Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista

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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista
Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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“Decisi di recensire dischi non per l’infantile bisogno di gettare fango o gloria sugli
artisti e sulle loro creature bensì per giungere alla radice del mio gusto e soprattutto per
sondare le mie aspirazioni artistiche. Non tutti i dischi recensiti sono egualmente importanti
per me. Ho giudicato lavori anonimi, utili all’ascolto, così come album storici, nel senso
d’una loro precisa collocazione nell’universo dell’arte sonora. Ad ognuno di essi ho cercato
di assegnare un peso attraverso un metro di giudizio che mi giunge dall’assiduo ascolto di
musica e che, in questi pochi anni della mia vita, ho cercato di affinare con eleganza e
sapienza. Non assurgo certo a critico, deplorevole mansione. Piuttosto ad audiofilo.
Produco musica e tutto ciò che scrivo su di essa è influenza o tentativo di rivalsa.”
Francesco Mendozzi
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Kraftwerk Electric cafe
(01/06/06)
Questo è un album che la critica liquida con un “di transizione”. Ma
quale transizione? I Kraftwerk non dovevano andare da nessuna
parte! Non servono mica a rinfoltire quella schiera di musicanti
pseudoartistici! Electric cafe lo considero un ottimo album - certo,
dura poco - ma quanto basta per concettualizzare alcune cose.
Innanzitutto il futurismo, così fortemente vivo nella traccia Boing
boom tschak, che assomiglia tanto a Zang tumb tumb del geniale
Filippo Tommaso Marinetti. E poi ci sono i manifesti musicali del
XXI secolo: Techno pop (titolo ingenuo perché inflazionato negli
anni a seguire) e Musique non stop. Gli altri sono i pezzi della maturità pop (ovvero volk)
della band dusseldorfiana. Sex Objekt e Der Telefon Anruf sembrano ottime per la radio a
spalla, mentre Electric cafe dà l’idea di un moderno bar dove discutere di arte politica,
perché è così che la chiamano i robot tedeschi. Di certo è un lavoro diverso, forse perché
non è un concept-album, ma non ho nessun problema a posizionarlo sullo stesso scaffale
di Trans Europa Express, Die Mensch-Maschine, Computerwelt o Autobahn.
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Franco Battiato Campi magnetici
(02/06/06)
L’opera elettronica per eccellenza di Franco Battiato (2000).
Questo disco, composto per un avanguardistico balletto, contiene
in sé innumerevoli geniali trovate. Innanzitutto il tema del
movimento, che esso sia degli atomi, dei sentimenti, delle stagioni.
In trance lo definirei lunatico e avrebbe bisogno di litio per
stabilizzarsi, Corpi in movimento canta invece la fisica, associando
a conduttori e magneti le interazioni tra due corpi vivi. Fulmini
globulari e La corrente delle stelle sono retroscena musicali fatti di
rumorismi digitali e improvvisazioni ambientali. The age of
hermafrodites è un vero e proprio capolavoro: basta difatti soffermarsi sul titolo per capirne
il progressismo, L’era degli ermafroditi, e forse, invece di robot, diventeremo bisessuati.
L’ignoto e Suoni primordiali sono altre due tracce della regressione italiana di fine secolo
scorso. L’outro è La mer, interpretato da Manlio Sgalambro, difinibile lui come filosofo
dell’edonismo e la canzone come omaggio alla Francia che non c’è più. Nel disco una
citazione che vale la pena di ricordare: «I numeri non si possono amare».
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St. Germain Tourist
(03/06/06)
L’album è di St. Germain, pioniere dell’elettronica dance in Europa
assieme a Laurent Garnier e Shazz. Tourist è il suo terzo lavoro
dopo Boulevard e From Detroit to St. Germain ma è anche il suo
vero e proprio capolavoro. Contiene tutte le istanze del nu-jazz,
dell’house, della deep, della chill-out. I pezzi più emozionanti sono
sicuramente Pont des Arts, So flute e Rose rouge, ma minori non
sono La goutte d’or o Latin note. Tutto è ben amalgamato in questo
album: lo si può ballare, lo si può godere sdraiati sul divano, lo si
può lasciare in play mentre si fa l’amore o lo si può utlizzare come
sottofondo ad una cena galante. Inutile nascondere che la Francia dei DJ in tutto ciò è
maestra e nel disco di St. Germain si annusa proprio quell’odore di una Parigi retró che si
gode la sua belle époque sulle panchine dei Campi Elisi. Sono oramai passati anche degli
anni e St. Germain non si è più fatto vivo, ma noi che lo conosciamo bene aspettiamo
febbrilmente un nuovo e scontato capolavoro di Ludovic Navarre. Nel frattempo, Tourist
rimane comunque un album che può cambiare il modo di vedere la musica, oggi.
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Daft Punk Human after all
(05/06/06)
Terzo lavoro di studio dei Daft Punk, Human after all lo si può
considerare la risposta alle istanze dei Kraftwerk. E non una presa
di distanze. Perché se è vero che la band di Düsseldorf sosteneva
nel lontano 1978 che il robot (o l’uomo-robot) era l’essere perfetto,
nel 2005 i Daft Punk rispondono che dopotutto noi siamo uomini e,
come tali, perfetti di per sé. Non manca neanche in questo lavoro la
critica alla televisione e a tutte le sue odierne degenerazoni (come
in Television rules the nation e The brainwasher) che anzi risulta
essere il minimo comun denominatore del disco. C’è però anche la
contaminazione rock come in Robot rock e alcuni brani risultano molto noise (Steam
machine e The prime time of your life). Senza cambiar formula da Discovery, i francesini
elettronici ci regalano due tracce di elettronica soft come Emotion e la strepitosa Make
love. Il cambiamento musicale che molti aspettavano dai Daft Punk non c’è stato ma il
prodotto è all’altezza della loro discografia e soprattutto della migliore elettronica
continentale. E poi, per quale motivo avrebbero dovuto invertire la rotta?
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Gotan Project Lunático
(06/06/06)
Finalmente i Gotan Project sono tornati e hanno sfornato il loro
secondo capolavoro. Dopo il sensazionale La revancha del tango e
la riuscitissima compilation Inspiración - Espiración, questi tre
produttori di Francia tornano con un nuovo capitolo di
inetichettabile sound jazz/tango/rap/electro/house. I diamanti del
disco sono sicuramente Notas, Diferente, La vigüela e Celos.
L’odore è a tratti quello della pampa Argentina e a volte quello dei
boulevard parigini. Questo disco farà storia così come il suo
precedente e la farà per almeno due motivi: innanzitutto i Gotan
portano una totale ventata d’aria fresca nel clima musicale internazionale, ormai viziato dal
rap miliardario dei negri americani e dal rock elettronico che ci ha veramente avvilito;
inoltre Lunático ha il buon proposito di mischiare in maniera egregia la dicotomia storica
dell’uomo, ovvero il passato col presente/futuro. Resta il fatto che la composizione del
disco è come sempre matematica, nel senso che nulla è improvvisato in presa diretta, ma
dimostra che saper fare la musica è una dote naturale. Disco assolutamente perfetto.
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Assalti Frontali Mi sa che stanotte…
(07/06/06)
Nuovo album per gli Assalti Frontali, collettivo rap romano. Dopo lo
splendido lavoro hip-hop Banditi e un album di rock contaminato,
ecco finalmente un nuovo lavoro di rap militante. Stavolta i temi
sono di un’attualità sconvolgente e lo si capisce da pezzi come Che
stress i Ros, Quasi come vivo o Ribelli a vita. La lotta armata
contro il potere istituzionalizzato qui diventa guerra a suon di rime e
di scratch, e il rifiuto dell’amministrazione della mondializzazione
viene gridata nei brani del disco. Digos e Ros vengono mandati a
quel paese: Mi sa che stanotte… è quindi un album contro. Gli
Assalti Frontali lo hanno sempre sbandierato, già da quando muovevano i primi passi nello
storico Forte Prenestino di Roma, portando i loro live in mezza Italia (o meglio, in capitale)
con rime taglienti come coltelli. Il disco, nel complesso, è una conferma del grande talento
hip-hop della band - certo nulla di più - però chi ama lo street-rap non rimarrà di certo
deluso dall’ascolto. Anche il loro rock presente in album come Hic sunt leones, Terra di
nessuno o Conflitto è carico di significati ed è di discreta qualità. Bene così.
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Vasco Rossi C’è chi dice no
(08/06/06)
Questo è l’album del 1987 del Vasco nazionale, sicuramente uno
dei migliori, che vide trionfare il rocker in tutta Italia con un galattico
tour. Nei brani del disco c’è il Blasco provocatore, strafatto,
sporcaccione e maledetto. Gioielli come C’è chi dice no, Ridere di
te, Brava Giulia e Lunedì sono pezzi di storia della musica italiana.
E anche le sottovalutate Ciao e Non mi va sono quelle canzoni che
inquadrano Vasco Rossi nell’ambito degli artisti della gioventù
sconvolta (come la chiama lui). Nel complesso questo album è
davvero un capolavoro del rock, che come sempre regala anche
perle di saggezza spiccia e di romanticismo esasperato. Oggi Vasco non è più così,
impegnato com’è a fare il moralista e il manipolatore di idee; ai suoi concerti sono sempre
meno quelli che tirano di cocaina o che si sbronzano dieci ore. Più che sotto il palco
dell’Heineken Jammin’ Festival sembra di essere ad un incontro dei giovani di C&L. Tutti
impegnati solo ed esclusivamente a cantare e urlare le canzoni degli ultimi dischi: quasi
nessuno più che ricorda l’animale Blasco, la leggenda, il mito, il maledetto Blasco.
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Aphex Twin drukQs
(09/06/06)
Che album questo del 2001 di Aphex Twin! Trenta tracce di
sperimentalismo, di elettronica, di drum’n’bass, di elettroacustica.
Bello davvero. Eppure la critica non lo vede di buon occhio perché dice - troppo eclettico e sembra quasi che Aphex queste decine di
tracce le abbia tirate fuori dal suo archivio su hard-disk. Pesano
però come pietre Vord hosbn, Bbydhyonchord, Jynweythek o
Gwarek 2; e basta scorrere i nomi dei brani per rimanere davvero
sorpresi (neanche tanto perché AFX lo conosciamo bene). Si
leggono infatti parole incomprensibili e non-sense nell’inlet,
esperimenti di pratica sonora elettronica che invece il senso ce l’hanno: il senso della
ricerca. E la ricerca del nuovo millennio è chiara: accanto ai frenetici beat Aphex tappezza
la struttura sonora di melodie vecchie di secoli (almeno sembra) cosicché canzoni che
paiono essere acide e cattive, si rivelano invece bonarie e romantiche. Questa sarà forse
la vera indole del Beethoven di Cornovaglia, ed è così che ci piace, quando negli strepitosi
Selected ambient works Richard D. James costruiva i fondamenti della nuova elettronica.
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(10/06/06)
AIR Premiers symptômes
Secondo album degli AIR dopo lo strepitoso debutto di Moon safari.
Ma Premiers symptômes può, a differenza del precedente e dei
successivi lavori, essere considerato un concept-album a modo
suo e non solo perché tutte le sette tracce che lo costituiscono
siano impregnate di lounge. I brani che, ad un attento ascolto,
risaltano subito sono J’ai dormi sous l’eau e Le soleil est près de
moi; mentre il ruolo di smuovere il disco tocca a Gordini mix di Alex
Gopher e a Casanova 70. In questo album echeggiano suadenti
vocoder, sensuali linee di basso e solidi riff di organo hammond.
Oggi potrebbe sembrare la musica che Claude Challe, David Visan e Ravin hanno messo
nel calderone delle compilation Buddha-Bar ma - fidatevi - Premiers symptômes è molto di
più. È musica da salotto, da camera da letto, da hotel a cinque stelle. I due francesini ci
abitueranno, negli anni a venire, all’elettronica più daftiana con Cherry Blossom girl o Don’t
be light. Ma è questo il disco più sottovalutato della loro discografia e - guarda caso l’unico disco di perfetto French touch gainsbourgiano degli ultimi tempi.
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Tosca Suzuki
(11/06/06)
Secondo album degli austriaci Tosca aka Dorfmeister & Huber.
Suzuki è un album di dub lo-fi, il tutto mischiato nel nu-jazz.
Straordinarie e molto evocative tracce come la title-track o
Annanas, Busenfreund o Boss on the boat, The key o Orozco; i
Tosca, con questo album, si confermano numeri uno nel genere.
Avevano provato già con Opera ma il risultato era stato molto più
ambient. Nel 2000, invece, Suzuki irrompe sulla scena artistica
europea portando a galla tutte le istanze della bassa fedeltà, cioè
linee di basso portentose e batterie jazzate, voci grevi condite di
minimalismo di accordi. Di questo album uscirà in seguito anche una versione di remix
dove gli eminenti Deadbeats, Cosmic Rocker, Philippe Lussan, dZihan & Kamien ecc.
rivisiteranno tutti i brani del disco originale. I Tosca hanno poi ampliato con successo la
loro discografia (con Dehli9 e J.A.C.) ma Suzuki, per originalità e creatività, rimane
imbattuto. Bellissima la copertina con i fantasmi in accappatoio di Richard Dorfmeister e
Rupert Huber. Disco storia, come la loro etichetta G-Stone Recordings.
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Klaus Schulze Dosburg online
(12/06/06)
Klaus Schulze, da solista, ha iniziato a fare musica nel lontano
1972 e da allora non ha mai smesso di suonare il sintetizzatore. Un
maestro a tutti gli effetti. Dopo decine di album, nel 1997 dà alle
stampe il lavoro Dosburg online, fortemente elettronico. Le nove
tracce che lo compongono sono un amalgama perfetto di moog,
sintetizzatore e drum machine. Brani come L’age core, Requiem
fürs Revier e Groove’n’bass contengono forti contaminazioni di
dance elettronica mentre Get sequenced (sulle potenzialità del
sequencer), The power of moog e Up, up and away ci ricordano
invece il peso degli storici supporti della cultura moderna musicale. Inoltre, From dawn til
dask e The art of sequencing fungono entrambe da sessioni di elettronica per DJ alle
prime armi. Certamente Schulze è geniale ed è alquanto difficile prendere lezioni da lui
ma, ascoltando la sua discografia, si può imparare almeno la progressione e
l’improvvisazione del synth. Brano bonus è Primavera, vero componimento danzereccio
con un retroterra culturale di non poco conto. Il tutto può intitolarsi Lezioni di sintetizzatore.
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Paolo Conte Elegia
(13/06/06)
Ultimo lavoro di studio per Paolo Conte, prima del recentissimo live
Arena di Verona. Elegia (2004) è uno dei suoi album più belli e
contiene tutti gli elementi che hanno fatto di Conte uno degli artisti
italiani più apprezzati all’estero. Canzoni come India, Bamboolah,
La vecchia giacca nuova, La nostalgia del Mocambo e Sandwich
man sono tipiche della tradizione jazz/swing nazionalpopolare. Ed
è proprio il tema della nostalgia quello predominante nel disco; una
nostalgia atavica verso l’Italia della dolce vita che usciva da quella
sanguinosa guerra internazionale e civile che si concluse solo nel
1947-48. E non mancano certo i riferimenti all’America dei ghetti neri e ai colonialismi
vecchi e nuovi che hanno traumatizzato terre lontane. Insomma: Paolo Conte, con Elegia,
ci ha regalato un altro dei suoi capolavori (assieme all’omonimo del 1984, a Parole
d’amore scritte a macchina e Aguaplano) e chissà adesso quanto bisognerà aspettare per
ascoltare un nuovo lavoro di studio; basti pensare che il precedente album di inediti (Una
faccia in prestito) era uscito ben nove anni prima.
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The Knife Silent shout
(14/06/06)
Bello davvero questo terzo album dei Knife. L’elettronica è quella
minimale ed elegante che sembra provenire dagli scantinati
Kompakt, i vocals sono sfacciati e moderni e il mixaggio risulta
perfetto. La Repubblica ha definito i Knife come il gruppo più
kraftwerkiano del momento, ma sinceramente le analogie con i
colleghi di Germania non sono molte. Alcuni passaggi melodici
sono - a ragione - stati evoluti solo dai Knife; basti infatti pensare
all’album omonimo o a Deep cuts per trovare innovative soluzioni
midi. Ma Silent shout stavolta contiene davvero di tutto. In primis la
techno tedesca della title-track, poi il noise industriale di Neverland e We share our
mothers health, le introspezioni gotiche di The captain e Na na na e ancora l’electro di Like
a pen e One hit. Bellissima Marble house, più che altro per la sua “nordicità”: sembra
infatti più un brano dei Röyksopp che uno dei fratelli Dreijer. L’album si chiude con gli
esperimenti digitali di From off to on, Forest families e Still light. Nel complesso un disco
davvero strepitoso e dall’impatto sonoro immediato: buio, violento, incendiario.
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Fabrizio De André La buona novella
(15/06/06)
A mio avviso il più bell’album di Fabrizio De André. Un disco che
cambia la vita a chi lo ascolta. Ogni traccia contiene un’infinita
esplosione di umanità e solidarietà. La storia è quella di Gesù
Cristo descritta nei vangeli apocrifi (non riconosciuti dalla Chiesa);
e ascoltiamo così di un Dio umano, della disperazione di Maria e
Giuseppe. I brani capolavoro sono Ave Maria, L’infanzia di Maria, Il
ritorno di Giuseppe, Tre madri e Il testamento di Tito; speciale
risalto ha anche Laudate hominem dove la figura sacra di Gesù
viene assimilata a quella di tutta quanta l’umanità. Che dire? La
buona novella va ascoltata per essere compresa e l’ascolto che essa richiede non può
essere superficiale. I testi vanno studiati, le melodie godute. E dopo decine di play
incomincia a intravedersi un senso alto dell’opera, forse lo stesso effetto che un libro sacro
sortisce su di un seminarista. È questo il vero e proprio capolavoro di Fabrizio De André:
un capolavoro che nessuno - e dico nessuno - al mondo è mai riuscito a portare a termine
nella storia. Forse solo il signor Dante Alighieri circa settecento anni prima.
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Enigma Voyageur
(16/06/06)
Sono oramai quindici anni che la ciurma di Michael Cretu (mezzo
romeno mezzo belga) sforna favolosi ed evocativi dischi sotto il
nome di Enigma. Gli Enigma sono quelli che remixavano i canti
gregoriani e che producevano tracce da spot tv. Ma l’album
Voyageur è forse la loro più bella creatura. Basta ascoltare From
East to West, componimento per pianoforte e cori con beat
mostruosi degni della migliore tradizione elettronica. E poi Page of
cups, Incognito, Boum-boum e la title-track; tutte accomunate dai
suoni suadenti ed eleganti provenienti dalla Mitteleuropa. Nel disco
c’è anche spazio per la house di Look of today e la world di The piano e Total eclipse of
the Moon. Voyageur risulta quindi una strepitosa fatica, non superata ultimamente dal
magnifico A posteriori (disco rinascimentale, in tutti i sensi). Ma l’aria che si respirava - e si
respira tuttora - con gli Enigma è del tutto gotica e medievale, o forse è solo frammento da
lounge club. Fatto sta che gli Enigma sono troppo bravi e l’hanno dimostrato dai tempi di
MCMXC a.D. fino a questo Voyageur. Ottimo lavoro.
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Baustelle Sussidiario illustrato della giovinezza
(17/06/06)
La musica italiana li stava aspettando da tempo questi Baustelle. Il
Sussidiario illustrato della giovinezza è il loro primo lavoro
discografico, prima de La moda del lento e de La malavita.
Troviamo testi e musiche sconcertanti (anche se nulla più è
sconcertante in arte), basi elettroniche e chitarrine brasiliane, testi
d’amore e di orgiastiche abbuffate di droga; brani come Sadik,
Gomma o La canzone del riformatorio ispirerebbero bene i poeti
del male. Questo primo album è davvero molto curato e i senesi
Baustelle dimostrano una grande grinta e un grosso spunto
creativo. Oggi in molti li etichettano, con troppa faciloneria, come ex band underground
che oggi si gode il passaggio commerciale. Ma non è vero. Ancora oggi cantano di corvi
neri (ovvero alienazioni), maniaci e skin, droga e nazisti. E infatti non si riesce proprio a
capire quale sia il loro profilo ideologico. Fascisti depoliticizzati? Anarchici di professione?
Menscevichi autoritari? O forse il loro è solo uno stile di vita, certo retró, futurista e 60’s,
ma anche così sconvolgentemente moderno. Bravi, anzi bravissimi, Baustelle.
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Shazz In the light
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Yamo Time pie
(18/06/06)
Mi taccerete di esterofilia francesista, ma il mio è solo europeismo.
Perché sono fermamente convinto che Francia, Italia e Germania
non devono prendere lezioni - in arte e cultura - da nessuno. E
Shazz, con il suo secondo album In the light lo dimostra a pieno
titolo. Un disco fortemente jazz-house. E non è la solita solfa che
ascoltiamo nelle compilation Montecarlo nights (Shazz è quasi
sconosciuto), ma elettronica (se così possiamo definirla per via dei
beat) che io chiamerei elitaria. Canzoni come In my life, Fallin’ in
love, Leomeo o Hermosa Maria consiglio vivamente di ascoltarle
durante una sana sessione di profusioni sentimentali col proprio partner. La Francia in
tutto ciò è maestra, senza creare stereotipi o qualunquismi. Ed è proprio l’erotismo il filo
che lega tutte le undici tracce di questo In the light, a volte furioso a volte caldo e
avvolgente. Due anni fa Shazz ha pubblicato un nuovo album, Beautiful, dove segue
tutt’altra strada (jazz suonato in studio) ma che continua a dimostrare l’importanza
dell’applicazione elettronica al genere musicale che ha segnato il 900: il jazz.
(19/06/06)
La torta del tempo. Questo il nome dell’unico e rarissimo album del
progetto chiamato Yamo, composto per metà dall’ex Kraftwerk
Wolfgang Flür e, per l’altra metà, da metà Mouse On Mars. Gioco
di parole idiota. Ma Time pie è un disco bellissimo, anche se un filo
comune concettuale non c’è, le undici tracce di elettronica d’alto
bordo scorrono veloci. Le perle sono sicuramente Stereomatic,
Mosquito, Guiding ray e Dr. U.G.L.Y.. In questa unica fatica
discografica gli Yamo sembrano aver shakerato bene gli stili di
provenienza: l’elettronica robotica e la decostruzione popolare
tedesche. Il pop ha distrutto l’arte? Bene: distruggiamo - pezzo per pezzo, beat per beat il pop e rimodelliamolo secondo i canoni della sua vittima. Il prodotto è questo. Da
menzionare il fatto che Time pie contiene anche una bellissima traccia di elettronica
ambientale cantata in italiano, dove una suadente voce indica i punti di energia posti fra
testa e mano. Il resto del disco è produzione di ottima lega, con vocals, bassline, synth e
drum machine davvero maestose. Introvabile e pregiatissimo.
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Radici Nel Cemento Occhio!
(20/06/06)
Penultimo album delle Radici Nel Cemento, Occhio! contiene tutti
gli elementi dello spaghetti-reggae. Divertenti i testi, a tratti
intelligenti, bellissime le musiche. Ansai come ce piace e Er traffico
de Roma sono degne della migliore tradizione live del Villaggio
Globale (Spazio Boario) e, sinceramente, è proprio sul palco che le
Radici danno il meglio di sé. Tre esilaranti uomini ai fiati (trombe),
basso, chitarre, batterie, macchine digitali e voce. Ma nel disco c’è
anche la sovversiva La logica del profitto, contro il capitalismo
rampante e l’economia di mercato negli stati del mondo terzo.
Sognando Jamaica è un’ironica (nel senso pirandelliano) fotografia dell’odierna Giamaica:
da tutti enfatizzata ma nei fatti piena di problemi sociali. Belle Wandering, Balle!, Dalla
terra e La logica del dub (versione lo-fi dell’omonima). Da notare una specie di bonus-track
finale interamente costruita con synth e sequencer, È la mia vita, che a tratti ricalca le
gesta di band come i Subsonica. Nel complesso Occhio! è un divertissement di reggae
romanesco per trascorrere un’ora in alcolica allegria.
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Amedeo Minghi 1950
(21/06/06)
Terzo album (1983) su una discografia fatta di ben ventiquattro
dischi. Ma è questo uno dei migliori lavori di Amedeo Minghi. La
collaborazione ai testi, allora, era ancora del poeta Gaio Chiocchio
e lo si intuisce bene dalla ricercatezza delle canzoni. Sottomarino,
La casa lungo il Tevere, Ladri di sole o 1950: tutti capolavori della
musica italiana. Pianoforti, piccoli effetti campionati al
sintetizzatore, archi, sassofoni e mandolini. Tutto appare stupendo
in questo album, che contiene tra l’altro perle sconosciute come
Ciaccona (un romantico incontro nella Vienna dei grandi musicisti)
e Rapidi movimenti degli occhi (la fase r.e.m. del sonno associata ad un rapporto
sentimentale onirico). Stupenda St. Michel, evocativo luogo di Normandia in cui la marea
pomeridiana inghiotte chilometri di spiagge e strade, e dove l’isolamento del castello
assume il senso dell’alienazione, di un capriccio in mare aperto. L’ultima canzone è Flash
back, scritta come soundtrack per uno sceneggiato tv. Tutto è perfetto in 1950; un album
davvero maestoso, di quando la musica leggera italiana era un vanto.
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Radiohead Kid A
(22/06/06)
Premetto che la musica inglese non mi piace. Non mi piace perché,
in quaranta anni, non è riuscita quasi mai a staccare il cordone
ombelicale col rock dei Beatles e degli Stones. In U.K. tutto è rock.
Da quando l’hanno inventato, vogliono farci credere che rock sia
sinonimo di cultura moderna. Che ci vuoi fare? Sono inglesi! Per
fortuna i Radiohead sono riusciti a portare un po’ di nuovo,
specialmente con questo album, Kid A. Il loro, di rock, è alternativo
e qui muta in elettronica sperimentale. Bellissima Everything in its
right place, addirittura geniale Idioteque, nostalgica la title-track,
ambientale Treefingers. Insomma, Kid A è davvero un bel disco che sembra uscito dalla
mente di artisti continentali più che da una band rockettara isolana. La precedente e la
successiva discografia dei Radiohead (The bends, My iron lung o I might be wrong e Hail
to the thief) non sono all’altezza - in termini di innovazione - di Kid A. Certo, discorso a
parte merita Ok computer, ma in generale la fase sperimentale e rivoluzionaria dei
Radiohead inizia e si conclude con Kid A.
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dZihan & Kamien Orchestra Live in Vienna
(23/06/06)
Unico disco dal vivo della strana coppia dZihan & Kamien, mezzi
turchi e mezzi austriaci. Questo Live in Vienna mi incuriosì
moltissimo poiché non riuscivo a capire come d&K potessero
suonare live le loro tracce piene di cuts. Questo album, che esce
dopo Freaks & icons, Refreaked e Gran riserva, è la prova di
cotanta realizzabilità. Brani come After, Thrill, Homebase, Before o
Airport sono fedelmente suonati dalla dZihan & Kamien Orchestra:
un coacervo di trombe, contrabbassi, chitarrine, keyboards, batterie
e semplici drum-machine. Magnifiche, perché difficili da
interpretare, Drophere e Ford Transit (il veicolo con cui i turchi d’Austria tornano in
Anatolia). La vocalist Madita in questo concerto dà il meglio di sé, con vocalizzi alti,
continui e molto emozionanti. Da notare una versione rivisitata della traccia house Sliding
(chiamata qui Slidub). Nel complesso, Live in Vienna può essere considerato il greatest
hits della strana coppia, dato che contiene jazz, trip-hop, electro, acoustic, lounge, fusion.
C’è davvero tutto e tutto appare così magnificamente straordinario.
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Luciano Berio Sequenzas
(24/06/06)
Ecco le quattordici Sequenze di Luciano Berio. Ecco le basi e, allo
stesso tempo l’evoluzione, della dodecafonia italiana. Molti parlano
di sperimentalismi, rumorismi, musica concreta. Ma com’è davvero
l’arte musicale dodecafonica? Il pezzo dodecafonico si basa su un
dato ordine - o serie - attribuito ai dodici suoni della scala
cromatica. In questo modo si ottiene un altro ordine nella
successione di determinati intervalli tra i suoni. I teorici definiscono
con il simbolo O la serie originaria e con I la stessa serie invertita
(nel senso che gli intervalli ascendenti diventano discendenti e
viceversa); la serie può essere disposta dall'ultimo suono al primo, secondo un ordine
retrogrado indicato con R, anch’esso invertibile, contrassegnato con RI. C’è assoluta
equivalenza tra andamento melodico (un suono dopo l’altro) e armonico (un suono in
contemporanea ad un altro). La serie si può presentare anche sotto la forma di accordo di
dodici suoni o come tre accordi di quattro suoni. Sequenzas, per flauti e voce, è tutto ciò
senza dimenticare la tradizione di musica-colore che va da Sanguineti a Dallapiccola. Arte.
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Almamegretta Sciuoglie ‘e cane
(25/06/06)
Ultimo album di studio per gli Almamegretta; il primo senza la voce
di Raiz e l’ultimo con D.RaD (morto un anno fa d’incidente). Il cane
da sciogliere è l’odierna libertà, perché troppe catene stanno
tenendo a bada le vite emarginate di poveri cristi. I testi dell’album
sono ricercatissimi e utilizzano rime e incastri del tutto nuovi in
musica. Le vocalist e Gennaro T non ci fanno rimpiangere la
dipartita di Raiz e le basi musicali, che vanno dal dub all’hip-hop,
dall’electro al nu-jazz, aiutano nell’impresa. Sembrava che senza la
storica voce, gli Almamegretta fossero arrivati al capolinea e invece
brani come Cinque dita, Nowhere home, ’O mare che puorte ‘ncuorpo o Lo stesso vento
non li troviamo nemmeno in capolavori quali Sanacore o Lingo. Unica pecca del disco è il
leggero declino musicale delle ultime tre tracce, dove si sente il peso dei minuti, ma nel
complesso Sciuoglie ‘e cane è forse il più bel disco di questi partenopei che assieme a 99
Posse e 24 Grana, e a storici club come Metropolis, Loose e Fitzcarraldo, hanno concorso
a fare grande il nome di Napoli sulla scena underground europea.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Röyksopp Röyksopp’s night out
(26/06/06)
I lavori ufficiali del duo norvegese sono Melody a.m. e The
understanding, entrambi riuscitissimi, sia per quanto riguarda la
dimensione del clubbing, sia per quanto riguarda l’ambito d’ascolto.
Röyksopp’s night out è invece una specie di EP live che gli
scandinavi hanno pubblicato solo in Giappone e contiene alcune
chicche dal vivo. Innanzitutto c’è What else is there?, ormai
famosissima grazie a quel magnifico video (uno dei più belli della
storia); poi troviamo una rivisitazione delle vecchie Poor Leno e
Remind me, e ancora Only this moment, fino ad arrivare alla vera
perla: Sparks, suonata col pianoforte. Infine alcuni inediti come Teppefall e Go with the
flow. I Röyksopp dimostrano con questo piccolo live che ci sanno fare in studio come sul
palco; certo le voci non sono perfette e la cura per il suono non è grandiosa. Ma l’Europa
adesso sa (se ce ne fosse ancora bisogno) che la Norvegia (e la Scandinavia tutta) sta
facendo passi da gigante per recuperare il tempo perso in termini di elettronica. Ce lo ha
dimostrato Björk, poi i Koop e adesso i magnifici Röyksopp.
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Piero Ciampi Andare camminare lavorare e altri discorsi
(27/06/06)
Piero Ciampi è morto relativamente giovane perché beveva e
fumava troppo. Una specie di George Best della canzone italiana.
Ma, a differenza di Best, il successo vero, Ciampi non lo ha mai
conosciuto, forse perché oscurato dal mito di Gino Paoli. Ma
quest’album del 1975 contiene il meglio della sua produzione.
Iniziamo dal capolavoro assoluto Ha tutte le carte in regola, storia
di pittori ciechi, giocatori sfortunati, scrittori monchi e musicisti
sordi; o 40 soldati 40 sorelle, che potrebbe gareggiare in
antimilitarismo con La guerra di Piero di De André. Bellissima la
storia squattrinata di L’amore è tutto qui. Dandy, bohémien, poeta maledetto, giocatore
d’azzardo: questo era Ciampi. Abbandonato dalla moglie incinta, morirà da solo nel 1980.
E come tutte le persone sole, disperato. Lo si intuisce dalle sue creature musicali (Il merlo,
Il vino, Il giocatore, Te lo faccio vedere chi sono io). Mai una rivincita nella vita. Piero
Litaliano (così si faceva chiamare) è sconosciuto ai più ma è ormai giunta l’ora che la
cultura lo ostenti sfacciatamente, perché siamo fieri d’aver avuto un cantautore così.
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Massimo Morsello Punto di non ritorno
(28/06/06)
Massimo Morsello era fascista. Bisogna premetterlo. Lo è sempre
stato. Ha fondato i N.A.R., è stato arrestato per le sue idee, è
fuggito in terra inglese, è morto di tumore a cinquant’anni. Ed ha
lasciato cinque album di cantautorato italiano. Punto di non ritorno
è il suo penultimo lavoro. Bellissimo. Morsello viene definito il “De
Gregori nero” e, come il principe, i testi risultano ermetici ma non
troppo. Nel disco canta della vergogna dell’armistizio (Otto
settembre), della barbara pratica dell’aborto (Aborto), della morte
(title-track), della bellezza delle donne (Donne), dell’ideale
mussoliniano (Canti assassini), dell’ultimo onorevole capo fascista (Leon Degrelle).
Morsello non va per forza condiviso a livello ideologico perché è innegababile il suo talento
e la sua bravura. Le musiche sono dolcissime e non sembra di stare a sentire un nero.
Basti pensare che l’album La direzione del vento venne ingenuamente pubblicizzato
anche da Il Manifesto. Tutto si risolse con le scuse pubbliche del direttore il quale, non
conoscendo Morsello, ne aveva la schiettezza dei testi e le ineludibili verità.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Karl Bartos Communication
(29/06/06)
Uscito nel 1997 dallo storico gruppo tedesco dei Kraftwerk, Karl
Bartos si lancia nella carriera solista. E, dopo Esperanto ed Electric
Music, pubblica ad inizio terzo millennio Communication. Il tema
del disco è proprio la comunicazione, da un punto di vista
schiettamente sociologico. Ed ovviamente elettronico. Si balla sulla
favola della privacy, chiaramente smascherata da The camera, su
I’m the message e Reality. Poi c’è il netto riferimento alla profezia
di Andy Warhol con 15 minutes of fame: tutti vogliono quel fottuto
quarto d’ora di celebrità, perché ormai la televisione ci ha distorti
alla fonte. Le altre tracce hanno il pregio di portare avanti, leziosamente, la tradizione della
Germania industriale. Nulla di rivoluzionario, però che belle Electronic apeman, Life,
Cyberspace, Interview od Ultraviolet. Molti si domandano perché Bartos sia uscito dalla
fortunata esperienza precedente. Forse perché non sanno che Schneider e Hütter sono
poco inclini alle discussioni e, se c’è da relegare un artista all’eterno ruolo di
percussionista, lo fanno. Ma Karl s’è preso la sua rivincita.
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Meg Meg
(30/06/06)
Tutti la conoscono come la parte femminile dei 99 Posse, storica
crew napoletana di rap comunista. Grande è il lavoro che Meg ha
svolto negli anni precedenti, da Corto circuito a Cerco tiempo e La
vida que vendrá. Deve però aver scelto di camminare sulle proprie
gambe e, con il primo album omonimo, dimostra di saperlo fare
benissimo. Sono stupende tracce come Simbiosi, Parole alate,
Elementa, Olio su tela ed Audioricordi. Oltre alle macchine
elettroniche di stampo partenopeo (Marco Messina), nel disco ci
sono imponenti sessioni di würlitzer, clavette, tintinnii e carillon,
eseguiti in blocco dall’Orchestra degli Architorti. I testi, deliziosissimi, sono scritti dalla
stessa cantante. E così il disco scorre fluido: i loop si alternano ai violini, i sample ai
pianoforti; Meg sembra finalmente essersi sbarazzata di quell’ingombrante carapace
militante e fazioso che le copriva le spalle. Adesso è bella, calda, intima. Come primo
disco è ineccepibile, ma pecca forse di un eccessivo sfruttamento della sezione
orchestrale. Per fortuna che ci pensano i computer a fare il resto. Comunque magnifico.
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Luigi Tenco Ti ricorderai di me…
(01/07/06)
Nel 1967, dopo la sua morte, venne dato alle stampe Ti ricorderai
di me…: una sorta di raccolta di 45 giri del geniale Luigi Tenco.
Che dire? Tenco rimane una delle voci contro della musica italiana,
i testi sono irriverenti, le storie umili e drammatiche, gli amori
complessi e gli epiloghi provocatori. Il long play parte con Mi sono
innamorato di te, canzone che Tenco s’è portato dietro tutta la vita:
una storia d’amore iniziata per noia e finita per gioco. Angela è un
capolavoro; indescrivibile la carica emozionale che possiede e
inutile sviscerarne la storia. Bellissime In qualche parte del mondo
ed Il mio regno. Dopo gli archi arrangiati da Reverberi arriva l’altro capolavoro, Quello che
conta, e anche qui le parole non sono in grado di spiegare le sensazioni. Perché Tenco
era così. Era un intimista alla Bongusto ma poetico come Paoli, od anche un estremista
alla De André ma giullare come Gaber. E questo amalgama è difficile da interpretare. I
brani di Tenco sono gioielli impolverati: non danno nell’occhio ma contengono al loro
interno l’inestimabile valore di una vita piena di rimorsi e delusioni.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Erlend Øye Unrest
(02/07/06)
Erlend Øye è la metà musicale dei Kings Of Convenience. È inoltre
quello che canta alcune canzoni dei Röyksopp (Remind me o Poor
Leno). Insomma è un DJ norvegese con la fissa dell’elettronica.
Unrest è il suo primo album da solista anche se ha già pubblicato
qualcosa con altri pseudonimi. Potremmo definire Øye una specie
di Thom Yorke di Scandinavia, con l’importante differenza che
quest’ultimo fa un’elettronica molto più seriosa ed esigente. Ma i
brani di questo disco sono veramente ben fatti e pronti per il
passaggio in radio o per il remixaggio. Sudden rush, Prego amore,
Sheltered life, Every party has a winner and a loser, Ghost trains, sono tutte tracce della
nuova corrente electro-pop nordeuropea. Certo, non si può parlare di elettronica d’alto
bordo però, strutturalmente, i brani sono davvero ineccepibili. E non accusatemi di seguire
le mode del momento perché Erlend Øye è un artista che merita e, soprattutto, che farà
parlare di sé negli anni a venire. Ottimo uso di drum machine, synth e vocoder ma
soprattutto troppo curiosa l’aria stralunata e scanzonata dell’artista.
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Laurent Garnier Unreasonable behaviour
(03/07/06)
Laurent Garnier è uno di quegli artisti visionari e surreali tanto da
farsi rispecchiare fedelmente dalle sue creature musicali.
Unreasonable behaviour (uscito dopo gli storici Raw works e 30) è
l’album della completa maturità del francese. Gli stili sono talmente
miscelati che è praticamente impossibile etichettare questo disco:
c’è attitudine sperimentale, razionalità techno, minimal, electro, a
tratti ambient. City sphere è una sorta di breakbeat jazzato,
Forgotten thoughts si basa invece su un doppio accordo di synth;
poi arriva la techno di The sound of big balou, Cycles d’oppositions
e The man with the red face: il tutto condito da strani sax e trombe. La parte finale
dell’album si occupa prevalentemente dell’aspetto elettronico (Greed e Communication
from the lab). Che dire dell’outro Last tribute from the 20th century? Un’ammaliante
cartolina digitale del secolo appena finito degna di partire su una navicella per approdare a
orecchie aliene. Garnier qui si supera e lo farà ancora di più nei successivi lavori Excess
luggage (DJ-set) e The cloud making machine. Gallia docet.
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Moloko Things to make and do
(04/07/06)
Album del 2000 e terzo della carriera degli inglesi Moloko. In fondo
è un bel disco, che spazia dal funk al trip-hop, dalla house alla
electro; tutto poi ben accomunato dalla splendida voce di Roisin
Murphy. Accanto a pezzi spiccatamente funkeggianti quali Pure
pleasure seeker (che bello il video quando uscì…), Absent minded
friends o Remain the same, troviamo brani meno coloriti come
Being is bewildering, A drop in the ocean e It’s nothing. Discorso a
parte merita quel gran componimento che è The time is now, dove
le chitarre, il basso, la batteria e la voce della graziosa cantante,
fanno da contraltare a quasi tutta le seconda parte di questo album. L’ultima traccia è il
remix houseggiante di Boris Dlugosch della storica Sing it back, contenuta in versione
originale nel precedente LP I am not a doctor. I Moloko partoriranno pochi anni dopo la
raccolta di rivisitazioni All back to mine e l’ultimo album Statues. Roisin Murphy proverà
invece la carriera solista nell’ambiente dance ma - scusatemi - oggi non so proprio che
fine abbia fatto lei e tutta quella ben composita band.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Nicola Conte Jet sounds
(05/07/06)
Nicola Conte è il nostro compositore jazz d’avanguardia. Si fa per
dire. Eppure questo pugliese è davvero troppo bravo nelle
contaminazioni tanto che, al tempo di Jet sounds, ha portato una
completa ventata d’aria nuova nel logoro clima jazzistico italiano,
ancora troppo legato alla dimensione strumentale del genere. In
questo disco c’è la bossa di Bossa per due, il nu-jazz della titletrack, l’asian dub di Missione a Bombay, l’acustica di Dossier
Omega o la samba de Il cerchio rosso. Bello, bellissimo. L’album si
ascolta tutto d’un fiato e, se si è appassionati di jazz storico, non si
può rimanere delusi da Nicola Conte. Oltre al fatto che esiste una versione remixata del
disco (Jet sounds revisited) che ha avuto molto più successo dell’originale. Ultimamente
Nicola Conte ha pubblicato Other directions, disco che, come premette il titolo stesso, si
indirizza su altri sentieri musicali (soprattutto la mancanza di macchine elettroniche).
Comunque questo Jet sounds risulta essere un ottimo lavoro, retró nell’idea e nella
grafica, ma infinitamente moderno, al pari del grande jazz che tutti conosciamo.
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Bran Van 3000 Glee
(06/07/06)
Se li ricorderanno in molti i Bran Van 3000, con quel video uscito ormai molti - anni fa. C’erano degli individui in tuta da lavoro o da
austronauta che bevevano una speciale pozione. La canzone era
Drinking in L.A. ed è contenuta nel loro primo album Glee. Il
progetto nasce dal DJ canadese James Di Salvo e raggruppa sotto
il nome di Bran Van 3000 una ventina di artisti (producer, rapper,
DJ, chitarristi, batteristi ecc.). E si sente che Glee è un lavoro
d’oltreoceano: roba così americana da noi è difficile pensarla.
Proprio l’eterogeneità degli artisti coinvolti nella produzione porta
questo album ad essere un calderone di stili diversi e a volte opponibili. Si va dal trip-hop
fatboyslimiano di Couch surfer al rock rappato di Forest, dal dub lo-fi di Carry on all’hiphop elettronico oakenfoldiano di Afrodiziak, dalla ballad Exactly like me alla house
funkeggiante di Old school. Nel complesso possiamo ascrivere il disco ai circuiti
underground pur restando un prodotto pronto per la fruizione commerciale. Nulla di
travolgente né di appassionante ma una discreta pubblicazione per l’ascolto.
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Antonello Venditti Lilly
(07/07/06)
Nel 1975 veniva dato alle stampe Lilly, quarto album dell’allora
giovane cantautore Antonello Venditti, mezzo molisano mezzo
romano. La vocalità di Venditti era già nota dopo Roma capoccia
anche se è con Lilly che l’artista riesce a coniugare questa sua
dote col pianoforte e con i testi sociali. La title-track è la storia di
un’eroinomane (pensate cosa significasse parlare di droga
nell’Italia perbenista di allora!), Compagno di scuola è l’accusa
mossa al suo amico Francesco De Gregori durante i moti del ’68.
Si parla poi di capitalismo con la metafora de Lo stambecco ferito,
dove l’animale (il socialismo) viene colpito dal cacciatore (il neoliberismo). Perle
sconosciute ai più sono Penna a sfera, Santa Brigida, L’amore non ha padroni e la
splendida Attila e la stella, dove il rude capo unno rimane estasiato di fronte alla
magnificenza della capitale. Nel complesso Lilly introdurrà Venditti nel giro del
cantautorato pop e lo porterà a pubblicare bellissimi dischi futuri come Sotto il segno dei
pesci, Buona domenica, Sotto la pioggia o Cuore. Tutti grandiosi.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Jazzanova In between
(08/07/06)
In between viene inserito fra i capolavori della musica rock (nel
senso ampio) assieme a dischi dei Beatles, Kraftwerk, U2, Aphex
Twin e tanti altri capolavori. Gli autori sono i tedeschi Jazzanova,
collettivo elettro-jazz. Le tracce del disco sono sempre sospese fra
antico e moderno; campioni vecchi di decenni vengono spezzettati
e messi in loop, formando nuove composizioni (sia a livello autorale
che musicale). L.O.V.E. and you & I è sicuramente una delle tracce
che merita di più. Poi The one-tet, tutta costruita con cuts e breaks
di pianoforte; e ancora Mwela, Mwela (here I am), dove la vocalist
di turno intona note su un tappeto musicale sudamericano, a tratti esotico. Poi c’è il lo-fi di
Keep falling o il jazz sequenziato di Another new day. Nel complesso, In between è un
album rivoluzionario, almeno per quanto riguarda l’aspetto stilistico. Fissa i paletti per un
nuovo tipo di composizione jazz, e di questa composizione ne sanno qualcosa Koop,
Kyoto Jazz Massive, Gabin, tutto l’Irma Group, Llorca ecc., senza contare l’influenza sulla
musica rap nelle acquitrinose terre d’oltreoceano.
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Brian Eno Ambient 1: music for airports
(09/07/06)
La musica come arredamento. Gli ambienti come gigantesche
scatole da riempire di suoni. La fine del concetto tradizionale di
ascolto e la nascita di un nuovo genere di colonna sonora, studiata
per accompagnare spazi, non immagini. È Brian Eno a completare
la rivoluzione di Erik Satie. Con la serie Ambient nascerà
l’omonimo genere, destinato a fare scuola negli anni a venire (si
pensi alle decompression room). Music for airports, che fa parte
della su citata serie, è uno dei massimi capolavori del nonmusicista Eno. Quattro brani lunghi un’eternità e definiti con numeri
lasciano spazio a libere interpretazioni (la migliore quella dei Can). Il fine è quello di
stemperare lo stress delle persone presenti negli aeroporti. Metafore di dinamismo, arrivi e
partenze, genti in progressione. Music for airports potrebbe proseguire all'infinito e
continuerebbe sempre a riservare qualche impercettibile sorpresa. Dietro le sue lente
fluttuazioni, la calma ossessiva, i suoi pattern ipnotici, si cela l'attesa per un colpo di scena
che pare non arrivare mai, ma che a ogni nuovo ascolto potrebbe invece sopraggiungere.
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Paolo Tofani & Claudio Rocchi Un gusto superiore
(10/07/06)
Trovai questo disco fra i vinili di mio padre e, al primo ascolto, mi
colpì come pochi. Tutti quei sitar, quei testi strani, quelle immagini
filosofico-religiose. Un gusto superiore (1980) nasce dalla
collaborazione dell’eclettico Claudio Rocchi con Paolo Tofani (degli
Area). Allora i due facevano parte della congrega di Hare Krisna ed
infatti la label del disco, la Iskcon, è anche l’associazione italiana
che si occupava della suddetta confessione. Bellissima Dio, sorta
di invocazione ad una dimensione panteistica della divinità, oppure
Muoiono, sui troppi decessi causati dalla vita moderna (aborti,
incidenti, droghe) o ancora La macellazione, chiaramente contro il consumo di carne. Di
forte impatto gli altri brani come O sei parte del problema o sei parte della soluzione o la
title-track in cui, all’imperante materialismo, viene contrapposta una visione della vita del
tutto staccata dall’aspetto esteriore delle cose. Dopo un intro c’è un lunghissimo brano dal
forte sapore indiano, Jiv jago (cioè Svegliatevi), in cui il cantante Srila Bhagavan Goswami
enuncia una specie di manifesto della religione Hare Krisna.
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Björk Drawing restraint 9
(11/07/06)
Sarebbe stato troppo facile recensire Debut, Homogenic o Medulla.
Questo strano lavoro di Björk è la colonna sonora dell’omonimo film
di Matthew Barney, marito della stessa. Lo stile di Björk è
inconfondibile ed anche senza il suo nome sul disco, potrebbe
riconoscersi tra mille. L'Islanda rivive in ogni nota, in ogni
paesaggio sonoro, in ogni pizzico d’arpa di Gratitude o sussurro di
Pearl. Sono pochi i pezzi cantati nel disco e quelli cantati da Björk
sono ancora meno, ma è impressionante come a distanza di così
tanti anni dal suo debutto la piccola scandinava sembri ancora un
fiume in piena o meglio un temporale di emozioni, come testimonia la straordinaria Storm,
forse il pezzo più significativo del disco. Ma la parte predominante del’album è
rappresentata dalla musica, dai suoni e dai rumori, eccetto Bath, interamente cantata a
cappella. L’atmosfera che si respira è come sempre decadente, cupa ma intrisa di
significato. Björk è ormai entrata nell’olimpo della ricerca sonora e ogni sua composizione
lascia senza parole, creando allo stesso tempo emozione e smarrimento.
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Fabrizio Moro Fabrizio Moro
(12/07/06)
Ci tengo a dire la mia su questo disco perché l’artista in questione
non ha avuto la gloria che meritava. Il romanissimo Fabrizio Moro
(l’album è omonimo) fa la sua comparsata a Sanremo (sezione
giovani) nel 2000 col brano Un giorno senza fine, ovviamente
snobbato dalla critica. Ma sembra di rivedere Vasco Rossi nel 1982
quando stonava Vado al massimo. Perché Moro è così. Si riempie
le narici di cocaina e canta di puttane e goliardate, di casini con la
polizia e matrimoni forzati. Provocatorio, irriverente e contro le
regole proprio come Vasco. E forse la maledizione del suo scarso
successo è proprio questa: le sue cose sono state già cantate da altri artisti, i quali oggi
sono divenuti monumenti. Però che belli che sono brani come Situazioni della vita, Gli
amplessi di Marta, 9096 Ro.La, Per tutta un’altra destinazione o Canzone di campane.
Traspare infatti dai suoi testi e dal suo rock all’italiana tutta l’alienazione della periferia
(San Basilio), le torbide storie di ragazzi quasi trentenni e tutta la rabbia verso il mondo
perbenista che della sua rabbia se ne frega altamente.
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Karlheinz Stockhausen Mantra
(13/07/06)
Karlheinz Stockhausen è il genio incontrastato della musica
concreta e della musica elettronica mondiale. Tanti sono i lavori
che meritano onore (Kontrapunkte, Klavierstücke, Gesang der
Jünglinge ecc.) ma questo Mantra è uno dei lavori considerati
minori sul quale vorrei invece soffermarmi io. Stockhausen ha a
lungo riflettuto sulle idee innovative di Messiaen, elaborando una
propria idea di composizione, basata sull’accostamento di nuclei
minimi di suoni, detti punti, da cui deriva il puntualismo musicale.
Ogni punto ha una sua autonomia rispetto agli altri, in modo che
non sia possibile determinare se ognuno di essi è premessa o conseguenza degli altri. Nel
corso degli anni questa forma di composizione si evolverà, portando la scrittura a
concentrarsi su microcosmi di suoni, detti gruppi, trattati dal compositore con gli stessi
principi che avevano governato i punti. Vi si intravedono i rapporti con la musica aleatoria
delle culture orientali e della spiritualità. Tutto questo è sfociato nel 1970 in Mantra. Le
parole non possono però rendere la grandezza dell’opera. Da studiare minuziosamente.
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Marc Moulin Placebo sessions 1971-1974
(14/07/06)
Il belga Marc Moulin inizia negli anni ’70 a jazzare con un gruppo
che allora si chiamava Placebo. Dopo trent’anni di ricerca e sintesi
jazz, è approdato alla jazz-house degli ultimi lavori Top secret ed
Entertainment. Parallelamente a tutto ciò, Moulin si dava da fare
assieme ai Telex per competere con la Germania elettronica dei
Kraftwerk. Tornando però ai lavori degli anni ’70 troviamo, accanto
a Sam Suffy, Placebo sessions 1971-1974. Strepitoso perché è
una sorta di raccolta (uscita da poco rimasterizzata) che di
elettronico non ha nulla. Semplicemente un perfetto calderone di
free-jazz da colonna sonora. Bellissime Aria, Phalene, Showbiz suite, Stomp, Plotseling o
Dag madam merci. Trombe, contrabbassi, sassofoni, vibrafoni, chitarre: c’è tutto il meglio
della nuova ondata jazz europea in questo disco. Trovo poi Humpty dumpty il miglior
componimento dell’album che - piccola curiosità - è stato campionato dal bolognese Joe
Cassano nella traccia hip-hop Dio lodato. Nel complesso queste sessioni ci lasciano
addosso un incrollabile senso di allegria e un accennato sorriso sul viso.
•
Subsonica Amorematico
(15/07/06)
Questa è l’elettronica italiana. Amorematico dei Subsonica è uno
degli album più importanti sotto il profilo electro-pop nostrano. Vero
è che la band torinese si è cimentata spesso col rock ma, a loro
detta, non è il genere congeniale. Nel disco troviamo Sole
silenzioso, Dentro i miei vuoti e Nuvole rapide: tutti brani intrisi di
una profonda solitudine. Magnifiche Ieri e Albascura, entrambe più
ritmate e nettamente più sfacciate delle prime. Nell’album ci sono
anche tormentoni da dancefloor come Nuova ossessione o le
tracce strumentali della serie Atmosferico. Ineccepibile poi EvaEva, piena di rabbia Questo domani, piacevolmete rumorosa Gente tranquilla. Ascoltato in
tutti i suoi settanta minuti, Amorematico, con i suoi alti e bassi, risulta un disco
esteticamente bellissimo, perché ben fatto per quanto riguarda la trama strutturale e
ricercato sotto il profilo dei testi e degli arrangiamenti. Dopo la parentesi rockettara di
Terrestre i Subsonica hanno annunciato di voler tornare alla loro anima digitale ed
entreranno in studio al più presto per buttar giù nuove idee. Unici in Italia.
•
The Funky Lowlives Somewhere else is here
(16/07/06)
Somewhere else is here (pubblicato dalla Outer Recordings) è il
terzo album dei Funky Lowlives, duo electro (e non solo) londinese.
Considerato a posteriori, per molti rappresenta la via che i
Röyksopp avrebbero dovuto prendere, al di là di certe idee da club
poco originali. Nella realtà invece i Funky Lowlives e, in particolare
questo album, fanno parte di un filone a se stante. Risultano
piacevoli, alternando brani leggeri e scorrevoli (a momenti
ricordano i Penguin Café Orchestra) a brani più jazzati, elettronici,
finanche pop. La chicca del disco è sicuramente Time to let you go
- molto AIR - dove i tanti accordi di chitarra si vanno a posare su una tiepida base di beat
elettronici. Senza mai stupire troppo e senza mai esagerare, il duo Whitehouse-Danks
propone inoltre le divertenti Sail into the sun, Superlove, Another place e For her eyes.
Certo, è vero che ci eravamo abituati male dopo la compilation omonima e l’album
Cartouche, grazie a canzoni storiche quali Notabossa, ma sono anche convinto che
questo Somewhere else is here sia comunque un passo, seppur piccolo, in avanti.
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LCD Soundsystem LCD Soundsystem
(24/08/06)
Fautori della vendetta (o ventata) electro-pop, gli LCD
Soundsystem hanno da poco esordito con il loro album omonimo.
Dalla copertina e dai titoli si capisce immediatamente il background
del gruppo: elettronica, dance, pop-rock e funky. Insomma, un po’
Jamiroquai, un po’ Depeche Mode, un po’ Franz Ferdinand, un po’
Daft Punk. Proprio a quest’ultimi è intitolata la prima stupenda Daft
Punk is playing at my home; maledettamente affascinante è
Tribulations, minimal-dance Too much love. Velocissima e acida
Movement, molto beatlesiana la ballata Never as tired as when I’m
waking up, da febbre del sabato sera la seguente On repeat, marcatamante disco-dance
Disco infiltrator, quasi rappata Thrills, ambientale e formidabile Great release. Impossibile
skippare le tracce: tanta è la loro carica adrenalinica. Beat connection è houseggiante,
Losing my edge consegue ottimi risultati elettronici, Give it up è rock d’ultima generazione,
Tired è noise, infine le due versioni di Yeah rispecchiano l’anima ballerina di questi LCD
Soundsystem. Per essere un debutto, accipicchia!
•
The Chemical Brothers Come with us
(02/09/06)
Questo è un lavoro del tutto atipico per il duo inglese, in quanto
rompe completamente con l’elettronica rumorosa e ridondante dei
precedenti lavori. Come with us contiene finalmente tutta la
maturità dei Chemical Brothers. Impossibile non cogliere la
personale elaborazione di Trans-Europe Express dei Kraftwerk
nella hit Star guitar o l’onda tribal-house di It began in Afrika.
Anonimi ma piacevoli i brani Hoops, The state we’re in, Denmark,
The elastic eye, Galaxy bounce o Pioneer skies; molto più ricercata
la seconda hit The test (corredata da un fantastico videoclip), in
quanto concepita come esercizio in bilico fra acustica ed elettronica. Dopo la raccolta di
singoli Singles 93-03 i Chemical Brothers decideranno, sull’onda del successo di questo
Come with us, di darsi completamente al basso commercio (vedi Push the button)
dimostrando sì grande talento ma smentendo ogni ambizione artistica. Una carriera fatta
di tali grandi successi (su tutti Hey boy hey girl) e, al tempo stesso, di una grossa
incoerenza nella scelta produttiva e nella direzione artistica.
•
Le Orme Uomo di pezza
(03/09/06)
Le Orme sono state una delle migliori band progressive (anzi
progressive-pop) italiane. La loro discografia parte con Ad gloriam
del 1969 e sembra non terminare con L’infinito del 2004. In mezzo
a questi trentacinque anni c’è Uomo di pezza (1972). Erano gli anni
dei grandi sconvolgimenti nella musica italiota: la melodia si
tramutava in ricerca popolare e le mode, fugaci come oggi,
cercavano di farsi belle e di divenire il più durature possibile. Ma
quest’album de Le Orme contiene davvero un po’ di tutto. Gioco di
bimba, Una dolcezza nuova e Figure di cartone sono psichedeliche
ma leggere, merito del giusto equilibrio fra chitarra e moog, fra batteria e basso elettrico;
Alienazione, La porta chiusa e Breve immagine sono invece più indirizzate alla tendenza
allora dilagante del solismo sperimentale. Infine troviamo la splendida Aspettando l’alba,
sospesa fra l’inconscio dell’onirico e la meraviglia del reale. Le Orme si supereranno
l’anno dopo col capolavoro Felona e Sorona e negli anni a venire con Smogmagica
(1975), Verità nascoste (1976), Storia o leggenda (1977) e Florian (1979).
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The Rokes Che mondo strano
(04/09/06)
I Rokes sono i Beatles italiani. E forse anche di più. Perché se i
quattro di Liverpool hanno inventato dal nulla il loro inconfondibile
stile beat, i Rokes di Shapiro hanno italianizzato la lezione
affiancando a musiche orecchiabilissime anche testi intelligenti.
Che mondo strano è l’album del 1967 e contiene alcune fra le loro
più belle creazioni. È la pioggia che va e Se io fossi povero sono
critiche verso la classe piccolo-borghese e a quell’Italietta
benpensante d’allora come d’oggi; la title-track e Dall’altra parte
ripercorrono invece i temi giovanili in voga (cantati già da Nomadi,
Zero e Pooh); Finché c’è musica mi tengo su e Ride on sono meravigliosi inviti al ballo
scatenato e all’importanza della musicalità. L’unica influenza che i Rokes hanno ricevuto
dalla tradizione musicale italiana è stata quello dell’Equipe 84 di Maurizio Vandelli. Ma il
ringraziamento che i Rokes meritano per aver operato una rottura col passato (mitigata poi
da alcuni miopi discografici) va allargato a molti dei personaggi di quegli anni e soprattutto
a temerari locali che rischiarono su di loro, primo fra tutti il Piper di Roma.
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Architecture In Helsinki In case we die
(05/09/06)
Questo è il secondo disco del pazzoide collettivo australiano
denominato Architecture In Helsinki. La follia della band è evidente
ascoltando i brani o guardando i clip. La loro immaturità è ben
bilanciata dalla raffinata cura di cui godono le canzoni. Bellissime
Wishbone e Do the whirlwind, fatte di batterie, congas, bonghi,
tromboni, pianoforti e altri strumenti molto meno convenzionali.
Nell’album si respirano contemporaneamente Talking Heads,
Buggles, Chicago e Frank Zappa: il tutto mescolato a mò di spot
pubblicitario. Le canzonette (così le chiamerebbe Bennato) sono
però talmente piacevoli ed originali che vanno benissimo per un viaggio in automobile.
Certo non è indie duro e puro, ma almeno non annoia e resta in mente per giorni. Infine
meritano una nota particolare Need to shout, What’s in store e Maybe you can owe me per
la loro capacità di evocare atmosfere degne di grandi nomi della musica internazionale
come George Harrison, Alan Parsons e Roger Waters. Nel complesso, In case we die è
uno spensierato lavoro consigliato per una rimpatriata fra vecchi amici.
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(06/09/06)
Groove Armada Goodbye country (hello nightclub)
I Groove Armada sono fra i pochi artisti americani che hanno
qualcosa da dire e lo fanno in maniera del tutto originale. Il disco
meglio riuscito è sicuramente questo Goodbye country (che ha per
sottotitolo Hello nightclub). Ed è evidente già nel titolo la voglia di
sprovincializzazione del proprio mood: un lento allontanamento dal
circuito underground per inserirsi in un ambiente internazionale più
eclettico. In quest’album troviamo infatti brani house da dancefloor
come Superstylin’, Drifted e Healing, pezzi hip-hop come
Suntoucher o il trip-hop un blueseggiante di Join my hands e My
friend (tra l’altro uno dei più bei videoclip dell’ultima decade), od ancora l’elettronica oldstyle di Fogma e Raisin’ the stakes. L’amalgama diviene poi perfetto quando è condito da
sana musica chill-out (Lazy Moon). Ammirevoli anche i lavori precedenti quali Vertigo e
Northern star, un po’ meno l’ultimo Lovebox, in cui sembra che i due producer
d’oltreoceano abbiano fatto un vero e proprio autogol, attraverso composizioni sempre
talentuose ma poco originali, visto soprattutto il loro background artistico. Bravissimi.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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I Ratti Della Sabina A passo lento
(07/09/06)
Non amo affatto il folk perché in tutti questi decenni non è mai
riuscito a rinnovarsi, se non in piccola parte. Permangono ancora
oggi fisarmoniche, violini, bufù, zampogne e tutti gli altri strumenti
autoctoni. Permangono anche i testi sociali, i testi di lotta, i testi da
balera. Ma sono contento di recensire l’ultimo nato dei Ratti Della
Sabina. Questo A passo lento è davvero un bell’album, così come
lo erano Circobirò, Cantiecontrocantincantina ed Acqua e terra.
Questa band proviene dal Lazio più burino e, almeno come
approccio al pubblico, non sbaglia una virgola. Simpatici e bravi
musicisti questi Ratti, che si permettono anche di foraggiare giustamente la pirateria. E in
questo disco ritroviamo ancora molti retaggi autorali del grande Gianni Rodari, per loro
maestro di vita e di arte. Divertentissime La giostra, Chi arriva prima aspetta e Il suono del
motore (dedicata al loro meccanico); molto romantiche A passo lento e A Oriente;
evocativa L’Abbatuozzo, legata al caro Monte Soratte e alle sue leggende. Insomma, la
differenza tra i Ratti Della Sabina e i M.C.R. o i ¡Folkabbestia! c’è, per nostra fortuna.
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Depeche Mode A broken frame
(08/09/06)
Il secondo disco dei Depeche Mode, dopo Speak & spell, è il
bellissimo A broken frame, contenente dieci brani di genuino
electro-pop. Tanti sintetizzatori, tanti pad e tanti pattern elettronici:
il tutto incatenato nella nuova forma canzone degli anni ’80. Tanti si
sono scagliati contro questo album, fondamentalmente perché era
venuta a mancare la genialità dell’autore Vince Clarke. Considerato
uno dei peggiori lavori della discografia dei Depeche Mode, penso
invece che abbia molto da dire, perlomeno sotto il profilo
prettamente strutturale. Leave in silence vale tutto il prezzo del
disco e viene ben completata dalle magnifiche A photograph of you e The meaning of
love. Forse ridondanti See you, Satellite e Shouldn’t have done that, ma non temono
comunque il confronto con tutta l’immondizia musicale che in quegli anni girava nei circuiti
d’Europa. La voce baritonale di Dave Gahan sa inoltre conquistare l’ascoltatore attraverso
leggeri sibili in cui le parole vengono semplicemente accennate (è il caso della stupenda
Monument). Curiosità: la copertina vinse il premio come miglior artwork del 1982.
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Mario Panseri Adolescenza
(09/09/06)
Liberamente tratto dal romanzo Agostino di Alberto Moravia, il
rarissimo disco di Mario Panseri ha concorso a rendere mitica la
schiatta cantautorale italiana. Adolescenza è infatti la storia
musicata (molto progressive) di un ragazzino alle prese con una
madre sola. Il piccolo Agostino scopre così le amicizie di branco,
scopre la sua sessualità attraverso la masturbazione, scopre il
corpo femminile nudo, scopre la solitudine della mamma sfociata in
squallide avventure sessuali. I testi di Panseri aiutano a creare
quell’atmosfera di inquietudine tipica dell’età adolescenziale e la
terza persona con cui spesso si esprime sembra fungere da grillo parlante. Infatti i titoli dei
brani non fanno altro che definire gli stati d’animo del ragazzo (Delusione, Il primo amico,
Vicino alla mamma, La tua confusione ecc.); la storia si completa con la cruda fine
dell’innocenza adolescenziale e il dolce ingresso nella nuova fase della giovinezza (Non
sei più quel ragazzo). Un disco bellissimo, unico. Mario Panseri è morto nel 1995 a soli
cinquant’anni, senza che la musica italiana gli abbia mai tributato gli onori dovuti.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Photek Solaris
(10/09/06)
È tanto che Photek non pubblica un album. L’ultimo risale al 2000
ed è questo Solaris, fatto di tanta, quasi troppa, elettronica. I pezzi
percorrono un corto continuum musicale fatto esclusivamente di
jungle, electro, drum’n’bass, minimal e acid-techno. Ad impreziosire
il tutto c’è il tocco vellutato di questo DJ inglese che, si sente, con
computer e giradischi ci sa fare davvero. I brani più moderati sono
la bellissima quanto storica Mine to give, la minimale Solaris e la
geniale Glamourama: quest’ultima contiene numerosi campioni
della voce di Marie-José Jongerius, attrice nel film erotico Vedette
(dialoghi in italiano). Skippando, arriviamo all’electro di Junk, Terminus e Halogen, ai ritmi
frenetici di Can’t come down ed Infinity e alla calma in cifre binarie di Aura, Lost blue
heaven e Under the palms. In generale questo album non fa che riaffermare il talento
artistico di Rupert Parkes, confermando in pieno i precedenti Modus operandi e Form &
function. Consigliato come abecedario per chi volesse cominciare a produrre musica
elettronica, sia essa house o jungle, techno o industrial.
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Ensemble Reflection K Musica su due dimensioni
(11/09/06)
Bruno Maderna è stato uno degli esponenti italiani più importanti
(con Berio, Dallapiccola e Nono) della musica d’avanguardia
internazionale. La sua opera del 1958 Musica su due dimensioni,
qui raccolta, accosta per la prima volta musica alterata da effetti
elettroacustici e musica suonata dal vivo: una sintesi di entrambe le
possibilità esistenti, chiamate dimensioni. In tal modo l'interprete,
nell'incontro con le realizzazioni sonore fissate sul nastro, fatte
dallo stesso compositore o da lui controllate, raggiunge un contatto
molto più stretto con l'autore; egli infatti non legge soltanto la
partitura, ma ode anche contemporaneamente quello che il compositore realmente vuole.
D'altra parte però l'autore deve compiere dentro di sé questa sintesi, se vuole che si venga
a creare una forma musicale tanto complessa, nella quale si incontrano l'interpretazione
immediata e ciò che egli stesso ha fissato. Il retroterra culturale che si cela dietro queste
disposizioni artistiche è il frutto dell’ambiente di ricerca sonora che si era creato in Europa
dopo la Seconda Guerra Mondiale, nonché della genialità dell’autore stesso. Complesso.
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Luca Carboni Carovana
(12/09/06)
L’intimismo, la quiete e le emozioni sussurrate fanno da sempre
parte del dna di Luca Carboni. L’album Carovana del 1998 è forse
quello in cui queste sensazioni sono più acuite. I testi così deliziosi
ed eleganti di Colori, Ferite, La casa, Deserto, Caldino e
Occidente&Oriente, colorati da dolcissime musiche, restano
impressi nella mente, sia per la loro godibilità acustica sia per la
profondità che riescono a raggiungere. Carboni riesce anche a fare
ironia con La cravatta (brano sull’inutilità della cravatta, vista qui
come collare del potere alla società civile) o con Il cowboy (surreale
storia del Far West) od ancora con Macedonia polare. L’unico brano che rompe la magia
dell’album è Le ragazze il quale, pur restando oggettivamente un ottimo pezzo, abusa di
rock, poco consono alla veste dell’intero disco. Nel complesso, Carovana, dopo Carboni
del 1992, è da considerarsi come il miglior album del cantautore bolognese, anche se poi
un confronto con Luca Carboni o con …Intanto Dustin Hoffman non sbaglia un film
sarebbe cronologicamente fuorviante nonché ingiusto. Comunque avvolgente.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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La Famiglia Pacco
(13/09/06)
L’hip-hop partenopeo ritengo sia la miglior sintesi fra street-culture
americana e tradizione italiana. Una delle numerose crew
napoletane è La Famiglia, composta da un DJ (Simi) e due mc
(Polo e ShaOne); la loro discografia annovera solo due dischi
ufficiali ma entrambi possono davvero venir considerati caposaldi
dell’hip-hop nostrano. Nel 2004 pubblicano Pacco, una sorta di
melting pot musicale dove al rap si mischia il mandolino e le voci
napoletane, allo scratching si aggiungono precisi sample di
pianoforte. I pezzi più forti dell’album sono Priann’ e pazziann’,
Amici, Suonn’, Dimmi di sì, Fore e Sott’ e ‘ngopp; interessantissimi poi gli interludi (Tre
piccerille, I segni del nostro tempo e Brutto mestiere) dove le testine dei giradischi
sembrano prender fuoco. Fondamentalmente i testi dei brani parlano d’amore, di storie di
periferia, di politica (chiaramente antiamericana) e attualità (ovvero di terrorismo), di
amicizie perdute e ritrovate, addirittura di ambiente (Smog). Insomma, un perfetto lavoro di
hip-hop in cui il dialetto napoletano aiuta a rendere più credibile il tutto.
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!!! Louden up now!
(14/09/06)
Ci sono idee talmente strane che, per la loro intima pazzia,
riescono a sfondare i canoni riconosciuti. Louden up now! è uno di
quegli album talmente ambigui da riuscire nella sopracitata
impresa; ancor più c’è riuscito il progetto che l’ha creato: una band
chiamata !!! (tre punti esclamativi che si leggono “Chk Chk Chk”).
Tutto ciò fa presagire il contenuto dell’opera. Il disco si srotola su
un’infinità di batterie seriali e su impetuosi giri di basso; i testi
rasentano a volte la demenza, a volte la genialità (frecciate sociopolitiche). Brani come When the going gets tough, the tough gets
krazee, Dear Can, Hello? Is this thing on? o Me and Guliani down by the schoolyard
rappresentano la nuova strada che la musica americana avrebbe intrapreso e che oggi
vediamo battuta dall’ondata disco-rock. Comunque questo Louden up now! possiamo
ritenerlo un disco da festa, senza pause e senza ritornelli, pensato per essere suonato
facilmente dal vivo e dove il continuo crescendo e gli improvvisi cali di tensione che a volte
accompagnano variazioni di tempo ci mantengono sempre gli occhi aperti. Discreto.
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Renato Zero No! Mamma, no!
(15/09/06)
Renato Zero decise di irrompere sulla scena musicale italiana con
un album live nel 1973 (anche se il vero esordio risale al 1967). No!
Mamma, no! è registrato in presa diretta al Piper di Roma e un
giovane Fiacchini interpreta con sentito pathos undici brani tra
l’irriverenza e il sociale, tra l’ironia e la seriosità. Il disco si apre con
il grido di libertà di Paleobarattolo, si snoda poi tra l’ozio di
Nonsense pigro e la diserzione pacifista di Sergente, no!; a seguire
due brani in puro stile Zero (TK6 chiama torre controllo e 0/1023). Il
sesto brano è la stupenda Nell’archivio della mia coscienza, sorta
di riflessione allo specchio per il nostro autore; Dana, Ti bevo liscia e Make up, make up,
make up continuano invece il discorso ironico dell’album. L’ultima canzone è la title-track
preceduta da un discorso introspettivo (Sogni nel buio); ma è quindi No! Mamma, no! il
brano più provocatorio e drammatico di questo primo Renato Zero, fatto di ingiurie e
preghiere a sua madre. Da questo inizio discografico si compresero subito le potenzialità
di questo cantautore e il successo che si sarebbe guadagnato tramite l’irrisione.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Tiromancino In continuo movimento
(16/09/06)
Il tema centrale del disco è il movimento, così come per tutti i lavori
della nuova era Tiromancino. Ma stavolta il movimento viene
indagato in tutte le sue più profonde sfumature. Dal dinamismo
della quotidianità (I giorni migliori) a quello dell’etere (Come l’aria);
dal movimento visto come sviluppo/evoluzione (Il progresso da
lontano in cui alcuni campioni ricordano un po’ E il mattino di
Vasco) a quello dei sentimenti (Per me è importante). Zampaglione
e soci in questo disco sublimano perché riescono a superare
l’ostacolo del qualunquismo, e a poco servono le critiche di chi li
taccia di monotonia, mancata ricercatezza e tendenza commerciale, perché brani come
Nessuna certezza (con Meg ed Elisa) o Sarebbe incredibile sono degni della migliore
tradizione autorale di casa nostra. Fra i brani troviamo anche il rock spinto di È necessario
e lo sperimentalismo post-rock di Polvere, l’electro-pop de Le onde e l’acustica senza
liriche di Strumentale. Amo profondamente questo disco, più de La descrizione di un
attimo e anche più dell’ultimo stupendo Illusioni parallele. Strepitosi Tiromancino.
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99 Posse Curre curre guaglió
(17/09/06)
I 99 Posse pubblicarono nel 1993 un disco destinato a segnare
tutta la musica degli anni ’90: Curre curre guaglió. Conoscendo il
profilo artistico e ideologico della band risulta facile immaginare che
questo sia stato un disco autoprodotto e che, come tale, non abbia
avuto problemi con nessun tipo di censura. Infatti Rigurgito
antifascista vorrebbe morti tutti coloro che si professano fascisti,
Curre curre guaglió canta invece dell’occupazione di un centro
sociale, Tuttapposto rappa sulle vicende derivanti dalla caduta del
Muro di Berlino, Odio ricorda l’uccisione del compagno Auro Bruni
bruciato vivo dagli skinhead nel centro sociale Corto Circuito di Roma, Rappresaglia urla
poi la rabbia e il desiderio di scontrarsi contro la società moderna (una sorta di manifesto
no-global). Non mancano canzoni sui problemi della città partenopea (Napolì) e sugli abusi
di potere legislativo (’O documento). I temi, come si vede, sono tanti e vanno a
profetizzare l’avvento dei movimenti massimalisti di sinistra che a fine anni ’90 inizieranno
una dura lotta contro la democrazia, la globalizzazione e lo strapotere americano.
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R.E.M. Out of time
(18/09/06)
Troppo facile - direte voi - recensire un disco come questo! Infatti
Out of time è indubbiamente uno dei migliori lavori degli
americanissimi R.E.M. e uno dei più bei dischi degli anni ’90.
Magnifiche sono canzoni come Radio song a metà fra country e
pop, oppure Low, molto baritonale, o ancora la divertentissima
Shiny happy people in cui Michael Stipe e soci si divertono fra cori
infantili e violini e chitarrine piene di melodia. Importantissime dal
punto di vista storico sono invece la ben nota Losing my religion
(sulla continua perdita di fede e speranza della cultura occidentale)
e la perfetta Near wild heaven. Belong, Endgame e Me in honey si incamminano invece su
sentieri tecnicamente più raffinati, dove alla ricercata voce del cantante si contrappongono
i peculiari cori di Mike Mills e Peter Buck. In molti hanno accusato Out of time di
rappresentare la svolta pop commerciale della band statunitense e di aver realizzato
arrangiamenti barocchi proprio per colpire una maggiore fetta di ascoltatori. Certo è che i
R.E.M. hanno fatto molto bene nei dischi precedenti ma questo è proprio perfetto.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Koop Waltz for Koop
(19/09/06)
Non sembra musica d’oggi questa degli scandinavi Koop. Il loro
secondo lavoro di studio Waltz for Koop è talmente ammaliante da
far dimenticare la freddezza dell’elettronica e la solitudine
dell’Europa settentrionale. I contrabbassi e le voci femminili entrano
nelle orecchie e nel cuore al primo ascolto. Travolgenti la title-track,
Relaxin’ at Club Fusion, Summer sun e In a heartbeat. E che dire
dei pianoforti e dei fiati di Tonight e Baby? Tutto è talmente
suonato e mixato bene in questo disco che i Koop si meritano
l’onoreficenza di maestri del nu-jazz (assieme ovviamente al
francese più cool di sempre, St. Germain). I brani di questo album saranno inoltre remixati
da nomi illustri del djing internazionale (Nicola Conte, Carlito, Richard Dorfmeister, DJ
Patife o Markus Enochson) e inseriti nella versione Alternative takes del disco. E stavolta
quella freddezza dell’elettronica digitale diventerà vivacità e fungerà da integratore
adrenalinico. Alcuni gioielli dei Koop sono così potuti divenire brani da set drum’n’bass,
house o funky. Rimane magistrale però questo Waltz for Koop.
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Matmos The civil war
(20/09/06)
The civil war è il penultimo lavoro discografico dei Matmos, duo
americano molto glitch. Come sempre i Matmos contaminano la
loro musica e stavolta lo fanno in maniera pesante, miscelando
musica medievale a sperimentalismo elettronico, hip-hop a folk,
musica tribale a trip-hop. Non mancano mai le portentose linee di
drumkit e i rumorosi errori di frequenza. Il concetto dell’album è
quindi quell’arco termporale che va dalla guerra civile inglese a
quella americana, passando per Cromwell e Washington; un
periodo pieno di battaglie, di sangue e di spade. Il tutto sembra
infatti fedelmente riproposto in The civil war attraverso il linguaggio della ricerca musicale:
galoppi ricreati con kick, sferragliamenti come loop IDM, e poi urla ed effetti sonori.
Ascoltiamo allora Regicide, Reconstruction, Yeild to total elation, Z.O.C.K. (Zealous Order
of Candied Knights) o For the trees (forse la più bella traccia del disco). Continuiamo col
patriottismo ottocentesco di The stars and stripes forever, il glitch di Pelt and roller e i
clavicembali di The struggle against unreality begins. Disco da culto.
•
New Trolls Ut
(21/09/06)
Il progressive italiano - va detto - ha avuto ottimi interpreti quali
Banco Del Mutuo Soccorso, Area, Orme, Rovescio Della Medaglia,
Balletto Di Bronzo ecc., ma in troppi hanno dimenticato con
faciloneria l’apporto dei New Trolls al filone nazionale. Se è vero
che avevano iniziato con dischi cantautorali in pieno stile 60’s, con
Ut (1972) la band di De Scalzi e Di Palo fa un importante passo in
avanti sulla strada del prog italiano (dopo Concerto grosso).
L’album si apre con dialoghi psichedelici fra chitarre, tastiere e
batterie (Studio, XXII Strada e Visoni); seguono I cavalieri del lago
dell’Ontario, Storia di una foglia e Nato adesso, dove le partiture riescono nell’arduo
compito di creare immagini. Ascoltando i brani si ha l’idea di immergersi in un mondo allo
stesso tempo bucolico e metropolitano, estraneo e cosmopolita. Ci sono tre canzoni di Ut
che possiedono testi magnifici adagiati su musiche maggiormente pop: C’è troppa guerra
urla il pacifismo, Paolo e Francesca reinventa la drammatica storia dantesca dei due
riminesi e Chi mi può capire, capolavoro assoluto. Ascoltare per credere.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Mouse On Mars Autoditacker
(22/09/06)
Decostruzione. Questa la parola d’ordine del progetto tedesco dei
Mouse On Mars. Ogni sample, ogni suono, ogni frequenza di
stampo pop(olare) viene spezzettata e riformulata in maniera non
convenzionale. Una sorta di pop-art musicale dove il prodotto finale
è la distruzione e allo stesso tempo la creazione di un nuovo
linguaggio, più colto e più profondo dell’originale. Autoditacker è il
terzo album dei Mouse On Mars e contiene dodici brani. Il tutto si
apre con la techno fantasiosa di Sui shop, continua con l’electro
aphexiana di Juju e Twift shoeblade e si approda quindi allo
sperimentalismo funkeggiante di Tamagnocchi. Dark FX, Scat e Sehnsud si occupano
invece di sequenziare ambientalismi e suoni digitali; non manca poi il noise di Tux &
Damask e di Maggots hell wigs. Si ritorna alla techno d’ascolto con Schnick schnack
Meltmade e alle provocazioni suggestive di X-flies e Rondio. Fondamentalmente penso
che gli anni ’90 siano stati il decennio artisticamente meno etichettabile (a ragione) ma
credo anche che questo Autoditacker aiuti a renderlo più significativo e intrigante.
•
Agricantus Calura
(23/09/06)
Che bello questo disco e che bravi i nostri Agricantus! Originari del
profondo Mezzogiorno (Sicilia) la band si meritò anche un posto
nella compilation Buddha-Bar (quarto volume) col brano Amatevi,
contenuto in questo Calura. Quest’album è davvero un perfetto
melting pot multiculturale (più che multietnico): c’è downtempo,
world music, ambient, d’n’b. C’è un po’ di tutto anche perché il
contiene molti remix, chiaramente lavorati al computer. I pezzi più
caratterizzanti sono sicuramente Jamila e la sopracitata Amatevi:
entrambe, suonate con tablas, archi e congas, cantano storie
lontane ma attuali, malinconiche eppur gioiose. Jusu e susu e Présence sono invece delle
specie di ethno-ballad che utilizzano i dialetti meridionali; Pinseri, Orbi terrarum e Viaggi
(relativamente remixate da Keir & Matthew, DJ Rocca e Tonj Acquaviva) ci ricordano poi
l’intelligenza dell’ibridazione fra elettronica e musica locale. Infine Spiranza e Ciavula
sembrano provenire direttamente dalle remote zone dell’emisfero australe, per l’uso
geniale di panflute, chitarre e bassi. E la voce della Wiederkehr? Soffice e intensa.
•
Etienne De Crécy Tempovision
(24/09/06)
Questo è il disco di un altro grande producer francese.
Tempovision è infatti l’unica prova solista targata Etienne De Crécy
e si dibatte bene fra ritmi houseggianti, hip-hop e uptempo. Relax e
Out of my hands sono semplici ma ineccepibili tracce di elettronica
d’ascolto, magnificamente costruite su ottimi beat e synth di qualità;
Noname e When Jack met Jill cadenzano invece battiti più lenti e
alternati. Inoltre questo album contiene il tormentone (dal video noglobal) Am I wrong, interamente fatto di synth filtrati (delay e
flanger su tutti). Scratched la considero la traccia più significativa dal punto di vista tecnico - in quanto l’intera linea melodica è delegata a scratch di vinile e
ad una voce quasi roca. La title-track e Rhythm & beat, assieme a 3 day week end, sono
poi piene zeppe di campionamenti vecchi e nuovi, e l’ultimo brano Hold the line riprende il
tema dell’intro Intronection (performato col tipico suono del modem 56k). Nel complesso,
questo è un prodotto godibilissimo sotto l’aspetto melodico e caparbio per quanto riguarda
certe innovazioni tecniche che contiene. Bravo Etienne.
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Nomadi Ma che film la vita
(25/09/06)
Il più bel disco dal vivo dei Nomadi è sicuramente questo Ma che
film la vita, contenente veri e propri gioielli di musica leggera
italiana. Il paese delle favole, C’è un re e Ma che film la vita sono le
tracce che aprono questa raccolta live, seguite dalla strumentale
Suoni. I Nomadi cominciano con i brani socialmente impegnati solo
con Salvador, sull’uccisione del presidente socialista cileno
Salvador Allende Gossens, e con Ricordati di Chico, sull’uccisione
del sindacalista nonché ambientalista brasiliano Chico Mendes.
Primavera di Praga guarda poi agli scandalosi eventi che videro la
Cecoslovacchia invasa dall’Armata Rossa nel 1968, durante i quali il giovane universitario
Jan Palach si diede fuoco per protestare contro l’illegittima e deludente soverchieria rossa;
Mercanti e servi canta delle sperequazioni sociali fra proletariato e borghesia, L’uomo di
Monaco e La canzone del bambino nel vento denunciano l’orrore dei lager nazisti. Alla fine
del disco le famosissime Canzone per un’amica, Dio è morto e Io vagabondo; come
sempre lo zampino di Guccini c’è ma qui Daolio e soci si superano.
•
Morgan Non al denaro non all’amore né al cielo
(26/09/06)
Impresa ardua quella di ricreare un lavoro di Fabrizio De André. E
io ho deciso di recensire questa personale rivisitazione di Morgan
del capolavoro Non al denaro non all’amore né al cielo perché il
giovane (?) cantautore ha stupito tutti. La sua fedele rilettura
filologica dell’opera originale mi ha spiazzato. Le canzoni sono
identiche, la voce di Morgan a volte è addirittura più ricercata di
quella di Faber, la copertina è la naturale conseguenza di quella
originale e inoltre gli interludi classici (come L’inverno di Vivaldi)
funzionano benissimo nella logica concettuale del disco. Inutile
parlare dei brani perché solo un attento e libidinoso ascolto può aprire la mente
dell’ascoltatore ai molteplici significati insiti. Posso almeno affermare che i nove brani
dell’album sono un’evoluzione delle poesie dell’anarchico Edgar Lee Masters (Anthology
of Spoon River) qui migliorate, riempite, musicate e - in molti casi - create dal nulla. I
personaggi delle canzoni (medici, chimici, giudici, ottici, malati, matti e blasfemi) parlano
dall’aldilà di cosa hanno fatto in vita e di cosa avrebbero potuto (e dovuto) fare. Unico.
•
Goldfrapp Felt mountain
(27/09/06)
L’esordio dei Goldfrapp (la band deve il nome alla propria cantante
Alison Goldfrapp) sta in questo disco dalle atmosfere sognanti e
malinconiche. Felt mountain è un insieme di soft-pop elettronico
che rimembra certe sonorità anni ’60; basta infatti la prima traccia
Lovely head (capolavoro assoluto) per immergersi in atmosfere
morriconiane. La voce di Alison si sposa, incantandoci, con le
suadenti musiche scritte, arrangiate e missate da Will Gregory (i
brani sono stati registrati direttamente tra casa e bungalow!). Forte
è la commistione fra classico e moderno in questo lavoro, e lo si
capisce bene da brani carichi di emozione come Paper bag, Human, Pilots o Deer stop.
Ad incantare è soprattutto Utopia: un’altra melodia struggente condotta dal dolce soprano
della vocalist attraverso un mare di effetti elettronici, riverberi e dissonanze. La montagna
di feltro che dà il titolo si spiega bene nel romanticismo ammaliante della simbiosi fra la
voce celestiale - così versatile - della Goldfrapp e il tappeto sonoro capace di evocare
atmosfere misteriose e allo stesso tempo così dense di visioni. Disco d’altri tempi.
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Télépopmusik Genetic world
(28/09/06)
Nel 2001 esce Genetic world dei francesi Télépopmusik, un album
fondamentalmente elettronico in cui sussistono assieme elementi
sonori che vanno dalla soft-house al downtempo, dal glitch
all’electro sperimentale. Breathe, a suo tempo, fu un tormentone
(aiutato dagli spot televisivi) che tuttora rimane comunque una
traccia molto emozionante, al di là del suo aspetto commerciale.
Magnifiche Love can damage your health e Dance me, costruite
entrambe su giochi di frequenza. Addirittura questo Genetic world
contiene anche del buon rap (Animal man e Let’s go again), segno
che rivela l’eclettismo della band. Sensazionale Smile, dove la vocina della vocalist si
incastra benissimo nel velluto dei suoni; Trishika e Yesterday was a lie sono poi
esperimenti jazz da colonna sonora, pieni di batterie brush, voci cupe e melodiose,
contrabbassi con maestosi archi. A tratti ricordano contemporaneamente Nicola Conte e
AFX. Strana infine - troppo strana - L’incertitude d’Heisenberg, legata fortemente alla
corrente ambient anni ’80: suoni armoniosi e lontani, pochi accordi ma buoni. Bel disco.
•
Neu! Neu! 75
(29/09/06)
Chi sono i Neu!? Sono due tedeschi di Düsseldorf, membri originari
dei Kraftwerk: il multistrumentista Michael Rother e il batterista
Klaus Dinger. Neu! 75 è il terzo disco del duo, uscito proprio nel
1975, ed è da molti considerato il loro capolavoro (io concordo). Le
batterie di Dinger si susseguono instancabili e lasciano spazio a
linee di pianoforte, a sezioni di effetti sonori ed a talentuosi
virtuosismi di basso. Isi è proprio così; Seeland è invece in
costante equilibrio tra rumore e silenzio, caos e quiete, unità e
frammentarietà. Leb’ wohl potrei considerarlo poi una sorta di
tentativo proto-ambient, di certo ben riuscito, dove al pianoforte si accompagna il fragore
della risacca. Su Hero le schitarrate abbondano e la voce cantante è in bilico tra punk e
rock’n’roll; con E-Musik sentiamo forte l’influenza dei primi Kraftwerk (ai tempi di Ralf &
Florian): l’elettronica inizia ad intravedersi e le chitarre sono modulate ad hoc. Infine After
eight è un altro brano proto-punk: voci e chitarre infiammate, batterie velocissime. I Neu!
litigheranno e si perderanno ma lasciano questo disco nel firmamento della storia.
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I Califfi Fiore di metallo
(30/09/06)
Fiore di metallo fa parte della discografia dei Califfi, una band che
ha ricevuto grandi consensi negli anni ’60 e ’70. Prima con brani in
pieno stile beat, poi con intelligenti frecciate progressive. Questo
disco appartiene proprio a questo secondo periodo. Nel mio
passato utilizza chitarre, clavicembalo e organo; Fiore finto, fiore di
metallo possiede un riff di chitarra elettrica davvero travolgente,
assieme ad un testo giovanilista (tipico dell’epoca). Alleluja gente
rallenta l’andatura, facendo un po’ il verso al Banco Del Mutuo
Soccorso; Varius sembra poi un madrigale, con quella linea
portante di organo da chiesa così forte ed intensa; inoltre Felicità, sorriso e pianto e
Madre, domani… prendono molto dalle lezioni neomelodiche de Le Orme, sia per quanto
riguarda l’aspetto autorale sia per quello strettamente musicale. Con A piedi scalzi e Col
vento nei capelli si torna al progressive fatto di schitarrate e al rock’n’roll duro e puro.
L’ultima canzone è Campane, ovviamente suonata con le bells, mischiate però all’impianto
psichedelico 70’s. Pochi (ri)conoscono i Califfi ma garantisco l’eccellenza del prodotto.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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The Smiths Hatful of hollow
(01/10/06)
Bisogna assolutamente ascoltare questo disco degli Smiths perché
la voce di Morrissey è emozionante. Hatful of hollow è il secondo
album della band inglese e contiene ben sedici tracce di puro
English music style. Le perle sono sicuramente Heaven knows I’m
miserable now, Back to the old house, Please, please, please, let
me get what I want e William, it was really nothing. Certo è che i
titoli sono lunghissimi, ma i riff, le sonorità e i testi risultano davvero
intelligenti. Non a caso gli Smiths inconsapevolmente hanno dato
vita ad un intero filone generazionale di musicisti e artisti.
Bellissime anche This night has opened my eyes, Girl afraid e Hand in glove: sorta di
ballad di nuova fabbricazione. Strane, forse pleonastiche, What difference does it make?,
Still ill, How soon is now e Reel around the fountain ma nel complesso Hatful of hollow
rimane un album strumentalmente travolgente (come gli inglesi sanno fare) e
dall’immediata musicalità; i testi, anche se difficili ed ermetici, risultano tuttavia accattivanti
e profondi. Difficilmente troverete nei negozi un disco rock più bello di questo.
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Sud Sound System Acqua pe sta terra
(02/10/06)
Da sempre il reggae in Italia parla salentino. Tanti sono i soundsystem nostrani che si sono cimentati nella felice impresa di
mischiare tradizioni locali e sonorità giamaicane. I Sud Sound
System sono forse la band che c’è riuscita meglio e il loro ultimo
album di studio, Acqua pe sta terra (2005), ne è un ottimo esempio.
Sussistono tutti gli elementi del reggae (e raggamuffin): testi a volte
socialmente impegnati e a volte ironici, chitarre e linee di organo
lente ma inesorabili, cori e voci rauche e trascinate. Ed infatti è
praticamente impossibile rimanere immobili quando parte Sciamu a
ballare o Now is the time. Affascinanti poi Ciao amore e Amore e odiu, ineccepibili Dimme
a ddhu stae e Tocca lu cielu, divertente infine Reggae calypso. Ma tutto è bello in questo
disco, tranne forse la mancanza di momenti sentimentali: in fondo il reggae è così e non
possiamo certo prendercela con i nostri pugliesi. In fondo sono stati loro i primi ad
importare il genere nello Stivale e di questo dobbiamo rendergliene atto. Non resta che
ascoltarli dal vivo, magari in casa loro, durante un dancehall alcolico!
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Telex Looking for Saint-Tropez
(03/10/06)
Direttamente dal Belgio arrivano tre DJ producer di pura
volksmusik. Il primo di questi è il jazzista Marc Moulin, il secondo è
Dan Lacksman e l’ultimo è Michael Moers. Il loro nome è Telex ed
il primo album del 1979 si intitola Looking for Saint-Tropez. Con la
francofonia nel cuore e l’elettronica nel sangue, questi tre uomini
hanno seguito, evolvendola, la lezione dei Kraftwerk. Nel primo
disco troviamo brani come Moskow diskow (in analogia con Trans
Europa Express), Rock around the clock (cover elettronica
dell’omonimo brano di Sonny Dae & The Knights), Pakmoväst e
Café de la Jungle. Tutte le tracce sono cantate e cercano di approdare ad un nuovo
prototipo di forma-canzone popolare, come esattamente - anni addietro - i geni di
Düsseldorf avevano fatto. Le altre canzoni (Someday, Ça plane pour moi, Victime de la
société #2 o Something to say) scorrono veloci e godibili all’orecchio dell’ascoltatore;
rimane infine impressa la bellissima Twist à Saint-Tropez, sorta di sconvolgimento
elettronico in stile neo-sixties. Per fortuna i Telex sono ultimamente tornati alla ribalta.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Franco Battiato L’Egitto prima delle sabbie
(04/10/06)
L’Egitto prima delle sabbie è l’ultimo lavoro della discografia
sperimentale di mastro Battiato. Risale al 1978 e in quell’anno si
aggiudicò il premio Stockhausen come miglior disco di elettronica
d’avanguardia. I brani contenuti sono solo due lunghi momenti di
pianoforte (della durata di quattordici e diciotto minuti). Il concetto
fondante è il serialismo minimale, che l’anno dopo ispirerà tra l’altro
Brian Eno, in cui lo stesso accordo - o nota - viene ripetuto
manualmente decine e decine di volte nell’assoluto silenzio. A dare
il senso dell’opera sono la durata delle pause tra le ripetizioni e la
voluta percussività che divide e sottrae risonanze (con una speciale tecnica di rilascio).
L’Egitto-prima-delle-sabbie è meno melodica del secondo brano e relativamente più
scarna; Sud afternoon è infatti composta dai diversi accordi in ripetizione. L’ascolto del
disco è difficilissimo ma, per chi ama la ricerca, questo lavoro si presenterà come una
colonna portante. L’anno seguente Franco Battiato pubblicherà L'era del cinghiale bianco,
regalando il più sbalorditivo cambio di rotta nella storia della musica italiana.
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Gigi D’Agostino Gigi D’Agostino
(05/10/06)
Luigi Di Agostino ha inventato e ucciso un genere: la progressive
dream. Assieme a nomi di spicco quali Mauro Tannino, Stefano Di
Carlo, Alex Silvi e Mario Più, a metà anni ’90 D’Agostino ha
delineato con questo disco eponimo le istanze dell’elettronica
mediterranea da dancefloor. La progressive ha dato vita a
capolavori quali Goblin, Atomic, Dedicated, Break the silence,
Android, Ouverture, Green line, Ocean whisper o Struggle for
pleasure e Gigi ha dato il suo contributo attraverso questo album:
diciannove brani per violino elettronico con melodie davvero
fantastiche. Le pietre miliari sono sicuramente Fly, Gigi’s violin, Angel, Emotions, Before,
Sweetly, Angel’s symphony, My dream, Free e Strange. Oggi questo genere ha preso la
via della commercialità attraverso una maggiore durezza del suono, una scelta melodica
banale e una qualità autorale bassissima. Ma la progressive italiana, morta ufficialmente
nel 1997 per dar vita alla corrente trance europea, resta una bella esperienza nel
panorama elettronico internazionale, troppo raramente originale e anticonvenzionale.
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Faithless Outrospective
(06/10/06)
Outrospective è il disco più completo dei Faithless, forse quello
della piena maturità artistica. La mistura di techno e alternative, di
rap e trip-hop, ha portato i Faithless ad essere una delle band
dance più conosciute (e remixate) al mondo. Nel disco troviamo la
strepitosa We come 1, dove le ambientazioni techno fanno da
cornice ad un testo impegnato, considerando la natura danzereccia
del lavoro (dura infatti quindici minuti); Muhammad Ali, molto più
acustica, canta dell’indimenticato Cassius Clay; One step too far è
il brano tecnicamente più complesso mentre i synth di Donny X
creano atmosfere cupe e torbide. A mio avviso è Crazy English summer la perla di questo
Outrospective, un brano chill-out per pianoforte elettronico dove la voce femminile al
vocoder distende tutti e cinque i sensi. Un po’ troppo anonime le altre tracce, come ad
esempio Not enuff love, Code, Liontamer, Giving myself away ed Evergreen. A sostegno
della natura sociale della band si deve aggiungere la stupenda copertina che ritrae scontri
di piazza nella capitale francese, da sempre teatro di rivolte popolari e giovanili.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Organisation Tone float
(07/10/06)
Tutto iniziò nel 1968 quando i giovani Ralf Hütter e Florian
Schneider-Esleben uscirono col diploma dal conservatorio di
Düsseldorf. La musica classica non faceva per loro e decisero così
di darsi alla sperimentazione più audace. Fondarono l’anno
seguente il progetto Organisation con cui andavano suonando in
università e gallerie d’arte la loro strana concezione di ritmo. Tone
float è l’unica prova discografica di quel periodo perché i due
tedeschi, nel 1970, daranno vita al progetto Kraftwerk. In questo
esordio troviamo però interessanti trovate come Noitasinagro e Milk
rock, per percussioni, flauto, violino e organo; inoltre ci sono la bellissima e lunghissima
title-track e Silver forest; c’è infine Rhythm salad, potente mix di feedback sonori. Nel 1971
la ristampa del disco vedrà aggiunta la traccia Vor dem blauen Bock, nella versione
performata live a Beat Club: un progarmma televisivo tedesco d’allora. In questo disco
l’elettronica è lontana ma la ricerca musicale è viva. S’afferma legittimamente che questo
sia un album ingenuo. Forse. Ma guardiamo la futura carriera dei Kraftwerk.
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Pharrell In my mind
(08/10/06)
È la solita solfa americana. Musica hip-hop con un po’ di r’n’b e una
spruzzata funky. Purtroppo il perenne vuoto culturale della società
statunitense si rispecchia anche nelle sue creature artistiche, ma
recensisco In my mind di Pharrell perché questo disco ha il merito
di discostarsi profondamente dalla moderna moda rap (catena
d’oro, macchina di lusso e puttana negra). Williams ha innanzitutto
avuto l’intelligenza di inventare un nuovo modo di sequenziare
l’hip-hop, adesso molto più tribale e minimale, diremmo jazzy. I
pianoforti non sono più campionati e la melodia è quasi
interamente delegata alla voce dell’mc. Nel disco ci sono molte collaborazioni, da Gwen
Stefani (Can I have it like that) a Kanye West (Number one). L’influenza di Pharrell come
produttore si è infatti sparsa su moltissimi rapper americani che, a partire da Snoop Dogg,
hanno cominciato a cambiare profondamente il loro stile. Rimangono comunque
interessanti brani come Raspy shit, Angel, Best friend, You can do it too e Our father. Per
il resto - come già detto - il solito polpettone made in U.S.A.
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(09/10/06)
Otto Ohm Pseudostereo
Pseudostereo è il secondo album della breve ma intensa
discografia degli Otto Ohm. Dodici brani che spaziano dal rock al
reggae, passando per elettronica e sapiente cantautorato.
Fumodenso rockeggia su storie romantiche e umane, Senza di noi
sfuma ricordi d’infanzia, Indiano metropolitano rappa argutamente
l’alienazione della città, Dee-lay utilizza poi effetti digitali per
raccontare vicende di amori contrastati. Perdere te è invece il
brano sentimentalmente più impegnato, tipico degli Otto Ohm, su
un tappeto sonoro fatto di simil-house; In questo ricordo mi perdo si
ricongiunge al filo della malinconia, dovuta alla fine dell’estate e alla perdita delle persone
amate. Il gioiello del disco è però Oro nero, dove l’amore vale più non dell’oro, bensì del
petrolio. Argilla pt. 2 (seguito di Argilla contenuta nel primo disco) è una specie di
disquisizione su indifferenze e stereotipi; Valeria ‘80 e Christina non lo sa sono
evidentemente dedicate a delle donne; infine Soldatino e L’unica via rientrano nel genoma
della band. Non c’è che dire: un lavoro davvero interessante. E che copertina!
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Planetfunk Non zero sumness
(10/10/06)
Ancora Italia. Ancora Napoli. La band dei Planetfunk nel 2002
esordì con questo disco davvero originale e ben fatto. Non zero
sumness è un calderone di electro e acustica, il tutto suonato da
bravi musicisti, mixato da eminenti DJ (Alex Neri) e cantato da
vocalist professionisti (come Dan Black dei Servant). Tanti i
tormentoni contenuti nell’album: Chase the sun fu il primo, poi
Inside all the people, quindi The switch, Who said e infine Paraffin.
Questi brani e i loro rispettivi videoclip ci hanno martoriato le
orecchie, ma è stata una fortuna, perché tutte le tracce erano di
ottima qualità e pronte per il dancefloor. Incantevoli le lyrics di Where is the max, soavi All
mans land e Under the rain, irrinunciabile Tightrope artist, spaccawoofer Rosa blu,
sussurrata Piano piano, evocativa infine The waltz. Nell’edizione speciale dell’album (Non
zero sumness plus one) troverà posto anche l’inedito One step closer. Tra ritmi e sonorità
ambient, trance, house e trip-hop, il disco scorre nel CD player sinuoso come le onde del
mare. Magari proprio il mare che bagna i piedi della costiera amalfitana.
•
Gabin Gabin
(11/10/06)
Roma diventa Parigi. Il duo dei Gabin, romano, pubblica nel 2002 il
suo primo album eponimo. Si sente forte l’influenza di tutti i maestri
francesi del jazz elettronico, da Shazz a St. Germain a Marc
Moulin. Gabin contiene dodici tracce: La maison è il romantico
intro, imponenti i suoi pianoforti e le piogge metalliche; Une histoire
d’amour miscela jazz e tradizione araba (su tutti Amr Diab); il
tormentone Doo uap, doo uap, doo uap houseggia sui campioni di
Duke Ellington. Delire et passion, Sweet sadness, Mille et une nuit
des desires e Urban night musicano malinconie, storie
metropolitane, bisogni e desideri; Terra pura e Azul añil riprendono il filone esotico del
secondo brano, mentre Gabin vs Cal’s Bluedo e House trip si indirizzano maggiormente
sul sentiero dance; l’ultima traccia è una versione lounge (performata dal gran buon
vecchio Stefano Di Battista) de La maison. In Gabin non c’è la stessa accuratezza e la
stessa profondità di un lavoro di Ludovic Navarre ma, tenendo conto che in Italia questi
sono esperimenti da temerari che attirano solo critiche, non posso che approvare. Bravi!
•
Luttazzi Money for dope
(12/10/06)
La sua professione preferita è fare la vittima. Ma questo disco fatto
di pezzi vecchi e nuovi, chiaramente tutti inediti, del comico (?)
Daniele Luttazzi (qui si fa chiamare solo per cognome) è comunque
un’ottima prova del suo eclettico talento. Pochissimi conoscono
questo lato di Luttazzi, anche perché l’album non ha avuto la
promozione giusta. Money for dope contiene dieci brani che
spaziano dal rock al funk, dal blues allo swing. Belle le trombe
esuberanti di Silence, il pianoforte melanconico di Vienna, Vienna,
la batteria brush di Something fantastic, il sarcasmo di Make your
mother sigh. Tutto viene cantato in inglese dal nostro Daniele e la maggior parte dei pezzi
appartiene al periodo anni ‘70. Luttazzi addirittura jazza con Easy to be fooled, diviene
lunatico con Guard my tongue e dà fiato alle trombe con Doom. Esotica sembra invece I
can’t stand it, più (ri)posata invece la romantica Letters on fire. Troviamo infine il gioiello
del disco: infatti la title-track è un brano alla Radiohead dove l’autore canta e suona in
maniera semplice ma carico di emozione. Basta politica, basta teatro. Più musica.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Thom Yorke The eraser
(13/10/06)
Criticato, elogiato, massacrato, esaltato, demonizzato e allo stesso
tempo divinizzato. Vi basta? Questo è Thom Yorke, leader (forse
ex) dei Radiohead che, quest’anno, ha pubblicato il suo primo
album solista, profetizzato e atteso da anni, da molti. The eraser è
l’esordio perfetto, anche se l’autore - si sente - non è certo un
pivello qualunque. Tutti i brani hanno come filo comune il telaio
compositivo. Base ritmica fatta di beat elettronici, livelli aggiuntivi
melodici campionati o strumentali e tappeto vocale autorale. Non si
capisce se l’artista abbia poca voce, non sappia proprio cantare,
sia naturalmente stonato oppure se quel maledetto timbro trasandato sia il frutto di una
ricercatezza tutta sua. Io propendo per l’ultima ipotesi! La tracklist comprende The eraser,
Analyse, The clock, Black swan, Skip divided, Atoms for peace, And it rained all night,
Harrowdown Hill e Cymbal rush. Stavolta lascio giudicare all’ascoltatore: io me ne lavo le
mani. Sappiate solo che intellettualismo, multicultura, impegno sociale, arte musicale e
talento innovativo fanno parte del dna di Thom Yorke e di questo disco.
•
Kings Of Convenience Versus
(14/10/06)
Dalla Scandinavia arrivano questi due giovanotti chiamati Kings Of
Convenience e Versus è il loro album fatto di rework e i remixer
sono nomi più che eccellenti. Abbiamo per esempio i Röyksopp
che rivisitano I don’t know what I can save you from, Four Tet che
mette le mani su The weight of my words, Andy Votel che remixa
Winning a battle, losing a war e i Ladytron che ritoccano Little kids.
I generi utilizzati rimangono nell’orbita degli originali ma usano e
abusano di elettronica od arrangiamenti acustici. Deliziosa è infatti
Failure, che aveva già trovato posto a suo tempo nel debutto Quiet
is the new loud, costruita qui con sillogistici accordi di chitarra. Belli gli altri rework, ovvero
quelli di The girl from back then, Leaning against the wall, Gold for the price of silver e
Toxic girl. Versus, il cui titolo implica esattamente la sfida fra Kings Of Convenience e
guest, può venir ascritto alla moderna moda di farsi remixare gli album; i precedenti sono
tanti, dagli AIR ai Faithless, dai Chicken Lips ai Daft Punk, dai Gorillaz ai Massive Attack,
dai Tosca ai Moloko. E nel complesso anche questo è un discreto prodotto discografico.
•
Francesco De Gregori Rimmel
(15/10/06)
Correva l’anno 1975 e stava per uscire uno dei più bei dischi italiani
di sempre. Francesco De Gregori pubblicava infatti Rimmel: nove
brani di alto cantautorato nazional-popolare. La title-track parla di
donne e amore, Pezzi di vetro di uomini e ambiguità, Il signor Hood
(con “autonomia”) è dedicata al Marco Pannella soldato sociale,
Pablo parla di un padre morto eppure ancora vivo. Il cavallo di
battaglia Buonanotte fiorellino incanterebbe qualsiasi signorina, Le
storie di ieri è una disputa ideologica fra padre e figlio (De André
nel 1978 la migliorerà); Quattro cani e Piccola mela sono dolci
nenie fra il sentimentale e il drammatico; Piano bar è infine il ritratto di un solitario
musicista jazz. In tutti i brani si avvertono intensi il rombo del contrabbasso, i melodici
pianoforti e gli accordi di chitarra diretti e sinuosi. Un disco fatto di poesia, tutto dedicato a
chi vive la vita in equilibrio, rischiando e vivendo di passioni. Ancora oggi Rimmel è uno
dei dischi più venduti e conosciuti dell’artista romano, non ha perso la sua attualità né la
sua emozione. In fondo il principe è pur sempre di sangue blu.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Joe Cassano Dio lodato
(16/10/06)
Giovanni (Joe) Cassano aka Jhonny Jab è un rapper bolognese
morto nel 1999 alla verde età di ventisei anni. Il suo unico album è
un tributo postumo compilato da alcuni suoi compagni di crew. Dio
lodato contiene così dodici tracce di cui solo cinque o sei
appartengono in tutto e per tutto a Cassano. Mi riferisco a Flow
dopo flow, giocando col destino, a Gli occhi della strada e a
Rischiando il culo a nocche dure, pezzi importanti per l’mc
emiliano, tutti diretti alla vita di strada e alle sue storie (droga,
alienazione, criminalità). In Giorno e notte, sulla base di Fritz Da
Cat, Joe Cassano rappa splendidamente con Inoki, Teste mobili e Intro sono invece
omaggi di altri al talento dell’amico. Il gioiello rimane Dio lodato per sta chance, dove
Jhonny urla la sua voglia di farsi strada grazie al cielo e al talento. Basse frequenze è poi
una sorta di collage di alcuni pezzi registrati amatorialmente live durante hip-hop contest.
Tributo è infine l’omaggio (la base è di DJ Lugi) nel quale molti mc si avvicendano nel
cantare le imprese, i ricordi e le storie legate alla memoria del giovane Joe. Puro flow.
•
Luigi Dallapiccola Ulisse
(17/10/06)
Maestro assoluto della sperimentazione, Luigi Dallapiccola si è
spesso occupato di teatro. Ulisse è infatti il risultato di tutta la sua
vita. Da una parte questa, che rimase la sua ultima opera teatrale,
nata in un arco lunghissimo di tempo, che va dal 1938 al 1966,
riassume una lunga catena di esperienze legate alla figura dell’eroe
omerico, le più remote delle quali risalgono addirittura agli anni
infantili. L’unità musicale dell’Ulisse si basa sulla matrice seriale,
intessuta di motivi ricorrenti; tuttavia, più che nel trattamento
compositivo delle singole serie dodecafoniche in sé, il livello al
quale la musica contribuisce a definire il senso dell’opera è quello della composizione
della singola parola. Sono infatti alcune locuzioni verbali, dotate di alto potere connotativo,
le componenti drammatiche primarie sulle quali il musicista appunta in modo speciale la
propria attenzione. L’esclamazione finale, circonfusa di un’aura religiosa e mistica, è
l’approdo del grande viaggio nella conoscenza di Ulisse e, assieme, il culmine della ricerca
che attraversa il teatro di Dallapiccola: la scoperta del Dio liberatore.
•
(18/10/06)
Deadbeats Lounging
Due DJ di Nottingham con la fissa per i remix nel 2000 hanno
pubblicato il loro primo e unico album. Lounging dei Deadbeats è
un disco di inediti, il cui genere non è altro che un misto di funk,
downtempo e trip-hop (lo stesso che utilizzano per i loro ricercati
rework). Il titolo dell’album è infatti un buon indicatore del suo
contenuto: musica da salotto, da ascoltare preferibilmente sul
divano o, al massimo, in una chill-out room. Il brano più conosciuto
è forse Funky for you, fatto interamente di loop vocali e strumentali
filtrati in decine di modi differenti. Divertente Pick me up (con la
collaborazione di Isi Samuel), movimentata e ballabile Cutee, quieta e rilassante Made in
the shade, cadenzata Presumin Ed. Ged Day e Damian Stanley, dopo Lounging, sono
praticamente scomparsi dalle scene, eccettuati alcuni fortunati remix (il migliore dei quali è
di certo Boss on the boat per i Tosca). Nel 2003 hanno prodotto il G-thing EP e da allora
non si ha più alcuna notizia ufficiale. Hanno intrapreso carriere soliste? Stanno preparando
qualcosa di nuovo? Hanno cambiato genere? Non si sa, ma erano davvero bravi.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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AFX Chosen lords
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Feist Let it die
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(19/10/06)
Nell’aprile 2006 è uscito l’ultimo lavoro ufficiale di Richard D.
James, meglio conosciuto come Aphex Twin. In questo Chosen
lords si chiama semplicemente AFX e ha preparato dieci nuove
tracce di pura elettronica. Niente strumenti convenzionali. Lo stile
sembra adesso tornato alle origini, ai synth semplici, ai beat poco
complessi, ma nell’album si avverte che AFX è sempre lo stesso
pazzo genialoide. Fenix funk fa scoppiare i tweeter, Reunion e
Pitcard suonano vecchie, quasi analogiche, Crying in your face è
una modernizzazione dello stereotipo delle ballad romantiche.
L’inebriante Klopjob ha linee melodiche talmente intense da far emozionare anche un
rockettaro, senza bisogno di kick o synth particolarmente feroci. Boxing day, Cilonen e
Batine acid aprono la strada alla maestosa Pwsteal.ldpinch.D in cui sembra che a suonare
sia stavolta un vecchio videogame; l’outro è infine XMD 5A, sempre elettronica vintage.
Stavolta AFX è tornato ai vecchi tempi avendo portato a termine un album di vere canzoni
(in senso stretto), invece di esercizi e remix a cui ci aveva ultimamente abituati.
(20/10/06)
Leslie Feist è un’affascinante artista che nel 2004 ha pubblicato un
bellissimo lavoro intitolato Let it die, nel quale se la canta e se la
suona su partiture che vanno dalla bossa al jazz, dalla black al
country, dall’electro al downtempo. Feist possiede una voce
davvero malinconica tanto da ricordare in alcuni passaggi la grande
Billie Holiday. Una volta premuto play sul CD player parte
Gatekeeper, dolce ballata brasileggiante, poi Mushaboom, che
sembra provenire dall’Arizona e ancora la title-track Let it die che,
con quegli organi e quei cori, sembra provenire da un ensemble
gospel. One evening è ottima per un viaggio in pulmino, in When I was a young girl Leslie
ricorda quando era utopista e sognatrice; Inside and out è una ballad electro-jazz fatta di
loop, scratch e fruscii. Secret heart e Now at last lasciano ampio spazio a strumenti più
classici come il pianoforte e il flauto, mentre in Leisure suite e Lonely lonely la parte
preponderante è delegata alla voce della giovane cantante. Infine Tout doucement fa
molto 30’s grazie a quei pianoforti veloci e a quei bassi accennati.
•
Spacemonkeyz vs. Gorillaz Laika come home
(21/10/06)
Laika come home non è altro che un’operazione commerciale,
rivelatasi un insuccesso sia sul piano delle vendite sia su quello
della qualità. Dopo solo un anno dall'uscita del bel debutto Gorillaz,
il trio inglese degli Spacemonkeyz ha reinterpretato il lavoro della
band virtuale di Damon Albarn aggiungendo basi strette, atmosfere
scure, vocalizzi reggaeton, corni e fiati. Quello che ne è venuto
fuori è un minestrone dub un po’ troppo lungo e noioso. Anche se
alcune canzoni, prese individualmente, non sfigurano (Jungle fresh,
Strictly rubbadub o Mutant genious), nell'insieme stonano e non
riescono ad alzare lo standard dell’album. De-punked, Crooked dub, Banana baby e Come
again non lasciano davvero nulla nelle orecchie dell’ascoltatore; la versione dub
arabeggiante di Clint Eastwood (ovvero A fistful of peanuts) è poi un agglomerato sonoro
abusivo, frutto della moderna industria discografica. La tradizione dub è altra, per fortuna
migliore di questa (su tutti Zion Train). Insomma, tutto l'album dei Gorillaz risulta appiattito,
e se ne sono accorti pure gli estimatori che razionalmente hanno boicottato il disco.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Skatalites From Paris with love
(22/10/06)
Gli Skatalites sono un gruppo musicale giamaicano ritenuto il
gruppo ska per eccellenza. A loro va riconosciuto il merito di aver
per primi dato un nome a questa musica in levare. Attivi fin dagli
anni ‘60, sono tuttora in circolazione, anche se nella formazione
non sono presenti alcuni dei membri fondatori ormai deceduti
(come Don Drummond). From Paris with love è uno degli ultimi live
ufficiali per la World Village: quindici brani di ska d’ascolto nei quali
non si fa economia di strumenti a fiato. Garden of love, Glory to the
sound, From Russia with love o Ska fort rock: tutti pezzi fatti di
potenti trombe, chitarre ritmiche, lente batterie, tastiere ossessive e contrabbassi rifinitori.
Nostalgica When I fall in love (cantata), gioiosa Freedom sounds, futuristica Trip to Mars,
esotica Pata pata (qui giustamente sottotitolata Skata skata). Il disco contiene anche
l’indimenticabile Guns of Navarone, il brano che ha reso gli Skatalites famosi nel mondo.
Infine Lester’s mood, Golden love, African beat, River to the bank e Thinking of you
scivolano fra africanismi, virtuosismi ska e pura allegria musicale.
•
Massive Attack Protection
(23/10/06)
La seconda prova dei Massive Attack è questo Protection, album
dai contorni sfumati e dalle ambientazioni inquietanti. Sull’onda di
Tricky e dei Portishead i Massive Attack sbaragliano il mercato col
loro suono tutto inglese (di Bristol). Nasce il trip-hop. Protection è
un album discontinuo, in cui brani intensi ed emotivi si intrecciano a
suoni d’atmosfera talmente rarefatti da sfiorare il vuoto.
Sicuramente da ricordare c’è la tenebrosa Karmacoma, un dub
allucinato sospinto da una ritmica pesante, su cui si innesta un
testo morboso. Sul versante opposto c’è il raggio di sole portato
dalla lunga title-track, splendida interpretazione di Tracey Thorn degli Everything But The
Girl. Deliziosa anche la sinuosa Sly e l’inquieto lamento di Spying glass. Per il resto, si
oscilla tra pulsazioni cardiache e pianoforti anemici (Craig Armstrong). La nota stonata è la
cover finale di Light my fire (live) che risulta decisamente fuori luogo. Nonostante tutto,
l’album è discretamente affascinante. Si apre infatti un lungo periodo di collaborazioni e
remix, durante il quale i tre di Bristol vengono corteggiati dai più grossi nomi del rock.
•
Francesco Guccini Stagioni
(24/10/06)
Da molti considerato uno dei migliori dischi di Francesco Guccini,
da altri considerato un album fatto di retorica politica, Stagioni
possiede comunque il pregio di proporre storie (o poesie) dalle
tematiche alquanto scottanti per la società moderna. Tutte le otto
tracce sono intrise di una profonda umiltà proletaria, di una
semplicità propria solo del pensatore militante. Da Don Chisciotte
(duettato con Juan Carlos Biondini) ad Addio, da Autunno a Ho
ancora la forza (musiche di Ligabue), da Primavera ‘59 a Inverno
‘60, Guccini discute di televisione spazzatura, di lotta a tutte le
ingiustizie, di gruppi misti parlamentari, di ideologie morte, di flussi finanziari impazziti. Ma
il cantautore bolognese ha anche tempo per lodare la vita bucolica di campagna, l’umanità
dimenticata. Tutto ciò che la società di oggi ha costruito, manipolato o fagocitato, viene da
Guccini puntualmente e ferocemente criticato, senza bisogno di deleghe e giustificazioni,
al di fuori della comune accettazione. L’unica pecca è il continuo ricorso alla stessa
identica forma-canzone di trent’anni fa, senza mai rinnovarsi, senza mai evolversi.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Michael Mayer Touch
(25/10/06)
L’etichetta Kompakt dovrebbe di per sé dire tutto. Label leader
nell’ambiente techno europeo, presenta come suo punto di
riferimento il DJ Michael Mayer e il suo album Touch. Racchiuso in
un'elaborazione grafica di Bianca Strauch che ripercorre lo stile
pittorico dei fauves, Touch tocca (è il caso di dirlo) i lati più cupi
della vecchia techno (o nuova house) estrapolandone i caratteri
generalmente nascosti e sempre poco esplorati. I puristi hanno
però storto il naso almeno riguardo al brano Heiden, in cui la linea
di basso in levare segue un groove troppo semplicistico per
appartenere alla Kompakt. Effettivamente va detto che lo stile proprio di Mayer qui si
discosta un po’ troppo dalla filosofia minimale della casa discografica tedesca e lo si
capisce da brani come Slowfood, Touch o Funky handicap. Esaustive sono però altre
tracce quali Privat, Neue lutersche Fraktur, Amabile e Lovefood. Questo disco porterà
comunque bene a compimento il suo lavoro di canovaccio stereotipizzante per le orecchie
di qualche nuovo adepto che vuole avvicinarsi al mondo tedesco della Kompakt.
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DJ Vortex Enter
(26/10/06)
La mia infanzia è stata fortemente segnata dai DJ-set di Marco
Paolo Pierucci (in arte DJ Vortex) presso locali quali il Palladium, il
Cyborg, l’Energy, il Jaiss o l’Insomnia, grazie alle musicassette che
chiedevo puntualmente a Mondo Radio. La sua techno era dura e
pura, fatta di distorted kick e acid synth, aiutata nelle esibizioni live
da bravi vocalist quali Imperatore Marlos, Principe Manuel, Roberto
Francesconi o Franchino. Enter (2002) è il suo disco Stik di quella
che lui chiama psychotechno. La maggior parte delle tracce
contenute erano già state pubblicate su vinile e qui le ritroviamo in
versione digitale; Come on and fight, Incoming, Time to go, Spacecraft, Bottom line e
Extralife denotano bene il retroterra musicale del Vortex. È presente anche la cover di Go
West dei Pet Shop Boys, qui pronta per i dancefloor dei ritmodromi italiani. Acid, No
danger, Enter o Immortality sono i brani un po’ più sconosciuti del DJ ma figurano
altrettanto discretamente nella logica dell’album. Per DJ Vortex ho un debole o, almeno,
l’ho avuto, e quindi non sono in grado di scovare difetti in questo Enter.
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Ada Montellanico & Enrico Pieranunzi Danza di una ninfa
(27/10/06)
Emozionante. Questo disco è davvero sentimentale. Danza di una
ninfa è la rivisitazione in chiave jazz di alcune chicche e quattro
inediti di Luigi Tenco. Due grandi del jazz italiano si sono occupati
di cantare, musicare e arrangiare, producendo un perfetto lavoro
da salotto: Ada Montellanico ed Enrico Pieranunzi. La prima canta,
il secondo suona il pianoforte; ma ci sono anche Paul McCandless
ai fiati, Bebo Ferra alla chitarra, Luca Bulgarelli al contrabbasso,
Michele Rabbia alle batterie e percussioni, Piero Salvatori al
violoncello e la presenza dell’Arké String Quartet. Quasi sera, Mi
sono innamorato di te, Ho capito che ti amo, Il tempo passò e In qualche parte del mondo
diventano più intimiste e sensuali; i testi inediti di Da quando, Mia cara amica, Danza di
una ninfa sotto la luna ed O me, musicati dai due, paiono appartenere da sempre alla
discografia di Tenco; infine Pieranunzi presenta un suo brano inedito dal titolo Che cos’è?.
La copertina è uno splendido acquarello di Richard Peduzzi e il booklet è affidato alle
parole del sensibile Walter Veltroni, sindaco (un po’) illuminato e nuovo romanziere.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Anthea Words & beats
(28/10/06)
Viene spesso chiamato future-jazz. E invece è una sorta di
downtempo jazzato. Questo è lo stile di Anthea Clarke, più
semplicemente Anthea, che troviamo nell’edizione Hed Kandi del
suo disco Words & beats (1999). La differenza con l’originale,
uscito per Shadow Records, è la presenza di tre remix aggiuntivi.
L’elettronica è difatti sempre presente in tutte le tracce, dalla
drum’n’bass di Away 2 always al trip-hop di I wish. Bellissima la
jungle alla Goldie di Deeper o il nu-jazz per pianoforte di Only one;
la voce di Anthea si destreggia benissimo sui difficili incatenamenti
di accordi. He said she said fa molto Groove Armada mentre Side of blue suona
Hooverphonic; stravaganti Fingers e Sentimental, infine Can’t be you sembra precedere
l’ondata pharrelliana. Il pezzo più riuscito dell’album rimane la cover di Don’t explain di
Billie Holiday, qui struggente all’inverosimile, degna della migliore tradizione degli
chansonnier francesi. I remix di Away 2 always, Deeper, I wish e Side of blue (quest’ultima
remixata da Carlito) si muovono splendidamente fra funk, downtempo e d’n’b.
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Riserva Moac Bienvenido
(29/10/06)
I Riserva Moac sono molisani, come me. Ma li recensisco perché la
loro prima ed unica prova discografica è davvero un ottimo lavoro
indipendente. Premetto che l’acronimo della band sta per MoliseAfrica-Cuba. Bienvenido è un disco dai profumi fortemente
localistici contaminato però da reggae, ska, folk ed elettronica. La
band è stata più volte premiata, da ArezzoWave ad Interceltique de
Lorient (più alcuni premi SIAE). Sono orgoglioso di Bienvenido e
delle sue canzoni. Di vedetta sul mondo riprende molto le lezioni
dei Modena City Ramblers, Ohi mama invece è molto più folk
grazie alla presenza di ciaramelle e altri strumenti tradizionali. Bienvenido en la reserva è
una sorta di rito di iniziazione, Viagge dent’ e fore contiene fisarmoniche che la rendono
molto jazz, Tiempe uguale e Poli(s)tica si dimenano poi in problemi sociali sempre
attraverso il linguaggio folk. L’oceanico e Forturella rockeggiano utilizzando zampogne e
flauti, Ungaretti e Zobi la mouche sono romantiche ballate in dialetto; infine Rumore di
fondo riprende il tema iniziale e Fuggita dal nulla chiude con lode il disco.
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Sigur Rós Takk…
(30/10/06)
Dopo tre anni di quasi assoluto silenzio, passati in giro per il mondo
a suonare e comporre i nuovi brani, provando e smussando pian
piano dal vivo alcuni di essi, Jónsi Birgisson e compagni hanno
presentato finalmente il loro quarto album, comprensivo di undici
tracce, questa volta tutte recanti un titolo, nonché dotate di un testo
in islandese, se si eccettuano l'interludio corale Með blóðnasir e il
dilatato intro che dà il nome al lavoro. Così, i Sigur Rós, ancora
supportati dal quartetto d'archi Amina, tornano a esprimere e
comunicare grandi emozioni con dolcezza e forza, quiete ed
impeto. È questo il caso di Glósóli che racconta di un bambino che, svegliandosi
nell'oscurità, teme che il sole sia stato rubato; andamento analogo presenta anche
Sæglópur, con il suo inizio tutto pianoforte e campanelli e un maestoso crescendo che
pare un'invocazione liberatoria. Su una linea non dissimile si colloca anche la prolissa
Mílanó, che alterna momenti romantici ad un paio di repentine impennate armoniche.
Ascoltate anche Hoppípolla, Gong, Andvari, Svo hljótt e Heysátan. Che ambiente!
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Take That Everything changes
(31/10/06)
Il fenomeno delle boy-band per fortuna si è ridimensionato da sé,
anche se continuano a sopravvivere alcuni zoccoli duri (come Blue
e Backstreet Boys). Quest’anno sono tornati anche i Take That
nella cui discografia figura questo Everything changes. Nel disco
tutto è pop: le immagini, le canzoni, i testi; ci sono solo luoghi
comuni fatti per teenager con tempeste ormonali in corso. Ma devo
ammettere che il tutto è davvero orecchiabile a differenza di tutte le
altre operazioni commerciali anni ’90 (5ive, *Nsync, A World Apart,
Ultra, Boyzone, Spice Girls, All Saints). Pray ha quel videoclip da
spot pubblicitario mentre quello di Relight my fire con i Take That nudi avrebbe dovuto far
accaldare ancor più le tredicenni. Passando ai brani si può dire che Wasting my time è
una sorta di funk swingato, Meaning of love una canzone pop-house, Another crack in my
heart il momento sentimentale durante il quale piangere il proprio findanzatino mollato.
Babe è poi, sia musicalmente sia visivamente, una specie di b-movie per cuori spezzati.
Un disco testimone di un’epoca che tutti noi - nati negli ’80 - abbiamo vissuto.
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The Rolling Stones After-math
(01/11/06)
Puro e genuino rock’n’roll. I Rolling Stones sono i padri, più di Elvis
Presley e dei Beatles, della rivoluzione popolare del ‘900. Aftermath usciva dopo December’s children e Out of our heads, ma
superava i precedenti in almeno due o tre brani. Paint it black è
un’irresistibile canzone con una sezione ritmica fatta di bassi e
batterie travolgenti ed una linea melodica di ossessive schitarrate
(come in Satisfaction); Lady Jane è invece una delle più dolci
canzoni del rock storico internazionale (paragonabile solo a
qualche diamante dei Beatles o di Bruce Springsteen). Doncha
bother me, Under my thumb e Think fanno largo uso di trombe e pianoforti, mischiando il
rock al jazz; con Stupid girl e Flight 505 gli Stones si avvicinano agli esimi colleghi di
Liverpool con melodie provocanti e irriverenti. High and dry, It’s not easy e I am waiting
contaminano addirittura il rock con la tradizione country americana o col blues: esplodono
armoniche a bocca, banji e percussioni. Infine la lunga Goin’ home, quasi come fosse il
manifesto musicale finale: questo è il rock’n’roll e non si tocca. Disco da avere.
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The Prodigy The fat of the land
(02/11/06)
Lo conoscono tutti il capolavoro dei Prodigy. Io lo scoprii per caso
alle scuole medie e subito me ne innamorai: The fat of the land era
una vera e propria rivoluzione per l’elettronica di fine secolo scorso.
Il rock elettronico di Smack my bitch up (promossa da un video
geniale) e quello di Breathe ci immergono in un’atmosfera sordida
e squallida, fatta di ambienti sporchi, di abuso di droghe e di
prostitute a ore. I breaks di Diesel power e il funk di Funky shit
introducono un altro brano pieno di adrenalina: Serial thrilla. Il
cantante Keith Flint sta dando il massimo quando il suo DJ Liam
Howlett arriva a musicare la stupenda Mindfields; segue quindi Narayan, dove l’elettronica
techno si mischia al fitto mistero dei canti tribali. Parte così un altro pezzo forte della
discografia della band inglese, Firestarter, con quelle batterie pesanti e quei testi così
terroristi. Meravigliosa Climbatize, ambientale, romantica, a tratti soave; infine Fuel my fire,
inno al carburante con rimandi letterari. La perfezione dei tratti musicali e innovativi di
questo disco mi spinge a dire che The fat of the land dei Prodigy è un capolavoro assoluto.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Bugo Sguardo contemporaneo
(03/11/06)
Finalmente la musica italiana ha creato qualcosa di
anticonvenzionale. Aspettavamo da anni questo Cristian Bugatti, in
arte Bugo. Molti critici lo chiamano il Beck italiano, ma in realtà
Bugo proviene da una tradizione tutta italiana, fatta di rock distorto
e canzone d’autore; in alcuni passaggi è identico all’ultimo Lucio
Battisti, a volte ricorda l’ondata beat di Adriano Celentano. Sguardo
contemporaneo comincia con Plettrofolle (che apre anche i
concerti) e cresce con Gelato giallo, che tra l’altro suona molto surf;
in Che lavoro fai Bugo ironizza sui danni provocati dalla flessibilità
del lavoro (per altri si sostituisca con “precarietà”). Poi l’autore rimembra l’infanzia con
Oggi è morto Spock (il personaggio di Star Wars) e Amore mio infinito (la cotta per la
maestra), canta la quotidianità con Ggeell e fa una panoramica sui tempi che corrono con
Millennia. Fantastica La caffettiera, scelta come metafora per svegliare le persone che
facilmente cadono in tranelli ideologici e culturali. Rumorosa Roma, struggenti Una forza
superiore e Quando ti sei addormantata. Un disco ammaliante.
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Fatboy Slim Palookaville
(04/11/06)
Palookaville è l’ultimo disco di inediti di Norman Cook, aka Fatboy
Slim. Il re di Brighton Beach ci regala un’altra carrellata di puro big
beat, fatto di pianoforti in vista, bassi pizzicati e sample ripetitivi ma
mai noiosi. Cook ha tutto il merito di essersi inventato un genere a
sé stante; insomma, un’altra conferma. Troppo allegre Don’t let the
man get you down e Wonderful night, velocissima Slash dot dash
(ricordate il video?), feroce ed emozionale Long way from home. I
brani si susseguono l’un l’altro, quasi mixati, dando l’impressione di
ascoltare una compilation più che un album solista. Molto latina Put
it back together, piuttosto tribal Jin go lo ba, del tutto noise Mi bebé masoquista. Le
orecchie si abituano subito ai cambi di velocità di Fatboy Slim e la spiaggia inglese
infestata da centinaia di migliaia di clubber comincia ad apparire agli occhi dello
sprovveduto ascoltatore. Palookaville è infatti un disco da agitare prima dell’uso, non
compatibile con tutti i gusti musicali; solo chi conosce a fondo l’artista riuscirà ad
intravederci il senso. In copertina, ovviamente, la spiaggia e la tavola da surf.
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Thievery Corporation The cosmic game
(05/11/06)
Fortunatamente negli Stati Uniti non c’è solo stupido hip-hop e rock
noioso ma esiste anche chi cerca di discostarsi dalla “tradizione”
americana e cerca di andare in direzione opposta. Difatti l’influenza
europea - e non solo - in The cosmic game dei Thievery
Corporation è tanta. Ho amato fino in fondo The richest man in
Babylon e The mirror conspiracy e questo ultimo album non mi ha
per niente deluso. Nel gioco cosmico tutto è così lo-fi, praticamente
sussurrato e mai sopra le righe; i brani godono di una cura
certosina, le ambientazioni che si avvertono sono dolci e allo
stesso tempo velate. Warning shots, The supreme illusion e Wires and watchtowers sono
profondamente intrise di dub giamaicano; Pela Janela, Sol tapado ed Ambicion eterna
invece trasudano la bossa di Jobim; ambientale dunque Doors of perception. I Thievery
Corporation, così come i Gotan Project, portano avanti un discorso elettronico fatto non
solo di linguaggio musicale ma anche di contenuti sociali, e lo si può avvertire in
Revolution solution e Amerimacka. Quindi un ottimo lavoro, davvero muscoloso.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Luca Carboni …Le band si sciolgono
(06/11/06)
Quest’anno è tornato finalmente Luca Carboni ed ha in parte
abbandonato lo stile mieloso caratteristico dei lavori precedenti.
…Le band si sciolgono è un rendez-vous sull’Italia di oggi; forse
però i discorsi fatti da Carboni sono un po’ troppo qualunquisti e
buonisti. A noi interessa però la godibilità del prodotto finale e va
detto che questo disco piacerà sin dal primo ascolto. Le basi sono
principalmente affidate al drumkit mentre le sonorità continuano la
lunga tradizione melodica dello stivale. Su tutti, Lampo di vita è il
brano che meglio racconta l’insofferenza dell’artista bolognese. Sto
pensando, Segni del tempo e Le band si soffermano invece sull’estemporaneità dei
moderni fenomeni sociali (pubblicità, guerra, campagne elettorali, mode): in fondo tutti
fenotipi effimeri. Malinconia (scelta per il lancio del disco) è decisamente poco grintosa, È
caduta una stella e Ci si dimentica cantano la bellezza e l’abbandono, Pensieri al tramonto
(con Tiziano Ferro) delinea intense emozioni oniriche, infine La mia isola (con Pino
Daniele) spiega il voluto distacco di Luca dal jet-set e dalle comparsate televisive.
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Devo New traditionalists
(07/11/06)
I cinque pazzoidi americani chiamati Devo pubblicarono nell’ormai
lontano 1981 un disco davvero significativo come New
traditionalists. I Devo, convinti assertori dell’inarrestabile deevoluzione dell’umanità (con un occhio di riguardo alla società
statunitense), presentano queste dieci canzoni di rock elettronico
(new wave per alcuni) che ad un primo ascolto sembrano identiche
a quelle dei Depeche Mode ma, se si analizza con maggiore
attenzione, le differenze salienti vengono a galla. Con Through
being cool i Devo smantellano la famiglia media americana, in Love
without anger irridono la morale cristiana in materia di amore di coppia, con Beautiful world
mettono in piazza il loro fiero cinismo. Le hit da top-ten sono però brani come Soft things,
Jerkin’ back’n’forth e Going under. Lo stile disco anni ’80 purtroppo non ha aiutato la band
a rimanere nel gotha dell’electro-pop e nel 1987 si è sciolta, secernendo diversi progetti
solisti. Però i Devo sono stati l’unico barlume di irriverenza in un America allora
reaganiana, come oggi bushiana, malata di consumismo e falso patriottismo.
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Amari Grand Master Mogol
(08/11/06)
Indipendenti fino all’osso questi Amari, pressoché sconosciuti;
eppure hanno già pubblicato quattro album prima dello strano
Grand Master Mogol. Il titolo è la sintesi del talento
dell’indimenticabile turntabler Grand Master Flash e del
sopravvalutato autore Giulio Rapetti, in arte Mogol. Bolognina
revolution si dimena in ritmiche fatte di acidi synth e batterie
frammentate, Conoscere gente sul treno pare un pezzo di fine anni
’80, Love management scratcha e rockeggia, Arte bruciante suona
r’n’b tipo Artful Dodger. Pasta e Dariella propongono grandi sfide in
Campo minato e, in Tremendamente belli, scherzano sulle loro visionarie divise da lavoro
(ognuno veste con un colore differente); poi La prima volta e Il vento del 15 gennaio
sembrano fare il verso agli Architecture In Helsinki. Bellissima Un altro basso di polvere
sia per il giro di basso sia per le sonorità contaminate di disco; Conoscere gente in
ciabatte rivede infine in ambito routiniero il secondo brano del disco stesso. Gli Amari sono
stati bravi anche se hanno perso un po’ di quella pazzia caratteristica dei lavori precedenti.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Charles Aznavour Je m’voyais déjà
(09/11/06)
Assieme a Gilbert Becaud, Charles Brassens e Jacques Brel,
Charles Aznavour è tra i più grandi chansonnier d’Europa, forse il
più ricercato. Autore dei suoi testi e puntiglioso curatore delle
musiche, il piccolo armeno di Francia nel 1960 pubblica Je
m’voyais déjà, un LP dalle atmosfere molto swing e dai temi
alquanto intimisti e profondi. Aznavour non ha prezzo: canta le
emozioni, la vita, l’umanità, la società, senza scadere mai in luoghi
comuni e senza ricorrere alla pietà. I suoi personaggi sono dei falliti
che vincono. Il brano più importante, oltre alla title-track, è
inequivocabilmente Tu t’laisses aller (la versione italiana è Ti lasci andare), che parla della
sua relazione coniugale oramai abitudinaria a cui però serve poco per riaccendersi.
Emozioni seguono ad altre emozioni e il disco si scioglie, fra Les deux guitares e Rendezvous à Brasilia, con Comme des étrangers e L’amour et la guerre, da Tu vis ta vie mon
cœur a J’ai perdu la tête. Solo Aznavour è riuscito a lasciare un solco così profondo nelle
coscienze dei cantautori europei. Perché Aznavour è il genio dell’amore.
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Casino Royale Reale
(10/11/06)
Risulta difficile parlare dei Casino Royale, perché molti artisti
underground continuano ad attaccare il loro strano allontanamento
dallo ska. I Casino Royale, dopo Rettore e Camerini, sono stati
difatti gli importatori del genere in Italia. Ma fortunatamente se ne
sono distaccati per dar vita ad un filone nuovo. Le voci sono
rimaste lontanamente legate alla tradizione giamaicana ma, da
Dainamaita fino a questo Reale, il sound è divenuto un coacervo di
dub, electro, hip-hop e trip-hop. In Royale’sound il gruppo milanese
afferma chiaramente le sue intenzioni musicali e non risparmia
frecciate implicite a chi ha bluffato e gettato la spugna (leggi Giuliano Palma). Del resto il
disco ci regala altre grandi tracce come Prova, Tutto, Milano double standard, Easy
tranquillo o In my soul kingdom. I brani scivolano come birra in gola e, se non pizzicano e
non ubriacano, almeno non fanno rimpiangere i primi lavori. Quello che ti ho detto ed È già
domani ricordano addirittura i Subsonica; Protect me e Plastico mistico sanno molto
invece di Massive Attack. Bravi Casino Royale, avanti per la vostra strada.
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Gino Paoli Basta chiudere gli occhi
(11/11/06)
Figura emblematica della parte meno spensierata e più intensa
degli anni ‘60, Gino Paoli inizia a cantare nelle balere genovesi, per
poi approdare agli ambienti teatrali, dove la conoscenza e la lunga
frequentazione dell’amico Luigi Tenco iniziarono ad ispirargli i primi
pezzi da classifica. Tra questi Sapore di sale, contenuto nel LP
Basta chiudere gli occhi del 1964, ne è uno dei massimi esempi:
una poesia più che un pezzo di musica leggera. Da sempre
conosciuto come contestatore irrefrenabile, Paoli non è mai stato
ben visto negli ambienti dello show-business, proprio per il suo
carattere introverso, ritenuto frettolosamente negativo. Colui che può essere considerato il
primo vero cantautore d’Italia regala una lunga serie di chicche con questo album; tra
l’altro è uno dei pochi dischi di Paoli con l’etichetta RCA, i cui arrangiamenti erano affidati
alla cura dei maestri Enriquez e Morricone. Troviamo A Milano non crescono i fiori, Che
cosa c’è, Vivere ancora, La nostra casa, Ricordati, Nel corso, Io e tu, Sarà così e Domani.
Alla fine il capolavoro Ieri ho incontrato mia madre: unico, prezioso, speciale.
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Modena City Ramblers Dopo il lungo inverno
(12/11/06)
Mischiate il De Gregori mariniano, i Nomadi gucciniani, il De Andrè
world e la tradizione celtica, e otterrete così Dopo il lungo inverno,
l’ultimo nato in casa Modena City Ramblers. Ad ascoltare il disco
non si sente affatto la nostalgia del consumista (ehm… comunista)
Cisco, visto che le parti vocali sono state democraticamente
lasciate a Betty Vezzani e Davide Dudu Verrani. Il tutto risulta più
popolare e proletario che mai: una sorta di ritorno alle origini. La
title-track è la perfetta alchimia fra musica folk e testo di denuncia (i
M.C.R. lapidano i protagonisti degli ultimi scandali italiani); Musica
del tempo è una bellissima ballad in stile Ebano; Tota la sira e La stagioun del delinqueint
utilizzano invece il dialetto romagnolo per raccontare storie umili e mediocri. Le strade di
Crawford e I prati di Bismantova immaginano paesaggi e tregue reali e virtuali; Mia dolce
rivoluzionaria amoreggia e politicizza; Mama Africa elogia l’antico continente; Stranger in
Birkenau rinvanga i tremendi crimini perpetrati nel noto lager nazista. Un album dai
contorni sfumati ma dal tratto deciso. Una volta ancora musica finalmente pop(olare).
•
Charlotte Gainsbourg 5:55
(13/11/06)
Charlotte Gainsbourg, figlia del bohémien Serge e della veniale
Jane Birkin (proprio quelli di Je t’aime, moi non plus…), ha
pubblicato il suo secondo album in agosto, coadiuvata dai
francesini più sexy che ci siano: gli AIR. A questi ultimi è stata
infatti affidata la realizzazione delle musiche, mentre la Charlotte si
è cimentata con merito nel canto e nella parte autorale. 5:55 è un
album degno di nota; l’artista modula e si dilata su undici canzoni
notturne, sognanti, sofisticate, ma non per questo meno dirette. La
lingua inglese è intramezzata col francese, in stupendi brani come
AF607105, Tel que tu es, The songs that we sing, Little monsters, Jamais o Morning soon.
Corposa e ammaliante Everything I cannot see, anche se pare più una canzone degli AIR
che non della Gainsbourg, per via di quelle tastiere molto aeree e dissipate. Però tutto fa
molto french touch in questo lavoro, anche senza ritmiche dance; si dice addirittura che il
produttore abbia dovuto mettere un lenzuolo davanti al microfono per far superare a
Charlotte l’imbarazzo di cantare. Disco che tocca le corde del cuore e del salotto.
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Futique Paging Mr. So-and-So
(14/11/06)
Musica elettronica fatta a mano. Questo potrebbe essere il giudizio
finale su questo secondo disco di Futique. Mani su sintetizzatore e
drumkit danno vita a questo lavoro vagamente IDM. E poi i bpm
completamente allo sbaraglio, allegro e adagio insieme. Davvero
strano Paging Mr. So-and-So! Il minimalismo di brani come
Moonrobber è bilanciato dal noise di Sister freak, gli esercizi
stilistici di Rawhide sono sospinti dal talento espresso in Toro. E
ancora Calcus e Flea market, dove i sintetizzatori distorti e i bassi
forzuti la fanno da padrone su tappeti ritmici assai ricercati e poco
eleganti. Spazio anche a colonne sonore quali To breakfast with a gun e a manifesti di
musica digitale come Knobs for strings e What’s your poison?. Ma anche l’analogico si
sente intensamente: il fruscio dei macchinari elettronici è infatti una costante. Ai minimi
termini è persino la copertina di questo disco - unica - che fa intravedere il CD sottostante,
lasciando il back e l’inlet completamente glabri di informazioni. Futique non lo troverete nei
negozi. Se lo volete, dovrete cercare nei cassetti di qualche ardito discografico.
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Chicken Lips Extended play
(15/11/06)
Extended play è il secondo album del trio londinese dei Chicken
Lips. Dieci tracce di puro groove sempre contaminato da logiche
funky e disco; il loro sound è stato difatti definito disco-dub,
essendo appunto una sintesi tra la disco e il dub, nonché quelle
musiche anni '80 in cui spiccava il suono del sintetizzatore.
Meecham (quello di Sir Drew), Meredith e Kotey sfornano questo
bollente calderone di hit travolgenti e tutte remixabili in chiave
dance. Storica Boiling point (qualcuno sa perché), espressiva
Electric universe, potente He not in, sanguinosa Meet me at the
freezer, corpulenta Many members, irresistibile Wind ya neck in, trascinante You’re
playing dirty. Tutti i brani hanno una durata variabile fra i sei e gli otto minuti, così da poter
essere inseriti senza troppi problemi in DJ-set alternativi. Per molti Extended play è il
genuino riscontro della sottocultura house di Chicago. Infatti tutta la stampa di settore ha
garantito ai Chicken Lips un grande supporto promozionale, segno di un talento innegabile
e di una rivoluzione underground consumatasi senza inutili e roboanti echi.
•
Rino Gaetano Ingresso libero
(16/11/06)
Quando la Calabria diventa Roma. Rino Gaetano è stato il più
grande provocatore della musica italiana. E nel suo primo disco
Ingresso libero del 1974 la critica vide già i primi sintomi di questa
sua innegabile acutezza. Accanto a canzoni d’amore come Tu,
forse non essenzialmente tu, Supponiamo un amore, I tuoi occhi
sono pieni di sale e A Khatmandu, Gaetano presenta tracce dal
forte impatto sociale, di denuncia, di vergogna, di utopia; basta
ascoltare Agapito Malteni il ferroviere o L’operaio della Fiat (la
1100) per capire l’estrazione proletaria dello stesso cantautore.
A.D. 4000 d.C. spera in un futuro migliore da quello plastificato e perbenista dell’Italia di
allora; E la vecchia salta con l’asta, ermetica, racconta una leggenda non lontana dal
mondo contemporaneo. Infine uno dei capolavori di Rino, ovvero Ad esempio a me piace il
Sud, in cui canta il suo attaccamento alla terra meridionale e ai tempi scanditi dalla
semplicità di quella gente; l’artista non risparmia però l’attacco verso chi ha stuprato e
sfruttato il Sud, lasciandolo spesso languire nella fame e nella povertà. Disco fantastico.
•
Moby Play
(17/11/06)
Play di Moby ha letteralmente stravolto la musica moderna. Il
piccolo americano ha legittimato agli occhi di tutti le potenzialità
della musica home-made. Difatti, in Play ci sono moltissimi sample
e loop (preset) di famosi software per la produzione amatoriale.
Però il disco risulta davvero unico, primo nel suo genere e,
soprattutto, molto musicale. Difficile restare impassibili e immobili
su Honey, Find my baby o South side; facile lasciarsi poi prendere
dalla dolcezza di Porcelain, di Natural blues o di Why does my
heart feel so bad?. Rushing utilizza un beat di vinile del famoso
Music 2000 (per PlayStation 1), il big-beat di Bodyrock e Run on ricorda molto Fatboy
Slim, Machete è techno-.trance, If things were perfect, quieta e sofisticata, evoca
rimembranze di puro hip-hop americano. Gli ultimi brani come Everloving, Inside, The sky
is broken e My weakness si perdono tra loro, cimentandosi in imprese di elettronica
impegnata. Visto oggi, Play può venir considerato un disco di rottura, una sorta di
spartiacque tra il mondo elettronico precedente al 1999 e quello di oggi.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Luvi De André Io non sono innocente
(18/11/06)
Debutto discografico per la figlia corista di Fabrizio De André; Io
non sono innocente è infatti il freschissimo album di Luvi, ovvero
Luisa Vittoria. A sentirla non sembra più la dolce ragazza che
cantava soavemente Geordie col padre durante i concerti, piuttosto
sembra una rockstar in erba con talento da vendere. Il disco si
snoda infatti su sound rock e pop, non dimenticando vivaci rimandi
al cantautorato italiano. C’è l’elettronica di Oggi domani, la
femminilità di Fiore femmina, l’urlo di Vivere così, la sensualità di
Fuga d’amore. Spesso la voce e i testi stessi di Luvi ricordano la
migliore Fiorella Mannoia o i Radiohead più romantici. Al di là delle nuvole, Ismahel,
Piovono fulmini, Lentamente, Giocando in equilibrio e La verità delle parole, tra blues e
rock, seguono alla lettera il consiglio che Faber diede a sua figlia: «Vivi la tua vita come un
esame». E Luvi questo esame l’ha superato, dimostrando coraggio nel cantare la sua
anima, la sua rabbia, la sua introversione, i suoi sogni. Certo, i testi non sono suoi, eppure
le si adattano come vestiti di sartoria. Bella e brava quest’altra De André.
•
AA.VV. Musica futurista
(19/11/06)
20 febbraio 1909. Nasce il più grande movimento culturale e
artistico europeo del ‘900: il futurismo. Grazie al genio
inconfondibile di Filippo Tommaso Marinetti, grande mecenate
dell’arditezza avanguardistica, comincia a prendere piede quella
che per tutto il secolo verrà chiamata “musica sperimentale”. Senza
la musica futurista (l’arte dei rumori) è impossibile pensare a
Stockhausen, a Berio, a Cage, ad Aphex Twin, ai Kraftwerk. Tutto
partì dalle nuove istanze di pochi esteti italiani. Balilla Pratella, Luigi
ed Antonio Russolo, Silvio Mix, Bianchi, Casavola, Giuntini, Grandi,
Casella, Marinetti, sono tutti presenti in questa rara compilation. Lo sfruttamento del
contrappunto, la scoperta dell’enarmonia, l’invenzione di nuovi strumenti (arco
enarmonico, intonarumori, rumorarmonio ecc.) fanno di questi protofascisti i pionieri della
musica concreta, del rumorismo, dell’ambient, della dodecafonia e della cacofonia
internazionali. È tutta arte italiana quella di Risveglio di una città, di Cinque sintesi
radiofoniche, di Aeroduello, de La guerra. Osare, osare, osare. Temerariamente.
•
(20/11/06)
Motel Connection Do I have a life?
Con due colonne sonore ed un album all’attivo, in questi ultimi
scampoli di 2006 i Motel Connection pubblicano la loro seconda
opera compiuta. Do I have a life? è un progetto di tek-house
ballabile dove i testi sono stati curati dall’affidabile Enrico Remmert.
I Motel affermano che il loro sound è una specie di continuum fra
evoluzione e transizione. Pa pa pa, Sparkles e Nothing more,
mixate divinamente, creano atmosfere minimali su cantati di
Samuel dei Subsonica. Pisti e Pierfunk su Predominant, Kiribiri e
Boy and girl, sorprendono per la capacità di intrecciare come in un
lungo viaggio un discorso fatto esclusivamente di elettronica d’alto bordo senza particolari
rimandi. Car by car, When the night e Cypress Hill, micidiali come sempre ma più
introspettive, cercano di trasmettere emozioni che vanno al di là della baldoria da clubbing;
infine My dark side, Run e Preproduction offrono forse il senso più vivo del club, oramai
seconda casa per questi Motel Connection. Finalmente un po’ di buon talento digitale tutto
made in Italy. Sempre in attesa del nuovo disco dei Subsonica.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Basement Jaxx Rooty
(21/11/06)
L’album giusto al momento giusto. Rooty (2001) è la vera e propria
consacrazione internazionale per i Basement Jaxx, grazie anche
ad almeno tre singoli in esso contenuti: Romeo (col video in stile
Bollywood), Jus 1 kiss (house a low-budget) e Where’s your head
at (dance rumorosa e complicata). Dopo il successo del singolo
Red alert del 1999, questi due clubber inglesi riescono a sfornare
un prodotto dal forte impatto dance, prova ne siano gli altri pezzi
Breakaway, Get me off e Do your thing. Non si fanno però mancare
un po’ di big-beat e di funky con All I know e Broken dreams, e
nemmeno il trip-hop con SFM ed I want u. Tirando le somme, Rooty risulta quindi un disco
con due facce, una esclusivamente da ballare in mezzo alla folla ed un’altra da godere
seduti sul sofa di casa. Per quanto riguarda il movimento dance, gli inglesi ci sanno fare, e
forse non hanno pari: la dimostrazione sta anche nei lavori futuri di Buxton e Ratcliffe
(specialmente nell’ultimo Crazy Itch Radio). Bravi perché capaci di mischiare i generi, non
cadendo mai in tendenze ripetitive e sempre anticipando le mode.
•
Mario Biondi & The High Five Quintet Handful of soul
(22/11/06)
Sembra che a cantare sia un grosso afroamericano e invece
scopriamo che è uno spilungone terrone di Magna Grecia. Mario
Biondi, accompagnato dall’High Five Quintet, interpreta questi
dodici gioielli in maniera esemplare. Un tocco di elettronica che non
guasta mai, e poi a pioggia sassofoni, archi, pianoforti,
contrabbassi, flauti e vibrafoni in rigido stile fifties. Il mix di soul e
jazz fa di questo Handful of soul uno dei migliori dischi del 2006
italiano. Impossibile non emozionarsi su A child runs free o su No
mercy for me, indiscutibile l’anima parigina di This is what you are e
di A handful of soul, religiosamente catartiche No trouble on the mountain e A slow hot
wind, esotica Rio de Janeiro blue, stregate On a clear day e I can’t keep from crying
sometimes. Eccezionale la cura dei suoni, eccezionale la copertina vintage, eccezionale la
voce di Biondi, eccezionale il talento del quintetto. Dopo Ivan Segreto, la Sicilia scopre di
avere almeno un altro raro esemplare di crooner, dalla voce calda e ammaliante e dai
modi affabili e generosi. Rinfrescare il jazz come stile e obiettivo di vita.
•
Afterhours Germi
(23/11/06)
La buona riuscita delle cover di Mio fratello è figlio unico e de La
canzone popolare, incise per due tribute-album dedicati
rispettivamente a Rino Gaetano e Ivano Fossati, porta gli
Afterhours a passare definitivamente alla loro madrelingua, dopo
aver inciso tra l’altro quattro album (e mini-album) in lingua inglese.
Germi è il disco del 1995, dove psichedelia e grunge creano
alchimie in brani possenti come Posso avere il tuo deserto?,
Plastilina, Ossigeno e Vieni dentro. Inoltre gli Afterhours si
cimentano con successo nella versione italiana di Inside Marilyn
three times, col nuovo titolo di Dentro Marilyn; sporca e strepitosa Strategie, ad oggi uno
dei cavalli di battaglia della band milanese. Leggermente sotto tono ma pur sempre
importanti le altre Pop, Giovane coglione, Siete proprio dei pulcini, Porno quando non sei
intorno e Ho tutto in testa ma non riesco a dirlo. La strana voce e la personalità che lascia
poco trasparire di Manuel Agnelli fanno di questa band un esemplare rarissimo nel
panorama rock alternativo italiano, forse il miglior progetto degli anni ’90.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Queen News of the world
(24/11/06)
Purtroppo si parla più della morte di Freddie Mercury che del
talento globale dei Queen. News of the world è il disco cardine del
1977, dove il rock (poi pop-rock) della band si fa sentire con tutto il
suo pesante stridore di chitarre elettriche. La voce e gli assoli di
pianoforte dell’africano Frederick Bulsara (vero nome di Mercury), i
virtuosismi di Brian May, le sezioni ritmiche di batteria e basso di
Roger Taylor e John Deacon, fanno di News of the world il loro
album più significativo degli anni ’70. We will rock you, We are the
champions, Spread your wings, Sheer heart attack, Fight from the
inside, Get down, make love, Sleeping on the sidewalk sono tutte ivi contenute; persino la
misconosciuta e toccante All dead, all dead. Quella dei Queen sarebbe dovuta divenire la
svolta del rock britannico, al di là del solito prodotto degli Stones o della successiva e
stucchevole ondata brit-pop. I Queen hanno insegnato a mischiare la musica popolare, il
linguaggio rock’n’roll e le ultime tecnologie elettroniche. Senza dimenticare mai la melodia
e lo sfarzo di essere sopra tutto e tutti. Come una regina di fronte ai propri sudditi.
•
Ludovico Einaudi Divenire
(25/11/06)
Consigliata nei momenti di vera riflessione esistenziale, questa
ennesima creatura del nostro pianista ambient Ludovico Einaudi
(nipote dell’omonimo presidente della Repubblica) si rivela essere
un disco leggermente diverso dai precedenti o, almeno, dall’ultimo
Diario Mali. Perché stavolta l’elettronica c’è, anche se non ce ne
accorgiamo, visto che la funzione dell’album è quella di incorniciare
e ambientare situazioni di vita. Divenire, Svanire, Andare, Ritornare
sono emblematiche di una certa filosofia artistica dell’autore. Uno,
Monday, Rose, Oltremare, Primavera: tutte probabili colonne
sonore della nostra routine, dei nostri sfoghi, delle nostre elucubrazioni, come la risacca
del mare la mattina. Einaudi riesce benissimo a darci il senso profondo dell’animo umano
e del suo trasformismo, attraverso le sensuali note di questi dodici brani. Fly, L’origine
nascosta e Ascolta ci obbligano a fermarci e a dimenticare la nostra esistenza oppressiva
e maniacale, la nostra vita fatta di pochezze e banalità; ci obbligano piuttosto a mettere
seriamente l’accento sui sentimenti. Perché è di sentimenti che siamo fatti.
•
Kraftwerk Minimum - Maximum
(26/11/06)
Unico live ufficiale dei Kraftwerk. Il giorno della sua pubblicazione,
io stavo aspettando fuori del centro commerciale già da un’ora. E
Minimum - Maximum non m’ha deluso. È una sensazione dietro
l’altra: si passa dall’estasi ideologica di Die Mensch-Maschine al
battito veloce di Tour de France étape 2, dal rompicapo elettronico
di Vitamin al revival di Autobahn. Radioaktivität e Die Roboter
suonano ancora attuali sui Sony Vaio di questi quattro geniali
tedeschi. Hilpert, Schmitz, Schneider-Esleben e Hütter su quel
palco non si muovono, premono solo bottoni, muovono mouse e
premono qualche tasto di synth. Non sudano. Scivolano Heimcomputer, Computerwelt,
Dentaku, Metall auf Metall, Das Model, Neon Licht, Nummern, Trans Europa Express.
Quando poi si mettono le tute fosforescenti per performare Elektro Kardiogramm, Aéro
dynamik e Musique non stop e uno ad uno escono, l’emozione si fa intensa, diventa
fanatismo irrazionale. Perché anch’io sono un fanatico dei Kraftwerk - con vanto - visto
che questi signori ci hanno offerto un nuovo universo artistico. Grazie di esistere.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Les Anarchistes Figli di origine oscura
(27/11/06)
Les Anarchistes. Ecco il nome di questa band antagonista fatta di
leziosi carraresi che esordirono nel 2002 con Figli di origine oscura.
Il gruppo riprende i canti popolari legati all’ideale anarchico, da
Sacco e Vanzetti a Guglielmo Oberdan, da Sante Caserio a Michail
Bakunin, e li copre di bellissimi abiti musicali, perlopiù elettronici.
Trombe, bassi, pianoforti e chitarre acustiche ridanno vita per
esempio alla Tamurriata delle mondine (ovvero una rivisitazione di
Bella ciao) o al brano dedicato alla figura di Caserio, il quale nel
1894 pugnalò a morte il presidente della repubblica francese MarieFrançois Sadi Carnot; molto Banda Osiris anche Il galeone e Battan l’otto. Reminiscenze
balcaniche in Su fratelli pugnamo da forti, retroterra napoletano in Lacrime ‘e cundannate
(la voce qui è di Raiz), dub sapiente in The mask of anarchy. Belle anche Les Anarchistes,
Un dì discenderemo, O Gorizia tu sei maledetta, Un bolero per Goliardo, Il tuo stile e Tu
non dici mai niente di Leo Ferré. Band e disco intelligentissimi da ascoltare preferibilmente
in un centro sociale occupato autogestito.
•
Wahnfried Drums’n’balls (the gancha dub)
(28/11/06)
Da sempre considerato il padre della musica cosmica, Klaus
Schulze presenta anche un alter ego, chiamato Richard Wahnfried.
Un non definito progetto di interazione fra artisti che hanno fatto
della musica sinfonica ed elettrosperimentale il loro avamposto
creativo. Drums’n’balls (sottotitolato The gancha dub) è l’ultimo
lavoro discografico risalente al 1997: quattro suite a metà fra la
musica classica e la musica popolare, sia per durata sia per
composizione. Wahnfried mette in risalto il ruolo del drumkit, senza
omettere le visionarie frescure del sintetizzatore. Drums’n’balls,
Percussy, House of India e Bass of Orion ci portano in un universo eterogeneo fatto di
movimenti mentali e fremiti istintivi. Tutto è sequenziato in maniera certosina e la soffice
voce di Katarina Nevaseynewa accompagna alcuni tratti di questo etereo viaggio. Schulze
cerca l’arte nella proposta consumistica del suo operato, di sicuro poco incline all’ambiente
dance e molto più tendente a logiche - azzardo il termine - new age. Questo disco, da
molti criticato, risulta essere il plenum dell’esperienza pop-art maturata dall’artista.
•
270 Bis Incantesimi d’amore
(29/11/06)
L’articolo 270 bis del codice penale prevede la detenzione da
cinque a dieci anni per associazione eversiva di stampo terrorista.
Incantesimi d’amore è il primo album ufficiale dei 270 Bis, una band
romana di fascisti d’antan. Alla voce Marcello De Angelis, recluso
per tre anni a Rebibbia e latitante per altri dieci anni in Regno
Unito. Il disco, al di là di tutte le disquisizioni politiche, è davvero
bello: rock alternativo d’autore. Non nobis Domine e L’angelo
custode, Oltre il confine e The guns of Verona beach, Politicamente
scorretto e Barricate, The storm e Petite chanson. Tutti brani
fortemente rock con accenti jazz (per esempio la presenza del sax), testi cantautorali che
denunciano vergogne della moderna società e rimembrano lontani echi celtici. I 270 Bis si
regalano anche una canzone d’amore, omonima del disco, dall’intensa carica
sentimentale, mentre in Roma LXXVII E.F. la band di De Angelis immagina una
passeggiata per gli angoli della città imperiale, strizzando l’occhio al regime fascista. Un
disco dalla fragranza antica e dagli ideali coraggiosi, anticostituzionali, superati.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Prophilax Analive
(30/11/06)
Scurrili, irriverenti, goliardici, volgari. Questi sono i Prophilax: una
porno-rock band della scena underground laziale (da non
confondere con i blasfemi San Culamo). Propriamente viterbesi,
questi paladini della musica demenziale sono conosciuti in capitale
da quasi quindici anni. Ma solo da pochi anni sono usciti allo
scoperto, suonando live i loro pezzi migliori (storici i live al Qube e
all’Alpheus). Analive è l’album del 2005 ed è quello che contiene
tutto il meglio dal vivo di questo collettivo di maniaci. Ci sono Re
Arcù, Analità, ATAC de merda, Che famija de merda, Dora daccela
ancora, Preda del raptus anale, Pompotron, Dora in poi si chiaverà, Fateme pijà ‘a
patente, In viaggio con Cagatone Joe, Nella vecchia tromberia. Tutt’Italia conosce ormai i
Prophilax: altro che Squallor e Gem Boy! I brani su menzioniati contengono riferimenti
sessuali espliciti (etero, omo e trans), parolacce e insulti al comune senso del pudore,
perversioni sessuali e vilipendii vari. Alzi la mano chi non ha mai visto i loro videoclip
Biuticul, Beverly holes o Puttanic. In pratica una leggenda, un mito.
•
Gennaro Cosmo Parlato Che cosa c’è di strano?
(01/12/06)
Tutti conosceranno il cantante omosessuale di Markette. Gennaro
Cosmo Parlato ha una voce strepitosa e nel suo debutto
discografico questo suo talento viene a galla. Le canzoni di Che
cosa c’è di strano? sono tutte cover di famose hit italiane.
L’interprete napoletano riesce così a stravolgere le ritmate Cicale,
Donatella e Non voglio mica la luna (rispettivamente di Heather
Parisi, Rettore e Fiordaliso); completamente ribaltate le ritmiche di
Maledetta primavera (Loretta Goggi), Fotoromanza (Gianna
Nannini), Ti sento (Matia Bazar), Caffè nero bollente (Fiorella
Mannoia) e Sarà perché ti amo (Ricchi & Poveri). Forse il miglior arrangiamento è però
quello di cui gode L’estate sta finendo, originariamente dei Righeira, qui saggiamente resa
malinconica e introspettiva. Quasi tutti i brani appartengono ad artisti donna, segno
evidente del lato femminile di Parlato. Un disco divertente e, allo stesso tempo,
ineccepibile sotto l’aspetto tecnico. Presenza scenica: voto dieci. È uscito tra l’altro il suo
nuovo lavoro intitolato Remainders: stavolta un calderone di cover di canzoni estere.
•
Giusto Pio Legione straniera
(02/12/06)
Collaboratore negli anni ’80 di Franco Battiato, Giusto Pio
intraprese una breve ma intensa carriera solista. Violinista di fama
nazionale, Pio nel 1982 (a quattro mani con Battiato) pubblicò
Legione straniera: il suo disco più conosciuto e soprattutto più pop.
Gli otto brani del disco (durata giusta per un LP) sono pillole di
virtuosismi al violino o rivisitazioni di classici, il tutto chiaramente in
chiave synth-pop. Ostinato, Eritrea’s, Legione straniera ed Aria di
un tempo si inseguono su dirompenti linee di basso, batterie
sequenziate in rapida progressione, violini che toccano note
altissime e synth di contorno. Cristina’s day, cantata da un imprecisato coro, appare il
brano più riflessivo del disco; irresistibile Celestial Tibet, per via di quegli archi tanto celeri
quanto dolci; Totem si getta invece nel settore della musica da colonna sonora; infine
Giardino segreto rivisita la famosa aria del secondo movimento (Suite n. 3 in re maggiore
BWV 1068) di Bach. Un album davvero intrigante, coraggioso e sperimentale, che ci fa
rimpiangere di non aver vissuto a pieno gli anni ’80, italiani e un po’ italioti.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Richard Anthony Ce monde
(03/12/06)
Che belli gli anni ’60 di Richard Anthony! Quelli di un grandissimo
interprete (e spesso autore) francese e di grandissime canzoni da
spiaggia e da night-club. Ce monde è il LP del 1964 contenente
dodici canzoni in bilico fra pista da ballo e lento sentimentale; l’aria
che si respira è ovviamente quella degli spensierati anni del boom.
La corde au cou (cover di I should have known better dei Beatles),
Les filles d’aujourd’hui e Et quelque chose me dit costringono le
nostre gambe a muoversi a tempo di twist o be-bop. Si tu as besoin
d’un ami e Ce monde (cover de Il mio mondo di Umberto Bindi) ci
avvicinano al viso di una bella ragazza da corteggiare tutta la sera. E poi Puisque je pense
encore à toi (rifacimento di As tears go by degli Stones), o Ne me dis pas e Bien qu’on
s’aime che sottolineano la grandezza della voce di Anthony. Infine Chante heigh-ho,
Souviens-toi e Ne t’en fais pas pour moi, in pieno stile Les Surfs, intonano tormentoni
estivi per ragazzini (oggi uomini) che facevano delle vacanze al mare l’unico svago
significativo del loro anno scolastico. Grande e prezioso Richard Anthony.
•
Chroma Key Graveyard mountain home
(04/12/06)
Ammirevole conversione quella di Kevin Moore, ex tastierista dei
Dream Theater, oggi fondatore del progetto di elettronica jazzy
Chroma Key. Graveyard mountain home è il terzo e ultimo disco,
uscito nell’ormai lontano 2004. La leziosità delle sezioni di tastiera
e l’improvvisazione delle ambientazioni e delle sezioni ritmiche,
collocano questo album tra i migliori degli ultimi anni. Regale
Acknowledgement per vibrafono e chitarra, magnifica Come on to
bed, ricercata Give up some, trasformista He started with the cat.
Fin qui tutto fila lisco, visto che poi comincia l’ambient e il
serialismo minimale di Radio repairman e di Pure laughter. Strappalacrime la title-track,
intensa e fragorosa Before you started, ballabile Miserable sufferings, incerta Come in,
over. Nuovi strumenti e nuove contaminazioni iniziano a prendere piede nel disco; tutto si
annebbia, i sound si distorcono, le ritmiche abbandonano i 4/4: Andrew was drowning his
stepfather è semplice pioggia, Sad sad movie scivola via, True and lost si ferma e riflette,
Okay jazza. Pollice verso per i Dream Theater, missum per Chroma Key.
•
Bob Sinclar Champs Elysées
(05/12/06)
Maestro del french touch per quanto riguarda l’ambito dance, Bob
Sinclar pubblicò nel 2000 Champs Elysées, elogio di Francia.
Erano gli anni dell’apogeo house: esisteva allora una moda house,
un life-style house, il clubbing house, una cultura house; un genere
oggi troppo facilmente confuso con la techno (o tek-house). Nel
2000 l’house non era minimale ma orchestrale e, soprattutto,
vocale; era un mix esplosivo di blues, jazz, funky e francesismo. In
codesto disco di Bob Sinclar (oggi vendutosi a MTV) troviamo tutti
questi ingredienti. Spacca addirittura l’intro Champs Elysées
theme, e poi il tormentone I feel for you, il romanticismo di You are beautiful, il
daftpunkismo di Striptease, il liricismo di Got to be free, la matrice tedesca di Ich rocke, la
contaminazione r’n’b di Darlin’, l’atosmefera bollente del club di Save our soul. Champs
Elysées è consigliato per un festino in casa a base di alcol e donne. Senza più diciottenni
viziati e ignoranti che vestono firmato e tirano di cocaina per poi dire di aver ballato l’house
tutta la notte magari in un anonimo club di Milano. Quella di Sinclar era house sul serio.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Ozric Tentacles Jurassic shift
(06/12/06)
Dopo alcuni lavori pubblicati solo su nastri amatoriali, gli Ozric
Tentacles decidono di regalarsi al grande pubblico. Tra i lavori
pubblicati in digitale (o in ADD) c’è Jurassic shift, un disco dai forti
sapori indie-prog e da una curata protoelettronica. Sunhair sembra
una registrazione live, per via di suoni ambientali fatti di voci e urla;
Stretchy, rapida e mutevole, incarna lo spirito psichedelico degli
anni ’80-’90; Feng shui, chiaramente orientale, riposa i sensi in un
commiato di emozioni; Half light in Thillai proviene quasi dallo
spazio cosmico; Jurassic shift contiene una linea di basso
fenomenale; Pteranodon è ridotta ai minimi termini dalla sezione ritmica; Train oasis
utilizza il synth come segmento principale nello svolgimento del discorso; infine Vita voom,
molto più rock, ci dà il senso del talento di questi dodici grandi musicisti. Tutto il disco
appare una lama di coltello che spezza natura ed artificio, una commistione di classicismo,
jazz e hard-rock. In copertina, come al solito, il surrealismo di immagini coloratissime. Ne
esiste un’edizione speciale che contiene anche il primo album Erpland.
•
Colle Der Fomento Odio pieno
(07/12/06)
Invece dell’inflazionato Scienza doppia H, ho deciso di recensire il
primo album dei Colle Der Fomento, perché molto più street-rap
dell’ultimo. Odio pieno (lo dice il titolo) è un album cattivo che grida
il disagio e l’orgoglio della strada e della borgata romana. Solo
hardcore, Non ci sto e Ciao ciao valgono da sole il prezzo del CD;
collaborazioni illustri e testi aggressivi, basi nervose e molto oldstyle. Nelle altre Funk romano, Sopra al colle, Quando verrà il
momento, Lato oscuro, Cinque a uno e Quello che ti do i Colle Der
Fomento non sembrano diminuire la propria carica incendiaria
verso la società ipocrita e verso i venduti. Nell’edizione deluxe di Odio pieno troviamo
anche due remix (rispettivamente Non ci sto e Sopra al colle) e due inediti (Strappali e
scuotili e L’attacco dei funkadelici quattro). Parolacce e insulti si sprecano, gli Akai si
infiammano, gli mc cantano rime difficili, la tecnologia analogica si fa viva. La capitale
insegna così a fare hip-hop artigianale e lo fa prima della svendita commerciale di Fabri
Fibra, di Fish, di DJ Enzo, degli Articolo 31, di Piotta. Un disco per pochi estimatori.
•
Panjabi MC The album
(08/12/06)
I pregi e i difetti della globalizzazione (o mondializzazione?) sono
ben visibili in questo lavoro dell’ormai superato Panjabi MC.
Semplice quanto diretto il titolo del disco: The album; semplice il
lavoro di mistura fra cultura etnica indiana e cultura dance
occidentale. Questo è un prodotto che è chiaramente stato fatto per
il circuito commerciale, viste le nuove orecchiabili melodie che si
porta appresso. Su tutte ricordiamo Jogi e Mundian to bach ke (col
sample di Supercar), che hanno spopolato pochi anni fa sia in
America che in Europa. È certamente innegabile il pregio di aver
fatto conoscere su vasta scala una cultura musicale - quella indiana - pressoché estranea
alle orecchie di noi poveri audiofili del mondo sviluppato. Però è altrettanto innegabile
l’obiettivo del disco: creare un nuovo filone di musica consumistica (vedi pubblicazione su
Buddha-Bar). Ciò è riuscito in parte, grazie forse all’abusiva messa in onda. Al di là di tutto
rimangono comunque orecchiabili anche Jatt ho giya sharabee, Challa, Yaaran kollon sikh
kuriye, Sweeter, True mc’s, Jugni, Mirza part 2 o Jindi mahi.
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Underworld A hundred days off
(09/12/06)
Il Regno Unito industriale del carbon-coke ha generato diversi
rigurgiti di elettronica dura. Gli Underworld ne sono uno splendido
esempio. Partiti con il rock eighties dei primi due album approdano
negli anni ’90 ad una techno feroce e agile (impossibile non
conoscere Born slippy, main soundtrack di Trainspotting). A
hundred days off è il loro ultimo album di studio, prima della
raccolta 1992-2002. I dieci brani del disco si snodano tra synth
acidissimi e casse in fermento, tra lyrics al vetriolo e FX curatissimi.
Mo move è una sorta di speed-house; Two months off, brano
cardine, fomenta la voglia di ballare; Twist rallenta e improvvisa; Sola Sistim fa molto
breakbeat; Little speaker si rifa alla techno sassone; Trim si pone nell’ambito dell’electropop depechiano; Ess Gee schitarra melodicamente i paesaggi desertici di una certa
Inghilterra; Dinosaur adventure 3D stupra i woofer e clippa i tweeter; Ballet lane
ammorbidisce il tono aspro del disco; infine Luetin crea un’atmosfera in perfetto stile discosaluti. Che dire? A hundred days off è un disco meraviglioso, un disco techno.
•
Massimo Riva Comandante Space
(10/12/06)
Sorrisi che vanno e vengono. Questo lo spirito dell’album postumo
di Massimo Riva, Comandante Space, fatto con gli amici di
sempre: Guido Elmi, Vasco Rossi e Floriano Fini. Terzo progetto
dell'associazione onlus Massimo Riva questo album ci riconsegna
tutta la vitalità che c’era ancora in Massimo (deceduto in
circostanze non chiarissime). Qualche canzone davvero bella
(Sbagli miei, La vita perfetta non è, Sorrisi e Franz), qualche
canzone meno importante (Comandante Space, Cuore di maiale,
Sexy e DNA); sicuramente il suo lavoro migliore da solista. Un
tipico album appartenente alla cricca del Blasco, dove la magnificenza del talento di Riva
si spande su tablature egregie. Lo strumento chitarra ha infatti il suo ruolo fondamentale;
la voce è piuttosto un contorno, anche se va detto che Riva spesso faceva le backing
vocals ai concerti del Blasco. I testi graffianti e tutt’altro che accondiscendenti si adagiano
sulle tematiche affrontate negli anni ’80 dal provocautore di Zocca o dalla sua Steve
Rogers Band. In fondo è davvero un buon disco, forse troppo esagerato.
•
Iannis Xenakis Oresteïa
(11/12/06)
Iannis Xenakis è la pietra miliare dell’elettronica d’avanguardia
greca. A detta di molti il suo primo capolavoro è sicuramente
Oresteïa, risalente al 1966. Xenakis venne chiamato a comporre le
musiche per la messinscena della trilogia di Eschilo a Ypsilanti per
la regia di Alexis Solomos: la partitura in questione, ben lontana
dall’essere un semplice accompagnamento dell’azione, dimostrò
da subito un’autonomia espressiva straordinaria, che spinse il
musicista a trarne una suite indipendente il cui successo in tournée
superò ogni previsione. In occasione delle Orestiadi di Gibellina,
nel 1987, il compositore vi ha aggiunto un preludio elettroacustico e, soprattutto, un
monologo di Cassandra scritto per la eccezionale voce di Spyros Sakkas e per le
percussioni del fidato Sylvio Gualda. Durante un festival, al pubblico invitato, sul finale
dell’Oresteïa venne chiesto di sventolare delle listelle di zinco distribuite dagli
organizzatori; ne scaturì un luccichio che ha accompagnato il trionfo della giustizia e della
democrazia a compimento del destino di Oreste. Un capolavoro assoluto di libertà.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Amr Diab Tamally maak
(12/12/06)
Tamally maak è il tipico prodotto commerciale dell’area araba.
Pubblicato da un cantante belloccio con le fattezze occidentali (Amr
Diab) e con musiche che mischiano la tradizione locale alla
struttura strofa-ritornello tipicamente nostrana, questo disco è un
discreto pop (sano). Prodotto fra Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti
e Libano, questo album è il più importante della carriera di Diab.
Accanto a canzoni tipicamente commerciali come Alem alla, Keda
eny einak, Aamal aeh e Baateref dalle impronte retoriche e
populiste, troviamo ballate di immensa qualità. Su tutte la title-track
Tamally maak (che potrebbe tradursi come Sempre con te) dall’aria melanconica; un
brano capace di sconvolgere in maniera semplice e diretta uno stato d’animo. Interessanti
le suggestioni create poi da We heya amla aeh delwat, Saaban alaya, Kalby ekhtarak o
Senean. Sarà che non siamo abituati ad ascoltare questa musica, da noi aprioristicamente
giudicata stupida merce islamica o grandioso esempio di multiculturalismo. In realtà
dovremmo rifletterci su, perché se Gigi D’Alesso fosse così, saremmo tutti più contenti.
•
Banda Bassotti Avanzo de cantiere
(13/12/06)
Un gruppo di operai e manovali che si dà alla musica antagonista
dell’area comunista. Questa è la Banda Bassotti, romana di Roma.
Il secondo album, dopo l’inaspettato Figli della stessa rabbia, è
Avanzo de cantiere, pubblicato nel 1994 per la storica Gridalo
Forte. Si sente subito che il cantante ha una voce immatura e poco
consona al genere; la Banda Bassotti suona infatti un coacervo di
rock, ska, reggae e oi!. Tutto questo marasma di stili è difatti
rinnovato in Beat-ska-oi!; ben oliata la title-track e trascinante Luna
rossa (sulle stragi nere), appartenente alla tradizione folk
partigiana. Comunicato n° 38 è una sorta di ballad stalinista, La conta enuncia una serie di
nomi di carcerati rossi per reati politici, Potere al popolo lascia poco spazio all’ideale
liberalcapitalista, Viva Zapata! è la romanzata storia del grande combattente
sudamericano, Mockba ‘993 minaccia il padrone all’indomani del crollo dell’URSS,
Carabina 30-30 è quasi un liscio romagnolo, Andrò dove mi porteranno i miei scarponi è il
manifesto finale di un’idea che non si ferma davanti alle soglie di sbarramento.
•
Tribal Tech Rocket science
(14/12/06)
I Tribal Tech sono maestri del genere fusion, un incrocio tra jazz ed
experimental-rock (o post-rock): un filone quest’ultimo che ha dato
vita a fenomeni quali Mogwai e Sigur Rós. Al fianco di Pat Metheny
Group, Weather Report, Frank Zappa, Allan Holdsworth o Return
To Forever, la band di Scott Henderson fluttua fra studio-jam
virtuose e arroganti per chitarra, batteria, basso e keyboards. Un
forte talento pervade infatti Saturn 5, più fragorosa e vintage Astro
chimp, quieta e riscaldante Song holy hall, forse il pezzo più
riuscito del disco. Rocket science è dunque un album troppo legato
alla visione talentuosa dell’artista e meno a quella artistica: la bravura esplode ma a
scapito del significato individuale. E ciò è riscontrabile in canzoni come Sojlevska, Mini me
o Space camel; lunga e infruttuosa la title-track, troppo soft e prolissa Moonshine,
ridondante e tumultuosa The econoline; forse Cap’n Kirk esce fuori a testa alta dal
discorso fusion, proponendo un ambito paradigma new-jazz. Non si può concepire un
disco affidandosi esclusivamente alla maestria dei musicisti, serve coerenza artistica.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Raiz WOP
(15/12/06)
Dopo aver lasciato, non senza rammarico, i suoi fratelli (cioè gli
Almamegretta), il partenopeo Raiz ci prova con un album solista.
WOP è infatti il suo buon debutto: un disco esteticamente bello e
autoralmente curato. Si sente ovviamente forte l’influenza della
band di provenienza ma è anche ben preciso un intento di
discostarsene. L’acronimo del titolo sta per “whitout papers”,
marchio che veniva affibbiato agli italiani immigrati in America
senza alcun documento regolare. I brani dell’album sono quindi un
importante rivendicazione di tutto ciò che è integrazione,
immigrazione, meticciato, mistura, financo globalizzazione. Musicalmente il concetto è
chiaro nell’atmosfera araba che si respira in Scegli me, nella saudade brasiliana di Musica,
nella nebbia mediorientale di Dietro il tuo chador, nella intensa napoletanità di Nun me vuò
chiù; musica glocale quella di Ancora ancora ancora, Dare, Tu che non ci sei, C’era una
volta o W.O.P.; completamente internalizzata nella cultura musulmana la bella Ilah
shadday. Meglio gli Almamegretta ma questo disco merita un ascolto in più.
•
Giorgio Gaber Far finta di essere sani
(16/12/06)
Un uomo rimanda il suicidio cercando una via normale alla sua vita,
cerca di non dare nell’occhio: si compra una moto, cerca una
donna almeno in apparenza fedele, tenta di salvarsi viaggiando
lontano, stando in coppia mano nella mano; cerca di nascondersi,
fa finta d’esser sano. Questo il tema principale di una delle prime
opere adulte di Giorgio Gaber, Far finta di essere sani. Lasciate
finalmente le canzonette ironiche e demenziali, il miracoloso
Gaberscik sforna un disco di profonda denuncia sociale, di intensa
emozione, di reale disagio, di sentita umanità. Erano gli anni della
più grande crisi economica del secondo Novecento e l’italiano medio era frastornato dalle
manipolazioni culturali, in preda ad un’indescrivibile ansia da prestazione. Arrivismo,
ambizione e rampantismo cominciavano a dare i loro frutti sul popolino; Gaber, dopo De
André, capì il progetto e, con le armi della cultura, ha cercato di sfidarlo. Così sono nate
Un’emozione, Lo shampoo, La comune, Quello che perde i pezzi, Il dente della
conoscenza, L’erezione, È sabato o Il narciso. E poi La libertà: basta ascoltarla.
•
Marlene Kuntz Bianco sporco
(17/12/06)
Bianco sporco è un album che si è distaccato parecchio dall’anima
grunge, per avvicinarsi ad una forma-canzone più rock (e
naturalmente più ballad). I testi ermetici di Cristiano Godano, gli
arrangiamenti il più delle volte orchestrali, i flashback melodici:
questo il riassunto sonoro del sesto album dei Marlene Kuntz.
Mondo cattivo è rabbiosa ed introversa, sputa sulla modernità fatta
di ipocrisia e mala fede; A chi succhia è assolutamente
indecifrabile; Il solitario è una ricostruzione in chiaroscuro di un
personaggio immaginario, con sonorità impreziosite dai sampler di
Rob Ellis e dalle corde di Eszter Nagypal e Jonh Maida, appartenenti all’Orchestra Di
Piazza Vittorio; Bellezza è il manifesto di una generazione poco incline all’accettazione di
canoni socioculturali imposti dogmaticamente; Poeti, Amen, Il sorriso, L’inganno e La lira
di Narciso, tutte con un riff che accarezza le liriche, hanno un’anima fortemente noise. La
cognizione del dolore, dall’omonimo romanzo di Gadda, e Nel peggio sono cattive, urlate
ed essenziali. Matrice e continuità rock sono comunque onorate e rispettate.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Bruce Springsteen The ghost of Tom Joad
(18/12/06)
Tutto comincia con l’armonica sussurrata di The ghost of Tom
Joad. Il disco omonimo di Springsteen, forse il migliore (assieme a
The river), è un vero rubino. Quel modo di raccontare a denti stretti,
come se il canto fosse un macigno difficile da esternare; un album
da viaggio, che spero un giorno di ascoltare in cabrio sulla Route
66 che va da Chicago a Santa Monica. Straight time, Highway 29 e
Sinaloa cowboys rimandano a un lento country: tema fondamentale
sempre il viaggio, il movimento, il mutamento. Chitarre che toccano
accordi difficili, la voce del Boss che incastona testi post-moderni,
bassi corali, tastiere per antipasto e un’atmosfera desertica. E poi il giovanilismo di
Yougstown, la difficile storyboard di The line e Balboa Park, la ricetta mielosa di Dry
lightning e The new timer, l’inarrestabile melanconia di Across the border, la nostalgia
forsennata di Galveston Bay. Tutti i luoghi citati raccontano i rombanti diesel, le pale
eoliche, i pozzi di petrolio ed infine l’umiltà indimenticata di My best was never good
enough. Questa è la tradizione musicale americana che mi piace.
•
Layo & Bushwacka! Night works
(19/12/06)
«Entrambi crediamo nelle stesse cose, la bella gente, le belle feste,
la buona musica: acid-house, alla base». Questa un’affermazione
del duo club Layo & Bushwacka!. E Night works, uscito nel 2002,
ne è uno splendido esemplare: tutti gli ingredienti per un album da
club ci sono, dai synth alle bass-line, dai pad ai groove, dagli FX ai
kick, dagli snare alle drums. Un disco, quello originale, con una
personalità meno dance proprio per creare una duplice matrice; sia
un lavoro d’ascolto, sia un lavoro da remix e da club. Il duo ha
raccolto le basi techno, tek-house, electro e breakbeat, saldandole
su tonalità blues e classiche, anche derivanti dalle colonne sonore degli ultimi cento anni.
Night works è stato edito da XL e presenta tutti gli elementi fantastici del precedente Low
life anche se prende veste su modelli più ariosi. Che dire di brani come Shining through,
We meet at last, All night long, Sleepy language e Blind tiger? Tutte tracce notturne dallo
spiccato senso cool; e che dire poi di Love story se non che è il pezzo che ha
internazionalizzato Layo & Bushwacka! mettendoli nell’olimpo dei grandi DJ.
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Renato Serio & I.S.O. Viaggio nel regno dei Beatles
(20/12/06)
Il maestro d’orchestra Renato Serio, supportato dalla modernità
dell’Innovative Syntphonic Orchestra, mette a frutto il suo talento di
rivisitatore attraverso un’opera di rework di alcune bellissime
canzoni dei Beatles, tutte performate con gli strumenti
elettroacustici. Viaggio nel regno dei Beatles è un’insieme di suite
(ben sei) che mischiano le sonorità di Yellow submarine, She loves
you, Here comes the sun, Get back, All you need is love, Michelle,
A hard day’s night, Lady Madonna, Yesterday, Let it be, Ob-la-di,
ob-la-da, Hey Jude e tante altre. La I.S.O. è un progetto artistico
che nasce dal bisogno di programmare ed elaborare repertori con nuovi colori;
nell’orchestra c’è una sezione medieval-rinascimentale, fatta di liuti, flauti a becco,
cromorni, salteri, bombarde, arpe, e da una sezione elettronica, costituita da sintetizzatori
virtuali, campionatori e computer. Una commistione di antico e moderno che riesce bene
nell’impresa di attualizzare vecchie chicche. Sponsorizzato dalla Presidenza della
Provincia di Roma è un lavoro da godere accomodati su un soffice divano alla romana.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Jeff Mills At first sight
(21/12/06)
Il più grande compositore della techno vecchia scuola è
sicuramente Jeff Mills, eclettico maestro americano della
manipolazione elettronica. Creatore del movimento Detroit
(assieme a Carl Cox e pochi altri), Mills si cimenta spesso in
videoinstallazioni in cui le sue musiche fungono da colonna sonora
a vecchi e mistici film: su tutti vanno ricordati Metropolis di Fritz
Lang o Three ages di Buster Keaton. Ma Jeff Mills è geniale anche
nella produzione di techno dura e pura, ne sia esempio questo At
first sight, un disco di solo sound tecnologico, creato con
difficoltose tecniche di sequencing. Fortissimo l’uso di software specialmente in pezzi
come The march, Imagine o Devices, dove la creazione di casse e synth è chiaramente
delegata a sequencer virtuali. Di un altro livello Aperture, Punisher: last confession o More
black matter: su queste tracce il club potrebbe esplodere. Stark, Illusions, Urbana e
Masterlight paiono invece appartenere agli anni ’90; MBM, Fantasia e See this way
provate infine ad ascoltarle dopo uno spinello di superskunk. È tutto un viaggio!
•
Pino Daniele Project Passi d’autore
(22/12/06)
Forse il disco più diverso della discografia di Pino Daniele (qui
ribattezzato Project), Passi d’autore rischiara gli animi con
l’immensa bravura delle chitarre di Pigro , con gli interludi corali di
Arriverà l’aurora, Gli stessi sguardi e Ali di cera, con l’orgoglio
napoletano di Tango della suerte (dedicata a Diego Armando
Maradona), con le batterie brush di Bella da vivere. Daniele si
riscopre, dopo anni di ambigui risultati, un autore da capo a fondo,
un musicista eccentrico e aperto a tutte le possibili influenze. La
mia casa sei tu e Deja-vu ricordano molto il miglior Gino Paoli,
Nuages sulle note è un jazz alla Django Reinhardt mentre Dammi una seconda vita non si
dimentica del beat elettronico. La nostra estate insieme è un malinconico brano sulla
dimenticanza e sullo scorrere inesorabile del tempo, Isola grande e Sofia sulle note
impreziosiscono il discorso swing, Concerto per noi due performa archi in grande spolvero.
Quindi un Pino Daniele tutto sommato migliore di Iguana Cafè ma forse non paragonabile
a quello degli anni ’70, un artista che comunque ci ricorda che Napoli è soprattutto cultura.
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Viola Don’t be shy…
(23/12/06)
Quant’è dolce e splendida Violante! Figlia d’arte, visto che il padre
risponde al nome di Michele Placido, ma normalmente attrice in
commedie alquanto brillanti. Insomma Don’t be shy… è proprio un
disco piacevole, cantato quasi interamente in inglese, dove la bella
artista (amica di Bugo, con cui ha prodotto un duetto) si è
cimentata sia nei testi che nelle musiche (la musica è da sempre
una delle sue passioni più grandi). Le canzoni più belle sono Still I,
scelta per il lancio promozionale, Together e Niente si muove:
schitarrate morbide, voce alla Carla Bruni e testi quasi
adolescenziali. Molto candide anche How to save your life, Skunk, Poor little girl, So far e
With u; però questi brani sono costati a Violante Placido l’accusa di non colpire mai a
fondo, di aver fatto un disco pieno di accenni e mai di vere canzoni. Penso piuttosto che i
testi un po’ sporchi di A zero e le musiche sempre orecchiabili, collochino questo album in
una posizione discreta, anche perché non si può dimenticare la totale ingenuità della dolce
artista al suo primo incontro col microfono. Bel disco e carinissima Viola.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Gnarls Barkley St. Elsewhere
(24/12/06)
Tranne Just a thought e The last time nessuna traccia supera i due
minuti di lunghezza, quasi come se i brani di questo St. Elsewhere
siano dei souvenir talmente brevi da risultare difficili da
dimenticare. I due producer/mc/DJ Thomas Calloway e Brian
Burton che si celano dietro il nome di Gnarls Barkley quest’anno
hanno pubblicato codesto disco, lanciato dal tormentone Crazy, di
certo uno dei migliori dell’intero album. Si sente la provenienza hiphop dal melodismo sfrenato e dai testi in assonanza.
Rumorosissima Go-go gadget gospel, blues la title-track, electropop Gone daddy gone, hippie Smiley faces (di sicuro un altro bel pezzo), dub The boogie
monster. I due artisti (alias Cee-Loo e Danger Mouse) danno quindi prova di rappare con
Feng shui e Transformer; deliziose poi Who cares? e Online, trip-hop Necromancer, quasi
jungle Storm coming. In fin dei conti è un disco frizzante anche se a volte i brani si
inseguono su identici binari e la voce black risulta troppo spesso fastidiosa; sta di fatto che
St. Elsewhere gode di una filosofia pubblicitaria davvero intelligente. Disco furbo.
•
Steve Rogers Band …Questa sera rock’n’roll!
(05/01/07)
Dopo almeno un decennio torna la prima rock band italiana: la
Steve Rogers Band. Ovvero il gruppo di Vasco Rossi, ormai
composto dagli inossidabili Maurizio Solieri, Claudio Golinelli e
Mimmo Camporeale più il nuovo cantante Roberto Chiodi e gli altri
Christian Bagnoli e Beppe Leoncini. …Questa sera rock’n’roll! è un
live registrato al Sonix di Imola e contiene i più bei pezzi della
discografia passata; da Neve nera (primo singolo) a Sono donne,
da Bambolina ad Alzati la gonna, da Ok sì a Hey man (la tua donna
mi fa impazzire). Inoltre troviamo due cover del Blasco, qui
fedelmente riprodotte e cantate dal sempre abbronzatissimo Solieri: Sono ancora in coma
e Una nuova canzone per lei. L’intro è fantastico e pieno, altrettanto rockettare Tanto è lo
stesso e Dimmi come stai; il tutto una follia di chitarre e batteria. Il cantante non fa
rimpiangere Massimo Riva, anzi lo supera alla grande in canzoni quali Uno di noi e C’è chi
nasce donna. Alla fine della tracklist troviamo inoltre tre inediti: Son vivo, Il grande amore e
Tu sei qualcosa. Un ritorno sulle scene davvero apocalittico che sa di tempo passato.
•
Vinicio Capossela All’una e trentacinque circa
(06/01/07)
Un giovane Vinicio Capossela si affaccia allo scenario musicale
italiano con All’una e trentacinque circa. Il debutto è chiarificatore:
si comprende subito che Capossela farà molta strada e diverrà uno
dei più eccentrici musicisti dell’era contemporanea. Questo primo
album è difatti un’ottima prova, contenente canzoni ancora famose,
su tutte Pongo sbronzo, Una giornata senza pretese e Scivola vai
via. Gli strumenti tradizionali, fra Sardegna e Basilicata, suonano le
note di Resta con me, mai dimenticando le contaminazioni jazzblues; quasi swingata l’ironica Quando ti scrivo, natalizia quanto
basta Christmas song. La Suite delle quattro note sembra invece un brano sanremese
anche se gli arrangiamenti e i vocalizzi la rendono davvero unica; Paolo Conte si sente
tanto in I vecchi amori, traditrice e puttana Stanco e perduto, canzone questa dalle intense
fragranze, dal testo magnifico e dal significato umano. Sabato al corallo e All’una e
trentacinque circa hanno infine nostalgia delle corse in bicicletta, delle prime autostrade,
dei night-club. Un disco per niente scontato e sempre, ancor’oggi, attualissimo.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Phats & Small This time around
(07/01/07)
Musica da intrattenimento. Così potrebbe venir definita la roba
prodotta da questi due DJ inglesi. House, dance, chill-out mai
impegnativa e quasi sempre adolescenziale. I Phats & Small sono
pressoché scomparsi dalle scene musicali internazionali proprio
dopo il gran successo di This time around, l’album contenitore di
tutte le hit dei primi del 2000. C’è la title-track, c’è Change, c’è
Clouds e c’è Disco lady. Una sorta di pop-house tanto in voga in
quegli anni che vide alternarsi sulle scene Modjo, Tcheelab,
Fargetta, Jack Floyd, Benjamin Diamond ecc. e che ispirò molti
locali europei. Del disco in questione sarebbe meglio ricordare il french touch di Takin’ it e
il tribalismo di What would I do, il big-beat di Baby I’m a technoboy e il dub suadente di
Wait until tomorrow, il trip-hop di Addicted to you e l’esaltazione di Return to Brighton
Beach. Alquanto banale, al contrario, All night long e pleonastica la seguente Dis-coke;
distruttiva invece Respect the cock. Quindi This time around è più che altro un album che
lascia il tempo che trova, il disco giusto al momento giusto. Nulla di più, davvero.
•
The Cranberries No need to argue
(08/01/07)
La piccola e combattiva Irlanda ha esportato, da quindici anni a
questa parte, la band dei Cranberries che nel 1994 pubblicò No
need to argue, un disco fortemente evocativo, dai testi sociali e
dagli arrangiamenti morbidi, quasi soffici. In un genere etichettabile
come irish-pop (in contrasto col brit-pop) questi quattro musicisti (la
bella Dolores ne è la cantante) partorirono tredici stupende
canzoni. Ode to my family tocca le corde dell’anima, Zombie
denuncia gli oltraggi perpetrati alle popolazioni infantili, I can’t be
with you movimenta l’andamento, Twenty one sussurra le turbe
giovanili di una ragazza, Empty regala bene il senso di vuoto, in Everything I said Dolores
fa virtuosismi di voce. Quasi sconosciuta e formidabile The icicle melts, melodica e
raffinata Disappointment, da viaggio Ridiculous thoughts, tristi e lente No need to argue e
Daffodil lament, ritratti in chiaroscuro in Dreaming my dreams e Yeat’s grave. Un album da
ascoltare in auto mentre si percorrono le strade d’Irlanda battute dall’incessante pioggia e
contornate dal verde splendente della natura bagnata coi cavalli di Cavan che mangiano.
•
Compagnia Dell’Anello Terra di Thule
(09/01/07)
Il loro fascismo è quello etico, esoterico e metafisico della nuova
tradizione che dagli anni ’70 ha sostituito la vecchia dottrina
sansepolcrista. La Compagnia Dell’Anello (nome appartenente
all’omonima saga celtica) è una bravissima band, ovviamente
impegnata anche in politica locale, che ha già pubblicato su CD
quattro album. Terra di Thule (sempre di tradizione celtica) è
l’album del 1983, ristampato vent’anni dopo con In rotta per
Bisanzio. Bellissime le musiche del disco, spesso gli arrangiamenti
e gli strumenti utilizzati ricordano Enya. Fiabesca e medievale La
terra di Thule, molto progressive Pensando ad un amico (sulla lealtà), vivace ma senza
orpelli Nascita, a forma di ballata scozzese Il costume del cervo bianco, propagandistica e
goliardica Il futuro appartiene a noi, soave e melodiosa Nanna ninna, divertente e
allegorica Fiaba, ben strumentata Il contadino, il monaco, il guerriero, lontana e
tradizionale Sulla strada. Consiglio vivamente l’ascolto di questo gruppo; in loro l’ideologia
è sempre e solo accennata e mai sbandierata come orgoglio principe.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Laibach Volk
(10/01/07)
Un progetto assurdo quello dei Laibach! Sloveni di nascita e
tedeschi d’adozione, appartengono ad uno stato virtuale (non
conoscete i microstati come Sealand, Sabotage, ElgalandVargaland, Treesia, Babkha ecc.?) chiamato N.S.K. (Neue
Slowenische Kunst), una sorta di repubblica germanofona di
Slovenia. Dicevamo che il loro progetto musicale è strano, così
come quello internazionalista. Il loro ultimo stupendo lavoro si
intitola Volk (esatto, proprio “popolo”) e rivisita tredici inni nazionali
in chiave noise-electro. L’ultimo inno è quello inventanto
appositamente per la N.S.K., ormai network internazionale per cittadini apolidi. I Laibach
suonano e cantano (quasi sempre in lingua originale) gli inni italiano, americano, tedesco,
francese, giapponese, sloveno, spagnolo, israeliano, inglese, russo, turco, cinese e
vaticano. I titoli dei brani sono semplicemente Italia, America, Germania, Francia, Nippon,
Slovania, España, Yisrā’el, Anglia, Rossiya, Türkiye, Zhōnghuá e Vaticanae. Ascoltatelo
bene perché è un lavoro degno di nota, veramente unico al mondo.
•
Stefano Bollani L’orchestra del Titanic
(11/01/07)
Il jazz di via Veneto targato Stefano Bollani improvvisa nel 1999
uno splendido dipinto retró. L’orchestra del Titanic è un disco
prezioso e allo stesso tempo superficiale, in difficile equilibrio fra
melodia e ricerca, fra intenzione e divertissement. Mentre sul
Titanic la gente fuggiva durante l’esecuzione dei brani (per ovvi
motivi di istinto di sopravvivenza), alle jam-session di Bollani la
gente rimane seduta ammaliata dalle carezze del suo pianoforte, e
dal contrabbasso di Lello Pareti, e dalle batterie di Walter Paoli, e
dalla chitarra di Riccardo Onori, e dalla fisarmonica di Antonello
Salis. Impareggiabili brani come La sagra di Paolopoli, Elena e il suo violino, Prima o poi io
e te faremo l’amore, I viaggi di Gulliver; truffaldine Anema e core e Piove (con un sample
di Domenico Modugno); strepitose 17 ore, L’orchestra del Titanic, Comunicazioni interrotte
e Il barbone di Siviglia. Spesso la voce scat accompagna la fisarmonica come in Natale in
casa Cappelli, spesso l’improvvisazione si fa magia, spesso la sinergia fra questi musicisti
si fa incanto. Quel che è certo è che quest’orchestra funziona proprio bene.
•
Elektric Music Esperanto
(12/01/07)
I beat sono quelli tipici di Karl Bartos. Esperanto è difatti il primo
lavoro solista dell’ex robot (1993), qui con lo pseudonimo di Elektric
Music. Un disco davvero coinvolgente, tappeti sonori fragorosi e
schiaccianti, vocalizzi degni dei Pet Shop Boys, incastri melodici
corali e sontuosi. Questo concept-album pone in una luce nuova la
modernità della televisione e dello showbiz, senza dure critiche, ma
lasciando sempre trasparire perlomeno una certa sfiducia. TV ne è
forse il pezzo emblematico: la televisione è capace di elargire una
quantità troppo enorme di notizie e messaggi per venir facilmente e
correttamente metabolizzata dal pubblico spettatore. Show business è la continua
mandata in onda di vite reali nella scatola catodica; Kissing the machine (featuring Andy
McCluskey) è puro synth-pop; Lifestyle, in piena tendenza Depeche Mode, rompe le
barriere del conformismo borghese tedesco; Crosstalk utilizza tecniche IDM; Information è
lunga e spesso traumatica; Esperanto suona il linguaggio globale della TV; infine
Overdrive (con l’amico Emil Schult) spacca di brutto. Gran disco.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Stylophonic Man music technology
(13/01/07)
Sempre in bilico fra house ed electro, anche nei DJ-set: questo è
Stefano Fontana alias Stylophonic. Nei fatti sono quattro anni che il
DJ milanese si dà con successo alla produzione di album di inediti.
Man music technology è il primo di questi (l’altro è il recente Baby
beat box) e contiene una tracklist di dieci brani e quattro interludi.
Suona intensa Vinylstyloz, breaka e scratcha Break @ 100 BPM,
morbida e musicatissima Way of life (grazie anche all’aiuto di
sample). Ma il pezzo forte del disco è forse Soul reply, tormentone
house degli anni scorsi con ottimi pianoforti elettrici e vocals;
Bizarre mind sta a metà fra tek-house e electro-pop; It’s the old school with the new school
è poi il ritratto più fedele dello storico DJ del Plastic: tradizione e tendenza, vecchia scuola
vocal-house e ultima moda minimal. All nite long srotola chilometri di synth acidissimi, Da
symphony pare Whirlpool Production, Game over è semplice e funzionale, infine l’altra hit
If everybody in the world loved everybody in the world sembra uscita da uno sgangherato
carillon dell’era post-atomica. Un disco da ascoltare e ballare, per bere e festeggiare.
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Lucio Battisti Hegel
(14/01/07)
Prima di scomparire e morire in maniera del tutto furtiva, Lucio
Battisti dà alle stampe Hegel, ultimo di una serie di album che la
critica ha sempre demolito e il pubblico altrettanto omesso nelle
proprie preferenze. Battisti, dopo Mogol, decise di darsi alla pura
libertà espressiva (aiutato dai testi di Pasquale Panella), fatta di
canzoni a un accordo o a suite esclusivamente strumentali. Hegel
però effettivamente suona asciutto. Oggi quelle basi simil-electro e
proto-house sembrano davvero scontate e banali, anche se a metà
anni ’90 erano l’avanguardia del pop. E questo è il merito del disco.
Belle Almeno l’inizio e la title-track, deliziose Tubinga e La bellezza riunita. Ricercato il
testo de La moda nel respiro, ermetico quello di Stanze come questa, vanitoso il progetto
di Estetica. Gran merito va proprio a Panella, riuscito a spezzare la tradizione italica fatta
di testi poco impegnati ma allo stesso tempo così toccanti da sembrare gioielli. Infine La
voce del viso la vedrei ironicamente gareggiare con un qualsiasi pezzo di Roni Size.
Questa è stata la ricerca di Battisti: portare l’elettronica nel logoro ambiente d’autore.
•
Gwen Stefani The sweet escape
(15/01/07)
Gli Stati Uniti non hanno mai capito cosa voglia dire la parola
“lusso”. Per loro è sinonimo di appariscenza e ostentazione; per noi
è l’elegante maniera di rendere essenziale il superfluo. Questo
disco è infatti in linea con la morale americana, un disco per
teenager, un disco da ballare (ma come fanno gli americani a
ballare questa roba?). Gwen Stefani alla seconda prova solista non
convince. Molto meglio Love angel music baby (nei limiti della
decenza). Questo album davvero mi intristisce. Mi intristiscono gli
stupri alle macchine digitali perpetrati in Wind it up, Don’t get it
twisted, Now that you got it, Yummy e Breakin’ up. Per ragazzine danarose la ballad
Orange County girl, più che altro un inno a vivere nella più sfrontata agiatezza; inutili The
sweet escape, Fluorescent, 4 in the morning, U started it e Candyland. E poi troppo
buonismo in Wonderful life. L’unico pezzo che esce sano e salvo da questo calderone è
Early winter, un po’ rock, un po’ pop, sempre impassibilmente easy. Devo però ammettere
che la bellezza di Gwen Stefani è davvero strepitosa, letteraria, primaverile.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
60
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Björk Guðmundsdóttir & Tríó Guðmundar Ingólfssonar Gling-gló
(16/01/07)
Prima di Debut Björk aveva già pubblicato due album. Il primo,
omonimo, era del 1977 e conteneva tutte canzoni per bambini; il
secondo, Gling-gló, è del 1990 ed è un bellissimo quadro di jazz
contemporaneo. Molti dei brani contenuti sono cover di famose
canzoni europee ed americane come Í dansi með þér. I titoli in
islandese non aiutano a memorizzare i groove ma la formalità e il
talento dell’interprete e del suo Tríó Guðmundar Ingólfssonar
sanno offrirci cinquanta minuti di totale relax. Speciali Luktargvendur e Pabbi minn, ritmate Kata rokkar e Brestir og brak, retró
Ástatröfrar e Bella símamær. Il pianoforte, il contrabbasso e la batteria rendono
melodrammatiche Litli tónlistarmaðurinn e Það sést ekki sætari mey; Björk
Guðmundsdóttir continua a performare belle esperienze jazzy con Bílavísur, Tondeleyo e
Ég veit ei hvað skal segja. C’è infine spazio anche per la lingua inglese, splendidamente
ascoltabile in Ruby baby e I can’t help loving you. La piccola islandese ha i numeri già da
quasi vent’anni e non ha tradito assolutamente le aspettative. Unica.
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Bassi Maestro Foto di gruppo
(17/01/07)
Milano produce buon hip-hop. Il pensiero corre subito a Club Dogo
o DJ Enzo, senza dimenticare (Davide) Bassi Maestro. Il suo
secondo disco è proprio questo Foto di gruppo: un bel ritratto della
sua generazione, del suo quartiere, della sua crew. Tutti gli aspetti
peculiari della cultura di strada, della musica campionata, dei
contest multiartistici (djing, brakbeat, writing, mcing). P.R.S. ha un
bel beat e un testo profondo, Foto di gruppo sembra una
benedizione agli amici e alle cose care, Emcee spara a zero sui
sucker, Cosa resterà utilizza un famoso sample di un’altrettanto
famosa traccia di Raf (chiaramente Cosa resterà degli anni ‘80), egoista e autocelebrativa
Conosci il mio steelo, pazza e cattiva Bionic skillz. Il bravo Bassi premedita l’odierna
tradizione hip-hop con A male, fatta di archi campionati e beat minimali; pura old-school
con Il tipo di persona; utopistica ed autoreferenziale Sano what?!; bastarda e mitica Dal
tramonto all’alba. Infine Family & business è un’ode alla famiglia e alla cultura di
appartenenza, mentre Buoni propositi è un morbido esercizio di stile.
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AA.VV. Faber amico fragile…
(18/01/07)
Il 12 marzo 2000, poco più d’un anno dopo la sua scomparsa, si
tenne a Genova un concerto in memoria e in onore di Fabrizio De
André, presentato da Fabio Fazio. I contributi live di grandissimi
interpreti furono pubblicati anni dopo in un doppio cd dal titolo
Faber amico fragile…: le performance più toccanti e dignitose
furono quelle del maestro Franco Battiato in Amore che vieni,
amore che vai (addirittura si commosse), quella di Zucchero in Ho
visto Nina volare, quella di Gino Paoli in Canzone dell’amore
perduto, e poi quella di Vasco Rossi in Amico fragile, quella di
Cecilia Chailly in Inverno, quella di Ligabue in Fiume Sand Creek e quella di Roberto Ferri
ne La romance de Marinelle. Fuori luogo gli errori di Celentano che sottovalutò La guerra
di Piero, la storpiatura di Enzo Jannacci in Via del Campo e la trasposizione in prima
persona di Ornella Vanoni in Bocca di rosa. Bravissimi Jovanotti, Cristiano De André, la
Mannoia, Premiata Forneria Marconi, Teresa De Sio, Finardi, Oliviero Malaspina, Mauro
Pagani, Baccini, Edoardo Bennato e la Bertè. Poco per il maestro, tanto per noi.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Riccardo Sinigallia Riccardo Sinigallia
(19/01/07)
Riccardo Sinigallia è un cantautore in carne e ossa e forse
meriterebbe molta più visibilità mediatica. Artefice del successo dei
Tiromancino, Sinigallia comincia anch’egli a produrre musica; il suo
primo album omonimo è uno stupendo lavoro di musica leggera.
Elettronica di base, chitarre, testi poetici e una voce niente male.
Morbidi pad ci accolgono in Cadere, magnetica e socialmente
arrendevole La revisione della memoria, allegra e soffice
Bellamore, provocatoria ma intelligente Io sono Dio, sperimentale e
complessa So che ci sarai (qui il tappeto sonoro è semplicemente
magnifico). Sinigallia diviene più accondiscendente in Buonanotte, ride amaramente in Ah
nella vita…, poi intona un canto d’amore in Solo per te e chiude la sua opera prima con
Lontano da ogni giorno, un brano silenzioso, aereo, speranzoso, mite. Tutto il percorso
dell’album è simile a quello dei primi lavori dell’amico Zampaglione, anche se il nostro
Riccardo prende una via decisamente più impervia: quella del cantautorato elettronico. In
fin dei conti è un artista giovane ed eclettico, e il tempo dimostrerà il suo innato talento.
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Róisín Murphy Ruby blue
(20/01/07)
La voce dei Moloko, dopo aver testato le sue capacità d’immagine
con Boris Dlugosch, decide di darsi definitivamente (speriamo di
no!) alla carriera solista. Il suo primo e unico album è Ruby blue, un
lavoro in difficile equilibrio fra downtempo, electro, trip-hop, lounge
e jazz. Leaving the city è stranissima, Sinking feeling è jazzata con
un tocco di swing anni ’50, Night of the dancing flame pare cantata
da Billie Holiday, Through time è decisamente elettronica anche se
non fa a meno di dolci pianoforti e accennate batterie. Róisín
Murphy poi decide di volare alta con Sow into you, un bellissimo
brano tra funky e sweet-house; diventa più introspettiva in Dear diary; d’improvviso tutte le
paure si dissolvono e l’allegria musicale si accende con If we’re in love; Ramalama è
difficile da inserire in un filone musicale però suona strepitosa; la title-track utilizza le
chitarre distorte per apparire noise (e forse tutti la conosceranno per la sigla del
programma TV Very Victoria); Off on it sperimenta tra jazz e trip-hop. Infine la Murphy
seduta sulla coda del pianoforte che canta The closing of the doors. Mah…
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(21/01/07)
La house cool di inizio millennio era quella francese targata
Galleon. Un solo album omonimo per un duo fatto da un cantante e
un producer. I pezzi del disco si assomigliano tutti: questa
caratteristica fu poi enfatizzata nei video, come se si stesse girando
un telefilm. Largo uso di filtri tradizionali come reverb, flanger e
delay in So I begin, Shining light, One sign e I believe; leggermente
più lenta delle altre The best world, imponenti linee di organo
hammond in Da rock, breve e melanconica Rhythm & melody. Il
cantato non convince, perché troppo incline alla ricerca dell’enfasi
pop. L’house riparte con Each day, Money work, The way e My name; forse l’anonimato di
cui soffrono alcuni brani si sarebbe dovuto fugare con l’assenza di lyrics e l’inserimento di
nuovi elementi melodici come synth e pad; infatti appare troppo euro-house Angel wings;
intrigante e potente invece Ghost trip; infine Freedom to move, tema della famosa
pubblicità Levi’s. Se non si è capito, Galleon è un disco mediocre ma che suona gioviale,
indirizzato esclusivamente al mercato europeo della nuova dance.
Galleon Galleon
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Faithless To all new arrivals
(22/01/07)
Due mesi fa sono tornati sugli scaffali i Faithless con un nuovo
interessante lavoro di studio, To all new arrivals. Un benvenuto, un
ringraziamento, un invito. Già dal titolo comprendiamo che i tre
inglesi (Maxi Jazz, Rollo e Sister Bliss) si sono rinnovati. I sound e i
groove sono infatti diversi e le collaborazioni si sprecano. Harry
Collier canta la splendida Bombs (il singolo di lancio), Robert Smith
interpreta l’acid di Spiders, crocodiles & kryptonite, Cass Fox
performa la soft-trance di Music matters. I Faithless si cimentano
poi nella lounge di Nate’s tune e nella chill-out con I hope; la bella
Dido corre loro in aiuto cantando magnificamente Last this day, sicuramente uno dei brani
trainanti dell’intero disco. La title-track è una veloce traccia fra Underworld e Pet Shop
Boys; One Eskimo canta addirittura in Hope & glory, una canzone dai toni synth-pop e
breakbeat; inoltre la suadente voce femminile di Cat Power è viva in A kind of peace.
Infine, da The man in you ed Emergency evinciamo che la band, famosa per God is a DJ e
We come 1, ha salutato i giorni della gloria e va verso qualcos’altro di migliore, forse.
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Herbert 100 lbs
(23/01/07)
Il peso di 100 lbs nella cultura elettronica mondiale è ben più
gravoso di cento libbre. Herbert, DJ inglese, fa il suo esordio nel
1996 con questo album di elettronica techno, house e breakbeat.
Molto uptempo è difatti Rude, molto Nick Holder la seguente
Desire, molto Dave Angel la minimale Thinking of you. Matthew
Herbert utlizza synth soffici e beat ballabili, ricoperti da un manto
d’acidità, e la soft-techno entra in scena con Oo licky, poi è la volta
dell’electro cantata di Friday they dance e delle sperimentazioni
dance di Pen; il disco suona duro, specialmente nelle sue sezioni
prettamente ritmiche, lasciando ai pad e ai polisynth il compito di caratterizzare i brani.
Trascinante la title-track, spacca-woofer la seguente Take me back con un sample vocale
in levare, veloce e spinta Deeper, melodica e ricercata Resident, infine lunghissima (più di
quindici minuti) e sinfonica See you on Monday. 100 lbs, come alcuni altri lavori di quegli
anni, è un lavoro maestro, in quanto ha spianato la via a molti producer insegnando loro
tecniche e strutture musicali della nuova elettronica da ballo.
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Ennio Morricone The mission
(24/01/07)
L’omonimo film di Roland Joffé, scritto da Robert Bolt e interpretato
degnamente da Robert De Niro e Jeremy Irons aveva una colonna
sonora magistrale. Artefice delle musiche è infatti il guru dei
compositori di soundtrack Ennio Morricone. Cinque nomination e
un oscar alla carriera, Morricone compone venti brani e frammenti
di puro suono da film. La sigla iniziale del film è affidata a On Earth
as it in heaven, quella conclusiva al Miserere; i momenti speciali
dell’opera cinematografica si appoggiano invece ai cori delle
London Voices (dirette da Geoffrey Shaw) e del Barnet Schools
Choir (diretto da J. Maxwell Pryce) che esplodono in Ave Maria Guarani, Vita nostra,
River, The mission, Alone, Asuncion, The sword e Climb. Ma il tema del film, quello
famoso in tutto il mondo, è la suite per oboe di Gabriel’s oboe: toccante, romantica,
malinconica, struggente ed eroica. Per il resto Morricone sforna Remorse, Penance,
Refusal, Guarani, Te Deum Guarani, Brothers, Carlotta e Falls. Questa sì che è una
colonna sonora… Massimo rispetto a Ennio Morricone ed alla sua scuola!
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Zombie Nation Leichenschmaus
(25/01/07)
Quando gli Zombie Nation erano due, assicuravano prodotti techno
di altissimo livello. Non a caso Splank! e Mooner incarnano la
faccia dance dell’elettronica tedesca. Leichenschmaus è il loro
primo disco, fortemente influenzato dalla techno più trendy e dal
minimalismo in voga. Sta di fatto che questo album è un
capolavoro di elettronica. L’ouverture è affidata all’inimitabile
Kernkraft 400, una traccia che nessun DJ al mondo poteva
permettersi di non inserire in valigia. L’EP del brano è stato
pubblicato su vinile tra il 1999 e il 2000 in molteplici modi e con
differenti remix (su tutti quello di DJ Gius). Tornando all’album posso sostenere che sono
notevoli anche Rhythmbox e Breakitdown, sapientemente modulate con i vocoder;
accomodante e razionale Glam 25; poco punch in Automaerk; synth-funk Abflex user. Tutti
i sound sono estremamente ambigui: si va dal trip-hop all’electro, dall’IDM all’industrial,
tanto che è chill-out Velcrosquat light, quasi house Cars, completamente techno-pop The
stand, francamente noise The control e dub Sometimes up. Disco camaleontico.
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Bluvertigo Zero
(26/01/07)
Li ho sempre snobbati eppure solo oggi mi rendo conto di quanto
rispetto meritavano i Bluvertigo. Zero è il terzo album della strana
band, ormai scioltasi, capitanata da Morgan. Un disco di electrorock che ha cercato di importare il genere in Italia. La title-track è
un techno-pop irriverente ed egocentrico, La crisi modula linee di
sintetizzatore e stupra chitarre elettriche, Sono=Sono fa autoironia
senza badare a cosa pensi la comunità, La comprensione è
splendida e melodiosa, una canzone più vicina all’ultima tendenza
del frontman verso la musica impegnata. I sax, le chitarre, le
tastiere e i bassi acidi si mescolano con la lingua inglese in Finché saprai spiegarti, poi
Sovrappensiero è puro synth-pop, mentre Forse torna alla magia della batteria manuale e
Autofraintendimento al gusto del rumore. L’irriverenza si fa regola ne Lo psicopatico,
l’utilizzo della lingua d’oltremanica plasma Always crashing in the same, la strumentale
Porno muzik e la veloce Niente per scontato scoprono il piacere di suonare senza doppi
fini; l’album taglia il traguardo con il classicismo di Numero e Punto di non arrivo.
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MSTRKRFT The looks
(27/01/07)
I figli dei Daft Punk provengono dal Canada e si chiamano
MSTRKRFT (da leggersi Masterkraft). The looks è un disco
europeo più che nordamericano, visti i suoi continui ricorsi al
robovox, alla drum machine, alla tradizione electro-house e alla
matrice del french touch. Bastano otto brani - come in un LP - a
farci comprendere appieno le potenzialità del duo. Work on you
ricorda i Franz Ferdinand con la sola differenza che a cantare è un
robot, Easy love è un brano marcatamente electro-pop con
influenze che affondano le radici negli anni ‘80 telexiani e arrivano
ad Aphex Twin, She’s good for business è invece il pezzo americaneggiante dell’album,
dato che contiene una sezione vocale delegata a donne (tipo le backing vocals). Al quarto
posto della tracklist c’è Paris: è pleonastico affermare la voluta continuità con l’influenza
francese. The looks in fondo è una canzone leggermente sotto tono rispetto alle altre; ad
esempio Street justice e Bodywork rialzano subito il ritmo del disco attraverso beat degni
della migliore elettronica. Infine Neon knights (non ricorda Neon lights?) spacca.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Kyoto Jazz Massive Spirit of the sun
(28/01/07)
Il Giappone ha sempre dimostrato perseveranza in tutti gli ambiti
applicativi umani: dalla tecnologia alla cultura, dall’arte allo sport,
dal cinema alla moda. Per quanto riguarda la musica, i giapponesi
ce lo dimostrano con Spirit of the sun, l’unico vero album dei Kyoto
Jazz Massive. Noi che abbiamo sempre considerato il jazz un
fenomeno occidentale, di cui andare fieri, abbiamo la conferma che
il jazz si può esportare e si può imparare. Quest’album contiene
lunghi brani di nu-jazz, perlopiù cantati da Vanessa Freeman,
Maiya James, Victor Davis, Chris Franck e Guida De Palma. I
fratelli Okino inanellano così una decina di languide jam, da The brightness of these days
a Mind expansions, da Deep in your mind a Stargazer, da Eclipse a Between the lights.
Dalla magnificenza delle musiche è possibile intravedere colori e luci di tramonti, paesaggi
fatti di lussureggianti colline e mari turchese, bellissime donne in abito da sera e un
ensemble jazz che suona note esotiche. Shine, Substream e Behind the shadow
funkeggiano, i KJM si esaltano e le nostre orecchie sublimano.
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Frankie Hi-NRG MC La morte dei miracoli
(29/01/07)
Non c’è alcun dubbio che la laurea in filosofia di Francesco Di
Gesù sia meritata in pieno. Meglio conosciuto come Frankie HiNRG MC, il suo La morte dei miracoli rimane ad oggi il miglior
disco della tradizione rap italiana. Il capolavoro risiede soprattutto
nel testo di Quelli che benpensano (la base è di Ice One): una
rapsodia sui demeriti della classe borghese post-fascista e
ultracapitalista. Se Accendimi… è tonica e accattivante, e Manovra
a tenaglia è stilosa e scratchata, l’altra traccia imponente la
toviamo con Giù le mani da Caino, che denuncia l’uso e l’abuso
della pena di morte e dell’incarcerazione. Hardcore e sfarzosa Il beat come anestetico,
old-school La cattura, potente e ricercata Cali di tensione. La filosofia individualista e
realista si fa criterio autorale con Autrodafè (contenente una citazione dal capolavoro
cinematografico La haine) e Fili; gli interludi Note psichedeliche d’ambiente, Area 51 e
Cubetti tricolori spezzano e non stancano mai: tutt’al più insegnano. Frankie è un grande e
le sue idee, seppur discutibili, sono pur sempre coerenti e genuine.
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Scooter No time to chill
(30/01/07)
Happy hardcore, hard-techno, euro-dance: può definirsi in diversi
modi il genere che ha reso famosi i tedeschi Scooter, un trio di DJ
e vocalist che ha spopolato in Europa a fine anni ’90. No time to
chill è il disco della loro affermazione, lontano dagli echi fin troppo
speed dei primi lavori. Quest’album è un prodotto commerciale ma
ha tutto il merito d’esser stato uno dei primi esempi e, come tutti gli
esempi, gode dello status di “modello”. Impossibile non farsi
prendere dall’adrenalina sprigionata in How much is the fish? o Call
me mañana; difficile non battere il piede su We are the greatest o
Don’t stop; insensibile sarebbe invece non emozionarsi sulla riuscitissima cover di Eyes
without a face di Billy Idol. No time to chill non dà adito a stati di calma, è un intero viaggio
nel beat e nella techno culture. Quindi chitarre sintetizzate in I was made for lovin’ you,
voci dei muezzin in Frequent traveller, forza del groove in Hands up!, pad misteriosi in
Everything’s borrowed e pianoforte in Expecting more from Ratty. Un disco per ragazzini,
ma anch’io agli Scooter devo qualcosa della mia adolescenza.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Coldplay Parachutes
(31/01/07)
La band di Chris Martin salì sul palcoscenico europeo del rock
leggero con Parachutes. I Coldplay mi sono piaciuti dal primo
momento, dal primo videoclip, dal primo impatto, forse perché
proponevano un sound che si distaccava dal noioso brit-pop degli
Oasis e faceva sua la lezione dei Beatles. Tutti i brani del disco
sono strabilianti viaggi. Partiamo rassicurati dal sarcasmo di Don’t
panic e cominciamo a muovere la testa con Shiver; la nostalgia ci
serra il cuore con gli accordi di Spies e di Sparks, quindi
abbozziamo un sorriso dopo le parole grondanti emozione di
Yellow. Sarebbe sensazionale ascoltare queste canzoni in uno stereo a musicassette in
una sgangherata 500 mentre si viaggia sulle malinconiche strade dell’Inghilterra
settentrionale. E giù con High speed e We never change, e poi il brivido di Trouble e il
sentimento di Everything’s not lost. Chi ha investito sui Coldplay è stato lungimirante e la
dimostrazione sta nell’ultimo X&Y, il disco con cui la band ha saputo rinnovarsi nel segno
della maturità dopo l’altalenante A rush of blood to the head. Bravi Coldplay.
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Miles Davis Dark magus
(01/02/07)
Miles Davis è stato uno dei jazzisti più saggi del secolo scorso. Ha
creato nuove istanze, ha superato vecchi paradigmi, ha
contaminato il jazz, ha esportato la musica negra e l’ha resa
partecipe delle tradizioni musicali più disparate. Il suo magnifico
concerto del 30 marzo 1974 alla Carnegie Hall di New York è stato
registrato per dar vita tre anni dopo a Dark magus, uno spazio di
pura improvvisazione e di genuina musicalità. Davis ovviamente
alla tromba (e all’organo Yamaha), David Liebman e Azar
Lawrence ai sassofoni, Peter Cosey, Reggie Lucas e Dominique
Gaumont alle chitarre, Michael Henderson al basso, Al Foster alla batteria e James
Mitume alle percussioni: questo l’entourage del live. Lunghe suite di progressive-jazz
rompono il frastuono degli astanti. Per cominciare i venticinque minuti di Moja, a seguire
gli altri venticinque di Wili. Chiaramente l’opera è divisa in due LP; sul secondo infatti ci
sono altrettanti venticinque minuti con Tatu (con Calypso Frelimo) e con Nne (con Ife).
Dark magus rappresenta il Miles Davis sperimentatore e purista al tempo stesso.
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Chris Clark Empty the bones of you
(02/02/07)
Godere del rumore, saperlo manipolare, estrapolarne l’intrinseca
musicalità. È questo l’obiettivo di Chris Clark, genio incantatore
della famigerata Warp Records. Empty the bones of you è la
seconda opera solista e racchiude evoluzioni glitch, IDM e letfield.
L’arte astratta e minimalista ci incoraggia a premere play sul lettore
CD. Parte Indigo optimus e pare non lasciare speranze di quiete
alle nostre orecchie; il progetto decostruttivista continua quindi con
Holiday as brutality; va però anzitutto anticipato che qui il noise non
è fine a se stesso ma è funzione dell’arte e della tecnologia.
L’ambient decadente di Empty the bones of you, la ricerca esasperata di Early moss, lo
strapiombo musicale di Tyran danno così la garanzia di un album pieno e fragoroso. Di
sicuro non mancano gli accenti più soffici e accoglienti di Tyre, The sun too slow e
Farewell track (tipici di Clarence Park) ma il ruolo preponderante spetta al glitch di Wolf,
Slow spines, Umbilical hut e Gavel: (obliterated). Se poi pensate che il vostro CD player si
sia inceppato su Gob coitus o Betty sbagliate. È solo l’estetica dell’errore.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Ivan Graziani Ballata per 4 stagioni
(03/02/07)
Ciò che ha fatto Ivan Graziani, avevano provato a farlo già in tanti
prima di lui, con risultati per la maggiore ambivalenti. L’obiettivo era
cantare le quattro stagioni per creare una metafora della vita, della
quotidianità, delle esperienze personali. Il cantautore abruzzese
conosciuto più per le sue volgari provocazioni che per l’estro delle
sue creature, pubblica nel 1976 Ballata per 4 stagioni, considerato
il suo primo vero album. La voce spesso in falsetto e l’atipicità della
sua chitarra fanno di questo disco il perfetto risultato
dell’esperimento sopra menzionato. Dimmi ci credi tu? e Il mio
cerchio azzurro competono per un lungo preludio a I giorni di novembre: Graziani canta le
donne che ha incontrato o sognato nella sua vita, a volte con irruenza, più spesso con
soavità (come nella title-track). Ottime quindi Donna della terra e Il campo della fiera; e in
scioltezza se ne vanno La pazza sul fiume e Come; molto 70’s l’apparato strumentale,
specie in Trench ed in E sei così bella, dove addirittura si sentono reminiscenze country.
Scomodo, sottovalutato, diverso: né il pubblico né la critica lo hanno mai compreso.
•
Banco Buone notizie
(04/02/07)
Il rock è fatto di rockstar, ma di Banco ce n’è uno solo. Questo è il
pensiero di Francesco Di Giacomo, eccentrica voce del Banco Del
Mutuo Soccorso, la band che più di tutte ha saputo mantenere
intatte e a volte evolvere le matrici del rock progressivo. In pratica,
un mito. Avvicinati spesso a grandi come Emerson, Lake & Palmer,
Jethro Tull o King Crimson, il Banco pubblicò nell’oramai lontano
1981 Buone notizie, un disco meraviglioso di vero pop. Il ritmo
sempre coinvolgente, gli assoli magnifici, la sorprendente voce
autodidatta del Di Giacomo, i testi a tratti malinconici e sempre
letterari. L’album parte con Taxi e la paura di una nuova guerra mondiale, poi Canzone
d’amore (che non ha nulla di patetico) scherza sulla televisione a colori, ancora Sì, ma sì
dove la ritmica si fa sconvolgente. Buonanotte, sogni d’oro spiazza l’ascoltatore e gli infila
in testa un motivo difficile da dimenticare, Baciami Alfredo rompe i tabù, Michele e il treno
spacca il cuore in un accorato bisogno d’affetto. E dopo la strumentale AM-FM, il Banco
scongiura la guerra mondiale con la title-track: queste sì che sono buone notizie.
•
Mylo Destroy rock & roll
(05/02/07)
Mylo è un bravo DJ inglese che è stato capace di accatastare brani
da discoteca in un album dal sapore molto pop. L’obiettivo di
Destroy rock & roll è chiaro già nel titolo stesso: abbattere l’ormai
vetusta tendenza rock a vantaggio di quella elettronica, oramai
nettamente più cool e trendy. I conoscitori più bravi troveranno nel
disco diversi campioni di canzoni pop anni ’80, come in In my arms
(il sample è di Bette Davis eyes di Kim Carnes) o in Destroy rock &
roll (il sample è di Negativland di Michael Jackson) od ancora in
Need you tonite (il sample è di Stay with me til dawn di Judie
Tzuke). La traccia che ha fatto conoscere il disco nel mondo è però stata la rivisitazione di
Dr. Beat di Gloria Estefan, qui ribattezzata Drop the pressure (un seguente rework si
chiamerà Doctor Pressure). Per il resto, gli altri brani come Rikki, Otto’s journey,
Sunworshipper, Muscle cars e Paris four hundred scorrono piacevoli e ritmate dentro le
nostre trombe di eustachio. Se non si è capito ancora, Destroy rock & roll è l’album giusto
per chi vuole ballare per una volta al di là della moderna minimal vague.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Alva Noto & Ryuichi Sakamoto Vrioon
(06/02/07)
Oserei dire che Vrioon è un disco delizioso. Mai sopra le righe, mai
una sbavatura, mai una licenza ai soliti canoni, un disco che sa
mischiare in maniera perfetta il suono caldo e risonante del caro
buon vecchio pianoforte e gli errori di frequenza della più
avanguardistica corrente glitch europea. Gli autori del progetto non
potevano che essere Alva Noto, guru del rumore, e Ryuichi
Sakamoto, genio del pianoforte a coda. Dalla commistione di
generi e tecniche provenienti dai rispettivi artisti ne esce un album
che coniuga la funzionalità del relax alla fragranza della melodia.
Tutti i brani (solo sei, ma quasi tutti molto lunghi), da Uoon I a Noon, da Duoon a Trioon II,
ci trasportano in una dimensione parallela fatta di astrattismo e surrealismo, di fredda
razionalità e cibernetico sentimentalismo post-moderno. L’effetto che i suoni provocano
all’organismo umano è difficile da recuperare con le parole, forse a causa di quelle
dannate sequenze glitch che imprigionano la mente dell’ascoltatore in una musica fatta
non più di corde e tasti, bensì di pura immaginazione. Un disco assurdo e magnifico.
•
Ligabue Ligabue
(07/02/07)
Chiunque si professi un estimatore di Luciano Ligabue, non può
negare che il suo primo album è stato una doccia fredda. Uno
shock, un colpo di fulmine, una scoperta, una crescita. Balliamo sul
mondo dilata le vene e provoca il mal di testa (nel senso buono,
ovviamente), il ritmo di Bambolina e barracuda ci prende e ci
scuote, poi la dolcezza e la spensierata nostalgia di Piccola stella
senza cielo stacca la spina e genera un effetto di stordimento
sentimentale: è il punto in cui l’ascoltatore potrebbe anche
piangere. Un campione del film Amici miei introduce Marlon Brando
è sempre lui, una ballad dall’odore molto rock che in fondo racconta delle storie di giovani
utopisti; la vita di provincia sarà una costante dell’opera di Ligabue (ben visibile nei suoi
film). D’obbligo ascoltare Non è tempo per noi e Sogni di r’n’r per chi intenda assistere ad
un live; storica, quasi mitologica, la sempreverde Bar Mario (il luogo d’incontro di qualsiasi
provincia); poco conosciute agli occhi della massa ma non per questo meno importanti le
altre Radio radianti, Figlio d’un cane e Angelo della nebbia.
•
(08/02/07)
Mike Oldfield Crises
Crises (1983) è il frutto della rinnovata vena creativa di Mike
Oldfield, un ottimo compromesso tra qualità e commercialità,
aspetto che non mancò di suscitare attacchi da parte della critica.
La struttura dell’album è invariata rispetto al precedente Five miles
out: una suite più una manciata di brevi brani. La suite è la titletrack, un pezzo perlopiù strumentale (tranne qualche sporadico
intervento cantato dallo stesso compositore) dove i synth di
Oldfield, innamoratosi in quel periodo del Fairlight, e il terremotante
drumming del veterano Simon Phillips creano una miscela sonora
esplosiva. Anche i pezzi brevi sono tutti di ottimo livello. Si parte con la celeberrima hit
Moonlight shadow, una delle migliori pop-song di tutti i tempi, cantata da Maggie Reilly, la
cui indubbia orecchiabilità si sposa con un’esaltante prestazione chitarristica di Oldfield.
Dopo In high places la Reilly torna con Foreign affair, altro celebre hit-single
dall’arrangiamento geniale. Penultimo brano è lo strumentale Taurus III, in cui Oldfield
sfodera tutta la sua maestria chitarristica; chiude il disco l’aspra Shadow on the wall.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Koop Koop Islands
(09/02/07)
Un ritorno più che magico quello degli svedesi Koop con l’ultimo
Koop Islands, un album di jazz retró contaminato dall’elettronica più
sofisticata di stampo mitteleuropeo. Tutto comincia con Koop Island
blues, un dolce mix di clarinetto, mandolino, marimba e trombone,
dove la voce di Ane Brun tocca gli spazi più remoti dell’anima; a
seguire incontriamo Come to me, ritmatissimo divertissement per
cuori solitari. I Koop decidono di superarsi con Forces… darling,
cantata da Earl Zinger, in cui percussioni e archi creano un
ectoplasmatico mondo di esili ballerine e intriganti escort, di laidi
bevitori e romantici signori d’alta società. Le membra continuano a divertirsi e ballare con I
see a different you ed il cuore innamorato non può smettere di rasentare l’infarto con
questo jazz; la musica permea ogni ambiente, i vibrafoni prendono fuoco, le vocalist
sussultano. Let’s elope ci riempe addirittura di saudade, il flauto di The moonbounce
sembra provenire dai musical del Moulin Rouge, Beyond the son ci tranquillizza,
Whenever there is you ci affascina. Adesso sì che possiamo innamorare.
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Franco Battiato Il vuoto
(10/02/07)
Contento come un bambinetto, sono appena tornato dal centro
commerciale dopo aver acquistato il nuovo grande lavoro
dell’egregio Battiato. Il lettore CD mi presenta una tracklist fatta di
colori e stagioni, di pressioni e stress quotidiani, di sfoghi e
poetiche immagini. Il vuoto è ciò che ci circonda in questo tempo di
frette ansiolitiche: dobbiamo ritrovare la nostra misura personale.
Questo è in sintesi il messaggio che il cantautore siciliano cerca
invano di inculcarci attraverso I giorni della monotonia, Aspettando
l’estate, Tiepido aprile, Era l’inizio della primavera o The game is
over. Le musiche, come sempre curate dal maestro, spaziano dalla classica in stile
Čajkovskiy all’elettronica dei Chemical Brothers (anche se questi non erano ancora nati
quando Battiato già sperimentava l’elettronica); i testi scritti a quattro mani col
sempreverde filosofo Manlio Sgalambro paiono provenire dalle trame stilnovistiche e dai
remoti spazi mongoli. “Niente è come sembra” anticipa il film, “Io chi sono?” si interroga
sulla sconfitta dell’identità, “Stati di gioia” ci apre una luce. Di speranza.
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(11/02/07)
The Verve Urban hymns
Usciti nel 1997 e prodotti da Chris Potter, gli Inni cittadini non
tradiscono le attese del titolo. La partenza dei Verve è
semplicemente orgasmica: Bitter sweet symphony è probabilmente
una delle migliori hit del brit-pop, un vero e proprio inno. Il secondo
singolo è The drugs don’t work, una ballad d’amore melodica ed
emozionante; importantissima e molto originale, nella maggior
parte delle canzoni, l’innovazione dovuta all’ingresso dei violini. I
temi dell’album, vissuti ed interpretati da Richard Ashcroft, sono
prevalentemente l’amore, la vita, la morte, gli eccessi e i
sentimenti. L’atmosfera che si respira si va a rispecchiare nello stato d’animo dell’esile
cantante stesso. Tuttavia, in Lucky man si respira una confortante aria di ottimismo e la
voce trascinata di Ashcroft esprime bene la sensazione d’essere diventato un uomo felice.
Urban hymns racchiude in sé anche tentativi di elaborazione psichedelica con Neon
wilderness e Velvet morning, esperimenti hard-rock come The rolling people e Come on e
risoluzioni più pop con il quarto ed ultimo singolo, ovvero la splendida Sonnet.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Rexanthony Earthquake
(12/02/07)
Maestro dell’utilizzo del sintetizzatore nella hardcore, l’italianissimo
Rexanthony (all’anagrafe Anthony Bartoccetti), pubblica nel 1998
un doppio CD dalla tracklist alquanto esplosiva. Earthquake è un
vero e proprio coacervo di hard-trance, acid-techno, speedcore,
hardcore, gabber e dark-electro. Alcuni pezzi, entrati di diritto nella
storia del clubbing italiano, hanno favorito l’espandersi del mito
della movida italiana; basti pensare a Cocoacceleration, canzone
ufficiale dello storico Cocoricò di Riccione o a Live in Rome,
soundtrack delle notti brave in capitale. Rexanthony rivede poi la
beethoveniana X Elisa, chiaramente in chiave speed, e poi le grandi Technoshock 3,
Russian trance, Combat, For you Marlene, This is a trip, Vertigo, Equinoxe party e Drink &
sex (without xs). Il musicista non dimentica però i grandi eventi techno del nord europeo,
come il Thunderdrome, l’Evolution, il Gilgamesh, il Victory, la Love Parade ecc.,
sequenziando tracce di pura follia come Futureshock five, Thunderdrome, Rotterdam is
dead o Distorted train. Insomma, un disco per fare casino e perdere la coscienza.
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Grandmaster Flash & The Furious Five The message
(13/02/07)
Grandmaster Flash (all'anagrafe Joseph Saddler) è stato uno dei
padri fondatori della musica hip-hop e nello specifico un famoso DJ
pioniere. Ha contribuito a quest’ultima disciplina come ideatore di
alcune tra le fondamentali tecniche di scratching e mixing come il
cutting, il backspinning e il punch-praising. Il suo successo inizia a
farsi sensibile negli anni Settanta con il gruppo dei Furious Five e
nel 1982 nasce il bel The message, un lavoro incentrato sul disagio
urbano da parte delle classi meno abbienti. Vero hip-hop di strada,
sempre a contatto con i problemi reali d’una quotidianità fatta di
piccole e grandi battaglie. She’s fresh e It’s nasty danno un tono di colore al grigiore dei
ghetti americani, Scorpio e It’s a shame sono più acide ed elettroniche, Dreamin’ e You
are sono poi le prove empiriche dell’immenso talento di Grandmaster Flash e
dell’incessante muoversi delle dita sue; infine la title-track è un 4/4 di rap cantato. Nella
versione inglese del long-playing appare anche la virtuosistica The adventures of
Grandmaster Flash on the wheels of steel. Perché Grandmaster Flash è l’hip-hop.
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Carla Bruni Quelqu’un m’a dit
(14/02/07)
Un po’ snob ma pur sempre una donna intrigante ed intelligente.
Carla Bruni, a sorpresa, pubblicò pochi anni fa un disco che fece
storcere il naso a molti puristi. Come poteva una top-model scrivere
interamente un disco “impegnato”? La realtà ha dato ragione
all’emigrata italiana ed il risultato è un album soffice, dolce e per
niente ambizioso. Quelqu’un m’a dit ruba molto alla tradizione dei
cantanti francesi (su tutti Françoise Hardy) e le musiche, quasi tutte
per chitarra sola, vestono in maniera essenziale e riflessiva le
parole (tutte cantate con note bassissime) della Bruni. La title-track
la conosceranno tutti ma, più di questa, sono da ricordare le romantiche Tout le monde, La
noyée, J’en connais e Chanson triste; molto più allegre e spensierate Le plus beau du
quartier, Raphaël e L’excessive. Carla Bruni trova anche la forza di rimaneggiare, senza
principio d’autorità, la più famosa canzone di Gino Paoli, Le ciel dans une chambre.
Speriamo che la bellissima Carla non si dimentichi definitivamente l’italiano e l’Italia visto
che il suo secondo album è in inglese.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Ladytron 604
(15/02/07)
Electro di nobile fattura, synth-pop di ricercata vena creativa,
ambient sporco e digitalizzato. I quattro personaggi che si celano
dietro il nome Ladytron propongono nel 2001 questo disco dagli
odori nettamente elettronici, senza cedere troppo facilmente alla
tendenza dance. Mu-tron di sicuro non ci rilassa, Discotrax è una
divertentissima ballad electro-pop con inserti vocali in lingua slava,
Another breakfast with you è in bilico fra big beat e breakbeat,
CSKA Sofia riduce la tensione accumulatasi nei primi brani ed
introduce la meravigliosa The way that I found you, canzone
d’amore del nuovo millennio. Torna il divertimento assordante con Paco! e il gusto vintage
con Commodore rock (chiaramente i suoni appartengono alla famosa consolle); Zmeyka è
stramba; Playgirl (il brano più famoso di questo 604) non disdegna l’impianto disco-pop;
I’m with the pilots stavolta rockeggia e poi This is our sound palesa con orgoglio lo stile dei
Ladytron. Infine He took her to a movie plagia Das Model dei Kraftwerk mentre Ladybird e
Jet age danneggiano irrimediabilmente lo stereo. Avanti così Ladytron!
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Samuele Bersani Freak
(16/02/07)
Testi disarmanti su musiche il più delle volte splendide. Samuele
Bersani, alla sua seconda prova, pubblica nel 1995 Freak, un disco
che non rinuncia a più o meno velate frecciate alla politica e ai
luoghi comuni. Proprio la title-track prende in giro quelle banali
euforie dovute all’acquisizione di nuove esperienze, quei progetti
così improbabili da sembrare infantili. Né con la destra ma
nemmeno col PCI: così canta Bersani. Il secondo brano
Spaccacuore è, a mio avviso, un autentico capolavoro di canzone
d’amore che sfugge a qualsiasi schematizzazione e a qualsivoglia
buonismo (il pezzo è stato oggi violentato dalla Pausini). Dopo che Fedina penale gioca su
come sia facile (difficile per chi ha il deretano al riparo) cadere in disgrazia per via della
legge, il disco comincia a scemare musicalmente (abbastanza anonime Cado giù, Il leone
e la gallina, Piccolo macellaio e Capo). Ci pensa la fisarmonica de La fine di una storia e la
denuncia seria e spietata di Barcarola albanese a rialzare di nuovo lo standard dell’album.
In fondo Bersani è così: slanci geniali e imperdonabili cadute di stile.
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Doors L.A. woman
(17/02/07)
La leggenda del rock old-school affonda la sua verità nella
discografia dei Doors, la band del’idolatrato Jim Morrison.
Considero L.A. woman il più bell’album del gruppo, capace di
scostarsi dal paradigma beat per immergersi in un nuovo mondo
fatto soprattutto di organo hammond e basso. The changeling è
arrabbiata e sentita, Love her madly è semplicemente meravigliosa
(tra l’altro ricorda molto Elvis Presley), Been down so long spazia
dal blues al soul, Cars hiss by my window si mette stavolta a
performare jazz. Non c’è che dire: L.A. woman è un disco davvero
eclettico, tanto che la title-track arriva addirittura al country duro e puro. L’America (chissà
perché questo titolo?) torna alle origini evocative del rock’n’roll, Hyacinth house è una
ballad poetica e leggera, Crawling king snake è poi la perfetta sintesi di blues e rock
(pensate a James Brown, tanto per capirci), infine The W.A.S.P. e Riders on the snake si
cimentano nuovamente nell’uso ossessivo dell’organo come strumento portante (le
tradizioni musicali del Texas e il beat). L.A. woman è un disco che appartiene alla storia.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Michael Brook Hybrid
(18/02/07)
Interamente prodotto da Brian Eno, Hybrid è il primo album della
discografia di Michael Brook (1985), un veterano del movimento
ambient. Minimalismo e ambientalismo si fondono in un abbraccio
elettronico di forte presa, un’elettronica pensata più per l’ascolto
che per la ricerca sonora. Difatti il primo brano, che dà il titolo
all’opera, è un pezzo fortemente percussivo con rimandi agli ottoni
e agli archi; Distant village accenna poi un leggero beat, sempre
attraverso le percussioni elettroniche; e ancora l’orchestralità
eniana di Mimosa. Brian Eno, assieme a Daniel Lanois, ha
coadiuvato Brook nella composizione e negli arrangiamenti: infatti l’impronta del folle genio
è fortissima in brani come Pond life (musica fatta di natura) ed Ocean motion (esattamente
il riprodursi del moto ondoso). Midday, Earth floor e Vacant lasciano inoltre intravedere - in
lontananza - le chitarre, senza mai esulare dall’importanza degli strumenti elettronici, in
particolar modo le percussioni, praticamente una costante di Hybrid. In fin dei conti, un
album di vera ambient, non come quella che spacciano oggi dilatando i suoni.
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Matmos The rose has teeth in the mouth of a beast
(19/02/07)
La follia in musica si chiama Matmos, un duo americano che nel
2006 ha pubblicato il suo ultimo album dal titolo surreale. Anche i
brani godono di un loro intrinseco dadaismo fatto di collage di brani
filosofici, campioni musicali, chitarre massacrate, tempi dispari,
fogli, penne, macchine da scrivere, tubi utilizzati come strumenti,
theremin, videotape: insomma tutto ciò che produce rumore. Il
ritmo dance di Steam and sequins for Larry Levan è in contropartita
col noise di Public sex for Boyd McDonald, la musica spicciola di
Roses and teeth for Ludwig Wittgenstein è bilanciata dal 4/4 di
Tract for Valerie Solanas. Il pezzo a mio avviso più fantasioso è certamente Snails and
lasers for Patricia Highsmith, una jam-session di jazz improbabile; assurde poi Germs burn
for Darby Crash e Solo buttons for Joe Meek, incosciente l’uso di bicchieri, salse e frutti in
Banquet for King Ludwig II of Bavaria. Concludendo, i Matmos sono da rinchiudere in un
manicomio criminale perché la mente dei comuni mortali è impossibilitata a concepire
progetti artistici del genere. Questo è un disco confuso ed inconfondibile.
•
(20/02/07)
Rondò Veneziano Odissea veneziana
L’ensemble tutto italiano dei Rondò Veneziano (una discografia
lunghissima) è apprezzato molto più all’estero (Svizzera, Belgio,
Lussemburgo) che in patria. Odissea veneziana è uno dei dischi
tipo del settecentesco gruppo, capeggiato dall’intramontabile Gian
Piero Reverberi. Violini, viole, violoncelli, oboe e flauti traversi sono
accompagnati da batterie, bassi elettrici e tastiere in un rework
pop-rock di arie più che altro di tradizione barocca. La title-track
smuove subito gli animi, così come Bettina e L’orientale (grandiosi i
riff di chitarra); molto più pacate Sogno veneziano e Preludio
all’amore. Dopo il primo interludio si cominciano a godere i clavicembali (Cecilia) e i violini
(Casanova), e poi il grande classicismo vivaldiano di Donna Lucrezia, l’adagio in stile
Albinoni di Nostalgia di Venezia e la sacralità galuppiana di Giardino incantato. Rosso
veneziano, Nuovi orizzonti e Rosaura infuocano le corde degli archi e la nostalgia si fa
lifestyle. Vedrei bene queste musiche come sottofondo ad intriganti pellicole porno, firmate
magari da qualche grande autore del genere. Musica da riabilitare in toto.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Avion Travel Danson metropoli: canzoni di Paolo Conte
(21/02/07)
Un lavoro encomiabile quello che gli Avion Travel hanno fatto su
canzoni più o meno note dell’avvocato d’Asti. Danson metropoli
(dall’album Una faccia in prestito) canta la Napoli rumorosa e
facinorosa degli anni ‘90, poi l’elettronica arriva in soccorso di Cosa
sai di me? dove la voce non cade stavolta in inflessioni campane,
fino al rifacimento di Aguaplano dove ai fiati e alle percussioni
originali si sostituiscono veloci batterie e chitarre elettriche. Paolo
Conte e Gianna Nannini concorrono con gli Avion Travel a cantare
la splendida Elisir, decisamente rock; magnifica Un vecchio errore,
qui ancora più intimista della versione sorgente; Max si lascia alle spalle lo spolvero degli
archi e si rimette in discussione con le distorsioni elettriche. La partenopea
Spassiunatamente e l’astigiana Sijmadicandhapajiee rispettano amabilmente i canoni di
Conte, mentre Languida guadagna in intimismo e Blue Haways, in una veste swing,
cambia totalmente la sua forma. Infine l’inedita Il giudizio di Paride, regalata dallo stesso
cantautore alla band casertana, impreziosisce un disco già di per sé perfetto.
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Kevin Yost Future flashback
(22/02/07)
Mirabile jazz quello di Kevin Yost! Passato dalla sweet-house di
One starry night al nu-jazz di questo Future flashback, notiamo un
crescendo di maturità e talento. Il disco in questione è - lo dice il
titolo - un flashback al contrario, ovvero una rivisitazione delle
moderne istanze jazz in un’ottica dinamica di lungo raggio; e
speriamo che tra vent’anni il jazz sia così. Grandi impianti
elettronici si vanno ad integrare a sottili riff di sax e tromba, di
pianoforte elettrico e organo. Pendulum apre l’album in maniera
sfarzosa, Close to you ritocca la bossa nova, in Deep inside my
soul riecheggia il samba; What is cool, Falling down e Day by day ripartono invece dalla
house jazzy. Yost, americano europeizzato, passa alla chill-out da Buddha-Bar con
Welcome home e al veloce discorso funky-jazz con Ever after you; difatti il groove è un
elemento irrinunciabile e la sua animosità è tanta in What if I, Free e Rush hour. Un
discorso a parte meritano la meravigliosa Laidback lady, quasi una jam-session, e Truth
be told, con la base hip-hop. Infine Take me back, ma Kevin Yost ha già detto tutto.
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Nat “King” Cole Nat “King” Cole Trio
(23/02/07)
Formato da Nat King Cole al pianoforte, Oscar Moore alla chitarra
e Wesley Prince al basso, il Nat King Cole Trio suonò a Los
Angeles durante l’ultima parte degli anni ‘30 e registrò molte
sessioni radiofoniche. La formazione di piano, basso e chitarra,
rivoluzionaria all’epoca delle big band, divenne popolare
nell’ambiente del jazz e fu imitata da molti musicisti. Cole non
raggiunse il grande successo fino a quando non incise Sweet
Lorraine, nel 1940, racchiusa in questo LP della Decca. Nel disco
tutte le perle di quegli anni si mischiano al fruscio del vinile; leggera
e romantica Mona Lisa, dirompente Hit that jive, Jack, allegra e spensierata Honeysuckle
rose, cadenzata e leziosa That ain’t right, nostalgica This will make you laugh, ritmata e
imprevedibile I got a penny, Benny. Ascoltare oggi questo tipo di jazz, contemporaneo al
nascente be-bop di Thelonious Monk, ci permette di fermarci e riflettere su un periodo
ambiguo, fatto di apertheid e bella vita, di night club e vera signorilità. E pensare che pur
andando fiero della sua dizione, Cole non si considerò mai un grande cantante. Peccato.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Adriano Celentano Non mi dir
(24/02/07)
Sono cinquanta anni che Adriano Celentano è in attività:
effettivamente non sono pochi e coprono un arco di tempo che ha
visto tanti degli sconvolgimenti che hanno costruito l’intero ‘900.
Non mi dir è il primo long playing ufficiale contenente molte delle
canzoni che lo hanno reso una star nei confini nazionali, da Stai
lontana da me a Sei rimasta sola, da Grazie, prego, scusi a Ciao
ragazzi, da Pregherò (cover di Stand by me) alla bonus track
Amami e baciami. La leggerezza dei temi trattati e l’esaltazione del
melodismo fanno di questo album un prodotto perfetto per il
mercato di quegli anni: dopo la tremenda esperienza della guerra, in piena ricostruzione, il
popolo italiano aveva bisogno di rilassarsi, ballare, avere un idolo e non più macerarsi in
questioni di pura sopravvivenza. L’Italia cominciava la sua marcia verso una vastissima
industrializzazione e Celentano, nel bene e nel male, ha colto il momento e ha
rappresentato il popolino. Diversamente da oggi, dove la sua figura, sopravvalutata,
continua a costruire un personaggio vuoto, banale e davvero ignorante.
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CSS CSS (Cansei de Ser Sexy)
(25/02/07)
Stanche di esser sexy. In effetti queste giovani brasiliane non sono
un esempio di bellezza greca ma nel loro primo e unico disco
divertono sul serio. CSS, acronimo di Cansei De Ser Sexy, è un
bell’album di electro-pop; il lancio avvenne qualche mese fa con
Let’s make love and listen to death from above, seguito
ultimamente da Alcohol. Anche gli altri brani sono spensierate
canzonette su temi sprezzanti, con musiche quasi sempre guidate
da bei synth e da basi molto ballabili. Fuckoff is not the only thing
you have to show si muove bene fra vocoder e bass-line, Alala è
decisamente più rock grazie a pesanti distorsioni elettriche, Meeting Paris Hilton
(ovviamente sarcastica) sembra un brano dei Telex; il disco non lascia molto spazio alla
riflessione, è un susseguirsi di ritmo e buone interpretazioni: vedi Bezzi o Off the hook.
Superata la metà del disco la storia non cambia e il noise si fa più imponente (Art bitch e
Superafim); divertentissime Acho um pouco bon (in lingua madre) e Computer heat;
leggermente più impegnate This month, day 10 e Poney honey money. Da ballare.
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Alice Azimut
(26/02/07)
Tre o quattro sono gli album importanti di Alice, brava cantante pop
degli anni ’80. Lanciata da Franco Battiato col tormentone Per
Elisa, il terzo album della sua discografia è questo Azimut, un
punto lontano, inesistente, eppure un punto di riferimento per
qualsiasi viaggiatore di terra, di mare e d’aria. I pianoforti di Azimut
e A cosa pensano, adagiati su sezioni ritmiche prettamente pop,
sono lo sfondo perfetto di un prodotto sicuramente commerciale
che non disdegna però l’impegno autorale. Molto candida Animali
d’America, con curati riff di sassofono; nettamente più movimentata
Deciditi; famosa e fin troppo esplicita Messaggio. La voce da maschiaccio di Alice sa
diventare dolce e suadente quando incontra i testi de La mano (arrangiata da Eugenio
Finardi), oppure lontanamente new-wave con Principessa, quindi stupenda e ricercata in
Laura degli specchi. Azimut contiene anche l’interpretazione di Chan-son egocentrique,
cavallo di battaglia del Battiato anni Ottanta. È un disco che la critica ben vuole perché
frutto di un tipo di artista abbastanza raro e fuori dal comune in Italia.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Kodŏ Sai-sō
(27/02/07)
I Kodŏ sono un gruppo giapponese di Sado col pallino per i tamburi
taiko. Stando a quanto dicono, il taiko trasforma in suono i
sentimenti del suonatore, mette in comunicazione una persona con
gli altri, con la natura, con Dio. Effettivamente il talento di questo
numeroso collettivo è illimitato, ma Sai-sō è il loro album di remix,
quindi una commistione di folk nipponico ed elettronica occidentale.
Assolutamente perfetto il remix di Strobe di Nanafushi dove le
percussioni e le grida possono infiammare qualsiasi dancefloor
house; fortemente breakbeat il rework di DJ Krush di Ibuki;
vagamente d’n’b invece la versione di David Baron, David Beal e Lindsay Jehan di Wax
off. Dopo un interludio firmato da Kevin Yost, è la volta del remix di Wax on, in bilico fra big
beat e funky; la jungle si fa vivida con Nobi, dopodiché si torna alla house di Strobe che
rimaneggia The hunted. A completare il quadro ci pensano i rework di Bill Laswell di
Nanafushi e The hunted, entrambi dub, e una base tribal-house di Strobe. Sai-sō va
ascoltato in discoteca mentre i Kodŏ vanno ascoltati dal vivo: fidatevi.
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Mauricio Kagel Die Stücke der Windrose
(28/02/07)
Argentino di nascita ma tedesco d’adozione, Mauricio Kagel, con
Die Stücke der Windrose, partorisce il suo capolavoro, un ipotetico
viaggio attraverso le diverse culture musicali, in un percorso che,
da geografico, si fa musicale e sottolinea per ogni cultura gli
elementi di coesione con le altre. Quest’opera è la risposta ad un
certo tipo di egemonia culturale europea residente nella
consapevolezza dell’esistenza di differenti realtà, che può
esprimersi anche semplicemente attraverso il gesto. Ogni punto dei
quattro quadranti richiede, secondo Kagel, un’esplorazione
complessa. Metterla in musica sempre con lo stesso organico di clarinetto, pianoforte,
armonium, due violini, viola, violoncello e contrabbasso, dove soltanto le percussioni
mutano strumentazione di brano in brano, è rimasta una sfida costante nella realizzazione
di tutto il ciclo (cinque capitoli). L’esecuzione musicale, a partire dai titoli “geografici” dei
singoli brani (Osten, Nordwesten, Norden, Süden), crea una toccante teatralità: ogni pezzo
termina con la contemplazione di un punto mobile dello spazio. Arte con la A maiuscola.
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Everything But The Girl Like the deserts miss the rain
(01/03/07)
Questa è una lunga ed esaustiva raccolta - fatta a dovere - degli
storici Everything But The Girl (cercatevi il significato del nome
della band); spazia infatti dai loro tormentoni radiofonici ai remix,
dalle ballate ai pezzi maggiormente easy listening. Molto brasiliane
le prime My head is my only house unless it rains e Rollercoaster,
ma l’incanto viene presto rotto dalla verace jungle di Corcovado e
dal samba-swing di Each and every one. È difficile etichettare
questo disco, viste le molteplici anime di cui è composto; Chicane
passa così a remixare in chiave chill-out la bellissima Before today
mentre Mine crea un incantesimo pop. L’electro di Protection e il remix di Photek (un genio
della d’n’b) di Single ben si prestano alla peculiarità eclettica degli Everything But The Girl;
se pensate che manchi l’house vi sbagliate: ci pensa Lazy Dog a remixare Tracy in my
room e Todd Terry a rivisitare Missing (remix entrato nella storia). Tra jazz e soul Almost
blue, giustamente trip-hop No difference, ancora pop con Cross my heart, molto r’n’b
Mirrorball, love-song A piece of my mind, jungle Walking wounded. Di tutto.
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Fabrizio De André Storia di un impiegato
(02/03/07)
Un altro capolavoro di Fabrizio De André, uscito nel 1973, a cinque
anni di distanza dai moti del ’68, visti qui con un occhio lontano e
critico. Ogni rivoluzione crea nuovi burocrati, quindi tutti gli eccessi
sessantottini, condivisi da De André, vengono qui studiati in chiave
critica. Un impiegato alienato, schifato e affascinato dagli ingrati del
benessere francese, decide di darsi alla distruzione dei sistemi
sociali acquisiti. Ma il Potere lo manipola (basti ricordare le stragi
dei N.A.R.) e gli fa commettere reati utili al sistema stesso.
L’impiegato, deluso dalla fregatura insita, mette una bomba al
Parlamento ma, ahimé, sbaglia obiettivo e uccide una donna; stavolta il Potere lo
incarcera perché la sua professione eversiva non è più funzionale al sistema. Solo alla fine
l’impiegato capirà qual è la vera libertà. Una volta incarcerato, decide quindi di continuare
la sua battaglia al potere costituito restando nella sua cella, rifiutandosi di usufruire dell’ora
d’aria, durante la quale rinchiude i secondini in un carcere ideale. Lui la libertà spirituale
l’ha trovata in cella, a costo della libertà sociale. Noi ne saremmo capaci? Penso di no.
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Cor Veleno Heavy metal
(03/03/07)
Prima dell’ultimo Nuovo nuovo i Cor Veleno avevano pubblicato
Heavy metal, un disco di hip-hop hardcore. Anche se dell’hip-hop
preferisco la sua versione tradizionale fatta di campioni e beat
analogici, questa nuova via tutta americana, completamente
elettronica e con testi arrabbiati, ha un suo insito fascino
proveniente dalla rabbia e dalle explicit lyrics. Le guardie, i
pompieri e l’ambulanza butta fango sui sucker (tema storico del
rap), dopo il sesso orale di Minimal Rome e l’abbozzo reggae di
Bonsai arriva l’esplosiva Potente in culo, unica traccia legata alla
old-school di cui sopra. Un mestiere qualunque è la storia di un secondino disilluso dalle
retoriche dello Stato e che pensa - materialmente - solo al benessere minimo della propria
famiglia, Kamikaze non risparmia frecciate all’Islam e alla morale occidentale, spensierate
e piene di parolacce Sì e Mucho gusto, assai minimali Più del dovuto e Fenomeni, lente e
scontate Il trattamento e Giungla giungla. Il talento di Primo, Squarta e Grandi Numeri c’è,
ma non apprezzo al 100% il metodo.
•
(04/03/07)
Small Faces The autumn store
The autumn store è una sorta di raccolta uscita in Gran Bretagna
nel 1969. A quel tempo era consuetudine raggruppare i propri 45
giri in eclettici LP che raccoglievano quindi il meglio di un dato arco
temporale. Loro sono i mitologici Small Faces, padri del movimento
modernista (i mods, per intenderci) inglese, a metà fra Beatles,
Rolling Stones e Who. Here comes the nice è una ballata
movimentata e melodica, Collibosher si dimena fra ritmiche prog e
riff di trombe e sax, la celeberrima All or nothing possiede una
speciale carica di pathos, incasinata e allegra Lazy Sunday,
completamente beatlesiana Call it something nice, rockettara e ben cantata I can’t make it,
complessa e ricercata Afterglow of your love. Arriva quindi il tormentone mod Sha la la la
lee e i ragazzi in Lambretta e jeans attillati cominciano a ballare, prima che i rocker
rompano l’incanto con canzoni tipo Rollin’ over; stupenda davvero anche Itchykoo Park,
pezzo forte dei quattro musicisti inglesi: quattro perché, come tradizione vuole, uno deve
suonare il basso, uno la batteria, uno la tastiera e uno canta e schitarra. Che bravi!
75
Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
76
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Mouse On Mars Varcharz
(05/03/07)
Sono tornati ancora più intellettuali e dissonanti di prima i Mouse
On Mars. Il loro ultimogenito Varcharz è una massa (non) amorfa di
frequenze, beat, campioni, dissonanze, FX, rumori ed errori. Con
questo album hanno definitivamente detto addio alla diplomazia
musicale di Idiology e Radical connector: insomma, sono tornati
alla ricerca originaria. Chartnok sembra provenire da un lettore cd
guasto, poi I go ego why go we go ha un ritmo trascinante (stavolta
in 4/4), mentre Düül lavora su riff distorti di chitarra e synth per
creare un risultato cineticamente noise. Andy Toma e Jan St.
Werner performano strani suoni con le due parti di Inoculator, quando invece con Skik
tornano alla vecchia melodia analogica Atari. Distruttiva Hi fienilin, minimale Bertney,
glitchosa One day, not today e IDM Ignition segments. Assurde le dodici tracce di
Retphase che in tutto suonano poco più di sei minuti. I Mouse On Mars erano stati ospiti
del programma radiofonico di Battiato Bitte, keine réclame assieme a Stàlteri, Sollima,
Terni, Menichetti e Ada DJ, e anche lì s’era compreso che erano pazzi.
•
Pan Sonic Kulma
(06/03/07)
Kulma è da considerarsi un capolavoro del nulla perché è
un’istantanea venuta fin troppo bene di qualcosa che ci appartiene
ma che in fin dei conti non deve essere un granché se ci ha portato
all’isterismo collettivo di ram, circuiti chiusi, febbri contabili e
terabyte. Tracce come Puhdistus o Aines sono state registrate per
destare i sensi normalmente sopiti durante il giorno e la notte, per
instillare quel fastidio mentale in un eterno crocevia tra demenza e
ripetizione, per tramortire con le sue frequenze occultate
sottotraccia, per lasciarci assaporare quello che non vedremo mai
finché non sapremo ascoltare e non riusciremo a sentire se non vorremo guardare e
capire, liberandoci della nostra modernità fittizia e volgare che, in effetti, non regala che
suoni fittizi e volgari. Rumori, solo rumori. Ossessivi come devono essere dei rumori:
meccanici come la vita, infiniti come il dolore e imperscrutabili come il futuro. Per molti
critici i Pan Sonic qui devono ancora arrivare allo spoglio finale del suono per poter dire di
descrivere la realtà senza usare immagini o artefatti sonori. Lo faranno con Aaltopiiri.
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(07/03/07)
Fabrizio Moro Pensa
Vincitore reale e morale di un festival di Sanremo fin troppo
vecchio, Fabrizio Moro, dopo la fortunosa comparsa del 2000,
torna all’Ariston con un brano ed un album in promozione di
altissimo livello italo-rock. Pensa è un brano sulla mafia (nel
videoclip ci sono quelli di Mery per sempre e Rita Borsellino) che
muta in poesia spicciola un tema tanto scottante, Fammi sentire la
voce è un brano che poco regala ad animi perbenisti e tronfi
(passando per il Duce e Fidel Castro), Non è la stessa cosa
ammalia e innamora, Questa è benzina si arrabbia sui tantissimi
luoghi comuni che affogano la società civile, Ti amo anche se sei di Milano ci fa scappare
un sorriso e ci infila in testa un ritornello meraviglioso. Nell’album manca un po’ di
materiale (gli scorsi due singoli e alcuni brani must dei live) forse perché rimasto negli
archivi della vecchia Don’t Worry Records. Avevo scommesso su Fabrizio Moro otto anni
fa e ho ricevuto la mia piccola personale gratificazione perché Pensa è proprio un bel
disco che molti artisti pop-rock italiani dovrebbero avere come riferimento.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
77
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AIR Pocket symphony
(08/03/07)
La critica, almeno quella italiana, non è rimasta colpita
positivamente dall’ultimo lavoro dei francesini più cool di sempre,
gli AIR. C’è chi afferma che disegnino mondi ideali per uomini idioti
e chi sostiene che la loro musica ormai stanchi. Effettivamente
anche io mi aspettavo un passo in avanti rispetto all’ultimo
splendido Talkie walkie, visto che questo Pocket symphony è
troppo ancorato al loro trend musicale: sembra che ci sia
un’ancestrale paura verso il rinnovamento. Comunque sia, la
Sinfonia tascabile, considerata nella sua individualità, è un album
sicuramente pieno e ben riuscito; nuovi strumenti come il koto e lo shamisen incastonano
lucenti pietre preziose come Once upon a time, Mayfair song, Left bank e Photograph.
Bellissime poi Mer du Japon e Space maker, in tinta con la veste AIR; molto soft Lost
message e One hell of a party. Le mansioni melodiche portanti sono affidate alla chitarra
in Somewhere between waking and sleeping, ai violini in Night sight e al pianoforte in
Redhead girl e Napalm love. Potevano fare di più ma anche così va bene.
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The Philadelphia Experiment The Philadelphia Experiment
(09/03/07)
I Philadelphia Experiment sono un progetto che vede riunita una
portentosa combo di musicisti tutti originari della città dell’amore
fraterno: loro sono Amir ?uestlove Thompson, Uri Caine e Christian
McBride (special guest Pat Martino) ed il jazz funge qui da collante
tra le matrici hip-hop, electro, funk e fusion. Gli undici brani del
disco sono spesso rivisitazioni di grandi successi come Call for all
demons di Sun Ra, Trouble man di Marvin Gaye o Mister Magic,
omaggio al grandissimo sassofonista Grover Washington Jr.; i
groove dei Philadelphia (come in Lesson #4) scorrono superbi tra
assoli di chitarra, leziosità al pianoforte e irrefrenabili dettagli di drumming. In Philadelphia
freedom (originariamente di Elton John) un loop in controtempo di ?uestlove ci fa capire
che il talento espresso - in quanto a ritmo e precisione - in questo album forse non è
affatto umano ma, molto probabilmente, proveniente dal pianeta Jazz. Quando gli
americani ci si mettono, le cose le sanno far bene, cosicché questo lavoro è consigliato a
chi adora il funky ed ogni sua contaminazione possibile e immaginabile.
•
Tre Allegri Ragazzi Morti La seconda rivoluzione sessuale
(10/03/07)
I Tre Allegri Ragazzi Morti non li ho mai considerati perché non mi
ci sono mai avvicinato con animo curioso. E invece, dopo che
alcuni, insistentemente, me ne hanno parlato positivamente, mi
sono finalmente approcciato alla loro discografia. Una sorpresa
scoprire che questi tre friulani si autoproducono (e producono, vedi
Moltheni) e hanno dato una svolta al movimento punk italiano.
Cresciuti suonando nei pub frequentati dai marines di Aviano,
questi tre musicisti, con La seconda rivoluzione sessuale,
approdano al nono disco. Un album che mischia sapientemente il
punk all’impegno autorale, il rock alla tradizione italica di frontiera. Sempre con le
maschere (per non regalare nulla al mercato), presentano bellissimi pezzi come
L’impegno, Allegria senza fine, Lorenzo piedi grandi, Come ti chiami? o Il mondo prima.
Addirittura riescono nel difficile compito di generare La salamandra, una specie di
provocante esperimento jazz-rock, e La poesia e la merce, dove la tematica è ben chiara
già dal titolo. Questo disco è la prova che i pregiudizi, spesso, fuorviano completamente.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Easy Star All-Stars Dub side of the moon
(11/03/07)
Ovviamente si tratta della rivisitazione dub del celeberrimo
capolavoro dei Pink Floyd. Gli Easy Star All-Stars sono un collettivo
giamaicano costituito da trombettisti, vocalist, bassisti, flautisti,
programmatori, chitarristi, batteristi, sassofonisti e rapper. La loro
dimensione più concreta è quella dal vivo, in cui la sezione ritmica
(basso e batteria) pare essere la colonna portante dell’intero
progetto. Tutto è più psichedelico e stonato dell’originale: in Money
il rumore iniziale dei soldi è sostituito da quello di un bong ad
acqua; On the run è sorretta da un’efficacissima ritmica jungle,
seguendo un’ideale evoluzione dell’originale tessitura elettronica del pezzo; Time rinasce
modulata dalle voci di due abilissimi cantanti che si alternano in un duello all’ultima rima.
Con Us and them ci avviciniamo addirittura alla versione originale, perché la formula non è
stravolta bensì talmente curata nei minimi dettagli che veniamo trascinati in un limbo da
cui non vorremmo più uscire. Aggiungeteci poi le dub version di The great gig in the sky,
Time, Brain damage, Eclipse ed Any colour you like. Che roba!
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Amalia Grè Amalia Grè
(12/03/07)
C’è una magia sottile in questo disco e nel volto affascinante di
questa cantante italiana adottata dagli americani; c’è un modo
raffinato della Grè di tracciare un confine. Dove finiscono le sue
origini di provincia e inizia la vita altalenante d’artista, sotto braccio
a nomi come Betty Carter e Bobby McFerrin ed esibizioni al Blue
Note Jazz Club di New York. Inizia il suono e comincia il giorno.
Brani a note d’argento come l’elegante pianobar di Sogno e
Orchidee o la splendida cover di Estate di Bruno Martino. Il sorriso
non si spegne neanche nell’atmosfera pomeridiana di Baronessa,
nel coraggio ironico di ’Na suppa de stella, e nemmeno nel trascinato e stanco Film a 8
colori. Meravigliosa l’interpretazione di Do you know where you’re going to? (la versione
originale è di Diana Ross per il film Mahogany del 1975); e poi la principesca I need a
crown, l’intrigante Your lips, l’egocentrica e sola Io cammino di notte da sola. Amalia Grè è
un’artista fantastica e a Sanremo 2007 è stata capace di portare un pezzo davvero magico
(Amami per sempre). Dopotutto conosce benissimo Mario Biondi.
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Tosca Souvenirs
(13/03/07)
Come consuetudine vuole, ogni album di sano lo-fi esige un
successivo disco di rivisitazioni. Souvenirs è la raccolta dei remix di
J.A.C., ultimo perfettissimo disco degli austriaci più cool di sempre,
i Tosca. Burnt Friedman remixa John Lee Huber in chiave electro,
Frost & Wagner rimescolano invece Superrob dandole una nuova
veste dub, i Plant Life cambiano il jazz originale di Heidi Bruehl in
un succulento trip-hop. Rondo acapricio è qui remixata funky da DJ
DSL mentre The big sleep gode d’un arrangiamento, merito di
Señor Coconut, in equilibrio fra samba, bossa e mambo. La già
perfetta Züri s’impreziosce d’un houseggiante downtempo firmato Lindstrøm & Prins
Thomas; i due rework di Stereotyp di Pyjama, fra tribalismo e techno, e la versione
breakbeat di AGF di Naschkatze spianano la strada al silenzio dell’unico inedito Souvenir
by Tosca. I Madrid De Los Austrias mettono mano a Damentag, coprendola di genuini
groove electro-house, mentre Urbs dà un tocco di french touch a Forte. Infine non va
dimenticato il remix tostissimo di Heidi Bruehl ad opera di Makossa e Megablast.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Dave Angel Tales of the unexpected
(14/03/07)
All’inizio suonava il giradischi, poi, col tempo, s’è avvicinato al
future-jazz e all’elettronica dura e pura. Dave Angel è una presenza
fissa nella mia dj-bag per via di quegli arrangiamenti complessi ma
perfetti per il mixaggio, di quelle ripetizioni e di quelle ripartenze
che solo i grandi nomi del djing mondiale sono in grado di
incatenare. Tales of the unexpected è il primo album (se non
sbaglio del 1995) del DJ inglese (all’anagrafe si chiama Nicholas
Gooden ed è negro) che contiene, tra l’altro, alcune delle tracce del
precedente stupendo EP Handle with care. L’impianto techno viene
messo a dura prova dai pianoforti e dai synth di Be bop, Timeless e Arabian nights.
D.O.B., It’s too hot in here e Big tight flares infuocano gli shell e le puntine; lo scratch nei
momenti di discesa diventa d’obbligo. In un crescendo di beat e loop, appare la portentosa
Bump e le altrettanto belle Scatman e Over here. Per concludere dirò solo che il brano di
chiusura s’intitola Rudiments: DJ di tutto il mondo, svegliatevi e assaggiate la fine mistura
di Dave Angel, un fondamentale maestro dell’elettronica da ballo.
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Vasco Buoni o cattivi live anthology 04.05
(15/03/07)
Un doppio CD testimone del Buoni o cattivi tour (srotolatosi fra
l’estate 2004 e 2005). Il primo disco contiene più o meno la scaletta
del 2004, aprendo le danze con il rock da urlo di Cosa vuoi da me,
facendo poi un percorso perlopiù promozionale, quindi attraverso le
canzoni di Buoni o cattivi (Non basta niente, Hai mai, Anymore,
E…), concludendosi infine con il famoso medley e le storiche
Bollicine e Siamo solo noi. Il secondo cd, sull’onda del tour 2005, si
apre con la chitarra acustica di Un gran bel film, quindi le grandi
chicche degli anni ’80: Dimentichiamoci questa città, Deviazioni,
Dillo alla luna e Portatemi Dio. Alla tracklist si aggiungono le stupende Vita spericolata, C’è
chi dice no e Senza parole. A chi sostiene che Vasco sia ormai la caricatura di se stesso,
consiglio di recarsi ad un suo qualsiasi concerto per capire l’energia che viene sprigionata
in mezzo a 160.000 persone paganti. Al diavolo gli U2, al diavolo tutti i nuovi manichini;
Vasco è il rock italiano e, se fosse nato in America, sarebbe stato il più grande rocker di
sempre. Dopo l’estate, il nuovo album di studio.
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Arrigo Boito Mefistofele
(16/03/07)
È un’opera di Arrigo Boito in un prologo e quattro atti e un epilogo
su libretto proprio dal Faust di Goethe. La prima rappresentazione
fu a Milano, al Teatro alla Scala, il 5 ottobre 1868; l’esecuzione fu
coperta dai grondanti fischi indirizzati al genio della Scapigliatura,
accusato di wagnerismo. Dopo appena due rappresentazioni, a
causa dei disordini ripetutamente verificatisi in teatro, si decise di
interrompere le esecuzioni. Ma il Mefistofele è un’opera di rottura
con quanto si era composto fino ad allora: i salotti filosofici più
intellettuali sostengono che quest’opera è una metafora del
nichilismo come essenza del male. Mefistofele è il dubbio che genera la scienza, è il male
che genera il bene. Il nichilismo si transustanzia in valore positivo, laddove contribuisca al
processo dialettico che culmina in definitiva nel bene, un’idea che Nietzsche non avrebbe
mai potuto accettare, nella sua ontologica incapacità di percepire il valore del negativo.
Boito invece sembra effettuare, se non una sintesi, un’armoniosa antitesi tra critica ed
elogio del negativo, caratterizzandolo. Un capolavoro dell’800 tutto nostro.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Francesco De Gregori Titanic
(17/03/07)
Titanic è un album davvero perfetto. Il principe De Gregori spolvera
tutta la sua nonchalance e il suo talento, confezionando nove
autentiche pietre rare di musica italiana. C’è l’amore incodizionato
e galante di Belli capelli, l’omaggio alla sua folksinger Caterina
Bueno di Caterina, la tradizione come espressione culturale di
L’abbigliamento del fuochista. Ma questo è un concept-album e il
suo sentiero è la storia romanzata e romantica del famoso
transatlantico e delle vite ivi bruciate. Una delle perle del disco è
sicuramente I muscoli del capitano: la canzone parla proprio del
capitano Smith del Titanic in un’aura di tenacia e coraggio, di nostalgia e dolcezza, di
umanità e freddo calcolo. Centocinquanta stelle, sempre dedicata alla maledetta notte del
14 aprile 1912, ironizza su quel cielo canadese che ha sepolto i 1.500 viaggiatori. Ancor
più intensa è La leva calcistica della classe 1968, le lacrime cominciano a sgorgare dagli
occhi dopo aver ascoltato la vicenda di un giovane calciatore poco talentuoso che finirà a
giocare a carte nei bar di provincia. Uno dei più bei dischi italiani.
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Musicanti Del Piccolo Borgo Canti e ritmi dell’Appennino
(18/03/07)
I Musicanti Del Piccolo Borgo si occupano di riportare a galla tutte
le tradizioni musicali facenti parte dell’area geografica compresa fra
Lazio, Abruzzo e Molise. Spesso ho assistito a dei concerti dal vivo
e sono rimasto sempre impressionato dalla bravura di questi
musicisti nel suonare strumenti ormai obsoleti come ciaramelle e
bufù, pifferi e organetti. Il loro secondo album si occupa
principalmente di performare le vecchie filastrocche dell’Appennino
centrale: il revival di Figliola che stai n’coppa, Suonno suonno…
che bieglio chiglio fiore, Saltarello, Che hai nennella mia e Ninna
nanna ci immergono in un mondo antico fatto di consuetudini bucoliche e balletti onirici. La
guida del gruppo, Silvio Trotta, è mio compaesano, e sono orgoglioso di recensire la
bellissima Fammi cantare a me de Capracotta, vecchia canzonetta altomolisana su
adulteri paesani e storielle d’amore. C’è spazio anche per gli stornelli romani e il folk
abruzzese di Figlia di carbonara. Chiamatelo populismo o campanilismo, ma delle mie
radici pastorali ne vado fiero. Evviva i Musicanti Del Piccolo Borgo!
•
(19/03/07)
Scuola Furano Scuola Furano
Una novità interessante quella della Scuola Furano, duo friulano
specializzato in elaborazioni perlopiù house (l’etichetta è la stessa
degli Amari, dei Julie’s Haircut e Faresoldi). L’Italia, da troppi anni
rimasta troppo indietro sulla scena dance europea, tenta di
riprendersi la sua fetta di gloria elettronica. La Scuola Furano, nel
suo primo, unico ed omonimo album, sforna un brevissimo ma
ritmatissimo prodotto sempre in giusto equilibrio fra disco, funky ed
house. C’mon girls è costruita con molteplici loop ripetuti e tagliati
(una costante dei due DJ), Golden gate è leggermente più veloce e
si butta sul synth-pop, la famosa Chocolate glazed entra in testa e non ne esce più, Milky
Way rallenta l’andatura col french touch, Sam è il vero e proprio brano da club assieme
alla bellissima U&me, molto old-school Mr. Goldigga; riempitivi e fragorosi gli interludi # IZ
4 e Watch my watch. Penso che la Scuola Furano possa dare molto al mondo dance
italiano e sicuramente arriveranno col tempo dischi più maturi e strutturati. Questo debutto
è però un ottimo antipasto. Post scriptum: belli anche i videoclip.
80
Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
81
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Offlaga Disco Pax Socialismo tascabile
(20/03/07)
Socialismo tascabile è un disco recente eppure è divenuto subito
un cult. Ha ricevuto un consenso quasi unanime perché è un lavoro
ineccepibile, sempre sopra le righe, fra ironia e impegno, fra
denuncia e vita quotidiana. Gli Offlaga Disco Pax, band
underground emiliana, dimostrano in un solo colpo di saperci fare
davvero con le chitarre e i sintetizzatori. Kappler rimembra un
professore un po’ troppo austero, l’electro-rock di Khmer rossa
racconta una giovanile storia d’amore e, mentre Cinnamon gioca
sui chewing-gum, Enver descrive l’humus socio-culturale
dell’Emilia-Romagna negli anni ’70-’80, quando tutto era plasmato di comunismo. Proprio i
ricordi di quel periodo riaffiorano senza connessione logica in Robespierre, un elenco
senza alcuna cernita di flash televisivi, giochi di gioventù, esperienze di partito ecc. mentre
il PCI prendeva il 74% dei voti alle urne. Poi c’è l’astio per un commesso in Tono metallico
da standard o l’amara presa di coscienza cecoslovacca di Tatranky. Tutto si conclude con
la rassegnazione di un’epoca terminata, derubata dei suoi piccoli miti.
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Giardini Di Mirò Rise and fall of academic drifting
(21/03/07)
L’Italia, da un po’ di anni, ha colmato il vuoto nel rock melodico
attraverso gli Yuppie Flu e nel post-rock tramite i Giardini Di Mirò.
Proprio questi ultimi hanno esordito tra il 1998 e il 1999 con alcuni
singoli fino ad arrivare alla pubblicazione di un album davvero
sorprendente come Rise and fall of academic drifting. I Giardini
difficilmente scavalcano le barriere del buon gusto, toccando
spesso l’intimità più feroce e timida con leggeri riff di chitarra
elettrica e lunghe sezioni di tromba od organo. A new start apre
benissimo il discorso, seguita dalla stupenda Pet life saver (unico
brano cantato del disco), poi The beauty tape rider spiana la strada per l’ascolto dell’altra
magnifica Trompsø is ok. Abbastanza grezza Pearl Harbor, efficacemente rude Little
victories, decisamente più rilassante Penguin serenade. Per finire i Giardini Di Mirò
suonano un’intensa title-track dalle fragranze leggermente Mogwai: il vento del nord sferza
gelido i visi di noi giovani del Duemila costretti a subire troppa immondizia musicale. Ma
questo album ci rincuora con una massiccia dose di post-rock.
•
(22/03/07)
Righeira Mondovisione
Aspettavo con fremente ansia il ritorno inimmaginato dei falsi fratelli
Righeira. Mondovisione è il loro più bel lavoro di sempre, un lavoro
che in Italia non era stato mai compiuto. Parlare del mondo
televisivo attraverso la volksmusik. L’avevano fatto i Daft Punk e
Karl Bartos e chissà quanti altri, ma un disco come questo
difficilmente si trova in Europa. L’imperativo categorico Accendi la
televisione è l’intro al programma Tu sei sul video: un attacco alla
banalità e all’apparenza del mondo di oggi, tutto spettacolo e
carriera. Rimango sorpreso quando ascolto un ritorno in voga del
futurismo con Futurista, e poi divertentissima la promozionale La musica electronica o la
spagnola La mujer que tu quieres. Un po’ di saudade elettronica con Invisibile, un po’ di
non omologazione con Il numero che non c’è e un po’ di orgoglio digitale con Electro
felicity. I Righeria non si fermano e cavalcano l’onda cinese con China disco e omaggiano
la scuola tedesca con Die Wende; perfettamente artistica e politically scorrect Il destino di
una nazione. Non ho parole… è un disco che aspettavo da troppi anni: è sublime.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Paolo Conte Reveries
(23/03/07)
Tra Razmataz ed Elegia, Paolo Conte si cimentò in una
riuscitissima raccolta di rifacimenti e non. Questo è un disco
talmente morbido e raffinato da risultare superbo se non
pretestuoso. Ma l’avvocato di Asti se lo può permettere e a noi
estimatori di vecchia data ci riempie il cuore di malinconia ascoltare
finalmente la versione in studio di Reveries: le parole sarebbero
poca cosa in confronto alla carica emotiva del brano, e quel dolce
malessere ci pervade tutto il corpo. Ma Conte non ci dà pace, visto
che il secondo brano è il rework di Gioco d’azzardo, con un
arrangiamento sicuramente più incisivo dell’originale del 1982. Degne di nota le nuove
versioni di Fuga all’inglese, Dancing, Diavolo rosso, Sud America e Come mi vuoi? (tra
l’altro consiglio l’omonimo film di Carmine Amoroso con Vincent Cassel, Monica Bellucci
ed Enrico Lo Verso). Alcuni avevano cominciato a storcere il naso perché Paolo Conte
sembrava non riuscisse più ad allontanarsi dai suoi successi e invece ha spiazzato tutti nel
2004 pubblicando un nuovo album in studio (con relativo tour trionfale).
•
AA.VV. 8-bit operators: the music of Kraftwerk
(24/03/07)
La Astralwerks ha pubblicato quest’anno un disco di musica
kraftwerkiana interamente creata con strumenti vintage ad 8 bit. I
grandi nomi della chiptune e del circuit bending hanno genialmente
performato alcuni dei grandi capolavori della band di Düsseldorf
come Die Roboter, Pocket calculator, Computer love o TransEurope Express. Gli estimatori, come me, dei Kraftwerk rimarranno
poi a bocca aperta dopo aver ascoltato le assurde versioni delle
misconosciute Kristallo, Antenna, Tanzmusik e Spacelab. Glomag,
Bacalao, Covox, Role Model, Nullsleep, Oliver Wittchow, Bit Shifter
e tanti altri, tutti insieme a creare questo prodotto anacronistico per l’era digitale ma così
divertente e ben fatto da risultare un piccolo capolavoro tascabile anch’esso. Infatti le
melodie sembrano provenire proprio da un videogame della Atari o della Nintendo (erano
proprio i Kraftwerk a dire: «Ich bin der Musikant mit Taschenrechner in der Hand»). Die
Mensch-Maschine è performata live, The model è fedelemente riprodotta, infine qualche
sussulto di gioia mistica su Electric cafe e Showroom dummies.
•
Delta V Monaco ‘74
(25/03/07)
Il pop non mi piace e quello italiano ancora meno, ma una piccola
luce splende nel nostro firmamento, la stella dei Delta V. Cinque
album all’attivo, uno più godibile dell’altro; il terzo di questi è
Monaco ‘74, splendido esempio di electro-pop. Tutto comincia con
la rumorosa I treni e le nuvole per proseguire con il tormentone
Un’estate fa, vecchia canzone di Michel Fugain portata al successo
in Italia già da Franco Califano, Mina e Homo Sapiens.
Verosimilmente jazz L’ombra in me, da qualche episodio di 007
sembra invece uscita Un colpo in un istante, decisamente più
elettronica Numb, sperimentale e minimal My personal zen. L’altro gioiellino del disco è
l’altrettanto rinomato tormentone Numeri in mia vita, seguito dai bassi in movimento di
Clocks, dalle parole grondanti sentimento di Sui vetri di sole e dal rock di Shine on gold.
Gli anni Settanta tornano in auge con Stories and lies, La differenza e Pull me under; la
voce di Gi Kalweit ci emoziona infine con Quasi come vorrei mentre la lunga Quello che
resta ci offre quel che rimane d’una bella ed intensa esperienza sonora.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Radici Nel Cemento Radici Nel Cemento
(26/03/07)
Mai esordio fu più bruciante e convincente di quello delle Radici
Nel Cemento! Scherzi a parte, questo primo disco, eponimo, della
band di reggae romanesco fu una bellissima sorpresa a livello
nazionale. Tutti gli ingredienti della migliore Giamaica sono qui
miscelati e inzuppati di tradizione italica. Irresistibile il dub di
Forward dub ed Alturas e la sprezzante ironia di Grande minaccia;
ma i pezzi forti sono ben altri, ad esempio la cronistoria d’un
ipotetico meridionale che trova lavoro a Torino, prendendo parte
alle lotte operaie degli anni ’60, rinunciandovi infine per questioni
strettamente più materiali (Mirafiori). Esaltante e aggressiva Tuoni e lampi, antifascista e
antirazzista Time has come (storia vecchia ma di rigore nel reggae italiano), invitante e
razionale False parole. Stupenda infine Le mie grida, monologo ad un giudice troppo
legato alla legge e poco incline ad analizzare il sistema sociale che produce determinati
reati. Le Radici Nel Cemento hanno dimostrato con gli anni di essere davvero bravi anche
se, pian piano, si sono allontanati dall’impegno per approdare alla leggerezza.
•
dZihan & Kamien Gran riserva
(27/03/07)
Un album speciale e ricco di groove quello di dZihan & Kamien.
Gran riserva, unico album di studio dopo Freaks & icons, ci riporta
ad una dimensione intimista e speculativa sul discorso musicale:
loop continuamente tagliati, tempi lenti, tanta elettronica e tanta
acustica, inserti lo-fi e slanci uptempo, il tutto in una cornice di
ruvido nu-jazz. Il primo brano è l’epica Stiff jazz, sempre in levare e
mai in caduta; segue la culinaria Basmati con la voce di Daniela
Müller e Ford Transit, un viaggio attraverso le strade dell’Europa
orientale di oggi per arrivare in Turchia. Bellissima l’houseggiante
Sliding (featuring Misirli Ahmet e General Santana), introspettiva la magnifica voce di
Madita sull’intensa Drophere, ritmica e spiccatamente jazzy Where’s Johny Sabatino; il
disco continua fra il virtuosismo cool di Deep kitsch e il french touch di Dundadeova;
esaltante il trip-hop di Airport, tonico il dub di Thrill, neoclassici gli archi di
Gutenmorgenduft. Gran riserva è davvero un bell’album che in copertina ritrae i genitori,
anch’essi musicisti, di Vlado Dzihan e Mario Kamien. Ascoltatelo di frequente.
•
Robert Armani Muzik man
(28/03/07)
A metà strada fra gli Stati Uniti e l’Italia, negli anni del boom
techno, c’era Robert Armani, autorità in campo di elettronica
applicata al dancefloor. Il sound di Chicago, quello di Detroit e
quello di Roma diventano un tutt’uno nel sequencing di queste
sedici tracce che hanno subito l’influenza - e hanno influenzato –
da Dave Angel a Freddy K, da Massimo Cominotto a Stefano
Noferini. I synth non lasciano mai il loro compito di linea portante e
la fanno da padroni in Moon lights, Frequency, Remote control,
Hard work e Allarm. Non manca la slow-techno di Loose control, il
minimalismo ritmico di Kick o la leziosità stupefacente di Any ours. Muzik man è
praticamente un’ora e un quarto di pura follia tecnologica; alla riflessione e
all’intellettualismo, Armani preferisce i bpm spinti di Mine power e i remix acidi di Circus
bells e Watch it. Roma e Berlino, negli anni ’90, erano le metropoli preferite dai DJ
internazionali, in quanto eccellenti luoghi d’esame per le nuove release. Ma quando la più
trendy house ha sostituito il vecchio movimento proletario Virus, tutto è finito. Per sempre.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Run-D.M.C. Down with the king
(29/03/07)
Dopo averlo inventato, l’hip-hop andava sviluppato. E c’hanno
pensato i Run-D.M.C. a legittimare per sempre questo stile libero di
strada. Una discografia relativamente breve ma intensa ed
esaustiva fa di questi tre negri americani i capostipiti in pectore del
genere rap. Down with the king è forse il disco della completa
maturità, veramente distante dal minimalismo dei primi album.
Anche se già in Tougher than leather avevano toccato la
perfezione, questo è un inno all’allegria, al ballo, alla semplicità,
alla strada, alla gente comune. Roboanti Come on everybody, Ooh,
whatcha gonna do, Can I get a witness, Can I get it, yo e What’s next; decisamente più
dure Hit ‘em hard e In the house. Su 3 in the head viene addirittura voglia di fare
breakdance, mentre con Big Willie le rime si fanno taglienti e audaci; infine Down with the
king e Wreck shop insegnano agli mc e ai DJ come costruire una base e un free-style.
Che dire? Tutti li conoscono grazie alla collaborazione con gli Aerosmith in Walk this way
e al remix di Jason Nevins di It’s like that ma è questo il disco da ascoltare sul serio.
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Tiromancino L’alba di domani
(30/03/07)
La formula non cambia, anzi sì. I Tiromancino tornano nel 2007 con
un disco strano. Innanzitutto adesso i Tiromancino sono diventati
uno, Federico Zampaglione. E poi nell’album ci sono, oltre a vere e
proprie canzoni, le colonne sonore del film Nero bifamiliare (girato
dallo stesso Zampaglione). Meravigliosa la title-track, spinta e
ballabile Angoli di cielo, quieta e cantautorale Un altro mare,
funkeggiante all’inverosimile Poveri uomini. Claudia Gerini
(compagna in amore dell’unico Tiromancino) scrive e interpreta
l’esotica Niña de luna, poi le risonanze acustiche del rock si fanno
largo in Non per l’eternità, mentre la tradizione balcanica esplode in Roma nuda; il punk è
invece la parola d’ordine di Stop making numbers e Linea di confine. Nero bifamiliare
strizza l’occhio al rock melodico e Empty can si spande su melodie in tutto e per tutto
americane; chiude il disco la bella Blu, piena di ambientalismi e di echi tipici dei Giardini Di
Mirò. I (o il) Tiromancino hanno qui dimostrato di saper fare tutto: rock, elettronica, pop,
funk, punk, jazz e addirittura videoclip e cinema. Bravissimi/o.
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Motor Bass Pansoul
(31/03/07)
Stucchevole era il vuoto nella musica francese venutosi a creare
dopo la morte dell’unico inimitabile Serge Gainsbourg. Ma a metà
anni ’90 alcuni (Laurent Garnier, Etienne De Crécy, Ludovic
Navarre, Thomas Bangalter ecc.) diedero vita all’ormai inflazionato
french touch. I Motor Bass sono stati tra i primi a capire le
potenzialità dell’elettronica francese e nel 1996 hanno pubblicato
Pansoul, unico disco della loro discografia. Fondamentalmente si
tratta di deep-house ma il tocco elettronico è del tutto nuovo nel
panorama internazionale: traspare dalle tracce un certo
romanticismo retró, coadiuvato da alcune soluzioni tecniche di nuova generazione
(introduzione di dinamiche jazzy). Mentre Fabulous è totalmente scarna, la successiva
Ezio rompe il ghiaccio e si cimenta con l’elettronica da ballo. Poi, finalmente, arriva il tocco
jazz di Flying fingers e la sweet-house di Les ondes (pensate ai Silicone Soul); seguono i
campioni e i synth di Neptune, quindi il clubbing esasperato di Wan dence. Il tempo jazz si
ritrova in Genius, lo snobismo parigino in Pariscyde e la schietta house in Bad vibes.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Têtes De Bois Avanti pop
(01/03/07)
Musica da officina quella dei Têtes De Bois, forse anacronistica ma
pur sempre degna del massimo rispetto. E in effetti paiono
bellissime queste canzoni a metà tra il folk revival e il jazz
nostrano, tra il pop radiofonico e il rock underground. La leva parla
dell’alienazione di un operaio che lo rende intrattabile anche verso i
suoi familiari (l’originale è di Paolo Pietrangeli), la title-track è un
manifesto antipop (in tutti i sensi) per un ritorno alle ideologie,
InTricarico è futurista perché suona gli attrezzi della fabbrica,
Rocco e i suoi fratelli non dimentica il famoso film di Luchino
Visconti, il dialetto settentrionale comanda in Lu furastiero mentre quello meridionale è
perfetto in Sa mundana cummedia. Piero Ciampi è reinterpretato in Andare camminare
lavorare, la sicurezza sul lavoro viene spiattellata in 626 (dall’ominoma legge), un po’ di
Vinicio Capossela si affaccia ne Il mio corpo, la vita sulle autostrade e sui marciapiedi è
messa in prosa con Il camionista. Torna infine la musica ritmata con Quarantaquattro gatti,
dall’omonima filastrocca, con la cover pacifista di Proposta dei Giganti a chiudere.
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Remo Remotti Canottiere
(02/04/07)
Umorista, attore, cantante, autore, pittore, scultore ecc.,
insomma… un eclettico. Questo è Remo Remotti, figura storica
della vita culturale romana che, assieme ai Recycle, pubblica il suo
primo disco chiamato Canottiere. In pratica, non sono che sproloqui
poggiati su tappeti elettronici in downtempo. I testi, anche nella loro
volgarità, sono però di una raffinatezza e di una sapienza degna di
pochi cantori rinascimentali. Anche la volgarità di Tampax d’artista,
Nel culetto o Sesso e matematica ci lasciano sempre con un
sorriso riflessivo e mai con un gesto di stizza. Non mancano
ovviamente gli omaggi alle donne come in Silvana (deliziosissima), Rossella, Antonella,
Barbara e Rosa, tutte trattate bonariamente come bestie da soma. E poi la storia faziosa
di Roma addio, l’elogio dell’arte di Noi non riusciamo più a vedere, il rifiuto della televisione
di Me ne vado dalle cattive notizie, l’ironia sottile e stilnovista di Mia, la cruda realtà de Il
tempo, l’altruismo e la meschinità de La vita e la morte. Un disco non di musica da
ascoltare e da interpretare, un disco per arrovellarsi sugli eventi del genere umano.
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Enigma A posteriori
(03/04/07)
Questo è l’ultimo disco dei belga Enigma, un lavoro altalenante se
visto in rapporto al precedente Voyageur; l’atmosfera gotica non
manca però di suscitare grandi sensazioni in bilico fra stupore e
magnificenza celeste. Stavolta Cretu lascia temporaneamente le
ritmiche movimentate per affondare totalmente i computer in un
coacervo di elettronica chill-out. Splendido l’intro Eppur si muove (il
motivo del brano è quello ricorrente dal primo disco MCMXC a.D.),
acidissima la seguente Feel me heaven, sognante e trip-hop
Dreaming of Andromeda, lenta ed emozionante Dancing with
Mephisto. Con Northern lights ed Invisible love l’album sembra prendere una piega
ambientale ma Hello and welcome spinge di nuovo su un genere fatto di rock e lounge. Un
po’ troppo ridondanti le successive 20.000 miles over the sea e Sitting on the Moon; per
fortuna ci pensa The alchemist a ridare sostanza al disco prima che la gustosa Goodbye
Milky Way chiuda il discorso musicale con un’atmosfera degna della migliore tradizione
chill-out. Il Medioevo è finito ma Cretu, come al solito, gli dà nuova linfa.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Stadio La faccia delle donne
(04/04/07)
Il secondo lavoro discografico degli Stadio è La faccia delle donne,
un perfetto mix di rock e pop anni Ottanta. Il disco prende il nome
dal brano composto e cantato magnificamente assieme al
mitologico Blasco Rossi, ma nell’album troviamo altre preziose
gemme di musica italiana, su tutte Acqua e sapone, soundtrack
dell’omonimo film di Carlo Verdone. E sono memorabili anche le
meno conosciute Allo stadio, che parla di un pomeriggio in arena
per un concerto rock, e Dentro le scarpe, splendido ritratto
d’amore; ed ancora la carboniana Porno in TV, facile allusione alla
voglia di sesso (il synth è utilizzato come sample nel brano Vita dei Colle Der Fomento).
Dolce e rilassante la famosissima C’è, tutta incastonata su strutture di piano elettrico e
chitarra; decisamente rockettara la sprezzante Ti senti sola; musicatissima e a tratti
melanconica Non sai cos’è. La faccia delle donne fa parte di quella trilogia di dischi
(assieme a Stadio e a Chiedi chi erano i Beatles) che ha creato attorno ai suoi creatori - e
al suo leader, Gaetano Curreri - un’aura di magica e verace fantasia creativa.
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La Crus Dentro me
(05/04/07)
A volte sottovalutati, a volte il contrario. Sta di fatto che i La Crus finché lavoravano assieme - hanno sempre seguito una strada
completamente originale, un progetto electro-rock che ha rimesso
spesso in gioco vecchie glorie della musica italiana (le loro cover
sono difatti innumerevoli). Dentro me, secondo disco della strana
band, è forse la loro migliore retrospettiva. L’album si apre con la
cupa Per mano per poi allargarsi al ritmo sfrontato di Come ogni
volta; l’intimismo mieloso torna nella title-track per poi dissolversi
nella ruvida elettronica di Correre. Le trombe e i fiati entrano nel
gioco musicale alla grande anche se la successiva Inventario calma le acque; a seguire
l’influenza country de Le luci al neon dei baracchini spiana la strada al meraviglioso
esperimento jazzy di Da un’altra parte. Una sorta di folk si impossessa poi di 34 anni,
mentre La finestra di casa mia si affida all’ambient più glitch; duro il grunge di Qui vicino a
te, ancor più grezzo quello di Dragon (cover della canzone di Conte), ovviamente
downtempo Ninna nanna, infine una ghost-track orchestrale. Un disco bellissimo.
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Al Mukawama Al Mukawama
(10/04/07)
Un progetto nato dalla mente di ‘O Zulù e Papa J dei 99 Posse e
da Perch degli Zion Train. Rap, dub, reggae ed electro sono le
caratteristiche musicali del prodotto, plasmato da testi antisistema
di stampo no global. Si comincia con il buonismo da terzo millennio
di Peace e col remix di Facendo la storia dei vecchi 99 Posse (qui
si chiama Making history); l’idioma napoletano canta Flowers of
Filastin mentre in inglese è la successiva True born. L’electro di
Fame chimica (colonna sonora dell’omonimo film) precede la pulita
elettronica della title-track (che in arabo significa “resistenza”); i 99
Posse non sono lontani perché sembrano siano loro a performare T.L.F. e ’O ball r’e’
pezzient. Pienamente dub Affection at love, decisamente dance Ganja smokas (sulla
stucchevole diatriba della legalizzazione delle droghe leggere), banalmente electro Europe
fortress, bella e mistica The retribution, spagnoleggiante e alternativa infine Ya se mira el
horizonte. Dal punto di vista musicale è un lavoro discreto ma, per favore, liberateci da
questa trita retorica mondialista e cosmopolita. Il mondo va avanti lo stesso.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Alan Braxe & Friends The upper cuts
(11/04/07)
Un altro grande nome del french touch è Alan Braxe che nel 2005
ha raccolto tutti i più grandi successi a cui ha collaborato. Fa strano
ascoltare Intro (conosciuta dai più come Running) all’interno di un
disco ma questa è chiaramente un’operazione commerciale;
pressoché mitologica è invece Music sounds better with you (del
progetto Stardust): solo coloro che a fine anni ’90 erano assidui
frequentatori di club di riviera possono capire. Sfrontatamente disco
l’altrettanto famosa Most wanted, B-side del vinile di Intro, prodotte
entrambi assieme a Fred Falke; genialmente hard-house il remix di
Braxe della celeberrima At night degli Shakedown; malinconiche le altre houseggianti In
love with you dei Paradise, Palladium, Rubicon, Penthouse serenade e Link’n’rings dei
Rec. Il french touch - e la sua dimensione più spiccatamente dance - è stata una manna
per noi DJ, che abbiamo intravisto in esso un nuovo universo creativo, ovvero la possibilità
di unire bassi funk, loop semplici, ritorni jazzy e melodie romantiche; tutto ciò ha fatto sì
che i mixaggi diventassero vere e proprie jam-session di puro talento.
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Karlheinz Stockhausen Hymnen
(12/04/07)
Del 1967 è questo angoscioso collage di inni nazionali, eseguiti col
linguaggio della musica concreta elettronica dall’unico grande
Karlheinz Stockhausen. Nuovi materiali eterogenei vengono
introdotti in quest’opera, come il largo uso del nastro magnetico,
che costituiscono perciò un momento particolare della produzione
di Stockhausen. L’idea generatrice è quella di utilizzare gli inni
nazionali di tutti i paesi del mondo per dare vita a una sorta di
musica universale attraverso la cui armonia si possa raggiungere
anche l’armonia sociale e politica. L’idea è stata criticata perché
portatrice di sospetti di ingenuità e a prima vista ricorderebbe certi giochi di citazioni di cui
la storia della musica pullula. Ma le intenzioni di Karlheinz Stockhausen non erano queste:
non erano quelle di rimandare, per mezzo di una melodia e dell’intreccio di più melodie
tratte dagli inni nazionali, alle rappresentazioni musicali, e per traslato, a quelle sociali e
politiche delle diverse nazioni. Il tentativo è piuttosto quello di comporre un’opera olistica,
nella quale il tutto sia ben più della somma delle singole parti. E fare ciò non è da tutti.
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(13/04/07)
Momo Il giocoliere
La lotta artistica ai sistemi acquisiti deve avvenire con l’arma della
cultura e dell’intelletto. Ecco perché il disco di questa meteora di
Chiambretti, Momo, in fin dei conti è solamente un accrocco di
(auto)ironie. Musicalmente, Il giocoliere è un album ben curato, dai
ritmi divertenti e tragicomici, cantato fra l’altro in maniera discreta,
ma i contenuti rappresentano l’ormai dilagante inflazione che
pervade il mondo underground alternativo. Il tormentone Fondanela
(anche se in radio, sinceramente, la trasmettono poco) è un
divertissement proveniente da una seduta di ginnastica cinese;
Momosessuale scherza sugli schemi imposti dalla società in materia di vita privata; La
Madonna di Pompei vorrebbe comprarsi addirittura il nulla osta delle gerarchie più alte
della Chiesa. Il quartiere romano di San Lorenzo, spesso teatro di inutili forme di lotta, ha
partorito quest’artista completamente internalizzata nel gioco mediatico e commerciale
creato dalla legge del profitto: prova ne sia il promemoria stampato sulla copertina che
avverte: «Include “Apri fondanela, chiudi fondanela”». Sono solo canzonette.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Depeche Mode Exciter
(14/04/07)
Uno dei migliori lavori della discografia dei Depeche Mode è
Exciter, un disco plasmato di nuova interessante elettronica e
portatore di una fama rinnovata per la band inglese. Si comincia
con le chitarre cuttate di Dream on (i remix che trovate in giro sono
stupendi), poi la chill-out di Shine, quindi l’alternative di The
sweetest condition e le atmosfere tetre e misteriose di When the
body speaks; tanti gli effetti che danno spazialità alla psichedelica
Dead of night, emozionale e soft la seguente Lovetheme, quindi
azzeccatissima la splendida Freelove; troppo macchinosa invece
Comatose, anche se la successiva I feel loved torna alla techno più avanguardistica
(anche qui i remix sono da paura). Da Far West Breathe, sperimentale e strumentale Easy
tiger, languida e digitale I am you, corale e ruffiana la ninna nanna finale di Goodnight
lovers. Nel complesso, Exciter è un album dalle forti venature electro a cui non mancano
però lunghe sezioni di archi o magnifici inserti ambientali: in fondo è un prodotto
tipicamente Depeche Mode, figlio di una ritrovata vena artistica musicale.
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Eno Here come the warm jets
(15/04/07)
Si faceva chiamare solo Eno e, prima di approdare alle più
intelligenti soluzioni del Novecento, produceva musica in tinta con
gli anni più pieni della decade ’60-’70. Here come the warm jets è il
primo album di Brian Eno, costituito da sonore ballate in bilico fra
rock’n’roll e progressive. Inarrestabile la prima Needles in the
camel’s eye, divertente e accattivante l’ironia di The paw paw
negro blowtorch, ambigua e ricercata Baby’s on fire, da cartolina addirittura un po’ troppo barocca - Cindy tells me. Il disco prende
una piega decisamente diversa con il pianoforte 30’s di Driving me
backwards e con il surfismo di On some faraway beach; Eno torna quindi all’anima più
sperimentale e anticonformista con Blank Frank, quando invece con Dead finks don’t talk
non ha paura di rientrare nei binari della decenza musicale. Che questo non musicista
avrebbe fatto una carriera stranissima e raggiante lo si intuisce da questo splendido
debutto, con speciale riferimento alla pazzia dilagante nelle ultime due tracce, Some of
them are old e Here come the warm jets. Una vita a sperimentare.
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The Beatles Help!
(16/04/07)
I veri padri pellegrini del rock’n’roll sono i Beatles. Non date adito a
chi vuole farvi credere che siano stati gli Stones o Elvis ad
inventare e, allo stesso tempo, evolvere questo filone. I quattro
ragazzotti di Liverpool non hanno mai dimenticato l’importanza
della melodia nella musica nuova, né hanno mai delegittimato
l’importanza del loro ruolo. Help! è il quinto lavoro della band,
appartenente al primo periodo, quello in cui i Beatles cantavano
con velata leggerezza la spassionata bellezza della vita. I brani più
famosi del disco sono sicuramente la title-track, You’ve got to hide
love away, Ticket to ride e Yesterday. Al di là della faciloneria con cui si potrebbe parlare
di queste pietre miliari della musica contemporanea, sarebbe bene invece soffermarsi
sulle rarità: la spensieratezza di Another girl, I need you, Act naturaly, It’s only love e You
like me too much cozza con il clima incandescente venutosi a creare dopo l’intervento
militare in Vietnam. Ma i Beatles preferiscono cantare l’amore semplice, ingenuo, infantile
ed innocente. Stolti e poco lucidi opinion-leader lo diventeranno anni dopo.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Carmen Consoli Stato di necessità
(17/04/07)
Non che mi faccia impazzire, però Carmen Consoli è una bella
realtà nella desolante scena femminile pop italiana. Il suo quarto
disco di studio è questo Stato di necessità, venato da graffianti
ritmiche rock e da una voce finalmente più consapevole. La titletrack è una godibile ballad mentre Bambina impertinente fa largo
uso di strumenti elettrici; bella e famosa Parole di burro, suonata
con chitarrine brasiliane e trombe swing; rilassante e ben fatta
Novembre ‘99; stupenda, soprattutto nel testo, l’altrettanto
celeberrima In bianco e nero. Arriva qui L’ultimo bacio, brano
orchestrale della colonna sonora dell’omonimo film di Gabriele Muccino; i moog arrivano in
supporto della ritmatissima Il sultano, quindi il rock rumoroso di Amado señor e la vena
sfacciatamente soft de L’epilogo. Arrangiata in maniera esemplare la successiva Orfeo,
jazzata poi Equilibrio precario, in linea con la peculiarità all’instabilità della Consoli; infine il
piano solo di Non volermi male lascia spazio ad una ben riuscita ghost-track. Chi adora
l’artista catanese amerà questo disco fino allo spasmo, fino allo sfinimento.
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Osanna L’uomo
•
Kylie Fever
(18/04/07)
L’uomo è un concept-album tra i più significativi della scena italiana
di quegli anni, con efficaci interventi vocali e interventi chitarristici di
notevole rilievo musicale. Loro sono gli Osanna, che amavano
presentarsi ai concerti con volti dipinti e spettacoli scenici d’effetto,
suonando senza tregua ai principali appuntamenti del pop italiano
(come Controcanzonissima, Villa Pamphili, Festival d’Avanguardia
Nuove Tendenze). Il disco, pubblicato con la celebre copertina
apribile in tre parti, contiene già tutti gli elementi caratteristici: la
bella voce di Lino Vairetti (con testi anche interessanti), il flauto
aggressivo di Elio D’Anna, il fluido stile chitarristico di Danilo Rustici e la solida sezione
ritmica di Lello Brandi e Massimo Guarino. Indimenticabili per gli amanti del rock
progressivo sono la title-track L’uomo e la magnifica In un vecchio cieco, entrambe
pubblicate su 45 giri, ed entrambe con un’introduzione di chitarra acustica seguita da riff di
chitarra elettrica e flauto. Gli Osanna hanno persino suonato con i Genesis nel loro tour
italiano, e chissà se Peter Gabriel non ne sia rimasto in qualche misura affascinato!
(19/04/07)
Un disco pieno zeppo di hit questo Fever della piccola australiana
Kylie Minogue. La bella cantante appare in questo lavoro in una
veste decisamente nuova, con brani pop dal forte impatto dance.
Recensisco Fever esclusivamente come metro di confronto con il
pop plastificato di Madonna o Britney Spears. Perlomeno qui c’è
una vera strizzata d’occhio al dancefloor europeo, prova ne siano i
molteplici remix che i vari DJ internazionali hanno fatto di Can’t get
you out of my head, In your eyes, Come into my world o Love at
first sight (di quest’ultima consiglio vivamente il remix di The
Scumfrog). Insomma, Fever si è rivelato essere il disco del ritorno della Minogue, dopo un
periodo di buio dovuto al giusto calo di popolarità degli anni ’90 (ve la ricordate quando
cantava I should be so lucky?). Un disco che ha ovviamente un intento commerciale ma
che s’ascolta con piacere, eccetto in alcuni momenti anonimi come More more more, Give
it to me o Your love. Si sente che diversi produttori hanno preso parte alla creazione: da
Tommy D a Julian Gallagher, da Pascal Gabriel a Tom Nichols, a Mark Picchiotti.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Alexander Robotnick Krypta 1982
(20/04/07)
Alexander Robotnick, all’anagrafe Maurizio Dami, è uno di quegli
artisti, sconosciuti ai più, che hanno fortemente sospinto
l’elettronica made in Italy. I suoi vecchi dischi sono dei cult per ogni
amante del techno-pop e dell’electro (conoscete tra l’altro il
progetto ethno Govinda? Bene, è sempre Dami). Krypta 1982 è
l’assemblaggio di diversi polverosi inediti degli anni ’80 rimasti per
troppo tempo senza gloria; questo album del 2005 cerca di
recuperarli in una veste digitalizzata e più accurata. Inconcepibili
per la cultura musicale di allora le splendide In the krypta 1, The
dark side of the spoon, Via del Salviatino, Appuye sur le Champignon, Made in China, Salt
peanuts, Mexicana e La folie; semplicemente drum machine, sintetizzatori, linee vocali
effettate, ripartenze improvvise, slanci miracolosi. Krypta 1982 è un disco magnifico e non
si capisce perché dobbiamo lasciar produrre questi gioiellini agli olandesi (la Crème
Organization) quando potremmo farlo benissimo in Italia: il problema principale è che
manca la cultura adatta al rischio imprenditoriale. In ogni ambito della cultura.
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Pat Metheny Group Offramp
(21/04/07)
Massimo esponente della corrente fusion, Pat Metheny e la sua
band, il Pat Metheny Group, con Offramp, compongono sette brani
pieni di delicatezza e virtuosismo. Il CD si apre con una sorta di
urlo, un brano tirato con un ritmo quasi ossessivo e cadenzato su
cui una chitarra si lamenta arrivando a colpire al cuore l’ascoltatore,
ma con dolcezza ed introspezione, lasciandoci sospesi in una
condizione limbica. Ma poi Are you going with me? è come una
scrollata, una scossa improvvisa, con quel preambolo quieto e la
successiva apertura a metà brano scandita dall’ingresso della
chitarra e dei suoi effetti. Ed ancora Au lait, brano che non potrebbe avere titolo più
indicato d’una carezza: obbligatorio quindi chiudere gli occhi. Poi gli episodio jazz in piena
regola di Eighteen e di James, con diversi virtuosismi ritmici, e la splendida chiusura di
The bat, brano etereo d’atmosfera. La title-track Offramp lascia intendere che non si tratta
d’una melodia a struttura ben precisa e canonica, ma sembra pura improvvisazione e
virtuosismo, tecnicamente ineccepibile ma dall’ascolto ostico e squadrato.
•
(22/04/07)
Mogwai Happy songs for happy people
Ci vuole coraggio - o humour - per dare un titolo simile ad un disco
così triste. E loro rischiano di essere catalogati come gli AIR
scozzesi, mentre i Mogwai vogliono, a ragione, essere considerati
semplicemente un gruppo post-rock (più pertinente, forse, il
paragone con i Radiohead); non ci sono parti vocali, ma sono le
chitarre ad aprire con dolcezza Ratts of the capital, a concedere
molto spazio alle tastiere e ad esplodere, improvvise e potenti in
Killing all the flies, molto probabilmente la traccia migliore del disco.
Potrebbero comporre pezzi più lunghi, colonne sonore, ma
scelgono brevi ed intensi brani strumentali che suscitano nell’immaginario dell’ascoltatore
visioni paurose (come Hunted by a freak), tristi, oscure, quasi apocalittiche (ovvero Kids
will be skeletons). L’elettronica poi diviene manierismo slowcore nei brani I know you are
but what am I? e Stop coming to my house, dove si presenta alle nostre orecchie una
tempesta di reverb, un crescendo devastante, con una batteria distorta indescrivibile. La
formula, già collaudata, resta quasi la stessa, senza perdere nulla in forza espressiva.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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John Legend Once again
(23/04/07)
Questo è uno di quei dischi capaci di vendere milioni di copie del
mondo, si tratta cioè di un disimpegno r’n’b dal forte impatto
commerciale. John Legend, da alcuni mesi sulla cresta dell’onda,
ha effettivamente sfornato un prodotto che si ascolta con notevole
piacere. Perlomeno i due singoli estratti finora da Once again
dimostrano l’indubbio talento blues di questo tastierista americano.
Save room e P.D.A. (we just don’t care) fluiscono per le nostre
trombe d’eustachio con sommo godimento, un po’ per il gusto retró
dell’organo, un po’ per la bellissima voce di Legend. Gli altri brani
che riescono ad entrarci da subito in testa sono sicuramente Heaven, Stereo, Maxine e
Each days gets better. Leggermente sotto tono le rimanenti Show me, Slow dance, Again
e Another again; arrangiamento tra l’orchestrale e lo swing per Where did my baby go,
troppo minimal la conclusiva Coming home. In fin dei conti - ripeto - è un album che si
ascolta con molto piacere anche se appare a volte fin troppo mieloso e sentimentale;
Once again dimostra comunque su vasta scala il talento di questo giovane John Legend.
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De-Phazz Godsdog
(24/04/07)
Breakbeat? Future-jazz? Trip-hop? Mambo? Downtempo?
Habanera? Nessuno può dire con certezza quale sia il filone
stilistico dei tedeschi De-Phazz. Godsdog (1999): un titolo
palindromico per un disco davvero formidabile. Impossibile non
conoscere The mambo craze (con Pat Appleton), in pratica un
manuale di cutting, looping e sampling dal ritmo incalzante.
Meravigliosa anche Cafe coca e l’orgogliosa Jazz music con le
chitarre di Adax D. La samba elettronica diviene speciale in Steps
ahead mentre in Zero zero la voce di Dina Draeger sembra una
Billie Holiday del terzo millennio; allegria e spensieratezza sono le parole d’ordine di
Happiness, groove e relax quelle di Squeeze the trigger. Sfacciatamente d’n’b April
shower e la title-track; la chitarrine lontana di Alex Auer e il sax tenore di Mat Dörsam
performano poi Time slips; Cuba e la sua anima dub sono intense in Havana moon;
delicatamente jazzy la successiva Information; modernista la chitarra di Pedro Gonzales in
Next message!; delizioso il pianoforte di Eckes Matz in Anchorless. Viaggio dei sensi.
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Benjamin Diamond Strange attitude
(25/04/07)
Ispirazione pop, attitudine elettronica, radicamento french touch.
Benjamin Diamond, grande incantatore d’Europa nei primi anni del
Duemila, pubblica come debutto il bel Strange attitude, un lavoro
dal forte impatto commerciale e dal sicuro successo nei dancefloor.
Dopo l’intro si schiude la trascinante Little scare, quindi la
ricercatezza 80’s di 18 and over e la lunga e acida title-track
(bellissimi tra l’altro i robovox). Lenta e melanconica U were born,
veloce a cattiva invece Joyride (un pezzo perfetto), vagamente triphop The rain, quasi unplugged Just a little time, in tinta con la
Francia più modaiola Playin’ with myself. La decima traccia del disco è la storica In your
arms, nota ai più soprattutto per quell’inconfondibile lungo monologo in italiano (che,
intramezzato dal francese, sembra un nonsense); dannatamente troppo pop la successiva
Rich personality, finalmente più houseggiante Read in your mind (lunga più di dieci
minuti), da hit (anche se fece flop) Fit your heart, romantica e godibile l’outro Outsider.
Non si può chiedere nulla di più a Strange attitude se non divertire e far ballare.
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CocoRosie La maison de mon rêve
(26/04/07)
Le CocoRosie, due sorelle mezzosangue native americane,
maestre del circuit bending, pubblicano nel 2004 il fantasmagorico
La maison de mon rêve. Brani dolcissimi, geniali trovate
elettroniche, inserti vintage; proprio in Terrible angels possiamo
ascoltare accanto alle chitarre dei confusi suoni provenienti da
giocattoli analogici. Dopo che strani circuiti si impossessano di By
your side e monotoni tamburini danno il tempo su Jesus loves me
arriva lo schema ballad dell’affascinante Good Friday. Dopo
l’interludio Not for sale si ha il completo bending di Tahiti rain song,
il carillon di Candyland, l’esperimento pop Butterscotch, il divertentimento
anticonvenzionale di West side, lo splendido sussurro di Madonna, il rumorismo vocale di
Hatian love song, la bassissima fedeltà di Lyla. La maison de mon rêve è un disco che fa
largo uso di strumenti sorpassati ma che contiene tante stravaganti idee da apparire d’una
sconvolgente attualità musicale ed autorale. Le sorelle Casady ci hanno abitutato in questi
ultimi tre anni ai loro strani lavori e noi siamo appagati di respirare aria fresca.
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Massimiliano Rolff Unit five
(27/04/07)
Idee chiare, freschezza e bramosia di riuscire a farsi strada fra
innumerevoli proposte. Ecco ciò che si legge tra le nove tracce
contenute in Unit five. Nove brani originali frutto della fantasia
musicale di Massimiliano Rolff, classe 1973, contrabbassista ligure,
da poco sul mercato discografico con questo cd fresco di stampa e
registrato presso il Teatro Comunale Sassello a Savona il 22
maggio 2006 con al fianco tre musicisti navigati come lui: sono
Stefano Riggi al sax tenore, Giampiero Lo Bello alla tromba,
Massimo Currò alla chitarra e Maurizio Borgia alla batteria. Hardbop e mainstream, questi gli ingredienti profusi dai cinque musicisti in un progetto ricco di
sonorità moderne e raffinate che lasciano scivolare le nove jam una dopo l’altra senza
richiedere grande impegno per poterne apprezzare le qualità. Le tracce più riucite sono la
scoppiettante apertura di Unfaithfull (con rullo di tamburi e ritmica incalzante) e la
pregevole Theo’s move, caratterizzata da un’introduzione del leader; coinvolgenti poi i due
blues Thanks God, it's a sunny day e Stones and memories. Un disco poetico.
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Giorgio Knights in white satin
(28/04/07)
È diventato da pochi anni commendatore uno dei più grandi
produttori italiani ed internazionali di sempre, Giorgio Moroder. Nel
suo secondo disco (allora si faceva chiamare solo Giorgio e
correva l’anno 1976) il padre della disco sfoggiava tutta la sua
verve eclettica e inquieta. Proprio la lunga title-track, divisa in tre
parti, è una rivisitazione stravolgente della famosissima Nights in
white satin (in Italia cantata dai Nomadi col titolo Ho difeso il mio
amore) dei Moody Blues: nella versione di Giorgio il mixaggio e
l’editing sono perfetti, i suoni scelti sono pieni e coloriti, le
atmosfere comprensibilmente dance. La seconda parte dell’album è totalmente inedita.
Oh, l’amour è una sorta di disco-rock con percussioni e bassi in quantità industriale,
Sooner or later è un’irresistibile operetta in bilico fra l’ironia e il divertissement, infine I
wanna funk with you tonite è la tipica traccia disco anni ’70. Movimento puro, divertimento,
leggerezza, goliardia. Prima di approdare alla fase schiettamente elettronica, questa era la
musica di Moroder; tutta Italia dovrebbe andar fiera di lui. Fortuntati noi.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Mike Oldfield Tr3s lunas
(29/04/07)
Anche se cronologicamente lontano dai grandi successi che lo
hanno reso un guru internazionale del mondo della musica, Tr3s
lunas è un disco che non ancora presenta note affievolite. La chillout di Mike Oldfield esplode qui in tutta la sua dolcezza, il suo mal
di stomaco, la sua malinconia, il suo disperato realismo. Proprio a
Misty è affidato il compito di introdurre l’ascoltatore nel magico
universo delle tre lune, mentre con No mans land la calma si fa
virtù; Return to the origin sembra uscita dalla mente del belgaromeno Cretu, mentre i pianoforti di Landfall e i bassi di Viper
ricreano artificiosamente un indefinito mondo di guerrieri medievali e damigelle
pensierose. La hit To be free è seguita dagli xilofoni di Fire fly, quindi dal virtuosismo
chitarristico di Daydream e dalla lounge più acida di Thou art in heaven. Il mistero del
firmamento si impossessa di noi con Sirius, una specie di saudade digitale invece ci
spacca il cuore nella title-track; infine una dolce amarezza in Turtle island. Questo album è
un lavoro encomiabile, dimostrazione dell’infinito genio del sempreverde Mike Oldfield.
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AA.VV. Buddha-Bar III
(02/05/07)
Un locale cult per il popolo della notte del terzo millennio. Questo è
il Buddha-Bar, ovviamente parigino, che ha dato vita dal 1999 ad
una serie di compilation che tuttora rimangono sulla cresta
dell’onda in quanto ad intrattenimento musicale. Un primo CD fatto
quasi sempre di lounge, chill-out, ambient, classical, revival; un
secondo disco contenente invece i pezzi che fanno battere il piede
a terra. Questa terza compilation del 2001 contiene splendide
canzoni mixate dal mitologico DJ Ravin. C’è il dinamismo
orchestrale di Secret love di Nicos, lo struggente melodismo di Solo
por tu amor di Franjo, l’immancabile ritmo del Tango serenato de Schubert di Gustavo
Montesano, i veloci solfeggi di A night in Lenasia di Deepak Ram, la jungle in salsa
indiana di Veena di Talvin Singh, l’arabeggiante house italiana di Arabian song del
progetto Livin’ In Da Ghetto e via discorrendo. Si sarà capito che questo Buddha-Bar III è
un eclettico calderone, un melting pot musicale, dove tanti ingredienti provenienti dalle più
disparate regioni del mondo si fondono in un unico afflato europeo e moderno.
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Gotan Project La revancha del tango
(03/05/07)
Fu un colpo di fulmine ascoltare il primo disco dei Gotan Project.
Per me il tango s’era fermato al (purtroppo) criticatissimo Astor
Piazzolla; dopo di lui c’era effettivamente un vuoto. Questi tre
francesi d’adozione hanno genialmente saputo reinventare il
genere mischiandolo - uso un termine generico e superficiale - con
l’elettronica. Addirittura non hanno fatto mancare i contenuti sociali
come il pacifismo con Queremos paz e la critica all’egemonia
occidentale sull’Argentina di El capitalismo foráneo. E poi si
permettono anche di ritoccare in meglio un pezzo di Frank Zappa,
Chunga’s revenge (in cui citano alcuni grandi nomi del tango mondiale). Con Tríptico
hanno poi incantato il mondo, con Una música brutal ci hanno fatto innamorare, con Santa
Maria ci fanno tuttora ballare. Un pezzo davvero speciale è la rivisitazione di Ultimo tango
a Parigi di Gato Barbieri (composto per il film omonimo di Bertolucci), qui più percussiva e
triste. E ancora la versione electro-tango di Vuelvo al sur (di Piazzolla e Solanas);
stupende infine le altre La del ruso ed Época. Formidabili, unici, preziosi.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Aphex Twin Selected ambient works 85-92
(04/05/07)
Prima di divenire velenoso e complicato, Aphex Twin aveva
racchiuso in un disco alcune produzioni degli anni ’80 in cui si era
cimentato nell’ambientalismo digitale (piuttosto che verso quello
naturale). Selected ambient works 85-92 è un sussidiario di
elettronica costituito da succulenti beat e meravigliosi synth, il tutto
in un’aura di delicata ambient. Xtal, Tha, Pulsewidth, Ageispolis, I,
Green calx, Heliosphan, Actium, Delphium, Hedphelym, Ptolemy,
Schottkey 7th path: tutti brani composti nel secondo lustro degli anni
’80, mentre altri daranno vita al secondo volume dei Selected
ambient works. Un discorso a parte merita We are the music makers, traccia anticipatrice
dell’ondata home-made, ben prima di Moby e Daft Punk. Richard D. James aveva intuito
le potenzialità del calcolatore nell’ambito musicale elettronico proponendo un brano fuori
dal tempo in cui manifestava il suo orgoglio digitale. Aphex Twin viene oggi riconosciuto, a
ragione, come uno dei più grandi esponenti del massiccio utilizzo del computer nella
musica elettronica; in pratica è un insegnante, un guru, un idolo, un esempio.
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MoDJo Modjo
(05/05/07)
Premetto immediatamente che questo disco non assurge a nessun
ruolo specifico. Non ha un peso nella storia della musica, non è
particolarmente accattivante, non gode di continuità, non è
un’opera d’arte. Ma contiene uno dei più bei pezzi dance degli
ultimi anni, Lady. I Modjo, con questa hit, hanno giustamente
scalato le classifiche di tutt’Europa, sono stati remixati, imitati,
idolatrati. Effettivamente il brano in questione è una riuscitissima
ballad house con un testo e una melodia dallo struggente sapore
francese. Di sicuro le altra tracce azzeccate sono Chillin’, What I
mean, No more tears e On fire, uscite anch’esse su singolo tra il 2000 e il 2002. Tutte le
altre canzoni contenute in Modjo sono perlopiù pleonasmi musicali, di sicuro ben fatti, ma
dallo scarso appeal commerciale. Quella di Lady rimane comunque una stupenda
esperienza vissuta negli anni del boom del clubbing (basti ricordare la pubblicazione di
Groovejet di Cristiano Spiller o Sex di Robbie Rivera). Oggi di house così non se ne fa più:
le mode minimal, vocal e hard si sono impossessate di quel bel filone duro e puro.
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The Chemical Brothers Exit planet dust
(06/05/07)
Nel 1995 due DJ inglesi, Tom Rowland e Ed Simons, esordirono
sulla scena electro con un disco incantevole e difficile: si
chiamavano Chemical Brothers e il disco in questione era Exit
planet dust. Nell’album c’è un’esplosione positiva di breakbeat e
trip-hop con cut talmente azzeccati che dimostrarono subito la
grande classe e il fortunato stile di questo duo. Tutto comincia con
un campione di Ohm sweet Ohm dei Kraftwerk (la canzone è
Leave home) e spazia all’irriverente In dust we trust; molto più big
beat Song to the siren, di pregevole fattura l’old-school di Three
little birdies down beats, acida e traumatica Chemical beats. Il disco sembra un continuum
di elettronica artigianale senza alcuna licenza a stati di calma o di relax, i beat corrono
veloci, i synth toccano tutte le frequenze udibili, gli FX divengono melodia. E quindi arriva il
dub di Chico’s groove, la downtempo di One too many mornings, l’uptempo di Life is
sweet, l’hip-hop di Playground for a wedgeless firm, l’electro di Alive alone. Exit planet
dust è un disco per soli puristi dell’elettronica: ritmo, groove e acidità.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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R.E.M. Dead letter office
(07/05/07)
Quella di Dead letter office è un’epoca strana per i R.E.M., difatti il
disco è il frutto della transizione creatasi fra il precedente
capolavoro Green e il successivo capolavoro Out of time. E infatti
anche Dead letter office è, a suo modo, un capolavoro. Basta
schiacciare play per ascoltare il formidabile riff di chitarra acustica
di Crazy, quindi skippare e immergersi nella spensieratezza di
There she goes again. Come preambolo allo svolgimento del disco,
il voto 10 è d’obbligo. Da menzionare, più di Burning down o Toys
in the attic, ci sono sicuramente Rotary ten e Bandwagon,
entrambe entrate di diritto nell’immaginario della band di Athens, Georgia. A mio avviso,
leggermente sotto la media a cui ci avevano abituato, si trovano altre belle canzoni come
Femme fatale, Ages of you e Pale blue eyes; nel complesso mi sento comunque di
inserire questo disco tra i lavori musicalmente più riusciti dei R.E.M., assieme a pilastri
come Automatic for the people, New adventures in hi-fi e Out of time. E poi basta
ascoltare quei cori in falsetto per innamorarsi subito!
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Amedeo Minghi Cuori di pace
(08/05/07)
Un artista bistrattato dal pubblico giovane, voglioso solo di rock,
ska ed elettronica antagonista, è di sicuro Amedeo Minghi. Molti di
voi staranno già sogghignando ma mettetevi comodi e provate ad
ascoltare Cuore di pace, prima canzone nella tracklist di questo
magnifico album datato 1986. Le parole del poeta Gaio Chiocchio e
la struggente musicalità del maestro Minghi si plasmano a vicenda
in un’inebriante esperienza fatta di amore, coraggio e ardore. Un
militare della guerra in Etiopia lascia la palude militare per fuggire
in mare con una donna che poi si rivelerà essere la strada per una
pace duratura e imperitura. Ma anche le altre canzoni non sono da meno. L’immenso è
uno dei pezzi più cari ad Amedeo (la cantava con i Pandemonium), Telecomunicazioni
sentimentali è spiazzante, Le verdi cattedrali della memoria è evocativa, La stella dello
sperone è di nicchia, Il geniaccio degli italiani è ironica, Gomma americana è innocente.
Un album meraviglioso, in tutti i sensi. Piccola curiosità: la copertina è disegnata
dall’indimenticato fumettista Andrea Pazienza. Onore anche a lui.
•
Björk Volta
(09/05/07)
Ecco la svolta pop. Molti critici si sono precipitati a dire che Volta è
l’album più pop di Björk. Certo, se lo mettiamo a confronto con la
precedente colonna sonora Drawing restraint 9 la differenza si
sente, eppure tanto. Ma se pensiamo a Volta come al continuo di
un altro album, quale Medulla, allora questa differenza non è poi
così accentuata. È vero però che Björk qui ha cercato di
semplificare il suo linguaggio, ma il suo non è di certo un problema
commerciale, visto che la piccola islandese è un’artista che
venderebbe moltissimo anche se facesse musica spettrale. Allora,
che dire? Innanzitutto che il singolo di lancio Earth intruders è uno splendido esempio di
musica percussiva, e che le lunghissime Wanderlust e The dull flame of desire di sicuro
non possono piacere a tutte le orecchie, per via di fiati, rumorismi e beat utilizzati in
maniera totalmente anticonvenzionale. Resta l’electro di Innocence, lo sci-fi di I see who
you are, l’abstract di Vertebrae by vertebrae e Hope, il classicismo di Pneumonia, il noise
di Declare independence e il lirismo di My juvenile. È Björk: prendere o lasciare.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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The Boyz From Brazil The Boyz From Brazil
(10/05/07)
L’ossatura del disco è data da ritmi di batucada cui sono
sovrapposti basso e grancassa, di matrice decisamente dance, a
battere i quarti. Le sonorità delle melodie sono quelle del samba e
della musica popolare brasiliana, particolarmente evidenti in un
brano come O nosso amor (del grandissimo Antonio Carlos Jobim).
Alcuni pezzi sono arricchiti da interventi campionati di tromba e
trombone, come in Hi fi trumpet, o dall’apito, il classico fischietto
brasiliano, e nel complesso i brani sono armonicamente discreti. In
altri tre brani la formazione dei Boyz From Brazil abbandona le
orchestre di percussioni in favore di ritmi sempre brasilianeggianti, ma in modo meno
palese, in cui fa una timida comparsa qualche accordo di tastiera. I Boyz From Brazil
hanno scelto una strada che non è quella maggiormente battuta nel panorama danceoriented; dove questo solitamente attinge da atmosfere brasiliane già filtrate attraverso la
musica lounge o da film, la formazione francese ha invece scelto di pescare vicino alla
sorgente, rielaborando suoni più tradizionali. Oggi si chiamano Gotan Project.
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Poeti Onirici L’aria che respiro
(11/05/07)
Innanzitutto loro sono i Poeti Onirici, tre giovani calabresi, immersi
in una società, che loro stessi denunciano, avvolta dalla mafia e dai
problemi meridionali di cui purtroppo tutti noi siamo a conoscenza.
Il CD è piuttosto diverso dai classici italiani; Straniamento tratta di
un viaggio mentale, Suspiria prufundis è un inno alla notte, Ritorno
al crepuscolo presenta una metrica piuttosto articolata, L’aria che
respiro, la title-track, è un pezzo piuttosto poetico ed orecchiabile,
La mia realtà denuncia la situazione del sud e coloro che ne sono
orgogliosi solo per opportunismo. Dolce stil novo possiede una
dialettica impressionante, Momenti che non tornano è francesizzata, Liber chronicon è
autoreferenziale, Non risveglio si chiede se sia meglio vivere in un eterno sogno oppure in
questo mondo, Rilassato come non mai inneggia al south-side, Vedo il buio elogia ancora
il buio, Niente di importante aggredisce le persone che non hanno mai considerato di
valore gli autori nella vita, Portami con te chiude con belle parole romantiche. Un album
hip-hop apprezzabile.
•
(12/05/07)
Si tratta fondamentalmente di contaminazione house perché in
fondo c’è rock, soul, funk, blues, minimal, jazz e tanto altro. I
Cassius, dai tempi del primo indimenticabile 1999, di strada ne
hanno fatta tanta e si sono continuamente evoluti in forme
espressive diverse ma tutte rifacenti capo alla grandiosa matrice
dance francese. Au rêve è un disco che si ascolta con consapevole
allegria, un disco che non cede mai al mero desiderio di far ballare;
cerca insistentemente di far emozionare. E spesso vi riesce come
in Protection, Nothing o Au rêve; restano poi interessanti le hit The
sound of violence e I’m a woman (che avevano entrambe dei videoclip stupendi). I
Cassius fanno quindi dell’elettronica convenzionale uno strumento assai eclettico
riuscendo a fare rock progressivo in Hi water, musica disco anni ’70 in Under influence, lofi rumorista in Telephone, acida electro in Trilla. In genere, questo Au rêve è il tipico
secondo album nella carriera d’un artista (per dirla alla CapaRezza) ma porta degnamente
avanti un discorso apertosi mirabilmente con Cassius 1999.
Cassius Au rêve
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Bee Gees Spirits having flown
(13/05/07)
La storia del pop non è caratterizzata da elevate longevità musicali
ma il successo strepitoso di cui furono protagonisti i Bee Gees nel
periodo della disco music non ha eguali. Nel 1979 la pubblicazione
di Spirits having flown, loro album più venduto in Italia, mantenne lo
stile di Saturday night fever, nel quale tutti i brani furono cantati in
falsetto. Il genere fu ancora una volta un’inconfondibile disco, in cui
funky e soul si amalgamavano perfettamente. I singoli di successo
furono Tragedy, esaltazione del loro cantato, la struggente Love
you inside out e la lentissima ballad Too much heaven che anticipò,
nel 1978, l’uscita dell’album stesso. Il successo avrà però due facce per i fratelli
australiani: i Gibb brothers saranno infatti definitivamente identificati con l’immagine di star
assunta in quel periodo. E la critica affilerà presto le penne contro di loro, anche per il
malsano e improprio utilizzo della loro immagine da parte della casa discografica, l’allora
storica RSO. In Spirits having flown i Bee Gees non sono quelli di Massachussets ma è
bene ascoltarli per capire un momento storico e le sue influenze.
•
Telefon Tel Aviv Fahrenheit fair enough
(14/05/07)
Fortunatamente non sono ebrei anche se il nome lo dà a pensare. I
Telefon Tel Aviv sono un duo americano che è riuscito in
pochissimi anni a salire sul tetto del mondo in quanto ad elettronica
e ricerca sonora. La loro prima creatura è questo disco dalle
venature IDM con riflessi astratti nell’universo della musica
concettuale. Proprio la title-track Fahrenheit fair enough è un
torbido pezzo che, dai Matmos ad Aphex Twin, riesce a ricreare
uno spazio strappalacrime con i suoni. Mentre TTV e Lotus above
water abusano di tecnologie glitch, John Tomas on the inside is
nothing but foam e Life is all about taking things in and putting things out utilizzano il
conformismo di batteria e chitarra per approdare ad un discorso sperimentale. Your face
reminds me of when I was old è semplicemente una bellissima esperienza ambientale,
What's the use of feel if you haven't got legs? si ricorda invece dei 4/4 per farci battere il
piede a terra, Introductory nomenclature torna al caro vecchio breakbeat, infine Fahrenheit
far away suona in reverbero la conclusione di questo originalissimo album.
•
(15/05/07)
Nicola Conte Other directions
Chi, come me, lo apprezza infinitamente, si sarà subito accorto che
Other directions di Nicola Conte è molto diverso da Jet sounds.
Saranno gli arrangiamenti, saranno gli strumenti utilizzati, sarà
l’articolazione compositiva, chissà cosa sarà. Rimane il fatto che in
questo album tutte le tracce si stendono su echi esotici e molto
raramente si prestano a letture elettroniche. La prima Sea and
sand è un morbido pezzo col sassofono di Rosario Giuliani, Wanin’
Moon irrompe con pianoforti di alto lignaggio, Nefertiti si rifa
totalmente alla cultura cubana di Perez Prado, Impulso è veloce ed
informale, A time for spring pare rigenerante ed estiva e, quando Kind of sunshine
comincia a movimentare seriamente il disco, arriva Aphrodite’s dream che riporta
immediatamente i battiti al di sotto del ballabile. Conte non regala nulla agli effimeri
estimatori del jazz. Questo è un lavoro solo per amanti di vecchia data; e Several shades
of dawn ne è la prova; inoltre, All gone sembra un vecchio pezzo di Sinatra e The in
between di Buscaglione. Infine Le départ fa rimpiangere un’ora passata troppo in fretta.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Zu & Eugene Chadbourne Motorhellington
(16/05/07)
Incatalogabili, indefinibili, inetichettabili. Gli Zu, fondamentalmente
italiani, sono una band che utilizza batteria, chitarre e sax baritono.
Assieme ad Eugene Chadbourne danno vita al tour
Motorhellington, cui segue questo fantomatico disco fatto di
innumerevoli cover di grandi artisti (ma la differenza tra queste
versioni e le originali è praticamente infinita). Si parte con Iron man
dei Black Sabbath, quindi The robots dei Kraftwerk (assurda!), poi
Chain of fools di Aretha Franklin lascia il posto a Boogie stop
shuffle di Charles Mingus. La destrutturazione dei brani originali
continua senza sosta così come la pazzia di questi musicisti romani. Dopo aver deturpato
Corcovado di Antonio Carlos Jobim, gli Zu si cimentano nella cover di Sex machine del
defunto James Brown; infine con Chadbourne arrivano al satanismo degli svedesi
Motorhead interpretando la loro Sacrifice. Motorhellington è un disco talmente tanto
irriverente da sembrare scomodo, tanto rumoroso da sembrare stupido, ma è uno
splendido esempio di come anche gli italiani sappiano performare certe cose.
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Mauro Ermanno Giovanardi Cuore a nudo
(17/05/07)
Certe licenze non possono prendersele tutti e soprattutto certi
metodi non appartengono a tutti. Mi spiego meglio. Mauro Ermanno
Giovanardi, voce dei La Crus, ha pubblicato quest’anno il suo
primo disco solista, Cuore a nudo, costituito perlopiù da cover di
vecchie grandi glorie italiche. Vedrai vedrai e Un giorno dopo l’altro
di Luigi Tenco, Giugno ‘73 di Fabrizio De André, Naviganti di Ivano
Fossati e altre sono qui reinterpretate. A mio avviso si è perso
qualcosa in confronto all’originale, non per motivi legati alla
decontestualizzazione dell’opera ma per via delle licenze
d’arrangiamento che Giovanardi s’è permesso; molte canzoni hanno perso quel senso di
malinconia, ironia ed emozionalità. Restano invece da lode i versi poetici di Shakespeare,
Tondelli, Pagliarani, Gualtieri o Guerra nelle varie Come un attore, A Milano, Sarà ora di
chiudere, amore, Tu manchi da questa camera o La figa. Belle anche le inedite Un cuore a
nudo, Solo sfiorando e Testamento d’amore. La critica adora questo disco; io lo trovo
troppo altalenante tra il falso intellettualismo e il reale talento autorale.
•
Groove Armada Soundboy rock
(18/05/07)
Sono tornati anche loro in questo 2007, i Groove Armada. Era dai
tempi di Lovebox che questi due americani non si facevano vivi in
maniera tanto pervasiva. Soundboy rock, preceduto dal singolo di
Get down, è un album di pura elettronica spensierata, house,
minimal, funky, rap, trip-hop, electro, synth-pop. Tra le tracce che
più rimarranno nell’immaginario ci sono di sicuro Save my soul, la
già citata Get down, What’s your version?, Love sweet sound,
Song 4 Mutya e Lightsonic. In fondo questo è un disco lungo (quasi
un’ora e un quarto) per essere un prodotto di largo consumo ma
appare, alle orecchie di un estimatore dei Groove Armada, un lavoro incompiuto, che non
è riuscito cioè a continuare la serie positiva cominciata con Vertigo. L’utilizzo che i due DJ
hanno fatto dell’elettronica risulta essere viziata da un cavillo musicale inossidabile, ovvero
il sound commerciale. I produttori hanno cercato dei groove e delle linee vocali troppo
inflazionate, anche se rientrano a pieno titolo nel loro stile creativo; ma il problema
permane anche se Soundboy rock è in fin dei conti un album molto fruibile.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Ross Quaresmini Megaptera
(19/05/07)
Il movimento new age non è mai morto, né culturalmente né
artisticamente; lo dimostra una serie di dischi usciti per la Celestio
nel 1997 a cura di diversi maestri internazionali dell’acustica. Uno
dei migliori è certamente stato Megaptera di Ross Quaresmini
(quello di Monumental wind). Egli viene considerato uno dei più
importanti esponenti della musica new age italiana e non solo:
innumerevoli i suoi brani utilizzati per sonorizzazioni pubblicitarie.
In questo CD Quaresmini si abbandona ad un viaggio immaginario
che ci porta in vari luoghi ed ambienti diversi, accompagnandoci
con una musica sempre rilassante, appagante e sensibile, fino a raggiungere mete interiori
di pace e tranquillità. L’artista ha inoltre partecipato personalmente allo sviluppo del
reconstructive phrase modeling, nel quale gli strumenti hanno molti modi per muoversi da
nota a nota come doppieggi con varie quantità di portamento, punteggi di lingua,
transizioni di nota ad arco, corse veloci. Proprio a cavallo tra il 1996 e il 1997 Quaresmini
si occuperà, dietro Eric Lindemann (pupillo di Pierre Boulez), di slicing e sintesi additiva.
•
Alan Sorrenti Figli delle stelle
(20/05/07)
Una caterva di critiche piovvero sulla testa di Alan Sorrenti quando
si permise di dare alle stampe Figli delle stelle. Molti dissero che
non era più lui, che forse era impazzito, che si era venduto. Fatto
sta che questo disco, diversissimo da Aria, è un bellissimo
prodotto, accattivante, melodico, ballabile, curatissimo, ironico e a
tratti micidiale. Al di là della fortuna della title-track, che tutti
conosceranno, Figli delle stelle contiene altre fantastiche rarità.
Innanzitutto Donna Luna, dal ritmo travolgente e dal testo
disarmante, e poi Passione, fortemente esotica, cantata in
napoletano; dopo l’interludio di Notte di stelle il lato A termina sulla note di E tu mi porti via,
in linea con la tradizione pop italiana ed un accento di ricerca sonora in più. Giriamo il 33
giri e la puntina del nostro automatico si appoggia delicatamente nei solchi di Un incontro
in ascensore: qui il funk sembra divenire la parola d’ordine per entrare nel mondo di Alan
Sorrenti. A seguire c’è ancora funk con Casablanca, quindi il pop di C’è sempre musica
nell’aria ed infine il magnifico rock di Tu sei un’aquila e vai. Al diavolo la critica.
•
(21/05/07)
U2 Rattle and hum
Un album controverso ma significativo, spartiacque fra gli U2 degli
anni ‘80 e quelli dei ‘90. Rattle and hum, registrato in parte in studio
e in parte dal vivo durante il tour statunitense di Joshua Tree, è
soprattutto un viaggio, anzi un pellegrinaggio. Da un lato ci sono le
divinità che come per miracolo si trovano a suonare insieme ai
quattro dublinesi: B.B. King in When love comes to town, Bob
Dylan in Love rescue me e Hawkmoon 269, Mick Jagger e Keith
Richards (in realtà non ci sono, ma Silver and gold saltò fuori da
una jam-session tra Bono e i “gemelli scintillanti”). Dall’altro ci sono
i grandi e grandissimi che gli U2 scomodano a vario titolo: i Beatles con Helter skelter, a
John Lennon è dedicata God part II, Jimi Hendrix, evocato con rito sciamanico all’inizio di
Bullet in the blue sky. E poi Bob Dylan e ancora Jimi Hendrix con All along the watchtower,
la Billie Holiday di Angel of Harlem e Martin Luther King, in un’emozionante (?) Pride dal
vivo. Su tutto aleggia lo spettro di Elvis Presley, patrono supremo del rock’n’roll made in
America, e fauno ispiratore di Bono Vox e compagnia bella.
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The Knife Deep cuts
(22/05/07)
Il secondo disco dei fratelli Dreijer (The Knife, per capirsi) è uno
splendido esempio di elettronica del terzo millennio in quanto
sintetizza bene un passato fatto di synth-pop e un futuro all’insegna
del noise più acido, senza mai dimenticare la rilevanza intrinseca
della melodia. Mixato da Christoffer Berg, Deep cuts si apre con la
potentissima Heartbeats per proseguire con Girls’ night out dove
tutto sembra precipitare in un tetro pozzo di dance commerciale.
Per fortuna è solo un’illusione perché i Knife ci traggono in inganno
con un pezzo invece bellissimo. Arriva il momento soft di Pass this
on e la contaminazione orientale di One for you; quindi il velocissimo electro-pop di Listen
now precede la breve e toccante She’s having a baby. La guest-voice di Jenny Wilson è
intensa in You take my breath away, i synth sono stravolti in Rock classics, il beat è
portato alle estreme conseguenze timbriche in You make me like charity, il time-stretching
vocale è frequente in Got 2 let u, il corno francese di Kalle Lekholm orchestra infine
Behind the bushes. Impossibile che non piace.
•
Iron Maiden Edward the Great
(23/05/07)
Il metal e tutte le sue correnti, le sue branche, le sue ramificazioni
varie ed eventuali (heavy, hardcore ecc.) non mi piace. Non riesco
a trovare nel suo linguaggio uno strumento artistico, vedo in esso
solo provocazione e anticonformismo ma, si sa, con la negazione
di tutto non si arriva a nessun risultato concreto. Ho scelto questo
album da recensire perché è un greatest hits, sicuramente ben
fatto, anche se pleonastico dal punto di vista commerciale e
discografico. Lo scopo di questo best of è forse stato quello di far
avvicinare al mondo degli Iron Maiden gli ascoltatori più giovani ed
avventati. E in effetti le hit della band americana ci sono tutte: Run to the hills, The number
of the beast, Holy smoke, Can I play with madness?, The evil that men do, Futureal, Man
on the edge ecc.; da buon prodotto estremo, tra l’altro, non si fa mancare le ballad sincere
e timidamente sognanti come Infinite dreams o Flight of Icarus. Di talento ce n’è tanto, di
accademismo pure, ma la band e le sue opere peccano esclusivamente - a mio
modestissimo avviso - di un congenito vizio di forma: il linguaggio.
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Nino Rota Amarcord
(24/05/07)
È praticamente impossibile non aver visto Amarcord, uno dei
massimi capolavori di Federico Fellini in termini di aderenza
storica, critica intellettuale e maestria fotografica. Il film si è rivelato
un capolavoro anche (non soprattutto ma quasi) per via della
magnifica colonna sonora composta da un genio assoluto del
genere, Nino Rota. Scansate subito dalla mente il più blasonato
Ennio Morricone e immergetevi nell’ascolto di una qualsiasi prova
d’orchestra di Nino Rota: ne rimarrete estasiati. Il compositore è
stato bravissimo nel ricostruire con la musica la vicenda ambientata
negli anni ‘30 in una Rimini onirica. Le feste paesane, le adunate del sabato fascista, la
scuola, i signori di città, il transatlantico Rex, il suonatore cieco, la donna procace ma un
po' attempata alla ricerca frettolosa d’un marito, il venditore ambulante, il matto, la squillo,
la tabaccaia dalle forme mastodontiche, i professori di liceo, il tabù del sesso, una famiglia
antifascista, l’olio di ricino, il romanticismo. E allora musiche dolci, leggiadre e ariose come
i ricordi che accompagnano le esistenze degli spettatori.
100
Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
101
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Luciano Rossi Pensandoci bene
(25/05/07)
Nessun album di Luciano Rossi è stato mai ristampato su cd in
questi trent’anni, ma per fortuna possiedo tutta la sua discografia
su vinile. Rossi è uno di quegli artisti noti più come autori che come
interpreti (sua è Se mi lasci non vale cantata da Julio Iglesias).
Pensandoci bene è uno degli ultimi lavori in cui il romanissimo
Luciano ha raccolto dieci bellissime canzoni di pop melodico
autorale; la title-track e le seguenti Esco e Chissà riescono
facilmente a raccontare, col tipico linguaggio scanzonato, la
quotidianeità e la vita comune. Romantico perso è un atto
d’orgoglio personale inneggiante al sentimentalismo e alla romanticheria, Fermarsi qui è
invece molto più seriosa e riflessiva. Il lato B comincia funkeggiante con Ti telefono in
settimana per aprirsi poi a Il mio sogno, Non stavo e Ci verresti via, ancora pezzi intimisti e
morbidi; infine Coi soldi scherza sull’enorme peso e sulle infinite possibilità che la pecunia
garantisce a chiunque. Se qualcuno non conoscesse Luciano Rossi, data anche la scarsa
reperibilità del suo materiale, lo invito a far di tutto pur di ascoltarlo.
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Nino D’Angelo Fotografando l’amore
(26/05/07)
Mi dispiace ma tutti devono accettare questo dato incontrovertibile:
la tradizione napoletana fa parte della cultura italiana da sempre. E
Nino D’Angelo ne è uno dei più significativi emblemi. La sua lunga
ed artigianale discografia è considerata oro colato per tantissimi
napoletani metropolitani e di provincia; la sua vita, la sua famiglia,
la sua musica, i suoi testi, la sua arte, sono adorate dal popolo
partenopeo (così come fu per Merola o Maradona). Tra i suoi dischi
c’è questo Fotografando l’amore, bel ritratto della Napoli anni ’80
tutta discoteche, scugnizzi e microcriminalità. Tralasciando le
canzoni più anonime e monotone come Mani gelate, Napoli, È Natale, Una serata
particolare o Comme te voglio bene, preferirei soffermarmi su alcuni brani davvero
sorprendenti. Al di là di Batticuore, inno del giovanilismo napoletano, c’è da sottolineare la
torbida storia di Chiara, ragazzina amante delle esperienze forti e mature, poco adatte alla
sua tenera età; e poi Amore provvisorio, che considero uno dei pezzi più toccanti del
caschetto d’oro. Noi siamo anche tutto ciò, non vergogniamocene.
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Nine Inch Nails Closer to God
(27/05/07)
Quella dei Nine Inch Nails e di Trent Reznor è una carriera
bruciante e contraddistinta da lunghe pause; per primi sono riusciti
a giungere ad una sintesti eccezionale tra rock (quasi metal) ed
elettronica; basti ascoltare il primo stupendo Pretty hate machine o
l’ultimo Year Zero. Il disco recensito oggi non rientra a tutto tondo
nella categoria degli album visto che nasce dalla fusione di due
fortunati EP. Closer to God è però un disco profano e dissacratore,
nel senso che tenta di abbattere tutti i possibili miti che in qualche
modo avvelenano la vita moderna. La title-track che apre il disco è
un potente esperimento tra il glitch e la techno minimale; la prima Closer si spande su
tappeti downtempo; la seconda Closer sembra un prodotto tra big-beat e breakbeat;
Heresy, molto percussiva, torna al gusto minimal; poi la veloce ed acida Memorabilia che
precede la terza Closer, decisamente più ambient e rumorista; superba la successiva
March of the fuckheads, tutta costruita con FX e percussioni; quindi il post-rock delle
ultime due Closer. I N.I.N. hanno dato e ricevuto influenze: ascoltateli per bene.
101
Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Mark Knopfler Sailing to Philadelphia
(28/05/07)
Da solista è quasi più bravo che in gruppo. Parlo di Mark Knopfler e
del suo primo vero progetto solista. Questo disco s’è rivelato
essere un bellissimo modello di musica americana post-dylaniana,
così come tutta la discografia dei Dire Straits. La prima accattivante
What it is, con lunghi intervalli di chitarra tipici di Knopfler, e la titletrack, cantata con James Taylor, rimangono forse i brani più
memorabili del disco. Questa miscela di folk, country, rock e folk
cerca perlomeno di discostarsi dalla vecchia carriera anche
attraverso la maestria di Paul Franklin alla pedal steel guitar e Guy
Fletcher alle tastiere. In The last laugh ascoltiamo persino la voce di Van Morrison mentre
in Speedway at Nazareth arriviamo addirittura alla tradizione black. D’altronde, Silvertown
blues è di matrice Springsteen, le altre Baloney again, Junkie doll, Prairie wedding o
Sands of Nevada si ispirano alla cultura americana. La chitarra, il cui compito era
principale, si trova in un sapiente amalgama; la prova che la creatività non diminuisce
all’aumentare dell’età ma che, al contrario, si arricchisce dell’esperienza.
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Almamegretta Dubfellas
(29/05/07)
Uscito in edicola ad un prezzo più che popolare, l’ultimo disco degli
Almamegretta torna alle origini dub strumentali; Dubfellas è infatti
un viaggio alla ricerca di nuove contaminazioni ed influenze, primo
disco di studio senza la presenza di D.RaD; tutti i brani cercano di
sintetizzare la cultura mediterranea (meridionale, mediorientale,
nordafricana) e la cultura reggae giamaicana. C’è la voglia di
ricominciare, di lasciare per un po’ il palcoscenico, di arricchirsi sul
piano umano ed artistico: il sound si fa infatti ancor più ricercato e
sinuoso, senza mai tralasciare l’impronta Alma. Hey man, Don’t
say, Why not, Dubmuoll, Muro ‘e mare, Mosaique, Swinging on the water, Goin’ home e
Zafra. Nelle parole di Gennaro T sentiamo che la lavorazione dell’album è stata alquanto
insolita, molto rapida, spontanea, del tutto immediata, tant’è vero che il tutto è stato
composto, arrangiato, suonato, mixato in meno di un mese, in uno studio casalingo, che
fino ad ora era stato usato solamente in fase di preproduzione. Tutto ciò che D.RaD ha
insegnato nell’arco di più di un decennio è stato messo in atto in tutte le song.
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Michael Jackson Thriller
(30/05/07)
Se volete ascoltare del buon pop, dopo i Beatles, c’è solo Michael
Jackson. E non poteva mancare quindi la recensione di uno dei
dischi più venduti della storia, più di quaranta milioni di copie
vendute, Thriller. Prodotto dalla mente geniale del talent-scout
Quincy Jones, questo album è la perfetta riunione degli elementi
pop in una cornice disco elettronica (per quel tempo!). Non a caso
troviamo la presenza dell’ex Beatle Paul McCartney in The girl is
mine. Ma, parlando della formazione del disco, sono obbligato a
dire che più di Thriller, il cui videoclip è costato un’enormità e la cui
musicalità è indubbia, è stata Billy Jean a trascinare l’intero disco verso il successo
interplanetario. Se ricordate il videoclip di quest’ultima avrete in mente un mondo fatto di
fiction in cui Jackson ballava in una ventosa città della costa americana. Le canzoni di
quest’album possono essere ballate, ascoltate, remixate, e non perderanno mai quella loro
ineguagliabile forza che proviene dal perfetto compromesso musicale. E volete poi negare
che i trentenni di oggi non debbano qualcosa a questo disco? Inutile. Questa è storia.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Fausto Papetti Accarezzami
(05/06/07)
Quando, da bambino, vedevo la copertina di questo vinile di Fausto
Papetti, i miei ormoni entravano in scompiglio. Accarezzami fa
parte di quel filone anni ’70 in cui ogni artista rivedeva a suo modo,
e con gli strumenti di sua competenza, grandi canzoni della musica
leggera e classica internazionale. Ricordo quindi, a scopo di
menzione, Franck Pourcel, Richard Clayderman, Giancarlo
Chiaramello, Waldo De Los Rios, Santo & Johnny, James Last,
Claude Ciari e, tra gli altri, il nostro Fausto Papetti. Generalmente
non amo coloro che sostituiscono le parti vocali con riff strumentali
ma il sax di Papetti sembra miele sulle dolci note di Pensiero stupendo, Accarezzame,
Beautiful obsession, Femmes, Non sai fare l’amore, All by myself. Pare davvero di far
l’amore mentre la puntina vibra nei solchi di questo 33 giri e far l’amore è consigliabile su
queste musiche; l’amore alla vecchia maniera, quello pieno di eros e sentimento, di cruda
bestialità e infinita dolcezza, di estenuanti endurance e febbrili carezze. L’amore degli anni
’70 me lo voglio immaginare così e Fausto Papetti ne è la colonna sonora ufficiale.
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Kraptfen Microchip progresso
(07/06/07)
Sono praticamente sconosciuti e il motivo di ciò sta nella fama dei
Kraftwerk. Questi ultimi hanno difatti pesantemente offuscato la
presenza dei Kraptfen sulla scena elettronica tedesca di fine anni
’70. Microchip Fortschritt è un 45 giri uscito nell’ottobre 1978 (e
contenuto nell’album Ich sehe nicht die Stunde, um 2000 zu sehen)
dopo che la band di Düsseldorf aveva dato alle stampe il
capolavoro assoluto Die Mensch-Maschine. In Italia il singolo uscì
tre mesi dopo col nome di Microchip progresso, ovviamente
interpretato in italiano dall’anonima band tedesca. Il pezzo è
formidabile, un incrocio ben riuscito tra futurismo tecnologico e avanguardia elettronica,
senza mai tralasciare la vena ironica tipica della prima ondata sintetica europea. Nel brano
è esposta una fiducia spassionata ed assoluta nel futuro - il 2000 viene visto agli antipodi
di come nel Medioevo si guardava all’anno 1000. Inoltre, il fatto di cantare in italiano è una
scelta coraggiosa che nemmeno i Kraftwerk sono stati in grado di compiere, se non un
poco con Nummern. Scovateli e ascoltateli, anche se potrebbe essere una bufala.
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(12/06/07)
883 La dura legge del gol!
Per essere musica adolescenziale non è affatto male. Sicuramente
ben costruita, ben arrangiata, innovativa e intelligente. Gli 883 (già
senza l’altezzoso Mauro Repetto), e Max Pezzali in particolare,
hanno dimostrato di sapersi evolvere nel nome della
continuità/diversità. Ogni disco è un mattoncino in più, un passo in
avanti sulla via della maturità piena. La dura legge del gol!, album
ispirato ovviamente al calcio e alle figurine Panini (tutti noi
maschietti le abbiamo collezionate), tenta di metaforizzare
l’esperienza quotidiana con le regole del gioco più bello del mondo.
E quindi l’impossibilità di intrattenere relazioni amorose con un’amica/o de La regola
dell’amico, il magone a storia finita di Nessun rimpianto, l’ottimismo ironico di Andrà tutto
bene, lo stress derivante da un partner troppo appiccicoso di Non ti passa più, il ricordo
per un amico morto di droga di Se tornerai. Sembra di vedere tutta l’allegra combriccola di
amici al bar che spettegolano e parlano di calcio, ovviamente attraverso quelli che
vengono chiamati discorsi da bar. Chiamatelo qualunquismo ma è buon pop.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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The Jam All mod cons
(16/06/07)
Rispetto ai primi due lavori, il suono e le tematiche di All mod cons
mostrano una maturazione evidente nel songwriting del giovane
Paul Weller, leader dei Jam, il quale paga sì i dovuti tributi ai
maestri (con una cover di David Watts dei Kinks) ma, al contempo,
sviluppa una confidenza nuova e promettente con la melodia che
gli permette di affrontare senza paura i risvolti più armonici dei suoi
componimenti. Le due ballate Fly ed English rose ne sono indubbia
testimonianza. Impressiona inoltre il risvolto politico, con la
canzone Down in the tube station at midnight bandita dalla BBC
perché contraria alla svolta anti-immigrazione del governo britannico. Alla fatale prova del
tempo, All mod cons si rivela eccezionalmente giovane; le sue tematiche sono sempre,
purtroppo, d’attualità e la musica è un concentrato favoloso di vigore e melodia. Il punto
dolente è l’attitudine mod del gruppo, il quale, partendo dalla definizione etimologica di
modernismo non impegnato, si mette ad indagare ambiti sociali che poco gli
corrispondono. È musica del Regno Unito: godetevela così com’è senza pensarci.
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Bandabardò Mojito Football Club
(20/06/07)
La terza fatica discografica della Bandabardò si chiama Mojito
Football Club. Per alcuni il disco riesce a suscitare forti emozioni,
altri lo trovano monotono e ripetitivo. Di certo i testi non
raggiungono la poesia di cui Erriquez è capace, risultando frivoli
seppur divertenti. In Pianeta Terra si rievoca il telefilm Spazio 1999
e l’omaggio alla fantascienza viene rafforzato citando Blade runner,
mentre in Mojito F.C. si citano le gesta dei componenti della banda
su un campo di calcio in un pomeriggio d’estate. Musicalmente
questi toscanacci sono migliorati; l’affiatamento, già ottimo, è stato
ulteriormente affinato e il risultato sonoro è di prima qualità. È anche cambiato qualcosa
rispetto al passato con la presenza di una più marcata chitarra elettrica e, in alcuni casi, di
un legame con il rock classico (Domani), con il rock psichedelico (Finaz drom #1 e Novità)
o con la musica latino-americana (Il muro del canto). Lontanissimo è il ritmo trascinante di
Beppeanna e altrettanto lontane appaiono le elaborazioni ideologiche ma quest’album si
ascolta dal vivo con immenso piacere; l’importante è non appioppare valori di troppo.
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Visage The anvil
(21/06/07)
Se li conoscete è per via di Fade to grey (contenuta nel primo
omonimo album) ma i Visage sono tutto ciò e qualcosa in più. Band
di culto degli anni ’80 che è riuscita ad immagazzinare tutte le
esperienze elettroniche pop e a fonderle in un progetto personale e
intrinsecamente peculiare. The anvil, secondo disco della band
anglosassone (nel 1982 su Polydor), appartiene al genere
chiamato erroneamente new wave o, per meglio dire, synth-pop. A
fare grande questo album concorrono i pianoforti, i pad eterei, i
beat celeri, i bassi sintetizzati, le voci riverberate. The damned
don’t cry pare uscita dall’inferno, Anvil (night club school) è da dancefloor, Night train
sembra molto più strumentale (è il pezzo trainante del disco), The horseman è
marcatamente pop, Wild life rompe le barriere radiofoniche, Again we love ricorda i migliori
Devo, Look what they’ve done addirittura i nostri Righeira. Questa nuova ondata electro
che sommerse l’Europa nel primo lustro 80’s è da considerarsi un’effimera parentesi ma i
Visage vanno localizzati nell’epicentro di questo terremoto musicale. Bravissimi.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Timbaland Shock value
(22/06/07)
Timothy Mosley aka Timbaland è sempre stato più bravo a
produrre altri artisti piuttosto che a farlo per se stesso. Il suo ultimo
lavoro si chiama Shock value ed ovviamente prevede un infinito
carosello di comparse, duetti e featuring. C’è di buono che
Timbaland, assieme a Pharrell, è riuscito a dar nuova linfa ad un
genere che negli ultimi anni ’90 si era adagiato sul piattume totale.
L’hip-hop ha una nuova veste, più percussiva ed elettronica, meno
analogica e melodica. Il singolo di lancio dell’album è stato Give it
to me con Justin Timberlake e Nelly Furtado, entrambi (ri)lanciati
da Mosley; il primo è un giovane promettente, la seconda era una cantante bruciata. Ma
poi nel disco c’è la techno di The way I are (con D.O.E. e Keri Hilson), il funky di Release
(con Timberlake), il rap di Bounce (con Dr. Dre e Missy Elliott), il soul di Come & get me
(con 50 Cent e Tony Yayo), il nuovo promo rock Throw it on me (con gli Hives), addirittura
il duetto in vecchio stile di 2 man show con Elton John. Timbaland ha prodotto persino
Earth intruders di Björk quindi può permettersi anche un dischetto come questo.
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Megahertz Estetica
(23/06/07)
Questo ragazzone di quasi due metri che si fa chiamare Megahertz
è un grande. È infatti riuscito ad aprire un varco tutto italiano
all’interno della smorta scena electro-pop con un disco dal sapore
retró. Lo dice il titolo stesso, è un lavoro estetico, tutto basato sul
primo acchito e sul primo ascolto; non può non piacere, anche alle
orecchie più schizzinose e restie. Il più delle volte il cantato è in
lingua inglese ma non manca il francese in Sweet emotion o la
magnifica versione italiana di Mini calcolatore (esatto, proprio
Taschenrechner dei Kraftwerk); tutto viene racchiuso in uno
scatolone glam dove il synth e la drum machine fanno la parte dei protagonisti. Space
oddity, Disco adventure, Don’t leave me cold, In the corner e la title-track sono superbi
esempi di synth-pop. Addirittura Megahertz si prende la briga di attualizzare la favola del
burattino più famoso del mondo chiedendosi se sia meglio crescere o restare infantitli e
sognanti. L’estetica non può che andare a braccetto con lo stile de L’eleganza, con gli
amori esagerati di Little girl e con le noie e le virtù di Please can I go now?.
•
(24/06/07)
Steve Vai Passion and warfare
Uno dei più grandi chitarristi alternative rock degli ultimi vent’anni è
sicuramente Steve Vai, figlio putativo di Frank Zappa nonché suo
aiutante alle “stunt guitar”. Negli ambienti metal il suo disco più
amato è forse questo Passion and warfare (un tempo si chiamava
così lo stato sociale, oggi welfare) che contiene, tra le tante,
l’inimitabile passione di For the love of God. Il pezzo in questione è
un componimento che riesce, con la sola musica, a tessere un filo
strettissimo fra spiritualità e umanità; la chitarra di Vai sembra
riuscire dove la mano umana dovrebbe invece lasciare il posto a
quella di Dio. Tuttavia, gli altri pezzi non sono da meno. Il virtuosismo del gran maestro
esplode nei riff e nei lunghi assoli di The audience is listening (stavolta cantata da Jamie
Firlotte e Nancy Fagan) e Blue powder. La moglie di Vai, Pia (bassista delle Vixen), la
ritroviamo alle tastiere di Answers, come se la produzione dell’intera opera sia stata un
fatto meramente individuale e personale. È forse la ricerca di una fede, di una serenità e di
una pace interiore da parte di uno che col suo sangue c’ha dipinto la propria chitarra.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Prince Sign “O” the times
(25/06/07)
È rigorosamente confezionato in 4/4 questo magnifico doppio
album dell’artista per eccezione Prince, capace di lenti
sontuosamente sentimentali e balzi fortemente dance. La
produzione rientra a grosso modo nel filone r’n’b ma Prince non
omette una certa vena impegnata, specialmente nella title-track in
cui, accanto allo sperimentalismo pop si va ad affiancare il
messaggio pacifista. Nel primo disco troviamo l’amore
incontaminato di Slow love, l’umanità di The ballad of Dorothy
Parker, il ritmo percussivo di Housequake, la black music di Play in
the sunshine, l’elettronica old-school di It, il gospel di Starfish and coffee. Nel secondo LP
tutto pare leggermente più plastificato (nell’accezione positiva) come in U got the look, If I
was your girlfriend e Strange relationship. Ascoltandolo tutto d’un fiato, Sign “O” the times
ci ricorda oggi come sia possibile pubblicare sedici brani di pura musica senza mai cadere
in futili ripetizioni e banali plagi. Un disco fatto di ottimismo, allegria, musicalità,
romanticismo e profondità allo stesso tempo. E non è poco.
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Rockets Galaxy
(26/06/07)
I pionieri del movimento space rock europeo sono sicuramente i
Rockets, band francese prodotta in Italia nonché progenitrice
dell’immaginario dei Daft Punk. Questi signori che andavano sul
palco con i visi pittati d’argento e vestiti con mode aliene hanno al
loro attivo parecchi album di studio, un live ed alcune collection.
Galaxy è l’album del 1980, successivo ai tormentoni di On the road
again (quella rifatta pure dai Telex, guarda caso!) ed Electric
delight. In questo disco trovano spazio alcune chicche di raro
splendore: innanzitutto la trascinante Galactica e poi le altre
bellissime One more mission e Universal band. Il tema ricorrente è ovviamente quello
dell’universo, guardato con un occhio indagatore e appassionato, come un bambino
guarda per la prima volta le stelle del firmamento. L’utilizzo pesante di vocoder, synth ed
effetti elettronici aggiunge a questo rock una caratteristica unica e quasi avanguardistica;
ascoltate Mecanic bionic o Synthetic man e capirete. In fondo alla tracklist troviamo un
breve ma intenso medley che amalgama in sé perle come Anastasis o Apesanteur.
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Madness One step beyond…
(27/06/07)
Se parliamo di gruppi storici in fatto di ska e 2-tone allora i
Madness sono la risposta esatta. Il loro primo album è questo One
step beyond…, talmente frenetico da occupare uno spazio troppo
ambito nel mondo della musica. Soprattutto perché al suo interno
trovano posto due grandi successi della band inglese, Land of hope
& glory e la title-track One step beyond, quest’ultima coverizzata da
decine di artisti del genere (su tutte consiglio Un passo avanti degli
Statuto). Il loro revival rientra a pieno titolo nel disagio
generazionale venutosi a creare nelle città industriali inglesi a
cavallo fra gli anni ‘50 e ’60. Ed il disagio viene esorcizzato con la voglia di ballare e far
pensare, di divertirsi e divertire, ovviamente il tutto unito da una cerniera di unicità e
peculiarità estrema. Bellissime dunque My girl, Believe me, The prince, In the middle of
the night, Razor Blade Alley, Mummy’s boy e Swan Lake. Persino Night boat to Cairo, che
ricorda in qualche modo una certa tradizione musicale, risulta stupenda. E allora stereo a
palla in macchina e rocksteady a go-go con i Madness!
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Mango Sirtaki
(28/06/07)
Un successo arrivato con tremendo ritardo rispetto all’impegno
elargito durante gli anni ’70 e ’80 quello di Giuseppe (Pino) Mango.
Questo disco rappresenta però la sua formidabile rivincita verso il
jet-set musicale italiano d’inizio anni ’90 in un clima artistico
svuotatosi della patinatura precedente e in rapida caduta verso il
puro commercialismo. Si sente subito la produzione artistica nelle
mani di Mogol (assieme ad Armando Mango) ma il merito di tanta
riuscita fatica è la bravura e l’inconfondibile voce dell’autore lucano.
Nella mia città, I giochi del vento sul lago salato, Come Monna Lisa
e Preludio incantevole sono tutte fotografie poetiche d’una vita bucolica e dedita alle
relazioni interpersonali. La musica di Mango non risulta mai vincolata ma, semmai, fruisce
di immensi spazi ed attinge spesso dalle tradizioni esotiche (la title-track si rifa proprio
all’omonimo ballo greco). Non a caso spesso troviamo tempi dispari, lontani dalla
tradizione italica cosicché le altre canzoni Così viaggiando, Terra bianca, Ma com’è rossa
la ciliegia, Ma che musica c’è ecc. fanno da eco alla dimensione algida del disco.
•
AA.VV. Faccetta nera
(01/07/07)
Mettendo da parte i credo politici, tutta la musica del regime
fascista ha avuto il merito di portare fino a noi un mito (nel bene e
nel male), lasciandone intatta l’anima artistica e culturale; la prova
del consenso di un regime ideologico sta in questi canti, intonati
allora da balilla, avanguardisti, figli della lupa, soldati, gerarchi,
religiosi e intellettuali. Tantissime sono le compilation masterizzate
in questi decenni che riprongono quegli inni e quelle marce, con
livelli di qualità altalenanti. In questa vecchia registrazione intitolata
Faccetta nera, in onore al mito esotico della buona madre e
perfetta colone, troviamo il saluto di guerra di Ciao biondina, la morale maschia di
Vincere!, l’amore spassionato per la romanità dell’Inno a Roma, la lode alle milizie
mussoliniane dei Battaglioni M, la conquista della Quarta Sponda di Faccetta nera, il
militarismo giovanile di O giovani ardenti, l’esotismo imperialista de La sagra di Giarabub,
l’eroica battaglia di Adua e l’orgoglioso manifesto di Noi tireremo diritto. Sono temi
discutibili ma aiutavano il popolo a rimanere unito al fianco di un capo supremo.
•
Madonna Confessions on a dance floor
(02/07/07)
Arte significa attribuire un significato ad un’opera umana; più
profondo e complesso sarà tale significato, più l’arte godrà
dell’omonimo status. Dire che Madonna è un’artista mi pare una
bestemmia, che non riguarda solo il suo nome. Non saper scrivere
musica, non saper scrivere testi, ma saper solo cantare, non fa di
un’interprete un’artista. Confessions on a dance floor è l’ultimo
disco di studio della cantante americana, un album che fa largo uso
dell’elettronica dance per riportare a sé una fetta importantissima di
mercato, quella dei nuovi giovani. Musicalmente il disco è ben fatto,
anche se ripetitivo, e il cantato riposa in linea sui frequenti synth. Le hit le conosciamo tutti:
Hung up, Get together e Jump. Le altre canzoni invece non hanno e non avranno uguale
gloria perché trattansi di semplici riempitivi o, per usare un termine arcaico, di B-side. C’è
chi dice che alcune influenze provengano dalla tradizione electro europea ma io, di questa
influenza, non ne sento traccia. È principalmente un disco inutile, buono per vendere
qualche milione di copie. E solo gli sciocchi e gli avidi fanno ciò.
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Black Strobe Burn your own church
(03/07/07)
In tanti aspettavano da troppo un album vero e proprio da parte dei
Black Strobe dopo la riuscita raccolta di remix che li ha visti mettere
le mani su Nine Inch Nails, Tiefschwarz, Depeche Mode e
Rammstein. Ancora una volta è la Francia elettronica a darci una
bella lezione e a farci mangiare la polvere. Burn your own church è
un interessante disco di punk-rock elettronico, con ritorni di blues,
funk e house. Si apre strumentalmente con Brenn di ega kjerke,
quindi esplode subito con la depechiana Shining bright star e la
morbidissima Girl next door; l’electro-rock torna con Blood shot
eyes e con Not what you need, mentre a metà album troviamo la hit I’m a man, punk
venato di synth e rap nonché singolo promozionale dell’intera fatica discografica. Tutto
torna calmo dopo l’omeopatica Lady 13 ma presto l’aria riprende fuoco con You should be.
Finalmente il rock si allenta e viene a galla un po’ di minimalismo techno con Buzz buzz
buzz anche se le seguenti Last club on Earth e Crave for speed, a risultati alterni, ci
lasciano intendere che i Black Strobe sono più bravi con le chitarre che con i beat.
•
Ex-Otago The chestnuts time
(04/07/07)
Contro ogni luogo comune, la band genovese degli Ex-Otago è
l’unica ad elogiare l’arrivo dell’autunno dopo un’estate incolore. Nel
disco traspare questa continua malinconia, forgiata nello stampo
del pop sbagliato (per usare un eufemismo della Riotmaker, casa
discografica della band). The chestnuts time è la prima convincente
prova del talento tutto italiano di un gruppo totalmente underground
e indipendente; After August, September, Ford Capri’s foglights,
Seven A.M. e la title-track, a volte suonate con chitarre a volte con
giocattoli analogici, ci immettono nel sangue quell’amarezza per le
cose passate e un’infantile allegria verso i tempi che veloci corrono. Nel disco non manca
infatti l’aspetto arioso e giocoso di Dual band is not my friend, Chi odia la sete ama
l’orzata, Coffee flavour o The breakfast jumpers; anticonvenzionale e riuscitissima, poi, la
cover di Save a prayer dei Duran Duran, lodati qui come band emblematica dei mitici anni
’80. Questi Ex-Otago, ormai noti per l’esilarante videoclip di Giorni vacanzieri, sono una
bella realtà e io li consiglio a voi con tutto il cuore.
•
Justice †
(05/07/07)
Finalmente un po’ del french touch torna a rivivere una nuova alba
musicale, grazie anche al talento di questi due DJ, Gaspard Augé e
Xavier De Rosnay, riuniti nel progetto Justice. Il titolo del disco è
una semplice croce e difatti il delittuoso talento noir viene fuori in
tutto il suo dirompente sciacallaggio di synth e beat acidi. Genesis,
Let there be light, Newjack e Phantom ne sono il più evidente
sintomo; i Justice amano spezzettare i loro groove per dar vita ad
una house totalmente innovativa ed elettrificata. Tra le tante cose,
nell’album non mancano momenti di elettronico relax come in
Valentine, anche se l’attitudine dance è decisamente più forte: ascoltate infatti D.A.N.C.E.,
Tthhee ppaarrttyy o Stress per capire ciò che intendo dire. Per fortuna † non ha fatto a
meno della meravigliosa Waters of Nazareth, pubblicata due anni fa per Ed Banger
Records. Qualche patito di house si è spinto a dire che questo è sicuramente il disco
dell’anno; personalmente non me la sento di affibbiare una tale ambita nomination ad un
prodotto per discoteche ma la qualità e la novità di † è invidiabile.
108
Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
•
109
Litfiba Spirito
(06/07/07)
L’ultimo miglior disco dei Litfiba è forse questo. L’album si apre con
la traccia più heavy, Lo spettacolo, singolo di buon successo con
un inizio spettacolare ed un bel riff; Animale di zona si apre invece
con un’introduzione quasi apocalittica; la title-track è un frammisto
di musia zigana e rock cantautorale; La musica fa è poi una ballad
che alterna chitarra acustica e percussioni; lo stile di Tammùria è
sulla falsa riga di quello di Spirito, con un ritornello che è piuttosto
gioioso; il falso blues di Lacio drom regala probabilmente la
migliore canzone dell’album, la quale non si sbilancia mai né verso
influenze zingare troppo evidenti né verso reminiscenze hard-rock; Diavolo illuso è
finalmente l’emersione dello zingaresco e dell’heavy: percussioni, ritornello alquanto
carino, assolo molto bello; Telephone blues, di brevissima durata, è un semistrumentale
con Pelù che canta un testo assurdo sopra un giro di basso e a voci telefoniche distorte;
Ora d’aria è un altro frammento heavy; infine Suona fratello è sicuramente stata scritta da
ubriachi fradici. Un disco contaminato e dolce all’ascolto di quando il rock Litfiba era rock.
•
Dire Straits Making movies
(07/07/07)
Making movies è figlio della fase più esplosiva ed ambiziosa della
carriera di Knopfler, leader dei Dire Straits. Non a caso il chitarrista
ritmico della band, ovvero il fratellino David, si è allontanato proprio
durante la registrazione di questo album, pare a seguito di litigi ed
incomprensioni con Mark, la cui figura dominante ed il cui talento
dispotico probabilmente erano incompatibili con i rapporti di
parentela stretta interni al gruppo. Mettendo da parte il gossip, tutto
l’album è pervaso di energia e tensione, percepibili già dalla lunga
ed articolata canzone di apertura Tunnel of love; mitica Romeo and
Juliet, che con quell’arpeggio di steel guitar e con quella voce irresistibilmente ruvida è
diventata meritatamente una lezione di stile e di songwriting per ogni artista che si avvicini
al mondo del pop-rock chitarristico. Il resto è rock’n’roll quello che segue nelle altre meno
note Solid rock, Expresso love, Hand in hand, Skateaway e Les boys, offensivo siparietto
sui gay. Il mix del disco è esplosivo, tutto è ben oliato e cadenzato, le chitarre sono
sempre al top e la voce di Knopfler è ruvida. Non ci son fronzoli e non c’è che dire.
•
I Gatti Di Vicolo Miracoli In caduta libera
(08/07/07)
Nel 1975 Maurizio Costanzo elogiava la funzione satirica de I Gatti
Di Vicolo Miracoli, i quali erano a suo avviso andati a colmare uno
spazio latitante della musica leggera italiana. In origine erano sei
ma per questo disco li troviamo in quattro (Franco Oppini, Umberto
Smaila, Jerry Calà e Nini Salerno), tutti futuri uomini di spettacolo e
di televisione. Il sociale è da subito presente in Quanto vale un
uomo (e ricorda Se questo è un uomo di Primo Levi), il ciclo della
natura in Buona terra, l’inconsapevole innocenza in Uomini,
bambini, angeli, l’amore miracoloso del parto ne La leggenda della
donna, l’orgoglio autoreferenziale in Padroni di noi stessi, l’importanza delle radici in
Dedicata al Veneto. Ma c’è anche la fraternità di Un amico in più, l’ottimismo di Vittoria! e il
rallentamento riflessivo di È il momento di pensare. Questi giovani pionieri non ebbero in
fondo il successo che Costanzo auspicava, almeno a livello musicale, anche se tuttora i
loro dischi continuano a venir ricercati ossessivamente dagli estimatori e dai collezionisti.
Io ringrazio mio padre per aver acquistato In caduta libera a tempo debito.
109
Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
110
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Red House Painters Down colorful hill
(09/07/07)
L’elemento che affascina di più in questo disco è il suo innato
senso della misura. Niente si poteva omettere, niente si sarebbe
potuto aggiungere. Tutto suona perfetto, calibrato, riuscendo in un
miracolo incredibile, protrarre per tanti minuti l’ascolto di un pezzo
senza mai stancare. Eppure gli arrangiamenti sono assolutamente
essenziali, la strumentazione è ridotta all’osso, ed è proprio il senso
di desolazione a fare la differenza. Down colorful hill (1992) dei
Red House Painters non annoia perché riesce a stabilire
un’empatia così profonda con l’ascoltatore da indurlo in uno stato
quasi catartico, in cui tutto ciò che lo circonda importa poco o è distante. Vagiti di chitarra
in 24, ritmiche austere in Michael (dedicata ad un amico scomparso), depressione mesta
in Japanese to English, richiami folk in Lord kill the pain e lamentele chitarristiche in
Medicine bottle. Non fatevi ingannare dall’essenzialità degli arrangiamenti: Down colorful
hill richiede attenzione e pazienza prima di essere assimilato appieno. D’altra parte questa
sua capacità mimetica è un punto di forza che lo caratterizza da sempre.
•
Guesch Patti Labyrinthe
(10/07/07)
Guesch Patti (nella vita Patricia Porasse) conosce il successo
nell’estate del 1987 con Étienne, che sarà disco d’oro in Francia.
L’interprete vende un milione e mezzo di copie di questo singolo e
raggiungerà la vetta nelle classifiche di nove paesi. L’album che ne
segue, Labyrinthe, conosce, non a caso, il medesimo successo. Ne
sono estratti tre altri singoli: Let be must the queen, Bon
anniversaire e Cul Cul Clan. La Patti ottiene anche una Victoire de
la Musique (una specie di Grammy che si tiene in Francia) nel 1988
nella categoria “rivelazione femminile dell’anno”. In fondo erano gli
anni dell’exploit musicale femminile sia in Europa che in America e le dinamiche
melodiche del singolo trainante, Étienne appunto, si rivelavano in linea con il trend pop in
voga. È un disco che non può e non deve dimostrare speciali potenzialità artistiche ma,
come europei, dimostrammo allora di poter vendere anche noi milioni di dischi senza per
forza sottometterci alla musica d’oltreoceano o d’oltremanica. Nonostante, tutto sommato
e con parecchie riserve, Labyrinthe si ascolti anche con un certo piacere.
•
Tanita Tikaram Ancient heart
(11/07/07)
Sempre allo stesso periodo di Guesch Patti appartiene anche
l’affascinante cosmopolita Tanita Tikaram e il suo primo album
(1988). Di origini indiane, figiane e malesi (suo padre era un
ufficiale dell’esercito britannico), la Tikaram nacque a Münster, in
Germania, per poi trasferirsi con la famiglia a Basingstoke in
Inghilterra. Ancient heart è contraddistinto dall’enigmatica e
deliziosa Twist in my sobriety (la sua canzone più conosciuta), che
fu un vero successo e condusse l’autrice ad un tour mondiale. Il
pezzo fu accompagnato da un video in bianco e nero vincitore di
numerosi premi, girato in un’area rurale del Sudamerica da Gerard De Thame. Tra gli altri
pezzi da menzionare c’è Good tradition. Quanto al timbro originale della sua voce, va detto
che una vellutata raucedine e un’ottava sotto il tono medio delle donne le hanno
consentito di impersonare ruoli melodrammatici. Gli arrangiamenti sofisticati della scuola di
Rickie Lee Jones le hanno invece consentito di spaziare fra musica classica, blues,
reggae, jazz, latin e polka. Tanita durò un paio di album perché cadde presto nell’oblio.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Visitors Visitors
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24 Grana Loop
111
(12/07/07)
I tempi d’oro del techno-pop trovarono una breve luce anche in
questo gruppo a metà fra demenziale e space rock nell’album
omonimo Visitors (1981). Da subito la band canta la propria venuta
sulla terra in V-I-S-I-T-O-R-S ‘81, quindi ci invita a fare baldoria con
le chitarre elettriche di Everybody now!. La voce che prende molto
da Elvis, le ritmiche tipiche degli Stones, gli effetti peculiari dei
Devo, fanno di questo unico esemplare un pezzo pregiato. Tra
sperimentalismo e rock la demenziale A-E-I-E-O, quindi un po’ di
sano internazionalismo protodub con Reveille toi / Svegliati / Get
up! e finalmente l’approdo al contenuto sociale di Mental slavery: era infatti consuetudine,
durante gli anni ’80 elettronici, mischiare ironia e impegno, leggerezza e denuncia.
Meravigliose le due parti di Joyo can you hear, partorite - sembra - dalle astronavi di
Space Invaders; infine trascinante rock’n’roll in Don’t squeeze! e incazzato punk-rock in
Try. La patina electro sulla struttura rock ha dato vita a parecchi progetti musicali ma i
Visitors restano una splendente meteora in questo sconfinato panorama.
(13/07/07)
Tutto ciò che ci troviamo attorno non è altro che la ripresentazione
di ciò che è già stato vissuto, visto e accaduto. Tutto è un ciclo, un
circolo vizioso o, per dirla in termini home-made, tutto è in loop.
Questa è la fondamentale base di partenza del primo vero album di
studio dei mitici 24 Grana, band partenopea che ha sorpassato a
volte la leziosità dub degli Almamegretta. Il disco non è però fermo
su queste posizioni e va a parare in diversi ambiti, innanzitutto non
può mancare l’ode amara a Napoli di Vesuvio, unica vera entità
che incute timore ai suoi pedemontani abitanti. Per fortuna i 24
Grana non si dimenticano nemmeno di denunciare lo schifoso sistema carcerario con
Patrie galere o di elogiare le giornate napoletane contro Napoleone in 1799 (leggete il
molisano Vincenzo Cuoco per capire); poi un po’ di terapeutico sentimentalismo con
Treno, Frate e sore e Lu cardillo ci fanno muovere il sedere e ci inebriano le orecchie. Il
dub dei 24 Grana è efficace ed intenso che, infatti, quando arrivano Perso ‘into ‘o cavero,
Introdub o Pixel, le basse frequenze cominciano a cappottarci lo stomaco. Che bravi!
•
(14/07/07)
Fare Soldi One nation under a grande cassa
Luka Carnifull più Santana Pasta uguale Fare Soldi, dinamico
progetto houseggiante di casa Riotmaker (la stessa di Amari, ExOtago, Scuola Furano, Roundpear e Ricciobianco). One nation
under a grande cassa è il loro secondo e ultimo disco, breve ma
strumentatissimo. Assurdi i titoli, come al solito, e si comincia infatti
con i synth a pezzi de La musica dei camion, per poi passare ad
una specie di brasilieggiante samba con Oratorio faster; dopo
l’interludio di Go go discomusic è l’ora della malinconica Gli occhi di
Bud Spencer, tutta giocata su altissime note di VST instruments e
chitarra. Un altro interludio (Kronos alte) e arriva Militari che gridano, rumoroso
esperimento tra pop e house magnificamente riuscito; finalmente sentiamo anche la voce
di Pasta in Primi baffi che va a scemare nell’ultimo interludio Le aziende informano.
L’elettronica veloce e i testi bizzarri tornano in Big in JPG, la futilità godereccia in Calippo
dappertutto ma il talento è davvero infinito in Benvenuto nel ’92, ragazzo del Phuturo. Vi
giuro che è impossibile rimanere impassibili di fronte all’esecuzione di questo album.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Bat For Lashes Fur and gold
(15/07/07)
Si dice che sia una via di mezzo fra la complicata poetica di Björk e
l’avvenente musicalità di Kate Bush. Natasha Khan, qui col nome di
Bat For Lashes, pubblica il suo primo disco Fur and gold che, per
essere un esordio, ha tutto il sapore dello stupore. La tracklist si
apre con le percussioni orchestrali di Horse and I e prosegue con i
bassi elettrici e i kick elettronici di Trophy; il pianoforte suonato alla
Satie spiana la strada alla meravigliosa What’s a girl to do?, brano
scelto per il lancio dell’intero album. Arriviamo così a Sad eyes (che
non è la cover di Bruce Springsteen), quindi a The wizard, vero e
proprio esperimento tra jazz e trip-hop. Le atmosfere fredde tipiche dell’Europa
settentrionale si aprono una strada in Prescilla e in Bat’s mouth (che c’entrano tutti questi
pipistrelli?); la posizione 9 è occupata dalla bellissima nenia di Seal jubilee, e il disco va
dolcemente a concludere la sua storia con Sarah e I saw a light. Di questi tre quarti d’ora
ci resta un insaziabile vuoto cosmico causato non da manchevolezze dell’artista bensì
dall’essere andati a toccare delicate corde dell’anima.
•
CCCP Fedeli Alla Linea Socialismo e barbarie
(16/07/07)
Il primo disco prodotto sotto la Virgin scatenò l’ira funesta dei fan
più anticapitalisti: i CCCP si erano venduti! «Fedeli alla lira!»
avrebbero urlato. Ma Socialismo e barbarie è un disco
meraviglioso, che gode di arrangiamenti qualitativamente eccelsi e
di un Lindo Ferretti in formissima. Si comincia con il rifacimento
rock dell’inno sovietico A ja Ljubliju SSSR ma va tenuta a mente la
divertente e spietata Rozzemilia; inutile dire che il tutto è intriso di
filosovietismo anche se, considerando gli anni in cui i CCCP sono
stati attivi, il comunismo russo stava vivendo la fase prima più
immobilista e poi più bigotta della storia. Facile trovare il senso esistenziale di Stati di
agitazione, cruda la dialettica clericale di Libera me Domine, intelligente ma troppo
celebrativa Manifesto, dannatamente antisistema Sura. Prima di Inch’Allah - ça va (con
Amanda Lear) c’è Radio Kabul: pensate che allora si parlava ancora di Repubblica
Democratica (sovietica) di Afghanistan. Giovanni Lindo Ferretti o non è mai stato
comunista o la sua ultima svolta è stata autentica, considerando che ha votato Berlusconi.
•
Gianluca Capozzi Sarò musica
(17/07/07)
Mi diverte molto ascoltare tutta l’immondizia che riempie di tanfo
pestilenziale il mercato discografico italiano, non permettendo così
ai giovani talenti puri di emergere o di mutare i gusti del nostro
banale popolino. Gianluca Capozzi fa parte proprio di quella
schiera di idioti cantanti melodrammatici che hanno tratto immenso
giovamento dalla rivoluzione italiota di Gigi D’Alessio. Ed io lo
recensisco perché spero di scagliare un sassolino contro il suo
mondo per aizzare quella purtroppo inutile intifada che vede
contrapposti questi notabili da due soldi con le realtà underground
fatte di sudore e talento. Sarò musica è un album che fa schifo: testi pieni di vacuità,
musiche rimaste indietro di almeno trentacinque anni, progetti di marketing degni dei
mercati di Lahore e il belloccio di turno che canta con accento napoletano. Il brano più
famoso del disco è Angel che nell’hinterland campano spopola da qualche tempo, facendo
piangere ed impazzire quattro gallinelle. Ma in fondo ho torto io perchè l’Italia - lo dico
spesso - è anche questo e quindi tutto ciò è leggittimo. Ma lasciate che mi vergogni.
112
Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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The Manhattan Transfer The offbeat of avenues
(01/09/07)
A partire dal 1979 ogni loro album ha praticamente vinto un
Grammy. Considerati degli innovatori della musica dagli
ammiratori, dai colleghi e dalla critica, i Manhattan Transfer, con i
due precedenti lavori Vocalese e Brazil, hanno creato due
capolavori. Con l’uscita di questo disco, primo con la Columbia e
prodotto da Tim Hauser, ci offrono quella che si può considerare la
collezione più interessante di interpretazioni della loro carriera.
Sassy è un travolgente omaggio a Sarah Vaughan, What goes
around comes around è un insieme di jazz e be-bop, Blues
serenade è invece una melodia anni ’30 che sembra uscita dal Cotton Club, Women in
love è un pezzo tra r’n’b e rap, Blues for Pablo è un duplice omaggio a Picasso e Casales,
due grandi artisti spagnoli del secolo scorso (anche se la canzone è in pratica un
visionario apporto alla loro lotta contro i fascismi). Le collaborazioni si sprecano, da Ian
Prince a Les Pierce, a Jeff Lorber, cosicché agli amanti (e non) del blues, The offbeat of
avenues risulterà splendido, con undici canzoni interpretate in maniera eccellente.
•
Mano Negra Amerika perdida
(02/09/07)
In bilico fra zouk e patchanka, il tutto imbevuto di ritmi
sudamericani e caraibici. Amerika perdida dei Mano Negra (uno dei
primi progetti di Manu Chao, per intendersi) nasce tra il 1988 e il
1991 in seno alla Virgin francese. Il disco, soffermandoci al suo
aspetto più schiettamente musicale, è un prodotto molto ritmato e
strumentato; le trombe di Mala vida mi rimbombano ancora nelle
orecchie. La title-track - facile da immaginare - è un elogio
all’America che non c’è più, atteggiamento tipico di chi ha sempre
amato gli Stati Uniti ma che, per motivi esteriormente politici, è
costretto ad avversarla. Molto brevi le canzoni dell’album ma molto buone le altre Peligro,
Noche de accion, Indios de Barcelona, El jako o Soledad. Santiago Casariego alla batteria
fa gli straordinari, Tonio Del Borño bravissimo alla tromba, Garbancito virtuoso con le
percussioni e poi tanta passione nella chitarra di Roger Cageot. Tutto molto bello, ma oggi
qualcuno sa dirmi che fine hanno fatto i Mano Negra? Senza contratto? Annegati nella loro
stessa retorica? Certo, se guardiamo al Manu Chao di oggi…
•
(03/09/07)
Siouxsie & The Banshees Twice upon a time
Non so perchè mi ritrovi questo disco: se non ricordo male fu un
discografico a regalarlo a mio padre (assieme ad altri rari ed
ambigui vinili) nell’anno della sua uscita, il 1992. Siouxsie & The
Banshees sono una progetto che lavora nel circo pop-rock; Jon
Wilde dirà che con questa band la musica popolare verrà
positivamente disturbata, ovvero risvegliata dal torpore degli anni
’80. Se non sbaglio ancora, Twice upon a time dovrebbe essere
una raccolta di singoli (visto il doppio vinile) e, sempre sperando di
non cadere in errore, posso dire che è un album effettivamente
diverso dal normale pop: non c’è mai l’happy end. Sia in Fireworks che in Slowdive, in This
wheel’s on fire come in The last beat of my heart, l’approccio che pare prevalere è quello
ad una sorta di atmosfera gotica di fine millennio; anche il mastering soffre, anche se non
è per forza un punto di debolezza, di una qualche tetra mania. Gli strumenti paiono
mischiarsi tra loro: scaricatevi dunque Melt!, Dear prudence, Swimming horses, Dazzle,
Overground, Cities in dust, The passenger, Peek-a-boo e The killing jar.
113
Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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The Soup Dragons Hotwired
(04/09/07)
Forse una band per musica da fiction, forse un progetto
commerciale, eppure sono praticamente sconosciuti. I Soup
Dragons, inglesi di nascita e rocker per vocazione, giungono con
Hotwired ad un lavoro discografico forse troppo euforico. Tutti i
dodici brani vengono interpretati da voci trascinate e strumentazioni
in crescendo (basti pensare che nella copertina inlay c’è la foto di
un murale che invita a votare Walt Disney!). E quindi la musica
americana si viene a ritrovare nello stesso crogiolo di quella
britannica, dando vita ad un altisonante risultato. In fondo,
Pleasure, Mindless, Forever yesterday, No more understanding, Everlasting, Absolute
heaven, Sweet layabout ecc. non fanno altro che ripresentare un polpettone trito e ritrito. E
forse solo il riff di chitarra elettrica in Divine thing merita davvero, ma è troppo simile a
Black or white di Micheal Jackson. Ed è molto interessante anche il percussionismo di
batteria che troviamo in apertura di Running wild, una specie di africanismo rock dove
chitarre e bassi si rincorrono in un levare giavanese.
•
I Gufi Due secoli di resistenza
(05/09/07)
I Gufi, prima vera band ad esportare il cabaret in Italia, sono un
mitologico ensemble di quattro persone che ha ottenuto un discreto
successo sia negli anni ’60 che negli ’80. In questo LP il gruppo
milanese si cimenta, con magnifici risultati, nell’elaborazione
musicale e recitativa di poesie e canti d’ogni tipo di resistenza
italiana: c’è la guerra partigiana di Bella ciao, l’orgoglio irredentista
di Inno a Oberdan o la marcia garibaldina di Il bersagliere ha cento
penne. Fondamentalmente i brani appartengono quasi tutti alla
tradizione partigiana (Fischia il vento, Cosa rimiri mio bel
partigiano, Pietà l’è morta), ma c’è un pezzo che più di tutti merita una riflessione. Si tratta
cioè della Ninna nanna della guerra, geniale riflessione poetica del fascista Trilussa, scritta
nel momento più vergognoso della diplomazia internazionale, quando le democrazie erano
tornate a spartirsi i popoli, qui arrangiata in maniera esemplare da Lino Patruno. Sono stati
da poco pubblicati sette CD, a prezzi abbordabilissimi, che riuniscono tutti i quattordici
long playing de I Gufi: comprateli tutti, ne vale davvero la pena.
•
Feel Good Productions Funky farmers
(06/09/07)
Un po’ di anni fa questo collettivo italiano chiamato Feel Good
Productions spopolò con una sorta di asian-dub dal nome The feel
good vibe, bissando quindi il successo con This is the sound.
L’album che contiene entrambe le hit è Funky farmers, finora unico
lavoro discografico della band. Vedendo nel complesso il disco,
non posso non ammirare l’insita innovazione, soprattutto alla luce
degli scarni esperimenti del nostro Stivale. Ovviamente si sta
parlando di musica da intrattenimento, che non vuole certo aspirare
a obiettivi troppo ambiziosi: nel mondo c’è comunque chi sa fare di
meglio. Eppure Calling out 4 all the people, Apache in Marrakech, Open up your mind,
Rude boy e Balearic sunrise mi mettono di buon umore e sono capaci di mantenere ad un
livello eccellente tutto l’andazzo dell’album. Sul piano prettamente musicale, i bassi dub
vengono sempre allineati con synth acidi e voci riverberate; ne esce così un prodotto a
metà fra ambient e house, fra electro e reggae. Mi dispiace vedere oggi i Feel Good
Productions soffrire un’ansia da prestazione e quindi vederli relegati tra gli oldies. Bravi.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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The Doobie Brothers Brotherhood
(07/09/07)
Per uno che ascolta poco rock e tanta elettronica (in rapporto), è
difficile trovare dei punti di riferimento, delle influenze, delle
similitudini fra questi Doobie Brothers e una qualche altra galassia
rockeggiante. Loro sono cinque e non avevano paura di passare
dal synth-pop al funk, dal blues al soul. La voce di Tom Johnston,
la chitarra di Pat Simmons, il basso di Tiran Porter, le batterie di
John Hartman e le percussioni di Micheal Hossack (la tastiere,
registrate in studio, sono di Dale Ockerman) ci introducono nel loro
spensierato mondo, costruito a partire da un’idea universale di
fratellanza e libertà. In fondo il titolo del disco dovrebbe essere indicativo. Is love enough,
Something you said, Divided highway, Under the spell, This train I’m on e Showdown si
imbattono tutte in assoli elettrici ed allegre suite di synth; addirittura Dangerous si mette a
ricacciare fuori il country. A livello artistico c’è poco da dire, le canzoni hanno testi sì
musicali ma poco elaborati, gli slanci armonici sono gli stessi di vent’anni prima, di
originalità ce n’è poca. Non ve lo consiglio ma dovete conoscerlo/i.
•
Einzelgänger Einzelgänger
(08/09/07)
Dietro il progetto Einzelgänger c’è Giorgio Moroder, guru
dell’elettronica mondiale e padre di così tanta disco da poter venir
definito uno dei più grandi rivoluzionari nella musica degli ultimi sei
lustri. Il disco in questione è uno dei suoi sognanti esperimenti, mai
compresi a fondo dal grande pubblico, ma obiettivamente capaci di
trasudare energia da tutti i pori. Einzelgänger è un lavoro
strumentale, se si eccettuano alcuni echo, e risente dell’atmosfera
gioviale che l’elettronica di allora stava vivendo in Europa, grazie a
Kraftwerk, Depeche Mode, Rockets, Telex e chi più ne ha, più ne
metta; non a caso il linguaggio scelto è il tedesco, padre di tutta la buona tradizione
analogica internazionale. Aus, Warum, Percussiv, Good old Germany, Basslich,
Untergang, Liebes-Arie e i due interludi vengono a formare un continuum sonoro dove i
ritardi dei sintetizzatori si vanno ad incastrare a cruente drum machine. Non ci sono loop,
non esistono pleonasmi, tutto viene detto attraverso le parole della musica, quasi come in
una colonna sonora. Se amate Moroder, con Einzelgänger vi appagherete.
•
(09/09/07)
The Crusaders Healing the wounds
La prima volta che ho messo questo disco sul mio giradischi mi
sembrava una fesseria ma poi, ascoltandolo con pazienza, mi sono
reso conto che in fondo il jazz ha mille e mille sfaccettature. Ed io
che pensavo che fosse il solito polpettone rock! Healing the
wounds dei Crusaders è interamente costituito da pianoforte,
sassofono, percussioni e synth e, andando a scavare un po’ nel
mio hard-disk, mi sono reso conto che durante i primi anni ’90 tanti
avevano prodotto musica così. Ascoltarlo oggi mi arreca tanta
serenità perché non ci si aspetta cose buone dai peggiori, e quindi
il mio pregiudizio è stato smontato dalla musicalità dell’intero progetto. La superficiale
semplicità che potrebbe trasparire da Healing the wounds si dissolverà nei solchi di
Pessimisticism, di Mercy, mercy, mercy, di Little things mean a lot, di Cause we’ve ended
as lovers e di Shake dance. Io penso che questo sia un modo eccellente per avvicinarsi al
jazz storico, visto che dà modo di spaziare auditivamente dal suono caldo del sax
all’euforia del synth; e non manca nemmeno un certo africanismo con Maputo.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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G. Paoli, E. Rava, F. Boltro, D. Rea, R. Bonaccorso, R. Gatto Milestones (10/09/07)
Mio umile parere è che l’unica etichetta che s’è saputa evolvere nel
segno del jazz è la Blue Note, prova ne sia, oltre la sconfinata
produzione nu-jazz, la pubblicazione di questo Milestones,
meraviglioso e fantasioso progetto a cura di Gino Paoli, Enrico
Rava, Flavio Boltro, Danilo Rea, Rosario Bonaccorso e Roberto
Gatto (ma appare anche Renato Sellani). In pratica, il meglio del
jazz nostrano. La maggior parte dei brani interpretati appartiene
alla discografia del sempreverde Paoli, da Sapore di sale a Sassi,
da Il cielo in una stanza a Senza fine, da La gatta a Che cosa c’è.
Ma non mancano Quando di Luigi Tenco, Stardust di Hoagy Carmichael, Time after time e
I fall in love too easily di Miles Davis. Questa profonda unione di sacro e profano, di
pianoforte e basso doppio, di voce vissuta e tromba, ci fa credere che l’immortalità esista;
e non si parla certo di immortalità degli uomini - pericoloso gioco - ma di quella dell’arte,
essa stessa figlia dell’uomo. Solo attraverso le pietre miliari che lasciamo alla memoria e
all’attenzione delle generazioni possiamo dire di vivere davvero in eterno.
•
Retina.it Volcano.waves.1-8
(11/09/07)
Una cura ossessiva verso la qualità del suono e la lunghezza
d’onda quella che Lino Monaco e Nicola Buono, alias Retina.it,
riservano al loro primogenito Volcano.waves.1-8, per Hefty
Records (la stessa dei Telefon Tel Aviv, per esser chiari). Il lavoro
è imperniato sulla ricerca esasperata del giusto equilibrio fra
techno, ambient e sperimentazione, senza mai allontanarsi troppo
da un certo melodismo italiano. Il concetto fondante è difatti quello
del fuoco lavico, perfetta simbiosi fra metalli e gas, dove le
caratteristiche intrinseche d’ogni elemento della tavola periodica si
sposano tra loro forgiando un unico fiume magmatico. Le otto onde vulcaniche, Agni,
Plinius observer, Camera magmatica, Our Lady of Mystery, Lander, Piroclastic flux, Insekt
e Obsidian vanno rincorrendosi su sentieri tecnologici d’avanguardia, fra bassi molto bassi
e kick in evoluzione, FX complicati ed intrecci VST senza eguali. Tra l’altro, se si va a
studiare attentamente la forma delle frequenze, ci accorgiamo che spesso e volentieri non
c’è simmetria, ovvero le fasi si trovano spesso invertite rispetto alla convenzione.
•
Edoardo Bennato Burattino senza fili
(12/09/07)
È un autore che non ho mai amato più di tanto, a causa dei suoi
ripensamenti ideologici, della sua mancata sperimentazione e delle
sue continue cadute nel commerciale. Ma Burattino senza fili è
obiettivamente un disco meraviglioso; un disco che racchiude
un’immensa metafora, quella di Pinocchio e del mondo che gli gira
intorno. Tutti conoscono l’apertura di È stata tua la colpa fatta di
armonica a bocca e chitarrina easy, ma pochi ne carpiscono il
significato vero: tutti noi burattini abbiamo lottato per la libertà e
adesso cosa ci rimane di concreto? Siamo in grado di gestirla tutta
questa libertà? Siamo in grado di camminare sulle nostre gambe? I risultati sono
pessimistici, e la prova sta nei continui tranelli sociali nei quali cadiamo giornalmente. E
quindi Bennato affibbia ad ogni personaggio collodiano un volto moderno, una funzione
all’interno di questa società. C’è Mangiafuoco, La fata, Tu grillo parlante, Il gatto e la volpe,
ma ci sono anche le invettive e i consigli di Quando sarai grande, Dotti, medici e sapienti e
In prigione, in prigione. Un album da riscoprire per chi non ha fatto in tempo.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
•
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Simply Red Home
(13/09/07)
Dovrebbe essere un punto debole ed invece essere rossiccio, per
Mick Hucknall, è stata una vanità di non poco conto. Autoprodotto,
indipendente, amante del vino italiano e del soul, Simply Red è una
bella realtà della scena britannica. Potrà sembrare troppo raffinato
o presuntuoso, eppure penso che nella sua musica ci siano molte
belle verità. Innanzitutto questa continua sinergia fra elettronica e
pop, tra soul e rock, e poi quella voce così particolare capace di
arrivare tanto in alto da spezzare le più tenaci reticenze. Home
(2003) è un disco magnifico. Ve lo ricordate il video di Fake con
tutti quei sosia che sfilavano maldestramente in un locale? E ancora, ricordate il basso
portentoso di Sunrise (anche lì il video non era niente male)? A parte la bellissima titletrack, del disco va annotata anche You make me feel brand new, toccante inno all’amore
sconfinato, all’amore che migliora e cambia le persone, all’amore che dà occhi nuovi. Il
piacere di rimanere in casa e lasciarsi trasportare, a volte con ritmo, più spesso con
eleganza, dalle calde note di Home è un consiglio che dispenso verso tutti quanti.
•
Pierre Boulez Pli selon Pli
(14/09/07)
Fra il 1957 e il 1962 un esimio genio della scena contemporanea
ha lavorato a Pli selon Pli, basato su poemi di Mallarmé; il suo
nome risuona ancora nell’aria, Pierre Boulez, direttore d’orchestra,
musicista, saggista e direttore dell’IRCAM per più di vent’anni (dal
1970 al 1992). Grazie all’idea di un libro in cui la mobilità dei fogli
diviene metafora della mobilità dei percorsi molteplici (oggi si
direbbe dei processi) dell’esistenza, Mallarmé viene a prefigurarsi
come una specie di nume tutelare per Boulez e dal suo benefico
influsso nasce proprio questo - e non solo - difficile e mirabile
componimento. Cinque brani per soprano e strumenti, complicati come solo la più
puntigliosa musica seriale sa essere, in cui Boulez si mette a esplorare il terreno della
forma aperta e dell’alea controllata, nella quale l’interprete può scegliere solo tra ipotesi
casuali ben definite. A differenza di Maderna e delle sue dimensioni, Pierre Boulez cerca
di esasperare il discorso musicale, specializzandosi negli improvvisi buchi neri che
caratterizzano Pli selon Pli. Il dilemma oggi è: c’è qualcuno in grado di osare a tal punto?
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Orbital The middle of nowhere
(15/09/07)
Si dice che gli Orbital, più di tutti, abbiano saputo evolvere la prima
elettronica e trasformarla in qualcosa di autenticamente sonoro.
Chiaramente chi afferma ciò non ha torto ma nemmeno possiede la
verità ultima. Fatto sta che The middle of nowhere, come tutta la
discografia del duo, è un bellissimo modello elettronico.
L’ouverture, Way out, è maestosa e spiazzante: dei violenti break
sostengono complicate trame d’archi e una distante voce femminile
intona il motivetto. Qui non si parla più di semplice techno di metà
anni ’90; qui la lezione è stata assimilata a tutto tondo ed infatti con
Spare parts express capiamo che gli Orbital volano alto. Non ci discostiamo molto con le
distorsioni acidissime di Know where to run e con il big-beat di I know you people; e poi
sale Otoño, un’alchimia di loop e cut in progressione. Quindi si va a parare alle due lunghe
suite di Nothing left ed infine l’autocelebrazione di Style (ne esistono diverse versioni)
chiude il disco con un tocco di sano robotismo. The middle of nowhere è diverso dal Green
album e, proprio per questo, ha tutto un altro sapore. Succulento.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Autechre Tri repetae
(16/09/07)
Ma che diavolo di musica è? Diranno i soliti stolti. A ragion del vero
lo stesso quesito se lo pongono gli stessi autori che rispondono al
nome di Autechre (pronunciatelo come volete, tanto è un
nonsense). Se da un lato ci sono gli Orbital, gli Autechre
rappresentano l’altra faccia dell’accademismo elettronico anche se
nei loro componimenti è impossibile fermarsi alla matrice
elettronica. Dentro la loro musica c’è il funk, il rock, addirittura il
jazz. Sono semplici visioni, ma pur sempre di contaminazioni si
parla. Tri repetae è il loro terzo disco di studio, senza contare gli
innumerevoli EP, e rappresenta un punto poco conosciuto della storia Warp (e qui
inchiniamoci tutti). Il gusto per la dissonanza, per l’errore, per il rumore, per la distorsione,
per la bassa fedeltà: tutto questo è Tri repetae. E allora giù con Dael, Clipper, Leteral,
Rotar, Stud e ancora Eutow, C/Pach, Gnit, Overand e Rsdio. I titoli paiono scritti a caso
(non viene in mente Aphex Twin?) ma i groove sono posizionati in maniera corretta e
rigorosa e l’effetto finale è una potente dose di mescalina.
•
Martinicca Boison Per non parlare della Strega
(17/09/07)
Folk elegante. Con questo vezzeggiativo potremmo catalogare
l’unico (finora) disco dei toscanacci Martinicca Boison, un po’
francesini un po’ terroni. Per non parlare della Strega è un lavoro
che ultimamente stanno portando in giro per l’Italia e grazie al
quale stanno riscuotendo un discreto successo popolare.
L’amalgama musicale è pressoché perfetto: cornamuse, chitarre,
pianoforti, flauti, tromboni, ma soprattutto testi poetici. Come in
Pensieri di un pattinatore notturno o in In bici con Gabri; la
morbidezza d’animo si fa scudo con Ennesima canzoncina d’amore
mentre la poesia si fa colta con La ballerina di Nolde. Da tenere sott’occhio i due tempi di
Piccola canzone in carne ed ossa (anche il Caso Stanzino si cimenta spesso nel brano),
vera e propria perla della tracklist. Simpatica e provocatoria Dialogo con Osvaldo,
introspettiva e soffice Adesso (un po’ Ratti Della Sabina), divertente e ariosa Serenata per
un’amanta, sudamericana e fantasiosa Bossamba. Tifo Martinicca Boison perché ci sono
tutte le carte in regola per fare breccia nel mondo dei big del folklore.
•
Apoteosi Apoteosi
(18/09/07)
Gli Apoteosi sono una di quelle meteore musicali italiane che nel
1975 produssero un eponimo, unico album di progressive rock. La
composizione della band è segnata dalla presenza di Marcello
Surace, grande batterista che ha suonato in Money for dope di
Luttazzi e con Alex Baroni, e che ha lavorato alla colonna sonora di
Sono pazzo di Iris Blond di Carlo Verdone. L’album è performato in
maniera magistrale, i pezzi sono degli autentici capolavori, forse
penalizzati un pò dall’utilizzo dei cliché tipici dell’epoca. Il loro
sound principalmente orientato verso gruppi come il Banco Del
Mutuo Soccorso o la Premiata Forneria Marconi, si fonda sui punti classici del genere
ovvero l’uso del moog, i passaggi di mellotron e pianoforte oppure di flauto e chitarra
acustica, accompagnati però dalla stupenda voce di Silvana Idà, una delle poche voci
femminili ad essere utilizzate nel prog italiano. Embrion, Frammentaria rivolta, Il grande
disumano, Attesa, Apoteosi, Oratorio e Prima realtà ci attanagliano con una morsa alla
gola di pura psichedelia. Più che un disco, un’eccezionale rarità.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Simian Mobile Disco Attack decay sustain release
(19/09/07)
Sforziamoci di credere che il french touch non sia morto. Se così
non è, allora questo disco dei Simian Mobile Disco ne fa parte a
pieno titolo. Fondamentalmente già dal titolo deduciamo che la
funzione dell’album è quella di intrattenere e istruire.
Intrattenimento perché le dieci tracce sono papabili di venir suonate
nei dancefloor; compendio perché i quattro sostantivi elencati,
l’attack, il decay, il sustain ed il release sono le più elementari
peculiarità della sintesi sonora. L’attacco regola il tempo di inizio
dell’inviluppo, il decadimento regola il medesimo processo fino al
sustain, il sostegno quindi fa sì che duri più a lungo il tempo di decay mentre il rilascio
regola la caduta finale fino a 0. I Siman Mobile Disco si destreggiano benissimo fra gli
oscillatori e i filtri dei loro synth, tanto che il risultato che ne fuoriesce è una perfetta
simbiosi di house, acid, techno ed electro. I pezzi più esemplari che vi consiglio di
scaricare sono Hustler, Tits & acid, Hotdog, Sleep deprivation e Love. È un’applicazione
dell’elettronica che trova la sua funzione nel divertimento e nella baldoria.
•
Francesco De Gregori Amore nel pomeriggio
(20/09/07)
Amore nel pomeriggio è l’ultimo grande capolavoro di Francesco
De Gregori, difatti né Pezzi né Calypsos sono riusciti ad
eguagliarlo. Innanzitutto perché contiene una nuova interpretazione
di Canzone per l’estate (scritta con De André), contenuta nel Vol. 8
dell’esimio cantautore genovese; inoltre le altre dieci canzoni
cercano di aprire nuovi spazi all’interno del rock d’autore. Il cuoco
di Salò (arrangiata da Franco Battiato) racconta la depressiva
disfatta della RSI tra il ’43 e il ’45 e la conseguente delusione per
aver combattuto dalla parte sbagliata, senza speranza di
assoluzione: in essa è poi fantasticamente amalgamato un sample di Recordare di Ugo
Farell. Magnifica la struggente Deriva, dettagliata la storica Spad VII S2489, neorealista
Natale di seconda mano (arrangiata da Nicola Piovani) che tratta del troppo spesso
dimenticato problema dell’immigrazione, visto solo in un’ottica economica e giuridica.
Filano via Condannato a morte, Quando e qui, Cartello alla porta, Caldo e scuro ed il
viaggio si conclude con Sempre e per sempre e la sua toccante illusione.
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Kraftwerk Tour de France soundtracks
(21/09/07)
Nessuno si permetta mai di avvicinare i Kraftwerk ad una qualsiasi
altra esperienza di elettronica popolare. Tour de France
soundtracks è la riprova che il quartetto (anzi, il duo) negli anni può
solo migliorare e superare se stesso. Qui si parla di futurismo e di
tutte le sue inevitabili conseguenze. Qui si canta il gesto atletico, la
macchina, la tecnologia, l’avvenire, la tradizione, l’essere umano.
Al di là delle quattro “tappe”, i Kraftwerk ci regalano canzoni sugli
integratori vitaminici (Vitamin), sul mito della velocità (Aéro dynamik
e Titanium), sullo sforzo fisico (Elektro Kardiogramm), sulle
capacità riabilitative (La forme e Régénération). E tutto viene ad inserirsi in una cornice di
elettronica postmoderna dove i synth, i beat e gli FX non sono fini a se stessi ma
raccontano lo stridere delle catene, il battito dei cuori sotto sforzo, lo sferzare del vento, gli
ansiti del ciclista, l’acido lattico che brucia i muscoli. Inutile dire che la qualità del suono
rasenta la perfezione divina; i reverberi, i vocoder, la profondità, i cut: tutte caratteristiche
che non troverete nei dischi dei giovani produttori home-made.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Alva Noto Xerrox vol. 1
(22/09/07)
Il gusto del rumore, sia esso bianco o rosa, stavolta diventa la
chiave di volta dell’ultimo visionario disco di Alva Noto (al secolo
Carsten Nicolai), pioniere del glitch. Sembra un’improvvisazione,
uno strafalcione, un caso, eppure Xerrox vol. 1 è tanto distante dai
precedenti lavori del genietto sassone. Non c’è più il tocco morbido,
il taglio elegante, stavolta tutto lo spazio del CD viene dedicato al
rumore e ad alcune sue sfumature di grigio. Otto brani che si
chiamano tutti Haliod Xerrox copy, proprio come in una
fotocopiatrice che incarna le fondamenta della vecchia società
industriale: ne comprime i clangori in una scala domestica e, in pratica, rappresenta un
antefatto delle duplicazioni immateriali a venire. La profondità dei minimalismi sintetici, il
calore avvolgente della trama, i contrasti con il mero elettrico, la visione di una natura
osservata con occhi digitali, l’ineluttabilità del gesto. In più, la dimestichezza con il
concettuale. E poi tante scariche elettriche di rumore che Alva Noto ama definire
“spruzzate di informazioni”. Oggi per duplicare non serve più interagire con la macchina.
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Mercanti Di Liquore Mai paura
(23/09/07)
Iniziarono così, coverizzando il grande Fabrizio De André. Oggi,
finalmente, i Mercanti Di Liquore sono una straordinaria realtà della
musica italiana. Mai paura è la prima fatica discografica che
contiene undici capolavori di Bicio. Non serve a molto riprodurre
fedelmente gli arrangiamenti, e quindi i Mercanti provano con
successo a dare nuove arie a Jamin-a, Andrea, Il suonatore Jones,
Bocca di rosa, Il testamento di Tito. Addirittura si cimentano in Una
storia sbagliata, singolo rarissimo di De André scritto alla morte di
Pier Paolo Pasolini, e ne La città vecchia, la cui poesia originale è
di Umberto Saba. Ci sono però anche quattro brani originali della band brianzola: uno dà il
titolo al disco, un altro rappresenta loro stessi mentre Ninna nanna e Fame nera toccano
temi sociali e culturali. Sappiate che il mercante di liquori è una delle figure deandreiane (o
mastersiane, è lo stesso) presente nella stupenda Dormono sulla collina, il quale si trova
in stretto contatto con Jones il suonatore, a sua volta alter ego del grande cantautore. Un
disco ben fatto in cui i Mercanti hanno dimostrato cosa sanno fare.
•
(24/09/07)
Gigione ‘A campagnola a modo mio
Ho avuto la (s)fortuna di assistere ad un suo concerto, in coppia col
figlio Jo Donatello, e vi assicuro che ha un seguito di fanatici,
estatici ed invasati. Tutti - e dico tutti - i presenti, dai sedici anni in
su, cantavano e si fomentavano al ritmo delle canzoni trash di
Gigione, fenomeno centromeridionale sin dalla metà degli anni ’70.
Le sue canzoni spaziano da Padre Pio alle metafore sessuali, dalla
Sacra Famiglia all’erotismo rurale, dal papa alle prostitute. ’A
campagnola a modo mio è uno dei suoi tanti CD e la title-track è un
inno alla genuina sensualità delle donne di campagna (anche se
non c’è economia di doppi sensi); potete d’altronde immaginare il tema trattato in
Trapanarella o in ’A figlia ‘e zi’ Cuncetta. E poi in ’O monaco s’’a pazzea non può mancare
un affondo ai clerici dalle mani lunghe, anche se c’è posto per l’amore neomelodico di
Amo solo te, Lasciati andare stasera e Il treno se ne va. Mancano nel disco alcuni
capolavori goliardici e triviali che Gigione ci regalerà negli anni ‘90 come Zi’ Nicola, Il
gelatino o Gino ‘o camionista ma va bene lo stesso. Risate e porcate sono assicurate.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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BJBU Bocconi Jazz Business Unit Jazz & movies
(25/09/07)
Lasciato per un attimo da parte lo snobismo che caratterizza
l’università d’appartenenza, la jazz band ufficiale dell’Associazione
Musica in Bocconi, la BJBU (Bocconi Jazz Business Unit), sestetto
che coinvolge docenti, studenti, laureati e manager con curricula
artistici di tutto rispetto, ha pubblicato da poco un interessantissimo
disco. Il repertorio ripercorre la storia del jazz dalle origini fino alla
contaminazione elettrica, passando per lo swing, il be-bop e l’hardbop. Uscito sottovoce nel 2006, Jazz & movies è una rilettura in
chiave jazz di celebri colonne sonore di film e telefilm degli anni
’60-’70 tra i quali Charlie’s Angels, James Bond, Mission: Impossibile, Star Trek, Mannix,
Batman e Spiderman. Nel disco, registrato nell’aula P02 ed edito dalla prestigiosa casa
discografica Soul Note, hanno partecipato come ospiti d’eccezione Carlo Bagnoli al sax
baritono, Franco Cerri alla chitarra e Franco Ambrosetti alla tromba. Un augurio a questa
associazione con la speranza che diventi un esempio e che la musica possa, un giorno o
l’altro, entrare serenamente e stabilmente in tutte le scuole ed università italiane.
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¡Folkabbestia! Se la rosa non si chiamerebbe Rosa…
(26/09/07)
Titolo ironico e band altrettanto goliardica. La Puglia più casereccia
e fragorosa dei ¡Folkabbestia! sforna nel 2000 questo disco dal
forte sapore salentino, tutto divertimento e spensieratezza; non a
caso il gruppo in questione detiene il primato nel libro dei guinness
per aver suonato consecutivamente più a lungo (ben trenta ore di
concerto). Nascono in quest’album canzoni come Stayla
Lollomanna, La tarantella della buona ventura ed Il castello
ottagonale, famosissime chicche del loro repertorio (certo, non c’è
U frikkettone, però…). La patchanka pugliese vive di una pregevole
commistione di tarantelle irlandesi e gighe che si specchiano nell’azzurro mare salentino,
passando per un’attitudine colta ed ironica che si riscontra nei testi delle canzoni.
L’esperienza accumulata in anni di van consente ai live dei ¡Folkabbestia! di portare a
spasso il pubblico, raccontando piccoli aneddoti. L’entusiasmo che si sprigiona sul palco
coinvolge tutti i presenti anche nei momenti più intensi, come quando arriva la dedica alle
vittime dell’11 settembre di Dentro la mano. Molto bravi e festosi, sul serio.
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Gescom MiniDisc
(27/09/07)
In origine il disco uscì su supporto minidisc. Correva l’anno 1998 e
sembrava che il MD avrebbe scalzato il compact disc dagli scaffali
internazionali, vista la sua eccezionale versatilità. Così non fu,
tanto che il minidisc affondò così come fu per il dat, la bobina, il
laser disc o, per quanto riguarda il video, per il 2000 o il betamax.
Difatti i Gescom hanno ripubblicato MiniDisc nel 2006, stavolta sul
supporto digitale convenzionale. Rimane il fatto che l’album è
costituito da ottantotto tracce - ma non spaventatevi - la maggior
parte delle quali dura pochi secondi mentre solo una manciata di
brani supera i tre minuti. Inter, Pricks, Is we, Shoegazer, Cranusberg, Fully e Yo! DMX
Crew si specializzano nel cut’n’paste di suoni elettronici ed alcuni infami recensori si sono
azzardati a dire che i Gescom sono riusciti a rendere oscena la musica. Chiaramente sono
giudizi dati con troppa faciloneria visto che tutto l’archivio audio di MiniDisc è un
indispensabile sussidiario di sperimentazione sonora del terzo millennio, in cui la
sconnessa realtà moderna viene a ricomporsi in un’immaginifico trip auditivo.
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Angelo Branduardi La Luna
(28/09/07)
Un artista sognante, medievale o forse barocco, di sicuro antico,
nel senso più raffinato del termine. Il secondo disco di Angelo
Branduardi è questo magnifico viaggio nell’universo delle metafore
poetiche (1975). Inarrivabile la Luna, solitaria e stravagante, che si
schiude ai nostri occhi solo grazie ad una luce che non è nemmeno
sua, bensì è quella del suo compagno Sole. Tanti anni fa, Gli alberi
sono alti, Donna mia, La Luna, Rifluisce il fiume, Notturno, La
danza e Primavera si dividono fra struggente romanticismo e
bucolico incanto come in un cantico di Leopardi: i cicli della natura,
la vanità dell’amore, la genuina consuetudine. Nell’album troviamo anche il capolavoro di
Confessioni di un malandrino che, traslato da una poesia di Sergej Esenin (tradotta da
Etienne Roda Gil), calza stupendamente sul nostro cantore, coi folti capelli, il cappello da
giullare, l’animo vagabondo, il fare cosmopolita. Da menzionare la presenza dell’inedito
Gulliver nella riproposizione del disco del 1980 Gulliver, la Luna e altri disegni. Insomma,
si sarà capito che Branduardi ed il suo mondo sono da discoprire.
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Inoki Fabiano detto Inoki
(29/09/07)
Sono tanti i brillanti nomi del buon rap hip-hop italiano: Colle Der
Fomento, Cor Veleno, La Famiglia, Frankie Hi-NRG MC, a tratti
Piotta, Fritz Da Cat, Bassi Maestro, Assalti Frontali, i primi Articolo
31, Joe Cassano, l’originario Neffa ecc. ma fra questi v’è anche
Inoki, che nulla ha a che fare con lo stupido infantilismo di Fabri
Fibra o Mondo Marcio. Il suo primo vero disco è Fabiano detto
Inoki, lungo percorso all’insegna del beat perfetto e della rima
tagliente. Come regola vuole, l’album comincia con un intro di
presentazione ed un pezzo autoreferenziale, quindi Inoki canta
l’adolescenza di ghetto in Pagine bianche e i giovani b-boy in Nuove leve, la solitudine di
periferia in Soltanto tu e il divertimento del turntablism in Med connection. Meraviglioso
l’inno alla sua Bologna di Bolo by night featuring Royal Mehdi, con un sample di pianoforte
che dire geniale è poco (sembra quello di Still D.R.E.). Il Club Dogo arriva in aiuto di Inoki
in Nuovi re, DJ Jay Kay in È un grande viaggio, Ask ne La regina del party, Tek Money in
House party. L’alchimia di synth e beat è omogenea, il disco è bello, quindi lo consiglio.
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Max Gazzè La favola di Adamo ed Eva
(30/09/07)
Postmoderna rivisitazione della primogenita comparsa dell’uomo
sulla Terra o ferale metafora della superficiale frenesia
consumistica dei tempi correnti? Max Gazzè ci lascia sempre
interdetti eppure La favola di Adamo ed Eva (così come la titletrack) è un album eccellente, ben suonato, ben interpretato ma
soprattutto ben congegnato. Divertentissima Una musica può fare
sia per gli strumenti utilizzati sia per il testo-filastrocca;
schizofrenica la successiva Cara Valentina il cui video era una
settecentesca parodia di corte. Alla posizione 10 troviamo persino
Vento d’estate, cantata in coppia con l’eclettico Niccolò Fabi, vera e propria hit dell’estate
’98 (proprio l’estate dei mondiali di Francia, la storia si ripete!). Più che Casi ciclici, Raduni
ovali, L’amore pensato, Nel verde, Comunque vada o L’origine del mondo, vorrei che La
favola di Adamo ed Eva fosse ricordato per Due apparecchi cosmici per la trasformazione
del cibo, a mio avviso brano genialoide sulla dipendenza dell’uomo attuale dal salutismo,
dallo stress, dai soldi, dalla scienza, dall’apparire, dalla stupidità, dalla megalomania.
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IG Bastian contrario
(01/10/07)
Gianni Maroccolo, preso in prestito ai Marlene Kuntz, e Ivana Gatti,
grande thereminista, con il loro progetto IG, hanno pubblicato
quest’anno Bastian contrario (un CD più un DVD) che io ho
apprezzato da subito per molteplici motivi. Innanzitutto perché
adoro l’unione tra il rock e l’elettronica, quando tale unione è
funzionale, e poi perché la voce della Gatti è davvero particolare
(forse qualche ottava in più del normale); inoltre, a livello autorale, il
disco si presenta volutamente scarno e infinitamente intimista.
Bastian contrario - lo dice il titolo - è un disco che deve creare
controversie in quanto non aderisce al comune sentire italiano. E dico che quest’album
non va ascoltato, bensì auscultato, così come fa un dottore col suo fedele stetoscopio. Le
sfumature musicali e le parole sottovoce vanno colte con la massima concentrazione e
nella massima discrezione. Cercate di avere tutto il disco o, perlomeno, scaricatevi Sotto
sotto (con o senza Riccardo Tesio), Pace e veleno, Resta (con o senza Lorenzo
Cherubini) e Presunti accenni che fan piovere. L’Italia produce ottime cose: sappiatelo.
•
C.S.I. Consorzio Suonatori Indipendenti Tabula rasa elettrificata
(02/10/07)
Terminata la chimerica esperienza nei CCCP, Giovanni Lindo
Ferretti fondò subito il Consorzio Suonatori Indipendenti con una
discografia autonoma che solo raramente ha attinto a quella del
precedente progetto. Dopo il capolavoro di Linea Gotica esce
Tabula rasa elettrificata (che alcuni abbreviano con l’acronimo
T.R.E.) e ancora si parla di alienazione da lavoro e questione
sociale, di oriente e di punk. Il sound dei C.S.I., e di questo disco in
particolare, prende spunto da dove era rimasto fermo presso i primi
CCCP, ovvero un punk elettrico e contorto, pieno di distorsioni ed
intensità lirica. La tristezza è d’obbligo se si pensa che, dopo aver profondamente segnato
due decenni di musica italiana, questo sarà l'ultimo disco a vedere Ferretti e Zamboni
lavorare insieme. Ma c’è tanto noise e tanta fredda poetica nel canto della campagna
mongola di Ongii, nella prece orientale di Gobi, nella storia della piccola contorsionista
Bolormaa. Il disco andò benissimo anche grazie al forte impatto emozionale provocato da
Unità di produzione, vera e propria gemma nella storia di Giovanni Lindo Ferretti.
•
(03/10/07)
Vera e propria band cult dei fine ’80, gli Erasure si sono sempre
incamminati sul sentiero della new wave lanciata dai celeberrimi
Depeche Mode. Chorus, album immediatamente precedente al
vendutissimo I say I say I say, è un bel concentrato di melodie pop
che utilizzano l’elettronica per parlare di amore, rabbia e vita
quotidiana. La title-track è un allegro brano da hit-parade, Waiting
for the day è invece una posata ballata d’amore (uno dei più bei
pezzi del disco), in Joan sentiamo addirittuta l’organo e le batterie
paiono strumentali, finalmente l’elettronica synth-pop esplode in
Breathe of life. Arriviamo quindi al lento nostalgico che qui è Am I right?: non è buonista
dire che è sul serio un brano dai connotati emotivi marcati. Il resto del disco, da Love to
hate you a Turns the love to anger, da Siren song a Perfect stranger, a Home, riesce con
successo a mantenere intatta la linea musicale dell’inizio. A pensarci, questo disco piacerà
poco agli invasati del rock ma verrà tanto apprezzato da chi ha avuto un’adolescenza
all’insegna di Pet Shop Boys, Visage, Sabrina Salerno e Depeche Mode.
Erasure Chorus
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Beastie Boys Paul’s boutique
(04/10/07)
Considerato dai più uno dei migliori dischi nella storia del rap,
Paul’s boutique dei fantasmagorici Beastie Boys si presenta come
un assurdo minestrone di follia e divertimento; niente mouse e
software ma tanti strumenti di varia natura, dagli Akai alle trombe,
dalle chitarre ai giradischi. La caratteristica che anche il più
avventato ascoltatore riconoscerebbe è il continuo cambio di tempo
e di linea armonica. Tante sezioni, qui tagliate in loop, si vanno ad
incatenare agli scratch e alle rime velocissime dei tre MC i quali,
uno alla volta, dicono la loro a proposito di uova (?), donne, ladri,
pistole ecc.; un vero e proprio must per chi ama l’hip-hop è sicuramente The sounds of
science che comincia come un pezzo dei Madness e termina in un crescendo di cut
pseudoradiofonici. La pazzia domina tutti i cinquanta minuti dell’album in brani come
Shake your rump, High plains drifter, Hey ladies, Shadrach, Johnny Ryall o 3-minute rule;
tutto è plasmato di street-life e se si prova ad avvicinare l’orecchio al midrange si colgono
pure le imperfezioni della registrazione analogica e dei sample messi in cantiere.
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Ivan Segreto Porta Vagnu
(05/10/07)
Un’isola felice quella di Ivan Segreto nel panorama italiano. Strano
è vedere come la Sicilia sia serbatoio di così tanta buona musica,
da Mario Biondi a Franco Battiato, da Giuni Russo a Carmen
Consoli, da Roy Paci a Mario Venuti. Porta Vagnu fu l’album
d’esordio di Segreto e lo portò subito alla ribalta grazie al suo
utilizzo del jazz completamente innovativo, una sorta di ricerca
verso la giusta canzone jazz-pop (non come Cammariere che fa il
contrario). Ivan riesce a dare una metrica lirica al difficile tempo
jazz (provate a tal proposito ad ascoltare l’ultima Ampia) ed infatti
sia la stessa Porta Vagnu (addirittura in siculo) sia le altre Il mercato del broncio o Il
banchetto dell’amore vengono corredate di versi intrisi di poesia su tappeti musicali di
eccellente jazz italico il quale, lo ripeto, è ad oggi una delle migliori realtà internazionali.
Sono presenti suoni marcatamente mediterranei, affascinanti profumi di Sicilia che
emergono dagli arrangiamenti brillanti e raffinati di questo jazz classico. Battiato, che col
jazz ha un rapporto strano, l’ha plaudito e ultimamente c’ha collaborato. Pensate un po’.
•
(06/10/07)
Giuliano Palma & The Bluebeaters Long playing
Laurea magistrale in cover rocksteady per Giuliano Palma & The
Bluebeaters. Questa potrebbe essere la qualifica con cui far
suonare questi signorotti un po’ retró ad una festa sociale. In Long
playing due pezzi vanno immediatamente messi in play anche se la
tracklist li relega alla fine: Messico e nuvole, portata al successo da
Enzo Jannacci ma scritta da Paolo Conte, e Black is black dei Los
Bravos. Già di per sé queste due interpretazioni dovrebbero
spingervi ad avere l’intero LP (chiamiamolo così, per ora). Ma non
dimenticate che Palma e soci rifanno anche Hard luck woman dei
Kiss, Sweet revenge di Joe Strummer, Jump dei Van Halen (qualcuno piangerà lacrime
amare!), Jealous guy di John Lennon, Shame and scandal di Bob Marley, I am what I am
di Jackie Opel, Danger in your eyes di John Holt e Renegade di Duke Arthur Ried. Non
molto diverso da The album, Long playing è divertimento spensierato allo stato puro. E
quindi, tra Casino Royale, Africa Unite, Fratelli Di Soledad e New York Ska-Jazz
Ensemble passiamo un’ora e un quarto in levare. Questo sì che è un vero LP!
124
Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
•
125
AA.VV. La haine
(07/10/07)
Non è altro che la colonna sonora (ispirata, più che altro) del film
La haine di Mathieu Kassovitz che io considero uno dei più bei film
nella storia del cinema per la sua cruda realtà, per il suo messaggio
e per le obiettive scelte di sceneggiatura e regia. Il disco è una
raccolta di hip-hop francese: c’è Ministère Amer, Sens Unik,
Expression Direkt, Iam, Ste Strausz’, La Cliqua, Les Sages Poetes
De La Rue, Assassin, FFF, Daddy Nuttea. I brani scelti sono quelli
della vita di banlieue, scandita, nel film e nella realtà,
dall’immobilismo e dalla microcriminalità. È così che questa BOF
racchiude la denuncia verso le assenze e le mancanze delle istituzioni in L’Etat assassin,
le regole della legge della giungla in Bons baisers du poste, la cattiva lezione della
televisione in La 25ème image, l’odio che terribilmente chiama odio in Le vent tourne, le
difficoltà in Sacrifice de poulets, la spensieratezza serale in Sors avec ton gun, la
preghiera a chi cade sul campo in Requiem. Quando a Parigi sfilano gli universitari si
rivanga il ‘68, quando invece i figli illegittimi di Francia alzan la voce si spara loro contro!
•
Verdena Solo un grande sasso
(08/10/07)
Osannati dai loro fan, apprezzati dalla critica, i Verdena sono
andati a colmare quel piccolo vuoto di casa nostra che s’era venuto
a creare fra Afterhours, Marlene Kuntz e Giardini Di Mirò. Il
secondo disco della band è Solo un grande sasso che conferma
splendidamente il talento ammirato nel primo lavoro omonimo del
1999. L’apertura de La tua fretta è pressoché toccante e ci riempie
il cervello di ricordi che ognuno di noi associa a quelle parole e a
quell’atmosfera. Parte quindi il vero rock di Spaceman seguito dalla
lunga Nova, molto più melodica; le chitarre distorte danno il via alla
maestosa Cara prudenza mentre un lento battere scandisce la vertiginosa Onan. Skippo
Starless, davvero troppo elettrica, e arrivo ad un altro pezzo forte, Miami safari, seguito dai
pianoforti di Nel mio letto. Il tempo passa e non me ne accorgo… 1.000 anni con Elide,
Buona risposta e Centrifuga trascorrono ancor più in fretta; arrivo a Meduse e tappeti e
l’incanto svanisce nell’alternative di questo brano così emozionante e metaforico.
Ascoltare i Verdena è una bella esperienza e, di anno in anno, lo confermano.
•
Nous La tempesta
(09/10/07)
La tempesta è stato scritto da Marco Messina come sottofondo
musicale per lo spettacolo teatrale Dentro la tempesta di William
Shakespeare. Il progetto vero e proprio che ha dato linfa al disco si
chiama Nous e comprende il già citato Messina più Meg, entrambi
provenienti dai 99 Posse. Siccome lo spettacolo teatrale vede Meg
recitare nella parte di Ariel, l’album pare la logica estensione di quel
progetto. Moog, progressive, un mare di suoni synth e di effetti
speciali, elettronica allo stato puro di un Marco molto ispirato, come
i suoi ospiti Retina.it. Bisogna aspettare la quarta traccia Canto di
Ariel prima di poter sentire la voce di Meg, che lascia tanto spazio al suono liquido di
questa sorta di concept-album quasi completamente musicale. Da Doom's day a Sonno,
da Pericolo, complotto, sveglia! a Rose rosse, dai trip musicali e mentali dell’una alle
parole ora festose ora allucinate dell’altra: non c'é bisogno di segnalare un pezzo piuttosto
che un altro. Un album talmente ben pensato e ben concepito che merita solo di essere
ascoltato mentre fuori dalla finestra imperversa una tormenta di neve.
125
Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
126
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Jean Michel Jarre Les chants magnétiques
(10/10/07)
Ciò che Klaus Schulze è stato per la Germania e Mike Oldfield per
il Regno Unito, Jean Michel Jarre lo è stato per la Francia, lo
sperimentatore dell’elettronica pop con una vocazione per il
classicismo. Les chants magnétiques, distante ma non troppo da
Oxygène ed Equinoxe, è il primo disco degli anni ’80 del grande
genio d’oltralpe. I brani, così come in precedenza, sono
progressive suite in cui il sintetizzatore viene innalzato al rango di
ambasciatore internazionale della musica. Questo disco varrà a
Jarre il primo tour mondiale in Cina durante il quale l’artista se la
vedrà faccia a faccia con le rigide autorità locali. La provocazione è infatti uno degli aspetti
fondanti dell’opera di Jarre (conoscete la storia del Challenger?) basata, tra l’altro, sul
piano prettamente tecnico, sulla commistione fra melodismo e concettualismo. In Les
chants magnétiques la parabola elettronica smette di essere fredda e immateriale e
diviene qualcosa di fisico, di umano, di storico. Erano anni di transizione e Jean Michel
Jarre è riuscito sapientemente a incanalare l’elettronica in una corrente indipendente.
•
Falco Einzelhaft
(11/10/07)
I paninari milanesi andavano pazzi per la sua musica, per il suo
stile, per il suo look e per la sua vita sregolata. L’austriaco Falco,
già con il primo disco Einzelhaft, era entrato di diritto
nell’immaginario pop, pur cantando in tedesco. Musicista e
paroliere, Falco si confermò essere un artista a tutto tondo, prova
ne siano le dieci canzoni di questo esordio, tra cui la celeberrima
Der Kommissar. Chiaramente parliamo di electro-pop ma il piacere
di ascoltare una musica così diversa e allo stesso tempo tanto
simile al nostro modo di essere allora, ci indica quali siano stati i
nostri punti di riferimento generazionali. Un’intera gioventù, quella degli anni ’80, che non
ascoltava solo Duran Duran e Cindy Lauper ma cercava nella propria Europa un modello
di lifestyle. Già immagino questi protosancarlini in Timberland e Moncler con lo stereo a
palla mentre cercavano invano di intonare Zuviel Hitze, Siebzehn Jahr, Auf der Flucht,
Hinter uns die Sintflut o Maschine brennt. Era l’Italia più ricca che avessimo mai
conosciuto e Falco era uno dei simboli, seppur esteri, di questa nuova era.
•
Los Fastidios Siempre contra
(12/10/07)
Chiariamo subito una cosa: i Los Fastidios fanno musica semplice,
poco elaborata e per un pubblico, direbbe De André, di ingrati del
benessere. Siempre contra, così come tutta la loro discografia, si
basa sul divertimento dato dalla birra, dal calcio, dal casino e dagli
scontri. La scelta musicale non può che cadere sull’oi!, sorta di
punk-rock molto veloce dove i testi arrabbiati e le tematiche appena
elencate la fanno da padrone. Non a caso si parla di antifascismo
(ma il fascismo non era morto?) in Antifa hooligans, di botte con la
polizia in Non sarai mai solo, del disordine dei sogni (direbbe
ancora De André) in Revolution, di spirito di appartenenza in Questa musica ci appartiene,
di vita di strada in Skankin’ town, di carrellate mediatiche in Fiumi di parole (non è la cover
pietosa dei Jalisse!). Ma è la dimensione live che dà modo ai Los Fastidios di sprigionare
tutta la sanguigna veracità ed il posto adatto - forse l’unico - per assistere ad un loro
concerto è ovviamente il CSOA; informatevi su date e locali, quindi cercate di andare a
sentirli. È musica nata, cresciuta e pascolata in quegli ambienti.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Dave Gahan Hourglass
(13/10/07)
Non ha nemmeno fatto in tempo ad uscire che Hourglass è stato
subissato di critiche da recensori trasversali in quanto a gusti
musicali. È accaduto ciò perché Dave Gahan, leader dei Depeche
Mode, è stato accusato di non essere molto capace ad affrontare
da solista un intero disco visto che è il suo braccio destro Martin L.
Gore ad occuparsi principalmente di testi e musiche nella band
d’origine. Dal canto mio, posso dire che non amo giudicare un
disco confrontandolo al suo precedente o ad esperienze parallele e
dico quindi che Hourglass s’ascolta con immensa gioia.
Innanzitutto perché il singolo di lancio Kingdom è bellissimo e poi perché anche le altre
nove tracce non sono da meno. L’utilizzo dell’elettronica è sempre ben dosato e non copre
mai eventuali inserti di pianoforte o di batteria. E poi sono sicuro che la voce di Gahan
possa cantare qualsiasi cosa, date le sue impercettibili sfumature e la sua gustosa
profondità timbrica. E vai con Saw something, Deeper and deeper, 21 days, Miracles, Use
you, Insoluble, Endless, A little lie e Down. Fate vobis.
•
Amanda Lear I am a photograph
(14/10/07)
Nata a Hong Kong, figlia di un franco-inglese e d’una russa, quindi
adottata dal Belpaese. Amanda Lear è un melting pot anche di
musica, spettacolo, varietà, TV e pittura. Queste sono le sue
credenziali e le sue potenzialità. Nulla di più ma non è poco. Il
primo album che porta il suo nome è I am a photograph e risale a
trent’anni fa esatti. Sono almeno quattro i brani di questo disco che
l’hanno resa famosa in tutto il continente: la title-track, Blood and
honey, The lady in black e Queen of Chinatown (unica). La musica
delle discoteche di allora era così, divertente, piena di vita e tanto
strumentata; sviolinate, strombazzate, batterie per groove, bassi al cardiopalmo, cori in
falsetto. La Lear, da sempre un po’ puttana un po’ maschiaccio, si destreggia bene sia
quando la voce va giù sia quando risale. La vamp che oggi ha riscoperto il piacere della
pittura artistica (con meritato successo) impazzava sui dancefloor anche perché la sua
musica era piena di effetti speciali e di provocazioni. Da notare infine che nel disco v’è una
riuscita cover di These boots are made for walkin’ di Nancy Sinatra.
•
Cristiano Malgioglio Sbucciami
(15/10/07)
Alcuni lo conoscono da pochi anni ma Cristiano Malgioglio fa parte
del bagaglio musicale italiano da diversi decenni. Quando svestiva i
panni del paroliere (è sua la magnifica L’importante è finire di Mina
o la movimentata Angelo azzurro di Umberto Balsamo), Malgioglio
indossava quelli dell’omosessuale peccaminoso e nelle proprie
creazioni riversava quanta più oscenità e provocazione possibili. Il
disco più famoso di questo cantautore ossigenato è Sbucciami
(1979), contenente una tracklist talmente trash da far drizzare i
capelli anche al più incallito sorcino. Mettendo da parte i doppi
sensi della title-track, troviamo brani minori come …Io, la pantera, Ernesto, Mi arrapa
l’idea o Regina; è questo il periodo più fecondo dell’artista, in cui stuzzica il pubblico con
brani magari forzati ma comunque originali. Da citare soprattutto il grande amore che
Malgioglio nutre per la musica latino-americana da lui spesso omaggiata in interi album,
magari poco conosciuti in patria ma assai apprezzati in questi paesi. Lo scimmiottiamo
giustamente un po’ tutti ma Malgioglio è un uomo intelligente ed ironico.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Tangerine Dream Force majeure
(16/10/07)
Sarà stata l’incessante pervasività della società industriale nel
tessuto culturale, sarà stata la continua tensione socio-politica,
saranno state le dispute filosofico-ideologiche di fine ‘800, sarà
stata la vastità della popolazione; fatto sta che la Germania è
sempre stata il motore culturale dell’Europa. Dopo l’ultima grande
guerra la nazione tedesca si è incamminata, attraverso scelte
arditissime, sul sentiero della sperimentazione musicale. La prova
di cotanto coraggio risiede anche nella formazione dei Tangerine
Dream e nella loro sconfinata produzione auditiva. Force majeure
(1979), per Virgin, è uno strabiliante viaggio nelle sonorità inesplorate. I primi diciotto
minuti del disco sono occupati da una portentosa suite per chitarra, sintetizzatore, cello e
flauto, seguiti a ruota dalla magnificenza progressiva di Cloudburst flight. L’ultimo quarto
d’ora di Thru metamorphic rocks contiene un errore duchampiano (tipo La mariée mise à
nu par ses célibataires, même) occorso nel mix finale e accidentalmente divenuto parte
integrante della struttura basilare della canzone. Questo disco è un capolavoro assoluto.
•
Pet Shop Boys Very
(17/10/07)
Questo album ha fortemente caratterizzato la musica pop dello
scorso decennio ed i suoi creatori sono stati gli emblemi delle chart
inglesi per quasi quindici anni. Very è un lavoro ben strutturato, nel
quale la matrice electro-pop poco si contamina di rock e affini,
restando pur sempre nell’orbita pop-rock. I Pet Shop Boys sono
stati indubbiamente bravi ad omettere tutta l’inflazionata tradizione
rockeggiante del proprio paese e a creare un linguaggio nuovo in
un’Inghilterra tutta Beatles e Radiohead. Fantastico l’esordio nel
disco di Can you forgive her?, quindi la spontanea innocenza di I
wouldn’t normally do this kind of thing; una volta ascoltate Liberation, A different point of
view e Dreaming of the queen, c’è la stupenda Yesterday, when I was mad. Il disco
continua attraverso Young offender e One and one make five, quindi arriva alla famosa Go
West, sarcastica ode al sovietismo e all’anticonsumismo; un singolo, quest’ultimo, che ha
aperto uno spiraglio nell’agonizzante e americanizzato pop di metà ’90. Una piccola
curiosità: su CD (e non sul vinile), dopo Go West, c’è l’estatica ghost-track Postscript.
•
Marlene Kuntz Uno
(18/10/07)
Il processo di derockizzazione è finalmente giunto al termine, o
quasi. Il nuovo disco dei Marlene Kuntz è un affondo nella
disarmonia rock, contaminata qui e là da jazz, noise, indie e prog.
Ma questa disarmonia diventa mirabilmente melodia rendendo Uno
un mezzo capolavoro della musica italiana. Si ricomincia da zero,
anzi da uno. Canto contiene tante batterie brush e infatti al
pianoforte di Musa troviamo Paolo Conte ed il suo jazz: qui
Cristiano Godano sembra aver davvero interrogato la sua musa
ispiratrice in quanto il brano è semplicemente magnifico. Il terzo
pezzo, 111, è un altro diamante sull’amore tradito, sull’amore nuovo, sull’amore ucciso. Il
resto del disco è leggermente sottotono rispetto all’inizio ma sono assoltuamente da
segnalare Canzone ecologica, Fantasmi, La ballata dell’ignavo e Sapore di miele. Molti
storceranno il naso quando vedranno che in Uno è quasi totalmente assente il rock
distorto di Catartica e di Ho ucciso paranoia, ma se si è abituati alla delizia di Bianco
sporco, allora questo disco farà bene alle orecchie e al cuore, decisamente.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Fabrizio De André Le nuvole
(19/10/07)
Il muro di Berlino cade e la Prima Repubblica di lì a poco verrà
finalmente spazzata via dal terremoto di Tangentopoli. In questo
contesto politico va ad incastrarsi l’uscita de Le nuvole, ennesimo
capolavoro di Fabrizio De André. Le nuvole si mettono tra noi e il
cielo e ci lasciano solo un’insensata voglia di pioggia, questo pensò
De André delle nuvole dopo che Aristofane, secoli fa, ne aveva
allegorizzato la figura. Ottocento si rifa all’opera buffa italiana e
gioca tutta sul nonsense, Don Raffaè prende spunto dalla figura di
Raffaele Cutolo per parlare con vena sarcastica del rapporto tra un
umile secondino e un carcerato rispettato; Mègu mègun, Monti di mola, ’A çimma e La
nova gelosia sono brani scampati a Creuza de mä e qui inseriti. Ma il pezzo che potrebbe
farvi arrovellare per molti anni, facendovi sfogliare decine di libri, viste le sue infinite
frecciate all’Italia è La domenica delle salme: Faber parla di Renato Curcio, di Piazza della
Loggia, dei servizi segreti, di Licio Gelli, di DC e PSI, di massoneria, di pentitismo, di
terrorismo. Gli interludi sono tratti da Le stagioni di Pëtr Il’ič Čajkovskij.
•
Gene Pitney Gene italiano
(20/10/07)
L’Italia è sempre stato un mercato ingordo di musica, di
conseguenza l’estero si è altrettanto speso in idee musicali che
potessero sfamare gli italiani. Già dagli anni ’60 tante erano le band
inglesi o gli chansonnier francesi che cantavano nella nostra lingua,
sperando (e riuscendo) di sfondare nei nostri jukebox. Gene Pitney
è un cantante americano che in Italia spopolò proprio in quegli
anni, anche grazie a questo LP tutto cantato in italiano. Sono ivi
raccolte A poche ore da te, Città spietata, Ritorna, Resta sempre
accanto a me, Che sarà di me, Quando vedrai la mia ragazza, Un
soldino e altre hit da classifica. Gli arrangiamenti tra l’orchestrale e il beat, la voce di Gene
sempre intensa ed emozionante, il look tutto americano, gli inserti di organo e strumenti
caraibici, i testi sentimentali ma mai scontati, la trasversalità generazionale (piaceva tanto
ai giovani quanto ai loro genitori) fecero di questo cantante un mito assoluto nell’incantata
Italia d’allora, troppo occupata a spendere e spandere ma decisa a dimenticare le
asprezze legate ad una guerra traditrice. Da ascoltare per alleggerirsi.
•
Radiohead In rainbows
(21/10/07)
Dal loro sito è possibile scaricare l’intero disco in formato MP3
(bitrate a 160 KBPS) e decidere quanto pagare (anche 0,00 £
vanno bene). Tutto il mondo attendeva il ritorno sulle scene dei
Radiohead e questi, con immancabile e repentina scelta di tempo,
hanno sfornato il bellissimo In rainbows. Decisamente diverso da
Hail to the thief e tendenzialmente più vicino a Kid A od Amnesiac,
il disco si presenta come uno scorbutico lavoro di rock
sperimentale. Tanto noise ma anche tanta dolcezza, tanta
elettronica ma anche tanto bel canto (Yorke, in fondo, ha proprio
una bella voce). La velocità sospinta del two-step di 15 step viene macchiata dal rumore di
Bodysnatchers, mentre la morbidezza infinita di Nude è presto interrotta dal fragore di
Jigsaw falling into place. È difficile e di scarsa utilità catalogare questo disco in un filone
musicale: il rock stupra il jazz, il post-punk fiancheggia l’electro, il grunge copre il pop.
Senz’altro belle Weird fishes / Arpeggi e Reckoner, House of cards e All I need. Non dico
che è un capolavoro ma In rainbows è sicuramente uno dei dischi dell’anno.
129
Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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130
270 Bis Tracce
(22/10/07)
Undici tracce sparse, vecchie o nuove, amatoriali o professionali,
legate alla storia personale dei 270 Bis, band fascista (ormai
missina) di grandissimo interesse. Nell’ultimo disco c’è la
mitologica e fantomatica Masha, finora conosciuta tronca, e la
toccante Nanni è partito, sul fratello di Marcello ucciso
barbaramente dalla polizia di Rebibbia. Ci inebria anche quel po’ di
spiritualità di Siuil a gra e di Canto di un sufi metropolitano, ma
soprattutto la band di De Angelis presenta in versione accettabile le
magnifiche Nannannà najannanannà, Chi più mi prenderà e Il
poeta. Finalmente poca retorica e poca apologia in cambio di tanto sentimento; niente filtri,
niente effetti, solo strumenti veri. Il pianoforte è padrone, il sax lo accompagna soave, la
sezione ritmica spesso è delegata alle percussioni piuttosto che alla batteria, il cantato è
finalmente di alta qualità. Per un gruppo che s’è seduto dalla parte del torto visto che gli
altri posti erano occupati, questo disco rappresenta il giusto conguaglio di una vita spesa a
lottare la degenerazione democratica e la perseverante morale del vincitore.
•
Murcof Remembranza
(23/10/07)
Il messicano Fernando Corona si fa chiamare Murcof e la sua
musica è una splendida fusione di ambient, glitch e minimalismo.
Prima dell’ultimo magnifico Cosmos, Murcof aveva pubblicato nel
2005 Remembranza, nostalgico ritratto di ciò che non è più. Grazie
a Dio non stiamo parlando di ambient fatta per sonorizzare locali
chic o semplicemente per accompagnare immagini, tanto che lo
spunto genialoide ce lo rivela la prima Recuerdos, onirico viaggio
nei meandri della rimembranza; seguono le tre parti - IDM qua e là
- di Razón e la mimetica non musica di Retrato. Il texture musicale
è infinitamente curato, i microsuoni vengono processati rigidamente, così ecco che Rostro,
Ruido e Reflejo schiudono un universo di metalliche sfaccettature; Resignación ci lascia
con l’amaro in bocca; davvero impossibile non viverle le emozioni! La penultima Rios (tutte
per R, come Remembranza) cannoneggia una cadenza letfield dal sapore agrodolce,
mentre l’outro Camino viene a sollevarci il morale. Se il passato non passa, non v’è
urgenza di chiamarlo così. In fondo nulla passa, se non il tempo e la vita con esso.
•
múm Finally we are no one
(24/10/07)
Islandesi come gli amici Sigur Rós, i múm rappresentano qualcosa
di stravagante e strabiliante nel mondo della musica di oggi.
Considero Finally we are no one il miglior lavoro discografico della
band artica per uno svariato numero di questioni; questo è difatti
l’album centrale, datato 2002, che fa della voce sussurrata e
dell’elettronica leggera il suo massimo punto espressivo. Dopo la
mezza traccia di Sleep / Swim, l’album cede meravigliosamente
alla forza emotiva di Green grass of tunnel, quindi alla tenue nenia
di We have a map of the piano. Su Don’t be afraid, you have just
got your eyes closed pare che il lettore CD inciampi ma non premete stop, per favore,
perché i múm ci stanno regalando il meglio. Behind two hills… a swimmingpool fuoriesce
da una pianola in disuso, K/half noise emancipa la timbrica d’un organo, Now there’s that
fear again e Faraway swimmingpool sono dolci lamenti sperimentali, in I can’t feel my
hand any more, it’s alright, sleep still torna la magia della mitezza mentre il rilassamento
muscolare sopravviene sulla title-track e sul lungo outro. Un disco perfetto.
130
Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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•
Carnifull Trio Modamare
(25/10/07)
Scardinare i cardini del pop più mondano e perbenista, questo
l’obiettivo dei Carnifull Trio. Chitarre che si fanno ora funky ora più
indie si intersecano tra i giochi ritmici di una batteria che fa sempre
quadrare i conti e i preziosismi e le notine colorate delle
percussioni. Preziose anche le comparsate di Marcopiano e Cero
degli Amari, di Sil alla voce e di DJ Faust del collettivo DJ
Persignora. Bianco, nero, soul, funk, accordi aperti, drum machine,
hi-hat in levare, tutti elementi che lavorano al grande disegno
superiore della “musica per fighetti”. Un suono che si snoda tra
l’attacco iniziale di Perché le ragazze dicono no e il groove di Pippol, passando per i tributi
al grande amore disco di Kissinger e Song for Guido, i momenti di pacatezza di Cold
pizza, il mood di 43140 o le aperture di Giostyle vs. Tupperware. In Modamare, dopo aver
notato la copertina in stile LineaTre RCA, bisogna ammirare la notevole mania di
grandezza del trio, legata alle influenze di Van Pelt, Slint, Chic, Arthur Russell e
ovviamente di qualsiasi manifestazione terrena di Stevie Wonder tra il 1968 e il 1976.
•
Daft Punk Homework
(26/10/07)
Se siete un DJ e avete meno di trent’anni, inchinatevi di fronte a
questa pietra miliare della produzione amatoriale. I Daft Punk
esordirono in Francia con questo compito casalingo, portando ad
un tratto la musica fatta in cameretta allo stesso livello di quella
concepita con apparecchiature professionali e impegnative.
Homework è l’assoluto capolavoro del suo genere: musica dance,
ovvero house, techno, acid, minimal, garage, funky. A sentirle oggi
sembrano molto sempliciotte le varie Oh yeah, Phoenix, Fresh,
High fidelity, Teachers, Burnin’ od Alive ma rendetevi conto che
son passati più di dieci anni da quella fatidica incisione. Inspiegabili rimangono le assolute
Revolution 909 (ah… la magistrale Roland TR-909!), Da funk, Rollin’ & scratchin’ (negli
anni ’90 suonata nei migliori templi europei) e Around the world. Nessun DJ può
permettersi di sottovalutare l’importanza dei Daft Punk nella storia dell’elettronica; e se di
certo Homework non ha la linea concettuale di Discovery, già contiene tutte le istanze
necessarie per intraprendere con metodo e serietà la strada del djing.
•
Kruder & Dorfmeister The K&D sessions
(27/10/07)
Molto raffinati Peter Kruder e Richard Dorfmeister, faccia pulita
dell’Europa downtempo. The K&D sessions è una raccolta di brani
mixati o remixati dal famoso duo, il quale non ha alcuna paura di
mettere mano ad importanti pezzi della musica internazionale;
contemporaneamente va detto che i grandi nomi sono spesso
onorati di offrire le proprie canzoni a mani tanto sapienti. V’è una
versione bossata di Heroes di Roni Size, una trip-hop di Useless
dei Depeche Mode, una acid jazz di Gotta jazz dei Count Basic,
una lounge di Trans fatty acid dei Lamb e via dicendo con i
Rockers Hi-Fi, gli Aphrodelics, Alex Reece, i Bomb The Bass, il Rainer Trüby Trio, Strange
Cargo, David Holmes, i Sofa Surfers. Come per i diamanti, The K&D sessions può
splendere dei bagliori più diversi a seconda delle sfaccettature su cui posate lo sguardo o
a seconda della traslazione contestuale che volete operarne in sede d’ascolto ma, così
come le pietre preziose, mantiene temporalmente inalterato il suo inestimabile valore
intrinseco. Sarebbe incosciente non fregiarsi di gioielli come questo.
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Fred Bongusto Un’occasione per dirti che ti amo
(28/10/07)
È il cantore dell’intimismo per eccellenza, almeno per quanto
riguarda i confini nazionali; questo è Alfredo Carlo (Fred) Bongusto,
molisano di nascita (ci tengo a dirlo), che incide nel 1971 il suo
primo LP, dopo aver sfornato negli anni ’60 decine e decine di 45
giri dal successo oceanico. Andiamo al nocciolo del disco.
Tralasciamo le poco importanti Moon, Poveri ragazzi, Autumn in
Rome, Didn’t we ed omettiamo anche le belle Spaghetti a Detroit,
La mia vita (cover di My way), Anonimo Veneziano e Tranquillità
(cover di The fool on the hill). Il nucleo portante, a mio avviso, sta
tra Se tu non fossi bella come sei e Un’occasione per dirti che ti amo, ma soprattutto sta in
Se ti innamorerai, vero e proprio capolavoro della canzone intimista: in essa c’è il
tradimento, l’illusione, la delusione, l’amicizia, l’amore, la vendetta, il rancore, la speranza.
In fondo Fred Bongusto è il simbolo dei night club, nei quali l’alta società alternativa si
lasciava coccolare dal tatto di uno chansonnier. Erano tempi lontani, erano tempi
romantici, erano tempi ormai stramaledettamente perduti.
•
Telex Neurovision
(29/10/07)
Il Belgio più avanguardistico, non in senso politico visto che per
quello c’è stato Leon Degrelle, è il campo di battaglia dei Telex,
vera e propria band di culto negli anni ’80. Neurovision è il secondo
disco e contiene al suo interno una moltitudine di hit che vanno ad
ingrassare l’archivio pop (o techno-pop). I suoi membri non erano
giovani allora e lo sono men che meno oggi (ne faceva parte pure
Marc Moulin), ecco perché il disco si apre con We are all getting
old, quindi si sposta sulla richiesta di tempo libero di My time, e
ancora si getta nel fanatismo atletico con una versione propria di
Tour De France (non ha niente a che fare con quella dei robot tedeschi ma l’influenza è
spaventosa). Dopo Monaco, Parigi, Nizza e Concarneau, i Telex presentano Euro-vision,
quindi la magnifica e romantica Plus de distance; si balla poi su Dance to the music, ci si
diverte su Réalité e si batte il piede su A/B. Il decimo pezzo rasenta la perfezione ed è En
route vers de nouvelles aventures, brano poco conosciuto ma così ben riuscito da
meritarsi la medaglia d’oro al merito auditivo. Che piacere usare i Telex!
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Luigi Nono Il canto sospeso
(30/10/07)
Per chi non lo conoscesse, Luigi Nono fa parte di quel gruppo di
folli geni (Maderna e Berio sono gli altri capoccioni) che hanno fatto
dello Studio di Fonologia della RAI di Milano uno dei centri più
avanzati al mondo nel campo della sperimentazione e della sintesi
sonora. Nono ha spesso utilizzato testi politici nelle sue opere e Il
canto sospeso fa parte di questo filone. Il tema fondante è la pena
di morte (correva l’anno 1956) ma il suo significato espressivo è la
collocazione del suono, del testo, della parola, della voce, della
tecnologia, della dimensione percettiva del suono/spazio dentro
una nuova funzione drammaturgica. Anche se ciò era già evidente nella scrittura delle
Variazioni canoniche, è solo ne Il canto sospeso che il grande compositore dà alla sua
musica elettroacustica e strumentale una traduzione diversa ed antagonista della
complessità della creazione musicale, dell’esplorazione sonologica e del rinnovamento
della comunicazione musicale, il tutto dovuto anche alle nuove tecniche strumentali e ad
una visione critica della prassi tecnologica. Un disco complicatissimo e serissimo.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Articolo 31 Strade di città
(31/10/07)
Quanta tristezza assistere al patetico riemergere di J. Ax e DJ Jad
in una veste punk-rock davvero tanto gretta! Gli Articolo 31 erano
bravissimi a fare rap, almeno questo è quanto emerge dal primo
lontanissimo Strade di città. Anticipatori di un’intera élite di rapper
smanettoni e ipocriti, gli Articolo 31 cantavano Nato per rappare,
Strada di città, Cantico errante di due DJ notturni, Fotti la censura,
Questo è il nostro stile. Traspariva tanta umanità, tanta ambizione,
tanto talento in quel singolare prodotto rap; il mercato italiano stava
per partorire la più feconda era dance della storia europea ma a
Milano e dintorni c’era un gruppo di ragazzi di borgata che faceva breakdance, turntablism
e writing. Nel disco c’è anche un’agrodolce favola (Pifferaio magico), c’è un amore rude e
sporco (Solo per te), c’è un attacco ai perbenisti (Ti sto parlando), c’è la violenza giovanile
(Legge del taglione), c’è la pornografia umoristica (Tocca qui). Comprai l’album che
andavo alle scuole medie e rivederlo ora su quello scaffale mi fa tanta tenerezza, tanta
nostalgia. Tanti ricordi mi attanagliano la gola e la memoria vola ai miei amici di allora…
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Calvin Harris I created disco
(04/11/07)
MySpace è stata una vera rivoluzione nel campo della musica
home-made (prova ne sia quella femmina mancata di Mika). Una
volta prodotto un disco, l’artista casalingo può anche caricarlo in
una homepage con tanto di add, guestbook, info, skin e quant’altro
l’universo di internet possa permettere. Calvin Harris è
letteralmente esploso con questo interessante lavoro nel quale
ammette di aver creato la disco music. In effetti c’è da credergli
visto che il disco è molto bello e il genere in questione non gode più
di così tanta credibilità. È veramente una goduria ascoltare così
tanto ritmo in meno di un’ora: da Merrymaking at my place, Colours e Acceptable in the
80’s a Disco heat, Love souvenir e The girls. Dopo un solo album, Harris è già stato
chiamato per produrre il nuovo disco di Kylie Minogue. Questo è un tuffo colorato al centro
di un’era che ci ha regalato una serie di miti, che oggi più che mai stanno tornando di
moda, come le tute di Sergio Tacchini, i Rayban e l’Amiga. Questo enfant prodige ora è
pronto per sbarcare con il suo disco-pop nuova maniera nei party più stilosi d’Italia.
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(05/11/07)
Modified Toy Orchestra Toygopop
Li ho conosciuti per caso la scorsa estate e mi sono da subito
innamorato del loro stile e della loro storia. La Modified Toy
Orchestra, capitanata dal buon vecchio Brian Duffy, ha esordito nel
2006 con un album che abdica al midi, al laptop e al sampling. In
pratica questi signori hanno passato due anni della propria vita a
modificare e violentare vecchi giocattoli come le Barbie, le pianole
o le macchinine, per poi produrre un disco di puro e genuino circuit
bending. Le melodie analogiche di Monkey hands, di Fantastic little
blue world e di This is the monkey o le dissonanze chiptune di I am
Hula Barbie, hear my roar!, di Had a farm e di Where is my sock? ci riportano alle orecchie
vecchie sonorità che gli anni ’90 ci avevano illegittimamente sottratto. Assistere ad un live
di questi malati della sindrome di Peter Pan è un piacere doppio: sei manichini immobili
che allungano i loro arti su di un bancone pieno zeppo di giocattoli vintage e fili elettrici.
Molti sapranno riconoscere il clangore della storica Casio SA-1 o le vocine robotiche del
Teddy Bear, il rumore della Concertmate 500 o della Porta Sound. Il tutto in PCM.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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P.G.R. D’anime e d’animali
(06/11/07)
L’ultimo progetto di Ferretti fu quello dei P.G.R. (Per Grazia
Ricevuta) e l’ultimo album lasciatoci è D’anime e d’animali. Il
risultato è un puro e semplice sformato d’esperienza con la chitarra
di Canali che cammina parallela al calibro delle ritmiche di
Maroccolo. Basti notare l’esplosione elettrica di Casi difficili, brano
nel rock standard, o il dialogo chitarra-batteria-basso di Divenire
che introduce il testo politico per eccellenza, tra gli accenni
orchestrali mediorientali di Orfani e vedove. Dall’alto, la voce di
Giovanni Lindo Ferretti offre ottime prestazioni nella ninna nanna
de I miei nonni, colma certe mancanze vocali in Tu ed io e poi investe con le urla di Cavalli
e cavalle e di P.G.G.G.R. (che sarebbe l’acronimo di “Però Gianni, Giorgio, Giovanni
resistono”). In sede di produzione e arrangiamento c’è anche Peter Walsh - in stile Ko de
mondo - in Io e te e con un’elettronica a sorgere timida in S’ostina. La compattezza dei
P.G.R., l’immensità di Linea Gotica e la guerriglia sonora dei CCCP sono qua accorpate
con una spontaneità istintiva. Chissà il prossimo progetto come ci stupirà…
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Tonino Carotone Mondo difficile
(07/11/07)
Tonino Carotone è un basco tutto sesso, droga e rock’n’roll.
Spopolò alcuni anni fa in Italia con la divertente e amara Me cago
en el amor, pezzo forte dell’album Mondo difficile, cantato sia in
italiano che in spagnolo. Al di là dell’estetica frizzante che sprizza
dai testi e dalle musiche, Carotone è anche nei fatti un bravo
cantautore, nonché interprete; difatti troviamo in questo disco
anche le cover riscritte di Sapore di mare e di Tu vuò fa
l’americano, oltre a Se que bebo, se que fumo. Le sue
personalissime El pozo, Pecatore, La festa del racolto, Amar y vivir
e Acabarás como siempre ci riportano in una Spagna retrograda che chinava le sue donne
nei campi sconfinati di qualche sierra, i suoi uomini coraggiosi ma semplici; c’è anche però
la nuova Spagna laica e per niente autoritaria, la nuova Spagna riscoperta dal turismo. In
una nazione che non è mai riuscita a distaccarsi dalla tradizione latina, Mondo difficile
emerge come un lavoro completamente eterogeneo che unisce le chitarre da flamenco
con le trombe messicane, le batterie jazz con le metriche anni ’60, un disco molto godibile.
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The Mama’s & The Papa’s If you can believe your eyes and ears
(08/11/07)
Spensierati gli anni ’60 americani, così come quelli di mezza
Europa. The Mama’s & The Papa’s erano la faccia acqua e sapone
di quel risveglio ed If you can believe your eyes and ears suona
vetusto ma attuale. Chiunque abbia un lavoro odia il lunedì e quindi
ecco Monday, Monday, poi tanta gioia in Got a feelin’ e in Do you
wanna dance, altrettanto ottimismo con Go where you wanna go,
fino alla hit mondiale California dreamin’ (interpretata in Italia da
tantissimi ma, su tutti, dai Dik Dik). Quel po’ di impegno sociale
dovuto all’exploit di figure come Martin Luther King esplode in
Spanish Harlem, anche se la vocazione di questo quartetto vocale è il sentimento vivido e
lucido della vita (Hey girl, Somebody groovy, I call your name, You baby ecc.). Si potrebbe
inserire questa fatica discografica all’interno del filone rock ma sarebbe una forzatura
tutt’altro che intelligente se si pensa che quelli erano gli anni del vero rock di Jimi Hendrix,
dei Rolling Stones, di Bob Dylan e Lou Reed. Woodstock e il maggio ‘68 stavano per
irrompere con tutto il loro ipocrita pacifismo di nuova generazione: nuova classe dirigente.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Mousse T. Gourmet de funk
(09/11/07)
Mustafa Gündogdu alias Mousse T. è uno dei pochi DJ house
tedeschi (assieme a Ian Pooley e Digitalism). La sua musica di
studio è pero ben lontana dai ritmi danzerecci e va ad inserirsi in un
sottogenere che alcuni definiscono come jazz-dance. Il primo LP,
prodotto per la sua Peppermint Jam, è un ottimo infuso di groove e
sensualità. A coadiuvare questo oriundo turco c’è niente di meno
che Tom Jones in Sexbomb (la cui voce è divina), Emma Lanford
in Fire e Horny (qui in versione jazz), Inaya Day in You are…, Boris
Jennings in Gourmet de funk, Juliet Edwards in What you say?,
Rosie Gaines in 1 touch e Till Brönner in Neglir blues. Niente male anche le soliste
Toscana, Numero uno, Johnny come home e Libra. Il sound di Mousse T. è caratterizzato
sì da tastiere analogiche e kick di batteria ma anche da orchestre da camera ed effetti
turntablism. Gourmet de funk, visto con gli occhi del successivo All nite madness, è da
considerarsi un successo importante, soprattutto perché figlio di una nuova generazione di
artisti che ha reciso nettamente il cordone ombelicale col passato.
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Αlla Bua Limamo
(10/11/07)
Tanti sono stati i giovani musicanti che hanno rammentato (guarda
un po’!) le proprie radici culturali dopo averle colposamente
dimenticate per una vita più cool nelle metropoli italiane. Ed ecco
perché dopo quest’ultimo decennio ci ritroviamo un mercato
inflazionato nell’ambito della musica popolare folkloristica. Gli Alla
Bua (o come scrivono loro, Aλλα βυα), forse per primi,
appartengono a quella folta schiera di salentini che, da quando
hanno (ri)scoperto il turismo, si sono indaffarati a ricacciare dal
baule le vecchie tarante, pizziche e tammuriate. Limamo è l’album
migliore della band pugliese ma sia chiaro: questa non è arte, né lo sarà mai. Però se
siete ubriachi e volete ballare come pazzi fra gonne svolazzanti, tamburelli velocissimi e
dialetti incomprensibili, ascoltatevi A muntagna, A caddhrina, Tutta te rose, Aggiu
‘mparatu, Quant’ave, Mattunaru e via discorrendo. La voce della vocalist è davvero
incantevole, il talento dei musicisti anche, il ritmo è assicurato così come la dolcezza; il
pienone ai concerti vi farà stupire, ma ripeto: questo modo di far musica non serve a nulla.
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Jethro Tull Stormwatch
(11/11/07)
I Jethro Tull hanno scritto tanta musica e i generi sono stati i più
disparati. Negli anni ’60 si occupavano di blues e jazz, nei ’70 si
sono buttati sul progressive art-rock, negli ’80 hanno provato
l’heavy-rock per approdare infine alla musica orientale. In tutto ciò
ci sono state parentesi elettroniche, classiche e folk-rock.
Stormwatch, ogni tulliano lo sa, è l’ultimo disco della triade folk
(assieme a Songs from the wood e Heavy horses) ma si distacca
notevolmente dai precedenti. Di certo la matrice folk è
preponderante in canzoni come North Sea oil o Dun ringill ma i
Jethro Tull non dimenticano il prog nelle cupe ed epiche Something’s on the move e Dark
ages. La conclusiva Elegy è forse il pezzo da novanta di questo album, un brano bucolico,
improvvisato, incalzante. Non sono uno sfegatato fan dei Jethro Tull né conosco a fondo la
loro opera omnia, ma sento di dire che Stormwatch è un disco buono, non eccezionale,
che trova nella scrittura a fiume di Anderson il suo punto forte ma che ha nella leziosa
ripetitività e nello scadente mixaggio il suo tallone d’Achille.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Meganoidi Into the darkness, into the moda
(12/11/07)
Nel fantastico cartoon di Daitarn III i nemici del pianeta Terra erano
i Meganoidi e da un po’ di anni ce li siamo ritrovati nelle chart
italiane con tre album dai titoli altisonanti; il loro primo lavoro
discografico è Into the darkness, into the moda, un misto fra
pesante rock e veloce ska. I toni sono a tratto militanti, faziosi e
sopra le righe, ma lo standard generale del disco rivela molta
originalità e anticonformismo. Dopo l’elettronica dell’intro si parte
subito con le trombe di Into the darkness, quindi giungiamo al
promo di New enemy; dopo le ridondante Do you believe? c’è la
bellissima King of ska?, vera e propria pietra miliare dello ska-rock italiano. Wasteland
corre indifferente ma ci dà il tempo di prepararci alla gasante Meganoidi, vero e proprio
inno all’ostinazione antisistema della band ligure; dopo i divertissement di Nazigoliarda e
Springtime - non scordiamoci neppure di Love song - arriviamo all’ultima parte del disco.
Buono il ritmo percussivo di One man band e il post-rock di The main line ma ancor più
buona è l’ironica Supereroi, emblema delle piccole lotte quotidiane. Bravi.
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Lory D Sounds never seen
(26/11/07)
Tra il 1991 e il 1999 apparvero in Italia, soprattutto a Roma, dei
vinili numerati pubblicati dalla SNS, mitologica label nata tra le
mura del vinyl store Re-Mix (nel quale io ho mosso i primi passi da
DJ). L’autore di questi vinili era Lory D, vero e proprio minotauro
della sperimentazione elettronica. A quel tempo in Italia, quello
della SNS era l’unico esperimento riuscito appieno in ambito virus,
un movimento, quest’ultimo, che aveva attratto in Italia tanti
producer internazionali e che vantava discoteche tra le più enormi
e cool del mondo. Quel tempo è finito, ma la Rephlex nel 2003 ci
ha riproposto Sounds never seen (acronimo della vecchia etichetta), sorta di raccolta del
meglio di Lory D. C’è il breakbeat più spinto e altezzoso di T.T. o di Street vision ed anche
l’ambient più tetra di No escape (scritta con Andrea Benedetti) o di Levitazione; poi ci sono
Road hog, Deep from Colosseum, Fludoiscki, Sickness. Non ebbi modo di vivere
intensamente quella florida stagione musicale e lo rimpiango, ma mi si permetta di dire
che fu tra le più emozionanti ere della cultura underground romana. Viva Re-Mix!
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Alunni Del Sole Liù
(27/11/07)
Paolo Morelli e i suoi Alunni Del Sole, napoletani, sono stati una
bella esperienza di pop melodico negli anni ’70. Musicalmente
armoniosi, autoralmente ineccepibili, gli Alunni Del Sole
pubblicarono nel 1978, dopo i successi di Dove era lei a quell’ora,
’A canzuncella e Jenny e la bambola, il bellissimo Liù. La canzone
che dà il titolo all’intero LP è conosciuta un po’ da tutti: una storia
d’amore divisa da tre persone, una donna troppo facile, due uomini
in guerra. Molti altri brani del disco sono dedicati a donne, vere
come Mara o fantastiche come Maddalena, che in qualche modo
tracciano un iter poetico all’interno delle tormentate storie d’amore di tutti i giorni, nelle
quali la donna guida il rapporto, divinizzata, nelle quali la donna compie davvero la sua
funzione di donna. Decisamente più generaliste le altre Gitani, Madonna, Ritrovarsi o
Nonna nonna. Anche se Liù non è il più riuscito disco degli Alunni Del Sole, si fa
comunque ascoltare con il medesimo piacere di …E mi manchi tanto… da chi ha una
certa inclinazione a complicare l’amore e a viverlo in maniera passionale, universale.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Alberto Camerini Comici cosmetici
(28/11/07)
Assieme alla Rettore, Alberto Camerini è stato il pioniere dello ska
in Italia negli anni ‘80. Ma nel precedente decennio il cyberclown
italo-brasiliano si cimentava con successo in provocatori
esperimenti kitsch e Comici cosmetici riassume in toto il suo buon
talento. Non a caso si comincia con Rock show, quindi ci si sposta
su Neurox e Shocka, tutte manifestazioni di uno slang meneghino
d’altri tempi. Dopo Divo divo arriva la title-track e da qui parte la
carnevalesca e irriverente vena ironica di Camerini; Macondo,
Siamo tanti, Poliziotto per favore e Amore che felicità sono
simpatiche rappresentazioni di un mondo artistico che sta per implodere e generare il
tanto discusso riflusso degli anni ’80. Ovviamente non bisogna aspettarsi spunti di alto
livello da questo autore e dalle sue creature musicali ma, tutto sommato, Comici cosmetici
risulta essere un tenero prodotto da ascoltare in momenti di farneticante divinazione
popolare. È molto probabile che in tempi brevi vedremo Alberto Camerini partecipare ad
uno di quei beceri reality come L’isola dei famosi o Music farm. Prepariamoci.
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Digitalism Idealism
(29/11/07)
Non c’è per forza bisogno di un potente computer per produrre
musica elettronica, anzi, un calcolatore vetusto obbliga il producer
a pensare soluzioni alternative. Questa è l’ipotesi di partenza del
duo dei Digitalism e del loro disco di debutto Idealism. Il vocoder di
Magnets ci fa immediatamente pensare ai migliori Daft Punk, i
suoni di Zdarlight ci riportano alle orecchie i vecchi synth della
Roland, la dance di I want I want imita gli LCD Soundsystem. Ma è
quando parte Idealistic che diviene chiaro che la stoffa c’è per
davvero: incastri mai scontati in un turbinio di automazioni di filtri ed
effetti. A questo punto Jens Moelle e Ismail Tuefekci virano verso l’Arabia con Digitalism in
Cairo e Departure from Cairo, ma ecco che subito la bellissima Pogo riporta il groove a
casa nostra. Passa l’interludio Moonlight e ci ritroviamo a fare i conti con l’acid di Anything
new, quindi con la cassa francesina di The pulse; Home zone e Jupiter room si
susseguono potenti e fragorose come solo il french touch più spinto sa fare, mentre
Echoes va a chiudere il disco in modo superbo. L’Europa ha vinto un’altra volta ancora.
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Garbo Gialloelettrico
(30/11/07)
Da bambino, su Topolino, leggevo incantato la storia, la biografia e
le avventure musicali di Garbo, intelligente waver degli anni ’80. Il
suo ultimo disco è del 2005 e riscopre un artista davvero grintoso,
un ritorno in grande spolvero. Gialloelettrico, ovviamente ancora in
new wave anche se oggi non ha più senso chiamarla così, è un
lavoro ben organizzato dove tra una canzone e l’altra troviamo dei
brevi intermezzi sonori, degli spezzoni televisivi, delle
ambientazioni preludiche; Garbo fotografa col suo linguaggio la
realtà circostante senza mai voltarsi indietro verso il passato. Le
canzoni più sagge del disco sono di certo Amanti, Io non miglioro e Onda elettrica,
perlomeno sono quelle in cui la melodia si fa più viva. Lo stile inconfondibile del cantautore
milanese prevede difatti una tonalità vocale piatta che poco aggiunge alle basi techno-pop:
tale è il risultato nelle altre Forse, Io e te, Giallo, Garbo, Settimo senso, Se ed Andarsene.
Per comprendere a fondo il mondo di Garbo, bisogna partire dalle sue origini (tipo A
Berlino… va bene) che troviamo rimasterizzate a prezzi accessibili.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Telefunka Electrodomestico
(01/12/07)
Era tanto che un disco non mi sorprendeva così, non mi ammaliava
fino all’estasi, non mi riempiva le orecchie di belle note.
Electrodomestico dei messicani Telefunka è un catartico
capolavoro di contaminazione jazzy, in cui non v’è un solo brano
sotto tono; tutto è perfettamente in armonia, i sax, i vibrafoni, le
chitarre, i beat, i bassi, i robovox, le percussioni. Tra il lento cedere
della batteria e i violini tzigani in Astro Saluki e il lungo incantesimo
di Squash, tra le chitarrine funky di Brillantina e i riverberi amniotici
di Bomba E, tra il glamour plastificato e il vocoder in Bailando e la
cadenza dance di Portatil, il disco ci regala intense emozioni di tempi andati. E quando ci
troviamo di fronte alla cover nu-jazz di Besame mucho, allora ci rendiamo conto che
dobbiamo sciacquarci la bocca prima di pronunciare il nome dei Telefunka. L’opera si va a
concludere fra i synth di Zenit, il big beat di Estoesnormal e le dissonanze di Beibe.
Comprate questo album, rubatelo, scaricatelo, regalatelo, copiatelo, fatelo girare,
insomma, fate qualcosa. Electrodomestico è un disco davvero troppo bello.
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Jets Overhead Bridges
(02/12/07)
Ho deciso di recensire il penultimo disco dei Jets Overhead quando
ho scoperto sul loro sito ufficiale che potevo scaricarmelo gratis,
dopo aver acconsentito con un clic ad una politica di fruizione del
diritto d’autore improntata alla libertà espressiva e comunicativa;
distribuire il disco in tale maniera significa inoltre concedere una
maggiore espansione internazionale alla fama della band, senza
che nessuna azienda ne tragga profitti occulti. Conoscevo i Jets
Overhead per via della bellissima Shadow knows, ivi contenuta,
canzone shoegazer (o folk-rock) con linee di chitarra davvero
esaltanti. Ma tutto l’album s’è rivelato essere una magnifica sorpresa, sia in brani
indipendenti come This way e Killing time, sia in canzoni più commerciali come Seems so
far e Breaking to touch. Per concludere, dirò solo che Bridges ha riportato a galla tutto il
perverso amore per il grasso rock chitarroso, quasi epico, con quei ritornelli che sembrano
fatti apposta per rapire l’anima, farne un aeroplanino di carta e quindi spedirlo sulla Luna.
Un disco che gli indie-rockers apprezzeranno in maniera esauriente.
•
Soerba La vittoria dei cattivi
(03/12/07)
Dopo l’ampio successo di Playback, i Soerba non riuscirono a
bissare il risultato nel 2001 con La vittoria dei cattivi, forse perché
non sono riusciti ad affrancarsi dallo stereotipante genere dei
Bluvertigo. Sta di fatto che però questa seconda prova rimane, in
sé, un bel disco italiano. La presa di coscienza di non avere più
vent’anni viene cantata in Ai miei tempi, il rimbambimento amoroso
in Don’t think, love, la rivisitazione del superuomo in Supercar,
l’ironica esaltazione estetica ne La bellezza, l’orgogliosa
provocazione dell’antibuonismo nella title-track. La piega autorale
del disco è tutta incentrata ad un sarcasmo tragicomico (Chi fa da sé) e al divertito senso
di baldoria (Balla); non manca però il talento strumentale dei Soerba nei tre interludi
intitolati come targhe automibilistiche così come non manca il mito dello sconosciuto in
Misterioso, il mito dell’ignorante in Stupid man e il mito del salutista in Mangiare sano. È
vero che La vittoria dei cattivi non contiene spunti geniali così alti da farci gridare al
miracolo, tuttavia credo che i Soerba siano stati una cara e traumatizzante meteora.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Orchestral Manoeuvres In The Dark Organisation
(04/12/07)
Il secondo disco degli Orchestral Manoeuvres In The Dark
(conosciuti come OMD) è un lavoro sperimentale a mezza via tra la
new wave e la dance anni ’80. L’unico singolo tratto dal disco è la
famosissima hit Enola Gay (che è il bombardiere che sganciò
vigliaccamente le bombe atomiche sul Giappone). Ritengo tuttavia
molto più interessanti le altre tracce: per esempio VCLXI, primo
nome della band ai tempi del college, o Motion and heart che
avrebbe meritato anch’essa un singolo tutto suo. Statues è
dedicata a Ian Curtis dei Joy Division, The more I see you è la
cover di un pezzo di Chris Montez (in origine veniva cantata nel film Billy Rose’s diamond
horseshoe da Dick Hayes), inoltre Promise vede alla voce il bravo Paul Humphreys e
Stanlow è un ricordo infantile dell’Inghilterra industriale ed alienante di allora. Infine The
misunderstanding è un B-side di fine ’70, mentre 2nd thought è l’unico pezzo registrato
alla Gramophone Suite di Liverpool. Organisation è proprio ben fatto così come tutti i
dischi degli OMD. Soprattutto vi consiglio anche Architecture & morality.
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Checco Zalone Se ce l’ò fatta io… ce la puoi farcela anche tu
(05/12/07)
Dopo l’allegato al libro …Se non avrei fatto il cantande, Checco
Zalone ci riprova quest’anno con un disco ancor più divertente del
primo. Se ce l’ò fatta io… ce la puoi farcela anche tu è uno dei
prodotti più tamarri dell’Italia contemporanea, ma fa piangere dalle
risate. Ti regalerò una rosa di Cristicchi diventa Mi piace quella
cosa, vero e proprio inno alla gnocca e all’innocente
masturbazione; Eros Ramazzotti viene scimmiottato in
Grandissima storia, Carmen Consoli nel medley Stitica / Zio
Santuzzo, Raul Casadei in W le tette grosse (featuring Mario
Rosini), Jovanotti in Fiducia nel prossimo. Inoltre Checco Zalone parla di belle proselite in
Testimona di Genova o di badanti dai facili costumi in Sfascia famiglie; non manca l’hit dei
mondiali Siamo una squadra fortissimi (in versione live, o “laiv”, come dice Zalone) e
l’orgoglio criminoso de I juventini, apologia sarcastica del recente scandalo calcistico
all’italiana. Le altre Va be’, Se ce l’ò fatta io, La sala e Finisce qui (con Mariangela Eboli)
appaiono come triviali canzoni per farsi due risate fuori dai vecchi preconcetti.
•
Ezra InGrembo
(06/12/07)
InGrembo è un ricordo lontano, iniziato non so quanto tempo fa,
pubblicato da Ezra alla fine del 2005 da Royality Records. Nato
dalla necessità di allontanarsi dal mondo, da tutto, di ascoltare e
sentire attraverso una membrana protettiva che filtrasse emozioni a
volte ingestibili, questo album è il primo di una trilogia dedicata alle
fasi della vita, una dedica alla nascita. Nove tracce che seguono il
percorso della gestazione come i nove mesi che la scandiscono,
un’immaginaria ascesa dal buio alla luce. Si comincia con le doglie
di Inside (featuring Alessiomanna), quindi si va a parare nella
dedica di Blue song for rouge (featuring Sean); il ritmo jazzato arriva con Angelina e il
downtempo con I’ll open my eyes. Paolo Spaccamonti arriva a performare Secret sign,
mentre I’m a fool e Underground discoprono la vena elettronica di Ezra. Gli utlimi due
brani concludono questo svezzamento: Lose her che proviene da un vecchio giradischi e
Rebornagain che pare invece suonata di fronte alla culla del nascituro. Nel complesso,
InGrembo è un lavoro maturo e strabiliante che non può lasciare indifferenti.
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St. Germain Boulevard
(07/12/07)
Il primo disco di St. Germain suona così antico, eppure risulta
ancora fresco e arioso. Boulevard, primo lavoro di Ludovic Navarre
(un mito per me), è improntato al massimo rigore jazz-house già
dall’inizio di Deep in it, in cui i pianoforti coprono le brush mentre il
beat sale piano piano fino a surriscaldare la pista da ballo. La
seconda lunghissima Street scene predice ciò che St. Germain farà
in Tourist; Sentimental mood torna invece ai 4/4 house, contornati
da succulenti ottoni; è qui che arriva l’emblematica What’s new?,
brano omaggio ai più grandi DJ di allora (Dimitri From Paris, Little
Louie Vega, Kenny Dope Gonzalez, Frankie Knuckles, Todd Terry, Roger Sanchez ecc.) e
a tutti i piccoli producer house; con Dub experience II ci spostiamo ovviamente su groove
maggiormente dub ma subito dopo Forget it arriva la caraibica Soul salsa soul, quindi la
splendida Alabama blues, oramai famosissimo pezzo del produttore francese. Boulevard è
inferiore a Tourist ma - come LP d’esordio - è semplicemente magnifico, spiazzante,
innovativo, esaltante. St. Germain ti aspettiamo!
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Karlheinz Stockhausen Kurzwellen
(07/12/07)
Purtroppo oggi una recensione speciale. Dico “purtroppo” perché
oggi è stata ufficializzata la notizia della morte del più grande
musicista del Novecento, Karlheinz Stockhausen. Venuto a
mancare mercoledì scorso, la fondazione che porta il suo nome ha
deciso solo in giornata di farlo sapere al mondo. Ed io voglio
ricordare non tanto la sua persona, bensì la sua opera, affinché
rimanga memoria alle generazioni future che potranno ascoltare
ancora musica vera e soprattutto sapranno chi ringraziare per
questo. Scelgo Kurzwellen, opera non tra le più importanti, che
però sicuramente ci lascia uno Stockhausen riformista, geniale, riflessivo, dadaista.
L’opera in questione prevede l’uso da parte dei cinque esecutori di cinque radio ad onde
corte affiancate ai rispettivi strumenti. La partitura prevede poi che gli esecutori
reagiscano, dalla mimesi all’estrema opposizione, a ciò che le radio captano, ovviamente
cose diverse a seconda del luogo e del momento dell’esecuzione. Un po’ improvvisato, un
po’ sregolato, un po’ fottuto genio inarrivabile: lo ricorderò così. Onore a Carlo Enzo.
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(08/12/07)
Floratone Floratone
Il progetto Floratone nasce dall’unione di intenti di due grandi
jazzisti contemporanei, Matt Chamberlain e Bill Frisell, aiutati dal
grande talento jam di Tucker Martine e Lee Townsend.
Strumentalmente c’è poco da dire e ridire; tutto è perfettamente in
ordine, i fiati, le chitarre, gli effetti, le batterie, il contrabbasso. Ma la
critica più autorevole, mossa da esimii esperti di genere, è quella
incentrata sulla mancata occasione di questo quartetto di sfondare
la porta della convenzione jazz. Per fare arte non basta il
virtuosismo e l’improvvisazione, e qui firmo e controfirmo.
Floratone, in questo, effettivamente difetta. Anche se è tuttavia piacevole ascoltare The
wanderer, Mississippi rising, Louisiana lowboat, Swamped, The passenger e Take a look,
rimane il fatto che tutto ciò non basta. L’influenza di Miles Davis (il nome del progetto è un
omaggio proprio a lui) risalta, il talento di Chamberlain e Frisell pure, la promozione in
punta di piedi è ammirabile, ma non basta ancora. Floratone è un’occasione persa, quindi
un rimpianto, ed io ho sempre preferito di gran lunga i rimorsi ai rimpianti.
140
Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Les Anarchistes La musica nelle strade!
(09/12/07)
Anche alla loro seconda prova i Les Anarchistes si confermano una
divina realtà dell’antagosnimo folk musicale italiano. Il disco si apre
con una geniale rilettura di Leo Ferré in Muss es sein? Es muss
sein! che invita a riportare la musica nelle strade, strappandola
dagli infami artigli aristocratici dell’accademismo. L’interpretazione
corale dell’incipit spiana la strada all’esaltazione dell’irredentismo di
Inno a Oberdan, cosicché altre figure vengono a delinearsi in
quest’opera: c’è Pedro Benje, c’è Pishku Li, ci sono Sacco e
Vanzetti in The ballad of Sacco and Vanzetti. E c’è tanto impegno
civile, condivisibile sempre, nella Ballata dell’emigrazione, in A las barricadas, in Fuochi di
parole, ne Il maggio di Belgrado, in Radio Libertaire, ne Il bagno all’Ala Bianca. Testi
anarchisti, contaminazioni rock, base elettronica e incursioni jazz; i Les Anarchistes sono
uno degli esperimenti più riusciti del fiacco panorama italiano. Non si può fare a meno di
stimare La musica nelle strade! se si ha la convizione che l’arte musicale sia rimedio di
tutti i mali e che quindi debba appartenere al popolo.
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Riccardo Cocciante, Rino Gaetano, New Perigeo Q concert
(10/12/07)
Tra il 1980 e il 1985 in Italia ci fu la moda dei Q-disc, ovvero dei
vinili da 12” che contenevano quattro canzoni (due per lato,
ovviamente). Il fine dell’operazione - a cui tanti artisti parteciparono
- era quello di mettere una toppa alla crisi discografica che stava
imperversando nel Belpaese. Ci fu il Q-disc di Amedeo Minghi
(Quando l’estate verrà), di Renato Zero (Calore), di Goran
Kuzminac, di Marco Ferradini, di Ivan Graziani, di Ron, di Mario
Castelnuovo, di Lucio Dalla, di Francesco De Gregori (La donna
cannone), degli Stadio (Chiedi chi erano i Beatles), di Mimmo
Locasciulli, di Sergio Caputo e di tanti altri. Riccardo Cocciante, Rino Gaetano e i New
Perigeo si cimentarono nell’incisione del Q concert, interessante performance del 4-5
maggio 1981 al Teatro Tenda di Roma. Rino Gaetano spicca su tutti attraverso
l’interpretazione della rarissima A mano a mano, Cocciante canta Aida del collega
calabrese e i New Perigeo, da musicisti, interpretano a modo loro Aschimilero; assieme,
invece, viene eseguita Ancora insieme, esaltante brano pop. Un disco che è una perla.
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Amy Winehouse Back to black
(11/12/07)
Una vita fin qui vissuta al massimo, senza remore e limitazioni
mentali, di certo amplificata dai riflettori delle TV e dai media che
screditano o esaltano (dipende da cosa fa più notizia) l’abuso di
alcol e sostanze affini. Amy Winehouse, giovanissima, è l’autrice di
Back to black, uscito a fine 2006, che s’è rivelato essere
un’inaspettata sorpresa per fan, critici e radio. Ma la Winehouse in
clinica non ci vuole proprio andare, ecco perché canta Rehab. Allo
stesso modo mette in guardia i suoi spasimanti con You know I’m
no good, ma sa essere anche dolce e toccante con Just friends. La
voce è davvero sorprendente, così come lo stile musicale decisamente retró che attinge
dal funk, dal beat, dal soul e dallo swing. La title-track è pressoché stupenda, Me & mr.
Jones incanta, Love is a losing game ci apre gli occhi sulla realtà, Tears dry on their own
diverte, Some unholy war semina impegno sociale ma non raccoglie seria riflessione.
Tutto il disco è una bella esperienza d’altri tempi, cantata da qualche grande artista black.
Se non fosse per quel difetto etnico congenito, la Winehouse sarebbe perfetta.
141
Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Antonello Venditti Dalla pelle al cuore
(12/12/07)
Lo scorso inverno, in occasione dell’uscita di Diamanti, c’aveva
promesso un ritorno in grande spolvero. Ed ecco puntuale Dalla
pelle al cuore, nuova creatura del sempreverde Antonello Venditti.
L’amore e il sesso vengono sviscerati con piglio saggio e
romantico, ma non mancano omaggi e frecciate alla società. Difatti,
dopo la title-track (forse dalla melodia già sentita), Venditti ci regala
l’ennesimo ritratto della capitale con Piove su Roma e torna
immediatamente sul tema dell’abbandono con Scatole vuote. Non
appena il godimento pop diventa poetico con Indimenticabile!,
Antonello vira sul tradimento redento di Giuda e sugli improperi disillusi di Tradimento e
perdono; la malinconia per i campioni perduti svanisce nel testamento spirituale de La mia
religione e di Regali di Natale. Non poteva mancare, con Comunisti al sole, la critica a
quella classe dirigente che tradì l’utopia e la fantasia per l’opportunismo. Non sarà quel
capolavoro di Che fantastica storia è la vita ma Antonello Venditti qui è stato bravissimo a
praticare un excursus nei sentimenti che danno il senso alle vite degli uomini.
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To Kill A Petty Bourgeoisie The patron
(13/12/07)
Atmosfere cupe fatte di orridi spettri che girano nei pit di questo
CD. Loro sono i To Kill A Petty Bourgeoisie, duo praticamente
sconosciuto di Minneapolis, e per Kranky hanno prodotto un ottimo
lavoro di post-rock d’avanguardia. Se mettiamo da parte la prima
traccia (che poco c’azzecca col resto) e partiamo da The man with
the shovel, is the man I’m going to marry, allora possiamo dire che
il lavoro compiuto è mirabile. Le percussioni di Lovers & liars
vengono ad intrecciarsi a chitarre in levare e a voci in disuso, la
sporcizia letfield di Long arms stenta a divenire melodia,
l’interludica Dedicated secretary, liaison, passionate mother, invece, mostra anche un
talento ambient tipico dei Sigur Rós. Ricominciamo a sentire gli strumenti solo con I box
twenty ma il pezzo da novanta in effetti è la successiva You guys talk, we’ll spill our guts; il
rumorismo più afono e distorto di With brass songs they’ll descend è presto interrotto dalla
lunga semiballata Very lovely. Infine Window shopping riporta il disco, e noi con esso, ad
una dimensione più umana, certamente scheletrica, ma pur sempre umana.
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Kosheen Resist
(14/12/07)
Fu un debutto fulminante quello dei Kosheen, tanto che se oggi
continuano a scalare le vette delle chart inglesi con Damage è
anche merito di quel vanitoso esordio che fu Resist. Mordace
drum’n’bass si scatena nella popolarissima Hide u, tremendo
breakbeat esplode con Catch, tenue electro con venature
orchestrali in Cover, jungle in odore di vecchia scuola singhiana
con Harder. La vocalist se la cava egregiamente nei meandri
armonici di questa elettronica così buia e misteriosa. (Slip & slide)
Suicide riattacca così a macinare beat in quantità industriale, I want
it all e Resist rallentano invece l’andatura attraverso soluzioni trip-hop; addirittura da
Repeat to fade fuoriesce una chitarra acustica. Nelle ultime tracce del disco infatti
l’elettronica comincia a declinarsi progressivamente verso un approccio decisamente più
acustico e strumentale (Hungry, Cruelty, Let go, Playing games). Unico minuscolo neo di
tutto l’album è l’ultima Gone, che rovina l’incanto per via della sua struttura pop eseguita
col bel canto tipico delle boy-band di metà anni ’90. Lodabile nell’insieme.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Gorillaz D-sides
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Quintorigo Rospo
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(15/12/07)
Tutti i demo e i B-side che non hanno trovato spazio in Demon
days sono stati raccolti dai Gorillaz in questo doppio CD (il secondo
disco contiene dei remix). Per esempio, sentire Dare nella sua
versione originale intitolata People fa un po’ strano: il testo è un
altro, il cantato pure, alcuni strumenti sono assenti, altri lo saranno
nella versione successiva. Parecchio divertenti Hongkongaton e 68
State, i B-side di Dirty Harry e Feel good inc.; We are happy landfill
la si poteva scaricare dal sito ufficiale; Highway è il lato B proprio di
Dare; Stop the dams è lo slogan contro le dighe islandesi.
Spostando invece l’attenzione sul secondo CD, scorgiamo dei remix davvero importanti.
Ad esempio il lungo rework dei DFA su Dare, il lavoro funky di Jamie T su Kids with guns,
la revisione house di Junior Sanchez sempre di Dare o il complicato remix degli Hot Chip.
V’è anche una versione mandarina di Dirty Harry e una dance di El mañana. Non vorrei
che D-sides sia solo un’operazione commerciale; la mia garanzia è il fatto che questa
band virtuale in fondo non esiste, così come la sua musica.
(16/12/07)
Quando apparvero a Sanremo rimasi schifato perché a quel tempo
non avevo ancora capito granché di sperimentazione e
avanguardia. Una volta riscoperti, i Quintorigo non possono
lasciare indifferenti, soprattutto non fa risparmiare giudizi la voce
stramba - ma assoluta - di John De Leo, di cui è da poco uscito
Vago svanendo. L’ironia poggia sempre sullo spessore autorale, il
virtuosismo strumentale non ostacola mai il melodismo, le note
stonate dei violini sono pur sempre bilanciate da suite orchestrali di
grande livello. E allora ecco che Kristo, sì! o Rospo diventano
provocazioni vere e proprie, Nero vivo e Zapping attingono dalla cultura orientale, Sogni o
bisogni e Tradimento deridono le più acquisite basi morali del nostro tempo. Un po’ di
francesismo (ma non aspettatevi dolcezza) con Deux heures de soleil, un po’ di anglofonia
con Heroes ed infine una fantasmagorica versione dub di Kristo, sì!. Rospo fu il luminoso
debutto ma anche In cattività, Il cannone e Grigio sono degli album incredibili, soprattutto
nell’ottica di una loro forzata integrazione con la cultura musicale italiana.
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Richie Hawtin Concept 1
(17/12/07)
Il maghetto canadese per eccellenza è Richie Hawtin, cresciuto a
pane e Jeff Mills, quindi maturato nei migliori club del mondo dietro
una consolle. Le serie originali Concept 1 del 1996 consistevano in
ventiquattro tracce singole rilasciate su 12” ogni mese,
strettamente limitate a duemila copie per uscita. Le serie furono
pubblicate su CD nel 1998, accanto a una versione remixata
(Concept 1 96:VR), creata dal produttore Thomas Brinkmann con
una consolle modificata all’uopo. La minimal techno di Hawtin dilata
i suoni fino a renderli irriconoscibili e questa sua caratteristica va
assaggiata durante uno dei suoi pellegrinaggi live: l’aiuto di installazioni video vi aiuterà a
dare un senso al rimbombo dei rigorosi kick che Richie mette in cantiere. Ma in questo
disco, in cui le tracce sono mere progressioni cronologiche, è proprio quella timbrica così
assillante ad essere significato; il funzionalismo della musica da dancefloor diviene
concettualismo da live performance. Ecco perché non si può confrontare Concept 1 con
quegli inutili dischi techno che di concettuale non hanno un bel niente.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Plastikman Closer
(18/12/07)
È sempre Richie Hawtin ma il suo nome più conosciuto è
Plastikman. Sotto questo progetto ha pubblicato diversi album,
l’ultimo dei quali è Closer, del 2003. Abbiamo già detto che il
minimalismo del DJ nordamericano è funzione del suo talento dal
vivo anche se questo argomento è stato messo in discussione da
un’eminente figura del panorama elettronico come Karlheinz
Stockhausen. Il compositore tedesco rimproverava a Plastikman
l’abuso del percussivismo in 4/4, accusandolo di vendersi al
pubblico delle discoteche. Di certo la critica è sensata e
inconfutabile, ma non bisogna dimenticare che Hawtin è pur sempre un DJ (e non un
compositore di musica puntuale!). Quindi Closer non perde nulla della sua carica artistica,
tanto che prova a racchiudere echi illbient, acid e autogenerativi. Ask yourself prepara
l’avvento elettronico di Mind encode così come Lost spiana la strada al rumore di
Disconnect; se poi il remix di Slow poke non vi sazia, allora ci sono Headcase, Ping pong
e Mind in rewind a minacciarvi il cervello. Disco importantissimo per il clubbing.
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Claudio Baglioni Claudio Baglioni
(19/12/07)
Antonio Coggio, coautore di questo bellissimo LP, disse a mio
padre, durante un loro incontro informale a casa del primo, che il
debutto di Claudio Baglioni era stato un fiasco clamoroso. E i dati
non lo smentiscono. Ma a quasi quarant’anni di distanza, questo
disco non perde nemmeno una briciola del suo innato splendore; vi
sono dei pezzi d’inaudita musicalità con testi sentimentalmente
impegnati. Quelli che mi vengono in mente immediatamente sono
Signora Lia, storia di una maturità ancora sulla cresta dell’onda;
Una favola blu, morbida avventura amorosa di mezz’estate; Il Sole
e la Luna, immaginifica dedica agli astri e Lacrime di marzo, nostalgica ballata per una
donna suscettibile. Ma anche le altre Notte di Natale, Quando tu mi baci, Isolina, I silenzi
del tuo amore, Mia cara Esmeralda, L’africa ti chiama e ‘Izia ci danno il metro di un
Claudio Baglioni talentuoso e ambizioso; suona bene il pianoforte e la chitarra e, cosa
ancor più importante, è capace di redigere testi davvero nuovi con una genetica
musicalità. Pian piano Baglioni si perderà per la strada, ma questo LP rimane tra noi.
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Stéphane Pompougnac Hello mademoiselle
(20/12/07)
L’Hôtel Costes, concorrente del più famoso ma ormai tramontato
Buddha-Bar, ha un ristorante nel quale Stéphane Pompougnac si è
fatto conoscere dalla Parigi bene attraverso le sue selezioni lounge
e dal mondo attraverso riuscitissime compilation. Ma c’è anche una
discografia ufficiale del DJ che comprende due dischi. Hello
mademoiselle è fresco fresco e non si vergogna affatto di essere
un lavoro glamour, quasi snob, fatto apposta per essere suonato
durante i cocktail party di qualche famosa top model. Non a caso i
generi utilizzati dall’attempato ma affascinante Pompougnac sono
la deep house, la chillout e il nujazz. I brani più significativi di questo album sono
sicuramente Better days (cantata da Tiger Lily), L’oiseau, Here’s to you (con Linda Lee
Hopkins), Sunday driver (interpretata da Charles Schillings) e la cover di On the road
again che in Francia è come un ufficioso inno nazionale. Se amate Parigi (in copertina
Stéphane è ritratto sulla scalinata di Montmartre) dovrete per forza di cose apprezzare
questo disco con la puzza sotto il naso, perché Parigi è esattamente così.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Subsonica L’eclissi
(21/12/07)
Non v’è luce nel nuovo succulento album dei Subsonica, band
torinese tra le più sorprendenti della contemporaneità. Non v’è
luce, dicevo, perché L’eclissi è un disco pessimista, che non vede
nessun lato positivo in questo strano pazzo stupido mondo; e
finalmente i Subsonica sono tornati a fare sporca elettronica, quella
che hanno sempre saputo fare così bene. C’è la perdita di dignità
in Veleno, c’è l’omaggio a Roberto Saviano (quello di Gomorra) in
Piombo, c’è la desolazione intimista di Ali scure, c’è il vacuo
immobilismo de La glaciazione, c’è l’indifferenza che fa male de
L’ultima risposta, c’è il buio de Il centro della fiamma. I synth di Boosta, gli FX ingombranti
e la voce di Samuel rendono L’eclissi un ritorno al passato, e tracce come Quattrodieci o
Nei nostri luoghi ne descrivono bene i confini. Alla fine del disco si concentra un bel
coacervo di innovazioni: tra Stagno, L’eclissi e Corpo celeste si intravedono soffici miscele
di pop ed electro-rock (come avveniva alla fine di Amorematico). Disco musicalmente
perfetto in cui non c’è niente da ridere, solo tanto da ascoltare.
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Area Arbeit macht frei
(22/12/07)
Musicalmente Arbeit macht frei offre ottimi spunti che vanno
dall’improvvisazione free jazz al rock, anche se in minor parte,
mentre dalla musica etnica vengono ripresi i tempi dispari e i modi
orientaleggianti. In questo contesto il disco unisce avanguardia e
tradizione popolare regalando alcune situazioni molto godibili e
trascinanti che hanno reso caratteristico il suono degli Area. Luglio,
agosto, settembre (nero) è il brano che senza dubbio sintetizza
queste soluzioni al meglio, grazie anche ad uno strepitoso tema
strumentale. Non manca poi qualche momento sperimentale come
L’abbattimento dello Zeppelin o più incline al rock jazzato come Le labbra del tempo. Nei
suoi principii musicali Arbeit macht frei è assolutamente innovativo (tutte le musiche sono
opera di Fariselli), ma è comunque privo di estremismi. Questo è un album che suona
indubbiamente prog, ma solo per quanto riguarda il superamento degli schemi consueti
del songwriting e per una contaminazione che suona ardita, ad iniziare dalla voce araba
che apre il disco e che sancisce l’attrazione per il bacino mediterraneo.
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(23/12/07)
Simone Cristicchi Dall’altra parte del cancello
Quando si fece conoscere con Vorrei cantare come Biagio
sembrava uno stupidotto eppure fu subito chiaro che Simone
Cristicchi avrebbe sfondato davvero nell’asfittico panorama pop
italiano. Dall’altra parte del cancello è un lavoro impegnato e tratta
concettualmente una questione che è stata accantonata dalla
politica e miscreduta dal popolo, la pazzia. Nessuno s’è mai chiesto
se i matti abbiano ragione, se vedano il mondo nella sua più
genuina verità. Cristicchi s’è fatto un giro per i manicomi italiani
(ormai chiusi, ahimé) e ne ha carpito alcuni geniali spunti d’autore.
Ti regalerò una rosa è la storia d’un suicida innamorato, Legato a te sviscera le sofferenze
d’un allettato che vuol morire (sarà l’inno a Piergiorgio Welby), L’italiano mette in piazza la
morale comune, Laureata precaria sorride sardonica su questa maledetta flessibilità,
Nostra Signora dei Navigli ritrae la figura di Alda Merini, Lettera da Volterra vede la
partecipazione di Giovanni Allevi, La risposta attende chiari segnali da Dio. Simone
Cristicchi qui s’è superato e di questo pop non vorremmo farne a meno.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Sophie Ellis-Bextor Read my lips
(05/01/08)
Dopo aver egregiamente partecipato come vocalist nella
meravigliosa Groovejet di Spiller, Sophie Ellis-Bextor s’è
ovviamente buttata nella carriera solista, ramo dance. Il primo disco
dato alle stampe è Read my lips, cinquanta minuti di sonorità chic
imperniate su testi pop e superficiali giochi d’immagine. In Take me
home scorgiamo i violini, in Lover il groove si fa più acido, in Move
this mountain risuonano campane, in Sparkle viene plagiato
Profondo rosso dei Goblin, in Final move si fa un tuffo nella new
wave, I believe ricorda i migliori Groove Armada, Leave the others
alone è inutile, By chance possiede invece una buona percentuale di sperimentazione; ma
il pezzo forte del disco è sicuramente Murder on the dancefloor, divertente brano dance
che mischia con maestria funky, house e disco. Non so chi siano i produttori di questo
disco ma risulta facile comprendere che Read my lips va ascoltato con infinita leggerezza
perché non lascia molto più d’un sorriso. Il tempo delle interpreti a tempo determinato è
finito ed è ora che Mademoiselle E.B. lo capisca.
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Theorius Campus Theorius Campus
(06/01/08)
Il progetto Theorius Campus nasce agli inizi degli anni ’70, tra le
mura del grande Folkstudio di Roma, attraverso l’unione di due
artisti che diverranno poi, su strade assai diverse, grandissimi
cantautori, Antonello Venditti e Francesco De Gregori. L’album
porta il nome del progetto e contiene brani che entrambi
inseriranno poi nei propri dischi solisti. Si comincia con il languido
inno di Roma capoccia, quindi continua con il pianoforte di Ciao
uomo e Sora Rosa; immensamente bella Signora Aquilone, cantata
dal Principe, così come La casa del pazzo. I brani scritti e cantati
assieme sono ancor più belli: pensate infatti a Dolce signora che bruci o ad In mezzo alla
città. Erano tempi in cui se sapevi suonare una chitarra ed eri abbastanza colto e curioso,
trovavi facilmente luoghi adatti in cui conoscere altri come te e, cosa ancor più importante,
potevi conversare con produttori lungimiranti (qui si parla di Vincenzo Micocci). Theorius
Campus fu un diamante raro della musica italiana e trovare al suo interno un De Gregori e
un Venditti ancora in erba fa specie. Indimenticabile.
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Röyksopp Melody A.M.
(07/01/08)
È da dischi come questo che dobbiamo imparare tanto. Dobbiamo
riflettere su come la facilità musicale e l’assenza di ostacoli
economici possano partorire un album così bello. Melody A.M. anche i bambini lo sanno - è l’esordio internazionale dei Röyksopp,
duo norvegese che dell’elettronica fa un uso superbo senza mai
sconfinare nel commerciale. L’apertura di So easy è eccelsa, il riff
(chiamiamolo così) di Eple è visionario, la dolcezza di Sparks è
toccante, il ritmo di Space è coinvolgente. Quando crediamo che il
disco debba per forza scendere di tono, siamo costretti a ricrederci
perché Poor Leno prima ed A higher place poi ci procurano un sentimento di gioia mista a
invidia: perché in Italia nessuno è stato capace di fare roba del genere? Lasciamo perdere
le risposte - scontate - e andiamo avanti nell’ascolto. La notte non è mai sembrata tanto
cool come in Röyksopp’s night out, quindi un po’ di tranquillità digitale con Remind me;
fantastiche anche le ultime She’s so e 40 years back/come. Melody A.M. è dunque un
capolavoro della nostra era, quella dei clubber senza se e senza ma.
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Massimo Morsello La direzione del vento
(08/01/08)
Un fascista dichiarato da più di vent’anni morto a causa di una
malattia vigliacca come il cancro. Rimane, dopo Punto di non
ritorno, questo La direzione del vento: la musica è meno ricercata
(c’è troppo midi) ma i testi ci fanno rimpiangere la prematura
dipartita di Massimo Morsello. Ed è proprio sui testi che mi
soffermerò, più che sulle note. Gli spacciatori e la loro merda
vengono attaccati in Polvere bianca, la tremenda vita dei
musulmani invasi dai coloni giudei è cantata in Palestina, l’eroica
resistenza dei monarchici francesi al tempo della codarda
Rivoluzione Francese è il tema di Vandea, l’orgoglio di essere neri in Noi non siamo
uomini d’oggi, la speculazione economica travestita da fregatura europeista in Maastricht,
la beffa ironica in Più forti voi, la sacralità dei confini in Figli di una frontiera. Il brano a mio
avviso più toccante è però Vola, in cui Morsello riesce ad esprimere al meglio la sua voce
su un testo che gareggia alla pari, in quanto a poesia, con quelli di Fabrizio De André.
Meravigliose anche Figlia della Luna e Veniteci a salvare. Il camerata Morsello presente!
•
Olivier Messiaen Livre du Saint Sacrement
(09/01/08)
La musica sacra non fa per me, la trovo autoreferenziale nei
confronti della filosofia religiosa e troppo accondiscendente verso
la fede dogmatica. Ma il Livre du Saint Sacrement di Olivier
Messiaen, maestro di tanti esimii sperimentatori, è un’opera che
merita rispetto sia perché è l’ultimo dei suoi lavori per organo
(1984) sia perché a suonare l’organo della Norwich Cathedral è
Anne Page e non la storica Jennifer Bate. La prima parte, Adoro
Te, è formata da atti di adorazione di fronte a Cristo, invisibile ma
allo stesso tempo presente nei sacramenti; la seconda parte, La
Source de Vie, esprime la sete di grazia che viene esaudita dai sacramenti; la terza parte,
Le Dieu caché, contiene degli alleluja e due riferimenti alla cultura ebraica; il quarto pezzo,
Acte de foi, è un atto di fede verso la Reale Presenza. Le parti successive ritraggono tutto
l’immaginario divino, dalla Natività all’Eucaristia, dalla Diaspora alla Palestina. Se non si
hanno bene a mente i libri cristiani e le sfaccettature della musica sacra, si riscontreranno
impensabili difficoltà nell’ascolto di quest’opera, di certo eccelsa.
•
(10/01/08)
Ammetto che fino ad un mese fa non li conoscevo. I Battles, che
incidono oggi per Warp Records, esordirono con tre EP di pesante
ma rigoroso math rock, venato qui e là di elettronica, ambient e
post rock. Ascoltarli tutti assieme in EP C/B EP fa uno strano
effetto, in quanto pare che le batterie e le chitarre siano loop di
plastica poggiati su un continuum monotono e monocorde. Se
fossero più dolci sarebbe jazz, se fossero più elettronici sarebbe
dance, se fossero più sperimentali sarebbe avanguardia. Eppure di
dissonanze ce ne sono a bizzeffe. SZ2, Tras, B+T, Hi/Lo, Tras2,
Dance e Fantasy sono percussivismi in progressione, a volte volutamente fuori tempo,
altre volte perfettamente in orario sulla tabella di marcia. La matematica è ben congegnata
anche nel lungo respiro di Bttls e nel ronzante cicalio di UW; inoltre tutti i brevi intermezzi
(Tras3, IPT-2 o IPT2) contengono, al posto del nocciolo, un assordante ammasso di
riverberi. Non sono ancora riuscito a scovare il senso di dette macchinazioni ma giuro che
ci riuscirò: gli obiettivi finali non possono risiedere nei semplici numeri.
Battles EP C/B EP
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Africa Unite In diretta dal sole
(11/01/08)
Il massive reggae italiano è targato Africa Unite, ecco perché in
fondo è la dimensione live che dà modo a Bunna e compagnia
bella di dare il massimo. Nel 1996 pubblicarono In diretta dal sole,
trascinante concerto reggae/dub di fronte al quale, anche se
ascoltato in casa o ad un party, non si può rimanere impassibili. Gli
Africa Unite affermano che la decisione di registrare un live premia
le migliaia di persone che affollano i concerti, rendendole
protagoniste del CD. L’album ha anche un valore antologico da non
sottovalutare, poiché attinge a tutto il loro repertorio, da Llaka /
Mjekrari a Babilonia e poesia. Davide Graziano è il batterista a tempo pieno ma è il dub e
gli effetti creati da Mada a rendere compatto e ad esaltare il prodotto finale. Troppo
divertenti Ruggine, Scegli, Festa italiana, Il partigiano John, Politics, Nella mia città, Africa
dubwise stylee e Soffici sapori. Anche se questo live segnerà l’addio di Max Casacci al
gruppo, vedrà d’altronde l’ingresso degli Africa Unite nel catalogo Polygram. La considero
musica per non pensare troppo ai malanni e agli acciacchi della vita.
•
Miss Violetta Beauregarde Odi profanum vulgus et arceo
(12/01/08)
Questa porcona che appare sul web nuda e che ha partecipato a
orgiastici film porno è una performer di musica elettronica che
proviene dalla remota provincia settentrionale, quella più noiosa e
perversa. Ecco perché la sua musica - anche se non sa suonare è un accrocco di sonorità distorte e di vocals arrabbiate. Il suo
secondo disco (dopo Evidentemente non abito a San Francisco) è
Odi profanum vulgus et arceo, formato da tracce che non durano
più di un minuto e mezzo. Miss Violetta Beauregarde è però
indubbiamente provocante e provocatoria nelle sue Adolf Hitler’s
emotional side, Indie bad, gabber good, I can't believe, hedgehogs have a bone inside
their cock, The dirt between my feet’s fingers, How to use a good idea till it turns into a bad
idea o We had a riot doing diacetylmorphine. La velocità dei BPM è impressionante, i kick
sono tremendi, le volgarità cantate altrettanto, i synth sparano frequenze acidissime; non
posso dire che lo stile della Beauregarde mi piaccia ma non posso nemmeno negare che
sia stravagante e curioso. Senza voto, anzi, non classificabile.
•
Amari Scimmie d’amore
(13/01/08)
Scimmie d’amore è un disco dada. Occasioni mancate e morbide
romanticherie, ipocrisie superate ed innegabili verità. Gli Amari
sono riusciti ad arrivare esattamente dove non volevano arrivare.
Una volta metabolizzato, questo disco vi apparirà come uno dei più
belli mai ascoltati. Tanta voglia di litigare ne Le gite fuori porta,
sdrammatizzata nella successiva Il raffreddore delle donne, un po’
di sano alcolismo con Manager nella nebbia e quindi innocente
ingenuità in Parole vere in un mondo vero. Il rock arrugginito e
danzereccio di Ice albergo e di Arpegginlove viene spazzato via dai
sogni proibiti di 30 anni che non ci vediamo e dalla sbornia frizzante di Fiamme in un
bicchiere; i primati friuliani si riconoscono infine nella title-track come tutti coloro che
vivono l’amore in maniera irrazionale, senza fornire troppe spiegazioni di ciò che gli eventi
inducono a fare. A me Scimmie d’amore è piaciuto parecchio, per via degli incastri nei cori,
degli scratch, delle chitarre spezzettate, dei testi surreali e della pretesa di non prendersi
mai sul serio. Non a caso gli Amari sono bravissimi a giocherellare col pop.
148
Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
149
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Rodney Hunter Hunterville
(14/01/08)
Dalla grande famiglia austriaca della G-Stone Recordings proviene
questo producer semisconosciuto al grande pubblico che risponde
al nome di Rodney Hunter. Fin dalla prima prova discografica mi
aveva conquistato grazie alla commistione di house, chillout e
funky; in quest’ultimo lavoro il sound si fa ancora più lindo e
trasparente sin da Huntermatic, in perfetto stile Ibiza. Inutile
spiegare la carica sonora di Wanna groove? e di No stoppin ma va
sottolineata la presenza di chitarrine in perfetto stile seventies.
Molto r’n’b invece Glamour girl che sembra più un pezzo di Craig
David, mentre con Physical Hunter torna all’influenza dei Thievery Corporation. Non
potevano mancare gli esotismi di Latina thrilla e i groove houseggianti di Sync your
system. Le basse frequenze trapassano anche gli stomaci più allenati cosicché i battiti per
minuto si velocizzano leggermente in conclusione con Universe e Voodoo. Devo
ammettere che il tutto è abbastanza balearico e fighetto però Hunterville è pur sempre un
buon lavoro che in sessantacinque minuti non stanca per niente.
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Fabrizio Moro Ognuno ha quel che si merita
(15/01/08)
Parlai con Rolando D’Angeli (discografico della Don’t Worry
Records) e mi confidò che questo disco di Fabrizio Moro, che
dormiva negli scantinati da anni, era uno dei più bei lavori che lui
avesse mai prodotto. Difatti Ognuno ha quel che si merita esce
solo nel 2007 - ma era pronto dal 2003 - e riesce a spiattellare tanti
luoghi comuni senza cadere mai nella banalità della retorica.
Questa è la grande virtù di Moro. Non fatevi ingannare dalla
copertina pacchiana: inserite il CD e premete play. Indimenticabile
il riff di Eppure pretendevi di essere chiamata amore così come il
testo tragicomico di Ci vuole un business; amare ma suggestive le delusioni amorose di
Banale spiegazione e Non essere arrabbiata; arrendevoli e tenui Lisa e Come… (gran
pezzo); la title-track merita più di tutte ma anche la minore Everybody non è male. Infine la
chicca de L’indiano che fa tanto Colpa d’Alfredo del maestro Vasco. Fabrizio Moro ha
saputo abbandonare temi infantili per approdare ad un pop/rock di ottima fattura dove
l’importante fosse la dimensione autorale e, soprattutto, la dimensione live. Lo sostengo.
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Tosca J.A.C.
(16/01/08)
Questo è uno dei dischi più importanti della mia vita, uno di quelli
che anche ascoltati tra cinquant’anni saranno capaci di farmi
rivivere emozioni tanto intense da stimolare le ormai stanche e
secche ghiandole lacrimali. Il perché di tanta importanza me lo
tengo per me: dirò solo che J.A.C. è un capolavoro del suo genere.
Alla base c’è la cultura a bassa fedeltà che esalta senza troppi
miasmi i clip tra i loop e le registrazioni fatte in casa. Ma J.A.C.
(loro sono i Tosca e il titolo è costituito dalle iniziali dei figli degli
autori) è anche tanto sentimento, tanta gioia, tanta autorevolezza.
Dediche a persone verosimili come Heidi Bruehl e John Lee Huber tra jazz e acid o vere e
proprie hit da remixare come Superrob e Damentag. Il pezzo che più di tutti va goduto è
sicuramente Züri dove romantici accordi di chitarra vanno a completare un divino impasto
di beat sweet house e di cori in chiaroscuro. Dorfmeister e Huber sono riusciti a creare un
album che sazia diversi appetiti proprio perché non ha un sapore univoco ma emana tanti
aromi differenti. Caro J.A.C., ti voglio troppo bene e non potrò dimenticarti mai.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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The Postal Service Give up
(17/01/08)
Tanti remix, alcuni EP ed un solo album. Ma va bene così perché i
Postal Service, in Give up, hanno dato il meglio. È sensazionale la
loro capacità di orchestrare l’esperimento elettronico post rock e,
soprattutto, è geniale la metrica dei testi. Da The district sleeps
alone tonight a Brand new colony, da Such great heights a We will
become silhouettes, i Postal Service confezionano un prodotto di
altissima qualità nonché un esempio per molte altre band di
settore. Il risultato finale, conforme alle loro attitudini, è un trip
mentale tra il materialismo della vita moderna e l’aulico dei
sentimenti umani, una sorta di sussidiario sonoro delle emozioni. Il ruolo degli archi,
preponderante in questo lavoro e meno negli altri EP, funge da stillatore di tranquillità. Se
non ci fossero loro, le progressioni della sezione ritmica non basterebbero a dare il senso
di potenza. Difatti l’outro Natural anthem mette da parte violini e violoncelli e, servendosi
esclusivamente di rullanti fragorosi e di effetti sonori dall’impatto immediato, fa capire che
gli autori sono adirati del fatto che il disco vada a concludersi. E lo siamo anche noi.
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Explosions In The Sky The rescue
(18/01/08)
Nel 2005 gli Explosions In The Sky hanno avuto il tempo libero che
serviva loro per intavolare un progetto fortemente sperimentale,
durante il quale provare argutamente gli strumenti, portarli
all’esasperazione. È così che decisero di scrivere e registrare in
due settimane un disco: una traccia al giorno durante la prima
settimana per poi mixare ed editare il tutto nella settimana
successiva. Alla fine i brani sono otto ma il risultato non cambia. Il
primo giorno è tutto strumentale, triangolo, chitarre, batteria e
basso; il secondo giorno diventa misterioso e cupo; il terzo giorno
prevede incursioni dialogiche; il quarto mira decisamente all’experimental rock; in Day five
la melodia batte i pugni sul tavolo mentre il giorno sesto è dedicato al noise più ricercato e
interferito; l’ultimo giorno della settimana rallenta l’andatura e mima una cantilena della
notte, mentre Day eight introduce suoni familiari di casa Explosions In The Sky ma del
tutto sconosciuti agli ultimi avventori. The rescue mi piace un sacco, così come mi
piacciono i precedenti lavori. In esso c’è pace e riflessione, quiete e sudore.
•
(19/01/08)
Le Orme Felona e Sorona
Felona e Sorona potrebbero essere due mondi, due esseri umani,
due personalità, due pianeti. Ognuno può vedere in queste due
figure, antitetiche ma indivisibili, ciò che vuole. Ciò che non può
variare, in quanto dato oggettivo, è il livello qualitativamente
eccelso del disco de Le Orme, datato 1973. La lunga suite iniziale
Sospesi nell’incredibile, tra elettronica e progressive, introduce
Felona, appena risvegliata a primavera in cui farfalle e cicale
chiacchierano felici. La gioia del momento è interrotta dal
melanconico riverbero de La solitudine di chi protegge il mondo,
inno a colui che fa sì che il bene esista su questi mondi. Ma quando Felona sta per
spegnersi e rompere così l’incanto (L’equilibrio) arriva Sorona che, mogia e sorniona, lo
mantiene inalterato. Ora, in un’Attesa inerte sono i due universi, e Le Orme possono
disegnare con colori lividi le nuove albe (Ritratto di un mattino). Felona e Sorona adesso
vivono in simbiosi All’infuori del tempo così da poter far Ritorno al nulla. Considero questo
album uno dei pochissimi capolavori del prog italiano. Credetemi sulla parola.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Electric President Electric President
(20/01/08)
Si dice sia indietronica, ovvero mistura di rock indipendente ed
elettronica sperimentale. Rimanendo accondiscendenti verso tale
definizione, posso solo aggiungere che gli Electric President, ed il
loro unico album omonimo, sono anche qualcosa di più.
Innanzitutto perché in Good morning, hypocrite sento un testo e
una voce bellissimi, e poi perché le chitarre non si impastano mai
con le drum sintetiche, sarà per gli inserti orchestrali che cadono a
pioggia. Fatto sta che questo disco è stato un’autentica sorpresa:
Insomnia e Ten thousand lines mi fanno letteralmente impazzire.
Hum pare suonata nel tunnel d’una metropolitana, Snow on dead neighborhoods rifa il
verso ai Giardini Di Mirò, Some crap about the future contiene pure i corni. Un turbinio di
suoni mi avvolge su questo sofa con la voce posata ma unica del cantante, e pensare che
questi due poco più che ventenni possano aver fatto tanto mi stupisce ulteriormente;
Some crap about the future, Metal fingers e We were never built to last mi rapiscono;
anche la lunga Farewell, conclusiva, è un bel pezzo. Tante felicitazioni.
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Victoria Williams Loose
(21/01/08)
L’ultima volta che ho maneggiato questo CD avevo dieci anni. E
forse, prima d’ora, non lo avevo mai inserito in un CD player. Ma
adesso ne capisco il motivo: già a quell’età la musica per me era
una cosa seria ed evidentemente Loose non rientra(va) di certo in
ciò che io consider(av)o musica. La tradizione popolare americana,
purtroppo, a volte mi fa venire il voltastomaco. Questo è quanto.
Per il resto, Victoria Williams è anche brava a scrivere e a cantare
(è cantautrice, e pure apprezzata) ma le sue creazioni non
apportano nulla di significativo al panorama musicale
internazionale. Potrei salvare dallo stillicidio solo Century plant, Crazy Mary, Hitchhikers
smile e Get away ma non mi sbilancio più di tanto. Loose va ascoltato in automobile
durante qualche viaggio per i deserti d’oltreoceano ma, per ora, io rimango nella mia
vecchia cara Europa in cui abituato a rompere le catene della consuetudine e del buon
costume. Vi raccomando questo disco solo se siete degli appassionati sfegatati della
prima Morissette o di qualsiasi cosa assomigli al folk, al country, al blues o al gospel.
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(22/01/08)
Bisca 99 Posse Guai a chi ci tocca
Dall’unione artistica tra Bisca e 99 Posse nacque, dopo un
fortunatissimo tour, questo lavoro in studio dal sapore fortemente
antagonista. Adoro la posse napoletana e non ho avuto difficoltà ad
amare anche questo disco; Guai a chi ci tocca è un manuale di
sopravvivenza nella giungla della videocrazia, del perbenismo e di
ciò che gli autori chiamano fascismo (con piglio generalista).
L’invito ad ascoltare ce lo dà Scetateve guagliù e subito parte la
difesa delle colline palestinesi con No way (al diavolo Israele e i
suoi foraggiatori!). Dopo un omaggio dovuto a Massimo Troisi
arriva la minaccia a chi grida con ostentata spavalderia “Eia eia alalà”; dopo aver
scimmiottato anche ’A finanziaria la Bisca 99 Posse riprende l’impegno con Resiste
Chiapas (e il suo subcomandante Marcos). Il nuovo villaggio globale è criticato in Cildren
ov Babilon, l’ipocrisia cattolica in Tu lo chiami Dio, il lavoro saliarato ne Il tempo degli
autonomi, il tradimento della politica nei confronti dell’elettorato in Sudditi. Se siete dei
centristi e dei buonisti odierete questo disco, altrimenti sarà amore a prima vista.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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La Quiete La fine non è la fine
(23/01/08)
I La Quiete, ne La fine non è la fine, rendono lievemente meno
caotica la loro proposta, complice anche una registrazione più
pulita. Anche la voce, che aveva suscitato una leggera perplessità
in più di qualcuno, ora sembra più efficace, carica e stridente,
finalmente dotata del mordente necessario per esprimere al meglio
le potenzialità dei brani. Il destino di un ombrello presenta ritmi
spezzati e convulsi e la loro proverbiale melodia soffocata da un
flusso di note straziate. La seguente Uncaged è tra le migliori del
disco, breve ma intensa, con un lavoro di chitarra che si eleva
imponente su tutto. L’altro pezzo forte (?) del disco è Raid aereo sul paese delle farfalle,
esplosiva e travolgente grazie ad un intreccio sostenuto dalla voce sofferta più che mai.
Decisamente riuscita risulta anche Ciò che non siamo, ciò che non vogliamo dal testo
montaliano (e questo è un bene), così come la successiva title-track, incredibilmente
melodica ma per nulla scontata, fatta eccezione per la prolissa conclusione francamente
evitabile. Dicono sia musica emoviolence ma è davvero musica tutto questo caos?
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Demetrio Stratos Metrodora
(24/01/08)
Che la voce sia uno strumento è ormai noto a tutti. Ma siete sicuri
di aver capito cosa voglia dire ciò? Eccellente sarebbe l’ascolto di
qualche virtuosismo di Cathy Berberian, ma ancor più travolgente
sarebbe l’ascolto di Metrodora di Demetrio Stratos. Per intenderci,
l’ex cantante degli Area riusciva a raggiungere con la voce i 7.000
hz. attraverso triplofonie e quadrifonie, e senza l’ausilio di
macchine. Ora passiamo al disco. Segmenti uno alterna una sorta
di jodel ad altri momenti propriamente onomatopeici, Segmenti due
contiene vocalismi seguiti da grugniti e espirazioni forzate d’aria,
Segmenti tre è basato interamente sull’emissione di schiamazzi simili a quelli di uno
scimpanzè con effetti ad eco, mentre invece in Segmenti quattro Stratos performa una
serie di armoniche vocali. In Mirologhi 1 (lamento d’Epiro) Demetrio dà sfogo alla voce con
toni più gravi, accompagnato dal rintocco di gocce in sottofondo, ottenute dal synth di
Paolo Tofani; la title-track (Metrodora era un medico del VI sec. d.C.) è una diafonia; infine
Mirologhi 2 riprende piè pari il Mirologhi 1. Disco sconvolgente e sconcertante.
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Anima Sound System Anima
(25/01/08)
La prima esperienza elettronica ungherese è quella degli Anima
Sound System, bravi a miscelare le loro tendenze electro col folk
più tipico della terra magiara. Il risultato è un esplosivo mix di dub,
house, hip hop e reggae. Anima è a mio avviso il disco più
significativo della loro discografia, soprattutto perché contiene ’68,
vero e proprio gioiello di elettronica tradizionale. L’elemento
caratterizzante del sound degli Anima Sound System è la bassline,
creata ed effettata in tanti modi diversi, tutti ben riusciti e tutti
spaccawoofer. Pianoforte e fagotto fanno la loro comparsa in
Evening in Transylvania, la chitarra in Mamo, l’organo e il flauto in Igaz szerelem, il synth
più acido in Peace & love & politics. Nel disco v’è anche un remix breakbeat di Home ben
fatto dal punto di vista ritmico e molto intrigante sul piano lirico. Considero questo collettivo
una stupenda parentesi nel tetro panorama europeo orientale, anche se nell’ultimo
decennio Ungheria, Polonia, Iugoslavia e Cechia/Slovacchia hanno macinato chilometri,
riuscendo a far mangiare la polvere a parecchi progetti superati persino qui da noi.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Paola Turci Ritorno al presente
(26/01/08)
Non sono sessista ma considero minore il ruolo delle donne
nell’arte. E se l’eccezione conferma sempre la regola, allora sono
ben lieto di ascoltare e recensire Paola Turci ed il suo terzo
bellissimo disco Ritorno al presente. La Turci ha ben rappresentato
la musica leggera italiana degli anni ’90 con un pop strumentato
benissimo e dei testi ben compilati. Difatti, l’orgoglio femminile,
quasi una ripicca, è il tema di Ringrazio Dio, ma senza uomini non
si vive ed ecco arrivare Dammi un figlio. La denuncia sociale verso
il degrado delle sacche di povertà tipiche delle popolazioni rom
viene cantata in Lungo il fiume, lo spiritualismo è invece il tema di Quel fondo di luce
buona e di Ritagli d’anima. Alla sesta posizione troviamo Francesco, bellissimo brano
dedicato ad un compagno di scuola che ha condiviso con l’autrice qualcosa di importante;
a seguire c’è l’ironia spietata di Miracolo all’italiana e la nenia di Ne placi Synok. Alla fine
del disco troviamo un cavallo di battaglia, Frontiera, che tratteggia egregiamente i temi cari
alla nostra bellissima cantautrice: la giovinezza, il viaggio, la libertà.
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The Cure Pornography
(27/01/08)
Tetre atmosfere nel quarto disco dei Cure. L’attacco di One
hundred years, con la batteria e la chitarra distorta in primo piano,
è emozionante; alla desolazione languida e all’accettazione della
sconfitta eterna di Faith segue una rabbia incontrollata. Forza che
traspare anche nella seguente A short term effect, con ancora le
chitarre e la batteria in bella evidenza. Creature si baciano sotto la
pioggia in The hanging garden secondo la tradizione dark: Smith
non si smentisce, sussurra la sua descrizione d’amore, di vita e di
morte con ineguagliabile gusto da romantico decadente (lui sì che
è un emo!) e la rende elegia musicale. Subito dopo arriva il primo capolavoro dell’album,
Siamese twins, ipnotica, quasi epica, nella sua melodia solo suggerita; una maggiore
energia la sprigiona The figurehead, che nulla aggiunge allo stile dell’album, impresa che
riesce invece perfettamente al secondo capolavoro presente, A strange day. The cold e
Pornography chiudono un album freddo e al contempo emozionante ed angosciante, un
terreno su cui i Cure hanno dimostrato di sapersi muovere con fin troppa perizia.
•
(28/01/08)
La cugina Francia non smette mai di sfornare hit da dancefloor che
possiedano anche una spinta in più data dall’incommensurabile
talento dei suoi DJ producer. Kavinsky è uno della nuova scuola
ma sta già impazzando in mezza Europa grazie ad una manciata di
singoli e ad un EP, questo 1986. Anno magico per gli amanti degli
arcade, dell’analogico, del digitale, della moda, del synth pop. L’EP
in questione contiene quattro brani ed un interludio: Wayfarer
sembra uscita proprio da una discoteca litoranea di fine ’80 mentre
Dead cruiser, così acida, pare un vago ricordo da colonna sonora.
Il remix magistrale di SebastiAn su Testarossa autodrive è pressoché perfetto, ogni
segmento di synth o di beat è al posto giusto, ed il risultato in pista è assicurato; tutti
balleranno, mimando la modulazione sulla chitarra elettrica, in puro stile Daft Punk. Se
Flashback è solo un riempitivo, l’ultima traccia Grand Canyon è invece un’appassionato
gioco di sintetizzatori in levare; infatti se in esso manca la carica esplosiva tipica della
discoteca, d’altro canto è ivi contenuta una pioggia di talento musicale imitativo.
Kavinsky 1986
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Renato Carosone Carosello Carosone
(29/01/08)
Gli anni ’50 italiani videro dilagare la fama di Renato Carosone in
tutto il mondo facendolo divenire - di diritto - il vate assoluto della
napoletanità. Nelle sue infinitamente stupende canzoni, Carosone
metteva il gioco e l’amore, quali componenti fondamentali della vita
e, diciamolo, di Napoli. Dal 1954, una serie di LP dal nome
Carosello Carosone fu incisa per comprendere molte delle sue
creazioni. Nei primi LP c’è il Carosone che tutti conosciamo (da
Maruzzella a Tu vuò fa’ l’americano) ma è il settimo capitolo (1958)
della collana quello più strabiliante. Otto canzoni dove Carosone,
ovviamente, compariva al pianoforte, mentre il suo sestetto si divideva fra percussioni, fiati
e contrabbasso. Sul lato A, accanto a Colonel Bogey, A tisket a tasket e ad Amor di
pastorello (cantata da Piero Giorgetti) troviamo l’intelligentissima Caravan petrol (qui
cantata da Gegè Di Giacomo), oramai celeberrima in tutto il globo. Sulla seconda facciata
c’è, oltre a Magic moments, Allegro motivetto e Mama guitar, il tormentone de ’O
sarracino, arabeggiante divertissement sulla meridionalità dello Stivale.
•
Aqua Aquarium
•
Robyn Robyn
(30/01/08)
È indubbiamente un disco triste che non meriterebbe nemmeno di
esser recensito, soprattutto dopo che gli Aqua sono scomparsi
dando prova dello scopo commerciale del loro progetto. Ma
Aquarium ha segnato (o ferito?) in qualche modo la musica di fine
anni ’90. Anche gli audiofili più ricercati e spocchiosi conosceranno
per forza di cose le varie Doctor Jones, My oh my, Barbie girl,
Roses are red, Heat of the night o Lollipop (candyman).
Dall’eurodance imperante di Aquarium posso arrivare a salvare
solo Turn back time (colonna sonora della commedia Sliding
doors), pezzo discreto sia a livello musicale che autorale. Del tutto anonime e stupide
sono le altre Happy boys & girls, Be a man, Good morning sunshine e Calling you. Resta,
di questa band danese, solo l’ascetica bellezza della cantante Lene Grawford Nystrøm
(oggi solista, credo) e l’immensa fortuna economica di cui si è ricoperto il leader René Dif,
che possiede una qualche multiproprietà in una qualche parte della Terra. Della loro
musica non rimane invece nulla, per fortuna; era solo intrattenimento per bambini.
(31/01/08)
La sua voce è a metà strada tra quella gallinacea di Gwen Stefani
e quella calda di Mariah Carey, con alcuni accenti tipici della
piccola Björk. Nel suo ultimo omonimo disco, Robyn si è però
finalmente distaccata dalle metriche r’n’b che avevano
contraddistinto i precedenti lavori (il migliore dei quali è
sicuramente Robyn is here). Stavolta si parla di un lavoro
eterogeneo che ha nell’elettronica il suo punto di partenza ma ci
costruisce sopra tutto un groviglio di provocazioni musicali. Il brano
di lancio è Handle me, divertente e potente IDM dal testo molto
intrigante, anche se le migliori tracce del disco sono altre. Ad esempio l’orgogliosa
Konichiwa bitches, piena di synth; la moderna Should have known, riarrangiata dal
passato; la sperimentale Burn like you, sussurrata con voce rotta; la meravigliosa Who’s
that girl?, prodotta dalla mente geniale dei Knife. E forse è proprio questo il punto più alto
di Robyn tanto che mi son chiesto se questo sound possa diventare presto o tardi il nuovo
pop commerciale; se così fosse, ben venga! Ma sia chiaro che pur sempre pop è.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Minus The Bear Highly refined pirates
(01/02/08)
L’indie rock si è giustamente imposto come astro nascente, ma già
di ottimo livello, nel firmamento della musica. Ed è un bene, perché
l’indie nasce nei garage e nelle cantine delle case di migliaia di
giovani che sudano e trepidano sulle chitarre, sulle batterie, sulle
tastiere e sui bassi. I Minus The Bear, alla loro prima prova reale,
convincono come pochi. Highly refined pirates è un album
variegato che al suo interno tiene un nucleo di genuina
amatorialità. Già da Thanks for the killer game of Crisco® Twister
capiamo che la band è rimasta legata ad un mondo che faceva
volentieri a meno dei videogiochi. Con Monkey!!! Knife!!! Fight!!! il talento diventa norma e
quindi su We are not a football team i Minus The Bear tornano volentieri sull’arte della
provocazione. Esaltante Spritz!!! Spritz!!!, sarcastica Women we haven’t met yet, triviale I
lost all my money at the cock fights anche se il giro armonico non ce lo conferma, geniale
Let's play guitar in a five guitar band. Le band con più chitarre sono l’ambrosia di tanti fan,
ma usarne tre, di chitarre, non è facile per niente. Eppure i Minus The Bear sono maestri.
•
Slint Spiderland
(02/02/08)
Correva l’anno 1991 e i Nirvana erano ancora sulla cresta
dell’onda. Eppure il rock - come il punk, il grunge e il metal - stava
morendo. Gli Slint presero la palla al balzo e, abdicando ai soliti
quattro accordi in croce, pubblicarono quello che considero uno
degli spartiacque più importanti nella storia del rock, Spiderland.
Invece delle solite chitarre dissonanti, gli Slint aprirono il loro
capolavoro con una cadenzata ma sincopata modulazione elettrica
in Breadcrumb trail. Solo con Nosferatu man la chitarra elettrica
riprendeva il suo posto in evidenza, mentre già in Don, Aman tutto
scompariva, si dileguava, lasciando la mente in balia dei rilassanti giri armonici. La
lunghissima Washer è il pezzo centrale, forse quello che più di tutti ha dato vita all’ormai
già inflazionato post rock dei Sigur Rós e dei Mogwai; For dinner… è già di per sé un
ambiente vuoto, da riempire con discussioni e trip mentali; infine Good morning, captain
ridà voce alla batteria e al basso in un susseguirsi di ripartenze improvvise. Gli Slint, con
Spiderland, si sono presi la responsabilità di dichiarare morto il rock. Per sempre.
•
(03/02/08)
People Press Play People Press Play
Quante sorprese dispiega questo disco! Il self titled dei People
Press Play è un incantevole viaggio all’insegna del relax auditivo,
fatto esclusivamente di strumenti convenzionali e di femminine
languide voci. Già dall’apertura di Girl la goduria sonora diventa
realtà, concretizzata appieno con la seguente Always wrong; la
terza These days riempie il cuore di ansie e dubbi, rivelandosi il
brano più emozionale dell’intero disco. L’aura mistica e sacrale
esplode in That walk, altro pezzo dal grande impatto emotivo,
mentre con Hanging on si ritorna a sonorità più discrete e
melodiche. Il compact disc continua il suo instancabile girotondo sulla lente laser del
player e arrivano, in successione, Frail e Studio, meravigliosi esperimenti tra elettronica e
rock; e quando le orecchie ascoltano il rumore che va e viene di Before me e di
Everything, la favola si chiude per incanto, ma non prima della bellissima Stop, vero e
proprio inno alla speculazione intellettuale. Un mio caro amico mi ha consigliato l’ascolto di
People Press Play e, a pensarci bene, devo ancora ringraziarlo per questo.
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Talvin Singh Ha
(04/02/08)
Raramente ascolto drum’n’bass ma quando lo faccio mi butto
principalmente su due nomi, Photek e Talvin Singh. Quest’ultimo lo
adoro per la sua straordinaria capacità di amalgamare la tradizione
indiana, da cui evidentemente proviene, con quella anglosassone.
Ha, secondo disco della sua discografia, presenta difatti entrambe
le facce di questo melting pot musicale. Tutto parte in lentezza
sulle tabla di One, per approdare all’ethno beat di Mustard fields;
un po’ di sano strumentalismo con The beat goes on, quindi
comincia la vera epopea d’n’b di Uphold. A metà disco il ritmo cade
nuovamente nell’arabica Sway of the versus e, guarda un po’, riecco la morbida jungle di
Dubia. Talving Singh, bravissimo alle tabla, presenta poi It’s not over e la convincente
Abalonia, dove i dialoghi a due completano la musica in un crescendo di eroine sonore,
grazie alle quali la mente viaggia su binari paralleli. Le ultime See breeze e Silver flowers
chiudono un album dal forte accento multiculturale, attraverso un utilizzo dell’elettronica
funzionale al movimento del sedere e del gomito. Consiglio sempre Talvin Singh.
•
Lucio Dalla Lucio Dalla
(05/02/08)
Tante sono le lune di Lucio Dalla, dodicimila o più, e sono tutte
splendenti di luce propria. L’album del 1979 è quello più pregnante
e carico di significato che, non a caso, racchiude nove meraviglie
della musica italiana, tanto che Dalla le ripropone ancora nei suoi
live. I sette satelliti de L’ultima luna descrivono un’umanità
complicata, sempre abbarbicata sulle credenze popolari e spesso
impaurita dalla morte, ma l’incondizionata fiducia nell’amore di
Stella di mare garantisce agli esseri umani quel barlume di gioia e
di spensieratezza. Le musiche seguono in modo incantevole la
disperazione, il romanticismo, la delusione di questi testi così luminosi. Ci si diverte anche
con il ritmo de La signora e con il ritratto grigio e ironico di Milano, anche se il capolavoro
deve ancora arrivare. Eccolo. È Anna e Marco, due innamorati, una pista da ballo, una vita
al limite, un’esistenza condivisa, gli altri che non capiscono. Da menzionare soprattutto la
storica L’anno che verrà e l’antologica Cosa sarà (con De Gregori) che ci danno
l’immagine di un Lucio Dalla scanzonato e frivolo, di un cantautore che vale molto.
•
Yellow Magic Orchestra Solid state survivor
(06/02/08)
Se amate Ryuichi Sakamoto, allora dovete conoscere o,
perlomeno, ascoltare la Yellow Magic Orchestra. Il grande pianista
contemporaneo era parte integrante di questa mitica band
giapponese che all’attivo ha una dozzina di dischi, il secondo dei
quali (1979) è una movimentata esperienza nei circuiti elettronici
old school. Technopolis sembra una colonna sonora e le sue voci
robotiche da space rock introducono Absolute ego dance,
ritmatissimo synth pop in 4/4, quasi una danza del futuro.
Famosissima è poi Rydeen, tra fusion ed electro, free jazz e pop;
segue Castalia e qua si capisce che la Yellow Magic Orchestra guarda all’Europa con un
pizzico di invidia; ecco ancora una hit, Behind the mask, coinvolgente gioco di
sintetizzatori in sovrapposizione. Day tripper progredisce piano piano verso Insomnia,
catartico sogno tra i neuroni più nebulosi e sornioni; infine non poteva mancare la title
track Solid state survivor, altro celeberrimo pezzo del complesso nipponico dal sapore
sfacciatemente disco. Un lavoro che merita molto più spazio di quello che ha ricevuto.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
157
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Alliance Ethnik Fat comeback
(07/02/08)
Mettete un italiano, aggiungeteci un francese, quindi un congolese
e, per contorno, un bell’algerino. Il risultato si chiamerà Alliance
Ethnik, alleanza etnica che della diversità fa la sua forza fondante.
All’interno di questa crew ci sono campioni nazionali di turntablism,
rapper dalle qualità indiscutibili e produttori di tutto rispetto. Infatti,
con Fat comeback, gli Alliance Ethnik hanno varcato i confini di
Francia e si sono affermati in Europa come migliore band hip hop.
Il sound tra funky e hardcore crea un’atmosfera di giovialità, ben
visibile nei singoli Jam e No limites, ma anche nelle altre
Represente, À la poursuite du billet vert, Je ne regrette rien, Un enfant doit vivre, Arrache
le mike e Star track. Non può mancare il virtuosismo ai piatti di Scratch action heroes (DJ
Crazy B e Faster J sono DMC) e non mancano nemmeno le collaborazioni vip (De La
Soul, Biz Markie e Rahzel). L’esperienza di questo rap è terminato in un best of, ma
l’influenza degli Alliance Ethnik perdura nelle coscienze degli MC del nostro continente.
Non sono un fanatico del multiculturalismo ma, se questi sono i risultati, ben venga!
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Jesu Conqueror
(08/02/08)
Pazzi scatenati questi Jesu! Tre album all’attivo e tanta forza da
soma nelle otto tracce di questo Conqueror. Il rock non è però fine
a se stesso ma è funzione dell’ambiente. Mi spiego meglio. Gli
Jesu cercano, con risultati eclatanti, di costruire ambientazioni, tra
l’industriale e lo squallido, delle loro creature musicali: il rock
indipendente che suonano è quindi più di una soundtrack, è una
scenografia. Così è per la title track, ma così è anche per
Weightless & horizontal, per Old year e soprattutto per Medicine.
Cambiano leggermente mira solo quando la chitarra diventa
l’elemento principale, come in Transfigure e Stanlow. Anche se non provengo da una
formazione di stampo rock, il disco mi ha convinto per la naturale spontaneità dei brani,
per quella sudicia delicatezza, per quella leggera brezza che emana nella sua ora di
riproduzione. E assai convincenti mi paiono anche Brighteyes e Mother Earth, quasi a dire
che gli Jesu rinnegano e confermano al tempo stesso la loro provenienza terrestre,
americana, occidentale, amatoriale. Una bella scoperta per me, profano del rock.
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Tricarico Frescobaldo nel recinto
(09/02/08)
Tricarico è uno di quegli artisti pop che amo in tutto il loro
strampalato modo di essere. Al di là del bruciante esordio, nel 2004
il nostro benamato Francesco ha pubblicato Frescobaldo nel
recinto. Anche se i testi possono sembrare infantili e grotteschi, ad
una lettura più attenta, soprattutto alla luce della morale e
dell’umanità, le canzoni diventano intelligenti metafore del mondo,
dell’amore, dei guai, dell’intelletto. Il recinto del disco si apre con la
libertà a doppio senso di Animali, quindi continua col surrealismo di
Donna laser e Ragazza little; molto saggia anche Mamma no,
esortazione sprezzante all’anticonsumismo. Di nuovo dadaismo allo stato puro, condito del
miglior nonsense, in Acquedotto fosforescente, e di nuovo grande tatto in Cavallino, in
equilibrio fra ricordi scolastici e visioni geniali. Non si capisce mai se Tricarico parli di
donne o di oggetti, di parenti o di giocattoli, tutto è così confuso ma altresì precisa è la
descrizione dei ricordi… Ogni giorno ci sono le Formiche sotto un Cielo rosa e, dal mare,
fuoriesce un Sommergibile blu. Musica-colore… che bello!
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Pink Floyd The dark side of the Moon
(10/02/08)
Frotte intere di artisti, di non più giovani, di fan, di ammiratori, di
critici, di recensori, di free lancer, di performer, di musicisti, di
autori, di sperimentatori, tutti devono molto ai Pink Floyd e in
particolare a questo disco, noto anche ai marziani distanti milioni di
anni luce. Sarebbe troppo facile recensire The dark side of the
Moon in tutte le sue sfaccettature sonore e innovazioni tecniche, da
Breathe a On the run, da Time a The great gig in the sky, da
Money a Us and them, da Any colour you like a Brain damage, a
Eclipse. Voglio solo dire invece che a cotanto capolavoro io non
devo proprio nulla, e lo confronterò perciò con gli altri maestri della musica. Dal punto di
vista elettronico non aggiunge nulla - ma proprio nulla - alla lezione accademica dei
Kraftwerk; dal punto di vista rock non sostituisce i Beatles; dal punto di vista jazz non è
paragonabile a Miles Davis; infine, dal punto di vista della sperimentazione non pregiudica
la grandezza dei musicisti degli anni ’50. È un disco prog, un grandioso disco prog, ma
non ha cambiato il mondo. Adesso non linciatemi, non esponetemi a pubblica gogna.
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Underworld Oblivion with bells
(11/02/08)
In molti si sono lamentati del repentino cambio di direzione che gli
Underworld hanno intrapreso con il loro ultimo gioiellino Oblivion
with bells. Da parte mia, posso dire che gli Underworld hanno
sempre mutato pelle (basta pensare alla differenza abissale tra i
primi due album e i successivi) e che con questo disco si sono
discostati finalmente dalla logica discotecara per attraccare al molo
dell’elettronica impegnata, seppur vivace. Almeno metà disco
merita una menzione speciale: da Crocodile a Glam bucket,
passando per la sinfonica To heal e per la spinta Beautiful burnout,
gli Underworld sono riusciti ad intraprendere un percorso di maggior responsabilità nei
confronti della techno e della trance. Il divertimento non manca comunque, così come non
mancano gli incisi minimal (Boy, boy, boy) e pop (Faxed invitation); si potrebbe dire che gli
Underworld si sono ammorbiditi con l’avanzare dell’età, dato che non sono più degli
sprovveduti, per via dell’altalenante e perversa trappola della notorietà. Lo si potrebbe dire
ma non sono pronto a metterci la mano sul fuoco.
•
Devo Q: Are we not men? A: We are Devo!
(12/02/08)
Se il primo disco è stato prodotto dall’irreprensibile Brian Eno, vuol
dire che i Devo qualcosa valgono. E secondo me valgono
tantissimo. «Siamo uomini? No, siamo i Devo!». In questo breve
botta e risposta sta l’essenza ultima della band americana. La
devoluzione delle specie umana, oramai allo stadio conclusivo, è
cantata, criticata, esposta, ingiuriata nella dialettica dei Devo. Una
band che è riuscita a rendere una cover molto più significativa
dell’originale - sto parlando di Satisfaction (I can’t get no) dei
Rolling Stones - è una band che ha molto da dire. E tutto è presto
detto in Uncontrollable urge, in Praying hands, in Space junk, in Mongoloid, in Come back
Jonee. Anche se non sembra, in Q: Are we not men? A: We are Devo! c’è tanta elettronica
mischiata a tanto punk rock; infine l’alone danzereccio è dato dalle battute veloci e dalle
linee di basso. I Devo sono ancora in giro, per nostra fortuna, e continuano imperterriti a
buttare fango su questo mondo idiota (e su chi lo amministra) che ha totalmente perso la
bussola del buonsenso e dell’allegria. Quando evolveremo veramente?
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Nirvana Incesticide
(13/02/08)
Non sarà Nevermind, eppure questa raccolta di B-side mi piace più
di tutti gli altri. Non che mi faccia impazzire, ma sono sempre stato
favorevole alle novità e alle rarità. Incesticide dei Nirvana raccoglie
tanti pezzi che sarebbero andati persi ed il risultato è più che
discreto. Kurt Cobain, del quale si parla più da morto che da vivo,
canta benissimo le liriche, seguendo passo passo le indicazioni che
il batterista (Dave Grohl, frontman dei Foo Fighters) dà. Le canzoni
sono veloci, di impatto, come nella migliore tradizione punk, e
nonostante questo i Nirvana dimostrano di sapersi muovere
benissimo anche in questi territori, come si può sentire sin dall’impatto grunge di Dive o
dalla deliziosa Sliver, in cui Cobain dà voce a un bambino che vuole solo tornare a casa
dai suoi genitori. Stain, sintesi della filosofia dell’autodisprezzo, è un brano tra i più vicini
alle atmosfere di Bleach, mentre Been a son è più valida nel testo, che affronta la tematica
della discriminazione sessuale, che nella musica. Buona la cover dei Devo, Turnaround,
che è anche il biglietto da visita di Grohl come drummer professionista.
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The Vegetable Orchestra Automate
(14/02/08)
La Vegetable Orchestra, ensemble fondato a Vienna nel 1998,
nelle sue esibizioni suona esclusivamente cetrioli, lattuga, patate,
peperoni, prezzemolo, radicchio, melanzane, zucche e altri vegetali
trasformati appositamente in curiosi strumenti, per eseguire
composizioni che spaziano dalle sperimentazioni elettroniche alla
musica classica, il tutto con la preziosa complicità di
particolarissime tecniche di amplificazione studiate dall’orchestra.
L’ultimo disco (dopo lo strepitoso Gemise) è Automate, la cui
preparazione è iniziata - chiaramente - tra i banchi del mercato,
perché gli ortaggi e le verdure devono essere sempre di giornata. Le materie prime
vengono svuotate, intagliate e assemblate per ottenere gli strumenti necessari alla
performance. Accanto alle composizioni originali (Asp, Stoik, Prelay o Greenhouse), la
Vegetable Orchestra rende omaggio, nel disco (e soprattutto dal vivo), a gruppi storici
dell’elettronica, con le cover di brani come Radioaktivität dei Kraftwerk, e a fondamentali
compositori del Novecento, quali John Cage e Iannis Xenakis. Un lavoro certosino.
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Django Reinhardt Djangology 49
(15/02/08)
Non è facile la vita di uno zingaro che suona jazz durante la prima
metà degli anni ’40 a Parigi. Ed infatti non deve essere stato facile
per Django Reinhardt fuggire dai pregiudizii e dalla caccia alle
streghe che i nazisti stavano operando allora. Uno dei più grandi
chitarristi jazz di sempre trovò però in un ufficiale tedesco (Dietrich
Schulz-Koehn, soprannominato dai suoi superiori Doctor Jazz) il
suo mecenate e, contemporaneamente, il suo avvocato artistico.
Nel 1990 la RCA ci ha regalato una fantastica collection di Django,
intitolandola simpaticamente Djangology 49. Al suo interno ci sono
pezzi intramontabili come The world is waiting for the sunrise, I’ll never be the same,
Beyond the sea, Ou es-tu, mon amour?, I surrender, dear o It’s only a paper moon. Le
registrazioni, come è ovvio intuire, lasciano un po’ a desiderare, ma è anche vero che così
le frequenze alte della chitarra giungono ad assumere toni ancora più mitici. È
consigliabile l’ascolto di un qualsiasi pezzo di Django Reinhardt davanti ad una bella pinta
di birra in un qualche jazz club, come l’oramai storico Smoker’s di San Lorenzo.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Luigi Tenco Se stasera sono qui
(16/02/08)
Il cantore per eccellenza della disperazione e dell’amore semplice
è Luigi Tenco, il quale, con Stasera sono qui, sfornò un vero e
proprio capolavoro. La title track fu portata al successo da Wilma
Goich ma la versione interpretata - postuma, attraverso collage - da
Tenco appare come una soffice ballata: chiunque vorrebbe sentirsi
dire dal proprio partner quelle romanticherie. Arriva subito Tra tanta
gente, perfetta canzone in bilico tra solitudine e affiatamento;
sdolcinate ma con garbo le altre Averti tra le braccia, Una brava
ragazza, Volevo averti per me, Come le altre, Se qualcuno ti dirà.
Decisamente più profondo l’impegno sociale di Cara maestra (da imparare a memoria), il
pessimismo cosmico di Una vita inutile e de I miei giorni inutili, la provocazione proletaria
di Io vorrei essere là, l’assoluta cover de La ballata dell’eroe di Fabrizio De André. Per
favore, facciamo entrare le tematiche e i testi di Luigi Tenco nelle aule scolastiche e
sacrifichiamo - perché no? - quelle inutili disquisizioni intellettuali su Guido Cavalcanti,
Francesco Guicciardini o Lapo Gianni. Solo Dante, Tenco e De André.
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Giardini Di Mirò Dividing opinions
(17/02/08)
Mi piacciono un sacco i Giardini Di Mirò, soprattutto ammiro il loro
personalissimo approccio al rock, indipendente, sperimentale,
melodico. È vero che sono tante le influenze rintracciabili in
Dividing opinions ma esse si dileguano tutte nella prepotente forza
incantatrice di questa band italiana. Se in apertura le chitarre
sfondano i timpani, è da Gold perfection in poi che i Giardini Di Mirò
cominciano a contaminare di elettronica e post rock il loro stile. Ed
è così che Embers e A guide to rebellion ci regalano
quell’insostenibile leggerezza dell’essere (per dirla alla Kundera),
quella tangibile levitazione emotiva che ci porta a guardare il mondo da una posizione
elevata, a guardare tutte quelle vite in veloce disfacimento. Quando poi scorgiamo
Spectral woman e Broken by allora capiamo di aver raggiunto la vetta; ed è dopo
Clairvoyance che qualcosa ci tira bruscamente giù, afferrandoci per i piedi nel vortice
onirico di Self help fino al lungo defaticamento di Petit treason. L’esperienza può venir
condivisa con altri ed è perfettamente ripetibile, serve solo un CD e tanta disponibilità.
•
Paolo Conte Aguaplano
(18/02/08)
Di capolavori è piena zeppa la discografia di Paolo Conte,
l’astigiano avvocato del jazz per antonomasia. Aguaplano (in
origine il titolo era Jimmy, ballando) è un imponente doppio CD che
affonda le radici in tutto l’immaginario contiano; c’è il jazz sotto le
stelle, c’è la verde milonga, c’è il dadaismo d’alto bordo, c’è la
solita nostalgia del Mocambo. Accanto al volo rasente il mare di
Aguaplano v’è l’infinita leggerezza di Baci senza memoria, e se ciò
non vi basta allora c’è pure il mieloso ritmo di Languida. Pezzi
senza tempo sono anche l’orchestrale Max, la fiera ed orgogliosa
apologia di Blu notte, la divertente La negra, la malinconica Nessuno mi ama, la
dilettantesca Midnight’s knock out, la meravigliosa Anni, la stravagante e calorosa
Spassiunatamente, l’ermetica Non sense o la strabiliante Amada mia. Paolo Conte odia la
propria voce, la trova grinzosa e vecchia: ebbene, grazie a Dio quella voce è ancora sulla
cresta dell’onda; sono anni che ascolto questo disco e non mi stanco mai di sognare sulle
sue note, così calde, così colorate, così maledettamente provocanti.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Üstmamò Üst
(19/02/08)
Un sitar parte veloce e melanconico, poi una base elettronica,
quindi una voce avvolgente di donna si mette a rimare a chiasmo.
Sono gli Üstmamò e sto parlando del loro grandissimo disco Üst.
C’è qualcosa di così affascinante nella loro musica che ogni qual
volta li inserisco in playlist, mi fermo a pensare, a riflettere, a
viaggiare. Iniziarono con i CCCP ma ben presto gli Üstmamò
trovarono la loro strada. Questa. Tra Cuore amore e Baby dull i fiati
si vanno ad appiccicare alle corpose sezioni ritmiche in una follia
dub e raggamuffin; addirittura potrei parlare di techno pop con
Memobox o di rock con Canto del vuoto, ma non farei giustizia a questo collettivo se non
dicessi che sono antenati, o forse, allievi di grandi realtà come Delta V o La Crus.
Bellissime Indice di borsa, Schermo splendente, Onde sulle onde e Piano con l’affetto.
Non manca la faziosità antifascista (provengono comunque dal milanese Leoncavallo) di
Siamo i ribelli della montagna di cui potevano risparmiarne la retorica, ma in fondo il loro
mondo musicale è questo e a noi va bene così.
•
Joe Satriani Engines of creation
(20/02/08)
A volte mi chiedo come si possa essere così sfacciatamente fuori
moda, dove per moda non intendo la bislacca tendenza del
momento, bensì l’accettato insieme di valori in un dato periodo. Joe
Satriani sarà anche bravissimo con la chitarra, forse un genio del
secolo appena terminato, ma questo disco è un ammasso di scale
melodiche ed effetti sonori senza precedenti. Fu pubblicato nel
2000 ma l’elettronica che troviamo al suo interno deve provenire da
qualche tape sgangherato di inizio anni ’90. Satriani parte con basi
techno/trance da far drizzare i capelli (in senso negativo, se non si
fosse ancora capito) e approda a soluzioni pseudojungle. In tutto ciò, l’artista (?) va a
piazzare dei virtuosismi alla chitarra completamente fuori luogo. Salvo dal genocidio solo
Until we say goodbye e Clouds race across the sky che perlomeno traducono in emozioni
quel dannato accademismo. Butto quindi dal ponte le altre Devil’s slide, Flavor crystal 7,
Borg sex, Attack (questa è proprio tremenda!), Champagne? e The power cosmic 2000. Al
diavolo il virtuosismo, vogliamo l’arte, definitivamente.
•
Klaus Schulze Picture music
(21/02/08)
Le mie trombe d’eustachio trovano l’orgasmo in questo Picture
music del 1975, firmato dall’onnipotente Klaus Schulze. La lenta
progressione di Totem funge da massaggio thai; mentre i
sintetizzatori e gli archi fanno l’amore tra di loro, le basse frequenze
si masturbano dolcemente, e a me par d’essere un voyeur elegante
e discreto. Quando parte Mental door il rapporto sessuale è finito,
ma questo non significa che le coccole degli FX siano meno
goduriose. Ci vuole una sigaretta. Il tabacco brucia la carta ed i
polmoni, il fumo riempie la stanza, il corpo s’allenta e la musica
sembra andargli dietro. Per fortuna che nella edizione speciale del disco v’è ancora una
lunga bonus track, C’est pas la même chose. La forte originalità wagneriana c’è tutta, così
come c’è tutta quell’ipnotica immagine rock che non può fare a meno dei pattern elettronici
per esplodere in pioggia musicale. Trovo che questo sia un disco unico, capace di
smuovere animi e cervelli. La prima copertina di Picture music era un quadro di Jacques
Wyrs; questa, la quarta, è una ristampa speciale (non più per la label Brain).
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Le Tigre Feminist sweepstakes
(22/02/08)
Difficilmente superano i tre minuti le canzoni dei Le Tigre ed in
Feminist sweepstakes, secondo studio album di questa
strampalata band, la regola è confermata dalle eccezioni di On
guard, Well well well e Dyke march 2001. In fondo non serve
registrare tanto quando il ritmo delle canzoni è già di per sé
rapidissimo. Lo stile dei Le Tigre è infatti un siamese dell’electro
rock convenzionale, con la differenza che qui batterie e synth si
rincorrono senza soluzione di continuità. Ammetto che forse stanca
un tantino questo genere, ma è pur vero che se ascoltato ogni
tanto, l’effetto di Feminist sweepstakes non può che essere positivo. Il brano che digerisco
meglio è Fake French proprio perché intriso di quell’ironia spietata e verace che tanto mi
piace; segnalo anche Shred A, Much finer, Tres bien, TGIF e Cry for everything bad that’s
ever happened (la quale meriterebbe una menzione a parte). Bassa fedeltà, schitarrate
violente, sintetizzatori graffianti, liriche corali, testi sudici come un bagno pubblico,
femminismo imperante. Insomma, musica simpatica e solare per concerti sugar free.
•
Alvin Curran & Domenico Sciajno Our Ur
(23/02/08)
Alvin Curran si occupa di campionamenti e pianoforte acustico,
Domenico Sciajno invece è il responsabile del laptop e della
programmazione su Max/MSP, un software divenuto oramai un
must se si parla di avanguardia contemporanea. Our Ur (per
Rossbin Recordings) nasce dalle menti di questi due ottimi
musicisti, il secondo dei quali - italianissimo, tanto che s’è
convertito al cristianesimo - è pure un grosso accademico del
contrabbasso. Quattro tracce sul disco, tutte permeate di collage
musicali e ricerca glitch, si incatenano attraverso passaggi molto
arditi e sperimentazioni assai poco comprensibili. Someone to watch over that, Anatolia
centrale e Rue de la Gare 76 si espongono più del dovuto, come se lasciassero
intravedere quel lato presuntuoso e arrogante tipico degli artisti saccenti. Ma è un difetto
che ammiriamo enormemente anche perché Sciajno non s’è lasciato corrompere dalla
logica concertistica. Outer cities è invece un pezzo a sé stante, in quanto vuole essere una
traduzione libera di Inner cities X, grande componimento di Curran. Disco ostico.
•
(24/02/08)
Moby Animal rights
Moby ha una lunga carriera alle spalle, perlopiù underground,
prima che Play facesse, per così dire, il botto. Lasciamo perdere
tutta la retorica vegetariana, umanitaria, progressista, riformista,
ambientalista e chi più ne ha, più ne metta; concentriamoci solo
sulla musica di Animal rights. L’apertura di Now I let it go, affidata
alla viola e alla chitarra, è molto affettuosa, ma ecco che il punk
rock di Come on baby viene a spezzare un incanto durato solo due
minuti. Non c’è da sorprendersi se in dischi come questi si sente un
Moby metallaro e punkettone. E difatti anche Someone to love e
You non fanno eccezioni. Pian piano la noia prende il sopravvento e gli sbadigli diventan
sempre più frequenti, anche se sul punk c’è poco da dormire. My love will never die, Soft,
That’s when I reach for my revolver, Face it e Heavy flow trascorrono banali. Ed invece
quando meno te l’aspetti, ecco che arrivano i gioiellini! Toccante la dedicata Love song for
my mom, speziata la lenta Living, molto melodica infine Say it’s all mine. Disco da scoprire
per chi pensa che Moby sappia solo far ballare.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Manlio Sgalambro Fun club
(25/02/08)
Il fedele filosofo di Battiato, Manlio Sgalambro, si cimentò anch’egli
nella discografia solista, dando alle stampe nel 2001 un flashback
tra ironia e divertimento, nostalgia e rimembranza, Fun club.
Bellissime canzoni che hanno fatto il proprio tempo vengono
reinterpretate dall’anziano intellettuale (ovviamente il tutto è
prodotto da Battiato) con piglio sardonico e, al contempo, ieratico.
Un disco di “vana et futilia” con grezze ma efficaci cover che vanno
dal Vittorio De Sica di Parlami d’amore Mariù al Manu Chao di Me
gustas tu, dal Charles Trenet de La mer al Carlo Buti di Non
dimenticar le mie parole, dal Louis Armstrong di We have all the time in the world al Trio
Lescano di Camminando sotto la pioggia, dalla Edith Piaf de La vie en rose al Frances
Williams di As time goes by, dal Frank Sinatra di Cheek to cheek all’Heitor Villa-Lobos di
Bachianas brasileira. La voce di Sgalambro è di certo ruvida e non può piacere a tutti i
palati, eppur io amo quel timbro vocale, amo quella saggezza che trasuda e amo quel
nichilismo che ispira, forse perché amo gli aforismi caustici di questo giovane ottantenne.
•
CoSang Chi more pe’ mme
(26/02/08)
Napoletanissimi come La Famiglia, i CoSang sono la nuova anima
hip hop della città mediterranea. Il loro unico disco finora pubblicato
è un esplosivo minestrone di temi sociali rimati precisamente e
beat al cardiopalmo che contengono raggamuffin, soul e ambient.
Dopo il rituale intro di presentazione eccoci subito al nocciolo
dell’album con Chello ca veco, dolce rap jazzato, e con Int‘o rione,
storia un po’ stereotipata della questione napoletana: droga,
criminalità, povertà, branco, tradizione. Dopo le parole dal carcere
dell’interludio Buonanotte arriva un altro bel pezzo, Fuje tanno,
seguito dal più noioso Underground faja. L’originalità dei campioni utilizzati è ben visibile in
Pe’ chi nun crere, ennesima storia di fratelli arrestati e donne in lacrime; nella title track
Chi more pe’ mme, invece, l’ennesimo atto di stima verso gli umili e i leali, i rispettosi e i
fedeli. Parecchio interessanti anche le altre ‘O spuorc, Pomeriggio pigro, Try me, Povere
mman, Raggia e tarantelle e Poesia cruda. Agli occhi d’un b-boy Chi more pe’ mme è un
disco stupendo; per gli altri sarà positivamente interessante.
•
Bob Marley & The Wailers Uprising
(27/02/08)
L’ultimo studio album di Bob Marley (ovviamente affiancato dai
fedeli The Wailers) è Uprising e, come tutti i dischi ultimi, funge da
testamento musicale. Non solo. Perché Uprising è sicuramente uno
dei migliori lavori del rastaman giamaicano, padre fondatore e
capomastro innegabile della tradizione reggae internazionale.
All’interno del disco ci sono infatti canzoni di inaudita bellezza
come Zion train o Redemption song, Coming in from the cold o
Real situation. Il sole, il mare, la ganja, ma anche la miseria, la
disperazione vengono cantate con fare biascicato; chitarre in levare
e bassi in evidenza, cori swing e percussioni mai scontate fanno di questo disco un
capolavoro. Come dimenticare quindi Forever loving Jah, Pimper’s paradise, Bad card,
We and dem e Work? E su tutto padroneggia la più bella canzone reggae di sempre,
ovvero Could you be loved, in due versioni (diremmo oggi radio edit ed extended mix).
Forza, andate a prendere un cocktail, rollate uno spinello e scendiamo in spiaggia a
smuovere il culetto sulle note di questi pezzi di storia. Bob Marley non se n’è mai andato.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Zion Train Homegrown fantasy
(28/02/08)
Se il reggae si chiama Bob Marley, il dub chiamatelo Zion Train,
band inglese che ha tirato su, mattone per mattone, gli stilemi e le
novità del genere dub. Ai tempi reggae, debitamente velocizzati, è
stata aggiunta una maggiore cura per le basse frequenze, oltre ad
un uso smodato di sintetizzatori analogici e beat elettronici.
Homegrown fantasy (1995) è l’album più venduto degli Zion Train
(circa 20.000 copie in UK) e rappresenta un punto cardinale
all’interno dell’universo roots. Brani come Dance of life, Free the
bass od Universal communication si piazzano dritti dritti al primo
posto, e non sono da meno le movimentatissime sezioni ritmiche di The healing of the
nation e Venceremos. Più lente, forse prevedendo lo sviluppo easy listening del dub, le
altre Love the Earth, Live good IV, Get ready o Why should we have to fight?. Le
tematiche sociali scompaiono, almeno a parole, ma l’intento dance e l’innovazione stilistica
restano in piedi; gli Zion Train, con una discografia oceanica, sono tra i migliori remixer
dub che si possano trovare sul mercato. Esperienza, saggezza, talento infiniti.
•
Hot Chip The warning
(29/02/08)
Quest’anno son tornati alla grande con un disco dalle sonorità
nuove ma gli Hot Chip sono una bella realtà techno pop già da un
po’ di anni. È del 2006 infatti il loro secondo The warning, meno
facile e più dissonante di Made in the dark. Inquadriamo subito il
duo in questione: gli Hot Chip, inglesi, hanno all’attivo, tra le tante
collaborazioni e rework, il remix ufficiale de La forme dei Kraftwerk;
e ben sappiamo quanto schizzinosamente, i quattro di Düsseldorf,
diano il proprio materiale nelle mani di qualche DJ. Ma bravi lo
sono davvero questi Hot Chip. Tralasciando l’incipit di Careful, si
può affermare che le varie Colours, Over and over, Tchaparian, Look after me o So glad to
see you suonano benissimo. E che dire di And I was a boy from school? Tutti ricorderanno
quel riff in pieno stile disco che abbiamo ballato qualche anno fa nei club di mezza Europa.
In fin dei conti, The warning si ascolta con sommo piacere e questi ragazzotti ci fanno
divertire anche per il loro look stravagante e per quella nostalgia canaglia che esprimono
verso il mondo 80’s che oramai è chiuso nel cassetto del passato prossimo.
•
Lombroso Lombroso
(01/03/08)
Li tenevo d’occhio da un po’ di tempo questi Lombroso, band
praticamente virtuale dell’universo myspace. Amici di Bugo e di
tutto quel circuito crossover spumeggiante nelle terre settentrionali,
i Lombroso sembra stiano pian piano arrivando a quel successo
che tanto hanno agognato. La loro prova d’esordio non fu però così
compresa. Ma all’interno del self titled ci sono parecchie canzoni
degne del massimo rispetto. Al di là del singolo Attimo, ben
congegnato e agrodolce, vanno menzionate Esercizio mentale,
Oggi è un giorno semplice e Latoscuro; inoltre, dalle altre Coinvolto
completamente, Una ragione credibile, Hai ragione tu o Il miglior tempo emerge sempre
una certa rabbia nascosta, quasi una provocazione, una ripicca, una cattiveria tipica delle
zone più anonime della provincia italiana. I Lombroso mi hanno convinto e m’ha convinto
pure il loro ultimo Credi di conoscermi, in pieno stile anni Settanta: l’immaginario degli anni
di piombo, del cinema poliziesco, del crimine organizzato, riemerge con grande vivacità
nell’opera di questi due baldi giovanottoni. Molto bravi.
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Severo Lombardoni Classika compilation
(02/03/08)
Ero ancora un ragazzino quando nel 1993 fu data alle stampe una
delle più buzzurre compilation di musica techno all’italiana.
Classika compilation, del guru della Discomagic Severo
Lombardoni, era un potente afflato di musica classica e BPM
arroventati. Quella cassetta che giornalmente davo in pasto al mio
stereo era per me un orgiastico gioco sonoro. Risentirla quindici
anni dopo è stata una pugnalata al cuore. Classika compilation è
piena zeppa di luoghi comuni tipicamente techno. Le voci urlanti, la
bassline del Roland, i distorted kick tutti uguali, ma soprattutto
quegli echi midi che non hanno mai lasciato il mondo della progressive anni ’90. La
Sinfonia K40 di Mozart, la Per Elisa di Beethoven, la Carmen di Bizet, Il barbiere di Siviglia
di Rossini, le Stagioni di Vivaldi, la Radetzky march di Strauss, il Bolero di Ravel, la Marcia
trionfale dell’Aida di Verdi, Il lago dei cigni di Tchaikovsky, la Toccata e fuga di Bach e
tante altre vengono stuprate da una sorta di hardcore posticcio. Il merito di questo disco è
di essere stato il prodotto giusto al momento giusto per la gente giusta.
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Biosphere Shenzhou
(03/03/08)
La tundra scandinava è fonte di ispirazione per questo artista
eccentrico e nebuloso che risponde al nome di Biosphere.
Shenzhou, situato a due terzi della sua discografia, è un perfetto
arredamento di sonorità leggere ed eteree che ci danno l’idea della
spazialità quasi infinita della terra di Norvegia. Biosphere utilizza
per il suo disco numerosi sample provenienti dall’archivio di Claude
Debussy, spesso addirittura lasciando intatto il gracidio della
puntina sul vinile. Citazioni tali non possono che attirare frotte di
estimatori che rumoreggiano ai tuoni tanto dell’avanguardia quanto
dell’elettronica. E proprio il brano che dà il titolo all’album appare come una cupa
introduzione alla desolazione mistica del nord; passando poi per Ancient campfire e
Houses on the hill, fino a Two ocean plateau e Path leading to the high grass, vediamo
tracciato un percorso interiore e socchiuso che non ci preclude di essere mentalmente in
quei luoghi. Mai la musica era stata tanto influenzata dal luogo di produzione come nei
suoni di Biosphere. Shenzhou è splendente a tutto tondo.
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Le Vibrazioni Le Vibrazioni II
(04/03/08)
Era un pomeriggio dell’estate 2005 ed io stavo all’autodromo Enzo
Ferrari di Imola ad aspettare l’ingresso di Vasco per un trionfale
concerto di 160.000 persone paganti. I gruppi spalla erano i Velvet,
i Papa Roach, Pia, Simone e Le Vibrazioni. Quando toccò a questi
ultimi allietare l’attesa di quel mare di gente, il pomeriggio degenerò
in un indescrivibile lancio di bottiglie verso la band. Mi vergognai di
essere un vaschista. Ed era proprio questo l’album che stavano
portando in promozione, l’album di Angelica, Ovunque andrò e
Raggio di sole. Ancora oggi non capisco perché tutti quegli animali
si siano accaniti contro Le Vibrazioni, visto che questo disco è indubbiamente un buon
prodotto pop/rock. Già dall’inizio di Aspettando si capisce che c’è stoffa in questi
fricchettoni, ma belle sono anche Lisergica, Sensazioni, Musa e Sanguinaria. Diverse, ma
non meno significative, sono I desideri delle anime dannate, Ogni giorno ad ogni ora ed In
un mondo diverso. Se Le Vibrazioni era l’esperimento commerciale, Le Vibrazioni II è,
senza dubbio, quello rock. Un plauso per la coerenza e per la tenacia.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Alex Gopher Alex Gopher
(05/03/08)
Sull’onda del travolgente Wuz ci si aspettava un po’ più di
elettronica e un po’ meno di pop da questo eponimo del calvissimo
e bravissimo Alex Gopher. È anche vero che una volta fatte le
orecchie, questo disco sembrerà tanto Phoenix. E alla fine non
potranno non piacere canzoni come Brain leech od Out of the
inside. Batterie in rapido levare, chitarre appena accennate ma
tanto graffianti, un cantato eccellente (almeno per un DJ), linee di
basso alla Planetfunk, addirittura ci sono echi country con Nasty
wish. Il lento non può mancare con Isn’t it nice, come non manca il
soft rock alla R.E.M. di Boulder Colorado. Si ricomincia a battere il piede solo con
Carmilla, The game e Go!. Per uno che ha remixato con immenso successo, assieme a
Etienne De Crécy, Aéro dynamik dei Kraftwerk, questo disco può apparire spiazzante, ma
preso nella sua inconsapevole individualità è pur sempre un lavoro di eccellente fattura. A
proposito di Etienne De Crécy: qualcuno sa che fine ha fatto? Va beh… Voglio solo dire:
«Cari francesi, il french touch è la vostra storia recente, non uccidetela».
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Resina Opinio omnium
(06/03/08)
Napoli, non mi stancherò mai di ripeterlo, è il centro più importante
dell’elettronica italiana, sia essa techno o electro, house o abstract.
Il progetto Resina, sgorgato - in qualche modo, come sempre dalle ceneri dei 99 Posse (quindi mettete in conto Marco Messina &
co.) ha al suo attivo questo unico disco, Opinio omnium. E
l’opinione di tutti è stata favorevole e celebrativa. Ora possiamo
dire che anche la vecchia Italia ha il suo lato sfacciatamente
sperimentale e giovanile, non inferiore a quello dei Telefon Tel
Aviv, di Alva Noto, di Oval o di Chris Clark. Pezzi come Aitan o
Jeninbophal, che prendono dall’elettronica il mero universo compositivo per poi spaziare
con innato talento in generi difficilmente catalogabili, danno bene il senso di un progetto
largo e sconfinato, sapiente e sempre in rapido mutare. Warp Records e Morr Music sono
fuse in un piccolo disco, così come sono presenti i Can e i Neu!, Brian Eno e Amon Dull; la
freddezza delle stratificazioni sonore, tipica delle produzioni nordiche, è quindi riscaldata
dal tocco umano e passionale dell’uomo italiano, meridionale, conquistatore e terrone.
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(07/03/08)
The Mars Volta Amputechture
Un disco parecchio difficile è il terzo dei Mars Volta, band cult del
math rock e anticipatrice del post hardcore. Corde rigorosamente
modulate nell’intro di Vicarious atonement che danno un senso di
straniamento, perdita di cognizione, alienazione; nella lunghissima
Tetragrammaton torna invece quel tocco fusion che era tanto
piaciuto nel lavoro precedente: questa traccia potrebbe essere di
per sé un EP. Breve e a tratti sarcastica Vermicide che lascia
subito il palcoscenico all’arrabbiata Meccamputechture, in cui le
chitarre elettriche subiscono nuovamente violenze mirate e
calcolate al centesimo. La seconda parte del disco, potremmo dire, comincia con Asilos
Magdalena nella quale una finestra dalle persiane rotte lascia intravedere corridoi sporchi
e vuoti; la hit Viscera eyes è seguita da Day of the baphomets col suo appeal molto
esotico, tra il messicano e il cubano. Infine, a chiudere l’album, c’è El ciervo vulnerado;
strani rumori, inquietanti scroscii, trepidanti attese, cupe verità, parole ambigue. Non mi
fanno proprio impazzire ma i Mars Volta sono obiettivamente molto bravi.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Hooverphonic The magnificent tree
(08/03/08)
Una copiosa discografia ma un successo poco più che sufficiente
che ha visto l’apice solo nella magnifica Mad about you, contenuta
in The magnificent tree. Gli Hoover, belgi, furono costretti dalla
medesima casa di elettrodomestici a cambiar nome in
Hooverphonic. Ed eccoli in questo disco trovare il punto più alto del
loro trip hop lirico ed evocativo. I cori giustapposti in Autoharp
creano un’immagine grande e misteriosa, lacerata solo dalla hit
sopra menzionata. Sono parecchio curiose le batterie di Waves, le
chitarre di Jackie Cane, i beat di The magnificent tree, il pianoforte
elettrico di Vinegar & salt, il fagotto di Frosted flake wood (uno dei pezzi migliori dell’intero
disco), il basso di Everytime we live together we die a bit more, gli archi di Out of sight, le
percussioni di Pink fluffy dinosaurs, l’astrattismo de L’odeur animale, i riverberi di
Renaissance affair. Qualcuno potrebbe etichettare il tutto con la scritta “pop” ma non fatevi
ingannare, gli Hooverphonic fanno principalmente del downtempo la loro cifra armonica
per una musica fortemente sensazionalistica e coinvolgente.
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Oval Systemisch
(09/03/08)
Il padre, o forse dovremmo parlare al plurale, del glitch europeo è,
senza ombra di dubbio, Oval, tedesco di Germania e per questo
riformatore sonore per ovvi motivi genetici. Systemisch viene subito
dopo l’esordio di Wohnton ed è datato 1994. L’estetica dell’errore,
per Oval, deve necessariamente avere una parvenza di ritmo per
non venir confusa con le sperimentazioni non-music dei suoi illustri
predecessori. Tale intento è chiaro fin da Textuell e non si
smentisce nemmeno con Aero deck. Ma è il digitalismo la spina nel
fianco
di
Oval:
esaltazione
del
codice
binario
o
commercializzazione della tecnologia? Le risposte vanno cercate in The politics of digital
audio, in Compact disc e in Catchy DAAD, anche se non è semplice decifrare i segnali
digitali che in rapido sovrapporsi creano questo futuristico viaggio. L’imperfezione della
tecnologia è ancora presente in Schöner wissen, in Mediaton, in Tonregie e in Oval Office.
Parecchio strano appare infine l’outcipit Gabba nation, di cui ancora oggi mi chiedo il
senso: va bene l’errore ma qui si sente addirittura il pad! Roba da matti…
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The Cardigans Gran turismo
(10/03/08)
Il disco per antonomasia dei Cardigans non può che essere Gran
turismo, quello di My favourite game ed Erase/Rewind. La voce
della bella svedesina è lontana dalla banalità di Lovefool e in
questo album trova la sua cifra stilistica più piena e matura. Per
quanto invece riguarda la musica, non si può parlare né di miracolo
né di capolavoro ma si deve constatare il mood electro rock che
contraddistingue il sound dei Cardigans da sempre. Il supporto dei
computer è evidente specialmente in Paralyzed, Explode,
Erase/Rewind, Hanging around e Higher; più batterie e chitarre si
trovano in Starter, Marvel Hill, My favourite game e Junk of the hearts. La pecca di questo
disco è che si giunge alla fine dell’ascolto un po’ annoiati, i giri armonici sono sempre gli
stessi, le sezioni ritmiche stentano ad osare, i testi sono perlopiù frivoli, il tutto appare
quindi come un bicchiere mezzo vuoto. Il successo, in molti casi figlio del commercio, è
altre volte - per fortuna - figlio del talento, ed ecco perché i Cardigans hanno assistito al
ridimensionamento del proprio. Gran turismo resta però un disco da 6+.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Lali Puna Faking the books
(11/03/08)
Se non li conoscete, correte subito a procurarvi la loro discografia:
si chiamano Lali Puna e producono per Morr Music. Faking the
books è l’ultimo studio album e trova nell’indietronica il suo più
bell’exploit sonoro. È difficile oggi trovare dischi tanto belli, sia dal
punto di vista autorale che musicale; il fragile equilibrio di cui sono
capaci i Lali Puna, mai sopra le righe, mai scontato, mai banale, è il
magnifico frutto di un talento innato, di un’influenza sana, di un
saggio evolversi. Ci si innamora subito con la title track e il colpo di
fulmine ci fa perdere la testa nelle successive Grin and bear,
Micronomic e Left handed. Anche i brani che a molti sembrano di minore importanza,
come Call 1-800-FEAR o B-movie, come Small things o People I know, sono invece
attualissimi, più che moderni, intelligenti più che belli. Per essere il disco più rumoroso (dal
punto di vista ritmico) dei Lali Puna, Faking the books è - e non lo dico solo io - il loro
lavoro più completo. Con loro ci si può rilassare, lo si può ballare, lo si può ascoltare
durante le ore dell’amore, lo si può consigliare, ci si può emozionare. Gran bel disco.
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Julie’s Haircut Adult situations
(12/03/08)
Tanto rock melodico, tanto crossover, tanto underground. Tre
parole non bastano a dare l’idea che sottende il lavoro dei Julie’s
Haircut ma forse aiutano a contestualizzare il lavoro di una band
così atipica per il panorama italiano. Vero è che di band così, nel
sottobosco dei garage e dei localetti, ce ne sono parecchie (su tutte
vi consiglio i romani Biorn) ma è anche vero che pochi sono i
discografici che investono su di loro. Adult situations (2003 per
Homesleep), disco che precede di poco la loro completa
legittimazione e affermazione, è un calderone di ironia e serietà, di
buona musica e tradizione melodica. I pezzi più importanti sono di certo Academy awards,
Marmalade e The power of psychic revenge, venati di riff al cardiopalmo e di vocals ben
inserite nel giro armonico. Desidero citare almeno tre brani da aggiungere al download (o
all’acquisto, è chiaro): In the air tonight, The last living boy in Zombietown e The big
addiction. In copertina non poteva mancare la celebre frangetta di Julie. Se non ancora li
conoscete, ve li consiglio, e lasciate perdere ciò che potrebbero dirvi gli altri.
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Paul Desmond Take ten
(13/03/08)
Il lirismo di Paul Desmond è tuttora ineguagliato, così come la sua
dolcezza, il suo tatto, la sua semplicità. In questo disco della RCA
Victor che vede Desmond al sax alto, Jim Hall alla chitarra, Connie
Kay alla batteria, Eugene Wright, Eugene Cherico e George
Duvivier al basso (ovviamente su canzoni diverse), registrato nel
1963 e rimasterizzato a New York nel 1997, troviamo nove tracce
di jazz vitale. Take ten, El prince, Alone together, Embarcadero,
Theme from Black Orpheus, Nancy, Samba de Orfeu, The one I
love e Out of nowhere ci offrono un Paul Desmond in formissima,
pieno di spunti virtuosi e di improvvisazioni solo in apparenza inconsapevoli. Tra l’altro,
vedere un viso pallido che suona il sax meglio di un negro fa il suo dannato effetto;
composto, rigoroso, sprezzante, serafico, così è Desmond. Il quarto pezzo menzionato, il
più lungo, è quello che ci offre il ritratto più fedele della sua musica, lenta, programmata,
morbida, sentimentale, tenue, financo orfica; il suo ensemble assiste voglioso il solista e lo
fa splendere. La musica è per sempre è questi ne sono i suoi dischi.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Cisco La lunga notte
(14/03/08)
Quando il comunismo va a braccetto col capitalismo ne vien fuori
sempre un’ipocrisia di metodo. Cisco, storica voce dei Modena City
Ramblers, ormai sta da solo e da solo prova a pubblicare dischi
(che poi sono identici a quelli che faceva coi M.C.R.) e La lunga
notte è finora il suo unico album all’attivo. Cosa dire? Niente di che.
Sono pochi quelli che riescono a rivitalizzare un genere tanto
arcaico come il folk rock (penso soprattutto ai Les Anarchistes o ai
Têtes De Bois) e di sicuro Cisco non c’è riuscito per niente. Il solito
immaginario del partigiano che beve in osteria con i suoi amici di
tante battaglie, mentre qualcuno intona alla chitarra Bella ciao è un qualcosa di davvero
ripugnante. E infatti nel disco non mancano richiami alla politica, alla questione sociale,
alla guerra, ai partigiani, alla libertà, alle diseguaglianze e a tutte quelle stupidaggini che
stanno alla base di una retorica vecchia come il cucco. Quando poi ascoltiamo Cisco che
si mette a cantare in ispanico, come a creare un filo diretto con i popoli sudamericani
(corrotti più che coraggiosi) allora la stizza ci obbliga a premere stop. E quindi eject.
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Mab Decay
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LFO Advance
(15/03/08)
Franco Battiato ha occhio, anzi orecchio, per il talento. Così fu per
Alice, per Giuni Russo, per Juri Camisasca, per Ivan Segreto o per
Cristina Scabbia dei Lacuna Coil. Le Mab, band metal al femminile,
sono un’altra scoperta del derviscio siciliano, il quale se le porta a
spasso durante i suoi tour. Decay, primo album ufficiale di queste
quattro emo, è un discreto prodotto metallaro ma non troppo;
l’italianità, come al solito, riesce a smussare gli angoli più
pleonastici e rumorosi del sound decadente. Difatti il confronto
sarebbe più facile farlo con i Cure che con i già menzionati Lacuna
Coil. I pezzi forti delle Mab sono sicuramente Suicidal angel (scelto anche per il lancio del
disco), Last tango in London e Scared of the darkness, venati tutti di uno scabroso talento
gothic e voci da soprano. Come ho già avuto modo di ribadire, il metal non fa per me,
eppure devo dire che le altre Astrophel, Black, Pearl, Adrenalina e Candyman risultano
tracce molto buone, soprattutto per la qualità del suono; le batterie sono un tutt’uno col
basso ma non soverchiano chitarre e voci. Disco per addetti ai lavori.
(16/03/08)
Cosa c’è di meglio di un po’ di sano groove? I Low Frequency
Oscillation (gli LFO, sia chiaro) appartengono a quella razza di
artisti che rilascia un album ogni morte di papa. Advance è il
secondo lavoro della band e, per essere un secondo disco, non
delude assolutamente le aspettative venutesi a creare dopo
Frequencies. La title track apre con un beat molto orientale, dopo il
quale arriva la techno old school di Shut down; se poi la levitazione
di Loch Ness non dovesse bastare, ecco giungere alle nostre
orecchie la tenebrosa Goodnight Vienna. Il rumore più accattivante
è travolgente in Tied up mentre il mare torna piatto dopo le dissonanze ritmiche di Them;
l’elettronica che mi piace tanto arriva solo con Ultra schall e viene ripetuta in Shove piggy
shove. Da Psychodelik a Jason Vorhees, da Forever a Kombat drinking la techno si fa
stranamente più morbida e, anche se in quest’ora gli LFO ci hanno regalato alti e bassi,
non siamo ancora stufi di ascoltarli; ecco perché converrebbe a questo punto inserire nel
player il successivo Sheath, un disco trainante come pochi.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Madita Madita
(17/03/08)
L’abbiamo trovata spesso nei dischi di dZihan & Kamien questa
affascinante cantante. Madita è un esemplare raro di interprete a
tutto tondo; le si possono mettere in mano brani pop, house, jazz,
rock, addirittura le si può chiedere di cantare sul reggae. Nel suo
primo self titled ho scoperto una Madita rivoluzionaria, mirabolante,
bravissima, fin dall’apertura maestosi di Ceylon; apprezzo inoltre la
capacità di far divertire attraverso la voce, prova ne sia Monotony.
Va pure detto che lo standard musicale del disco è davvero
appetibile, cosicché per Madita è un gioco da ragazzi interpretare
Has to be, To the Moon and back o A letter to you. E proprio nella varietà sta la forza del
disco, suddiviso in due parti: la prima strumentata e furiosa, la seconda lenta e jazzata. Le
ultime canzoni di Madita sono riflessioni non sempre drammatiche sulla difficoltà
dell’amarsi, da Got a Wannabe, da Intime a June; il consiglio che si può evincere da
questo lavoro discografico è quello di abbandonarsi totalmente alla musica, unica vera
terapia in grado di alleviare molti dei mali dell’uomo.
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Jovanotti Buon sangue
(18/03/08)
Uno degli album più riusciti di Jovanotti è sicuramente il penultimo
Buon sangue (2005), nel quale il disc jockey (“DJ” mi pare troppo!)
toscano sembra abbia definitavemente abbandonato le retoriche
cosmopolite e buoniste. Credo che (Tanto)3 sia una delle sue più
belle canzoni, sia dal punto di visto dell’innovazione che
dell’interpretazione. Mi fido di te è invece identica, come struttura,
ad una qualsiasi boiata degli Zero Assoluto, con la notevole
differenza che il testo di Jovanotti è decisamente più intrigante.
Seppur non da classifica, sono egualmente interessanti canzoni
come Per me, Un buco nella tasca, La valigia e Mi disordino. In toplist è invece entrata
Falla girare che personalmente trovo poco convincente, anche se la metafora che vuole
dispiegare è assai condivisibile. La simpatia e la voglia di vivere di Jovanotti, permanenti e
contagiose, non possono che sprigionarsi da ogni poro di questo Buon sangue, un disco
che vive di vita propria, in quanto si muove, respira e ogni tanto balla. Di Lorenzo non si
può parlare male e difficilmente si sarà creato dei nemici nella vita.
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De Vibroluxe Cracq magic international
(19/03/08)
Scovare dischi sconosciuti è una passione, spesso ripagata dalla
grandezza del prodotto scoperto. Cracq magic international di De
Vibroluxe (aka Nenad Stankov) è proprio uno di quei dischi, in
bilico tra house, funky, trip hop, jazz e broken beat; le
collaborazioni nel disco sono parecchie e appartengono tutte alla
galassia della Couch Records. Si comincia con la voce di Big John
Whitfield in Lo-fi financial e Retrosonic, poi con Xiao Ling su Love
bubbles, Micro C in Electric shampoo e Jericho Juice su Jazzed
jungle. Gli altri brani, tutti in rigoroso future jazz, si destreggiano
bene tra riverberi e loop, delay e cut. Beefy ballet, Roots boot, Mucho traffic, Club
Paradise abusano della sezione ritmica senza mai cedere a facili inclinazioni dance. Cracq
magic international, preso in tutta la sua completezza, è un ottimo disco che, per provenire
da una terra tanto piccola quale l’Austria, ha una marcia in più. De Vibroluxe è
praticamente sparito dalle scene; spero che stia lavorando ad un nuovo progetto in studio.
Se così non fosse sarebbe un peccato perché avremmo perso un grande producer.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Chrisma Hibernation
(20/03/08)
La new wave italiana ha, su tutti, il nome più altisonante nei
Chrisma (che in futuro diverranno Krisma), duo formato da Maurizio
Arcieri (quello dei New Dada, negli anni ’60) e Christina Moser,
sposati oramai da più di trent’anni. Il secondo disco dei Chrisma è
Hibernation (1979), sfacciatamente influenzato da Ultravox e
Kraftwerk, in cui le chitarre elettriche si impastano spesso ai synth
acidissimi. I testi, cantati in lingua inglese, sono ironiche vicende tra
il quotidiano e il futuribile, così come il look di questi due androidi
pizza e mandolino. Arrabbiata la prima Calling, molto più dolce e
melodica la seguente Aurora B., speciale Rush ‘79, originalissima poi Hibernated nazi. La
serietà, quasi la drammaticità, di molte band new wave internazionali non viene mai
completamente espressa in Italia - si pensi anche ai Righeira - tanto che in Hibernation
sembra difficile trovare seri spunti riflessivi. Ma in fondo è un tratto distintivo dell’Italia
quello di scherzare su tutto e tutti; ed ecco perché Gott gott electron, So you don’t, Vetra
Platz e Lover ci piacciono così tanto. Da riscoprire.
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Rod Stewart Stardust…: the great American songbook volume III
(21/03/08)
Il mondanissimo Rod Stewart si è messo in testa - da un po’ di
anni, a dire il vero - di riscrivere una sorta di libro musicale delle
grandi canzoni americane, da Frank Sinatra a Dean Martin, a Louis
Armstrong ecc.; finora ha pubblicato quattro volumi, il terzo dei
quali è sicuramente il più sorprendente. La voce di Rod Stewart,
obiettivamente grandiosa, non mostra nessun timore sulle note di
What a wonderful world (con Stevie Wonder) o di A nightingale
sang in Berkeley Square. Toccanti e romanticissime anche Blue
Moon con Eric Clapton e Baby, it’s cold outside cantata in duetto
con Dolly Parton; altrettanto grandi le interpretazioni in Stardust e in S’wonderful (featuring
Dave Grusin), in I can’t get started e in Manhattan (duetto con Bette Midler). Il pezzo forte
rimane però Night and day, dell’esteta Cole Porter, cantata da Stewart in maniera
suprema, quasi sovrumana. Ascoltare questo terzo volume Stardust… sarà un viaggio
fiabesco nei meandri dell’America più calda e affascinante, quella degli anni del
proibizionismo, della guerra in Europa, del secondo dopoguerra. Disco da possedere.
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Portishead Dummy
(22/03/08)
I padroni del trip hop sono i Portishead, non v’è dubbio. Dummy fu
uno tsunami nel mondo della musica, soprattutto dell’elettronica.
Fondere il tempo hip hop con le drum sintetiche tipiche di certo
rock, aggiungere synth e pad provenienti dalla tradizione electro e
cantare il tutto con innata naturalezza era allora una rivoluzione.
Una rivoluzione che segnerà band storiche come De-Phazz,
Massive Attack, Bran Van 3000, Enigma, Thievery Corporation,
Groove Armada e Moloko. Mysterons e Sour times sono
meravigliosamente sussurrate, anche se beat e melodie non si
tirano indietro quando c’è da far baccano; belle, anzi bellissime, Strangers, It could be
sweet, Wandering star, It’s a life, Numb, Roads, Pedestal e Biscuit; ancor più bella
l’enciclopedica Glory box, ormai entrata nella storia al pari di Let it be dei Beatles, Another
brick in the wall dei Pink Floyd, Street spirit dei Radiohead o Satisfaction dei Rolling
Stones. I Portishead hanno scritto pagine notevoli ed importantissimi sono per noi che
vediamo nell’elettronica e nelle sue applicazioni il nostro essere e divenire.
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Baustelle Amen
(23/03/08)
Finalmente sono tornati i Baustelle! Questi toscanacci, il primo di
febbraio, hanno pubblicato il nuovo Amen, debordante prova per il
moderno chansonnier. Al primo ascolto notiamo subito che questo
è un disco contro, nel senso che vengono a galla tanti di quei temi
cari agli attivisti (come i no global). L’imperialismo americano di
Colombo o la profezia socialista de Il liberismo ha i giorni contati
(come dargli torto?) danno proprio l’idea di questo antagonismo
aristocratico. In linea con lo stile seventies sono invece canzoni
come Charlie fa surf o Baudelaire, mentre toccanti e confidenziali
appaiono Dark room e Alfredo (la triste storia di Alfredino Rampi di Vermicino). Non era
per niente facile bissare quel gran lavoro de La malavita, eppure i Baustelle hanno
dimostrato - c’avrei scommesso - che quel tocco originalissimo che li contraddistingue non
era uno status symbol o una vanità eccentrica. Amen, forse, è anche questo, ma di pop
così bello ce n’è davvero poco in Europa, e di citazioni intellettualmente così valide non se
ne vedono un granché in giro. Insomma, mirabolante Amen. E così sia.
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Matthew Dear Asa breed
(24/03/08)
Matthew Dear è un altro di quegli artisti che tengo sott’occhio da un
po’ e con Asa breed posso dire che è finalmente riuscito a
distaccarsi dall’inclinazione dance - anche se i primi due dischi
sono comunque fantastici - per approdare ad una soluzione di
pieno e mordace songwriting. Ritroviamo dunque tutte le
automazioni tipiche di Matthew Dear, così come si ritrovano pure le
sue tipiche progressioni ritmiche; la differenza sta nel pieno
raggiungimento testuale delle canzoni. Fleece on brain, Deserter,
Will gravity win tonight? e Give me more ci offrono un artista più
romantico e critico, capace di esprimere anche con le parole gli intenti della sua musica.
Aggiungerò solo che questo album può sembrare appariscente, soprattutto sotto il punto di
vista elettronico, ma è anche vero che gli innesti chitarristici o quelli tipicamente orchestrali
fanno parte della cultura musicale di Dear. Asa breed è quindi un disco a suo modo
eclettico, ottimo sia per la programmazione radiofonica, sia per la performazione live, sia
per l’ascolto rilassato e frivolo di casa. Arrivare a questi tre obiettivi non è da tutti.
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(25/03/08)
San Culamo Scomunicati e vincenti
Non c’è band più volgare e blasfema dei San Culamo, alla cui voce
c’è - niente po’ po’ di meno che - Ceppaflex (qui col nome di Emmy
Ator Best) dei Prophilax. La differenza fra le due porno rockband
laziali sta proprio nella presenza o meno della bestemmia.
Scomunicati e vincenti è l’unico album ufficioso che abbia finora
recensito, ma non potevo tirarmi indietro di fronte a tanto
divertimento e goliardia. Gli 883 vengono plagiati con Hanno ucciso
l’asinello e Ho rotto il culo a Dio delle quali è facile immaginare le
tematiche trattate; i San Culamo riescono pure a scrivere canzoni
proprie come le stupende Tutti a Civitavecchia e Dove hai messo il cazzo?. I pezzi storici
del disco rimangono però Woitjla e la sua critica all’oscurantismo cattolico, Sei mejo te con
la relativa offesa ai ricchi fighetti, e infine le quattordici interludiche Dito nelle quali la
penetrazione anale viene perpetrata a danno di santi, apostoli e divinità varie. La trilogia
discografica dei San Culamo è scaricabile gratis dal MySpace ufficiale della band. Inoltre
girano voci su un ritorno ufficiale del gruppo in studio.
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Gatto Ciliegia Contro Il Grande Freddo L’irréparable
(26/03/08)
Me l’hanno dovuti consigliare, visto che non ne avevo mai sentito
parlar prima, questi due progetti paralleli che da un bel po’ di anni
danno alle stampe interessantissimi lavori di elettronica post rock.
Gatto Ciliegia Contro Il Grande Freddo sono arrivati alle orecchie di
qualche audiofilo buongustaio sicuramente per via di questo quarto
disco, venato interamente di elettrica malinconia ed esperta ironia.
L’irréparable è praticamente perfetto. L’apertura di Fly falling in love
è semplicemente toccante e la stessa carica emozionale è
presente ne La gang del pensiero, in Autour de notre (chat) e in
C’era una volta il post; diversamente belle, perché provocatorie, sono invece Estasi di un
delitto, Una calibro 9 per Toni Rodriguez e Dopolavoro dancing. Non manca nemmeno la
coverizzazione di una hit, la cui scelta è caduta per l’occasione su Un anno d’amore di
Mina. Il testo in francese della title track è poi il segno di un’intimità infranta, malata, quasi
perversa, come se fosse il racconto di una scena criminosa. Spero che Gatto Ciliegia
Contro Il Grande Freddo non saranno una meteora ma una parabola ascendente.
•
Miles Davis Kind of blue
(27/03/08)
Non si può tralasciare la grandezza di Miles Davis quando ci si
accosta alla critica musicale, innanzitutto perché l’influenza che
Davis ha esercitato sul jazz contemporaneo è palese, e anche
perché lui è stato capace di essere un purista e uno sperimentatore
al tempo stesso. Kind of blue è forse il disco più rappresentativo di
questo trombettista, difatti le cinque lunghe tracce che lo
compongono vengono tuttora coverizzate da migliaia di uominiscimmia (usando un’espressione di Paolo Conte). Su tutte svetta
So what, con quell’incedere lento e cadenzato, quasi come fosse
un dialogo fra contrabbasso e tromba, fra pianoforte e sassofono. E proprio al sax tenore
troviamo quell’altro giovanottone di John Coltrane, come se il genio jazz, in questo disco,
fosse di casa. Nulla da aggiungere a Freddie freeloader, Blue in green, All blues e
Flamenco scketches. Da notare invece che tutte le edizioni di questo disco - tranne quella
del 1997 per Columbia - contengono alcuni di questi brani registrati ad una velocità
sbagliata a causa di un’errore nella chiave armonica. Ed è storia del jazz.
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(28/03/08)
Jonny Greenwood Bodysong
Il chitarrista dei Radiohead ha al suo attivo due album solisti,
composti come colonne sonore per il documentario Bodysong (il
disco in questione) e per il film There will be blood (tradotto in Italia
con Il petrioliere). La soundtrack del 2004 è sicuramente la
migliore, ascoltabile anche al di fuori del contesto filmico, come
fosse un album che splende di luce propria. La sperimentazione di
questo chitarrista è molto avanzata, soprattutto per quanto
riguarda, strano ma vero, la sezione percussiva, piuttosto che
quella del suo strumento preferito. Pianoforte e violini in Moon trills,
tetri bassi in Trench, windchime impazziti in Clockwork tin soldiers, ossessivi tribalismi in
Convergence, onde martenot in Milky drops from heaven e jazz alla Youngblood Brass
Band in Splitter disegnano un disco fortemente dissonante, quasi scordato, eppure fanno
di esso un perfetto capolavoro del genere soundtrack. Greenwood è stato unanimemente
inserito fra i mille chitarristi più importanti della storia, ma forse la sua migliore vittoria è
quella di essere il fedele compagno di Thom Yorke in tutte le sue performance.
173
Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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174
Aerial M Aerial M
(29/03/08)
David Pajo è certamente uno dei personaggi più eclettici ed
interessanti del panorama indipendente degli anni Novanta.
Musicista errante, originario del Kentucky e di sangue filippino,
vaga confuso in una miriade di formazioni più o meno famose
nell’ambiente underground statunitense. La cosa che più colpisce
del progetto Aerial M è la sua assoluta genuinità. Il sound (lo-fi al
100%) è quello di una band alle prime armi che con il ripetere
ostinato e narcotico degli stessi due accordi riesce a creare un
crescendo ipnotico che diventa più simile ad un om buddista che
ad un brano di musica rock. L’esperienza sonora è profondamente meditativa; i brani
vengono spogliati di ogni componente estetica e trasformano la voce o qualsiasi forma di
virtuosismo strumentale in una componente puramente superflua ed estranea. Quello che
conta è l’atmosfera che viene a crearsi ed il miglior esempio in questo senso viene da
Compassion for M, che altro non è se non un backward, con tanto di batteria e l’aggiunta
di qualche effetto sonoro. Aerial M è terribilmente primordiale: questa è la sua genialità.
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24 Grana Ghostwriters
(30/03/08)
Scandalosamente ignorati dalle radio e dalle televisioni, i 24 Grana,
giunti al decimo anno di attività, continuano ad essere uno dei
gruppi più richiesti per concerti, dimostrando con i fatti che
esistono, per fortuna, ancora tantissime persone che sanno
scegliere con la loro testa. Principalmente a questo pubblico si
rivolgono i 24 Grana con il loro ultimo CD, cioè a chi è ancora
disposto ad ascoltare la musica, a dedicare un po’ di tempo per
cercare di capire e farsi coinvolgere. Nove brani inediti, due in
italiano, realizzati con la produzione artistica di Daniele Sinigallia,
registrati per la prima volta in trasferta, a Roma, circondati e coccolati da tanti amici e
collaboratori. Amici che hanno arricchito il lavoro con il loro contributo come Riccardo
Sinigallia in Avere una vita davanti, Marina Rei in Smania ‘e cagnà, Filippo Gatti ne Le
verità e come Max Gagliardi, figlio del grandissimo Peppino, che ha suonato il piano ed ha
scritto le parti per gli archi, o come Claudio Martinez che ha fatto splendide foto e ha
suonato l’armonica in Accireme. Ghostwriters conferma che l’Italia si muove.
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Charles Cammile Saint-Saëns Carnaval des animaux
(31/03/08)
Nata per scherzo assieme a degli amici di salotto, il Carnaval des
animaux è divenuta la più celebre opera del grande compositore
francese Charles Camille Saint-Saëns. Il fine era quello di ricreare
onomatopeicamente, con la musica, l’incedere di animali come se
si stesse assistendo ad un gran galà carnevalesco. Ci sono galli e
galline, leoni, emioni (ovvero semiasini siriani), cuculi, uccelli vari,
canguri, elefanti, ma anche fossili, acquari e pianisti (proprio i
pianisti, come fossero bestie!); ci sono pure gli animali dalle
orecchie lunghe, ovvero gli asini, impersonati da tutti quei critici che
decretano col pollice la vita e la morte delle opere artistiche. Il pezzo più famoso è
sicuramente Le cygne, l’unica sezione musicale a cui Saint-Saëns diede l’assenso per la
rappresentazione in teatro. Nel complesso, anche se può sembrare un disco per bambini
della scuola elementare, il Carnaval des animaux è un perfetto esempio di musica realista,
nella quale clarinetto, flauto, violoncello, pianoforte, contrabbasso e glockenspiel
sembrano vivere in una foresta incantata assieme alla natura più selvatica. Particolare.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Joel Lo scrivano
(01/04/08)
Lo scrivano è colui che cerca la verità nelle parole del sovrano,
l’unico uomo di corte in grado di giudicare l’operato, le intenzioni e
le vicissitudini di un regno. Questo è il punto di partenza di Joel per
il suo unico album hip hop, in stretta collaborazione con nomi
grossi della scena italiana come La Famiglia e Neffa (correva
l’ultimo anno del Novecento). Proprio alla crew napoletana è
affidata la realizzazione di tre brani: ‘Na mano, Dalle ‘n faccia e ‘A
veco nera, mentre la voce di Neffa è presente in 999 il passaggio.
Gli altri pezzi da menzionare sono sicuramente Frame, Lo scrivano
e Verso te; per il resto il disco di Joel appare come un normalissimo album rap
appartenente al periodo di transizione fra l’old school e l’hardcore, con una speciale
inclinazione verso la prima attitudine. I temi, al di là dell’intelligente trovata dello scrivano,
sono quelli dell’amore perfetto, dell’orgoglio rap, della lealtà di strada e i DJ chiamati in
causa sono DJ Simi, Giancarlo Cavallo e DJ Frankie B, mentre a Sha-One è affidata la
supervisione del tutto. È hip hop, prendere o lasciare.
•
Apparat Multifunktionsebene
(02/04/08)
Mi piace credere che la Germania sia questa, anche perché
pensare che i tedeschi vadano matti per i Tokio Hotel mi sembra
umiliante e degradante per la propria gloriosa tradizione musicale.
Apparat, venuto definitivamente alla ribalta dopo Orchestra of
bubbles (in collaborazione con la bella Ellen Allien), ha cominciato
la sua carriera con Multifunktionsebene, un disco influenzato da
glitch, techno e minimal. I nove brani che lo compongono si
dipanano su soffici basi elettroniche, puntellate qui e là di errori,
rumori, dissonanze, FX e rumori vari. I titoli spiegano meglio
l’obiettivo della musica di Apparat: Multifocus, Error 404, 7,5t, Forward backward, Aspirin
(ricordate Vitamin dei Kraftwerk?), Fuckedub, Distance eccetera eccetera. La
testardaggine di questo produttore tedesco lo ha portato ad essere oggi uno dei migliori
nel suo campo; non ha mai dimenticato la sua indole sperimentale, pur se, col tempo, l’ha
ammorbidita per farsi trovare appetibile ad un pubblico più vasto ed eterogeneo. Dicono
infine che i suoi live siano delle magnifiche audioinstallazioni scioccanti e fulminanti.
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Offlaga Disco Pax Bachelite
(03/04/08)
Mamma mia quanto sono stato felice l’8 febbraio scorso, giorno
dell’uscita del nuovo disco degli Offlaga Disco Pax! Bachelite
conferma in pieno l’eccelso standard di questa band postsovietica
italiana. Il passato punkettone esce nella figura mitica di
Superchiome, il record di salto in alto del russo Vladimir
Yashchenko è lodato in Ventrale, il capro espiatorio neofascista per
la strage bolognese è denunciato in Sensibile. Gli O.D.P. si limitano
ancora a parlare su basi electro rock, con lo stile che li ha
contraddistinti fin da Socialismo tascabile. Ed ecco che arrivano
anche le bellissime Lungimiranza, Dove ho messo la Golf?, Onomastica, Venti minuti e
Cioccolato I.A.C.P., con un evidente riferimento alle case popolari dell’Italia del
dopoguerra. Gli Offlaga narrano sempre i ricordi dell’adolescenza, di quel mondo che
voleva cambiare il mondo, e non c’è riuscito, suo malgrado; ma narrano anche la vita
d’oggi, con le sue ansie, le sue pochezze, le sue umiltà e le sue illusioni, perché in fondo
chi è un idealista non lo è di certo a tempo determinato. I sogni appartengono a tutti.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Thievery Corporation The richest man in Babylon
(04/04/08)
I Thievery Corporation rientrano nella schiera dei miei producer
preferiti. Americanissimi eppure così lontani, musicalmente
parlando, dalla loro terra d’origine; dub, trip hop, downtempo,
chillout, questi gli ingredienti del loro terzo album The richest man
in Babylon, un lavoro che non si limita ad essere esteticamente
bello, ma aspira, riuscendoci, a lanciare frecciate di denuncia
sociale proprio verso gli stessi Stati Uniti. Il pezzo più significativo a
tal propostito è certamente The State of the Union, seguito a ruota
dalla title track, da Facing East, da The outernationalist e da Meu
destino. I Thievery sorprendono sempre perché non si ripetono mai, trovando spesso
nuovi spunti di riflessione all’interno del mondo elettronico, oramai fin troppo trendy. Ecco
quindi che acquistano nuovo valore le varie Exilio, Liberation front, Heaven’s gonna burn
your eyes, Omid ed Un simple histoire. Con grande trepidazione si attende ormai da anni
un ritorno in studio di questo fantastico duo che, dopo The cosmic game, ha pubblicato
solo remix, alternative takes, reworks e compilazioni commerciali.
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John De Leo Vago svanendo
(05/04/08)
La cosa che più mi ha divertito di Vago svanendo è stata la totale
impossibilità di etichettare il lavoro di John De Leo in un genere
ben definito. Sarà jazz? Proprio no. Sia perché i ruoli di Alessandro
Bergonzoni e Stefano Benni si mettono a complicare il tutto, sia
perché, tra viole, trombe ed ospiti pesanti, il CD prende una piega
decisamente intellettuale. Le undici tracce che compongono Vago
svanendo sono legate ad un filo conduttore, la voce di De Leo,
simile ai virtuosismo di Demetrio Stratos, che sembra sempre
uguale ma non intorpidisce mai. Così spiccano al mio ascolto brani
come Freak ship, la radiofonica (si fa per dire) Bambino marrone, poi ancora Canzo, una
melodiosa Tilt (c’è Mattia?) e la liricissima title track dove ascoltiamo la voce-strumento di
John De Leo all’ennesima potenza. Sapete perché Quintorigo e De Leo solista si
somigliano così tanto? Perché se il gruppo era, a detta della critica, paragonabile a dei
marziani di passaggio nel panorama musicale degli italici anni Novanta, lo stesso vale
adesso per il De Leo. Il suo coraggio è ancora una volta premiato ed incoraggiato.
•
Koop Sons of Koop
(06/04/08)
Confrontato con Waltz for Koop e Koop Islands, questo primo disco
del duo nordico non regge il paragone: si potrebbe dire che i Koop
erano ancora musicalmente immaturi. Nonostante ciò, Sons of
Koop (1997) ha un fascino tutto suo sin da Introduktion, affidata ai
fiati; tecnicamente più minimali sono poi Glomd e Absolute space,
beat leggerissimi e bassi poco elaborati, ma voci femminili che
incantano comunque. Il jazz del debutto di Zingmark e Simonsson
è ancora venato di big beat e di trip hop, quindi non è ancora un
sound definibile come proprio; ma ecco che dal cilindro escono le
ottime Bjarne Riis, Psalm, Words of tranquillity e Jellyfishes. Sons of Koop pare più una
colonna sonora ad un film sperimentale che un vero e proprio album di nujazz. Consiglio
infatti di ascoltarlo in sincrono con qualche film muto degli anni ’30; solo così questo album
potrà esprimere al massimo le sue potenzialità immaginifiche, la sua capacità di vivificare
un ambiente spoglio, decadente, scarno, essenziale. La carriera dei Koop sarà d’ora in poi
in discesa e la loro musica sarà miele per il provetto ascoltatore di turno.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Von Spar Von Spar
(07/04/08)
Dopo il silenzioso esordio di Die Uneingeschränkte Freiheit der
privaten Initiative, i Von Spar producono nel 2007 un disco
eponimo davvero sorprendente. Avanguardia, jazz e tanto rock si
fondono nel progetto di questi tre tedeschi dall’aria disincantata:
Christopher Marquez, Thomas Mahmoud e Philipp Janzen hanno
fatto tanto. Due lunghissimi brani, uno per facciata, rendono questo
LP un viaggio senza confini nei territori del suono. Sul lato A
troviamo Xaxapoya, che dal noise gotico passa in fretta al
tribalismo, quindi al post rock, morendo lentamente in un assurdo
fragore di elettronica pop. Sulla facciata B è invece incisa Dead voices from the temple of
error, nella quale l’ambientalismo iniziale viene lacerato dal post rock, quindi dal metal,
concludendosi in maniera per niente scontata con batterie progressive in 6/8. I testi non
sono molto comprensibili, visto che le linee vocali sono tra loro intrecciate, a dare quasi un
senso di perdizione, di allontanamento dalla vita terrena e dalle faccende quotidiane. Von
Spar, insomma, è bellissimo, stranissimo, sperimentalissimo. È questo ciò che mi piace.
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Alessandro Stefana Poste e telegrafi
(08/04/08)
Grazie a Dio l’Italia può contare anche sul talento di Alessandro
Stefana, musicista presente in quasi tutti i lavori di Paolo
Benvegnù, Marco Parente, Lumière Electrique e Vinicio Capossela.
Poste e telegrafi è il suo primo lavoro solista, un coacervo di suoni
in disuso, di idee accennate, di storie fantastiche, di un passato
non ancora passato, come il banjo di Western soda o il sentimento
morriconiano di Semi tostati di cielo, oppure come l’aspetto tetro di
Motel o il rock sperimentale di Poste e telegrafi blues. Stefana
suona chitarra, kalimba, omnichord e balafon, ma le sue mani sono
esperte anche con i loop dei vinili e i nastri magnetici (la lezione dello Studio di Fonologia
della RAI di Milano è recepita in toto); magnifiche anche Fiori campionati, Whales
cemetery e Titoli di coda. Il film si conclude così, tra sample di archi e pianoforti
sussultanti. Alessandro Stefana c’è riuscito, ha finalmente squarciato il velo di sanremismo
che copre la musica italiana, dimostrando come anche la dissonanza, il fruscio o
l’esperimento d’avanguardia possano esprimere vere emozioni.
•
Frank Bretschneider Looping I-VI (and other assorted love songs)
(09/04/08)
Spesso lo confondo con Alva Noto - non a caso sono amici e
collaboratori - quando non riesco a riconoscere il suo marchio.
Frank Bretschneider utilizza meno lo strumento dell’errore, del
glitch, del clip, e opta sovente per soluzioni più ritmiche, stante il
fatto che i suoi lavori sono esclusivamente ligi al minimalismo più
freddo e distaccato. Se infatti Alva Noto preferisce riscaldare i suoi
tappeti con il pianoforte, Frank Bretschneider preferisce lasciarli
gelidi, inespressivi, desolati e desolanti. Looping I-VI (and other
assorted love songs) è un manuale di looping col quale l’artista
traccia un percorso sentimentale, per niente emotivo, che vuole creare nell’ascoltatore un
senso di riflessione, come un’imposizione a pensare alla vita, adesso, in questo istante,
fermando in un frame sonoro le immagini più recenti. Ecco perché in questo lavoro il loop
diventa l’elemento base dell’indagine musicale, ben evidente in Looping IV, Paperthin,
Night broadcast, Looping I e Go! Said the bird. Accostarsi a questo musicista può risultare
difficile e ostico, ma ne vale la pena; basta studiare la musica del dopoguerra.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Musica Per Bambini Del Superuovo
(10/04/08)
Quella di Musica Per Bambini è una discografia assurda, inventata,
piena di lavori improbabili e di riferimenti all’infanzia. Del
Superuovo è il suo secondo disco ed è pieno zeppo di personaggi
di fantasia come La lucidatruce, Il Superuovo, L’orc’o, Il
mangiabinari, Il folletto di Uao o L’uomo delle uova; lo stile è un
misto di screamo e post rock, di hardcore e synth pop. Ma è
fuorviante credere che il risultato sia banale o stupido; questo disco
è davvero molto bello, pone l’accento sull’infanzia come periodo del
cammino vitale durante il quale l’essere umano crede a tutto e a
niente, è consapevole di sé ma prende la vita come un gioco, comprende i pericoli ma li
affronta con la manina, inventa amici invisibili e ci gioca assieme per ore. Per questo dico
che Musica Per Bambini è bravissimo e, a tal proposito, consiglio di ascoltare Baracca
barocca, Kyxwj, Testa di terra, L’onda d’ombra e Bolla di brodo. Il disco in questione è
forse il migliore della sua produzione, anche se nell’ultimo M__sica il folle arista riprende,
elaborandole ancor più saggiamente, le gioiose tematiche bambinesche.
•
Ellen Allien Berlinette
(11/04/08)
L’elettronica di Ellen Allien è molto emotiva ed, al contempo,
ricercata e modaiola. La giovane tedesca non risparmia infatti i
beat houseggianti e minimali, condendoli però con sonorità molto
moderne e piacevoli, con romanticismi femminili e ruvide
introspezioni sperimentali. Sehnsucht è forse il brano più
emblematico di Berlinette, senza nulla togliere a Trash scapes,
Augenblick, Abstract pictures e Open. Questo è un album tutto d’un
pezzo, coerente a se stesso dalla prima all’ultima nota. I termini
cupi con cui si esprime sono da sempre proprietà di tutto quel
movimento electroclash in continuo fermento che ha base a Berlino. Gli intrecci percussivi
sono quanto di più interessante si sia proposto nel 2003 e la voce statica e voluttuosa
impreziosisce il tutto rendendo quest’opera, come già detto, un prodotto appetibile sia per i
cultori della sperimentazione che per i maniaci del pop sintetico, un lavoro in cui la
sensibilità artistica si sposa con l’arte del rielaborare concetti e forme del passato, un disco
per chi è aperto ai contrasti ma ama la musica del proprio tempo.
•
Swim Rifiuti su disco compatto
(12/04/08)
Artista pop e uomo moderno. Così ama definirsi Swim, pupillo di
casa Tafuzzy, nonché meritevole vincitore del contest Start
(finanziato da Emi) per Qoob TV. Finora il suo unico disco ufficiale
per la label della riviera romagnola è Rifiuti su disco compatto, una
raffinata accozzaglia di synth pop giocoso e divertente, con
intelligenti bordate ai luoghi comuni che affollano le discussioni di
tutti i giorni. Tracce come Parliamo del tempo, Radio 1990, Nuovi
modelli di comportamento, Il parcheggio, Il coccodrillo, la zanzara e
la rana, La distorsione arriverà e Yuri Gagarin disegnano un
modello musicale vicino al pop di casa Riotmaker, con testi a volte triviali e ariosi, più
spesso profondi e suggestivi. Anche se Swim appare come un buontempone amante del
sintetizzatore e del distorsore, dell’hip hop e delle belle donne, in realtà è un bravissimo
artista che cerca di farsi notare con trovate davvero spiazzanti. Speriamo che il premio del
suddetto contest lo aiuti a trovare la sua strada, quella dell’anticonformismo, del
divertimento, del talento, del successo. Bene Swim, sto dalla tua parte.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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•
Add N To (X) Avant hard
(13/04/08)
La loro bandiera sventola sotto il segno dell’analogico, quello degli
hardware, dei synthi, del suono sporco, ruvido, caloroso. Gli Add N
To (X) preferiscono viverle le macchine, mangiarci sopra, berci il
caffè assieme, sentirle vibrare per un basso che supera i -0,1 dB,
un contatto che è evidentemente meno traumatico e tangibile per
chi preferisce i plugin, i VST, i computer, i controller midi, i
software. Avant hard (1999), terzo disco della band, è elettronica
pura, senza alcuna cessione al codice binario. Se a volte le tracce
sembrano troppo toste, come in Robot New York, Fyuz, Revenge
of the black regent o Metal fingers in my body, in altri casi sono invece più equilibrate, ed è
il caso di Buckminster Fuller, Barry 7’s contraption, Oh yeah, oh no e Steve’s going to
teach himself who’s boss. Avant hard infatti spinge molto, non concede tregua, non lascia
dubbi di sorta, a volte si permette pure d’essere romantico, ma è più probabile che entri in
testa destinato a restarvici a lungo. È un gran disco, non c’è che dire. Dal 2002 gli Add N
To (X) non si sono più fatti vivi: lanciamo un grido fragoroso per farli tornare!
•
Markus Stockhausen & Gary Peacock Così lontano… quasi dentro
(14/04/08)
Il figlio di Karlheinz Stockhausen, Markus, non poteva certo darsi al
giardinaggio o al rugby. Con un padre del genere, la via più ovvia ed al contempo difficilissima - era quella della sperimentazione
musicale. Nel 1989, assieme a Gary Peacock al contrabbasso,
Markus Stockhausen propone Così lotanto… quasi dentro, un
lavoro fondamentalmente jazz (la sua tromba ricorda a sprazzi il
Miles Davis a cavallo tra i 50’s e i 60’s), malato di pesantissime
istanze sperimentali, a partire dal pianoforte - che incide tantissimo
nel disco - di Fabrizio Ottaviucci e dalla batteria, che non suona
mai ritmi jazz, di Zoro Babel. Il viaggio parte con So far… e, dopo essere rimasti in
dormiveglia, tra …In parallel…, …Breaking… ed …Across bridges…, per quasi quaranta
minuti, si arriva a destinazione con …Almost inside…; il tempo trascorso durante l’ascolto
sembra volato, sparito, sfumato, mentre tutta la sessione sonora s’è impiantata nel nostro
subconscio come un messaggio subliminale, come un germe pubblicitario, un cancro del
cervello, un dannoso edema celebrale. Non se ne andrà mai più via, fidatevi.
•
Linea 77 Horror vacui
(15/04/08)
È un disco con un’energica poeticità elusiva che allo stesso tempo
ripugna il broncio lagnoso degli arrivismi alla moda. In generale,
Horror vacui (uscito in febbraio) sembra leggermente arrabbiato
con l’Italia. È il disco dei Linea 77 con più pezzi in italiano, ma allo
stesso tempo il più esterofilo di tutti. E pensare ad un gruppo
portabandiera, in territorio straniero, di qualcosa che è
assolutamente nostro, con i Linea 77 si potrebbe. Ma ci si aspetta il
triplo del casino mai fatto. A progetti come Horror vacui in Italia
forse mai nessuno si è avvicinato minimamente, ma all’estero, e
soprattutto in una certa fascia ad occidente degli States, moltissimi. Horror vacui è
un’apposizione intollerante che sintetizza vari step di musica relativamente non nuova,
suonati in unidici pezzi che si succedono con un medio piacere. Che poi dal vivo ci siano
centinaia di persone che implorerebbero con le ginocchia sanguinanti sulle borchie di non
smettere, sottolinea figurativamente che come i Linea 77, all’interno dei confini nazionali,
non c’è veramente nessuno. Un disco ben fatto ma che fa poco per me.
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Italcimenti Under construction
(16/04/08)
In Europa definiscono questo genere italo disco, con un’accezione
tutt’altro che negativa. Ci tengo però a sottolineare che gli Eiffel 65
sono una cosa (soggettiva) e gli Italcimenti un’altra (oggettiva).
Maurizio Dami, alias Alexander Robotnick, grande burattinaio della
dance 90’s, e Lapo Lombardi, alias Ludus Pinsky, riuniscono col
nome Italcimenti un divertentissimo progetto di dance italiana:
Under construction possiede difatti una grande verve ironica,
accompagnata da una grande originalità compositiva. Sono
convinto che le varie Disco tamarro, Lunar weekend, Trigger
happy, Bela Lugosi is dead (dei Bauhaus), Bencio o For you rappresentino bene lo
scanzonamento e l’ospitalità italiane presso le genti d’oltralpe. Non si può certo chiedere
all’Italia di produrre elettronica fredda e disumana, ambientale e robotica. Il tocco latino
della nostra tradizione artistica (penso soprattutto ai Righeira) non cede mai il passo alla
gelida matematica degli oscillatori. Ecco perché Under construction è totalmente differente
da tutta l’immondizia eurodance che sommerge il continente. E bravi gli Italcimenti!
•
Alibìa Confini
(17/04/08)
Buon pop quello degli Alibìa, band misconosciuta nel sottobosco
discografico italiano. Voce maschile e femminile si fondono
continuamente, mentre le chitarre si contendono gli assoli con i
violini. Il punto forte di Confini è proprio questa sua indole verso la
raffinatezza, è un disco mai scontato, e il pop sappiamo quanto sia
facilmente scontato. Le canzoni più rappresentative di questo CD
sono, a mio avviso, L’equilibrio, Fino in fondo e Perfetto, ma
ascolto altresì con piacere Lunghissimo istante, La strada e Ancora
nuda. I testi sono frammentari, nel senso che lasciano un velo da
togliere sulle tematiche affrontate, compito che spetta all’ascoltatore eseguire, per entrare
pienamente nel vivo di Confini. Non confondete questa bontà d’animo musicale con le
mode effimere dei Negramaro o dei Finley. Gli Alibìa credono davvero in ciò che fanno.
Proprio per questo mi piace la leggerezza di questo disco e mi piace anche il successivo
album Tra tutto e niente; insomma, mi piacciono gli Alibìa, modesto pop per dolci momenti
di coccole e amore. Dimenticavo: ho remixato il loro brano L’inedia ne L’inedia rmxs.
•
Godspeed You! Black Emperor Yanqui U.X.O.
(18/04/08)
In Canada deve esserci un qualche germe virale di follia. Se Richie
Hawtin è lo sballato della techno, i Godspeed You! Black Emperor
sono i matti del post rock (ha ancora senso definirlo così?). Yanqui
U.X.O., ultimo album della band nordamericana, è un lungo
progetto in bilico tra composizione programmata ed
improvvisazione virtuosistica. Tre pezzi sul disco, due dei quali
divisi a loro volta in due parti: 09-15-00 e Motherfucker =
Redeemer più Rockets fall on rockets falls. Dare un senso
compiuto a questo disco sarebbe superfluo e riduttivo, così come
futile e banale apparirebbe cercare di raccontare la struttura delle tracce. Il consiglio più
spassionato è quello di ascoltare l’intera discografia dei Godspeed You! Black Emperor
così da potersi avvicinare più serenamente a Yanqui U.X.O., orecchie permettendo. Si
tratta dunque di musica ecologista, relazionale, di intervento sociale, antagonista? O è
semplicemente uno smodato ammasso di suoni casuali? All’ascoltatore profano l’ardua
sentenza su arte e artigianato, genialità e talento. Io, la mia risposta, ce l’ho.
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Tiga Sexor
(19/04/08)
Tantissimi remix, tante collaborazioni, alcune compilation e un solo
disco, Sexor. Tiga è un producer tuttofare, si destreggia bene fra
l’elettronica da ballo e quella seriosa, tra la nouvelle vague
rockettara e l’inclinazione poppettosa. Sexor è tutto questo. Si
comincia col synth pop danzereccio di (Far from) Home, quindi si
va alla electro house di You gonna want me; dopo l’electroclash di
High school riecco un gran pezzo, Louder than a bomb, traccia
perfetta per il dancefloor. Il minimalismo è invece la parola d’ordine
di Pleasure from the bass, la ricerca quella di Who’s that?, ma
finalmente arrivano i lenti con Down in it e The ballad of Sexor (in stile Depeche Mode).
L’ultima parte del disco, quella di Good as gold, Burning down the house, 3 weeks e
Brothers, è un elogio continuo alle tendenze dance, house, minimal e pop presenti nelle
discoteche di mezzo mondo. Sexor è un disco che piacerà tantissimo ai popoli dell’Europa
settentrionale, meno a quelli del sud. Difatti il mio giudizio è in bilico tra la stucchevolezza
della moda e il talento sempre più raro di saper far ballare, convincendo.
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The Dave Brubeck Quartet Dave digs Disney
(20/04/08)
Dave Brubeck è un grandissimo pianista e, col suo quartetto (che
comprende l’immenso Paul Desmond), ha scritto pagine storiche
del jazz. Per Columbia ha licenziato parecchi lavori e Dave digs
Disney è uno dei più emblematici e particolari. L’ispirazione per
questo album gli è venuta durante un viaggio, al seguito della
famiglia, a Disneyland; l’intento è stato subito quello di riscoprire
l’infante che abita stabilmente dentro tutti noi. Infatti Dave digs
Disney è un lavoro di jazz divertente, solare, bambinesco, mai
lezioso, provocatorio o ermetico; è un lavoro che si può ascoltare
tranquillamente con i propri figli, senza obbligarli ad una noiosa lezione di jam session.
Alice in Wonderland, Give a little whistle, Heigh-ho, When you wish upon a star, Some day
my prince will come, One song e due inediti come Very good advice e So this is love fanno
di questo disco un rarissimo esempio di trasversalità generazionale. Un disco che può
piacere alla terza età, alla gioventù, addirittura all’infanzia: l’importante è possedere quel
minimo di sensibilità che rende umano un essere umano.
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Disciplinatha A raccolta
(21/04/08)
Il punk non mi piace. Non mi piace che la musica debba essere
una risposta alla politica, alla società, alla civiltà, che debba esser
asservita a questo o a quel potere. Ma nel punk dei Disciplinatha
c’è qualcosa di più che nessuno al mondo aveva mai utilizzato così
sfacciatamente, la fascinazione verso l’immaginario littorio,
espressa con un senso di sublime degno addirittura delle correnti
estetiche del XIX secolo. Il brano simbolo è Addis Abeba che, al
grido di: «A noi, a noi», campiona persino lo storico discorso del
Duce sulla gloriosa campagna di guerra in Etiopia ed Eritrea. A
raccolta contiene i due primi EP (Abbiamo pazientato 40 anni. Ora basta! e Crisi di valori)
più alcune gemme live della band emiliana. Lo zampino dei C.S.I. è chiaro, ma poco
chiara rimane la critica dei Disciplinatha al fascismo; non è ovvero svelata la loro
appartenenza alle frange staliniste (ammaliate dal fascio italiano) o alle marginalità
fascistoidi della destra extraparlamentare. Se ascolto Nazioni, Crisi di valori, Leopoli,
Retorika, Attacco dal cielo o Milizia non posso che ammirarli, senza se e senza ma.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Joy Division Unknown pleasures
(22/04/08)
Prima dei New Order c’erano i Joy Division, due soli album ma
tanta leggenda. La prima new wave, quella di fine anni ’70, è
storicizzata attraverso Unknown pleasures dei Joy Division:
possiamo dire che da qui parte la musica glam degli anni ‘80, la
deriva pop di fine decennio, l’exploit dell’elettronica popolare. Il
disco d’esordio è perciò unico, tanto bello quanto intrigante.
Shadowplay o Day of the lords, in bilico fra The Cure e Devo, sono
tra le migliori composizioni della band di Ian Curtis; magnifiche
sono pure New dawn fades, Disorder e She’s lost controls. I miti da
sfatare sui Joy Division sono tanti ma è questo, purtroppo, il destino cui incorrono i progetti
musicali che prima fanno storia e poi scompaiono per uno scoop giornalistico su morti
tanto eclatanti da far pensare che la morte sia una notizia sempre e comunque (penso ai
Nirvana e Kurt Cobain, ai Queen e Freddie Mercury, ai Beatles e John Lennon),
specialemente quando si parla di suicidio, omicidio, AIDS od overdose. I Joy Division
restano uno dei principali capitoli della new wave internazionale. Punto e basta.
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Eluvium Talk amongst the trees
(23/04/08)
Ormai sono in tanti a darsi alle produzioni ambient e, per renderle
più appetibili, le condiscono con post rock ed elettronica. L’ambient
ha stancato. E gli Eluvium pure. Fatto sta che Talk amongst the
trees, se fosse il primo disco del suo genere, sarebbe un
capolavoro, e invece è uno dei tanti anonimi lavori europei che
cercano un intellettualismo concettuale che non arriva mai al
nocciolo. Lo ripeto: in sé e per sé questo album è molto bello; New
animals from the air è saggiamente suonata al contrario, Show us
our homes è pesantemente oscura, Everything to come è riposante
ed evocativa, la lunghissima Taken ci spinge sul dondolo del tempo, One è nostalgica e
disperata. Ma gli Eluvium faticano però a distaccarsi dal resto della musica underground,
non riuscendo a creare un linguaggio personale, lasciandolo piuttosto in balia degli
stereotipi sperimentali dei Sigur Rós. I filtri applicati ai suoni originali rientrano tutti nella
convenzione elettronica di oggi, tranne forse per le incursioni pianistiche, quelle sì
oltremodo originali. Sono comunque certo che la copertina sia senz’altro un capolavoro.
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(24/04/08)
Cerrone Back track
France mon amour! Tra Serge Gainsbourg e i Daft Punk, tra
Johnny Hallyday e gli AIR, tra Charles Aznavour e Bob Sinclar c’è
Cerrone, gran maestro venerabile per tutta la disco music prodotta
sul globo terracqueo (nota a piè di pagina che rimanda al nostro
guru Giorgio Moroder). Back track (1982) è l’ottavo album - su una
discografia che ne conta venti - del producer parigino nel quale il
groove occupa il posto più importante di sempre. La prima facciata
del 33 giri è pressoché perfetta: sono irresistibili Back track, Trippin
on the Moon, Strollin on Sunday e Rendez-vous. Sul B-side JeanMarc Cerrone è coadiuvato da Nanette Workman in pezzi memorabili come Anybody can
do anything, Stop on by e Supernature (in una versione stravolta, diversissima
dall’originale del 1977). Beato chi ha potuto vivere quella primavera musicale in modo
completo e passionale, un’epoca in cui gli strobo erano dei dischi volanti, la moda una
superbia estetica, la disco music una rivoluzione, un’epoca di alta energia giovanile che si
ritrova nei film, nei libri, nei quadri, nei dischi, nei vestiti, nei ricordi di quelli.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Snoop Dogg Ego trippin
(25/04/08)
Mi piace la gente che sa fare i soldi sulla merda degli altri (alla
Paris Hilton, per intenderci) ed il gran buon vecchio Snoop Dogg è
uno di questi, uno che sa creare le mode e le tendenze, giocando
sulla superficialità degli altri, che si sa amministrare sia a livello
artistico che promozionale, in ambito musicale come in ambito
cinematografico. Ego trippin è, all’uopo, la sintesi di tutto questo, un
album pieno di citazioni pop(olari), profezie autoavverantesi,
collaborazioni di grosso calibro. È un album che trova in Sexual
eruption (edulcorata in Sensual seduction, per bigotti motivi di buon
costume) la sintesi più riuscita della poetica di questo colosso del rap americano. Il video
del brano è meraviglioso, in stile ’70-’80, con quel tocco di talkbox che fa tanto old school.
Carine anche Waste of time, Gangsta like me, Whateva u do e Neva have 2 worry, ma la
cosa più avvolgente è lo stile di Snoop Dogg che riesce ad essere al contempo elegante e
volgare, pacchiano e raffinato, nobile e plebeo, un macellaio arricchito. Adoro tutta la sua
schifosa americanità così come l’immorale italianità di Fabrizio Corona.
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MGMT Oracular spectacular
(26/04/08)
Succede a tutti che al primo ascolto un certo prodotto musicale
possa apparire noioso, poco originale, quasi patetico; a me è
successo con Oracular spectacular degli MGMT, il cui giudizio nei
loro confronti è cambiato sensibilmente nelle corso delle settimane.
Sono tuttora convinto che non sarà certamente questo il disco del
2008, né questo lavoro potrà in qualche modo dar luogo a
stravolgimenti degni di nota nel mondo della musica americana. La
mia opinione sugli MGMT è cambiata soprattutto dopo essermi
reso conto che la loro musica - sempre molto pregna ed eclettica è semplicemente bella. Mi piacciono parecchio Time to pretend, Weekend wars, Electric
feel, The handshake e Future reflections; mi divertono meno Pieces of what, 4th
dimensional transition e Of moons, birds & monsters. Diciamo che questa recensione, agli
MGMT e alla loro creatura artistica, gliela dovevo soprattutto alla luce del mio fin troppo
avventato errore di valutazione. Ecco perché faccio rewind ed affermo che Oracular
spectacular vale il prezzo del CD e anche qualcosina in più.
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Tabula Osca Inutile come le favole
(27/04/08)
I Tabula Osca (il nome deriva da un famoso reperto archeologico
trovato in Alto Molise, appartenente alle genti sannitiche osche)
nascono ad Agnone, in provincia di Isernia, nell’inverno del 2004
con lo scopo di musicare alcuni testi dello scrittore Andrea
Cacciavillani, ancora oggi paroliere della band, nonché poeta
ufficiale del network Radio KissKiss. Arricchito da un’intensa
produzione artistica, il progetto prende forma, grazie anche al
fondamentale innesto, nei primi mesi del 2005, di un nuovo
batterista e di una chitarra solista: con la formazione al completo,
immutata da allora, i Tabula Osca hanno trovato il giusto equilibrio musicale, arrivando a
comporre Inutile come le favole, disco pop/rock dal forte richiamo cantautorale. I pezzi del
disco si ascoltano con molto piacere, soprattutto Luna Venere, Avere un destino, Il fondo
del cielo e la title track Inutile come le favole. L’immaginario che caratterizza questa band
dell’underground è quello dell’amore, della disperazione, della natura, che ha nella voce di
Gabriele La Gamba e nelle tastiere di Raffaele Di Menna il suo punto forte.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Flavio Giurato Il manuale del cantautore
(28/04/08)
Flavio Giurato è un cantautore eccelso, geniale, militante,
bravissimo. La prima stampa de Il manuale del cantautore è del
2002, la seconda del 2007 con una manciata di brani in più.
Tralasciando la storia personale di Giurato, intendo andare subito
al nocciolo. Silvia Baraldini è una struggente ballata scritta per la
condannata in contumacia, Ustica riporta alla mente con parole
limpide il tragico episodio italiano stranamente insabbiato dalla
democrazia, Centocelle scherza (ma non troppo) sul famoso
quartiere romano, Il caso Nesta ironizza (stavolta sì) sui calciatori
del nostro campionato, La Giulia bianca piange sugli spettacolari funerali di Pier Paolo
Pasolini e di Palmiro Togliatti (quest’ultimo - ahimé - adorato ancor’oggi da molti storici e
politici), Praga regala una carezza ad una città tra le più belle del mondo; meravigliose in
egual modo L’ufficialino, Mi-Lang, La tentazione e I dinosauri. L’unico neo che macchia
questo capolavoro, a mio avviso, è forse Core addannato, cantata in un napoletano troppo
incerto e innaturale per essere napoletano. Un disco che è una chicca.
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David Bowie Hunky dory
(29/04/08)
Hunky dory è una sorta di manifesto musicale e una summa delle
doti di interprete e compositore di David Bowie. La prima parte del
disco - rispettando l’originale partizione del vinile - è votata a una
sorta di classicismo che trova naturale espressione nella ballata,
con arrangiamenti ricchi, perlopiù basati sul pianoforte, a
impreziosire una scrittura di per sé impeccabile. Almeno tre
canzoni sono considerate tuttora dei must del catalogo bowiano: si
inizia con Changes, fortunatissimo brano pop dal ritornello
indimenticabile, da sempre considerato un inno al trasformismo,
ma in realtà riflessione agrodolce sui cambiamenti critici della vita; la hit Oh! You pretty
things, sotto una veste musicale disincantata, nasconde un testo dagli oscuri riferimenti
nietzschiani; infine, dopo l’interludio per soli piano e chitarra di Eight line poem, ecco Life
on Mars?, il classico dei classici. Musicalmente il disco è un capolavoro del glam,
caratterizzato da arrangiamenti orchestrali che manifestano grandeur a ogni nota e da
un’interpretazione vocale leziosa e manualistica. Bowie non smetterà più di cambiare.
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(30/04/08)
The Whitest Boy Alive Dreams
Adoro in modo viscerale il timbro vocale puro ed avvolgente di
Erlend Øye che, nel suo ultimo progetto The Whitest Boy Alive, si
scopre uomo dalle grandi capacità di mediazione e compattezza.
Dreams è sinora l’unico album di questa bella band (tra l’altro è
stato prodotto in Italia) e contiene parecchie hit degne del massimo
rispetto, su tutte Burning, Inflation e Golden cage (il cui videoclip è
stupendo); meritano altresì lo stesso rispetto il percussivismo di
Above you, il rock’n’roll di Fireworks, la ballata Done with you,
l’ambientalismo di Don’t give up, il triste divertimento di Figures, la
malinconia di Borders e la lentezza monolitica di All ears. Una strumentazione abbastanza
convenzionale come quella del basso + batteria + chitarra, centellinata in maniera esperta
con un mix di certa elettronica soft, rende questo disco un vero e proprio gioiellino degli
ultimi anni. Se ce ne fosse ancora bisogno, Dreams è la prova che il giovane Erlend è
capace di sondare caparbiamente tutti i territori della musica popolare. Adesso però lo
rivogliamo in formazione ufficiale coi Kings Of Convenience.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Hobbit Per la contea!
(01/05/08)
Mi ha sempre dato un fastidio tremendo l’accostamento tra
fascismo storico e tradizione celtica, come se il movimento politico
tutto italiano avesse in qualche modo attinto a fonti straniere per
costruire il suo immaginario irrazionale. Le basi del fascismo sono
una perfetta sintesi di pragmatismo e propaganda, opportunismo e
ideologia, tradizione e futurismo. Gli Hobbit sono uno di quei gruppi
legati alla destra extraparlamentare che però prediligono le favole
alla realtà. Per la contea! è di sicuro il loro miglior disco, soprattutto
per via dell’ottima qualità del mixaggio, e certamente contiene
discrete canzoni, se viste nell’ottica della musica alternativa (penso a Radio 25 aprile,
Vecchio continente, S.A.F., Donna alla moda e Vento tra i capelli). Un discorso a parte lo
meriterebbe la bellissima Via Rasella, luogo della strage partigiana che ha (in)direttamente
causato l’eccidio delle Fosse Ardeatine: terroristi gappisti che si sono visti riconoscere in
era repubblicana le migliori medaglie d’onore. La storia non ha ancora ragionato a freddo
su quei fatti e gli Hobbit ci aiutano a ricordare meglio. Bravi ma un po’ patetici.
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Richard Hawley Coles corner
(02/05/08)
Un bravissimo musicista e un gusto tutto suo per la malinconia e
per i luoghi degli innamorati fanno di Coles corner il più grande
lavoro discografico di Richard Hawley, che fin dalla title track offre
tutto il suo splendore romantico e decadente. E già la seconda
traccia conferma il talento un po’ country un po’ jazz, un po’ rock un
po’ pop di questo grande chitarrista (Just like the rain); molto belle
sono anche Hotel room, The ocean, Born under a bad sign e Who’s
gonna shoe your pretty little feet?. Si potrebbe quasi dire che la
musica abbia salvato la vita a Richard Hawley (vista la finaccia che
stava per fare, tra droga e alcol) e, bene o male, i risultati di cotanto spirito di
rinnovamento sono importanti e visibili; Coles corner è infatti un disco molto umile, nel
quale l’autore non appare mai più del dovuto ed è bravissmo a interpretare un intero LP
senza che l’ascoltatore senta il desiderio di skippare le tracce. Col senno del poi si può
anche azzardare una domanda provocatoria: come è possibile che nessuno mai (tranne
qualche band lungimirante) si sia accorto del talento nascosto di questo non più giovane?
•
(03/05/08)
Señor Coconut El baile alemán
I Kraftwerk devono sicuramente possedere un caratterino per
niente facile: egocentrici, arroganti, superbi e - perché no? antipatici (prova ne sia il fresco litigio con Wolfgang Flür dopo la
pubblicazione del libro Kraftwerk. Io ero un robot, Shake 2004).
Furono loro, nelle persone di Hütter e Schneider, a boicottare la
pubblicazione sul vecchio continente di questo favoloso disco di
Señor Coconut e della sua orchestrina sudamericana. El baile
alemán infatti è un album di cover della band tedesca interamente
performato con strumenti latino-americani che - terribile
profanazione! - dà ad ogni traccia un’unica impronta di merengue, cha cha cha, salsa,
cumba e via dicendo. I Kraftwerk ovviamente non hanno gradito l’utilizzo di strumentazioni
così antiquate per le loro opere d’arte ma è pur vero che un po’ di umiltà artistica non
guasterebbe (ferma restando la mia totale deferenza verso di loro). Diviene quindi
obbligatorio ascoltare questo disco, soprattutto nei suoi apici strumentali quali Showroom
dummies, Autobahn, Home computer, Tour de France e Neon lights. Magnifiche.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Balanescu Quartet Possessed
(04/05/08)
Un altro disco di cover kraftwerkiane è quello del Balanescu
Quartet, capitanato dal gran buon vecchio Alexander Balanescu. In
realtà le cover occupano metà CD e sono, nell’ordine, The robots,
The model, Autobahn, Computer love e Pocket calculator, tutte di
grandissima qualità. L’utilizzo di una piccola orchestra classica (con
violino, viola, violoncello, contrabbasso e percussioni) rende queste
tracce dei must della tradizione musicale europea. Sembrano infatti
uscire dagli spartiti autografi di Wagner o Mahler, per via della loro
fragorosa interpretazione classica possente, magnificente,
dirompente. Le altre tracce, meno importanti, sono Possessed, Want me, No time before
time e Hanging upside-down. Su questo disco i Kraftwerk non hanno avuto molto da ridire,
forse per via dell’autorevolezza di cui gode Balanescu o forse per l’eccentrica e splendida
nuova visione che egli ha scoperto. Possessed è forse il cover album che più si addice e si
avvicina alla matrice conservatoristica e accademica dei robot di Düsseldorf, ovviamente
prima che intraprendessero la strada della grandeur.
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Terre Thaemlitz Die Roboter rubato
(05/05/08)
Un ultimo grande disco di reintrepetazioni dei Kraftwerk è quello di
Terre Thaemlitz, Die Roboter rubato, unicamente scritto per
pianoforte. L’utilizzo di un solo strumento, di certo così versatile, ha
consentito di rivedere quei brani in un’ottica diametralmente
opposta all’originale. Infatti, ascoltati di getto, i pezzi non hanno
quasi nulla a che fare con quelli dei Kraftwerk; le varie linee
melodiche sono state storpiate (in senso positivo) da Thaemlitz
tanto da dare l’impressione che siano brani a sé stanti, lontani e
diversissimi. La tracklist prevede, oltre alle ovvie Die Roboter, Tour
de France, Computerwelt, Die Mensch-Maschine e Schaufensterpuppen, eccezionali rarità
come Ätherwellen, Ruckzuck, Radioland, Techno pop e Morganspaziergang (che
personalmente trovo deliziosa in entrambe le versioni). Notevole anche la dicotomia che si
viene a creare fra il serio classicismo dei brani proposti e i divertenti fotomontaggi che
costellano il booklet del disco in cui vediamo locandine, copertine e foto dei Kraftwerk
stravolte a tal punto da farci crepare dalle risate. Disco introvabile da trovare.
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Luca Ricatti Suoni di lentezza
(06/05/08)
Luca Ricatti (in arte Bottegasonora) afferma che il suo Suoni di
lentezza sia ispirato al recupero della dimensione del tempo
naturale, ormai scomparsa dal vivere quotidiano della realtà
urbanizzata. Ecco perché questo disco, scritto per chitarra e onde
sonore come installazione sonora all’interno di un’esperienza
multisensoriale romana (I codici segreti dell’olfatto, 2007) è un
bellissimo viaggio negli anfratti più reconditi della percezione
umana, spesso tracimante al di là dei convenzionali cinque sensi. I
suoni si fanno rarefatti - le cui frequenze sonore spesso si
avvicinano a quelle cerebrali - ma rimangono flessibili sia per la pace dell’orecchio umano
sia come ideale arredamento ambientale. Basti pensare a pezzi come Il cielo sulla valle,
La valle sotto il cielo od a Cerchi concentrici per capire l’intento artistico di Ricatti, mirante
a pacificare l’ormai logora collocazione dell’uomo col proprio contesto originario: la natura.
Una natura qui esaltata, indagata, esplicata eppure mai manipolata o violentata. In
copertina troviamo una famosissima opera land art di Robert Smithson.
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Marta Sui Tubi Muscoli e dei
(07/05/08)
I siciliani Marta Sui Tubi propongono uno stile del tutto particolare,
fatto di poesia ermetica e di melodie avvolgenti adagiate su
ricercati fraseggi di chitarra e ritmi di batteria di estrazione
jazzistica. Una soffusa componente folk fa capolino in ogni brano
(come ne Il giorno del mio compleanno), dimostrando che non
dimenticano le radici della propria terra, e che da queste radici si
sviluppa un albero singolare pieno di foglie e frutti diversi che
assumono la forma delle sensazioni, come nella dissacrante Post.
Parecchi accorgimenti stilistici si affacciano tra le tracce,
conferendo un senso di ricercatezza ad uno stile già di per sé singolare, che arriva a
simulare una partita di tennis con l’uso delle sole voci e chitarra nel brano Volè. L’ironia dei
testi si fonde con il surreale, come nel brano Sole; l’anima politicamente scorretta e
rabbiosa esce nel brano Stitichezza cronica, esplodendo in una prorompente cascata di
parole, mentre la dolcezza della poesia diventa pirotecnia nei brani Stento e Le cose
cambiano. Ogni canzone è uno scrigno di emozioni contraddittorie, di forti emozioni.
•
D.D.T. Dodicesima Disposizione Transitoria …Skaglia!!!
(08/05/08)
Grande il progetto unitario dei D.D.T.! Questa band milanese deve
il proprio nome alla dodicesima disposizione transitoria della
Costituzione italiana che prevede il divieto di rifondare un partito
fascista. Grazie a Dio non è però illecito cantare le gesta e l’onore
dei fascisti, tanto che i D.D.T. nel loro unico vero studio album
…Skaglia!!! propongono un sound vicino a quello dei 270 Bis e
degli A.D.L. 122 (tutti acronimi di norme vergognose) con testi
egualmente impegnati e audaci. La via battuta da Marcello De
Angelis è chiara in Né guardia… né ladro, in Marietto, in Fuoco di
samurai, ne La savoiarda, in Guerrigliera, ma soprattutto in Mi sento strano, vero e proprio
capolavoro dell’ambiente underground neofascista. Scegliere tra l’amore per una donna e
l’amore per il Duce non è cosa facile: dopotutto la rivoluzione richiede sempre
concentrazione, inflessibilità, impegno ed azione. I Dodicesima Disposizione Transitoria mi
piacciono perché sono fieri di fare il saluto romano, senza mai vergognarsi di essere una
minoranza di vinti, di nostalgici, di oppressi, di violenti, di temerari. L’importante è osare.
•
(09/05/08)
Atari Sexy games for happy families
Gli alternativi più indie (?) hanno storto il naso di brutto dopo la
pubblicazione di questo disco, vedendo in esso un esclusivo scopo
commerciale. Sinceramente non riesco a capire come un prodotto
chiptune possa venir definito commerciale, prova ne siano gli
umilianti dati di vendita. A questi crociati dell’underground che
preferiscono le cantine maleodoranti dove quattro ragazzini fanno
finta di suonare il rock sudando e fumando marijuana, dico solo che
la musica è fatta di suoni e non di note. Sexy games for happy
families degli italiani Atari è sicuramente un prodotto poco
ambizioso: il suo unico fine è quello di divertire con metodi originali come quello della
musica a 8 bit (un fenomeno che, tra l’altro, ha già stancato). Al di là dell’intro Atari boy,
sono molto carine Poisoned apple pie, Platform ambulance, I can’t stop biting my nails e
Museum supermarket; meno accattivanti 8 bit love, Cyber candy e Have you played Atari
today? (con relativa ghost track). Insomma, Sexy games for happy families si ascolta d’un
fiato ma è impensabile che diventi un disco da inserire in playlist.
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Jayfield Orchestra The future is here
(10/05/08)
Potremmo definire questo prodotto, in tutta l’accezione economica
del termine, dozzinale. Questo brutto disco, interamente in general
midi, è la prova che la musica sta diventando merce da
supermercato (sia benedetto Jean Michel Jarre e il suo
esperimento critico!), una merce da vendere tot al chilogrammo,
anzi tot al minuto. La SIAE prima, i discografici speculatori poi,
quindi gli artisti senza idee, hanno trasformato la musica
d’intrattenimento in una sorta di pegno per retribuzioni e dividendi.
La virtuale Jayfield Orchestra - alle cui spalle c’è il grande, ahimé,
Damele - propone un discaccio che è meglio non ascoltare. Rock moderato? Lento?
Bossa nova? Samba? Swing? In teoria c’è tutto, in pratica non c’è nulla. Stupidissimi
persino i titoli: Simply the best, Love one another, The future is here, Yes Brazil, The best
motive, I’ll remember Liza eccetera eccetera. Mi dispiace solo che Damele debba
sottoporsi a tali degradanti missioni; preferisco ricordarlo come autore dei primi successi
de Le Orme o di altre realtà italiane di poca fama e tanto talento come i Ruthuards.
•
Bloc Party Silent alarm
(11/05/08)
Alla prima prova, i Bloc Party fecero subito una buonissima
impressione. L’album in questione era Silent alarm e il successo fu
rapido e immediato, merito di un’azzeccata fusione di rock,
elettronica e mood moderno. Quella voce alla David Byrne e quelle
musiche alla Interpol fanno di questo Silent alarm un ottimo esordio
discografico, ben rappresentato dall’incedere di Like eating glass; il
basso di Positive tension, alternato alle batterie in controtempo,
rendono ancor più appetibile l’ascolto; danzereccia è invece
Banquet, sfacciatamente new wave la successiva Blue light;
muscolosa She’s hearing voices; gustose anche This modern love (un piccolo
capolavoro), Price of gas (quant’è vero!) e So here we are (altro piccolo capolavoro). Agli
occhi di molti i Bloc Party non si sono saputi riconfermare, o rinnovare, con l’ultimo A
weekend in the city; penso piuttosto che il secondo album sia quasi sempre fonte di
critiche e lamentele piuttosto che di lodi ed elogi perché, purtroppo, risponde a logiche
figlie di una cultura delle aspettative autoavverantesi tipica dell’odierna critica musicale.
•
Fabio Albanese Sternocleidomastoideo (le proprietà del pomodoro)
(12/05/08)
Questo è un disco lontano da ciò che avete intorno, nel senso che
non ha nulla a che fare con lo stress che quotidianamente
attanaglia le vostre menti, e con esse, le orecchie. Fabio Albanese,
musicista
pugliese,
centra
in
pieno
l’obiettivo
con
Sternocleidomastoideo (le proprietà del pomodoro), un obiettivo
fatto di distensione, riflessione, intimità, ma anche di riscoperta del
mondo circostante, restituendogli il ruolo di protagonista. Echi
drone, strutture post rock, assoli sperimentali: tutto concorre a
rendere delizioso questo disco, sia dal punto di vista della pulizia e
qualità del suono, sia in ambito prettamente artistico. I pezzi da segnalare non possono
che essere la commovente …E fuori piove, la cadenzata Trees, la ciclica Le cliquer
arrogant de Monsieur Morbier (ne esiste un video), la futurista Petali (ricorda a tratti gli
Esempi sonori di Luigi Russolo), la lunghissima e bellissima Winter in Berlin e la
cinematografica Arbres des nuages sur moi (scelta come colonna sonora per il corto
Farida di Natascia Abbattista). Cosa aggiungere? Assaporate il disco e godetevelo.
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Sonny Rollins Sonny boy
(13/05/08)
Il periodo di massima fioritura del sound del dopo-Chicago di
Sonny Rollins giunge all’apice con Sonny boy, un disco di jazz
irrimediabilmente insuperabile. Il sax tenore di Rollins è coadiuvato
dalla tromba di Kenny Dorham, mentre la sezione ritmica è
delegata a George Morrow al basso e Max Roach alla batteria; il
pianoforte, infine, è condiviso da Kenny Drew e Wade Legge. Il
jazz del Sonny Rollins di metà anni ’50 è madido d’introspezione e
ricerca personale, senza regalare quasi nulla all’immaginazione
dell’ascoltatore; la ricerca diventa quindi il filo conduttore di Sonny
boy, passando per Ee-ah, B. Quick e B. Swift. Meravigliosa poi la particolarissima The
house I live in, evidentemente un’interpretazione dei ricordi d’infanzia di un Rollins in piena
forma virtuosistica. L’accuratezza degli accordi, così come la professionalità della
riproduzione, rendono questo LP un gioiellino con pochi pari nella storia del jazz. La mia
sarà forse una sopravvalutazione ma picchi così alti li ho trovati solo in Miles Davis o in
Paul Desmond. Viva il down beat, viva Sonny Rollins, viva il jazz!
•
Phoenix Alphabetical
(14/05/08)
I Phoenix hanno beneficiato di quel boom della musica francese
dovuto in larga parte a mostri sacri come Daft Punk e AIR, e a tutto
il french touch in generale. Questa band electro rock non è però da
meno, in quanto a talento e originalità. La seconda prova di studio
si intitola Alphabetical e anticipa - non del tutto - quella nouvelle
vague fatta di disco e rock, di electro e pop (gli LCD Soundsystem
vi dicono qualcosa?). il disco in questione si ascolta quindi con
grande gusto, soprattutto nei pezzi migliori quali Everything is
everything, Run run run, (You can’t blame it on) Anybody, Victim of
the crime e Holdin’ on together. Dei Phoenix apprezzo anche il disco d’esordio United e
l’ultimo It’s never been like that, anche se quest’ultimo mi è parso un eccessivo snaturare
le proprie linee guida musicali. In fin dei conti è lecito affermare che i Phoenix hanno il
pregio di esser stati una band anomala nel mercato francese, oramai inflazionato da
elettronica (buona parte della quale di altissimo livello) e house music, in un’epoca in cui le
chitarre e le batterie si avviano verso l’inesorabile ma giusto declino.
•
The Niro The Niro
(15/05/08)
Il disco eponimo di The Niro, giovane polistrumentista e cantautore
romano, è uno di quei casi in cui le premesse si rivelano superficiali
e scontate, soprattutto nel mio caso, divenuto “caso” dopo aver
utilizzato la figura dello stesso The Niro per criticare il sistema dei
finanziamenti di Qoob TV. Tralasciando in questa sede le critiche
ad un sistema a parer mio malato di esterofilia e profitto,
mascherato da talent scout del sottobosco underground, devo
dunque ammettere che questo fresco lavoro è indubbiamente di
altissimo livello, prova ne siano le grondanti critiche entusiastiche
che ha ricevuto presso le genti d’America. Liar, About love and indifference, An ordinary
man, Just for a bit e Hollywood suonano talmente bene da sembrare esser state prodotte
proprio oltreoceano. Quello che però ho da biasimare è la mancanza di un’effettiva svolta
rivoluzionaria, rispetto alle lodi che questo disco s’è procacciato altrove. Se n’è parlato
così bene che The Niro sembrava dover essere l’artista del definitivo ed onorevole
sdoganamento della musica italiana. E invece è solo un ottimo prodotto, già sentito.
189
Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
•
190
Meg Psychodelice
(16/05/08)
Stolti coloro che buttano fango su Meg, la migliore voce femminile
d’Italia. L’ultima sua creatura è Psychodelice, decisamente
superiore al primo eponimo, anche per via di un’elettronica - in
parte merito di Stefano Fontana - perfettamente congeniale al
timbro vocale dell’ex maschiaccio di casa 99 Posse. Si parte col
fucsia di Distante ed è già ritmo sfrenato, ma saranno almeno le
seguenti È troppo facile, Succhio luce e Napoli città aperta a darci il
metro di questo meraviglioso disco; non vi sono scollature di sorta
fra le liriche italiane e quelle inglesi, così come non ve ne sono in
generale fra musica e testo. La città di Napoli, amata/odiata come non mai, l’ispirazione
artistica sempre come unica musa, l’amore cantato in mille salse, il suono dell’Akai spesso
in evidenza… ed ecco quindi Pandora, Impossibile trasmissione, Laptop love o Promises;
sarà che adoro le donne che parlano con forte accento partenopeo, sarà che mi piace la
maturità artistica, sarà che amo Meg da sempre, fatto sta che Psychodelice è uno dei
pochi capolavori dell’elettronica pop italiana.
•
Lightspeed Champion Falling off the Lavender Bridge
(17/05/08)
Nulla più di un ennesimo buon disco l’esordio di Lightspeed
Champion. Musica bianca fatta da un negro senza alcuna
ambizione verso l’originalità, la sperimentazione, la novità,
l’anticonformismo. Certamente, Falling off the Lavender Bridge
piacerà tanto a coloro che credono la musica americana superiore
a qualsiasi altra tradizione; proprio per questo motivo non posso
permettermi di affermare che Galaxy of the lost, Everyone I know is
listening to crunk, Let the bitches die o Tell me what it’s worth siano
delle modeste ballatine per cuori solitari, certo piene di ironia, ma
anche di banalità. Nel complesso, fingendo quell’ammirazione per country e rock che non
ho mai nutrito, dico invece che questo album è molto piacevole, ben suonato e ben
interpretato. Non posso invece star zitto oltremodo sul terroristico investimento che si fa su
nomi del genere, come se la musica del mondo occidentale si riduca semplicemente a
canzonette buone da spremere nelle orecchie dell’ascoltatore cretino al fine di rimbambirlo
e spillargli soldi. Senza scrupoli di coscienza, senza amore per l’arte, senza intelligenza.
•
(18/05/08)
Vasco Rossi Nessun pericolo… per te
L’ultimo disco di quello che noi chiamamo Blasco è senza dubbio
Nessun pericolo… per te, ennesimo capolavoro del rocker di Zocca
ed ennesimo capolavoro del rock italiano. Un disco che è il bilancio
di una vita spesa a premere l’acceleratore, ma anche di una vita
che ha visto disperazioni e gioie senza fine. Questo è l’ultimo vero
disco di chi riempie gli stadi come pochissimi al mondo (e se fosse
nato in America sarebbe stato il più grande di sempre), questo è il
disco di chi ha vissuto la vita alla Steve McQueen (Un gran bel
film), di chi ha conosciuto tardi la paternità (Benvenuto), di chi si
crede l’ultimo degli ultimi (Io perderò), di chi s’è fatto le ossa con la cocaina e le puttane
(Nessun pericolo… per te), di chi non sopporta le discriminazioni (Mi si escludeva). E, al di
là della notissima Sally, in questo album si può ascoltare Gli angeli, una canzone che per
noi provinciali che fumiamo Lucky Strike solo perché le fuma Vasco, che piangiamo come
bambini su Vita spericolata, che ingurgitiamo whisky per dimenticare le nostre bassezze,
una canzone che è il nostro universo. Siamo solo noi.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Franco Battiato Caffè de la Paix
(19/05/08)
Uno dei dischi più mistici e sacri di Franco Battiato è quello del
1993, Caffè de la Paix, un lavoro sulla reincarnazione, sulla pace,
sulla cultura millenaria, sulle minoranze disunite, sulle divinità in
convergenza. È spaventoso vedere come Battiato si destreggi con
lingue difficili e improbabili, come l’iracheno di Fogh in nakhal,
antica canzone popolare della Mesopotamia, o il rigoroso latino di
Delenda Carthago, slogan dei patrizi romani, slogan di eleganza e
mecenatismo. Su tutte le tracce splende la miracolosa umanità di
Atlantide, metafora di un mondo perfetto creato dall’uomo e
dall’uomo stesso distrutto per le sua pochezza fatta di invidia, avidità e potere. Gli altri
capolavori assoluti sono certamente Sui giardini della preesistenza (l’oboe di Roberto
Mazza è qui stupendo), la title track Caffè de la Paix e l’esoterica Lode all’Inviolato, vera e
propria prece alle forze superiori e invisibili per le quali tutti noi inconsapevolmente ci
adoperiamo. Ricerca sul terzo e Haiku rientrano invece nel Battiato classico di Genesi e
Messa arcaica, di quel Battiato non a caso pubblicato da Emi Classical. Unico.
•
Fabrizio De André Anime salve
(22/05/08)
Ed eccoci al maestro di tutti i maestri, al più grande cantautore del
mondo, Fabrizio De Andrè, e al suo incantevole testamento
artistico, Anime salve. Si comincia con le difficoltà di un ladyboy
brasiliano dolcemente chiamato dalla madre e da un avvocato di
Milano Princesa; si prosegue con le avversità degli zingari
Khorakhanè nelle loro kampine putride di piscio; al di là della title
track, forse troppo fossatiana, bisogna menzionare subito
Dolcenera, ballata di acqua e tradimenti, di calamità e sesso. Le
acciughe fanno il pallone è un consiglio dei pescatori genovesi ad
afferrare le occasioni nel momento in cui si presentano, Â cumba è una sorta di canto di
pace, Ho visto Nina volare è poi un ricordo dell’infanzia, nei ritratti di bambina e d’altalena.
Il capolavoro assoluto è forse Disamistade, storia di un amore avversato da due famiglie
schierate a pace per il bene degli amanti cosicché il dolore degli altri diviene dolore a
metà. Infine il vero testamento di Smisurata preghiera, un grido contro la democrazia
moderna che ci si offre sempre con la maschera di una dittatura della maggioranza.
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Mind Of Doll Low life heroes
(23/05/08)
Sono giovani, sono energici, sono bravi, sono ingenui. Terre che
possiedono un retroterra musicale poco elaborato partoriscono
spesso, per forza di cose, prodotti artistici così scarsi. I Mind Of
Doll, finlandesi, fanno un genere oramai stanco e disilluso, un
metal che non ha saputo aggiunger nulla alla normale sequenza di
accordi del rock convenzionale. Gli amanti del genere gradiranno
sicuramente la freschezza di Single malt, Marks on my face, Never
rising o di Sick girl sad case, ma gli audiofili non potranno che
restare indifferenti di fronte a Low life heroes in toto. Visa Heinonen
alla voce, Sakari Virta alla chitarra elettrica, Erik Lundèn al basso e Mikko Päivinen alla
batteria si trovano ora alla prima uscita ufficiale e, se non fosse per il pleonasmo del caso,
sarebbe anche un esordio più che discreto (in fondo, Lovers è davvero carina); il problema
rimane quello dell’ambizione di farsi strada in Europa con un progetto che è stato superato
da diversi lustri - ormai si può parlare di più di un decennio - e che, pensandoci bene, ha
inciso poco sulla vita musicale del nostro continente. Bravi ma non si applicano.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Stars Of The Lid & Jon McCafferty Per aspera ad astra
(24/05/08)
Low level (listening) e Anchor states sono i due pilastri portanti di
questo arditissimo progetto degli Stars Of The Lid. Se è vero che
solo attraverso la via più ardua si raggiunge il cielo, gli Stars Of The
Lid, di stelle, ne hanno visitate parecchie. Lamenti sonori più che
vere e proprie canzoni, gemiti elettronici e strumentali, lunghe suite
monocorde, flebili sussulti: questo l’approccio tecnico della band
belga alla musica. Tralasciando come al solito le etichette di post
rock, experimental, postcore, electronica o drone/ambient, posso
dire con certezza che l’uso dei violini è sicuramente geniale,
soprattutto nei raccordi enarmonici che spesso e volentieri spiazzano la posizione
dell’ascoltatore. Per aspera ad astra si presenta difatti come un disco dell’inconscio,
seppur lavorato rigorosamente con la mente ed il talento, un disco che sa amalgamare alla
perfezione gli elementi più ribelli e sconsiderati della tradizione artistica europea. La
recezione di tutte le premesse sperimentali messe in campo dal rock storico e
dall’elettronica d’élite è visibile ben oltre i quaranta minuti del disco. Da scoprire.
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Daniele Brusaschetto Poesia totale dei muscoli
(25/05/08)
Suono sporco, grezzo e gretto, quello di Daniele Brusaschetto,
artista famoso più sul web che nella realtà (la sua discografia è
completamente in free download). Poesia totale dei muscoli, terza
prova ufficiale, è un manabile sui sistemi sociali, sul punk, sulle
bassezze della vita quotidiana, sulle cose, in generale. A
cominciare dalla fragorosa Canzone per il disagio fino all’elettronica
Palla bianca con scritta rossa, dal post rock della title track fino alla
dolcezza nitida di Matilda e (4) Arancione, d’oro e marrone.
Peccato per l’impasto troppo lo-fi che non permette a nessun
assolo di esprimere la propria potenzialità, difetto sul quale facilmente sorvoliamo vista la
natura di autoproduzione. Si dovrebbe ancora una volta tirare le orecchie alla discografia
italiana, incapace, a mio modo di vedere, di valorizzare tanto talento occulto, talento che
deve quindi strisciare tra gli anfratti di un limbo dantesco, un limbo fatto di poca notorietà,
di troppa amatorialità e di mal celata ambizione. Daniele Brusaschetto forse sta
nell’underground per scelta eppure dovrebbe alla svelta uscire allo scoperto.
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Decibel Punk
(26/05/08)
Il punk italiano sta proprio in Punk dei Decibel, una delle prime
realtà di genere della nostra penisola, con un Enrico Ruggeri in
forma smagliante. E proprio perché questo è uno dei massimi
esempi di punk radiofonico italiano (abbastanza lontano dal trash di
Jo Squillo) che il giudizio non può che essere nettamente positivo;
in fondo sono anche molto interessanti le canzoni, prova ne siano
le invettive di Figli di…, il delirio generazionale tutto strumentale di
Paparock, l’elogio agli acidi di LSD flash e la tagliente ironia de Il
leader. Commento a parte quello che merita Superstar, sorta di
inno al contrario (con parecchi anni di anticipo) allo star system italiano, già allora pieno
zeppo di veline, aspiranti nullafacenti e figuranti dell’ultimo minuto. Sociologicamente
questo disco è la critica nichilista alla società borghese che, a cavallo fra i 70’s e gli 80’s,
ha conosciuto il suo massimo splendore in consumismo, perbenismo, moralismo e
paternalismo. I Decibel, senza Ruggeri, non saranno più gli stessi o, forse, miglioreranno
dal punto di vista della coerenza artistica. Non è compito mio giudicare.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Tying Tiffany Brain for breakfast
(27/05/08)
Al di sopra di Miss Violetta Beauregarde v’è un’altra grandissima
femmina che risponde al nome di Tying Tiffany, spesso ritratta a
seno nudo (e oltre) sul web o nei booklet dei suoi dischi. A
differenza della prima, Tying Tiffany è decisamente migliore, vuoi
per la cura del suono, vuoi per l’originalità delle tematiche. L’ultimo
disco di studio è Brain for breakfast e già dal titolo si comprende la
totale mancanza di neuroni; devianza che è evidente sin dalla
meravigliosa ed elettricissima Not a shame fino alla fragorosa I can
do it: frivolezze elettroniche e interferenze digitali. Fantastica la
successiva Download me, quasi fosse un invito a scaricarsi non tanto il disco quanto la
Tiffany stessa (magari!); divertente anche I’d rather bet on outsiders, elogio dei perdenti
nati; quindi bellissime Satellite e Unstoppable spanker; un’altra hit è sicuramente I wanna
be your MP3, quella in cui la Tiffany pretende di rimanere un sogno virtuale presso i suoi
ascoltatori. Superfluo spiegare Pazza, specie di punk elettronico, e interessanti anche le
ultime State of mind, Easy life, Hollywood hook e Slow motion.
•
Interpol Turn on the bright lights
(28/05/08)
Un colpo di fulmine è quello che mi rapì dopo l’ascolto del primo
disco degli Interpol Turn on the bright lights. Sezioni ritmiche
rigorose, non consone al math rock, chitarre mai sopra le righe ed
una voce talmente malinconica da bloccare quel magone, che tutti
abbiamo, in una zona indefinita dell’esofago. Untitled è una
sorpresa per le orecchie, così come NYC - su questa potrei
facilmente versare lacrime - e Say hello to the angels; Obstacle 1 e
Obstacle 2 mi ricordano invece tutta un’onorevole tradizione
musicale anglofona (gli Smiths di Meat is murder su tutti); la
sincope provocata da PDA o da Stella was a diver and she was always down è simile
all’emozione che si prova durante una notte di sesso sfrenato, così come la dolcezza
emanata da Hands away e The new è il ritratto del mondo delle coccole dei preliminari.
Non v’è però tutto questo romanticismo nella realtà dell’album, eppure la sua grandezza
sta proprio nella libertà d’interpretazione che l’ascoltatore può prendersi sulle note di una
musica così eccellente. Lunga vita agli Interpol e alle loro creature da sogno.
•
CapaRezza ?!
(29/05/08)
Le rime sono spesso all’altezza del nome ma non sempre
rispondono a requisiti di anticonformismo, profondità e
ricercatezza. Il primo disco di CapaRezza è conosciuto come ?!, un
CapaRezza che aveva già abiurato il suo vecchio nomignolo da
fumetto. L’hip hop si miscela col rock, specialmente in Mea culpa e
Ti clonerò, mentre incalza di tempo e potenza con Tutto ciò che
c’è, Il conflitto e Fuck the violenza. L’anima di CapaRezza è però
quella che si abbandona al vizio dell’elettronica rude e cupa come
nella hit dell’album La fitta sassaiola dell’ingiuria, conosciuta dai più
per via del sapiente sample di Confessioni di un malandrino di Angelo Branduardi (la
somiglianza delle capigliature è sintomatica): il senso originale del campione, legato alla
consapevole marginalizzazione dell’artista, è qui ripreso con toni più ironici per esplicare
una certa inclinazione all’antagonismo verso i sistemi sociali acquisiti. Il resto del disco,
tranne la geniale Chi cazzo me lo, è figlio di un’immaturità autorale che arriverà di lì a poco
con il riuscitissimo Verità supposte.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Franz Ferdinand You could have it so much better
(30/05/08)
Fra le mille critiche che si possono muovere a You could have it so
much better non c’è sicuramente quella di essere un lavoro uguale
al precedente: laddove l’eponimo era bonariamente chiassoso,
questo è più controllato, laddove risiedevano mescolamenti di rock
e dance dai confini poco credibili, ritroviamo canzoni dall’identità
più marcata, mentre in luogo dell’aplomb furbescamente trasandato
c’è ora la cura maniacale della produzione. Anche la scrittura
prende altre strade ed è per questo che occorre qualche ascolto in
più per realizzare che le hit ci sono ancora, solo che paiono
consapevolmente studiate per raggiungere un pubblico il più vasto possibile. Facile che il
giochetto funzioni, poiché sappiamo bene quanto sia importante per una band pop
catturare l’attenzione dei distratti e dei moderati, che sono poi quelli che fischiettano
sovrappensiero sotto la doccia, e che a fronte di ciò non dimenticano di far trovare il CD
sotto l’albero di Natale di amici e parenti. Scaricate This boy, The fallen, You’re the reason
I’m leaving, I’m your villain, Walk away e Outsiders.
•
Adam Green Jacket full of danger
(31/05/08)
Il nome forse più importante dell’antifolk è sicuramente Adam
Green, quello che con i Moldy Peaches era riuscito a tracciare una
nuova strada all’interno della musica popolare americana. Jacket
full of danger fa invece parte della sua discografia solista ed è
proprio un bel disco sin dall’incipit orchestrale di Pay the toll; tra
l’altro, nessun brano supera i tre minuti, cosa che rende ancor più
digeribile l’intero progetto. Hollywood bowl, Vultures, Party line e
Jolly good camminano parallele sui binari del folk tradizionale ma
contaminano la struttura portante con archi, pianoforti e rhodes
vari. Il tutto mentre Nat King Cole e Novotel si piazzano al top di questo riuscitissimo
album, trasformando il folclore in vero e proprio rock’n’roll, sia esso incandescente e
passionale o posato ed intimista; per onor di cronaca devo menzionare anche le bellissime
Hey dude, Cast a shadow, Watching old movies, White women e Hairy women. Si sarà
capito che questo ragazzotto ci sa fare e non troppo raramente lo si trova in giro per l’Italia
con i suoi stravaganti concerti all’insegna del rifiuto musicale. Molto bravo.
•
Bugo Contatti
(01/06/08)
Oramai sarà pure commerciale, ma non nascondo la mia
adorazione verso l’ultima creatura di Bugo, pubblicata qualche
mese fa con l’altisonante nome di Contatti. L’epoca in cui viviamo,
contrassegnata dal precariato (ricordate Che lavoro fai?) e
dall’incertezza, è cantata nuovamente in C’è crisi; il desiderio di
farsi strada artisticamente (e sessualmente) sta alla base di Nel
giro giusto; il rigetto di tutti i perversi meccanismi della modernità è
invece il tema di Primitivo. Senza però una buona dose di ironia, la
musica di Bugo non sarebbe la stessa e quindi ecco arrivare la
mielosa Love boat o la pazzesca La mano mia, la provocatoria Le buone maniere o la
struggente Felicità. Negli arrangiamenti e nella produzione stessa si sente forte l’influenza
di Stefano Fontana, ormai trasversalmente riconosciuto guru dell’elettronica italiana. Ed è
proprio l’elettronica - e il funky - il segno distintivo di Contatti, un’elettronica presente fin da
La prima gratta e maggiormente presente in Sguardo contemporaneo, ma adesso
finalmente ostentata in tutta la sua mascolina dolcezza. Bugatti rules!
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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The Notwist The devil, you + me
(02/06/08)
Fra gli Interpol e gli Strokes ci sono i tedeschi Notwist col loro
inconfondibile tocco elegante. Non è mai stato un gruppo uscito
troppo alla ribalta anche se, per nostra fortuna, ha continuato a
sfornare dischi meravigliosi e completi, nel senso che il talento
fuoriesce sia sul piano musicale che su quello autorale. La
Germania dimostra ancora una volta di avere una scena musicale
veramente all’avanguardia, superando, in quanto ad originalità,
quella anglo-americana. Good lies, Where in this world, Gloomy
planets, Gravity, The devil, you + me e Sleep ci offrono i Notwist
più romantici; Alphabet, On planet off e Hands on us quelli più scatenati. Questa
dicotomia, questa guerra, situata sul labile filo di rasoio tra post rock, math rock ed
elettronica downtempo è un segno dei tempi, il segno dei nostri tempi. Se tra vent’anni
dovessimo dire ai nostri figli com’era la musica della prima decade del terzo millennio,
potremmo benissimo far loro ascoltare The devil, you + me dei Notwist. Forse tra vent’anni
la musica prenderà tutt’altra strada ma questo disco attenderà il suo ritorno.
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Hercules & Love Affair Hercules and Love Affair
(03/06/08)
L’eponimo di Herucules & Love Affair è uno di quei dischi frizzanti
che rinfrescano l’aria in queste giornate afose di fine primavera. La
sua natura di disco frivolo - seppur ben fatto - esplode in tutta la
sua delicatezza con Blind, Time will, Hercules’ theme (strabiliante!),
This is my love, Athene e Raise me up; il risultato di cotanta
leggerezza è un mix di funky, sweet house, synth pop e
rimembranze disco: l’album potrebbe infatti competere con i vinili di
Cerrone, quanto a inclinazione dance. You belong, Iris ed Easy
appaiono poi maggiormente elettroniche mentre True/false,
fake/real va a chiudere il disco con innato senso del ritmo e del groove, ricordando a tratti
il miglior Alan Braxe di Intro. Non si comprende appieno questa convergenza verso il
mondo mitologico greco, ma si può affermare con certezza che Hercules and Love Affair è
un prodotto (e i suoi remix ancor di più) che stuzzicherà positivamente l’estate del 2008,
imprimendole una spinta discotecara retró che tanti clubber auspicano da anni, da quando
si è sommersi di stupida e volgare house di second’ordine.
•
Ryoji Ikeda Matrix
(04/06/08)
Ryoji Ikeda è uno che ha lavorato spesso con Carsten Nicolai. E si
sente. Si sente soprattutto in quello che io considero il suo
capolavoro, Matrix. Il disco in questione è un compendio di matrici
sonore, sinusoidi, denti di sega, onde quadre e triangolari, senza
alcun cedimento verso il noise. I titoli delle tracce sono matrici, i
WAV della musica sono matrici, i supporti audio sono matrici. Tutto
il progetto, insomma, è figlio legittimo dell’epoca della
serializzazione con tutte le sue accezioni di critica costruttiva verso
l’omologazione globale. In Matrix c’è però qualcosa in più, ovvero
la grande quantità di effetti psicoacustici fa sì che non sia mai uguale a se stesso, come se
la standardizzazione che tanto ostenta sia in realtà una mera proiezione mentale
dell’ascoltatore. Ed è proprio l’ascoltatore a rimanere spiazzato quando viene a trovarsi in
una condizione di totale libertà interpretativa, potendo cambiare il senso dell’opera al
variare della sua posizione, del suo umore, del suo impianto hi-fi, della sua distanza, della
sua capacità interpersonale. Matrix, lo ripeto, è un capolavoro, un capolavoro glitch.
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The Ting Tings We started nothing
(05/06/08)
Un altro disco pre-estivo è sicuramente il primo agognatissimo We
started nothing dei Ting Tings, duo electroclash dalle tendenze
vagamente glamour e dalla fragranza sfacciatamente new wave.
Great DJ e That’s not my name sono certamente i pezzi da
novanta del disco, non a caso utilizzati per il lancio promozionale,
ma anche Fruit machine, Shut up and let me go e Keep your head
danno bene l’idea del progetto. I Ting Tings dimostrano poi di avere
un animo sensibile e ricercato con Be the one, specie di omaggio
musicale ai maestri degli anni ’80 come Joy Division, New Order,
Depeche Mode. Non sarà assolutamente il disco dell’anno né forse permetterà alla band
di emergere in modo permanente; di sicuro We started nothing risulterà molto godibile
all’ascolto ed indicatissimo per tenere una festa erasmus a casa vostra, dando quel tocco
di internazionalismo in più al party. Cito infine solo la bellissima We walk e la
movimentatissima title track (tralasciando Traffic light ed Impacilla carpisung). Post
scriptum: il balletto scordinato del video di Great DJ è unico nel suo genere.
•
Casino Versus Japan Go Hawaii
(06/06/08)
Fermatevi ovunque voi siate, accendete un computer, quindi
scaricate tutta la discografia di Casino Versus Japan (oppure
acquistatela, ovviamente); questo producer è unicamente pazzesco
e la sua musica è qualcosa che trascende il razionale. Go Hawaii,
secondo disco della sua opera, è un fantasioso viaggio nelle
ritmiche trip hop, un manuale di elettronica soft che supera in parte
la lezione dei maestri Portishead. La mia non è una
sopravvalutazione dell’artista in questione ma un personale dato
che ho dovuto ricavare dalle emozioni provocate da Casino Versus
Japan; brani toccanti come It’s very sunny, Local forecast (M-E-R-A-V-I-G-L-I-O-S-A),
Dielectric saints, Warm windows e The larp sono irrangiungibili per qualsiasi amatore
dell’elettronica e forse lo sono anche per qualche grosso nome della scena internazionale.
Go Hawaii non stanca mai, lo si può ascoltare mille volte di seguito ma regalerà sempre
quell’emozione inconscia che dà pace e serenità, calma e tranquillità. Ascoltate gli altri CD
Hitori + Kaiso e Whole numbers play the basics e scaricate dal sito ufficiale gli inediti.
•
(07/06/08)
Almamegretta Vulgus
Sembra che da quando Raiz abbia lasciato il gruppo, gli
Almamegretta si sentano più liberi di allargare i propri confini
musicali. Trovo l’ultimo Vulgus stupendo. Il colpo di fulmine è
scattato sin dalla copertina di Mimmo Paladino, nella quale
converge una concezione mistica della multiculturalità vissuta
come fenomeno aggregativo inarrestabile. Le mie orecchie hanno
però provato genuina goduria sul drum’n’bass di High and dry e sul
dub spinto di Just say who, così come in quel lontano
mediorientalismo di Bum bum, traccia nella quale vengono a
coincidere le problematiche di Damasco e quelle di Napoli: il mondo è in guerra, una
guerra nuova, e nessuno se ne accorge. Trovo inoltre che l’animo partenopeo fuoriesca da
questo album senza vittimismi né luoghi comuni (come in Che ‘a fa, Primmavera nova e
Pompei day); meravigliose ancora E da piccolo fanciullo incominciai e What have you
done?; infine troviamo il remix di Just say who a cura di Gaudi Rootikal. L’archivio sonoro
targato D.RaD sfornerà ancora il sound Almamegretta senza mai sputtanarsi!
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Mr. Oizo Analog worms attack
(08/06/08)
Il nome del french touch che credo sia più sopravvalutato è quello
di Mr. Oizo, producer ormai famosissimo per via di Flat beat,
divertissement sonoro che faceva da colonna sonora ad un
famosissimo spot della Levi’s. Proprio Flat beat è contenuta come
bonus track in questo primo album di inediti del 1999 anche se il
resto del disco non fu esattamente all’altezza delle aspettative. A
mio avviso Mr. Oizo ha abusato del distorsore, forse per distaccarsi
dalla tendenza romantica allora in voga; fatto sta che Analog
worms attack non sfonda mai e non riesce ad entrare in testa né,
tantomeno, sul dancefloor. Troppo electro in Monophonic shit, brutto hip hop in No day
massacre (salvo solo gli scratch), groove banali in Last night a DJ killed my dog;
decisamente migliore il big beat di The salad o le distorsioni in automazione di Inside the
kidney machine (la kidney machine sarebbe quel macchinario utilizzato per la dialisi).
Tirando le somme, Analog worms attack è comunque un altare dell’elettronica francese
ma non arriverà mai alla secolarizzazione di Moon safari, Homework, † e Tourist.
•
Sébestien Tellier Sexuality
(09/06/08)
Direte che sono un romanticone e in fondo non sono poi così indie:
avete ragione! Ma permettetemi di dire che l’ultima creatura di
Sébestien Tellier è un moto dell’anima, un crescendo di emozioni,
un climax dei sensi. Un inizio tanto toccante come quello di Roche
non lo ascoltavo da anni: in quanto a sentimentalismo la traccia
compete con Make love dei Daft Punk, per dirla tutta. Che dire poi
di Kilometer e di Elle scritte da Guy-Manuel de Homem-Christo?
Sexuality è interamente prodotto da Guy-Manuel e difatti lo
standard qualitativo è eccelso, sia nelle incursioni del synth, sia
nelle progressioni del beat, sia nella voce di Sébastien. Con Look, Divine, Sexual
sportswear, Une heure, Fingers of steel, Manty (in italiano) e L’amour et la violence posso
finalmente urlare che la tradizione dei Daft Punk è salva; Sébastien Tellier è riuscito,
attraverso L’incroyable vérité e Politics, a dare nuova linfa alla miglior tradizione elettronica
della modernità europea. Adesso aspettiamo solo che Thomas e Guy-Manuel escano
dallo studio della Ed Banger per ascoltare il nuovo capolavoro alla francese.
•
Stefano Bollani Abbassa la tua radio
(10/06/08)
I navigati jazzmen qui riuniti, tra i quali Roberto Gatto, Enrico Rava
e Ares Tavolazzi, con i quali Bollani ha collaborato praticamente in
pianta stabile, ospitano voci arcinote della migliore musica leggera
sanremese dell’ultima generazione, tra le quali quelle di Irene
Grandi in Silenzioso slow, con la tromba di Rava alle spalle, e
Peppe Servillo in Dove sta Zazà, con l’ammirevole fine di
raccogliere fondi per finanziare l’attività del Conservatorio di
Sarajevo, gravemente ostacolata dai problemi che la drammatica
guerra in Bosnia aveva causato. Abbassa la tua radio è un disco
allegro e spensierato, come lo sono le nostre vecchie canzoni, energico e sorprendente:
nessuno si aspetterebbe di trovare echi blues in Mille lire al mese; ascoltate un po’ cosa
riesce a fare Raffaello Pareti (quello de Il circo) di questa insospettabile canzoncina...
Brava poi Monica Demuru, voce limpida nei brani d’apertura Ti parlerò d’amor e Ho un
sassolino nella scarpa; divertente Bollani cantante in Conosci mia cugina; impeccabile e
molto cool Rava in Baciami piccina: potrebbe sembrare un omaggio a Chet Baker.
197
Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Britney Spears Blackout
(11/06/08)
L’America è stata capace di esportare un sistema culturale in modo
pervasivo e ipodermico: è riuscita a vendere se stessa tramite le
icone del sogno americano. Britney Spears è uno dei suoi ultimi e
più riusciti prodotti. Di lei, l’industria discografica americana è
riuscita a venderne la voce, la bellezza, la depressione, gli eccessi,
gli scoop, la famiglia, le hit, i balletti, l’immaginario erotico, i
matrimoni falliti, la separazione dai figli, praticamente tutto. L’ultimo
disco della Spears, pubblicato più per rilanciarla nella vita che
nell’ambiente musicale, è la celebrazione del banale, la
celebrazione della moderna cultura americana con i suoi eccessi e i suoi scandali; le hit
radiofoniche di Gimme more, Radar e Break the ice soffrono di una congenita stupidità
strutturale con un uso del tutto fuori luogo dell’hip hop e dell’elettronica. Discorso a parte lo
merita invece Piece of me, ultimo retaggio del fallimento dell’American dream, tanto
agognato da milioni di migranti spinti verso il nuovo mondo. Ecco cosa rimane del sogno
americano: uno squallido pezzo di Britney defunta. Ne volete ancora?
•
Mercan Dede Nefes
(12/06/08)
Mezzo jazzman, mezzo DJ, questo è Arkin Allen alias Mercan
Dede, nome importante della scena turca, ed oggi stimato pezzo
da novanta dell’ambiente jazz di Montreal. Il suo disco Nefes è
arrivato sino a noi col nome della canzone più famosa, Breath, ed è
l’ultimo della sua trilogia sugli elementi primi: fuoco, acqua e vento
(i primi erano Nar e Su). Gli strumenti tipici del costume bizantino
orientale ci sono tutti, e Mercan è maestro nell’utilizzo del ney, così
come c’è tutto il mondo dei sufi e dei dervisci (tanto caro al nostro
Battiato); Hininga, Dem, Ginhawa e Samana sono tutte interpretate
col tradizionale flauto turco di Dede. Alternative perché più percussive ed elettroniche
sono poi Huo, Napas, Huxi e Breath; molto evocative poi Engewal, Halitus, Souffle e
Atman (leggete Siddharta di Hesse). L’improvvisazione jazz di Mercan Dede è evidente
nei passaggi melodici, ma è altrettanto consistente il tocco del DJ, soprattutto nei
molteplici effetti sonori o nelle sincopate sequenze del beat. Nefes è un ottimo disco ma è
come se in Italia qualcuno mischiasse mandolino, bufù, ciaramella e drum machine. A voi.
•
99 Posse La vida que vendrá
(13/06/08)
Quando i 99 Posse erano ancora i 99 Posse, non era difficile
imbattersi in capolavori raggamuffin/dub come La vida que vendrá,
ultimo vero disco in studio per la premiata band di Meg e ‘O Zulù. I
temi del lavoro salariato, della disoccupazione, del precariato, del
sistema pensionistico, sono alla base sin dall’intro Comincia
adesso e si dispiegano completamente per tutto il disco;
dall’ipocrisia del broadcasting del media system de L’anguilla
(sabotare, sovvertire, questo è il loro lavoro!) alle stupide
manipolazioni di All’antimafia, dall’antimperialismo di Yankee go
home fino alla nostaglia comunista di Comuntwist, un pezzo, quest’ultimo, intriso di ironia
e ricordi, di divertimeno e maestria nel mixaggio; non manca nemmeno quel po’ di
romanticheria tanto cara A una donna e alle sue Sfumature. Il pezzo più importante del
disco penso sia invece Povera vita mia, vero e proprio compendio di neomarxismo sociale
e socialismo reale. In copertina un’elaborazione grafica degli scontri avvenuti a piazza
Plebiscito prima del più famoso G8 di Genova. Unici in Italia, da sempre, per sempre.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Stormy Six L’Unità
(14/06/08)
Una band simbolo, nolens volens, dell’effimera rivoluzione del ’68 è
quella degli Stormy Six, entrati nell’immaginario dei sognatori per
via di Stalignrado. I giudizi sugli Stormy Six non possono però
esulare dalla loro importante discografia, ed emblematico a tal
proposito è il secondo LP L’Unità (1972), un concept album
(andavano in voga allora) dedicato al Risorgimento italiano, visto
soprattutto con un occhio modernista fortemente celebrativo e
critico allo stesso tempo. Si comincia con l’elogio a quel
grand’uomo di Garibaldi per continuare sulle note di Tre fratelli
contadini di Venosa, ballata sulla diserzione di alcuni braccianti lucani che si rifiutarono di
vestire la casacca del nuovo esercito italiano appena imposto da Vittorio Emanuele II.
Pontelandolfo parla del laicismo forzato del nuovo Regno d’Italia, Sciopero! loda le
violente serrate napoletane di fine ‘800, Suite per F. & F., in falsetto, protesta contro
l’ancien régime della borghesia; infine La manfiestazione è un inno all’attivismo popolare
contro i governi del padronato. Sono solo episodi eppure l’Unità d’Italia non è così chiara.
•
Ladytron Velocifero
(15/06/08)
È uscito da pochi giorni e già fa notizia. Il nuovo disco dei Ladytron
è davvero molto bello; lo si intuisce subito dal portentoso levare
percussivo di Black cat e lo si impara a riconoscere con il
cadenzato groove di Ghosts. I synth pieni, accompagnati in 4/4 da
drums al cardiopalma, linee vocali riverberate al punto giusto e
strutture compositive del tutto convenzionali, riescono comunque a
creare una bella atmosfera sospesa fra il casinismo discotecaro e
l’autointrospezione (emblematica in tal senso è la stupenda I’m not
scared); i Ladytron presentano quindi le ammirevoli Season of
illusions, Burning up, They gave you a heart, they gave you a name e Predict the day, tutte
fortemente malate di new wave tra Depeche Mode e New Order, ma anche Madonna e
Talking Heads. Il disco si conclude con un trittico speciale formato da Deep blue,
Tomorrow e Versus, ritmatissime hit che danno il senso di una band da sempre incline a
fondere tradizione rock e semplicismo electro, riuscendo nell’ardua impresa di non
affaticare il pubblico, il mercato, il palcoscenico e gli strumenti. Bravissimi.
•
Le Luci Della Centrale Elettrica Canzoni da spiaggia deturpata
(16/06/08)
Che la provincia italiana sia malata è cosa risaputa, un dato di fatto
che solo i moralisti e i borghesi che votano Veltrusconi negano e di
cui, forse, si vergognano un po’. Fatto sta che Le Luci Della
Centrale Elettrica, progetto solista di Vasco Brondi, ritrae in
maniera veritiera e verista, senza concessioni all’elegia, la realtà di
provincia e tutte le sue degenerazioni sociali (la droga, la noia, le
mignotte, la velocità, la vacuità). Per combattere l’acne è una
nuova Siamo solo noi (il nome Vasco conta sempre!) di una
generazione di tossici, di ragazzi che bruciano le tappe senza che
sia la fretta la cosa da biasimare, piuttosto le tappe stesse. Lacrimogeni e La lotta armata
al bar sono delle battaglie perse contro il sistema, Stagnola e Sere feriali esaltano la noia,
Piromani piange senza dolore i ragazzi bruciati, La gigantesca scritta Coop e Produzioni
seriali di cieli stellati fotografano nuove paranoie in nuovi quartieri, Nei garage a Milano
Nord e Fare i camerieri sfatano il mito del progresso. Non sono canzonette ma solo
Canzoni da spiaggia deturpata e non c’è niente da ridere, proprio niente da ridere.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Santogold Santogold
(17/06/08)
Ottimo esordio quello di Santogold, bellissima brunette proveniente
dalla sponda orientale americana più indie e mento trendy. Questo
album è la prova di come bastino poche idee - ma buone - per fare
un prodotto di alto livello, soprattutto sotto il punto di vista della
godibilità casalinga. Le prime L.E.S. artistes e You’ll find a way
(quest’ultima la troviamo remixata a fine disco dai produttori Switch
& Sinden) sono vivacissime tracce in bilico tra hip hop ed
elettronica, trip hop, r’n’b e reggae; Shove it è poi la conferma di
come un buon dub non necessita per forza di tutti quei delay. Say
aha è più clash, Creator utilizza campioni jazz, My superman ricorda i Bran Van 3000,
Lights out e Starstruck sono le ballate lente del disco, Unstoppable è un po’ anonima, I’m
a lady e Anne piacciono invece per la loro naturalezza nel canto e nelle chitarre. Non so
quale sia il progetto sotteso alla promozione di Santogold ma sicuramente di stoffa ce n’è
tanta nelle corde di questa interessante artista; ora sta a lei continuare a migliorare per
poter diventare magari un nome importante della nuova musica americana. Magari!
•
The B-52s Funplex
(18/06/08)
Non riesco davvero a comprendere questa virata pop che
l’Astralwerks ha intrapreso con gli ultimi contratti. Non che i nuovi
artisti siano la feccia, però l’Astralwerks - come la Warp - è sempre
stata celebre per le sue scelte azzardate e, guarda caso, quasi
sempre azzeccate. I B-52s (adesso senza l’apostrofo del genitivo
sassone) non si vedevano in giro da parecchi anni, tant’è che
Funplex risulta essere il primo disco del terzo millennio della loro
lunga e costellata storia discografica. Il quartetto tedesco però non
mi piace, più che altro per quell’approccio happy che hanno verso
la propria musica, come se quest’ultima debba limitarsi esclusivamente al cinguettio di un
motivetto sotto la doccia, con quelle backing vocals maschili che rendono il tutto
stucchevole e patinato. Pump, Hot corner, Funplex, Ultraviolet, Juliet of the spirits, Eyes
wide open, Deviant ingredient, Dancing now… tutte canzoni buone solo per inventarsi
nuovi metodi di marketing (piuttosto antiquati, tra l’altro) e di promoting. Non è questa le
Germania che amo io, non è questo il declino discografico che mi aspettavo.
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Populous Queue for love
(19/06/08)
Dopo l’esaltante esordio di Quipo, l’italiano Populous (alias Andrea
Mangia) propose nel 2005 Queue for love, un altro magnifico disco
dalle sonorità illbient, IDM e hip hop. In Italia sono pochi coloro che
si dedicano con costanza e tenacia a questo genere musicale e
Populous è forse uno dei capischiera. L’album in questione è infatti
contaminato da molteplici ritorni sonori, come le interferenze
ambientali di My winter vacation (featuring Dose One) o le venature
D.R.E. di Pawn shop close; non mancano nemmeno le
collaborazioni con la dilatata voce di Matilde Davoli in Bunco e in
Clap like breeze o con la talentuosa chitarra di Jukka Reverberi in Hip-hop cocotte e di
Antonio Gaballo in Drop city. Parecchio emozionali sono Sundae pitch, con un scricchiolio
alquanto tenebroso, The Dixie saga, dal beat spinto, Dance-hall nostalgia, un dub a metà
tra hip hop e breakbeat e Maqam Saba, sana ambient allo stato puro. A differenza del
precedente, questo disco vira generalmente verso una strada più ordinata, quella
dell’elettronica a 4/4, ma rimane ancora vivace e portatrice di buone idee.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Robotnik Greatest tits 1999-2005
(20/06/08)
È forse uno dei dischi più strambi che abbia mai ascoltato, difatti
Greatest tits 1999-2005 non può piacere al primo ascolto,
assolutamente. Il jazz viene violentato dal rock, l’elettronica dal
progressive, la psichedelia dal lo-fi. I Robotnik, questo il nome del
progetto, sono stati capaci, alla loro prima prova ufficiosa, di
screditare molta musica fin qui fatta; Aorta sembra un trip all’interno
delle caverne mitraliche, Canzonetelevisione è un pop alla
Riotmaker (ma lui è Tafuzzy) con l’utilizzo preponderante di
campioni vocali, Calippo e Super canzone samo sono interludi
noise, Has mas pruvado è una samba brasileira non troppo seria, Costa Azzurra è un altro
interludio sudamericano, infine Immo abballare (go to dancing) è l’unico vero inno al ballo
tradizionale, quello delle piazze e delle feste de l’Unita in una cornice sul filo del rasoio
dell’elettronica. I Robotnik hanno appena pubblicato Brodo, il suo nuovo pazzesco lavoro,
ma non l’ho ancora ascoltato; consiglio altresì questo best of Greatest tits 1999-2005,
raccoglitore ingombrante di semi di follia, proprio perché la follia non ha mai fine.
•
Nitin Sawhney Human
(21/06/08)
Orientale ma non troppo. Se Nitin Sawhney suonasse solo musica
arabeggiante, senza tener conto della contaminazione occidentale,
la sua musica farebbe schifo. E invece è stupenda proprio perché è
il giusto compromesso tra le istanze del trip hop e dell’elettroncia
occidentali e la variopinta musicalità della tradizione mediorientale.
Human è forse uno dei dischi più riusciti (su tutti preferisco Beyond
skin) e la prova sta nel cantato mezzo arabo e mezzo inglese di
The river; quindi le sonorità alla Los Amigos Invisibles, le sonorità
dell’Ibiza più bella e modaiola, si fanno strada in Eastern eyes,
mentre sembra di ascoltare i Groove Armada in Say hello. Falling e Falling angels si
inseguono tramite il filo rosso della chillout, sviolinate d’orchestra, tamburelli da spiaggia,
vocals morbide, chitarrine dagli accordi minori e beat vividi. Gli altri grandi pezzi di Human
sono, a mio avviso, Fragile wind, Promise, Rainfall e Waiting (o mistress mine). Trovo
invece del tutto scontate quelle canzoni alla Amr Diab come Heer, Chetan jivan e Raag.
La musica araba ci piace, ma non esageriamo con le contaminazioni.
•
Animal Collective Strawberry jam
(22/06/08)
Mio padre, con molta faciloneria e poca pazienza, etichetta tutti i
cantanti che alzano la voce con l’appellativo di “cani arrabbiati”.
Ebbene, stavolta, la stessa faciloneria e la medesima impazienza
userò io per stroncare gli Animal Collective e il loro modo di
cantare. Non che non siano bravi ma certe volte le grida contenute
in Strawberry jam danno davvero fastidio alle orecchie. Inoltre trovo
molto patetico il loro mood: nella giungla dell’underground ci
mancavano solo quelli che si vestono da animali e scorrazzano per
i boschi a farsi fotografare. Questa voglia matta di alternative, di
ricerca dell’originalità è stucchevole e riprovevole. Rimangono comunque le belle tracce
come Unsolved mysteries, For reverend Green, #1, Winter wonder land e Cuckoo cuckoo;
sull’onda di Architecture In Helsinki e affini, gli Animal Collective pensano che utilizzare
tutti quegli strumenti nei propri componimenti sia un pregio, senza chiedersi se certo
manierismo non sia in qualche modo, per definizione, stantio. A molti piacciono, e pure
parecchio, questo è innegabile. Ma io li ascolto molto poco e distrattamente.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Afterhours I milanesi ammazzano il sabato
(23/06/08)
Quest’anno sono tornati addirittura gli Afterhours, dopo un lungo
vagare che li ha visti trionfare in tutto il globo per il tour di Ballads
for little hyenas. I milanesi ammazzano il sabato, titolo mutuato da
un libro di Giorgio Scerbanenco, è semplicemente perfetto. È così
che dovrebbe suonare il rock italiano, un po’ dissonante un po’
melodico, un po’ hard un po’ ballad, ma soprattutto deve raccontare
qualcosa col linguaggio della cruda poesia. Neppure carne da
cannone per Dio, È dura essere Silvan, Riprendere Berlino, È solo
febbre, Pochi istanti dalla lavatrice, Orchi e streghe sono soli e
Musa di nessuno sono i punti più alti di questo ennesimo capolavoro rock. Il mondo caro
agli Afterhours, in apparenza ingarbugliato e consapevolmente inaccessibile, è in fondo un
raffinato universo abitato da scarni giovani amanti, sordidi receptionist, squallidi
sottopassaggi, dolci effusioni e vite che incatenano i più bei sogni al muro delle difficoltà
quotidiane. La band di Manuel Agnelli ci ricorda che il sangue e la disperazione sono
sempre in agguato, come l’amore e la creatività, l’alba e il tramonto.
•
Autofant Family
(24/06/08)
Forse non sanno nemmeno loro di esistere, tanto è limitato il loro
bacino di fan. Sta di fatto che i danesi Autofant sono una delle band
crossover più rappresentative dell’Europa settentrionale. Nel 2004
licenziarono Family, un ibrido tra jazz ed elettronica, un meticcio
così riuscito che ad ogni ascolto regala un’emozione in più. Heaven
is above me è una traccia che si pianta in testa con l’intenzione di
non uscire più: il suo carillon accompagnato da synth molto mellow
rende col cantato una perfetta sintesi di sound design. Lo
sperimentalismo presente invece in Rade sham sembra provenire
dal brush di Jojo Mayer e dei suoi Nerve; su In my arms Henrik Sundh fa i salti mortali al
sintetizzatore e al laptop per star dietro a quel pazzo di Kresten Osgood che sta
letteralmente infuocando la batteria; da menzionare anche la title track Family che, dopo
un inizio pop, vira allegramente verso la volksmusik della Yellow Magic Orchestra. Questo
disco è veramente introvabile ma l’audiofilo dal palato fine deve fare di tutto per
procurarselo, anche a costo della propria incolumità economica. Stupendo.
•
Chris Korda The man of the future
(25/06/08)
La Chiesa dell’Eutanasia professa il suicidio, l’aborto, la sodomia e
il cannibalismo. Essa è convinta che l’uomo deve riequilibrare, di
sua spontanea volontà, l’assetto ormai quasi del tutto
compromesso fra esseri umani e mondo animale/vegetale. Il primo
comandamento chiede di astenersi dalla procreazione e, se
possibile, mangiare feci e bere urina per non diminuire lo stock di
risorse naturali presenti. Il fondatore di questa nuova religione,
nonché venerabile reverendo, è il transgender Chris Korda, DJ
producer della Gigolo (la stessa dei primi Zombie Nation) che, con
The man of the future, secondo disco della sua oltraggiosa discografia, mette in elettronica
le istanze della Chiesa dell’Eutanasia. La techno di The man of the future è molto
sempliciotta, eppure la si ascolta con piacere; i pianoforti progressive, i synth acidi e le
drums puntellate richiamano alla mente certa techno europea di metà anni ’90 (Nick
Holder su tutti). This is cheese, I like to watch, When it rains, Nothing, Bones o Desire in
fondo suonano bene e quel vangelo disumano e un po’ populista ci affascina parecchio.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Renato Zero Via Tagliamento 1965-1970
(30/06/08)
La stagione del Piper ebbe inizio nel 1965 e si concluse intorno al
1970. Renato Zero raccoglie così canzoni ritrovate, ispirate a quel
periodo, un periodo fatto di coraggio e speranza contro il massiccio
esercito di coglioni in cravatta. Poveri borghesi dall’aria sconvolta,
dice Zero, che ansimavano per scoprire cosa mai ci fosse dentro i
blue jeans. Via Tagliamento non fu una strada nel mondo ma il
mondo in una strada; e il Piper Club, oggi una leggenda, ieri era un
modo di pensare, di amare, di stare insieme, di fare progetti, di
sperimentare. Renato Zero ed il suo look stravagante, le sue
canzoni ribelli, sono momenti che forse non si ripeteranno. Sensazionali brani come
Niente, La facciata (contro il perbenismo), Viva la RAI (sigla dell’omonimo programma TV),
Che bella libertà, Piper Club, La fregata (la canzone più gay di Renato Zero), Soldi, Ci tira
la vita, Ragazzo senza fortuna o Land of 1000 dances: oggi non vi sono più locali tanto rari
e arditi capaci di allevare un’intera generazione di artisti di alto livello. Molti hanno avuto
fortuna ma per altri la vita si è fermata a via Tagliamento.
•
Jon Kennedy Useless wooden toys
(01/07/08)
Bello, molto bello, questo disco di Jon Kennedy, pieno di breaks,
beats e cuts sino alla noia, un calderone di trip hop più lento di
Fatboy Slim e più acido di Stylophonic. I sample provengono dal
suo ministudio in stile Tudor nel quale i cut’n’paste ritmici che fanno
di lui un grandissimo polistrumentista, esplodono in tutta la loro
potenza sonora. Cut up, You you & you (con Bernard Moss al
flauto), Heavyweight freight, Sand people, We milk life but dress
smooth, Lodestar (con Sarah Scott alla voce), Save the people e
Useless wooden toys sono i pezzi di nota del disco, tutto
improntato al downtempo più elettronico. Alcune inflessioni dub e hip hop che possono
venir rintracciate nel sound di Kennedy sono innanzitutto delle citazioni ai maestri musicali
degli ultimi venticinque anni, nonché delle reminiscenze da club che l’artista britannico si
porta appresso come un macigno, frutto delle innumerevoli esperienze in band più o meno
famose. Consiglio l’ascolto di questo album a tutti coloro che non possono fare a meno
della tecnologia digitale applicata agli strumenti hardware come le drum machine.
•
(02/07/08)
AA.VV. Post remixes vol. 1
La Valigetta, progetto multiforme che si occupa di musica
indipendente prettamente italiana, ha prodotto qualcosa di davvero
lodevole, una compilation di dance anni ’90 interpretata da alcune
band importanti del panorama italiano con uno stile totalmente
diverso dall’originale. Ecco quindi schiudersi alle nostre orecchie le
varie Playground love degli AIR suonata dai Canadians, The
rhythm of the night di Corona stravolta dagli Ex-Otago; dei Daft
Punk invece Around the world reinventata dai Tre Allegri Ragazzi
Morti (cantata o canticchiata in italiano come Giro il mondo) e Da
funk sconvolta dal Carnifull Trio; Too much of heaven degli Eiffel 65 interpretata dai
Numero6; Huge ever growing pulsating brain that rules from the centre of the ultraworld
degli Orb ricantata dai Julie’s Haircut, il tutto lucchettato dagli skit di Marco Mancassola.
Insomma, il meglio della produzione alternativa italiana (ci sono anche i Perturbazióne) al
servizio di vecchie glorie per riscoprire con animo sereno e divertito piccoli gioielli che
magari abbiamo superficialmente snobbato o incompreso. Un’idea che è un topazio.
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Tricky Knowle West boy
(03/07/08)
Il 2008 è anche l’anno del ritorno di Tricky sulla scena trip hop
internazionale col riuscitissimo Knowle West boy, un lavoro meno
ritmico e decisamente più raffinato, quasi ammiccante ad una fetta
di mercato nuova, più esigente. L’intro di Puppy toy non mi piace
ma arriva subito Bacative a farmi cambiare idea, un bellissimo
pezzo cantato nel tipico slang raggamuffin, proprio a metà tra rap e
reggae. La terza traccia, Joseph, è una ballata soffice e romantica,
mentre Veronika torna a far sentire il fragore delle batterie; con
C’mon baby il casino è assicurato mentre con Council estate è
invece in cassaforte la sazietà di basso. Ruvidamente electro Past mistake, indianeggiante
Coalition (sembra adesso di ascoltare i Faithless), dal sapore sudamericano la seguente
Cross to bear, maschia e convinta Slow; riecco poi la dancehall con Baligaga e il rock
iniziale ma noioso con Far away; infine un tocco di impegno autorale in School gates.
Quello che per molti è un sintomo di genialità, per me è un semplice talento: ecco perché
Tricky non mi ha mai fatto sbavare, nemmeno ai tempi di Maxinquaye.
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Luca Madonia Parole contro parole
(04/07/08)
Parole contro parole è un’antologia della musica di Luca Madonia
(dai Denovo ad oggi) attraverso una rilettura dei brani più famosi,
rivisitati e reinterpretati per l’occasione con l’aggiunta di due brani
inediti (Parole contro parole ed Il vento dell’età in duetto con
Carmen Consoli) e due cover (Blackbird dei Beatles e Summer on
a solitary beach di Franco Battiato). All’interno del CD è presente
anche un duetto col maestro Battiato nella splendida Quello che
non so di te, brano tratto dall’album Vulnerabile e presente in
questa antologia nella stessa versione del precedente album di
Madonia. Tutte le canzoni - ad eccezione dei due brani inediti e del duetto con Battiato sono state registrate live in studio, in presa diretta e senza sovraincisioni, per ricreare su
disco le stesse sonorità e la stessa atmosfera del concerto. Questo disco infatti contiene i
brani che più di altri rappresentano l’artista e che vengono riproposti al pubblico durante i
suoi tour. Il primo singolo estratto è stato proprio Il vento dell’età, un duetto a
rappresentanza di un incontro fra due catanesi innamorati delle stesse sonorità.
•
Melissa Roberts Songs by Melissa Roberts
(05/07/08)
Chi l’ha detto che la musica generativa smette di essere tale se
incisa su supporto? Grazie a Dio, esiste ancora chi crede che il
supporto (magnetico, digitale, analogico) sia un passaggio
invalicabile dell’arte musicale. Melissa Roberts, bravissima
performer generativa che lavora per e con iXi, ha rilasciato in free
download
questo
interessantissimo
lavoro
che
strizza
continuamente l’occhio all’elettronica melodica, senza scadere
nell’alternativismo imperante. Diciotto semplici canzoni che,
lavorando su loop e incastri autogenerativi, formano un corpus
ricco ed omogeneo, rotto dal sordo lamento delle due importanti 05.06.06 11pm e 4pm
07.13.06. Il resto è un viaggio freddo a e razionale all’interno dei circuiti neuronali con Run
out, Icksmear, My speed, Forward, Not my job o Warped vogel. Songs by Melissa Roberts
è la prova, se ce ne fosse ancora bisogno, che la performance artistica è tale nel momento
della sua esecuzione e non viene snaturata dalla sua riproducibilità in ambito casalingo.
Bene lo disse e forse tutto ciò sarà il futuro prossimo della musica elettronica.
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LNRipley LNRipley
(06/07/08)
LNRipley è un collettivo, esso è il nome femminile di certa
fantascienza lo-fi, violenta e sporca (si legge Ellen Ripley, come la
Sigourney Weaver di Alien). Nel caso degli LNRipley tutto parte e
termina nella velocità. BPM tra i 170 e i 180, niente forme
convenzionali modello strofa-ritornello ma strutture compositive di
flusso mutuate e traslate dai vinili drum’n’bass, suonate senza
l’ausilio di computer, utilizzando solo veri strumenti e sincronismi
elettronici generati in tempo reale. Chiamatela dunque jungle o
breakbeat, ma soprattutto preparate le orecchie all’esplosione
sonora di questa band, spesso in giro tra locali e party vari. La tracklist comprende dieci
tracce di infuocato d’n’b: Criminal, Red in my eye, Killing in the name, Strange idea,
System failure, Alley cat, Never like me, Nausea, Disillusion e To 6.2.6; i titoli dei brani non
servono ad un granché visto che il fine ultimo di questo eponimo è solo quello di
massacrare le orecchie del raver (e del clubber londinese, badate bene!). Impressionante
è poi la bravura istrionica della voce Victor e il talento di basso del solito Pierfunk.
•
X-102 Discovers the rings of Saturn
(07/07/08)
Un disco che cambiò notevolmente l’approccio alla techno negli
anni ’90 è sicuramente questo progetto di Jeff Mills, Mike Banks e
Robert Hood che risponde al nome X-102 e alla sua scoperta degli
anelli di Saturno. L’utilizzo del Roland 909 è qui innovativo
(parliamo del 1992 e la dance stava facendo passi da gigante) così
come l’uso del sequencer nelle progressioni di snare, hi-hat, kick e
ride. Ogni traccia riporta il nome di un anello: Phoebe, Titan, Rhea,
Tethys, Hyperion, Dione, Enceladus, Mimas e Iapetus più un intro
orchestrale e un outro dal nome profetico, Groundzero. La techno
di Detroit, a cui tutti dobbiamo il nostro rispetto, è palesemente rinnovata dagli X-102 in un
crescendo di beat e drums. Jeff Mills, poco dopo, diventerà forse il nome più importante,
applaudito, richiesto e condiviso della scena techno mondiale, accanto a mostri sacri come
Dave Clark, Carl Cox e Richie Hawtin ma anche Laurent Garnier e Robert Armani.
L’importante è capire che gli X-102 sono stati una tappa essenziale nel lungo cammino
che l’elettronica da ballo ha incessantemente percorso finora.
•
Onda Rossa Posse Batti il tuo tempo
(08/07/08)
Il rap in Italia sbarcò come risposta antagonista all’oligarchia
politica, economica, culturale, sociale e mediatica. I primi ad
interessarsi in maniera seria al rap (hip hop) furono quelli dell’Onda
Rossa Posse, per definizione branca autoprodotta di Radio Onda
Rossa, storica emittente comunista dell’hinterland romano (il centro
di tutto è sempre stato l’altrettanto storico Forte Prenestino).
All’interno di questa posse c’era il sempreverde Militant A degli
Assalti Frontali e, infatti, i temi contenuti in Batti il tuo tempo non
tradiscono la carriera da centro sociale che Militant A provvederà
ad accollarsi. Batti il tuo tempo, Categorie a rischio, È quello che siamo, Omaggio a Sante
e A tempo di rap intendono tutte fottere il sistema con rime semplici e dirette (e un
mixaggio che modestamente fa schifo, ma è forse questo il valore aggiunto di questo maxi
singolo) e toni già allora infuocati, senza mezze misure, senza scrupoli intellettuali, senza
scusanti, senza prudenze diplomatiche. Dal 1991 ad oggi il rap italiano ha fatto tanta
strada, migliorandosi il più delle volte, ma Batti il tuo tempo è l’esordio da manuale.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Ruthuard Caleidoscopio musicale
(09/07/08)
Dopo il lusinghiero successo ottenuto con il long playing Panorama
musicale, accolto con unanimi consensi dal pubblico e dagli
appassionati di musica strumentale, il complesso di Ruthuard, con i
suoi solisti, tornò nel 1969 (o era il 1970?), per la Hit, con questo
Caleidoscopio musicale comprendente quattordici brani - moderni
per l’epoca - nei quali, approfittando della versatilità degli elementi
del complesso, fu possibile ottenere una varietà di organici
strumentali e di sezioni varie messi in particolare evidenza dagli
arrangiamenti del maestro Elvio Monti, già arrangiatore del primo
De André di Per i tuoi larghi occhi e de La città vecchia, e del primo Ciampi di Nato in
settembre. In questo LP troviamo la brasilianeggiante Belo Horizonte, la malinconica Il
mare in settembre (il cui coautore è mio padre), la spensierata Caleidoscopio, la fugace
Chissà come finirà, la sentimentale Un filo d’erba o la bellissima Un giorno amerai anche
tu. L’eclettismo strumentale di Ruthuard è davvero impressionante, si passa dal vibrafono
alla marimba, dalla chitarra classica al sax, dalla tromba al clarinetto. Raro.
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Anthony Rother Super space model
(10/07/08)
Figlio legittimo dei Kraftwerk, Anthony Rother è uno dei più preziosi
ricercatori nel campo dei suoni e ritmi digitali. A maggior ragione,
egli non ha mai dimenticato le lezioni impartitegli dai suoi ex
compagni tanto che ancora oggi Rother non si vergogna di inserire
vocoder e ritmi alla Trans Europa Express nelle sue creature, così
come non disdegna l’utilizzo della tech house o della volksmusik.
Super space model, album del 2006, è uno di quei dischi destinati
a fama e gloria eterne (anche se inferiore a Sex with the
machines). Spicca subito la chitarra acustica di Nature e poi
l’interferenza digitale di Don’t worry e Youth; subito dopo arriva il tribalismo plastificato di
Space rock e di Push to talk e la spiritualità un po’ progressive dream di God (un tema,
questo, piuttosto ricorrente in Rother). Dopo le lodi a Dio arrivano gli inni a Belzebù con
Lucifer (con evidente citazione di Stockhausen e della sua Licht) e tutti i vari straniamenti
mentali di Why e Brainshaker; infine ecco il techno pop di Sleep e lo sperimentalismo IDM
di Who dies?. Un disco terrorista ma prestigioso, d’alto bordo, d’élite.
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The Sippy Cups Kids rock for peas!
(11/07/08)
Formatasi nel 2005 a San Francisco, la band dei Sippy Cups sta
spopolando (?) in tutti gli States trasformando in canzoni per
bambini alcuni classici del rock di ieri e di oggi; il gruppo intrattiene
i ragazzini suonando Smells like teen spirit dei Nirvana o l’intero
disco The piper at the gates of dawn dei Pink Floyd. Come
reagiscono i genitori? Accompagnando i loro figli agli show e
divertendosi un mondo anche loro. L’unica lamentela è partita la
volta in cui i Sippy Cups hanno cantato l’inno punk I wanna be
sedated dei Ramones, edulcorata successivamente nella più
innocente I wanna be elated. Kids rock for peas! è una registrazione live al Rickshaw Stop
di Frisco e contiene anche I’m a believer dei Monkees, Baby, you’re a rich man dei
Beatles, Give peas a chance e Dear prudence di John Lennon, Bennie and the jets di
Elton John, Jungle boogie di Kool & The Gang e She’s a rainbow dei Rolling Stones.
Diciamo che musicalmente è un disco un po’ idiota e un po’ intelligente, ma diciamo pure
che è totalmente banale se la mettiamo sul profilo del pacifismo e dell’ecologismo.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Madaski Da shit is serious
(12/07/08)
La festa del non lavoro di quest’anno al Forte Prenestino ha visto,
in serata, la presenza di Madaski e del suo temibile breakbeat. Ero
ubriaco fradicio e, dopo un pisolino tra gli anfratti del famoso forte
di Centocelle, la musica di Madaski (membro degli Africa Unite) mi
ha letteralmente finito di rincoglionire, anche se in fondo mi ha
svegliato dal torpore. Le frequenze basse, soprattutto nel live, sono
micidiali e questo è uno dei punti più forti nel sound del Caudullo
nazionale; assordante come sempre eppure così melodico e triste,
o, all’occorrenza, eccitante e muscoloso. Il groove di Da shit is
serious, così lontano dalla svolta houseggiante di Dance or die, è il compendio di una
maturità raggiunta. Sin dal melanconico dub di Share all my pride (featuring Raiss) fino
alla d’n’b goldiana di Tonight e Believe it, quindi dalla jungle di De pressure e Argon al
raggamuffin di A forest e Juice; infine, anche pezzi di elettronica dura e pura come Never
be alone amare e 441, così come un remix drum’n’bass di Share all my pride. Aver
passato la nottata con le orecchie nelle casse mi ha salvato la vita, in presa diretta!
(13/07/08)
Martin L. Gore Counterfeit2
Più che Dave Gahan è Martin L. Gore colui sul quale si regge la
fama dei Depeche Mode e, come il suo compagno cantante, anche
lui si è incamminato da un po’ sul sentiero del solismo.
Counterfeit2, seguito del primo EP, è un album perlopiù di cover,
tutte interpretate in maniera eccelsa con un sostegno elettronico di
non poco conto. Si inizia con l’inedito In my time of dying e
prosegue con la cover di Stardust di David Essex per arrivare alla
fantasmagorica I cast a lonesome shadow (l’originale è del
countryman Hank Thompson, ma non c’è paragone). Julee Cruise
e la sua In my other world è solo accennata dalla chitarra riverberata di Gore mentre
Loverman di Nick Cave è ripensata in stile post-IDM; By this river di Brian Eno è poi
lavorata con un approccio glitch e Lost in the stars di Kurt Weill (compositore tedesco del
primo 900) è toccante, al pari di Das Lied vom einsamen Mädchen di Werner Heymann.
Infine ci sono alcune piccole perle poco conosciute come le cover di Oh my love di John
Lennon e Yoko Ono, Candy says di Lou Reed e Tiny girls di David Bowie e Iggy Pop.
•
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Luciano Berio Recital I for Cathy
(14/07/08)
Uno dei migliori soprani del Novecento è stata sicuramente Cathy
Berberian, famosa anche per essere la moglie di Luciano Berio. Un
nome, quest’ultimo, che va tenuto a mente alla stregua di
Beethoven, Mozart o Bach, anche se non bisogna per forza
apprezzarne l’opera o conoscerne le innovazioni. Il Recital I for
Cathy fu scritto dal maestro di Oneglia proprio per sua moglie e sul
CD lo troviamo spesso in compagnia delle famose Folk songs,
brani che prendono spunto da composizioni sia di Kurt Weill sia
della tradizione popolare, che si è tramandata per via orale, di altri
paesi (paradisiaca è, a tal proposito, Azerbaijan love song). Il Recital è dunque un
catalogo delle sue predilezioni musicali e si basa, oltre che su diretti consigli d’ascolto
indicati dalla cantante, soprattutto sulle undici voci diverse di cui è capace. «Ora, quando
devo eseguirli [i pezzi delle Folk songs], utilizzo due o tre cantanti che si dividono i pezzi.
Non ho trovato ancora una cantante in grado di farli tutti» dichiarò Berio nel 1990, sette
anni dopo la scomparsa di lei. Entrambi sono stati una ricchezza unica per la musica.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Karlheinz Stockhausen Dienstag aus Licht
(15/07/08)
Licht è la più imponente opera lirica della storia, ventinove ore di
sperimentazione musicale, teatrale e canora tra arcangeli, divinità,
diavoli e donne. Dienstag (1990/91), quarta parte dell’opera
completa, è un semplice martedì, ma allo stesso tempo un pilastro
della concezione musicale di Stockhausen, così come il suo
divagante costruttivismo o il principio del tempo assoluto o la
mistica associazione di numeri e di corrispondenze esoteriche. Se
da tempo si era persa la tensione radicale e sperimentale, col
Dienstag aus Licht il tutto è sostituito da un gusto eclettico per la
melodia diatonica e tonale. Solo ora, dopo anni di ascolto assiduo, sono riuscito ad
immergermi completamente nell’intrinseca musicalità del genio di Kürten, nel clangore
delle sue arditezze tecniche ed intellettuali, ma il cammino, per me, è ancora lungo ed
impervio. Dal 1991 è possibile acquistare le sue opere, per Stockhausen-Verlag,
interamente in un’edizione premiata sia come spartiti sia come supporto. Ora lui è morto
ma gli insegnamenti appresi su Sirio e portati sulla Terra ce li terremo gelosamente stretti.
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Uranus Pecore elettriche
(16/07/08)
Un manifesto nuovo, originale ed artistico è ciò che sta alla base di
questa etichetta, la Mondi D’Oro, e di alcune sue edizioni come
Pecore elettriche degli Uranus. Abolire totalmente la tecnica sotto
cui muore la musica passatista; porre in suono tutte le scoperte del
subcosciente; sintonizzare la sensibilità del pubblico risvegliandone
le propaggini più pigre; creare con la folla, mediante un contatto
continuato, una corrente di confidenza senza rispetto; abolire i tre o
i cinque brani per creare delle azioni musicali di quindici, venti,
venticinque sintesi, la cui durata sia ridotta ad un minuto o a pochi
secondi; catene di sorprese suggestive con velocità accelerata senza psicologia né
preparazione logica. Diventare un androide, dunque, il che significa acconsentire a
trasformarsi in un mezzo, oppure essere oppressi e ridotti a un mezzo inconsapevolmente
o contro la volontà: il risultato non muta. Ma è impossibile trasformare un essere umano in
androide se l’essere umano infrange le leggi ogniqualvolta se ne presenta l’occasione.
L’androidizzazione richiede sempre obbedienza e, soprattutto, prevedibilità.
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Fausto Leali Leapoli
(17/07/08)
Arte 1977: cinema, luci di un grattacielo, brontolio d’un jet che
decolla, linea di un’auto sportiva, automatismi di una lavatrice,
circuiti di un calcolatore elettronico. E se per caso c’è un pezzo di
verde esso viene distrutto e poi eventualmente ricostruito per
essere fruito a pagamento. Su questa civiltà, sulle sue dimensioni,
sui suoi ritmi si possono fare considerazioni morali e politiche. C’è
chi invece, a suo modo, si limita a fotografarla e a trarre le
conseguenze dei comportamenti collettivi attraverso un modo
diverso di vivere la musica. È il caso di Fausto Leali che in questo
disco grida le sensazioni elementari della gente, le solite, di amore, di rabbia, il tutto filtrato
dai ritmi di un arrangiamento che sembra fatto apposta per entrare in sintonia con le luci
stroboscopiche d’una discoteca. Se una ballata napoletana (Vierno) era stata scritta in
tempi in cui non esisteva la TV, la radio, il telefono, tempi in cui tutto si svolgeva con
lentezza, dove un dialogo di affari o d’amore si protraeva per mesi e per anni perché non
violentarla costringendola negli stereotipi dei microsecondi dell’era 2000?
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Los Amigos Invisibles The Venezuelan zinga son vol. 1
(02/09/08)
Tito Puente e i leggendari Masters At Work si sono scomodati nel
2002 per produrre The Venezuelan zinga son vol. 1. Un biglietto da
visita niente male per i venezuelani Los Amigos Invisibles, band
funkeggiante adorata in patria, al pari di Ricardo Villalobos in Cile,
e destinata, nolens volens, a collezionare un buon successo di
pubblico internazionale grazie alla coinvolgente mistura di groove
latino, house, gozadera e lounge da caffè che contraddistingue
quasi tutta la loro discografia in studio. Su tutte le tracce del disco
consiglio l’ascolto di Bruja, storica hit che personalmente trovo
deliziosa sia come cantato sia come strumentalismo. Nei recenti Super pop Venezuela ed
En una noche tan linda como esta hanno saputo limare quei pochi luoghi comuni che
ancora galleggiavano qua e là nel loro sound, ma non sono diventati irresistibili; resta il
fatto che questo lavoro è di ottimo livello e si presenta come un’ideale colonna sonora per
intrattenere gli amici durante i party estivi in riva al mare balearico, magari proprio mentre
Baby Marcelo sta impazzando per le strade di Ibiza con trampoli e parrucche.
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The Bishops The Bishops
(03/09/08)
Una delle pochissime tappe italiane del tour dei fratelli Bishop è
stata in quel di Capracotta, mio paese originario. Premettendo che
non ho assistito al concerto per motivi altri, posso dire invece di
aver ascoltato bene e con piacere il loro disco d’esordio dal sapore
tanto beatlesiano. Le tracce sono tutte brevi e concitate e prendono
molto dalla tradizione inglese punk/rock, soprattutto se ci si vuole
soffermare sull’aspetto del look. Dicevo delle canzoni. Le migliori
sono sicuramente The only place I can look is down, Travelling our
way home, Menace about town, So high e Carousel, ma non
tradiscono le aspettative nemmeno Breakaway o I can’t stand anymore, dal sapore
ragtime. Se per le mie orecchie Higher now è troppo rumorosa, opinione contraria nutro
per Back and forth e per la doppia Lies & indictments / Sun’s going down con un riff di
chitarra molto molto invitante; l’ultima Will you ever come back again?, poi, sembra un
pezzo anni ’60. Nonostante la mia assenza sotto il palco è stato comunque divertente
vedere i tre musicisti nel mio bar di fiducia bere birra Peroni.
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(04/09/08)
Selton Banana à milanesa
I Selton sono una band brasiliana di stanza a Milano che, con
Milano, hanno molto a che fare visto il loro primo disco,
interamente dedicato ai ritmi quotidiani del nord economico.
Scovare addirittura le collaborazioni di Enzo Jannacci (da me
odiato ma, obiettivamente, bravissimo) nella divertentissima ballad
Malpensa o nella pensosa Pedro Pedreiro fa onore a questa band
e alza notevolmente lo standard qualitativo del prodotto. Di
Jannacci v’è anche la cover di Vengo anch’io, no tu no mentre È a
vida sfotte la storica canzone di Cochi & Renato. E proprio Renato
Pozzetto e Cochi Ponzoni li ritroviamo interpreti in Canção inteligente mentre ne La
gallina, Eu vi um rei, Banana à milanesa, La quiniela, João telegrafista e La cosa rosa i
Selton fanno tutto da sé; infine, in Silvano ci sono delle lezioni di cabaret all’italiana
impartite da Jannacci a questi quattro buontemponi. Il tutto è omogeneo e mai noioso, con
un batterista in grande spolvero. Quando i colori carioca si mischiano alla nebbia di Milano
ne esce fuori un disco come Banana à milanesa. Molto interessante.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Uochi Toki Laze Biose
(05/09/08)
Laze Biose è il primo vero album dei Uochi Toki, nel senso che
rappresenta un lavoro continuo ed organico sui luoghi comuni che
affollano la società moderna. Ecco perché il pezzo simbolo di
questo disco è sicuramente L’estetica, un sapiente e genuino
improperio contro l’ipocrisia generalizzata che sta alla base delle
manie dei nostri simili. Eguale rispetto lo meritano tracce come Il
primo semestre e Il secondo semestre che, nell’arco di un anno,
mettono in luce l’inutilità di quelle regole non scritte che rendono la
democrazia un regime dittatoriale (la laurea, i vegetariani, la moda,
l’euforia, la noia, le vacanze, l’attivismo ecc.). Temi differenti ma affrontati in maniera
simile sono quelli de I fonici, I batteristi e I gesti di cattiveria nei quali il coraggio di
affermare in maniera diretta e senza mezzi termini le proprie critiche diventano cazzotti in
pieno petto, anche per coloro che si ritengono alternativi, ribelli, anticonformisti. In Laze
Biose c’è tanto di quel Pasolini che non potrete far altro che amarlo od odiarlo, a seconda
della vostra sensibilità artistica e se sarete capaci di tralasciare alcune sottigliezze.
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Humpty Dumpty Q.b.
(10/09/08)
Musica infantile, musica per gioco, musica sentimentale, ma anche
musica tanto ingenua e moderna da apparire seriosa e profonda.
Q.b. è un disco molto strano ma non abbastanza per essere il disco
indie dell’anno. I suoni che sono stati utilizzati godono di grande
originalità (anche se il mix non è sempre impeccabile) mentre la
voce di Calzavara è quasi sempre fuori luogo (tra Valentina,
Caterina e Sai Violetta c’è un abisso); ma questi difetti non sono
l’alibi per dire che Q.b. è un brutto disco. Anzi. Questo lavoro mi
piace parecchio, sarà per un senso di innata solidarietà verso il
talento col cervello, sarà per i testi e le musiche sempre così orecchiabili e condivisibili.
Ricordi emergono proprio da Q.b., ricordi che dopo la fine dell’estate sembrano farsi vivi e
rincorrerci, ricordi che ci fanno odiare coloro che ce li hanno fatti immagazzinare. Degli
Humpty Dumpty e di Bobby Holiday, Fòrmica, Sia questo il verso, Un weekend necrofilo,
Sulla pelle, Barbablù o Mr. Makake ne sentiremo parlare ancora, ma non nei circuiti
discografici che, forse, nemmeno sanno della loro esistenza.
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Sharks Notti di fuoco
(11/09/08)
Gli Sharks, con alle chitarre il bravissimo Mauro Palermo (quello di
Domenica lunatica di Vasco), hanno all’attivo una manciata di
singoli ed un solo album, Notti di fuoco, un disco che vede la
partecipazione di Luigi Schiavone per la produzione e di Enrico
Ruggeri per la supervisione dei testi. Secondo alcuni la
collaborazione si mostrerà fallimentare; se i testi sono a dir poco
scadenti, stereotipati e banali (cinque i brani che portano la firma
anche di Ruggeri: Spogliati per me, Signora sola, Notte di fuoco, Il
mio rock’n’roll e Dimmi che ci stai), la produzione è castrante, con
chitarre poco potenti e quasi sempre in secondo piano rispetto alle tastiere, memorabili per
i suoni assolutamente dozzinali. A mio avviso, invece, l’album si barcamena tra un discreto
hard rock melodico e qualche virata pop; carine infatti anche Banzai, Che cosa ti fa,
Questa donna e Vi muovete o no?. Si potrebbe azzardare un parallelo fra gli Sharks e la
Steve Rogers Band ma nella seconda troviamo Massimo Riva, Maurizio Solieri, Claudio
Golinelli, Mimmo Camporeale e Daniele Tedeschi. Tutta un’altra storia.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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N*E*R*D Fly or die
(12/09/08)
Fra loro c’è uno dei migliori produttori del mondo. Sto parlando dei
N*E*R*D e di Pharrell Williams. Fly or die è il secondo album di
questa band di oriundi americani ed è forse il miglior prodotto della
loro discografia, sicuramente migliore dell’ultimo Seeing sounds. La
voce e i campionamenti di Pharrell sono assai originali e la
produzione in generale gode di ottimo prestigio, tanto da far
sembrare il disco un calderone di sample in free royalty. Dopo
Don’t worry about it c’è subito la title track che pare una traccia
strumentale dei Daft Punk, quindi v’è Jump, veloce e molto r’n’b; se
Backseat love è piuttosto monotona, She wants to move è forse il pezzo da novanta
dell’album, con un basso e delle percussioni davvero travolgenti; Breakout è poi il miglior
pezzo, forse a causa di un campione di chitarra che fa girare la testa a chiunque.
Talmente lunghe da annoiare le seguenti Wonderful place, Drill sergeant e Chariot of fire
ma subito ci risvegliamo con i beat di Trasher e Maybe, quest’ultima con le chitarre di
Lenny Kravitz; interessante anche The way she dances e il suo riff. Molto bene.
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Ryuichi Sakamoto /04
(13/09/08)
RyuichiSakamoto è, ad oggi, il miglior pianista di musica leggera
(dopo di lui possiamo mettere, senza ombra di dubbio, il nostro
Ludovico Einaudi) e /04 è un best of che racchiude il meglio dal
1996 al 2004, un disco perlopiù performato al pianoforte. In esso
c’è il tema finale di Seven samurai o il tema sinfonico di Roningai, e
poi c’è il veloce piano di Asience (anche in versione originale, alla
fine) e Merry Christmas mr. Lawrence, o la versione acustica di
Undercooled e quella di Riot in Lagos e Yamazaki 2002. Ma
soprattutto, in questo /04, c’è Bibo no aozora, utilizzata nel 2006 da
Alejandro González Iñárritu per il suo capolavoro Babel, terzo episodio della cosiddetta
trilogia della morte (assieme ad Amores perros e 21 grams). Adesso sono di fronte al
dilemma di Buridano: continuare a parlare di Sakamoto e del suo /04 o di Iñárritu e del suo
Babel? Perlomeno posso dire che l’inserimento di Bibo no aozora quale traccia finale nel
film (con la scena ambientata su un grattacielo giapponese) è stato uno dei momenti più
riusciti dell’intera pellicola che, già di per sé, è un capolavoro assoluto sul dolore.
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Amycanbe Being a grown-up sure is complicated
(14/09/08)
Quest’estate ho avuto il piacere di assistere ad un live degli
Amycanbe, band di tutto rispetto del ravennate più attento alle
nuove inclinazioni musicali. Sostengo con forza il gruppo e le loro
creazioni, a partire dal primo EP omonimo fino a questo vero e
proprio esordio discografico, Being a grown-up sure is complicated,
un lavoro che merita attenzione sul serio. L’angelica voce di
Francesca Amati entra in osmosi con la sapienza da
polistrumentista di Paolo Gradari, il tutto appoggiato sul tappeto
chitarristico di Mattia Mercuriali e Marco Trinchillo. Ecco perché le
varie Get closer, The song of Matthew and Mark (un piccolo capolavoro), All the places,
Your own thing e Too much work sono tanto belle. Stavolta fidatevi e se dico che gli
Amycanbe sono bravissimi dovete credermi sulla parola; cercate piuttosto di informarvi e
provate a pescarli in giro per l’Italia. Se amate i múm di Finally we are no one, gli AIR di
Premiers symptômes, i People Press Play e i Postal Service, allora amerete con lo stesso
impeto il progetto dolce e visionario di questa band tutta italiana. Meravigliosamente bravi.
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The Velvet Underground & Nico The Velvet Underground & Nico
(15/09/08)
A ragione questo è uno dei dischi più importanti della storia del
rock. Un Lou Reed senza scrupoli nei primi Velvet Underground,
coadiuvati qui e là dalla voce della tedesca Nico e prodotti con
tanta cura da Andy Warhol. Non è quindi una sorpresa se in questo
eponimo del 1967 troviamo tanta di quell’arte come Sunday
morning, I’m waiting for the man, Femme fatale, Venus in Furs,
Run, run, run, All tomorrow’s parties, Heroin, There she goes
again, I’ll be your mirror, Black angel’s death song, European son
to Delmore Schwartz o la copertina stessa, anche se la prima non
è quella celeberrima che ospita la banana del padre della pop art, la quale verrà offerta
solo poco dopo. Visto che sarebbe pleonastico recensire oltre questo disco si potrebbe
discutere dell’inestimabile valore dell’arte pop e del suo influsso sulla cultura e sulla
società occidentali, e poi potremmo stare ore a parlare di Andy Warhol, Robert
Rauschenberg, Roy Lichtenstein e Tom Wesselmann (il mio preferito fra tutti i pop artists).
Anche questa discussione non porterebbe a nulla di nuovo. Acquistate e ascoltate.
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Il Genio Il Genio
(16/09/08)
Un debutto davvero delizioso quello de Il Genio, duo electro pop
fresco fresco che è riuscito ad utilizzare un linguaggio musicale
ormai superato senza però annoiare l’ascoltatore, ponendolo anzi
in una condizione di ilarità e riflessione. Le bugie di François è una
traccia retró in stile chansonnier, Non è possibile ironizza
sull’allunaggio degli americani nel 1969, Pop porno ripropone la
pornofonia 70’s (tipo Serge Gainsbourg e Jane Birkin), Applique e
La pathétique sono cantate in francese, L’orrore è un pezzo dark
con tono sempre eloquente ed equilibrato, Una giapponese a
Roma è un pezzo importante di Kaimi Kare rivestito con un abito electro; molto invitanti e
romantiche anche Tutto è come sei tu, Fortuna è sera e Povera stella. Per capire Il Genio
bisogna provare a mischiare - con un tocco di fantasia e giocosità - Françoise Hardy,
Catherine Spaak, Richard Anthony, Michel Polnareff e Alain Barrière con la tradizione
synth pop degli anni ’80 di Plastic Bertrand. Principalmente per questa ragione promuovo il
progetto de Il Genio a pieni voti. Anche perché c’è sempre bisogno di electro pop!
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Munk Cloudbuster
(17/09/08)
Alcuni attenti critici e recensori stanno segnalando con timore
sempre più accentuato il declino quasi irreversibile dell’elettronica
tedesca, incolpando la nuova generazione di produttori oramai
poco inclini alla ricerca di nuovi linguaggi artistici e sempre più
venduti alle logiche discografiche del profitto facile e veloce. Munk
è uno dei giovani artisti inseriti nel novero di questa immaginaria
black list. In parte approvo la critica alla nuova cultura musicale
germanica (basti pensare al successo planetario dei Tokio Hotel)
ma non sono sicuro che questo collimi, per forza di cose, col
paventato declino della decennale tradizione elettronica. Cloudbuster, secondo disco di
Munk (dopo l’ambiguo Aperitivo), in fondo è un lavoro che cerca di aprire un sentiero
personale all’interno del mercato tedesco; e forse perché chi ama l’elettronica pregna di
significato attende che sia sempre la Germania a fare il primo passo. In realtà, invece,
anche l’Alemagna è capace di leggerezza. Carine quindi Live fast! Die Old! (con Asia
Argento), Down in L.A., The rat race, Monopteros, PsychoMagic e Il gatto.
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Costanza Sonic diary
(18/09/08)
Dopo aver collaborato a Vulnerable di Tricky, la nostra benamata
Costanza ha deciso di produrre un disco tutto suo, un vero e
proprio diario delle confidenze musicali più recondite. Sonic diary è
un disco difficile da bocciare proprio perché appare come un
personalissimo sfogo ed è giusto che, come dissero gli scolastici
medievali (o Giulio Cesare): «De gustibus non disputandum est». E
difatti Costanza, vera artista cosmopolita (una moderna Caterina
Valente), rappresenta il complemento del trip hop di Tricky, la sua
parte più femminina. Pulsazioni elettroniche e strascichi di suono
sintetico assieme ad una voce flebile - a volte anche troppo - esprimono il dolore in brani
come Just another alien o I’ve been waiting for you; i beat soffusi e gli effetti ipnotici
sembrano riflettere in modo deformato inquietudini e rabbia. Non c’è nemmeno paura di
rivisitare con stile alcuni pezzi lontani anni luce dal suo mondo. Nel disco sono infatti
presenti I tuoi occhi sono pieni di sale di Rino Gaetano, God’s gonna cut you down di
Johnny Cash e Promises di Fugazi, tutte molto suggestive nei loro originali giochi di suoni.
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AA.VV. Fuoriscena
(19/09/08)
Il Circolo degli Artisti di Roma è un importante centro di
smistamento del talento underground. Con un calendario sempre
ricco di concerti di artisti più o meno famosi a livello mondiale, il
Circolo tenta di far uscire dalle cantine tutti quegli artisti che con
forza d’animo danno linfa alla musica italiana. È indubbia la
difficoltà di trovare nuovi Sinigallia, nuovi Tiromancino, nuovi
Frankie Hi-NRG MC ma, se non si tenta, l’impresa si fa impossibile.
In occasione dell’ultima Notte Bianca romana, il Circolo degli Artisti
regalava, per i suoi quindici anni di vita, un triplo CD (con tanto di
preservativo siglato CdA) col meglio del crossover suonato in loco. Da segnalare il pop in
stile Le Vibrazioni dei Masoko e il tango contiano dei Masquèra, l’electro buia dei Reverse
Engineering tipica dei Massive Attack e il progressive B.M.S. dei Pane, il rock melodico
targato Giardini Di Mirò dei Fonderia e il reggae tipo Sud Sound System dei Papacalura,
ma anche il cantautorato dei Fumisterie (in stile Cristina Donà) o il personale ed eccellente
mood dei Biorn. E poi Bludeepa, Doppiazeta, Valentina Lupi…
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The Prodigy Music for the jilted generation
(20/09/08)
Prima dell’irraggiungibile The fat of the land i Prodigy diedero alle
stampe Music for the jilted generation, un favoloso disco pieno
zeppo di ritmiche drum’n’bass e jungle. Sin dall’inizio di Break &
enter sentiamo un loop vocale, una sezione ritmica spaccawoofer e
dei synth molto barocchi che vanno dall’effetto tuba a quello sirena;
Their law è poi un cavallo da battaglia della band inglese ed
anticipa, in quanto a sound, l’exploit di Smack my bitch up; dopo
Full throttle troviamo un'altra hit, Voodoo people, traccia che ha
influenzato parecchi artisti, da Goldie a Fatboy Slim, agli
Underworld. Parecchi campioni e molti beat dopo troviamo Poison e The heat (the energy)
ma, soprattutto, troviamo la più bella traccia breakbeat di sempre, No good (start the
dance), un rapidissimo invito al ballo sfrenato, al movimento del corpo in tutta la sua
esplosione di vitalità e rabbia (il sample proviene da No good for me di Kelly Charles). Il
disco potrebbe terminare dopo One love e invece tocca sorbirsi ancora, con immenso
piacere, tutta la Suite narcotica, ovvero 3 kilos, Skylined e Claustrophobic sting.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Telefon Tel Aviv Map of what is effortless
(21/09/08)
Questo è uno di quei periodi durante i quali mi getto nell’assiduo
ascolto dei Telefon Tel Aviv e siccome Fahrenheit fair enough l’ho
già recensito, adesso spendo qualche parola su Map of what is
effortless, secondo disco della band di New Orleans. Le differenze
col primo lavoro sono evidenti: difficilmente troviamo momenti di
riflessione pianisitica o introspezioni glitch; semmai in questo
secondo disco v’è la complessità del pop. Mi spiego meglio. Il
cantato fa parte da sempre della cultura popolare e sia in When it
happens it moves all by itself che in I lied, o in Bubble and Spike e
Nothing is worth losing that, troviamo intere parti in cui la voce predomina sul tessuto
musicale; è però un cantato di difficile intonazione vista la possenza di alcune trame
strutturali dei brani. Proprio per questa ragione si può parlare di complessità del pop,
complessità che svela un animo pacifico nella title track o in What it is without the hand
that wields it. Sono invece esagerate le linee vocali di At the edge of the world you will still
float e di My week beats your year, più simile ad un pezzo dei Groove Armada.
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Anima Popolare Anima Popolare
(22/09/08)
In realtà non è un album ma un EP promozionale, di quelli che si
vendono a fine concerto presso i banchetti della band. Il primo
disco degli Anima Popolare - si spera - uscirà a fine anno (se una
label milanese avrà a cuore la buona musica) e per il 2009 è già in
cantiere la pubblicazione di un secondo album, tante sono le
canzoni già composte dal gruppo isernino. In questo maxi troviamo
la bellissima L’acqua e la rosa, nella quale il folk viene subissato da
folate di ritmiche funkeggianti; poi c’è il cavallo da battaglia Lecca
lecca con celeri riff di flauto e violino in grande spolvero; infine
troviamo La gente che non ha futuro, il pezzo socialmente più impegnato dell’EP (ma
anche gli altri velatamente parlano di diseguaglianze e ingiustizie), quello che possiede
una travolgente linea di basso. Il bello degli Anima Popolare è che sono riusciti a sviare il
tradizionale schema folk, approdando a soluzioni più disparate come la riuscita sintesi di
rock e cantautorato, di dialetto molisano ed elegia poetica volgare. Uno dei componenti
della band è un mio caro amico. Ve li consiglio senza raccomandazioni.
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(23/09/08)
L’ala massimalista della Warp è sicuramente quella dove siedono
gli Autechre, vero e proprio boom musicale del terzo millennio.
Amber è un disco più sperimentale di Tri repetae ma anche più
rigoroso e matematico di Incunabula, sin dall’intro percussivo di
Foil. Montreal è un ritratto ben tessuto di una disputa meccanica fra
automi della guerra fredda; Silverside è più possente, con intervalli
lirici e suite progressive; Slip esce da un sintetizzatore ammaccato
ma ancora efficace; Glitch, a dispetto del nome, insegue movimenti
ondulatori tipici della tecnologia avanzata; Piezo è rotonda,
malleabile, interamente in automazione, quasi un climax; Nine rallenta l’andatura e dà vita
ad un lungo trip elettronico fatto di riverberi, chorus e incastri vari; Further si rigetta nel
tumulto del caos primordiale del big bang; Yulqen sonorizza l’ambiente circostante come
in un documentario; Nil torna al percussivismo iniziale di Foil e Teartear chiude con
eleganza e pomposità un disco già di per sé difficile e sognante. Amber non ha un senso
ben definito: ognuno può trovarci dentro ciò che stava cercando.
Autechre Amber
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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The Beatles Magical mystery tour
(24/09/08)
Ebbene sì: fra Rolling Stones e Beatles preferisco i secondi, da
tempo immemorabile. Perché nel 2008 sarebbe sconveniente non
conoscere a menadito le canzoni più belle di questo album datato
1967; Magical mystery tour, The fool on the hill, I am the walrus,
Hello goodbye, Strawberry fields forever, Penny Lane, All you need
is love. Ma è di sicuro più raro che qualcuno conosca o ami i
riempitivi del disco, ovvero Flying e la sua stereofonia estrema,
quasi dicotomica, manichea; e poi Blue Jay way e i suoi violoncelli
fra sacro e profano, un lamento in equilibrio sulla paranoia; e
ancora Your mother should know, decisamente più happy, per via di quel pianoforte, ma
anche malinconica al punto giusto, per via di quel risvolto così agrodolce. Infine Baby
you’re a rich man che, tra claps e batterie, fa un’ottima impressione, come se fosse il
completamento perfetto di una coreografia 70’s. Ciò su cui mi vorrei soffermare è la coda
di Strawberry fields forever che, terminata la sezione degli ottoni, procede ad una
digressione reverse di alcune parti della canzone stessa. Un’ottima trovata!
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Paolo Conte Psiche
(25/09/08)
L’avvocato del jazz è tornato con un disco intenso, sussurrato,
pieno zeppo di citazioni. Dopo aver riabbracciato l’elettronica,
quella di Simpati-simpatia e Dragon, Paolo Conte è tornato ad
offrirci quindici brani di grande jazz melodico, con innumerevoli
riferimenti al mondo alle avaguardie novecentiste, dall’iperrealismo
di Omicron al gusto dada della title track, con parole vegliarde
semplicemente accennate; e poi è così caldo il futurismo fatto di
biciclette e pedali di Velocità silenziosa o il nouveau réalisme di Big
Bill, personaggio mitico al pari del Macaco o di quelli che abitano in
Diavolo rosso. E ancora il concettualismo de L’amore che o l’arte postcoloniale, fatta di
miscele etniche e adulazioni multiculturali, di Ludmilla, circense triste e melanconica, e de
Il quadrato e il cerchio, mistico sfiorarsi di forze spirituali in battaglia; e che dire del nuovo
espressionismo che fuoriesce da Berlino, fredda come la tensione che l’ha attraversata
per quaranta anni? Paolo Conte ha colpito nel segno. Psiche verrà ricordato come uno dei
migliori album di questo autore, potete metterci la mano sul fuoco.
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Tiromancino La descrizione di un attimo
(26/09/08)
L’album con cui i Tiromancino ritrovarono la voglia di fare musica e
con cui finalmente trovarono il giusto compromesso per la formacanzone è sicuramente La descrizione di un attimo. Anticipo subito
che la collaborazione di Riccardo Sinigallia si sente subito e - si sa
- ciò che lui tocca diventa oro. Fantastica l’elettronica molto breaks
de Il peggio non è tranquillo o l’ottimo hip pop di Strade, con un
testo da fare invidia; ecco poi le celeberrime La descrizione di un
attimo e Due destini, oramai arcinote anche ai bambini di prima
elementare. Meravigliosa la lunga La distanza che, dal sound post
rock si sposta lentamente verso la migliore elettronica battiatiana (quella di Invito al
viaggio o de Il potere del canto); strabiliante la successiva Muovo le ali di nuovo,
soundtrack di uno dei migliori film italiani di sempre, Le fate ignoranti. Ed ancora So,
L’anima e Il pesce per finire con la cruda perifieria di Roma di notte, nella quale troviamo
un Frankie Hi-NRG MC in gran forma. Peccato che i due abbiano litigato: la superbia
diventa arroganza quando non è corredata da un pizzico di umiltà e autoironia.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Atjazz LabFunk
(27/09/08)
Jazzanova, Kyoto Jazz Massive, Koop, Nicola Conte, Gabin,
Shazz, St. Germain, tanti sono i nomi illustri che hanno evoluto un
genere tanto fantasioso come quello del nujazz, offrendoci il più
delle volte un sound muscoloso, sanguigno, verace, ma anche
romantico, soffuso, creativo. Sento di poter affermare che anche
Atjazz può sedere al fianco dei suddetti artisti, prova ne è un album
come LabFunk, disco dalle venature funky ma che col jazz ha
molto da spartire. Un’elettronica sempre al servizio degli strumenti
convenzionali, come i vibrafoni di Day 2001, l’oboe di Strike, il
basso slap di Kidnapped, la tromba di All that, il pianoforte di It’s complete e Harmony, le
chitarre di Casa de ilusion e Labfunk, il flauto di Touch the sun. Rimane fuori dal coro solo
Heavy weather, giacché la sua esecuzione è interamente affidata agli strumenti elettronici
e alle macchine digitali. Da tutto questo ambaradan ne esce un album molto godibile con
sottili parti cantate, mai esasperate, vista la leggerezza dello stile. Atjazz fa un uso enorme
dell’Akai ed è bravissimo a fonderlo col sapore tipicamente jazzy. Good taste.
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Ricardo Villalobos Thé au harem d’Archimède
(28/09/08)
A Ricardo Villalobos gli permettono addirittura di aprire i concerti di
Björk! Certo, è bravo, non c’è che dire, ma in quanto a basse
frequenze Anthony Rother viene prima di lui e, in quanto a
clubbing, forse suona meglio Timo Maas. Fatto sta che Thé au
harem d’Archimède è un disco molto noto e che si destreggia
benissimo tra groove minimal e tech house, presentando nove
tracce di intrattenimento elettronico ben fatte e sicuramente
potenzialmente di successo. Sin da Hireklon fino a True to myself,
Villalobos mostra la sua sapienza nell’intrecciare i beat a 128 BPM
con i synth acidi, come non molti altri DJ sanno fare, forse con un pizzico di tracotanza in
più. Da menzionare almeno tre tracce: Serpentin, inestricabile diavoleria minimale;
Théoreme d’Archimède, ambientalismo percussivo che termina in levare; Temenarc 1,
splendido capriccio di snare e kick. L’applicazione dell’elettronica nella musica da ballo, a
tempo debito, fu una rivoluzione. Adesso basta andare in un qualsiasi DJ store per
ascoltare tonnellate di vinili house, techno, breakbeat, d’n’b, minimal, dubstep.
•
(29/09/08)
Mobbing Rock the dog
In Emilia-Romagna i Benassi sono come gli Smith in America, lo
stereotipo del cittadino medio un po’ casalingo un po’ saggio di
montagna. Il progetto Mobbing nasce infatti dal cugino di Benny
Benassi, anch’egli malato per il sound discotecaro, con pesanti
inflessioni acide e poderosi risvolti techno. In Ohm-o-genik, il brano
di apertura, l’utilizzo dei filtri e delle automazioni è portentoso,
cosìcché la traccia dimostra di essere un vero pezzo
spaccawoofer, un apripista in grado di incendiare qualsiasi
dancefloor, anche il più snob ed esigente. Un’inclinazione, questa,
che viene a galla anche nelle successive Angell, Excellent, Eat more pasta e Kondanna.
Non potevano mancare, parlando di Emilia-Romagna, le tracce dai titoli più pornografici e
goliardici come Butter my biscuit e Open legs. Un’altra cosa da aggiungere è che su Rock
the dog le tracce le troviamo già in versione extended - o quasi - quindi già belle e pronte
per il mixaggio con CD player o Traktor. A proposito di quest’ultimo, v’è in rete un
utilissimo tutorial di Richie Hawtin: guardatevelo, collegatelo e buon divertimento.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Raf Collezione temporanea
(30/09/08)
Concedetemi questa recensione di Raf per due motivi,
principalmente: il primo è che in Collezione temporanea troviamo
un’eccellente versione di Cosa resterà degli anni ‘80, brano
simbolo di un’intera generazione più volte riutilizzato (come in Cosa
resterà di Bassi Maestro); il secondo motivo è che, in fondo, Raf s’è
fatto le ossa con Ghigo dei Litfiba. E scusatemi se è poco.
Certamente vorrei sorvolare sul gusto un po’ kitsch di alcune tracce
presenti in questa compilation, tipo Ti pretendo, Sei la più bella del
mondo, Il battito animale, Siamo soli nell’immenso vuoto che c’è o
Stai con me. Però, accanto alla succitata Cosa resterà degli anni ‘80 c’è anche Oggi un
dio non ho, profonda riflessione sull’incertezza dei propri limiti e dei propri obiettivi; c’è
inoltre Gente di mare, bellissimo pezzo performato assieme all’amico Umberto Tozzi, un
altro artista famoso per gli alti e bassi. Ciò nonostante, si può affermare che in Collezione
temporanea si trova un’importante retrospettiva dell’opera di Raf antecedente il 1996,
dall’inedito Un grande salto a Due, fino a Svegliarsi un anno fa.
•
U.S.U.R.A. Open your mind
(01/10/08)
Furono tra i più grandi progetti dance europei e diedero una spinta
talmente forte al movimento italiano da portarlo in pochi anni in
vetta a tutte le chart internazionali. Gli U.S.U.R.A., nel loro unico
album di studio, oggi appaiono un po’ bislacchi e prevedibili ma,
contestualizzaindo il periodo, si capisce bene che Open your mind
(1993), a suo tempo, fu una bomba ad orologeria. Al suo interno
infatti ci sono alcune tracce che hanno profondamente segnato il
clubbing, i festival itineranti, il djing di professione e tutto il
meccanismo discografico che gira intorno al fenomeno dance. Sia
la title track che le famosissime Sweat e Drive me crazy hanno impazzato a lungo nelle
discoteche di mezza Europa, soprattutto per la loro innovativa forma che univa al meglio
beat veloci e semplici lyrics, morbidi bassi e linee di synth progressive. Nel disco troviamo
anche una versione di Sweat composta da Rollo dei Faithless e in Open your mind è
evidente il campionamento di New gold dream dei Simple Minds e la presenza di alcuni
dialoghi del film Total recall di Paul Verhoeven. Questa è storia condivisa.
•
Will Smith Big Willie style
(02/10/08)
M’è sempre piaciuto Will Smith, sia nella sua veste di rapper con
Jazzy Jeff sia in quella di attore, dal telefilm The fresh prince of BelAir alla brillante commedia Hitch, dal fantascientifico Independence
Day al thrillerino Bad boys, dal banale I, robot al divertente Wild
wild West fino al capolavoro Men in black, colonna filmica di Big
Willie style, primo vero album del principe di Filadelfia. In questo
disco troviamo alcune perle di Willie, da Gettin’ jiggy wit it a Miami,
speciali perché capaci di fondere in un sol genere il funk dei
Jamiroquai al rap dei Run-D.M.C., il ryhthm’n’blues di James
Brown all’hip hop hardcore di Snoop Dogg. In Candy troviamo anche Larry Blackmon dei
Cameo così come in Yes yes y’all c’è il featuring dei Camp Lo od, infine, la presenza di
Left Eye nella title track. L’album si conclude col pezzo forse più emblematico dell’intera
carriera di Will Smith, Men in black che, in quanto a iconicità, supera forse anche la
pellicola con Tommy Lee Jones. Adesso devo reperire al più presto due film che mancano
nel mio archivio: I am legend e Hancock. Li avete visti?
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Les Anarchistes Pietro Gori
(03/10/08)
Pietro Gori è stato uno dei più grandi anarchici italiani, ricordato
oggi in veste di pensatore, agitatore, scrittore, poeta, autore di
canzoni popolari. I Les Anarchistes non hanno fatto altro che
prendere alcuni suoi scritti e metterli in musica, tornando finalmente
a quella mistura di folk ed elettronica, jazz e rock, che aveva
caratterizzato l’esordio di Figli di origine oscura. In questo
nuovissimo album troviamo una rivisitazione dell’Inno del Primo
Maggio e di Sante Caserio (già presente nel disco d’esordio in
versione più electro). Ma c’è anche Stornelli d’esilio, L’estaca e
Stornelli elbani, redatti da Gori durante l’esilio a Portoferraio, la cui piazza principale è a lui
intitolata. L’unica pecca del disco è la presenza della voce femminile che rende il tutto
troppo folcloristico, dimenticando un po’ quell’animo arrabbiato che i Les Anarchistes
avevano stilizzato bene con la voce di Alessandro Danelli. Meravigliose inoltre Già lo
sguardo e Inno dei lavoratori del mare. Il potere è il fulcro della questione sociale,
l’autonomia anarchica ne è la soluzione. Ideologia legittima e figlia di eventi cruenti.
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Eiffel 65 Europop
(04/10/08)
Se i D.A.T.U.R.A. operarono a cavallo della metà degli anni ’90, gli
Eiffel 65 scalarono le classifiche nel 1999, riuscendo ad emergere
col loro sound - molto commerciale - mentre l’Europa stava vivendo
un vero e proprio boom house. Erano i migliori anni di Ibiza (sia sul
versante trance che su quello balearic house) e in Italia il New York
Bar di Joe T. Vannelli e Claudio Coccoluto stava ormai per
uccidere definitivamente il movimento techno nato in Centritalia. Gli
Eiffel 65, col loro esordio Europop, contro tutte le previsioni,
riuscirono ad arrivare ad un successo stratosferico, con un sound
che non aveva nulla a che fare con la house; nel disco infatti c’erano due pezzi destinati a
sconvolgere i dancefloor europei: Blue (da ba dee) e Too much of heaven. E senza
contare che il titolo stesso del disco era una consapevole catalogazione per genere di quel
movimento che ancora oggi, anche se agonizzante, non vuol morire; penso dunque
all’ultimo Gigi D’Agostino o a Gabry Ponte il quale, non appena s’è accorto di essere il più
richiesto dei tre Eiffel, se n’è tirato fuori. Ma giudizi di questo tipo non sono affar mio.
•
(05/10/08)
John Cage Europera 5
«Il traffico mi ispira, per il modo in cui i suoni più diversi stanno
insieme. È lo stesso modo in cui i cantanti cantano insieme».
Parole di John Cage. Essere intenzionalmente privi di intenzione è
stata infatti la motivazione che ha spinto il dadaista Cage a scrivere
queste cinque opere (il cui titolo è la contrazione dei termini
“Europa” e “opera”). Europera 5 potrebbe incarnare il colmo per un
compositore: scrivere la partitura di un’opera senza nemmeno una
nota. Difatti, aperto il voluminoso involucro ci si trova fra le mani un
VHS, un dat, due floppy, un fascicolo e sei fogli volanti. Secondo le
indicazioni di Cage occorrono due voci di sesso diverso, delle quali una sceglie l’altra, che
dev’essere con essa compatibile emozionalmente da subito. Ognuno degli interpreti vocali
canta cinque arie a scelta dal repertorio operistico, da Gluck a Puccini mentre un pianista li
accompagna suonando parafrasi operistiche. Alle volte suona in modo tradizionale, altre in
quello che Cage definisce “shadow playing”, toccando talvolta i tasti, altrimenti sfiorandoli
appena o addirittura non suonandoli affatto. E le istruzioni continuano…
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Le Man Avec Les Lunettes ?
(06/10/08)
Il mainstream non sanno nemmeno dove sia di casa, eppure gli
italiani Le Man Avec Les Lunettes sono un gruppo molto
apprezzato, specialmente in terra straniera. Lo dimostrano i tanti
concerti che hanno in calendario ad Amburgo, Hannover, Oslo,
Bergen, Tubinga, Parigi, Copenaghen, Berlino, Lipsia. Questo
primo LP dal titolo misterioso è un post rock che potremmo definire
“sportivo”. La dimostrazione di questo animo vivo e sempre in
movimento è ben visibile nel divario che intercorre fra l’inclinazione
beatlesiana di pezzi come Aging again o The dogsitter e la
sfacciataggine post delle stupende Tennis system & its stars e A tea at the station. In
questo lavoro si sentono anche vecchi strumenti, spesso snobbati dai produttori, come
l’organo hammond, l’armonica a bocca, la trombetta o il theremin. E l’effetto è magico in
brani quali For a lover, Give her some flowers, Venice e Victorian swimming pool. Questo
? è un lavoro eccellente, intrigante, emozionale, a tratti indecifrabile, cupo, nostalgico
eppure tanto, tanto romantico. A pieni voti questo progetto temerario.
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Collage Donna musica
(07/10/08)
Doveva essere l’estate del 2001 o del 2002 che, assieme ai miei
fidati amici e a qualche meravigliosa giovincella, mi recai in un
paesino per assistere, un po’ bislaccamente, al concerto dei
Collage. Uno di quei concerti che ogni piccolo borgo organizza
d’estate per intrattenere, durante la festa patronale, vecchi e
giovani che non ambiscono certo ai Chemical Brothers o a Sting.
Sarà stato per la quantità di birra ingurgitata, sarà stato per la
piacevolissima compagnia… resta il fatto che quel concerto lo
ricordo come uno dei migliori della mia vita! I Collage, pop band
sarda che ha impazzato nei tardi anni ’70, rilasciò nel 1980 questo long playing di grande
fattura. In Donna musica ci sono alcuni pezzi di straordinaria semplicità che riescono ad
innalzare in toto il triste ricordo musicale dell’Italia di allora. Ovviamente stiamo parlando di
canzonette, ma queste canzonette possedevano dei motivetti indimenticabili, dei testi
molto intelligenti e un quid in più che le ha aiutate a non invecchiare nel tempo. Mi riferisco
soprattutto a S.O.S., Completo amore e Donna musica. Come eravamo nel tempo…
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(08/10/08)
Jamiroquai Synkronized
Se c’è una band che ha sapientemente fuso la tradizione soul di
Marvin Gaye con la disco dance di Cerrone, utilizzando come
insalata l’elettronica acida del nujazz, quelli sono i Jamiroquai che,
dopo il capolavoro Travelling without moving, pubblicarono
Synkronized, un lavoro maggiormente teso alla dimensione disco.
Già dall’inizio old school di Canned heat è preponderante il fascino
carismatico della voce di Jay Kay, unita al grande talento
strumentale di Toby Smith. Anche se gli altri pezzi del disco non
ottennero un gran successo di pubblico, a me piacciono parecchio i
pianoforti samba di Planet home, le chitarrine di Black Capricorn day, gli archi anni
Settanta di Soul education, il morbidissimo tocco di rhodes di Falling, il synth acidissimo di
Destitute illusions, il didjeridoo in loop di Supersonic, le lente percussioni di Butterfly, il
groove tribale così spinto e verace di Where do we go from here?, il lirismo di King for a
day e il gusto dark della famosissima bonus track Deeper underground, uscita un anno
prima per il film Godzilla. Da allora, l’originalità di Jay Kay è scemata.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Gianmaria Testa Montgolfières
(09/10/08)
Ad un primo rapido ascolto, Gianmaria Testa presenta notevoli
attinenze e somiglianze col ben più famoso Paolo Conte, ma in lui
c’è qualcosa che lo distingue completamente, qualcosa che lo
avvicina di più alla società. Insomma, Testa è più pragmatico, più
schietto, più verista, più obiettivo di Conte. Possiedo un solo disco
di questo cantautore ed è Montgolfières. Ovviamente nello scaffale
dei dischi il CD è posto immediatamente dopo l’intera discografia di
Paolo Conte. Negli accordi di questo ferroviere del jazz (sì, perché
Gianmaria è stato fino a ieri un impiegato di Trenitalia) c’è qualcosa
che rimane dentro, c’è l’inestricabile gioco quotidiano della vita, coi suoi sguardi rubati, le
birre nei bar, le crisi coniugali e gli amori nascenti, le certezze che svaniscono e l’età che
avanza. I suoi fan consigliano di ascoltare questo disco senza interruzioni, senza badare a
quale canzone stia correndo sul laser del vostro CD player. Forse io non sono un suo
accanito estimatore e quindi posso consigliarvi almeno Le traiettorie delle mongolfiere e
L’automobile. Questa è musica politica, non ideologica, ma pur sempre politica.
•
Le Orme Ad gloriam
(10/10/08)
Agli esordi erano hippie, poi sono stati prog, quindi pop e, infine,
sono tornati al grande amore progressive. Ad gloriam, essendo il
primo LP de Le Orme, non poteva quindi che appartenere al
periodo beat. Infatti Ad gloriam è pieno di luci e di colori, di fiori e di
suoni, di allucinazioni e distorsioni, di stagioni e di profumi; il giusto
diventa sbagliato, il dritto diventa contrario, l’armonia diventa
rumore, ma la grandiosità di queste canzoni rimane tale e quale. A
partire da Oggi verrà fino a Milano 1968, dai cori de I miei sogni al
ricordo del Piper Club di Mita Mita (se non sbaglio la canzone è
riferita a Mita Medici, oggi splendida attrice di teatro). E poi come dimenticare Fumo, Fiori
di giglio e Non so restare solo; oppure la carica esplosiva, originalissima, personale, di
Senti l’estate che torna? Le chitarre si infiammano assieme all’organo, i primi effetti sonori
esplodono senza timidezza, le improvvisazioni del batterista e del chitarrista fanno già
presagire la svolta prog. Adoro tutti i dischi de Le Orme, anche l’ultimo doppio live
registrato in Pennsylvania, ma questo debutto è il meglio degli anni ’60.
•
(11/10/08)
Santo & Johnny Encore
Un virtuoso della chitarra acustica e un talentuoso della chitarra
elettrica. Questi sono Santo & Johnny (fratelli Farina all’anagrafe),
quelli che negli anni ’60 hanno scritto o, più spesso, interpretato
brani strumentali fatti apposta per ballare petto a petto. Proprio del
1960 è il loro primo successo Encore che, stranamente, non è
contenuto in questo omonimo LP della Canadian-American
Records; quest’ultimo può contare d’altronde su altri bellissimi
pezzi come Annie, The breeze and I, Deep purple, Prisoner of love,
Alabamy bound ed Over the rainbow. Anche se in Encore non ci
sono successi come Love is blue e Maria Elena, è proprio dal 1960 in poi che Santo &
Johnny arriveranno al successo planetario, un successo che si estinguerà in pochi anni
senza che quell’apice venga mai ripetuto, fino allo scioglimento avvenuto nel 1976.
Possiedo parecchi LP di questo duo e il loro ascolto è sempre ben voluto, soprattutto in
quelle giornate uggiose durante le quali la città sembra verniciata di grigio e in televisione
starnazzano le solite oche che perpetuano l’antico rito della stupidità donnesca.
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Barry White Let the music play
(12/10/08)
1975. La musica sta cambiando, o forse è già irrimediabilmente
cambiata, sotto i colpi delle tante contaminazioni, di diversi
meticciati, di tutti quegli artisti che hanno sviluppato l’elettronica, il
prog, la disco dance, il synth pop, i primi timidi bagliori della new
wave. Barry White è stata, in questo panorama, una voce di valore
incommensurabile e di una lungimiranza micidiale. In quel 1976
uscì Let the music play (il singolo è del 1975), un album di rilevante
importanza storica per la musica americana ed oltre. In esso c’è
l’istanza suprema del funk, del soul, ma anche della dance ben
strutturata e strumentata. Tutto è scritto, prodotto e missato da Barry White. I don’t know
where love has gone, If you know, won’t you tell me, I’m so blue and you are too, Baby, we
better try to get it together, You see trouble with me (l’unica canzone scritta da Ray
Parker) e Let the music play sono divenute delle pietre miliari della tradizione dance, basti
ricordare i tanti remix e reworks che hanno subito nei primi anni 2000, al pari delle
rivisitazioni effettuate sui brani del francese Cerrone. In Barry White c’è vita e passione.
•
Martin Solveig Suite
(13/10/08)
Martin Solveig è uno dei migliori DJ al mondo e, anche se non è
chiara l’utilità di pubblicare album house, rimarrà nella storia per
alcune hit di rilevanza storiografica. Nel 2003 questo disco
cercherà di raccogliere gli alternative takes di Sur la terre (2002),
da Rocking music ad I’m a good man ma, soprattutto, una delle
migliori release house del nuovo millennio: il remix di Madan di
Salif Keïta, una traccia tanto semplice quanto efficace. Chitarre
africaneggianti, percussioni accentuate, una bassline travolgente,
una jam di chitarra elettrica, un cantato etnico tipicamente world
music e un beat old school, di quelli che andavano tanto allora, lontanissimi dalla moda
tech house. La forma-canzone di Madan fu anticipata da Linda ma l’effetto non fu lo
stesso. In Suite troviamo però anche interessanti dub e remix; innanzitutto la versione di
Kenny Dope proprio di Linda, poi i remix di Solveig su Believe dei Soldiers Of Twilight e su
Everything I do di Cunnie Williams; inoltre il dub di Matthias Heilbronn in Heart of Africa e
la versione strumentale di Someday a cura di Spen & Karizma.
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Useless Wooden Toys Dancegum
(14/10/08)
Dancegum è davvero un bel disco; gli Useless Wooden Toys
hanno centrato il bersaglio proponendosi come punto di riferimento
per i fanatici del dancefloor. Partendo da idee molto semplici sono
giunti ad un’efficace miscela di electro pop anni ‘80 dal marcato
sapore old school; disco dance, hip hop e broken beat londinese, il
sound è accattivante, strizza l’occhio alle recenti produzioni dei
Daft Punk e dei Beastie Boys, ma anche di Stylophonic, o sua
maestà Stefano Fontana. È impossibile restare indifferenti di fronte
al groove di Carenza di basso, un brano che molto probabilmente
farà il giro dei vari club europei, visto che non può subire la critica un po’ abusata e mirata
verso le recenti produzioni dance, che le vogliono spesso mixate con l’accetta; e non si
può nemmeno ignorare l’ironia e la freschezza di brani come Teen drive in che strizza
l’occhio al passato della dance e Super hot. Lo stile degli Useless Wooden Toys può
piacere a chiunque e sebbene il loro sound sia di facile presa nasconde anche soluzioni
originali che potrebbero intrigare i palati più esigenti. Magnifici, lo dico col cuore.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
222
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Small Things On Sundays First transmissions
(15/10/08)
Questo EP è un disco molto scuro, dove le tracce si distinguono
fortemente fra loro ma si accomunano dal denominatore comune
del rumore. Il disco potrebbe essere una vera e propria critica
istituzionale alla musica stessa, visto che il tema ricorrente è forse
quello della trasmissione audio, delle sue devianze e delle sue
interferenze. Una sorta di unwitting bias che pregiudica qualsiasi
compromesso fra qualità e quantità di dati trasmessi, come se
qualsiasi cosa avessimo intenzione di comunicare viene
inintenzionalmente stravolta durante la sua trasmissione. First
transmissions è, a parer mio, l’evidenziazione dell’impossibilità di interfacciarsi,
rapportarsi, conoscersi veramente. Prozac, Icebreaker, Radiation, Sleepers e Lava, con
diversi toni e approcci multiformi, cercano di far distinzione fra le molteplici matrici sonore
ree di sporcare l’intercomunicazione fra punti lontani. Anche se i Small Things On
Sundays sono amici dei danesi Autofant - il free jazz qui non c’entra niente - tutto è
imperniato su di una ricerca sonora d’avanguardia concreta e, a tratti, futurista.
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The Mojomatics Songs for faraway lovers
(16/10/08)
Consiglio a tutti, nella forma CD e pure nella forma live, uno dei
molti appuntamenti che Mojomatt (chitarre, vocals e armonica) e
Davmatic (batteria e percussioni) hanno in programma. Occhiali
neri alla Blues Brothers e spirito rock'n'roll (anzi, punk) nelle vene,
con riferimenti che vanno da Chuck Berry ai Rolling Stones, senza
dimenticare il primo Bob Dylan, i Byrds, Clapton e, per rimanere ai
giorni nostri, gli Hormonauts. Un CD che sembra un vinile, con
pezzi veloci ma per niente banali, dove spesso e volentieri
spuntano l’armonica e l’hammond. Una delle migliori canzoni è
Liquor store blues, dalla ritmica pulsante con un organo dal retrogusto malinconico; ma
anche le altre undici sono irresistibili. Molti hanno gridato al miracolo dopo questo disco,
un disco che sembra far uscire l’Italia dalla provincia. Carlo Pastore, addirittura, afferma
che in questi due ragazzi veneti c’è «stile da vendere e una grande capacità di
songwriting. Certo, non ci si inventa nulla. Ma che scrittura! […] Tutto quello che serve a
fare di una buona band una ottima band. E di buone canzoni, ottime canzoni.». Fate voi…
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Gino Paoli I semafori rossi non sono Dio
(17/10/08)
In fondo conviene a tutti esser cattolici, perché se il sesso non
fosse peccaminoso non avrebbe lo stesso gusto. Questo è, più o
meno, l’aforisma che più mi colpì di Gino Paoli, sempreverde
gigante della musica italiana. La sua discografia degli anni ’70 è
stata quella che ha riscosso il minor successo e non se ne capisce
il motivo visto che i primi quattro album della decade sono
letteralmente perfetti. I semafori rossi non sono Dio, altresì
conosciuto come Gino Paoli canta Serrat è del 1974 (per la storica
Durium) ed è una raccolta di cover del grande autore spagnolo. In
essa troviamo arrangiamenti magistrali e traduzioni che migliorano l’originale (un po’ come
fece Fabrizio De André sulle poesie di Edgar Lee Masters), da La donna che amo (eccelsa
traslazione de La mujer que yo quiero) a Il manichino, da Nonostante tutto (traduzione di
Que va a ser de ti) a Mediterraneo, l’amore viene cantato in tutte le salse:
l’innamoramento, la seduzione, l’ambiguità, l’abbandono, il sesso, il disamore, il
tradimento, la vendetta, la rivalsa. Un disco che vale infinitamente più del suo prezzo.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Piero Ciampi Piero Litaliano
(18/10/08)
L’ossessione principale di Piero Ciampi è sempre stata la
solitudine, una solitudine mai esaltata ma autoprocurata attraverso
l’impossibilità di smettere una vita bohémien. Ciampi è stato un
grande dandy, un bravissimo amatore, un magnifico artista, ma
anche un acerrimo vizioso, bevitore e giocatore d’azzardo. A causa
di questi suoi tormenti, di queste sue debolezze, Ciampi ha perso
tutto, la moglie, i figli. Nel primo LP di questo cantautore v’è tutta la
disperata amarezza di chi sa che il tempo non torna indietro a
riparare gli errori. Restare impassibili di fronte all’emozionalità di
Fra cent’anni e Fino all’ultimo minuto, nelle quali la depressione si compiace di se stessa
senza sfociare nel mal di vivere, è un cazzotto in pieno stomaco. Così come la grandezza
autorale di Non so più niente e de Il tuo ricordo, oppure di Qualcuno tornerà e di Hai
lasciato a casa il tuo sorriso, di Quando il giorno tornerà e di Autunno a Milano. Non
mancano le ballate un po’ più sorridenti come Lungo treno del Sud e Confesso ma oramai
la corta fune del tempo che fa far l’altalena s’era già spezzata da molto.
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Thievery Corporation Radio retaliation
(19/10/08)
Questo era un attesissimo ritorno e non ha tradito le aspettative. I
Thievery Corporation son tornati col loro electro dub militante. Fin
dal subcomandante zapatista Marcos in copertina e fin dall’incipit di
Sound the alarm si intende l’intento combat di questo quinto
capitolo Thievery. In Mandala possiamo ascoltare il sitar di
Anoushka Shankar cosicché il dub diventa asian (ma in quanto a
complessità siamo lontani dai Feel Good Productions), nella title
track l’mcing reggae è affidato a Sleepy Wonder, e in Vampires si
sente il featuring di Femi Kuti. In Radio retaliation, infatti, le
collaborazioni sono tante e riguardano quasi tutte le tracce dell’album: Seu Jorge in Hare
Krisna, Verny Varela in El pueblo unido (storico tema dei fermenti partigiani sudamericani),
Zee in 33 degree, Jana Andevska in Beautiful drug, Lou Lou in La femme parallel e Sweet
tides, Chuck Brown in The numbers game e Notch in Blasting through the city; i fiati, le
percussioni e le chitarre cementano il tutto con perizia tecnica ed originalità. Questo
combat dub rimarrà a lungo nella memoria della discografia americana.
•
Roberto Angelini Angelini
(20/10/08)
Roberto Angelini, membro del Collettivo Angelo Mai, ha all’attivo tre
dischi, il secondo dei quali è questo eponimo dal discreto successo
commerciale. Tralasciando la filastrocca Gattomatto in esso
contenuto, si può affermare che l’elettronica utilizzata in Angelini è
ben dosata e prende le giuste distanze dall’odierno abuso dei
pattern e dei software VST. Veloce e travolgente La prima,
romantica e cuttata La gioia del risveglio, sarcastica ed
arabeggiante Marrakesh; troppo b-boy, invece, l’Angelini di Solo
con te. È a questo punto che arriva il pezzo forte del disco, 12 anni
(che preferisco nella versione acustica del successivo EP Ripro-pongo), brano che mitizza
l’infanzia e la semplicità della normalità. Molto carina la melodia di chitarra di Non fingere e
la dimensione rap di Tornareanimali (sembra l’imitazione di Walk this way dei Run-D.M.C.
vs. Aerosmith); purtroppo sotto tono Portiere di notte ma decisamente ok l’outro per
pianoforte ed archi di Gocce di pioggia, dove Angelini sussurra un cantato stringato e
immaginifico. Il ritorno all’ironia e all’impegno è sempre un buon ritorno.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Klaus Schulze & Lisa Gerrard Farscape
(21/10/08)
Klaus Schulze è un geniale vegliardo. Lisa Gerrard è una voce
incantevole. Farscape nasce dalla convergenza astrale di questi
due talenti naturali, e le due ore e mezza di musica trascorrono
forsennate, con tono drammatico e angelico. Le sette Liquid
coincidence che formano Farscape intrecciano labili sezioni
ritmiche con suadenti fili di sintetizzatore e incomprensibili cantati
dal retrogusto gotico, gregoriano, arcaico. La prima suite pare una
lunghissima miglioria di Masked balls di Jocelyn Pook mentre la
seconda si traduce in una più piena accettazione dell’impianto
lirico-sperimentale. Il terzo atto è una serena riaffermazione dell’animo percussivo di
Schulze mentre la prima suite del secondo disco ritorna all’eloquenza del sacro, del
misterioso, del fideistico. Liquid coincidence 5 si sposta dal trance al prog e Liquid
coincidence 6 rompe il virtuosismo con la tremenda calma spirituale della voce della
Gerrard. L’ultimo componimento è un testamento musicologico del nuovo Klaus Schulze,
quello incline a riequilibrare le vecchie opere attraverso la magia della contemporaneità.
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Manuel Göttsching New age of Earth
(22/10/08)
Il movimento new age deve la propria identità musicale soprattutto
al primo disco solista di Manuel Göttsching, iniziatore della
tradizione age con lo splendido New age of Earth, quattro brani
(due dei quali lunghissimi) di rilassamento mentale, di riposo fisico
ed introspezione tantrica. Manuel Göttsching è il capo di quell’entità
non materica chiamata Ash Ra Tempel che, negli anni ’70, insegnò
molto agli hippie più scriteriati e agli intellettualoidi buoni per i
collettivi libertari universitari. Diciamo intanto che New age of Earth
è uno dei dischi più belli degli anni ’70, in assoluto. Da Sunrain,
passando per Ocean of tenderness e Deep distance, a Nightdust, il compositore tedesco
ci regala tre quarti d’ora di trip cerebrale, in compagnia delle presenze più dolci e morbide
della nostra vita presente ed intelligibile. La filosofia orientale, l’avanguardia jazz, la
musica cosmica dei Tangerine Dream e lo spunto artistico della meditazione producono
con Manuel Göttsching l’estrema sintesi del movimento new age, un movimento che
troppo presto s’è sfaldato per dar vita all’effimera moda dell’alternativo.
•
(23/10/08)
Enya The memory of trees
Durante un mio soggiorno a Praga, nel 2004, conobbi alcune
quarantenni scozzesi (ubriachissime ma, in fin dei conti, poco
disponibili) che, durante una conversazione al Karlovy Lázně,
indicarono in Enya la loro cantante preferita, assoluta. Pensai allora
che Enya è forse il segno di certa stravaganza culturale, che poco
o niente ha a che vedere col mondo della musica vera. Ma se
parliamo di musica commerciale antistress, allora non possiamo
non menzionare la bella irlandese che, da più di vent’anni, pubblica
dischi spesso cantati in gaelico o in loxian. Uno dei più famosi
prodotti di Enya è certamente The memory of trees, con una sola canzone in linguaggio
celtico (Athair ar neamh) ma con atmosfere che rimandano incofutabilmente alla cultura
isolana di Scozia ed Irlanda, con le loro sempiterne nebbie ed i tetti in legno bagnati dalla
rugiada mattutina. Emblematica è proprio la title track: cori da soundtrack, timpani e
strumenti aulici, possenza degli archi. Visionarie sono anche Pax deorum, Anywhere is,
Hope has a place, From where I am e On my way home. Intrigante come Praga.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Eugenio Finardi Il cantante al microfono
(24/10/08)
Se parliamo di arte, la grande differenza che intercorre tra il regime
fascista e quello bolscevico (ed anche nazionalsocialista) sta
nell’aver imbrigliato o meno le avanguardie e i movimenti culturali.
In Unione Sovietica esisteva solo arte di Stato tanto che a tutte le
avanguardie che intendevano affacciarsi sul panorama artistico
russo il trattamento prevedeva la censura, il veto, l’offuscamento, la
repressione. Nell’Italia fascista, invece, accanto all’arte di Stato
fiorivano grandi correnti artistiche che a volte non nascondevano la
loro ostilità al regime (da D’Annunzio a Pirandello, da Marinetti a
Croce). Dopo l’affare Pasternak, in URSS la politica culturale si fece ancor più cupa e
Vladimir Vysotsky, unico vero grande cantastorie dei diseredati russi, ebbe una carriera
travagliata e una vita all’ombra dei riflettori. Eugenio Finardi è stato perciò molto
coraggioso ed intelligente nel voler riproporre in italiano alcune perle dell’artista moscovita,
con risultati a mio avviso eccellenti. Assolutamente da ascoltare l’enfasi di Dal fronte non è
più tornato, Il pugile sentimentale, Il cantante al microfono e Ginnastica.
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Bikini The Cat Cold water, hot water, very hot water
(25/10/08)
Strettamente imparentati col brit pop, col post punk e con la new
wave, gli italiani Bikini The Cat presentano una musica energica,
all’origine della quale ci sono i Beatles. Ma dalla nouvelle vague
80’s ci sono le influenze dei Devo, per la parte sperimentale, e dei
Blondie, in ambito pop; uno dei componenti afferma che in Cold
water, hot water, very hot water c’è anche molto dei Nirvana e degli
Smashing Pumpkins. I quattro brani pubblicati nel demo del 2004
vengono rielaborati, raggiungendo così una dimensione più matura
e, ad essi, se ne aggiungono altri otto, realizzando un eccellente
debutto costruito attorno a sonorità graffianti alimentate da un’intensa base ritmica che
permette a voce e chitarra di emergere, rendendo ogni composizione vivace, spontanea e
singolare. Ogni brano è un pensiero, un’opinione, e s’accomunano per la narrazione d’un
certo stupore quotidiano che ormai si può captare solo con un’elevata dose di sensibilità.
Emily Brontë e You don’t need bourgeoisie vengono introdotte all’interno della soundtrack
di Una talpa al bioparco, un film di Fulvio Ottaviano datato 2004.
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Kid Loco The Italian job
(26/10/08)
Alla faccia di chi sostiene la reciproca maldicenza fra italiani e
francesi. Il grandissimo Kid Loco (quello di Relaxin’ with Cherry),
l’anno scorso, ha pubblicato per una label italiana, la
Temposphere, un disco di rivisitazioni in stile lounge di alcune
meravigliose colonne sonore di film italiani. Il Belpaese fa così una
bellissima figura nei mix e remix di Clapsoy e Penetrare di Gak
Sato o nelle suadenti note space age di Magic e Lady Magnolia
dell’indimenticabile Piero Umiliani; e ancora col rework di
Sessomatto di Armando Trovajoli (il film fu uno dei primi scandali
nella storia del cinema mondiale) o con quello di Per il disco che più amo de I Maniaci Dei
Dischi o di Fearing much di Stefano Torossi. The Italian job è un lavoro fortemente easy
listening, eppure in esso c’è la nostalgia di un’Italia viva, audace, florida, ma anche
ambigua e contraddittoria. Kid Loco è stato bravo a rimuginare tra le carte sparse, tirando
fuori un prodotto di alta qualità e di immenso valore per le nuove generazioni, abituate ai
cinepanettoni. E solo un francese poteva riuscire in un lavoro del genere.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Giuni Russo Energie
(27/10/08)
La più bella voce dell’Italia anni ’80 è sicuramente quella di Giuni
Russo, ennesima scommessa vinta da Franco Battiato. Se infatti il
genio di Jonia stava per pubblicare il vendutissimo La voce del
padrone, contemporaneamente stava lavorando sul nuovo esordio
di Junie Energie (1981, dopo Love is a woman del 1975): un disco
sensazionale, arrangiato superbamente, cantato in modo
incantevole. Otto brani che musicalmente somigliano molto a
Bandiera bianca od a Summer on a solitary beach ma che parlano
di temi parecchio differenti. Ad esempio, Lettera al governatore
della Libia è storia ambientata ai tempi del dominio italiano in Tripolitania, oppure Il sole di
Austerlitz, meravigliosa ballata tra innocenza e realtà. Che dire poi di Crisi metropolitana e
Una vipera sarò, nelle quali i giochi vocalistici si fanno impressionanti? Nella perfetta
rimasterizzazione attuata sulla discografia di Giuni Russo, compaiono oggi in Energie
anche Un’estate al mare, Bing bang being e Adeste fideles, vera e propria rarità
dell’importante repertorio della nostra artista. Una voce sottovalutata, un’artista unica.
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Peace Orchestra Peace Orchestra
(28/10/08)
La G-Stone Recordings ha avuto l’immenso merito, soprattutto per
noi che idolatriamo l’elettronica, di aver emancipato definitivamente
il genere, portandolo alle sue conseguenze più raffinate, eleganti,
maestose, emozionali. Dimenticando per un attimo Aphex Twin e
affini, possiamo affermare che grazie a Kruder & Dorfmeister
l’elettronica è effettivamente la musica d’ascolto per antonomasia.
La Peace Orchestra, pseudonimo del solo Peter Kruder, nel 1999
pubblicò un disco che influenzò fortemente gli anni a venire, sia sul
territorio austriaco (penso ai Tosca e a dZihan & Kamien) sia su
tutto il suolo occidentale (dai Thievery Corporation ai Gotan Project). Scritto interamente
da Kruder, canticchiato da Chilli Bukasa, quindi masterizzato a Berlino da Bo Kondren,
Peace Orchestra è un magnificente percorso nei meandri del downtempo e del lo-fi, con
affascinanti incursioni jazzistiche (in Who am I troviamo una registrazione Balinese Kajak)
di fiati e brush come in Meister petz o The man. Un disco perfetto, malizioso, impertinente
ed ambizioso, di quelli che si pubblicano due o tre volte in un decennio.
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(29/10/08)
Sergio Cammariere Dalla pace del mare lontano
Cammariere è un bravissimo jazzman e non se la cava male
nemmeno col cantautorato. Agli esordi lavorava petto a petto con
Kunstler ma il fascino di Sanremo lo ha richiamato alla vena pop. In
fondo è così che nasce questo “primo” disco, dalla fusione del
background jazz con l’impianto melodico del festival italiano.
L’album prende il titolo dal tema che Sergio Cammariere compose
per il folcloristico film Teste rasate e quella melodia così
riconoscibile e bella è stata più volte rimaneggiata fino a trovar
pace definitivamente in questo disco. Da segnalre anche altre
ottime canzoni come Tempo perduto, Cambiamenti del mondo, Le porte del sogno e
Cantautore piccolino, quest’ultimo omaggiando tutti (proprio tutti) i grandi della canzone
italiana, da Lucio Dalla a Claudio Lolli, da Fabrizio De André ad Antonello Venditti, da Gino
Paoli a Gianni Morandi. Si può legittimamente odiare lo snobismo di Cammariere o l’aria
intellettuale del suo fare, o addirittura la sua pervasiva presenza nelle soundtrack di molti
film. Sta di fatto che questo chansonnier è bravo, musicalmente e non solo, molto bravo.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Jazzanova Of all the things
(30/10/08)
Era ora! I Jazzanova, dopo l’entusiasmante In between del 2002,
quest’anno son tornati con un disco - permettetemi di dirlo - ancora
migliore. Senza abiurare le ormai peculiari tecniche di looping e
cutting, questa band tedesca ha saputo rinnovarsi dal punto di vista
del sound. In Of all the things c’è di tutto. E se pensate che la
Germania sia capace solo di fredda elettronica da ballo, vi
sbagliate. Si comincia con i coretti alla Timberlake di Look what
you’re doin’ to me e si arriva subito al capolavoro Let me show ya
che, tra chitarre e archi funky, intona un motivo di forte impatto
emozionale; il divertimento non scema nemmeno con I can see e Lie. Il ritmo rallenta
invece sul rhythm’n’blues di Little bird e sul soul di Rockin’ you eternally ma dopo dieci
minuti ridiventa happy con il rap di So far from home e la disco di What do you want?.
Finora la musica ascoltata ha poco a che fare con la tradizione Sonar Kollektiv dei
Jazzanova: ecco perché da Lucky girl in poi il suono torna alle origini di L.O.V.E. and you
& I passando per Gafiera, Mornign scapes e Dial a clich. Infine un ottimo remix.
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Florencia Ruiz Cuerpo
(31/10/08)
In Messico la musica moderna si sta progressivamente muovendo
verso spiagge nuove, cominciando a diventare una realtà
importantissima del panorama americano. Florencia Ruiz è una di
quelle artiste a cui stanno oggettivamente poco a cuore le origini e
le radici, e vuol partire dal presupposto che la musica non può - né
deve - conoscere confini culturali. Cuerpo, sanguigno disco
improntato alla riscoperta fedele degli istinti primordiali, degli intuiti,
delle sensazioni fisiche dell’uomo, è un ottimo esemplare di musica
classica/contemporanea o, se preferite, minimal neofolk. L’acustica
unplugged dell’intro Niño 0 viene lenita dalle magistrali orchestrazioni per violino e
violoncello di Siberia e dalle tastiere di Del cuerpo. Mistico l’ingresso in scena in punta di
piedi di Mañana e gli effetti ambientali di Alcanzar; ancor più emozionanti le altre tre
tracce, una meglio dell’altra: Sin imagen (con Leandro Ciancia al piano), Parte e
Ahogarme en mí. Infine non poteva mancare un favoloso remix di Murcof (maestro
indiscusso dell’IDM d’oltreoceano) sull’arrangiamento originale della Ruiz di Siberia.
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AA.VV. Sono pazzo di Iris Blond
(03/11/08)
Sono un fan di Carlo Verdone e trovo che il suo film del 1996, Sono
pazzo di Iris Blond, sia uno dei migliori dell’intera filmografia
verdoniana. La storia è quella di un musicista in declino, Romeo,
che ritrova lo sprint giovanile grazie alla voce di una scombinata
viveur impersonata dalla Gerini. Con gli pseudonimi di Iris Blond e
The Freezer i due cominciano a macinare successo in tutto il
Belgio (è tra Bruxelles e Charleroi che si ambienta la vicenda) con
una manciata di canzoni electro pop. Sulla OST ufficiale troviamo
infatti tutte le tracce che fanno da protagoniste durante la pellicola,
dalle un po’ tamarre Blonder by the second e Spider’s web, passando per le intriganti
Nervous (as a girl can be) e Such a bad girl, fino alle meravigliose Like angels do e Black
hole (presente sul CD cantata sia da Claudia Gerini che da Andrea Chimenti, piccolo ma
grande cantautore nostrano). Altrettanto magnifici sono i brani strumentali come Bruxelles
scene, The brother e Are we ever con un mix finale di Like angels do in bilico tra
drum’n’bass e musica elettroacustica. Adoro Iris Blond e ascolto spesso questo disco.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Nheap Realight
(04/11/08)
Mi era piaciuto sin dalla prima compilation di MusicaOltranza dove
presentava VLBI, gran pezzo jazz arrangiato in digitale. Oggi ho
finalmente potuto ascoltare un lavoro organico, completo ed
esauriente sul grande talento di Nheap, artista in rosa della
industriosa label virtuale. Realight regala cinquanta minuti di
interrogativi, infatti l’ascoltatore non può non chiedersi la
provenienza del suono messo in scena: analogico o digitale? La
risposta esatta è la seconda, ma non è scontata perché Nheap è
bravissimo a riscaldare il codice binario rendendolo affine alla rude
familiarità della tecnologia analogica. È così che nascono pezzi come 445 rainbow o Only
mind, piuttosto che Roma MSN o Passing by; uno studio jazz che si sazia di strutture IDM
ed invenzioni originali in bilico tra ambient e breaks. Realight è un disco emozionante,
disponibile per il mese di novembre in free download o attraverso una spontanea
donazione in favore dell’artista. Ma il problema nemmeno si porrebbe se l’industria
discografica italiana inviasse più collaboratori in giro per localetti e label digitali.
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Mouse On Mars Vulvaland
(05/11/08)
Questo è uno dei dischi che più ha influenzato il mio approccio alla
techno, aprendomi gli occhi sul profondo gap che esiste tra la
concezione ludica e quella intellettuale del fenomeno Detroit;
furono proprio i Mouse On Mars di Vulvaland i fautori di questa mia
rinascita culturale. L’inizio lento ma esplosivo di Frosch unito alla
sperimentale ricerca sonora di Elli im Wunderland furono un vero
colpo di fulmine; se poi aggiungiamo al novero anche la gommosa
acidità di Uah e la strappalacrime melodia al piano di Chagrin,
allora Vulvaland comincia a prendere le sembianze d’un
capolavoro. Eppure non tutto si esaurisce qui. I due tedeschi vogliono strafare e ci
regalano l’orientale Future dub e il percussionismo africaneggiante di Die Seele von Brian
Wilson. Ora il disco potrebbe davvero terminare, ma ci aspetta ancora mezz’ora di follia
glitch con Katang. Quando la riproduzione termina, avvertiamo un senso di fastidio legato
al fatto che i Mouse On Mars hanno esordito con la techno da ballo e sono arrivati a
parare al più impunito sperimentalismo di stampo tedesco. Meravigliosamente stressanti.
•
Röyksopp The understanding
(06/11/08)
Anche se indubbiamente inferiore a Melody A.M., il secondo album
dei Röyksopp (che in norvegese è il nome di un fungo che in
Molise siamo soliti chiamare “loffa di lupo”) è comunque un
traguardo raggiunto per il duo di Norvegia che riesce a infilare
alcune tracce di forte impatto elettronico, a partire dal pianoforte di
Triumphant (al basso troviamo Kato Ådland) e dai sussurri di 49
percent fino alla melodia mainstream di Only this moment (alla
chitarra troviamo Ib Kleiser); ma soprattutto in quel tormentone
capolavoro che è What else is there?, cantata da Karin Dreijer,
voce femminile dei Knife, e il cui video è oscuramente fenomenale (il pezzo contiene
campioni di Kill me with your love di Jericho e di Love me the life I lead dei Drifters). Gli
altri brani del disco difficilmente riescono ad emergere dal corpus musicale, rincorrendosi
tramite le stesse trovate musicali: parlo di Sombre detune, di Alpha male, di Circuit
breaker e di Beautiful day without you. Passate in sordina invece le grandi melodie di
Follow my ruin e Someone like me, in puro stile french touch. Ci aspettavamo di più.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Baustelle La malavita
(07/11/08)
Ai Baustelle piacciono le atmosfere poliziesche, morriconiane,
criminali, abitate da personaggi squallidi e feroci, romantici e
decadenti. Il terzo album della band toscana fu l’apoteosi di questo
immaginario, partendo con un incipit in stile cinematografico
(Cronaca nera) e diramandosi nella storia di una nazipunk
attanagliata dai sensi di colpa de La guerra è finita. Sergio è poi la
storia del letterario scemo del villaggio, solito compiere atti osceni
in pubblico; Revolver è un atto d’amore alla pistola, amica del
cuore di ogni killer che si rispetti; I provinciali è il ritratto della
provincia italiana, malata da tempo di noia endemica; a questo punto arriva uno dei punti
più alti mai raggiunti dai Baustelle, ovvero Il corvo Joe, una sorta di suonatore Jones del
terzo millennio (chi adora Fabrizio De André sa di cosa parlo). Altamente geniali anche lo
spirito thriller di Un romantico a Milano e l’indifferente denuncia di Perché una ragazza
d’oggi può uccidersi?, traccia che merita più di quello che si può pensare. Amo i Baustelle
e il disegno di quei mondi marginali, sporchi, tenebrosi, eppure così pieni di vita bruciata.
•
La Crus Crocevia
•
AIR Talkie walkie
(08/11/08)
Crocevia è un disco di interpretazoni che i La Crus hanno sempre
fortemente agognato per il loro mood chansonnier, attraverso uno
stile che riuscisse ad unire il cantautorato alla genovese con
l’elettronica nordeuropea. Obiettivo raggiunto in pieno. In questo
quarto album del duo milanese troviamo tredici cover di pezzi
abbastanza famosi della tradizione italiana, da Estate di Bruno
Martino a Pensiero stupendo di e con Patty Pravo (e Manuel
Agnelli); ma anche Tutto fa un po’ male degli Afterhours, Annarella
dei CCCP, Via con me di Paolo Conte, Giugno ‘73 di Fabrizio De
André, L’illogica allegria di Giorgio Gaber (con Samuele Bersani), La costruzione di un
amore di Ivano Fossati, Un giorno dopo l’altro di Luigi Tenco, Vorrei incontrarti di Alan
Sorrenti e via dicendo. Alcuni critici pensano che le cover siano delle operazioni di alta
chirurgia, su cui possono mettere le mani solo gli artisti più grandi e meno avventati. Ciò
non è vero dato che i La Crus hanno stravolto il tessuto musicale di queste canzoni e se
ne sono assunti la piena responsabilità, come se questi brani fossero da sempre i loro.
(09/11/08)
Il disco della completa maturazione, della totale espressione, del
maggior successo degli AIR è Talkie walkie. Bello, veramente
bello. I due francesini un po’ snob un po’ chic, con a volte un look
da clochard, si reinventano in Talkie walkie dopo il non
entusiasmante 10000 Hz legend e il City reading di Alessandro
Baricco. In questo disco c’è l’animo più francese della band, dalle
leggere palpitazioni di Venus alla ballata internazionale Cherry
Blossom girl. Arriva un po’ di sperimentalismo con Run e una
manciata di percussioni con Universal traveller; l’utilizzo
continuativo della chitarra acustica rende le tracce molto fresche e romantiche, senza mai
cadere nella malinconia di Charles Aznavour. Molto daftiana la successiva Mike Mills,
decisamente più rock Surfin’ on a rock, lirica e possente Another day (una tra le più belle
del disco), veloce e fischiettata Alpha beta gaga, fermamente strepitosa poi Biological,
quasi un componimento postumano; infine Alone in Kyoto, scelta perfetta per chiudere un
disco che non mostra cedevolezze o ridondanze, è davvero perfetta.
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Daft Punk Discovery
(10/11/08)
Immaginate di venir rapiti dalla musica in un turbine di frequenze
mai ascoltate prima, di melodie tanto calde e avvolgenti, di
immagini di uomini e ambienti in continuo mutamento, di beat che
entusiasmano e deprimono. Tutto ciò è sintetizzato nella sigla Daft
Punk, nell’album Discovery e nel film Interstella 5555. Le tre entità
sono legate indissolubilmente visto che il disco di cui parliamo è un
viaggio immaginario nella realtà discografica dell’elettronica
moderna. Questa è un’opera da inserire subito nei programmi
scolastici per la sua intrinseca musicalità e per il suo gusto artistico,
più che giocoso. One more time, Digital love, Aerodynamic, Harder, better, faster,
stronger, Crecendolls, Superheroes, High life, Something about us, Voyager, Short circuit,
Face to face, Too long o la calma imperativa di Nightvision e la stregata melanconia di
Veridis quo; sono dischi come questo che cambiano la cultura giovanile, l’approccio al
clubbing, le mode e le espressioni. Non sottovalutate mai i Daft Punk e il loro
personalissimo modo di far musica, perché questa è l’arte del nuovo millennio.
•
Gotan Project Gotan Project live
(11/11/08)
Questo live potrebbe essere la spiegazione di due fenomeni distinti
ed allarmanti che si stanno affacciando all’orizzonte. Innanzitutto
pubblicare un doppio live, dopo due soli dischi di inediti, potrebbe
significare che i Gotan Project vogliano terminare la loro
esperienza tango utilizzando il live come un’antologia o un best of;
altrimenti Gotan Project live potrebbe essere il sintomo di una vena
creativa in esaurimento, in declino, in agonia. In entrambi i casi non
c’è da star contenti, perché perdere i Gotan Project sarebbe uno
smacco per tutto il genere umano. Sperando che il trio francese
abbia altre soluzioni per la propria discografia, noi ci ascoltiamo con immenso piacere
questo lungo live che ci offre ottime interpretazioni di Queremos paz, El capitalismo
foráneo, Nocturna, Last tango in Paris, La vigũela, Che bandoneón, El norte, Tríptico,
Lunático, Notas, Arrabal, Chunga’s revenge, Sola, Vuelvo al sur, La del ruso eccetera
eccetera. Il 2 e 3 dicembre i Gotan Project saranno in Italia e suoneranno a Roma e
Milano: approfittatene se potete, bestemmiate se non riuscite e maleditevi.
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Kraftwerk Trans Europa Express
(12/11/08)
Tre sono i filoni culturali che stanno alla base del pensiero
kraftwerkiano: il socialismo, inteso come spinta dal basso della
cultura musicale; il futurismo, inteso come tensione a ricreare il
suono della realtà attraverso gli strumenti più avanzati della
modernità; l’europeismo, inteso come sentimento transfrontaliero
che unisce le terre del nostro continente in un solo abbraccio di
unità e diversità. Trans Europa Express (1977) appartiene al primo
filone per quanto riguarda il concetto neoproletario di viaggio e per
la critica al consumismo imperante; ma esso è anche un sussidiario
di musica concreta e futurista grazie all’artificiale utilizzo dei suoni reali legati al passaggio
del treno; infine, in questo disco v’è un forte senso europeo grazie all’immagine di un TEE
che tocca le principali città dell’Europa centrale unendole in un decadente battito
elettronico, digitale, tecnologico. Non si può fare a meno di Franz Schubert, di Europa
endlos, di Schaufensterpuppen, di Spiegelsaal, di Metall auf Metall, di Abzug e di Trans
Europa Express. Non si può fare a meno dei Kraftwerk.
230
Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
231
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Aphex Twin 26 mixes for cash
(13/11/08)
Il titolo confessa apertamente che lo scopo è fare soldi. E
ovviamente ci si aspetta il solito calderone di remix mal riusciti che
si aggrappa al nome di Aphex Twin per vendere qualche migliaio di
copie. Niente di tutto ciò. 26 mixes for cash è una delle più belle
raccolte di remix di sempre. Giuro. Due CD molto diversi fra loro, il
primo ispirato all’elettronica lo-fi, il secondo improntato alla cruda
IDM. I brani originali, di per sé sconosciuti o intoccabili, acquistano,
grazie alle sapienti mani di Richard David James, il tocco del
capolavoro, dimostando che il talento di AFX è naturale, vivo,
eclettico. Sono costretto ad intimarvi l’ascolto dei reworks di Time to find me di Seefeel,
Raising the Titanic di Gavin Bryars, Your head my voice di Saint Etienne, Une femme n’est
pas un homme dei Beatniks, Heroes di Philip Glass, Let my fish loose di Nobuzaku
Takemura, The beauty of being numb dei N.I.N., You can’t hide your love dei DMX Krew
ma, soprattutto, il più bel pezzo electro ambient della storia, il “care mix” di Journey dei
Gentle People che, ai tempi d’oro, suonava così bene nelle sale del Bugsy.
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Fabrizio De André Rimini
(14/11/08)
Rimini è l’emblema di un’Italia piccolo-borghese, vacanziera ed
inutile da governare (e qui si nasconde una citazione
memorabile…) che se ne frega dei sogni, delle idee e dei problemi
per annegarsi nell’illusione del consumismo, dell’omologazione e
del conformismo. Fabrizio De André nel 1978 pubblicò a tal
riguardo un capolavoro che toccava esaustivamente questo tasto,
senza prender posizioni di condanna ma limitandosi a fotografare
dalla finestra la situazione sociale. In Rimini troviamo anche
Parlando del naufragio della London Valour, tragedia consumatasi
di fronte alla negligenza e all’indifferenza di tutti, oppure Andrea, scanzonato ritorno ai
temi della pace e della guerra, od ancora Sally, dolcissima ballata sulla perdizione e
sull’infanzia, sulla virtù e sull’errore. Un segno del tempo sono anche Coda di Lupo,
protesta alla macchinazione del potere sul disordine ideologico dei giovani di allora, e
Avventura a Durango, deandreiana riproposizione del classico di Bob Dylan; e infine un
po’ di folk intellettuale con Zirichiltaggia e Volta la carta. De André è con noi.
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(15/11/08)
Flavio Giurato Marco Polo
Uno dei cantautori più dimenticati d’Italia è certamente Flavio
Giurato e, già per questa colpa, dovrebbero eseguirsi condanne a
morte ai danni dei critici da quattro soldi che affollano la
promozione del nostro mondo discografico. Nel 1984 Giurato dà
alle stampe Marco Polo, disco sul grande ambasciatore veneziano
con frequenti ritorni al mondo d’oggi e alle sue stramberie. Si
comincia con I punti cardinali, segno di un perdersi e di un
contemporaneo ritrovarsi, che ha ne Le funi e in Vela e mare il suo
compimento, per la riuscita della partenza, del viaggio del cuore,
dell’approdo. È però a Gerusalemme che il cammino ha la sua chiave di volta, tramite La
Provvidenza, vestita come un attore americano che, tra crociati e sepolcri, spinge Marco
Polo sempre più a Oriente, quindi Nel deserto armeno, dove la mediocrità della natura gli
dà la forza per giungere in Chatai dal Gran Khan. Emblema della scoperta, come fosse un
Ulisse di fine Medioevo, Marco Polo è la prova che il talento italiano non può fare a meno
di sentimenti, curiosità, ingegno, creatività e genio. Un popolo di santi ed eroi…
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Numero6 Dovessi mai svegliarmi
(16/11/08)
Sarebbe semplice pop radiofonico la musca dei Numero6 se non
fosse per quegli elementi un po’ electro un po’ post che costellano
le loro belle canzoni. Dovessi mai svegliarmi è il secondo disco
della band che, tra le difficoltà sentimentali di Automatici e la paura
incondizionata di A galla i demoni, la preparazione artistica di A
quest’ora di notte e la stridula incertezza di Al cuore della storia,
riesce nell’ardua impresa di non stancare l’ascoltatore, mettendolo
nella condizione di riflettere sull’originalità dei testi e sugli strumenti
che via via si vanno infiltrando tra le pieghe del disco. Molto bello il
riff di Verso casa, interessantissimo il testo di Stiamo per perderci, intriganti gli echi di
Spara se vuoi, coinvolgente la ritmica di Se esploderà, rumoroso il levare di Ora però
credimi. I Numero6 continuano a sfornare potenziali hit come Mi succede, Le parole
giuste, Un finale rocambolesco (la traccia più affascinante dell’intero album), È arrivato il
freddo e Da piccolissimi pezzi (ultimamente ricantata con Bonnie Prince Billy nell’EP
Quando arriva la gente si sente meglio).
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Franco Battiato Fleurs 2
(17/11/08)
Il maestro Franco Battiato ha deciso di pubblicare il capitolo
mancante della trilogia dei Fleurs, dedicata a cover e
interpretazioni del passato. Stavolta l’inedito del disco è il primo
brano ed è una meravigliosa canzone intonata con la Consoli
(Tutto l’universo obbedisce all’amore). Poi si parte con le cover. La
prima è Era d’estate, meraviglioso brano dell’indimenticato Endrigo,
quindi è la volta di E più ti amo di Barrière che Battiato aveva già
cantato nel 1965 per la Nuova Enigmistica Tascabile; la terza
rivisitazione è It’s five o’ clock dei greci Aphrodite’s Child seguita da
Del suo veloce volo, personale rilettura (la traduzione del testo è di Battiato) di Anthony &
The Johnson; arriva così Et maintenant di Becaud e l’allegra Sitting on the dock of the bay
di Redding. A questo punto è l’ora dei capolavori. In successione arrivano Il carmelo di
Echt del cavallo pazzo Camisasca, Il venait d’avoir 18 ans della splendida Dalida, Bridge
over troubled water di Simon & Garfunkel, La musica muore di Camisasca (il pezzo più
bello di Fleurs 2) e infine L’addio, scritta al tempo per Giuni Russo.
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Port-Royal Afraid to dance
(18/11/08)
È stata un’immensa fortuna aver ascoltato i genovesi Port-Royal, il
loro sound è talmente coinvolgente da far gridare al miracolo.
Questa band è la prova che in Italia siamo tuttora capaci di recepire
le lezioni della grande musica internazionale e soprattutto di
processarle in maniera personale e autorevole. Se l’impianto
principale di Afraid to dance può venir considerato post rock, va
altresì premesso che i Sigur Rós sono lontani anni luce da questo
disco. Per i Port-Royal potremmo invece parlare di un mix tra múm
e Slint, Telefon Tel Aviv e Arab Strap, Aerial M e Casino Versus
Japan. Il sincopato fluire di Bahnhof Zoo e l’inquietante abbraccio ambientale di Pauline
Bokour, uniti al riverbero di German bigflies e all’accorato appello nostalgico di Anya:
Sehnsucht danno l’idea del corpus discografico di questa band e dell’immaginario
postsovietico cui si ispirano. Addirittura con i Port-Royal si può ancheggiare (o ballare),
grazie alle splendide Deca-dance, Internet love e Roliga Timmen. Superficiale starvi ora a
parlare di Putin vs. Valery e di Leitmotiv / Glasnost: ascoltatele da voi e giudicate.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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The Dave Brubeck Quartet Time out
(19/11/08)
Gli strumenti sono affidati ad un personale altamente specializzato:
il pianoforte a Dave Brubeck, il sax alto a Paul Desmond, il
contrabbasso a Eugene Wright e la batteria a Joe Morello, mentre
la produzione è affidata a Teo Macero. Questa perfetta alchimia di
talenti e arrangiamenti fa sì che Time out (1959) sia un capolavoro
assoluto dell’hard bop e del cool jazz. I sette brani che costellano la
tracklist del disco sono uno più bello dell’altro, a partire dal
famosissimo pianino di Blue rondo à la turk, brano riarrangiato in
mille salse da mille interpreti diversi in mille generi diversi, dal prog
al rock, dall’elettronica all’orchestra da camera. Ma è solo dopo Strange meadow lark che
il dilagante genio creativo di Paul Desmond viene fuori, grazie alla meravigliosa Take five,
qui suonata tenendo in vista le percussioni e il sax con un appeal unico che la rende
perfetta per un remix nujazz. Gli altri brani dell’album filano lisci come l’olio e, anche se
non raggiungono gli apici di Take five, ben disegnano un mondo pieno di forme e colori.
Non a caso la copertina è funzione dell’astrattismo di Neil Fujita.
•
Giusy Ferreri Gaetana
(20/11/08)
X-Factor, paradossalmente, fa male alla musica perché ne offre
un’idea sbagliata, basata esclusivamente sul prodotto, sulla
promozione, sull’immagine, sulle vendite, sul fatto che la musica è
buona solo quando piace a tutti. Dopo che i vincitori del programma
RAI sono giustamente spariti dalle scene, perché davvero
improponibili, è stata la volta della ben più interessante ex cassiera
Giusy Ferreri. Gaetana è il primo LP della piccola cantante
siciliana, la cui voce è sicuramente il suo lato più intrigante e
professionale. I primi pezzi della tracklist sono i migliori: L’amore e
basta, cantata con Tiziano Ferro, mecenate della Ferreri, Novembre, che quasi plagia il
successone di Amy Winehouse, Stai fermo lì e Non ti scordar mai di me che oramai
conoscono anche i neonati ed, infine, Aria di vita. È importante ribadire che stiamo
parlando di pop ben confezionato adatto ad un target di persone poco inclini alla ricerca
musicale con un’età che va dai quindici ai trentacinque anni. E poi… non sarà bella come
Leona Lewis ma a me la Giusy fa un sangue senza eguali (esiste un video hot in rete)!
•
(21/11/08)
Se non stessimo parlando di elettronica, potremmo affermare che
si tratta di math rock o di fusion. E invece Chris Clark - qui
chiamato solo Clark - è un padrone dell’elettronica d’alto bordo,
così difficile da sequenziare che, solo al pensiero, in tanti si tirano
indietro. Body riddle è l’ultima creatura di Clark e prevede una
solida simbiosi fra elementi musicali e installazioni multimediali. Gli
spaventosi beat al cardiopalma, uniti ad un’estrema dolcezza delle
singole parti melodiche, rende l’immagine di un calvario sonoro
(perché di dolce strazio stiamo parlando) che spazia dal free jazz
all’intelligent dance music, dal breakbeat all’ambient. I sofismi intellettuali appaiono qui
prosaici e superflui, in quanto alla musica è delegato il mero compito di aprire spazi
mentali all’interno di una più ampia esperienza dei sensi (si sta soprattutto parlando della
dimensione live). Posso soltanto menzionare, perlomeno, alcuni brani come Herr bar,
Herzog, Ted, Vengeance drools e Matthew unburdened. Consiglio, d’altronde, l’ascolto
completo e rilassato del disco nella sua feticistica e raffinata complessità.
Clark Body riddle
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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dZihan & Kamien Freaks & icons
(22/11/08)
Ho sempre amato dZihan & Kamien perché per me rappresentano
quel genere di fare musica che non ripudia le etichette ma che
cerca, al loro interno, di amalgamare elementi di diverse tradizioni
musicali per dar vita ad un sound che possa rilassare e far ballare,
divertire e far pensare. Il primo disco del duo austro-turco è Freaks
& icons (2000), oramai divenuto un cult agli occhi degli estimatori
della Couch Records, ed è pieno zeppo di spunti innovativi. A
partire dal perfetto binomio formato da After e Before che, tra tabla
e rhodes, si incanala in territori al confine tra new wave e jazz, con
una strizzatina d’occhio alla house più modaiola. La dicotomia di generi è visibile nel
romanticismo che pervade Where are we?, Homebase, Colores o Smile e negli eccitanti
groove orientali di Streets of Istanbul, I guess she…, Carta de condução o Spacewater. Il
capolavoro assoluto del disco è però Slowhand Hussein, vero e proprio componimento in
tinta multiculturale suonato per ney e apparecchi digitali. Sono Dzihan e Kamien i nuovi
trovatori asiklar che tramandano la musica turca con estrazione varia di spunti musicali.
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Non Nobis Domine Giovinezza
(23/11/08)
Di gruppi neofascisti ne fioriscono tanti ma pochi sono quelli bravi.
Il loro vizio sostanziale sta nella bassa qualità sonora di molte
produzioni (se si eccettuano le band più mainstream come 270 Bis,
La Peggio Gioventù e D.D.T.) che attanaglia anche questo
secondo LP dei Non Nobis Domine intitolato Giovinezza. Di certo,
confrontato al precedente Apologia, la qualità è decisamente
migliorata ma la strada da fare è ancora tanta e forse risulta difficile
trovare studi di registrazione pronti a mixare ed editare musica al
limite della costituzionalità. Fatto sta che le musiche e i testi di
questo disco sono molto belli, dall’organo di Non ho tradito fino alle schitarrate di Elegia. I
brani più pregni di significato apologetico sono certamente El Alamein, battaglia che vide
esplodere il coraggio degli italiani, Giovinezza, ennesimo inno all’impeto giovanilistico,
Mercenario, dura condanna ai nuovi soldati dell’Esercito Italiano, M.A.S. 96, solita
rivisitazione dell’aggressività fascistoide di settant’anni fa. Non mi sono mai riconosciuto in
queste interpretazioni e non mi sono mai legato a questi nuclei.
•
Goldie Timeless
(24/11/08)
Gli anni Novanta hanno fatto schifo. Sono stati anni di confusione
semantica, anni di completo caos culturale e subculturale. La moda
giovanile e la musica pop di quegli anni sono state totalmente
anonime ma degli sprazzi di luce si sono intravisti col senno del
poi. Bene. Io gli anni Novanta voglio ricordarmeli soprattutto per
questo disco di Goldie, Timeless. L’Inghilterra (ahimé, devo
ammetterlo) è stata la terra dove si sono contemporaneamente
evolute le due grosse vie dell’elettronica moderna; il trip hop dei
Massive Attack, torbido, lento, dilatato, e il drum’n’bass di Goldie,
ossessivo, spasmodico, vuoto di entusiasmo eppure tanto carico di contenuti. Nella lunga
omonima suite che apre il disco troviamo un trittico di temi musicali che fanno emergere
con una chiarezza postmoderna la vita delle nuove periferie metropolitane, nelle quali la
vita sembra essersi fermata ai ritmi etno-tribali. Il progresso dell’industrializzazione è una
chiave di volta della comprensione a due facce: esso è la causa del declino delle “inner
cities” ma, allo stesso tempo, rende possibile l’esistenza del linguaggio jungle.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Coldcut Sound mirrors
(25/11/08)
Gli operatori del settore si sono detti entusiasti di questa band e del
relativo sound da essa sprigionato. Io no. Sound mirrors dei
Coldcut non è altro che un tentativo di coniugare un arte reclamata
come il turntablism con il becero commercialismo del pop. Non a
caso la band cataloga la propria musica con l’etichetta di pop
multimediale, cercando di dare un tono maggiormente intellettuale
al proprio progetto. D’altronde, questo lavoro diventa molto
interessante durante i live, perché ai continui incastri di loop e cut
vengono associate le riprese originali del sample video di
provenienza (famosissima quella del discorso di Tony Blair). Sound mirrors è un qualcosa
di già sentito, e meglio di loro hanno fatto almeno i Prodigy. Dopo aver ascoltato True
skool, Man in a garage, Mr. Nichols, Colours the soul, Boogieman e Just for the kick
andatevi a saziare col vero turntablism (non che i Coldcut siano dei caproni!), ovvero
quello dei francesi C2C - pluricampioni mondiali del campionato DMC - o quello contenuto
nel tremendo bootleg The dirtchamber sessions volume one di Liam Howlett.
•
Horacio Salgán Trayectoria
(26/11/08)
Un grande capostipite del tango è sicuramente Horacio Salgán,
uno di quei compositori che ha rivitalizzato ed emancipato un
genere altrimenti confinato in un lembo di terra. Trayectoria è uno
dei suoi tanti LP, da pochi anni pubblicato su CD rimasterizzato,
che contiene una lunga e fantasiosa tracklist. A momenti di giubilo
sonoro seguono attimi di lentissimo divagare, fasi acute di
bandonèon e lunghe suite d’archi, arrangiamenti ora infuocati ora
strappalacrime. Tutto questo perché il tango è come il rock, è una
questione di estremi, o si conquista o si abbandona. L’immaginario
che Salgán si porta dietro è quello delle sconfinate pampas e degli squallidi localini in cui
la tradizione del tango è tramandata con autorità e autorevolezza. A fuego lento, La ultima
curda, La luz de un fosforo, Sueño querido, Milonga con variaciones, Una lagrima, Hotel
Victoria, El choclo e soprattutto Gallo ciego sono i pezzi più emblematici di questo
Trayectoria tanto che Horacio Salgán non viene messo in discussione nemmeno dagli
argentini più puristi, al contrario di quanto è accaduto ad Astor Piazzolla.
•
24 Grana K album
(27/11/08)
Opera in K minore. Questo potrebbe essere l’ironico sottotitolo
dello strepitoso K album dei partenopei 24 Grana. Gli ingredienti
della perfetta ricetta sono i seguenti: dialetto napoletano, sonorità
electro rock, reminiscenze dub, completa e assoluta indipendenza
discografica. La Pikkola kanzone per K è un divertissement sulle
ambizioni che cozzano con la cruda realtà; ‘E kose ka spakkano è
un meraviglioso canto di soddisfazione e umiltà; Kanzona doce è il
pezzo lento del disco col tema della ninna nanna; Kanzoneanarkika
sta tra punk ed elettronica e sullo sfondo contiene la libertà
d’azione; Kanzone su un detenuto politico è il toccante ritratto di un perseguitato
antisistema; Kanzone su Londra è poi un omaggio alla città più grigia d’Europa; Kanzone
del pisello è un languido tentativo di trovare la luce tra le ombre; Kevlar è il pezzo
musicalmente più sperimentale del disco; infine Kanzone del fumo, una bellissima traccia
strumentale in bilico tra dub e post rock. Come strumentisti, i 24 Grana sono bravissimi,
come autori anche; quindi non ci sono scuse per non amarli.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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50 Cent Get rich or die tryin’
(28/11/08)
Ci si può credere o meno, ma 50 Cent rappresenta
l’emancipazione della vita di strada. E, sociologicamente parlando,
Curtis James Jackson è parecchio emblematico, quasi una
convenzione della storia contemporanea. 50 Cent è la
riproposizione pop, in senso warholiano, del protestantesimo,
ovvero della ricchezza figlia del lavoro, vista come mezzo per
innalzarsi socialmente. Difatti l’ossessione di arricchirsi per
riscattarsi come individuo è un concetto che, nolens volens, sta alla
base della nostra cultura europea (da Smith a Locke, da Lutero a
Calvino). Diventa ricco o muori provandoci. Un dogma, questo, talmente spregiudicato da
spaventare anche i capitalisti più avidi delle banche internazionali. All’interno del disco
troviamo tracce prodotte da Eminem (Patiently waiting, Poor lil rich, Many men o High all
the time), da Dr. Dre (In da club, Heat, Back down o If I can’t) e da Denaun Porter, come la
famosissima P.I.M.P., reinterpretata in italiano dai Cor Veleno. Non capisco come facciano
gli americani a ballare questo rap, ma intanto 50 Cent fa soldi a palate.
•
David Fiuczynski & John Medeski Lunar crush
(09/12/08)
Tra i due litiganti, il terzo gode. David Fiuczynski e John Medeski si
combattono la centralità artistica di questo magnifico disco ma non
si accorgono che la star è un’altra, Jojo Mayer. In Lunar crush la
cultura fusion è il minimo comun denominatore, e qui e là troviamo
maggiori o minori accenti jazz, funky, progressive; ma su tutto
regna sovrano l’infinito talento del grande batterista dei Nerve. Vog
e Gloria ascending sono forse i pezzi più fusion, mentre il jazz lo
troviamo in Pacifica e Quest; decisamente più funk Pineapple e
Freelance Brown. Lunar crush è un disco di virtuosismo puro,
vocale, ritmico, chitarristico ma, evidentemente, proprio per questa sua natura manierista,
non può essere un disco per tutti i palati. A me piace soprattutto la presenza, dietro ai
rullanti, di Jojo Mayer il quale, anche se non s’espone come quando fa drum’n’bass, crea
un tappeto ritmico di grandissimo impatto, aiutato forse dai trigger, che integra le suite di
chitarra elettrica e d’apparecchiature elettroniche, regalando un’ora di intensità magistrale.
Se vi piace il genere, questo disco diventerà un must senza eguali.
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Morose People have ceased to ask me about you
(10/12/08)
Un recensore più bravo di me, Giovanni Lista, ha scritto per Sonic
una review dell’ultimo disco degli italiani Morose: «Starsene sdraiati
a pelo d’acqua, galleggiando. Gli occhi serrati, per sfuggire al
riverbero del sole. Le orecchie sommerse che si riempiono di suoni
ovattati, lontani, invadenti. E poi l’ansia, la certezza che da un
momento all’altro arrivi l’onda che ti farà definitivamente
sprofondare negli abissi, oltre. Lentamente, abituarsi a quell’ansia,
all’equilibrio sottile fra calma esteriore ed irrequietezza, e ascoltare.
Concentrarsi solo su quei suoni, abbandonare tutto il resto,
scivolare alla deriva, lasciarsi permeare dal pianoforte, dai fiati; perdersi in uno spleen
rassegnato, razionale, fatto di testi lucidi, quasi recitati e intrecciati ad una chitarra classica
fragile; dissolversi, senza l’appiglio di un rullante, senza un acuto che sciolga la mente dal
torpore. E finalmente cadere, nella rassicurante malinconia di chi sa che non è la caduta
ad uccidere, ma l’impatto improvviso». Il disco in questione è un altro, People have ceased
to ask me about you, ma le emozioni, le ansie e le preoccupazioni sono le stesse.
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The Strange Death Of Liberal England Forward march!
(11/12/08)
Sono giunti in punta di piedi e hanno subito smosso le torbide
acque dell’underground inglese; la loro grandezza sta nel mischiare
quasi tutte le tradizioni continentali e tirarne fuori un nuovo, unico,
genere di stampo universale. Loro si chiamano The Strange Death
Of Liberal England (il nome deriva da un libercolo di poco conto) e
il primo maxi è questo Forward march!. Anche se stanno lavorando
alla pubblicazione di un disco più completo e complesso che
contenga la nuova meravigliosa Angelou, questo primo EP è un
caso raro di come il folk non campi di solo folk, ma abbia bisogno
del post rock e del grunge per ritenersi un genere al passo coi tempi. Otto marcette
tradizionali che, da Modern folk song a Oh solitude, passando per A day another day e An
old fashioned war, tracciano le linee di sentori musicali così lontani dalla cultura british per
scegliere quel vento proveniente dall’Islanda, dall’Australia e dalla Germania. Fantastiche
le chitarre di Mozart on 33, altrettanto unici i rullanti di I saw evil, tenebrosi accordi di piano
in God damn broke and broken hearted. Esploderanno di sicuro.
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Shinobi-One Basic elektronic: drum’n’bass
(12/12/08)
Alcune delle cose che so sulla musica e l’apprendimento di alcune
delle tecniche di turntablism e sequencing le devo ad un mio
grande amico, di cui ho perso i contatti, ma che rispondeva al
nome di Shinobi-One (oggi ha definitivamente virato per l’hip hop e
si fa chiamare Frankie Pelle). Erano gli anni in cui la musica potevi
crearla alla PlayStation, gli anni d’oro di Vitaminic, dei pattern, dei
loop e dei sample, dei CD-R digital audio, dei primi computer ad
alta capacità di calcolo. Basic elektronic è il secondo disco che uscì
dalla mente di Shinobi-One (dopo il primo acerbo Advanced dgtal
technics) e proponeva dodici tracce di puro drum’n’bass digitale, le migliori delle quali
sono sicuramente Flying ability, Hawort Hill e Dryriver valley. In verità il disco non offre
solo d’n’b ma è contaminato fortemente dal funk (Jamiroquai su tutti) in Matukituki rapids,
dalla techno in Watzman Path, dal breakbeat di Tony Touch in Aso Volcano, dal lo-fi (e qui
si parla di Tosca) in Undfjallet slopes. A Basic elektronic seguirà In my eyes the dragon e
poi… boh! Mi ascolto questi tre CD e penso a quanto era bello il 2000.
•
Calibro 35 Calibro 35
(13/12/08)
Se amate il poliziesco, il noir all’italiana, le colonne sonore di
Morricone e i personaggi alla Tomas Milian, allora non potete
mancare l’appuntamento con i Calibro 35. Questo nuovo progetto
si prefigge di modernizzare la musica di quei film con elementi
strumentali originali e con uno stile più live che soundtrack. Italia a
mano armata, Summertime killer, Milano calibro 9, Gangster story,
questi sono solo alcuni dei titoli del self titled, a cui va aggiunto
perlomeno un frammento della colonna sonora di Indagine su un
cittadino al di sopra di ogni sospetto. Interamente strumentale, il
disco si presenta, in fin dei conti, come un entusiasmante esperimento di rock poliziesco,
con inserti di organo e corni al posto giusto; le batterie, sempre in gara con le chitarre
lapsteel, fanno da fondamenta ad una struttura pressoché progressive. Non a caso,
Calibro 35 pare più un disco del Banco (primi anni) o degli Area, piuttosto che un progetto
nato dalla mente di Luca Cavina, Enrico Gabrielli, Massimo Martellotta, Fabio Rondanini,
Tommaso Colliva, e mettiamoci pure Roberto Dell’Era degli Afterhours.
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DJ Shadow Endtroducing…
(14/12/08)
Un disco molto importante per la cultura del djing è certamente il
primo progetto solista di DJ Shadow, Endtroducing…, un lavoro
nato senza che il suo autore abbia suonato una nota, ma possibile
perché frutto delle capacità di sampling e looping. Endtroducing…
è interamente costituito da campioni che DJ Shadow ha messo
insieme coi suoi giradischi e, proprio per questo, è riuscito a
segnare il 1996 con canzoni come Building stem with a grain of
salt, Midnight in a perfect world, What does your soul look like o
Changeling. Il cut-up dei brani è troppo perfetto per poter parlare di
effimera provocazione modaiola, e gli anni intercorsi non fanno che convalidare la tesi
secondo cui DJ Shadow è stato bravo a guardarsi allo specchio, prendere tutte le sue
anime - hip hop, electro, techno, punk, jazz, soul - e provocare una reazione chimica
senza guanti. Personalmente non sono cresciuto ascoltando questo disco ma ora, col
senno del poi, mi rendo conto di quanto sia stato fondamentale durante gli anni Novanta,
quel decennio che ha così poco da dire e che sembra il migliore del secolo scorso.
•
Anthony Rother Simulationszeitalter
(15/12/08)
Letteratura, arte figurativa, scienza, scultura, poesia, musica
contemporanea, politica. Tutte si sono interessate più o meno
profondamente all’interazione uomo/macchina, alle sue effettive
applicazioni nella realtà e allo status etico-morale dell’automa. In
musica gli esempi sono tanti e di altissimo livello, dai Daft Punk ai
Kraftwerk, e uno dei contributi più importanti è sicuramente quello
di Anthony Rother con Simulationszeitalter, un lavoro improntato
all’ossessiva e macchinosa ricerca dell’io robotico. Dopo gli
spaventosi presagi ambientali di Databank / Nuklearer Winter, si
giunge all’ultima tappa dell’evoluzione umana con 65 millionen Jahre e al definitivo
compromesso fra funzionalismo e semantica con Genstruktur. Il pezzo chiave è
certamente Biomechanik, perfetta osmosi organico/inorganico, succeduta dall’utopia
postindustriale di Maschinenwelt e Simulationszeitalter; tremendamente evocativa è poi
Nacht der Götter seguita dal finale onirico di Visionen. Produzione seriale, vuoto emotivo e
capacità sovrumane sono i tratti distintivi di questo capolavoro assoluto.
•
(16/12/08)
Pivot O soundtrack my heart
A dispetto dei loro più famosi connazionali (gli Architecture In
Helsinki) i Pivot si presentano decisamente più rockettari ed
elettronici allo stesso tempo. Il loro mood è più facilmente
assimilabile al meticciato tra gli MGMT e gli LCD Soundsystem o a
quello tra !!! e Black Strobe. Si comincia con un intro, October, e
con un pezzo strumentale, In the blood, cosicché subito dopo si
entra nel vivo del mondo Pivot: con O soundtrack my heart che
sembra una preghiera alla dea musica e con Fool in rain che, a
forza di stretchare il sustain del timbro, si infila nel cervello e
comincia a divorare materia grigia. Un’altra prece è poi Sing, you sinners, seguita dal
minimalismo electro di Sweet memory e dalla calma piatta, tra math ed experimental rock
di Love like I; troppo casinista Didn’t I furious, anche se in linea col tema, e molto
rilassante Epsilon. Infine sembra di ascoltare il lamento di giocattoli rotti con Nothing hurts
machine e il piagnisteo di mostri marini con My heart like marching band. I Pivot c’hanno
azzeccato ma del loro disco se ne parlerà poco o niente, purtroppo.
238
Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
239
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Pizzicato Five Bossa nowä 2001
(17/12/08)
Musica simpatica, divertente ed orecchiabile quella dei Pizzicato
Five, famosissimo gruppo pop giapponese (quello che ha esportato
lo stile Shibuya nel mondo). Questo disco del 1993 è uno strambo
accrocco di tradizioni musicali e mode diverse: pop nipponico,
bossa nova sudamericana, disco music francese; modernariato e
kitsch tokyoti, marketing e pubblicità britannici, leggerezza e
spensieratezza italiane. Si può ben immaginare cosa sia questo
Bossa nowä 2001! Da Rock & roll fino a Cleopatra 2001 è tutto un
fiorire di tromboni, percussioni, flautini, dolci vocine e chitarrine
easy. Passando per le simpaticissime Magic carpet ride, Groovy is my name, Strawberry
sleighride o Sweet Thursday si ha la sensazione che il Giappone desideri attraccare ad
occidente, si ha l’idea di un Giappone che ha dimenticando il suo retroterra culturale
attraverso la scorciatoia pop (non inteso in senso musicale). Non a caso, ai Pizzicato Five
preferisco autorità musicali locali molto meno inclini al compromesso come Ryuichi
Sakamoto (e la sua Yellow Magic Orchestra) o, più che altro, Ryoji Ikeda.
•
Four Tet Rounds
(18/12/08)
Un sound personalissimo, un retroterra culturale affollato, una
personalità umile e disponibile, un prodotto di altissima qualità;
Kieran Hebden aka Four Tet trova in Rounds la quadratura del suo
cerchio. Spesso è proprio il terzo disco di un artista ad essere
quello della definitiva consacrazione, del successo mainstream,
della legittimazione presso la critica più autorevole. Rounds è infatti
perfetto. Si parte con i ricordi d’infanzia, tra suoni e colori, di Hands
e si seguita con la vibrante dolcezza di She moves she, quindi col
fittizio bosco incantato di First thing; dopo gli errori digitali e le
cedevolezze di un’arpa di My angel rocks back and forth si giunge al suono frullato di Spirit
fingers e all’immobile percussionismo post di Unspoken. Dopo l’interludio di Chia è la volta
delle chitarre, che ritroviamo in cue con As serious as your life; quindi si va a parare nel
free jazz di And they all looked broken hearted mentre la conclusione spetta al fanatico
crescendo di Slow jam. In Four Tet ritroviamo quasi tutte le anime della modernità
elettronica, dall’IDM al glitch, dal post all’ambient. Grande e grazie.
•
Moltheni I segreti del corallo
(19/12/08)
Non ho idea di come catalogare l’opera di Moltheni. Egli è
certamente un cantautore ma non utilizza lo stile proprio dei
cantautori. Egli è un rocker ma il rock non sa nemmeno dove sia di
casa. Egli è un bravissimo cantante ma sembra che la voce stenti a
decollare. Fatto sta che i suoi dischi sono bellissimi e, l’ultimo di
questi, lo è ancor di più. I segreti del corallo, uscito in sordina, è un
album con tante sfaccettature di tono e interpretazione, a partire
dal triste incipit di Vita rubina. Il facinoroso vivere quotidiano è
ritratto ne Gli anni del malto, la suadente bellezza delle cose belle
in Che il destino possa riunire ciò che il mare ha diviso, il dirompente anticonformismo ne
L’amore acquatico, la malinconia del vuoto in In porpora, il nichilismo come nemico da
combattere/rispettare in Oh, morte, la lentezza del pensiero in Corallo, l’amarezza
dell’amore abbandonato in Ragazzo solo, ragazza sola, la monumentalità della morte in
Verano, l’ottimistica rivincita sul presente ne L’attimo celeste. Infine, nella ghost track
Suprema, il pensiero va a coloro che soffrono, amano e risoffrono per amare ancora.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Perturbazióne Canzoni allo specchio
(20/12/08)
La cricca musicale è quella di Paolo Benvegnù, Cristina Donà e
Giardini Di Mirò. Non che i Perturbaziòne siano la copia di questi,
ma il mondo da cui provengono parte da lì o lì giunge. Non ho mai
amato i Perturbazióne e spesso mi rendo conto di essere stato
troppo superficiale nell’averli stupidamente snobbati come band
pseudoimpegnata. Oggi faccio autocritica e consiglio Canzoni allo
specchio, uno dei loro dischi più noti, per la sua intrinseca
musicalità e per i testi facili da scrivere e difficili da cantare.
Un’emozione troppo difficile da trasmettere. I pezzi migliori sono il
singolo Chiedo alla polvere, l’antropologica Animalia, le irresistibilmente adolescenziali Se
mi scrivi e Canzone allo specchio, forse la meglio riuscita nel difficile equilibrio tra musica
e testi. Si è detto che questo album sia lontano da In circolo, considerato il vero piccolo
capolavoro della band torinese, perché appare come una dozzinale prova di intimismo
all’italiana. Io invece dico che non si può marcire nell’indie, per quanto esso sia uno dei
canali privilegiati della musica, visto che anche il successo porta al miglioramento.
•
Grace Jones Slave to the rhythm
(21/12/08)
Con l’avvento della pop art, la musica commerciale spesso è stata
l’altare del fanatismo artistico ed è stata eretta a monumento
comprovante la previsione del consumismo di massa, della
massificazione culturale, della produzione in serie e della
superficialità vissuta come modus vivendi. La pop art ha
preconizzato - e spinto a credere a - la vittoria del superfluo
sull’essenziale. In arte questo scotto lo pagò Jean-Michel Basquiat.
In musica, dopo i Velvet Underground e i Beatles, è stata la volta di
Grace Jones, negrona mascolina dal corpo stentoreo e dal
carattere tracotante. Un po’ modella, un po’ attrice, un po’ body artist, un po’ performer, un
po’ cantante, Grace Jones incide nel 1985 quel capolavoro pop di Slave to the rhythm,
glorificazione del suono sintetico, ballabile, semplice, ripetitivo. In fin dei conti, oggi, Slave
to the rhythm è un disco monotono, imballabile, troppo banale; eppure esso, attraverso
canzoni come The crossing, Jones the rhythm, Operattack, The fashion show e la title
track, rappresenta l’idillio conclusivo della pop art, il cartellino al piede di Wahrol defunto.
•
(22/12/08)
Mercury Rev Snowflake midnight
Pensate ad un mondo altro che poco abbia a che fare con la
frenesia quotidiana, le pulsioni materiali e gli strascichi personali,
immaginate un mondo fatto di sentieri brecciati e prati bagnati, in
mezzo al quale vi trovate voi; ogni tanto un bizzarro essere, amorfo
e colorato, sfreccia indifferente, senza degnarvi di uno sguardo,
riflettete infine sul mondo reale e sulla possibilità che esso sia o
meno un patetico tentativo di spegnere il lume della creatività
umana, da sempre. La dicotomia che ne vien fuori altro non è che
l’imperituro succedersi delle generazioni. Alti e bassi. O
l’estenuante lotta tra il potere dei potenti e l’immaginazione dei disperati. I Mercury Rev,
con Snowflake midnight, sono giunti al capolinea. Finalmente hanno tirato le somme. Gli
estimatori più anziani non cederanno facilmente alle lusinghe di questo disco. Diranno:
«Troppo elettronico». Forse. Ma Butterfly’s wing è una delle più belle canzoni del 2008
così come Senses on fire e A squirrel and I. Sul sito ufficiale della band, una volta iscritti
alla newsletter, si può scaricare gratis un altro disco di inediti, Strange attractor.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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The Priests The Priests
(23/12/08)
L’ultimo disco recensito del 2008 non poteva che essere questo
minestrone classic che in Inghilterra sta scalando le chart. La pop
opera è un genere che in terra anglosassone sta andando alla
grande (Pavarotti docet), basti pensare alla milionaria Katherine
Jenkins o al quartetto di tenori de Il Divo. I più particolari sono però
questi tre preti cattolici, The Priests, che si sono messi in testa, con
risultati eclatanti, di produrre e promuovere un disco di musica
sacra, modernizzata utilizzando le strutture e le idee del marketing
più avanzato. Questo self titled infatti contiene quattordici brani o
frammenti di famose arie sacre, a cominciare dall’Ave Maria di Schubert qui interpretata
tra pop e gospel - la versione di Maria Callas rimarrà insuperata per secoli ancora - e
proseguendo con Mit Wurd und Hoheit Angetan, Benedictus, Plegaria (los tres amores) e
Domine Fili Unigenite, dal Gloria di Vivaldi. Ai cristiani questo disco piacerà, agli altri farà
sorridere, soprattutto per la congenita simpatia dei tre sacerdoti. In fondo la religione è
cosa buona perché rende peccaminoso, quindi piacevole, il peccato.
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Ejay Ivan Lac This is my night
(06/01/09)
Un artista che ha spesso cambiato rotta, tastando con impegno vari
e disparati generi musicali è certamente Ejay Ivan Lac, qoober
puntiglioso e DJ dalle discrete potenzialità. Il suo ultimo lavoro This
is my night è un ben congegnato coacervo di house, europop e trip
hop. Dopo l’intro, si parte con Blood and art e i suoi echi italo disco
e si prosegue sul percussionismo acid di Suicide; con I love the
jungle cominciano ad arrivare i primi loop vocali e il ritmo accelera
significativamente, poi Chemistry calma le acque e tutto torna
pacato e riflessivo (è questo il mio pezzo preferito). Dopo Fighter
(simile alla precedente), Hot blood (tra dance e ambient) e Strange vision arriva un altro
pezzo interessante, Drug effect, efficace hit sugli stati alterati di coscienza. Un po’ troppo
scontate, anche se ben fatte, Rain e Magic Xmas, mentre con Scuola in declino Ejay Ivan
Lac presenta un curiosissimo esperimento di hip hop settentrionale, con rime facili ed una
linea melodica molto bella. Gli ultimi pezzi sono New culture, Humans e Moonchild che, tra
bordate trance e inflessioni hard house, chiudono un disco appena sufficiente.
•
Kenny Burrell Midnight blue
(07/01/09)
Kenny Burrell non ha mai raggiunto i livelli di notorietà di altri
chitarristi come Montgomery o Benson, eppure entrambi hanno
avuto modo di imparare molto da questo caposcuola di Detroit. Il
prodotto più celebre della sua ampia discografia è questo, una
godibilissima collezione di composizioni (tutte originali, a parte Gee
baby, ain’t I good to you) concise e dalla forte base blues. In primo
piano c’è la chitarra di Burrell, come al solito elegante, fluida,
precisa, raffinata; in linea con gli altri artisti hard bop del periodo,
anche in questo lavoro è ben evidente la contaminazione con i ritmi
cubani e africani; Burrell è affiancato dal percussionista Barretto, le cui congas propellono
brani frizzanti come Chitlins con carne (un vero capolavoro). Il tema per sola chitarra di
Soul lament va annoverato fra i momenti più intensi della carriera di Burrell, dal punto di
vista tecnico e melodico; pezzi convenzionalmente più blues, come The mule e Wavy
gravy, sembrano più ridondanti, ma servono a concedere spazio all’ispirato sax di Stanley
Turrentine; l’album è chiuso da Kenny’s sound, energico be bop debitore del jazz.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Terry Riley A rainbow in curved air
(08/01/09)
Uno dei primi a sperimentare le conseguenze della musica sulla
coscienza fu Terry Riley nel suo capolavoro assoluto A rainbow in
curved air (1969). Le critiche più logiche che si possono muovere
alla musica sperimentale riguardano da sempre l’individuazione
dell’oggetto della ricerca e il metodo della ricerca stessa: molti
sostengono che sperimentare sia facile in quanto basta aprire il
rubinetto della creatività e non porvi alcun freno. In realtà lo
sperimentalismo è assai più complicato perché una buona musica
contemporanea deve cercare il giusto equilibrio tra rigore e
complessità, tra ordine e caos, tra linearità e manierismo. Terry Riley, nella sua opera
prima In C e in questa, mostra come strumenti sovrapposti possano intessere
un’atmosfera celestiale; i suoni d’organo, clavicembalo e percussioni, evocano una
struggente saga della nostalgia, di mondi vaganti ed impazziti, un rotolare verso
l’inconscio, senza inganni. Riley stesso affermò che «i musicisti hanno questa
responsabilità: trovare come fare le migliori vibrazioni possibili». Sentire, non ascoltare.
•
Spice Girls Spiceworld
(09/01/09)
Un tempo le boyband erano composte da bei musicisti (penso ai
Duran Duran), negli anni ’90 cominciarono a non saper più suonare
ma si limitarono al balletto spettacolare (penso ai Take That), oggi
sono arrivati al punto di non saper fare un bel niente! Questa
digressione serviva per presentare la più grande girlband di
sempre, le Spice Girls, cinque ragazzine scelte - o costruite? - per
le loro diversità caratteriali e attitudinali. C’era la snob modaiola, la
fanatica sportiva, la bambolona tutto pepe, la negra fricchettona e
la pupa mai cresciuta. Fondamentalmente c’è da vergognarsi di
tutto ciò; eppure, siccome sono passati parecchi anni dalla pubblicazione di Spice (1996) e
di Spiceworld (1997), oggi si può parlare apertamente di sociologia degli anni ’90. Di
questa compilation adolescenziale verranno ricordate solo due canzoni: Too much e Viva
forever che, certamente ben orchestrate e ben cantate, hanno in qualche modo segnato
l’orizzonte del pop moderno riempiendolo di melensi ingredienti di prim’ordine. Soprattutto
le Spice Girls hanno dimostrato con i fatti che il successo è totalmente slegato dal talento.
•
Alessandro Grazian Indossai
(10/01/09)
Alle pendici di una catena alpina si ha la disarmante certezza di
non farcela, di non riuscire ad oltrepassare il limite che la natura ha
voluto porre tra noi e gli altri. Eppure, con impegno, passione,
coraggio e - perché no? - fanatismo, si può riuscire senza troppi
guai nell’ardua impresa di scrutare al di là. Alessandro Grazian ha
una voce morbidissima e i suoi accordi di chitarra non fanno che
migliorare il suo impasto cantautorale. Dopo aver visto la splendida
copertina del disco in questione, mi sono chiesto se sia un caso il
titolo al passato remoto e quella fotografia invecchiata che ritrae un
amore e una montagna. Sta di fatto che Indossai, di per sé, è una canzone bellissima, non
meno di Acqua, Diteci che siamo sani, San Pietroburgo e Chiasso. Ancor più disarmante
del fascino montano è la capacità di Alessandro Grazian nel vestire di note quei versi
poetici che poco si addicono alle ristrettezze della tablatura. Non a caso, tra Fiaba rossa e
Soffio di nero corre una sottile linea di comunicazione che dalla vecchia tradizione folk
italiana porta al più moderno cantautorato, senza demagogia né inutili isterismi.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Steve Reich City life
(11/01/09)
I giovani d’oggi pensano che minimale sia sinonimo di tech house
fredda e spaccawoofer. In realtà la musica minimale affonda le sue
radici nelle correnti artistiche del dopoguerra, dall’op art all’arte
cinetica, e quindi da Vasarely in giù. Capostipite, a livello musicale,
è Philip Glass, cui fa seguito il grandissimo Steve Reich che, con
City life (1995) dà una prova di immensa sapienza culturale. In
questo disco, nel quale troviamo anche le favolose Nagoya
marimbas e Proverb dei Theatre Of Voices (un grande ensemble
reichiano), Steve Reich traccia un continuum pieno zeppo di cicli e
aggiunte impercettibili. In City life troviamo difatti l’arte del loop affiancata a quella del
minimalismo, la cui chiave di volta sta nel brano It’s been a honeymoon, nel quale
all’ossessivo ripetersi della prima microbar del loop vocale si vengono ad affiancare
consistenti ma morbidi accordi pianistici. Se non potete in alcun modo approdare a Glass,
allora vi consiglio di cominciare ad approcciarvi alla minimal art tramite Steve Reich: con
lui sarà amore al primo ascolto, oppure sarà un’inutile esaurimento nervoso di più.
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The Fireman Strawberries oceans ships forest
(12/01/09)
Il punto di partenza è che io odio Paul McCartney. Da sempre.
Odio le sue interviste al sapore di nulla, odio il suo rock stantìo,
odio il gossip che gli gira intorno. Eppure su di una cosa devo
ricredermi. Nel 1993 l’ex Beatle ha creato il progetto The Fireman
con cui assimila e genera elettronica (all’attivo ci sono tre dischi,
l’ultimo dei quali uscito nel 2008). Ebbene, il sound del Fireman è
davvero esaltante. Non c’è che dire. Il primo disco, Strawberries
oceans ships forest, contiene nove brani che non durano meno di
otto minuti, imbevuti di cultura techno alla Derrick May e di
sperimentalismo ambientale. Il trittico iniziale composto da Transpiritual stomp, Trans
lunar rising e Transcrystaline lascia il posto, dopo aver mischiato corde di chitarra elettrica
al sequencer, alle bellissime Pure trance (coda delle prime tre) e Arizona light, percussiva
e soft come solo l’elettronica inglese sa essere. Celtic stomp e Strawberries oceans ships
forest utilizzano anche strumenti convenzionali e ripercorrono il tema iniziale, mentre 4 4 4
e Sunrise mix mettono fine al viaggio a suon di kick e riverberi.
•
(13/01/09)
Lene Marlin Playing my game
Ogni tanto è divertente sparare sulla Croce Rossa! Nel caso preso
in esame abbiamo la dolce Lene Marlin e il suo dischetto d’esordio
Playing my game. Ma perché tanto sarcasmo? Perché queste
picconate? Perché sparare sulla Croce Rossa? Ma è ovvio…
perché questa roba deve scomparire dalla faccia della Terra. Il pop
latino, britannico, italiano, nordico, ha talmente riempito le radio
degli ultimi anni Novanta da aver irrimediabilmente corrotto la
capacità critica della generazione cresciuta contemporaneamente
al fenomeno. Infatti tutti canticchieranno sulle note di Sitting down
here, Playing my game ed Unforgivable sinner (lo faccio anch’io, prova lampante di tale
corruzione!), ma ciò non giustifica il perseverare nell’errore. Se ancora oggi ascoltate
musica sul genere di Lene Marlin (penso ad Eros Ramazzotti, a Laura Pausini e a tutti
coloro che confondono la musica con la Musica) andate a confessarvi da qualche bravo
DJ ed espiate la colpa col cilicio attorno alla vita. Per quanto riguarda il disco della Marlin,
il giudizio è nullo, e lo dico senza averlo scaricato né acquistato, né tantomeno ascoltato.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Robertina & Gatto Ciliegia Contro Il Grande Freddo Cuore
(14/01/09)
Sei menti assieme possono far tanto, pure se si tratta di cover. E
infatti Cuore è un disco costituito da undici interpretazioni di
Robertina su famose canzoni italiane, da Nessuno di Mina a Senza
fine di Gino Paoli, da Cuore di Rita Pavone ad Il tempo passò di
Luigi Tenco. La voce di Robertina non sarebbe nulla se non ci
fossero le chitarre post dei Gatto Ciliegia Contro Il Grande Freddo,
entità progettuale che considero importantissima per la regressione
elettronica centritaliana. Il sapore di Cuore, difatti, attinge molto a
Disconoir e a #2 della premiata ditta torinese. Durante l’ascolto ci si
imbatte anche in Bugiardo e incosciente ed E poi della Tigre di Cremona, ne Il barattolo di
Gianni Meccia (e qui i ricordi cambiano luoghi), in Io che amo solo te di Sergio Endrigo, in
Fino all’ultimo minuto di Piero Ciampi e in Legata a un granello di sabbia di Nico Fidenco.
È difficile dire se siano meglio le versioni originali o queste cover perché gli arrangiamenti
sono qui stravolti di significato; essi hanno abbandonato le sezioni orchestrali per trovare
un compromesso tra post rock e melodismo, tra passato e presente.
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Terje Isungset Iceman is
(15/01/09)
La All Ice Records si occupa di musica gelata, ovvero di quelle
produzioni registrate con strumenti fatti di ghiaccio. Terje Isungset
è sicuramente il musicista più in vista di questo movimento new
age (?) ed Iceman is è da considerarsi il suo apice discografico, un
album per arpa, tromba e percussioni, tutte rigorosamente
intagliate nel ghiaccio. Due giorni di pratica e performance assieme
a Iro Haarla all’ice harp e Arve Henriksen all’ice trumpet, con Terje
Isungset alle ice percussions: tre ore di musica glaciale registrata
risultante da un’unica sessione. Durante i mesi seguenti, Terje ha
continuato a lavorare sul suo materiale in studio, editando e riarrangiando gli elementi
sonori, selezionando e creando una progressione più omogenea di elementi musicali,
senza tuttavia alterare il sound originale. Alcuni strumenti sono stati aggiunti in un secondo
momento come la tromba di Palle Mikkelborg, gli electronics di Hilmar Jensson e Skuli
Sverrison e le vocals di Lena Willemark. Nonostante ciò, l’ispirazione naturale degli
strumenti di ghiaccio resta l’essenza intima di questo Iceman is (2002).
•
Tin Machine Tin Machine II
(16/01/09)
Il progetto parallelo più riuscito di David Bowie è sicuramente
quello dei Tin Machine che, nel loro secondo disco, propongono un
ossessivo trip all’interno del rock’n’roll, tra infuocati rullanti e
rimbalzanti bassi, a partire dall’old school di Baby universal sino
alla morbida chiusura di Goodbye mr. Ed; tra gli estremi troviamo
altri dieci brani di genuino r’n’r come You can’t talk, One shot,
Amlapura e You belong in rock’r’roll (quest’ultimo è il pezzo
migliore). Anche se la maggior parte delle persone preferisce il
primo eponimo dei Tin Machine, io vi consiglio questo secondo
capitolo perché mi pare molto più raffinato, sia dal punto di vista musicale che autorale ed
inoltre presenta delle notevoli originalità strumentali. Era il 1991 e l’hard rock splendeva di
luce propria e, anche se qualcosa si stava muovendo, partendo dai Nirvana per giungere
agli Slint, questo Tin Machine II ha il merito di fotografare un effimero ma intenso periodo
della musica rock internazionale. Piccola e divertente curiosità: nella versione americana
del disco, dalla copertina scomparvero, come per magia, i genitali delle statue kouroi.
244
Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Luca Carboni Musiche ribelli
(17/01/09)
È maturato parecchio Luca Carboni. Oramai non ci sono più alibi
né pregiudizi che possono mettere in discussione la bravura di
questo bolognese; ed anche se negli ultimi album si era un po’
ripetuto attraverso quella forma-canzone che lo ha reso famoso,
adesso Carboni è diventato uomo, rendendo omaggio a tutta quella
musica impegnata che gli ha permesso di scrivere il Diario o
l’omonimo del 1992. Musiche ribelli è infatti un album di cover
importanti che, in alcuni casi, migliorano l’originale (sarà anche per
lo zampino di Riccardo Sinigallia). C’è La casa di Hilde e Raggio di
sole di Francesco De Gregori, Eppure soffia di Pierangelo Bertoli, Ho visto anche degli
zingari felici di Claudio Lolli (meravigliosa in questa veste), L’avvelenata di Francesco
Guccini, Musica ribelle di Eugenio Finardi, Up patriots to arms di Franco Battiato,
Vincenzina e la fabbrica di Enzo Jannacci, Quale allegria di Lucio Dalla e Venderò di
Edoardo Bennato. Un pizzico di elettronica moderna, un pugno di pop classico, i testi dei
cantautori premiati e l’inconfondibile voce di Luca Carboni. Veramente ottimo.
•
Arditti String Quartet Helikopter Streichquartett
(18/01/09)
Roma. Oggi, alle 11:00, basterà alzare gli occhi al cielo per far
parte di una delle più grandi opere d’arte musicali del Novecento.
Infatti, nei cieli sovrastanti l’Auditorium Parco della Musica, quattro
elicotteri cercheranno di entrare in simbiosi con un quartetto
d’archi. Si tratta di Helikopter Streichquartett, la strabiliante opera
onirica di Karlheinz Stockhausen facente parte dell’altrettanto
incantevole Mittwoch aus Licht. Se il quartetto d’archi è in qualche
modo l’emblema dell’Ottocento, la sua integrazione con quattro
motori d’elicottero diventa il simbolo della musica moderna di fine
900. Partendo da un profetico sogno, l’extraterrestre Stockhausen è riuscito ad
amalgamare rumore ed armonia, facendo salire a bordo dei quattro apparecchi il suo
quartetto prediletto (l’Arditti String Quartet), condotto a terra da Piergiorgio Odifreddi.
Roma sarà la terza rappresentazione assoluta dell’opera che, sinora, era stata eseguita
multimediaticamente solo ad Amsterdam nel 1995 e a Salisburgo nel 2003. Anche se non
c’è più, lui ha scelto noi: ripaghiamolo con dedizione, deferenza e venerazione.
•
(19/01/09)
Venivano dalla Svezia, facevano il verso agli Abba e
movimentarono molto l’ambiente disco europeo. Mi piace parlare
del passato recente con toni elegiaci, mischiando imperfetto e
passato remoto, come se quell’epoca assai difficilmente si ripeterà.
Non a caso preferisco i primi anni del 2000 agli anni Novanta tout
court, in termini di moda, musica, spettacolo, televisione, politica,
tutte frivolezze con le quali ho dovuto fare i conti. Gli Alcazar fecero
il loro ingresso sulla scena disco con l’album Casino, preceduto e
succeduto da infiammanti singoli di notevole successo discotecaro,
soprattutto Sexual guarantee e Crying at the discoteque. Rimembro con grande gioia
queste release e questa band perché la loro musica è legata ad anni molto felici della mia
vita scolastica, come la gita in Grecia e gli eventi e le persone ad essa connessi. Perché in
fondo Casino non è poi questo gran disco, risulta noioso, ripetitivo, interamente compilato
con tracce che vedrei bene come B-side o riempitivi. Dopo Alcazarized questo trio
scandinavo è infatti scomparso e forse è meglio così, perché hanno evitato il patetismo.
Alcazar Casino
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Alessio Bertallot Non
(20/01/09)
DJ, conduttore, produttore, talent scout, cantante, critico: Alessio
Bertallot è tutto questo e anche qualcosa di più. Sì, perché con gli
Aeroplanitaliani ha scosso parecchio la cultura sanremese e
perché oggi si occupa di musica italiana come pochi fanno, senza
troppo badare a profitto, mainstream, forma e quantità. Il suo
secondo disco solista risale al 1999 e s’intitola Non, un bellissimo
mix di d’n’b e pop, di elettronica e dance. Nel complesso, questo
album è di altissima qualità, dall’introduzione jungle di Sono fermo
sino alla futurista L’uomo che tiene il volante (in essa v’è un
campione di Marinetti) in cui dinamismo, velocità e umanità si alternano in un crescendo di
sentimenti elettronici; altrettanto carismatiche sono brani come Non ti sento più e Acqua.
In stile dub invece altri pezzi come Cacciamimieisoldi, Cosa resta e Legittima difesa, brani
che hanno influenzato molto - e viceversa - artisti come Casino Royale, Otto Ohm e
Almamegretta. Oltre a Non, ascoltate il programma Bside di Bertallot su Radio Deejay e
ascoltate le tre compilation targate Bertallosophie; può sempre tornarvi utile.
•
Collettivo Angelo Mai Orchestra mobile di canzoni e musicisti
(21/01/09)
Ancor oggi non condivido l’idea di occupare immobili, pubblici o
privati che siano. Trovo infantile e patetico far passare per
grandioso ciò che nella realtà dei fatti è una stronzata. L’Angelo
Mai è un convitto romano illegittimamente occupato da trenta
famiglie che, volenti o nolenti, hanno dovuto piegarsi alle iniziative
culturali sinistroidi. Da qui potrebbe - e dovrebbe - aprirsi non un
dibattito ma una vera e propria rivolta culturale a favore dell’edilizia
di Stato, sia essa disciplinata dal mutuo sociale (caro ai neofascisti)
o dalla solidarietà popolare (cara ai no global). Grazie a Dio,
accanto alle stupidaggini pseudoculturali, alcune occupazioni hanno almeno portato a
progetti musicali concreti come questo, un’orchestra capace di scrivere, produrre e
promuovere un disco di grande qualità, registrato dal vivo nel teatro dell’Angelo Mai nel
maggio 2006. I testi e le musiche sono curati da bravissimi artisti come Andrea Pesce,
Roberto Angelini, Pino Marino e Renato Cianfrini. Molto suggestive risultano canzoni quali
Il mestiere di vivere, Non ho lavoro, Oceano, Kala e Aiutami a baciarti.
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(22/01/09)
Sagi-Rei Emotional songs part 2
C’hanno già provato in tanti ma pochi sono riusciti a raggiungere la
qualità di Sagi-Rei. Mi riferisco alla capacità di reinterpretare brani
dance in chiave acustica (La Valigetta ne sa qualcosa) e quindi ai
due album della serie Emotional songs. Devo ammettere che il
primo è nettamente superiore a questo seguito che abusa spesso
di altri strumenti, oltre a voce e chitarra, come pianoforte e
percussioni. Certamente è un piacere ascoltare brani che tutti
abbiamo ballato in questa vecchia nuova veste, da Starlight dei
Supermen Lovers a On my own di Nikka Costa, da Lady di Modjo a
All that she wants degli Ace Of Base, da Sweet dreams di La Bouche a Missing degli
Everything But The Girl. Il bello è che Sagi-Rei stavolta ha spaziato in lungo e largo per
offrire una lettura che non sia forzatamente univoca; il musicista israeliano passa con
facilità dal jazz classico di Sing it back (quella dei Moloko) al pop in stile Take That di You
spin me round dei Dead Or Alive. Nel primo capitolo troverete invece pezzi di Gala, degli
Ultra Natè, di Haddaway, di Gigi D’Agostino, degli Snap!, di Jam & Spoon.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Metallica Master of puppets
(23/01/09)
Non ho mai recensito per dare consigli né, tantomeno, per vanità
personale e il disco di cui vado ad occuparmi è la prova che le mie
conoscenze e le mie capacità sono grandemente limitate. Non mi
sono mai avvicinato al metal per una paura dettata dall’ignoranza,
come sostengono Pasolini e Moravia nei Comizi d’amore. Di solito,
quando ci si avvicina ad un nuovo filone musicale, si tende ad
apprezzare la parte più docile e melodica e m’è parso di capire che
Master of puppets dei Metallica sia uno di quei must con cui
bisogna, prima o poi, fare i conti. Ed ecco che, dopo averlo
ascoltato più volte, sono giunto alle mie discutibili ma legittime conclusioni. Forse
segnalerò solo quegli elementi docili e melodici che un provetto metallaro come me sente
più confacenti alle proprie istintive inclinazioni. Di questo disco mi piace l’apertura di
Battery, la suite centrale di Master of puppets, la grancassa di The thing that should not
be, le chitarre lontane e celestiali di Welcome home (a me ricordano lo Steve Vai di For
the love of God), la suite dissonante di Orion e il comatoso intro di Damage, inc..
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Trentemøller The last resort
(24/01/09)
A mio avviso, al pari di gente come Ricardo Villalobos, anche
Anders Trentemøller è sopravvalutato sia come produttore che
come innovatore. Il suo gusto essenziale per le dinamiche sonore e
per gli ambienti da riempire è qualcosa di già sentito, ed è qualcosa
di inflazionato. Appare dunque assai difficile sostenere che la
musica di questo dj danese sia arte pura. Ferme restando le sue
indubbie qualità tecniche nella scelta e nel mixaggio dei parametri
sonori, dico che The last resort non offre nuovi spunti di riflessione
sullo stato attuale dell’elettronica d’ascolto e da ballo. Ed ecco
perché appaiono tutte un po’ uguali le tracce di questo album, da Take me into your skin a
Nightwalker, da The very last resort a While the cold winter waiting, da Like two strangers
a Into the trees, nonostante si apprezzino volentieri i suoni caldi e coinvolgenti da esse
sprigionati. Nel secondo cd del box troviamo alcuni mix da pista, come la vocal version di
Moan o il remix hard-house di Always something better. Alcuni impazziscono per
Trentemøller ma io preferisco la Danimarca degli Autofant.
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Johnny Rebel The complete Johnny Rebel collection
(25/01/09)
Fare in modo che le razze non si mischino è l’obiettivo principale
del Ku Klux Klan, famosa associazione americana spesso
perseguitata per istigazione al razzismo, alla xenofobia, allo
sciovinismo. In realtà questo gruppo è un’istituzione vera e propria,
radicata in quella provincia americana che ha subìto il melting pot
senza trarne alcun vantaggio. Anzi. Il cantante simbolo di questa
religione è sicuramente il countryman Johnny Rebel, di cui nel
2003 è stata pubblicata un’esauriente collection. Troviamo in essa
temi segregazionisti come in Segragation wagon o apologie sudiste
come The South shall rise again, The South’s gonna rise again e Move them niggers
North; inoltre ci sono brani sfacciatamente discriminatori ai danni dei negri come Who likes
a nigger, Some niggers never die o We don’t want niggers in our schools. Musicalmente lo
stile di Johnny Rebel è ineccepibile ma certamente le sue istanze ideologiche sono state
tradite e confutate dalla star Barack Obama, “abbronzato” nuovo presidente degli States,
senza se e senza ma, la prova che siamo tutti uguali.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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autoKratz Down & out in Paris & London
(26/01/09)
Sono migliaia i produttori homemade capaci di utilizzare al meglio
le tecnologie VST, da Cubase SX ad Ableton Live, fino a Reason e
Reaktor. E perciò non capisco perché alcuni debbano emergere
mentre altri, musicalmente persino più spigliati, continuino a
sguazzare nel sottobosco più umiliante ed autoreferenziale. Gli
autoKratz infatti dimostrano di essere bravissimi col computer - non
più dei Digitalism, sia chiaro - ma non si azzardano a fare passi in
avanti. Fatto sta che loro la possibilità di incidere un disco ce
l’hanno avuta, ovviamente non in Italia, e ora hanno le prerogative
di suonare in giro per mezz’Europa, sdoganando il loro stile come cool e trendy. In Down
& out in Paris & London non c’è nulla più di semplice tech house, minimal, hard house,
synth pop, ovvero french touch all’inglese. 1000 things, It’s on, Reaktor, French girls play
guitar e Just keep walking non si allontanano molto dalla semplice release in 12”, con la
differenza che i pezzi sono ovviamente più brevi di un normale club mix. Ballate pure sulle
note degli autoKratz ma non osannateli perché non se lo meritano affatto.
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Etienne De Crécy Super discount
(27/01/09)
Se la musica house si misura dal grado di contaminazione, con
Super discount (1997) siamo a posto; questa specie di compilation
curata dal mago Etienne De Crécy contiene infatti undici pezzi di
genuino french touch, con infiltrazioni più o meno pervasive di rock,
techno e jazz. Si comincia con la daftiana Le patron est devenu
fou! di Minos Pour Main Basse (pseudonimo di De Crécy) e si
arriva alla meravigliosa Prix choc di Etienne, quindi a Super disco
di Alex Gopher. La Francia ivi raccolta è il sintomo della vitalità
dell’ambiente elettronico parigino, florido perché la minuta cubatura
degli appartamenti non consente ai produttori di fare altra musica se non l’elettronica in
cuffia. Continuando con Super discount vanno segnalate anche Soldissimo degli AIR,
Affaires à faire dei La Chatte Rouge (pseudonimo dei Motor Bass), Tout à 10 balles di DJ
Tall e Destockage massif, sempre di Alex Gopher. Chiamatela pure deep house ma, se
non volete confonderla con le produzioni d’oltremanica o d’oltreoceano, dovrete per forza
utilizzare il termine “french touch”, perché a questa roba siamo tutti debitori.
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(28/01/09)
Carmelo Bene Lectura Dantis
Prima che l’Italia tutta si destasse in un afflato superficialmente
culturale, (ri)scoprendo Dante Alighieri e la sua Commedia grazie
all’ottimo lavoro di Roberto Benigni, c’era già stato chi aveva
tentato, con minor fama e maggior enfasi, di far aderire i gironi
danteschi e il contrappasso all’Italia contemporanea. Lui si
chiamava Carmelo Bene, eminente attore del teatro del Belpaese –
di certo la figura di maggior spicco del XX secolo - che presentò,
per commemorare il primo anniversario della strage di Stato
perpetrata alla stazione di Bologna nel 1980, la Lectura Dantis, un
monologo accompagnato dalle musiche di Sciarrino e Bellugi ed amplificato artificialmente
come fosse un concerto rock. Tanto s’è parlato del metodo beniano, in special modo della
profanazione da lui effettuata sul teatro attraverso il microfono, strumento che, a detta dei
puristi, stravolgerebbe il significato del teatro stesso. Bene, tra futurismo e nichilismo, ha
sempre risposto che il microfono non amplifica un bel niente perché è la sua voce, di per
sé, ad amplificare la voce dell’io. A nulla son valse le critiche ché Bene rimane un classico.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Gala Come into my life
(29/01/09)
Pochi giorni fa ascoltavo per noia alcune canzoni dance e
progressive dream. Al mio orecchio giunse, al termine di
un’estenuante playlist, una melodia che avevo completamente
rimosso dal cervello ma che mi ricacciò un sorriso furbesco, perché
trascinò i miei pensieri e i miei ricordi a quei festini casalinghi che
riempivano i lividi pomeriggi della periferia anni Novanta, festini che
si svolgevano tra la probabilità (alta) di palpare qualche giovincella
e la certezza di ascoltare buona musica da discoteca. La canzone
in questione è Let a boy cry della nostra Gala, grande vocalist degli
anni ’90, contenuta in quel piccolo grande disco intitolato Come into my life. In esso si
trovano infatti almeno quattro hit della Rizzatto. Assieme alla title track e a Let a boy cry,
c’è Suddenly e Freed from desire, più una versione slow di quest’ultima e un remix di
Come into my life a cura di Molella e Phil Jay. Un’altra cosa che mi ha sempre colpito di
Gala è la sua bellezza teutonica, mitteleuropea, e la sua voce un po’ soul un po’ rock.
Questa musica naufragò, non prima di esplodere in tutto il suo fragoroso successo.
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Urbs Toujours le même film…
(30/01/09)
Adoro tutto ciò che esce dalla G-Stone Recordings di Vienna. I miei
sentimenti sono inestricabilmente legati ai Tosca, la passione
musicale va di pari passo col sound di Kruder & Dorfmeister, faccio
il fighetto alla Rodney Hunter e ballo grazie alla Peace Orchestra,
senza contare l’amore che nutro verso i remix di Makossa,
Megablast, DJ DSL e Stereotyp. A tutti questi va aggiunto Urbs aka
Paul Nawrata, fedele marinaio del timoniere Kruder e grande
manipolatore di suoni vintage. In lui si possono rintracciare le
influenze di Morricone e Gainsbourg, nonché della new wave e
dell’hip hop old school. Toujours le même film… è il terzo disco di Urbs, uscito nell’aprile
2005, che farebbe da colonna sonora al medesimo lungometraggio, quasi fosse un film
nostalgico e sentimentale che ritrae la vita dello stesso Nawrata tra alti e bassi amorosi,
come in una pellicola francese. Infatti, la sincronizzazione delle emozioni visive e sonore è
simultanea e d’altissima qualità, dal flebile prodromo di So Weit al ritmato incedere di Tu
moi aussi? fino al fulcro strappalacrime di Nothing’s gonna change his way.
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La Famiglia Quarantunesimo parallelo
(02/02/09)
Considero La Famiglia il miglior progetto hip hop italiano di sempre.
E, seppur la loro discografia risulti assai scarna (due soli dischi
all’attivo), il loro flow è inimitabile, un misto di veloce dialetto
napoletano, basi e beat della vecchia scena centritaliana e rime
accuratissime. La Famiglia dimostra il suo artigianato con Mast e
presenta le sue origini partenopee ne La Famiglia (est. 1993),
quindi sbeffeggia coloro che non capiscono il linguaggio della
strada in Prrr, il loro brano più noto. La femmina, come donna di
famiglia e come sgualdrina da letto, è esaltata in Femmena, mentre
l’epica sfida di tutti i giorni è il tema di Odissea; la naturalezza si impossessa del trio e
vengon fuori brani di irrazionale bellezza come Fame, dedicata ai ricchi e ai poveri di
questo tempo bastardo, anche se il loro tatto è evidente anche ne I frutti, sulla
realizzazione ottenuta col sudore, e in Notte. So per certo che Sha-One ha pubblicato un
disco ma sono totalmente all’oscuro di cosa stiano facendo Polo e DJ Simi; devo dunque
sperare che in arrivo ci sia un terzo disco, ma le speranze non aumentano le probabilità.
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Youssou N’Dour The guide (wommat)
(03/02/09)
Non mi sono mai considerato un uomo degli anni Novanta perché
ho sempre rifiutato - e con la cultura che possiedo oggi rinnego
ancor più - tutta l’euforia che ha pervaso quel banale decennio.
L’esaltazione del multiculturalismo e dell’eguaglianza, la bieca
strumentalizzazione della pace, la coatta normalizzazione
dell’omosessualità, il terrore del global warming e dell’AIDS,
nonché la comoda scorciatoia di guarire i mali del mondo a piccoli
passi, come se tutti fossimo piccoli eroi in erba allo stesso modo.
Dico ciò perché, ancor oggi, quando guardo il video di 7 seconds di
Youssou N’Dour e Neneh Cherry mi vengono in mente tutte le degenerazioni di quella
decade; penso altresì a quanto sia bella come canzone e così addolcisco i miei pensieri,
edulcorando e smussando il più possibile i lati più radicali e reazionari della mia idea. In
The guide (wommat) troviamo molti altri brani del cantante africano, diventato ormai
un’icona della rivincita e dell’arroganza del sud del mondo. Che ci diano prova di cosa
sanno fare, ferma restando la convinzione che avrei preferito nascere un secolo prima.
•
New Order Power, corruption and lies
(04/02/09)
Questo dei New Order è un disco molto immaturo eppure
parecchio verace. Se dovessimo dir la verità, pur amando i New
Order, non potremmo affermare che la voce di Bernard Sumner sia
all’altezza del compito, così come non sono ben strutturate le linee
di synth nella prima Age of consent. Ma, nonostante ciò, questo
disco è bellissimo, come pochi altri nella tradizione inglese. Dirò di
più. Preferisco loro ai Joy Division di Ian Curtis, perché nei New
Order è più marcata l’influenza volksmusik dei Kraftwerk e quella
disco di Giorgio Moroder. Power, corruption and lies contiene otto
brani meravigliosi che muovono le fila dal ritmo incalzante di The village fino alla dolce
risacca di We all stand, e così pure le ballabilissime 586 e Your silent face o la mirabolante
Leave me alone, grazie alla quale intuiamo il background culturale dei Coldplay di oggi.
Forse non saranno i Depeche Mode o i Radiohead ma i New Order continuano ancor oggi
ad essere un faro di novità e un bagaglio di esperienza per le band che intendono
incamminarsi sulla dissestata via del techno pop. Questo disco ne è la prova originaria.
•
(05/02/09)
Non appena è uscito questo disco mi sono reso conto che il
Medioevo, forse, non ha ancora terminato di spargere il suo
influsso oscurantista sulla società italiana. E non è certo un
problema di interferenze del Vaticano negli affari di Stato (come a
molti piace credere) ma, al contrario, di intromissione dello Stato
negli affari degli artisti. A cinquant’anni dalla sua prima release,
Gino Paoli torna con un album unico in quanto a bellezza e
semplicità, un disco come pochi cantautori hanno saputo fare nella
storia europea. Piccoli ritagli di vita quotidiana e grandi sventure di
dolore. Storie. C’è la sofferta esistenza de Il marinaio e l’innocente curiosità infantile de Il
buco, c’è la pietas latina de Il pettirosso (brano incriminato quasi fosse una nuova Il
gigante e la bambina) e l’esuberante gioia di Zanzibar, c’è la disincantata anarchia di
Signora Provvidenza e la sottile cattiveria de La paura. Gino Paoli ci aveva abituati al jazz
con Milestones, convincendo tutti, e adesso ci ripresenta un disco vecchio stampo, ma
stavolta non ci ha solo convinti: ci ha soprattutto emozionati e commossi.
Gino Paoli Storie
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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La Düsseldorf Viva
(06/02/09)
Band storica almeno quanto quella dei Tangerine Dream, i La
Düsseldorf sono stati importantissimi per il krautrock tedesco.
Composta da Klaus e Thomas Dinger (e poi da Hans Lampe),
questa band ha il merito di aver ammorbidito lo sperimentalismo
dei Neu! e di aver portato il krautrock in una posizione più
commerciale rispetto alle ricerche fatte in cantina dagli About Five,
dagli Spirits Of Sound, dagli Harakiri Whoom, dai Sinus, dagli
Organisation, dai Lilac Angels e dai Musikhochschule. Viva,
secondo capitolo discografico del 1978, contiene sei tracce di
inaudita raffinatezza che ha in Rheinita e Cha cha 2000 il top della propria rivoluzione
musicale, una commistione di punk ed elettronica, psichedelia e classicismo. Viva
rappresenta quindi il trait d’union fra ciò che erano giunti ad essere i Pink Floyd e ciò che
sono stati i Clash, o ancora fra le ermetiche trovate di Karlheinz Stockhausen e le jazzate
composizioni di Dave Brubeck. Credo che anche grazie ai La Düsseldorf appare più
evidente il legame indissolubile che c’è tra gli artisti europei, da sempre e per sempre.
•
Michael Rother Flammende Herzen
(07/02/09)
Sembra siano gli astri a scrivere queste tablature, a comporre
queste sequenze di note, a decidere le scale minori o maggiori, ad
inserire contaminazioni di vario genere. E invece è semplicemente
quel genietto di Michael Rother il quale, nel suo primo lavoro del
1977, propone una summa della kosmische musik, quel genere
che pretendeva di sorpassare la stantia psichedelia da LSD dei
Pink Floyd. Il risultato fu un’involontaria rivoluzione musicale che
permise di mischiare il rock col jazz dando vita al prog, con
l’elettronica dando vita al synth pop, con l’ambient dando vita al
post rock. Flammende Herzen, traccia di per sé magnifica, è seguita da Zyklodrom,
Karussell, Feuerland e Zeni. Nel CD trovano posto anche due rari mix: un remix della title
track con i campioni originali dell’omonimo lungometraggio di Bockmayer e Buehrmann, e
uno di Vorbei. La costellazione di Rother s’è affievolita col tempo, lasciando i suoi fan con
un palmo di naso dopo le delusioni di Radio ed Esperanza. Il bacio infuocato di
Flammende Herzen rimane però a scaldare i cuori di chi si innamora e poi si perde.
•
Il Parto Delle Nuvole Pesanti Sulle ali della mosca
(08/02/09)
Ripeterò all’infinito che non amo il folk rock ma provo un moto di
accondiscendenza verso chi lo fa per bene. Il Parto Delle Nuvole
Pesanti, calabresi espiantati, è uno di quei gruppi storici italiani che
ha smosso l’interesse di critici e artisti (il live con Claudio Lolli è
molto bello). Sulle ali della mosca è un album del 1999 che vede la
band cimentarsi in una riuscitissima commistione di swing (Prendo
il vento), rocksteady (Viaggiatori), pizzica (Terribili momenti), pop
d’autore (Messa), tarantella (Ciani), rock classico (Suonano parole)
e ska (Andrebbe bene un gelato al limone). Volendo fare un
accostamento, possiamo affermare che Il Parto somiglia per metà a Vinicio Capossela e
per l’altra metà a I Ratti Della Sabina. La lunga discografia de Il Parto Delle Nuvole
Pesanti conferma l’attitudine folk della band e non regala moventi a chi vorrebbe criticare
l’eccessivo risalto, dato negli ultimi anni, al fenomeno popolare italiano; critica a cui mi
associo se si parla di Modena City Ramblers o di Salento ma che mi trova non allineato se
si parla di Parto. Bravissimi musicisti e ottima musica, lontanti dalla moda.
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Liuwe Tamminga Puccini, the organist
(09/02/09)
Non trovo ragioni razionali a questa domanda. Perché da un po’ di
anni la società perbene della nostra cara Italia ha ritrovato
Giacomo Puccini? Al di là del centocinquantenario, il suo exploit mi
risulta oscuro e non nascondo la mia malizia al riguardo. Pochi
giorni fa, poi, ho letto una recensione - come sempre interessante di Claudio Strinati sul Venerdì di Repubblica, che poneva sarcastici
arzigogoli tecnici sul Puccini organista. Qui parte la mia
controrecensione. È assurdo che cent’anni dopo la violenta brezza
giovanilistica del futurismo, ci si debba ancora arrovellare su come
Puccini sappia o non sappia suonare l’organo e su come abbia poi inciso il suo nome sul
sacro strumento! O ancora, fanno ridere le infantili critiche di mediocrità mosse da Strinati
all’Inno a Roma, critiche che provengono dalla visione distorta di certa sinistra che ha
trovato in questa marcia uno strumento di fascistizzazione delle masse. Liuwe Tamminga
è forse il più umile perché suona ed interpreta, quando le questioni culturali andrebbero
lasciate ai vari Moravia, Scalfari, Guttuso, Croce, un tempo fascistissimi come tutti.
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Soulwax Any minute now
(10/02/09)
Soulwax quando fanno rock, 2 Many DJ’s quando fanno dance. Tra
i due estremi del continuum ci sono quattro dischi di electro rock e
un sacco di remix a nomi importanti. Any minute now è il disco più
rappresentativo della band belga e sinceramente non sapevo cosa
aspettarmi dai Soulwax; ciò che ho trovato non mi dispiace affatto.
Certamente ho già sentito questi incontri tra LCD Soundsystem e
Franz Ferdinand, tra Calvin Harris e Mylo, tra Interpol e Planetfunk
ma la bravura di questi due DJ musicisti risiede proprio nel
muoversi con destrezza tra le influenze ricevute e le trovate
personali, come nel crossover di E talking o nell’elettronica di Please… don’t be yourself. Il
pezzo migliore rimane, a mio avviso, Compute, un incastro riuscitissimo tra Depeche
Mode e Mike Oldfield, con le chitarre che entrano al momento giusto e le campane che
cadenzano l’andamento serafico del brano. Convincenti anche Accidents and
compliments, NY excuse, Miserable girl e Slowdance. In Europa settentrionale oramai si
balla solo questo e sembra che anche l’Italia si stia inesorabilmente allineando.
•
Frank Bretschneider Rhythm
(12/02/09)
Ho sempre amato, fin dal primo ascolto, Alva Noto e le sue
stravaganti digressioni sul concetto di errore e rumore. Ho tentato
invano di seguire amatorialmente le sue ricerche e riportarle ad una
dimensione domestica e colta, ma anche semplicistica e
commerciale. Da quando, all’ascolto di Alva Noto, ho affiancato
Frank Bretschneider, il mio personale modo di intendere il glitch è
leggermente cambiato. Rhythm è un capolavoro dell’orecchio:
possiede una perfezione sonora pressoché assoluta e un’impronta
minimale degna del miglior Riley. In A soft throbbing of time il glitch
fa capire che non è secondo alla techno, oppure come in The big black and white game,
dove il noise diventa elemento di melodia e, quasi, d’armonia. Dare per scontate alcune
trovate della musica è quanto di più sbagliato si possa fare. È proprio grazie a dischi come
Rhyhtm che l’ascoltatore può ricostruire, seppur lentamente, il faticoso cammino che
l’elettronica ha dovuto percorrere per sopravvivere, tramandarsi e rinnovarsi. Su tutte
consiglio We can remember it for you wholesale ed Other days, other eyes. Unico.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Riccardo Sinigallia Incontri a metà strada
(13/02/09)
Re Mida Sinigallia perché tutto ciò che tocca diventa oro. Oro come
i due dischi della sua breve discografia solista, il secondo dei quali
è Incontri a metà strada, incontri tra artista e ascoltatore, tra uomo
e donna, tra dubbi e certezze, tra enfasi e malinconia. Gli splendidi
arrangiamenti che attingono dal classico per trasporsi in una
cornice pop sono la migliore sorpresa, e poi neanche tanto. Finora
e Il nostro fragile equilibrio non fanno che aumentare l’amarezza
del vissuto, Laura è una dedica senza pari, Amici nel tempo
sottolinea ancora la difficile situazione dei rapporti conclusi, Se
potessi incontrarti ancora e Anni di pace sono forse gli spiragli di luce, Impressioni da
un’ecografia tratteggia invece la sottile goduria dopo il deglutimento di un pesante
magone. Riccardo Sinigallia lo troviamo in moltissime produzioni italiane di alta qualità e
scarso appeal commerciale (grazie a Dio!) e a lui forse non interessa il mainstream:
preferisce altresì accontentarsi di esprimere le visioni, le paure, le ambizioni e le
ossessioni di un artista qualunque alle prese con questo stupido meraviglioso mondo.
•
John Coltrane My favorite things
(14/02/09)
Anche i bambini conoscono questo pezzo di John Coltrane. My
favorite things è un capolavoro del jazz d’antan registrato il 21
ottobre 1960, seguito a pochi giorni di distanza dagli altri tre pezzi
che compongono il disco: Everytime we say goodbye di Cole
Porter, But not for me di George Gershwin e Summertime. I
musicisti incaricati da Coltrane sono McCoy Tyner al pianoforte,
Steve Davis al contrabbasso ed Elvin Jones alla batteria. In
retrospettiva, praticamente tutti sono coinvolti nel jazz - musicisti ed
ascoltatori - al fine di riconoscere in John Coltrane una delle figure
più influenti e carismatiche nella storia della musica. Alcuni critici hanno dipinto il
sassofonista di Hamlet come l’antijazz per eccellenza, altri detrattori hanno sostenuto che
il suo è solo rumore, un ammasso informe e caotico di note dozzinali, quasi fosse muzak!
L’ascolto passionale, serio, emozionale e continuato di questo disco non può che far bene
e sarà in grado di porre il giusto risalto alla sua figura. I miei preferiti di sempre rimarranno
Miles Davis, Paul Desmond, Kenny Burrell, Herbie Hancock e lo stesso John Coltrane.
•
(15/02/09)
Nine Inch Nails Things falling apart
Forse non proprio remix, piuttosto modellamenti, smussature,
migliorie, interpretazioni, piallature. Things falling apart (2000) è in
pratica il disco dei Nine Inch Nails che rivede i pezzi di The fragile
in chiave postmoderna, senza comunque intaccare il delicato
equilibrio della scelta originale. La matrice industrial noise delle
canzoni resta intatto, così come rimangono intatte le distorsioni e
gli imbrattamenti sonori che hanno reso famoso il sound dei N.I.N.
nel mondo, non senza un pizzico di sopravvalutazione. Slipping
away rivista da Alan Moulder e dallo stesso Trent Raznor è
semplicemente deliziosa ma ancor più gustoso è il lavorio di programmazione effettuato
dai Telefon Tel Aviv su The great collapse (a proposito, un applauso a Charles Cooper dei
TTA scomparso il 22 gennaio scorso). Bella anche The wretched remixata da Keith
Hillebrandt e Starfuckers inc. aggiustata da Adrian Sherwood; immancabili non mancano
poi gli stravolgimenti come nel caso di The frail a cura di Benelli e di Starfuckers inc. a
cura di Dave Ogilvie e Charlie Clouser. Un lavoro mutevole ma di pregiata qualità.
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Franco Battiato Pollution
(16/02/09)
Uno dei lavori più completi di Franco Battiato risale al 1972 ed è
Pollution, gesto sonoro in sette atti dedicato al Centro
Internazionale Studi Magnetici, un progetto incentrato sul concetto
di inquinamento, analizzato in tutte le sue forme. In occasione della
pubblicazione di Pollution, Battiato ed il suo collettivo minacciò (col
sorriso) di mettere in moto, da Imola, uno stroboscopio in grado di
spegnere tutti i motori a scoppio e diesel circolanti in Italia. Tutto
ciò per sculacciare l’umanità, rea di ammalare il mondo. Ma nel
disco, preso nella sua pienezza, si trovano sconvolgenti soluzioni
stilistiche, come il cantato in reverse su Areknames, lunghe suite progressive di VCS2,
come nella title track, oltre a temi esistenziali come ne Il silenzio del rumore. Meravigliosa
la descrizione del micromondo in Plancton o quella postgenetica di Beta, o ancora
l’altisonante monito di Ti sei mai chiesto quale funzione hai?. I primi otto dischi
sperimentali della discografia battiatiana sono dei gioiellini rubati che potete trovare sugli
scaffali a prezzi bassissimi. Acquistateli immediatamente e chiudetevi in casa.
•
R.E.M. New adventures in hi-fi
(17/02/09)
Ho viaggiato molto sinora ma non amo il viaggio, non amo
conoscere posti nuovi e gente nuova. E non sono un cretino.
Viaggio perché amo il viaggiare. Uno dei viaggi da fare è
certamente quello per le terre desertiche d’America, sulla Route 66,
a bordo d’una macchina lunga quanto un camion. Le note che
dovranno uscire dallo stereo saranno quelle dei R.E.M., e se il
disco in questione è New adventures in hi-fi, meglio ancora. In
codesto capolavoro c’è tutta la poetica di Michael Stipe, i coretti
sorprendenti di Mike Mills e l’orgoglio di essere americani, sopra
tutte le dissertazioni possibili. The wake-up bomb è molto in stile Bruce Springsteen (a
proposito, l’ultimo disco del Boss è pietoso!), Electrolite è il rubino del disco, in E-bow the
letter ci sono addirittura il sitar e il moog, in Zither l’autoharp, in Bittersweet me il mellotron.
I R.E.M. hanno quindi accompagnato la propria ricerca strumentale con la rodata formacanzone che li ha resi famosi, facendoli entrare di diritto nel gotha della grande musica
americana, prova che i 70’s non si sono estinti del tutto in quella parte di mondo.
•
(18/02/09)
CCCP Fedeli Alla Linea Ortodossia
Un introvabile 45 giri di colore rosso, proveniente dalla Germania,
nel 1984 agitò le acque della musica italiana per sempre. La
copertina tradiva un pesante filosovietismo anche se, in quegli
anni, il mito del comunismo, tra i giovani, era sbiadito (parole di
Berlinguer). Loro si chiamavano CCCP e presentavano un sorta di
demo con tre brani che dire rivoluzionari è poco. E non era una
provocazione. In Live in Pankow la band emiliana cantava il
desiderio di sottostare al Patto di Varsavia, di essere allineati in
tutto e per tutto all’URSS, di attuare i piani quinquennali stalinisti, di
sputare sulla NATO, tanto da preferire la DDR alla bigotta Germania Federale. Il secondo
pezzo, Spara Jurij, era una traccia punk sull’abbattimento per errore di un aereo coreano
da parte di Andropov; infine, il B-side era niente po’ po’ di meno che Punk Islam, un
capolavoro di ibridazione culturale socialista, dialogo interreligioso, rabbia autoritaria e
provincialismo da balera, tra punk e liscio. L’ortodossia di essere fedeli alla linea così
come il parallelo fra l’Emilia rossa e la madrepatria Russia: questo erano i CCCP.
254
Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
•
255
Tosca Opera
(19/02/09)
Sto aspettando da anni un nuovo lavoro e i singoli in digitale Prolo
e Natural high non mi bastano. Ecco perchè ho scelto di recensire il
primo disco, risalente al 1997, dei Tosca. Big beat a bassa fedeltà,
dub senza reggae, trip hop strumentale: Opera era talmente
innovativo che non poteva passare inosservato. Partiamo coi
mugugni jazzistici di Fuck dub (in questo disco parte 1 e parte 2
sono fuse), un brano che ha contribuito notevolmente alla fama dei
Tosca; c’è poi Worksong, nella quale la bassline accompagna con
discrezione il cantato; quindi troviamo Gimmi gimmi, un pezzo che
fa della contaminazione jazzy il suo tratto distintivo. La seconda parte del disco, dopo
l’alternarsi di interludi vari, comprende Chocolate Elvis, altra celeberrima hit del duo
austriaco, Ambient emely, estenuante digressione ambientale, Postgirl, con un pitch bend
piuttosto alterato, ed infine Buona Sarah, degna conclusione di questo disco
interdisciplinare, ballabile, intimista, anticonformista, a suo modo geniale. Dopo Opera i
Tosca andranno via via migliorando, producendo capolavori come J.A.C. e Suzuki.
•
¡Forward, Russia! Give me a wall
(20/02/09)
In pratica è come se avessero registrato una ventina di brani senza
nome e poi ne avessero selezionati una dozzina da inserire in un
progetto organico; ed ecco quindi che il disco è bell’e pronto. Give
me a wall dei ¡Forward, Russia! - ci metto la mano sul fuoco - è
nato così. I dodici brani che lo compongono portano come nome il
numero cardinale. Musicalmente parlando, a mio avviso si può
affermare che il sound dei ¡Forward, Russia! stia a metà tra il
postcore e il math rock; infatti noto tante somiglianze (ma anche
alcune sostanziali differenze) con i Mars Volta, i Battles, i Minus
The Bear e gli Electric President. I brani migliori di Give me a wall sono Twelve, Eighteen,
Nine, Nineteen e Sixteen. Quello dei ¡Forward, Russia! è un genere che potete facilmente
ascoltare nei club sotterranei italiani ed è piacevole farsi cullare ed esaltare da queste
misture sonore. Non posseggo il metro di misura del loro successo ma so per certo che il
loro nome circola sempre più prepotentemente negli ambienti del settore, un ambiente in
instabile equilibrio fra il mainstream di MTV e l’underground dei festival europei.
•
(21/02/09)
Marco Masini Malinconoia
Così come successe a Mia Martini, farsi accollare la nomea di
iettatore non è sicuramente auspicabile. E vorrei soprattutto
conoscere i nomi di coloro che, prima di un’esibizione, lo
prendevano in giro con quel cattivo gusto. Malinconoia è stato un
discusso album degli anni ’90, un’icona popolare di quel decennio
così tormentato e ambivalente. Marco Masini presentò nel 1991
nove tracce scritte col tocco del più deprimente poeta di strada, con
quel tono pesante, grave, squallido, sconfortante ed al contempo
verista. I brani che hanno reso famoso e che hanno negativamente
segnato la carriera di Masini sono tutti qui. Innanzitutto l’autolesionismo di Perché lo fai,
poi il pessimismo cosmico de Il niente, quindi il vuoto esistenziale di Cenerentola
innamorata; tutte vite, queste, di teenager impelagate in storie di droga, parti illegittimi,
depressione, suicidi. Pleonastico menzionare i titoli degli altri brani, da La voglia di morire
a Il giorno dei perdenti, fino alla title track, una metafora di delusione che parla della
ricerca della malinconia e dell’emorragia di questi decenni, la noia.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Waldo De Los Rios Sinfonias
(22/02/09)
Gli anni d’oro della musica colta rifatta in chiave pop videro
trionfare Helmut Zacharias, Franck Pourcel, James Last, George
Melachrino, Len Mercer, Ted Heath, financo Waldo De Los Rios,
che nelle classifiche italiane di vendita aveva un posto fisso.
Sinfonias è certamente il suo LP più famoso che, reso celebre
anche per via di quella copertina molto kitsch, contiene otto
grandissimi pezzi classici, smontati e rimontati con grande savoir
faire. In ordine i pezzi sono: il Corale dalla Nona sinfonia in re
minore di Beethoven, l’Incompleta (l’Ottava sinfonia in si minore) di
Schubert, la Sinfonia n° 40 in sol minore K550 di Mozart, la Terza sinfonia in fa maggiore
di Brahms, il Nuovo mondo dalla Sinfonia n° 9 opera 95 di Dvořák, la Sinfonia dei giocattoli
in do maggiore di Haydn, la Sinfonia n° 5 in mi minore di Čajkovskij e l’Italiana (la Quarta
sinfonia in la maggiore) di Mendelssohn Bartholdy. L’Orquesta Manuel de Falla, diretta da
Waldo De Los Rios, regge bene il confronto diacronico e il risultato che ne vien fuori è
appetibile e di grande qualità. Forse i classici si rigireranno nella tomba ma… c’est la vie!
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dEUS In a bar, under the sea
(23/02/09)
Vengono da Anversa ed in Italia sono molto seguiti, tanto che, fino
a pochi mesi fa, credevo fossero italiani. I dEUS sono una band
molto indipendente capace di sorprendere l’ascoltatore con un
sound coinvolgente che parte dal rock per toccare territori
vastissimi. L’idea di questo bar sottomarino mi è piaciuta
immediatamente e l’ascolto dei brani di In a bar, under the sea mi
ha convinto del tutto. Trovo splendente la divertente enfasi di Fell
off the floor, man, un pezzo che ricorda l’appeal ritmico di Norman
Cook; davvero strabiliante l’uso della struttura jazz in Theme from
turnpike e la docile inclinazione indie pop di Little arithmetics; grandissimo pezzo Gimme
the heat, pieno zeppo di reminiscenze drone; altrettanto entusiasmanti sono le successive
Serpentine e A shocking lack thereol, entrambe venate con fregi fatti di chitarre distorte e
cori in falsetto. Guilty pleasures, Nine threads, Disappointed in the sun e For the roses,
poi, ricordano vagamente alcune trovate post dei Godspeed You! Black Emperor con la
differenza che il linguaggio dei dEUS è indiscutibilmente di più facile presa.
•
Feist Open season
(24/02/09)
L’affascinante Leslie Feist, da anni seduta sullo scranno della bella
musica, propose nel 2006 una raccolta di reworks e collaborazioni
che tentavano di liftare canzoni provenienti dal suo precedente
lavoro Let it die. Ascoltare One evening nell’arrangiamento di solo
piano - ai tasti c’è quel sapientone di Gonzales - è semplicemente
toccante com’è disarmante la nostalgia che fuoriesce dalla chitarra
classica di Inside & out, curata da Julian Brown. Fantastico il remix
garage di Mushaboom ad opera di Mocky e quello latin di
Gatekeeper prodotto dai VV; uno dei pezzi migliori è sicuramente il
trip hop in stile Deadbeats di Lonely lonely (le mani sul brano ce l’ha messe Ungoldy
Hours). I VV si preoccupano anche di remixare in chiave r’n’b One evening, When I was a
young girl e Mushaboom; quest’ultima viene data in affidamento persino ai Postal Service
che operano un rework elettronicamente ineccepibile. Molto significativi gli inediti di questo
Open season come Lovertits performata con Gonzales, The simple story cantata in coppia
con Jane Birkin e Snow lion con Ready Made FC. Dal Canada con tanto affetto.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Tobor Experiment Tenori days
(25/02/09)
Tobor Experiment è un uomo che ci sa fare: ha prodotto la serie
TechStuff per Qoob TV, ha creato programmi di glitch sequencing,
ha elaborato interessanti lezioni di musica contemporanea, ha
pubblicato dischi di pura inclinazione sperimentale, dedicandosi
altresì al suono vintage dei moog e dei synthi. E, nel momento in
cui il Giappone ha presentato il Tenori-on della Yamaha, Tobor non
s’è lasciato sfuggire l’occasione ed è partito alla volta del Sol
Levante col suo fedele nuovo giocattolino generativo per
un’esperienza multiforme che, nel caso che interessa me, è
sfociata nel download gratuito di questo Tenori days, un disco di genuina deep house,
infarcita qui e là di musica frattale come in Asakusa lullaby e di glitch come in Shinjuku-ku.
Il frammento che m’ha colpito di più è stato l’Intro, che prende vita al dispiegarsi di un
illuminante dialogo tratto dal film Stalker di Andrej Tarkovskij. L’esperienza di Giorgio
Sancristoforo nell’essere fabbro ed artigiano, musico ed audiofilo, insegnante ed allievo, fa
di lui la migliore e più completa rivelazione della piattaforma broadcast di MTV Italia.
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Opto 2nd
(26/02/09)
Dieci orari sparsi che potrebbero essere arrivi, partenze, nascite,
decessi, eventi, tragedie, principi, termini. Alva Noto, coadiuvato
dal fido Thomas Knak in arte Opiate, registrò nel 2003 questa
sessione elettronica di quasi un’ora tra Berlino e Copenaghen, per
riproporla l’anno dopo su label Hobby Industries. Andrew Cannon e
Kai Von Rabenau si apprestarono a restaurare le filettature
abstract, IDM e glitch di questo intenso progetto, lavorando sui
nastri magnetici originali. La qualità oggettiva dell’audio del
prodotto finale non è eccelsa ma permangono ottimali le
conclusioni a cui Noto e Knak sono arrivati con 2nd. Gli orari di cui sopra (04.34 a.m., 02.12
p.m., 11.33 a.m. ecc.) non sono che gli istanti precisi in cui i due artisti europei hanno
preso a lavorare ai vari brani, quasi fosse un happening di Chris Burden; inoltre
l’audiotape originale non è che una cassettina ritrovata casualmente in un bosco, alla
quale gli Opto hanno sovrapposto tappeti di sonorità sintetiche, estrapolando
dall’organismo originario un nuovo e più moderno strumento di comunicazione musicale.
•
The Jimi Hendrix Experience Electric Ladyland
(27/02/09)
Sopravvalutato come pochi anche se, in fin dei conti, la chitarra la
sapeva suonare sul serio. Trovo comunque inaccettabile che un
artista di talento debba bruciarsi e dare vita ad una leggenda che
scavalca di parecchio l’opera terrestre. Mi riferisco a Jim Morrison,
a Ian Curtis, a Kurt Cobain, a Ernesto Guevara, a Marilyn Monroe,
a John Kennedy, a Janis Joplin, a John Lennon, a Jimi Hendrix. La
discografia di quest’ultimo è un noiosissimo ma interessante trip
all’interno degli stati alterati di coscienza. Il miraggio di un nuovo
sole, l’illusione d’una società più equa, il libertinaggio intellettuale
degli anni ’60, la sbandierata libertà sessuale, sono questi tutti concetti che ritroviamo
implicitamente esposti nelle tablature di Hendrix. Electric Ladyland, suo apice artistico del
1968, non fa che confermare la stoltezza e la vacuità di quei pensieri e di quelle
rivendicazioni. Gli anni ’60 della contestazione hanno semplicemente creato caos tra i vari
ruoli sociali e immesso sul mercato ideologico istanze prive di concreta validità.
Continuerò a ripetere che, da amante della musica, non devo nulla ad artisti come lui.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Landser Ran an den Feind
(28/02/09)
La Germania repubblicana ha deciso di rompere col proprio
passato rinnegandolo e umiliando la storia e gli uomini che l’hanno
fatta. L’idea nazionalsocialista, dopo la catastrofica disfatta del ’45,
è stata bandita dal territorio tedesco; così com’è stato per coloro
che hanno continuato, coraggiosamente, a professarsi fedeli ai
dettami del Führer. I Landser, tacciati al pari di una vera e propria
organizzazione criminale, sono tra le poche band a cimentarsi in
esaltanti - anche se ideologicamente discutibili - canzoni naziste,
offrendo una qualità di missaggio sorprendente. L’ultimo vero disco
della loro discografia risale al 2001 e presenta diciannove brani di punk rock alternativo
che, da Rock gegen ZOG a Reichskoloniallied, da Volk ans Gewehr a Wacht an der
Spree, parlano di razzismo vero e proprio, di omofobia, di sciovinismo ai danni dei turchi,
ma anche dell’onore del Terzo Reich, dei personaggi che lo hanno reso temibile (la
canzone Rudolf Hess, contenuta in Deutsche Wut, è un capolavoro del genere), degli
eventi storici che portarono all’esaltazione, al tradimento, alla sconfitta, alla vergogna.
•
Alberto Patrucco Chi non la pensa come noi
(01/03/09)
Bravo a far sbellicare i suoi spettatori con quel modo intransigente
di far satira, con quella battuta che nasconde e svela sempre la
disillusione, l’amarezza, la sfiducia, Alberto Patrucco, da un po’, si
è messo pure a tradurre il genio Charles Brassens, già maestro del
compianto Faber De André. Le canzoni che formano questo Chi
non la pensa come noi trattano di tutti quei temi politico-sociali che
avevano infiammato le strade di Parigi durante quel famoso
maggio. E solo questo è - altro che Woodstock! - il modo giusto per
parlare di giustizia sociale, distribuzione della ricchezza, libertà
individuale; il modo di chi costruiva piccole filastrocche, come I rampanti, Quegli imbecilli
nati in un posto, All’ombra dei mariti o Babbo Natale e la fanciulla, per colpire, senza far
poi tanto male, la società del suo tempo e tentare di destarla dal torpore, dal vecchiume,
dall’ancien régime. Patrucco se la cava alla grande con la traduzione letterale e non si può
nemmeno dir male del suo canto, fermo restando che il suo vezzo è quello del teatrocanzone gaberiano, nella forma più alta di interazione comica col pubblico.
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Noir Dèsir Des visages des figures
(02/03/09)
In generale il disco è decisamente segnato dalla malinconia: è così
Des armes, su testo di Leo Ferrè (quello di Tu ne dis jamais rien), è
così la languida L’appartement, ed è così anche la bellissima Le
vent nous portera che sfuma lentamente in uno struggente vortice
di violini. Bertrand Cantat e soci si dimenano anche tra spunti punk
rock (Son style 1) ed esatti opposti come Son style 2, un brano,
quest’ultimo, psichedelico con lenti ricami chitarristici. À l’envers à
l'endroit si riallaccia alla delicatezza e alla perfezione formale di
Des visages des figures, mentre la successiva Lost, nervosa e
instabile, si pone come uno degli episodi più felici del disco. Bouquet de nerfs è pura
canzone d’autore alla francese, ideale colonna sonora di un noir fumoso e decadente ma
è qui che arriva il folle tour de force de L’Europe, quasi ventiquattro minuti in cui Cantat e
la guest vocalist Brigitte Fontaine declamano un vero e proprio pamphlet che non lascia
scampo a niente e nessuno: politica, economia, stato sociale, tutta la civiltà occidentale
viene messa sotto accusa attraverso uno scritto visionario ed impietoso. Buona musica.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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BestieRare Come un animale
(03/03/09)
Il disco è aperto dalle incessanti domande rivolte da uno stupido
giornalista all’artista di turno. Le Bestierare rispondono col loro
beat, col flow e con le rime che li contraddistinguono, partendo
dunque dalla collocazione a cui si sentono affini. La crew hip hop di
Elio Germano alias Olindo Jazz ha prodotto un disco, scaricabile
dal sito ufficiale, contenente otto pezzi fra l’ironico e lo spietato, a
partire dalla title track fino a Uh uh, coro tanto caro agli ultras di
mezza Italia, come la successiva Buuu!. C’è molto parlato e
chitarrine easy anche in Prima va a chi la gira mentre L’uomo della
folla appartiene all’old school; assai più scanzonate Scivolo e Rappresentami te, quando
invece la nostalgia del proprio tempo andato è così sfacciata in Mondiali ’90. La musa
ispiratrice delle Bestierare è certamente il sound dei Cor Veleno, un sound che sta a metà
fra l’hardcore e l’old school, un sound che prende le mosse dall’America di Snoop Dogg e
50 Cent ma che si lega molto bene alla florida tradizione hip hop del Belpaese, quella che
comincia appunto dai Cor Veleno e, passando per Frankie Hi-NRG, arriva al Colle.
•
Malika Ayane Malika Ayane
(04/03/09)
Da Sanremo 2009 è uscito poco o niente di buono, la solita bella
canzone di Francesco Tricarico, le dissonanze rock degli
Afterhours, il poppettino che si infila in testa di Dolcenera e Povia e,
grazie a Dio, la voce splendente di Malika Ayane. Difatti, questa
affascinante italo-marocchina è forse la migliore rivelazione vocale
del pop italiano di fine decennio. Già portata avanti da Pacifico nel
brano Sospesa, adesso la si può riscoprire nella seconda edizione
del suo eponimo - il primo era di colore grigio - il quale contiene,
oltre al singolo sanremese Come le foglie, altri due pezzi salubri:
Over the rainbow e il remix di Alva Noto di Time thief. Quest’ultima collaborazione mi ha
letteralmente fatto sobbalzare dalla sedia e, a sentire l’intero disco, la sorpresa è durata
assai più di tre minuti. Sono stato incantato, oltre che da Sospesa e Time thief, anche dai
violini di Someday, dalle batterie brush di Contro vento, dal testo di True life, dall’oboe de
Il giardino dei salici e dalla traduzione migliorativa di Soul waver. Se queste sono le
credenziali si può scommettere senza timore sul talento di Malika Ayane.
•
Pan Sonic Aaltopiiri
(05/03/09)
Dalla Finlandia arriva il freddo polare dell’Artide e non ci si può di
certo aspettare la bella stagione, o perlomeno non è lecito sperare
che dalle terre finniche giungano sino a noi suoni colmi di accordi e
variazioni, fantasie e sviolinate. Eppure il sound dei Pan Sonic è
grandioso, innovativo, elegiaco, profondo, anche caldo, quasi
spirituale. Aaltopiiri, per Blast First (2000), è un disco molto intenso
sotto il profilo della ricerca audio e altrettanto intensa è la sua
inclinazione all’utilizzo degli stilemi convenzionali dell’elettronica.
L’effetto rilassante del rumore rosa, quello distruttivo del rumore
bianco e quello fastidioso del rumore marrone, si uniscono nel commiato al concetto di
glitch; glitch che in Aaltopiiri non è inteso come errore, bensì come elemento strutturante e
strutturato. Äänipää, Vaihtovirta, Ulottuvuus, Kierto o Hallapyydys cercano di far collimare
il suono proveniente dagli oscillatori e dagli arpeggiatori di ultima generazione con quello
proveniente dai generatori di onde analogici. Il risultato di questo incontro è un
confortevole compendio musicale per anima e corpo, in una sintesi veramente attuale.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Latte & I Suoi Derivati 22 celebri motivi… per sognare
(06/03/09)
Capitanati da quegli inguaribili cretini di Lillo & Greg, i Latte & I Suoi
Derivati sono stati una leggenda della musica demenziale italiana
e, se non fosse che questo termine include anche Squallor e Gem
Boy, cadrebbe loro a pennello. Il disco in questione contiene
sostianzialmente dodici brani, conditi da una marea di interludi e di
spezzoni dialogici. I due pezzi che hanno reso famoso questo
lavoro sono sicuramente Ginoska e Otto il passerotto; il primo
pezzo è un travolgente ska che infiamma di balli e risate la pista, la
seconda canzone è invece la storiella di un padre furioso e di un
bambino tonto. Parolacce, ingiurie, insulti, battute e cazzate varie fanno di questo album
un must per tutti coloro che adorano i Prophilax tanto quanto Elio & Le Storie Tese, gli
Skiantos come i Balordi, per ridere senza rinunciare a riflettere, per sbellicarsi senza
volgarità. 22 celebri motivi… per sognare lo ascoltai, fortunatamente, parecchi anni fa e,
quando posso, ancora oggi cerco di seguire Lillo & Greg in televisione o in qualche
concertino in giro per Roma. Tra l’altro li vedo spesso al Bar Marani di San Lorenzo.
•
Lali Puna Tridecoder
(07/03/09)
L’indietronica mi piace parecchio e la band che sta alle spalle di
Valerie Trebeljahr è certamente una delle cose migliori di
quest’ultimo decennio. Nel 1999 i Lali Puna esordirono con
Tridecoder, un lavoro per Morr Music ispirato alla tradizione post
rock ma anche all’elettronica d’alto bordo dei club tedeschi. Il
risultato fu un disco completo, speziato, progettato bene e
realizzato con pochi sforzi e alta qualità. 6-0-3 è un pezzo dai
contorni vintage, Rapariga da Banheira è gioviale ed esotica, in
Antena trash è veloce e picchiettata, in System on si sente che c’è
un pezzo di Notwist, Everywhere & allover sembra suonata sulle sponde di un laghetto di
campagna, Toca-discos prende pezzi dal reggae di Zion Train, Press my tummy comincia
in reverse, Fast forward torna invece alla normalità della forma-canzone indie, Superlotado
pare infine una canzone da messa. Tridecoder è davvero un disco eccellente, un progetto
che fece crescere esponenzialmente l’ammirazione e lo stupore degli ambienti indie
attorno alla voce di Valerie e al talento naturale della sua band indietronica.
•
(08/03/09)
Rino Gaetano Mio fratello è figlio unico
Parlare di Rino Gaetano può essere terribilmente banale ma anche
originalmente interessante. La sua figura di menestrello antisistema
e la sua opera di satira d’autore fanno di lui un artista unico davvero - all’interno della tradizione leggera (?) italiana. D’altronde
la sua musica è talmente trasversale che è praticamente
impossibile trovare sprovveduti che la detestino. Mio fratello è figlio
unico, secondo album del 1976, contiene alcuni dei capolavori più
assurdi del cantante calabrese, a partire dalla title track, una
canzone sulla difficoltà di essere (dunque di esistere) nel mondo di
oggi: la nostra individualità che si trova a lottare in modo impari contro un sistema
acquisito di falsi valori e miti istituzionali. Nel disco c’è poi il sorriso beffardo di Sfiorivano
le viole, l’amore trasandato di Cogli la mia rosa d’amore, la filastrocca nazional-popolare di
Glu glu, il tormentone Berta filava, l’ordinaria vita di Rosita, la magistrale ironia in bilico tra
rassegnazione e rivincita di Al compleanno della zia Rosina, infine l’improperio sudista de
La zappa… il tridente il rastrello la forca l’aratro il falcetto il crivello la vanga.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Daft Punk Daft Club
(09/03/09)
Il Daft Club è un ristretto gruppo di DJ e produttori che hanno la
prerogativa di poter interlocuire con i Daft Punk e, più che altro, di
poter mettere le mani sui loro brani. Il remix di de Homem-Christo e
Bangalter alla propria creatura Aerodynamic è semplicemente
fantastico, perché fonde in un colpo solo One more time e Digital
love. Molto significativo è il remix dei Neptunes su Harder, better,
faster, stronger, come altrettanto coinvolgente è il rework di Cosmo
Vitelli su Face to face; totalmente straniante invece il lavoro
percussivo dei Basement Jaxx su Phoenix e il tono rappato degli
Slum Village in Aerodynamic. La nota negativa proviene da quello che ho sempre
considerato uno dei miei maestri di djing, Boris Dlugosh, il quale è riuscito in pratica a
lasciare intatta Digital love: il suo remix non esiste! Segnalo per il dancefloor il rework di
Demon di Face to face, per il loft la versione di Too long affidata a Gonzales e per
Sanremo l’unplugged di Romanthony con One more time. I Daft Punk sono tornati in
studio e noi tutti stiamo aspettando con infantile frenesia il nuovo capolavoro.
•
Faithless Reverence
(10/03/09)
Fece molto rumore l’uscita di questo disco. Correva l’anno 1996 e
sulla scena internazionale si affacciò una band che riusciva a
mischiare techno e trip hop, ovvero il rapido levare del suono
sintetico e la buia ma intrepida forza espressiva del testo parlato.
La title track che apre il disco si muove appunto tra chitarre solo
accennate e beat lenti, con Maxi Jazz che sembra improvvisare un
discorsetto niente male. Dopo l’inutile Don’t leave c’è lo splendido
sforzo compositivo di Salva mea, una lunga esperienza hard house
capace di stimolare le parti meno reattive del corpo. Ancora
banalità con If lovin’ you is wrong e Angeline e, d’altronde, ancora suoni maestosi con
Insomnia, altra hit faithlessiana dal sapore agrodolce: sintetizzatori digitali che non si
spengono mai e drums che crescono senza dare nell’occhio. Questa dicotomia estetica, in
Reverence, è evidente e vistosa, tanto che continua sopra le pacchianate di Flowerstand
man ma anche grazie all’azzeccatissima bassline di Drifting away. Un disco di alti e bassi,
in cui i bassi corrono rapidi ma gli alti si rivelano essere dei capolavori techno.
•
Electric Music Electric Music
(11/03/09)
A volte con la C, altre con la K: il punto è che Elektric Music è un
tipo strano. Credo che il suo disco (quasi) omonimo sia una sorta di
sfogo creativo, un tentativo di esternare il proprio malcontento, la
rabbia, la frustrazione. Nonostante tutto, anche questa chiave di
lettura non mi convince del tutto, perché Electric Music è uscito nel
1998, cinque anni dopo Esperanto e otto anni dopo l’abbandono
della band. Per chi non lo sapesse, infatti, Elektric Music altri non è
che Karl Bartos, storico percussionista nei migliori Kraftwerk di
sempre. Il dato finale è che questo secondo disco solista di Bartos
sia un esperimento non riuscito di rendere acustica l’elettronica, cioè di imbastardire la
freddezza del suono digitale con l’aura happy del pop. The young urban professional,
Another day, Together we can do it all, Sunshine o Friends rappresentano un genere
musicale stantio, patetico, e ciò mi spezza il cuore, perché credo che Karl Bartos sia
davvero un genietto; non a caso Esperanto (1993) è un capolavoro e Communication
(2003) suona benissimo. Tra i due resta questa parentesi degna del limbo dantesco.
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Musica Per Bambini M__sica
(12/03/09)
La follia di Musica Per Bambini esplode definitivamente nel suo
personale capolavoro M__sica, un lavoro risalente a quattro anni fa
che si rivelò trasversalmente perfetto: tutta la critica indie fu
concorde nel riconoscere in MPB un geniale artefice sonoro.
Questo genere, tra demenziale e folk, tra medievale ed elettronica,
ha già fatto storia. Il disco parte con lo sproloquio di Preghiera delle
palle di neve e colpisce il segno grazie alle distorsioni screamo di
Tanto tonto; il terzo brano è Kjoe (la macchina del caso), un pezzo
che mima pernacchie, spolvera videogiochi e ricaccia vecchie
filastrocche; decisamente folle anche il testo di Tagliami la testa e il ritmo de La prima
grattugia, allorquando ci ritroviamo di fronte a Lord Hamilton di Warlthunn, che di cotanta
regalità fa il suo tratto distintivo. La ballad dell’album è forse la successiva Di quella pera,
una canzone che vira subito verso orizzonti di pazzia degenerativa; a questo punto che
dire di C’è un topo sulla Luna, Le monete libere e di Per costruire un universo? Questa
musica vuole solo creare sogni innocenti, ma questa è musica per bambini deviati.
•
Paolo Conte Parole d’amore scritte a macchina
(13/03/09)
Un disco grandioso che parte immediatamente con l’elettronica di
Dragon, quell’elettronica che aveva dato origine a Simpati-simpatia
e ad Aguaplano. Paolo Conte dimostra la propria maestria nel
maneggiare il jazz come fosse argilla, o terracotta. Parole d’amore
scritte a macchina (1990) è uno dei dischi più belli dell’avvocato,
pieno zeppo di evergreen, come lo scandito ritmino di Colleghi
trascurati o la rombante allegria di Mister Jive. Uno dei migliori
episodi del disco è certamente Ho ballato di tutto, sorta di
narrazione surreale in grado di passare dalla milonga al jive.
Leggermente inferiori Eden e Un vecchio errore e, visto che non tutti possono amare il
jazz, Conte pensa bene di presentare Il maestro, canzone che, grazie ad un coro
pazzerello, rivela un arrangiamento in grande stile. Assolutamente decisive le seguenti
Lupi spelacchiati ed Happy feet, ennesimo inno gioioso al ballo sfrenato. Rimangono in
lizza gli ermetismi della title track e de La canoa di mezzanotte, e rimane altresì in piedi la
laconica leggerezza di Ma si t’a vo’ scurdà. Paolo Conte è assolutamente insostituibile.
•
Massive Attack Mezzanine
(16/03/09)
Dopo un’attesa straziante uscì Mezzanine, un album curatissimo
che ripagò dei quattro anni di silenzio discografico. I Massive
Attack, quelli della svolta trip hop, tornarono agli strumenti veri:
chitarre e batterie a rubare spesso il posto che era stato dei
giradischi e dei sample. Ciò che caratterizza i suoni di Mezzanine è
la ricerca di vibrazioni cupe e avvolgenti, che costruiscono
atmosfere inquietanti e tenebrose, a volte condite con retaggi
orientali (Inertia creeps e Group four); è qui che riesplodono i piatti
da DJ, fungendo da strumenti e tirando fuori variazioni
imprevedibili. Ai suoni misteriosi si affiancano testi altrettanto scuri. Tutto il disco è giocato
sul filo dell’ansia, del tremore, ed è dichiaratamente ispirato al paranoico Taxi driver di
Scorsese, regista venerato dai nostri benamati. Nuova compagna di viaggio è Liz Fraser
dei Cocteau Twins, voce noir in piena sintonia con la sofisticata inquietudine dell’album (e
Teardrop diventa capolavoro). Insomma, Mezzanine si presentò splendidamente notturno
e confermò che i Massive Attack sono i tetri stregoni sonori degli anni ’90.
262
Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
263
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múm Summer make good
(17/03/09)
Anche se profondamente diversi, i múm sono decisamente
superiori ai compatrioti Sigur Rós. L’approccio che hanno verso il
suono è molto più artigianale, casalingo, esperto; riescono così a
intrattenere lunghi discorsi musicali senza mai cadere nella retorica
dell’elettronica o del post rock. Summer make good è il penultimo
album dei múm e offre una visione contorta della bella stagione,
una visione priva di happy end, se di happy end si tratta. Weeping
rock, rock è intrisa di clipping e dà fiato a sentimenti di perdizione,
di infinita tristezza, di svuotamento d’animo; più accondiscendente
è invece Nightly cares, come fosse una carezza data ad un viso sofferente. Il brano di fine
estate, ascoltato con una rodata comitiva, è certamente The ghosts you draw on my back,
mentre lo sferragliare metallico di un intonarumori fuoriesce da The island of children’s
children; un po’ di leggerezza benevola giunge con Oh, how the boat drifts e di nuovo
tanta amarezza con Will the summer make good for all our sins?. Infine, il lamento del
mare e del cielo in Abandoned ship bells. Piangere non ha mai fatto così bene.
•
99 Posse NA 99 10°
(18/03/09)
I 99 Posse ci lasciarono con questo doppio CD; sul lato A due
inediti e tanti live, sul lato B strambi remix di sangue blu. NA 99 10°
comincia con l’invettiva antiamericana di Amerika, brano che critica
sistema scolastico, politico e militare d’oltreoceano; quindi Stop that
train, coinvolgente reggae no global che denuncia le perverse
conseguenze della mondializzazione. Partono dunque i mirabolanti
live in giro per l’Italia, da Vulesse a Curre curre guaglió, a Rigurgito
antifascista; Rafaniello scherza sui comunisti sbiaditi, Salario
garantito chiede equa distribuzione salariale, S’addà appiccià è
eversiva e terrorista come un’intifada palestinese. Il secondo CD offre remix che non
temono rivali. Dal tocco di Zion Train sul meridionalismo di Facendo la storia al bordello
digitale di DJ Vadim su L’anguilla, dall’inclinazione rave di Peter Hughes con Buongiorno
allo stile techno dei Waveshapers su Povera vita mia. Menziono inoltre l’instancabile glitch
dei Retina.it (La gatta mammona), l’insuperabile dub di Mad Professor (Cildren ov Babilon)
e Zion Train (No way) e l’intramontabile jungle di Brain Wave (Fujakka). Quanti rimpianti…
•
Dente Non c’è due senza te
(19/03/09)
Non c’è due senza te perché, evidentemente, l’amore si fa in due.
Tra l’altro non si sa se quella di Dente sia ironia o rassegnazione,
euforia o disillusione. La prima Canzone di non amore è dedicata
ad una donna che non se la merita, Baby building è un viaggio al
mare dopo gli esami di maturità, La battaglia delle bande è un
invito a stare assieme, DXG è un quadro fatto di vita quotidiana e
tedio amoroso. Dente è bravissimo a cantare l’amore in tutte le
sfumature, non scadendo nel facile cliché, nello stereotipo; ed ecco
che La fine del mondo è il crollo della speranza, ma poi Canzone
pop si rivela ottimista e scanzonata. Toccante l’eleganza de La presunta cecità di Irene
(nel nuovo disco c’è La presunta santità di Irene), appassionante la storia di 28 agosto,
avvincente la tenacia di Diecicentomille, tenui e mielose Stella e Oceano, infine
indimenticabili le scuse di Chiedo, vero e proprio omaggio ai grandi nomi della canzone
italiana, Francesco De Gregori e Fabrizio De André su tutti. Anche se l’equalizzazione del
disco è poco più che sufficiente, il lavoro di questo cantautore è invidiabile.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Electronic Electronic
(20/03/09)
Se due delle migliori band inglesi di sempre si uniscono in un solo
afflato elettronico il risultato non può che essere eccelso. Anche se
trattasi qui non di fusione bensì di unione di intenti, il debutto
discografico degli Electronic resta comunque convincente. Bernard
Sumner dei New Order e Johnny Marr degli Smiths diedero alle
stampe, nell’ormai lontano 1991, un disco che è la sintesi del
suono di Machester. Gli elementi della new wave di Gangster
vanno a braccetto con le bordate britrock di Idiot country; eppur
non mancano alcune ricadute nell’universo delle discoteche
(Reality e Tighten up) e nello stile Pet Shop Boys (tanto che Neil Tennant canta in Getting
away with it e in The patience of a saint). Denise Johnson presta la sua voce in Get the
message, canzone simbolo degli Eletronic, mentre Helen Powell offre la sua prestazione
all’oboe per Some distant memory; infine abbiamo le percussioni di Donald Johnson in
Feel every beat. Volendo tirare le somme di questo progetto a quattro mani, si può
azzardare una conclusione che giunge alla presunta superiorità della musica inglese.
•
Quintorigo Grigio
(21/03/09)
Il talento abbinato alla follia, lo studio all’improvvisazione, il genio
alla sregolatezza. Sono più o meno questi gli elementi che
caratterizzano da sempre la formazione dei Quintorigo, eminente
gruppo dell’eclettismo nostrano. La maggior parte delle persone
che li conoscono sostengono che Grigio sia il lavoro più pieno e
questa è un’asserzione difficilmente confutabile. L’incipit de La
nonna di Frederick lo portava al mare propone un mélange di free
jazz, canzone d’autore e folk; la successiva title track parte invece
dallo swing per buttarsi nei territori cari a Vinicio Capossela; poi
Malatosano si diverte sulle note classiche e Precipitango, ovviamente, improvvisa un
incerto tango fra scherzo e seriosità. Il rock intellettuale arriva con Egonomia (un pezzo
simile ai Subsonica di Terrestre), l’inglese di John De Leo con Nola vocals, l’africanismo
vocale con Zahra, quindi la melodia ricomincia a prendere il largo grazie alla bella Causa
vitale; le capacità purosangue elettroniche e vocali escon fuori con Bentivoglio Angelina,
l’attitudine teatrale con Alle spalle, infine l’esperienza live con Love rears its ugly head.
•
(22/03/09)
Madonna Like a virgin
Regina incontrastata del pop da più di venticinque anni, una
carriera fulminante e sempre ai vertici, un’immagine provocante,
scandalistica, originale, e una vita privata sotto i riflettori con tanta
voglia di stare davanti alle telecamere. Madonna è Madonna.
Prendere o lasciare. Il secondo disco della Ciccone è una vera e
propria classifica top ten. Al primo posto c’è la mitologica Material
girl: sentimenti grezzi, passione sfrenata e scarso appeal verso il
perbenismo. Al secondo posto metto proprio Like a virgin, altro inno
alla vita vera, impulsiva, istintiva, libera dagli schemi della buona
società. Terza posizione per Into the groove, pezzo che definire travolgente è poco: un
basso portentoso, una cassa veloce, un cantato esaltante, un’atmosfera da discoteca
d’altri tempi. In quarto piazzamento c’è un pari merito fra l’innocenza - si fa per dire - di
Angel e la malizia di Dress you up; dal quinto posto in giù ci sono le varie Pretender, Over
and over, Stay, Shoo-bee-doo e Love don’t live here anymore. Ancor oggi Madonna vende
milioni di dischi ma l’originalità e qualità di Like a virgin e simili è irraggiungibile.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Lùnapop …Squérez?
(23/03/09)
Era pop vagamente british e ricevette grande successo; la ricetta
stava nel giusto equilibrio tra storie di vita quotidiana e amori
sensazionali, fughe tra amici e sindromi di Peter Pan, il tutto
condito da una buona sezione ritmica e da uno speciale timbro
vocale. I Lùnapop di Cesare Cremonini sono state una delle
tantissime meteore del pop italiano con la semplice differenza che il
capobanda è ancor oggi nell’olimpo dei cantanti medio-alti. L’unico
disco prodotto da questi bolognesi fu …Squérez?, sorta di
onomatopea anfibia che va a racchiudere il senso ironico e
adolescenziale della tracklist. Una tracklist che contiene tre o quattro hit che tutti gli italiani
conoscono ormai a menadito. Sto parlando di 50 Special, di Qualcosa di grande, di Un
giorno migliore e di Resta con me; sto altresì omettendo Vorrei, Se ci sarai e Niente di più.
Il retrogusto un po’ 883 dell’intero disco come l’evidente semplicità di accordi e tempi fa di
…Squérez? un grande prodotto della fabbrica discografica - tanti soldi, tanti diritti, tanta
immagine - ma la musica avrebbe bisogno anche di altre variabili endogene.
•
‘O Zulù Live in the Al Mukawama experiment 3
(24/03/09)
Ha perseverato nell’intento di fare musica antagonista, sovversiva,
antioccidentale, e il pubblico l’ha punito. Ma poco importa. Perché
‘O Zulù, col suo esperimento Al Mukawama, ha forse percorso la
strada che gli era naturalmente favorevole. I suoi concerti non
conoscono più le folle festanti dei tempi dei 99 Posse e le canzoni
di cui è oggi autore non entrano più nell’immaginario collettivo dei
giovani comunisti. Ma questo live è qualcosa di incendiario, un
doppio CD che snoda le sue istanze ideologiche tra la sete di
giustizia di Giuanne Palestina, storia di un giovane napoletano, e il
saluto arabo di Assalaam aleikum, grido di pace tra tutti i popoli del mondo. Inutile parlare
di quanto sia importante il testo di Flowers of Filastin, sull’illegittima occupazione
israeliana, o di quanto sia anacronistica We don’t need new antifa songs, ripresa di
Rigurgito antifascista; non manca l’orgoglio meridionale di Hic sunt terrones o la critica
all’Unione Europea di Fortezza Europa, il glocalismo di El pueblo unido global o l’invettiva
contro questo Parlamento pieno di inquisiti ed arrivisti con Nisciuno me rappresenta.
•
Cougar Law
(25/03/09)
Il genere andrebbe definito come art jazz visto che la struttura del
jazz viene contaminata dal math rock e dall’experimental rock. Il
risultato di questa vertiginosa spirale musicale è un fantastico
mondo abitato da presenze gaie e sorridenti, da bambini che
giocano al parco giochi, da giovani che battono il piede al ritmo, da
mamme giovanissime e da macchine che rapide evitano il traffico
notturno. Law (2006) è un disco che piace al primo ascolto, è
diretto, spontaneo, leggero, ma anche ricercato, laborioso e
turbolento. I pezzi migliori sono certamente Strict scrutiny (davvero
jazzy), Your excellence (decisamente post) e Mosaicist (molto percussiva). I Cougar sono
una band del Wisconsin formatasi nel 2003 che ancor oggi suona, senza vergognarsi
affatto, nei pub di mezza America; e anche se il loro background è piuttosto nobile, così
come la loro casa discografica (la londinese Ninja Tune), questa band non ha mai abiurato
l’impronta indie del proprio sound. Un sound meravigliosamente solare, luminoso e
appagante. Ora c’è solo l’attesa per l’uscita del secondo disco Patriot. Staremo a vedere.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Vincent Bernay Etincelle
(26/03/09)
Dalla Francia viene questo sconosciuto, Vincent Bernay, un tipo
piuttosto strano col volto tipico della persona distratta, sorniona,
con la testa sempre tra le nuvole. Il suo disco in free download è
Etincelle, bellissimo viaggio tra new age e musica celtica, country
ed elettronica, un progetto totalmente indipendente e talmente
casalingo da far rimpiangere i tempi della musica artigianale. L’intro
della strumentale Around è semplicemente stupendo, seguito a
ruota dal noise industriale di stampo Einstürzende Neubaten di
DADDAD; poi di nuovo calma apparente con Espoir ed Etincelle;
ancora esperimenti con lo sfacciato reverse di Return e tanta chitarra acustica in Perdue,
vera e propria enfasi di folk rock medievale. Non a caso il settimo brano si intitola
Medieval, seguito dai corni di Sérénité e dal breve assaggino celtico di Ereimul al a
erbmo’l ed; infine Bernay sforna il suo talento chitarristico nella lunga Medieval acoustic.
Creative Commons e SIAE stanno ora discutendo di proprietà intellettuale: un bel
compromesso è ciò che stiamo aspettando da almeno un decennio.
•
Makossa & Megablast Kunuaka
(27/03/09)
Prendendo le mosse dal suono di Vienna, Makossa & Megablast lo
hanno praticamente rigirato come un calzino, immettendo nel tipico
sound G-Stone gli elementi del rap americano e del raggamuffin
giamaicano. Il prodotto finale è un disco vivo, muscoloso, tonico:
Kunuaka. Copertina tra psichedelia e africanismo, tracce
abbastanza lunghe, stile originalissimo. Si intraprende il viaggio sul
beat in controtempo di Mama e si arriva al groove latino della title
track, per virare sul sound di Mr. Oizo; arriva poi il pezzo dance con
Like a rocket e l’elettronica pura di Galaxy 82. Markus WagnerLapierre, padrino del sound viennese, e Sascha Weisz, amante del reggae, producono
questo mix esplosivo di dope/dub/funky/afro/deep giungendo, con Porque, ad una nuova
idea di musica multiculturale. E i featuring del disco sono molteplici, da Cleydys Villalon in
Que pasa a Farda P. in Find it, da Kool Keith in Get it on a Ras T-Weed nell’Intro. Da
segnalare la presenza di un brano dal titolo italianissimo, Mangia amore (con l’italiano
Marsmobil), sorta di omaggio alla cultura sexy dello Stivale. Bravi M&M.
•
Fever Ray Fever Ray
(28/03/09)
Voci che sembrano provenire da Resident evil, sintesi sonore cupe
e avvolgenti, kick ordinati e puliti. Questi sono i Knife, ma questa è
anche Fever Ray che dei Knife è l’esatta metà. Il suo eponimo
d’esordio è un viaggio all’interno della Scandinavia più desolata e
fredda, una terra che ha regalato poco ai suoi abitanti in termini di
flora e di clima, ma fiore all’occhiello dell’elettronica europea di
consumo. Il lento incedere di If I had a heart è rotto dal sordo
lamento di When I grow up e dall’arredamento ambientale di Dry &
dusty. La melodia di cui sinora si sente la mancanza giunge con
Seven, grande traccia cantata col tipico timbro tra Zecchino d’Oro e amplesso orgiastico
della nostra Dreijer; la flemma sonora non tarda a tornare con Triangle walks e Concrete
walls, ma è una lentezza che ci piace assaporare in tutta la sua perversa meccanicità. Gli
esperimenti musicali vengono relegati in Now’s the only time I know e in I’m not done,
mentre con Keep the streets empty for me rinasce il desiderio di solitudine e rifiorisce la
fierezza del vuoto attorno a sé. Chiude Coconut, tra percussioni e drum machine.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Govinda Erotic rhythms from Earth
(29/03/09)
Negli anni d’oro del Buddha-Bar, dunque della musica da salotto,
ricevette grande eco la discografia di Govinda, un misto di musica
etnica ed elettronica, di asian dub e lounge. Erotic rhythms from
Earth (2001) è bello proprio per questa sua perfetta collocazione
storica; è un disco che verrà sempre portato ad esempio quando si
parlerà di chillout di inizio millennio. Tanti sono gli spunti creativi,
come le voci jazzate di Tu m’aimes, l’edonismo imperante di City of
pleasures, la sinergia psicofisica di Union of body and sound, lo
splendore delle movenze umane di Organic beauty, l’inclinazione al
relax interiore di Move me slow, gli scratch di Mind mysterium, la voce dei muezzin ne Le
zephyr (il cui primo capitolo si trova nel precedente Entwined & entranced), la regola
religiosa di Two become one, l’ibridazione tra d’n’b e oriente di Synthetic beauty,
l’ascendenza divina di Falling from grace, il pacato rallentare di Clear with fantasy.
Govinda è stato di vitale importanza per l’affermarsi di Claude Challe, Ravin e compagnia
bella, ma quel florido mondo sta conoscendo oggi il suo naturale logoramento.
•
Pink Martini Hang on little tomato
(30/03/09)
Otto membri, tre dischi, cinque lingue. Ecco a voi i Pink Martini!
Hang on little tomato viene sette anni dopo l’esuberante esordio di
Sympathique, ovvero nel 2004, e propone una mistura di acid jazz
e latin, di salsa e rumba. Ci si immerge subito nel passato cubano
con Let’s never stop falling in love e poi ci si tuffa nel mar dei
Caraibi con Anna (el negro zumbon); la title track è invece tutta
un’altra storia perché parte dalla musica del periodo proibizionista
per arrivare al jazz cantato di Billie Holiday. Eppoi c’è The gardens
of Sampson & Beasley, con quel tocco di raffinato romanticismo
misto a saudade; che dire ancora dell’infinita leggerezza emotiva di Véronique? O della
commovente storia di Autrefois? Ci si lascia infine colpire dai due pezzi in italiano:
Aspettami e Una notte a Napoli, la prima mischia tradizione italiana e samba, la seconda
ci ricorda l’Orchestra Italiana di Renzo Arbore, senza quell’ironia ma con tanta passione. Il
progetto Pink Martini lascia spiazzati perché si passa senza timori dalla lentezza caustica
della chitarra sola all’allegria travolgente del Sudamerica. Musica strana per gente strana.
•
Giorgio Gaber Io non mi sento italiano
(31/03/09)
«Io non mi sento italiano ma per fortuna, o purtroppo, lo sono». E
non solo. L’Italia è malata da parecchi anni, anzi, la sua
democrazia è malata e questa, agli occhi d’un libertario, d’un
socialista, d’un anarchico, d’un libero pensatore, è una faccenda
che brucia parecchio. Ecco perché Gaber lasciò in testamento
questo disco meraviglioso che discopriva la manipolazione con Il
tutto è falso e pregava affinché le nuove generazioni fossero
lasciate integre con Non insegnate ai bambini. Gaber non diceva
niente di nuovo eppure nelle sue parole si avvertiva già una
lontananza dal mondo, dalla sua noia, ma anche dalla morale comune, dalla libertà a
parole. Il dilemma, Il corrotto, Se ci fosse un uomo, chiariscono evidentemente tutto ciò.
Se essere italiani significasse votare Berlusconi o Veltroni, gioire per Tangentopoli,
chiedere favori ai boss, pagare il pizzo come fosse l’ICI, defraudare, soggiogare, circuire,
allora nemmeno io vorrei esserlo. Ma se essere italiani significa avere nel proprio DNA
Dante, Leonardo, Garibaldi, financo Olivetti, esserlo acquista tutt’un altro sapore.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Llorca New comer
(01/04/09)
Uno dei più bei dischi di nujazz è certamente New comer di
Ludovic Llorca, inferiore al capolavoro assoluto di Ludovic Navarre
alias St. Germain, Tourist, ma egualmente pieno di spunti
interessanti. Fondamentalmente stiamo parlando di jazz/house,
quindi di un mondo un po’ patinato, ma il sound di Llorca travalica
le mode e le tendenze del momento per imporsi come fenomeno
storico, come status symbol di una decade, come simulacro della
gioventù con un piede nel ‘900 e l’altro ben piantato nel terzo
millennio. New comer contiene la gioiosa ricercatezza di The novel
sound (il tipico pezzo iniziale dei dischi jazzy): batterie veloci, kick leggero, organo
hammond, tromba e monologo al seguito. Il disco si svela quindi nelle sue varie accezioni
e sfaccettature attraverso il soul di Indigo blues e l’acid jazz di Lights behind windows, il
garage di I cry e il 2-step di Any how. La traccia simbolo si trova però in ottava piazza e
vede il featuring di Lady Bird: stiamo parlando di My precious thing, sensuale hit ottima per
il New York Bar di Milano come per il Pariscope di Parigi. Grande spolvero di suoni!
•
‘Nduccio 30 anni di insuccessi
(02/03/09)
Penso che il dialetto migliore sia quello pescarese, cafone ed
elegante allo stesso tempo, meridionale ma non troppo. Se siete
centritaliani conoscerete quindi questo maestro del rock agricolo
che da trenta anni porta in giro - tra piazze e televisioni - le
esilaranti storie di campagna. Questa specie di best of contiene il
meglio della produzione di ‘Nduccio, una produzione
assolutamente non volgare (a differenza di Gigione) bensì incline
all’ironia sugli anziani, sull’alcol, sull’ignoranza, sul provincialismo.
Troviamo in questo CD grandi (in)successi come Sott’a la capanne,
Le donne, Lu setacce, Giovanni Blouse, La finazione, Zappa rap o Arcala da la pianta. E
troviamo inoltre tanto cabaret (come nella Lettera all’americana) che, con un leggero
accompagnamento musicale, ci fa stare ad ascoltare l’hi-fi molto volentieri. Dal vivo, la
band di ‘Nduccio (i Sentimento Agricolo) fa i salti mortali per stargli dietro ed è
tecnicamente molto brava ma la differenza la fa lui, questo cinquantacinquenne pescarese
dall’aria scanzonata e dalla pronuncia stanca. Un vero hobby nelle serate abruzzesi.
•
Telefunka Cassette
(03/03/09)
Messicani fino all’osso, eppure producono musica piuttosto distante
dalla tradizione centramericana. I Telefunka hanno avuto
l’accortezza di popolarizzare ancor più il nujazz con l’immissione
fondamentale del violino quale strumento guida. Del primo disco,
Electrodomestico, ne avevo già parlato in maniera entusiastica;
questo seguito, invece, deluse un po’ le aspettative perché
ripropose la stessa minestra con melodie simili e basi
diametralmente opposte. Il risultato è ondivago, nel senso che il
soft di Datsun azul è capovolto dal noise di Motel, oppure il tocco
elegante di Vuelo 1369 che si prende a cazzotti con lo space rock di Robot. Non si può
certo parlare di flop, ma di caduta di stile sì. Forse la causa è da ricercare nel tentativo di
allargare il proprio bacino d’acquisto, stuprando quindi il sound naturale del duo.
Addirittura in Prototipo si sentono fischi e vocals in messicano, o TV Universo che sembra
la sigla di una soap; in tutta questa ambiguità svetta la magnifica teatralità di Disco
Patirama, una suite di sax che nemmeno Gato Barbieri sarebbe stato capace di comporre.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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AA.VV. DeeJay Parade: the collection
(04/03/09)
Le grandi radio italiane fanno schifo. Non spingono quasi mai la
buona musica del sottobosco, preferendo comodamente il
mainstream e il pop in senso lato. Radio DeeJay è una di queste a
tutti gli effetti, con la differenza che essa, almeno, ha fatto la storia
della dance in Italia. Nel 2008 ha difatti proposto questa collection
di cinque CD contenente tutte le top chart degli ultimi quindici anni.
Brani che il più delle volte sono stati dimenticati, vengono qui
riproposti a mo’ di bibliografia storiografica. Ecco alcuni titoli
importanti: Rhythm is a dancer degli Snap!, Sexbomb di Tom
Jones, Make luv dei Room 5, Tubthumping dei Chumbawamba, Scatman’s world di
Scatman John, Feel it di Tamperer aka Farolfi, Lady di Modjo, Horny di Mousse T., King of
my castle del Wamdue Project, Short dick man dei 20 Fingers, Sweet dreams di La
Bouche, Brimful of asha dei Cornershop, Crush di Jennifer Paige, Children di Robert
Miles, Groovejet di Cristiano Spiller, Please don’t go dei Double You, Born slippy degli
Underworld, Komodo di Mauro Picotto, Smack my bitch up dei Prodigy. Quanti ricordi!
•
Vasco Rossi Colpa d’Alfredo
(05/03/09)
Nel 1980 Colpa d’Alfredo consacrò Vasco Rossi come prima vera
grande rockstar italiana. Il Blasco mise tutto se stesso in questo
disco, nel senso che espose tutte le sue manie, gli eccessi, le
ossessioni, le paure, i cazzeggi, insomma tutta la sua sensibilità. È
un disco come pochi ce ne sono perché è un crescendo di
sensazioni forti, dal richiamo happy di Non l’hai mica capito alla
languida romanticheria di Anima fragile, eppure v’è anche una vena
maledetta, baudelairiana, con le storie di emancipazione
dell’adolescente Susanna o del due di picche della title track. E poi
Sensazioni forti, inno al superfluo, allo sfinimento, all’abuso. Stupenda Tropico del Cancro,
metafora dei sogni di grandezza e del coraggio di partire, ma anche delle masse come
greggi. E ancora Asilo “Republic”, malato divertissement in bilico tra porci e scolaretti;
infine Alibi, epica canzone sul provincialismo dei borghesi e del potere, ma che
intellettuale non è, visto che Vasco se n’è fottuto di chi gli stava intorno, del moralismo e
del conformismo, e seguì fino al 1996 una strada unica ed irripetibile. Dopodiché morì.
•
dZihan & Kamien Music matters
(27/04/09)
Il 2009 è l’anno del ritorno di dZihan & Kamien, i turchi più cool
d’Europa. Il nuovo lavoro Music matters è semplicemente
stupendo. Abbiamo atteso talmente tanto tempo che un disco
mediocre sarebbe stato la goccia che avrebbe fatto traboccare il
vaso. Già la partenza di Busted, così funky e così disco, riempie la
stanza di colori, corpi in movimento e alcol a fiumi. Abbandonati per
una volta i cuts, dZihan & Kamien presentano un disco curato,
omogeneo, quasi del tutto analogico, prova ne sia Take a minute,
intonata perfettamente da una ruvida voce femminile. L’elettronica
arriva quindi con The time e colpisce subito per la sua carica di allegria; E.P.A. invece
rallenta l’andatura tentando di inserire sprazzi di ambient in un contesto perlopiù jazz;
freschissima poi Life can be good, con quel pianino da balera all’arrembaggio. Dopo le
schitarrate brasiliane di I wish ecco che torna la potenza tutta austriaca di Bazooka; e poi
voglia d’estate in Summer fever, orgoglio artistico in My music, lento nujazz in Waiting,
inflessioni pop in Worm, romanticismo in Supreme well being e estetica pura in Mr. Dolby.
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Tosca No hassle
(28/04/09)
Il 2009 è anche l’anno del ritorno sulle scene dei Tosca, un gruppo
a cui io sono devoto così come i polacchi a Karol Wojtyła. Ma,
ahimé, No hassle ha perso qualcosa per strada. Ammetto che le
pubblicazioni digital di Natural high, Prolo e Brian Emely mi
avevano depistato, portandomi a sopravvalutare il nascituro disco
d’inediti. In realtà No hassle è molto intrigante ma ad uno che
piange quando ascolta Züri, questo disco non basta. Il dub lo-fi che
aveva sinora caratterizzato il sound dei Tosca è svanito a
vantaggio di una più ricercata vena sperimental-popolare: No
hassle non esplode mai, non possiede quella carica dirompente che aveva caratterizzato
capolavori come J.A.C. e Suzuki. Ammorbidendo la pillola, posso giurare sulla buona fede
di Huber e Dorfmeister; altresì mi sento di consigliare questo disco a coloro che ancora
non hanno chiaro il senso della musica da salotto. Nell’Ottocento gli austriaci erano i
tiranni che ostacolavano la formazione del Regno d’Italia, oggi sono gli splendenti baluardi
di un’elettronica tutta europea che fa della classe il suo tratto distintivo.
•
Pandatone Happy together
(29/04/09)
Happy together è il piacevole cruccio delle orecchie e dello spirito,
un disco che non si vergogna d’ostentare la propria bassa fedeltà,
seppur in ottica funzionale. Le aggiunte di campioni vocali, sonori e
ambientali riescono ad amalgamarsi con la pazzesca sezione
ritmica in un crescendo di emozioni. La flebile voce di Julianna
Barwick accompagna quasi tutte le tracce del disco ma è la
maestria dello stesso Pandatone a dare il registro letfield. I temi
affrontati sono quelli intorno all’amore, alle relazioni umane, agli
stati d’animo, racconti mai patetici ed anzi che si rinnovano grazie
al calore delle ottave e dei sample. I brani più significativi di Happy together sono
certamente I forgot if we dreamed, The last to remain, la breve Accountable e la splendida
Together & lonely. Strumenti diametralmente opposti, in quanto a provenienza, si
abbracciano in un timido ed imbarazzato sfolgorio di sensazioni ed immagini, e noi
rimaniamo col naso all’insù ad aspettare che la pioggia riempia di odore di terra questa
giornata qualunque, una giornata sprecata, una giornata che ricorderemo a malapena.
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Röyksopp Junior
(30/04/09)
Dopo l’assaggino di Happy up here non poteva mancare il nuovo
disco dei norvegesi più in voga dell’intero decennio, i Röyksopp.
Premettiamo subito che Junior non è Melody A.M. né The
understanding. Il videoclip promozionale infatti è certamente ben
fatto e la traccia che gli dà il nome è un perfetto esempio di musica
nordica; ma questo non basta a dare significato ad un intero disco.
Sembra che il volenteroso duo scandinavo si sia - come si suol dire
- adagiato sugli allori e adesso viva di grassa rendita. Una rendita
sicuramente prosperosa visto che locali e festival di mezza Europa
se li contendono come fossero grandi rockstar. Ma, ad esempio, il secondo estratto di
Junior, The girl and the robot, non è bellissimo. E, ad esempio, canzoni come Tricky tricky
ed It’s what I want sono indiscutibilmente stucchevoli. Grazie a Dio ci sono anche le
eccezioni come la new wave di This must be it, la dilatata nostalgia di Röyksopp forever e
la tipica progressione di You don’t have a clue. Pur parlando di musica di altissima qualità,
non ci rimane che attendere lo strumentale Senior. E non vogliamo che si arenino ancora.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Morgan Italian songbook vol. 1
(03/05/09)
Marco Castoldi, in arte Morgan, è un valente musicista, un
bravissimo autore e un grande interprete. Ma il successo
mainstream lo ha reso troppo manierista. Barocco, direi. Questo
lodevole progetto teso a rivendicare l’importanza della canzone
italiana nel mondo si scontra con l’ormai genetico impulso ad
eccedere del suddetto Morgan. Ripeto che l’Italian songbook vol. 1
resta un’importante antologia della musica italiana che ha fatto il
giro del mondo, un po’ come ha fatto Rod Stewart con i cinque
volumi del The great American songbook. Sinceramente, però, non
so quanto sarebbe piaciuta ad Umberto Bindi la rilettura de Il mio mondo o a Sergio
Endrigo tutto quello sperpero orchestrale in Lontano dagli occhi (va comunque detto che
l’orchestra in questione è la Royal Philarmonic di Londra). Piero Ciampi, scontroso
com’era, non avrebbe certamente gradito la sua Qualcuno tornerà e solo Gino Paoli, forse,
va fiero del nuovo abito cucito su misura per Il cielo in una stanza. Fuori luogo è invece la
scelta di proporre ogni brano anche in lingua inglese. Questa non me la spiego davvero!
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Presocrati©s Works and days
(04/05/09)
Non si nascondono dietro le facili metafore né delegano ad altri
l’impegno sociale di cui si fanno portatori, fatto sta che i
Presocrati©s ermetici lo sono davvero. Questo Works and days
(2000) è un torbido esperimento di noise politically scorrect.
Sicuramente la cultura di provenienza è quella glocal no global,
quella che ad ogni G8 si muove per scombussolare le tracotanti
sicurezze dei potenti. Jon Philpot e Need Thomas Windham
utilizzano senza soluzione di continuità arpa, viola, tromba,
violoncello, sintetizzatore, chitarra, batteria, basso e filtri vari. Se le
prime quattro tracce del disco si impuntano sul linguaggio experimental, è solo da State’s
evidence in poi che il discorso si fa serio, passando per The crisis in leadership e One step
back, arrivando alla denuncia vera e propria solo con Public good e Radio co-worker. Non
c’è da aspettarsi nemmeno lontanamente un polpettone reggae alla Manu Chao e affini,
ma anzi bisogna capire che questa musica opera secondo la legge della selezione
naturale: parte dalla musique concrète e, finora, non ha ancora trovato un approdo certo.
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AA.VV. Il paese è reale
(05/05/09)
Non appena decisero di partecipare a Sanremo, quasi tutti i fan si
sollevarono gridando allo scandalo, al tradimento, alla vergogna. In
realtà gli Afterhours avevano in mente già da tempo di cambiare
sound e preferirono farlo a Sanremo, se non altro per poter gridare
a tutta l’Italietta che esiste musica altra dalla solita melassa
mogoliana. Da quella (s)fortunata apparizione è nato Il paese è
reale, una compilation curata dalla band di Manuel Agnelli e
comprendente diciannove brani che parlano del nostro Paese con
toni più o meno garbati. Accanto alla bellissima canzone omonima
degli Afterhours troviamo importantissime new entry. Innanzitutto c’è il silenzioso talento di
Dente con Beato me, e poi ci sono i soliti nomi dell’underground più rinomato come
Cesare Basile, Paolo Benvegnù, Marco Parente e Roberto Angelini. Sorprendenti sono
invece le creature degli artisti marginali; sto parlando di Refusenik de Il Teatro Degli Orrori,
di Gente di merda degli Zen Circus, di Che bella carovana di Marco Iacampo, di California
del Reverendo. La musica italiana gode di ottima salute, inutile essere pessimisti.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Pet Shop Boys Yes
(06/05/09)
Ultimamente si sono ripetuti spesso e infatti non è che Yes emerga
più di tanto dalla foltissima discografia dei Pet Shop Boys. È
piuttosto la voce di Neil Francis Tennant, come sempre, a fare la
differenza: quel timbro plastico, futuristico, elastico, così fortemente
umano. Alla storica Parlophone i Pet Shop Boys hanno presentato
undici brani molto ma molto british, ovvero di quel genere a sé
stante che parte dalla new wave e tracima nella dance. Mixato da
Jeremy Wheatley e prodotto dagli Xenomania, Yes comincia con la
sconvolgente vitalità di Love etc. e prosegue con lo Schiaccianoci
di All over the world, quindi con gli strumenti convenzionali di Beautiful people; per ballare
bisogna attendere le note happy di Did you see me coming? e quelle più nere di
Vulnerable. Sinceramente le canzoni della tracklist si assomigliano un po’ tutte e, ad
eccetto della prima, sono difficilmente memorizzabili. Gli altri begli episodi del disco si
riducono a King of Rome e a The way it used to be: entrambe significative e musicalmente
rilevanti. Per concludere, bellissimo e semplicissimo l’artwork curato da Mark Farrow.
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Depeche Mode Sounds of the universe
(07/05/09)
A differenza dei Pet Shop Boys, i Depeche Mode sono bravissimi a
rendere ogni canzone un evento unico, una storia differente, una
situazione da ricordare. Il freschissimo Sounds of the universe, per
Mute Records, contiene tredici brani, spinti sul video da Wrong,
una canzone bellissima con un testo pressoché deprimente. Mixato
da Tony Hoffer e prodotto da Ben Hillier, questo disco è un
concentrato di rock ed elettronica, di squallore e speranza, di
eutanasia mentale ed impeto giovanile. Mettendo da parte Wrong,
è in pezzi come Fragile tension, Jezebel e Peace che troviamo il
nocciolo duro dei Depeche; è cioè tra questi punti diametralmente opposti che troviamo la
poetica straniante di David Gahan e la fantascientifica vena creativa di Martin Lee Gore ed
Andrew Fletcher. Infine, bellissimo e semplicissimo l’artwork curato da Anton Corbijn, tanto
che se riuscite ad accappararvi la versione deluxe box dell’intero disco, potrete dire di
avere in mano una sacra reliquia, un reperto archeologico, un documento storico, una
bolla papale, un abbozzo leonardiano: insomma, qualcosa di veramente prezioso.
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Jo Squillo Eletrix Girl senza paura
(08/05/09)
Il trash è definitivamente diventato un genere legittimo, sia
artisticamente che culturalmente. Ed è con questa premessa e con
questo rinnovato intento che bisogna andare a spulciare tra le
produzioni più orribili della musica italiana. A titolo informativo
consiglio il sito Orrore a 33 giri, un vero e proprio repertorio di
baggianate e cafonate. Grazie a divertenti ricerche ho ritrovato un
disco della punkettona Jo Squillo, Girl senza paura (1981), un disco
veramente orrendo, cantato male e suonato da musicisti da
discount. Eppure questo lavoro è un capolavoro assoluto nel suo
genere, quel genere in precedenza definito “immondizia”. CX parla di smog, L’asta di
incendiare Milano, Faccia da vipera tratta di stronzi e cianuro, Skizzo skizzo
evidentemente si collega al Kobra della Rettore, Violentami non lascia dubbi, Tuo Cesare
è una lettera di un amico carcerato all’incolpevole ma sprovveduta Jo. Il progetto Jo
Squillo Eletrix credo che si sia accartocciato su se stesso, offrendo alla signorina Squillo
una notorietà molto più vasta di quella meritata. Le regole del trash sono queste.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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The Prodigy Invaders must die
(09/05/09)
Non ditemi che questi sono gli stessi Prodigy di The fat of the land!
Non ci sono attenuanti, non ci sono alibi, non esistono palliativi.
Perché sprecare in quel modo tutta la potenza della cassa, del
basso e delle automazioni? Perché non dare alle singole tracce
un’anima propria? Perché non sperimentare nuovi linguaggi
breakbeat? Perché ostinarsi a proporre la stessa solfa di Always
outnumbered, never outgunned? Io credo che The fat of the land
sia uno dei più bei dischi della storia del rock - inteso in senso lato e non posso accettare questa presa per i fondelli. Difficilmente mi
sbilancio così negativamente ma Invaders must die è semplicemente inutile. Ascoltando la
title track non capisco perché non si sia potuta aggiungere alla struttura ritmico-melodica
una linea vocale alla Smack my bitch up. Inutile dire che le altre dieci tracce sono tutte da
skippare, a partire dalla promozionale Omen fino all’ultima mediocre Stand up. Se questo
disco fosse la prova d’esordio di una nuova band mi andrebbe benissimo ma se in
copertina c’è il logo dei Prodigy, allora mi metto ad ascoltare Eros Ramazzotti!
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Civico 88 La strada
(10/05/09)
Appoggiato al muretto, un gruppo di skinhead aspetta di riempire
un altro pomeriggio fumando, bevendo e sperando in una qualsiasi
esplosione di violenza. Questa l’immagine offerta dal Civico 88,
una delle tante band neofasciste italiane, una band che suona
molto bene il suo punk e che scrive perlomento qualcosa di diverso
dalle noiose rivendicazioni storiche. Si parte con Un ragazzo
fuorilegge e si passa attraverso un doppio omaggio alla tradizione
skin con Straight from the past e Skinheads 4 skinheads.
Emblematica l’ideologia destroide ne La legge del più forte e la
scarsa docilità di questa gente in Scuri volti; non può mancare l’orgoglio ultras con Dietro
la curva e l’autoreferenzialità del branco (passatemi questo termine un po’ troppo
moralista) con La prima volta e Siamo noi. Tra venature oi! ed accenti puramente punk se
ne va questo disco militante, incendiario, orgoglioso, aggressivo. Tra i meriti del Civico 88
c’è quello di aver interpretato impeccabilmente una storica canzone della musica
alternativa di destra, I ragazzi di Budapest, contenuta nella compilation Hősök vére.
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XDS Forest field
(11/05/09)
Indeciso sul perché di questa recensione per vari motivi, il primo
dei quali è l’incertezza sul mio stesso gusto estetico. Questo disco
è bello oppure no? Gli intransigenti direbbero no, gli sperimentali sì.
Per precauzione mi posiziono in mezzo a queste due valutazioni
perché i tempi in 6/8 e 5/4 mi intrigano molto ma credo anche che
la sperimentazione non debba andare in questa direzione. A voler
essere puntigliosi, questa roba è già stata fatta, è già stata creata,
è già stata consumata. Gli XDS, ovvero Experimental Dental
School, sono una band anomala che ha deciso di regalare il proprio
esordio tramite il sito web ufficiale. I brani che a me sembrano più adatti sono Royal
fantasy snow, per la sua vena pazzoide, Earthquake, per il suo innato senso di
confusione, Vicious cycle of life, per la sua mirabolante magia fanciullesca, e Now I can do
anything I want, per l’improvvisazione di cui è capace. Se si volesse ascoltare qualcosa di
leggermente più forte e paranoico di Forest field, consiglio di cercare tra le mura di casa
nostra qualcosa degli Zu. Con questi ultimi fu davvero amore a prima vista.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Isocore Pre-core
(12/05/09)
C’è tanta di quella produzione sotterranea che in un attimo ogni
nostra certezza potrebbe cadere per sempre. Lo screamo lo
conosciamo per la sua capacità di esagerare, di disturbare, di
mettere benzina sul fuoco, ma poco s’è detto della sua faccia
eminentemente elettronica. Isocore è uno di quei performer che nel
cervello ha solo vermi malati, buchi neri e fiammiferi usati. Il suo
lavoro Pre-core è - ce lo dice la copertina - un dozzinale rotolo di
carta igienica. Attenzione a non fraintendere queste parole. Alla
luce dell’evoluzione/devoluzione aphexiana e delle pur numerose
regressioni mitteleuropee dell’ultimo decennio, si può qui parlare di grande impegno e di
grande risultato. Emo-staticbeat, Fairy, lean, dance-on! e Dr. Eastman, press the button
abbattono qualsivoglia convinzione sulla musica. I bassi non seguono mai la struttura
ritmica e quest’ultima è sempre un ammasso informe di oggetti che si scontrano. Mi vedo
poi costretto a sospendere qualsiasi giudizio su Cavallo/Coloso e I do not know how to jet!
perché ogni parola sembrerebbe un insulto, una scusa, una carota od un bastone.
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Ladri Di Carrozzelle Ladrenalina
(13/05/09)
I Ladri Di Carozzelle sono una band dinamica, nel senso che i
musicisti che la compongono cambiano spesso. Ciò non deve
sorprendere dato che la maggior parte di loro è affetta da distrofia
muscolare. Sorprende invece la capacità di questi diversamente
abili di suonare meglio di una normalissima indie band. Molti brani
sono inediti, altri sono fedeli interpretazioni e l’influenza che in tutto
ciò si coglie è quella dei Rolling Stones (anche se il confronto
appare impegnativo, bisogna prima ascoltare gli assoli e poi
giudicare). L’apertura è affidata a Disconnesso e capiamo subito
che il mondo non è assolutamente normale, se per normale intendiamo avere un cervello,
due polmoni e quattro arti. Veramente stupenda la cover della deandreiana Un giudice
dove ad impressionare sono la sincope della batteria e la voce della cantante.
Coinvolgono cuore e mente Equilibrio instabile, Cosa vuoi che sia e Ciao che fai; mentre
per vivere un po’ di vintage bisogna aspettare I will survive e Highway star. Uscì nel 2006
questo Ladrenalina e convinse pubblico e critica, senza nessun pietismo di provincia.
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Panda Bear Person pitch
(14/05/09)
Ascoltato distrattamente Panda Bear sembra un clone dei Beatles.
In realtà dietro il progetto solista di Noah Lennox, leader degli
Animal Collective, c’è un’intera schiera di generi e contaminazioni:
psichedelia, drone, post rock. Il tragitto compiuto parallelamente
alla ben più fortunata esperienza degli Animal Collective ha portato
Lennox a interrogarsi sulle finalità della canzone. L’esperienza lo
ha portato ad una perfetta simbiosi sonora, in cui ogni elemento è
al posto giusto, come il basso respingente e il falsetto in Take pills
o i riverberi da Royal Albert Hall in Bros. Queste due tracce sono
forse gli episodi più rilevanti di questo Person pitch, un disco che convince un po’ meno
quando parte Ponytail ma che sa darsi apertamente con Comfy in nautica. A questi
episodi melodici fanno da contraltare quelli più analitici, ovvero Search for delicious, piena
di rumorismi e manipolazioni, e Good girl / Carrots, lunghissimo doppione vivificato dalle
percussioni e dagli sperimentalismi. Visto da lontano, Person pitch è una deliziosa ricetta
da spararsi in solitudine, con la luce spenta e i piedi accomodati su di un pouf.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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AA.VV. An anthology of noise & electronic music: first A
(15/05/09)
La Sub Rosa è un’etichetta belga davvero stramba, che Dio la
benedica! Le sue pubblicazioni vanno a sbirciare negli armadi più
polverosi dei centri internazionali di ricerca sonora per restituire ad
un pubblico ristrettissimo rare registrazioni futuriste, dadaiste,
concrete e così via. Dal 2001 è in corso d’opera un’antologia della
musica elettronica d’avanguardia (i giovani la chiamano noise),
partita con un’importante doppio CD volto a sintetizzare il periodo
1921-2001. Le conferme e le sorprese si sprecano. Ovviamente
l’incipit è dato dal Corale dei fascisti Luigi e Antonio Russolo, così
come i momenti salienti vengono segnati da Pierre Schaeffer con l’Etude violette, da Henri
Posseur con Scambi, da John Cage con Rozart mix e da Iannis Xenakis con Concret PH.
Stupore e meraviglia giungono invece allorché a questi mostri sacri dell’avanguardia
europea vengono avvicinati i Sonic Youth di Audience, gli Einsturzende Neubauten di
Ragout o il Ryoji Ikeda di One minute. In questo marasma di suoni impazienti, di clangori
industriali e critiche istituzionali, vanno inanellandosi altri frammenti di varia natura.
•
Gregor Samsa Rest
(16/05/09)
I Gregor Samsa sono una band della Virginia che sposa sull’altare
il post rock con la musica da camera. Due voci adiuvate da sette
musicisti propongono questo bivio fra dream pop, psichedelia e
slowcore, affrescando il tutto con una poetica personale, quasi
ottocentesca. Rest fa pensare alla risacca della spuma, al polline di
primavera, al giallo sottobosco autunnale, come nel lento
dondolare di The adolescent o nel placido domarsi di Ain Leuh;
personaggi in camicia da notte appaiono con Abutting, dismanting
con quell’incedere mantrico e battente. Con Jeroen Van Aken, vero
pezzo da novanta, si giunge al fuoco di forza del disco, un gospel fatto di vibrafono e
vangelo, campanellini e spiriti benevoli; Rendered yards e Du meine Leise sono lieder
fiabeschi ed ectoplasmatici; Pseudonym è un’urna tenebrosa da cui tracimano cantici
salvifici, violini lugubri e spettrali come cipressi di notte e volèe di piano in crescendo fino
al sibilo del theremin che strattona il cordone del sipario; in fondo, First mile, last mile, un
acido tripudio di droni ululanti e larsen corrosivi, invito al viaggio perenne.
•
(17/05/09)
MoHa! Raus aus Stavanger
Uno dei locali più avanti di Roma è certamente il Sinister Noise, un
posto dove incontrare disperati, tossici, maniaci, pazzi e geni è
all’ordine del giorno. La programmazione del locale è veramente da
brividi: non c’è soluzione di continuità fra Gabriel Emili e Sins Of
Forgiveness, fra Silvia Sicks Harvey e Sex Chear Provider. Ci si
potrebbe imbattere anche in serate totalmente assurde come
quella dedicata, qualche settimana fa, alla musica amorfa dei
tedeschi MoHa!, capaci di tanto stridore come nemmeno un
martello pneumatico lasciato libero. Raus aus Stavanger è un disco
senza struttura, senza analisi, senza retrospezione, senza anamnesi, è un disco
esteticamente brutto ma intrinsecamente intelligentissimo. I brani si affidano a sigle
viniliche (a2, b1, c4, b3 ecc.) per restituire il senso originale del rumore, dei suoi dettagli,
della scelta consapevole di eliminare il pensiero dal processo creativo. L’informalismo
dell’action painting di Cy Twombly, Jackson Pollock, Mark Rothko e Willem de Kooning ha
dimostrato la realtà concreta delle paure, dei sogni, degli istinti, della rappresentazione.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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P.G.R. Ultime notizie di cronaca
(18/05/09)
Non vi sono delucidazioni da dare in merito alla fine del
pluridecennale progetto ferrettiano CCCP/C.S.I./P.G.R.; non si può
neanche tentennare su questo che è, a tutti gli effetti, un
testamento. La conversione totale di Giovanni Lindo Ferretti è
completa, piena, genuina, reazionaria, in quanto è un ritorno alle
origini e non un gesto oscurantista. Se sono lacrime a sgorgare
dall’ermeneutica montanara della Cronaca montana, è la rabbia per
ciò che siamo diventati il tratto peculiare della Cronaca del 2009 (il
loop iniziale l’ho usato l’anno scorso per Alive zebras!). Ferretti non
può non scagliarsi contro l’eugenetica nella Cronaca di guerra I, e non può non pregare
nella Cronaca del ritorno, andando a speculare sul proprio passato, sulle proprie scelte,
sulla propria insoddisfazione. Toccante è la Cronaca filiale, dedicata ad una madre
inferma sostenuta e accudita da un figlio per catena naturale; trascendentale infine la
Cronaca divina, dove Dio fatto carne, barbaramente traviato, lapidato e molestato, illumina
i cuori di coloro che hanno avuto la fortuna e il coraggio di cercarlo e trovarlo.
•
Bat For Lashes Two suns
(19/05/09)
Sono rimasto leggermente interdetto dalla svolta pop della bella e
brava Bat For Lashes. La cosa certa è che gli anni ’80 stanno
bussando alla porta con foga da leoni. Sì, perché questo Two suns
è fortemente ispirato a quell’ambiente musicale, quella decade
resasi riconoscibile per la commistione di tendenze dance e novità
new wave, strutture hard rock ed eccessi glam. Se Fur and gold mi
colpì per la tenebrosità, di Two suns mi affascina la solarità. Mi
piacciono le batterie giavanesi di Glass, il basso acido di Sleep
alone, il pianoforte speranzoso di Moon and Moon, l’accennata
teatralità di Peace of mind, il ritmo acceso di Pearl’s dream, il trip hop di Travelling woman
e la mistica processione di Two planets. Non è nemmeno sottovalutabile Daniel, il brano di
lancio, una canzone senza redenzione figlia degli anni d’oro dei Depeche Mode e dei
Tears For Fears. Nella sua totalità, l’album in questione presenta anche vari riempitivi,
dimostrando una mancanza di omogeneità artistica rispetto alla formidabile prova
d’esordio. La tesi sta in Siren song e Good love, dunque l’ipotesi è confermata.
•
Cluster Zuckerzeit
(20/05/09)
L’universo della musica cosmica e dello space rock può essere
sintetizzato nella tipica metafora del cane che si morde la coda.
Infatti risulta arduo tracciare le origini e le influenze di questo
genere che oggi sembra rivivere un livido revival. I nomi sono quelli
di Klaus Schulze, di Michael Rother, dei Kraftwerk, dei Tangerine
Dream, di Ash Ra Tempel, dei La Düsseldorf; e tra loro è
impossibile trovare un sillogismo in grado di spiegare la nascita del
genere. A questi importantissimi artisti vanno aggiunti i nomi di
Dieter Moebius e Hans-Joachim Roedelius, in arte Cluster.
Zuckerzeit (1974), terzo disco della fantasiosa produzione clusteriana, è un intraprendente
viaggio a cavallo degli asteroidi, un viaggio che dà la possibilità di visitare pianeti lontani,
satelliti artificiali e comete e nebulose e buchi neri. I brani dai titoli piuttosto zuccherosi
come Hollywood, Caramel, Caramba, Marzipan, Rote Riki o Heiße Lippen, imbarcano
l’ascoltatore su di una sgangherata astronave che lo porterà ai confini estremi del Sistema
Solare e, grazie alle potenzialità del sintetizzatore, lo alieneranno da questa dimensione.
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Kluster Eruption
(21/05/09)
La faccenda si fa un po’ più complessa quando a Moebius e
Roedelius addizioniamo il battesimo di Conrad Schnitzler: in questo
caso il progetto diventa Kluster. Lo stesso esito può esser
raggiunto intercambiando i primi due nomi con quelli di Michael
Thomas Roe e Masato Ooyama. Sembra strano ma è così. I
Kluster - quelli con la K e non con la C - sono una realtà storica che
è mutata col passare delle stagioni. Nel 1996 è stato ripubblicato il
disco solista di Schnitzler del 1971, Eruption, la cui paternità è stata
decentemente affidata a tutti e tre. Il disco consta di due parti, una
di mezz’ora e l’altra di venticinque minuti. In questo modo vengono a raddoppiarsi anche i
viaggi astrali che l’ascoltatore è costretto ad affrontare. Nel primo c’è dilatazione, lentezza,
flemma, riflessione, intimità, analisi, introspezione, aggiustamento, calcolo, ricerca e
immagazzinamento; l’altra faccia presenta invece enfasi, caos, tumulto, rapidità, fatica,
fervore, orgoglio, esultanza, travaglio, sorpresa e consolazione. Partenza e arrivo sono la
medesima cosa. È ciò che sta nel mezzo a contare.
•
Patrick Wolf Lycanthropy
(22/05/09)
Ai tempi di Lycanthropy Patrick Wolf era davvero un ragazzino con
l’aria da sfigatello. E con quel cognome l’esordio non poteva che
essere un inno alle tenebre, al branco, agli ululati notturni. Non a
caso l’incipit di Prelude è affidato a dei lupi, seguito dalla Wolf
song, piena di richiami celtici; è però con Bloodbeat che Patrick
parte alla carica, grazie a veloci beat elettronici e a chitarre post. In
quarta posizione la più bella traccia del disco, To the lighthouse,
una canzone buia, verace, sanguigna, stizzosa. La dolcezza torna
soltanto con Pigeon song mentre a Don’t say no è affidato il
compito di far battere il piede all’incauto ascoltatore. Tra noise e industrial se ne va pure
The childcatcher, ma tutto torna placido con la successiva Demolition; Patrick Wolf a
questo punto canta le due città più significative della sua vita, Londra e Parigi, nelle
rispettive canzoni London e Paris: la prima classica e acustica, la seconda rumorosa ed
elettronica. Il nerd che è in lui intona la sempreverde favola di Peter Pan, quindi la
stupenda title track e poi via col breakbeat di A boy like me. Molto molto bene.
•
Kaos L’attesa
(23/05/09)
Eccettuato Bassi Maestro, l’hip hop settentrionale non gode di
grande stima presso di me. Credo che in Italia i migliori dell’old
school siano gli Assalti Frontali, il Colle Der Fomento, Inoki e La
Famiglia, mentre citerei i Cor Veleno per l’hardcore. Kaos è un
rapper milanese che con L’attesa ha raggiunto la notorietà che
formalmente gli spettava. Ma, sinceramente, non è un disco
particolarmente originale. I beat grezzi e duri, figli della trovata
americana di 50 Cent, sono il tappeto su cui si siedono rime
taglienti ma troppo cattive, cadendo spesso nel banale e nel
mistico. È questo il caso de L’anno del drago, di Tofutronik 3000 o di Arkham Asylum.
Grazie a Dio Kaos si ricorda anche della vecchia scuola, quella per cui bastava un Akai e
un Technics per fare hip hop di grande tatto. Emblematiche, in questo senso, sono Cose
preziose, (L’attesa) e La via del vuoto. Ad oggi, Kaos è uno dei più apprezzati artisti del
panorama rap italiano e forse questa prerogativa gli viene dal fatto che sa cimentarsi a
pari merito con l’old school ed il mainstream, tra West Coast ed East Coast.
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The Matthew Herbert Big Band There’s me and there’s you
(24/05/09)
Un’orchestra inaspettata con un organico ben assortito capace di
suonare avant jazz swingato. Il progetto di Matthew Herbert parte
da assunti molto pratici, in quanto l’idea originale era di registrare il
tutto nei corridoi di Westminster, in modo che quel potere
esercitato, imposto, spesso occulto, informasse il sound del disco.
There’s me and there’s you, inoltre, attinge tantissimo dalla musica
anni ’70 rinverdendo di sample tutta la composizione. Come stare
fermi di fronte al martellante impeto di The story? E cosa bere
durante l’esecuzione di Waiting e Pontificate? Esotismo in stile
Perez Prado con The yesness, incedere da marcetta con Battery, avanguardia barocca
con Regina, incursione alla Nat King Cole con The rich man’s prayer. Se pensate che
questo sia un lavoro meramente jazzistico vi sbagliate: qui c’è tanta ricerca e tanto
sperimentalismo ma, soprattutto, c’è la critica spietata al consumismo, all’insostenibilità
ambientale, all’ipocrisia dei politici di tutto il mondo. Che Herbert riuscisse a cambiare
registro, passando dalla techno al jazz, sinceramente nessuno se lo aspettava.
•
Nicola Conte Rituals
(25/05/09)
Ho alcuni nomi da porre all’attenzione dei miei lettori, nomi che
riguardano l’ambito nujazz europeo e non. Dico Koop, dico Kyoto
Jazz Massive, dico St. Germain, dico Jazzanova, dico Marc Moulin,
dico Nicola Conte. Quest’ultim è sicuramente uno dei migliori al
mondo per l’inesauribile vena creativa di cui è dotato e per il modo
sempre originale che ha di sorprendere il proprio pubblico. Che
siano DJ set o live performance, Conte riesce sempre a tirare fuori
il meglio di sé. Il suo ultimo Rituals, uscito a fine 2008, è un disco
colorato, solare, variegato, multiforme, se dovessimo usare un
termine solo, diremmo classico. A partire da Karma flowers è tutto un esplosione di
strumenti, backing vocals, e di luoghi mai visti nei quali l’ascoltatore sembra vivere dei
déjà vu. Quella passione per la cultura mediterranea che accompagna Nicola da sempre e
che da sempre è rintracciabile nei suoi lavori, qui trasuda da The Nubian queens,
Macedonia, Red sun, Caravan e Like leaves in the wind. Non ci si accorge dell’elettronica
che c’è in Rituals e si fa piuttosto fatica a credere che ci sia. Da ascoltare e basta.
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(26/05/09)
Matmos Quasi-objects
Non è detto che volksmusik, IDM e glitch dimorino esclusivamente
in Europa. I Matmos sono una splendida eccezione alla regola.
Anzi, questi due schizofrenici di San Francisco sono tra i pochi ad
utilizzare ancora oggi gli elementi della musica concreta ipotizzati
da Pierre Schaeffer. Credo che Quasi-objects (1998, per Vague
Terrain) sia uno dei massimi esempi di concretismo moderno. I
suoni uditi in questo disco, siano essi note o rumori, provengono da
un freddo computo delle parti in gioco, eliminando dunque dal
processo creativo qualsivoglia astrazione aleatoria. Stupid
fambaloo è un palloncino che agonizza prima di esplodere, Cloth mother / Wire mother
rappresenta l’innaturale stridore di una ringhiera, Lift up your hat! è l’imperituro cammino di
un millepiedi, Always three words, poi, pare una pioggia di bulloni in una fabbrica del nordest; The banjo’s categorical gut è lo scherzo di un secchio di vernice, The purple island fa
canticchiare gli uccellini del cucù; infine Latex, sorta di musica siliconata con tanto di
cerniere zip. Ultimamente si sono calmati ma ad inizio carriera erano davvero fulminati!
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
279
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Hella There’s no 666 in outer space
(27/05/09)
La label americana Ipecac Recordings ha pubblicato nel gennaio
2007 l’ultimo lavoro degli Hella, duo di Sacramento composto da
chitarrista e batterista, specializzato in composizioni math rock,
experimental rock e noise. There’s no 666 in outer space vede la
collaborazione di parecchi specialisti, come Nick Julian al
violoncello, Skerik al sassofono e Greg e Thom Moore al canto. Un
big bang di suoni elettrici esplode sin da subito con World series,
Let your heavies out e The ungrateful dead: i fanatici della batteria
troveranno in queste tracce pane per i loro denti. Un mood più
accomodante arriva con Friends don’t let friends win e con The things that people do when
they think no one’s looking; non nascondo un certo disagio nel recensire questo disco in
quanto le mie conoscenze in materia di tecnica sono alquanto scarse, così come scarsa è
la mia conoscenza di questo filone del rock. Non posso esimermi dal segnalare, come
buon gusto delle orecchie, Hand that rock the cradle ed Anarchists just wanna have fun
(non fatevi sviare dal titolo e dal testo: il pezzo è molto bello). Bravi ma troppo criptici.
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The Moldy Peaches The Moldy Peaches
(28/05/09)
I Moldy Peaches sono il primo gruppo di Adam Green (in coppia
con Kimya Dawson), simbolo dell’antifolk inglese. L’eponimo del
2001 è un lavoro meraviglioso sia per la bassa fedeltà che trasuda
sia per quell’atteggiamento sornione che ti mostra come fosse un
bambino indisponente. Canzoni brevi, scandite da accordi docili e
posati e da versi in rima impertinenti. Risulta difficile fare una
classifica dei brani più belli; piuttosto trattasi di un pari merito
annunciato, di una battaglia senza vinti e vincitori. Lucky number
nine, Jorge Regula, Nothing came out, Steak for chicken, Anyone
else but you, Lucky charms ed I forgot sono gli episodi più importanti. Ad intervallare il
trasalimento di questi brani ci sono brevissimi spezzoni ambientali dal significato oscuro.
Per dirla tutta, questo album non si avvale né di grandi collaboratori né di strumenti
ricercati, eppure contiene in sé un’invidiabile carica musicale, nel senso che suona bene
pur nella sua sfacciata semplicità. Questa peculiarità facilita il compito di ogni musicista
ma è una qualità che non tutti hanno. A volte fare un disco diventa un’impresa omerica.
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(29/05/09)
Nobraino Live al Vidia Club
I Nobraino nascono dalla fusione di due gruppetti di Riccione (i NO
e i Braino, evidentemente) e li ho sempre tenuti d’occhio perché sul
palco si sono sempre comportati bene. Due dischi all’attivo: il primo
è un best of delle rispettive carriere musicali, il secondo è questo
Live al Vidia Club, importante locale di Cesena. Mischiare
tradizione cantautorale, retroterra folk, elementi cabarettistici e free
jazz sembra essere la ricetta vincente di questa band. Il brano più
famoso, Le tre sorelle, apre il disco e riscalda l’ambiente più di una
stufa a pellet. Strani personaggi cominciano ad uscire dalle storie
cantate dai Nobraino, come l’uomo di legge protagonista di Notaio scarabocchio o il rude
perverso di Bifolco, l’ingenua danzatrice di Ballerina straordinaria o il perito con
l’esaurimento nervoso di Ragioniere nucleare. Non mancano due piccoli omaggi (?) ad
altrettanti artisti italiani, Nada e Vinicio Capossela. Difatti i Nobraino cantano Ma che
freddo fa della cantante livornese e Morna del cantautore germanico-irpino, dando ai pezzi
un taglio rockeggiante, che tracima nel funky. Bel progetto ed ottimo live.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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L’Orchestra Di Piazza Vittorio Sona
(30/05/09)
Piazza Vittorio Emanuele II a Roma, fino a pochi anni fa, era una
delle aree più degradate della capitale, lasciata nelle mani della
delinquenza romana, della mafia cinese, dei bisogni fisiologici dei
barboni e di quel mercato rionale che faceva sembrare Roma una
città africana (come direbbe oggi, a ragione, Berlusconi). Da quel
melting pot di popoli incontratisi per caso è nato il progetto
dell’Orchestra di Piazza Vittorio, un bravissimo ensemble che
suona un genere veramente multietnico, con contaminazioni che
provengono dai paesi arabi, sahariani, sudamericani, europei ed
asiatici. Sona uscì nel 2006 e raccoglie il mondo in nove pezzi. Tra l’India della title track,
l’Arabia di Ena fintidaah’k, i Caraibi di Fela, il Brasile di Helo rama per, i Balcani di Laila e il
disincanto cubano di Vagabondo soy il disco si presta a diverse chiavi di letture, tutte tese
a provare che l’integrazione passa per la solidarietà, per la cultura e per la buona volontà
degli uomini. Tutte qualità che Piazza Vittorio sembrava aver irrimediabilmente perduto
cadendo in disgrazia come se l’integrazione fosse stato un fulmine a ciel sereno.
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Rebekah Del Rio All my life
(03/06/09)
Rebekah Del Rio forse non la conosce nessuno e il suo disco All
my life men che meno. E infatti non è che la musica ivi contenuta si
distacchi molto dalla solita solfa latina che siamo costretti a sorbirci
in crociera, nei villaggi vacanze, nei centri commerciali. La musica
latina è diventata la moderna muzak, quella che una volta veniva
ossessivamente sparata nei supermercati per obbligare il
disgraziato di turno ad acquistare il più possibile. A questo punto è
d’obbligo un importante distinguo. In All my life c’è Llorando (cover
di Crying), un brano talmente triste ed onirico da meritarsi l’intera
esecuzione live nell’ermetico capitolo del Teatro del Silenzio, a sua volta facente parte del
capolavoro di David Lynch Mulholland Dr. con Naomi Watts e Laura Elena Harring. Critica
e pubblico ancora oggi si stanno chiedendo il perché di quella canzone, di quel teatro, di
quell’esibizione, di quell’ossessione. La chiave di volta sta nel genio freudiano? O,
addirittura, la spiegazione è da ricercarsi nel Mefistofele di Arrigo Boito e nell’incarnazione
della malignità inconscia, nel sogno reale, nell’illusione benefattrice della realtà?
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Minor Majority Walking home from Nicole’s
(04/06/09)
Al pari di Eirik Glambek Bøe, anche i Minor Majority appartengono
a quel gruppetto di scanzonati cantautori norvegesi che fa capo al
cosiddetto New Acoustic Movement. Negli spartiti di questo esordio
datato 2001 il quintetto scandinavo non tradisce le aspettative.
Languidi pianoforti e dolci chitarre acustiche accompagnano
l’ascoltatore all’interno di un fumoso localino in stile rustico, dove i
nostri cantano e suonano appoggiati ad un tavolino. Inoltre, in
Walking home from Nicole’s c’è il significativo apporto dato dalla
splendida voce di Karen Jo Fields; è anche grazie a lei se canzoni
come Electrolove, What I deserve e She’s a New Yorker diventano ineccepibili sotto tutti i
punti di vista. Perfetto amalgama dei suoni, testi soffici cantati con inestimabile sensibilità,
incursioni di hammond o chitarra elettrica, atmosfera bucolica. Gli ingredienti della ricetta,
dunque, ci sono tutti; ora resta soltanto trovare la propria Nicole e cantarle queste dolci
note, quindi farci l’amore per tutto il tempo che c’è. Per vederli dal vivo, il concerto più
vicino ci sarà a Lucerna il 12 giugno. Chi vive al confine può rischiare e convincersi.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Elvis Presley 30 #1 hits
(05/06/09)
Scarsa presenza scenica, voce fuori dalla convenzione, poco
talento e troppa ambizione. Queste erano le credenziali che alcuni
sprovveduti avevano intravisto in Elvis Aaron Presley. Nella realtà
dei fatti questa leggenda del rock’n’roll ha venduto più di un
miliardo di dischi in tutto il mondo guadagnandosi, giustamente, la
menzione come uomo di spettacolo più influente del secolo (e della
storia). In Inghilterra Elvis fu per trenta volte in testa alle classifiche
e nel 2002 venne pubblicata questa raccolta di hit (con l’aggiunta
del remix di A little less conversation a cura di JXL) che omaggiava
con ori e allori questo bellissimo rocker d’oltreoceano. I brani contenuti in 30 #1 hits li
conoscono pure i bambini nati nel 2009 e non servirebbe a nulla menzionarli se non fosse
che qualcuno, ancor’oggi, mette in dubbio la grandezza di The King; Heartbreak hotel,
Jailhouse rock, In the ghetto, Can’t help falling in love, (Let me be your) Teddy bear,
Suspicious minds, Too much, Don’t be cruel, Love me tender, It’s now or never, Stuck on
you eccetera eccetera. Da noi c’era e c’è ancora Gianni Morandi: no comment.
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Fatboy Slim You’ve come a long way, baby
(06/06/09)
Per Fatboy Slim, che voi siate scheletrici o ciccioni non fa alcuna
differenza: tutti possono finalmente ballare incessantemente al
ritmo di big-beat. You’ve come a long way, baby è sicuramente il
disco dell’esplosione commerciale di Norman Cook; è il disco che
più di tutti segna la rottura tra trip-hop e drum’n’bass, immettendo
sul mercato discografico un genere a sé stante costruito grazie a
velocissimi cut, a beat semiveloci che mimano una batteria e al
basso in stile rockabilly. In questo lavoro del 1998 sono compresi i
pezzi che ancor oggi infestano certe sale da ballo; sto parlando di
The Rockafeller skank, Gangster tripping, Right here, right now e Praise you. Non
mancano i riempitivi, inadatti per la radio e più consoni per il dancefloor come In heaven,
Kalifornia, Build it up - Tear it down e Soul surfing. Già con You’re not from Bighton
capiamo l’intenzione danzereccia di Fatboy Slim: la spiaggia di Brighton è teatro di
numerosi eventi, alcuni dei quali di rilevanza mondiale. Proprio il nostro dj inglese propose
lì nel 2002 uno spettacolo (il Big Beach Boutique) che richiamò ben 250.000 persone!
•
Enigma MCMXC a.D.
(07/06/09)
Come dice il titolo, correva l’anno 1990, l’anno dei mondiali d’Italia,
del muro caduto che apriva la strada all’unificazione tedesca, gli
anni di Gorbačëv e delle sue sciagurate posizioni liberali. Il progetto
mezzo belga mezzo romeno di Michael Cretu e dei suoi Enigma
usciva alla ribalta con questo lavoro gotico, medievale, eretico, un
disco che anticipava un genere continentale di cui l’Inghilterra si
sarebbe arrogata la paternità più tardi. Ambient, trip-hop, krautrock
si mescolano ai canti gregoriani e alla musica sacra per dar vita ad
un lavoro che parla di peccati capitali e di fughe a mezzanotte, di
fiumi incantati e di liturgie profane. Il tipico intro di The voice of Enigma è rotto dai
Principles of lust, ovvero Sadeness e Find love; dopo la lussuria c’è la nostalgia per la
scomparsa di Maria Callas, che trova spazio nello splendido episodio di Callas went away,
dimostrando la flessibilità vocale del soprano greco. Ecco dunque Mea culpa, sorta di rito
iniziatico al mondo che non c’è alle cui porte è attaccato un cartello recante Knocking on
forbidden doors. Infine le formidabili tre parti di Back to the rivers of belief.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Queen The works
(08/06/09)
Quando un disco comincia col beat di Radio ga ga non c’è
nemmeno da star lì a pensarci su: significa che ciò che abbiamo
inserito nel cd-player è un capolavoro, o poco ci manca. Infatti The
works (1984) dei Queen è uno di quei dischi, forse un po’
commerciali, che ognuno deve avere nel proprio archivio. Non a
caso, oltre alla già citata Radio ga ga, troviamo in The works anche
gioiellini del calibro di It’s a hard life, I want to break free e Hammer
to fall. Al pari di queste hit ci sono due o tre gemme rare che pochi
conoscono ma che in molti sapranno apprezzare; sto parlando di
Tear it up, Machines e Is this the world we created?. La voce di Freddie Mercury è a livelli
esagerati, i riff di Brian May pure e che dire poi del basso corpulento di John Deacon e
della batteria schiacciata con forza da traino da Roger Taylor? In Man on the prowl
troviamo inoltre il piano e i sintetizzatori di Fred Mandel, quello che con Eddie Van Halen e
Brian May fece diventare realtà Star fleet project, ep hard-rock del 1983 con venature
blues e richiami progressive. Su tutto ciò l’aura dei Queen regna sovrana e regina.
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Nomadi Ci penserà poi il computer
(09/06/09)
Il disco sicuramente più elettronico dei Nomadi di Beppe Carletti è
certamente quello autoprodotto del 1985, Ci penserà poi il
computer. Augusto Daolio canta la sua generazione sballottolata
dagli eventi ne La deriva, l’attivismo e il movimentismo socialpolitico ne La bomba, il gioco della democrazia in Bianchi e neri, la
storia di una cameriera un po’ sola un po’ coraggiosa in Edith. Gli
anni ’80 sono stati per i Nomadi il decennio di maggior empatia col
pubblico, dei duecento concerti all’anno, dei dischi più significativi
per denunciare i problemi della società degli uomini. Eppure
sembra che in Italia i riconoscimenti che abbiano ottenuto siano sempre stati scarsi e
forzati. Nella realtà un disco come questo dimostra l’elasticità musicale della band che
passa dall’ironia di Nuvole basse al sarcasmo di Agguanta il leone, dalla poesia di Lontano
all’intellettualismo de Il pilota di Hiroshima, dedicata a Paul Tibbets, pilota dell’Enola Gay
che il 6 ottobre 1945 rase al suolo due città giapponesi. Nel brano c’è la solitudine di chi
sbaglia, di chi andrà all’inferno, di chi ubbidisce ma anche di chi muore da innocente.
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Klaus Schulze Body love
(10/06/09)
Ascoltandolo, nessuno direbbe mai che questa è la colonna sonora
di uno dei più importanti film pornografici della storia: Body love di
Lasse Braun. Il film cercava, primo tra pochi, a dare un contenuto
concettuale all’opera porno, cercando di svincolarsi dal machismo
e dall’estetica che in qualche modo avevano portato fuori strada la
liberazione sessuale dei primi anni ’60. La soundtrack del
lungometraggio venne affidata a Klaus Schulze, oracolo del
sintetizzatore e padre del krautrock. Il risultato, sia filmico che
musicale, diventò cult, tanto che il film viene sempre menzionato
quando si parla di porno ed arte, così come l’lp di Schulze, oggi divenuto oggetto da
collezionisti fanatici. I performer sono Harald Grosskopf al drumkit e lo stesso Klaus
Schulze al synth. Tre brani, tra i dodici e i ventotto minuti di durata, creano un sentiero
irreale in grado di trasportare lo spettatore/ascoltatore sotto le lenzuola: i tre episodi sonori
sono Stardancer, Blanche e P.T.O. a cui si è aggiunta da un po’ di anni una lunga suite in
onore del regista italiano. Manualistica di sintesi audio e rivoluzione sessuale, insieme.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Gatto Ciliegia Contro Il Grande Freddo Disconoir
(11/06/09)
È certamente il disco più noir dei Gatto Ciliegia Contro Il Grande
Freddo, una specie di thriller musicale senza happy end.
L’impostazione post-rock comincia a brutalizzarsi, a diventare
meno morbida che in precedenza, ad usufruire degli stilemi
ambient e soundtrack. Melodie cupe che avvolgono il basso
ridondante e le chitarre acide creano un’atmosfera da serial killer,
da squallido motel di campagna, da autostrada notturna con
puttane che bruciano copertoni. I pezzi più neri sono sicuramente
Niente baci alla francese, Doctor Killdare, Confessioni di un cuoco
criminale e Tempo dopo; di fianco a tanta mestizia v’è il bagliore delle cose belle come
negli affreschi riusciti in Come una milonga, Quando eravamo re e Song songun. Fermo
restando l’utilizzo dell’elettronica IDM, i Gatto Ciliegia stavolta azzardano anche le vocals:
l’esperimento riesce alla grande in Stella che non dimentica, pezzo cantato niente popò di
meno che da Moltheni. Il disco è questo anche se i dettagli e le sfaccettature sono tante e
di difficile derivazione; per fortuna il talento di questa band è rimasto illibato.
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Krisma Clandestine anticipation
(12/06/09)
Era il 1980 e i Chrisma si chiamavano Krisma. Scelta abbastanza
indolore che precedeva (o succedeva) un certo cambiamento di
sound. Maurizio Arcieri (ex New Dada) e Christina Moser furono
dei veri e propri sperimentatori nell’ambito della dance, della newwave e dell’elettronica pop. Non a caso smontavano le tastiere
Casio prima che la moda chiptune a 8-bit si impadronisse di quel
filone musicalmente aurifero. Clandestine anticipation, del 1982,
parte dal punk per passare il testimone alla new-wave e tagliare il
traguardo nel breakbeat, nell’IDM e nel techno-pop (tutto molto
rudimentale ma tutto molto convincente). A cominciare da Miami fino a Samora Club,
tracce kraftwerkiane cantate in un inglese stentato e in italiano elegiaco. Poi Crucial point
e Melonarpo dove l’agonia del punk si mischia alla vitalità dell’electro; ancora post-punk in
Silly Europeans e in Wrong island. Lo stile dei Decibel riesce anche con Opposite
etisoppO (gioco di parole piuttosto simpatico), con Water e con Zacdt zacdt. Sapere che
qualcuno possa passare dal beat degli anni ’60 alla computer music fa gioire.
•
Björk Debut
(22/06/09)
Fu un debutto sostanziale più che formale. La piccola islandesina
registrava musica dal 1977 ma fu solo nel 1993 che la sua voce
entrò nelle case della gente, nei club più rinomati e nei circoli
artistici di mezzo mondo. Duttilità, carisma, originalità, inventiva,
genio sono doti che hanno sempre affascinato stilisti, performer,
registi, artisti di vario genere. Björk infatti s’è sempre più incasinata
la vita tra scruttura, canto, composizione, interpretazione, arte posthuman (il marito è il celeberrimo e quotatissimo Matthew Barney).
Debut è semplicemente perfetto. Tracce come Crying, There’s
more to life than this, Big time sensuality e Violently happy vanno a braccetto col
dancefloor; Venus as a boy, Human behaviour, One day e Play dead sono invece adatte
alla living room; infine Like someone in love, Aeroplane, Come to me e The anchor song
sono consigliate nelle sessioni notturne in camera da letto. Se siete isterici o romantici,
espansivi o timidi, anticonformisti o modaioli non potete perdervi la musica di Björk, perché
questa è l’esperienza multiforme e multiespressiva che fa per voi. Giuramento di scout.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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The Notwist Shrink
(23/06/09)
Shrink è il miglior disco dei Notwist. Tutto qui. Lo è perché è
omogeneo sotto tutti i punti di vista, strumentale, lirico, autorale,
sperimentale. Il rock era già morto quando uscì questo lavoro
(1998) e l’attitudine post veniva a sposarsi con altre influenze di
importanza vitale: nel caso dei Notwist parliamo di free-jazz ed
experimental-rock. La melodia incessante di Day 7, la base
glitchosa di Chemicals, la dilatazione spaziotemporale di Another
planet, il ritmo esotico di Moron o la seriosità elettronica di Electric
bear ci offrono una fotografia musicale dai colori vivaci. E poi
quanto lo-fi in No encores e quanto post-rock con N.L.! Fermo restando che il miglior
pezzo di Shrink rimane Your signs, in cui il clarinetto vibra sul doppio basso mentre la
voce di Markus Acher viene aiutata da una batteria jazz-style. Di rilievo è infine la
collaborazione alle chitarre di Wolfgang Petters dei Fred Is Dead o dei Village Of
Savoonga. C’ho messo tanto per imparare ad amare il movimento indie ma adesso posso
finalmente sostenere d’esserci riuscito. E soprattutto non posso più farne a meno.
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Fabrizio Moro Barabba
(24/06/09)
Come fece Vasco Rossi, sta facendo Fabrizio Moro. Rimane però
un serio problema di tempistica e di opportunismo. Vasco cominciò
cantando la vita militare, la droga, il sesso, le macchine veloci, la
volgarità, le fragilità; oggi invece sembra Ligabue o, peggio,
Ramazzotti. Per quanto riguarda Fabrizio Moro, la sua carriera
cominciò con la cocaina, le sbronze, le puttane, i matrimoni; ed
anche lui, oggi, si è dato alla musica da Comunione & Liberazione.
Barabba, il nuovo ep uscito qualche giorno fa, è confezionato
benissimo ma scarseggia di idee, ingrassando invece il
conformismo e il buonismo da grandi eventi. Sangue nelle vene mette tutti sullo stesso
piano: la solita canzone per dimostrare che bianchi e neri sono fratelli, eterosessuali e froci
pure, belli e brutti, santi e diavoli. Così come nella title-track, evidente segno di una
democrazia che non funziona se preferisce la morte di un dio a quella di un criminale. E
poi Il senso di ogni cosa, che parla di tutto e niente; o ancora Il momento giusto e Melodia
di giugno, canzoni agitate o lente che cercano di cantar l’amore, la vita, le stupidaggini.
•
(25/06/09)
Kobak ixi sessions
Ancora grazie ai software IXI è stato possibile fare questo disco di
pura autogenesi musicale. Kobak ha registrato cinque sessioni
utilizzando i software messi a punto dall’insigne label digitale.
AutoCrap, Polymachine, StockSynth, Noiser eccetera sono
certamente stati il punto di partenza per questo ep. Cinque brani
che vanno da _____1 a _5 in grado di incantare l’ascoltatore con
errori di sintesi, rumori rosa, suoni d’ambiente, scricchiolii umani e
lamenti sonori vari. Il filone autogenerativo è oramai entrato nel
gotha della musica colta internazionale, al pari del serialismo, della
dodecafonia o del puntualismo; il merito è stato soprattutto dei musicisti che ci si sono
dedicati con costanza ed entusiasmo, del pubblico che ha deciso di snobbare il
mainstream e, soprattutto, degli ingegneri e dei programmatori che sono riusciti in pochi
anni a stravolgere il significato della computer music. L’esperimento della IXI sta proprio lì.
Se pochi anni fa nella propria cameretta era possibile produrre house o hip-hop, adesso la
vostra CPU può diventare uno studio simile a quello del G.R.M. di Parigi.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Pink Floyd Ummagumma
(26/06/09)
Correva l’anno 1969 e per molti fu quello l’anno migliore per i Pink
Floyd. Usciva infatti Ummagumma, doppio lp pieno di live ed
inediti. Alla chitarra David Gilmour, al basso Roger Waters, alla
batteria Nick Mason, alle tastiere e al microfono Richard Wright: il
tutto prodotto da Norman Smith con l’apporto di Petre Maw e Brian
Humphries. Artwork affidato infine alla Sleeve Design e fotografia
alla Hipgnosis. Questo elenco di nomi dovrebbe essere una sorta
di coccodrillo buono per La storia siamo noi. Ma siccome non me
ne frega niente di Wright o di Waters, per me questo disco resta
una monotona e noiosa vetrina di suoni usati: un meticcio di ibridi e bastardi più che un
geniale accoppiamento di culture ed idee. La sezione live la ricorderò per il movimento di
A saucerful of secrets, quella in studio grazie alla piacevole seconda parte di Sysyphus.
Ma se qualcuno si aspetta che mi esalti sui virtuosismi di David Gilmour in The narrow way
o di Nick Mason sui tre episodi di The grand vizier’s garden party, si sbaglia di grosso. Non
trasalisco, non mi eccito, non grido al miracolo, non provo invidia. È musica d’altri tempi.
•
AIR & Baricco City reading
(29/06/09)
Il romanzo City del nostro bravo Alessandro Baricco fu musicato
dagli AIR con sapiente maestria, rispettando l’aura western dello
scritto. City reading nasce quindi per coniugare la buona lettura,
oggi fenomeno di cui vergognarsi o da ostentare, con la buona
musica. A mio avviso il prodotto finale è eccellente. Vengono
raccontante così tre storie provenienti dal Far West di Brokeback
Mountain e No country for old men e meno da quello epico di
Sergio Leone, Tex Willer e John Wayne. Le prima storia è quella di
Bird e delle sue storiacce da mariachi, il secondo racconta la vita
della puttana di Closingtown, l’ultimo invece, Caccia all’uomo, è la dinamica vicenda di
cadaveri, indiani e sceriffi temerari. In fondo City voleva essere un monito per la società di
oggi, denunciandone lo scarso garantismo, l’eccessivo giustizialismo e le porcherie che in
ogni tempo e in ogni dove rovinano la vita degli uomini e dei bambini. Nei reading teatrali
certamente questo lavoro avrà fatto piangere qualche progressista da due soldi; a me
invece interessano i pianoforti, i beat e gli archi del duo francese. Bastano e avanzano.
•
(30/06/09)
Franco Battiato Gommalacca
Di fronte a dischi così le parole inciampano in bocca. Sì, perché
Gommalacca è uno dei tanti capolavori battiatiani che dà lustro alla
musica italiana senza che alcun forestiero se ne sia ancora
accorto. Meglio per noi. Di per sé, Shock in my town è sufficiente a
dare l’idea del disco: lo sviluppo umano porta disordine ed entropia,
dunque terzomondismo a livello planetario e pochezza a livello
individuale; tema ripetuto con Auto da fè, antica cerimonia
purificatrice dell’inquisizione iberica. Casta diva invece riporta in
vita il fascino immutato di Maria Callas, le sue debolezze, le sue
sfortune, le sue tragedie. A questo punto c’è la politichetta de Il ballo del potere: destra,
sinistra, un giro su se stessi… allorché Battiato decide di allontanarsi dallo scottante
materialismo grazie ad alcune perle rare quali La preda, Il mantello e la spiga, È stato
molto bello e Quello che fu; addirittura tocca studiarsi Plutarco e la sua opera per
comprendere Vite parallele. Infine c’è un toccante trittico sulle avventure del comandante
Shackleton e della sua Imperial Trans-Antarctic Expedition, fallita sull’isola Elephant.
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Harold Budd & Brian Eno The pearl
(01/07/09)
Brian Eno non ha bisogno di presentazioni. Di lui diremo
semplicemente che è un artista (e ci vorrebbe la A maiuscola). In
The pearl fa da aiutante a Harold Budd, navigato esponente del
movimento ambient. E infatti il sodalizio si rivela proficuo. Dopo
The plateaux of mirrors del 1980 arriva nel 1984 questo secondo
capitolo, dedito alla contemplazione pianistica e alla sua
immersione nel tessuto culturale contemporaneo. Undici brani
performati in modo professionale e sognante, che tentano di
rinverdire un’antica pulsione, quella del vento che sibila sui fili
elettrici cui Budd è fortemente legato un po’ per nostalgia un po’ per ossessione. Non c’è
brano che stanca, tutto è adatto al momento adatto, ogni singola nota è lì per un motivo
ben preciso, ogni contrappunto, ogni accordo, ogni fuga è studiata per esasperare
l’ambiente circostante e renderlo saturo di movimenti ariosi, brillanti, scintillanti. Ogni
lavoro su cui Eno metta le mani diventa qualcosa di mistico ed attraente ma lavori come
The pearl sono difficili da superare e persino da raggiungere. Un plauso anche per Budd.
•
Aphex Twin …I care because you do
(02/07/09)
È certamente uno dei dischi più famosi d’elettronica anche se a
questo ne preferisco altri. …I care because you do di Aphex Twin
appare come un gigantesco simulacro all’insegna del suono
sintetico, un suono che consapevolmente cerca da anni di
sgombrare la musica dagli strumenti, dallo studio accademico, dal
virtuosismo. Se fino agli anni ’70 la musica era stata mero abbaglio
di una classe di studenti conservatoristi o anche di band e musicisti
sui generis, con l’avvento dell’elettronica questa prerogativa è
venuta meno e ha dimostrato il lato popolare - volksmusik - di se
stessa. Di questo disco aphexiano restano in piedi le gesta di tracce come Acrid avid
jamshred, che riesce ad essere sentimentale pur senza pianoforti, organi o violini; poi The
waxen pith, evocativa coma un tramonto sull’oceano; quindi Ventolin, celebrolesa e malata
come il Beethoven di Cornovaglia. Di Richard D. James ho sempre preferito le tracce
morbide, emotive, che in questo album vanno via via scemando a favore di una maggiore
inclinazione IDM/breakbeat. Fatto sta che senza questa roba la musica sarebbe morta.
•
Alexander Robotnick Oh no… Robotnick!
(03/07/09)
Il movimento italo-disco è stato uno dei filoni più importanti della
dance contemporanea. Negli anni ’80 e ’90 tutta Europa ballava
sulle note di ciò che usciva dai nostri studi di registrazione.
Alexander Robotnick (pseudonimo di Maurizio Dami) è proprio uno
degli esponenti di punta di questo genere e fece piazza pulita col
famoso pezzo Problemes d’amour. Nel 2003 ha raccolto in Oh
no… Robotnick! il meglio della sua produzione tanto che a sentirlo
oggi questo disco fa venire la pelle d’oca. In esso c’è la techno
Detroit di Strobo 122, il sound vocoderizzato di Alienation, la veloce
progressione di Supermarket, il suono acido di Shout e lo splendido synth alla Davide Calì
di Je t’envoie. Il disco continua a sorprendere grazie ai kick spaccawoofer di Oui je thème
e al downtempo di Blue electric lines, al basso che va e viene in What I am e al technopop
de La differénce, fino al sogno digitale di The small bedroom. Questo autore ha dato tanto
al suono italiano e non è colpa sua se in seguito il suo insegnamento verrà volgarizzato
fino alle forme estreme dell’happy-hardcore o dell’euro-dance.
286
Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
287
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Ludovico Einaudi Stanze
(04/07/09)
Permettetemi un po’ d’arroganza. Conosco tante persone che
ascoltano essenzialmente brutta musica a cui io rispondo che è un
problema di sviluppo dei propri gusti. Se non ci si sforza di cercare
il nuovo, il difficile, l’originale, lo strano non si potrà mai giungere al
significato ultimo della musica, che non è quello di intrattenere od
emozionare, ma quello di svelare significati. Le persone di cui
sopra sono convinte, da quel poco che hanno ascoltato nella loro
vita, che Giovanni Allevi sia il miglior pianista del mondo solo
perché è simpatico, sta sempre in tv, fa i soldi a palate e sembra il
ragazzo della porta accanto. In realtà Allevi non è che uno dei tanti e, per di più, non ha
mai recepito la lezione dodecafonica, anche se la sua critica all’accademismo non è tutta
da buttar via. Riferendomi dunque ai già citati individui, non smetterò mai di consigliar loro
il più importante Ludovico Einaudi, vero musicista di pianoforte e vero creatore di significati
sonori. E più del famoso Le onde, voglio porre alla loro attenzione Stanze, i cui significati
non svelo perché altrimenti la magia della musica ne risulterebbe ridotta se non eliminata.
•
Rockets Plasteroïd
(05/07/09)
Una buona dose di umorismo, una bella pittata al viso, tanto rock
spaziale e, soprattutto, un talento tutto francese. Così nacque il
french touch, coadiuvato dalla rivoluzione disco di Cerrone. I
Rockets sono una band mitologica i cui dischi sono una scoperta
infinita. Plasteroïd fu prodotto in Italia (come la maggior parte dei
loro lavori) dalla Rockland e presentava quattro brani per lato,
ognuno uguale e diverso dall’altro. A cominciare dalla suite
progressive presente nella notissima Electric delight fino al
travolgente ritmo in levare di Astral world ed ai suoi impeccabili
vocoder; divertentissimo il synth-pop di If you drive se confrontato alla flemma elettronica e
così intensa di Legion of aliens (ora si capisce da dove arriva il sound dance!). Il lato B
comincia con un intro da megaconcerto grazie a Anastasis, seguito dal groove rockettaro
di Cosmic feeling e dalla new-wave di Atlantis town; infine Back to your planet, splendido e
primitivo esempio di quel french touch che farà la fortuna dei Daft Punk. Plasteroid è un
disco da ascoltare tutto d’un fiato, ballando, divertendosi ed esultando ad ogni robovox.
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(06/07/09)
Bomfunk MC’s In stereo
Dalla Finlandia non arriva solo il glitch dei Pan Sonic, la musica
orchestrale di Jean Sibelius, il metal dei Mind Of Doll o il tango
lappone degli Eläkeläiset. In realtà c’è anche l’elettronica breakbeat
dei Bomfunk Mc’s, quelli che spopolarono qualche anno fa con
Freestyler, il cui video era un’ara sacrificale alla PlayStation, ai loop
preset, alle drum-machine, allo stile dei b-boy europei. Il loro primo
disco In stereo è quello che ha venduto di più ma, al di là di
Freestyler, in esso non ci sono particolari momenti di rilievo. In
fondo Uprocking beats è un modesto pezzo electro, Other emcee’s
un discreto rap robotizzato, B-boys & flygirls il tipico inno autoreferenziale e Rocking, just
to make ya move, poi, appare come una cafonata senza eguali. Sinceramente il continuo
del disco è un amalgama certamente ben fatto, ma troppo truzzo per i miei gusti: brani
come Sky’s the limit, Stir up the bass o Spoken word appartengono ad un mondo troppo
lontano dall’elettronica centroeuropea e forse questo è un bene perché dimostra tout court
la supremazia del sound francese, tedesco ed italiano nel vecchio continente.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Dirotta Su Cuba Fly
(07/07/09)
I Dirotta Su Cuba spesso sono stati maltrattati, nel senso che
sovente hanno subito un’operazione di banalizzazione,
svuotamento e ridicolizzazione sia da parte del pubblico che della
critica. Invece meritano molto più rispetto, soprattutto nella persona
di Rossano Gentili, fondatore ed attuale frontman della formazione
oramai allo sbando. Fly (2002) non è forse il miglior disco della loro
produzione, tuttavia fu un tentativo di tornare a galla dopo
l’abbandono di Stefano De Donato. Alla fine il disco dimostrò
troppo manierismo vocale ed uno spropositato ego musicale. Fatto
sta che brani come Sono qui, Semplice o L’amore non aspetta mai si ascoltano volentieri,
non senza un certo fastidio dovuto all’aura r’n’b che avvolge la Bencini in ogni ottava. Se
Alex Baroni è diventato il vate del soul nel Belpaese solo per la sua cruenta e prematura
dipartita, in realtà sono i Dirotta Su Cuba ad avere il monopolio del rhythm’n’blues italico.
E non apparterranno mai al mio background musicale, né li citerò mai tra i miei ascolti
preferiti, ma rimane il fatto che una piccola fetta di storia musicale leggera è anche loro.
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Claudia Gerini Like never before
(08/07/09)
Claudia Gerini è bona. Su questo c’è poco da disquisire. Ma
bisogna esser seri e farsi un’idea non della Gerini attrice, non della
madre, non della modella ma della cantante. Aiutata, ovviamente,
dal compagno Federico dei Tiromancino, la Gerini se la cava bene
sia col canto che con la scelta della playlist. Al di là delle facili e
divertite recensioni che vogliono stroncare la signora Zampaglione
facendole pesare una volta ancora la provenienza borgatara, va
detto che il disco in questione è un bel divertissement da ascoltare
in auto durante il traffico mattutino. La tracklist prevede brani
provenienti da film che in qualche modo hanno formato la coscienza artistica della nostra:
Maniac, Paradise, Girl you’ll be a woman soon, Wise up, Black hole (da Sono pazzo di Iris
Blond), Hey baby, Reality. E poi Time after time di Cyndi Lauper e Niña de luna, canzone
inserita due anni fa nel disco L’alba di domani dei Tiromancino. Anche se personalmente
non nutro particolare simpatia per la Gerini, date le sue idiote sparate politico-sociali, qui
devo spezzare una lancia in suo favore per un disco che si merita la sufficienza piena.
•
(09/07/09)
Thomas Bangalter Irréversible
Dire Thomas Bangalter significa dire metà dei Daft Punk e dei
Together, od un terzo degli Stardust, dei Da Mongoloids e dei
Darlin’. Il suo unico disco solista è questa colonna sonora
dell’omonimo film drammatico di Gaspar Noé (2002). La
soundtrack è lontana anni luce dal suono cui ci ha abituato
Bangalter nei suoi progetti, eppure v’è una certa filiazione
d’appartenenza data dai lenti beat della title-track, dal basso acido
di Night beats o dalle suite in stile Goblin di Stress; ma i brani più
vicini al sound daftiano, quelli più marcatamente influenzati dal
french touch, sono Paris by night, Outrun e Spinal scratch. A livello musicale c’è poco da
dire, nel senso che i sample che Bangalter è solito utilizzare li conosciamo tutti, così come
siamo ben consci del timbro dato ai propri suoni. Resterebbe invece da parlare del film ma
credo che una recensione non gli renderebbe giustizia. È un film francese e, dunque,
come potevano mancare Vincent Cassel e Monica Bellucci? È una coppia che in
celluluoide amo parecchio. Perché la storia è tutta scritta con lo sperma e con il sangue.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Empire Of The Sun Walking on a dream
(10/07/09)
Che Dio ci liberi da questo rinverdimento dei fasti hippie. Prima gli
MGMT, ora scomparsi, adesso gli Empire Of The Sun, che presto
spariranno anch’essi. Queste sono band non destinate a durare
perché impersonano una moda del momento e, anche se
musicalmente bravi, non sono capaci di spaziare nel vasto campo
della ricerca sonora. E poi quand’è che vogliono capire che la pace
è utopia, così come l’eguaglianza, la libertà e la democrazia? Basta
con quei colori smaglianti come a dire che la vita è più bella dove
più misera è l’esistenza! La miseria non si combatte con la miseria.
Ma Walking on a dream è un disco che s’ascolta volentieri e che non lascia nulla oltre ad
alcune hit da inserire in playlist. L’intro di Standing on the shore è scopiazzato qui e là, la
tilte-track mostra tutta la vivacità della voce equina del cantante, Half mast è inutile, We
are the people è forse la scoperta dell’intero lavoro, Delta bay fa casino e basta, Country è
un altro bell’episodio acustico; ma da The world in poi ricominciano le banalità e le
ridondanze. Assolti, perdonati ma, nonostante tutto, ancora sopravvalutati.
•
Moby Wait for me
(13/07/09)
Dopo l’inascoltabile Last night, Moby torna rivestito d’oro e
lapislazzuli grazie ad un ottimo disco, Wait for me, che se non
raggiunge i fasti di Play perlomeno supera od eguaglia il discreto
18. Torna dunque quel mood decadente e un po’ strappalacrime
che, anni fa, era stato il suo marchio di fabbrica in canzoni come
Pale horses, Shot in the back of the head, Study war e A seated
night. E non manca certo il lato più punkettone del piccolo Richard
Melville Hall come in Mistake o l’attitudine post di brani quali Isolate
e JLTF. Nel disco alcune collaborazioni si sono rivelate di vitale
importanza per la riuscita dello stesso ed il motivo non è così difficile da intuire: in Wait for
me ci sono le voci di Amelia Zirin Brown, Starr Black Shere, Leela James, Melody Zimmer,
Kelli Scarr e Hilary Gardner; inoltre il missaggio è stato affidato alle sapienti mani di Andy
Marcinkowski e Ken Thomas. Infine un appunto. Tutti i disegni, come ormai da anni
accade, sono stati fatti da Moby stesso; disegni che ritraggono un mondo fanciullesco,
ingenuo, surreale che con la semplicità del tratto dipingono questo pazzo pazzo mondo.
•
Betty Davis They say I’m different
(14/07/09)
Funk, soul, blues… non chiedetemi la differenza. Ne conosco le
direttrici ma la mia cultura in materia black è alquanto scarsa.
Nonostante ciò, un po’ per egocentrismo un po’ per incoscienza, ho
accolto il consiglio di un utente Qoob e mi sono deciso a recensire
il disco mediano di Betty Davis, musa ispiratrice di tanta buona
musica e di tanti geniali artisti, a partire dal marito Miles. They say
I’m different fu un flop, così come l’eponimo d’esordio e il
successivo Nasty gal. Fatto sta che quel basso così in evidenza,
quella voce trascinata a fatica, quelle drums tra jazz e psichedelia,
quelle chitarre e quei fiati lontani anni luce dal dancefloor fanno di questi tre dischi un
importante capitolo nella storia della musica internazionale. Correva l’anno 1974 e la
rivoluzione sessuale era ormai un fatto normale; nessuna donna aveva d’altronde
affrontato quel mostro chiamato “perbenismo borghese” come fece Betty Davis. Basta
ascoltare He was a big freak, Don’t call her no tramp o They say I’m different per capire
l’apertura mentale, tra sfogo e ribellione, di questa sempreverde cantante statunitense.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Fare Soldi Sappiamo dove abiti
(15/07/09)
Il primo disco era follia allo stato puro, il secondo si rivelò ottimo
per la pista da ballo, il terzo fa una summa dei primi due e giunge
all’imprevedibile risultato. I Fare Soldi sono un duo eccentrico e
creativo che non dimentica da dove proviene; non a caso tutti i loro
brani sono fortemente italiani, sia per quanto riguarda l’influenza
disco, sia in ambito autorale. A tal proposito, basterebbe citare
alcuni titoli per rendersi conto di quanti pochi neuroni ci siano nelle
teste di Pasta e Carnifull: Dolo boys, Puff Dandy, Message in
Abbado, I wanna feel Collins, Il lato B del mondo eccetera. Fra
garage, afrobeat, sweet-house e synth-pop le canzoni passano veloci e divertenti,
soprattutto quando alle orecchie giungono le belle note di Survivor, vecchia hit del fu Mike
Francis (a cui inviamo un r.i.p. affettuoso). Se avete in mente di fare una festa casalinga,
mettete su questo disco e tutto girerà per il verso giusto; ed anche se la serata non
prevede una festa, Sappiamo dove abiti potrebbe funzionare ugualmente, riuscendo a
scaldare gli animi e, chissà, potrete riuscire a portarvi a letto quella che vi piace tanto.
•
DJ Enzo Uno x tutti
(16/07/09)
Era il 1997 e a scuola ricevetti una copia in mc di questo disco.
Sono dunque dodici anni che mi ronzano in testa questi break,
scratch, cut e beat. Dj Enzo produce basi e dischi, i suoi amici ci
rappano sopra, con risultati che in questo disco appaiono magnifici.
Si comincia con un sample di Renato Zero, quindi con una battaglia
a colpi di Technics e fader grondanti sangue ne La partita (con Dj
Jad e Vladimiro). La prima vera traccia è Fuori dalla mischia
featuring Il Circolo seguita a ruota dall’Area Cronica in Spread love:
sono nomi, questi, che hanno fatto la storia dell’hip-hop italico, e la
qualità delle rime non può che essere eccellente. Arriva, con J. Ax, Quelli come me (molto
bella), a cui succede il magnifico scioglilingua de La Famiglia in E uno, due, tre quattro…;
Dre Love, Rata e Shabazz performano Phat connection, Space One e Samuel L. Jackson
Nell’Olimpo con gli dei, e poi Irene Lamedica in Quello per cui vivo, Thema e Grido in
Ricorda, Ciso in International player, Boccabuona in Nessuno è, Master Freez in Non
importa chi sei. Ogni pezzo è una storia, ogni base un modello.
•
Michael Jackson HIStory
(17/07/09)
Non potevo andare in vacanza senza aver dato il mio infinitesimo
contributo alla figura di Michael Jackson, re del pop. HIStory fu uno
splendido doppio cd uscito nel 1995 costituito da un best of e da un
disco di inediti. Nel primo troviamo quei pezzi che domani i nostri
figli dovranno conoscere a memoria per dirsi esseri umani degni
del terzo millennio: Billie Jean, Bad, Thriller, The way you make me
feel, Black or white, Man in the mirror, Beat it, Don’t stop ‘til you get
enough, Heal the world e via dicendo (mancano solo Smooth
criminal e Human nature). Nel secondo ci sono alcune chicche
come Scream, Stranger in Moscow o Smile. Jacko è stato un’icona pop di gran lunga
superiore a quella di Elvis, John Lennon, Jim Morrison o Giovanni Paolo II, per gossip, per
talento, per genio, per look, per life-style, per una vita sotto i riflettori. Ed oggi, affievolitasi
l’onda emotiva per la sua inaspettata morte, non resta che un lacerante vuoto da colmare.
Il tutto senza perdere la speranza che questo sia solo un arrivederci e non un addio. Ciao
Michael, re del pop. Francesco Mendozzi sempre e per sempre dalla tua parte.
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Telefon Tel Aviv Immolate yourself
(01/09/09)
“Immola te stesso”. Il titolo dell’ultimo disco sentenziò la fine a cui si
sottopose Charlie Cooper dopo che la donna lo lasciò per sempre.
Il giornalismo, rispettando uno dei punti della deontologia, non ha
mai fatto gossip sul suicidio. Ed io, che giornalista non sono, ne
parlo, anche per motivi familiari. Sì, perché Immolate yourself dei
Telefon Tel Aviv passa in secondo piano quando ai giorni nostri c’è
qualcuno che s’ammazza d’amore. Proprio oggi, epoca in cui
l’amore pare aver una data di scadenza, quasi fosse un contratto
Co.Co.Co., sottolineare l’immenso romanticismo insito nel suicidio
suona strano alle orecchie dei poveri borghesi. Una borghesia che ha ormai
inesorabilmente comprato il mondo, distruggendo le differenze che hanno reso unica la
nostra civiltà. E i borghesi a cui mi riferisco siete voi. Tutti. Senza distinzione di censo. Voi
che ancora v’arrabbattate nell’ambizione e nella ricerca della felicità, nel costruire ciò che
è già stato costruito da altri molto più bravi di voi. Il tutto è. E forse è nulla. Dunque la
soluzione che rimane in piedi è quella della pazzia o, meglio, del suicidio.
•
Ash Ra Tempel Schwingungen
(02/09/09)
Nel 1972 Klaus Schulze esce di scena, rimpiazzato da Wolfgang
Müller, cosicché gli Ash Ra Tempel giungono al proprio capolavoro.
Schwingungen è un’odissea nello spazio-tempo trasposta in
musica. Tre lunghe suite (Light, Darkness e Suche & Liebe) che,
tra minimalismo elettronico, kraut-rock, progressive, kosmische
musik, psichedelia e musique d’ameublement tratteggiano un
percorso mistico negli anfratti della metafisica new-age. Se i riff
blues di Manuel Göttsching proiettano l’ascoltatore direttamente
nello spazio siderale, incitando alla perdita dei sensi, il suo
delirante hard-rock acquieta e ipnotizza. Il lungo ed impalpabile mix di minimalismo per
vibrafono dell’ultimo pezzo funge poi da commiato alieno, pronti per il ritorno su Vega.
Schwingungen, insomma, è un lavoro magico ed intrigante che per trentanove minuti
annienta qualsiasi percezione spazio-temporale e conferma le immense capacità di un
gruppo che, liberatosi dell’immane genio di Klaus Schulze, raggiunge il suo stato di grazia,
nascondendo al grande pubblico e alla critica più imbecille tutto ciò.
•
múm Sing along to songs you don’t know
(03/09/09)
La fine dell’estate se non combacia almeno preannuncia l’inizio
dell’autunno, la stagione che più stagione non può essere. Le foglie
muoiono, gli alberi si spengono, le bestie s’addormentano, gli
esseri umani si chiudono in se stessi e le metropoli sembrano
acquisire una luce nuova, meno abbagliante ma egualmente
emozionante, con venature ocra e avana. Di quest’estate resterà
ben poco, qualche viaggio, qualche incontro inaspettato, qualche
amplesso fortuito, qualche sorriso di troppo; soprattutto resterà
l’evanescente certezza di dover attendere altri undici sfiancanti
mesi. Per uccidere questo ingombrante arco temporale è vivamente consigliato l’ascolto
del nuovissimo disco dei múm, Sing along to songs you don’t know, nel quale vengono
concentrate le premesse per affrontare al meglio la fine del 2009 ed incamminarsi con
rinnovato slancio verso gli anni ‘10. Stavolta i múm ci mettono più voce e più ritmo,
scostandosi leggermente dall’eterea vaghezza dei precedenti lavori: le canzoni migliori
sono Sing along, If I were a fish, A river don’t stop to breathe e Kay-ray-kú-kú-kó-kex.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Mambassa Mi manca chiunque
(04/09/09)
Più che l’assenza di qualcuno oggi avvertiamo la mancanza di ciò
per cui lottiamo ogni giorno. Dunque il titolo andrebbe mutato in Mi
manca tutto. Fatto sta che il terzo disco dei Mambassa (Mescal,
2003) non è malaccio, anzi rappresenta in modo esaustivo la
migliore idea di musica leggera italiana. Comincia con Il cronista,
storia di un uomo che per natura osserva le cose senza lasciarsi
influenzare; poi c’è Alice non si sveglia, sfogo di paure, ossessioni
e sgomenti; quindi Mani in alto, trombe e modulazioni per
convincere una donna; ancora con L’alieno, cronistoria di una vita
sfuggente e quasi marginale. Dopo tutto ciò arrivano, nell’ordine, pezzi più rock nei quali
l’attitudine pop scolora; ovvero canzoni come Lo scontro, duro attacco all’ipocrisia, Vie di
fuga, storia di un matrimonio mancato, Senza forze, sul terreno perduto durante gli anni,
ed infine 1972, l’anno di nascita che per ognuno è l’ostacolo della propria generazione,
delle proprie amicizie, dei propri interessi e dei propri sogni. Mi manca chiunque è un buon
disco e la Mescal, come al solito, non ha sbagliato nel puntare su questa band cuneese.
•
DJ Scotch Egg Scotch Hausen
(05/09/09)
Immaginate un’orchestra di Game Boy che suona Bach! Sì, perché
questo è Dj Scotch Egg, maestro venerabile del chiptune e del
breakcore, il tutto inserito in una cornice modern classical. Scotch
Hausen (2007), lo fa intendere il titolo, è un omaggio scherzoso ai
grandi musicisti classici, su tutti Stockhausen, ma anche Bach,
Hardin ecc.; è dunque questo l’assunto principe del breve disco
inglese. Ad aprire il tutto è un Intro che mischia la Marcia nuziale di
Mendelssohn al can-can; poi c’è Scotch Bach II (e di Bach
nemmeno l’ombra) e Scotch radio, che sembra la versione
unplugged del Gesang der Jünglinge di Stockhausen. Dopo l’interludio di Scotch ruins
arriva Scotch Bach e stavolta il maestro di Eisenach c’è in toto; quindi è la volta di Pin pon
e No beats, due pezzi docili e vagamente melodiosi. La follia del dj giapponese esplode
con Scotch Sundance (in tre salse diverse), nella title-track e in Scotch Moondog,
quest’ultima geniale rivisitazione dell’opera minimalista per trimba del musicista cieco
Moondog. Se la classica non vi piace, partite da Dj Scotch Egg e ci arriverete col sorriso.
•
Minuta vs. Amalia Grè Minuta versus Amalia Grè
(06/09/09)
Quando la splendida voce di Amalia Grè, artista svanita come per
magia, si incontra col talento electro dei Minuta, collettivo italoelvetico, ne esce un prodotto di altissima qualità. A molti potrà
sembrare un imbarazzante esperimento di contaminazione forzata
ma se fermiamo la critica al piacere auditivo, senza addentrarci in
stupide divagazioni intellettuali, non possiamo negare l’immensa
musicalità del disco. A cominciare da Quanto t’ho amato, a metà
fra trip-hop e big-beat, così come la successiva Sweet surrender
(versione inglese di Amami per sempre) che si cimenta con
l’electroclash. Ogni membro della Minuta Records si è dunque cimentato con un brano,
cercando di dare un’impostazione personale ma trasversale all’arrangiamento originale.
Ecco dunque venir fuori l’house con I need a crown (qui c’è Bubblegun), il latin con
Orchidee, la bossa con Avvolgimi amore, il breakbeat con Cuore pallido, il glitch con
Estate, la micro-music con Na suppa de stella, il drum’n’bass con Sogno o l’ambient con Io
cammino di notte da sola. C’è veramente di tutto e pure qualcosina in più. Gran disco.
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Agricantus Habibi
(07/09/09)
Habibi è un disco eterogeneo che rispecchia fedelmente le anime
che percorrono la personalità dei siciliani Agricantus, maestri della
world music italiana. In questo disco del 2005 ci sono brani live,
esecuzioni di altri gruppi, progetti solisti e due inediti. I primi quattro
brani, da Ciavula, passando per Teleja e Occhi chi nascinu, fino ad
Azalai (finanche Li vuci di l’omini) sono esecuzioni dal vivo che gli
Agricantus hanno registrato in giro per il mondo. Il brano Dawa,
invece, è eseguito dal duo dei Welt Labyrinth; Hawa vede poi la
collaborazione di Fadimata Wallet Oumar, mentre Mari niuru è
scritta e performata dal membro Mario Crispi in ethno-beat; l’altro componente Mario
Rivera si occupa poi del bellissimo drum’n’bass di Su Dilluru, raccolta di canti tradizionali
sardi. Alla fine del disco troviamo due inediti, Habibi e Anima, il primo veloce ed
elettronico, l’altro lento ed etnico. Ascolto gli Agricantus da quasi dieci anni e, a dispetto
dell’indubbio declino dello standard musicale degli ultimi tempi, credo che siano ancora
una delle migliori esperienze della world music internazionale. Nessuno si senta offeso.
•
Miles Davis ‘Round about midnight
(08/09/09)
Se volete una discografia di Miles Davis che sia veramente
essenziale, posso consigliarvi quattro dischi del genio statunitense:
su tutti, ovviamente, Kind of blue, quindi In a silent way, ‘Round
about midnight ed, infine, il live My funny Valentine. Un disco più
bell’altro. Innovazione, creatività, spunto geniale, arguzia, acume,
piglio jazz. ‘Round midnight nasce dopo la chiacchierata
tossicodipendenza di Davis, interpretando il desiderio di rivincita di
quest’ultimo e del suo quintetto (in cui figurava anche John
Coltrane): ma il bello è che la canzone in realtà appartiene a
Thelonious Monk. Ma questo è un diritto di proprietà solo sulla carta in quanto ‘Round
midnight è Miles Davis. Oltre alla tromba di Davis e al sax di Coltrane, nel gioco sonoro
c’è il pianoforte di Red Garland, il contrabbasso di Paul Chambers e la batteria di Philly
Joe Jones. Gli altri pezzi del disco, invece, sono tanti e tutti appassionati: c’è il be-bop
classico di Ah-leu-cha e Two bass hit, c’è il galoppante hard-bop di Little Melonae, ci sono
gli standard storici di Bye bye blackbird e Sweet Sue, just you. C’è il sapore del jazz.
•
ZetaZeroAlfa Tantebotte
(09/09/09)
All’Alkatraz di Fiumicino gli ZetaZeroAlfa registrarono il loro primo
live intitolato, senza troppi indugi, Tantebotte (Rupe Tarpea /
Perimetro, 2005). La band romana è certamente il più importante e
famoso progetto di musica alternativa dell’ultimo decennio. Senza
mai nascondere il proprio fascismo, Gianluca Iannone e soci sono
riusciti a ritagliarsi un visibile angolino all’interno della musica e
della politica underground italiana, merito anche di alcune trovate
(finalmente!) originali come la cinghiamattanza o l’occupazione a
scopo abitativo. Nel disco dal vivo troviamo i pezzi più significativi
del loro repertorio, dagli scontri abruzzesi di Sulmona breakfast all’eugenetica di Progetto
Genoma, dalla degenerazione della gioventù di Grande Fratello alla manipolazione dei
mezzi informativi di Panico mediatico. Azzeccata dunque la scelta di accantonare per una
volta il Duce, la R.S.I., i massacri partigiani, la nostalgia fascista, la guerra persa eccetera;
meno azzeccate appaiono invece le trovate neofuturiste. Non so quanto sarebbe contento
Marinetti di rivangare un movimento che per definizione è giovane, dunque ormai vecchio.
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Led Zeppelin Led Zeppelin III
(10/09/09)
Ho una cultura in quanto a rock storico pari a quella di una foca
monaca. Deep Purple, Doors, Led Zeppelin, Rolling Stones, Lou
Reed, Pink Floyd per me son tutti uguali. Questa mia colpevole
incultura proviene dal fatto che sono cresciuto e maturato sotto i
colpi della techno e dell’IDM. Oggi, a venticinque anni, sto
(ri)scoprendo ciò che non ho mai voluto avvicinare, per ignoranza e
per stupidità. Quest’estate m’è capitato di ascoltare da ubriaco
fradicio Since I’ve been loving you dei Led Zeppelin ed è stato un
bel viaggio (in tutti i sensi). Tornato a casa ho cercato notizie,
informazioni e album di provenienza; ed eccoci qui con Led Zeppelin III, disco datato
1970. Ascoltando l’intero album ho captato alcuni riff che, a mo’ di imprinting, ho in testa
da molti anni: per esempio l’urletto di Immigrant song o la chitarrina country di Bron-Y-Aur
stomp. Certamente nel ’70 questo disco deve aver smosso parecchio le acque, soprattutto
pensando alla contemporanea ascesa in Italia di Adriano Pappalardo, Drupi, Sandro
Giacobbe, Gianni Bella, Ricchi & Poveri, Homo Sapiens. Devo continuare?
•
Felix Da Housecat Kittenz and thee glitz
(11/09/09)
Il 2001 è stato l’anno migliore per l’house militante, anno che ha
visto la definitiva conferma del nightclubbing in occidente. New
York, Ibiza, Rimini e Brighton sono stati i centri di questo
movimentismo giovanile, alimentando un’industria dance che a
pensarci oggi vien da piangere. A dispetto, poca roba è l’house di
oggi, ibridata con la techno Detroit, l’euro-dance e il poppettino da
“Top of the pops”. Una delle tante cose gustose uscite in quell’anno
è Kittenz and thee glitz di Felix Da Housecat, dj della vecchia
guardia di Chicago, compagno di scorribande dei vari Tony
Humphries, Tedd Patterson, Frankie Knuckles, Kenny Dope Gonzales, Little Louie Vega.
In questo album troviamo una house potente, muscolosa, piena, razionale; esplode infatti
in pezzi quali Control freaq, Happy hour, Walk with me ma soprattutto in Silver screen
(shower scene), la release che ha praticamente dato il nulla osta a Felix per remixare
artisti del calibro di Madonna, Chemical Brothers, Garbage, Kylie Minogue. Se oggi non ci
fosse il Papeete Beach ma tornasse il New York Bar saremmo tutti più contenti.
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Tomme Giorno in cui
(14/09/09)
Un giorno è un universo. Soprattutto dalle otto a mezzanotte.
Dormire, russare, gli occhi all’insù. Del primo risveglio nemmeno ci
si accorge. Dormire. Il secondo risveglio, che pare il primo, è quello
giusto. Le braccia si levano e le mani stropicciano gli occhi. Poca
luce. Meglio così. Il cammino fino al bagno può rivelarsi un’odissea
se la sera prima si è esagerato. E se l’ordine non abita qui. Acqua.
Fredda. Meglio così. Ché per la calda c’è lo scaldabagno e la
doccia se no diventa un calvario. Lo stomaco chiama, la cucina
risponde. Corn flakes ammorbiditi dall’aria sono meglio delle fette
biscottate. E latte. Quasi scaduto. Meglio così. Se no la puzza di caglio s’aggrappa alle
pareti del frigo. Vestirsi è essenziale, forse superfluo, ma il venticello qui fuori non
convince per niente. Scale. Corrimano. Scale. Fuori c’è un mondo che si trascina stanco.
Nemmeno lui aveva voglia di alzarsi stamani. Eppure ci sono pensieri, interessi, pareri e
relazioni. Tutte interstiziali. Meglio così. Ché poi si sa come va a finire. Per fortuna in
quest’altra avventura c’è il jazz. E con esso l’elettronica. E con loro il talento di Tomme.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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AA.VV. Non più i cadaveri dei soldati
(15/09/09)
Nel 2003 la rivista del Mucchio allegò un cd in omaggio a Faber,
affidando l’interpretazione a grandi nomi dell’underground. Senza
entrare nel merito della liceità sulla celebrazione della morte d’un
poeta, mi limiterò a giudicare quali brani sono cosa buona e quali
no. Gli Afterhours con La canzone di Marinella sono lucidissimi, Il
Parto Delle Nuvole Pesanti stupra con la tarantella La guerra di
Piero, i Rosaluna appiattiscono Andrea, Cesare Basile rende
noiosa La ballata degli impiccati, gli Spirogi Circus non tradiscono
Dormono sulla collina, Fiamma elettrifica Sidun, la Bandabardò
vivacizza Un giudice, Gatto Ciliegia vs Il Grande Freddo santificano Nell’acqua della chiara
fontana (scelta azzardata), i Mercanti Di Liquore sono inutili sulla Canzone per l’estate,
Marco Parente stravolge con gusto Ho visto Nina volare, Lalli è geniale sull’Ave Maria, gli
Yo Yo Mundi bravi su Creuza de mä, i Gang infiammano Giovanna D’Arco, Claudio Lolli
esagera con Via del Campo, i Têtes De Bois lividi su Amore che vieni amore che vai, i
Chichimeca ridicolizzano Coda di Lupo, lo stesso fanno i Mariposa su Monti di mola.
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Jon Hopkins Insides
(16/09/09)
Veramente toccante l’iter sonoro di questo disco! Jon Hopkins,
pupillo di Brian Eno, si rivela ancora una volta un grandissimo
produttore, dall’orecchio fino e dal gusto raffinato, riuscendo a
confezionare un prodotto di eccelsa qualità. Insides si presenta
caldo nella sua gelida composizione, triste, toccante. Ad aprire le
danze ci sono i violoncelli di The wider sun, tanto da poter
confrontare quest’ultima con Bibo no aozora di Ryuichi Sakamoto.
Che dire poi di archi e intelligent dance music in Vessel? O delle
ridondanze cicliche di Insides? I molteplici interni cui si riferisce
Hopkins sono quelli della mente, contemplati nelle varie esplicazioni umane: percezione,
concezione, cognizione, istinto. Il disco procede alla grande, ballando con Wire e facendo
rumore con Colour eye, ma anche ipnotizzando con le tastiere di Light through the veins e
dilatando i kick con The low places. A questo punto non c’è nulla che funzioni meglio d’un
pianoforte: è il caso di Small memory, A drifting up e Autumn hill; quando il capolinea
sembra giunto ecco tracce che vi apriranno il cuore come il bacio di una donna francese.
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The Mars Volta Frances the mute
(17/09/09)
Anno Domini 2005. I Mars Volta danno alle stampe Frances the
mute, un disco basilare per la sopravvivenza del math-rock,
dell’hard-core e dell’experimental. Filoni di musica rock, questi, che
hanno fortemente segnato la scena dell’ultimo decennio. In essi c’è
il vecchio progressive, ci sono le influenze emotional punk e le
ultime istanze free-jazz. Il disco si presenta pieno, verace,
dall’impatto velenoso grazie ad alcuni pezzi che sono già entrati
nella scaletta fissa della band messicana. Mi riferisco alla
meravigliosa e dolcissima The widow o alla caotica Cassandra
Geminni, ancorata all’ordinatissima Tarantism. Nei Mars Volta troviamo uno sfogo istintivo
tenuto alla briglia da un innato talento chitarristico e da una motivata razionalità. Se i pezzi
radiofonici (?) non vi bastano allora potete lasciare in playlist solo tre pezzi gustandovi così
tre suite del calibro, nell’ordine, di Cygnus… Vismund cygnus, L’via l’viaquez e Miranda
that ghost just isn’t holy anymore: perderete in questo modo il contatto con la terra che sta
sotto le suole ed entrerete pienamente nel mondo della musica pensata e ragionata.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Minus The Bear Planet of ice
(18/09/09)
Burying luck comincia con inserti radiofonici e poi spiazza
l’ascoltatore con uno stile a metà fra Interpol ed Electric President;
Ice monster si presenta morbida e toccante per via del tempo fuori
luogo; Knights invece mostra il lato più elettronico della band di
Seattle; inoltre in White mystery si possono ascoltare tutte le
componenti dell’alternative rock. I Minus The Bear piacciono a molti
ma non hanno ancora ricevuto quella legittimazione che ci si
aspetta giungere dal mainstream. In fondo possiedono sì un sound
difficile ma allo stesso tempo sono capaci di coinvolgere un vasto
bacino di amanti della musica. E allora certamente il problema deve risiedere nella scarsa
capacità di alcuni importanti locali europei di gestire le tendenze musicali più originali.
Comunque sia, nel disco troviamo altre canzoni di notevole fattura come Throwin’ shapes
e When we escape, brani abili nel fondere la leggerezza del rock classico con l’eclettismo
delle nuove frontiere tecnologiche e stilistiche. Nei Minus The Bear v’è qualcosa di
elegante e bollente, ma soprattutto c’è l’ingombrante peso del ghiaccio polare.
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Mike Oldfield Tubular bells
(19/09/09)
Mike Gordon Oldfield è il nome di uno dei più geniali musicisti pop
(nell’accezione più ampia e positiva del termine) del dopoguerra
europeo. Lo si capisce subito, già nel 1973, quando le radio, i
cinema, le tv e i negozi di dischi cominciano a riempirsi di uno
strano riff sintetico. È l’intro di Tubular bells, le campane tubulari
che ogni individuo razionale ha nella testa al pari delle prime
immagini dei genitori. È la Virgin l’etichetta di Oldfield e il genere in
questione è un non meglio precisato ibrido di folk-rock, classica
moderna, prog-rock ed elettronica d’antan. Nel disco due sole
suite, sebben lunghissime, performate da alcuni grandi della musica inglese. C’è Tom
Newman alla chitarra acustica, Lindsay Cooper al basso, Jon Field al flauto, Steve
Broughton alla batteria e lo stesso Mike Oldfield a tutto il resto, dove per resto si intende
glockenspiel, organi (Farfisa, Hammond e Lowrey), zufolo, timpani, hony tonk piano,
chitarra elettrica, cornamusa, macchine analogiche. Recensire appare inutile perché
sarebbe censire qualcosa: qui invece c’è da ascoltare, comprendere e godere.
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Roni Size Touching down
(20/09/09)
La mia formazione elettronica mi porta a pensare immediatamente,
quando si parla di musica inglese, non ai vari Led Zeppelin,
Radiohead e Oasis bensì ai Massive Attack, a Goldie e a Roni
Size. In quest’ultimo c’è infatti una vena incendiaria capace di
smuovere i più inconsci risvolti dello spirito. Touching down è
dunque disco magistrale e Roni Size, con la sua capacità di
mescere jungle e jazz, drum’n’bass e break-core ne è l’artefice.
Guardando dapprima la raffinatezza della copertina ben si
comprende la qualità del contenuto (l’abito spesso fa il monaco).
Pezzi come Sound advice, Uncensored, Sorry for you, Siren sounds e Swings and
roundabouts farebbero ballare anche il papa in persona, e con lui tutto l’entourage
vaticano. Sociologicamente parlando la jungle di matrice inglese rappresenta il suono del
cemento armato, della periferia dimenticata da Dio, della miseria che si trasforma in
microcriminalità, della reazione giovanile. Sarebbe potuta nascere a Napoli come a
Marsiglia: solo insondabili congiunture hanno fatto sì che nascesse ai ravi londinesi.
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Impressioni musicali senza scopo di mediazione artista / ascoltatore
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Richard Benson Madre Tortura
(21/09/09)
Se siete degli scalmanati non potete perdervi i concerti (?) di
Richard Benson, chitarrista anglo-italiano di dubbia fama nonché
provocatore televisivo. Durante i live/cabaret del suddetto
personaggio potrete fare tutto ciò che vi passa per la testa.
L’armamentario del buon frequentatore del Natale del Male è il
seguente: assorbenti usati della vostra fidanzata, rotoli di carta
igienica sigillati, testa di porchetta, frattaglie varie di manzo, würstel
in confezione, uova a iosa, pollo di rosticceria, mandarini e cozze,
bottigliette d’acqua e buste d’urina. Prendete uno alla volta i vostri
oggetti e scagliateli, mirando bene, verso la persona fisica di Benson, il quale risponderà
bestemmiando, imprecando o minacciando di uccidervi. Se poi siete in un locale ben
fornito (come l’Alpheus di Roma) allora il consiglio è di recarsi in bagno per prendere lo
scopettone e la tavoletta del water. Solo così farete un figurone. Madre Tortura è il disco
per eccellenza di Richard ed è talmente orrido (non orribile) da esser diventato un
capolavoro a tutti gli effetti. In esso c’è schifo, vergogna, strazio, orrore, depressione.
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Milli Vanilli Girl you know it’s true
(22/09/09)
Se volete disgustarvi non potete non procurarvi questo terribile
disco dei Milli Vanilli, boy-band composta da due bei negroni (che
facevano i modelli) che sanno ballare e basta. Il tutto nasce in
Germania (poveri Kraftwerk!) nel 1988 ad opera di quel farabutto di
produttore che risponde al nome di Frank Farian. A confronto dei
Milli Vanilli, i Take That sono Dio e forse pure i 5ive. Il disco fa
veramente schifo, unendo grottescamente rap, pop e Power
Rangers. Ma il bello di Girl you know it’s true (1989) è che l’album è
interamente scritto, suonato e cantato da altri, che non sono per
niente i due negretti germanici. Difatti al produttore piaceva solo la presenza scenica di
Rob & Fab, visto che le doti vocali dei due non erano niente di che. Farian ha dunque
pensato di buttare sui palchi di mezza Mitteleuropa i Milli Vanilli facendoli cantare in
playback e obbligandoli a non rivelare la verità sul trabocchetto. Ingegnoso forse, squallido
sicuramente. I brani del disco non li menziono nemmeno perché non meritano nessun
giudizio. Semmai la recensione intende buttare altra merda su questa sporca discografia.
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Suguru Goto Intermedia 2050
(23/09/09)
Suguru Goto ha deciso di proiettare se stesso e la sua arte nel
futuro. Perlomeno tenta con metodo ed inventiva di rappresentare
al meglio questi primi anni del terzo millennio, nel tentativo di
lasciare ai posteri un’etichetta da appiccicarci sopra. Anni questi
che, avendo ben poco da dire, attingono a piene mani dal passato,
riproponendo, modellando, manipolando, peggiorando ciò che è già
stato fatto. Goto invece si è detto che la computer music era
sorpassata (giustissimo) e che era impellente il bisogno di dare
all’ascoltatore
qualcosa
di
inaudito.
Partendo
dunque
dall’autogenerazione di suoni si è costruito delle tute sonore capaci di emettere suoni in
sincro con i movimenti del corpo. Ed ecco perché le performance di Suguru Goto sono
tanto ricercate nel mondo sviluppato. In uno dei suoi due cd registrati troviamo, come
fermate nel tempo, tre stupende opere (dal vivo e in diretta rendono infinitamente di più):
o.m.2-g.i.-p.p. (per dodici sensori), VirtualAERI II (per violino virtuale) e Morphase. Perché
non è detto che chi smanetta dietro un laptop stia per forza facendo musica.
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ShaOne Anticamera
(24/09/09)
L’assenza de La Famiglia dalla scena hip-hop napoletana ci aveva
svuotati, lasciandoci un vuoto difficilmente colmabile dai Co’Sang.
Ma ecco che quest’anno ShaOne, 50% del duo rap partenopeo,
licenzia questo lavoro - che per inciso è - bellissimo. L’assenza (se
di assenza si può parlare) di Polo nemmeno si sente perché
ShaOne non tradisce minimamente il sound 90’s de La Famiglia.
Anticamera si presenta nel solito velocissimo dialetto di strada con
beat che hanno poco di hardcore e tanto di old-school. I momenti
migliori stanno nella strafottenza di Tu te ‘iettà (che fa il verso a I
frutti), nel sample all’americana di P’ poch’ ‘e nuje, nel lento fluire sonoro di Nunn’ è comm,
nel rhyhtm’n’blues di Scemanfù, nella crudeltà senza malafede di Word, nell’orgoglio da
mc navigato di B.B. folk e nel meraviglioso incanto di campioni vocali di Ninnanonna.
L’attesa che ha preceduto Anticamera è stata sfiancante ma chi amava La Fa