DI Repubblica - La Repubblica.it
Transcription
DI Repubblica - La Repubblica.it
Domenica La di DOMENICA 25 LUGLIO 2010/Numero 285 Repubblica l’attualità Così funziona il welfare di Cosa Nostra ENRICO BELLAVIA e ATTILIO BOLZONI cultura Papà Stalin e i bambini del Gulag SIEGMUND GINZBERG Officina Moebius Una minuscola galleria piena di quadri e risate Qui lavora il genio del fumetto ILLUSTRAZIONE MOEBIUS/ARZAK Che a Repubblica racconta i suoi sogni e le sue ultime visioni MARIO SERENELLINI S MICHELE SERRA PARIGI piega i suoi fumetti come partite di calcio: folla-giocatori, azioni-boati, interazioni mutanti, organiche e orgasmiche, che si gonfiano come un pallone, generate da un pallone. «Le mie tavole nascono un po’ così: un saliscendi di turgori e silenzi. Lievitano, fermentano su se stesse: come scatole cinesi, bambole russe, visioni a incastro». «Proliferazioni», «metamorfosi»... parole che arrivano presto incontrando Moebius. Oggi arrivano subito, in un’estate che gli stuzzica il buonumore e lo sguardo incandescente di mago metropolitano. L’8 maggio ha compiuto settantadue anni («sono un creativo o un vegliardo?»). Dal 12 ottobre al 13 marzo sarà festeggiato a Parigi con la personale “Moebius transe-forme”, alla Fondation Cartier. (segue nelle pagine successive) Q uando le prime tavole di Moebius arrivarono in Italia sulle pagine di Alter Linus noi giovani fumettari, convinti che quella non era una vice-arte, ma arte di serie A, ci trovammo di fronte a una prova schiacciante. La prova definitiva. Le figure alate di Moebius, i suoi umanoidi mitologici, galleggiavano nel vuoto come i sogni galleggiano nel sonno. Apparizioni inedite, sbucate dal nulla. Il mondo di carne e pietra, di sabbia e cristallo di quegli eroi silenziosi aveva la potenza evocativa del cinema unita alla libertà figurativa della grande pittura. Moebius aveva inventato un mondo mai visto prima: un lusso da Creatore. (segue nelle pagine successive) spettacoli Audrey, prima sexy in the city ANGELO AQUARO i sapori Terra e mare, la cucina delle Eolie ROBERTO ALAJMO, LICIA GRANELLO e LIDIA RAVERA l’incontro Giovanni Soldini, paure di un solitario IRENE MARIA SCALISE Repubblica Nazionale 28 LA DOMENICA DI REPUBBLICA la copertina Universi paralleli DOMENICA 25 LUGLIO 2010 Da bambino, a letto con la febbre, viaggiava sfogliando le incisioni di Doré. Capì così che “non si può far nulla di sensato se non si sfiora il sogno”. Oggi, a settantadue anni, continua ad accompagnarci nei suoi mondi fantastici “È il mio lavoro: ripulisco il mondo dall’ovvietà” MARIO SERENELLINI (segue dalla copertina) a FondationCartier nel 1999 gli aveva già dedicato un altro giubileo fantasy, “1 monde réel”: «Il mio percorso, lungo più di mezzo secolo, sarà documentato dal diario a matita, Inside Moebius, da opere degli ultimi vent’anni e da quel che resta dei primi trenta. Sarà la celebrazione dell’espandersi, dell’uscire da se stessi, dal proprio sapere, in una tensione, attraverso il processo creativo, a un più alto livello di coscienza, cioè di fuga dalle sottomissioni». E qui le equivalenze col calcio cominciano a vacillare. Ma Moebius, uno e trino, si sdoppia tra stili e pseudonimi — Jean Giraud, Gir... — , si srotola e si rincorre beffardo (come il nastro trompe l’oeil dell’astronomo da cui ha preso nome) anche nella realtà d’ogni giorno, come adesso, nella minuscola galleria invasa dai suoi libri, dai suoi quadri e dalle sue risate, con cui glossa riflessioni a se stesso inattese, paradossali: «A sei-sette anni, mi sentivo già calamitare verso due poli d’attrazione: la storia dell’arte, con la sua sacralità sovrana, la solennità di cattedrale, e i fumetti, all’epoca Topolino e Tintin. C’erano due voci in lotta dentro di me: una mi spronava ai media, l’altra al mondo più vasto e aleatorio dell’arte. Mi sono trovato, fin da bambino, davanti alla necessità d’una scelta tra fumetto e pittura. Già allora l’arte m’appariva una vetta lontana, mi sentivo escluso dalla cattedrale. Il fumetto aveva un’aria più accogliente, invitante, come una sorgente fresca. Per me è stato il dito puntato su un cammino possibile, già ricco di tracce sicure: il richiamo di una voce materna. Invece che in una chiesona severa, giudicante, mi pareva d’entrare in un capannone, che sa di fumo e di birra: dove anche un cattivo ragazzo (i nostri genitori disapprovavano i fumetti) avrebbe ricevuto un riconoscimento». I suoi primi maestri appartengono però all’arte, non alle strip: Piranesi, William Blake, Gustave Doré... «Doré mi ha subito sconvolto. Come, poi, Steinberg, un grande. Ho trascorso un’infanzia pregna d’incisioni dell’Ottocento. Negli anni Trenta - Quaranta circolavano in famiglia libroni illustrati, ricevuti in regalo a ogni promozione: erano cronache di viaggio intorno al mondo, mirabilmente illustrate da star dell’incisione. Una cosa buona creata dal colonialismo! — scoppia a ridere Moebius — . Tra gli illustratori ho imparato presto a distinguere Doré, di gran lunga superiore a tutti. Di solito, mi immergevo in queste pagine quand’ero a letto con la febbre, per la malattia infantile di turno. Erano tutte letture febbricitanti». È stata questa la sua prima fantascienza? Hanno forse cominciato così, nelle trasparenze del dormiveglia, a prendere corpo i suoi mondi paralleli, allucinatori? «È da lì che è nato il personaggio del Major Grubert, col suo bravo casco coloniale, che racconta storie fantastiche. È modellato su quei reporter che alle mie febbri comunicavano erranze metafisiche, molto vaghe ma molto ben argomentate: rituali esotici, decapitazioni, cannibalismi. Più il soggetto era orribile e più appariva meraviglioso. Attraverso quelle cronache visionarie, il mondo occidentale mi si rivelava un’oasi civilizzata, mentre mi addentravo in quegli universi di magica, ingegnosa barbarie, resi più affascinanti dall’idea di una loro sparizione imminente, darwiniana: il fatto di ridurli a descrizione evocativa, a mitologia, era un modo di estinguerli, di consegnarli a un paradiso perduto». Il mistero, l’oscuro tradotto in disegno particolareggiato, implacabilmente esatto, è la caratteristica, anzi il “programma” del suo stile. La sua fantascienza si manifesta come scienza: «Quanto più un fenomeno è vago, sfuggente, tanto più precisa deve esserne la descrizione. È il lavoro compiuto dalla poesia, che rivela l’ignoto attraverso il noto. Una mela, in poesia, squarcia veli atavici. È compito dell’arte rendere il mondo enigmatico, ripulirlo dell’ovvietà. Per questo amo l’arte contemporanea. Marcel Duchamp, con le nuove epifanie degli objets trouvés, il loro capovolgimento di senso, ci ha liberato e acuito la vista». È quanto le riconosceva Folon («Moebius trasforma una pietra in montagna, vede l’oceano in una goccia d’acqua»): «La veggenza grafica è il contrario del ragionamento costruito: capta con la matita immagini volatili, fuggiasche. Non si può far nulla di sensato se non si arriva all’estremo di se stessi, se non si sfiora il sogno, l’enigma. I surrealisti ci avevano provato con la scrittura automatica, con la casualità grafica del cadavre exquis: ma la logica era ancora lì, l’inesplorato della ragione rimaneva inesplorato. L’artista dev’essere sempre un passo L più in là della percezione corrente: fare scoprire ogni volta la mela, in un modo in cui non è mai stata vista prima». Già dal ’63, negli album a decine della sagaBlueberry, disegnata a partire dalle storie di Jean-Michel Charlier («e con gli occhi puntati sui film di Sergio Leone e sul West crepuscolare di Sam Peckinpah!»), l’iperrealismo del tratto s’apre a suggestioni mimetiche, a attrazioni mutanti eroe-ambiente: s’è parlato per alcune tavole di uomo-minerale, uomo-animale. Pur in una grafica fotografica, lo sconfinato West di Gir fa da test alle impennate cosmiche, psichedeliche del parallelo Moebius, che si liberano nelle volute mute di Arzach e nei racconti fluttuanti del Garage hermétique, cioè nella grande stagione anni Settanta - Ottanta degli Humaoïdes Associés e della rivista Métal Hurlant, che farà ancora dire a Folon: «I sogni di Alice ci portano nell’altro lato dello specchio, i voli di Arzach nell’altro lato dello spazio». Di nuovo Moebius: «Fondamentale, in quel periodo, è stata la grande libertà nella quale operavamo: ci eravamo dati obiettivi precisi ma senza limitazioni, non avevamo da rispettare ortodossie com’era avvenuto tra i surrealisti. Era sufficiente disegnare. Ci riunivamo, prima di ogni numero: ma poi, ognuno per sé. Dopo il colpo di pagaia, la pagaille, il caos. Ciascuno sprofondava nei suoi personali abissi, rassicurato dall’idea che il gruppo degli Humanoïdes (oltre a me, Philippe Druillet, Bernard Farkas e Jean-Pierre Dionnet) formasse un’identità collettiva da cui, una volta costituita, divenisse naturale scivolar via, eclissarsi, sparire». È, quella, l’epoca degli incontri e degli scambi più creativi e mediatici: Ridley Scott, per cui cura il design di Alien e Blade Runner, la Disney (Tron), René Laloux (il cartoon Les maîtres du temps) e soprattutto Alejandro Jodorowski (suo collaboratore per le strisce Les yeux du chat e il comico-mistico Incal), con cui realizza lo story board di Dune, poi “dismesso” e assorbito nel film di David Lynch. Il guardingo magnetismo tavole-schermo segna il cambio di millennio, continuando con Il quinto elemento di Luc Besson e Blueberry di Jan Kounen, fino a proliferare, occultamente, in film recenti: le magrittiane stalattiti celesti di Avatar o l’az- zurra donna-gigante emergente dalle acque di Venezia che anticipa l’inquadratura regina di Valzer con Bashir. L’evento mancato è un fantasy con Fellini. Cine-rimpianti, Moebius? L’artista sorride al ricordo della proposta ricevuta nel 1979 dal regista che, abbagliato dalle sue strip dalla «luce fosforica, ossidrica, perpetua, proveniente dai limbi solari», gli aveva reso omaggio tre anni prima nel Casanova col personaggio di Moebius (lui ricambierà ritraendo Fellini e Sutherland nel suo Casanova del 1998): «Il disegno non è, in sé, un passaporto naturale per la scrittura o il cinema. Lo sento se mai più vicino alla danza, alla musica. Ho scelto di essere autore di fumetti, un Don Chisciotte dell’arte, conquistandomi le mie Dulcinee: come Il Paradiso, illustrato nel 1999 per la milanese Nuages, dove ho potuto finalmente lavorare sulle spalle di Doré, il più infantile degli artisti, il più danzatore, sciogliendomi in uno spazio tra fantascienza e metafisica, con in più quel tocco d’animismo che ha Dante. L’unico cruccio è il lavoro fatto in fretta, col rischio della superficialità. Rembrandt lavorava seriamente su un disegno: anche Koons, anche Picasso. Al confronto, mi sento uno che insegue Topolino, sempre di corsa». © RIPRODUZIONE RISERVATA Moebius “Sono il Don Chisciotte dell’arte” Repubblica Nazionale DOMENICA 25 LUGLIO 2010 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 29 IL PARADISO A destra e in basso, quattro illustrazioni del Paradiso della Divina Commedia realizzate da Moebius alla fine del 1999: avevano partecipato con lui a questa edizione illustrata della Commedia Lorenzo Mattotti per i disegni dell’Inferno e Milton Glaser per quelli del Purgatorio A sinistra, una gondola sospesa, disegnata da Moebius appositamente per i lettori di Repubblica Sotto, tavola da Chasseur Déprime, nuovo capitolo della saga Garage hermétique Con lui il fumetto diventò una cosa da grandi MICHELE SERRA (segue dalla copertina) iente sapevamo dei suoi precedenti “umili”, da disegnatore di storie western e da sperimentatore su riviste francesi delle quali eravamo all’oscuro (non c’era mica Internet, tutto viaggiava su carta in quegli anni Settanta).Sapevamo, questo sì, che il fumetto francese era grande, pari a quello americano per qualità anche se non per quantità di autori. Un fumetto “colto”, sia quello avventuroso sia quello satirico che proprio su Linussi era manifestato con le storie dello strepitoso Lauzier e di Claire Bretecher. Di quello avventuroso alcuni di noi conoscevano Tintin, Asterix, Lucky Luke, qualche albo di Pilote. Ma Moebius era davvero cosa mai vista, sbaragliava il campo, cambiava le carte in tavola, i comics, per sua mano, uscivano di prepotenza dal “buffo”, dal caricaturale, dall’infantile, e assumevano una potenza iperreale, perfino più che cinematografica. Quegli adulti che ci invitavano a lasciar perdere gli albi a fumetti, “cose da bambini”, per dedicarci a letture più mature, erano serviti: di fronte a Moebius svaniva ogni riserva sulla minorità del fumetto. Pochi anni fa rividi a Parigi una memorabile mostra di Moebius. Mi diede l’occasione di rivivere l’emozione originaria della prima lettura, del primo sguardo, quando Arzach, l’eroe volante di Moebius, decollò dalla rivista Métal Hurlante atterrò nel mondo di Linus e di Alter. Con Moebius la fantascienza diventa un crocevia tra post-storia e preistoria. Tutta la fiction dopo di lui, cinematografica e non, è stata profondamente influenzata da questa sua visione extra-cronologica del futuro. Assieme a Roland Topor, il maestro parigino ha strappato la fantascienza dalla sua fissità futurista, scintillante e cosmocentrica, e l’ha trascinata in un mondo viscerale, terricolo, pietroso, ricco di richiami ancestrali, dalle teste sacre dell’Isola di Pasqua ai mastodonti pre-umani. I rimandi a Moebius, nel cinema, nel fumetto, nell’arte, sono così numerosi che non basterebbero cento tesi di laurea a catalogarli tutti. Da Alien a Tron a Dune, dai manga al nostro Andrea Pazienza, le forme di Moebius, l’ambiguità dei suoi corpi sincretici (un po’ di carne, un po’ di pietra, un po’ di metallo) sono davvero un archetipo dell’immaginario contemporaneo. Nel Pazienza più visionario, quello che dava sagoma alle pulsioni più fonde, l’omino che cavalca il mastodonte è forse quanto di più moebiusiano si sia visto dopo Moebius. C’è, come in Moebius, un eroismo epico e struggente, la sfida del piccolo bipede indifeso che affronta la natura e il cosmo. Anche in Avatar qualcosa di Moebius aleggia: i guerrieri che vanno a combattere gli aerei da caccia cavalcando grandi uccelli rostrati. Ma il tocco hollywoodiano aggiunge a quei voli una destrezza giocosa e troppo colorata, da videogame, da gioco infantile. Il mondo di Moebius è invece per adulti, e comunque tale da far sentire adulti i ragazzini che ne restano presi. I suoi cavalieri e le sue cavalcature hanno una imponenza ieratica che il cinema difficilmente può restituire. Nella pagina di Moebius non solo il tempo, anche l’uomo è sospeso. La fissità del disegno, in questo senso, avvantaggia il grande autore, impressiona la retina con una precisione che il cinema non possiede. Se poi il grande autore — e questo è il nostro caso — è un genio, quell’immagine diventa archetipo, come se esistesse da sempre, fosse già nei nostri pensieri reconditi, e la matita di Moebius l’avesse finalmente evocata, facendola sprigionare dal bianco del foglio, liberandola per sempre. N GLI INEDITI Al centro, l’immagine inedita che farà da manifesto alla mostra “Moebius transe-forme”, in programma a ottobre alla Fondation Cartier di Parigi. Inediti anche i tre disegni qui sopra: fanno parte di un adattamento, non terminato, de La tempesta di Shakespeare in chiave avveniristica © RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale 30 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 25 LUGLIO 2010 l’attualità Si commuovono quando i boss escono in manette dalle caserme Fingono stupore mentre raccontano che qualcuno ha fatto a pezzi le statue di Falcone e Borsellino. Sono ragazzi. Vivono negli eleganti Antistato palazzi del centro di Palermo come nelle informi periferie Ai loro fan le cosche offrono un futuro di successo o un reddito minimo di sussistenza. È un welfare che funziona Forza mafia Chi fa il tifo per Cosa Nostra ENRICO BELLAVIA S PALERMO non ancora trentenni, dopo aver dimostrato sul campo il valore della vendetta. Sotto l’ala dei corleonesi si presero Brancaccio, dalla piazza dei Signori, vicino alla Chiesa, dove risiedeva l’élite della borgata, fino a Ciaculli e Croceverde, il cuore dei giardini del mandarino tardivo, dove Palermo resta, nonostante tutto, campagna, e anche la parte opposta, lungo la via maestra del quartiere che dal budello affastellato di casupole, porta giù fino alla piazza dell’Ammiraglio, con gli orrori di cortile Macello, la strage di piazza Scaffa. Dicono che a Brancaccio, Settecannoli, Sperone, Acqua dei Corsari, il potere dei tre fratelli — Giuseppe, il capo muto; Filippo, l’astuto mafia manager che si è messo in tasca fior di giudici al tempo in cui ci si aspettava che si afflosciasse come un souf- i sbracciano, salutano, si commuovono e mandano baci quando i boss escono dalle caserme con le manette ai polsi. Sbuffano se l’ennesimo corteo celebra l’ennesimo anniversario. Fingono sorpresa mentre raccontano che qualcuno, in pieno giorno, nella ricorrenza della strage di via D’Amelio, ha fatto a pezzi le statue di Falcone e Borsellino. Sono i fan della mafia, il dietro le quinte della tranquillizzante retorica del cambiamento. Quella che si culla nel mito degli eroi o che parla di paura per spiegare il racket, e non di convenienza. I fan della mafia vivono nei palazzi eleganti del centro come nelle remote periferie. Li diresti borghesi o proletari, perché Cosa Nostra continua a parlare agli uni e agli altri. Ai primi racconta di formidabili opportunità, li assiste e si fa assistere negli affari, li blandisce perché ne ha bisogno e loro si lasciano irretire. Ai secondi offre un reddito minimo di sussistenza, chiede in cambio occhi svegli e mano leste. Li impiega come vedette nei quartieri, assegna loro una piazza di spaccio o un lotto di videopoker da curare. Li paga quanto nessuno Stato assistenziale potrebbe permettersi di fare. Ne ascolta i bisogni e li governa. IL PARROCO Casa, acqua, luce, auto. È il Maurizio Francofonte, parroco di Brancaccio, è il successore welfare di Cosa Nostra, quello di don Pino Puglisi, ucciso dalla mafia il 15 settembre 1993 che tiene in piedi nel buio del sommerso l’economia invisibile dei traffici. È lo zoccolo duro del consenso. Un mondo nel quale un ragazzino come Gianni Nicchi, griffato dalla testa ai piedi, che molla il covo per una serata al pub, che si fa assistere nella latitanza da una coppia squinternata, ha la pretesa di tenere sotto scacco mezza città. E quasi ci riesce. Un giovane leone, come Sandrino Lo Piccolo, poco più che trentenne, curato nell’aspetto come un tronista di Uomini e donne, che cerca di mandare a memoria formule e riti, dovesse capitargli di aggrapparsi alla tradizione per esercitare il suo dominio. E se li appunta, tenendo nella borsa quell’abbecedario del dire mafioso trovatogli il giorno della cattura. Ragazzi. Come lo erano i fratelli Graviano quando gli ammazzarono il padre all’alba della guerra di mafia degli anni Ottanta e loro si ritrovarono boss flè andato a male davanti al killer di fiducia Gaspare Spatuzza; e Benedetto, il meno attrezzato — sia intatto. Nunzia, la sorella che si era innamorata di un medico francese quando la famiglia pensava di traslocare a Nizza con l’aiuto dell’avvocato, e i fratelli le dissero di no, ha scontato il carcere e si è defilata. Per la mamma c’era sempre una suite all’ultimo piano del San Paolo Palace, l’albergo costruito con i loro soldi, spuntato come un fungo sulla costa sfregiata di Palermo. Fuori, ad occuparsi di loro, ci sono le mogli impegnate ad allevare figli che la cicogna ha misteriosamente portato dal 41 bis. È intatto il loro potere perché il loro indotto economico funziona. Attività legali: imprese, negozi, bar, una torrefazione. E quelle illegali: droga, pizzo e macchinette. Nella borgata sono quelli che ce l’hanno fatta, nonostante i rigori di un’esistenza blindata. Erano il mito e in parte lo sono ancora. Il senatore di riferimento, Enzo Inzerillo, è alle prese con il suo processo per mafia, ma un paio di consiglieri di quartiere che gli erano vicini muovono un pacchetto da tremila voti che nelle campagne elettorali si moltiplica. Da qui escono ancora consiglieri comunali e assessori. Che a loro volta spingono all’Assemblea regionale siciliana il cavallo di turno. Il quartiere resta un monopolio di Udc e centrodestra, dopo una ventata di novità che però risale ormai a vent’anni fa. Paolo Agnilleri, il militante comunista, già segretario della sezione del Pci di Brancaccio e poi spinto in Consiglio comunale dal voto operaio al Nel quartiere Brancaccio il potere dei fratelli Graviano è intatto. Ipermercati, imprese e bar. Droga, pizzo e macchinette Repubblica Nazionale DOMENICA 25 LUGLIO 2010 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 31 L’intelligenza collettiva del crimine ATTILIO BOLZONI rima o poi avremo una mafia senza mafiosi. Per sopravvivere la mafia deve liberarsi dei suoi uomini più rappresentativi e dei loro discendenti, far dimenticare gli orrori, deve abbandonare quelle «ossessioni» che quasi in un secolo e mezzo di esistenza (ufficialmente è nata il 25 aprile 1865: è stato quel giorno, infatti, che la parola «mafia» compare per la prima volta in un dispaccio che il prefetto di Palermo aveva inviato al ministro degli Interni del tempo) le hanno permesso di diventare l’organizzazione criminale più potente dell’Occidente. Ma i tempi sono cambiati, il mondo è cambiato. E se la mafia alleverà e proteggerà ancora i suoi mafiosi — per esempio quelli di Corleone, o quegli altri che abbiamo conosciuto nelle borgate intorno a Palermo — non avrà futuro. La continuità Cosa Nostra se la assicurerà ancora e come sempre con la sua trasformazione. Ma questa volta dovrà snaturare se stessa, svincolarsi da un’eredità che dopo centocinquant’anni l’ha portata verso l’inizio del declino. Basta con i Totò Riina e con i Bernardo Provenzano, basta con chi si chiama Ganci o Madonia, Galatolo o Santapaola, i legami di sangue e quelle facce sconce non li vuole vedere più nessuno. Nemmeno gli amici degli amici. Alla mafia — a tutte le mafie — servono nomi e volti nuovi, sconosciuti, presentabili e rispettabili. Il «doc», l’uomo d’onore con almeno tre quarti di nobiltà mafiosa, d’ora in poi non sarà più garanzia di qualità. E basta anche con santine che bruciano, riti tribali, giuramenti, lupare e sfregi ai simboli dei nemici: la mafia si salverà se fingerà di suicidarsi e se seppellirà i suoi capi. A Palermo è già accaduto. La mafia resiste ma i grandi boss di un passato lontano o recente non ci sono più. La mafia non è che muterà nei prossimi anni, è già mutata. Chi sono i suoi padroni? Quali i condottieri che guidano un popolo che da una parte perennemente si riproduce e dall’altra ha la necessità di scomparire? Per quel che se ne sa rimane l’ultimo, l’ultimo dei latitanti, l’ultimo dei boss delle stragi, l’ultimo che è il primo della lista, il trapanese Matteo Messina Denaro. La fama della mafia siciliana già oggi supera il suo effettivo potere. La mafia che conta non ha più bisogno di grandi mafiosi in carne e ossa, c’è una “intelligenza collettiva” di Cosa Nostra che la mantiene in vita e fa da riferimento a tutti coloro che in Sicilia o altrove con mafia e mafiosi si sono trovati sempre bene. Per gli affari che verranno, soprattutto. La mafia prossima ventura la ritroveremo solo nel business o nella politica. E nessuno avrà più il coraggio di chiamarla mafia. Ai pochi che lo faranno, diranno: siete pazzi, mafiosi non ce ne sono più. P © RIPRODUZIONE RISERVATA tempo in cui il quartiere si impose un destino da periferia industriale, i Graviano li conobbe da bambino. I vecchi raccomandavano allora di non andare a cortile Bagnasco, la casa degli spiriti, che ancora si vede arrivando dall’autostrada. Non potevano dire che lì si tenevano i summit. Il padre dei futuri boss curava le terre del padre di Paolo e di suo nonno. E portarono da lui Benedetto perché gli facesse un po’ di doposcuola. Vide crescere e affermarsi i tre fratelli, annettersi uno dietro l’altro i bravi ragazzi di borgata che andavano dietro ai soldi e alla bella vita. Se li ritrovò davanti incappucciati una sera dell’83, quando gli spezzarono le ossa per dargli una lezione e non lo ammazzarono per via di quell’antico rispetto. E si ritrovò di fronte altre facce conosciute quando, per ricordare Padre Puglisi, il parroco ucciso nel 1993, insieme con i compagni disseminò di candele il quartiere per indicare a ogni angolo una vita spezzata, un morto di mafia. E conosce la storia degli altri capi del rione, il medico Gioacchino Pennino che era la temibile eminenza grigia della Dc di Settecannoli o IL QUARTIERE Nelle fotografie di Mauro D’Agati, scorci del quartiere Brancaccio di Palermo Al centro, la vista da piazza dei Signori, il cuore del quartiere: sulla destra c’è il castello di Maredolce, sulla sinistra la casa di Spatuzza Qui sopra, Padre Pio e la Vergine l’altro medico, Giuseppe Guttadauro, che al mattino teneva la contabilità delle estorsioni e il pomeriggio nello stesso salotto discuteva di politica regionale, primariati e concorsi. E non dimenticava di rifilare con profitto i giardini delle famiglie a qualche multinazionale a caccia di aree per i megastore. Finita la sbornia dell’edilizia, che fece di Brancaccio un immenso cantiere, con i capimastri che si inventavano palazzinari da un giorno all’altro, con le cooperative di cui si occupava il giovane avvocato Renato Schifani, con le imprese che tiravano su casermoni, Brancaccio conta ora nove ipermercati. E una geografia dettata dalle loro esigenze: uno svincolo, il tram, la ferrovia. Nelle piazze, come ai “cancelli”, il fortino di spaccio più inespugnabile della città, coca e hashish passano di mano velocemente. Spacciano tutti, spaccia anche il fruttivendolo settantenne che si alza al mattino va a comprare cassette di frutta che marciscono al sole e lui batte cassa con le bustine. E fa reddito. Di mafia, perché qui, nonostante tutto, Cosa nostra è ancora classe dirigente. © RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale 32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 25 LUGLIO 2010 CULTURA* Orfani, poveri e ladri. Oppure figli della nomenklatura caduta in disgrazia. Furono milioni i piccoli “nemici del popolo” deportati, rinchiusi negli orfanotrofi, spesso derubati della propria identità. Ora, per la prima volta, un libro dà un volto e una voce alle loro storie Bambini del Gulag SIEGMUND GINZBERG è una foto molto famosa di Stalin con in braccio una bambina che gli cinge affettuosamente il collo. Era stata scattata nel 1936, durante un incontro al Cremlino con una delegazione della Repubblica autonoma sovietica buriato-mongola. Fu pubblicata il giorno dopo quasi a piena pagina sulla Izvestia e tutti gli altri giornali. Lei aveva sei anni, si chiamava Gelya Markizova, era la figlia del secondo segretario del Partito comunista locale. Quel che si seppe solo molto più tardi è che suo padre fu fucilato poco dopo come «spia al soldo dei giapponesi». La madre fu anche lei uccisa in un misterioso incidente automobilistico. La bambina finì in un orfanotrofio per «nemici del popolo» in Kazakhstan. Poi se ne persero le tracce fino a che, nei primi anni Novanta, fu rintracciata, ormai sessantenne, da una troupe della televisione finlandese. Raccontò che della fine dei suoi genitori aveva saputo solo dopo la destalinizzazione. Dall’orfanotrofio aveva scritto a Stalin, allegando un ritaglio dei giornali con quella foto, ma non aveva mai ricevuto risposta. Eppure era una bambina fortunata. Ad altri milioni di suoi coetanei era capitato di ben peggio. Molti avevano perso anche il nome, qualcuno non è mai riuscito a risalirvi, nemmeno dopo il crollo dell’Urss. Fu un immane massacro di innocenti protrattosi per oltre mezzo secolo. Di generazione in generazione. Di cui si sapeva pochissimo. Finché nel 2002 fu pubblicata a Mosca una ponderosa raccolta di documenti intitolata Deti Gulaga 1918-1956, i bambini del Gulag. Di queste cose non si parlava. Non ci sono bambini nei libri di Solzhenitsyn e Šalamov. Le stesse piccole vittime, quelli che erano sopravvissuti, e ormai erano adulti, anzi vecchi, non si raccapezzavano. Nessuno gli aveva raccontato nulla, men che meno i genitori o i parenti. Per il loro bene. Una frase ricorrente nelle testimonianze raccolte tra coloro che erano bambini nei molti decenni di anni terribili è: «Il silenzio era la nostra salvezza». Ora è fresco di stampa un volume in inglese di Cathy Frierson e del curatore della raccolta originale di Dieti Gulaga, Semyon Vilensky, intolato Children of the Gulag (Yale University Press). Non mi risulta che ne sia in programma una edizione in italiano. Non è un romanzo. Solo documenti, pezze burocratiche ufficiali, rapporti di commissioni di inchiesta, direttive degli organi superiori, lettere, diari, fino alle più recenti ricostruzioni fondate sugli spezzoni di memoria di C’ bambini che avevano pochi anni all’epoca dei fatti. Niente effetti speciali, solo aridi fatti e ancor più aride note. L’ho letto e sono scoppiato a piangere. Non mi era mai capitato per un libro. E dire che talvolta forse ho il vezzo di atteggiarmi a cinico. Credevo di saperne ormai tutto sul Gulag. È noto che gli anni della guerra civile seguita alla Rivoluzione d’Ottobre furono tremendi. Nel solo 1918 la mortalità infantile superava il cinquanta per cento. Si stima che tra il 1921 e il 1922 sette milioni e mezzo di bambini patissero la fame e che perirono il novanticinque per cento dei bambini al di sotto dei tre anni, e un terzo di quelli che ne avevano più di tre. Il quaranta per cento dei deportati nel corso della campagna di “dekulakizzazione” erano bambini. Nei soli anni 1937-1938, all’apice del terrore, furono giustiziate settecentomila persone. Se si stimano due figli piccoli per giustiziato, fa 1,4 milioni di orfani. Il paese era invaso da piccoli vagabondi che vivevano di furti ed espedienti, si organizzavano in bande che perpetravano saccheggi, stupri, assassinii. Nel 1935, dopo l’efferato omicidio di due anziani coniugi nella loro casa a Mosca, un decreto del Soviet supremo abbassò l’età in cui si era passibili di una condanna penale a dodici anni. L’opinione pubblica plaudì la fermezza di Stalin. Poi negli istituti di pena per minori e negli orfanotrofi cominciarono ad arrivare i figli dei «nemici del popolo». Che non erano più solo poveracci La silenziosa strage di papà Stalin “...Siamo scalzi, nudi, affamati e pieni di pidocchi. A colazione ci danno un pezzetto di pane, cipolla e sale...” in libreria Mario Guarino David Ruelle Storie di malaffare, arricchimenti illeciti e tangenti RITRATTO DI FAMIGLIA La famiglia di Valentin Muravsky, uno dei bambini di Leningrado bollati come “nemici del popolo”. La foto è stata scattata nei primi anni Trenta. Nel 1937 il padre venne arrestato dagli uomini del Nkvd: Valentin aveva nove anni, fu mandato in esilio in Asia Centrale. Sopra, Evgenia Suzdaltseva Osipova prefazione di Marco Travaglio www.edizionidedalo.it Repubblica Nazionale DOMENICA 25 LUGLIO 2010 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33 LE VITTIME A sinistra, bambini nel Gulag di Bessarabian. Sotto, Valery Osipov, vittima della repressione staliniana IL DITTATORE E LA BAMBINA La celebre foto di Stalin con una bambina che lo abbraccia: è Gelya Markizova, sei anni, figlia del segretario del Partito comunista della Repubblica sovietica buriato-mongola La foto fu scattata nel 1936 e pubblicata su tutti i giornali. Poco dopo il padre di Gelya fu fucilato come spia dei giapponesi, la madre uccisa in un misterioso incidente. La bambina spedita in un orfanotrofio in Kazakhstan NEMICI DEL POPOLO Rudolf Yakson, comandante dell’Armata Rossa, insieme alla moglie. Fu arrestato e ucciso nel ’37. In alto la figlia Maya, rimasta orfana IL LIBRO Documenti, rapporti di commissioni di inchiesta, lettere, diari, ricostruzioni: è stato appena pubblicato in inglese il volume Children of the Gulag (Yale University Press, 2010). Gli autori sono Cathy Frierson e Semyon Vilensky, quest’ultimo curatore della raccolta di documenti uscita a Mosca nel 2002 e intitolata Deti Gulaga Lo stesso Vilensky è un sopravvissuto al Gulag ma sempre più spesso gli esponenti della nomenklatura che aveva represso i precedenti «nemici». L’ordinanza n. 00486 del commissario del popolo per gli affari interni dell’Urss, datata 15 agosto 1937, prescrive con agghiacciante dettaglio l’«Operazione di repressione delle mogli e dei figli dei traditori della Patria». Andavano trattati come elementi «socialmente pericolosi», non per quello che avevano fatto o non fatto, ma solo per quello che avrebbero potuto fare, o solo pensare, in quanto parenti di arrestati. Per le mogli divenne obbligatorio l’arresto, con la sola esclusione di quelle che avevano denunciato i mariti. Per gli adolescenti erano prescritti deportazione e campo di concentramento, per gli infanti gli orfanotrofi speciali gestiti dall’Nkvd. Meno male che Stalin in persona aveva detto che «i figli non devono pagare per le colpe dei padri». È noto che aveva un gran senso dell’humour. Nel suo Il primo cerchio, Solzhenitsyn gli attribuisce, a proposito di mandare al gulag i minorenni, la battuta: «Sono ancora giovani, sopravviveranno». Con la guerra si aprì per loro una possibilità di uscirne, per andare a morire al fronte. Molti si sacrificarono eroicamente. La guerra ai piccoli nemici continuò negli anni successivi. La stima, prudente, fatta nel 2002 dal presidente dell’allora Commissione del Cremlino per la riabilitazione delle vittime della repressione politica, Aleksandr Yakovlev, è di venti-venticinque milioni di vittime nell’intera era sovietica e, quindi, di almeno dieci milioni di orfani. Queste le cifre, che già conoscevo. Ma un altro paio di maniche è dar loro un nome, un volto, sentirne la voce. Nei primi capitoli le lettere, rigorosamente protocollate, che gli orfani della guerra civile, e poi della campagna contro i kulaki, inviavano a Yekaterina Peshkova, moglie di Gorki e presidente della Croce rossa sovietica, e a Nadezhda Krupskaya, la vedova di Lenin, vice commissario all’istruzione e responsabile degli orfanotrofi e istituti correzionali per minorenni, sono dure. Ma tutto sommato ancora come Dickens, anche se all’ennesima potenza. «Krupskaya, mammina nostra… non abbiamo né vestiti né scarpe, e non sappiamo con cosa andare al lavoro, ma se non andiamo al lavoro perché non abbiamo nulla da metterci addosso ci cacciano… una nostra compagna dell’orfanotrofio ha fatto quattro assenze perché non aveva né scarpe né vestiti… l’hanno cacciata via, si è messa a piangere, il direttore le ha risposto in scherno: vai a battere… se ci cacciano ci sarà una nuova massa di ragazzi di strada e ladri…». «Siamo scalzi, nudi, affamati e pieni di pidocchi… a colazione ci danno un pezzetto di pane, cipolla e sale. A pranzo una barbabietola lessa con del cavolo, e alla cena non dobbiamo neanche pensare, perché non c’è…». «Facciamo il bagno ogni due mesi, qualche volta tre, la biancheria ce la danno di rado… il direttore dà scarpe vecchie solo ad alcune bambine cui vuole bene…». Le ispezioni confermano. Un funzionario dei servizi di sicurezza scrive a Dzerzhinskij, il fondatore di quello che poi sarebbe divenuto il Kgb, che le istituzioni per l’infanzia sono divenute «senza esagerazione, cimiteri e latrine dell’infanzia». La Krupskaya si dà da fare, scrive accorati articoli sulla Pravda. Ma quando la corrispondente di un giornale socialdemocratico europeo le chiede delucidazioni sulle voci che cominciano a filtrare anche all’estero, le risponde con una favola che invita a non curarsi dei «cani che abbaiano». Poi si passa all’intollerabile, all’inimmaginabile. A pagina 312 un rapporto ufficiale, top secret, depreca «il lavoro estremamente irresponsabile» nella gestione degli infanti al seguito di «madri prigioniere». Con freddo linguaggio burocratico si elenca, istituzione per istituzione, il numero dei bambini febbricitanti, ammalati di dissenteria cronica, tifo, difterite, polmonite, distrofia, tbc, sifilide. Traghetto per traghetto si censiscono i trasporti di madri con lattanti a Magadan. Sei su dieci vengono imbarcati gravemente malati. Quasi tutti muoiono prima di arrivare a destinazione. Il documento è datato novembre 1952. A guerra finita da un pezzo. Questi, i milioni, sono anonimi. Le altre, le innumerevoli storie di cui i protagonisti hanno ancora qualcosa da raccontare, sono in fin dei conti storie di sopravvivenza. Qualcuno, soprattutto quelli che facevano parte dell’alta nomenklatura finita da un giorno all’altro in disgrazia, ha anche foto di famiglia. Straordinario come somiglino a tutte le foto di famiglia. Sono uguali a quelle di due miei zii che andarono clandestinamente in Russia negli anni Trenta, per «fare la rivoluzione», e di cui non ho mai ritrovato traccia, nemmeno dopo l’apertura degli archivi (che con Putin si sono richiusi). In alcune delle reminiscenze raccolte da Memorial negli anni Novanta ho trovato una possibile spiegazione. A molti di quei bambini fu cancellata persino l’identità, gli cambiarono nome, non sono mai riusciti a risalire ai certificati di nascita, nemmeno oggi. © RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale 34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 25 LUGLIO 2010 Un mattino di cinquant’anni fa Blake Edwards girava la prima scena del film che, tratto dal romanzo di Capote, entrerà nella storia della commedia romantica In realtà “Breakfast at Tiffany’s” è stato molto di più, una bomba che annunciava la liberazione sessuale. Come ora racconta un libro che dietro le quinte ha scovato tanti segreti, qualche timore e molte censure IL BIGLIETTO D’INVITO E sulla Quinta Strada nacque la donna moderna ANGELO AQUARO «P NEW YORK osso provare con un gelato?». Bisogna ringraziare Blake Edwards per non avere ceduto ai capricci di Audrey Hepburn all’alba di un pungente giorno di ottobre di mezzo secolo fa. Un gelato? Ma quale gelato: chi mai avrebbe digerito un gelato a colazione? Sul copione c’era scritto: «danese». E quel particolare tipo di brioche Holly Golightly avrebbe consumato — tutta di Givenchy vestita — davanti alle vetrine dell’indirizzo del lusso più famoso del mondo: 727 Fifth Avenue, New York. Ah, Colazione da Tiffany. Quanti film, oltre alla storia del cinema, hanno fatto la storia? Ci sono voluti cinquant’anni ma finalmente davanti a nostri occhi scorre la pellicola nascosta dietro a quel mito confezionato come una bomboniera: e che nascondeva, invece, una bomba vera. Per carità, la critica applaudì entusiasta. «Accattivante davvero» scrisse il New York Times. «Una sorpresa che ti prende» rincarò Variety. Tutti lì incantati di fronte alla love story impossibile tra lo scrittore introverso e quella ragazza ribelle venuta dalla provincia e che per vivere prende «50 dollari per la toeletta», come diceva la traduzione italiana. Pochissimi, nell’autunno del 1961, riuscirono a cogliere una piccola grande verità: malgrado lo stravolgimento dal romanzo di quello scrittore strambo e talentuoso, Truman Capote — che raccontava il rapporto impossibile tra una giovane prostituta d’alto bordo e il narratore che in realtà era gay — sotto la patina della commedia romantica Colazione da Tiffany nascondeva il mes- saggio di liberazione sessuale che avrebbe portato all’«alba della donna moderna», come dice il sottotitolo di Fifth Avenue, 5 A. M. «Hollywood ha sempre parlato di sesso» scrive Sam Wasson, l’autore del libro che ricostruisce la genesi controversa del capolavoro, «ma prima di Colazione da Tiffany solo le cattive ragazze lo facevano». Quel film apre agli anni Sessanta della liberazione: naturalmente con tutto il tatto e l’ipocrisia di un’industria il cui massimo della trasgressione era stata fino ad allora Quando la moglie è in vacanza. Non per niente la prima scelta di Capote è proprio lei, Marilyn Monroe. Ma i produttori, Marty Jurow e Richard Shepherd, sanno che sarebbe una Holly pessima: la diva è incontrollabile ma, soprattutto, è una bomba del sesso. Già lo sceneggiatore, George Axelrod, ha i suoi guai a smorzare l’eroticità della si- Firmato da Holly (Audrey Hepburn) il biglietto d’invito per la prima proiezione di Breakfast at Tiffany’s al Radio City Music Hall, il 5 ottobre del 1961 tuazione: la censura bloccherebbe tutto. E se non Marilyn chi? Le star dell’epoca sono un quartetto d’assi: Doris Day, Elizabeth Taylor, Debbie Reynolds, Sandra Dee. Poi ci sono due emergenti: Shirley MacLaine, Jane Fonda. No, nessuna sembra tagliata per quel ruolo impossibile: ci vuole una classe altissima per portare sullo schermo un personaggio così moralmente delicato. «Lo script è meraviglioso», risponde Audrey Hepburn, «ma io non posso interpretare una puttana». La principessa di Vacanze romane, la ballerina senza esperienza di recitazione che la stessa Colette aveva scelto per far rivivere la sua «Gigi», è in cerca di un ruolo che la faccia uscire dal suo stereotipo acqua e sapone. Ma questo è troppo. I produttori che sono volati fino al suo eremo in Svizzera che divide con Mel Ferrer non demordono: «Non vogliamo fare un film su una puttana: vogliamo fare una film su una sognatrice. Ma se non ti senti pronta vuol dire che sei la scelta sbagliata.... ». Punta nell’onore (e forse dall’offerta di 750 mila dollari) Audrey capitola. «Posso dire» le scrive Capote «che sono contento che abbia accettato? Non posso dare nessun giudizio sulla sceneggiatura, non avendo avuto l’opportunità di leggerla, ma dato che Holly e Audrey sono entrambe due ragazze meravigliose, sento che nulla potrà scalfirle». Nulla? A proteggere le due ragazze ci pensa la censura di Geoffrey Shurlock, il nuovo sforbiciatore di Hollywood, l’uomo che ha riscritto per la prima volta da vent’anni il Codice di Produzione delle major. George Axelrod è uno sceneggiatore scaltro e gli mette in mano uno script pieno di paginate hard lì apposta per essere tagliate e distrarlo co- Repubblica Nazionale DOMENICA 25 LUGLIO 2010 sì dai punti critici. Ma Geoffrey è inflessibile. «Pagina 15: Holly dovrebbe portare tutta la sottoveste invece di mutande e reggiseno». «Qui le sue scene devono essere girate con cura per evitare che si vedano nudità anche parziali». «Holly non può essere divorziata da Doc, il suo matrimonio è stato semplicemente annullato». Molti anni dopo, in un’intervista data in un momento d’euforia drogata e ubriaca, Capote sconfesserà completamente quella Colazione da Tiffany: «Mio Dio, è il film meno azzeccato che abbia mai visto: il giorno in cui ho firmato il contratto, quelli hanno fatto l’esatto opposto di quanto avevamo pattuito. Hanno preso un regista schifoso come Blake Edwards, che io ci sputo sopra...». Blake Edwards sarà naturalmente la fortuna del film. Un’altra seconda scelta. Audrey impone quattro registi: William Wyler, Billy Wilder, George Cukor o Fred Zinnemann. Ma nessuno è disponibile e la produzione si rivolge a quel regista brillante ma il cui più grande successo finora è stato in tv con Peter Gunn. Fortuna doppia. Vuol dire che nel gruppo di lavoro entra il giovane musicista che sta rivoluzionando le colonne sonore a ritmo di jazz: Henry Mancini. È lui, l’autore di Peter Gunn, la musica che poi rivivrà nei Blues Brothersdi John Belushi, a scrivere apposta per Audrey Moon River con LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35 le parole del grande Johnny Mercer. Un altro scandalo. Il capo della Paramount non vuole che quella canzone compaia nel film: ha in mente qualcosa di più impressionante, «siamo a New York, voglio musica di Broadway», e invece Mancini ha fatto di tutto per inventare quella melodia jazzy e folk, voce e chitarra, che poteva davvero essere stata partorita da una ragazzina in fuga da Tulip, Texas. È l’unico momento in cui sentono Audrey — una parola buona per tutti, sempre sorridente, una stellina sul set — rispondere a muso duro: «Dovrai passare sul mio cadavere». Canzone e colonna sonora furono gli unici Oscar che il film vincerà: Hepburn miglior attrice sarà battuta dalla Ciociara Sophia Loren. Ma quel mattino del 2 ottobre 1960 — quando Blake Edwards dice «Motore!» davanti alla vetrina di Tiffany, gridando di fare in fretta perché di lì a poco sulla Quinta sarebbe passato il corteo di Nikita Kruscev — resterà un punto di non ritorno. Le mamme di mezzo mondo chiameranno Holly le proprie figlie. E quarant’anni prima di Sex & The City le ragazze scopriranno al cinema che il sesso prematrimoniale esiste e che c’è tutto un mondo lì fuori da vedere: «Moon River, off to see the world / There’s such a lot of world / To see». Possibilmente, senza le mance. © RIPRODUZIONE RISERVATA 1. COLONY RESTAURANT (Madison Avenue & 61st Street) Qui il produttore Marty Jurow si aggiudica i diritti per Breakfast at Tiffany’s 2. COMMODORE HOTEL 6. TIFFANY & C0. (Lexington Avenue & 42nd Street) Qui la Paramount organizza il casting per “Cat”, il gatto della Hepburn nel film (727 57th Street at Fifth Avenue) Qui, davanti al tempio del lusso, il primo ciak, girato alle cinque del mattino del 2 ottobre 1960 3. 21 CLUB 7. NAUMBURG BANDSHELL (21 West 52nd Street) Nel film, dove Paul (l’attore George Peppard) porta Holly (Audrey Hepburn) per un drink (72nd Street & Fifth Avenue) Esterni in Central Park, dove nel film Doc e Paul discutono di Holly 4. EL MOROCCO 8. NEW YORK PUBLIC LIBRARY (154 East 54th Street) Qui Marylin Monroe (inizialmente scelta per la parte di Holly) si toglie le scarpe e balla con Capote (42nd Street & Fifth Avenue) Qui, ancora sulla Quinta Strada, sono stati girati alcuni degli esterni della commedia 5. FOUNTAIN 9. RADIO CITY MUSIC HALL (52nd Street & Park Avenue) Qui, sull’angolo nordest, sono stati girati molti degli esterni di Breakfast at Tiffany’s (1260 Avenue of The Americas) Qui la prima proiezione di Breakfast at Tiffany’s È il 5 ottobre 1961 Repubblica Nazionale 36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA i sapori DOMENICA 25 LUGLIO 2010 Pomodori, cipolle, cucunci, origano, peperoncini, ma anche totani, pesci spatola, tonno e ricci: nei ristoranti delle sette perle del Mediterraneo il meglio della sapienza culinaria siciliana si “contamina” di odori speciali. Tutto merito del sole e dell’aria Isole LICIA GRANELLO umero uno: onde alla cala di sotto. Piccole. Numero due: onde grandi. Numero tre: vento della scogliera. Numero quattro: vento dei cespugli. Numero cinque: reti tristi di mio padre. Numero sei: campane dell’Addolorata, con prete. Numero sette: cielo stellato dell’isola. Bello però, non me n’ero mai accorto che era così bello...”. Il protagonista de Il postino di Neruda di Antonio Skarmeta registra incantato i suoni della sua isola. Che dal libro di Antonio Skarmeta al film con Massimo Troisi assume i tratti di Salina, la piccolina di un arcipelago magico, mix affascinante di calma e ruvidezza, tradizione e voglia d’altrove, semplicità e mistero. In nessun luogo come questo la cucina sa essere tutt’uno con il suo terroir, che è terra, aria, clima, atmosfera, eredità di geni e paesaggi. Se è vero che l’olfatto sta diventando un senso posticcio, avvilito com’è da profumi sintetici e cibi che di profumo non ne hanno proprio, queste sono le isole dove far pace con il proprio naso, ubriacandolo di sentori veri, sani, straordinari. Qui, nessun cameriere vi guarderà storto se farete vibrare le narici su un piatto di spaghetti alla strombolana — aglio, acciughe, olive, peperoncini — su una ciotola di niputiddata, la zuppa di pomodorini, uova e formaggio profumata alla nepitella, o su un tortino di pesce spatola. È come se il meglio della cucina siciliana si fosse concentrato nei pochi chilometri quadrati che le “sette perle del Mediterraneo” hanno strappato al mare. Dentro ogni piatto, dentro le singole ricette si avverte il respiro gastronomico di tutti i popoli che hanno abitato l’arcipelago a partire da quattromila anni prima di Cristo. Guai a pensare che sia solo una questione d’ingredienti. Fosse così, basterebbe portare a casa bustine di capperi e collane di peperoncini, mazzetti d’origano e cartocci d’olive, uva passa e limoni verdelli per ritrovare in città sapori e profumi di Lipari e dintorni. Errore. A fare la differenza sono il sole e l’aria, il salmastro che è odore di mare senza mollezze, la campagna impregnata di erbe odorose, la commistione millenaria di terre laviche diverse (ossidiana, pomice, calcare). Impossi- “N Profumi di mare essenze di terra la magia è tutta qui bile pensare lontano da qui una minestra come la gnotta i scogghiu e maccaruna i mari, fatta con i sassi di mare coperti di alghe, pane secco, pomodoro, pesce se c’è. Sapori e aromi per fortuna restano imprigionati nelle bottiglie di Malvasia delle Lipari (secondo dizione tradizionale) piccolo gioiello enologico nato grazie ai Greci, che importarono la “Malvagia” intorno al 500 a. C. utilizzando uva e vino come lucrosa merce di scambio. Se la tipologia secca è un esercizio retorico, la versione passita incanta, merito di produttori virtuosi come Hauner, Fenech e Tasca d’Almerita, sospesi fra tradizione (appassimento dei grappoli sui graticci, che induce lo sviluppo di sentori caramellati), e innovazione (utilizzo di grandi locali aerati dove gli acini si asciugano mantenendo profumi di frutta fresca). Un bicchiere a temperatura giusta, un crostino con pesto isolano — olive, acciughe, capperi, origano — e una poesia di Neruda vi regaleranno un francobollo di estate eoliana, da godere perfino davanti al ventilatore di casa. Cucina Eolie delle 2000 7 Le isole che compongono l’arcipelago delle Eolie L’anno in cui le Eolie diventano patrimonio dell’Unesco 200mila I turisti che arrivano ogni anno alle Eolie © RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale DOMENICA 25 LUGLIO 2010 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37 Lipari itinerari Lucio Tasca d’Almerita è uno degli uomini che ha rivoluzionato la vinicultura siciliana. Tra le vigne della sua Malvasia di Salina, è nato un relais, “Capo Faro”, mix di ospitalità, enogastronomia e paesaggio Panarea Vulcano Con i suoi dieci chilometri di lunghezza, le sue coste frastagliate e i suoi dodici vulcani, è l’isola più importante delle Eolie. Conta dodicimila abitanti L’isola più piccola, circondata da isolotti: Basiluzzo, Lisca Bianca, Spinazzola, Dattilo, Bottaro, Lisca Nera, più gli scogli Panarelli e Formiche Adagiata a una manciata di miglia da Capo Milazzo, ha quattro vulcani Affascinanti le sue spiagge, da Sabbie Nere a Levante, fino ai fanghi termali DOVE DORMIRE DOVE DORMIRE DOVE DORMIRE RESIDENCE AGAVE Vico Selinunte Tel. 090-9814896 Camera doppia 100 euro, con colazione LA PIAZZA Via San Pietro Tel. 090-983154 Camera doppia 110 euro, con colazione HOTEL CONTI (con cucina) Via Porto Ponente Tel. 090-9852012 Camera doppia 110 euro, con colazione DOVE MANGIARE DOVE MANGIARE DOVE MANGIARE FILIPPINO Piazza Municipio Tel. 090-9811002 Sempre aperto in estate Menù da 30 euro ADELINA Porto Tel. 090-983246 Sempre aperto in estate Menù da 40 euro THERASIA (con camere) Località Vulcanello Tel. 090-9852555 Sempre aperto in estate Menù da 40 euro DOVE COMPRARE DOVE COMPRARE DOVE COMPRARE PESCHERIA IL DELFINO Via Garibaldi 82 Tel. 090-9811549 PASTICCERIA DA CLAUDIA Via San Pietro 3 Tel. 090-9834405 GELATERIA REMIGIO Porto Levante Tel. 090-9852555 GLI INGREDIENTI Totani Capperi Verdelli Malvasia Origano Più tenaci e gustosi dei fratelli calamari, si farciscono dopo averli saltati in padella con mollica, uova, prezzemolo e tentacoli rosolati. Cottura nella salsa di pomodoro o spruzzati di vino bianco Non c’è spaccatura di pietra assolata che resista a questa pianta bassa, tosta, con foglie larghe e fiorellini eleganti che annunciano i bottoncini di calibro crescente, ma anche i carnosi cucunci Hanno profumo di mare i limoni battezzati dal loro colore particolare, utilizzati in molte ricette, dolci e salate Su tutte spicca l’insalata di agrumi, fresca e condita con olio, sale e capperi Un’uva antica, amica del sole, avvezza al clima asciutto e ventoso delle isole Con l’appassimento acquista colore dorato e profumo sensuale, perfetto per dolci e formaggi stagionati Impossibile lasciare le isole senza il mazzetto odoroso, essiccato al sole d’agosto, da appendere a testa in giù Insieme alla nepitella firma piatti senza tempo, dai sughi alle caponate, ai pesci arrosto LE RICETTE Pane caliatu Pasta con i ricci Caponata eoliana Scorfano alla liparota Nacatuli È il pane dei pescatori Biscottato e ben sbriciolato, si sposa con cipolle, capperi, aglio, pomodorini, cetrioli, foglie verdi, patate, sottaceti, olive, odori. Per condire extravergine e sale Soffritto leggero d’aglio e peperoncino tritati finemente a cui aggiungere, a fuoco spento, la polpa cruda con olio, prezzemolo, qualche pomodorino. Si versa sugli spaghetti appena scolati Melanzane tagliate a dadini, fritte leggermente, aggiunte a una salsa di cipolla, sedano, pomodoro, olive, capperi e lasciate sobbollire. A metà cottura, zucchero e aceto Deliziosa anche fredda Cipolle dorate, pomodori, olive e poi capperi, basilico, prezzemolo, per il sugo dove cuocere i filetti, da profumare con il vino bianco, prima di coprire la pentola. Si serve con crostini di pane tostato La difficoltà è nell’impasto di farina, uova, zucchero e burro da tirare sottile per realizzare le formine All’interno un mix di mandorle, zucchero, tuorli d’uovo, strutto, uva passa e cannella STROMBOLI SALINA Capperi, unica certezza Il brodo di sasso LIDIA RAVERA effetto si raggiunge quando il mare si gonfia e la nave non attracca, non attraccano gli aliscafi, nessuno parte e nessuno arriva. Nessuno e niente. Le merci restano sulla terraferma [...]. I negozi registrano allora un impoverimento progressivo. Guardo gli scaffali con sconsolata intensità. In fondo, nel reparto frutta e verdura, sono più evidenti i segni della carestia. Fare la spesa richiede fantasia, abitudini alimentari austere e capacità di adattamento. L’unica certezza sono i capperi. Le cipolle rosse di Tropea, che palpeggio ansiosa, mostrano, dopo tre giorni di libeccio, affossamenti del colore del mosto. Dalle ultime insalate e dai cavoli verza si leva un leggero sentore di marcio. Le mele sono maculate. Le patate fioriscono muffa. Tutto il resto non c’è. Finocchi cavolfiori zucchini fagiolini carciofi uva pere mele. Niente. Guardo il mio carrello semivuoto. [...] Mi avvento sull’ultimo spicchio di un cacio pepato duro come la pietra. Il prosciutto è arrivato al gambuccio, è bianco di grasso. Ne oso un etto [...]. Con il mio magro bottino, risalgo in bicicletta. Pedalo avvolta in una giacca di plastica gialla, il vento mi fa sbandare. [...] L’ Da “A Stromboli” Editori Laterza 2010 112 pagine, 14 euro © Editori Laterza ROBERTO ALAJMO L’APPUNTAMENTO L’estate eoliana è un piacevole succedersi di appuntamenti, molti dei quali sono legati alla gastronomia Nel primo weekend di agosto, a Lipari, la celebrazione di San Gaetano prevede un corteo di barche e la festa del pesce, passerella trionfale per i piatti che esaltano il sapore di totani, spatole (pesci bandiera), alici, pesci spada, simboli della pesca eoliana on sono certo più i tempi in cui il piatto ricorrente nelle case dei salinari era il cosiddetto brodo di sasso, realizzato facendo bollire a lungo un grosso ciottolo marino, fin quando non rilasciava i suoi umori più reconditi regalando una zuppa di pesce talmente povera da prevedere del pesce solo una memoria minerale. Oggi il corso di Salina è costellato di negozietti di genere sfizioso, dove si vendono capperi, un’antica e precaria risorsa di tutte queste isole, ma soprattutto parei, oggetti di design in stile finto etnico e fighetteria in genere. Questa tendenza non è niente di irrimediabile, però. Niente che sia passato nel Dna della popolazione. Anche nei giorni peggiori d’agosto, per sfuggire agli assembramenti balneari, il viaggiatore potrà sempre disperdersi nell’entroterra, tenendo il mare come il sottofondo musicale si tiene alle feste delle persone adulte: basso, di modo che non disturbi la conversazione. Un posto dove il silenzio assume una consistenza tangibile, paesaggistica, è il laghetto di Lingua, dove quando è stagione di migrazioni qualche cicogna si sofferma a riprendere fiato. [...] N Da “L’arte di annacarsi. Un viaggio in Sicilia” Editori Laterza 2010, 284 pagine, 16 euro © Editori Laterza Repubblica Nazionale 38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 25 LUGLIO 2010 le tendenze A mezze maniche Battezzata sui campi da tennis da René Lacoste e Fred Perry, è diventata simbolo del vestire comfort ma chic. Negli ultimi anni, poi, le è stato consentito anche l’ingresso in ufficio conquistando così una porzione più grande nel guardaroba maschile. Sempre in puro cotone, meglio se effetto vintage, oggi torna con infinite varianti di stampe e colori ARCOBALENO DANDY Righe colorate arcobaleno e silhouette dalla forma molto aderente Da donna, Lacoste Colletti sfiziosi per U.S. Polo. Questa, da bambino, ha le righe sul retro Dall’impronta dandy POLO CLASSICA Per chi ama la perfezione del classico: ecco la Fay rosa con righine al collo e sulle maniche È LAURA ASNAGHI un mondo affollato quelle delle polo. Insieme alle camicie, si sono conquistate una intera sezione del guardaroba maschile. Gli addetti ai lavori hanno classificato le polo come l’espressione di un “dress code” non formale ma chic e quindi adatte a essere indossate in momenti di relax ma anche in ufficio. Nel ricco panorama delle magliette con il colletto svolazzante, storicamente primeggiano e si sfidano da sempre la Lacoste e la Fred Perry. La prima francese e la seconda inglese, ma con un filo rosso che le accomuna. La Lacoste è distribuita in Italia dalla manifattura Mario Colombo (la Colmar di Monza) mentre la Fred Perry è una creatura della Beta di Biella. Due marchi in perenne competizione. La Lacoste ha come simbolo il celebre coccodrillo, che corrisponde al soprannome del suo inventore, Renè Lacoste, una leggenda del tennis. Era un uomo che amava le sfide e una volta scommise, con il suo capitano, una valigia in coccodrillo se avesse vinto una gara. Vinse e i compagni iniziarono a chiamarlo il “coccodrillo”. Una lunga storia nata per gioco DONNA L’inconfondibile alloro Fred Perry campeggia sul modello da donna con colletto bianco Quel soprannome spinse un suo amico a fargli ricamare sulla camicia bianca quello che sarebbe diventato un simbolo famoso nel mondo. Altrettanto celebre è l’alloro che contraddistingue il marchio Fred Perry, con le righine sul collo. Fred Perry era un tennista celebre, figlio di un sindacalista di Manchester, trasferito a Londra dopo essere stato eletto tra le file dei laburisti. Il ragazzo che non poteva vantare una ricca famiglia alle spalle era guardato con sufficienza a Wimbledon, dove i campi di terra rossa era battuti esclusivamente da facoltosi rampolli. Ma lui, Fred, con le sue strabilianti vittorie li conquistò tutti, passando alla storia anche per la maglietta con l’alloro. Oggi i fan delle nuove polo si dividono tra quelli che hanno nell’armadio vecchie Lacoste ereditate dai papà e Fred Perry vintage talmente comfort che non si buttano mai via. Così che una Lacoste o una Fred Perry non mancano mai in un guardaroba che si rispetti e che ora si arricchisce di altri marchi. Come Ralph Lauren o Fay, John Ashfield, Etiqueta Negra o Brooksfield. La polo, dunque, trionfa purché sia in cotone: più la usi e più diventa bella. © RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale DOMENICA 25 LUGLIO 2010 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39 ARTISTICA JUNIOR TRENDY RIGATA Colletto e fondo manica rosso acceso, righe alternate a fiorellini Proposta da Arts District Il logo diventa grande e colorato sulla polo bianca junior che ha le righe solo sul colletto. Brooksfield Sciancrata e corta: la polo da donna ha dettagli grigi che risaltano sul rosso. È la trendy Etiqueta Negra Stravagante negli accostamenti di righe strette e larghe, il modello Gant ha il colletto candido Mario Colombo, Lacoste Cristina Fila, Fred Perry “Il nostro coccodrillo è sempre giovane” “La corona d’alloro per spiriti ribelli” ario Colombo, amministratore delegato di Lacoste Italia, come spiega il mito del coccodrillo di Lacoste? «Bisogna essere capaci di stare al passo con i tempi e fare in modo che la polo inventata nel ’33 da Renè Lacoste, grande tennista, resti sempre un capo di culto, bello e desiderabile» Tradotto cosa significa? «Fare in modo che le proporzioni e i modelli si adeguino perfettamente ai gusti del mercato. La polo è sempre in piquet ma per esaltare il fisico è diventata stretch, con un appeal maggiore sia per la donna che per gli uomini, giovani compresi». Tra gli obiettivi di Lacoste c’è quello di conquistare le giovani generazioni. Come? «Di recente a Berlino, durante la fiera Bread&Butter, è stata presentata la nuova linea Live, destinata proprio ai giovani: rende omaggio alla musica, alla pop art e alle nuove tendenze culturali». Quante sono le polo Lacoste vendute in un anno? «Siamo a quota tredici milioni, un numero enorme, che da solo testimonia la forza di questa maglia che ha settantasette anni di vita e li porta splendidamente». In origine la Lacoste era solo bianca. Oggi quante sono le varianti di colore? «La palette dei colori va da quelli decisi a quelli pastello, si parla quindi di una gamma infinita che varia di stagione in stagione. La 1212, modello icona della Lacoste, offre un ventaglio di quarantuno tonalità differenti». (l. a.) ristina Fila, coordinatrice di Fred Perry, qual è il segreto delle vostre magliette? «Hanno una “anima” cattivella che piace ai giovani. Loro le interpretano in maniera trasgressiva. Volutamente se le mettono di una o due taglie più piccole in modo tale da fasciare il corpo e svelarlo allo stesso tempo. Così le indossa Peter Doherty, il classico esempio di ragazzo ribelle». È vero che tra i più affezionati clienti del marchio figura John Fitzgerald Kennedy? «Sì, fu uno dei primi a ricevere queste magliette e ne diventò un fan. Il modo in cui lui le indossava ha certamente contribuito a creare uno stile Fred Perry» Perché fu scelto come simbolo proprio la corona di alloro? «Perché è il simbolo della grande tradizione sportiva fin dall’antica Grecia e con questo trofeo venivano insigniti i vincitori di Wimbledon. Fred Perry fu il primo tennista inglese a vincere il torneo di singolo maschile a Wimbledon, nel 1934». Come si mantengono giovani le polo Fred Perry? «Giocando sui dettagli, sui colli botton down o slim, vale a dire quelli a listino da mettere sotto la giacca. Ma le polo si fanno apprezzare moltissimo anche per i colori». Tra le new entry dei fan del marchio Fred Perry chi c’è? «Amy Winehouse, per non smentire la tradizione che ci vuole graffianti e sempre un po’ controcorrente». (l. a.) M © RIPRODUZIONE RISERVATA C RUGBY Righe bianche alternate a colori brillanti nelle polo Harry & Sons che imitano le maglie da rugby COLLEGE John Ashfield a grandi righe ispirazione college, come piace ai ragazzi © RIPRODUZIONE RISERVATA PERSONALIZZATA Polo sempre più personalizzata per La Martina. Femminile il modello rosa con plastron bianco al centro INFANTILE Rosa, grigio e nero si alternano sul fondo bianco. È la proposta estiva di Jeckerson per il bambino Repubblica Nazionale 40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 25 LUGLIO 2010 l’incontro Ha sempre sognato di viaggiare “Fin da piccolo ho capito che il modo più libero per farlo era seguendo il mare”. Dopo trenta transoceaniche e due giri del mondo, è diventato il miglior navigatore solitario di tutti i tempi Ha visto da vicino la morte, e ha sempre come compagna di viaggio la paura: “Si fa sentire alla vigilia della partenza ed è lei che ogni volta mi riporta a casa” Solitari Giovanni Soldini a risata di Giovanni Soldini travolge come un’onda del mare. Quello stesso mare che lui, navigatore solitario, attraversa con il cuore leggero e l’adrenalina in corpo. Quel mare fatto di colline d’acqua che entrano nella testa e nello stomaco. Follia e passione. Giovanni Soldini, arruffato e sorridente, è riuscito a portare le meraviglie della vela nelle case di tutti. E per molti è stato un colpo di fulmine. Lo hanno amato per i suoi occhi brillanti. Per i capelli spettinati e la pelle bruciata dal sole. Per l’allegria di chi sembra non conoscere la paura, e per l’aria da eterno ragazzo. Ma, soprattutto, perché è un tipo “normale”. «Non è vero che non ho timori», racconta, «la paura è la migliore compagna, perché è quella che ti fa vedere i tuoi limiti e ti fa tornare a casa vivo». Giovanni Soldini, considerato da molti come il miglior navigatore solitario di tutti i tempi, da bambino non immaginava una vita così avventurosa. Milanese, terzo di tre fratelli, ha sempre avuto un sogno: viaggiare. «Desideravo conoscere il mondo e ho capito che il modo più libero per farlo era seguendo il mare», racconta seduto in un bar del centro di Roma dove con la sua risata contagiosa rompe il pigro silenzio mattutino. Agita le mani e non è possibile non notarle: screpolate, grandi, dure. Mani da lavoratore. A quindici anni scappa di casa e, quando torna in famiglia, si mette a lavorare in un cantiere dove costruisce barche. A diciassette compie la prima transoceanica, a venticinque una regata in solitaria e a trenta, in centoventi giorni, il giro del mondo. E oggi, dopo diciassette anni di navigazio- to ero veramente contento d’immaginarmelo senza quei baffoni», racconta con gli occhi che ridono prima ancora di parlare. Nella sua vita non ci sono stati però solo momenti felici. Il più brutto, sicuramente, durante un tentativo di record della traversata atlantica da New York a Cap Lizard, quando un’onda, più maledetta delle altre, ha rovesciato il Fila e gli ha portato via l’amico di sempre, Andrea Romanelli. Il buio. «Andrea era un marinaio eccezionale e anche un grande progettista, purtroppo abbiamo preso una tempesta enorme che per due giorni ci ha sbattuto contro a centosessanta chilometri l’ora. Poi è arrivata un’onda anomala che si è scontrata sullo “zoccolo continentale”, il che vuol dire che è diventata un muro d’acqua di quasi trenta metri, e in due secondi i due compagni che erano fuori si sono slegati e Andrea non è riuscito a risalire». A quel punto la tempesta, come un veleno, è entrata anche nella testa di Soldini: «Dopo quella furia ti rimane dentro un grande dolore e una domanda: che senso ha tutto questo? Poi ho capito che l’unica risposta era Mi piace il rapporto intimo con la barca, impari a sentire qualsiasi fruscio e rumore. La natura ti parla, ed è allora che subentra una sensibilità pazzesca FOTO GETTY L ROMA ne, di giri del mondo ne ha collezionati due e di transoceaniche più di trenta. Instancabile. «Durante l’estate lavoravo come skipper e questo mi ha permesso di entrare in un mondo che mi piaceva sempre di più», spiega con lo sguardo perso tra i ricordi, «poi giovanissimo ho incontrato un amico, Jim Shearston, che mi ha offerto di fare la mia prima traversata dell’Atlantico. Eravamo in tre, lui che di anni ne aveva settantuno, io e un altro ragazzo. Pensavo: ora arriviamo noi e spacchiamo il mondo. E, invece, quel vecchio marinaio ci ha dato più di una lezione». Da allora Soldini non ha più abbandonato il mare. In perfetta solitudine, seppur in modo non competitivo, ha esordito a diciannove anni: «Ero stato a Cuba per condurre dei turisti e mi avevano lasciato una barca di sei metri che ho trasportato da Cala Galera sino a Barcellona». Nel 1989 vince l’Atlantic Rally for Cruisers, la regata transatlantica per imbarcazioni da crociera. Come navigatore solitario diventa famoso durante la Baule-Dakar del 1991, al timone di un cinquanta piedi di seconda mano. Ma è all’alba del 3 marzo del 1999 che, a Punta dell’Este, tifosi e giornalisti lo aspettano trepidanti. Da quel momento Giovanni Soldini diventa mito. Quando il suo sessanta piedi Filataglia per primo il traguardo della terza tappa della Around Alone (il giro del mondo a vela per navigatori solitari) stabilisce un nuovo record: centosedici giorni, venti ore, sette minuti e cinquantanove secondi. Un fulmine, per il grande pubblico. Un’eternità, per chi è solo in mezzo al mare. «Il vero problema di navigare in solitaria è dormire, perché più riesci a essere presente e vigile e più la barca va forte. Quindi ti concedi dei sonnellini da venti minuti al massimo». Mentre si racconta assaggia con gusto un piatto d’insalata: «Il bello delle privazioni è che poi ti fanno apprezzare le cose semplici, come riposare in un letto o mangiare seduto a tavola». Quando è in barca, però, Soldini non si arrende alla dittatura del cibo liofilizzato. Anzi. «Ho inventato un’ottima pasta in pentola a pressione, cotta con un bicchiere d’acqua dolce e uno di acqua salata perché in mezzo al mare la cosa più importante è risparmiare. Altro segreto è cucinare mezzo chilo di pasta per pranzo perché non sai cosa ti può succedere nelle ore successive. E poi, naturalmente, scorte di nutella e biscotti». Piccoli sacrifici ricompensati da momenti magici. «La mia prima vittoria è stata una tappa del giro del mondo da Cape Town a Sidney, il diretto concorrente era un australiano che si era giocato i baffi e quando l’ho supera- rimettersi in piedi e fare il giro del mondo. La vittoria è arrivata perché la barca era progettata bene, Andrea si era sacrificato tanto per renderla perfetta, e questo è il riconoscimento alla sua bravura». Soldini ama la solitudine. «Mi piace il rapporto intimo con la barca, imparare a sentire qualsiasi fruscio e rumore. Mettersi in contatto con tutti i sensi e non avere bisogno di nulla. Sei piccolissimo in mezzo all’immenso e la natura ti parla. Subentra una sensibilità pazzesca derivata dal fatto che, se non capisci che c’è un problemino, potrebbe diventare un problemone se non c’è nessuno ad aiutarti. Però in fondo ti consoli pensando che non sei mai solo, c’è chi ti aspetta nelle tappe, chi controlla l’aspetto multimediale. Mia moglie sa sempre perfettamente dove sono. Ci sono fax, telex, internet e telefoni satellitari. Il nostro è un gran lavoro di team che per gli altri, quelli che rimangono a terra, è molto faticoso e senza visibilità». Ma è anche bello navigare in gruppo: «Con gli altri dell’equipaggio s’instaura un rapporto speciale, parli di tutto. Bisogna avere molta fiducia ed essere perfettamente coordinati il che, forse, è l’aspetto più difficile». Le giornate di chi va per mare sono tutte simili e tutte diverse. I pensieri sembrano uscire dal tempo. «È un immenso privilegio. Trenta o settanta giorni è lo stesso, vivi il presente e ti accorgi dello scorrere delle ore solo quando sei vicino all’arrivo. Prima di quel momento non c’è oggi o domani, neppure mattina o sera, magari hai l’orologio che segna mezzanotte ma dalla parte del mondo in cui sei finito il sole ti spacca la pelle». Anche il risultato non deve condizionare troppo. L’ansia fa fare scelte sbagliate. «Dovresti essere contento di essere lì, comunque vada. Per me vincere non è mai stata l’unica cosa che conta. Solo così puoi mantenere l’equilibrio perché nessuno resisterebbe centosedici giorni con il solo obiettivo di arrivare per primo fisso nel cervello». La paura è l’inevitabile compagna. Si fa sentire, puntuale, alla vigilia di ogni partenza. «È il momento di massima adrenalina e del buco nello stomaco, quello in cui vorresti essere dall’altra parte del mondo. Poi però passa e tutto rientra in una sorta di normalità». Diverso è il panico. Quell’ansia feroce che impedisce di ragionare. «Se ti capita un incidente non hai il tempo di pensare, per fortuna il senso di sopravvivenza ti aiuta a tenerlo sotto controllo». Ogni mare riserva insidie diverse. «Le acque cristalline del sud sono le più affascinanti con la loro atmosfera esotica ma sai che, se ti succede qualcosa, non c’è terra nelle vicinanze. Se sei sopra il cinquantesimo, invece, non ci sono navi e nessuno ti può salvare se non i tuoi amici». Di salvataggi Soldini ne sa qualcosa: quando Isabelle Autisser si è rovesciata in pieno Pacifico meridionale, con un cielo e un mare che sembravano un unico inferno, lui è riuscito a recuperarla urlando come un pazzo: «L’ho beccata, l’ho beccata!». Il battito del cuore così forte da non far sentire il rumore del mare. Quando non naviga Soldini è apparentemente tranquillo. Ha quattro bambini, avuti da due donne diverse, che naturalmente già porta in barca. Vive a Sarzana e cerca di fare le cose che ama di più: leggere, sentire musica, stare con i figli. Una cosa che invece non ama affatto, ma che fa parte del suo mestiere, è la ricerca del denaro necessario per costruire le barche e per finanziare le imprese. La caccia all’indispensabile sponsor. Una volta è ricorso anche al fai da te. Con una comunità di recupero per tossicodipendenti ha costruito Stupefacente: «È stata un’esperienza speciale, in otto mesi coinvolgendo tantissime persone e alla fine è arrivato anche lo sponsor». Adesso si prepara a una nuova avventura. Nell’ottobre del 2011 porterà il tricolore alla Volvo Ocean Rice. È la sfida epica per eccellenza. Un giro del mondo in equipaggio che tocca tutti i continenti e gli oceani nell’arco di otto mesi. Un incredibile test di resistenza fisica e psicologica. «Il nostro obiettivo è quello di aggregare un gruppo di aziende che sostenga un team tutto italiano, creando un’immagine forte attorno alla barca “Italia70”». Il 2010, per Giovanni Soldini, è dedicato invece a comunicare il mondo della vela a un pubblico ancora più grande. «Vogliamo uscire dall’idea di sport d’élite e avvicinare scuole e giovani al mare e a un’idea ecologica di sport». Conoscendolo, non sarà difficile. © RIPRODUZIONE RISERVATA ‘‘ IRENE MARIA SCALISE Repubblica Nazionale