La fraterna del miglior viver

Transcription

La fraterna del miglior viver
Gianfranco Maglio Franco Rossi Giovanna Paolin Marcello De Vecchi
La fraterna del miglior viver
Origini medievali dei movimenti ereticali
Anabattismo e Inquisizione nel Veneto
L’esodo della comunità cintese
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La fraterna del miglior viver
Origini medievali dei movimenti ereticali
Anabattismo e Inquisizione nel Veneto
L’esodo della comunità cintese
Gianfranco Maglio
Franco Rossi
Giovanna Paolin
Marcello De Vecchi
COMUNE DI CINTO CAOMAGGIORE
3
Iniziativa realizzata
con il contributo della Regione del Veneto
L’amministrazione comunale coglie l’occasione per ringraziare quanti hanno contribuito
alla buona riuscita della manifestazione storica sugli anabattisti cintesi, ed in particolare: Angelo Tabaro e la Compagnia teatrale La Bottega di Portogruaro, Elisa Martin per i
costumi, Ornella Boattin della Biblioteca Comunale di Cinto, Dino Pellegrini e il GruppoPrisma, Gian Piero Del Gallo, Sergio Basso, Paolo Simonato, Luciano Arreghini.
© Comune di Cinto Caomaggiore - 2005
La copertina e le illustrazioni sono opera di Marcello De Vecchi
4
Indice
Presentazione del Sindaco Luigi Bagnariol
pag.
7
Origini e caratteri dei movimenti ereticali nel medioevo:
una breve introduzione storica di Gianfranco Maglio
1. Cristianesimo ed eredità tardo antica
2. Le eresie nell’alto medioevo
3. Movimenti ereticali e ordini mendicanti
nel basso medioevo
Bibliografia
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Eresia e repressione nella Repubblica di Venezia.
Riflessioni a margine della politica veneziana tra ricerca
del consenso e repressione del dissenso di Franco Rossi
1. Considerazioni preliminari
2. Il Doge garante dell’ortodossia
3. I Savi all’eresia
4. L’evoluzione della normativa
5. Eresia e repressione nelle terre suddite
Bibliografia essenziale
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48
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68
72
83
A proposito dell’anabattismo cintese e veneto:
alcune considerazioni di Giovanna Paolin
pag.
87
Cinto nel secolo XVI di Marcello De Vecchi
1. La villa di Cinto
2. Le famiglie cintesi
3. La proprietà fondiaria a Cinto nel corso del Cinquecento
4. Il mulino della Siega
5. La secessione di Roncho Gesuati
6. La corruzione dei costumi nel clero
7. L’esodo in Moravia
8. La diffusione a Cinto dell’anabattismo
9. Il miglior viver
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Documenti dell’Inquisizione (1562-1589)
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5
6
Il paese di Cinto nel Cinquecento doveva essere ben poca cosa rispetto ad oggi, solo un gruppo di case sparse nella campagna, legate fra
loro da piccoli viottoli alberati, ricoperti spesso dall’erba e segnati dalle
ruote dei carri. C’era la chiesa, con il cimitero attorno, e la loggia, dove si
adunava la Vicinia, l’assemblea comunale di allora.
Poche erano le case dominicali, più alte e spaziose di quelle dei
“villici”, che in molti casi dovevano accontentarsi di piccoli casoni, fatti di
legno e paglia, e spesso dividere i precari alloggi con gli animali. A fianco
delle case erano addossate le stalle, le “tiede”, i pollai , gli orti, gli alberi
da frutto: tutto quanto era indispensabile per l’economia contadina trovava
posto all’interno di cortili delimitati da recinzioni fatte di “canne” o da
siepi di rovi.
La popolazione di allora era formata da poche centinaia di persone
e per la maggior parte di loro la vita era molto difficile a causa delle scarse
rendite agricole, dalle ricorrenti epidemie e dalle carestie, per non parlare
delle prepotenze dei possidenti. Insomma per molti di loro le prospettive
non erano molto allettanti e sembravano predestinati a subire in silenzio
una vita di soprusi e patimenti.
Così invece non fu, gli abitanti di questo piccolo agglomerato di
case, pur poveri e analfabeti, trovarono la forza di ribellarsi, di aspirare ad
un mondo migliore e decisero di dare ascolto ai predicatori di una eresia
radicale chiamata anabattista, che parlavano di una nuova terra promessa
dove la gente umile poteva avvalorarsi e trovare solidarietà e rispetto.
Le idee anabattiste si contrapponevano ai precetti della Chiesa di
allora e quindi destarono l’interesse dell’Inquisizione che iniziò ad indagare sulle pratiche religiose eterodosse della popolazione di Cinto. Di fronte
a questa minaccia parte della comunità cintese decise di fuggire: intere famiglie intrapresero un lungo e rischioso viaggio per raggiungere la comune
anabattista sorta in Moravia.
Data la rilevanza storica, non è la prima volta che l’amministrazione comunale si sofferma su questo avvenimento: già da qualche anno si
7
svolge periodicamente a Cinto una rappresentazione in costume, che evoca
la partenza e l’esodo degli anabattisti di Cinto.
Il libro vuole essere un importante contributo per l’approfondimento e l’analisi dell’evento. Attraverso questo volume si è inteso inserire la
vicenda all’interno di un più generale contesto storico.
Lo storico Gianfranco Maglio, nel primo saggio fa una accurata
analisi dei movimenti eretici medievali, permettendoci di aver maggior cognizione delle radici del movimento anabattista.
Nel secondo saggio, Franco Rossi, direttore dell’Archivio di Stato
di Treviso, affronta le problematiche dell’inquisizione nella Repubblica di
Venezia mettendo in risalto i contrasti o le affinità con il potere temporale
della Chiesa.
Nel terzo saggio, Giovanna Paolin, docente dell’Università di Trieste che per prima ha analizzato e reso pubblici i documenti sugli anabattisti
di Cinto, colloca l’esodo in Moravia all’interno dei complessi fenomeni
eretici che in quel secolo caratterizzarono il Veneto e il Friuli.
Marcello De Vecchi, nell’ultimo saggio, prende in esame la comunità di Cinto, mettendo in evidenza le dinamiche economiche e i risvolti
“politici” provocati dall’intervento della grande proprietà e da enti religiosi
nel secolo XVI.
Infine, in appendice, vengono riportati vari documenti dell’Inquisizione che riguardano gli anabattisti di Cinto.
Ringrazio gli studiosi per le accurate ricerche fatte che ci permettono di rivivere la storia di un’epoca particolarmente importante per il paese
di Cinto, foriera di un avvenimento che segnò la comunità per parecchio
tempo e che, ancora oggi, trova evidenza e risalto in molti studi sul movimento anabattista.
Un ringraziamento alla Regione Veneto per aver voluto contribuire
alla realizzazione di quest’opera, finanziandola in parte, nella convinzione
che ricostruire la storia di un suo piccolo comune aiuti nell’approfondire la
conoscenza della cultura veneta.
Il conoscere le capacità dei nostri antenati di agire nella storia e
non di subirne solo gli eventi, ci sia di esempio spronandoci ad operare,
tutti insieme, per migliorare la qualità della nostra vita e far crescere la
comunità.
Luigi Bagnariol
Sindaco di Cinto Caomaggiore
8
Origini e caratteri dei movimenti ereticali
nel medioevo: una breve introduzione storica
Gianfranco Maglio
1. Cristianesimo ed eredità tardo antica
L’affermazione del cristianesimo nell’occidente europeo rappresenta, sotto diversi aspetti, la principale chiave di lettura di quel tormentato
periodo storico che ci conduce dal mondo antico al medioevo. La nuova
religione diviene ben presto la grande forza unificatrice di una civiltà che
prende forma lievitando all’interno di una realtà nella quale tradizione romana e penetrazione germanica prima confliggono ma in seguito, durante
un percorso plurisecolare, tendono a confluire e in parte a fondersi1.
Il cristianesimo dei primi secoli è una religione ancora in movimento, alla ricerca di una propria stabilità dottrinale e dogmatica: la novità del
messaggio di Cristo viene vissuta e interpretata in modo diverso e alcune
grandi questioni teologiche danno vita a lunghe e tormentate controversie.
I primi grandi Concili (Nicea, Costantinopoli, Efeso e Calcedonia) fra il IV
e il V secolo dovranno occuparsi di risolvere dogmaticamente problemi di
grande rilievo: dalla natura del Cristo (umana o divina ovvero entrambe)
al difficile concetto della Trinità, al significato dei Sacramenti a partire dal
Battesimo, al destino dell’uomo nel progetto di Dio. Alcune soluzioni date
a tali questioni teologiche, fatte proprie dalla Chiesa nella fase di strutturazione dogmatica e gerarchica, saranno a lungo combattute e avversate da
movimenti ereticali di varia natura e consistenza: dai monofisiti, che sostenevano nel Cristo la sola natura divina, agli ariani, che al contrario professavano la non identità di natura del Figlio proprio perché creato dal Padre,
ai donatisti che non accettavano la collaborazione con le autorità politiche
romane o ancora ai pelagiani, che ritenevano l’uomo capace di vivere senza
peccato esclusivamente con le proprie forze. Tutte queste voci richiedevano
un’analisi approfondita delle idee religiose anche alla luce di una concezione filosofica dell’uomo e del cosmo. Il pensiero della Patristica greca
e latina sviluppa i temi di fondo di una filosofia cristiana che contrarrà un
1
Su tali questioni v. P. BROWN, Potere e cristianesimo nella tarda antichità, trad.it., Roma-Bari
1995 e il classico S. MAZZARINO, La fine del mondo antico, Milano 1988 (rist.).
9
debito duraturo nei confronti della speculazione filosofica classica e, in particolare, di quella d’ispirazione platonica e neoplatonica. Certo il pensiero
pagano guardava con una certa ironia al cristianesimo: la possibilità che
il mondo fosse stato creato da Dio e che quest’ultimo si trovasse fuori dal
mondo, era difficilmente comprensibile per il pensiero greco convinto che
il divino è nel mondo, che dal nulla non può derivare nulla e che il cosmo
è eterno. Credere poteva voler dire rinnegare principi che la ragione riteneva insuperabili: nasce qui il celebre credo quia absurdum di Tertulliano,
la prima figura di rilievo del pensiero cristiano occidentale2. Ben presto
però, superata la fase della sorpresa e del sospetto, furono proprio i filosofi
cristiani del IV e V secolo ad adottare molti degli elementi speculativi che
provenivano dalla concezione greca del mondo, ovviamente rielaborandola
alla luce del nuovo credo e attribuendo ad essa significati e contenuti originali. Non è un caso che l’Autore degli Atti dell’apostolo Filippo, con chiaro
riferimento all’educazione dei greci (paideia), parli di paideia di Cristo e
ritenga quest’ultima una prosecuzione e un completamento di quella classica3. In quel complesso periodo storico che ormai si definisce tardo antico,
il cristianesimo costruisce la sua dogmatica in un continuo rapporto, che
non è solo scontro ma anche dialogo, con il pensiero pagano e la complessità di una stagione spirituale per certi aspetti irripetibile. Neoplatonismo,
gnosticismo, manicheismo e un variegato panorama ereticale si inseriscono
nella meditazione del cristianesimo sulle grandi questioni della vita umana
e della Salvezza: il mondo materiale è buono o cattivo? Il Bene e il Male
sono due forze autonome e concorrenti? L’uomo può salvarsi da solo? Vi è
predestinazione? Non è casuale che alcune soluzioni eterodosse, non accolte nella definitiva sistemazione teologica della Chiesa Cattolica, confluiranno in vari movimenti ereticali capaci di attraversare tutto il medioevo sino
all’età della Riforma. Vediamo brevemente alcune di queste suggestioni.
La prima è certamente la gnosi, un movimento filosofico e religioso che già nel II secolo tende a diffondersi all’interno del cristianesimo
mettendone in pericolo la sopravvivenza. Lo gnosticismo riteneva il mondo materiale il risultato di una caduta originaria, la creazione di un essere
intermedio: la venuta di Gesù Cristo è annuncio di una liberazione ma si
rivolge essenzialmente a un’élite di uomini che godono di una particolare
illuminazione e ai quali Dio propone la salvezza. Il contatto con la filosofia
2
Sulla figura di Tertulliano e più in generale sulla formazione del pensiero patristico v. R. BARR,
Breve Patrologia, trad.it., Brescia 1987 (2° ed.), p. 66 e ss. nonché C. MORESCHINI, Storia della
filosofia patristica, Brescia 2004.
3
Tale riferimento, con una acuta valutazione dell’incontro fra pensiero greco e cristianesimo, in W.
JAEGER, Cristianesimo primitivo e Paideia greca, trad.it., Firenze 1974, pp. 1-15 e 63-89.
10
greca e soprattutto con il platonismo e il neoplatonismo rende più complesse le dottrine gnostiche attribuendo loro una maggiore capacità di diffusione e un più approfondito bagaglio speculativo4.
Nell’alveo dello gnosticismo si forma il manicheismo, sulla base di
un dualismo radicale che si propone di salvare l’uomo conducendolo dalle
tenebre alla luce. Secondo l’insegnamento del persiano Mani, che visse ed
operò nel III secolo, la vicenda di Cristo va collocata all’interno della lotta
cosmica fra il re delle tenebre e il re della luce e con lo scopo di illuminare
l’uomo e guidarlo alla salvezza che richiede da un lato una presa di coscienza e dall’altro, negli eletti, una rigorosa vita ascetica con rinuncia al
matrimonio e al consumo delle carni e del vino. Occorre aggiungere che il
manicheismo riteneva apparente la morte di Cristo sulla croce (docetismo)
e immaginava la reincarnazione degli imperfetti mentre solo gli eletti ritornavano subito alla luce5. Vedremo come vari movimenti ereticali del medioevo saranno riconducibili, in tutto o in parte, al manicheismo e alla sua
visione dualistica del mondo: dalle eresie della prima metà dell’XI secolo
sino al catarismo.
Un secondo gruppo di problemi riguarda il battesimo e la grazia
quali condizioni per raggiungere la salvezza. Il Battesimo era il sacramento
fondamentale che consentiva l’ingresso del credente nella Chiesa cristiana:
veniva impartito nel nome di Gesù Cristo, trasmetteva lo Spirito Santo e
realizzava un rapporto intimo fra il battezzato e lo stesso Gesù. Il rito battesimale era intimamente legato all’idea della rigenerazione dell’uomo nel
suo sforzo di avvicinarsi al Divino: si trattava di un’esigenza affermata non
solo dal Cristianesimo ma anche dalla tradizione platonica e neoplatonica.
Platone aveva sostenuto il principio dell’assimilazione a Dio mediante la
costante imitazione della bontà divina6 mentre Plotino aveva scritto che lo
scopo ultimo dell’uomo buono era quello di essere Dio7. Il pensiero cristiano approfondiva l’aspetto della imitazione e il Battesimo era considerato
un momento essenziale per l’itinerario dell’uomo, quasi un rito di iniziazione capace non solo di trasformare ma, allo stesso tempo, di trasmettere
al cristiano particolari poteri e perfezioni. Sembrava anche che il Battesi-
4
Sullo gnosticismo v. M. SIMONETTI (a cura di), Testi gnostici in lingua greca e latina, Vicenza
1993 e L. MORALDI (a cura di), La gnosi e il mondo. Raccolta di testi gnostici, Milano 1988.
5
Il manicheismo era una dottrina composita ove confluivano elementi iranici (la lotta dei principi del
bene e del male – madzeismo) orfici (l’anima prigioniera della materia), platonici ed indiani (reincarnazione). V. A. BRELICH, Introduzione alla storia delle religioni, Roma 1966, pp. 347-351.
6
PLATONE, Teeteto, 176 B. Citiamo l’opera nella edizione e traduzione di M. Valgimigli, in Opere
complete (Biblioteca universale Laterza), Roma-Bari 1982, vol. 2, pp. 126-127.
7
PLOTINO, Enneadi, I, 2, 6. Citiamo l’opera nella edizione a trad. a cura di G. Faggin, Milano
1992, p. 81.
11
mo potesse impedire all’uomo di ricadere nel peccato (così pensavano gli
Ermetici, una corrente gnostica, ma anche il Padre alessandrino Clemente)
sino a individuare nello stesso veri e propri effetti magici, come Cipriano
di Cartagine che può scrivere: al momento del Battesimo prodigiosamente
il dubbio diventò d’improvviso certo, il chiuso aperto, il buio luminoso, e
ciò che era stato creduto impossibile divenne possibile8. Chiara dunque
l’importanza che il sacramento del Battesimo assumeva per il cristianesimo, ma qui si ponevano ulteriori problemi: quando doveva essere amministrato? Era sufficiente per assicurare all’uomo la Salvezza con particolare
riguardo alla rimozione degli effetti del peccato originale? Nei primi tempi
il Battesimo era impartito ai soli adulti anche perché occorreva una precisa
preparazione del catecumeno e una cosciente professione di fede. Solo dal
III secolo si affermò la prassi di battezzare i bambini e non senza contrasti
per la ovvia mancanza nei piccoli della coscienza e responsabilità dell’atto
sacramentale. Vi era poi il problema della validità del sacramento qualora
fosse amministrato da persone indegne: i donatisti la negavano anteponendo la purezza del ministro quale condizione della trasmissibilità del sacramento. La Chiesa cattolica seguì sul punto le tesi di Agostino, il grande
sistematizzatore della teologia cristiana che, nella accesa polemica contro
i donatisti e i pelagiani, ribadì sia la necessità del battesimo dei bambini
che l’insufficienza della libertà umana senza la grazia divina. La grazia è
infatti l’elemento fondamentale nella remissione dei peccati e il Battesimo
è legato al peccato originale: non battezzare i bambini significava esporli al
pericolo della dannazione, ribadito comunque il concetto che il Battesimo
da solo non assicurava il Paradiso. I pelagiani accusarono Agostino di credere alla possibilità che un Dio buono e misericordioso fosse capace di abbandonare alla dannazione dei bambini solo perché i genitori non avevano
fatto in tempo a battezzarli: in realtà Agostino aveva sostenuto una tesi intermedia che condurrà ad immaginare il limbus puerorum per i bimbi morti
senza Battesimo9. Si tratta di questioni importanti per il rilievo avuto nel
pensiero ereticale successivo del medioevo e del periodo della Riforma: nel
Concilio di Trento la teologia cattolica, nel ribadire il Battesimo dei bam8
CIPRIANO DI CARTAGINE, Ad Donatum (De gratia Dei), 3-4. Il testo si trova nell’Enchiridion
Patristicum a cura di M.J. Roüet de Journel 548, Friburgo 1955 (18 ed). Per la traduzione italiana v.
C. Failla, A Donato, l’Unità della Chiesa, ecc., Roma 1968.
9
Si tratta di problematiche molto complesse che AGOSTINO tratta soprattutto nelle sue opere teologiche, dal De libero arbitrio al De Vera religione e sino all’importante scritto anti-pelagiano De natura
et grazia. Per un primo approccio con i necessari riferimenti bibliografici v. M. VANNINI, Invito al
pensiero di Sant’Agostino, Milano 1989 specialmente pp. 74-77, 80-85 e 105-118 nonché H. CHADWICK, Agostino, trad.it., Torino 1989, specialmente pp. 39-44 e pp. 107-119. Nel corso dell’ultimo
secolo la posizione della teologia cattolica sul “limbo” è cambiata: nel nuovo Catechismo universale
non se ne parla affidando tutti i bambini morti senza il Battesimo alla “misericordia di Dio”.
12
bini, condannava espressamente il movimento degli anabattisti che esigeva
il conferimento agli adulti e dopo previa conversione e quanto al problema
principe del rapporto fra libero arbitrio e grazia Lutero si richiamava all’ultimo Agostino anche con riguardo a un’altra grande questione, quella
della predestinazione. Che importanza hanno per il cristiano la santità della
vita e la bontà delle opere, come influiscono sul destino finale dell’uomo?
Il Cristianesimo si interroga sin dai primi secoli su questi temi che investivano il senso stesso dell’esperienza umana non solo individuale ma anche
nelle formazioni sociali. Di una predestinazione alla salvezza aveva parlato
l’Antico Testamento e poi S. Paolo10 quale conseguenza di un atto di amore,
ma ciò non poteva negare la libertà della creatura e la sua responsabilità
con particolare riguardo alla rilevanza delle opere. Se Pelagio aveva proclamato la libertà dell’uomo come autosufficienza, Agostino, nell’accentuare
l’importanza della grazia rispetto alla natura, riprende il tema della predestinazione con una celebre frase: se sono doni di Dio i tuoi meriti, Dio non
corona i tuoi meriti come tuoi meriti, ma come suoi doni11. La posizione di
Agostino era un difficile tentativo di conciliare la libera volontà dell’uomo
con la grazia divina, un compromesso probabilmente impossibile come la
storia della Chiesa ebbe a dimostrare, dalle discussioni altomedievali sulla
teoria della doppia predestinazione (Gotescalco), alla predestinazione degli
eletti in varie forme di eresia e sino al grande strappo della Riforma nel cui
ambito la grazia e la predestinazione assunsero un ruolo determinante.
Vi è infine un’ultima ma non meno importante suggestione che
anima i primi secoli del cristianesimo: il millenarismo, con l’idea della
imminenza della fine dei tempi preceduta dal ritorno del Cristo12. Il millenarismo trova espressione nella letteratura apocalittica capace di produrre
varie opere dal II secolo sino all’VIII, in pieno alto medioevo, delle quali
l’Apocalisse di Giovanni è indubbiamente quella più importante, capace di
influenzare a lungo il pensiero cristiano medievale. Non si può non rilevare
come l’avvento del cristianesimo abbia determinato un mutamento radicale
nella concezione classica del tempo, sostituendo a una visione ciclica una
lineare. La nascita di Cristo è il termine iniziale dal quale decorre la nuova
storia degli uomini e viene poi immaginata una fine dei tempi coincidente
con il ritorno del Salvatore e con il Giudizio universale: è questo l’orizzonte al quale guarda la letteratura apocalittica e della visione nella diffusa
certezza che il tempo del cristianesimo è un tempo orientato e la vita umana
10
S. PAOLO, Lettera ai Romani, 8,29.
AGOSTINO, De Gratia et libero arbitrio, VI, 15, trad.it. con il titolo La grazia e il libero arbitrio,
Roma 1959.
12
Sulla prima letteratura millenaristica, v. C. NARDI (a cura di), Il Millenarismo. Testi dei secoli
I-II, Firenze 1995.
11
13
si inserisce in un preciso quadro voluto dalla Provvidenza. Dal tardo antico
al medioevo il pensiero teologico si esprime anche nella interpretazione dei
fenomeni della natura e della storia, nel tentativo di scorgervi i segni del
volere divino e i presagi dell’avvicinarsi della fine dei tempi: il pensiero
ereticale si nutrirà spesso di tali suggestioni, molto di più della Chiesa visibile, impegnata a smorzare tali paure ribadendo, sempre con Agostino, che
all’uomo non è dato conoscere il momento della fine.
Ma, come avvertiva Focillon, una società molto travagliata e spesso
molto sfortunata è portata per natura non solo all’interpretazione letterale
dei grandi testi da cui è nato il millenarismo, ma, in senso più generale,
a una interpretazione apocalittica della storia, al culto del Dio terribile,
all’attesa del giudizio13. Il pensiero apocalittico è una delle grandi eredità che il cristianesimo e più in generale il pensiero religioso acquista dal
sincretismo tardo antico e la sua presenza nella cultura e nella sensibilità
medievale è costante: dalle miniature dei manoscritti ai timpani e capitelli
dell’arte romanica sino alle opere d’arte del tardo Trecento, come gli arazzi
della splendida Apocalisse di Angers.
L’attesa della fine dei tempi, il recupero di un cristianesimo evangelico, le idee della penitenza e del rinnovamento dello spirito, la critica
alla Chiesa gerarchica ricca e intollerante: eresie e movimenti ereticali ma
anche espressioni ortodosse di Riforma (pensiamo al monachesimo nelle
sue varie espressioni storiche, agli Ordini mendicanti, alle suggestioni del
pensiero di Gioacchino da Fiore) sapranno sviluppare questi grandi temi
nella lunga maturazione della coscienza medievale e sempre in una visione
teocentrica della vita umana e della storia.
2. Le eresie nell’alto medioevo
Durante il periodo storico che convenzionalmente definiamo altomedievale e che si estende fra il VI e la prima metà dell’XI secolo, la
presenza nell’occidente cristiano di eresie e moti ereticali non assume le
caratteristiche di intensità ed estensione che saranno tipiche della fase successiva ma accompagna, se così si può dire, il processo di consolidamento
teologico, dogmatico e anche politico della Chiesa e del Papato.
La formazione di una nuova civiltà latina e germanica comporta
il lento distacco dell’occidente dall’oriente e in particolare, per ciò che riguarda la religione cristiana, la sempre più netta distinzione fra la via cat-
13
H. FOCILLON, L’anno Mille, trad.it., Vicenza 1988, p. 58.
14
tolico-romana e quella greco-bizantina. Nella vigenza di tali atteggiamenti
e interpretazioni teologiche su talune questioni (pensiamo alla Trinità, al
culto delle immagini e al rapporto Stato-Chiesa) saranno, ora da Roma ora
da Bisanzio, ritenute eretiche con ripercussioni di rilievo nei rapporti tra le
Chiese stesse e le comunità di fedeli in sede locale14. In questo quadro e al
di là delle divisioni delle Chiese ufficiali su singole questioni teologiche,
continuano a vivere concezioni eterodosse quali lo gnosticismo e il manicheismo nelle più varie formulazioni ed espressioni come pure credenze e
superstizioni pagane. Riguardo a tale ultimo punto, occorre ricordare che in
Occidente il mondo contadino rappresentava il dato dominante della realtà
sociale e che le invasioni barbariche avevano avuto l’effetto di approfondire
tale situazione. Il risultato fu una penetrazione lenta e faticosa del cristianesimo in zone fortemente ruralizzate ed ancora largamente pagane e non
è un caso che la lotta alle superstizioni rappresenti una costante nell’apologetica e nella predicazione alto medievale da Cesario di Arles a Martino di
Braga sino ad Agobardo di Lione in età carolingia ed oltre15. Occorre dire
che nella penetrazione del cristianesimo fra i ceti rurali delle campagne e
nelle zone più lontane dai centri urbani svolse un ruolo decisivo il monachesimo. Le origini del movimento monastico affondano le loro radici nelle
esperienze contemplative e ascetiche di taluni anacoreti orientali che fioriscono già verso la fine del III secolo. In questa prima fase il monachesimo
assume caratteri di rigido ascetismo con preferenza per esperienze isolate
di preghiera, contemplazione e penitenza. Solo in seguito si afferma la vita
comunitaria (cenobitismo) con le prime Regole come quelle di Pacomio
e Basilio. In Occidente, dopo un primo periodo di sostanziale imitazione dei modelli orientali, il monachesimo conosce una grande espansione
grazie alla Regola di S. Benedetto capace di disegnare un esempio di vita
cristiana equilibrata e attiva, rifuggendo da inutili asprezze e mortificazioni. Il monachesimo benedettino unitamente alle altre esperienze similari,
fra le quali assume un rilievo particolare il monachesimo celtico, che ha
in Colombano la figura di primo piano, diventa la grande forza spirituale
della nascente civiltà medievale, con un significato storico di vasta portata.
14
Per un quadro di tali sviluppi v. A. FRANZEN, Breve storia della Chiesa, trad.it., Milano 1987
(6° ed.), pp. 105-110 e 121 e ss. nonché L. GATTO, Storia della Chiesa nel Medioevo, Roma 2001,
p. 37 e ss.
15
Sia Cesario di Arles che Martino di Braga si occuparono spesso di superstizioni e pratiche pagane
ancora in atto soprattutto nelle campagne e ciò durante il VI secolo: Martino scrisse sul tema un
celebre De correctione rusticorum, testo largamente utilizzato anche in età carolingia. Di tale lavoro
è oggi disponibile una edizione con trad.it. a cura di M. Naldini, dal titolo MARTINO DI BRAGA,
Contro le superstizioni, Firenze 1991. In età carolingia e sul tema dell’origine della grandine v.
AGOBARDO DI LIONE, Liber contra insulsam vulgi opinionem de grandine, in P.L. 104,147.
15
L’Europa cristiana prende forma infatti attorno a taluni valori che il monachesimo esprime e diffonde in modo capillare: 1) una concezione positiva
del lavoro, anche manuale, con effetti concreti in campo economico quali la
messa a coltura di terre in precedenza abbandonate alla palude e alla foresta; 2) la funzione di riferimento per le popolazioni nell’ambito dell’attività
di organizzazione del territorio che monasteri e abbazie svolgono; 3) la
promozione di una originale cultura cristiana con la sua visione del mondo
e della perfettibilità dell’umana natura16. In questo Occidente in costruzione, dove la Chiesa di Roma contestata nel suo primato dal mondo bizantino e a lungo minacciata dalla politica dei sovrani Longobardi, credenze
e deviazioni eterodosse di origine tardoantica continuavano a vivere qua e
là in un quadro sociale e religioso sostanzialmente multiforme. Pensiamo
anzitutto alla sopravvivenza e sino a ben oltre l’età carolingia di riti e pratiche pagane, soprattutto fra le popolazioni barbariche che anche laddove
cristianizzate faticarono a lungo ad abbandonare le loro arcaiche credenze
religiose. Ma ricordiamo anche la duratura fortuna, fra i barbari convertiti
al cristianesimo, dell’eresia ariana condannata dal Concilio di Nicea nel
325, probabilmente più vicina alla sensibilità e cultura delle popolazioni
germaniche17 ma anche legata al fatto fondamentale che su tali dogmi (in
particolare quello che il Figlio non avrebbe la stessa natura del Padre) era
avvenuta la loro conversione. L’alleanza del Papato con i Franchi, oltre ad
avere le conseguenze politiche che sappiamo, determina, dal punto di vista
religioso, non solo un rapporto più stretto della nuova autorità imperiale
con la Chiesa nel tentativo di garantire condizioni di ortodossia ma addirittura un forte intervento diretto dell’imperatore sulle questioni teologiche
e di amministrazione ecclesiastica. È in questo quadro che si collocano le
iniziative di Carlo Magno in materia di culto delle immagini, (i celebri Libri Carolini), di lotta al paganesimo e alle superstizioni o infine specifiche
condanne di tesi ereticali come avvenne per l’adozionismo professato dai
vescovi spagnoli Elipando di Toledo e Felice di Urgel. Si trattava del ritorno di una eresia risalente alla fine del II secolo che, sottolineando la umanità del Cristo riteneva sussistente con Dio un rapporto di adozione, tesi
sostenuta nel III secolo da Paolo di Samosata e da coloro che in seguito a
lui si rifaranno in periodo altomedievale (VII secolo – pauliciani). Il paulicianesimo era presente nel mondo bizantino e soprattutto in quelle zone che
si trovarono a contatto, dalla metà del VII secolo in poi, con la prepotente
16
Sul monachesimo, in termini generali, v. G.M. COLOMBAS, Il monachesimo delle origini, trad.
it., Milano 1984 nonché M. PACAUT, Monaci e religiosi nel medioevo, trad.it., Bologna 1989.
17
Basti pensare che i Visigoti di Spagna abbandonarono l’arianesimo solo nel 589 e i Longobardi
addirittura nel 653.
16
Profili immaginari degli anabattisti di Cinto
17
Tonia moglie di Cristoforo Cestaio
espansione della nuova religione islamica sostenitrice, come sappiamo, di
un monoteismo integrale contrario ad ogni forma di umanizzazione e rappresentazione del divino.
L’iconoclastìa bizantina era forse una reazione difensiva del cristianesimo orientale nei confronti dell’Islam ma il risultato immediato fu la
grave frattura con il Papa di Roma ed anche se nel II Concilio di Nicea del
787 fu riammesso il culto delle immagini la divisione nel mondo cristiano
sembrava ormai irreversibile18.
Ma riprendendo per un attimo l’eresia dei pauliciani dobbiamo
evidenziare che si basava su di una visione del mondo di tipo manicheo:
al Dio buono si contrappone un principio malvagio che è il vero artefice del mondo e dei corpi naturali che dunque subiscono una svalutazione
ontologica. Tali presupposti avevano delle importanti conseguenze sia sul
piano religioso che su quello politico-sociale: nel primo caso si negava
la struttura gerarchica e visibile della Chiesa e si riteneva che ogni fedele
poteva individualmente e liberamente accedere alle Scritture quale via alla
salvezza; nel secondo caso la citata svalutazione del terreno conduceva al
disconoscimento di ogni potere e/o autorità con le ovvie conseguenze destabilizzanti che si possono immaginare. Diffusosi nella penisola balcanica
dal VII secolo il paulicianesimo è l’antecedente storico del più importante
movimento ereticale dell’alto medioevo: il bogomilismo19. Anche in questo
caso il retroterra è manicheo con la solita contrapposizione dualistica fra
un principio del Bene e uno del Male sulla quale viene costruita sia una
cosmogonia che una teoria dei fini e delle cose ultime (escatologia). La potenza del principio malvagio si esprime anche nella creazione dell’uomo e
della donna che però, grazie alla loro componente spirituale, possono sfuggire al demonio e salvarsi ritornando al Dio buono percorrendo un cammino ascetico che rifugge dai piaceri e dalle tentazioni terrene.
Anche in questo caso le conseguenze pratiche erano destabilizzanti
per l’autorità religiosa e civile. I bogomili rifiutano l’opera di mediazione
della Chiesa e delle sue gerarchie, i Sacramenti, i simboli sacri come la
croce, i riti e le preghiere, il culto delle reliquie e la credenza nei miracoli.
Sono contrari al matrimonio e all’intervento ecclesiastico per sacralizzare
l’unione, sostengono la necessità di vivere frugalmente (nel cibo, nel vestire e nelle abitudini quotidiane) attuando il precetto evangelico di amare
18
Su tali questioni v. M. GALLINA, Ortodossia ed Eterodossia, in Storia del Cristianesimo a cura
di G. Filoramo e D. Menozzi, vol. II Il Medioevo, Roma-Bari 1997, pp. 152-179.
19
Il termine deriva probabilmente da un certo Bogomil, fondatore o comunque esponente di punta
del movimento. In letteratura è utile lo studio di D. ANGELOV, Le bogomilisme en Bulgarie, Tolosa
1972 (trad.it. Il bogomilismo. Un’eresia medievale in Bulgaria, Roma 1979).
18
il prossimo con la proibizione di uccidere non solo l’uomo ma anche gli
animali. Come i pauliciani i bogomili negano valore ai poteri costituiti e
proprio il vivere con profondità l’amore per gli altri li porta a schierarsi
con i poveri e gli oppressi e a lottare per conservare, nel susseguirsi degli
avvenimenti storici che interessano l’area balcanica fra il X e l’XI secolo,
una loro autonomia ora da Bisanzio ora dal nascente Regno bulgaro. Il bogomilismo si dimostrerà capace di un notevole spirito missionario esportando verso l’occidente europeo le sue dottrine: il catarismo che si affermerà
nella Francia meridionale e nell’Italia settentrionale nel XII e XIII secolo
sarà il suo più importante erede.
Abbiamo detto dell’importanza dell’elemento ecclesiastico nell’età
carolingia a partire dagli interventi diretti di Carlo Magno su questioni religiose: se da un lato il cristianesimo cerca di dare vita ad una diffusa e
condivisa cultura, dall’altro erano possibili deviazioni dottrinali su questioni basilari come in effetti avvenne per l’Eucarestia e il problema della
predestinazione. In entrambi i casi ci si riferiva alle interpretazioni date da
Agostino ma con notevoli incertezze che derivavano da una incompleta e
a volte inesatta recezione delle sue opere. Così l’Eucarestia poteva essere
intesa nel suo significato spirituale e simbolico (così l’aveva prospettata
Agostino), oppure se ne evidenziavano gli aspetti realistici sino a rasentare
il materialismo. Nel IX secolo assumono posizioni contrapposte Ratrammo
di Corbie e Pascasio Radberto: il primo sottolineava il valore simbolico
dell’Eucarestia, il secondo privilegiava un realismo teso ad evidenziare la
presenza reale del corpo e del sangue di Cristo sull’altare20.
Quanto alla predestinazione Agostino sembrava averla sostenuta
decisamente nell’ultima fase del suo pensiero, nell’accesa lotta contro i
pelagiani: a questa posizione si richiama Gotescalco d’Orbais ritenendo di
poter affermare che esiste una doppia predestinazione, alla salvezza per i
buoni e alla dannazione per i malvagi. È ovvio che in tal modo perdevano
valore le opere del credente, per così dire condannato o salvato ab origine,
e conseguentemente la libertà dell’uomo era negata nel quadro della imperscrutabile volontà divina. Gotescalco venne più volte condannato e la
sua dottrina definita eretica: in realtà e nonostante i tentativi della teologia
carolingia il problema della predestinazione rimaneva aperto come pure
quello del valore determinante per la salvezza dell’attività sacramentale
della Chiesa visibile. Non a caso l’eresia medievale riprenderà spesso tale
tema nella ricerca di una religiosità originaria e di un dialogo diretto della
20
Entrambi scrissero un De corpore et sanguine domini ma mentre il testo di Ratrammo venne
condannato nell’XI secolo quello di Pascasio Radberto costituì riferimento importante per l’elaborazione del concetto di transustanziazione.
19
coscienza individuale con Dio21. Fra il X e l’XI secolo l’occidente cristiano
vive una fondamentale fase di transizione con una ripresa, non più limitata agli ambienti colti ma capace di un’espansione a livello sociale, di tesi
millenaristiche. Una certa insistenza sull’imminenza della fine del mondo
o addirittura la pretesa di indicarne la data (il passaggio dell’anno Mille ovvero il 1033 quale millenario della Passione di Cristo) assumevano un carattere eretico per la Chiesa perché forzavano il testo sacro con l’insipiente
presunzione di conoscere i disegni di Dio. Ma al di là di ciò è indubbia la
suggestione a livello sociale e dell’immaginario collettivo di tali tematiche: una predica, una diceria popolare, un collegamento magari ingenuo
con i segni della natura e del cielo, potevano rafforzare l’idea di una vecchiaia del mondo (mundus senescit) e di un’ormai prossimo compimento
della storia. Conversione, recupero di una religiosità evangelica e necessità
impellente di una riforma della Chiesa, corrotta dalla commistione con il
potere e la ricchezza, questi sono i sentimenti che animano la prima metà
dell’XI secolo sia nelle realtà urbane in espansione economica e alla ricerca
di nuovi assetti istituzionali sia nelle campagne dove i fenomeni di riassetto
territoriale dei poteri signorili determinavano indubbie tensioni nel mondo
contadino22. In questo panorama espansivo maturano i germi della rinascita
medievale e se la Chiesa istituzionale, tramite un recupero di valori etici ed
evangelici, cerca di rispondere alla sfida dei tempi nuovi, il pensiero ereticale trae forza dal diffuso bisogno di rigenerazione morale per rilanciare le
sue tematiche e visioni del mondo. L’XI secolo conosce diverse espressioni
ereticali e con collocazioni geografiche e sociali di varia natura: ci limiteremo ad accennare alle più importanti. Rodolfo il Glabro ci parla della eresia
del contadino Leutardo (o Liutardo), ambientata nella campagna francese
sul finire dell’anno mille e inserita in un contesto di arretratezza e di protesta rurale. Narra Rodolfo che un plebeo di nome Leutardo si trovava un
giorno nei campi per dei lavori agricoli quando venne colto dal sonno e gli
sembrò che un’enorme sciame d’api entrasse in lui per una parte riposta
del suo corpo (il riferimento è all’ano) uscendo poi dalla bocca, tormentandolo con le punture e ordinandogli di eseguire azioni impossibili. Tornato a casa sconvolto Leutardo scacciò la moglie ed entrato in chiesa afferrò
il crocifisso calpestandolo con violenza e disprezzo: da questo evento inizia
la predicazione di Leutardo fra i contadini che ha quale principale bersaglio
il clero, con l’invito alle plebi a non pagare le decime. Condotto davanti
21
Sui dissensi ereticali dell’età carolingia v. G. TABACCO, Il cristianesimo latino altomedievale, in
Storia del Cristianesimo, op.cit., pp. 73-90.
22
I mutamenti della sensibilità religiosa sono anche all’origine del movimento riformatore ecclesiastico: v. G. TABACCO – G.G. MERLO, Medioevo, Bologna 1989, pp. 241-256 e 283-298. Si veda
anche C. VIOLANTE – J. FRIED (a cura di), Il secolo XI: una svolta?, Bologna 1993.
20
al vescovo le sue dottrine vengono dialetticamente confutate e Leutardo,
rimesso in libertà e per la probabile cocente umiliazione si toglie la vita
gettandosi in un pozzo23. Il racconto dell’eresia di Leutardo, al di là di alcuni tratti indubbiamente divertenti , documenta la diffusione in occidente di
tematiche (il rifiuto della gerarchia ecclesiastica, della croce e dei simboli
religiosi, la castità e il connesso ripudio del matrimonio) già diffuse nel
bogomilismo balcanico di cui abbiamo parlato in precedenza. Lo stesso
Rodolfo il Glabro come pure un altro cronista contemporaneo, Ademaro
di Chabannes, ci descrivono poi una falsa dottrina scoperta ad Orléans fra
il 1017 e il 1023 e probabilmente collocabile nell’alveo del manicheismo.
Secondo Rodolfo la dottrina sarebbe stata introdotta da una donna venuta
dall’Italia trovando ben presto il favore di alcuni elementi di spicco della
città (chierici e aristocratici) che negavano la Trinità e sostenevano l’eternità del mondo. Ademaro di Chabannes li definisce espressamente manichei
ed è probabile che gli eretici di Orléans ritenessero il mondo e la materia
quale creazione di un’entità diversa da Dio proponendo la liberazione dal
materiale nel solito quadro del rifiuto dell’autorità ecclesiale, dei sacramenti e simboli religiosi, del matrimonio e delle convenzioni sociali24.
Si tratta di un’anticipazione dell’eresia catara e nello stesso ambito si possono collocare fenomeni analoghi quali i predicatori itineranti in
Aquitania del 1018 e la setta ereticale operante fra Liegi ed Arras nel 1025,
quest’ultima su posizioni ancora più radicali sino ad escludere persino il
contatto sessuale. Anche l’Italia settentrionale non è immune da fenomeni
ereticali: il più importante riguarda i cosiddetti eretici di Monteforte, presso
Asti, attivi attorno al 1028, nell’opera dei quali sono ravvisabili chiari collegamenti con gli eretici di Orléans con similitudini di dottrine, una scelta di
vita comunitaria anche per quanto riguarda i beni e una carica di denuncia
sociale nei confronti della ricchezza e privilegi del clero. È importante rilevare come in occasione del giudizio degli eretici di Monteforte a Milano,
la loro predicazione non rimase priva di effetti, soprattutto fra i ceti subalterni, con conseguenze sulla formazione del movimento della pataria milanese25, della quale ci occuperemo in seguito. Non vi è dubbio che tutti questi fenomeni di eterodossia, pur sfruttando condizioni ambientali diverse,
presentavano un denominatore comune: la più o meno diretta connessione
23
RODOLFO IL GLABRO, Cronache dell’anno mille (Storie), a cura di G. Cavallo e G. Orlandi,
con testo latino a fronte, Milano 1991 (3° ed.). Si veda il libro II, pp. 105-107.
24
RODOLFO IL GLABRO, Storie, op.cit., libro III, pp. 159-175 e ADEMARO DI CHABANNES,
Cronaca. L’edizione di riferimento è ancora quella francese a cura di J. Chavanon, Parigi 1897, v.
sub 49 e 59.
25
Un quadro sintetico con riferimento alle fonti della eresia nell’XI secolo si trova in H. GRUNDMANN, Movimenti religiosi nel Medioevo, trad.it., Bologna 1980 (nuova ed.), pp. 429-435.
21
con il manicheismo che i missionari Pauliciani e Bogomili esportavano in
occidente in concomitanza con l’espansione economica e commerciale che
con l’XI secolo cominciava a manifestarsi. Vi è poi da evidenziare, a parte i
pochi casi di eresie dotte (il caso di Orléans o ancora il caso di Vilgardo di
Ravenna di cui ironicamente ci narra Rodolfo il Glabro)26, l’origine rurale
dei movimenti di cui si è detto anche collegata a situazioni di contestazione
sociale nei confronti dei signori territoriali e del clero.
Inoltre, come avverte Grundmann: manca fra gli eretici occidentali
del secolo XI qualsiasi traccia di speculazione dualistica e di cosmologia
mitologica, rilevante invece fra i manichei e le sette orientali da loro derivate27; sarà il catarismo a recuperare pienamente anche questa tradizione
filosofica e teologica nell’ambito di una dottrina ereticale ben più matura e
organizzata.
Ma l’XI secolo è anche, come si accennava, il secolo della pataria
milanese, un movimento popolare non eretico in sè ma capace di rappresentare un vero e proprio volano per la riforma della Chiesa, godendo per
tutta una prima fase dell’appoggio dello stesso Papa e dei principali esponenti di quella che poi divenne la riforma gregoriana. L’alto clero a Milano
ma anche in diverse altre diocesi dell’Italia settentrionale era pesantemente
invischiato negli interessi mondani, diffusa era la compravendita delle cariche ecclesiastiche (simonia) come pure il concubinato del clero (nicolaismo) in palese violazione degli obblighi di celibato e castità28. Questo
malessere si collegava al contrasto fra un’aristocrazia religiosa gelosa dei
propri privilegi e appoggiata dall’imperatore e una realtà politico-sociale
composita costituita sia da ceti urbani mercantili e artigiani sia da ceti rurali
che dalle campagne si spostavano in città in cerca di una maggiore libertà.
È questo il retroterra del movimento popolare patarinico (dove patarino ha
il significato di straccivendolo o forse di straccione con riguardo alla prevalente origine sociale dei suoi membri), un movimento capace di saldarsi
con il partito della riforma e di opporsi con violenza, dal 1045 in poi, ai
tentativi della aristocrazia ecclesiastica e feudale di conservare a Milano
la carica arcivescovile. Nella fase più acuta della lotta il popolo patarinico
interviene escludendo dalle funzioni sacre gli esponenti del clero ritenuti
indegni, li rimuove fisicamente dai loro uffici indicandoli alla pubblica ri-
26
RODOLFO IL GLABRO, Storie, op.cit., libro II, pp. 107-109.
H. GRUNDMANN, Movimenti religiosi nel Medioevo, op.cit., p. 430.
28
Il termine “simonia” trae origine dalla figura di Simon Mago che compare negli Atti degli Apostoli come colui che pretendeva di acquistare da S. Pietro i suoi poteri taumaturgici. “Nicolaismo”
è riferibile, probabilmente, alla figura del diacono Nicola e ad alcuni passi dell’Apocalisse di S.
Giovanni.
27
22
provazione29. Anche esponenti di primo piano della riforma papale quali
Anselmo da Baggio e Pier Damiani devono a questo punto intervenire per
evitare la radicalizzazione del movimento dove emergevano indubbiamente alcuni elementi di eresia: in particolare la negazione della validità dei
sacramenti in quanto amministrati da chierici indegni riproponeva il donatismo tardoantico che, come abbiamo visto30, anteponeva la qualità morale
del sacerdote officiante alla forza oggettiva del sacramento. L’evoluzione
dei conflitti in atto nella seconda metà dell’XI secolo conduce alla sconfitta
del movimento patarinico in quanto tale: la ripresa di una forte politica
imperiale con Enrico IV e le preoccupazioni del Papato di alimentare forze
centrifughe in un momento in cui stava assumendo un’importanza centrale il rafforzamento istituzionale della Chiesa romana, tolgono alla pataria
fondamentali appoggi politici e ne segnano l’irreversibile tramonto anche
se molte delle sue istanze di recupero di una religiosità più pura e di moralizzazione della vita sociale avranno un sicuro avvenire sia all’interno della
gerarchia ecclesiastica (la riforma gregoriana farà proprie molte di queste
esigenze) sia all’esterno nella promozione di forme laicali di devozione e
prassi religiosa che animeranno il secondo medioevo.
Le eresie vecchie e nuove si faranno via via più radicali e minacciose e la Chiesa seguirà la strada della chiusura dogmatica e della lotta istituzionale ai fenomeni ereticali con l’introduzione di procedure inquisitoriali
ed ampio utilizzo delle scomuniche. Ma la stessa Chiesa saprà anche, autorizzando e promuovendo gli ordini mendicanti, riconoscere che il profondo
bisogno di religiosità della coscienza medievale necessitava di nuove forme
di espressione.
3. Movimenti ereticali e ordini mendicanti nel basso medioevo
Dal grande laboratorio dell’XI secolo la civiltà medievale acquista
una notevole forza espansiva che investe ogni aspetto della vita sociale, religiosa e culturale. La riforma gregoriana si dimostra capace di realizzare,
come si è detto, alcune delle fondamentali esigenze di moralizzazione nella
vita del clero e più in generale di rigenerazione religiosa che avevano animato il movimento patarinico ma anche parte del pensiero ereticale. Esigenze
29
Sulla “pataria” v. P. GOLINELLI, La Pataria. Lotte religiose e sociali nella Milano dell’XI secolo,
Novara 1984 e anche C. VIOLANTE, Studi sulla cristianità medievale. Società istituzioni, spiritualità, in Cultura e Storia, 8 Milano 1972. Di grande interesse per lo studio delle eresie pauperistiche è
anche il saggio di T. MANTEUFFEL, Nascita dell’eresia, trad.it., Firenze 1986 (2° ed.)
30
V. supra, p. 12.
23
di purificazione e di adesione ai principi evangelici emergevano apertamente
non solo dal mondo monastico, all’interno del quale la via cluniacense non
sembrava più in grado di dare adeguata risposta alla nuova sensibilità religiosa, ma anche dalle rinnovate realtà urbane dove gli sviluppi economici e
sociali determinavano tensioni, speranze e attese in passato sconosciute31.
Occorre aggiungere che l’ultimo scorcio dell’XI secolo e la prima
parte del XII sono animati dall’idea della crociata lanciata dal Papato (con
Urbano II nel 1095) e capace in breve tempo di catalizzare forze diverse in un quadro di eccitazione collettiva. Da un lato ciò rappresenta per
la Chiesa istituzionale un momento di particolare fortuna per il ruolo di
guida sia spirituale che politica che essa assume nella lotta e contrapposizione fra l’occidente cristiano e l’islam; dall’altro la crociata libera forze
religiose di varia natura, anche eterodosse, suscitando profeti e predicatori itineranti capaci di muovere folle di uomini e donne su strade dove lo
scopo evangelico e l’esaltazione mistica degenerano sovente in violenze e
saccheggi, come in concreto avvenne con la crociata popolare di Pietro di
Amiens, detto l’Eremita32. Ma al di là degli esiti, perlopiù negativi, di tali
iniziative, non vi è dubbio che la ripresa di più frequenti ed assidui rapporti
con l’Oriente, anche favoriti dalle crociate, assume un significato di primo
piano per lo sviluppo delle eresie, con particolare riguardo alle dottrine più
radicali, quelle dualistiche e di origine manichea mai scomparse nell’Europa orientale e in Asia Minore. La Chiesa con a capo il Papa di Roma realizza in questo periodo storico un’imponente processo di consolidamento sia
istituzionale che dottrinale: si va ormai verso la monarchia papale e in tale
ambito viene meno quell’atteggiamento di duttilità che in passato era stato
utilizzato anche nei confronti di alcuni movimenti sospetti di eresia. Tuttavia, alcune istanze che l’XI secolo aveva già avanzato, tali da valorizzare
esperienze religiose di singoli e di gruppi basate sulla povertà evangelica
e la imitazione degli Apostoli, non vengono automaticamente rifiutate nel
XII secolo ma, di volta in volta, valutate nella loro ortodossia e, in caso positivo, parzialmente consentite. Il grosso problema sembrava riguardare la
predicazione dei laici che si andava diffondendo ma contrastava con il monopolio che in materia riaffermava la Chiesa istituzionale: qui si innestano i
più forti attriti e la predicazione itinerante diviene in questo periodo storico
un chiaro indizio di eresia, soprattutto dove accompagnata a un rifiuto della
gerarchia ecclesiastica, dei suoi riti e delle sue simbologie.
31
Di vero e proprio risveglio parla M.D. CHENU, Il risveglio della coscienza nella civiltà medievale, trad.it., Milano 1991 (2° ed.).
32
Sui motivi delle crociate è utile, a livello di prima introduzione, il saggio di G. FEDALTO, Perché
le crociate. Saggio interpretativo, Bologna 1980. V. anche J. FLORI, Le crociate, trad.it., Bologna
2003.
24
Scrive Grundmann: i concetti di povertà cristiana e di vita apostolica
realizzati nella predicazione itinerante sono il contenuto essenziale dell’eresia, sia a Colonia che nel sud della Francia e sono sempre rimasti il motivo
principale dell’eresia sino all’inizio del XIII secolo, presso i Catari come
presso i Valdesi33. Vediamo brevemente quali sono i più importanti movimenti ereticali che operano, con diversa estensione e intensità, nel XII secolo.
Anzitutto occorre una precisazione sul modo di interpretare tali
istanze: si tratta prevalentemente di eresie basate sulla contestazione della
gerarchia ecclesiastica, espressione non tanto o inizialmente di deviazioni
dottrinali ma (con alcune eccezioni che analizzeremo) piuttosto dell’aspirazione a una religiosità più intima e meno compromessa con il potere.
Purtroppo, come scrive Merlo, la religiosità non conformista e talvolta il
semplice desiderio di vivere più direttamente il rapporto col divino al di
fuori dei binari istituzionali furono letti in chiave di disobbedienza al vertice della cattolicità romana, che si autoidentificava come unica e verace
detentrice del messaggio cristiano, dell’ortodossia34. È questa l’atmosfera
nella quale collocare i movimenti che fanno capo a Enrico il Monaco, Pietro
di Bruis, Arnaldo da Brescia e Pietro Valdo. Enrico il Monaco, conosciuto
anche come Enrico di Losanna o di Le Mans, esprime al massimo grado la
denuncia nei confronti della gerarchia ecclesiastica, mettendo in discussione la funzione mediatrice della Chiesa e, in un secondo momento, quando
la Chiesa lo aveva già proclamato eretico, anche il peccato originale, il battesimo dei bambini e la funzione del clero nell’amministrazione dei sacramenti in genere. Una delle principali accuse rivolte a Enrico era quella di
riproporre l’eresia pelagiana: fondamentale è il rapporto di responsabilità
diretta fra l’uomo e Dio e l’obbedienza a quest’ultimo prima che a qualsivoglia autorità terrena, Chiesa compresa. La gerarchia ecclesiastica era
invitata a rinunciare al potere e alla ricchezza in un clima di reale adesione
evangelica, dato anche il rilievo assunto dal comandamento ama il prossimo
tuo come te stesso35. Più radicali ancora sembrano essere le posizioni di un
contemporaneo di Enrico, Pietro di Bruis. Se il primo era stato monaco cluniacense il secondo aveva svolto funzioni di parroco in un piccolo villaggio
alpino dell’odierna Svizzera. Le idee di Pietro sembravano avere rapporti
con le eresie orientali e in particolare con il bogomilismo laddove vengono
rifiutati i simboli religiosi, i riti e gli oggetti materiali del culto con in primo
luogo la croce, anche se non compare la cosmologia dualistica che i bogo33
H. GRUNDMANN, Movimenti religiosi nel Medioevo, op.cit., p. 40.
G.G. MERLO, Eretici ed eresie medievali, Bologna 1989, p. 22.
35
Sulla figura di Enrico v. R. MANSELLI, Il monaco Enrico e la sua eresia, in Bullettino dell’istituto storico italiano per il medioevo e Archivio muratoriano, n. 65, 1953 pp. 1-63.
34
25
mili professavano. Pietro critica ferocemente la gerarchia ecclesiastica con
modalità analoghe a quelle di Enrico, sostiene l’inefficacia del sacramento
eucaristico e vede nelle preghiere per le anime dei defunti uno strumento
utile solo ad incrementare le ricchezze del clero ma non veicolo di salvezza
perché il destino individuale è già segnato (forse un richiamo, sul punto,
alla tesi della doppia predestinazione di Gotescalco d’Orbais). Se Pietro
muore ucciso dalla folla durante un rogo di crocifissi, il suo movimento si
dimostra capace di estendersi dalle vallate alpine alla Francia meridionale,
anche entrando a contatto con altri movimenti ereticali e complicando un
quadro di contestazione religiosa già vario e diffuso36. Veniamo ora a trattare di un’altra singolare figura del XII secolo: Arnaldo da Brescia.
Non ci troviamo di fronte, in questo caso, a teorie in chiaro contrasto con l’ortodossia ma ad una prosecuzione di motivi e suggestioni già
presenti nell’ambiente lombardo per effetto della tradizione patarinica. Il
principale bersaglio di Arnaldo è infatti il clero corrotto, il desiderio di
potere e ricchezza delle gerarchie ecclesiastiche così inevitabilmente contrastante con i principi evangelici. Va aggiunta la circostanza dello stretto
legame fra Arnaldo e il filosofo Abelardo tale da consentire al primo l’acquisizione di un solido bagaglio speculativo quale base per un’esperienza
religiosa consapevole e coerente: predicazione e povertà evangelica si inseriscono in questo modo in un quadro dove l’intelligenza della fede è altrettanto rilevante e consente approfondimenti in chiave politica. Con questi
presupposti Arnaldo vive la sua intensa esperienza romana, in un momento
storico delicato dove forti sono le istanze antipapali e la contestazione nei
confronti del potere temporale del successore di Pietro. Fallito il tentativo
di restaurazione repubblicana anche grazie all’appoggio imperiale al Papa,
Arnaldo, che con le sue idee di quel tentativo era stato una voce importante, viene proclamato eretico (1154) e poco dopo, consegnato da Federico
I Barbarossa al Papa, giustiziato (1155). Arnaldo da Brescia rappresenta,
sotto diversi aspetti, un necessario punto d’arrivo di quella filosofia gregoriana che imponeva una diversa considerazione dei rapporti fra il civile e
il religioso ridisegnando per la Chiesa istituzionale una posizione di non
commistione con il potere. In ciò non vi era nulla di eretico, anzi, si trattava
di ricondurre le istituzioni ecclesiastiche ad una sincera adesione al Vangelo37. Purtroppo un Papato lanciato a realizzare una politica di supremazia
nella cristianità, verso quell’affermazione di plenitudo potestatis che ben
presto si farà evidente, non poteva accettare una così radicale messa in
36
Più in generale v. R. MANSELLI, Il secolo XII: religione popolare ed eresia, Roma 1983.
Su Arnaldo da Brescia v. A. FRUGONI, Arnaldo da Brescia nelle fonti del secolo XII, Torino 1989
(rist. dell’ed. 1954).
37
26
discussione: di qui una dilatazione politica del concetto di eresia, l’utilizzo
strumentale della scomunica per imporre una uniformità nel pensiero e nella prassi religiosa. È questo il nuovo orizzonte dove collocare i rapporti fra
ortodossia ed eterodossia nel passaggio tra il XII e il XIII secolo. Uno dei
punti critici, come si è accennato, riguardava la predicazione dei laici, di
coloro che sceglievano la povertà di vita nell’imitazione di Cristo e dei suoi
Apostoli: poteva la Chiesa istituzionale rinunciare al monopolio della predicazione ai fedeli? Il caso di Pietro Valdesio (o Valdo) di Lione rientrava
in pieno in tale ambito. Si trattava di un ricco mercante che a un certo punto
della sua vita decise di rinunciare a tutti i suoi beni per donarli ai poveri,
abbracciando egli stesso la via della povertà evangelica e riscuotendo, in
un primo tempo, il consenso del Papa, dal quale si recò con i suoi seguaci
per chiedere l’approvazione (1179). Se la scelta di vita poteva essere accettata non così la possibilità di predicare, addirittura estesa alle donne e
con conseguenze imprevedibili. Si giunse così alla condanna dei poveri di
Lione o valdesi con una decretale di Papa Lucio III38 nella quale Valdesio e
i suoi seguaci vengono accomunati ad altre eresie del tempo: si comprende
dal testo della decretale che il rimprovero ai valdesi non era costituito da
deviazioni teologiche ma dalla pretesa di predicare al pubblico. Sancita la
separazione dalla Chiesa cattolica i valdesi continuano a espandersi radicalizzando alcune loro posizioni, negando una distinzione tra sfera laica
e sacerdotale, la credenza nei miracoli e nel purgatorio nonché stabilendo
per i perfetti (dediti totalmente alla preghiera e predicazione, al celibato e
in particolare alla continenza sessuale) anche il divieto del lavoro manuale.
Nel complesso vi era comunque, come si è detto, una sostanziale adesione
ai principi della teologia cattolica: non a caso i valdesi saranno fra i più
acerrimi nemici dei catari e delle concezioni dualistiche39.
Prima di affrontare la nuova stagione ereticale che coincide con lo
sviluppo del catarismo ma che vede anche l’affermazione degli ordini mendicanti, ci occupiamo brevemente del movimento degli Umiliati. Scriveva
il Volpe: la storia degli umiliati ci richiama Valdo e i Valdesi. Compaiono
insieme o poco prima di questi. Si vedono o intravedono su la metà del XII
secolo a Milano che è il gran centro del Cristianesimo, diciamo così, irregolare di questo tempo, ed in altre città di Lombardia, nuclei di laici raccolti a vita comune ed operosa...40. Compare qui già una prima differenza
rispetto ai valdesi: quest’ultimi (perlomeno i perfetti) rifiutavano il lavoro
38
Si tratta della decretale Ad abolendam emanata a Verona nel 1184.
Sui Valdesi, in una prospettiva storiografica v. G.G. MERLO, Valdesi e Valdismi medievali, vol. II
Identità valdesi nella storia e nella storiografia, Torino 1991.
40
G. VOLPE, Movimenti religiosi e sette ereticali, Firenze 1977 (5° ed.; la prima ed. è del 1922),
p. 55.
39
27
manuale mentre gli Umiliati considerano positiva e qualificante l’attività
lavorativa che tuttavia non deve essere finalizzata all’accumulo di ricchezze
ma, soddisfatte le necessità della vita, deve orientarsi a scopi di carità cristiana e beneficenza. Anche se la predicazione itinerante non aveva per gli
Umiliati un’importanza primaria, i sospetti delle gerarchie ecclesiastiche
si focalizzarono sulla loro attività associativa e in questo senso vennero
accomunati ai valdesi nella decretale Ad abolendam del 1184. Tuttavia, per
usare il termine di Merlo41, l’avventura ereticale degli Umiliati è di breve
durata per la lungimiranza di Papa Innocenzo III che, a partire dagli ultimi
anni del XII secolo e i primissimi del XIII, dopo alcune trattative, riconosce il movimento degli Umiliati all’interno della Chiesa prevedendone
anche l’organizzazione ordinamentale (nei tre ordini: monastico, canonico
e laico). Anche se la Chiesa gerarchica si riservava l’attività predicatoria, si
trattava di un fatto nuovo di grande rilievo, espressione di una politica volta
a favorire l’ingresso nella ortodossia di gruppi e movimenti religiosi sulla
base del pregiudiziale riconoscimento del ruolo guida svolto dal Papa. Solo
un piccolo gruppo di Umiliati non accetta la nuova organizzazione e si stacca per andare a formare un movimento autonomo vicino alle posizioni dei
valdesi ma anche, in certe espressioni, contiguo ai catari: nei documenti del
tempo saranno conosciuti come Poveri Lombardi42. Il pontificato di Innocenzo III (1198-1216) rappresenta un momento storico cruciale per il nostro
tema: da un lato, nell’ambito del definitivo consolidamento della monarchia
papale con l’utilizzo di una strumentazione giuridica ispirata dalle fonti
romanistiche, viene elaborata la figura del delitto di eresia sulla base del
crimen lesae maiestatis e dunque con chiara valenza politica prima ancora
che di dissidenza teologica e/o dottrinale43; dall’altro Innocenzo III, come si
è visto, opera anche nel senso di favorire la riconciliazione di alcuni movimenti con la Chiesa, preparando la strada (si pensi al suo atteggiamento nei
confronti del movimento francescano già nel 1210) alla legalizzazione degli
Ordini mendicanti. In questa fase di eccezionale sviluppo delle esperienze
religiose, ben inserita nel complesso di una civiltà medievale in espansione,
i movimenti ereticali eterodossi assumono per la societas christiana tratti di
pericolosa radicalità: ciò avviene in primo luogo per il catarismo e le sue
diramazioni, un vero e proprio sistema religioso alternativo alla Chiesa cattolica e per tale motivo duramente perseguitato e represso.
41
G.G.MERLO, Eretici ed eresie medievali, op.cit., p. 57 e ss.
Sugli Umiliati v. H. GRUNDMANN, Movimenti religiosi nel Medioevo, op.cit., pp. 85-95; G.
VOLPE, Movimenti religiosi e sette ereticali, op.cit., p. 55 e ss. e, sui Poveri Lombardi, pp. 71-78.
43
Ci riferiamo alla decretale Vergentis in senium del 1199 di Papa Innocenzo III.
42
28
Il catarismo è un movimento ereticale complesso e multiforme che,
come si è visto,non compare sulla scena all’improvviso ma è il risultato di
una lunga evoluzione che trova nel pensiero dualistico orientale, figlio a sua
volta del manicheismo tardo antico, i suoi principali riferimenti dottrinali44.
Il bogomilismo bulgaro con la sua accertata attività missionaria rappresenta
la prima sicura fonte per lo sviluppo in Occidente di focolai ereticali che sin
dall’inizio evidenziano tratti ben diversi da quelli delle altre espressioni di
dissenso nei confronti dell’ortodossia cattolica. Dalla metà del XII secolo
in poi vengono individuati dalle autorità ecclesiastiche in varie località e
regioni europee (dalla Germania renana alla Fiandra, alla Francia meridionale, all’Italia settentrionale e centrale), gruppi che attuano una vita comunitaria in povertà con principi di rigoroso ascetismo che sono alla base
della denominazione che sinteticamente li qualificherà: catari ovvero puri
(dal greco catharos = puro). L’influenza del bogomilismo balcanico orienta
queste prime espressioni ereticali verso il dualismo moderato dove la contrapposizione dei principi del Bene e del Male non si risolveva ancora nella
totale identificazione fra il mondo materiale e Satana: l’esempio di Cristo
addita ai perfetti la via maestra per avvicinarsi a Dio attraverso una progressiva liberazione dai vincoli del mondo45. Nella seconda metà del XII secolo
i gruppi catari già esistenti subiscono l’influenza del cosiddetto dualismo
radicale forse diffuso, così ritengono molti studiosi, dalle missioni del vescovo Niceta, esponente del radicalismo dualistico di Bisanzio. Vi è notizia
di un vero e proprio Concilio eretico tenutosi nei pressi di Tolosa attorno
agli anni sessanta del XII secolo, al quale Niceta partecipò ordinando sette
vescovi come momento organizzativo fondamentale di una vera e propria
Chiesa ormai contrapposta a quella cattolica. È singolare la circostanza che
i membri delle chiese catare amassero definirsi buoni cristiani ovvero buoni uomini: di cristiano essi avevano ormai ben poco e soprattutto nella versione radicale del loro credo46. Il dualismo radicale aveva infatti rapporti
ancora più stretti con il manicheismo tardo antico, probabilmente attraverso
le suggestioni del paulicianesimo47: il mondo materiale è malvagio perché
il creatore non è Dio ma Satana e tutto avrebbe origine dall’inganno di quest’ultimo a causa del quale lo spirito è stato imprigionato nei corpi. Proprio
nell’uomo i due principi si fronteggiano ed è l’allontanamento dalla mate-
44
Sul catarismo v. R. MANSELLI, L’eresia del male, Napoli 1980 (2° ed.) e anche O. CAPITANI
(a cura di), Medioevo ereticale, Bologna 1977.
45
Per le concezioni bogomile ci richiamiamo a quanto esposto in precedenza: v. supra, pp. 18-19. V.
anche A. BORST, Les chathares, trad. francese, Parigi 1978 (2° ed.).
46
Su tali sviluppi v. G.G. MERLO, Eretici ed eresie medievali, op.cit., pp. 39-48.
47
V. supra, p. 18.
29
ria e corporeità la via che riconduce a Dio. La venuta di Cristo rappresenta
per gli uomini la premessa di una liberazione dal male ma per i catari non vi
è stata vera incarnazione e la stessa Passione è simbolica: da ciò nascevano
il rifiuto del segno di croce e dell’eucarestia, espressione quest’ultima di un
sacrificio mai avvenuto. Con tali presupposti dogmatici e dottrinali i catari
si organizzano in una vera e propria Chiesa nella quale confluiscono a vari
livelli tre categorie di fedeli: i semplici uditori che prendono parte alla vita
della comunità catara con funzioni di sostegno esterno, soprattutto economico; i credenti, che partecipano attivamente alla vita ecclesiale ma senza
essere tenuti alla condotta di vita del vertice della confessione ed infine i
perfetti o electi che devono sottoporsi a pesanti rinunce nell’ottica di un
rigido ascetismo48. Il passaggio allo status di perfetto avveniva sulla base di
precisi ritualismi centrati sul consolamentum, il battesimo cataro effettuato
con l’imposizione delle mani.
Si può facilmente comprendere come l’estensione del movimento
cataro possa aver diffuso nelle gerarchie cattoliche timori e preoccupazioni: una vera e propria Chiesa alternativa capace di riscuotere, per motivi
non solo religiosi ma anche politici, il consenso di larghe fasce di popolazione (dal popolo minuto alla ricca borghesia cittadina sino all’aristocrazia feudale - pensiamo al Mezzogiorno francese e all’Italia settentrionale)
rappresentava la più grave minaccia per la societas christiana organizzata
ideologicamente attorno al Papa cattolico-romano. Nel passaggio al XIII
secolo il catarismo si trova in una fase di notevole espansione anche se
divisioni e contraddizioni interne non gli consentiranno mai di raggiungere
una unità ed omogeneità dottrinale. In questo periodo storico che coincide
con la prepotente affermazione della monarchia papale e la decisa politica antiereticale di Innocenzo III, lo scontro con il catarismo si fà drammatico. Già da tempo si era diffusa in occidente l’idea che il sostanziale
fallimento del movimento crociato, con grande spreco di risorse umane e
materiali, richiedesse una correzione di rotta: perché impegnarsi in terre
lontane quando all’interno della societas christiana era evidente il pericolo
ereticale? In quest’ottica già il Concilio lateranense del 1179 aveva esteso
i benefici previsti per i crociati di Terrasanta a coloro che avessero deciso
di prendere le armi contro gli eretici del Mezzogiorno francese (i catari
della città di Albi - albigesi). Questioni politiche e di supremazia condussero Innocenzo III a proclamare, nel 1208, la crociata contro i catari. La
vicenda è nota: il contrasto fra il Papato e il Conte di Tolosa e l’uccisione
48
I perfetti sono tenuti al digiuno, alla preghiera e predicazione itinerante, alla povertà di vita, alle
rinunce ai rapporti sessuali, ai cibi di provenienza animale, alla menzogna e ai giuramenti giudiziari.
Se coniugati devono lasciare il coniuge e la famiglia.
30
Profili immaginari degli anabattisti di Cinto
31
Agnolo de Michiel
di un legato pontificio rappresentano le cause prossime dello scatenarsi, per
almeno un ventennio (dal 1209 al 1229), di una violenta repressione capace
di raggiungere livelli di crudeltà probabilmente non immaginati ma certo
prevedibili. Le guerre sante diventano l’occasione per perseguire scopi che
di religioso hanno ben poco: così la crociata contro i catari-albigesi divenne
una guerra di conquista e l’occasione per il re di Francia Filippo II Augusto di estendere il suo dominio su terre ricche e culturalmente evolute49.
L’eresia catara fu dispersa e da questo momento in poi la lotta anti-ereticale assunse nuove caratteristiche: in primo luogo e dopo le dure prese di
posizione di Innocenzo III (ricordiamo la già citata decretale Vergentis in
senium) l’eresia assume anche il significato di crimine politico in particolare costituito da ogni attentato alla supremazia pontificia; secondariamente
viene istituito l’ordine dei frati predicatori, fondato da S. Domenico, con
lo scopo di combattere con l’esempio religioso, la predicazione itinerante
e la rigorosa cultura teologica e filosofica, le forme del pensiero ereticale;
infine, a completamento dell’ordinamento giuridico della Chiesa cattolica,
con Gregorio IX (1231-1232), viene istituzionalizzato l’Ufficio della Santa Inquisizione affidato a delegati papali e in seguito ai Domenicani e al
nuovo ordine Francescano. Gli ordini mendicanti rappresentano la grande
novità e come si è visto è proprio il papato di Innocenzo III il momento
determinante di questa nascita: con ciò si realizzava l’inserimento nel cattolicesimo ufficiale di istanze pauperistiche ed evangeliche capaci di dare
concreta risposta al bisogno religioso di una società in crescita, anche nel
tentativo di svuotare dall’interno possibili e ricorrenti istanze ereticali50.
Tutto ciò rendeva alla fine sempre più netto il confine fra ortodossia ed
eterodossia laddove il primo termine aveva anche il significato politico di
obbedienza al primato del Papa. È questo il quadro all’interno del quale
vanno letti i fenomeni ereticali del maturo e tardo medioevo sino al grande
strappo provocato dalla Riforma.
Occupiamoci brevemente di quest’ultima stagione.
Il XIII secolo può definirsi senz’altro, riguardo alle esperienze religiose, il secolo degli ordini mendicanti. Quest’ultimi raccoglievano il testimone principalmente dal mondo monastico tradizionale che aveva ormai
esaurito quella storica funzione propulsiva sfociante nella riforma gregoriana. Come aveva dimostrato la fortuna dei movimenti ereticali, occorreva
49
In termini più ampi v. G. MICCOLI, La storia religiosa in Storia d’Italia Einaudi, vol. II, Torino
1974, pp. 671-707. Sulla civiltà dei catari v. S. WEIL, I catari e la civiltà mediterranea, trad.it.,
Genova 1996.
50
Sulla nascita degli ordini mendicanti, sinteticamente v. G. G. MERLO, Il cristianesimo latino
bassomedievale, in Storia del Cristianesimo, op.cit., pp. 256-276 e H. GRUNDMANN, Movimenti
religiosi nel Medioevo, op.cit., pp. 114-130.
32
andare fra la gente con spirito missionario, nelle città come nelle campagne,
bisognava proporre un cristianesimo vissuto e da vivere ed esprimere solidarietà e partecipazione. Nei nuovi ordini la teoria e prassi del pauperismo
ed evangelismo costituisce l’arma vincente sul fronte della lotta al pensiero
ereticale: ciò consente il recupero all’ortodossia di ampie zone dove le comunità eretiche (catari, valdesi ed altri) erano dominanti. Non vi è dubbio
che i nuovi strumenti inquisitoriali hanno il loro peso in tale metamorfosi
ma sarebbe semplicistico spiegare il fenomeno solo quale conseguenza della minaccia di gravi sanzioni. Il recupero, persino di molti catari, alcuni dei
quali entrarono nei nuovi ordini anche con funzioni inquisitorie, fu favorito
dalla novità della predicazione dei Domenicani e Francescani capace di
farsi comprensibile e stimolante e di avere concreto impatto sociale51. Le
finalità introduttive del nostro lavoro non ci consentono di approfondire tali
aspetti, ma i brevi cenni sull’attività degli ordini mendicanti nella società
del XIII secolo ci servono per collocare gli ultimi movimenti ereticali del
tempo. I più importanti sono senza dubbio i Fratelli Apostolici di Gerardo
Segarelli e il movimento di frate Dolcino da Novara. L’esame di tali istanze
ereticali rende però necessario un passo indietro per dire qualcosa delle
dottrine di una singolare figura di monaco e profeta: Gioacchino da Fiore.
La vita e l’opera di Gioacchino si collocano nella seconda metà del XII
secolo contemporaneamente al grande sviluppo dei movimenti ereticali.
Occorre subito osservare come Gioacchino, prima monaco cistercense e
poi fondatore di una propria comunità eremitica a S. Giovanni in Fiore
nella Sila calabrese, in vita ebbe appoggio e grande considerazione da parte delle autorità ecclesiastiche e le sue opere suscitarono sospetti di eresia
solo dopo la sua morte (1202). Il pensiero teologico di Gioacchino da Fiore
è centrato su di una originale interpretazione della storia dell’umanità: vi
è un’età del Padre che si sviluppa dalla creazione alla venuta di Cristo ed
è caratterizzata dal rigore della Legge, espressione di un Dio severo quale
emerge dall’Antico Testamento (l’inverno del mondo); segue l’età del Figlio che è quella in atto dove la durezza della legge è sostituita dalla Grazia,
è la primavera nella quale già emergono i segni della nuova età, quella dello
Spirito; conclude la triade l’estate dello Spirito che segnerà la cessazione
dei conflitti e delle tribolazioni, dove verranno meno la proprietà e il lavoro e l’uomo potrà dedicarsi alla contemplazione di Dio. La terza età si
concluderà con la più piena fructificatio sino a quando si avrà la fine dei
tempi. L’attesa della fine non è angoscia e paura ma lieto abbandono ai di51
Grande significato ebbe, attorno al 1233, il movimento dell’Alleluia: si trattò di una vasta campagna di predicazione che vide protagonisti gli ordini mendicanti con diffusione capillare e grande
seguito popolare.
33
segni dello Spirito. Gioacchino calcolava la fine dell’età del Figlio attorno
al 1260 e prevedeva, in chiave apocalittica, una serie di eventi preparatori
quali la fondazione di un nuovo ordine monastico in grado di evangelizzare
il mondo e l’avvento di un Anticristo capace di sconfiggere la Chiesa52.
Gioacchino non si proponeva fini immediati, la sua visione mistica e profetica della storia era orientata verso la fine dei tempi e la salvezza all’interno
di una tradizione apocalittica che aveva radici lontane: certo lo schema poteva essere temporalizzato e ciò conduceva a ritenere che la stessa funzione
della Chiesa istituzionale si stesse esaurendo in vista dell’età dello Spirito,
con conseguenze sul piano politico e sociale potenzialmente pericolose.
Diversi interpreti ma anche scritti apocrifi ritenuti di Gioacchino andavano
in questa direzione nel primo scorcio del XIII secolo: forse per tale motivo
il IV Concilio Lateranense del 1215 ritenne di condannare come eretica
la dottrina trinitaria del monaco calabrese. Tale condanna non ebbe grande rilievo perché le teorie gioachimite dimostrarono di avere una grande
capacità espansiva in quanto capaci di dare risposta alle ansie e ai bisogni
della matura coscienza medievale dove l’attesa della fine dei tempi e l’idea
della renovatio dell’umanità avevano una posizione di primo piano53. Le
suggestioni gioachimite assumono notevole rilievo nel gruppo fondato da
Gerardo Segarelli: i Fratelli apostolici. In questo caso le profezie di Gioacchino si accompagnano alle istanze di povertà evangelica e di impegno
nella predicazione ampiamente accettate nella società del tempo per effetto della diffusione degli ordini mendicanti. Ciò non pone per alcuni anni,
siamo dopo la metà del XIII secolo, problemi di particolare contrasto con
la Chiesa; le cose cambiano dopo il Concilio di Lione del 1274 che opera
una chiusura nei riguardi di nuovi ordini mendicanti imponendo l’omologazione con quelli legalizzati (Predicatori e Minori). Il rifiuto del Segarelli
e dei suoi seguaci ne comporta la condanna che ben presto e per evidenti
motivi di politica ecclesiastica da disciplinare si fà dottrinale. Nei confronti dei Fratelli apostolici gli organismi inquisitoriali formulano varie accuse
sintetizzabili nella reiterata condanna della Chiesa con il rifiuto della sua
autorità e stigmatizzando la rustica rozzezza nel modo di vivere l’esperienza religiosa. Vi era l’indubbia paura che il movimento, sorto attorno ad una
52
Sulla figura di Gioacchino da Fiore v. G. GRUNDMANN, Studi su Gioacchino da Fiore, trad.it.,
Genova 1989 (la I° ed. tedesca è del 1927) e A. CROCCO, Gioacchino da Fiore, la più singolare e
affascinante figura del medioevo cristiano, Napoli 1960.
53
Già Dante Alighieri è certamente influenzato dal pensiero di Gioacchino da Fiore con particolare
riguardo al concetto di Ecclesia Spiritualis: non a caso Dante colloca il monaco calabrese fra gli
spiriti sapienti (Paradiso Canto XII, 140 e ss.) Su tale problematica v. A. CROCCO, Simbologia
gioachimita e simbologia dantesca, Napoli 1965 e A. PIROMALLI, Gioacchino da Fiore e Dante,
Ravenna 1966.
34
data (il 1260) che Gioacchino da Fiore aveva indicato quale inizio dell’età
dello Spirito, potesse avere effetti destabilizzanti54. Proclamato eretico Segarelli sale sul rogo nel 1300 ma il movimento degli apostolici continua in
versione più radicale con Dolcino da Novara. La predicazione di Dolcino
è piena di suggestioni gioachimite: l’avvento dell’età dello Spirito significherà anche la comparsa di un Papa angelico e di una Chiesa dello spirito
ben diversa dalla ricca e potente ecclesia carnalis, con ciò privilegiando,
nel rapporto religioso, il contatto diretto fra l’uomo e Dio. Inoltre era prevista una quarta età aperta dalla totale scomparsa del clero. Dolcino ottiene
un notevole successo e non solo fra contadini e popolani ma anche fra i ceti
aristocratici in una fase storica che vede il Papato in grave difficoltà, con la
sconfitta del prepotente disegno ierocratico di Bonifacio VIII.
Forse anche per tali emergenze il nuovo papa francese Clemente V
proclama nei confronti degli apostolici di Dolcino una vera e propria crociata che si conclude solo nel 1307, dopo una lunga resistenza dei dolciniani fra le montagne della Valsesia, con la sconfitta e la cattura di fra Dolcino
e dei suoi più stretti collaboratori, processati e condannati al rogo55. La
sconfitta degli apostolici rappresenta sotto un certo aspetto un punto d’arrivo della storia dell’eresia medievale, per come la stessa si era manifestata
perlomeno dall’XI secolo in poi.
Da questo momento in avanti le eresie si legano sempre più a prese
di posizione politiche e istituzionali, in un quadro complesso all’interno
del quale la vecchia societas christiana fondata e sorretta dal cattolicesimo
romano tende a modificarsi nel progressivo sfaldamento di un’immagine
del mondo che si sorreggeva sul rapporto, magari conflittuale, fra i cosiddetti poteri universali (Papato e Impero). Civitates e regna pretendevano
le loro autonomie e ciò significava anche una maggiore libertà nella sperimentazione religiosa e nuove strade per una spiritualità che il secolo vede
sempre più inquieta, anche se le suggestioni gioachimite invitavano a non
vivere nell’angoscia il tempo dell’attesa ma bensì fiduciosi nell’avvento di
un uomo nuovo e di una Chiesa veramente evangelica56. Il problema della
povertà nei suoi riflessi sulla vita religiosa e sul comportamento della Chiesa istituzionale continua ad essere fondamentale anche nel tardo medioevo.
54
Su questi aspetti V. G.G. MERLO, Eretici ed eresie medievali, op.cit., pp. 99-105, ove si citano i
pesanti giudizi rivolti dal francescano Salimbene de Adam nei confronti degli Apostolici.
55
Sulla vicenda di Dolcino v. E. ANAGNINE, Dolcino e il movimento ereticale all’inizio del Trecento, Firenze 1964 e G. MICCOLI, Note sulla fortuna di fra Dolcino, in Annali della Scuola Normale
Sup. di Pisa, XXV, 1956, pp. 245-259. Dante Alighieri colloca Dolcino da Novara fra i seminatori di
discordie (Inferno, Canto XXVIII, 55 e ss).
56
Su questi temi v. R. MORGHEN, Civiltà medioevale al tramonto, ult.ed. Roma-Bari 1985, p. 63
e ss. nonché dello stesso Autore, Il trapasso dal Medioevo alla nuova età nella testimonianza dei
contemporanei, in Medioevo cristiano, Roma-Bari 1978 (5° ed.), pp. 283-297.
35
Il precetto della povertà volontaria che gli ordini mendicanti (soprattutto i
Francescani) ponevano alla base della loro esperienza, nonostante alcune
resistenze nella cultura del tempo (pensiamo alla posizione critica di Guglielmo di Saint-Amour con uno scritto del 1255) aveva un fascino enorme
anche per la religiosità laica. In questo senso assume notevole importanza
il movimento femminile delle beghine, che compare con le prime comunità
di vergini e vedove già nell’ultimo quarto del XII secolo, assumendo poi
una notevole diffusione (dalle Fiandre all’Olanda, alla Francia e Germania e anche nell’est europeo), e ben presto imitato da analoghe comunità
maschili (begardi). Si trattava di comunità dedite al lavoro manuale e alla
carità che seguivano rigorosamente i precetti evangelici, viste con sospetto
dalle autorità ecclesiastiche e con il tempo, dopo la diffusione delle istituzioni inquisitoriali, sempre più confuse (talvolta non a torto) con movimenti ereticali, soprattutto con il XIV secolo57. La grande parte di questi
movimenti e in primo luogo, per importanza, quelli femminili, furono collegati organizzativamente agli ordini mendicanti; altri subirono il fascino
di concezioni eterodosse come quella dei fratelli del libero spirito58. Ma
attorno alla questione pauperistica ruotano e si consumano gli ultimi fuochi
dell’eresia medievale collegati alla violenta polemica sulla plenitudo potestatis del Papa. I Francescani si erano divisi in quegli anni sul significato da
attribuire alla povertà di Cristo: i più moderati ritenevano non incompatibile il possesso di beni da parte dell’ordine, i rigoristi sostenevano l’osservanza stretta del voto di povertà. Quest’ultimi, nella loro espressione più
radicale, vennero chiamati Spirituali o Fraticelli ed entrarono in contrasto
con il Papa anche per la rinnovata critica alla ricchezza e alla carnalità della
Chiesa. Il contrasto esplode durante il pontificato di Giovanni XXII e per le
posizioni assunte da quest’ultimo sul problema della povertà, con riguardo
alla risoluzione emanata a seguito del Capitolo generale Francescano del
1322 dove erano prevalse le tesi dello Spirituale Ubertino da Casale che
negavano la proprietà di beni in Cristo e negli Apostoli. Nel 1323 Giovanni
XXII dichiarava eretica la tesi che né il Cristo nè gli Apostoli avrebbero riconosciuto la proprietà (con la bolla Cum inter nonnullos) dando inizio alla
persecuzione dei Fraticelli e di coloro che ne sostenevano le idee da Uberti57
Il movimento religioso femminile nei secoli XII e XIII è stato acutamente studiato da H. GRUNDMANN in Movimenti religiosi nel Medioevo, op.cit., pp. 169-185; 193-256 e 295-313. Si veda
anche A. BENVENUTI, In castro poenitentiae. Santità e società femminile nell’Italia medievale,
Roma 1990.
58
L’eresia dei fratelli del libero spirito è quantomai complessa nelle sue componenti: vi confluiscono
le tesi del filosofo parigino Amalrico di Bène, di tipo panteista (condannate dal IV Conc. Lat. del
1215), le suggestioni gioachimite e varie forme di misticismo come quella della beghina Margherita
Porete, morta sul rogo nel 1310.
36
no da Casale a Michele da Cesena sino a Marsilio da Padova e Guglielmo di
Ockham. Il tutto si inseriva nel violento conflitto fra il Papa e l’imperatore
Ludovico il Bavaro, a sua volta scomunicato e protettore di tutti coloro che,
non solo in ordine alla questione pauperistica, si opponevano alla plenitudo
potestatis del pontefice romano. L’accusa di eresia assume ancor più i tratti
di un delitto politico che consiste nel ribadire l’infondatezza delle pretese
temporali del Papato e dell’asserito diritto di ingerenza nella società civile,
nell’affermazione di un’autonoma dimensione religiosa che l’universitas
fidelium può liberamente gestire e nel richiamo ai diritti dell’interiorità e all’esigenza di una fede personale e responsabile59. La lotta contro la ricchezza e il lusso della Chiesa istituzionale, sorretti e alimentati da un’imponente
sistema contributivo (decime, indulgenze pro-anima, donazioni), è il leitmotiv del pensiero politico e in parte anche teologico dell’ultimo medioevo.
Tutto ciò si salda inevitabilmente con istanze di riforma della società civile
e richieste di giustizia in un quadro storico complesso e contraddittorio. Se
ai tempi non lontani del grande giubileo del 1300 l’uomo medievale era ancora convinto della necessità dell’intervento di intermediazione della Chiesa nel cammino esistenziale verso la salvezza, ora tale fiducia tendeva ad
affievolirsi. Fenomeni come il movimento dei flagellanti (comparso ancora
nel XIII secolo), i ripetuti e ripetuti massacri di ebrei in varie città europee
e nuove ondate di intolleranza religiosa, se da un lato costituivano evidenti
degenerazioni dall’altro erano espressione di un bisogno di soprannaturale
sentito sempre più a livello individuale o di piccole comunità (ricordiamo il
fenomeno del beghinaggio) in frequente contrapposizione con le gerarchie
ecclesiastiche. In questa atmosfera emergevano anche una certa utilizzazione rivoluzionaria dei motivi sociali ed egualitari del Vangelo e un ricorrente
ribellismo millenaristico frutto di attese e suggestioni mai sopite nella coscienza medievale.
Ribellioni e rivolte contadine della seconda metà del XIV secolo,
da quella parigina di Etienne Marcel al movimento dei lollardi inglesi (influenzati dal pensiero eretico di Giovanni Wyclif) al fiorentino tumulto dei
ciompi collegano rivendicazioni sociali con istanze pauperistiche e di rinnovamento politico e religioso60. Sulla stessa strada si muoveranno Giovanni
59
Emblematica è la vicenda di Marsilio da Padova, dichiarato eretico nel 1327 per la sua lotta
acerrima alla plenitudo potestatis del Papa ma anche per aver sostenuto una interpretazione radicale
della povertà evangelica: sul punto v. M. DAMIATA, Funzione e concetto della povertà evangelica
in Marsilio da Padova 1980, in Medioevo. Rivista di storia della filosofia medievale n. 6/80, p. 418
e ss. e il nostro Autonomia della città dell’uomo e religione in Marsilio da Padova, Verona 2003,
pp. 89-120.
60
Su tale periodo v. R.C. MUELLER, Epidemie, crisi, rivolte in Storia medievale Donzelli, Roma
1988, pp. 557-582.
37
Hus e i suoi seguaci nel primo scorcio del XV secolo e poi vari riformatori
tedeschi sino agli anabattisti del XVI secolo: vi era la comune speranza
nella possibilità di costruire una società dove il politico e il religioso si integrassero armonicamente, una sorta di teologia politica capace di opporsi al
male del potere non potendo prescindere da quest’ultimo, espressione dell’imperfezione umana e comunque del piano provvidenziale della Storia.
Sarà ancora questo il sogno di Erasmo da Rotterdam in una società europea
ormai incamminata verso nuovi assolutismi politici e religiosi con una forte
chiusura restauratrice dei poteri e un atteggiamento ancora più violento nei
confronti di tutto ciò che appariva eterodosso. Come scrive Merlo: serratisi
gli spazi della chiesa e della società, all’eresia restò lo spazio della interiorità o della marginalità. Si chiudeva una lunga fase storica che, per quanto
convulsa e poli direzionale, aveva espresso un’eccezionale moto di cultura,
di cultura cristiana, connesso con la conquista di una religiosità cosciente
per ogni cristiano61. Il medioevo vive le esperienze ereticali quale momento di crescita complessiva della sua profonda religiosità, coerentemente con
la sua visione finalisticamente orientata della vita e della storia. E occorre
ricordare, ad epilogo, che nel suo significato greco eresia significa scelta62,
una scelta di vita: ciò è perfettamente in linea con la coscienza medievale e
il ricorrente desiderio di scegliere, lungo le vie affascinanti e coinvolgenti
del sacro, un’adesione più intima alla rivelazione cristiana.
61
62
G.G. MERLO, Eretici ed eresie medievali, op.cit., p. 127.
Il termine deriva infatti dal greco haíresis, che si può tradurre con scelta / fare la propria scelta.
38
Bibliografia
Nota del Curatore
Le indicazioni bibliografiche che vengono proposte al lettore seguono la scansione dei
paragrafi nei quali risulta suddiviso il presente lavoro. In una prima sezione si indicano le
fonti consultate nell’ordine in cui compaiono nel testo (dove possibile anche con la traduzione italiana) e in una seconda sezione si citano gli studi specifici, in ordine alfabetico
per Autore, con particolare riguardo alle opere prese in considerazione nella trattazione
della materia e privilegiando la letteratura più recente. Per la ricerca dei testi raccolti nella
PATROLOGIA LATINA sono di particolare utilità alcuni siti di Internet. Fra questi, si richiama a
titolo indicativo il seguente: www.maldura.unipd.it/biblio/guide/patrologia.pdf. La grande
collezione dei MONUMENTA GERMANIAE HISTORICA si trova on-line sul sito www.dmgh.de/.
1. Cristianesimo ed eredità tardo antica
1.1 Fonti
Platone, Teeteto, a cura di M. Valgimigli, in Opere complete (Biblioteca universale Laterza) vol. 2, Roma-Bari 1982.
Plotino, Enneadi, nella edizione e traduzione a cura di G. Faggin, Milano 1992.
Cipriano di Cartagine, Ad Donatum (De gratia Dei) in Enchiridion Patristicum a cura di
M.J. Rouet de Journel, Friburgo 1955 (18° ed.). Per la traduzione italiana v. C. Failla, A
Donato, l’Unità della Chiesa ecc.., Roma 1968.
Agostino, De libero arbitrio, testo originale con traduzione italiana in Opera omnia - Città
Nuova editrice, Roma 1976.
Agostino, De vera religione, edizione con testo latino a fronte a cura di O. Grassi, Milano
1997.
Agostino, De Doctrina Christiana, edizione con testo latino a fronte a cura di M. Simonetti, Milano 1994.
Agostino, De Gratia et libero arbitrio, in Opera omnia, cit., 1987. V. anche la edizione
italiana con il titolo La grazia e il libero arbitrio, Roma 1959.
Per le fonti gnostiche si veda la raccolta a cura di M. Simonetti, Testi gnostici in lingua
greca e latina, Vicenza 1993, nonché La gnosi e il mondo. Raccolta di testi gnostici a cura
di L. Moraldi, Milano 1988.
S. Paolo, Lettera ai Romani, in La Bibbia concordata a cura della società biblica italiana,
Milano 1982.
Alcuni interessanti testi millenaristici si trovano nella antologia a cura di C. Nardi, Firenze
1995, dal titolo “Il Millenarismo. Testi dei secoli I-II”.
1.2 Studi
AA. VV., La fine dei tempi. Storia ed escatologia, a cura di M. Naldini, Fiesole (FI) 1994.
Barr R., Breve Patrologia, trad.it., Brescia 1987 (2° ed.).
Bertholet A., Dizionario delle religioni, trad.it., Roma 1972 (2° ed.).
Brelich A., Introduzione alla storia delle religioni, Roma 1966, pp.347-351.
39
Brown P., Il mondo tardo antico, trad.it., Torino 1974.
Brown P., Potere e cristianesimo nella tarda antichità, trad.it., Roma-Bari 1995.
Brown P., Genesi della tarda antichità, trad.it., Torino 2001.
Chadwick H., Agostino, trad.it., Torino 1989.
Chadwick H., Pensiero cristiano e tradizione classica, trad.it., Firenze 1995.
Dodds R., Pagani e cristiani in un’epoca di angoscia, trad.it., Firenze 1970 (rist. 1993).
Jaeger W., Cristianesimo primitivo e Paideia greca, trad.it., Firenze 1974 (rist. 1977).
Mazzarino S., La fine del mondo antico, Milano 1988 (rist.).
Moreschini C., Storia della filosofia patristica, Brescia 2004.
Nock A.D., La conversione. Società e religione nel mondo antico, trad.it., Roma-Bari
1974.
Vannini M., Invito al pensiero di Sant’Agostino, Milano 1989.
2. Le eresie nell’alto medioevo
2.1 Fonti
Martino di Braga, De correctione rusticorum, edizione con traduzione italiana dal titolo
Contro le superstizioni a cura di M. Naldini, Firenze 1991.
Agobardo di Lione, Liber contra insulsam vulgi opinionem de grandine. Il testo si trova
nella Patrologia Latina (P.L.), 104, 147.
Benedetto da Norcia, Regola, edizione comprensiva delle Regole dei Padri con traduzione
e testo latino a fronte a cura di S. Pricoco, Fond. Lorenzo Valla, Milano 1995.
Per una prima importante letteratura della visione dell’aldilà nell’alto medioevo v. Visioni
dell’aldilà in occidente, fonti, modelli, testi, testo latino con traduzione a cura di M.P.
Ciccarese, Firenze 1987.
Pascasio Radberto, De corpore et sanguine domini, testo in Corpus Christianorum, series
latina, Turnhort 1953 e ss.
Ratrammo di Corbie, De Corpore et sanguine domini, testo in ed. D.C. Bakhuizen van den
Brink, Amsterdam 1954.
Gotescalco D’Orbais, De praedestinazione, in Oeuvres théologiques et grammaticales de
Gotescalc d’Orbais (ed. D.C. Lambot), Louvain 1945.
Rodolfo il Glabro, Cronache dell’anno mille (Storie), a cura di G. Cavallo e G. Orlandi,
con testo latino a fronte, Fond. Lorenzo Valla Milano 1991 (3° ed.).
Ademaro di Chabannes,Cronaca, ed. francese a cura di J. Chavanon, Parigi 1897 (è a
tutt’oggi l’edizione di riferimento). Sulla pataria milanese è utile la raccolta di testi curata
da P. GOLINELLI, in La Pataria. Lotte religiose e sociali nella Milano dell’XI secolo,
Novara 1984.
2.2 Studi
AA.VV., Simboli e simbologia nell’Alto Medioevo, 2 volumi, CISAM, Spoleto 1976
AA.VV., Segni e riti nella Chiesa alto medievale occidentale, 2 volumi, CISAM, Spoleto
1987
AA.VV., Culto delle immagini e crisi iconoclasta. Atti del Convegno di studi 16-17 maggio 1984, Catania 1986
40
Angelov D., Le bogomilisme en Bulgarie, Tolosa 1972, trad.it., “Il Bogomilismo. Un’eresia medievale in Bulgaria”, Roma 1979
Capitani O. (a cura di), L’eresia medievale, Bologna 1971
Colombas G.M.,Il monachesimo delle origini, trad.it., Milano 1984
Cristiani M., La controversia eucaristica nella cultura del secolo IX, in Studi medievali,
III serie, IX, 1968 p. 167 e ss.
Focillon H., L’anno Mille, trad.it., Vicenza 1988
Franzen A., Breve storia della Chiesa, trad.it., Milano 1987 (6° ed.)
Gallina M., Ortodossia ed Eterodossia, in Storia del cristianesimo a cura di G. Filoramo e
D. Menozzi, vol 2 Il Medioevo, Roma-Bari 1997
Gatto L., Storia della Chiesa nel Medioevo, Roma 2001
Grundmann H., Movimenti religiosi nel Medioevo, trad.it., Bologna 1980 (nuova ed.)
Manteuffel T., Nascita dell’eresia, trad.it., Firenze 1986 (2° ed.)
Miccoli G., La storia religiosa, in Storia d’Italia Einaudi, vol. 2, Torino 1974, pp. 447516
Morghen R., Gregorio VII e la Riforma della Chiesa nel secolo XI, Palermo 1974 (nuova
ed.)
Morghen R., Medioevo cristiano, Bari 1978 (5° ed.)
Pacaut M., Monaci e religiosi nel medioevo, trad.it., Bologna 1989
Tabacco G., Il cristianesimo latino altomedievale, in Storia del Cristianesimo, op.cit., pp.
73-90
Tabacco G. (con G.G. Merlo), Medioevo, Bologna 1989
Tabacco G., Spiritualità e cultura nel Medioevo, Napoli 1993 in particolare pp. 151-156;
267-285 e 289-331
Violante C., Studi sulla Cristianità medievale, Milano 1972
Violante C. (con J. Fried), Il secolo XI: una svolta? Bologna 1993
Volpe G., Movimenti religiosi e sette ereticali nella società medievale italiana. Secolo XIXIV, Firenze 1977 (5° ed.)
3. Movimenti ereticali e ordini mendicanti nel basso medioevo
3.1 Fonti
Landolfo Seniore, Historia Mediolanensis, in M.G.H., SS VIII. Una traduzione italiana
della “Storia di Milano” (1.III, capp. 5, 6; 10-11; 13-16; 18, 29 e 30) si trova in P. Golinelli,
La Pataria, op.cit., pp. 147-163
Bernardo di Chiaravalle, De consideratione libri quinque ad Eugenium III, II-IV, in Patrologia Latina (P.L.) 182-185; dello stesso Autore, espressione della sua lotta antiereticale,
assumono rilievo il Contra errores Abaelardi, i Sermoni (Prediche) e l’epistolario (anche
quest’ultimo si trova nella P.L. del Migne – v. in particolare sub 182, epistole n° 189-194195-196).
Ottone di Frisinga, Gesta Friderici Imperatoris, libro II, 20, in M.G.H., SS, XX, 403-404
(su Arnaldo da Brescia)
Bernardo Gui, Manuel de l’inquisiteur, edito da G. Mollat, Parigi 1926. Sui Valdesi o
poveri di Lione v. pp. 34-60
41
Gioacchino da Fiore, Liber concordiae Novi ac Veteris Testamenti, testo originale stampato a Venezia nel 1519 e ristampato a Francoforte nel 1964 (2° ed. 1983); il Tractatus super
IV evangelia è stato curato da E. Buonaiuti, Roma 1930. Di recente è uscita, con traduzione italiana di G. L. Potestà, l’Introduzione all’Apocalisse sulla base del testo critico di
K.V. Selge, Roma 1995. Utile l’Antologia di testi gioachimiti tradotti e commentati, a cura
di F. D’Elia, Soveria Mannelli 1991.
Importante documento dell’eresia catara è rappresentato dal Liber de duobus principiis,
edito da A. Dondaine con il titolo “Un traité néo-manichéen du XIII e siècle”. Le “Liber
de duobus principiis, suivi d’un fragment de rituel cathare”, Roma 1939.
Per le disposizioni conciliari dei Papi contro gli eretici, con particolare riguardo a quelle di
Innocenzo III del IV Concilio Lateranense v. G. Alberigo (a cura di), Decisioni dei concili
ecumenici, Torino 1978, p. 78 e ss.
Salimbene de Adam, Cronaca, testo in M.G.H., SS, XXXII. La “Cronaca di Salimbene”
si trova nella traduzione italiana a cura di B. Rossi, Bologna 1987 (con vari riferimenti
all’eresia degli “apostolici” e al movimento dell’”Alleluia”).
Dante Alighieri, La Divina Commedia. Per i passi citati ci siamo avvalsi dei commenti di
M. Porena (Bologna 1973), D. Mattalia (Milano 1960) e N. Sapegno (ed. speciale per la
Biblioteca Treccani), Milano 2005 (1a ed. 1955).
Sulle vicende dell’ala francescana degli “Spirituali” e dei suoi principali protagonisti costituisce fonte privilegiata la cronaca di Angelo Clareno ovvero il Chronicon seu Historia
septem tribulationum, edito da A. Ghinato, Roma 1959. In generale sull’attività di predicazione degli ordini mendicanti è utile l’antologia di testi a cura di C. Delcorno, La predicazione nell’età comunale, Firenze 1974
Come abbiamo visto la questione pauperistica si collega, dalla fine del XIII secolo alla
prima metà del XIV, alla furiosa polemica sulla plenitudo potestatis del Papa e l’eresia
assume evidenti tratti politici a danno di Autori quali Marsilio da Padova, Guglielmo di
Ockham e, più tardi, Giovanni Wyclif.
Di Marsilio da Padova è utile la lettura dei capitoli del Defensor Pacis dedicati alla questione della povertà evangelica (Secondo Discorso, capp. XI-XIV) nonché dei passi del
Defensor minor dove il Padovano sviluppa il problema delle penitenze sostitutive, dell’eresia, della scomunica e dei relativi poteri delle gerarchie ecclesiastiche (cap. VII e X).
Tali opere sono reperibili nella traduzione a cura di C. Vasoli (Il Difensore della Pace,
Torino 1975, 2° ed. e Il Difensore Minore, Napoli 1975). Una breve antologia si trova anche nel nostro Autonomia della città dell’uomo e religione in Marsilio da Padova, Verona
2003, pp. 139-209.
Di Guglielmo di Ockham assumono rilievo le opere politiche che ne determinano la persecuzione da parte del Papato avignonese: le Octo quaestiones de potestate papae (si veda
la recente traduzione a cura di F. Camastra, Milano 1999 dal titolo Il filosofo e la politica)
e il Breviloquium de principatu tyrannico (edizione e traduzione a cura di A. Ghisalberti
e A. Salerno, Milano 2000).
Di Giovanni Wyclif assumono particolare importanza, in quanto legate alla questione della
povertà evangelica, le Trentatré tesi sulla povertà di Cristo (si trovano nell’antologia a
cura di M.T. Fumagalli Beonio Brocchieri, dal titolo Wyclif. Il comunismo dei predestinati,
Firenze 1975.
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3.2 Studi
AA. VV., L’età dello Spirito e la fine dei tempi in Gioacchino da Fiore e nel gioachimismo
medievale, S. Giovanni in Fiore 1986
Anagnine E., Dolcino e il movimento ereticale all’inizio del Trecento, Firenze 1964
Benvenuti A., La religiosità eterodossa, in Storia medievale Donzelli, Roma 1998, pp.
493-533
Benvenuti A., In castro poenitentiae. Santità e società femminile nell’Italia medievale,
Roma 1990
Borst A., Les chathares, trad. francese dall’originale tedesco, Parigi 1978 (2° ed.)
Buonaiuti E., La prima rinascita, Varese 1977
Capitani O. (a cura di), Medioevo ereticale, Bologna 1977
Chenu M.D., Il risveglio della coscienza nella civiltà medievale, trad.it., Milano 1983
Crocco A., Gioacchino da Fiore, la più singolare e affascinante figura del medioevo cristiano, Napoli 1960
Crocco A., Simbologia gioachimita e simbologia dantesca, Napoli 1965
Da Campagnola S., Le origini francescane come problema storiografico, Perugia 1979
(2° ed.)
Damiata M., Funzione e concetto della povertà evangelica in Marsilio da Padova, in Medioevo. Rivista di storia della filosofia medievale n. 6 Padova 1980, p. 418 e ss.
Dolcini C. (a cura di), Il pensiero politico del basso medioevo, Bologna 1983
Fedalto G., Perché le crociate. Saggio interpretativo, Bologna 1980
Frugoni A., Arnaldo da Brescia nelle fonti del secolo XII, Torino 1989 (rist. dell’ed.
1954)
Grundmann H., Movimenti religiosi nel Medioevo, op.cit., pp. 40-95; 114-130 e 169-313
Grundmann H., Studi su Gioacchino da Fiore, trad.it., Genova 1989 (1° ed. 1927)
Maglio G., Autonomia della città dell’uomo e religione in Marsilio da Padova, Verona
2003, pp. 89-120 (v. anche nelle FONTI sub 3.1)
Manselli R., Il monaco Enrico e la sua eresia, in Bullettino dell’istituto storico italiano per
il Medioevo e Archivio muratoriano, n. 65, 1953, pp. 1-63.
Manselli R., L’eresia del Male, Napoli 1980 (2° ed.)
Manselli R., Studi sulle eresie del secolo XII, Roma 1975
Manselli R., Il secolo XII: religione popolare ed eresia, Roma 1983
Merlo G.G., Valdesi e Valdismi medievali, 2 volumi, Torino 1991
Merlo G.G., Eretici ed eresie medievali, Bologna 1989
Miccoli G., La storia religiosa , op.cit., pp. 671-707
Miccoli G., Note sulla fortuna di fra Dolcino, in Annali della Scuola Normale di Pisa,
XXV, 1956, pp. 245-259
Morghen R., Civiltà medioevale al tramonto, Roma-Bari 1985 (ult.ed.)
Morghen R., Il trapasso dal Medioevo alla nuova età nella testimonianza dei contemporanei, in Medioevo cristiano, op. cit., pp. 283-297
43
Mueller R.C., Epidemie, crisi, rivolte, in Storia medievale Donzelli, op.cit., pp. 557-582
Orioli R., Venit perfidus heresiarcha. Il movimento apostolico dolciniano dal 1260 al
1307, Roma 1988
Paolini L., Eretici del medioevo. L’albero selvatico, Bologna 1989
Piromalli A., Gioacchino da Fiore e Dante, Ravenna 1966
Rusconi R., L’attesa della fine. Crisi della società, profezia ed Apocalisse in Italia al tempo del grande scisma d’Occidente (1378-1417), Roma 1979
Tabarroni A., Paupertas Christi et apostolorum. L’ideale francescano in discussione,
Roma 1990
Vauchez A., Ordini mendicanti e società italiana, XIII-XV secolo, Milano 1990
Volpe G., Movimenti religiosi e sette ereticali, op.cit., pp. 55-78
Weil S., I catari e la civiltà mediterranea, trad.it., Genova 1996
44
Eresia e repressione nella Repubblica di Venezia.
Riflessioni a margine della politica veneziana tra
ricerca del consenso e repressione del dissenso.
Franco Rossi
Non è certo mia intenzione ricostruire in queste brevi note la variegata e complessa vicenda degli articolati e multiformi rapporti che intercorsero tra lo Stato marciano e i vari movimenti ereticali che a diverse
riprese e con diversi esiti infiammarono la vita spirituale della Dominante
e delle terre suddite almeno sino allo spegnersi degli ultimi fuochi della
Controriforma. Ben altro spazio e un diverso contesto meriterebbe infatti
un argomento del genere, che oltretutto non avrebbe pieno diritto di cittadinanza in un lavoro, come questo, meglio finalizzato a lumeggiare la tormentata sequela di vicissitudini che, seppure a modo loro, disarticolarono
l’appartata esistenza della comunità cintese negli anni a cavallo tra la prima
e la seconda metà del XVI secolo.
L’obiettivo è piuttosto quello di consentire la lettura degli avvenimenti cintesi attraverso la filigrana del contesto istituzionale che rese possibile – anche se sarebbe forse più esatto dire che provocò – la straordinaria
esperienza dell’esodo della comunità degli anabattisti di Cinto verso le terre più accoglienti e ospitali della Moravia.
L’episodio, pur nelle ridotte prospettive consentite dalla dimensione per forza di cose strettamente locale, ma appunto per questo da valutare
con particolare attenzione, assume nondimeno una straordinaria rilevanza
se opportunamente storicizzato, vale a dire se inserito nel più generale fenomeno del dissenso socioreligioso che interessò e sconvolse l’Europa nel
corso di tutto il XVI secolo, e meglio ancora se riconsiderato in relazione
alle imprevedibili conseguenze che avrebbe potuto provocare anche negli
ambiti circostanti ove non fosse intervenuta puntuale ed efficace la repressione delle istituzioni ecclesiastiche e statuali.
1. Considerazioni preliminari
Che il dissenso religioso sia stato sempre temuto, avversato e tenacemente combattuto dalle istituzioni ecclesiastiche preposte al controllo
delle coscienze individuali è ampiamente fuori discussione, almeno oggi.
45
Non sempre viene invece pacificamente accettato e oggettivamente storicizzato il fatto, per altri versi ampiamente dimostrato, che proprio il dissenso
religioso sia stato avvertito, in ogni occasione e ovunque, dalle istituzioni
politiche preposte all’esercizio del potere, prima e spesso più ancora che da
quelle ecclesiastiche, come una delle forme potenzialmente più pericolose
di opposizione e di eversione sociale, in grado di scardinare dalle fondamenta anche le architetture sociali più solide e collaudate.
L’alleanza tra trono e altare – tanto per citare i simboli più evidenti
di entrambi i soggetti istituzionali – in nome del progresso, della felicità
e del benessere dei popoli, ha costantemente avuto cura di sottoporre ad
attento e minuzioso controllo le coscienze individuali, ma si potrebbe anche dire senza sostanziali differenze, il sentire religioso, tanto dei sudditi
quanto dei fedeli, e non ha mai tollerato, se non in casi rigorosamente circoscritti, che si consolidassero opinioni e credenze religiose divergenti, anche
in minima parte, da quelle dichiarate come “ufficiali”, quindi le uniche
“corrette” e “ortodosse”, le sole a venir consentite, nel rispetto del principio
consolidato del “cuius regio eius et religio”.
Del resto il terrore della morte, la paura di un insindacabile castigo
divino, l’insopprimibile aspirazione ad un’esistenza che non fosse miseramente limitata al brevissimo volgere di pochi anni solari, hanno da sempre
costituito le armi più efficaci per tenere a freno il malcontento delle masse
escluse dall’esercizio del potere e dalla spartizione della ricchezza, per legittimare rigide stratificazioni sociali altrimenti “ingiustificabili” e inique
suddivisioni cetuali. Attraverso il controllo delle coscienze individuali, offerto non certo disinteressatamente dall’altare al trono, il ruolo egemone
delle élites dominanti ha sempre potuto dispiegarsi a proprio agio – soprattutto in ambito economico – sui ceti subalterni, costantemente tenuti a
freno nelle loro istanze di riscatto sociale dalla predicata sottovalutazione
della vita materiale terrena, contrapposta alla ben più significativa dimensione spirituale e ultramondana, promessa a piene mani quale contropartita
di un atteggiamento remissivo e sottomesso agli interessi del potere costituito. Ovviamente fintantoché questo non avesse osato attentare ai privilegi
e alla assoluta libertà d’azione delle gerarchie ecclesiastiche.
Necessariamente allora chiunque sia portatore di un credo religioso
non coincidente in tutto o in parte con quello cui aderisce la comunità circostante, ma soprattutto non si trattiene dal manifestarlo erga omnes, pretendendo anzi di diffonderlo e magari di praticare liberamente il proselitismo,
può diventare, spesso a sua insaputa, un soggetto affatto pericoloso per il
potere comunque costituito e dominante, in particolare per quello politicoistituzionale. Chiunque osi servirsi della propria indipendenza di giudizio
per accogliere o respingere in tutto in o in parte la cosiddetta verità rivelata,
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imposta dall’alto di un pulpito, potrebbe servirsi della medesima indipendenza di giudizio per contestare e rifiutare gli esistenti e consolidati ordinamenti politico-istituzionali, proporne o esigerne altri e diversi, o addirittura
reclamare un ruolo di interprete attivo nell’esercizio della sovranità politicaistituzionale e non quello di semplice suddito. Potrebbe chiedere cioè di far
parte a pieno titolo dei ceti dominanti e non già di quelli dominati.
Il potere costituito, offeso allora nella sua stessa legittimazione da
un vulnus che non può in alcun modo tollerare, pena la sua stessa sopravvivenza, deve conseguentemente intervenire con iniziative di autotutela, che
possono talora assumere forme di contenuta dissuasione, talaltra di cruenta
repressione.1 Non si capisce altrimenti, quale interesse, per non dire quale
diritto, avrebbero le pubbliche istituzioni di interferire e di intromettersi così
pesantemente in un ambito che dovrebbe invece rigorosamente essere lasciato all’assoluta discrezionalità e alla incoercibile libertà dell’individuo, ove
non si voglia accreditare ulteriormente la suggestiva ma altrettanto ingenua e
immotivata teoria del benessere spirituale e materiale, in altre parole della felicità dei sudditi, quale obbiettivo categorico e imprescindibile cui tendono, e
soprattutto nell’immediato passato hanno teso, tutte le forme di governo.
Di questo avviso anche Adriano Prosperi, che ricorre al pensiero
sarpiano per conferire maggiore autorevolezza alle proprie affermazioni:
“Scrivendo sulla storia dell’inquisizione veneziana nel primo Seicento, fra’
Paolo Sarpi faceva ben presente un punto importantissimo di cui non si era
ancora persa la memoria: che rientrava fra gli obblighi fondamentali di
uno stato ben costituito quello di curare la conservazione della buona dottrina e che pertanto era lo stato che doveva occuparsene.”2 E continuando
sempre sulla medesima linea: “Dunque nella costituzione dello stato ben
ordinato, doveva essere prevista anche una solida difesa contro l’eresia,
non come intromissione dello stato nel campo della religione ma come funzione specifica dell’ordinamento statale per difendere se stesso.”3
1
Non torna certamente conto in questa sede citare più del dovuto la straordinaria eccezione costituita
a suo modo dal sincretismo dimostrato dall’Impero romano nell’accettare e far proprie tutte le più
disparate credenze religiose, purché, ovviamente, non mettessero in discussione la superiore autorità
di Cesare. Per questo non vi poteva essere alcun spazio per il Cristianesimo, avvertito immediatamente come pericolo “esiziale” per la sopravvivenza dello Stato stesso. Nel Pantheon di Roma non
vi poteva, infatti, essere spazio per due soggetti che pretendevano entrambi, o almeno vi aspiravano,
di essere al vertice della piramide cosmica, ed esigevano adorazione assoluta ed escludente. Quale
sia stato l’esito dello scontro è oggi sotto gli occhi di tutti.
2
A. PROSPERI, Ortodossia, diversità, dissenso. Venezia e il governo della religione intorno alla metà
del Cinquecento, in AA.VV., Andrea Palladio: nuovi contributi, Settimo seminario internazionale di
storia dell’architettura (Vicenza, 1-7 settembre 1988), a c. di A. CHASTEL e R. CEVESE, Milano 1990,
pag. 29.
3
Ibid., pag. 30.
47
2. Il Doge garante dell’ortodossia.
Anche Venezia quindi, per quanto additata generalmente, ma non
sempre con sicuro fondamento, quale incontestabile e insuperabile esempio
di tolleranza religiosa tra tutti gli altri stati italiani ed europei dell’Antico
Regime, ha dato prova in particolari circostanze di pesanti interferenze nei
confronti della libertà di coscienza dei propri sudditi. E questo perlomeno a
partire dal 1249, quando, analogamente a quanto stava avvenendo in molte
altre città italiane, viene istituito su iniziativa dogale un tribunale inquisitoriale con il compito di procedere d’ufficio contro l’eresia, considerata
non tanto e non solo una manifestazione di eterodossia religiosa, quanto
piuttosto un crimine pubblico, un attentato alle istituzioni del Comune, un
delitto perpetrato a danno della collettività cittadina, offesa da una manifestazione di dissenso che ne avrebbe potuto minare la pacifica convivenza e
soprattutto il libero fluire dei traffici.
Ed è proprio il doge Marino Morosini (1249-1253) che nella sua
Promissione giura di impegnarsi a combattere strenuamente l’eresia e a
perseguitare gli eretici attraverso l’istituzione di un organo giudicante composto da uomini “buoni”, “discreti” e “cattolici” incaricati di “inquisire” gli
eretici e bruciare sul rogo tutti coloro che venissero loro segnalati come tali
dal Patriarca di Grado, dal Vescovo di Castello e da tutti gli altri vescovi del
Dogado: “Ad honorem autem Dei et sacrosante matris Ecclesie et robur et
defensionem fidei catholice, studiosi erimus cum consilio nostrorum Consiliariorum vel maioris partis quod probi et discreti et catholici viri eligantur
et constituantur super inquirendis herecticis in Veneciis, et omnes illos qui
dati erunt pro herecticis per dominum Patriarcham Gradensem, Episcopum Castellanum vel per alios Episcopos provincie ducatus Veneciarum a
Grado videlicet usque Caput Aggeris comburi faciemus de consilio nostrorum Consiliariorum vel maioris partis ipsorum.”4
A questo riguardo Andrea Del Col scrive che: “fin dal 1249 era
esistita (...) a Venezia, in analogia con altre città italiane, una Inquisizione
ducale, che aveva il diritto di procedere d’ufficio contro l’eresia, conside4
Le promissioni del Doge di Venezia dalle origini alla fine del Duecento, a c. di G. GRAZIATO, Venezia, Comitato per la pubblicazione delle fonti relative alla storia di Venezia, 1986, pag. 25. Dato il
fine essenzialmente divulgativo di questo lavoro, e solamente allo scopo di rendere maggiormente
accessibile il testo anche a coloro che non conoscono il latino, se ne dà di seguito la traduzione. “Per
l’onore di Dio e della sacrosanta madre Chiesa, e per assicurare la forza e la difesa della fede cattolica, ci impegnamo anche con il consiglio dei nostri Consiglieri, ovvero della maggior parte di quelli,
affinché vengano scelti alcuni probi, discreti e cattolici umini incaricati di ricercare se vi siano degli
eretici a Venezia, e tutti coloro che venissero ritenuti eretici dal Patriarca di Grado, dal Vescovo di
Castello, o dagli altri vescovi del Dogado di Venezia, da Grado fino a Cavarzere, condanneremo al
rogo secondo il consiglio dei nostri Consiglieri ovvero della maggior parte di quelli.”
48
rata un crimine pubblico, e questo sistema «misto di secolare e d’ecclesiastico» continuò anche in seguito, nonostante i ripetuti tentativi papali nel
resto del secolo XIII di far accettare pienamente le leggi canoniche, che
riservavano la persecuzione degli eretici ai soli ecclesiastici e abolivano
ogni forma di controllo laico sull’attività dell’Inquisizione.”5
Preme far rilevare come l’impegno antieretico trovi legittima cittadinanza anche nelle Promissioni dogali successive a quella del Morosini e
si ripeta sostanzialmente identico nel testo fino a Giovanni Dandolo (12801289). Nella Promissione di Giovanni Gradenigo (1289-1311) il capitolo
relativo agli eretici riprendere invece quasi alla lettera il testo della parte
approvata in Maggior Consiglio il 4 agosto 1289, comunemente ritenuta
istitutiva dei Savi all’eresia.6 Nondimeno in questa parte (come del resto
nel corrispondente capitolo della Promissione si afferma testualmente che
il doge di propria iniziativa (solus), potrà accordare agli Inquisitori tutto
l’aiuto da questi richiesto senza alcun bisogno che tali richieste di aiuto
venissero mutuate e quindi fatte proprie da parte di altri Consigli.7
Secondo Paolo Sarpi, fonte privilegiata per quanto riguarda le vicende dell’Inquisizione a Venezia in età medievale,8 è proprio in conseguenza di
questo impegno dogale che il governo veneziano istituisce una specifica magistratura composta di tre patrizi, incaricata di affiancare il tribunale dell’Inquisizione nella ricerca degli eretici e nella repressione dell’eresia. A giudizio
del Sarpi, inoltre, questo tribunale possiede una connotazione esclusivamente
secolare, in quanto voluto dallo Stato e non già dalla Chiesa o dal clero, e
solo dallo Stato riceve la sua autorità e la sua legittimazione. Alla componente ecclesiastica del tribunale – patriarca e vescovi – viene così riconosciuta
dal frate servita, sempre attento a privilegiare le ragioni della Repubblica
marciana, quasi una funzione complementare di semplice supporto.9
5
A. DEL COL, L’inquisizione romana e il potere politico nella repubblica di Venezia (1540-1560), in
”Critica storica”, XXVIII (1991), 2, pagg. 194-195, 197, 198.
6
Archivio di Stato di Venezia (d’ora in avanti A.S.Ve), Maggior Consiglio, Deliberazioni, Liber
Luna, c. 125v.
7
“Capta fuit pars in Maiori Consilio quod super facto hereseorum debeat per no fieri sicut continetur in litteris quas ambaxatores nostri de Curia nobis miserunt, videlicet quod dominus Dux habeat a Maiori Consilio plenam auctoritatem dandi solus auxilium inquisitoribus pro officio heretice
pravitatis exercendo in Veneciis quandocumque ab ipsis inquisitoribus fuerit requisitus sine alterius
requisicione Consilii.” (È stato deliberato in Maggior Consiglio che relativamente alla materia degli
eretici sia data da parte nostra esecuzione a quanto è contenuto nella lettere che nostri ambasciatori
presso la Curia ci hanno comunicato, ossia che il Doge abbia la piena autorità di poter accordare di
propria iniziativa (solus) agli inquisitori tutto l’aiuto da questi richiesto senza alcun bisogno che tali
richieste di aiuto vengano fatte proprie da parte di altri Consigli.” Ivi.
8
Cfr. P. SARPI, Sopra l’officio dell’Inquisizione, in ID., Scritti giurisdizionalistici, a c. di G. GAMBARIN, Bari 1958, pagg. 138-141; e ancora ID., In materia di crear novo inquisitor in Venezia, in P.
SARPI, Opere, a c. di G. e L. COZZI, Milano-Napoli 1969, pagg. 1202-1206.
9
Cfr. P. GRENDLER, L’inquisizione romana e l’editoria a Venezia. 1540-1605, Roma 1983, pag. 63.
49
Nel caso di specie sembrerebbe che sia stato il trono a venire in
soccorso dell’altare, il Comune a prestare il proprio aiuto alle istituzioni
ecclesiastiche in evidente difficoltà. Nondimeno, un approfondito esame
delle circostanze in cui viene concepito e poi assunto l’impegno ducale lascia intravedere una finalità definibile senza eccessivo imbarazzo di matrice “religiosa”, ma attesta, e con maggior evidenza, anche una preoccupata
attenzione della classe dirigente lagunare alle prioritarie esigenze di quel
commercio internazionale che tanta parte stava avendo nell’accumulazione
capitalistica che di lì a qualche anno avrebbe ispirato e guidato la chiusura
oligarchica del doge Pietro Gradenigo.
L’istituzione di questo tribunale laico, incaricato sostanzialmente
di affiancare il clero nella lotta contro eretici ed eresia, può essere considerata come diretta, anche se non del tutto immediata conseguenza della
bolla Ad abolendam di papa Lucio III del 1184, mediante la quale i Valdesi erano stati condannati come eretici. Ma più ancora può essere letta
quale inevitabile ripercussione in ambito lagunare della bolla Vergentis in
senium, emanata da papa Innocenzo III nel 1199, che aveva definito l’eresia
un delitto “di natura pubblica”, equiparandola a quello di “lesa maestà”,
e del canone Excommunicavimus del quarto Concilio Lateranense (11-30
novembre 1215), con il quale erano state poste le basi per la guerra generalizzata e intransigente nei confronti di qualsiasi manifestazione di dissenso
religioso. Innocenzo III aveva infatti procurato di definire in maniera molto
più netta e precisa di quanto fosse avvenuto in precedenza il limite ritenuto
invalicabile tra eresia e ortodossia, arrivando a considerare disubbidienti,
vale a dire eretici, tutti coloro che vivevano la loro fede secondo forme e
contenuti non approvati dalla Chiesa di Roma, e chiamato a raccolta, fin
dalla crociata promossa nel 1209, tutte le istituzioni politiche, dall’Impero
ai Comuni, a difesa della unica confessione di fede ammessa e consentita
dalla chiesa di Roma.
Secondo il pensiero di Innocenzo III l’eresia è il morbo che infetta
la società. È la malattia infamante che ne corrompe le membra, che allenta
i legami sui quali si fonda, e solo grazie ai quali può sopravvivere, la comunità organizzata, villaggio, città o stato che sia. É il Male che tutto avvolge
e piega ai disegni di Satana. Di conseguenza l’eretico è il deviato. L’eretico
è colui che deliberatamente si colloca al di fuori della comunità, che ne
attenta la solidità, ne indebolisce le fondamenta, sconvolge il tranquillo,
pacifico e ordinato fluire della vita quotidiana. L’eretico è il messaggero
di Satana, è il veicolo privilegiato della tentazione diabolica, è lo strumento prediletto dal Male. Ma l’eretico è anche colui che dà il cattivo esempio, colui che non accetta le regole della convivenza civile, colui che non
si sottomette al volere delle istituzioni, laiche o ecclesiastiche che siano.
50
L’eretico è pericoloso. L’eretico è la mala pianta che deve essere estirpata,
la gramigna infestante che solo il fuoco può eliminare del tutto.10 Il 17 novembre 1252 vengono inoltre emanate da papa Innocenzo IV le Constitutiones domini pape contra hereticos, di una severità affatto sconosciuta per
l’addietro. L’eretico non può difendersi in giudizio, è privato della facoltà
di testare e di ogni altro diritto civile, di tutti i suoi beni. La condanna prevista per l’eretico impenitente è il rogo ut vivus inspectu hominum comburatur flamis.11
Il fenomeno ereticale, non del tutto nuovo per la Chiesa di Roma,
nello scorcio d’apertura del XIII secolo sta infatti assumendo dimensioni
assolutamente inusitate rispetto al recente passato, soprattutto per la straordinaria capacità di proselitismo ovunque manifestata. Le gerarchie ecclesiastiche sono quindi chiamate a intervenire prontamente e ad approntare
nuovi strumenti di contenimento di un’epidemia che da un lato minaccia
seriamente non solo di disgregare l’unità dei cristiani ma di annichilire l’autorità morale e l’esistenza della Chiesa stessa, mentre dall’altro erode alla
base la giustificazione ideologica delle istituzioni preposte al governo della
società. L’aspirazione della comunità cristiana di vivere il Vangelo senza
alcuna mediazione delle gerarchie ecclesiastiche, di imitare il più fedelmente possibile l’esempio di Cristo, la sua vita tra i poveri, gli emarginati,
il suo rifiuto delle ricchezze, degli onori mondani, non può non scontrarsi
con l’immobilismo della Chiesa ufficiale, tutta protesa nella conservazione
ad oltranza del proprio ruolo di unico interprete del messaggio evangelico
e dell’ortodossia dogmatica. Una Chiesa, in aggiunta, che da più parti viene
accusata di simonia, di corruzione, di immoralità. Di giorno in giorno si fa
quindi sempre più pressante la necessità di nuovi strumenti in grado di agire in termini più incisivi ed efficaci sulla coscienza dei fedeli, ai quali ovviamente deve essere sottratta qualsiasi liberta d’iniziativa, qualsiasi forma
di spontaneismo in ambito religioso e liturgico. La compressione, violenta,
crudele e dispotica della spiritualità individuale e collettiva si pone allora
quale risposta privilegiata – ovviamente non la sola – del potere ecclesiasti10
Secondo Pietro Lombardo, filosofo e teologo scolastico del XII secolo, autore dei fondamentali
Libri quattuor sententiarum, l’eresia è la pervicace e ostinata volontà di pensare e di agire diversamente da tutti gli altri membri della comunità. L’eresia non si fonda su testi sacri diversi da quelli
in uso nella Chiesa ufficiale ma nell’interpretazione soggettiva e non autorizzata che di questi viene
fatta da ogni singolo individuo, libero di aderirvi secondo criteri e modalità del tutto disgiunti dall’interpretazione “ufficiale”. L’eresia è il trionfo di una mentalità indipendente, è l’esaltazione di
una intellettualità individuale che si opporsi alla fede comune, alla ideologia dominante, ai valori
etici della società circostante. L’eresia, è libera scelta, contrapposizione all’ordine imposto dalla
gerarchia al potere, è anarchia, è disordine rispetto all’ordine costituito. Quindi l’eresia è diabolica
sovversione, deliberata eversione.
11
“affinché bruci vivo tra le fiamme alla vista degli uomini.”
51
co all’eterogenea e confusa richiesta di rinnovamento spirituale, ma anche
sociale ed materiale, che il fenomeno ereticale aveva saputo veicolare e
guidare, seppure tra mille ingenuità e altrettante illusioni. Inevitabile allora
il ricorso all’aiuto del braccio secolare, tanto di parte guelfa quanto di parte
ghibellina.
Quella che tanto le autorità laiche quanto quelle ecclesiastiche temono più di ogni altra è particolarmente l’eresia catara, soprattutto per il
rigore morale che anima gli adepti. Maggiormente diffusa nel sud della
Francia (Albi) e nell’Italia settentrionale (Concorezzo, Alba, Bagnolo, Desenzano), questa sembra non incontrare ostacoli nella sua diffusione grazie
anche al favore che incontra presso le classi dirigenti, non sempre perfettamente allineate con le direttive provenienti dalle gerarchie ecclesiastiche.
E proprio per contrastare con il maggior vigore possibile il diffondersi del pensiero dei catari, intorno alla metà del secolo XIII si diffondono
ovunque in Europa i tribunali inquisitoriali, laici ed ecclesiastici, vescovili
e pontifici, autorizzati a servirsi anche della tortura e di ogni altro immaginabile mezzo di persuasione pur di estorcere confessioni di colpevolezza
e nomi di complici e sodali. E assieme ai i tribunali si innalzano ovunque,
lugubri, anche i roghi.12 L’intreccio di “interessi spirituali” e di “interessi
materiali” provoca ovviamente eccessi e deviazioni. Non a caso, per “incentivare” l’azione dei tribunali e stimolare le autorità locali a offrire maggior collaborazione nella ricerca e nella persecuzione degli eretici, i beni di
questi ultimi vengono requisiti e ripartiti proprio tra gli organi incaricati a
vario titolo di reprimere l’eresia.
Della diffusione dell’eresia catara in ambito lagunare non vi sono
allo stato attuale della ricerca prove certe e inconfutabile. Tuttavia è assolutamente verosimile che la stessa configurazione urbana “aperta” di Venezia
e la sua naturale funzione di terminal delle correnti di traffico provenienti
dalla terraferma immediatamente circostante, e quindi la presenza “non sospetta” in città di una umanità la più varia ed eterogenea, dedita ai traffici
più disparati o magari solamente in attesa di imbarco, abbiano almeno consentito se non favorito la penetrazione dell’eresia. In ogni caso sarebbe stato più che sufficiente raggiungere Verona e la riviera gardesana – e l’Adige
12
Non è il caso di soffermarsi più di tanto in questa sede sulla crociata indetta da Innocenzo III nel
1209 contro gli Albigesi, destinata a concludersi solo nel 1229 con distruzioni e saccheggi inauditi,
massacri e roghi di massa. Più di cinquecentomila tra eretici e presunti tali, tra i quali senza alcuna distinzioni anche donne e bambini di ogni età, finiscono i loro giorni tra sofferenze indicibili.
L’esercito francese sotto la guida di Luigi IX può estendere in questo modo il regno di Francia fino
alle coste del Mediterraneo, svelando, agli occhi di chi voleva realmente vedere la verità, le reali
intenzioni della corona. Basti solo aggiungere che la diaspora albigese, seppure limitata a pochissimi
soggetti, ma di notevole forza morale, contribuisce non in minima parte alla diffusione del verbo
cataro nell’Italia settentrionale.
52
Profili immaginari degli anabattisti di Cinto
53
Agnese de Goro
era allora una comoda via di transito – per toccare con mano la rilevanza
quantitativa e qualitativa del fenomeno ereticale cataro e soprattutto la capacità di penetrazione del medesimo.
Il provvedimento di Marino Morosini non costruisce quindi un’iniziativa episodica e fine a se stessa ma si inserisce in un contesto “internazionale” ben più generalizzato, con il quale anche Venezia, sino ad allora
assai riluttante ad assumere provvedimenti che avrebbero potuto alienarle
lucrose correnti di traffico, è costretta a confrontarsi. In ogni caso non va
sottovalutata l’estrema pericolosità che poteva assumere l’estremo rigore
religioso e morale dei catari – potenzialmente in grado di destabilizzare anche una società sufficientemente coesa come quella veneziana – agli occhi
della ruling class lagunare, per altri versi meglio interessata intorno alla
metà del secolo XIII alla definizione degli equilibri di potere al proprio
interno, e avviluppata in una delicatissima congiuntura contraddistinta da
profonde trasformazioni istituzionali. Una ruling class attenta a stroncare
fin sul nascere qualsiasi occasione di dissenso sociale in grado di perturbare
l’armonico fluire dei traffici. Una ruling class estremamente preoccupata,
alla fine, che la prolungata crisi che gravava sulle massime istituzioni del
tempo, dalla Chiesa all’Impero, finisse in qualche modo per coinvolgerla
in un conflitto di più vasta portata, i cui esiti avrebbero potuto essere letali
per la sopravvivenza stessa di Venezia quale entità statuale indipendente e
compos sui. Sono gli anni questi – non dimentichiamolo – di Federico II, di
Ezzelino, della formazione della signoria scaligera, del conflitto guelfo-ghibellino che infiamma e sconvolge le città della terraferma immediatamente
circostante, e che quasi assedia Venezia alle sue spalle, condizionandole
l’accesso alle vie di comunicazione verso l’Europa continentale, e potrebbe
in ogni momento soffocarla in una stretta mortale. Scelta obbligata, quindi,
quella di Marino Morosini, e quel che più conta integralmente sintonizzata sugli interessi istituzionali, sociali ed economici della città prima e più
ancora che sulla piena restaurazione dell’ortodossia religiosa indetta dalla
curia romana.
Che Venezia non intendesse, in ogni caso, lasciare la materia del
controllo sulla vita spirituale dei propri sudditi esclusivamente nelle mani
della Curia romana, o al limite del clero locale, è ampiamente dimostrato
dai successivi interventi del Maggior Consiglio dell’agosto 1289 che determinano l’attento controllo dell’apparato statale sulla liberta d’azione dei
tribunali dell’Inquisizione. Gli organi di governo dello stato marciano non
potevano infatti estraniarsi del tutto da un ambito estremamente delicato
quale era senz’altro quello della manifestazione dei sentimenti religiosi o
dell’organizzazione delle coscienze. Tanto meno potevano consentire che
un tribunale affatto estraneo alla propria organizzazione giudiziaria, per
54
quanto assolutamente sui generis e abilitato a intervenire in una casistica
aprioristicamente delimitata, si sovrapponesse con assoluta autonomia e
piana liberta d’azione alle preesistenti istituzioni pubbliche del Comune
Veneciarum deputate al controllo della vita pubblica e, in taluni casi anche
privata, dei propri sudditi, limitando così di fatto la sostanziale sovranità
dello Stato. Sarà questa, quella cioè dell’ingerenza, o per meglio dire della
tentata ingerenza della Curia romana negli affari interni veneziani, una costante di tutta la secolare vicenda istituzionale dello stato lagunare.
In precedenza, il 14 febbraio 1256, sempre secondo Paolo Sarpi,
era stata istituita una magistratura super patarenos et usurarios, attiva ancora nella seconda metà del secolo.13
Nel 1288 il Maggior Consiglio attribuisce al Senato e alla Quarantia, unum corpus et unum Consilium, specifica competenza in materia di
eretici e di eresia, con facoltà di sottoporre a tortura gli accusati:
“Capta fuit pars quod illud quod fiet in Rogatis et Quadraginta de
factis h r si et de factis Istri tam de enpendere quam de destinare ad calderarium sit firmum sicut si factum esset per Maius Consilium …”.14
Nel 1289 lo stesso Maggior Consiglio, a seguito dell’accordo raggiunto con papa Nicolo IV, acconsente quindi che l’Inquisizione possa agire anche a Venezia e che un frate francescano, nella sua veste di Inquisitore
generale, abbia competenza in tutto il Dominio, ovunque il sospetto del
diffondersi dell’eresia richieda il suo intervento. Al tempo stesso, pero, assicurando al medesimo Inquisitore una regolare retribuzione a carico delle
finanze pubbliche, procura di inserirne l’azione entro la sfera dei poteri
dello Stato, e cercando anche di frenarne l’eccessiva libertà d’azione gli
affianca, con funzioni di controllo, come era gia successo in precedenza,
una commissione ristretta di propri patrizi.15
13
Afferma a questo proposito Paul Grendller: “Alcuni documenti recentemente venuti alla luce attestano l’esistenza, nel 1256, di una magistratura con giurisdizione su eretici ed usurai, che nella seconda metà del secolo estese la sua competenza ad altri tipi di reato, confermando le linee
tracciata dal Sarpi.” P. GRENDLER, L’inquisizione romana, pag. 63. Cfr. anche MINISTERO PER I BENI
CULTURALI E AMBIENTALI, UFFICIO CENTRALE PER I BENI ARCHIVISTICI, Guida Generale degli Archivi di
Stato Italiani, IV, Roma, 1994, Archivio di Stato di Venezia, pag. 1004: “Qualche anno dopo (1256
febbr. 14, maggior consiglio) esiste il magistrato super patarenos et usurarios, uno degli antecedenti
dei giudici del piovego.”
14
“Fu deliberato che ciò che si discute in Senato e in Quarantia circa la materia dell’eresia ... e
relativamente alla facoltà di sottoporre alla tortura, sia per mezzo della fune che per mezzo dell’immersione in acqua, abbia la medesima efficacia di quanto fosse approvato in Maggior Consiglio …”.
A.S.Ve, Deliberazioni, Liber Zaneta, c. 44v.
15
P. GRENDLER, L’inquisizione romana, pag. 63.
55
Non si conosce quanto sia stata efficace la misura intrapresa e nemmeno se vi siano stati casi tali da richiedere l’intervento dell’Inquisitore.
Non è stata infatti conservata la benché minima documentazione al riguardo, e pertanto non è possibile formulare alcun giudizio sull’effettiva operatività del tribunale veneziano. Tuttavia il fatto che nel 1385 (ma Venezia sta
vivendo il drammatico momento della guerra di Chioggia, e le ristrettezze
finanziarie in cui versano le casse pubbliche impongono ben altri sacrifici)
il compenso destinato all’Inquisitore sia stato alquanto ridotto e poi nel
1423 definitivamente azzerato, induce a ritenere la presenza di quest’ultimo del tutto superflua, almeno a giudizio delle autorità veneziane.16
Quanto all’ambito territoriale di competenza va detto come l’azione
dell’Inquisizione “veneziana”, almeno fino a tutto il XIII secolo debba necessariamente limitarsi al centro insulare e al Dogado. Neppure la progressiva conquista della terraferma retrostante la laguna, a partire da Treviso,
definitivamente acquisita al dominio marciano nel 1388, sembra in grado
di estendere di molto la giurisdizione territoriale del tribunale veneziano,
che non riuscirà mai ad assumere la dimensione di un vero e proprio organo giudicante a livello centrale. Statuti, privilegi e consuetudini locali, ma
soprattutto la decisa volontà ripetutamente manifestata da Venezia di non
immischiarsi troppo nelle vicende dei territori sudditi, almeno fintantoché
queste non contrastino con i suoi prevalenti interessi, lasciano in questo
contesto la strada aperta alla repressione17 esercitata esclusivamente da tribunali ecclesiastici, nei quali molto spesso non vi è spazio per le autorità
civili, non di rado costrette a ricorrere agli organi centrali, in particolare al
Consiglio di dieci, pur di far valere le proprie ragioni. In questo senso, a
titolo puramente esemplificativo di una prassi di ben maggior respiro, può
essere letta la rimostranza del podesta di Brescia Giovanni Badoer indirizzata il 7 novembre 1518 ai Capi del Consiglio di dieci: “[I frati inquisitori]
per le loro cappe si fanno licito ogni enorme et nefando delicto, dico delli
tristi che per le operationi fano manifesta la lor vita, fidandosi che li laici
et signori temporali, come dicon, non haver poter sopra di loro.”18
16
A questo proposito il Grendler afferma testualmente:“Nel corso del Trecento poi l’Inquisizione
veneziana aveva progressivamente perso d’importanza per mancanza di casi da trattare. Nel 1385 il
compenso dell’inquisitore era stato decurtato e nel 1423 del tutto soppresso, dato che ormai era diventato una spesa superflua. Da questa data fino alla riforma protestante l’Inquisizione, a Venezia,
era esistita - così Sarpi - più di nome che di fatto.” P. GRENDLER, L’inquisizione romana, pag. 63.
17
E agli immancabili abusi, occorre aggiungere.
18
A.S.Ve, Capi del Consiglio di dieci, Dispacci dei rettori, Brescia, b. 1.
56
Non essendo compresi negli orizzonti tematici di queste pagine i
casi di stregoneria e di magia, non è necessario entrare più di tanto nel
dettaglio dei fatti avvenuti in Valcamonica tra l’estate e l’autunno del 1518,
che pure da un lato comportano l’istruzione di un numero particolarmente
elevato di processi e la condanna al rogo di ben 62 persone, mentre dall’altro costituiscono la necessaria premessa per la successiva definizione
istituzionale dell’Inquisizione romana a Venezia. Questi processi, condotti
in prima persona dal vescovo di Brescia, dal Viceinquisitore e da sei vicari,
senza la presenza di alcuna autorità civile, attirano l’attenzione del Consiglio di dieci, giustamente preoccupato per i riflessi negativi che la vicenda
può avere nei rapporti tra le popolazioni locali e la Serenissima, e per l’evidente offesa recata dagli ecclesiastici ai superiori interessi dello Stato, dal
momento che questi “.. non hanno fatto debitamente l’officio suo et hanno
processo cum grande severità per questo, è la fama, mossi da cupidità di
guadagno contra iuris ordinem.”19
La Repubblica non può tollerare in alcun modo siffatta deminutio
delle proprie prerogative sovrane, recepita come indebita ingerenza negli
affari interni e quel che più conta assolutamente destituita di fondamento
giuridico. Come osserva molto opportunamente Andrea Del Col: “Si vengono così a delineare e a intrecciare due degli elementi più importanti
che caratterizzeranno gli sviluppi dell’Inquisizione nella repubblica di
Venezia, l’intervento cioè delle autorità civili e la presenza come giudice
inquisitoriale del nunzio pontificio. I motivi per cui le autorità di governo si intromettono per tenere sotto controllo l’operato degli ecclesiastici,
limitarne gli eccessi ed eventualmente punirne gli abusi sono non solo di
ordine giurisdizionale, sociale ed economico, (...) ma anche di ordine dottrinale, teorico. Ai patrizi veneziani non piaceva vedere scavalcata la propria autorità sulla vita e sui beni dei sudditi, erano irritati dall’arricchimento degli ecclesiastici attraverso le confische e dai costi eccessivi delle
azioni giudiziarie che ricadevano sulla povera gente (i vicari ricevevano
dai comuni della Valcamonica 25 ducati al mese più le spese, una somma
davvero considerevole). Avevano dubbi sul modo con cui i processi erano
stati formati e sulla tortura come mezzo di prova, ma alcuni si chiedevano
anche se i fatti confessati fossero veri o non piuttosto illusioni e li qualificavano come pazzie.”20
19
A.S.Ve, Consiglio di dieci, Deliberazioni miste, reg. 42, cc. 155-rv.
A. DEL COL, Organizzazione, composizione e giurisdizione dei tribunali dell’Inquisizione romana
nella repubblica di Venezia (1500-1550), in “Critica storica”, XXV (1988), 2, pag. 253.
20
57
A maggior ragione l’intervento energico dei Consiglio di dieci si
qualifica come una appropriata misura posta in essere dallo Stato nel tentativo di difendere la propria sovranità dalle pretensioni egemoniche della
Chiesa di Roma, ove si ponga a mente che negli stessi anni anche nel territorio bergamasco era iniziata la caccia alle streghe e numerosi “sudditi
veneziani” erano trattenuti in prigione e sottoposti a processo senza che le
autorità civili veneziane ne fossero state preventivamente informate, e lo
stesso stava avvenendo pure a Capodistria.21
E, si osservi bene, l’oggetto di questo confronto a più riprese tra lo
Stato e la Chiesa, che vede anche l’intervento diretto dei massimi vertici
della Santa Sede, destinato a concludersi sostanzialmente con la vittoria
delle ragioni della Repubblica di Venezia, non è certo la ricerca e la repressione dell’eresia e la condanna al rogo di pericolosi eretici impenitenti, per
la quale bisognerà attendere ancora qualche decennio. Si tratta piuttosto di
alcuni casi, per altro controversi e dubbi, di presunta stregoneria. Venezia è
indubbiamente un’entità statale che identifica nella laicità una delle ragioni
portanti della sua stessa sovranità, ma al tempo stesso questo non significa
che i valori della religione siano misconosciuti o che la politica della Repubblica sia intenzionalmente e programmaticamente orientata in senso anticlericale. Semmai le autorità veneziane hanno ben chiara la distanza che
intercorre tra spiritualità e la temporalità della Chiesa di Roma, e pertanto
si comportano di conseguenza.
Prova ne è, nel caso ve ne sia ancora bisogno, l’istituzione nel
dicembre del 1537, da parte del Consiglio di dieci, del magistrato degli
Esecutori contro la bestemmia, competenti per la Dominante e il Dogado.
Questi vengono delegati a giudicare, con l’autorità e secondo il rito dello
stesso Consiglio di dieci, che ne può rivedere in appello le sentenze, i reati
contro la religione, la morale e il buon costume. Agli Esecutori viene, inoltre affidata la competenza di vigilare in materia di stampa, e sui forestieri,
gli ebrei e i Grigioni, vale dire su tutti coloro che, almeno tendenzialmente,
possono essere portatori di idee contrarie se non alla religione almeno alla
morale cattolica.
21
Ibid., p. 255.
58
3. I Savi all’eresia
Il 22 aprile 1547 proprio per dare una migliore e più organica definizione ai rapporti tra la Repubblica e la Santa Sede nell’ambito di tutto ciò
che può riguardare la ricerca, il controllo e la repressione dell’eresia, dopo
che il 21 luglio 1542 papa Paolo III aveva formalmente avviato con la bolla
Licet ab initio l’Inquisizione romana (“Sacra Congregazione della Romana
e Universale Inquisizione”), rappresentata a Venezia dal Nunzio apostolico,
dal Patriarca e dall’Inquisitore, su iniziativa del Doge e del Minor Consiglio, viene istituito il magistrato dei Tre savi all’eresia, competente territorialmente non solo per la diocesi castellana ma, quale organo d’appello,
anche per le sentenze emesse dai tribunali dell’Inquisizione esistenti nelle
città suddite.
A questo proposito Andrea Del Col, appoggiandosi allo spoglio sistematico delle deliberazioni del Consiglio di dieci, contraddicendo almeno in parte i risultati già acquisiti dalla storiografia circa il coinvolgimento
delle autorità civili veneziane nell’attività inquisitoriale afferma: “Negli
studi precedenti l’appoggio ufficiale e stabilmente concesso al Sant’Ufficio
da parte del governo si fa risalire al 22 aprile 1472, quando il Minor Consiglio nominò tre senatori che seguissero con gli ecclesiastici i processi per
eresia nella città di Venezia e ne riferissero al Consiglio di dieci. Il motivo
dell’accettazione del Sant’Ufficio è fatto dipendere dalla sconfitta della
lega di Smalcalda, cioè dal cambiamento della politica internazionale della repubblica, sicura ormai che le convenisse allinearsi apertamente con
l’Impero e il papa e rinunciare alla pur cauta apertura ai protestanti. Norme analoghe furono estese ai tribunali di Brescia e di Bergamo il 29 novembre 1548 e applicate poi a tutte le città di terraferma ai primi di novembre
del 1550. Prima di queste date sembra dunque che il Sant’Ufficio agisca
nella repubblica unicamente con le proprie forze e senza la partecipazione
delle autorità civili. Infatti dai dati finora noti si sa soltanto che il governo
collaborò all’arresto degli imputati Antonio «marangon» nel 1533 e fra
Ambrogio da Milano nel 1545, mentre prestò il carcere per la detenzione
di fra Giulio da Milano. Dallo spoglio sistematico delle parti del Consiglio
dei dieci risulta invece che gli interventi dei governatori veneziani furono
molto più numerosi e impegnativi. (...) La repubblica appoggia sì la repressione dell’eresia, fatto che nessuno mette in discussione, ma vuole il controllo continuo dell’operato del Sant’Ufficio e si permette di intromettersi
in questioni particolari, spettanti di per sé al diritto ecclesiastico come la
confisca dei beni. (...) Il Consiglio (di dieci, la nota è mia) non intendeva
che l’attività dell’Inquisizione sfuggisse al suo potere e, dopo le prime incerte scelte, trovò che la presenza di un magistrato civile al processo era il
59
modo più semplice e sicuro per seguire tale attività. (...) La repubblica non
si limitò ad appoggiare dall’esterno l’operato dell’Inquisizione, come voleva il diritto canonico, ma cercò di controllarlo direttamente e dall’interno
imponendo la presenza dei propri magistrati ai processi. Questa presenza
non fu intesa come un’assistenza passiva, ma come una partecipazione a
pieno titolo alla conduzione dei procedimenti giudiziari in materia di fede.
(...) La nomina dei tre deputati al Sant’Ufficio di Venezia il 22 aprile 1547
non va vista semplicisticamente come il riconoscimento dell’Inquisizione
nel mutato quadro della politica internazionale, ma va inserita nello sviluppo della politica interna della repubblica al riguardo. Concessione sì
di un appoggio stabile, che d’altra parte era formalmente dovuto, ma soprattutto istituzionalizzazione di un controllo diretto delle autorità civili,
maturato grado a grado, secondo la prassi tradizionale.”22
L’istituzione della nuova magistratura, che non viene deliberata,
come pur sarebbe stato costituzionalmente corretto dal Maggior Consiglio,
deve in ogni caso essere fatta rientrare nella sfera delle attribuzioni ducali
in materia di repressione dell’eresia, vale a dire nell’ambito delle possibili
implicazioni di quel capitolo che, introdotto nella promissione dogale a far
tempo da quella di Marino Morosini, aveva rappresentato una costante che
puntualmente ritornava ad ogni elezione, senza che per questo ogni Doge si
sentisse effettivamente vincolato ad assumere nuovi provvedimenti rispetto
al suo predecessore o si impegnasse in prima persona nei confronti degli
eretici.23 Non vi è, quindi, alcuna soluzione continuità rispetto all’immediato precedente rappresentato dai probi et discreti et catholici viri, la cui
elezione è stata sempre demandata alla competenza ducale – come recita
puntualmente il testo di ogni Promissione – ma solamente una evoluzione affatto coerente della linea politica costantemente perseguita dallo stato
marciano di non consentire indebite ingerenze di campo da parte della Curia romana. Al tempo stesso appare evidente nella motivazione del provvedimento il richiamo all’obbligo morale che fin dagli ultimi decenni aveva
in qualche modo fatto del Doge il caposaldo dell’ortodossia veneziana in
materia di fede, garante quindi della fedeltà religiosa a Roma e dell’impegno della politica lagunare a sostegno dell’Inquisizione.24
22
A. DEL COL, L’inquisizione romana e il potere, pagg. 194-195, 197, 198, 201-203.
Cfr. a questo proposito anche le acute osservazioni contenute in P. GRENDLER, The Tre Savi sopra
eresia 1547-1605: a prosopographical study, in “Sudi veneziani”, N.S., III (1979), pagg. 283-284.
24
“Questi i precedenti dei savi all’eresia (sopra l’inquisizione degli eretici) che ne spiegano l’anomala procedura di elezione durante il primo cinquantennio. Il 22 aprile 1547 essi furono infatti
istituiti dal doge e minor consiglio, quale espediente per integrare, assistere e al tempo stesso controllare il tribunale canonico composto, almeno formalmente, dal nunzio pontificio, dal patriarca
e dall’inquisitore, francescano fino al 1560, poi domenicano; era così riaffermata la giurisdizione
dello Stato in materia. La procedura di elezione fu in seguito gradualmente riveduta, profittando
23
60
Questo il testo della norma istitutiva:
“Noi Francesco Donato, Doge di Venezia, et cetera.
Conoscendo niuna cosa esser più degna di Prencipe christiano che
l’esser studioso della relliggione e difensore della fede cattolica, il che
etiam n’è commesso per la Commissione nostra ducale, et è stato sempre
istituito dalli maggiori nostri, però ad honore della Santa Madre Chiesa
havemo elletti in questi tempi col nostro Minor Conseglio voi diletissimi
nobili nostri Nicolò Tiepolo dottor, Francesco Contarini e voi Antonio Venier come quelli che siete probi, discreti e cattolici uomini e diligenti in
tutte le attioni vostre e massimamente dove conoscete trattarsi dell’honore
del signor Iddio. E vi commettemo che dobbiate diligentemente inquirere
contro gl’eretici che si trovassero in questa nostra città, et etiam admettere
querele contro alcuno di loro che fossero date, et essere insieme col reverendissimo legato e ministri suoi, col reverendo Patriarca nostro e ministri
suoi, e col venerabile Inquisitore dell’heretica gravità, sollecitando cadauno di loro in ogni tempo et in ogni caso che occorrerà alla formatione dei
processi, alla quale etiam sarete assistenti, et etiam procurando che siano
fatte le sentenze debite contro quelli che saranno conosciuti rei. E di tempo
in tempo ne avviserete tutto quello che occorrerà perché non vi mancheremo d’ogni aiuto e favore secondo la forma della promozione vostra, et
cetera.
Data li 22 aprile 1547.”25
Andrea Del Col sottolinea come “… entrambe le autorità – quelle
religiose e quelle civili – fossero contrarie all’eresia, ma gli interessi e i
motivi del coinvolgimento dei veneziani nel Sant’Ufficio erano diversi e
divergenti: agli ecclesiastici premeva l’appoggio delle autorità civili, alla
Signoria premeva il controllo diretto e interno dell’attività inquisitoriale
ed entrambi tendevano naturalmente ad ottenere i maggiori risultati possibili con il minimo di concessioni all’alleato-avversario. La vita del Sant’Ufficio nella repubblica si sviluppò all’interno di questa dialettica, con
vicende varie e alterne senza che nessuno dei due contendenti riuscisse a
delle occasioni offerte dalle correzioni della promissione dogale: nel 1554, 5 giu., la votazione fu
rimessa ai consiglieri, lasciando al doge il diritto di proposta, e nel 1556, 7 giu. all’intero collegio;
finalmente nel 1595, 8 apr. l’elezione venne trasferita al senato. La competenza del tribunale veneziano non era limitata alla diocesi, bensì esso fungeva, entro certi limiti, anche da organo centrale e
di appello rispetto agli omologhi tribunali delle città suddite, dove i rettori parimenti affiancavano
i giudici ecclesiastici. Sia questi che i laici potevano in taluni casi agire in proprio.” Ministero per i
Beni Culturali e Ambientali, Guida Generale degli Archivi di Stato, IV, Archivio di Stato di Venezia,
pag. 1004.
25
A.S.Ve, Compilazione leggi, b. 204, n. 442.
61
sopraffare definitivamente le pretese dell’altro, perché in ultima analisi la
ricerca dell’autonomia o supremazia giurisdizionale non divenne mai più
importante di un interesse ancora superiore: il mantenimento dell’ordine
civile e religioso e il controllo dei cambiamenti culturali.”26
Il tribunale veneziano, nel suo plenum, si compone quindi pariteticamente di 6 membri, tre ecclesiastici e tre laici, anche se non investiti delle
medesime funzioni e dei medesimi poteri. Un perfetto equilibrio, pertanto,
se non di funzioni e di poteri, almeno di rappresentanza. Autorità civili e
autorità ecclesiastiche chiamate a misurarsi e a collaborare (ma mai come
in questo caso il termine assume una valenza intenzionalmente ambigua)
relativamente a un problema che necessariamente può investire tutti i livelli
del vivere socialmente organizzato, nei confronti del quale lo Stato intende
affermare e conservare formalmente e sostanzialmente intatta la sua esclusiva giurisdizione.
Al di là delle dichiarazioni di principio, che in questa come in infinite altre occasioni, lasciano il tempo che trovano, l’eresia o il dissenso
religioso (che possono sempre scivolare verso ambiti più propriamente civili-economici o politico-istituzionali che siano - con conseguenze ed esiti
al momento solo vagamente intuibili), vengono chiaramente percepiti dalle autorità veneziane come prodromi di un malessere sociale e spirituale
che avrebbe potuto dar luogo a derive affatto pericolose, soprattutto in un
momento e in un contesto nazionale e internazionale contraddistinto dall’estrema incertezza e per questo aperto a ogni possibile soluzione, ove
non efficacemente controllato, ovvero trasferito entro alvei maggiormente
capienti. Delegare implicitamente agli ecclesiastici tutto e sostanzialmente intatto il controllo delle dinamiche sociali, prima e più ancora che il
governo delle coscienze individuali e della spiritualità collettiva, avrebbe
senz’altro comportato, non solo una inaccettabile deviazione dalla plurisecolare politica di preminenza dello Stato rispetto ad ogni altro interesse,
pubblico o privato che fosse, ma avrebbe ben più dannosamente accreditato
l’immagine di una classe dirigente (e quindi ancora una volta di uno Stato)
pacificamente disposta a rinunciare a una parte non minima della sua sovranità e a sacrificare una componente non trascurabile delle sue funzioni
istituzionali solamente al fine esclusivo di non compromettere i buoni rapporti in corso con la Curia romana.
Osserva, comunque, a questo proposito Adriano Prosperi: “Diffidenza reciproca e ragioni di prestigio diplomatico portarono i due partners a sostenere interpretazioni di comodo per una soluzione che rappresentò comunque un compromesso per ambedue i punti di vista: per quanto
26
A. DEL COL, Organizzazione, composizione e giurisdizione dei tribunali, pag. 270.
62
il governo della repubblica stesse fermo nel sostenere che i sudditi dello
stato dovevano essere giudicati sotto il controllo delle autorità legittime,
sta di fatto che accettò e contribuì all’efficacia dell’azione ecclesiastica
contro gli eretici; d’altro canto se da Roma si rivendicava come cardine
del sistema inquisitorio la segretezza e l’esclusiva responsabilità dei giudici ecclesiastici, di fatto si accettò che ai processi partecipassero magistrati civili.”27
Per quanto concerne invece le motivazioni che spingono le autorità
veneziane a fare causa comune con quelle ecclesiastiche giusto al fine di
ricercare ogni possibile focolaio di eresia e condannare i colpevoli, Nicholas Davidson aderisce sostanzialmente a quello che è stato il nostro assunto
iniziale – confortato come si è visto anche dalle affermazioni di Adriano
Prosperi – che identifica nella manifestazione palese del dissenso religioso
una potenziale occasione di pericolo per la sopravvivenza dello Stato stesso
come comunità organizzata di governanti che rivendicano a sé soli tutto il
diritto di governare e di governati che accettano di buon grado siffatta rivendicazione: “L’eresia era considerata – in modo abbastanza ovvio – una
delle più forti minacce per «la conservatione della Religione», e i membri
di qualsiasi governo che si sentiva obbligato a proteggere la fede cattolica
sarebbero stati naturalmente imbarazzati dalla sua diffusione. Ma questo
non sarebbe stato di per sé stesso, sufficiente a stimolare una partecipazione così attiva alla punizione di eretici, alla difesa cioè dell’ortodossia.
E infatti è evidente che nel secolo sedicesimo la diffusione dell’eresia era
ritenuta non solamente una minaccia alla religione cattolica, ma anche
una minaccia molto diretta agli interessi del governo stesso. Veniva continuamente asserito che l’unità religiosa costituiva un requisito essenziale
per la sopravvivenza dello stato. Molti importanti patrizi sembrano aver
aderito a questa corrente di pensiero.”28 E Davidson chiama a sostegno di
quanto osservato Marc’Antonio da Mula, da parte sua in ottimi rapporti
con la Curia romana e in seguito anche cardinale, il quale afferma che: “chi
intende bene il governo di stato, come fanno le Signorie vostre eccellentissime, non si deve lasciare questa pestilenza (degli eretici) in casa, per che
si vede purtroppo, che costoro non attendono ad altro che alla sovversione
degli stati …”29 E più sotto anche Girolamo Soranzo: “Guardi un poco – rivolto al Doge; la nota è mia – con l’occhio della sua somma prudenza que-
27
A. PROSPERI, Ortodossia, diversità, dissenso, p. 29.
N.S. DAVIDSON, Il Sant’Uffizio e la tutela del culto a Venezia nel ’500, in “Studi veneziani”, N.S.
VI (1982), pag. 88.
29
Ivi. L’originale in Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, Mss. It., Cl. VII, 1253 (= 7707). Lettera di Marc’Antonio da Mula al Senato 1560, 19 ottobre, c. 84v.
28
63
sta nuova introduzione di suscitarsi i popoli sotto il pretesto di religione,
impadronirsi delle città, voler dar leggi ai principi naturali e macchinar
contro la vita loro …”.30
“Ovviamente – continua Davidson per chiarire ulteriormente il suo
concetto – l’eresia era, in questo contesto, vista come una diretta minaccia alla stabilità politica; l’interessamento del governo alla conservazione
del culto cattolico nasceva quindi da timori per la sua stessa sopravvivenza. (…) Ma il timore dell’eresia non sembra tuttavia essere stato limitato
alle alte gerarchie ecclesiastiche e governative. Al contrario, non sembra
esserci stata nessuna diffusa opposizione popolare alla politica governativa contro gli eretici. (…) Per il governo, dunque, l’eresia si configurava
come un problema sociale, piuttosto che un problema intellettuale; la collaborazione attiva con l’Inquisizione era una forma di politica preventiva
da parte di un governo che altrimenti incoraggiava la regolare pratica
religiosa e la morale dei parrocchiani, di membri delle arti, di patrizi, in
eguale misura.”31
Il fatto che la devianza religiosa abbia una sua specifica valenza
politica, e sia ritenuta in grado di innescare potenziali cariche eversive di
incerta composizione, sembra costituire pertanto una delle motivazioni – se
non la motivazione di fondo – che spingono le autorità veneziane ad agire
con particolare energia soprattutto in tutti quei casi che avrebbero potuto
facilmente assumere una evidente rilevanza sociale. Si può infatti affermare, con sicuro fondamento, che i singoli episodi di crisi spirituale, destinati
a sfociare eventualmente nel rifiuto individuale di particolari componenti
dogmatico-liturgiche, ovvero ancora in forme più o meno larvate di moderato dissenso rispetto alle pratiche affatto esteriori di culto, ma assolutamente incapaci per loro stessa natura di suscitare tanto manifeste simpatie
quanto aperte disapprovazioni di massa, non attirano certo l’interesse dei
Savi all’eresia. Affatto diverso, invece, il caso di quelle macroscopiche e
collettive affermazioni di palese ripudio dei valori strutturali della religione
cattolica, e in particolare delle sue pratiche sacramentali, sui quali la Chiesa
di Roma aveva costruito, secolo dopo secolo, la sua formale e sostanziale
giustificazione. Palese ripudio, e proselitismo insieme, quale in effetti si
stava rivelando il fenomeno dell’anabattismo a mezzo secolo; in grado, si
annoti, di coinvolgere e turbare settori sempre più ampi della società produttiva. Di quel tessuto connettivo, vale a dire, del quale nessun assetto isti30
N.S. DAVIDSON, Il Sant’Uffizio e la tutela del culto a Venezia, pag. 89. L’originale in A.S.Ve, Collegio, Relazioni, b. 20, Relazione di Girolamo Soranzo ritornato ambasciatore da Roma, 1563, 14
giugno. Edita da E. ALBERI, Le relazioni degli ambasciatori veneti al Senato durante i secolo decimo
sesto, Firenze 1846, pag. 82.
31
N.S. DAVIDSON, Il Sant’Uffizio e la tutela del culto a Venezia, pagg. 90, 98.
64
tuzionale poteva tollerare impunemente la “corruzione” da parte di concezioni, religiose e sociali ad un tempo, perfettamente capaci di disaggregare
e destrutturare anche la più solida e coesa dinamica statuale.
Ne conviene anche Adriano Prosperi quando afferma: “Ma l’occasione per verificare la pericolosità politica dell’eresia fu data (...) dalla
delazione di don Pietro Manelfi e dalla scoperta dell’ampia diffusione delle dottrine anabattistiche nello stato veneziano. La ricostruzione dei tempi
e dei modi con cui si passò dalla delazione del Manelfi alla messa in opera
delle misure di polizia permette di assistere a una delle poche occasioni
in cui le autorità veneziane si misero al servizio del nunzio senza incertezze e senza reticenze, adoperandosi affinché tutti i nomi fatti dal Manelfi
fossero oggetto di una rapida azione di polizia. Il Manelfi rilasciò le sue
confessioni spontanee a Bologna e a Roma e subito dopo da Roma partì
alla volta di Venezia un inviato speciale per mettere al corrente le autorità
della Serenissima delle scoperte fatte; in tempi strettissimi e nel più gran
segreto, in un clima di efficiente collaborazione, l’operazione di polizia
portò in carcere diversi indiziati. I loro costituti mostrano un tipo di interrogatorio condotto in prima persona dall’inquisitore ma con domande che
vertevano per lo più sulle materie scottanti del rapporto con le autorità
statali e dunque seguendo un filo che doveva riuscire il più chiaro e il più
interessante possibile per i «savi all’eresia». Non si disquisiva più sulla
presenza diabolica nei riti stregoneschi né sulle questioni della giustificazione e del libero arbitrio, ma sul dovere di obbedienza ai magistrati,
sull’obbligo di prestar giuramento, di portar armi e di svolgere incarichi
di governo. La scoperta della vastità dei temi del dissenso e della capacità
di autoorganizzazione dei gruppi anabattistici che avevano messo in piedi
un concilio a Venezia più affollato di quello di Trento, senza che nessuno lo sapesse, dovette impressionare profondamente il governo veneziano
che in questa occasione non trovò niente da obbiettare alla durezza delle
pene. (...) La figura del dissenziente aveva adesso completato tutti i tratti
che dovevano caratterizzarlo come una scomoda presenza in tutta quest’epoca, dall’eccessiva curiosità e stravaganza di opinioni teologiche ad
una vocazione alla disobbedienza capace di inquietare profondamente le
autorità statali.”32
Per niente facile, tuttavia, il compito che attende la classe di governo
lagunare nel corso dei decenni a cavallo della metà del secolo XVI, a partire magari proprio dall’istituzione dei Savi all’eresia, e per una serie quanto
mai ampia, variegata e complessa di ragioni, tanto di natura interna quanto
piuttosto meglio riconducibili a motivazioni di carattere esterno. Una classe
32
A. PROSPERI, Ortodossia, diversità, dissenso, pagg. 30-31.
65
di governo, occorre aggiungere, che a fatica, ma con disarmante lucidità
ha ormai pienamente metabolizzato la consapevolezza dell’essere definitivamente venuta meno la secolare e tradizionale funzione di Venezia quale
privilegiata e insopprimibile cerniera tra Levante e Ponente. La scoperta
delle Americhe, ma soprattutto e più ancora quella della rotta del Capo di
Buona speranza e della reale e concreta fattibilità della circumnavigazione
dell’Africa, hanno in effetti notevolmente emarginato il ruolo dell’emporio
realtino, ormai ridotto a piazza commerciale di second’ordine rispetto ai
porti atlantici in evidente ascesa, primo fra tutti al momento Lisbona.
Il processo di formazione e di consolidamento degli stati nazionali
europei retti da monarchie più o meno assolute, Francia e Spagna in testa,
pervenuto a completa maturazione tra la fine del XV secolo e gli esordi del
successivo, ha definitivamente reso gli stati regionali e subregionali italiani,
tra i quali Venezia suo malgrado è costretta a rimanere, terra di conquista
per gli appetiti “forestieri”, come le recenti guerra d’Italia aperte dall’impresa di Carlo VIII hanno lasciato chiaramente intendere. La politica di
equilibrio nazionale, cui Venezia stessa ha partecipato in prima persona a
far tempo dalla pace di Lodi (1454), unitamente alla “ingombrante” presenza a Roma della monarchia papale, temporale e spirituale a un tempo,
impedisce in ogni caso alla Serenissima di farsi interprete e guida di quel
processo di aggregazione nazionale tanto paventato dal Machiavelli, pure
tentato e malamente naufragato ad Agnadello (14 maggio 1509), e forse
proprio a causa della tenace avversione contro Venezia abilmente ispirata e
altrettanto efficacemente strumentalizzata da papa Giulio II (1503-1513).
Si aggiunga, poi, l’incapacità topica o la non volontà del patriziato veneziano di associare, seppure gradualmente, e magari in un primo momento prevalentemente in ambiti periferici, la nobiltà di terraferma alla sua peculiare
ed ereditaria funzione di “ruling class” esclusiva. Anzi, questa sostanziale
incapacità, o non volontà, a lungo andare rende proprio la nobiltà di terraferma la fonte primaria di ogni possibile opposizione al suo stesso ruolo di
classe dirigente esclusiva dello stato marciano, come in effetti le disastrose
vicende della guerra di Cambrais mettono crudamente in mostra.
Pertanto non sarebbe stato concretamente possibile per la Repubblica scontrarsi a viso aperto con la Curia romana, e percorrere, isolata in
Italia, l’incerto e confuso cammino della Riforma, come pure da più parti
veniva invitata a fare, senza doverne poi subire le devastanti conseguenze,
tanto sul piano sociale quanto su quello politico-istituzionale, e a maggior
ragione dopo la sconfitta militare della Lega di Smalcalda (Mühlberg, 24
aprile 1547). Carlo V, e gli altri stati italiani bramosi di spartirsene le spoglie, magari insufflati e guidati all’immancabile crociata dal pontefice di
turno, avrebbero potuto in qualsiasi momento assestare a Venezia il colpo
66
definitivo. Meglio quindi evitare il conflitto con la Chiesa di Roma e ricercarne invece l’appoggio, a costo magari di cedere, formalmente ma non sostanzialmente, minuti brandelli di sovranità. Il fine ricercato, vale a dire la
conservazione dello status quo sociale e politico, parafrasando liberamente
Enrico IV, valeva bene un messa.
Sulle reali possibilità di efficace funzionamento della collaborazione tra lo Stato e la Chiesa nella repressione dell’eresia e soprattutto sulle
motivazioni che spingono i due soggetti a ricercare forme particolarmente
soddisfacenti di integrazione di risorse e di energie da spendere nella causa
dobbiamo far nostre ancora una volta le osservazioni di Adriano Prosperi:
“Come aveva funzionato la repressione delle differenze religiose a Venezia
nel corso del Cinquecento? E come si era raggiunta una semplificazione
del panorama religioso tale da consentire la distinzione tra ortodossia ed
eresia, tra consentito e vietato? La data approssimativa sulla quale si è
fissata l’attenzione degli studiosi è la metà del secolo: gli eventi che fissano
il mutamento di clima sono stati indicati (con diversa accezione a seconda degli studiosi) nell’avvio dell’attività del Concilio di Trento, sommato
alla fallimentare conclusione della vicenda degli “spirituali” e della loro
speranza di raggiungere una conciliazione coi protestanti; nell’impiantarsi a Venezia dell’inquisizione assistita dai «tre savi all’eresia» nel 1547,
col che l’azione del tribunale riceveva un apporto e una presenza ufficiale
della Signoria; con la scoperta e il dépistage della rete sotterranea degli
anabattisti nel 1551. È certo comunque che gli indizi convergono nell’indicare in quegli anni un mutare di atteggiamenti e di condizioni per la
circolazione delle idee religiose. Fra tutti gli elementi indicati primeggia
certamente il dato relativo alla inquisizione: è solo con la metà del secolo
che si crea un filtro unico destinato a separare l’eresia dalla buona dottrina
o, come dicevano allora pescando dalla riserva di immagini del repertorio
ecclesiastico, la zizzania dalla buona semente.”33
33
Ibid., pag. 28.
67
4. L’evoluzione della normativa.
Successivamente al 1547 la procedura elettorale viene parzialmente
rinnovata una prima volta il 5 giugno 1554, nell’intervallo che intercorre tra
la morte del doge Marcantonio Trevisan (31 maggio) e l’elezione del suo
successore, Francesco Venier (11 giugno). Dietro iniziativa dei Correttori
della Promissione dogale – espressione questi ultimi quanto mai rappresentativa degli umori e della volontà del Maggior Consiglio – l’elezione dei
Savi all’eresia è infatti sottratta a quel minimo di discrezionalità che ancora
detiene in quest’ambito il Doge e attribuita ai soli membri del Minor Consiglio. Al Doge rimane in effetti la sola capacità di proporre il nome dei candidati. Questi, per essere eletti, devono ottenere almeno il consenso di quattro
Consiglieri (su sei), non possono rifiutare l’incarico, se non sottostando al
pagamento di 100 ducati di ammenda. Il mandato, precedentemente lasciato
indeterminato quanto a durata, nell’occasione viene limitato a un biennio.
Questo il testo dell’importante correzione:
“Circa ’l capitolo terzo della promissione ducal disponente che per
il Serenissimo Principe si habbi ad elegger boni, discreti et cattolici homini sopra la inquisitione delli eretici con il consiglio delli Consiglieri,
over della maggior parte di quelli, sia dichiarito et preso che quelli che
saranno denominati per il Serenissimo Principe sopra detta Inquisitione
s’habbiano a ballottar per li Consiglieri et non s’intendano rimasti se non
haveranno almeno balotte 4 di essi Consiglieri. Et quelli che saranno eletti
non possano refutar sotto pena di ducati cento, delli quali siano mandati
immediate debitori a Palazzo …”.34
Appena due anni due anni dopo, il 7 giugno 1556, alla morte del
doge Francesco Venier, l’elezione dei Savi all’Eresia viene sottratta al Minor Consiglio e demandata al Collegio, organo senz’altro più numeroso
quanto a composizione,35 e quindi, secondo una costante tipicamente veneziana, in grado di esprimere un giudizio più meditato e approfondito:
“La elettione delli Savi sopra la inquisitione delli eretici, della quale parla il capitolo terzo della Promission ducale, et la parte della correttione di esso presa in questo Consiglio del 1554, a dì cinque zugno, è di
tale importantia, trattandosi del servitio del Signor Dio, che è conveniente
che la se faccia ancor con maggior solennità di quella che fin hora è stato
deliberato. Però sia preso che ogni volta che si haverà a far elettione di detti
Savii, il Serenissimo Principe, se ne haverà a far tre, ne habbia a denominar
34
A.S.Ve, Maggior Consiglio, Deliberazioni, Liber Rocca, c. 41v. Cfr. anche P. GRENDLER, The Tre
Savi sopra eresia, pag. 285.
35
Cfr. G. MARANINI, La Costituzione di Venezia, II, Firenze 1974, pag. 325 e segg.
68
sei; se due, quattro; et se uno, due, che habbiano le qualità che ricerca tal
officio, ita che l’elettione sempre se facci con scontro, overo scontri; et li
denominati poi siano ballotati nel Collegio nostro. Et quelli che scoderanno
più ballote delli altri, passando la mità, siano rimasti, non possando refutar
sotto le pene statute in detta parte del 1554, dovendo star in detto officio
anni due, come in essa parte si contiene, né possano essere rieletti se non
haveranno vacato altratanto tempo quanto saranno stati in detto officio.”36
Il 5 aprile 1595, approfittando della morte del doge Pasquale Cicogna, i Correttori, quasi a completamento del percorso riformatore intrapreso
giusto quarant’anni prima sottraggono al Collegio l’elezione dei Savi all’eresia per attribuirla al Senato, conformemente a quanto avviene per altre importanti cariche dello Stato. La motivazione rimane sostanzialmente identica
a quella della precedente revisione normativa, forse solo maggiormente carica di enfasi, come è possibile cogliere in quella affermazione “ove sia fatta
con più maturità” che nel misurato e criptico lessico istituzionale veneziano
lascia emergere l’esistenza di probabili conflitti di opinioni tra “curialisti”
e “anticurialisti”, da stemperare e diluire, e possibilmente ricondurre entro
l’alveo istituzionale della discussione in Pregadi. Nello stesso tempo si riduce ad un anno il periodo di permanenza nell’ufficio, con pari contumacia.
“Essendo il carico delli Savi sopra la inquisizione dell’Eresia di
somma importanza et tale che non cede a qualsivoglia altri importantissimo della Repubblica nostra, si deve provvedere che siccome per l’adietro
la elezione di essi soleva esser fatta nel Collegio nostro et per nominatione
prima del Serenissimo Principe, ballotazione poi di esso Collegio, justo
la parte di questo Consiglio 1556, 7 zugno, ove sia fatta con più maturità,
però l’anderà parte che de caetero l’elezione delli tre Savi sopra l’eresia
sia fatta per scrutinio del Conseglio nostro del Pregadi (il Senato; la nota è
mia), secondo il solito delle altre elezioni più principali che si fanno in detto Conseglio. Potendo esser tolti d’ogni luogo, Conseglio et Offizio, etiam
continuo et con pena, et etiam di cadauno dei diciotto Offizi ultimamente
riservati per la parte di questo Conseglio de 25 luglio 1593, eccetto quelli
del Collegio nostro. Né possino li eletti rifiutar sotto tutte le pene contenute
nella parte delli refudanti ambasciatori a teste coronate, dovendo star per
36
A.S.Ve, Maggior Consiglio, Deliberazioni, Liber Rocca, cc. 58r-v. Cfr. anche P. GRENDLER, The
Tre Savi sopra eresia, pag. 285. Al riguardo il Grendler mette convenientemente in relazione il
passaggio di competenze dal Minor Consiglio al Collegio con l’importanza che il governo della
Repubblica attribuisce alla funzione dei Savi, e soprattutto alla delicatezza dei compiti loro demandati: “With the revision of 1556, the Tre Savii sopra Eresia became in effect, a sub-committee of the
Collegio, the governing council of greatest importance in the Venetian system. The decree further
applied to the lay deputies the principle of contumacia (ineligibility) under the same terms applied
to other very high offices, as the Savii del Consiglio. This emphasized the importance with wich the
leaders of the Republic endowed the magistracy of the Savii sopra Eresia.” Ivi.
69
anno uno et haver contumacia di tanto tempo quanto saranno stati, et per
quel tempo che staranno possino rifiutar ogni altro offizio solito darsi per
il Conseglio nostro de’ Pregadi, al quale fossero eletti. Et il Serenissimo
Principe debbi haver cura particolare che alli tempi debiti siano fatte le
loro elezioni, sicché sempre possino esser impronti a redursi per assister a
tutte quelle cose che sono tenuti nel tribunal dell’Inquisizione.”37
A questo proposito il Grendler, particolarmente attento a cogliere le
ragioni, recondite o meno, delle diverse correzioni di rotta che riguardano
nel corso della seconda metà del Cinquecento l’elezione dei Savi all’eresia, mette in relazione l’attribuzione della funzione elettiva al Senato con
l’insoddisfazione manifestata da alcuni membri del Maggior Consiglio per
le scelte del defunto Doge, Pasquale Cicogna, che probabilmente avevano
comportato la nomina in un ruolo di estrema delicatezza come quello dei
Savi di soggetti magari eccessivamente accondiscendenti alle pretese degli
ecclesiastici e di riflesso poco attenti ai superiori interessi dello Stato.
“Un patrizio scrisse nel suo diario che il provvedimento era parso
a tutti sacrosanto «perché li preti hanno in mille vie intaccata la iurisdition
laica» e il doge soleva nominare «boni gentilhuomini e non di quel spirito
che si ricerca per ben avertir al servitio publico a questi tempi massime
che ad ogni uno pare che lecito intrar in messe aliena». Il papa si allarmò:
temeva «pregiudizi» all’attività del Sant’Uffizio.”38
Il Grendler osserva ancora come di pari passo con l’accresciuta importanza della magistratura si elevi contestualmente l’età degli eletti, ai
vertici oramai di un significativo cursus honorum:
“The change in election procedure reflected the growing belief of
the leaders of the state that civil jurisdiction had to be protected against
clerical encroachment. Some patricians felt that previuos doge, Pasquale
Cicogna, had failed to choose lay deputies mindful enough of lay prerogatives. And two clamorous cases of Dominion inquisitors meddling in political
affaire had alarmed the leadership. The clause in the new law charging the
doge to make sure that the Savii sopra Eresia were ready to assist in «everything» («tutte quelle cose») that went on in the Inquisition bespoke the
desidere for closer supervision. Finally, the law was a small sign that the
Senate was regaining a little of the power lost to higher executive councils
in the past decades. (…) The office of Savio sopra Eresia had political as
well constitutional significance. The post of lay deputy went only to nobles
of mature age, vast experience, and political weight.”39
37
A.S.Ve, Maggior Consiglio, Deliberazioni, Liber Surianus, cc. 127v-r.
P. GRENDLER, L’inquisizione romana, pag. 302.
39
Id., The Tre Savi sopra eresia, pagg. 284-285.
38
70
Profili immaginari degli anabattisti di Cinto
71
Iseppo Gobbito
5. Eresia e repressione nelle terre suddite
L’istituzione della magistratura laica dei Savi all’eresia costituisce
in ogni caso il fondamento giuridico, e pure il precedente imprescindibile,
per l’estensione alle città e territori sudditi di un provvedimento che da un
lato deve assicurare, almeno in via di principio, parità di trattamento tra gli
accusati di eresia indipendentemente dal fatto che risiedano o meno nella
Dominante, ma che, soprattutto, dall’altro si pone l’obbiettivo ormai ineludibile di sottrarre la maggior parte del territorio dello Stato all’assoluto
arbitrio degli inquisitori ecclesiastici.
Il pretesto in questa occasione viene individuato nelle lamentele
mosse da alcuni sudditi veronesi ai Capi del Consiglio di dieci a motivo del
comportamento del vicario del Vescovo di Verona. Questo, infatti, è solito
procedere nei confronti dei sospetti di eresia senza informare i rettori della
città, diversamente da quanto avviene negli stessi tempi in Bresciana e in
Bergamasca:
“Essendose havuto riccorso alli Capi del Conseglio nostro di dieci
per nome de alcuni veronesi imputati di heresia perché il vicario del reverendo Episcopo della città nostra di Verona vogli solo proceder contra di
loro senza saputa né intervento di quelli nostri rettori come li pare, facendo
retener et proclamar molti; et essendo sta’ supplicato a farli provisione
che essi rettori habbino a intervenire, com’è sta’ provisto per bressani et
bergommensi, et come etiam si serva in questa città nostra di Venetia, è
cosa equa e conveniente che da per tutto nella giurisdition nostra s’habbia
proceder ad uno modo istesso et non diversamente.”40
Il vulnus inferto dal vicario vescovile alla sovranità dello Stato appare non ulteriormente tollerabile al Consiglio di dieci che il 30 ottobre
1550 dispone l’estensione a tutto il territorio suddito delle norme già in
vigore per Brescia e Bergamo,41 assicurando per questa via al proprio dominio quella uniformità giuridica assolutamente inesistente in altri ambiti
della vita sociale, pubbliche e privata:
“L’anderà parte che per auttorità di questo Conseglio sia preso et
deliberato che et a Verona et in tutte le altre città del dominio nostro, nei
casi occorrenti e che occorreranno di heresia, se debbi servar la medesima
forma di proceder contra li imputati che è statuito se servi in le città nostre
40
A.S.Ve, Compilazione leggi, b. 204, n. 446.
Andrea Del Col mette in relazione il provvedimento con la presenza a Venezia del nuovo nunzio
apostolico Ludovico Beccadelli: “Tra giugno e ottobre del 1550 sotto la nuova nunziatura di Ludovico Beccadelli maturò finalmente la scelta di estendere le norme che reggevano i tribunali di
Brescia e Bergamo a tutti i tribunali di terraferma.” A. DEL COL, L’inquisizione romana e il potere,
pag. 210.
41
72
di Bressa et di Bergamo, cioè che li rettori nostri, ritrovatosi con il reverendo episcopo over vicario suo de cadauna città et l’inquisitor, debbano
insieme con loro, et due dottori d’i primarii della città che alli ditti rettori parerà formar, processo, servando come in le lettere scritte per questo
Conseglio sotto di 29 novembre 1548 si contien in tutto et per tutto. Et così
si debbi scriver ad essi rettori et successori per l’osservantia di questa
deliberatione.”42
Il Consiglio di dieci, in questo momento di fatto prevaricante rispetto al Senato per quanto riguarda l’amministrazione del dominio, intende
comunque conservare allo Stato l’assoluto controllo del territorio, evitando
la benché minima occasione di attrito e, quel che è peggio, di ostilità con
le popolazioni locali, soprattutto nel caso vengano coinvolti in processi per
eresia personaggi di una qualche importanza, e in grado perciò di influenzare con il loro atteggiamento il consenso nei confronti della Dominante,
così faticosamente recuperato nel corso degli ultimi decenni. Sembra quasi
di cogliere nell’atteggiamento, e più ancora nei provvedimenti concreti del
potente Consiglio, una sorta di serrato conflitto a distanza, senza esclusione di colpi, con la Curia romana e gli ecclesiastici in genere, dei quali si
vuole e si deve limitare l’eccessiva interferenza negli affari interni della
Repubblica e in particolare l’intollerabile libertà d’azione e l’assoluto dispregio nei confronti della legislazione vigente, che minano alle fondamenta l’autorità dello Stato e turbano le coscienze, incerte e confuse, proprio
a motivo dell’eccessiva intraprendenza clericale, nell’attribuire a Dio quel
che appartiene a Dio e a Cesare quel che appartiene a Cesare. Per questo
motivo i rettori diventano quasi gli inviati particolari del Consiglio di dieci,
spronati ad agire in assoluta segretezza, e spedire a Venezia le carte dei
processi più delicati, senza palesare in alcun modo gli ordini ricevuti, nel
nome dei superiori interessi dello Stato, una volta fatti convinti che solo
questo può assicurare certezza del diritto, rispetto delle leggi e uniformità
di trattamento.
Questo sostanzialmente il significato delle istruzioni che si ritrovano in una lettera del Consiglio di dieci trasmessa il 29 dicembre dello stesso
1550 ai rettori delle principali città della terraferma:
“1550, 29 dicembre, in Conseglio di dieci e Zonta.
Alli rettori delle città principali della Terra Ferma.
Vi scrivessimo con Conseglio nostro di dieci e Zonta che dobbiate
far espedir di lì li processi delli casi che occorrerrano d’eresia. E perché
potria occorrer che si formasse qualche processo contro persona di qualche importanza e che potesse esser causa di partorir scandalo o tumulto in
42
Ivi.
73
quella città e nel Stato nostro, vi havemo voluto scriver le presenti, a parte col predetto Conseglio, dicendovi che se occorrerà alcun caso che per
vostra prudenza vedeste che potesse apportar tumulto o pericolo alcuno,
dobbiate come da voi, non mostrando di aver ordine nostro, mandar il processo alli Capi del predetto Conseglio, tenendo quest’ordine secretissimo
appresso di voi soli e consegnando le presenti al fine del vostro reggimento
alli successori, acciò che medesimamente siano esseguite da loro e consignate alli successori suoi di tempo in tempo.”43
Nei confronti di questa lettera del Consiglio di dieci, e del dibattito
politico in seno al potente Consiglio che ne aveva preceduto la redazione, Andrea Del Col osserva: “I veneziani così ancora una volta imposero
l’aspetto più rilevante delle loro scelte, la presenza diretta cioè dei loro
magistrati, pur cedendo sulla questione dei dottori e dell’invio delle cause
al governo. Tuttavia il Consiglio dei dieci, oltre agli accordi ufficiali, spedì
ai rettori una lettera segretissima ribadendo istruzioni riservate già impartite il 29 dicembre 1550, che comportavano l’invio a Venezia dei processi
più importanti e ordinando inoltre che, quando fossero richiesti i dottori,
i magistrati chiamassero come per proprio conto dei laici ed accettassero
pure i dottori ecclesiastici eventualmente nominati da vescovi e inquisitori.
I patrizi cedettero un po’ per adeguarsi alla forma canonica, ma mantennero la sostanza di tutte le loro decisioni. La storia dei dieci anni seguenti
avrebbe mostrato che il controllo del Sant’Uffizio sarebbe continuato secondo il loro volere.”44
Nel settembre del 1551 la Repubblica e la Curia romana raggiungono comunque l’accordo anche per quanto riguarda il resto del Dominio.
Alle autorità veneziane non sembra infatti più ulteriormente tollerabile,
tenuto conto della prassi ormai instaurata a livello centrale, che nel resto
dello Stato gli ecclesiastici possano procedere del tutto autonomamente
all’istruzione dei processi e all’arresto degli accusati d’eresia senza la necessaria presenza dei rappresentati dei poteri civili in assoluto dispregio di
quanto disposto dalla parte del Consiglio di dieci del 30 ottobre 1550, e si
rivolgono pertanto direttamente alla Santa Sede. In conseguenza di questo
accordo nei processi celebrati nei territori sudditi, almeno da un punto di
vista puramente teorico, vi deve essere sempre presente il rettore veneziano, a garanzia dell’assoluto rispetto della legalità.
Una lettera dei Capi del Consiglio di dieci a Marino Donà, podestà
e capitanio di Belluno, del 25 settembre 1551, immediatamente successiva
quindi all’accordo intervenuto tra la Dominante e la Curia romana relativa43
44
A.S.Ve, Consiglio di dieci, Deliberazioni segrete, reg. 6, cc. 73v-74r.
A. DEL COL, Organizzazione, composizione e giurisdizione dei tribunali, pag. 294.
74
mente all’attività dell’Inquisizione nei territori sudditi della Repubblica, ne
chiarisce ulteriormente i termini procedurali:
“Havendo la Santità del Pontefice mandato de qui a noi il reverendo
Eletto di Montefiascone acciò che si trovi qualche forma che sia di comune
satisfattione in materia dell’assistentia nelli casi degli heretici, siamo con
Conseglio nostro di dieci et Zonta divenuti in questa resolutione che siamo
contenti che nelle cause degli heretici nelle terre del dominio nostro s’osservi quello che si osserva in questa nostra città, cioè che li rettori nostri
siano presenti al formar delli processi et a tutto quello che opereranno li
reverendi vicarii et inquisitori. In libertà de’ quali vicarii et inquisitori et
rettori sia secondo la qualità dei casi chiamar quelli dottori che li parerà
conveniente, sicome si fa in questa città. Et che li predetti rettori un giorno almeno della settimana si ritrovino con li predetti reverendi vicarii et
inquisitori per attender a questa materia. Però vi dicemo con l’auttorità di
questo Conseglio che dobbiate così essequir, intendendovi bene con quelli
reverendi ecclesiastici che hanno questo carico. Datae in nostro Ducali
palatio, 25 septembris 1551.”45
Ovviamente tra il dettato teorico e la prassi quotidiana non vi può
essere sempre assoluta coincidenza. E la Curia romana, nel mostrarsi forse
eccessivamente accondiscendente alle richieste veneziane, conta certamente sulla sostanziale e insanabile frattura tra i due piani.
Quello che Venezia in ogni caso non intende consentire è che i
beni dei condannati per eresia diventino una sorta di bottino privato degli inquisitori ecclesiastici. In questo caso le autorità veneziane si rivelano
particolarmente attente nel distinguere le particolari responsabilità degli
eretici riconosciuti tali dai diritti patrimoniali degli eventuali eredi, diritti
che vengono giuridicamente intesi come insopprimibili e che per questo
nulla hanno a che spartire con le punizioni da infliggersi ai condannati. In
questo modo le autorità veneziane intendono non solo mettere un freno
all’avidità degli ecclesiastici, ma quel che più conta evitare che da questi
vengano mosse false accuse di eresia al solo scopo di potersi impadronire
dei beni dei malcapitati imputati. Questo è il senso di una lettera inviata l’8
novembre 1568 dai Capi del Consiglio di dieci a tutti i rettori delle città di
terraferma nelle quali avevano sede i tribunali dell’Inquisizione:
“1568, 8 novembre. In Conseglio di dieci e zonta.
Che sia scritto a tutti li rettori delle città, terre e luoghi nostri, ove
sono tribunali d’Inquisitione, che essendo fatte confiscationi de’ beni di
eretici, nel qual caso tutti essi beni devono venir nel nostro fisco, debbano
quelli intieramente lasciar alli eredi del condannato che succedessero ab
45
A.S.Ve, Compilazione leggi, b. 204, n. 459.
75
intestato, da esser goduti et usufruttuari da loro fino ad altro ordine di
questo Consiglio …”.46
Non per questo tuttavia il Consiglio di dieci intende recedere dalla
volontà più volte manifestata di contribuire, con la presenza di propri rappresentanti nei tribunali dell’Inquisizione, alla sconfitta dell’eresia, a qualsiasi specie questa possa appartenere, considerato che il dissenso in materia
di religione è ormai giuridicamente considerato un crimine ai danni dello
Stato. E si preoccupa anzi, quasi fosse questo il loro primo dovere, che le
autorità periferiche non facciano venir meno il loro impegno nell’aiutare
e assistere i giudici ecclesiastici. Tuttavia colpisce l’eccesso di zelo che
traspare dalla lettera inviata il 20 giugno 1572 a tutti i rettori i carica e loro
successori. Sembra quasi di poter cogliere sì una sorta di assicurazione
rivolta alla Curia romana sulle buone intenzioni che animano la Repubblica in materia di eresia, ma prima e più ancora un esplicito ammonimento
ai membri laici dei tribunali inquisitoriali a non trascurare assolutamente
questo gravame, non secondario tra i tanti che li attendono nei rispettivi
mandati, di modo che gli inquisitori non siano lasciati mai soli nell’esercizio delle loro funzioni ma avvertano anzi la costante presenza dello Stato.
Di uno Stato, si può senz’altro aggiungere, che non vuole in ogni caso
venir meno ad alcuna delle sue funzioni istituzionali e che, soprattutto, non
è per nulla intenzionato a lasciare alle autorità ecclesiastiche il controllo
esclusivo delle coscienze, individuali e collettive, dei propri sudditi. Per
questo, credo, le parole dei Capi del Consiglio di dieci devono venir lette e
soppesate con particolare attenzione:
“1572, 20 iunii. Conseglio di dieci e Zonta.
Aloysius Mocenigo Dux et cetera, rectoribus et cetera.
Voi sapete qual sia la constantissima nostra volontà che nella materia della religione si stia in tutto il Stato nostro vigilantissimi per tenirlo
purgato dalla pernitiosissima peste dell’heresia, come quella ch’ammazza
le anime et perturba li governi, così ecclesiastici come temporali, et che
perciò si deve dar ogni aiuto et ogni favore alli tribunali della santissima
Inquisitione, acciocché col castigo di tai scellerati si tenga puro e netto il
nostro dominio. E seben credemo che non manchiate punto in cosa di tanta
importantia, che non può esser la maggiore, nondimeno avendo hauto da
Sua Santità un breve efficacissimo, n’è parso farvi le presenti con il Consiglio nostro e commetervi come faciamo efficacissimamente che dobbiate
con tutti li spiriti nostri attendere che il stato nostro non s’infetti di questo
pericolosissimo morbo, et che al tribunale dell’Inquisitione dobbiate dar
ogni aiuto e favore possibile, perché quanto in questo sarete più diligenti
46
Ibid., n. 500.
76
et accurati tanto più soddisfarete al desiderio nostro. Et le presenti nostre
farete registrare in quella cancelaria a memoria dei successori acciocché
da loro similmente sia operata questa nostra volontà.”47
Di un atteggiamento per più aspetti alquanto diverso, indice cioè di
una maggiore resistenza delle autorità civili rispetto alle indebite invadenze
di campo di cui si rendono ripetutamente responsabili gli inquisitori ecclesiastici, offre senz’altro prova una lettera del Senato trasmessa il 23 agosto
del 1597 a Nicolò Contarini, luogotenente della Patria del Friuli. Questo il
testo della lettera:
“Acciò che sappiate la intention nostra et quello che doverete essequire nell’avvenire, sempre che vi saranno ricercate retentioni dal tribunale dell’Inquisitione di quella città, vi dicemo col Senato che non dobbiate
concederle se le persone nominate non saranno espressamente imputate di
eresia o di caso propriamente spettante all’officio dell’Inquisitione, et col
processo formato prima con l’assistenza vostra secondo l’ordinario. Ma se
per avventura vi occoresse qualche caso dubbioso et difficile a distinguere
se spetti all’Inquisitione o se sia altramente, ce ne darete immediate con
lettere vostre avviso, aspettando ordine da noi di quello che doverete essequire. Et così essequirete sempre nell’avvenire, facendo registrar le presenti in quella Cancellaria, a memoria de’ successori vostri et perché anco da
loro debbano esser di tempo in tempo intieramente essequite.
Data in nostro Ducali palatio die 23 augusti, inditione prima,
48
1597.”
Anche per quanto riguarda l’attività dei tribunali dell’Inquisizione
in terraferma si mostrano particolarmente efficaci le annotazioni di Paul
Grendler:
“Con l’inserimento del Sant’Uffizio nella vita dello Stato veneziano, gli inquisitori avevano goduto, in Terraferma, di una sempre maggiore libertà d’azione. La loro indipendenza era dovuta al fatto che i due o
l’unico rappresentante della Repubblica49 erano costantemente occupati
da mille incombenze. Troppo forte quindi la tentazione di ricevere una denuncia portata al tribunale in assenza del rettore: l’accusatore avrebbe
potuto ripensarci e l’accusato involarsi nel frattempo. Così, con l’incoraggiamento di Roma, i procedimenti condotti senza la presenza di un rappre47
Ibid., n. 507.
Ibid., n. 531.
49
Non sarà fuori luogo ricordare, a questo proposito, che Venezia inviava nelle maggiori città suddite, corrispondenti agli attuali capoluoghi di provincia, due rappresentanti, investiti l’uno, il podestà,
di funzioni civili, l’altro, il capitanio, di funzioni militari. Nei centri minori si limitava invece a
inviare un solo rappresentate, il quale assommava in sé tanto funzioni civili quanto militari. (La nota
è mia.)
48
77
sentante laico divennero la norma. Nel 1575, in occasione di una questione
sorta a Venezia, la Congregazione del Sant’Uffizio autorizzò gli inquisitori
a sentire tra soli chierici gli informatori, violando evidentemente i termini dell’accordo del 1551. E nel 1559 ordinò all’inquisitore di Vicenza di
processare senza gli assistenti secolari «persone ecclesiastiche» e persone
secolari di Cologna o di altri luoghi», cioè gli abitanti del territorio. Due
anni dopo, adducendo le difficoltà dei tribunali del Sant’Uffizio, i cardinali ribadirono le istruzioni impartite nel 1575, estendendo la facoltà di
interrogare senza la rappresentanza laica ai testimoni, per non rischiar
di perdere opportunità. Solo in caso di protesta delle autorità dello Stato,
le deposizioni sarebbero state ripetute in loro presenza. I tribunali veneti
dell’Inquisizione si uniformarono agli ordini di Roma e nel 1597 l’Inquisitore di Verona riferiva che tra il 1575 e il ’93 più di 460 testi erano stati
sentiti di fronte ai soli giudici ecclesiastici. Non molto diverse le notizie
che davano altri inquisitori del Dominio. I rettori di Terraferma, consci
con ogni probabilità delle infrazioni perpetrate nelle corti locali, dovettero
informare il Consiglio dei Dieci, che tuttavia ignorò la situazione. Il patriziato era allora aperto alle istanze del Sant’Uffizio ed aveva smesso la
vigile sensibilità della metà del secolo.”50
Nondimeno verso la fine del secolo, soprattutto grazie alla minor
intransigenza dimostrata da Gregorio XIV e da Clemente VII, più concilianti rispetto ai loro immediati predecessori, e particolarmente attenti a
non innescare un pericoloso contenzioso con la Repubblica, contenzioso
che avrebbe potuto anche significare un venir meno della collaborazione
da questa prestata e in definitiva un ulteriore intralcio all’attività dei tribunali, gli inquisitori ecclesiastici, tranne alcuni casi isolati, cominciano a
dimostrarsi più rispettosi della normativa vigente in materia di eresia e a
ricercare con maggior frequenza di quanto avessero fatto in precedenza la
collaborazione e l’assistenza delle autorità veneziane locali.51
All’inizio del XVII secolo, dopo che a seguito della sua “correzione” il Consiglio di dieci aveva notevolmente ridotto il suo raggio d’azione,
a tutto vantaggio del Senato e degli altri organi costituzionali, il Collegio
cerca di estendere il controllo dello Stato sulle procedure comunemente
seguite dai tribunali inquisitoriali. In particolare, nel novembre del 1602
proprio dal Collegio viene meglio disciplinata la materia relativa all’arresto degli imputati e, nonostante le vivaci proteste ecclesiastiche, si dispone
che gli ordini d’arresto, delegati generalmente al braccio secolare, debbano
rigorosamente avvenire solo attraverso un mandato scritto, firmato da al50
51
P. GRENDLER, L’inquisizione romana, pagg. 298-299.
Ibid., pagg. 300-301.
78
meno due rappresentanti dell’autorità civile in seno al tribunale del Sant’Ufficio. Quella che il governo veneziano intende combattere contro le
invadenze di campo e le prevaricazioni degli ecclesiastici appare però una
guerra non facile da vincere, soprattutto in periferia dove alla Repubblica
molto spesso vengono di fatto meno le indispensabili energie materiali, e
talora anche la necessaria volontà, per difendere sino in fondo le prerogative dello Stato contro le pretese egemoniche della Chiesa. Almeno fino alla
complessa vicenda dell’Interdetto.
Le autorità veneziane, il Collegio in particolare, mostrano, e non
senza fondamento, una particolare diffidenza soprattutto nei confronti dei
frati che ovviamente costituiscono la componente maggioritaria nei tribunali periferici dell’Inquisizione, e che dimostrano con il loro operato di non
tenere in alcuna considerazione il fatto di agire in uno Stato pienamente
sovrano.52 Questo atteggiamento, improntato piuttosto sulla difensiva, ma
indicatore al tempo stesso di una chiara volontà di reazione nei confronti
dell’assoluto disprezzo continuamente dimostrato dagli ecclesiastici per le
leggi della Repubblica, lo si può cogliere anche in un’altra lettera del Senato, indirizzata questa volta – il 10 settembre 1609 – a Tommaso Contarini e
a Francesco Morosini, rispettivamente podestà e capitanio di Padova:
“Perché conosciamo che li reverendi padri inquisitori che sono nel
nostro stato procurano di delatar le fimbrie et accresser la loro giurisdittione, et non è da permetterlo, stimiamo esser bene di dirvi nelle presenti
quello ch’è nostra intentione et volontà che si osservi nelli casi di inquisitione. E per cominciar dal giuramento che alcuni pretendono che sia
fatto da’ nostri rappresentanti, vi dicemo col Senato che non dobbiate voi
né permettere che li nostri curiali in absentia vostra giurino cosa alcuna
in mano dell’Inquisitore, né segretezza , né altro, ma che ben osservino e
la segretezza et l’altre cose debite come la sincerità ricerca. Che il padre
Inquisitore non faccia leggi né ordinatione di sorte alcuna sopra qual si
voglia arte, né meno giudichi egli alcun secolare perché habbia commesso
fallo nell’arte sua. Ma se alcuno dà scandalo in tal ottieni, habbino ricorso al magistrato secolare che gli castighi. Che non sia al detto Inquisitore permesso di trattar cause contra qual si voglia, etiandio ecclesiastico
o secolare, se ben fosse del suo proprio monasterio, con l’auttorità del
52
A questo proposito non sarà fuori luogo rammentare che fino al 1560 gli Inquisitori erano francescani, sostituiti quindi dai domenicani, nominati direttamente dalla Congregazione del Sant’Ufficio.
Cfr. A. DEL COL, L’inquisizione romana e il potere, pagg. 193.
Adriano Prosperi definisce la classe di governo veneziana “ben decisa (…) a non accettare le categorie teologiche dei frati dell’inquisizione” ma al tempo stesso “incerta sui criteri da seguire per
l’orientamento della sua vita religiosa.” Cfr. A. PROSPERI, Ortodossia, diversità, dissenso, p. 30.
79
Sant’Officio senza l’assistenza vostra o di alcun d’i vostri curiali. Che
non dobbiate permetter che egli faccia qual si voglia atto pregiudiciale
spettante al processo informativo senza l’assistenza vostra o de’ vostri
curiali, com’è predetto. La qual, esso Inquisitore, sia tenuto di ricercare
principiando dalla denontia fino alla diffinitiva. Et finalmente che voi o
alcuno de vostri curiali non restiate d’intervenire, etiamdio sotto pretesto
che la cosa da trattarsi sia leggiera, o che voi la sappiate già, o per qual
si voglia altro rispetto, imperocché con queste cose leggieri transcurate si
fa apertura alla total perdita della giurisdittione. Queste sono cose che ci
occorre di scrivervi, che si debbano osservar in quello ch’aspetta all’officio dell’Inquisitione. Le quali però doveranno esser trattate con quella
destrezza et prudente maniera che conossemo propria della vostra virtù et
intelligentia (…).”53
Un’affermazione su tutte merita particolare attenzione: “imperocché con queste cose leggieri transcurate si fa apertura alla total perdita
della giurisdittione”. Quello che Venezia non vuole assolutamente correre
il rischio di perdere è proprio la sua “giurisdittione”, vale a dire la sua sovranità. In altre parole in questa lettera il Senato sembra soprattutto voler
affermare a chiare lettere che la sovranità dello Stato deve essere sempre,
comunque e ovunque rispettata, anche dagli ecclesiastici, che non possono in alcun modo costituire una stridente e pericolosa eccezione. E a far
rispettare la superiore autorità dello Stato sono chiamati proprio i rettori
veneziani, ai quali compete la funzione istituzionale di rappresentare, in
tutte le località del dominio nelle quali sono inviati, la Repubblica, sovrana,
compos sui, conscia dei suoi doveri e dei suoi obblighi anche nei confronti
della religione, ma al tempo stesso ben lontana da qualsiasi rapporto di
sudditanza verso le autorità ecclesiastiche.
E analoga “volontà” si rinviene anche nella lettera del Senato del 13
dicembre 1612, inviata al podestà e capitanio di Belluno:
“Vi devono essere noti li ordini, non solo nostri ma degl’ecclesiastici ancora, in proposito degli inquisitori, che sono elletti generalmente,
che non possono essercitar il suo carico se prima non si presentano al
Principe et a suoi maggiori. E volendo noi ch’essi ordini siano intieramente essequiti, vi commettemo col Senato nostro che non dobbiate nell’avvenire permettere che l’Inquisitore che sarà elletto per quella città
eserciti il carico suo se non haverete nostro avviso ch’egli abbia soddisfatto a questo suo obligo d’essersi a noi presentato. Inoltre volemo e vi
commettemo che quando seguisse la morte dell’Inquisitore, o che inten-
53
A.S.Ve, Compilazione leggi, b. 204, nn. 532-533.
80
desse per altra causa si fosse per far mutazione di esso, in che starete
avvertiti, et userete la debita diligencia, dobbiate darne immediate notizia
all’ambassador nostro a Roma et a noi ancora, acciò, conforme a quanto
vi abbiamo commesso, si possa procurare che sia elletto soggetto che sia
nostro suddito e confidente …”.54
Soccorrono ancora una volta le acute osservazioni di Paul Grendler,
attento a cogliere, soprattutto dalle parole del Sarpi, i tratti meglio caratterizzanti la complessa vicenda:
“Per più di un decennio insomma il governo veneziano si sforzò di
porre sotto più stretto controllo i tribunali dell’Inquisizione della Dominante e del Dominio, ma i risultati non furono brillanti. Nelle corti locali,
soprattutto, se gli ecclesiastici si guadagnavano il consenso dei laici tutto
poteva continuare come sempre. E gli inquisitori infatti trasgredirono le
disposizioni della Repubblica fin dopo l’Interdetto: solo allora la classe
dirigente cominciò a tener d’occhio ogni mossa dell’Inquisizione per prevenire ritorsioni contro i fautori delle tesi veneziane ed antipontificie. Né
il governo emanò una nuova, completa disciplina del Sant’Uffizio prima
del 1609 e del 1613. Inoltre, nonostante l’estradizione fosse, come sempre,
assai difficile da ottenere, il pontefice riuscì ad avere a Roma, tra il 1590 ed
il 1605, più di dieci prigionieri, tra i quali Bruno e Campanella.”55
È comunque inevitabile che, una volta venuta meno la preoccupazione per le possibili conseguenze politiche e sociali insite nei vari fermenti ereticali, superata positivamente la pericolosissima crisi dell’Interdetto
(1606-1607), definitivamente risolte le implicazioni internazionali della
Riforma e scongiurato ormai alla radice un eventuale coinvolgimento imperiale a sostegno delle pretensioni egemoniche del Papa, le autorità veneziane tendano ad allentare il soffocante abbraccio con la Curia romana e a
rivendicare un’autonomia d’azione affatto sconosciuta per l’addietro. Con
questo non si vuole certo affermare che già a partire dal secondo decennio
del secolo XVII Venezia persegua una politica volta a creare deliberatamente ostacoli e difficoltà al funzionamento dei tribunali dell’Inquisizione
e a farsi, seppure a suo modo, paladina della propagazione del verbo eretico entro i confini dei propri territori. Sotto questo profilo nulla sembra
infatti mutare nella linea d’azione della Serenissima: l’eresia rimane eresia
e Venezia non intende assolutamente consentirne la libera diffusione, fermamente risoluta a difendere la propria cattolicità. Si vuole solo far rilevare
come il governo della Repubblica persegua, con una forza e una coerenza
54
55
Ibid., n. 537.
P. GRENDLER, L’inquisizione romana, pagg. 304-305.
81
che non erano certamente riscontrabili nei provvedimenti pregressi, una efficacissima conversione di rotta, finalmente teso a rivendicare in ogni sede
la propria esclusiva sovranità e il proprio irrinunciabile diritto a sottoporre
a controllo di merito, e non più solo di legittimità, la presenza e l’operato degli inquisitori, soprattutto quando questi non siano sudditi veneziani,
e quindi stranieri e potenzialmente ostili ai suoi stessi interessi, anche a
costo di provocare un qualche rallentamento all’attività dell’Inquisizione.
Questa è certamente una delle ragioni che spingono il Senato a ricercare
attraverso gli opportuni canali diplomatici la nomina a Roma di inquisitori che siano suoi “sudditi e confidenti”. Vale a dire soggetti non solo più
“sensibili” agli interessi veneziani che non i sudditi di ogni altro stato nazionale quanto piuttosto meglio riconducibili al “rispetto” della prevalente
legislazione civile e criminale veneziana, a maggior ragione vincolante per
un suddito marciano.
82
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85
86
A proposito dell’anabattismo cintese e veneto:
alcune considerazioni
Giovanna Paolin
Dopo una stagione intensa di studi anche di grande respiro e potendo considerarsi superata grazie agli importanti contributi di Aldo Stella1
l’analisi controversa sul ruolo dell’epopea di Michael Gaismair, in questi
anni si è assistito quasi ad un allentamento dell’interesse per lo studio della
grande stagione che vide nella prima metà del Cinquecento veneto diffondersi un vasto e variegato movimento di dissenso religioso, con lo sviluppo
anche di tematiche audacemente radicali2. Il tema della riforma radicale
e anabattista ha forse incontrato l’interesse dei ricercatori soprattutto in
una stagione fervida essa stessa di inquietudini e di dibattiti, che potevano trovare quasi un’eco in quella più antica vicenda, mentre in un diverso
contesto può accadere che si affievoliscano alcuni interessi e guadagnino
maggiore fortuna altri campi di indagine, in una dinamica di fisiologica
alternanza, che consente anche il maturare di nuove prospettive di analisi
e di più stimolanti spunti di ricerca. Come si osserva la luce che gioca
su un prisma dando infinite fascinanti combinazioni, così l’occhio dello
storico cerca molteplici punti di osservazione per scatenare sempre nuove
risposte dallo studio dei dati che emergono dal passato, mentre il variare
dei tempi e delle scuole consente di dare talora un diverso valore a quanto
sembrava ormai risolto. Così pure sulla storia dell’anabattismo veneto e
della sua dispersione nell’esilio ci saranno rinnovate stagioni di dibattito e
altra documentazione probabilmente si potrà trovare con l’analisi di nuovi
fondi documentari, approfondendo l’analisi di una stagione di straordinaria
importanza e ricchezza.
1
Aldo Stella, Dall’anabattismo veneto al “Sozialevangelismus” dei fratelli hutteriti e all’illuminismo religioso sociniano, Roma, Herder, 1996. Cfr. anche Aldo Stella, Dall’anabattismo al socinianesimo nel Cinquecento veneto. Ricerche storiche, Padova, Liviana, 1967; ID., Anabattismo e antitrinitarismo in Italia nel XVI secolo. Nuove ricerche storiche, Padova, Liviana, 1969; Ugo Gastaldi,
Storia dell’anabattismo, Torino, Claudiana, 1972 e 1981, 2 voll..
2
Molto apprezzabili gli studi recenti su certi aspetti della penetrazione del dissenso a livello nobiliare e sulla sua persistenza sono quelli di Francesca Ambrosini, Storie di patrizi e di eresia nella Venezia del ’500, Milano, Franco Angeli, 1999; Ead., L’eresia di Isabella: vita di Isabella da Passano,
signora della Frattina (1542-1601), Milano, Franco Angeli, 2005.
87
Il cristianesimo era stato profondamente segnato sul finire del Medioevo dalla crisi che travolse il papato offrendo agli occhi dell’Europa lo
spettacolo traumatico di una pluralità di eredi petrini violentemente contrapposti l’un l’altro, mentre ognuno poteva sentirsi coinvolto a schierarsi
per una delle parti in lotta. Superata la lunga crisi pontificia, era rimasto
il problema gravissimo di un papato già screditato che al mondo si presentava sempre più come una corte ben lontana dagli ideali predicati. Sul
finire del Quattrocento e nei primi decenni del Cinquecento Roma seppe
farsi centro politico e culturale di indubitato rilievo, ma ebbe anche un’imbarazzante fama di libertinaggio e corruzione. Questo mentre gravava la
tensione generata in Europa dalla crescente pressione dell’impero turco,
che ormai avanzava apparentemente inarrestabile e che aveva decretato la
fine dell’impero a oriente e messo sotto il suo controllo importanti territori
cristiani, pur prevalentemente scismatici.
Le tensioni politiche che gravavano sull’Europa, ed ancor più sull’Italia, e l’insicurezza generata dall’incombere del pericolo ottomano si
coniugavano ad un quadro di profonda trasformazione economica. Varie
contingenze avevano portato ad esempio ad un’inflazione nel prezzo dei
grani ed a spinte a trasformare i vecchi rapporti agrari, in una crescente
ricerca di monetizzazione dei redditi. La parte più povera della popolazione
finiva fatalmente per pagare per prima il prezzo di questa situazione ed i
malumori potevano accumularsi fino a limiti pericolosi. Tra quanti già dovevano patire per il tradizionale ciclo dannato di epidemie e carestie, cui si
aggiungevano facilmente i disastri portati dalle guerre, davanti al crescente
indebitamento portato dalla fame di denaro dei proprietari e dei nobili, poteva maturare molto facilmente uno spirito di rivolta3.
Se sui ricchi gravava la sorda ostilità dei ceti più disagiati, nei confronti degli ecclesiastici si esprimeva un’insofferenza ben più amara e forte.
Per chi doveva portare l’immagine di Cristo ed il suo messaggio era molto
più difficile giustificare un tipo di vita, dei comportamenti, che potevano essere anche palesemente in contrasto con quanto veniva proposto ai
semplici fedeli. Il popolo devoto portava il suo contributo in beni e denari
alla Chiesa per chiedere preghiere e suffragi, per onorare i santi protettori, ma non sempre sopportava la trasandatezza di troppi ecclesiastici ed il
loro vivere in comodi benefici senza spendersi nel proprio ministero, vicini
piuttosto al modo di vivere di tranquilli laici dotati di rendite, senza altri
3
Ethan H. Shagan, Popular politics and the English Reformation, Cambridge, Cambridge Univ.
Press, 2002; Furio Bianco, Contadini, sbirri e contrabbandieri nel Friuli del Settecento. La comunità di villaggio tra conservazione e rivolta (Valcellina e Valcovera), Pordenone, Biblioteca dell’immagine, 1995; ID, Contadini e popolo tra conservazione e rivolta ai confini della Repubblica di
Venezia tra ’400 e ’800. Saggi di storia sociale, Udine, Forum, 2002.
88
pensieri che il proprio benessere materiale. La critica coinvolgeva preti e
frati, vescovi e monaci, in una situazione che generava sia la ricerca di
nuove strade e di una critica costruttiva sia il largo diffondersi di profondo
malumore irridente.4
A questi fattori profondamente destabilizzanti si accompagnò uno
straordinario periodo di risveglio culturale, che ricollocò al centro dell’universo l’uomo e la sua storia, le sue capacità intellettuali e morali.
In tutta Europa prese vita un fermento culturale tale da rinnovare ogni
campo artistico e scientifico. Dall’architettura alla pittura, dalla filosofia
all’astronomia, un modo nuovo di porsi davanti al problema della conoscenza rivoluzionava progressivamente lo stesso rapporto tra la Chiesa e
gli intellettuali ponendo dei problemi che via via si fecero sempre più
complessi e difficili.
Se da un lato questa nuova stagione di pensiero portò al riesame
critico di tradizioni prima facilmente accettate, alla revisione scientifica di
testi considerati intoccabili dalle gerarchie ecclesiastiche, mise anche in
modo nuovo al centro dell’attenzione l’aspirazione ad un ritorno alla purezza delle origini, ad un cristianesimo autenticamente fondato sulle Scritture
e umanamente compassionevole. Le gerarchie ecclesiastiche d’altro canto, prese nella loro generalità, come già sottolineato, erano ben lungi dal
coltivare troppo gravi preoccupazioni religiose, accettavano le tradizionali
commistioni con il potere e non disprezzavano i beni di questo mondo,
tendenza questa cui non molto poteva surrogare la buona volontà di singoli,
laici e religiosi. Lo stesso clero regolare, pur ricco di maggiori potenzialità
rispetto a quello secolare, conosceva all’interno delle varie famiglie dei travagli che si collegavano da una parte alla vischiosità di comportamenti e di
modelli frutto di pesanti compromissioni con il secolo, con la conseguente
ricerca di benefici e di lasciti, nonché di potere, dall’altra all’impegno riformatore di alcuni.
Accanto a limiti e compromessi infatti un diffuso fervore innovativo
portava alla nascita di proposte coraggiose da parte di personaggi, uomini e
donne, fortemente impegnati, generosamente capaci di esporsi e di giocare
la propria esistenza sul fronte di un cristianesimo rinnovato. Si ricercava
una fede più autentica, ricca di fermenti e capace di attivare un circuito
virtuoso di carità, con una nuova attenzione ai bisogni dei più umili. Si
formavano così nuove famiglie religiose ed altre venivano riformate, in un
movimento di straordinaria ricchezza e vivacità, che si allargava all’intero
corpo dei fedeli. I movimenti di vita consacrata ed i mendicanti godevano
4
Ottavia Niccoli, Rinascimento anticlericale. Infamia, propaganda e satira in Italia tra Quattro e
Cinquecento, Bari, Laterza, 2005.
89
di un grande carisma presso i fedeli svolgendo un ruolo importantissimo di
ammaestramento e soccorso, alle fila di questi ultimi infatti appartenevano
in particolare i predicatori ed i confessori più considerati ed influenti, in
grado di veicolare valori etici e religiosi, di guidare le comunità in un cammino di devozione, ma anche di trasmettere un’eco più o meno sensibile
dei dibattiti in corso.
All’interno di un quadro generale tanto ricco di contrasti e di fermenti si concretizzò la sfida portata nel cuore stesso dell’Europa dalla Riforma. Le idee dei grandi maestri riformati percorsero i paesi, propalate
dalla novità rappresentata dal nuovo mezzo di comunicazione dell’editoria,
un’editoria che proprio tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento si era avviata ad un destino imprenditoriale di massa. Libri e brevi
stampati, immagini di grande impatto, furono capaci di cogliere con rapidità i gusti del pubblico e di proporre le novità più gustose, passati di mano
in mano, comprati e prestati con un entusiasmo nuovo, accompagnati da
curiosità ma anche da una forte credibilità, che poteva divenire imbarazzante per i poteri costituiti.
A poco valevano le dure condanne comminate dalla Chiesa, che
anzi sembravano suscitare ulteriori curiosità per i temi dibattuti attivando
una migliore pubblicità per le pericolose novità. I predicatori stessi che
dal pulpito condannavano le tesi riformate finivano per fornire ulteriore materia per le discussioni e risvegliavano ancor più la curiosità degli
astanti. La materia religiosa era infatti centrale nel vissuto delle comunità,
alla devozione si legavano i momenti più importanti del vivere privato e
pubblico, ai quali la fede riusciva a dare un senso, mentre i culti, i rituali
liturgici con il loro potere evocativo costruivano una mediazione consolatoria, rassicurante. Questo non era valido chiaramente solo per le classi
più umili, ma coinvolgeva tutti, anche se i più indotti e sfortunati potevano
riconoscere nella religione l’unico ambito che in qualche modo offrisse
loro una forma di salvaguardia, di consolazione e di speranza. Anticlericalismo e attaccamento devozionale si intrecciavano negli stessi ambiti
sociali e culturali, in un inestricabile govriglio di umori e di attese, di
passioni e di paure.5
Dalle proposte di Lutero dunque era divampato rapidamente un incendio, che già altri pensatori avevano preparato ma che solo il monaco
tedesco si trovò a scatenare, trovando eco immediata nelle attese politiche
e religiose di tanti. Grazie alle parole di libertà ed all’entusiasmo dei suoi
sostenitori di bocca in bocca passò un messaggio, che diede spunto ad altri
ancora per formulare nuove proposte e guidare ulteriori gruppi ad uscire
5
Niccoli, Rinascimento.
90
dalla Chiesa per aderire ad un cristianesimo che si proponeva come più
rispondente al messaggio delle origini ed alternativo rispetto ad un mondo ecclesiastico disegnato come una sentina di corruzione. Si formarono
quindi anche comunità di ispirazione fortemente radicale e tra queste importantissimo fu il movimento chiamato dagli oppositori anabattista, per il
richiamo che veniva fatto alla necessità di un battesimo inteso unicamente
come frutto di una scelta consapevole e personale di fede, rifiutando ogni
validità al rito riservato ai neonati.
Alle sue origini questo movimento conobbe momenti tormentati e
difficili, con scelte clamorose legate all’influsso di personalità carismatiche
e dell’entusiasmo degli inizi.6 Ma dopo l’avventura terribile ed esaltante di
Münster, che pesò a lungo con un alone di condanna e di pesante riprovazione, l’anabattismo s’incamminò definitivamente su strade ben diverse e
si disegnò piuttosto come un movimento potenzialmente ancor più eversivo
e pericoloso, benché per ragioni ben diverse. Non più l’esaltante idea di un
ritorno al mondo ed ai valori delle origini, in particolare con la riscoperta
dell’Antico Testamento, ma la riproposizione forte, l’intransigente fedeltà
al messaggio cristiano con i suoi valori di tolleranza, di carità e di fratellanza. Nel basso Medioevo, in periodi di grande travaglio, l’Europa era
stata già percorsa dai movimenti pauperistici, coartati e respinti ai margini,
repressi per le loro proposte giudicate eversive, in parte poi incorporati
dall’istituzione ecclesiastica. All’interno stesso del mondo cattolico delle
confraternite era stato del resto generato ed accolto l’infuocato movimento
dei battuti, che avevano portato con forza agli occhi di tutti il tema dell’incompatibilità radicale che dovrebbe separare il cristiano dall’uso della
violenza, della partigianeria e, quindi, del potere. Nel tempo anche questi
gruppi, pur sopravvissuti, avevano perso l’iniziale forza propositiva, pur
conservando alcune caratteristiche statutarie. Nel variegato e complesso
mondo del movimento anabattista si andò profilando la ripresa di questi
temi, con sottolineature diverse a seconda dei tempi e dei paesi in cui si
venne a radicare. Ugualmente questi riformati radicali raccolsero la generale diffidenza, furono invisi a tutti, ai cattolici ed ai protestanti, per una volta
concordi nel respingere la pericolosa radicalità di queste idee.
Il Veneto si trovò in una situazione particolarmente favorevole per
accogliere anche questi fermenti e dare un proprio contributo allo sviluppo del movimento riformato in generale e anabattista in particolare. Se le
frontiere, di varia natura e spessore, correvano in rete fittissima nei territori
degli stati d’antico regime, soprattutto nella nostra penisola, e dividevano
paesi e comunità, la Serenissima viveva in una realtà insulare, inevitabil6
Gastaldi, Storia.
91
mente legata al suo vivere sul confine, preoccupata di dover lottare a difesa contro i nemici che premevano sulle frontiere marittime e terrestri, ma
consapevole anche di dover andare al di là, verso realtà altre. Venezia era
una città costruita interamente sul mare, su isole, quasi delle navi ancorate
ed in attesa perenne della marea per svolgere le vele verso un mare pericoloso, ma su cui rivendicava il proprio imperio. I suoi leoni impietriti e
potenti ricordavano a tutti con il libro aperto o chiuso che la sorveglianza
verso l’esterno era sempre attenta e che il confine era un problema alla
costante attenzione dei governanti. Una società retta da mercanti proiettati
sul mare e verso l’entroterra alla ricerca di denari e di merci, di alleanze
preziose, aveva inevitabilmente la necessità di aprirsi al mondo, di entrare
pragmaticamente in rapporto con tutti, pur rimarcando la propria alterità e
difendendo attentamente il proprio spazio territoriale e politico, che tentava
costantemente di espandere ulteriormente.
Stretta tra la pressione degli Asburgo, dello Stato pontificio e di
Milano, Venezia si doveva confrontare sul mare, e non solo, con l’avanzata
turca. Quest’ultima poneva in particolare delle problematiche molto delicate, in quanto alla necessaria opera di contenimento e di contrasto doveva
di necessità accompagnarsi ad una concreta realtà di convivenza con chi
ormai deteneva il controllo di snodi vitali delle vie commerciali. Lontana
dalle nuove rotte atlantiche, la Repubblica si trovò per forza a duellare e
dialogare insieme con l’impero ottomano, imparando a conoscere bene quel
mondo ed i suoi valori, soffrendone gli attacchi fino alla caduta di Creta ed
all’onta di Famagosta, rispondendo militarmente ove possibile e ritessendo
costantemente la trama dei rapporti diplomatici e commerciali. La Serenissima era obbligata quindi ad aprirsi alla conoscenza di mondi culturali e
religiosi anche molto distanti dal proprio, accettando di dialogare con essi
ed ospitandoli talora all’interno dei propri confini. Del resto la stessa città
capitale era un emporio che ospitava comunità diverse per lingua, abitudini
e confessione religiosa in una convivenza non sempre facile, ma ricca di
stimoli e di proposte diverse. I mercanti greci dovevano poter avere degli spazi di culto propri e così pure si doveva rispettare la chiesa armena,
questi erano tutti riconoscimenti che si collocavano non in una politica di
integrazione o di indifferente convivenza, ma nella distinzione, fino alla
separatezza imposta agli ebrei con il ghetto aperto già dal primo Cinquecento. Culture diverse che vivevano in spazi propri e che portavano però ad
un dialogo costante, molto ricco sul piano culturale e politico, come quello
esistente proprio tra molti esponenti della migliore società veneziana ed i
maestri della cultura ebraica.
In un emporio così ricco di apporti diversi e di capitali la vita culturale conosceva uno straordinario fervore integrandosi anche con la nascente
92
Profili immaginari degli anabattisti di Cinto
93
Lucia sorella di Catarina
impresa editoriale. Le committenze importanti attiravano i migliori artisti,
che erano utili anche alla dilatazione ulteriore ed al rafforzamento del mito
politico veneziano, rendendo la città lagunare un fervido centro di scambi
e di dibattiti. Qui le idee erano portate dai luoghi più diversi e si confrontavano fervidamente, coniugandosi con quanto si andava elaborando nel
vicino ateneo patavino. L’università con la fama dei suoi docenti attirava
studenti da tutta Europa, in primo luogo naturalmente dagli stessi territori
veneti e da quelli contermini, ed il governo veneziano era ben conscio dell’importanza di questa istituzione, che andava difesa e potenziata, portando
ricchezza al comprensorio patavino, formando professionalità, attirando ingegni e contribuendo a corroborare la fama europea della politica culturale
veneziana. Se all’aprirsi dell’età moderna gli stati italiani in generale, pur
in un difficile momento di conversione degli equilibri politici, erano ancora
teatro di una vita artistica e culturale vivissima, Venezia fu uno dei palcoscenici nodali di questo mondo.
A questo si accompagnava un rapporto non sempre facile con i diversi pontefici per problemi di confini e per contese giurisdizionali. Se le
reti beneficiarie legavano fortemente gli interessi di tanti ai buoni rapporti
con la Chiesa, la salvaguardia dello stato comportava un’attenta presa di
distanze dalle inframmettenze romane. Un abito politico di distinzione che
si innestava sulla costruzione stessa dei più profondi legami identitari di
una repubblica mercantile costantemente preoccupata della salvaguardia
dei propri canali di traffico, ragione prima della sua grandezza, e capace
di elaborare una liturgia politica funzionale alla costruzione ed al mantenimento del proprio mito agli occhi dei sudditi, ammirata anche dalle altre
potenze.7
Le nuove idee religiose non potevano non trovare un’eco immediata in laguna coniugandosi con quanto già si andava dibattendo. Le proposte riformate d’oltralpe si incontravano così con la ricchezza dei diversi
mondi rappresentati a Venezia e con le istanze di rinnovamento già ben
presenti, con un filone di diffusa diffidenza verso l’istituzione ecclesiastica,
7
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riconquista della Terraferma, Torino, Utet, 1986; Gaetano Cozzi, «Venezia regina», Studi veneziani,
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94
con i fermenti innovatori portati da pensatori provenienti da tutta la penisola e con quanto si era andati elaborando nel locale ambito universitario.
Nei circoli si dibatteva delle nuove idee predicate da Lutero e da Zwingli,
come poi da Calvino, come pure si parlava di quanto veniva proposto dal
valdesianesimo e dai suoi prosecutori, coniugando questi apporti con la
critica razionalistica frutto della scuola patavina, legata particolarmente
al pensiero aristotelico, messo anch’esso in discussione scardinandone il
principio di autorità. La critica più radicale trovava facilmente ascolto e
la dottrina antitrinitaria di Michele Serveto ben presto circolò con fortuna
tra studenti ed intellettuali, mentre l’arrivo a Padova nel 1526 dell’esule
Michael Gaismair aveva inevitabilmente rinforzato anche a livello popolare
l’eco dell’insurrezione avvenuta appena oltre il confine ed aveva attirato
l’attenzione sui problemi agitati dalla rivolta tirolese, in cui contestazione
politica e religiosa si erano coniugati intimamente, tanto da poter riuscire
d’imbarazzo anche al potere veneziano, che pure aveva cara la possibilità di
sfruttare il carisma di quel personaggio in chiave antiasburgica.8
A livello popolare giungeva solo un’eco di questo fervore ideologico, mentre premevano di più altre emergenze. Un diffuso malcontento per
le difficili condizioni di vita si univa talora all’insofferenza per un clero non
corrispondente al suo compito e per una religione troppo rigida e gravosa.
Non era facile obbedire sempre a chi chiedeva tributi onerosi da pagare
a dei fedeli ben miseri, mentre si imponevano osservanze ben difficili da
tollerare, quali i molti periodi di astinenza da carni, uova e latticini, molto
duri per chi doveva faticare fisicamente e non aveva certo i denari necessari
a procurarsi un pane sufficiente a sostentarlo, od ancor meno per pagare del
pesce. Era abbastanza naturale la reazione di quanti protestavano che solo i
preti avrebbero potuto adattarsi a questo regime, visto che non faticavano,
e fin troppo facile era il sospetto che la floridezza fisica di certi ecclesiastici
nascondesse una ben scarsa osservanza degli obblighi imposti ai semplici fedeli. L’ignominia subita da Roma con il sacco dei lanzichenecchi era
sembrata una punizione divina per i peccati della curia ed aveva profondamente segnato la coscienza di tanti. Correvano anche facilmente voci
sull’arrivo di un tempo nuovo, dove giustizia e pace avrebbero regnato,
con attese millenaristiche alimentate magari dalla predicazione di alcune
figure itineranti o dall’insegnamento di personaggi come Giorgio Siculo e
Francesco Renato. Attese di un mondo nuovo e paura dei turchi incombenti
per terra e per mare, bisogni quotidiani pressanti, potevano concorrere a
formare le condizioni per spingere i ceti popolari a scelte di rottura anche
8
Aldo Stella, Il «Bauernführer» Michael Gaismair e l’utopia di un repubblicanesimo popolare,
Bologna, Il Mulino, 1999.
95
violenta, come nei paesi tedeschi e come nelle sollevazioni del 1511 in
Friuli ed a Cattaro9.
Da parte delle gerarchie romane si cercò di rispondere ai pericolosi
fermenti ed alle critiche rinnovandosi attraverso una generale riorganizzazione e dando vita al lungo e travagliato periodo conciliare, ma anche costituendo nel 1542 l’Inquisizione romana, che la Serenissima dovette accettare
sul suo territorio, con un atteggiamento volta a volta di collaborazione o di
contrasto. Il governo veneto non era certo nelle condizioni per negare alla
Chiesa il diritto di giudicare in materia di fede anche i suoi sudditi, non aveva
forza politica sufficiente per fare questo e parte della sua nobiltà del resto appoggiava Roma, come pure andava considerato che questo tribunale offriva
qualcosa che poteva riuscire utile nell’ottica del mantenimento dell’ordine
pubblico. Si adottò piuttosto una tattica di cauta sorveglianza, che in alcuni
casi era tale da divenire anche contrasto e presa di distanza, in modo da tutelare il più possibile il proprio ruolo giurisdizionale ed i propri interessi.
Queste linee sommarie vogliono solo mettere in evidenza per brevi
tratti di quale complessità fosse lo sfondo su cui venne ad innestarsi la comparsa nel Veneto del movimento anabattista. Non è agevole determinare
modi e tempi della sua prima diffusione nei territori considerati, ma già nel
1534 un processo veneziano testimonia della fortuna incontrata in laguna da questa nuova propaganda,10 che coinvolgeva uomini anche di bassa
estrazione sociale attirati dalla radicalità del messaggio, come il falegname
mastro Antonio che riportando il messaggio del suo maestro ricordava che:
«lui teniva a non esser un baptizato perché quando fu baptizà lui non haveva
in sé intelligentia né saper alcuno, mediante il qual lui potesse consentir in
el baptesmo et con questo mezo conseguir la remissione de tutti sui peccati,
non solum de l’original, ma etiam de tutti li altri actuali et mortali». Ad una
fede tradizionale vista come troppo formale ed esteriore si contrapponeva
con passione un intenso richiamo alla coerenza totale. Per questi uomini
solo una comunità di veri cristiani consapevolmente rigenerati poteva ricollegarsi all’originale insegnamento delle Scritture, richiamandosi all’antico vincolo fraterno di aiuto caritatevole ed alla volontà di pacificazione.
Già in quel primo processo, accanto alla critica radicale propria
dell’anabattismo, si ritrova una precisa dichiarazione di fede antitrinitaria,
a dimostrazione di quanto precoce fosse stata questa particolare evoluzione
propria in particolare dell’ambiente veneto. Come già era facilmente ac9
Furio Bianco, 1511: la crudel zobia grassa. Rivolte contadine e faide nobiliari in Friuli tra ’400 e
’500, Montereale Valcellina-Pordenone, Centro studi storici Menocchio-Biblioteca dell’immagine,
1995; Angelo Ventura, Nobiltà e popolo nella società veneta del Quattrocento e Cinquecento, Milano, Unicopli, 1993, in particolare pp. 150-167.
10
Stella, Dall’anabattismo veneto al “Sozialevangelismus”, pp. 98-99.
96
cettata a livello popolare la negazione di misteri quali la transustanziazione, era anche molto più agevole proporre un messaggio che soddisfaceva
un’esigenza intellettuale di razionalità e coinvolgeva anche un pubblico più
largo con il suo richiamarsi ad un rigoroso monoteismo, riportando la figura del Cristo a quella di un uomo di straordinaria santità, prescelto da Dio.
Proprio nel Veneto si assistette quindi alla formazione di un anabattismo
antitrinitario, che allargò con successo anche a livello popolare il frutto
di dibattiti elitari. I nuclei veneti di anabattisti di allargarono abbastanza
rapidamente di centro in centro, da Venezia a Cittadella, a Vicenza. Missionari, come il cosiddetto Tiziano, diffondevano con ardore il messaggio di
salvezza e parlavano di una chiesa di fratelli uniti in spirito di carità e in un
rapporto tra eguali, fino alla comunanza dei beni.11
Un richiamo così radicale agli ideali di pace e di giustizia non poteva non trovare facile eco rispondendo alle attese di quanti erano ormai
aperti alle nuove idee religiose e rifuggivano da messe e liturgie per restituire centralità alle Scritture. Mentre era difficile accettare la supponenza di
ecclesiastici poco sensibili ai bisogni degli umili, entusiasmava e convinceva il rigore di uomini disposti a giocarsi la stessa vita per restare fedeli ai
propri ideali e coerenti anche sul piano dell’amore concretamente vissuto
per i compagni di fede. Affascinava il loro costume di vita rigoroso, che
esaltava il mantenersi con l’opera delle mani al punto da far mutare stato
sociale a convertiti più agiati.
Anche dalla delazione del Manelfi12 appare chiaramente come i
contatti per diffondere l’anabattismo avvenissero facilmente attraverso i
circoli che già avevano simpatizzato per le idee protestanti e come nella seconda parte degli anni Quaranta la propaganda si fosse fatta particolarmente intensa e la rete degli aderenti e dei simpatizzanti ormai fosse quanto mai
allargata. L’entusiasmo faceva superare ogni paura e rendeva disponibili ad
affrontare le possibili conseguenze costituite da bandi, scomuniche e carceri, e magari dalla stessa pena capitale, come sottolinea una testimonianza
processuale del 1552: «Se li diceva che advertissano che intrando in questa
dottrina, che se li diceva christiana, seriano perseguitati fin alla morte per
el nome de Christo et che li persecutori erano antichristi, intendendo de la
santità del papa et suoi ministri, né altramente accadeva amaistrarli perché
ciaschuno de quelli che intravano in detta setta erano chiari de eucharistia
et delli sacramenti della giesia perché erano lutherani.»13
11
Stella, Dall’anabattismo veneto al “Sozialevangelismus”; ID., Dall’anabattismo.
Carlo Ginzburg (a cura di), I costituti di don Pietro Manelfi, Firenze – Chicago, Sansoni - The
Newberry Library, 1970.
13
ASVe, Sant’Uffizio, reg. III, c. 37r, costituto di Marc’Antonio d’Asolo, 5 marzo 1552. Cito da
Stella, Anabattismo e antitrinitarismo, pp. 48-49.
12
97
In questo contesto risulta ben comprensibile l’entusiasmo che poté
coinvolgere un paese contadino come Cinto, che si trovava in un territorio
fortemente interessato dalla propaganda riformata, basti pensare ai processi
testimoniati per Conegliano od ai libri luterani sequestrati a Oderzo, od al
collegamento con Latisana o Portogruaro e Portobuffolè, dove sono rimaste
chiare testimonianze di un intenso coinvolgimento di gruppi e individui con
le idee riformate14. Anche persone semplici, che si sentivano respinte ai margini del vissuto religioso, incapaci di comprendere il latino della messa ed
esclusi dai discorsi di troppi preti e predicatori, potevano sentirsi finalmente
interpellate intimamente. I testi sacri si aprivano all’uso di tutti in una lingua
finalmente comprensibile e venivano fatti circolare in stampe non carissime
che molti potevano possedere e saper compitare o leggere abbastanza agevolmente. I libri passavano di mano in mano, chi sapeva leggere partecipava
agli altri e si beveva quasi, si mandava a memoria la parola divina. Le testimonianze rimandano costantemente a questo clima di entusiasmo, dove
ci si raccoglieva a bottega, a casa o si passeggiava per strada discutendo di
fede, criticando il papato e le cerimonie della Chiesa, rintuzzati magari da
altri rimasti fedeli alla fede dei padri. L’arrivo poi di missionari anabattisti
aveva aperto prospettive entusiasmanti, che conquistavano ancor più delle
idee riformate già conosciute. Essi parlavano al cuore di tutti chiamando a
battezzarsi in nome di una scelta consapevole, ripetendo quasi la scena del
Giordano, sprezzando cerimonie descritte come prive di senso ed entusiasmando con la radicalità della loro stessa scelta di vita.
Per dei contadini oppressi da una situazione economica difficile
questi uomini portavano un linguaggio intessuto di speranza e di partecipazione, riconoscevano i diritti degli oppressi e facevano sentire loro vicina
una divinità prima lontana e silente. Le comunità rurali del resto erano già
abituate a gestire con autorevolezza la loro chiesa, specie attraverso le confraternite, confrontandosi con preti spesso poveri e poco preparati, incapaci
di rivestire un ruolo autorevole, di guidare i fedeli. Questa sorta di comunità
orizzontale, nella quale i membri delle famiglie si erano trovati a controllare anche molta parte della vita religiosa, poteva guardare con naturale
simpatia a chi tagliava definitivamente i legami con un clero poco attento
e stimato, con chi sottolineava la chiamata di ognuno ad essere sacerdote.
Così pure si poteva apprezzare, come è percepibile in tantissimi processi
veneti, il rifiuto di troppe dottrine incomprensibili e mai spiegate, a favore
14
Giovanna Paolin, I contadini anabattisti di Cinto, «Il Noncello», 50, 1980, pp. 91-124; Ead., La
vita religiosa nel Friuli occidentale nella seconda metà del Cinquecento, «Metodi e Ricerche», n.s.,
XIV, n. 1, 1996, pp. 9-26; Stella, Anabattismo e antitrinitarismo; ID., Dall’anabattismo veneto, pp.
93 sgg.. Per Conegliano si può vedere anche Giuliano Galletti, prime note sui processi dell’Inquisizione a Conegliano (1549-1568), «Studi Trevisani», 8, 1997, pp. 95-111; ID., Gli atti del processo
agli eretici coneglianesi (1549), «Storiadentro», n.s., 1, 2002, pp. 199-269.
98
di una recisa razionalizzazione e semplificazione dottrinaria. Anche l’antitrinitarismo poteva così conquistare con l’umanizzazione di figure amate,
ma respinte tradizionalmente in una lontananza mitica.
La confessione del Manelfi provocò un vero sconvolgimento e cambiò il destino di tutto il movimento. Egli infatti consegnò nelle mani dell’Inquisizione una dettagliata descrizione di tutti i gruppi e così dal 1551
l’Italia fu investita da un’ondata di repressione che scompaginò la nascente
organizzazione disperdendola nel silenzio o nell’esilio. I vari governi erano stati infatti immediatamente avvertiti e coinvolti, invitati a collaborare,
con un’azione di sensibilizzazione che ottenne facilmente ascolto a causa
della fama pericolosa che accompagnava gli anabattisti. Se Venezia aveva
dato ospitalità per alcuni anni a chi come Gaismair, ucciso a tradimento a
Padova nel 1532,15 aveva combattuto contro gli Asburgo, non era parimenti
disposta a tollerare facilmente sul suo territorio il diffondersi di un movimento che portava il segno della una potenzialità eversiva. L’imperatore
aveva scatenato una dura repressione contro queste comunità a seguito dei
movimenti di rivolta contadini, comunità che potevano facilmente essere
travolte e disperse anche a causa dell’isolamento in cui erano respinte dalla
netta condanna da parte delle stesse chiese evangeliche.
La pressione romana perché si aiutassero i tribunali del Sant’Ufficio
a reprimere la nuova peste si accompagnava ad un ammonimento a considerare la pericolosità politica di questi gruppi, che contestavano lo stesso concetto di potere e che esprimevano un’eversiva capacità di raccogliere l’adesione dei ceti più umili. Se la Repubblica non amava, per calcolo politico,
l’uso eccessivo delle esecuzioni pubbliche, il rogo di Benedetto d’Asolo nel
1551 ammonì tutti di quale fosse il possibile destino degli eretici più pericolosi e che era tramontato, o forse mai realmente nato, il sogno di alcuni di
poter vedere Venezia come baluardo in Italia contro lo strapotere romano.
Di bocca in bocca passò quindi il messaggio carico di terrore ed
ognuno dovette porsi il problema drammatico di che fare. Giungevano voci
di terre ancora ospitali per gli uomini liberi, nelle quali avevano trovato rifugio ad esempio gli esuli hutteriti dall’Austria e dai territori vicini. A oriente si aprivano ancora degli spazi di libertà e di pace, lontano dalla paura e
dall’oppressione, terre dove si sarebbe potuto vivere apertamente secondo
coscienza. Anche le clarisse udinesi16 che avevano aderito al movimento con
15
Stella, Il «Bauernführer».
Giovanna Paolin, Dell’ultimo tentativo compiuto in Friuli di formare una comunità anabattista.
Note e documenti, «Nuova Rivista Storica», LXII, 1978, pp. 3-28; Ead., L’eterodossia nel monastero
delle clarisse di Udine nella seconda metà del ’500, «Collectanea Franciscana», 1980, pp. 107-167;
Ead., Lo spazio del silenzio. Monacazioni forzate, clausura e proposte di vita religiosa femminile in
Italia nell’età moderna, Pordenone, Biblioteca dell’Immagine, 1996, pp. 77 sgg.; Giuseppe Bergamini
– Vittoria Masutti, L’educandato Uccellis nella storia e nell’arte, Udine, Educandato Uccellis, 1999.
16
99
entusiasmo avevano coltivato questo sogno, spinte sia dal mutare dei tempi
sia dall’odio per la vita consacrata cui erano state obbligate contro ogni loro
aspirazione. Alcune tra loro nel 1551 avevano preso coraggio fino al punto
da sfidare la durezza delle convenzioni sociali e la sicura ira delle famiglie,
si erano così incamminate in un piccolo gruppo avviandosi fuori città per i
campi, arditamente pronte a cambiare completamente vita e intraprendendo
un viaggio lungo e rischioso verso qualcosa che vagheggiavano. La fuga naturalmente non riuscì, furono riprese quasi tutte e solo qualcuna riuscì a far
perdere le sue tracce, lasciandosi dietro il sospetto di aver voluto correre disonorevolmente dietro delle voglie disordinate, stigmatizzata come una donna
senza più rispetto, segretamente invidiata da quante erano state riportate dai
parenti tra le mura conventuali ed avevano anche dovuto subire un processo,
per quanto condotto probabilmente in modo riservato, ed avevano trovato
rifugio soltanto in un percorso intellettuale e religioso di orgogliosa separatezza, sfidando tutti e mantenendo un’attenta copertura nicodemitica, aiutate
da famiglie in grado di tutelarle almeno in questo, in nome dell’onore.
Questa vicenda illustra bene quanto potesse attirare la speranza di
terre nuove più libere, ma per dei poveri contadini a questo si aggiungeva
senz’altro il sogno di un vivere diverso anche sotto l’aspetto sociale ed economico. Se delle giovani nobili dovevano trovare la forza di rompere con
il loro mondo, ma giocava forse anche l’impulso leggero dell’incoscienza,
questa scelta era molto dolorosa e difficile per delle famiglie ancorate ad
una terra senz’altro avara, ma anche conosciuta, nella quale riposavano i
propri cari e dove ogni erba raccontava gli anni vissuti e gli affetti. Tuttavia
nel Veneto si assistette ad una vera corrente migratoria per cause di fede, in
quanto, paventando la repressione, si mossero per primi alcuni più esposti,
che raggiunsero la terre morave, congiungendosi con la precedente emigrazione che ivi si era raccolta provenendo soprattutto dalle terre tedesche.
Difficoltà di rapporto poterono esserci a causa della diversità di lingua e
costumi, ma la necessità fece superare molti ostacoli, anche se non sembra
che si riuscisse ad arrivare alla costituzione di comunità formate esclusivamente di esuli provenienti dalla nostra penisola.17 Un problema quello della
lingua che probabilmente rese la vita amara a molti, ma ancor più difficile
fu l’integrazione dei gruppi sul piano ideologico.
Se i fratelli anabattisti trovavano naturale accoglienza nei gruppi
già insediati, non veniva accettato l’antitrinarismo professato da tanti esuli
veneti. La differenziazione su questo punto della fede provocava un disagio
molto sentito ed i nuovi arrivati venivano accusati di portare spaccature nel17
Domenico Caccamo, Esuli italiani in Moravia, Polonia, Transilvania (1558-1611). Studi e documenti, Firenze-Chicago, Sansoni-The Newberry, 1970.
100
le comunità, rendendoli quindi sospetti ai pastori hutteriti. Quando alcuni
uomini coraggiosi tornarono per fungere da collegamento dovettero quindi
farsi latori di questa riprovazione da parte dei responsabili delle comunità
morave e chiedere l’abbandono di quelle idee. Dall’esilio infatti alcuni ebbero la forza di tornare a prezzo anche della vita per confortare i compagni
rimasti, per spingere ad emigrare gli indecisi e per testimoniare quanto avevano trovato lontano. Francesco Della Sega, Giulio Gerlandi o Alessandro
da Bassano18 restano nella memoria come testimoni della passione religiosa vissuta da queste terre.
Il loro ritorno in patria era legato eminentemente alla ricchezza di
una fede fermissima e ad una volontà missionaria, che li spingeva ad operare a qualsiasi costo a vantaggio dei compagni di fede. Comunque essi
portavano nelle loro vicende anche la testimonianza dei contrasti e degli
imbarazzi che l’antitrinitarismo veneto aveva causato nell’esilio, tanto che
i primi due si fecero latori di un messaggio che invitava ad abbandonare le
posizioni più radicali e lo stesso Alessandro, anziano di grande coraggio
e rigore, ma di più modesta preparazione culturale, si mostrò molto cauto ed elusivo con un compagno friulano, Bernardino della Zorza, che gli
chiedeva negli anni sessanta di essere ammaestrato sull’umanità del Cristo,
rimandando alle più colte clarisse ed ammettendo di non saperne molto
anche se un tempo gli era stato spiegato; mentre si pose con autorevolezza
nel suo ruolo di maestro e guida quando dovette giudicare sul possibile
battesimo delle suore e sulla loro possibilità di restare in monastero pur
aderendo alla Riforma. Evidentemente nella diaspora chi voleva essere accettato ed aiutato doveva conformarsi allo stile delle comunità già esistenti
e consolidate, abbandonando o sottacendo ciò che divideva. Non esisteva
certo tra gli anabattisti l’uso di processare e condannare gli eretici, come si
faceva normalmente da parte di tutte le chiese, si preferiva piuttosto allontanare chi professava idee non accette, ma in assenza di comunità venete
autonome e con beni sufficienti per aiutare i compagni di sventura, era ben
difficile la scelta di una nuova separazione.
Alcune figure carismatiche, come quelle già ricordate, per alcuni
anni poterono costruire e mantenere un collegamento tra le terre venete ed
i luoghi dell’esilio, portando notizie ed aiutando, incoraggiando ad emigrare, facendo materialmente da guida per quanti avessero scelta tale via.
Il caso di Cinto19 ci mostra che il fenomeno non era legato solo a singoli
personaggi, ma come conoscesse un reticolo ben più ampio di solidarietà.
18
Stella, Anabattismo; ID., Dall’anabattismo; Andrea Del Col, L’Inquisizione nel patriarcato di
Aquileia. 1557-1559, Trieste-Montereale Valcellina, EUT-Centro di Studi Storici Menocchio, 1998,
pp. 259 sgg.; Paolin, Dell’ultimo tentativo.
19
Paolin, I contadini.
101
Il cintese Biagio di Michiel, processato nel 1563, si era spostato tra Vienna,
la Moravia ed il paese natio invogliando altri a partire, anche offrendo dei
denari, come avveniva in molti altri casi in queste situazioni, tornando però
non per una volontà di essere missionario, ma per alcuni problemi legati ai
beni rimasti e per delle difficoltà di inserimento, che lo avevano fatto desistere dal rimanere lontano.
Il suo caso è certamente significativo, ma ancor più ci racconta quei
particolari momenti la memoria di un testimone, Cristoforo Cestaio, che disegnò un quadro molto efficace di quanto era avvenuto negli anni cinquanta
in queste terre. Egli ricordava infatti che erano arrivati dei missionari ad
incontrare le famiglie invitandole a raccogliere tutto ed a partire, fratelli che
però si facevano accompagnare anche da donne, ancor più ammirevoli per
un siffatto coraggio, che si sobbarcavano ad un viaggio così disagevole e
pericoloso per convincere le altre donne offrendosi come testimoni e come
compagne. La loro azione era stata anche efficace al punto da scompaginare
alcune famiglie, quando il marito di qualcuna non se la sentiva di abbandonare la propria terra o non aveva aderito al nuovo credo. Partivano le donne
con i figli più piccoli verso l’ignoto, forti soltanto della loro fede e di una
speranza di vita migliore, od anche in fuga da una società particolarmente
ineguale e ingiusta nei loro confronti, sognando ancor più degli uomini un
mondo in cui potessero riscattarsi dalla tradizionale separatezza, dall’esclusione che le relegava lontano dal perimetro del sacro e dalla sfera pubblica.
La vicenda cintese non può considerarsi emblematica a causa della sua straordinarietà, per l’ampiezza del successo ottenuto in paese dalla
spinta ad espatriare, mentre altre comunità potevano aver conosciuto una
simile fortuna del messaggio riformato senza però maturare una scelta
tanto dirompente e difficile. L’eccezionalità del caso osservato non toglie
comunque il valore esemplare che può avere per studiare l’impatto anche
in ambiente rurale di un messaggio tanto radicale, che venne globalmente
accettato da quanti avevano una pur minima preparazione culturale, mentre
i più semplici potevano coglierne piuttosto la semplificazione dottrinale,
l’insofferenza antiromana, la carica di egualitarismo. Per questi ultimi poté
essere molto più difficile adattarsi all’esilio, in comunità di grande rigidezza morale e di lingua tedesca, ma anche dove non sempre i sogni di una vita
concretamente più agevole potevano avverarsi.
Chi era stato un poveraccio in patria e non aveva capacità particolari
poteva scoprire che la sua vita non era cambiata di molto e che la sospirata
comunanza dei beni non si applicava come aveva sperato, dovendo sempre
lavorare faticosamente a servizio di qualcuno, dovendo per giunta accettare
delle riunioni religiose molto lunghe e la mancanza del gran numero festività, in cui era proibito lavorare, tipiche del mondo cattolico. Questo di102
Profili immaginari degli anabattisti di Cinto
103
Piero Contin
sagio trapela benissimo dalle testimonianze di Agnolo de Simeonibus e di
Iseppo Gobito, ma va anche osservato come dei tanti partiti solo pochi avevano deciso di tornare, forse anche perché il terrore dell’Inquisizione poteva aver sconsigliato questo passo e reso preferibile uno sforzo assai duro di
assimilazione nel nuovo mondo. Ritornare in patria poteva restare un sogno
amaro da cancellare, ma chi aveva tagliato i ponti dietro di sé sapeva delle
ferite lasciate in paese, nel cuore di chi era rimasto, come pure del rischio
che si correva anche a causa di parenti e vicini assai pronti ad approfittare
dei sequestri dei beni comminati agli eretici o semplicemente ad utilizzare
quanto era stato lasciato a proprio vantaggio. La denuncia infatti che fece
scattare il processo contro Biagio di Michiel non a caso era stata originata
chiaramente da un parente interessato a recuperare i beni dell’uomo ritornato. Questo meccanismo era il più potente motore delle denunce che
arrivavano al tribunale, mentre solo più tardi e con molta fatica potranno
essere preponderanti le motivazioni legate alle ingiunzioni comminate dall’istituzione ecclesiastica ed alla pressione esercitata dai confessori.20
Il ritorno in patria era dunque molto rischioso e facilmente chi lo
faceva si preparava ad uno stile di copertura nicodemitica nascondendo la
propria fede, ove sopravvissuta, e partecipando ai riti cattolici, aderendo
con il gesto e professando solo con il cuore. Negli anni sessanta del Cinquecento questa scelta difficile si fece via via più necessaria per difendersi
dal crescente rischio di essere coinvolti in un processo e le reti di collegamento dovettero divenire più difficili da mantenere. In una comunità rurale,
piccola ed esposta ad un più facile controllo, grazie a vicini sospettosi e parenti interessati, non era possibile sviluppare altre forme di resistenza che
un silenzio prudente e un attento occultamento, come per l’umile donna di
Spilimbergo capace di far vita di parrocchia e confraternale, salvo lasciare
agli eredi la scoperta che il suo consunto libro di devozioni era in realtà il
catechismo di Calvino21. O come riuscirono ad Oderzo a salvare in qualche
modo una bella biblioteca riformata, inutilmente inseguita dall’inquisitore
che voleva sequestrarla, facendola sparire in misterioso trasloco.22
Tracce significative di una sopravvivenza anabattista nei centri rurali
non poterono però restare, se non in qualche dubbio o in molti ricordi, a
Cinto e altrove, mentre dei nuclei restarono attivi per qualche anno ancora
20
Giovanna Paolin, Inquisizione e confessori nel Friuli del Seicento: analisi di un rapporto, in
L’Inquisizione romana in Italia nell’età moderna. Archivi, problemi di metodo e nuove ricerche, a
cura di A. Del Col - G. Paolin, Roma, Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, Ufficio Centrale
per i Beni Archivistici, 1991, pp. 175-187; Adriano Prosperi, Tribunali della coscienza. Inquisitori,
confessori, missionari, Torino, Einaudi, 1996.
21
ASVe, Sant’Uffizio, b. 62, fasc. Fregonio Bernardino. Paolin, La vita religiosa, p. 13.
22
ASVe, Sant’Uffizio, b. 26, fasc. Bertoldi Vincenzo. Paolin, La vita religiosa, p. 17.
104
nelle città, che consentivano maggiori occasioni di occultamento. Da un processo veneziano23 appare evidente come esistessero ancora personaggi che si
incontravano a bottega o per strada e discutevano della fede, riconoscendosi
fratelli nel distacco da Roma, ma distinguendo le reciproche posizioni teologiche. Evangelici e anabattisti potevano sostenersi reciprocamente nelle
difficoltà del momento, ma mantenevano distinti i rispettivi credi e ne discutevano abbastanza apertamente. Si tenevano ancora battesimi e sacre cene in
alcune case di Venezia e di Padova ed esistevano degli uomini riconosciuti
come ministri, investiti di autorità dalle chiese di Moravia.
A Venezia nel 1567 si poteva discutere ma anche si tenevano riunioni con molti partecipanti, come risulta da una testimonianza: «per conto di
Venetia la saria cosa longa a dire, che ghe ne sono che si riducono la festa
a S. Francesco della Vigna fuora là dove sono quelle scovazze. Et ghe ne
conosco pur assai per vista, ma non ghe so il suo nome, et sono artesani da
Venetia di luoghi. Et questo so, che, quando io stava a Venetia, molti venivano a chiamare quello mio fratello per questo conto, che pol esser adesso
da uno anno che io ero a Venetia» ed ancora: «sono molti et molti di questa
congregatione in Venetia, et massime artesani di diversa generatione, quali
in diversi luochi si reducono insieme, et oltre dil loco di S. Francesco… si
conducono anche in altri luoghi. Da uno messer Piero da Modena caligaro
in Santo Apostolo, dove tra loro si riducono. Et quando tra uno di loro li
è qualch’uno che sia povero et che habbi bisogno, quelli che più comodi
si trovano li danno delli denari et li soccorreno in li loro bisogni Et anco a
me me ne sono stati datti delli detti denari… Tra di loro si batizano, però
prima fatti certi che siino costanti nella lor fede, et tra gli altri mio fratello,
per nome Odorico, qual sta in campo San Bortolo et guzza cortelli, ditto
Grison, è stato batezato tre volte, compreso il primo battesimo. Et così fanno de li altri, et quando fallano vengono cassati dalla chiesa e li batezzano
un’altra volta… In Venetia sono ne sono più persone di questa setta, forse
più di quello qualch’un di pensa… Ben lo affermo che ne sono molti, et
parte le conoscerebbe quando le vedessi, et dir posso che tutti sono artesani
et qualch’uno mercadante – dicens – et tra loro vi è qualche divisione de
opinion, perché alcuni vogliono che santa Maria nostra donna non habbi
conceputo de Spirito Santo, ma conceputo et partorito come tutte le altre
donne, et questi si chiamano anabattisti, et gli altri hanno contraria opinione. Et questo il so perché son giovane. Io son stato in l’Ongaria, in Moravia,
23
ASVe, Sant’Uffizio, b. 22, fasc. Marosella Odorico, Perosin Valerio, Giacomo calegher, Columban
Antonio, Vettore farinaiolo, Sambeni G. Battista. Giovanna Paolin, Sviluppi dell’anabattismo veneto
nella seconda metà del Cinquecento, in Die Tauferbewegung - L’anabattismo. Atti del convegno in
occasione del 450° anniversario della morte di Jakob Huter, Bolzano, 1986, Bolzano, Praxis 3, 1989,
pp. 115-159.
105
dove sono queste sette che vanno in queste parte in quel loco, il quale se
domanda Austerlich, et in altri lochi della Moravia si redducono queste tali
sette et hanno corrispondentia con alcuni di queste parti et altre».24
Si era quindi ancora in presenza di un numero consistente di dissidenti residenti in laguna, i quali avevano delle comunità organizzate e
mantenevano una disciplina dottrinale sufficientemente chiara. Evangelici e
anabattisti collaboravano ma nella rispettiva distinzione, e per questi ultimi
era evidente che si trovavano ancora in contatto con le chiese all’estero,
restando però fedeli alla loro specifica fede antitrinitaria. Molto importante
anche la testimonianza raccolta in questo processo sulla capacità dei gruppi
sopravvissuti di difendere la propria purezza e disciplina, non ammorbidita
dalla repressione in atto. Si vede come i pastori facevano ancora rispettare
le regole comunitarie, punendo chi contravveniva, senza timore di perdere
adepti o di venir scoperti da fedeli delusi, e sempre valeva l’impegno soccorrevole verso i più sfortunati. Restava anche significativamente un altro
segno distintivo di questi gruppi, ovvero la prevalenza in essi del ceto artigiano, pur con la presenza di qualche mercante, caratteristica questa che si
collegava probabilmente ad una maggiore disponibilità di questi lavoratori
verso la predicazione anabattista, grazie anche al richiamo alla sottolineatura paolina del valore del lavoro, di quello manuale, mentre veniva riguardato
con maggiore diffidenza il maneggio del denaro o la semplice rendita.
In un contesto economicamente ancora molto vivace il passaggio
delle frontiere per ragioni di lavoro era un costume sempre attivo, portando ancora l’importante patrimonio della conoscenza personale di territori
lontani e di tradizioni diverse, con viaggi affrontati grazie alla gioventù e
ad una sempre viva voglia di conoscenza. La deposizione di un giovane
entusiasta, ed incauto, diede al tribunale elementi utili per circoscrivere ulteriormente gli spazi possibili per i gruppi locali del dissenso, ma ci lascia
anche una fresca testimonianza del sopravvivere di un mondo alternativo.
Solo in ambiente urbano questi spazi potevano ancora sussistere,
giocando sui luoghi appartati, rifugiandosi in una discarica, od in case ospitali. Anche qui però ben presto andò disperdendosi tutto il movimento, grazie a processi come quello appena ricordato e grazie ad un’opera attenta di
riconquista cattolica, cui molto giovò la guerra contro il Turco. Nella tensione che precedette lo scontro di Lepanto forze opposte scesero in campo
per richiamare la Serenissima, per sostenerla nello sforzo immane. Suppliche ed ammonizioni, profezie e lettere, giunsero a quel governo da sudditi ed estimatori, invocando chi la conversione alla causa riformata come
viatico di salvezza, chi richiamando ad una più pura fedeltà cattolica.25
24
ASVe, Sant’Uffizio, b. 22, fasc. Marosella Odorico. Paolin, Sviluppi dell’anabattismo, pp. 121-122.
106
Il clima che così si era creato venne a sciogliersi dopo la battaglia ed uscì
trionfalmente l’immagine di una Repubblica guerriera trionfante nel nome
del rosario e della Vergine. A livello pubblico fu un momento importante
di riconoscimento ideale, che per qualche tempo mise in difficoltà ogni
espressione di dissenso. Dissenso che prese poi altre strade, sopravvivendo
piuttosto nella forma del ricordo, come a Cinto, oppure nella brutalità della
bestemmia, oppure, a livello dei ceti più agiati e intellettualmente più preparati, in quello di un percorso ormai autonomo di radicale svuotamento
dei presupposti della fede in un percorso razionalistico, in un relativismo
disincantato e appartato, che alla fine del Cinquecento, ad esempio, vedrà
le clarisse udinesi simpatizzare per il monoteismo ebraico e pregare rivolte
ad un Dio non più identificato con quello del cristianesimo, mentre altri
personaggi discorrevano di religione in termini similarmente riduttivi.26
Sia in campo cattolico che nel campo riformato questo periodo storico tanto tormentato aveva visto nella sua prima fase mettersi in gioco
personaggi di grande respiro, che cercarono di elaborare nuovi modelli di
riferimento e si batterono per le proprie idee. Semplici contadini, artigiani
ed intellettuali furono immessi in un contesto dove il dibattito fu intensissimo e fruttuoso, in una circolazione estremamente efficace che solo con
difficoltà poté essere repressa dalle istituzioni. La Chiesa, ma anche il potere politico timoroso di quello che poteva apparire come un pericolo per il
mantenimento dell’ordine, riuscirono ben presto a restringere sempre più
gli spazi, a tagliare le vie di diffusione dei libri e a creare un clima di timore, di paura, tale da costringere nel silenzio, nel privato, ogni tentazione
di elaborare un pensiero non conforme alla dottrina considerata ortodossa.
Accanto a questo si riuscì a riconquistare i fedeli con un’attenta azione
pastorale ed una ricca politica devozionale, accompagnata da una profonda
ristrutturazione istituzionale. La resistenza poté esser messa in atto dalle
comunità dissenzienti solo per un arco di anni relativamente breve, sufficiente però a mostrare ancor più di quale profondità etica e religiosa si
nutrisse il movimento evangelico italiano, e più in particolare quello anabattista, capace di far sopravvivere delle piccole chiese sotto le repressione
inquisitoriale fino alla fine degli anni sessanta e di nutrire l’alone di un
ricordo eroico, come nel caso di Cinto.
25
Per un esempio cfr. Giovanna Paolin Una nota su Mattia Flacio Illirico, «Metodi e ricerche», n.s.,
III, 1984, pp. 36-42.
26
Paolin, Eterodossia; Andrea Del Col (a cura di), Domenico Scandella detto Menocchio: i processi
dell’ Inquisizione (1583-1599), Pordenone, Edizioni Biblioteca dell’Immagine, 1990.
107
108
Cinto nel Secolo XVI
Marcello De Vecchi
1. La villa di Cinto
Non esistono piante accurate o descrizioni particolareggiate della
struttura abitativa della villa di Cinto nel Cinquecento, la mappa più antica finora rinvenuta (anno 1590), si limita a descrivere la zona di Bando Scudelle1,
a quel tempo chiamata anche Insula Santi Petri, perché racchiusa tra i fiumi
Reghena e Caomaggiore. La zona, al confine fra Cinto e Sesto, oggi riferibile al territorio in cui sono situati i Laghi di Cinto, un tempo era paludosa. Il
fondo caparbiamente conteso2 dalle due comunità nel corso del Quattrocento, fu requisito dalle magistrature veneziane e messo in vendita all’incanto3,
nell’anno 1498 fu acquistato dalla famiglia patrizia dei Tiepolo4.
I Tiepolo, in sintonia con i nuovi orientamenti economici dell’aristocrazia veneziana5, intrapresero una profonda opera di trasformazione del
territorio, predisponendolo per le colture agricole tradizionali con arginamento dei corsi d’acqua ed edificazione di fabbricati rurali. La mappa mette in evidenza la consistenza di questa metamorfosi.
Vi appare la casa dominicale collocata lungo la strada che da Cinto
porta a Sesto in prossimità di un ponte levadore sul fiume Reghena: la sua
antica forma architettonica si può ancora oggi ritrovare, quasi invariata nel
tempo, nell’odierno Palazzo Grandis (ex Marcello ed ex Cattanei).
Dietro la casa era situato un possente casone, usato come deposito
per le granaglie e come cantina, per follare e governare i vini; lungo la
strada, la casa è protetta da una robusta recinzione in muratura e dal lato
1
AS Ve, Misc. Mappe ds. 814
La vicenda è stata esaurientemente analizzata da Michele Zacchigna: La palude di Cinto, una lite
giudiziaria del tardo medioevo friulano. Metodi e Ricerche, n. 2, 1982
3
AS Ve, Savi alle Decime, b.371/227, Condition di Vettor Marcello fu Zorzi
4
Il terreno fu acquistata da Sebastiano Tiepolo, figlio di Geronimo, con particolari benefici nei
riguardi del fisco veneziano e alcuni diritti giurisdizionali. AS Ve, Arch. Tiepolo, I cons., Pergamene, b 11; ripreso da Franco Rossi in “Una famiglia una terra, i Tiepolo a Cinto”, in AA. VV. Cinto
Caomaggiore e la sua storia, Cinto 2002, p 139
5
La scelta dell’investimento fondiario fu causato degli eccessivi rischi che comportava il commercio
con l’oriente.
2
109
opposto della strada, all’interno di un’ansa del fiume Reghena, è situata la
piccola chiesa di San Pietro in Bando.
La mappa riporta la presenza di sei masserie sparse nel territorio:
due in muratura e quattro con la tipica forma del casone. Di particolare
rilevanza è un insediamento in piera e coppi con un ponte levadore sul rio
Aghisola, affluente del Reghena (nella zona oggi chiamata Risere in prossimità del lago Premarine). La masseria appare recintata, formata da due
fabbricati in muratura e una torretta difensiva. Il ponte levatoio e la torretta
fanno supporre una situazione sociale alquanto instabile e malsicura, ai
nuovi proprietari patrizi i villici del posto non dovevano sembrare molto
affidabili.
Nel lato sinistro della mappa compaiono la chiesa S. Biaxio e il
mulino di Cinto. La chiesa parrocchiale di Cinto era situata dove si trova
ancora adesso, anche se allora era priva delle due navate laterali, che furono edificate successivamente. La struttura architettonica è simile a quella
d’altre chiese costruite in quel periodo (XIV/XV secolo): con una sola navata, il campanile sul retro e la sacrestia addossata alle mura del campanile.
Com’era consuetudine all’epoca, la chiesa appare recintata per permettere
all’interno la sepoltura dei morti. Un portone a volta mette in comunicazione la chiesa con la canonica, anch’essa edificata in piera e coppi: l’edificio
non è molto appariscente e ha vicino un casone, utilizzato probabilmente
come fabbricato rurale.
Il mulino, allora di proprietà del patrizio veneziano Francesco Giu6
stinian , è la costruzione più imponente disegnata in questa mappa: è formato da tre edifici di differente altezza, accostati linearmente ad una torretta, alta e solida.
Altre immagini del paese si possono trovare su due mappe di circa
cento anni dopo. La prima, datata 16867, descrive il percorso del fiume
Lison8, che nasce a Cinto e attraversa i paesi di Pradipozzo e Lison prima
6
La famiglia patrizia dei Giustinian aveva acquistato il mulino di Cinto nell’anno 1492. A.S.Ve,
Prov. Beni Inculti, B. 389
7
AS Ve, Beni Inculti, 35, dis.7
8
Questa carta fu fatta eseguire dal Consorzio del Lison. Nel 1675 fu promosso dai Provveditori ai
beni inculti di Venezia un Consorzio fra i proprietari dei terreni confinanti con il fiume Lison di Cinto, Pradipozzo e Lison con l’intento di catasticarlo, “per far l’escavation et In arzenar il detto Lison
e per pagamento delle spese”. Diverse famiglie nobili veneziane ne furono coinvolte fra cui Marco
e Catarina Zustignan, i Michiel, i Foscarini, i Barbaro, i Sagredo e Zuane Tiepolo con l’incarico
di presidente cassiere. Ma già nel“febraro 1684” venne “anulato ed estinto” perché “porta tanti
dispendi” e nonostante si ritenesse necessario ulteriormente “sgarbar il Lison, far far li ponti, livar
alcune fratte” per “asicurar ed acreser il benfitio del’escavation fatta”. Il creditore più consistente
risultava Zuane Tiepolo mentre il comune di Cinto era debitore “della maggior summa” per ”operationi da lor non fatte”.Questo debito può essere stato motivo del passaggio di proprietà di alcune
terre comunali a favore dei Tiepolo verso la fine del seicento.
110
Schizzo del Bandoscudelle secondo la mappa del 1590, con in evidenza i fiumi che lo delimitano e le strade all’interno. Alla sua sinistra si notano la chiesa parrocchiale di Cinto, il
mulino di Cinto, alcuni casoni e in alto la masseria con torretta difensiva. Alla sua destra,
in alto, la casa dominicale dei Tiepolo (attuale villa Grandis), la chiesetta di San Pietro in
Bando ed alcuni fabbricati rurali.
111
Schizzo della mappa del 1686 con il Lison al centro, bosco Persiana e via Bonaldi in alto,
via Zamper e via Venezia a destra, il bosco Bandida e Sponghera in basso.
112
Schizzo di un particolare della mappa del 1686: si notano le case Gesuate che si trovavano nei pressi dell’attuale capitello di San Antonio.
Schizzo di un particolare della mappa del 1686: si nota a sinistra via Zamper all’altezza
dell’attuale casa Franzon, con raffigurate alcune case coloniche e il Lison a destra.
113
Schizzo di un particolare della mappa del 1686: si nota a destra l’attuale via Venezia
all’imbocco con via Ponte della piera con le case Tiepolo, al centro il fiume Lison con le
case Gesuate e a sinistra via Zamper.
Schizzo di un particolare della mappa del 1686: si nota via Venezia nella zona di confine
fra Cinto e Pradipozzo. A sinistra appare la casagranda, allora dei Tiepolo, e la pietra di
confine lungo la strada. A destra è segnalato il bosco di San Biasio.
114
di confluire nel fiume Loncon. Per quanto riguarda il territorio di Cinto la
mappa illustra il bosco della Persiana, il Pra Bonaldo9, la strada dei Zamparo10, Via Ponte della piera e il Bosco di San Biasio.
Possiamo quindi avere un quadro abbastanza significativo degli insediamenti: si notano alcuni raggruppamenti di case, in prossimità dell’incrocio fra le attuali Via Ponte della piera e Via Venezia. Tre masserie dette
case sotto i boschi si trovano lungo il corso del Lison nei pressi delle attuali
case Nadalin e Minusso.
Altre case si trovavano vicino all’attuale capitello di San Antonio e
nelle adiacenze di casa Franzon in Via Zamper.
Infine la mappa riporta la presenza di una pietra11 di confine situata
subito dopo l’attuale casagranda (fabbricato rurale allora di proprietà dei
Tiepolo), lungo la strada che porta a Pradipozzo.
Schizzo di un particolare della mappa del 1682: il Palazzo della Persiana eretto nel XVI
secolo dalla famiglia Tiepolo
9
Da localizzarsi nell’attuale Via Bonaldi
L’odierna Via Zamper
11
È presumibile che l’attuale nome di Via Ponte della piera sia derivato da questa pietra di confine
fra i due paesi e dal ponte sul Lison, considerando che Via Zamper fino all’imbocco di Via Ponte
della piera e quest’ultima stessa strada, sono segnalate sulla mappa più larghe rispetto al tratto
successivo di Via Zamper, e ben definita sulla carta risulta anche l’attuale via Venezia nel tratto che
dall’imbocco con Via Ponte della piera porta fino a Pradipozzo. Via Ponte della piera stava probabilmente ad indicare il percorso stradale più agevole che da Cinto portava a Pradipozzo.
10
115
Dalla terza mappa, datata 168212, si può già avere una parziale panoramica del paese: il centro con la chiesa e il mulino, la strada che passando oggi per il cimitero conduce a Settimo, il Palazzo della Persiana con
le sue lunghe barchesse e la bovaria; una casa dominicale recintata e un
capitello all’altezza dell’imbocco della strada che conduce a Settimo. Da
segnalare anche un’ampia Boschetta nei pressi del rigagnolo Melon.
In questa mappa la chiesa non sembra aver subito cambiamenti significativi, la canonica invece si presenta più allungata, con una stalla in
muratura alla sua sinistra.
A fianco della chiesa, nell’area oggi denominata castello è disegnato un alto palazzo padronale con vicino diversi fabbricati minori e un ampio
cortile accuratamente recintato. Si tratta di Palazzo Pedrinelli, residenza
della famiglia veneziana di mercanti e di conduttori di sale, trasferitasi a
Cinto nella seconda metà del Cinquecento13.
Di fronte alla chiesa si nota un’altra casa dominicale di proprietà
dei signori Righinj di Venezia.
Schizzo di un particolare della mappa del 1682: la chiesa e la canonica
12
AS Ve, Beni Inculti TV, 33 A, dis. 6. La mappa disegnata da Francesco Cuman su commissione del
nobile Zuane Tiepolo, fu presentata ai Provveditori dei Beni Inculti per poter ottenere il permesso di
allagare alcuni campi dietro il Palazzo della Persiana in maniera di poter coltivare il riso.
13
Nel corso della prima metà del Seicento a causa di alcune velleitarie operazioni commerciali furono costretti ad un drastico ridimensionamento e i discendenti in seguito si spostarono a Settimo.
116
Schizzo di un particolare della mappa del 1682: Palazzo Pedrinelli
Schizzo di un particolare della mappa del 1682: il mulino di Cinto
117
Il mulino di Cinto, a quel tempo di proprietà dei Marcello14, appare
ristrutturato: la torretta è stata soppressa e ora risulta costituito di due soli
fabbricati.
Queste tre mappe, pur disegnate in un periodo più tardo rispetto
all’esodo degli anabattisti, sono comunque significative per le indicazioni
sugli antichi siti residenziali del paese, anche se manca la parte abitata prevalentamente dai piccoli proprietari (dove era anche situata la loggia comunale15), che si estendeva lungo la strada maestra: dalla chiesa parrocchiale
fino all’attuale chiesa della Madonna della Concezione.
Le mappe mostrano che la villa di Cinto non aveva un centro urbano formato da abitazioni accostate una sull’altra ma era formata da gruppi
di case sparse lungo la strada maestra16 che con un tragitto tortuoso andava
(e va ancora oggi, seppur con qualche piccola variante), dalla cesiola in
capo alla villa17 fino alla zona chiamata Persiana. Il tracciato serpeggiante
della strada era dovuto alla necessità di mettere in comunicazione le diverse
entità abitative18.
Questi insediamenti erano formati da poche case, parte costruite in
pietra cotta e cruda (com’è tuttora visibile in molte case friulane), e parte
di legno e paglia con la struttura tipica del casone19. Talvolta le case erano
edificate intorno ai palazzi dominicali, come nel caso di Palazzo Pedrinelli,
ma per lo più erano da attribuire alla proliferazione del nucleo familiare.
14
Con un atto d’acquisto datato 17 giugno 162714, Francesco Marcello acquistò dai Giustignan il
mulino di Cinto. AS Ve., Prov. Beni Inculti, Investiture, b 389. f.171
15
La Loggia comunale, luogo dove si riuniva in piedi la vicinia, cioè l’assemblea comunale formata
dai capifamiglia, era situata in prossimità della curva dell’attuale asilo parrocchiale, di fronte all’agraria Daneluzzi.
16
Il paese era sorto intorno ad un costone naturalmente rialzato, sul quale era stata tracciata la strada
maestra. Tale strada rappresentava una linea di confine fra il declinante Pra grasso, situato lungo il
Caomaggiore e i boschi e le comugne di terra cretosa, ubicati nella zona di San Biagio.
17
Dedicata successivamente alla Madonna della Concezione.
18
La strade non nascono dal niente, scriveva un poeta cinese, ma una strada viene tracciata quando
un buon numero di persone camminano ripetutamente nella stessa direzione. Il tracciato di una
strada, pur inizialmente imposto dalle autorità che per prime possono aver promosso la colonizzazione di un territorio, (nel caso di Cinto si ritiene che il tracciato iniziale sia opera delle autorità
romane che governavano la città di Concordia) subisce nel corso dei secoli inevitabili modifiche a
secondo delle esigenze degli abitanti. Diversi sono i fattori che concorrono, la iniziale conformazione geologica del territorio può subire nel tempo qualche variazione a causa di eventi atmosferici,
costringendo la comunità a modificarne il percorso. Il tragitto di una strada si modifica anche dal
mutare o dall’espandersi degli insediamenti abitativi, dal delinearsi di nuove proprietà fondiarie con
particolari esigenze produttive, da necessità di comunicazione e scambio di prodotti con le comunità
vicine, ecc.
19
Stima di un casone di Cinto da un atto notarile (As Tv, not I s., b. n° 982):
1592 adi 19 Novembrio in Cintho, Stima deli fondi et casetta de ser Isepo del quondam Zanoneto
Mauro de Cinto posta in Cintho fra li suoi confini (...)
118
2. Le famiglie cintesi
Die (...) martij 1560
In villa Cinti sub logia sua comunis presentibus domini Petro de
Cavaleris brixieus incola Portogrurij et ser Lionardo a Vichius de
Sumagua hibi testes votatis et rogatis. Ibique congregato Consilio
sine Vicinatia comunis et homini ville Cinti (...) intervenit ser Joannes de Simeonilj pottestatis dicti villi, ser Domenicus Morasius et
ser Joanes Maria Girardus Jurati (...) nec non Ruphinus de Simeonilj, Pasqualinus de Simeonilj, Stephanus de Simeonilj, Pasqualinus Gacinus, Phillipput Baretta, Joannes Turci, Nicolaus Mauri,
Nicolaus del Guz, Francescus Mauri Michailis, Antonius Sauli Petri Busi, Phillippus de Phillippis, Gabriel Blasij Minighinj, Julianus Baptiste Gibbi Lauretius, ser Hieronymi Minighinj, Vallerius
Machagninus, Petrus Thome Minigini, Daniel Cassinus, Petrus
Garbeza, Angelut della Fantina, Antonius Sebbastianj Minighinj,
Angelus Luca Petri Busi, Vallerius Girardi, Sanctus del Homo da
Ben, Urbanus Minighinj, Bernardus Blasij Minighinj, facientes et
et rapresentates dictus comunitate pro urgentis neceassitatis (...)
Costituentis (...) Sindicos et Procuratoris (...) ser Petrus Mihaeli,
ser Angelus Thopholi, ser Dominicus de Phillippis et ser Daniele
Busichi dictus del Degan, presentes et acceptantes (...)
L’elenco dei partecipanti a questa riunione della Vicinia (l’assemblea comunale di allora), ci permette di avere un’obiettiva cognizione delle
famiglie presenti a Cinto nel 1560, proprio nel periodo in cui è in atto
l’esodo degli anabattisti cintesi in Moravia. Partendo dai nomi annotati in
questo documento si può avere un quadro generale delle famiglie e della
popolazione presente a Cinto a quel tempo.
La famiglia più numerosa e più economicamente attiva del paese20
risulta essere quella dei Meneghini: innumerevoli sono gli atti notarili in cui
Et prima muro de piera cotta et piera cruda passa 9 a £ 4 soldi 10 il passo - monta £ 40 soldi 10
Gradizzo de vimene smaltado passa 4 quarti 3, soldi 12 il passo - monta £ 2 soldi 17
Un calidario de vimene et un pezzo de gradizzo - £ 8 soldi 14
Colonette de ligno 12 una per la altra stima loro - monta £ 12
Porte 3 de tavole con sue bartuelle cum chiavi, altra porta sulla seradura chiave - tutto £ 37 soldi 10
Coverto de paglia sorgal con suoi legni grosi lignetti et listelli
passa 31 a soldi 32 del passo - che ne monta £ 49 soldi 13
Lo fondi del detto locho sie tavole 98 a soldi 6 la tavola - £ 29 soldi 8
Io Vincenzo Sacoj ho stimato - Fanno Lire 152 soldi 1 ossia ducati 24 lire 3 soldi 2.
20
È storicamente una delle famiglie più antiche di Cinto: nel 1475 ritroviamo Meneghinum qm Moratij quale podestà del comune di Cinto.
21
Oltre a Pietro Meneghini di Tommaso, nella prima metà del Cinquecento, fu podestà di Cinto
Biasio de Meneghini, e nel 1570 Romano Meneghini.
119
i componenti dei diversi rami della famiglia sono presenti. Era una famiglia
molto operosa ed economicamente variegata: al suo interno si potevano
trovare possidenti, piccoli proprietari e lavoranti alla parte. Una famiglia
molto presente anche nella ripartizione delle cariche comunali: nelle sue
file si contano diversi podestà21, jurati talari, homeni de comun, rappresentanti e delegati. In una tarda deposizione22 fu definita una famiglia di boni
cristiani che non si era lasciata contagiare dalla mala opinionem de missa
et ecclesiam. In verità nessun componente risulta essere stato denunciato o
sospettato di anabattismo. Si può solo ipotizzare qualche possibile rapporto
con il nome di Massentio, segnalato come uno dei partecipanti all’esodo (se
n’andò con la moglie et dei fioli insieme a Agnolo de Michiel e Francesco
della Sega). Dalle ricerche finora fatte l’unico Massenzio trovato nei documenti di quell’epoca risulta far parte della famiglia Meneghini23.
In questa Vicinia sono presenti ben otto rappresentanti di questa famiglia:
. Domenicus Morasius figlio di Blasius dicto Morassj, lavorava alla parte un podere di 60 campi appartenente al Monastero di Venezia dei Padri Gesuati in località Roncho24.
. Gabriel Blasij Minighini, piccolo proprietario, anche lui
figlio di Blasius dicto Morassj, risiedeva lungo la strada che
da Summaga portava al mulino della Siega, e non disdegnava di lavorare alla parte le terre dei grandi possidenti25.
. Hieronymi Minighini, altro piccolo proprietario figlio di
Angeli, nel 1555 appare come lavorante alla parte su alcune
terre di Joannes Tiepolo26.
. Petrus Thomas Minighini, figlio di Tommaso, anche lui
piccolo proprietario terriero, assunse verso la metà del secolo la carica di podestà di Cinto.
22
27. Deposizione di Cristoforo Cestaio di Cinto all’Inquisizione di Concordia, 7 maggio 1589 (Ar.
Arcivescovile Udine., S. Ufficio, b. 9, processo n. 168,). riportato da G. Paolin, I contadini anabattisti di Cinto, “Il Noncello”, 50, 1980.
23
Nicodemo e Biasina, quondam Massentio di Meneghini vendono a Bortolo Zanchi una responsione livellaria. 23 Maggio 1580 (A. S. Ve, Giudici di Petizion - Busta 377)
24
Dalla Condizion dei Padri Gesuati presentata ai Dieci Savi sopra Decime:
In detta villa de Cinto in loco chiamato li Ronchi habiamo campi in circa 60, li qual lavora alla
parte Morasso de Menegini, et noi frati li diamo la mità de semenze. In questo anno habiamo havuto
in nostra parte formento sporco stara 23, mistura de sigala stara 6, fava stara 4, fasioi mezo staro,
megio stara due, sorgo stara X, vin orne 48. Vostre signorie faci cavar le semenze et el sporco. Porco
libre 125. AS Ve, Dieci Savi sopra Xme, b 138, c. 11
25
nel 1965 incrementava le sue entrate lavorando cinque campi dei Padri Gesuati. AS Ve, Dieci Savi
sopra Xme, b 138, c. 11.
26
AS Tv, Arch Not I s., b. 762 , f 1555/57 n 49
120
. Antonius Sebbastiani Minighini, dopo aver venduto nell’anno 1553 gran parte delle terre27 avute in successione dal
padre Sebastiano, trovò collocazione quale massaro nei poderi dei Padri Gesuati, lavorando una possessione di quaranta campi in località Ronco28.
. Sanctus del Homo da Ben, piccolo proprietario figlio di
Oliver dicti Huomo daben de Meneginis , anche lui costretto
a vendere parte delle sue proprietà nel luglio 155629. Appare
come testimone durante la vendita dei beni dell’anabattista
Agnolo de Michiel nel novembre 1559.
. Urbanus Minighinj figlio di Joannes Dominici, era considerato un possidente, con diversi terreni e fabbricati a Cinto
e a Portogruaro30.
. Bernardus Blasij Minighin detto Morassj, anche lui figlio
di Biasio Meneghini31.
Un’altra famiglia numerosa e attiva in paese è quella dei Simeoni, si
tratta per lo più di una famiglia di piccoli proprietari e di lavoranti alla parte,
ma che si dedicava anche all’esercizio delle armi: Mattheo Paladin quondam
Daniel de Simeon 32 fu bandito a causa di alcuni fatti di sangue nella prima
metà del Cinquecento e Stefano Stillini si arruolò come soldato diventando
comandante di trenta o quaranta soldati33, nella seconda metà del secolo.
Una famiglia che si dimostrò permeabile alle idee anabattiste con il coinvolgimento di due sue ramificazioni: quello dei Contino, e quello dei Stilino.
Due Contino emigrarono in Moravia (Petrus dicto Continus quondam Domenici Simeonibus e Angelus quondam Dominici de Simeonibus). Il primo,
27
In comunità con il fratello Cipriano vende diverse terre a Domenico Vicentini dicto della Pinna.
AS Tv, Ar Not I s, b 698, prot 1551/53
28
AS Ve, Dieci Savi sopra Xme, b 138, c. 11
29
Il compratore era il patrizio veneziano Gio Batta Giustinian. Bernardis de Girolamo Pg. AS Tv,
Arc Not I s, b. 547
30
Agostino Carlo Aurelio, AS Tv, Ar Not I s, b 698
31
Blasio quondam Floriti de Meneginis fu una figura importante e apprezzata a Cinto nella prima
metà del Cinquecento, ricoprì diversi incarichi comunali e acquistò diverse terreni nei pressi dei
boschi Ziliorotta e di S. Biagio (terreni appartenenti alla famiglia Vendramini, proprietaria nel Quattrocento del Mulino della Siega). Ben tre dei suoi quattro figli (Domenicus, Bernardus, Gabrielis)
sono presenti in questa riunione della Vicinia.
32
Mathio Paladin di Cinto fu protagonista di un fatto di sangue successo a Salvarolo, con conseguente condanna al bando, ma riuscì ad ottenerne la revoca uccidendo il suo complice, Bortolomio
di messer Bernardin Barbiero de Cinto. In pratica approfittò dei benefici che venivano accordati a
chi sopprimeva un bandito. La sua figura è stata ricostruita nel libro da me curato, “Cronache di Vita
Agreste”, (p. 43, La maschera del bandito Paladin), Ed. Comune di Cinto Caomaggiore 2003.
33
G. Paolin, I contadini anabattisti di Cinto, “Il Noncello”, 50, 1980
121
Pietro Contino, fu citato in una deposizione di Biasio Michiel34, come predicatore itinerante che andava disseminando molte openioni, nei dintorni di
Latisana. In realtà, alcuni atti notarili, confermano la sua presenza in diversi
paesi, quale mediatore e stimatore di terreni35. Altri due Contino, Simone36 e
Zuane, furono sospettati di anabattismo37 e complicità rispetto all’esodo.
Cinque componenti della famiglia Simeoni fanno parte della Vicinia:
. Joannes de Simeonilj podestà di Cinto nell’anno 1560, piccolo proprietario con terreni in località le Code e Pra Bonald, figlio di Danielis Contino de Simeoni. Probabilmente
si tratta di Zuane Contin sospettato di aver favorito l’esodo
in Moravia degli anabattisti.
. Ruphinus de Simeonilj fu fra gli anni 1560/1580 un assiduo partecipante alle vicinie comunali di Cinto.
. Pasqualinus de Simeonilj figlio di Danielis dicto Stilini de
Simionibus, possedeva alcune terre in località Prà grasso,
in prossimità di quelle dei Michiel e altre in loco vocato
Planchiat vicino al Palù di Settimo. Quale homeno de comun lo troviamo più volte presente davanti al podestà di
Portogruaro ed al Luogotenente di Udine. Non partecipò
all’esodo ma fu sospettato di idee anabattiste.
. Stephanus de Simeonilj, fratello di Pasqualino con proprietà in località Pra faian e Persiana. In casa sua furono
completati da parte di Agnolo de Michiel alcuni atti notarili38 prima della partenza per la Moravia. Anche Stefano
è un assiduo frequentatore delle Vicinie, e si trova spesso
a rappresentare in diversi ambiti il Comune di Cinto. Nel
34
Deposizione di Biagio de Michiel al Tribunale dell’Inquisizione. Latisana, 26 marzo 1563. (ASV,
S. Ufficio, Processi, b. 18, fasc. Michieli Biagio e altri).
35
Risulta essere presente a Stalis, Ramuscello, Portogruaro, ecc. AS Tv, Arch Not Is, b. 762.
36
Simon quonda m Nadal de Simon, lo troviamo nel 1585 scrivere un verbale della Vicinia di Cinto:
Laus deo 1585, adi 22 luio, in Cinto Iurisdizione della Miduna in locho che se fa la visinanza ala
presentia di tuta la ditta visinanza fatta per in pie come si costuma in ditta villa. Il se dechiara per
la presente qual mete hozj come di sepra ha comparesto il illustrisimo sig Zuane Tiepolo in la ditta
faula hovero visinanza come di sopra in materia de uno ingano de una pertiga di paludo di Anj doj,
(...) visto lo eror et hano consideratto tutte le cosse che se aveva da considerar et ano fatto sentenzia
e cosj ano sentenziato di darlj ala sua magnifica elustrisima in tutto Pertige . quatordissj cioè n° 14
(...) et quanto al fen deli Anj doj che sua signoria pretendiva aver non possa dimandar cossa al chuna per tal in gano hovero eror (...) et in fede dela verità io Simon Contin da Cinto ho fatto il presente
scritto di mia mano propria per non esser nodarj che sia vicino et cosj ho scritto alla presencia di
tutta la visinansa e de volontà dele parte (...)AS Ve, Pr. Beni Comunali, b 307
37
G. Paolin, I contadini anabattisti di Cinto, “Il Noncello”, 50, 1980, p. 110
38
Agnolo de Michiel nominò Michilino quondam Angeli del Brun, mugnaio di Portovecchio, procuratore generale in relazione a possibili controversie che potevano sorgere in seguito alla vendita. AS
Tv, Ar Not I. s., b. 628.
122
1564 fu però costretto a subire il pignoramento di alcuni
beni39, terreni e fabbricati, che il comune mise in vendita
per alcuni suoi debiti. Si tratta probabilmente del vecchio
soldato a riposo40 che nel 1580 fu sospettato di anabattismo
e interrogato dall’inquisitore del Patriarca d’Acquileia.
. Phillipput Baritta ossia Philippo alias Baritta quondam
ser Daniel de Simon41, era un piccolo proprietario terriero.
Francesco Mauri Michailis e Petrus Mihaeli rappresentano nella Vicinia la stirpe Michiel, una nutrita famiglia di piccoli proprietari terrieri che
diede i natali a due fra i più importanti animatori della comunità anabattista
di Cinto: Agnolo quondam Philippo e Biasio quondam Luca. Del primo, a
causa della fuga in Moravia senza più ritornare, non abbiamo molte notizie
pur essendo stato un personaggio cardine della comunità anabattista (l’inquisitore padre Pinzino in una lettera lo rappresenta quale principale sedutore42 di coscienze). La figura del cugino Biasio risulta più definita in quanto
ritornato dalla Moravia, fu processato e condannato all’abiura dal Tribunale
dell’Inquisizione di Venezia, di lui ci restano alcune deposizioni.
Petrus quondam Joannis Michaelis è molto attivo e appare sovente
negli atti notarili, cugino degli anabattisti Agnolo e Biasio, e di Francesco
(figlio di Thomas nuncupatus Mauro), nell’anno 1558 ricoprì la carica di
podestà di Cinto43. Pietro non aveva molta simpatia per la dottrina anabattista, preferiva dedicarsi agli affari e si occupò di varie attività commerciali
(compravendita di terreni agricoli e di granaglie, curazione dei boschi demaniali44, ecc.). I suoi commerci erano sovente effettuati in collaborazione
con il possidente Pietro de Cavalieri di Portogruaro. Pietro, persona senza
scrupoli, cercò di trarre profitto dell’azione inquisitoria contro i suoi due
cugini per non pagare alcuni debiti ed impossessarsi dei loro beni.
I diversi rami della famiglia usavano dei soprannomi per distinguersi, che derivavano dai loro capostipiti: c’erano i Michiel detti Mauro
39
AS Tv, Ar Not Is., b 906
G. Paolin, I contadini anabattisti di Cinto, “Il Noncello”, 50, 1980, p. 146. “Un vecchio sodato a
riposo, che si diceva fosse già stato inquisito in materia di fede (...) il vicino di Stefano ricordò che
un anno prima erano venuti due tedeschi (...) a suo giudizio si trattava di luterani ed erano ripartiti
con un nipote dello Stillino, Lunardo, che non era più tornato”. Il denunciante, affermò che a Cinto
si diceva di Stefano Stillino che è bravo , per esser de quelli de Cinto che tengono tutti insieme.
41
La sua discendenza si farà notare per una serie di rapporti intercorsi con la famiglia di mercanti
veneziani Pedrinelli nel corso degli ultimi vent’anni del secolo XVI. A. S. Ve, Giudici di Petizion
- Busta 377
42
Lettera dell’inquisitore padre Francesco Pinzino su Agnolo de Michiel, Concordia 23 Agosto
1563. (ASV, S. Ufficio, Processi, b. 19, fasc. Francesco della Sega e altri).
43
AS Ve Luog. Patria Friuli b. CLXXII n. 171, p 1155v
44
«...Pietro de Michieli habita a Cinto qual’è affittual delli Boschi dell’Offitio nostro del Bando, et
S. Zilio, et Banduzzo...». AS Ve, Amm. Forestale Ven., b. 8, fasc. Meduna.
40
123
e quelli chiamati Zanotti. Il soprannome di quest’ultimi derivava da Zuane
padre di Piero: fu l’unico ramo dei Michiel che rimase presente a Cinto nel
corso del Seicento, acquisendo più tardi il cognome Zanotto45.
Pasqualinus Gacinus e Daniel Gassinus rappresentavano la famiglia
Gazin, la quale abitava nella zona di San Biagio lungo il Lison (località Pra
Roncho) e possedevano piccoli appezzamenti di terreno. Pasqualino, figlio
di Luca Gacino quondam Francesco lavorava alla parte una possessione di
60 campi di proprietà dei Padri Gesuati46. Fu una delle persone più attive a
sostenere la scorporazione della località di Roncho dal Comune di Cinto che
fu realizzata nel 1580 con la costituzione del Comune di Roncho47, del quale
fu eletto primo podestà. Un altro Gazin, di nome Agnolo, lavorava alla parte
come colono le terre possedute dai Tiepolo48. Un terzo Gazino, Sebastiano,
risulta occupare la carica di podestà del comune di Cinto nell’anno 158849.
Joannes Turci e Antonius Baptista Gibbi rappresentavano nella Vicinia la famiglia Gobbo. Un ramo dei Gobbo detti Turco, nel 1555, avendo
venduto buona parte delle proprietà50 a Petri quondam Antonij de Cavalerijs51 si era trasformato da proprietari in coloni. Joannes figlio di Baptisti
Gibbi de Turcho è in quel periodo molto attivo come rappresentante del comune di Cinto davanti alle magistrature veneziane52. Dall’altro ramo della
famiglia Gobbo, costituito solo di lavoranti alla parte e boscaioli, proveniva Iseppo del quondam Pietro Gobito che partecipò all’esodo in Moravia.
Vallerius Machagninus53 rappresenta la famiglia dei Maccagnini,
una delle più antiche di Cinto. La famiglia si trova citata nei documenti notarili di quel periodo anche attraverso altri nomi: Joannis Maria quondam
Franceschij, Hieronimo quondam Angeli, Blasij et Ludovicum quondamm
Danielis. Famiglia un tempo facoltosa e numerosa, aveva dovuto vendere
quasi tutte le sue proprietà. All’epoca possedeva solo piccoli appezzamenti
45
AS Tv, Ar Not Is., b 906 fasc. summa istr. 1556/1591
Dalla Condizione de li beni del Monastero di Venezia dei Padri Gesuati: in loco detto Cinto habiamo campi in circa 60. Li qual lavora a parte Pasqualino di Gazini et noi frati li diamo la mità de
la semenza, in questo anno in nostra parte cia tucato formento stara 24 sporco, mestura de segala
stara 8, fava stara 4, vena stara 3, fasioi quarte tre, megio stara 3, sorgo stara 14, vin orne 32 et
uno porco de libre 125. Vostre signorie cavi el sporco de la semenza. AS Ve, Dieci Savi sopra Xme,
b 138, c. 11.
47
As Tv , Arc Not Is, b 906, Sum Istr. 1556/1591
48
A.S.Ve, Savi alle decime, reg. 369, Cannaregio, condizione n. 929
49
AS Ve, Prov Beni Inculti, b. 507
50
AS Tv, Arch Not Is, b. 762 , f 1555/57 n 36
51
Possidente di origine bresciana, abitante a Campeio di Portogruaro.
52
Nel 1558 ebbe l’incarico di «Camerario» della Chiesa parrocchiale di Cinto. AS Ve, Luog. Patria
Friuli b. CLXXII n. 171, p 339v e p 368.
53
Nel 1567 ricopriva la carica di podestà di Cinto, come risulta dalla Vicinia riunita il 30 Gennaio di
quell’anno. AS Tv, Ar Not Is, b 975, n. Federicis, f. 1567/70.
46
124
Profili immaginari degli anabattisti di Cinto
125
Fiorentina madre di Agnolo
e buona parte delle loro rendite le otteneva lavorando alla parte le terre dei
grandi possidenti. Anche questa famiglia non fu insensibile alla predicazione anabattista: un suo componente fu sospettato di eresia54.
Phillipput de Phillippis e Dominicus de Philllippis rappresentavano
nella Vicinia la famiglia dei Fillippi. Phillipput figlio di Angelin de Philipis
ebbe l’incarico di podestà della villa di Cinto nell’anno 154455. Dominicus
cognominato il Vecchio56 era figlio del quondam Roman de Philippis, e possedeva dei terreni in località Pra faian. I Filippi erano considerati boni cristiani,
se dobbiamo attenerci alla tardiva deposizione di Cristoforo Cestaio57.
Altra famiglia storica di Cinto erano i Baldassini, detti anche Toffoli: Angelus Thopholi, il cui nome appare nella Vicinia, era un piccolo
proprietario che lavorava la sua terra gravata di un livello de stara 5 de
formento da pagarsi ai Padri Gesuati58. Un’altro dei suoi componenti Valerius quondam Perin Baldassij, ammise davanti all’inquisitore di aver avuto
frequentazioni anabattiste e che avrebbe voluto con Biasio di Michiel andare in terra thodesca a seguir uno gentilhuomo mercante59, ma rinunciò a
partire per non lasciare soli i familiari.
Colaus Mauri, figlio del quondam Jacobi Joannis del Maur; rimase
orfano in giovane età. Insieme alla madre Jacoba e al fratello minore Marci
Antonj, dovette vendere in località Bar del Zot le proprietà confinanti con i
poderi dei Padri Gesuati60. Si tratta probabilmente dello stesso Culao detto
Mauro, di professione muratore, che nel 1589 fu processato per aver fatto
morire la moglie senza sacramenti61.
54
G. Paolin, I contadini anabattisti di Cinto, “Il Noncello”, 50, 1980, p. 110
AS Tv, Arc Not I s, b. 387, f. 1543/44, p 111.
56
Gianmaria del quondam Domenico Cognominato Vecchio di quelli di Felippi (A. S. Ve, Giudici
di Petizion - Busta 377).
57
Deposizione di Cristoforo Cestaio di Cinto al Tribunale dell’Inquisizione di Concordia, 7 maggio
1589. (Ar.Arcivescovile Udine., S. Ufficio, b. 9, processo n. 168).
58
Dalla Condizione de li beni del Monastero di Venezia dei Padri Gesuati: In dita villa de Cinto habiamo uno livello de formento stara 5 qual paga li heredi de Agnolo chiamato Tofalo. AS Ve, Dieci
Savi sopra Xme, b 138, c. 11.
59
AS Ve, Savi all’Eresia, b 18, f.7
60
Atto 6 novembre 1554, AS Tv, Arc Not I s., b 611
61
“Il Mauro aveva lavorato nella casa dei Capello a Pramaggiore (...) un testimone disse che egli raccontava come da Cinto si partirono molti et andarono in Ginevra, de quali ne ritornarono uno (...)
quale racontava il vivere di quella parte et in particolare del summo pontefice diceva: se i pontefici
fossero veri pontefici caminarebbero per il mondo come faceva S. Pietro, et non starebbero là in una
camera con tanta grandezza. (...) Poi la discussione era stata interrotta dal fattore di casa Capello
che disse non bisogna ragionar a questi de Cinto, perchè vi confondarono se ben sette preti et frati.”
(G. Paolin, I contadini anabattisti di Cinto, “Il Noncello”, 50, 1980, p. 107)
55
126
I Girardi, rappresentanti nella Vicinia da Zuan Maria Girardis e
Vincentij Girardis, erano originari de Opitergio62 e abitavano le case dei
Tiepolo in zona Persiana, lavorando ed amministrando le terre della famiglia veneziana.
I Buso63, anch’essi benestanti, lavoravano come agenti agrari o fattori. Antonius Sauli Petri Busi, Angelus Luca Petri Busi e Daniel Busichio
rappresentavano questa famiglia64 nella Vicinia. Daniel Busichio, persona
economicamente molto attiva, insieme con Piero de Michiel testimoniò
contro gli anabattisti cintesi.
I Guzzo, nella vicinia rappresentati da Nicolaus del Guz, erano originari di Tarvisio e di professione mugnai. Le famiglie di Petrus quondam
Antonij Garbeza e Angelut quondam Franceschj de la Fantina possedevano
alcune piccole proprietà.
Altre famiglie pur non partecipando alla Vicinia risultano residenti
a Cinto da altri documenti: i Boldarino, i Cerniel65, i Furlan66, i Olivieri67, i
Piccoli68, i Trivisan69, i Franzon detti anche della Campagna70.
A Settimo, comunità indipendente e di diversa giurisdizione rispetto a Cinto71, le famiglie erano: i Tofolo detti anche Zovatto72, i Bortolusso
dell’Amico73, i Rubei de Corradini74, i della Forbola o Forbolato75, i della
Macha o Machor76, i Veneziani77, i Penin78, i Visentin della Pinna79, i Favorlino80, i Tidulo81, i Thodesco82.
62
L’attuale Oderzo. AS Tv, Ar Not. I. s., b. 534.
Portogruaro, 28 settembre del 1562. AS Ve, Savi all’Eresia, b 18, f.7.
64
Suo padre era stato Alterius o Degan di Cinto.
65
, Joannis qm ser Domenici detto Cernel appare nel 1554, era una famiglia originaria dalla Carnia
come il nome denota. AS Tv, Ar Not b. 611, fasc 1553
66
Jacomo quondam Tofolo de Furlan de Cinto appare nel 1539 (AS Tv, Arc Not I s., b. 546) e Francesco quondam Daniel Furlan nel 1561 (AS Tv, Ar Not b. 743)
67
Oliverius qm Francesco Oliverij, anno 1565 (AS Tv, Arc Not Is, b 975)
68
Nel 1546 in loco vocato Lo bosco de San Biasio, troviamo ser Salvatorius cognominati Piciolo,
(AS Tv, Arc Not I s b. 387) nella Condizione di Zuane Tiepolo ai Dieci Savi,troviamo in villa de
Cinto campi cinquantatre tenuti alla parte da Nicolò e fratelli di Pizzoli.(A.S.Ve, Savi alle decime,
b. 171, n. 980)
69
Nel 1530 il nobile veneto Jacomo Justignan, da alla mità per anni 5; Marco Trivisan qm Antonio
de Pasean, una possession in Cinto detta Bar del Zot (AS Tv, Arc Not I s., b. 603); nel 1551 Pietro
Contino da Cinto stima de milioramenta sub una pezza di terra in villa Cinti lavorati da Pasqualinus
qm Andre Trevisani (AS Tv, Arch Not Is, b. 762).
70
1555 troviamo a Settimo Francescus dicto Franzon de Campanea che compare quale cugino del
Reverendo Padre Daniel quondam ser Evangelista de Campagna. (AS Tv, Arch Not Is, b. 762). Lo
stesso Francescus nel 1565 viene segnalato a Cinto come colono dei Tiepolo. (A.S.Ve, Savi alle
decime, reg. 369, Cannaregio, condizione n. 929)
71
Settimo era sottoposto al Capitanato di San Vito con giurisdizione del Patriarca del Friuli, Cinto
63
127
3. La proprietà fondiaria a Cinto nel corso del Cinquecento
Nel Quattrocento, la vita a Cinto nonostante gli inevitabili cambiamenti amministrativi dovuti al passaggio della Patria del Friuli83 sotto il
dominio della Serenissima, non era molto diversa rispetto al secolo precedente. I grandi poderi in mano a nobili famiglie friulane o a congregazioni
religiose84, non erano molto numerosi: la terra era allora per lo più divisa
fra diverse famiglie residenti in loco. Ci si trovava di fronte ad un mosaico
invece era assoggettato alla giurisdizione dei Conti di Meduna. Le due ville erano allora accomunate
solo in campo religioso, facevano parte della stessa parrocchia.
72
Famiglia che nella seconda metà del secolo XV aveva messo a disposizione dei terreni per garantire una rendita al Cappellano della Chiesa S. Giovanni Battista di Settimo, ottenendo in compenso
il Juspadronato, cioè la potestà di elleggere il Cappellano di Settimo.
73
Nel 1536 troviamo Matthio Michiel Bortolusso dell’Amigo e Novello Bortolusso dell’Amigo con
piccole proprietà di terreno a Settimo (AS Tv, Arc Not I s., b. 546)
74
Nel 1552 troviamo Jacobinus et Andreas fratelli e figli qm Baptiste Rubei con terreni in localita Le
fratte e La rotta (AS Tv, Ar Not I s, b 698), nel 1565 troviamo Battista quondam Andrea Rosso de
Corradini con proprieta il località Roncat (AS Tv, Ar. Not. I° s., b. 534), nel 1570 troviamo Pietro
Rosso de Coradini con proprietà in zona Roschialedo (AS Tv, Ar Not Is., b 906), probabilmente è lo
stesso Pietro Rosso che nel 1583 ritroviamo con alcune proprietà a Cinto (As Tv, not I s., b. n° 983)
e che nel 1589 viene denunciato quale impenitente e bestemmiatore: “ bestemmiava continuamente,
urlava per ogni cosa, mangiava apertamente carne senza rispettare i tempi debiti, protestando che
importava solo ciò che esce dall’uomo e non ciò che entra. (...) al figliastro , che gli aveva comunicato la scomunica che il pievano aveva annunciato a messa contro di lui, rispose: incago a chi a
fatto la scomunica e l’ha mandata. Erano soli sotto la loggia del paese, ma il suo tono di voce era
così elevato che anche gli altri non visti udirono, riferendone scandalizzati.” (G. Paolin, I contadini
anabattisti di Cinto, “Il Noncello”, 50, 1980).
75
Nel 1554 troviamo Joannes Forbolari qm Stephani con terreni in località Roncato (AS Tv, Ar Not
b. 611, f 1554), nel 1565 Polidori Forbolato da Settimo, lo troviamo come gestore di una fornace di
pietre e acconciatore del tetto del Mulino della Siega (AS Tv, Arc Not Is, b 975).
76
Nel 1542 ritroviamo Domenego quondam Ermacora de la Macha con terreni in località Casal (AS
Tv, Arc Not I s., b. 603), nel 1553 troviamo Petrus quondam Jacomi numcupatus Secco dela Macha
e tanti altri con diverse proprietà nel comune di Settimo.
77
Nel 1554 troviamo Tiberio Venetiani quondam Gabrieli (AS Tv, Ar Not b. 611, f 1554), Nel 1565
troviamo Peresino de Venetiani con terreni in località Roncho di Settimo (AS Tv, Ar. Not. I° s., b. 534)
78
Nel 1566 troviamo Domenego quondam Matthio d’Antonio d’Aviano detto Penin, abitante a Settimo (AS Tv, Ar Not Is., b 906).
79
Nel 1552 troviamo Jacomo quondam Simon d’Antonio Visentin (AS Tv, Arc Not I s, b. 547), nel
1580 troviamo Vincenzo quondam Antonio pizul Visentin che per ottenere un prestito dai Pedrinelli
impegna la sua casa attraverso una responsione livellaria (AS Tv, Ar Not Is., b 906)..
80
Nel 1579 troviamo Anastasio Favorlino da Settimo che vende un casone alla famiglia Pedrinelli
(As Tv, not I s. b. n°983).
81
Nel 1570 troviamo Zuanne quondam Batta Tidulo de Settimo e Pietro quondam Vincenzo Tidulo,
con terreni in località Ca del Boscho (AS Tv, Ar Not Is., b 906).
82
Nel 1565 troviamo Hieronimo Todescho quondam Lorenzo con terreni in località Peza longa (AS
Tv, Ar. Not. I° s., b. 534)
83
Nel 1420, tutto il Friuli, cui faceva parte allora la Villa di Cinto e governato fino a quell’epoca dal
Patriarca di Aquileia, fu conquistato dalle armate veneziane.
128
di piccole proprietà incuneate fra loro ed appartenenti alle famiglie rappresentate nella Vicinia.
La grande proprietà fondiaria si espanderà solo nel corso del Cinquecento, inizialmente con acquisti di terreni da parte di famiglie patrizie
veneziane (i Giustinian85 e i Tiepolo) e di Monasteri (Monastero de Frati
Jesuati e Monastero di Santa Lucia, entrambi di Venezia) e successivamente attraverso innumerevoli piccoli acquisti operati da artigiani e mercanti (i
Pedrinelli detti Casaroli, i barbieri Zanchi, i Mannoni mercanti de cordoni,
Petro de Cavaleris detto delli zuchari, Tasseto e Visentin della Pina negozianti di Portogruaro).
Durante il Cinquecento le condizioni di vita dei piccoli proprietari
della villa di Cinto cambiano sensibilmente, a causa della drastica riduzione dei beni comunali. Dapprima la comunità dovette subire la perdita della
palude detta Bando dello Scudelle, requisita dalle magistrature veneziane e
venduta all’incanto ai Tiepolo nel 1498. Altri tre boschi di Cinto, appartenenti al patrimonio demaniale del Patriarca del Friuli86, furono sequestrati
e riservati alle necessità dell’Arsenale: il bosco Bandiziol87, il bosco San
Zilio88 e il bosco Doyeta89. Questi boschi erano utilizzati ormai da tempo
per il pascolo e la raccolta di legna e fieno. Altre terre comunali furono
sequestrate negli anni successivi dalle magistrature veneziane 90: si tratta di
53 campi di comugne in loco della Persiana e 227 campi sempre di comugne nella attuale zona di via Venezia, venduti all’incanto dall’ufficio delle
Rason vechie e acquistati dai Tiepolo nel 1529.
84
A Cinto nel corso del Quattrocento troviamo presenti fra i possidenti la famiglia nobile degli Altan,
residente nel castello di Salvarolo e l’Abbazia di Summaga.
85
La famiglia nobile veneziana dei Giustinian acquistò il mulino di Cinto nel 1492 (AS Ve, Prov.
Beni Inculti , b. 389) e negli anni successivi acquistò alcuni terreni in località Bar de Zot e Boscho
de San Biasio (AS Tv, Arc Not I s., b. 603).
86
I tre boschi e il Bando Scudelle pur essendo ben de patriarchi d’Aquilea erano malridotti e erano
utilizzati da longo tempore dalla comunità di Cinto come prata et pascula. (Consiglio dei DieciMiscellanea codici – b.115).
87
Nemus seu bandus nominatus el Bandiziol sub Cinto, camporum 12 ìn circa et est inter cyntum et
Sumagam : et confinat a solis ortu cum terris Danielis Forlani : a meridie cum terris Minigini Morassii : a monte cum cumugnis Cinti. (AS Ve, Cons. Xci, Miscellanea codici, reg. 115). Nei cattastici
successivi della Serenissima Signoria il bosco viene chiamato Banduzzo.
88
Nemus seu bandus ser Zilii camporum 25 in circa : et est inter Cintum et Sumagam, et confinat a
solis ortu cum terris Antonii Minigini a meridie cum Fossalta : et a solis occasu cù comugna Cinti.
(AS Ve, Cons. Xci, Miscellanea codici, reg. 115). Nei cattastici successivi il bosco viene chiamato
Ziliorotta.
89
Nemus seu bandus dela Doyeta camporum ultra 100, et est inter villas Prati putei et Prati maioris,
et confinat a solis ortu cum comugna Cinti, a meridie cum terrenis. Blasii,a solis occasu partim iuxta
comugnam Cynti et partim iuxta terras domini Citadini dela Fratina. .(AS Ve, Cons. Xci, Miscellanea codici, reg. 115). Nei cattastici successivi il bosco viene chiamato Sponghera.
90
Il nobile homo ser Antonio Justinian (...) Proveditor sopra Beni Comunali (...) fece confiscare de
molti beni communali nelli sopradetti luoghi. AS Ve, Luog. Friuli b. 284, vol. 30 p. 72
129
Furono circa 700 i campi che i contadini cintesi non poterono più
utilizzare per il pascolo e per la produzione di foraggio.
La perdita di tutti questi di beni comunali fu un duro colpo per
l’economia dei piccoli proprietari che li usavano per mantenere separato
l’allevamento del bestiame dalla produzione agraria nei propri poderi.
Oltre le periodiche carestie e le frequenti pestilenze, a peggiorare le
condizioni di vita dei contadini, si aggiunse anche l’aumento delle imposte
fondiarie attuato per controbilanciare l’incremento delle esenzioni accordate
ai beni ecclesiastici e alle possessioni di diritto feudale. Nella villa di Cinto, a
quel tempo, i Tiepolo godevano il privilegio dell’esenzione delle tasse su tutti i terreni acquistati all’incanto dalle magistrature venete (circa 500 campi).
I piccoli proprietari, di fronte alle crescenti difficoltà erano costretti
a chiedere prestiti. Li ottenevano solo impegnando parte della proprietà,
gravandola di una responsione annuale livellaria91, con diritto di affrancazione entro un periodo concordato, cosa che però raramente si realizzava.
Nel corso della seconda parte del secolo, il continuo ricorso al prestito con
contratti di questo tipo, produsse una lenta e lunga emorragia di terreni
che nel giro di qualche manciata di anni passarono in mano a mercanti e
ad artigiani con ingenti disponibilità finanziarie. Diversi piccoli proprietari
furono costretti a trasformarsi da possidenti a coloni, a lavoranti alla parte,
delle stesse terre un tempo di loro proprietà.
Inizialmente, il più attivo e abile nell’approfittare di questa situazione fu Pietro de Cavalleris dicto delli Zuchari, originario di Brescia, che
con questo sistema acquisì diverse proprietà terriere. Spesso presente in
paese, frequentava la casa dei Michiel e compariva come testimone nelle le
Vicinie. Fu anche delegato dal comune come procuratore in alcune cause
davanti al Luogotenente del Friuli92. Socio in affari con Piero de Michiel,
non ebbe nessun scrupolo a testimoniare contro gli anabattisti. Nello stesso
periodo molto attivi nella compravendita di terreni furono i veneziani Bortolomeo Zanchi e Jacomo Pedrinelli: il primo di professione barbiere e il
secondo casarol de Rialto.
Le stesse famiglie nobili che un tempo acquistavano solo ingenti
proprietà, speculando sulle requisizioni governative, aumentarono i propri
possedimenti acquisendo piccole quantità di terreno dai villici residenti. In
questa attività si distinse in modo particolare Zuane Tiepolo quondam Ge91
Il termine livello (dal latino libellus), fu molto diffuso durante il medioevo e rimase in uso fino
alla Rivoluzione Francese. Per lo più stabiliva un canone annuo in contanti o in generi che doveva
pagare il concessionario nei confronti del concedente. Nel caso del livello francabile, il concessionario aveva la possibilità di liberarsi dal canone annuale pagando l’intera somma secondo modalità
concordate.
92
AS Ve Luog. Patria Friuli b. 169
130
rolamo, persona risoluta e tracotante, intenzionato ad approfittare di ogni
espediente per incrementare le proprie rendite.
All’inizio del Seicento, dalla Comunità di Cinto fu inviata una denuncia ai Provveditori ai Beni Comunali contro il clarissimo Zuanne Thiepolo, che indebitamente et di sua autorità fa pascolar, et usufruttuar li
animali di una sua possission nelli pascoli et comugne (...) et li animali,
sono al numero di novanta, et più. Non pagando lui in Comun cosa alcuna,
ne meno li suoi massari93
La risposta del possidente davanti ai Provedditori veneziani fu particolarmente aggressiva: Poichè vedo io Zuanne Tiepolo, fio del Etcelentissimo Gierolamo, che li huomeni dil Comun de Cinto, in loco di ringraziarmi, di tanti benefici da me ricevuti, nel colmo de loro travagli, così ingratamente procurino di travagliarmi, midiante sue false assercioni, (...) ch’io
pascoli li benj comunali di mia autorità propria, et senza libertà publica;
non negho, che tutte le mie possessioni, che ho sotto ditta villa, tutti non
vadino a pascolo, sopra li benj comunallj, come per autorità dattami, alli
miei antecessori, come per instrumento d’acquisti appar; uno in particolar
dell’anno 1529, 15 Xbrio, qual con la presente produco, che mi da autorità
di pascolar, et usufrutuar (...) in tutti li communi, come fanno li Cittadini,
et Contadini, (...) con ingressi boj, et gresi (...) per la qual autorità io debba
goder non solamente il pascolar, ma anco la porcione a me spettante de
paludi et pradi,et boschi, posti sotto detto Comun, .per il qual godimento
supplico Vostre Signorie illustrissime far che esso Comun, mi debba mantener li miei primei acquisti, ancò non abbia causa, di andar inanti ad altro
Magistrato, con maggior spesa di detto Comun, al qual Comun, et Huomeni, li protesto di ogni mio danno, interesse e spese94.
Il Tiepolo, dopo aver acquisito ingenti beni comunali, pretese di
usufruire anche dei beni rimasti in possesso alla comunità, in conformità
con l’istrumento d’acquisto. Da rilevare che i suoi predecessori non avevano
approfittato integralmente di tali privilegi, probabilmente per evitare tumulti
da parte dei residenti, i quali dopo essersi trovati decurtati di beni comunali malvolentieri si sarebbero adattati a dividere il rimanente con chi glieli
aveva sottratti. Dopo essere passati più di settanta anni,il nobile possidente
non aveva intenzione né di derogare dai suoi privilegi, né di farsi scrupolo
nell’esibire minacciosamente il peso del suo denaro e della sua condizione.
93
94
AS Ve Prov. Beni Comunali b. 449
AS Ve, Pr. Beni Comunali, b 307.
131
4. Il mulino della Siega
Nel secolo precedente la comunità di Cinto si era dimostrata particolarmente unita e combattiva nel difendere i propri diritti consuetudinari, come è evidenziato dalla contesa con la vicina abbazia di Sesto per
la palude del Bando Scudelle: ci furono scontri, pignoramenti reciproci,
diverse istanze giudiziarie95. In questi casi la Vicinia diveniva un centro di
resistenza collettiva e la loggia, il luogo principale di organizzazione per
azioni di difesa e ritorsione, cui nessuno degli abitanti poteva sottrarsi pena
l’emarginazione o il rischio di subire veri e propri sabotaggi.
Nella vertenza per la palude, il villaggio aveva potuto contare sull’appoggio dei Conti della Meduna, loro giurisdicenti. Durante il regime feudale
le condizioni di vita nella campagne erano molte dure e pericolose, in tale precaria situazione si formava un particolare legame fra sudditi e castellani: gli
uni si sentivano legati agli altri, ne condividevano in qualche modo le sorti, in
quanto anche i sudditi partecipavano alle spedizioni militari, potendo contare
sui saccheggi, ma, nello stesso tempo, subendo anche dure rappresaglie.
In sostanza la popolazione doveva avere familiarità con l’uso delle
armi e fornire, in caso di necessità, un certo numero di militi. Nella aspra
contesa per la palude detta Bando Scudelle con la ricca abbazia di Sesto,
Cinto dimostrò di avere forze sufficienti per distinguersi anche in questo
campo. Significativa, a questo proposito, fu anche la partecipazione della
cernide96 cintese all’occupazione della città di Pordenone nel 146897, segnata da alcuni episodi di saccheggio. Non a caso, cinque anni più tardi, fu
uno degli otto paesi della Patria del Friuli in cui il Senato veneziano fece
affiggere un duro proclama contro le violenze e le insubordinazioni nei
confronti dei funzionari della Serenissima Repubblica98.
95
La documentazione si avvale di 59 testimonianze raccolte dal notaio udinese Giovanni da Lovaria nell’anno 1437 per conto del Luogotenente della Patria del Friuli, il quale era stato chiamato a
pronunciarsi in merito alla contesa. Attraverso queste testimonianze si possono avere diverse notizie
sulla realtà economica e sulla vita sociale di questo territorio nel periodo tardomedioevale. Michele
Zacchigna: La palude di Cinto, una lite giudiziaria del tardo medioevo friulano. Metodi e Ricerche,
n. 2, 1982. Marcello De Vecchi: Il Bando Scudelle, Cronache di vita Agreste, Spoleto 2003.
96
Truppe contadine .
97
(...) nella sera del 22 agosto di detto anno 1468, sopra scale appoggiate alle mura dietro alla
chiesa di S. Marco verso la cappella di San Nicolò, entrarono in Pordenone, e fatto piazza d’armi
nel cortile della casa Ricchieri, al tocco della campana di S. Francesco e allo squillar della tromba,
uscirono all’improvviso e allo stesso istante aperta da Bortolomeo Valle la porta di sotto e calato il
ponte elevatoio dove stava altra gente preparata per entrare, si diede il sacco a varie case della città
senza trovar resistenza alcuna. Per tre giorni si continuò il saccheggio(...).V. Candiani; Pordenone,
ricordi cronostorici; Pordenone 1976.
98
Nel 1473, la villa di Cinto viene scelta (assieme a Polcenigo, Maniago, Spilimbergo, Valvasone,
Cordovado, Annone, e Aviano) come destinataria per la pubblicazione di un duro proclama emanato
132
Se, nel corso del Quattrocento, la contesa che animava maggiormente la comunità di Cinto riguardava le terre paludose di nordest, durante
il Cinquecento i contenziosi si spostano a sudest, territorio comprendente
il mulino della Siega, le terre bagnate dal Reghena fino ai confini con l’Abbazia di Summaga e buona parte dei terreni cretosi attraversati dal fiume
Lison. Si tratta di un territorio piuttosto vasto che all’inizio del Cinquecento appariva coperto di prati e di boschi, per la maggior parte comunali o
demaniali, con sporadici insediamenti.
Il mulino della Siega99 si trovava in un un luogo “abbastanza franco”,
essendo al confine fra diverse giurisdizioni (l’abbazia di Sesto, la giurisdizione di Meduna, l’abbazia di Summaga), e nello stesso tempo poco distante dal centro mercantile di Portogruaro. La sua posizione relativamente lontana dagli abitati di Cinto, Giai e Summaga, lo rendeva di difficile controllo
per i commilitoni100 e perciò luogo ideale per traffici di contrabbando.
A quell’epoca non c’erano molte strade carreggiabili e le poche
esistenti non erano praticabili in tutte le stagioni. I viaggiatori di allora si
muovevano per lo più a piedi o in barca, navigando lungo i fiumi. Il mulino
della Siega aveva il vantaggio di poter essere raggiunto con un’imbarcazione: si imboccava il corso del Reghena poco fuori le mura di Portogruaro e
attraverso piccoli burchi si trasportavano agevolmente merci illecite fino in
prossimità delle sue roste.
Di questi traffici si ha conoscenza da un processo101, svoltosi a Portogruaro nel 1565 per contrabbando di barrili de chiodi numero sesanta
cinque nel luogo ditto la Siega. Erano state emanate delle regole abbastanza
rigide sulla conduzione di mercanzie che arrivavano dalla Germania, soprattutto le merci ferrose dovevano sottostare alla dogana di Portogruaro102:
del senato veneziano contro le violente insubordinazioni messe in atto nei confronti dei suoi funzionari. Secondo questo decreto la patria del Friuli era costellata di “congregationes, addunationes,
et conventicule”. Si era dovunque diffuso un movimento ribelle dai chiari intenti antigerarchici e
sovversivi, diretto com’era “contra stipendiarios et non solum stipendiarios sed etiam castellanos et
nobiles istius patriae nostre”. Per cercare di ovviare alla drammatica situazione si ordinava al luogotenente di inviare il marescalco (suo funzionario amministrativo) in tutte le giurisdizioni, dotandolo
del potere di ingiungere a chiunque di deporre le armi e di tornare alla propria “domus”, sotto la
minaccia della pena di morte e della confisca del beni.
99
Situato anche allora nella stessa posizione in cui si trova oggi.
100
Gendarmi giurisdizionali
101
AS Ve, Governatori delle entrate, b. 469
102
(...) venendo le mercantie de allemagna à Porto, (...) sij tenuto il Doanier, gionti che serano li cari
con le mercantie in detto loco di Porto, (...) non possino esser scaricade in altro loco, che nella doana
preditta, et se alcuno particular le riceverano nelle case, over loco loro, sijno, et esser s’intendino
banditi per anni cinque continui della patria del friul, et di questa città, (...) Oltra ciò sia aggionto
che ne li barcharruoli, ne altri non ardischa sotto pena di servir al remo in una delle galee sforzate
per mesi 18 continui, cargar alcuna quantità de carri de mercantie senza la presentia del doomier, et
133
perché conducendoli per strade insolite, e, da presumer quelli voler condur
sottovento, et in luogi prohibiti dalla legge di sua serenità, commitendo de
essi contrabando. Il contrabbando non era marginale, cioè fatto da villici
per guadagnare qualche soldo, ma era orchestrato da mercanti e possidenti. I
chiodi erano stati infatti depositati in una casa di proprietà de messer Pietro
Bilier de Udene e il suo colono Domenicus Silvestrinus dichiarerà nella deposizione103 che non li voleva accettar se non havea una letera o comission
del suo padrone. La lettera gli fu presentata ed è rimasta agli atti: ser Domenego Amico carissimo per questa sarete avisado, como debbe arivar de li
certe barile di chiodi de uno nostro amico, fareti che li sarà governate (...).
Dal processo si desume che il contrabbando di chiodi non fosse un
fatto occasionale. Gasparinus della Siega, dichiarava: venendo à casa mia,
che Io veniva da peschar, et fu il zorno de venere, viste andar alla casa
del Bilier alquanti carri, et pensava che fusse carri per andar à tuor delle
biave alla casa de ditto Bilier (...) dapoi intesi che erano chiodi, poi visto
vignir una burchiela, qual levà detti chiodi, et li condusse à Porto”. Interrogato se fu testimone di altri traffici illeciti, disse: “le vero che ho visto
Francescho Quatrochj barcharuol, qual ha discargato per il passato robbe
de mercantia, quale fusse Io non so, ne la quantità, ne la qualità, ma era
casse, et altre cose (...) una volta vene Casolin, il qual havea molta quantità
de chiodi, et piombo, et quelli chiodi poi li messe in uno vassello de quelli
del fontego biancho, et questo so perché lui sfondrava li barili, et metteva
ditti chiodi in ditto vassello, et per segno me ne dette à me una granpata, et
tolsi etian una testa de quel piombo alla sua presentia per far ballotine da
schiopo. (...) ho visto spesse volte esso Cosolino, et Francescho, ma no ho
visto altro, perche loro dicevano che volevano cargar legne, et vino.
Marcus quondam Antonj Diverj de Gaio, secondo testimone: altre
volte io ho visto vignir per Regena delle botte de oio, et quelli poi esser sta
cargati sopra li carri, et quelli condurli a Pordenon.
Il traffico più o meno lecito nei pressi del mulino era dunque fiorente
e si può ipotizzare che lo fosse anche per la circolazione di idee più o meno
se non haverano la bolletta bollada. (...).Ma perche quanto è preditto non basta à tanta regolatione,
essendo di molte mercantie, le qual vengono de Allemagna, passato che hanno Venzon non vengono dritamente à Porto, ma se ne vano altrove per andar poi sottovento, (...) sij obligato tenir conto
distinto, et particular de tutte le mercantie che passano per di Venzon con li nomi delli patroni de
ditte mercantie et ancho dilli conduttori à cadauno di quelli sia per ditto soprastante fatta una fede
sottoscritta di sua mano, della qual fede sia obligato far rotta sopra uno libro, à questo deputato, et
sopra essa fede sia nota la qualità, et quantità delle robbe che seromo condotte sotto pena non essequendo à quanto è predetto, de privation dell’ufficio suo, et de ducati cento(...).Zaccharie Contareno
dig.mi Potestatis terre Portusgruarij, anno domini 1564 die 18 octobris. AS Ve, Governatori delle
entrate, b. 469
103
Die 5 Maij 1565
134
ortodosse. Un mulino è sempre stato per le società rurali un luogo importante
di socializzazione, e, non a caso, i mugnai hanno occupato un ruolo importante nella diffusione del pensiero eretico. La posizione del mulino della
Siega, distante da agglomerati urbani e lontano da chiese, lo rendeva luogo
ottimale per raduni clandestini. Questa ipotesi è anche confermata dal fatto
che l’anabattista Agnolo de Michiel, prima della fuga in Moravia nominò
come suo procuratore legale104, Michilino Brun, un ex mugnaio della Siega.
Oltre agli effetti del contrabbando e alle opinioni eterodosse dei
mugnai, a provocare contese fra la comunità di Cinto e i proprietari del
mulino erano i danni causati dall’attività delle macine.
Il mulino della Siega, nel corso del Quattrocento, quando apparteneva alla famiglia Vendramini di Cinto, disponeva di sole tre ruote ed
una sega. Nel 1465 fu ceduto ad acquirenti esterni al paese e dopo alterne
peripezie105, nell’anno 1489 fu acquisito da Joannis Franciscus de Licinis
di Portogruaro. Sotto la famiglia Licini il mulino subisce una ristrutturazione ed un potenziamento con l’aggiunta di nuove ruote: nei primi decenni del Cinquecento poteva disporre della forza motrice di otto ruote oltre
alla sega. Tale ampliamento favorì una maggiore presenza dei contadini dei
paesi vicini. Oltre gli abitanti di Giai, di Campeio, di Malcanton e di Cinto,
anche molti contadini di Summaga e ville vicine, scelgono di servirsi di
questo mulino. L’intensificarsi del traffico provocò le prime controversie
fra i proprietari e la Comunità di Cinto.
Gli abitanti di Sumaga per evitare lunghi giri su strade poco affidabili preferivano passare attraverso il Paludo delle planchie, terreno paludoso di proprietà comunale posto in prossimità del fiume Reghena. Il passaggio di armenti e carri attraverso questi prati danneggiava la produzione dei
foraggi, allora la Comunità di Cinto insorse e si organizzò per contrastare
il passaggio: furono sequestrati gli armenti e i carri trovati a calpestare i
prati del paludo. Il proprietario del mulino prese le difese dei suoi utenti e
denunciò il comune di Cinto, la causa fu dibattuta davanti al Luogotenente
di Udine. Il possidente chiedeva di poter costruire una strada che passasse
proprio nel mezzo del paludo, mentre la comunità di Cinto si opponeva in
quanto la strada avrebbe comportato totali ruina per le risorse del paese e
propose di rendere più praticabile l’antiqua via publica, dicta della Siega
104
Michilino Brun nel 1559 abitava a Portovecchio, ma negli anni antecedenti aveva lavorato con il
padre (Anzolo Brun di Treviso) alla conduzione del mulino della Siega. L’investitura di procuratore,
fatta da Agnolo di Michiel poco prima della partenza per la Moravia, è un atto importante che dimostra un stretto legame di fiducia e solidarietà fra le due persone. AS Tv, Ar Not I. s., b. 628
105
Il mulino inizialmente fu acquistato da Andrea Bono quondam Antonio Patrizio veneto e subito
girato a Juliano de Regio, abitante a Venezia, il quale a causa di debiti fu costretto a cederlo per nove
anni a Giovani Sigismondo da Treviso, dottore in medicina.
135
che passava vicino alla casa di Blasij de Minigino. La causa fu dibattuta
in diversi gradi con sentenze contraddittorie, fu inizialmente favorevole al
proprietario del mulino (sentenza 3 marzo 1517106), ma nei gradi successivi
furono prese in considerazione anche le ragioni della comunità di Cinto.
I contrasti fra il comune di Cinto e il mulino della Siega si acuirono
qualche anno prima dell’inizio dell’esodo degli anabattisti. La comunità
cintese decise di agire drasticamente contro il mulino: fece in modo di deviare il corso del fiume Reghena per impedire l’utilizzo delle acque da parte delle roste. A quel tempo parte del mulino era proprietà dal Monastero
di Santa Lucia di Venezia107, e furono proprio le religiose a denunciare la
comunità di Cinto al Consiglio dei Dieci di Venezia.
Su istanza delle Venerate Monache di Santa Lucia di Venezia et
altri loro consorti i Capi del Consiglio dei Dieci, con lettera ducale del 4
Novembre 1557, ordinarono a Pietro Sanudo, Luogotenente in quel periodo della Patria del Friuli, di pubblicare un proclama contro gli huomeni del
Commun di Cinto fino al numero di 150, avendo questi levado dal proprio
alveo l’acqua della Regena, che va al Molin della Siega, e voltato quella
altrove con grave danno dei conduttori del mulino e dei proprietari. Comandiamo al Commun, et huomeni di Cinto che senza alcuna interposizione di tempo debbono retrattar ogni inovatione da loro fatta nell’acqua
della Regena che va al Molin della Siega, e ritornare quello del pristino
stato, et alveo suo della quale hanno levato di propria sua autorità, e ridurla nello stesso modo, e termine che la era innanzi la detta inovatione.
Nel proclama si specifica che, per decreto dello stesso Consiglio dei Dieci,
delle acque publiche non si possa per alcuno esser fatta innovatione senza
licenza, dunque il Commune è obbligato a ripristinare immediatamente le
condizioni precedenti sotto pena di ducati 100, corda, bando, et anni tre in
galia à quelli, che saranno disobedienti .
In quanto alla contesa sorta nei confronti del Mulino si lascia qualche
spiraglio alle ragioni della comunità cintese: se veramente il detto Commune , et huomeni di Cinto, ritornato che haveranno prima quello del pristino
suo stato, debbano poi usar delle ragioni loro per le vie ordinarie di Giustitia, che di quella non sarà mancato ad alcuno, altrimenti facendo, e non
ritornando subito, et immediate detta acqua nell’alveo suo, e nel pristino
suo stato si procederà con ogni severità contro l’inobedienti per esser così
ferma intentione, et ordine di detti eccelentissimi Signori Capi, come per
dette sue lettere ne è espressamente imposto. Utini die 18 9bris 1557108.
106
As Ve, Luog.. Patria del Friuli b. 137.
AS Ve, Mon. S. Lucia: la prima acquisizione è datata 30 ottobre 1522.
108
AS Ve Luog. Patria Friuli b. 170.
107
136
I contrasti fra il comune e il mulino non terminarono con questo
proclama ma nuovi conflitti si riproposero negli anni successivi. Uno dei
motivi scatenanti era l’innalzamento del livello dell’acqua causato dall’aumento del numero delle roste. Questo innalzamento in diverse stagioni dell’anno provocava l’allagamento dei prati e della strada maestra che allora
non aveva il percorso odierno109 ma dalla chiuesuola in capo alla villa (oggi
Madonna della Concezione) proseguiva per Via dei prati, costeggiando il
Reghena fino al mulino. La manutenzione delle strade era allora totalmente
sulle spalle del comune e dei suoi abitanti e questa periodica incombenza
provocava astio e risentimento nei confronti del mulino110.
5. La secessione di Roncho Gesuati
L’intervento del Monastero di Santa Lucia di Venezia, quale ente
comproprietario del mulino della Siega, mette in risalto per la prima volta
un conflitto fra la comunità cintese ed un ente religioso. Considerato che
il possesso e la gestione di ingenti proprietà fondiarie da parte di enti ecclesiastici fu una delle cause che favorirono il diffondersi di movimenti
eretici, si è cercato di verificare il ruolo economico degli enti religiosi nella
comunità di Cinto.
La pieve di Cinto deteneva alcune proprietà ma non erano particolarmente consistenti, né quantitativamente diverse da quelle di altri paesi.
Merita invece un esame più approfondito quanto succedeva in quel periodo
nella zona di San Biagio.
All’inizio del Cinquecento, il territorio, era in gran parte costituito
da boschi, e campi pustoti e paludosi utilizzati dalla comunità cintese come
pascolo e per la produzione di foraggi. Pochi e sporadici erano gli insediamenti con poderi coltivati. Nel corso del secolo si assisterà invece ad una
consistente crescita abitativa e demografica.
Da un lato i Tiepolo, acquistata nel 1529 una parte delle comugne,
si erano subito adoperati per renderle coltivabili: i campi furono divisi in
diverse possessioni con costruzione di masserie e locazione a nuovi coloni.
109
Ossia dell’attuale via Roma
Ricordiamo che nuovo proclama del Luogotenente del Friuli contro il comune di Cinto per indebita escavazione fu pubblicato nel 1588. Nel 1614 ci fu intimazione del Miniscalco della Patria del
Friuli contro i mugnai del Mulino della Siega su istanza del Commun di Cinto: (...) e per causa de
voi munari del molin della Siega non vi curate di lassiar andar l’aqua della bova per il suo ordinario alvio, ne meno vi curate de tenir acconcio l’arzene di essa roia, se per tal causa l’aqua di detta
roia marcisse, et anega la strada publica et impedisse il libero transito alli passegieri, et è causa di
molto danno à essi Comun, et huomeni di Cinto, se volendo noi che la strada publica sia libera senza
impedimento alcuno aciò che li passegieri habbino il libero transito.
110
137
Dall’altro la comparsa dei Padri Gesuati111 di Venezia112. Le loro proprietà
iniziarono con la donazione di Anna Valeri anno nel 1508 e via si estesero
con tutta una serie di acquisizioni, nel corso della prima metà del secolo113.
I loro possedimenti si estesero a macchia lungo il fiume Lison, partendo
dalla Persiana, attraversando Pra Bonald, Bar de Zot , località Roncho e
Boscho di San Biagio, fino a sconfinare nella villa di Pradipozzo (per un
totale di circa 235 campi).
I Padri Gesuati si distinsero per una accurata amministrazione dei
beni, con presenza in loco di religiosi che dirigevano e controllavano il lavoro dei coloni. Analizzando le rendite agricole dichiarate nelle periodiche
denuncie ai Dieci savi alle Decime, risulta particolarmente rilevante la produzione di vino. La viticoltura è, in fondo, un settore in cui i monaci si sono
sempre distinti, membri di diversi ordini si dedicarono con costanza alla
selezione dei vitigni e al perfezionamento della vinificazione, diventando
i maestri incontestati della viticoltura per molti secoli. I Padri Gesuati di
Venezia oltretutto erano grandi conoscitori della distillazione e si erano
specializzati nella produzione dell’acquavite, al punto di essere chiamati
i Padri dell’acquavite. La presenza dei Gesuati a Cinto diede impulso allo
sviluppo agricolo e in particolar modo alla viticoltura.
111
I Gesuati erano una confraternita assimilabile ai vari ordini mendicanti, sorti nel tardo medioevo
con l’intento di rifondare la spiritualità cristiana. L’Ordine fu istituito nell’anno 1360 da Giovanni
Colombini, nobile senese. Gli aderenti si dedicavano ad una vita austera di preghiera con frequenti
e rigorosi digiuni. Per due secoli i Padri Gesuati rimasero dei frati laici che avevano fatto voto di
castità, di povertà e di ubbidienza. Solo nel 1606 fu loro concesso di accedere al sacerdozio. Nelle
frequenti epidemie del tempo si distinsero nell’assistere i malati e nella sepoltura dei morti; si occuparono assiduamente di farmacologia, fabbricando medicamenti che distribuivano gratuitamente
ai poveri. Esercitavano anche alcune professioni artigianali: furono famosi come vetrai, orologiai,
distillatori di acquavite, fabbricatori di colori per gli artisti.
112
I Gesuati ebbero un notevole sviluppo in Italia e verso la fine del XIV secolo fondarono a Venezia,
nei pressi di Sant’Agnese, la “Casa della compagnia de’ poveri Gesuati”. Nel 1423, mediante alcuni
lasciti, edificarono in fondamenta delle Zattere un chiostro e un oratorio dedicato a San Girolamo
(venivano chiamati anche Chierici Apostolici di S. Girolamo). All’inizio del XVI secolo il convento
fu ingrandito e l’oratorio trasformato in chiesa, sotto il titolo di Santa Maria della Visitazione. Il
monastero di Venezia era uno dei più importanti di questa congregazione e i padri di questo convento si differenziarono dagli altri Gesuati per una loro particolare vocazione latifondista. La parte
più consistente dei loro poderi si trovava qui a Cinto, nella zona di San Biagio e parte nella vicino
Pradipozzo.
113
“…il 6 novembre 1508 Anna Valeri donò ai Gesuati un terreno, che Girolamo da Ripa, il priore
assunse ufficialmente a nome del convento in data 11 novembre 1509. Il 17 dicembre 1518 fra
Francesco da Brescia comperò nelle vicinanze del Bar de Zot un altro terreno, e il 22 settembre
1523 fra Alberto da Bergamo permuta un pezzo di terreno con un altro. Il 30 luglio 1530 il priore
fra Lodovico da Ferrara comperò sette terreni sempre a villa Cinti. Il 20 marzo e 22 dicembre 1550
ci furono altri due acquisti dei Gesuati in quella zona. Il decano di Cinto consegnò loro il 1 giugno
1543 un ulteriore pezzo di terra e lo consegnò a fra Evangelista da Ferrara, priore di Santa Maria
del Bon Gesù.” (G. Dufner: Geschichte der Jesuaten, Roma 1975, p. 383)
138
Profili immaginari degli anabattisti di Cinto
139
Maran di Settimo
Questa loro veste imprenditoriale poco si confaceva con la frugalità
e la carità predicata dalla Chiesa. La loro presenza fu fonte di attriti e di
contese con le piccole proprietà vicine114 e con la stessa comunità del paese
rappresentata dalla Vicinia.
I Padri Gesuati non si limitarono ad amministrare le terre ma si
intrufolarono anche nelle questioni locali, adoperandosi insieme con gli
eredi di un altro possidente (Alessandro Pina di Portogruaro) per richiedere
la separazione del territorio da loro posseduto dal comune di Cinto. La petizione presentata trovò ascolto e comprensione da parte delle magistrature
competenti: nell’anno 1579, con decreto della Serenissima Signoria, fu istituito un nuovo comune denominato Runch o Roncho. La conseguente spartizione dei beni comunali fu arbitrata dal Conte Evangelista Sbroyavacca
nell’anno 1580:
(...) Noi Evangelista Sbroyavacca judice Arbitratore, (...) spontaneamente elleto et deputato dal Comun et homini dilla vila di
Cinto da una parte et dal Comun st homini dilla vila de Runch
uniti con li intervenienti per li Padri Jesuati et per li heredi dil
messer Alexio Pina di questa terra di Portogruaroo per l’altra
parte sopra le littj; differentie pretensioni et cause molto tempo
state et che fino al presente giorno sono vertite tra le sudette
parti per occasione dilla separacione de fuochi et beni Comuni et
Comunali et altri capi da questi dipendenti. Etc. Onde visto il tenor del compromisso nella nostra persona fato sotto di Serenissimo decreto 1579 proximo passato notato per mano di me notaio
infrascritto. (...) viste molte scritture extraindicialmente produte
con li processi formati inanzi il Clarissimo signor Logotenenti
della patria et suo Eccelentissimo vicario (...) Sentenziemo, Arbitremo, Arbitrametemo, et per questa nostra diffinitiva sententia
dichiariamo, dichiarando pronuntiamo ut infrascripti.
Primo. Che li detti Comuni de Cinto da una et Runch con li consorti nominati da l’altra debbino star separati, dividendo li beni
Comuni et Comunali secondo la ratta de fuochi a Ciascun di loro
assignata dalli Magistrati deputati dalla patria. Eccentuando
però li pascoli li quali habbino a restar come prima in Comune
et godersi pro indiviso fra loro.
Secondo. Che per tal divisione di beni Comuni et Comunali sij
per mano di ser Rizzo Zentilin cavato nel locho detto il paludo
114
Il 1 Febbraio 1563 Blasius quondam Luca Michailis che in quello stesso anno fu inquisito e
condannato all’abiura per anabattismo, ordina suo procuratore Francescum qm Mauri Michailis de
Cinto per litilis controversis et discordis (...) contra ser Andreas fratus Jesuator de Venetis a comparire in qualsiasi ufficio sia in Patria che fuori. AS Tv, Arch Not I s., b. 763.
140
apresso il confin delli pradi già assignati alli Bellaviti per drito
fino alla Regena verso il molin della Siega campi numero vintiuno alla grande et questi assignamo al Comun et Consorti de
Runch da essi liberamente goduti solamente dal detto Comun et
consorti secondo il dissegno et la pertichacion sopradetta fatta
dal ditto ser Rizzo Zentilin, et da noi ordinata. (...) Il resto veramente tanto del locho detto il paludo verso Sumaga, quanto verso
la Siega et li pradi dell’Olnaretti siano goduti liberi dal Comun
et Homini de Cinto solamente. (...).
Per ultimo. Assolvemo ditto comun de Cinto dalla pretensione
del rentegramento de feni, che il comun di Runch havea contra de esso (...). Et cusì sententiamo (...). Sua eccelenza Conte
Sbroiavacca judice et arbitro. Anno domini 1580, indict. 8, die
XIIII Junij115.
I Padri Gesuati promossero una vera e propria secessione da una
comunità come Cinto, allora in odore di eresia116. In questo modo ebbe
origine la comunità di Roncho (poi detta dei Gesuati per distinguerla da
altre località omonime), che rimarrà formalmente in vita fino ai primi anni
dell’Ottocento117.
Il secolo XVI fu dunque un periodo particolarmente importante per
lo sviluppo della zona, come risulta dal censimento dei beni comunali dell’anno 1606: la comunità di Roncho dichiarò una popolazione di 208118
residenti, quantità non di poco conto, all’incirca la stessa di Settimo e di
Pramaggiore119 e non di molto inferiore a quella di Cinto.
115
As Tv , Arc Not I s., b 916
Dopo l’esodo e i processi dell’inquisizione, gli abitanti di Cinto ebbero fama di luterani per parecchi anni nei paesi vicini.
117
Lo ritroviamo registrato, quale Colmello di Cinto, nel 1807 nei primi registri della municipalità
napoleonica.
118
Villa de Ronche - Sotto la Meduna, presentato dalli infrascritti. Adi, 10 Gennaro 1606. Comparsero all’ offitio dilla cancelleria messer Battista Gazin podestà della Villa di Roncho sotto Cinto,
giurisdizion della Meduna, et ser Biasio Meneghin a nome del loro comun et diedero in nota, (...) in
esso commun esser persone, 120 piccole, et grandi al n. di 88. Item animali bovini, et cavallini n°
99, capradi n.° 44. AS Ve, Prov. Beni Comunali, reg. 468
119
Si deve oltretutto considerare che il Bosco di San Biasio era allora comunità indipendente e contava 52 abitanti. AS Ve, Prov. Beni Comunali, reg. 468
116
141
6. La corruzione dei costumi nel clero
Altro motivo che intaccò la credibilità della religione cattolica in quel
secolo furono i modelli di vita dei suoi ministri, poco conformi alla dottrina
divulgata e in alcuni casi all’origine di veri e propri scandali. Il villaggio di
Cinto non ne fu esente come sottolinea Giovanna Paolin, nel suo primo e
fondamentale saggio sugli anabattisti cintesi120. Indubbiamente qualche responsabilità per il diffondersi dell’eresia anabattista dovevano averla avuta
anche i preti che nel corso del Cinquecento avevano diretto ed amministrato
la pieve di Cinto. Dalla relazione di una visita pastorale, effettuata nell’anno
1586 dal vescovo di Concordia De Nores, si riferiscono alcune informazioni
sulla vita e sui costumi del pievano Giovanni Mario Verdizoti, che svolse il
suo mandato a Cinto fra il 1580 e il 1586. Passati già vent’anni dall’inizio
dell’esodo, era allora in atto un’azione di aperto controllo e di rigida controriforma da parte della chiesa, soprattutto in paesi come Cinto, dove molti suoi
abitanti avevano abbracciato la fede anabattista. Il comportamento del pievano Verdizoti non sembra essere stato molto il linea con i tentativi della chiesa
di cancellare l’imbarazzante passato dalla memoria collettiva del paese.
Le informazioni annotate dal vescovo sono raccolte dalle deposizioni di persone che rappresentano le famiglie più autorevoli: Lucrezio de
Bettini121, Zaccaria Meneghini122, Battista Carraro123, Francesco Maccagnino124, Daniele Meneghino125, Raffino de Simeoni126.
Fu una vera e propria inchiesta: i testimoni furono obbligati a deporre sotto giuramento. Dalla deposizioni il pievano Verdizotti non appare molto
ligio ai suoi doveri, spesso non sta alla residenza, et sta doi et tre mesi alla
volta fuori di essa127, non è molto attivo nelle cura delle anime, nè mostra
120
G. Paolin, I contadini anabattisti di Cinto, “Il Noncello”, 50, 1980. Ripreso da AV Pn, Visite
Pastorali, b. 2.
121
Lucretius quondam Thomas Bithini, discendente da famiglia di piccoli proprietari terrieri, residente a Cinto nel Cinquecento. Lucrezio è particolarmente attivo nelle compravendite di terreni
nell’ultimo quarto del secolo. AS Tv, Not I s., b. n° 978 e altre.
122
Zacharia era figlio del quondam Olivier de Minighini de Cinto detto Homo da ben. È anche fratello di Santo, che negli atti notarili del novembre 1559, è citato come testimone durante la vendita
dei beni dell’anabattista Agnolo de Michiel. AS Ve, Luog. Patria Friuli b. 177 e altre.
123
MagistroBaptista Carrario quondam Danielis del Niel de Pratoputeo, svolgeva la professione di
fabro carradore. Originario di Pradipozzo, si trasferì a Cinto nella seconda parte del secolo, la sua
discendenza rimase residente a Cinto nel corso del Seicento. AS Tv, Arch Not I s., B. 982. e altre.
124
Figlio di Joannes Maria quondam Francescus Machagninj. AS Tv, Ar Not b. 611
125
Daniel quondam Olivier detto Homo da ben de Minighini. AS Tv, Arc Not I s, b. 547
126
Raphinus de Simonilij, spesso presente nelle Vicinie di Cinto, in alcuni atti è citato quale rappresentare del Comune. AS Tv, Arc Not Is, b 763
127
G. Paolin, I contadini anabattisti di Cinto, “Il Noncello”, 50, 1980. Ripreso da AV Pn, Visite Pastorali, b. 2. Allo stesso documento si riferiscono tutte le frasi in corsivo di questo paragrafo.
142
molta tempestività nel conferire i sacramenti, anche quando si tratta dell’olio
santo. Si riferisce il caso di Bortolo Burchion, cui il pievano dato l’olio santo
andò a Porto et stete tre giorni senza tornar più non havendo cura, che in
questo mentre poteva morire et haver bisogno di sepultura. In un altro caso,
in cui morì un componente della famiglia Franzon, li mandò a dire che era
fango et non volse andare, soggiongendo che non importava, se ben moriva
senza olio santo perchè era homo da bene. Un mese prima morse un figliolo
de Nani Bompan et esso, per la solita sua assenza, non era in Cinto, in modo
che se si volse sepelir bisognò che andasse a tuor il prete di Settimo. Insomma si trattava di un prete poco zelante rispetto al suo mandato pastorale ma
che si era ben fatto notare per altre attività: gli interpellati denunciavano che
ha havuto ardire di far un mandato lui stesso di sua mano et sigillarlo, et
presentarlo al commun come levato dall’ufficio. Si prestò dunque alla falsificazione di documenti legali per trarre un illecito vantaggio economico. Ebbe
anche la sventura di impiegare aiutanti cappellani instabili e litigiosi, un frate
ladro che rubava in canonica e truffava gli abitanti nel commercio dei cavalli.
Infine si sottolinea che li capellani et il frate hanno tenute in canonica massare suspette et giovane, con il permesso del pievano.
Questo documento dimostra quanto fosse difficile applicare e far
accettare ai ministri del culto le nuove e più severe regole imposte dal Concilio di Trento.
Esempio sintomatico del malcostume dei preti di allora, è un fatto che successe a Concordia, città di residenza del Vescovo della diocesi
di Cinto, proprio negli anni dell’esodo degli anabattisti. Il fatto avvenne
durante il carnevale, in una sera di marzo del 1559128, in casa de messer
Alovise Arthusio dove si faceva festa. Entrarono doi amascarati con habito
bianco da Mattacini, delli quali uno era messer Prospero Podacathero Canonico di Concordia et l’altro messer pre Horatio Truschia, Capellano della Madonna in questa chiesa. Il qual messer Prospero havea attacato alle
spalle, al fine della schena sua, una imagine de San Rocco ricamato d’oro
et seta; et messer Horatio havea in simil loco, dietro le spalle, a’ piedi della
schena, attaccato una imagine del Crucifisso, in croce pur ricamato d’oro,
et seta; et li sulla festa facendo l’uno et l’altro d’essi saltj, et giochi, come
soglion far li Mattacini a tutte quelle persone, così maschi, come femine
quali erano presenti a quella festa129.
128
Si ha notizia per il successivo processo cui furono sottoposti i due religiosi protagonisti. AS Ve,
Savi all’eresia b. 16
129
Testimonianza di Hironjmus filius dominus Petri de Placentio de Protogruario habitantes Concordia. AS Ve, Savi all’eresia b. 16
143
In sostanza entrarono due religiosi mascherati da Mattacini130, ma
provvisti di una originale peculiarità, quella di aver attaccato nel “fondoschiena” due immagini sacre. La maschera del Mattacino era molto dinamica e si ispirava alle movenze dei saltimbanchi e dei giocolieri. Il cancellier del Vescovado Zuanbattista de Honestio, presente quel giorno, si
ricordava che durante la festa pre Horatio lo omaggiò dacendoli de piedi
nel culo a lui che pure era amascherato, ma anche il cancelliere non mancò di ricambiare gli omaggi, dando di piedi nel culo di sorte tale che pre
Horatio batteva a largo da lui. In breve, il costume delle due maschere era
stato predisposto per far in modo di colpire proprio dove erano state situate
le immagini sacre. Il cancelliere negherà però di aver intravisto le immagini
proprio in quel posto da lui energicamente omaggiato.
Il padrone di casa Alovise131, sentendo il murmurar che facevano,
et huomini, et donne che li erano alla festa, et vedevano questo effetto fu
richiesto da parte di molti che quale patron della Casa dove si ballava, le
due mascare se levassino queste imagine. Quale testimone, Aloise Arthusio, davanti all’inquisitore dichiarò: io subito chiamai dette mascare nella
Camera mia, et gli dissi che si dovessero levar quelle imagine, le qual
erano de gran scandalo à quelle persone che erano sulla festa. (...) Furono
tutti doi contenti de levarsi quelle imagine, et io con le mie proprie mani ed
con temperarino gliele distacaj.
A questo punto entra in “scena” una terza persona mascherata che
si era presentata alla festa insieme ai due religiosi, si tratta di Madonna
Zanetta, la quale si introdusse nella camera di Alovise, e vedendo che se
eran distaccate quelle immagine cominciò a bravar volendo che de novo se
le ritacasse, dicendo tornatile su, et se il Vicario nol’ha ordinato lasciatilo
dir che incago al Vicario, et al Vescovo. Secondo pre Horatio aggiunse: se
io fosse un huomo al Sagramento de Dio voria scanar il Vicario.
Nessuno dei due religiosi la volse obedir, et ditte queste parole la
detta Madonna Zanetta se puose in sul volto una maschera negra et insieme con messer Prospero predetto et messer Pre Horatio se ne andarono giù
della festa et puoco stetero.
La storia con la Zanetta non finisce qui, gli inquisitori chiesero lumi
ai testimoni, lo stesso Alovise depose: madonna Zanetta è fiola del messer
Anzolo della Nave di Venetia, il qual la maritò in un mercadante de cera
chiamato per nome se ben mi ricordo messer Zuan, et per quanto mi ha det130
In abito bianco con la camisa fuor della calea dinanci, et dreto, come se suol amascherar li Mattacini. Deposizione di pre Horatius Truschia. Era una maschera molto popolare a quel tempo AS Ve,
Savi all’eresia b. 16
131
Testimonianza di Alovise Arthusio Civi Venetis abitante in Civitate Concordie. AS Ve, Savi all’eresia b. 16
144
to ditto suo padre meser Anzolo, questo messer Zuan suo marito de questa
madonna Zanetta anchora è vivo, ma non si sa dove el sia. In quel periodo
la Zanetta viveva a Concordia insieme a meser Prospero, e tutti giudicano
che la sia sua concubina. Aggiunse: è la verità che partendose da chiesa
questa madonna Zanetta per andar a casa, finiti li officij andavano tutti doj
insieme, si come fosse stato marito, et moier, aspettandosi l’un all’altro, pigliandosi per la mano. In seguito precisò: passata in Venetia nella bottega
di suo nepote chiamato messer Christophoro della Flacca à San Zulian, me
disse che questo messer Prospero havea tenuto questa madonna Zanetta
sua fiola in una camera nel Convento delli fratti minori in Venetia appresso
S. Rocco, si come hora la tien in questo loco.
Il canonico Prospero davanti all’inquisizione dichiarerà di aver indossato quell’abito dopo esser stato assecurato dalle parole de esso pre
Horatio, il quale affermava che qui non si guardavano queste cose. Il cappellano Horatio diversamente affermerà che fu il canonico Prospero a dire
che in Venetia sogliono le persone amascararsi, et portar li habiti da battudi, con simil immagine, et che non era tanto mal. Anche il Cancelliere del
Vescovado non aveva fatto attenzione a quelle immagini cucite sulle vesti,
dimostrando che episodi di questo genere non erano poi così rari.
La vicenda si aggraverà ulteriormente per i suoi due protagonisti, i quali, processati dall’inquisizione, furono entrambi imprigionati e condannati132.
132
Prospero Podacataro (...) per aver lui peccato nel mangiar di carne la Santa Quaresima, senza
licentia de Superiori: Per non si esser confessato, e communicato almeno una volta l’anno, secondo
la constituzione di Santa Madre chiesa: Per aver lungamente converato nel pubblico concubinato,
e tenuto essa concubina per giorni e mesi nel Monastero de Padri Religiosi a servitio di Dio dedicato: Per haver disonorato la sacra imagine del glorioso San Roccho, portandola per feste, e lochi
pubblici in maschera sopra le natiche, con la concubina in compagnia: Per haver inserito nelli soi
scritti, per lui prodotti a defension sua, molte grave heretiche positioni a detrimento dell’anima
sua, scandalo de popoli, et mala edificatione d’altri. Fu condannato all’abiura e al carcere: che esso
Reo convinto sia confinato per tre anni continui nella prigion forte de Venetia, o nella prigione de
concordia. Quanto a pre Horatio che sia tenuto a fare medesimamente, ut supra, una abiuratione
disuspicione di heresia per non haver altro contra di Lui, che di haver portato la imagine di Nostro
Signore insieme con il dito Podacataro, et concubina di Esso, medesimamente sopra le natiche, in
maschera, nelle feste e lochi publici, con disonor di Dio, e vergogna della Santa Fede catholica.
Et fatta, e poi sottoscritta per Lui, la abiuratione, ut supra, sia letta et pronunciata la Sententia di
questo tenore. Che sia , et s’intenda privato de ogni officio, beneficio, accesso, (...) che havesse, o
haver potesse in futuro nella chiesa, et diocese de Concordia. Et che sia confinato nella prigion forte
di Venetia o in quella, nella qual al presente si trova, come a noi parerà poi ispediente, per un anno
continuo. In realta la vicenda si complicò ulteriormente, i due religiosi inizialmente imprigionati a
Concordia, fuggirono dopo circa due mesi da quelle carceri, con haver sforzata la prigione e corrotta la guardia deputata alla Custodia loro, e si consegneranno ai funzionari dell’inquisizione di
Venezia. In città il canonico approfittando delle proprie conoscenze e pagando una cauzione, riuscì
ben presto a farsi scarcerare. Invece nelle carceri di Venezia rimase il povero cappellano Horatio, che
per somma povertà, e per non posseder benefitio alchuno ecclesiastico, et, essendo ignudo d’ogni
patrimonio, e, beni di fortuna, un anno e mezzo dopo risultava ancora detenuto, come dichiarerà in
una sua supplica presentata nell’agosto 1560. AS Ve, Savi all’eresia b. 16
145
7. L’esodo in Moravia
L’emigrazione di un ingente quantità di persone dalla villa di Cinto
in Moravia è uno dei fatti più significativi e maggiormente testimoniati nei
documenti raccolti dall’inquisizione. Le date però non sono molte precise,
nelle deposizioni il periodo di tempo in cui si svolse, si allarga o si restringe a seconda delle persone chiamate a testimoniare. Nelle dichiarazioni
rilasciate dai tre anabattisti ritornati a Cinto, dopo l’esperienza vissuta in
Moravia, i tempi indicati sono un po’ discordanti:
Iosephus quondam Petri Gobiti, il giorno 8 giugno 1563, dichiara
di essere stato menato via da un Agnolo de Michel anche esso della villa de
Cinto, all’età di circa 24 anni. Alla richiesta di precisare il periodo rispose:
può esser da cinque anni, et steti là quasi tre anni133.
Angelus quondam Dominici de Simeonibus, nello stesso giorno, dichiara che dal suo viaggio in Moravia, può esser passati da 4 in 5 anni, e
precisa che andò per trovare la madre Agnese, che con altri due figli, era
emigrata in quella regione un anno prima, menati via da un Agnolo di Micheli da Cinto et un Francesco da Rovigo134.
Anche Biasio de Michiel, il 29 aprile 1563, dichiara di essere andato in Moravia con suo cusin detto Agnolo di Micheli, il quale rimase là
insieme con sua mogier et può esser da sei anni in circa. Vi andò pregato
dal suo cusin per tenerli compagnia. Interrogato sul suo ritorno, rispose:
può esser da doi anni. I conti a questo punto non tornano, partito sei anni
prima e rimasto in Moravia solo sei mesi, risulta tornato al paese da circa
due anni: ci sono di mezzo più di tre anni da giustificare. Biasio rispose di
essere per il resto del tempo andato vagabondo in qua et in là, finchè trovò
modo di fermarsi a Viena con un suo compagno detto Isepo135, pur della
villa de Cinto, a servir a un gentilhuomo.
Due lettere di padre Francesco Pinzino, inquisitore della Diocesi
di Concordia, trattano dell’esodo. Nella prima (26 ottobre 1562136), veniva
messo in risalto il ruolo di Biasio de Michiel: questo Biasio (...) già dui anni
133
Venezia, 8 giugno 1563. (ASV, S. Ufficio, Processi, b. 18, fasc. Michieli Biagio e altri).
Venezia, 8 giugno 1563. (ASV, S. Ufficio, Processi, b. 18, fasc. Michieli Biagio e altri).
135
In realta è Angelus quondam Dominici de Simeonibus a dichiarare di essere andato in un altro
paese, detto Austrolis, dove sono diverse sete, et mi messe a servire un signore buon christiano et
catholico, et steti con esso da circa tre mesi fin che mi avanzai un poco de soldi, et con quelli me ne
ritornai in qua che può esser circa tre anni. Deposizioni di Iseppo Gobito e Agnolo De Simeonibus al
tribunale dell’Inquisizione.Venezia, 8 giugno 1563. (ASV, S. Ufficio, Processi, b. 18, fasc. Michieli
Biagio e altri).
136
Lettera di Francesco Pinzino, padre inquisitore della diocesi di Concordia. Portogruaro, 26 Ottobre 1562, (ASV, S. Ufficio, Processi, b. 18, Michieli Biagio e altri)
134
146
in circa el fugite de Cinto con alquanti e se ne andò astanciar in la Moravia
dove stano persone luterane et fano vita molto disperata, et questo Biasio
stete deli alquanti mesi. Ritornò in Cintho pasata che fu la ricolta, pigliò
non so che dinari et andò in Alemagna, lui dice esser stato in Viena.
Nella seconda lettera, datata 23 Agosto 1563137, si afferma che Agnolo de Michiel: scampò via da Cinto et menò seco sua madre et sua moglie
et fioli con alquanti appresso, qual furono al numero di vintisei et li sempre
sono stati [in la Moravia] in quello loco discomunicato et maledetto qual
fano una vita molto diabolica. Dove questo Agnolo vedendolo fugito con
tutta la sua famiglia et menò via alquanti animali et roba in quelle parti.
Francesco della Sega nella deposizione resa nell’autunno del 1562,
afferma di aver condotto in Moravia un Agnolo de Michielle da Cinto sotto
Portogruer, un Massentio del medesimo luoco, che non sa il cognome e
molti altri138.
In questi documenti vi è un continuo rinvio al gruppo di persone che migrarono in Moravia guidati da Agnolo de Michiel, quasi a voler
esprimere una precisa valenza prioritaria di quell’atto per la villa di Cinto:
un punto di svolta per la comunità. Avvalorata questa ipotesi diventa più
facile stabilire la cronologia dell’esodo.
Recentemente sono stati rinvenuti i documenti in cui Agnolo di
Michiel mise in vendita tutte le sue proprietà prima di andarsene. Si presume che lo fece proprio allo scopo di ottenere le sostanze necessarie per
finanziare l’esodo e per poter insediarsi dignitosamente nella comunità
anabattista della Moravia. Si tratta di un atto datato 30 ottobre139 e di altri due datati 11 novembre dell’anno 1559. In uno di questi ultimi due,
Agnolo de Michiel nomina Michilino quondam Angeli del Bruno, mugnaio
residente in Portoveteri, quale suo legitimum et generale procuratorem
(...) in omnibus suis causis presentibus, et future, palesando dunque il suo
imminente viaggio.
137
Lettera dell’inquisitore padre Francesco Pinzino su Agnolo de Michiel, Concordia 23 Agosto
1563. (ASV, S. Ufficio, Processi, b. 19, fasc. Francesco della Sega e altri).
138
ASV, S. Ufficio, Processi, b. 19, fasc. Francesco della Sega e altri
139
(...) sedime, sine curtivum cun una domo de muro cuppis cohoperta, de duos Thalamis ad pedem
planum, et uno caxon canippe de muro cupis cohoperto, (...) fabricis, et edificis de palea de super
existentibus unam cum horto al dictum sedimen spectantijs (...) in loco dicto delli Michieli ... à mane
coheret prata nuncupata li Pra grassi dello Micheli, a meridie partim, et partim, à solis occasu via
pubblica et a montis fossatum commune nuncupatum il Trator. Terra Pra grasso, cui à mane coheret
Aqua pubblica incupata la Roia, à meridie illi Michaeli, à solis occasu, et a montis possidet ser
Jo. Maria Bevilaqua. Terra dicta il Spinet dimidij campi in circa seminis, cui à mane coheret ser
Petrus Brixiesis, a meridie prata illor de Boldaria, a solis occasu Petrus Michaelis, a montis campi
nuncupati delle Codizze. Terra nuncupata li Prà grassi mediante Trogio comunis, à meridie sedimen
ut supra venditum, à solis occasu Blasius Michaelis, et a montis supradictus Jo Maria Bevilaqua.
Terra nuncupata la Braida del ceresar (...) a mane coheret via pubblica, à meridie Brayduza, qua
147
Questi documenti permettono di collocare con certezza la partenza
di Agnolo de Michiel nell’autunno del 1559140. La lettera citata dell’inquisitore Pinzino riferiva di un gruppo di 26 persone: doveva trattarsi di una
comitiva piuttosto eterogenea, intere famiglie con persone anziane e bambini ed alquanti animali et roba141.
Fu un vero e proprio esodo novembrino, usuale nell’economia contadina di quel tempo, quando una famiglia veniva cacciata dal fattore o se
ne andava per libera scelta, mettendosi in strada con tutti i propri averi alla
ricerca di una nuova collocazione. A volte era un viaggio lungo che portava
fino ai poderi posti ai piedi delle montagne. All’inizio del Quattrocento
si ha notizia di famiglie cintesi andate a lavorare la terra nei paraggi di
Tarvisio142. La diversa età delle persone, il peso delle masserizie e degli
strumenti agricoli, faceva durare il viaggio anche diverse giornate. Lungo
le disagevoli strade, in quel periodo dell’anno, non destava nessun sospetto
la presenza di gruppi di persone con armenti e masserizie.
L’itinerario del viaggio non è documentato, ma si può presumere che gli esuli cintesi abbiano seguito il percorso usuale dell’emigrazioni
anabattiste in Moravia: i fratelli in Cristo (come si chiamavano fra loro gli
anabattisti) transitavano per Venezia dove si imbarcavano per Capodistria e
poi da lì fino a Trieste, proseguendo il resto del viaggio a piedi o a cavallo
attraverso la Slovenia e l’Austria.
L’esodo riprese l’anno dopo, come testimoniato da Angelo Simeoni: da lì ad un anno questi lutherani tornarno et mi dissero che mia madre
desiderava di vederme et che io volesse andar là anche mi; et io desideroso
fuit qm Mauri Michaelis, a solis occasu filij et heredes dicti qm Mauri, et a montis li Machagnini de
Cynto. Terra nuncupata la Brayda per mezo li Machagnini. cui à solis ortu coheret strata pubblica,
à meridie Petrus Michaelis supredictus, a solis occasu, et à montibus heredes qm Thomasi Menegini de Cyntho. Terra nuncupata il campo drio barba Agnolo, avi ab orta solis et à meridie coheret
heredes qm Thomasi Minigini supradicti, a solis occasu heredes qm Mauri Michaelis, à montibus
Angelus Thopoli. Terra li cursuli delle code, cui a solis ortu coheret illj de Blasio Minigini, à meridie
Heredes supradicti qm Mauri, ab occasu Petrus antedictus Michaelis, et a montis heredes qm Thomati Minigini. Terra dicto Ca delle code cui coherent à solis ortu R.di fres de Giesuatis, a meridie
heredes Mauri Michaelis supradicti, ab occasu Mag.cus D. Paulus Gradenigo patritius Venetus, a
montibus heredes seprdictus Mauri.Terra in loco dicto Pra di Medana, cui coheret à solis ortu Via
pubblica qua Summaqua tenditur, à meridie Blasius Michaelis, ab occasu terra qm Mag.ci D. M.
Anzolij Georgio Patritij Veneti, et à montibus comugna. Terra in loco dicto la Tezza, cui a solis ortu
coharent illi del Furlan de Cortovato, à meridie heredes Mauri supradicti, à solis occasu heredes
qm Blasij Minigini et a montibus Terra Ecclesia S.ti Blasi. AS Tv, Ar Not I. s., b. 628
140
Il più cronologicamente credibile fra i documenti citati è dunque la lettera dell’inquisitore Pinzino
datata 26 ottobre 1562. (ASV, S. Ufficio, Processi, b. 18, Michieli Biagio e altri)
141
Lettera dell’inquisitore padre Francesco Pinzino su Agnolo de Michiel, Concordia 23 Agosto
1563. (ASV, S. Ufficio, Processi, b. 19, fasc. Francesco della Sega e altri)
142
Michele Zacchigna: La palude di Cinto, una lite giudiziaria del tardo medioevo friulano. Metodi
e Ricerche, n. 2, 1982
148
di veder mia madre andai143, e continuò negli anni successivi, al punto che
l’inquisitore Pinzino di Concordia, richiese al Tribunale di Venezia di aver
la facoltà di poter meter un terore a quella villa de Cinto perché ne fugivano
furtivamente molti144.
Una testimonianza più tarda (7 maggio 1589), rilasciata da Cristoforo Cestaio di Cinto, riporta un elenco approssimativo delle persone che
lasciarono Cinto:
Sono partiti molti et credo che tuti quelli che sono partiti siano
lutarani et in spetie è una che si chiama Fiorentina con una sua nora et un
suo fiolo Agnolo, che menorono doi fioli de detto Agnolo et si dice che sono
morti, vi andò un altro chiamato Biasio de Michiel et è ritornato qua et poi
è morto. Et poi andò via Agnese de Goro con dei fioli, uno maschio et una
femina, quali anche sono morti; Piero Contino con sua moglie, quali sono
morti; uno chiamato Masentio con la moglie et dei fioli, et si dice che sono
morti; uno che aveva nome Iseppo Curbin, qual ho inteso ch’è morto, et
una nezza de Steffano Stolin non maritata; uno nominato Maran da Settimo, che in quel tempo stava a Cinto; Lunardo nepote de Steffano Stolin et
Agnolo de Goro, che andò via doppo et trovò sua madre et li suoi che erano
morti et restò solo mai che tornò in qua, (...). Et andò via anche Tonia mia
moglie con doi fioli, et per tal segnal la sera me imbriago. Et si partite sul
mezzo zorno. Altri che siano andati non so145.
8. La diffusione a Cinto dell’anabattismo
Dai documenti dell’inquisizione, l’anabattismo cintese appare incentrato sulla figura di Biasio de Michiel, il qual non sa legger, ne scriver
secondo il cappellano della chiesa di San Giorgio146. Al Tribunale dell’Inquisizione il de Michiel si presentò147 vestito con un gabano, et un gonelletto sotto color rovano alla forestiera di statura mediocre, et di età (...) de
anni quaranta in circa, dichiarando essere lavorador de terre.
143
Deposizione Agnolo De Simeonibus al tribunale dell’Inquisizione. Venezia, 8 giugno 1563. (ASV,
S. Ufficio, Processi, b. 18, fasc. Michieli Biagio e altri).
144
Lettera dell’inquisitore padre Francesco Pinzino su Agnolo de Michiel, Concordia 23 Agosto
1563. (ASV, S. Ufficio, Processi, b. 19, fasc. Francesco della Sega e altri)
145
Deposizione di Cristoforo Cestaio di Cinto, Concordia, 7 maggio 1589. G. Paolin, I contadini
anabattisti di Cinto, “Il Noncello”, 50, 1980
146
Testimonianze contro Biasio de Michiel nell’istruttoria processuale degli anabattisti di Latisana.
Latisana, 18 Novembre 1562 (ASV, S. Ufficio, Processi, b. 18, fasc. Michieli Biagio e altri)
147
Ricorso di .Biasio de Michiel Venezia, 22 Ottobre 1562 (ASV, S. Ufficio, Processi, b. 18).
149
Gli anabattisti di Cinto erano contadini, per lo più analfabeti, non
artigiani e “letterati”, come fu il caso di alcuni inquisiti a Latisana nello
stesso periodo. Nei documenti processuali non c’è traccia di libri eretici148,
ma si denunciano solo comportamenti ed affermazioni anticlericali. La divulgazione anabattista a Cinto seguiva canali esclusivamente orali.
Un testimone autorevole, Pietro de Cavalleri, possidente agrario
originario di Brescia, che conosceva Biasio de Michiel già per anni 15 per
aver praticato molto tempo in casa sua nella villa di Cynto, lo descrive
come una persona molto suscettibile nei confronti della chiesa: s’io non mi
confesso, ne communico, ne si vado a messa, io son meglior christiano di
voi. Biasio non accettava nessuna esortazione nè da parte sua nè da Piero
suo cugino, a condurre una vita da buoni Christiani. Il Cavalleri aveva
sentito a dir da zente di casa sua, che esso Biasio, se manzava carne nelle
vigilie commandate de veneri et sabbadi et anco non osservava la quaresima149. Jacomo quondam Hieronymi de Marignana, abitante a Cinto,
dichiarò di aver sentito il Michiel affermare che non si deve adorar li santi,
ne creder in altro santo, ma solum in dio150. Padre Antonio Alessandrino
cappellano della chiesa di San Giorgio, nel segnalare una persona di Villanova151 in sospetto d’eresia, fa il nome di Blas de Cinto: il qual (...) a me ha
negato il purgatorio et anco li dodici apostoli et ha disputato con mi, con
voler affirmar che sta mal a tenir il crocifisso in casa152.
Nella prima deposizione rilasciata a Latisana il 26 marzo 1563153,
Biasio nega di aver dubitato del purgatorio e dei dodici apostoli, affermando
però che gli sembrava mal fatto lo tenir la imagine della passion de Christo
dove si commetteno i peccati, e perciò aveva fatto dipingere la nostra donna con suo figliuolo in brazzo sotto il nostro portego, ma non nella camera,
per questo rispetto. Negò anche di aver despresiato il degiun, dichiarando
di non averlo rispettato data la sua età. Affermava di essersi confessato et
communicato continuamente, eccetto un anno che haveva una certa inimi148
Come nel caso di Nicolò Tramontin di Latisana, di professione sarto, il quale durante una deposizione rilasciata nel marzo del 1563 al Tribunale dell’inquisizione, dichiara di aver tenuto scuola di
legere scriver et abbaco. Ad una precisa domanda se gli era abituale tenere et legere libros suspectos
de haeresi, rispose di averne avuto alcuno per le mani (...) che dica mal delle messe de san Gregorio.
Giovanna Paolin, I contadini anabattisti di Cinto, il Noncello, n. 50, 1980.
149
Deposizione di .Pietro de Cavalleri possidente agrario originario di Brescia, residente a Campeio
di Portogruaro. Portogruaro, 14 Ottobre 1562 (ASV, S. Ufficio, Processi, b. 18, fasc. Michieli Biagio
e altri).
150
Deposizioni di Daniele Busichio e Giacomo de Marignana, residenti nella villa di Cinto
Portoguaro 28 Settembre 1562 (ASV, S. Ufficio, Processi, b. 18, fasc. Michieli Biagio e altri).
151
Biasio di Michiel dopo il ritorno dalla Moravia, andò a risiedere a Villanova di Latisana.
152
Testimonianze contro Biasio de Michiel nel processo degli anabattisti di Latisana. Latisana, 18
Novembre 1562 (ASV, S. Ufficio, Processi, b. 18, fasc. Michieli Biagio e altri)
150
citia, ma non per sua scelta. In realtà nella deposizione successiva rilasciata
a Venezia confessò: dapoi che io fui in Moravia et che mi partì di là non mi
son mai né confessato né communicato. Questo anche a causa di due preti
(il vicepiovan di Cinto e uno di Portogruaro) che si rifiutarono di confessarlo per la sua fama di luteran.
Biasio decise di rientrare nelle regole religiose canoniche e di sottostare all’abiura e a tutti gli altri atti richiesti dal Tribunale dell’Inquisizione.
Non seguì l’esempio dei suoi ministri anabattisti Francescho della Sega e
Giulio Gherlandi, che non accettando di sottostare alle imposizioni richieste dall’Inquisizione, decisero di immolarsi quali martiri di una nuova fede.
Biasio ritornò alla propria terra e non si fece più notare per comportamenti
eretici. Forse trovò solidarietà fra i “fratelli di Cristo” rimasti nell’ombra, che
rispettavano solo esteriormente le manifestazioni ufficiali della chiesa ma
continuavano a tramandare ai discendenti un’idea forse poco erudita e non
confortata dal potere della scrittura, ma che aveva trovato ascolto in quasi
tutte le case del paese. Un’idea che si era impressa indelebilmente in tante
teste con tale forza e passione da spingere persone di ogni condizione ad affrontare rischi ed avversità pur di trovare asilo in una terra promessa, lontana
dai soprusi del potere e dove era bandito l’esercizio delle armi ed ognuno
poteva sentirsi fratello e mettere ogni suo bene in comune con gli altri.
9. Il miglior viver
Biasio viene citato nei documenti anche per la sua attiva opera di
proselitismo. Valerius quondam Perini Baldassi, lontano parente di Biasio,
dichiara: l’anno passato, quando, che venne da Moravia, mi disse et così
mi richiese, se io voleva andar con lui in terra thodesca a sevir uno gentilhuomo mercante, et io invero voleva andar, ma poi mi pentite, per non
lasciar li miei di casa154. Anche Jacomo quondam Hieronymi de Marignana
dichiara che Biasio gli aveva proposto di andar con lui in quelle parti della
Moravia, perché lui diceva, che era buon vivere in quelle parti, et buona
gente155. Nella sua deposizione resa a Venezia, Biasio ammette questa sua
attività: cercai de persuaderli a venir con mi a Viena a servir a quel gentilhuomo al quale ho ditto di haver servito insieme con quel mio compagno,
153
Deposizione di Biagio De Michiel di Cinto residente a Villanova. (ASV, S. Ufficio, Processi, b.
18, fasc. Michieli Biagio e altri).
154
Deposizioni di Valerio de Perini, Portogruaro 28 Settembre 1562. (ASV, S. Ufficio, Processi, b.
18, fasc. Michieli Biagio e altri)
155
Deposizioni di Daniele Busichio e Giacomo de Marignana, residenti nella villa di Cinto
Portoguaro 28 Settembre 1562, (ASV, Savi all’Eresia, Processi, b. 18, fasc. Michieli Biagio e altri)
151
et cosí mi promisero et poi si rafredirono et non volsero venir. Et così io
tornai et menai solo un Zuan Piero156 fiol di un Menego Molinar da Cinto,
per quel che credo.
Per i contadini che accettano le proposte formulate da Biasio ha un
certo peso il desiderio di poter garantire condizione di vita decenti alla propria famiglia. Anche allora l’emigrazione in altri paesi, era una importante
valvola di sfogo per le famiglie più povere.
La requisizione delle terre comunali e boschive impoverì sensibilmente le popolazione cintese, a vantaggio delle famiglie patrizie e delle
congregazioni religiose. La credibilità dei preti, che fino allora aveva tenuto
in precario equilibrio i tanti privilegi dei grandi possidenti con i pochi diritti dei piccoli proprietari, in questa nuova situazione vacilla di fronte alla
predicazione anabattista che non derogava l’uguaglianza sociale e l’autovalorizzazione personale ad un’altra vita, ma offriva con l’esempio della
comune anabattista di Moravia, un nuovo modello di vita sociale.
Iseppo Gobbito, nella sua deposizione al tribunale di Venezia dichiarò di aver seguito in Moravia Agnolo di Michiel: «qual mi disse che era
miglior viver là in quelle bande et io el credei, perché era puto». Richiesto
di precisare quale era il suo compito in Moravia, risponde: «Feci tutto quello che mi comandava Agnolo et quelli altri, et era come fameglio di tutti
et andava a lavorare al bosco». Per Iseppo la nuova condizione non era
molto diversa da quella che aveva avuto in paese, lavorava tutti li dí eccetto
le domeniche et le feste grande, a servizio di Agnolo de Michiel e degli
altri anabattisti, svolgendo la sua professione di boscaiolo. Anche Agnolo
de Simeoni, che a Cinto stava a patrone et andava con riverentia fora con
i boi, non è soddisfatto dell’esperienza in Moravia.
Biasio de Michiel, ammise di essere stato in Moravia solo sei mesi
continui e poi se ne andò perché non gli piaceva di star là, in quanto non intendeva la lingua di quei todeschi e non gli piacevano quelle sue regole, cioè
quella strettezza di viver, et che bisognava metter ogni cosa in comune.
Lorenzo figlio di Menego Morato della villa de Zero de Trevisana
in una deposizione resa al Tribunale di Venezia disse di esser andato in
Moravia spinto dalla curiosità, (dopo aver sentito che vivevano insieme et
chi non haveva haverà, et chi haveva dava) fece una dichiarazione simile a
quella di Biasio, dicendo di essere ritornato perché l’homo non è in libertà
di cosa alcuna et s’el vuol me perdonerè fino andar a pissar convien a domandar licentia, et li vidi delle altre stettezze, che a me non piacevano157.
156
Fratello di Joanes Jacobi, mugnaio del mulino di Cinto negli anni 1560, e figlio del quondam
Domenici Molendinarj. AS Ve, Luog. Patria Friuli b. 174
157
ASV, S. Ufficio, Processi, b. 19, fasc. Francesco della Sega e altri.
152
Queste testimonianze vanno prese con il necessario scrupolo, in
quanto rilasciate da persone che, per evitare l’incriminazione, avevano tutto
l’interesse a presentare negativamente ciò che avveniva nella comune anabattista. In ogni caso non disponiamo di altri documenti.
In realtà, agli inquisitori, più che l’organizzazione del lavoro, interessava la vita religiosa: volevano conoscere le regole e in che modo se vive
in quelle bande, massimamente nelle cose della religione. Il 29 aprile 1563,
Biasio de Michiel dichiarò quanto segue:
Se fa la cena del Signore et si battezano i grandi se bene sono stati
battezati da picoli et quei che nascono là non si battezano se non quando
sono grandi, perché dicono che bisogna che i sappino quel che fa bisogno. Et quando se vol far la cena del Signore si confessano l’uno all’altro.
(...)La cena si fa che si predica prima per spazio di doi dí et poi si congregano insieme un numero di persone che ariva qualche volta a cinque e sei
cento, et qualche volta passa anche mille. Et qui spezzano del pane et se ne
da un pezzetto per uno in mano et si mangia, dapoi si da un poco da bever
et questo si fa in commemoration del signor Giesú Christo.
Anche Iseppo Gobbito e Agnolo de Simeoni ammisero di aver partecipato a quelle funzioni, giustificando di averlo fatto solo per compiacere
gli altri, senza una vera partecipazione. Per loro tre, la ricerca del miglior
viver non aveva dato i frutti sperati. Ma, nelle dichiarazioni di Biasio e
Iseppo, non vi è astio o risentimento nei confronti degli anabattisti.
153
154
Documenti dell’Inquisizione (1562-1589)
155
156
1. Deposizione di Camillo de Filibertj, nato a Cinto e residente a Venezia.
Venezia 3 marzo 1562
(ASV, S. Ufficio, Processi, b. 18, fasc. Giulio Gheraldi, c 54)
Constituito nell’offitio un huomo vestito alla forestiera di alta statura, et magro nel volto, et con poca barba, di età, come lui disse d’anni 40 in
circa, et domandato del suo nome, cognome, patria, et esercitio, respondit:
«Ho nome Camillo de Filibertj nato appresso Portogruer a Cinto, et
mio padre hebbe nome Paulo, et hebbe pavese, et sono da trenta anni che
io sto in Venetia et al presente sto a S. Lio nelle case del magnifico messer
Zuan Morosinj incorte de cha Gradenigo, et son solicitador de cause in
palazzo, et a casa allozo forestieri».
Respondit interrogatus:
«Ho moglier, ma non ho fioli, et ho in casa una matregna, una nezza, et una massara».
Interrogatus se’l sa, o se’l si può imaginar la causa della sua retentione, respondit:
«Non la so, et non me la posso imaginare, peccator son, ma non so
di haver fatto cosa contra la Santa Madre Giesia».
Interrogatus se’l conosce un Giulio di Girlandi lanternier da Spresian, villa del territorio di Triviso, et da quanto tempo in qua, et come l’ha
conosciuto, respondit:
«Non l’ho mai più sentito nominar realmente se non adesso».
Ei dicto: «adverci bene a dir la verità, perché consta
altramente», respondit: «Se la sarà altramente, facime impicar per
la gola».
(...)
157
2. Deposizioni di Valerio de Perini, Agnolo de Simoni e
Iseppo Gobito della villa di Cinto.
Portogruaro 28 settembre 1562
(ASV, S. Ufficio, Processi, b. 18, fasc. Michieli Biagio e altri)
Die 28 mensis septembris 1562
(...) notario infrascripto ser Baptista Grapeia officialis publicus
Portusgruarij se citasse de comissione reverendi fratis Francisci Pinzini
inquisitoris Sancte Inquisitionis diocesis Concordie infrascriptos testes,
Valerium quondam Perini Baldassij, Angelum quondam Goli Corazza, Josephum quondam Pini Gubbiti omnes de Cynto (...)
Die dicta
Constitutus personaliter Valerius supra scriptus testhis (...)
Interrogatus si agnoscit Blasius (...)
«Io lo cognosco, gia anni assai et è un poco mio parente, et lo cognosco che l’anno passato, quando che venne da Moravia, mi disse et così
mi richiese se io voleva andar con lui in terra thodesca a sevir uno gentilhuomo mercante, et io invero voleva andar, ma poi mi pentite per non
lasciar li miei di casa».
Interrogatus se lo tien et reputa ch’esso Biasio sia catholico, et se lo
ha per buon Christiano, respondit:
«Padre mi da un’anno in qua non lo ho visto andar a messa ne meno
in giesia, et io non so se si confessa et si communica, perché invero non lo
ho visto in giesia come ho detto di sopra».
Interrogatus sel cognosce chel detto Biasio habbi cattiva opinione
con la Santa Madre Giesia, respondit.
«Io non so altramente ch’esso Biasio habbi altra cattiva altramente,
perché io non pratico con lui, et altro io non so de lui».
(...)
Die dicta
Constitutus personaliter Angelus quondam Godi Corazza de Simeonihs, de Cynto, testis ut supra (...)
Interrogatus se agnoscit Blasius nominatum respondit:
«Io lo cognosco et lo ho in pratica per molti anni».
Interrogatus se lo detto Biasio habbi voluto, dapoi che esso venne
da Moravia, de l’altre persone in quelle parti lutherane condure et sedurle a
andar in quelle parti, respondit:.
«Padre l’è vero ch’esso Biasio mi ha richieduto ch’io andasse con
lui, et io li risposi che io era stato per avanti perché fui condutto da Agnol
de Michiel con altri suoi compagni, et così io andai più per vedere mia ma158
dre et miei fratelli et sorelle, quali erano in quelle parti, et habbiando visto
quella setta maladetta et la vita che facevano, io li dissi à esso Biasio de non
voler più altramentie tornar in quelle parti».
Interrogatus se detto Biasio tien vita christiana et sel va a messa et
se si confessa et si se communica, respondit:
«Io non lo ho visto mai dopo che ’l venne da Moravia andar a messa, né meno confessarsi, né communicarsi».
Interrogatus se sa che detto Biasio habbi qualche altra cattiva opinione con l’ordini della Santa Madre Giesia, respondit:
«Jo non lo so, perché io non stago in Cynto né meno ho troppa
pratica con lui».
(...)
Die dicta
Constitutus personaliter Joseph filius quondam Pini Gobiti de Cynto testhis ut supra (...)
Interrogatus si agnoscit Blasius sovra nominatum, respondit:
«Padre ch’io lo cognosco già assai tempo»
Interrogatus sel predetto Biasio dopo che ritornò da Moravia habbi
voluto menar via lui o altri in quelle parti lutherane, respondit:
«Padre sì che me rechiedete mi testimonio se voleva andar con lui
a Viena, et mi fece proferta di volermi dar danari acciò andasse con lui et
io li respose, che mi non voleva andar altramenti in quelle parti, et questo
perché mi voleva dar pochi danari et così restai d’andar».
Interrogatus se sa che’l detto Biasio osserva li veneri, li sabbadi et le
vigilie commandate, et se manza carne in tali giorni prohibiti, respondit:
«Padre sì che so, perche io lo ho visto a manzar carne et altri cibi in
tali giorni prohibiti, et questo io so perché son stato ancora mi testimonio in
la Moravia, perché fui condotto da Agnolo de Michiel con molte altre persone et sono poi ritornato a casa per la cattiva vita che la si teniva, et so che
lo detto Biasio in quelle parti de là si manzava carne in giorni prohibiti».
Interrogatus se sa che detto Biasio dopo che venne da Moravia habbi tenuta et tegna buona vita da christiano, et si se confessa et si communica, et se lo ha visto andar a messa, respondit:
«Questo che lo habbi visto che lui si habbi confessato et communicato, io non lo so, perché io non lo ho visto a confessarsi né meno a comunicarsi, ma ben lo visto qualche volta andar a messa».
Interrogatus se sa che detto Biasio predetto habbi qualche altra cattiva opinione con l’ordini della Santa Madre Giesia, respondit:
«Padre mi non sò, perché non pratico con lui altramente».
(...)
159
3. Deposizioni di Daniele Busichio e Giacomo de Marignana, residenti nella villa di Cinto.
Portoguaro 28 settembre 1562
(ASV, S. Ufficio, Processi, b. 18, fasc. Michieli Biagio e altri)
Constitutus ser Daniel Busichius de Cinto testis (...)
Interrogatus si agnoscit Blasius supra scriptum, respondit:
«Messer si, ch’io lo cognosco per molti anni»
Interrogatus se lo predetto Biasio se confessa et si communica, che
lo habbi visto andar à messa dopo che è ritornato da Moravia, respondit:
«Di questo io non lo so che’l sia altramente confessato, né meno
communicato, perché mi non lo ho visto a confessarsi, né meno a communicarsi ma ben lo visto altre volte a messa».
Interrogatus se sa che detto Biasio habbi cattiva opinioné d’heresia
con l’ordini delli sacramenti della Giesia, respondit:
«Io non so, perché poco pratico con lui et altro non so».
(...)
Constitutus (...) Jacomo quondam Hieronymi de Marignana habitator Cynti testis ut supra (...)
Interrogas se agnoscit Blasium supra scriptum, respondit:
«Io lo conosco dopo che lui venné da Moravia».
Interrogatus se sa che’l predetto Biasio habbia richiesto altramente
di volerlo menar alla volta della Moravia ad andar con lui, respondit:
«Messer si, ch’io so che Biasio predetto più et più volte mi ha richiesto s’io voleva andar con lui in quelle parti della Moravia, perché lui diceva, che era buon vivere in quelle parti, et buona gente, et anco io li havea
promesso d’andar, ma dipoi me pentite et non volsi andar altramente».
Interrrogatus se detto Biasio dopo che lo ha cognosciuto, se lui sa
che si habbi confessato et communicato et vada alla messa et alli divini
uffici, respondit:
«Quanto ch’io habbi cognosciuto mai lo visto a confessarsi, né
meno communicarsi, né manco lo visto andar a messa né in Giesia».
Interrogatus se sa che detto Biasio habbi detto o straparlato con
l’ordini della Santa Madre Giesia, respondit:
«Io non so altro salvo che ho sentito a dir da lui che non si die
adorar li santi, né creder in altro santo, ma solum in Dio, ma sopra l’altri
articoli della fede io non so perché io non pratico con lui».
(...)
160
4. Deposizione del reverendo Giulio vicepievano della Chiesa S. Biagio di Cinto.
Portogruaro, 3 ottobre 1562
(ASV, S. Ufficio, Processi, b. 18, fasc. Michieli Biagio e altri)
In ecclesia Sancti Antonij constitutus personaliter venératus dominus presbyter Julius viceplebanus Sancti Blasij de Cynto testis (...)
Interrogatus se agnoscit Blasius nominatum, respondit:
«Io lo cognosco da un anno in qua».
Interrogatus se sa che Biasio predetto dopo che lui lo cognosce,
che’l sia stato in la Moravia dopo che egli ritornò dal predetto luoco, respondit:
«Io non lo so precise, ma ben ho sentito a dir da una donna nominata Cipriana, che lei mi disse che il predetto Biasio havea sedoto uno suo
figliuolo, il nome del quale precise io non mi aricordo, che lo voleva menar
alla volta de Viena ad uno tagliapietra, tandem andando per la strada esso
Biasio andava sempre seducendolo che’l volesse pure andare insieme con
lui alla Moravia, che lui havrebbe havuto buon tempo et buona vita, et questo io lo so per bocca della predetta donna madre del predetto putto, tamen
dappoi mi ha detto essa donna che’l putto si attrova esser in Viena et che lì
lavora di tagliapietra».
Interrogatus se lo predetto Biasio dopo che venné da Moravia la
prima volta se habbi confessato et communicato, respondit:.
«Io non lo ho mai confessato né meno communicato, né meno lo
ho visto in giesia a messa salvo che domenica passata, che fu alli 27 di
settebrio passato, che fu visto in giesia a messa, ma mi non ho visto altramente».
Interrogatus se lui sa che egli habbi qualche cattiva opinioné con di
esso Biasio circa delli ordini della Santa Madre Giesa, respondit:
«Io non so cosa altro perché io non ho pratica con lui». (...)
161
5. Deposizione di Pietro de Cavalleri possidente agrario originario di Brescia, residente a Campeio di Portogruaro.
Portogruaro, 14 ottobre 1562
(ASV, S. Ufficio, Processi, b. 18, fasc. Michieli Biagio e altri)
Constitutus personaliter dominus Petrus de Cavallerijs brixiensis
testis (...)
Interrogatus se agnoscit Blasius supra scriptum, respondit:
«Messer si ch’io lo cognosco già per anni 15 et questo perché io ho
praticato molto tempo in casa sua nella villa di Cynto».
Interrogatus se sa che dopo ch’esso Biasio ritornato dalla Moravia
et che venuto a Cynto se sia più ritornato in quelle parti per stanziar, respondit:
«Io non so, che lui veramente sia stato più in detto luoco della Moravia, ma ben è vero et so che lui è tornato in quelle parti di terra thodesca
per lo detto di lui, et che è stato in Viena, ma che non è tornato in Moravia,
come lui mi ha detto et referito».
Interrogatus se’l sa, che’l detto Biasio si confessa et communica, et
che vada à messa, respondit:
«Padre sapendo io che lui non si confessa, né comunica et non vada
a messa, io un giorno lo ripresi et lo admoniva formalmente come debbono
fare li buoni christiani, et lui mi rispose dicendomi quello ch’io havea da
fare del fatto suo, dicendo: s’io non mi confesso, né communico, né si vado
a messa, io son meglior christiano di voi. Messer padre vi dico, che lui non
va à messa, né meno so, che si confessa né communica, et di poi Piero suo
cugino, insieme con mi testimonio lo admonissemo che andasse a messa,
et che si confessasse et communicasse, lui rispose dicendo io non voglio
andar a messa né in giesia, che havete voi da far del fatto mio».
Interrogatus se sa che detto Biasio se mangia carne de giorni prohibiti, et che faccia quaresima et osservi le vigilie, respondit:
«Padre, io non lo ho visto altramenti a manzar carne, né altri cibi
prohibiti al tempo delle vigilie né de veneri né de sabbadi, ma ben è vero
che ho sentito a dir da zente di casa sua che esso Biasio, se manzava carne
nelle vigilie commandate de veneri et sabbadi et anco non osservava la
quaresima ma et più padre parlando con lui un giorno io lo riprendeva che’l
volesse osservar l’ordine della Santa Madre Giesia, lui mi rispose, dicendo
che (...) io credo esser mior de frati et de preti del papa et quando ch’io
intesi questa risposta io li dissi lascia star de parlar de preti et de frati et
de pontefici perché tu non sei sufficiente, né degno de toccar l’ordeni della
Santa Madre Giesia, et invero lo tengo in mal conto et mala opinione con la
Santa Madre Giesia et generalmente in ogni conto».
162
Interrogatus se sa che’l Biasio contrafaccia altri ordeni della Santa
Madre Giesia oltra di quello che ha deposto, respondit:
«Io non so altro».
(...)
163
6. Ricorso di Biagio de Michiel e disposizione del tribunale
dell’Inquisizione di Venezia.
Venezia, 22 ottobre 1562
(ASV, S. Ufficio, Processi, b. 18, fasc. Michieli Biagio e altri).
Comparse nell’offitio un certo huomo vestito con un gabano et un
gonelletto sotto color rovano alla forestiera, di statura mediocre, et di età
(...) de anni quaranta in circa. Et si dolse che haveva inteso che il reverendo
padre inquisitore di Concordia formava processo contra di lui in Portogruaro solo senza l’ordinario et senza l’assistenza del magnifico podestà
ad istigazione di alcuni suoi malevoli in materia spettante alle religioni et
fede nostra. Però supplicò, che questo Sacro Tribunale volesse abbracciare
la sua causa, che lui si offeriva di stare a quanto da esso Santo Tribunale
sarà determinato.
Et interogatus de eius nome, cognomine patria, et exercitio, respondit:
«Ho nome Biasio di Michieli da Cinto et son lavorador de terre, et
son della villa de Cinto sotto la diocese di Concordia».
(...)
Al reverendo padre Francesco Pinzino dell’ordine di frati minori
conventuali in Portogruaro.
Reverendo padre honorato.
È comparso al Sacro Tribunale della Santa Inquisitione un ser Biagio di Michieli da Cinto dolendosi che la persona vostra reverenda, da sola
senza il reverendissimo ordinario del loco suo reverendo vicario, et senza
l’assistenza del clarissimo rettore, proceda a formatione di processo contra di lui in materia delle cose della religione contra le parti dell’eccelso
consiglio di dieci sopra ciò desponenti. Però acciò che se costui fosse per
aventura colpevole egli non resti impunito, et insieme acciò che in questo
negozio si proceda secondo la forma delli sacri canoni et delle parti prese
sopra ciò da questo Serenissimo Dominio, sarete contento subito al ricever
di questa di inviarne qua per persona fidele et sotto uno sigillo tutto il processo che haverete formato contra di costui, che non mancheremo di qua di
far quanto ci parerà che in questo caso ricerchi la giustitia, et nostro signor
Dio sia sempre in sua custodia.
Di Venezia adi 22 di ottobrie del 1562
164
7. Lettera di Francesco Pinzino, padre inquisitore della diocesi di Concordia.
Portogruaro, 26 ottobre 1562
(ASV, S. Ufficio, Processi, b. 18, fasc. Michieli Biagio e altri).
Alli clarissimi et illustrissimi signori deputati al Sacro Tribunal della Santa Inquisitione di Venecia (...)
Domenica passata prossima ricevete litere di vostre clarissime signorie qual me cometevano li mandase zoso il processo formato contra
Biasio de Michiel de Cinto sotto sigilo nostro, dove con ogni hobedienza et
reverentia subito me ho sforciato mandarlo zoso a vostre clarissime signorie bolato con il sigilo nostro.
Quanto poi (...) haver saminato et formato processo solo senza la
presentia dil reverendo vicario di Concordia, (...) se ho saminato solo con il
mio nodaro la causa prima è che sua reverenda signoria non sta qui in Porto
ma stava in Concordia lontano un bon miglio di me, poi li testimoni stano
di lontano di Porto et si rendono dificile a venir in Concordia per la occupacione loro (...), tamen non ho fatto cossa alcuna senza il fundamento di sua
signoria reverenda. Inmediate formato che hebbe il processo, il portai zoso
a sua signoria reverenda aciò lo vedese et poi tra noi considerasimo quello
dovevamo fare. Sin qui non è stato fato altro contra el detto Biasio.
Vostre clarissime signorie scrivano anco non ho observato li ordini
haver formato processo senza la presencia dil nostro clarissimo rectore, (...)
la causa gliè quatro anni non havemo formato altro processo contra questi
tali, non solum contra questo Biasio perché tutte le cose del Officio Inquisitione in Concordia, non me à accoresto far cossa alcuna qui in Porto (...) il
proceder mio è stato sempre sincero e Dio benedetto el sa questa fatica io fo
per mantener il zello de Dio et lonor della nostra Santa Madre Giesia, non
guardando a fatica né spesa mia propria in defendere la santa fede (...).
Quanto alle cosse di questo Biasio (...) già dui anni in circa el fugite de Cinto con alquanti e se né andò a stanciar in la Moravia dove stano
persone luterane et fano vita molto disperata, et questo Biasio stete deli
alquanti mesi. Ritornò in Cintho pasata che fu la ricolta, pigliò non so che
dinari et andò in Alemagna, lui dice esser stato in Viena, tamen alli costumi
soi non gliè de darli fede. Et ritornato in Cintho non si à visto in lui un bon
costume né ato cristiano et più volte l’ò fato chiamare (...) desiderando de
amonirlo paternalmente (...) tamen mai l’è comparso, solum una volta che
io hera amalato.
165
Intindendo il proceder suo di molti homini degné di fede ho voluto
saminare contra di lui per intendere la vita sua per redurlo alla vita cristiana, et che viva sicondo li ordini della Santa Madre Giesia.
Vostre Clarissime Signorie vedrano il processo et farano quello a
lor parerano, remetendome sempre alla hobedienza (...).
Data in Porto Gruaro alli 26 octobrio 1562
Fra Francesco Pinzino Inquisitor di Concordia.
166
Profili immaginari degli anabattisti di Cinto
167
Biasio de Michiel
8. Lettera del tribunale dell’Inquisizione di Venezia diretta a
padre Francesco Pinzino inquisitore di Concordia.
Venezia, 5 novembre 1562
(ASV, S. Ufficio, Processi, b. 18, fasc. Michieli Biagio e altri).
Al reverendo padre fra Francesco Pinzino inquisitore in Concordia.
Reverendo padre,
Havemo veduto le vostre litere insieme con il processo mandatoci
in la causa de Biasio da Cinto, et perché il detto processo è formato per voi
solo, non lo potemo mettere in construtto perché l’é necessario che nelle
essaminatione de testimoni et formatione di esso processo oltra la persona
vostra che de’ intervenir come inquisitore, è necessario che anche gli intervenga il reverendo vicario (...) con il clarissimo rettor di Portogruer. Però
voi resaminerete li medesimj testimonj, cioè li farete replicar et ratificar
il loro, et ratificarlo poi cum iuramento, con l’assistentia come è detto del
clarissimo rettore e vicario sopradettj, et non altramente, et ci trasmeterete
detto processo così formato (...)
(...).
Di Venetia, adi 5 di novembre del 1562
168
9. Testimonianze contro Biagio de Michiel nell’istruttoria
processuale degli anabattisti di Latisana.
Latisana, 18 novembre 1562
(ASV, S. Ufficio, Processi, b. 18, fasc. Michieli Biagio e altri).
Constitutus ad offitium Cancellerie Latisane coram reverendo domine inquisitore antenominato [frate Francesco Pinzino] (...) ser Vincentius
filius quondam ser Petri Bacchuccij, cognominatus dell’osto in Portu Latisane (...)
Interrogatus de Blasio Cynti, respondit:
«Io non l’ò sentito a parlar di questo, ma ho ben sentito a dir, che lui
sia stato principal ad introdur queste heresie in questa giurisditione».
(...)
Constitutus ubi supra veneratus presbyter Antonius Alexandrinus
capellanus in ecclesia Santi Georgij (...)
Interrogatus, respondit
«Son pochi giorni che son qui, ma per questo poco tempo io ho discoverto alcuni, li quali per coscientia debbo revelare, et prima in Villanova
nella nostra diocese Blas de Cinto, il qual non sa legger né scriver, ch’io
creda, et a me ha negato il purgatorio et anco li dodici articoli, et ha disputato con mi, con voler affirmar che sta mal a tenir il crocifisso in casa (...)».
(...)
Constitutus ubi supra Baptista Fantinutus de cadem villa Sancti Michaelis (...)
Interrogatus de Blasio Cynti, respondit:
«Io non so altro, se non che già tre anni ch’io era in casa sua per
andar a Udene, lui mi disse che mai digiuna le vigilie, perché basta che
Christo ha digiunato per noi».
Interrogatus de alijs inquisitis, respondit.
«Ho sentito a murmurar di mastro Nicolò Tramontin, di mistro Antonio favro, di Marcoantonio spiciaro, e mi par anco di Panfilo, et di Zuan
Cervel, ma di certezza io non so altro, perché non ho sentito, né ragionato
con loro».
(...)
169
10. Lettera di padre Francesco Pinzino inquisitore di Concordia al tribunale dell’Inquisizione di Venezia.
Portogruaro, 24 gennaio 1563
(ASV, S. Ufficio, Processi, b. 18, fasc. Michieli Biagio e altri).
Magnifici et clarissimi signori
Con quella debita riverenza che si conviene ossequiendo le litere
di vostre clarissime signorie, con presentia del magnifico podestà di Porto
Gruaro et substituto del reverendo vicario di Concordia ho repetito et fato
ratificar le depositioni fatte per li testimonij esaminati da me contra Biasio
de Cintho, con juramento che prima non havea fatto et questo per non haver
cognitione della parte presa nell’ecc.mo Consiglio dei Dieci.
De qui in poi occorendomi io non mancarò de essequir detta parte.
Qual processo et testimonj reperiti sotto le presente mie litere et sigillo invio, (...) et se si ha ritardato è occorso non già per negligentia mia ma per la
infermità del suddetto magnifico rettore, et anco per non haver potuto così
haver in pronto gli testimonij, (...) circa il detto processo formato contra di
esso Biasio. (...).
Per non aver altro a vostre signorie illustrissime humilmente mi
dono et ricomando.
Data in Porto Gruaro, alli 24 zenaro del 1563
Fra Francesco Pinzino Inquisitor de Concordia.
170
11. Deposizione di Biagio de Michiel di Cinto residente a
Villanova
Latisana, 26 marzo 1563
(ASV, S. Ufficio, Processi, b. 18, fasc. Michieli Biagio e altri.)
Da G. Paolin, I contadini anabattisti di Cinto, “Il Noncello”, 50, 1980.
Constitutus ubi supra Blasius de Cinto in Villa Nova habitans citatus per eundem commilitonem referentem et factis prius salutaribus monitionibus in forma, interrogatus de plano si sciat causam suae citationis,
respondit:
«Io non lo so altramente»,
Interrogatus super imputationibus factis in processu, et primo si negaverit purgatorium, respondit:
«In che modo posso io negar il purgatorio, del qual la scrittura ne
parla? né mi raccorda mai d’haver contrastato o parlato di questa cosa».
Interrogatus si negaverit duodecim articulos fidei, respondit:
«Per quel Dio ch’io adoro mai ho havuto pensier de dir una simil
cosa et de contravenir alla parola delli apostoli. Ma se 1’è qualche persona
che dica altramente non posso piú, potria esser ogni cosa; ma non so mai
d’haver ditto tal parola».
Interrogatus si dixerit non esse tenendam imaginem crucifixi in domibus, respondit:
«L’è vero ch’io 1’ò detto per questa ragione, parendomi che sia mal
fatto lo tenir la imagine della passion de Christo dove si commetteno i peccati, et io ho fatto depenzer la nostra donna con suo figliuolo in brazzo sotto
il nostro portego, ma non nella camera, per questo rispetto. Et se questo è
mal ditto, l’ho ditto per ignoranza, et prego Dio che mi perdoni perché io
non ho intention di viver contra gl’ordini di Dio».
Interrogatus si consueverit facere confessionem sacramentalem et
accipere eucharistiam temporibus congruis et frequentare ecclesiam et audire missam, respondit:
«Io non ho despresiato il degiun, ch’io mi raccordi, anci ho detto
che il digiuno è instituito per lo astenersi dal peccato et faccio degiunar li
miei de casa, avvenga ch’io in questa età non posso farlo. Et da quatordesi o
quindesi anni in qua mi son confessato et communicato continuamente, eccetto un anno ch’io haveva una certa inimicitia, ma non perché io non stimi
la fede et la confession et communione. Et dubitandosi di questo, essaminisi il mio confessor et anco li huomini da ben della villa, et trovandosi ch’io
sii de mala vita o che io non sia il primo a venir in chiesa et continoamente
aldito messa et aiutato a cantarle, et senza di me credo che malamente si
canteriano. Io mi contento che si proceda contro di me, ma se alcuno per
171
malevolenza vuol dir altramente, non posso piú. Ben è vero che, praticando
alcuni anni Piero Contin in queste parti et disseminando molte openioni,
io vegniva ogni anno a conferir con li predicatori per rimovermi dalle sue
false openioni. Et finalmente li dei commiato con colera, acciò non venisse
piú, sì come anco non è venuto».
Et interrogatus quomodo sibi acquisiverit nomen et publicam famam luterani et principalis haeresiae in hoc loco, et si noverit alios complices haeresiae, respondit:
«Io con ogni mio sapper et poter et con ogni amorevolezza curo di
insegnar quel poco ch’io so alli ignoranti et riprender li vitii manifesti. Et lo
faccio con carità, se questa mia buona opera è receuda in mala parte, io non
posso altro. Ma io non conosco alcuno a mia sapputa che sia heretico».
Et demum monitus ut melius cogitet de veritate dicenda, prius relectum confirmavit et ita fuit dimissus.
172
12. Deposizione di Giovanni Cervelli di Cinto residente in
Sollaceto.
Latisana 26 marzo 1563
(ASV, S. Ufficio, Processi, b. 18, fasc. Michieli Biagio e altri).
Constitutus ubi supra Joannes Cervellus in Sollaceto jurisdicione
(...) Latisane Chitas (...).
Interrogatus si sciat (...) sue citationis, respondit:
«Mj no, ma vi risponderò di quello che mi domanderete».
Interrogatus si habeat mala opinionem de missa et ecclesiam et non
revereatur sanctos, respondit:
«Io vado volentieri a messa quanto ogni altra persona, et vado con
buona intention, et vegno sempre a questa pieve a messa, et io porto reverentia alli santi, et credo che possino appresso Dio, il qual è patron».
Interrogatus respondit:
«Io mi confesso et communico ogni anno alli tempi debiti, et l’anno
passato mi confessai dal prete rosso de San Zorzi, et l’anno avanti da pre
Domenigo, che è morto, et l’altro anno da un frate de Santa Gnese, qual fu
chiamado dalli miei patroni, e fece confessar tutti li suoi massari».
Interrogatus cur habeat fama et nome Luterani, et si habeat cummertium cum Lazaro Dosato, vel alijs luterants, respondit:
«Perché io son da Cinto mi dicono luterano, et è vero che pratico
alcuné volte con Lazaro Dosato, et ho sentito a dir diversi che è luterano,
ma io non so, né ho parlato delle cose della fede con lui, al qual alcuna volta
ho detto voler andar a messa, il qual ha detto va, ch’io no voglio venir».
(...)
173
13. Deposizione di Biagio de Michiel al tribunale dell’Inquisizione di Venezia
Venezia, 29 aprile 1563
(ASV, S. Ufficio, Processi, b. 18, fasc. Michieli Biagio e altri).
Da G. Paolin, I contadini anabattisti di Cinto, “Il Noncello”, 50, 1980.
Constitutus in officio Blasius de Michaelibus suprascriptus de villa
Cinti alias eidem officio sponte presentatus, et rationabilibus de causis ad
certum tempus tutte licentiatus et demum citatus ad se personaliter representandum et interrogatus an sciat vel imaginari possit causam quare fuerit
citatus ad se representandum, respondit:
«Io penso di esser sta’ citado per quello che dissi altre volte qui per
esser stato a Viena et perché intesi che si formava processo contra de mi in
Portogruaro dal reverendo padre fra Francesco Pencin inquisitore ».
Interrogatus se’1 sa sopra che cosa il detto padre inquisitore formava processo, respondit:
«I me imputava de luteran et un Piero di Micheli, che è mio cusin,
per galder la mia roba era quello che mi dava impazzo, et che dete i testimonii in nota al detto padre inquisitore da essaminar contra di me».
Interrogatus se esso constituto è mai stato in Moravia et a che fare,
respondit:
«Io ghe son stato una volta con un mio cusin detto Agnolo di Micheli, il quale rimase là insieme con sua mogier et può esser da sei anni
in circa. Et andai pregato dal detto mio cusin per tenerli compagnia. Et vi
steti da 6 mesi continui et poi mi partiti perché non mi piaceva di star là,
che non intendeva la lingua di quei todeschi et non mi piacevano quelle sue
regole».
Ei dicto che regole sono queste che non li piacevan, respondit:
«Quella lingua et quella strettezza di viver, et che bisognava metter
ogni cosa in comune».
Ei dicto che ’l continui di dire che regole son queste et in che modo
se vive in quelle bande, massimamente nelle cose della religione, respondit:
«Se fa la cena del Signore et si battezano i grandi se bené sono stati
battezati da picoli et quei che nascono là non si battezano se non quando
sono grandi, perché dicono che bisogna che i sappino quel che fa bisogno.
Et quando se vol far la cena del Signore si confessano l’uno all’altro».
Interrogatus se lui ha fatto tutte le cose predette, respondit:
«Io fui battezato da un ministro thodesco et mi trovai una volta a far
la cena nel modo che fano loro».
Dicens interrogatus:
«La cena si fa che si predica prima per spazio di doi dí et poi si con174
gregano insieme un numero di persone che ariva qualche volta a cinque e
sei cento, et qualche volta passa anche mille. Et qui spezzano del pané et se
né da un pezzetto per uno in mano et si mangia, dapoi si da un poco da bever et questo si fa in commemoration del signor Giesú Christo». Subdens:
«Et cosí anch’io ho fatto tutte quelle cose che facevano gli altri nél
tempo che steli lì».
Interrogatus quanto tempo è che esso è tornato da quelle bande,
respondit:
«Può esser da doi anni».
Ei dicto come può star questo havendo detto di sopra che sono da
sei anni che lui andò in quelle bande et vi stete solo sei mesi, respondit:
«La verità è che steli là come ho detto solamente sei mesi, poi mi
partite et andai vagabondo in qua et in là, et finalmente mi affermai in Viena
con un mio compagno detto Isepo, pur della villa de Cinto, a servir a un
genhilhuomo. Et finalmente questo mio compare et mi venissemo in qua».
Respondens interrogatus:
«Questo Isepo se trova nella detta villa de Cinto et è ribattizato
anche esso et ha fatto tutte quelle cose che ho fatte anche mi in Moravia,
perché semo stati sempre insieme da buoni fratelli. Et detto Iseppo è un
poveretto che va a lavorar al bosco et ha solamente madre et doi fratelli, et
so padre si chiamava Piero Gobito».
Interrogatus se ’1 conosce altri nella detta villa o altrove che sta
stato là in Moravia et che sia stato rebattizato, respondit:
«Signor si. Lì in Cinto vi è anche un Agnolo fiol de Menego Corazza, il quale è stato là, ma non in mia compagnia, et so che è stato rebatezato.
Et questo il so di sua bocca propria, et non conosco altri che questi».
Interrogatus se dapoi che 1’è tornato a queste bande esso si è confessato et communicato secondo il rito della santa chiesa romana catholica
et apostolica, respondit:
«A dir il vero dapoi che io fui in Moravia et che mi partì di là non
mi son mai né confessato né communicato. E’ vero che son stato due volte, cioè questa quaresma prossimamente passata denanzi al vicepiovan de
Cinto et l’altra quaresma prossimamente precedente a questa a Portogruer
dinanzi ad un prete che non mi ricordo per confessarmi, ma essi sapendo
che io haveva nome de luteran non mi han voluto ascoltare. Et questo ultimo mi ascoltò, ma non mi volse assolvere».
Interrogatus se esso constituto ha voluto et cercato di condur alcun
altro in Moravia et a quelle bande, respondit che non. Interrogatus se l’ha
mai parlato con un Valerio de Perni et con un Agnolo Corazza et con un
Giacomo de Marignana et con Ioseph Gubiti, et persuaseli di andar con
esso constituto in Moravia, respondit:
175
«Dapoi che fui tornato a queste bande, parlai con li sopranominati
et cercai de persuaderli a venir con mi a Viena a servir a quel gentilhuomo
al quale ho ditto di haver servito insieme con quel mio compagno, et cosí
mi promisero et poi si rafredirono et non volsero venir. Et così io tornai et
menai solo un Zuan Piero fiol di un Menego Molinar da Cinto, per quel che
credo».
Interrogatus che cosa el menava a far là costoro, respondit:
«Quel genhtlhuomo, il quale è dottore, et è stato in studio in Padova
et sa molto ben la lingua nostra et ama italiani, ma non mi ricordo il suo
nome, mi ricercò che volesse menarli 4 o 5 garzoni che voleva farli lavorar
de vedri et de savon, et per questo io desideroso di servirlo cercai di menarli
questi sopradetti».
Interrogatus se questo gentilhuomo a chi el servi viveva alla catholica overo alla luterana, respondit:
«L’era catholico, l’andava alla corte del re Massimiliano».
Interrogatus se esso constituto ha mai parlato con alcuno della
venérazioné et intercessione de santi et se ha osservato le vigilie, sicome
comanda la santa chiesa in astenersi dal mangiar carne et altri cibi prohibiti,
respondit:
«Quando io era dalle bande de là mangiava della carne ogni dì come
facevano loro. Et quando son stato de qua, ho fatto come gli altri che viveno
de qua et non ho mai parlato né de veneration né de intercession de santi».
Quibus abitis non fuit pro nunc ulterius interrogatus et decretum
per reverendos dominos, etiam cum assistentia clarissimi domini Andreae
Sanuto, quod detrudatur in casono Sancti Joannis in bragora, in quo permanere habeat usque ad expeditioném causae. Et sic fuit per ministros conductus.
176
14. Seconda deposizione di Biagio de Michiel al tribunale
dell’Inquisizione di Venezia.
Venezia, 6 maggio 1563
(ASV, S. Ufficio, Processi, b. 18, fasc. Michieli Biagio e altri).
Da G. Paolin, I contadini anabattisti di Cinto, “Il Noncello”, 50, 1980.
Constitutus in officio supradictus Blasius et continuando eius constitutum fuit interrogatus an cogitaverit dicere plena veritatem et exonerare
conscientiam suam, respondit:
«Che volete che io dica, caro signor?».
Fuit sibi dictum ch’el dica la verità et non altro et specialmente se
l’ha cercato di condur altri in Moravia, se l’ha sparlato contra la veneratione et intercessione de santi, contra l’andar a messa et contra il santissimo
sacramento della eucharestia, respondit:
«Mi non ho mai cercato de manar nissun in Moravia, ma solamente a Viena, come dissi l’altro dí. Et quando son stato con coloro, non son
andato a messa, ma quando son venuto de qua ghe son andato quando ho
potuto. Et non ho mai detto male né della veneratione né della intercessione
de santi. Et quello che ho fatto l’ho fatto ignorantemente. Et son gramo et
dolente de tutto quello che ho fatto et prego Dio che me perdoni».
Interrogatus se 1’è parato a pentirse et a voler abiurar tutte queste
sue impietà et reconciliarsi al gremio della santa chiesa romana catholica et
apostolica, et far humilmente la penitentia che da questo sacro tribunale li
sarà imposta, respondit:
«Signor si, farò il tutto».
Quibus habitis fuit remissus ad locum suum et decrete lítere ad
magnificum dominum potestatem Portusgruarii pro citandis complicibus
nominatis per suprascriptum Blasium in eius proxímo constituto tenoris
infrascripti videlicet.
177
15. “Fedi” di buona condotta rilasciate da pre Giulio vicepievano di Cinto.
Cinto, aprile/giugno 1563
(ASV, S. Ufficio, Processi, b. 18, fasc. Michieli Biagio e altri).
A voi Magnifici Patronj et Signori miei honoratissimi sopra la heresia
Fede faccio io pre Giulio vicepievano di Cyntho come alli 9 de aprile del 1963 il presente lattor [Biasio de Michiel] di questa mia sia venuto da
mi per confessarsi in detto giorno che fu il venére santo. Io ho confessato
ma non assolto per causa di ordini del reverendo fra Francesco Pincino
inquisitor, come appare per una sua litera di sua mano la qual è appresso
de mi.
Non altro, solum alla bona grazia di vostre illustrissime signorie di
continuo mi aricomando et afferro.
Di Cinto 1563, alli 25 aprile
Fede faccio io pre Giulio vicepiovano di Cyntho come il presente
lattor di ser Angelo delli Symeonj za anni 3 in circa ogni anno io ho confessato et communicato di Pasqua. Et è obediente alla Santa Madre Giesia.
Non altro, solum alla bona grazia di vostre illustrissime signorie di continuo mi aricomando et afferro.
Di Cinto 1563, alli 6 giugno
Fede faccio io pre giulio vicepiovano di Cyntho qualmente il presente lattor nominato Isepo fiol del quondam Piero Gobbito za uno anno et
mesi 10 in circa in questo poco di tempo alli tempi debiti ho confessato et
communicato. Et per Iddio grazia, bono christiano, et è obedientissimo alla
Santa Madre Giesia.
Non altro, solum alla bona grazia di Vostre Illustrissime Signorie di
continuo mi aricomando et afferro.
Di Cinto 1563, alli 13 giugno
178
Profili immaginari degli anabattisti di Cinto
Stefano Stolin
179
16. Deposizioni di Iseppo Gobito e Agnolo de Simeoni al
tribunale dell’Inquisizione di Venezia.
Venezia, 8 giugno 1563
(ASV, S. Ufficio, Processi, b. 18, fasc. Michieli Biagio e altri).
Da G. Paolin, I contadini anabattisti di Cinto, “Il Noncello”, 50, 1980.
Iosephus quondam Petri Gobiti de villa Cinti, Concordiensis dioecesis, citatus ad comparendum personaliter ad instantiam hinc sancti officii,
se presentavit sponte et inibi constitutus et interrogatus se ’l sa o se ’l si può
imaginar la causa per la quale el sia stato citato respondit:
«Mi non so quel che si vole da mi».
Interrogatus se l’è mai stato in Moravia et a che fare et in compagnia de chi, respondit:
«Signor si, et fui menato via da un Agnolo de Michel anche esso
della villa de Cinto, il qual mi disse che era miglior viver là in quelle bande
et io el credei, perché era puto».
Respondens interrogatus:
«Penso di haver da 24 anni in circa».
Ei dicto: «Quanto tempo è che tu andasti in Moravia, respondit:
«Può esser da cinque anni, et steti là quasi tre anni».
Ei dicto: «Che cosa festi là in questo tempo?», respondit:
«Feci tutto quello che mi comandava Agnolo et quelli altri, et era
come fameglio di tutti et andava a lavorare al bosco».
Ei dicto se nel tempo ch’el stete là el fu rebattezato et fece la cena
del Signore nél modo che la fanno gli annabattisti, respondit:
«Io fui rebattezzato da un todesco et feci la cena del Signore come
facevano gli altri».
Subdens ad interogationem:
«Io non me confessai mai nel tempo che steti là, et mangiava carne
non facendo differentia de un dí all’altro, et lavorava tutti li dí eccetto le
domeniche et le feste grande».
Et in summa multipliciter interrogatus respondit:
«Io faceva tutto quello che facevano gli altri».
Interrogatus se dopo che l’è tornato de Moravia el se ha confessato
et comonicato, respondit:
«Mi son confessato et comonicato due volte».
Et sic dicens exhibuit actualiter quandam fidem cuiusdam presbiteri
Iulii viceplebani dictae villae Cinti tenoris ut in ea, per quam attestatur audivisse in confessione dictum Iosephum ab hinc decem mensibus et illum
comunicasse. Interrogatus se l’ha detto al suo confessor di esser rebatte180
zato, di haver fatto la cena del Signor et di haver mangiato carne ogni dí
indifferentemente, respondit:
«Signor no, perché io non le credeva queste cose».
Interrogatus se 1’è parato a pentirsi di queste sue impietà et di voler
esser assolto nella forma consueta della santa chiesa et esser reconciliato
et far di questi suoi errori humilmente tutta quella penitentia che li sarà
imposta, respondit:
«Io farò ogni cosa volentiera».
Quibus habitis non fuit pro nunc ulterius interrogatus.
Dicta die.
Angelus quondam Dominici de Simeonibus de dicta villa Cinti, citatus ut supra, comparuit et se personaliter presentavit et interrogatus se ’l
sa o si può imaginar la causa perché el sia stato citato a questo sacro tribunale, respondit:
«Io no ’l so, ma mi andava imaginando, perché son stato essaminado a Portogruaro dal padre inquisitor Pencino et dalla magnificentia del
podestà contra Biasio da Cinto di esser citado qua anche per questo ».
Interrogatus se l’è mai stato in Moravia et che tempo, con chi et a
che fare, respondit:
«Signor si vi son stato, può esser da 4 in 5 anni, salvo il vero. Et
dirò alle signorie vostre come vi fui. Questi cani di questi lutherani vennero
a Cinto et desviorno mia madre et un mio fratello et una mia sorella, et io
all’hora stava a patrone et andava con riverentia fora con i boi. Da lì ad un
anno questi lutherani tornorno et mi dissero che mia madre desiderava di
vederme et che io volesse andar là anche mi; et io desideroso di veder mia
madre andai. Et arrivato là la trovai morta et mio fratello infermo, il quale
anche esso morì pochi dì dapoi, et morí anche mia sorella. Non sapendo
che mi fare, non havendo la lingua di quel paese né denari da spendere, mi
affermai là per spacio quasi di un anno, nel qual tempo fui rebattezato da un
todesco et feci la cena del Signore et tutte quelle altre cose che fanno quelli
heretici. Dapoi dispiacendomi quella vita mi ritirai in un altro paese, detto
Austrolis, dove sono diverse sete, et mi messe a servire un signore buon
christiano et catholico, et steti con esso da circa tre mesi fin che mi avanzai
un poco de soldi, et con quelli me né ritornai in qua che può esser circa tre
anni. Dal qual tempo in qua mi son confessato et communicato».
Respondens interrogatus:
«Mi non so se ghe habbia ditto al confessor che me ribattizasse in
Moravia, né che facesse quelli altri errori».
Ei dicto che’l dica chi sono questi heretici che inviorno sua madre
et lui per Moravia, respondit:
181
«El fu un Agnolo di Micheli da Cinto et un Francesco da Rovigo».
Interrogatus come haveva nome sua madre, respondit:
«Gnese».
Interrogatus se questo Agnolo et Francesco menorno via altri, respondit:
«I né ha menati via tanti che non vel saprei dire; et quello Agnolo menò via tutta la sua fameglia et quel Francesco menò via alcuni da
Rovigo».
Interrogatus se l’è pronto a volersi pentire delli suoi errori et volerli
algiurare et reconciliarsi alla santa chiesa et far humilmente quella penitentia che li sarà imposta da questo Santo Officio; respondit:
«Signor sí, son contento de far tutto quello che voranno le signorie
vostre et di viver christianamente, si come hanno vivuto i nostri vecchi et
non cercar altre leze, et si come comanda Dio et la santa madre chiesa romana».
Quibus habitis non fuit pro nunc ulterius interrogatus.
Mag.ci et clar.mi s.ri et patroni mti oss.mi
182
17. Lettera del tribunale dell’Inquisizione di Venezia a padre Francesco Pinzino.
Venezia, 19 giugno 1563
(ASV, S. Ufficio, Processi, b. 18, fasc. Michieli Biagio)
Al reverendo padre frate Francesco Pinzino dell’ordine de fratij minori inquisitore
Habbiamo spediti a questo Sacro Tribunale Biasio delli Michieli,
et Anzolo del quondam Domenego di Simeoni, et li habbiamo rimandati
sotto custodia a spese del Santo Officio a Cinto, acciò che nella ditta villa
dove hanno commesso gli errori et sono grandemente diffamati per heretici
abiurino pubblicamente le loro impietà.
Pero la prefata vostra reverenza subito ricevute le presenti si trasferirà fino alla detta villa per far dare la debita essecutione alla sententia secondo la forma et contenuto di essa, et a questo effetto le mandiamo inclusa
nella presente la copia, così di essa sententia, come della abiurazione.
Et perché quello infelice di Iseppo del quondam Piero Gobito,
dovendo ancho esso essere ispedito insieme con quelli altri dui, havendo
spontaneamente come loro confessà di essere stato rebatizato, et molte altre
sue empità anabattistiche, si è contumacente absentato (...) per debito di
Giustitia ritrovandosi costui in nella sua giurisditione, lo faccia ritenere, et
lo mandi in qua per li medesimi ministri nostri, li quali havevanno condutto
la li predittj Biasio, et Anzolo.
(...)
Implorando il braccio secolare per nome nostro in sussidio della
giustitia dovunque farà bisogno nelle città et lochi sottoposti a questo Serenissimo Dominio, acciò che questo ribello di Dio, et della sua santa fede,
guidato dal demonio et infettato come egli è non vada ad infettare degli altri
nelli lochi dove esso et il suo morbo non è conosciuto.
Et nostro signor Dio sia sempre in vostra custodia.
Di Venetia à 19 di giugno del 1563.
183
18. Lettera del tribunale dell’Inquisizione di Venezia al podestà di Portogruaro.
Venezia, 19 Giugno 1563
(ASV, S. Ufficio, Processi, b. 18, fasc. Michieli Biagio)
(...)
Delli tre rei da Cinto inquisitij per conto della Religioné et venutj
qua a presentarsi personalmente né havemo espediti solamente dui, li quali rimandamo sotto custodia di alcuni ministri di questo Sacro Tribunale
acciò che il reverendo padre inquisitore col favor et braccio della magnificenza vostra li faccia abiurar publicamente nella chiesa o pieve della villa
di Cinto dove sono diffamati di heresia. Et perché il terzo che è Iseppo
del quondam Piero Gobito della medesima villa si è contumacemente absentato da questo Sancto Officto nel tempo che anche esso doveva essere
espedito come gli altrj, la magnificenza vostra sarà contenta per debito di
giustitia ritrovandoci costui nella sua giurisditione di farlo subito al ricever
della presente retenere, et di mandarmelo qua sotto la custodia delli medesimi nostri ministri, acciò che questo ribaldo non si possi giovar della sua
malizia et caso che egli si fosse absentato anche dalla sua giurisditione la
magnificenza vostra ad honor di Dio, et per estirpar queste piante pestifere
sarà contenta di usare diligenza per intender s’egli si trova in alcun loco del
Serenissimo Dominio.
Et (...) aiutare il padre inquisitore in tutti quelli modi che parerà alla
sua prudentia acciò che (...) possa impetrare la ritenzione di costui da quelli
magnifici rapresentantj del detto Serenissimo Dominio nella cui giurisdizioné si troverà questo tristo (...).
Di Venetia, i XIX di giugno 1563
184
19. Abiura di Biagio de Michiel.
Venezia, (...) 1563
(ASV, S. Ufficio, Processi, b. 18, fasc. Michieli Biagio e altri)
«Io Biasio di Michaeli da Cinto, constituito in iuditio avanti voi
reverendi iudici (...) tocando con le mani proprie li sacrosanti Evangeli giuro che credo con il cuore et con la bocca confesso quella santa fede, qual
confessa, insegna, et predica la sacrosanta Apostolica, et Chatolica Romana
Giesia, et conseguentemente abiuro, revoco, renego. refugo et detesto ogni
heresia de qualunque conditione, o setta si sia, la quale se leva contra la
Santa Romana Giesia.
Ancora giuro che credo con il core et la bocca confesso, che il vero
sacramento del Batesimo, mediante il quale l’huomo diventa membro di
questa et della sua Chiesia, è quello, ch’insegna, et dà, et intende la Santa Romana, e Chatolica Chiesa, secondo l’antiqua institution, et osservata
da lei sino al di d’hoggi, et conseguentemente abiuro, revoco, et detesto
quell’heresia de Anabatisti quale tiene che detto Batesimo non sia vero
sacramento, non si debbia dar a piccoli fanciulli, et falsamente crede ch’il
sia dato solamente a grandi sia il vero Batesimo, secondo la qual heresia io
misero et infelice son stato rebatizato, de la qual cosa mi doglio con tutto il
core et chiedo perdono, prima al signor Iddio et à voi reverendi iudici et a
voi clarissimi assistenti a questo Sacro Tribunale.
Ancora giuro che credo con il core e con la bocca confesso che la
vera cena del Signore è il santo sacramento de la Eucarestia chiamato vulgarmente della Communione qual insegna la santa Chatolica Chiesia Romana, et conseguentemente abiuro revoco et renego quella cena del signore
trovata da la perfida heresia de gl’Anabattisti della chiesa di Moravia nella
qual io misero et infelice mi son ritrovato et di quella ho partecipato, della
qual cosa mi doglio con tutt’il core, et chiedo perdono come di sopra.
Ancora giuro che credo con il core et con la bocca confesso non
esser lecito al fidel christiano mangiar carne nelli giorni proibiti dalla sacrosanta Romana Giesia né nelli giorni prohibiti dalla stessa far operationi
manuali et affermo tal probizione esser buona et santa, et conseguentemente abiuro revoco renuntio renego et detesto l’heresia qual falsamente dice
che ogni tempo è lecito mangiar carne che come è lecito operare, come io
infelice e misero ho fatto trovandomi in Moravia, del che mi dolgo con
tutt’il core et chiedo perdono come di sopra.
Ancor giuro ch’io credo con il core et con la bocca confesso che la
vera chiesa di questo Salvator nostro è la Sacrosanta et Chatolica Chiesa
Romana, et che le sue institutioni sono sante et buone, et conseguentemente
che la chiesa de gli Anabattisti de Moravia è chiesa del demonio e, le sue
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institutioni sono false e pernitiose, la qual chiesa et costitutioni con qualunque altra chiesa et constitutioni adverse et contrarie e, non sottoposte alla
Chiesa Romana abiuro revoco renuntio et detesto, e dogliomi sino nel core
che per qualche spatio di tempo io habbia vissuto in ditta chiesia de Moravia et di questo ve domando perdono come di sopra.
Ancora giuro et prometto, che quando sarò dimandato da voi reverendi iudici o, da altri per vostro nome,o da vostri successori più presto
che como doversi potrò mi presentarò personalmente per intender le vostre
volontà.
Ancora giuro e prometto che ogni penitenzia la qual mi ponerette
per gl’erori et heresie mie non la refutarò né a quella contravenerò, ma più
presto le adempirò à tutte le mie forze et se contra le predette cose giurate
o abiurate aver alcuna delle preditte mai per alcun tempo contravenerò (che
Dio me né guarda).(...) ».
186
20. Lettera del padre inquisitore Francesco Pinzino.
Portogruaro, 27 giugno 1563.
(ASV, S. Ufficio, Processi, b. 18, fasc. Michieli Biagio)
Magnifici et clarissimi signori et patroni nostri (...)
Mercore passato essendo in Udine venendo dil castello del clarissimo signor Locotenente, qual era stato per saminare alcuni testimonij di un
imputato de heresia me fu presentato una litera (...) di quello santo tribunale
con la sententia et abiurazione contra quello Biasio de Michiel de Cinto et
Agnolo suo collega.
Dove subito lette le litere (...) con hogni hobedienza me sforzai di
trovare una cavalcatura et subito me partite per Porto Gruaro et il giorno de
San Zuane, a hore 21, me ritrovai qui in Porto qual ancora non era gionti
li soi ministri con el detto Biasio et Agnolo, et sopra sedete fin sabato qual
rivarno qui in Porto, et cusì con la grazia de Dio dominica qual è hozi semo
andati tutti alla villa de Cinto et li havemo fato tutto quello che (...) me anno
commandato et non se à mancato ponto de eseguir (...) come a boca meglio
potrà narar li suoi ministri.
Et veramente a quello Iseppo del quondam Piero Gobito subito che
fui gionto qui in Porto non mancai de usar hogni diligencia fosse ritenuto
cusi con il favor del nostro magnifico podestà, questo con il brazo del signor Capitano della Meduna qual è sotto la sua jurisdicione non guardando
a spesa mia propria a spedire un nuncio al detto Capitano (...).
Pur con l’aiuto de Dio fu ritrovato quello gramo de Isepo lì in Cinto, et subito visto el fece prender dali ministri (...) et cusì consegnatolo al
suo Capitano et compagni labbiano a condure al tribunale santissimo sotto
quella custodia (...).
(...).
Data in Porto Gruaro, alli 27 zugno del 1563
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21. Seconda deposizione di Iseppo Gobito al tribunale dell’Inquisizione di Venezia.
Venezia, 8 luglio 1563
(ASV, S. Ufficio, Processi, b. 18, fasc. Michieli Biagio e altri)
Constituito ut supra Iseppo del quondam Piero Gobito.
Fu domandato per qual causa el non comparse quel giorno che’l
doveva comparire secondo l’ordine et monitione havuta et fattali da questo
sacro Tribunale, respondit:
«Non comparse perché era amalato, et non aveva un bezzo da spendere».
Ei dicto perché non venistu quando vene l’altro suo complice, rispondit:
«Non venne perché era amalato»
Ei dicto che mal lamentastu, respondit:
«Credo che haveva il mal de paron, et steti tre di, che non mangiai
un pan».
Ei dicto, perché el non venne a dir una parole a questo Sacro Tribunalj avanti che se partisse, respondit.
«Ho detto che era amalato».
Ei dicto, dove eri tu amalato, respondit:
«Là in villa».
Ei dicto, perché te partì poi de qua essendoti stato commesso, che
tu dovesse comparire il sabbato ad udir sententia.
Non respondit ad propositum
(...)
188
22. Sentenza contro Iseppo Gobito.
Venezia, 10 luglio 1563
(ASV, S. Ufficio, Processi, b. 18, fasc. Michieli Biagio e altri)
Invocato il nome di Gesù Christo, sedendo pro tribunali, et havendo
solamente Dio dinanzi agli occhi.
Per questa nostra sententia, (...) nella causa vertente nell’Officio
della Santa Inquisitione fra esso Officio da una banda et Iseppo del quondam Pietro Gobito della villa di Cinto nella diocese di Concordia reo inquisito sopra alcuni errori hereticali et anabattistici dall’altra parte, attendendo
che visti et diligentemete considerati li meriti delli processi formati così
per il reverendo padre inquisitor di Concordia, come per noi contra il detto
reo l’havemo ritrovato convenuto et etiam spontaneamente confesso esser
incorso dannabilmente nelle pestifere heresie degli anabattisti, et haversi
fatto rebattizare, et haver praticato lungamente con essi anabattisti nella
provincia di Moravia, et fra tanto haver fatto con esso loro la cena del Signore, et haver mangiato carne et altri cibi prohibiti indifferentemente ogni
giorno, et in summa haver fatto e tenuto et creduto tutto quello, che fanno,
tengono, et credono li detti anabattisti nella predetta provincia di Moravia.
Et tornato di qua anchorché habbia finto et simulato di viver catholicamente et di confessarsi et communicarsi, non haver mai però manifestati al suo confessore li preditti suoi errori anabattistici, né mai haverne
havuto il beneficio della absolutione, per il che havemo fatto che il detto
Iseppo ha abgiurato tutte le dette sue empietà, delle quali consta nelli detti
processi formati contra di lui, lo havemo assoluto nella forma della Chiesa
consueta.
Ma acciò che esso così per le dette empietà, come per essersi absentato da questo Santo Offitio presontuosamente et senza alcuna licentia
patisca qualche penitentia, et sia di esempio anche agli altri, volemo et
condamniamo et penitentiamo il detto Iseppo, che’l sia condotto à Portogruaro dalli ministri dell’Offitio et che sabbato prossimo che sarà oggi otto
giorni in sull’hora del mercato sia posto in un loco pubblico et eminente
nella detta piazza o mercato, dove stia incoronato overo imitriato per spacio di tre hore con un breve in lettere maiuscole che dica, Per heretico et
disubidiente, et dappoi sia condotto alla villa di Cinto dove la domenica
mattina nella Chiesia della pieve della detta villa, dopo detto lo Evangelio,
il vicepiovano faccia publicamente et nella maggior frequentia delli suoi
parochiani reiterare al detto Iseppo la sua abiuratione facendolo tenere una
candella accesa in mano, et da poi publicare, che ogni uno intenda, che la
presente sententia.
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Le quali cose eseguite volemo che’l detto Iseppo stia per spatio di
due hore ingenochiato à genochi nudi avanti la porta maggiore et più frequentata della ditta chiesa con la candella come di sopra, con una caveza al
collo, domandando perdono a Dio delle sue empietà, et che per spacio de
cinque anni prossimi futuri el sia obligato à confessarsi et communicarsi
al manco due volte all’anno, cioè nella festa della Natività et in quella di
Pasqua di Resurrettione del Signor nostro Gesù Christo. Et che per tutto il
detto tempo nel dì della solennità del Corpo di Christo el sia tenuto andare
ad accompagnarlo nella processione, che si suol fare in quel dì pubblicamente a piedi nudi et una candella accesa in mano. Et in evento ch’el non
adimpisca le penitentie predette in tutto over in parte volemo et deliberemo
adesso per all’hora (...) che mancando et contravenendo esso Iseppo sia
sottoposto alle pene stabilite dalli sacri canoni contra gli impenitenti. Et
così dicemo, sententiamo, penitentiamo, volemo, et deliberiamo con ogno
miglior modo che havemo potuto et potemo.
(...)
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23. Lettere del Tribunale dell’Inquisizione di Venezia al podestà di Portogruaro e al vicepievano della Chiesa di Cinto.
Venezia, 15 luglio 1563
(ASV, S. Ufficio, Processi, b. 18, fasc. Michieli Biagio e altri)
Al magnifico signore Giacomo Pasqualigo Illustrissimo Podestà di
Portogruaro (...)
Mandiamo sotto la custodia delli ministri dello nostro Officio dell’
Inquisitione di questa città Iseppo del quondam Piero Gobbito della villa de
Cinto, a fine che per penitenza delli suoi errori et ad esempio di altri esso
sia in berlina overo sul palo, o in altro loco eminente su la piazza del mercato in Portogruaro sabbato prossimo futuro in sul’hora propria del mercato
dove egli habbi da stare tre hore continue immitriato overo incoronato con
un breve, che li sarà attaccato dalli detti nostri ministri per maggior sua
ignomia. Però la magnificenza vostra così in questo, come in ogni altra occorenza che facesse bisogno ad essi nostri ministri, sarà contenta ad honor
di Dio, et per debito di giustitia di prestarli il favore et braccio suo, (...).
Di Venetia, a 15 di luglio 1563
Al reverendo vicepievano della Chiesa di Cinto amico nostro carissimo (...).
Poi ché il reverendo padre inquisitore non si può avere così comodamente per l’absenza sua in Udine, havemo deliberato di dar carico a voi
della esecutione della sententia, che abbiamo fatta contra Iseppo del quondam Piero Gobito.
Li mandiamo adunque copia cosi di essa sententia come della abgiuratione, acciò che la vediate, et la facciate essequire in tutto et per tutto
secondo il tenore et contenuto di essa domenica prossima futura. Et di
tutto il seguito né dovete con una vostra nota. Et Dio sia sempre in vostra
custodia.
Di Venetia, alli 15 di luglio 1563
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24. Esecuzione della pena di Iseppo Gobito in piazza del
mercato a Portogruaro e nella Chiesa di Cinto.
Portogruaro, 18 luglio 1563
(ASV, S. Ufficio, Processi, b. 18, fasc. Michieli Biagio e altri)
(...)
Avendo receute litere di vostra clarissima signoria delli 15 instante
consegnatimi sabbo prossimo passato dalli ministri suoi, per debbita et riverente executione di quella fu posto in berlina lo istesso giorno di sabbo
su la piaza del mercato in questa tera, nella hora propria del mercato, Isepo,
del quondam Piero Gobbito della villa di Cinto, a fine de penitencia et ad
exempio de altri, ove è stato tre hore continuate incoronato, et il giorno de
oggi mandato alla villa, in tutto secondo (...) suddette litere di vostra clarissima signoria alla bona gracia della quale per sempre mi raccomando.
Portus gruarij die 18 julij 1563
Victorius Michael Portusgruarij Pottas
Magnifici et illustrissimi signori sopra la heresia
(...) di quanto si contien in essa litera (...) alli 18 luio nello giorno de
domenica ho fatto lo Offitio a comandamento deli vostri illustissimi signori
come sarà refferto (...) per li vostri offizalj.
Non altro solum alla bona grazia di vostri illustrissimi signori di
continuo mi aricomando et afferro
Cyntho, pre Giulio vice piovan
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25. Lettera dell’inquisitore padre Francesco Pinzino su
Agnolo de Michiel.
Concordia, 23 agosto 1563
(ASV, S. Ufficio, Processi, b. 19, fasc. Francesco della Sega e altri)
Magnifici et clarissimi signori
Hozi l’è comparso qui di me ser Piero de Michiel della villa di
Cintho, et me à detto esser venuto et comparso al officio della Meduna uno
squizaro qual è stato molti anni in la Moravia dove s’ano tradoto de molti
ribaldi et nimici della santa religione et fra gli altri sono molti della villa di
Cinto et uno è chiamato, Agnolo Michiel, qual fu in processo et iudiciato
de eresia, qual scampò via da Cinto et menò seco sua madre et sua moglie
et fioli con alquanti appresso, qual furono al numero di vintisei, et lì sempre sono stati in quello loco discomunicato et maledetto, qual fano una vita
molto diabolica.
Dove questo Agnolo vedendolo fugito con tutta la sua famiglia et
menò via alquanti animali et roba in quelle parti, io come inquisitore della
diocese di Concordia fece una intimazione a ser Piero de Michiel suo cugino non dovesse in avanti dar cosa alcuna a questo Agnolo fugito senza
licenzia mia, e questo non lo fece per altro si non per meter un terore a
quella villa de Cinto, perché ne fugivano furtivamente molti sedoti però di
questo Agnolo. Al presente me par, esser comparso questo squizaro, qual
stava in Moravia, et à portato una procura di quelle parti qual dimostra haver comprato di questo Agnolo ducati cento et vinti (…) e ser Piero detto
de Michiel li era debitor avanti se partise, dove vedendo io questa inteligencia che costoro se fano tra loro dua per portar tal beni in detta Moravia,
mi è parso avisar il tutto a vostro clarissimo aciò me dicano come me devo
governare.
Il presente latore, qual’è ser Piero, dirà il tutto a boca le cose come
vano. Et il tratato loro. Non saria fora de proposito quanto parese a vostre
eccellenze clarissime scriver una sua litera a quelli astanti della Meduna
non li dovessero dar fede alcuna a quella sua patente fata in Moravia, pur
del tutto me remetto al judicio di vostra signoria clarissima et di quel Santo
Tribunale non manca a provedere dove va l’onor d’Iddio et usar hogni diligencia a estirpar li rebeli de Dio et della nostra Santa Madre Giesia, pur
ch’io poscia non guardo a fatica, né meno costami siano a pericolo della
mia vita. Ho voluto dire il tutto a vostra magnificenza clarissima acio loro
me scrivano come io me debo governare et no havendo altro per hora a vostra magnificenza clarissimo de continuo humilmente mi dono (...)
Portogruer 23 agosto 1563
Fra Francesco Pinzino inquisitor
193
26. Lettera del tribunale dell’Inquisizione di Venezia ai giurisdicenti della Meduna.
Venezia, 30 agosto 1563
(ASV, S. Ufficio, Processi, b. 19, fasc. Francesco della Sega e altri)
Al magnifico messer Iseppo Michele Signore et Capitano et spettabili Astanti della Meduna
Perché havemo inteso che all’officio vostro in Meduna è comparso
un certo sguizzero, il quale si intende che è stato molti anni nella Moravia
con una commissione fatta nella persona sua da uno Agnolo de Michieli da
Cinto, eretico notorio et anabattista in virtù alla quale commissione pare
che quel sguizzero intenda di conseguire un credito del predetto Agnolo di
120 ducati contra un ser Piero pur di Michieli da Cinto.
Però perché è mente di questo Serenissimo Dominio (...) che siano
del tutto sradicate queste pestifere piante noi per il compito che havemo à
questo Santo Offizio della Inquisitione, (...) vi commettemo che per modo
alcuno non debbiate lasciar che il detto sguizzero conseguisca cosa alcuna
in virtù della detta sua commissione non ché de li beni o crediti o altre ragioni del detto Agnolo de Michielj sia fatto ritratto alcuno per trasportarlo
altrove et massimamente in servitio di eretici et inimici alla santa fede nostra, ma che detti beni o frutti et entrate che di essi si caveranno et ogni suo
credito et ragione sia tenuto in loco overo appresso persone sicure fin che
altro vi sarà ordinato di quanto si haverà da fare.
Et perché dubitiamo che il detto sguizzero sia uno contumace et
fuggitivo da questo nostro sacro tribunale manderemo un ministro del nostro officio a posta per riconoscer se egli è quello del qual dubitiamo, et
in caso che il detto nostro ministro lo riconosca presente, sarete tenuti per
debito di giustizia di farlo rilevare et custodire sicuramente et sotto buonissima custodia a darci aviso perché manderemo altri nostri ministri per condurlo qua nelle forze nostre et eseguir contra di lui quel tanto che ricercherà
la giustizia. (…).
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27. Deposizione di Cristoforo Cestaio di Cinto.
Concordia, 7 maggio 1589
(Ar.Arcivescovile Udine., S. Ufficio, b. 9, processo n. 168)
Da G. Paolin, I contadini anabattisti di Cinto, “Il Noncello”, 50, 1980.
Constitutus Christophorus cestarius de Cinto, testis ex officio assumptus, citatus per ser Baptista Parvis comilitonem ut retulit, iuratus, monitus de dicenda veritate et interrogatus iuramento suo dixit et deposuit ut
infra videlicet. Interrogatus respondit:
«Sono partiti molti et credo che tuti quelli che sono partiti siano
lutarani et in spetie è una che si chiama Fiorentina con una sua nora et un
suo fiolo Agnolo, che menorono doi fioli de detto Agnolo et si dice che sono
morti, vi andò un altro chiamato Biasio de Michiel et è ritornato qua et poi
è morto. Et poi andò via Agnese de Goro con dei fioli, uno maschio et una
femina, quali anche sono morti; Piero Contino con sua moglie, quali sono
morti; uno chiamato Masentio con la moglie et dei fioli, et si dice che sono
morti; uno che aveva nome Iseppo Curbin, qual ho inteso ch’è morto, et una
nezza de Steffano Stolin non maritata; uno nominato Maran da Settimo, che
in quel tempo stava a Cinto; Lunardo nepote de Steffano Stolin et Agnolo de
Goro, che andò via doppo et trovò sua madre et li suoi che erano morti et restò solo mai che tornò in qua, qual anche a1 presente vive et habita in Cinto
perché non li ha piacciuto quella fede, et lui sa raccontar quanto si fa de là.
Et andò via anche Tonia mia moglie con doi fioli, et per tal segnal la sera me
imbriago. Et si partite sul mezzo zorno. Altri che siano andati non so».
Interrogatus respondit:
«Erano venuti certi lutarani delli via et dicevano che la messa non
valeva niente, et cosí se li desviò».
Interrogatus respondit:
«Li menorono un pocchi alla volta et poi tornavano, ma non
si sapeva chi fusse il cappo che li guidasse». Interrogatus respondit:
«Maron compare de Pasqualino menò seco Lunardo nepote
de Pasqualino Stolin» adens ex se dixit «perché era venute doi donne per menar via la donna di questo Stilin et io piangeva et sosperava et li
disse lutarane marze et le malediva, mai che una matena essendo andato a
tuor aqua ser Zuanne Contin stava con pezzo di legno per bastornarmi».
Interrogatus se nella villa de Cinto vi è alchuno heretico,
respondit: «Io non so, ma tutti si confessano et communicano». Interrogatus quali sono boni christiani, respondit: «Sono 1’infrascritti: sono
li Meneghini tutti quanti, Valerio
de Vido, li Filippi et altri». Et factis etc. ei delatum futt iuramentum
de taciturnitate.
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Tipografia Sartor srl Pordenone
Dicembre 2005
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