Quante mafie

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Quante mafie
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Quante mafie
di Federico Varese
incontro con Paolo Veronesi
Nel dibattito italiano sul fenomeno mafioso si è fatta strada, negli ultimi mesi, una nuova e impor tante voce: quella del nostro collabora t o re e amico Federico Va rese, autore di Mafie in mov im e n t o. Come il crimine organizzato conquista nuovi territori (Einaudi 2011). Il saggio, frutto di
c i rca dieci anni di ricerche, contiene una serie di comparazioni mirate a spiegare le condizio ni che permettono a una mafia radicata in un dato territorio di riprodursi al di fuori dei suoi
confini tradizionali. Il volume, che contiene un capitolo sulla ’ndrangheta in Piemonte e Veneto,
cade in un momento particolare del dibattito politico italiano, quando il tema della mafia al nord
è molto caldo. Va però ricordato che il volume contiene anche capitoli sulla presenza della
mafia russa in Ungheria e a Roma, delle triadi di Hong Kong e Taiwan in Cina, e un capitolo
storico sulla mafia siciliana a New York e Rosario (Argentina). Va rese, che insegna criminolo gia all’Università di Ox f o rd, è in realtà una voce ben nota della “m a f i o l o g i a” internazionale.
Infatti è l’autore di molti saggi e di una monografia sulla mafia russa assai nota presso gli
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addetti ai lavori (The Russian Mafia, Ox f o rd University Press, 2001, 2005 ). Per scrive re questo
suo primo libro, lo studioso italo-inglese ha vissuto a lungo a Perm, una città al confine con
la Siberia. Grazie a questo volume Va rese è oggi considerato il maggior esperto di crimina lità post-sovietica del mondo anglosassone. Ne hanno discusso scrittori come Misha Glenny,
Tim Harford e John Lloyd. Il lavo ro di Va rese è stato anche utilizzato a più riprese da John Le
Carré. La conversazione che segue è in parte basata sulla presentazione di Mafie in movimento avvenuta il 22 giugno di quest’anno presso la libreria MelBooks di Fe r ra ra, città nata le di Va re s e . (Siamo grati a Paolo Campana che ha letto e commentato una versione di que sta intervista).
Innanzi tutto, per te, cosa è una mafia? Ritieni possibile comprendere, in un’unica definizione,
Cosa Nostra siciliana, la camorra, la ’ndrangheta, le triadi cinesi, la mafia russa, la yaku za giapponese e così via?
Per me, l’aspetto cruciale da isolare è la capacità (o meno) di una organizzazione criminale di contro l l a re l’accesso a mercati e territori attra verso l’uso della violenza. Studi pubblicati soprattutto a part i re dagli anni novanta del secolo scorso hanno mostrato come
tutte le mafie che hai citato possiedano queste abilità; è quindi possibile dare a esse una
definizione comune, non appiattita sul caso singolo. Si tratta perciò di una definizione che
implica certi comportamenti da parte delle organizzazioni criminali, come l’imposizione
del pizzo o la difesa di un territorio contro le “invasioni stra n i e re”. L’ a s p i razione di un
sociologo è appunto di elaborare definizioni analitiche che coprano casi diversi ma che,
al contempo, non siano troppo ampie e servano a spiegare qualcosa. Una definizione è
poi solo uno strumento conoscitivo, non un atto di fede, utile magari a costruire scuole o consorterie accademiche. Se si trovasse che la definizione di mafia non funziona, ad esempio, per il crimine organizzato nigeriano, si deve semplicemente concludere che questo è
a l t racosa, magari altrettanto pericolosa, ma diversa.
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Quindi, secondo te, va sottolineata la natura “p o l i t i c a” e quasi statuale delle mafie?
La definizione che propongo coglie i grumi di statualità di queste organizzazioni. Piuttosto
che a una non meglio definita “mafia liquida”, siamo infatti di fronte a organizzazioni che
gove r n a n o alcune aree del nostro Paese. Ho letto che un imputato, in una recente indagine sui lavori per l’autostrada Salerno-Reggio Calabria (una delle tante inchieste su questo perenne scandalo italiano!), ha detto a un impre n d i t o re cui chiedeva il pizzo: “Non è
che sono venuto da voi per mille euro, che io gli piscio sopra, ma per la scostumatezza che
a vete avuto, perché venite da fuori e avete fatto lavori a casa mia”. Questo senso di “p roprietà” del territorio per me caratterizza le mafie. Quando le mafie sono radicate, come
nella Sicilia occidentale, in Calabria, in Campania, in alcune parti del Piemonte, della
Lo m b a rdia e della Liguria, l’aspetto economico si intreccia in maniera inestricabile con
quello “politico”: così come i primi nuclei statuali del periodo medievale e moderno era n o ,
nello tempo stesso, entità territoriali e imprese economiche. Gli Stati, come le mafie, commettono crimini e conquistano territori limitrofi per accrescere il proprio potere e i propri profitti. Lo studio della mafia non può quindi prescindere da una critica radicale dello St a t o. La
definizione che utilizzo permette così di collocare le mafie in un continuum analitico che
giunge sino al cuore del fenomeno statale. Ma non voglio essere frainteso: la mafia è una
forma di governo arbitra r i o. Chi vive sotto il suo giogo non può neppure essere definito
un cliente – come vo r re b b e ro certe teorie economiche del crimine organizzato – perché i
clienti hanno comunque (almeno in teoria) dei diritti. Quello mafioso è invece un gove r n o
fondato sulla violenza arbitraria. Ciò non significa però che alcuni “sudditi” non tra g g a n o
vantaggi da questo gove r n o.
Chi, in particolare, ne trae va n t a g g i o ?
In diverse zone del paese molti imprenditori traggono benefici dall’attività della mafia. Un
cantiere che opera sotto la protezione di queste organizzazioni, ad esempio, non deve
a f f ro n t a re problemi sindacali. L’appoggio criminale, in molti casi, assicura poi un accesso
privilegiato al mercato, riducendo la competizione attra verso l’uso della violenza, e agevola l’accesso al credito. Le indagini di Raffaele Cantone e le analisi dello stesso Ro b e rto
Saviano, già mettevano in luce alcuni di questi meccanismi in Campania. Si tratta pera ltro di un fenomeno sempre più diffuso anche nel nord Italia. Un esempio per tutti: il titolare
della Saico, un’ i m p resa di costruzione lombarda, ha dichiarato in un processo: “Quando
mi fu sottoposta la richiesta di subappalto al Barbaro (un impre n d i t o re legato alla ’ndra ngheta), da un certo punto di vista trovai la cosa conveniente per l’azienda” .
Di norma si ritiene che le mafie emigrino volontariamente e con facilità alla ricerca di nuovi
m e rcati e nuovi affari: è l’idea della cosiddetta “mafia liquida”. L’imporsi della globalizza zione – si dice – avrebbe facilitato questa tendenza. Nel tuo libro sostieni invece che la
globalizzazione può addirittura limitare la circolazione mafiosa: “la globalizzazione osta cola il trapianto della mafia in un modo che è sfuggito alla maggior parte degli osserva tori”. Affermi anche che, di regola, le mafie non emigrano per scelta, né amano gli spo -
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stamenti perché, in tal modo, risulta loro più difficile controllare gli investimenti e la mano valanza sulla quale devono appoggiarsi per agire nei nuovi territori, perché non conosco no i luoghi in cui giungono, perché devono di nuovo dar prova di efferatezza per incutere
p a u ra eccetera. Le mafie sono – tu dici – “tutt’altro che liquide”. Le tue conclusioni sono
insomma radicalmente diverse e contro c o r rente rispetto alle opinioni più diffuse. Le vuoi
s p i e g a remeglio?
Uno dei risultati più inaspettati della mia ricerca è stato scoprire che i mafiosi non si muovono di loro spontanea volontà, almeno nei casi che ho studiato. Sono costretti a emigrare da faide interne, perché condannati al soggiorno obbligato, per sfuggire all’arresto o
alla pove rtà. Come sostiene Tocqueville in La democrazia in America, “le persone felici e i
potenti non vanno in esilio”. Chi parte è quindi mosso “dalla pove rtà e dalle sve n t u re”. Le
mafie non sono insomma come McDonald o la Fiat, che a tavolino decidono dove aprire
una filiale. E anche quando arrivano in un nuovo territorio, non sempre riescono a ra d icarsi. La visione della “mafia liquida” è insomma analiticamente poco utile e fomenta proprio quell’industria della paura che Zygmund Bauman critica in Pa u ra liquida. Questa tesi
ha un altro effetto: suggerisce che la mafia è una realtà invincibile, che tutto penetra e
tutto conquista. Invece i mafiosi e i loro alleati non sono superuomini sempre destinati al
s u c c e s s o. È importante riconoscere che possono essere sconfitti.
E la globalizzaione?
La globalizzazione ha lati oscuri, per esempio quelli analizzati nei re p o rtage di Alessandro
Le o g rande sul grande business delle sigarette di contrabbando, o da Stefano Becucci e
E l e o n o ra Ga rosi sulla prostituzione in Italia. In questi casi, la globalizzazione rende più
facile l’arrivo di merci illegali in un dato territorio o permette ai gruppi criminali che lo cont rollano di sfruttare nuovi mercati, come appunto quelli della droga, delle sigarette e del
s e s s o. La globalizzazione cambia insomma i modi con i quali, in un certo territorio, il crimine viene commesso. In Mafie in movimento mi occupo di un aspetto molto circoscritto
della globalizzazione: una delle funzioni centrali dei gruppi che ho studiato è proteggere gli
imprenditori dalla concorrenza, aiutandoli a cre a re cartelli per ave re il controllo di merc ati l o c a l i. Se l’economia è orientata verso le esportazioni vi sarà, ceteris paribus, meno
domanda di servizi di cartellizzazione e di promozione dei monopoli locali. I mobilieri ve ronesi esportano i loro prodotti in tutto il mondo. Difficile allora, per un calabrese, punire
un concorrente del suo protetto che risiede in America ed esporta, poniamo, in Austra l i a .
In questo senso, l’apertura dei mercati indebolisce la mafia. Ma, di nuovo, spero di non
e s s e re frainteso: d e regulation s e l vaggia e uno Stato che rinuncia a gove r n a re i merc a t i
aiutano la mafia. La concorrenza ben ordinata tra imprese e, più in generale, l’economia
capitalistica non sono fenomeni naturali, ma costruiti con fatica. Questa è una delle gra ndi lezioni del liberale Adam Smith assorbita e sviluppata da Marx.
Dunque, normalmente, le mafie non emigrano per scelta ma per necessità. Come accade dun que che il loro insediamento in taluni luoghi riesca perfettamente e in altri invece fallisca?
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Tu affermi che, per compre n d e requesti fenomeni, è essenziale un’analisi economica della
realtà in cui le mafie tentano d’insediarsi. Non manchi anzi di criticare la tesi del “capitale
s o c i a l e” come pro d u t t o re di fiducia e di civismo, sostenuta in primo luogo da Ro b e rt
Putnam. Sostieni invece che, in presenza di particolari condizioni economiche, nessun ter ritorio è al riparo dai rischi d’infiltrazione, fosse pure abitato soltanto da campioni di civi s m o. Questo significa dunque rifiutare l’impostazione “culturalista”?
Un gruppo mafioso riesce a radicarsi quando la sua presenza nel nuovo territorio coincide con l’improvvisa comparsa di nuovi mercati che non vengono efficacemente re g o l a t i
dalle autorità. Quando, in altre parole, vi sono trasformazioni economiche non gove r n a t e
dalle istituzioni legittime. Tale carenza genera una domanda di “gove r n o” che, in certi casi,
le mafie sono in grado di fornire. In maniera un po’ polemica scrivo, nell’Introduzione all’edizione italiana di M a f i e in mov i m e n t o, che la mia è una tesi e c o n o m i c a,non c u l t u ra l i s t a.
Inoltre, dimostro che non tutte le volte che i meridionali italiani sono emigrati hanno esportato anche la mafia. Quindi, la tesi fatta propria dalla Lega – secondo la quale i meridionali porterebbero con sé stessi il virus mafioso – è smentita in maniera empirica: mi semb ra il modo migliore per contra s t a re il razzismo di stampo leghista. Il libro è piuttosto critico verso la tesi del “capitale sociale” di Robert Putnam, il quale ha sostenuto che i live lli di capitale sociale e di fiducia sono estremamente alti nel nord Italia (il che è corre t t o )
e quindi i trapianti mafiosi in questi territori sare b b e ro più difficili, in quanto la popolazione non avrebbe bisogno di rivolgersi a un’entità terza per risolve re le sue dispute economiche. In estrema sintesi, questa tesi sostiene che quando fiducia e capitale sociale
sono elevati, non ci può essere mafia. La tesi di Putnam può anche essere declinata in ve rsione “culturalista”; si può cioè sostenere che la “c u l t u ra” del nord sarebbe immune rispetto alle pratiche mafiose del sud Italia. Io documento invece come la mafia si sia ben radicata
nel nord da diversi decenni, un tema sollevato con grande forza anche da Roberto Saviano
e ribadito di recente dalle inchieste della pro c u re di Reggio Calabria, Milano e Torino, che
hanno quei nomi evocativi: Infinito, Crimine, Minotauro... Tra non molto ve d remo un’ a l t ra
regione del Nord alla ribalta della cronaca per indagini di mafia, la Valle d’Aosta; e ciò
avviene nonostante tutti gli indicatori dello stesso Putnam implicherebbero il contra r i o.
Forse è il caso di illustra re più in profondità alcuni casi che analizzi nel libro e che confer mano le tue teorie. Prelim inarmente, però, sarebbe opportuno che tu spiegassi come hai
impostato le tue ricerche. Sei partito da alcune tesi precise, magari maturate durante la
s t e s u ra del tuo precedente volume, per le quali hai quindi cercato conferme “sperimen tali”, oppure è stato l’esame di una cospicua serie di casi concreti a suggerirti le conclusioni
cui giungi?
Io mi considero un sociologo empirico e quindi cerco di individuare una serie fattori che
possano, almeno in astratto, spiegare un determinato fenomeno. Per ogni caso che anal i z zo cerco quindi di ve r i f i c a re se quelle particolari “variabili” hanno avuto un effetto sul
trapianto mafioso. Ad esempio, dedico molte pagine di Mafie in mov i m e n t o a ricostruire
i flussi migratori, ma, alla fine, concludo che le migrazioni di per sé non spiegano il fenomeno.
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Quindi, la teoria serve a identificare i fattori da studiare e le possibili relazioni causali tra di
essi; è poi l’analisi empirica che mostra quale spiegazione sia la più plausibile. Tutto sommato questa è una visione classica e forse weberiana dell’analisi sociologica. Certo non è
una visione postmoderna. Per quanto i dati siano sempre, in un modo o in altro, costruiti, e vadano quindi analizzati criticamente, sono convinto che esista una realtà esterna che
può essere studiata empiricamente. The Russian Mafia, uscito nel 2001, era così un tent a t i vo di ve r i f i c a re se mercato e democratizzazione avre b b e ro prodotto l’emerg e re della
mafia in Russia, com’era successo nella Sicilia dell’Ottocento. Il libro è frutto di un lungo lavoro sul campo, interviste, analisi di dati e lettura di documenti storici. Per scrive re quel libro
ho vissuto a lungo a Perm, una città russa a cavallo tra Eu ropa e Siberia.
The Russian mafia e ra però lo studio di un caso singolo, mentre Mafie in movimento è
un’opera comparata.
Beh, nel mio primo libro vi era una comparazione esplicita con il caso siciliano. Nelle scienze sociali, di norma, non si studia il caso singolo. Se si vuole capire perché un fenomeno
e m e rge, bisogna confrontarlo con situazioni in cui esso non è comparso oppure è emerso
con una fisionomia diversa. Se vogliamo sapere perché la mafia siciliana è sorta nella
Sicilia occidentale nel periodo che va dal 1820 circa al 1876, quando Leopoldo Franchetti scrive la sua inchiesta Condizioni politiche e amministra t i ve della Sicilia, bisogna compre ndere perché essa non è emersa nella Sicilia orientale. Nel mio lavo ro cerco di mettere a
frutto questo principio.
Come sono strutturate esattamente queste compara z i o n i ?
Lo sforzo metodologico è quello di trova re casi che siano il più possibile simili per il maggior numero di fattori – come, ad esempio, stessa mafia di origine, stesso periodo storico, più o meno stessi tassi di migrazione e così via – in modo da poter contro l l a re l’operare di quegli ingredienti e concentra re l’attenzione sulle differe n ze che spiegano il variare del
f e n o m e n o. Ad esempio, nel terzo capitolo, confronto il movimento del clan Mazzaferro
verso Bardonecchia col tentativo fallito del medesimo gruppo mafioso di muoversi in un’alt ra città del Nord del paese, Verona, all’incirca nello stesso periodo storico. Sebbene non si
tratti di un controllo perfetto, possiamo supporre che molti elementi esplicativi, come il
l i vello di corruzione e di mantenimento dell’ordine pubblico, siano simili. È ovvio che queste comparazioni storiche non saranno mai perfette. Sarà sempre impossibile identificare due casi perfettamente uguali fatta eccezione per un fattore causale e l’esito, come se ci
si trovasse in un esperimento chimico. Nondimeno, si tratta di un metodo illuminante,
anche se le conclusioni che si raggiungono sono sempre parziali. La comparazione è insomma il punto di partenza per ogni studio analitico dei fenomeni sociali. Ho scoperto questo
metodo frequentando le lezioni di Alberto Marradi e di Angelo Panebianco all’Università
di Bologna e esorto sempre i miei studenti a confro n t a re. Questo esercizio li induce a stud i a re non solo le mafie italiane, ma anche fenomeni simili, emersi in altre parti del mondo.
E poi credo che la comparazione abbia anche un va l o re morale.
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La comparazione ha un va l o re morale? In che senso? Non può essere usata invece per re l a t i v i z z a re i fenomeni?
Capisco cosa vuoi dire – e anche il riferimento implicito all’Olocausto, un tema che mi interessa e mi tocca molto – ma non sono d’accordo. Concordo invece con Tz ve t a n Todorov
che ha scritto: “ciò che è singolare non ci insegna niente”. La singolarità deve essere scomposta per poter decifra re le similitudini e le differenze con altri fenomeni. La tesi dell’unicità di ogni evento lo sottrae pericolosamente alla storia e suggerisce la sua irripetibilità:
per definizione un evento unico è irripetibile. Ma sappiamo bene che fenomeni simili si
ripetono: ad esempio il genocidio, i campi di sterminio nazisti, il gulag non sono un uni cum nelle società moderne. Così come non lo è la mafia.
Per saggiare la tenuta delle tue teorie, proviamo dunque a esaminare alcuni casi da te
a p p rofonditi nel libro. Non possiamo discutere tutte le vicende analizzate in Mafie in mov imento, come ad esempio lo stra o rdinario capitolo sullo sviluppo delle organizzazioni cri minali cinesi, oppure la situazione in Ungheria e negli Stati Uniti. Mi limiterei quindi alla
vicenda di Rocco Lo Presti, il membro del clan Mazzaferro che da Gioiosa Ionica giunge a
B a rdonecchia negli anni cinquanta del Novecento. Perché Lo Presti abbandona la Calabria?
Come mai giunge proprio a Bardonecchia, nel profondo Piemonte? Con quale “capitale
sociale” si trova a dover fare i conti? Come opera sul territorio e che esito hanno le sue
o p e razioni d’insediamento?
Rocco arriva nella cittadina piemontese negli anni cinquanta, al soggiorno obbligato, e
p roviene da Marina di Gioiosa Ionica. Nel giro di pochi anni si afferma come il protagonista
del boom edilizio che ha creato migliaia di posti letto in seconde case, palazzi e residence
della valle. Riesce infatti a pro c u ra re manodopera a basso costo per i cantieri della zo n a
e si fa così ra g g i u n g e re dal cugino, Francesco Mazzaferro, titolare di un’ i m p resa di mov imento terra che ben presto ottiene il monopolio del settore in un’ a rea geografica che va
da Bardonecchia a Sauze d’Oulx. Questa vicenda è raccontata con una certa dovizia di particolari nel terzo capitolo di Mafie in mov i m e n t o. La narrazione è incentrata sui modi con i
quali sono emerse, in quella valle, le condizioni “ideali” per un’ o rganizzazione extra l e g ale di g overno del mercato: prima cresce in maniera esponenziale la domanda di seconde
case; le imprese di costruzione locali non hanno però abbastanza manodopera e risorse
per far fronte a questa situazione; nello stesso tempo, e per ragioni indipendenti, vi era n o
a Bardonecchia alcuni calabresi al soggiorno obbligato; e a Torino risiedevano molti immig rati senza lavo ro, descritti da Goffredo Fofi nella sua classica inchiesta del 1964 sull’immigrazione meridionale nel capoluogo piemontese, e poi ra p p resentati nel film Così ride va n o di Gianni Amelio. Rocco organizza un racket delle braccia che è, di fatto, conve n i e n t e
sia per gli operai, che finalmente trovano un lavo ro, sia per i costruttori, che risparmiano sui
contributi e si ritrovano una manodopera docile e non sindacalizzata. Nello stesso tempo,
i calabresi di Bardonecchia calamitano dalla zona di Gioiosa Ionica alcune aziende di mov imento terra le quali giungono presto a controllare il settore, assieme ad altre imprese locali, colluse con le prime. Gli imprenditori che non si adeguano vengono espulsi dal merc a t o.
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Dopo poco tempo questo controllo si estende ad altri aspetti della vita economica della
cittadina.
E poi si sviluppa l’infiltrazione nella politica locale?
Inevitabilmente il controllo di settori chiave dell’economia necessita di re f e renti politici;
Lo Presti li cerca e li trova in Comune, appoggiando alcuni esponenti locali con il suo pacchetto di voti (circa 500 secondo quanto dice lui stesso, forse esagerando un po’). Sta di fatto
che, negli anni ottanta, riesce così a sconfiggere, sul piano elettorale, il sindaco antimafia di Bardonecchia e viene eletta una nuova amministrazione a lui favo revole. Il Consiglio
comunale verrà quindi sciolto per infiltrazioni mafiose nel 1995 e il sindaco arrestato (poi,
però, sarà assolto in appello). Una cosca può generare occasioni di ricchezza per alcuni,
i quali poi le sono riconoscenti e aiutano a occultare o minimizzare il danno che essa provoca per la società; lo testimoniano le tante voci locali che continuano a criticare la magistratura per essersi accanita contro Lo Presti e Mazzaferro.
A Bardonecchia, dunque, il clan Mazzaferro riesce a insediarsi e pro s p e ra re. Non c’è nes suno che se ne accorga e tenti di re a g i re? A questo proposito, nel libro emerge, in parti colare, la figura del sindaco Mario Corino, un uomo che non ha esitato a fro n t e g g i a re le
cosche e che ha dovuto sopportare – con sua moglie – un’ a g g ressione che gli provocò
danni permanenti. Ma Corino viene poi sconfitto alle elezioni. Colpisce che la ’ndra n g h e ta riesca a infiltrarsi a Bardonecchia con lo stesso consenso degli attori economici e della
società civile (parroco compreso). Corino, insomma, non è riuscito a fare scuola?
Come dici, un personaggio centrale del mio libro è Mario Corino, sindaco di Bard o n e c c h i a
fra il 1972 e il 1978, e poi politico di spicco dell’opposizione. Egli denunciò apertamente la presenza della mafia in città, rifiutando la sua offerta di sostegno elettorale. Anche
Corino è mancato da poco, quasi esattamente un anno dopo Lo Presti, la notte del 2 febb raio 2010. Mentre la morte di Lo Presti ha avuto una vasta eco sui giornali, quando
Corino è deceduto sono usciti solo due trafiletti su fogli della Val di Susa. Questi art i c oli non fanno menzione dei suoi sforzi contro la criminalità e uno lo descrive addirittura
come un uomo che, “nel bene e nel male”, ha lasciato un segno nella comunità. Insomma,
il suo impegno è oggi largamente dimenticato. Corino era un uomo corpulento, un po’
goffo, con occhiali dalla montatura spessa, molto appassionato di politica (era iscritto
alla Dc) e con una forte fede religiosa. Fa c e va il maestro elementare in un paese vicino
a Bardonecchia. Quando gli ho parlato, poco prima della sua morte, era stanco e demoralizzato; non vo l e va riva n g a re un passato doloroso per lui e la sua famiglia. Insomma, la
sua è una figura completamente ignota della lotta alla mafia. Quando penso come possa
e s s e re la lotta quotidiana e anonima alla mafia, quella che non va sui giornali, penso a
Corino; un uomo che non ha ricevuto alcun onore per le sue battaglie e che pera l t ro non
voleva riceverne. Ha fatto quel che dove va fare, pagando di persona e senza aspettarsi
nulla in cambio.
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Un esempio di insediamento fallito, che illustri assai bene nel libro, è quello della mafia
russa Solncevo a Roma, negli anni novanta del Novecento. In questo caso, però, non sem b ra che i mafiosi vogliano davve ro giungere a un capillare controllo del territorio. Altre
s e m b rano le loro preoccupazioni, in ra p p o rto alle quali – a dire il ve ro – essi non incon t rano troppi ostacoli (penso, in part i c o l a re,al ruolo delle banche nelle operazioni di rici claggio). Come mai la mafia russa, in questo caso, fallisce?
La Solncevo è il più grande gruppo mafioso russo, sorto inizialmente in un quart i e redella
periferia di Mosca alla fine degli anni ottanta. La sua attività principale è la protezione,
ciò che in russo viene chiamato “fornire un tetto”. Quindi, in Russia, questo gruppo criminale “fa la mafia”. A un certo punto, però, uno dei suoi boss, Jakovlev (uso un nome di
fantasia perché questo individuo non è mai stato condannato in Italia a causa di un cavillo giuridico ed è oggi ancora attivo in Russia), fa la sua c omparsa in una cittadina del litorale laziale. Nato nell’estremo oriente della Russia, e già ospite delle prigioni sov i e t i c h e
degli anni settanta, Jakovlev è a capo di un gruppo affiliato alla Solncevo di Mosca. In prigione viene incoronato vo r-v-zakone, cioè membro di una fratellanza segreta di boss che,
d u rante il periodo sovietico, controlla le prigioni e, dopo il crollo dell’Urss, costituisce di fatto
l’élite della mafia russa. Ha il corpo coperto in parte da tatuaggi, tra cui uno nel cavo della
mano destra. Pe rché viene in Italia? Negli ultimi mesi del 1994, in Russia, è in corso una
guerra tra i vertici dell’organizzazione. E Jakovlev si trova a far parte della fazione perdente. Decide allora di uscire di scena e si rifugia in Italia. Anche Jakovlev si muove quindi solo perché costretto, in questo caso non dalla misura del soggiorno obbligato bensì
da una faida interna. Il suo ruolo, a Roma, è però molto diverso da quello di Lo Presti. Egli
i n veste in Italia il denaro del suo e di altri gruppi criminali russi; ha quindi a disposizione
milioni e milioni di dollari che giungono dalla Russia tramite diverse banche o semplici
spalloni. Riesce così, senza difficoltà, a penetrare il sottobosco romano di piccoli faccendieri, uomini d’affari senza scrupoli, poliziotti corrotti, politici in vendita. Quindi, una mafia
che, nel suo luogo d’origine, controlla il territorio, all’estero può fare ben altro, come re i nve s t i re i proventi dei suoi racket. È un tipo di attività molto diversa da quella di Lo Presti e,
di conseguenza, richiede strumenti diversi per contrastarla. Per certi versi, quindi, questa costituisce una penetrazione più superficiale, che però serve a ra f f o r z a re la mafia di
casa e a inve s t i re i suoi profitti. Si tratta, in parte, del mondo narrato nell’ultimo ro m a n zo
di Le Carré. È ovvio che, nel caso di Jakovlev, la legislazione sul riciclaggio è cruciale. In
quest’ottica, lo scudo fiscale, approvato dal governo Berlusconi, è un prov vedimento gravissimo: esso permette a individui che hanno nascosto denaro all’estero di ripulirlo pagando una piccola penale. Chi si avvale dello scudo può mantenere l’anonimato e non deve
d i c h i a ra recome ha ottenuto quelle somme! Se quei soldi fossero il frutto di crimini mafiosi, e fossero stati quindi investiti all’estero, potranno comunque essere re i n t rodotti in
Italia, rafforzando le mafie autoctone.
L’ultimo romanzo di John Le Carré, pubblicato in Italia nel 2011 col titolo Un nostro tra d it o re tipo, è in parte basato sul tuo lavo ro, soprattutto sul quarto capitolo di Mafie in
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Movimento nonché sul tuo precedente libro dedicato alla mafia russa. Cosa ci puoi dire al
p roposito? Come vi siete conosciuti? Come si svolge il vo s t ro rapporto di collaborazione?
R i c e vetti per la prima volta una lettera di John Le Carré nella primave ra del 1995. Mi trovavo da circa sei mesi a Perm, nella regione degli Urali, dove ra c c o g l i e vo materiale per il mio
l i b ro. Attra verso un sistema piuttosto elaborato, mani amiche facevano giungere a Perm
la posta che ve n i va recapitata al mio indirizzo di Ox f o rd. Il plico giunse proprio il giorno in
cui ero in partenza per un bre ve soggiorno a Mosca. Aprii la posta solo sul treno ed ecco, di
f ronte a me, una lettera, scritta a mano, su carta intestata “John Le Carré, scrittore”, e firmata
“David Cornwell, anche noto col nome di John Le Carré”. L’ i n d i r i z zo corrispondeva alla
remota scogliera della Cornovaglia dove l’autore di La Casa Russia t ra s c o r re la maggior
parte dell’anno. Le Carré mi chiedeva un incontro per discutere i dettagli di una storia in
cui erano coinvolti mafiosi russi, combattenti per la libertà nel Caucaso e un giovane accademico inglese che, dopo la caduta del Muro di Berlino, abbraccia una nuova causa. Quella
storia divenne Our Game (titolo italiano La passione del suo tempo). Da allora ci siamo
visti spesso. In una lettera scritta da un’isola vicino alla costa Nord-occidentale dell’Africa,
nei primi giorni del 2009, Le Carré mi anticipava la sua intenzione di tornare a occuparsi
della Russia (della vecchia Russia rivestita a nuovo) e mi chiedeva di incontrarci. Il risultato è Il nostro tra d i t o retipo, d ove c o m p a re anche Perm: è la citta natale di Dima, il mafioso russo membro di una setta criminale segreta, i vo r y - v - z a k o n e, che, sull’isola di Antigua,
avvicina una giovane coppia inglese – Perry e Gail – nella speranza che lo aiutino a ve ndere i suoi segreti al governo inglese. Molti degli eventi narrati, e anche i più minuti dettagli, sono autentici benché non tutti noti al grande pubblico. Questi dettagli servono a Le
Carré per costruire un libro sul potere del denaro di corro m p e rel’élite inglese e sui modi con
cui grandi capitali, frutto di soprusi e violenze, vengono ripuliti. Come nei migliori ro m a nzi di Le Carré, si tratta anche di una storia che mette in scena molteplici tradimenti.
In che senso si tratta di un libro sul tradimento?
Le banche tradiscono i principi di onestà e decenza, accettando di riciclare denaro frutto di
soprusi e di morte; il governo inglese finge di combattere il crimine organizzato e il riciclaggio ma, di fatto, lo incoraggia ed è ben felice di fare affari con gli oligarchi russi; il
m i n i s t ro dell’economia laburista e il futuro ministro conserva t o re si trovano tutti sullo
stesso yacth di proprietà di un personaggio in odore di mafia. Il governo prima fa cre d e re
a Dima di volerlo aiutare per smaschera re i suoi complici, poi lo abbandona al suo destino.
La figlia di Dima viene quindi tradita dalla persona che ama. Per me il personaggio più
affascinante è Luke, un ve t e rano dei servizi che ha lavo rato in America Latina, che ha fatto
d i versi errori nel suo passato, che si è innamorato ed è rimasto deluso, che è pro f o n d amente disincantato ma, allo stesso tempo, vuole ancora cre d e re nel suo paese. Anche lui
viene però irrimediabilmente tradito dai suoi superiori. Infine i due giovani inglesi, Gail e
Pe r r y, due trentenni che Le Carré descrive in maniera impeccabile, conoscono Dima ad
Antigua, si affezionano alla sua famiglia e rischiano la vita per farlo passare all’Occidente,
ma vengono usati.
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ORIZZONTI
È dunque un ro m a n zo avvincente, molto reale, ma pessimista sul ruolo della politica.
Sì, senza dubbio. Ma è anche la storia di persone che ancora credono che valga la pena impegnarsi, che poste di fronte a scelte difficili, fanno la cosa giusta, come appunto Gail e Perry.
Che sono in grado di indignarsi e di agire di conseguenza. Senza aspettarsi fama o riconoscimenti. Per quanto i mondi creati da Le Carré e quello in cui è vissuto il sindaco Corino di
B a rdonecchia non potre b b e ro essere più diversi – e credimi sono molto diversi! – vi è un
parallelo tra le due storie. Sono entrambe vicende di persone normali che, in circ o s t a n ze
straordinarie, si comportano secondo semplici precetti morali e ne accettano le conseguenze,
come chi durante l’Olocausto ha rischiato la vita per salvare le vittime del nazismo.
U n’ultima domanda. Tu sei uno studioso, ma ovviamente credi che vi sia un rapporto tra
lo studio e la lotta alla mafia. Qual è questo ra p p o rto? E accetteresti di fare il consulente
per chi combatte la mafia in Italia?
La lotta alla mafia, come ogni rivolta civile, nasce da un sentimento individuale di ingiustizia, ma è attra verso lo studio e l’impegno che tale sentimento diventa condiviso e collettivo. Per questo mi è molto cara l’affermazione di Camus: “per essere, l’uomo deve ribellarsi.” Accetterei di fare il consulente per chi combatte la mafia in Italia? Dipende da chi
me lo chiede. Accetterei solo se fossi convinto che il mio interlocutore volesse davve ro
c o m b a t t e requesto fenomeno.
Le illusioni delle Asl. Un consuntivo
di Roberto Landolfi
Una tragica storia esemplare
Anna Marco Dario e Cristiana sono in macchina di rientro da una serata al mare. È agosto, fa caldo.
Pare che l’estate del 1991 sia una delle più calde del secolo. Marco guida con perizia senza
d i s t rarsi più di tanto. La strada è sufficientemente larga e con curve sinuose ra s s i c u ranti. In
q u a t t ronon raggiungono gli ottant’anni e Cristiana canta felice di esserci, lei che, figlia di
a rabi illuminati, vive in Italia da molti anni. In un attimo, le loro vite sono spazzate via in
uno scontro frontale con un auto di grossa cilindrata che viaggia contromano guidata dal
solito, per le cronache, immigrato drogato. Non un immigrato qualsiasi, ma l’albanese che fa
la tratta internazionale di donne da avviare alla prostituzione e che, come da manuale della
buona sorte, esce illeso dalla catastrofe. Tre morti e Cristiana con le gambe schiacciate.
Pochi minuti e sopra v vengono le ambulanze del 118, i carabinieri, la Po l s t rada e l’immancabile auto della protezione civile.
L’efficienza della macchina dei soccorsi statali è evidente. Tutti vengono caricati sulle ambulanze. Tre sono destinate alla camera mortuaria dell’ospedale più vicino. Anche l’ambulanza
con a bordo Cristiana arriva in ospedale, entra nella camera calda e la lettiga va direttamente
in rianimazione. In agosto la Sicilia è splendida di sera. In quella splendida sera si misura
però anche la funzionalità del servizio sanitario. La vita di Cristiana è legata a una fievo l e
s p e ranza e deve fare i conti con lo stato degli ospedali che, in Sicilia, come nelle altre re g i o-

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