Il lifelong learning e l`educazione degli adulti in Italia e in Europa

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Il lifelong learning e l`educazione degli adulti in Italia e in Europa
dalla sua costituzione ha ottenuto contributi
su specifici progetti dalle Fondazioni
Il lifelong learning e l’educazione degli adulti in Italia e in Europa
TREELLLE
è principalmente sostenuta dalla
Quaderno n. 9
dicembre 2010
Il lifelong learning
e l’educazione degli adulti
in Italia e in Europa
FONDAZIONE
MONTE DEI PASCHI DI SIENA
FONDAZIONE
ROMA
FONDAZIONE
PIETRO MANODORI
CASSA DI RISPARMIO DI REGGIO EMILIA
FONDAZIONE EUROPEA
OCCUPAZIONE E VOLONTARIATO
ROMA
FONDAZIONE
CASSA DI RISPARMIO
DI GENOVA E IMPERIA
TREELLLE
FONDAZIONE
CASSA DI RISPARMIO IN BOLOGNA
Quaderno n. 9
Dati, confronti e proposte
I Quaderni
Associazione TreeLLLe
per una società dell’apprendimento continuo
Profilo sintetico dell’Associazione
L’Associazione TreeLLLe - per una società dell’apprendimento continuo - ha
come obiettivo il miglioramento della qualità dell’education (educazione, istruzione, formazione iniziale e permanente) nei vari settori e nelle fasi in cui si articola. TreeLLLe è un vero e proprio “think tank” che, attraverso un’attività di ricerca, analisi, progettazione e diffusione degli elaborati offre un servizio all’opinione pubblica, alle forze sociali, alle istituzioni educative e ai decisori pubblici, a
livello nazionale e locale.
Inoltre, anche attraverso esperti internazionali, TreeLLLe si impegna a svolgere
un’attenta azione di monitoraggio sui sistemi educativi e sulle esperienze innovative di altri paesi. In particolare si pone come “ponte” per colmare il distacco
che sussiste nel nostro paese tra ricerca, opinione pubblica e pubblici decisori,
distacco che penalizza l’aggiornamento e il miglioramento del nostro sistema
educativo.
TreeLLLe è una Associazione non profit, rigidamente apartitica e agovernativa.
La peculiarità e l’ambizione del progetto stanno nell’avvalersi dell’apporto di personalità di diverse tradizioni e sensibilità culturali che hanno bisogno di confrontarsi e dialogare in una sede che non subisca l’influenza della competizione e
delle tensioni politiche del presente. I Soci Fondatori sono garanti di questo
impegno.
Il presidente è Attilio Oliva, promotore dell’Associazione e coordinatore delle attività e delle ricerche.
Il Forum delle personalità e degli esperti, con il suo Comitato Operativo, è composto da autorevoli personalità con competenze diversificate e complementari.
L’Associazione si avvale dei suggerimenti di Eminent Advisor (politici, direttori
dei media, rappresentanti di enti e istituzioni, nazionali e internazionali) che,
peraltro, non possono essere ritenuti responsabili delle tesi o proposte avanzate da TreeLLLe.
Gli elaborati sono firmati da TreeLLLe in quanto frutto del lavoro di gruppi di progetto formati da esperti nazionali e internazionali coordinati dall’Associazione.
Le pubblicazioni di TreeLLLe
L’Associazione si propone di affrontare ogni anno temi strategici di grande respiro (i Quaderni) che rappresentano il prodotto più caratterizzante della sua attività. Sui singoli temi si forniscono dati e informazioni, si elaborano proposte, si
individuano questioni aperte, con particolare attenzione al confronto con le più
efficaci e innovative esperienze internazionali.
Per ogni tema strategico, l’attività dell’Associazione si articola in quattro fasi:
• elaborazione dei Quaderni attraverso un lavoro di gruppo;
• coinvolgimento delle personalità del Forum e degli Eminent Advisor attraverso
la discussione e la raccolta di pareri sulla prima elaborazione dei Quaderni;
diffusione
delle pubblicazioni mirata a informare decisori pubblici, partiti, forze
•
sociali, istituzioni educative;
• lobby trasparente al fine di diffondere dati, informazioni e proposte presso i
decisori pubblici a livello nazionale e regionale, i parlamentari, le forze politiche e sociali, le istituzioni educative.
Oltre ai Quaderni, l’Associazione pubblica altre collane: “Seminari”, “Ricerche”,
“Questioni aperte”.
Presentazione delle analisi e proposte, diffusione delle pubblicazioni
Le analisi e le proposte delle varie pubblicazioni sono presentate sui media e
discusse con autorità ed esperti in eventi pubblici.
Le pubblicazioni sono diffuse sulla base di mailing list “mirate” e, nei limiti delle
disponibilità, distribuite su richiesta. Possono essere anche scaricate dal sito
dell’Associazione (www.treellle.org). Il totale dei volumi distribuiti ogni anno è
nell’ordine di alcune decine di migliaia di copie.
Enti sostenitori
Dalla sua costituzione ad oggi l’attività di TreeLLLe è stata principalmente sostenuta dalla Compagnia di San Paolo di Torino e oggi dalla Fondazione per la
Scuola della stessa Compagnia. Specifici progetti sono stati sostenuti dalle fondazioni Pietro Manodori di Reggio Emilia, Cassa di Risparmio in Bologna,
Monte dei Paschi di Siena, Cassa di Risparmio di Genova e Imperia,
Fondazione Roma e Fondazione Europa Occupazione Volontariato Roma.
Chi fa parte dell’Associazione
Presidente
Attilio Oliva
Comitato Operativo del Forum
Dario Antiseri, Carlo Callieri, Carlo Dell’Aringa,
Tullio De Mauro, Giuseppe De Rita, Domenico Fisichella,
Attilio Oliva, Angelo Panebianco, Clotilde Pontecorvo
Forum delle personalità e degli esperti
Luigi Abete, Guido Alpa, Dario Antiseri, Federico Butera, Carlo Callieri,
Aldo Casali, Lorenzo Caselli, Sabino Cassese, Elio Catania,
Alessandro Cavalli, Innocenzo Cipolletta, Carlo Dell’Aringa,
Tullio De Mauro, Giuseppe De Rita, Umberto Eco, Domenico Fisichella,
Luciano Guerzoni, Mario Lodi, Roberto Maragliano, Angelo Panebianco,
Clotilde Pontecorvo, Sergio Romano, Domenico Siniscalco,
Giuseppe Varchetta, Umberto Veronesi
Eminent Advisor dell’Associazione
Giulio Anselmi, Ernesto Auci, Guido Barilla, Enzo Carra, Ferruccio De Bortoli,
Antonio Di Rosa, Giuliano Ferrara, Franco Frattini, Stefania Fuscagni,
Lia Ghisani, Lucio Guasti, Ezio Mauro, Mario Mauro, Dario Missaglia,
Luciano Modica, Gina Nieri, Andrea Ranieri, Giorgio Rembado,
Carlo Rossella, Fabio Roversi Monaco, Marcello Sorgi,
Piero Tosi, Giovanni Trainito, Giuseppe Valditara,
Benedetto Vertecchi, Vincenzo Zani
Assemblea dei Soci fondatori e garanti
Fedele Confalonieri, Gian Carlo Lombardi, Luigi Maramotti,
Pietro Marzotto, Attilio Oliva, Marco Tronchetti Provera
(Segretario Assemblea: Guido Alpa)
Collegio dei revisori
Giuseppe Lombardo (presidente), Vittorio Afferni, Michele Dassio
ASSOCIAZIONE TREELLLE
PALAZZO PALLAVICINO
VIA INTERIANO, 1
16124 GENOVA
TEL. + 39 010 582 221
FAX + 39 010 540 167
www.treellle.org
[email protected]
PRIMA EDIZIONE: DICEMBRE 2010
STAMPA: DITTA GIUSEPPE LANG SRL - GENOVA
Associazione TreeLLLe
Quaderno n. 9
dicembre 2010
Il lifelong learning
e l’educazione degli adulti
in Italia e in Europa
Dati, confronti e proposte
INDICE
RINGRAZIAMENTI
13
INTRODUZIONE e guida alla lettura di A. Oliva
14
30
Box 1: Indagine NIACE sul futuro del lifelong learning in UK (2009)
PARTE PRIMA
CAPITALE UMANO E CAPITALE SOCIALE
33
1.1
33
41
47
Il capitale umano nei paesi OCSE e in Italia
Box 2: Le indagini OCSE: alcuni chiarimenti
1.2
1.3
1.4
1.5
Focus sul capitale umano in Italia
La partecipazione alla vita della cultura in Italia
Il capitale sociale
I costi dell’ignoranza
55
60
71
PARTE SECONDA
L’EDUCAZIONE DEGLI ADULTI:
GLI OBIETTIVI DELLA UE E LE PROPOSTE DELL'OCSE
2.1
2.2
2.3
Gli obiettivi UE per l’istruzione e la formazione
Come promuovere l’educazione degli adulti
Le risorse per l’educazione degli adulti
77
77
86
91
PARTE TERZA
L’EDUCAZIONE DEGLI ADULTI IN ITALIA:
NODI CRITICI E PROPOSTE DI SISTEMA DI TREELLLE
3.1
3.2
Le specificità dell’apprendimento in età adulta
e i nodi critici dell’offerta
I principi chiave e le proposte di sistema di TreeLLLe
Box 3: L’esperienza francese del VAE (Validation des Acquis de l’Expérience)
3.3
Una proposta di TreeLLLe: due piani straordinari
Box 4: L’esperienza di “Skills for life” in UK
93
93
99
105
108
115
PARTE QUARTA
LE PRINCIPALI TIPOLOGIE DI EDUCAZIONE DEGLI ADULTI
E LE PROPOSTE OPERATIVE DI TREELLLE
4.1
Istruzione degli adulti
4.1.1 L'istruzione di base e secondaria
Proposte di TreeLLLe
4.1.2 La formazione permanente nelle università
Proposte di TreeLLLe
4.2
Sviluppo professionale delle forze di lavoro
4.2.1 La formazione continua per gli occupati
117
119
119
128
130
134
136
136
Box 5: Il Libro Bianco del Ministero del Lavoro sul futuro modello sociale (2009) 152
154
Proposte di TreeLLLe
Box 6: La formazione continua nei Paesi Bassi
4.3
10
4.2.2 I Fondi interprofessionali gestiti dalle parti sociali
Proposte di TreeLLLe
4.2.3 La formazione professionale delle Regioni
Proposte di TreeLLLe
157
159
164
166
172
Sviluppo culturale e benessere dei cittadini
175
Premessa
4.3.1 Le università popolari: un’offerta non formale
Proposte di TreeLLLe
175
177
181
Box 7: Le Volkshochschulen tedesche:
università popolari cofinanziate dai frequentatori
182
4.3.2 Le biblioteche pubbliche
Proposte di TreeLLLe
Box 8: “Idea Store” in UK: una biblioteca centro polivalente
per l’educazione degli adulti
4.3.3 Consumi culturali, indici di lettura, uso dei media:
l’importanza della information literacy
Proposte di TreeLLLe
4.3.4 Lo sviluppo di una cittadinanza attiva secondo l’Unione Europea
Box 9: Il progetto europeo “Active citizenship for democracy” (2004)
Box 10: La partecipazione politica in Italia (ISTAT 2009)
Proposte di TreeLLLe
4.3.5 Volontariato e attività ricreative e sportive
per il benessere dei cittadini
Proposte di TreeLLLe
186
193
195
196
199
200
201
204
205
206
208
GLOSSARIO
209
INDICE DELLE TABELLE
213
INDICE DELLE FIGURE
215
INDICE DEI BOX
217
PUBBLICAZIONI DI TREELLLE
219
11
“Dobbiamo tornare a ragionare sulle scelte strategiche collettive, con una visione lunga.
Cultura, conoscenza, spirito innovativo sono i volani che proiettano nel futuro.
La sfida, oggi e nei prossimi anni, è creare un ambiente istituzionale e normativo, un contesto civile, che coltivino quei valori, al tempo stesso rafforzando la
coesione sociale.
Mario Draghi
Governatore della Banca d’Italia
Ancona, 5 novembre 2010
12
RINGRAZIAMENTI
I Quaderni di TreeLLLe sono frutto del lavoro di gruppi di ricerca e di progetto cui partecipano esperti nazionali e internazionali coordinati dall’Associazione. Come di consueto gli
elaborati sono firmati soltanto da TreeLLLe. Il Quaderno è ricco di analisi e di proposte
originate da un’intensa interlocuzione tra ricercatori e responsabili operativi di alto livello dei vari settori pubblici e privati delle aree di attività prese in considerazione. Le analisi e le proposte illustrate sono risultate largamente condivise: resta fermo che la responsabilità delle stesse è a esclusivo carico di TreeLLLe.
Si ringraziano i responsabili dei servizi studi e statistiche di OCSE, EUROSTAT, CEDEFOP, MIUR, ISTAT, ISFOL, CENSIS, INVALSI, CONFINDUSTRIA, UNIONCAMERE per averci fornito i dati riprodotti nelle nostre tabelle e figure.
Per le informazioni relative a esperienze europee evidenziate nei vari capitoli e soprattutto nei Box dedicati, si ringraziano Anders Hingel (D.G. Education and Culture, UE),
Beatriz Pont (Education Directorate, OCSE), Chiel Renique (Senior Advisor Education
and Training, VNO-NCW, Paesi Bassi), Tom Schuller (Director of the Inquiry into the
Future of Lifelong Learning, NIACE, UK), Claude Thélot (già Consigliere Capo della
Corte dei Conti francese), Gregory Wurzburg (Education Directorate, OCSE).
Si ringraziano Massimo Negarville per il qualificato contributo alla strutturazione del
Quaderno, Andrea Casalegno per l’attenta revisione critica e i molti che, per le loro competenze e con diverso impegno, hanno contribuito al lavoro: Ludovico Albert, Roberto
Cartocci, Fiorella Farinelli, Luca Fasolis, Paolo Federighi, Carlo Finocchietti, Francesco
Florenzano, Franco Frigo, Vittoria Gallina, Claudio Gentili, Michele Lignola, Bruno
Losito, Laura Mengoni, Maria Grazia Nardiello, Vittorio Nozza, Roberto Pettenello, Paolo
Sestito, Giovanni Solimine, Alberto Stanchi, Angelo Tiraboschi, Giorgio Usai, Benedetto
Vertecchi.
Si ringraziano i membri del Comitato Operativo di TreeLLLe che per le loro specifiche
competenze hanno orientato la ricerca e sono stati prodighi di suggerimenti: Carlo
Callieri, Carlo Dell’Aringa, Giuseppe De Rita, e segnatamente Tullio De Mauro, che per
primo ha sollecitato l’Associazione a impegnarsi sul tema del lifelong learning e dell’educazione degli adulti.
Preziosa è stata la collaborazione di Paola Frezza e Francesca Morselli per l’assistenza alla
direzione, le traduzioni e la correzione finale dei testi.
Infine si ricorda che l’attività di TreeLLLe è principalmente sostenuta dalla Fondazione
per la Scuola della Compagnia di San Paolo. Dalla sua costituzione, TreeLLLe ha anche
ottenuto contributi su specifici progetti dalle Fondazioni Pietro Manodori di Reggio
Emilia, Cassa di Risparmio in Bologna, Monte dei Paschi di Siena, Cassa di Risparmio
di Genova e Imperia, Fondazione Roma e dalla Fondazione Europa, Occupazione e
Volontariato di Roma.
13
INTRODUZIONE E GUIDA ALLA LETTURA
Il lifelong learning
La filosofia del Lifelong Learning (LLL) fa riferimento a una pratica sociale da generalizzare e a un comportamento individuale da promuovere: continuare ad apprendere
lungo tutto l’arco della vita (formazione permanente). TreeLLLe, il nome della nostra
Associazione, ha preso spunto dalla sigla LLL per dichiarare nel nome il proprio programma: favorire lo sviluppo di una società dell’apprendimento permanente. Per promuovere il LLL è fondamentale da un lato dare spazio e alimentare nei giovani la naturale curiosità (le risposte ai vari “perché?”), dall’altro far cogliere il concreto interesse
personale che c’è ad apprendere di più e meglio per condurre una vita migliore.
In proposito è fondamentale il ruolo dell’istituzione scolastica, che dovrebbe operare in
questa prospettiva fin dalla scuola dell’infanzia. Come sottolineava Montaigne, il giovane non è una bottiglia da riempire, ma una fiamma da accendere. Le proposte di LLL
non vanno quindi pensate solo in riferimento all’età adulta ma devono investire lo sviluppo del potenziale individuale fin dall’infanzia. Condizione di base per il lifelong
learning è non lasciare la scuola prima di aver “imparato a imparare”, avendo interiorizzato che continuare a imparare significa “imparare a vivere” pienamente, con più
libertà e autonomia, ma anche con più consapevolezza e responsabilità.
In una prospettiva storico-antropologica risulta evidente che
• l’assetto economico e culturale della nostra specie conosce accelerazioni in dipendenza dell’accrescersi dei repertori conoscitivi;
• l’educazione è una risorsa per l’evoluzione della specie;
• il potenziale evolutivo della specie è molto maggiore di quanto fenomenicamente
sia apparso;
• l’educazione determina le condizioni che consentono l’emersione di tale potenziale.
In questo quadro, l’ignoranza dovrebbe essere percepita dai singoli e dalla società se
non come una “malattia” da curare, certamente come un forte handicap che esclude
dalla convivenza civile, dall’esercizio responsabile dei diritti e dei doveri e ormai anche
dal lavoro: non è un caso che i meno preparati siano i primi a essere espulsi dal mercato. Rendere senso comune questo modo di sentire, evidenziare la convenienza a investire nel sapere e nel saper fare e, più in generale, elevare il livello di aspirazione dei
singoli è un impegno che deve vedere coinvolti gli individui, le famiglie, le istituzioni educative, i media, il mondo del lavoro e i decisori pubblici (nazionali e locali).
L’educazione dei giovani e degli adulti costa, ma quanto costa l’ignoranza? Qualche concreta
rappresentazione dei costi individuali e sociali è esposta nel capitolo 1.5.
Il LLL si riferisce a tutti i tipi di apprendimenti: formali, non formali e anche informali (purché questi ultimi si realizzino con un certo grado di intenzionalità). Il LLL
14
può realizzarsi nelle istituzioni dedicate, ma anche nei luoghi di lavoro (all’interno o
fuori dall’orario di lavoro), in famiglia o nella comunità.
Per dar luogo a un percorso fruttuoso e per realizzare condizioni di equità sociale non
basta affermare l’importanza che si apprenda a tutte le età ma occorre creare reali
opportunità per adeguare e aggiornare i repertori culturali di tutta la popolazione.
Per riassumere lo scopo del LLL in poche frasi si può dire che dovrebbe rendere ognuno capace di assumere il controllo della propria vita, di partecipare con altri alle decisioni che potranno modificarla, di essere in grado di prefigurare per se stessi futuri
alternativi coerenti con le proprie preferenze e aspirazioni. Tutti gli individui dovrebbero avere l’opportunità non solo di realizzare il proprio potenziale ma soprattutto di
elevare il loro livello di aspirazioni. Idealmente il diritto ad apprendere lungo tutta la
vita dovrebbe diventare un diritto (e un dovere) universale. Una popolazione ignorante è pericolosa perché soggetta a facili manipolazioni e a una sudditanza perenne.
È certo che la conoscenza modifica i comportamenti anche se non è detto che maggiori conoscenze generino di per sé comportamenti migliori: sofisticate conoscenze e abilità possono essere usate anche per fini perversi e antisociali. C’è quindi bisogno di un
modello educativo che, fuori da ogni intenzione di indottrinamento, faccia riferimento ad alcuni valori di fondo come quelli evidenziati nella prima parte della nostra
Costituzione. Secondo la Commissione Delors, nel rapporto all’UNESCO del 1996
(L’éducation: un trésor est caché dedans): “l’educazione deve fornire la mappa di un
mondo complesso e in continuo cambiamento e la bussola che consente di orientarsi”.
Il rapporto raccomanda di prestare uguale attenzione a quattro pilastri base dell’educazione:
• “imparare a conoscere” (conoscenze di base e cultura generale)
• “imparare a fare” (competenze professionali e operative in genere)
• “imparare a vivere con gli altri” (capacità di cooperare, rispetto delle differenze,
regole di cittadinanza)
• “imparare a essere” (capacità critica, autonomia di giudizio, responsabilità).
Da un simile modello educativo, in un quadro di LLL, è ragionevole attendersi lo sviluppo di tre tipi di capitale: il capitale umano (conoscenze, titoli di studio e qualifiche),
che appartiene agli individui, il capitale sociale (una rete di fiducia, di cooperazione e
valori condivisi), che è un bene pubblico, e un capitale, per così dire, di identità (autonomia critica, responsabilità, coscienza delle proprie potenzialità, aspirazioni più elevate) senza il quale è difficile che crescano il capitale umano e quello sociale. La scarsa
fiducia in se stessi, nel proprio potenziale e la povertà di aspirazioni del singolo, come
di un popolo, sono i nemici da battere.
In questa prospettiva il LLL risulta una filosofia e una pratica idonea a favorire l’emersione del potenziale evolutivo degli individui e della società, e allora non può non avere
un impatto concreto su:
a) gli attuali sistemi di istruzione primaria e secondaria (contenuti curricolari, formazione insegnanti, metodologie didattiche, etc.) che dovrebbero privilegiare le conoscenze e le competenze che tendono a durare (la matematica, le lingue, etc.) rispet15
to a quelle che tendono a cadere nell’oblio, evitando gli eccessi di nozionismo e le
pretese di enciclopedismo. Si tratta di rivedere la nozione di utilità nell’apprendimento per garantire a tutti la padronanza delle cosiddette “competenze chiave”: per
esempio quelle, quasi identiche, indicate nel 2006 dall’Unione Europea e dalla
legge francese sul Socle commun de connaissances et compétences1;
b) l’educazione e la formazione in età adulta con offerte calibrate in relazione alle diverse
tipologie della domanda. È importante che tutti gli individui abbiano l’occasione
di imparare a tutte le età quel che, per differenti ragioni, è stato loro precluso e che
siano fornite occasioni di possibili “rientri formativi” più o meno lunghi con funzioni di manutenzione o arricchimento dei loro repertori conoscitivi (gli stessi specialisti per continuare a svolgere il loro lavoro devono fare i conti con continue
acquisizioni di saperi nei loro rispettivi settori).
Peraltro la miglior cosa è che i giovani escano bene dal sistema scolastico e universitario, con buone competenze e attitudine a continuare a imparare: infatti vi è evidenza
scientifica che il rendimento degli investimenti educativi è molto più alto quando vengono effettuati nei primi periodi del ciclo di vita degli individui. Detti individui: spesso l’educazione degli adulti risulta necessaria proprio per rimediare alla modesta efficacia dell’istruzione scolastica e ai suoi ritardi storici.
L’obiettivo del quaderno: l’educazione degli adulti anche per contrastare lo storico ritardo culturale del nostro paese
La pratica del LLL e in particolare un nuovo impegno per l’educazione degli adulti risultano necessari per recuperare, in confronto ai paesi più avanzati, i nostri deficit: scarsa e
comunque recente scolarizzazione della popolazione adulta, preoccupanti e perduranti
indicatori di abbandono scolastico, deficit di capitale umano e di capitale sociale.
Si precisa che in questo Quaderno si sono volutamente privilegiate, nell’analisi come
nelle proposte, la situazione di bassa scolarità e di scarsa qualificazione che riguarda
tanta parte della popolazione adulta del nostro paese, lasciando in ombra il tema dell’aggiornamento/sviluppo del sapere e delle competenze della popolazione adulta a
media/alta scolarità e con elevata qualificazione professionale. Questa seconda questione è molto rilevante per lo sviluppo del nostro paese, ma TreeLLLe si propone di affrontarla con l’attenzione che merita con un lavoro specifico ad essa dedicato.
Questo Quaderno si prefigge quindi di sollecitare l’attenzione dei decisori pubblici, dei
media, del mondo del lavoro e in genere dei ceti dirigenti su due grandi criticità del
nostro paese:
1. la prima criticità, fatto poco noto (o pericolosamente sottaciuto), è il nostro deficit
di capitale umano, pericolosamente basso se raffrontato ai paesi sviluppati con cui
dobbiamo competere (vedi capitolo 1.1). Al 2007 il 48% della nostra popolazione tra i 25 e i 64 anni possiede al massimo la licenza media, contro il 29% della
media UE19. Anche tralasciando i titoli di studio e guardando alle indagini internazionali sulle “competenze effettivamente possedute” (IALS 2000 e ALL 2006,
popolazione 16-65 anni; vedi figure 7 e 8), risulta un’elevatissima percentuale di
16
popolazione (circa il 35%) che tuttora vive e opera in una situazione di sostanziale illetteratismo (a rischio alfabetico), mentre nei paesi più sviluppati tale percentuale è contenuta tra il 10% e il 15%. A questa popolazione a rischio alfabetico si aggiunge poi un altro 30% di popolazione con competenze fragili, limitate e a rischio di obsolescenza. Solo il residuo 35% degli italiani possiede un adeguato, sicuro o elevato livello di competenze, mentre nei paesi più sviluppati la percentuale
è dal 50% al 70%. È importante rilevare che, anche guardando alle più giovani
generazioni (25-34 anni), i risultati assoluti migliorano solo di alcuni punti percentuali, e il divario rispetto agli altri paesi sviluppati resta sostanziale. Tutto ciò
costituisce una vera emergenza nazionale cui si dovrebbe fare fronte con urgenza
(vedi capitoli 1.1 e 1.2). Infatti, con la globalizzazione tutto è mobile (capitale
finanziario, risorse produttive, etc.) mentre il capitale umano, che è proprio degli
individui, resta radicato nella nazione ed è la principale fonte della sua ricchezza. Ma, i migliori risultati in termini di sviluppo economico e civile di una
comunità si hanno quando il capitale umano si combina con un buon livello di
capitale sociale, un bene pubblico, che i sociologi identificano nel livello di fiducia reciproca, di disponibilità a cooperare, nel rispetto delle differenze, tutti elementi tipici delle comunità ad alto senso civico. Del capitale sociale, e in particolare del suo deficit cronico nelle regioni del nostro mezzogiorno, si tratta
ampiamente nel capitolo 1.4.
2. La seconda criticità è la sostanziale disattenzione dell’opinione pubblica, dei media
e anche dei nostri decisori pubblici nei confronti dell’educazione degli adulti che
invece reclamerebbe un’attenzione specifica. TreeLLLe con questo Quaderno intende raccomandare che:
• si riconosca alla educazione e alla formazione in età adulta nuova e specifica rilevanza e si promuova questo messaggio nell’opinione pubblica;
• si favorisca e si incentivi con tutti i mezzi possibili l’aumento della partecipazione della popolazione alle attività di formazione in età adulta;
• si renda l’offerta più appetibile, motivante e praticabile, in sostanza più rispondente ai bisogni effettivi degli individui, delle imprese e della società;
• si migliori la qualità dell’offerta formativa pubblica e privata attraverso a) una
più ampia informazione agli utenti riguardo alle opportunità già esistenti e b) la
verifica dei suoi risultati;
• si mettano in atto politiche e misure pubbliche (anche straordinarie) mirate a
rimediare al deficit di capitale umano di ancora troppo ampie fasce della popolazione (vedi capitolo 3.3 per il lancio di due piani straordinari)
Perché un’attenzione specifica agli adulti?
Per B. Vertecchi:“l’angolo privilegiato di osservazione dei cambiamenti culturali, che
nella fase di espansione del secolo scorso era costituito dalla scuola, è oggi diventato la
popolazione in età adulta: studiarne il profilo culturale consente di cogliere le tendenze
in atto per ciò che si riferisce alla conservazione, all’abbandono, alla sostituzione di elementi del profilo culturale ma anche al presentarsi di nuove esigenze cui non corrispondono risposte adeguate.”
17
La necessità di un impegno per l’educazione degli adulti è avvertita e più o meno soddisfatta in molti paesi per ragioni assai generali inerenti alla vita e all’organizzazione
delle società contemporanee.
Per quanto riguarda il nostro paese (ma non solo) è necessario avere ben presenti i profondi cambiamenti demografici che interagiscono con il mercato del lavoro e le tendenze sociali (Box 1):
• la popolazione cresce ma invecchia. Le aspettative di vita aumentano per il miglioramento delle scienze della salute;
• malgrado il nostro basso tasso di natalità, la popolazione aumenta per dirompenti
fenomeni di immigrazione;
• ci sono più cambiamenti di lavoro, più mobilità geografica, più relazioni interrotte (più seconde famiglie e famiglie monoparentali);
• i giovani adulti tendono a diminuire ed entrano più tardi nel mercato del lavoro;
• più persone della terza età passano molti anni della loro vita in pensionamento nonostante buone condizioni di salute e la possibilità, e spesso il desiderio, di essere
attive (a tempo pieno o parziale);
• più persone nella quarta età (75 anni e oltre) perdono autonomia e sono quindi
maggiormente dipendenti dagli altri per vari aspetti della loro quotidianità.
La demografia così diventa determinante e interagisce pesantemente con i cambiamenti del mercato del lavoro. Vanno peraltro registrati anche altri nuovi fattori dirompenti, ben evidenziati nell’appello per una proposta di legge di iniziativa popolare sull’apprendimento permanente recentemente presentata in Parlamento2:
1. un primo fattore, lo abbiamo già detto, è l’innalzamento della vita media che dà
spazio a un lungo periodo di vita dopo l’uscita dall’istituzione scolastica. Fino a non
molti anni fa si riteneva che il profilo culturale della popolazione adulta fosse prevalentemente determinato dall’istruzione ricevuta a scuola. Oggi i cittadini si trovano a dover utilizzare cinquanta anni dopo quanto hanno appreso in età scolastica. Si determinano così, per larghe fasce di popolazione, forti regressioni delle conoscenze acquisite molti decenni prima, anche per lo scarso uso che ne fa. Si creano così,
anche nei paesi avanzati, forti sacche di dealfabetizzazione o, come si dice, di analfabetismo
di ritorno;
2. un secondo fattore è lo sviluppo impetuoso dei saperi specialistici in ogni campo che ha
assunto, dalla metà del Novecento, un andamento esponenziale. Ciò appare con più
evidenza in alcuni ambiti scientifici, come biologia, fisica, scienze mediche e dell’ambiente, ingegneria informatica e delle comunicazioni. Ma il fenomeno è generale. Lo sviluppo dei saperi non ha lasciato indenni neanche settori che si potevano
supporre appartati, dalle scienze del diritto, alle scienze umane, alle matematiche.
Gli stessi specialisti, per continuare a svolgere le loro ricerche, devono fare i conti
con masse imponenti di acquisizioni nei rispettivi settori verificatesi negli ultimi
vent’anni. Tutto ciò investe fatalmente la qualità dell’informazione giornalistica
corrente, l’assetto degli insegnamenti universitari e medio/superiori e aspetti non
marginali perfino degli insegnamenti e apprendimenti di base;
3. un terzo fattore dirompente è lo sviluppo di tecniche e tecnologie che pervadono la vita
18
sociale e individuale: in particolare lo sviluppo delle tecnologie dell’informazione (segnatamente l’uso dei computer, TV e Internet) che creano sicuramente
opportunità fino a ieri non immaginabili ma che espongono anche a nuovi rischi
e a nuove forme di esclusione. In proposito, da recenti rilevazioni dell’Assinform,
risulta che dopo un’iniziale e forte diffusione dell’informatizzazione pubblica e
privata, oggi coloro che navigano con consapevolezza e utilità nella rete restano
sotto la barriera del 40%. Il digital divide, il divario personale e sociale in materia di ICT, è la conseguenza inevitabile dei bassi livelli di istruzione di base della
popolazione italiana.
Allora non si può che pensare alla necessità strategica di una specifica attenzione non solo alla
scuola e all’università ma anche all’educazione degli adulti, e a promuovere la domanda di formazione permanente con una offerta di qualità mirata ai differenti bisogni (vedi capitolo 2.1).
Conservare l’istruzione di base, incrementare le competenze professionali e sviluppare
il livello culturale della popolazione in età adulta sono le condizioni essenziali per un
esercizio pieno dei diritti e dei doveri di cittadinanza e per lo sviluppo di una economia competitiva.
Più volte l’OCSE, anche nel più recente rapporto annuale Education at a Glance, ricco
di indicatori per consentire il confronto tra vari paesi, ha osservato che in Italia manca
un sistema unitario o coordinato di educazione permanente in una prospettiva di LLL.
Nel capitolo 1.5 si evidenzia che in Italia si sommano gli effetti negativi di tre fenomeni: un basso tasso di natività, un basso tasso di istruzione e una sua modesta qualità. Ne
sono prova sia le recenti indagini comparative OCSE-PISA sugli apprendimenti dei
quindicenni, sia lo scarso riconoscimento in termini remunerativi dei titoli di studio
da parte del nostro mercato del lavoro.
Allo stato in cui siamo, anche se il sistema educativo italiano si trasformasse da un giorno all’altro nel migliore sistema possibile, a causa dei bassi tassi di natalità l’Italia
dovrebbe comunque affidarsi, per molti anni ancora, ad adulti poco istruiti che sono
già in età lavorativa. È spontaneo chiedersi se davvero i datori di lavoro credono di
poter restare competitivi nel mercato globale senza poter contare su una più ampia diffusione di conoscenze, competenze e abilità per i loro dipendenti.
Il punto cruciale, allora, è capire se le imprese, il governo e la società italiana sono preparati ad
affrontare con urgenza gli investimenti necessari in materia di lifelong learning e di educazione
degli adulti.
Un’emergenza nazionale: culturale, economica, democratica
I cambiamenti richiamati (globalizzazione, demografia etc.) sollecitano, anche nei
paesi sviluppati, lo sviluppo di politiche che favoriscano l’educazione degli adulti. In
Italia questo obiettivo-sfida assume tratti particolari e specifici.
È pur vero che il nostro sistema scolastico, peraltro solo di recente, ha saputo cancellare le eredità più vistose di un passato secolare di rifiuto della scuola e della cultura. Non
si può non ricordare che a metà Novecento circa il 60% della popolazione adulta era
19
priva di ogni titolo scolastico, anche la semplice licenza elementare, e molti si confessavano analfabeti ai censimenti del 1951 e 1961. Perfino la lingua nazionale non era
patrimonio comune, ma privilegio di una minoranza. Va riconosciuto che in campo
educativo l’Italia, a partire dagli anni sessanta del secolo scorso, ha compiuto rilevanti
progressi, ma questo sviluppo non è stato fino ad oggi sufficiente per tenere il passo
con i progressi di altri paesi con cui siamo in diretta competizione: infatti il successo
dipende non tanto dal progresso che ogni paese fa rispetto alla sua storia, ma soprattutto dal confronto tra la propria performance e quella degli altri paesi. Oggi gli analfabeti che si autocertificano tali al censimento e le persone senza alcun titolo scolastico toccano ormai
meno del 10% della popolazione, ma sono ancora ampie le fasce di popolazione (segnatamente la più anziana, ma non solo quella) con bassi livelli di scolarità: tutt’oggi, lo
ripetiamo, il 48% degli adulti (24-65 anni) ha al massimo la licenza media.
Questo basso livello di istruzione degli adulti pesa come un macigno sulle nuove generazioni. La
ultra-comprovata stretta correlazione tra qualità culturale dell’ambiente familiare e l’andamento scolastico dei giovani dice quanto negativamente influisce sugli apprendimenti scolastici dei giovani e evidenzia quanto è difficile per la scuola recuperare gli svantaggi che derivano da questi
contesti famigliari e ambientali culturalmente poveri.
Per di più, usciti dalle istituzioni formative, i cittadini della Repubblica a confronto
con i paesi europei più avanzati, trovano un ambiente ancora troppo povero di centri e
agenzie capaci di stimolare arricchimento e crescita culturale (vedi 4.3.3): di qui scarsa frequentazione di biblioteche territoriali, di teatri, sale da concerto, cinema, povera
consuetudine con libri e giornali, non superiore al 40% l’abitudine di accedere a internet. Tuttora lo strumento di acculturazione dominante è la TV.
Così, il quadro che emerge nella parte prima di questo quaderno (capitoli 1.1 e 1.2) evidenzia
per il nostro paese (segnatamente per il mezzogiorno) un grave deficit in termini di capitale umano
e di capitale sociale e questa è sicuramente una delle ragioni chiave per spiegare la nota perdita
di competitività del nostro sistema economico e culturale determinatasi a cavallo del secolo con lo
sviluppo della globalizzazione.
Tutto ciò rappresenta una vera emergenza nazionale, tanto più grave quanto sottaciuta o
ignorata; il basso livello di capitale sociale e di capitale umano del nostro paese prefigura tre emergenze: in primo luogo il rischio di uscire dal novero dei paesi ad alto sviluppo (emergenza economica), poi da quello dei paesi avanzati (emergenza culturale) e infine il rischio di una democrazia poco informata e poco partecipata (emergenza democratica). Se non si realizzeranno provvedimenti straordinari, è alle porte il rischio di una
prossima subalternità culturale ed economica del nostro paese.
Un’emergenza nell’emergenza: il problema del Mezzogiorno
Non è certo un problema nuovo quello dei fortissimi divari che sussistono tra le regioni del Centro-Nord e quelle del Mezzogiorno: questi divari tra regioni sussistono anche
in altri paesi europei, ma non sono così marcati come nel nostro. I dati sul capitale
umano sono ben evidenziati nel Focus sul capitale umano in Italia (capitolo 1.2) (distribuzione geografica dei titoli di studio, degli abbandoni precoci, delle competenze
effettive). Altrettanto dicasi per le rilevazioni sugli indicatori del capitale sociale, vedi
20
capitolo 1.4 (geografia della partecipazione elettorale, delle copie di quotidiani diffuse, dei donatori di sangue, dell’associazionismo sportivo). Da tutti questi indicatori
emerge con evidenza che ci si trova di fronte a due Italie: una con indicatori di massima “europei”, l’altra ancora molto lontana dall’Europa. Che dopo centocinquanta anni di unità
d’Italia il problema del Mezzogiorno sia ancora all’ordine del giorno è indice da un lato
di un fallimento storico delle scelte dei nostri decisori pubblici e dei nostri ceti dirigenti e dall’altro delle enormi difficoltà e resistenze strutturali che ci sono a modificare i tratti culturali di una popolazione.
A questo punto emerge un interrogativo di natura politica e istituzionale: quasi tutte
le forze politiche hanno abbracciato il valore del federalismo e della riduzione dei vincoli della periferia con il centro, additato, non senza ragione, come responsabile di
troppe inefficienze, sprechi e ritardi dell’amministrazione pubblica.
Per TreeLLLe le ricerche sul capitale sociale, sul rendimento delle istituzioni e l’osservazione delle dinamiche degenerative, di cui troppa parte della politica meridionale si
è fatta interprete in questo dopoguerra, avrebbero dovuto suggerire altri tipi di intervento, più consoni al livello di sviluppo economico e di maturazione civica delle differenti realtà regionali.
La formazione di una classe politica meridionale responsabile e orientata alla produzione di beni pubblici è fallita nei decenni della Prima Repubblica, quando i partiti erano i più efficaci strumenti di unificazione nazionale. Problematico che possa
accadere oggi, in un tempo di partiti deboli e, se possibile, ancora più permeabili
alle domande clientelari e alle pressioni di ambienti più o meno contigui a mafie e
camorre.
L’esile armatura della società civile del Mezzogiorno e la clamorosa inefficienza di troppe amministrazioni locali meridionali dovrebbero consigliare prudenza nell’allentare i
legami tra centro e periferia: piuttosto sarebbe consigliabile l’adozione di provvedimenti da attuare a geometria variabile a seconda delle condizioni socio-ambientali
delle varie regioni. E senza escludere misure di commissariamento per i casi più gravi
di cattiva gestione della cosa pubblica.
Le previsioni al 2020 sul mercato del lavoro e sui fabbisogni di qualificazione
della forza lavoro
Per il nostro paese sono preoccupanti le previsioni al 2020 sull’evoluzione della
domanda e dell’offerta di livelli di qualificazione in Europa stimati dal CEDEFOP European centre for the development of vocational training (Tabella 29), che indicano:
• i due terzi dell’occupazione europea si concentreranno nel settore terziario;
• quasi tutta l’occupazione aggiuntiva e una forte componente di quella sostitutiva saranno caratterizzate da lavori ad alta intensità di conoscenza e competenze
tecniche;
• cresceranno i livelli di istruzione/formazione e competenze richiesti in tutti i tipi
di lavoro, anche in molte occupazioni elementari.
In Italia le previsioni sulla domanda di lavoro e sui fabbisogni di competenze riflettono la tendenza media Europea, ma i dati sulle qualificazioni della forze di lavoro deno21
tano invece tendenze allarmanti se confrontati con la media europea e ancora di più con
i paesi a noi vicini, come Germania e Francia.
Le proiezioni al 2020 del CEDEFOP segnalano infatti che:
• l’Italia sarà il Paese (con il Portogallo) col più alto peso di forze di lavoro con bassi
livelli di qualificazione (37,1% contro la media UE del 19,5%);
• ci sarà un relativo allineamento alla media europea sui livelli intermedi (45,4%
contro il 48,5% dell’UE);
• ci sarà una carenza fortissima di forze di lavoro altamente qualificate (17,5% contro il 32% dell’UE).
In questo scenario, l’Italia si troverebbe in una situazione di grave deficit professionale, con carenza di profili tecnici e specialistici in molti campi e risulterebbero compromesse le dinamiche di sviluppo e la capacità competitiva. La difficile situazione delle regioni italiane è ben documentata
dall’Indice di competitività delle regioni europee pubblicato dalla Commissione Europea nel settembre 2010 (Figura 21).
Gli obiettivi strategici dell’UE e le raccomandazioni dell’OCSE per l’educazione
degli adulti
Nel Capitolo 2.1 sono indicati gli obiettivi strategici del Consiglio Europeo tenutosi
a Lisbona nel 2000 per sostenere lo sviluppo economico, l’occupazione e la coesione
sociale: uno dei cinque obiettivi da traguardare è proprio quello della partecipazione
degli adulti all’apprendimento permanente. In Italia, è limitato al 6.2% della popolazione attiva contro una media europea del 9.6%.
Le raccomandazioni dell’OCSE su come promuovere l’educazione degli adulti e su dove
trovare le risorse finanziarie necessarie sono illustrate nei capitoli 2.2 e 2.3.
Le proposte di TreeLLLe
Sia le proposte di sistema che le proposte operative sono numerate ed evidenziate in azzurro nell’indice e nei vari capitoli.
Nel capitolo 3.1 sono identificati i principali nodi critici dell’attuale offerta. Per citare i principali: mancano rilevazioni sistematiche e indicatori condivisi; i sistemi di
offerta sono rigidi, oligopolistici, autoreferenziali e poco aderenti alla variegata domanda reale; è sostanzialmente assente la valutazione dei risultati; la qualità dei formatori
non è garantita da profili specifici; c’è scarso coordinamento fra i vari soggetti dell’offerta pubblica e tra questi dell’offerta privata. Il nodo critico fondamentale è che all’offerta
dell’educazione degli adulti partecipa soprattutto chi è già provvisto di titoli e qualifiche cioè chi
ne avrebbe meno bisogno e, di converso, non partecipa chi ne è sprovvisto, cioè chi ne avrebbe maggiore necessità.
In generale è allora necessario mobilitare risorse da parte di soggetti pubblici e non
pubblici, cioè coinvolgere i governi, gli enti locali, ma anche, secondo il principio di
sussidiarietà, il mondo delle imprese, il terzo settore e gli individui affinché tutti questi attori sociali collaborino, ciascuno per la sua parte, al miglioramento delle competenze e delle abilità necessarie per il XXI secolo.
Idealmente l’obiettivo dovrebbe essere quello di favorire il consolidarsi di tre generi di
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diritti: 1) il diritto alle conoscenze e competenze di base; 2) il diritto a competenze professionali e più in generale a quelle che favoriscono l’“occupabilità” per operare nella società di oggi e di domani; 3) il diritto allo sviluppo culturale per poter affrontare problemi
o soddisfare interessi che possono sorgere nelle varie fasi del corso della vita: ad esempio, potrebbero svilupparsi diritti contrattuali per periodi di congedo remunerato a fini
formativi (potrebbe essere uno sviluppo di quanto avvenuto quarant’anni fa quando si
decise di pagare le vacanze, fino ad allora non pagate). Nel Libro Bianco della
Commissione UE presieduta dalla Cresson (Bruxelles 1995) si avanzava una proposta
ancora più radicale: dopo la scuola ognuno potrebbe avere un “credito” per significativi periodi di ulteriore formazione da attivare a propria scelta nel corso della vita (un
capital de temps choisi).
Chi dovrebbe finanziare il costo di questi diritti? In Europa è ormai condiviso e accettato
il principio del confinanziamento tra i vari soggetti interessati (capitolo 2.3). In generale esiste ormai un consenso sulla seguente formula: le conoscenze e le competenze di base
devono essere finanziate dallo Stato, (capitolo 4.1). Le qualifiche e le competenze professionali devono essere finanziate inizialmente dallo Stato ma poi soprattutto dalle imprese e dagli individui, e comunque Stato e imprese dovrebbero sempre collaborare strettamente (capitolo 4.2). Per lo sviluppo culturale, decisivo dovrebbe essere l’impegno
degli individui ma questo impegno dovrebbe essere supportato almeno in parte dallo
Stato (con la TV pubblica, biblioteche territoriali, cinema, teatro, musica, etc.), dalle
imprese e dal terzo settore (università popolari e della terza età, associazioni di volontariato, etc., capitolo 4.3).
Sia l’impegno dello Stato che quello delle imprese e del terzo settore dovranno comunque tener conto della specificità dell’apprendere in età adulta (capitolo 3.1), delle
oggettive difficoltà che sussistono a che gli adulti, specialmente quelli che ne hanno
più bisogno, partecipino ad attività di formazione. Gli ostacoli sono: carenza di informazioni e motivazioni, tempi e costi.
A fronte dei nodi critici dell’attuale offerta di formazione, le principali proposte di
sistema di TreeLLLe per favorire lo sviluppo dell’educazione degli adulti (capitolo
3.2) sono:
• produrre rilevazioni sistematiche con indicatori condivisi oggi gravemente assenti
per monitorare lo stato e lo sviluppo dell’educazione e formazione degli adulti;
• aumentare significativamente l’impegno di risorse pubbliche e private;
• dare luogo a un coordinamento, oggi del tutto episodico, tra i vari ministeri interessati (principalmente Istruzione, Lavoro, Welfare), attribuendo un ruolo leader a
uno di questi;
• dare quindi luogo al coordinamento e a una stretta collaborazione tra un Comitato
Interministeriale (con un ministero leader), le Regioni e le parti sociali;
• assumere la dimensione locale (segnatamente Regioni e Province) come il terreno
ottimale per l’educazione degli adulti, individuando tempi, luoghi, modi originali e adeguati alla vita di un adulto;
• ripensare e valorizzare il concetto di “impresa formativa” per definire a quali condizioni l’impresa possa svolgere questo ruolo utilizzando anche facilitazioni e
incentivi pubblici;
23
• favorire e accreditare le organizzazioni del terzo settore che diano garanzie di trasparenza, continuità ed efficacia guardando ai risultati;
• facilitare fiscalmente tutte le spese di formazione dei vari soggetti (imprese, terzo
settore, individui);
• sperimentare la possibilità di motivare i gruppi più deboli a partecipare ad attività di formazione attraverso attestati e riconoscimenti di vario tipo.
A) L’impegno di risorse pubbliche
Innanzitutto, per TreeLLLe è necessario ribilanciare in qualche misura le risorse pubbliche globali per l’istruzione e la formazione in una nuova prospettiva, quella del lifelong learning.
Nel nostro paese, a grandi cifre, la spesa pubblica annuale per l’istruzione scolastica
(Stato, Regioni ed Enti locali) è nell’ordine dei 50 miliardi di euro (con una spesa
per studente più alta della media europea); quella per l’università è di circa 8 miliardi (includendo oltre al FFO (Fondo Finanziamento Ordinario) anche i fondi per l’edilizia e la spesa delle Regioni a favore degli studenti) e quella per l’educazione degli
adulti di 2-3 miliardi (queste ultime con una spesa più bassa dei livelli medi europei). Tale distribuzione non risponde né ai profondi cambiamenti della struttura
demografica di una società in cui si è allungata la vita media, né all’urgenza di compensare i deficit storici e strutturali del nostro paese relativamente alle competenze
della popolazione adulta (segnatamente delle forze di lavoro). Risulta evidente che,
così come avviene nei paesi avanzati, sono necessari maggiori investimenti per l’educazione degli adulti (e anche per l’istruzione terziaria), o quanto meno, in tempi
di riduzione della spesa pubblica, un ribilanciamento di alcuni miliardi delle attuali risorse a favore dell’istruzione terziaria e dell’educazione degli adulti.
Un’approfondita analisi con relative proposte è contenuta nel rapporto (2009) del
NIACE (National Institute of Adult Continuing Education), Box 1: in particolare si
sostiene un ribilanciamento delle spese per l’educazione degli adulti a favore dei 5575enni e dei 75enni e più.
In secondo luogo TreeLLLe ritiene necessario un approccio che assuma la bassa scolarità adulta (rischio alfabetico), lo sviluppo professionale (segnatamente dei disoccupati e inoccupati) e la cittadinanza debole come questioni prioritarie su cui soprattutto il momento pubblico dovrebbe intervenire non solo per problemi di equità ma
per concrete ragioni di sviluppo economico e di coesione sociale. Di qui la proposta
di due piani straordinari sotto indicati.
Una proposta di TreeLLLe: due piani straordinari (capitolo 3.3)
È purtroppo noto che non colgono le opportunità di formazione proprio quelle fasce di
cittadini che si trovano in condizione di rischio alfabetico, senza titoli di studio o qualificazione professionale. Per TreeLLLe risponde non solo a criteri di equità, ma anche all’interesse-paese, un investimento pubblico straordinario per dotare queste fasce di popolazione di un livello minimo di istruzione e/o formazione di base che consenta loro di
ottenere un qualche livello di occupabilità e di cittadinanza.
Con caratteri di analoga urgenza, nell’interesse loro e del nostro paese, è urgente affrontare il problema dei cittadini stranieri regolarmente soggiornanti nel nostro paese ai fini
di una loro integrazione e inclusione nel nostro contesto sociale ed economico.
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In analogia a quanto già avviene in alcuni paesi europei che destinano significative
risorse all’educazione degli adulti e una attenzione specifica agli immigrati (vedi ad
esempio il programma inglese Skills for life, Box 4). TreeLLLe propone che il nostro
governo, come primo passo, finanzi due piani straordinari:
- piano straordinario 1: intervenire sui giovani adulti (20-34 anni) a rischio alfabetico
e a bassa qualificazione;
- piano straordinario 2: aiutare finanziariamente e organizzativamente i cittadini stranieri regolarmente soggiornanti nel nostro paese (con priorità ai 16-34enni con
bassi titoli di studio) a pervenire a un adeguato possesso funzionale della nostra lingua e a un’elementare conoscenza del nostro contesto istituzionale e sociale.
B) L’impegno di risorse private
La domanda di formazione riguarda potenzialmente tutti gli individui adulti. Sono
impensabili risposte basate solo sull’intervento pubblico. Risulta allora evidente che,
vista la modestia delle risorse pubbliche comunque destinabili all’educazione degli
adulti, ricade soprattutto sulle imprese e sugli individui l’onere di investire maggiori
risorse per il miglioramento dello sviluppo professionale e per lo sviluppo culturale
della popolazione. Anche il privato sociale può trovare in quest’area ampi spazi di sano
sviluppo e di utilità sociale (vedi ad esempio le università popolari nel 4.3.1 e nel 4.3.5
le innumerevoli iniziative di volontariato religioso e non). Allo Stato resta il compito
di promuovere questo impegno creando le migliori condizioni per favorirlo: ad esempio con tutte le facilitazioni fiscali possibili, con campagne di sensibilizzazione, servizi di orientamento e di informazione sulle possibili occasioni formative, etc.
1. Per quanto riguarda lo sviluppo professionale dei lavoratori (la cosiddetta “formazione
continua”) finalizzato a garantire buoni livelli di occupabilità agli addetti e maggior competitività alle imprese, le analisi e le proposte di TreeLLLe sono illustrate
nel 4.2.1. Tra queste, la più strategica è pervenire a un sistema di qualifiche condivise da tutte le regioni con riferimento esplicito al quadro europeo delle qualifiche EQF.
Sono particolarmente promettenti i cosiddetti Fondi Interprofessionali, costituiti nel
2001 e gestiti dalle parti sociali in coerenza con la programmazione regionale e
secondo indirizzi del Ministero del Lavoro: le proposte di TreeLLLe nel 4.2.2 mirano a realizzare una piena autonomia gestionale e organizzativa di questi fondi.
Un’analisi del sistema della formazione professionale regionale per gli adulti (occupati
e disoccupati) e relative proposte sono svolte nel 4.2.3. Preoccupante la mancanza
di indicatori e dati omogenei per consentire confronti di efficacia e di efficienza
delle singole regioni: la mancanza di trasparenza non sembra del tutto casuale perché funzionale, specie in alcune di esse, a consentire troppo spesso un uso distorto
dei fondi.
2. Per quanto riguarda lo sviluppo culturale dei cittadini (trattato nel capitolo 4.3), giova
una premessa: cent’anni fa si viveva mediamente per 400.000 ore e si lavorava per
100.000 ore, cioè per il 25%; oggi si vive per 600.000 ore e si lavora per 70.000,
cioè per il 12%. Gli spazi crescenti di tempo “liberato dal lavoro”, oggi spesso
povero e destrutturato (vedi Capitolo 1.3), possono costituire una grande opportu25
nità di cui i cittadini potrebbero approfittare se esistesse un’offerta formativa ricca
e strutturata per tutto l’arco della vita. Bertrand Russell diceva che “Molto tempo
libero può essere noioso per chi non si impegni in attività intelligenti. Una popolazione che lavora poco, per essere felice deve essere più istruita”.
Sul lato della domanda l’obiettivo è, lo ripetiamo ancora, elevare il livello delle aspirazioni degli individui, perché la molla primaria resta pur sempre la responsabilità personale riguardo al proprio sviluppo culturale.
Fermo restando che per l’educazione degli adulti è imprescindibile un prevalente
impegno di risorse private (umane e finanziarie), questo non significa però che i decisori pubblici non abbiano alcuna responsabilità. Essi sono tenuti a creare le condizioni
che possano favorire l’iniziativa individuale o di gruppo e a rimuovere gli ostacoli al
suo libero manifestarsi. Non si tratta, insomma, di guidare le scelte degli individui,
bensì di creare un ambiente favorevole all’iniziativa e di rimuovere gli ostacoli alla sua
piena esplicazione.
L’ideale è che la domanda e l’offerta si incontrino e si stimolino vicendevolmente, alimentando un circuito virtuoso.
C) L’impegno per una cittadinanza attiva ed una democrazia partecipata
Di particolare interesse il progetto europeo per lo sviluppo di una cittadinanza attiva (“Active
citizenship for democracy”, 2006) definita come “partecipazione alla società civile, alla
vita della comunità e alla vita politica, caratterizzata dal rispetto reciproco e dalla nonviolenza e in accordo con i principi e i diritti umani e della democrazia” (Box 9).
Per quanto riguarda forme di partecipazione politica non convenzionale un’attenzione specifica va riservata alle nuove forme di partecipazione politica organizzate sulla rete. La
rete è diventata, come è stato detto, una nuova “piazza politica”, dove è possibile comunicare, esprimere le proprie idee, far circolar informazioni e organizzare momenti di
mobilitazione. Difficile dire quali potranno essere gli sviluppi futuri in questa direzione (vedi 4.3.4). A fronte della diffusione e della invasività delle nuove tecnologie
ICT, della TV e particolarmente di internet, a TreeLLLe preme evidenziare il ruolo
essenziale di una nuova competenza che è sempre appartenuta ai ceti dirigenti, ma che
ora dovrà necessariamente essere diffusa tra tutta la popolazione, la cosiddetta information literacy (vedi 4.3.3), cioè la capacità di saper gestire criticamente il flusso crescente di informazioni e di immagini da cui la cittadinanza è investita. Proprio alla information literacy il Presidente Obama ha voluto che fosse dedicato negli USA il mese di
ottobre 2009. Il comunicato che lanciava l’iniziativa richiamava ogni cittadino a imparare a valutare l’informazione “per imparare a separare la verità dalla finzione, il segnale dal rumore” e invitava i cittadini a riflettere sull’importanza dell’informazione nei
vari aspetti della vita.
Orientamenti di fondo per lo sviluppo culturale e il benessere dei cittadini
Facendo riferimento ai dati illustrati nel capitolo 1.3, è possibile suddividere la popolazione adulta in base alla propensione a fruire attivamente di determinate pratiche e
prodotti culturali. Il risultato è che la popolazione adulta italiana (18-65 anni) può
essere suddivisa, grosso modo, in tre gruppi:
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• il primo (costituito da 5 milioni di persone, pari al 16% del totale) è quello di coloro che già coltivano l’abitudine, o addirittura la passione, di progredire culturalmente approfittando delle più diverse forme di offerta culturale disponibili all’interno di una società sviluppata
• un secondo gruppo (costituito da quasi 10 milioni di persone, pari al 31% del totale) raggruppa coloro che non approfittano abitualmente delle opportunità culturali, ma che, da una serie di indizi, rivelano un potenziale interesse verso di esse e
sono frenati soprattutto da ostacoli esterni di vario genere
• vi è infine il terzo gruppo (costituito da 17 milioni di persone, oltre il 53% del
totale) di coloro che si rivelano refrattari al consumo culturale nel tempo libero per
ragioni profondamente connesse alle loro condizioni personali e sociali, a partire da
quella, senza dubbio decisiva, del livello di istruzione.
Come intervenire su questa situazione? TreeLLLe si limita a ribadire alcuni orientamenti
sulle vie maestre per favorire lo sviluppo culturale, lo sviluppo economico e il benessere dei cittadini.
1. Un impegno crescente, individuale e pubblico, a favore di attività di istruzione, formazione
professionale e sviluppo culturale
Per essere efficaci questi interventi devono essere differenziati a seconda che si rivolgano al primo, al secondo o al terzo gruppo di cui abbiamo parlato: cittadini interessati,
cittadini potenzialmente interessati o cittadini del tutto disinteressati alle opportunità di sviluppo culturale.
a) Primo gruppo: questi cittadini dimostrano con il proprio comportamento di aver già
assimilato l’importanza dell’apprendimento per tutto l’arco della vita. Per loro
un’azione di “proselitismo” sarebbe superflua.
b) Secondo gruppo: un’offerta culturale ricca e varia sarebbe poi la via migliore per invogliare al consumo culturale anche quella parte di popolazione (dieci milioni il 31%
della popolazione adulta) che non vi si accosta in modo abituale, ma che dimostra verso
di esso un interesse potenziale. Se lo Stato e gli enti locali sapranno creare le condizioni che favoriscano un’offerta culturale sempre più ricca e qualificata, sobbarcandosi
anche i costi di promozione ai quali il settore privato (che deve comunque restare
determinante) non riesce a far fronte, essi sapranno come approfittarne.
In tempi di crisi economica è forte la tentazione di ridurre la spesa pubblica proprio
tagliando i finanziamenti orientati a beni culturali, che non sembrano immediatamente produttivi. Sarebbe un atteggiamento miope. Investire sulla cultura è investire
sul futuro, significa preparare il terreno migliore per superare, nel medio periodo, le
difficoltà e favorire una ripresa.
Resta pienamente valido peraltro l’obiettivo di ridurre i tanti sprechi di risorse pubbliche. Ma quali sono gli sprechi nelle iniziative di tipo culturale? Sono le somme elargite non sulla base di rigorosi criteri di qualità, bensì per ragioni di tipo opportunistico o clientelare, dirette a favorire persone o enti dai quali ci si aspettano vantaggi che
nulla hanno a che vedere con lo sviluppo culturale effettivo. In altre parole, proprio nei
periodi di difficoltà economiche la spesa culturale non andrebbe ridotta ma qualificata in
modo più rigoroso: pericoloso invece effettuare risparmi attraverso tagli indiscriminati.
27
c) Terzo gruppo: molto più difficile è intervenire a favore di quella parte della popolazione (gruppo di circa 17 milioni di persone, pari al 53% del totale) che per la
propria condizione culturale e sociale si rivela refrattaria sia al consumo culturale, sia a quelle forme di impegno sportivo o di volontariato che aiutano l’individuo a crescere in modo attivo all’interno della collettività. Sono le persone che
più avrebbero bisogno di far propria la pratica dell’apprendimento nel corso della
vita, di prendere coscienza della necessità imprescindibile di investire sul proprio
futuro. Ma costoro, per condizioni individuali e sociali, si trovano per così dire
“al di qua” di questa spinta e di tale consapevolezza.
In relazione a questa parte di popolazione più svantaggiata resta fondamentale
una scuola di qualità che accenda nei giovani la curiosita e l’interesse ad apprendere per tutto l’arco della vita; sul breve termine abbiamo formulato le due proposte straordinarie (capitolo 3.3), che, protratte nel tempo, potrebbero dare notevoli risultati.
2. Un impegno crescente nel volontariato nonché nelle attività ricreative e sportive per il benessere dei cittadini
Data l’ampiezza e la varietà di queste attività, che coinvolgono milioni di persone, il
Quaderno non le ha trattate con analisi specifiche, ma TreeLLLe ha chiara l’importanza che esse rivestono per il benessere della cittadinanza (vedi 4.3.5).
Infatti, molto spesso una parte assai rilevante della popolazione dedica una porzione
del proprio tempo libero, più che al consumo culturale, a forme di attività associativa diverse ma non meno utili per lo sviluppo individuale e il benessere sociale. Ci
riferiamo in particolare alle associazioni ricreative, sportive e, ancora di più, a quelle di
volontariato, di ispirazione religiosa e non.
Per quanto riguarda le attività ricreative e sportive, la collettività ha tutto l’interesse a
sostenerle, poiché da esse riceve grandi benefici attraverso due fattori fondamentali:
esse promuovono in primo luogo una popolazione più sana, più aperta verso gli altri
e meno soggetta alle malattie e al deperimento individuale che gravano sulla sanità
pubblica con rilevantissimi costi.
In secondo luogo attraverso le attività ricreative e sportive si diffonde e si consolida
una “cultura delle regole” indispensabile per favorire una migliore convivenza all’interno di società sempre più complesse. Chi abbia fatto proprio il principio che la
spinta agonistica ha valore soltanto se avviene all’interno di una competizione leale,
basata su regole condivise, sarà molto più restio a violare le regole anche in altri
campi, nella vita lavorativa e politica come nei rapporti personali e sociali.
A maggior ragione queste argomentazioni valgono per le attività di volontariato, nelle
quali si esplica concretamente la spinta ad aiutare gli altri attraverso le più diverse
forme di solidarietà. In questo caso, come nel precedente, lo Stato non deve sobbarcarsene i costi (che devono restare a carico delle associazioni liberamente finanziate
dai loro partecipanti), ma può favorirle in modo diretto limitatamente alla fase di
avvio e in modo indiretto creando le condizioni ambientali opportune, ad esempio
attraverso tutte le facilitazioni fiscali possibili.
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Per concludere
Treellle ribadisce che l’istruzione e la formazione, per i giovani come per gli adulti, non
devono limitarsi a impartire conoscenze, ma devono far propria la missione di sviluppare competenze e trasmettere, senza rinunciare allo spirito critico, i valori fondamentali per come si sono storicamente consolidati nei paesi evoluti per una buona convivenza. Sono espressi in modo esemplare nella prima parte della Costituzione italiana.
L’educazione alla cittadinanza, infatti, non è un “di più” che si aggiunga dall’esterno ai
compiti primari dell’istruzione, ma è parte integrante dell’attività educativa e compete a tutti gli ordini d’istruzione e formazione. Soltanto l’educazione alla libertà di tutti,
propria e altrui, al rispetto delle regole e alla volontà di partecipazione consapevole alla
vita collettiva possono creare le condizioni minime di autostima e di responsabilità
sulla base delle quali può scattare, non può non scattare, la spinta a migliorare se stessi, ad elevare le proprie aspirazioni, cioè ad apprendere per tutto l’arco della vita.
Attilio Oliva
Presidente dell’Associazione TreeLLLe
Note
1
2
I sette pilastri del Socle francese sono: padronanza della lingua madre, pratica di una lingua straniera, conoscenza dei principali elementi di matematica e padronanza di una cultura scientifica, possesso di una cultura umanistica, padronanza delle moderne tecniche di informazione e comunicazione, acquisizione di competenze sociali e civiche, acquisizione di autonomia e spirito di iniziativa.
Numerose sono le proposte di legge sull’educazione permanente all’attenzione del Parlamento. Segnaliamo qui
la legge di iniziativa popolare che ha come primi firmatari Guglielmo Epifani e Tullio de Mauro:
http://www.cgil.it/Archivio/formazione-ricerca/Proposta%20Legge%20Apprendimento%20Permanente.pdf
29
BOX 1
INDAGINE NIACE SUL FUTURO DEL LIFELONG LEARNING IN UK (2009)
L’indagine indipendente sul futuro del LLL e sull’educazione degli adulti in UK (“Learning through life”, di
T. Schuller e D. Watson) è stata avviata nel 2007 e sponsorizzata dal NIACE (National Institute of Adult
Continuing Education, ). Nel corso dell’indagine sono stati coinvolti esperti del governo, del business, delle
università, dei sindacati, dei pubblici servizi, di agenzie formative, del terzo settore e degli utenti.
Estratti dal Rapporto:
“Iniziamo da una premessa: il diritto di imparare nel corso della vita è un diritto di tutti gli uomini. […] Il
nostro scopo è costruire un’agenda per il lifelong learning adeguata ai prossimi vent’anni. […] Nell’ambito
del LLL, il nostro focus primario è sull’educazione degli adulti. La definizione di LLL che proponiamo è la
seguente:
Il LLL include persone di tutte le età che imparano in una varietà di contesti, in istituzioni educative, al
lavoro, a casa e durante le loro attività di svago e ricreative. Si concentra soprattutto sugli adulti che si
riavvicinano a un apprendimento organizzato, piuttosto che al periodo iniziale di educazione o all’apprendimento occasionale. […]
Limitandoci all’educazione degli adulti la nostra proposta chiave è modificare il modo in cui si pensa abitualmente alla distribuzione degli apprendimenti nel corso della vita: noi proponiamo di ripensare il tutto in
termini di quattro stadi principali: da 18 a 25 anni, da 25 a 50, da 50 a 75 e da 75 oltre.
Infatti la nostra è una società in cui 1) le persone diventano molto più anziane di un tempo e 2) ci sono
continue e nuove transizioni da un lavoro a un altro, che richiedono un nuovo approccio. […]
La demografia così diventa determinante e interagisce con i cambiamenti del mercato del lavoro: più donne
al lavoro, più giovani che stanno più tempo a casa o nel settore educativo, strutture familiari che cambiano
e più persone con problemi di salute nella quarta età. […]
Bisogna superare l’abituale e artificiosa concezione del pensionamento a 60-65 anni e pensare che ci possono essere diverse modalità e tempi di uscita dal mercato del lavoro.
Di qui l’idea di ripensare gli apprendimenti nel corso della vita in riferimento a quattro stadi principali.
Primo stadio (fino a 25 anni)
Nel 2006, in Inghilterra, due terzi delle persone tra i 20 e i 25 anni e il 40% delle donne vivono con i loro
genitori. Molti di questi giovani adulti fanno parte dei NENE (Neither in Education Nor in Employment). I percorsi di questi giovani adulti sono variegati e piuttosto incerti. Il risultato netto è comunque che il passaggio alla vita adulta di questi giovani è molto spesso più prolungato di una volta e poco prevedibile. Bisogna
tener conto della natura prolungata di questa transizione.
Secondo stadio (25-50 anni)
In questa età le opportunità di apprendimento si concentrano sul tipo di occupazione e sui bisogni
famigliari. In questa età molte persone vivono il loro percorso come una mancanza di tempo a loro disposizione (lo stadio delle “rush hours”): la sfida infatti sta nell’affrontare problemi di studio, di lavoro e di
famiglia e nel trovare difficili compatibilità tra questi. Dalle indagini risulta che le persone in questo periodo sono sempre a corto di tempo per affrontare queste sfide.
Terzo stadio (50-75)
Tra i 50 e i 75 anni si attua una transizione dall’impegno lavorativo al pensionamento. Bisogna superare la
barriera artificiale e non più adeguata dei 60-65 anni: è un blocco al pensiero creativo e all’utilizzazione di
tante buone pratiche imparate. Non ha più senso parlare di pensionamento per persone che vivranno
30
almeno altri vent’anni dopo che hanno lasciato il lavoro. C’è ormai largo consenso sulla necessità di consentire a queste persone di continuare a lavorare per più tempo sia per ragioni di finanza pubblica sia per
il loro benessere personale. La terza età è un’età di diversità ma anche di opportunità, con molta variabilità in salute e in benessere. È necessario offrire opportunità di apprendimento e formazione per permettere alle persone di questa età di continuare a operare sul mercato del lavoro, anche perché la quota di
uomini e donne che saranno ancora economicamente attivi a tempo pieno o parziale oltre i 60-65 anni è
destinata ad aumentare notevolmente. Infine, va anche tenuto conto che in questa terza età c’è una forte
propensione al volontariato, cioè di persone pronte a dare un contributo agli altri (giovani e anziani) e alla
società anche senza una remunerazione. Questa terza età può quindi essere una fonte importante di quello che si definisce capitale sociale.
Quarto stadio (75 e più)
Ci saranno molte più persone in questa fascia d’età di quanto non accadeva in passato, e ci saranno problemi di salute, di dipendenza e di un accelerato declino. L’invisibilità della vecchiaia è una forma importante di discriminazione e riguarda soprattutto le donne. C’è quindi spazio di innovazione per affrontare il
problema dei bisogni di apprendimento in questa età sia per ragioni di equità che di maggiore beneficio
per la salute. Le persone anziane dovranno infatti continuare a imparare come gestire al meglio i loro problemi fisici e mentali, la loro salute e le loro finanze. Tutto ciò significa aiutarli a gestire le relazioni con chi
li assiste per la loro salute e con chi offre servizi, e implica anche aiutarli ad evitare di subire raggiri con
conseguenti danni economici. Infatti è nota la loro vulnerabilità e altrettanto noto è il rischio che vengano
sfruttati, quindi aiutare gli anziani a capire la loro posizione finanziaria è fondamentale. Anche “imparare a
morire bene” è un diritto fondamentale. […]
Ribilanciare le risorse finanziarie tra i vari stadi dell’educazione degli adulti.
Desideriamo ribadire il fatto che il sistema scolastico, che permette a tutti i giovani di raggiungere e sviluppare il loro potenziale e mantenere un interesse per l’apprendimento permanente, è una parte essenziale
del sistema di lifelong learning. Inoltre, siamo senz’altro convinti che siano necessari un impegno e un
investimento significativo nei primi anni dell’apprendimento, fin dalla scuola dell’infanzia. È altrettanto
ovvio che i giovani nell’istruzione iniziale non solo debbano partecipare tutti o in gran numero ma che la
loro partecipazione abbia una durata molto significativa. Riferendoci specificamente all’educazione degli
adulti (18-75 anni e più) ci sembra che, sulla base dei quattro stadi sopra proposti, sia peraltro necessario
riequilibrare le risorse finanziarie globali destinate all’educazione degli adulti rispetto alla distribuzione
attuale. Secondo le nostre stime, l’attuale ripartizione delle risorse globali è la seguente: per il primo stadio (18-25) l’86%, per il secondo (25-50) l’11%, per il terzo (50-75) il 2,5%, per il quarto (75 e più) lo
0,75%. La nostra proposta è che entro il 2020 tali percentuali si modifichino in 80%, 15%, 4%, 1%. Questo
significa approssimativamente raddoppiare gli impegni finanziari per il terzo e quarto stadio.”
31
PARTE PRIMA
CAPITALE UMANO E CAPITALE SOCIALE
1.1 Il capitale umano nei paesi Ocse e in Italia
Una definizione di capitale umano è la seguente: “Le qualifiche, le conoscenze, le competenze, gli atteggiamenti e le caratteristiche individuali che facilitano il benessere personale,
sociale ed economico”.
Il capitale umano è il patrimonio proprio degli individui e si sviluppa in seguito
all’acquisizione di conoscenze e competenze formali, non formali e informali.
Più precisamente, il capitale umano si sviluppa in diverse occasioni attraverso:
• l’acquisizione di conoscenze e competenze all’interno della famiglia e nelle
strutture di cura della prima infanzia;
• le attività di istruzione e formazione (formali e non formali) seguite da giovani
e/o da adulti;
• l’acquisizione di conoscenze e competenze nel corso della vita professionale;
• gli apprendimenti informali acquisiti nelle esperienze di vita quotidiana.
Guardando agli effetti sul sistema economico c’è larga condivisione sul fatto che il livello e la qualità del capitale umano di un paese sia una determinante fondamentale della
crescita della produttività sia a livello individuale che di sistema: banalmente, i lavoratori più ricchi di capacità di analisi e soluzione dei problemi risultano più produttivi.
Il capitale umano, quindi, accresce il prodotto pro-capite, e, favorendo un tasso di innovazione più alto, ne aumenta il ritmo di crescita.
Gli effetti positivi del capitale umano sulla vita sociale, anche se più difficili da rilevare, sono riconoscibili in vari indicatori. Per citare i più evidenti: speranza di vita più
lunga, riduzione del tasso di criminalità, comportamenti e stili di vita meno rischiosi.
È ampiamente dimostrato, peraltro, che il capitale umano degli individui tende a
deprezzarsi se non è utilizzato e ha quindi bisogno di una continua manutenzione.
In conclusione, il capitale umano si può formare in tutte le fasi della vita, anche se,
in concreto, lo si valuta soprattutto in termini di istruzione e formazione iniziale.
33
Come si misura il capitale umano?
Per misurare conoscenze, qualifiche e competenze la modalità più semplice è
costituita dalla rilevazione dei titoli di studio posseduti dalla popolazione adulta in un
dato paese. Questi però non rendono conto del capitale umano acquisito nella vita
professionale e sociale.
Un’altra modalità per misurare il capitale umano di un paese consiste nel valutare, mediante questionari, le “competenze effettivamente possedute” dagli adulti (si
vedano, qui di seguito, le indagini internazionali IALS e ALL) o i livelli di
apprendimento degli studenti (si veda l’indagine internazionale PISA
dell’OCSE).
Si hanno così due tipi di indicatori che descrivono e analizzano lo sviluppo del capitale umano:
A) il primo gruppo di indicatori studia il capitale umano in termini di risultati dei sistemi di istruzione dei vari paesi, mette cioè a confronto i titoli di
studio conseguiti, la distribuzione di questi tra le varie classi di età, le
diverse condizioni della popolazione e la capacità dei sistemi di istruzione
di rispondere alle richieste del mondo del lavoro. Si tratta di indicatori che
definiscono i patrimoni potenziali di cui i diversi sistemi paese dispongono
in relazione all’istruzione ricevuta;
B) il secondo gruppo di indicatori studia il capitale umano in termini di patrimoni di competenze funzionali effettivamente possedute, a prescindere dai titoli di
studio conseguiti, e le variabili che, al di là del sistema educativo formale,
producono le competenze realmente agite e quindi le condizioni in cui queste competenze si acquisiscono e si arricchiscono (anche in modi informali)
ovvero diventano obsolete o si perdono nel corso della vita.
A) Indicatori che rilevano i risultati dei sistemi di istruzione
Per studiare in ottica comparativa i risultati prodotti dai sistemi di istruzione,
sono utilizzati due indicatori:
1. il livello culturale della popolazione espresso dai titoli di studio conseguiti
e la distribuzione di questi nella popolazione 25-64 anni;
2. la coerenza/corrispondenza tra conoscenze/competenze conseguite dalla
popolazione e le tipologie di lavori che richiedono elevate conoscenze/competenze: in concreto, la corrispondenza o meno tra la complessità dei lavori e la diffusione dei titoli di studio terziari.
1) Il livello culturale della popolazione espresso dai titoli di studio
Qui di seguito si presenta il quadro dei titoli di studio conseguiti dalla popolazione adulta in vari paesi dell’Unione Europea e dell’OCSE (Figura 1), evi34
denziando la percentuale di popolazione in possesso di un titolo di studio di
un certo livello (fino alla secondaria inferiore, secondaria superiore, istruzione
terziaria).
Figura 1
Titoli di studio della popolazione 25-64 anni in alcuni paesi OCSE e UE19
(distribuzione percentuale, 2007)
secondaria inferiore
secondaria superiore
terziaria
80%
70%
60%
48
50%
46
38
40%
29
30%
24
20%
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10%
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FOntE: OCSE –Education at a Glance 2009
La distribuzione dei titoli di studio in possesso della popolazione adulta mostra che:
• i 25-64enni che hanno al massimo il titolo di scuola secondaria inferiore sono
in media il 29% nella UE, mentre in Italia sono il 48%;
coloro
che hanno raggiunto il diploma di secondaria superiore sono il 46%
•
nella UE, mentre l’Italia si ferma al 38%;
• la popolazione con un livello terziario di istruzione raggiunge il 24% nella
UE, mentre in Italia è solo del 14%.
35
Generazioni a confronto
Il confronto tra il dato relativo ai 25-34enni e quello relativo ai 55-64enni consente di valutare i progressi compiuti da ogni paese, e segnatamente dal nostro,
nel corso dei decenni.
Titoli fino alla secondaria inferiore
Nell’analisi della distribuzione dei titoli di studio della popolazione è importante analizzare le quote di popolazione che al massimo raggiungono il possesso
di un titolo di scuola secondaria inferiore (Figura 2). È questa la popolazione che
rischia di più nei processi di cambiamento: è qui che si possono determinare
maggiori problemi personali e sociali.
Figura 2
Popolazione che ha al massimo il titolo di scuola secondaria inferiore
(confronto tra 25-34enni e 55-64enni, valori percentuali, 2007)
25-34enni
55-64enni
100%
90%
80%
70%
66
60%
50%
42
40%
31
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19
20%
10%
Fonte: nostra elaborazione su dati OCSE –Education at a Glance 2009
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Diplomi di scuola secondaria superiore
Negli ultimi anni la percentuale di individui che ha raggiunto il diploma di
secondaria superiore è cresciuta in quasi tutti i paesi OCSE e il conseguimento del diploma è divenuto quasi la norma per i giovani. Come mostra la Figura
3, l’Italia ha molto migliorato la sua posizione, ma sussiste un consistente divario rispetto ai paesi europei più avanzati.
Figura 3
Popolazione con diploma di scuola secondaria superiore
(confronto tra 25-34enni e 55-64enni, valori percentuali, 2007)
25-34enni
55-64enni
100%
90%
81
80%
70%
68
58
60%
50%
40%
32
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20%
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Fonte: nostra elaborazione su dati OCSE –Education at a Glance 2009
37
Titoli di istruzione terziaria
I titoli di istruzione terziaria stanno aumentando in quasi tutti i paesi. La media
UE-19 dei giovani 25-34enni con titolo terziario è il 31%, mentre è del 18%
quella dei più anziani (Figura 4). In entrambe le fasce di età, l’Italia è in posizioni di coda tra i paesi esaminati, anche se, va precisato, i nostri titoli sono quasi
tutti relativi a lauree lunghe (4-5 anni), mentre i dati di altri paesi comprendono anche le lauree brevi (2-3 anni), da noi ancora poco diffuse.
Figura 4
Popolazione con un titolo di istruzione terziaria
(valori percentuali, 2007)
25-34enni
55-64enni
60%
50%
40%
31
30%
19
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20%
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0%
Fonte: nostra elaborazione su dati OCSE –Education at a Glance 2009
2) Corrispondenza tra complessità dei lavori e diffusione di titoli di studio terziari
Il mercato del lavoro nel processo attuale di globalizzazione registra per ampie
percentuali di popolazione dei paesi OCSE un passaggio da lavori semplici verso
lavori di maggiore complessità che richiedono sempre più elevate abilità/competenze.
Il confronto tra i risultati di un sistema educativo e le richieste del mercato del
lavoro fornisce informazioni sui bisogni di skills (conoscenze, competenze e abilità) e
quindi, in senso lato, esprime il fabbisogno di istruzione/formazione. La corrispondenza tra percorsi di studio completati e tipologie dell’occupazione effetti38
va può essere un segnale della qualità e dell’efficacia dell’investimento in istruzione di un paese.
La classificazione dell’International Standard Classification of Occupations (ISCO)
indica ai primi tre posti (ISCO 1-2-3)1:
1. legislatori, dirigenti, imprenditori;
2. professioni intellettuali;
3. professioni tecniche intermedie.
La Figura 5 presenta la percentuale di popolazione di alcuni paesi OCSE impegnata in lavori che ISCO classifica 1-2-3, a confronto con la percentuale di popolazione 25-64 anni in possesso di titoli di studio di livello terziario.
Figura 5
Confronto tra forze di lavoro impegnate in attività di complessità ISCO 1-2-3
e forze di lavoro con titoli di studio terziari
(25-64 anni, valori percentuali, 2006)
forze di lavoro in attività di complessità ISCO 1-2-3
forze di lavoro con titoli di studio terziari
55%
50%
45%
40%
35%
30%
25%
20%
15%
10%
5%
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Fonte: OCSE –Education at a Glance 2009
In tutti i paesi la presenza di lavori di elevata complessità è superiore al numero
di persone che esercitano quelle professioni con un titolo terziario. Questo però è
particolarmente evidente in Italia, dove, pur in presenza di un elevato numero di
lavoratori impegnati in attività di complessità ISCO 1-2-3, si registra una delle
più basse percentuali di lavoratori in possesso di un livello terziario di istruzione.
Se lo scarto tra i due valori è elevato, il segnale è chiaro: la preparazione della popolazione non è adeguata alla crescente complessità del mondo del lavoro.
39
B) Indicatori del capitale umano inteso come patrimonio di competenze
funzionali effettivamente possedute
Questi indicatori, a differenza dei precedenti, prescindono dai titoli di studio
conseguiti. I sistemi di istruzione, per quanto fondamentali, non esauriscono la
funzione educativa e formativa di una società. Le competenze funzionali che gli
individui possiedono ed agiscono dipendono da molti altri fattori e condizioni
legati alle condizioni di vita e di lavoro dei diversi paesi.
Come si producono le competenze effettive, in quali condizioni si acquisiscono,
si arricchiscono ovvero diventano obsolete o si perdono nel corso della vita, sono
le domande fondamentali cui si cerca di rispondere con indicatori specifici.
A partire dal 1994 l’OCSE ha sviluppato un piano di ricerca (organizzato in cicli
successivi per permettere una lettura diacronica dei fenomeni) che osserva nel
tempo le competenze di gruppi di popolazione.
Due sono i campi di indagine:
1. le competenze funzionali della popolazione in età lavorativa (16-65
anni). A questo proposito sono state sviluppate dall’OCSE due indagini dal
1994 al 2000: IALS (International Adult Literacy Survey) e ALL (Adult Literacy
and Lifeskills). È in corso la predisposizione della nuova indagine pilota
PIAAC (Program for the International Assessment of the Adult
Competencies);
2. le competenze funzionali degli studenti quindicenni (età media in cui i giovani nei vari paesi concludono i percorsi di istruzione obbligatoria). A questo proposito è stata sviluppata dall’OCSE l’indagine PISA (Programme for International
Students Assessment) nel 2000, 2003, 2006 (è in corso l’analisi dei dati relativi
all’indagine 2009).
1) Le indagini sulle competenze funzionali effettivamente possedute dalla popolazione adulta (16-65 anni)
INDAGINE IALS – SIALS (International Adult Literacy Survey – Second International
Adult Literacy Survey)
Tra il 1994 e il 2000 in 21 paesi OCSE, in due successive tornate, si sono svolte le indagini IALS-SIALS sulle competenze alfabetiche funzionali (soprattutto
la literacy, ma anche la numeracy, secondo le definizioni contenute nel Box 2
pag. 41). IALS–SIALS è la prima indagine comparativa svolta dall’OCSE per
studiare la distribuzione delle competenze funzionali effettivamente possedute
dalla popolazione adulta 16-65 anni.
40
BOX 2
LE INDAGINI OCSE: ALCUNI CHIARIMENTI
Le indagini PISA (2000, 2003, 2006) si rivolgono a giovani quindicenni che stanno frequentando il primo o il
secondo anno della secondaria superiore. PISA non rileva i risultati prodotti dalla scuola superiore, ma i patrimoni di conoscenze e competenze acquisiti dai giovani nel periodo di scolarità obbligatoria.
Le indagini IALS e ALL sono invece rivolte alla fascia di età 16-65 anni.
In queste indagini le competenze che vengono identificate e misurate non si riferiscono a conoscenze scolastiche o disciplinari, ma vengono definite in senso funzionale in relazione ad alcuni ambiti specifici: literacy, numeracy, problem solving, etc.
In estrema sintesi questi ambiti possono essere così presentati:
1. prose e document literacy, competenza alfabetica funzionale relativa alla comprensione di testi in prosa e
formati quali grafici e tabelle, capacità di utilizzare stampati e testi scritti necessari per raggiungere i propri
obiettivi e per interagire con efficacia nei contesti sociali di riferimento;
2. numeracy, competenza matematica funzionale; capacità di utilizzare in modo efficace strumenti matematici nei diversi contesti in cui se ne richiede l’applicazione (rappresentazioni dirette, simboli, formule, che
modellizzano relazioni tra grandezze variabili);
3. problem solving, capacità di analisi e soluzione di problemi, pensiero orientato al raggiungimento di uno
scopo in una situazione in cui non esiste una procedura di soluzione precostituita;
4. literacy scientifica. Per literacy scientifica si intende “cosa è importante conoscere, valutare e fare, come
cittadini, in situazioni che coinvolgono la scienza e la tecnologia”. L’indagine non è di conseguenza incentrata sulle conoscenze disciplinari degli studenti, ma sull’uso, le pratiche e le riflessioni che gli studenti riescono a produrre in ambito scientifico.
Per ciascuno di questi ambiti specifici vengono formulati set di prove presentati, nel corso di interviste, a campioni rappresentativi delle diverse tipologie di popolazione.
La valutazione delle performance dei singoli soggetti produce un punteggio che viene collocato su una scala convenzionale di competenza ( in IALS e ALL questa scala va da 0 a 500 punti). Così si individuano i punteggi medi
raggiunti complessivamente a livello nazionale.
I punteggi della performance dei singoli possono poi essere raggruppati per livelli.
In PISA i livelli sono 6: dal livello 1, che indica competenze estremamente deboli, ai livelli 4/5/6, che indicano possesso sicuro di competenze; a questi viene fatto precedere un livello -1 che indica gravissime carenze e difficoltà.
In IALS e ALL i livelli sono cinque: il livello 1 indica una debolissima competenza, al limite dell’illetteratismo, il livello 2 una fragile competenza che rischia di divenire rapidamente obsoleta; il livello 3 segna una competenza sufficientemente solida che permette di acquisire nuovi saperi; i livelli 4 e 5 indicano una sicura padronanza.
Va segnalato che l’OCSE ha avviato un nuovo progetto sulle competenze effettive degli adulti (PIAAC, Programme
for the International Assessment for Adult Competencies) I cui risultati sono previsti per il 2013.
PIAAC presenta importanti novità rispetto alle indagini ALL e IALS del passato. Vi è una maggiore attenzione identificare la situazione dell’individuo nel mercato del lavoro (se lavora, che tipo di lavoro svolge, quanto guadagna...).
In connessione a ciò si indaga inoltre sulle competenze effettivamente adoperate sul posto di lavoro (è il cd Job
Requirement Approach). Quanto infine alle competenze possedute, i tradizionali test miranti a misurare le cd literacy e numeracy (le competenze nell’uso della lingua e le competenze di tipo matematico) vengono arricchiti da
due punti di vista: chi abbia sufficienti capacità di uso del computer è fatto oggetto di specific test che misurano
il problem solving in un ambiente tecnologicamente avanzato e multimediale (è questo però un modulo a cui l’Italia
non ha aderito in questa prima tornata di PIAAC); chi invece evidenzi un basso livello di literacy è fatto oggetto di
alcuni test supplementari che mirano a precisare natura e tipologia delle difficoltà linguistiche esistenti (difficoltà
grammaticali, ridotta ricchezza del vocabolario etc.).
Alcune caratteristiche innovative di PIAAC la rendono particolarmente atta a costruire una mappa dei principali
fabbisogni formativi della popolazione adulta italiana e ad identificare quali siano le categorie – in termini di caratteristiche socio-demografiche e di situazione nel mercato del lavoro – ove concentrare azioni di sostegno.
41
La Figura 6 presenta i risultati relativi ai livelli di prose literacy conseguiti in
una selezione di nove paesi OCSE, compresa l’Italia.
L’Italia occupa il sedicesimo posto su 21 paesi nella graduatoria basata sui punteggi medi
conseguiti dalla popolazione.
I risultati mettono però in luce le quote di popolazione a rischio alfabetico
(soprattutto livello 1, ma anche livello 2). Questi due livelli considerati insieme
superano in Italia il 60%, contro il 27% della Svezia e il 33% della Norvegia.
Figura 6
Livelli di competenza in literacy della popolazione adulta (16-65 anni)
(distribuzione percentuale, 2000)
competenze molto deboli, gravissime difficoltà (livello -1 e 1)
competenze fragili a rischio di obsolescenza (livello 2)
competenza sufficientemente solida (livello 3)
possesso sicuro o elevato di competenze (livello 4-5-6)
60%
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40%
30%
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Fonte: IALS-SIALS 2000
INDAGINE ALL (Adult Literacy and Life Skills)
Tra il 2003 e il 2005 si è svolta una nuova indagine limitata a cinque paesi dell’OCSE.
L’indagine ALL è più complessa perché, rispetto all’indagine IALS, oltre alla literacy
ed alla numeracy studia le life skills, competenze che garantiscono inserimento sociale e lavorativo e partecipazione attiva alla vita sociale.
Riportiamo qui di seguito la Figura 7 relativa ai cinque paesi che hanno partecipato
a questa indagine con la distribuzione della popolazione nei livelli di competenza in
42
numeracy, anche perché è indicata dall’OCSE come competenza strategica necessaria
nel mondo attuale.
Figura 7
Livelli di competenza in numeracy e life skills
della popolazione adulta (16-65 anni)
(distribuzione percentuale, 2003)
competenze molto deboli, gravissime difficoltà (livello -1 e 1)
competenze fragili a rischio di obsolescenza (livello 2)
competenza sufficientemente solida (livello 3)
possesso sicuro o elevato di competenze (livello 4-5-6)
50%
45%
40%
35%
30%
25%
20%
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Fonte: Indagine ALL, INVALSI 2006
Tutti i paesi presi in esame dalla ricerca presentano un preoccupante basso livello di
competenze. In Italia l’80% della popolazione non supera i livelli 1 e 2 di competenza. Italia e USA sono i paesi che evidenziano i dati più negativi per quanto
riguarda la presenza di popolazione nel livello 1, ma gli USA hanno più del 12%
di popolazione nei livelli di eccellenza, mentre l’Italia non supera il 4%.
In conclusione, le due indagini (IALS sulla literacy 2000 e ALL sulla numeracy 2003)
segnalano un quadro allarmante della situazione del nostro paese: oltre due terzi della
nostra popolazione 16-65 anni ha competenze molto deboli o comunque fragili e a rischio
di obsolescenza.
2) Le indagini PISA sulle competenze funzionali degli studenti quindicenni
Obiettivo generale di PISA è quello di produrre indicatori comparabili a livello
internazionale relativi alle competenze funzionali degli studenti quindicenni.
43
L’OCSE ha realizzato tre cicli di indagine: PISA 2000 (prevalentemente mirata
alla prose e document literacy), PISA 2003 (prevalentemente mirata alla numeracy), PISA 2006 (prevalentemente mirata alla literacy scientifica). È in corso
l’analisi dei dati relativi a PISA 2009.
Figura 8
Livelli di competenza nella literacy scientifica degli studenti quindicenni
(valori percentuali, 2006)
competenze molto deboli, gravissime difficoltà (livello -1 e 1)
competenze fragili a rischio di obsolescenza (livello 2)
competenza sufficientemente solida (livello 3)
possesso sicuro o elevato di competenze (livello 4-5-6)
60%
50%
40%
30%
20%
10%
O
C
SE
It
al
ia
Sv
izz
er
a
G
er
m
an
ia
Fr
an
ci
a
U
SA
N
or
ve
gi
a
Sv
ez
ia
Fi
nl
an
di
a
C
an
ad
a
0%
Fonte: dati OCSE PISA 2006
L’indagine PISA 2000
L’indagine è stata realizzata in 32 paesi ed ha valutato la prose literacy (Box 2).
Nella graduatoria basata sui punteggi medi conseguiti da ciascun paese l’Italia
occupa il ventesimo posto, e, per quanto riguarda i livelli, evidenzia una percentuale di giovani con debolissime competenze e pesanti difficoltà (livelli -1 e 1) del
19%, contro il 7,9% della Finlandia, l’11,8% del Canada e il 15% della Svezia.
L’indagine PISA 2003
L’indagine, svolta in 29 paesi, ha valutato le competenze di numeracy (Box 2).
Nella graduatoria basata sui punteggi medi, l’Italia occupa il ventiseiesimo posto
e, per quanto riguarda i livelli, evidenzia un indice del 32% di giovani con debo44
lissime competenze e difficoltà (livelli -1 e 1) contro il 6,8% della Finlandia, il
9,4% della Corea, il 10% del Canada e il 25,7% degli USA.
L’indagine PISA 2006
L’indagine si è svolta in 36 paesi ed ha affrontato soprattutto il problema della
literacy scientifica (Box 2 pag. 41).
L’indagine non è di conseguenza incentrata sulle conoscenze disciplinari degli
studenti ma sull’uso, le pratiche e le riflessioni che gli studenti riescono a produrre in ambito scientifico.
Nella graduatoria basata sui punteggi medi conseguiti dai giovani dei 36 paesi
partecipanti l’Italia occupa il ventinovesimo posto. Per quanto riguarda i livelli,
si evidenzia una elevatissima percentuale di giovani (25%) con debolissime competenze e difficoltà (livelli 1 e -1). Se si sommano a queste anche le percentuali
dei giovani al livello 2 (competenze fragili e a rischio) non si può non rilevare
con preoccupazione che il 55% dei quindicenni che attualmente frequentano la scuola italiana possiedono competenze scientifiche del tutto inadeguate.
Come mostra la Figura 8, in confronto con la media OCSE l’Italia ha la più alta
percentuale nei bassi livelli (25,3% contro 19,3%) e, altrettanto preoccupante,
la più bassa in quelli alti (19,6% contro 29,3%).
Gli apprendimenti informali
Accanto ad attività di istruzione e formazione formale e non formale, che hanno
come fine l’acquisizione di titoli di studio o di specifiche competenze professionali, emerge la necessità di considerare e valutare un altro tipo di apprendimenti: quelli informali.
Per apprendimenti informali si intendono apprendimenti che si realizzano quando
gli individui acquisiscono conoscenze, competenze e abilità nel lavoro e nella
vita quotidiana attraverso l’interazione sociale e l’impegno personale.
L’OCSE ha avviato una prima esplorazione del complesso mondo degli apprendimenti informali nell’indagine relativa allo studio delle competenze possedute
dalla popolazione adulta (ALL 2004). Alle persone intervistate è stato chiesto
di indicare se, nel corso dell’anno precedente, avessero avuto “occasione di
apprendere” in situazioni legate al lavoro e alla vita quotidiana.
Citiamo qui alcune domande poste nel corso dell’indagine:
• Nell’ultimo anno ha imparato da solo attraverso tentativi ed errori, facendo
pratica diretta e sforzandosi di trovare diversi approcci per fare le cose?
• Nell’ultimo anno ha usato video, televisione, dischi per imparare al di fuori
di un corso?
• Nell’ultimo anno ha usato il computer o internet per imparare al di fuori di
un corso?
• Nell’ultimo anno ha letto manuali, libri specifici, giornali o altro materiale
45
non facente parte di un corso?
• Nell’ultimo anno ha imparato osservando, chiedendo aiuto o istruzioni a
qualcuno (esclusi gli istruttori o i docenti di un corso)?
Dall’indagine emerge la molteplicità e la ricchezza di questi apprendimenti e il
riconoscimento della loro importanza da parte degli individui: in Svizzera,
Norvegia, USA e Canada la riconosce più dell’80% della popolazione intervistata e in Italia meno del 60%.
Anche in questo caso emerge una forte correlazione tra lo sviluppo di pratiche
di apprendimento informale e titoli di studio elevati.
Anche a livello politico si avverte l’importanza degli apprendimenti informali, tanto
che l’Unione Europea raccomanda ai paesi membri l’adozione di programmi specifici
al fine di consentire il riconoscimento e la certificazione di questo tipo di apprendimenti; alcuni paesi hanno cominciato a validarli e certificarli, seppur con tutte le prevedibili difficoltà e incertezze (vedi Box 3 pag. 105: L’esperienza francese del VAE).
Note
1
L’International Standard Classification of Occupations (ISCO) è una delle più importanti
classificazioni prodotte sotto la responsabilità dell’ ILO ( International Labour
Organization). È lo strumento che permette di organizzare i lavori in gruppi chiaramente
definiti in relazione ai compiti e agli obblighi propri di ciascun lavoro (Classificazione
delle professioni – metodi e norme ; nuova serie n.12 ISTAT 2001).
Codici e gruppi principali
1 Legislatori Dirigenti Imprenditori
2 Professioni intellettuali
3 Professioni tecniche intermedie
4 Professioni esecutive amministrative
5 Professioni connesse vendite e servizi
6 Agricoltori, lavoratori della silvicultura e pesca
7 Artigiani e operai specializzati
8 Conduttori di impianti e macchine
9 Professioni non qualificate
0 Forze armate
2
La totalità delle domande poste nel corso della indagine ALL si può trovare in
V. Gallina, Letteratismo e abilità per la vita, Roma, Armando 2006, pag. 119.
Bibliografia
Cipollone P. & Sestito P., Il capitale umano, Bologna, Il Mulino, 2010.
Gallina V., Letteratismo e abilità per la vita, Roma, Armando, 2006.
OCSE, The well-being of nations. The role of human and social capital, Parigi,
OCSE, 2001.
OCSE, Education at a Glance, Parigi, OCSE, 2009.
46
1.2 Focus sul capitale umano in Italia
A) Il capitale umano in Italia in termini di risultati del sistema di
istruzione
1. I titoli di studio della popolazione 25-64 anni: differenze per aree geografiche
L’elemento che caratterizza la situazione italiana (Tabella 1) è l’elevata quota
di individui che al massimo raggiungono il titolo di scuola secondaria inferiore
e la quota molto limitata di popolazione che raggiunge il livello terziario di
istruzione.
Tabella 1
Titoli di studio della popolazione (25-64 anni) in Italia, OCSE, UE
(valori percentuali, 2006)
Titoli di studio
Italia
OCSE
UE
Fino alla secondaria inferiore
48%
30%
29%
Secondaria superiore
38%
44%
46%
Istruzione terziaria
14%
26%
25%
Fonte: nostra elaborazione su dati OCSE 2006 – Education at a Glance 2008
La popolazione italiana ha un’istruzione debole. Le cause principali sono il
ritardo con cui si è realizzata la scolarizzazione di massa (solo a partire dagli
anni ’50 del secolo scorso) e la breve permanenza nella scuola obbligatoria (fino
a poco tempo fa solo 8 anni). L’Italia è quindi esposta più di altri paesi al
rischio di illetteratismo e anche al cosiddetto analfabetismo di ritorno per la
troppo diffusa povertà e fragilità delle conoscenze e competenze di base.
Il nostro paese mostra anche significative differenze per aree geografiche
(Tabella 2); in particolare emerge la cattiva performance delle regioni meridionali. Questo ad esempio è evidente guardando ai diplomati di 20-24 anni.
47
Tabella 2
Popolazione italiana (20-24 anni) con diploma di secondaria superiore
per aree geografiche
(valori percentuali, 2007)
nord ovest
77%
nord est
89%
centro
82%
sud
70%
Fonte: Nostra elaborazione su dati Censis 2007
Da notare che il nostro nord est è al di sopra della media UE-25 (attorno
all’80%) e raggiunge le medie dei Paesi Bassi e della Germania, che in questa
fascia di età hanno quote di diplomati intorno al 90%.
2. I titoli di studio delle forze di lavoro (15/64 anni) per classi di età e per aree
geografiche
Guardando ai dati relativi alle forze di lavoro (Tabella 3), che comprendono gli
occupati più le persone in cerca attiva di lavoro per un totale di circa 24 milioni di persone, emerge che:
• il livello di studi fino alla secondaria inferiore (licenza media) riguarda anche
le fasce fino a 29 anni, dove sono ancora troppi i giovani che hanno solo la
licenza elementare;
• è elevata la presenza di diplomati e di laureati nelle fasce tra i 20 e i 29 anni
di età.
Tabella 3
Titoli di studio delle forze lavoro per classi di età
(valori percentuali, 2007)
Nessun titolo/
19-24
25-29
30-59
60+
Totale
1,4
2,4
7,2
33
7,3
29,7
25,5
34
21,6
32,6
licenza elementare
Licenza media
Qualifica
8,4
6,8
7,5
3,4
7,4
Diploma
55,8
46,7
35
22,5
36,9
Laurea
4,7
18,5
16,3
19,3
15,7
Fonte: CENSIS 2008
48
In questa situazione di debolezza culturale della forza di lavoro si evidenziano significative differenze tra le aree geografiche (Tabella 4).
Vale la pena di osservare che nel sud le forze di lavoro con la sola licenza elementare
raggiungono il 10% del totale e le qualifiche professionali sono quasi assenti.
Tabella 4
Titoli di studio delle forze di lavoro per aree geografiche
(valori percentuali, 2007)
nord ovest
nord est
centro
sud
Italia
6
6
5
10
7
Licenza media
32
33
29
35
33
Qualifica
10
11
5
3
7
Diploma
36
34
41
36
38
Laurea
14
14
17
14
15
Nessun titolo/
licenza elementare
3. La presenza degli immigrati stranieri e i loro livelli di istruzione
Fino agli anni Settanta il saldo migratorio dell’Italia è stato negativo; negli ultimi venti
anni il numero di stranieri regolarmente residenti è progressivamente salito. In Italia
la popolazione residente straniera (oltre 4 milioni di persone) rappresenta al primo gennaio 2010
il 7% del totale dei residenti ed è più che raddoppiata tra il 2001 e il 2009.
Più del 20% degli stranieri proviene dall’Africa, con netta prevalenza delle cittadinanze nord-africane (15,6 per cento); il 7,4% da paesi dell’America centro-meridionale;
circa il 25% del totale da paesi extracomunitari dell’Europa centro-orientale e il 30 per
cento dai paesi UE.
Considerando la popolazione tra i 15 e i 64 anni, la maggioranza assoluta degli stranieri possiede al massimo un titolo di scuola secondaria inferiore (licenza media). Come
si può osservare dalla Tabella 5 il livello di istruzione degli stranieri è più basso di quello della
popolazione italiana solo per pochi punti percentuali in tutti e tra i livelli di scolarità esaminati.
Tabella 5
Italiani e stranieri in Italia (15-64 anni) per titolo di studio
(valori percentuali, 2008)
Al massimo licenza media
Diploma
Laurea
Stranieri
51,1
38,4
10,5
Italiani
48,1
39,1
12,8
Fonte: ISTAT 2009
49
Sempre nel 2008, le forze di lavoro straniere rappresentano il 7,6 per cento del
totale. Il tasso di attività della popolazione straniera è oltre dieci punti percentuali più elevato di quello della popolazione residente totale (73,3 per cento contro 63,0). Risultano più alti tra gli stranieri anche il tasso di occupazione (67,1
a fronte del 58,7) e quello di disoccupazione (8,5 contro il 6,7 per cento).
Il Governatore della Banca d’Italia Mario Draghi, in un discorso tenuto il 26
agosto 2009 a Rimini ha osservato:
“I cittadini stranieri in Italia sono in media più giovani e meno istruiti
degli italiani ma partecipano in misura maggiore al mercato del lavoro
e svolgono mansioni spesso importanti per la società e l’economia italiane, anche se poco retribuite. Non si rilevano d’altra parte conseguenze
negative apprezzabili sulle prospettive occupazionali degli italiani, un
risultato che emerge dalla grande maggioranza degli studi svolti nei
paesi a elevata immigrazione.
Affinché la nostra economia colga appieno l’opportunità offerta dal
lavoro straniero occorre combattere la tendenza alla marginalizzazione
degli studenti stranieri in atto nel sistema di istruzione italiano. La segnalano i ritardi di apprendimento, significativi già nella scuola primaria,
e gli elevati tassi di abbandono nei gradi scolastici successivi; vi contribuisce solo in parte l’esposizione a contesti familiari meno favorevoli.
Esercizi basati su recenti proiezioni demografiche dell’Istat suggeriscono
che entro il 2050 circa un terzo delle persone residenti in Italia con
meno di 24 anni avrà almeno un genitore straniero, un valore in linea
con quello registrato oggi negli Usa e in Canada. Questo significa che la
componente straniera della popolazione contribuirà in misura significativa a
determinare il livello e la qualità del capitale umano su cui si fonderà la nostra
economia, condizionandone il ritmo di crescita”.
4. Gli abbandoni scolastici precoci
Un gravissimo elemento che ostacola l’incremento dei titoli e delle qualificazioni è
il fenomeno dell’abbandono scolastico, di cui ci si preoccupa troppo poco: riguarda
i giovani di 18-24 anni che hanno terminato solo l’istruzione secondaria inferiore e
non proseguono gli studi né partecipano a corsi di formazione. Nel 2006 in Italia i
giovani che hanno abbandonato la scuola sono oltre il 20%. La media UE-15 è del
15%, e nei paesi più avanzati è tra il 10% e il 12%.
Il fenomeno si determina soprattutto nelle prime classi della secondaria superiore.
Si rileva che, anche negli ultimi 15 anni, c’è stata una assai modesta riduzione del
fenomeno. Nel 2006 il tasso di abbandono nella prima classe delle superiori è stato
mediamente dell’11,1%, ma assai squilibrato tra nord e sud (da 8,4% nel nord est
a 13,1% nel sud).
50
5. La partecipazione degli adulti ad attività di istruzione e formazione.
Assumendo come indicatore la percentuale della popolazione dai 25 ai 64 anni
che nel 2006 ha dichiarato di aver partecipato ad attività di istruzione o formazione nelle quattro settimane precedenti l’indagine, il dato relativo all’Italia
è il 6,2%, a fronte del 13% dell’UE-15.
Dalla Figura 9 emerge non solo il basso livello di partecipazione della popolazione adulta, ma anche il disinteresse dichiarato della maggior parte della
popolazione: infatti, su una popolazione di 33 milioni (25-64enni), coloro che
hanno dichiarato “di non aver voluto partecipare” sono circa 23 milioni; quelli che avrebbero voluto partecipare ma “non hanno potuto” sono oltre 8 milioni; i partecipanti sono stati poco più di 2 milioni. Le ragioni di questa mancata partecipazione sono, per ordine di importanza: gli impegni familiari, gli
impegni di lavoro, l’età, la salute, i costi troppo elevati.
Figura 9
Partecipazione e non partecipazione della popolazione adulta
(25-64 anni) ad attività di formazione permanente
(valori percentuali e assoluti, 2007)
80%
23 milioni
70%
60%
50%
40%
8 milioni
30%
20%
2 milioni
10%
0%
Ha partecipato
Non ha potuto partecipare
Non ha voluto partecipare
Fonte: nostra elaborazione su dati ISTAT
La partecipazione ad attività di istruzione/formazione in età adulta è inoltre
fortemente correlata alla qualità della scolarizzazione iniziale e al titolo di studio posseduto: in sostanza partecipa chi ne avrebbe meno bisogno. Così, dati i
bassi titoli di studio della popolazione italiana, la partecipazione all’istruzione
e alla formazione in età adulta è molto scarsa.
51
B) Il capitale umano in Italia in termini di competenze funzionali
effettivamente possedute
1. La popolazione adulta nell’indagine ALL: distribuzione dei livelli di competenza
per area geografica
L’analisi ALL ci permette di evidenziare le differenze territoriali nella distribuzione delle competenze (Tabella 6).
Tabella 6
Indagine ALL: livelli di competenza in prose literacy nelle aree geografiche italiane
(16-65 anni, valori percentuali, 2003)
nord ovest
nord est
centro
sud
isole
Competenze molto deboli,
gravissime difficoltà (livelli 1 e -1)
43,3
43,4
42,6
52,5
48,8
Competenze fragili e a rischio
obsolescenza (livello 2)
36,7
36,1
36,7
34
30
Competenza sufficientemente
solida (livello 3)
17,2
17,5
18,6
12,2
18,7
Possesso sicuro o elevato
di conoscenze (livelli 4-5-6)
2,8
2,9
2,1
1,9
1,5
Fonti: ALL 2003, Invalsi 2006
La maggiore debolezza del sud e delle isole è chiaramente evidenziata dalla
distribuzione della popolazione nei cinque livelli di competenza. La presenza
nel sud e nelle isole del livello 1 è superiore di 10 punti percentuali rispetto al
nord e al centro.
2. Gli studenti quindicenni nell’indagine OCSE-PISA 2006
Nel corso di PISA 2006, indagine dedicata soprattutto alla literacy scientifica,
sono state verificate anche le competenze in literacy e numeracy in modo da poterle confrontare con i risultati delle ricerche precedenti.
Questo il quadro dell’Italia in confronto con i dati della media dei paesi OCSE
(Tabella 7).
52
Tabella 7
Indagini PISA (2000 e 2006) sui livelli di competenza in literacy e numeracy
dei quindicenni: risultati Italia e media paesi OCSE
Livelli
Literacy
2000
Literacy
2006
Numeracy
2000
Numeracy
2006
Italia
OCSE
Italia
OCSE
Italia
OCSE
Italia OCSE
Competenze molto deboli,
gravissime difficoltà
(livelli 1 e -1)
19%
18%
26%
20%
31%
31%
33%
22%
Competenze fragili e a rischio
obsolescenza (livello 2)
25%
21%
25%
23%
25%
21%
26%
22%
Competenza sufficientemente
solida (livello 3)
31%
29%
26%
27%
23%
24%
22%
24%
Possesso sicuro o elevato
di conoscenze (livelli 4-5-6)
25%
32%
23%
30%
21%
24%
19%
32%
Fonte: nostra elaborazione su dati Invalsi
Si può osservare che:
• per quanto riguarda la literacy: le performance dei quindicenni tra il 2000
ed il 2006 sono peggiorate sia per l’Italia che per l’insieme dei paesi OCSE.
Il peggioramento italiano è però assai più forte;
• per quanto riguarda la numeracy: le performance dei quindicenni italiani peggiorano lievemente, mentre l’insieme dei paesi OCSE mostra un sensibile
miglioramento.
Il tema centrale di PISA 2006 era peraltro relativo alla literacy scientifica: anche
qui, l’Italia si trova compresa nell’elenco dei paesi che evidenziano le peggiori performance.
In particolare (Tabella 8) emergono le differenze dei risultati tra gli studenti del
centro-nord e quelli del sud (Checchi, 2006; Losito, 2008).
Un’analisi approfondita dei punteggi che i quindicenni italiani raggiungono evidenzia la debolezza del sistema formativo italiano e l’incapacità del percorso scolastico obbligatorio di agire come strumento di riequilibrio in situazioni di profonda
disparità socio-culturale.
In particolare emergono due elementi che peraltro già connotavano il nostro paese
nelle precedenti rilevazioni: le differenze dei risultati tra gli studenti del centronord e del sud; le differenze dei risultati conseguiti dagli studenti frequentanti
diverse tipologie di scuole.
53
Differenza di risultati nelle diverse aree geografiche
Tabella 8
Indagine PISA 2006: punteggi medi in literacy scientifica dei 15enni
per aree territoriali
Aree Territoriali
Punteggi medi in literacy scientifica
nord est
nord ovest
centro
sud
Italia
OCSE
506
494
482
425
469
492
Fonte: dati OCSE PISA 2006, Rapporto Invalsi 2008
Il punteggio medio dell’Italia è significativamente inferiore al punteggio
medio OCSE (23 punti), ma il punteggio del nord del nostro paese è superiore
al punteggio medio OCSE (in misura rilevante nel nord est, 14 punti in più).
È evidente che il miglioramento della qualità dell’istruzione iniziale (scuola dell’infanzia e dell’obbligo, con una drastica riduzione degli abbandoni scolastici) potrebbe giocare un ruolo cruciale nel condizionare le future scelte della popolazione adulta. L’urgenza
di definire e sostenere politiche in questa direzione appare un’assoluta priorità per il sistema educativo italiano.
Bibliografia
Checchi D., “Uguaglianza ed equità nel sistema scolastico italiano”, in
Uguaglianza e equità nella scuola, Trento 2006.
De Mauro T., La cultura degli italiani, Bari, Laterza, 2010.
Gallina V. (a cura di), La competenza alfabetica in Italia, Milano 2000.
Gallina V., Vertecchi B., "Il disagio, l’alfabeto, la democrazia". Riflessioni sui
risultati del progetto Predil, Milano, Angeli, 2007.
Losito B., “Qualità ed equità: le differenze interne al sistema scolastico italiano”, Roma, 2008.
OCSE-INVALSI, Le competenze in scienze, lettura e matematica degli studenti quindicenni- Rapporto nazionale 2006, Roma, Armando, 2008
Vertecchi B., Agrusti G., Losito B., Origini e sviluppi della ricerca valutativa,
Milano, Angeli 2010.
Vertecchi B., La scuola disfatta. Milano, Angeli, 2006.
54
1.3 La partecipazione alla vita della cultura in Italia*
Nella generalità degli indicatori di partecipazione culturale, l’Italia risulta
indietro nel confronto internazionale con la sola eccezione della diffusione dei
telefonini cellulari e del loro uso.
I dati sul capitale umano (capitolo 1.1) tuttavia non esauriscono la descrizione
di ciò che, da Kant ai moderni studi di sociologia della cultura (Bourdieu),
antropologia culturale e cultural studies, è considerabile cultura e capitale culturale. Rientrano in ciò tutte le competenze e attività apprese (cioè non trasmesse
per pura via genetica) di cui siano capaci i viventi e sono accentuatamente capaci gli esseri umani.
Utilizzando i dati delle indagini ISTAT e aggregandoli in modo che risultino strati omogenei di popolazione, è stato ed è possibile giungere a una prima stima della
distribuzione delle abitudini e capacità di partecipazione culturale nel senso ampio del termine nell’Italia di oggi.
Si tratta di due distinte serie di indagini: a cadenza annuale Aspetti della vita
quotidiana fornisce indicatori di base in serie storica; a cadenza quinquennale I
cittadini e il tempo libero dà informazioni specifiche sulle pratiche culturali della
popolazione usando indicatori armonizzati a livello europeo per la comparazione dei livelli di partecipazione culturale negli stati membri.
Gli indicatori della partecipazione culturale
La più recente indagine multiscopo Istat, I cittadini e il tempo libero, realizzata nel
2006, mette a disposizione numerosi indicatori di partecipazione culturale della
popolazione, tra i quali indicatori di utilizzo delle tecnologie dell’informazione e
della comunicazione, di svolgimento di attività pratiche e/o artistiche e di partecipazione ad attività formative.
Con un’opportuna scelta di indicatori è possibile suddividere la popolazione
sulla base della propensione a fruire attivamente di determinate pratiche e prodotti culturali.
Per un campione di 24mila famiglie pari a circa 60mila individui, riferito a una
popolazione tra i 18 e i 65 anni, pari a 32 milioni e 237mila persone, sono stati
scelti 42 indicatori raccolti in sette gruppi:
* Questo capitolo è un’ampia sintesi della pubblicazione “Livelli di partecipazione alla vita
della cultura in Italia” di Tullio De Mauro e Aldo Morrone, Roma, Editore Fondazione
Mondo Digitale, 2008.
55
1. indicatori di partecipazione a corsi di istruzione e/o formazione (corsi di istruzione formale; corsi di formazione per crescita professionale, corsi di formazione per crescita personale, autoformazione);
2. indicatori di abilità linguistiche (propensione a parlare italiano o dialetto con
estranei; livello di conoscenza di almeno una lingua straniera);
3. indicatori di consumo letterario (lettura di libri scientifici e non scientifici nel
tempo libero; lettura di libri per motivi professionali; lettura di quotidiani e settimanali; lettura di periodici non scientifici e scientifici);
4. indicatori di fruizione delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (uso
di personal computer, uso di internet, uso del cellulare per telefonare e uso
avanzato del cellulare);
5. indicatori di abilità pratiche (preparare confetture di frutta, ortaggi o confezioni alimentari per uso familiare; effettuare lavori di manutenzione in casa;
restaurare mobili o oggetti di casa; cura di automobile, moto, motorino,
bicicletta; giardinaggio e orto; cucire, ricamare, fare la maglia; praticare
uno sport e attività fisiche);
6. indicatori di propensione a svolgere attività artistiche e/o amatoriali (fare foto;
fare film o video amatoriali; disegnare, dipingere, scolpire; scrivere diari,
poesie, racconti; utilizzare il personal computer in modo creativo a fini di
web art, computer grafica, etc.; suonare qualche strumento; comporre
musica; cantare; ballare; recitare);
7. indicatori che misurano la propensione a fruire di spettacoli dal vivo e del
patrimonio storico, museale e paesaggistico (andare al cinema; andare a teatro;
assistere a spettacoli sportivi dal vivo; visitare musei; visitare mostre e esposizioni d’arte; visitare siti archeologici; visitare monumenti; visitare centri
storici e città d’arte; visitare località rilevanti dal punto di vista paesaggistico; visitare zoo, acquari, orti botanici; visitare riserve naturali).
I diversi livelli di partecipazione della popolazione adulta alla vita culturale
Per mezzo di questi indicatori è possibile suddividere la popolazione sulla base
della propensione a fruire attivamente di determinate pratiche e prodotti culturali. Dal punto di vista statistico si può costruire una variabile sintetica in
grado di graduare e distinguere la popolazione, identificando ad un estremo
coloro che si dedicano a molteplici attività (con cadenze almeno settimanali o
mensili o annuali a seconda del tipo) e all’estremo opposto le fasce meno attive
o completamente inattive escluse da qualunque forma di partecipazione.
Sono stati individuati cinque livelli di partecipazione e cinque relativi gruppi di popolazione, e i risultati delle analisi sono i seguenti:
• livello 1, partecipazione bassa, 5 milioni e 14mila persone pari al 15,2%
del totale, che svolgono non più di 5 tra le 42 attività considerate;
• livello 2, partecipazione medio-bassa, 12 milioni e 184mila persone pari
al 37,9% del totale, che svolgono tra 6 e 12 attività su 42;
56
• livello 3, partecipazione media, 9 milioni e 866mila persone pari al
30,8% del totale, che svolgono tra 13 e 18 attività su 42;
• livello 4, partecipazione medio-alta, 4 milioni e 575mila persone pari al
14,3% del totale tra 19 e 24 attività su 42;
• livello 5, partecipazione alta, 598 mila persone pari all’ 1,9% del totale,
che svolgono in media 30 attività su 42.
Emerge dunque una stratificazione della popolazione di questo tipo:
1. il 53% si muove ai livelli basso o medio/basso (livelli 1 e 2),
2. il 30,8% si colloca a un livello medio (livello 3)
3. il restante 16% si muove ai livelli medio/alto o alto (livelli 4 e 5)
In conclusione contro oltre 17 milioni di persone ai livelli bassi (1 e 2), pari a oltre la
metà della popolazione, stanno poco più di 5 milioni di persone ai livelli alti (4 e 5), pari
a poco più del 16%.
La partecipazione alla vita culturale in base al genere, all’età, al territorio, al
titolo di studio e alla collocazione lavorativa
La partecipazione alla vita culturale di tali gruppi presenta forti variazioni in
relazione al sesso e soprattutto alle classi di età e alla ripartizione geografica.
Per quanto riguarda gli squilibri di genere, le persone con un livello di partecipazione minimo si caratterizzano per una prevalenza di donne (17,8% rispetto al
12,5% degli uomini), ma si osservi tuttavia la prevalenza femminile al livello
più alto. Inoltre la quota di persone con livelli di partecipazione molto bassi
aumenta drasticamente all’aumentare dell’età: dal 5,7% tra i giovani di 18-24
anni si passa al 23,9% tra le persone di 55-59 anni e al 31,3% tra le persone di
60-65 anni.
Sono anche assai rilevanti gli squilibri territoriali. Mentre al Nord solo circa il 9%
della popolazione mostra livelli di partecipazione bassissimi, al Sud e nelle Isole
circa un quarto della popolazione si trova in questa condizione. Analogamente la
quota di persone che raggiunge i livelli 4 e 5 è pari al 18,2% in Italia nord-occidentale, al 20,2% in Italia nord-orientale, al 19,1% in Italia centrale, ma è del
10,4% in Italia meridionale e 11,4% in Italia insulare. Esistono forti differenze
tra Nord e Sud del paese anche considerando il livello 3 che corrisponde ad un
livello medio di partecipazione. Mentre al Nord la quota di persone che raggiunge questo livello è di circa il 35%, al Sud e nelle Isole raggiunge appena il
25% (con una differenza di oltre 10 punti percentuali) (Tabella 9).
Focalizzando l’analisi sulle persone con livello di partecipazione 1, l’Italia meridionale e insulare risultano svantaggiate rispetto al Nord per tutte le fasce d’età
57
considerate. È profondo il divario tra il Nord e il Sud nelle classi giovani. Tra le
persone di 18-24 anni, infatti, quelle con un livello di partecipazione bassissimo
(livello 1) sono circa 2,5% se si considerano il Nord e il Centro. Tale quota
diventa, invece, del 9,6% nell’Italia meridionale e del 10,2% nell’Italia insulare, ossia circa il triplo di quella del resto del paese.
Tabella 9
Livello di partecipazione alla vita culturale per sesso, classi d’età
e ripartizione geografica della popolazione 18-65 anni
(valori percentuali)
Livello di partecipazione culturale
SESSO
Maschio
Femmina
Totale
CLASSI DI ETÀ
18-24
25-34
35-44
45-54
55-59
60-65
Totale
RIPARTIZIONE GEOGRAFICA
Italia nord occidentale
Italia nord orientale
Italia centrale
Italia meridionale
Italia insulare
Italia
1
2
3
4
5
Totale
12,5
17,8
15,2
38,8
37,0
37,9
32,6
29,0
30,8
14,3
14,2
14,3
1,7
2,0
1,9
100,0
100,0
100,0
5,7
9,9
12,5
16,6
23,9
31,3
15,2
27,1
33,9
37,4
41,1
44,1
46,7
37,9
37,6
34,3
34,0
29,2
24,0
18,2
30,8
24,9
18,9
14,5
12,0
7,6
3,7
14,3
4,7
3,0
1,6
1,1
0,5
0,1
1,9
100,0
100,0
100,0
100,0
100,0
100,0
100,0
8,9
10,1
25,4
25,4
25,3
15,2
37,6
35,0
39,8
39,8
38,1
37,9
35,2
34,7
24,3
24,3
25,2
30,8
16,1
17,7
9,4
9,4
10,1
14,3
2,1
2,5
1,0
1,0
1,3
1,9
100,0
100,0
100,0
100,0
100,0
100,0
Per quanto riguarda gli squilibri per titolo di studio, la quota di persone con livello
di partecipazione molto basso (livello 1) è quasi nulla tra i laureati mentre raggiunge il 49,5% tra coloro che hanno al massimo la licenza elementare (Tabella
10). Si osserva tuttavia che il 12% dei laureati ha un livello di partecipazione
medio-basso (livello 2) e il 40,5% ha un livello di partecipazione medio (livello 3).
Conclusione
I risultati qui presentati non contrastano nella sostanza con l’insieme di altre
ricerche recenti sui livelli e dislivelli di competenza della popolazione adulta
italiana in settori particolari. Rispetto a esse, tuttavia, e specialmente rispetto
alle indagini IALS e ALL sul letteratismo, i risultati delineano un quadro della
realtà socio/culturale italiana che da un lato è più ampio, fondato com’è sulla
utilizzazione di un’assai maggiore varietà e un assai più alto numero di indicatori, d’altro lato è più articolato.
58
I nostri due gruppi di più alta partecipazione attiva, con il loro complessivo 16,2%, non
paiono lontani dal 20% di individui con competenze sufficientemente solide o elevate
(livelli 3-4-5) dell’indagine ALL (Adult Literacy and Life Skills) e, anzi, presa isolatamente, la cifra potrebbe indurre a valutazioni anche più negative, tanto più
se si mette in conto che l’indagine multiscopo su cui i dati si basano poggia su
auto/certificazioni che, specie in queste materie, potrebbero celare risposte di
prestigio.
E tuttavia il quadro che qui si delinea è più articolato e sfumato e consente di
cogliere nei gruppi di livello inferiore tendenze positive ad avvicinarsi ai due
gruppi più elevati, Ciò accade in particolare nel vasto gruppo intermedio, il
livello 3, costituito da 9 milioni e 866 mila persone pari al 30,8% del totale.
Questa ampia fascia intermedia, quasi un terzo della popolazione, sembra pronta e disponibile a procedere su quelle vie di partecipazione, inclusione, fruizione di offerte che per
ora percorre con sicurezza soltanto la minoranza dei due livelli più elevati.
Tabella 10
Persone di 18-65 anni con livello di partecipazione culturale per titolo
di studio e condizione della popolazione 18-65 anni
(valori percentuali)
Livello di partecipazione culturale
1
2
3
4
5
Totale
Laurea
0,5
12,0
40,5
40,5
6,5
100,0
Diploma superiore
3,1
28,6
44,2
21,4
2,8
100,0
Licenza media
17,2
50,0
26,0
6,4
0,5
100,0
Licenza elementare
49,5
44,7
5,4
0,4
-
100,0
Totale
15,2
37,9
30,8
14,3
1,9
100,0
TITOLO DI STUDIO
CONDIZIONE E POSIZIONE NELLA PROFESSIONE
Occupati
- Dirigenti
9,3
36,3
35,7
16,8
1,9
100,0
3,5
22,2
42,6
29,0
2,8
100,0
- Dirigenti
2,8
24,0
44,2
25,8
3,2
100,0
- Dirigenti
16,7
50,9
25,9
5,9
0,6
100,0
- Dirigenti
14,6
48,2
29,0
7,6
0,6
100,0
Non occupati
23,7
40,2
23,8
10,5
1,8
100,0
- In cerca di nuova occupazione 20,2
44,4
25,6
8,2
1,6
100,0
- In cerca di prima occupazione 14,1
38,4
30,7
14,0
2,8
100,0
- Casalinghe
33,9
47,1
15,9
2,9
0,2
100,0
- Studenti
0,9
13,7
40,7
36,8
7,8
100,0
- Ritirati dal lavoro
24,1
49,3
22,4
4,1
0,2
100,0
- Altra condizione
39,9
35,2
17,7
6,4
0,7
100,0
15,2
37,9
30,8
14,3
1,9
100,0
Totale
59
1.4 Il capitale sociale
Il capitale sociale come tesoro di tutti
Il capitale sociale consiste nella coesistenza di tre caratteristiche dell’organizzazione sociale: una diffusa fiducia interpersonale, l’esistenza di norme informali
che sostengono la cooperazione e la reciprocità, una rete di libere associazioni di
impegno civico.
Più specificamente per R. K. Putnam i principali indicatori sono: a) il grado di
partecipazione alla vita associativa e organizzata della collettività (associazioni
sportive, culturali, associazionismo in genere); b) l’impegno nella vita pubblica
(partecipazione alle votazioni, voto di preferenza etc.); c) l’impegno in attività
di volontariato; d) la socievolezza informale (incontri con amici, rapporti col
vicinato etc.). Per Putnam, in comunità a basso capitale sociale il rischio è di
bowling alone, il titolo del suo libro più conosciuto.
Il capitale sociale costituisce dunque una risorsa che facilita la cooperazione spontanea
e rende così possibile la realizzazione di obiettivi che in sua assenza resterebbero irraggiungibili. Si tratta di un bene pubblico, non appropriabile dai singoli: tutti ne beneficiano – anche coloro che non partecipano alla sua formazione.
La fiducia esemplifica gli effetti positivi di questo bene pubblico: infatti non si
consuma quando la si esercita; al contrario più ci si fida, più la fiducia cresce,
secondo un meccanismo che è esattamente il contrario di quanto avviene per i
beni materiali, che soffrono l’usura del loro impiego. Dunque il capitale sociale
tende ad aumentare, secondo un circolo virtuoso che avvantaggia tutti. Al contrario, in una comunità dove prevale la diffidenza, tutti saranno orientati a non
fidarsi, attivando un circolo vizioso con effetti negativi per tutti, visto che vivere senza potersi fidare degli altri costa.
Prima di essere un problema di convenienze individuali e mutevoli, fidarsi o non
fidarsi è piuttosto la cristallizzazione nel tempo di modelli di comportamento la
cui validità viene confermata nel tempo. Più in generale, lo stock del capitale
sociale, quando c’è, è il frutto di processi “di lunga durata”, di respiro secolare,
per usare la nota formula di Braudel. Da qui una conseguenza inevitabile: non è
agevole promuovere in tempi rapidi un aumento del capitale sociale dove il passato ha insegnato che è più sensato e utile non fidarsi e non impegnarsi per gli
altri, nonché essere opportunisti e sleali con le istituzioni. Il capitale sociale è
strettamente imparentato con una serie di nozioni ricorrenti nel discorso comune e in quello specialistico: bene comune, senso dello Stato, solidarietà nazionale, senso di appartenenza, nonché altri affini. In particolare il capitale sociale può
essere considerato come l’esito della “simpatia”, che consente agli esseri umani
di “partecipare alle emozioni degli altri, quali essi siano”, così come Adam
60
Smith aveva teorizzato diciassette anni prima di teorizzare il ruolo dell’interesse individuale come base dello sviluppo economico.
Elevato capitale sociale significa dunque affidabilità degli attori, rispetto delle regole, ridotta incidenza di comportamenti opportunistici, lealtà verso le istituzioni. Si
tratta di un gioco complesso in cui ogni variabile (capitale sociale, qualità delle istituzioni ed efficienza del mercato) è contemporaneamente causa ed effetto.
Vanno peraltro evidenziati i pericoli di un capitale sociale limitato al cosiddetto familismo morale, cioè al particolarismo di chi pone il confine della propria comunità e
della propria responsabilità non oltre l’ambito della famiglia o al massimo della
piccola comunità di appartenenza. Anche i legami di reciprocità ed esclusività
che si costituiscono all’interno di specifiche etnie possono ostacolare la coesione
sociale all’interno di società multiculturali. Ancora più pericoloso è il capitale
sociale circoscritto all’interno di mafie e simili. In conclusione, bisogna prendere atto che in molte delle circostanze sopracitate un elevato capitale umano può
convivere con questi tipi di capitale sociale chiuso: questa combinazione di capitale umano e capitale sociale chiuso può avere effetti socialmente indesiderati.
Rilevare il capitale sociale: la fiducia in Italia e negli altri paesi
Alla luce delle ricerche disponibili, a livello internazionale la posizione
dell’Italia non risulta particolarmente lusinghiera. Gli italiani risultano in
Europa uno dei popoli che ha meno fiducia nei propri connazionali e che diffida
di più delle istituzioni dello Stato e della democrazia.
Un’immagine complessiva dello stock di capitale sociale può essere desunta
dalle ricerche condotte ogni anno nei diversi paesi europei dall’Eurobarometro e
a intervalli più ampi dal World Value Survey Group (WVS). Tali indagini sono
condotte attraverso questionari su campioni di cittadini e sono volte a rilevare le
seguenti proprietà:
• fiducia interpersonale (fonte WVS);
• fiducia nelle istituzioni (fonte Eurobarometro);
• grado di soddisfazione nelle istituzioni (fonte Eurobarometro).
In questo paragrafo si presenteranno in breve gli esiti di tali ricerche, che rendono possibile la comparazione tra l’Italia e gli altri paesi. Qui si sono selezionati sette paesi dell’Europa occidentale – i quattro di dimensioni paragonabili
all’Italia (Gran Bretagna, Germania, Francia e Spagna), nonché tre minori
(Svezia, Danimarca e Irlanda).
La Tabella 11 riporta i dati relativi ai livelli di fiducia interpersonale in otto
paesi, disposti secondo un generico gradiente Nord-Sud e con l’Italia nell’ultima riga, per favorirne la lettura.
61
I dati raccolti a distanza di circa un decennio indicano che gli italiani sono, in
Europa, tra coloro che ripongono meno fiducia negli altri.
Tabella 11
Percentuale di persone del tutto o abbastanza d’accordo sull’affermazione
“Ci si può fidare della maggior parte delle persone”
Most people can be trusted (%) WVS
Svezia
Danimarca
Gran Bretagna
Irlanda
Germania
Francia
Spagna
Italia
1989-93 (II ondata)
66,1%
57,7%
43,7%
47,4%
32,9%
22,8%
34,2%
35,3%
1999-05 (IV ondata)
66,3%
66,5%
28,9%
36,0%
37,5%
21,3%
36,3%
32,6%
Fonte: World Value Surveys, seconda e quarta ondata
Il difficile rapporto degli italiani con le loro istituzioni
Qui sono considerati i dati raccolti da Eurobarometro negli ultimi dieci anni
(Tabella 12) e relativi al livello di fiducia verso quattro istituzioni: il parlamento nazionale, il sistema giudiziario, le forze dell’ordine e l’Unione europea.
Tabella 12
Fiducia nel Parlamento, nel sistema giudiziario, nelle forze dell’ordine e
nell’Unione europea negli ultimi dieci anni. % di persone che dichiarano di
avere molta o abbastanza fiducia nelle varie istituzioni, in otto paesi europei
Svezia
Danimarca
Gran Bretagna
Irlanda
Germania
Francia
Spagna
Italia
fiducia nel
Parlamento
nazionale
59
72
39
45
40
40
50
38
fiducia nel
Sistema
Giudiziario
63
81
52
57
57
43
49
43
fiducia
nelle forze
dell’ordine
75
90
70
73
77
61
65
70
fiducia
nell’Unione
Europea
37
52
33
70
48
50
65
67
Fonte: Eurobarometro, varie ondate da ottobre 1997 a maggio 2008 (valore medio nel periodo)
62
Il campione di italiani è quello che ha meno fiducia nel proprio parlamento, anche se
a ridotta distanza dagli altri tre grandi paesi dell’Unione (Francia, Germania e Gran
Bretagna nell’ordine). Anche sul sistema giudiziario la fiducia è molto bassa, confermando una spiccata affinità con la Francia. Elevata è invece la fiducia nelle forze dell’ordine, in cui gli italiani si avvicinano più ai britannici e ai tedeschi che ai francesi.
Un caso a parte si confermano, anche su queste variabili, le due democrazie scandinave, dove esiste un’elevata fiducia in tutte le istituzioni nazionali, evidente soprattutto
nel caso danese.
Una particolarità del caso italiano è l’entusiasmo europeista: gli italiani sono, insieme
a irlandesi e spagnoli, i più fiduciosi nell’Unione europea. Non è estraneo ovviamente a questo orientamento positivo il contributo offerto dagli aiuti comunitari allo sviluppo di questi tre paesi.
La sfiducia istituzionale degli italiani viene messa in risalto dall’ampiezza del credito
che viene concesso a un’istituzione lontana e – dato il minimo livello di informazione della nostra opinione pubblica – largamente sconosciuta nei suoi meccanismi e nei
suoi ambiti di intervento.
Per inciso, l’attuale dibattito sulla debolezza del nostro senso di identità nazionale può
essere declinato in termini più pertinenti rispetto all’attuale contesto politico, sociale
ed economico, mediante la nozione di capitale sociale, che rileva l’ampiezza del raggio della responsabilità verso gli altri, nonché il ruolo delle istituzioni nell’alimentare o nel contrastare questo processo di identificazione.
Rilevare il capitale sociale nelle regioni e province italiane
Questa eccentricità dell’Italia rispetto al resto dell’Europa non viene messa in risalto compiutamente dalla comparazione internazionale. Occorre infatti richiamare
l’accentuata eterogeneità interna del nostro paese, che si manifesta in tutte le
dimensioni – sociale, economica, culturale – e che gli studiosi hanno rilevato anche
per il capitale sociale. Posta questa eterogeneità interna, i dati medi riferiti all’intero Paese
corrono il rischio di essere pure astrazioni statistiche, incapaci di rappresentare compiutamente le differenti realtà che lo compongono.
Per questo motivo nei paragrafi successivi si offrirà un quadro delle differenti dotazioni di capitale sociale delle diverse province e regioni, ricorrendo a indicatori di
natura diversa. Una delle indagini più recenti in questo senso, condotta dall’Istituto
Carlo Cattaneo di Bologna e pubblicata nel 2007, ha rilevato lo stock di il capitale
sociale nelle 103 province italiane ricorrendo a quattro indicatori:
1.diffusione della stampa quotidiana;
2.livello di partecipazione elettorale;
3.diffusione di donatori e donazioni di sangue
4.diffusione delle associazioni sportive.
63
1. Lettura dei giornali
È qui il caso di anticipare una possibile obiezione riguardo alla rilevanza di questo indicatore. Esso è stato rilevato in anni in cui la sua validità non era stata
ancora minata da due fattori di estremo rilievo. Da un lato si è diffusa la cosiddetta free press, che soddisfa il bisogno di informazione ai livelli più bassi, dall’altro lato si è diffusa l’informazione via internet, destinata alle fasce di lettori più
forti ed esigenti. In entrambi i casi queste fonti di informazioni sono difficilmente quantificabili, ma convergono nel ridurre progressivamente la validità
dell’indicatore costituito dalla distribuzione tradizionale dei giornali. Si può
peraltro ritenere che negli anni della rilevazione queste due fonti alternative non
avessero inficiato il rapporto di indicazione con il concetto di capitale sociale.
Geografia della diffusione dei quotidiani
I dati analizzati sono riferiti a un intervallo temporale di due anni (2000 e 2001) per
assicurare una maggiore affidabilità del dato. Sono state escluse inoltre dal computo
le copie di quotidiani sportivi, in quanto informano in misura minima sui problemi
della polis. Dall’analisi della distribuzione dei giornali a livello regionale si ricava l’immagine di un’Italia fortemente differenziata. La diffusione media dei quotidiani è
riportata nella Tabella 13. Le differenze sono particolarmente sensibili, con tre regioni che esibiscono una diffusione particolarmente elevata: nel Trentino-Alto Adige, in
Liguria e in Friuli-Venezia Giulia si diffondono intorno a 140 copie al giorno ogni
1000 abitanti. Una densità estremamente elevata, se si considera che una copia viene
letta da almeno due o tre persone.
All’estremo opposto si collocano, nell’ordine, Sicilia, Calabria, Puglia, Campania,
Molise e Basilicata: tutte con una diffusione pari a meno di un terzo rispetto alle regioni precedenti.
Tabella 13
Copie di quotidiani diffuse per 1.000 abitanti per Regione
Media anni 2000 e 2001
Diffusione quotidiani
1.000 ab.
Trentino-Alto Adige
Liguria
Friuli-Venezia Giulia
Emilia-Romagna
Sardegna
Lombardia
Toscana
Lazio
Valle d’Aosta
Veneto
Fonte: R. Cartocci (2007)
64
145,63
143,53
137,66
110,64
104,78
103,43
99,23
99,11
92,35
90,01
Diffusione quotidiani
1.000 ab.
Piemonte
Marche
Umbria
Abruzzo
Sicilia
Calabria
Puglia
Campania
Molise
Basilicata
84,91
65,97
62,50
53,39
42,11
41,50
38,87
34,95
28,01I
25,98
2. Partecipazione elettorale
In termini aggregati, la quota di elettori che con continuità decidono di andare
a votare costituisce un contributo alla legittimazione delle istituzioni, un riconoscimento e sostegno – consapevole o meno – del “contratto sociale” su cui si
fonda un regime democratico. In questi termini la partecipazione elettorale rilevata attraverso una pluralità di consultazioni può essere considerata indicatore di
capitale sociale.
Geografia della partecipazione elettorale
È noto che – soprattutto in Italia – la partecipazione elettorale è mossa anche
dalle motivazioni particolaristiche, colte dalla categoria del “voto di scambio”,
che sono l’esatto contrario del senso di responsabilità nei confronti degli altri.
Infatti, la scelta dei politici da cui farsi governare è troppo spesso fondata sullo
scambio di voti contro favori: così, i politici eletti, saldato il debito privato con
gli elettori, possono dedicarsi al proprio interesse personale e gli elettori, una
volta ricevuto il favore particolare, non sentono più il bisogno di controllare i
politici.
Tuttavia, la definizione operativa utilizzata ha considerato una pluralità di consultazioni elettorali nell’arco di tre anni: elezioni politiche del 2001, europee del
1999, più tre referendum (abrogativi del 1999 e 2000 e costituzionale del
2001). In tal modo si è attenuato il “rumore” costituito dalla partecipazione
dovuta a motivazioni particolaristiche, che si attiva soprattutto nelle elezioni
politiche e in quelle amministrative, mentre invece non ha alcun peso nei referendum, in cui non esistono benefici privati da scambiare con il voto. La Tabella
14 mette in luce le percentuali medie di partecipazione alle urne nelle venti
regioni in occasione delle cinque consultazioni prese in esame.
Tabella 14
Partecipazione elettorale media per Regione in cinque consultazioni elettorali:
Europee 1999, Politiche 2001, tre Referendum (1999, 2000, 2001)
Affluenza alle urne su 100 elettori
Emilia-Romagna
Toscana
Umbria
Veneto
Marche
Piemonte
Lombardia
Trentino-Alto Adige
Liguria
Lazio
Friuli-Venezia Giulia
65,4
60,1
59,1
58,6
58,6
57,0
57,0
56,2
54,3
53,7
53,0
Abruzzo
Valle d’Aosta
Puglia
Basilicata
Sardegna
Molise
Campania
Sicilia
Calabria
52,7
50,7
49,3
49,0
48,3
47,6
46,1
44,0
42,1
Italia
53.7
Fonte: R. Cartocci (2007)
65
Anche sul piano della partecipazione elettorale la variabilità territoriale è particolarmente pronunciata. I valori massimi sono raccolti in Emilia-Romagna,
Toscana e Umbria, tratto confermato da sessant’anni di elezioni democratiche, e
riconducibile alle tradizioni politiche “rosse” di queste regioni. La partecipazione più bassa si rileva nelle tre regioni più meridionali – Campania, Sicilia e
Calabria – con valori pari a due terzi di quelli dell’Emilia-Romagna.
3 e 4. Terzo settore: donatori (e donazioni) di sangue e associazioni sportive
Il dono di sé attraverso forme di volontariato presuppone la disponibilità a subordinare in alcuni casi l’interesse individuale a quello della comunità. Detto
altrimenti: il senso di responsabilità verso gli altri, elemento caratterizzante del
capitale sociale, trova la sua più chiara manifestazione nella donazione di tempo,
lavoro e impegno a favore degli altri. Il terzo settore è alimentato appunto da
motivazioni altruistiche, creando reti di relazioni disinteressate.
Sono stati selezionati la donazione di sangue e l’associazionismo sportivo. La
prima è un’espressione paradigmatica del dono di sé disinteressato: è l’esempio
più noto e diffuso di dono anonimo. Il secondo è, al contrario, l’ambito più
ampio del terzo settore in base ai dati Istat, con 50 mila società e centinaia di
migliaia di dirigenti e allenatori. La rilevanza di questa quota di capitalisti
sociali è enorme: grazie a questo sforzo associativo e organizzativo milioni di cittadini possono svolgere attività fisica e sportiva.
Geografia dell’offerta di sangue
La distribuzione regionale dei donatori e delle donazioni rilevata per il 2002 è
riportata nella Tabella 15. La distribuzione dei donatori non è perfettamente
sovrapponibile a quella delle donazioni: un donatore può effettuare più donazioni in un anno, così come può interrompere per un anno e più le donazioni,
per i motivi più vari, non esclusi quelli di salute.
L’andamento delle due distribuzioni è tuttavia assai vicino. Entrambe riproducono, con differenze marginali, la stessa classifica delle regioni. L’EmiliaRomagna è al primo posto per le donazioni e al secondo per numero di donatori, incrociandosi in testa alle due classifiche con il Friuli-Venezia Giulia.
Piemonte, Veneto e Lombardia scavalcano nella classifica delle donazioni
Toscana, Umbria e Marche, confermando la preminenza delle regioni settentrionali nelle donazioni, cioè sulla dimensione più discriminante. Tra le regioni centro-meridionali la Sardegna è quella più in alto in entrambe le graduatorie; al
contrario Basilicata, Calabria e Campania coprono, nell’ordine, gli ultimi posti.
66
Tabella 15
Donazioni e donatori di sangue per Regione (ogni 1000 residenti). Anno 2002
Regione
Emilia-Romagna
Friuli-Venezia Giulia
Piemonte
Veneto
Lombardia
Toscana
Umbria
Sardegna
Valle d’Aosta
Marche
Liguria
Trentino-Alto Adige
Abruzzo
Puglia
Sicilia
Lazio
Molise
Basilicata
Calabria
Campania
Donatori / 1.000
32,2
36,1
29,6
26,2
24,0
30,7
27,5
29,4
19,0
22,7
24,7
26,6
20,9
24,3
21,9
19,1
22,9
15,8
13,8
14,1
Donazioni / 1.000
58,1
50,8
47,3
45,8
44,9
42,3
42,3
42,3
41,4
40,1
39,4
39,4
31,7
30,3
30,2
25,9
24,9
23,0
21,4
18,3
Fonte: R. Cartocci (2007)
Geografia dell’associazionismo sportivo
L’associazionismo sportivo può essere considerato un indicatore del capitale
sociale perché rappresenta un aspetto della libera volontà e capacità di associazione tra i cittadini. Messi da parte gli eccessi in termini di tifo, di copertura
mediatica e di investimenti economici del professionismo sportivo, dal calcio
all’automobilismo, resta il grande numero di società sportive piccole e piccolissime.
Esistono poi altri aspetti per cui la pratica sportiva è importante: dalla prevenzione delle malattie all’educazione alla cittadinanza democratica, attraverso l’insegnamento e la pratica dei valori della lealtà e del rispetto delle regole: tutte
contribuiscono a generare beni pubblici assimilabili a capitale sociale.
Dietro alle società sportive c’è un contributo di passione e di apertura verso l’altro. Non esisterebbero le oltre 50.000 società se non vi fossero, per ciascuna di esse, un
nucleo di volenterosi che si assumono l’onere di impegnare il loro tempo libero per organizzare, dirigere, allenare, coadiuvare per dare vita a una rete di associazioni sul territorio
che offrono canali e occasioni per svolgere attività sportiva.
Per rilevare i dati territoriali sulla diffusione dell’attività sportiva si è fatto ricorso al Coni e agli enti di promozione sportiva. Anche in questo caso troviamo un
sensibile divario Nord-Sud (Tabella 16).
67
Tabella 16
Numero di società sportive ogni 1.000 residenti per Regione
(Enti di promozione sportiva, CONI e in totale)
Regione
Piemonte
Valle d’Aosta
Lombardia
Liguria
Trentino Alto Adige
Veneto
Friuli Venezia Giulia
Emilia-Romagna
Toscana
Umbria
Marche
Lazio
Abruzzo
Molise
Campania
Puglia
Basilicata
Calabria
Sicilia
Sardegna
Società Eps / 1000
1,14
1,54
0,67
1,00
0,45
0,79
0,99
1,51
1,94
0,93
0,83
0,74
0,56
0,63
0,44
0,84
0,82
0,57
0,75
1,10
Società Coni / 1000
Totale / 1000
1,17
2,36
1,15
1,31
1,93
1,20
1,63
1,18
1,16
1,97
1,42
0,91
1,74
1,78
0,65
0,60
1,23
0,95
0,79
1,53
2,31
3.90
1,83
2,31
2,37
1,99
2,62
2,69
3,10
2,90
2,25
1,65
2,30
2,41
1,09
1,44
2,05
1,02
1.54
2,63
Fonte: R. Cartocci (2007)
Conclusione
La mappa del capitale sociale e il suo rapporto con lo sviluppo economico e l’efficienza delle istituzioni
Nella descrizione dei diversi indicatori utilizzati è emersa una notevole affinità delle
differenti geografie: l’Italia della partecipazione elettorale assomiglia molto a quella dello
sport e delle donazioni di sangue, con una costante, sensibile differenza tra regioni settentrionali
e meridionali.
L’indice finale somma i valori relativi a ciascuna delle quattro aree considerate avendo
cura di pesare tutte queste dimensioni nello stesso modo, mediante la standardizzazione degli indicatori.
Una mappa di valori medi di capitale sociale a livello provinciale è riportata nella
Figura 10. I risultati sono stati ovviamente anticipati dalla discussione precedente,
ma vale la pena aggiungere qualche chiosa.
La geografia del capitale sociale in Italia è piuttosto articolata. Nei termini più generali il paese è diviso in due grandi aree, con un centro-nord ricco di capitale sociale e
un centro-sud meno dotato di questa risorsa.
68
La linea di demarcazione più evidente separa Toscana, Umbria e Marche da Lazio e
Abruzzo. A nord di questa linea troviamo solo medie regionali positive, a sud solo
valori negativi, a parte la Sardegna, che su tutti gli indicatori presentati si differenzia
in modo sensibile da tutte le altre regioni del centro-sud.
Particolarmente grave risulta la carenza di capitale sociale in Sicilia e nelle quattro
regioni dell’estremo Mezzogiorno continentale, in cui Calabria e Campania spiccano
per valori medi estremamente bassi.
Figura 10
Indice finale della dotazione di capitale sociale per Provincia
-6,63 • -3,50
-3,23 • -0,23
0,00 • 1,07
1,27 • 2,43
2,55 • 5,43
FOntE: R. Cartocci 2007
L’esito di quest’indagine non è nuovo. Esso replica infatti in maniera preoccupante (il coefficiente di correlazione è pari a +0,93) i risultati cui era approdata
la ricerca di Putnam, pubblicata nel 1993, ma ricorrendo a dati che risalivano
anche a vari decenni prima, e attesta una vera e propria cristallizzazione delle
differenze territoriali.
Questo rilievo pone in primo piano tre interrogativi:
a) perché lo squilibrio in termini di risorse di capitale sociale tra le diverse
regioni è rimasto pressoché invariato dopo due decenni e più?
69
b) come, quanto e perché la dotazione di capitale sociale si correla con la qualità delle istituzioni?
c) la dotazione di senso civico è da considerare una causa o un effetto del diverso livello di sviluppo economico che distingue le regioni del Nord dal
Mezzogiorno?
È assai difficile distinguere tra cause ed effetti; è più utile individuare i diversi processi
che danno luogo a un percorso di causalità circolari, per cui reddito, capitale sociale e rendimento delle istituzioni sono a un tempo cause ed effetti.
Questo quadro ci permette di conferire un significato più chiaro a quanto accennato in precedenza. Nel concludere il commento ai dati comparati con le altre
democrazie europee si segnalava che nel caso italiano i valori medi nazionali corrono il rischio di essere privi di significato e quindi fuorvianti, dal momento che
sintetizzano – e quindi occultano – le sensibili differenze interne, che non
hanno uguali in nessun altro paese europeo, a parte la coesistenza tra le due
Germanie (riunificate solo nel 1989).
Non è certo un caso che nella parte terminale della classifica si concentrino le
province in cui più rilevante è la presenza di quei mondi paralleli che solo un
colpevole eufemismo può insistere a definire “criminalità organizzata”. È questo
il mondo che congiura contro la costruzione di capitale sociale, alimentando
assetti sociali fondati sia sulla paura, sia sull’elargizione di favori da parte dei
potenti. Esattamente il contrario degli assetti democratici che presiedono alla
promozione dei diritti di tutti.
Bibliografia
Bagnasco, A. et al. Capitale sociale: istruzioni per l’uso, Bologna, Il Mulino, 2001.
Cartocci, R. Mappe del tesoro. Atlante del capitale sociale in Italia, Bologna, Il Mulino, 2007.
Coleman, J. Foundations of Social Theory, Cambridge, Cambridge University Press, 1990.
(Trad. it. Il Mulino).
Fukuyama, F, Trust, New York, The Free Press, 1995 ((Trad. it. Rizzoli).
Putnam, R. K. Le tradizioni civiche nelle regioni italiane, Milano, Mondadori, 1993.
Putnam, R. K. Bowling Alone. The Collapse and Revival of American Community, New York,
Simon & Schuster, 2000 (Trad. it. Il Mulino).
Woolcock, M. Social Capital and Economic Development, in “Theory and Society”, Vol. 27,
n. 2, 1998, pp. 151-208.
70
1.5 I costi dell’ignoranza
I costi sociali dei bassi livelli di istruzione non sono facili da stimare. Tuttavia i dati
di alcuni paesi suggeriscono che i costi per gli individui e le società sono molto significativi. Schematizzando si tratta di:
a) costi individuali (esclusione sociale, precarietà, insicurezza, mancanza di autonomia, condizione di sudditanza etc.);
b) costi sociali (criminalità, spesa per la salute, democrazia poco partecipata, etc.);
c) costi economici (bassa produttività, basso livello di sviluppo, scarsa innovazione, etc.).
Studi di natura empirica indicano che livelli bassi di istruzione sono correlati a risultati scarsi sia a livello di salute e benessere personale che a livello di partecipazione
politica (OCSE, 2007). I dati provenienti da studi comparativi internazionali (Adult
Literacy and Lifeskills Survey e World Values Survey) ne danno ampia conferma. In
una conferenza (Levin 2005) nella quale venivano esaminati i costi sociali di un’istruzione inadeguata, gli accademici statunitensi riferirono che chi aveva abbandonato la scuola aveva il 50% in meno di probabilità di votare alle elezioni e un’aspettativa di vita di 9,2 anni inferiore rispetto a un laureato. In relazione agli abbandoni scolastici precoci si stimava che la frequenza di un anno in più di scuola avrebbe
diminuito di quasi il 30% gli omicidi e le aggressioni, e ridotto a livello più basso i
crimini meno gravi; un punto percentuale in più nel tasso di frequenza della scuola
superiore per la popolazione dai 20 ai 60 anni avrebbe ridotto i costi legati alla criminalità di 1,4 miliardi di dollari.
Uno studio sul costo della scarsa istruzione in Inghilterra (KPMG Foundation 2006)
ha riscontrato che le persone con basso livello di istruzione hanno probabilità assai
maggiori di soffrire di problemi di salute fisica e mentale. Le persone con basso livello di istruzione hanno più del doppio di probabilità di quelli istruiti di soffrire di
depressione, obesità e problemi respiratori. È stato registrato che il 36 per cento di
donne con livelli “molto bassi” di istruzione soffre di depressione: una percentuale
più che doppia rispetto alle donne con un livello “basso” e oltre cinque volte maggiore rispetto a quelle con un “buon” livello di istruzione. Se nella scuola primaria si
istituissero programmi di literacy per i 38.700 alunni che attualmente lasciano la
scuola con un livello di literacy quasi nullo, si stima che lo Stato risparmierebbe circa
1,5 miliardi di sterline prima che gli studenti raggiungano l’età di trentasette anni:
circa la metà del risparmio sarebbe attribuibile al maggiore gettito fiscale e alla
minore spesa per le indennità di disoccupazione. Oltre il 10% sarebbe attribuibile al
minore costo relativo al consumo di stupefacenti e alle gravidanze in età adolescente, e quasi il 20% sarebbe da mettere in relazione a una minore incidenza di comportamenti criminali.
71
Uno studio canadese (Maxwell et al, 2005) per la messa a punto di una metodologia
atta a stimare il costo sociale del basso livello di istruzione ha trovato negli USA la
prova che le persone con un basso livello di literacy determinano costi e affrontano
spese mediche quattro volte maggiori rispetto alla media perché si rivolgono al
medico solo quando le condizioni hanno raggiunto uno stadio ormai critico. Lo stesso studio sottolineava i forti effetti intergenerazionali del basso livello di literacy: i
figli di genitori con scarso livello di istruzione e di literacy hanno probabilità maggiori di altri di restare a livelli analoghi.
Di converso, sono ben documentati i benefici economici di un buon sistema educativo
e di un buon livello di capitale umano. Oltre al già citato forte rapporto riscontrato
a livello macroeconomico tra istruzione e sviluppo economico, ci sono prove di un
forte rapporto tra l’istruzione degli individui e il loro posizionamento sul mercato
del lavoro. Più gli individui sono istruiti, più è facile che abbiano un lavoro, maggiore è il salario orario e maggiore il reddito complessivo. Inoltre, gli individui più
istruiti tendono maggiormente a partecipare, da adulti, all’educazione permanente e
alla formazione continua, amplificando ulteriormente i vantaggi iniziali.
Il caso Italia
Fino a tempi recenti l’Italia si è costantemente sviluppata ed è progredita sul
piano economico e sociale tanto da diventare una delle sette maggiori economie
dell’OCSE (G7). A partire dagli anni ‘70, il PIL pro capite è aumentato costantemente, fenomeno che risulta tanto più marcato se confrontato con quello degli
altri paesi. Benché fosse al di sotto della media dei paesi del G7, il PIL italiano
è cresciuto costantemente, e a partire dagli anni ‘80 fino alla fine del secolo scorso il PIL è stato del 5-10% superiore alla media dei paesi OCSE.
Tuttavia, a cavallo del nuovo secolo si è verificata una considerevole inversione
di tendenza. Dal 1996, la crescita del PIL pro capite in Italia è scesa al di sotto
di quella degli altri paesi del G7, e nel 2004 è scesa sotto la media OCSE.
L’Italia appare particolarmente vulnerabile a livello di capitale umano. Va tenuto presente che il nostro paese soffriva fino agli anni ’50 e ’60 di un grave ritardo di scolarizzazione e malgrado il notevole miglioramento del livello di istruzione dei giovani italiani rispetto a quello di genitori e nonni le differenze nei
risultati (diplomi, lauree, etc.) sono ancora sensibili, anche se in parte si sono
ridotte. Infatti il livello del capitale umano di altri paesi è cresciuto anch’esso.
Va soprattutto segnalato che, al di là dei dati quantitativi, è la qualità dell’istruzione ricevuta a scuola che risulta inferiore rispetto a quella degli altri paesi (vedi indagine OCSE-PISA sui quindicenni nel Capitolo 1.1). Questo deficit di capitale
umano risulta grave in una fase storica come l’attuale in cui l’adozione delle
innovazioni tecnologiche ha conseguenze decisive sui modelli di sviluppo.
Insomma, l’Italia sembra poco consapevole del peso decisivo che oggi il capitale umano ha nel determinare la sua posizione sociale ed economica, e rischia di
72
FOntE: Cartocci 2007
trovarsi in una posizione particolarmente difficile per mantenere e tanto meno migliorare
la sua posizione nel futuro.
Va peraltro rilevato che, sebbene le prove dei costi economici di un livello di
istruzione povero siano consistenti e mostrino effetti ricorrenti nella maggior
parte dei paesi, la situazione dell’Italia è per certi aspetti paradossale e solleva
questioni assai serie.
Infatti il rapporto tra istruzione e reddito corrisponde più o meno a quello
riscontrato nella media dei paesi OCSE (Tabella 17).
Tabella 17
Guadagni relativi per titolo di studio della popolazione 25-64 anni
(anno 2007 o ultimo anno disponibile), fatto 100 il guadagno
della popolazione con titolo di studio secondario superiore e/o
post-secondario non terziario
Titoli di studio
Fino alla secondaria inferiore
Titolo terziario
Guadagni relativi
Italia
OCSE
76
155
79
156
FOntE: OCSE
Tuttavia, la penalizzazione in termini di disoccupazione è minima (Tabella 18).
Sebbene tra i lavoratori meno qualificati si riscontri un tasso più alto di disoccupazione rispetto a quelli più qualificati, in Italia le differenze sono relativamente contenute, e gli individui in possesso di qualifiche a livello terziario
dimostrano una probabilità di restare disoccupati solo leggermente più bassa
rispetto agli individui in possesso di una qualifica a livello secondario superiore. Inoltre, mentre all’interno dell’Europa dei 19 dell’OCSE la relativa penalizzazione di un basso livello di istruzione tende a crescere nel tempo, in Italia sta
effettivamente diminuendo.
Tabella 18
Tassi di disoccupazione in relazione al titolo di studio in Italia, UE19, OCSE
(valori percentuali 2007)
Titoli di studio
Fino alla secondaria inferiore
Secondaria superiore e post-secondaria
non di livello terziario
Livello di istruzione terziario
Italia
UE19
OCSE
6,3
4,1
9
4,8
11,1
5,4
4,2
3,3
3,5
FOntE: OCSE
73
In altri termini, rispetto ai paesi più sviluppati, in Italia non solo sono peggiori i risultati e la
qualità dell’istruzione, ma sono inferiori anche gli incentivi economici per migliorare. Vari
indicatori confermano tale conclusione: ad esempio il 10,5% dei laureati tra i 25 e i
29 anni in Italia risulta disoccupato, contro una media OCSE del 4,8% e del 5,1%
nell’Europa dei 19. Grecia e Portogallo sono i soli paesi con una quota maggiore di
laureati disoccupati.
Se si mette in relazione la scarsa considerazione del tema dell’istruzione con il serio declino della
competitività economica del nostro paese, è lecito domandarsi se l’Italia non stia indugiando in
un pericoloso equilibrio basato sul basso livello di competenze della sua forza di lavoro.
Lo status quo non è un’opzione accettabile per l’Italia
Anche se in campo educativo l’Italia ha compiuto molti progressi se si considera la
sua evoluzione storica, questo sviluppo non è stato fino ad oggi sufficiente per tenere il passo con i progressi di altri paesi con cui deve necessariamente misurarsi: infatti il successo dipende non tanto dal progresso che ogni paese fa rispetto alla sua storia, ma soprattutto dal confronto tra la propria performance e quella degli altri paesi.
Il problema del miglioramento relativamente lento dell’istruzione delle giovani
generazioni è aggravato dal basso tasso di natalità. L’Italia ha il quarto minore tasso di
natalità tra i paesi OCSE europei e la seconda minore percentuale di popolazione
sotto i 15 anni. Così l’Italia si trova a combattere con una potente tendenza demografica che rende impossibile rinnovare la sua forza lavoro puntando sul miglioramento del livello di qualificazione dei suoi giovani.
Nei paesi OCSE, il 21% degli individui 25-34enni (che saranno i 35-44enni del
prossimo decennio) è poco qualificato, mentre In Italia risulta essere poco qualificato quasi il 32% degli individui di quella fascia di età (Tabella 19). Per di più, se
dovesse verificarsi un qualche aumento della forza lavoro, l’Italia dovrebbe necessariamente ricorrere alla forza lavoro degli immigrati. Altri paesi, invece, potrebbero
ricorrere a più ampie coorti di individui più giovani.
Tabella 19
Popolazione con livello di studio fino alla secondaria inferiore,
per fascia di età, in Italia, in UE19 e nei paesi OCSE
(valori percentuali, 2007)
Italia
UE19
OCSE
FOntE: OCSE
74
25-64
25-34
48
29
30
32
19
21
Fascia di età
35-44
45-54
44
25
26
52
32
33
55-64
66
43
43
Anche se il sistema educativo italiano si trasformasse da un giorno all’altro nel
migliore sistema possibile, a causa dei bassi tassi di natalità l’Italia dovrebbe comunque affidarsi agli adulti poco istruiti che sono già in età lavorativa. Il punto cruciale,
allora, è capire se le imprese, il governo e la società italiana siano preparati ad affrontare i
necessari investimenti in materia di lifelong learning (apprendimento lungo tutto il corso della
vita) e specificamente nell’educazione degli adulti (vedi i due piani straordinari proposti da
TreeLLLe al Capitolo 3.3, pag. 115).
Stando ai dati disponibili, il compito è assai arduo perché la forza lavoro italiana è
più vecchia e meno qualificata rispetto a quella degli altri paesi. Una delle verità universali dell’apprendimento degli adulti è che solo chi ha un alto livello di istruzione
iniziale ed è meglio qualificato intraprende più frequentemente percorsi di istruzione e formazione in età adulta rispetto a chi è meno qualificato. Ma anche qui l’Italia
si distingue: le differenze tra i tassi di partecipazione degli adulti meno qualificati e
i tassi di quelli più qualificati sono minori rispetto a molti altri paesi europei.
Un’altra verità universale è che i giovani adulti partecipano di più alla formazione
rispetto agli adulti più anziani. Per i giovani adulti in Italia i dati non differiscono
molto dalla media OCSE; tuttavia, se si prendono in considerazione gli italiani 5564enni, si riscontra che il loro tasso di partecipazione ad attività di educazione degli
adulti è pari alla metà di quello dei loro coetanei di altri paesi europei.
Questa è, dunque, la sfida: creare l’aspirazione ad apprendere, aumentare gli incentivi, mettere a punto programmi che riescano a coinvolgere nella formazione i lavoratori e gli aspiranti
lavoratori italiani. Altri paesi sono riusciti a coinvolgere nell’apprendimento gli adulti: i paesi nordici hanno avuto particolare successo, ma anche Canada, Stati Uniti e
Australia hanno trovato modi per riportare a percorsi di istruzione e formazione gli
adulti più anziani e meno qualificati.
D’altra parte, non sarebbe giusto attribuire tutte le responsabilità agli adulti.
L’esperienza suggerisce che la debole partecipazione degli adulti all’istruzione e alla
formazione è legata al fatto che la partecipazione a tali attività non viene poi sufficientemente riconosciuta. Questo induce a chiedersi se davvero i datori di lavoro italiani
attribuiscono così poca importanza all’apprendimento e all’acquisizione di conoscenze e competenze della loro forza lavoro, come sembrerebbe. Senza dubbio essi hanno alle loro dipendenze una parte di lavoratori brillanti e preparati, ma è spontaneo chiedersi se davvero i datori di lavoro credono di poter restare competitivi nel mercato globale senza
più elevati livelli di conoscenze, competenze e abilità per tutti i loro dipendenti.
Nel capitolo seguente esamineremo quali proposte avanza l’OCSE per costruire una
politica efficace ed efficiente di educazione degli adulti.
75
Bibliografia
Becker, S. O., Horning E., Woessmann L., “Catch Me If You Can: Education
and Catch-up in the Industrial Revolution”, IZA Discussion Paper No. 4556,
Bonn: Institute for Labour Studies (IZA), November 2009.
Cipollone P., Visco I., “Il merito nella società della conoscenza”, Bologna, Il
Mulino n.1, 2007.
European Commission, Progress towards the Lisbon Objectives in Education and
Training: Indicators and Benchmarks, Commission Staff Working Document,
SEC(2009)1616 Final 23 November 2009.
KPMG Foundation, The long term costs of literacy difficulties, Montvale, New
Jersey, December 2006.
http://www.readingrecovery.ac.nz/research/download/ECRcosts2006.pdf
Levin, H. M., “A Summary by Symposium Chair”, The Social Costs of
Inadequate Education: The first annual Teachers College Symposium on Educational
Equity, Teachers College, Columbia University, October 24-26, 2005.
http://www.mea.org/tef/pdf/social_costs_of_inadequate.pdf
Maxwell, J., Teplova T., Canada’s Hidden Deficit: The Social Cost of Low Literacy
Skills, Canadian Language & Literacy Research Network, July 2005.
http://www.cllrnet.ca/Docs/NLS/NSEL%20Final%20Papers%20%20MS%20October%202008/NSEL_SocialCost08b.pdf
OCSE, Understanding the Social Outcomes of Learning, Paris, 2007.
Visco I., “Le competenze, le professionalità, l’adattabilità”, intervento al
Convegno Nazionale di Confindustria, Genova, 24 settembre 2010.
76
PARTE SECONDA
L’EDUCAZIONE DEGLI ADULTI: GLI OBIETTIVI DELLA UE E LE
PROPOSTE DELL’OCSE
2.1 Gli obiettivi UE per l’istruzione e la formazione
Il Consiglio Europeo tenutosi a Lisbona nel marzo 2000 per concordare una strategia al fine di sostenere lo sviluppo economico, l’occupazione e la coesione sociale
adottò l’obiettivo strategico di “fare dell’Europa l’economia basata sulla conoscenza più
competitiva e dinamica del mondo, in grado di realizzare una crescita economica sostenibile
con nuovi e migliori posti di lavoro e una maggiore coesione sociale”.
Nelle Conclusioni del vertice di Lisbona, i capi di Stato e di governo riconobbero
il ruolo fondamentale dell’istruzione e della formazione per la crescita e lo sviluppo
economico:
“I sistemi europei di istruzione e formazione […] dovranno offrire possibilità di
apprendimento e formazione adeguate ai gruppi bersaglio nelle diverse fasi della vita:
giovani, adulti disoccupati e persone occupate soggette al rischio che le loro competenze
siano rese obsolete dai rapidi cambiamenti. Questo nuovo approccio dovrebbe avere tre
componenti principali: lo sviluppo di centri locali di apprendimento, la promozione di
nuove competenze di base, in particolare nelle tecnologie dell’informazione, e qualifiche più trasparenti”.
Come è noto, in base al Trattato di Roma il Consiglio Europeo non ha poteri
di intervento sui sistemi educativi dei singoli paesi membri; ciononostante, il
Consiglio invitava gli Stati membri, nonché la Commissione europea, ad avviare le
iniziative necessarie per conseguire alcuni obiettivi:
• aumentare sostanzialmente gli investimenti annuali pro capite per lo sviluppo
delle risorse umane;
• dimezzare entro il 2010 il numero dei giovani tra i 18 e i 24 anni che hanno
assolto solo il primo ciclo di studi secondari e che non continuano gli studi né
intraprendono altro tipo di formazione;
• trasformare le scuole e i centri di formazione in centri locali di apprendimento
plurifunzionali accessibili a tutti, collegati a internet, ricorrendo ai mezzi più
idonei per raggiungere un’ampia gamma di gruppi bersaglio; costruire tra scuo77
le, centri di formazione, imprese e strutture di ricerca partenariati di apprendimento a vantaggio di tutti i partecipanti;
• definire le nuove competenze di base da fornire lungo l’arco della vita.
Da allora, ogni anno la Commissione presenta una relazione (Rapporto di primavera)
al Consiglio europeo nella quale vengono esaminati in dettaglio i progressi compiuti nell’attuazione di questa strategia. In tale occasione i Capi di Stato e di
Governo dell’Unione valutano i progressi compiuti e stabiliscono le future priorità
per il raggiungimento degli obiettivi fissati a Lisbona.
Una specifica strategia per l’istruzione e la formazione
Gli obiettivi
Allo scopo di “fornire agli Stati membri una base di lavoro a livello europeo” per
il 2010, il Consiglio definiva tre obiettivi strategici:
1. migliorare la qualità e l’efficacia dei sistemi di istruzione e di formazione
nell’Unione europea;
2. facilitare l’accesso di tutti ai sistemi di istruzione e di formazione;
3. aprire i sistemi di istruzione e formazione al mondo esterno.
Questi tre obiettivi strategici sono stati poi declinati in 13 “obiettivi concreti”.
1.1 migliorare l’istruzione e la formazione degli insegnanti e dei formatori;
1.2 sviluppare le competenze necessarie per una società della conoscenza;
1.3 garantire a tutti l’accesso alle ICT;
1.4 aumentare l’affluenza agli studi scientifici e tecnici;
1.5 sfruttare al meglio le risorse;
2.1 creare un ambiente di apprendimento aperto;
2.2 rendere l’apprendimento più attraente;
2.3 sostenere la cittadinanza attiva, le pari opportunità e la coesione sociale;
3.1 rafforzare i collegamenti con il mondo del lavoro, con la ricerca e con la
società nel suo insieme;
3.2 sviluppare lo spirito imprenditoriale;
3.3 migliorare l’apprendimento delle lingue straniere;
3.4 aumentare la mobilità e gli scambi;
3.5 rafforzare la cooperazione europea.
Il programma di lavoro e i parametri di riferimento europei per il 2010
Il programma di lavoro (“Istruzione e formazione 2010”) fissava i temi chiave da affrontare per realizzare i 13 obiettivi concordati e l’organizzazione del follow-up (periodo di
78
avvio, indicatori per la misurazione dei progressi compiuti, elenco indicativo di tematiche adatte allo scambio di esperienze e di buone pratiche).
Il programma partiva da una premessa generale molto importante:
“Le finalità che la società europea attribuisce all’istruzione e alla formazione vanno al di là
della semplice preparazione alla vita professionale, specie per quanto riguarda la crescita individuale per una vita migliore e lo sviluppo di una cittadinanza attiva nelle società democratiche
… L’istruzione e la formazione sono più di semplici strumenti finalizzati all’occupabilità. …
Il Consiglio e la Commissione chiedono che il settore dell’istruzione e della formazione sia ora
esplicitamente riconosciuto come sfera prioritaria fondamentale della strategia di Lisbona. Si
farebbe così passare un messaggio chiaro, ossia che per quanto le politiche in altri settori possano
essere efficaci, l’Unione europea potrà divenire la principale economia della conoscenza al mondo
soltanto grazie al contributo essenziale dell’istruzione e della formazione come fattori di crescita
economica, innovazione, occupabilità sostenibile e coesione sociale”.
Il termine “parametro di riferimento” (benchmark) è riferito a questioni concrete, in
relazione alle quali è possibile misurare i progressi. Tali questioni sono:
1. investimenti per istruzione e formazione;
2. abbandoni scolastici precoci;
3. laureati in matematica, scienze e tecnologia;
4. popolazione che ha portato a termine l’istruzione secondaria superiore;
5. competenze funzionali di lettura (reading literacy) dei 15enni;
6. partecipazione all’apprendimento permanente (lungo tutto l’arco della vita).
1. Investimenti per istruzione e formazione
Constatata la natura “provvisoria e incompleta” dei dati disponibili, la Commissione
non ha raccomandato un parametro di riferimento specifico. Tuttavia ha richiamato la
responsabilità degli Stati membri nel garantire che la spesa, sia pubblica che privata,
risponda in modo appropriato agli obiettivi di Lisbona. Pertanto, nelle indicazioni
della Commissione si legge: “La Commissione invita gli Stati membri a continuare a contribuire al raggiungimento dell’obiettivo di Lisbona consistente nell’ottenere incrementi annui
sostanziali degli investimenti pro capite per le risorse umane”.
Per tutti gli altri obiettivi esaminati qui di seguito, il Consiglio dell’Unione Europea
ha assunto i benchmark proposti dalla Commissione, apportando (Bruxelles, 7 maggio 2003) alcune modifiche minori.
2. Abbandoni scolastici precoci
Entro il 2010, tutti gli Stati membri dovrebbero almeno dimezzare il tasso degli
abbandoni scolastici precoci rispetto al tasso registrato nel 2000, al fine di arrivare a
una media UE pari o inferiore al 10%.
3. Laureati in matematica, scienze e tecnologia
Entro il 2010, gli Stati membri dovrebbero garantire un sensibile incremento com79
plessivo (+15%) rispetto al 2000 del numero totale di laureati in matematica, scienze e tecnologia, e dovrebbero ottenere nello stesso tempo un dimezzamento del livello di disparità tra i sessi in queste materie.
4. Popolazione che ha portato a termine l’istruzione secondaria superiore
Entro il 2010, gli Stati membri dovrebbero garantire che la percentuale media UE
della popolazione di 20-24 anni con istruzione secondaria superiore raggiunga o superi l’85%.
5. Competenze funzionali di lettura (reading literacy)
Entro il 2010, la percentuale di quindicenni con bassi livelli di capacità funzionali di
lettura (literacy) dovrebbe essere ridotta del 20%.
6. Partecipazione all’apprendimento permanente (lungo tutto l’arco della vita)
Entro il 2010, almeno il 12,5% della popolazione attiva (25-64 anni) dovrebbe raggiungere il livello medio UE di partecipazione all’apprendimento lungo tutto l’arco
della vita.
La situazione di partenza (2001)
Qui di seguito, limitando l’analisi ai benchmark che direttamente o indirettamente riguardano l’educazione degli adulti, si presentano i punti di partenza
adottati per monitorare i progressi al 2010. Come già evidenziato, per il primo
obiettivo strategico (investimenti per istruzione e formazione) non sono stati
stabiliti benchmark, pertanto l’illustrazione è condotta a partire dal benchmark numero 2.
Benchmark n° 2: abbandoni scolastici precoci
I tre paesi con i migliori risultati nel 2001 sono: Svezia, Finlandia e Austria.
80
Indicatore
Media
UE -15
(2001)
Giovani 18-24 anni che
hanno lasciato precocemente
la scuola e non frequentano
ulteriori corsi di istruzione o
formazione
19,4%
Media dei 3 paesi Italia
UE coi migliori (2001)
risultati (2001)
10,3%
26,4%
Benchmark
UE
2010
10%
Benchmark n° 4: popolazione che ha portato a termine l’istruzione secondaria superiore
Considerando la popolazione 25-64 anni che ha portato a termine l’istruzione
secondaria superiore, i dati di partenza al 2001 sono i seguenti:
Indicatore
Media
UE -15
(2001)
Percentuale della popolazione
fra i 25e i 64 anni che ha
portato a termine almeno
l’istruzione secondaria superiore
65,7%
Media dei 3 paesi Italia
UE coi migliori (2001)
risultati (2001)
82,7%
46,2%
Benchmark
UE
2010
80%
I tre paesi con i migliori risultati sono: Germania, Danimarca e Svezia.
Se si guarda invece ai giovani 20-24enni, i dati di partenza al 2001 sono i
seguenti:
Indicatore
Media
UE -15
(2001)
Percentuale di giovani
20-24 anni che hanno
completato almeno
l’istruzione secondaria superiore
78%
Media dei 3 paesi Italia
UE coi migliori (2001)
risultati (2001)
86%
68,8%
Benchmark
UE
2010
85%
Benchmark n° 6: partecipazione all’apprendimento permanente (per tutto l’arco della vita)
Relativamente alla partecipazione all’apprendimento lungo tutto l’arco della
vita i dati di partenza al 2001 sono i seguenti:
Indicatore
Media
UE -15
(2001)
Partecipazione a qualunque
tipo di istruzione o formazione
popolazione 25-64 anni
8,4%
Media dei 3 paesi Italia
UE coi migliori (2001)
risultati (2001)
19,6%
5,1%
Benchmark
UE
2010
12,5%
I tre paesi con i migliori risultati, nel 2001, sono: Regno Unito, Svezia e Danimarca.
I limiti di questo indicatore sono peraltro evidenti: non si prende in considerazione la
durata della formazione, ma solo la partecipazione.
81
La verifica del 2008
In questo paragrafo vengono presentati i dati che la Commissione e il Consiglio
europei hanno utilizzato nel terzo appuntamento di verifica (primavera 2008).
Si tratta di elaborazioni su fonte Eurostat – Labour Force Survey LFS e su fonte
OCSE-PISA. Si riferiscono, salva diversa indicazione, a dati del 2006.
Qui di seguito si analizza la situazione nei diversi paesi relativamente ai diversi
parametri-obiettivo (Figure 11, 12, 13).
Benchmark n°. 2: abbandoni scolastici precoci
Figura 11
Percentuale della popolazione 18-24 anni che ha terminato soltanto
l’istruzione secondaria inferiore e non prosegue gli studi
o una formazione (2006)
45%
40%
35%
30%
25%
20%
15%
10%
5%
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20
10
0%
FOntE: EUROSTAT (Labour Force Survey 2008)
Nell’UE-15 la percentuale di giovani 18-24 anni che abbandona prematuramente la scuola è del 16%. La maggior parte degli Stati membri resta lontano
dall’obiettivo del 10% fissato per il 2010. L’Italia ha registrato un miglioramento, abbassando la percentuale dal 24,3 al 20,8, ma rimane ancora uno dei
paesi con il più alto tasso di abbandoni scolastici precoci.
82
Benchmark n°. 4: popolazione che portato a termine l’istruzione secondaria superiore
Figura 12
Percentuale di giovani 20-24 anni che hanno completato almeno
l’istruzione secondaria superiore (2006)
100%
90%
80%
70%
60%
50%
40%
30%
20%
10%
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10
0%
FOntE: EUROSTAT (Labour Force Survey 2008)
Nell’UE il tasso di studenti che completano il ciclo di istruzione secondaria
superiore è rimasto sostanzialmente invariato dal 2000, pertanto non sono stati
conseguiti reali progressi verso il raggiungimento del parametro di riferimento
pari ad almeno l’85% nel 2010. Tuttavia, alcuni paesi con una percentuale relativamente bassa hanno conseguito notevoli progressi. L’Italia è passata dal 69%
al 75%, avvicinandosi così alla media europea.
Va inoltre rilevato che alcuni nuovi Stati membri hanno già superato il parametro di riferimento.
83
Benchmark n°. 6: partecipazione all’apprendimento permanente (per tutto l’arco della vita)
Figura 13
Percentuale della popolazione dai 25 ai 64 anni di età che ha partecipato
ad un’attività d’istruzione o formazione nel corso delle 4 settimane
precedenti l’indagine (2006)
35%
30%
25%
20%
15%
10%
5%
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0%
FOntE: EUROSTAT (Labour Force Survey 2008)
La tendenza media nell’UE-15 ha registrato notevoli progressi alla verifica, praticamente raggiungendo l’obiettivo fissato per il 2010. Considerando anche i
nuovi Stati membri (UE-27), saranno invece necessari ulteriori sforzi per raggiungere il parametro di riferimento.
Va notato che i paesi nordici registrano i più alti tassi di partecipazione.
Per quanto riguarda l’Italia, c’è stato un lieve miglioramento rispetto al 2001 (è
passata dal 5,1% al 6,2%): poca cosa per raggiungere l’obiettivo del 2010,
rispetto al quale è ancora a metà strada e conserva uno degli ultimi posti nel quadro europeo.
Conclusioni
Dall’avvio, nel 2002, del programma “Istruzione e formazione 2010”, sono stati
realizzati alcuni progressi significativi. Tuttavia, la maggior parte dei problemi
permane. In sostanza, si deve rilevare che gli obiettivi fissati erano troppo ottimistici e
che l’inerzia dei sistemi scolastici vigenti risulta superiore alle previsioni e alle aspettative: evidentemente, il metodo della “cooperazione aperta”, adottato dall’Unione Europea,
e le sue “raccomandazioni restano nella sostanza largamente disattese dai singoli paesi.
84
Il nuovo quadro strategico 2010-2020
Il nuovo quadro strategico per la cooperazione europea nel settore dell’istruzione e della formazione per il periodo 2010-2020 definisce quattro obiettivi strategici, conferma gli stessi benchmark (innalzandone i parametri) e ne individua
due nuovi.
I quattro obiettivi strategici sono:
1. fare in modo che l’istruzione e la formazione lungo l’arco della vita e la
mobilità divengano una realtà;
2. migliorare la qualità e l’efficacia dell’istruzione e della formazione;
3. promuovere l’equità, la coesione sociale e la cittadinanza attiva;
4. incoraggiare la creatività e l’innovazione, ivi compreso lo spirito imprenditoriale, a tutti i livelli dell’istruzione e della formazione.
I due nuovi benchmark per il 2020 sono:
• il 95% dei bambini tra i 4 anni e il primo anno di scuola dovrebbe partecipare alla scuola dell’infanzia;
• la proporzione di persone tra i 30 e i 34 anni con un titolo post-diploma o
terziario dovrebbe raggiungere almeno il 40% della popolazione.
I benchmark confermati sono:
• almeno il 15% degli adulti dovrebbe partecipare ad attività di istruzione e
di formazione lungo l’arco della vita;
• la proporzione di quindicenni con insufficienti livelli non solo di literacy,
ma anche di numeracy e literacy scientifica, dovrebbe scendere sotto il livello del 15%;
• gli abbandoni scolastici precoci dovrebbero essere inferiori al 10%.
Bibliografia
European Commission, Progress towards the Lisbon Objectives in Education and
Training, Luxemburg, 2009.
85
2.2 Come promuovere l’educazione degli adulti (OCSE)*
Al di là della retorica: è necessaria una maggiore enfasi sugli incentivi finanziari e sulle politiche volte ad aumentare la partecipazione degli adulti meno qualificati.
La pubblicazione OCSE del 2003, basata sull’esperienza di un primo gruppo di nove
paesi, era volta a valutare l’accesso e la partecipazione degli adulti alle attività di
apprendimento, e ad aumentare gli incentivi atti a promuovere la loro partecipazione
a tali attività. Le evidenze raccolte in seguito all’adesione all’indagine di ulteriori altri
paesi hanno rafforzato la base di conoscenza sulle politiche e le pratiche diffuse e ora è
possibile arricchire la discussione indicando alcune opzioni politiche raccomandabili.
La presente pubblicazione, pur continuando a sostenere la necessità di un approccio integrato per
le politiche dell’apprendimento in età adulta, pone maggiore enfasi sui meccanismi di incentivi
finanziari e sulle politiche volte ad aumentare la partecipazione degli adulti poco qualificati.
Il focus sugli adulti poco qualificati è il risultato di due fattori principali: in primo
luogo, tali adulti sono collocati ai primi posti nell’agenda politica di molti dei paesi
oggetto dell’indagine. In secondo luogo, recenti studi mostrano che una distribuzione più
equa delle competenze e abilità ha un forte impatto sulla performance economica complessiva dei
paesi. Si tratta di un risultato importante, che fornisce una giustificazione alle politiche che mirano a migliorare le competenze e abilità dei gruppi più svantaggiati. Tale
risultato mostra anche che una distribuzione più equa delle competenze e delle abilità è, a lungo termine, importante per gli standard di vita individuali e per promuovere la crescita, rendendo più produttiva la forza lavoro nel suo complesso.
Lo scopo principale di questo rapporto è raccogliere le lezioni chiave provenienti dalle
indagini nazionali (country reviews) di sette paesi OCSE, in particolare per quanto
riguarda i modi in cui questi paesi promuovono l’accesso e la partecipazione all’apprendimento adulto. Il rapporto esamina le politiche e gli incentivi che incoraggiano
gli adulti ad apprendere, ma anche gli ostacoli potenziali: mancanza di motivazione,
mancanza di tempo e limitazioni di ordine economico costituiscono i più importanti e come
tali devono essere affrontati nel più ampio contesto politico con azioni specifiche per
porvi rimedio.
* Si riporta una selezione di passi dell’Executive Summary della pubblicazione “Promoting
adult learning”, OCSE 2005. Il testo costituisce il seguito della pubblicazione OCSE del
2003 “Beyond Rhetoric: Adult Learning Policies and Practices” (“Al di là della retorica:
politiche e pratiche dell’apprendimento adulto”). La pubblicazione si basa su dati relativi
ai 17 paesi che hanno preso parte tra il 1999 ed il 2004 alla review tematica dell’OCSE
sull’apprendimento adulto: Austria, Canada, Corea, Danimarca, Finlandia, Germania,
Gran Bretagna (Inghilterra), Messico, Norvegia, Paesi Bassi, Polonia, Portogallo, Spagna,
Svezia, Svizzera, Stati Uniti d’America, Ungheria. [L’Italia non ha partecipato.]
86
La partecipazione all’apprendimento in età adulta varia da un paese all’altro…
L’indagine evidenzia che esiste una sostanziale variabilità dei tassi di partecipazione
nei 17 paesi dell’indagine. Danimarca, Finlandia e Svezia sono generalmente ai
livelli più alti; Ungheria, Portogallo e Polonia hanno i tassi di partecipazione più
bassi. È interessante rilevare che esiste un modello “estensivo” di apprendimento
adulto, che comporta un volume minore di training per un numero maggiore di
adulti, contrapposto ad un modello “intensivo” che concentra lo sforzo di training
su un numero inferiore di adulti.
… e varia da un gruppo di persone all’altro
Ci sono significative differenze nella partecipazione all’apprendimento adulto. I
tassi di partecipazione di chi è in possesso di un titolo di educazione terziaria sono
spesso 5 o 10 volte superiori a quelli degli adulti meno qualificati. Gli adulti più
anziani tendono a partecipare meno dei giovani. La dimensione dell’impresa è un
altro fattore determinante: tra i paesi dell’indagine, le piccole e medie imprese di
Ungheria, Polonia, Portogallo e Spagna sono particolarmente sottorappresentate
nella formazione continua...
L’evidenza mostra che la scarsità di investimenti riguarda soprattutto certi gruppi
svantaggiati, come i meno qualificati ed i più anziani. Questo suggerisce un ruolo
specifico per l’intervento politico.
I governi hanno a disposizione diverse leve politiche
Le esperienze dei paesi studiati mostrano che i governi possono svolgere
un ruolo importante:
1. creando i prerequisiti strutturali per aumentare i benefici dell’apprendimento adulto;
2. promuovendo accordi di cofinanziamento appositamente creati e ben
definiti;
3. aumentando il controllo delle procedure di erogazione delle attività di formazione e della sua qualità;
4. migliorando il coordinamento e la coerenza dell’iniziativa politica.
1. Creare le condizioni strutturali per aumentare l’utilità, i benefici e le motivazioni per l’apprendimento in età adulta
In primo luogo, è importante aumentare la visibilità dei vantaggi dell’apprendimento in età
adulta al fine di motivare gli adulti ad apprendere rafforzando il riconoscimento delle competenze e abilità acquisite, rendendo le abilità più trasparenti e segnalabili agli individui e
alle imprese. Lo sviluppo di sistemi nazionali di qualificazione fornisce a questo proposito una sorta di “valuta”. Il riconoscimento dell’apprendimento informale e non
formale acquisito nell’esperienza di vita e di lavoro può contribuire a ridurre i costi
di opportunità. In un numero crescente di paesi OCSE sono stati introdotti programmi che consentono agli individui di vedere riconosciute le proprie competen87
ze, a prescindere da come sono state acquisite (istruzione formale o esperienze di
apprendimento non formale o informale). Al tempo stesso, è essenziale assicurare che
i sistemi di certificazione siano credibili e trasparenti per i datori di lavoro, altrimenti le abilità certificate rischiano di essere svalutate sul mercato del lavoro.
In secondo luogo, fornire informazioni di qualità e un buon orientamento facilitano l’accesso alla partecipazione, migliorano la visibilità dei vantaggi dell’apprendimento
adulto, assicurano un migliore incontro tra le esigenze dell’individuo e l’offerta. La
mancanza di informazioni sulla disponibilità e sulla qualità dei corsi offerti può
influenzare negativamente la percezione dei vantaggi che l’individuo può ricavare
se si impegna ad apprendere. I diversi paesi hanno adottato diversi approcci per
risolvere questo problema. Un servizio di consulenza individuale si è rivelato efficace,
soprattutto nei casi degli adulti poco qualificati o svantaggiati.
Un altro approccio consiste nel promuovere l’apprendimento in età adulta mediante mentori individuali o “ambasciatori dell’apprendimento”, cioè individui che
hanno partecipato con successo ai corsi precedenti, oppure altri mediatori qualificati come i rappresentanti sindacali. È anche importante che i fornitori siano connessi tra loro in una rete per poter condividere e scambiare informazioni. Centri integrati sono soluzioni promettenti, perché integrano l’informazione e l’orientamento
in reti di servizi preesistenti.
2. Promuovere accordi di cofinanziamento ben definiti
L’apprendimento adulto, poiché genera considerevoli ritorni privati, dovrebbe essere finanziato privatamente. Sarebbe uno spreco di risorse pubbliche finanziare con
fondi pubblici l’apprendimento quando sarebbe stato intrapreso comunque.
Tuttavia, ci sono motivi validi per i governi per offrire cofinanziamenti e incentivi economici
per i gruppi meno qualificati e svantaggiati, come pure per certi tipi di aziende (in particolare di piccole dimensioni). La sfida è trovare soluzioni per quei casi in cui le limitazioni economiche costituiscono effettivamente un ostacolo reale all’investimento e alla
partecipazione all’apprendimento in età adulta. Le limitazioni economiche saranno
infatti particolarmente gravi per gli individui a basso reddito e per i lavoratori più
anziani (che hanno solo un breve periodo di permanenza sul mercato del lavoro per
poter ammortizzare i costi della formazione). Inoltre è probabile che una piccola
ditta individuale non abbia sufficiente interesse economico ad investire sui propri
dipendenti per l’acquisizione di competenze generiche anziché in abilità professionalmente mirate.
Creare meccanismi per cofinanziare le spese per la formazione degli adulti da parte di imprese e singoli lavoratori può aumentare l’efficienza dell’offerta. Tra i vari strumenti di
finanziamento disponibili per le imprese sono praticate deduzioni fiscali e programmi di sussidi/borse di studio. Infine reti di imprese collegate verticalmente (dove le
imprese grandi forniscono formazione diretta alle piccole appartenenti alla stessa cate88
na di servizi) sono una strada promettente per la messa a fattor comune delle risorse
tra aziende con diversa capacità di formazione.
L’efficacia e l’efficienza dell’offerta possono essere migliorate anche consentendo
una maggiore libertà di scelta ai singoli individui.
Le esperienze delle carte di credito formativo individuale (ILAs), e dei voucher si sono
dimostrate efficaci per risolvere i bisogni degli svantaggiati, perché possono
essere meglio mirate e stimolare la concorrenza tra i soggetti che erogano la formazione. Anche i crediti individuali hanno funzionato bene nei paesi nordici.
Inoltre i congedi sono un utile strumento per promuovere l’accesso alla formazione da parte dei lavoratori.
3. Migliorare l’offerta e il controllo della qualità della formazione
Per incrementare la partecipazione degli adulti è essenziale adottare efficaci modelli e
metodi di offerta. Un’ampia gamma di istituzioni – università popolari e della terza età,
community college, istituzioni educative formali e non formali - forniscono varie opportunità di apprendimento ad adulti con necessità diverse. L’esperienza dei paesi oggetto dell’indagine suggerisce l’importanza di creare opportunità di apprendimento mirate
a specifici bisogni. Per esempio, in molti paesi dell’indagine, i programmi di apprendimento intergenerazionali rappresentano un modo efficace di affrontare i problemi di literacy.
L’offerta efficace tiene anche in considerazione il tempo, fattore che può limitare fortemente la partecipazione. Le scelte di alleggerire gli orari e fornire alternative di
apprendimento flessibili hanno consentito a un certo numero di paesi di raggiungere alti tassi di partecipazione. Tali scelte includono anche lo sviluppo di apprendimento part-time e di programmi di apprendimento a distanza, resi possibili dall’uso delle nuove tecnologie (ICT).
Anche un’offerta efficace di formazione sul luogo di lavoro può contribuire ad aumentare il tasso complessivo di partecipazione. Un reale coinvolgimento dei rappresentanti dei lavoratori e un dialogo ben strutturato tra impresa e sindacati possono contribuire a migliorare la formazione. I partner sociali sono in grado di definire in
modo congiunto dei percorsi di formazione che portino a qualificazioni riconosciute. Il coinvolgimento dei rappresentanti dei lavoratori può ridurre le informazioni
asimmetriche su costi e benefici, aiutare ad orientare gli investimenti del datore di
lavoro verso tipi di formazione più generali, e creare opportunità di apprendimento più eque.
Relativamente al controllo della qualità dell’apprendimento in età adulta, non c’è
dubbio che l’offerta di programmi di scarsa qualità e la mancanza di informazioni
sui risultati dei percorsi di formazione possono determinare un minore investimento e una minore partecipazione. Pertanto, è necessario che i sistemi di formazione degli
89
adulti prevedano da un lato una certificazione della qualità dell’offerta, dall’altro un sistema di valutazione dei risultati dei programmi svolti. I governi possono stabilire standard
di qualità, certificare l’aderenza a tali standard e diffondere le informazioni relative
a coloro che rispettano tali standard. I servizi di pubblico impiego dovrebbero essere
incoraggiati ad alzare ulteriormente i loro standard di qualità nel momento in cui
inviano i lavoratori disoccupati a corsi di formazione continua forniti da privati o
dalla comunità. A livello più generale, la partecipazione alle gare d’appalto da parte
di coloro che offrono i programmi di formazione costituisce una modalità promettente per migliorare la qualità dell’offerta.
Verificando che cosa funziona e cosa no, per chi e in quali circostanze, la valutazione può portare a una politica più efficace ed efficiente. La valutazione in quest’area
è particolarmente impegnativa. La valutazione di questi programmi – sebbene
abbia fatto progressi negli ultimi anni – deve affrontare la sfida di trovare indicatori di performance appropriati e metodi di valutazione che tengano conto degli
obiettivi sia di efficienza che di equità.
4. Promuovere il coordinamento e la coerenza delle politiche
Di regola, i sistemi per l’apprendimento adulto coprono un ampio spettro di esigenze e nel processo di decisione politica è coinvolta una grande varietà di stakeholders. A fronte di questo quadro complesso, nella maggior parte dei paesi la politica relativa all’apprendimento adulto è caratterizzata da una certa mancanza di
coordinamento e coerenza.
Un modo per aumentare il coordinamento tra i diversi stakeholders coinvolti consiste nel creare istituzioni finalizzate alla formulazione delle politiche per l’educazione in età adulta. A seconda dei contesti nazionali, tali istituzioni possono rivestire il ruolo di coordinatori, advisory bodies o veri e propri enti che decidono le
linee politiche. La definizione di obiettivi in termini di partecipazione e di risultati finali può contribuire a far sì che i diversi attori lavorino per un fine comune.
90
2.3 Le risorse per l’educazione degli adulti (OCSE)*
In questo capitolo si affronta il problema delle risorse necessarie per l’educazione degli
adulti nel quadro della filosofia del LLL.
Va subito sottolineato che è ormai largamente condiviso tra i vari paesi sviluppati un principio
guida: se l’educazione iniziale deve essere in gran parte finanziata da risorse pubbliche, queste
non possono far fronte anche a tutti i costi della formazione permanente per gli adulti.
In proposito si è peraltro consolidato il principio del cofinanziamento tra tre soggetti: governo, datori di lavoro, lavoratori. Più precisamente il principio condiviso è che
• i datori di lavoro e i lavoratori dovrebbero sopportare la parte maggiore dell’onere
• i governi dovrebbero sopportare gran parte del costo per i lavoratori poco qualificati e indigenti, e soprattutto per quelli a rischio, i disoccupati e persino - qui la condivisione è minore - per chi opera nelle piccole imprese (imprenditori e lavoratori).
Due sono le sfide più evidenti cui è necessario dare una risposta per l’educazione in
età adulta:
a) la prima è come assicurare un adeguato livello globale di investimento. In particolare,
come favorire (anche con incentivi) il flusso di risorse finanziarie private (da
imprese e individui);
b) la seconda è come assicurare un’equa distribuzione dell’educazione degli adulti tra la
popolazione interessata. È noto infatti che l’attuale distribuzione favorisce pesantemente coloro già in possesso di maggiori livelli di istruzione e di migliori standard di vita, mentre i più svantaggiati partecipano poco alla formazione permanente: così anche una politica mirata alla formazione permanente può correre il
rischio di aumentare le divisioni sociali.
Non vanno sottaciute le difficoltà di fondo che sono all’origine dei tuttora scarsi investimenti nella formazione permanente, e in particolare nell’educazione degli adulti.
Ne citiamo alcune:
• non c’è dubbio che ci siano effetti positivi per i datori di lavoro (maggiore produttività), per gli individui (possibilità di maggiore occupabilità e di salari più
alti) e per lo Stato (maggiore gettito fiscale e minore spesa sociale). Sussiste peraltro una certa incertezza sul rapporto tra il costo della formazione e il ritorno economico
della stessa per ciascuno di questi soggetti;
• le competenze acquisite partecipando alla formazione degli adulti spesso restano invisibili,
poiché in genere non determinano esplicite qualifiche o diplomi e non sono
quindi esplicitamente spendibili e riconoscibili sul mercato del lavoro;
• i tempi, la durata e le sedi della formazione permanente sono diversi da quelli
* Si riporta una selezione di passi di due pubblicazioni OCSE: Economics and Finance of Lifelong
Learning, OCSE 2001; Co-financing Lifelong Learning. Towards a Systemic Approach, OCSE 2004).
91
dell’istruzione iniziale formale. Gli adulti in genere lavorano e hanno responsabilità famigliari: ne consegue che i tempi e la durata della formazione permanente
devono essere personalizzati per risultare compatibili con il lavoro e la famiglia.
Non si può dire allo stato attuale che l’offerta di formazione permanente risponda adeguatamente a queste serie problematiche di fondo. Per rispondere meglio a questi problemi di carattere individuale sembrano necessari:
• una trasformazione del ruolo degli insegnanti, che divengano facilitatori di un
apprendimento sempre più autodiretto da parte degli individui
• la legittimazione di ambienti alternativi in cui dare luogo all’apprendimento rispetto
allo storico monopolio degli ambienti deputati all’educazione formale
• nuovi standard, criteri e modalità per valutare e segnalare i risultati dell’apprendimento.
In un’importante conferenza internazionale dedicata specificamente all’educazione
degli adulti, organizzata in Germania nel 2003 dal Ministero Federale
dell’Educazione e della Ricerca in collaborazione con l’OCSE, il Ministro Bulmahn,
concludendo i lavori sottolineò cinque punti fondamentali:
1. il lifelong learning, e in particolare la formazione permanente degli adulti, è di vitale
importanza per gli individui, per le imprese e per lo Stato;
2. sono necessarie nuove istituzioni e strutture per sostenere i programmi di finanziamento: l’intero governo (tutti i ministeri interessabili) deve essere coinvolto per promuoverle e coordinarle. È risultato chiaro che i ministri dell’educazione da soli non possono favorire
lo sviluppo di un sistema di educazione per gli adulti. Vanno coinvolti tutti i partner principali secondo i meccanismi previsti dalla filosofia del cofinanziamento: i ministri
del lavoro, delle finanze, del welfare e i partner sociali (imprese e lavoratori). Sono
necessari programmi di finanziamento per consentire agli individui di scegliere
che cosa, dove e quando imparare e per aumentare il loro potenziale di mobilità;
3. per stimolare la partecipazione alla formazione permanente da parte degli individui è necessario;
• investire in misure di orientamento e consulenza per gli individui;
• riconoscere e certificare le conoscenze e abilità derivate dall’esperienza (apprendimento non formale e informale);
4. il lifelong learning deve essere cofinanziato da governi, imprese e individui. Il governo
dovrebbe concentrare le risorse sulle persone più svantaggiate e in difficoltà occupazionali. Alle imprese e agli individui, per l’evidente ritorno privato, il maggior
carico di questi investimenti;
5. per migliorare lo sviluppo e l’attuazione delle strategie di cofinanziamento è
assolutamente necessario che le autorità politiche si coordinino tra loro, con i partner
sociali, le istituzioni economiche e tutti gli altri stakeholder per mirare allo sviluppo e al sostegno di strategie coerenti.
92
PARTE TERZA
L’EDUCAZIONE DEGLI ADULTI IN ITALIA: NODI CRITICI E
PROPOSTE DI SISTEMA DI TREELLLE
3.1 Le specificità dell’apprendimento in età adulta e
i nodi critici dell’offerta
“La formazione degli adulti è un processo attraverso il quale i discenti prendono
coscienza del significato delle loro esperienze. Questo riconoscimento di senso porta alla
capacità di valutazione. Un'esperienza acquisita significa sapere che cosa è accaduto e
quale rilevanza quel particolare evento presenta per la nostra personalità”.
(E. Lindeman)
Le specificità dell’apprendimento in età adulta
L’apprendimento in età adulta ha inizio sempre all’interno di una esperienza di vita
e/o di lavoro come risposta individuale ad un ostacolo, un conflitto, un cambiamento, un interesse o una curiosità. Questo determina scelte e decisioni che si traducono
in comportamenti.
A ciascun individuo capita di esercitare questo modo di apprendere tanto nella vita
professionale come nella vita privata. Questo avviene indipendentemente dall’origine
familiare, dal genere, dall’età, dalla scolarità, dal reddito e dalla condizione professionale. Certo tutti questi elementi, insieme all’universo di relazioni pubbliche e private in cui l’adulto quotidianamente agisce, fondano e in larga parte determinano le
modalità di apprendimento di ciascuno.
L’esperienza non è mai muta, tuttavia di fronte all’esperienza si possono determinare
diverse situazioni: il non-apprendimento che si esprime in presunzione, non considerazione e rifiuto; l’apprendimento automatico che riguarda l’apprendimento preconscio,
l’acquisizione meccanica di abilità e la memorizzazione; l’apprendimento riflessivo che
determina capacità di analisi critica della situazione e individua la decisione da prendere, i fini da perseguire e i mezzi da utilizzare.
Queste modalità di apprendimento / non apprendimento sono tutte presenti nel contesto delle esperienze di relazione, di vita e di lavoro di ciascuno e avvengono al di
fuori della partecipazione ad attività di istruzione e/o formazione organizzate.
Cosa determina la scelta di intraprendere un’attività formativa organizzata?
93
Più spesso è la presenza di situazioni di incertezza, di cambiamento, di passaggio, di
scelta (situazioni di lavoro e di vita percepite come problema, come impedimento al
buon vivere, come ostacolo alla propria realizzazione personale e/o professionale) insieme alla riflessione su di esse che può portare gli adulti a partecipare ad attività di formazione organizzata.
Queste situazioni di incertezza/cambiamento di fronte alle quali l’individuo non possiede risposte prestabilite sono oggi assai diffuse sia nelle vicende lavorative sia nel
ciclo di vita. In una società che cambia a ritmo così accelerato, il problematico confronto con le incertezze riguarda un numero sempre più vasto di persone.
In questo contesto, quando un adulto pensa di partecipare a un’attività di formazione
fa certamente conto di acquisire strumenti operativi e conoscenze tecnico-specifiche
con le relative certificazioni formali, ma soprattutto la considera un’occasione per
diminuire l’incertezza, come una situazione dove ragionare e riflettere con calma,
come un luogo di relazione che favorisce, attraverso il confronto con altri, il maturare
di scelte e decisioni per definire e dare senso a progetti di lavoro e di vita.
È dunque la necessità e/o la volontà di cambiare l’elemento decisivo a spingere verso la formazione organizzata. Ma questa spinta è socialmente e culturalmente condizionata.
La collocazione professionale, gli studi pregressi, gli impegni familiari, le relazioni
sociali, il reddito giocano un ruolo importante e decisivo. Più questi sono in qualche
misura saldi e certi più le scelte di formazione sono ben definite: ciò che interessa e si
vuole è abbastanza chiaro. Si sa a chi rivolgersi, con chi confrontarsi e discutere. Si è
disposti ad investire tempo e denaro. La capacità di valutare e discriminare nel mare
delle offerte disponibili è alta. In questi casi la formazione organizzata che si sceglie è
il luogo dove si fa manutenzione dei propri repertori conoscitivi, si sviluppano le competenze professionali e/o è l’occasione per dedicare tempo ad argomenti o attività di
cui si è cultori appassionati o semplicemente curiosi.
Quando invece la professionalità è debole, la scolarità bassa, le relazioni sociali limitate, gli impegni familiari pressanti, il reddito inadeguato e il tempo una risorsa scarsa, allora la formazione è una possibilità vaga di cui si intravede forse l’importanza, ma
che resta difficile da definire (quale? Quando? Come? Dove?). Allora nella conduzione già complessa della propria esistenza diventa difficile e problematico trovare spazio e tempo per una formazione organizzata. In questi casi si determinano facilmente, accanto a qualche limitato successo, rifiuti a priori, tentativi poco convinti, delusioni e rapidi abbandoni.
La partecipazione ad attività formative in Italia: qualche dato
Assumendo come indicatore la percentuale dei 25-64enni che nel 2006 ha dichiarato di
aver partecipato ad attività di istruzione o formazione nelle quattro settimane precedenti
l’indagine, l’Italia ha un indice di partecipazione del 6,2%, a fronte del 13% dell’UE-15.
94
Di questa scarsa partecipazione i dati e le ricerche sulla partecipazione in età adulta
danno ampia conferma. Dall’indagine campionaria ISTAT 2007 risulta che, su una
popolazione di 33 milioni, i partecipanti sono stati 2.050.000 in valori assoluti (Figura
9). Coloro che hanno dichiarato che avrebbero voluto partecipare ma “non hanno potuto” sono oltre 8 milioni. Le ragioni di questa mancata partecipazione sono, per ordine
di importanza: gli impegni familiari, gli impegni di lavoro, l’età, la salute, i costi troppo elevati. Quelli che “non hanno voluto partecipare” sono quasi 23 milioni.
D’altro canto, è nettissimo il discrimine culturale quando si guardi il titolo di studio
dei partecipanti (Figura 14).
Anche quando le attività di formazione sono organizzate e realizzate nelle imprese (formazione continua per gli occupati) esse vengono pensate, nella maggior parte dei casi, per
le figure più professionalizzate (Figura 15).
Questi pochi dati mostrano inequivocabilmente che nel nostro paese la partecipazione degli adulti
alla formazione organizzata (formale e non formale) è assai limitata e, per di più, si concentra
nelle fasce dei già professionalizzati e/o dei già colti.
Figura 14
Partecipazione della popolazione adulta (25-64 anni) ad attività
di formazione organizzata in base al titolo di studio posseduto
(valori percentuali, 2006)
60%
52,90%
50%
40%
28,40%
30%
20%
10,50%
10%
1,70%
0%
laurea
diploma
licenza media
elementare/
nessun titolo
Fonte: nostra elaborazione su dati ISTAT
Figura 15
Livello di inquadramento dei dipendenti del settore privato che hanno
partecipato ad almeno un’attività di formazione continua nel 2004
60%
54,70%
50%
38,10%
40%
30%
16,30%
20%
10%
0%
dirigenti, quadri
tecnici, impiegati
operai
Fonte: nostra elaborazione su dati ISFOL (rilevamento 2005)
95
Tre questioni di fondo e limiti dell’offerta
Sembra ormai del tutto condivisa a livello politico l’importanza e la necessità di
offrire alla popolazione adulta occasioni di istruzione e formazione all’interno di
una prospettiva di lifelong learning. Ciò che TreeLLLe con questo Quaderno vuole
evidenziare è che quando si passa a cercare di tradurre queste auliche dichiarazioni in azioni di sostegno (informazione, accoglienza, orientamento), in risorse
finanziarie adeguate e in specifiche modalità di offerta per l’età adulta, le cose si
fanno vaghe ed indeterminate.
Per TreeLLLe le questioni chiave sono tre:
1. la questione della bassa scolarità (del basso livello dell’istruzione e del rischio alfabetico);
2. la questione dello sviluppo professionale delle forze di lavoro;
3. la questione dello sviluppo culturale della popolazione e dello sviluppo di una cittadinanza attiva e responsabile.
Le tre questioni riguardano anche un nuovo segmento di popolazione, quello degli
immigrati, che per la sua crescente dimensione e rilevanza sociale necessita particolare
attenzione e misure specifiche.
È facile semplificare considerando queste tre questioni come separate ed indipendenti tanto nella vita degli individui quanto nella formulazione delle politiche e sostenere che, nel nostro paese, ci sarebbe già un’offerta per chi la vuole cogliere:
1. per la bassa scolarità e il rischio alfabetico ci sarebbe una specifica offerta scolastica
per adulti con i Centri Territoriali permanenti EDA e i Corsi serali della
Secondaria Superiore (prossimamente unificati nei CIPIA, vedi 4.1.1);
2. per lo sviluppo professionale dei lavoratori ci sarebbe il sistema di formazione professionale offerto dalle Regioni e la formazione continua offerta dalle Regioni e dalle
imprese, con la presenza attiva delle parti sociali;
3. per lo sviluppo culturale e la cittadinanza attiva ci sarebbero le iniziative del terzo
settore (corsi di varia natura per il tempo libero), dell’associazionismo culturale,
politico, religioso e la crescente offerta di occasioni culturali da cogliere nel libero mercato.
Insomma, con una certa ipocrisia e indifferenza ai dati empirici, si assume che gli
adulti che restano fuori dall’offerta di corsi tecnico-professionali, che non recuperano
i titoli di studio, che non si coinvolgono nelle “opportunità culturali”, lo facciano per
libera, informata e consapevole scelta. Anche per le “minoranze” che si trovano in condizioni di conclamata esclusione sociale e/o di disoccupazione cronica sarebbero a disposizione politiche di sostegno e di assistenza: una formazione obbligatoria le ricollocherebbe nel lavoro, a fronte di un impegno e della volontà del singolo.
Come si vede, in questo disegno, per ognuno ci sarebbe una possibilità organizzata ed
96
ognuno avrebbe la sua occasione di “educazione permanente” da cogliere.
Ma le cose non stanno così: questo scenario, che altro non è che una fotografia dell’esistente con evidenti forzature ottimistiche, non funziona affatto. Dati di assoluta evidenza empirica mostrano che questo sistema di offerta coinvolge un numero estremamente ridotto
di partecipanti rispetto alla domanda che potrebbe e dovrebbe essere promossa e incentivata. E
soprattutto discrimina proprio i gruppi culturalmente e professionalmente più deboli (vedi 4.1.1
pag. 119): l’attenzione di questo Quaderno è principalmente orientata verso costoro.
I nodi critici dell’offerta
Prima di formulare le sue proposte, TreeLLLe ritiene di dover identificare i
principali nodi critici dell’attuale offerta, che sono:
1. mancano rilevazioni sistematiche e indicatori condivisi sull’andamento
della formazione degli adulti, e senza dati empirici è difficile concordare su
soluzioni e priorità;
2. la domanda di formazione della popolazione adulta è molto differenziata per
segmenti sociali e tipologie (dalla domanda degli immigrati, ai disoccupati, su su fino alla domanda di formazione superiore). Ogni segmento richiede evidentemente risposte mirate e specifiche (parte quarta del Quaderno);
3. il nostro paese è segnato da una diffusa debolezza nell’istruzione e nelle
competenze di base che espongono una parte assai ampia tanto della popolazione quanto delle forze di lavoro a un vero e proprio rischio alfabetico che
non riguarda solo, come si potrebbe pensare, le vecchie generazioni poco
scolarizzate, ma che si riproduce anche tra i più giovani (15-29 anni);
4. i sistemi di offerta sono rigidi e in generale non tengono nel dovuto conto
la complessità sociale, culturale e professionale della domanda. Si è generato un “mercato” poco efficace, oligopolistico, autoreferenziale e, in certi
casi, attento più agli interessi politico-clientelari di chi governa l’offerta
pubblica e alla sopravvivenza di chi eroga la formazione che a decifrare e
rispondere ai bisogni e alle richieste di chi chiede formazione;
5. la valutazione dei risultati dell’offerta formativa è episodica, in molti casi
inesistente. Questo determina un circolo vizioso: la non valutazione dei
risultati favorisce la bassa qualità dell’offerta e questa determina la scarsità
della domanda;
6. carente è anche il controllo delle attività di formazione finanziate con risorse pubbliche: sono state in più occasioni rilevate vere e proprie truffe ai
danni dell’erario. Sono anche note, ma poco indagate, distorsioni distributive delle risorse, specie in alcune Regioni del sud;
7. la qualità dei formatori non è garantita da profili specifici né da un adeguato sistema di formazione, reclutamento e valutazione;
8. le piccole imprese (da cui il nostro paese è caratterizzato) hanno difficoltà
oggettive e scarsa propensione a investire in formazione continua per i lavoratori;
97
9. partecipa alla formazione chi ne avrebbe meno bisogno e, di converso, non
partecipa chi ne avrebbe maggiore necessità. Inoltre, sussistono forti ineguaglianze di partecipazione (nord-sud, città-campagna, uomini-donne,
quadri-operai, occupati-disoccupati, grandi-piccole imprese);
10. in Italia è molto scarso il coordinamento sul tema dell’educazione degli
adulti tra decisori pubblici nazionali (quattro ministeri: Lavoro, Istruzione,
Funzione Pubblica, Welfare), tra decisori nazionali e locali e tra decisori
pubblici, terzo settore e parti sociali;
11. non c’è chiarezza in ordine a chi debba finanziare e gestire la formazione
degli adulti. Chi è sensibile a questa problematica tende per lo più a rivolgere lo sguardo a risorse pubbliche. Peraltro, l’educazione degli adulti non
riguarda solo i gruppi più sfavoriti, ma riguarda potenzialmente tutti e in
tutte le età della vita: non si possono trovare quindi risposte basate solo sull’intervento pubblico ma devono necessariamente essere coinvolti il terzo
settore, le imprese e gli individui;
12. sono rari, quando non del tutto assenti, comunicazioni e scambi di pratiche
fra operatori ed esperti del sistema scuola, del sistema universitario, della
formazione professionale e continua e dell’associazionismo culturale.
Bibliografia
Demetrio D., Manuale di educazione degli adulti, Bari, Laterza, 2003.
Farinelli F:, Lungo il corso della vita. L’educazione degli adulti dopo le 150 ore: opportunità e forme, Roma, ISF, 2004
Federighi P., Liberare la domanda di formazione, Roma, EDUP, 2006.
Knowles M., La formazione degli adulti come autobiografia, Milano, Raffaello
Cortina Editore, 1996.
Knowles M., Elwood F. H. III, Swanson R.A., Quando l’adulto impara.
Andragogia e sviluppo della persona, Milano, Franco Angeli, 2008.
Lindeman E. C., The Meaning of Adult Education, University of Oklahoma, 1989.
98
3.2. I principi chiave e le proposte di sistema di TreeLLLe
TreeLLLe ritiene necessario e possibile un approccio che passi per l’assunzione della bassa
scolarità adulta (rischio alfabetico), dello sviluppo professionale segnatamente di disoccupati e inoccupati, e della cittadinanza debole (immigrati compresi) come le tre questioni
prioritarie su cui, soprattutto il momento pubblico dovrebbe intervenire non solo per ragioni di equità, ma per concrete ragioni di sviluppo economico e di coesione sociale.
Per TreeLLLe un programma di interventi per la popolazione adulta dovrebbe
essere realizzato sulla base di alcuni principi chiave:
1. la centralità dell’individuo, con i suoi problemi, curiosità e interessi, deve
essere la bussola per ogni progetto;
2. la ricerca sociale sulle conoscenze e sulle capacità possedute, sulle aspirazioni e sugli interessi di specifici gruppi di popolazione è strumento essenziale per
progettare la tipologia di interventi e per definire un’adeguata offerta formativa;
3. la dimensione locale dell’organizzazione e della direzione delle azioni è condizione
indispensabile per poter aderire alle diversità territoriali e alle specificità
sociali;
4. l’organizzazione degli interventi non può essere affidata a un’unica istituzione, ma
deve vedere interagire, in modo coordinato, diversi attori: pubblici (Stato,
Regioni ed Enti locali) e privati (imprese, terzo settore e individui);
5. per quanto riguarda le risorse finanziarie, in generale il principio da adottare è
quello del cofinanziamento se pur graduato tra i vari soggetti, a seconda della
tipologia di intervento;
6. una riflessione sistematica e organizzata (locale, nazionale ed europea) tra operatori ed esperti sui risultati migliori, e quindi su esperienze e metodi che li
garantiscano, deve essere parte integrante degli interventi.
Operativamente, l’offerta dovrebbe essere in grado di rispondere ai principali
ostacoli alla partecipazione già rilevati.
Per TreeLLLe questo significa:
• offrire temi, spunti e argomenti di studio che siano in sintonia con i nodi ed i
problemi concreti che riguardano gli individui nel lavoro, nelle relazioni
sociali e nella vita privata;
• produrre su questi nodi materiali e percorsi formativi;
• organizzare tempi, luoghi e modi originali e adeguati alla vita di un adulto;
• far pervenire i partecipanti all’acquisizione di attestati, certificazioni, titoli e
qualifiche che li motivino;
• disporre di docenti e formatori che siano motivati a “insegnare” agli adulti e siano
specificamente formati per farlo;
• organizzare campagne pubbliche di informazione e di sensibilizzazione rivolte alla
99
cittadinanza che la motivino a partecipare ad attività di formazione , anche
prevedendo piani straordinari per i gruppi più deboli, con incentivi e facilitazioni in tempo e denaro.
Come si vede, si tratta di un complesso mix di analisi sociale, di orientamenti culturali condivisi, di organizzazione di rete che va affrontata con la messa in campo di
maggiori risorse (pubbliche e private) e di costante e lungimirante volontà politica.
Questi orientamenti sono i tratti indispensabili e decisivi per il successo di una politica dell’apprendimento adulto.
Nel nostro paese esistono segnali che già vanno in questa direzione: ad esempio alcune esperienze realizzate dal ministero dell’Istruzione nei CTP/EDA, dal ministero del
Lavoro, da alcune Regioni e il lavoro sui migranti dell’associazionismo cattolico e non.
Le proposte di sistema di TreeLLLe
Anche a fronte dei nodi critici evidenziati (Capitolo 3.1) TreeLLLe formula quattro gruppi di proposte di sistema.
1° gruppo di proposte: garantire alcune condizioni di base per l’educazione degli adulti
Proposta 1: produrre rilevazioni sistematiche (nazionali e regionali) con
indicatori comuni e condivisi sulle attività di educazione degli adulti
Per governare un sistema bisogna conoscerlo. Per il monitoraggio delle attività
rivolte agli adulti e per operare scelte politiche fondate su dati empirici, sono
indispensabili rapporti annuali (regionali e nazionali) che evidenzino l’andamento dei principali indicatori. Per TreeLLLe è necessario che ciascuna Regione produca rapporti annuali che adottino indicatori nazionali omogenei e confrontabili per i singoli segmenti di offerta (istruzione, formazione professionale, formazione continua,
offerta culturale, etc.), cosicché a livello nazionale e regionale si possano operare
scelte di destinazione di risorse pubbliche secondo priorità ben individuate.
Sarebbe opportuno che a elaborare gli indicatori omogenei e confrontabili per i
singoli segmenti di offerta da utilizzare nei rapporti regionali fosse incaricato un
ente nazionale (ad es. ISFOL) che dovrebbe provvedere a raccogliere i rapporti
regionali e a stendere un rapporto nazionale.
Proposta 2: dare luogo a un coordinamento tra i vari ministeri interessati
(Istruzione, Lavoro, Welfare, Funzione Pubblica) individuando un ministero leader
È essenziale attribuire un ruolo leader a un singolo ministero, che si assuma la
responsabilità di coordinare un comitato interministeriale per promuovere azioni di monitoraggio su quanto si realizza a livello regionale e per aggiornare di
volta in volta indirizzi e priorità e destinare le risorse necessarie.
100
Proposta 3: fare chiarezza in ordine a chi debba finanziare e gestire l’educazione degli adulti secondo il principio guida del confinanziamento
La domanda di formazione riguarda potenzialmente tutti gli individui adulti.
Non si possono quindi dare risposte basate solo sull’intervento pubblico: devono necessariamente essere coinvolti il terzo settore e soprattutto le imprese e gli
individui (che hanno interessi e “ritorni” diretti). Il principio generale da adottare è quello del cofinanziamento.
Per TreeLLLe, ogni segmento di domanda deve trovare le fonti e le modalità di
finanziamento più adeguate. Schematizzando e in linea generale:
a) l’istruzione primaria e secondaria dovrebbe essere finanziata dal pubblico;
b)l’istruzione terziaria, per soddisfare l’impetuosa e crescente domanda, dovrebbe essere finanziata dal pubblico, ma anche dal privato (tasse studentesche e
finanziamenti delle imprese per la ricerca);
c) lo sviluppo professionale dovrebbe essere finanziato principalmente dalle imprese e dagli individui; al pubblico (Stato, Regioni, Province) spetterà la cura
dei più svantaggiati (disoccupati, inoccupati);
d)lo sviluppo culturale dovrebbe essere finanziato dagli individui, da associazioni private ma anche da risorse pubbliche orientate a iniziative di elevata qualità (biblioteche, musei, promozione di attività culturali, artistiche etc.).
Anche l’offerta del terzo settore può svolgere un ruolo rilevante.
Proposta 4: ribilanciare in qualche misura le risorse pubbliche tra istruzione, formazione iniziale e educazione degli adulti in un quadro di lifelong learning
A grandi cifre, la spesa pubblica annuale per l’istruzione scolastica (Stato,
Regioni ed Enti locali) è nell’ordine dei 50 miliardi di euro (con una spesa per
studente più alta della media europea); quella per l’università è di circa 8 miliardi (con una spesa per studente più bassa della media della UE) e quella per l’educazione degli adulti di 2-3 miliardi (molto modesta rispetto alla media dei
paesi europei avanzati). Tale distribuzione non risponde né ai profondi cambiamenti della struttura demografica di una società in cui si è allungata la vita
media (Box 1, pag. 30), né alle carenze strutturali della nostra popolazione adulta (basso livello di alfabetizzazione). Risulta evidente che, così come avviene nei
paesi avanzati, sono necessari maggiori investimenti per l’educazione degli adulti (e per l’istruzione terziaria), o quanto meno, in tempi di riduzione della spesa
pubblica, un ribilanciamento di qualche miliardo delle attuali risorse a favore di
questi settori così strategici e penalizzati.
Proposta 5: realizzare progetti mirati alle diverse tipologie di educazione
degli adulti (vedi i due piani straordinari di TreeLLLe nel Capitolo 3.3) e
assumere il livello territoriale (Regioni, Province, Comuni) come il terreno
ottimale per gestirle e valutarne l’efficacia
È convinzione di TreeLLLe che solo specifiche e mirate politiche locali (meglio
101
se sostenute da un quadro di principi e di indicazioni nazionali) siano in grado
di far crescere la partecipazione della popolazione adulta e assicurare un’offerta
formativa di qualità.
Da qui la necessità del pieno e collaborativo coinvolgimento del settore pubblico (nazionale e locale) e del settore privato (imprese, terzo settore, individui)
individuando specifiche responsabilità e adeguate risorse ai fini di:
• realizzare progetti mirati alle diverse tipologie di educazione degli adulti;
• monitorare e valutare i risultati in termini di partecipazione e di risultati.
Per quanto riguarda il settore pubblico, lo Stato e le Regioni dovrebbero individuare e programmare gli obiettivi prioritari, mentre gli Enti locali, in collaborazione con le parti sociali, dovrebbero progettare e realizzare le specifiche attività.
2° gruppo di proposte: incrementare la partecipazione degli adulti alla formazione
permanente
Proposta 6: incentivare la domanda di formazione delle imprese e degli individui con facilitazioni fiscali
Visti i limiti oggettivi di espansione della spesa pubblica, la rilevanza degli
investimenti privati è strategica. I dati Eurostat relativi al 2005 stimano che
l’ammontare della spesa in formazione delle nostre imprese sia meno della metà
della media europea. Per incoraggiare la propensione all’investimento in formazione
sarebbe opportuno che tutte le spese degli individui e delle imprese in proposito fossero fiscalmente facilitate.
Le misure dovrebbero agire sia sul fronte delle fiscalità che su quello del finanziamento diretto alla domanda individuale di formazione (voucher, borse di studio, prestiti).
Supporto finanziario e libertà di scelta dei partecipanti sul libero mercato della
formazione accresceranno la domanda e la qualità dell’offerta.
Proposta 7: sperimentare, con prudenza, la possibilità di valutare le competenze comunque acquisite (anche in modo informale)
Bisogna rendere più visibili e concreti i vantaggi della formazione per il singolo. Ogni cittadino dovrebbe avere diritto a un bilancio di competenze riconosciuto e spendibile sul mercato del lavoro. Sia l’OCSE che la Commissione
Europea raccomandano una politica di validazione e/o certificazione delle competenze di base e professionali comunque acquisite (anche in modo informale)
che potrebbe determinare una crescita della domanda di formazione da parte
degli individui.
Sussistono però fondate preoccupazioni sulla praticabilità di una siffatta azione,
vista la diffusione di comportamenti “opportunistici” di vari soggetti. È fin
troppo facile pensare a un cattivo uso e abuso di siffatte certificazioni: chi certi102
fica e con quali criteri? Con quale attendibilità? Con quali effetti? Con quali
costi? Per dar conto della difficoltà di rispondere a queste domande, abbiamo
riportato i dati essenziali di una delle esperienze europee più avanzate, con i suoi
più e i suoi meno, quella francese del VAE (Validation des Acquis de l’Expérience,
Box 3, pag. 105).
Alla luce di queste osservazioni, TreeLLLe propone di avviare una prudente fase
di sperimentazione solo in alcune Regioni a elevato sviluppo dove esiste una
consolidata tradizione di collaborazione e affidabilità tra parti sociali e istituzioni pubbliche. La validazione delle competenze professionali dovrebbe sempre
prevedere la partecipazione delle rappresentanze dei lavoratori e degli imprenditori. E la messa a regime del “libretto formativo del cittadino” sarebbe un
primo passo utile.
3° gruppo di proposte: favorire lo sviluppo professionale nei luoghi di lavoro
Per sviluppo professionale si intende la formazione continua che interessa i soggetti adulti occupati (o temporaneamente non occupati) e che ha come ambito
di riferimento l’attività lavorativa, in essere o possibile.
I dati collocano l’Italia tra gli ultimi posti in Europa rispetto all’utilizzo della formazione continua. Per modificare questa situazione TreeLLLe avanza alcune proposte.
Proposta 8: aumentare la spesa dello Stato e delle Regioni in ben mirate politiche pubbliche per l’istruzione di base e la formazione continua dei più
svantaggiati
Sono interventi che richiedono risorse pubbliche:
• l’elevamento delle competenze di base e professionali per le forze di lavoro a bassa
qualificazione;
• la formazione di disoccupati e sottoccupati per favorirne l’occupabilità;
• supporti e incentivi a imprenditori e lavoratori delle piccole imprese, in stretta collaborazione con le loro associazioni rappresentative territoriali e con le categorie di settore, per coinvolgerle in progetti di formazione continua.
Proposta 9: dare più autonomia ai Fondi paritetici interprofessionali gestiti dalle parti sociali
Il parziale assoggettamento dei Fondi interprofessionali (circa 400 milioni
all’anno) alle regole degli aiuti pubblici ne limita l’efficacia nella gestione dei
finanziamenti e non consente di coniugare la cultura del risultato con la necessaria semplificazione procedurale.
Come più volte sollecitato da Confindustria e dalle Organizzazioni sindacali,
occorre quindi che il Governo riconosca ai Fondi piena autonomia gestionale ed
organizzativa, in condizioni di trasparenza verificate del ministero del Lavoro.
103
4° gruppo di proposte: favorire lo sviluppo culturale dei cittadini
Proposta 10: incentivare l’associazionismo culturale, il terzo settore, il volontariato
Bisogna potenziare le attività finalizzate allo sviluppo culturale della popolazione anche con modalità non formali ed informali. A questo proposito, vanno
incentivate finanziariamente dallo Stato e dalle Regioni le attività dell’associazionismo culturale e di promozione sociale del terzo settore (università popolari
e varie iniziative di volontariato religioso e non). Così come avviene negli altri
paesi europei, questo tipo di attività deve prevedere necessariamente l’impegno
finanziario degli individui.
Proposta 11: sviluppare la information literacy come filtro critico ai pervasivi strumenti della comunicazione di massa (TV, Internet, etc.)
È importante sviluppare la capacità di gestire e valutare criticamente il flusso di
informazioni e immagini veicolate dai nuovi mezzi di comunicazione di massa,
aiutando i cittadini a soppesare le fonti, separare i fatti dalle opinioni, le verità
dalle finzioni e i segnali dai rumori.
Programmi di information literacy, essenziali durante l’istruzione scolastica dei
giovani, potrebbero coinvolgere anche i cittadini adulti, ad esempio attraverso il
sistema delle biblioteche pubbliche locali opportunamente riorganizzate
(Proposta 45, pag. 193).
Proposta 12: favorire la formazione di una cittadinanza attiva e responsabile per un esercizio consapevole dei propri diritti e doveri
(Proposta 47, pag. 205).
104
BOX 3
L’ESPERIENZA FRANCESE DEL VAE
(VALIDATION DES ACQUIS DE L’EXPÉRIENCE)*
La Francia ha deciso di dedicare una legge all’idea chiave che l’esperienza professionale acquisita nel corso della
carriera è fonte di competenze e qualificazioni che possono essere convalidate attraverso un diploma. Tale politica, denominata “VAE”, “Validation des acquis de l’expérience” (validazione delle competenze acquisite tramite l’esperienza), costituisce un’assoluta novità nel contesto francese poiché le validazioni (diplomi) che si ottengono con
questo sistema non sono fondate sullo studio ma sulle competenze acquisite sul lavoro, e quindi sono ottenute da
adulti come formazione continua nel corso della carriera. Dopo aver descritto a grandi linee tale dispositivo, parleremo della sua attuazione e delle difficoltà che ancora incontra a distanza di alcuni anni dalla sua attuazione:
tutto ciò a dimostrare l’estrema complessità della validazione/certificazione delle competenze acquisite tramite
esperienza anche per chi affronta il problema con le più serie intenzioni.
LA VAE: definizione e contenuto
La legge del 17 gennaio 2002 stabilisce che “qualsiasi persona impegnata nella vita attiva ha il diritto di fare validare le competenze acquisite attraverso l’esperienza, soprattutto professionale, al fine di ottenere un diploma, un
titolo finalizzato alla professione o un attestato di qualifica (che figuri in un elenco stabilito dalla commissione paritetica nazionale dell’impiego di un ramo professionale), registrato nel repertorio nazionale dei diplomi professionali (…). La persona in questione, se è salariata, può beneficiare di un congedo per la validazione delle competenze acquisite tramite esperienza secondo le previste condizioni di durata (…). La validazione produce gli stessi
effetti delle altre modalità di controllo delle conoscenze e delle competenze”.
In primo luogo, è importante sottolineare che, mediante la procedura di validazione, si arriva a ottenere una “certificazione”, che può consistere in un diploma o in una qualifica professionale. Nel seguito, utilizzeremo l’espressione “certificazione” per designare indistintamente diplomi e qualifiche formali.
In secondo luogo, si segnala che tali certificazioni possono essere concesse da vari ministeri e non solo da quello dell’Educazione; i ministeri più importanti autorizzati a concedere i VAE sono quello dell’Educazione, quello del
Lavoro, quello della Sanità e degli Affari sociali, ma anche altri (ministeri dell’Agricoltura, della Gioventù e dello
Sport, etc.).
La durata minima dell’esperienza richiesta per poter presentare una domanda di VAE è relativamente breve (tre
anni) e il concetto di esperienza fissato dalla legge è ampio e si estende agli apprendimenti acquisiti in occasione di attività benefiche o non remunerate.
L’esperienza dà il diritto a ottenere la pienezza della certificazione desiderata e non presuppone necessariamente prove o esami complementari.
Infine, si sottolinea che la validazione viene effettuata da una commissione, la cui composizione prevede una presenza significativa di rappresentanti qualificati delle professioni interessate (almeno un quarto dei membri della
giuria deve essere costituito da rappresentanti qualificati delle professioni, per metà datori di lavoro e per metà
lavoratori dipendenti).
La commissione può attribuire la pienezza della certificazione, oppure pronunciarsi, in caso di validazione parziale, sulla natura delle conoscenze e delle competenze che devono essere oggetto di un controllo ulteriore.
*Questo box si fonda in larga parte su un recente rapporto della Corte dei conti francese: La formation professionelle tout au
long de la vie, ottobre 2008
105
Per accedere alla VAE il candidato deve ottenere l’ammissibilità amministrativa del suo dossier, costruire e depositare il proprio dossier, con un’eventuale assistenza, e infine ottenere la validazione stricto sensu davanti alla commissione. Quest’ultima si pronuncia alla luce del dossier presentato dal candidato, dopo un colloquio deciso su iniziativa propria o del candidato e, all’occorrenza, di una verifica in situazione professionale reale o ricostruita.
Un’attuazione progressiva
Alla fine del 2007, 60.000 candidati risultavano aver intrapreso un percorso di VAE presso uno dei diversi ministeri che possono fornire una certificazione. Il numero di domande è cresciuto notevolmente dall’entrata in vigore della legge, ma si mantiene costante da alcuni anni.
Sul totale di 60.000, circa 48.000 candidati si sono poi presentati davanti alla commissione. Lo scarto tra domande formulate e presentazione davanti alla commissione può essere dovuto a cause diverse: abbandono del progetto da parte del candidato, dossier comprovante l’esperienza non ancora depositato o in attesa di esame. In totale, 26.000 persone hanno ottenuto una certificazione mediante VAE nel 2006, contro le 11.000 del 2003, anno in
cui è entrata in vigore la legge, il che mostra bene la crescente importanza del dispositivo.
Figurano al primo posto tra le certificazioni richieste le certificazioni corrispondenti al brevetto di operaio qualificato o impiegato qualificato; in prevalenza, si tratta di qualifiche richieste ai ministeri del Lavoro, degli Affari Sociali
e della Sanità: diplomi di puericultore, di personale paramedico, di assistente sociale. Così, la VAE si rivolge soprattutto agli individui poco o per niente qualificati, e questa, in effetti, era una delle priorità della legge.
Dispositivo senz’altro innovativo, che almeno in parte sta raggiungendo i suoi obiettivi, la VAE si presta peraltro ad
alcune critiche, dovute soprattutto alla sua complessità di gestione e ad alcuni ostacoli da superare al fine di rendere davvero efficace questa politica.
Una gestione da migliorare e alcuni ostacoli da superare
Se il concetto di validazione dell’esperienza è generalmente ben compreso, la sua realizzazione può rivelarsi difficile per il candidato, tant’è vero che l’acquisizione della certificazione è descritta da molti come un “percorso di
guerra”.
La dispersione degli enti certificatori
Il dispositivo di certificazione è caratterizzato da un’estrema complessità e compartimentalizzazione. Ciascuna
struttura incaricata di rilasciare un titolo o un diploma professionale stabilisce le proprie procedure, dalla creazione del diploma fino al rilascio del medesimo. Tra l’altro, i criteri di distinzione tra i diversi enti certificatori sono
spesso estremamente vaghi: diversi diplomi possono in realtà certificare la stessa esperienza, fatto che non contribuisce a rendere comprensibile il meccanismo della VAE. Sono stati così insediati un responsabile interministeriale della VAE e un “comitato di sviluppo della VAE”.
Una commissione nazionale con competenze e mezzi limitati
Per favorire l’identificazione dei certificati esistenti, è stato creato il Repertorio nazionale delle certificazioni professionali (Répertoire national des certifications professionelles, RNCP), gestito dalla Commissione Nazionale per
la Certificazione Professionale (Commission Nationale de la Certification Professionelle, CNCP). Questa struttura
costituisce la chiave di volta dell’intero dispositivo. Essa ha il compito di identificare e ridefinire le certificazioni
delle competenze acquisite attraverso l’esperienza e non solo attraverso la formazione. Un compito del genere è
tutt’altro che semplice: in Francia esistono all’incirca 15.000 certificazioni. Alla fine del 2007, il RNCP comprendeva all’incirca 4.500 certificazioni, per la maggior parte consultabili sul sito Internet della Commissione CNCP.
Necessità di migliorare l’informazione dei diversi attori (imprese, lavoratori)
Già al momento di promulgazione della legge era stato creato un dispositivo specifico di informazione e consu-
106
lenza sulla VAE. Se nella fase iniziale era necessario avere un sistema specifico per fornire tali informazioni, allo
stato attuale sarebbe opportuno eliminarlo, dal momento che dovrebbero essere le strutture deputate all’accoglienza e all’orientamento professionale a farsi carico anche delle informazioni relative alla VAE, esattamente come
sono incaricate di rispondere alle domande relative agli altri percorsi di accesso alle certificazioni.
Debolezza della funzione di “accompagnamento” dei candidati
Circa un terzo dei candidati che presentano domanda al ministero dell’Educazione e la metà dei candidati che
presentano domanda al ministero del Lavoro, della Sanità e degli Affari Sociali sono aiutati nella preparazione della
domanda. Tale accompagnamento, facoltativo, è a pagamento (tra i 500 e i 600 euro, a seconda del livello della
certificazione), salvo per i disoccupati, che possono essere assistiti gratuitamente. Per tale ragione, sarebbe opportuno assicurare un maggiore finanziamento all’accompagnamento.
Le difficoltà organizzative e finanziarie relative alla costituzione delle commissioni
Anche la costituzione delle commissioni pone un freno allo sviluppo della VAE per una serie di ragioni: la loro
copertura finanziaria (per formazione, informazione e mantenimento), la disponibilità di professionisti e il loro
coinvolgimento in questo nuovo sistema di valutazione. Inoltre, i ministeri che dispensano le certificazioni si trovano a dover competere tra loro per arrivare a costituire una commissione. A meno di non far convergere le certificazioni dei diversi ministeri e dunque il numero delle commissioni che le assegnano, la sola soluzione di fronte al numero crescente di candidature alla VAE sarà, per come è organizzato al momento il dispositivo, moltiplicare il numero delle commissioni, il che porterà senz’altro a seri problemi di disponibilità di finanziamenti.
Il problema delle validazioni parziali
Il prolungamento dei termini entro cui avviene la certificazione è anche una conseguenza del gran numero di certificazioni parziali che sono erogate. Il candidato cui venga riconosciuta la validazione di una sola parte degli elementi che compongono la certificazione ha cinque anni di tempo per ottenere la validazione dei moduli che mancano (tale validazione avviene mediante un percorso di formazione o mediante un’esperienza approfondita). Più
sono numerosi i moduli ancora da ottenere, più diventa complicato e lungo il percorso da seguire.
Conclusioni
In un paese che attribuisce grande importanza ai diplomi, è senz’altro essenziale che tali diplomi si possano ottenere nel corso della vita (e non solo nella formazione iniziale) e che si tenga conto di ciò che è stato appreso tramite l’esperienza professionale (e non solo tramite l’esperienza scolastica). La legge risponde a questa esigenza
di riconoscimento delle competenze acquisite nel corso della vita professionale.
I datori di lavoro sono senza dubbio meno entusiasti di questo riconoscimento rispetto agli individui (lavoratori
dipendenti o non dipendenti, persone in cerca di impiego). Questo è normale, dal momento che la VAE dà accesso a un vero diploma e non a una qualifica “fatta in casa”. Tuttavia, queste sono senza dubbio perplessità davanti alle quali non bisogna arrestarsi, dal momento che viviamo in una società in cui il diploma ha un valore altissimo, anche dal punto di vista sociale. Tutto sommato, l’esperienza della Francia è interessante.
Occorre infatti fare attenzione, e in questo l’esperienza francese ci insegna molto anche attraverso le sue carenze, a non costruire un sistema troppo complesso, troppo dispersivo, in cui i diversi enti preposti a rilasciare le certificazioni (diplomi, titoli, certificati di qualifica) si ignorano l’un l’altro e sviluppano separatamente le proprie procedure. I dubbi e le perplessità dei datori di lavoro saranno meno forti quando il dispositivo diventerà più comprensibile e meno complesso.
D’altro canto, se si decide di lanciare una politica di validazione delle competenze acquisite tramite l’esperienza,
tale politica deve necessariamente essere coordinata e guidata da un solo pilota e, tenendo conto del tema, è consigliabile che tale pilota venga dal mondo del lavoro, piuttosto che da quello dell’educazione.
107
3.3 Una proposta di TreeLLLe: due piani straordinari
Premessa
In Italia la discussione tra esperti e politici intorno all’educazione degli adulti si
è finora incentrata soprattutto sulla mancanza di visione globale e sull’assenza di
un’auspicata legislazione ad hoc (nazionale e regionale). Da più parti si chiede
un approccio sistemico ai problemi, si lamenta la mancanza di coordinamento
tra i vari soggetti pubblici e tra quelli pubblici e quelli privati, si invoca l’“integrazione” tra i vari segmenti di offerta (istruzione, formazione professionale, formazione continua, occasioni culturali, etc.).
Di tutta questa lodevole discussione rimane la presentazione di diversi disegni
di legge che giacciono in Parlamento con scarse possibilità di approvazione.
A TreeLLLe sembra quindi opportuno non limitarsi ad auspicare future leggi
nazionali e/o la definizione di un quadro di azione organico e coordinato fra i vari
soggetti pubblici e privati impegnati, ma, almeno per quanto riguarda il finanziamento pubblico, cercare di rendere praticabili da subito e concretamente due
linee di condotta (raccomandate anche dall’OCSE):
• individuare in sede politica alcune priorità sociali, vere emergenze nazionali da affrontare con urgenza;
• finanziare con risorse pubbliche misure specifiche che traguardino obiettivi quantitativi da realizzare e verificare nei risultati entro certi tempi.
Così si è già fatto in alcuni paesi europei avanzati, ad esempio in UK con il programma nazionale “Skills for Life” (Box 4, pag. 115).
Contesto
Abbiamo visto che si può suddividere la popolazione in età adulta in un terzo
con buone capacità alfabetiche, un terzo che ne è pesantemente carente e un
terzo che ne è sostanzialmente privo. Il primo gruppo ha un buon livello culturale e la capacità di cogliere le occasioni di formazione permanente.
Il secondo gruppo è in serie difficoltà, ma, se facilitato, potrebbe cogliere discrete occasioni di formazione. Per il terzo gruppo, quello più svantaggiato, la
domanda di formazione va invece promossa per superare le resistenze psicologiche e gli ostacoli oggettivi che sussistono. Per questo gruppo è necessario uno
specifico impegno pubblico per la promozione, il finanziamento e il controllo di
programmi mirati.
Intervenire su quest’ultimo gruppo di popolazione pesantemente svantaggiata
non risponde solo a esigenze culturali e di cittadinanza: attiene anche e diretta108
mente allo sviluppo economico del nostro paese. Le proiezioni al 2020 del
CEDEFOP (European Centre for the Development of Vocational Training)
segnalano che cresceranno i livelli di istruzione/formazione e di competenze
richiesti in tutti i tipi di lavoro, anche in molte occupazioni elementari, e che
l’Italia (Tabella 29, pag. 149):
• sarà il paese (con il Portogallo) con il peso più alto di forze di lavoro con
bassi livelli di qualificazione (37,1% contro la media UE-25 del 19,5%);
• avrà un relativo allineamento alla media europea sui livelli intermedi
(45,4% contro 48,5% dell’UE);
• avrà una carenza fortissima di forze di lavoro altamente qualificate (17,5%
contro il 32% della UE).
In questo scenario, il nostro paese si troverebbe in una situazione di grave deficit professionale, con carenza di profili tecnici e specialistici in molti campi,
deficit che comprometterebbe le dinamiche di sviluppo e la sua capacità competitiva.
Le due emergenze nazionali
Per TreeLLLe due sono le priorità sociali da affrontare con urgenza:
• è necessario dotare le fasce di popolazione poco qualificate di un minimo di
istruzione e/o formazione di base che consenta loro di ottenere un qualche
livello di occupabilità e di cittadinanza;
• è urgente affrontare il problema dei cittadini stranieri regolarmente soggiornanti nel nostro paese ai fini di una loro integrazione e inclusione nel nostro
contesto sociale ed economico.
TreeLLLe propone che il nostro governo e le Regioni intervengano con due piani straordinari:
• Piano straordinario 1: intervenire sulla popolazione a rischio alfabetico e a bassa
qualificazione (20-34 anni);
• Piano straordinario 2: portare i cittadini stranieri regolarmente soggiornanti nel
nostro paese a un adeguato possesso funzionale della nostra lingua e a un’elementare conoscenza del nostro contesto istituzionale e sociale.
Piano straordinario 1
Intervenire sulla popolazione giovanile a rischio alfabetico e a bassa qualificazione.
Il contesto
In Italia, su una popolazione adulta (20/64anni) di 36 milioni di individui, ben
16 milioni hanno un livello di istruzione pari o inferiore a 8 anni di studi (al
massimo la licenza media) e di questi oltre 3 milioni hanno tra i 20 ed i 34 anni
(rilevazione sulle forze di lavoro Media 2009, (Tabella 20).
109
Tabella 20
Popolazione 20-34 anni con al più il titolo di licenza media,
per genere e aree territoriali
(valori assoluti in migliaia, 2009)
Maschi
Femmine
Totali
Nord
728
501
1229
Centro
269
199
468
Sud e isole
776
645
1421
Italia (totale)
1773
1345
3118
Fonte: nostra elaborazione su dati ISTAT
Va osservato che oltre la metà dei 3 milioni di giovani 20-34enni a bassa scolarità risulta occupato (circa 1.600.000 individui) e che 260.000 sono esplicitamente alla ricerca di lavoro. Oltre un milione risulta invece fuori dal lavoro e
fuori da attività formative.
L’intervento pubblico (Stato e Regioni) realizzato attraverso i sistemi attuali di educazione degli adulti (istruzione e formazione professionale) garantisce risultati solo
per una percentuale irrisoria di questa popolazione (vedi 4.1.1). Analogamente gli
interventi di formazione continua delle imprese e dei Fondi interprofessionali toccano solo marginalmente i giovani occupati a bassa qualificazione.
La proposta di TreeLLLe
TreeLLLe propone che lo Stato e le Regioni lancino un piano decennale (con relativa campagna nazionale sui media) rivolto alla popolazione 20-34 anni a rischio alfabetico e a bassa
qualificazione (italiani e stranieri regolarmente soggiornanti, d’ora in poi indicati come low
skilled) con l’obiettivo di portarla ad acquisire una certificazione pari al nuovo obbligo di
istruzione (pari a 10 anni di studio) e/o una qualifica professionale di livello EQF 2 del
Quadro europeo delle qualifiche. Il piano va pensato in termini decennali 2011/2020 con
una prima sperimentazione triennale 2011/2013 mirata a coinvolgere 300.000 soggetti con
un finanziamento di 300 milioni per ciascun anno, (pari a 1000 euro per giovane adulto
low skilled) per l’organizzazione e la docenza.
In termini di impatto, l’obiettivo minimo è scendere dagli attuali 3 milioni di
giovani low skilled a meno di 2 milioni in 10 anni. Tenendo conto del turnover
che si può ipotizzare ammonti in media a circa 200.000 soggetti l’anno, è necessario che la partecipazione al piano sia di almeno 300.000 soggetti/anno.
Allo Stato spettano il finanziamento e il lancio del piano con una campagna
nazionale sui media, il coordinamento nazionale con la raccolta e la circolazione
delle esperienze che si realizzano nei territori e la definizione di un sistema
nazionale di valutazione dei risultati.
110
La direzione e il coordinamento del piano vanno affidati alle Regioni e il piano
va fondato sulla disponibilità delle singole Regioni a realizzarlo.
Il primo anno va dedicato all’elaborazione dei piani regionali. A questo proposito ciascuna Provincia costituisce una specifica struttura coinvolgendo i Comuni e i CPIA
(vedi i “Laboratori EDA” di pag. 128) dedicata alla realizzazione del piano per:
• censire, con il diretto coinvolgimento dei Comuni, la popolazione obiettivo e verificarne la disponibilità;
• definire l’organizzazione territoriale del sistema di offerta in termini di luoghi, di tempi e di modalità formative;
• individuare i soggetti chiamati ad erogare la formazione.
Sulla base dei piani regionali si procede nei due anni successivi alla realizzazione delle attività formative. Queste vengono costantemente monitorate a livello
regionale in modo da arrivare, a fine 2013, ad una valutazione dei risultati conseguiti in ciascuna regione in termini di organizzazione, di partecipazione e di
risultati di apprendimento.
Sulla base di questa valutazione lo Stato e le Regioni traggono un bilancio sulla efficienza ed efficacia del piano e definiscono gli eventuali miglioramenti necessari.
L’offerta e la certificazione
Il sistema di offerta e di certificazione deve essere fondato sulle strutture pubbliche
di educazione degli adulti, ma non deve limitarsi ad esse. È fuori dalla realtà immaginare che sia possibile coinvolgere ogni anno 300.000 giovani low skilled in attività formative con il solo ricorso all’offerta di istruzione degli adulti (i costituendi
CPIA del MIUR) e al sistema di formazione professionale regionale che pure vanno
mobilitati ed adeguati per una efficace partecipazione al piano.
È necessario allora coinvolgere la società civile mobilitando il mondo dell’associazionismo
sociale e culturale del terzo settore e, soprattutto, assicurando l’essenziale impegno del sistema
delle imprese, specie di quelle cosiddette “formative”.
Fermo restando l’obiettivo finale di una certificazione pari al nuovo obbligo di
istruzione e/o una qualifica professionale EQF2, il piano deve riuscire comunque a
far fare “un passo avanti” a tutti i giovani partecipanti rispetto alla loro situazione
di partenza.
Per questo vanno anche pensati e realizzati particolari tipi di interventi che incentivino gli individui e impegnino le imprese a partecipare al piano. Ad esempio:
• per gli occupati low skilled (che tra i 20 ed i 34 anni ammontano a circa
1.600.000) può essere prevista un’attività di formazione di base finalizzata allo
sviluppo delle abilità connesse al lavoro svolto e alla formazione alla sicurezza
in moduli certificabili di almeno 60 ore per anno;
• per i giovani lavoratori low skilled che beneficiano di misure connesse alle
politiche passive del lavoro (tutte le forme di CIG e di mobilità) dovrebbe
111
essere prevista la partecipazione ad attività certificabili di formazione della
durata pari al 50% del tempo di lavoro coperto dalle misure di integrazione del reddito;
• per i giovani low skilled disoccupati o inoccupati dovrebbero essere previsti
percorsi formativi in alternanza lavoro-formazione e, in particolare, la partecipazione a stage in impresa in cui prevale lo svolgimento di esperienze di lavoro. Tali percorsi sono concordati dall’interessato con una impresa e con i Servizi
di orientamento della Rete dei Centri provinciali per l’impiego.
Per tutti questi interventi, l’esperienza sia italiana che degli altri paesi europei
mostra come l’efficacia sia strettamente connessa al finanziamento della domanda
individuale di formazione (dai voucher al conto corrente formativo individuale).
Piano straordinario 2
Portare i cittadini stranieri regolarmente soggiornanti nel nostro paese a un adeguato
possesso funzionale della nostra lingua e a una elementare conoscenza del nostro contesto istituzionale e sociale
Gli obiettivi
Il piano straordinario 1 coinvolge ovviamente anche i giovani stranieri low skilled. Tuttavia per gli immigrati è necessario un ulteriore specifico intervento.
Le scarse quando non assenti competenze linguistiche dei lavoratori immigrati e delle
loro famiglie sono infatti causa di notevoli costi sociali ed economici. Per la popolazione straniera che vive, lavora ed è regolarmente soggiornante nel nostro paese è
necessario definire uno standard minimo di capacità di comprensione e di espressione
in lingua italiana insieme a un livello minimo di conoscenza del nostro contesto istituzionale e sociale valido come riferimento per tutto il territorio nazionale. Si tratta
certo di un dovere, ma per TreeLLLe i cittadini stranieri regolarmente soggiornanti in Italia debbono essere messi in condizione di acquisire tali capacità.
A chi ne risulti privo deve essere offerto un percorso di apprendimento della lingua e
della cultura italiana che raggiunga nel minor tempo possibile gli standard definiti.
Il contesto
I cittadini stranieri residenti in Italia al 1° gennaio 2010 sono 4.235.059
(Tabella 21). Durante il 2009 i cittadini stranieri sono aumentati di oltre
300.000 unità con un incremento dell’8,8%.
Circa la metà delle forze di lavoro straniere tra i 15 e i 64 anni possiede un grado
di istruzione non superiore alla licenza media.
112
Tabella 21
Stranieri regolarmente residenti al 1° gennaio 2010
Maschi
2.063.407
49,2%
Femmine
2.171.652
50,8%
Totale
4.235.059
100%
Incidenza della popolazione straniera 6,5% sul totale (7,7% nel centro-nord, 2,1% nel sud)
Minorenni
932.675
22%
Stranieri nati in Italia
573.000
% della seconda generazione 13,5
Fonte: ISTAT, La popolazione straniera residente al 1° gennaio 2010
Le misure del Governo: il recente accordo di integrazione (maggio 2010)
Le misure assunte dal Governo sembrano andare in questa direzione. Il Consiglio dei
Ministri ha varato recentemente l’accordo di integrazione per i permessi di soggiorno che lo straniero deve sottoscrivere, contestualmente alla presentazione della richiesta del permesso di soggiorno. L’accordo è basato su crediti che lo straniero deve conseguire nel periodo di validità del permesso di soggiorno: il livello minimo da raggiungere è pari a 30 crediti, a zero crediti scatta l’espulsione.
In sintesi l’accordo prevede:
• destinatari: gli stranieri che entrano per la prima volta nel territorio italiano;
• durata accordo: due anni;
• fascia di età: dai 16 anni;
• impegni dello straniero: acquisire la conoscenza di base della lingua italiana (liv. A2)
e una sufficiente conoscenza della cultura civica e della vita civile in Italia, con
particolare riferimento ai settori della sanità, della scuola, dei servizi sociali, del
lavoro e degli obblighi fiscali, del dovere di istruzione dei figli minori; conoscere l’organizzazione delle istituzioni pubbliche;
• lo Stato sostiene il processo di integrazione dello straniero attraverso l’assunzione di
ogni idonea iniziativa e comunque, entro un mese dalla stipula dell’accordo, assicura allo straniero la partecipazione gratuita a una sessione di formazione civica e di
informazione sulla vita civile in Italia, a cura dello sportello unico, di durata tra le 5
e le 10 ore.
In piena sintonia con l’accordo di integrazione, il Governo ha inoltre definito per i
migranti che richiedono il permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo1 (Decreto 4 giugno 2010) l’obbligatorietà della conoscenza della nostra lingua in
corrispondenza al livello A2 del Quadro comune di riferimento europeo per la conoscenza delle lingue approvato dal Consiglio d’Europa2 e le modalità di svolgimento
delle relative prove di verifica.
113
La proposta di TreeLLLe
TreeLLLe sostiene che, per realizzare concretamente gli obiettivi auspicati dal Governo, dovrebbe dispiegarsi un’offerta istituzionale e gratuita di corsi di lingua e cultura civica italiana su tutto il territorio nazionale per gli immigrati in età compresa tra i 16 e i 64 anni che non frequentano corsi
scolastici.
Si ipotizza una fase sperimentale di un triennio (2011-2013) che dovrebbe coinvolgere 300.000 immigrati all’anno con priorità per 16-34enni a bassa scolarità e scarsa qualificazione (low skilled).
Si propone un investimento straordinario di 300 milioni di euro all’anno per l’organizzazione e la docenza.
In analogia e in stretta connessione col Piano straordinario 1, la direzione e il coordinamento del Piano andrebbero affidati alle Regioni, mentre le Province e i Comuni
(in collaborazione con le prefetture e con gli sportelli unici per l’immigrazione)
dovrebbero costruire il quadro analitico dell’offerta esistente e della domanda potenziale e la conseguente predisposizione del piano operativo.
Questa offerta dovrebbe essere agita da strutture pubbliche (CPIA e sistema di
Formazione professionale regionale) e da strutture private a partire dalle associazioni di
promozione sociale (terzo settore) che operano con gli immigrati. Ad esempio, la quasi
totalità delle CARITAS diocesane in Italia svolge da molti anni attività stabili di alfabetizzazione per stranieri, sia adulti che minorenni. Tali attività sono realizzate in spazi
adeguati con la partecipazione di volontari che svolgono funzioni di formatori-insegnanti. La sperimentazione del piano potrebbe tener conto della disponibilità di alcune di tali realtà da utilizzare all’interno di una cornice organizzativa e istituzionale che
è in via di definizione.
Anche le università popolari potrebbero partecipare alla realizzazione del piano, utilizzando le sedi presenti in varie comunità.
Per i lavoratori occupati l’offerta dovrebbe essere costruita con il diretto coinvolgimento delle imprese attraverso i Fondi interprofessionali e gli Enti Bilaterali territoriali.
La popolazione di riferimento per una prima sperimentazione del piano è costituita
dagli stranieri che richiedono per la prima volta il permesso di soggiorno e da quelli
che richiedono il permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo.
Note
1
2
114
Il permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo è a tempo indeterminato e può essere
richiesto solo da chi possiede un permesso di soggiorno da almeno 5 anni. Le norme del decreto sulla conoscenza
della lingua italiana si applicano ai cittadini stranieri che chiedono questo tipo di permesso di soggiorno e ai loro
familiari.
Il livello A2 prevede che il soggetto riesca “a comprendere frasi isolate ed espressioni di uso frequente relative ad
ambiti di immediata rilevanza (ad es. informazioni di base sulla persona e sulla famiglia, acquisti, geografia locale, lavoro). Riesce a comunicare in attività semplici e di routine che richiedono solo uno scambio di informazioni
semplice e diretto su argomenti familiari e abituali. Riesce a descrivere in termini semplici aspetti del proprio
vissuto e del proprio ambiente ed elementi che si riferiscono a bisogni immediati”.
BOX 4
L’ESPERIENZA DI “SKILLS FOR LIFE” IN UK
A partire dal 1997 il governo inglese ha focalizzato il suo interesse sui problemi relativi alle competenze
alfabetiche di base linguistiche (literacy) e aritmetiche (numeracy) della popolazione, affidando a Sir Claus
Moser, presidente della Basic Skills Agency1, l’incarico di condurre una ricerca sul problema della bassa
scolarizzazione e sul modo di affrontarlo. “A Fresh Start - Improving Literacy and Numeracy” (Moser,
DfEE 1999)2 fornisce un quadro allarmante: più di 7 milioni di adulti in Inghilterra ha un livello alfabetico al
di sotto del level 1, cioè il livello atteso da un alunno di 11 anni. Ancor più grave il problema per quanto
riguarda le competenze aritmetiche.
Sulla base di questi dati nel 2001 è stato lanciato Skills for Life, il primo programma nazionale per far fronte ai bisogni di alfabetizzazione linguistica e matematica della popolazione adulta (al di sopra dei 16 anni
e fuori dal sistema scolastico) organizzando attività formative diverse dai tradizionali percorsi scolastici e
includendo nel programma persone con difficoltà di apprendimento e disabilità.
Skills for Life è articolato su due linee di intervento
• la prima destinata alle persone che mancano delle competenze di base (Basic Skills);
• la seconda ESOL (English for Speakers of Other Languages)3 per rispondere agli specifici bisogni di
quella parte della popolazione di origine straniera, residente nel Regno Unito, che non parla l’inglese
o che lo conosce in modo approssimativo e che, per questo motivo, ha difficoltà di inserimento sociale e lavorativo, problemi nel mantenimento dell’impiego e scarsa o nulla mobilità nel mercato del
lavoro.
Nello specifico:
• assoluta gratuità dei corsi;
• grande campagna pubblicitaria4 con un massiccio uso di tutti i media, diffusa a livello capillare, per
spingere le persone a prendere coscienza delle proprie lacune e incoraggiarle a intraprendere un
percorso formativo;
• sistemi didattici alternativi che sfruttano maggiormente le nuove tecnologie dell’informazione e della
comunicazione e garantiscono una maggiore flessibilità rispetto ai metodi tradizionali;
• apertura del portale e del “numero verde” learndirect: portale che fornisce corsi di formazione online a partire dai livelli di base fino ai livelli avanzati, aperto a tutte le persone che abbiano accesso
a Internet, e la helpline telefonica per ricevere informazioni e orientamento per la scelta del corso più
idoneo alle esigenze dell’individuo tramite il supporto di esperti orientatori;
• introduzione del National Test per la verifica e la validazione dei risultati ottenuti e per il conseguimento di una certificazione.
Anche per i corsi ESOL (per immigrati) valgono le medesime iniziative con una significativa aggiunta nei
contenuti. I corsi ESOL uniscono infatti alla formazione sulle competenze di base (alfabetizzazione, competenze linguistiche e aritmetiche) elementi di civilizzazione e cultura inglese per una comprensione del
contesto politico-sociale e per favorire un percorso di integrazione.
Le risorse stanziate dal governo inglese per SKILLS for LIFE sono state di 600 milioni di euro l’anno. Dal
2001 al 2010 l’investimento è stato dunque pari a 6 miliardi di euro.
Sono state coinvolte nel corso del decennio 5,8 milioni di persone e hanno lavorato al programma 25 mila
insegnanti. I risultati sono oltremodo positivi: 2,2 milioni di adulti che erano al di sotto del livello atteso da
115
un alunno di 11 anni hanno acquisito un’istruzione di base (level 1, first certification) e 1,7 milioni di adulti hanno raggiunto una certificazione di level 2 pari al livello atteso per un alunno di 16 anni.
Il programma continua e sono stati fissati gli obiettivi al 2020 con particolare attenzione all’alfabetizzazione matematica della popolazione adulta, campo in cui si sono riscontrate le maggiori difficoltà di apprendimento.
1
2
3
4
Piccolo organismo indipendente non profit che si occupa della raccolta delle buone pratiche esistenti
per lo sviluppo delle basic skills, offre inoltre consulenze al LSC per la pianificazione strategica e al
ministero dell’Educazione. www.basic-skills.co.uk
I risultati della ricerca condotta da Sir Moser sono disponibili sul sito www.literacytrust.org.uk/socialinclusion/adults/moser.html#Findings
Notizie e caratteristiche del programma ESOL sono disponibili sul sito:
www.dfes.gov.uk/curriculum_esol
www.dfes.gov.uk/get-on/downloads-2k5.shtml
116
PARTE QUARTA
LE PRINCIPALI TIPOLOGIE DI EDUCAZIONE DEGLI ADULTI:
LE PROPOSTE OPERATIVE DI TREELLLE
A premessa, si fornisce un quadro della distribuzione della popolazione italiana
rispetto al mercato del lavoro (Figura 16).
Figura 16
Partecipazione al mercato del lavoro della popolazione residente in Italia
(in migliaia e in percentuale)
Popolazione
residente
59.877
Inattivi in età
non lavorativa
20.014 - 33,4%
>64 anni
11.565
19,3%
Inattivi in età
lavorativa
(15-64 anni)
14.796 - 24,7%
<15 anni
8.448
14,1%
Persone in
cerca di
occupazione
2.145 - 3,6%
Occupati
22.922 - 38,3%
Indipendenti
5.640
9,4%
Dipendenti
17.282
28,9%
FOntE: Rilevazione forze di lavoro (ISTAT 2009)
Anche da questo spaccato di situazioni diversificate si può intuire che la domanda
di educazione degli adulti può essere molto variegata cosicché spesso diverse istanze convivono e si sovrappongono nelle stesse persone.
Nell’intento di fornire uno schema semplificato, sembra utile distinguere tre tipologie di domanda e offerta. Tali tipologie sono in genere connesse a segmenti specifici di popolazione e a diverse fasi-età della vita. TreeLLLe le ha distinte in:
a) istruzione degli adulti
b) sviluppo professionale delle forze di lavoro
c) sviluppo culturale dei cittadini.
Per ognuna TreeLLLe sviluppa un’analisi critica dell’offerta per verificarne lo stato
attuale rispetto alla domanda reale e potenziale. Ove necessario, si fa riferimento alla
normativa vigente e si formulano proposte operative per migliorarne la qualità. In certi
117
casi si rappresentano in appositi box casi europei di particolare interesse.
Per la formulazione delle proposte operative TreeLLLe ha cercato di identificare i
principali ostacoli al miglioramento dell’offerta e i soggetti più resistenti al cambiamento: ad esempio, istanze politiche e tecnocratiche centralistiche, resistenze alla perdita di potere o influenza, agenzie formative in posizione oligopolistica, etc. Per
converso le proposte mirano a fare leva soprattutto su istituzioni e soggetti politici e
sociali che hanno oggettivo maggior interesse e motivazione a migliorare il capitale umano e il capitale sociale del nostro paese (gli imprenditori e le imprese che
hanno sempre più bisogno di personale qualificato, le organizzazioni rappresentative del mondo del lavoro, le Regioni avanzate che si confrontano più direttamente
con la competizione internazionale, i Comuni che toccano con mano i ritardi che
penalizzano il benessere della comunità, l’associazionismo del volontariato - di ispirazione religiosa o meno - che vive direttamente l’urgenza di tanti disagi, etc.).
118
4.1 L’istruzione degli adulti
4.1.1 L’istruzione di base e secondaria
La scolarità della popolazione e il rischio alfabetico
L’Italia è oggi l’unico fra i grandi paesi sviluppati con una popolazione adulta
segnata dalla diffusa presenza della bassa scolarità. Prendendo in esame la popolazione tra i 25 e i 64 anni, ben il 48% degli individui ha al massimo la licenza media (16
milioni di persone, di cui quasi un terzo con la sola licenza elementare; ISTAT 2008).
Il problema non è solo determinato, come si potrebbe pensare, dalle generazioni più anziane: anche nel caso dei giovani adulti (20-34 anni), ben un terzo degli
uomini e un quarto delle donne versa in condizioni di bassa scolarità.
Come abbiamo già visto nel capitolo 1.1, oltre un terzo di popolazione in piena età adulta (16/65 anni) è “al limite dell’analfabetismo” in literacy e numeracy (livello 1), un
altro terzo ha competenze “limitate”(livello 2) e solo poco meno di un terzo possiede competenze “adeguate o elevate” (livelli 3/4/5). È da sottolineare che anche le nuove generazioni sono per il 50% confinate in competenze “molto modeste e limitate” (livelli 1 e 2).
In conclusione, circa 2/3 della popolazione sono in condizioni di rischio alfabetico o hanno
competenze limitate.
Questi dati, oltre a evidenziare una situazione di vera e propria emergenza culturale, chiamano in causa il funzionamento e l’efficacia del sistema scolastico.
Infatti, guardando ai livelli di competenza alfabetica per titolo di studio posseduto dal
campione intervistato (Tabella 22), si rileva:
• la piena correlazione tra assenza di titoli e basso livello di competenza alfabetica;
• la sostanziale irrilevanza della licenza elementare;
• il debolissimo livello di competenza associabile al titolo di licenza media;
• lo scarso successo della scuola superiore: quasi un diplomato su due possiede un limitato patrimonio di competenze di base.
Per TreeLLLe, a fronte di questa emergenza, il sistema pubblico dovrebbe mettere in campo attività di istruzione pensate e organizzate su misura per gli adulti per coinvolgere un numero elevato di persone al recupero delle competenze di
base (vedi proposte di TreeLLLe, capitolo 3.3).
119
Tabella 22
Livelli di competenza alfabetica della popolazione adulta (16-65 anni)
per titolo di studio posseduto
(valori percentuali)
Titolo di studio
Livello 1
Competenza alfabetica
molto debole,
gravissime difficoltà
Nessun titolo
93,8
Licenza elementare
76,8
Licenza media
36,1
Diploma
10,4
Livello 2
Competenza alfabetica
fragile, a rischio
di obsolescenza
4,5
19,0
39,0
33,5
Livello 1+livello 2
Competenze
deboli + fragili
98,3
95,8
75,1
43,9
Fonte: Nostra elaborazione su dati indagine IALS/SIALS, CEDE 2000
L’attuale offerta pubblica di istruzione alla popolazione adulta: istruzione di
base e secondaria
Oggi l’offerta pubblica si articola in due ambiti distinti:
• i Centri Territoriali Permanenti per l’Educazione degli adulti (CTP, per l’istruzione di base) che funzionano presso scuole elementari o medie, con offerte
e orari diversificati; nel 2007 erano 532 e i partecipanti 316.617;
• i Corsi serali per l’istruzione secondaria superiore, organizzati presso le scuole superiori; nel 2007 erano 836 e i partecipanti 66.545.
Entrambe le istituzioni organizzano sia attività formative finalizzate alla certificazione di titoli di studio (per circa 200.000 persone), sia attività di più breve
durata finalizzate all’acquisizione di conoscenze e competenze di carattere funzionale (circa 180.000 persone). Complessivamente, nel 2007/2008 hanno partecipato a queste attività 385.863 persone, solo il 2,5% di un bacino potenziale di circa 12
milioni di individui che hanno al massimo la licenza media e di 4 milioni che hanno solo
la licenza elementare.
L’offerta formativa
A. I percorsi di istruzione per ottenere titoli o diplomi
Ci sono tre tipologie di corsi di istruzione che per modello organizzativo, durata, corpo docente e certificazione finale sono assimilabili ai tradizionali corsi scolastici (Figura 17):
1. Corsi di integrazione linguistica soprattutto per stranieri, offerti dai CTP presso
scuole elementari e medie. Dedicati a chi versa in condizioni di difficoltà
alfabetica, rappresentano in termini di partecipazione la parte più rilevante
120
dei percorsi di istruzione degli adulti. Nel 2007-08 hanno coinvolto
102.659 persone. Nella stragrande maggioranza dei casi si tratta di cittadini stranieri (95%);
2. Corsi di istruzione secondaria inferiore (per ottenere la licenza media) offerti dai
CTP presso scuole elementari e medie: sono le attività di istruzione degli
adulti di più antica istituzione (esistono fin dal 1974) e hanno per lungo
tempo rappresentato il cuore della educazione di base degli adulti. La struttura dei corsi è rimasta sostanzialmente invariata negli anni con cinque
docenti e relativo insegnamento disciplinare (italiano, storia, lingua straniera, matematica e scienze, educazione tecnica). Questi corsi hanno raccolto nel 2007/08 solo 28.664 persone;
3. Corsi di istruzione secondaria superiore (per ottenere qualifiche professionali di
Stato e diplomi) offerti in corsi serali presso gli istituti superiori: nel
2007/08 hanno coinvolto 66.545 persone. La loro offerta formativa si articola nelle aree di studio degli istituti tecnici, degli istituti professionali e
artistici.
In conclusione i partecipanti ai corsi di istruzione CTP e ai Corsi serali sono stati
circa 200.000 nel 2007/08.
Figura 17
Adulti frequentanti percorsi di istruzione in Italia
(totale 200.569, valori assoluti, 2007/2008)
102.659
100
90
80
66.545
70
60
50
40
28.664
30
20
10
0
Corsi di integrazione linguistica
Corsi di scuola media
Corsi di secondaria superiore
FOntE: nostra elaborazione su dati INDIRE monitoraggio IdA a.s. 2007/08
121
B. Un’altra offerta: corsi brevi di “alfabetizzazione funzionale”
Si tratta di corsi tra le 40 e le 100 ore, funzionanti prevalentemente presso i
CTP. Si distinguono in tre grandi gruppi: informatica, lingue straniere e un eterogeneo insieme di altri argomenti (cura di sé e tempo libero; attività motorie e
sportive; attività espressive e artistiche; attività di orientamento e di sicurezza;
etc.) (Figura 18).
Questi corsi hanno coinvolto nel 2008 185.294 persone, in prevalenza italiane,
il 54% delle quali in possesso di diploma o laurea.
Figura 18
Adulti partecipanti a corsi di “alfabetizzazione funzionale” in Italia
(valori assoluti, totale 200.569 nel 2007/2008)
100
90
75.894
80
62.547
70
60
46.853
50
40
30
20
10
0
Lingue straniere
Informatica
Altri temi
FOntE: nostra elaborazione su dati INDIRE monitoraggio IdA a.s. 2007/08
I CTP: Centri Territoriali Permanenti per l’educazione degli adulti
I CTP rappresentano per quantità (316.617 partecipanti) e diffusione territoriale (sono
presenti in tutte le Regioni italiane) l’intervento più consistente di istruzione degli
adulti organizzato e gestito dal pubblico nel nostro paese. Dal 2000 la presenza dei
CTP nel territorio nazionale è aumentata passando da 492 a 532 centri.
La Tabella 23 illustra il modo in cui sono distribuiti i 532 CTP funzionanti nel
2008.
Tabella 23
Numero di CTP per macro aree territoriali (2008)
Nord
Centro
Sud e isole
Italia
212
94
226
532
Fonte: INDIRE Monitoraggi IdA 2007/08
122
I CTP presentano una diversificata offerta formativa, dove spiccano come decisamente maggioritarie le molteplici attività di alfabetizzazione funzionale (corsi
brevi/modulari) (57% dei partecipanti).
I CTP coinvolgono un universo sociale composito e differenziato. La partecipazione
riguarda tutte le fasce di età dai 16 anni in poi, con una grossa componente di giovani
adulti: il 49% degli utenti è sotto i 35 anni. Emerge come maggioritaria la presenza
femminile (58%) e il coinvolgimento crescente dei cittadini stranieri (41%) (Figura 19).
Figura 19
Gli stranieri nei CTP
(valori assoluti, anni 1999, 2001, 2008)
131.534
130
120
110
100
90
80
70
60
50
40
30
20
10
0
70.209
31.222
Anno 1999
Anno 2001
Anno 2008
FOntE: MPI Monitoraggio CTP 1998/99 - 2000/01 e INDIRE Monitoraggi IdA 2007/08
Questo variegato universo si distribuisce sulle attività formative disponibili. A
questo proposito emergono significative differenze nelle scelte tra italiani e stranieri:
• gli italiani sono presenti in stragrande maggioranza (90%) nei corsi di alfabetizzazione funzionale e solo in misura assai ridotta partecipano ai percorsi di istruzione del primo ciclo (alfabetizzazione e licenza media, 28%);
• gli stranieri costituiscono l’utenza principale dei percorsi di istruzione del
primo ciclo (alfabetizzazione e licenza media, 72%), mentre partecipano in
misura ridotta (10%) alle attività di alfabetizzazione funzionale.
I CTP negli istituti penitenziari
Va infine segnalata la diffusa presenza della attività dei CTP nelle carceri
(Tabella 24). I detenuti che utilizzano le opportunità formative sono in crescita: più di un detenuto su quattro partecipa ad attività organizzate dai CTP.
Anche tra i detenuti è in aumento la componente stranieri che ormai costituisce
il 64% dell’utenza ed è prevalente sia nei percorsi di istruzione di base (61%)
che nelle attività di alfabetizzazione funzionale (57%).
123
Tabella 24
Detenuti iscritti alle attività dei CTP
(anni 2002 e 2008)
Anno
Percorsi di istruzione
Corsi di alfabetizzazione funzionale
Totale
2002
2008
7.489
9.267
4.066
5.209
11.555
14.476
Fonte: MPI Monitoraggio CTP 2001/02 e INDIRE Monitoraggi IdA 2007/08
Osservazioni conclusive sui CTP
I CTP giocano un ruolo particolare in tre situazioni di frontiera:
1. rappresentano un luogo privilegiato per l’istruzione, l’integrazione sociale e
il coinvolgimento culturale dei cittadini stranieri;
2. realizzano un prezioso intervento nei confronti dei minori. I CTP cercano di
dare risposta da un lato ai bisogni dei minori italiani che non hanno conseguito la licenza media e hanno maturato notevoli difficoltà di relazione con
l’ambiente scolastico, dall’altro ai minori stranieri che vivono situazioni di
particolare difficoltà sociale e relazionale tali da non permettere la frequenza a percorsi formativi regolari da cui spesso sono stati allontanati;
3. altrettanto rilevante è l’intervento nei confronti dei detenuti, che si realizza
con una presenza in tutte le carceri italiane.
Tuttavia questi tratti di indubbio successo non possono nascondere una grande
difficoltà: la sostanziale incapacità di attrazione e coinvolgimento nei confronti della
popolazione adulta a bassa scolarità, in particolare quella di origine italiana. Infatti la
presenza dei cittadini italiani nelle attività dei CTP è irrilevante e quasi esclusivamente concentrata nei corsi brevi di alfabetizzazione funzionale, dove la scolarità di coloro che partecipano è elevata (diplomati e laureati).
In conclusione, nell’istruzione di base degli adulti (alfabetizzazione, licenza
media) si registra questa situazione:
• la popolazione straniera garantisce di fatto l’esistenza di questi percorsi, li
percepisce come utili occasioni per far fronte alle proprie difficoltà di
espressione, di comunicazione e di socialità e guarda con favore al titolo di
licenza media come un utile segno di integrazione;
• la popolazione italiana (fatta una qualche eccezione per i minori) invece non
percepisce l’offerta di istruzione di base come occasione da utilizzare per
colmare le proprie difficoltà di espressione e comunicazione.
Tutto ciò non può che creare turbamento, visto che sono 4,2 milioni gli adulti
(20-64 anni) che hanno al massimo la licenza elementare. Questo fenomeno non
124
è relativo solo agli adulti maturi: ben 500.000 giovani (20-34 anni) risultano
avere nel 2009 al massimo il solo titolo di licenza elementare. A fronte di questa
situazione, sono solo 130.000 le persone (prevalentemente straniere) che frequentano i corsi
di istruzione di base offerti dai CTP. È nota la difficoltà di coinvolgere la popolazione a così bassa scolarità in attività formative: è tuttavia necessario che il sistema pubblico metta in campo azioni formative, modelli organizzativi e metodologie didattiche originali per portare quote maggiori di questa popolazione al
recupero delle competenze di base.
I Corsi serali presso gli istituti superiori
I dati sui Corsi serali sono rimasti per lungo tempo indisponibili. Anche nei più
recenti monitoraggi dell’offerta formativa rivolta agli adulti, condotti
dall’INDIRE, viene censita l’utenza dei corsi serali (finalizzati al conseguimento di un diploma di istruzione superiore e/o di una qualifica di Stato), ma non il
numero/tipo dei corsi.
Da questi monitoraggi risulta comunque che il numero degli istituti superiori gestori di Corsi serali è aumentato negli ultimi anni. Nel 2008 sono 836. Sono presenti
in tutte le Regioni e vedono la partecipazione di 66.545 persone, frequentanti percorsi finalizzati alla qualifica professionale e/o al diploma (96%), corsi di alfabetizzazione funzionale (2%) e corsi di integrazione linguistica per stranieri (1%).
La Tabella 25 illustra il modo in cui sono distribuiti gli 836 Corsi serali funzionanti nel 2008.
Questi partecipanti presentano un profilo nettamente maschile (oltre il 60%).
Tabella 25
Numero dei Corsi serali per macro aree territoriali
(2008)
Nord
Centro
Sud e isole
Italia
322
189
325
836
Fonte: INDIRE, Monitoraggio Ida 2007-2008.
Prevalgono nettamente i giovani adulti: il 68% ha meno di 35 anni. Sono in
netta maggioranza occupati (67%). La presenza di cittadini stranieri è minoritaria: meno del 13%.
Nel 2008, 14.981 di questi hanno conseguito un diploma di scuola superiore e
5.812 un diploma di qualifica professionale.
125
Osservazioni conclusive sui corsi serali degli istituti superiori
Se si guarda al profilo culturale dei partecipanti in base alle variabili dell’età, del genere, della posizione nel lavoro e della nazionalità emerge un pubblico di riferimento
costituito soprattutto da giovani (in crescita), uomini (in diminuzione), in larga parte
occupati (in diminuzione), mentre compaiono un certo numero di stranieri/e (in
aumento).
Il nodo irrisolto resta quello di sempre: la partecipazione non cresce. Il rapporto tra
domanda intercettata e domanda potenziale è irrisorio (si tratta di 66.000 persone che
frequentano i corsi serali degli istituti superiori su una popolazione di quasi 12 milioni in possesso della sola licenza media che potrebbe in teoria aspirare a una qualifica
o a un diploma).
È noto che affrontare in età adulta un percorso di istruzione finalizzato al diploma è
particolarmente oneroso e impegnativo. Va tuttavia osservato che l’introduzione del
nuovo obbligo di istruzione (10 anni di scuola) offre l’occasione per il rientro formativo della popolazione adulta con il solo titolo di licenza media. Anche in questo caso
si tratta però di predisporre azioni formative, modelli organizzativi e metodologie
didattiche originali che potrebbero trovare il loro prioritario campo di intervento sulla
popolazione tra i 20 e i 34 anni con il solo titolo di licenza media (quasi 3 milioni di
individui). (Si veda il piano straordinario n.1 nella Parte Terza).
Alla luce di queste osservazioni relative allo stato attuale dell’istruzione degli adulti,
investire, ripensare e riorganizzare il sistema di offerta è questione quanto mai urgente e necessaria.
Una novità: la riorganizzazione del sistema in Centri Provinciali per l’Istruzione degli
Adulti (CPIA)
Il processo di riorganizzazione del sistema prevede l’unificazione delle strutture esistenti (i CTP e i corsi serali della secondaria superiore) in nuove strutture, denominate
Centri provinciali per l’istruzione degli adulti (CPIA), articolati in reti territoriali,
dotati di autonomia amministrativa, organizzativa e didattica e di un proprio organico distinto da quello degli ordinari percorsi scolastici. L’obiettivo è realizzare un sistema di istruzione degli adulti regolato da norme specifiche.
Va rilevato il notevole ritardo nell’istituzione dei CPIA: la definizione legislativa risale al 2008 ma la concreta realizzazione continua a slittare in avanti. Lo “Schema di
regolamento recante norme generali per la ridefinizione dell’assetto organizzativo
didattico dei CPIA” elaborato dal Miur nel 2009 non è stato ancora ufficialmente
varato. La data di partenza è, oggi, fissata all’anno scolastico 2011/12.
Lo “Schema di regolamento” prevede che i CPIA debbano:
126
• unificare, provincia per provincia, le attuali attività di istruzione degli adulti;
• essere autonomi dal punto di vista amministrativo, organizzativo, e didattico;
• avere un proprio organico distinto da quello degli ordinari percorsi scolastici.
L’offerta formativa sarà finalizzata al conseguimento di titoli di studio e di certificazioni riferiti sia al primo ciclo di istruzione (secondaria inferiore, obbligo di istruzione) che al secondo ciclo (secondaria superiore).
Osservazioni critiche
Il disegno di sistema (avere in ogni Provincia del paese almeno un centro - con relativa distribuzione a rete sul territorio - deputato espressamente all’istruzione in età adulta)
è positivo e rappresenta una scelta utile e opportuna, ma non è per nulla persuasiva la
previsione di realizzare tale disegno senza costi aggiuntivi, anzi con una diminuzione di risorse.
Il MIUR infatti considera possibile l’istituzione dei CPIA solo nel caso che in quel territorio vi siano autonomie scolastiche in eccedenza, ma non solo; prevede anche un
significativo risparmio in termini di docenti: assume infatti che nei prossimi anni “vi
sia una invarianza nel fabbisogno di istruzione della popolazione adulta” rispetto a quanti
hanno frequentato corsi di istruzione nell’anno scolastico 2008/2009. La questione di
fondo, la necessità di aumentare significativamente la partecipazione alle attività di
istruzione della popolazione adulta “a rischio alfabetico” (di cui peraltro lo stesso
MIUR richiama l’enorme consistenza), viene così totalmente elusa.
Per quanto poi attiene all’organizzazione dell’offerta formativa finalizzata all’acquisizione di titoli o certificazioni riconosciute, il regolamento del MIUR prevede modalità organizzative e ambiti disciplinari tutti mutuati dagli ordinamenti scolastici di
cui i percorsi CPIA sono una versione parzialmente ridotta nei tempi. In questo modo
la specificità dell’apprendimento adulto (vedi capitolo 3.1) non viene presa in considerazione. È pur vero che il MIUR prevede l’emanazione di un successivo decreto per
definire criteri e modalità per rendere più sostenibili per gli adulti i percorsi di studio, attraverso:
• riconoscimento di crediti (non solo formali ma anche non formali e informali);
• personalizzazione del percorso (non per classi ma per gruppi di livello);
• fruizione a distanza (max 20% del monte ore complessivo);
• attività di accoglienza e orientamento (max 10% del monte ore complessivo).
Peraltro, anche a questo proposito viene espressamente previsto che tutte queste attività vengano svolte senza alcun costo aggiuntivo, il che non può che sollevare fondate perplessità sulla loro effettiva realizzazione.
In conclusione, questi elementi generano dubbi e perplessità sulla nascita dei CPIA.
A preoccupare è sopratutto l’assenza di qualsivoglia riferimento operativo, in termini
di disegno strategico e soprattutto di conseguente impegno finanziario, per incrementare la partecipazione della popolazione adulta a bassa scolarità. Allo stato attuale i CPIA sem127
brano essere una “razionalizzazione con riduzione di spesa” dell’esistente assai più che la
costruzione di un nuovo sistema di istruzione degli adulti, segmento decisivo per l’educazione degli adulti del nostro paese.
Le proposte di TreeLLLe per l’istruzione degli adulti
Proposta 13: il nuovo obbligo di istruzione come diritto-dovere di tutti
Su che cosa si debba intendere per istruzione di base abbiamo oggi un utile riferimento di fonte ministeriale. L’innalzamento dell’obbligo d’istruzione, passato da 8 a
10 anni (introdotto nel 2007/08) è un buon punto per identificare le competenze da
acquisire nell’istruzione di base degli adulti. Del resto il nuovo obbligo di istruzione
fa riferimento ai risultati di apprendimento definiti dal Quadro europeo delle qualifiche per l’apprendimento permanente e corrisponderebbe all’EQF2.
Di questo nuovo obbligo di istruzione sono state definite dal MIUR le competenze
relative a quattro assi culturali (asse dei linguaggi, matematico, scientifico/tecnologico, storico/sociale) e le competenze chiave per l’esercizio della cittadinanza attiva, che
devono essere acquisite al termine dell’istruzione obbligatoria. Inoltre, il nuovo obbligo non ha carattere terminale e la sua impostazione è valida sia per chi intende proseguire gli studi sia per chi intende concludere il suo percorso di prima formazione.
Tutti questi elementi possono essere opportunamente tradotti nel contesto dell’apprendimento adulto, poiché offrono:
• la possibilità di attivare percorsi articolati, tali da rispondere alle diverse capacità e potenzialità individuali;
• un approccio che privilegia le competenze più che le discipline e l’individuazione di standard comuni di competenze di cittadinanza.
Proposta 14: dare il via alla nuova prevista rete di Centri Provinciali per l’Istruzione degli Adulti (CPIA) e incrementare le risorse finanziarie e umane da impegnare
La realizzazione di una nuova rete di Centri Provinciali per l’istruzione degli Adulti
(CPIA) è positiva. Ma l’assenza di riferimenti a nuovi impegni finanziari per incrementare la partecipazione degli adulti genera preoccupazione sulla reale volontà politica di affrontare adeguatamente la questione del rischio alfabetico di tanta parte della
popolazione adulta del nostro paese. Per TreeLLLe è necessario prevedere una forte
campagna di sensibilizzazione e informazione tesa ad aumentare il numero dei partecipanti, cui dovrebbe conseguire una corrispondente crescita della spesa correlata alla
domanda locale generata. È allora necessario che la spesa globale destinata a questo
obiettivo sia programmaticamente incrementata almeno del 10% annuo.
Proposta 15: costruire in ciascuna provincia e nelle aree metropolitane un “Laboratorio EDA” come centro di coordinamento per la promozione e il monitoraggio dell’istruzione di base degli adulti
Senza nulla togliere all’istituzione dei CPIA e all’importanza della riconosciuta speci128
ficità e autonomia dell’istruzione degli adulti e agli utili spunti in termini di metodo
e contenuto del neonato obbligo di istruzione, la questione centrale da affrontare e
risolvere rimane però quella di come convincere grandi numeri di adulti (16 milioni
tra i 25 e i 64 anni con al massimo la licenza media) della importanza e della utilità di
partecipare ad un percorso di istruzione. È questo un elemento prioritario senza il
quale l’istruzione degli adulti (in particolare quella di base) non può decollare.
Per TreeLLLe, un intervento di questo tipo deve vedere le Regioni impegnate nella
promozione e nel coordinamento dei programmi di educazione degli adulti e gli Enti
locali, in collaborazione con le parti sociali, come soggetti operativi per organizzarli e
gestirli anche utilizzando le risorse finanziarie del POR FSE relative all’educazione
permanente. Si propone che con queste risorse si costruisca in ogni provincia una snella organizzazione dedicata, (“Laboratorio EDA”) che, con un responsabile a tempo
pieno nominato di concerto tra Regione e Provincia:
• organizzi con i Comuni ed i CPIA attività di informazione e di orientamento
per far partecipare la popolazione;
• definisca insieme ai CPIA le migliori soluzioni organizzative compatibili con le
esigenze di vita e di lavoro dei partecipanti;
• raccolga i dati sulla partecipazione e sui risultati;
• promuova studi e ricerche per un continuo miglioramento dell’offerta.
I due piani straordinari proposti da TreeLLLe indicati nel Cap. 3.3 del Quaderno
potrebbero essere il banco di prova dei Laboratori EDA qui delineati.
Proposta 16: definire il profilo professionale di dirigenti e docenti
La decisione che i CPIA debbano “avere un proprio organico distinto da quello degli ordinari percorsi scolastici” è giusta e condivisibile. Questa scelta andrebbe però sostanziata
definendo uno specifico profilo professionale dei dirigenti e dei docenti impegnati a tempo
pieno nell’istruzione degli adulti attraverso:
• la richiesta di un’opzione esplicita per assumere dirigenza e docenza nell’istruzione degli adulti con un impegno a rimanervi per almeno un triennio;
• l’individuazione delle specifiche competenze professionali necessarie ai Dirigenti
per organizzare e dirigere un CPIA;
• l’individuazione delle specifiche competenze professionali necessarie ai docenti
per insegnare agli adulti;
• la messa in campo di conseguenti azioni formative rivolte ai Dirigenti e ai
Docenti che scelgono di lavorare nell’istruzione degli adulti.
Bibliografia
Albert L., Gallina V., Lichtner M., Tornare a scuola da grandi. Educazione degli adulti e
rientri scolastici, Milano, Franco Angeli, 1998
Demetrio D., Manuale di educazione degli adulti, Bari, Laterza, 2003.
Formazione ’80, PERCORSI, rivista semestrale di educazione degli adulti, Torino
MIUR, Annali dell’Istruzione 5-6, L’istruzione e la formazione degli adulti tra domanda e offerta, Roma, Le Monnier, 2005.
Negarville M., Per discutere di educazione degli adulti, Formazione ’80, Torino, 2003.
129
4.1.2 La formazione permanente nelle università
La domanda di formazione permanente che si rivolge alle università è espressa
prevalentemente da soggetti già laureati e attivi nelle professioni, nella pubblica amministrazione e, in misura meno rilevante, nelle imprese.
Tale domanda esprime motivazioni diversificate ma riconducibili a pochi ceppi
significativi:
• l’esigenza di continuare e approfondire lo studio di determinati e circoscritti settori disciplinari;
• l’esigenza di aggiornamento, di riqualificazione e di avanzamento professionale di persone già occupate;
• l’esigenza di preparazione professionale specifica per le nuove professioni
emergenti;
• l’esigenza di conoscere e mettere in circolo i risultati della ricerca scientifica applicata, i nuovi modelli organizzativi e gestionali e le tecnologie innovative e sperimentali.
A fronte di tale domanda le università rispondono con un’offerta formativa organizzata su diversi livelli di complessità e finalizzazione:
• corsi di aggiornamento: si tratta di corsi di breve durata, misurati in ore di formazione o al massimo in giornate, mirati alla diffusione dei risultati della
ricerca applicata maturata nei dipartimenti;
• corsi di perfezionamento: si tratta di corsi più strutturati dei precedenti, con
una durata superiore misurata di solito in mesi; requisiti di ammissione,
durata, contenuti, modalità di svolgimento ed eventuali prove finali sono
determinati di caso in caso; rilasciano un attestato di frequenza, privo di
valore legale ma valutabile nelle selezioni e nei concorsi;
• master universitari di primo livello: sono corsi che hanno la durata normale di
un anno accademico e la consistenza di 60 crediti (pari a un
workload complessivo di 1500 ore); sono aperti ai laureati triennali; hanno
l’obiettivo del perfezionamento scientifico, dell’alta formazione professionale e della formazione permanente e ricorrente;
• master universitari di secondo livello: hanno le stesse caratteristiche dei precedenti ma ne differiscono per essere aperti ai soli laureati specialisti/magistrali o ai laureati del vecchio ordinamento.
Dati statistici
Quantificare domanda e offerta di formazione permanente universitaria è un
esercizio non sempre agevole. Utilizzando dati ufficiali e concentrando l’attenzione sui corsi relativamente più strutturati (Master universitari e Corsi di perfezionamento) realizzati nell’anno 2007, la dimensione del fenomeno si misura
130
in circa 2 mila corsi, con 60 mila iscritti e una media di 30 iscritti per corso.
Se si segue l’evoluzione dello stesso fenomeno nel corso dell’ultimo decennio,
balza all’attenzione il successo registrato dai Master universitari, nati dalla riforma universitaria del 1999: il loro numero e la popolazione iscritta crescono senza
sosta di anno in anno. L’affermazione dei master ha nuociuto inizialmente ai
corsi di perfezionamento: molti di quest’ultimi sono stati infatti trasformati in
master, ma il loro numero complessivo, dopo un periodo di calo, si è ormai stabilizzato. La Tabella 26 consente di esaminare l’andamento in dettaglio.
Scorrendo gli elenchi dei corsi, si può verificare un particolare attivismo delle
facoltà universitarie più professionalizzanti: medicina, farmacia, agraria, ingegneria ed economia. Ma anche le altre facoltà sono significativamente presenti
nell’elaborazione di piani di offerta nell’alta formazione.
La normativa nazionale ha avuto il merito di stimolare l’attenzione delle università per il settore della formazione permanente, evitando tuttavia il rischio di
controllare il fenomeno con misure regolatorie a maglie troppo strette.
Tabella 26
Evoluzione dell’alta formazione permanente nelle università italiane
(dal 1999 al 2006)
Corsi perfezionamento
n° corsi iscritti
a.a. 98-99
a.a. 99-00
a.a. 00-01
a.a. 01-02
a.a. 02-03
a.a. 03-04
a.a. 04-05
a.a. 05-06
a.a. 06-07
783
919
949
864
622
514
509
514
515
22.554
22.086
22.495
20.703
13.642
14.232
19.198
17.238
15.678
Master univ. di 1° livello
n° corsi
iscritti
143
407
578
620
711
808
3.369
8.872
13.009
13.659
22.701
28.610
Master univ. di 2° livello
n° corsi
iscritti
93
311
535
560
598
688
2.324
7.109
10.378
12.643
14.699
15.218
Fonte: Ufficio Statistico MIUR
Un’esperienza europea
Esperienza europea di grande interesse è la rete interuniversitaria EUCEN
(European Universities Continuing Education Network). La sua esemplarità consiste
proprio nel suo carattere di rete e nella capacità di fertilizzare e accompagnare
tutto il sistema universitario europeo nei territori dell’educazione permanente.
EUCEN è infatti la più grande associazione multidisciplinare europea a operare
nella formazione permanente universitaria perché associa 212 atenei di 40 paesi
e 22 reti nazionali e regionali. L’Italia è presente con 12 università (Ancona,
131
Bolzano, Calabria, Catania, Chieti-Pescara, Genova, Milano Cattolica, Roma Tor
Vergata, Roma Tre, Roma Iusm, Roma Lumsa, Udine). La mission di EUCEN
si concentra su cinque obiettivi:
• scambiare informazioni ed esperienze sulle normative e le politiche europee;
• creare contatti e collaborazioni tra i decisori e gli operatori attivi nelle università;
• elaborare standard condivisi e armonizzare i livelli di qualità dell’attività
formativa;
• sviluppare un sistema consensuale ed efficace di trasferimento dei crediti;
• influenzare la politica europea in materia di continuing education.
EUCEN sviluppa attualmente tre progetti strategici. Il progetto BeFlex analizza l’impatto del processo di Bologna sulla formazione permanente; Equipeplus
elabora strumenti e sussidi per il miglioramento della qualità; Transfine promuove collaborazioni europee per il riconoscimento dell’apprendimento informale. Per maggiori informazioni: www.eucen.org.
Le università telematiche
La creazione di atenei on-line (attualmente sono 11 quelli autorizzati in Italia)
risponde all’esigenza di soddisfare una fascia di studenti esclusa per diverse
ragioni dall’università. L’obiettivo è, in particolare, di agevolare coloro che sono
impossibilitati a spostarsi dalla propria sede di residenza o di lavoro (studenti
lavoratori, residenti in sedi disagiate, italiani che vivono e lavorano all’estero,
malati, persone diversamente abili, soggetti deboli ed emarginati).
Con l’istituzione delle università telematiche nasce anche in Italia un modo
nuovo, moderno e tecnologico, di fare didattica, dalle interessanti prospettive
proprio nel campo dell’istruzione permanente. L’avvento della banda larga consente di abbattere il principio della contiguità fisica, così da rendere realizzabile ciò che fino a ieri non lo era: seguire lezioni da casa e gestire autonomamente
il proprio corso di studi, usufruendo di servizi didattici di qualità e del sostegno
di tutor. Le università telematiche erogano formazione a distanza utilizzando la
telematica e i diversi media disponibili in rapporto alle esigenze degli studenti
(web, tv satellitare, tv digitale terrestre, etc.).
L’accreditamento dell’apprendimento pregresso
Una prassi innovativa per l’università italiana – nota con la dizione internazionale di
Prior Learning Assessment – è stata autorizzata con la recente riforma universitaria. In
base all’articolo 5 del Decreto n. 509 del 1999 “le università possono riconoscere come
crediti formativi universitari, secondo criteri predeterminati, le conoscenze e abilità
professionali certificate ai sensi della normativa vigente in materia, nonché altre conoscenze e abilità maturate in attività formative di livello postsecondario alla cui pro132
gettazione e realizzazione l’università abbia concorso”. L’accreditamento dell’apprendimento pregresso ha lo scopo di agevolare il conseguimento di un titolo di studio
universitario, consentendo l’abbreviazione del corso di studi a coloro che, in età non
tradizionale, hanno già acquisito abilità, conoscenze ed esperienze professionali. Ha lo
scopo altresì di promuovere il lifelong learning, l’inclusione sociale, la partecipazione
sempre più qualificata dei cittadini alle attività del paese, l’occupazione e la partnership con il mondo del lavoro e delle imprese.
Le esperienze realizzate documentano il riconoscimento sia di attestati formali sia di
apprendimenti non formali. Tra i primi rientrano, ad esempio, i certificati di competenza linguistica, la patente del computer, il servizio civile, le attività documentate di
volontariato, i tirocini professionali per le professioni regolamentate, le abilitazioni
professionali, le attività didattiche in collaborazione scuole/università, gli attestati di
qualifica, i corsi singoli, la partecipazione a programmi europei. Tra i secondi (apprendimenti non formali), i dossier individuali che documentano livello e volume dell’apprendimento, la sua appropriatezza rispetto al corso universitario, le attività workbased, le parti di corsi non completati, le attività non concluse con esami formali.
Le esperienze realizzate non sono andate esenti da qualche fenomeno di malcostume
accademico, in particolare nelle convenzioni collettive previste dalla finanziaria 2002
e stipulate dagli atenei con intere associazioni, con enti e ministeri o con categorie professionali. A tali comportamenti non virtuosi si è reagito sia con restrizioni normative, sia con l’elaborazione da parte di una commissione ministeriale di “Linee guida”
per un regolamento di ateneo sull’accreditamento dell’apprendimento pregresso.
Il problema delle università e dei titoli fasulli
L’istruzione permanente e l’educazione degli adulti sono territori economicamente sensibili. Non stupisce pertanto che nei sistemi universitari riescano a
insediarsi zone franche, abitate da istituti che solo nominalmente si autodefiniscono d’istruzione superiore e che si sottraggono a qualsiasi pratica di controllo,
di verifica esterna e di valutazione comparativa. Si tratta di istituzioni autoreferenziali che sfruttano l’amplissima libertà che i paesi moderni garantiscono alla
scienza, alla ricerca e all’educazione. Queste istituzioni private si autodefiniscono non-traditional per sfuggire alla peer review e si annidano nelle zone di confine
dell’istruzione superiore, in particolare quelle dell’istruzione permanente e dell’istruzione a distanza.
I “diplomi” rilasciati dalle istituzioni universitarie non accreditate e irregolari
non sono soggetti ad alcuna autorizzazione preventiva o verifica successiva e
inquinano il mercato della formazione con il meccanismo dell’adulterazione. Il
diploma, pur nominalmente corrispondente ai diplomi nazionali correnti,
maschera procedimenti di rilascio totalmente autoreferenziali. Il suo dispositivo
curricolare formale nasconde processi occulti di sostituzione disciplinare o d’in133
serzione di contenuti formativi di scarso pregio, quando non addirittura la totale assenza di contenuti. Uno dei meccanismi più diffusi è l’accreditamento (la
trasformazione cioè in crediti universitari) di esperienze professionali, rilevate
direttamente dal curriculum dei richiedenti.
Le proposte di TreeLLLe per la formazione superiore degli adulti
Proposta 17: realizzare in ogni ateneo i Centri per l’Apprendimento Permanente (CAP)
TreeLLLe condivide e sostiene le proposte elaborate nel 2007 dal “Gruppo di lavoro
sull’Apprendimento permanente” nominato dal Ministro dell’Università. Il gruppo
ha definito cinque obiettivi prioritari per il nostro paese a livello di formazione superiore degli adulti: l’apprendimento permanente per le trasformazioni dell’economia e
del lavoro, per le professioni, per la pubblica amministrazione, per aumentare il
numero dei laureati “adulti”, per “convertire” i laureati “deboli”.
Per passare dallo stadio attuale a una vera e propria azione di sistema, il Gruppo, oltre
alla solita richiesta di una legge di princìpi e un piano di azione nazionale finanziato
sul bilancio statale, ha definito necessario un impegno congiunto con gli altri attori
istituzionali, per realizzare:
• accordi-quadro tra il MIUR, il sistema universitario e altri Ministeri e grandi
istituzioni statali;
• la sperimentazione di nuovi modelli di iniziativa e di organizzazione delle
Università nel quadro di sistemi regionali per l’apprendimento permanente a
livello superiore.
Il Gruppo ha infine messo in campo la proposta di realizzare negli Atenei i CAP –
Centri per l’Apprendimento Permanente. I Centri potrebbero organizzare i servizi per le
persone e per le organizzazioni relativi a percorsi formativi articolati, su base individuale e/o sulla base delle esigenze delle organizzazioni per aiutare le persone nel loro
sviluppo professionale. I Centri dovrebbero inoltre curare la formazione dei formatori necessari alla nuova tipologia di offerta didattica. Saranno i Centri a realizzare un’effettiva partnership con il territorio, le organizzazioni professionali, le imprese.
Proposta 18: mettere in campo politiche di contrasto per università e titoli fasulli
Per combattere questo fenomeno preoccupante, che può generare effetti devastanti
sull’educazione permanente e, in particolare, squalificare le delicate procedure di prior
learning assessment attivate legittimamente dagli atenei “veri”, per TreeLLLe sono da
adottare vere e proprie politiche di contrasto. Esse si devono basare su una più severa
attività di vigilanza delle autorità educative (in particolare i ministeri dell’Istruzione
e della Salute), sulle denunce all’autorità giudiziaria e persino sull’attività di indagine
di corpi specializzati di polizia, sull’applicazione delle misure sanzionatorie previste
dal codice penale. TreeLLLe auspica inoltre lo sviluppo delle moderne forme di difesa
134
offerte dalle politiche di tutela del consumatore e di autodifesa professionale, ormai
diffuse in tutti i paesi a economia avanzata: in particolare si pensi al contrasto della
“pubblicità ingannevole” condotto dall’Autorità Garante per la Concorrenza e il
Mercato (Antitrust), su sollecitazione delle associazioni dei consumatori. Tali tecniche
si sono rivelate in Italia particolarmente efficaci, in particolare quando sono associate
a campagne di denuncia dei grandi media.
Bibliografia
Coccia B. e Finocchietti C. ( a cura di), Fabbriche di titoli, Universitas Quaderni
n. 23, 2009.
135
4.2 Sviluppo professionale delle forze di lavoro
4.2.1 La formazione continua per gli occupati
La formazione continua: definizione
La formazione continua è finalizzata allo stesso tempo all’occupabilità dei lavoratori e alla maggiore competitività delle imprese.
Per formazione continua si intende la formazione che interessa i soggetti adulti
occupati (o temporaneamente non occupati), che si svolge dopo il percorso di istruzione/formazione iniziale, e che ha come ambito di riferimento l’attività lavorativa, in essere o possibile. È bene avere sempre presente che il lavoro non si esaurisce nella sola prestazione: si configura piuttosto come un’esperienza complessa
e di primaria importanza per la partecipazione sociale e la cittadinanza attiva.
La formazione continua è l’area dove si realizzano i maggiori investimenti in formazione per gli adulti e dove la partecipazione è più significativa.
La formazione continua ha carattere professionalizzante, ma può presentare connessioni e intrecci con l’istruzione-educazione degli adulti. Così la formazione
continua deve spesso affrontare due diversi ordini di problemi:
a) di sviluppo professionale quando le attività formative riguardano le mutazioni
dei ruoli professionali e dell’organizzazione produttiva;
b) di istruzione/educazione quando ciò che occorre è la ri-costruzione o l’aggiornamento delle conoscenze di base necessarie per poter partecipare a una specifica formazione professionale.
Questa complessità, o ambivalenza, della formazione continua è particolarmente evidente nel contesto italiano in cui le carenze dei soggetti adulti non riguardano solo le
abilità professionali specifiche, ma derivano in larga misura dalla debolezza delle conoscenze di base.
Uno sguardo all’Europa: modelli di formazione continua
Nei diversi paesi europei la formazione continua rappresenta una realtà molto
differenziata. Ci sono ragioni storiche-culturali, economiche e sociali- che hanno
reso la pratica formativa rivolta alle forze di lavoro un esercizio diffuso o episodico, oggetto di interventi strutturali da parte del momento pubblico o insieme
di azioni lasciato alla piena responsabilità degli operatori economici o, ancora,
alla piena collaborazione delle parti sociali.
La funzione regolatrice affidata ai governi nazionali o regionali aumenta di peso via via
136
che viene meno la propensione dei soggetti economici a investire risorse proprie per la
formazione dei lavoratori adulti occupati.
Questo significa che il rapporto tra azione delle amministrazioni pubbliche e azione
delle singole imprese nel campo della formazione continua muta significativamente nei
diversi contesti e incide sulla necessità di porre o non porre regole e comportamenti
obbligatori per i soggetti economici.
In concreto si assiste a diversi modelli in atto nei diversi sistemi paese che possono
essere così sintetizzati:
• paesi (come la Germania, la Svezia e la Gran Bretagna) nei quali l’economia è connotata prevalentemente dalla presenza di grandi imprese produttrici di beni e di
servizi e con una tradizione consolidata di buona pratica del dialogo sociale in
materia di investimenti in formazione. In questi paesi sono le stesse imprese a
destinare, in piena autonomia, significative risorse proprie per la formazione dei
lavoratori, e gli stati sono esonerati dal dover dar corso a regole che rendano obbligatorio un prelievo forzoso sulle imprese nell’ambito della fiscalità generale o con
leggi di settore;
• paesi (come l’Olanda) nei quali vi è una buona tradizione di rapporti tra le parti
sociali e nei quali vi è una condivisa consapevolezza dell’utilità dell’investimento
nella formazione continua. Qui operano organismi creati dalle parti sociali per
assistere le imprese e i lavoratori nella formulazione dei piani di formazione e per
curare la gestione delle risorse messe a disposizione e ottenere così utili economie
di scala. Qui la scelta dominante è la negoziazione delle risorse delle imprese e dei
lavoratori in occasione degli accordi collettivi di lavoro (o dei patti per lo sviluppo e per l’occupazione) da gestire in genere su base paritetica bilaterale. Così deriva da scelte negoziali la maggior parte dei fondi settoriali oggi operanti in diversi paesi europei;
• paesi (come la Francia) in cui le imprese hanno un obbligo a investire in formazione. Questo obbligo si traduce in un contributo proporzionale al monte salari
(0,90%), di cui più della metà è versata a organismi diretti dalle organizzazioni
padronali e dai sindacati dei lavoratori, gli “OPCA”. Questi organismi finanziano
quattro tipi di azioni principali: i “piani di formazione dei salariati” delle imprese, sia che siano decisi dall’impresa stessa, sia che siano elaborati dall’OPCA su
richiesta dell’impresa; i contratti di lavoro, detti di “professionalizzazione”, proposti dalle imprese ai giovani (e che hanno anche una dimensione di formazione);
i “congedi individuali di formazione”, che permettono ai lavoratori che lo desiderino (e che abbiano un’anzianità sufficiente) di prendere un periodo di “congedo”
per dedicarsi alla formazione; infine, un “fondo paritario di garanzia dei percorsi
professionali”, che permette una mutualizzazione e un orientamento più significativo delle risorse, e dunque delle azioni di formazione, nei riguardi dei disoccupati e dei lavoratori a rischio di licenziamento o poco qualificati;
• paesi (come l’Italia, l’Irlanda e la Spagna) nei quali la maggioranza delle imprese
è di piccola dimensione e vi è un alto tasso di lavoro indipendente. La tutela sin137
dacale dei lavoratori è presente in modo non omogeneo nei diversi territori e diffusa soprattutto nelle imprese medie e grandi. In questi paesi solo a partire dagli
anni ’90 la pratica formativa è diventata più strutturata e organica e si sono avviati interventi pubblici di sostegno alla formazione continua. In questi paesi si mettono in atto norme che rendono obbligatorio il versamento di una quota del salario allo Stato, all’istituto di previdenza (è il caso dell’Italia, con lo 0,30%) o alle
Regioni per garantire servizi minimi essenziali di formazione continua.
Le indagini sulla formazione continua: partecipazione dei lavoratori e impegno delle
imprese formative
Da alcuni anni, per conoscere il grado di partecipazione dei lavoratori alle attività formative e l’impegno delle imprese cosiddette formative, vengono condotte ricerche che si avvalgono di indagini campionarie.
Le indagini sui lavoratori
Le indagini europee Labour Force Survey (LFS) e Adult Educational Survey (AES)
rappresentate nella Tabella 27 sono indagini EUROSTAT (ISTAT per la parte italiana) che prendono in considerazione la partecipazione alla formazione formale e non
formale (escludendo la informale) degli occupati (LFS) e dell’universo dei cittadini
adulti europei (25-64enni) (AES).
Tabella 27
Tassi di partecipazione ad attività educative formali e non formali.
Indagini Adult Educational Survey (AES) e Labour Force Survey (LFS)
(valori percentuali e posizionamenti)
Svezia
Finlandia
Norvegia
Regno Unito
Germania
Slovacchia
EE
Austria
Cipro
Bulgaria
Lituania
Lettonia
Spagna
ITALIA
Polonia
Grecia
Ungheria
AES
(percentuali)
LFS
(percentuali)
AES
(posizionamenti)
LFS
(posizionamenti)
73,4
55,0
54,6
49,3
45,4
44,0
42,1
41,6
40,6
36,4
33,9
32,7
30,9
22,2
21,8
14,5
9,0
32,0
23,1
18,7
26,6
7,5
4,1
6,5
13,1
7,1
1,3
4,9
6,9
10,4
6,1
4,7
1,9
3,8
1°
2°
3°
4°
5°
6°
7°
8°
9°
10°
11°
12°
13°
14°
15°
16°
17°
1°
3°
4°
2°
7°
14°
10°
5°
8°
17°
12°
9°
6°
11°
13°
16°
15°
Fonte: Nostra elaborazione su dati EUROSTAT-ISTAT 2006
138
Non deve stupire il fatto che i tassi di partecipazione alla formazione risultino
più elevati nell’indagine AES rispetto all’indagine LFS. Le differenze sono attribuibili principalmente al periodo di riferimento: la partecipazione nell’anno
precedente costituito da 12 mesi nel caso di AES e la partecipazione nelle 4 settimane precedenti l’intervista nel caso di LFS.
Al di là dei dati di partecipazione, quel che preme far rilevare è il posizionamento del
nostro paese che, nei due confronti, si colloca al 14° e all’11° posto tra i 17 paesi europei
presi in esame.
Le indagini sulle imprese formative
Si tratta di due diverse indagini: una di livello europeo (CVTS) e una italiana
(Excelsior).
1) Indagine CVTS “Continuing Vocational Training Survey” (indagine armonizzata di Eurostat, realizzata per la parte italiana da ISTAT e ISFOL): offre
l’occasione di meglio comprendere le performance nazionali in comparazione
a quelle degli altri Paesi europei (Figura 20).
Nello specifico si fa riferimento all’ultima edizione dell’indagine, la cosiddetta CVTS3, condotta nel 2005 in tutti gli Stati dell’UE. Ai fini di una
corretta interpretazione dei dati esposti, occorre tenere presente che l’indagine rileva le attività di formazione cofinanziate da imprese con almeno 10
addetti operanti nei settori manifatturiero e terziario (esclusi sanità e istruzione) mediante l’impiego di alcuni indicatori specifici che consentono di
confrontare:
- l’incidenza, vale a dire il rapporto tra imprese che fanno formazione e il
totale delle imprese;
- la partecipazione dei lavoratori (in percentuale sul totale degli addetti di
tutte le imprese);
- l’accesso, inteso quale quota di addetti delle sole imprese formatrici;
- l’intensità, misurata in termini di ore di formazione per addetto.
La posizione italiana appare particolarmente preoccupante in relazione
all’incidenza, il primo degli indicatori succitati, con una quota di imprese
formative pari al 32% contro un valore medio comunitario del 60%.
Preoccupante anche il confronto con i risultati raggiunti dai paesi con i
quali si gioca in misura maggiore la competizione continentale: Germania
69%, Francia 74%, Regno Unito addirittura 90%. Accesso e intensità sono
più in linea con le performance delle altre nazioni considerate.
Per quanto riguarda la partecipazione dei lavoratori, che a prima vista sembrerebbe discostarsi poco dalla media europea, va fatto notare che l’indagi139
ne non tiene conto delle imprese al di sotto dei 10 addetti, che rappresentano circa l’85% del totale delle imprese italiane e che, secondo il Rapporto
Excelsior, nel 2007 hanno mandato in formazione soltanto il 14,4% dei
dipendenti. Questo fa sì che la partecipazione alla formazione dei lavoratori italiani, quando si tenga conto delle piccole imprese, sia in realtà assai
inferiore al 29% indicato nella Figura 20.
Figura 20
Principali indicatori in alcuni paesi UE relativi alla diffusione
della formazione continua nelle imprese
(valori percentuali, 2005)
Italia
UE
Francia
Germania
Regno Unito
100%
90%
80%
70%
60
60%
49
50%
43
40%
32
29
30%
33
26 27
20%
10%
Incidenza
Partecipazione
Accesso
Intensità
Fonte: elaborazione su dati ISTAT/EUROSTAT, dall'indagine CVTS3 (2005)
È utile infine riflettere sulle motivazioni della mancata partecipazione delle
imprese italiane (CVTS 2005). I dati relativi alle aziende non formative evidenziano come la mancata partecipazione derivi, in oltre il 90% dei casi, da
scelte apparentemente consapevoli, connesse in generale alla non sentita
necessità di procedere a un adeguamento delle competenze dei lavoratori
(un dato questo che dà l’idea di quanto ancora sia lunga la strada verso l’apprendimento permanente che il nostro paese deve percorrere).
2) Indagine Excelsior (2008-09): entra nel dettaglio dei dati nazionali ed evidenzia che l’incidenza delle imprese formative è fortemente differenziata in relazione alle dimensioni aziendali, con una propensione all’investimento formativo che
sale in misura progressiva all’aumentare del numero di addetti (Tabella 28).
140
Tabella 28
Imprese che hanno realizzato attività di formazione,
per dimensione dell’organico aziendale
(valori percentuali, anni dal 2000 al 2008)
2000
2001
2002
2003
2004
2005
2006
2007
2008
Micro imprese
(1-9 dipendenti)
13,8
12,8
19,8
17,3
17,1
15,6
16,6
18,8
23,3
Piccole imprese
(10-49 dipendenti)
39,1
38,5
45,3
37,8
26,4
26,6
27,5
29,5
28,0
PMI
(50-249) dipendenti
38,0
41,5
54,6
52,7
37,1
43,1
42,6
44,7
49,8
Grandi imprese
57,8
(più di 250 dipendenti)
55,2
63,6
72,2
70,0
73,2
72,8
75,2
80,2
Fonte: Elaborazioni ISFOL su dati Unioncamere-Ministero del Lavoro, S. I. Excelsior (2009)
Il punto sulla formazione continua in Italia: domanda, strumenti, risorse
A. Domanda
Il sistema produttivo è caratterizzato dalla presenza di poche grandi e medie
imprese (che occupano circa il 20% della forza lavoro) e da oltre un milione di
micro imprese con pochi dipendenti. Ciò rende particolarmente complessa l’analisi del capitale di conoscenze e di competenze possedute dagli occupati e
molto più difficile l’individuazione dei loro fabbisogni formativi.
Inoltre, una parte consistente delle forze di lavoro ha livelli di istruzione iniziale bassi, anche nelle fasce giovanili (tuttora, il 30% dei giovani non raggiunge
un titolo di studio di secondaria superiore). Anche per l’infelice rapporto avuto
con la scuola (l’indice di abbandono precoce supera il 20%), numerosi sono i
lavoratori che hanno una scarsa disponibilità soggettiva e serie difficoltà oggettive a partecipare ad attività formative.
Spesso succede che anche chi possiede un livello formale di istruzione o una qualifica iniziale, di fatto non padroneggia le conoscenze di base in modo sufficiente per affrontare un percorso di formazione professionale e ancora meno per
accettare la sfida dell’apprendimento permanente. Tutto ciò spiega in gran parte
le difficoltà a far emergere i bisogni formativi delle imprese e a dare ragione
della debolezza della domanda di formazione continua.
141
B. Strumenti
Le modalità con cui si realizzano le attività di formazione continua possono essere così suddivise:
• attività promosse da istituzioni e organismi pubblici (Stato, Regioni,
Comunità Europea, etc.);
• attività promosse dalle imprese con risorse proprie;
• attività realizzate attraverso piani concordati tra le parti sociali con l’utilizzo di una quota del monte salari. A proposito di queste, va osservato che:
a) esistono norme nazionali (Accordo sul lavoro e sullo sviluppo 1996 e Legge Treu
1997 e successive modificazioni) che regolano gli obblighi delle imprese a versare contributi all’INPS (0,30%) per finanziare attività formative e che definiscono il ruolo delle parti sociali. Le parti sociali possono dare vita, in forma
bilaterale, a Fondi interprofessionali che gestiscono queste risorse finanziarie in
nome dell’interesse collettivo delle imprese aderenti e delle correlate organizzazioni dei lavoratori (vedi 4.2.2).
b) esistono regole della contrattazione collettiva che definiscono gli ambiti della negoziazione della formazione per i lavoratori dipendenti e il
ruolo di eventuali Enti Bilaterali in proposito. È concordata anche la formazione che riguarda i lavoratori del settore pubblico (oltre 3 milioni),
il cui finanziamento è definito per via contrattuale;
• attività perseguite individualmente dal lavoratore, durante o fuori dall’orario di lavoro, a carico di finanziamenti pubblici, o di contributi collettivi,
o di investimenti individuali. In proposito, diverse amministrazioni regionali hanno sperimentato forme innovative di finanziamento (voucher formativi) per favorire la formazione a domanda individuale. L’obiettivo strategico è spostare il baricentro della formazione continua dall’attuale situazione di dominanza dell’offerta a un futuro maggior peso della domanda,
con tutti i prevedibili vantaggi conseguenti allo sviluppo di un mercato più
aperto. Quel che si auspica è più concorrenza, più qualità, costi più contenuti, maggior personalizzazione dell’offerta. Nel 2007-08 oltre 50.000 persone hanno partecipato ad attività di formazione organizzate con il sistema
del voucher formativo. Va osservato che non tutte le Regioni hanno attivato questa tipologia di offerta formativa e che i voucher formativi erogati si
concentrano in sei di esse: Veneto, Piemonte, Emilia Romagna, Toscana,
Lazio e Puglia raccolgono oltre il 90% dei partecipanti. In sostanza, il sistema del voucher sembra intercettare l’interesse degli adulti là dove le amministrazioni regionali lo promuovono attivamente.
C. Risorse
Per poter stabilire l’ammontare complessivo delle risorse a disposizione per la
formazione continua si deve fare riferimento alle fonti principali, pubbliche e
private:
142
• la spesa dello Stato e delle Regioni (cui spetta la programmazione degli
interventi, anche di quelli cofinanziati dal Fondo Sociale Europeo);
• la spesa dei Fondi Paritetici Interprofessionali (al momento si tratta di circa
la metà dello 0,30% obbligatorio sul monte salari delle imprese private, ma
è in crescita);
• la spesa sostenuta dall’amministrazione pubblica per i propri dipendenti (in
teoria circa lo 0,70% del monte salari);
• le spese sostenute autonomamente dalle medie e grandi imprese (si stima
tra l’1% e l’1,5% del loro monte salari);
• la spesa sostenuta dagli ordini professionali per la formazione dei propri
aderenti;
• la spesa sostenuta dai lavoratori autonomi per la propria formazione;
• la spesa sostenuta in proprio dai dipendenti (quota sui voucher e altro).
Allo stato attuale, se pur di difficile stima, le risorse pubbliche sembra assommino a
circa 2,5 miliardi di euro annui per un pubblico potenziale di oltre 20 milioni di lavoratori dipendenti. Si tratta del 4% del totale delle risorse pubbliche destinate ai vari
livelli di istruzione e formazione (scuola, università, etc.) che ammontano a poco meno
di 60 miliardi di euro l’anno tra Stato, Regioni ed Enti locali.
Vista la modestia delle risorse pubbliche per la formazione continua delle forze
di lavoro, ricade evidentemente sulle imprese l’onere di migliorare il bagaglio
professionale posseduto dai propri dipendenti.
Alla luce di questi modesti dati di spesa sussistono ben fondate preoccupazioni
per un sistema di formazione continua che risulta limitato a una minoranza di
imprese nazionali, tendenzialmente di dimensione medio/grande, operante nelle
aree più benestanti del Paese e nei settori economici più avanzati e circoscritto
quasi soltanto a determinate categorie di lavoratori.
I fornitori della formazione continua
I lavoratori che vogliono partecipare ad attività formative e le imprese che debbono organizzarla per il proprio personale hanno di fronte un’offerta poco visibile che si colloca, essenzialmente, in un’area di “non mercato”, almeno nel senso
che difficilmente sono disponibili cataloghi esaustivi di prodotti formativi con
indicazioni di corsi e seminari, con le loro caratteristiche peculiari, e con i loro
prezzi di vendita.
Le organizzazioni di rappresentanza delle imprese e quelle dei lavoratori hanno dato
vita, ognuna per proprio conto, a organismi ed enti di formazione professionale che
rappresentano una parte consistente dell’offerta di formazione per le figure professionali di cui le imprese hanno bisogno (IAL-CISL, ENAIP-ACLI, etc.).
143
A questi organismi “senza scopo di lucro” si aggiungono altri soggetti, anche in forma
di impresa “profit”, che si sono trasferiti dal segmento della formazione iniziale (in calo
nei finanziamenti pubblici regionali) a quello della formazione continua.
Si sono moltiplicati i piccoli studi e le piccole società di consulenza e di comunicazione aziendale che offrono formazione.
Nel settore delle piccole imprese gli interlocutori per l’offerta formativa sono
per lo più le associazioni di categoria oppure commercialisti o consulenti del
lavoro. E non è affatto scontato che si tratti di soggetti dotati di tutte le necessarie competenze.
Volendo costruire una semplice e approssimativa mappa dell’offerta attuale, dai
soggetti più presenti a quelli più “latitanti”, il quadro risulta così delineato:
• organismi di formazione accreditati dalle Regioni;
• enti di formazione delle organizzazioni sindacali (datoriali e dei lavoratori);
• imprese formative (per i propri dipendenti);
• società di formazione di piccola dimensione;
• consulenti e formatori free lance;
• società di formazione manageriale;
• università (private e pubbliche);
• centri territoriali permanenti per l’istruzione degli adulti (i CTP);
• scuole secondarie superiori (corsi serali);
• scuole di formazione per la pubblica amministrazione.
Le Regioni hanno albi di organismi accreditati per la formazione continua ma il
processo di accreditamento, diverso per ciascuna Regione, è fonte di numerose
contestazioni ed è spesso oggetto di fondate critiche. Va segnalato, in proposito,
che in Italia ai formatori degli adulti – così come ai docenti impegnati nell’istruzione
degli adulti – non è riconosciuta né richiesta una specificità professionale.
L’attuale crisi occupazionale
Le politiche pubbliche per la formazione professionale riservano da sempre una
quota, invero assai modesta, alla realizzazione di interventi deputati a fronteggiare situazioni di crisi aziendale e/o settoriale. Contrariamente a quanto avviene in
altri paesi, la leva formativa in situazione di crisi è stata impiegata in misura del
tutto episodica e al di fuori di un aggancio normativo di riferimento.
Cassa integrazione in deroga (L. 2/2009)
La portata della crisi, prima finanziaria poi economica e da ultimo occupazionale, che
ha colpito l’Italia a partire dal 2008 ha indotto il Governo a introdurre, attraverso il
Decreto legge 185/08 (convertito in legge L2/09), una specifica norma per estendere gli ammortizzatori sociali a categorie di imprese e di lavoratori in precedenza privi
di ogni forma di tutela. La norma ha peraltro condizionato l’effettiva fruibilità del sostegno
144
al reddito alla disponibilità individuale a prendere parte a misure di politica attiva del lavoro finalizzate al rafforzamento delle competenze.
Così limitatamente a questi lavoratori in cassa integrazione o in mobilità (di imprese con meno di 15 dipendenti), è stato introdotto uno dei principi alla base dei sistemi di flexsecurity: l’integrazione tra le componenti passiva (sostegno al reddito) e
attiva (formazione, orientamento, tutoraggio) delle politiche per il lavoro. Si è fissato per la prima volta in Italia il principio che tutti coloro che beneficiano di sostegni al reddito (sia i disoccupati, sia i lavoratori in CIG) sono tenuti a partecipare a
interventi congrui di politica attiva - orientamento, riqualificazione e formazione –
e ad accettare un’offerta di lavoro, pena la perdita del sostegno al reddito.
Questa decisione è sembrata scaturire più da una valutazione di opportunità che
non da una convinta adesione del legislatore ai paradigmi propri della flexsecurity.
Il finanziamento di questo sistema di ammortizzatori (detto “in deroga”) il cui onere
complessivo è stimato in 8 miliardi, viene, infatti, soprattutto posto a carico di
risorse di carattere straordinario: Fondo Aree Sottoutilizzate (FAS) e Fondo Sociale
Europeo (FSE).
L’introduzione in Italia di questa specifica norma ha al momento carattere estemporaneo e coinvolge un numero relativamente ristretto di persone (infatti i lavoratori in
CIG ordinaria o in CIG speciale, che non hanno alcun obbligo di seguire interventi
di politica attiva, sono ben più numerosi dei percettori di CIG in deroga). Ciò non
toglie tuttavia che, laddove le esperienze regionali diano esito positivo, la norma e l’accordo possano rappresentare un utile terreno di sperimentazione in vista di un più
organico processo riformatore del sistema nazionale di ammortizzatori sociali.
Le recenti linee guida sulla formazione continua
Intesa Governo-Regioni-enti locali e parti sociali, febbraio 2010
Degna di nota in questa direzione è l’Intesa tra Governo, Regioni, enti locali e parti
sociali del febbraio 2010 che individua alcune fondamentali linee guida per costruire
anche in Italia un moderno sistema di formazione continua, nonché per orientare
l’impiego delle risorse finanziarie per la formazione degli inoccupati, dei disoccupati, dei lavoratori in mobilità o temporaneamente sospesi. Queste linee, che
dovrebbero trovare una prima sperimentazione nel corso del 2010-11, rappresentano il tentativo di strutturare gli investimenti formativi mirati ai soggetti più esposti all’esclusione dal mercato del lavoro.
Nell’intesa vengono indicate le seguenti azioni:
a) attivazione di un’unità operativa straordinaria presso il ministero del Lavoro
per la raccolta dei fabbisogni di competenze e figure professionali rilevati nei
145
territori e nei diversi settori produttivi: da segnalare che questa unità prevede
una nuova forma di cooperazione tra Regioni, parti sociali e Governo;
b) impiego diffuso del metodo di apprendimento per competenze. Su questa
linea, da rimarcare l’ipotesi di rilancio del contratto di apprendistato;
c) diversificazione delle azioni formative in favore degli inoccupati. A questo proposito, va rimarcato il ruolo dell’apprendimento in ambiente di impresa;
d) diverse misure per favorire la formazione degli adulti; in questo ambito, da
segnalare la previsione di punti di informazione e orientamento per i lavoratori di tutte le età, da creare attraverso la collaborazione tra le parti sociali;
e) definizione di un sistema di accreditamento su base regionale di “valutatori/certificatori” in grado di riconoscere, valutare e certificare le effettive competenze
dei lavoratori, comunque acquisite. Questi valutatori saranno individuati dalle
parti sociali e dai loro Enti bilaterali.
Le linee guida contenute nell’accordo mirano a realizzare condizioni per una formazione che superi le diffuse tendenze all’auto/referenzialità rispondendo alle esigenze dei lavoratori e delle imprese. A questo fine danno un indirizzo unitario per
la realizzazione di intese regionali che prevedano l’utilizzo integrato di tutte le
risorse per la formazione dei lavoratori a favore di progetti formativi di ricollocazione dei lavoratori beneficiari di ammortizzatori sociali e di promozione dell’occupabilità dei soggetti deboli del mercato del lavoro.
Elemento chiave dell’intesa è il rilancio della cabina di regia nazionale per la rilevazione a livello territoriale e settoriale dei fabbisogni delle figure professionali.
L’azione convergente di tutti i soggetti che ne fanno parte non dovrà limitarsi a
fotografare il bisogno presente di professionalità delle imprese, ma prevedere anche
le competenze necessarie per lo sviluppo futuro. Sulla base di questi dati dovranno
agire gli accordi territoriali incrociando processi di riorganizzazione produttiva,
analisi dei fabbisogni formativi, interventi formativi mirati. Ed è sempre a livello
decentrato che si potrà organizzare la necessaria azione di orientamento, utilizzando in maniera combinata le competenze del sistema pubblico dell’impiego e del sistema privato delle agenzie per il lavoro.
Positiva anche la rilevanza, presente in più parti dell’intesa, attribuita alla integrazione scuola-lavoro e cioè alle interrelazioni tra lavoro, formazione e istruzione,
nonché ai processi di integrazione e transizione tra scuola e lavoro. Sarà compito
degli accordi territoriali individuare le sinergie e le risorse necessarie per favorire e
supportare collaborazione e integrazione tra le diverse filiere dell’istruzione e della
formazione per un’offerta formativa sempre più rispondente ai piani di sviluppo dei
territori e dei settori. In questo quadro si pone anche l’indicazione di rilanciare il
contratto di apprendistato nelle sue tre tipologie già previste dalla legge con l’obiettivo di garantire un percorso di formazione a tutti gli apprendisti, mentre oggi il
vincolo della formazione è rispettato solo nel 20% dei casi.
146
In conclusione l’accordo delinea gli elementi di fondo per un sistema nazionale
per la formazione continua con al centro il ruolo decisivo dell’apprendimento in
ambiente di impresa.
I propositi sono ambiziosi e possono comportare notevoli problemi in fase di
attuazione e proprio per questo sarà particolarmente interessante seguirne gli
esiti per verificare il grado di collaborazione che si riuscirà a instaurare tra gli
enti regionali e la parti sociali attraverso un auspicato forte coordinamento di
livello centrale.
Osservazioni conclusive
I lavoratori italiani entrano nel mondo del lavoro con un bagaglio di conoscenze e competenze di base fornito in grande misura dalla scuola e con un bagaglio
professionale in senso stretto solitamente piuttosto scarso.
Il numero di giovani che accede al lavoro dopo un periodo di formazione professionale regionale continua a essere molto limitato. Ciò si deve non solo alle
caratteristiche dei sistemi locali della formazione professionale, e alla loro tradizionale debolezza all’interno del sistema di istruzione, ma anche a versioni
dell’apprendistato meno diffuse ed efficaci di quanto avvenga in altri paesi europei. Infine va notato che il sistema dell’istruzione scolastica valorizza poco l’apprendimento in laboratorio e che l’alternanza scuola-lavoro e i percorsi di transizione dalla scuola al lavoro hanno, al suo interno, ancora debole e incerta cittadinanza.
Questo insieme di circostanze, a differenza di quanto normalmente avviene in molti
paesi UE, spiega anche la scarsa presenza nei luoghi di lavoro di figure professionali dedicate - i tutor aziendali - al sostegno all’inserimento nel contesto lavorativo.
Per i neo-assunti, nella maggioranza dei casi, sono l’ambiente di lavoro (più che
l’organizzazione), e il datore di lavoro (più che il responsabile delle risorse
umane) gli elementi forti che determinano l’apprendimento del lavoro, delle sue
regole, dell’interazione con i processi produttivi, dell’interazione di gruppo, etc.
In questo percorso di “apprendistato atipico”, senza responsabili e senza programmi predefiniti, si costruiscono i punti di forza e di debolezza della “struttura
professionale” dei lavoratori.
L’assenza di dispositivi e politiche per la preparazione e l’inserimento professionale nella fase di ingresso al lavoro, così come nelle transizioni da un lavoro
all’altro, enfatizza il deficit e la necessità di formazione continua per i lavoratori italiani. Costoro devono affrontare difficoltà superiori a quelle presenti in altri
contesti nazionali: di carattere soggettivo, legate alla diffusa impreparazione pro147
fessionale e all’assenza di un metodo di apprendimento; di carattere oggettivo,
dovute alla debolezza dell’offerta formativa per gli adulti e alla scarsa cooperazione tra agenzie formative, scuola, formazione professionale, istruzione di tipo
terziario e mondo del lavoro.
Tutti questi elementi concorrono a spiegare perché in Italia è difficile sviluppare la
formazione continua.
Tendenze del mercato del lavoro in UE al 2020 e livelli di qualificazione delle forze di lavoro
A evidenziare l’urgenza di interventi straordinari (pubblici e privati) per equipaggiare meglio la nostra forza lavoro, stanno le previsioni del CEDEFOP (European
Centre for the Development of Vocational Training) al 2020 (Tabella 29):
• i due terzi dell’occupazione si concentreranno nel settore terziario;
• quasi tutta l’occupazione aggiuntiva e una forte componente di quella sostitutiva saranno caratterizzate da lavori ad alta intensità di conoscenza e competenze tecniche;
• cresceranno i livelli di istruzione/formazione e di competenze richiesti in
tutti i tipi di lavoro, anche delle occupazioni elementari.
A fronte di queste variazioni della domanda, i dati sull’offerta di livelli di qualificazione delle forze di lavoro nel nostro paese denotano tendenze allarmanti se
confrontati sia con la media europea, sia con i paesi più vicini a noi per dimensione della forza lavoro, come Germania e Francia.
Le proiezioni CEDEFOP al 2020 segnalano che l’Italia:
• sarà il paese (con il Portogallo) col peso più alto di forze di lavoro con bassi
livelli di qualificazione (37,1% contro la media UE-25 del 19,5%);
• avrà un relativo allineamento alla media europea sui livelli intermedi
(45,4% contro 48,5% dell’UE);
• avrà una carenza fortissima di forze di lavoro altamente qualificate (17,5%
contro il 32% della UE).
In questo scenario, l’Italia si troverebbe in una situazione di grave deficit professionale, con carenza di profili tecnici e specialistici in molti campi, deficit che
comprometterebbe le dinamiche di sviluppo e la propria capacità competitiva.
Va tenuto presente inoltre che non si può certo contare su un possibile rapido
miglioramento del nostro sistema scolastico e nemmeno sul processo di scolarizzazione di più ampi strati della popolazione.
Infatti i processi di sostituzione delle competenze professionali obsolete con competenze più aggiornate saranno problematici e lenti anche per uno squilibrio
demografico accentuato. L’Italia si caratterizza infatti per il basso tasso di natalità. I circa 400.000 giovani che ogni anno concludono gli studi secondari (di cui
una parte consistente non si colloca nel mercato del lavoro, ma prosegue gli studi
a livello terziario) rappresentano solo l’1,5% del totale delle forze di lavoro.
Nessuna riforma del sistema di istruzione scolastico potrà avere a breve e medio
termine effetti positivi sul capitale umano dell’apparato produttivo e dei servizi.
148
Tabella 29
Livelli di qualificazione della forza lavoro con più di 15 anni in UE-25
al 2000, 2007 e previsioni al 2020 secondo il CEDEFOP
Livelli di qualificazione
Anno
Francia
Germania
Italia
UE-25
Forze di lavoro con bassi
livelli di qualificazione
2000
2007
2020
34,5
30,1
20,8
19,2
19,6
20,0
50,8
45,2
37,1
32,6
28,0
19,5
Forze di lavoro con medi
livelli di qualificazione
2000
2007
2020
43,0
43,3
44,6
59,7
57,2
49,9
40,0
42,0
45,4
47,5
48,2
48,5
Forze di lavoro con alti
livelli di qualificazione
2000
2007
2020
22,5
26,6
34,6
21,1
23,1
30,1
9,2
12,8
17,5
19,9
23,8
32,0
Fonte: CEDEFOP 2009
L’indice di competitività delle Regioni europee
La Commissione Europea ha pubblicato la prima edizione dell’indice di competitività regionale (RCI) sul sito
http://ec.europa.eu/dgs/jrc/index.cfm?id=1410&obj_id=11500&dt_code=NW
S&lang=en. Ispirato al Global Competitiveness Index del World Economic Forum
(WEF), l’indice cattura, in undici pilastri e quasi settanta variabili, la competitività delle regioni europee.
Le componenti dell’indice di competitività delle regioni europee vengono individuate in 11 “pilastri”:
• di base
1. istituzioni
2. stabilità macroeconomica
3. infrastrutture
4. sanità
5. qualità dell’istruzione primaria e secondaria
• di efficienza
6. formazione/istruzione superiore e lifelong learning
7. efficienza del mercato del lavoro
8. dimensioni del mercato
• di innovazione
9. reattività/prontezza tecnologica
10. livello di complessità del mondo degli affari
11. capacità innovativa
149
Il concetto di competitività si è evoluto in tempi recenti. Inizialmente concepito e disegnato per la valutazione delle imprese, è stato in seguito esteso alla
riuscita dei paesi, come accade con l’indice del Wef e in altri descritti nel rapporto della Commissione. L’indice regionale tenta di rispondere a importanti
domande, quali ad esempio se sia maggiore la varietà all’interno dei paesi o quella fra paesi, quale sia il livello di eterogeneità delle regioni europee e quali siano
i fattori che determinano queste differenziazioni.
Complessivamente, sono state analizzate 268 regioni appartenenti alla Comunità
(Figura 21).
I dati utilizzati provengono per la maggior parte da EUROSTAT, l’ufficio statistico dell’Unione Europea, ma anche dall’Organizzazione per la cooperazione e
lo sviluppo economico (OCSE), in particolare per quanto riguarda l’efficacia del
sistema educativo di base (PISA) e i brevetti. Altre variabili provengono dalla
Banca Mondiale (Indicatori di Governance Globale, il Doing Business Index).
Figura 21
Distribuzione geografica dell’indice di competitività delle Regioni europee.
0 ~ 16
16 ~ 33
33 ~ 50
50 ~ 66
66 ~ 83
83 ~ 100
FOntE: Rilevazione forze di lavoro (ISTAT 2009)
150
La posizione dell’Italia
Come se la cava l’Italia? Chi si aspettasse di vedere almeno alcune ragioni italiane nel pacchetto delle migliori, rimarrebbe deluso.
I valori dell’indice RCI variano fra zero e cento, e le regioni italiane non vanno oltre
la quarta banda di colore della figura, corrispondente a valori fra il 49,5 e il 66
(Lombardia, Piemonte, Emilia Romagna, Toscana, Veneto, Lazio e Liguria).
Ma cosa frena le regioni italiane storicamente considerate come le più competitive?
Quali sono i fattori che incidono di più?
Sicuramente i fattori che descrivono la qualità delle istituzioni, così come percepita
dai cittadini, e l’efficacia del sistema educativo di base (fino alla scuola secondaria di
primo livello), in termini di capacità acquisite dagli studenti.
Altri pilastri, quelli che descrivono il mercato del lavoro e il livello di sofisticazione e
innovazione del sistema produttivo, sono caratterizzati da un’elevata eterogeneità tra
le regioni, con una separazione tra quelle del Nord e quelle del Sud.
Se poi conduciamo l’analisi per i singoli pilastri, troviamo spesso le regioni del Sud
Italia nelle ultime posizioni rispetto a tutte le regioni europee. Le regioni meridionali ottengono un basso punteggio (inferiore al decimo percentile) in particolare nei
pilastri che descrivono il livello d’istruzione e di apprendimento permanente della
forza lavoro e l’efficienza del mercato del lavoro.
151
BOX 5
IL LIBRO BIANCO DEL MINISTERO DEL LAVORO
SUL FUTURO MODELLO SOCIALE (2009)
Sono interessanti e in generale condivisibili alcuni orientamenti di fondo, venuti a maturazione anche a
livello politico, contenuti nel Libro Bianco sul futuro del modello sociale “La vita buona nella società attiva”
(maggio 2009), del ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali, di cui riportiamo alcuni stralci:
http://www.lavoro.gov.it/NR/rdonlyres/376B2AF8-45BF-40C7-BBF0-F9032F1459D0/0/librobianco.pdf.
“[…] La parola lavoratore non identifica più il titolare di un contratto di lavoro dipendente […] sempre
più il percorso lavorativo è segnato da cicli in cui si alternano fasi di lavoro indipendente e autonomo intervallati da forme di lavoro intermedie e/o da periodi di formazione e riqualificazione professionale […] Oggi
una persona è in frequente transizione da un’occupazione all’altra [...] allora da una concezione statica di
tutela del singolo posto di lavoro si deve definitivamente passare alla promozione della occupabilità della
persona […] con una maggiore attenzione al potenziamento delle competenze del lavoratore tale da consentirgli di gestire al meglio le criticità nelle transizioni occupazionali. […]
Lo statuto dei lavori […] Tre sono i diritti fondamentali del lavoro: salute e sicurezza / apprendimento continuo / equa remunerazione. […]
L’effettivo accesso all’apprendimento […] il continuo aggiornamento in tutti gli stati della vita è indispensabile per rimanere al passo con i mutamenti dell’economia e del mercato del lavoro. […]
Si evidenziano tre linee di riforma del tradizionale sistema di formazione [...] In primo luogo il lavoro deve
essere considerato parte essenziale di tutto il percorso educativo di una persona. In secondo luogo l’impresa, l’ambiente produttivo appaiono il contesto più idoneo per lo sviluppo della professionalità. Infine, la
certificazione formale deve interessare la reale verifica delle conoscenze, delle competenze e delle esperienze di un lavoratore a prescindere dai corsi frequentati. […]
[…] Centrale la valenza educativa e formativa del lavoro che si esalta attraverso un’integrazione
sostanziale tra sistemi educativi e formativi e il mercato del lavoro, valorizzando modelli di
apprendimento in assetto lavorativo (come il contratto di apprendistato) che possano consentire non soltanto la professionalizzazione (un mestiere) ma anche l’acquisizione di titoli di studio di livello secondario o terziario,
compresi i dottorati di ricerca. […]”
Per realizzare queste finalità si debbono affrontare alcune obiettive difficoltà.
In primo luogo non è possibile ignorare che l’attività formativa rappresenta per le imprese (soprattutto per
quelle più piccole) un costo non solo “economico” ma anche “organizzativo”.
In secondo luogo la valorizzazione del lavoro come dimensione dell’apprendimento pone alcune domande
cui è necessario dare risposte puntuali:
• a quali condizioni gli ambienti di lavoro sono realmente formativi?
• a quali condizioni e con quale interesse le imprese (e specialmente quelle piccole) possono svolgere un ruolo formativo utile alla collettività, in caso di finanziamenti pubblici?
152
Le principali difficoltà che ostacolano le imprese a svolgere l’attività formativa sono:
a) acquisire informazioni certe e precise in merito alle normative di riferimento, alle opportunità di
finanziamento disponibili e alle relative modalità di accesso e utilizzo è un costo, e già questo limita la propensione di un’impresa a praticare la formazione;
b) la fase di preparazione e presentazione delle proposte così come la fase di gestione, rendicontazione e verifica, sono adempimenti di ordine normativo e burocratico/amministrativo che condizionano
fortemente la “disponibilità formativa” delle imprese;
c) la difficoltà di distogliere propri dipendenti dall’attività lavorativa per consentirne la partecipazione
a percorsi formativi è particolarmente critica per le imprese di minori dimensioni;
d) i tempi eccessivamente lunghi che intercorrono tra la presentazione della proposta formativa e le
successive fasi di approvazione, finanziamento e realizzazione. Si determinano così una notevole sfasatura tra la rilevazione del fabbisogno professionale e formativo e il momento in cui viene fornita la
risposta (il lavoratore formato).
Per realizzare gli orientamenti strategici del Libro Bianco è necessario dare risposte alle domande formulate e incentivare le imprese a superare le resistenze e gli ostacoli che oggettivamente incontrano.
153
Le proposte di TreeLLLe
I dati presentati collocano l’Italia tra gli ultimi posti in Europa rispetto all’utilizzo
della formazione continua. Per modificare questa situazione TreeLLLe formula le
seguenti proposte.
Proposta 19: pervenire a un sistema di qualifiche professionali condivise da
tutte le Regioni con riferimento esplicito al quadro europeo delle qualifiche EQF
Per rendere più agili le possibilità di mobilità all’interno del nostro paese e da
un paese all’altro dell’Unione Europea il Parlamento e il Consiglio dell’UE
hanno approvato una raccomandazione che invita ciascuno stato membro a realizzare entro il 2010 una correlazione tra il proprio sistema di qualifiche e il quadro europeo EQF.
Nel caso dell’Italia, dal 2006 si sta cercando di costruire un sistema nazionale di
standard minimi professionali e di standard formativi e di individuare le modalità
per il loro riconoscimento e certificazione. Fino ad oggi ci si è imbattuti in numerose difficoltà che hanno ostacolato i lavori. Questo tema viene ripreso dall’accordo
del 17 febbraio 2010 tra Ministero, Regioni e parti sociali, che rilancia il Sistema
nazionale di standard. Nello stesso accordo si assegna al “Libretto Formativo del
Cittadino” (DL 276/2003) un ruolo sperimentale di registrazione delle competenze
da utilizzare anche con il coinvolgimento degli organismi bilaterali delle parti
sociali. Il Libretto non è ancora uno strumento di certificazione delle competenze,
ma semplicemente un documento che rende trasparenti le attività professionali e i
percorsi di apprendimento di un lavoratore. TreeLLLe auspica che queste indicazioni si traducano progressivamente in realtà, in modo da arrivare a definire un sistema di qualifiche nazionali condivise da tutte le Regioni, con riferimenti espliciti al
quadro europeo delle qualifiche EQF.
Proposta 20: realizzare politiche pubbliche di formazione continua fondate sui
bisogni espressi dal mondo del lavoro e costruite sulle specificità territoriali
Il mondo del lavoro deve essere molto più tempestivo e più chiaro nell’indicare
quali sono i fabbisogni di “mestieri” nel breve e nel medio periodo in modo da favorire il migliore incontro fra la domanda e le politiche di formazione. Si tratta di
politiche da definire soprattutto nel territorio d’intesa con le parti sociali e tenendo
conto delle situazioni di filiera, distretto, area, reti d’impresa, etc.
Proposta 21: prevedere il coordinamento, auspice il ministero del Lavoro, tra
Regioni e parti sociali, per evitare sovrapposizioni e inutili forme di concorrenza nell’offerta di formazione e dare luogo ai previsti Osservatori regionali sulla
formazione continua
Si tratta di ripartire ruoli e missioni tra pubblico (Stato, Regioni ed Enti locali) e
parti sociali (imprese e sindacati). In generale, l’intervento pubblico dovrebbe concentrarsi su disoccupati e inoccupati, che hanno maggiori difficoltà a partecipare ad
154
attività di formazione, mentre la formazione degli occupati dovrebbe essere organizzata e gestita dalle parti sociali attraverso i Fondi Interprofessionali e attraverso
le risorse che le imprese e gli individui investono autonomamente.
Proposta 22: rafforzare e/o creare sul territorio una rete di centri di informazione e orientamento (pubblici e privati) per gli individui (con particolare riferimento alle fasce più deboli) sulle opportunità formative e di lavoro
I recenti accordi siglati in materia tra Ministero del Lavoro, Regioni e parti sociali
possono al riguardo costituire un buon avvio. Tra le iniziative di sistema previste,
una funzione cruciale va attribuita a due azioni:
• a monte, un sistema di orientamento/accompagnamento capace di intercettare e/o
favorire la diversificata domanda formativa degli adulti;
• a valle, un sistema di rilevazione dei fabbisogni di competenze professionali, incentrato
sul ruolo centrale delle Parti sociali (per la conoscenza diretta del mercato di cui
sono portatori), che orienti l’offerta formativa verso le effettive esigenze di lavoratori e imprese. Affinché questo non dia luogo a un inutilizzato repertorio di
studi e ricerche è necessario che i sistemi di rilevazione siano collegati a credibili sistemi di monitoraggio e valutazione dell’efficacia della formazione realizzata.
Proposta 23: promuovere servizi di informazione e di assistenza per le piccole
imprese (segnatamente da parte delle associazioni datoriali locali) affinché queste
siano consapevoli delle opportunità esistenti per realizzare attività formative per i
piccoli imprenditori e i loro dipendenti.
Proposta 24: creare nei luoghi di lavoro condizioni che incentivino la partecipazione dei lavoratori alle attività formative, inserendo la valutazione positiva della
loro partecipazione come uno degli elementi dello sviluppo di carriera e di retribuzione.
Proposta 25: favorire gradualmente lo sviluppo di diritti contrattuali dei lavoratori dipendenti per periodi di congedo remunerato a fini formativi, liberamente scelti dai singoli o concordati con le imprese
Proposta 26: formare e utilizzare “ambasciatori dell’apprendimento” sui luoghi di lavoro
Le aspirazioni ad apprendere sono molto basse e le difficoltà oggettive sono consistenti: famiglie, tempo, costi, incertezza sui ritorni. I low skilled hanno bisogno
di incoraggiamento ed esempi positivi di altri che hanno partecipato con successo
a corsi precedenti. Esperienze positive di intermediari, “ambasciatori dell’apprendimento”, anche rappresentanti sindacali, favoriscono lo svilupparsi di una cultura
dell’apprendimento sui luoghi di lavoro. Questi intermediari possono essere
volontari o retribuiti. Si veda il successo dell’esperienza degli “Union Learning
Representatives” (URLs) in Inghilterra.
155
Proposta 27: ripensare e valorizzare il concetto di “impresa formativa”
In prima istanza si potrebbe pensare ad alcune caratteristiche che garantiscano:
• un ambiente rispettoso delle normative di legge e di contratto, specie in
campo di salute e sicurezza;
• la presenza di personale dedicato ad attività di tutoraggio;
• un investimento costante in formazione continua;
• la capacità di attestare le competenze professionali specifiche.
Attribuire quindi alle “imprese formative” (in generale le medie e le grandi) la possibilità di attestare le competenze professionali acquisite nei luoghi di lavoro (in
USA si parla di”micro-credentials”). Questi riconoscimenti non vanno confusi con
titoli o qualifiche formali. Per le piccole imprese attribuire analoga possibilità alle
Camere di commercio, alle Associazioni territoriali e di categoria degli industriali
e agli Enti bilaterali.
Bibliografia
Commissione di studio e di indirizzo sul futuro della formazione in Italia,
“Rapporto sul futuro della formazione in Italia”, Roma, 2009.
Pellegrini C. e Frigo F., La formazione continua in Italia. Indagini nazionali ed
internazionali a confronto, Milano, F. Angeli, 2007.
Rapporto ISFOL 2009, “Lo scenario economico internazionale: crisi finanziaria, mercato del lavoro e capitale umano.
156
Box 6
LA FORMAZIONE CONTINUA NEI PAESI BASSI
Il contesto
Per meglio comprendere le politiche relative alla formazione continua e i dispositivi messi in atto in proposito, è necessario in primo luogo descrivere il contesto generale.
Nei Paesi Bassi, è in vigore da anni un sistema trilaterale, basato sul principio secondo cui i protagonisti
del mondo del lavoro sono le parti sociali. Lo Stato ha la responsabilità dell’educazione iniziale, fino al
livello universitario, mentre per quanto riguarda la formazione continua ha il compito di creare le condizioni per l’apprendimento per tutto il corso della vita, ma non è tenuto né a finanziarlo, né a organizzarlo. Lo Stato si occupa invece dei cittadini che si trovano al di fuori del mercato del lavoro.
Una seconda importante caratteristica della situazione dei Paesi Bassi è data dalla divisione dei compiti
all’interno delle organizzazioni delle parti sociali: le organizzazioni a livello nazionale discutono con il
governo le politiche su scala nazionale (in discussioni informali o attraverso il Consiglio Economico
Sociale trilaterale) e discutono solo raccomandazioni per le organizzazioni di settore delle imprese e dei
lavoratori (nella Fondazione del Lavoro bipartita). Questo significa che non c’è un processo collettivo di
contrattazione a livello nazionale, ma solo a livello settoriale e solo per le grandi compagnie a livello di
impresa.
Un terzo importante principio è il riconoscimento, anche da parte dei sindacati, del fatto che la formazione continua, seppur orientata all’acquisizione di competenze professionali, è responsabilità non solo dell’impresa, ma anche del lavoratore. Il datore di lavoro ha il dovere di offrire opportunità e occasioni di formazione continua, ma sempre più ci si aspetta che sia il lavoratore a prendere l’iniziativa per sviluppare
il proprio potenziale e mantenere il proprio patrimonio di occupabilità.
In conclusione, coerentemente con la politica generale descritta, non esiste alcuna legge che stabilisca
l’obbligo della formazione continua, né per le imprese, né per i lavoratori. Tuttavia, entrambe le parti
hanno ben chiaro che la formazione continua è una condizione necessaria per la competitività dell’impresa e per l’occupabilità del lavoratore.
Dietro questo sistema c’è una filosofia, diffusa tra i maggiori partiti, secondo cui lo Stato deve essere
snello ed efficiente, e deve intervenire solo nei casi in cui gli individui o le imprese non possono assumersi da soli tutta la responsabilità. Inoltre, l’approccio decentrato, con focus sui livelli di settore e di
impresa, si basa sulla consapevolezza del fatto che le situazioni nei vari settori possono essere molto
diverse, e che difficilmente misure a livello nazionale possono soddisfare esigenze diverse tra loro. Il concetto di responsabilità del lavoratore si lega al fatto che la formazione continua non è più solo correlata
al lavoro o all’impresa come era negli scorsi decenni.
Oggi le abilità generali (relative ad esempio alla tecnologia dell’informazione) sono sempre più oggetto di
formazione continua e devono raggiungere standard nazionali e internazionali. Le qualifiche professionali acquisite tendono a rispondere ai cambiamenti del mondo del lavoro in generale e non solo all’occupabilità all’interno dell’impresa. Il riconoscimento della responsabilità dell’individuo non è una prerogativa
dei soli Paesi Bassi, ma rientra in una tendenza internazionale (si vedano per esempio: il quadro d’azione UE per l’apprendimento per tutto il corso della vita e le raccomandazioni ILO sullo sviluppo delle
Risorse Umane n. 195, Ginevra, 2004).
Dati
Nei Paesi Bassi, il National Institute of Statistics stima che circa il 2,5% della spesa salariale sia investito
per la formazione continua (comprendendo lo 0,5-1% di prelievo dal monte salari, più i sei giorni medi previsti per la formazione continua dai vari contratti collettivi di lavoro). Le grandi imprese spendono più delle
157
piccole e si rilevano differenze anche tra i diversi settori. Per esempio, i settori tecnici e finanziari investono nella formazione continua più dei settori dei servizi e del commercio.
I Fondi per la formazione e lo sviluppo di settore costituiscono importanti meccanismi a sostegno della formazione continua. Esistono circa 100 Fondi, il cui consiglio di amministrazione è bilaterale: imprese e sindacati. Sono finanziati dalle parti sociali, sulla base di un capitolo del contratto collettivo e di una trattenuta sui salari che, secondo tale accordo, oscilla tra lo 0,5% e l’1% del salario. Le imprese ricevono da tale
fondo un contributo per i loro costi relativi alla formazione. Alcuni Fondi hanno le loro strutture di formazione. La maggior parte dei Fondi investe anche nella ricerca sullo sviluppo del settore, sui nuovi profili professionali e sui necessari cambiamenti nelle qualifiche. Nei settori tecnici, il Fondo può anche promuovere
corsi di scienze e tecnologia per gli studenti di scuola secondaria superiore.
Nel contratto collettivo, sono descritti i diritti relativi alla formazione in termini di giorni all’anno (per esempio, nel settore elettro-metallurgico sono previsti due giorni di formazione all’anno) o in termini di budget
a disposizione della singola persona che ciascun lavoratore può decidere di destinare a un programma di
sviluppo professionale di sua scelta (per esempio, 1000 euro l’anno nel contratto della compagnia telefonica KPN; 750 euro in 3 anni per gli impiegati di piccole e medie imprese nell’industria metallurgica). Dei
115 contratti collettivi esaminati nel 2008, 18 contenevano un budget per lo sviluppo personale del singolo lavoratore. Un’altra modalità di gestire la formazione continua è in termini di responsabilità condivisa:
per esempio, nel settore bancario, il contratto prevede che il tempo dedicato alla formazione sia per il 50%
preso dal tempo libero del lavoratore, e per il 50% preso dal tempo lavorativo.
Lo Stato è coinvolto perché le spese per la formazione sono deducibili dalla tassazione.
Punti forti
L’approccio decentrato, basato su punti liberamente concordati a livello di settore o di area, tra sindacati e
organizzazioni di imprese. Questo rende gli accordi adeguati alle esigenze dei settori coinvolti. Un sistema
a livello nazionale non sarebbe in grado di differenziare in modo sufficiente le esigenze dei diversi settori.
Per le piccole e medie imprese, è molto importante il sostegno dato dai Fondi, perché le piccole e medie
imprese non hanno un ufficio delle risorse umane in grado di sviluppare e organizzare la formazione.
Punti deboli
I settori che non dispongono di un contratto nazionale non beneficiano di tale sistema di formazione.
Il sistema non impedisce che alcune imprese non forniscano formazione, né che parte dei lavoratori non
si impegni nella formazione.
Sviluppi recenti
Si segnala la tendenza a responsabilizzare il lavoratore mediante una forma di budget individuale per la
formazione. Tale tendenza si collega alla crescente richiesta di abilità più generali e qualifiche riconosciute a livello nazionale, anziché abilità specifiche di un determinato lavoro o di una specifica impresa. Si stanno sperimentando forme di credito personale per la formazione, voucher, budget per lo sviluppo personale, e tutte queste iniziative stanno ottenendo risultati positivi, soprattutto tra i lavoratori meno qualificati.
Sono soprattutto i lavoratori meno qualificati che risultano più motivati dal fatto di poter scegliere in prima
persona, seguendo determinate regole ma con un ampio spettro di possibilità, i corsi che ritengono più
interessanti.
Un elemento importante tra le misure per combattere la crisi economica è la possibilità di una disoccupazione part-time, legata a un sussidio di disoccupazione part-time. Una delle condizioni è che le compagnie
che godono di tale possibilità siano obbligate a formare i lavoratori che si trovano in stato di disoccupazione part-time. L’idea alla base di questa iniziativa è duplice: si vuole evitare l’uscita dal mondo del lavoro di personale qualificato, di cui si avrebbe immediato bisogno nel momento in cui l’economia si risollevasse, e al tempo stesso si vuole aumentarne la professionalità.
158
4.2.2 I Fondi interprofessionali gestiti dalle parti sociali
La collaborazione tra le parti sociali: caratteri e potenzialità dei Fondi
I Fondi interprofessionali per la formazione continua trovano le loro origini nella
storia del dialogo sociale e negli accordi tra governo, imprese e sindacati che li
hanno generati fino a trovare compimento nella Legge Finanziaria per il 2001
con cui sono stati istituiti (articolo 118 della Legge n. 2000/388).
Il merito di aver aperto, alla fine degli anni ’80, il dibattito sulla formazione in
età adulta, superando il concetto della separazione nella vita dell’individuo tra
tempo di studio e tempo di lavoro, va all’Unione Europea. È ancora a livello
europeo che viene coniata per la prima volta l’espressione “Parti Sociali”. Tale
espressione ha un significato fondamentale: sindacati e imprese non vengono più
visti come irriducibili “nemici di classe” ma come possibili partner sociali. Non
si tratta solo di una variazione semantica ma di una vera e propria evoluzione del
contesto culturale delle relazioni industriali. Tra imprenditori e lavoratori è possibile sviluppare azioni cooperative e forme di partenariato. Ed è proprio la formazione in età adulta, e segnatamente dei lavoratori occupati, il terreno elettivo che rende evidente come tra rappresentanti dei lavoratori e rappresentanti
delle imprese vi siano terreni di comune interesse.
In Italia questo clima nelle relazioni industriali trova un’occasione di manifestazione concreta nel Protocollo tra Governo, Confindustria e Confederazioni
Sindacali del 23 luglio 1993. In questa intesa trilaterale, per la prima volta viene
formalizzato l’impegno ad “attivare gli interventi necessari a migliorare l’efficienza
dei sistemi di istruzione e formazione, a valorizzare il ruolo delle parti sociali, a rideterminare, a favore della formazione continua, la destinazione delle risorse finanziarie provenienti dal prelievo a favore dell’INPS dello 0,30% sul monte salari”.
È proprio su questo terreno che nascono i fondi interprofessionali.
Le potenzialità dei Fondi sono infatti:
a) riservare particolare attenzione alle necessità delle imprese e dei lavoratori;
b) elevare il grado di personalizzazione dei piani formativi con maggiore flessibilità nella scelta delle metodologie di formazione;
c) assegnare ed erogare le risorse in modo tempestivo;
d) operare per l’innalzamento della qualità e dell’efficacia della formazione continua da loro finanziata. Questo obiettivo si realizza, innanzitutto, prevedendo
che nei piani formativi siano proposti obiettivi chiari e misurabili su cui realizzare una valutazione effettiva e ricorrente dei risultati formativi;
e) creare le condizioni per la crescita di un diffuso tessuto di fornitori specializzati nell’erogazione della formazione. Le aziende devono infatti poter
159
conoscere e scegliere, in regime di reale concorrenza, le professionalità più
adeguate alle tipologie di formazione che intendono realizzare;
f) generare ricadute positive in termini di riconoscimento di elementi retributivi, anche sulla base di intese tra le parti sociali, se la formazione continua consente effettivamente ai lavoratori destinatari di concorrere all’incremento della produttività delle imprese di appartenenza.
Cosa sono i Fondi interprofessionali
Ruolo e dimensioni dei Fondi interprofessionali
I Fondi interprofessionali, istituiti con l’art. 118 della L. 388/2000, hanno il compito di sviluppare la formazione professionale continua in un’ottica di competitività delle imprese e di occupabilità dei lavoratori, in coerenza con la programmazione regionale e con le funzioni di indirizzo del ministero del Lavoro.
La norma istitutiva ha previsto che i Fondi possano essere costituiti su base paritetica mediante accordi stipulati tra le organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e
dei lavoratori maggiormente rappresentative sul piano nazionale (attualmente sono
stati riconosciuti dal ministero del Lavoro 18 Fondi interprofessionali).
I Fondi possono finanziare, in tutto o in parte, piani formativi aziendali, territoriali,
settoriali o individuali concordati tra le parti sociali, con le risorse provenienti dal
contributo obbligatorio dello 0,30%, stabilito dalla L. 845/1978, versato dai datori
di lavoro con le denunce contributive mensili e trasferite ai Fondi stessi dall’INPS.
Le aziende hanno infatti la facoltà di scegliere se lasciare che tale contributo sia
dall’INPS trasferito, secondo la normativa già vigente, al ministero del Lavoro e al
ministero dell’Economia oppure chiedere all’INPS di veicolarlo a uno dei Fondi
interprofessionali costituiti, dal quale potranno ricevere il finanziamento dei piani
formativi per i propri dipendenti con le modalità che esso avrà adottato.
A partire dal 2007, conclusa la precedente fase di promozione, i Fondi interprofessionali hanno avviato la propria autonoma programmazione.
I 18 Fondi interprofessionali costituiti ed autorizzati dal ministero del Lavoro
hanno un bacino complessivo di oltre 524.000 adesioni (per matricola INPS) e rappresentano più di 6,7 milioni di lavoratori dipendenti (Rapporto ISFOL 2009).
Il triennio 2007-2009 si è caratterizzato per l’elevato livello di crescita registrato dai Fondi: nelle previsioni aggiornate dell’INPS per il 2009 le aziende aderenti versano ai Fondi quasi 500 milioni annui, che rappresentano più del 61%
del gettito complessivo del contributo dello 0,30%, pari a circa 805 milioni.
I Fondi più importanti sono:
a) Fondimpresa (industria e servizi), con versamenti 2009 superiori ai 200
milioni di euro, raccoglie oltre il 40% del totale dei Fondi e poco meno del
25% dell’intero 0,30%;
b) For.Te (commercio, turismo, servizi, trasporti) con più di 100 milioni di euro;
c) Fondo Banche e Assicurazioni con circa 40 milioni di euro;
d) Fondo Artigianato Formazione con circa 34 milioni di euro.
160
Il monitoraggio effettuato dell’ISFOL evidenzia che alla fine del 2008 sono oltre
10.000 i piani formativi finanziati dai Fondi, con oltre 57.000 aziende beneficiarie e 1,1 milioni di lavoratori in formazione, con la tendenza a un forte incremento delle iniziative formative finanziate.
La questione dell’autonomia dei Fondi
Le successive modifiche apportate dalla L. 388/2000, che costituisce la legge istitutiva dei
Fondi, non hanno ancora condotto a un assetto normativo che riconosca pienamente ai
Fondi il ruolo di soggetto “privato” che opera, con regole autonome, per la finalità di interesse generale di sviluppo della formazione per le aziende aderenti e per i loro lavoratori.
Purtroppo restano ancora disciplinati come obbligo di legge, per cui i finanziamenti erogati dai Fondi sono assimilati ai contributi pubblici e quindi considerati veri e propri “aiuti di Stato”, con la sola eccezione più avanti illustrata.
Questa condizione limita fortemente l’autonomia delle parti sociali nella definizione delle modalità e degli strumenti operativi più idonei per la realizzazione
dei piani formativi nelle aziende aderenti.
Sia i Fondi che le aziende aderenti devono infatti rispettare i noti e pesanti vincoli, non solo procedurali, imposti dalla normativa comunitaria e nazionale in
materia di sovvenzioni alla formazione (ad esempio, la rendicontazione secondo
le regole della contabilità pubblica, estranea alla cultura d’impresa; i limiti massimi di contributo per azienda con l’obbligo di un apporto privato; l’esclusione
delle imprese in difficoltà, che spesso hanno maggiore bisogno di formazione, e
delle aziende che non hanno ancora restituito le agevolazioni ritenute indebite
dalla CE, come gli sgravi ai contratti di formazione e lavoro).
La criticità connessa all’applicazione della normativa sugli aiuti di Stato è particolarmente presente nelle iniziative formative di carattere più generale (territoriale, settoriale, di rete, tematico, etc.), che si realizzano per lo più con avvisi pubblici e hanno finalità di riequilibrio tra le imprese aderenti, secondo lo spirito
mutualistico proprio dei Fondi.
Solo tramite avvisi, inoltre, i Fondi possono promuovere e finanziare quei piani
che prevedono l’aggiornamento e lo sviluppo delle competenze dei lavoratori e
la loro occupabilità in una dimensione non strettamente aziendale, bensì territoriale e settoriale, di rete o di filiera, particolarmente necessaria per dare una
risposta efficace alle situazioni di crisi.
Di qui la necessità che venga al più presto superato il vigente quadro normativo che impone il rispetto della disciplina pubblica degli aiuti di Stato. Ciò presuppone l’adozione di
un provvedimento che sancisca un modello completamente “autonomo” di funzionamento dei
Fondi, disciplinato esclusivamente dagli statuti adottati dalle parti sociali.
Attualmente sono invece esclusi dal regime degli aiuti di Stato solo i finanziamenti riconosciuti dai Fondi alle singole imprese aderenti, in proporzione diretta ai contributi versati, per realizzare i loro piani formativi aziendali.
Questo è il caso del Conto Formazione aziendale realizzato da Fondimpresa e
161
Fondirigenti, costituiti da Confindustria rispettivamente con CGIL, CISL, UIL e
Federmanager. Con tale Conto, la singola azienda ritrova accantonato il 70% del contributo versato all’Inps, e lo può utilizzare con la massima agilità, di modi e tempi,
per il finanziamento della formazione dei propri dipendenti.
La diretta destinazione del 70% delle risorse versate alle singole aziende aderenti, che
si sta progressivamente estendendo anche ad altri Fondi, rappresenta comunque una
decisa inversione di rotta rispetto alla tradizionale politica pubblica che tende a finanziare quasi esclusivamente le proposte di formazione degli enti e delle agenzie accreditate dalle Regioni.
In questo caso, infatti, i finanziamenti non sono assegnati con criteri di selettività e di
discrezionalità e costituiscono una mera restituzione all’azienda dei versamenti che
essa ha effettuato al Fondo: il piano formativo viene presentato direttamente dall’impresa interessata e non è soggetto a valutazione di merito e comparazione con altri
piani; il contributo erogato dal Fondo per la realizzazione del piano viene prelevato
esclusivamente dalle risorse versate al Fondo dall’azienda.
Con questo nuovo meccanismo di ripartizione delle risorse è stata ripristinata la centralità della domanda delle imprese in materia di formazione continua.
Va inoltre precisato che le aziende sono poste nella condizione di poter scegliere a
quale Fondo aderire, senza alcuna preclusione derivante dal settore produttivo di
appartenenza, in ragione esclusivamente delle modalità operative fissate da ciascuno e
pertanto possono scegliere anche di variare la propria adesione preferendo il tipo di
servizio offerto da un altro Fondo.
Questa possibilità è stata recentemente rafforzata dalla disciplina della “portabilità”, che
ha recepito le richieste avanzate da Confindustria e CGIL-CISL-UIL.
L’introduzione della normativa che consente alle aziende la “portabilità” dei propri
versamenti in caso di trasferimento dell’adesione a un nuovo Fondo ha rafforzato infatti la correlazione tra impresa aderente e contributi da essa versati, già richiamata dalla norma
istitutiva dei Fondi.
La modalità descritta del Conto Formazione, pur rivestendo una rilevanza notevole per
favorire l’accesso delle aziende ai finanziamenti per la formazione non può esaurire la
strumentazione necessaria a tale fine.
Il completamento dell’assetto normativo e funzionale dei Fondi diventa tanto più
importante nel momento in cui il costante aumento del peso dei Fondi nel sistema
nazionale della formazione continua si accompagna a una progressiva e non reversibile riduzione delle risorse comunitarie destinabili alla formazione.
In questo scenario, i Fondi interprofessionali hanno la possibilità di concorrere in
modo significativo al rilancio, attraverso lo strumento della formazione continua,
della competitività delle imprese e dell’occupabilità dei lavoratori.
Una volta riconosciuta la loro piena autonomia operativa, per la loro natura bilaterale i Fondi possono dare più rapida attuazione, secondo criteri di semplicità e snellezza, agli accordi sindacali che si attivano a tutti i livelli per la riqualificazione e l’adeguamento delle competenze dei lavoratori a rischio di perdita del posto di lavoro,
162
anche con forme di sostegno al reddito mirate a favorire la partecipazione alla formazione.
Inoltre, se la formazione continua consente effettivamente ai lavoratori destinatari di
concorrere all’incremento della produttività delle imprese di appartenenza, allora essa
può generare ricadute positive anche in termini di riconoscimento di elementi retributivi sulla base di intese tra le parti sociali.
Nei diversi ambiti territoriali l’azione dei Fondi può inoltre creare le condizioni per
la crescita di un diffuso tessuto di fornitori specializzati. Le aziende devono infatti poter
conoscere e scegliere, in regime di reale concorrenza, le professionalità più adeguate
alle tipologie di formazione che intendono realizzare.
Rapporto fra i Fondi e il governo pubblico della formazione
Al forte incremento delle adesioni e delle attività dei Fondi corrisponde sinora
un basso livello di attenzione loro riservato da parte del sistema pubblico di governo della formazione.
Il ministero del Lavoro ha concentrato il proprio impegno sullo sviluppo del
sistema informativo di monitoraggio dei piani formativi finanziati dai Fondi ma
non ha emanato indirizzi per il coordinamento delle politiche della formazione
continua, e il previsto Osservatorio nazionale per la formazione continua non è
ancora realmente funzionante.
Il raccordo con la programmazione regionale si è di fatto limitato alle comunicazioni trasmesse dai Fondi sulle attività da loro finanziate e non si è ancora realizzato un collegamento virtuoso tra le forme di intervento e di finanziamento
alla formazione continua da parte delle Regioni e dei Fondi, nella logica della
sussidiarietà orizzontale (integrazione senza sovrapposizioni, ad esempio rivolgendo le risorse a target diversi e complementari di aziende e di lavoratori).
Nei loro bandi, alcune Regioni hanno tenuto conto degli interventi dei Fondi a
favore delle aziende aderenti, ma ciò è avvenuto senza scambio di informazioni
con i Fondi stessi, con modalità episodiche differenti tra i territori (nei bandi ex
L. 236/93, ad esempio, la Lombardia ha previsto una premialità per i progetti
quadro formativi finanziati anche dai Fondi, mentre in Toscana i piani delle
aziende iscritte ai Fondi accedono alle risorse solo dopo che sono stati finanziati
i piani formativi delle imprese non aderenti).
Le iniziative che i Fondi stanno comunque attuando potrebbero produrre effetti molto rilevanti se gli attori pubblici del sistema della formazione (ministero del Lavoro e Regioni,
in primis) e gli stessi Fondi interprofessionali, ciascuno nella propria sfera di autonomia
e responsabilità decisionale, finanziassero interventi rivolti a segmenti diversi di imprese
e di lavoratori beneficiari, evitando duplicazioni e sovrapposizioni, secondo una logica di
coordinamento e di integrazione perseguita sia a livello nazionale che territoriale.
Il buon funzionamento di un sistema “misto” della formazione (pubblico-privato) presuppone anche la presenza di Fondi interprofessionali dotati di una capacità finanziaria e operativa adeguata ai compiti loro attribuiti, in grado di con163
centrare le risorse disponibili sulle spese dirette alla formazione, superando, anche
attraverso forme di accorpamento, l’attuale eccessiva frammentazione che genera diseconomie di scala e difficoltà operative per i Fondi più piccoli.
Le proposte di TreeLLLe per i Fondi interprofessionali
Proposta 28: dare piena autonomia gestionale ai Fondi interprofessionali liberandoli dai vincoli delle risorse di natura pubblica
Le aziende aderenti beneficiarie sono tenute a rispettare, negli Avvisi emanati dai
Fondi, le regole comunitarie in materia di aiuti di Stato che pongono vincoli procedurali particolarmente onerosi ed ostacolano la partecipazione dei lavoratori alla formazione, soprattutto nelle situazioni di crisi.
Come più volte sollecitato da Confindustria e dalle Organizzazioni sindacali, occorre
quindi che il Governo riconosca ai Fondi piena autonomia gestionale e organizzativa, in
condizioni di trasparenza verificate del ministero del Lavoro.
La proposta di TreeLLLe è di dar luogo a una normativa che preveda l’esenzione dal
contributo obbligatorio dello 0,30% per quelle aziende che abbiano scelto di aderire
a un Fondo interprofessionale, lasciando invece tale obbligo a carico di tutte le altre
imprese. Il versamento dello 0.30% effettuato dall’azienda che ha aderito a un Fondo
assume la natura di quota di adesione volontaria e come tale potrà essere gestita dal
Fondo prescelto, senza i vincoli esistenti per le risorse di natura pubblica, sulla base
del proprio statuto e dei regolamenti vigenti.
Proposta 29: raccordare l’attività dei Fondi interprofessionali con la programmazione pubblica
La programmazione dei Fondi deve necessariamente raccordarsi con quella
regionale e con le funzioni di indirizzo e di vigilanza del ministero del Lavoro in
modo da costruire un sistema “misto”, integrato e non concorrenziale, della formazione continua.
In quest’ottica, va respinta la ricorrente tentazione dirigistica con la quale, in
nome dell’interesse pubblico del servizio da erogare, si tende a ricondurre i
Fondi a compiti di tipo prevalentemente finanziari ed esecutivi, ipotizzando di
dettare anche regole di gestione e modalità operative che appartengono all’autonoma sfera decisionale dei Fondi.
Ovviamente, le attività dei Fondi vanno esercitate secondo indirizzi e criteri comuni e il raccordo con la programmazione pubblica deve essere effettivo, in ottica
di sussidiarietà, anche dal punto di vista della non sovrapposizione delle iniziative e dei finanziamenti.
Proposta 30: gli indirizzi del ministero del Lavoro nei confronti dei Fondi
dovrebbero prevedere:
• la programmazione triennale delle linee di intervento dei Fondi, con
preventivi annuali;
164
• il vincolo di destinazione alla formazione di almeno l’85% delle risorse annuali dei Fondi;
• il blocco alla istituzione di nuovi Fondi (ormai troppo numerosi) che
non abbiano una dimensione rilevante e la promozione di forme di
accorpamento tra i Fondi esistenti;
• la certificazione di qualità del sistema di funzionamento dei Fondi;
• la semplificazione delle procedure di gestione e controllo dei piani
finanziati e le ulteriori misure per favorire l’accesso alle risorse per le
piccole imprese e per le aziende ancora fuori dal circuito della formazione, nonché per i lavoratori a rischio del posto di lavoro o più deboli sul mercato del lavoro;
• un sistema informatico di monitoraggio periodico dei piani formativi
consultabile in tempo reale da tutti gli attori del sistema della formazione continua;
• l’innalzamento della qualità della formazione nei piani finanziati, promuovendo la centralità dell’azienda come sede di formazione e la rilevazione delle aree di specializzazione e del livello delle performance
dei fornitori nei piani finanziati dai Fondi.
Proposta 31: Governo, Regioni e parti sociali dovrebbero collaborare per la valorizzazione delle risorse disponibili, evitando sovrapposizioni
Le Regioni dovrebbero rivolgere prioritariamente le misure per la formazione continua alle aziende non aderenti ai Fondi, alle categorie di destinatari che non hanno
accesso agli interventi dei Fondi1 e alle tipologie di azioni che assicurano la formazione a domanda individuale, al di fuori del posto di lavoro.
Proposta 32: prevedere la collaborazione dei fondi alla realizzazione di programmi ed iniziative di sistema
Il ministero del Lavoro e le Regioni possono promuovere il coinvolgimento dei
Fondi, nell’attuazione di programmi che perseguono obiettivi di interesse pubblico a vantaggio della generalità delle imprese e dei lavoratori (salute e sicurezza, innovazione e competizione, internazionalizzazione, iniziative formative
connesse agli obiettivi delle politiche nazionali di sviluppo socio-economico,
come il Piano Industria 2015, etc.).
Note
1
I finanziamenti dei Fondi interprofessionali devono essere destinati ai lavoratori dipendenti per i quali i datori di lavoro versano il contributo dello 0,30%. Con il D.L. n.
185/2008, convertito nella L. n. 2/2009 e s.m., nell’ambito delle iniziative anticrisi è
stato previsto che anche i lavoratori con contratti di apprendistato o a progetto nelle
imprese aderenti possano essere destinatari dell’intervento dei Fondi, ma tale misura ha
carattere temporaneo e straordinario per gli anni 2009 e 2010.
165
4.2.3 La formazione professionale delle Regioni
La formazione professionale è materia di competenza esclusiva delle Regioni con la
sola eccezione dell’istruzione e formazione professionale per l’assolvimento dell’obbligo di istruzione e il correlato espletamento del diritto-dovere per almeno 12 anni, in
relazione al quale esse operano nel rispetto dei Livelli Essenziali delle Prestazioni
(LEP) stabiliti dallo Stato centrale.
L’assetto istituzionale scaturisce direttamente dalla Costituzione della Repubblica
come riformata dalla Legge 3/01. Le Regioni dispongono dunque di ampi margini di
libertà nell’organizzazione dei sistemi formativi territoriali, che sono molto diversi,
anche al di là delle canoniche ripartizioni geografiche del paese (nord ovest, nord est,
centro, sud). Essi riflettono naturalmente le caratteristiche storiche e socioeconomiche
dei contesti di riferimento, a cominciare ad esempio dal più o meno forte radicamento delle istituzioni formative: si pensi in Piemonte alla presenza dei “Santi Sociali”
nella seconda metà dell’Ottocento o, sempre nello stesso secolo, alla presenza in
Lombardia di molte società di mutuo soccorso divenute successivamente anche sedi
di formazione professionale dei propri soci.
Le differenze si sono però acuite anche in relazione alle scelte di fondo che la politica
ha compiuto – e continua a compiere – nel corso degli ultimi trent’anni (dalla nascita delle Regioni in avanti). Si è così determinato uno stato di fatto nel quale convivono sistemi di formazione professionale alquanto differenziati tra loro, anche, lo si ribadisce, alla stessa latitudine (a titolo esemplificativo, Piemonte e Lombardia, che presentano non poche similitudini in termini di struttura produttiva e sua evoluzione nel
tempo, hanno oggi sistemi formativi profondamente diversi tra loro).
Il pluralismo dell’offerta formativa regionale, sia pure all’interno della cornice comune che nel 1978 fu tracciata con la legge quadro in materia, è venuto accentuandosi
nel corso dell’ultimo decennio, in concomitanza con l’ampliamento delle risorse portate in dote dal Fondo Sociale Europeo (FSE), il quale è venuto sempre più affermandosi come lo strumento finanziario per la formazione regionale di gran lunga preponderante. A partire dall’agenda 2000-2006, come noto impostata negli anni immediatamente successivi ai provvedimenti di decentramento amministrativo di funzioni
prima detenute dallo Stato centrale, il FSE, fino ad allora gestito per lo più direttamente dal ministero del Lavoro, è infatti in larghissima maggioranza programmato a
livello territoriale. Le Regioni sono così venute a disporre di rilevanti risorse finanziarie che esse orientano verso priorità rispondenti a fabbisogni, effettivi o presunti, rilevati a scala locale.
È quindi più rispondente alla realtà riferirsi a sistemi regionali della formazione professionale piuttosto che non a un unico sistema nazionale. Ciò non di meno, anche nel166
l’ottica di porre nella giusta prospettiva le istanze promosse dal Quaderno, nella parte
restante del paragrafo si prova a tracciare un quadro di sintesi dell’offerta formativa
disponibile in Italia da parte delle Regioni.
Dopo una breve illustrazione delle diverse fattispecie formative usualmente presenti
in tutte le aree del paese, si riportano i dati che le stesse Regioni/Province autonome
hanno dichiarato al ministero del Lavoro su quanto hanno realizzato nell’anno formativo 2007/2008.
I segmenti dell’offerta formativa regionale
La formazione professionale regionale risultava sino a qualche anno fa articolata in due
categorie principali, in linea di massima onnicomprensive dell’offerta pubblica di formazione professionale:
1) la formazione “per” il lavoro, espressamente finalizzata a favorire il primo ingresso
sul mercato del lavoro dei giovani e, in via residuale, il reingresso degli adulti
che si erano trovati disoccupati;
2) la formazione “sul” lavoro, intesa a favorire il mantenimento e il rafforzamento delle
competenze, in linea di massima professionali, dei lavoratori occupati.
1) Formazione “per” il lavoro:
la formazione professionale iniziale comprende i percorsi di qualifica destinati ad
adolescenti che, terminata la scuola media inferiore, intendono imparare un
mestiere in tempi relativamente rapidi (i percorsi in questione, per i quali le
Regioni operano nel rispetto dei LEP nazionali, hanno di norma durata triennale, ovvero inferiore se rivolti a soggetti provenienti da uno/due anni fallimentari
nell’istruzione secondaria superiore);
• la formazione post obbligo formativo (o formazione superiore) ingloba un’offerta, estremamente variegata in termini di durata e ambiti professionali, rivolta a soggetti
maggiorenni che hanno acquisito una qualifica nella formazione professionale
regionale (vedi segmento precedente), ovvero un diploma di istruzione secondaria
(formazione post diploma, comprensiva degli IFTS) o, anche, una laurea (es. master universitari). Di norma i destinatari di tali percorsi sono giovani inoccupati, alla ricerca cioè
di una prima occupazione, ma talvolta rientrano in tale segmento anche le iniziative di formazione permanente, rivolte, in via esclusiva o prevalente, alla popolazione
adulta;
• la formazione per disoccupati, in via teorica riservata a soggetti, per lo più adulti, che
hanno perduto il lavoro e tuttavia, nella pratica, con frequenti sovrapposizioni con il
segmento precedente;
la
formazione per soggetti a rischio, al cui interno rientrano azioni formative finaliz•
zate a favorire l’inserimento e/o il reinserimento lavorativo di individui a elevato
rischio di esclusione sociale: disabili, giovani seguiti dai servizi sociali, detenuti
ed ex detenuti, etc.;
•
167
2) Formazione “sul” lavoro:
formazione continua per occupati, che abbraccia l’ampio spettro di interventi, a
iniziativa per lo più aziendale, sempre più di frequente affiancati da quelli
a domanda individuale, finalizzati all’aggiornamento delle competenze professionali dei lavoratori (si tratta, nella quasi totalità dei casi, di interventi
di breve o brevissima durata, per lo più inferiori alle 60 ore);
• formazione degli apprendisti, attraverso la quale le Regioni organizzano l’offerta formativa obbligatoria in favore dei giovani avviati al lavoro con tale
fattispecie contrattuale a causa mista;
• “altra formazione”, che raccoglie interventi di natura eterogenea, oltre che
diversificati a livello territoriale, tra i quali, certamente, iniziative di formazione permanente.
•
La partecipazione
Un quadro quantitativo all’incirca rispondente alla classificazione qui proposta
e ricostruito dall’ISFOL sulla base dei dati che le Regioni/Province autonome
hanno inviato al ministero del Lavoro relativamente all’anno formativo
2007/2008 è riportato nella Tabella 30.
Tabella 30
Partecipanti a interventi di formazione professionale regionale
per tipo formativo e area territoriale
(valori assoluti, 2007/2008)
Formazione per il lavoro
Post obbligo
formativo
Disoccupati
Soggetti
a rischio
Apprendisti
Piemonte
Valle d'Aosta
Lombardia
Liguria
Prov. Aut. Trento
Prov. Aut. Bolzano
Veneto
Friuli Venezia Giulia
Emilia Romagna
Nord-Ovest
Nord-Est
Nord
19.584
264
26.705
1.789
4.488
5.147
15.519
7.976
12.296
48.342
45.426
93.768
1.566
173
2.589
27.208
578
1.441
12.953
1.710
13.216
31.536
29.898
61.434
3.255
53
5.763
34.071
179
3.961
1.331
11.797
43.142
17.268
60.410
3.620
77
1.255
1.115
87
500
676
2.647
467
6.067
4.377
10.444
24.201
815
34.080
3.238
4.839
4.244
6.397
17.772
42.310
62.334
75.562
137.896
43.201
727
34.578
27.576
2.463
15.687
2.151
19.116
179.639
106.082
219.056
325.138
159
1.400
1.136
604
3.609
9.546
1.272
1.559
16.167
17.726
95.586
2.109
104.970
96.397
13.591
27.802
45.266
60.098
260.997
299.062
407.754
706.816
14.194
129
224
425
12.843
205
7.045
14.547
20.518
35.065
Toscana
Umbria
Marche
Lazio
Centro
6.732
947
208
11.747
19.634
7.194
9.707
487
4.586
21.974
1.219
679
419
8.108
10.425
2.831
2.251
736
4.362
10.180
975
1.183
6.467
544
9.169
32.591
3.112
3.954
5.817
45.474
12.572
5.123
7.569
705
25.969
64.114
23.002
19.840
35.869
142.825
8.038
908
2.277
11.223
Abruzzo
Molise
Campania
Puglia
Basilicata
Calabria
Sicilia
Sardegna
Sud
886
230
739
3.312
92
19.991
377
25.627
3.846
576
26.138
191
4.899
677
36.327
47
316
11.394
1.878
15.912
220
29.767
299
314
3.074
12
2.719
107
6.525
1.309
461
1.600
8.956
508
219
13.053
1.522
225
23.194
2.013
13.949
8.506
49.409
1.736
1.271
504
3.511
9.645
691
3.770
76.068
5.965
57.974
10.106
164.219
66
76
4.781
624
5.547
ITALIA
139.029
119.735
100.602
27.149
160.118
420.021
47.206
1.013.860
51.835
Fonte: elaborazione ISFOL su dati regionali
168
Formazione sul lavoro
Formazione
iniziale
Regioni
Occupati
Altra
formazione
TOTALE
Voucher
Al di là di alcune anomalie che derivano direttamente dalle modalità con le quali
le diverse Amministrazioni promuovono la formazione professionale nei rispettivi territori, tra le quali si segnalano l’inconsueto peso dell’Emilia Romagna
(quasi 180.000 persone, pari a ben il 43% dei partecipanti totali all’interno del
segmento occupati), e la mancanza dei dati per alcune Regioni meridionali, il
dato più significativo del prospetto sovrastante riguarda il totale dei partecipanti: più di un milione di persone ha seguito corsi di formazione professionale
regionale. Una cifra che, quantunque in leggera crescita rispetto all’anno precedente, trova conferma dall’analisi delle serie storiche dell’ultimo quinquennio.
L’altra cifra rilevante, in forte ascesa rispetto al passato, riguarda la formazione
continua a domanda individuale, quasi 52.000 voucher in cui sono ricompresi,
in via residuale e limitatamente ad alcuni territori (Veneto, Toscana), interventi
di formazione superiore. In generale, i voucher rispondono all’esigenza di riequilibrare il rapporto tra offerta e domanda formativa, ponendo l’accento su quest’ultima e stimolando l’attivazione diretta dell’individuo (o dell’impresa) al
quale viene in effetti chiesto di partecipare in via residuale al finanziamento dell’attività (in generale il contributo pubblico copre non meno del 70-80%).
Ritornando all’offerta corsuale, in termini aggregati essa ha riguardato in via prioritaria iniziative in favore degli occupati (62%); gli interventi rivolti prioritariamente a inoccupati/disoccupati assorbono invece il restante 38% (Figura 22).
Figura 22
Distribuzione per categoria dei partecipanti a interventi
di formazione professionale
(valori percentuali e assoluti, 2007/2008)
Inoccupati e disoccupati
386.515 = 38%
Occupati 627.345 = 62%
FOntE: Rilevazione forze di lavoro (ISTAT 2009)
169
Le risorse finanziarie
Occorre peraltro rimarcare come il peso specifico delle due categorie si rovesci
laddove si faccia riferimento alle risorse finanziarie anziché ai destinatari coinvolti: per ragioni di durata, il costo pro capite degli interventi per occupati
(brevi, di norma inferiori alle 60 ore) risulta infatti largamente inferiore a quello dei percorsi dell’altra categoria (medio/lunghi, in generale di non meno di
600 ore), tra i quali si annoverano peraltro anche le iniziative rivolte in via pressoché esclusiva a persone che non risultano formalmente alla ricerca di occupazione (si pensi agli studenti del diritto dovere e dei percorsi universitari).
Rimanendo in ambito di risorse finanziarie, pare qui sufficiente richiamare come
per l’anno in questione i bilanci regionali contenessero previsioni di spesa per
attività di formazione professionale per circa 3,4 miliardi di euro, mentre
non risulta ancora disponibile il dato a consuntivo (a titolo di raffronto si consideri che per il 2007 la spesa effettiva è stata pari a circa 2.3 miliardi di euro a
fronte di una previsione di 2,4 miliardi).
Nello specifico tali risorse provengono, oltre che naturalmente dai programmi
cofinanziati dal FSE, da trasferimenti vincolati provenienti dallo Stato centrale
e da stanziamenti effettuati sugli stessi bilanci regionali tanto per la promozione della formazione professionale in favore dei propri cittadini ed imprese (quasi
sempre gestiti direttamente dagli assessorati competenti per materia, quali, a
titolo esemplificativo, la Sanità, l’Ambiente, le Politiche sociali, etc.) quanto per
l’aggiornamento del personale delle amministrazioni.
Le agenzie formative
Le azioni di formazione professionale regionale sono realizzate, nel rispetto della
regolamentazione pubblica, da una moltitudine di soggetti erogatori.
Consapevoli dell’impossibilità di ricostruire in questa sede un quadro esaustivo
di tali soggetti, si è ritenuto sufficiente riportare, sempre in termini schematici,
alcune informazioni utili a meglio comprendere il funzionamento dei sistemi
regionali della formazione professionale.
Prescindendo dalle specificità territoriali e semplificando al massimo una realtà che
nei fatti appare alquanto composita, è possibile distinguere i soggetti erogatori tra:
• una categoria, numericamente più contenuta e tuttavia di gran lunga preponderante in termini di risorse pubbliche gestite, comprendente gli enti
storicamente presenti nelle diverse aree regionali, di norma espressione, per
un verso, di movimenti di carattere religioso/confessionale e, per l’altro, delle
parti sociali (segnatamente delle organizzazioni sindacali);
• un’altra categoria, che conta molti più operatori tra loro eterogenei, affacciatasi più recentemente sul mercato della formazione professionale e impegnata a contendersi una quota relativamente contenuta di risorse pubbliche.
170
In generale, il primo gruppo di operatori presenta una marcata specializzazione
sulla formazione “per” il lavoro e soprattutto sulla formazione professionale iniziale. Di conseguenza, in relazione anche agli ingenti investimenti necessari al
mantenimento e aggiornamento delle attrezzature impiegate nei laboratori, si
tratta di enti più strutturati, di norma di dimensioni medio/grandi e con una
prevalenza di personale direttamente impegnato in attività di docenza e che, non
di rado, applicano il CCNL della formazione professionale.
Viceversa gli operatori del secondo gruppo hanno in generale una struttura organizzativa più snella e spesso di dimensione contenuta, risultano per lo più attivi nella formazione “sul” lavoro, e soprattutto nella formazione continua aziendale, e per il reperimento del personale da impegnare nelle attività di docenza
attingono più frequentemente al mercato.
Un qualche riflesso della classificazione proposta è rinvenibile nei sistemi regionali di accreditamento, che in generale considerano più affidabili gli organismi
della prima categoria e, di conseguenza, riconoscono loro la possibilità di accedere alle risorse pubbliche relativamente più ingenti, che, come si è visto,
riguardano la formazione per il lavoro. Il variegato mondo di operatori dell’altra
categoria dispone in generale del solo accreditamento per la formazione continua aziendale: alcune centinaia di soggetti operano ormai in ciascuna delle maggiori Regioni italiane a dispetto delle finalità di fondo per le quali l’accreditamento venne introdotto.
Altre caratteristiche dell’offerta di formazione professionale regionale
•
L’accesso ad attività formative, fatto salvo quanto in precedenza specificato rispetto ai
voucher, è in generale assolutamente gratuito per il singolo lavoratore (il finanziamento pubblico copre cioè la totalità della spesa necessaria alla realizzazione del corso). La formazione aziendale è invece disciplinata in conformità alla
normativa comunitaria relativa agli aiuti di Stato, in base alla quale l’impresa
è tenuta a cofinanziare l’attività in misura proporzionale alle sue dimensioni (il
cofinanziamento pubblico è attestato tra il 25% e il 75%).
•
La formazione “per” il lavoro è in linea di massima programmata in similitudine ai corsi dell’istruzione, con una raccolta delle iscrizioni durante l’estate, un
avvio dei corsi cadenzato tra l’autunno (le attività più lunghe) e l’inverno (quelle fino a 600 ore) e un loro svolgimento per un periodo variabile tra i 4 e i 9 mesi,
comprensivo di esame finale e rilascio (o meno) del titolo.
•
La formazione “sul” lavoro risulta invece meno definita, nel senso che può
operare almeno secondo due modalità:
- formazione a bando. L’azienda, o un suo intermediario, candida il proprio
171
progetto in risposta a una chiamata dell’operatore pubblico
(Regione/Provincia) e, qualora lo stesso sia approvato (l’iter di approvazione richiede di norma tempi piuttosto lunghi) e il fabbisogno iniziale
sussista ancora, avvia l’attività;
- formazione a catalogo. Gli organismi di formazione formulano le proprie
proposte a valere su di un apposito bando pubblico (diverso dal precedente) e promuovono quelli considerati finanziabili, chiedendone l’avvio
una volta raggiunta una certa soglia di partecipanti.
Gli adulti nel sistema di formazione professionale delle Regioni
Mancano dati quantitativi univocamente riferiti agli adulti. A partire dalle informazioni esposte nella tabella e nel grafico precedenti, si può fare riferimento ai segmenti posti su sfondo colorato dove la partecipazione di individui adulti è certa.
• interventi per l’occupabilità, che includono la formazione cosiddetta post obbligo
formativo (quota parte della formazione per il lavoro);
• formazione permanente, con la quale si sono promosse azioni, non di rado a iniziativa individuale, per l’acquisizione e lo sviluppo di competenze di carattere trasversale e professionale di soggetti ultradiciottenni occupati e disoccupati (formazione per disoccupati e altra formazione);
• formazione continua aziendale.
Operando in questo modo la formazione per inoccupati e disoccupati ha visto nell’anno
2007/2008 un coinvolgimento di circa 220 mila individui adulti. Va osservato che
gli interventi in questione avrebbero peraltro riguardato in maggioranza (54% circa)
soggetti giovani che prendono parte a corsi post qualifica/diploma/laurea al fine di migliorare
le proprie chance di primo inserimento sul mercato del lavoro.
Focalizzando invece l’analisi sulla formazione degli occupati, le attività aziendali
hanno visto il coinvolgimento di poco più di 420.000 individui, pari a circa
l’1,8% del totale degli occupati in media annua 2008 (2,4% se rapportato ai soli
lavoratori alle dipendenze).
Le proposte di TreeLLLe
Proposta 33: in linea di principio, fare intervenire il soggetto pubblico per correggere i cattivi funzionamenti del mercato nella formazione per adulti
Il mercato, da solo, fino ad ora non è riuscito a coinvolgere significativamente la popolazione adulta nella formazione professionale.
Proposta 34: in linea di principio, ispirare gli incentivi e gli interventi pubblici
a una politica dei fattori piuttosto che a una politica per settori
Una politica dei fattori è sana, trasparente, ha vantaggio di tutti gli attori e contri172
buisce a rendere attrattivo il territorio per nuovi investimenti (infrastrutture, formazione, ricerca, etc.). Una politica per settori, o addirittura di sostegno a singole imprese, comporta elevati rischi di distorsioni della competizione in un’economia di libero
mercato.
Proposta 35: rafforzare gli interventi relativi alla formazione “per” il lavoro
I sistemi regionali dovrebbero passare dalla prevalente gestione di inoccupati giovani
o giovanissimi a quella di tutte le fasi di transizione tra lavoro e non lavoro (segnatamente dei disoccupati) che sempre più caratterizzano la popolazione di ogni età: si
amplierebbe così lo spettro di intervento della formazione permanente.
Proposta 36: limitare gli interventi per la formazione “sul” lavoro
Sembra opportuno circoscriverla alle categorie più di frequente escluse dalla formazione continua (segnatamente lavoratori e imprenditori delle piccole imprese, lavoratori con basse qualifiche, etc.): velleitario infatti attendersi una modifica sostanziale
dei comportamenti delle imprese, che nei loro programmi formativi tendono soprattutto a privilegiare la componente forte dei lavoratori.
Proposta 37: fondare le scelte di programmazione su solide basi conoscitive incentrate sull’esperienza delle parti sociali e raccordare la programmazione pubblica
con le attività de Fondi interprofessionali
Mettere a punto iniziative di sistema (vedi i recenti accordi siglati in materia tra ministero del Lavoro, Regioni e parti sociali) per fondare le scelte di programmazione su
solide basi conoscitive, incentrate sul ruolo delle parti sociali (per la conoscenza diretta del mercato di cui sono portatrici): così si orienterebbe l’offerta formativa verso le
effettive esigenze di lavoratori e imprese superando l’autoreferenzialità dell’offerta
oggi dominante.
Proposta 38: ampliare gli ambiti di autonomia delle parti sociali e segnatamente dei Fondi interprofessionali relativamente alla formazione “sul” lavoro
È evidente infatti il loro diretto e oggettivo interesse ai risultati e la loro più diretta
percezione dei bisogni formativi da soddisfare di volta in volta. I Fondi interprofessionali potranno anche essere utilizzati per programmi di sistema di interesse pubblico, cioè a vantaggio della generalità delle imprese e dei lavoratori.
Proposta 39: rendere più rigoroso il sistema di accreditamento (iniziale e periodico) delle agenzie formative per qualificare l’offerta e valutarne i risultati
La gestione di risorse pubbliche impone la necessità di maggiore trasparenza e controllo delle agenzie formative (verifica delle attività reali, bilanci) ad evitare rischi di
truffe. A questo proposito, si propone un sistema di accreditamento fondato sulla
valutazione degli enti di formazione da parte di una commissione regionale ad hoc che adotti però regole e condizioni di accreditamento condivise con le parti sociali. Pur sapendo le difficoltà oggettive che si incontrano quando si intende valutare i risultati della forma173
zione, vanno accreditati gli enti che sono in grado di esibire buoni risultati in termini di placement nel caso di disoccupati o inoccupati, e giudizi positivi da parte delle
imprese e dei partecipanti nel caso degli occupati. Va comunque favorita la specializzazione “settoriale” dei vari soggetti erogatori.
Proposta 40: favorire un’offerta formativa di qualità attraverso lo sviluppo di
“Poli di settore”
Vanno sostenute dal pubblico le iniziative che mirano alla diffusione dell’innovazione: ci riferiamo allo sviluppo di “Poli di settore”, organismi a rete, strumenti di raccordo e di integrazione tra scuola, formazione, imprese e università che operano su un
territorio e nello stesso settore produttivo o di servizi. All’interno di questi Poli si dà
vita a un’offerta di qualità di formazione tecnico-professionale a tutti i livelli, dalla formazione iniziale, all’istruzione tecnica, alla formazione superiore e terziaria, fino alla
formazione continua dei lavoratori. Il Polo deve essere possibilmente collegato ad altre
iniziative promosse dalle politiche di sviluppo economico-territoriale (distretti industriali, parchi tecnologici, etc.).
Proposta 41: favorire la qualificazione degli occupati per settori strategici nel contesto dell’economia regionale settori strategici nel contesto dell’economia regionale
Le Regioni potrebbero anche collaborare con i Fondi interprofessionali per accompagnare le crisi aziendali.
174
4.3 Sviluppo culturale e benessere dei cittadini
Premessa
Per ogni individuo apprendere durante tutto l’arco della vita significa non soltanto ricevere una buona istruzione di base e continuare a sviluppare per tutta la
durata dell’attività lavorativa la propria capacità professionale, ma anche continuare ad arricchire la propria cultura e a investire sulle proprie capacità durante e dopo l’attività di lavoro: nel “tempo libero”, insomma, che è cresciuto enormemente, ma oggi è spesso utilizzato in modo povero e destrutturato.
Come abbiamo visto nel capitolo dedicato al capitale sociale, anche la società nel
suo insieme riceve notevoli benefici dalla cura che ciascuno dedica a se stesso
sotto forma di sviluppo fisico, intellettuale e morale e di partecipazione attiva
alla vita della collettività. Questi benefici, diretti e indiretti, investono tutti i
piani della vita collettiva: dalle scelte più consapevoli che toccano l’interesse di
tutti, come quelle ecologiche e, in senso lato, politiche, ai risparmi significativi
che il miglioramento della vita e delle capacità individuali permette di realizzare nelle cure mediche e per l’assistenza psicologica e sociale, come mostrano
anche studi medici (vedi VIII Congresso nazionale di psicologia della salute,
ottobre 2008).
La collettività è dunque direttamente interessata alla quantità e qualità di queste attività “gratuite”. Se l’individuo deve essere lasciato libero di sceglierle e
coltivarle nel modo che meglio crede, poiché nella libera scelta si esprimono le
sue preferenze e la sua creatività, uno dei compiti dello Stato, degli Enti locali e
degli altri enti con funzioni pubbliche (come i sindacati, le associazioni dei datori di lavoro, gli enti previdenziali e così via) è creare il terreno propizio allo sviluppo di quelle attività, le condizioni che possano incentivarle.
La spesa pubblica relativa deve essere considerata un investimento sul futuro per
una comunità migliore. La sua entità è già oggi rilevante (pensiamo al sostegno
fornito, non senza critiche e polemiche ricorrenti, a varie produzioni culturali,
come il cinema, la musica, le mostre, i festival della cultura e della scienza), ma
sarebbe miope ridurla giudicandola, in tempi di crisi economica, non direttamente produttiva. TreeLLLe ritiene anzi che debba essere aumentata, ma in base a un
attento esame delle priorità e con un rigoroso controllo della qualità e dell’efficacia dell’investimento.
Sarebbe impossibile in questa sede passare in rassegna l’intero ambito delle attività connesse allo sviluppo culturale e al benessere dei cittadini, poiché esse
investono la vita nella sua totalità. Ne fanno parte non solo tutti i consumi cul175
turali, dalla lettura di libri e periodici alla partecipazione a mostre e festival
tematici e alle visite a musei, gallerie e città d’arte, ma anche le attività ricreative e sportive, le forme più diverse di volontariato, la conoscenza e la salvaguardia della natura nei suoi vari aspetti, la cura dell’ambiente rurale o urbano
in cui si vive.
Un numero pressoché infinito di libere associazioni si occupa di queste forme di
arricchimento e miglioramento della vita individuale: dai più di 300.000 iscritti al Club Alpino Italiano alle innumerevoli associazioni sportive, dalle società
caritatevoli e assistenziali a quelle del volontariato, dagli ordini religiosi, con
tutte le loro meritevoli attività collaterali, alla partecipazione volontaria alle
attività politiche e di analisi e recupero sociale.
Poiché una rassegna non sarebbe possibile, né riuscirebbe mai esauriente,
TreeLLLe si limiterà a esaminare alcuni casi particolarmente significativi, perché
si prestano a un’analisi quantitativa e a qualche proposta, e inoltre possono assumere un valore di esempio per quanto riguarda la necessità che la libera iniziativa individuale e sociale sia sostenuta da incentivi diretti e indiretti finanziati
dalle pubbliche risorse.
176
4.3.1 Le università popolari: un’offerta non formale
È sufficiente consultare sul sito del ministero delle Finanze la lista degli ammessi al 5 per mille annuale per rendersi conto di quanto il privato sociale sia presente nella vita degli italiani e quanto peso stia sempre più assumendo come erogatore di servizi di interesse pubblico, sia in regime di sussidiarietà, sia in supplenza allo Stato. Nel lifelong learning la supplenza è forte e si esplicita attraverso una rete di associazioni che investe le grandi e piccole città. Le attività
associative relative alla formazione permanente sono un fenomeno nazionale che
contribuisce significativamente alle statistiche internazionali che rilevano la percentuale di popolazione adulta che partecipa ad attività formative.
Le università popolari organizzano corsi, seminari, viaggi, incontri sociali e culturali, spettacoli, attività sportive, con la flessibilità che consente un più facile
livello di partecipazione di pubblico adulto. esse coinvolgono una popolazione
di 330.000 individui. Le università popolari non rilasciano titoli di studio con
valore legale e si limitano a rilasciare attestati di frequenza e di merito. I partecipanti ai corsi fruiscono, oltre che di varie forme di apprendimento (anche formali nel caso di rilascio di certificazioni, in genere linguistiche), di momenti di
socializzazione e di protagonismo che la scuola, anche quella per adulti, non può
garantire per la rigidità del suo modello organizzativo.
Un settore che si sta sviluppando in tutto il paese è l’organizzazione dei corsi di
lingua italiana agli stranieri con accordi in via di definizione con gli Enti riconosciuti per il rilascio delle certificazioni necessarie per il permesso di soggiorno. Inoltre, tra organismi dirigenti, quadri, impiegati, collaboratori, docenti a
progetto, queste associazioni assicurano lavoro a varie migliaia di persone.
Le amministrazioni provinciali (proprietarie degli edifici delle scuole superiori)
e i Comuni (proprietari delle scuole elementari e delle medie) affittano, con un
trattamento di favore, l’uso delle aule scolastiche in orario pomeridiano per le
attività di queste associazioni.
Per capire meglio questo movimento associativo è utile uno sguardo all’evoluzione storica delle università popolari e della terza età italiane. Queste associazioni hanno origine in epoche differenti e con obiettivi assai diversi a seconda dei
fondatori. Esiste una tradizione di fine ‘800 a seguito di un’idealità politico sindacale di tradizione socialista e anche massonica1. Il risultato ottenuto non è
apprezzabile nei numeri giacché erano iniziative di intellettuali generalmente
scollegati ai ceti popolari ai quali avevano l’ambizione di rivolgersi. Durante il
ventennio fascista le università popolari furono chiuse o fascistizzate e non svolsero alcun ruolo formativo e culturale. Occorre attendere gli anni ‘70 dello scorso secolo per veder comparire, a imitazione di altre esperienze europee, alcune
associazioni italiane che assunsero la denominazione di università della terza età.
177
Queste realtà sono nate sotto varie forme giuridiche, prevalentemente come
associazioni senza fine di lucro ma anche come emanazioni di alcuni Comuni
(vedi Firenze, Fabriano, etc.). La motivazione di fondo fu sempre l’esigenza di
occupare culturalmente il tempo disponibile delle persone anziane. Negli anni
’70-’80 sono nate così università della terza età a Torino, Trento, Roma. Il successo delle università della terza età è stato rapido e consistente: in Italia grande
parte della popolazione di vari i livelli socio-culturali ne conosce la denominazione. Tuttavia queste realtà si rivolsero e si rivolgono in larga parte a una popolazione con titolo di studio superiore e socialmente benestante. La diffusione
delle università della terza età e successivamente delle università popolari ha alimentato un “mercato” di corsi, seminari, workshop, nelle materie più disparate
tanto che in 11 Regioni sono state varate fin dagli anni ’80-’90 delle Leggi
Regionali di sostegno, peraltro con risorse di modestissima entità.
Tabella 31
Associazioni nazionali delle università popolari e della terza età in Italia.
Frequentanti, sedi didattiche, numero dei corsi (anno 2009-10)
Associazioni
nazionali
Numero di
associazioni
aderenti
Sedi
territoriali
Frequentanti
Corsi
Docenti
Ore di
(a progetto lezione
o volontari)
UNIEDA
(Unione Italiana
di Educazione
degli Adulti)
72
684
101.000
8.417
3.367
378.765
FEDERUNI
(Federazione Nazionale
delle Università
della Terza Età)
100
250
51.891
4.588
5.239
130.024
UNITRE
(Università
delle Tre Età)
105
268
52.000
3.200
4.200
95.000
AUPTEL
(Associazione delle
università popolari
e dell’età libera)
83
83
34.700
1.327
650
99.800
CNUPI
(Confederazione
Nazionale Università
Popolari Italiane)
64
102
10.500
875
350
39.375
Altre
150
300
80.000
6.000
3.500
150.000
TOTALE
574
1.623
327.091
23.915
16.829
888.824
Fonti: UNIEDA, Rapporto formazione permanente 2010; CNUPI, sito internet; Federuni:
Circolare Federuni del 19 ottobre 2009 e sito internet; Unitre: Sito internet; Auser, Rapporto
Auser, 2007-08 disponibile sul sito internet; Altre Universitàpopolari (e della Terza età),
Ricognizione nazionale attraverso documentazione prevalentemente via internet.
178
Oggigiorno, le università popolari e le università della terza età si differenziano
soprattutto per il diverso modo di organizzare le loro attività. Le prime, aperte
a tutti, hanno un pubblico formato da un ceto medio-alto e da stranieri, le seconde prevalentemente da persone anziane. Il metodo di erogare i corsi è più strutturato nelle università popolari mentre in quelle della terza età si sviluppa attraverso conferenze e visite esterne. In molti casi però la differenza è solo nella
denominazione.
La Tabella 31 mostra un quadro sintetico delle università popolari e della terza
età in Italia al 2009-10 secondo l’associazione nazionale di appartenenza.
Dalla tabella si evince una partecipazione di 327.000 persone l’anno, destinata
a crescere ulteriormente, che frequentano circa 24.000 corsi tenuti da professionisti, in genere laureati, che operano come volontari o con contratti a progetto.
Il lavoro volontario è presente soprattutto nelle sedi territoriali: migliaia di
volontari organizzano le sedi didattiche e gli eventi in quartieri delle città e in
piccoli paesi delle province. Sono state rilevate 1.624 sedi didattiche ma è un
dato da ritenere una sottostima. Il quadro che ne deriva è di una presenza sul territorio di un certo rilievo con punte di eccellenza che dimostrano la potenzialità di tutto il settore.
La Tabella 32 mostra le principali università popolari per numero di sedi didattiche, frequentanti e entrate annuali. Tre realtà, Roma, Bolzano e Udine, realizzano insieme entrate annuali pari a oltre 11 milioni di euro.
Le entrate economiche delle università popolari sono garantite dalle quote associative e dai contributi dei partecipanti ai corsi. In genere queste entrate rappresentano l’80-90%, mentre il resto è dovuto a contributi di enti pubblici e privati. Le realtà più grandi partecipano anche a bandi pubblici e a progetti europei, riuscendo a offrire ricerche e servizi a terzi (ad esempio categorie deboli,
immigrati, etc.), che costituiscono entrate aggiuntive.
Tabella 32
Alcune delle principali università popolari italiane
Università
Anno
Sedi
Frequentanti
fondazione didattiche
Corsi
Docenti
a progetto
Ore
Entrate
lezione annuali (euro)
Roma UPTER,
Università popolare
1987
103
26.490
1.711
404
127.000
5.775.000
Bolzano, UPAD,
Università popolare
delle Alpi Dolomitiche
1966
25
11.520
350
360
25.000
4.200.000
Udine, Università
delle Libertà
1993
1
7.230
455
145
9.750
1.119.000
Biella, UPBeduca
1902 (2004)
15
4.763
363
139
11.075
560.000
Fonti: UNIEDA (2010)
179
Il costo dei corsi è proporzionale alla durata degli stessi. A titolo di esempio, un
corso di lingua inglese o di disegno varia da 150 a 250 euro per una durata di
50 ore. Esistono corsi itineranti (per esempio visite guidate di storia dell’arte),
ma anche corsi per attività fisica-sportiva, laboratori teatrali e di ceramica che a
seconda delle sedi assumono connotati organizzativi differenti ma proposti sempre a prezzi contenuti.
Le principali motivazioni a frequentare le differenti aree di apprendimento sono:
soddisfare interessi, realizzare aspirazioni (anche professionali), avere relazioni
sociali, fare parte di un gruppo, acquisire maggiore sicurezza e fiducia in se stessi (vedi indagine dell’UPTER di Roma del 2007).
In riferimento alle aree tematiche dei corsi, l’associazione nazionale UNIEDA ha
condotto una ricognizione nazionale sulle frequentazioni ai corsi nelle università ad essa iscritti. Nella Tabella 33 si evidenziano le aree tematiche dei corsi frequentati. La lingua inglese (15,8%), lo sport e il benessere (15,4%) e l’area storico artistica (13,5%) sono le aree tematiche più frequentate.
Tabella 33
Aree tematiche di frequentazione
(42 università affiliate UNIEDA rispondenti su 72, anno 2009)
Area tematica
Numero
corsi
Percentuale
corsi
Media iscritti
a corso
Numero
iscritti
Percentuale
iscritti
Lingua inglese
611
17,6
12,4
7.565
15,8
Sport e benessere
460
13,3
16
7.352
15,4
Storico artistiche e archeologiche
275
7,9
23,5
6.453
13,5
Arti applicate
305
8,8
13
3.973
8,3
Informatica
291
8,4
11
3.209
6,7
Umanistiche
177
5,1
16,1
2.841
5,9
Psicologia, conoscere se stessi
157
4,5
16,2
2.549
5,3
Lingua spagnola
226
6,5
10,2
2.313
4,8
Hobby e manualità
129
3,7
12,6
1.624
3,4
Musica e canto
147
4,2
10,3
1.513
3,2
Sanitaria, salute
72
2,1
21,1
1.520
3,2
Fotografia, video e cinema
84
2,4
15
1.259
2,6
Lingua tedesca
101
2,9
10,7
1.081
2,3
Altre lingue
182
5,3
5,8
1.058
2,2
Teatro, recitazione
67
1,9
14,2
950
2
Scienze e ambiente
46
1,3
18
829
1,7
Politico-civiche, sociali e antropologiche
36
1
16,6
599
1,3
Scrittura
51
1,5
12,1
617
1,3
Italiano per stranieri
48
1,4
11,4
548
1,1
3.465
100
13,8
47.853
100
Totale
Fonte: UNIEDA (2010)
180
Per concludere, è indubbio che le associazioni delle università popolari e della terza
età svolgono un ruolo significativo nell’educazione degli adulti e le tendenze a
crescere dei frequentatori dei corsi fanno pensare a un loro ulteriore sviluppo. Il
loro più o meno accelerato sviluppo dipenderà non solo dal tasso di imprenditorialità e di disponibilità al volontariato dei loro promotori, ma anche dal favore
e dalla collaborazione che potranno avere da parte delle Regioni e degli Enti
locali.
Nel Box 7 (pag. 182) si fornisce un quadro dell’esperienza straordinaria delle
Volkshochschulen tedesche, un’esperienza a cavallo tra l’università popolare e veri
e propri centri di educazione degli adulti, di proprietà dei Comuni ma cofinanziate (dal 30% al 50%) dai partecipanti (ben 6,5 milioni di adulti a fronte dei
nostri 330.000): un esempio di grande sensibilità al tema da parte degli Enti
locali e di una popolazione che prende sul serio l’apprendimento per tutto l’arco della vita.
Le proposte di TreeLLLe
Proposta 42: valutare l’opportunità che le Regioni procedano all’accreditamento delle università popolari che più si distinguono sulla base dei livelli
di partecipazione dei frequentanti, della continuità delle attività nel tempo,
della qualità e varietà dell’offerta culturale e della trasparenza amministrativa.
Proposta 43: riconoscere la detrazione fiscale delle quote e delle spese di partecipazione ai corsi offerti dalle università popolari.
Proposta 44: utilizzare le università popolari per l’insegnamento della lingua italiana ai migranti in collaborazione con gli Enti locali e i ministeri
interessati
Note
1
Vi è una vasta documentazione agiografica diffusa dalla CNUPI che rivendica storicamente e anche attualmente questa appartenenza. Basta navigare nel loro sito internet per
averne una prova: www.cnupi.it.
Bibliografia
Florenzano F., Imparare a imparare, Roma, EDUP, 2006.
UNIEDA, “Rapporto sull’apprendimento permanente in Italia 2009”, Roma, EDUP,
2009.
181
BOX 7
LE VOLKSHOCHSCHULEN TEDESCHE:
UNIVERSITÀ POPOLARI COFINANZIATE DAI FREQUENTATORI
L’educazione degli adulti in Germania è la Volkshochschule (nota anche con la sigla VHS), ovvero una sorta
di università popolare, centro di educazione degli adulti ramificato in migliaia di città e sedi con una offerta straordinaria di corsi, conferenze e progetti.
Ovviamente la presenza delle Volkshochschulen non preclude la presenza di altre istituzioni dedicate agli
adulti, scuole private di lingue e di materie professionali e di università della terza età, ma la capillarità raggiunta delle VHS è fuori discussione e così la loro presenza nella vita quotidiana tedesca lo è altrettanto.
In genere la Volkshochschule è un’istituzione comunale, con a capo un direttore nominato direttamente
dall’assessore competente: la maggioranza delle Volkshochschulen è di proprietà comunale ma numerose sono le associazioni di professionisti (33%). Le attività sono cofinanziate (dal 30 al 50%) dai partecipanti.
Breve excursus storico
Le Volkshochschulen (letteralmente licei del popolo, attualmente conosciute anche come “centri di educazione degli adulti”) sono state fondate come scuole aperte all’inizio del XIX secolo sotto l’influenza delle
scuole popolari danesi (Folkhighschools) create da Nikolas Severing Grundtvig (il cui nome è attualmente
il programma di educazione degli adulti dell’Unione europea) un ministro luterano danese del 18° secolo.
Con la Repubblica di Weimar si sono diffuse in tutte le maggiori città del paese ma il nazismo ne abolì rapidamente la diffusione e le chiuse.
Dopo la seconda guerra mondiale gli Alleati ne favorirono l’apertura con l’intento di diffondere ed educare
alla democrazia il popolo tedesco. Nel 1955 si contavano nella Germania Ovest oltre 1000
Volkshochschulen che nel corso degli anni seguenti si consolidano attraverso leggi e interventi pubblici..
Il trend di partecipazione registra un andamento in continua crescita. Nel 1962 c’erano 62.000 corsi e partecipavano 1.000.000 persone. Venti anni dopo, nel 1982, i corsi erano 303 mila e i partecipanti 4 milioni
e mezzo. Nel 2002 i corsi erano 559 mila, gli iscritti 6.866.000 (il picco più alto mai raggiunto) mentre nel
2008 a fronte di un incremento di corsi (569 mila) si è avuta una flessione di iscritti pari a circa 360 mila
partecipanti.
Alcuni dati sulle Volkshochschulen
Il DIE (Istituto Tedesco dell’Educazione) con sede a Bonn, produce annualmente una mole di dati su tutti i
temi dell’educazione in Germania e tra questi un rapporto annuale sulle Volkhochschulen. L’ultimo rapporto disponibile riporta i dati del 2008 (Tabella 34).
Questo rapporto documenta in maniera inequivocabile che l’educazione degli adulti in Germania è radicata e fortemente sostenuta dalla Stato federale e soprattutto dai Länder, ma anche i Comuni, che in genere
ne sono i proprietari, mettono a disposizione risorse economiche oltre che strutture edilizie. I frequentanti
contribuiscono con loro quote, che coprono a secondo delle realtà territoriali dal 30 al 50% dei costi.
182
Tabella 34
Volkshochschulen in Germania per Land,
numero iscritti e finanziamento pubblico
(in migliaia di euro, anno 2008)
LAND
Baden-Württemberg
Bayern
Berlin
Brandenburg
Bremen
Hamburg
Hessen
Mecklenburg-Vorpommern
Niedersachsen
Nordrhein-Westfalen
Rheinland-Pfalz
Saarland
Sachsen
Sachsen-Anhalt
Schleswig-Holstein
Thüringen
TOTALE GERMANIA
Sedi centrali
174
190
12
20
2
1
32
18
61
135
73
16
26
19
155
23
957
Sedi distaccate
734
617
9
38
5
13
240
17
329
219
303
58
40
22
8
67
2.719
N. iscritti
1.214.020
1.486.950
227.083
62.007
51.292
82.430
445.044
59.972
690.566
1.201.762
302.159
69.974
157.425
77.855
271.334
103.471
6.503.344
Finanziamento
138.289
157.365
33.453
9.677
9.906
13.327
78.210
10.191
158.186
231.980
35.259
11.957
21.423
11.757
36.475
13.491
970.945
Fonte: DIE, Volkshochschulen-Statistik, 2008
Tradizionalmente l’offerta formativa delle Volkshochschulen è divisa in 6 aree tematiche (Tabella 35).
Tra queste le Lingue e la Salute con il 30% dei corsi risultano le più seguite. La lingua italiana è la terza
lingua più studiata in Germania dopo l’Inglese e lo Spagnolo.
A fronte di oltre 6 milioni e mezzo di partecipanti ai corsi si effettuano oltre 15 milioni di ore di lezione per
un totale di 569.108 corsi. La partecipazione media per corso è pari a 11,4 persone e le ore medie per
corso sono 26,6. A seconda delle aree tematiche cambiano le medie del numero dei partecipanti così il
numero medio delle ore. Infatti, le ore di un corso per conseguire un titolo di studio sono oltre 137, per le
lingue sono 36,2 mentre il numero di ore per corsi su politica e società è di 14,4 ore pro corso.
Tabella 35
Corsi, ore di lezione e iscritti secondo le aree tematiche
svolti nelle Volkshochschulen
(anno 2008)
Politica, società e ambiente
Cultura e arte
Salute e benessere
Lingue
Lavoro-Professioni
Titoli di studio
Totale
N. corsi
Ore di lezione
Iscritti
% sui corsi
47.780
90.611
170.569
175.207
74.248
10.693
569.108
687.875
1.629.884
2.733.417
6.346.211
2.260.828
1.470.307
15.128.122
750.143
975.973
2.073.162
1.858.213
713.115
132.738
6.503.344
8.4
15.9
30.0
30.8
13.0
1.9
100.0
Media
partecipanti
per corso
15.7
10.8
12.2
10.6
9.6
12.4
11.4
Media ore
per corso
14.4
18.0
16.0
36.2
30.4
137.5
26.6
Fonte: DIE, Volkshochschulen-Statistik, 2008
183
La maggioranza dei corsi ha una cadenza settimanale (il 63,9% degli iscritti frequenta 1 corso a settimana, e il 39% del totale lo frequenta di sera). I corsi intensivi (più volte a settimana) rappresentano il 20,9%
delle frequenze.
Viaggi e mostre. Il sistema dei viaggi culturali è fortemente sviluppato in tutte le Volkshochschulen. Nel
2008 sono stati effettuati 8.710 viaggi con la partecipazione di 202.307 persone. Hanno partecipato a visite culturali in occasioni di mostre 847.886 persone che hanno visitato 1.720 mostre.
I partecipanti
La partecipazione vede il coinvolgimento di tutti i segmenti della popolazione adulta (Tabella 36). A seconda dell’area tematica cambia la tipologia dei partecipanti: così la percentuale dei disoccupati all’area lavoro/professioni è pari al 71,6%, la partecipazione degli stranieri ai corsi di lingue è del 95,9%. Importante è
la partecipazione degli anziani che incrementano la frequenza nei corsi per il lavoro, per le lingue e per l’area salute e benessere.
Tabella 36
Tipologia di partecipanti ai corsi nelle Volkshochschulen. Valori percentuali
per aree tematiche
(Statistica sul 17% del totale dei corsi, anno 2008)
Anziani
Politica, società e ambiente
Cultura e arte
Salute e benessere
Lingue
Lavoro-Professioni
Titoli di studio
7.5
7.6
23.8
30.4
30.6
0.1
Bassa
scolarità
0.8
0.3
0.3
30.4
0.2
68.1
Disoccupati
Stranieri
Disabili
Donne
Altri
5.5
0.6
0.5
6.9
71.6
14.9
1.8
0.1
0.3
95.9
0.5
1.4
1.6
22.1
24.8
5.3
7.1
23.1
11.5
19.3
50.9
1.9
16.0
0.3
13.4
18.9
23.7
22.2
16.7
5.0
Fonte: DIE, Volkshochschulen-Statistik, 2008
Gestione, finanziamenti, personale e spesa
Il 63,6% delle Volkshochschulen è attualmente gestito direttamente dai Comuni, il 3% da una SRL o un
ente privato e il 33% da Associazioni culturali o tematiche di professionisti. Il finanziamento pubblico nel
2008 ha quasi raggiunto 1 miliardo di euro (970 milioni).
I frequentanti contribuiscono con loro quote, che coprono a seconda delle realtà territoriali dal 30 al 50%
dei costi. Inoltre, dal gennaio 2010 la Germania ha emanato un voucher con un valore fino a 500 euro per
frequentare corsi presso le strutture formative, comprese le Volkshochschulen. Ne hanno diritto tutti i cittadini che hanno un reddito al di sotto di 25.600 euro annui. Si ottiene il finanziamento a patto che si spenda una cifra analoga di tasca propria.
Il personale e i docenti delle Volkshochschulen ammontano a circa 200.000 unità (Tabella 37), in larga
parte con incarichi professionali. I dipendenti diretti sono circa 8.000 mentre ben 191.462 sono a collaborazione. Il 65% del personale è di sesso femminile.
184
Tabella 37
Personale delle Volkshochschulen
(Anno 2008)
Direttivi
Amministrativi
955
3.704
Docenti
fissi
3.380
Docenti
a tempo determinato
965
Incarichi professionali
191.462
Fonte: DIE, Volkshochschulen-Statistik, 2008
Conclusioni
Il rapporto Volkshochschule-Statistik 2008 mostra l’importante lavoro che viene svolto nelle
Volkshochschulen della Germania.
Il finanziamento pubblico è elevato ma le Volkshochschulen sono anche cofinanziate dai partecipanti. Il
sistema crea un circuito economico non indifferente, oltre 500mila euro/anno solo considerando le retribuzioni del personale.
Tutto questo è reso possibile da un forte impegno dei territori, dal Land alla grande città, dall’aggregazione di piccoli Comuni alle più piccole comunità. Un impegno che trova la sua ragione d’essere nella funzione educativa e di coesione sociale svolto dalle Volkshochschulen.
I risultati parlano da soli, la Germania è una delle potenze più importanti e più stabili del mondo: l’esistenza
e le attività delle Volkshochschulen contribuiscono sicuramente a questa situazione.
185
4.3.2 Le biblioteche pubbliche
La lettura
Nel corso del 2009 il 45,1% degli italiani dai sei anni in su ha dichiarato di aver
letto almeno un libro nel tempo libero1 (Tabella 38). Tra i ragazzi e tra gli adulti fino a 54 anni la percentuale è superiore alla media della popolazione, ma già
dopo i 35 anni la quota di lettori scende sotto il 50%. In tutte le fasce d’età le
donne leggono più degli uomini.
Tabella 38
Popolazione (6-75 anni) che dichiara di aver letto libri nel corso del 2009
Hanno dichiarato di aver letto libri
45,1%
Da 1 a 3 libri
20,2%
Numero di libri letti
Da 4 a 6 libri
Da 7 a 11 libri 12 o più libri
11,0%
7,0%
6,9%
Fonte: indagine ISTAT Aspetti della vita quotidiana
Il livello di istruzione influenza fortemente la propensione alla lettura: il tasso
di lettura oscilla tra un 80,6% nei laureati e un modesto 28,4% in chi possiede
solo la licenza elementare.
Tra i dati relativi alla lettura per motivi professionali o di studio vediamo che
quasi sempre chi legge per “dovere” è già lettore “per piacere”, ed infatti solo il
4% della popolazione dichiara di leggere esclusivamente per ragioni legate allo
studio o all’attività lavorativa.
I lettori per motivi professionali, rilevati tra le persone con 15 anni e più, sono
circa 5 milioni, pari a circa il 10% della popolazione. La quota più elevata si
registra tra i 25 e i 34 anni, ma colpisce, e dovrebbe far riflettere, un dato: negli
anni in cui ci si affaccia sul mercato del lavoro e nel periodo che rappresenta il
cuore dell’età lavorativa, la quota di lettura professionale è pari a un misero
16,2%. Significativamente bassi anche altri due dati: tra le persone in cerca di
prima occupazione i lettori per motivi professionali corrispondono solo all’8,7%
e tra le persone in cerca di una nuova occupazione al 6,2%.
Considerando solo gli occupati, la percentuale di lettori per motivi professionali sale al 19,1%, ma non raggiunge il 40% neppure tra coloro che occupano le
posizioni più elevate (è pari al 38,4% tra dirigenti, imprenditori e professionisti e al 27,2% tra funzionari direttivi, quadri e impiegati, al 6,1% tra gli operai, all’11% tra i lavoratori autonomi). Negli anni successivi all’iscrizione all’al186
bo o all’avvio dell’attività lavorativa, i professionisti cominciano a leggere sempre meno.
Esiste una correlazione tra l’attività di formazione continua e gli indici di lettura: infatti, il 43,3% degli occupati che hanno frequentato corsi di formazione
legge per motivi professionali, rispetto a un 29,3% rilevato tra coloro che hanno
seguito corsi per motivi personali e un 11,8% tra chi non ha seguito nessun
corso.
Le biblioteche di base
Nel complesso, si può dire che il ruolo delle biblioteche italiane è piuttosto marginale nelle dinamiche dello studio e dell’apprendimento.
Con il 5,4% la biblioteca figurava nel 2006 al settimo posto nella graduatoria
dei diversi canali usati dai cittadini per procurarsi un libro; un decennio prima,
nel 1995, il ricorso al prestito bibliotecario era leggermente più elevato, essendo pari al 5,9%. Questo calo di circa centomila persone non riguarda uniformemente gli utenti di tutte le età, ma è il risultato di una forte e preoccupante contrazione verificatasi nel pubblico giovanile: è forte la contrazione fra i bambini
più piccoli; più contenuta quella della fascia d’età 18-19; sostanzialmente stabile l’uso da 20 a 59 anni; addirittura in crescita la quota di libri provenienti dalle
biblioteche letti dagli utenti dai 60 anni in su, che dall’1,8% sale fino a raggiungere percentuali del 3 o del 4%.
Il panorama del sistema bibliotecario italiano – che, pur con tutti i suoi limiti,
rimane l’infrastruttura culturale più capillarmente diffusa sul territorio (le
biblioteche sono più degli uffici postali!) – è molto articolato e fatto di tante
diverse componenti.
In Italia se ne contano complessivamente 16.7662 Senza considerare le biblioteche di conservazione e ricerca, appartenenti allo Stato o a importanti istituti culturali, e senza prendere in esame i dati sulle biblioteche scolastiche e universitarie, cui spetterebbe istituzionalmente il compito di supportare direttamente,
dall’interno, il sistema formativo, soffermiamoci sulla tipologia di biblioteche
che più coerentemente può porsi l’obiettivo di operare nel campo dell’educazione degli adulti: si tratta delle biblioteche pubbliche di base, dipendenti dagli enti locali e che spesso, come si diceva, costituiscono l’unico presidio culturale in piccoli Comuni o
periferie metropolitane.
Si valuta – non esistono purtroppo dati completi e attendibili – che le biblioteche di base siano sulla carta quasi 7.0003 (Tabella 39). Al di là di questo dato
numerico, si può stimare che per dimensioni e vitalità (si pensi agli orari di apertura, alla necessità di un ritmo costante di acquisizioni di novità librarie e così
via), soltanto circa la metà di queste strutture sia in grado realmente di offrire
servizi di qualità, come vedremo fra poco sulla base dei dati di utenza.
Manca inoltre qualsiasi attività di coordinamento sul territorio, né i tentativi
effettuati in questa direzione hanno prodotto conseguenze apprezzabili4.
187
Confrontando la distribuzione della popolazione e quella delle biblioteche pubbliche nelle diverse aree geografiche emergono squilibri evidenti, che inevitabilmente finiscono per condizionarne il tasso d’uso.
Tabella 39
Distribuzione delle biblioteche pubbliche degli enti locali nelle diverse aree
geografiche e percentuale della popolazione che le frequenta
Ripartizioni
geografiche
Percentuale della
popolazione residente
(2008)
Numero di biblioteche
pubbliche degli enti
locali e quota percentuale
sul totale (2010)
Percentuale della popolazione
di 11 anni e più che frequenta
le biblioteche (2006)
Nord-Ovest
26,51
2.266 (34%)
13,5
Nord-Est
19,11
1.599 (24%)
16,1
Centro
19,65
918 (14%)
11,1
Sud
23,56
1.244 (18%)
7,7
Isole
11,17
693 (10%)
9,4
Italia
100,00
6.720 (100%)
11,7
Fonte: nostre elaborazioni su dati ISTAT e Anagrafe delle biblioteche italiane
Se volessimo tener conto anche di altri dati, emergerebbe un divario ancora maggiore tra nord e sud del paese. Quasi la metà delle biblioteche italiane e gran
parte di quelle meridionali possiede meno di 5.000 volumi (il 20% ne possiede
meno di 2.000 e un altro 25% ha un patrimonio fra i 2.000 e i 5.000 volumi).
Una biblioteca incapace di rappresentare con la propria offerta libraria la ricchezza e l’articolazione della produzione editoriale e che, a causa di un budget
molto contenuto, non può acquistare tempestivamente le novità librarie, non è
in grado di esercitare alcun appeal sul pubblico dei suoi utenti potenziali, spesso destinati a rimanere tali proprio per questo motivo. Non deve sorprendere,
quindi, se metà delle biblioteche italiane effettua meno di 100 prestiti al mese.
I dati ISTAT ci dicono che i territori con la più alta quota di frequentatori di
biblioteche sono:
• il Trentino Alto Adige (con il 28,8% dei residenti) e la Valle d’Aosta
(27%);
• a grande distanza l’Emilia Romagna (16,1%), la Sardegna (14,6%), la
Lombardia (14,5%) e il Veneto (14,2%).
La Campania (6,2%) rappresenta il fanalino di coda.
Preoccupante la tendenza alla diminuzione di frequentanti: nel 2000 essi erano
il 13% e in sei anni sono diminuiti all’11,7%.
Anche le dimensioni del Comune di residenza incidono considerevolmente sull’uso; sempre rispetto al dato medio secondo il quale il 5,4% dei libri letti dagli
188
italiani proviene dalle biblioteche, questa percentuale risulta più bassa nelle
città metropolitane (2,6%) dove solitamente il servizio bibliotecario non riesce
a garantire una buona copertura del territorio urbano, mentre esso riveste un
ruolo un po’ più importante, ma pur sempre marginale, nei Comuni dove è
minore la diffusione di una rete commerciale di vendita: è il 7,5% nei Comuni
fra 2.000 e 10.000 abitanti e, nelle periferie urbane, è il 5,7%.
Mentre le differenze di genere incidono poco (la media è di 5,3 fra i maschi e 5,5
fra le femmine), tra gli utenti delle biblioteche è molto più marcata la differenza per classe d’età: si tratta di un pubblico prevalentemente giovanile, pur con
una tendenza al ribasso.
La biblioteca è intensamente utilizzata da parte dei lettori forti (13% di chi
legge più di 30 libri all’anno, mentre incide solo per il 3,8% tra chi legge 1-3
libri in un anno).
Le biblioteche, comunque, sono un luogo di apprendimento: oltre la metà dei
frequentati (51,7%) lo fa per motivi di studio e lavoro, solo il 36% per motivi
di svago, il 10,5% per entrambi i motivi.
Biblioteche e formazione degli adulti
Anche in paesi dove le biblioteche pubbliche marcano una presenza più incisiva
che in Italia, si registrano situazioni di difficoltà: in Gran Bretagna, patria della
public library, si è perso circa un quarto dell’utenza dei servizi di “pubblica lettura”, pur in presenza di un incremento delle vendite di libri e del tasso di lettura fra i cittadini5. Le cause di questi fenomeni sono svariate e mettono in discussione le finalità delle biblioteche di base: esse non sono, come abbiamo visto,
il luogo privilegiato dei lettori forti, che solitamente si procurano in libreria i
libri da leggere, e soffrono la concorrenza dei servizi informativi online e dell’enorme potenziale di offerta di Internet, che assorbe ormai gran parte della
domanda di ricerche legate all’attività scolastica, che in precedenza si rivolgeva
a questi istituti. Anche per queste ragioni, fin dai primi anni del Governo Blair
si è lavorato molto per fare della biblioteca il luogo in cui poter acquisire nuovi
skills richiesti dalla società contemporanea.
Malgrado i limiti e le difficoltà di cui si è detto, le biblioteche di base sono presenti sul terreno della formazione degli adulti. Le linee guida dell’IFLA
(International Federation of Library Associations and Institutions) e
dell’UNESCO definiscono così i loro scopi:
“Compito primario della biblioteca pubblica è offrire risorse e servizi, con una
varietà di mezzi di comunicazione, per soddisfare le esigenze individuali e collettive di istruzione, informazione e sviluppo personale”6.
189
Con specifico riferimento all’educazione degli adulti, le linee guida ricordano la
tradizione su cui si fonda la biblioteca pubblica – la cui fisionomia ha subìto
varie declinazioni nelle diverse circostanze di tempo e di luogo, dalle biblioteche popolari di stampo umanitario e fondate da movimenti di ispirazione politica o religiosa, passando attraverso la scoperta della multimedialità, fino ai più
recenti tentativi di occupare un ruolo nelle dinamiche del lifelong learning – e
così proseguono:
“Il bisogno di un’agenzia aperta a tutti che desse accesso al sapere a stampa o
in altre forme per sostenere l’istruzione formale e informale è stata la ragione
sottesa all’istituzione e al mantenimento della maggior parte delle biblioteche
pubbliche e ne costituisce ancora una funzione fondamentale. Lungo tutto l’arco della vita le persone hanno bisogno di istruzione, presso istituzioni come le
scuole e le università o in contesti meno formali collegati al loro lavoro e alla
vita quotidiana. L’apprendimento non termina con il completamento dell’istruzione vera e propria ma rappresenta, per la maggior parte delle persone,
un’attività che prosegue per tutta la vita. In una società sempre più complessa le persone avranno bisogno di acquisire nuove capacità in vari momenti
della loro vita e la biblioteca pubblica ha un ruolo importante nel favorire
questo processo”7.
La direttiva che viene dalle organizzazioni internazionali è chiara, quindi, e invita le biblioteche a individuare un proprio ruolo specifico nell’ambito della formazione permanente.
In molti paesi le biblioteche pubbliche sono impegnate in questo campo, e ciò
avviene con accentuazioni diverse a seconda del contesto culturale e socio-economico complessivo. Nelle nazioni in via di sviluppo, ad esempio, viene privilegiata un’attività di supporto al sistema scolastico. In alcuni paesi sviluppati,
l’attenzione è rivolta invece all’istruzione degli adulti o a forme di didattica
innovativa. A questo proposito è da citare il sostegno che le biblioteche pubbliche della provincia di Barcellona offrono agli iscritti ai corsi dell’università a
distanza della Catalogna; in Irlanda la National Adult Literacy Agency collabora con alcune biblioteche di contea, mettendo materiali didattici a disposizione
dei tutor e degli adulti iscritti ai corsi; in molti paesi si nota invece un forte
impegno nelle attività formative rivolte agli immigrati, sia per favorire l’inserimento lavorativo sia per promuovere l’apprendimento della lingua del paese
ospitante.
Qui ci muoviamo nel solco di una visione più estesa di ciò che le biblioteche
pubbliche hanno sempre fatto, più o meno efficacemente, nel campo della formazione dei loro utenti8. Se proviamo invece a leggere i compiti della biblioteca pubblica alla luce delle trasformazioni in atto, possiamo aggiungere qualche
altra considerazione. Le biblioteche di base possono costituire un punto di riferimento importante per chi è uscito dai tradizionali circuiti formativi, perché
190
sono strutture in cui si impara e si impara ad imparare, ma dove non si viene
giudicati per ciò che si è appreso. Esse possono anche svolgere una funzione di
riequilibrio in una società in cui non tutti godono di pari opportunità nell’accesso alla conoscenza. In questo senso, il caso più significativo è quello degli Idea
Store londinesi, descritti nel Box 8 pag. 195. È questo il punto di sintesi più
elevato raggiunto finora tra la mission della biblioteca pubblica e le attività di
formazione permanente e non a caso anche molte biblioteche italiane guardano
con interesse a questo modello9.
Qualche esperienza italiana
Non molto numerosi ma significativi sono gli esempi di biblioteche pubbliche
che hanno avviato attività formative finalizzate a supportare gli utenti che vivono con difficoltà i nuovi strumenti di accesso e gestione dell’informazione. In
alcuni casi sono stati realizzati veri e propri interventi didattici di primo livello, volti all’acquisizione di una literacy di base, in altri casi sono stati avviati
interventi finalizzati a far apprendere a utenti adulti competenze avanzate nell’uso della rete e dell’informazione da questa veicolata.
A scopo indicativo, possiamo ricordare l’esperienza della Biblioteca di Olgiate
Comasco, capofila del Sistema bibliotecario dell’Ovest Como, del quale fanno
parte altri 32 Comuni piccoli e medi. Sono stati programmati corsi di “Internet
consapevole”, inseriti nella programmazione annuale dell’Università degli
Adulti. Si tratta di un ciclo di quattro lezioni di due ore ciascuna, condotte dalla
bibliotecaria, nel corso delle quali l’utente viene avvicinato a Internet e ai meccanismi della ricerca di informazioni nel web. Gli effetti di queste attività non
si sono fatti attendere: a un aumento degli iscritti alla biblioteca e dei volumi
presi in prestito si accompagna un uso diverso delle tecnologie in biblioteca,
testimoniato da un più frequente ricorso al catalogo elettronico e da una navigazione in Internet più disinvolta e meno assistita.
La Biblioteca di Vimercate offre corsi di formazione all’uso della biblioteca dal
1993, quando è stata inaugurata la nuova sede ed è stato effettuato il passaggio
dal catalogo cartaceo a quello elettronico. Dal 2000 la biblioteca fornisce anche,
previo pagamento di una quota di iscrizione, corsi di istruzione all’uso del computer, di Internet, dei fogli elettronici e della redazione di testi. Essi si svolgono in due appuntamenti di tre ore ciascuno e prevedono una partecipazione di 8
persone al massimo. I corsi hanno carattere pratico, con molti esercizi, e sono frequentati in prevalenza da adulti di età compresa fra i 40 e i 60 anni.
Di segno un po’ diverso le attività formative offerte dalla Biblioteca Lazzerini di
Prato, città con una fortissima presenza di immigrati (in prevalenza cinesi, albanesi, arabi, pakistani). Qui da oltre un decennio vengono organizzate attività
finalizzate a promuovere la comunicazione interculturale. Anche questa biblio191
teca è molto attiva sul versante dell’assistenza e della consulenza personalizzata
alla ricerca bibliografica e all’uso delle risorse informative e documentarie.
Si tratta, comunque, di esperienze spontanee, non coordinate tra loro, non inserite all’interno di un’azione di sistema.
Le moderne tecnologie di rete
Di fronte ai mutamenti indotti dalla diffusione delle tecnologie di rete, proprio in
funzione dell’apprendimento, le biblioteche possono svolgere una funzione preziosa.
Una delle insidie maggiori che si cela dentro Internet è quella della disintermediazione:
l’apparente facilità con la quale si può accedere a un’enorme quantità di contenuti e
le difficoltà nel selezionare fonti e strumenti affidabili rispetto a ciò che invece affidabile non è, impongono una riflessione.
Si sta producendo una pericolosa tendenza alla semplificazione. Uno studio condotto
in Gran Bretagna nel 200810 ha evidenziato che le strategie di ricerca che i ragazzini
e gli studenti universitari adottano quando sono di fronte a un PC sono praticamente identiche e sempre molto elementari, fondate su pochissime parole chiave, e tendono ad arrestarsi di fronte ai primi risultati che un motore di ricerca recupera, senza
che ne vengano valutate la pertinenza, la rilevanza e l’attendibilità, e quindi senza che
si possa produrre un’appropriazione critica e consapevole dei contenuti.
Questa auto limitazione delle possibilità di ricerca, come effetto collaterale dell’evoluzione tecnologica, può arrivare a spegnere qualsiasi curiosità e, quando la “Google
generation” avrà raggiunto l’età matura e i suoi esponenti saranno divenuti impiegati, professionisti, ricercatori, l’impoverimento di cui si sta parlando potrebbe avere
conseguenze gravi sul terreno dell’auto apprendimento, della formazione continua,
del costante aggiornamento delle competenze in tutti i settori.
Questa divagazione (che forse è tale solo in apparenza, perché le questioni legate alla
formazione continua sono oggi strettamente legate all’uso ottimale delle tecnologie)
è servita per introdurre un tema, che da qualche tempo è al centro del dibattito biblioteconomico internazionale. Le biblioteche di base – e cioè quella tipologia di biblioteca capillarmente diffusa sul territorio e che si rivolge a tutti, non solo a chi è animato da una forte domanda di “cultura” o a chi esercita abitualmente un’attività di
studio o di ricerca – può costituire il presidio privilegiato per un lavoro di nuova alfabetizzazione di massa nei confronti degli strumenti e delle opportunità offerte dalla rete.
Le linee guida IFLA/Unesco, già citate in precedenza, dicono che
“la biblioteca pubblica dovrebbe sostenere le attività che mettono le persone in
condizioni di fare il miglior uso possibile delle moderne tecnologie e appoggiare le altre istituzioni che combattono l’analfabetismo e promuovono la conoscenza dei mezzi di comunicazione”11.
192
L’attività di mediazione esercitata dalle biblioteche può avere una funzione formativa importante, forse proprio perché implicita: l’esperienza di contatto che
gli utenti hanno con le biblioteche attraverso i loro servizi informativi e di orientamento può fornire, in modo discreto e non invasivo, la capacità di sviluppare
abilità per l’apprendimento lungo tutto l’arco della vita. Questi obiettivi presuppongono biblioteche:
• capaci di erogare servizi di qualità;
• ospitate in sedi accoglienti;
• aggiornate nelle loro raccolte e negli strumenti tecnologici;
• dotate di personale professionalizzato.
Viceversa, assistiamo a un depauperamento dei bilanci, al blocco del turnover,
alla contrazione degli orari di apertura al pubblico.
Da circa vent’anni il tema della information literacy si è imposto all’attenzione dei
bibliotecari di tutto il mondo e su questo terreno, che forse è quello che maggiormente caratterizza le sfide poste dalla società dell’informazione, possiamo
individuare in sintesi il compito specifico delle biblioteche di base. A chi vuol
essere information literate si richiede la capacità di recuperare l’informazione
attuando strategie di ricerca efficaci, selezionare e valutare l’informazione recuperata, organizzare e rielaborare i contenuti, saper presentare e comunicare i
risultati del proprio lavoro12.
Le proposte di TreeLLLe
Proposta 45: dotare di maggiori risorse le biblioteche pubbliche di base, dipendenti dagli Enti locali, al fine di farne anche centri polivalenti per l’educazione degli adulti, con attenzione all’information literacy (vedi Box 8 pag. 195)
Le biblioteche pubbliche di base potrebbero esercitare un ruolo importante nella
società dell’apprendimento costruendo una nuova identità per la biblioteca pubblica, esaltando la sua funzione sociale e aggregatrice, più specificamente orientata
all’educazione degli adulti.
Un’idea di biblioteca pubblica che abbia questo respiro potrebbe esercitare una
capacità di attrazione non solo sul pubblico giovanile ma sull’intera cittadinanza,
compresa la popolazione adulta, cui vanno offerte motivazioni nuove che facciano
della biblioteca un punto di riferimento affidabile cui rivolgersi per soddisfare bisogni formativi, informativi e di socializzazione propri della società attuale. Tutto ciò
è opportuno soprattutto per i Comuni da 2000 a 10.000 abitanti e per i quartieri
periferici delle metropoli.
Maggiori risorse sono necessarie per erogare servizi di qualità in sedi accoglienti,
per aggiornare la raccolta e gli strumenti tecnologici, per disporre di personale professionale anche per sviluppare programmi di information literacy.
193
Note
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
Per una più dettagliata analisi dei dati sulla lettura nel nostro paese, vedi G. Solimine, L’Italia
che legge, Roma-Bari, Laterza, 2010.
Dato dell’Anagrafe delle biblioteche italiane, aggiornato al 10 luglio 2010.
Cfr. <http://anagrafe.iccu.sbn.it>.
In questo caso l’Anagrafe censisce 6.720 biblioteche appartenenti a Enti territoriali (i Comuni
in Italia sono 8094).
Ci riferiamo in particolare al documento Linee di politica bibliotecaria per le autonomie, approvato
nel 2003 dalla Conferenza dei Presidenti delle Regioni e della Province autonome,
dall’Associazione nazionale dei comuni italiani (ANCI) e dall’Unione delle province italiane
(UPI).
Cfr.<http://www.regioni.it/fascicoli_conferen/Presidenti/2003/ottobre/23_10_03/su_biblioteche_linee.htm>.
Un inequivocabile declino è documentato dalle statistiche prodotte dal CIPFA (The Chartered
Institute of Public Finance & Accountancy). Cfr. <http://www.cipfastats.net/>.
Il servizio bibliotecario pubblico: linee guida IFLA/Unesco per lo sviluppo, Roma, AIB, 2002, p. 19.
Ivi, p. 20.
Si legga in proposito il volume di Patrizia Lucchini, La formazione dell’utente: metodi e strategie
per apprendere la biblioteca, Milano, Editrice Bibliografica, 2007.
Per una più ampia descrizione di questa esperienza, e per qualche ipotesi di una sua riproposizione in Italia, si rinvia a Fabio Severino – Giovanni Solimine, Un nuovo modello di biblioteca
civica. Il caso Idea Store di Londra, in «Economia della cultura», 18 (2008), n. 2, p. 225-234.
University College London, Information Behaviour of the Researcher of the Future,
<http://jisc.ac.uk/media/documents/programmes/reppres/gg_final_keynote_11012008.pdf>.
Il servizio bibliotecario pubblico cit., p. 48.
Si vedano in proposito le linee guida elaborate dall’ALA (American Library Association) e tradotte in italiano dalla Commissione nazionale Università e Ricerca dell’AIB (Associazione
Italiana Biblioteche): cfr. <http://www.aib.it/aib/commiss/cnur/tracrl.htm3>. Le definizioni e
le sintesi prodotte dall’ALA vengono assunte quasi fedelmente dal documento curato dall’IFLA
nel 2006 Guidelines on information literacy for lifelong learning <http:
//www.ifla.org/org/VII/s42/pub/IL-Guidelines 2006.pdf>.
Bibliografia
Lucchini P., La formazione dell’utente: metodi e strategie per apprendere la biblioteca,
Milano, Editrice Bibliografica, 2007.
Severino F., Solimine G., Un nuovo modello di biblioteca civica. Il caso Idea Store di
Londra, in «Economia della cultura», 18, n. 2, p. 225-234, 2008.
Solimine G., L’Italia che legge, Roma-Bari, Laterza, 2010.
194
BOX 8
“IDEA STORE”IN UK: UNA BIBLIOTECA CENTRO POLIVALENTE
PER L’EDUCAZIONE DEGLI ADULTI
Molto interessante l’esperienza condotta nel municipio londinese di Tower Hamlets (215.000 abitanti, di cui
circa il 50% appartenente a minoranze etniche, con un reddito pro capite che si colloca al quart’ultimo posto
in Gran Bretagna), in cui la “classica” public library si è innovata attraverso l’integrazione con l’altra nobile tradizione britannica dell’educazione degli adulti: così sono nati gli Idea Store (http://www.ideastore.co.uk).
Questi “magazzini delle idee” sono una catena di centri polivalenti con servizi bibliotecari, corsi di formazione
per il tempo libero per adulti e famiglie, servizi informativi e di intrattenimento.
Le idee-forza su cui si fonda il progetto sono:
• posizionare le biblioteche nel luogo giusto: piuttosto che escogitare sistemi per “portare i cittadini in
biblioteca”, si è preferito “portare la biblioteca nei luoghi che i cittadini frequentano maggiormente” (ad
esempio, il mercato rionale di Whitechapel oppure il centro commerciale collocato nella nuova City a
Canary Wharf);
• puntare sugli orari giusti e facilmente memorizzabili, con ben 71 ore settimanali di apertura, stabili durante l’intero arco dell’anno, 7 giorni su 7, 360 giorni all’anno (dal lunedì al giovedì 9-21, venerdì 9-18, sabato 9-17, domenica 10-16 a Bow e Chrisp Street, 11-17 a Whitechapel, 12-18 a Canary Wharf);
• offrire un mix di servizi bibliotecari e multimediali, di servizi rivolti all’intera famiglia per il suo benessere inteso in senso ampio (salute, tempo libero, hobby e bricolage; attività assistenziali e di patronato;
campagne civiche di sensibilizzazione), di attività di formazione continua per adulti (oltre 1.300 corsi
all’anno di lingue, alfabetizzazione informatica, formazione di base, formazione professionale);
• stile di servizio ispirato a quello delle strutture commerciali (trasparenza degli edifici, cura e qualità delle
sedi e degli elementi di arredo, personale in divisa facilmente riconoscibile che si aggira negli ambienti);
• inserimento delle strutture all’interno di piani di riqualificazione urbana (interessanti sinergie con gli esercizi commerciali e crescita del valore delle aree e degli immobili);
• assenza di barriere (nessun controllo all’ingresso, nessun passaggio obbligato attraverso tornelli o banconi, postazioni self-service per il prestito e rispetto della privacy degli utenti);
• nessuna proibizione (non è vietato mangiare, non è vietato bere, non è vietato usare il cellulare, non è
vietato parlare);
• forte motivazione del personale (tutti gli operatori hanno scelto di passare dalle vecchie biblioteche agli
Idea Store; molti sono giovani e molti appartengono alle minoranze etniche residenti nel comune; tutti
ruotano su tutte le mansioni; i turni festivi sono retribuiti con una maggiorazione di un terzo sulla paga
oraria).
In sintesi, si può ritenere che le cause del successo degli Idea Store (in quattro anni le presenze annue sono
passate da 1.100.000 a 2.000.000) possono essere individuate in questi elementi qualificanti:
• aver messo a fuoco un modello di biblioteca centrato sulle esigenze della società dell’apprendimento;
• aver individuato il punto d’incontro fra info, edu ed entertainement nel sapere diffuso, che è fatto di interessi culturali e interessi pratici, di cultura, senso critico e know how;
• aver proposto una gamma di servizi realmente per tutti, per chi vuole leggere e per chi vuole vedere o
ascoltare, per chi vuole studiare e per chi ha voglia di divertirsi, per chi vuole incontrare gente, per chi
vuole esprimersi e dare fiato alla propria creatività, per chi cerca il benessere nella danza, nei massaggi o nello yoga, per chi vuole imparare una lingua, per chi vuole imparare un mestiere, per chi vuole organizzare nella caffetteria dell’Idea Store la propria festa di compleanno, e così via;
• aver innestato tutto questo su un qualcosa che non possiamo non definire una biblioteca, perché gli Idea
Store sono dotati di biblioteche di prim’ordine, nell’ordine di svariate decine di migliaia di volumi.
195
4.3.3 Consumi culturali, indici di lettura, uso dei media:
l’importanza della information literacy
Nel capitolo 1.3 della Prima Parte, dedicato alla partecipazione alla vita della
cultura in Italia, abbiamo esaminato i dati principali della partecipazione alla
vita culturale del nostro paese. Qui vogliamo riprendere l’argomento da due
punti di vista particolarmente significativi: da un lato il confronto tra l’Italia e
i principali paesi europei per quanto riguarda la spesa per consumi culturali e gli
indici di lettura, dall’altro la capacità dei nostri cittadini di fare un uso critico
dell’informazione fornita dai mezzi di comunicazione di massa, tradizionali e di
nuova generazione (la cosiddetta information literacy).
La spesa per consumi culturali (Figura 23) e gli indici di lettura sono due elementi assai significativi dello sviluppo culturale di una nazione, strettamente
correlati, come è facile constatare dalle statistiche, ai livelli di istruzione di ciascun paese. I dati che emergono da questo confronto non sono tranquillizzanti.
Figura 23
La spesa delle famiglie per ricreazione e cultura in percentuale
sulla spesa totale per consumi finali (anno 2006)
15%
11,8
11,7
11,6
11,3
11,3
10,4
9,3
10%
9,4
9,3
8,9
7,4
6,9
5%
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ito
0%
FOntE: ISTAT
Per quanto riguarda la spesa per consumi culturali, espressa in percentuale sulla spesa
totale per i consumi finali, essa ammonta all’11,8% in Finlandia (e non è certo un
caso che proprio questo paese si aggiudichi regolarmente il primo posto nelle
196
prove OCSE-PISA sulle varie forme di literacy dei quindicenni), scende al 9,4%
nella media dei 27 paesi appartenenti all’Unione Europea e addirittura al 6,9% in
Italia, che si colloca all’ultimo posto fra i paesi considerati, due punti percentuali
sotto la Spagna e mezzo punto sotto la Grecia.
In particolare, per quanto riguarda gli indici di lettura, ricordiamo che solo il
45,1% degli italiani legge, o meglio dichiara di leggere, nel tempo libero almeno un libro nel corso di un anno (Tabella 38). Per quanto riguarda la lettura dei
quotidiani, un italiano su due non legge alcun quotidiano, o lo legge solo occasionalmente.
Si potrebbe obiettare, a dire il vero, che la visione dello sviluppo culturale fornita da
questi due dati non è al passo con i tempi, poiché privilegia le forme tradizionali di
cultura (carta stampata e consumi culturali elevati, quali mostre, concerti, musei e così
via) rispetto a quelle gratuite o semigratuite che fanno capo ai nuovi media. Le nuove
e pressoché infinite opportunità fornite dal World Wide Web, la rete di Internet, tra
le giovani generazioni europee stanno infatti affermandosi come la fonte principale sia
di apprendimento, sia di svago nel tempo libero.
La diffusione della ICT e l’uso dei media
L’Italia è ancora molto indietro al riguardo. La dotazione di strumenti informatici è ormai
presente in quasi tutti gli istituti scolastici, ma il loro uso didattico è ancora assai
insoddisfacente, poiché la maggior parte degli insegnanti (che in Italia hanno un’età media di oltre 50 anni) non ne incentiva l’uso, e tanto meno riesce a integrarli
nella propria attività didattica. In questo modo non si favorisce non tanto il loro uso
(poiché i giovani lo apprendono da sé, senza bisogno del docente), quanto il loro uso
critico. Rischiamo così che i nostri giovani si abituino a ricavare dai siti internet i
più diversi contenuti senza sottoporli a quel vaglio critico che presuppone una solida preparazione culturale di base e senza la conoscenza dei modi attraverso i quali si
costituisce l’offerta informativa e culturale della rete.
Per quanto riguarda la popolazione italiana nel suo complesso, i dati generali sull’uso
dei media rivelano l’arretratezza del nostro paese, come rilevato da fonti diverse
(Assinform, Fondazione Mondo Digitale, ISTAT). In particolare, secondo un’indagine CENSIS su dati dell’anno 2007 l’utenza dei vari media (misurata con una frequenza di almeno tre volte alla settimana) colloca di gran lunga al primo posto la
televisione, che si aggiudica il 91,4%. del campione sottoposto a verifica. L’uso regolare di Internet si colloca soltanto al 38,3% del campione, e ancora più in basso
(20,6%) la TV satellitare. Secondo uno dei massimi esperti mondiali di problemi
della comunicazione, Manuel Castells, la TV satellitare, e soprattutto Internet, costituiscono la grande opportunità per un’informazione più libera e il più possibile completa delle future generazioni. Oggi i giovani crescono immersi in Internet ed è facile immaginare che i comportamenti che si stanno sviluppando attualmente saranno
lo standard universale di domani.
197
Strumenti usati per formarsi un’opinione sull’offerta politica
L’importanza e la capacità di condizionamento della televisione tradizionale vanno
messe in luce anche per quanto riguarda le scelte politiche. In base a un’indagine condotta dal CENSIS sui fattori determinanti nella scelta del voto alle elezioni politiche
del 2006 e del 2008, nelle risposte degli intervistati la televisione si è aggiudicata un
elevatissimo 78,3% nel 2008, mentre l’influenza dei quotidiani e delle riviste
ammonta solo al 20,8%, quella della famiglia al 16,7%, la partecipazione diretta a
incontri politici non vale più del 9,8% e il materiale di propaganda dei partiti,
Internet e la radio attorno all’8% ciascuno (dati 2008). Tutto ciò benché la stessa indagine metta in evidenza che soltanto il 35% dei cittadini ha fiducia nei contenuti informativi della televisione e di Internet, e il 36%, nella carta stampata.
Per il futuro l’importanza dei differenti strumenti della comunicazione di massa può
mutare ancora ed essere dirompente. Anche lo straordinario successo della campagna
elettorale dell’attuale presidente degli Stati Uniti Barack Obama, svoltasi in gran
parte su Internet e finanziata soprattutto da un numero altissimo di piccoli contributi raccolti attraverso la rete (58 milioni di dollari) è l’ultima importantissima dimostrazione dell’importanza dei nuovi strumenti di comunicazione di massa.
In proposito, sono prevedibili spazi crescenti, ad esempio, per l’ultima frontiera della
partecipazione, la “democrazia televisiva” attraverso il televoto. E. Berselli
(“Repubblica” 21.1.10) riferisce che lo show americano American Idol arriva a raccogliere 25 milioni di televoti alla settimana (con gli SMS sostanzialmente gratuiti) e
sottolinea quanto sia radicale il possibile passaggio dalla tirannia della maggioranza,
già paventata da Tocqueville, alla possibile dittatura del televoto, dove le opinioni si
potrebbero manifestare senza tempi di riflessione e senza filtri di sorta.
Di particolare interesse in proposito sono le originali ricerche e proposte di J. Fishkin
e B. Ackerman per sperimentare nuove forme di “democrazia deliberativa”: questa si
basa sull’idea che la legittimazione di un ordinamento dipende dalla capacità dei cittadini di discutere e decidere di affari pubblici, dopo essere stati informati attraverso
modalità organizzative originali (ad esempio il deliberation day). Il deliberation day indica il processo attraverso il quale si esamina una questione o un progetto e se ne ponderano con attenzione i vantaggi e gli svantaggi prima di prendere una decisione. Il
deliberation day potrebbe essere una giornata festiva da istituire in prossimità di elezioni o referendum. Tutto ciò mira a che si realizzino “sondaggi informati” e più in
generale a una “democrazia della discussione”. Negli Stati Uniti i sondaggi deliberativi sono già stati ampiamente testati e si è dimostrato che tra i partecipanti ci sono
notevoli scostamenti tra l’opinione di partenza e quella di arrivo.
L’importanza dell’information literacy
Da tutto ciò risulta evidente che nel nostro tempo è di straordinaria importanza
una, per così dire, nuova competenza: l’information literacy, cioè la capacità di gestire e valutare criticamente il flusso crescente di informazioni e immagini in cui
siamo immersi dai nuovi mezzi di comunicazione di massa. Programmi di informa198
tion literacy aiuterebbero i cittadini adulti a distinguere le fonti, a separare i fatti
dalle opinioni, le verità comprovate dalle finzioni, i segnali dal rumore.
Il bisogno di information literacy trova ormai riconoscimenti a livello mondiale, tanto
che lo stesso presidente Obama ha voluto che il mese di ottobre 2009 fosse dedicato negli USA a questo tema. Nel comunicato che lanciava l’iniziativa egli ha ricordato la necessità per ogni cittadino di imparare a valutare l’informazione, sottolineato l’importanza vitale di questa nuova competenza e il ruolo che le istituzioni
come le università e le biblioteche svolgono in proposito.
La proposta di TreeLLLe
Proposta 46: sviluppare l’information literacy come filtro critico ai pervasivi
strumenti della comunicazione di massa
È importante sviluppare l’information literacy, cioè la capacità di gestire e valutare criticamente il flusso di informazioni e di immagini veicolate dai nuovi mezzi
di comunicazione di massa (TV, Internet, etc.). È probabile che soltanto un deciso miglioramento del sistema di istruzione di base, insieme a programmi specifici di information literacy dedicati agli adulti, possano aiutare la popolazione a
muoversi con un sufficiente grado di autonomia e spirito critico nei confronti dei
nuovi mezzi di comunicazione di massa.
Bibliografia
Bosetti, G. & Maffettone, S. (a cura di), Democrazia deliberativa: cosa è, Roma,
Luiss University Press, 2004.
ISTAT, La vita quotidiana nel 2007. Indagine multiscopo sulle famiglie “Aspetti
della vita quotidiana”. Anno 2007, Roma, ISTAT, 2008.
199
4.3.4 Lo sviluppo di una cittadinanza attiva secondo
l’Unione Europea
Lo sviluppo di forme di cittadinanza attiva è parte integrante della strategia di
Lisbona volta a promuovere e rafforzare la coesione sociale nell’area dell’Unione
Europea e trova la sua giustificazione in una duplice esigenza:
a) far fronte a manifestazioni crescenti di disaffezione da parte dei cittadini
europei nei confronti di alcune forme tradizionali di partecipazione politica, in primo luogo l’esercizio del diritto di voto;
b) contrastare il manifestarsi di fenomeni di xenofobia e di razzismo nei paesi
membri.
L’articolo 5 della decisione del Parlamento europeo e del Consiglio sull’istituzione del programma “Europa per i cittadini”, mirante a promuovere la cittadinanza europea attiva, indica in modo esplicito questo obiettivo.
“La promozione della cittadinanza attiva costituisce un elemento fondamentale per rafforzare non solo la lotta contro il razzismo, la xenofobia e l’intolleranza, ma anche la coesione e lo sviluppo della democrazia.1”
La “cittadinanza attiva” viene intesa a livello comunitario con una accezione
molto ampia, non limitata alla sola sfera della vita politica, e include la partecipazione alla vita della società civile e della comunità, nel rispetto di alcuni valori fondamentali (diritti umani, democrazia, rispetto per le differenze culturali)
che caratterizzano la partecipazione dei cittadini in senso democratico.
Si concretizza, quindi, non soltanto nell’impegno in forme convenzionali di
democrazia rappresentativa e nelle organizzazioni politiche attraverso le quali
queste forme di partecipazione si organizzano e si realizzano, ma anche nella disponibilità a impegnarsi in forme meno convenzionali di partecipazione che si
concretizzano nella adesione a organizzazioni non governative, ad attività di
volontariato, a manifestazioni su tematiche specifiche di interesse collettivo, sia
a livello nazionale che a livello locale.
200
BOX 9
IL PROGETTO EUROPEO
“ACTIVE CITIZENSHIP FOR DEMOCRACY”, 2004
Nell’ambito del progetto “Active Citizenship for Democracy”, coordinato dal Centre for Research on
Lifelong Learning (CRELL) della Commissione Europea, è stata elaborata la seguente definizione di cittadinanza attiva.
Partecipazione alla società civile, alla vita della comunità e alla vita politica, caratterizzata dal rispetto reciproco e dalla non-violenza e in accordo con i principi dei diritti umani e della democrazia.
In un altro documento elaborato nell’ambito dello stesso progetto vengono individuate quattro dimensioni
della cittadinanza:
• cittadinanza politica, che si riferisce alla partecipazione dei cittadini ai processi decisionali, a livello
locale, regionale, nazionale, europeo;
• cittadinanza sociale, che si riferisce alle relazioni tra i cittadini a livello di società civile;
• cittadinanza culturale, che si riferisce alla consapevolezza che i cittadini hanno di condividere un
comune patrimonio culturale e allo sviluppo di una propria identità, nell’ambito di una società multiculturale;
• cittadinanza economica, che si riferisce alle relazioni tra i cittadini in quanto produttori e consumatori.
A ciascuna di queste diverse dimensioni della cittadinanza corrispondono bisogni di costruzione e di sviluppo di competenze specifiche.
Altre iniziative della Commissione europea nel campo della cittadinanza attiva
1. La Commissione nel 2006 ha promosso il programma “L’Europa per i cittadini” (2007-2013). Il programma si articola in varie “azioni” (Azione 1: Cittadini attivi per l’Europa; Azione 2: Società civile attiva in Europa; Azione 3: Insieme per l’Europa; Azione 4: Memoria europea attiva). L’EACEA (Education,
Audiovisual and Culture Executive Agency) è responsabile della maggior parte delle azioni previste
dal programma.
2.
Portale Europeo per i Giovani. Il portale http://europa.eu/youth/about_it.html è un'iniziativa della
Commissione Europea, il cui scopo principale è “offrire al maggior numero di giovani possibile facile e rapido accesso all'informazione europea di loro interesse. L'obiettivo finale del portale è di accrescere la partecipazione dei giovani alla vita pubblica e contribuire alla loro cittadinanza attiva. I destinatari sono giovani tra i 15 e i 25 anni. Il portale, inoltre, intende andare incontro alle esigenze di
coloro che lavorano con i giovani”.
3.
La Commissione europea (Directorate General for Education and Culture – DG EAC) ha finanziato la
partecipazione dei Paesi europei all’ International Civic and Citizenship Education Study (ICCS), promosso dall’IEA. All’indagine hanno partecipato 38 paesi, di cui 26 europei. Il finanziamento si riferisce ai costi internazionali dell’indagine (quota di partecipazione di ciascun paese). Il rapporto verrà
presentato a Bruxelles il 22 novembre 2010 in una conferenza stampa congiunta IEA – Commissione,
che si terrà in una delle sedi della Commissione.
201
La situazione italiana: verso nuove forme di cittadinanza attiva?
Anche la situazione italiana presenta alcune delle caratteristiche comuni a vari
paesi che hanno portato alla individuazione di una sorta di privatizzazione del
capitale sociale: diminuzione della fiducia nei confronti di una parte delle istituzioni (non soltanto politiche, ma anche religiose) e contemporaneo relativo
aumento della fiducia nelle relazioni interindividuali, accompagnati da cambiamenti nei sistemi di valori e nei comportamenti sociali. Questa evoluzione
potrebbe anche essere connessa all’aumento del livello di istruzione e a uno spostamento di valori verso una maggiore fiducia nell’autonomia personale e di
minore sottomissione all’autorità (OCSE 2001).
La partecipazione elettorale e l’interesse per la politica
Anche nel nostro paese si è registrata negli ultimi anni una crescente disaffezione da parte dei cittadini nei confronti di alcune forme di partecipazione democratica, in particolare nei confronti della partecipazione elettorale. Se si considerano gli ultimi vent’anni, l’affluenza alle urne è andata progressivamente diminuendo sia nelle elezioni politiche, sia in quelle europee che nei vari referendum.
A questa diminuzione della partecipazione elettorale, non sembrerebbe, però,
corrispondere una parallela diminuzione di interesse per la politica in generale.
L’indagine multiscopo annuale sulle famiglie italiane condotta dall’ISTAT nel
2008 registra un interesse sostanzialmente costante nel periodo che va dal 2001
al 2007, come si può vedere nella Tabella 40.
Tabella 40
Persone di 14 anni e più per frequenza con cui parlano di politica e che
hanno svolto le attività indicate (Anni 2001-2007)
(per 100 persone di 14 anni e più)
ANNI
Parlano di
Non parlano
politica una o più
mai di
volte a settimana
politica
Partecipazione Partecipazione Ascolto
Attività
a comizi (a)
a cortei (a)
dibattito
gratuite
politico (a) per partito
2001
33,8
35,0
6,2
4,9
23,1
1,5
2,7
2002
34,9
36,8
5,4
5,7
20,4
1,3
2,3
2003
33,7
35,5
5,7
6,8
21,1
1,3
2,6
2005
32,8
34,2
6,9
5,5
22,3
1,7
2,7
2006
37,0
35,2
5,2
4,9
24,1
1,4
3,0
2007
41,2
31,5
5,9
4,3
24,6
1,4
2,6
(a) Negli ultimi 12 mesi precedenti l’intervista
Fonte: ISTAT 2008
202
Soldi
a un
partito
Tabella 41
Persone di 14 anni e più che negli ultimi 12 mesi hanno svolto almeno una
delle attività sociali indicate e persone di 6 anni e più per frequenza con cui
si sono recate in luogo di culto (Anni 2001-2007)
ANNI
Riunioni in
associazioni
ecologiche
per i diritti
civili, per la
pace (a) (c)
Riunioni in
associazioni
culturali
ricreative o di
altro tipo
(a) (c)
Attività
gratuite in
associazioni di
volontariato
(a) (c)
Versare
soldi ad una
associazione
(a) (c)
2001
2002
2003
2005
2006
2007
1,8
1,7
2,3
2,0
2,0
1,9
8,4
7,6
8,9
8,8
9,0
9,1
8,4
8,0
8,5
8,9
8,8
9,2
17,3
15,2
16,5
18,1
17,1
16,7
Si recano
Si recano
Non si
una o più qualche volta
recano
volte a
l’anno in un
mai in
settimana
luogo
un luogo
in un luogo
di culto (b) di culto (b)
di culto (b)
36,4
36,1
35,4
34,3
33,4
33,3
28,7
29,3
30,6
30,3
30,0
29,7
15,9
16,0
15,2
16,3
17,2
18,2
(a) Per 100 persone di 14 anni e più - (b) Per 100 persone di 6 anni e più - (c) Almeno una volta l’anno
Fonte: ISTAT 2008
Questi dati sembrano confermare un livello di interesse per i temi della politica e della vita sociale che si mantiene costante nel tempo, ma che si traduce non tanto in adesione diretta a modalità
di partecipazione di tipo più convenzionale, quanto in forme di attenzione più di tipo individuale e privato, con differenze non secondarie tra le diverse aree geografiche, che fanno registrare ancora una volta percentuali maggiori di partecipazione nelle regioni settentrionali e centrali del paese.
Forme di partecipazione non convenzionale
Se si considera l’insieme delle attività oggetto delle rilevazioni cui si è fatto riferimento, è possibile notare come le forme di partecipazione di tipo più continuativo tra quelle sopra indicate si realizzino in modo particolare a livello locale (Lepore 2009), nel territorio di residenza dei cittadini e in relazione a bisogni
chiaramente individuati e circoscritti o delimitati nel tempo.
Queste caratteristiche sembrano confermare alcune distinzioni che a partire
dagli anni Ottanta sono state proposte in riferimento alle diverse forme di partecipazione, in particolare quelle tra partecipazione visibile e partecipazione
invisibile (Barbagli, Maccelli 1985) e quella tra partecipazione tradizionale o
istituzionale e partecipazione non convenzionale.
Un discorso specifico andrebbe sviluppato a questo proposito sulla diffusione di
forme di partecipazione politica organizzata sulla rete e – in modo più specifico
– sui social network. La rete sembra essere diventata, come è stato detto, una
nuova “piazza politica”, nella quale è possibile comunicare, esprimere le proprie
idee, far circolare informazioni, organizzare momenti di mobilitazione. Difficile
dire quali potranno essere gli sviluppi futuri in questa direzione. Gli effetti di
Internet potrebbero essere dirompenti per il potenziale di messa in comune delle
informazioni e per la possibilità di scambio di opinioni e di dibattito tra persone lontane. Peraltro Internet potrebbe anche rendere più difficili le relazioni di
fiducia fra le persone, visto che si opera in un ambiente virtuale.
203
Box 10
LA PARTECIPAZIONE POLITICA IN ITALIA (ISTAT 2009)
Estratti dall’Indagine multiscopo “Aspetti della vita quotidiana” su un campione di circa 19.000 famiglie per
un totale di circa 48.000 individui, rilevata nel mese di febbraio 2009.
...Si prende parte alla vita politica in maniera “manifesta” quando si rappresenta il proprio punto di vista in
prima persona, andando a comizi o cortei, sostenendo un partito, un movimento… Si partecipa alla vita
politica anche quando… ci si informa, quando si parla o si discute di politica con gli altri… in questo caso
la partecipazione si dice “invisibile”...
La partecipazione politica è molto differenziata sul territorio: il nord-est e il nord-ovest raggiungono livelli
di partecipazione più alti del resto del paese: parla di politica almeno una volta a settimana il 44% della
popolazione del nord contro il 33 del sud. Del resto nel sud si registra anche la percentuale più alta di coloro che non ne parlano mai (40%) o che non si informano mai di politica...
Le differenze di genere diminuiscono al crescere del titolo di studio e della posizione nella professione….
Indipendentemente dal sesso, il grado di coinvolgimento è più forte per le persone dotate di maggiori risorse culturali ed economiche e che occupano posizioni lavorative più elevate… Quasi la totalità dei laureati
parla di politica: il 62% almeno una volta a settimana, il 25% più raramente. I diplomati che parlano di politica settimanalmente scendono al 50%, coloro che possiedono la licenza media al 35% e quelli con la
licenza elementare al 23%. Per le donne i valori sono sempre un po’ più bassi...
Per l’informazione politica la TV è dominante. La televisione è il canale di informazione che in assoluto viene
utilizzato di più (93%). Seguono i quotidiani (50%), anche se in misura decisamente inferiore, la radio (31%)
e le discussioni con amici (25%), con parenti (19%) e con i colleghi di lavoro (15%), la lettura di settimanali (11%), i conoscenti (10%), altre riviste non settimanali (4%) e altri canali (3%). Il ricorso a organizzazioni politiche (2%) e sindacali (2%) si colloca in fondo alla graduatoria…
Circa due terzi di chi non si informa di politica (66%) sono motivati dal disinteresse, un quarto (25%) dalla
sfiducia nella politica. Il 14% considera la politica troppo complicata e il 6% non ha tempo da dedicarvi.
Le donne esprimono più degli uomini, tra le motivazioni, il disinteresse e il linguaggio troppo complicato;
gli uomini più delle donne il non avere tempo e la sfiducia nella politica.
La mancanza di interesse è particolarmente diffusa tra i giovani fino a 24 anni (oltre il 72%) indifferentemente tra maschi e femmine, mentre la sfiducia nella politica è crescente con l’età e raggiunge il massimo tra i 60-64 anni.
[In conclusione] il disinteresse per la politica è più diffuso al sud. …
Negli ultimi dieci anni i livelli di partecipazione politica sono cambiati significativamente: è cresciuta, infatti, la partecipazione invisibile, si parla e ci si informa di più di politica, si ascoltano di più i dibattiti politici,
mentre la partecipazione visibile rimane stabile, per quanto riguarda sia comizi e cortei, sia il coinvolgimento in organizzazioni politiche.
204
La proposta di TreeLLLe
Proposta 47: favorire la formazione di una cittadinanza attiva e responsabile per un esercizio consapevole dei propri diritti e doveri secondo le linee
indicate dal progetto “Active citizenship for democracy” della Commissione
Europea (Box 9)
Lo sviluppo di forme di cittadinanza attiva è parte integrante della strategia di
Lisbona, volta a promuovere e rafforzare la coesione sociale nell’area dell’Unione
Europea, e trova la sua giustificazione in una duplice esigenza: a) far fronte a
manifestazioni crescenti di disaffezione riguardo alle forme tradizionali di partecipazione politica, in primo luogo l’esercizio del diritto di voto; b) contrastare fenomeni di xenofobia, razzismo e intolleranza.
Sta di fatto che la partecipazione attiva dei cittadini alla vita politica, civile e comunitaria resta una responsabilità principalmente in carico alle persone, che peraltro le istituzioni pubbliche dovrebbero favorire, in primis, ma non solo, attraverso il servizio nazionale di istruzione e i media gestiti dal pubblico (TV, radio, etc.).
Note
1
Decisione n.1904/2006/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 12 dicembre 2006. Si
veda anche la precedente Decisione del Consiglio 200/100/CE del 26 gennaio 2004 che istituisce un programma d’azione comunitario per le promozione della cittadinanza europea
attiva (partecipazione civica).
Bibliografia
Abs, H. J., Veldhuis R., Indicators on Active Citizenship for Democracy – the social,
cultural and economic domain, Paper by order of the Council of Europe for the
CRELL Network on Active Citizenship for Democracy at the European
Commission’s Joint Research Center in Ispra, Italy, 2006.
Bauman, Z., Consumo, dunque sono, Bari, Laterza, 2009.
Decisione del Consiglio 200/100/CE del 26 gennaio 2004 che istituisce un programma d’azione comunitario per le promozione della cittadinanza europea attiva (partecipazione civica), “Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea”, 4.2.2004.
European Commission, Open Learning Environment, Active Citizenship and Social
Inclusion. Implementation of Education and Training 2010 Work Programme: Progress
Report, Brussels, November 2003.
Inglehart, R., Modernization and Postmodernization. Cultural, Economic, and
Political Change in 43 Societies, Princeton, N.J., Princeton University Press, 1997
(tr. it. La società postmoderna: mutamento, valori e ideologie in 43 paesi, Roma, Editori
Riuniti, 1998).
205
4.3.5 Volontariato e attività ricreative e sportive per il
benessere dei cittadini
Il volontariato
Sul piano della partecipazione alla vita della società civile e della comunità, un
dato rilevante risulta essere quello relativo alla partecipazione ad attività di
volontariato. Nel 2004-2005 l’ISTAT ha condotto la quinta rilevazione sulle
organizzazioni di volontariato iscritte al 31 dicembre 2003 nei registri provinciali e regionali (ISTAT 2005). L’incremento rispetto alla prima rilevazione, riferita al 1995, è addirittura pari al 152% (Tabella 42).
Le associazioni di volontariato presentano un maggiore radicamento nelle regioni settentrionali, anche se nel Sud del paese si assiste a un incremento percentualmente consistente nel corso degli anni. Gli uomini compresi tra i 30 e i 54
anni costituiscono il gruppo percentualmente più rilevante di volontari. I volontari che collaborano alle associazioni risultano nel 2003 circa 826.000, a fronte
di circa dodicimila dipendenti.
Nelle attività di volontariato si esplica concretamente la spinta ad aiutare gli altri
attraverso le più diverse forme di solidarietà. In questo caso lo Stato non deve
sobbarcarsene i costi, che devono restare a carico delle associazioni liberamente
finanziate dai loro partecipanti; tuttavia può favorirle in modo indiretto, creando le condizioni ambientali opportune o sgravandone le attività da appesantimenti fiscali che potrebbero inibirle e anche in modo diretto limitatamente alla
fase di avvio.
Molte associazioni di volontariato sono emanazione di enti religiosi, o comunque si ispirano a un pensiero di tipo religioso. Lo Stato e gli Enti locali non dovrebbero adottare verso
di esse un atteggiamento diverso da quello diretto alle associazioni laiche, bensì riconoscere a tutte, religiose e no, gli stessi benefici.
Nella Tabella 42 sono indicati i settori principali di attività delle associazioni
di volontariato.
206
Tabella 42
Organizzazioni di volontariato per settore di attività prevalente
Anni 1995-2003
(valori assoluti e percentuali)
1995
1997
anni
1999
2001
2003
Sanità
42,4
37,6
36,0
33,1
28,0
Assistenza sociale
30,5
28,7
27,1
28,6
27,8
Ricreazione e cultura
11,7
13,7
16,8
14,9
14,6
Protezione civile
6,4
9,3
9,0
9,8
9,6
Istruzione
2,8
2,9
1,7
3,3
3,2
Protezione dell’ambiente
2,2
3,4
4,2
3,8
4,4
Tutela e protezione dei diritti
2,2
2,7
1,8
2,4
2,8
Attività sportive
1,8
1,7
1,8
1,9
2,0
-
-
1,6
2,2
7,6
8.343
11.710
15.071
18.293
21.021
Altri settori
Totale (= 100%)
Fonte: ISTAT 2005
Attività ricreative e sportive per il benessere dei cittadini
Data l’ampiezza e la varietà di queste attività, che coinvolgono milioni di persone, il Quaderno non le ha trattate con analisi specifiche, ma TreeLLLe ha chiara
l’importanza che esse rivestono per il benessere della cittadinanza. Infatti, molto
spesso questa parte assai rilevante della popolazione dedica una parte del proprio
tempo libero, più che al consumo culturale, a forme di attività associativa diverse ma non meno utili per lo sviluppo individuale e il benessere sociale.
Ci riferiamo in particolare alle attività ricreative e sportive e alle loro associazioni: la collettività ha tutto l’interesse a sostenerle, affrontando i relativi costi,
poiché da esse riceve grandi benefici attraverso due fattori fondamentali. Esse
promuovono in primo luogo una popolazione più sana, quindi più felice, più
aperta verso gli altri e meno soggetta alle malattie e al deperimento individuale, che gravano sulla sanità pubblica con rilevantissimi costi. In secondo luogo
attraverso le attività ricreative e sportive si diffonde e si consolida una “cultura
delle regole” indispensabile per favorire una buona convivenza all’interno di
società sempre più complesse.
Chi abbia fatto proprio attraverso un’attività impegnativa e appassionante il
principio che la spinta agonistica ha valore soltanto se avviene all’interno di una
competizione leale, basata su regole condivise, sarà molto più restio a violare le
regole anche in altri campi, nella vita lavorativa e politica come nei rapporti personali e sociali.
207
Le proposte di TreeLLLe
Proposta 48: incentivare il terzo settore, il privato sociale e le attività di
volontariato religioso e non.
In quest’area si sviluppa concretamente lo spirito civico e la spinta ad aiutare gli
altri.
Proposta 49: promuovere e incentivare le associazioni e le attività ricreative
e sportive per il benessere dei cittadini
Fermo restando che si tratta di un impegno principalmente affidato all’iniziativa personale di ciascuno, la collettività ha tutto l’interesse a incentivarle e, entro
certi limiti, sostenerle per i benefici che riceve (meno malattie e deperimento
individuale, che graverebbero sulla sanità pubblica). Inoltre lo sport e molte
attività ricreative aiutano a sviluppare la cultura delle regole.
Bibliografia
ISTAT, Le organizzazioni di volontariato in Italia. Anno 2003, “Statistiche in breve”,
14 ottobre, 2005.
208
Glossario
Abilità è la capacità di applicare conoscenze e di usare know-how per eseguire compiti e
risolvere problemi; l’abilità è descritta come cognitiva (uso del pensiero logico, intuitivo e creativo) e pratica (l’abilità manuale e l’uso di metodi, materiali, strumenti). È la componente che
rende la persona autonoma nell’agire in funzione di un obiettivo ed è considerata, in genere, elemento costitutivo della competenza.
Accreditamento delle agenzie formative è l’atto attraverso il quale l’amministrazione
pubblica competente riconosce a un organismo, pubblico o privato, la possibilità di proporre e realizzare interventi di formazione e orientamento finanziati con risorse pubbliche.
Alfabetizzazione è il processo che porta un soggetto all’accesso alla forma scritta della
lingua e quindi l’azione educativa che ha lo scopo di sviluppare l’apprendimento della
capacità di leggere e di scrivere. Da questo significato originario il termine passa a indicare processi di apprendimento di linguaggi in altri ambiti, come p.e. l’alfabetizzazione
informatica.
Analfabetismo, in senso proprio, è la completa incapacità di leggere e scrivere, dovuta
per lo più alla mancata scolarizzazione iniziale e quindi alla deprivazione originaria dei
codici della comunicazione scritta. In senso lato, l’analfabetismo può indicare anche la
mancanza di “alfabeti” specifici, p.e. analfabetismo informatico.
Alfabetismo di ritorno indica la situazione particolare di chi, pur avendo acquisito gli
strumenti base della comunicazione scritta, li ha completamente perduti.
Apprendimenti formali sono gli apprendimenti intenzionali che si realizzano nei sistemi dell’istruzione e della formazione e portano, di norma, a una certificazione con valore
legale.
Apprendimenti non formali sono gli apprendimenti intenzionali che si realizzano in
contesti organizzati, ma al di fuori dai sistemi istituzionali di istruzione e formazione e
non producono una certificazione con valore legale.
Apprendimenti informali sono apprendimenti che si realizzano quando gli individui
acquisiscono conoscenze, competenze, abilità o atteggiamenti attraverso l’interazione
sociale, il lavoro, le attività culturali e/o ricreative, il tempo libero.
Auto/formazione intenzionale è una attività di apprendimento auto/regolata che si colloca entro gli apprendimenti informali.
Capitale umano è l’insieme di conoscenze, competenze, abilità, atteggiamenti acquisiti
da un individuo e finalizzati al raggiungimento di obiettivi sociali ed economici individuali e/o collettivi; come qualsiasi altra forma di capitale, può essere accresciuto con
opportuni investimenti.
Capitale sociale comprende l’insieme di istituzioni, relazioni e valori che governano le
interazioni tra persone e che contribuiscono allo sviluppo economico e sociale. Il riferimento al termine “capitale” indica che si è in presenza di una risorsa capace di generare ricchezza e benessere. Come tale, il capitale sociale si configura come una dotazione collettiva, un bene pubblico.
Certificazione è un documento ufficiale con cui un’autorità riconosciuta attesta a un soggetto il possesso di determinate competenze sulla base di determinati standard di riferimento. A livello italiano e comunitario riveste particolare importanza perché costituisce
209
il dispositivo che rende possibile la realizzazione dei processi di integrazione dei vari sistemi formativi (scuola, formazione professionale, università, istruzione e formazione tecnica
superiore, apprendistato).
Certificazione delle competenze è il riconoscimento operato da uno o più soggetti istituzionali abilitati che attesta a un individuo il possesso di una o più competenze acquisite in un percorso formativo formale o in ambito informale o non formale. Stante la prevalenza di percorsi di istruzione formale e il valore legale del titolo di studio, in Italia ad
oggi non esiste una procedura definita e gestita a livello nazionale per quanto riguarda la
certificazione delle competenze acquisite, ovvero non esiste un riconoscimento istituzionale delle stesse.
Competenze indicano l’insieme delle conoscenze teoriche e pratiche, delle abilità e delle
capacità che consentono a un individuo un adeguato orientamento in uno specifico campo
d’azione. Si connotano quindi come conoscenze in azione, che consentono a un individuo
di ottenere risultati utili al proprio adattamento negli ambienti per lui significativi, e si
manifestano come capacità di affrontare e padroneggiare problemi attraverso l’uso di abilità cognitive e sociali. Le competenze si configurano inoltre come strutturalmente capaci di trasferire la loro valenza in diversi campi generando così dinamicamente altre conoscenze e competenze.
Competenze di base sono le conoscenze/abilità/risorse personali non specifiche di un settore o di un contenuto lavorativo, ma che sono rilevanti per la formazione generale e anche
per la preparazione professionale di una persona. In questo senso si tratta degli elementi riconosciuti consensualmente come prerequisiti per l’accesso a qualsiasi percorso di formazione ulteriore e considerati imprescindibili per inserirsi o reinserirsi positivamente nel
mondo del lavoro e per fronteggiare in modo positivo le situazioni di cambiamento.
Competenze tecnico-professionali sono costituite dai saperi e dalle tecniche connessi
all’esercizio delle attività operative richieste da funzioni e processi di lavoro (conoscenze
specifiche o procedurali di un determinato settore lavorativo).
Conoscenze sono i contenuti culturali e scientifici a carattere sistematico posseduti da un
individuo, risultanti, di norma, da attività di apprendimento e dall’elaborazione dell’esperienza; il termine viene impiegato in un’accezione più ampia che include, oltre al complesso di nozioni possedute, anche le modalità di elaborazioni cognitive impiegate per
organizzare tali contenuti.
EQF (European Qualification Framework) Sistema di comparazione condiviso a livello europeo, strutturato in otto livelli, che rende confrontabili le qualifiche professionali dei
cittadini dei diversi paesi UE.
EQARF (European Quality Assurance Reference Framework) è un dispositivo
costruito sulla base di standard di riferimento comuni con lo scopo di supportare e monitorare la qualità e l’incremento dei sistemi di formazione e di orientamento professionale
dei vari paesi europei al fine di incoraggiare la reciproca fiducia nei sistemi nazionali di
VET entro l’area comune del lifelong learning.
Formatore è un docente che opera in ambiti diversi: agenzie formative, strutture aziendali, società di consulenza e di formazione. Le sue funzioni consistono prevalentemente
nel comprendere e interpretare le esigenze della committenza, effettuare un’analisi dei
bisogni formativi dei destinatari, e quindi predisporre un progetto formativo coerente con
le finalità, i tempi e le risorse disponibili.
E’ possibile distinguere diversi profili di formatore:
210
a) nell’ambito della formazione iniziale, iniziative rivolte ai giovani in uscita dalla scuola
dell’obbligo o destinatari di progetti di interazione scuola/formazione/lavoro;
b) nell’ambito della formazione superiore, azioni rivolte a giovani diplomati, laureati o con
titoli equipollenti;
c) nell’ambito della formazione continua, azioni relative alla formazione ricorrente per il mantenimento delle conoscenze e il perfezionamento in accompagnamento dei processi produttivi e lavorativi, anche al fine di prevenire l’espulsione dal mercato del lavoro.
Illeteratismo (analfabetismo funzionale) indica una in/competenza, una limitatissima
capacità di usare gli strumenti della lettura e della scrittura per interagire nel mondo
degli alfabeti, mondo in cui la comunicazione e l’informazione vengono trasmesse attraverso documenti scritti in diversi formati (testi continui, lunghi o brevi, grafici, tabelle,
etc.); l’individuo illetterato ha acquisito una conoscenza di base di lettura e scrittura, che
tuttavia è divenuta estremamente debole e obsoleta tanto da evidenziarsi in una modestissima dotazione simbolica che, se permette di riconoscere l’insegna di un negozio o di
scrivere la propria firma, non consente di produrre e interpretare messaggi.
Letteratismo (competenza alfabetica funzionale) è la capacità di identificare, capire, interpretare, creare, comunicare, calcolare usando materiali stampati e scritti riferiti a diversi
ambiti. Il letteratismo comporta un continuo processo di apprendimento che rende gli
individui capaci di raggiungere i propri obiettivi, sviluppare le proprie conoscenze e
potenzialità e partecipare in modo efficace alla vita delle comunità e delle società di riferimento.
Le indagini internazionali dell’OCSE definiscono e misurano il letteratismo in questi
ambiti:
1. prose e document literacy, competenza alfabetica funzionale relativa alla comprensione di testi in prosa e formati quali grafici e tabelle, capacità di utilizzare stampati
e testi scritti necessari per interagire con efficacia nei contesti sociali di riferimento per
raggiungere i propri obiettivi;
2. numeracy, competenza matematica funzionale; capacità di utilizzare in modo efficace strumenti matematici nei diversi contesti in cui se ne richiede l’applicazione (rappresentazioni dirette, simboli, formule, che modellizzano relazioni tra grandezze
variabili);
3. problem solving, capacità di analisi e soluzione di problemi, pensiero orientato al
raggiungimento di uno scopo in una situazione in cui non esiste una procedura di
soluzione precostituita;
4. literacy scientifica, cosa è importante conoscere, valutare e fare, come cittadini, in
situazioni che coinvolgono la scienza e la tecnologia.
Misura concetto ampiamente utilizzato nel campo delle politiche del lavoro (ad esempio
dai regolamenti del fondo sociale Europeo): “la misura è considerata lo strumento tramite il quale una priorità trova attuazione; il concetto compare nell’ambito delle azioni sostenibili finanziate dal Fondo Sociale Europeo, come articolazione dell’asse per tipologia di
utenza o di azione prevista.
Popolazione a rischio alfabetico definisce quanti, in età lavorativa, pur avendo frequentato e anche spesso completato i percorsi scolastici obbligatori, evidenziano una
regressione di competenze funzionali di lettura, scrittura e calcolo, per la limitatezza degli
stimoli provenienti dai contesti socio/culturali e lavorativi di riferimento e/o da situazioni quali la inoccupazione.
Potenziale evolutivo è l’intervallo, rilevato in termini di dati fenomenici, che potrebbe
211
essere colmato, tra il risultato effettivamente raggiunto da un soggetto e quello che
potrebbe essere raggiunto se vi fosse un miglioramento delle condizioni di contesto.
Validazione delle competenze è il processo di riconoscimento/messa in evidenza degli
apprendimenti non formali e informali (ovvero apprendimenti ottenuti in contesti non di
scuola e non di formazione professionale), riferibili all’apprendimento che si realizza
lungo il corso della vita.
Voucher buono formativo, erogato a favore di coloro che intendono fruire di percorsi di
formazione, spendibile presso le strutture accreditate, sia pubbliche sia private.
212
Indice delle tabelle
Tabella 1
Tabella 2
Tabella 3
Tabella 4
Tabella 5
Tabella 6
Tabella 7
Tabella 8
Tabella 9
Tabella 10
Tabella 11
Tabella 12
Tabella 13
Tabella 14
Tabella 15
Tabella 16
Tabella 17
Tabella 18
Tabella 19
Tabella 20
Tabella 21
Titoli di studio della popolazione (25-64 anni) in Italia, OCSE, UE ..........47
Popolazione italiana (20-24 anni) con diploma di secondaria
superiore per aree geografiche ......................................................................48
Titoli di studio delle forze di lavoro per classi di età .....................................48
Titoli di studio delle forze di lavoro per aree geografiche............................49
Italiani e stranieri in Italia (15-64 anni) per titolo di studio .......................49
Indagine ALL: livelli di competenza in prose literacy nelle aree
geografiche italiane.......................................................................................52
Indagini PISA (2000 e 2006) sui livelli di competenza in literacy
e numeracy dei quindicenni: risultati Italia e media paesi OCSE ...............53
Indagine PISA 2006: punteggi medi in literacy scientifica
dei 15enni per aree territoriali......................................................................54
Livello di partecipazione alla vita culturale per sesso, classi d’età
e ripartizione geografica della popolazione 18-65 anni................................58
Persone di 18-65 anni con livello di partecipazione culturale
per titolo di studio e condizione della popolazione 18-65 anni...................59
Percentuale di persone del tutto o abbastanza d’accordo sull’affermazione ”Ci si può fidare della maggior parte delle persone” .....................62
Fiducia nel Parlamento, nel sistema giudiziario, nelle forze
dell’ordine e nell’Unione europea negli ultimi dieci anni...................62
Copie di quotidiani diffuse per 1.000 abitanti per Regione........................64
Partecipazione elettorale media per Regione in cinque
consultazioni elettorali .................................................................................65
Donazioni e donatori di sangue per Regione...............................................67
Numero di società sportive ogni 1.000 residenti per Regione....................68
Guadagni relativi per titolo di studio della popolazione 25-64 anni ..........73
Tassi di disoccupazione in relazione al titolo di studio
in Italia, UE19, OCSE ...............................................................................73
Popolazione con livello di studio fino alla secondaria inferiore,
per fascia di età, in Italia, in UE19 e nei paesi OCSE..................................74
Popolazione 20-34 anni con al più il titolo di licenza media
per genere e aree territoriali .......................................................................110
Stranieri regolarmente residenti al 1° gennaio 2010.................................113
213
Tabella 22 Livelli di competerza alfabetica della popolazione adulta
(16-65 anni) per titolo di studio posseduto ...............................................120
Tabella 23 Numero di CTP per macro aree territoriali...............................................122
Tabella 24 Detenuti iscritti alle attività dei CTP........................................................124
Tabella 25 Numero dei Corsi serali per macro aree territoriali ...................................125
Tabella 26 Evoluzione dell’alta formazione permanente nelle università italiane .......131
Tabella 27 Tassi di partecipazione ad attività educative formali e non formali.
Indagini Adult Educational Survey (AES) e Labour Force Survey (LFS)...138
Tabella 28 Imprese che hanno realizzato attività di formazione, per dimensione
dell’organico aziendale................................................................................141
Tabella 29 Livelli di qualificazione della forza di lavoro con più di 15 anni
in UE-25 al 2000, al 2007 e previsioni al 2020 secondo il CEDEFOP ...149
Tabella 30 Partecipanti a interventi di formazione professionale regionale
per tipo formativo e area territoriale ..........................................................168
Tabella 31 Associazioni nazionali delle università popolari e della terza età
in Italia. Frequentanti, sedi didattiche, numero dei corsi..........................178
Tabella 32 Alcune delle principali università popolari italiane ...................................179
Tabella 33 Aree tematiche di frequentazione (42 università affiliate UNIEDA
rispondenti su 72, anno 2009)...................................................................180
Tabella 34 Volkshochschulen in Germania per Land, numero iscritti
e finanziamento pubblico...........................................................................183
Tabella 35 Corsi, ore di lezione e iscritti secondo le aree tematiche svolti
nelle Volkshochschulen ..............................................................................183
Tabella 36 Tipologia di partecipanti ai corsi nelle Volkshochschulen.........................184
Tabella 37 Personale delle Volkshochschulen..............................................................185
Tabella 38 Popolazione (6-75 anni) che dichiara di aver letto libri
nel corso del 2009 ...........................................................................186
Tabella 39 Distribuzione delle biblioteche pubbliche degli enti locali
nelle diverse aree geografiche e percentuale della popolazione
che le frequenta ..........................................................................................188
Tabella 40 Persone di 14 anni e più per frequenza con cui parlano di politica
e che hanno svolto le attività indicate........................................................202
Tabella 41 Persone di 14 anni e più che negli ultimi 12 mesi hanno svolto
almeno una delle attività sociali indicate e persone di 6 anni
e più per frequenza con cui si sono recate in luogo di culto......................203
Tabella 42 Organizzazioni di volontariato per settore di attività prevalente...............207
214
Indice delle figure
Figura 1
Titoli di studio della popolazione 25-64 anni in alcuni
paesi OCSE e UE19 ...........................................................................35
Figura 2
Popolazione che ha al massimo il titolo di scuola
secondaria inferiore ............................................................................36
Figura 3
Popolazione con diploma di scuola secondaria superiore.....................37
Figura 4
Popolazione con un titolo di istruzione terziaria ................................38
Figura 5
Confronto tra forze di lavoro impegnate in attività
di complessità ISCO 1-2-3 e forze di lavoro con
titoli di studio terziari .......................................................................39
Figura 6
Livelli di competenza in literacy della popolazione
adulta (16-65 anni) ...........................................................................42
Figura 7
Livelli di competenza in numeracy e life skills
della popolazione adulta (16-65 anni) ................................................43
Figura 8
Livelli di competenza nella literacy scientifica degli studenti
quindicenni .......................................................................................44
Figura 9
Partecipazione e non partecipazione della popolazione
adulta (25-64 anni) ad attività di formazione permanente..................51
Figura 10 Indice finale della dotazione di capitale sociale per provincia .............69
Figura 11 Percentuale della popolazione 18-24 anni che ha terminato
soltanto l’istruzione secondaria inferiore e non prosegue
gli studi o una formazione ................................................................82
Figura 12 Percentuale di giovani 20-24 anni che hanno completato
almeno l’istruzione secondaria superiore.............................................83
Figura 13 Percentuale della popolazione dai 25 ai 64 anni di età
che ha partecipato ad un’attività d’istruzione o formazione
nel corso delle 4 settimane precedenti l’indagine ...............................84
Figura 14 Partecipazione della popolazione adulta (25-64 anni)
ad attività di formazione organizzata in base al titolo
di studio posseduto ............................................................................95
Figura 15 Livello di inquadramento dei dipendenti del settore privato
che hanno partecipato ad almeno un’attività di formazione
continua nel 2004..............................................................................95
Figura 16 Partecipazione al mercato del lavoro della popolazione
residente in Italia.............................................................................117
Figura 17 Adulti frequentanti percorsi di istruzione in Italia...........................121
215
Figura 18 Adulti partecipanti a corsi di “alfabetizzazione funzionale”
in Italia ...........................................................................................122
Figura 19 Gli stranieri nei CTP .......................................................................123
Figura 20 Principali indicatori in alcuni paesi UE relativi alla diffusione
della formazione continua nelle imprese...........................................140
Figura 21 Distribuzione geografica dell’indice di competitività
delle Regioni europee. .....................................................................150
Figura 22 Distribuzione per categoria dei partecipanti a interventi
di formazione professionale ..............................................................169
Figura 23 La spesa delle famiglie per ricreazione e cultura in alcuni paesi
in percentuale sulla spesa totale per consumi finali ..........................196
216
Indice dei box
Box 1
Indagine NIACE sul futuro del lifelong learning in UK (2009)....................30
Box 2
Le indagini OCSE: alcuni chiarimenti.........................................................41
Box 3
L’esperienza francese del VAE (Validation des Acquis de l’Expérience).....105
Box 4
L’esperienza di “Skills for Life” in UK..............................................115
Box 5
Il Libro Bianco del ministero del Lavoro sul futuro modello
sociale (2009)...................................................................................152
Box 6
La formazione continua nei Paesi Bassi ............................................157
Box 7
Le Volkshochschulen tedesche: università popolari cofinanziate
dai frequentatori ..............................................................................182
Box 8
“Idea Store”: una biblioteca centro polivalente per l’educazione
degli adulti......................................................................................195
Box 9
Il progetto europeo “Active Citizenship for Democracy”, 2004.......201
Box 10
La partecipazione politica in Italia (ISTAT 2009).............................204
217
Pubblicazioni di TreeLLLe
Quaderno n. 1
Scuola italiana, scuola europea?
Quaderni
Dati, confronti e questioni aperte
maggio 2002
Quaderno n. 2 L’Europa valuta la scuola. E l’Italia?
Un sistema nazionale di valutazione
per una scuola autonoma e responsabile
novembre 2002
Quaderno n. 3
Università italiana, università europea?
Dati, proposte e questioni aperte
settembre 2003
Sintesi Q. n. 3
Università italiana, università europea?
Dati, proposte e questioni aperte
settembre 2003
Quaderno n. 4
Quali insegnanti per la scuola dell’autonomia?
Dati, analisi e proposte per valorizzare la professione
luglio 2004
Sintesi Q. n. 4
Quali insegnanti per la scuola dell’autonomia?
Dati, analisi e proposte per valorizzare la professione
luglio 2004
Quaderno n. 5
Per una scuola autonoma e responsabile
Quaderno n. 6
Oltre il precariato
giugno 2006
Valorizzare la professione degli insegnanti per una scuola di qualità
dicembre 2006
Quaderno n. 6/2 Oltre il precariato/Interventi
Sintesi delle proposte di TreeLLLe e interventi
dicembre 2007
Quaderno n. 7
Quale dirigenza per la scuola dell’autonomia?
Proposte per una professione “nuova”
dicembre 2007
Quaderno n. 8
L’istruzione tecnica
Un’opportunità per i giovani, una necessità per il paese
dicembre 2008
Quaderno n. 8/2 L’istruzione tecnica/Interventi
Sintesi delle proposte di TreeLLLe e interventi
gennaio 2009
Quaderno n. 9
Il lifelong learning e l’educazione degli adulti
in Italia e in Europa
Dati, confronti e proposte
dicembre 2010
219
Seminario n. 1
Moratti-Morris
Seminari
Due Ministri commentano la presentazione
dell’indagine P.I.S.A.
maggio 2002
Seminario n. 2
La scuola in Finlandia
Un’esperienza di successo formativo
settembre 2004
Seminario n. 3
Il futuro della scuola in Francia
Rapporto della Commissione Thélot
Atti del seminario internazionale di TreeLLLe
dicembre 2004
Seminario n. 4
L’autonomia organizzativa e finanziaria della scuola
Seminario TreeLLLe - Fondazione per la Scuola della Compagnia di San Paolo
aprile 2005
Seminario n. 5
Il governo della scuola autonoma: responsabilità e accountability
Seminario TreeLLLe - Fondazione per la Scuola della Compagnia di San Paolo
settembre 2005
Seminario n. 6
Stato, Regioni, Enti Locali e scuola: chi deve fare cosa?
Seminario TreeLLLe - Fondazione per la Scuola della Compagnia di San Paolo
novembre 2005
Seminario n. 7
La scuola dell’infanzia
Presentazione del Rapporto OCSE 2006 - Il caso italiano
Seminario TreeLLLe - Reggio Children, in collaborazione con l’OCSE
settembre 2006
Seminario n. 8
n. 9
La dirigenza della scuola in Europa
Finlandia, Francia, Inghilterra, Italia, Paesi Bassi
Seminario TreeLLLe - Fondazione per la Scuola della Compagnia di San Paolo
aprile 2007 / giugno 2007
Seminario n. 10 Sistemi europei di valutazione della scuola a confronto
ottobre 2008
Seminario n. 11 Politiche di innovazione per la scuola
In collaborazione con MIUR e OCSE
giugno 2009
Seminario n. 12 La scuola dell’obbligo tra conoscenze e competenze
In collaborazione con la Fondazione per la Scuola
della Compagnia di San Paolo
aprile 2010
220
Ricerca n. 1
La scuola vista dai cittadini
Ricerche
Indagine sulle opinioni degli italiani nei confronti del sistema scolastico
In collaborazione con Istituto Cattaneo
maggio 2004
Ricerca n. 2
La scuola vista dai giovani adulti
aprile 2009
Questioni
aperte/1
Latino perché? Latino per chi?
Questioni aperte
Confronti internazionali per un dibattito
maggio 2008
221
STAMPA: DITTA GIUSEPPE LANG SRL
PRIMA EDIZIONE
GENOVA - NOVEMBRE 2010
FONDAZIONE PER LA
S C U O L A
DELLA COMPAGNIA DI SAN PAOLO
dalla sua costituzione ha ottenuto contributi
su specifici progetti dalle Fondazioni
Il lifelong learning e l’educazione degli adulti in Italia e in Europa
TREELLLE
è principalmente sostenuta dalla
Quaderno n. 9
dicembre 2010
Il lifelong learning
e l’educazione degli adulti
in Italia e in Europa
FONDAZIONE
MONTE DEI PASCHI DI SIENA
FONDAZIONE
ROMA
FONDAZIONE
PIETRO MANODORI
CASSA DI RISPARMIO DI REGGIO EMILIA
FONDAZIONE EUROPEA
OCCUPAZIONE E VOLONTARIATO
ROMA
FONDAZIONE
CASSA DI RISPARMIO
DI GENOVA E IMPERIA
TREELLLE
FONDAZIONE
CASSA DI RISPARMIO IN BOLOGNA
Quaderno n. 9
Dati, confronti e proposte