bianca, tenuta da nastri a mo’ di bretelle. L’abbigliamento maschile, dopo l’abbandono del costume antico, è lo stesso di quello borghese-cittadino di altre località, ma segue di più il gusto tedesco che quello del Tirolo italiano. Nelle donne il costume successivo non era più caratteristico come quello vecchio, ma conservava ancora qualche peculiarità. La capigliatura, fino a 30, 40 anni fa, era rimasta come sopra descritta. Le strette maniche della giacchettina presentavano fitte pieghe cucite dalla spalla fino al gomito. La giacchettina poggiava stretta in vita. Le gonne erano ampie, i grembiuli larghi e lunghi. Durante la settimana si portavano gonne fatte di filato di bioccoli di lino, prodotto in casa 10; per la combinazione fine dei colori naturali rosso e blu avevano un delicato aspetto mélange. Le giacche comunque, anche quelle dei giorni feriali, venivano fatte di stoffa comprata. Il colore dell’abbigliamento domenicale era in prevalenza grigio e marrone. Fino a metà degli anni ottanta del secolo passato le donne e le ragazze, in estate, andavano a messa in maniche di camicia. La coltivazione del lino non è praticata a Luserna, nonostante le condizioni climatiche lo consentirebbero. Ai tempi del Bacher, comunque, la situazione era diversa e questa coltura era parte integrante dell’economia del paese. In passato, infatti, come racconta Hans Nicolussi Castellan nel suo scritto “Luserna: la perduta isola linguistica”, la povera gente non poteva comprarsi la stoffa a causa della carenza di denaro, perciò per confezionare i vestiti, utilizzava i mezzi di cui disponeva. Le donne tosavano e filavano la lana, disponibile per la presenza di pecore, per creare tessuti per vestiti e coperte; mentre per ottenere la tela per lenzuola, asciugamani e camicie coltivavano il lino che veniva poi filato in fili sottili. La “mezzla”, tessuto forte e durevole, veniva ricavata dalla tessitura di fili di lino e lana. 10 I lusernesi e la loro abitazione, il cibo e il modo di vivere Figura 3: Donna di Luserna in costume tradizionale. (Signorina Marie Gasperi, attualmente maestra a Proves). Gli elementi non corrispondenti alla descrizione fanno parte di una moda successiva, ma non ancora del presente. Fonte: “Die deutsche Sprachinsel Lusern”. 49 50 Luserna: c’era una volta L’attuale costume delle donne di Luserna è in uso da ca. 30 - 40 anni. Si utilizza ormai solo stoffa acquistata. Le gonne e le bluse sono per lo più di colore blu scuro, verde scuro e nero, raramente grigio. Le persone anziane portano ancora le giacchette corte fino in vita che negli abiti della domenica vengono fissate alla gonna, mentre durante la settimana vengono portate sciolte e lasciate aperte davanti. Il polak (corpetto) viene usato comunemente nei giorni feriali, nei giorni di festa invece, tra le ragazze più giovani, cede il posto al bustino. Anche in altri casi le ragazze più giovani seguono la moda più attentamente rispetto alle loro coetanee di campagna nel Tirolo tedesco. I grembiuli per i giorni di festa e di lavoro diventavano nuovamente stretti e corti. Il copricapo, per i giorni di festa e di lavoro, è sempre un fazzoletto colorato; solo le ragazze più giovani si presentano in chiesa di domenica per lo più senza niente in testa. Come calzatura le donne usano nei giorni di lavoro gli zokln 11 (scarpe di legno), zapedje (babbucce) e fötsch (scarpe di feltro). Gli uomini portano sempre le scarpe, le donne e le ragazze invece solo nei giorni di festa. Si scorgono ancora qua e là le ciocche sopra l’orecchio legate alla capigliatura più antica: girate a forma di disco, sembravano piccoli nidi e vengono chiamate menala. Non sono più di moda le due ciocche civettuole in fronte, che venivano attorcigliate a mo’ di corno e per questo erano chiamate horn (corno); le ragazze invece si accontentano ora di due trecce che vengono fissate dietro alla testa. Nei giorni di festa portano al collo fettucce di color chiaro (rosso, blu, bianco, marrone, nero vellutato, più raramente verde), a volte anche cordicelle di capelli con crocette. Di rado si vedono sottili catenine di oro e argento. Sono rari negli uomini gli orecchini, tanto più frequentemente si vedono nelle donne e ragazze, ma sono comunque semplici, a differenza dai grandi orecchini penduli, ornati di corallo rosso, delle italiane. Si usa comunemente la spilla; è tuttavia un’eccezione se qualche ragazza ne porta 2, addirittura 3 (al collo e più in basso, sul petto). Ai matrimoni la sposa non porta né il grembiule bianco né la coroncina come si usa nel Tirolo tedesco, ma abiti neri; solo il grembiule tibet in genere è blu. Non ci si preoccupa dunque più dei vecchi spraüch (detti) secondo cui porta sfortuna il color nero nel giorno del matrimonio. I foulard, di seta e relativamente grandi, sono di colore vivace. Da alcuni anni la sposa a volte porta anche un grembiule nero ornato con pizzo di seta, più raramente di lana, oppure rinuncia del tutto al grembiule e al foulard se non sembrano più adeguati al taglio moderno dei vestiti. Gli zoccoli venivano prodotti in casa dagli uomini che da un pezzo di legno duro costruivano la suola, su cui veniva inchiodata la “überschüa” in pelle. La parte inferiore della suola era provvista di chiodi di ferro perché si conservassero a lungo. 11 I lusernesi e la loro abitazione, il cibo e il modo di vivere 51 B. L’abitazione Di earstn haüsar vo Lusérn soin gest au-gemacht pit holtz un di tecchar gedekht pit prettar. ’S lånt is khent herta gröasar un laise laise di haüsar soin khent augemacht nützante herta meara khnot in platz von holz. Chi arriva a Luserna sulla strada di Monterovere, incontra per prima la chiesa. È dedicata a Sant’Antonio di Padova, ma non può proprio essere chiamata l’orgoglio dei lusernesi per via del suo aspetto fatiscente, specie dall’esterno dà un’impressione molto povera 12. La torre è coperta da una mezza cupola. La cupola intera, che si trovava sopra la stessa, negli anni novanta del secolo scorso è stata strappata da una violenta tempesta e scaraventata in strada. La chiesa è costruita in stile pressoché romanico, porta sopra la navata una volta a botte massiccia e sopra il presbiterio una di gran lunga più debole. Le finestre, poste molto in alto e piccole, hanno la forma di un rettangolo posizionato in verticale, il cui lato superiore si apre a forma di arco a tutto sesto. L’interno si presenta disadorno e nudo. L’altare principale comprende solo la mensa e il tabernacolo di bella lavorazione in pietra e lucidato con cura per cui prende l’aspetto di marmo levigato con vene colorate. Su entrambi i lati del tabernacolo sono approntati tramezzi in legno, dipinti grossolanamente, per nascondere dallo sguardo dei presenti il presbiterio che si trova dietro all’altare. In fondo del presbiterio è appesa al muro l’ancona. Il tabernacolo e le tre acquasantiere non si addicono al resto dell’arredamento della chiesa. Del tabernacolo riferisce la tradizione orale che sia arrivato a Luserna come dono della chiesa di Sant’Antonio di Padova. Si presume analoga la provenienza delle acquasantiere. La chiesa ha un solo altare laterale, cioè all’estremità orientale della bassa navata laterale. L’ancona qui è una statua in legno dell’Immacolata posta in una nicchia del muro. Le case più vecchie per la maggior parte sono costruite raggruppate. Hanno marcati lati lunghi e lati cuspidali, e portano un tetto a due spioventi. Se isolati, i lati cuspidali sono murati fin su al comignolo. L’ingresso si trova sul lato lungo che è sempre rivolto verso la strada 13. Per lo più però si può parlare di la- 12 Il Bacher annota: «Dato che la chiesa è anche troppo piccola, attualmente si stanno facendo preparativi per una nuova costruzione in stile gotico». 13 Nel testo “La casa villereccia delle Colonie Tedesche Veneto-Trentine”, Aristide Baragiola sostiene che Luserna non differisca molto dai villaggi trentini e che presenti i tratti tipici dello Strassendorf, «cioè un villaggio con due file di case, fiancheggianti una strada» anche se «in origine non doveva essere uno Strassendorf […] infatti le vecchie case sono fabbricate a gruppi, l’uno dall’altro discosti, fra i quali si sono mano mano interpolate le successive costruzioni, in modo da formare col tempo un vero e proprio Strassendorf». 52 Luserna: c’era una volta to lungo solo nel senso che due o più parti abitative danno dall’esterno l’impressione di una casa. L’usanza di separare una casa ereditata dal padre in più parti abitative, con ingressi separati, si è conservata fino ad oggi. Se per esempio due fratelli ereditano dal padre una sola camera (Stube), anche questa viene divisa con un muro, e colui a cui per sorte tocca la parte senza ingresso ricava immediatamente una porta nel muro per cui abita con la sua famiglia separato dal fratello. Per questo e in seguito a aggiunte di fabbricati, non di rado la forma originale della casa è stata notevolmente modificata. Nelle case a due piani a volte la cucina situata al primo piano dev’essere usata anche dagli abitanti del secondo piano. D’altro canto sembra che più case siano state anche effettivamente costruite una attaccata all’altra: presentano lati cuspidali nelle estremità libere, hanno tetti a due spioventi, si distinguono però una dall’altra marcatamente per l’altezza ineguale, per la sporgenza o la rientranza dei muri principali rispetto a quelli della casa contigua. Come abitazione serve spesso anche il pianoterra, che è generalmente un vano coperto da una volta, chiamato rovólt. Sostituisce qualche volta, nelle vecchie case, la cucina, il soggiorno (Stube) e la camera da letto con un unico vano; qua e la il rovólt ha ben anche una stanza aggiuntiva, rare volte più di una. Se lo spazio lo permette, il primo piano presenta oltre alla cucina anche una “Stube” – che però serve pure da camera da letto –, e a volte una o più camere. 5 3 a 2 1 4 6 DA UNO SCHIZZO DEL MAESTRO S. NICOLUSSI 1. Kurt (corte) - 2. Slafhüt (capanna per dormire) - a. Biòsan (dal sing. Biòs giaciglio) 3. Vaür-Khesar (casara del fuoco o cucina) - 4. Milch-Hüt (capanna del latte) 5. Khes-Khesar (casara del cacio) - 6. Stiar-Stal (stalla del toro). Figura 4: Schema della casa tipica di Luserna Fonte: Aristide Baragiola "La casa villereccia delle Colonie Tedesche Veneto-Trentine”. I lusernesi e la loro abitazione, il cibo e il modo di vivere 53 Le case più recenti 14 hanno una pianta quasi quadrata. Considerando lato lungo il lato della casa che scorre parallela al corto comignolo, si può dire che sul lato cuspidale i muri non raggiungono, come nelle case vecchie, il colmo, ma fanno posto in alto, dove iniziano gli spioventi, ad una cuspide triangolare, che con la punta tocca l’estremità del comignolo accorciato. Raramente questi triangoli del tetto sono più corti degli spioventi e di conseguenza i lati cuspidali murati in su fin sopra l’inizio del tetto. Come materiale si usa per lo più legno nella costruzione dei tetti. Nelle case più vecchie, le scandole sono ancora sovrapposte a mo’ di scaglie e appesantite con pietre, in quelle più recenti il tetto ha un aspetto più liscio, le scandole in legno vengono inchiodate in fila. A volte si usano come materiale di copertura anche piastre informi di pietra, come escono dalle cave; mancano del tutto tetti di mattone o paglia 15. Se non basta lo spezzettamento dei vani abitativi, occorre mettersi a costruire una casa nuova. Questa viene progettata molto più grande di quanto serva al presente, e si erigono i muri principali, che si cerca di coprire con un tetto al più presto possibile. In un primo momento viene sistemato e arredato solo lo spazio strettamente necessario, ad esempio il pianoterra e una parte del primo piano, mentre ad esempio il secondo piano o più viene lasciato come costruzione grezza. Se i figli del proprietario, crescendo, hanno bisogno di più spazio o suddividono la casa tra di loro come eredità, spetta a loro sistemare l’abitazione. Come nelle case vecchie, a volte anche in quelle nuove l’ingresso non dà direttamente in cucina; più spesso comunque il pianoterra viene separato con un corridoio in due file di vani. Anche le stalle si trovano per lo più al pianoterra della casa abitativa, a volte si tratta di edifici separati in cui viene poi conservato il foraggio nei vani sopra la stalla. Altrimenti si usa come spazio per le provviste di fieno, legna e simili, la soffitta (di tetsch). Vi si arriva attraverso un’apertura simile ad una porta, sopra l’ingresso della casa, oppure si sale dalla cucina su una håntstiage (scala) attraverso un buco predisposto nel soffitto che a volte deve servire anche da camino; viene chiuso con il robálz (asse di copertura). Attraverso questa apertura le provviste vengono trasportate in soffitta e all’occorrenza portate giù un po’ alla volta. A pianoterra si trovano anche le poche cantine per il vino. Dall’esterno, solo pochissime case hanno una copertura di malta, perciò gli edifici si presentano per lo più come costruzione grezza 16. A ciò contrastano a volte 14 Aristide Baragiola racconta di aver visitato Luserna in due diverse occasioni, nel 1893 e nel 1905. Egli sottolinea come «in dodici anni quel paesello alpestre (886 abitanti) […] non ha subito nessun cambiamento nell’edilizia rustica». 15 A causa di un devastante incendio scoppiato il 9 agosto 1911 che danneggiò gran parte dell’abitato, le caratteristiche scandole in larice ampiamente utilizzate a Luserna per il rivestimento dei tetti vennero progressivamente abbandonate a favore di rivestimenti in lamiera zincata, più resistenti al fuoco. 16 A causa della scarsità di acqua e sabbia, nonché della povertà degli abitanti, solo poche case erano state intonacate. 54 Luserna: c’era una volta elegantemente le scale in pietra lavorate con cura e precisione17. A Luserna non mancano le pietre, a differenza da sabbia di qualità, da cui deriva l’aspetto delle case. In molti casi comunque la copertura con malta e intonaco non servirebbe dato che il fumo può uscire solo dalla porta d’ingresso, sporcando notevolmente di fuliggine il lato esterno. Sul lato nord delle case si tralasciano completamente le finestre di modo che d’inverno non possa entrare il vento freddo da nord. La stanza di gran lunga più importante all’interno della case è la cucina, chiamata comunemente haus dai lusernesi. Laddove non è entrata nelle abitazioni la moderna cucina economica, il focolare è spesso costituito solo da una buca poco profonda nel pavimento. In presenza di un camino, il focolare è leggermente rialzato e sopra lo stesso si scorge un’enorme cappa (di nap), che a volte è murata, ma più spesso solo formata con travi in legno (trem) come il soffitto della cucina, e coperta da uno strato di fuliggine duro e lucente. Sulle travi del soffitto si Figura 5: Scala di Luserna. inchiodano delle assi, e il soffitto è pronto. Spesso però i trem sono muniti con tavole (kantineln) poste di traverso, sulle quali vengono gettati poi pietre, ghiaia e simili per riempire gli interstizi. Il soffitto preparato in questo modo tiene più caldo ed è meno incendiabile, dato che viene rivestito con malta nella parte inferiore. Sopra il focolare pende dal soffitto una forte catena di ferro (di hel) con grandi anelli e due ganci forti, uno per appendere il paiolo, l’altro può essere inserito negli anelli più in alto o più in basso. Attorno al focolare sono predisposte delle panche in legno per potersi Figura 6: Tipico focolare di Luserna. A Luserna è sempre stata fiorente l’attività della lavorazione della pietra, al punto che gli scalpellini del paese erano molto ricercati anche altrove in quanto abili intagliatori. Ancora oggi un retaggio di questa attività sopravvive nello stemma comunale, che raffigura una punta e un martello da scalpellino incrociati. Inoltre per le vie del paese è tuttora possibile vedere alcune testimonianze del lavoro di questi artigiani come ad esempio la scala in pietra di via Roma. 17 I lusernesi e la loro abitazione, il cibo e il modo di vivere 55 scaldare comodamente. La cucina viene comunque usata molto come luogo di ritrovo, qui si lavora a maglia, a tombolo, si cuce, si lavora a uncinetto, qui il padre di famiglia ripara i vari utensili o ne crea dei nuovi, qui scalpella scarpe di legno, si cimenta nella produzione di botti di legno, costruisce rocche, gabbie dei polli, slittini e culle, questo è il luogo per il filò nonché per fare la politica del paese, qui si tratta, si loda, si critica, si condanna qualcheduno, si presentano scuse, qui si formano rapporti che possono avere una grande rilevanza per tutta la vita. Si, la cucina è il vano più importante della casa, è la casa (haus) nel senso vero e proprio. Fa parte del suo arredamento lo scaffale per le stoviglie (di stel), che accanto ai piatti ecc. porta in alto anche i grandi paioli in rame (di feachtkhesldar), ma nasconde sotto i kazadreln (secchi in rame per l’acqua) e i zikln (contenitori per l’acqua in legno, simili a tinozze). Questi ultimi vengono per lo più costruiti nei Sette Comuni e provvisti di ornamenti bizzarri in lamiera stagnata. Entrambi i tipi di contenitori d’acqua vengono portati, com’è usanza tra gli italiani, con un ziklstà (bastone) poggiato sulla spalla, uno davanti, uno dietro. Sotto i kazadreln e zikln stanFigura 7: La cucina. no sul pavimento le pentole e sono appoggiati i khesldar (paioli in rame più piccoli), la cui parte interna rossa brillante è rivolta verso l’osservatore. Nel khesl si cucina la pult (polenta), la patatan pult (polenta di patate) e il petarlång (mosa di patate), si bolle i plètschan vor di sboi (cibo per maiali) o anche patate allo stesso scopo. Accanto ai khesldar appoggiano i ramila (pentolini molto piccoli in rame) in cui si cucina i geschabata bröde o qualche altro süple (minestrina). I rari paioli in ferro vengono solo usati per scaldare l’acqua per le pulizie ecc. Nei pfånen si prepara il caffè e si abbrustolisce la carne. Anche i ula von kraut (vasi per cavolo) trovano posto qui, come i bassi tetschela fittili in cui si arrostisce carne o funghi o si cucina türtla (piccole torte). I löfl (cucchiai), perù (forchette) e messardar (coltelli), chiamati anche posan, vengono o messi insieme in un cestino oppure inseriti dietro listelli di legno fissati ad un’asse, i cucchiai sopra, le forchette in mezzo e i coltelli nella fila più bassa. Inoltre si trova a volte in cucina anche un tavolo, nonché il schrai e un khast, nel quale vengono conservati bottiglie, bicchieri e alcuni attrezzi come tenaglie, trapani, martelli e simili; non manca nemmeno la kaponara (gabbia dei polli). Nella Stube la cosa più vistosa è sempre una grande, larga loter (lettiera) che nelle Stube piccole lasciava poco spazio ad altro 18. Al di sotto si trova una se- Il Bacher fa notare che «nella vicina Italia si trova spesso lettiere molto più larghe ancora, che offrirebbero comodamente spazio a 4 persone per dormire». 18 56 Luserna: c’era una volta conda lettiera (loterle), che scorre su rulli di legno (rödela) e viene in caso di bisogno estratto dalla parte dei piedi, sotto la grande lettiera. Il loterle serve per lo più ai bambini come giaciglio, a volte anche alle ragazze adulte. Quando il loterle è inserito sotto il lotar ha l’aspetto di un grande cassone costruito grossolanamente in legno. Sono contrapposte la parte della testa e dei piedi delle due lettiere. Nella Stube si trovano inoltre un tavolo rettangolare e alcune sedie di paglia; non sono usuali sedie in legno. La stufa è per lo più di argilla, più raramente vengono usate fornelle, ciò soprattutto quando il fumo dalla cucina economica viene condotto tramite tubi in lamiera nella stufa, dove deve attraversare i vari reparti e estendersi ovunque prima di poter evadere. Dove si cucina molto o dove si cuoce il cibo per gli animali basta un siffatto riscaldamento, altrimenti stufe di questo tipo possono essere scaldate come quelle normali. Raramente si trovano panche attorno alla stufa. Inoltre nella Stube si trova per lo più la lade, una cassa in legno con copertura. Un pezzo d’arredamento caratteristico è il maur-khast a base triangolare, che è fatto su misura per un angolo della Stube e la riempie come prisma trilaterale. In esso si conserva lo zucchero, il caffè, s’ sekhla von salz nonché l’olio combustibile e da tavola. Anche il schrai è più spesso nella Stube che in cucina. Assomiglia abbastanza alla lade, ma è più alto e contiene due o tre reparti per la farina di frumento e mais, nonché per il riso, mentre la lade ha un vano unico per biancheria, vestiti, lettere e documenti; in essa vengono custoditi anche i soldi. A volte si trova nella Stube un khast in di maur, cioè una nicchia nel muro, chiudibile con porticine in legno, a volte rivestita con tavole in legno. Viene usato come il maurkhast. Non si trovano a Luserna Stube rivestite con pannelli in legno; sono rare anche le tavole con piano ribaltabile, mentre entrambi sono usuali in molte Stube contadine del Tirolo tedesco. A Luserna sono appesi ai muri nudi, che spesso hanno perso da tempo il loro intonaco bianco, diversi santini, corone, medaglie, fotografie e vari soprammobili, nonché lavori d’intreccio degli allievi dell’asilo tedesco. Non manca neanche l’acquasantiera nella Stube e a volte si scorge perfino un orologio da parete. Le camere, che durante il giorno rimangono quasi isolate dalla vita casalinga, sono arredate in maniera molto povera e servono inoltre spesso come magazzino per oggetti di ogni tipo e per alimentari che non si possono tenere in cucina e nella Stube. Abbiamo già parlato innanzi della soffitta e del suo utilizzo, come pure dei vani a pianoterra quando servono da abitazione, cantina e stalla; inoltre vengono utilizzati per la conservazione di lettiera e di attrezzi per i lavori campestri, come pure di patate, crauti e altre verdure. I lusernesi e la loro abitazione, il cibo e il modo di vivere 57 C. L’alimentazione ’ S geessa von lusernar is gest arm, sa håm gest bas sa håm gehat: pult, patatn, patatanapult, gerst, virtzan, khes, sbem, ecc. Per quanto riguarda il cibo, i lusernesi si accontentano di poco. Hanno in comune (come una gran parte della Valle dell’Adige tedesca) con il Sudtirolo italiano e con l’Italia superiore il cibo principale, la pult 19 (polenta). Come mostrano i suppellettili della cucina e certi modi di dire (gewinnen sa di pult), questo cibo è entrato da molto tempo nelle case dei lusernesi. In generale si distingue nella preparazione e nel tipo del cibo un periodo antico e uno più recente. Già i vecchi lusernesi consideravano la pult il pasto principale. Si procuravano la farina di mais dal untarlånt (Italia). I contorni consistevano in formaggio e Zieger (formaggio di capra), d’inverno venivano consumati in aggiunta crauti, in primavera cumino dei prati bollito in acqua e condito con schmalz (burro), in estate insalata o virzan (verza), in autunno indivia, rafani, rape rosse, sedano o cavolo rosso. Per merenda il cibo era lo stesso. Di sera veniva portata in tavola la patatan pult (polenta di patate) o dar petarlång o riso con patate, anche passata nonché di patatan o sürchana korschentz (torta di patate, torta di mais) e minestra d’orzo. Per preparare la patatan pult si pelano patate crude che vengono fatte bollire; poi vengono mescolate metà e metà con farina di frumento e di Figura 8: La polenta. mais e il tutto viene ben lavorato con il schmökar (pezzo di legno a forma di clava). Per cucinare il petarlång si fanno bollire in acqua patate sbucciate, si aggiunge latte e si mette nella miscela farina bagnata, che viene sbriciolata tra le dita. Il tutto viene mescolato ben bene con il pultnstek (bollero) o il tarel (frullino). Ris on patatn (riso con patate): patate crude venivano pelate, tagliate a pezzi e bollite in acqua; vi si aggiungeva riso e latte o burro. I vecchi lusernesi cuocevano la purea di farina di mais come si usa ancora oggi altrove, solo che una volta si aggiungeva alla pappa una manciata di crauti. Da patatan korschentz: patate lesse venivano pelate, mescolate con farina di mais e il tutto veniva impastato. Poi si formava una torta tonda, alta circa tre dita, e la si cuoceva in cenere rovente. Da sürchan korschentz: farina di mais veniva sbattuta con acqua e fritta in olio. Da korschentz bet’n (con) gevroratn patatn (gelate): in primavera si raccoglievano le patate rimaste sui campi dall’autunno, le si impastava con farina di frumento e si cuoceva la mi- 19 Per le ricette si veda la pagina 59. 58 Luserna: c’era una volta scela come la torta di mais. La minestra d’orzo (’s manestar): si mette chicchi d’orzo e acqua in una grande pentola sul fuoco; quando l’acqua si è ridotta per la cottura, la minestra viene salata e condita con latte o burro. A volte si cuoceva anche la tscharent, chiamata das geèsa von schevar (cibo dei pastori): metà di una pult cotta si lasciava in pentola, aggiungendo un litro di formaggio caprino liquido; si cuoceva l’insieme ulteriormente, versandovi poi del burro fuso. Se un cacciatore portava a casa della selvaggina, veniva arrostita patatan pult. Non conoscevano il caffè; lo bevono solo da circa cinquant’anni, e adesso aniaglas (ogni) waibe drai ülela (tazze). Ai malati veniva dato brobosà (minestra di farina soffritta) con farina di mais e cumino. Contro il mal di pancia dei bambini si usava acqua con l’aggiunta di sale e pepe. La maggior parte dei cibi sopra menzionati sono in uso ancora oggi, cioè di pult, di patatan pult, dar petarlång, ris on patatn, s muas (adesso tuttavia senza crauti), di patatana korschentz e (ma solo raramente) di korschentz. Al cibo per malati sopra indicato si aggiunge oggi anche l’inevitabile caffè nero. Dei tempi più recenti sono: di geschabata bröde (minestra): all’acqua bollente si aggiunge un po’ di burro e pane gschabats (grattugiato). Di frigolöt o tanjöln: si fa bollire acqua (mescolata con latte o condita con burro); poi fruglt ma drin (si sbriciola con le dita, facendola cadere nel liquido) farina bagnata e si mescola bene il tutto. Di makarü on di bigln: si aggiungono makarü (maccheroni) o bigln (pasta più piccola) in acqua salata bollente. Poi si fa colare l’acqua e si röastet drau, cioè si aggiunge formaggio grattugiato o pezzetti di acciughe e si versa sul tutto burro fuso caldo o olio cotto. Di lasanjetn (pasta da minestra) vengono cotte in acqua e condite con un po’ di latte (minestra); oppure viene scolata e röastet drau schmalz (arrostita con strutto); poi si dice: ma est sa trkhan. Al petarlång si aggiungono oggi ancora fagioli verdi. Di patatan njokn: patate pelate vengono bollite, scolate, schiacciate con il schmökar, mescolate con farina di frumento e impastate bene. Dall’impasto si formano gnocchetti e si mettono in acqua bollente; poi vengono scolati e si rostet drau formaggio o pezzetti di acciughe. I boazan njockn vengono preparate come sempre, kanödl e khrapfan sono rari. Dar turt (torta) viene preparata nei giorni di grande festa: si mescola farina di frumento con latte, uova, burro, salumi, uva passa e mandorle dolci e si cuoce la miscela nel batzina (catino). Infine khrazt ma drau zükar cioè si sminuzza zucchero e con esso si cosparge dar turt che normalmente viene mangiata fredda. I contorni sono oggigiorno più vari rispetto ad una volta. Si usa oltre a formaggio, formaggio di capra e cavolo anche carne, salumi, latte, uova e molti generi di funghi. Gli ultimi vengono abbrustoliti freschi con burro, o meglio con olio, e conditi con salvia, aglio o cipolla. A qualche tipo di fungo (brisan e pfafsbem) viene tolta la pellicina, nei brigalde e pfafsbem viene levato il pet (parte inferiore, lamellare del cappello) schnozege (mucilagginoso). I röatling vengono solo spennellati con burro o olio, conditi con sale e pepe e semplicemente arrostiti alla griglia, mentre gli altri vengono abbrustoliti in un vaso fittile. Luserna è ben provvista di pane. Dato che si trova un panettiere nel villaggio, è possibile trovare ogni giorno pane bianco fresco. Talvolta viene cotto in forno anche pane di patate (miscela di farina e patate ben schiacciate). Quattro osterie coprono sufficientemente il fabbisogno di bevande. In primo luogo viene offerto vino e acquavite; in estate si ottiene anche birra, cioè in bottiglia sempre, alla spina invece solo nei giorni festivi. Purtroppo, anche a Luserna si beve eccessivamente. I lusernesi e la loro abitazione, il cibo e il modo di vivere 59 Alcune ricette tipiche di Luserna DI PATATANA PULT - LA POLENTA DI PATATE Sbucciate alcune patate, tagliatele e mettetele in un paiolo. Aggiungete l’acqua necessaria per coprirle e lasciatele bollire fino a cottura ultimata. A questo punto schiacchiate le patate, aggiungete sale e farina bianca, in modo da ottenere un impasto morbido e piuttosto denso. Cuocete l’impasto sul fuoco medio per circa 30 minuti, continuando a mescolare. A cottura ultimata, versate la polenta di patate sul tagliere e tagliatela e servitela come una polenta tradizionale. Si accompagna molto bene con carni in umido, selvaggina e formaggio. DI PATATANA KORSCHENTZ - LA FOCACCIA DI PATATE Lessate le patate senza sbucciarle. A cottura ultimata sbucciatele e schiacciatele. Lasciatele raffreddare e poi aggiungete un pizzico di sale, latte, un uovo o due, a seconda della quantità di patate, ed infine della farina. A piacere potete aggiungere dell’uvetta oppure dei fichi. Lavorate bene l’impasto, fino a renderlo omogeneo. e poi versatelo in una padella bassa e larga dove avrete già versato dell’olio. Stendetelo in modo uniforme e lasciate cuocere a fuoco molto lento. Quando la focaccia sarà dorata da una parte, giratela dall’altra. A fine cottura, toglietela dalla padella e lasciatela raffreddare. Servitela tagliata a fettine spolverizzate con dello zucchero semolato. DAR PETERLÅNG - LA “MOSA” DI PATATE Lessate alcune patate, sbucciate e tagliate a pezzi. Quando le patate saranno cotte, salatele e schiacciatele direttamente nella pentola. Aggiungete poi latte e farina e mescolate molto bene il composto. Cuocete per circa mezz’ora, continuando a mescolare per evitare che si attacchi alla pentola. A fine cottura, versate il preparato nei piatti, aggiungete un po’ di latte e servite. DAR KAVRITZ - IL SUGO BIANCO Sciogliete un po’ di burro in un tegame e aggiungete alcuni cucchiai di farina bianca, mescolate e lasciate imbrunire per qualche istante. Aggiustate di sale e aggiungete poi dell’acqua per ottenere il sugo. A piacere potete aggiungere dei pezzetti di lucanica che andranno lasciati cuocere per circa 30 minuti. Questo sugo accompagna molto bene una fetta di polenta. 60 Luserna: c’era una volta D. Condotta di vita e attività lavorativa Dar perge vo Lusérn is vil gedekht pit balt, ma vent vaürchtn un lerch, biane puachan un åndre elbar. Di månnen bo da soin gestånt zo arbata ats Lusérn soin gest dar tislar, dar schmidt, dar maurar, dar suastar un dar khesrar. Di laüt bo da håm gehat khüa håm getrak di milch mòrgas un abas in kasel in platz zoa zo macha khes un schmaltz. Ats Lusérn ista herta khent gearbatet fin at das lest töale earde. Di lusernar håm herta gebist bo ‘s berat gest pessar haltn etzan un bo setzan patatn. Di baibar håm eppas gebunt giananate au zo lesa sbem un pern in balt bosa håm vorkoaft ka Tria. Di lusernar soin gest herta å-gehenkh dar earde umbrom di earde hatten get zo leba. Ats Lusérn biane laüt håm gehat khüa, di meararstn håm gehat goas; vo disan vichar håmsa gevånk milch un håm gemacht khes. ‘S holz meara genützt is gest das sel vo dar vaürcht, sa håm gemacht vlekhan, türn un vestarn, pitn lerch håmsa gemacht prettar un pit dar pirch in pirchanpesom. L’attività dei lusernesi consiste nei lavori sui pochi piccoli campi e prati, nonché nell’approvvigionamento della legna necessaria. Essendo i campi molto limitati in rapporto al numero degli abitanti, sarebbe un nonnulla per i lusernesi lavorarli; ma il ricavato garantirebbe il sostentamento per appena tre mesi scarsi. Perciò la maggior parte degli uomini va a cercare reddito altrove, nelle costruzioni stradali e ferroviarie, nelle opere di regolazione dei fiumi e simili. I lusernesi sono molto abili, soprattutto nella costruzione di muri a secco, ma accettano di lavorare solo per un alto compenso giornaliero; quello che preferiscono è assumere l’incarico per un qualunque tratto, con l’esecuzione di un determinato lavoro dalla A Figura 9: Pietra lavorata. alla Z. Hanno molta esperienza per valutare correttamente una simile impresa, preventivare gli ostacoli e le difficoltà, calcolare i costi per l’approvvigionamento del materiale per la costruzione ecc. Ne risulta normalmente un bel guadagno e qualche abitante di Luserna è riuscito in questo modo a crearsi una ragguardevole situazione patrimoniale. I lusernesi e la loro abitazione, il cibo e il modo di vivere 61 Il ruolo della donna La famiglia alpina, sebbene comunemente definita di tipo patriarcale, si è sempre caratterizzata per una forte autonomia femminile soprattutto per ciò che riguarda la trasmissione dei saperi. Annamaria Bongiorno descrive il ruolo della donna nella famiglia contadina, caratteristica del Trentino di inizio Novecento. Al fine di delineare un quadro nel quale sia possibile collocare anche la situazione delle donne di di Luserna, si riportano di seguito alcuni passi tratti dal suo scritto “La donna nella cultura contadina all’inizio del secolo”. «La famiglia tradizionale trentina costituiva un’unità sociale, economica e morale; era ordinata al fine primario della procreazione della prole e perseguiva anche uno scopo economico immediato con l’immissione, nella compagine familiare, di forza lavoro sempre necessaria nell’economia contadina di allora. Al momento del matrimonio, la sposa entrava a far parte del nucleo familiare del marito; entrambi continuavano a dipendere economicamente e moralmente dal capo famiglia […] La famiglia era quindi saldamente nelle mani dell’uomo […] La posizione della donna era quindi di subordinazione all’uomo, ma tale sottomissione non derivava che raramente da una forma di vera oppressione. Essa costituiva piuttosto l’espressione di un comportamento usuale, e anche la religione cristiana, con il suo insegnamento tradizionale, sanciva l’autorità del padre di famiglia sulla moglie e sui figli e considerava l’autorità sul nucleo familiare una specie di monarchia di diritto divino. La vita all’interno della famiglia patriarcale poteva essere amara e pesante per una donna, come testimonia anche la curiosa giaculatoria diffusissima nel Trentino, che veniva altercalata alle decine del rosario quotidiano: Quelle figlie e quelle spose che sono tanto tormentate, Signore Dio, voi che le amate, liberatele per pietà. Tuttavia, la severità che dominava nei rapporti all’interno del gruppo, il rispetto e la soggezione agli anziani frenavano ogni sentimento di rivolta, e sopportazione e rassegnazione diventavano norma per l’intera esistenza. Anche nella vita sociale e comunitaria la donna non godeva gli stessi diritti degli uomini […] non poteva disporre dei beni familiari né decidere di acquisire o di vendere, anche in assenza del marito. 62 Luserna: c’era una volta Solo divenuta anziana, la donna acquistava all’interno della sua famiglia quell’“autorevolezza” che non aveva mai conosciuto durante il resto della sua vita. Dirigeva l’attività domestica delle figlie e delle nuore, dava pareri sullo svolgimento del lavoro agricolo, anche maschile, assumeva davanti alla nuova generazione il ruolo di guida e maestra, interprete fedele dei valori e delle tradizioni. […] Non esistevano momenti inattivi (il concetto di tempo libero era sconosciuto) ed il riposo consisteva nel cambio di attività […] Durante i filò invernali si filava lana, lino, canapa, si faceva la calza; le donne sferruzzavano continuamente e portavano spesso con loro i ferri da calza infilati fra i legacci del grembiule […] Quando gli uomini erano assenti dal paese per l’emigrazione, nelle famiglie contadine tutti i lavori agricoli erano necessariamente compito delle donne e dei ragazzi rimasti […] liberando forza lavoro, dava la possibilità all’uomo di cercare forma integrative di reddito e di eseguire lavori stagionali che andavano al di là dell’economia agricola familiare. Ma anche quando gli uomini erano presenti, un certo numero di incombenze erano di spettanza femminile […] Ma era soprattutto l’epoca della fienagione che richiedeva l’aiuto costante e fattivo delle donne nei prati […] Ma l’ambito di lavoro della donna era, prima di tutto, la casa, di cui la cucina era il locale più importante e il centro della vita familiare […] Alla madre spettava la parte più importante nell’allevamento e nell’educazione del piccolo: pur dedicandosi alle sue incombenze abituali, essa si occupava costantemente di lui […] Le vicine si frequentavano con assiduità, si scambiavano favori, chiedevano consiglio l’una all’altra, chiacchieravano sulla soglia di casa o in quei luoghi di riunione femminile che erano la fontana e il lavatoio. In occasione di parti, malattie, decessi, venivano a dare una mano […]». I lusernesi e la loro abitazione, il cibo e il modo di vivere 63 Verso Ognissanti questi lavoratori forestieri iniziano a tornare ai loro paesi, per Natale sono generalmente a casa. Lì vi sono normalmente dei lavoretti di riparazione da eseguire nell’abitazione, da sistemare muretti di delimitazione dei campi laddove sono crollati e lavori simili. Gli uomini rientrati a casa tuttavia partecipano poco ai lavori agricoli veri e propri; vogliono trovare anche tempo per riposare; Figura 10: Il tombolo. certo che questo non di rado avviene in un modo che nuoce a loro e alle loro famiglie. Verso Pasqua partono di nuovo in cerca di lavoro. I lavori sui piccoli campi e prati spetta quasi esclusivamente alle donne e ragazze. Queste devono zappare per smuovere il terreno, dato che l’aratro non può essere impiegato per mancanza di bestie da tiro e spesso anche per la posizione del campicello. Dalla fine di maggio fino a metà giugno occorre mettere le patate e da quel momento i campi richiedono lavoro per tutta l’estate. Inoltre vanno coltivati i prati. In pennen (come un piccolo cestone da carro) il letame viene portato sui campi; le lusernesi lo fanno posando la penn su una spalla e tenendola con la mano. Solo la mietitura non viene eseguita dalle donne, che allo scopo prendono braccianti, per lo più dalla vicina Italia. Le donne e ragazze portano a casa il fieno in grandi teli (lailachar). Si misura le dimensioni di un prato in base al numero dei fardelli di fieno: un tot di lailacharn höbe. Per aumentare la scorta di fieno per l’inverno, le lusernesi tagliano nelle laitn 20, spesso nei punti difficilmente accessibili, erba e la seccano. Di tanto in tanto portano a casa, in spalla, legna secca in fascine; se da qualche parte ne è stata approntata in quantità maggiore, la trasportano a casa d’inverno con la slitta. Ai lavori sui campi partecipano anche quei pochi uomini che sono vecchi e malaticci o che riescono a sopravvivere a malapena non avendo un reddito per lavori svolti fuori regione, infine quelli che vogliono godersi i loro risparmi tranquillamente a casa. I campi vengono coltivati quasi esclusivamente a patate, raramente anche a orzo in piccola quantità, in alcuni orti particolari a khabas (cavoli rossi). I prati sono tenuti bene. Allo scopo si usa, oltre al letame ordinario, comunemente anche concime artificiale. Il raccolto è relativamente abbondante. I pascoli invece sono molto magri. Viene portato troppo bestiame al pascolo, dato che le lusernesi prendono in consegna durante l’estate anche mucche da latte dalla Valsugana per l’alpeggio. Per il loro utilizzo pagano da 15 a 50 corone, in base alla qualità della mucca. Se sono fortunate ricavano qualcosa dalla produzione di formaggio. Tuttavia le donne di Luserna, nella valutazione del guadagno, non conteggiano il foraggio e la fatica per una mucca altrui. È molto basso il nu- 20 Si tratta di una località ad est del paese; per individuarne la posizione si veda la cartina seguente, dove la località è indicata col nome di Leiten. 64 Luserna: c’era una volta mero effettivo di capi di bestiame di Luserna. A parte poche mucche e qualche mulo si trovano solo capre in quantità maggiore. Molti lusernesi tentano anche l’allevamento di maiali, il che però è sempre rischioso per il pericolo della peste suina che spesso dilaga nel Vicentino e viene portata sulle alpi di Vezzena nelle immediate vicinanze di Luserna. Luserna non ha buoi e cavalli; ma ogni famiglia possiede galline, con derivanti motivi sufficienti per litigi e rancori 21. Le uova formano una modesta fonte di entrata delle lusernesi per l’approvvigionamento di cianfrusaglie; in estate vengono spesso date ai malgari in cambio di pecore. Sono una rarità a Luserna le oche, anatre e colombe. Figura 11: Mappa catastale (1856) Fonte: Archivio del Catasto della Regione Autonoma Trentino Alto Adige. 21 Le galline, infatti, venivano lasciate libere di razzolare, sconfinando spesso nei terreni altrui. I lusernesi e la loro abitazione, il cibo e il modo di vivere 65 Figura 12: Distribuzione dei terreni. Fonte: Cesare Battisti “Guida dell’altopiano di Folgaria e Lavarone”, Il Comitato Femminile della Lega Nazionale di Rovereto, Trento, 1909. Una fonte di guadagno non insignificante delle lusernesi sono in autunno i funghi commestibili che vengono raccolti e offerti al mercato in città (per lo più a Trento) 22; in parte si tagliano anche i funghi raccolti in fette sottili che vengono lasciate seccare al sole, per essere utilizzate in un secondo momento. Le ragazze frequentano specialmente nel periodo invernale la scuola di tombolo e trovano con ciò una entrata non splendida ma almeno accettabile; purtroppo lascia a desiderare la richiesta dato che si preferiscono i pizzi economici fatti a macchina ai pizzi solidi fatti a mano23. 22 Le donne, con le gerle sulle spalle ed i cesti pieni di funghi, partivano di notte e, percorrendo la strada del Menador, si recavano a Caldonazzo dove potevano prendere il treno per arrivare al mercato a Trento. 23 L’esecuzione dei merletti a fuselli è stata portata in Italia nel XVI secolo dalle suore benedettine proveniente Cluny (Francia). A Luserna era molto radicata la lavorazione del pizzo e del merletto fino alla prima metà del Novecento, quando i tragici eventi storici (l’incendio di parte del paese del 1911, la Prima guerra mondiale, l’episodio delle opzioni, l’emigrazione dal paese), portarono ad un graduale abbandono di questa tradizionale lavorazione. A partire dal 1996, grazie all’impegno del Kulturinstitut Lusérn - Istituto Cimbro, questa attività tradizionale è stata ripresa recuperando anche, per quanto possibile, parte dei disegni tipici locali. Per la lavorazione del pizzo al tombolo occorre: un tombolo, i fuselli, il filato, gli spilli ed il disegno. Il tombolo è un cilindro imbottito di segatura ricoperto di stoffa sul quale viene appuntato il disegno del pizzo da eseguire. I fuselli, sui quali viene avvolto il filato, sono di legno tornito ed hanno la forma di un piccolo fuso con la capocchia alla quale si fissa il filo. Il filato può essere di lino oppure cotone. Gli spilli devono essere dotati di una capocchia in quanto servono a fermare gli intrecci. Per ogni pizzo a fuselli occorre lo schema esatto del disegno del pizzo che si vuole eseguire. Il lavoro dei fuselli consta di due movimenti: girare ed intrecciare. Con questi due movimenti si ottengono mezzi punti e punti interi eseguiti con le più svariate combinazioni (tratto da pannelli illustrativi Istituto Cimbro). 66 Luserna: c’era una volta Dato che a Luserna non si semina grano e non vi si trova un mulino, occorre procurare la farina da lontano. Perciò i pochi proprietari di muli svolgono una importante attività lavorativa, trasportando giorno per giorno generi alimentari ed altri prodotti da Caldonazzo a Luserna verso un corrispettivo di 3 4 heller 24 al chilogrammo. In famiglia prevale ancora in un certo senso una situazione patriarcale. Fintanto è in vita il padre di famiglia, rimane lui il capofamiglia. Anche se i figli hanno già famiglie proprie, vivono nella stessa casa, mangiano alla stessa tavola, e le singole famiglie si suddividono i lavori necessari. Se però il padre è morto, i figli e le figlie suddividono la proprietà paterna, anche la casa. Alle ragazze viene data la stessa parte dei loro fratelli, ma con la limitazione che in caso di loro matrimonio vengano liquidate con la legittima. I ragazzi si sposano normalmente quando sono passati gli anni di coscrizione o del militare25. Se le ragazze hanno superato i 24 o 25 anni di età lasciano perdere la speranza di sposarsi, raramente comunque si sposano sotto i 20 anni. I matrimoni vengono contratti quasi sempre tra la popolazione locale. La moglie si rivolge al marito con “Voi”, lui invece le dà del “tu”; così anche in Val dei Mocheni. Le mamme allattano sempre i loro figli da sole; quando viene a mancare la madre, un’altra donna prende in cura il bambino. Solo in aggiunta il lattante viene nutrito con latte di mucca allungato. Per la lunga mancanza degli uomini, l’educazione dei figli spetta quasi esclusivamente alle madri. Queste viziano spesso troppo i bambini piccoli; ma quando i giovani sono un po’ cresciuti, la madre non riesce più a tenerli a bada. «Ad un bambino piccolo bisogna dare di tutto quanto esso vede che viene mangiato; altrimenti gli sanguina il cuore». «Se lo si lascia solo guardare senza dargli da assaggiare, il cuore ne soffre», recitano alcuni detti di Luserna, e la condiscendenza viene estesa pressappoco a tutto quanto il bambino chiede, il che costa caro più tardi. Avvengono raramente punizioni corporali, nemmeno in caso di sgarbatezza dei bambini nei confronti della madre e di altri atti di grave maleducazione, o non vengono applicati nel modo giusto. Per contro, tuttavia, la madre esterna la sua rabbia brontolando, sgridando e bestemmiando, a volte con espressioni addirittura volgari, mentre il bambino impara anche troppo facilmente a ripetere quanto ha sentito, non appena si presenta l’occasione, anche nei confronti della madre. 24 Il termine “heller” indica una moneta, introdotta nell’impero austro-ungarico nel 1892, il cui valore era pari ad 1/100 di Corona austrica. Per dare un’idea del valore di questa moneta, si consideri che nel 1892 1 grammo d’oro valeva 3,28 Corone. 25 Le liste di leva dell’esercito austro-ungarico potevano includere cittadini dai 18 ai 36 anni, anche se generalmente venivano arruolati i giovani fra i 20 e i 26 anni. Tuttavia in caso di particolare necessità questi criteri potevano cambiare, come avvenne durante la Prima guerra mondiale; nel 1914 infatti l’età di coscrizione venne anticipata a 20 anni, nel 1916 a 18 anni e nel 1917 a 17 anni. I lusernesi e la loro abitazione, il cibo e il modo di vivere 67 Lo stato di salute lascia molto a desiderare a Luserna, nonostante l’altitudine con la sua aria di montagna rinvigorente. La causa sarà probabilmente la ristrettezza delle abitazioni e l’uso frequente di caffè nero senza latte e pane. Per questo dilagano a Luserna epidemie (tifo, difterite, polmonite) nonché malattie nervose (isteria, ballo di san Vito e altre). Manca un medico comunale; occorre chiamare il medico di caso in caso, a volte addirittura dalla vicina Italia. Ogni visita del dottore costa al comune 20 corone e ad ogni richiedente 40 heller. Le spese annue del comune per il medico oscillano tra poco più e poco meno di 800 corone, da cui si vede all’incirca quanto spesso Luserna ha bisogno del dottore. I lusernesi sono molto coscienziosi ed instancabili nella cura dei malati. In caso di grave malessere si tenta una cura con vari rimedi casalinghi, tra cui non manca sicuramente mai il caffè nero. Se la malattia diventa più preoccupante, si trasferisce il malato nel grande letto della Stube, chiunque lo occupi abitualmente; perfino ai bambini viene concesso il lettone dei genitori come letto di degenza. Il malato viene poi assistito con dedizione e abnegazione, si fanno dire le preghiere in chiesa per lui, si mandano candele o olio per tener accesi lumi sull’altare di Maria per il benessere della persona sofferente. Tutto il villaggio si informa delle condizioni di un ammalato grave, si ha un animato traffico di visitatori intenti a fare coraggio all’ammalato quanto meglio possono, che gli dimostrano la loro partecipazione o danno il cambio ai famigliari nella cura del malato. Questi, su insistenti solleciti, si mettono a riposare nel loterle sotto il letto dell’infermo per trovare un po’ di sonno che manca loro da tempo. Quanto più grave si presenta il decorso della malattia, tanto più aumenta la partecipazione generale. Il moribondo viene tempestato con domande quali «khent ar me? Ber pinne?» (Mi riconoscete? Chi sono?) Gli viene fatto coraggio: «vörchtetas nicht, Gott’ar Hear bart as helvan on ünsar liabe vrau o – as ar anka höart bea vil, Gott’ar Hear hat patirt no mearar au ats kraütz» (anche se provate molto dolore, il buon Dio ha sofferto di più [lassù] sulla croce!). I visitatori vogliono portarsi a casa la certezza di aver contribuito alla consolazione dell’anima del malato. Ma viene addirittura invasa la stanza al suono lamentoso della piccola campana dalla torre vicina, che annuncia la lotta contro la morte. Allora a volte, con dolore violento, la donna finora così dolce, amorevole, che cura l’ammalato, lancia il ristoro dello stesso, che aveva tenuto pronto (caffè nero, limonata ecc.) contro il muro assieme alla ciotola che va in pezzi. Così come si chiama l’aiuto dall’alto in caso di malattie serie, così l’atteggiamento profondamente religioso del popolo si manifesta sempre e dappertutto con chiarezza e in modo convincente; perfino gli uomini abituati a girare il mondo si conservano una grande fedeltà alla loro religione, cioè quella cattolico-romana. Cosa lodevole nei lusernesi è anche la pietà nei confronti dei defunti, le “anime del Purgatorio”. Nella notte tra Ognissanti e il giorno dei morti le tombe ornate vengono illuminate con candele e lucerne. I lusernesi donano tanto per le messe dei defunti durante tutto l’anno, ma in modo particolarmente generoso nei due giorni di commemorazione appena citati. Si usano molto anche le veglie in chiesa nonché private per le anime dei defunti. Quando i lusernesi 68 Luserna: c’era una volta tornano a casa dopo una giornata di fatiche, mangiano in fretta la cena parca e si recano in chiesa per il vespro. Se il singolo è oppresso da qualche fardello o la comunità ha un desiderio particolare, come ad esempio la preghiera per condizioni favorevoli del tempo, allora si cerca di essere esauditi con l’aiuto di funzioni, messe, processioni e simili. Anche dal punto di vista morale Luserna merita lode. Da oltre 16 anni non è nato alcun figlio illegittimo. Se qua e là c’è stato qualche passo falso, allora si è fatto seguire il matrimonio sicché i genitori già molto tempo prima che nascesse il bambino erano una coppia sposata. In generale va lodata nei lusernesi anche la loro onestà, schiettezza e rettitudine. Essi vanno fieri di onorare la fiducia in loro riposta e di vivere onesti e giusti. Come dappertutto vi sono anche qui delle singole eccezioni; solo che tra gli uomini aumenta l’avidità di piaceri; essa si manifesta nella predilezione per il vino e l’acquavite e diventa in qualche famiglia rilevante causa di povertà. È molto diffusa anche la cattiva abitudine di bestemmiare. Le espressioni usate sono senza eccezione italiane; anche nel sesso femminile ricorrono imprecazioni rozze e parolacce. Mi è stato riferito più volte che questa grossolana abitudine ha avuto inizio dal tempo in cui gli uomini di Luserna trovavano lavoro nelle costruzioni in alta Italia; ma i lusernesi hanno contatto con gli italiani anche nei lavori in terra tedesca. Già Dalpozzo (p. 211) lamenta che i suoi compaesani dei Sette Comuni hanno il vizio delle bestemmie: «Sebbene la nostra gente in contatto con gli italiani avesse in parte raffinato i suoi modi, ha tuttavia perso non poco della vecchia, originaria semplicità e innocenza. Hanno … preso dei vizi che prima tra loro erano molto rari o addirittura sconosciuti. Tra essi faccio rientrare un certo tipo di bestemmie e altre parolacce e espressioni sconvenienti la solita abitudine di giuramenti non necessari». I lusernesi amano molto la loro terra; gli uomini vi tornano tutti gli anni, quando il tempo non favorisce più la loro attività lavorativa; e quando uno si ammala in terra straniera, torna sicuramente a casa se ci riesce ancora; perché lì trova la cura, l‘aria, sì, tutto molto meglio rispetto ad altrove, lì spera di trovare un rinvigorimento e una guarigione più rapida. Delle ragazze solo raramente una decide di assumere servizio al di fuori di Luserna, poiché non trovano da nessuna parte un’altra Luserna. La stessa fedeltà e considerazione conservano i lusernesi nei confronti del loro dialetto, cioè la madrelingua, sicché la stessa viene usata esclusivamente come lingua corrente in tutte le famiglie, con una sola eccezione. La situazione, a questo riguardo, è molto più sconsolante tra i Siebenberger (abitanti dei Sette Comuni). Dalpozzo lamenta nelle sue “Memorie” (p. 76): … «Eppure, chi lo crederebbe! in un angolo dei Sette Comuni, dove, considerata la situazione, la lingua tedesca potrebbe conservarsi più pura e più a lungo rispetto ad altri luoghi, gli abitanti da qualche tempo sono stati aizzati nella loro fantasia tanto da odiare la loro lingua, la disprezzano e si vergognano di essa, come se fosse un disonore, una vergogna usarla. E non basta: proibiscono ai loro figli di appropriarsene e ai visitatori di parlarla nelle loro case, per cancellarla e sradicarla. Non è questa una durezza barbara ed inaudita, disdegnare la lingua che hanno suc- I lusernesi e la loro abitazione, il cibo e il modo di vivere 69 chiato con il latte materno, che i loro avi hanno tenuto cara, che caratterizza la nostra nazione privilegiata e la distingue dai popoli vicini?». Una caratteristica positiva del lusernesi è anche l’ospitalità. Danno tutto per rendere piacevole ad un estraneo il soggiorno a Luserna e si rallegrano se dimostra partecipazione e predilezione per il loro povero paese. La prima cosa offerta ad un visitatore è di nuovo il caffè nero, poi comunque quanto di meglio c’è. Se qualcuno arriva in una casa all’ora di pranzo, viene subito invitato a parteciparvi, e non è per niente una pura formalità ma si è davvero contenti quando l’ospite mangia di gusto. I lusernesi sono gioviali, allegri, vivaci e anche curiosi, molto ricettivi alle percezioni esteriori, sensoriali. Se una coppia si reca in canonica per il fidanzamento, giovani e vecchi formano un corteo numeroso, si attende in piazza il ritorno dei fidanzati, e si sale anche su oggetti rialzati per poter scorgere ancora dalla finestra la coppia di sposi in canonica. I lusernesi ci tengono molto alla battuta pronta e all’umorismo di botta e risposta. Fanno a gara nell’uso di termini, il senso dei quali va indovinato. Chi è abile in questo è “is a schnabl, e”, chi non comprende siffatto modo di parlare è “is a stokh“. Sarebbe un grande dispiacere per una ragazza se uno le dicesse che il suo pual (amato) è a stokh, piange e si dispera per una tale diceria. Un sacerdote ha preso in giro, ma in modo per niente offensivo, in piazza una ragazza in presenza di altra gente. La ragazza punzecchiata ha risposto in modo pungente: «håm di pfafan o di raude - kraztas» (Hanno la rogna anche i sacerdoti? - Si gratti!). I lusernesi si distinguono per il loro senso pratico. Dimostrano abilità non solo nei lavori pubblici, ma anche nel commercio e traffico, nei loro lavori in casa. L’obiettivo principale è la praticità e comodità, mentre trascurano, specie nelle loro costruzioni, l’armoniosità e l’aspetto piacevole. Quanta importanza abbia per i lusernesi la scuola, viene reso evidente sufficientemente dalle lotte accanite per la stessa. Durante la stagione aspra si può definire buona la frequenza scolastica; in primavera comunque, quando gli uomini sono già partiti per trovare un reddito e le madri sono tutto il giorno occupate con il lavoro sui campi, specialmente le ragazze servono per badare ai fratelli più giovani, e allora la frequenza regolare della scuola a volte si ottiene solo con la pressione da parte delle autorità. Gli alunni sono svegli e imparano facilmente. Non è difficile per loro rendere la materia studiata con parole proprie, la grammatica e l’ortografia possono essere trattate più facilmente con i ragazzi di Luserna che non in qualche comune di montagna del Tirolo tedesco, come pure altre materie in cui occorre riflettere ed impegnare il cervello. Sono invece meno predisposti per imparare qualcosa a memoria. Nella scuola italiana però, nelle prime classi, agli insegnanti spetta un compito arduo, a causa della totale mancanza di conoscenza della lingua italiana, qui bisogna ricorrere ancora alla lingua tedesca; solo nelle superiori gli studenti sono in grado di seguire l’esposizione in italiano dell’insegnante. Così i lusernesi vivono in un’altitudine isolata. In abitazioni e condizioni povere, si accontentano di cibo semplice, sono comunque una razza fresca e forte. Le donne e ragazze adempiono, instancabili, al lavoro nella loro terra, mentre gli 70 Luserna: c’era una volta uomini si spostano in cerca di reddito, per poi tornare nella loro amata terra, alla vita familiare patriarcale. Sono un popolo vivace, allegro, molto ricettivo alle percezioni sensoriali, accanto a qualche lato d’ombra, come l’alcolismo e le bestemmie, si rende evidente in loro anche qualche caratteristica bella, quale la profonda fede religiosa, la pietà nei confronti dei defunti, la seria moralità, l’eccezionale partecipazione alle sofferenze e sfortune del prossimo, ospitalità e un carattere retto, aperto. Hanno prevalentemente senso pratico, sono spiritosi e comunque un popolo di grandi doti mentali, e vigoroso. È vero che lo spirito del tempo ha influito sul loro costume tradizionale, ma conservano caparbiamente, fino al giorno d’oggi, la loro madrelingua. IV. DIRITTO, TRADIZIONI E CREDENZE POPOLARI Diritto, tradizioni e credenze popolari 73 Possiamo dire poco sulla costituzione e sul diritto. Il comune è troppo giovane perché si siano potuti conservare usanze e consuetudini di diritto come in una terra dalla storia antica. Non ci è dato sapere se al momento della colonizzazione fossero ancora in uso determinate usanze di diritto. Il nome di campagna at di Lint 26 potrebbe eventualmente indicare che una volta vi erano presenti alberi di tiglio, che nelle consuetudini di diritto tedesco detengono notoriamente un ruolo importante 27. Era più facile la conservazione di tali usanze tra i tedeschi dei Sette Comuni, dato che sotto gli Scaligeri e Visconti prima e sotto la repubblica di Venezia poi detenevano una posizione speciale nell’esercizio delle antichi consuetudini, mentre nel Sudtirolo con crescente italianizzazione i resti dei tedeschi venivano sempre più isolati e fortemente influenzati, come nella lingua così anche negli usi e costumi. In tal modo si affievolirono le ultime tracce delle antiche consuetudini di diritto. In caso di discordie i lusernesi si rivolgono al comune o al curato. Se una mediazione non va a buon fine, è la procura di Levico l’autorità competente dei lusernesi. Politicamente il comune sottostà al capitano distrettuale di Borgo. Per incentivare interessi comuni sono anche stati istituite associazioni private: ad esempio una mutua assicurazione per il possesso di bestiame e un consorzio caseario, entrambi con statuti propri. Il comune come tale ha tuttavia gli stessi diritti e doveri come ogni altro comune in Tirolo. A. Tradizioni di festa A differenza dalle consuetudini di diritto si sono conservate meglio certe usanze di momenti importanti della vita e di determinati periodi. 1. Il battesimo. La levatrice adorna il bambino, va con i padrini (e con il padre, se si trova a casa 28) in canonica per farlo registrare, poi in chiesa per il battesimo. Questo normalmente si celebra un giorno dopo la nascita. Al ritorno, la madre deve baciare la mano al padrino e salutarlo dandogli del “Voi”. Successivamente ci si siede a tavola. Otto giorni dopo, il padrino invia alla puerpera una cesta di pane e un bel pezzo di burro; lo stesso dono viene porta- Si tratta dei prati ubicati sotto la via Roma, verso viale Trento. Per un’esatta ubicazione, si consulti la cartina della Toponomastica di Luserna. 27 Bacher si riferisce probabilmente all’amministrazione della giustizia che, in tempi passati, veniva svolta sotto le fronde degli alberi di tiglio, detti appunto anche “alberi del giudizio”. 28 Era infatti piuttosto diffusa fra gli uomini di Luserna l’emigrazione in cerca di lavoro, che li portava a stare lontano da casa anche per molti mesi consecutivi. 26 74 Luserna: c’era una volta to pochi giorni dopo dalla madrina. Se i padrini sono benestanti, mettono invece soldi dentro le fasce del bambino. 2. Il matrimonio. La sposa dona allo sposo la camicia nuziale e lui le dà il grembiule della sposa, le scarpe e il fazzoletto da collo. Nel giorno delle nozze, al mattino presto, gli sposi si recano in chiesa per la confessione e la comunione. Dopo, ognuno torna a casa sua. Alle 9, quando è ora di andare alla cerimonia nuziale, lo sposo con gli invitati va a prendere la sposa a casa sua. La madre della sposa dà ad entrambi l’acqua santa e il corteo si sposta verso la chiesa. Durante la cerimonia e nelle parti principali della messa alcuni tiratori di pistola rimangono in piazza davanti alla chiesa 29 e sparano; nel farlo, dirigono le canne dentro la porta della chiesa. Al ritorno dalla chiesa il corteo nuziale incontra uno “steccato” eretto allo scopo, che il testimone della sposa deve spostare per liberare la via. Per intanto ci si sposta, per il pranzo nuziale, nella casa della sposa, rimanendovi fin verso le 3 del pomeriggio, dopo di che ci si reca alla casa dello sposo. Secondo un’antica usanza, la sposa scoppia in lacrime all’addio dai suoi, mentre il corteo si mette in movimento. Giunti alla casa dello sposo, la sposa deve passare dalla porta prima degli altri. Sulla soglia trova una scopa, che deve alzare e appoggiare da qualche parte; deve anche baciare tutti gli abitanti della casa. In seguito ci si siede per il secondo pranzo nuziale, dopo si canta e si beve; si rimane in allegria fino a notte fonda. Quando gli ospiti se ne sono andati, gli sposini fanno ancora visita ai parenti della sposa prima di coricarsi. Le prime settimane dopo le nozze si chiamano khutarwochan 30 (settimane delle risate). Se si sposa un vedovo o una vedova, i bambini e anche alcune ragazze adulte fanno un baccano assordante con pentole ecc. finché ricevono una parte del pranzo nuziale 31. 3. Morte e funerale. Quando qualcuno muore, i suoi parenti sono alle (molto) traure e lo khlagn (piangono). La salma viene vestita con l’abito più bello del morto e posta su una lade. Allora si dice: haüt is af di vlekh da[r] … (oggi il o la … sta sull’asse …). Durante la giornata, la gente del paese pas- 29 Originariamente la chiesa di Luserna si trovava nella piazza del paese, e solo a seguito degli eventi della Prima guerra mondiale ne è stata edificata un’altra nell’attuale collocazione. 30 Luna di miele. 31 Si tratta molto probabilmente di una variante locale dello Charivari: è mettere in piazza con canzoni licenziose unioni matrimoniali non consoni e si associa alla nostra ciabra o chiassata. Fare baccano con tamburi e coperchi ed ogni altro oggetto rumoroso per schernire una nuova coppia, viene fatto di notte in cima alla collina o in vasto territorio poco distante dalla casa dove riposano i novelli sposi. Occorre dire che questa pratica usata da allegre compagnie di giovani andava a sottolineare matrimoni non approvati dalla gente (vedovo che sposa una giovinetta) ma non si prefiggeva solo di impedire che quella notte il matrimonio venisse consumato, disturbando lo sposo, soprattutto si desiderava che lo sposo disturbato elargisse loro un compenso tale da poter finire la nottata nelle taverne del posto. Diritto, tradizioni e credenze popolari 75 sa di tanto in tanto per “dare” al defunto l’acqua santa. La sera si riuniscono numerosi in casa del morto, vegliano e pregano tutta la notte, con piccole interruzioni; a mezzanotte e al mattino ricevono da mangiare, o almeno caffè nero. Quando la salma viene prelevata per il funerale, i superstiti (ma solo quelli femminili) piangono il morto con smodati lamenti e strilli e non si stancano di elogiare i pregi del defunto. Una madre, ad esempio, piange così la sua bambina: “O liabes måi khin, liabes engele, gea an gotsnam, o katinele, liabes måi khin! On bo bart e gian z’ sega mai khin? O liabes måi schümas khin! On bia barte tüan i åna måi khin?!” Questa melodia è tipica per tutti i lamenti funebri. Una donna piange suo marito: “O liabar måi tone, vita måina! On bet an armen woas dar hat hintargelat, liabar måi tone! O liabar måi tone, bia barte tüan t’zügla di khindar?! O liabar måi tone khent me zo nema” – lamento di una figlia maritata per sua madre: “o liaba måi momma! Dar sait herta gebest a so mechte guat, on bal dar me sait khent zo wenna, hat ar mar herta epas geprenk miar on måinen khindar o; dar hat herta gehat groase gadjofan on sötn schümas linnes hertz, o liaba måi måmma!” Come si vede, i canti funebri ricordano nel ritmo e nella melodia molto il campanò (carillon). Per l’usanza (anche antico alto-tedesco) cfr. Hauffen, Gottschee p. 88; altre usanze riguardanti i morti sono menzionate più avanti (v. credenze popolari p. 67, in questa versione p. 76). 76 Luserna: c’era una volta 4. Capodanno. Nella notte di capodanno i ragazzi girano, sparano con pistole, suonano la fisarmonica, cantano e schiamazzano, per “scroccare” una mancia alla gente. La mattina di capodanno i ragazzi vanno in gruppi di casa in casa per “mendicare” la balamån 32 (regalo). Ricevono magari qualche quattrino o frutta o un po’ del maiale macellato. La püalen (amata) dona al pual un tüachle (fazzoletto bianco). 5. Il giorno prima dell’Epifania ragazzi a gruppi di tre si spostano cantando, di casa in casa con una stella su un’asta. A volte imitano gli abiti dei tre Magi e uno si tinge il viso di nero. Ricevono farina o un pezzo di carne di maiale. Appena terminato il giro, preparano in qualche casa, con la farina raccolta, una grande pult, arrostiscono anche la carne di maiale, mangiando spesso appena a mezzanotte di tschoi (cena). Dividono fra di loro i resti per il giorno seguente. Alla festa stessa ci sono di nuovo i bambini che fanno il giro per “mendicare” la boganat (dono dell’Epifania) 33. 6. In carnevale ci si nasconde la faccia con fazzoletti e si gira con svariati travestimenti di casa in casa. È raro che allo scopo vengano usate maschere. Per Pasqua, pentecoste e altri periodi festivi non ci sono usanze particolari. Verranno menzionati più avanti Santa Lucia (per San Nicolò) e il “rogo di marzo” (v. Volksglaube 5, a, p. 81 34). B. Credenze popolari 35 Karl Weinhold ha sottolineato che le credenze popolari non sono né cristiane né pagane, ma una proliferazione: «Nel paganesimo germanico erano presenti superstizioni e magia, separati e ostili rispetto alla vera religione del popolo e alla messa riconosciuta. È sempre stato così ovunque ed è così ancora oggi. La superstizione non è legata ad una nazione o ad una precisa religione, ma è un’espressione comune dell’uomo» (Ztschr. f. Volksk. I, p. 6). Mogk d’altro canto ravvisa in queste concezioni religiose basse del popolo e nelle usanze collegate, uno strato di religione più antica (Paul Grdr. III “Mythologie”). Ad ogni modo, occorre molta prudenza nel far risalire tali usanze e credenze ad un livello culturale basso, più antico; specialmente in passato si tendeva a considerare una rima- 32 Questa usanza è ancora oggi praticata, sotto forma di mancia in denaro che i bambini ricevono dai parenti. 33 Anche questa consuetudine si è modificata; oggi sono i bambini che vanno di casa in casa cantando una canzone tradizionale vestiti da Magi e ricevendo in cambio dolciumi e denaro. 34 La pagina corrispondente è pagina 82. 35 In questo paragrafo il Bacher intende fornire una chiave di lettura trasversale dei temi presenti nei racconti riportati più avanti. A questa prima analisi si affianca quella contenuta nelle schede di approfondimento presenti nella sezione dei racconti. Diritto, tradizioni e credenze popolari 77 nenza dell’antico paganesimo germanico, le opinioni e usanze esistenti a fianco di una religione riconosciuta; Kauffmann comunque sottolinea nel commento al libro “Der deutsche Volksaberglaube der Gegenwart” di Wuttke-Mayer con enfasi, che tali abitudini praticate accanto al cristianesimo sono in genere resti di convinzioni religiose del medioevo e che quelle radicate nel paganesimo germanico sono eccezioni (Ztschr. f. dtsch. Philologie XXXV, 91). Anche i cenni seguenti sul paganesimo germanico sono intesi più ad offrire paragoni con esso che non una immediata derivazione dallo stesso. Aderisco all’impostazione fornita da Mogk (loc. cit.). 1. L’animismo. L’anima può apparire quale fantasma (“Das verstorbene Nöbele 36” Cap. V n. 34), quale persona e animale (serpente), cfr. “Das verbannte Mädchen 37” n. 12, o solo sotto parvenza di animale (corvi), cfr. “Das JakominenLoch 38” n. 20. Sotto parvenza di uomo, i morti si presentano con gli stessi abiti indossati da vivi (“Nöbele”). All’animismo germanico è legato l’auspicio attribuito a certi animali, immaginando (secondo Mogk) che l’anima del defunto continui a vivere in tali animali. Vogliamo qui solo evidenziare il nome d’animale das bil vraüle (termine lus. per la donnola): per un approfondimento v. p. 83 s. 39). Il motivo per la riapparizione di un defunto è spesso una colpa non espiata (“Das verbannte Mädchen” n. 12). Il Nöbele trovò pace solo nel momento in cui venivano offerte messe per la sua salvezza. Anche secondo alcune credenze dei lusernesi deve vivere da fantasma chi da vivo ha spostato cippi confinari; Mogk vede in ciò una commistione di cristianesimo e paganesimo germanico. Nessuno osa tornare di notte da solo da un defunto presso il quale aveva vegliato (pregato); l’anima del morto verrebbe con lui. – Il morto non può andare in cielo se rimangono soldi nei vestiti che aveva portato da vivo. – Se si fa pendere bassa, o del tutto, la catena sopra il focolare senza usarla, si bruciano così le anime del Purgatorio. – L’usanza di seppellire i defunti con le scarpe, secondo Dalpozzo “Mem.” p. 233 è ancora presente nei Sette Comuni, ma si estende solo su persone assassinate e su donne morte nel puerperio. – I banchetti funebri, ai quali partecipa secondo una comune credenza l’anima del defunto, non sono più in uso a Luserna; tuttavia la tradizione di distribuire pane (una volta era polenta) a tutti i partecipanti al corteo funebre, va probabilmente interpretato come residuo del vecchio banchetto funebre. Gli spiriti maligni appaiono sotto forma di fuoco: fiammelle all’aperto sono diavoli, un fuoco che arde in lontananza è l’ork maligno. – Secondo Mogk non è possibile stabilire se la diceria che i bambini neonati vengono tirati fuori da un contenitore d’acqua sia basato sull’animismo. Una volta si ritenevano animate anche le piante. Un ricordo ne è il hakhtme au in zöllela 40 (Cap. V. n. 3). Trad. it. “Il povero Nöbele”. Trad. it. “La ragazza condannata”. 38 Trad. it. “La voragine di Giacomino”. 39 La pagina corrispondente è pagina 83. 40 Trad. it. “Spaccatemi in pezzi grandi, non in pezzi piccoli!”. 36 37 78 Luserna: c’era una volta È preminente nell’animismo di Luserna l’idea della trut. Si tratta di uno spirito opprimente, simile ad una strega, che tormenta i dormienti. L’anima di una persona che è una trut lascia il corpo vivente sotto forma di un bombo (n. 31 41) e cerca una vittima da tormentare esercitando pressione e succhiandone il sangue. Se si riesce a domare la trut in qualche modo, la sua anima si trasforma in una pagliuzza o in un cavallo (n. 30 42) o in un gatto (n. 32 43). Diventa una trut ogni bambino al cui battesimo non è stato pregato il credo nella forma dovuta. Quale spirito opprimente si nomina, nella credenza popolare, anche lo “Schrattele”. A Luserna comunque ne è scomparso il ricordo; dato che la charatl o schratl è oggigiorno il nome di una piccola falena, la cui apparizione una volta probabilmente veniva messa in relazione agli spiriti opprimenti. Mogk fa rientare le streghe tra le creature di origine spirituale, perché dopo la loro morte continuavano le loro attività come spiriti, poi perché certe donne avevano il potere di separare anche da vive l’anima dal corpo, il che per Luserna può essere desunto dal contatto tra strega e Trut. Se si vuole catturare una Trut, ci si rivolge a lei direttamente con le parole du boheksats baibe. Il terzo motivo per cui le streghe vengono contate come esseri animati è la loro capacità di trasformazione che a Luserna vale anche nel caso di mescolamento fra strega e Trut. Per il resto i lusernesi immaginano le streghe come esseri umani, che grazie al diavolo hanno un potere sovrumano. La loro attività si estende in primo luogo, come quello dello stregone, sulla gestione delle condizioni meteorologiche; possono far ammalare e far morire bambini (n. 24 44), scambiarli (n. 25 45) e rapirli (n. 26 46), creano le epidemie tra il bestiame (n. 2347) e creano danno di vario altro tipo. Il nemico maggiore delle streghe e della loro magia malvagia è il cristianesimo con le consacrazioni e benedizioni usuali nel rito cattolico romano (cfr. più avanti “mezzi di protezione” p. 85 s 48). «Le streghe», così afferma Heyl (“Volkssagen aus Tirol”, nota I, 46) «ricordano i profetici, soccorrevoli “Idisen” (“Disen”) degli antichi germanici che avevano i loro luoghi di culto dove facevano scorrere nel calderone il sangue delle vittime macellate, lo bollivano e mescolavano, dopodiché danzavano attorno alle alte fiamme del focolare. Già nei tempi più remoti si chiamavano queste donne con conoscenze di magia ‘Hagedisen’ (cioè Haindisen), Hagezusen, da cui deriva il nostro termine ‘Hexe’ (strega). Dopo l’introduzione del cristianesimo queste veggenti o donne sagge si ritirarono nella solitudine delle foreste e vi rimanevano a lungo, godendo di alto prestigio. Le si cercava nel buio del Trad. it. “Una ragazza vampiro”. Trad. it. “La vampira”. 43 Trad. it. “La fidanzata respinta perché vampira”. 44 Trad. it. “Il bimbo stregato”. 45 Trad. it. “Il bambino sostituito”. 46 Trad. it. “La bambina abbandonata dalle streghe”. 47 Trad. it. “La strega vecchia e la strega giovane”. 48 La pagina corrispondente è pagina 85. 41 42 Diritto, tradizioni e credenze popolari 79 bosco per ottenere consigli; festeggiavano le feste tradizionali con sacrifici e danze. Più tardi, quando il cristianesimo aveva respinto del tutto le credenze pagane, gli Dei venivano abbassati a diavoli e le Idisen a creature diaboliche, divenendo i sacri luoghi di culto posti di ritrovo delle streghe e degli spiriti maligni. Già in glosse più vecchie si trova dunque Eumenide germanizzato con la parola hazosa, una contrazione di hagezusa, termine con cui in tempi pagani si chiamava presumibilmente la sacerdotessa. Ancora oggi una donna poco ordinata viene chiamata con il termine spregiativo ‘Zusl’». Anche nel dialetto di Luserna si hanno la parola ingiuriosa zusl e più spesso ancora zosa 49. Così si spiega la netta divergenza che il popolo conserva tra streghe e cristianesimo. La credenza nelle donne malvagie può dunque essere considerata un residuo – tenacemente conservato dal popolo, derivante almeno in via indiretta dal vecchio paganesimo –, con qualche modifica fatta nel medioevo e all’inizio dell’età moderna. Le vecchie maghe pagane perdettero il loro prestigio a causa della religione cristiana, lasciarono tuttavia timori superstiziosi che sopravvivono nel popolo fino ad oggi. Come le Idisen bollivano e mescolavano il sangue sacrificale in un calderone, anche le streghe rimestano con un cucchiaio il contenuto di un pentolino, mormorando al contempo una determinata formula (n. 23). Questo le permette di salire alle nuvole attraverso il camino, e di fare il tempo (loc. cit.). Il calderone viene ricordato forse dall’usanza esistente a Luserna fino ai tempi recenti, di poggiare calderoni all’aperto, in caso di temporali forti, girandoli con l’apertura verso il basso. – Le giovani streghe imparano la magia dalle vecchie (n. 23). Anche la Perchtega (Berchta), o Pertega, viene indicata tra gli spiriti animati. Quando tuona si dice che sta sciacquando le sue botti, e conserva anche in tinozze d’acqua i bambini non ancora nati, sul pendio assolato della montagna kan üaschan. Non le viene attribuito alcun altro ruolo. 2. Gli elfi. Anch’essi hanno la loro origine nella convinzione che l’anima continui a vivere; ma non si intromettono nelle vicende degli uomini, come invece gli spiriti animati. Fanno parte delle creature degli elfi innanzitutto i folletti. È vero che non sono più conosciuti a Luserna, ma un loro ricordo dovrebbe celarsi nella parola in lingua luserna wichtl (tromba d’aria). Nell’antichità germanica ci si immaginava come vento l’anima che diparte dal corpo, considerando il vento quale espressione vitale dell’anima, quale segno della sua presenza. Prätorius (“Weltbeschreibung” 277) nomina come fatto strano una tromba d’aria perdurata per giorni interi attorno alla tomba di un morto; così gli spiriti volano nell’aria sotto forma di vento (n. 4). Fanno parte degli elfi anche gli gnomi, che però non sono presenti nelle leggende di Luserna; solo il Sambinelo, uno spirito del bosco che trae in inganno, potrebbe essere paragonabile a loro in base alla descrizione fatta nelle leggende popolari (n. 33 50). - A ciò si aggiungono i geni della casa. A loro è subentrato nella tradizione di Luserna il diavolo che deve portare soldi 49 50 Tale termine è tuttora in uso e assume un connotato negativo. Trad. it. “Il salbanello”. 80 Luserna: c’era una volta come contropartita per l’acquisto dell’anima (n. 1551). Sono elfi anche i selegen (n. 11 52), il cacciatore feroce, che insegue signorine selvaggie (n. 35 53) e il bil mån (uomo selvaggio) mangia-uomini con la baibe (donna selvaggia) (n. 37 54), nei quali però non è particolarmente evidente il lato sovrumano. 3. I demoni. Per questi, gli anziani intendevano creature assomiglianti all’uomo per natura e occupazione, ma erano immensamente più potenti. Sono nati dalla personificazione della natura magnifica e degli elementi. Un ricordo se n’è conservato a Luserna, quando il vento viene definito mån åna pluat. È curioso anche il termine in cimbro di khua von djenaro per il vento caldo di gennaio. Troviamo una traccia della natura demoniaca, della rabbia che infuria e travolge, dello sfrenato imperversare anche nel cacciatore feroce. Nei paesi tedeschi, questo caporione della tregenda infernale porta spesso nomi che ricordano Odino. In tal caso probabilmente non si intende la divinità venerata da tempo, ma il demone Odino, il cui nome corrisponde vistosamente a quello del dio del paganesimo antico, ma rappresenta al massimo una sua parte o attività molto subordinata, sicché non si può vedere in questa leggenda un residuo della vera antica venerazione di Odino. Del resto, le leggende di Luserna non contengono cenni sull’aspetto del cacciatore feroce, come ad esempio in Zingerle “Sagen”, dove viene descritto in n. 2 quale gigante con un occhio solo, in n. 3 avvolto in un mantello bianco e senza testa. Il nome del cacciatore feroce in Zingerle “Sagen” è 3 Lorg, 4 Ourk, che con Norg risalgono al rom. Orco. Nel dialetto di Luserna, l’ork viene tenuto distinto dal cacciatore feroce. L’ork nel dialetto di Luserna si presenta sotto un’immagine infuocata (a mudl vaür), e può anche, come le creature animate, trasformarsi in figure diverse; l’uomo, che tornava dal Bisele, pensava, vedendo il mostro scuro, informe, di trovarsi di fronte l’ork (n. 4455); quando di notte la luce della luna o il fiacco lume delle stelle fa per magia uscire varie figure fantastiche dalle radici e dai tronchi degli alberi, perfino dalle ombre delle incavature più grandi e più piccole, allora non ci vuole molto per scoprirvi l’ork, e ad una persona che rientra a casa tardi, nella notte fonda, si chiede – benché per lo più scherzosamente – se ha incontrato l’ork. L’ork porta solo danno e disgrazia, mai alcunché di buono. Dalpozzo “Memorie” p. 15 lo annovera tra gli gnomi, il che però non è possibile secondo le concezioni di Luserna. 4. Le divinità germaniche vere e proprie. La religione cristiana, nella lotta contro il paganesimo, si è rivolta soprattutto contro la venerazione degli Dei veri e propri. Gli semidei e innumerevoli altre creature sovrumane venivano probabilmente considerate meno pericolose e liquidate in parte con qualche riferimento agli spiriti buoni e maligni della bibbia, agli angeli e diavoli. Si veda ad Trad. it. “L’uomo che vendette l’anima al diavolo”. Trad. it. “La matassa della donnetta beata”. 53 Trad. it. “Jakl Hoal”. 54 Trad. it. “Il selvaggio e la selvaggia”. 55 Trad. it. “L’orco”. 51 52 Diritto, tradizioni e credenze popolari 81 esempio la fiaba-leggenda di muatar, bo da hat geschwant sai khin (n. 9 56) in cui il bambino vola, come un engele, nell’aria, con un gruppetto di altri angeli, e la credenza che i fuochi fatui rappresentino diavoli. Il cristianesimo comunque non sopportava le usanze legate al culto degli semidei e altre creature sovrumane e si scagliava in particolar modo contro l’osservazione pagana di certi animali e tempi, senza riuscire tuttavia fino ad oggi a soffocare del tutto la spinta dell’uomo verso il misterioso e verso la scoperta del futuro ecc. Non si sono quasi conservati a Luserna ricordi di antiche divinità. I nomi di due giorni della settimana ne sono gli unici residui: Il erta 57 (secondo Mogk da Er o Ear per un antico *Tiwaz) e il vraita 58 (dall’antica dea germanica Frîja). Da menzionare anche una collina a Recoaro, chiamata Freyek, la parola luserna oastarn 59 (dall’antica dea della primavera austrô), che è identica al nome della relativa festa usato in tutta la Germania, inoltre il nome di campo cimbro ostersteela e il nome di contrada contrada ostera nei Sette Comuni (v. Dalpozzo “Memorie”, 145, 148, 167). 5. Culto. Si tratta sicuramente di un vago ricordo del culto degli alberi quando nella leggenda di Luserna il legno esprime ad un boscaiolo il desiderio di come essere trattato (n. 3). Mogk è del parere che il culto degli alberi (del bosco, del monte e delle sorgenti) affondi prevalentemente le sue radici nel culto dei morti, ma in parte fosse anche venerazione delle anime, dei demoni e degli dei. Il racconto luserno citato rende evidente che ci si immaginava il legno animato. Come mostra la fine, non si considerava tuttavia questo essere animato quale stato ideale, ad esempio di un’era aurea, bensì quale stato contro l’ordine naturale, e addirittura come maledizione, come incubo che pesava sulla natura. Solo dopo che il Concilio di Trento aveva benedetto l’intera natura animata e inanimata è scomparso questo sortilegio; il legno non parla più, ha perciò smesso di celare in sé anime irrequiete. Nella Germania settentrionale il livello dell’acqua indicava come sarebbe stato il raccolto del grano; similmente il sea (palude) di Monterovere indica in primavera con un livello basso dell’acqua che la pult sarà a buon mercato, con un livello alto che sarà cara. Non vi sono altre credenze od usanze dei lusernesi legati ai laghi o alle sorgenti da usare per un raffronto con il culto germanico antico delle sorgenti. Sono inoltre rilevanti per la tradizione popolare derivata dal culto germanico antico i periodi di festa, l’oracolo e la magia. a) Periodi di festa. San Nicolò e Knecht Ruprecht (figura che accompagna il santo), che Mogk mette in relazione al Julfest (festa di solstizio d’inverno), a Luserna, come nel Tirolo italiano, hanno ceduto il posto a Santa Lucia. Anche qui i bambini, come nel giorno di San Nicolò nelle aree tedesche, ricevono doni graditi e dolcetti da Santa Lucia. Saranno più abbondanti, se i bambini tengono pron- Trad. it. “La madre che piangeva il bambino morto”. Martedì. 58 Venerdì. 59 Si tratta del nome cimbro della Pasqua. 56 57 82 Luserna: c’era una volta to un po’ di cruschello per il mussètle 60 di Santa Lucia, come succede nelle zone tedesche per l’asino di San Nicolò. I giorni commemorativi dei due santi sono molto vicini anche come data: il 6 dic. San Nicolò, il 13 dic. Santa Lucia. – In febbraio si festeggiava nel nord il Góiblót, che Mogk interpreta come festa per il ritorno del sole. Negli ultimi 3 giorni di febbraio, i giovani di Luserna girano con sonagli e altri strumenti chiassosi per le vie del paese chiamando merz! o marzo! L’ultimo di febbraio, all’imbrunire, viene acceso un gran fuoco su una collina un po’ distante dal paese; si dice che vorprennen in martzo, mettono al rogo marzo. b) Oracolo. Dall’osservazione di un oggetto i sacerdoti germanici antichi e le “donne sagge” predicevano il futuro, allorquando vi era un’occasione importante che interessava il popolo intero, in caso di eventi meno rilevanti chiunque eseguiva la divinazione. Gli oggetti più svariati venivano usati per vaticinare e come mezzi per l’osservazione di una volontà superiore. Se ne sono conservate a Luserna le tracce seguenti: 1) L’incontro con certe persone in certi momenti, le fattezze di parti del corpo umano. Se il primo incontro al mattino è con una vecchia, allora il cacciatore per tutto il giorno non sarà fortunato; analogamente, un giovane sarà infelice in amore per tutto l’anno, se nel giorno di capodanno incontra per prima una vecchia. Se l’alluce di una donna è più piccolo del dito seguente, sarà presto vedova. Tintinnio nelle orecchie significa maldicenze o elogi da parte di qualcuno, a seconda che si tratti dell’orecchio sinistro o destro. Il dorso della mano piegato a pala indica avarizia, capelli tagliati e asportati con il pettine danno origine a mal di pancia, se gettati via; le macchiette bianche sulle unghie delle dita significano bugie. Gli occhi aperti di una salma annunciano una morte imminente. 2) Vari episodi ed attività, anche vestiti e oggetti d’uso comune, danno adito a premonizioni e conclusioni per il futuro. Schioccando le dita, la ragazza conosce il numero dei suoi ammiratori; due innamorati che fanno da compari ad un battesimo, si lasceranno più avanti. Lavare in un giorno di pioggia fa presagire alla ragazza il cattivo umore dell’amato; se una ragazza, lavando, sparge tanta acqua, allora il futuro sposo sarà un bevitore; se ad una donna, mentre lava, si stacca la fede, significa che perderà il marito per annegamento. Chi dei due sposini spegne la luce nella prima notte, morirà per primo. Un cucchiaio caduto significa cibo immeritato, un pezzo di pane caduto sta per la riluttanza di chi lo dà. Bambini che cantano sono l’avviso di un decesso imminente; di 13 persone ad un banchetto nuziale, una ne morirà nel corso dell’anno. Se il malato tira di qua e di là la coperta è l’annuncio della sua morte imminente. Se la sposa scivola il giorno delle nozze, deve aspettarsi sfortuna. Il rosario favorisce l’armonia tra amanti, dato che di pet pintet 61. Se il nastro del grembiule o della calza si scioglie da solo, la ragazza sa che l’amato la pensa. Un coltello tra innamorati significa discordia, visto che il mesar 60 61 Asinello. Lett. “il rosario lega”. Diritto, tradizioni e credenze popolari 83 hakht 62. Se una ragazza cammina per la strada, con l’orlo del vestito girato, l’amato è arrabbiato; se si scopa per terra, in direzione di un ragazzo o una ragazza, slitta per quell’anno il matrimonio. Se ad una ragazza stanno bene gli anelli alle dita, avrà un marito brutto e viceversa. Lo stoppino della lucerna significa una lettera, quando il fuoco scoppietta preannuncia una visita, un quadro caduto dal muro sta per un decesso imminente, crocette formatesi a caso con pagliuzze, ramoscelli ecc. disseminati, indicano disgrazia e morte. Se il cassone del letto degli sposi è girato con l’estremità dei piedi verso la porta, uno dei due muore entro l’anno. Luce ardente chiara, accesa per un defunto, comunica la sua sorte fortunata. Se le donne si mettono la gonna alla rovescia, verrà un temporale. Cullare una culla vuota comporta la malattia del bambino che poi vi verrà messo dentro, il misurare la grandezza di un bambino gli impedisce la crescita, ugualmente il passare sopra il bambino. Un abito nero nel giorno delle nozze significa sfortuna per la sposa 63. Sogni di lettere, di una processione con candele, porta male o annuncia una disgrazia. 3) Analogamente, anche animali e piante offrono un presagio per il futuro: L’incontro con una lepre al mattino predice disgrazia al viandante; annunciano anche decessi imminenti il miagolio di gatti in amore, l’ululare e guardare in basso dei cani, un sogno di cavalli o maiali, lo schiamazzare notturno o il gracidare delle galline, il richiamo della civetta; uccelli bianchi nei sogni fanno presagire la morte di un bambino. Se a primavera si sente per la prima volta il canto del cucù e si hanno con se soldi, allora questi non mancheranno per tutta l’estate. Il cucù svela anche ai giovani alla loro domanda gridata, quanti anni passeranno ancora fino al loro matrimonio: quante volte il cucù canta dopo la domanda posta, tanti anni occorrerà aspettare, e se non canta per niente, allora il matrimonio si farà o lo stesso anno o mai più. Le rondini sono uccellini sacri, il loro nido porta fortuna alla casa. La vista di un millepiedi e il sogno di pidocchi promettono soldi. Sognare cavalli può significare anche lettere, lo stesso vale per l’avvicinarsi di una piccola falena; il verso della quaglia predice il prezzo degli alimentari: quante volte la quaglia canta: dekh di hüt, tante trü (moneta d’argento) verrà a costare uno staio di farina nello stesso anno. Il canto del fringuello in autunno indica neve, la rondine con il volo basso annuncia pioggia. Di un animale molto feroce narra la seguente leggenda: s oa von hå. Als hundart djar lek dar hå an oa pluatet ’s aus. Aus disan oa khint a baselisko. As da dar baselisko sik das earst a mentsch, ditza möch stèrn. Sick ’s mentsch das earst an basilisko, möchtar skloppm. Il quadrifoglio porta fortuna, il nocciolo indica la quantità di neve che cadrà. (Sull’aglio v. sotto 4). 4) Anche il tempo diede motivo per ipotizzare una volontà superiore. Il primo martedì dopo una luna nuova non è adatto per concimare i prati. In una Lett. “il coltello taglia”. A quanto riferisce lo stesso Bacher, comunque (vedi p. 50), questa credenza è in seguito venuta meno e in tempi a lui più vicini le spose indossano un abito nero, mentre le usanze antiche e gli abiti tradizionali sono scomparsi già da una generazione nel momento in cui egli scrive. 62 63 84 Luserna: c’era una volta casa, dalla quale nel giorno di venerdì viene portato via un defunto per il funerale, lo stesso anno seguiranno altri due morti. Se si tagliano le unghie di venerdì, più tardi suppureranno. Se si semina l’insalata di venerdì, non crescerà; il venerdì è anche di cattivo auspicio per l’inizio di un lavoro e di un mese; chi ride molto di venerdì, piange di domenica e viceversa. Aglio, mangiato il giorno della conversione di San Paolo, protegge dal morso di serpente, brina per l’Annunciazione significa la propria incolumità per un anno intero, pioggia per l’Ascensione di Gesù Criso annuncia 40 giorni piovosi di seguito, nella domenica di pentecoste significa un cattivo raccolto. Tempo bello per San Gallo durerà fino a Natale. La caccia nel giorno di Natale porta buona caccia per un anno intero, la partecipazione a tre messe nello stesso giorno promette protezione dai lampi, il giorno della settimana che cade a Natale è adatto per seminare le verdure. L’ultima domenica di carnevale bisogna pettinare i capelli e tagliarne le punte, allora cresceranno più folti. Il giovedì santo e il sabato santo occorre strofinarsi gli occhi al suono del gloria, per avere garantita la salute. Il venerdì santo non si devono pettinare i capelli per non dare un dispiacere al Signore. 5) Anche gli astri, di cui il sole e la luna rappresentano gli occhi di Dio, hanno un significato. La luna è abitata da un omino e una donnina, è il luogo in cui è stato confinato il Linsendieb (ladro di lenticchie, n. 13 64) e che viene messo più di altri in relazione alla crescita delle piante e al buon andamento delle attività umane. La luna indica il tempo. Luna piena o luna crescente non sono favorevoli alla semina, alla fienagione, per abbattere alberi nonché per iniziare a fare il bucato, sono invece indicate per tagliare i capelli; il primo quarto non è adatto per piantare l’insalata. La cometa porta punizione, sfortuna o guerra se la sua luce è rossiccia; ma se la luce è bianca, allora è di buon auspicio. La via lattea è dar bege, bo da trak (porta, conduce) ka ruam (Roma); se è chiaramente visibile, arriverà pioggia. c) Magia. Nei Germani erano soprattutto le donne, ma a volte anche gli uomini a dedicarsi alla magia. A Luserna la magia si è fusa con il concetto di stregoneria. Presunti streghe e stregoni vengono guardati con timidezza. La magia consisteva nei Germani in certi segni che diventavano efficaci con l’aggiunta della formula magica. Nelle leggende di Luserna si riscontra come segno il pentolino fittile, in cui si fa girare un cucchiaio di ferro. La formula magica è indicata al n. 27 65, da cui risulta che allora ci si immaginava anche un unguento delle streghe, benché lo stesso non viene menzionato da nessuna parte. Solo in presenza di un unguento della strega l’onto, bisonto (unto, unto due volte) acquista un senso e spiega anche nel modo più semplice il far girare un cucchiaio di ferro nel pentolino. Stranamente, la formula magica si è conservata presso i lusernesi in lingua italiana. Si trova solo un cenno ad una formula magica o di sortilegio al n. 24, nel termine “murmeln” (mormorare). – La magia veniva usata dai vecchi in vari modi, 64 65 Trad. it. “L’uomo che si vede sulla luna”. Trad. it. “Il vecchio stregone”. Diritto, tradizioni e credenze popolari 85 sia per aiutare gli uomini sia per danneggiarli. Nel primo caso si applicava la magia per guarire le persone da malattie, rendere invulnerabile il fisico o assistere la persona in pericolo ed emergenza, e salvarla laddove l’aiuto umano secondo la legge naturale delle cose o non è possibile o lo è solo andando oltre le forze naturali. Di questa magia benefica però nella concezione dei lusernesi non vi è quasi traccia. È vero che al n. 23 un bue è stato salvato dalla giovane strega, ma questo può valere solo come beneficio apparente, dato che il bue era stato stregato in precedenza, e dopo la morte della giovane strega l’animale misterioso è anche scomparso assieme alla vecchia. Piuttosto si potrebbe intravedere un ricordo di magia benefica nella credenza di far sparire verruche con un filo, o nel rivolgersi ad un ciarlatano in modo credulo e fiducioso. Per il resto i lusernesi oggi considerano di malafede e dannosi la magia e i maghi, i quali si sono dunque fusi del tutto con le streghe e gli stregoni. Nella leggenda n. 28 66 l’idea della magia (cioè stregoneria) si è curiosamente mescolata alla fede nelle consacrazioni e benedizioni ecclesiali. Il concetto di un effetto dannoso della magia non si è sviluppato solo con il tempo, ma esisteva già nell’antichità germanica accanto alla sua valutazione positiva. La disgrazia, la malasorte, di cui si era colpiti, la si ascriveva alla magia nera; non di rado i maghi e le maghe avranno, in uno stato di eccitazione e con sete di vendetta, minacciato qualche disgrazia, per cui, se questa alla fine si verificava effettivamente, veniva ricondotta alla sola magia. Perciò si incontra nell’antichità germanica accanto al rispetto riverente per i maghi anche disprezzo e ripugnanza. L’avversione veniva sicuramente alimentata dal cristianesimo. C’è da meravigliarsi dunque se il ribrezzo di fronte ai negromanti ebbe il sopravvento e regnava infine incontestato in luoghi come Luserna? Contro la magia nera occorreva trovare efficaci rimedi. Alcuni si sono conservati anche a Luserna in certe usanze: una coppia appena sposata deve ad esempio passare sopra una scopa per essere immune contro sortilegio. Sopra una tomba aperta vanno posti incrociati badile e zappa per proteggerla dalla vasta influenza delle streghe. In caso di tempesta si bruciano rami d’ulivo benedetti, visto che le streghe non sopportano il fumo di oggetti sacri. Un altro rimedio efficace sono le campane di chiesa benedette; il loro batacchio diventa pericoloso per le streghe che fanno il buono e il cattivo tempo, le ferisce, le batte giù dalle nuvole, evitando il danno che le malvagie avevano in mente. Una fidanzata deve guardarsi bene dall’uscire di notte da sola, poiché verrebbe stregata. La tendenza di proteggere i giovani dalle insidie morali era probabilmente la causa per il sorgere di questa credenza. Anche altre misure comportamentali danno l’impressione di essere fondate su intenti pedagogici, ad esempio l’avviso che un segno di croce fatto con la sinistra significa litigi, che la Madonna non può vedere bambini non lavati; esorta alla pulizia e prudenza il detto: i vestiti non lavati di un defunto comportano un nuovo decesso; dalla cura dedicata al focolare scaturisce l’ammonimento di non far pendere bassa la hel (catena) quando non viene utilizzata; ma il popolo prende alla lettera anche tradizioni di questo 66 Trad. it. “I due decani”. 86 Luserna: c’era una volta tipo. Quanto forte fosse radicato ancora nell’anno 1900 la credenza del pericolo di sortilegio, che corrono le puerpere, lo si ricava da quanto segue: da khlua hat gehat an pua. On in an tage hat sa gemöcht gian in stal z’ sega von vich., ombrom dar soi mån is vortgebest. On se hatar genump s baigebasar on is-e-se gesenk. Denna hat hatzesan genump a bötzle in di gadjof, denna hat s’ ar gelek um a groasa pet on is gånt in stal pa dar nacht, on dar bilesch hat se nètt gewank 67. Di notte vi è il pericolo soprattutto per i bambini di essere stregati, perfino la loro biancheria assorbe la magia negativa e la trasmette al bambino. – Quando però si dice ai bambini che un bimbo che salta dentro l’arcobaleno si trasforma in ragazzina e viceversa, probabilmente si intende esprimere scherzosamente l’impossibilità di tale impresa. Le cose stanno diversamente con l’usanza di gettare un dente caduto sopra la testa, o di inserirlo o lanciarlo in un buco di topo, invitando il topo a portare presto un nuovo dente. Questa abitudine potrebbe essere connessa ad una vecchia credenza, ad una convinzione un tempo chiara e precisa. Trad. it. «la giovane ebbe un bambino. Un giorno devette recarsi nella stalla per occuparsi delle bestie, poiché il marito era assente. Prese l’acqua santa e si fece il segno della croce. Ne riempì anche una bottiglietta e se la mise in tasca. Poi mise al collo un grosso rosario e si recò nella stalla durante la notte, e il sortilegio non la colpì». 67 V. FIABE, LEGGENDE, STORIELLE Fiabe, leggende, storielle 89 A. Fiabe, leggende e storielle PREMESSA AI RACCONTI Josef Bacher ha raccolto i quarantasette racconti che vengono proposti di seguito. In alcuni casi ha aggiunto qualche nota, precisando però che «Dato che gli aiuti che ho a disposizione per le comparazioni e i riscontri sulle fiabe lusernesi sono piuttosto scarsi, mi devo limitare a qualche breve accenno». Le note originarie, ove presenti, sono state inserite nel relativo racconto. Tematiche presenti nei racconti • DIO - SANTI - ANGELI: 1, 2, 9, 10 • NATURA (animali, piante, etc.): 3, 4, 5, 13, 14a, 14d, 16, 19, 36, 41 • LUSERNA - ABITANTI: 6, 8, 11, 14, 16, 17, 39, 40, 44, 45, 46, 47 • CHIESA - CAMPANE: 7, 8, 14b, 14c, 14e • RELIGIONE: 3, 9, 20 • STREGHE - STREGONI: 7, 8, 23, 24, 25, 26, 27, 28, 35 • CALAMITÀ NATURALI: 5, 6, 7, 8, 18, 28, 38 • BAMBINI - MAMME: 2, 9, 17, 22 • DIAVOLO: 11, 15, 21 • DEFUNTI - ANIME: 2, 12, 20, 34 • UOMINI E DONNE SELVATICI: 11, 17, 33, 37 • VAMPIRI: 30, 31, 32 90 Luserna: c’era una volta Racconto nr. 1 Bruno Schweizer 68 riporta un racconto simile, ma riguardante la località di Allgäu in Baviera. Gott dar Hear un dar khèrn boimarn Il Signore Gesù e l’acino d’uva Bàlda Gott dar Hear no is gebest af disa bèlt, ìssar gånt a vert gesotzt zo ross nå in an bege. Bal dar is gebest a baila vür, hattar gesek danìdar an khèrn boimarn. Dar is argesotzt un hatten augelest, un hatten gèst. Ditza hattars getånt zoa to lìrnanas üs, as bar nèt lassan gian nicht umme nicht vo alln in sàchandar bo das schikht Gott dar Hear. Quando il Signore era ancora a questo mondo, andò a cavallo lungo una strada. Dopo un po’ vide per terra un acino d’uva. Scese da cavallo, lo raccolse e lo mangiò. Fece questo per insegnarci che niente di tutto ciò che il Signore Iddio ci manda deve essere trascurato, per nessun motivo. 68 Schweizer Bruno, Concetti cristiani nelle credenze dei cimbri, Edizioni Taucias Gareida, Giazza - Verona, 1989. 92 Luserna: c’era una volta Racconto nr. 2 Mauro Neri 69, nel suo libro “Donne e bambine nelle leggende del Trentino”, racconta una leggenda originaria della Val Lagarina che riporta lo stesso titolo di questo racconto. La trama è la stessa, con qualche differenza nei dettagli. Nel commento al racconto, la madre di San Pietro viene descritta come una donna egoista: «Puoi anche essere la madre di San Pietro, e grazie a questa condizione vantaggiosa può esserti perfino offerta quest’ultima chance che ad altri non è concessa, ma se non fai ammenda al tuo egoismo, a nulla varranno le suppliche e le misere preghiere che saprai recitare. L’inferno ti accoglierà due volte!». Di muatar vo san Piaro La madre di S. Pietro Di muatar vo san Piaro is gebest a schaüla znichts baibe, bo da nia hatt getånt nicht guats, un hatt hèrta gevluacht un gestritet pit alln. A vert ìsse gebest kan pach zo bèscha tschovölln, un dà ìssar inkånt ’s gras vonan tschovöll. Si hats bahémme geböllt vången, ma si is neméar gebest guat, un alóra hatse khött: «Gea hì, i ópfarde in armen sealn!» Bal se is gestorbet, Gott dar Hear hatse geschikht kan taüvl. In san Piaro hatsen getånt ånt zo bissa sai muatar kan taüvl, un dar hatt sovl gepittet Gott ’n Hearn àssarse nemm au in hümbl, fin àsta Gott dar Hear hatt khött: «Gea un nimm ’s gras von sèll tschovöll un, àsto pist guat zo zìagase auvar darmìtt, möse khemmen in hümbl pit diar». Asó hattar getånt san Piaro. Dar hatt genump ’s grass von tschovöll un hats gerekht nidar kan taüvl. Sai muatar is geloft bahémme un ìssese drinn gehenk. San Piaro hatt ågeheft zo zìagase au. La madre di San Pietro era una donna molto cattiva, che non faceva mai nulla di buono e che invece bestemmiava continuamente e litigava con tutti. Una volta andò al fiume per lavare delle cipolle e il gambo di una di queste le sfuggì di mano. Tentò subito di pigliarlo, ma non ne fu capace. Allora disse: «Vattene, va, ti offro alle anime dei defunti!» Quando morì, il Signore la mandò dal diavolo. A San Pietro dispiacque molto sapere che sua madre era finita all’inferno e supplicò così tanto il Signore di accoglierla in cielo, che infine il Signore disse: «Va a prendere quel gambo di cipolla e se riesci a tirarla su dall’inferno con quello, allora potrà venire in cielo con te». San Pietro fece così. Prese il gambo di cipolla e lo protese verso l’inferno. Sua madre corse ad attaccarvisi e San Pietro cominciò a tirare. Ma quando le altre anime che stavano 70 Neri Mauro, Donne e bambine nelle leggende del Trentino, AlcionEdizioni, Trento, 2008. Bacher annota: «Reperibile con qualche piccola differenza in Schneller‚ Märchen und Sagen aus Wälschtirol (Fiabe e leggende del Trentino), n. 4». 69 70 94 Luserna: c’era una volta Ma bàlda di åndarn håm gesek asó, sòinsa alle geloft zo héngase drinn se o. Ma di muatar vo san Piaro hatt håntgelek z’ straita un zo vluacha un zo kenka, un hatt khött: «Geat vort, geat vort, plaibet sèm eråndre maladìrate, mai Piaro zìagetme au mi alumma un nèt aüchåndre o». Ma a fòrtza zo kenka un zo zèrra ista darrìst ’s grass, un si is bidar gevallt nidar kan taüvl. «Sìsto, – hattar khött Gott dar Hear – as ma bill khemmen in hümbl, möchtmasen pròpio gebinnen». all’inferno videro cosa stava accadendo, accorsero pure loro ad aggrapparsi al gambo di cipolla. La madre di San Pietro però cominciò a litigare, a bestemmiare e a tirar calci, gridando: «Andate via, andate via, restate là voialtri maledetti, il mio Pietro tira sù me soltanto e non voialtri». Ma a forza di tirare e di dar calci, il gambo di cipolla si strappò e la donna precipitò nuovamente all’inferno. «Vedi» disse allora il Signore «che se si vuole salire in cielo, bisogna proprio meritarselo». Fiabe, leggende, storielle 95 Racconto nr. 3 (immagine pag. 96) Hàkhtme au in zöllela, un nèt in schaitla! Spaccatemi in pezzi grandi, non in pezzi piccoli ! 71 Vor vil vil djar, bàlda no alls hatt geredet, di vichar, ’s gegrés un di khnotn o, a månn is gånt zo hakha au holtz. Dar hatt genump a stemble un hats gelek affn hakhstokh. Bal dar hatt gehöachart di hakh zo böllas khliam, ’s temble hatt ågeheft zo reda. Dar månn hatt augehaltet di hakh un ìssese nidar gepükht zo lüsna bas da ’s stemble khütt. In a bàilele hats bidar ågeheft un hatt khött: «Hàkhtme au in zöllela, un nèt in schaitla!» Un bal sa denna håm gemacht in Sakro Koncilio vo Tria, håmsa gebaiget ’s gehültz un di khnotn un ’s vich un, vo sèm å, hats nicht mear geredet ne ’s holtz, ne di khnotn, ne ’s vich. Molti, molti anni fa, quando ancora tutte le creature parlavano, gli animali, le piante e perfino le pietre, un uomo si recò a spaccare legna. Aveva preso un piccolo tronco e lo aveva collocato sul ceppo. Quando sollevò la scure per spaccarlo, il tronco cominciò a parlare. L’uomo trattenne la scure e si chinò a sentire che cosa il tronco dicesse. Poco dopo, il pezzo di legno ricominciò a parlare e disse: «Spaccatemi in pezzi grandi, non in pezzi piccoli!» Quando poi ci fu il sacro Concilio di Trento (1545 - 1563) le piante, le pietre e gli animali vennero benedetti e da allora in poi non parlarono più né piante, né pietre, né bestie. In cimbro esistono due vocaboli distinti per indicare “pezzi grandi”, “zöllela”, “pezzi piccoli”, “schaitla”. 71 Fiabe, leggende, storielle 97 Racconto nr. 4 (immagine pag. 98) Dar schavar un dar visch Il pastore e il pesce A schavar hatt gehüatet soine öm nåmp in mer. ’S is gebest khalt un er hatt gevrort. Dar hatt gesüacht a platt zo macha drau a vaürle zo bèrmase, umbrómm attemìtt in gras hattars nèt ågeböllt züntn, zoa nèt zo vorprénnas. Dar hatt gevuntet a schümmas slèchts plettle un sèm hattar ågezüntet ’s vaür un hatse zuargebèrmp. Ma alls in an stroach gìtsen an schüttlar un schüttlten imen un alle soine öm inn in mer, bo sa soin dartrùnkht. Dar arm schavar hatt ågehatt gemacht ’s vaür affn rukkn vonan groasan groasan visch un, bàlda disar hatt gehöart di hitz, hattarse geschüttlt, un disar schüttlar is gebest dar toat von schavar un vo soin öm. Un pastore custodiva le sue pecore presso il mare. Faceva freddo ed egli si sentiva gelare, così decise di cercare una pietra liscia dove accendere un piccolo fuoco per riscaldarsi, poiché non lo voleva accendere in mezzo all’erba per non bruciarla. Trovò una bella pietra liscia, vi accese sopra il fuoco e rimase a scaldarsi. Ma tutto ad un tratto ci fu uno scossone, che mandò lui e le sue pecore a cadere in mare, dove annegarono tutti. Il povero pastore aveva acceso il fuoco sul dorso di un enorme pesce e quando il pesce sentì il calore del fuoco si scosse e quello scossone segnò la morte del pastore e delle sue pecore. Fiabe, leggende, storielle 99 Racconto nr. 5 (immagine pag. 100) Di mèrla La merla Di mèrla is gebest a schüandar baisar vogl, un ats achtunzbuantzekh von djenàro hatse khött: «Est vörteme neméar von bintar un von vrost, umbrómm da létzarste zait is vort». Un ats noünunzbuantzekh, draitzekh un unundraitzekh ìsta khent a schaüladar bint un a schaüladar vrost, un si hatt neméar gebisst bia zo tüana zo bohüatase von vrost. Un si is gånt au affn khemmech un is sèm gestånt alle drai di tage. Un bal se is ausgeflatart von khemmech, ìsse gebest alla sbartz a be dar ruaz, un asó ìsse no in ta’ vo haüt o … Un dise drai lestn tage von djenàro hóastmase no hèrta di tage vo dar mèrla. La merla era un uccello bianco molto bello ed il 28 di gennaio si era permessa di dire: «Ora non ho più paura dell’inverno e del gelo, perché il tempo peggiore è già passato!» Ma il 29, il 30 ed il 31 di gennaio arrivò un vento così forte e un freddo così intenso, che la merla non seppe più come fare per ripararsi dal gelo. Decise allora di accovacciarsi sopra un tetto, vicino ad un camino, dove rimase tutti e tre quei giorni. Quando finalmente volò via dal camino, la merla era diventata nera come la fuliggine e tale rimase, anche al giorno d’oggi… E questi tre ultimi giorni di gennaio, da allora, si chiamano “i giorni della merla”. Fiabe, leggende, storielle 101 Racconto nr. 6 Di pèsta, odar bia di Lusérnar håm getånt zo khemma zo bissa béda la pèsta no is bait vort von lånt Dise djar ìsta gebest khent la pèsta. Si is gebest ummar in alle di lentar umenùm Lusérn un di Lusérnar soin gebest alle in a vort, umbrómm sa håm gemuant, se khint sèm o. Sa héttatn gearn gebisst bi se is pall nåmp un, habante gehöart khön ke bo da is la pèsta darvàulta ’s proat o, ìssen khent in sint zo nemma na stång zo stekha drau zboa pröatla un zo lùanase au, au affn Sbånt. Sa håm khött: «Àsta is la pèsta in air au affn Sbånt, ’s proat darvàult un asó sébar bia un bas». Asó håmsa getånt. Sa håm genump a långa stång un håmse getrakk au affn Sbånt; dóm håmsa gemacht a loch in di earde un håm augeluant di stång drau pitn zboa pröatla. Getånt àssas håm gehatt, sòinsa bidar khent huam. Zboa drai tage darnå sòinsa bidar gekheart zo giana au z’ sega bi ’s steat pitn proat. Bal sa håm ausgehatt gegrabet di stång un håm argenump ’s proat, håmsa gesek ke das halbe proat in zuar Vésan is gebest vaul àspe a sbåmm, un das åndar halbe auvar zuar Lusérn is no gebest guat. Asó håmsa gesek ke la pèsta is gebest khent fin sèm. Sa håm augelek zboa åndre pröatla un in an étlane tage sòinsa bidar gånt z’ sega. Cosa fecero i luserni per sapere se la peste era ancora lontana dal loro paese 72 In quegli anni c’era la peste. Essa aveva raggiunto tutti i paesi attorno a Luserna. In questo paese gli abitanti erano spaventati perché pensavano che presto o tardi la malattia sarebbe arrivata anche da loro e desideravano sapere se fosse già vicina. Per riuscire in questo, poiché avevano sentito dire che dove arriva la peste si guasta perfino il pane, venne loro in mente di prendere una pertica e di infilare ad una delle estremità due pezzi di pane e di piantarla poi sullo Sbånt sopra Luserna. Essi dissero: «Se sullo Sbånt c’è la peste nell’aria, il pane si guasterà e noi sapremo già come andrà». Così fecero: presero una lunga pertica e la portarono su allo Sbånt; lassù scavarono una buca in terra e vi piantarono la pertica coi due pezzi di pane. Poi, tornarono a casa. Due o tre giorni dopo risalirono a vedere che cosa ne fosse del pane. Quando ebbero levato la pertica e preso il pane, videro che nella metà verso il Vezzena il pane era guasto come un fungo e che nella metà verso Luserna era ancora buono. Così si resero conto che la peste era giunta proprio fin là. 72 Bacher annota: «Come qui l’aria appestata guasta il pane, in Val Martello faceva diventare completamente rossa la biancheria fresca di bucato [Heyl, Volkssagen (Leggende popolari) 497]». 102 Luserna: c’era una volta Disa vert is no gebest alls guat ’s proat, un di laüt soin gekheart alle luste bodrùm in lånt, umbrómm sa håm gesek ke la pèsta is bidar vortgebest, åna zo tüananen khumman schade. Misero sopra la pertica due altri pezzi di pane e dopo alcuni giorni tornarono a vedere. Questa volta il pane era tutto sano ed essi tornarono felici e contenti al paese, perché avevano constatato che la peste si era già allontanata senza far loro alcun danno. 104 Luserna: c’era una volta Racconto nr. 7 Dar striù vo Sam Bastiå Lo stregone di San Sebastiano 73 In an stroach ista khent a striù vo Sam Bastiå zo böllas machan schaurn. Un baldar is gebest hér, obar ’s lånt vo Lusérn, hattar gevånk an stroach pitn khlèchl vo dar groasan klokk in an schinkh un is dartschotet un is gestånt tschotat fin assar is gestorbet. Una volta arrivò uno stregone da S. Sebastiano con l’intenzione di suscitare tempesta e grandine sopra il paese. Ma quando fu sopra Luserna, il batacchio della campana grande lo colpì ad una gamba ed il colpo fu così forte che lo stregone restò storpiato e zoppo finché visse. 73 Bacher annota: «Come nelle leggende tirolesi per uccidere le streghe si sparano pallottole benedette [Zingerle, Sagen (Leggende) 791], nell’immaginario lusernese il suono delle campane è un pericolo per streghe e magi». 106 Luserna: c’era una volta Racconto nr. 8 ’S klökkle vo sant’Antóne La Campanella di sant’Antonio ’S klökkle vo sant Antóne ats Lusérn, odar dar tschintschinnàvano, is gebaiget vor das schaüla bèttar. In an stroach håmsas gelaütet bal ’s hatt geschaurt, un balamån hats gètt an stroach pitn khlèchl in khopf vonar stria un hatse gemèkket von bolkhnen abe. Un vo darsèlln vert aus ìsse neméar gånt zo macha ’s bèttar. Il tintinnabolo di Luserna, chiamato anche Campanella di sant’Antonio, è stata benedetta per annunciare il cattivo tempo. Una volta la suonarono mentre grandinava e all’improvviso il batacchio della campanella colpì in testa una strega e la fece cadere dalle nubi. Da quella volta in poi la strega non andò più in giro a provocare il cattivo tempo. 74 74 Bacher annota: «Come nelle leggende tirolesi per uccidere le streghe si sparano pallottole benedette [Zingerle, Sagen (Leggende) 791], nell’immaginario lusernese il suono delle campane è un pericolo per streghe e magi». 108 Luserna: c’era una volta Racconto nr. 9 Questo racconto ricorda la favola dei Fratelli Grimm intitolata “La camicina da morto”. Anche in questo caso, la trama è la stessa, variano solamente alcuni dettagli. Di muatar bo da hatt geschuant sai khinn La madre che piangeva il bambino morto A muatar hatt gehatt a schümmas djunges khindle. Disan khinn hatsen geböllt an groasan bol. Ma umbrómm se hats gehaltet kar za gearn, Gott dar Hear hatsar genump. In an tage ’s khinn is darkhrånkht un is palle khent zo stiana letz. Aniaglana medisì bo da di muatar hatt gebisst, un bo se hatt gemuant, se mögaten tüan bol, hatsesen nidargètt, ma khùmmana hatt éppas geholft. Von an tage aff den åndar ’s khinn is khent zo stiana hèrta letzar. Bal da di muatar hatt gesek asó, hatse geschikht zo rüava in doktùr. Ma darsèll is gebest vort bait, un vor dar is khent, ’s khinn is gestorbet. Dar armen muatar hatsar getånt ånt àssar sai gestorbet ’s khinn, àsta di laüt håm gemuant ke di khint narrat. Tage un nacht hatse nèt åndarst getånt bas gegaült un gegaült. Si hatt nèt gèsst un nèt getrunkht un, bal sa soin khent zo nemma ’s khinn un håms gelek in paur zo tràgas zo bogràba, Una madre aveva un bel figlioletto che amava molto. Ma proprio perché gli voleva troppo bene, il Signore Iddio glielo tolse. Un giorno il bambino si ammalò e in breve tempo stette molto male. La madre gli fece prendere ogni medicina che conosceva e che riteneva potesse fargli bene, ma nessuna di esse gli giovò. Di giorno in giorno il bambino andò peggiorando, tanto che la madre mandò a chiamare il dottore. Il dottore però abitava molto lontano e quando arrivò, il piccolo era già morto. La povera madre si addolorò talmente per la morte della sua creatura, che la gente ebbe l’impressione che impazzisse. Non faceva altro che piangere e piangere, giorno e notte. Non mangiava e non beveva e, quando vennero a prendere il figliolo e lo misero nella bara per portarlo a seppellire, svenne e tutti credettero che anche lei stesse per morire. 75 75 Bacher annota: «Un’analoga leggenda arrivò nel maggio 1885 all’orecchio di K. Weinhold zu Kolbnitz (Slesia): una madre aveva visto in sogno il proprio figlio avvolto in una camicia completamente bagnata. Ma il sogno non era servito a niente, perché “la donna non riesce ancora a tranquillizzarsi” [Zeitschrift für Volkskunde (Rivista di cultura popolare) IV, 456]. In merito, Weinhold osserva: “Si tratta di un riflesso della credenza, ampiamente diffusa, del rimpianto che toglie la pace ai morti nella tomba; cfr. J. Grimm, Deutsche Mythologie (Mitologia tedesca) 5. 884, W. Müller e Scharubach, Niedersächsische Sagen (Leggende della Bassa Sassonia) n. 133 con le note di Schulenburg, Wendische Sagen (Leggende sorabe), pag. 237 e seg., Rochholz, Deutscher Glaube und Brauch (Credenze e usi tedeschi) 1, pag. 207 e seg.” Nella leggenda lusernese, il cupo sconforto viene infine cancellato dall’insegnamento dell’evla, vinto dall’amore per il figlio e illuminato dal sentimento religioso, dalla devota speranza nella vita eterna». 110 Luserna: c’era una volta ìsse darlàichtet, un di laüt håm gemuant ke si stirbet si o. Gestorbet ìsse bol nèt, ma in biane tage ìsse khent ploach as be di èsch un magar as be a schipf. Di åndarn baibar soin khent un håmar zuar geredet un håm khött, si schöll nèt sovl buanen un nèt soin asó traure, ’s khinn is in hümbl, bo ’s steat pezzar as aff disarn bèlt. Ma si hatt nicht geböllt höarn. Si hatt hèrta gehatt ’s vürta au aff di oang zo trükhnanar di zeacharn. In an mal hatsese nidargelek un is hìintslaft un is gånt in an intrùam. Si ìssese intrùamp ke si sik a khutta éngela, bo da flatarn in air, un bait hintar densèllnen ummas bo da nå is geflatart alùmma. Bal se is darbékht, hatse nèt gebisst bas ar bill muanen, disar intrùam, un is gebest traure as be vorå. D’åndar nacht ìssese bidar intrùamp asó. Disa vert hatse gesek vo baitum a khutta éngela bo da soin khent hèrta nempar, un bàlda dise soin gebest vürgeflatart alle genoatn, a baila nå ista khent flàtrane ummas alùmma. Bàlsar is gebest nidar nåmp, alls in an stroach hatses darkhénnt un hatt gesek, ’s is sai khinn. «Liabes mai khinn, – hatse gesriget – umbrómm flàtarsto hintarnå asó alùmma un nèt pitn åndarn?» «Sékar nèt, liaba mai måma, – hats khött ’s éngele – moine vedarn soin alle nass von aürn zeacharn? Gaültme neméar, àssar böllt àsse möge flatarn pitn åndarn!» Khött àsses hatt gehatt, is bidar geflatart nå den åndarn. Un von sèll tage vort, di muatar hatt neméar gegaült das toat khinn. Non morì, ma in pochi giorni si fece pallida come la cenere e magra come uno stecco da siepe. Le altre donne andarono da lei, le parlarono, le dissero che non doveva piangere e che non doveva lasciarsi prendere dalla tristezza a quel modo, perché il figlio era in cielo, dove stava meglio che a questo mondo. Ma la donna non voleva ascoltare nessun discorso; si portava in continuazione il grembiule agli occhi per asciugarsi le lacrime. Una sera si coricò e quando fu addormentata, cominciò a sognare. Sognò di vedere una schiera di angeli che volavano in cielo e, in distanza, dietro ad essi, uno che li seguiva volando tutto solo. Quando si svegliò, non seppe spiegarsi che cosa significasse il sogno e rimase triste come prima. La notte successiva sognò ancora come nella precedente. Questa volta cominciò a vedere da lontano una schiera di angeli che le venivano sempre più vicino e, dopo che le furono passati davanti tutti uniti in volo, ne giunse uno tutto solo. Quando quest’ultimo le fu vicino, improvvisamente lo riconobbe e vide che era suo figlio. «Caro bambino mio!» gridò «Perché voli tutto solo dietro agli altri e non assieme a loro?» «Non vedi, mamma mia cara?» disse l’angioletto «Le mie piume delle mie ali sono tutte umide per le tue lacrime. Non piangermi più, se vuoi che io voli con loro!» Detto questo, egli riprese a volare dietro agli altri angeli. Da quel giorno in poi la madre non pianse più il suo bimbo morto. Fiabe, leggende, storielle 111 Racconto nr. 10 Bia da auszalt Gott dar Hear Come ripaga il Signore Iddio In an stroach ìsta gebest an armar månn, bo da hatt geàrbatet un gespart vil, un pit alln soin geàrbata un gespàra ìssar nia gebest guat zo leganen eppas in di hent. Balamån hattar gehöart khön ke bas ma laiget in Gott ’n Hearn, gìttars bodrùm hundart vert mearar. Un disar månn is gånt in di khirch un bàlda is khent dar mesnar zo lesa au di opfar, hattar gedjukht alls sai gèlt bo dar hatt gehatt, nidar in sekhl un in alls, bas ar hatt gehatt is gebest a tòlar un hatt gemuant ke Gott’ar Hear in biane zait héttaten gètt bodrùm hundart tölar. ’S djar darnå hattar gesek, disar månn, ke di hundart tölar khemmen nia, un er hatt augevånk in bege un is gånt zo süacha Gott ’n Hearn zo màchanen gem ’s gèlt. Bal ’s is gebest nacht ìssar gerift kanan haus, mearar toat bas lente vo müade, un is inngekheart un hatt gevorst di hérbege. Di laüt von haus håmsen gètt, un lai håmsen gètt di tschoi un intånto àssar hatt gèsst, håmsen gevorst z’ sega bo dar geat. Un er ìssese nèt gehaltet vorpórget un hatsen khött. C’era una volta un pover’uomo che aveva molto lavorato e risparmiato nella sua vita, ma nonostante i suoi sforzi, non era riuscito a mettere niente da parte. Egli sentì dire che quello che noi prestiamo al Signore, il Signore ce lo ritorna cento volte. Andò in chiesa e nel momento in cui il sagrestano passò a raccogliere le offerte buttò nella borsa tutto ciò che aveva, vale a dire un tallero, e nel farlo pensò che dopo breve tempo il Signore gli avrebbe reso cento talleri. Un anno dopo quell’uomo, avendo constatato che i cento talleri tardavano a venire, si mise in cammino e andò a cercare il Signore per indurlo a rendergli il denaro. Quando fu notte ed era mezzo morto dalla stanchezza, giunse ad una casa, entrò e chiese ospitalità. La gente di quella casa lo accolse di buon grado e gli preparò anche la cena e, quando egli ebbe mangiato, gli chiese incuriosita dove stesse andando. Egli non si rifiutò di rivelarlo e lo spiegò. Allora quelli aggiunsero: «Se incontri il Signore puoi chiedergli qualche cosa anche per noi: vedi, noi ab- 76 76 Bacher annota: «Zingerle Lus. Wb. Luserner Weiber (Donne di Luserna), App. 2. - Richiami alla prima parte di questa fiaba si trovano in Grimm, Märchen (Fiabe) 165: Hans vuole catturare l’uccello, il nostro uomo vuole arrivare a Dio; Hans chiederà consiglio in tre importanti questioni, lo stesso farà il nostro uomo; e Hans riceverà in cambio dei doni, come il nostro uomo. - Cfr. lerner Grimm, Märchen 29, nella quale il fortunato protagonista, costretto a recarsi dal diavolo per prendere tre capelli d’oro, potrà risolvere tre importanti problemi e si guadagnerà in cambio ricchi tesori. I tre consigli del Signore del Giardino al nostro uomo trovano il loro riscontro nella Geschichte von den drei guten Lehren (Storia dei tre buoni consigli) nella raccolta di fiabe siciliane di Laura Gonzenbach, glossata da R. Köhler e pubblicata da J. Bolte nella Zeitschrift für Volkskunde VI, pag. 169 e seg.)». 112 Luserna: c’era una volta Alóra håmsa khött di laüt: «Àsten vinnst Gott ’n Hearn, mögasto lai vorsan eppas vor üs o? Biar håm dà ünsar tochtar un mòrng bératsese boràtet, un invétze haüt ìssese darkhrånkht, un est ìssar vürkhent asó drai vert ummana nå dar åndarn: ’s is sovl àspesese nèt schöllat boràtn. Un alóra du pitt in Gott ’n Hearn àssarse lass boràtn, ünsar diarn». Dar månn hatsen vorhóast un denna håmsen gelek t’ slava. In ta’ darnå ìssar augestånt un is gånt nå soine bege. A baila zait spetar asta is gest gånt oine di sunn ìssar gerift kanan åndarn haus un sèm ìssar inngekheart un hatt gevorst di hérbege. Un di laüt håmsen gètt un denna håmsen gevorst z’ sega bo dar geat. Un er hatsen khött; un alóra dar bakå hatt khött: «Bèn, àsten vinnst Gott ’n Hearn, mögasto vorsan eppas vor üs o? Biar håm dà disan gart, un est is étlane djar àsta neméar khemmen khummane boimarn. Vorsch in Gott ’n Hearn z’ sega umbrómm ’s khémmenda khummane mear». Dar månn hatsen vorhóast un is gånt t’ slava. In ta’ darnå ìssar augestånt in aldar vrüa un is gånt nå soine beng. Bal ’s is gebest nacht, ìssar gerift kanan haus bo da soin gebest zboa prüadar, un sèm ìssar inngekheart un hatt gevorst di hérbege. Un di zboa prüadar håmsen gètt un lai håmsen gekhocht eppas z’ èssa; un denna håmsen gevorst z’ sega bo dar hatt in sint to giana. Un er hatsen khött; un alóra håmsen khött dise zboa prüadar: «Ditza o gevàlltas; bar pìttnde, àsten vinnst Gott ’n Hearn, vorsen z’ sega umbrómm bar håm asó vil vert zo bruntla biar zboa prüadar, un z’ sega bia bar mögatn tüan zo khémmansan draus a pissle gerècht pittanåndar». biamo una figliola e domani avrebbe dovuto maritarsi. Invece oggi si è ammalata e questo le è già accaduto tre volte di seguito. È come se fosse stabilito che non deve prender marito. Per questo prega il Signore Iddio di lasciarla maritare». L’uomo promise di farlo, poi essi gli diedero un posto dove dormire. Il giorno dopo egli si alzò e riprese il suo cammino. Poco dopo il tramonto arrivò ad un’altra casa, entrò e chiese ospitalità. Anche quella gente lo accolse e poi volle sapere dove stesse andando. Egli lo raccontò ed essi allora gli dissero: «Bene, se incontri il Signore Iddio puoi chiedergli qualche cosa anche per noi: noi abbiamo un vigneto che da alcuni anni non dà più uva. Fatti dire dal Signore perché non ne dà più». L’uomo promise di chiederlo e poi andò a dormire. Il giorno dopo si alzò per tempo e si rimise in cammino. Quando fu notte arrivò ad una casa abitata da due fratelli ed entrò e chiese ospitalità. I due fratelli lo accolsero e gli prepararono qualche cosa da mangiare. Poi gli chiesero dove andava ed egli spiegò dove. Allora essi dissero: «Questa è una cosa buona anche per noi; ti preghiamo, se incontri il Signore Iddio chiedigli perché mai noi due fratelli dobbiamo litigare in continuazione, e come dovremmo fare per venirne fuori un po’ meglio entrambi». L’uomo promise di chiederlo e poi andò a letto a dormire. La mattina successiva si alzò all’alba e si rimise in cammino. Quando ebbe fatto un paio d’ore di strada incontrò un vecchione coi capelli bianchi come la neve e una lunga barba 114 Luserna: c’era una volta Dar månn hatsen vorhóast un denna ìssarse gelek in pett t’ slava. In ta’ darnå ìssar augestånt in khemman dar takh, un hatt darbist in bege un is gånt. Bal dar hatt gehatt gemacht a par urn bege, hattar bokhent an altn altn månn pitn haar bais asbe dar schnea un pit an langen grisaten part. Un disar alt månn hatten gevorst z’ sega bo dar geat, un er hatten khött: «I gea zo süacha Gott ’n Hearn, zo léganen in sint mai gèlt». «Guat, – hattar khött disar alt månn – est pìsto gånt genùmma, umbrómm i pìn’s I Gott dar Hear». Alóra dar månn is gevallt zo khnia un hatt khött: «Bèn, àssar sait Iar Gott dar Hear, i pìttas àssamar gètt moine hundart tölar». Un Gott ’ar Hear hatt khött: «Bèn, stea au un gea huam, un vörte nicht, umbrómm vor do pist huam, hàsto mearar als hundart vert sovl bas do mar hast geliget». Un alóra dar arm månn hatten khött Vergellt’s Gott un hatt geböllt khearn bodrùm. Un alls in an stroach ìssen khent in sint bas da böllatn di laüt bo den håm gehatt gètt di hérbege. Un alóra hattarsen khött in Gott dar Hear. Un Gott dar Hear hatten khött bassaren hatt gehatt zo khöda. Un dar månn hatt gevånk in bege un is gekheart bodrùm. Bal dar is gebest bidar kan zboa prüadar, håmsen lai gevorst z’ sega bédaren sà hatt gevuntet Gott ’n Hearn, un z’ sega bassaren hatt khött von imenåndarn. Un dar månn hatt khött: «Ja, ja, i hånnen gevuntet, un von aüchåndarn hattar khött ke dar hatt hèrta zo bruntla, umbrómm ùmmadar bill nèt lassan rècht in åndar. Un vo densèll is pessar àssar geat aus alùmma un àsta anigladar tüa vor imen sèlbart». grigia. Quel vecchio volle sapere dove stesse andando. Egli rispose: «Vado a cercare il Signore Iddio per ricordargli il mio denaro». «Bene» fece quel vecchio «allora hai già camminato abbastanza, perché sono io il Signore Iddio». All’udire questo l’uomo cadde in ginocchio e disse: «Bene, se siete Voi il Signore Iddio, vi prego di rendermi i miei cento talleri». E il Signore rispose: «Alzati, torna a casa e non temere, perché prima che tu arrivi a casa riavrai più che centuplicato ciò che mi prestasti». L’uomo ringraziò e stava già per tornarsene, ma improvvisamente ricordò le richieste di quelle persone che lo avevano ospitato e riferì tutto al Signore, e il Signore gli disse ciò che aveva da rispondere. Allora l’uomo prese la via del ritorno. Quando fu nuovamente dai due fratelli, essi gli chiesero subito se aveva già incontrato il Signore Iddio e che cosa aveva detto per loro. L’uomo rispose: «Sì, sì, l’ho già incontrato e di voi ha detto che avrete sempre da litigare, perché ciascuno di voi non vuol cedere di fronte all’altro, e perciò meglio che vi separiate e che ciascuno faccia per conto suo». «Sì, sì» gli risposero i due fratelli, «questo lo avremmo già fatto noi, soltanto siamo troppo poveri, non avendo altro che questa casa». «Eh sì» disse allora l’uomo, «ma lasciatemi prima finire ciò che mi resta da dirvi: il Signore Iddio vi ordina di spaccare il focolare e il resto verrà da sé». Allora quei due fratelli andarono subito a spezzare il focolare e nel mezzo di esso trovarono un gran paiolo pieno di marenghi. Fiabe, leggende, storielle 115 «Ja, ja, – håmsa khött di prüadar – ditza héttatbars getånt vor est, ma bar soin karza arm un håm nicht åndarst bas ditza haus». «E ja, – hattar khött dar månn – làttme earst rivan zo reda. Dar hatt khött, Gott dar Hear, àssar nidarslakk in heart, un das åndar khint alùmma». Un alóra dise zboa prüadar soin lai gånt un håm abegemèkket in heart, un attimìtt in heart håmsa gevuntet an groasan khezzl voll pit marénge. Bàlda di prüadar håm gesek asó, sòinsa gebest alle luste un håm gevånk in månn um in hals un håmen gekhüsst un denna håmsen gètt sovl gèlt àspe dar is gebest guat zo traga. Un denna håmsen gètt eppas z’ èssa un håmen gelatt gian nå soine bege. Dar månn hatt genump ’s gèlt un hatt khött «Vorgèllt ’s Gott» un is gånt. Bal dar is gebest kan haus von sèlln von gart, ìssar inngekheart. Un sèm håmsen lai gevorst z’ sega bidar hatt gevuntet Gott ’n Hearn un z’ sega bassaren hatt khött. Un dar månn hatt khött: «Gott dar Hear làttas khön: Bùndartas nèt asó àsta in aür gart khemmen khuane åndre boimarn, umbróm dise djar ìsta lai gebest a khlùmmandar zou um in gart un anìagladar armar månn, bo da is vürpasàrt, hatt gemök inngelången zo némmanen a zèkkele boimarn zo darléschanen in durst. Un est hattar gemacht a söllana hoacha maur, àsta njånka möng gian di vögela zo khóstanar a khörndle. Un fin àssar eråndre sait asó znicht pitn laüt, bàrte i soin znicht pit aüchåndarn, un bal dar eråndre sait guat, bàrte i o soin guat pit aüchåndarn un bàrtas baing aürn rem». Di laüt håm darkhennt soine velar un håm gevorst vorzàing Gott ’n Hearn. Un in månn håmsen gètt z’ èssa un zo trinkha, un denna håmsen eppas geschenkht. Un dar månn hatt audarbist Quando i due fratelli videro ciò, furono così felici e contenti che gettarono le braccia al collo dell’uomo e lo baciarono. Poi gli diedero tanto denaro quanto ne poteva portare e anche qualche cosa da mangiare. Infine lo lasciarono andare per la sua strada. L’uomo prese il denaro, ringraziò e se ne andò. Giunto alla casa di quelli del vigneto, entrò, ed essi gli chiesero se aveva incontrato il Signore Iddio e che cosa gli aveva detto per loro. E l’uomo rispose: «Il Signore Iddio mi ordina di dirvi: Non meravigliatevi se nel vostro vigneto non matura più uva, perché un tempo c’era solo una piccola siepe intorno e ogni poveraccio che passava di là poteva arrivare a prendersi un grappolo per spegnere la sete. Ora invece vi avete costruito un muro così alto che nemmeno gli uccelli vi possono più andare ad assaggiare un acino. E fintanto che voi sarete così cattivi con la gente anch’io sarò cattivo con voi, e quando voi sarete buoni cogli altri, anch’io sarò buono con voi e benedirò le vostre viti». Quelli riconobbero il loro errore e chiesero perdono al Signore e all’uomo diedero da mangiare e da bere e poi gli regalarono anche qualche cosa. L’uomo si rimise in cammino e raggiunse la casa dove era stato ospitato la prima notte. Arrivato che fu, gridò dalla porta: «L’ho incontrato, sapete, il Signore Iddio!». E vistolo, quelli lo salutarono e vollero sapere che cosa il Signore avesse detto per loro. E l’uomo disse: «Ha detto di chiedervi se non ricordate più che la vostra figliola voi l’avevate promessa a Lui quando era 116 Luserna: c’era una volta in bege un is gånt zuar in haus bo dar is gebest zo hérbega da earst nacht. Bal dar sèm is gerift, hattaren lai gehoket pa tür inn: «I hånnen gevuntet, béstar, Gott ’n Hearn». Bàlsen håm gesek, håmsen gegrüast un håmen gevorst z’ sega bas da hatt khött Gott dar Hear vo imenåndarn. Un dar månn hatt khött: «Dar hatt khött àssas vors z’ sega bédaras neméar gedenkht ke aür tochtar hattarsen vorhóast Imen no bal se is gebest a khlummas khinn. Un asó àssar böllt àsta Gott dar Hear baige aür haus un àssar lass gesunt aüchåndre un aür tochtar o, möchtar neméar süachan zo böllase boràtn». Un alóra di laüt håm darkhennt ke sa håm gevelt, un håm gevorst vorzàing Gott ’n Hearn, un håm neméar gesüacht zo boràta di tochtar. In månn håmsen geschenkht a bolta pissle gèlt, un er hats genump un hatt khött «Vorgèllt ‘s Gott»; un is no gestånt a drai tage sèm pit imenåndarn, un sèm hattars gezélt, ‘s gèlt bo dar hatt gehatt, un hatt gesek ke Gott dar Hear, in tòlar bo daren hatt geliget, hattarsen gezalt bodrùm mearar bas tausankh vert, nèt hundart vert alùmma. ’S gèlt bo dar hatt gehatt, hattars getoalt, un halbes hattars geschikht huam in soin laüt, un das åndar halbe hattars gehaltet vor imen, umbróm dar hatt gehatt lust zo giana ummar z’ sega aus di bèlt. In an tage ìssar gerift vorå in an schümman groasan gart, un issese augeluant nåmp in gattar, z’ schauga in in disan gart voll pit schümmane roasan un schümmane djunge èlbarla. Balamån hattar gesek in gértnar, bo da hatt kalmàrt dise schümmane èlbarla; un disar gértnar hatt getånt asó letz, ke dar månn hatt gemöcht åhevan zo lacha starch fin àssar hatt gemök. ancora piccolissima. Così se volete che il Signore Iddio benedica la vostra casa e conservi sani voi e anche vostra figlia, non dovete più tentare di darle marito. Sentito questo, essi riconobbero di aver peccato e chiesero perdono al Signore e non cercarono più di maritare la figliola. All’uomo regalarono un po’ di denaro ed egli lo accettò, li ringraziò e restò ancora due o tre giorni con loro. Là contò il denaro che aveva e si accorse che per il tallero che egli aveva prestato al Signore Iddio, il Signore gli aveva reso più di mille volte tanto, non cento volte solamente. Il denaro che aveva lo divise e una metà la mandò a casa ai suoi e l’altra metà la tenne per sé, poiché aveva grande voglia di andarsene in giro a vedere il mondo. Un giorno arrivò dov’era un bel giardino grande; e si avvicinò al cancello per guardar dentro a quel giardino pieno di bei fiori e di belle piante giovani. Vide il giardiniere che stava innestando quelle belle piante, ma il giardiniere faceva così male il suo lavoro che l’uomo non poté fare a meno di ridere a crepapelle. Il padrone del giardino era poco lontano e andò a vedere chi fosse che rideva a quel modo, si avvicinò al cancello e vide l’uomo e gli chiese perché ridesse tanto. L’uomo rispose: «Rido a vedere quel giardiniere che fa così male gli innesti sulle piante». Il padrone gli chiese allora se egli sapeva far meglio e l’uomo disse: «Eh sì, sarebbe proprio una vergogna se, essendo vecchio come il cucco, non sapessi fare meglio di quello là». Fiabe, leggende, storielle 117 Dar hear von gart is gebest biane bait vort un is gånt z’ sega ber ’s is bo da asó lacht; un is gånt nåmp in gattar un hatt sèm gesek in månn un hatten gevorst z’ sega umbrómm dar lacht asó. Un dar månn hatt khött: «I lach asó z’ sega sèm in sell gértnar tüan asó letz zo kalmàra di sèlln èlbarla». Dar hear hatten gevorst z’ sega bédar khånt pessar er. Un dar månn hatt khött: «E ja, ’s berat bol a schånt soin alt àspe dar kuko in balt un nèt khånen tüan pessar bas dar sèll». «Bèn, – hattar khött dar hear – àsto pist asó bravat, ai lai iar in gart un lass seng bas do pist guat zo tüana» … un hatt offe getånt in gattar. Dar månn hatsen nèt gelatt schaffan zboa vert, dar is lai inngånt un hatt genump ’s mézzar un hatt getånt as be ’s geat getånt. Dar hear hatt zuar geschauget un hatt gesek, dar tüat asó schümma, un er hatten gevorst z’ sega bédar bill plaim sèm pit imen zo macha in gértnar. «Ja, ja, – hattar khött dar månn – umbrómm nèt? Àssarmar gètt guat lem un assarme zalt garècht, plàibe dà i o». Dar hear hatten vorhóast zo geba bas es is rècht, un dar månn is gestånt sèm zo àrbata in gart. Dar månn is gebest sovl bravat un furbat, un hatt getånt asó garècht, ke dar gart, in a par djar, is gebest vil vil schümmanar bas vorå, un dar hear, bal dar hatt gesek asó, ìssar gebest kuntént un luste un hatt gehaltet soin gértnar alle tage liabar. Dar månn ìssese gevuntet asó garecht sèm, in sèll gart, z’ sega ’s geat alls vürsnen un ke dar hear hàlteten asó gearn, ke ’s sòinda vortgånt di bochan sovl àspe di urn, un nia ìssen nèt khent in sint ne sai huamat, ne soine laüt. In an tage ìssarse gelek sèm in Schatn vonan öpflpuam zo rasta, un balamån ìs- «Bene», concluse il padrone «se sei così bravo, entra nel giardino e fa vedere che cosa sai fare». E aprì il cancello. L’uomo non se lo fece dire due volte, entrò subito, prese il coltello e fece l’innesto come andava fatto. Il padrone restò a guardare e vide che sapeva fare proprio bene e allora gli chiese se volesse rimanere presso di lui come giardiniere. «Sì, sì,» disse l’uomo «perché no? Se mi date da mangiare a sufficienza, e mi pagate con giustizia, rimango anch’io». Il padrone promise di dargli quello che era giusto e l’uomo rimase là a lavorare nel giardino. E fu così bravo e accorto e fece tutto così bene, che in un paio d’anni il giardino diventò molto più bello di prima e il padrone, visto questo, fu contentissimo e si affezionò a quell’uomo ogni giorno di più. Anche l’uomo si trovava bene laggiù, nel vedere che tutto progrediva e che il padrone gli voleva bene, al punto che le settimane per lui passarono come ore, tanto da dimenticarsi sia della sua terra che della sua famiglia. Ma un giorno, stesosi a riposare all’ombra d’un melo, fu preso da un così forte desiderio di tornare a casa a vedere i suoi da non riuscire più a trattenersi. Si alzò e andò dal padrone e gli disse che voleva tornare a casa e che lo pregava di dargli quanto già aveva guadagnato. Il padrone fu proprio sorpreso di udire questo e non voleva lasciarlo partire, poiché temeva di non trovare più un giardiniere così bravo. Ma l’uomo non si lasciò smuovere dal suo proposito e ripeté che voleva andare a casa. 118 Luserna: c’era una volta sen åkhent a lust zo giana huam z’ sega vo soin laüt un is neméar gebest guat zo darhàltase. Dar is augestånt un is gånt kan hear un hatt khött ke dar bill gian huam un ke dar pìtteten àssaren gebe bas dar hatt gehatt gebunt. Dar hear is aldar darstånt zo höara asó un hatten nèt geböllt lassan vortgian, umbrómm dar hatse gevörtet, neméar zo venna an söttan bràvatn månn. Ma dar månn hatse nèt gelatt vorkhéarn un hatt khött ke er bill gian huam. Un alóra dar hear hatt khött: «Bèn, bàldo propio bill gian, gea in Gottsnåm, un zo zàlade, gìbedar nicht, ma i lìrndar drai sachandar: bàldo vinnst zboa beng, an altn un an naüng, gea hèrta nå in alt, ditza is ummas; bàldo pist in a frémeges haus, vorsch nia z’ sega umbrómm sa tüan ditza odar dassèll, est soinsa zboa; schau’ bol au un tüa nicht bàldo pist vil zorne, est sòinsa drai». Dar månn hatten pensàrt: «Ditza is bol eppas bo dar mar gitt zo zàlame». Un lai ìssar gånt zo màchanen zuar sai geplèttra; un bal dar is gebest verte, issar gånt zo grüasa in hear un zo làssanen l’addio. Un alóra dar hear hatten gètt an turt un hatt khött: «Sea, zoa àstode gedenkhst vo miar gìbedar disan turt, un schauge: hàkhen nèt au fin àsto nèt hast in lùstegarste minùt vo alln doin lem». Dar månn hatt genump in turt un hatt khött «Vorgèlt’s Gott», un is gånt nå soine beng. Bal dar is gebest a pissle vort von haus, hatten gevånk a schümmana karòtz un drinn ìsta gebest a hear. Dar hear hatt gerüaft in månn un hatt khött àssar au sitz er o. Un er is augesotzt. Bal sa soin gebest a pissle vürsnen, dar bege ìssese getoalt: sèm ìsta gebest an altar un a naügar bege. Un in månn, bal dar hatt gesek asó, sòinen khent in Allora il padrone disse: «Ebbene, se vuoi proprio andartene, va’ in nome di Dio, ma in pagamento non ti do nulla, solo ti insegno tre cose. Quando trovi due strade, una vecchia e una nuova, va sempre per la strada vecchia: questa è la prima. Quando sei in casa d’altri, non chiedere mai perché fanno questo o fanno quello: questa è la seconda. Guardati bene dal far qualche cosa quando sei molto adirato: questa è la terza». L’uomo pensò fra sé: «È già qualche cosa che mi dà in pagamento»; andò a preparare la sua roba e quando ebbe finito tornò a salutare il padrone e a dargli l’addio. Allora il padrone gli presentò una torta e gli disse: «Ecco, affinché ti ricordi di me ti do questa torta, ma bada di non tagliarla fino a quando non sarà giunto il momento più felice di tutta la tua vita». L’uomo prese la torta, ringraziò e partì. Quando fu un po’ lontano dalla casa, lo raggiunse una bella carrozza con un signore. L’uomo lo chiamò e gli disse che poteva salire anche lui, ed egli accettò. Ma poco più avanti il sentiero si divideva in due strade, una vecchia e una nuova. Visto ciò gli vennero a mente le parole del padrone e chiese al signore di lasciarlo scendere. Il cocchiere fermò il cavallo, e l’uomo scese e andò per la strada vecchia, mentre la carrozza andò per la nuova. Egli proseguì per un tratto e poi le due strade si ricongiunsero, e poco lontano di là c’era una locanda. L’uomo entrò e chiese se era passata una carrozza. L’oste non l’aveva vista, ma proprio mentre stavano parlando passò un cavallo solo, e allora anda- Fiabe, leggende, storielle 119 sint di bort von patrù. Un er alóra hatt gepittet in hear àssaren lass abesitzan. Dar rössnar hatt augehaltet ’s ross, un dar månn is abegesotzt un is gånt pa den alt bege, un di karòtz is gånt pan naüge. Dar månn is gånt an tòkko vür un di zboa beng sòinse gevuntet pitanåndar, un sèm biane bait vorånahì ìsta gebest a birthaus. Dar månn is inngekheart un hatt gevorst z’ sega béda is vürpassàrt a karòtz. Ma dar birt hatt nicht gehatt gebarnt. Un lai as be sa håm geredet, ìsta vürpassàrt a ross alùmma, un alóra sòinsa gånt z’ sega un håm gevuntet in hear affn bege halbe toat: di diap soin vürgesprunk dar karòtz un håm getöatet in kutschar un håm gestolt alls bas da hatt gehatt dar hear, un in hear håmsen gevast pit ströach un håmen gelatt sèm affn bege un soin vonkånt. Dar månn, bal dar hatt gesek asó, hattar ringratziàrt Gott ’n Hearn un hatt audarbist un is gånt nå soine beng. In khemman di nacht ìssar gerift kanan haus un is inngekheart un hatt gevorst di hérbege un sèm håmsasen gètt. Bal dar is gebest in di khåmmar, ìssar gånt ats vestar un hatt gesek arm un hent un schinkh von laüt. Un lai hattar geböllt vorsan z’ sega bas es bill muanen. Un alóra ìssen khent in sint bas en hatt khött sai patrù, un hatt dardrukht di bort at di zung. Un denna ìssarse gelek in pett z’ slava. Ma dar is nèt gebest guat zo spèrra di oang. In ta’ darnå ìssar augestånt in aldar vrüa un is gånt kan birt un hatt gevorst bas ar is schulle. Un dar birt hatsen khött, un lai hattaren gevorst z’ sega bésen nèt hatt gebundart z’ sega di sèlln tökkla von laüt nidar in hóf, un z’ sega umbrómm dar hatt nèt gevorst baz es bill muanen. Un alóra dar månn hatt khött: rono a vedere e trovarono il signore sulla strada mezzo morto. I ladri avevano assalito la carrozza, ammazzato il cocchiere, derubato il signore di ogni cosa e, riempitolo di botte, lo avevano lasciato sulla via ed erano scomparsi. L’uomo, quando ebbe visto questo, ringraziò il Signore Iddio e ripartì per la sua strada. Giunta la notte, arrivò a una casa, entrò e chiese ospitalità, e gli abitanti lo accolsero. Però, entrato in camera, andò alla finestra e guardando giù nel cortile vide braccia, mani e gambe d’uomo. Subito volle chiedere il perché di tutto questo, ma gli venne in mente ciò che gli aveva detto il suo padrone e trattenne le parole sulla lingua. Poi si mise a letto per dormire, però non riuscì a chiudere occhio. Il giorno dopo si alzò per tempo, andò dall’oste e chiese quanto gli doveva. L’oste glielo disse, ma volle anche sapere come mai non era stato preso da curiosità alla vista di quei pezzi giù nel cortile e perché non ne aveva chiesto una spiegazione. Allora l’uomo rispose: «Oh, anche se vedo qualche cosa di strano non ci faccio caso, e poi non sono abituato a chiedere spiegazione di ciò che non mi riguarda». «Tu hai indovinato», gli disse l’oste «perché se avessi chiesto spiegazioni avresti dovuto lasciarvi un pezzo anche tu». L’uomo ringraziò il Signore Iddio e si propose di seguire sempre i consigli del suo padrone; si mise in istrada e andò verso casa camminando più svelto degli altri giorni, perché quel giorno aveva proprio deciso di arrivarci. Al calare della notte arrivò al suo paese, entrò in una taverna che si tro- 120 Luserna: c’era una volta «O, béde ånka sige épparéppas, màchemarsan nicht draus, un denna pìnne nèt gebónt zo vorsa aff eppas bo da mar nèt ågeat». «Du hast bol darràtet, – hattar khött dar birt – umbrómm bido hettast gevorst héttasto du o gemöcht da lassan a tökkle». Un dar månn hatt ringratziàrt Gott ’n Hearn un hatten vürgenump zo volga hèrta soin patrù. Denna hattar gevånk in bege un is gånt zuar huamat, un is gånt vil bahémmegar bas di åndarn tang, umbrómm in sèll tage hattar gehatt in sint zo riva huam. In khemman di nacht ìssar gerift in sai lånt un is inngekheart in a birthaus, bo da is gebest sèm vor soin haus, un sèm hattaren gemacht gem eppas z’ èssa. Bal dar hatt gehatt gèst, ìssarse gesotzt nåmp in an vestar un hatt geschauget durch zuar soin haus, un hatt gesek gian an djungen faff in in sai haus, un sai baibe ìssen khent inkéng un hatten gètt di hånt un hatten gevånk um in hals her un hatten gekhüsst, un is gebest alla luste zo sega disan faff. Dar månn hatt zuar geschauget un hatten parìrt a pissle karza schaüla vor sai baibe zo tüana asó pitnan faff, un ìssese darzürnt un hatt geböllt gian huam zo zala sai baibe pitnar karge ströach zo tüana asó pitnan faff. Alls in an stroach ìssen khent in sint bas en hatt khött dar patrù un alóra ìssarse no darhaltet un hatt gevorst z’ sega ber ’s is dar sèll faff, un alóra håmsen khött ke ’s is dar sun vo dar sèlln bìttova, bo dar vort is gånt sai månn vor a khutta djar un is neméar gekheart bodrùm. Un est dar pua hatt gerift zo lirna un mòrng khüttar da earst miss un das gåntz lånt is luste. Alls in an stroach håmsa ågevånk zo laüta alle di klokkn un zo schiasa di mortér, zo heva å in vairta. vava giusto davanti a casa e là si fece dare qualche cosa da mangiare. Quando ebbe mangiato, si sedette presso una finestra e guardò fuori verso la sua abitazione e vide un giovane prete entrarvi e sua moglie andargli incontro e dargli la mano e buttargli le braccia al collo e baciarlo, tutta contenta di vedere quel prete. L’uomo stette a guardare e gli parve sconveniente da parte di sua moglie che si comportasse così verso un prete e si adirò al punto di voler andare subito a casa a ripagare la moglie con un carico di botte per essersi comportata in tal modo con un sacerdote. Improvvisamente però gli tornò in mente quanto gli aveva detto il padrone e allora si trattenne e, invece, chiese chi fosse quel prete. Gli risposero che era il figlio di quella vedova e che il marito di lei se ne era andato molti anni prima, senza più ritornare. Ora il ragazzo aveva finito di studiare e domani avrebbe celebrato la prima messa e tutto il paese era in festa per questo. All’udire ciò il pover’uomo si sentì salire un nodo alla gola per la commozione, tanto che faticò a trattenere le lagrime, e ringraziò il Signore Iddio che aveva così predisposto. Il giorno dopo ci fu la prima messa del figlio e, finita la messa, tutti gli invitati entrarono nella taverna pel pranzo. Anche l’uomo era là seduto a un tavolo, ma nessuno lo aveva riconosciuto. Finito il pranzo, la gente cominciò a gridare: «Che viva a lungo e felice il nuovo prete e anche sua madre con lui». Allora l’uomo si alzò e gridò con quanto fiato aveva: «E il padre del nuovo pretino, lo dimenticate voi? Nessuno mi ricono- Fiabe, leggende, storielle 121 Dar arm månn, zo höara asó, ìs gebest asó auvorkhnüpflt, àssar hatt gehatt zo tüana zo darhalta di zeacharn, un hatt ringratziàrt Gott ’n Hearn àssar hatt alls asó hergerichtet. In ta’ darnå ìsta gebest da earst miss von fèffle un, bàlda is gebest verte di miss, alle di invidàratn soin gånt in birthaus z’ èssa in vormas. Dar månn is gebest er o sèm gesotzt kanan tisch, un niamat hatten gekhennt. Bal sa soin gebest verte pitn vormas, håmda ågeheft di laüt zo hoka un zo khöda: «As da lebe vil un guat dar naüge faff un sai muatar» un alóra ista augestånt dar frémege månn un hatt gehoket fin àssar hatt gemök, un hatt khött: «un dar vatar von naüge faff, plàibetar vorgèsst dar sèll? Khénntme niamat mi? Khénnstome nèt, liabes mai baibe? Khénntarme nèt, liabe moine khindar?» Alóra håmsen gekhennt un håm khött: «O liabar mai månn!» … un «o liabar mai vatar!» … un soin gebest vil mearar luste bas vorå, un sòinse gevånk um in hals anåndar un sòinse gekhüsst. Un denna dar vatar hatt khött: «Disa is sichar da peste ur bo de hån in mai gåntzes lem, un est möche volng main patrù» un is gånt un hatt genump in turt un hatten getoalt. Un invétze bas z’ soina eppas z’ èssa, sòinda lai gebest ploas marénge. Un alle di laüt bo da ’s håm gesek, soin darstånt. Un dar månn hatt gekheart di oang au zuar in hümbl un hatt gepetet, un denna hattar khött: «Sékar? Asó zalta Gott dar Hear bas m’en laiget Imen!» sce? Non mi riconosci tu, moglie mia? Non mi riconoscete voi, figlioli miei?» E lo riconobbero e gli dissero: «O mio caro marito, o mio caro padre», e furono tutti molto più felici di prima e si abbracciarono e si baciarono. Allora l’uomo disse: «Questo è proprio il momento migliore di tutta la mia vita, e adesso devo ubbidire al mio padrone» e andò a prendere la torta e la tagliò. Ma invece di esserci qualche cosa da mangiare, c’era solo un po’ di crosta intorno e dentro tanti marenghi. E tutti quelli che videro ciò restarono meravigliati. Allora l’uomo alzò gli occhi al cielo e pregò, e poi disse: «Vedete? Così ripaga il Signore Iddio per ciò che gli prestiamo!» 122 Luserna: c’era una volta Racconto nr. 11 Schweizer 77 commenta così questa fiaba: «Il termine deriva da “darsel åndar” (jeder andere) cioè ogni altro. La povera mendicante che ha ricevuto dei doni dalle “donne beate” viene sospettata da una vecchia di aver ricevuto il misterioso filo da Selander. “Selbander” significa propriamente “zu zweien” cioè sdoppiarsi. Sembra che qui ci sia in ballo pure l’idea della bilocazione – come si dice di alcuni maghi – i quali possono apparire contemporaneamente in più luoghi». Un’altra possibile interpretazione è possibile traducendo “darsel åndar” come “quell’altro”; in sostanza raffigurando il diavolo come l’estraneo e il diverso per eccellenza. Dar stre von sélege baible La matassa della donnetta beata Dise djar ìsta gebest an armes altes baible, bo da neméar is gebest guat zo gebìnnanen z’ èssa. Un vo densèl hats ummar gemöcht gian zo pèttla. In an tage hatsen genump an stèkh in di hent un an lern sakh aff di aksln un is gånt nidar in di Dross in Astetal zo vórsanen a pissle mel. Bal ’s is gebest nidar untar in Lèrchovl, hats gehatt an hummar, as neméar hatt gemök gian vürsnen, un issese nidargesotzt zo rasta. Balamån hats gehöart stinkhan na vrisches proat, un alóra hats khött: «O béde i o hettat a pissle vrisches proat zo darléschamar in hummar!» Alls in an stroach ìssen zuar gånt a séleges baible un hatten gerekht a vrisches pröatle un hatt khött: «Sea, lustats sboi, dà gìbedar diar o ummas a pröatle» … un lai is vonkånt bahémme àspe a plitzegar. Das arm baible Molti anni fa c’era una povera vecchia che non era più capace di guadagnarsi da vivere. Così era stata costretta a mendicare. Un giorno prese un bastone e un sacco vuoto sulle spalle e scese nella Dross in Valdastico, a chiedere qua e là un po’ di farina. Giunta sotto al Lèrchovel ebbe tanta fame da non riuscire ad andare avanti e si fermò a riposare. Poco dopo sentì arrivare profumo di pane fresco e allora disse: «Oh se anch’io avessi un po’ di pane fresco per calmare la fame!» Improvvisamente le si presentò davanti una donnetta beata (abitante dei boschi e prati alpestri) che le porse un pane fresco e le disse: «Prendi, maiale goloso, un pane lo do anche a te…» e nello stesso momento sparì come un lampo. 78 77 Schweizer Bruno, Concetti cristiani nelle credenze dei cimbri, Edizioni Taucias Gareida, Giazza - Verona, 1989. 78 Bacher annota: «Una Saliga (donna selvatica) (ibid. 196) porta del pane alla moglie di un contadino (Zingerle, Sagen, pag. 53). Le balle di stoffa della leggenda lusernese le ritroviamo nella “biancheria candida di bucato” (ib. 64, 2); gli infiniti Zwirnknäuel e simili li ritroviamo molto spesso, ad esempio in Zingerle, Sagen, pagg. 63, 70, 168, 197 e in Heyl, pag. 403». 124 Luserna: c’era una volta hats genump un hats gèst, un denna is gånt bidar vürsnen pa pèrge nidar, fin as is gerift in tal. Ma nidar in di Dross sòinda gebest znichte laüt un håmen nicht gètt, un no darpai, bal ‘s is gebest in gånts tage ummar zo pèttla, abas hats njånka gevuntet di hérbege un hatt gemöcht slavan aus ats vèlt, un sèm is halbes gestorbet vo vrost. Is, bal ’s hatt gesek asó, hatsen pensàrt: «’s zàltmar nèt di müa zo plaiba dà ka disan znichtn laüt» … Un hatt audarbist un is khent zuar huamat. Bal ’s is gebest pa pèrge auvar, ìssese hergekheart dar untar bint un is khent schaüla khalt, un das arm baible hatt gehatt zo tüana pit alln in soin zo darbérase von vrost, umbrómm sai rüst is gebest alla darzèrrt un darhottart, un lai bérats furse gestorbet vo hummar, bi’s nèt hebat gehatt gèst ’s pröatle von sélege baible. Bal ’s is gebest auvar untar in Lèrchovl, ìssese nidargesotzt zo rasta un sèm hats gesek etlan lode loimat aus pa bas zo ploacha, un is alóra hatt khött: «o béde i o hettat an söllan lode loimat zo màchamar a drai barme foatn, i vriarat sichar nèt asó, àspede vriar zo haba å ditza darhótrate geplèttra». Alls in an stroach ista khent das sélege baible bóden hatt gehatt gètt ’s pröatle, pit an stre garn in di hent un hatt khött: «Sea disan stre garn, nakhattz dinkh! Dar bàrtse nia rivan fin àsto nèt bill du; un vo densèll schau bol au un khü nia: – O bédo berast gerift» … un lai das sélege baible is vorsbùntet. Das arm baible hatt genump in stre un is khent alls luste zuar huamat. Bal ’s is gebest humman, hats gelek in stre affn bindl un hatt ågevånk zo binta abe garn un hatt sovl gebuntet, fin as hatt gehatt genumma khnaül zo macha an groasan La povera donna lo prese, lo mangiò e poi si rimise in cammino giù per il monte fino a che giunse a valle. Ma giù nella Dross c’era della gente dal cuore duro che non le diede niente. Infine, dopo essere stata tutto il giorno a mendicare, quando fu sera non trovò nemmeno alloggio e dovette dormire all’aperto e quasi morì di freddo. Allora, visto come andavano le cose, disse fra sé: «Non vale la pena di rimanere in mezzo a questa gente cattiva…» e si rimise in cammino verso casa. Mentre saliva il monte, il vento da valle cambiò, si fece improvvisamente freddo e la povera donna non sapeva più che cosa fare per ripararsi dal freddo, essendo il suo abito tutto consumato e lacero, senza dire che sarebbe anche morta di fame se non avesse già mangiato il pane della donnetta beata. Quando si trovò su, sotto al Lèrchovel, si sedette a riposare e là vide delle intere pezze di tela stese sull’erba ad imbiancare, ed allora esclamò: «Oh, se anch’io avessi una pezza di tela come queste per farmi qualche camicia, certamente non avrei tanto freddo come ora, con questi stracci indosso!». Improvvisamente le si presentò la donnetta beata che le aveva dato il pane, con una matassa di filo in mano, e le disse: «Prendi questa matassa di filo, piccolo verme nudo: questa non finirà finché non lo vorrai tu; bada solamente a non dire mai: “Oh, se tu fossi almeno finita!”». E immediatamente la donnetta beata sparì. La poveretta prese la matassa e tutta contenta fece ritorno al paese. Quando fu a casa, mise la matassa sull’arcolaio e cominciò a dipanare filo e ne dipanò tanto da avere proprio Fiabe, leggende, storielle 125 lode loimat. Denna hats getrakk di khnaül kan bebar, un darsèll hatten gemacht di loimat. Zo zala in bebar hats gehatt khumma gèlt un is hatten gelatt sovl loimat vor sai arbat, un von sèll tage vort ’s baible hatt hèrta gebuntet bal ’s hatt geböllt, un dar bebar hatt hèrta gehatt zo tüana vor is. Pitn earst lode ìssese gerüstet, un denna hats ågevånk zo vorkhóava di loimat in åndarn laüt un pitn gèlt bó’s hatt gevånk, hatsen gekhoaft alls bas es hatt gehatt mångl. Di laüt, bal sa håm gesek asó un håm nèt gebisst bo das baible hernimp sovl garn, håmsa ågevånk zo obarkhödas; ma letzes håmsa khummas gemök khön, un lai ’s baible hatsanen nicht drausgemacht un hatse gelatt ren alls bas sa håm geböllt. In an stroach ’s baible hatt gehatt eppas zo börtla pitnan znichtn baibe un ditza znicht baibe hatt khött: «Sbaige du alta hèks, bar bìssans alle ke ’s garn prìnktars darsèllåndar», un asó vort, … un håm gestritet a baila. Bal da ’s baible is gebest stüfo un saur zo straita, hats darbist in bege un is gånt huam un hatt bidar ågevånk zo binta. Balamång ìssese eppas darrüdet dar stre, un ’s baible ìssese darzürnt un hatt khött: «Vorvlìksatar stre, bédo berast almånko palle gerift!» Alls in an stroach ista vorsbùntet dar stre un alla di loimat bo da is gebest gemacht pit söllan garn, alls ’s gèlt bósen hatt zuar gehatt gelek, un di rüst bo ’s hatt ågehatt o, … un is geplibet sèm affnan stual nakhant, un alóra is gebest no ermar bas vorå. i gomitoli che occorrevano per fare una gran pezza di tela. Poi portò i gomitoli dal tessitore e questi le tessé la tela. Non aveva però denaro per pagare e così gli cedette tanta tela quanto era l’importo del lavoro. Da quel giorno la poveretta dipanò ogni qual volta voleva farlo e il tessitore ebbe sempre da lavorare per lei. Con la prima pezza si vestì, poi cominciò a vendere la tela agli altri e col denaro che ricevette si comprò tutto ciò che le faceva bisogno. Quando la gente se ne accorse, senza sapere da dove la vecchia potesse avere tanto filo, cominciò ad avanzare sospetti. Nessuno però poteva dire niente di male riguardo a lei, e quindi lei non ci fece caso e li lasciò dire tutto ciò che volevano. Improvvisamente però ebbe da litigare con una donna cattiva e questa le disse: «Sta zitta, vecchia strega, lo sappiamo tutte che il filo te lo porta il diavolo!» e altro ancora… e continuarono a litigare. Quando la poveretta fu stufa di litigare, tornò a casa e là ricominciò a dipanare. Ma la matassa si aggrovigliò un po’ e la donnetta incollerita disse: «Maledetta matassa, se fossi almeno finita presto!» In un momento la matassa sparì e sparì tutta la tela che era stata fatta con quel filo, sparì tutto il denaro che aveva accumulato, sparì anche l’abito che indossava ed ella rimase là nuda su uno scanno e si trovò ancora più povera di prima. 126 Luserna: c’era una volta Racconto nr. 12 Da kondanàrate diarn La ragazza condannata Vor vil vil djar ìsta gebest a diarn nidar in haus von Polètz un is gebest sovl schüa, ke vil puam håmse geböllt håm vor baibe; ma si hatsan nia geböllt bissan zo boràtase un vo densèll hatse hèrta vortgetribet alle di puam. In an tage ìsse sèm gebest alùmma in haus un hatt gevlikht. Balamån ìsta gånt a schüandar pua pa tür ìn un hatse gegrüast. Si hatten ågeschauget un hatt gesek, ’s is a sölla schümmadar, un hatten gegrüast si o un hatt khött àssarse sitz. Dar pua ìssese nidargesotzt un hatt ågevånk zo reda un hatt geredet asó schümma un asó guat ke dar diarn hattarar ågeheft zo gevalla. Von sèll tage vür dar pua is gånt vil vert zo vénnase un di diarn hatten gesek alle tage liabar un hatt ågeheft zo böllanen bol. In an mal ìssar gånt un hatt darkhennt ke di diarn hàlteten gearn, un er hattar gevorst z’ sega bisen haltet gearn un z’ sega bisen nimp, un si is gebest alla luste un hatt khött vo ja. Dar pua hatt ausgezoget a schümmas gevringart von vingar un hatsar gètt, un di diarn hats genump un hats inngelek si, un hatt vorhóast in pua zo tràgas hèrta in sèll vingar fin as se lebet. Biane zait spetar dar pua is darkhrånkht un is gestorbet. Da arm dìarn, bal se hatt gesek ke sai pua is toat, ìs gebest vil traure. Ma a par djar spetar Tanti anni fa, c’era una ragazza giù dai Paolàz così bella che molti giovani l’avrebbero voluta come moglie; ma lei non voleva proprio saperne di sposarsi e per questo motivo li aveva sempre respinti tutti. Un giorno si trovò sola in casa, intenta a rammendare. A un certo punto si presentò alla porta un giovane e la salutò. Lei lo guardò e vide che era proprio un bel ragazzo, ricambiò il saluto e lo invitò a sedere. Il giovane si sedette e i due iniziarono a parlare in modo così piacevole che la ragazza iniziò a provare simpatia per il giovane. Da quel giorno in poi il giovane andò molte volte a farle visita e lei lo vide ogni volta più volentieri e gli si affezionò. Una sera, nell’occasione di una visita, egli capì che la ragazza gli voleva bene e volle domandarle se ciò era vero e se avrebbe accettato di sposarlo: ella ne fu molto contenta e gli rispose di sì. Allora il ragazzo si tolse dal dito un bell’anello, glielo presentò, ed ella lo prese, se lo infilò e promise che lo avrebbe tenuto al dito per tutta la vita. Poco tempo dopo, però, il giovane si ammalò e morì. La poveretta ne fu profondamente addolorata. Ma un paio d’anni dopo iniziò a scacciare quella sua tristez- 79 Bacher annota: «Cfr. Heyl, pagg. 628, 95 e 632, 98; Zingerle, Sagen, pagg. 656-659, 258; inoltre in Die weiße Frau (La dama bianca) in Schlesinger Sagen (Leggende slesiane) di K. Weinhold (Zeitschrift für Volkskunde IV, pag. 452) e in Graumännlein und weiße Frau (Omino grigio e dama bianca) dello stesso autore (ib. VII, 445). La redenzione va a buon fine in Heyl, pag. 495, i. 1:3. Oltre ai rimandi in Zingerle Lus. Wb. App. IV, cfr. le fiabe di Schnellers etc., gruppo VII, 5, pag. 220 e seg». 79 128 Luserna: c’era una volta hatse ågeheft zo traiba hì un denna hatse auzgenump ’s gevringart un hats lugàrt in in an khast, un hatt pensàrt: «Bèn, sà àzzarmar is gestorbet darsèll pual, est bìllemar süachan an åndarn» … un asó hatse getånt. Si is gånt zo tåntza un, ummar bobràll bo da is gebest eppas lusteges, hattmase gevuntet, un di puam håm bidar ågeheft zo gianase zo venna. Balamång ìssese darkhrånkht un is gestorbet åna zo lega å ’s gevringart bo dar hatt gehatt gètt dar pual. Un vo densèll hatse nèt gemök gian in hümbl un is khent kondanàrt in in tal von Djau, sèm in an groasan balt. A khutta djar spetar ista gånt a pua von Kanér in pa disan balt nå in gebilt. Dar is ummargånt sichar an gåntzan tage åna zo venna nicht, un is hèrta gånt in, betar in pa balt, un is gerift kanar kuvl, un in in disa kuvl hattar gesek a schümmana diarn. Dar pua is darsrakht un is gekheart bodrùm hìntarnvürbest. Un si hatten gerüaft, pìttante, un hatt khött: «Mai liabar pua, vörte nicht vo miar, i tüadar nicht, umbrómm di hatte dà gevüart Gott dar Hear». Alóra dar pua ìssar gånt zuar nåmp un hatse ågeschauget un hatten parìrt asó schümma, ke er hatt gehatt gesek khumma schümmanars. Un bi mearar dar hatse ågeschauget, bi schümmanar si ìssen vürkhent. Un di diarn hatt ågevånk zo reda un hatt khött: «Est, mai liabar pua, is hundart djar àsse pin dà zo paita be da khint ummandar zo hélvamar; un du, àsto billst, pìst darsèll bo da mar möge helvan. I – hatse khött – pin dà zbischnen in hümbl un dar höll, un àsto du pist guat zo tüana bàssedar khüde, géade gerade in hümbl; un àsto nèt pist guat zo tüana alls àspes bill soin getånt, möche gian kan taüvl vor za e infine si tolse l’anello e lo ripose in un armadio, dicendo fra sé: «Bene, se è morto questo mio fidanzato, ora voglio cercarmene un altro…» e così fece. Andò a ballare e dovunque ci fosse dell’allegria là si trovava sempre anche lei, ed i giovani tornarono a farle la corte. Ma anche lei si ammalò e morì senza essersi rimessa al dito l’anello che le aveva dato il fidanzato. Per questo motivo non poté andare in paradiso e fu condannata a restare nella valle di Jau, in mezzo a un gran bosco. Molti molti anni dopo un ragazzo della famiglia Canèr arrivò in quel bosco cacciando selvaggina. Aveva camminato quasi un giorno intero senza aver trovato niente ed si era inoltrato sempre più nel bosco finché giunse a una caverna. Dentro la caverna vide una bellissima ragazza. A quella vista si spaventò e fece qualche passo indietro, ma la ragazza lo supplicò: «Mio caro, non aver paura di me, io non ti faccio niente di male, perché è il Signore Iddio che ti ha mandato». Allora lui le si avvicinò, la osservò e pensò che al mondo non aveva visto nessuna creatura così bella; quanto più la guardava, tanto più bella gli sembrava. La ragazza ricominciò a parlare e disse: «Adesso, mio caro, ho già passato cento anni qua ad aspettare che qualcuno venga a liberarmi». Poi aggiunse «Io mi trovo tra il paradiso e l’inferno e, se tu sei capace di fare ciò che ti dico, andrò dritta in paradiso; ma se tu invece non sei capace di fare tutto come deve essere fatto, allora dovrò andare all’inferno per sempre…» e cominciò a piangere disperatamente. Fiabe, leggende, storielle 129 hèrta»… un hatt ågevånk zo gaüla fin as se hatt gehatt atn. Dar pua, bal dar hatt gehöart asó, hattaren gelatt ånt tüan di diarn, un hatt gesbert vorå Gott ’n Hearn un alln in Hàilegen zo tüana alls bas se khütt, un hatse gepittet àssen khöde bas ar hatt zo tüana. Un si hatt khött: «Bèn, gea huam un gea nidar in haus von Polètz un gea au in di khåmmar bóde pin gestånt fin àsse pin gebest lènte». Tüa offe in sèll groas khast; sèm bàrsto vennen a khlummas skèttele, un drinn sòinda drai gevringartar. Nimm das sèll bo da drau hatt di sèlln zboa bort un pìnts affnan lången stèkh un ai bidar bodrùm in in balt. Bàldede sige khemmen, khìmmedar enkéng; ma i khimm nèt àspede pin est, ma i khimm àspe a schaüladar burm. Ma du darsràkh nicht un vörte nèt: rékhmar lai zuar in stèkh àsse möge gelången zo lèkha pittar zung umme ’z gevringart un àsto du nèt geast hìntarnvürbest, asse rif zo möga lèkhan umme ’s gevringart, i khimm bidar a schümmana diarn un denna géade lai in hümbl; un du barst håm geglükh hèrta fin àsto lebest. Ma àsse nèt möge gelången zo lèkha ’s gevringart, i bart hèrta plaim a burm un lai möche gian kan taüvl vor hèrta». Dar pua hatsar bidar vorhóast zo tüana alls bas da bill soin getånt; un denna hattar gevånk in bege un is khent zuar huamat. Bal dar is gerift huam, ìssar gånt in di khåmmar vo dar diarn un hatt offegetånt in khast, hatt genump ’s skèttele un hatt auvargenump ‘s gevringart un denna ìssar gekheart bodrùm in in balt un hatt gehakht a långa héslana ruat un hatt drinn gestékht ’s gevringart, un denna ìssar gånt vürsnen in pa balt, fin as ar is gebest nåmp dar kuvl. Balamång hattaren gesek zuarkhemmen an schaülan groasan burm, assar hatt gemacht di vort. Il giovane fu preso da compassione per la ragazza e giurò davanti al Signore Iddio e a tutti i santi che era disposto a fare tutto ciò che diceva e la pregò subito di dirgli che cosa dovesse fare. Lei allora disse: «Bene, torna in paese e vai alla casa dei Paolàz, sali nella camera che fu mia, apri l’armadio grande: là troverai una piccola scatola, dentro ci saranno tre anelli. Prendi quello che porta incise due lettere, legalo a una lunga asta e poi torna nel bosco. Quando ti vedrò venire, io ti verrò incontro; però non verrò così come sono adesso, verrò nelle forme di un pauroso serpente. Tu non spaventarti e non aver paura di me: solo porgimi l’asta perché io possa arrivare a leccare l’anello colla lingua; e se tu non arretrerai, se io arriverò a leccare l’anello, tornerò ad essere una bella ragazza e quindi andrò in paradiso e tu avrai sempre fortuna finché vivrai. Ma se io non arriverò a leccare l’anello, resterò per sempre serpente e dovrò andarmene all’inferno». Il giovane le promise ancora che avrebbe fatto tutto ciò che doveva essere fatto, poi si mise in cammino e rientrò in paese. Giuntovi, salì nella camera della ragazza, aprì l’armadio, prese la scatola e vi tolse l’anello, poi tornò verso il bosco, tagliò una bacchetta lunga di nocciòlo e vi infilò l’anello, quindi proseguì nel bosco fino a che giunse presso la caverna. Là vide venirgli incontro un orribile serpente, tanto grande da far paura. E il giovane si spaventò veramente, ma gli tornò a mente ciò che gli aveva detto la ragazza e andò avanti deciso. Quando fu abbastanza vicino al serpente, allungò l’asta con l’anello. 130 Luserna: c’era una volta Un dar pua is darsràkht starch, ma dà ìssen khent in sint bas d’en hatt gehatt khött di diarn, un er is gånt vürsnen alls uas. Un bal dar is gebest nåmp genumma, hattaren gerékht zuar in stèkh, drau pitn gevringart. Alls in an stroach in pua ìssen åkhent alls a gezittra vo züntrest zöbrest un issese hintargezoget drai tritt. Dar burm ìssen någånt un hatt bidar geböllt lèkhan un ista nèt gelånk, umbrómm dar pua is bidar hintargezoget drai tritt. Drai vert hattar provàrt dar burm un nia ìssarda nèt gelånk, un alóra hattar gespibet vaür un hatt geböaket un gelürnt un is vorsbùndet von oang von pua. Dar pua is gekheart bodrùm un is gebest hèrta traure fin as ar is gestorbet. All’improvviso però il giovane fu preso da un gran tremito dalla testa ai piedi e fece tre passi indietro. Il serpente lo seguì tentando sempre di leccare l’anello, ma senza arrivarci, perché il ragazzo aveva fatto altri tre passi indietro. Tre volte il serpente provò e mai vi riuscì, allora sputò fuoco e gemette e ruggì e poi scomparve dalla vista del giovane. Questi tornò a casa, ma restò sempre triste finché visse. Fiabe, leggende, storielle 131 Racconto nr. 13 (immagine pag. 132) Dar månn au in må L’uomo che si vede sulla luna 80 In an stroach ista gebest a månn aus affnan akhar z’ sega di lisan, un hatt gesek ke di lisan von åndarn laüt soin vil schümmanar bas di soin. Un er ìssese dartzürnt z’ sega asó un hatten pensàrt bia dar mögat tüan zo haba er o söllane schümmane lisan, un denna ìssar gekheart bodrùm huam. Gianante huam ìssen khent in sint ke dar må is groas un abas laüchtetar asó schümma ke dar hettat gemak gian z’ stolanar söllane schümmane lisan. Un asó hattar getånt. Bal ’s is gebest her spet pa dar nacht, ìssar gånt aus ats vèlt bo da soin gebest di schümman lisan un hatt geschauget uminùm un hatt niamat gesek, un hatt khött: «Bèn, da sìkkme niamat, umbrómm i pin muatresch alùmma, bàldamar nèt zuarschauget dar må; un von må vörteme nicht, umbrómmn darsèll mömar nicht tüan». Un denna ìssarse nidargehukht un hatt ausgezèrrt lisan. Bàldarar hatt gehatt an arvl voll, hattarse geböllt trang huam. Alls in an stroach ìsta khent dar må un hatt genump in månn un hatten getrakk au in hümbl pit imen, … un bàlda dar må is groas, sekma no hèrta in månn au in må pitn lisan untar in arm. Una volta un uomo si recò in uno dei suoi campi allo scopo di vedere se crescevano le lenticchie; si accorse però che quelle degli altri erano molto più belle delle sue. Fu preso dall’invidia e si mise a pensare come potesse fare per avere anche lui così belle lenticchie e con quel pensiero nella mente tornò a casa. Camminando gli venne a mente che era tempo di luna piena e che di notte la luna sarebbe stata bella splendente ed egli avrebbe potuto andare a rubare le lenticchie negli altri campi. E così fece. Quando si fece notte fonda uscì e andò nel campo, dove si trovavano le lenticchie, guardò intorno e non vide nessuno e allora disse: «Bene, sono solo e nessuno mi vede, se non la luna, ma della luna non mi preoccupo, perché non può farmi nulla di male». Allora si mise rannicchiato a strappare lenticchie. Quando ne ebbe una bracciata piena pensò di portarsele a casa. Ma all’improvviso arrivò la luna, prese l’uomo e se lo portò su nel cielo… e nelle notti di luna piena, possiamo ancora vedere l’uomo sulla luna colle lenticchie sotto il braccio. 80 Bacher annota: «Oltre ai rimandi in Zingerle Lus. Wb. App. IV, cfr. le fiabe di Schnellers etc., gruppo VII, 5, pag. 220 e seg». Fiabe, leggende, storielle 133 Racconto nr. 14 De Kogùlar I Cogollesi Dise djar ìsta gebest a lentle laüt, bo da soin gebest asó stokhatt un hintar, as ma möcht lachan no in ta’ vo haüt zo höara betta genarra sa håm augetånt. Èkko a drai stördjela: a) In an stroach di Kogùlar håm augemacht a khirch, un bal sa håm gehatt gerift di skattl, håmsa nèt gebisst aff bela sait zo macha in altar. Un alóra håmsa gevånk an bubo un håmen molàrt. In in di khirch ìsta gebest an alts mendle zo peta, un dar bubo is gånt un ìssese gelatt affn khopf von mendle, un alóra ìsta gånt an åndarar månn un hatt gedjukht a håmpfola khalch affn khopf in mendle. ’Z mendle ìssese darzürnt un hatt geböllt slang in månn, un alóra sòinda zuargesprunk alle di Kogùlar un håm getöatet ’s mendle, «umbròm», håmsa khött, «dar bubo iz a hàileges vich, un bódase is gelatt dar bubo da earst bòtta, sèm möchtma machan in altàr». Un denna håmsa bogràbet ’s mendle in platz bo ’s is gebest gekhnonk zo peta. Au ats grap håmsada drau gemacht in altar. b) An åndra bòtta ìssen khent in sint in Kogùlar, ke sai kampanìl is karza khlumma un åna zo gébanen z’ èssa mökar nèt baksan. Un alóra håmsa getöatet vil sboi un oksan un håm getrakk alls ’s vlaisch au ats tach von kampanìl. Un zoa z’ sega biavl dar khint gröasar, håmsa genump a lode loimat un håmse ågehenk pit an ent au in khraütz von kampanìl, un das åndar ent is gelånk abe aff di earde. Ma dar mesnar is gebest a fùrbatar månn un pa dar nacht ìssar gånt un hatt ge- Un tempo esisteva un intero paese di gente così stolta e così sprovveduta, che nell’udire le stramberie che combinavano i suoi abitanti si ride ancora al giorno d’oggi. Ecco appunto alcune di queste storie: a) Una volta i Cogollesi costruirono una chiesa, ma quando ebbero finito la struttura perimetrale non seppero più da che lato fare l’altare. Allora pigliarono un calabrone, lo portarono dentro la chiesa e qui lo lasciarono andare. Dentro la chiesa si trovava anche un povero vecchio intento a pregare. Il calabrone volò e andò a posarsi sulla testa del vecchio; allora un uomo gli andò vicino e gli buttò una manciata di calce in testa. Il poveretto si adirò e volle colpirlo, ma tutti i Cogollesi si gettarono addosso al vecchio e lo uccisero, «Perché», dissero, «il calabrone è un essere sacro e dove è andato a posarsi per la prima volta, là deve essere costruito l’altare». Poi seppellirono il vecchio nel luogo stesso dove era rimasto inginocchiato a pregare e sopra la tomba del vecchio innalzarono l’altare. 81 b) Un’altra volta i Cogollesi pensarono che il loro campanile fosse troppo piccolo e che senza dargli da mangiare non potesse crescere. Allora ammazzarono molti maiali e buoi e portarono tutta quella carne sul tetto del campanile. Per vedere quanto cre- 81 Bacher annota: «Cfr. i rimandi a Schneller in Zingerle Lus. Wb., App. V. (Le Burle dei Karauner)». 134 Luserna: c’era una volta nump au ’s vlaisch un hats getrakk humman. Un denna ìssar gånt un hatt abegehakht an tòkko loimat un hatt getrakk huam dasèll o. In ta’ darnå di Kogùlar soin gånt in aldar vrüa z’ sega biavl dar is khent gröasar dar kampanil, un bal sa håm gesek ke ’s ent vo dar loimat is au asó hoach, håmsa khött: «Schauget, biavl dar is khent gröasar ünsar kampanìl est assar hatt gèst!» Denna sòinsa gånt au affn kampanìl z’ sega biavl vlaisch dar hatt gèsst. Un bal sa håm gesek ke ’s ménglta sovl vlaisch, sòinsa gebest alle luste zo sega ke dar kampanìl is gebest asó hummare. Dar mesnar is gånt alle nècht zo nemma soin toal vlaisch un loimat, fin àsta no is gebest a khlumma tökkle un khumman åndars vlaisch. Bal da di Kogùlar håm gesek asó, håmsa bidar getrakk vlaisch affn kampanìl un håm bidar ågehenk an lode loimat. Dar mesnar is gebest aldar luste z’ sega ke di laüt soin asó hintar, un is gånt alle nècht zo nemma soin toal vlaisch un loimat, finamài àsta di Kogùlar neméar håm gehatt ne vlaisch ne loimat zo lega affn kampanìl, un àssa håm gemuant ke dar kampanìl is groas genùmma. c) Bal da ’s tach von kampanìl von Kogùlar is gebest alt, hats ågevånk zo darvàula un zo bàksada drau ’s gras. Un di Kogùlar håmen pensàrt ke ’s is a toata sünt zo lassa hìdèrrn a sölla schümmas vuatar. Un se håm gevånk an oks un håmen ågehenk a strikh umm’ in hals un håmen gezoget au ats tach von kampanìl. Un bàlsen håm gehatt palle zöbrest, dar oks is gebest palle toat un hatt auvargerekht a långa zung. Di Kogùlar soin gebest alle luste un håm khött: «Schauge, schauge, dar bill sà gelången zo vrèssa ’s gras!» Un bal sa håm gehatt in oks au zöbrest, håmsa gesek ke dar is toat. scesse, presero una striscia di panno e legarono uno dei capi sulla croce del campanile, lasciando pendere l’altro capo fino a toccare terra. Il sacrestano, però, era un uomo furbo e di notte andò a prendere una buona parte della carne e se la portò a casa. Poi andò a tagliarsi un pezzo della stoffa e portò a casa anche quella. Il giorno dopo i Cogollesi andarono a controllare quanto fosse cresciuto il campanile e appena notarono che l’estremità del panno non toccava terra, dissero: «Guardate quanto è cresciuto il nostro campanile, adesso che ha mangiato!» Poi salirono sul campanile per vedere quanta carne avesse divorato e appena notarono quanta ne mancava, furono tutti contenti nel constatare che il campanile avesse tanta fame. Il sacrestano andava tutte le notti a prendere la sua parte di carne e di stoffa, fino a quando rimase solo un piccolo pezzo di panno e più niente di carne. Quando i Cogollesi se ne resero conto, portarono ancora carne in cima al campanile e appesero una nuova striscia di panno. Il sacrestano, da parte sua, fu tutto contento nel vedere che quella gente era così sprovveduta e andò tutte le notti a prendersi la parte di carne e di stoffa, fino a quando essi non ebbero più né carne, né panno da mettere sul campanile e pensarono che il campanile fosse diventato grande abbastanza. c) Il tetto del campanile dei Cogollesi era talmente vecchio che cominciò a marcire e l’erba vi crebbe sopra. I Cogollesi pensarono allora che fosse un vero peccato lasciar seccare un foraggio così bello. Presero un bue, gli misero una corda al collo e lo issarono sul tetto del campanile. 136 Luserna: c’era una volta d) In an stroach ìsta gebest a kogùlar aus ats vèlt zo snaida khorn. Un bal ’s hatt gelaütet mittartage hattaren gelek di sichl affn hals un denna hattaren genump a par garm vor arm un is gånt huam z’ èssa in vormas. Bal dar is gebest huam, hattar gedjukht di garm danìdar un denna hattar gevånk ’s helbe vo dar sichl un hatt gezoget. Un bal dar hatt gesek ke di sichl bill nèt khemmen, ìssarse darzürnt un hatt khött: «Pait, vorvlùachta sichl, àsto nèt bill khemmen, màchede khemmen i!» … un hatt gètt an starchan zukh pan helbe vo dar sichl un issen hìgehakht in khopf alùmma, un dar khopf is gerodlt pa haus aus. Un vo densèll tage å di Kogùlar håm hèrta genützt an aal zo snaida ’s khorn, un neméar di sichl. e) An åndra vert ìsta gebest a Kogùlar bo da hatt gehatt an esl. Un in an tage ìssar gånt in stall, disar kogùlar, zo bölla trenkhan in esl, un dar esl hatt nèt geböllt. Dar Kogùlar is darsrakht z’ sega ke dar esl bill nèt trinkhan, un is gånt un hatt zuargerüaft di åndarn kogùlar z’ sega in esl un zo vorsa z’ sega béda niamat boast, bia zo tüana zo macha trinkhan ’s vich. Niamat hatzanen nèt vorstånt, un balamång håmsa khött ke dar esl is bohèkst, un håm geböllt töatn in esl. Ma dar månn, in esl, hattaren nèt geböllt töatn, un hatt khött ke dar paitet zo töatanen in ta’ darnå. A bàilele spetar ista zuargånt an alts baible von an åndarn lånt un hatt sèm gesek a söllana khutta laüt, un is hatt gevorst z’ sega bàsta da is naüges. Un di Kogùlar håmsen khött. Un ditza baible is gånt au aff di tetsch von månn un hatt genump a vürta höbe un hatsen getrakk in esl. un dar esl hats gevrèst. Un denna ’s baible hatten ge- Quando, però, il bue stava arrivando in cima, era quasi morto, con la lunga lingua a penzoloni. Nel vederlo così i Cogollesi furono contenti e dissero: «Guarda, guarda, vuole arrivare a mangiare l’erba!» Ma quando il bue fu in cima al campanile, si accorsero che era già stecchito. d) Una volta un Cogollese era nel suo campo a falciare il grano. Quando suonò mezzogiorno si mise il falcetto sul collo, si prese un paio di covoni per braccio e andò a casa a mangiare. Giunto a casa gettò a terra i covoni, poi afferrò il manico del falcetto e tirò. Ma visto che l’attrezzo non si muoveva, si adirò e disse: «Aspetta, maledetto, se non vuoi venire tu, ti farò venire io!…» e diede uno strattone così forte al manico del falcetto, che si tagliò dritto la testa e questa andò a rotolare per la casa. Da quel giorno in poi i Cogollesi adoperarono sempre la lesina per tagliare il grano, e non più il falcetto. e) Un’altra volta c’era un Cogollese che possedeva un asino. Un giorno questo cogollese andò nella stalla per abbeverare l’asino, ma l’asino non volle bere. L’uomo si spaventò nel vedere che l’asino non voleva bere e andò a chiamare gli altri cogollesi, perché venissero a vedere l’asino e chiese se qualcuno sapesse come fare per far bere la bestia. Nessuno se ne intendeva e arrivarono a dire che l’asino era stregato e volevano ammazzarlo. Ma l’uomo non volle ammazzare l’asino e disse che avrebbe aspettato il giorno dopo per ammazzarlo. Un po’ più tardi arrivò una vecchia di un altro paese e vide là riunita tutta quella gente e chiese che cosa c’era di nuovo. Fiabe, leggende, storielle 137 trakk zo trinkha, un dar esl hatt getrunkht o. Un alóra hats khött, ’s baible: «Sékars est, bas ar hatt dar esl, un hàltets a mint, un vor dar en gètt zo trinkha in vich, gètten zo vrèssa» f) Di Kogùlar soin gebest starch un bravat, ma lai sòinsa gebest hùmmrege laüt o, un soin nia gebest guat zo haba in pauch voll. In an tage di kamòumånnen håm gehaltet konsìldjo z’ sega, bia sa mögatn tüan z’ èssa a bòtta genumma alle pittanåndar. Un balamång håmsas ausgemacht: insèll tage asó un asó böllbar èssan genumma. Dar tage is khent. Un alóra sòinsa gånt alle pitnåndar nåmp in an groasan prunn bo da drinn is gebest vil bassar un sèm håmsada drinn gedjukht vil sürcha mel. Denna håmsa ågehenk an pua panan soal un håmen molàrt nidar in prunn, assar aumisch di pult. Di åndarn kogùlar soin gestånt sèm affn bege zo paita bo da darsèll in prunn rüaf zoa àssa gian z’ èssa. Ma darsèll in prunn hatt nèt gerüaft. Alóra håmsa nidarmolàrt an åndarn un håm bidar gepitet. Darsèll hatt o nèt gerüaft, un alóra håmsa no nidarmolàrt umman, un darsèll hatse o neméar gelatt höarn. Alóra ìssen khent in sint, insèlln bo da håm gepitet, ke disèlln nidar in prunn èssanen di pult vor earst, vor sa rüavan in åndarn, un alóra ummandar nå den åndar soinsa gesprunk alle nidar in prunn. Un vo densèll tage her sòinda neméar gebest khùmmane Kogùlar. I cogollesi le raccontarono dell’asino. Allora la donna salì dritta sulla rimessa di quell’uomo, prese un grembiule pieno’ di fieno e lo portò all’asino. L’asino lo mangiò. Poi la donna gli portò da bere e l’asino bevve. Allora disse: «Lo vedete adesso che cosa aveva l’asino; ebbene, tenetelo a mente e prima di dar da bere alle bestie, date loro da mangiare!». f) I Cogollesi erano forti e bravi, ma erano anche gente che amava mangiare e che non riusciva mai ad avere la pancia piena. Un giorno gli uomini appartenenti alla Regola del Comune tennero consiglio per vedere come riuscire a mangiare una volta e a sufficienza tutti insieme. Decisero, quindi, che un tal giorno dovessero mangiare a sufficienza. Il giorno prestabilito arrrivò. Allora si recarono tutti insieme ad un grande pozzo, dentro al quale c’era molta acqua. Dentro a quel pozzo versarono molta farina di granturco. Poi legarono un giovane a una corda e lo calarono nel pozzo perché rimescolasse la polenta. Nel frattempo, gli altri rimasero sulla strada ad aspettare che quello dentro al pozzo li chiamasse. Ma quello dentro al pozzo non li chiamò. Allora ne calarono giù un altro e aspettarono ancora. Ma anche questo non chiamò, e così ne calarono ancora uno, ma anche quest’ultimo non si fece più sentire. Al che balenò alla mente di quanti stavano aspettando sulla strada che, prima di mettersi a chiamare, quelli giù nel pozzo stessero già mangiando. Così, uno dopo l’altro, saltarono tutti giù nel pozzo. Da quel giorno non ci furono più Cogollesi al mondo. 138 Luserna: c’era una volta Racconto nr. 15 Nel suo testo “Concetti cristiani nelle credenze dei Cimbri”, Schweizer 82 commenta così questa fiaba: «Nel racconto non c’è nulla dell’uso cristiano di esorcizzare il diavolo per la preghiera, segni di croce o benedizioni, ma il diavolo rimane fedele alla parola data. […] nell’insieme questo diavolo non è un demonio in senso cristiano e forse non si sbaglia se nel racconto si vede la sopravvivenza di un mito precristiano degli dei. Ciò potrebbe andar bene per i particolari. Ad es. il vestirsi della vecchia con piume richiama fortemente il mito della camicia di piume di Frigg-Freyja». Egli in sostanza vedrebbe una sopravvivenza di miti germanici, e farebbe riferimento al magico indumento della dea nordica che le permetteva di trasformarsi in uccello e di entrare nel regno dei morti: un parallelo piuttosto calzante. Dar månn bo da hatt vorkhoaft di seal in taüvl In an stroach ista gebeest a djungar månn bo da nèt hatt gehatt lust zo arbata, un zo giana zo pèttla hattarse geschemp. Un vor dassel hattar nèt gebisst, bia zo tüana zo gebinnanen z’ èssa. un in an mal hattar gerüaft in taüvl, assaren preng gèlt. Un dar taüvl is khent un hatten geprenk an sakh voll gèlt un hatt khött: «Da hånnedar geprenk an sakh voll gèlt, ma umme ditza gelt bille håm dai seal un lassde no da zbuanzekh djar un denna khimme zo nemmase». Disar arm månn hatt genump ’s gelt von taüvl un is gebest allar luste zo habas. L’uomo che vendette l’anima al diavolo 83 C’era una volta un giovane che non aveva voglia di lavorare e si vergognava di mendicare. Perciò non sapeva come guadagnarsi il pane. Una sera invocò il diavolo perché gli portasse del denaro. Il diavolo arrivò, gli portò un sacco di denaro e disse: «Ecco, ti ho portato un sacco pieno di denaro, però in compenso voglio la tua anima. Ti lascio ancora venti anni, dopo però verrò a prendermela». Il poveraccio prese il denaro del diavolo e fu contento di averlo. Ma quando, molto presto, furono passati i venti anni, egli cominciò ad aver paura del diavolo e a vivere retta- 82 Schweizer Bruno, Concetti cristiani nelle credenze dei Cimbri, Edizioni Taucias Gareida, Giazza - Verona, 1989. 83 Bacher annota: “Il diavolo che concede del denaro a condizione che dopo un certo tempo si diventi di sua proprietà si ritrova anche in Grimm, Märchen, 125. Tale condizione viene tolta se si riesce a rispondere a un indovinello (Grimm, Märchen 55; Zingerle, Märchen 1 e 36; Schneller, Märchen 55); cfr. Anche il trattato “Tom Tit Tot” di Polivka (Zeitschrift für Volkskunde X, 254 if.). Come la Vecchia della fiaba lusernese, anche in Grimm, Märchen, 46 la Sposa assume l’aspetto di un uccello; cfr. in meritro le note di Grimm al punto III. Da notare che la soluzione dell’indovinello non viene trovata per caso, ma cercata». Fiabe, leggende, storielle 139 Bal da palle aus soin gebest di zbuanzekh djar dar arm månn hatt å geheft zo vörtase von taüvl, un alora hattar å gevånk zo tüana garècht. In an mal issar gånt in di khirch un hatt gepittet ünsar liaba Belamåmma zo helvanen: denna issar gånt humman. Bal dar is gebest humman, issen zuar gånt dar taüvl un hatt khött: «I sige ke ’s tüatar ånt zo habamar vorkhoaft dai seal, ma lüsan, ’s ista no ummas bo dar mage helvan: i lassdar no zait sim tage, un denna khimme un asto boast biavl bégela ’s soinda in moin gart, alora schenkhedar alIs ’s gèlt bo de dar hån gètt, un lassdar dai seal o». Dar månn is gebest allar luste zo höara asó, un hatt khött vo dja. Bal da vort soin gebest drai tang, dar månn hatt bidar ågeheft zo vörtase, ombrom dar hatt nèt gebisst bia zo tüana zo giana in gart von taüvl zo zela di beng. Balamång issar gånt pa bege von lånt aus un hatt bokhent an alts baibe. Un da mente. Una volta si recò in chiesa e pregò la Madonna di aiutarlo; poi tornò a casa. Ma quando fu a casa, arrivò il diavolo e gli disse: «Vedo che ti dispiace avermi venduto l’anima; però ascolta: ti lascio altri sette giorni di tempo, poi tornerò e se saprai dirmi quanti sentieri ci sono nel mio giardino, io ti regalerò tutto il denaro che ti ho dato e ti lascerò anche l’anima». Passati però tre giorni, l’uomo cominciò nuovamente ad aver paura, perché non sapeva come riuscire a penetrare nel giardino del diavolo per contarne i sentieri. Mentre percorreva la strada del villaggio incontrò una vecchia. La vecchia si accorse che era angustiato e gli chiese che cosa avesse. L’uomo le raccontò tutto. «Su, via!» disse la vecchia «Se non hai altro motivo per essere triste, sta tranquillo e lascia a me il compito di contare i sentieri». L’uomo se ne 140 Luserna: c’era una volta alt hatsen ågekhennt ke dar hatt éppas bo den geat létz, un hatten gevorst z’ sega bassar hatt, un dar månn hatsar khött. «Bèn, bèn, – hatse khött da alt – bal do nicht åndarst hast z’ soina traure, alora vörte nicht un lassme tüan mi, zo zela di beng». Denna dar månn is gånt huam un da alt is o gånt bo se hatt gehatt zo giana. Bal ’s is gebest abas, in khemman di nacht, da alt is gånt zo khoavanar a pissle piigl un denna isse gånt humman, hatt òffe gehakht di ziach von pétt, issese bopiglt vo züntrest zöbrest, un denna issese gebéglt drin in di vedarn von pétt. Bal se is auvarkhent von védarn, hattma nèt darkhennt bi ’s is gest a vogl odar bas vor a vich un asó isse gånt in gart von taüvl. A baila spetar ista zuar gånt dar taüvl un hatt å geschmekht ditza dinkh un hatt khött: «In moin gart soinda noünunnoüntzekh bégela un i pin gånt hintar un vür vil vért, ma a sötta schaülas sachan hånnes bol nia gesek». Un denna issarse umgedreent un hatt khött kan gértnar: «Sauge da, ditza dinkh bille nèt astomars å rüarst; lasses gian hintar un vür bo ’s bill, un tüaden nèt létzes»! – Un denna dar taüvl is gånt nå soine béng un dar gértnar is gånt nå soinar arbat. Bi sa soin vort gebest peade, da alt is gånt krablane zuar in gattar von gart un denna isse augestånt un is gånt humman. Da humman hatse gevuntet in månn, bo da is gebest sèm zo paita, z’ sega bi se hatt éppas getånt. Un si alora hatten khött di börtar bo da soin vonkånt in taüvl, un er is humman gånt aldar luste. Bal da aus soin gebest di sim tang, dar taüvl is khent un hatt gevorst in månn z’ sega bi dar boast biavl beng ’s soinda in gart, un dar månn hats gebisst un hatsen khött. Alora dar taüvl issese darzürnt un hatt vorvlüacht in månn un das schaüla dinkh, andò a casa, mentre anche la vecchia se ne andò dove aveva da andare. Ma la sera, proprio sul calar della notte, la vecchia andò a comprare del vischio e, giunta a casa, tagliò la federa del materasso di piume, si unse col vischio da capo a piedi e poi si rotolò nelle piume del letto. Come si alzò dalle piume, non era possibile capire se fosse un uccello o quale altro animale; in quelle condizioni si recò nel giardino del diavolo. Dopo un po’ vi giunse anche il diavolo, annusò quella bestia e disse: «Nel mio giardino ci sono 99 sentieri e io li ho percorsi avanti e indietro molte volte, ma una simile bestiaccia non l’avevo ancora vista». Poi si volse verso il giardiniere e gli disse: «Guarda, questa bestia non me la devi toccare; lasciala andare avanti e indietro dove vuole e non farle del male!». Detto questo, il diavolo andò per la sua strada e il giardiniere al suo lavoro. Non appena entrambi si furono allontanati, la vecchia andò strisciando fino al cancello. Giuntavi, si alzò in piedi e tornò a casa. Là trovò l’uomo che l’aspettava per sentire se aveva già fatto qualche cosa. Allora gli riferì le parole che erano sfuggite al diavolo, ed egli se ne andò contento a casa. Quando i sette giorni furono passati, il diavolo venne e chiese all’uomo se sapesse dirgli quanti sentieri ci fossero nel suo giardino. Egli lo sapeva e glielo disse. Allora il diavolo si adirò e maledì l’uomo e quella brutta bestia che era stata nel suo giardino. Però non servì a nulla perché l’uomo gli aveva detto esattamente quanti sentieri c’erano nel giardino. Il diavolo si allontanò ur- Fiabe, leggende, storielle 141 bo da is gebest in soin gart; ma ’s hatten nicht mear geholft, ombrom dar mån hatsen khött djüst biavl beng ’s soinda in gart. Un dar taüvl is vort gånt lürnane un hatse nimmar mear gelatt seng von månn. Un dar månn hatt genützt ’s gèlt bo dar no hatt gehatt, un hatt getånt garècht un hatt gehelft dar altn un is auvarkhent a guatar bravatar månn. lando e non si fece più vedere da lui; l’uomo però adoperò il denaro che gli era rimasto, visse onestamente, aiutò la vecchia e diventò buono e bravo. Il rapporto fra sacro e profano La distinzione fra “sacro” e “profano” può partire dalla definizione che ne diede nel 1912 il sociologo francese Emile Durkheim: «Sacro è ciò che viene protetto da divieti e tabù». In sostanza quelle componenti dell’esistenza che non possono rientrare sotto il controllo umano (le forze naturali, la morte, ecc.) vengono circondate da una serie di norme e proibizioni che servono sia a limitarne l’influenza sulla vita della comunità che a esorcizzare la paura che esse suscitano. Esse inoltre, venendo trasmesse soprattutto per via orale da una generazione all’altra, favoriscono il proliferare di pratiche simboliche e rituali magici volti a regolare il rapporto con la natura; questo è ancora più vero nel caso delle comunità montane, per loro stessa natura fortemente condizionate da elementi come le condizioni climatiche e la scarsità di risorse e quindi più bisognose di ricorrere a forme di difesa collettiva. Si vengono pertanto a creare dei sistemi di credenze che forniscono stabilità in contrapposizione all’apparente irrazionalità del mondo naturale (Annibale Salsa, 1998). Proprio questa vicinanza con il “sacro” crea un bisogno di familiarità con esso, che si manifesta frequentemente nei racconti popolari: in essi i protagonisti sovrannaturali vengono spesso descritti con caratteristiche molto “umane”, siano essi personaggi positivi come i santi e Dio stesso, oppure negativi come il diavolo. Ad esempio nel racconto n. 10 il Signore viene descritto come “un vecchione coi capelli bianchi come la neve e una lunga barba grigia”, e il protagonista della storia parla direttamente con lui chiedendogli di restituirgli del denaro; San Pietro appare come un figlio preoccupato per la madre (racconto n. 2), e il diavolo pur prendendo l’anima di un uomo in cambio di denaro si dimostra alquanto rispettoso della propria parola e abbastanza ingenuo da farsi ingannare (cfr. nota al racconto n. 15). Anche i proverbi e i detti popolari dimostrano questo rapporto di familiarità col diavolo, mentre figure come quelle degli angeli sono molto meno presenti: ciò si può forse imputare al fatto che, mentre il primo riassumeva in sé elementi precristiani, questi ultimi vennero percepiti come un elemento innovativo del cristianesimo. Inoltre sembra radicata la credenza che le anime ascese al paradiso diventassero angeli a loro volta (vedi racconto n. 9). 142 Luserna: c’era una volta Racconto nr. 16 Schweizer 84 evidenzia le analogie fra questo racconto e altri, tra cui anche quello celebre de “I tre porcellini”. Di drai Marìala Le tre Marielle In ar bòtta sòinda gebest drai sbéstarla, bo da håm gehatt toat vatar un muatar, un håm gehatt vil schulln, bóden hintar håm gelatt soine laüt bal sa soin gestorbet. Balamång disèlln, bo da håm gehatt zo haba ’s gèlt, håms geböllt håm, un di armen khindar, gèlt håmsa khummas gehatt; sa håm gehatt a pissle geplèttra von haus un ’s haus bo sa drinn soin gebest, un håmen gètt dassèll, in schullmånnen. Denna håmsa khött dise armen khindar: «Bia bàrtpar tüan est åna haus?» «Vörtparas nèt!» – hats khött das éltarste – «Gott dar Hear bàrtas helvan; est géabar géabar übar di bèlt zo süachanas an platz zo giana z’ stiana»… un håm audarbìst un soin gånt. In khemman di nacht sòinsa gerift in an balt, un in disan balt sòinsase vorlórt un håm neméar gebisst aft bela sait zo giana, un alóra håmsa khött: «Guat, est stéabar dà un màchanas au a haüsle»… un asó håmsa getånt. Sa håm zuargetrakk raisar un håmen augemacht a haüsle, un denna håmsen hìgehakht ’s haar un håm gemacht drai baite zöpf un pitn zöpf håmsa gedekht ’s haüsle. Denna ìsta inngånt das éltarste sbéstarle z’ sega bì’s is groas genumma, ’s haüsle, vor alle drai, un bàls in is gebest, hats zuargespèrrt ’s türle un hatt nèt inngelatt gian di åndarn; un se håm audarbìst un soin gånt pa balt in, gaülane. C’erano una volta tre sorelline che restarono sole poiché i genitori erano morti e morendo avevano lasciato anche molti debiti da pagare. Non passò molto tempo che i creditori pretesero di essere pagati. Le poverette però non avevano denaro, avevano solo poche cose e la casetta dove abitavano. Così consegnarono tutto e poi dissero: «Che cosa faremo noi ora senza casa?», «Non dobbiamo aver paura» rispose la sorella maggiore «perché il buon Dio ci aiuterà. Intanto andiamo via dal paese e cerchiamo un luogo dove abitare». Detto questo, partirono. Quando giunse la notte arrivarono in un bosco. Là si perdettero e non seppero più in quale direzione andare. Allora dissero: «Bene, restiamo qua e costruiamoci una casetta!» Radunarono dei rami e si fecero una casa. Poi si tagliarono i capelli, ne fecero tre larghe trecce e con queste coprirono la casetta. La sorella maggiore entrò per vedere se era grande abbastanza per tutte e tre, ma quando fu dentro, chiuse la porticina e non lasciò più entrare le altre. Queste si rimisero allora in cammino e, piangendo, s’inoltrarono nel bosco. Dopo un po’ incontrarono un uomo con un carico di tavole. L’uomo 85 84 Schweizer Bruno, Le credenze dei Cimbri nelle forze della natura, Edizioni Taucias Gareida, Giazza - Verona, 1984. 85 Bacher annota: «Cfr. Schneller, fiaba n. 42, Die drei Gänse (Le tre oche). Qui l’orso equivale al leone in Grimm, Märchen 68, che conosce tutto ciò che è nascosto e segreto». 144 Luserna: c’era una volta A baila zait darnå håmsa bokhént an månn au pitnar purde vlekhan un darsèll hatten gevorst z’ sega bas sa håm, as sa gaüln asó, un se håmsen khött. «E bèn, – hattar khött dar månn. – Dassèll is nicht; vor ummas màches au i ’s haüsle, un vor das åndar bàrta tüan Gott dar Hear»… un lai disar månn hatt ågeheft zo màchas au, un hats gedekht pit vlekhan, un denna ista inngånt das mittar diarnle un hatt gespèrrt ’s türle, un alóra das djüngarste is sèm gestånt alùmna un hatt audarbìst un is gånt pa balt in, gaülane. Bàls is gebest an tòkko vür, hats bokhént an månn au pitnar karge aisan, un disar månn hatten gevorst z’ sega bàsses hatt, un is hatten khött bàssen håm getånt di zboa sbéstarla. «E bèn, – hattar khött dar månn, – sbaige un gaül nèt! I màchdar i au a haüsle», un lai hattaren augemacht an aisras haüsle un hatsen gedekht pit àisrane plattn, un denna hattaren gemacht drai àisrane negl un hatt khött: «Nimm dise drai negl, un est gea in in haüsle un spèrr di tür un tüa offe niamat; un àsta àpparùmmas bill innkhemmen per fòrtza, glüan di negl un rékhsen aus un dassel bart stian lai toat». Un denna dar månn is gånt. In sèll balt, bo da soin gebest di drai diarndla, ìsta gebest an altar peer, bo da hèrta hatt gebisst alls bas da is vürkhent in balt, un er is partìrt un is gånt zo süacha das earst haüsle un hats gevuntet, un alóra hattar gerüaft in diarndle un hatt khött: «Ho, Marìale, tüamar offe!» Un ’s diarndle hatt khött: «Nå, nå, i tüadar nèt offe» … un alóra hattar khött, dar peer: «Bèn, àstomar nèt offetüast pitn guatn, tüastomar offe pitn znichtn… un lai ìssar gånt au ats tach un hats offegeprocht un is nidargånt un hatt gevrèsst ’s diarndle, un denna issar gekheart bodrùm. ’S mal darnå ìssar bidar gånt zo sü- volle sapere perché stessero piangendo ed esse raccontarono l’accaduto. «Ebbene» fece l’uomo «non temete: per una farò io la casetta e per l’altra provvede il buon Dio». L’uomo cominciò subito a costruirla e alla fine la coprì di tavole. Poi la seconda sorella entrò e chiuse la porticina. La più giovane rimase sola, riprese il cammino e, piangendo, s’inoltrò ancora nel bosco. Poco dopo incontrò un uomo con un carico di ferro. L’uomo chiese che cosa avesse, ed ella raccontò che cosa le avevano fatto le sorelle. «Non temere!» disse l’uomo «Taci e smetti di piangere: adesso ti costruirò io una casetta». In poco tempo le costruì una casetta di ferro che infine coprì di piastre di ferro, poi preparò tre chiodi di ferro e disse: «Prendi adesso questi chiodi, entra nella casetta, chiudi la porta e non aprire a nessuno, e se qualcuno vuole entrare per forza, arroventa i chiodi, spingili fuori, e quello resterà morto». Detto questo, l’uomo se ne andò. Nello stesso bosco, nel quale si trovavano le tre Marielle, c’era anche un vecchio orso che sapeva sempre tutto ciò che accadeva nel bosco. L’orso si mise in cammino e andò a cercare la prima casetta. Quando la trovò, chiamò la bambina e le disse: «Oh Mariella, aprimi!…» E la bambina: «No, no, non ti apro!» Allora l’orso disse ancora: «Bene, se non mi apri tu con le buone, aprirò io con le cattive!…» Salì sul tetto, lo ruppe ed entrò… e divorò la bambina. Poi se ne andò. La sera dopo partì alla ricerca della seconda casetta e quando la trovò chiamò la bambina e disse: «Oh Mariella, presto, aprimi!» «No!» rispose la bambina «Io non ti apro!» Fiabe, leggende, storielle 145 acha das åndar haüsle un hats gevuntet un hatt gerüaft in diarndle un hatt khött: «Ho, Marìale, bahémme ai! Tüamar offe!». «Nå» hats respùndart ’s diarndle – I tüadar nèt offe». «Bèn, – hattar khött – àstomar nèt offetüast pitn guatn, tüastomar offe pitn znichtn» … un is gånt ats tach un hatt augezèrrt di prettar un is nidargånt un hats gevrèsst un denna ìssar gånt bodrùm. In tage darnå ìssar ausgånt zo süacha ’s haüsle von djüngarste sbéstarle un hats gevuntet, un bal dar hatt gesek ke ’s is gebest a söllas starches, ìssar darsràkht, un denna hattar gerüaft in diarndle un hatt khött: «Ho Marìale, ai, tüamar offe!» «Nå, nå, – hats respùndart ’s diarndle – i tüa offe niamat». «Bèn, – hattar khött dar peer – i boas an akhar puan, ai, bar gìanse zo nemma!» «Nå, – hats respùndart ’s diarndle – haüt khìmme nèt, ma mòrng géabar». «Bèn, – hattar khött dar peer – mòrng géabar». «Ma géabar palle?» – hats gevorst ’s diarndle. «Di achte» – hattar khött dar peer. «Un bo ìssar dar akhar?» – hats no gevorst ’s diarndle. «Sèm asó un asó» – hattar respùndart dar peer, un hatten khött bo da is dar akhar. «Guat, gea est, – hatten khött ’s diarndle – un mòrng di achte ai!» … Un dar peer is gånt. In tage darnå ’s diarndle is augestånt di sèkse un is gånt zo nemma di puan; un bal da is gerift dar peer zo rüavanen, hatsen ausgelacht un hatt khött vo hintar dar tür: «Gea, gea du peer, i pin darnå z’ èssamar di puan». Un dar per alóra hatt khött: «Bèn, i boas an akhar bille ram; ai bahémme, bar gìanse zo nemma!» «Bene…» fece l’orso «…Se non mi apri tu con le buone, aprirò io con le cattive!…» In un attimo salì sul tetto, strappò le tavole, entrò e divorò la bambina. Poi si allontanò. Il giorno successivo uscì a cercare la casetta della sorella più giovane e la trovò. Ma quando vide quanto la casa era robusta, si spaventò, chiamò la bambina e le disse: «Oh Mariella, presto aprimi!» «No, no» rispose la bambina «non apro a nessuno». «Bene» disse l’orso «io conosco un campo di fave, vieni, andiamo a coglierle!» «No» rispose la bambina «oggi non vengo, andremo domani». «Bene» fece l’orso «andremo domani». «Ma a che ora andremo?» chiese la bambina. «Alle otto» rispose l’orso. «E dov’è il campo?» volle sapere ancora la bambina. L’orso le spiegò dove si trovava il campo. «Bene, ora vattene» disse la bambina «e domani vieni alle otto!» L’orso andò. Il giorno dopo la bambina si alzò alle sei e andò a prendere le fave e quando arrivò l’orso, lo derise e disse: «Va, va, orso, io le sto già mangiando, le fave». Allora l’orso fece: «Bene, io conosco un campo di carote selvatiche: vieni subito, andiamo a levarle!» «No, oggi no» rispose la bambina «andremo domani». «Bene» fece l’orso «domani ci andremo alle sette». «Sì» disse la bambina «ma dov’è il campo?» L’orso le disse dov’era il campo. «Bene» fece la bambina «domani cerca di essere qui alle sette!» L’orso se ne andò. Il giorno successivo la bambina si alzò alle cinque e andò nel campo a levare le carote. Era appena tornata a casa, quando giunse l’orso a chiamarla. «Oh, oh» rise la bambina «oggi sei arrivato presto, ma 146 Luserna: c’era una volta «Nå, haüt nèt, – hats khött ’s diarndle – ma mòrng géabar». «Bèn, – hattar khött dar peer – bar gian di sìbane mòrng». «Ja, – hats khött ’s diarndle – ma khümar bo da is dar akhar». «Sèm asó un asó» – hattar khött dar peer, … un hatten khött bo da is dar akhar. «Guat, – hats khött ’s diarndle – un mòrng di sìbane ai!» … Un alóra dar peer is vortgånt. In tage darnå ’s diarndle is augestånt di vünve un is gånt zuar in akhar zo nemma di billn ram, un apena as is gebest bodrùm pitn ram, ìsta gånt dar peer un hatt gerüaft in diarndle. «Haha, – hats khött ’s diarndle – haüt pìsto bol khent palle ma du pist khent haüt o kartza speet: i pin darnå zo siadase i di ram». Alóra dar peer hatt khött: «Guat, ma i boas an akhar tschükkn; ai’, bar gìanse to nemma! Nå, nå, – hats khött ’s diarndle – haüt nèt, mòrng khìmme; ma du möchstmar khön bo dar is disar akhar». «Nå, nå – hattar khött dar peer – i khüdars nèt». «Bèn, – hats khött ’s diarndle – ombrùmm du boast khummane tschükkn». «Ja, – hattar respùndart dar peer – sa soin sèm asó un asó» … un hatzen gelirnt … «un mòrng – hattar khött dar peer – stéabar au in aldar vrüa un gìanse zo nemma». «Ja, – hats khött ’s diarndle – gea est, un mòrng ai!» In tage darnå ’s diarndle is augestånt vor in tak un is gånt au zo lesa di tschükkn; un dar peer is o augestånt in aldar vrüa un is gånt kan haüsle un hatten gerüaft un hatt khött: «Ho Marìale, ai, bar gian zo nemma di tschükkn». Ma ’s Marìale is nonet gebest bidrùm. «Ha, haüt palle vìnnede» – hattar pensàrt dar peer; un is gånt aus zuar in akhar. ancora troppo tardi. Io sto già cuocendo le carote». Allora l’orso disse: «Bene, ma io conosco un campo di zucche, vieni, andiamo a prenderle!» «No, no» rispose la bambina «oggi no, verrò domani; ma devi dirmi dov’è il campo». «No» rispose l’orso «non te lo dico». «Bene» fece la bambina «non lo dici perché non lo sai». «Certo che lo so» rispose l’orso e poi le indicò dove si trovava il campo. «E domani» continuò «andremo per tempo a cogliere le zucche!» «Sì» disse la bambina «adesso vattene e torna domani». Il giorno dopo la bambina si alzò prima dell’alba e andò a cogliere le zucche. Ma anche l’orso si alzò per tempo, andò alla casetta e chiamò: «Oh Mariella, vieni, andiamo a prendere le zucche» Ma Mariella non era ancora tornata. «Ah, oggi ti trovo di buon’ora» disse l’orso, e andò nel campo. Quando vi giunse, la bambina lo scorse, cercò con l’occhio la zucca più grossa e vi si nascose dentro. Arrivato presso il campo, l’orso non la vide, prese allora la zucca più grossa e con questa tornò alla casetta; qui salì sul tetto e disse: «Questa volta non mi scappi, perché quando arriverai a casa, salterò giù e ti prenderò». Dopo aver detto questo si stese sul tetto e si addormentò. La bambina era sempre dentro alla zucca e, quando lo sentì russare, uscì piano piano, entrò in casa e chiuse la porta a chiave. Al chiudersi della porta, l’orso si svegliò, udì la bambina in casa e si adirò: «Non importa che tu sia già dentro, uscirai, io ho qui una bella zucca da mangiare…» e così dicendo capovolse la zucca e vide il buco. Allora capì che era stato lui stesso a portare a casa la bambina. Fiabe, leggende, storielle 147 Bal dar palle is gest gerift in akhar, ’s diarndle hatten gebarnt, ’s hatt auzgeholt da gröasarste tschükk un ìssese lugàrt in drinn. Dar peer is khent un hats nèt gesek in akhar un s gånt un hatt augenump da gröazarste tschükk un pit disarn ìssar gekheart bodrùm kan haüsle un is gånt au ats tach un hatt khött: «Disa bòtta vonkéastomar nèt, ombróm bal do khist zo giana in in haüsle, sprìnge nidar un darbìste». Denna ìssarse nidargelek un is inslàft. ’S diarndle intånto is no hèrta gebest in drinn in di tschükk, un bal ’s hatt gehöart in peer snarchln, is khent laise laise aus vo dar tschükk, is gånt in in haüsle un hatt geslosst di tür; un slóssante di tür dar peer is darbékht un hatt gehöart ’s diarndle in in haüsle un ssese darzürnt. «’S is nicht, àsto ånka pist in; du barst auvarkhemmen o … I hån dà a schümmana tschükk z’ èssa» – un lai hattar gekheart uminùm di tschükk un hatt gesek ’s loch, un alóra hattar darkhénnt ke ’s diarndle hattars huamgeprenk er. Intånto ’s diarndle hatt ågezüntet ’s vaür un hatt geglüant di negl un denna hatsese gestekht au pa tach un hatse gemacht gian gerade in pauch von peer, un dar peer hatt gètt a drai lürnar, is gevallt abe von tach un is krapàrt. ’S diarndle alóra is khent aus von haüsle un hatt abe gezoget di haut in peer un denna is gånt in di statt zo vorkhóavase. Nå di bege hats bokhént in månn bóden hatt augemacht ’s haüsle, un darsèll hatten gevorst z’ sega bo ’s geat, un is hatsen khött, un dar månn is gånt alóra pitn diarndle un hatten gehelft zo vorkhóava di haut. Denna hattars gevüart in rècht kan djùditze, un sèm håmsen gètt an hauf gèlt, in kunto as hatt getöatet in peer; un denna is gånt pitn månn un is hèrta geplibet pit imen fin as is gestorbet. Ma, quella, acceso il fuoco, arroventò i chiodi e li sporse dal tetto dritti nel ventre dell’orso. Questi emise due o tre bramiti, cadde dal tetto e morì. Così lei uscì dalla casetta e lo scuoiò. Poi si recò a vendere la pelle. Per via incontrò l’uomo che le aveva costruito la casa, ed egli le chiese dove stesse andando. Ella gli spiegò tutto. Allora l’uomo l’accompagnò e la aiutò a vendere la pelle; la condusse poi dal giudice, che le diede un premio in denaro per avere ucciso l’orso. Infine la bambina andò ad abitare con l’uomo e restò con lui finché visse. 148 Luserna: c’era una volta Racconto nr. 17 Tüsele Marusele Tüsele Marisele Vor zaitn ìsta gebest an armes khinn, bo da hatt gehatt toat in vatar un di muatar un hatt gehoast Tüsele Marüsele. Ditza khinn is ummargånt zo pèttla zoa nèt zo stèrba vo hummar. In an tage is gånt in pa balt un hatt gevuntet ’s haus vo dar «liabe nona», a billes baibe. Is is inngånt zo vorsa eppas z’ èssa, un da «liabe nona» hats inngespèrrt in sai haüsle. ’S Tüsele Marüsele is khent stüfo un saur zo stiana inngespèrrt un alóra hats gerüaft dar «liam nona» un hatt khött «Liaba nona, tüamar offe!» Un da «liabe nona» hatt khött: «Ziage pan pentle, ’s geat offe!» ’S Tüsele Marüsele hatt geböllt offetüan un is nèt gebest guat un is hatt bidar gerüaft: «Liaba nona, tüamar offe, i hån löat z’ schaisa». Un da «liabe nona» hatt khött: «Schais in di hånt un djukh in di bånt!» ’S Tüsele Marüsele hatt bidar gerüaft: «Nå, liaba nona, i pìtte, tüamar offe!» Un alóra da «liabe nona» hatt offegetånt un hats ågehenk pan pan kübele un hats molàrt nidar obar a véstarle; denna da «liabe nona» hatt khött: «Hasto geschist»? «No a pìssle». «Hasto geschist?» «No a kégele». C’era una volta una povera bambina alla quale erano morti sia il padre che la madre e si chiamava Tüsele Marisele. Questa bambina andava in giro a mendicare per non morire di fame. Un giorno si addentrò nel bosco e raggiunse la casa della “cara nonna”, una donna selvaggia. Entrò e chiese qualche cosa da mangiare, ma la “cara nonna” approfittò per rinchiuderla in casa. Ad un certo punto Tüsele Marisele fu però stufa di trovarsi rinchiusa e cominciò a chiamare: «Cara nonna, aprimi!…» E la “cara nonna” di risposta: «Tira la cordicella e si aprirà». Tüsele Marisele tentò di aprire, ma non ci riuscì. Allora riprese a chiamare: «Cara nonna, aprimi, ho bisogno di fare la cacca!…» E la “cara nonna”: «Falla in mano e buttala sul muro!» Tüsele Marisele disse ancora: «No, cara nonna, ti prego, aprimi!» Allora la “cara nonna” aprì, legò la bambina ad una fune e la calò fuori da una finestrella. Poco dopo la “cara nonna” cominciò: «Hai finito?» «Ancora un po’», «Hai finito?», «Ancora un pochino», «Allora, hai terminato?», «Sì, cara nonna, ora tirami sù!» Intanto Tüsele Marisele aveva appeso un pezzo di legno al suo posto e si era dileguata. La “cara nonna” tira, tira… e tirò sù il pezzo di legno. Quando vide il 86 86 Bacher annota: «La cara nonnina, vale a dire “das wild waibe”, aveva intenzione di ingrassare il bambino e mangiarselo. La fiaba appartiene quindi, insieme alla n. 37, al gruppo Hansel-Gretel. Se ne trovano reminiscenze in Zingerle, Sagen, 44, 181, 193. La fuga del tüsele Marusele ricorda la conclusione della leggenda dell’uomo selvaggio in Zingerle, Sagen, 193». Fiabe, leggende, storielle 149 «Hasto geschist?» «Ja, liaba nona, zìame au est!» Intånto ’s Tüsele Marüsele hatt ågehenk a stökhle un is vonkånt. Da «liabe nona» ziaget un ziaget un ziaget au ’s stökhle. Bàlda da «liabe nona» hatt gesek in stokh, ìssese darzürnt un ìssen någeloaft; ma ’s Tüsele Marüsele is sa gebest vort aus in a groasa bis, bo da is gebest ’s höbe in di schöbar, un is gånt in untar das khlümmanarste schöbarle. Da «liabe nona» is gånt un hatt umgedjukht alle di groasan schöbar un hatt khött: «Àsto nèt pist untar in groas, njånka untar in khlumma, àsto nèt pist untar in groas, njånka untar in in khlumma»… hatt umgedjukht alle di groasan schöbar un in khlumma hatsen gelàtt vest. Bal se hatt gesek ke si vìnnts nèt, ìsse bidar gånt bodrùm huam zo léganar å di schua, ombróm si hatt ågehatt di zokkln. legno si adirò e uscì a rincorrere Tüsele Marisele. Ma la bambina era già lontana, in un grande prato, dove il fieno era raccolto in mucchi, ed andò appunto a nascondersi sotto il mucchio più piccolo. La “cara nonna” arrivò là e rovesciò tutti i mucchi grandi, dicendo: «Se non sei sotto quello grande, non sei nemmeno sotto quello piccolo» e rovesciò tutti i mucchi, meno quello più piccolo, che lasciò intatto. Visto che non la trovava, tornò a casa a infilarsi le scarpe, perché era uscita con gli zoccoli. Intanto Tüsele Marisele spuntò da sotto al mucchio di fieno e raggiunse il fiume. Là c’erano le donne a lavare. Ella corse a nascondersi sotto l’ampia veste di una lavandaia robusta e vi si era appena nascosta, quando arrivò correndo la “cara nonna”, la quale chiese «Non avete visto la piccola Tüsele Marisele?» «Sì», fecero le donne «l’abbiamo vista». «Dov’è andata?» 150 Luserna: c’era una volta Intånto ’s Tüsele Marüsele is khent aus von schöbarle un is gånt kan pach; sèm sòinda gebest di baibar bo da håm gebèst, un ’s Tüsele Marüsele is gånt in untar di kunsött vonar groasan bèscharen. Nèt bol àsta ’s Tüsele Marüsele is gebest logàrt, ìsta gånt da «liabe nona» un hatt gevorst: «Hattar nèt gesek ’s Tüsele Marüsele?» «Ja, – håmsa khött di baibar – bar håms gesek». «Bo is gånt»? – hatse gevorst da «liabe nona». «Ja, – håmsa khött di baibar – ’s is passàrt in pach». «Bia hats getånt»? – hatse gevorst da «liabe nona»; un di baibar håm khött: «’S hatt gesbunk un gesprunk un is übargesprunk…» Un da «liabe nona» is gånt, hatt gesbunk un gesprunk un is drinngesprunk; un alóra ’s Tüsele Marüsele is auvarkhent vo untar di kunsött von baibar un hatt khött: «Lè, lè liaba nona, du hàstme geböllt vrèssan mi, un anvétze est pìsto gånt du zo trinkha: trinkh, trinkh in pauch voll!» Ma da «liabe nona» hatt nicht mear gehöart, umbrómm si is gebest schümma dartrunkht, un ’s Tüsele Marüsele, as nèt is toat, lebet no. insistette la “cara nonna”. «Oltre il fiume» le risposero. «Come ha fatto?» volle sapere la “cara nonna”. E le donne dissero: «Ha preso le misure, poi è saltata ed è saltata oltre il fiume». Allora anche la “cara nonna” prese le misure e saltò, ma saltò proprio in mezzo al fiume. Così Tüsele Marisele uscì di sotto alle gonne delle lavandaie e canterellando disse: «La, la, cara nonna, tu volevi divorarmi e invece sei andata a bere: bevi, bevi pure fino a riempirti la pancia!» Ma la “cara nonna” non sentiva già più, perché era annegata, e Tüsele Marisele, se ai nostri giorni non è già morta, vive ancora. Fiabe, leggende, storielle 151 Racconto nr. 18 Kavortzio Cavorzio Bas bill’s muanen ’s bòrt Kavortzio? Nå, moine laüt, i boases sèlbart nèt, ma i boas ke Kavortzio hatta gehoast a statt, bo da is gebest sèm, bo da is est dar sea vo Ka1nètsch, sèm zbischnen Persan un Plaif, Kalnètsch un in pèrgle vo San Valentin, un höart bia ’s is vür khent as da est sèm ista dar sea! Vor a par hundart djar ista gebest an armar månn bo da ummar is gånt zo pèttla, un is gånt in disa statt zo vorsa éppas zo leba. Dar hatt ågeheft züntrest dar statt un is gånt fin zöbrest hèrta vorsane éppas z’ èssa, ma niamat hatten nicht gètt; un bal dar is gerift zöbrest, issar gånt fin in das lést haus un sèm hattar gevuntet an arma bittova pit soin sun, un sèm hattar bidar gevorst éppas z’ èssa, ma das arm baibe hatt nicht åndarst gehatt, bas a pissle proat z’ èssa di tchòi on si hats getoalt pitn arm månn; on bal dar hatt gehatt gèsst hattar khött: «Vorgellt’s Gott» on denna hattar khött: «Höart laüt, i möchas éppas khön: hòinta nacht barta khemmen a schaülas bèttar, ma eråndre schauget nèt aus, né pa tür, né pa vestar ombrom se nò bartas khemmen zuar éppas létzes»! … un denna hattar gètt di «guata nacht un is gånt. Balamån an ur dopo khent di nacht, hats ågeheft zo plitzega un zo tondra un zo renga bia as hatt gemök. Dat pua hatt geschauget pa vestar aus un alora issen gånt a richom in pa’nan oage un hatten darpluntet dassèl oage; on alora issen khent in sint bas da hatt khött dar månn, Che cosa significa Cavorzio? No, amici cari, non lo so neppure io. So soltanto che Cavorzio era il nome di una città che si trovava là dove ora si trova il lago, tra Pergine, Calceranica, Caldonazzo e il colle di San Valentino. Ed ora sentite in seguito a quale avvenimento oggi esiste un lago nello stesso luogo… Un paio di secoli fa un pover’uomo andava in giro a mendicare e giunse in questa città per trovare qualche cosa da mangiare. Egli cominciò dalla parte bassa dell’abitato e andò avanti mendicando fino a quella più alta, ma nessuno gli diede niente. Quando giunse nella parte più alta della città, entrò nell’ultima casa e vi trovò una vedova con un figlio. Chiese da mangiare, e la vedova, che non aveva altro che un po’ di pane per cena, lo condivise col mendicante. Quando egli ebbe finito di mangiare, ringraziò e poi disse ancora: «Sentite, buona gente, ho una cosa da dirvi: questa notte ci sarà un brutto uragano, Voi però non dovete guardar fuori, né dalla porta, ne dalla finestra, altrimenti vi arriverà addosso qualche brutto malanno». Detto questo, diede la buona notte e se ne andò. Circa un’ora dopo il calar delle tenebre cominciò a lampeggiare forte, poi a tuonare e quindi a piovere oltre ogni misura. Il ragazzo 87 87 Bacher annota: «Alcuni tratti di questa leggenda si ritrovano nelle leggende di Zingerle legate a certi laghi; ad esempio il tema della punizione per durezza di cuore verso i poveri (nn. 230, 231, 234, 631, 639)». 152 Luserna: c’era una volta un is vort-gekheart von vestar un is gånt z’ slava, er un sai muatar o. Das mòrgas, in ta’ darnå, bal sa soin au gestånt håmsa gesek nicht åndars bas bassar un nicht mear vo dar statt bas di khirch un ’s haus alùmma, bo sa drin soin gebest se åndre. Un in ta’ vo haüt ista no hèrta dar sea vo Kalnètsch sèm, bo da vor zboahundart djar ista gebest di statt vo Kavortzio. guardò fuori dalla finestra, ma si sentì trafiggere un occhio come da un succhiello al punto da restarne accecato. Gli vennero allora in mente le parole di quell’uomo e si scostò dalla finestra pieno di paura. Il ragazzo e la madre andarono quindi a letto. Al mattino seguente, quando si alzarono, non videro che acqua ed acqua intorno e, della città, niente più che la chiesa e la loro casa. E ancora oggi il lago di Caldonazzo si trova nel luogo dove duecento anni fa era la città di Cavorzio. Fiabe, leggende, storielle 153 Racconto nr. 19 Dar balt von puachan Il bosco di faggi 88 (dar puachbalt) Vor hundart un vüchtzekh djar aus ats Lavrou ista gebest a vatar bo da hatt gehatt zboa sünn. Dise zboa sünn soin gebest bravat, sa håm gearbatet di gåntzan tage af’n akhar un håm geholft soin vatar das meararste bo sa håm gemök. Balamån dar vatar is darkhrånkht un is gestorbet; ma vor dar is gestorbet, hattar gemacht testamént un hatt gelatt alls soi geplèttra soin zboa sünn, assasen toaln attimitt un assas némmen halbe vor umman, aus lassante in balt pit puachan, bo dar hatt gehatt nidar untar di khirch. Insèl, hattar khött, assarsen halt dar sun bo dasen gebinnt. Di armen puam håm asó ausgetoalt das guat un alls das åndar geplèttra, aus bas in balt. Pitn balt håmsa nèt gebisst bia zo tüana. Alora soinsa gånt kan djùditze un håm gevorst z’ sega bia sa håm zo tüana; un darsèl hatt o’ nèt gebisst bia zo lirnase, un asó soinsa gekheart bidar huam. Nå de bege håmsa khött: «Est geabar huam, un huam as bar soin, slaifparas a messar vor umman un morng, balda au-steat di sunn, geabar aus in balt un hévan å z’ straita un zo djukha au an åndar, un bér da gebinnt, mage haltn in balt, un asó håmsa getånt»: da soin gånt huam un håmen geslaift a messar vor umman, un denna soinsa gånt z’ slava. In tage darnå soinsa augestånt zo giana z’ straita, ma balsa soin gerift nåmp in Centocinquanta anni fa, a Lavarone, viveva un vecchio padre con due figli. I due ragazzi erano bravi e lavoravano tutto il giorno nel campo, aiutando il padre quanto fosse loro possibile. A poco a poco, però, questi si ammalò e poi morì, ma prima di morire fece testamento e lasciò ogni cosa ai figli con l’obbligo di dividere il tutto in parti uguali perché ciascuno avesse giusto la metà, con l’unica eccezione del bosco di faggi che egli possedeva e che si trovava a sud della chiesa. Aveva stabilito che questo bosco andasse al figliolo che se lo fosse meritato. I poveri ragazzi si divisero ogni altra cosa in parti uguali, lasciando fuori solo il bosco. Con questo non sapevano proprio come fare. Perciò andarono in tribunale e chiesero consiglio al giudice, ma neppure il giudice seppe dare loro un consiglio. Tornando a casa, lungo la strada dissero allora «Adesso andiamo a casa e affiliamo un coltello ciascuno e domattina presto, all’alzarsi del sole, andremo nel bosco a batterci col coltello, ed il vincitore avrà il bosco di faggi». Arrivarono a casa, affilarono i propri coltelli e dopo si coricarono. Il giorno successivo si alzarono all’alba per andare a battersi, ma quando giunsero nei pressi del bosco, trovarono un lago dove prima c’era il bosco. Bacher annota: «Cfr. Schneller, Märchen (Fiabe) ecc., pag. 232, Analogie anche con altre leggende legate ai laghi di ambientazione tirolese, ad es. in Zingerle, Sagen, 224, 641, in Heyl, Volkssagen, pag. 91, 92 ecc.». 88 154 Luserna: c’era una volta balt, soinsa darstånt, ombrom, invétze bas zo soinada dar balt, ista gebest a sea; un alora di puam håm nicht mear gestritet pitnåndarn un håm gelatt in sea in Kamou vo Lavrou. Um sèm dar sea ista no in ta’ vo haüt o, un drin soinda di visch, un bal da di vischar gian zo vischa, zèrte vért ziangsa no’ hèrta auvar, a tiabas a bòtta, a puachas rais. Così non ebbero bisogno di battersi e decisero di lasciare il lago al Comune di Lavarone. Quel lago esiste ancora oggi e dentro vi si trovano dei pesci, come in ogni altro lago. Quando i pescatori vanno a pescare, però, ora qua ora là pescano anche dei rami di faggio. Le forze della natura All’interno dei racconti, dei detti e dei proverbi cimbri abbondano i riferimenti agli animali. Un ottimo esempio riguarda la figura dell’orso, che nei racconti e nelle fiabe cimbre assume vari significati: oltre a possedere conoscenze riguardanti i cambiamenti del tempo e delle stagioni (Schweizer 1984, pag. 148), rappresenta tutta la varietà di rapporti che l’uomo può avere con il mondo naturale: nella fiaba delle tre Marie (n. 16), ad esempio, esso rappresenta un pericolo, tuttavia, grazie alle sue conoscenze, permette alla piccola protagonista della storia di ottenere informazioni importanti riguardo a fonti di nutrimento (nello specifico, l’ubicazione di campi di fave, carote e zucche). Esso viene tenuto a bada da una casa e ucciso con dei chiodi arroventati, entrambi fatti di ferro; questo dettaglio potrebbe simboleggiare il potere dell’ingegno umano di dominare la natura. La natura è capace di improvvisi mutamenti e grandi catastrofi, ed ha un ruolo di primaria importanza in molti racconti: ecco quindi rappresentata la peste che si avvicina a Luserna, contro cui gli abitanti non possono far altro che cercare di misurarne l’avanzata tramite dei pezzi di pane; addirittura interi boschi e villaggi possono sparire nel giro di una notte, sommersi dalle acque di un lago. Tuttavia alcuni dei fenomeni naturali sono in realtà alla portata del controllo dell’uomo, in particolare quelli atmosferici. Sono soprattutto le figure maggiormente associate al sovrannaturale (sacerdoti, streghe e stregoni) ad avere la capacità di far grandinare a comando o di portare il maltempo sul paese. Esistono poi alcuni luoghi che più di altri suscitano paura o generano credenze e superstizioni: le grotte, i crepacci e le voragini oltre a rappresentare un esempio tipico di luogo nascosto e misterioso, sono anche uno dei tramiti tra questo mondo e quello sotterraneo dei morti. In alcuni precipizi venivano gettati i corpi dei morti che non potevano essere sepolti in terra consacrata (racconto n. 20), in alcune grotte si potevano rinvenire dei tesori (n. 29) mentre in un’altra viveva Frau Pertega, una figura femminile che portava i neonati alle madri. 156 Luserna: c’era una volta Racconto n. 20 Schweizer 89 sostiene che «il citato Jakominenloch non si trova sulla carta 1:25.000, ma si apre vicino alla “Malga Tanzer”». ’s Djakominenloch odar ’s loch von Djakomii Bi dar boast, vor acht tage pinne gebest ka Slege un höart, liabe moine laüt, bas i hån gehöart khön. Balde palle pin gebest aft’s Kamporùf pinneme nidar gesotzt zo rasta un sèm soinda zuar khent zboa alte baibla un soinse nidar gesòtzt se o un i hån ågeheft zo réda von schümman béldar, bo da soin af di sèln saitn, un alora dise zboa baibla håm ågeheft zo kontara au se o: «Ja, ja, – håmsa khött – ’s soin bol schümmane béldar, ma schaülane löchar o». I, zo höara asó, pinne gebest kuriòsat un han någevorst, un alora dise baibla håm köht: «Höart, durch nåmp Gelle ista a groasar balt un af de mitt disan balt ista ’s Djakominenloch un in ditza loch djukhansa nidar alle di laüt bo da, dopo bograbet, nèt möng stian in da gebaigate earde». I, balde hån gehöart asó, hånnese ausgelacht un hån khött: «In moi lånt bograbarse alle di laüt bal sa soin toat, ma auvar von grap hånne nonet gehöart khön as da sai khent niamat». Alora dise baibar håmar khött asó: «Ja, liabes moi mentsch ’s is asó, dar La voragine di Giacomino 90 Otto giorni fa, come sapete, andai ad Asiago. Sentite un po’, mia buona gente, che cosa sentii dire. Quando arrivai a Camporovere mi fermai per riposare e due vecchiette vennero a sedersi accanto a me. Io cominciai a parlare dei bei boschi che coprivano le pendici intorno e le due donne dissero: «Sì, sì, proprio dei bei boschi, ma anche delle brutte voragini». Sentendo questo discorso, fui curioso di sapere di che cosa stessero parlando ed esse cominciarono a raccontare. «Sentite, là, presso Gallio c’è un gran bosco e nel mezzo di quel bosco c’è la “Voragine di Giacomino” e in quella voragine vengono gettati tutti coloro che dopo la sepoltura non possono restare in terra consacrata». A sentire questo risi di loro e dissi: «Al mio paese seppelliamo tutti quando sono morti, ma non ho mai sentito che nessuno sia mai risalito dalla fossa». Allora le donne replicarono: «Sì, caro, è proprio così, lo potete credere! Noi ricordiamo che ne siano stati portati due o tre». Io allora chiesi: «Ma 89 Schweizer Bruno, Le credenze dei Cimbri nelle forze della natura, Edizioni Taucias Gareida, Giazza - Verona, 1984. 90 Bacher annota: «“Nella zona di Rein la montagna delle streghe è il Pleschkogel, il cattivo ha l’aspetto di un uomo grande e grosso e selvaggio… quest’uomo pretende che coloro che gli si offrono rinneghino tutto ciò che è sacro… essi volano via dal Pleschkogel in forma di corvi e caproni, avvolti da nera nebbia, e oltrepassando Graz arrivano al Wildenberg”… (Zeitschrift für Volkskunde VII, 246)». Fiabe, leggende, storielle 157 mök’s gloam, un pa ünsarn gedenkhan håmsar getrakk schüa zboa, drai». I alora hån khött: «Un bia boastar eråndre ke ditza odar dassèl möge nèt stian in da gebaigate éarde?». Se håm khött asó: «Di laüt khemmen alle bograbet un disèln, bo da nèt möng stian in da gebaigate éarde, in tage darnå venntmase bidar obar di éarde on alora lassansase sèm fin abas pa dar nacht, un dopo khinta dar faff pit viar starche månnen un nemmen in paur un trangen vort un lengen nidar hundart mètre vor sa rivan kan loch. Gelék nidar assa håm in paur, khemmenda obar a khutta tachln, odar a khutta khree un gem au khear in paur un alls in an stroach ista vort dar paur nidar pa loch. Ren törta niamat von sèln bo da soin sèm, ombrom asda épparummandar redet, géatsen abe létz: in ’ar bòtta håm- come potete sapere quale morto non possa rimanere nella terra consacrata?» Allora mi spiegarono: «I morti vengono tutti portati alla sepoltura ma quelli che non possono restare in terra consacrata, il giorno seguente sono ritrovati sopra terra. Vengono lasciati dove si trovano fino al calar della notte quando un prete e quattro uomini robusti prendono la cassa e la portano a cento metri dalla voragine. Quando depositano la bara, arriva una schiera di cornacchie o di corvi, che danno una spinta alla cassa e in attimo questa scompare dentro alla voragine. Raccontare dei morti che sono stati portati alla voragine non è permesso, perché, se qualcuno ne parla, gli capita qualche malanno. Una volta vi portarono una donna ed uno ebbe 158 Luserna: c’era una volta sa getrakk a baibe un ummadar hatt geböllt machan lachan di åndarn un hatt gehoket: “Ho hopp”! Alora soinda khent pa loch auvar a khutta khre on soinen nå geflatart. Bi da nèt sèm bérat ghebeest dar faff pitn åndarn månnen zo helvanen, hettatnsen sichar darhakht in khopf pitn soin schnèkk». l’idea di far ridere gridando “ho hopp!” Ma in un momento dalla voragine salì una schiera di corvi che gli volarono addosso e, se non ci fossero stati il prete e gli altri uomini ad aiutarlo, gli avrebbero certamente spaccato la testa col becco». Fiabe, leggende, storielle 159 Racconto nr. 21 ’S loch von gelt Il buco del danaro Au obar ’s lånt vo Lusérn soinda di beldar von Lavròunar on sèm ista a toko balt bo dase rüaft dar Kklapf, un afte di mitt disan balt ista a loch bo da hoast “’s loch von gèlt». a)Vor vil, vil djar soinda gebest étlane mang atn platz vo Venéde zo halta a réde in laüt un sèm håmsa khött ke bén da khint a kriage di raichan laüt bogram ’s gèlt untar di éarde un denna vonkiansa aus von lånt, un assa nèt stian getöatet von soldan, assa no khearn bodrùm in 1ånt, vennensas bidar; ma assa nemear håm glükh zo keara bodrùm, ‘s gèlt géat in taüvl, un dar taüvl, bal ’s is hundart djar assar ’s hatt, léktar ’s in di sunn zo sünna; ma dar last’s nèt seng in laüt ke ’s is gèlt, a bòtta zoagetars bia a zümmale salàt, a bòtta bia an hauf schoatln, odar aspe an albar gedekht pit roasan. Un ber da sèm is zo heva un zo traga vort bas da dar taüvl zoaget, vor disan ista alls gèlt bo da is lugart sèm in sèl platz. On lai håmsa aukontart in laüt ke ’s ista a loch in an balt von Kamòu vo Lavrou, obar ’s lånt vo Lusérn, bo da is bograbet a hauf gèlt un ats vüchtzane odar sechtzane von ludjo dar taüvl lek’s aus in di sunn zo sünna. Sèm in platz vo Venéde soinda gebest vil laüt zo lüsna un tortemitt in laüt bo da håm gelüsant soinda gebest zboa månnen, bo da alle di djar soin khent zo pèrge pit soin vich in Milegrùam, un håm’s gehöart un lai håmsa gebisst bo da is ditza loch; un se soin khent zo pèrge in sèl summar o un ats vüchtzane un sechtzane von ludjo Sopra l’abitato di Luserna si stendono i boschi del Comune di Lavarone e là c’è un tratto di bosco che si chiama Khlapf e in mezzo ad esso un buco o caverna, che si chiama “buco del denaro”. a) Molti anni fa, nella piazza di Venezia, arrivarono dei maghi che parlarono con la gente e dissero che ogni qual volta che arriva una guerra, i ricchi nascondono il loro denaro sotterra e fuggono dal paese e, se non vengono uccisi dai soldati e se possono tornare al loro paese, lo ritrovano; ma se invece non hanno più la fortuna di tornare, il denaro va al diavolo e il diavolo, passati cento anni, lo espone al sole ad asciugare. Questi, però, non lascia capire che si tratta di denaro, lo mostra una volta sotto forma di una cesta di insalata, una volta come un mucchio di trucioli, o anche come un albero coperto di fiori. Chi si trova sul posto e raccoglie e porta via ciò che il diavolo mette in mostra, questi avrà il denaro ivi nascosto. I maghi raccontarono anche che c’è un buco in un bosco di Lavarone, sopra Luserna, nel quale è sepolta una quantità di denaro e il 15 e 16 di luglio il diavolo lo espone al sole ad asciugare. Nella piazza di Venezia c’era molta gente che ascoltava e c’erano anche due uomini che andavano tutti gli anni col bestiame alla malga Millegrobbe. Essi sentirono le parole e subito capirono dove si trovava 91 91 Bacher annota: «Nelle leggende tirolesi ricorre spesso l’immagine del “fiorire del tesoro” (v. Zingerle, Sagen, 515, 531, 539, 541, Heyl, Volkssagen, 8. 633 ecc.)». 160 Luserna: c’era una volta håmsa gehüatet vor in gåntz tage umme ditza loch hér. Balamån ats sechtzane abas ista hérkhent a schaüla bèttar, plitzegar, tondrar, schaur un bint un reng as ’s hatt gemacht di vort … ma se åndre soin geplibet no vùrsnen zo hüata. An lesten ista khent pa loch auvar a zümmale salat, un se håm’s gevånk un soin gånt vort. Sa soin neånka gånt mear zuar in khésarn, sa håm hintar gelatt ’s vich un ’s geplèttra bo sa nå håm gehatt, un soin geloft huam pittar zumma, un da hùam di zumma salat is lai khent ploases gèlt, ke sa håmsan gehatt genumma vor se åndre un håmsan hintar gelatt an hauf vor soine khindar o; un vor ditza ’s loch bo da fin alora hatt gehoast “’s loch von Khlapf” est khint’s gerüaft “’s loch von gèlt”. b) As pi da kontarn di altn, vor djar soinda gånt nidar pa disar tiavan höl, nidar pa éarde zboa puam zoa z’ sega bia ’s schauget aus. Sa håmen nå genump a lantèrn un, an toko nidar, håmsa gevuntet di pumandar vo toatn laüt un vo toats vich, un sa soin nå gånt nidarbart, un bal sa soin gebest an schümman tòkko tiavar, issen darlest ’s liacht. Sa håm auvargenump in vaürkhnòt un ’s zuntar un ’s vaüraisandle zo zünta ’s liacht, ma sa soin nèt gebest guat: ’S liacht hatt nemear gheböllt prinnen un sa soin nemear gebest guat zo ziaga in atn vo dar tüf bo da is gebest sèm untar, on alora soinsa gekheart bidrùm au, åna zo haba gevuntet khumma gèlt, un hån khött ke nimmar mear åndarst bartnsa nèt gian nidar in loch von gèlt. c) In ar bòtta soinda gånt drai diarnen un a pua àu in Millegrùam na radikn. Dar pua is gebest dar Paul Paulaz un di diarnen soin gebest ’s Mariale von Draiznar, di Ursula von Zètt un dar Teresì’ von Mentsch. Bal sa sin gerift ka dar hülbe quel buco e poi, nell’estate, salirono in malga e il 15 e il 16 di luglio restarono a guardare il buco per tutto il giorno. La sera del 16 luglio ci fu un uragano con lampi, tuoni, grandine, vento e pioggia da far paura… e, nonostante il cattivo tempo, essi rimasero là di guardia. Alla fine salì dalla cavità una cesta di insalata, i due uomini la pigliarono e scapparono via. Non andarono nemmeno alle casare, abbandonarono il bestiame e la roba che avevano là, per correre a casa con la cesta e, giunti a casa, quella cesta di insalata si trasformò in denaro, tanto denaro che ne ebbero a sufficienza per sé e ne lasciarono poi un mucchio in eredità ai figlioli. Per questo fatto quella caverna che si chiamava “buco del Khlapf” si chiama ora “buco del denaro”. b) Come raccontano i vecchi, anni fa due giovani scesero per questo buco sotto terra giusto per vedere come fosse là dentro. Essi presero una lanterna e, dopo esser scesi per un buon tratto, trovarono delle ossa umane e delle ossa di animali; scesero ancora per un altro tratto, ma quando furono più giù, il lume si spense, estrassero allora la pietra focaia, l’esca e l’acciarino per riaccendere il lume, ma non vi riuscirono. Il lume non voleva più ardere e anche loro non potevano più respirare per le esalazioni che c’erano. Allora risalirono senza aver trovato il denaro e giurarono di non tornare mai più là sotto. c) Una volta tre ragazze e un giovane salirono sui pascoli di Millegrobbe in cerca di tarassachi. Il ragazzo era Paolo Paolaz, le ragazze erano 162 Luserna: c’era una volta von Pontàrn, òdar von Sbånt, bia ma billar khön, soinsase ausgetoalt: dar pua un a diarn, dar Paul un di Ursula, soin gånt durch zuar in Sbånt, un di åndarn zboa diarnen soin gånt af di sait von Schrotn. Laise laise ista hér-khent a schümmas labes rengle von långes un dise zboa diarndla soinse gezoget untar a vaücht. Balamån håmsa gehöart an groasan tondrar un lai håmsa gesek a schaülas loch sèm nåmp imenåndarn, un ditza loch håmsa’s nia gehatt gesek vorånahi. Da soin gånt durch nåmp z’ sega bas vor a loch ’s is. Alls in an stroach håmsa gehöart an krèk, on lai nidar züntrest in loch håmsa gesek a schümmas naüges zümmale vol salat, un se håm geschauget hintar un vür, z’ sega be sa soin guat zo giana nidar zo nemma di zumma, ma da soin nèt gebest guat. Alora soinsa gånt z’ sega bi sa vennen di åndarn zboa, un håmse gevuntet atn Sbånt. Sèm håmsen kontart bassa håm gesek ün gehöart on lai håmsa augevånk alle pittanåndar zo giana z’ sega un zo nemma au di zumma salàt. Ma ben sa soin gebest bidrùm in in di Schrotn, håmsa gesüacht hii un her, ma né ’s loch, né di zumma, né di salat håmsase nemear gevuntet. Denna soinsa khent humman un håm’s kontart in soinen, un an altar månn hats gehöart un alora hattar khött ke sèm untar ista ’s gèlt von taüvl un in sèl tage hattar’s gelék aus zo sünna, un assa hettatn genump di zumma vor sa soin vort gekheart, hébatnsa gehatt ’s gèlt; ma est dar taüvl hatt ’s bidar genump bodrùm. Ditza is sutzédart vor sechtzekh djar ka långes un ummas von sèln diarndla, ’s Mariale von Draiznar, lebet no, in djar 1900, un is ’s Mariale von Polèz, un hattmar’s kontart no in tage vo haüt bia ’s is geschéget. Mariella Draizner, Orsola Zètt e Teresina Mantc. Quando arrivarono alla pozza della Pontara o dello Sbånt, come preferite dire, si divisero. Paolo e Orsola si diressero verso lo Sbånt, le altre due ragazze verso gli Schrotten. Piano piano cominciò una tiepida pioggerella primaverile e le due ragazze si ripararono sotto un albero. All’improvviso udirono un forte tuono e subito scorsero non lontano un brutto buco che non avevano notato prima. Andarono a vedere di che cosa si trattasse. In quel momento udirono uno schianto e in fondo alla cavità videro una bella cesta nuova piena di insalata. Guardarono qua e là di dove potessero scendere a prendere la cesta, ma scendere non era possibile. Allora andarono a rintracciare gli altri due e li trovarono sullo Sbånt. Le ragazze raccontarono ciò che avevano visto e udito e tutti insieme tornarono sul posto per vedere come arrivare a prendere la cesta di insalata. Arrivarono agli Schrotten, cercarono di qua e di là, ma la cesta d’insalata non la trovarono più. Alla fine se ne tornarono a casa e raccontarono tutto ai familiari. Un vecchio intese il discorso e disse che là sotto c’era il denaro del diavolo e che in quel giorno il diavolo lo aveva esposto alla luce del sole per asciugarlo e se le due ragazze avessero preso la cesta prima di allontanarsi dal luogo, avrebbero avuto il denaro per loro, ma oramai se lo era ripreso il diavolo. Questo avvenne sessant’anni fa, in primavera, e Mariella Draizner, una delle ragazze, vive ancora oggi (nell’anno 1900) ed è ora Mariella Paolaz: lei mi ha raccontato proprio oggi come si svolsero le cose. Fiabe, leggende, storielle 163 Racconto nr. 22 Dar Peatar schupf In an stroach soinda gebest zboa püabla vo Kalnètch, bo da håm gehatt toat di muatar, un dar vatar is gekheart zo boratase. Di stiafmuatar is gebest a znichta un hatt getånt vil létzes in khindar. In an tage dise khindar soin vonkånt un soin khent pa Laas auvar un bal sa soin gebest zöbrest, håmsa gevuntet a tiaves loch, un nidar pa disan loch ista gebest a groasar lèrch, un se soinse getzoget in untar disan lèrch un soin sèm gestånt drai tage. Balamån håmsa gehatt an schaülan hummar, assa nemear håm gemak. «Bèn», håmsa khött dise khindar, «’S is péssar asbar stèrm vo hummar bas zo giana huam». Ma dar hummar is hèrta khent mearar, un das djung hatt khött: «’S is péssar asbar springen nidar da, bas zo stèrba vo hummar». «Ja, – hats khött das alt – springbar nidar, ma spring du vorå ombrom se nò springsto nèt». «Bèn» hats khött das djung «i hån da a söale: est hengbaras å, poade pittanåndar, un du springst vorå un ziagestme nå mi o». Un asó håmsa getånt, un bal ’s is gebest zo springa, hats khött das alt: «Peatar schupf!» un das djung hatt gespèrt di oagn un hatt gètt an schupf in prüadarle, un soin gesprunk poade pittanådar pa loch nidar; ma toat soinsa nèt gestånt. Bal da di Kalnètchar håm gebarnt ke da veln di khindar, soìnsase gånt zo süacha un håmse gevuntet züntrest in loch, 92 Il crepaccio che chiamano «Pietro dà una spinta» Una volta vivevano a Caldonazzo due bambini ai quali era morta la mamma. Dopo la morte della madre però, il padre non aveva tardato a risposarsi. La matrigna era cattiva e maltrattava i bambini. Un giorno i piccoli scapparono di casa e si incamminarono su per il Menador 92; ma quando si trovarono in cima, incontrarono un crepaccio profondo nel quale era cresciuto un grosso larice. Essi rimasero sotto al larice tre giorni. Piano piano però venne loro fame, tanta fame da non poterla più sopportare. «Bene», dissero i bambini, «però è meglio morire di fame, piuttosto che tornare a casa». Ma la fame crebbe ancora e il più giovane disse all’altro: «Meglio saltar giù nel crepaccio che restar qua a morire di fame». «Sì», rispose il fratello maggiore «saltiamo giù; ma salta tu prima, se no tu poi non salti!». «Bene», disse allora il più giovane, «io ho qua una funicella: ci leghiamo insieme alla corda, tu davanti e io dietro, e, saltando, tirerai giù anche me». Così fecero e al momento di saltare il più grande disse: «Pietro dà una spinta!». Allora il più giovane chiuse gli occhi e diede una spinta al fratellino e insieme precipitarono in quella spaccatura. Però, non morirono per questa caduta. Nel frattempo, quando quelli di Caldonazzo si accorsero che i bambini mancavano da casa, cominciarono a Si tratta della strada che collega Levico con Monterovere. 164 Luserna: c’era una volta un sèm di khindar håmen khött bassa håm khött, un denna soinsa gestorbet. Un von sèl tage, dassèl loch, håmsa’s hèrta gerüaft «dar Peatar schupf». cercarli ed infine li trovarono dentro a quel crepaccio. Là i bambini diedero la loro spiegazione poi morirono. Da quel giorno la spaccatura sopra il Menador, verso Caldonazzo, venne chiamata “Pietro dà una spinta”. Fiabe, leggende, storielle 165 Racconto nr. 23 Da alt un da djung stria Vor hundart djar ìsta gebest an alta un alle håm khött ke ’s is a stria. In sai haus ìsseda gebest alùmma, un nidar nå soin haus ìsta gebest ’s haus vo soin sun. Disar sun hatt gehatt a djunges diarndle, un ditza diarndle is hèrta gånt t’ slava ka soinar nóna. Balamån in a mal ’s diarndle hatt gebarnt ke di nóna is augestånt un is gånt aus in di khuchl, denna ìsta herkhent a schaülas bèttar, un bal ’s nå hatt gelatt, di nóna is gånt bodrùm in in di in di stube, un asó is gebest vil vert pa dar nacht. Un in ar bòtta ’s diarndle hatse bidar gehöart austian, un is augestånt is o, un ìssar någånt aus in di khuchl, un sèm hats gesek ke in, untar in héart, ìsta a loch un in in ditza loch sòinda gebest a khutta üllela. Di nóna is zuargånt un hatt gemist pitnan aisran löffl nidar in a üllele, un lai hats gehöart àspe a gebruntla un denna hats nicht mear gesek. Alóra is o is gånt nåmp un hatt genump in aisran löffl un hatt gemist nidar in hévandle bo da hatt gemist di nóna, un denna is khent geheft un is gånt pa khemmech au in di bolkhnen. Denna ìsta herkhent a schaüla bèttar, un bal ’s nå hatt gelatt, hats gevuntet di nóna un denna sòinsa gekheart bodrùrn pitanåndar un soin gånt pa khemmech nidar. ‘’S diarndle hatse gesek löade zo haba getånt asó eppas, ma di nóna hats hìgesböaget, un denna hatses abe gelirnt zo macha di stria. In an tage, in vatar von diarndle, ìssen darkrånkht an oks un er hatt gerüaft La strega vecchia e la strega giovane 93 Cento anni fa viveva una vecchia da tutti ritenuta una strega. Lei viveva sola ma a pochi passi da lei viveva suo figlio. Il figlio aveva una bambina che ogni sera andava a dormire dalla nonna. Una sera, capitò che la bambina vide la nonna alzarsi e andarsene in cucina. Quando la nonna fu di là scoppiò un brutto temporale, e soltanto quando il temporale fu passato, la nonna ricomparve in cucina. Questo stesso fatto accadde più volte nelle sere seguenti. Finché una sera la bambina, che aveva udito la nonna alzarsi, si alzò piano piano e la seguì, e seguendola poté vedere che sotto al focolare c’era un buco e dentro a quel buco c’erano una quantità di pentole e pentoline. La nonna si accostò a quel buco e mescolò con un cucchiaio di ferro dentro a una pentolina di terracotta: subito la bambina sentì un borbottare e poi non vide più nulla. Allora si avvicinò anche lei al focolare, prese il cucchiaio di ferro e andò a mescolare dentro allo stesso pentolino di terracotta, e si sentì sollevare in aria e portare sù per il camino e sù fino alle nuvole. Poi scoppiò il temporale e quando questo finì la bambina ritrovò la nonna e con lei ridiscese in casa per il camino. La piccola si sentì colpevole per ciò che aveva fatto, ma la nonna la 93 Bacher annota: «Cfr. le leggende sulle streghe, ad es. Zingerle, Sagen, 714-717, Heyl ecc.». Fiabe, leggende, storielle 167 in vetrenàrio un a par månnen bódasanen ausvorstìan nå in vich, un khùmmadar hatt nèt darkhennt bas vor an béata ’s hatta dar oks. Dar vatar hatsen khött in diarndle, un is hatt khött: «E, ditza is nicht, i péssren bol i in oks» … un is khent au in haus vo dar nóna, un dar oks is lai gebest gesunt. Alóra dar vatar hats nå gevorst z’ sega bia ’s hatt getånt zo pessra in oks, un ’s diarndle hatsen khött, bia ’s hatt getånt. Dar vatar is darsrakht un is gånt zo kuntàras in faff un hatt khött ke dar ségats liabar toat sai khinn, bas zo bissa ke ’s is a stria. Un alóra dar faff hatt khött: «Ja, a schaülas sachan is bol, un àstos bill machan stèrm, lìrnede i, bia du hast zo tüana: est khìmme i zo pàichtas un zo borìchtas, un du intånto boróat an khessl voll labes bassar, un denna màchbaren an hakh in an zearn un denna lébars nidar in das labe bassar, un sèm stìrbets pitnan süasan toat». Un asó håmsa getånt, un ’s diarndle is gestorbet. Denna sòinsa gånt z’ sega vo dar nóna un håmse neméar gevuntet, ne si ne in oks in stall, un nimmarmeråndarst håmsa nèt gesek, ne di nóna ne in oks. tranquillizzò e le insegnò l’arte della stregoneria. Un giorno il padre della bambina ebbe un bue ammalato e chiamò il veterinario e un paio di uomini che se ne intendevano di animali, ma nessuno riuscì a capire di che male soffriva il bue. Egli raccontò la cosa alla figliola e la piccola disse: «Non è niente, te lo guarisco io il bue!» e andò dalla nonna e il bue guarì poco dopo. Il padre allora volle sapere come aveva fatto a guarire il bue, e la bambina glielo spiegò. Ma egli si spaventò e andò a raccontare il fatto al prete e, riferita ogni cosa, aggiunse che preferiva vedere la sua figliola morta, piuttosto che sapere che era una piccola strega. Il prete disse: «Sì, è veramente una brutta cosa e, se vuoi farla morire, ti insegno io come devi fare: adesso vengo a confessarla e comunicarla e tu intanto prepara una pentola di acqua tiepida, poi le faremo una scalfittura a un dito del piede e la metteremo giù nell’acqua tiepida: là morirà di una morte dolce». Così fecero, e la bambina morì. Poi andarono a cercare la nonna, ma non trovarono più né la nonna, né il bue nella stalla, e da quel giorno la gente del paese non vide più né la nonna, né il bue. 168 Luserna: c’era una volta Racconto nr. 24 A striarats khinn Il bimbo stregato Ma hatt gegloabet, un gloabet no haüt, vonan baibe bo da is gånt zo pèttla, ke zo làssas vortgian ena nicht zo gébanen vàllta aus eppas letzes in haus,un di laüt kontàrns no haüt. Das sèll is vürkhent asó: in an sunta, bàlda da groas miss is gest ågeheft, ditza baibe is gånt in a haus un hatt dà gevuntet a baibe pitnan djungen khinn. Si hatt gevorst eppas, as se hèrta hatt getånt, ma ’s baibe hattar nicht gemök gem, ombróm soine sbegar håm gehatt vortgetrakk alle di slüssln. Bàlsar hatt khött ditza, ìsse gånt zorne un is gånt mùrmlane aus pa tür. Vort asse is gest, hatta ågeheft t’sraiga ’s khinn un zo rìdlase au vo béata. D’arm muatar hatse propio gesek loade, si is neméar gebest guat zo sböagas hì. Si hatse provàrt alle, ma alls hatt nicht gehelft. ’S khinn is gestorbet a par tage darnå un di laüt håm gètt di schult in baibe un håm khött ke ’s is gebest a stria. Un dòpo àsta is ausgevallt dassèll sachan, bi se ånka khemmat hundart vert af an tage, alle di hundart vert gébatnsar bas se vorst, ombróm imenåndarn nìmpsen niamat aus von khopf ke ’s khinn is gestorbet pen dar stria. La gente credeva e crede ancora oggi alla storia che si racconta di una vecchia mendicante. Se la lasciavano andare, si diceva, senza farle l’elemosina, poteva capitare qualche grave malanno a chi abitava quella casa. Una storia, questa, che si sente ripetere ancor oggi. Il fatto si svolse così. Una domenica, mentre era già cominciata la messa solenne, la mendicante entrò in una casa dove trovò una donna con un bambino piccolo. La mendicante chiese l’elemosina come faceva sempre, ma quella donna (che era rimasta sola in casa) non poté darle niente, perché le sue cognate avevano portato con loro tutte le chiavi. Quando disse questo, la mendicante andò in collera e uscì dalla porta brontolando. Era appena uscita, quando il bambino cominciò a piangere e a contorcersi per un male sopravvenuto. La povera madre si considerò presto perduta, perché non riuscì più a calmarlo. Le provò tutte, ma nulla più giovò: in un paio di giorni il bimbo morì e la gente attribuì la colpa alla mendicante, sostenendo che era una strega. E dal giorno in cui accadde questo fatto, se la mendicante, oppure ogni altra come lei, fosse passata anche cento volte nella stessa giornata a chiedere l’elemosina, tutte cento le volte le avrebbero dato ciò che domandava, poiché nessuno poteva più levare loro dalla mente l’idea che quel bambino fosse morto ad opera della strega. 170 Luserna: c’era una volta Racconto nr. 25 ’S gebekslate khinn Il bambino sostituito Sèm in a lånt ista gebest a baible bo da is gånt in an tage aus ats vèlt zo arbata un hattar nå genump das djüngarste khinn, bo se hatt gehatt lai in di biage. Gerift aftn akhar, hatse nidar-gelék di biage un hatt håntgelék z’ arbata. Si is hèrta gånt vürsnen arbatante un hatt nemear umgeschauget z’ sega bas da tüat ’s khinn. Bal se hatt gehatt gerift, isse gånt bidrùm un hatt geschauget von khinn. Ma dar srakh bo se hatt gevånk is gebest groas, vénnante an ådars khinn, ombrom såi khinn is gebest ummas von Là, in uno di quei paesi, un giorno una donna si recò presso il proprio campo a lavorare e prese con sé il bambino più piccolo che aveva, direttamente con la culla. Quando arrivò al campo, depose la culla e cominciò il lavoro e continuò poi a lavorare senza più voltarsi a guardare che cosa facesse il bambino. Quando finì, tornò dal piccolo, ma fu davvero grande lo spavento nel trovarne un altro al posto del suo, perché il suo era uno dei più belli del paese e quello che aveva tro- 94 Bacher annota: «Cfr. Zingerle, Sagen, 661». 94 Fiabe, leggende, storielle 171 schümmanarstn von lånt, un dassèl, bo se hatt gevuntet in di biage, is gebest a schaülas assen hatt neånka mear gelicht, ma humman hatses gemöcht trang alls ummas. Ma si is no gebest mearar löadef, ombrom si hatt darkhennt ke ’s khinn is gest plint o. Si, un alle di laüt, håm gegloabet un gloam no haüt ke ’s hatsar ar getaust a stria aus in di èkhar. vato nella culla era invece tanto brutto da non assomigliargli neppure: a lei però non restò altro che portarselo a casa. E la sua tristezza crebbe ancora di più quando si accorse che era anche cieco. Quella donna e tutti con lei credettero e credono ancora oggi che sul campo sia stata una strega a sostituirglielo. 172 Luserna: c’era una volta Racconto nr. 26 Da geventzrate von strian Di khindar soin gebest sèm alle pittanåndar un dar barba Tita hatten àukontart a stördjele un di tånte Berbele is sèm gebest si o’ … un est billemar nemmen insèl darmüa zo khödasas aüch. In ar bòtta nidar ka Leve ista gebest an alts baibe un hatt genump a khinn vo soin sun un is gånt aus in di èkhar zo nemma a drai teng, un bal ’s is gebest aus ats vèlt, ditza baibe hatt gelék ’s khinn sèm afna zail von patatn un is gånt in pa akhar zo nemma abe di teng. Balamån hatse gehöart an sroa un si is khent bahémme bidrùm z’ sega von khinn, ma si hats nemear gevuntet aft khummana sait. Alora hatse darbist in bege un is gånt dahùam mearar toat bas lente von srakh un hatt kontart soin sun bas da is vür khent. Un dar sun hatt darbist in bege un is gånt in Kamu zo pitta assen helvan zo giana zo süacha ’s khinn. In biane zait, alle di laüt vo Leve soin gebest ummar zo süacha: a toal soin gånt pa èkhar, a toal pa béldar, un a toal soin gånt in pa sea zo vischa; ma alle håm gemöcht khearn bidrùm åna khinn. In ta’ darnå soinsa bidar gånt zo süacha’s, ma niamat hats nèt gevuntet. Drai tage håmsa’s gesüacht un an lestn håmsa geschauget au atn pèrge in fronte un håm’s gesek drin in a sluaf; ma zo giana zuar zo nemmas, soinsa nèt gebest guat. La bambina abbandonata dalle streghe 95 I piccoli erano tutti là riuniti e lo zio Tita raccontò loro una storia. Fra i bambini c’era anche zia Berbele, che in seguito mi riferì ogni cosa. E, adesso, proverò io a ripetere il racconto per voi. C’era una volta, giù a Levico, una vecchia che, presa la bambina di suo figlio, era andata nel campo per raccogliere fagiolini. Giunta nel campo aveva deposto la piccola in un solco di patate ed era andata poi avanti spiccando fagiolini. Dopo un po’ udì un grido, andò a vedere la bambina, ma non la ritrovò più in nessun luogo. Alla fine si rimise in cammino e tornò a casa, più morta che viva per lo spavento, e corse a raccontare al figlio ciò che era accaduto. Il figlio allora andò subito al Comune a chiedere che lo aiutassero a cercare la sua piccola. In un momento, tutta la gente di Levico fu in giro a cercare: una parte s’incamminò attraverso i campi, una parte nei boschi e una ancora andò a cercare nelle acque del lago: ma tutti dovettero tornarsene a mani vuote. Il giorno dopo andarono ancora a cercare, ma nessuno trovò la bambina. Per tre giorni cercarono e alla fine guardarono sù verso la parete del monte “di fronte” e la scorsero là, dentro a una fessura: ma raggiungerla 95 Bacher annota: «Reminiscenze della leggenda in Zingerle 28, e anche di una leggenda slesiana (Zeitschrift für Volkskunde IV, 454)». 174 Luserna: c’era una volta Alora soinsa gånt nidar ka Leve un håm genump kubln un soin gånt au obar disarn steel un håm ågepuntet an månn un håmen nidar molart, un er hatt genump ’s khinn in an arm, denna hattar gètt an zukh in di kubl un di sèln, bo da soin gebest àu aft da obar sait, håmen augezoget. Un baldar au is gebest, håmsa gevorst ’s khinn, z’ sega berdas hatt vort getrakk, un ’s khinn hatt khött: «’S ista khent a schümmana vrau un hattme ingemudlt in a schümmana dekh un hattme getrakk au in da sèl steel, bo dar me hatt gevuntet»… Un di laüt håm gevorst vürsnen bassen hatt gètt z’ èssa, un ’s khinn hatt khött: «Si hattmar gètt güllans proat un öpfl». un alora håmsa darbist in bege un soin khent humman pitn khinn. Di laüt però håmen alle pensart ke ’s soins gebest di strie bo das vort håm getrakk, un von sèl tage håmsa’s alle gerüaft «da gevéntzrate von strian». fin lassù era impossibile. Allora tornarono a Levico a prendere delle corde e poi salirono in cima al monte, giusto sopra la parte rocciosa, legarono un uomo alla corda e lo calarono lungo la parete. Egli riuscì a prendere la piccola in braccio, poi diede uno strattone alla corda e quelli che erano in alto lo tirarono sù. Quando arrivarono in cima, chiesero tutti alla bambina chi l’aveva portata via e lei rispose: «Venne una bella signora, mi avvolse in una bella coperta e mi portò sù sulle rocce dove voi mi avete trovata». Domandarono ancora che cosa le aveva dato da mangiare, e lei disse: «Mi diede pane d’oro e mele». Ripresero poi la via verso casa, ma la gente pensò che erano state le streghe a portarsi via la bambina e da quel giorno la chiamarono “la piccola abbandonata dalle streghe”. Fiabe, leggende, storielle 175 Racconto nr. 27 Dar alt striu’ Il vecchio stregone In ar bòtta soinda gebest a månn un a baibe, bo da håm gehatt a diarndle. Dise drai laüt soin gelebet pittanåndar as pi drai éngldar. Denna ista gestorbet dar månn un hatt hintar gelatt di bittova pittar tochtar. Dise zboa laüt soin o gelebet as pi di guatn laüt. In an mal issen gånt zuar a schaüladar loskatar altar månn un hatten gevorst herbege, disan zboa laüt. «Ja», håmsa khött dise zboa laüt «bar bartnas leng éppas aftna sait». Denna håmsen gètt éppas z’ èssa un denna håmsen gelék au in a khåmmar z’ slava. In tage darnå dar månn is augestånt un is gånt ummar pa béldar zo lesa au gegres, un bal ’s is khent nacht, issar bidar khent z’ slava, un asó hattar getånt éttlane tage umman nå in åndar. Pittar zait di zboa laüt soin khent stüfo zo haba sèm disan alt månn un in an abas di muatar hatten khött: «Est, moi mentsch, möchtaras süachan an åndarn quartiaro, ombrom di khåmmar nützese i selbart». Un alora dar månn hattar khött: «Guat, est pinne vérte i o; i gea vort, ma vor de gea, khümar bassedar pin schulle vor disa zait, bo do mar hast get z’ slava». «Nicht», hats khött ’s baibe, «i bill nicht». Un alora dar månn hatt khött: «Guat, ma éppas möchedar gem alls C’erano una volta un uomo e una donna con una figlioletta, tre persone che vivevano insieme come tre angeli. Poi morì il padre, lasciando la vedova con la figlioletta. Anche loro due vissero come la buona gente. Una sera si presentò da loro un brutto vecchio guercio per chiedere alloggio. «Sì», dissero le due donne «in qualche luogo vi metteremo». Gli diedero intanto qualche cosa da mangiare e poi lo condussero in una camera a dormire. Il giorno dopo quell’uomo si alzò e andò in giro per i boschi a raccogliere erbe, ma al sopraggiungere della notte tornò ancora a dormire da loro e così fece per giorni e giorni, uno dopo l’altro. Col passare del tempo le due donne si infastidirono di aver in casa il vecchio e una sera la madre gli disse: «Ora, mio caro, dovrete cercarvi un altro alloggio, perché quella camera occorre proprio a me». L’uomo disse: «Bene, anch’io ho finito e me ne vado, ma prima di partire dimmi che cosa ti devo per tutto il tempo che mi hai ospitato». «Niente», rispose la donna «non voglio niente». Allora l’uomo disse: «Bene, ma qualche cosa ti devo pur dare…» e le presentò un pentolino di terracotta, dicendo: «Prendi questo pentolino e quando vorrai far venire un temporale, piglia un cucchiaio di ferro e rime- 96 96 Bacher annota: «Un carrettiere con un cavallo zoppo, in Zingerle, Sagen, 70. Spesso nelle leggende tirolesi la morte di persone vicine è annunciata in questo modo (Zingerle 70-72, 77, 79, 81, Heyl 403, Schneller 210, 4 e 212, 7». 176 Luserna: c’era una volta ummas» … un hattar gètt a kréadas üllele, un hatt khött: «Sea ditza üllele, un baldo bill asta zuar khemm a schaülas bèttar, nimm an aisarn löffl un misch pit disan nidar in de ulla un khü: Onto bisonto Soto tèra skonto; Varda de no tokar Né de qua, né de là! Frrr au pa khemmech …» Un lai disar månn is gånt au pa khemmech, un se håmen nimmar mear åndarst gesek. Di tochtar intånto asta is vürkhent ditza, isse vort gebest un bal se is khent humman, di muatar hatsar khött. Di diarn is darsrakht zo höara asó, ma da alt is gebest alla luste zo haba di ulla. A drai djar spetar di diarn issese boratet un hatt genump in sun von an birt. In an tage disa spusa is gebest kan héart zo khocha in vormas. Da ista khent a rössnar pit an tchotatn ross un hattar sta col cucchiaio nel pentolino pronunciando le parole: Onto bisonto Sòto tèra scònto, Varda de no tocàr Né de qua, né de là Frrr via pal camin…» Nello stesso momento l’uomo sparì sù per il camino e non lo videro poi mai più. Mentre accadeva questo la figlia era lontana e quando tornò, la madre le riferì ogni cosa. La ragazza si spaventò nel sentire la cosa, ma la vecchia fu contenta di possedere la pentolina. Dopo circa tre anni la ragazza si sposò con il figlio di un oste. Un giorno questa sposina si trovava al focolare per preparare il pranzo, quando arrivò un carrettiere con un cavallo zoppicante che le chiese da bere e che poi le raccontò che era stato preso dal- Fiabe, leggende, storielle 177 gevorst zo trinkha, on denna hattar khött, ke dar is asó darsrakht khemmante au pan lest stikhlate bége, ombrom dar hatt gehöart hokn au in air on khön: «Ho, månn pitn sèl dartchotate ross, khüdar dom, darsèln schümman spusa in lånt, ke di Pitza-Patza is toat in Haag». ’S baibe is khent ploach a be di maur, ombrom di Pitza-Patza is gebest soi muatar, un hatt lai gebèkslt ’s vürta un is gånt z’ sega bida soi muatar is da hùmman. Ma si hatt gevuntet ’s haus ler un di ulla von alt hatsese gevuntet au aftn héart un nidar nå dar ulla ista gebest dar aisran löffl, un sèm hatse darkhennt ke di muatar is gånt pa khemmech au, un si hatt augevånk un is gånt in Haag un sèm hatse gevuntet soi muatar toat; un dassèl is gebest dar gebinn bo sa håm gehatt zo geba di herbege in sèl schaüla loskate alt månn; ombrom invétze bas z’ soina a månn as pi alle di åndarn, issar gebest a striù. 97 lo spavento sull’ultima rampa del sentiero, perché gli era stato gridato dall’alto: «Oh, uomo con quel cavallo zoppo, dì alla bella sposina della taverna sù in paese, che la Pizza-Pazza è nel Lanzì 97 morta». La giovane sposa si fece pallida come la parete all’udire questo, perché la Pizza-Pazza era sua madre. Si tolse subito il grembiule e corse a vedere se sua madre era a casa. Ma trovò la casa vuota, mentre la pentolina del vecchio era sopra il focolare e vicino ad essa anche il cucchiaio di ferro. Da questo capì che sua madre se ne era andata su per il camino. Lasciò la casa e corse al Lanzì e là giunta, trovò sua madre morta. Questo era stato il grande guadagno che le due donne avevano fatto accogliendo e ospitando quel brutto vecchio guercio, il quale invece che essere un uomo come tutti gli altri, era uno stregone. Ci si riferisce alla vecchia strada del Lanzino che da Caldonazzo saliva verso Lavarone. 178 Luserna: c’era una volta Racconto nr. 28 Di poadn dekåne I due decani Dar dekåno vo Leve is gånt in an stroach zo venna in dekåno vo Pèrsan. Sèm håmsa gerédet von bèttar un dar dekåno vo Leve hatt khött, ke dar is guat zo macha hér khemmen a schaüla bèttar, un dar sèl vo Persan hatt khött ke er , assar bill, issar guat zo machas schaurn alls in soin hof. Dat dekåno vo Leve hats nèt geböllt gloam un is gånt humman. Dar dekåno vo Persan hatt khött denna kan mesnar: «Schauge, das earst bölkhnendle bo du sist, aimar lai zo rüava!» Khurtza zait dopo issar gånt dar mesnar zo rüavanen, ombrom ’s hatt ågeheft zo gehilbase. Dar dekåno is gånt ats vestar pitn libar in de hént un hatt gesek khemmen zuar a schaüla bèttar. Alora hattaren umgelék di stòla un hatt ågeheft zo baiga ’s bèttar. A fortza zo baiga hattar gesbitzt as bia an oa. Dar schaur is khent, ’s hatt parirt ke ’s billda valln di bèlt, un bal’s nå hatt gehatt gelatt, hattar geschikht in mesnar z’ sega bo da is gevallt dar schaur. Dar mesnar hatt gevuntet in schaur alln in hof, un drin attimitt in dekåno vo Leve toat. Il decano di Levico andò una volta a trovare il decano di Pergine e là insieme parlarono del tempo. Il decano di Levico disse che era capace di provocare un temporale e quello di Pergine disse che egli, se avesse voluto, era capace di far grandinare e far cadere la grandine tutta nel suo piazzale. Il decano di Levico non gli volle credere e tornò a casa. Il decano di Pergine disse al sacrestano: «Sta attento, alla prima nuvola che vedi corri subito a chiamarmi». Poco dopo il sacrestano andò a chiamarlo perché aveva cominciato ad annuvolarsi. Il decano, allora, corse alla finestra con il suo libro aperto nelle mani e vide avvicinarsi un temporale. Indossò subito la stola e cominciò a benedire il temporale e a forza di benedire sudò come un uovo. La grandine venne, anzi pareva che con essa volesse cadere il mondo intero, e, quando cessò, il decano mandò il suo sacrestano a vedere dove era caduta. Il sacrestano trovò che era caduta tutta nel piazzale della chiesa, ma là in mezzo alla grandine c’era anche il decano di Levico morto. 98 Bacher annota: «Heyl S. 415 ff». 98 180 Luserna: c’era una volta Le figure dell’immaginario Da sempre lo stretto contatto dei popoli alpini con l’ambiente naturale, determinato dalla necessità di sopravvivenza in condizioni spesso sfavorevoli, ha spinto gli abitanti delle zone montane a sviluppare un’attenzione estrema verso tutti i fenomeni improvvisi e mutevoli che le caratterizzano. Una tale simbiosi fra natura e uomo ha spinto quest’ultimo a spiegare gli eventi incontrollabili che costituivano una presenza costante della sua esistenza attraverso la creazione di figure dell’immaginario, come per esempio mostri, spiriti, uomini selvatici, streghe e vampiri. I più importanti agenti del sovrannaturale presenti nei racconti cimbri, vale a dire le streghe e gli stregoni, condividono in tutte le storie che li riguardano alcune caratteristiche distintive. Innanzitutto possiedono la capacità di volare; essi tuttavia non si affidano alla classica scopa, ma volano soprattutto sbattendo un cucchiaio di ferro in un tegame posto sopra un focolare (racconti nn. 23 e 27). Con gli stessi strumenti spesso generano temporali e maltempo, un potere che dal punto di vista simbolico viene considerato sempre in negativo (a riprova di questo, l’unico racconto in cui i temporali non sono scatenati da streghe ma da due decani, si conclude drammaticamente con la morte di uno di essi, come nel racconto n. 28); tuttavia in alcuni casi le streghe agiscono anche aiutando gli altri, per esempio curando bestie malate. A streghe e stregoni viene riconosciuta la capacità di scagliare maledizioni in grado di far ammalare e morire le persone (racconto n. 24). In generale comunque queste figure di chiara origine precristiana vengono raffigurate come antagoniste, e spesso la loro sconfitta per mezzo della Chiesa: che si tratti dei consigli di un sacerdote esperto, o del colpo inflitto dal batacchio di una campana benedetta (racconti nn. 7, 8, 23), l’intervento divino risulta sempre risolutivo. Altri elementi che confermano l’origine pagana delle streghe è l’attribuzione di comportamenti che nella tradizione celtica e germanica erano caratteristici del popolo fatato, come il rapimento o la sostituzione dei neonati e dei bambini (racconti nn. 25 e 26). Il fenomeno del vampirismo, nei racconti di Luserna, vede come protagoniste esclusivamente le donne. Inoltre pur succhiando il sangue degli uomini, le vampire non sono delle defunte che tornano a cibarsi dei vivi, ma persone in carne ed ossa. Le loro vittime vengono sopraffatte da una sensazione di paralisi e soffocamento, e gradualmente perdono le forze al punto da non riuscire a reggersi in piedi. In realtà però questi uomini vengono assaliti dalle vampire in forma di spirito: esse infatti sono in grado di abbandonare temporaneamente il proprio corpo fisico, che rimane inerte e insensibile, e spesso la loro anima è visibile in forma di calabrone o gatto. Essa inoltre ha la facoltà di mutare forma.Tutti questi elementi ricordano fortemente il mito delle succubi, spiriti che tormentano in sonno gli uomini. In nessun caso si accenna al fatto che le vampire debbano essere distrutte, né tantomeno esorcizzate in alcun modo; nel caso di una vampira sposata con un fabbro, egli Fiabe, leggende, storielle 181 si limita ad imporre la propria autorità e a farle promettere solennemente di non succhiare più il sangue a nessuno. Questo permette di comprendere come probabilmente la figura della vampira sia una metafora per indicare le donne adultere, colpevoli di infrangere l’equilibrio sociale. Nel suo testo “Le credenze dei cimbri nelle facoltà soprannaturali dell’uomo” Schweizer sostiene che «la sua anima abbandona il corpo per succhiare il sangue ad altri umani, durante l’uscita giace come morta, non sente né prova nulla. Ma l’anima può essere vista da terzi casualmente presenti, o dal vampirizzato stesso. È rappresentata come uno stelo di paglia, un calabrone, un gatto, un cavallo, una lucertola.[…] Per il vampirizzato è di grande importanza scoprire la persona della vampira assalitrice, perché, appena sa chi è, quella non ha più alcun potere su di lui ed egli può ottenerne soddisfazioni sotto minaccia di gravi sanzioni». 182 Luserna: c’era una volta Racconto nr. 29 ’S snàidrarle Il sartorello In an stroach ista gånt a püable von Mütz in pa pèrng na povòi. Bal ’s is gebest in aft’n Kostesì sòinen zuargånt zboa månnen un håms gevorst z’ sega bés boast bo da is di Ròkka Tåmpf un ditza püable hatt khött: «Ja, ja, liabe moine månnen, i bóases bol; khent pit miar, i zóasas». Un alóra dise zboa månnen soin gånt pitn püable, un bal sa soin gebest nåmp dar Ròkka, håmsa gehöart alls a gelürna, àssen håm gemöcht schoppn di oarn zoa nèt zo khemma surdat. Un bàlda nå hatt gelatt ’s gelürna, håmsa khött di månnen: «Gea est, snàidrarle, gea vórånahì, un zóagas di Ròkka est». Un ’s püable is gånt vórånahì un is gånt in pa Ròkka, un di månnen sòinen någånt. Bal sa soin gebest in attemìtt dar Ròkka sòinsa neméar gebest guat zo giana vürsnen, ombróm attemìtt håmsa gevuntet an hauf slakkn, un alóra dise månnen håm khött kan püable: «Bèn, snàidrarle, est is genùmma, betar in géabar nèt; est nìmmdar au épparùmmana vo disan slakkn!» Un ’s püable hatt ågeheft zo lacha un hatt khött: «O némpsas nor eråndre di khnotn; i bill khummane, i gea est». Un alóra di månnen håmen gètt a sbåntzega un vünf slakkn, un håm khött: Una volta un ragazzo della famiglia Moz andò sù alle malghe in cerca di ricotta. Giunto alla malga Costesìn, gli si accostarono due uomini per chiedergli se sapeva dove si trovasse la “Rocca Tampf”. Il ragazzo rispose: «Sì, sì, cari, lo so. Venite con me e vi indicherò il luogo». I due andarono con lui. Quando furono presso la Rocca, udirono una forte esplosione, così forte che dovettero tapparsi le orecchie per non diventare sordi. Quando il rumore cessò, i due dissero al ragazzo: «Adesso va, sartorello, va avanti e mostraci la Rocca»! Il ragazzino andò avanti, dentro alla caverna, e gli uomini lo seguirono. Ma giunti circa a metà della caverna, non poterono più proseguire, perché a quel punto c’era un mucchio di schegge. Allora dissero al ragazzo: «Bene, sartorello, a noi basta così, oltre non andiamo. Tu prenditi pure un po’ di queste schegge!» Egli cominciò a ridere e disse: «Oh, prendetevele voi quelle pietre, io non ne voglio. Io torno a casa». Allora quegli uomini gli misero in mano una svanzica d’argento 100 e cinque schegge, e dissero: «Bene, adesso va pure, sartorello». 99 Bacher annota: «Il carbone si trasforma in metallo nobile: Zingerle 197, 328, 541-543; Heyl S. 35, 39; 256-257, 515, S2 620, 86». 100 La svanzica era una moneta d’argento da 20 kreuzer in uso nell’impero austriaco e quindi anche nei territori italiani come il Regno Lombardo Veneto e anche diffusa in altre zone d’Italia. Il nome deriva dalla italianizzazione del tedesco zwanzig ovvero venti. La svanzica, equivalente alla lira austriaca, divenne la moneta più comune nel Regno Lombardo Veneto a partire dal 1823, quando ne fu aumentato il cambio legale da 86 a 87 centesimi italiani, e questo ne provocò un maggiore afflusso dalle altre provincie dell’impero austriaco. 99 184 Luserna: c’era una volta «Bèn gea est, snàidrarle!» Denna ’s püable hatse någevorst zo bissa ombróm sa khön «snàidrarle», un di månnen håmen respùndart: «Gea, gea, du barst khemmen a snàidrarle». ’S püable iz auvarkhent vo dar Ròkka un is gånt durch, hintar a vaücht, zo schauga zuar, z’ sega bas da tüan di månnen, un sèm hats gesek ke sa håm augenump an sakh voll slakkn vor umman un soin gånt. Alóra ’s püable is gånt humman is o. Bal’s is gebest humman, hats auvargenump di slakkn zo zóagase soin laüt un invétze bas z’ soina slakkn, sòins gebest vünf tölar. Denna sòinda hìgånt a drai, viar djar un guate laüt håm gehélft in püable pitnan pissle gèlt, un alóra ’s püable is gånt zo lirna zo macha in snaidar; un vo sèm sòinda auvarkhent di Snàidarla, bo da no soin in in ta’ vo haüt ats Lusérn. Il ragazzino chiese allora perché lo avevano chiamato “sartorello”, ed essi gli risposero: «Va, va, tu diventerai un sarto!» Allora uscì dalla caverna, ma andò a nascondersi dietro ad un abete, per vedere che cosa facessero. E vide che presero un sacco per ciascuno di quelle schegge e poi si allontanarono. Allora andò a casa anche lui e quando arrivò a casa estrasse le cinque schegge per mostrarle ai suoi. Ma non erano più schegge, erano cinque talleri. Passarono quattro o cinque anni e qualche buona persona gli venne in aiuto con un po’ di denaro. Così il giovane poté andare ad imparare il mestiere del sarto e da questo figlio della famiglia Moz discesero gli Schnaidarle, “sartorelli”, che ancora ai nostri giorni vivono a Luserna. Fiabe, leggende, storielle 185 Racconto nr. 30 Di trut La vampira In an stroach ista gebest a djunges naüges par spusan, un in an mal soinsa gånt z’ slava un, in pétt assa soin gebest, håmsa gehöart gian laise laise pa stube in, un alls in an stroach dar spus is nemear gebest guat né to mövrase, né zo réda, un hatt ågeheft zo khraista. Di spusa hatsan gebarnt un hatten gètt an schupf un asó er hatse bidar gemök rüarn un hatt bidar gemak redn, un hatt khött ke, bal sa håm gehöart gian pa stube in, alls in an stroach issen gesprunk éppas aftn laip, un denna issar nemear gebest guat né zo mövrase né zo réda un, bals’en hatt gètt in schupf, is bidar vort gånt, dassèl sber sachan bo dar hatt gehatt aftn laip. Di spusa hatt gelüsant un hatt neånka si gebisst basses is dassèl. In tage darnå soinsa augestånt dise zboa laüt un denna håmsasar khött dar muatar von spus, un si hatt håntgelék zo lacha un hatt khött ke ’s is di trut. Abas, balsa soin gånt t’ slava is bidar vürkhent as bi ’s mal in ta’ vorå, un asó is sutzédart étlane tage, un dar spus is hèrta khent z’ stiana létzar, ombrom di trut hatten getutslt ’s pluat. In an mal dar spus, invétze bas zo giana t’ slava, issarse augeluant nå dar tür vo dar stube pit an kavitz von ross in de hent, un di spusa is gånt in pétt. Balamån hattarse gehöart gian, di trut, pa stiage au, un er, bal se is gebest C’era una volta una giovane coppia di sposi. Una sera andarono a dormire, ma appena furono a letto sentirono qualche cosa entrare piano piano nella stanza e all’improvviso lo sposo non riuscì più né a muoversi, né a parlare, e cominciò a mugolare. La sposa se ne accorse e lo scosse; allora egli tornò a muoversi e a parlare e disse che quando avevano sentito quei passi nella stanza, qualche cosa gli era balzato addosso all’improvviso e non era più riuscito né a muoversi, né a parlare. Poi, invece, quando lei lo aveva scosso, quella cosa che gli pesava addosso se ne era andata. La sposa lo ascoltò, ma neppure lei sapeva di che cosa si trattasse. Il giorno dopo i due si alzarono e raccontarono l’accaduto alla madre dello sposo: la madre cominciò a ridere e spiegò che si trattava della vampira. Le sere seguenti, quando i due giovani sposi si coricavano, accadde loro la stessa cosa. Inoltre, lo sposo si sentiva sempre più indebolito e privo di forze, perché la vampira gli succhiava il sangue. Una sera però lo sposo, invece di mettersi a dormire, si appoggiò alla porta della stanza con una cavezza da cavallo nelle mani, mentre la sposa si era coricata come al solito. 101 101 Bacher annota: «Zingerle 184, 817, Schneller 12, 3, Heyl 288, 106, 289, 107, 430-431, nonché Laura Weinhold, Schlesische Sagen (Leggende slesiane) 5, 6 (Zeitschrift für Volkskunde VII, 103-104). L’imbrigliamento e la trasformazione della vampira in un cavallo che poi viene ferrato è nota anche a Paznaun (v. Hauser n. 19. Anche la conclusione, nella quale il cavallo ferrato si rivela essere la moglie del fabbro, coincide esattamente con la versione lusernese); cfr. anche Heyl 5, 37, 46». 186 Luserna: c’era una volta atte tür, hattarar vürgelék di kavitz, on di trut is gånt in di kavitz un is khent a ross. Un alora dar spus is gånt zo rüava in schmitt zo boslaga di vüas von ross. Dar schmitt is augestånt von pétt un is gånt un hats boslak, un denna issar bidar gånt huam un sem hattar gevuntet soi baibe in pétt bo da hatt gebéabet vo béata ombrom ’s is gebest si di trut; un lai as pi dar hatt gehatt ingemèkket di negl in di vüas von ross, soinda gebest ingemèkket di negl in di hént un in di vüas vo soin baibe. Bal dar hatt gesek asó, dar schmitt is gekheart bidrùm kan spus, un hatten gepittet, assaren las ausziang di negl von ross, ombrom senò soi baibe möcht stèrm vo beata in di hént un in di vüas. Asó håmsa darkhennt ber ’s is di trut, un dar schmitt hatt gemöcht vorhoasan in spus zo straita zuar soin baibe zoa as nemear gea zo tutslanen ’s pluat. Poco dopo, l’uomo udì la vampira salire le scale e quando quella fu sulla porta della stanza, egli le mise addosso la cavezza. Con la cavezza sul capo la vampira si tramutò in cavallo. Lo sposo, allora, andò di corsa a chiamare il fabbro per far mettere i ferri al cavallo. Il fabbro si alzò da letto e corse a ferrare il cavallo. Quando ebbe finito, tornò a casa, ma, trovò sua moglie nel letto che gemeva di dolore, perché era lei la vampira ed egli, avendo conficcato i chiodi negli zoccoli del cavallo, li aveva conficcati nelle mani e nei piedi di sua moglie. Quando egli si rese conto di quello che era accaduto, tornò di corsa dallo sposo e lo pregò di lasciargli estrarre quei chiodi dagli zoccoli del cavallo, perché, in caso contrario, sua moglie sarebbe morta per il dolore che provava alle mani e ai piedi. Fiabe, leggende, storielle 187 Denna hattaren aus gelatt ziang di negl von ross un hatt vorzaiget; dar schmitt is gånt humman un hatt ingemèkket an nagl in di maur un hatt khött kan baibe, bal se hatt lust zo tutchla in de laüt, asse géa zo tutchla in nagl, un asó hatse getånt un is nimmar mear åndarst gånt zo tutchla in spus. In questo modo, riuscirono a scoprire la vera identità della vampira ed il fabbro dovette promettere allo sposo che si sarebbe imposto alla moglie e che le avrebbe proibito di andare ancora a succhiargli il sangue. Dopo essersi accordati in tal modo, lo sposo permise al fabbro di togliere i chiodi al cavallo e così quindi anche alla moglie del fabbro che perdonò per l’accaduto. Il fabbro tornò a casa e conficcò uno dei chiodi nel muro e poi disse alla moglie che ogni qualvolta fosse stata presa dal desiderio di andare a succhiare il sangue alla gente, andasse invece a succhiare quel chiodo. La donna fece così e non si recò mai più da quello sposo a succhiargli il sangue. 188 Luserna: c’era una volta Racconto nr. 31 A diarn bo da is gebest a trut In ar bòtta soinda gånt zboa diarnen von an pèrge nidar, zo giana in a tal ka nar mül zo nemmanen a karge mel. Balsa soin gebest ka dar mül, håmsa gekhoaft ’s mel, un denna håmsa’s augenump un soin gekheart bidrum. Balsa soìn gebest aft ’z halbe in perge, håmsa nidar gelék di karge zo rasta un ummana is intslaft un lai issar khent a bubo pa maul auvar, un denna isse sèm gestånt as pi a toata. Da åndar diarn, bal se hatt gesek asó, isse darsrakht un hatt ågevånk to schüttla un zo rüava dar intslavatn; ma da intslavate issese nèt gemövart, ombrom si hatt nicht gehöart. A pissle spetar issar bidar gånt dar bubo in maul un pa hals nidar, un denna isse darbékht. Alora da åndar diarn hatse ghevorst z’ sega bas-vor-an béata si hatt, asse sèm is gebest a söllana baila as be a toata, un dasèl bo da is gebest intslaft, hatt khött: «Bèn, i khüdar ’s, ma i pitte, khü ka niamat nicht: i pin a trut un balde pin gebest intslaft, pinne vortgebest zo tutsla ’s pluat von an månn au in ünsar lånt». Da åndar diarn hattar vorhoast zo khöda nicht ka niamat, un denna soinsa khent huam. A drai djar spetar dise zboa diarnen håm gehatt éppas to khöda pitn’åndar, un alora hatsesar khött sèm, bo da soin gebest a khutta laüt, un hatt khött: «Sbaige du un khü nèt au in åndarn ombrom as ma bill khön as pi ’s is, du pist a trut». Un alora da åndar is vort gekheart gaülane un hatt nimmar mear gestritet pit niamat. Una ragazza vampiro 102 Una volta due ragazze di una malga scesero a valle per fare rifornimento di farina presso un mulino. Arrivate al mulino, comprarono la farina e poi presero la via del ritorno. Quando furono a metà strada deposero il carico per riposare e una di loro si addormentò e poco dopo un calabrone le uscì dalla bocca e la ragazza rimase a terra come fosse morta. L’altra giovane si spaventò nel vederla in quelle condizioni e cominciò a scuoterla e chiamarla, ma la ragazza addormentata non si mosse, perché non sentiva nulla. Passato poco tempo, quel calabrone le ritornò in bocca e le scese nella gola. La ragazza si svegliò. La compagna volle allora sapere di cosa soffrisse per rimanere tutto quel tempo come morta, e la ragazza le spiegò: «Bene, te lo dirò, ma ti prego di non farlo sapere a nessuno: io sono una vampira e quando mi addormentai, andai a succhiare il sangue di un uomo sù al nostro paese». La compagna promise di non riferire la cosa a nessuno, e insieme tornarono alla malga. Tre o quattro anni dopo le due ragazze ebbero motivo di litigare davanti a tanta gente e furono dette queste parole: «Taci e non insultare gli altri, perché, se vogliamo dire la verità, tu sei una vampira!». Allora la giovane se ne andò piangendo e da quel giorno non litigò più con nessuno. Bacher annota: «Nelle “Schlesische Sagen” di Laura Weinhold (Zeitschrift für Volkskunde Vii, 104) è un topolino bianco, che esce alla mezzanotte e al battere della prima ora sparisce di nuovo nella tana». 102 190 Luserna: c’era una volta Racconto nr. 32 Di püalen bo da is a trut La fidanzata respinta perché vampira 103 In ar bòtta ista gebest a pua un a diarn, zboa püal. Dise zboa laüt håmse gehaltet gearn anåndar. Balamån dar pua hatt ågevånk zo giana ummanåndar pitn tschelln in di åndarn haüsar, un in an mal issar gånt in a haus, un sèm håmsen au khött létzes vo soindar püalen, un in tage darnå issar gånt zo vénna disa diarn, un si hatten gevorst z’ sega bo dar is gebest alla disa zait bo dar se nemear is gebest zo venna. Un dar pua hatsar khött, un lai hattar khött ke hoint is das lest mal bo dar se geat zo vénna, ombrom er billse nèt. C’erano una volta due giovani innamorati che si volevano bene. Con l’andare del tempo il ragazzo andò in giro cogli amici e passò qualche sera in casa di altra gente. Una sera capitò in una casa dove qualcuno sparlò della sua fidanzata. Il giorno dopo si recò da lei ed ella volle sapere dove era stato tutto quel tempo in cui non era più andato a trovarla. Il giovane glielo disse, ma aggiunse anche che quella era l’ultima sera in cui le faceva 103 Bacher annota: «Le streghe (a Luserna anche le Truten) sono rappresentate spesso come gatti, v. Zingerle 740 e il liwof. processo alle streghe in Stiria (Zeitschrift für Volkskunde Vii, 249), nonché Schneller 244, 61». Fiabe, leggende, storielle 191 Dar diarn hatsar åntgetånt un hatt ågevånk to gaüla, un hatt khött: «Bèn géa, ma i bartar’s machan zaln!» Un dar pua is augestånt un is gånt vort. In tage darnå datz abas dar pua is gånt t’ slava au afna tetsch un balamån hattar gehöart gian eppas pa håntstiage au un pa tetsch in, un alls in an stroach issar nemear gebest guat zo mövrase, un asó issen vürkhent an étlan mal, fin as da disar pua nemear is gebest guat zo giana ummar vo létz bo dar is gestånt. In an mal issen khent in sint ke ’s möge soin di trut, bo den géat zo tutsla ’s pluat un in tage darnå hattar genump an håmmar un is gånt au af de tetsch un issese augeluant nå dar tür. Balamån hattar gehöart gian pa stiage au laise, laise, un er hatt geschauget un hatt gesek ke ’s is a khatz. Balse is gebest zöbrest, hattarar gètt an stroach afn khopf pitn håmmar, un disa khatz hatt gètt an schaülan sgnånklar un is gevallt obar di stiage abe. In tage darnå dar pua is khent vo dar tetsch abe un hatt bokhent soi püalen pitn khopf augepuntet, un alora hattar gesek ber ’s is di trut, un hats gesek gearn, assarar hatt gehatt gètt di zumma. visita, perché non la voleva più. La ragazza si rattristò e cominciò a piangere e poi disse: «Va pure, ma ti ripagherò!» Egli si alzò e se ne andò. Il giorno dopo, fattasi notte, egli andò a dormire nel sotto-tetto e là, poco dopo, sentì dei passi lungo la scala e dentro al fienile e poi tutto all’improvviso non fu più capace di muoversi. Questo gli accadde più di una sera, fino al punto di non riuscire più ad andare in giro per le strade a causa della debolezza in cui era caduto. Una sera pensò che si poteva trattare della vampira che venisse a succhiargli il sangue e il giorno seguente si munì di un martello. La sera salì nel fienile e là restò ad attendere appoggiato all’entrata. Dopo qualche minuto sentì qualcuno salire le scale piano piano, guardò e vide che era un gatto. Quando l’animale giunse in cima, gli diede un colpo in testa con il martello. Il gatto miagolò forte e cadde giù per la scala. Al mattino seguente il giovane scese dal fienile e incontrò la fidanzata con il capo fasciato e quindi capì che era lei la vampira e fu contento di averlo potuto constatare perché l’aveva già lasciata. 192 Luserna: c’era una volta Racconto n. 33 Descritto nei racconti come un piccolo omino che confonde i viandanti dei boschi e li fa perdere nella nebbia, il Sambinélo sembra possedere i caratteri tipici delle genti fatate dei boschi propri delle leggende nordiche, una sorta di folletto dispettoso cui vengono anche attribuiti gli episodi di temporanea irrazionalità degli abitanti di Luserna: in questo senso quindi “seguire i passi del Sambinélo” significa simbolicamente perdere la via della razionalità, tanto da non riuscire più a far ritorno a casa. Solamente quando le sue vittime vengono ritrovate, esse riacquistano padronanza di sé: ritrovano, non solo geograficamente ma anche in senso sociale, i propri punti di riferimento. Dar Sambinelo Il Salbanello a) In an tage ista gebest dikh dar nebl. A baibe is gånt na holtz in sèl tage in in di Löchar von Kamoubalt. Di laüt håmsen khött, vor ’s is gånt, nètt zo giana, ke haüt ista dar nebl in di earde un ke ’s mage gian zo vorlur. Ma is hatt niamat ausgelüsant un is gånt alls ummas. In as’s is gebest in balt, hatsen gemacht ‘s holtz un denna hats augenump di karge. Alls in an stroach hats gesek a mendle, gerüstet roat, vorå imen, bo den hatt gemacht mòtto assen gea nå. ’S baible issen hèrta nå gånt un ’s méndle, invétze baz zo vüara’s garade, hats es gevüart hèrta tiavar in pa balt, fin as da ’s baibe hatt nemear gebisst bo ’s is, un asó hats es ummar gevüart viaruntzbuanzekh urn hèrta pittar karge afn rukkn. In tage darnå soinda gånt di laüt zo süacha’s, un håm’s gevuntet in kan trögla von Predsòndo hèrta pittar karge afn rukkn. Alora hatsen kontart bas ’s issen vürkhent un di laüt håm khött: a) Un giorno c’era una fitta nebbia e una donna andò a far legna nella zona dei Löchar (bosco del Comune). Tutti le avevano detto di non andarci, perché c’era la nebbia ed era molto facile perdersi. Ma lei non ascoltò nessuno e partì egualmente. Quando fu nel bosco fece legna e poi se la caricò sulle spalle per tornare a casa. Improvvisamente vide un omino vestito di rosso che le camminava davanti e l’omino le fece segno di seguirlo, mostrando di volerla guidare. La donna lo seguì e seguì, ma invece di condurla verso l’uscita del bosco, egli la portò sempre più nel fitto del bosco, finché la donna non seppe più dove si trovasse. La fece girare così per 24 ore, sempre col carico sulle spalle. Il giorno dopo la gente del paese andò a cercarla e alla fine la trovò presso i “Trögla”, ancora col carico sulle spalle. Lei raccontò che cosa le era accaduto e la gente concluse: «Se è così, hai seguito i passi del Salbanello!». 104 Bacher annota: «Questo spirito dei boschi commette a Luserna gli stessi atti maligni riportati da Schneller 5, 214 (sotto) in Folgaria, quindi non tocca, almeno nel contenuto principale, la leggenda conservata a Ronchi presso Borgo (Schneller, pag. 213, 214). Inganno perpetrato dagli spiriti, v. anche Zingerle 424. 427, 471». 104 194 Luserna: c’era una volta «Ja, alora pisto gebest in de tritt von Sambinèlo». b) Vor a vüchtza, sechtza djar ista vürkhent dassèl in an mån o vo Lusérn. Dar sèl is gebest dar arm Nòkh. Dar is gånt in pa Frattn von Kåmp na sbemm. Abas håmsen gepitet dahùam, ma er is nimmar mear gerift zuar. Soine laüt håm pensart ke dar bart soin ingekheart appar afna sait. In tage darnå issar bidar nèt khent, un alora håmsa gemacht laütn alle di klokkn zoa as da gian vil laüt zo süachanen. Sa håmen gevuntet au in Gaso nåmp in ar hülbe allar insemenirt, un da sèl hülbe trak no haüt in nåm «di hülbe von Nòkh», on di laüt khön ke darsèl o is gebest in di tritt von Sambinèlo. c)Vor a vüchtza djar ista vürkhent das gelaichege in an månn vo Lusérn. Disar is gebest dar arm Nòkh. Da håmen gerüaft Nòkh, imen un alle soine laüt, ombrom da håm nèt gekhånt khön «gnòkkn» asbe di åndarn laüt: da håm hèrta khött «nòkhan, nòkh». Asó di åndarn Lusérnar håmse gherüaft «di Nökh». Dar arm Nòkh un sai sbéstar, dar Katì, soin gebest in in Gaso zo macha holtz. Bal’s is gebest palle nacht, dar Katì hatt khött: «Est, Menno, geade humman zo khocha di tschoi, un du stea nèt dà no vil lång, ma ai palle da hùam!» Un dar månn hatt khött: «Ja, ja, i bart khemmen palle». Dar Katì hatt genump a pissle holtz, is gånt huam un hatt boroatet di tschoi. Dar Menno denna hatt genump ’s zümmale bo sa drin håm gehatt in vormas, hatt drin gelék a par schaitar un is gånt er o. Ma bo dar is gånt, issar gånt. Balda hatt ågeheft di nacht, dar Katì hatt gesek ke ’s ista nonet zuar gest dar b) Quindici o sedici anni fa questo accadde anche ad un uomo di Luserna, il defunto Nokh. Era andato in cerca di funghi alle “fratte” del Cåmp. A sera lo aspettavano a casa, ma egli non arrivò. I suoi pensarono che si fosse rifugiato da qualche parte, ma nemmeno il giorno seguente fece ritorno. Allora i familiari fecero suonare le campane affinché la gente aiutasse nelle ricerche. Lo trovarono, infine, nei pressi della malga Gazo (Valmorta) tutto stordito vicino ad una pozza. Quella pozza viene ancora chiamata “la pozza del Nokh” e la gente dice che anche lui abbia seguito i passi del Salbanello. c) Il povero (defunto) Nòkh e sua sorella Catina si trovavano alla malga Gazo per far legna. Come si fece notte la sorella disse: «Adesso, Menico, io vado a casa a preparare la cena; tu non restare qua a lungo, ma torna a casa presto!». Egli rispose: «Sì, sì, vengo subito». Catina prese un po’ di legna, andò a casa e preparò la cena. Poco dopo anche Menico prese il cesto nel quale avevano portato la colazione, vi mise dentro qualche pezzo di legno e partì. Ma che direzione abbia preso, nessuno lo seppe. Quando giunse la notte, Catina si rese conto che Menico non era ancora di ritorno e andò dai parenti a informarli ed essi partirono per andare a cercarlo. Camminarono tutta la notte, lo chiamarono, spararono anche dei colpi di fucile, ma non riuscirono a trovarlo. Quando fece giorno tornarono a casa e fecero suonare le campane perché tutta la gente del paese andasse a cercarlo. Si misero in cammino in Fiabe, leggende, storielle 195 Menno un is gånt ka soin paréntn zo khönanen ke dar iz nonet huam von balt. Sa håm augevånk un soinen gånt zo süacha. Sa soin gånt ummar da gåntz nacht, da håm gerüaft un geschosst pitn sklòpp, ma da håmen nèt gevuntet. Balda hatt ågeheft dar tage soinsa khent huam un håm gemacht laütn alle di khlokkn, zoa as da di laüt gianen zo süacha. Di meararstn soinse gelék afn bege un bal ’s is gest bidar nacht, håmsen gevuntet in in Gaso pitnar gabl in di hént nåmp in ar hülbe bo da er hatt gehatt ausgegrabet vor djar. Di laüt alora håmen gevorst bo dar ummar is gebest da gåntz nacht un in gåntz tage. Er hatten khött ke dar is gebest af di tèchar vo Sam Piaro in Astetal, zo slava, un in khearan bidrùm hattar gevuntet aft di bis von Krodjar a gabl un hatse genump pit imen, ombrom dar hatt gehatt vort zo vénna in ork. Di laüt håm alle gelacht un håm khött ke dar is gebest af di tritt von Sambinèlo. molti e, solo al calar delle tenebre, lo ritrovarono nei pascoli della malga Gazo, con una forca in mano, vicino ad una pozza d’acqua che egli stesso anni prima aveva scavato. Allora vollero sapere dove fosse stato tutta la notte e tutto il giorno. Egli raccontò che era andato a dormire sui tetti di San Pietro (in Val d’Astico) e che, tornando, aveva trovato una forca sui prati della malga Krojar e l’aveva presa con sé, perché aveva avuto paura di incontrare l’orco. Tutti risero e dissero che aveva seguito il Salbanello, che si era fatto gioco di lui. 196 Luserna: c’era una volta Racconto nr. 34 Das arm Nöbele Il povero Nöbele In an stroach soinda gebest zboa müatar. Poade håm gehatt a khutta khindar, un in an sunta håmsa gelatt dahùmman di zboa éltarstn diarndla kan khìndar bo sa håm gehatt in di biage, un se soin gånt ka miss. Di diarndla, invétze bas zo stiana sèm kan khindar, soin gånt aus aftn bege z’ spila. Un sèm, nåmp in bege bo sa håm gespilt, ista gebest a vestar vo dar stube von ar åndarn famildja, un dise diarndla soin gånt un soin gekhrablt pa aisandar von vestar au un håm geschauget in in di stube. Balamån håmsa gesek a khlumas tschotats méndle, pitn har ka pèrge, pitnar khurtzan pruach un pit baisan hosan un pitnan roatn korpéttle, gian nidar un au pa stube, pitnan haspl in di hént, un bal ’s is gebest nåmp in vestar, hats ågelacht di diarndla. Dise diarndla håm zuar geschauget in méndle, fin as da palle soin khent di müatar vo miss. Balamån soinen khent in sint di khindar un soin gånt da huam. Un balda soin khent di müatar vo miss, håmsen khött bas sa håm gesek, un di müatar håm’s khött in åndarn laüt, un di åndarn håm khött ke ’s is gebest das arm Nöbele, ombrom, bal ’s is gebest toat, is gebest ågerüstet asó. Di laüt bo da soin gestånt in haus bo sa håm gesek ’s Nöbele, håm’s nèt geböllt gloabm. In an mal però, issese nidar gelék t’ slava a tochtar von patrù un a spusa, un di tochtar is lai intslaft un di spusa hatt gepetet. C’erano una volta due madri, ciascuna delle quali aveva una schiera di bambini. Una domenica le due donne lasciarono a casa le loro figlie maggiori ad accudire i bambini che avevano ancora nella culla ed andarono a messa. Le ragazze, però, invece di restare vicino ai bambini, uscirono in strada a giocare. Su quella stessa strada, si apriva anche la finestra della stanza di un’altra famiglia. Le due ragazze si arrampicarono alla inferriata della finestra e spiarono dentro la stanza. Ad un tratto videro un omino minuscolo coi capelli irti, i calzoni corti, le calze bianche e un corpetto rosso, e questo omino andava su e giù per la stanza zoppicando, con un aspo in mano e, quando si trovò davanti alla finestra, fece una smorfia alle ragazze. Esse restarono là a guardarlo fino a quando le madri tornarono dalla messa. Allora si ricordarono dei piccoli che avrebbero dovuto sorvegliare e rientrarono di corsa in casa. Giunte le madri, le ragazze raccontarono loro ciò che avevano visto e le madri lo raccontarono poi ad altri del paese e questi dissero che si trattava certamente del defunto Nöbele, poiché, quando era morto, lo avevano vestito in quel modo. La famiglia che abitava nella casa nella quale era stato visto il Nöbele, non volle credere al fatto. Ma una sera, in quella stessa stanza, si coricaro- 105 Bacher annota: «Uno spirito tira la coperta (Zingerle 462) e trascina con la forza il dormiente fuori dal suo giaciglio III. 461)». 105 198 Luserna: c’era una volta Balamån hatse gehöart gian pa stube au an månn un si hatt geschauget un hatt gesek si o’ ditza méndle, un si hattar augedékht in khopf, un ’s mendle is gånt un hattar getzoget pan lailachar un si hatt gerüaft in vatar vo soin spus, assar gea z’ sega ber da sèm is, un dar vatar is gånt z’ sega un’ baldar is gebest af di tür vo dar stube, ’s Nöbele is gesprunk obar ’s pett hii un hatt ghevånk in khopf vo dar tochtar un hatse getzòget obar ’s pétt nidar. Un di diarn hatt gètt an sroa, un ’s Nöbele is lai vorschvuntet. Aus zuar in långes dar patrù von haus is gånt zo pèrge in Bisele, er un alle soine laüt, aus bas soi tochtar un di spusa. Balamån in an mal håmsa bidar gehöart epparummas gian pa stube au, un se håm geschauget un håm bidar gesek ’s Nöbele, un se håmen untargedékht in khopf. Un alora ’s Nöbele hatt gètt drai nistln pitn haspl dar spusa, un denna is gånt. In tage darnå soinsa augestånt dise zboa laüt, un di spusa hatt darbist in bége un is gånt zo pèrge un hatsar khött soinar nóna, un soi nóna hatsen khött in patru, un er hatt gevånk in bége un is khent in lånt un is gånt kan faff un hatten khött alls bas da is vürkhent soin laüt, un lai hattar geschafft drai missan vor ’s Nöbele, un von sèl tage vort håmsa’s nemear gesek. no una delle figlie del padrone e sua cognata e, mentre la ragazza si addormentò subito, la sposa rimase sveglia, continuando a pregare. All’improvviso sentì un uomo camminare nella stanza e poi scorse anche lei quell’omino. Si coprì la testa con le coperte, ma l’omino andò a tirarle le lenzuola. Allora chiamò il padre del suo sposo, perché venisse a vedere chi ci fosse nella stanza. Ma, quando il suocero giunse sulla porta, il Nöbele saltò oltre il letto, afferrò la testa della ragazza che dormiva e la tirò giù dal letto. La giovane emise un grido e in quel momento egli sparì. A primavera iniziata il padrone se ne andò in malga su al Bisele con tutta la famiglia, tranne quella figlia e la nuora che avevano visto il Nöbele. Una sera, le due donne udirono nuovamente dei passi nella loro camera e videro una seconda volta il Nöbele. A quella vista si coprirono la testa. Allora egli diede tre colpi con l’aspo alla sposa e se ne andò. Il mattino dopo le due si alzarono e la sposa volle subito andare sù alla malga e là raccontò l’accaduto alla suocera, la quale riferì ogni particolare al marito. Il padrone allora partì, scese in paese e andò dal prete. Al prete raccontò tutto ciò che era accaduto ai suoi, poi ordinò tre messe per il povero Nöbele e da quel giorno in poi nessuno più lo vide. Fiabe, leggende, storielle 199 Racconto nr. 35 Dar Jakl Hoal Jakl Hoal Dise djar ista gebest an armes baible nidar ka Maséttn, bo da nicht hatt gehatt zo leba; ’s hatt nicht gehatt né z’ èssa, né zo trinkha. In an stroach hats gehöart khön ke durch in di Graselait ista dar Jakl Hòal un dar sèl hatt alla darsort. Un ditza baible in an mal is gånt aus af de tür von soi haus on hatt gerüaft: «Hoo, Jakl HòaI, pringmar miar o moi toal!» … un denna is gånt t’ slava. In tage darnå is augestånt un hatt gevuntet a halbes baibe augehénk in di tür. Ditza baible is darsrakht un hatt nèt gebisst bises hatt zo traga in in soi haus, òdar bas es hatt zo tüana; un alora is gånt aus ats Lavråu zo vorsa in faff z’ sega bas es hatt zo tüana. Un dar faff hatt khött asó: «Géa humman un hoint, bal ’s is nacht, lege in hunt in haus, di khatz aftn héart un in pesom hintar dar tür, un denna rüaven bidar un khü: “Hoo, Jakl Hòal, ai’, nimmdar doi toal!” … on denna gea un lede nìdar in pétt, ma intslaf nèt, stéa bachant in pet un lai, lüsan z’ sega bas da geschéget». … Un asó hats getånt ditza arm baibe. Balamån bal ’s is gebest palle das umma in di nacht, issta khent dar Jakl Hòal un hatt khött: «’s is bol asto hast in hunt in haus, di khattz af on héart un in pesom hintar dar tür, se no böllasto bol seng bassedar tüanat». … Un denna hattar genump soi halbes baibe un is gånt. Das arm baible hatt Anni fa, c’era una povera donna giù ai Masetti, che non aveva nulla per vivere, né da mangiare, né da bere. Una volta sentì dire che al di là della vallata, sulla Gras-laita, c’era Jakl Hòal che invece aveva ogni ben di Dio e una sera questa poveretta uscì sulla porta di casa e gridò: «O, Jakl Hòal voglio anch’io di quel ben di Dio!…» e, detto questo, rientrò in casa e andò a dormire. Il giorno dopo si alzò e trovò una mezza femmina appesa alla porta di casa. La poveretta si spaventò a quella vista e non seppe se portarsi in casa quella roba, o che cosa aveva da farne e… decise di recarsi a Lavarone per chiedere al prete che cosa dovesse fare. Il prete le disse: «Va a casa e questa sera, al cadere della notte, metti il cane in cucina, il gatto sul focolare e la scopa dietro alla porta, poi chiama di nuovo Jakl Hòal e digli: “O Jakl Hòal non voglio la tua mercanzia, ripassa la valle e portala via!…” e poi mettiti a letto, ma bada di non addormentarti, resta invece a vegliare e pregare mentre stai in ascolto di quello che succederà fuori». La poveretta tornò a casa e fece come le aveva consigliato il prete. E quando fu l’una di notte arrivò Jakl Hòal e disse: «Bene per te che hai messo il cane in cucina, il gatto sul focolare e la scopa dietro alla porta; altrimenti avresti ben visto ciò che sta- 106 106 Bacher annota: «Cfr. Zingerle 4, 19, 50, 80, 174-180, Heyl 409, Ss-so, Schneller 205-206, 3, 209, 1-2; lo stesso si racconta della signora Berchta (Zingerle 32)». 200 Luserna: c’era una volta gepetet un gebacht un gelüsant da gåntz nacht, un hatt gehöart alls bas ar hatt khött un bas dar hatt getånt. Mòrgas is augestånt, ma ’s is gebest mearar toat bas lente vo dar vort bo ’s hatt gehatt, un hatt khött: «Nimmar mear åndarst barte nèt rüavan in Jakl Hòal!» vo per farti…» e prese la sua mezza femmina e andò via. La poveretta pregò e vegliò tutta notte e stette in ascolto e sentì tutto ciò che Jakl Hòal disse e fece. Al mattino si alzò, ma era più morta che viva per la paura che l’aveva presa e disse: «Mai, mai più invocherò Jakl Hòal per tutta la mia vita!» Fiabe, leggende, storielle 201 Racconto nr. 36 Si tratta di una rivisitazione della fiaba di “Cappuccetto Rosso”. Da alt in in balt La vecchia del bosco In an stroach ìsta gebest an alts baibe in in an balt, is un sai tochtar. Balamång ista gånt dar sun von saltàro in pa disan balt zo helva soin vatar, un hatt gesek di tochtar vo disan altn, un er ìssar zuargånt un hatt ågeheft zo reda pit disarn diarn. Disa diarn is gebest a schümmana un in sun von saltàro hatsen gevallt. Un disar pua hatse gevorst z’ sega bésen nimp, un si hatt khött vo ja, un dar pua is khent bodrùm huam aldar luste un hatt khött soin laüt ke dar nimp disa diarn. Soine laüt soin gebest alle luste se o un håm khött ke se séngs gearn. In tage darnå dar pua un sai vatar håm gevånk in bege un soin gånt zo nemma di diarn un håmse gevüart humman, un denna dar pua hatse gemèchlt. Dise laüt håm geböllt as da khemm di muatar vo dar diarn o huam, ma si hatt nèt geböllt khemmen, un alóra håmsase sèm gelatt. Dar saltàro is gånt alle tage in pa balt un is hèrta zuargekheart z’ sega vo dar altn, un lai hattarar hèrta getrakk alls bas se hatt gehatt mångl. A djar dòpo boràtet, dise zboa laüt soin khent zo haba a diarndle. Sa soin gebest alle luste zo haba ditza diarndle. Denna soinda vortgånt ettlane djar un ditza diarndle is khent groas un bravat un hatt ågeheft zo giana atìabas a C’era una volta una vecchia che viveva nel bosco con sua figlia. Un giorno, il figlio del saltario 108 si recò nel bosco per aiutare il padre ed incontrò la figlia di quella vecchia, le si avvicinò e cominciò a parlare con lei. La ragazza era bella e piacque al figlio del saltario. Il giovane le chiese se l’avrebbe sposato ed ella rispose di sì. Allora egli tornò a casa tutto contento e riferì ai suoi che avrebbe preso in moglie quella ragazza. I suoi furono molto contenti e dissero che l’avrebbero conosciuta volentieri. Il giorno dopo il giovane e il padre partirono e andarono a prendere la ragazza; la condussero a casa e poi furono celebrate le nozze. La famiglia dello sposo avrebbe desiderato che, assieme alla figlia, scendesse in paese e venisse in casa anche la madre, ma la vecchia non volle andare, e la lasciarono quindi nel bosco. Il saltario girava tutti i giorni nel bosco e andava sempre ad informarsi della vecchia e le portava ciò di cui aveva bisogno. Passato un anno, i due sposi ebbero una bambina e ne furono molto contenti. Poi trascorsero alcuni anni e la bambina si fece grande e brava e cominciò ad andare di quando in quando a trovare la nonna nel bosco. 107 Bacher annota: «Nella fiaba lusernese manca il colloquio tra la fanciulla e il lupo (orco) lungo il tragitto che porta a casa della nonna che compare in Grimm, Märchen, 26 e in Schneller (n. 6)». 108 Guardiaboschi. 107 202 Luserna: c’era una volta vert zo venna di nóna in in balt. In an sunta dar saltàro is nèt gånt in pa balt, un alóra di spusa hatt khött kan diarndle: «Sea ditza zümmale geplèttra un tràgs dar nóna in in balt!» ’S diarndle hatt genump ’s zümmale un is gånt. Bal ’s is gebest in nåmp in haüsle, hats gemèkket, un di nóna hatten offegetånt un denna isse gånt in pett t’ slava, un ’s diarndle hatten genump an stual un issese gesotzt durch nåmp in pett un hatt ågeschauget di nóna un hatt khött: «O liaba mai nóna, bet långe zenn dar hatt!» Un si hatt khött: «Vo eltom, mai khinn!» Un ’s diarndle: «O liaba mai nóna, bet groase oang dar hatt!» Un si hatt khött: «Vo eltom, mai khinn!» Un ’s diarndle no: Una domenica il saltario non andò nel bosco e così la sposa disse alla figliola: «Prendi questo cesto di roba e va a portarlo alla nonna nel bosco!» La figliola prese il cesto e andò. Quando giunse alla casetta, bussò e la nonna le aprì, ma si rimise subito nel letto. Allora la ragazzina prese uno sgabello e si sedette accanto al letto e osservò la nonna e le disse: «Oh cara nonna, che denti lunghi avete…» e la nonna di risposta: «È per via della vecchiaia, bambina mia». E la bambina disse ancora: «Oh cara nonna, che occhi grandi avete…» e la nonna rispose: «È per via della vecchiaia, bambina mia». «Oh cara nonna, che bocca grande avete!…» e la nonna: «È per via della vecchiaia, bambina mia… vieni, tu sei mia, vieni, tu sei mia!»… e la nonna inghiottì la bambina con zoccoli e tutto quanto perché invece della nonna, dentro al letto Fiabe, leggende, storielle 203 «O liaba mai nóna, bet a groases maul dar hatt!» Un si hatt khött: «Vo eltom, mai khinn … ai, du pist moi, ai, du pist moi!» … Un di nóna hatt gesluntet ’s khinn pit gelbarla un alls … ma, invétze bas z’ soina gebest di nóna in in pett, is gebest dar bolf, bo da hatt gehatt gesek ’s diarndle gian pitn zümmale, un er ìssen gånt vorå zoa zo vrèssa di nóna un ’s khinn o, un am earstn hattar gevrèsst di nóna, un denna, bal ’s sèm is gerift, hattar gevrèsst ’s diarndle o. Di laüt von khinn, abas, håmsen pensàrt ke ’s slaft in ka dar nóna, un håmen nicht vürgenump; un in tage darnå dar saltàro is augestånt in aldar vrüa un is gånt in pa balt gerade zuar kan haus, z’ sega von khinn, un hatt offe gevuntet di tür un er is lai ingånt un hatt geschauget un hatt gesek in bolf in in pett. Alóra ìssar aldar darsrakht; ma das earst bo dar hatt getånt, hattar genump sai sbèrt un hatt hìgehakht in khopf in bolf. Denna hattaren auvargezoget von pett zo öadeganen aus. Balamån hattar gehöart rüavan: «Tùat laise!» … Un hatt nèt gebisst vo bo da khint ditza geréda. Un hatt ågevånk zo hakha nidar pa pauch von bolf zo tüananen offe, un bal dar hatt gehatt a loch, sìkar ’s khinn, un er hakht un hakht, fin àssar hatt gehatt ’s loch groas genùmma, un denna hattar auvargenump ’s khinn no lente un gesunt. Denna hattar genump ’s khinn affn arm un is gånt huam un hatt kontàrt alls, bas da is gescheget; un denna håmsa gemacht an guatn vormas un håm gèst un getrunkht, un àssa nèt soin stüfo z’ èssa un zo trinkha, èssansa un trìnkhansa no. c’era il lupo, che aveva visto nel bosco giungere la bambina col cesto ed era corso avanti con l’intenzione di divorare la nonna e la bambina insieme. E così aveva fatto, prima aveva divorato la nonna, e poi, all’arrivo della bambina, aveva divorato anche lei. Quella sera, non avendola vista arrivare a casa, i suoi pensarono che fosse rimasta a dormire dalla nonna e non si allarmarono; ma il giorno dopo il saltario si alzò per tempo e andò nel bosco diretto alla casetta della vecchia per chiedere della bambina. Trovò la porta aperta ed entrò, guardò intorno e vide il lupo ancora a letto. Allora si spaventò; però la prima cosa che fece fu di prendere la sua spada e tagliare la testa al lupo. Poi lo tirò fuori dal letto per sventrarlo. In quel momento si sentì dire: «Andate piano…» ma non si rese conto da dove venivano le parole. Egli cominciò a tagliare il ventre con l’intenzione di aprirlo e, fatto un buco, vide la bambina. Allora tagliò e tagliò finché il buco fu grande abbastanza ed estrasse la creatura sana e salva. Poi si prese la bambina in braccio e andò a casa e raccontò tutto ciò che era accaduto. Alla fine prepararono un pranzo e mangiarono e bevvero e, se non sono ancora stufi di mangiare e di bere, sono ancora tutti là a mangiare e a bere. 204 Luserna: c’era una volta Racconto n. 37 Un curioso miscuglio di elementi provenienti probabilmente dalle fiabe di “Hänsel e Gretel”, “Pollicino” e “Giacomino ed il fagiolo magico”. Dar bill månn un das bill baibe Il selvaggio e la selvaggia In an stroach ista gebest a månn un a baibe bo da håm gehatt zboa khindar, a püable un a diarndle. Balamång ’s baibe is gestorbet un dar månn is gekheart zo boratase. Das naüge baibe is gebest guat pitn khindar a gåntzes djar. Denna hatse gekhoaft si o ummas a khinn un denna hatse gevånk z’ soina znicht pitn zboa åndarn khindar un hatt hèrta khött kan månn assarse vort traibe, soine zboa khindar. Ma dar månn hattar nia geböllt volng, ombrom di khindar hattarse gehaltet géarn. In an tage dar månn is gånt in aldar vrüa aus aft’s vèlt un, vort assar is gebest, hatse gètt a sèkhle èsch vor uman in khindar un hatten khött: «Géat est in pa balt na holtz, ma geat senante di èsch un denna, in khearan bidrùm, khent hèrta nå dar èsch» … Un asó håmsa getånt di khindar. Di stiafmuatar hatt geschikht di khindar in pa balt, zoa assdase vrèss éppar a gebilt; un invétze di khindar soin gånt un khent huam. Un abas, balda soin gerift huam di khindar, issese dartzürnt di stiafmuatar un hatse gemacht gian z’ slava åna tschoi. In tage darnå dar vatar is bidar gånt aft’s vèlt, un disa znicht stiafmuatar hatten nå gètt a sèkhle saltz in khindar un hattse bidar geschikht na holtz. Di khindar soin gånt seenante ’s saltz un soin gånt bait, in pa balt, un balsa håm C’erano una volta un uomo e una donna che avevano avuto due figli, un bambino e una bambina. Ma accadde che la donna morì, e l’uomo si risposò. La nuova moglie fu buona coi due bambini per un anno intero. Poi ebbe anche lei un figlio e, come nacque il bambino, cominciò ad essere cattiva cogli altri due e a dire al marito di mandarli via. Ma il marito non le diede mai ascolto perché egli voleva molto bene alle sue creature. Un giorno il padre si recò di buon’ora nel campo e quando fu lontano, la matrigna consegnò a ciascuno dei due piccoli un sacchetto di cenere e disse: «Partite adesso e andate nel bosco per legna, ma, camminando, spargete la cenere a terra e per il ritorno seguite la traccia della cenere». La matrigna aveva mandato i bambini nel bosco perché avrebbe desiderato che qualche belva se li mangiasse. Invece i due piccoli andarono e tornarono. A sera però, quando arrivarono a casa, la matrigna si adirò e li fece andare a letto senza cena. Il giorno dopo il padre tornò nel campo e la cattiva matrigna diede ai bambini un sacchetto di sale ciascuno e li mandò nel bosco per legna. Essi camminarono seminando il sale e andarono molto avanti nel bosco e quando ebbero 109 Bacher annota: «In alcuni tratti (il cannibale, il fiammifero), la fiaba lusernese si avvicina di più a Zingerle (fiaba 11, pag. 138) che all’“Hänsel und Gretel” di Grimm n. 15 (v. anche ib. III, 15)». 109 Fiabe, leggende, storielle 205 gehatt genumma holtz, håmsa nemear gevuntet in bége zo kheara bidrùm, ombrom ’s is gebest nass von tau un ’s saltz is gest zorgånt. Alora di armen khindar håm nemear gebisst bo zo giana, un invétze bas zo khemma zuar huamat, soinsa gånt betar in pa balt. Balamån håmsa gesek a haüsle un soin zuar gånt un håm gemèkket, ün denna ista auvarkhent das bill baibe un hatt khött: «O liabe moine khindar, bo mai saitar khent! Asta zuar khint dar bill månn, vrisstaras». Di armen khindar håm khött: «Asta sai bas da Gott’ar Hèar bill; biar hoint, assaras da lasst, steabar da». «Bèn, hats khött das bill baibe, i haltas dà, ma eråndre möcht gian in untar ’s pétt un stian stille un sbaing». «Ja, ja» håmsa khött di khindar. Un das bill baibe hatten gett éppas z’ èssa, un denna hatsese gemacht gian in untar di lùter. raccolto abbastanza legna, non trovarono più la strada del ritorno, perché il terreno era umido per la rugiada e il sale si era sciolto. Allora i poveri piccoli non seppero più che direzione prendere e invece di tornare a casa, si inoltrarono sempre di più nel bosco. Alla fine videro una casetta abitata e andarono a bussare. Venne sulla porta la selvaggia e disse loro: «Oh miei cari bambini, dove mai siete capitati! Se mio marito viene a casa, vi mangia…» e i poveri bambini di risposta: «Sia come vuole il Signore Iddio, se voi ce lo permettete, questa sera noi resteremo qua». «Bene», disse allora la selvaggia «io vi tengo, ma voi dovete mettervi sotto alla lettiera e stare fermi e zitti». «Sì, sì» rassicurarono i bambini. Poi la selvaggia diede loro qualche cosa da mangiare e alla fine li fece andare sotto alla cassa del letto. Ma non passò molto e arrivò il marito e cominciò a fiutare: «Faìn, Faìn, 206 Luserna: c’era una volta Balamån issta khent dar bill månn un hatt geschmékht: «Mf, mf, dà stinkht’s na christna vlaisch da stinkht’s na christna vlaisch; bem hasto in haus, baibe?» «Niamat». Hats khött das bill baibe; sbaige, èss un trinkh, un denna gea t’ slava!» Ma dar bill månn hats nèt geböllt gloabm un hatt bidar ågevånk zo schmékha; un alora das bill baibe hatten zuar gestritet un hatten gemacht gian z’ slava. Ma dar bill månn is nèt gebest guat t’ slava un hatt gevorst das bill baibe un hatt khött: «Khümar baibe, bas da asó stinkht na christna vlaisch!» «Ja». Hats khött das bill baibe: «I khüdar’s, asto mar vorhoast nicht zo tüana». «Ja». Hattar khött dar bill månn: «I vorhoas, ke i tüa nicht». Un alora das bill baibe hatsen khött. «Djüsto gerècht“. Hattar khött dar bill månn: «’S diarndle haltbar’s vor massérle, un ’s püable zo vöastra». Asó håmsa getånt; ’s diarndle hatt gehélft in bill baibe in dar arbat von haus, un ’s püable håmsa’s gelék in stall zo mésta. In an tage hattar khött dar bill månn: «Est, baibe, möchtma gian z’ sega bida ’s püable is voast genumma» … Un ’s diarndle hats gehöart un is gånt vorå nidar in stall un hatsen khött in püable un lai hatsen gètt a sprüssele, un hatt khött: «Rékhen aus ’s sprüssele, in bill månn!». Un asó hats getånt an éttlane tage ’s püable, balda ìs gånt dar bill månn z’ sega bi ’s is voast, invétze bas zo rékhanen aus ’s vingarle, hatsen aus gerékht ’s sprüssele. Balamån hats vorlort ’s sprùssele un balda is gånt dar bill månn, hatsen aus gemucht rékhan ’s vingarle un alora dar bill månn hatt khött: qua c’è odor di cristianìn, qua c’è odor di cristianìn; chi hai in casa, femmina?». «Nessuno», fece sua moglie «tu mangia e bevi e poi va a dormire!» Ma il selvaggio non volle credere e ricominciò a fiutare. Allora la donna lo sgridò e lo fece andare a letto, ma egli non riusciva a dormire e alla fine rivolto alla moglie, fece: «Tu devi dirmi, femmina, che cosa tieni in casa che puzza tanto di cristianìn!» Sì», disse la donna «te lo dirò, se mi prometti di non far niente». «Va bene, te lo prometto, non farò niente», rispose il selvaggio. Allora lo informò di ogni cosa. «Proprio bene così», disse il selvaggio «la piccola la teniamo per servizi come massara, il piccolo invece lo metteremo giù nella stalla a ingrassare». Così fecero. La bambina dovette aiutare la selvaggia nei lavori di casa e il bambino fu chiuso nel buio della stalla ad ingrassare. Un giorno il selvaggio disse: «Oramai, femmina, possiamo andare a vedere se il porcellino è abbastanza grasso!» La bambina sentì queste parole e corse giù in stalla prima di loro a riferire la cosa al fratellino e gli portò uno stecco e disse: «Porgi lo stecco al selvaggio invece del tuo dito!» Il bambino fece così, per più giorni, ogni volta che il selvaggio scendeva a vedere quanto grasso era diventato: invece di allungargli il dito gli porgeva lo stecco. Ma avvenne che perse lo stecco e quando il selvaggio tornò, gli dovette porgere il dito, e allora quello fece: «Oh bene così, adesso sei grasso abbastanza…» e tornò sù dalla donna e disse: «Adesso, femmina, il porcellino è grasso abbastanza. Domani andrò a chiamare i compari e mentre io sarò via, tu fa mettere sul fuoco un paiolo d’acqua e falla bollire, ma a spaccare la legna fa venir su Fiabe, leggende, storielle 207 «Oh, asó bol, est pisto voast genùmma»… un is gånt au kan bill baibe un hatt khött: «Est, baibe, ’s püable is voast genùmma; morng geade zo nemma ’s gevatarlaüt, un du, intånto asse vort pin, mach übar léng in khéssl vol pit bassar, un boroat di prüa; ma mach auvar khemmen ’s püable zo hakha au ’s holtz». Un asó håmsa getånt. Bal ’s auvar is gebest ’s püable, das bill baibe hatten gètt di hakh un hatten getzoaget di ést un hatt khött as s’es àuhakh khluma, khluma; ma ‘s püable hatt gehatt khumman hakh stokh, un alora hats khött kan bill baibe: «Schauget dà, bia tüan åna hakh stokh?» … un das bill baibe is gånt un issese nidar gepükht zo lirna’s, un ’s püable hattar hiigehakht in khopf, un denna hats genump in laip un hatten gelék in khéssl zo siada, on in khopf hatsen gelék in pétt un hatten zuar gedekht garècht, un denna di zboa khìndar håmen genump a pissle gèlt un soin vonkånt. A pissle spetar issta zuar gånt dar bill månn un ’s gevatarlaüt un håm niamat gevuntet in haus un håm gesek ke ’s vlaisch in khéssl is gesòtet, un se håm ågevånk z’ essa un håm gèsst das bill baibe åna zo bissa bassa èssan. Balamån issen auvar khent a hånt in pitn gevringart, un alora håmsa gesek bassa håm gèsst. Dar bill månn is darsrakht un lai dartzürnt ün hatt gebòllt nå loavan in khindar, ma di åndarn håmen nèt gelasst gian. Intånto di khindar soin gerift huam un håm gevuntet toat un bograbet di stiafmuatar, un alora soinsa gestånt sèm pit soin vatar. Dar bill månn un ’s gevatarlaüt håm gegaült das bill baibe un denna håmsa bograbet in khopf un ’s gevatarlaüt is gånt huam; on dar bill månn is no hèrta in in balt, ma dar is khent guat un vrisst khummane åndre khindar mear. il porcellino stesso!». Così fecero. Quando il piccolo salì, la selvaggia gli diede la scure e gli mostrò i rami da ridurre a pezzi, raccomandandogli di tagliarli corti; non c’era però un ceppo dove fare il lavoro e il ragazzino disse alla donna: «Guardate qua, come si può spaccare la legna senza un ceppo?». Allora la donna gli andò vicino e si curvò a terra per insegnargli come doveva fare. In quel momento il ragazzo con un colpo le staccò la testa, poi sollevò il corpo e lo mise nel paiolo a bollire, mentre la testa andò a posarla nel letto, aggiustando per bene le coperte. Fatto questo, i due bambini presero un po’ di denaro e se ne andarono. Non era passato molto tempo che arrivò il selvaggio coi compari: essi non trovarono nessuno in casa, ma videro che la carne nel paiolo era cotta e perciò cominciarono a mangiare e… mangiarono la donna senza sapere che cosa mangiavano. A un certo punto, dalla pentola, presero una mano con un anello al dito e allora capirono che cosa stessero mangiando. Il selvaggio fu prima preso da terrore, poi montò su tutte le furie e avrebbe voluto correre dietro ai bambini, ma gli altri non lo lasciarono andare. Intanto i bambini erano giunti alla loro casa e scoprirono che la matrigna era morta e sepolta, così restarono là col padre. Il selvaggio, invece, e i suoi compari piansero la selvaggia morta e ne portarono a seppellire la testa, poi i compari se ne andarono a casa ed egli rimase a vivere nel bosco, ma si fece buono e non ne mangiò più bambini. 208 Luserna: c’era una volta Racconto nr. 38 ’S gepittete bassar L’acqua implorata Vor djar ista gebest a schaülana dürr un ’s vich aft di pèrng hatt nemear gevuntet bassar zo trinkha, ombrom di hülbm soin gebest alle getrükhant. In an tage ista gerift afn Kåmp a belesches baible z’ sega vo soin vich un hatt gesek, ’s is a söttana schaülana dürr, un issese nidar gekhnonk au nå in an khnót un hatt ågevånk zo peta un hatt sovl gepittet un gepetet fin asda å hatt gevånk zo khemma bassar pa khnót auvar, un von sèl tage å ista hèrta khent bassar aftn konfì zbischnen in Kåmp un in Viètz un, sai di dürr bia groas se bill, sèm bassar khintasanda hèrta un ìsdasan hèrta. Anni fa, si verificò una grande siccità ed il bestiame delle malghe non trovava più acqua da bere, poiché le pozze erano tutte asciutte. Un giorno arrivò alla malga Campo una italiana che voleva controllare le sue bestie. Ella vide che grande siccità c’era. Allora si inginocchiò presso un sasso e cominciò a pregare e pregò e implorò fino a quando da quel sasso scaturì improvvisamente dell’acqua. Da quel giorno al confine tra le due malghe Campo e Vièz c’è sempre acqua, anzi per quanto la siccità sia grande, là zampilla sempre acqua e mai si esaurisce. Fiabe, leggende, storielle 209 Racconto nr. 39 Dar vluach vo dar muatar La maledizione della madre Vor sintzekh djar soinda gebest zboa boratate laüt ats Lusérn, bo da håm gehatt an sun alùmma. Disar pua is gearn gånt pa balt in, nå in gebilt. Sai muatar hats nèt gesek gearn assar hèrta ummar gea zo vorspila di zait. In an tage hattar genump bidar soin sklopp un soin hunt zo giana in pa balt. Sai muatar issese dartzürnt un hatten vorvluacht. Si hatt khött: «Gea, dar hunt bart soin doi faff un dar sklopp bart soin doi khértz!» Dar pua is gånt in balt un hatt gevuntet an has. Er is gånt nå disan has, is gånt aus dèllant Monterùf un hatt gevånk in bége von Laas. Sai tschell hatten gerüaft un hatt khött: «Khear ùm!» … un er hatt khött: «I billen nå gian, ombrom ’s is a has bo da hatt an roatn tschupf afn khopf. Dar tschell is gekheart bodrum, un er is gånt nidar af di gler vo Kalnètsch. Sèm hattar vorlort in has un is gekheart bodrùm un is khent ats Monterùf spet pa dar nacht. Sèm ista gebest a hütt bosa håm vorkhoaft proat un boi pan summar, pan bintar invetze ista gebest niamat gestånt. Sèm hattar geböllt machan ’s vaür pitn vaüraisn, vaürkhnot un zuntar, un is nèt gebest guat zo zünta’s å’. Denna pitn sklopp hattar geschosst in stroa bo da sèm is gebest, un ’s stroa hatt o nèt geböllt vången vaür. Dar arm pua is khent pa balt iar zuar huam, ma baldar is gebest afft’s halbe in bege, zbischnen Monterùf Cinquanta anni fa, a Luserna, c’erano un uomo e una donna che avevano un solo figlio. Questo figlio andava volentieri nel bosco a cacciare. Sua madre però non vedeva di buon occhio che il giovane sciupasse il suo tempo andando in giro. Un giorno il ragazzo prese il fucile ed il cane per recarsi ancora una volta nel bosco, ma la madre si adirò e gli mandò una maledizione. Gli disse: «Va pure, il cane ti farà da prete e il fucile da candela funebre!» Il giovane andò nel bosco assieme ad un amico. Là vide una lepre e la seguì finché si ritrovò oltre Monterovere e di là imboccò la strada del Laas 110. L’amico lo chiamò invitandolo a tornare, ma egli rispose: «Voglio seguirla, perché è una lepre con un ciuffo rossiccio sulla testa». L’amico tornò indietro; egli invece scese sulle ghiaie del Canalone di Caldonazzo. Là perse di vista la lepre e si avviò quindi per fare ritorno, ma arrivò a Monterovere quando era già notte. A Monterovere c’era una locanda, dove vendevano pane e vino durante l’estate, ma dove, d’inverno, non restava più nessuno. Egli tentò di accendersi il fuoco servendosi di acciarino, pietra focaia ed esca, ma non riuscì a farlo. Col fucile sparò nella paglia che aveva trovato, però nemmeno la paglia volle prender fuoco. Allora il povero giovane si avviò lungo la strada 110 L’odierna strada del Menador. Fiabe, leggende, storielle 211 un Maséttn, hattar gehummart un gevrort un is gebest müade un is nemear gebest guat zo khemma innbart. Denna issarse nidar gelék. In tage darnå ista gånt ummandar von soin vraüntn pa Laas nidar. Gianante aus pa balt hattar gevuntet in pua toat. Aft ummana na sait ista gebest dar hunt un af d’åndar sait hattar gehatt soin sklopp. Soi muatar hatt boll gehoket un gekhlaget un gegaült, balse hatt darvert ke dar pua is toat; sèm hatsen nicht mear gehelft, un asó hatse darkhennt bia bait dar is gånt soi vluach. che portava in paese, ma quando fu a metà del percorso tra Monterovere e Luserna, preso dalla fame, dal freddo e dalla stanchezza, non fu più capace di proseguire e si stese a terra. Il giorno dopo uno dei suoi parenti doveva raggiungere il Laas per scendere a Caldonazzo e, mentre attraversava quel tratto di bosco, trovò il ragazzo morto. Sua madre strillò tanto e si lamentò e pianse, quando le fu detto che il figlio era morto, ma tutto ciò non le servì più a nulla, se non a capire quanto lontana era arrivata la sua maledizione. 212 Luserna: c’era una volta Racconto nr. 40 Di frantzesan in in Vesan In di djar bo da dar Napoldjù hatt geböllt gian übar allarn di bèlt, ista gebest a famildja vo Kasòtto in Vésan zo macha di birtn. In an taghe soinda gånt a khutta sóldan vo Napoldjù zo giana zuar Leve. Balsa soin gebest in Vésan håmsa geböllt håm z’ èssa un zo trinkha. Di birtn håm nèt gehatt zo gebanen bassa håm geböllt. Vo densèl di soldan soinse darzürnt un håm khött: «Bar bartn khearn bidrum zo grüasanas». Denna soinsa gånt. In tage darnå soindarar gekheart bidrùm zbölve un soin gånt in Vésan. Ats halbe in Levegar Laas håmsa bokhent in khnècht pit zboa khindar bo dar I francesi in Vezzena Negli anni durante i quali Napoleone percorse il mondo intero, una famiglia di Casotto, in Val d’Astico, si trovava in Vezzena a condurre l’osteria. Un giorno, transitò di là un reparto di soldati di Napoleone diretto a Levico. Quando furono in Vezzena, i francesi pretesero da mangiare e da bere. Gli osti però non disponevano di tutto ciò che venne loro richiesto e questo mandò in collera i soldati, che dissero: «Torneremo un’altra volta a salutarvi!» Poi se ne andarono. Il giorno dopo dodici di loro tornarono nel Vezzena. A metà della strada del Menador incontrarono il servo dell’osteria con due bambini, diretti a Levico per frequentare la scuola. Fiabe, leggende, storielle 213 hatt gevüart ka Leve zo giana ka schual. Kan sèl håmsa khött: «Du hasts darratet zo giana vort». In Vésan ista gebest dar alt birt un da alt, a boratatar sun un sai vrau, a djunges khinn un a diarn vo zbuanzekh djar, a zagoinar in pétt krånkh un a schüsslar vo Lusérn, ’s Paüle Draitzane. Das earst bo sa håm getånt di franzésan bal sa sèm soin gerift, soinsen gemacht gem z’ èssa un zo trinkha. Denna håmsa gevånk in sun von birt, håmen gevüart au in a khåmmar un håmen gepuntet di hént aft’n rukkn, un denna håmsen augehenk. Denna håmsa gevånk in alt un di diarn un di vrau von sun un håmse argestocht. In Draitzane, in schüsslar, håmsen gespèrrt in in a khemmarle un håm khött: «Du plaibe sèm!» Denna håmsa gevånk da alt un håmse gezóget pa stiage nidar in tiaf khèldar: sèm hatsen gemöcht zóang ’s gèlt, un denna håmsase getöatet pitnan hültzran slégl. Dar schaffar von soldan hatt gemacht glüanen in òvan zo djukha drin das khlumma khinn vo drai månat, zo vorprenna. Ummandar von sèln zbölve hatt gesek ditza khinn, bo den hatt asó ågelacht, un er hatt khött: «Latmars miar ditza khinn!» Un dar schaffar hatt khött: «Ja, bar lassandars, asto bill gian du in soin platz in in óvan». Balda dar soldado hatt gehöart asó, hattar ingelatt djukhan ’s khinn. Das lést hàmsa getöatet in zagòinar. Dar Lusérnar, bo da is gebest gespèrrt in in khemmarle, hatt gehöart alls. Baldar hatt gehöart da soin in di khåmmar von zagòinar, hattar offe gezèrrt di tür un is auvar khent laise laise un hatt genump sai zumma aft’n rukkn un is vonkånt. Al servo dissero: «Tu l’hai indovinata allontanandoti da casa». In Vezzena erano rimasti il vecchio padrone e la vecchia, un figlio sposato e sua moglie con un figlioletto e una ragazza di venti anni, uno zingaro a letto ammalato e uno stovigliaio girovago di Luserna, il Paoletto Draizane. La prima cosa che i francesi fecero, quando arrivarono, fu di chiedere da mangiare e da bere. Poi presero il figlio dell’oste, lo fecero salire in una camera da letto, gli legarono le mani dietro la schiena e lo impiccarono. Presero poi il vecchio, la ragazza e la moglie del figlio impiccato e li accoltellarono. Il Draizane, lo stovigliaio di Luserna, lo rinchiusero in una stanzetta e gli ordinarono di restare là dentro. Presero la vecchia e la trascinarono giù per la scala, nel profondo della cantina: là dovette mostrare dov’era nascosto il danaro, poi anche lei venne uccisa con una mazza di legno. Il capo dei soldati fece quindi accendere la stufa per buttarvi il piccolo di tre mesi a bruciare. Uno dei dodici, però, vide il bambino che gli sorrideva e disse: «Lasciate a me quel bambino!» Ma il capo gli rispose: «Sì, te lo lasciamo… Se tu prendi il suo posto nella stufa». Sentito questo, il soldato lasciò che uccidessero il bambino. L’ultimo ad essere ucciso fu lo zingaro. Intanto il lusernese, che era stato rinchiuso nella stanzetta, aveva udito tutto e, quando sentì che i soldati stavano arrivando nella stanza dello zingaro, aprì a forza la porta e piano piano uscì, si caricò la cesta sulle spalle e scomparve. Giunto nella parte più alta del Vezzena, si voltò a guardare in- 214 Luserna: c’era una volta Baldar is gebest aft’s ék von Vésan, hattar hintar geschauget un hatt gesek ’s haus prennen. Denna issar khent in Bisele un hatt khött in laüt bassar hatt gesek un gehöart.Baldar is gerift in Bisele, issar draukhent zo haba sai zumma aft’n rukkn: vorå hattar, von srakh un vo dar vórt, nèt gebisst zo haba di zumma. In tage darnå soinda ingånt di Lusérnar un håm gevuntet alls vorprennt. Dar khnècht von Vésan is ó gekheart bidrum vo Leve un hatt gevuntet alls vorprennt. Denna issar gånt un hats khött in kapitåno von soldan; dar sèl hatt någevórst bele ’s soinda vort gebest in sèl tage un hatse gevuntet alle zbölve, un dar sèl bo da hatt geböllt haltn ’s khinn, hatten khött alls bia ’s is gebest un bas sa håm getånt. Bal da dar kapitåno hatt darvert alls, hattarse gemacht au héngen alle zbölve. dietro e vide la casa già in fiamme. Poi raggiunse il Bisele e raccontò ciò che aveva visto e udito. Si accorse di avere ancora la sua cesta sulle spalle, mentre prima, sia per la paura che per lo spavento, non si era neppure reso conto di averla con sé. Il giorno dopo i lusernesi si recarono in Vezzena e trovarono tutto bruciato. Giunse anche il servo di ritorno da Levico. Poi egli tornò a Levico a riferire ogni cosa al capitano di quei soldati; il capitano indagò riguardo a chi si era allontanato in quel preciso giorno e così li scoprì tutti. Il soldato che aveva voluto salvare il bambino spiegò come si erano svolte le cose e ciò che avevano fatto. Quando il capitano seppe tutto con esattezza, li fece impiccare tutti e dodici. Fiabe, leggende, storielle 215 Racconto nr. 41 Dar pua bo da nå hatt gedjukht in akslstekh in per Vor vüchzekh, sechzekh djar soinda gebest a viar månnen vo Lusérn zo bèksla di hültzran hüttn aft ’n an bélesen perng. Se håm gemöcht nemmen ’s gehültz von altn hüttn zo tragas aft ’n an åndarn platz zo macha au di khesarn vo naügum. Di månnen soin khent alle mal z’ slava in Bisele un datz mòrgas soinsa augestånt un soin gånt zo macha sai arbat. In an mörgan soinsa augestånt zo giana zo arbata. A djungar pua in di zbuanzekh djar is gånt vorånahi singane un visplane. Di åndarn håmen nå gehóket: «Christ, schauge, ’s khinta dar per, schauge, ’s khinta dar per!» Er hatt nèt gehöart un is gånt vürsnen singane. Di åndarn håm bidar gesriget. Denna hattaren gesek er ó: dar is lai gånt zo bölla vången in per zbischnen in arm un haltnen zo paita bo da zuarrivan di åndarn pit ’n an pail zo töata in per. Atz halbe in bége zbischnen in khesarn håmsa augehatt gerichtet a holtz zo léga drau di purde zoa zo rasta. Baldar is gebest sèm, dar pua issese gevuntet ats ummandar sait vo dar rast, un dar per af da åndarn. Dar pua hatt ågeschauget in per, un dar per is augekheart panar stikhln lait, un dar pua hatten nå gedjukht in akslstèkh un hatt darbist in per in de hintarn schinkh. Dar per issese a pissle umgekheart un hatt ågeschauget in pua un denna issar gånt vürsnen au pa lait un is gånt óbar ’s ék in; bén dar is gebest in zalt in ék, issar bidar gekheart bodrùm aft’s ék un hatt geschauget bidar hér zuar in pua. Drai vért hattar gemacht dar per Il giovane che lanciò il bastone dietro all’orso Cinquanta o sessant’anni fa, alcuni uomini di Luserna erano impegnati a spostare le casàre di legno di una malga italiana. Dovevano prendere il legname di quelle vecchie e portarlo in un altro luogo, dove rifare le casàre daccapo. Tutte le sere quegli uomini venivano a dormire nel Bisele e al mattino si alzavano e andavano al loro lavoro. Una mattina si erano alzati e stavano andando al lavoro. Il giovane di vent’anni camminava avanti agli altri cantando e zufolando. A un certo punto gli altri uomini gli gridarono: «Cristiano, sta attento, l’orso si avvicina, sta attento, l’orso si avvicina!» Egli non sentì e proseguì cantando. Gli gridarono ancora; allora vide anche lui l’orso. Si mosse però subito per andare a pigliarlo, pensando di prenderlo colle braccia e trattenerlo fino a quando fossero arrivati gli altri colla scure per ammazzarlo. A metà strada tra le casare vecchie e quelle nuove, gli uomini avevano piantato un tronco, sul quale posavano il carico durante le soste. Quando fu là, il giovane si trovò da un lato di quel legno e l’orso dall’altro. Il ragazzo guardò l’orso e l’animale si girò e prese a salire una costa ripida; il giovane gli lanciò dietro il bastone che gli serviva a spartire il peso del carico sulle spalle e colpì l’orso sulle cosce posteriori. L’orso si voltò a metà, fissò il giovane e poi proseguì la sua salita e giunse in cima al dosso. Quando fu al di là del dosso, tornò sui suoi passi Fiabe, leggende, storielle 217 dassèl spil, un denna hattar gevånk in balt un hatt hånt gelék zo lürna asó schaüla, assar hatt gemacht zittarn alle di béldar. Dar pua, bo dase vorå nèt hatt gevörtet, in höaran in per is khent zo darkhenna bas da is a per. e si fermò a guardar giù verso il giovane. Per tre volte ripeté questo gioco, poi prese deciso la via del bosco e cominciò a bramire e bramì così forte da far tremare i boschi intorno. Allora il giovane, che prima non aveva avuto paura, a sentirlo bramire a quel modo, capì che cosa era un orso. 218 Luserna: c’era una volta Racconto nr. 42 Dar per un dar vinkh L’orso e il fringuello A djungar per is gånt in pan an balt, gaülane un lürnane. Denna hatten gehöart a vinkh un dar sèl hatten gerüaft un hatt khött: «Bas hasto, asto asó lürnst un asó gaülst, liabar mai per?» Un dar per hatt khött: «I hån vorlort mai måmma un i vång khuan åndra milch». «E, bas is dassèl?» Hatten khött dar vinkh. «I hån o nia khuana gevånk milch un lebe alls ummas». «E» hatten khött dar per, «Vinkh, vinkh, ma khéntars å in di schinkh, du hast gepappet khuana milch» ! Un giovane orso era entrato nel bosco piangendo e ruggendo. Un fringuello lo udì, lo chiamò e gli chiese: «Che cosa hai orso mio caro, che piangi e ruggisci così forte?» L’orso gli rispose: «Ho perduto la mamma e non potrò più avere un goccio di latte». «Eh, che significa questo!?», gli chiese il fringuello, «neppure io ebbi mai del latte, eppure vivo egualmente». «Oh sì, fringuello, fringuello», obiettò l’orso «ma lo si vede bene dalle tue gambette che tu non hai mai avuto un goccio di latte!» Fiabe, leggende, storielle 219 Racconto nr. 43 ’S khinn un dar burm Il bambino e il serpente In ar bòtta ista gebest a muatar pitn an khinn vo zboa djar nidar in di rovölt von Polèz; un in an mal hatsen gètt a höltzrans schüssele, drin pit pult un milch, disan khinn un hats gelék aus aft’n bége z’ èssa, ditza khinn. Un balamån di muatar hats gehöart ren ’s khinn, un si hatt gelüsant un hatt gehöart dise bort: «Papp àu gnöllela o, nèt alla mila!» … un lai hats gedjukht pitn löffl aft’n khopf von burm … un di muatar hatt geschauget un is darsrakt un is gånt un hatt genump ’s khinn un hats nimmar mear gesotzt aft’n bége z’ èssa. Una volta, giù al piano terra dei Paolaz, vivevano una mamma ed il suo bambino di due anni. Una sera la madre diede al piccolo una ciotola piena di polenta e latte e lo mise a mangiare seduto in prossimità della strada. Non era passato molto tempo quando la madre udì il bambino parlare, stette ad ascoltare e sentì queste parole: «Mangia anche i bocconi di polenta, non soltanto il latte!» Dopo di che il bambino picchiò col cucchiaio sulla testa del serpente. La mamma rimase a guardare e si spaventò, poi andò e prese in braccio il piccolo, ma da quel giorno non lo mise mai più a mangiare sulla strada. 111 Bacher annota: «Zingerle 564». 111 220 Luserna: c’era una volta Racconto nr. 44 Dar ork L’orco Vor éttlane djar pan summar, soinda gebest viar månnen in in Bisele zo mena ’s höbe. Balamån, in gianan òine di sunn, in drai håm genump di sengest af di aksl un soin khent auvar huam. Vor sa soin partirt zo khemma huam, håmsa gerüaft in åndar un håm gevorst z’ sega be dar khint un er hatt khött: «Nå nonet, am earstn bille rivan» … un di åndarn alora håm darbist in bége un soin khent humman. Dar åndar hatt gerift di arbat spet un baldar is gebest vérte hattar a pissle gerastet un denna issar partirt un is khent auvar von Bisele er o; ma ’s is aromài ge- Anni fa, d’estate, c’erano quattro uomini nel Bisele impegnati a falciare l’erba. Ad un certo punto, tramontato il sole, tre di essi si posero la falce sulle spalle per tornare a casa. Prima di andarsene, però, chiamarono il quarto e gli chiesero se voleva partire con loro; ma questi rispose: «No, non ancora, prima voglio finire». I tre si misero allora in cammino e andarono a casa. Il quarto terminò tardi e, quando ebbe finito, riposò un po’, poi si mise in cammino anche lui per tornare a casa; ma era oramai notte e si era fatto così buio da non riuscire più a ve- 112 Bacher annota: «Per la denominazione orco cfr. Schneller 218 e seg., Heyl 616, 83, Zingerle 2, 3 e le numerose leggende sugli orchi in Zingerle e in Heyl B. Lieder». 112 Fiabe, leggende, storielle 221 best spet pa dar nacht un is gebest tunkl, assarda nicht hatt gesek. Un disar månn is khent graivane un baldar is gebest ka dar hülbe von Kraütz hattar gevuntet in ork on darsèl hatten nèt geböllt lassan vür gian un alora dar månn hatt genump soi méssar un hatten gètt sim stich in ork un denna hattar genump di khear au zuar in grisate termar un is gerift humman squase toat vo srak. Huam assar is gebest hattar khött soin laüt bassen is vür khent. In tage darnå håm augevånk a drai månnen un soin gånt z’ sega bis is bar ke dar hatt abegestocht in ork; ma balsa soin gebest ka dar hülbe von Kraütz håmsen gemöcht haltn in pauch zo lacha ombrom dar månn hatt gehatt gètt sim stich in an grisatn khnot un vo densèl tage å, insèl månn, håmsen hèrta khött “dar ork”. dere. Procedeva a tastoni e quando si trovò alla pozza della croce, incontrò l’orco e questi non volle lasciarlo passare. Allora l’uomo tirò fuori il suo coltello e assestò sette colpi all’orco; poi si volse e cominciò a salire verso il masso grigio che segnava il confine e arrivò a casa quasi morto dallo spavento. Giunto a casa, raccontò ai suoi ciò che gli era capitato. Il giorno dopo, però, alcuni uomini di Luserna si incamminarono e andarono a vedere se era vero che aveva accoltellato l’orco; ma quando furono alla pozza della croce si dovettero tenere il ventre dalle risa, perché le sette coltellate le aveva date ad un masso grigio. Da quel giorno in poi quell’uomo venne chiamato da tutti “l’orco”. 222 Luserna: c’era una volta Racconto nr. 45 Dar schavar untar di trupfan Il pastore che dorme anche sotto i goccioloni Vor djar ista gebest a schavar in in Obar Bisele pit soin öm. In an mal issar khent abe kan diarnen von Untar Bisele zo puala. Sèm hattar aukontart in diarnen ke er hatt an ringen slaf; astase ummas rüart, issar lai bachant; un di diarnen håmsen nèt geböllt gloam un håmen ausgelacht. Vort assar is gebest, håmsasen ausgerédet in fra sé zo provara z’ sega bis is bar odar nèt. Ma möcht bissan ke di khüdjrar un di schevar slavan nèt in di khesar, ma sa håm klummane hüttla, augemacht pit holtz un untar soinda zboa långe stången, as ma möge hévan ’s hüttle un trangs bo ma bill. In in a söllas hatta geslaft dar schavar o. In an mal, dopo òine di sunn, hatta Anni fa c’era nel Bisele di Sopra un pastore colle sue pecore. Una sera scese al Bisele di Sotto per andare a filò. Là raccontò alle ragazze che aveva il sonno leggero e che se il vicino si muoveva, egli si svegliava. Le ragazze non gli credettero e anzi lo derisero. Quando poi se ne fu andato si accordarono per metterlo alla prova in modo da verificare se quello che aveva raccontato era vero o no. Occorre sapere che i vaccari e i pastori non dormono nelle casàre, ma possiedono delle capanne in legno dotate di un paio di stanghe inserite sotto la base, in modo da poter sollevare la capanna stessa e portarla dove il pastore vuole. Fiabe, leggende, storielle 223 geschaint schümma dar må, un di diarnen von Untar Bisele håm audarbist un soin gånt au afn pèrge von Obar Bisele un håm gevånk di hütt drin pitn schavar un håmse getrakk nidar in tal vo dar Tuvar, a halba ur vort von pèrge, un håmse gelék untar di trupfan bo da khemmen von krötz abe. Dar schavar hatt no hèrta geslaft. Ats mòrgas, bals is khent tak, dar schavar is darbekht un hatt gehöart di trupfan ats tach von hüttle un hatt gemuant, ’s renk. A pissle spetar hattar gesek laüchtn di sunn in pa slüaf vo dar hütt, un alora hattar offe getånt di tür un hatt geschauget bo da is di sunn un hatt gesek ke ’s is palle mittartage un lai hattar gesek bo dar is. Alora hattar gelatt sèm di öm zo hüata in åndarn schevar un hatt augevånk un is gånt humman un is nimmar mear åndarst khent in Bisele. Una sera, tramontato il sole, la luna cominciò a splendere limpida e le ragazze del Bisele di Sotto si misero in cammino, arrivarono alla malga del Bisele di Sopra, presero la capanna col pastore dentro e la portarono giù nella valle della Tuvar, una mezz’ora di strada dalla malga stessa e, giuntevi, la posarono giusto sotto alle gocce che cadevano dalle rocce. Il pastore continuò a dormire. La mattina dopo, fattosi giorno, egli si svegliò e sentì le gocce cadere sul tetto della capanna, ciò che gli fece credere che stesse piovendo. Un po’ più tardi però vide splendere il sole attraverso le fessure della capanna. Spalancò la porta, guardò a che punto era giunto il sole e si accorse che era quasi mezzogiorno, non solo, ma capì anche dove si trovava. Allora lasciò le pecore in custodia agli altri pastori e se ne andò a casa, deciso a non venire mai più nel Bisele. 224 Luserna: c’era una volta Racconto nr. 46 Dar lustege pua au afn perge Kostalta Il giovane burlone della malga Costalta Dar sèl lustege pua, bo da hatt gehatt zo tüana pitn per in afn belese pèrge, in an summar issar gebest als khüdjrar au in Kostalta; ditza is gebest in djar sekhsundraizek (1836), dassèl djar, da in de nåmpn lentar ista gebest dar kolèra. In an morgan ista zuagånt a kropf vo Leve z’ sega vonar khua un er issar zuar gånt, disarn khua, zo vorsa bisar geat, z’ sega bise vint zo vrèssa, besar gem saltz, bisase haltn gearn un bisen git vil milch un asó vort. Dar lustege pua hatten gesek un hatten ausgelüsant bassar hatt khött ka disarn khua, un hatt gemuant, dar månn is narrat. Denna dar månn is gånt zuar dar khesar un dar pua issen gånt inkéng un hatt khött: «Du möchst bissan, ’s issas khent geschaft as bar håm zo roacha alle de laüt bo da khemmen ar in di khesar, zoa zo bohüatanas vo disan letz beata bo da ummar is, ombrom da kan üsåndarn ista nonet khuanar». Un dar kropf hatten gevorst z’ sega besa no håm geroacht åndre o, un dar pua hatt khött vo dja; un dar kropf alora hatt khött: «Bassar hatt getånt pitn åndarn, tüat pit miar o». Denna dar pua hatten in gevüart in di khesar, hatten ågehénk pitn soal um in laip, hatt gedjukht ’s soal obar a holtz bo da is gebest au in khemmech, un hatt gezoget in kropf au in khemmech un hatten ågepuntet au hoach. Denna hattar ingetrakk grümmane tesan un hatt gemacht ’s vaür. Vo disan tesan ista augånt a schaüladar stinkhatar roach. Lo stesso giovane burlone che aveva avuto a che fare con l’orso, su alla malga italiana, una estate si trovava come vaccaro alla malga Costalta. Il fatto accadde nel 1886, l’anno nel quale ci fu il colera nelle località intorno a Luserna. Una mattina arrivò in malga un gozzuto di Levico per aver notizie di una sua mucca e si avvicinò alla bestia, le chiese come stava, se trovava da mangiare, se le davano il sale, se la trattavano bene e se faceva molto latte e così via. Il giovane burlone lo vide e ascoltò quanto andava dicendo alla mucca e pensò che si trattasse di un pazzo. L’uomo poi andò verso la casara e il giovane gli andò incontro e gli disse: «Devi sapere che abbiamo avuto ordine di affumicare tutti coloro che arrivano alla casara allo scopo di proteggerci dalla epidemia che infesta i paesi qui intorno, dal momento che la malattia non è ancora arrivata qui da noi». L’uomo di Levico chiese se già avevano affumicato altre persone, e il giovane rispose di sì. Allora quello fece: «Ciò che avete fatto agli altri, fatelo anche a me». Così il giovane lo condusse dentro alla casara, lo appese con una corda a una trave che passava sotto al camino, lo sollevò e lo sospese in alto. Poi portò dentro rami verdi d’abete e accese il fuoco. Da quei rami salì un fumo nero che nessuno poteva tollerare. L’uomo cominciò a tossire, a imprecare e scalciare finché arrivò a 226 Luserna: c’era una volta Dar månn hatt hånt gelék zo gorgla un zo kénka un hatt vorprocht ’s soal un is gevallt ar af di mitt von vaür. Alls in an stroach issar gesprunk zo vuasan un pa tür aus loavane, un hatt geböllt vonkian; un dar lustege pua issen någeloft disan månn, assarse auhalt un assar khear bodrùm, dar gitten z’ èssa; un dar levegar hatt khött, er kheart nemear bidrum fin in di khesar, un dar pua hatten gemöcht trang z’ èssa aus af di étz’. rompere la fune e cadde nel mezzo del fuoco. Con un balzo fu in piedi, corse alla porta e scappò. Il giovane burlone gli corse dietro, lo pregò di fermarsi e tornare dentro, perché voleva dargli da mangiare, ma il levighese rispose che non sarebbe tornato mai più dentro alla casàra. Così il giovane gli dovette portare da mangiare fuori nel pascolo. Fiabe, leggende, storielle 227 Racconto nr. 47 Di bolf I lupi a) In an stroach soinda gebest zboa prüadar: ummandar hatt gemacht in saltaro, un dar åndar is gestånt dahùam zo macha in bakå. In an tage ista huam khent dar saltaro vrüadar bas di åndarn mal un hatt khött in prüadar ke dar hatt gesek hundart bölf un dar djung pruadar hatsen nèt geböllt gloam un hatt khött: «Nå, nå, i gloadars nèt». «Bèn, – hattar khött dar saltaro: «Alora soinsa gebest noünzekh». «Noünzekh soinsa o nèt gebest» – hattar khött dar djung». «Alora, – hattar khött dar saltaro, – soinsa gebest achtzekh». «Achtzekh o nèt» – hattar khött dar djung… un dar saltaro hatt hèrta khött zene mindar, fin assar hatt khött: «Bèn, alora barts soin gebest uandar». «neånka umman hasto nèt gesek» – hattar khött dar djung. «Bèn, – hattar khött dar saltaro, alora barts soin gebest a stokh» … on vo densèl tage å, ìn sèln zboa prüadar, hamsen hèrta khött «di bölf». b) Disan zboa prüadar issen khent in sint zo boratase, un asó soinsa gånt zo puala un soin gånt péade ka ’nar diarn, un si hatse genump in vorhoasom alle péade, un alora dise zboa puam håm nèt gebisst bia zo tüana un håm khött in fra séåndre: «Bèn, biar méchlnse péade, bar håm genumma pit ummas a baibe in ünsar haus. Est geabar kan faff un khönen assarsas lass méchln» … un se soin gånt kan faff; ma dar faff hatsen nèt gelatt méchln, un se soin gånt zo pitta in Véskovo, assarsen lass méchln. Dar éltarste hatten genump di schua C’erano una volta due fratelli: uno di essi faceva il guardaboschi comunale e l’altro era rimasto a casa a lavorare la terra. Una sera, il saltaro tornò a casa più presto delle altre sere e andò a dire al fratello che aveva visto un centinaio di lupi. Il giovane non gli volle credere e gli rispose: «Niente affatto, non ti credo». «Bene», fece il saltaro, «allora saranno stati novanta». «Neppure novanta» disse il giovane. «Allora», replicò il saltaro, «erano ottanta». «Nemmeno ottanta» rispose il giovane. Il saltaro continuò a proporre ogni volta dieci capi in meno fino a quando disse: «Bene, allora sarà stato uno solo». «Tu non ne hai visto nemmeno uno!», concluse il giovane. «Bene», disse il saltaro «allora sarà stato solo un ceppo». Da quel giorno in poi quei due fratelli furono chiamati «i lupi». A questi due fratelli venne in mente di sposarsi e andarono a cercare una ragazza, ma andarono dalla stessa ragazza e questa promise di sposare entrambi, per cui i due fratelli non seppero più come fare e, parlando insieme, finirono col dire: «Bene, la sposeremo tutti e due, ci basta una donna a casa nostra. Adesso andremo dal prete e gli diremo di darle la dispensa per fare doppio matrimonio…» e andarono dal parroco. Ma il parroco non diede il consenso. Allora andarono a chiedere al Vescovo il consenso per il matrimonio. Il maggiore si pose le scarpe sulle 228 Luserna: c’era una volta atti aksln, dar djung hatten ågelék di gélbarn. Balsa soin gebest vor in palatz von Veskovo, dar eltarste is in-gånt in palàtz zo giana gerade vorå in Veskovo, un dar djung is gestånt sèm af di tür. Baldar is gebest vorå dar tür vo dar khåmmar von Veskovo, dar alt, dar sèl bo da sèm is gebest zo hüata, hatten nèt geböllt lassan in gian, un er hatt sovl getånt, fin assaren hatt gelatt gian. Balda dar Veskovo hatt gesek disan månn, hattaren gevorst z’ sega bassar tüat pitn schua au af di aksln, un er hatt khött: «Di schua légese å balde géa vorå den noblischen laüt» … un dat Veskovo hatten gevorst z’ sega bassar bill, un er alora hatt khött: «Sirgum et in sergum sergum» … un dar Veskovo is darsrakt un hatt khött ka den sèln bo da sèm soin gebeest: «Vånkten un vüarten vort in sèl arm månn!» … un se håmen gevüart abe aftn bége. Sèm ista gebest dar djung pruadar zo paita, un er hatten gevorst: «Bia is dar abe gånt, pruadar?» «’S is mar gånt létz, i håns augenump karza hoach; géada, ma nimms nèt au asó hoach». Un alora ista gånt dar djung un baldar is gebest vorå in Veskovo, issarse nidar gekhnonk un hatt khött: «’Zelénza dábit, miserère nobis», … un dar Veskovo hatt ågeheft zo lacha un hatt khött: «Géa, géa, armar månn, du o» … un dar månn is augestånt un is khent züntrest dar stiage, un sèm hattar gevuntet in pruadar, un darsèl hatten gevorst z’ sega, bia’s is gånt. «Guat, guat, – hattar khött – géabar est» … un håm audarbist un soin khent zuar huamat. 113 Zoccoli di legno. spalle e il più giovane infilò le “ghelbare” di legno 113. Arrivati davanti al palazzo vescovile, il maggiore entrò, deciso ad arrivare davanti al Vescovo, mentre suo fratello restò ad aspettare presso il portone. Il maggiore giunse dinanzi alla porta della stanza del Vescovo, ma il vecchio che stava di guardia non voleva lasciarlo passare. Il saltaro, però, tanto fece e tanto disse, che alla fine il vecchio lo lasciò entrare. Quando il Vescovo si trovò davanti quell’uomo, gli chiese che cosa faceva con le scarpe sulle spalle. Egli rispose: «Le scarpe le metto quando ho da presentarmi a nobili signori». Il Vescovo chiese che cosa volesse ed allora disse: «Sirgum et in sergum sergum…» ma il Vescovo si spaventò e ordinò alle guardie: «Prendetelo e portatelo via, quel poveraccio!…» e quelle lo presero e lo condussero subito giù in strada. Là stava il fratello lo stava aspettando e gli chiese: «Come è andata, fratello?» «Mi è andata male, perché l’ho presa troppo alta; va tu, ma non partire così dall’alto!» Allora il giovane andò e, quando fu davanti al Vescovo, si inginocchiò e fece: «Zeléza dabit, miserere nobis…» ma il Vescovo cominciò subito a ridere e disse: «Va, poveraccio, va anche tu!» Il giovane si alzò e scese le scale e raggiunse il fratello che aspettava all’entrata del palazzo, curioso di sentire come fosse andata. «Bene, bene», disse il giovane «adesso andiamo…» e partirono di là e fecero ritorno a casa. Giunti a casa, prepararono tutto ciò che occorreva per le nozze e poi scesero a valle a prendere un otre di vino. Fiabe, leggende, storielle 229 Huam assa soin gebest, håmsa boroatet alls bas da bill soin, zo boratase, un denna soinsa gånt nidar in taal zo nemma a vessle boi. Balsa håm gehatt in boi, hattar khött dar djung: «Est du pruadar nimm in boi un géa, umbròm i much no gian kan ünsarn laüt zo invidarase a notze» … un dar éltarste hatt augenump ’s vass un is khent huam. Baldar is gebest aft ’s halbe von beghe, hattar nidargelék ’s vessle zo rasta un lai zo giana abe a bege zo lassa nidar di pruach. Baldar is gebest abe a beghe, hattar gesek an mudl pa bege nidar, loavane … un er, darbist in bege, is geloft auvar pa bege, ombrom dar hatt gemuant, ’s is dar bolf, un invétze is gebest ’s vass von boi. Dar pua, baldar is gebest humman, issar darlaichtet un is gestorbet vo srak; un alora di laüt håmen getrakk au af di tetsch zoa assar stea vrisch un assar nèt stinkh. Quando ebbero il vino, il più giovane disse al fratello: «Va tu a casa col vino, perché io devo ancora andare dai parenti per invitarli a nozze». Il più vecchio si caricò dell’otre e partì. Aveva percorso metà strada, quando mise a terra il carico per riposarsi. Lasciò l’otre e scese sotto la strada, perché aveva bisogno di slacciarsi i calzoni. Ma di là tutto ad un tratto vide un grosso involto scendere per la strada e, credendo che si trattasse del lupo, si alzò e partì di corsa in direzione opposta. Non si trattava però del lupo, ma soltanto dell’otre di vino. Il saltaro correndo, arrivò a casa, ma appena arrivato svenne e poi morì dallo spavento avuto. I vicini provvidero subito a portarlo su nel fienile perché restasse al fresco e non puzzasse. Qualche momento più tardi il fratello più giovane, percorrendo la stessa strada, incontrò l’otre che ancora 230 Luserna: c’era una volta A pissle spetar ista nå khent dar djung un hatt bokhent ’s vass pa beghe nidar khuglane, un er hatt genump au in palge un is khent humman. Baldar is gebest humman, hattar gevorst von pruadar, un di laüt håmen khött, dar is toat. Alora hattar ågevånk zo gaüla, zoa zo macha seng in laüt ke dar tüaten ånt, un invétze hattars gesek géarn, ombrom asó issen geplibet di spusa imen alumma. Un in tage, bo da soin khent di parent z’ sega in hoasat, håmsa earst bograbet in saltaro, un denna dar djung pruadar hatten gekhocht a guata tschoi. scendeva rotolando. Lo prese e lo portò a casa. Giunto a casa, chiese del fratello e i vicini gli dissero che era morto. Allora egli cominciò a piangere per mostrare agli altri il suo dispiacere, mentre in realtà non gli dispiaceva affatto che il fratello fosse morto, perché così la sposa restava a lui solo. Il giorno in cui giunsero i parenti per le nozze, insieme provvidero prima a seppellire il saltaro e poi il giovane preparò loro una buona cena. Fiabe, leggende, storielle 231 I luoghi citati nei racconti Luogo n. racconto Sbånt (6) Vezzena (6) S. Sebastiano (7) Dross in Valdastico (11) Lèrchovel (11) giù dai Paolàz (Hof) (12) Valle di Jau (Malghe sui Marcai) (12) Cogollo (14) Cavorzio (18) Bosco di faggi (Lago di Lavarone) (19) Voragine di Giacomino (20) Khlapf (21) Buco del denaro (21) Millegrobbe (21) Pozza della Pontara o dello Sbånt (21) Schrotten (21) Caldonazzo (22) Menador (22) Pietro dà una spinta (22) Levico (26) Lanzì (27) Levico (28) Pergine (28) Malga Costesìn (29) Rocca Tampf (29) Löchar (bosco del Comune) (33) Trögla (33) Fratte del Camp (33) Malga Gazo (33) Pozza del Nokh (33) San Pietro (in Val d’Astico) (33) Malga Krojar (33) Bisele (34) Masetti (35) Gras-laita (35) Lavarone (35) Malga Campo (38) Malga Vièz (38) Monterovere (39) Laas (39) Vezzena (40) Bisele (41) giù dai Paolàz (Hof) (43) Pozza della croce (44) Bisele di Sopra (45) Bisele di Sotto (45) Valle della Tuvar (45) Malga Costalta (46) 232 Luserna: c’era una volta B. Canti A causa dell’influenza dell’ambiente italiano, a Luserna sono infine completamente caduti nell’oblio i canti liturgici e profani. Di quelli liturgici posso solo citare alcuni passaggi che i vecchi lusernesi recitano a modo di preghiera. Per il rispetto per loro, come formule di preghiera antiche, si sono conservati fino ai giorni nostri, ma con il tempo alcune parole e loro forme, come il preterito 114, sono diventate incomprensibili ai lusernesi; perciò la storpiatura e la commistione. Del canto popolare profano non si è conservato nulla tranne alcuni ritornelli dei bambini. I. o muatar templ sakh!… ’s khemen drai engl von hümbl ar On khö(d)n: bas tüat ar da, as ar so traure sait? Bölt ar nètt traure sain? Di fazegen ju(d)n Håm geslak mai hailiges khin bet an fatzegen dorn, pet an fatzegen zorn on darpai higetrak be d’i venat anuaneges mentsch vo disarn bèlt, bölat e ’s kherzan bet huameschar khertz on alle di lestn soine ta’ bölnt e salbart soin darnå 115. Nota. Si legge in 1: timpl oppure in timpl. Si accordano i primi 4 versi di una canzone che ho registrato a Faogna da persone anziane: haint ischt (t)i hailige såns-tignocht, wou maria in templ vocht. Dr templ wor ir milt unt sias. – ’s khimp an enl, der si griast. 114 Il preterito (praeteritum) in tedesco si usa per le narrazioni riferite a fatti avvenuti in un passato distante nel tempo di tipo letterario e corrisponde all’incirca all’imperfetto e al passato remoto in italiano. 115 Ecco qui riportata la traduzione del Bellotto: «O Madre dolorosa, racconta!…/Scendono tre angeli dal Cielo/ E dicono: – Che fate voi qua / Così tristi? – / – Perché non dobbiamo esser tristi? / Quei Giudei detestabili / Han coronato la mia creatura santa / Di orribili spine, / L’han colpita con indicibile rabbia / E poi l’hanno portata via. / Se trovassi una sola persona / Di questo mondo, / Le metterei intorno / Tutti i nostri fiori, / Le accenderei intorno / Mille candele / E nei suoi ultimi giorni / Vorrei io stessa restarle accanto». Conte, canti, giochi e detti 233 5 - 9 formano, in Tratters Gesangbuch, la terza strofa della canzone quaresimale: “Als Jesus in den Garten ging” (Quando Gesù andò nel giardino). - Per 11 - 16 rinvio a Bone, cantata “Die Schmerzenswoche” (La settimana della passione), di cui manca la fine che ho appreso sempre a Faogna da una persona anziana: het i nur oa mentsch, der mier en guldnen fotrunser die gånza mortewoch, ten wolit i’s pelonen, ten wolit i ererzn mit himlischen kherzn. Il frammento I ricorda in parte vecchie lamentazioni mariane documentate in Tirolo già nel XVI sec. (Altdeutsche Passionsspiele aus Tirol, ed. Wackernell 145 ss.). Lo stesso vale per i frammenti seguenti: II Traur-gepet vo dar armen muam agata. 1. bo da hat gewandart ünsar liabar hear bobral durch s fremega lant, bo da hat gejöschart bar dar khamt, bo bar gianatan ka sa-peatar /: bet saindar etlan stean:/ 2. etla etla khunegla von aldar belt dar tröasele – hast do nia gesek in almechtage got? Ja, ja bar håm en gesek nechta spet Durch valschan ju(d)n hausan gian, /: bet pluatan übarstian:/ 3. o dürana khrua! On di khrua, bo böl ar sa tragn? Dar trug se bol au af an perge… 4. on tiava lant on hoache pergn on an åndars khraüz in soindar hånt on gem in sen onar alle di lant, finamai bo da möge gerekharn bet aürndar laim hailigen hånt 116. Bellotto traduce «Dove andò vagando il nostro Signore / Lontano per terra straniera, / Dov’era… egli andò, / Perché noi andassimo ci recassimo da San Pietro / Con tutte le sue… / Più d’un re d’ogni parte del mondo… / Hai mai visto il Signore onnipotente? / Sì, sì, lo vedemmo l’altra notte / Per i quartieri dei Giudei falsi passare / segnato di sangue / O irta corona! / Ma la corona dove vuole portarla? / Egli la portò fin sopra al monte / Per valli profonde e alti monti / Con un’altra croce in mano / A dar la benedizione a tutte le terre, / Fin dove essa giungerà / Colla vostra santa mano». 116 234 Luserna: c’era una volta Per questo frammento cfr. un canto pasquale in uso nei Sette Comuni (Cimbr. Wb. v. Schmeller-Bergmann p. 136). Ba (wo) banderte d’unzar Vrau, ba bandarte in vrömede land? Un hat den Jesus nindart dorvant. Habetar nindar geseghet? Den liborsten Sun den main? Un den halgosten Gott den main? Ich sagten bul nechtent spete Vor Juden-haus aufgheen, un vor Juden-haus aufgheen. Baz trigar af sainar haüte? A croana un a Kreüza, a croana un a Kreüza. Ba trigar z’ halghe Kreüze? Ear trigez auf den pergh – Bittan muatar groaz ar het! Ba trigar num de croana? Ear trighese in de stat – Bittan paine ear nun hat gat. Muter auf, Vrau mutter! Lacetach nicht vordrissen Un lacetach nicht vordrissen. Dar hümmel raich ist eüre, de paine da ist bul main, un de paine da ist bul main. Baz schiket Gott zo koofen? An rosa un an verban plut, An rosa un an verban plut. In lesten von sain zaiten Se’ tüünt bul ime ganuc, un dort allar belte ganuc 117. Bellotto traduce «Dove andò a finire la nostra Signora? / Dove andò a finire in terre Straniere? / Non l’avete incontrato in alcun luogo, Gesù / Il carissimo Figlio mio? / Il santo Signore mio? / Io lo vidi bene a notte tarda / Presentarsi là davanti alle case dei Giudei, / Davanti alle case dei Giudei. / Che cosa portava su di sé? / Una corona e una croce, / Una corona e una croce. / Dove portò la croce santa? / La portò sopra al monte. / Che gran sofferenza la sua! / E dove portò la corona? / La portò attraverso la città – Che gran sofferenza fu la sua! / Fatevi coraggio, Madre santa! / Oh non scoraggiatevi, Non perdetevi d’animo. / Il regno del Cielo è ora vostro, / Ma quella sofferenza è mia, / Quella sofferenza è mia. / Che manda a prendere il Signore? / Un fiore e un…Un fiore e un… / Nei suoi ultimi momenti / Quelli bastano, bastano per Lui, / E (bastano) per tutto il mondo». 117 Conte, canti, giochi e detti 235 Ritornelli dei bambini 1. Ninna nanna Pitele pautele Gea ka mül Pringmar a pröatle Miar on main khin! 118 2. Ninna nanna Ninenå mai popele bar bölnen sian a kokele On vermsen schüa schüa roat on grüa 119 3. Canto da gioco Nidar un au, duch on her Pisto narat to valla at de gleer Variante: Schau bool aut o valla atte geer! 120 4. Canto da gioco Ringa renga, pult on tosela De khatz in gart, dar hunt in schatn. Bem böllbar boratn? Mariale von Seela. Bem böllbar’s gem? In Lenz von mel121. 5. I bambini piccoli cantano: Pater noster hemmarle De muatar is in khemmarle, dar vatar is in haüsle, hattar gevånk a lenteges maüsle, hatten gètt a löffele bassar, hats es nètt geböllt håm; hattaren gètt a löffele boi, is khent trunkhant as be a sboi 122 118 Bellotto traduce «Pìtale pàutale, / va al mulino; / porta un pane per me / e uno pel mio piccino!”. 119 Bellotto traduce «Ninna-na, bimbo mio, andiamo a cuocer un ovetto / e poi a pingerlo per benino, tutto bello, rosso e verde». 120 Bellotto traduce «Su e giù, là e qua - ma sei matto a cadere sulla ghiaia… colla variante: sta bene attento di non cadere sulla ghiaia». 121 Bellotto traduce «Ringa re/la / polenta e tosella / il gatto nell’orto / il cane sotto al filare. / Chi vogliamo maritare? / La Mariella dei Sella. / A chi la vogliamo dare? / Al povero mugnaio (colla variante: rita raita, polenta e tosaita, ecc.». 122 Bellotto traduce «Pater noster martellino, / La tua mamma è in cameretta, / Il papà dentro alla casetta / Dove ha preso un topolino: / Gli volea dare un goccio d’acqua, / nemmé / lo volle bere; / Gli diè allora un cucchiaìn di vino: / È ancora ubriaco come un porcellino». 236 Luserna: c’era una volta 6. I bambini affamati cantano: (basato sul recitativo del n. 5) O måma moina Bas gètta’mar tschoina? De khell af de nas Bo is mai töale? Gevresst di khatz Bu is di khatz! In untar’n dar ovan Bu is dar ovan? Abe geslak ’s slegele Bu is ’s slegele? Vorprennt ’s vaür Bu is ’s vaür? Darlest ’s bassar Bu is ’s bassar? Getrunkht ’s öksle Bu is ’s öksle? Au af’n Khrodjar, Zo nemma an bang odjar vor’n faff 123 7. Quando i bambini insistono con gli altri perché cedano a loro una cosa, dicono: Rümbl rümbl Ber da eppas git, geat in hümbl; Raübl raübl, ber da nicht git, geat kan taüvl 124 8 Pitta grela hoast mai henn, alle morgan auf de penn. Krumpa horna hoast mai khua alle morgan au af de Puach Rita raita hoast mai ross, alle morgan geat’s ka post 125. Bellotto traduce «O mamma mia, / che mi date per cena? / - Il ramaiolo sul naso. / Dov’è la mia parte? / - (L’ha) mangiata il gatto. / - Dov’è il gatto? / - Sotto la stufa. / Dov’è la stufa? / - (L’ha) demolita la mazza. / - Dov’è la mazza? / - (L’ha) bruciata / l fuoco. / - Dov’è il fuoco? / - (L’ha) spento l’acqua. / - Dov’è l’acqua? / - (L’ha) bevuta il bue. / - Dov’è il bue? / - Su a malga Krojar, / a prender un carro d’ova pel pievano». 124 Bellotto traduce «Cielo, Cielo, / Chi qualche cosa dà, vada in Cielo. / Diavolo, / Chi nulla dà, vada al diavolo». 125 Bellotto traduce «Ho una gallina, si chiama Ascola, / Ogni mattina la fo salir in bascola. / Ho una vacca, “Corno storto”, / Al mattin per tempo la mando al prato morto. / Ho anche un cavallo e ogni mattino / Rita-raita fa servizio di postino». 123 Conte, canti, giochi e detti 237 C. Giochi Non vi sono giochi popolari di particolare rilievo. I giorni feriali sono caratterizzati da duro lavoro e le domeniche dall’esigenza di riposare. Questo vale prevalentemente per le donne su cui gravano in più i doveri domestici e la cura dei bambini. Le ragazze più giovani fanno magari una piccola passeggiata con le amiche, in estate si recano anche nelle malghe dei pascoli più vicini per mangiare lì a maren (merenda) formaggio fresco di capra con pane. Gli uomini si concedono un bicchierino mentre si intrattengono al gioco delle carte. È di antica usanza il treset ma nei tempi più recenti sono stati introdotti anche alcuni giochi alle carte come sono diffusi nel Tirolo tedesco, ad esempio il “Watten 126”. Tra i giochi di movimento è molto amato il botschjaspil (le bocce), assai diffuso anche nel Tirolo tedesco, dato che offre divertimento e parecchio svago all’aperto. Consiste essenzialmente in questo: i giocatori si dividono in due gruppi. Come traguardo viene lanciata una palla molto piccola, dar balì o dar klùa. Tutti i partecipanti cercano a turno di avvicinarsi a questa meta più che possibile, cioè finché hanno superato (“abgelegt”) la palla avversaria lanciata inizialmente; poi tocca alla controparte avvicinarsi ancora di più all’obiettivo eccetera. Alla palla più vicina al klùa viene assegnato un punt (punto), se la seconda più vicina è una palla avversaria, rimane invariato il punt; se invece le due palle più vicine appartengono allo stesso gruppo, vengono assegnati due pünt, in caso di tre palle si contano sei punti, per quattro palle dello stesso gruppo più vicine al klùa, otto pünt. Non si gioca con più di quattro palle per ogni gruppo, dunque 8 complessivamente, oltre al klùa. È facile che nel gioco una palla avversaria venga spinta via o che il klùa si sposta, e allora di colpo la situazione cambia. Dato che non si avrebbe tutto questo effetto con una palla che semplicemente si avvicina rotolando, si gioca dunque contro una palla avversaria o il klùa, colpendolo con la propria palla per allontanare e superare quella avversaria. Si vede che il gioco non è solo vario, ma anche avvincente e richiede ampio movimento fisico, avendo così una marcia in più rispetto al gioco dei birilli e perfino rispetto al Croquet. I bambini hanno una scelta più vasta nei loro giochi. A prescindere dall’influenza dell’asilo tedesco, voglio solo citare gli essenziali giochi antichi dei bambini, con i quali i giovani di Luserna acquistano familiarità presto e facilmente. 1. ùas vò meron on das ondar vò peston 127 Ciascuno dei bambini partecipanti al gioco poggia entrambi i pugni sopra quelli degli altri. Uno dei bambini però mette un solo pugno sopra gli altri, Il Watten è un popolare gioco di carte assai diffuso in Alto Adige, ma anche in Austria e Baviera, dove però viene giocato con regole leggermente diverse e con numerose varianti locali. 127 Lett. “uno del meron e l’altro del peston”. 126 238 Luserna: c’era una volta mentre con la mano libera dà pizzicotti alle nocelle del polso dei giocatori e alle sue, esclamando: “ùas vò meron on da sondar vò pestoìn, on wer da lat segn das earst de sen, ziag en das recht öarle”. Chi ride per primo, viene tirato per un orecchio. 2. dar esl geat 128 Ogni bambino tira un solco nel prato. Uno dei partecipanti viene poi bendato. Ora un bambino indica una volta uno, una volta un’altro solco, pronunciando le parole “L’asino cammina.” “Lascialo andare,” risponde il bambino con gli occhi bendati, e avanti così per un po’. Quando si stanca del suo ruolo, chiama: “Lascialo lì”, e il bastoncino deve rimanere in quel determinato solco. Ora i bambini chiedono: “Quante botte?” e quello bendato esprime un numero oppure dice: “Nessuna”. La sentenza viene poi eseguita sul bambino di cui è il solco in questione. 3. ’s wesle 129 I bambini pongono per terra una zolla erbosa tonda, e a uguale distanza attorno la stessa ognuno inserisce in terra un bastoncino. Poi uno dopo l’altro prende un coltello, lo butta per terra, misura la distanza dal suo bastoncino e lo inserisce in terra dove si trova la punta del coltello. Facendo così, i giocatori si avvicinano sempre di più al wesle e chi raggiunge per primo il suo centro lo nasconde da qualche parte. Chi è il più distante dalla meta nel frattempo è stato bendato. Ora gli viene tolta la benda e deve cercare la zolla nascosta. Poi il gioco ricomincia da capo. 4. dar pimpar on 5 s vorporgsrle 130 Dar is da dar herbest! De khröpof as sa bimmen, biar Lusernar sembln semplüambla on machan in pimpar nidar in brööl. Asó, bestar, hattar khöt mai pua, komare. Ma i gisen bol i in pimpar. Dar nimp no au in toat darmit. I khü nètt ’s vorporgarle, ombrom, balsa’s machan, zelnsa aus insel, bo da möchte süachan, de åndarn vorpogn se, on bal soin gevuntet alle, is bidar dassel. Ma pam pimpar is alls schlantz. Bas khöttarsanas Iar, komare? Ja, i muanat, komare, de tenz un sprüng tüanatn en nètt bea, naa; jüsto ’s is pa dar nacht, magatn sa no tümbl obar de hunt-schlur nidar; l’è ke ’s is da manat-schai. Dar khöt bool Iar vo’n manat-schai on vo’n getüana guat, ma sa loavan sovl a be sa beratn geschosst aus pa’nan kanu, sovl diseln bo da vonkian, a be dar vångar. Diseln plödar håm herz zo springa drai urn vor sa nålassan. Eh, dar möcht nètt segn obrall das letz, komare; sa loavan, sa loavan diese khindar, sa rastn bol o. vor jaar hattar-en gemacht Iar o’ in pimpar; d’ar bar- Lett. “l’asino cammina”. Lett. “la zolla”. 130 Trad. it. “a nascondersi e a nascondino”. Il Bacher commenta: «Presento in dialetto questo eccezionale colloquio tra due donne di Luserna (della signorina Marie Gasperi)». 128 129 Conte, canti, giochi e detti 239 tetas bol nò gedenkhan bia ma tüat. Eh ja ja, sa zeln aus in vångar denna loavansa vorånahi, on dar vångar af ta hintar sait her fin assarse hat gevånk alle. Ja, ma eppas hattar vorgesst, komare; bal da de springarla soin müade, hokn-sa: “rast!” On rastn sovl a be sa bölln se. Ah, komare, ’s soin nètt alle Orsolin on Filomen bo da loavan vümf vert ume da untar khesar, on no denna khearn sa bodrum af’n Sbånt åna zo rasta a minut. Bas khöttar au, liabes mai mentsch, diseln zboa diarnla håm getånt a söttas? Diseln zboa zusln, ja; khöttar est, komare, dar pua nimpen au in toat, as ar macht in pimpar? Lasten springhen, eh! ’S is pessar assar ummar tontz, bas as ar berat tschotat. Ma ja ja, dar vorsteatsanas pessar, bas I, komare; as da mai pua nor spring in Gotts-nåm! Un altro gioco dell’acchiapparsi viene chiamato làresch o bandolaresch dai bambini. Chi viene preso deve fermarsi sul colpo. Per il resto i bambini giocano con monetine di rame, bottoni e biglie. Queste le creano spesso da soli usando un sasso molto morbido che instancabilmente strofinano, spesso per ore, contro un cubetto di pietra dura, finché un po’ alla volta diventa più liscio e approssimativamente tondo. Certo che tali biglie sono molto più grandi di quelle che si trovano in commercio. D. Alcuni detti 1. Quando i bambini piangono molto, le donne dicono: eh lassese gaüln e lasese gaüln, ke intånto as sa gaüln, kreschart en ’s hèrtz 131. - Quando il bambino ha rotto una scodella, la madre dice: est schöpfedar’s aus in a gelbar das dåi muas 132. - Quando una ragazza va in pellegrinaggio a Piné, si dice che ci va “zo paita-n ara n pual 133” (amato). - Quando due innamorati sono eccessivamente dolci l’uno con l’altra, più avanti sarà una storia acida: s gelèkha geat in gedrèkha 134. - Il ragazzo dice alla sua ragazza, prima di essere chiamato alle armi: nimm au ditza schümma stekhle on drau pit drai viar kartn; on vor bar as boratn, drai djar vort soldà! 135 - Nel periodo del fidanzamento si diventa halbe narrat 136; sposa allegra, moglie triste e viceversa. Trad. lett. “Eh, lasciali piangere, che finché piangono gli cresce il cuore”. Trad. lett. “D’ora in avanti la tua pappa te la verserò dentro ad uno zoccolo”. 133 Trad. lett. “per chiedere la grazia di un innamorato”. 134 Bellotto traduce «ogni leziosità è destinata a finire nel fango». 135 Trad. lett. “prendi questo bel bastoncino con tre quattro fogli di carta sopra, perché prima che noi ci possiamo sposare, resterò certamente lontano due o tre anni come militare”. 136 Trad. lett. “mezzi pazzi”. 131 132 240 Luserna: c’era una volta 2. a spaibar saibar at disa belt 137 – dassel mentch sem is stokhat aspe di mitanacht 138. – dar hat getrunkt nidar di hirndar, dar is allar vorlort 139. - Quando qualcuno finge si dice: diza mentch macht in ’s helbe140. - Quando qualcuno non vuole parlare si dice: ’s hat in mühl (mulo), oppure “è andato a Rotzo per fagioli” oppure “ha venduto la lingua al macellaio”. - Quando qualcuno viene a sapere di maldicenze sul proprio conto dice: ber da khüt nå moin rukn, redet pit moin ars 141. - Di un bugiardo si dice che paga per questo il brevetto ka Rovráit (Rovereto). - Per il “ladro” si usano le seguenti espressioni: “Quando ci arriva non usa la scala”; “dove ha gli occhi ha pure le mani”; “dove ci arriva non è maldestro”; “allunga cinque e ritira sei”; “ha le unghie lunghe”. - Chi ha fatto cose invano o è stato truffato hat getretzt (preso in giro) in esl geschelt in tschörk 142. - Della frode e delle fandonie si dice: “ditza is a ster bo da halter drai kwartn 143”. - Ad un fanfarone si risponde: “i boas biavl roach da ziaget dåi khemmerch 144”. - Per dispiacere o commozione: “i hån a vorkhnüpflatz hertz, bede berat guat, zo precha aus in gegaüla tüanat’s mar bol 145”. - Di un magro si dice: “dar sel sem slak vaür af s muas 146”. - Di uno che non vuole invecchiare si dice “asto nètt alt bil khemmem, machde djung hengen! 147”. Di uno che sta bene si dice: “dar hat in ars di kretschan 148” (che sarebbe “la ghiandaia”). Il capestrato hat di schwaila haüt, ombrom dar hat di khugl 149. - Se uno vuole impedire ad un altro di appoggiarsi a lui, dice: “i hån vorkoaft in sadl zoa nètt zo macha in esl 150”. - Se un altz mentch 151 si reca fuori paese per uno svago si dice: “e, latas gian; a bota ats djar scherzanda di altn khüa o”. – arbat hat se san di hosan vol – as ma bil ge- Trad. lett. “siamo uno sputo a questo mondo”. Trad. lett. “quella persona è stupida come la mezzanotte”. 139 Trad. lett. “si è bevuto anche le cervella è completamente perso”. 140 Trad. lett. “quello là sta preparandosi un manico”. 141 Trad. lett. “chi parla dietro le mie spalle parla col mio sedere”. 142 Bellotto traduce «l’asino sbucciandogli il torsolo del cavolo». 143 Bellotto traduce «ecco uno staio che tiene appena tre quarti». 144 Trad. lett. “so benissimo quanto fumo tira al tuo camino”. 145 Trad. lett. “ho un tal groppo al cuore che, se mi riuscisse di rompere in pianto, mi farebbe bene”. 146 Bellotto traduce «quello là fa scintille sopra un piatto di mosa». 147 Trad. lett. “se non vuoi invecchiare, fatti impiccare da giovani”. 148 Bellotto traduce «ha le giandaie nel sedere». 149 Trad. lett. “oggi avrà i porcellini, perché ha la sbornia”. 150 Trad. lett. “ho venduto la sella per non fare l’asino”. 151 Trad. lett. “persona anziana”. 137 138 Conte, canti, giochi e detti 241 binnen di pult, möcht-ma lirnen zo pükha in rukn. – dar geat un khint aspe ’s schmaltz 152 - Se le lavandaie hanno fretta di fare il loro lavoro dicono: “an drukh on an schmukh on a vert ume ’s loch, is vudar di boch 153”. - Chi non ha voglia di fare un lavoro urgente dice: “Lasciamo stare adesso; c’è più tempo di vita.” - Di uno sfaticato si dice che ha una schiena troppo dritta, che ha inghiottito una sbarra di ferro. - Una donna prodiga schupltda mearar vort pitn vürta, bas da invüart dar mån pitn bagn 154. - bas da git di taup, gipt de ganz o 155. - bal da di khua khuana milch mear git s khalbe spentse alumma 156. - tretn af dasel von khoasar 157 porta scarpe consumate. - di A hat an mån, di B in sem da soin alle abegespunt von umman rokhsta (La A fa qualcosa e la B deve compensare). da sain ale abegespunt von uan rokhsta 157. - Las gian ’s bassar nå soin bege! (non ti impicciare). - legen di pfaif in sack on gian 159. - dar hat en nidar . - gemacht. - leng di milch (buttare acqua sul fuoco). - traurn nå in ars (fingere tristezza). 3. Regole per la previsione del tempo e proverbi contadini Il vento tedesco (superiore, settentrionale) porta bel tempo, il vento belese (inferiore, meridionale) pioggia. Il bint von hoachmorgan (est) porta neve in autunno, il bint von gertsea on dar sel von Spitz vo Tonetsch (Tonezza) pioggia. Il düabint caldo soffia per lo più in djenaro (gennaio), di ora (vento dalla costa) in lenz (marzo), abrel, moje on halbm in prachar (giugno). – Quando i bambini girano in gruppi cantando, viene da piovere. – La calura porta fulmini. – Quando tuona, cascano le lumache. Se la dürr precede il schnit (agosto), porta danno; ma dopo questo mese non più. L’arcobaleno al mattino significa pioggia, alla sera bel tempo. Quando in primavera tuona verso Ferrara c’è da aspettarsi un anno fertile. Se tuona prima della pioggia, è difficile che arrivi il temporale; invece occorre rifugiarsi in casa veloce se tuona solo a pioggia iniziata. Dalle condizioni del tempo nelle fasi lunari in Bellotto traduce «eh, lasciatelo andare, che una volta all’anno si mettono a far salti anche le vacche vecchie» «di lavoro ne ha piene le calze» «se si vuol guadagnarsi la fetta di polenta, si deve imparare a piegar la schiena» «va e viene in continuazione come il burro nella zangola». 153 Bellotto traduce «una strizzata e un’alzata e una volta girata la tana, sei già fuori di settimana». 154 Bellotto traduce «spreca più roba lei col grembiule indosso, che non ne porti a casa il marito col carro». 155 Bellotto traduce «chi ti dà la colomba, generalmente ti fornisce anche il becchime». 156 Bellotto traduce «quando la vacca non fa più latte, il vitello si svezza da sé». 157 Bellotto traduce «camminare con le scarpe del kaiser». 158 Bellotto traduce «sono fatti tutti con lana della stessa rocca». 159 Bellotto traduce «riporre le pive nel sacco ed andarsene». 152 242 Luserna: c’era una volta marzo si può prevedere il tempo delle stagioni seguenti. Il tempo nei primi 5 giorni di aprile fa prevedere 50 giorni simili. Se in autunno per tre giorni di seguito si ha roi (brina leggera), ci sarà bel tempo per un mese. Se d’inverno la terra è molto ghiacciata, ci sarà un anno buono, e una primavera bagnata significa molto fieno; pioggia di marzo e aprile fa ad ogni modo bene ai campi. Neve e acqua è tutto sterco per i prati. Il periodo migliore per piantare patate è verso la fine di maggio e inizio di giugno. Quando si sentono le campane di Lavarone sarà bel tempo; quando invece si sentono i sonagli di Tonezza, arriva pioggia. Quando si avvicinano nuvole accumulate dal vento per la raüt (nordovest), arriva grandine o siccità. Quando in primavera l’acqua scende per il baiskhnot (sudest), tra 8 giorni il kåmp (est) sarà libero dalla neve. Non bisogna fidarsi del tempo mite precoce nel periodo invernale. L’orso insegna la giusta prudenza: in ta’ dela zeriola khint dar per auvar vo dar höl z’ sega, bia da is ’s bèttar. As ’s is guat khüt-ar: “nå den guat khint das letz”, on kheart bobrum on geat tchlava. on as is letzes bettar, as geat bint un schnea, khüt-ar: “nå den letz khint das guat”on geat nemear in in di höl 160. Il merlo ha fatto un’amara esperienza con l’instabilità dei giorni invernali miti, e il ricordo grava su di lui fino ad oggi (p. 84, n. 5 161). Chi l’ultimo finzta 162 di gennaio non inforna il potschin (torta di cenere), non vive più a lungo. – dar fintzta in haus, di boch is aus 163, ma quando non c’è più niente da mangiare, si ha ancora da pensare per tre giorni. – Ci sono pochi sabati all’anno in cui non si vede il sole. Piove solo tre sabati all’anno. – Attorno a San Valentino si rompe il ghiaccio sul lago di Caldonazzo; allora l’inverno è passato per gli uomini a metà e per il bestiame per due terzi. – san paul konvers kheart di burtz zuar dar khersch 164. – da san khatrai boase nètt, bi de möge soin; ma da Sant’Andrea pin e da gemist pit schnea, on di wainècht-nècht pin e da i on als måine khnecht 165. 4. Indovinello I boas a dinkh on a dinkh, bo d’en herta nå-trak ’s haus. – I boas a dinkh on a dinkh, on be mear ma nempsan vort, be gröasar ’s khint. – I boas a dinkh on a dinkh, on as sa ’s ågraivan, khennen ’s di plintn å. – I boas viar sbestarn, bo da hèrta nåloavan anåndar, on soinse nia guat zo vånga. – I hån an draivuas: lege drau in zboavuas, khint dar viarvuas on trakhmar vort in zboavuas on lat mar sem in draivuas. Bellotto traduce «Il giorno della Seriola l’orso esce dalla tana per vedere come è il tempo e se è buono, dice: “Dopo il buono viene il cattivo” … e rientra nella tana e si rimette a dormire; ma se è cattivo tempo, con vento e neve, allora dice: “Dopo il cattivo viene il buono” … e non rientra più nella tana». 161 Trad. it. “La merla”. 162 Giovedì. 163 Quando arriva giovedì, la settimana è già terminata. 164 Bellotto traduce «Il giorno della conversione di San Paolo (25 gennaio) già la radice provvede per (guarda alle) ciliegie». 165 Bellotto traduce «a Santa Caterina (29 aprile) non so se potrò esserci (il freddo?); ma per sant’Andrea (30 novembre) arriverò senz’altro pieno di neve e per le notti del santo Natale verrò io e verrà pure tutta la mia gente». 160 Bibliografia 243 Bibliografia Neri Mauro, Donne e bambine nelle leggende del Trentino, AlcionEdizioni, Trento, 2008. Schweizer Bruno, Concetti cristiani nelle credenze dei cimbri, Edizioni Taucias Gareida, Giazza - Verona, 1989. 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