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Anno XI Numero 1
Gennaio - Febbraio 2010
CORTE DIPINTA
PERIODICO DI INFORMAZIONE, CULTURA E TURISMO A CURA DELLA PRO LOCO CORBETTA
PUNTI DI DISTRIBUZIONE: EDICOLE, CARTOLERIE, LIBRERIE - NEGOZI CHE ADERISCONO CON LA PUBBLICITÀ
COMUNE E BIBLIOTECA - NEGOZI CHE ESPONGONO IL LOGO “PRO LOCO”
UN
CALOROSO... RINGRAZIAMENTO
I
n occasione della ricorrenza
di S. Antonio Abate, festa del
vigili del Fuoco Volontari di
Corbetta, due pompieri del locale
distaccamento di volontari hanno
ricevuto, a nome dell’Amministrazione Comunale, dalle mani
del Sindaco Ugo Parini, un attestato ed una medaglia d’oro quale
riconoscimento e ringraziamento
per la preziosa attività di soccorso svolta negli anni, a favore della
comunità.
Anche i colleghi del distaccamento hanno voluto omaggiare “i congedati” con un diploma ed un
orologio personalizzato a ricordo
del servizio prestato.
Milano ed assegnato al distaccamento volontario di Corbetta,
dove svolge la sua attività di soccorso sino al compimento del sessantesimo anno di età, limite
massimo per la permanenza nel
Corpo Nazionale. Nel 1986 è stato
nominato capo squadra e nel
2000 capo reparto.
Nel 2003 ha assunto la qualifica
di capo distaccamento attività
che lo ha coinvolto sino al “congedo”.
Alex Redaelli
C.S. Giuseppe Parmigiani
La Redazione
C.R. Ernestino Calati
Nato a Corbetta il 29/07/1949,
ha svolto la professione di tecnico
presso una società di telefonia
sino al pensionamento. Dopo aver
prestato servizio militare nei vigili del fuoco in qualità di ausiliario, nel 1970 viene iscritto negli
elenchi del personale volontario a
servizio discontinuo del Corpo
nazionale dei Vigili del Fuoco,
presso il Comando Provinciale di
viene trasferito al distaccamento
volontario di Corbetta e vi rimane in servizio attivo fi no al compimento del sessantesimo anno
di età.
Nel 2006 venne insignito della
onorificenza di Cavaliere della
Repubblica per meriti di servizio
e nel 2008 è stato nominato capo
squadra.
Nato a Magenta il 3 settembre
1949, ha svolto, dal 1972 sino
alla meritata pensione, la sua attività lavorativa presso il Comune
di Magenta in qualità di messo
notificatore. Nell’ottobre 1973 a
seguito di domanda, viene iscritto negli elenchi del personale volontario a servizio discontinuo
del Corpo nazionale dei Vigili del
Fuoco, presso il Comando Provinciale di Milano ed assegnato
al distaccamento volontario di
Magenta, dove svolge la sua attività di soccorso sino al luglio
2007 quando su sua richiesta,
Coloro che vogliono fornire notizie, leggende o storie particolari
da pubblicare sul periodico, ma
anche per fornirci appunti o suggerimenti, possono contattare il
Direttore, presso la sede della Pro
Loco, tutti i sabati dalle ore 10,00
alle ore 11,00, previo appuntamento al 392.5755486.
F
argüj
I pensieri senza contenuto sono
vuoti, le intuizioni senza concetti
sono cieche.
E. Kant
OMAGGIO
N
ella serata di mercoledì 25
novembre 2009, in Sala
delle Colonne presso il municipio, si è ricordato Daniele Cucchiani, poeta e scrittore corbettese
scomparso nel settembre 1998.
Dopo il saluto del Sindaco Ugo Parini, la Vice-presidente della Pro
Loco cittadina Jana Gipponi ha introdotto i lavori della serata, illustrando quanto L’Associazione faccia per non lasciare che cultura e
tradizioni locali non si spengano.
Da qui è nata l’idea, nel 1999, di
un Premio Culturale intitolato allo
scrittore, un premio e non un concorso, nel quale il dialetto è ben
rappresentato negli elaborati degli
alunni delle classi quinte della
scuola elementare.
È seguito l’intervento del Consigliere Regionale Francesco Prina il
quale, oltre a ricordarne l’amicizia,
ha motivato le ragioni del contributo concesso, alla Pro Loco, dalla
Regione Lombardia per gli anni
2009-2010 per la realizzazione del
Premio stesso.
Il legame tra la poesia dialettale
lombarda, specialmente del Porta,
con la poesia del Cucchiani, è stata
ampiamente illustrata dalla Proff.
Loredana Vanzulli, Assessore alla
Cultura del Comune di Corbetta.
Secondo il suo parere le poesie
dialettali dello scrittore possono, a
ragione, essere inserite nelle pagine
di un’antologia di “versi” milanesi,
accanto a quelli di più celebri e ben
A
DANIELE CUCCHIANI
Il tavolo dei relatori della serata. - Foto: G. Saracchi -
conosciuti autori.
L’intervento dell’Arch. Ermanno
Ranzani si è rivolto agli aspetti letterari-compositivi delle poesie e
degli scritti dialettali di Daniele,
quale testimonianza del suo atavico amore per Corbetta, la “sua
Curio”, come spesso la denomina
nei suoi scritti. L’uso del dialetto ha proseguito Ranzani- l’ha costretto a ragionare sul valore delle
parole e sul loro contenuto sematico.
Questo concetto d’amore è stato
sottolineato anche dalla moglie Sig.
ra Maria Ferrari Bardile la quale
ha parlato di Daniele quale uomo
non interessato alla carriera e al
denaro.
Ha vissuto da intellettuale convinto che il dialetto rappresentasse la
più antica forma espressiva del nostro territorio.
La serata è stata allietata da Luisa
Ghidoli che ha letto il teatrino all’albergo Croce Bianca, tratto dalle
“leggende curiapictane” e le poesie
“Prìmm amùr ”, “La ciocca”, “E canterò” tutte composizioni del Nostro
concittadino.
Infi ne, con la supervisione della
maestra Ester Grassi, alcune ragazze, che hanno partecipato al
premio, hanno letto alcune delle
loro composizioni scritte nelle passate edizioni.
Grande ilarità ha riscosso il componimento “Ho fatto un sogno” di
Edoardo Vilbi, letto dalla moderatrice Giupponi.
REDA
RITRATTO, UN PÒ INEDITO,
DANIELE CUCCHIANI
N
acque il 16 da lüj 1931 –IV °
di cinque figli–, fu chiamato
Daniele per ricordare il fratellino morto il 16.9.1929. A lui ha
dedicato una bellissima poesia affidata, per diversi anni, alla madre
Esterina.
Bimbo molto vivace, fu seguito con
pazienza da Olga sino all’asilo. Curioso per natura, andava spesso a
vedere le donne che lavoravano al
fi latoio, annesso alla villa Olivares,
per vedere e capire cosa facevano e
per ascoltare delle fi abe, ricche di
fantasia e di mistero, che un’operaia gli raccontava. Era la “sala
della seta”, ovvero la Sala delle colonne “fàj da vultìtt e culòn” nell’attuale municipio cittadino, che Daniele descrive nella poesia “Al Filatoj”.
Con gli amici si divertiva a giocare
col teatrino di “magattèj e piguttòn”, inventando un mondo fantastico oltre la realtà, ben descritto
nella composizione “Al tiatrin”.
Di salute cagionevole, durante una
lunga malattia, trovava conforto
nelle favole che lo Zio Pinella “Al
pansanigàtt” gli raccontava e che
gli hanno insegnato a sognare. Curato dall’indimenticata Suor Michelina, a lei ha dedicato la poesia
“Suor Michelina, Moniga e duttur”.
Frequentò le scuole elementari di
Corbetta, avendo per la prima maestra la Zia Giuditta che così descri-
ve nella poesia “Al sillabàri”: “O zia
Giüditta majstrinna bèlla, mòra,
frésca, stàgna e zitèlla! […] Da tì mì
hoo imprindüü a tignüü a mént al
Léng, al Scrìv e i Sacramént;
brüsé(v)i da la voeùja da savé da
Tüscòss al parché e Tì, ta sé(v)a al
mé Stravidée”.
Completò poi la scuola dell’obbligo
con la maestra Ballerini. Frequen-
Pro Loco Corbetta
Villa Pagani - Della Torre
Piazza XXV Aprile, 4
Tel. 02.97486809
cell. 392.5755486
e-mail: [email protected]
internet: www.prolococorbetta.altervista.org
DI
tò le scuole medie nel Collegio Arcivescovile di Saronno e il liceo nel
Collegio Arcivescovile di Tradate.
Si laureò in “Scienze politiche” all’Università Cattolica di Milano nel
1959.
Lavorò all’Assicurazione Italiana e
terminò la sua vita lavorativa come
pubblicitario; fu il primo ad usare
una donna nuda per reclamizzare
un trattore.
Da giovane si era dedicato alla pittura, usando colori forti, imitando
la pittura astratta, realizzata in un
modo particolare tutto suo.
Da questa sua vena “artistica” nacque l’amicizia col Silvio Paulin, ovvero il Boemo 70.
Amava leggere molto, compreso i
libri che i genitori gli proibivano.
Scrisse poesie e racconti in lingua.
A cinquant’anni si mise s scrivere
in dialetto milanese ma, come
scrisse lui stesso “al sò-nò da-bón”
il perché.
Chi ha avuto la fortuna di incontrarlo, si è trovato davanti un uomo
“minuto, la barba bianca incolta
ingiallita nei punti giusti, il cappello nero a tesa larga e l’immancabile papillon” che a passo lento,
quasi incerto, camminava per il
Corso Garibaldi.
Nelle mani il giornale e la bozza
dell’ultima fatica letteraria.
REDA
Tesseramento presso la sede
Giorni ed orari di apertura al pubblico
Martedì dalle 21,00 alle 23,30
Sabato dalle 10,00 alle 12,00
BEPPE FACCHINETTI, L’ETERNO
FELICE
B
eppe Facchinetti è un personaggio molto conosciuto a
Corbetta, per le sue eclettiche attività e per il suo modus vivendi.
Originario di Calcio (BG), ove nasce
nel 1947, da bambino si trasferisce
coi genitori a Novara.
Inizia a lavorare come fiorista in un
negozio di Novara, restando impegnato per tre anni. Nel frattempo
segue i corsi infiermeristici presso il
college dell’Ospedale Fornaroli di
Magenta. Diplomatosi venne assunto nello stesso ospedale, ed assegnato al reparto del Prof. Zanollo.
All’attività ospedaliera alternava
l’attività di modellista, con grande
successo, per una grande pellicceria
di Novara di proprietà di Nino Galli.
Amareggiato per non aver potuto
partecipare ad un corso ad Heidelberg, appende il camice bianco al
chiodo, impegnandosi definitivamente nel campo della moda, collaborando, a Roma, con le maisons
Sarli e Fontana.
Approda a Corbetta, un paese che
ama, come –tiene a precisare– ama
la sua gente.
Si produce in sfilate in Italia e all’estero, ottenendo ottimi successi.
La sua specialità è il reinventare e il
Durante una sfilata di Alta Moda
Nel negozio di Corso Garibaldi
rielaborare vecchie pellicce, trasformandole in “qualcosa” di nuovo e
bello. Sue creazioni sono state pubblicate su riviste di moda quali Bazar
e Vogue; come sono state ammirate,
da persone di Corbetta, nella vetrina
di uno store nella V° strada di New
York. Tra le sue clienti vanta O, Vanoni, S. Milo e… molte altre personalità, oltre a case di moda.
Varie sono state e sono i suoi inte-
ressi, nei quali trasfonde il suo
“genio creativo”.
“Maestro in fiori” con addobbi per ricevimenti e cerimonie; ha “infiorato”
Piazza del Duomo a Milano per il natale di due anni consecutivi sotto la
supervisione della Soprintendenza
ai Beni Culturali; ha promosso gli
addobbi natalizi dei negozi commerciali sul Corso Garibaldi, riscuotendo grande successo.
È stato costumista teatrale per vari
spettacoli, collaborando con lo scenografo Giuseppe Arena nella trasmissione Piccoli Fans per la RAI.
Ha rapporti con la Cooperativa del
Sole e con l’Associazione ATLHA,
entrambe operanti nel campo dell’handicap.
Tra i suoi hobby c’è una collezione
di circa 2.000 cappelli che spaziano
dal 1890 agli anni ’50; una collezione di circa 1.000 “ex libris” datati
’800–’900.
Ha ricevuto numerosi premi tra i
quali la targa d’oro del Secolo XIX
per costumi teatrali, quello “Simpatia” assegnatogli in Campidoglio
(unitamente al Comandante della
Polizia di Stato Parisi e alla “Sora
Lella” –la sorella di Aldo Fabbrizzi–);
quello per “miglior vetrinista” dal
Addobbi natalizi di Piazza del Duomo -Milano-
Circolo della Stampa di Milano; ma quello più bello –tiene a sottolineare–è
la soddisfazione dei suoi clienti per la riuscita di un ricevimento o per una
nuova pelliccia.
Il suo negozio in Corso Garibaldi è di una bellezza ed eleganza che, tra fiori
e pellicce, attira l’attenzione dei passanti, tanto da far invidia a quelli di Via
Monte Napoleone a Milano.
REDA
Addobbi floreali nel Santuario
Carrozza addobbata per una cerimonia nuziale
Beppe con la modella Irina
Al “giardinètt’ ” dal nost dialètt
di Gepi Baroni
“Al Gèp ’l so amis Leopoldo”
E
rano cresciuti insieme, legati
da un affetto fraterno. Il Giuseppe Trezzi, detto affettuosamente “Gèp” e il Leopoldo Saracchi fin da piccoli passavano ogni
momento libero della giornata insieme, s’intendevano a meraviglia e
non litigavano mai. Avevano avuto
però in sorte due culle diverse: per il
Gèp una “scorba” in una modesta
casa di contadini della Curta Sant’Antoni, per il Leopoldo Saracchi,
invece, una culla imbottita e ornata
di trine in Palazzo Manzoli nelle
stanze che stavano sopra parte del
“filatoj” di cui la sua famiglia era
comproprietaria.ma quando stavano insieme le loro differenze sociali
non esistevano: si volevano bene e
basta e si difendevano a vicenda
nelle normali, quotidiane baruffe tra
i ragazzini della Piasa Granda. Erano
complici nelle scorribande in campagna, nel saltare i fossi, nelle arrampicate sugli alberi e, qualche
volta, nelle marachelle architettate a
discapito della virginale, stizzosa,
sofisticata signorina Manzoli che,
quando esagerava nel tormentarli
con le sue insistenti osservazioni,
poteva correre il rischio magari di
trovare la sua “pamela” di fine paglia di Firenze agganciata ad uno dei
rami più alti degli alberi del giardino
o addirittura poteva ritrovarsi a far
da bersaglio, con le sue immacolate
camicette di lino, al lancio di un pomodoro maturo tirato di nascosto
da un cespuglio. L’unica cosa che li
Gèp
faceva un po’ discutere qualche volta
stava nel fatto che il Leopoldo aveva,
oltre alle due sorelle maggiori, una
sorellina minore di lui di quattro
anni, la Mariuccia, alla quale era legatissimo e che voleva sempre avere
vicina. Così, nelle varie avventure
giocose, i due amici a turno se la
portavano “in spagaleta” ma il Gèp,
quando diventava troppo lagnosa,
ne contestava l’ingombrante presen-
za. Erano i primi anni del ’900 e i
loro giochi di ragazzi liberi, spensierati e birichini non lasciavano certo
presagire l’ombra nera della Grande
Guerra che a breve avrebbe sovrastato le loro esistenze. Continuarono per qualche anno a vivere le loro
estati felici: il Gèp, a furia di capitomboli, imparò a inforcare la fiammante bicicletta con la quale il Leopoldo qualche volta arrivava a Milano per comprare un vassoio di paste
golose che poi insieme ingollavano
felici “da niscundon”. D’inverno, ad
ogni Natale, Leopoldo sceglieva tra
quelli ricevuti un giocattolo per farne
dono al suo amico e gli preparava
un sacco colmo di legna da ardere
così pesante da non riuscire a trascinarlo perché fosse per la famiglia
dell’amico davvero un caldo Natale.
Poi, l’adolescenza li mise all’improvviso, ineluttabilmente di fronte ad
una guerra sanguinosa e feroce e
siccome erano due “ragazzi del 99”
partirono per il fronte. Le loro speranze, le promesse d’aiuto, i patti e i
progetti per un avvenire migliore,
furono cancellati di colpo da una
dannata giornata di combattimenti
sul Monte Pertica da una pallottola
nemica che fece il buio dentro e intorno ad un giovane tenentino diciassettenne di nome Leopoldo Saracchi. Rimase disperso per più di
un anno e la sua famiglia e il suo
amico non ebbero per così tanto
tempo sue notizie finché un giorno
non tornò a casa in una piccola bara
di legno di pino. L’amico Gèp in sua
assenza e per molto tempo ancora si
era preso cura, quasi con religiosa
attenzione, del suo cavallino e dei
conigli d’angora che avevano allevato insieme. Il tempo passò, venne
anche per il Gèp il tempo della maturità e della vecchiaia e agli inizi
degli anni 60 mi ricordo di aver visto
qualche volta in un cortile di via
Diaz un vecchio stanco, seduto su
una sedia, al quale si riempivano gli
occhi di lacrime mute alla vista di
mia madre, quella Mariuccia sorellina dell’amico di un tempo che tante
“LA MILANO
volte aveva portato sulle spalle. Solo
l’anno scorso il Luciano Piroli, proprietario de “La Bottega del Caffè”
sul Corso Garibaldi e nipote del Gèp,
mi ha mostrato una vecchia foto del
Leopoldo con scritte da sua madre,
mia nonna, una foto che da quasi
tre generazioni questa famiglia aveva
conservato a testimonianza di un legame che non ha perso valore nel
tempo.
Leopoldo
Questa è una storia vera, la storia di
due vite riaffiorata dalle nebbie del
passato ma non per questo meno
importante e meno preziosa.
DEL PADRE MURATORE”
I
l”Gamba de lègn” fischiava di
buon ora e i badilanti pronti e
forniti di “schiscètta” correvano
verso la grande Milano.
Quella Milano così affascinante
agli occhi di bimbi, ben più importante per i grandi.
Una bambina chiedeva a suo padre
perché andava sempre a Milano ed
egli le spiegava che andava perché
c’era il “pane”.
La bimba fu soddisfatta, ma non
poteva ancora capire il significato
di quelle parole, lei pensava a delle
belle pagnotte appena sfornate e gli
chiedeva di portargliene a casa un
po’ e il padre l’accontentava portandole dei pezzetti avanzati e talvolta anche schiacciati, ma quel
pane aveva un profumo inconfondibile: era il pane di Milano.
Ed ogni sera al fischio del tram, per
la bimba era un’immensa gioia attendere quel pezzo di pane che odorava di papà.
In un giorno di festa egli portò la
piccola a visitare la grande Milano,
la bimba curiosava e si stupiva davanti a cose mai viste; il papà ci teneva a portarla anche sul cantiere
del proprio lavoro, perché capisse il
“sapore” di quel pane.
Dopo una tappa nella tipica osteria
per un boccone, ritornarono.
Trascorse del tempo, gli anni si accumulavano, ma il ricordo di Milano era sempre vivo nella mente dell’anziano papà, le aveva regalato gli
anni più forti.
Un giorno la figlia, divenuta ormai
donna, riordinò dei vecchi indumenti e i suoi occhi si posarono su
una giacca sbiadita, frugò nelle tasche e….. briciole di pane secco le
rimasero fra le mane; le porse al
padre, ed egli guardandole si ricordò e si commosse.
Di certo nelle tasche di ogni papà
stanno nascoste altre specie di briciole, hanno tante storie da raccontare. Ognuna vivrà nel pane sincero.
Luciana Cislaghi
UNA “REALE”
I
L
’Italia è considerata una delle
nazioni al mondo più ricche
di tradizione culinaria che le
proviene dalla commistione di culture diverse e dal palato raffi nato
di tante “buone forchette” europee.
Eppure pochi sanno che dietro la
nascita dei popolarissimi grissini
torinesi c’è una storia singolare
che affonda le proprie radici nel
passato e per fare questo faremo
un breve excursus introduttivo.
Siamo a Torino nell’estate del 1675
e da pochi giorni è ormai morto il
duca Carlo Emanuele II di Savoia,
stroncato a soli 41 anni di vita da
una misteriosa malattia. La sua
improvvisa scomparsa ha fatto si
che la ragion di stato consentesse
al figlio Vittorio Amedeo II di ascendere al trono a soli 9 anni di età
sotto la reggenza della madre,
Maria Giovanna Battista di Savoia-Nemours. A parte la giovane
età, però, il piccolo duca aveva un
grande difetto per l’epoca, ovvero
una salute estremamente cagionevole che lo esponeva a frequenti influenze e che nel 1679 addirittura
gli impedì di contrarre matrimonio
con la principessa del Portogallo.
Per lui si erano mobilitati tutti e
addirittura si era predisposta
l’esposizione della Sacra Sindone a
Torino al fi ne di invocare l’intervento divino per ottenere la guarigione del piccolo principe, il quale
era svogliato nell’appetito, soggetto ad una cattiva digestione e a
problemi di stomaco. Fu in questo
clima che la madre decise di convocare personalmente l’archiatra
della corte di Torino, il dottor Teobaldo Pecchio il quale, dopo aver
visitato il bambino si rese subito
conto che il problema era da ricercarsi nella dieta. Vittorio Amedeo
II, infatti, soffriva di gastroenterite
batterica data da intossicazione
del pane che assumeva quotidianamente, che all’epoca era prodotto con norme non propriamente
igieniche e per di più veniva poco
cotto rendendone la mollica poco
GRISSINI
RICETTA
TORINESI
digeribile. Fu per questo che il dottor Pecchio decise di rivolgersi al
fornaio di corte, Antonio Brunero,
perché trovasse una soluzione all’annosa questione. Fu così che
nacquero i moderni grissini torinesi (il cui nome derivava dalla
gheressa una tipica forma di pane
allungato già in uso nella cucina
locale) che per l’appunto sono di
forma sottile, tradizionalmente stirati a mano o “rubatà” come dicono i piemontesi. La delizia giunse
dunque al banchetto del duchino
con grande apprezzamento da
parte di tutta la corte, anche se la
fama dei grissini non era destinata
a rimanere confi nata entro le mura
di Palazzo Carignano. Quando il
10 aprile 1684 Vittorio Amedeo II
sposò la nipote di Luigi XIV, Anna
Maria di Borbone-Orléans, venne
organizzato nella reggia francese
di Versailles un grande banchetto
in onore dei novelli sposi e ovviamente il duca di Savoia fece provvista di una bella scorta di grissini
da degustare durante le festività.
Il re di Francia, che non aveva mai
veduto una simile delizia da panificio, chiese subito al giovane Vittorio Amedeo di inviare presso la
sua corte due panettieri per tentare di riprodurre anche per la sua
corte i “petites batons de Turin”,
ma l’impresa ebbe scarso successo. Vittorio Amedeo II iniziò così
negli anni a migliorare il proprio
problema grazie ai famosi grissini
e ne divenne così goloso che durante le cacce organizzate presso
la sua residenza estiva di Venaria
Reale, egli era solito portare sulla
sella del proprio destriero una
cesta ricolma di bastoncini di
pane. Fu grazie ai “miracolosi”
grissini che la figura di Vittorio
Amedeo II riuscirà a regnare divenendo una delle immagini storiche
più gloriose dell’epoca barocca con
un lungo governo che gli consentirà di regnare sino alla sua morte
nel 1732, cambiando radicalmente
il modo di condurre la politica della
sua amministrazione e gettando le
basi per la formazione del moderno
stato piemontese, oltre ad accettare la sottomissione alle potenze
stranieri quali Francia o Spagna,
ma sempre rivendicando orgogliosamente l’indipendenza del proprio
piccolo stato dalle vicine nazioni.
Con queste premesse riuscirà poi a
farsi conferire il titolo di re di Sardegna dal 1720, tramandandolo
quindi ai propri successori. Come
la fama di Vittorio Amedeo II, così
anche nomea del grissino continuò
a sopravvivere nei secoli e molti furono i suoi storici estimatori, primo
tra i quali possiamo citare Napoleone Bonaparte che già all’inizio
dell’Ottocento aveva sviluppato un
servizio di corrieri speciali tra Parigi e Torino dedicato in prevalenza al trasporto dei grissini torinesi
che egli sostituiva al comune pane
per tentare di alleviare i dolori dell’ulcera che poi gli sarà fatale sul-
“RAPSODIA
l’isola di Sant’Elena. Sempre per
rimanere
nell’ambito
sabaudo
come non citare il re Carlo Felice
di Savoia il quale era solito mangiarne a teatro mentre ascoltava
concerti o seguiva le vicende delle
opere liriche (anticipando in questo la tradizione dei moderni
popcorn!) o sua zia Maria Felicita
di Savoia la quale ebbe l’idea di
farsi addirittura ritrarre da un pittore posando con un grissino, attirandosi il nomignolo appunto di
“Principessa del grissino”.
Andrea Balzarotti
L’angolo
della poesia
Pioggia di primavera
Scende allegra
la pioggia di primavera
batte forte sulla siepe di casa,
si diverte;
scende decisa sulla semina
sugli arbusti in boccio.
Scende allegra
la pioggia di primavera
batte forte sugli ombrelli
colorati,
si diverte;
chi borbotta
chi contento in cuor suo.
Scende allegra
la pioggia di primavera.
Luciana Cislaghi
O
CORBETTINA”
ggi mi è capitata tra le mani, anzi sotto gli occhi, una bellissima lirica scritta da Giovanni Marrani che è tratta dalla sua famosa “Rapsodia Garibaldina” e che il poeta pubblicò nel 1904. la lirica in questione, intensa, dolente, piena d’immagini stupende e intrisa di un pathos
tutt’altro che retorico e melenso, è quella che descrive in particolare la
morte di Anita Garibaldi, la compagna intrepida e fedele dell’Eroe dei Due
Mondi e inizia con i famosi versi… E Annita muore”.
Ecco, chissà perché, ma tante volte la nostra mente fa strane associazioni
d’idee, a volte coerenti, a volte no ma io, non so come ho associato il tutto
alla mia città a questa Corbetta mia amatissima che sta vivendo un momento di grande travaglio per i problemi che l’affliggono, primo tra tutti
quello del commercio in crisi. E allora, parafrasando il marrani in una ipotetica “rapsodia Corbettina” si potrebbe dire “Corbetta muore!…”. Muore
per tanti motivi, per l’ottusità si alcuni, per il disinteresse di molti, per
l’inadeguatezza dei soliti noti, per la chiusura verso le aspirazioni di chi con
fatica porta avanti un’attività nuotando, di questi tempi, in acque già torbide e profonde, di chi ha mantenuto il possesso di immobili nel Centro Storico col sacrificio e l’impegno di più generazioni e che ora non riesce a locarli se non ai soliti uffici, agenzie immobiliari, finanziarie, eccetera, eccetera che oscurano le vetrine e alla domenica offrono a chi percorre il Corso
solo lo spettacolo desolante delle loro serrande chiuse. Non è così che si
promuovono il progresso e la prosperità di una cittadina bella e storica
come la nostra! E poi offende ancor più la perentorietà e l’inappellabilità di
certe decisioni prese senza ascoltare i diretti interessati o quanto meno
senza tentare di mediare con loro e avvalendosi di assemblee, tavole rotonde e consulte che, con tutto il rispetto, a volte riuniscono persone che, nonostante le buone intenzioni, hanno ben poco a che fare con i problemi in
questione.
Come cittadina, proprietaria di un immobile in pieno centro storico che, tra
l’altro a breve, come sembra verrà blindata in casa sua dalla chiusura in
toto del Corso con un gesto che personalmente considero una beffa per
tutti, sono sfiduciata e confusa.
Ma che volete aspettarvi da chi ha il coraggio di definire “riqualificazione” il
fatto di aver ricoperto con uno strato di vecchio, banale, seppur economico
asfalto il prezioso, esteticamente superiore porfido di due importanti arterie della nostra città!… Forse è davvero arrivato il momento di schiarirsi le
idee e lavorare con coerenza ed efficace lungimiranza.
G.B.
C’ERA
A
UNA VOLTA IL
ngelo fFausto Coppi nasce da
una famiglia patriarcale di
contadini in quel di Castellania il 15 settembre 1919. Non volendo seguire le orme paterne, viene
mandato a Novi presso Ettore Merlano per imparare il mestiere di salumiere. È in questo periodo che,
facendo le consegne con un biciclettone chiamato tri-fusì (tre fucili), si
appassiona al ciclismo e il Manuale
del perfetto ciclista, scritto da Eberardo Pavesi, gli svela tutti i segreti
del perfetto corridore.
Grazie alle 400 lire dello zio Fausto,
capitano di mare, ed alle 170 di papà
Domenico e del fratello Livio, compra una bicicletta Maino da corsa –
1935– con la quale si cimenta nelle
prime gare ciclistiche, (prima gara
vinta nel 1937 sul circuito della Boffalora), mettendosi in evidenza per
le sue “doti” atletiche, merito anche
dell’orbo Biagio Capanna che scopre
in lui qualità fisiche eccezionali.
Arriva il primo contratto –1940– con
la “Legnano” capitanata da Bartali,
con la quale vince il suo primo Giro
d’Italia. Ha l’amarezza della morte
del padre Domenico che lo seguiva,
lo incoraggiava spesso col silenzio e
gli sguardi.
La guerra ormai incombe. L’Europa
è in fiamme.
Cavanna cerca in ogni modo di ritardare la partenza per le armi,
escogitando il tentativo di stabilire il
record dell’ora e… il 7.11.1942, sulla
pista del Vigorelli a Milano, Coppi
“CAMPIONISSIMO”
batte il record del francese
Archambaud portandolo a
45,840 Km. Nessuno si
muove per trattenerlo in
Italia come gli altri corridori che hanno ricevuto un
trattamento di favore.
Il 1.3.1942 il caporale
Coppi del 38° Reggimento
di Fanteria della Divisione
Ravenna, parte per l’Africa, ma le sorti delle truppe
dell’Asse sono disastrose.
Il 13.4.1943 è catturato
dagli inglesi e internato in
un campo di concentramento. Resta prigioniero
sino alla fine del ’44 quando viene rimpatriato nel
campo di prigionia di Caserta. Nel campo il Maggiore Towel) gli permette di
allenarsi, aggregandosi a
Bartali, Leoni, Volpi e
Ricci, con una bicicletta
fornita dal fabbricante
Nolli di Roma.
La primavera del ’45 porta l’Italia
alla liberazione e la fine della guerra. Coppi parte da Caserta in bicicletta e arriva a Castellania ove incontra il fratello Serse e la fidanzata
Bruna Ciampolini, conosciuta a Villalvernia ove era sfollata
Il 22.11.1945 convola a nozze con
Bruna e l’11.11.1947 nasce la figlia
Marina.
Il 19.3.1946 riprende la stagione ciclistica gareggiando per la “Bianchi”,
eterna rivale della Legnano, ottenendo anche l’ingaggio del fratello Serse,
vincendo la Milano-Sanremo con 14
minuti di vantaggio sul francese
Teisseire e 18 su Bartali. Il radiocronista Nicolò Carosio (la TV non c’era
ancora) disorientato dal distacco ricorre ad un artificio “Primo Fausto
Coppi… e in attesa degli altri concorrenti trasmettiamo musica da
ballo”. Mario Ferretti invece così
commentava: ”un uomo solo al comando, la sua maglia è bianco celeste, il suo nome Fausto Coppi”.
Con la sconfitta al Giro del ’46, perso
per 47secondi, sembra che lo scopo
di Fausto sia soltanto quello di battere Bartali, e ogni manifestazione è
l’occasione buona per ottenere una
rivincita su Gino, in una rivalità
nata più per vendere giornali e biciclette. Nella realtà erano antagonisti
nelle gare e amici nella vita privata.
Nascono i primi dissapori con Bruna
–1948– che non si attenuano nonostante la vittoria schiacciante nella
Milano-Sanremo, umiliando Bartali
che arriva secondo a 24 minuti.
1949: vittoria al Giro e vittoria al
Tour; è il primo a vincerli entrambi.
Da adesso sarà il Campionissimo,
precedentemente attribuito solo a
Girardengo.
L’amarezza per Coppi, dopo tanti infortuni, arriva nel 1951 quando a
Torino, nel Giro del Piemonte, muore
Serse per una caduta. Vuole smettere, ma è proprio il suo “eterno rivale”
che aveva perduto in un incidente di
corsa –1936– il fratello Giulio, a convincerlo a continuare.
Sembra finito, ma Capanna lo stimola predicendogli una grande annata che puntualmente arriva nel
1952, conquistando Giro e Tour.
Nel 1953 vince a Lugano il Campionato del Mondo.
Intanto i giornali pubblicano la foto
con accanto Giulia Occhini maritata
Locatelli, “La Dama Bianca”, con la
quale ha una relazione segreta, che
ora è diventata pubblica. È l’adulterio più famoso del secolo che lo porta
alla separazione –1954– da Bruna e
dalla figlia Marina; il processo con
relativa condanna con la condizionale. Il 13 maggio 1955 a Buenos
Aires nasce Angelo Fausto Maurizio
I
1
2
5
2
4
5
3
2
4
1
3
1
1
5
3
3
3
1
2
3
che assumerà il
cognome
Coppi
solo nel 1978 alla
morte di Locatelli.
Come ex rivali dovevano formare la
squadra della San
Pellegrino, quella
delle acque minerali, con Bartali
direttore sportivo
e Coppi capitano.
Il progetto non si
attua.
Nel dicembre del
1959, Fausto va
in Alto Volta (attualmente Burkina Faso) per una
gara ciclistica con
–safari– con altri
campioni (Anquetil, Geminiani, Rivière…), forse per allontanarsi da
Giulia che gli ha cambiato la vita, gli
ha allontanato tutte le amicizie, obbligandolo a ricevere gente a cui lui
non ha nulla da dire.
Ritorna febbricitante “è influenza di
stagione” dicono i medici, invece è
malaria che nessuno diagnostica.
TRIONFI DI
COPPI
Campionato del Mondo (1953)
Campionati del Mondo di inseguimento (1947 e 1949)
Giri d’Italia (1940, 1947, 1949, 1952 e 1953)
Tour de France (1949 e 1952)
Campionati italiani (1942, 1947, 1949 e 1955)
Tricolori di inseguimento (1940, 1941, 1942, 1947 e 1948)
Milano-Sanremo (1946, 1948 e 1949)
GP delle nazioni (1946 e 1947)
Trofeo Baracchi (1953, 1954, 1955 e 1957)
Coppa Bernocchi (1954)
Valli Varesine (1941, 1948 e 1955)
Parigi-Roubaix (1950)
Freccia Vallona (1950)
Giri di Lombardia (1946, 1947, 1948, 1949 e 1954)
Giri dell’Emilia (1941, 1947 e 1948)
Giri della Romagna (1946, 1947 e 1949)
Giri del Veneto (1941, 1947 e 1949)
Giro della Toscana (1941)
Giri della Campania (1954 e 1955)
GP di Lugano (1951, 1952 e 1956)
Ricoverato in gravi condizioni all’ospedale di Tortona. Muore alle
8,45 del 2 gennaio 1960.
È stato un grande. Ha inventato il
gioco di squadra, stringendo accordi
con gli avversari; ha studiato l’alimentazione e l’abbigliamento più
adatto ad un corridore; ha fatto apportare modifiche alle bici per adattarle alla strade sterrate.
In carriera ha vinto 166 corse in
linea di cui 24 a cronometro, grazie
anche ai suoi fedelissimi gregari: Ettore Milano, Andrea “Santino” Carrea, Riccardo Filippi, Aldo Leoni…;
ha vinto 159 gare in pista di cui 84
prove d’inseguimento.
REDA
L’INVASORE
VENUTO DALL’ORIENTE
di Marco Saracchi
L
’ailanto è un albero con chioma globosa, irregolare, di colore verde chiaro; ha tronco eretto, ramificato e la sua corteccia è di
colore grigio-brunastra, ruvida, con
striature più chiare negli esemplari
adulti. Le foglie, lunghe fino a un
metro e che cadono in autunno,
sono composte da 13-33 foglioline
lanceolate, hanno base asimmetrica
e margine grossolanamente seghettato e in autunno assumono talora
un’attraente colorazione rossa-dorata. I fiori, emessi in giugno-luglio,
sono giallo verdastri raccolti in pannocchie erette posizionate all’apice
dei rami, lunghe 15-20 cm. Fiori
maschili e femminili tendono a svilupparsi su piante separate. I frutti
sono delle samare lanceolate, alate,
bruno rossastre, prodotte in abbondanza e vistosamente dalle chiome,
vengono facilmente diffuse dal vento.
Il nome di questa pianta ha due probabili origini; la prima dal francese
“ail = aglio” e dal greco “anthòs =
fiore” in riferimento allo sgradevole
odore agliaceo emanato da fiori, foglie e corteccia quando vengono
stropicciate. Odore non gradito
anche dagli animali che evitano di
cibarsi di parti di questa pianta. La
seconda possibile origine del nome
fa riferimento al vocabolo cinese “ailanto” che significa “albero del cielo”
o “albero del paradiso”: in Cina l’ailanto è uno dei simboli dell’elevazione spirituale.
Questa pianta appartiene alla famiglia delle Simarubaceae; il genere
Ailanthus comprende 8-10 specie
delle quali solo tre sono state attivamente considerate dalle attività dell’uomo: A. altissima (o A. glandulosa), detto anche “albero del sole”,
“sommacco persiano”, “ailanto della
Cina” o “toccacielo” (che comprende
le varietà pendulifolia dal bel fogliame ricadente ed erythrocarpa, dai
frutti rossi) è il più diffuso nei nostri
ambienti; A. giraldii con foglie lunghissime, di colore verde scuro sulla
pagina superiore e verde chiaro su
quella inferiore; A. vilmoriniana con
fogliame verde-azzurro e provvista
di aculei giallastri e ricurvi. Il legno
di questa specie è molto chiaro, simile a quello del frassino, tenero e
lavorabile nelle zone di origine viene
impiegato per la costruzione di utensili e mobili, ha una buona resa in
cellulosa ma nel complesso non
viene utilizzato a livello industriale.
Non è una pianta longeva e la sua
vita media pare sia intorno a 40-50
anni.
L’ailanto è un albero originario delle
zone temperate dell’Asia e dell’Australia settentrionale. Nel 1751 fu
portato per la prima volta nei giardini inlgesi come pianta ornamentale,
si è rapidamente diffuso in Europa
sia per la bellezza del fogliame sia perché
caratterizzato
da una elevata
rapidità di crescita che ne
fanno
una
pianta “comoda” per impianti rapidi e
duraturi.
La
sua presenza
nei nostri ambienti è dovuta
anche al fatto
che a metà settecento la
bachicoltura stava subendo pesanti perdite a causa
di una malattia che colpiva
i bachi e tra i rimedi si
pensò anche di sostituire il
Bombix mori con un’altra
farfalla, anch’essa produttrice di seta, la Samia cynthia (sfinge dell’ailanto)
che si nutriva, appunto,
delle foglie di ailanto anziché di quelle di gelso. Purtroppo le cose non andarono come previsto. L’insetto
non si adattò molto alle
condizioni climatiche europee e le rese in seta non
furono paragonabili a quelle del baco comunemente
allevato e quindi l’esperimento venne
abbandonato.
Entrambe le specie coinvolte sono
state lasciate a se stanti: la farfalla
svolazza ancora oggi (non frequentemente) nei nostri campi, l’ailanto è
diventato una delle specie arboree
più infestanti e preoccupanti del nostro territorio. Esso cresce in maniera incontrollata, invade spazi incolti
o con insufficiente manutenzione,
“scaccia” le specie autoctone e le sostituisce, una volta insediato in un
ambiente è difficilmente eliminabile.
L’ailanto è così “invadente” e “infestante” che se ne sconsiglia la diffusione ad opera dell’uomo e la sua
messa a dimora: queste attenzioni
sono state recepite anche dai “regolamenti del verde” adottati da svariati Enti che gestiscono il territorio
e che prevedono, addirittura, piani
di bonifica ad hoc per la sua rimozione. I motivi di questa “insistente”
presenza sono diversi. In primo
luogo i frutti trasportati dal vento
consentono una celere colonizzazione di nuove porzioni di terra; la germinazione dei semi è veloce e le giovani plantule crescono rapidamente
formando densi popolamenti in
grado di ombreggiare fortemente il
suolo, impedendo in questo modo la
crescita delle specie spontanee,
spesso meno aggressive.
Le altre specie vegetali vengono
ostacolate nella loro crescita anche
per mezzo di sostanze tossiche prodotte dalle radici e diffuse nel suolo.
In aggiunta lunghissimi stoloni
(fusti) sotterranei, lunghi fino a 30
metri, ne assicurano la riproduzione
vegetativa: da essi si originano piante figlie anche solo spezzando o incidendo debolmente la radice. Come
se non bastasse è estremamente difficile estirpare completamente l’apparato radicale dell’ailanto dal terreno: basta lasciare anche un solo
frammento di radice per veder ricomparire una nuova pianta nella
stagione successiva. L’ailanto è un
albero molto rustico e poco esigente,
non necessita di molta acqua per
crescere e può svilupparsi in terreni
poveri e sassosi. Sopporta bene sia
le alte sia le basse temperature.
Essendo una specie non originaria del nostro Paese da noi non ha
trovato parassiti e/o insetti in
grado di attaccarla, quindi la sua
vegetazione non viene ostacolata.
Anche la resistenza agli agenti inquinanti è molto elevata e perciò
neppure ambienti poco salubri ne
sfrenano lo sviluppo.
Tutte queste caratteristiche hanno
fatto si che in passato questa specie venisse impiegata negli ambienti più difficili. Ailanti sono
stati impiegati per costituire viali
stradali e aree verdi a pronto effetto, per consolidare sponde franose
e poco adatte alla
crescita di alberi.
A questo proposito può essere citata l’usanza di
impiantare ailanti su sponde e
fronti di cave:
ombra per gli operai e terreno consolidato in breve
tempo.
Le radici dell’ailanto hanno una
elevata capacità
di penetrazione e si infi ltrano nelle
fessure: così vengono facilmente
rovinate le pavimentazioni e provocate lesioni in fondamenta e
muri, compromettendo la stabilità
di manufatti e vecchi edifici.
La storia dell’ailanto nel nostro
continente quindi è un ottimo
esempio di una catena di errori ed
omissioni nel contesto della gestione di un sistema complesso
che nel caso specifico è l’ambiente
naturale. Mancanza di conoscenze di base sui soggetti implicati,
assenza di valutazioni sull’eventuale impatto ambientale, prevalenza del concetto di “verde tutto e
subito” sulle scelte più caute e
ponderate.
Nel ‘700 è stata quindi sganciata
una “bomba ecologica” parzialmente giustificata dall’ignoranza
(nel vero senso della parola): non è
stata la prima, non è stata l’unica,
ne sono seguite altre: possono essere evitate le prossime?
Il pittore naif Henri Rousseau,
detto “Le douanier ” (1844-1910),
era solito raffigurare tra gli ailanti
le sue tigri e la fauna esotica dei
suoi sogni, in isole lontane: come
verrà raffigurato l’ambiente che ci
circonderà nel prossimo futuro?
UN
E
FALÒ PER
’ il 17 di gennaio: cala la notte,
il buio si illumina a festa e,
qua e là nelle campagne, grandi falò alzano le loro fiamme verso il
cielo. Viandanti infreddoliti fanno
ressa davanti ad un pentolone che
emana un invitante aroma di vin
brulè, per spostarsi poi - velocemente - verso un focherello dove aspettano di essere mangiate invitanti salamelle: è la festa di Sant’Antonio Abate
che qui da noi, come in tantissime
altre località italiane (e non solo), si
ripete da secoli ogni anno.
Dei festeggiamenti in onore di questo
Santo ci parla anche il grande Goethe, in una nota posta sul suo diario
nel lontano 17 gennaio 1787.
Anticamente, ben prima dell’avvento
della religione cristiana, presso gli
antichi Romani e i Celti erano molti
i riti che si susseguivano ad iniziare
dal solstizio d’inverno fino all’equinozio di primavera. Questi riti, mediante l’accensione di fuochi, erano finalizzati non solo a purificare uomini,
animali e campi coltivati, ma soprattutto ad ingraziarsi le divinità.
Con l’avvento del Cristianesimo il rituale pagano della purificazione fu
ereditato dalla nuova religione, insieme alla consuetudine di benedire gli
animali nello spiazzo antistante la
chiesa dedicata a Sant’Antonio
Abate.
Le leggende che si narrano sulla figura di questo Santo sono davvero
tante e per soddisfare la mia – e spero
anche la Vostra – curiosità, ho provato ad indagare un po’ più a fondo
sulla sua figura.
Antonio nacque in Egitto, nel villaggio di Coma (l’attuale Qumans) verso
il 250 d.c. da una agiata famiglia cristiana di agricoltori. Verso i 18-20
anni rimase orfano, con un ricco patrimonio da amministrare e con una
sorella minore da educare. Divise
l’eredità con la sorella e, in ottemperanza all’ammaestramento evangelico “Se vuoi essere perfetto, va’, vendi
ciò che hai, dallo ai poveri e avrai un
tesoro nel cielo, poi vieni e seguimi”,
si ritirò, per vivere da eremita, in una
tomba in montagna. Scoperto dai
SANT’ANTONIO ABATE
suoi concittadini, che come tutti i
cristiani di quei tempi affluivano
presso gli anacoreti per ricevere consiglio, aiuto e consolazione, Antonio
si spostò più lontano, verso il Mar
Rosso. Nel 305 creò una comunità
nel Fayum e successivamente un’altra nel Pispir, iniziando così il monachesimo e dettando le prime regole.
Trascorse gli ultimi anni della sua
lunghissima vita nella Tebaide, accogliendo presso di sé due monaci che
lo accudirono fino alla sua morte, avvenuta il 17 gennaio del 356 e fu seppellito in un luogo segreto.
Nel 561, quando il suo sepolcro vienne scoperto, le reliquie iniziano a
viaggiare da Alessandria a Costantinopoli fino ad arrivare nell’IX secolo
in Francia a Motte-Saint-Didier, dove
fu costruita una chiesa in suo onore.
In questa chiesa cominciarono ad affluire folle di malati, soprattutto
quelli affetti dal morbo conosciuto
come “ignis sacer” per il bruciore che
provocava. Si costruì un ospedale e il
papa accordò il privilegio di allevare
maiali: i porcellini potevano circolare
liberamente fra cortili e strade e nessuno li toccava se portavano una
campanella di riconoscimento. Il loro
grasso veniva usato per curare il
morbo che venne chiamato “il male
di Sant’Antonio” e poi “fuoco di Sant’Antonio” (herpes zoster): è per questo motivo che il maiale cominciò ad
essere associato al grande eremita
egiziano; poi, per estensione, il Santo
divenne patrono di tutti gli animali
domestici e da stalla e venne assunto
come patrono anche da quanti lavoravano con il fuoco, come i pompieri,
non solo perché guariva da quel
fuoco metaforico che era l’herpes zoster, ma anche in base ad un leggenda popolare.
Questa leggenda narra che S. Antonio si recò all’inferno, per contendere
al diavolo l’anima di alcuni morti e,
mentre il suo maialino sgaiattolato
dentro creava scompiglio, lui accese
col fuoco infernale il suo bastone e lo
portò fuori (insieme al maialino recuperato) e lo donò all’umanità, accendendo una catasta di legna, tradizione che, dopo millenni, si perpetua
ancora oggi, anche a Corbetta.
Il nostro falò, acceso in via Vespucci,
ha attirato molte persone, provenienti anche dalla città dove alcune tradizioni non hanno avuto la possibilità
di sopravvivere a causa dell’urbanizzazione: quasi 60 lt di vin brulè e 300
salamelle non sono bastati a soddisfare tutti gli avventori che si sono
avvicendati ai quali, il qualità di rappresentante della Pro Loco, voglio
porgere un elogio per la dimostrazione di civiltà ed educazione dimostrata. Al termine dell’evento non abbiamo trovato gettato per terra neppure
un bicchiere: sono stati tutti accumulati ordinatamente su un tavolino! Vedere per credere!
Un ringraziamento, inoltre, a tutti
coloro che hanno dedicato il loro
tempo alla riuscita della manifestazione.
JANA
MUSICA
P
ASSORDANTE
rego vuol ballare con me? Così
cantava Adriano Celentano e
così anch’io volevo unirmi al
popolo danzante con il desiderio di
ritrovare il piacere, assieme alla mia
dama, di una bella serata immersi
nella musica. Oggi troviamo grandi
complessi composti da tre settori di
danze: latino-americano, liscio, discoteca. Abbiamo tre tipi di ballo,
ma con una sola tonalità: la musica
al volume massimo, tanto da mettere in seria difficoltà il nostro povero
udito.
All’inizio abbiamo sperato che la tonalità nel liscio e del latino-americano venisse moderata, ma rimase solamente un sogno. Così, visto che
niente cambiava, con uno sguardo
d’intesa e in un attimo ci trovammo
felici avvolti dal prezioso silenzio
notturno, dando il nostro addio definitivo alle multisale assordanti.
La nostra Italia è famosa nel mondo
per la grande musica composta dai
nostri grandi autori e tantissime
sono le canzoni stupende ballabili,
anche moderne. Ma in queste tre
piste abbiamo udito solo suoni fastidiosi per le nostre orecchie.
Non solo non si riesce ad ascoltare
buona musica, ma anche il desiderio di scambiare un dialogo diventa
impossibile. Ecco come una società
riesce a distruggere e stravolgere il
nostro divertimento. Se l’arte musicale non viene coltivata e valorizzata, qualcosa di negativo bisogna trovare al suo posto, che ci tenga “com-
pagnia”…
Una volta distrutti i divertimenti
veri, non resta che ricorrere a sostanze in grado di alterare la nostra
psiche come l’alcool e la droga. Lo
dimostrano gli alti consumi attuali,
rendendo anche “difficile” il ritorno
a casa… e qui inizia, purtroppo,
un’altra musica... A me, però, mancano quelle vecchie e sane balere,
dove si esibiva anche il grande Giorgio Gaber. Proprio a due passi da
Corbetta, cantando la dolcissima e
melodica canzone: “non arrossire”…
Walter Angeli
Errata corrige
Sul Curia Picta n° 5/2009 nell’articolo “Gli anni ruggenti del calcio” per
errore è stato pubblicato “Burloni,
intenditore” anziché “Burloni, intenditore”.
Ce ne scusiamo con l’autore e con i
nostri lettori.
Cogliamo l’occasione per pubblicare la “vignetta” che, per ragioni di
spazio, non è stato possibile inserire
nell’originario articolo.
LA
C
arissimi lettori, inizio con l’augurarvi un Buon Anno!
Dato che la maggior parte dei miei
articoli trattano delle feste, in questo racconterò di quella dei Vigili del Fuoco del
distaccamento di Corbetta, celebrata il 17
gennaio.
Sabato alle ore 17,30 tutti i pompieri si
sono ritrovati presso il santuario della
Beata Vergine dei Miracoli per la benedizione dei mezzi, offrendo, presso la sede
della caserma in via Repubblica, un aperitivo di benvenuto.
Per l’occasione erano presenti alcuni “colleghi” provenienti da Martigny; Nunzio
Linguaglossa capo distaccamento della
caserma sita in provincia di Catania; il
noto fotografo cittadino G. Saracchi per le
foto di rito.
Domenica 17 gennaio dalle ore 9,30 i pompieri hanno avuto il piacere di accogliere
presso il distaccamento, oltre agli ospiti
già citati, i Vigili delle caserme di Pieve
Emanuele e di Magenta, i volontari della
Croce Bianca e Azzurra di Magenta, la
FESTA DEI POMPIERI
Croce Verde di Corna- Foto: A. Magistrelli
redo, la Protezione Civile di Bareggio e Vittuone, nonché i rappresentanti dei Carabinieri di Corbetta e
Bareggio e delle Fiamme Gialle di Magenta.
Il ritrovo che ha dato
avvio al corteo era in
P.zza I° maggio, da lì
tutti i Vigili con i mezzi
si sono diretti verso la
Pzza del Popolo dove
sono stati accolti dalle
note del Corpo Filarmonico “G. Donizetti”.
Alla festa si è associata la Messa dedicata
proprio ai Vigili del fuoco. Nel discorso del
Sindaco Ugo Parini dopo una breve cronologia relativa alla storia del distaccamento
di Corbetta, ha elogiato l’attività che i volontari svolgono con grande passione e
dedizione in qualunque ora del giorno e
Foto: G. Masperi
della notte, per portare aiuto a coloro che
si trovano in difficoltà.
Gli invitati si sono poi ritrovati presso la
scuola elementare “Aldo Moro” per un
pranzo e la consegna dei riconoscimenti a
Tutte le Associazioni presenti e al Dott.
Pietro Tatarella, Responsabile Regione
Lombardia della Protezione Civile.
Il Sig. Nunzio Linguaglossa nel discorso di
ringraziamento ha rivolto un particolare
grazie a M. Balzarotti e Ciceri per il gemellaggio svoltosi nel mese di giugno del
2009.
Alcuni premi sono stati consegnati a Ernestino Calati e Giuseppe Parmigiani che
lasciano il Corpo dei Vigili del Fuoco per
raggiunti limiti di età.
Nella stessa occasione è stato nominato
“Capo Ufficiale di Distaccamento” il Caposquadra Maurizio Beretta.
Chiara Ragusa
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redazioneilil10/02/2009
2/02/2010
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Saia A. Rita, Saracchi Marco
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Reg. Trib. di Milano n.145/23 febbraio 2000