qui

Transcription

qui
I saggi di questo volume analizzano la tendenza dei luoghi urbani in questo inizio
di millennio a proporsi, nella loro s truttura urbanistica e nella loro articolazione
sociale, come modello di città del futuro. Questo sguardo , dall’Europa v erso il
Nordamerica, teso a cogliere nuo vi modelli urbani nella loro complessità e non
più solo nella loro “div ersità” o totale “alte rità”, è un in vito ai lettori specializzati
oppure semplicemente curiosi ad avvicinarsi a questi luoghi reali attraverso varie
prospettive teoriche, letter arie, cinematografiche ed esperienz e individuali che
restituiscono immagini vivide di un mondo in pieno divenire.
Real Cities
Las Vegas e Toronto sono importanti esempi di come la città in Nordamerica oggi
tenda a “farsi discorso”: alla frontiera avanzata del cambiamento urbano,
sebbene per ragioni e con modalità differenti e poco assimilabili, sono città che si
fanno rappresentazione, diventando il luogo privilegiato di messa in scena di
nuovi sensi del nostro con vivere quotidiano: spazi, modelli economici, contesti
sociali, linguaggi.
A. Carosso, C. Concilio
Esiste oggi, nel contin ente nordamericano, una forma urbana distintiv a che
segnali la peculiarità dell’esistenza in questo inizio di millennio? Esistono a fianco
delle molteplici città “irreali”, “immaginarie”, “digitali”, utopie, distopie ed
eterotopie urbane, città reali con cui fare i conti per comprendere le
trasformazioni e i nuovi segnali provenienti dal continente nordamericano, da noi
e dalla nostra cultura sempre troppo lontano e diverso?
nova americana
Real Cities
rappresentazioni della città
negli Stati Uniti e in Canada
a cura di
Andrea Carosso e Carmen Concilio
ANDREA CAROSSO è docente di studi americani all'Università di Torino, dove
coordina anche il Master in American Studies. È autore di monografie su Vladimir
Nabokov e T.S. Eliot. Ha pubblicato saggi di teoria critica e, di recente, svariati
studi sulla cultura urbana del sud-ovest americano.
CARMEN CONCILIO è docente di letteratura inglese all’Università di Torino, dove
insegna Letteratura dei paesi di lingua inglese. È autrice di una monografia su
tematiche legate all’identità e ha pubblicato saggi sulla città “postcoloniale” e su
Coetzee, Rushdie, Ondaatje, Desai, Gordimer.
I libri della collana "No va Americana" sono disponibili anche in
elettronico al sito www.otto.to.it
ISBN 88-87503-93-1
formato
€ 9.00
nova americana
“Real Cities”:
rappresentazioni della città
negli Stati Uniti e in Canada
a cura di Andrea Carosso e Carmen Concilio
“Real Cities”: rappresentazioni della città negli Stati Uniti e in Canada
a cura di Andrea Carosso e Carmen Concilio
Traduzione dei saggi della prima sezione a cura di: Erika Abalos, Chiara Arfinengo,
Chiara Boero, Silvia Carosso, Manuela Fea, Valentina Novarino, Lia Peinetti, Ilaria
Piacco, Livia Racca, Michela Vacca Arleri, Anna Vaccarini.
Collana Nova Americana
Comitato scientifico:
Marco Bellingeri, Marcello Carmagnani, Maurizio Vaudagna
Il volume è pubblicato con il contributo della fondazione CRT di Torino.
Prima edizione maggio 2006
©2006, OTTO editore – Torino
[email protected]
http://www.otto.to.it
ISBN 978-88-87503-93-7
È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuato, compresa
la fotocopia, anche ad uso interno o didattico, non autorizzato.
INDICE
Prefazione
1
parte prima
las vegas e la cultura americana contemporanea
Andrea Carosso
Città di frontiera, frontiera della città: Las Vegas
nella cultura americana contemporanea
John Paul Russo
Il Grand Tour di Las Vegas
Federico Luisetti
Etnografia e poetica della complessità a Las Vegas
7
15
33
Joy Ramirez
Il deserto del reale: Las Vegas e la (ri) produzione della città postmoderna
Robert Casillo
Il sacro e il profano in “Casinò” di Martin Scorsese
47
59
parte seconda
toronto e la cultura canadese contemporanea
Carmen Concilio
Toronto: una città senza confini, un centro lontano dal centro
Simona Bertacco
Toronto: la città “ideale” tra postmodernismo e multiculturalismo
87
93
Franca Bernabei
Toronto: le nuove sfide della città globale
Barbara Del Mercato
La poesia tra comunità e istituzione: il caso di Toronto
Note sugli autori
111
135
159
prefazione
Esiste oggi, nel continente nordamericano, una forma urbana
distintiva che segnali la peculiarità dell’esistenza in questo inizio di
millennio? Esistono a fianco delle molteplici città “irreali”, “immaginarie”,
“digitali”, utopie, distopie ed eterotopie urbane attraverso le quali la civiltà
occidentale da secoli elabora l’idea dell’ “altro” o di un “altrove”, città “reali”
con cui fare i conti per comprendere le trasformazioni e i nuovi segnali
provenienti dal continente nord-americano, da noi e dalla nostra cultura
sempre troppo lontano e diverso.
“Real Cities – Urban spaces and representations in Canada and
the United States”, è un esempio di fortunato incontro e di dialogo
interdisciplinare fra studiosi ed esperti di cultural studies e di letteratura
anglo-americana e canadese, avvenuto all’Università di Torino, teso a fare
il punto sulla questione della città nella cultura statunitense e canadese
oggi. Il workshop si proponeva di capire se e come, al di là delle categorie
dell’irreale e dell’immaginario che la letteratura ha sempre privilegiato
nella rappresentazione del paesaggio urbano, quel paesaggio, oggi, si
facesse a sua volta luogo privilegiato di rappresentazione, o meglio, della
rappresentazione di un nuovo destino del luogo urbano.
Gli interventi raccolti in questo volume perfezionano e ancor meglio
definiscono i contenuti di quelle prime ipotesi, nel tentativo non tanto di
guardare a come l’arte abbia in passato rappresentato la città – tema su cui
esiste una letteratura vasta ed esaustiva – ma su come oggi avvenga che le
città si fanno rappresentazione, diventando il luogo privilegiato di messa
in scena di nuovi sensi del nostro convivere quotidiano: spazi, modelli
economici, contesti sociali, linguaggi.
I luoghi scelti per esemplificare il modo in cui la città nord-americana
oggi tende a “farsi discorso” sono due città alla frontiera avanzata del
prefazione
cambiamento urbano, sebbene per ragioni e con modalità differenti e
poco assimilabili: Las Vegas e Toronto. I saggi di questo volume aspirano
a costituire un’argomentazione articolata sulla tendenza dei luoghi urbani
in questo inizio di millennio a proporsi, nella loro struttura urbanistica e
nella loro articolazione sociale, come modello di ciò che la città del futuro
dovrebbe rappresentare.
La prima parte di questo lavoro è dedicata a Las Vegas, celebrato
tempio dell’effimero e del kitsch yankee, ma anche dinamicissima realtà
urbana degli Stati Uniti. Città in rapida crescita (in un continente in cui
la crescita urbana ha sostanzialmente abdicato allo sprawl della cosiddetta
“regionalizzazione”), nuova frontiera dell’immaginario contemporaneo,
Las Vegas ha scelto di rappresentarsi come autorappresentazione, casostudio vivente della trasformazione del concetto di “luogo” in quello che
l’antropologo Marc Augé ha definito il “non luogo”. Sin dalla sua fondazione, avvenuta esattamente 101 anni orsono, Las Vegas ha costituito nel
continente americano il luogo “altro” per antonomasia. Da stazione di
transito sulla linea della Union Pacific che collegava i due più importanti
centri mormoni dell’Ovest americano, Los Angeles e Salt Lake City (la
ferrovia era originariamente denominata “San Pedro, Los Angeles and Salt
Lake Railroad”), Las Vegas ha nel corso di questo suo unico secolo di vita
ridisegnato il proprio futuro in destinazione turistica globale, forte oggi di
un’economia tra le più fiorenti del paese, fondata sulla simulazione, sulla
ridefinizione del reale in termini di “eccesso”.
Gli interventi su Las Vegas tentano appunto di individuare e comprendere i termini di questo eccesso urbano, cercando di afferrare l’inafferrabile
confine che separa la razionalità della città moderna, ampiamente inscritta
nella storia di Las Vegas, nel suo incrociare un vernacolo della simulazione
che ne ridefinisce fortemente il destino. Le diverse prospettive offerte – dalla
filosofia ai film studies, dai cultural studies alle suggestioni del Grand Tour
letterario – sono chiavi di entrata con cui gli studiosi impegnati in questo
lavoro hanno cercato di penetrare la complessità di fenomeni che sfuggono ai presupposti delle nostre categorie convenzionali tanto di moderno
quanto di post-moderno.
prefazione
La seconda parte del volume è dedicata a Toronto, città poco presente
nell’immaginario europeo, eppure ingombrante presenza accentratrice nel
panorama urbano del Canada. Città aperta – come il modello dello sprawl
impone – a flussi migratori, economici e mediatici, Toronto rappresenta
il mondo – ogni quartiere è per struttura urbanistica e sociale una fetta
di mondo – con una vocazione e un’aura prettamente postmoderna. Da
sempre Toronto si autorappresenta ed è rappresentata come il “centro”
– culturale e finanziario – dell’intero Canada, ma contende il primato di
città letteraria con Montreal. Città senza frontiere apparenti, al crocevia
tra cultura atlantica ed Europea, tra l’estremo Nord e gli Stati Uniti, si
caratterizza ora quale città di tradizione multiculturale. Toronto si proietta
verso il futuro come un esperimento riuscito di laboratorio sociale. Gli
azzardi architettonici – la città sotterranea sempre illuminata a giorno dalle
ampie vetrate che la collegano al livello stradale e ai principali edifici del
downtown – e la composita varietà etnica della sua popolazione la rendono
un modello esemplare di luogo urbano nuovo. Città scenografica, che si
estende sulla sponda nord del lago Ontario, Toronto diviene sempre più
spesso scenario di film che la confondono con la “tipica” città nordamericana, occultandone le peculiarità e la vocazione “eccentrica”.
I saggi su Toronto esplorano le contraddizioni di una città ancora
apparentemente arroccata attorno al modello culturale e letterario angloceltico, ma ormai sempre più aperta e votata ad accogliere l’altro: sia esso
un nuovo modello sociale – esempi di solidarietà comunitaria e di una
microeconomia di scambio reciproco non necessariamente monetario
nel condominio abitato da immigrati di svariati paesi – sia esso un nuovo
modello culturale – esempi di microeditoria che invadono lo spazio urbano portando letteralmente la poesia sull’asfalto delle strade. L’incontro
fruttuoso fra letteratura, antropologia, sociologia e sguardo postcoloniale
ha contribuito negli studi qui presentati a ridefinire l’immagine di Toronto
come nuova frontiera di una integrazione possibile, reinterpretando l’anima
di questa città-globale verso cui l’Europa comincia a volgere uno sguardo
sempre più attento.
Proprio questo sguardo, dall’Europa verso il Nordamerica, capace di
cogliere nuovi modelli urbani nella loro complessità e non più solo nella
prefazione
loro “diversità” o totale “alterità”, è un invito ai lettori specializzati oppure
semplicemente curiosi ad avvicinarsi a queste città reali attraverso varie
prospettive teoriche, letterarie, cinematografiche ed esperienze individuali
che restituiscono immagini vivide di Las Vegas e Toronto.
Carmen Concilio e Andrea Carosso
PARTE PRIMA
LAS VEGAS E LA CULTURA AMERICANA CONTEMPORANEA
Città di frontiera, frontiera della città:
Las Vegas nella cultura americana contemporanea
andrea carosso
Università di Torino
A Las Vegas il servizio licenze matrimoniali è aperto 24 ore su 24
ogni venerdì, sabato, domenica e nei giorni festivi. Per una licenza di
matrimonio servono 35 dollari, un documento di identità e qualcuno del
sesso opposto disposto a condividere l’avventura, breve o lunga che sia.
Quintessenza di pragmatismo americano, Las Vegas è orgogliosa di una
burocrazia snella che trasforma un evento altrove di grande rilievo sociale
in una semplice e rapida formalità. Trascorse poche decine di minuti negli
uffici comunali, ci si trasferisce poi in una delle innumerevoli cappelle
matrimoniali sparse per la città, che in un batter d’occhio sanno allestire
cerimonie di ogni tipo, da quelle più eccentriche a quelle più tradizionali,
con tanto di bouquet, abiti da cerimonia (pronti per l’affitto), trasporto
in limousine, servizio fotografico e accompagnamento musicale. Per i più
romantici non manca mai un sosia di Elvis Presley pronto ad intonare
un’opportuna “Love me tender”.
Ogni anno a Las Vegas si celebrano circa 120 mila matrimoni (è il
numero più alto al mondo, dicono le statistiche, dopo quello di Istanbul)
e i matrimoni sono una componente importante di un’economia in piena
crescita, in una città tradizionalmente identificata come la mecca di trasgressione e vizio. È questa certamente l’immagine che a lungo si è associata
a questa città e ripresa da decine di film e romanzi, come ad esempio il
melodramma della RKO Pictures intitolato Las Vegas Story (1952), storia
di una cantante di casinò che sposa un giocatore di professione, per poi
innamorarsi di un ufficiale di stanza in una vicina base militare nel deserto del Nevada. Il film ben riassume gli stereotipi di Las Vegas: ricchezza,
avidità, violenza; amore appassionato, adulterio, gioco d’azzardo.1
Las Vegas Story, uscito nel momento di massima espansione della città
subito dopo la seconda guerra mondiale, insisteva sul luogo comune della
andrea carosso
“città del peccato”, metropoli nel deserto abbandonata da Dio, monito sulle
conseguenze di quando il destino manifesto dell’America viene sovvertito
in un buco nero che ne inghiotte l’intera teleologia. Nella sequenza iniziale,
una voce fuori campo ne esalta vizi e virtù:
Eccoci qui, nella Contea di Clark, nel Nevada. A parte chi vi abita, ben pochi altri
ne hanno sentito parlare. [Appare sullo schermo una mappa di Las Vegas]. Ma
appena si dice “Las Vegas”, la gente drizza le orecchie; i fortunati mettono mano
alle tasche, da dove uscirà il denaro che inevitabilmente verrà perso sui tavoli
da gioco, insieme alla moglie dell’anno precedente. Ma non è giusto parlare di
Las Vegas senza nominare la Contea di Clark, perché sono due cose che vanno
mano nella mano.
La Clark County a cui allude il narratore è la contea di cui Las Vegas
è città principale, intitolata a William Clark, mitico proprietario della San
Pedro, Los Angeles and Salt Lake, la società ferroviaria che agli albori del
ventesimo secolo cambiò per sempre il destino di questa regione desertica.
Prima di Clark, Las Vegas (“campi erbosi”, così chiamata dagli esploratori
spagnoli che ne apprezzavano l’erba rigogliosa, l’algaroba, le distese di
pioppo nero e i non rari corsi d’acqua) era anche nota come ragtown, la
città dei pezzenti, con riferimento ai molti che lavoravano nelle numerose
miniere di piombo circostanti. Las Vegas, a quel tempo, era anche una
stazione di transito del cosiddetto Mormon Trail (la pista dei Mormoni)
che collegava i due centri principali di questo gruppo religioso dell’ovest
americano: Salt Lake City nello Utah e San Bernardino in California.
Per molti versi, la Las Vegas di William Clark era il perfetto caso-studio
per la “tesi della frontiera” che Frederick Jackson Turner aveva enunciato
nel 1893 e secondo la quale la storia dell’America coincideva con la storia
della “colonizzazione del grande Ovest”, una espansione legata alla “esistenza di una zona di territorio libero, il suo costante arretramento e la
contemporanea avanzata dello stanziamento americano”.2
La ferrovia trasformò radicalmente quello scenario. Las Vegas divenne
punto intermedio e stazione di manutenzione della nuova linea ferroviaria
e all’avvio del servizio regolare nell’aprile del 1905 la città si trovò improvvisamente fuori dalla frontiera e nuovo punto di snodo del nascente
sistema di trasporto transcontinentale. Un mese dopo l’avvio del servizio
città di frontiera, frontiera della città
passeggeri, la società ferroviaria spianò un’area desertica ad ovest della
ferrovia e la mise in vendita nel corso di un’asta passata alla storia, in cui
speculatori arrivati (proprio grazie a quella ferrovia) da tutto il sudovest
fecero mambassa di nuovi spazi di insediamento urbano ancora ipotetici
ma già assai promettenti. Il 15 maggio 1905, giorno in cui si aprì la vendita
all’incanto, viene tradizionalmente riconosciuto come la data di nascita
di Las Vegas. L’atto costitutivo ufficiale della municipalità risale a pochi
anni dopo, nel 1911.
Da punto quasi inesistente lungo la frontiera in espansione a sosta
obbligatoria per i viaggiatori che attraversavano il continente Nordamericano, la ferrovia trasformò Las Vegas in punto di passaggio nei lunghi
viaggi verso altre destinazioni nord-americane. Pur non ancora una “destinazione” vera e propria, Las Vegas si era ritagliata un proprio “destino”,
che consisteva appunto nella condizione transitoria della propria posizione
geografica intermedia.
L’asta del cosiddetto Clark townsite del 1905 trasformò lo stanziamento
antecedente – sul lato opposto della ferrovia e noto come il McWilliams
townsite – in un’istantanea città fantasma. Una foto scattata dall’alto nel
1931, in direzione sud-ovest, ne mostra con chiarezza passato e futuro.
Quella foto rivela anche quale aspetto avesse la città nell’anno (il 1931,
appunto, uno dei più severi tra gli anni della Depressione) in cui il gioco d’azzardo venne legalizzato – un evento epocale per l’intera contea.
Nel bel mezzo della crisi economica più grave della storia americana, la
legalizzazione del gioco d’azzardo trasformò Las Vegas in una boom-town
di oltre 5000 residenti e distante solo poche miglia da uno dei più ambiziosi e spettacolari progetti ingegneristici che il mondo aveva sino a quel
momento conosciuto: il cantiere della Hoover Dam, la colossale diga sul
fiume Colorado, che l’allora presidente Herbert Hoover aveva voluto
per garantire a Los Angeles e a tutto il sud-ovest americano l’approvvigionamento di energia necessario al loro sviluppo. Inaugurata nel 1935,
la Hoover Dam aveva richiesto l’utilizzo di tre milioni di metri cubi di
cemento e 4 anni di lavoro da parte di un esercito di 5000 operai. La diga
e il conseguente apporto di energia che da essa derivarono trasformarono
andrea carosso
Las Vegas in centro urbano a servizio dell’industria turistica che si era nel
frattempo sviluppata.
Proprio per capitalizzare su questa sempre maggiore popolazione
“in transito”, a Las Vegas si costruì nel 1932 il primo albergo di lusso,
l’Apache, dotato di tutti i confort che la tecnologia del tempo concedeva:
un ascensore e un frigorifero per la conservazione di cibi e bevande. Già
nel nome e nell’ispirazione l’Apache rivelava una precoce tendenza alla
tematizzazione del tempo libero – e cioè a quella propensione tipicamente
moderna a caricare l’esperienza di toni ed elementi simbolici e che diventerà
il tratto distintivo di questa città. L’albergo infatti evocava la tradizione
di frontiera di quel wild west che un decennio più tardi avrebbe trovato
realizzazione su scala ben più ampia nel primo hotel-resort vero e proprio
costruito in questa città, il Last Frontier, inaugurato nel 1942 con annessa
una replica in dimensioni reali di un villaggio di frontiera.
Il momento più spettacolare della tematizzazione di Las Vegas fu la
costruzione del Flamingo Hotel nel 1946, finanziato da uno dei gangster
“storici” di questa città, l’ebreo newyorkese Bugsy Siegel, definito da Mario
Puzo “signore della guerra nel nulla sterminato di alcali e cactus”. Siegel
amava le donne vistose, i night club e il giardinaggio. Secondo un noto
aneddoto locale ripreso nel recente romanzo di James McManus Positively
Fifth Street, a trent’anni dalla sua morte violenta le rose che Bugsy aveva
piantato e che curava personalmente nel giardino del Flamingo fioriscono
ogni anno più grandi e di un rosso più intenso, alimentate probabilmente dai cadaveri sepolti sotto quella terra di Filthy Frankie Giannattasio,
Big Howie Dennis, and Mad Dog Neville, rivali di Bugsy nel controllo delle
ricchezze sterminate di questa città.3 Oltre che giardiniere, infatti, Siegel
fu anche il primo “imprenditore” a comprendere il potenziale economico
(legittimo e illegittimo) della città, intuendo come la posizione desertica
di Las Vegas costituisse non uno svantaggio, bensì una “risorsa critica”
(McManus, 42): i turisti, una volta mangiato e bevuto sino alla nausea,
non avevano che due alternative, il sesso e il gioco, ben consapevoli del
fatto che “il sesso è bello, ma il poker dura di più”. (McManus, 80)
Secondo lo storico Eugene Mohering, il Flamingo di Siegel combinava
“l’ambiente sofisticato di un casinò di Monte Carlo con il lusso esotico
10
città di frontiera, frontiera della città
di un resort caraibico di Miami Beach” e dunque affrancava Las Vegas dal
piccolo orizzonte della retorica West, proiettandola in una prospettiva di
“immagini diversificate” che ne avrebbero definito il futuro a venire.4
Tale diversificazione si intensificò negli anni Cinquanta lungo la Highway 91, l’arteria stradale a sud del downtown originario in direzione di
Los Angeles, ora universalmente nota come The Strip. Nella più assoluta
libertà rispetto a ogni vincolo urbanistico (la Strip non rientrava sotto la
giurisdizione della città e quindi non era sottoposta ad alcun regolamento
municipale) e in piena sintonia con la nuova etica dell’automobile che si
stava sviluppando proprio in quegli anni di “suburbanizzazione” in ogni
angolo d’America, la Strip sviluppò un vernacolo architettonico allo stesso tempo banale negli stilemi costruttivi ma stravagante nell’invenzione
di simboli roadside (ovvero, da “ciglio stradale”) eretti per attirare clienti
per i vari motel, casinò e gli altri stabilimenti turistici. In un libro del
1972 divenuto ormai un classico degli American Studies, Learning from
Las Vegas, Robert Venturi e i suoi collaboratori studiano con intelligenza
il fenomeno di quell’ “architettura semiotica” che fa di questa città non
tanto una cattedrale del kitsch (come vorrebbero i suoi detrattori), ma al
contrario una vera e propria scuola di postmodernità.
La lista nera del 1959 che bandiva dalle case da gioco molte figure
illustri del crimine organizzato – vicenda splendidamente ricostruita da
Martin Scorsese in Casinò – e il contemporaneo varo di nuove leggi che
regolavano il gioco d’azzardo aprirono le porte alla modernizzazione della
città che, attraverso gli investimenti “istituzionali” delle grandi corporation
del gioco, si vide trasformata a partire dagli anni Sessanta in una vera e
propria mecca dell’immaginario. Vennero costruiti complessi alberghieri
ispirati a temi esotici, lontani sia nel tempo che nello spazio: il Caesars Palace
(che evocava le grandezze della Roma imperiale) nel 1965, lo Aladdin (ispirato alle Mille e una notte) nel 1966, il Circus Circus (aperto nel 1968 con
annesso enorme chapiteau) e il Las Vegas Hilton (“il più grande complesso
alberghiero del mondo”) nel 1969.
La legalizzazione del gioco d’azzardo in molti stati americani avviata
negli anni Ottanta obbligò in tempi recenti la città ad abbandonare definitivamente l’immagine di “gioco, alcol e sesso” a cui era stata da sempre
11
andrea carosso
associata e ad abbracciare una grandeur di stile hollywoodiano che inaugurò una ulteriore rivoluzione negli stili architettonici, definitivamente
consacrandola a capitale contemporanea della simulazione, una Disneyland
moltiplicata all’infinito in cui una cornucopia di temi ne celebra l’immagine
odierna di Frontiera del Capitalismo Americano e Capitale Moderna del
Tempo Libero.
Nella Las Vegas di oggi c’è qualche cosa per tutti: vi è possibile il “grand
tour virtuale” – per usare la felice definizione di Giovanna Franci – in cui
Venezia e Parigi incontrano New York, la civiltà egizia incontra il mito di
Re Artù, la sofisticazione europea (incarnata nel recente Bellagio) incontra
l’eccesso hollywoodiano (l’MGM Grand). Ma è anche il luogo di ripetizione ed omogeneità infinite, uno skyline di alberghi-grattacielo costruiti in
serie che se da un lato non la rende molto dissimile dall’orizzonte urbano
di una città postsocialista, dall’altro ne esalta il principio disneyano dell’efficienza, della circolazione infinita e del massimo profitto.
La Las Vegas odierna non è una destinazione nel senso logocentrico
del termine, non contiene panorami e spazi definiti e immutabili. Le
prospettive falsate dei suoi spazi simulati producono versioni diverse dello
stesso luogo a seconda di dove cade lo sguardo. Se René Magritte affermava
in polemica con le leggi della rappresentazione che una pipa dipinta non
è affatto una pipa, che cosa dire allora del Giardino di Babilonia (rappresentazione di un mito asiatico) costruito fuori dal Luxor (riferimento
chiaramente nord-africano)? O del Ponte di Rialto che si affaccia su una
autostrada ad otto corsie? Ma malgrado i sovvertimenti spaziali e temporali
di questo pastiche postmoderno che è l’essenza di Las Vegas, i turisti qui
finiscono per sapervi ricostruire improbabili unità narrative, rinegoziando
all’infinito i termini del rapporto tra realtà e simulazione.5
È impossibile tenere traccia delle enormi trasformazioni che la città
subisce anno dopo anno. Con due milioni di abitanti previsti per la fine
del 2005, Las Vegas è in continua trasformazione, aggiungendo e distruggendo (nel gergo locale, la demolizione pianificata del vecchio viene
definita “implosione”) ad una velocità che le guide turistiche risultano, al
pari degli elenchi telefonici, inattendibili nel giro di pochi mesi.6 Come
in una trasmissione televisiva, in un film o in un sito della grande rete, a
12
città di frontiera, frontiera della città
Las Vegas si aggiunge e si toglie (cioè la si sottopone a un costante lavoro
di montaggio) secondo modalità che destabilizzano ogni concetto di spazio
inteso come fissità. Se la città postmoderna è, per richiamare una nota definizione del filosofo Michel Foucault, una “costellazione di siti”,7 analogo
della nota “scheda a circuiti stampati” della metafora pynchoniana sullo
sprawl losangelino,8 allora Las Vegas è senza ombra di dubbio, di questa
città postmoderna, la frontiera più estrema, “testa di ponte avanzata di una
più generale tendenza culturale della società americana”9 e laboratorio per
la gestione dello spazio costruito per il resto del pianeta.
Gli interventi contenuti in questa sezione del volume contribuiscono a mettere in
prospettiva alcuni di questi problemi.
note
1. Las Vegas Story è passato alla storia hollywoodiana anche perché fu la causa di una delle
più violente battaglie legali della storia del cinema americano, provocata dal rifiuto del
produttore, Howard Hughes, di riconoscere nei titoli di testa il nome dello sceneggiatore
Paul Jarrico, al tempo nella “lista nera” hollywoodiana perché sospettato di simpatie
comuniste.
2. Frederick Jackson Turner. “The significance of the frontier in American history”, in
The Frontier in American History, New York, Holt, 1920.
3. James McManus, Positively Fifth Street: murderers, cheetah’s, and Binion’s World Series of
Poker, New York, Farrar Straus and Giroux, 2003, p. 42.
4. Eugene P. Moehring, Resort city in the Sunbelt: Las Vegas, 1930-1970, Reno, University
of Nevada Press, 1989, p. 49, corsivi miei.
5. Si vedano ad esempio le fotografie ricordo di Las Vegas pubblicate in molti siti personali
di Internet, dove risulta generalizzato il tentativo in queste foto amatoriali di ricostruire la
narrativa originaria di ogni singolo resort, esplicitamente evitando la cacofonia del pastiche
che è la “vera” Las Vegas.
6. A proposito dell’obsolescenza degli elenchi telefonici di Las Vegas, si veda Mark ottdiener,
C.C. Collins, et al., Las Vegas: the social production of an all-American city, Malden, MA,
Blackwell, 1999.
7. Michel Foucault, “Des espaces autres” (1967), in Eterotopia. Luoghi e non-luoghi metropolitani, Milano, Mimesis, 1994.
8. Thoma Pynchon, The Crying of Lot 49, 1969.
9. Neil Postman, Amusing ourselves to death: public discourse in the age of show business,
New York, Viking, 1985, p. 93.
13
Il Grand Tour di Las Vegas
john paul russo
Università di Miami, Florida
Nella poesia di Mark Strand Always alcuni personaggi definiti “campioni dell’oblio” siedono attorno al tavolo di una stanza spoglia “illuminata
soltanto da una lampadina”.1 “Si dedicano intensamente” a dimenticare
sia la cultura sia la natura (se non la natura in sé, almeno quella permeata
di umana immaginazione). A mano a mano che le cose vengono dimenticate, esse svaniscono anche dall’universo. Scompaiono prima una casa e
un uomo in un cortile, poi la luna, la Florida e San Francisco. Il mondo
si svuota verso dopo verso: “E un attimo dopo era scomparsa la Bulgaria,
poi il Giappone”. Questione di tempo e non rimarrà più nulla:
“Quando finirà?” chiese uno di loro.
“È davvero difficile rincorrere il destino
di ogni cosa conosciuta”, disse un altro.
“Sì”, aggiunse un terzo, “e fino all’ultima pietra;
all’immaginazione non resterà
che fredda perfezione”.
Nel finale, uno di questi campioni dell’oblio, al culmine del trionfo, guarda
fuori dalla finestra e esclama: “Non una nuvola, non un albero, roghi di
promesse ovunque”.
La radicata convinzione americana che riecheggia in questi versi di
Strand deriva da Emerson (e, in ultima analisi, dal pensiero puritano)
passando per Whitman, Emily Dickinson, William James, e Wallace Stevens. Harold Bloom riassume con una formula quest’ampia tradizione:
“Tutto ciò che si può infrangere va infranto”.2 Il mondo deve essere scisso
in dati sensoriali irriducibili affinché l’individuo lo possa re-immaginare,
altrimenti si rimane prigionieri del passato e non si può essere padroni
di sé stessi. È questa, secondo Bloom, la tradizione su cui si fondano la
15
john paul russo
cultura e la letteratura americana, tradizione caratterizzata da un desiderio
romantico di immediatezza e dall’enfasi sul presente e sul futuro.
Emerson, secondo cui “l’anima tende al progresso”, diceva di essere
alla ricerca di un rapporto nuovo con la natura; il presidente James K. Polk
(pressappoco nello stesso periodo) asseriva che la storia dell’America sta
nel suo futuro.3 All’orientamento di Emerson si contrappone la tradizione
filo-europea di Pound e di Eliot, che trae origine da Longfellow, Charles
Eliot Norton, Henry Adams, Henry James e Santayana, tutti alla ricerca di
immediatezza e polemici verso i pesanti sedimenti (tecnologici, burocratici,
legali e culturali) ai quali si lega la definizione stessa di modernità. Su questo
argomento William ed Henry James si trovavano in pieno accordo.
Quali estremi rappresentanti della linea di pensiero emersoniana, i
campioni dell’oblio voltano le spalle a un mondo già immaginato, umanizzato ed esaurito. La loro forza propulsiva è l’immaginazione che, nel
suo impeto modernista di “fredda” e calcolata ricerca di “perfezione”, può
cancellare o “dis-immaginare”, ma anche creare: produce il “rogo” che al
tempo stesso annienta e promette, una “promessa” condizionata a sua volta
dall’annientamento. La poesia di Strand esprime un’indipendenza ascetica
dal passato, uno scrupoloso rifiuto dell’allusione, come nella stanza spoglia
illuminata da una semplice lampadina. Il titolo Always richiama la perpetua
possibilità di rigenerarsi a partire da un ground zero ed evidenzia un positivo
ottimismo americano (“promesse ovunque”) in un contesto che potrebbe
altrimenti sembrare quello di una tragica scomparsa, la scomparsa di tanta
storia e di tanta cultura. L’espressione “roghi di promesse” è stranamente
debole dal punto di vista poetico; forse Strand ha inteso affidare a questa
locuzione un compito che va al di là della sua semplice formulazione. È
una debolezza che mina la fiducia in un futuro utopico o indica, quanto
meno, che il futuro è sempre soggetto alle stesse condizioni distruttive che
lo producono. In questa breve poesia l’atto del dimenticare viene per ben
due volte definito “arduo” o “difficile”, sebbene i versi apparentemente non
lo giustifichino: al contrario, dimenticare appare quasi tanto facile quanto
restare inerti. È “tardi”, i campioni dell’oblio sembrano annoiati, “scomposti”
sulle loro sedie; uno di loro “sbadiglia”. Accadrà anche domani? Ho ascoltato
Mark Strand recitare questa poesia: riusciva a far ridere il pubblico, se non
16
il grand tour di las vegas
per la perdita del mondo, almeno per il modo in cui questa avveniva. È poi
vero che le tradizioni, come si suol dire, sono dure a morire? Sembrerebbe
al contrario che muoiano facilmente.
Uno dei migliori esempi del nostro grande oblio culturale (un dimenticare astioso e aggressivo), con le inevitabili conseguenze che esso
infligge alla psiche individuale, si sta verificando a Las Vegas, assurta negli
ultimi vent’anni a paradigma (architettonico, culturale, semiotico e così
via) del modello urbano americano. Qui, in un unico luogo, il visitatore
si può imbarcare in quello che Giovanna Franci definisce il “Grand Tour
virtuale” dei mega hotel-casinò a tema: il Bellagio, il Venetian, il Tuscany,
il Paris-Las Vegas, il Caesars Palace, il New York, New York, il Mandalay,
il Treasure Island e via dicendo. Nel 1999, vi si sono recati 34 milioni di
turisti (con un incremento del 10.5 per cento rispetto all’anno precedente)
e non soltanto per giocare d’azzardo, ma per ammirare la “fantasmagoria
delle nuovissime costruzioni”.4 Nuovissime davvero, perché a Las Vegas
l’impermanenza è tangibile nel costante processo di abbattimento e ricostruzione dei grandi casinò, come nel Luxor Resort, ad esempio, la cui
piramide alta trenta piani non durerà tremila, ma trent’anni al massimo.
Chi partecipa al Grand Tour virtuale vuole divertimento e storie da
raccontare e forse la soddisfazione di aver assaporato ciò che gli era stato
promesso dalla pubblicità. Il divertimento, dopo tutto, costituisce una
delle più forti determinanti della società contemporanea, perché ad esso
si lega il significato stesso del benessere personale. La triste verità è che, a
fronte dello sforzo intellettuale richiesto, i più preferiscono fare un Grand
Tour a Las Vegas piuttosto che in Europa.
Molti dei casinò sono oggi legati ad un tema italiano, dunque appropriato ad un Grand Tour virtuale, in un momento in cui l’Italia è diventata,
nell’immaginario della pubblicità, simbolo di lusso, stile, tempo libero,
sessualità e globalizzazione. Appare dunque lecito domandarsi quale sia la
reazione di quegli italiani che il Grand Tour Virtuale lo sperimentano in
prima persona nel vedere miniaturizzati a Las Vegas città antiche e borghi
arroccati: com’è noto gli italiani amano il gioco, i varietà e lo spettacolo (e
dopo tutto ‘casinò’ è una parola italiana). Quali sono le loro impressioni
quando passeggiano per il Caesars Palace (1966), il precursore degli ho17
john paul russo
tel-casinò a tema, e che cosa pensano di fronte ai mille posti a sedere del
Circus Maximus rassomigliante ad un Colosseo-giocattolo (ma in fondo
un nome è solo un nome!) o ai negozi del Forum, dove la statua di Bacco
sotto un cielo trompe l’oeil (un po’ troppo nuvoloso per essere italiano)
esorta: “Dài, non esitare, vieni al centro commerciale?”.5 Il Tuscany Resort
Hotel (1995), che riproduce un frutteto toscano nel bel mezzo del deserto, può far vibrare una nota stonata in un cuore italiano. File di cipressi
costeggiano l’ingresso del Bellagio (1998), un casinò ideato per soddisfare
i più esigenti in fatto di lusso e la cui realizzazione è risultata fino ad ora
la più costosa (oltre un miliardo e mezzo di dollari). Il Bellagio dispone
di eleganti parterres, di una serra e di un giardino botanico ricco di flora
mediterranea; era dotato perfino di una pinacoteca da 300 milioni di dollari, sino a quando gli ultimi proprietari (la MGM) decisero di eliminarla.
Persino le slot machine erano in origine imbottite di velluto affinché, non
potendo udire il tintinnio delle monete, non ci si ricordasse di trovarsi in
un casinò. Enormi fontane fanno zampillare al tempo di arie operistiche
e capricci musicali getti d’acqua alti 73 metri in riva ad un’imitazione del
lago di Como che si estende su 44 mila metri quadri.
Il quasi altrettanto costoso Venetian Resort (1999) propone una replica
del Campanile cinquecentesco in scala uno a due, un piccolo Ponte dei
Sospiri, un Palazzo del Doge “completo di affreschi incorniciati d’oro” che
riproducono opere di Tiziano, Tintoretto e Veronese su un soffitto alto quasi venti metri, una Ca’ d’Oro e un ponte di Rialto, il tutto inframmezzato
da canali profumati sui quali i turisti si muovono in gondola costeggiando
un centro commerciale.6 Il Venetian reclamizza i suoi “veri” gondolieri. Il
filosofo Massimo Cacciari, sindaco di Venezia al tempo dell’inaugurazione
del casinò, protestò contro il “violento plagio architettonico”; i docenti
della Facoltà di Architettura di Venezia ne denunciarono la “mostruosità”.7
Secondo loro, Venezia andava protetta dalla banalizzazione, potenzialmente più distruttiva dell’acqua alta. “Il Venetian Resort segue la logica del
fondale di un set”, scrive Franci, “ovvero la logica dei pezzi degli scacchi
distribuiti in maniera apparentemente casuale”. In piazza San Marco, però,
manca la basilica: “forse di fronte a quel capolavoro” il progettista “non
18
il grand tour di las vegas
aveva osato”.8 Si era temuto di imitare il sacro? O forse si erano esauriti i
soldi o il cattivo gusto?
La miniaturizzazione è un modo per ridurre il passato e per adattare
l’Italia alle dimensioni del gusto e dei valori di chi produce e di chi manovra
il mercato. Si dice a volte che l’essenza della satira stia nel ridurre le cose
ai minimi termini. Come non scorgere tracce di satira negli atrii di questi
palazzi e nei canali artificiali, risultato di maestria tecnologica piuttosto
che di vera cultura?
Furio Colombo, che vi giunse nel 1988, paragonò Las Vegas vista in
lontananza ad una nave da crociera di lusso che incrocia il deserto di notte
– una metafora pertinente, dato che Bugsy Siegel e le società edilizie controllate della Mafia della East Coast avevano trasformato Las Vegas in una
località di villeggiatura ispirata a Miami Beach, ai Caraibi e alle crociere.
Ma ad un più accurato esame, le luci della città davano un’impressione
sintetica “di emergenza piuttosto che di festa”. Nell’ “intensa artificialità” del
luogo, tutto appare “falso”, “imitato”, “esagerato”, “deforme”, “replicato”:
una sensazione passeggera di autenticità lascia il posto ad un senso di falsità
che tranquillizza, un sollievo nella consapevolezza che gli originali sono in
salvo altrove, oltre al piacere negativo nel rilassamento dal cosiddetto stress
del giocatore d’azzardo. Altrettanto artificiale è la stratificazione del ciclo
vitale sulla Strip. In sostanza non ci sono bambini (o almeno così era sino
agli anni Ottanta, prima dello sviluppo del turismo per famiglie, ma anche
a partire da quegli anni i bambini li si è visti soltanto in alcune zone ben
determinate; più recentemente i bambini sono nuovamente scomparsi:
nel calcolo costi-benefici rappresentavano una voce in perdita). Ci sono i
ventenni e i trentenni impiegati nell’industria dei servizi e i croupier quarantenni. Poi si passa con un salto generazionale ai giocatori cinquantenni,
sessantenni e ai pensionati. Il turista in età avanzata è il “visitatore ideale”
perché “ci vuole una certa delusione, una certa esperienza dei limiti e dei
confini della vita per lasciarsi incantare dalle luci di Las Vegas”.9 Si tratta del
tipico individuo alla ricerca di una riabilitazione terapeutica sotto forma di
“svago” per mezzo del gioco d’azzardo e del sesso. In qualche modo somiglia
a molti di coloro che si occupano di farlo divertire – stelle sulla via del
declino che aspirano ad un ritorno alle scene, tra le quali compare di tanto
19
john paul russo
in tanto una vera star, come ad esempio Sinatra, che era solito esibirsi un
giorno o due all’anno, quasi a voler conferire legittimità al tutto.
I casinò sono “fabbriche del divertimento” che assorbono nevrosi e
producono grandi riserve di energia pronte per venire esaurite (o, per essere
precisi, placate). Nel suo studio sul gioco, Roger Caillois ha osservato che il
mondo dei casinò è pervaso da una concezione moderna del lavoro:10 queste riserve di energia sono necessarie per sopravvivere alle strenue, infinite
notti di gioco: i casinò restano aperti ventiquattr’ore al giorno, illuminati
sempre dalla stessa luce artificiale e privi di orologi, il tutto con lo scopo di
aumentare il senso di disorientamento. Las Vegas è al di fuori della scansione regolare del tempo. (È vero che l’atmosfera del centro commerciale
interno al Caesars Palace, i Forum Shops, simula il levarsi e il calare del
sole, ma il tutto nell’arco di due ore; in questo modo si possono vivere
12 giorni in uno, un vero affare.)11 Di fronte alle slot machine, vecchiette
decrepite abbassano la leva della macchinetta cinquecento volte al giorno
mostrando una forza da scaricatori. In una società terapeutica, i giocatori d’azzardo vogliono vincere soldi per essere riabilitati: come afferma
Colombo “la salvezza è il denaro”. Persino le prostitute somigliano più a
istruttrici di un centro benessere o a volontarie dell’Esercito della Salvezza
che alle passeggiatrici di Montmartre. Questo dipende in parte dal fatto che
alle showgirl di Las Vegas non è permesso di essere neppure minimamente
sovrappeso; devono mostrare un tono muscolare da ragazzine e un corpo
“levigato e senza età”, “frutto di allenamenti ad alta tecnologia”.12 Tutto
è “finta allegria, finto peccato”, così come il nudo che, per quanto reale,
possiede una certa asetticità artificiale. “Persino le ballerine nude sembrano
marionette di Disneyland, perché in esse non c’è l’ombra della sensualità,
non c’è neppure la consapevolezza di essere nude, come dal medico”. Le
copiose imitazioni del Ceasars Palace hanno un che di funereo – non si
tratterà forse di una caricatura della morte del passato?
Per Giovanna Franci, Las Vegas funziona come “laboratorio di stile”
per nozioni quali originalità, copia, falso, contraffazione, segno e plagio;
questa città rappresenta inoltre l’ultima frontiera dello sviluppo urbano,
dell’intrattenimento e della globalizzazione. Secondo Franci, Las Vegas
esprime il desiderio paradossale di “originalità attraverso la ripetizione” o
20
il grand tour di las vegas
di “rivelazione per mezzo della simulazione”. Lì dove mere copie di palazzi
o di strutture architettoniche potrebbero suscitare un senso di nostalgia e
una conseguente passività, nuovi piaceri estetici vengono stimolati “dall’imitazione creativa” propria dei casinò a tema, dal loro “virtuosistico gioco
combinatorio”, da un “divertito riciclo e da un consapevole ripescaggio nei
magazzini della tradizione”. I risultati di un processo di miniaturizzazione,
concentrazione, sineddoche e ampliamento possono sembrare “più reali
della realtà”, ciò che Umberto Eco definisce il Falso Assoluto. È attualmente al vaglio una proposta per la realizzazione di un casinò Las Vegas,
un modello tridimensionale in scala delle principali attrazioni della città
di Las Vegas, come il Bellagio, il Venetian e così via. Si potrebbe considerare una simile auto-referenzialità come un’ulteriore forma di autoironia;
eppure, in contrapposizione a Eco, Franci sostiene che “un falso può essere
piacevole e, nella sua costante deviazione dall’immaginario, può produrre
a sua volta una nuova serie di falsi, portatore ciascuno di piccole differenze”. C’è posto anche per il brutto, inteso come categoria estetica, perché
“attribuisce un nuovo significato a ciò che è familiare e convenzionale
attraverso il principio di copia e di allusione ironica”. Il tutto diventa un
originale, un “insieme di copie”.13
Poiché la storia non è altro che un trampolino per la fantasia con
cui non ci si confronta mai in profondità, il contenuto tematico diventa
rapidamente obsoleto e il gioco si esaurisce in fretta. I più famosi hotelcasinò vengono continuamente demoliti per far posto a nuove strutture
più costose e spettacolari, come succede in qualsiasi altra linea di prodotti
commerciali. “A differenza di Honolulu, Miami Beach, Acapulco e di
altre destinazioni turistiche” scrive Eugene P. Moehring a proposito della
sindrome da infinita ricostruzione, “Las Vegas guarda al futuro e non mostra alcuna traccia di scrupoli sentimentali per la distruzione del proprio
passato architettonico”.14 Nel 1972 Robert Venturi pubblicò Imparando da
LasVegas, bibbia del postmoderno e forse il libro più famoso mai scritto su
questa città; Venturi sarebbe sorpreso di scoprire che i grandi edifici da lui
trattati sono stati ormai tutti demoliti. Hal Rothman parla di “una città
che demolisce il proprio passato”.15 Il Grand Tour virtuale non guarda mai
indietro e non rende omaggio ad un passato culturale: qualunque sia il
21
john paul russo
tema, esso sarà presto rimpiazzato da un nuovo tema, ad esempio quello
del Viaggio Spaziale, e allora si avranno casinò dal nome di un pianeta o di
una galassia. Lo esige la pubblicità e nessuno sente la mancanza di questi
casinò perduti, di queste repliche kitsch, forse perché non sono degni di
essere ricordati o perché gli originali sono conservati altrove. Privati del
loro potere di stupire, non riescono a risvegliare interesse. Una copia può
essere divertente, ma ahimè non si può simulare il divertimento.
Come già Zygmunt Bauman in Liquid Modernity, Franci richiama
l’attenzione all’estrema mobilità dello scenario odierno in ogni suo aspetto,
un “movimento costante” di persone, mode e idee da un oceano all’altro
che porta a domandarsi: “Chi è che imita e chi è a venire imitato?”. La
tecnologia moderna ha modificato la natura del viaggio e non solamente
quella del viaggio in senso fisico, ma quella dell’immaginario culturale; la
televisione e Internet propongono avvenimenti da ogni angolo del mondo
in diretta ventiquattr’ore al giorno. Se il viaggio un tempo portava alla conoscenza dell’altro, oggi “l’altro è già diventato come noi, oppure è diventato
inaccessibile”. Gli imperativi tecnologici lavorano freneticamente a livellare,
ridurre e semplificare: “tutto appare familiare e sa di standardizzazione”.16
Non si tratta di una novità assoluta (pensiamo alle Esposizioni Universali,
ai diorama, al Crystal Palace di Londra), eppure ora “è possibile ‘visitare’
una città senza andarci”, come diceva Henry James di Venezia. Si può
compiere un Grand Tour virtuale del mondo restando fermi in uno stesso
luogo, ossia in un deserto del Nevada: Roma, il Mediterraneo, la Toscana,
Venezia, il lago di Como, Parigi, Luxor, Mandalay, e via dicendo.
Negli anni Settanta Umberto Eco aveva escluso Las Vegas dai suoi
viaggi nell’iperreale perché convinto che si trattasse di “una città troppo
‘reale’” più che di un falso, come ad esempio un parco a tema quale Disneyworld.17 Da allora, tuttavia, la distinzione tra parco a tema fantastico e
realtà urbana è diventata meno netta. Persino Disneyworld è stato assorbito
o compenetrato dal territorio circostante. Bruce Bégout ha detto recentemente che Las Vegas “è semplicemente il nostro orizzonte urbano”.18
Non si è mai dedicata sufficiente attenzione agli eccessi tecnologici dei
casinò, senza i quali queste trovate da miliardi di dollari non potrebbero
esistere. Il legame con la tecnologia è cruciale perché l’esistenza di Las Vegas,
22
il grand tour di las vegas
che riceve acqua ed elettricità dalla Hoover Dam (1931-34) “è possibile
solo grazie all’impiego dell’aria condizionata e degli altri congegni della
società industriale”.19 Viene da pensare alla nave da crociera di lusso citata
da Colombo: un concentrato di tecnologia che veleggia su un oceano di
sabbia. Un altro viaggiatore italiano, Goffredo Parise, vede in Las Vegas
soltanto inferno, morte, il sottostare alla “schiavitù” del consumismo e la
“degenerazione dell’uomo occidentale”.20 Anche per lui non esiste soluzione di continuità, né spirituale né mitica, fra la Las Vegas disumanizzata
e il deserto inumano, entrambi resi in una prosa frenetica e allucinatoria:
“Ai margini di quell’immenso deserto in cui è sepolta questa pazza città
[si trova un deserto] circondato da montagne come una sorta di valle di
Giosafat all’incontrario. Tutto è bruciato dall’arsura”.21 Sulla strada per
Las Vegas, in pieno deserto, Parise resta senza benzina, incidente che potrebbe addirittura rivelarsi fatale. Fortunatamente, forse un presagio legato
a Las Vegas, c’è una stazione di servizio nelle vicinanze. Ma la stazione si
trova accanto a un cimitero d’automobili, fatto che Parise interpreta come
sineddoche della morte tecnologica che stanno subendo la città e l’America
in generale. Va dato credito a Franci, al contrario, per la sua capacità di
stare al gioco del Caesars Palace, del Bellagio e del Venetian, senza ostentare
alcuna superiorità morale. Contestualmente l’originale entra a giudicare
il facsimile. Come Franci ben sa, Las Vegas è un trionfo attribuibile alla
tecnologia, non agli antichi Romani.
In parte per dare legittimità alle proprie osservazioni, Robert Venturi
legge Las Vegas nel contesto di Roma: entrambe le città mischiano cultura
alta e cultura bassa, spazi pubblici e privati, “volgare e Vitruviano”, con
beneficio reciproco. Venturi abbraccia i valori stilistici degli anni ‘60,
rifiutando le Avanguardie Storiche perché elitarie e forzando similitudini
tra luoghi più disparati, prescindendo dal contesto storico, minimizzando
differenze cruciali e, in generale, dimostrandosi felice del livellamento
postmoderno. Venturi elabora paralleli tra l’espansione di Roma e quella
di Las Vegas in relazione rispettivamente alla campagna e al deserto “che
tendono a metterne a fuoco e a raffinarne l’immagine”. Lo stesso potrebbe
dirsi a proposito di centinaia di città nel mondo; inoltre, la campagna
nell’antichità era ampiamente popolata, così come avviene sempre più
23
john paul russo
spesso al giorno d’oggi. Un’altra analogia di Venturi si spinge ai limiti della
fantasia: “Las Vegas sta alla Strip come Roma sta alla Piazza”.22 Il nesso sta
nell’arte del passeggiare, andata perduta nei suburbs americani. Ma, come
fa notare Herbert Schiller, i manager delle grandi multinazionali del gioco
sanno bene che cosa vogliono da chi passeggia vicino ai loro mega-alberghi
e utilizzano ogni sorta di espediente per attirare la gente nei casinò. La
Strip assomiglia ai centri commerciali, ai parchi a tema e agli altri “spazi
pubblici” di proprietà privata, che funzionano da “industrie della cultura”
cioè da “luoghi simbolici per l’ideazione, la creazione e la trasmissione di
messaggi culturali, specialmente di quelli aziendali”, allo scopo di promuovere le vendite (e il gioco d’azzardo).23 Alla fine degli anni ’90 il Forum del
Caesars Palace era il centro commerciale più redditizio degli Stati Uniti.
Va inoltre rilevato come la Strip, un’ampia arteria molto trafficata e lunga
quattro miglia, sia ben lontana dal possedere l’intimità di una piazza.
Venturi equivoca ampiamente quando argomenta che a Las Vegas
l’architettura dei segni prende il sopravvento sullo spazio, affermando che
Roma offre un modello di comprensione per tutto ciò. Se la comunicazione a Las Vegas “domina lo spazio”, lo stesso non si può dire di Roma.
Secondo Sigfried Giedion, gli antichi Romani furono virtualmente gli
inventori dell’architettura d’interni e se si crede che l’architettura consista
nel dar forma allo spazio e non in una mera aggregazione di segni visivi
nello spazio, anche quest’elemento del parallelo fra Roma e Las Vegas
diventa opinabile.24
La difesa da parte di Venturi del segno e del contenuto simbolico
rispetto ad un’architettura modernista semplificata (“libera da immagini
di esperienze passate”) lo riconduce ancora una volta a Roma. L’arco di
trionfo romano è “un prototipo dell’insegna pubblicitaria”. In realtà l’arco
di trionfo solitamente annunciava, fra le altre cose, una demarcazione
spaziale: costituiva una vera e propria via d’accesso oppure individuava
un luogo centrale. L’insegna invece è bloccata in uno spazio che non può
essere utilizzato per nessun altro scopo e non segnala nulla se non forse
(quando si trova all’ingresso di una città) il fatto che ciò che ci aspetta
sarà probabilmente appena più interessante di ciò che ci si è lasciati alle
spalle. Gli antichi romani non completavano i loro templi sormontandoli
24
il grand tour di las vegas
di cartelloni pubblicitari; vi erigevano semmai (ma solo in periodo tardo)
una cupola, una guglia o un lucernario; non un qualcosa di completamente
scollegato come la pubblicità di una sigaretta. L’analogia di Venturi è del
tutto sproporzionata: “come i complessi affastellamenti architettonici del
Foro romano, la Strip di giorno viene interpretata come un caos quando se
ne percepiscono soltanto le forme e se ne esclude il contenuto simbolico.
Come la Strip, il Foro era un paesaggio di simboli, con una stratificazione
di significati evidente nella disposizione delle strade e degli edifici (che
rappresentano altri edifici più antichi) e nell’ammasso di sculture ovunque.
Dal punto di vista formale il Foro era una terribile accozzaglia; dal punto
di vista simbolico costituiva invece una ricca combinazione”. Ma i simboli
della Roma antica erano profondi e complessi perché si fondavano sulla
religione, sulla leggenda e sull’ethos, mentre l’accumulazione di segni e di
simboli a Las Vegas non è altro che un insieme di voli pindarici, luoghi
commerciali e pubblicità: si tratta in fondo sempre di una città inconsistente, sintetica, sostituibile.
L’intero processo moderno di de-simbolizzazione, criticato e deplorato
dagli scrittori a partire da Vico, Schiller e Carlyle, fino a Jacques Ellul e a
Lewis Mumford, rende impossibile per un luogo come Las Vegas rievocare
Roma. Persino Venturi ammette che “il tasso di obsolescenza di un segno
sembrerebbe più vicino a quello di un’automobile che a quello di un edificio”. A differenza di Roma, aggiunge scherzosamente Venturi, “Las Vegas
è stata costruita in un giorno”.25 Pensavano forse i romani di dover smantellare il Foro ogni trent’anni? Sebbene vi facessero delle aggiunte di quando
in quando, non lo ricostruivano con regolarità poiché ne amavano gli
oggetti e le forme; non le consideravano un semplice divertimento. Il Foro
continuò ad essere un luogo fortemente simbolico anche in era cristiana;
Rodolfo Lanciani fa osservare che i cristiani conservarono un gran numero
di edifici. Fustel de Colanges potrebbe mai confondere Fremont Street con
la Via Lata o la Strip con la Via Sacra? Il fatto che il Foro possa apparire
a Venturi come un guazzabuglio spinge necessariamente a domandarsi di
che cosa sia composto questo guazzabuglio: il tempio di Romolo, la casa
delle Vestali, il tempio di Venere Genitrice, l’arco di Settimio Severo e via
discorrendo.
25
john paul russo
Venturi accoglie l’invitabile con tono profetico: “L’archetipica
Los Angeles sarà la nostra Roma e Las Vegas la nostra Firenze”.26 Siamo
dunque di fronte alla realizzazione dei sogni distorti di un formalista
dell’architettura avventuratosi ben al di là della propria sfera di competenza
che, nell’imparare da Las Vegas, ha mandato a memoria la lezione sbagliata.
Volesse il cielo che, facendo semplicemente appello ai grandi sistemi,
si potesse redimere la banalità senza precedenti di Las Vegas e dei suoi
omologhi! Ma la realtà è più semplice del simulacro. Las Vegas, “il luogo in
cui ha avuto inizio il ventesimo secolo,”27 è la versione più estrema di quella
tendenza, tipica delle tecnocrazie manageriali e alimentata da Hollywood
e dalla pubblicità, a ridurre le culture ad un desolante ammasso di detriti,
svilendone origine e senso. Las Vegas è il vortice in cui i frammenti del
passato vengono rigurgitati, “mischiati” per un’ultima (?) volta e poi gettati
nel vuoto. Forse Venturi continua ad attrarre seguaci perché pochi sono
disposti a denigrare la propria epoca: e questo è particolarmente vero in
un’epoca ottimista come la nostra! Il tecnicismo ha indubbiamente vinto
se ha potuto produrre menti tanto prive del senso della differenza storica
da scambiare per veri gli aridi risultati dell’esperienza attuale.
Uscendo da Las Vegas l’attenzione del viaggiatore può essere attratta
dai cartelloni pubblicitari della catena di ristoranti Fellini’s : “Visitate
l’Italia mentre siete a Las Vegas”. In effetti la tecnologia semplifica le cose.
Ma l’anestetizzata sensibilità dei visitatori subisce il colpo di grazia di
fronte al Lake Las Vegas. Nel 1986 Ronald F. Boedekker, ingegnere civile
e costruttore edile, sorvolando una striscia di terra 15 miglia a sud-est
della Strip, individuò un canyon che veniva utilizzato come condotta per
liquami trattati: “Intravidi la possibilità di ricostruire il lago di Como”.28
Dieci anni e sette miliardi di dollari più tardi erano state posate gigantesche
tubature per deviare i liquami, il canyon era stato scavato fino a 45 metri
di profondità, era stata costruita una diga alta come un edificio di 18 piani
utilizzando una quantità di terra superiore a quella del cemento impiegato
per la Hoover Dam e un lago di 16 chilometri di circonferenza era stato
riempito con 13 miliardi di litri d’acqua (ci vollero due anni e mezzo,
al ritmo di circa 2,6 miliardi di litri ogni sei mesi). Per diversi anni la
26
il grand tour di las vegas
località restò deserta, simile al desolato paesaggio roccioso di un pianeta
appena scoperto.
Quando poi intervennero nuovi finanziatori, i lavori ripresero con
fervore e, nell’agosto del 2004, venne inaugurato MonteLago. La più ardita
tra le gated communities che circondano il lago, MonteLago è l’imitazione
di una cittadina italiana costruita su un’area di 200.000 m2 sulla sommità
di un colle. Le strade portano nomi quali Via Bel Canto e Via Brianza.
Fedeli allo spirito della finzione, gli esperti del marketing hanno inventato
perfino la storia di questa presunta città: “MonteLago si è sviluppata in
modo organico nei secoli, trasformandosi da pittoresco villaggio di pescatori ad elegante tenuta in stile toscano, con tanto di campanile e di una
propria azienda vinicola”. A detta di uno dei residenti (mai stato in Italia),
“l’atmosfera di questa tenuta è quella di un villaggio europeo”; lui stesso
aveva contribuito al progetto della sua proprietà richiedendo specificamente
l’aggiunta di una torretta in finta pietra: “adesso sì che sembra la Toscana”.
Un’altra residente aveva dato il tocco finale ad una casa da 6 milioni di
dollari con del “vero” stucco antichizzato: “È proprio come lo facevano in
Italia. Non è una finta finitura”; no, certamente.
Uno scorcio spettacolare è offerto da un’ala del Ritz-Carlton che si
getta a ponte fra una sponda e l’altra del lago, disegnata come gigantesca
copia del Ponte Vecchio (quello sì) di Firenze. Ci si può immaginare che i
campioni dell’oblio giochino e gironzolino proprio lì, in uno dei piani alti
del casinò. Non hanno più nulla da dimenticare, non una nuvola e neppure
un albero; qualcuno l’ha già fatto per loro. Il grande oblio si riassume in
Las Vegas, disumanizzata al punto da diventare la controparte non-umana,
e quindi ironica, del deserto stesso.
Las Vegas la si raggiunge sempre dal deserto, con le sue montagne, i
suoi canyon e le foreste pietrificate. Scrivendo delle Montagne Rocciose
sudoccidentali, Guido Piovene le definisce “inumane”, “astratte”, “estraniate
in se stesse”, “refrattarie all’uomo”, a differenza delle montagne dell’Europa
occidentale, che danno la sensazione di una “saggezza millenaria”. La natura
non è “antica”, giacché questo implicherebbe una dimensione umana, ma
piuttosto è “anteriore alla vita”, “geologica”, “astrale”. Non antropomorfica,
la divina presenza immanente nel paesaggio è “un orrore sacro” di Potenze
27
john paul russo
e di Forze. Dense folle di stelle danno la sensazione di trovarsi dentro la Via
Lattea, non di osservarla dal basso; non è possibile alcuna separazione. Le
costellazioni e la mitologia non hanno modo di organizzare questo cielo
notturno che è “senza disegno” e “assoluto” (“distaccato”). “La gioia più
profonda che la natura americana può dare è il senso della grandezza; non
perché ci si senta assorbiti dentro l’eterno; bensì divisi da se stessi; mai
dove si è, sempre altrove, proiettati in un punto casuale del cosmo”.29 Di
fronte a una montagna un europeo percepisce il senso dell’eterno che ha
dentro di sé: è questo il sublime kantiano, che infonde un senso di potenza
(come in Caspar David Friedrich). Al contrario, la natura in America assorbe lo spettatore nel tempo dei tempi: è il sublime negativo o burkiano,
un senso di impotenza o di annientamento. Il Grand Canyon – come gli
altri grandi canyon del Far West – presenta un mondo totalmente alieno,
un “regno inaccessibile”, una “visione subacquea, quasi che davanti a noi
si fosse asciugato l’Oceano e se ne contemplasse il fondo”. Piovene si riferisce alle “nostre” Alpi come se da lungo tempo fossero state contenute ed
umanizzate; ma non si può possedere il Grand Canyon e neppure esserne
posseduti; non ha nulla a che vedere con noi. Le Alpi, anche dove sono
più ardue, appaiono “ospitali” in confronto a questa “necropoli”, a questa
“immensa nudità dai colori crudeli”. L’immagine ricorrente è quella di un
oceano prosciugato: innaturale, orrido, mortifero e sublime. Las Vegas, nave
da crociera di lusso, appare all’orizzonte dopo aver attraversato “immensi
pelaghi di rocce, quasi un mare asciutto di fondo dorato o biancastro”.30
Le aspre montagne, i deserti e la natura ostile rappresentano la dimora
tradizionale del sacro: le montagne per la loro grandiosità, il senso di “libertà”, la forza schiacciante e “l’inaccessibilità”; i deserti nella loro “scarna
semplicità”, nella “costante prossimità alla morte” e “nell’espressione di una
gioia insensata nella breve intensità della vita”. Scrivendo delle tradizioni
giudeo-cristiana e buddista, Belden Lane descrive il deserto montagnoso
come un’esperienza di rinuncia e come una via negativa di terre desolate,
zone di confine, liminali e vuote: “è negli spazi marginali, che molti considerano abbandonati da Dio, che l’identità del Messia si rivela”.31 Las Vegas
(letteralmente “le praterie”) è un’oasi conosciuta già in tempi più remoti
dai nativi americani e dai missionari spagnoli che serviva da rivitalizzante
28
il grand tour di las vegas
antitesi all’asprezza del deserto circostante. Ma il primo aggettivo con cui
Piovene la identifica è “mostruosa”, lo stesso aggettivo che aveva utilizzato
già due volte per descrivere il paesaggio desertico. Rudolf Otto diceva che
“la mostruosità non è che il mistero in forma grossolana”. Incomprensibilmente il mysterium tremendum suscita terrore e fascino, una “consapevolezza
della propria nullità e un senso di mortificazione” che si trasformano in
timore reverenziale di fronte al Totalmente Altro e a confronto con il
Vuoto. Il divino viene associato al silenzio, all’oscurità e al vuoto, come
“il deserto infinito”, una “negazione che si sbarazza di ogni ‘questo’ e ‘qui’
affinché il ‘totalmente altro’ possa diventare reale”.32
Simili a mostri, la natura astrale e Las Vegas (con la tecnologia in bella
vista, l’assenza di orologi, il venir meno di qualsiasi limite e, soprattutto,
con i suoi grandi oblii) si trovano “al di fuori del tempo umano”. Il deserto e la città sono stranamente intercambiabili; e sebbene Las Vegas imiti
l’orrore sacro e il sublime negativo nello stesso modo in cui copia ogni
altra cosa, cioè svendendola e snaturandola, il divino può essere presente
nell’assenza (così come avviene nel deserto) o immanente nell’atto stesso
della parodia e dell’allusione. Otto trova il sacro negli animali selvaggi
e nelle forme in pietra di grandi dimensioni, come la Sfinge di Giza e il
leone assiro; a Las Vegas c’è l’enorme Sfinge del Luxor che fissa di fronte
a sé con uno stupore da cartone animato piuttosto che come detentore
di segreta saggezza; e c’è il leone che “ingurgita” gli ospiti che accedono
all’MGM hotel.
Nel sonetto di Shelley “Ozymandias” compare una statua in rovina le
cui gambe, senza tronco, si ergono accanto ad una testa mezzo sepolta e sul
cui piedestallo un’iscrizione proclama una vuota ostentazione di potenza:
“Il mio nome è Ozymandias, Re dei Re, guardate le mie Opere, o voi Potenti, e disperatevi!” Che si tratti del faraone Ramesse II, il quale, a Tebe,
aveva fatto costruire una biblioteca all’interno del proprio tempio funebre
per potersi intrattenere durante il viaggio nell’aldilà? Secondo Diodoro
Siculo (I.49) la biblioteca recava l’iscrizione: “Luogo di cura dell’anima”.
“Nient’altro resta”, continua Shelley; “[i]l colossale rudere si disfa, e attorno
sconfinate e spoglie le solitarie sabbie si stendono lontano.”33
29
john paul russo
note
1. “Always”, è stato pubblicato nel 1983 dalla Philemon Press. La poesia è stata successivamente inclusa in Mark Strand, The Continuous Life, New York, Knopf, 1990, pp. 30-31,
dove i numerosi rimaneggiamenti appannano in parte la finezza dei versi, rendendoli meno
efficaci rispetto alla versione originale (qui citata).
2. Harold Bloom, Wallace Stevens: The Poems of Our Climate, Ithaca, Cornell UP, 1977,
p. 1.
3. Ralph Waldo Emerson, “Art,” Essays, First Series, in Works, New York, Walter J. Black,
senza data, p. 201.
4. Giovanna Franci, Dreaming of Italy: Las Vegas and the Virtual Grand Tour, Renoand Las
Vegas, University of Nevada Press, 2005, p. 20, fotografie di Federico Zignani, traduzione
di Debra Lyn Christie. In origine, tra la metà del diciassettesimo e la fine del diciottesimo
secolo, per Grand Tour si intendeva il viaggio di formazione intrapreso dai giovani rampolli
delle famiglie britanniche aristocratiche e del ceto medio istruito, un viaggio che si snodava
tra Francia, Paesi Bassi, Germania, Svizzera e Italia; nel diciannovesimo secolo il termine
passò ad indicare genericamente un viaggio che toccasse questi paesi. Gli itinerari potevano
variare, ma un vero Tour non poteva escludere l’Italia, e non poteva essere considerato
un Grand Tour se non culminava con Roma. Un Grand Tour richiedeva idealmente
un’elevato livello di preparazione culturale; molti dei “Gran Turisti” conoscevano il greco
e il latino. Hester Thrale Piozzi, che visitò l’Italia tra il 1785 e il 1787, così esprimeva la
propria tristezza per la propria incapacità di decifrare un’iscrizione in greco antico: “La mia
mancanza di preparazione mi priva quotidianamente di infiniti piaceri”. (Observations and
Reflections Made in the Course of a Journey through France, Italy, and Germany, a cura di
Herbert Barrows, Ann Arbor, University of Michigan P, 1967, p. 216. La citata iscrizione
conteneva un riferimento ad un’opera di Euripide andata perduta). L’autrice si rifà al topos
classico dell’utile et dulce sull’arte quale fonte di sapere e di piacere. Milton, Addison,
Goethe, De Stael, Byron, Shelley, Stendahl, Margaret Fuller, Ruskin si imbarcarono tutti
nel Grand Tour, così come mille altri.
5. Michael J. Dear, The Postmodern Urban Condition, London, Blackwell, 2002, p. 204.
6. Eugene P. Moehring, Resort City in the Sunbelt, 2° ed., Reno and Las Vegas: University
of Nevada P, 2000, p. 268.
7. So: It’s Not Venice, 10 maggio 1999, www.reviewjournal.com/lvrj_home/1999/May10-Mon-1999/opinion/11140092.html; Tom Price, The ITF Marches Inland, www.ilwu.
org/1099/itf_marches_1099.htm+Las +Vegas+protest+Venice&hl=en&ie=UTF-8.
8. Franci, Dreaming of Italy: Las Vegas and the Virtual Grand Tour, pp. 120, 128.
9. Furio Colombo, Mille Americhe, Torino, La Stampa, 1988, pp. 189-94; Edward C. Devereux, Jr., citato in M. Downes, B.P. Davies, M.E. David, e P. Stone, Gambling, Work and
Leisure: A Study across Three Areas, London, Routledge, 1976, p. 20. Si rievoca il piacere (o
“diletto”) negativo del sublime di Burke, uno dei numerosi elementi che collegano il gioco
d’azzardo e il sublime (il tentare la sorte, la ricerca del brivido, e così via).
30
il grand tour di las vegas
10. Citato da Robert Casillo in Pariahs of a Pariah Industry: Martin Scorsese’s Casino, in
Screening Ethnicity: Cinematographic Representations of Italian Americans in the United States,
a cura di Anna Camaiti Hostert e Anthony Julian Tamburri, Boca Raton, Bordighera,
2002, pp. 162-65.
11. Shoichi Muto, Las Vegas: 16 Hotels & Casinos; 5 Theme Restaurants, Tokyo, Shotenkenchiku-sha Co., 1997, p. 62.
12. In Casinò di Martin Scorsese, Ace licenzia una showgirl francese perché non è dimagrita
a sufficienza – ha ancora tre chili di troppo: un altro esempio di tecnicizzazione.
13. Franci, Dreaming of Italy: Las Vegas and the Virtual Grand Tour, pp. 20, 60, 66; Umberto
Eco, Travels in Hyperreality: Essays, trad. di William Weave, New York, Harcourt, 1983,
p. 40. Questa è la Las Vegas del viaggiatore che può dire (e mi è capitato di sentirlo dire
personalmente): “Venezia è uguale a Firenze [se ti] dimentichi dei canali”.
14. “Il Sands, il Dune, l’Aladdin e l’Hacienda non esistono più, sono stati rimpiazzati da
discendenti più grandiosi” (Moehring, Resort City in the Sunbelt, p. 268).
15. Hal Rothman, Neon Metropolis: How Las Vegas Started the Twenty-First Century,
New York, Routledge, 2003, p. xxiii.
16. Franci, Dreaming of Italy: Las Vegas and the Virtual Grand Tour, pp. 47, 48, 66.
17. Eco, Travels in Hyperreality, p. 40.
18. Bruce Bègout, Zeropoli: Las Vegas città del nulla, Torino, Bollati Boringhieri, 2002,
p. 10.
19. Hal Rothman, Neon Metropolis, p. xxvi.
20. Goffredo Parise, L’odore dell’America, Milano, Mondadori, 1990, pp. 65-68, 112.
21. Ibid.
22. Robert Venturi, Denise Scott Brown, Steven Isenour, Learning from Las Vegas, Cambridge, MIT Press, 1972, pp. 6, 18-19.
23. Herbert I. Schiller, Culture, Inc.: The Corporate Takeover of Public Expression, New York,
Oxford UP, 1989, pp. 30-31, 99-101.
24. Sigfried Giedion, Space, Time and Architecture: The Growth of a New Tradition, 4° ed.,
Cambridge, Harvard UP, 1963, p. xlvii. Anche Eco adotta il punto di vista di Venturi
sull’architettura “assolutamente artificiale” di Las Vegas, “città ‘messaggio’, interamente
costruita di segni; non una città come le altre, che comunicano per poter funzionare, ma
piuttosto una città che funziona per poter comunicare”. Allontanandosi da Venturi, Eco si
avvicina però a Giovanni Brino quando sostiene come “benché nata come luogo dedicato
al gioco d’azzardo, Las Vegas si sia gradualmente trasformata in una città residenziale, sede
di aziende, industrie e di centri congressi”. (Travels in Hyperreality, p. 40). Cf. Paolo Sica,
L’immagine della città da Sparta a Las Vegas, Bari, Laterza, 1970, pp. 320-21.
31
john paul russo
25. Venturi et al., Learning from Las Vegas, pp. 7, 8, 18, 34, 117. “La Strip è virtualmente
tutta insegne”; “il segno è più importante dell’architettura”; “Le insegne che si reggono
senza supporto sulla Strip” sono “come le torri di San Gimignano” (pp. 9, 13, 106). Pur
sostenendo che gli sta a cuore soltanto la forma della comunicazione architettonica, e non
i suoi contenuti e neppure il contesto (pp. 3-4), per le sue analogie con l’Italia Venturi
approfitta spesso sia dei contenuti che del contesto. Le insegne al neon della Strip di notte
hanno lo stesso sapore dello “spazio amorfo” e della dematerializzazione degli ornamenti
bizantini del “Martorama” (sic) a Palermo. “La Strip di giorno è un luogo differente, non
più bizantino” (p. 116). Ma come si può paragonare il repertorio di immagini religiose
che fluttuano nello spazio della cupola della Martorana ad una pubblicità di un casinò o
di una birra?
26. Venturi et al., Imparando da Las Vegas, p. 161.
27. Hal Rothman, Neon Metropolis, p. xxvi.
28. New York Times, 19 Dec. 2003, D-5.
29. Guido Piovene, De America, Milano, Garzanti, 1953, p. 341.
30. Guido Piovene, De America, pp. 344, 349.
31. Belden C. Lane, The Solace of Fierce Landscapes: Exploring Desert and Mountain
Spirituality, London, Oxford UP, 1998, pp. 44, 45, 46, 124, 125; Landscapes of the Sacred:
Geography and Narrative in American, Baltimore, Johns Hopkins UP, 2002, p. 125.
32. Rudolf Otto, Il sacro: l’irrazionale nell’idea del divino e la sua relazione al razionale,
Milano, Feltrinelli, 1981.
33. Percy Bysshe Shelley, Opere, Torino, Einaudi-Gallimard, 1995, p. 71.
32
Etnografia e poetica della complessità a Las Vegas
federico luisetti
University of North Carolina at Chapel Hill
1.
imparare da las vegas?
Che cosa significa “imparare da Las Vegas”? Nella retorica visuale e
letteraria statunitense, Las Vegas – la Las Vegas del Padrino di Francis Ford
Coppola o di Casinò di Martin Scorsese – è una città da cui non c’è gran
che da imparare. Il fascino della arid metropolis risiede nel suo doppio
simbolico, nell’immagine, ben radicata nella cultura popolare, di un luogo
immaginario impregnato di nostalgia, vizio e avventura; un simulacro che
ha ispirato una copiosa saggistica e che si presta più facilmente alla critica
dell’ideologia estetica che ad un’analisi della cultura urbana.1 Del doppio
iconografico di Las Vegas è possibile studiare ogni rimodellizzazione
narrativa, indagare con gli strumenti della critica letteraria o dei cultural
studies la morfologia di una proliferazione immaginativa fondata su motivi
ricorrenti e consolidati, senza tuttavia che ci si imbatta in un’esperienza
da cui imparare, nell’esperienza della città.
A partire dal classico libro di Venturi, Scott Brown e Izenour,2 agli
stereotipi noir si è sovrapposta una lettura postmodernista dell’urbanistica e
del tessuto sociale di Las Vegas, elevata a paradigma di “città postindustriale
e postmoderna” americana.3 In seguito alla ristrutturazione economica
– la “corporate revolution” su cui si chiude Casinò di Martin Scorsese – la
vecchia Las Vegas di Bugsy Siegel, paradiso di mafiosi e sbandati, ha subito
infatti un violento processo di “disneyzzazione” che, nel cancellare un’antica
specificità, ha trasformato Las Vegas in una Mecca della postmodernità.
Oltre che a una distinzione di genere fra stili rappresentativi alti e bassi, la
schizofrenia interpretativa fra la città noir e la città postmoderna risponde
perciò alla transizione cronologica degli anni ‘80: “dalla Mafia alla CocaCola e a Picasso”.4
33
federico luisetti
Che cosa ha imparato dunque chi ha voluto imparare da questa Las
Vegas postmoderna e postindustriale? Per la sua prodigiosa concentrazione
di forze economiche e demografiche – la città statunitense dal più rapido
sviluppo negli anni Novanta, la seconda destinazione turistica urbana mondiale – Las Vegas assolve nella cultura americana soprattutto alla funzione di
repertorio e laboratorio sociale o tematico: il denaro in Casinò di Scorsese;
l’avventura bianca e machista nel bestseller di Hunter Thompson, Fear and
Loathing in Las Vegas ; l’architettura a tema nelle ricerche di Gottdiener;
l’emergere delle nuove sottoculture del lavoro nella storia urbana di Rothman e Davis. Di contro, i viaggiatori-filosofi europei, la cui “sensibilità noir
naif ” urta, comprensibilmente, gli intellettuali statunitensi, insistono nel
rivendicare una pedagogia urbana incentrata sull’eccezionalità di una Las
Vegas città della “simulazione” (Baudrillard), dell’“iperrealtà” (Eco) e, più
di recente, in clima di nouvelles vagues escatologico-nichiliste, “zeropoli”,
“città del nulla” (Bégout). Anche nella pubblicistica europea Las Vegas si è
trasformata in un potente catalizzatore simbolico che, come un buco nero,
assorbe le fantasie di chi resta imprigionato nel suo campo magnetico: “Las
Vegas has long been a carpetbagger’s dream, a place where self-proclaimed
hip intellectuals and grandstanding writers can project their own neuroses,
their fears and needs. But the city these outside observers see is a reflection
of themselves. It is not the locals’town, not where Las Vegans live”.5
La matrice occulta del “viaggio a Las Vegas” europeo – discendente diretto del conte philosophique settecentesco – è la razionalità etnografica, la cui
funzione principale è di tradurre discorsivamente l’esperienza dell’alterità.
“Ogni fonte di ispirazione a scrivere su questa non-città trae la sua origine
dall’intuizione che tutto ciò che vi accade rivela in effetti la direzione in cui
si muove la nostra civiltà di mercato”:6 nell’etnografia filosofica di Bégout
Las Vegas funziona come l’apparizione architettonica di un’inesprimibilità
di fondo, il simbolo di una realtà – le forze destrutturanti della “nostra
civiltà di mercato” – che travalica gli argini delle facoltà percettive umane.
In quanto “non-città”, la Las Vegas di Bégout riproduce la condizione
etnografica sperimentata a Disneyland dall’antropologo della quotidianità Augé. Essa è un dispositivo che prepara l’illuminazione profana del
visitatore, permettendogli di imparare dall’esperienza: “Improvvisamente,
34
etnografia e poetica della complessità a las vegas
credetti di capire. Credetti di capire quel che c’era di seducente nell’insieme di quello spettacolo, il segreto del fascino che esercitava su quanti vi
si lasciavano prendere, l’effetto di realtà, di surrealtà che produceva quel
luogo di tutte le finzioni. Noi viviamo in un’epoca che mette in scena la
storia, che ne fa uno spettacolo e, in questo senso, derealizza la realtà…”.7
Come i “non-luoghi” di Augé, la “non-città” è il simbolo luminoso di
un nuovo principio culturale che risponde a una radicale trasformazione
delle coordinate spaziali e temporali della cultura.8 Un principio fondato
sull’identificazione immaginaria piuttosto che sulla localizzazione, ma non
per questo meno tangibile, pur nella sua caratteristica “derealizzazione”.
A cambiare è soltanto la qualità del reale, che nella “antropologia della
contemporaneità” di Augé abbandona la conchiusa totalità dei luoghi fisici
e si espande nella dimensione delle immagini informative, pubblicitarie e
romanzesche. L’irrealtà della Las Vegas di Bégout è un simbolo perfetto della
contemporaneità: “... Las Vegas non è nient’altro che la rappresentazione
del mondo in cui vivo – oggi stesso e nella mia qualità di homo urbanus”.9
Forma visibile dell’irrealtà, “pura manifestazione”, “mera apparenza”,
“l’intera Las Vegas si riassume nelle sue luci”.10
La neon city ripete così, come farsa, l’epifania cristiana del divino. Facendo ricorso alla cornice categoriale del simbolico, il discorso etnografico
cuce l’impercettibile “essenza dell’urbanità futura” con l’esperienza adamitica dei casinò e del googie style.11 Per quanto Las Vegas non “possa anche solo
minimamente coincidere con ciò che di essa si può dire o vedere”, Bégout
apprende a riconoscere nella città un’epifania della civiltà dell’amusement.12
Se Las Vegas non corrisponde alle parole che la descrivono è perché queste
dicono troppo poco sulla sua intensità espressiva. L’etnografia filosofica
non cerca i termini giusti per la “cosa” Las Vegas, perché Las Vegas è un
simbolo – in questo caso “zeropoli”, la città postindustriale come simbolo
della nullità della civiltà di massa – e il simbolo realizza una sintesi esplosiva
del significato e della manifestazione: “Quasi tutto, in quelli che sono i
tratti più comuni della città, ricorda in effetti una deflagrazione: esplosione
demografica, boom economico, città fungo e così via”.13
“Senza rendersene conto, Las Vegas compie una sorta di riduzione
fenomenologia del mondo circostante nel senso che destituisce con cura
35
federico luisetti
ogni cosa del suo carattere di tangibilità per trasformarlo in pura manifestazione”.14 Nel suo procedere per conversioni, la prosa etnografica riduce
la fantasmagoria ludica di Las Vegas a “pura manifestazione”, alla forma
ideale dell’irrompere del senso nella sua foggia simbolica. “Ecco le mie
prime intuizioni, così com’erano nate in seguito a un soggiorno a Las Vegas
alla metà degli anni ottanta”.15 La verità del simbolico, l’eccezionalità di
Las Vegas, si presta alla discorsività grazie alla forza di un’esperienza dirompente, che “manda in frantumi” l’ordinata tessitura della conoscenza: “A
Las Vegas ho potuto assistere a qualcosa di davvero insolito. La città infatti
riesce a mandare in frantumi – in un modo che non avevo mai visto prima,
e con una sorta di ilare scostumatezza – tutto quell’ambaradan culturale,
sociale ed estetico che si accompagna, di solito, ai nostri eventi e ai nostri
gesti”.16 La Las Vegas empirica non è il referente privilegiato del discorso
di Bégout, nemmeno in quanto intuizione simbolica di cui rendere conto
mediante la via lunga della parola saggistica. Nell’inconscio etnografico
europeo, Las Vegas è il fantasma di un’esperienza che cambia chi la fa, la
forma simbolica del trauma del reale.
A causa di questa sua immediatezza pre-discorsiva, il logos simbolico-etnografico si configura come la superficie narrativa di un perfetto
imparare dall’esperienza: il discorso sull’Altro ha senso perché fa tutt’uno
con la possibilità di una esperienza sincera dell’Altro (lasciatasi alle spalle
l’anamnesi platonica, la tradizione cristiana identifica l’apprendimento con
la disponibilità alla rivelazione, all’irruzione dell’Altro). S’impara esclusivamente nell’apertura incondizionata all’Altro, e soltanto imparando a
questo modo si fa esperienza di un simbolo. Ecco le coordinate cristiane
del discorso etnografico che fa capolino nel nichilismo spiritualistico
– anti-nietzschiano – di inizio millennio.
L’“esercitazione topica” di Bégout percorre le strade parallele di una
meditazione sui luoghi e di una costruzione retorica dell’“habitat del pensiero”.17 Estraneo all’ironia scettica, il regime discorsivo di Bégout registra il
“sapere di non sapere” prodotto dall’incontro con Las Vegas e ne fa la chiave
interpretativa dell’esperienza simbolica. Poiché soltanto chi ha sperimentato
“l’astrazione dalla realtà” causata dallo spaesante paesaggio urbano di Las
Vegas può ritenersi iniziato al principio simbolico da cui discende ogni
36
etnografia e poetica della complessità a las vegas
conoscenza positiva della civiltà contemporanea: “Il suo potere di astrazione
dalla realtà […] ci impone nei suoi riguardi, di rinunciare a ogni tentativo
di sintesi. Il compito a cui è votata Las Vegas è produrre, in tutti coloro che
si trovano a farne l’esperienza fisica o mentale, ciò che si potrebbe definire
il disordine rappresentativo, vale a dire una confusione vissuta a un tale
livello di intensità da inibire l’identificazione con qualsiasi forma nota e
riconoscibile”.18 “La confusione vissuta” e l’inibizione dell’“identificazione
con qualsiasi forma nota e riconoscibile” educano Bégout a riconoscere e
sopportare gli incontri con l’alterità. La scrittura saggistica si trasforma, al
cospetto di questo evento, in un incessante lavoro del lutto, il quale ribalta
la perdita della presenza simbolica in una rinnovata promessa di alterità.
Il tracollo del principio di realtà dischiude l’epistemologia autoritaria del
simbolico. A differenza di Orfeo, a cui è preclusa la visione dell’alterità, il
discorso dell’etnografo-filosofo guarda negli occhi la Las Vegas-Euridice:
Bégout ha imparato da Las Vegas, ha vissuto l’esperienza numinosa dell’Altro; la legittimità della sua scrittura deriva dall’autorità di chi si mantiene
nel cerchio magico di questo evento.
Non è sufficiente perciò collocare la letteratura europea sull’America,
e in particolare sulle città statunitensi – da Tocqueville a Duhamel, da
Kafka a Baudrillard, da Marx a Koolhaas, da Gramsci a Eco – nel quadro
di una proiezione, ora utopica ora regressiva, dei sogni, dei desideri, delle
ossessioni, delle speranze, delle paure e dei fantasmi della civiltà occidentale.19 Bégout, discepolo‑apprendista di questa tradizione mitografica,
non proietta soltanto su Las Vegas le proprie fantasie culturali. Con la sua
ambigua familiarità/estraneità al vecchio continente, l’America è un terreno
fertile, come il deserto nella tradizione biblica, per una ossessiva rigenerazione del nucleo epistemologico della scrittura etnografica: a Las Vegas
ci si perde e si rinasce, preparandosi all’incontro con l’assoluta estraneità
dell’Altro: “Il deserto come sgombero, in profondità, dell’orizzonte terrestre
prefigura l’eccesso di questa velocità di fuga capace di esiliarci domani,
definitivamente, dall’ambiente umano”.20
Nel contesto di questa subliminale opzione etnografico-cristiana, il
fascino di Las Vegas, città dell’utopia realizzata, è inseparabile dalla sua
collocazione nel deserto del Mojave, dalla “vertigine orizzontale” provocata
37
federico luisetti
dallo scenario desertico: “Quando parliamo di Las Vegas come di un’utopia
non intendiamo proporre soltanto un’analogia. La città del Nevada ne possiede tutte le caratteristiche. Quella fondamentale risiede soprattutto nella
sua collocazione geografica. Nella struttura classica dell’utopia – Moro,
Campanella – è necessario, anzitutto, che la città ideale sia separata da
ogni altro agglomerato urbano, discosta fisicamente o temporalmente dalla
civiltà contemporanea […] Il deserto di Mojave che circonda Las Vegas
propizia esattamente questo isolamento spaziale, utile a una condizione
di separatezza dal reale”.21
L’opposizione fra civiltà e vuoto, fra natura e cultura, rinforza la natura archetipica di Las Vegas, città del peccato – sin city – nel deserto del mondo: “Le
distinzioni che si fanno altrove qui hanno poco senso. È vano contrapporre
Death Valley come fenomeno naturale sublime a Las Vegas come fenomeno
culturale abietto. Perché l’uno è il rovescio della medaglia dell’Altro, e si
corrispondono da una parte e dall’altra del deserto, come il colmo della
prostituzione e dello spettacolo fa pendant al colmo della segretezza e del
silenzio”.22 Sulle orme di San Francesco, che “indovina l’inaudita possibilità di una poesia-mondo nel cuore dell’aridità del deserto cosmico”,23 gli
asceti‑etnografi di Las Vegas usano la città come un trampolino di lancio
per un cantico dell’alterità, come un laboratorio per la produzione seriale
dell’esperienza simbolica dell’Altro. Un’alterità scoperta in seno alla civiltà
occidentale, nel cuore di una organizzazione sociale totalizzante che ha
compiutamente assorbito e secolarizzato l’esperienza della trascendenza:
“A ben vedere, Las Vegas è una città pascaliana, ma di un Pascal che abbia
smarrito Dio e con esso ogni possibilità di scommessa…”.24
“Né vicina né lontana, né qui né altrove, Las Vegas trova il proprio
indice di determinazione nel nulla […] Per noi sarà zeropoli, la non-città
che è, al tempo stesso, la prima città in senso assoluto – così come lo zero
precede ogni altro numero […] Città al grado zero dell’urbanità, dell’architettura e della cultura – grado zero della socialità, dell’arte e del pensiero”.25
La farsa della scoperta del “nulla” della civiltà del consumo – in seguito a
una conversione e iniziazione simbolica avvenute nel segno del “Dio fun”
dei casinò – e le gag del turismo saggistico di Bégout attraverso la civitas Dei
segnalano la metamorfosi del linguaggio etnografico-cristiano, la spropor38
etnografia e poetica della complessità a las vegas
zione fra l’universalismo autoritario e la capacità di analisi. L’indistinzione
fra il dentro e il fuori, fra la finzione e la realtà, “l’inedita sintesi di piacere
e schiavitù” ottenuta dai demiurghi dei casinò di Las Vegas sigilla questa
visione attraverso il racconto estatico del ricongiungimento dell’io e del
mondo, dell’Altro e del Medesimo, nel rito del gioco d’azzardo: “Non
sarebbe tuttavia possibile sperare di poter comprendere pienamente questo
tipo di esperienza religiosa del profano che caratterizza la vita quotidiana
a Las Vegas senza votarsi all’occupazione esemplare e davvero sacra che
caratterizza questi luoghi: il gioco”.26
2. dal simbolo alla complessità
La Las Vegas incontrata da Bégout non è soltanto un’esperienza straniante, incompatibile con gli standard percettivi della quotidianità europea,
ma una manifestazione simbolica dell’alterità, un’epifania dell’assoluto (col
segno meno) nelle viscere del capitalismo occidentale. Interpretata come
una soluzione invece che come un problema – la soluzione “dell’enigma
urbano” – la sovrapposizione di codici architettonici, ondate demografiche,
stili di vita e flussi economici prodotta dall’ipermercato del divertimento
del Nevada non si dispone, nel resoconto di Bégout, su un piano orizzontale di relazioni fra elementi eterogenei, non rimanda a una circolazione e
ricomposizione delle differenze all’intersezione di campi di forze divergenti,
ma si coagula in un discorso continuo, nel gergo dell’autenticità simbolica
che transustanzia l’organizzazione tecnocapitalistica dell’amusement : “Se
siamo in grado di dar forma, nella nostra mente, a un’immagine complessiva di Las Vegas e di tutti i suoi molteplici aspetti, non dovremmo essere
lungi dal poter scoprire, proprio in questo potere di persuasione ludica e
commerciale, la soluzione di quell’enigma urbano che la città rappresenta. Dietro l’apparente bric-à-brac immaginario che, al primo sguardo, fa
sorgere il sorriso sulle labbra, si nasconde in realtà la più temibile armada
sociale di tutti i tempi, in grado di riunire, in un’unica, invincibile linea
d’attacco, seduzione commerciale e attrazione tecnologica”.27
La perversa vitalità esplicativa di questo discorso etnografico suggerisce
l’urgenza di sperimentare, con Las Vegas e in generale con gli oggetti della
critica culturale, schemi interpretativi che non comprimano la complessità
39
federico luisetti
della cultura urbana contemporanea dentro i contorni epistemologici di
un linguaggio simbolico dell’alterità. Come suggerisce la “poetica del
diverso” di Eduard Glissant, è necessario concepire le relazioni fra culture
– e dunque anche le stratificazioni sociali e architettoniche generate dalla
città-laboratorio di Las Vegas – come realizzazioni “erratiche”, rette da
choc, intrecci, repulsioni, attrazioni, connivenze, opposizioni e conflitti:
“L’elemento che mantiene le erranze è una specie di convivenza generale in
uno stesso luogo culturale, vissuto come consenso o come sofferenza”.28
Compito del viaggiatore-filosofo, ammesso che a questa figura spetti
ancora l’autorità di una voce etnografica, non dev’essere la ricerca di un
codice interpretativo unitario, forgiato nella fucina dell’esperienza vissuta,
ma la disponibilità ad apprendere i primi rudimenti della complessità
descritta dalla rigogliosa letteratura visuale, narrativa, socio-antropologica, urbanistica e filosofica su Las Vegas. Ad esempio, alla ricerca di un
denominatore comune che dia ragione delle prospettive frammentarie e
distorte sperimentate dai narratori di Las Vegas, Richard Logsdon riconosce
in Las Vegas “una città che pare muoversi in molte direzioni simultaneamente”.29 A Las Vegas possiamo imparare a pensare una complessità sorretta
dalle differenze e una differenza che non si riduca all’automanifestazione
dell’alterità. Siamo certi infatti che l’alterità sia anche complessa? A ben vedere, nulla è più univoco delle figure occidentali dell’alterità: l’Altro etnico
assoluto come esotismo, l’Altro speculativo assoluto come nichilismo,
l’Altro religioso assoluto come trascendenza, l’Altro politico assoluto come
utopia, l’Altro etico assoluto come volto (Lévinas).30 L’alterità radicale è
imbrigliata in una logica dell’identità: identità e negazione, con il ferro
vecchio della dialettica idealista chiamata a perpetuarne l’opposizione.31
E se l’Altro fosse semplicemente l’eterogeneo, lo snodo di un piano di
relazioni? Non è questa la lezione più convincente maturata anche negli
approcci narrativi, sociologici e urbanistici alla città?
Nell’epoca della globalizzazione, le differenze che destrutturano dal
di dentro l’Occidente ci connettono a un esterno mai troppo distante
per essere un Altro. Misuriamo le aporie della complessità sull’attuale
diffusione del paradigma culturale, che sembra sostituire lo storicismo di
gran parte della cultura umanistica. In gioco non è soltanto la rinnovata
40
etnografia e poetica della complessità a las vegas
attualità dei modelli antropologici, soggetti a loro volta a un rinnovamento
sostanziale, quanto l’abbandono del conforto di una tradizione e di una
centralità storica. Se la cultura contemporanea non è un’utopia realizzata
e nemmeno una distopia da cui fuggire, essa perde ogni accettabilità e
ogni illusione.
La Las Vegas raccontata dai narratori di Las Vegas o riprodotta nei
resoconti socio-economici degli storici locali è una realtà caleidoscopica, un
esperimento del tardocapitalismo da cui una “nuova e forse più complessa
identità sta emergendo”.32 Da un lato, queste prospettive confermano la
progressiva derealizzazione a cui va incontro Las Vegas nella sua ultima
mutazione: dilaniata dalla convivenza di tradizioni regionali e investimenti
finanziari transnazionali, la città non offre un solido principio di realtà
nemmeno ai suoi abitanti. Le narrazioni di Las Vegas si frantumano in
un’infinità di micro-storie ironiche, spaesanti e illusorie.33 Dall’altro, pur
nella sua molteplicità acentrica, Las Vegas è un paesaggio artificiale plasmato da forze economiche, tecnologiche, sociali e urbanistiche che non
è difficile identificare con chiarezza: Las Vegas “non si fa illusioni” e non
“offre illusioni”.34 Come accade con la pioggia dei meteoriti sulla superficie
lunare, la natura desertica di Las Vegas registra fedelmente la traiettoria e
la violenza dell’impatto delle “bombe” ecologiche e finanziarie scagliate
contro il suo corpo.
A Las Vegas Bégout impara invece a riconoscere l’Altro, a metabolizzarne lo choc e a riconfigurarlo nei termini familiari di un discorso sullo
Stesso (conversione, illuminazione, critica del capitalismo di ascendenza
francofortese). Las Vegas è una holy city, “una religione, una malattia,
un incubo, un paradiso per una razza bastarda” in cui Bégout, reduce
dall’iniziazione all’Altro e dalle tentazioni del principio demoniaco del
divertimento, ritrova, con un esercizio di scrittura meditativa – lo stile
dell’interiorità cristiana per eccellenza – il conforto della propria identità
europea. L’Altro – l’assolutizzazione della disumanità del denaro, la perversione della felicità, la tecnologizzazione del divertimento – emerge dalle
contorsioni dello Stesso, dall’avvitamento autoriflessivo di una soggettività
schiacciata dal delirio dello smembramento. Ma questa operazione si rende
necessaria perché Bégout non scorge la complessità di Las Vegas e non
41
federico luisetti
accetta la desoggettivizzazione e decentralizzazione dell’identità occidentale
prodotta dall’urbanizzazione antiumanistica statunitense. Per Bégout, il
nulla di Las Vegas non è altro che la forma svuotata della città europea, la
non-città. Ossessionato dai “modelli storici e, di conseguenza, dai sistemi
di giudizio sulla base dei quali l’Europa ha concepito per lungo tempo le
proprie città”,35 Bégout celebra lo scheletro dell’urbanesimo eurocentrico,
intonando un elogio decadente dell’“enorme vanitas moderna”.36
Il potere dell’Altro, la sua seducente capacità di esorcismo, ha bisogno
della stabilità di una logica dell’identità sorda alla risonanza delle differenze.
Se ogni identità, compresa quella concettuale delle figure dello Stesso
(somiglianza, contraddizione, sintesi, proiezione, simbolismo, intuizione,
riconoscimento), è percorsa dai movimenti erratici della differenza, viene
meno anche l’efficacia taumaturgica di un’etnografia eurocentrica del quotidiano come quella praticata da Bégout. Il discorso simbolico sull’Altro
cela la difesa disperata della normatività della civiltà occidentale.
3. oltre l’interpretazione
Non-luogo, zeropoli, simulazione, iperrealtà. La Las Vegas europea è
una città-icona, una configurazione urbana escatologica in grado di mantenere intatti i privilegi del linguaggio simbolico, primo fra tutti l’accordo fra
l’assolutezza del concetto e la finitezza del luogo. Apparizione nel deserto,
sintesi di città e natura, Las Vegas mima l’irruzione del senso, il suo profilarsi
nell’incontro tra le due metà – immanenza e trascendenza – del simbolo.
Desimbolizzare Las Vegas significa perciò, al contempo, abbandonare il
logos etnografico, contestandone l’autorità, e diffidare della convergenza
di nomos e polis, di cui si tratta di smascherare la radice teologica: “Far
apparire l’assoluto in un luogo non è forse un carattere molto generale
della religione […] Si è notato spesso il ruolo inglobante degli spazi lisci,
deserto, steppa ed oceano, nel monoteismo. In breve, la religione converte
l’assoluto”.37
Per imparare da Las Vegas bisogna abituarsi a non imparare dall’esperienza, disponendosi alla creazione di concetti che taglino il reale secondo
linee di fuga emancipative. L’ironia beffarda di Bégout – “non mi discosterei
42
etnografia e poetica della complessità a las vegas
molto dal vero se a chi per caso mi domandasse che cosa ho imparato a Las
Vegas rispondessi in tutta franchezza: nulla…”38 – il quale legge nel nulla
dell’esperienza di Las Vegas un’epifania nichilistica, va rovesciata nell’atteggiamento positivo del pensiero post-simbolico. Non è necessario riprendere
alla lettera le teorizzazioni deleuziane sulla “macchina da guerra nomade”
per tener fede a questo programma, che può nutrirsi delle scoperte dell’empirismo radicale della nuova urbanistica o della letteratura postmoderna.39
Imparare da Las Vegas, per un intellettuale di formazione europea, significa
accordare la propria sensibilità su una civiltà compiutamente urbana e
tuttavia priva della forma-città europea. L’isolamento desertico che induce
a concepire Las Vegas come una città-limite, una non-città, disconosce la
fine delle città e l’avvento della “condizione urbana unificata”: “La città ha
cessato definitivamente di essere l’oggetto e lo scopo: è diventata invece la
condizione, il dato iniziale e insormontabile, l’ambiente o il milieu al cui
interno prende forma l’intervento urbano, e che dunque lo controlla, in
ogni caso ben più di quanto ne sia influenzata”.40
Il grande libro di Venturi, Scott Brown e Izenour, con la sua matrice
pop e anti-ermeneutica, radicalmente avalutativa, va sottratto alla genealogia etnografica europea e restituito alla sua purezza avanguardista. Ciò che
Venturi, Scott Brown e Izenour imparano da Las Vegas è la dissoluzione
delle nozioni spaziali di luogo e il superamento dell’architettura come forma
simbolica complessiva (la “papera monumentale”). È sufficiente smettere
di interpretare, ossia disfarsi della coazione a ricondurre un fenomeno ai
“pregiudizi” storici e semantici per imparare a vedere. Non appena ci si
sbarazza del sapere di sfondo offerto dai modelli architettonici modernisti
si profila – nelle mappe e nelle fotografie del libro, prima ancora che nel
suo testo – la realtà di una “architettura di segni e di stili”, “un’architettura
di comunicazione invece che di spazio” (4): “Dalla città del deserto sulla
highway nel West di oggi, possiamo imparare nuove e vivaci lezioni sull’architettura di comunicazione: i piccoli e bassi edifici, marron-grigi come il
deserto, separati e arretrati dalla strada che è ora la highway, e i loro falsi
fronti distaccati e ruotati perpendicolarmente ad essa come grandi, alte
insegne. Se si togliessero le insegne, non ci sarebbe più ‘luogo’. La città del
deserto è comunicazione intensificata lungo la highway”.41
43
federico luisetti
Come spesso accade ai testi rivoluzionari, al di là dei molti dettagli
inattuali,42 Learning from Las Vegas contiene una fondamentale lezione
di metodo: alle giuste condizioni e senza subire il fascino delle sirene del
sapere etnografico, da Las Vegas è ancora possibile imparare. Cosa possiamo
dunque apprendere dalla Las Vegas empirica, da una “matrice” urbanistica
riconfigurata dalle forze creative dell’immigrazione, dell’industria del divertimento, dello sfruttamento economico e del turismo di massa? Prima
che un simbolo per la distinzione europea o un simulacro della cultura
di massa americana, nel corso del suo sviluppo, che sfugge ai linguaggi
statistici e artistici correnti, Las Vegas produce un ventaglio di problemi
non riconducibili alla perentoria univocità di una domanda, fosse pure la
domanda di senso di un Occidente in crisi di legittimazione. Quando i
fantasmi culturali della modernità europea smettono di infestare i castelli
postmoderni di Las Vegas, vengono alla luce problemi originali, ancora
in attesa di parole e fomulazioni adeguate.
note
1. Per un’interpretazione utopistica di questo stile rappresentativo cfr. Fredric Jameson,
“Reification and Utopia in Mass Culture”, in id., Signatures of the Visible, New York, Routledge, 1992 (tr. it. Firme del visibile, Donzelli, Milano, 2003). Un esempio significativo
dell’irrilevanza, per gli storici della città, dell’approccio artistico-simbolico a Las Vegas è offerto dalla polemica riscrittura, da parte di Hal K. Rothman, del contesto economico-sociale
che fa da sfondo a Casinò di Scorsese: “This simple construction, with its characteristically
Hollywood focus on the relationship between the two protagonists, patently misleads
anyone who seeks to understand the workings of Las Vegas and Nevada […] Both the book
and movie version of Casinò misunderstand the fundamental realities of Las Vegas and
Nevada” (Hal K. Rothman, “Colony, Capital, and Casino. Money in the Real Las Vegas”,
in Hal K. Rothman e Mike Davis (a cura di), The Grit Beneath the Glitter. Tales from the
Real Las Vegas, London, University of California Press, 2002, p. 308).
2. Robert Venturi, Denise Scott Brown, Steven Izenour, Imparando da Las Vegas. Il
simbolismo dimenticato della forma architettonica, (ed. or. 1972), Venezia, Cluva, 1985.
3. Cfr. Joy Ramirez, “The Desert of the Real: Las Vegas and the Production/Reproduction of
the Postmodern City”, in Yearbook of Comparative and General Literature, vol. 49, Toronto,
University of Toronto Press, 2001.
4. Hal K. Rothman e Mike Davis (a cura di), The Grit Beneath the Glitter, cit., p. 3; sulla
“disneyficazione” di Las Vegas cfr. anche il saggio di Andrea Carosso, Simulations of Italy
in Contemporary North America: Las Vegas as nonplace, in corso di pubblicazione.
44
etnografia e poetica della complessità a las vegas
5. Hal K. Rothman e Mike Davis (a cura di), The Grit Beneath the Glitter, cit., pp. 13‑14.
6. Bruce Bégout, Zeropoli. Las Vegas, città del nulla, Bollati Boringhieri, Torino 2002,
p. 14.
7. Marc Augé, “Un etnologo a Disneyland”, in id., Disneyland e altri nonluoghi, Bollati
Boringhieri, Torino, 1999, p. 24.
8. Marc Augé, Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, Elèuthera,
Milano, 1993, p. 36.
9. Bruce Bégout, Zeropoli, cit., p. 10.
10. Ibidem, p. 69.
11. Ibidem, p. 15.
12. Ibidem, p. 114.
13. Ibidem, p. 17.
14. Ibidem, p. 21.
15. Ibidem, p. 12.
16. Ibidem.
17. Hubert Damisch, Skyline. La città Narciso, Costa & Nolan, Milano, 1998, p. 5.
18. Bruce Bégout, Zeropoli, cit., p. 114.
19. Hubert Damisch, Skyline, cit., p. 103.
20. Paul Virilio, Città panico, Raffaello Cortina, Milano, 2004, p. 104.
21. Bruce Bégout, Zeropoli, cit., p. 46.
22. Jean Baudrillard, L’America, Feltrinelli, Milano, 1987, p. 57.
23. Paul Virilio, Città panico, cit., p. 117.
24. Bruce Bégout, Zeropoli, cit., p. 122.
25. Ibidem, p. 22.
26. Ibidem, p. 27.
27. Ibidem, p. 87.
28. Edouard Glissant, Poetica del diverso, Meltemi, Roma, 2004, p. 70. Verso una confluenza di ermeneutica della ricezione e teorie sistemiche della complessità, si muove anche la
critica letteraria di Hans U. Gumbrecht (cfr. Id., Corpo e forma, Mimesis, Milano, 2001).
Per un tentativo di sintesi fra il poststrutturalismo deleuziano e la teoria della complessità,
cfr. Brian Massumi, Parables for the Virtual. Movement, Affect, Sensation, Durham, Duke
University Press, 2002.
45
federico luisetti
29. Richard Logsdon, Todd S. Moffett, Tina D. Eliopulos (a cura di), In the Shadow of the
Strip, Las Vegas Stories, Reno, University of Nevada Press, 2003, p. xi.
30. Per un’analisi dei presupposti filosofici impliciti nella “naturalizzazione dell’Altro”,
cfr. Rudi Visker, “Contro la privazione. Lévinas e l’ossessione per ‘l’Altro’ ”, in Aut Aut,
n. 319-320, 2004.
31. Cfr. Gilles Deleuze, Differenza e ripetizione, Raffaello Cortina, Milano, 1997,
pp. 7‑41.
32. Ibidem. Cfr. anche il volume di Eugene P. Moehring, Resort City in the Sunbelt: Las Vegas,
1930-1970, Reno, University of Nevada Press, 1989.
33. Si vedano le short-stories di Andrew Kiraly, David Scott e José Skinner in In the Shadow
of the Strip, cit.
34. Hal K. Rothman e Mike Davis (a cura di), The Grit Beneath the Glitter, cit., p. 14.
35. Jacques Attali, “A surpassing mutation”, in Rem Koolhaas, Stefano Boeri, Sanford
Kwinter, Mutations, Barcellona, Actar, 2000, p. 273.
36. Bruce Bégout, Zeropoli, cit., p. 13. Per quanto riguarda l’idea regolativa di “città”, la
pervasività dei pregiudizi europei risale quantomeno a Tocqueville (il cui cognome, sia
detto per inciso, comprende a sua volta una ville): “[…] a Tocqueville premeva rievocare il
modo in cui gli americani avevano fissato, sul luogo che avevano scelto come loro capitale,
la cinta (sottolineo) di una città immensa che, nel momento in cui scriveva, non era molto
più popolata di Pontoise: una metropoli immaginaria. Come se, ancora una volta, la scena
fosse stata allestita o, per meglio dire, tracciata preventivamente, ma in tutt’altra forma che
non quella descritta da Tocqueville, il quale a questo riguardo parlava un linguaggio molto
europeo: giacché, beninteso, le città americane non hanno cinte o mura che per estendersi
dovrebbero abbattere o superare. Corrispondono – e la scena americana con loro – a una
diversa modalità d’insediamento, di cui la griglia quadrettata, dispiegata, sviluppata, indefinita costituisce il dispositivo regolatore” (Hubert Damisch, Skyline, cit., p. 113-114).
37. Gilles Deleuze, Félix Guattari, Millepiani. Capitalismo e schizofrenia, Castelvecchi,
Roma, 2003, p. 532.
38. Bruce Bégout, Zeropoli, cit., pp. 9-10.
39. È questa la linea argomentativa percorsa da Jacques Attali in “A Surpassing Mutation”, cit.
40. Jacques Attali, “A Surpassing Mutation”, cit., p. 269.
41. R. Venturi, D. Scott Brown, S. Izenour, Imparando da Las Vegas, cit., p. 21.
42. Per la recente conversione postindustriale di Las Vegas, cfr. Mark Gottdiener, Claudia
C. Collins, David R. Dickens (a cura di), Las Vegas: the Social Production of an All-American
City, Malden, Blackwell, 1999 e Hal K. Rothman, Virgil III Hancock (a cura di), Neon
Metropolis: How Las Vegas Started the Twenty-First Century, New York, Routledge, 2003.
46
Il deserto del reale:
Las Vegas e la (ri) produzione della città postmoderna1
joy ramirez
Vanderbilt University
Las Vegas: città amata e odiata. Sbeffeggiata come simbolo dell’eccesso, “museo all’aperto della cultura popolare americana”, “grottesca
Disneyland”2 dell’ostentazione, una distesa di luci al neon, volgare e
kitsch, Las Vegas è una città che molti di noi non ammetterebbero mai
di aver visitato, né tanto meno le dedicherebbero un saggio accademico.
Eppure vi è qualche cosa nell’attrazione disinteressata che essa suscita,
quasi un piacere perverso nell’attaccarla, uno snobismo critico che tradisce
la nostra ammirazione per il glitter gulch, così eccessivamente sfarzoso ed
infinitamente seducente. Non sarà forse che ci rifiutiamo di comprendere
veramente un luogo la cui ragione di esistere, nonostante i nostri tentativi
di ignorarlo in nome della sensibilità culturale e del “buon gusto”, è proprio
quella di sfidare i concetti obsoleti di autenticità e realismo?
Tutti probabilmente si aspettano una lettura di Las Vegas quale città
postmoderna per eccellenza, che meglio di altre ci svela come la produzione di simulacri di cui parla Baudrillard ci abbia proiettati nell’era
dell’“iperreale”, un’era dominata dalla produzione di copie della realtà
prive di originale. Ma analizzando più a fondo l’architettura e gli stili di
Las Vegas emerge un senso di disagio nell’applicarvi in maniera semplicistica questa teoria. Non sarà che i progettisti e gli architetti di Las Vegas
siano ben più consapevoli di quel che fanno rispetto ai critici che tentano
di svelarne i misteri? In altre parole, iniziamo ad intuire che siamo noi a
essere presi in giro e che tutti i nostri tentativi di liquidare l’architettura
di Las Vegas come un caotico pot-pourri di imitazioni dozzinali del “reale”
sono destinati ad essere relegati nei rigidi confini del “vero” e del “falso”,
del “reale” e dell’“immaginario”. Ma fino a che punto città come Las Vegas
producono qualcosa di reale? E quali possibilità esistono oltre ai confini
della referenza e dell’autenticità?
47
joy ramirez
Las Vegas potrebbe fornire a questo proposito risposte alquanto interessanti. Può darsi che la “città del peccato” risponda in qualche modo
all’ethos postmoderno che ormai tutti conosciamo. Ma potrebbe esserci
dell’altro. In questo saggio farò riferimento ad alcuni aspetti della teoria
del postmoderno (con particolare riferimento a Baudrillard e Eco) per
analizzare il recente fenomeno dell’imitazione a Las Vegas, anche nel tentativo di elaborare un concetto più aperto e flessibile di rappresentazione
nell’era postmoderna. Se da un lato ritengo che la teoria di Baudrillard
sul simulacro possa essere applicata a questa città con buoni esiti, sono
meno d’accordo con la sua idea di una totale scomparsa del reale, che lo
autorizza ad affermare che “tutto è simulazione” e che la referenza non è
più possibile; mi dissocio altresì dalla posizione di Eco, secondo la quale
gli americani sarebbero ossessionati da un “desiderio feticistico dell’originale”. Entrambe le concezioni considerano Las Vegas irrimediabilmente
implicata in un curioso e acritico progetto di falsa imitazione delle città
e dei monumenti “reali” che risulta in un’interminabile serie di errori
facilmente individuabili e criticabili. In sostanza, voglio esplorare quella
che a mio parere è la storia degli errori sugli errori commessi su Las Vegas.
Effettivamente, sembra che questa città (con tanto di architetti, proprietari di casinò e altri addetti ai lavori), sia ben consapevole della propria
incapacità di essere una vera rappresentazione, o copia, di qualcos’altro. In
questo senso, la copia che non è una copia potrebbe rivelarsi ancora più
interessante dell’originale stesso, in una città in cui l’autenticità è l’ultima
delle preoccupazioni.
Il concetto di città postmoderna si applica al meglio a Las Vegas se si
considera la nozione di reinterpretazione ironica del passato. Nel suo libro
The Post-Modern Urban Condition, Micheal Dear cita proprio Las Vegas
come uno degli esempi più eclatanti – nella sua definizione – di “urbanistica postmoderna”. Se il postmoderno implica una rottura col passato,
una discontinuità tra questo e le tendenze future, esso non implica tuttavia
una completa dissoluzione dei modelli passati. Analizzando l’architettura
postmoderna, Dear nota che “il passato va rivisitato, ma con ironia, consapevolmente e niente affatto con innocenza” (26): la comprensione del
postmoderno richiede non la negazione del passato, bensì la sua rivisita48
il deserto del reale
zione ironica. Come notoriamente argomentava Lyotard, il postmoderno
non crede nella metanarrazione, ma anela a una cultura filosofica libera
dalla ricerca dei fondamenti ultimi.
In questo modo, il collage di vari periodi e stili che ora caratterizza
la Strip di Las Vegas può essere compreso non solo nei termini dell’ormai
proverbiale “pastiche postmoderno”, ma anche come rivelatore di una visione di sé piuttosto ironica: chi mai affermerebbe che Las Vegas rispecchia
anche solo vagamente la realtà quando è possibile viaggiare da New York a
Parigi, passando per Venezia, il Marocco e i Caraibi, tutto nell’arco di due
isolati? Secondo molti, Las Vegas ha ormai realizzato la propria versione
di postmoderno, basata sulla tematizzazione, e ha messo da parte la propria storia: negli ultimi trent’anni la città ha ripensato il proprio passato
e si è continuamente reinventata attraverso gli infiniti microcosmi creati
dalle diverse megastrutture alberghiere, veri concentrati di storia, fantasia
ed esotismo. Sono lontani i giorni degli hotel anonimi e funzionali degli
anni ’50, in cui l’insegna al neon era più importante dell’albergo stesso e
la facciata non era altro che un richiamo verso il casinò all’interno. Ora la
Strip è una stupefacente sequenza di alberghi a tema che, nel vero spirito
della globalizzazione (naturalmente in senso ironico), riducono il mondo
intero a una serie di complessi alberghieri, uno più eccessivo dell’altro: il
Mandalay Bay, ispirato all’atmosfera dei Mari del Sud, il Paris (con tanto
di Tour Eiffel e Arco di Trionfo in scala), il New York-New York, l’egiziano
Luxor, il Venetian, l’Aladdin, senza contare il Bellagio (uno dei più lussuosi), dotato di lago artificiale e fontane capaci di disegnare elaboratissimi
giochi d’acqua.3
In Travels in Hyperreality, Umberto Eco afferma che gli americani sono
ossessionati dall’imitazione in quanto non possiedono una propria storia
culturale. Considerando vari luoghi d’America, soprattutto i parchi di
divertimento (e non – egli sottolinea – gli edifici di Frank Lloyd Wright, i
grattacieli di Mies van der Rohe o il Museum of Modern Art di New York),
Eco argomenta che “esiste una costante dell’immaginazione e del gusto
americano medio, per cui il passato deve essere conservato e celebrato
in forma di copia assoluta, formato reale, scala uno a uno: una filosofia
dell’immortalità come duplicazione” (16). La distinzione che Eco fa tra
49
joy ramirez
“tipico” americano (o tipici luoghi americani) e America “colta” tradisce
la sua posizione di intellettuale europeo, custode del vero e dell’autentico
– della storia con la S maiuscola – che si scaglia contro la “rassicurazione
attraverso l’imitazione” dell’America (70). Potremmo però domandarci:
“rassicurazione” su che cosa? Sull’esistenza americana continuamente
all’ombra dell’Europa e della sua “vera” Storia? L’atteggiamento di Eco è
piuttosto un tentativo di affermare la propria superiorità culturale e intellettuale minacciata dalla terra della “furiosa iperrealtà”, dove, per dirla
con le sue parole, “il Bene, l’Arte, la Fiaba e la Storia, non potendosi fare
carne, devono almeno farsi plastica”. (70)
Nonostante il suo elitismo culturale, sorprende molto che il semiologo sostenga che l’imitazione del reale, nell’architettura americana, non
sia un mezzo indirizzato a un fine, quanto piuttosto il fine in sé stesso: la
riproduzione, afferma, viene scambiata per l’originale.
Perché l’informazione storica passi, essa deve assumere l’aspetto di una reincarnazione. Per parlare di cose che si vogliono connotare come vere, queste cose debbono
sembrare vere. Il “tutto vero” si identifica col “tutto falso”. L’irrealtà assoluta si
offre come presenza reale [...] (e) il segno aspira a essere la cosa. (16-17)
L’errore della tesi di Eco sta proprio in quello che egli identifica come
un errore: nel ritenere cioè che gli americani scambino la copia per l’originale. È sulla base di questo errore che egli elabora la teoria del fascino che
l’America subirebbe di fronte alla copia, in base al quale il reale verrebbe
cancellato a causa di un errore di percezione.
Baudrillard, al contrario, suggerisce una lettura meno sbrigativa della
cultura postmoderna, la quale, anziché sostituire l’imitazione con il reale,
problematizza la realtà in modo da rendere impossibile la rappresentazione
e necessaria la simulazione. In Simulacri e impostura 4 egli osserva infatti:
Non si tratta più di imitazione, né di raddoppiamento, e neanche di parodia. Si
tratta di una sostituzione al reale dei segni del reale, vale a dire di un’operazione
di dissuasione rispetto a ogni processo reale attraverso il suo doppio operatorio,
macchina segnaletica metastabile, programmatica, impeccabile, che offre tutti i
segni del reale, ne cortocircuita tutte le energie. Mai più il reale avrà l’occasione
di prodursi. (47)
50
il deserto del reale
Escludendo del tutto la possibilità che il reale o qualsiasi sua variazione
possa manifestarsi, Baudrillard riduce l’epoca postmoderna a una sorta di
ricettacolo di duplicati, un accumulo di imitazioni che non solo hanno
perso tutte le referenzialità, ma addirittura conducono ad un’apocalittica
morte del reale, a un’era di simulacri e imposture in cui verità, referenza
e causa oggettiva hanno cessato di esistere.
La tesi di Baudrillard, basata sull’opposizione tra simulazione e rappresentazione, consente meglio di definire l’imitazione in atto a Las Vegas.
Egli equipara il rappresentare al dissimulare, o fingere, finendo per lasciare
intatto il principio di realtà. La simulazione, d’altro canto, “mette in causa
la differenza tra ‘il vero’ e ‘il falso’, tra ‘il reale’ e ‘l’immaginario’” (47) ed
implica l’assenza di una realtà da imitare. La differenza cruciale sembra
consistere nel fatto che la rappresentazione può essere scambiata con il
reale o i suoi segni scambiati con il senso, mentre il simulacro non si
cambia più con il reale, ma “si scambia in sé, in un circuito ininterrotto
a cui non appartengono affatto né la referenza né la circonferenza” (51).
Di conseguenza, ciò che distingue la rappresentazione dalla simulazione è
l’assioma fondamentale di un qualche principio di equivalenza tra il segno
e il reale: si tratta, in pratica, dello stesso contrasto, che riemerge ora in
un nuovo contesto, tra la nozione platonica di riproduzione, che crea una
copia (imitativa) del reale, e la versione aristotelica di mimesi, che non è
affatto imitazione, bensì rappresentazione creativa dell’originale.
Forse qui ad essere in gioco non sono soltanto i vari tipi di rappresentazione, ma la possibilità stessa di rappresentazione nell’era postmoderna
(e, quindi, ciò che Las Vegas rappresenta): infatti, se l’obiettivo principale
non è più l’autenticità, la semplice sostituzione del “reale” al “fasullo” (la
tendenza totalizzante della simulazione, secondo Baudrillard) si riduce a
una delle tante modalità fondazionali di comprendere la cultura. Il simulacro non fa altro che sostituirsi al reale quale garante di presenza nel mondo
postmoderno, mentre la referenzialità viene opportunamente abbandonata
e la rappresentazione abolita a favore di una simulazione senza fine. Questa tesi, tuttavia, viene criticata da Gianni Vattimo, secondo cui l’era del
simulacro è caratterizzata da un “pathos dell’autenticità” che non è “più
autentico” di quello offerto dalla metafisica: “riconosciuto al mondo vero
51
joy ramirez
il carattere di favola, si attribuisce poi alla favola l’antica dignità metafisica
(la “gloria”) del mondo vero”.5
Ma come può questo dilemma avere a che fare con Las Vegas? La città
potrebbe essere interpretata come il tentativo di affermare la possibilità di
rappresentazione nell’era postmoderna e come un’alternativa alla negatività
e al senso apocalittico che ci vengono dalla teoria di Baudrillard. Riconoscendo la propria impossibilità di essere “reale” o almeno “fedele copia” del
reale, Las Vegas tenta di negare l’intero processo di riappropriazione. Gli architetti di Las Vegas, anche nelle più recenti interpretazioni di famosissime
città e monumenti, raramente cercano di riprodurre fedelmente l’autentico,
perché l’autenticità stessa – intesa come ciò che è “appropriato” o come riappropriazione – è svanita con la “morte di Dio” e della perentoria ricerca
della verità. Effettivamente, quando pensiamo a Las Vegas non lo facciamo
nei termini di quel “desiderio feticistico dell’originale” di cui parla Eco e
nemmeno in quelli di una ricerca di autenticità o “verità” rassicurante che
tale desiderio implica; al contrario, Las Vegas rappresenta l’esatto opposto
della realtà e dell’autenticità: è fantasia, favola, luogo dell’immaginazione,
dove “il Bene, l’Arte, la Fiaba e la Storia” si fanno davvero carne, sebbene
solo temporaneamente.
In questo modo la nozione di “giusto errore” riscontrabile nell’architettura di alcuni tra i più famosi casinò di Las Vegas ci permette di comprendere come la città rivisiti il passato consapevolmente e con ironia, sebbene
si limiti a farlo per offrire quel poco di inevitabile referenzialità necessaria
ai fini di una rappresentazione simbolica. Nel suo importante saggio sulla
metafora, Paul de Man prende in esame la teoria del linguaggio di Locke
per rivelare un elemento essenziale del potere figurativo del linguaggio: il
riconoscimento di questo come tropo.7 Secondo de Man, “messa in moto
la riflessione sulla figuralità del linguaggio, non c’è modo di non suscitare la
questione della comprensione. L’uso e l’abuso del linguaggio non possono
essere separati l’uno dall’altro”(94). Ed è proprio partendo dalla nozione
di “abuso del linguaggio” che egli arriva a descriverne un particolare tipo
– o tropo – la catacresi, tropo attraverso il quale si crea con il linguaggio
qualcosa che non esiste nella realtà, l’uso di un tropo per il quale non
esiste un termine letterale corrispondente (ad esempio, le “gambe” di un
52
il deserto del reale
tavolo). Si tratta, secondo de Man, della metafora suprema, perché consente la definizione stessa di metaforicità quale processo allegorico in cui
l’altro sostituisce l’identità logica senza reincorporare l’identico nell’altro.
Perennemente opposta alla verità letterale, la catacresi sostituisce il letterale
con il figurato proprio nella sua letteralità.
Per de Man, tuttavia, “il potere figurato del linguaggio” solleva alcune
“questioni di proprietà” (87):
Non è infatti un problema di ontologia, di come sono le cose, ma di autorità,
di come è stato statuito che debbano essere le cose [...] E tale autorità non può
essere conferita da nessun corpo accademico, poiché il libero uso del linguaggio
comune, come il bambino, è trascinato da una serie di figurazioni incontrollate
che possono trasformare qualsiasi accademia, anche la più autoritaria, in una
derisione (91).
Questa “figurazione incontrollata” tiene conto dell’ambivalenza di
rappresentazione tra originale e copia, rendendo così sempre più difficile
distinguere ciò che è figurato da ciò che è “proprio”; in questo senso, l’errore
nel linguaggio (o l’abuso dell’originale in una rappresentazione) è necessario
se la rappresentazione deve essere svincolata dalle costrizioni della verità
referenziale e, dunque, resistere alle pretese di autorità e autenticità.
Il primo esempio di come questo fenomeno si applichi a Las Vegas
potrebbe andare sotto il titolo de “L’apostrofo mancante del Caesars (sic)”.
L’omissione intenzionale dell’apostrofo nel nome del primo hotel a tema
di Las Vegas (il Caesars Palace, appunto) è un esempio interessante di tale
ambiguità linguistica (e rappresentativa). Più che una semplice svista, si
tratta di una violazione intenzionale della proprietà di linguaggio, un
atto di sdegno verso l’accuratezza e verso il principio di realtà sotteso
alla correttezza grammaticale. Può darsi che, eliminando il possessivo, si
intendesse affermare che a Las Vegas “chiunque può essere Cesare” e, di
conseguenza, diventare artefice del proprio sogno che si fa realtà; d’altra
parte, se analizzato nel contesto dell’architettura del Caesars Palace (un
elaboratissimo mix di metafore diverse) l’apostrofo mancante diventa un
interessante esempio della disinvoltura che Las Vegas ostenta nei confronti
dell’accuratezza referenziale, prediligendo invece un’idea più elastica di
rappresentazione.
53
joy ramirez
Il casinò, col suo profilo curvilineo, le due ali simmetriche che ricordano piazza S. Pietro, le statue e le fontane ispirate a quelle di Villa
d’Este, fa sfoggio di un’opulenza che nemmeno un imperatore romano
avrebbe saputo immaginare. Nonostante l’intenzione di creare un palazzo
di classica latinità, il risultato è un edificio che più che alla Roma classica
si ispira alla Roma barocca; ciò nonostante, all’interno il visitatore ci trova
statue classicheggianti e colonne romane, il caffè Noshorium, il vascello
di Cleopatra e un insieme di spazi ispirati alla Roma antica – tutto tra le
luci e i suoni del casinò. Inoltre, ci sono i Forum Shops, emblema della
raffinatezza e del glamour di questa città: una sequenza ininterrotta di
rinomate boutiques sovrastata da una copertura che simula il cielo e che
dovrebbe dare ai visitatori la sensazione di passeggiare in una piazza italiana
anziché in un centro commerciale. L’illuminazione high-tech utilizzata
sulla volta ricrea il passaggio dal giorno alla notte più volte nell’arco delle
24 ore, quasi a volerci ricordare che, in un luogo come questo, il tempo
è illimitato ed insignificante. La passeggiata culmina nella Fontana degli
Dei, dove un’enorme statua raffigurante Bacco prende vita ogni 30 minuti
in un’impressionante esibizione tecnologica di laser e suoni ed esorta i
clienti con una filastrocca che suona pressappoco così: “Dài, non esitare,
vieni al centro commerciale”.
Un altro esempio di imprecisione storica (o forse di “errore giusto”)
ci è offerto dal Venetian, un nuovo enorme complesso alberghiero che,
con Parigi su un lato, il Marocco sull’altro e Bellagio proprio di fronte,
ricrea l’atmosfera di Venezia e offre ai visitatori, ancor prima di mettere
piede nell’hotel, la vista del Canal Grande, del palazzo del Doge e di piazza
S. Marco; una volta entrati, poi, “autentici” gondolieri italiani conducono i
turisti lungo canali appositamente ricostruiti intonando arie liriche (al pari
del cielo artificiale, anche questo è un esempio della curiosa mescolanza di
ambienti interni ed esterni che confondono la nostra percezione spaziotemporale e aumentano l’aspetto ambiguamente fantastico di Las Vegas).
Nel mezzo di tanta venezianità, tuttavia, si presenta un caso lampante
della “figurazione incontrollata” a cui ci riferivamo in precedenza. A tale
proposito è fondamentale ricordare nuovamente de Man: “[La catacresi] è
in grado di inventare le più fantastiche entità [può] smembrare il contesto
54
il deserto del reale
della realtà e riassemblarlo nei modi più bizzarri” (94). Questa manipolazione del reale appare infatti evidente nel Venetian, in cui il soffitto
della hall è decorato con dipinti che si rifanno chiaramente agli affreschi
michelangioleschi della Cappella Sistina. Indipendentemente dal fatto
che il turista “tipico” riconosca o meno l’errore, questo esempio illustra
ancora una volta il disprezzo per la filologia e per la verità referenziale di
Las Vegas. L’errore risulta necessario affinché i riferimenti storici a Roma
e a Venezia, tradizionalmente “forti”, diventino una struttura di senso
destabilizzata che distorce la tradizione e reinterpreta il passato in termini
simbolici piuttosto che letterali; è un esempio di ciò che Vattimo definisce
“mobilità del simbolico” opposta alla “rigidità dell’immaginario”(36).
La nozione filosofica di “errore” viene contemplata seriamente in
relazione alla modernità ed al suo “superamento” a partire dal saggio di
Nietzsche del 1874 “Sull’utilità e il danno della storia per la vita” (incentrato sulla stessa questione cui si rifà anche Vattimo), in cui il filosofo
tedesco tenta per la prima volta di formulare un’alternativa alla nozione di
superamento critico del passato attraverso il progresso e di dare inizio ad
“una vera e propria dissoluzione della modernità”. Già Nietzsche vedeva
chiaramente il “superamento” quale categoria tipica del moderno e perciò
non ci sarà possibile usarlo come via d’uscita dalla modernità. Uscire da
questa impasse significa comprendere che la Verità, una volta che le sue
pretese vengano attentamente analizzate, si rivela “un valore che si dissolve
in sé medesimo” o, in altre parole, né più né meno che una fede priva di
fondamento. Per questo motivo, il postmoderno non può essere ingabbiato
in una precisa epoca storica successiva alla fine del moderno: è piuttosto
uno sperimentare la fine della metafisica e la fine della storia che accompagna le fasi più avanzate dell’era moderna, fino ad includerne la fine. Di
conseguenza, come Vattimo sostiene rifacendosi a Nietzsche, al pensiero
non resta che il compito di distruggere le categorie forti di moderno e di
metafisica dall’interno, svelando gli errori insiti in ogni asserzione di verità.8
Tuttavia, Nietzsche ritiene che l’errore possa essere demistificato e rivelato
come qualcosa di fondamentalmente falso esclusivamente in nome di una
verità ritenuta più “autentica” e “legittima” rispetto all’errore stesso: è qui
che inizia a manifestarsi l’“intento decostruttivo” di Nietzsche. Come la
55
joy ramirez
concezione del simulacro che prende il posto dell’originale e sostituisce
una forma di pensiero autentica con un’altra, la “decostruzione” in questo
senso non può rinviare ad un’altra forma di verità ritenuta superiore che
sostituisca quel che è andato distrutto, perché ciò significherebbe continuare ad agire con la modalità del superamento critico e, dunque, con la
modalità caratteristica dell’era moderna. La “decostruzione” nietzscheana
può soltanto cercare di riscoprire continuamente che l’errore costituisce
l’essenza di tutta la verità, di tutta la realtà e di tutto il pensiero metafisico
della modernità.
La nozione di dissoluzione della verità nell’era postmoderna, così
come è stata concepita da Nietzsche e da Vattimo, offre un altro spunto
per approfondire l’analisi di Las Vegas e di quello che considero il suo
“progetto postmoderno”: si tratta della nuova tendenza, piuttosto curiosa,
a portare l’arte in questa città e, in particolare, nei casinò. Ad inaugurare
questo trend è stato il Bellagio, di proprietà dello storico imprenditore di
Las Vegas Steve Wynn. Notoriamente avido e collezionista d’arte, Wynn
deve aver intravisto nell’apertura del nuovo lussuoso resort (che si distingue per una notevole raffinatezza stilistica ed architettonica) un’ottima
opportunità per esibire la propria collezione privata in un luogo aperto al
pubblico. Si potrebbe pensare che ciò sia legato a un desiderio di pubblico
sfoggio di ricchezza, piuttosto che vedervi un nesso con il gioco d’azzardo
o un attacco tutto postmoderno alla nozione di appropriatezza. Ma è pur
vero che, nell’aver saputo coniugare l’ambiente del casinò con il mondo
dell’arte, Wynn potrebbe avere alluso inconsapevolmente ad un’altra forma, particolarmente interessante, di quella tendenza che spinge la città a
produrre una realtà propria e a dare nuovo valore al passato.
Gli esempi dell’architettura di Las Vegas qui illustrati (ma ci saranno
sicuramente altri “giusti errori” da scoprire), così come la recente tendenza a portare l’arte lungo la Strip, sottolineano che nell’era postmoderna
potrebbe esistere un rapporto di radicale discontinuità con la tradizione
(e con le forme di rappresentazione tradizionali). Contemporaneamente
al dissolversi del pensiero fondazionale nell’era post-metafisica, si affaccia
un’epoca nuova ed elettrizzante, dall’“interpretabilità infinita”, di cui
l’architettura ed il design di Las Vegas sono un ottimo esempio. Preferisco
56
il deserto del reale
considerare la condizione postmoderna non come la “morte del nuovo” o
la “scomparsa del reale”, quanto piuttosto, come indica Vattimo, nella sua
potenzialità di possibilità aperte. Se categorie di pensiero precedentemente
forti come Verità, Essere e Realtà si sono “indebolite”, poiché trasformate
in esperienza potenzialmente immaginaria, allora anche noi dovremmo
aprirci a “un’esperienza fabulizzata della realtà che”, citando Vattimo, “è
anche la nostra unica possibilità di libertà” (38) al tramonto dell’era moderna. A Las Vegas la parabola del postmodernismo si sviluppa seguendo
questa modalità positiva e legittima, piuttosto che secondo la versione
parodica e negativa che è stata finora la sua maledizione. Per cui, in nome
dello spirito postmoderno amante dei proclami, non dovremmo più dire
“il Reale è morto” senza poi aggiungere “Viva Las Vegas!”.
note
1. Una versione precedente di questo articolo è apparsa in Yearbook of Comparative and
General Literature, vol. 49, 2001, pp. 177-186.
2. Alan Hess, Viva Las Vegas, San Francisco, Chronicle Books, 1993.
3. È stato detto che il Bellagio non rappresenti esattamente il tipico modello di casinò della
Las Vegas attuale, in base al quale un resort reinterpreta una intera città o area geografica.
Si tratta, infatti, di un progetto ispirato alla cittadina sul lago di Como. Il Bellagio è anche
uno dei più eleganti e sofisticati tra i nuovi casinò di Las Vegas: ha pavimenti a mosaico,
sculture di vetro di Dale Chihuly che ornano il soffitto della hall e una galleria d’arte
importante. Molto probabilmente l’hotel non si ispira a un luogo o ad uno stile specifico,
ma ai concetti stessi di lusso ed opulenza. In ogni caso, sarebbe necessaria un’analisi più
dettagliata, che qui non è possibile elaborare. Sarebbe ancora più interessante mettere in
relazione una simile analisi con il più recente progetto del proprietario del Bellagio, Steve
Wynn: il nuovo Desert Inn Hotel, inaugurato nell’aprile 2005.
4. Jean Baudrillard, Simulacri e impostura. Bestie, Beaubourg, apparenze e altri oggetti,
Bologna, Cappelli, 1980.
5. Gianni Vattimo, La fine della modernità. Nichilismo ed ermeneutica nella cultura postmoderna, Milano, Garzanti, 1985, pp. 31-33.
6. Ibid., pp. 28-31. Vattimo elabora la teoria del “nichilismo compiuto” in relazione al
pensiero di Nietzsche riguardante la morte di Dio e la svalutazione dei valori più importanti,
simboleggiata dalla scomparsa del più importante di tutti i valori, cioè Dio.
7. Paul de Man, “Epistemologia della metafora”, in Allegorie della critica, Napoli, Liguori,
1987.
8. Vattimo, Introduzione a La fine della modernità, cit..
57
joy ramirez
bibliografia
Baudrillard, Jean, Simulacri e impostura. Bestie, Beaubourg, apparenze e altri oggetti, Bologna,
Cappelli, 1980.
De Man, Paul, “Epistemologia della metafora”, in Allegorie della critica, Napoli, Liguori,
1987.
Dear, Michael J., The Postmodern Urban Condition, Oxford, Blackwell Publishers, 2000.
Eco, Umberto, Travels in Hyperreality: Essays, San Diego, Harcourt Brace, 1986 (ed. it.
Dalla periferia dell’impero. Cronache da un nuovo medioevo, Milano, Bompiani, 1977).
Heidegger, Martin, L’origine dell’opera d’arte, a cura di Gino Zaccaria e Ivo De Gennaro,
Milano, Marinotti, 2000.
Hess, Alan, Viva Las Vegas, San Francisco, Chronicle Books, 1993.
Vattimo, Gianni, La fine della modernità. Nichilismo ed ermeneutica nella cultura post-moderna,
Milano, Garzanti, 1985.
Venturi, Robert, Denise Scott Brown e Steven Izenour, Imparando da Las Vegas: il simbolismo
dimenticato della forma archittettonica, Venezia, Cluva, 1985.
58
Il sacro e il profano in “Casinò” di Martin Scorsese
robert casillo
Università di Miami, Florida
1.
L’ispirazione per il film Casinò venne a Martin Scorsese quando
Nicholas Pileggi gli segnalò una serie di articoli di giornale riguardanti
Frank “Lefty” Rosenthal, direttore di casinò a Las Vegas e capo di una
banda criminale attiva negli anni ‘70 in quella città. In questo materiale
Scorsese vide lo spunto per un film sulle sorti delle famiglie criminali
italoamericane a Las Vegas nel periodo in cui i casinò iniziavano ad essere
controllati dalle grandi corporation dell’industria del gioco d’azzardo. Nel
film i nomi dei personaggi sono stati cambiati, alcuni dettagli aggiunti, altri
tralasciati, alcuni eventi trasposti, altri modificati; malgrado ciò, la storia
riflette in larga parte la realtà. Con l’intento di concludere la trilogia sulla
mafia italoamericana, Scorsese iniziò a lavorare al film nel 1994, non tanto
interessato al gioco d’azzardo in sé quanto a documentare il mondo che
vi stava dietro, all’epoca dominato dalla criminalità organizzata.1 Anche
qui, come nel precedente Quei Bravi Ragazzi (Goodfellas), altro film sulla
malavita italo-americana, Scorsese ha cercato di catturare gli eccessi della
vita dei gangster, combinando il reportage con il suo inconfondibile stile
espressionista incentrato sull’uso della cinepresa in continuo movimento,
qui espressamente utilizzata per ricreare un mondo eccessivo e sfrenato.
La critica ha accolto Casinò con poco entusiasmo, talvolta addirittura
con stroncature, ritenendo eccessiva la somiglianza con Quei Bravi Ragazzi,
del quale Casinò sembrava riprendere i temi, il materiale e le situazioni
– basate sulle dinamiche tra famiglie criminali e società – questa volta però
in modo noioso e prevedibile. A volte ci si riferisce a Casinò come a “Quei
Bravi Ragazzi 2 ” proprio per via della cinepresa in continuo movimento, le
lunghe carrellate e i fermi immagine.2 Altri critici hanno giudicato eccessivo
59
robert casillo
il ricorso alla voce fuori campo, l’estetica troppo fredda e impersonale e
una trama dispersiva e priva di drammaticità.
In realtà il film non è mai stato esaminato sufficientemente a fondo
per arrivare a comprenderne appieno il valore. Ai critici non sono mai stati
chiari né il nesso tra Casinò e gli altri film sugli italoamericani di Scorsese né
la sua sensibilità di cattolico italoamericano. Etichettarlo come un remake
di Quei Bravi Ragazzi sarebbe inopportuno, in quanto gli eventi narrati
in Casinò non hanno nulla a che fare con il film precedente. Inoltre le
critiche sull’uso eccessivo di voci fuori campo e il taglio documentaristico
risultano irrilevanti, dal momento che si tratta di scelte registiche intese
a spiegare una moralità complessa e ambigua che non ha pari in nessuno
dei film precedenti. Mentre in Quei Bravi Ragazzi l’azione si concentra su
una criminalità di carattere predatorio, in Casinò si esamina la criminalità
nei suoi rapporti con stato e società, i quali, sostenendo il gioco d’azzardo,
finiscono per giustificare o addirittura per allearsi con i gangster. Contrariamente all’opinione dei più, Casinò è un capolavoro che conclude in
maniera brillante la trilogia di Scorsese sui gangster.
Legalizzato in Nevada nel 1931, il gioco d’azzardo diventò un fiorente business attorno agli anni ‘50. Nonostante ciò, le banche e molti
altri istituti finanziari non si arrischiarono in questo mercato per via della
cattiva reputazione che lo accompagnava, il grosso giro di affari e i timori
di possibili infiltrazioni da parte della criminalità organizzata. Lo stato,
dal canto suo, preferiva, in parte per ragioni morali, concedere licenze
individuali piuttosto che dover trattare con gruppi di azionisti, impedendo
così che i casinò potessero essere finanziati o posseduti da grandi società.
Tutto ciò creò un territorio fertile per il crimine organizzato.
Il primo gangster a interessarsi a Las Vegas fu Bugsy Siegel che nel
1947 costruì l’hotel Flamingo. Da quel momento la mafia capì che la
costruzione e la gestione occulta di hotel e casinò a Las Vegas offrivano
opportunità di guadagni straordinari. Las Vegas divenne così il simbolo di
“città aperta”, aperta agli investimenti delle famiglie malavitose italoamericane ma aperta anche perché in quel luogo la violenza dei gruppi criminali
era bandita: i regolamenti di conti avvenivano nel deserto e nessuno dei
turisti si accorgeva di nulla.3 Già alla fine degli anni ‘50, molte famiglie
60
il sacro e il profano in “casinò” di martin scorsese
mafiose possedevano la maggior parte delle azioni dei principali hotel-casinò della città e la loro fonte primaria di guadagno proveniva dalla pratica
della cosiddetta “scrematura”, un costante flusso di denaro sostanzialmente
invisibile al fisco e accumulato tramite un dilagante meccanismo di irregolarità interno al casinò.4
Gran parte del denaro investito dalle bande criminali a Las Vegas
proveniva dai prestiti erogati a partire dalla fine degli anni ‘50 dal sindacato
degli autotrasportatori di James Hoffa. Arrivato alla presidenza del sindacato grazie all’aiuto della mafia, Hoffa ne trasformò il fondo pensioni in
una vera e propria banca per il crimine. I suoi più grandi beneficiari erano
i più potenti clan criminali del Middle West, capeggiati dalla Famiglia di
Chicago; già all’inizio degli anni ‘60 si diceva che il fondo pensioni degli
autotrasportatori fosse controllato dalla malavita. Sebbene Howard Hughes
investì cifre da capogiro per eliminare la criminalità dalle case da gioco,
facendo sperare in una pulizia generalizzata della città, egli in effetti non
riuscì a eliminare la mafia neppure dai propri casinò. Una nuova ondata
di ottimismo si registrò nel 1969 con il Corporate Licensing Act, legge
che prometteva alle grandi società di rilevare case da gioco a Las Vegas:
è qui che prese avvio il processo descritto nel film di Scorsese e cioè la
progressiva presa di dominio dell’industria del gioco d’azzardo da parte
delle grandi corporation.
Malgrado tutto, ancora negli anni ‘70 le bande criminali rimasero
una presenza dominante in quella città, anche se poco visibile. Nel
1974 il trentunenne Allen R. Glick ricevette dal fondo pensioni degli
autotrasportatori un prestito di circa 63 milioni di dollari, accordatogli
dalle famiglie mafiose del Middle West per l’acquisto dello Stardust e di
altri alberghi. In totale la sua neonata Argent Corporation ricevette qualcosa
come 160 milioni di dollari dai vari clan criminali. Ufficialmente era Glick
il direttore generale e licenziatario dell’hotel, ma in realtà chi dirigeva la
musica era Frank “Lefty” Rosenthal, alle dirette dipendenze dei boss del
Middle West.
Vi erano forti indizi per sospettare che dietro alla Argent Corporation
e allo Stardust si muovessero un giro di coperture, skimming (il meccanismo di frode fiscale che consisteva nella “scrematura” degli utili del gioco
61
robert casillo
d’azzardo a beneficio di chi aveva il controllo delle operazioni, n.d.t.) e
altre connivenze con la mafia e il fondo pensioni degli autotrasportatori.
Il 18 maggio 1976 un’irruzione allo Stardust portò alla luce la più grande
truffa alle slot machine della storia di Las Vegas; un anno dopo il governo
degli Stati Uniti costrinse il Fondo Pensioni degli Stati Centrali ad abbandonare il controllo sulle sue operazioni creditizie. In seguito, il 19 giugno
1978, venne avviato un controllo a tappeto sui registri contabili dei
casinò, sulle scommesse sportive e sui prestiti a usura, il tutto preceduto,
nell’aprile dello stesso anno, dalla scoperta puramente casuale, attraverso
intercettazioni telefoniche svolte dall’FBI a Kansas City, delle attività a
Las Vegas da parte del crimine organizzato. Nick Civella, Joey Aiuppa,
Carl “Tuffy” De Luna e altri boss vennero incarcerati nel novembre del
1981 per appropriazione indebita. La testimonianza di Glick al processo,
iniziato nel 1983, fu decisiva per lo smantellamento dell’intero sistema e
le successive condanne dei boss nel 1986 interruppero il predominio della
mafia a Las Vegas.
L’ascesa dell’industria del gioco d’azzardo a Las Vegas fa da sfondo al
film, che si ispira alla vita di Frank “Lefty” Rosenthal, giocatore d’azzardo
e manager di casinò e del suo amico Tony Spilotro, gangster e leader di
un giro di ladri d’appartamento.
Nato nel 1929 a Chicago, Rosenthal divenne giocatore d’azzardo e
allibratore dapprima nella sua città, dove intratteneva stretti legami con le
bande criminali. Nonostante numerosi arresti e accuse di frode al gioco,
venne inviato dai boss in Florida verso la metà degli anni ‘60 per dirigere
un’operazione legata alle scommesse sportive. Dopo il 1968 Frank assunse
un ruolo chiave nell’industria del gioco d’azzardo a Las Vegas, in virtù
della sua grande esperienza e dei suoi legami con il mondo della malavita: fu direttore dello Stardust e di altri casinò sotto la fittizia qualifica di
responsabile delle pubbliche relazioni in quanto, dati i suoi precedenti
penali, gli era stata negata la licenza per dirigere a tutti gli effetti un casinò. Il successo economico, nonché l’accettazione sociale e il prestigio,
arrivarono dopo che gli venne assegnato il coordinamento di una grossa
operazione di “scrematura”. Nel ‘69 sposò Geri McGee, una ex prostituta
da cui ebbe due figli. Non potendo nascondere ancora per molto il suo
62
il sacro e il profano in “casinò” di martin scorsese
effettivo ruolo di direttore del casinò, Rosenthal fece richiesta di regolare
licenza, che gli venne negata il 15 gennaio 1976 dalla Commissione per
il Gioco d’Azzardo dello stato del Nevada. Persa la direzione del casinò
venne immediatamente sospettato di aver ideato la “scrematura”, che nel
frattempo era stata scoperta.
Le difficoltà di Rosenthal nell’ottenere una licenza per dirigere un
casinò erano in parte legate alla presenza, a Las Vegas, di Tony Spilotro, il
gangster che era anche suo amico di vecchia data. Nato nel 1938 a Chicago,
Spilotro venne ufficialmente iniziato nella “Famiglia” di Chicago all’età
di 25 anni e nel 1964 raggiunse Rosenthal a Miami. Sicario per conto dei
boss mafiosi a Las Vegas, Spilotro non si attenne alle raccomandazioni dei
suoi capi di non dare troppo nell’occhio e si macchiò di crimini efferati,
proibiti persino dai boss. Si circondò di piccoli mafiosi con i quali mise in
piedi una Banda del Buco specializzata in furti di pietre preziose e gioielli
a Las Vegas e in tutto il sud-ovest americano. Con i proventi di questi
furti riforniva una propria gioielleria, la Gold Rush (febbre dell’oro). Poco
dopo l’arrivo di Spilotro, il deserto attorno a Las Vegas iniziò a pullulare
di cadaveri di usurai disobbedienti e di croupier disonesti. Tra tutte le sue
presunte vittime vi è anche Tamara Rand, ex socia di Glick intromessasi
nelle faccende dello Stardust. Alla fine degli anni ‘70, il comportamento
sopra le righe di Spilotro aveva iniziato a infastidire i boss malavitosi.
Benché a Las Vegas Spilotro e sua moglie divennero amici intimi di
Frank e Geri Rosenthal, a partire dalla fine degli anni ‘70 i rapporti tra i
due uomini si fecero sempre più tesi perché Spilotro diventò per Rosenthal
un’amicizia scomoda – e molto pubblicizzata dai media locali – nel momento in cui quest’ultimo cercava di ottenere la licenza per dirigere un
casinò. Rosenthal tornò allo Stardust in qualità di direttore del servizio di
ristorazione, posizione che non richiedeva il possesso di licenze particolari.
Volendosi appellare contro il verdetto emesso della Commissione per il
Gioco d’Azzardo del Nevada, Frank sfruttò uno show televisivo che conduceva dallo Stardust per cercare di mettere in discussione l’imparzialità
della commissione, con il solo risultato di irritare le autorità governative e i
boss mafiosi. Al rifiuto, nel 1978, da parte della commissione di restituirgli
la licenza fece seguito, l’anno successivo, una testimonianza trasmessa in
63
robert casillo
televisione in cui Rosenthal accusava di corruzione Harry Reid, il Commissario per la vigilanza sul gioco d’azzardo. Il verdetto favorevole a Rosenthal
che seguì queste testimonianze venne successivamente rovesciato.
Nel maggio 1978 la polizia sistemò dei microfoni al Gold Rush e a
seguito delle intercettazioni vennero emessi mandati di cattura per Spilotro e gli altri della sua banda, accusati di scommesse clandestine e usura.
Sebbene Spilotro fosse stato bandito nel 1979 dai casinò di Las Vegas e il
suo nome fosse finito nel Libro Nero della Commissione per il Controllo
del Gioco d’Azzardo, egli riuscì a tenere a bada le autorità per cinque anni
appellandosi – pur senza successo – contro la costituzionalità di quello
stesso Libro Nero.
Verso la fine degli anni ‘70 avvenne la rottura tra Spilotro e Rosenthal.
Da un lato Rosenthal recriminava il fatto che la fama negativa di Spilotro
gli avesse impedito di ottenere la licenza. Dall’altro questi invidiava il
maggiore prestigio di cui godeva Rosenthal nel mondo della mafia e si
vendicò instaurando una relazione clandestina con sua moglie. Rosenthal
chiese ai boss di punire Spilotro per l’adulterio e per aver in questo modo
violato il codice di comportamento vigente nel mondo mafioso. Ma poiché
la “scrematura” procedeva senza intoppi, e considerando che Rosenthal
era ebreo, nessuno mosse un dito. Frank e Geri divorziarono nel 1981 e
un anno dopo la donna morì di overdose a Los Angeles.
Nel 1981 Spilotro venne arrestato per ricettazione, associazione a
delinquere e scommesse clandestine. Alla fine del 1982 molti boss furono
incriminati e diventò urgente eliminare eventuali testimoni scomodi.
Probabilmente furono proprio i boss, anche se taluni accusano Spilotro,
a mettere in piedi l’attentato, fallito di un soffio, del 4 ottobre 1982 ai
danni di Rosenthal. Nel 1988, Rosenthal lasciò Las Vegas per trasferirsi in
California, quando i boss mafiosi erano ormai giunti alla conclusione che
le loro operazioni a Las Vegas erano andate in crisi a causa di Spilotro, dei
suoi crimini, della sua fame di pubblicità e della sua incapacità di frenare
le defezioni. Spilotro e suo fratello Michael furono attratti con un inganno
in un campo di grano nell’Indiana e qui, dopo essere stati pestati a sangue,
sepolti vivi. Era il giugno del 1986.
64
il sacro e il profano in “casinò” di martin scorsese
2.
In Casinò, Rosenthal, Spilotro e Geri McGee diventano Sam “Ace”
Rothstein, Nicky Santoro e Ginger McKenna, interpretati rispettivamente
da Robert de Niro, Joe Pesci e Sharon Stone. La catena alberghiera in cui
Rosenthal aveva lavorato diventa il Tangiers. Le scene di interni nei casinò sono state girate secondo alcuni critici al Landmark Hotel (chiuso al
tempo), secondo altri al Riviera. L’irruzione allo Stardust aveva nella realtà
preceduto le intercettazioni telefoniche che condussero all’implicazione
dei boss, ma nel film Scorsese li rappresenta quasi simultaneamente per
aumentare l’effetto drammatico. Nella realtà Rosenthal non ebbe la licenza
a causa del suo losco passato nel mondo del gioco d’azzardo, mentre nel
film Ace non riesce ad ottenerla soprattutto a causa degli eccessi di Nicky.
Mentre nella realtà il nome di Spilotro venne inserito nel Libro Nero nel
1978, tre anni dopo che Rosenthal si era visto rifiutare la licenza, nel film
il nome di Nicky è già iscritto nel Libro Nero quando ad Ace viene negata
la licenza, per sottolineare il danno che Santoro arreca all’amico.
Come molti altri film di Scorsese, Casinò ritrae una comunità chiusa,
con riti e regole di condotta propri, che deve difendersi dalla società ostile.
Dal film emerge il fascino che la figura del reietto esercita sul regista ma
soprattutto quella sensibilità tipicamente cattolica e dunque analogica
che spinge Scorsese a ricercare le tracce del sacro nel mondo secolare. Per
quanto strano possa sembrare, Casinò sottolinea la presenza del sacro nel
gioco d’azzardo.
In Homo Ludens, Johan Huizinga sostiene che l’intera cultura si fonda
sull’istinto del gioco. Secondo Huizinga il gioco è un’attività spontanea
che l’uomo persegue nel tempo libero, senza preoccuparsi del profitto
o di altri interessi materiali; tale attività si svolge all’interno di confini
spazio-temporali scrupolosamente definiti, in luoghi appositamente designati in cui aleggia un’aura di “sacralità”: lo stadio, il tavolo da gioco,
e via di seguito. Huizinga afferma che riti, sacrifici ed altre cerimonie
religiose formano in fondo un tutt’uno con l’attività ludica nel cui terreno “primordiale” affondano le loro radici. Infatti, queste cerimonie non
solo sono volontarie, proprie del tempo libero e legate a precise regole,
ma si svolgono altresì in un’area sacra e ben delimitata. Esiste anche una
65
robert casillo
stretta correlazione tra rituali e giochi, in particolare tra rituali e giochi di
fortuna, in quanto questi ultimi possiedono un risvolto non ludico che
li fa rientrare nell’ambito dei riti. Come osserva Huizinga, “i concetti di
felicità, fortuna e fato sembrano essere molto vicini alla sfera del sacro”.
Nel poema epico indiano Mahabharata, ad esempio, l’azione principale
dipende da un lancio di dadi e da semplici regole tracciate sul terreno.
Huizinga sottolinea che il carattere manifestamente ludico del lancio dei
dadi conferisce a questo un rilievo particolare tra i riti e dunque fa del rito
un elemento dell’attività ludica.5
Roger Caillois, noto per aver pubblicato libri quali L’uomo e il sacro
e I giochi e gli uomini, approva la concezione di Huizinga del gioco come
attività spontanea che ha luogo in una grande zona “sacra”, ma mentre
quest’ultimo si concentra maggiormente sullo spirito competitivo (agon)
piuttosto che sui giochi in generale, Caillois fa notare che molti giochi di
fortuna sono non agonistici. Inoltre Huizinga ignora il fatto che forme
ludiche quali il gioco d’azzardo e le scommesse contemplino un interesse
materiale e trascura i giochi di fortuna con poste in denaro. Queste omissioni hanno indotto Caillois a tentare di definire la funzione culturale dei
giochi di fortuna, ben più complessa da spiegare rispetto a quella dei giochi
agonistici. Rifiutando l’identificazione illustrata da Huizinga tra la sfera del
gioco e quella del sacro sulla base della loro somiglianza formale, Caillois
mette in evidenza che, in contrasto con la pura formalità del gioco, il rito
è carico di senso e che pur includendo talvolta elementi ludici, il sacro non
è un gioco ma, al contrario, cosa assolutamente seria.6
Secondo Caillois, il sacro esiste al di fuori del mondo quotidiano e si
manifesta con un’ambigua e imprevedibile doppiezza in tutti gli oggetti,
gli enti, i luoghi e le situazioni a cui è associato. Se da un lato il sacro è
crescita e rigenerazione, dall’altro è anche pericolo, forza letale in grado
di provocare caos e distruzione. Quindi, se l’umanità vuole cogliere il lato
buono del sacro e tenere a debita distanza i suoi effetti funesti, diventa
necessario il ricorso al tabù. Mentre l’individuo che viola i tabù viene etichettato come paria e la sua espulsione rende la società nuovamente pura,
il compito di mediare fra il potere temibile ma allo stesso tempo vivifico
del sacro e l’umanità spetta al sacerdote, profondo conoscitore del rito. Seb66
il sacro e il profano in “casinò” di martin scorsese
bene temporaneo, lo scompiglio che si crea durante le festività offre nuovi
modi per entrare in contatto con il sacro tramite la violazione dell’ordine
sociale. I giochi di fortuna costituiscono parte essenziale dell’atmosfera
disordinata tipica delle feste e vengono considerati manifestazioni di un
divino che ha il potere di elargire premi o castighi in modo imprevedibile
e imparziale.7
Capovolgendo la teoria di Huizinga, René Girard sostiene che il rito
abbia costituito lo strumento privilegiato dalla società per controllare la
violenza, che è poi l’essenza del sacro. La violenza negativa o profana deriva dalla rivalità che viene a crearsi per imitazione tra gli individui. Una
volta innescato questo meccanismo competitivo, l’ostilità aumenta e gli
antagonisti rimangono imprigionati in un ciclo di ritorsioni a catena in
cui si imitano a vicenda diventando ognuno l’inconsapevole riflesso dell’altro. Allo stesso tempo, una diffusa tendenza ad imitare cattura sempre
più persone in un vortice di violenza vendicativa che sembra impossibile
fermare. Se non viene frenata, questa ostilità generale porta alla perdita di
tutte le distinzioni culturali, inclusi i riti, i taboo e le leggi che mantengono
l’ordine sociale. Più la violenza diventa casuale, più ciascuno è a rischio
e tuttavia ognuno spera di riuscire a sferrare quel colpo divino capace di
porre fine al caos. Il termine che Girard usa per descrivere questo stato di
indifferenziazione è “crisi sacrificale”.8
Al culmine di tale crisi, viene scelto a caso un individuo su cui si fa
convergere ogni sorta di colpa per trasformarlo nella mostruosa personificazione della crisi che cancella ogni distinzione. Inconsapevole doppio
dei suoi accusatori, questo soggetto viene scelto tra i molti ai margini della
società e ricopre non solo il ruolo di paria, ma simboleggia altresì l’indistinta
confusione della crisi stessa. Questo individuo è il capro espiatorio, alla
cui eliminazione apparentemente miracolosa segue il ritorno all’ordine.
Ma poiché la società non può accettare che le proprie fondamenta si reggano su di un sacrificio umano, l’assassinio viene mascherato attraverso
distorsioni mitiche: il capro espiatorio si tramuta in dio salvatore, mentre
agli dei, identificati con la violenza “positiva”, si ascrive il merito della fine
della crisi; viene poi istituito un rito incentrato su vittime animali che
sostituiscono l’originario capro espiatorio umano. Mediato dai sacerdoti,
67
robert casillo
celebrato ordinatamente dall’intera comunità, il rito è la mimesi controllata
e trasfigurata di quei confusi e imprevedibili eventi che hanno condotto
alla restaurazione dell’ordine: è così che viene definita la differenza tra
violenza sacra e violenza profana.9
Secondo Girard le diversità tra i vari rituali stanno alla base dell’intero sistema differenziale della cultura. Il rito è all’origine del gioco, la cui
relazione con la crisi sacrificale appare evidente dalla natura arbitraria dei
premi. Similmente i giochi d’azzardo appaiono dapprima in forma rituale
e solo in seguito perdono gran parte della loro sacralità. Ciò che accomuna
il rito e l’azzardo è il fatto che la crisi sacrificale è caratterizzata dall’uniformarsi delle differenze attraverso la violenza casuale, la scelta arbitraria di
una vittima e il miracoloso ritorno dell’ordine nella comunità interpretato
come frutto di intervento divino. La funzione dei giochi d’azzardo è quella
di rievocare senza pericoli la crisi, con tutta la sua atmosfera inebriante,
vertiginosa, sospesa tra la speranza e il panico e il suo potenziale di violenza
teso imprevedibilmente verso la salvezza o la distruzione. Il tema del gioco
ricorre anche in miti e feste che simulano la confusione della crisi al fine
di ringiovanire la comunità.10
I giochi di fortuna sono tra i tanti che mostrano le tracce della loro
origine sacrificale e rituale. Caillois osserva che questi giochi hanno luogo
in un ambiente semiritualizzato, al di là del mondo quotidiano e all’interno
di cui ogni azione deve conformarsi a rigide regole. Un altro elemento
essenziale dell’atmosfera del gioco d’azzardo è costituito dalla folla che
appare tanto nella crisi sacrificale quanto nei riti. Esistono alcune somiglianze tra la crisi e altri due tipi di gioco definiti da Caillois con i termini
agon, ovvero rivalità competitiva, in cui la vittoria dipende largamente da
forza di volontà, impegno e abilità, e alea in cui ogni giocatore rinuncia
alla propria volontà, si affida alla sorte e aspetta che sia essa a scegliere
“democraticamente” tra tutti i giocatori. Caillois riconosce che alcuni
giochi d’azzardo come il poker, il black jack, il bridge e il backgammon
richiedono un misto di fortuna e abilità; ma tuttavia territori privilegiati
dello agon rimangono lo stadio e il campo da gioco, mentre la alea regna
sovrana negli ippodromi, nelle lotterie, nelle scommesse sportive e nei
casinò. Appartengono a questa tipologia giochi quali la roulette, le slot
68
il sacro e il profano in “casinò” di martin scorsese
machine, i dadi e il testa o croce, tutti basati sulla rassegnazione al capriccio del fato e alla rinuncia al lavoro, alla perseveranza e alla parsimonia in
favore del colpo di fortuna improvviso. Il cultore della alea desidera “la
sottomissione al divino potere del caso”, che affonda le proprie radici nel
sacro e che può provocare la perdita dell’autocontrollo con sintomi quali
la trance, la possessione demoniaca e l’ipnosi.11
3.
Il fatto che Scorsese riconosca la relazione esistente tra il gioco d’azzardo e il sacro emerge dal suo osservare che “la gente fa fortuna” a Las Vegas
come in nessun altro luogo, convinta di “poter cambiar vita con un lancio
di dadi”.12 Ace definisce la città un “autolavaggio della moralità” che “pulisce dai peccati” – una specie di Lourdes per il giocatore d’azzardo, per il
quale la stanza in cui avviene il conteggio del denaro è “il luogo più sacro
in assoluto”. Analogamente, la mafia considera Las Vegas un luogo sacro e
la dichiara “città aperta”, in cui la violenza è tabù, essendo consentita solamente nel deserto, tradizionalmente regno di paria e di capri espiatori.
Vi sono tuttavia alcune differenze tra il moderno gioco d’azzardo e il
sacro. Diversamente dalla crisi sacrificale e dai giochi di fortuna rituali, nei
quali predomina la sorte, nel gioco d’azzardo, come lo stesso Ace osserva, la
casa da gioco gode di un lieve ma significativo vantaggio sui propri clienti,
la cui tendenza diffusa a barare implica che nei casinò i divieti imposti mancano di quel potere coercitivo tipico del sacro di regolare il comportamento.
E mentre i rituali e le feste sono tipici del tempo del riposo e rinnovano
la società, il moderno gioco d’azzardo non solo è contaminato dal lavoro
ma anzi, trattandosi – secondo Caillois – di una insignificante “parentesi”
nella routine, non consente alcun tipo di rinnovamento collettivo.
Benché legalizzato, il gioco d’azzardo viene associato alla violenza,
al disordine ed alla disgregazione sociale; per questo è rimasto a lungo
un “mondo di paria”.13 Il gioco d’azzardo deve la sua cattiva reputazione
nella società moderna al fatto che, sebbene in una qualche relazione con il
lavoro, viola il concetto protestante del successo come risultato esclusivo di
laboriosità, produttività, precisione, prudenza, autodisciplina, abnegazione,
69
robert casillo
parsimonia e sobrietà. Mondo dell’eccesso, il casinò promuove l’edonismo
ventiquattr’ore su ventiquattro in un luogo isolato, privo di finestre e di
orologi, in cui un’illuminazione sempre uguale evoca qualcosa fuori dal
tempo; qui un’attività improduttiva può far guadagnare ricchezze senza
alcuno sforzo.
Trattandosi di una realtà messa al bando, fino a tempi recenti il gioco
d’azzardo è stato relegato ai margini della società – collocato nella frontiera
o in ciò che di essa rimane. Nell’America del ventesimo secolo la patria
del gioco d’azzardo è il Nevada, ex-stato di frontiera e che per buona parte
del ‘900 ha ricreato l’atmosfera della frontiera – l’idea, se non la pratica
stessa, dell’infrazione alle regole. In Casinò Nicky, coerentemente con la
definizione che dà di Las Vegas – “postaccio nel West selvaggio” – è proprietario della Gold Rush, una gioielleria con tanto di porticato esterno
in legno e pali per legare i cavalli; la sua gang di rapinatori prende il nome
da un gruppo di fuorilegge del West – “la banda del buco”.
L’etica puritana dei mormoni, che costituiscono buona parte della
popolazione del Nevada, è in contrasto con la cultura edonistica del gioco
d’azzardo, peraltro legale in Nevada, non solo perché una cultura fondata
sul gioco esisteva da lungo tempo in questo stato, ma anche perché le
difficoltà dei conti pubblici non lasciavano scelta. Dal momento della
legalizzazione nel 1931, molti mormoni hanno scelto di appoggiare l’industria del gioco finanziariamente e politicamente, al punto che alla fine
degli anni ‘70 le tasse sul gioco d’azzardo e sulle attività ad esso collegate
costituivano circa la metà delle entrate dello stato.
Costantemente vigile sul gioco d’azzardo, il Nevada ha deciso non
solo di legalizzarlo, ma anche di regolarlo, facendosi partner delle società
private in tutti i risvolti imprenditoriali. E se con la legalizzazione il mondo
dell’azzardo e la società civile sembrerebbero essersi fusi in un’unica realtà, la
regolamentazione al contrario implica invece che le tradizionali distinzioni
morali vengano mantenute: è per questo che un’industria di paria conserva
il suo stigma nonostante la legalità sancita. Si è venuta pertanto a creare
una situazione per la quale lo stato tenta da un lato di tenere in piedi la
distinzione tra condotta accettata e industria fondata sul vizio e dall’altro
però ne impedisce di fatto la regolamentazione permettendo a paria mafiosi
70
il sacro e il profano in “casinò” di martin scorsese
di operare nei casinò. Nel novero dei manager e dei dipendenti delle case
da gioco hanno figurato giocatori d’azzardo, criminali e altri personaggi
con fedine penali poco pulite.14
Se la mafia è, indirettamente, socio in affari dello stato, quali sono gli
interessi che essa difende? I propri o quelli dello stato? È risaputo che la
mafia abbia non solo usato i casinò per riciclare denaro sporco, ma abbia
anche corrotto funzionari pubblici perché rendessero meno severe le leggi
ed elargissero favori e licenze. In Casinò, mentre Nicky commenta il fatto
che la mafia intende “[scremare] la grana senza dare nell’occhio”, la macchina da presa segue i movimenti di Nance, l’aiutante mormone dei boss:
questi entra nella stanza dei conteggi per poi uscirne indisturbato con una
valigia piena di denaro, che in seguito consegnerà ai boss di Kansas City.
E si tratta soltanto di una delle tante irregolarità rappresentate nel
film: mentre nella stanza dei conteggi gli uomini della mafia rubano denaro
per sé, barare è consuetudine diffusa tra i giocatori, i croupier e gli altri
dipendenti. Spesso le case da gioco assumono ex bari perché meglio di altri
sono in grado di scoprire chi imbroglia; i croupier operano sotto l’occhio
vigile dei vari addetti alla sala; e poi vi è il cosiddetto “occhio in cielo”, è
una stanza al piano superiore che consente, attraverso un sistema di specchi
unidirezionali, di controllare ogni tavolo senza essere visti. Malgrado le
precauzioni, le irregolarità non mancano.15
Nonostante la legalizzazione, il casinò continua ad offrire uno scenario di depravazione generale, del quale gli alcolici e la prostituzione sono
parte integrante. La prostituzione ha lo scopo principale di attirare i clienti
facoltosi ai tavoli da gioco: per questo la direzione incoraggia le prostitute
a frequentare i bar dei casinò offrendo loro da bere. Ginger, che definisce
Las Vegas “città delle mazzette”, simboleggia questa corruzione offrendo
denaro a cassieri, croupier, addetti alla sala e soprattutto a quei parcheggiatori in grado di “rimediarti di tutto e risolvere qualsiasi problema”. Nicky
invece ha informatori sparsi in tutta la città che segnalano alla sua banda
le potenziali vittime tra gli ospiti degli hotel.
Nemmeno le forze dell’ordine sfuggono all’ambiguità morale di
Las Vegas. Nicky osserva che ci sono “un fottio di buche in quel deserto
e in quelle buche sono sepolti un fottio di problemi”. Ma per quanto si
71
robert casillo
tratti di metodi tipicamente mafiosi, viene osservato che anche la polizia
li adotta: come Ace dice a Nicky, “persino gli sbirri non hanno paura di
seppellire la gente nel deserto”.
A partire dagli anni ‘40 il controllo sul gioco d’azzardo si è incentrato
sul meccanismo di concessione delle licenze. Poiché nei primi anni ‘50
molti individui di dubbia reputazione ottennero il permesso necessario
per lavorare nei casinò, nel 1955 il Nevada istituì una Commissione per
il Controllo del Gioco d’Azzardo incaricata di stabilire criteri più severi
per la concessione delle licenze. A partire da quel momento, osserva
Skolnick, la preoccupazione dello stato fu sempre di trovare il modo di
“non rinunciare alle entrate prodotte dalle organizzazioni criminali senza
però sembrare coinvolto con esse”.16 Nata nel 1959, la Commissione per
il Gioco d’Azzardo, invece, si occupa attualmente solo di questioni legate
al gioco e alla sua regolamentazione, è responsabile dell’applicazione delle
leggi sul gioco d’azzardo e ha l’ultima parola nelle controversie sulla revoca
delle licenze.
Periodicamente lo stato tiene pubbliche udienze per esaminare le
richieste di licenza.17 Secondo la legge, chi ottiene una licenza non può
appoggiare associazioni criminali né unirsi a loro, pena la revoca immediata. L’altro strumento di controllo, sicuramente di maggior effetto, è il
“Libro Nero”, introdotto non ai tempi di Al Capone, come Nicky sembra
pensare, ma nel 1960 e consistente di un elenco di persone a cui lo stato
vieta di frequentare i casinò perché la loro “nota e pessima reputazione” è
una minaccia all’immagine del gioco d’azzardo. I titolari dei casinò sono
obbligati a tener lontane queste persone dai loro locali, pena la revoca
della licenza. L’iscrizione nel Libro Nero avviene quando, nel corso di una
pubblica udienza, l’accusato non riesce a riabilitarsi di fronte alla società.
Sono anche previste conseguenze penali per chi infrange la proscrizione
del “Libro Nero”.
Nell’osservare che generalmente chi richiede una licenza è coinvolto in
vicende criminose, Farrel e Case sostengono che le sottili distinzioni tracciate durante le udienze mancano di obiettività18 e che anche l’inclusione
nel Libro Nero appare arbitraria. Il fatto che i funzionari siano originari
del Nevada e in buona parte di estrazione protestante e mormona spiega
72
il sacro e il profano in “casinò” di martin scorsese
perchè il Libro contenga pochissime persone provenienti da quei gruppi
sociali, mentre la stragrande maggioranza dei proscritti è costituita da italoamericani, etichettati in base alla semplice identificazione del loro gruppo
etnico con la criminalità organizzata. Gli ebrei hanno avuto miglior sorte
nell’industria del gioco d’azzardo in virtù del loro presunto acume e della
loro integrità negli affari.
A che cosa servono le licenze e il Libro Nero? Quando il timore di
possibili infiltrazioni criminali minaccia la fiducia del pubblico nell’industria del gioco d’azzardo, chi lo regola deve mostrare di saperlo difendere
dalla corruzione. Ecco perché le udienze per la concessione delle licenze e
per l’inclusione nel Libro Nero sono avvenimenti altamente teatrali ai quali
i media danno ampio spazio: il loro scopo principale è di rappresentare
simbolicamente la purificazione dell’industria tramite l’allontanamento
dei corruttori. Ma poiché tali riti di purificazione non riescono comunque
a fissare o tutelare i confini della moralità, il pubblico diventa colpevole
di meconnaissance, o disconoscimento. Spesso indistinguibile da chi nella
società è invece tollerato, l’individuo escluso è vittima arbitraria di una
violenza che ha come obiettivo l’emarginazione: diventa, insomma, un
capro espiatorio.
4.
Ebreo e giocatore d’azzardo, con una serie di arresti alle spalle, Ace
Rothstein è segnato da un doppio stigma. Si sa che quelli come lui hanno
spesso qualità e capacità speciali ed egli non è da meno: si considera “il
mago delle scommesse”, capace di “rovinare la piazza a qualsiasi allibratore
in America”. Pur giocando con un handicap, ha imparato ad annullare
il proprio svantaggio e mettersi alla pari con tutti gli altri. Nemmeno
lo stigma che lo segna nella società civile gli impedisce di godere di una
condizione privilegiata nel mondo dei paria mafiosi, un mondo legato al
sacro: secondo Caillois, è proprio la “totale impurità” che rende sacro il
criminale.19 I gangster hanno inoltre quel potere e quella autonomia che
molti considerano divina: nella sceneggiatura di Casinò ci sono le indicazioni per l’allestimento di una scena in cui i boss sono “circondati da cibo
e vino come gli dei dell’Olimpo”.20
73
robert casillo
Ace è entrato nel mondo degli “dei” grazie alla sua abilità nel gioco
d’azzardo che consente ai boss di prosperare. L’essere ebreo, fatto che socialmente viene considerato una colpa, diventa un vantaggio nel mondo
della malavita, perché consente, a differenza di quanto avviene per i mafiosi
italoamericani, di intrattenere relazioni con i boss senza chiedere il permesso
a nessuno; Ace è, per usare le parole di Nicky, “l’ebreo d’oro” della mafia.
Tutto questo segue la logica del sacro, secondo la quale il capro espiatorio
viene talvolta venerato e santificato.
Ace è la persona adatta a portare ordine e disciplina al Tangiers perché
i suoi valori sono quelli della società “profana” estranea al gioco. Mentre la
maggior parte dei giocatori non conosce né pazienza né calcolo e si affida
al caso, Ace affronta quel mondo tanto razionalmente da neutralizzarlo.
Nicky dice che Ace “doveva sapere sempre tutto” e scommetteva solo su ciò
che conosceva perfettamente: “era il solo vincitore sicuro che conoscessi”.
Imponendo così al Tangiers i propri metodi burocratici e manageriali,
Ace è l’esempio vivente di come il lavoro contamini il gioco moderno,
confermando la tesi di Caillois. È disincantato e privo di entusiasmo,
l’attenzione maniacale ad ogni minimo dettaglio gli provoca l’ulcera;
dietro la sua scrivania c’è una targa con su scritto un “No” enorme e un
“Si” piccolissimo. Nicky dice che Ace “la prendeva così sul serio che non si
divertiva mai”. Si circonda di oggetti di lusso principalmente per affermare
il proprio status sociale e per soddisfare il desiderio di notorietà. E quale
ricompensa per il successo professionale viene ammesso nella società di
Las Vegas. Egli stesso afferma: “quelli come me Las Vegas li pulisce dai
peccati. È come un autolavaggio della moralità”.
I metodi manageriali di Ace confermano la descrizione che Skolnick
fa di un casinò: uno stato totalitario organizzato in modo tale da massimizzare la sorveglianza ed ottenere il controllo assoluto. Tutto dev’essere
“regolare e visibile”, attraverso la ritualizzazione di ogni gesto: le mosse
dei croupier sono studiate, i valori delle fiche hanno colori precisi e così
via. Il compito principale dell’addetto alla sala è di cogliere ogni minima
anomalia e su tutti vigila “l’occhio del cielo”, che conferisce la prerogativa
divina di poter osservare tutto senza essere visti.21
74
il sacro e il profano in “casinò” di martin scorsese
Per Ace chi bara muove un affronto non solo alla sua persona, ma
anche ai boss e allo stato; pertanto approva il comportamento di Nicky
quando questi intima a due bari di non farsi mai più vedere al Tangiers.
La dimostrazione più schiacciante del controllo totale esercitato da Ace
avviene nella scena in cui egli smaschera due truffatori al tavolo del blackjack: uno di loro viene condotto in uno stanzino, Ace ordina che gli venga
spezzata una mano, minacciando che la volta successiva avrebbe usato una
motosega. I due vengono poi buttati in mezzo alla strada ed è chiaro dal
loro terrore che non si faranno mai più vedere. Paradossalmente, Ace si
investe di questo potere giudiziario extralegale per proteggere gli interessi
dello stato e lo stato accetta tacitamente.
Nelle scene d’apertura Ace osserva come un re il casinò che dirige.
Sicuro della propria capacità di dominare la sorte, della protezione dei boss
e di poter esercitare la violenza nel momento del bisogno, Ace trasmette
un freddo e sprezzante distacco, coltivando una pienezza ontologica con
l’autonomia e l’autocompiacimento tipici di un dio o di chi è protetto
dagli dei. Non sembra appartenere al mondo del casinò, quanto piuttosto
ad una realtà superiore e irraggiungibile. Incarna quell’arroganza tipica dei
personaggi di Scorsese che ricercano una superiorità divina.
Ace però sa che se non riuscirà a mettersi alle spalle il passato da giocatore, evitando ogni contatto con la malavita, non potrà mai ottenere la
licenza per dirigere il Tangiers. La principale minaccia è Nicky, che già dai
tempi di Chicago prova un forte rancore nei confronti dell’amico. Mentre
Ace si destreggia tra i boss, Nicky non solo è legato dagli obblighi verso
la Famiglia, ma i boss stessi gli hanno ordinato di sorvegliare le mosse di
quello che egli stesso definisce, con ironia e invidia, l’“ebreo d’oro”.
A Nicky viene poi anche ordinato di controllare la “scrematura”, per
“assicurarsi che nessuno rompa i coglioni ad Ace” e lo fa con metodi completamente diversi dalla minuziosa razionalità dell’amico: Nicky taglieggia
chi è coinvolto nel gioco clandestino, gli spacciatori e i protettori e non esita
a compiere scorribande in città con i suoi scagnozzi. Non solo si macchia di
crimini che i boss gli avevano vietato di commettere, ma consegna sempre
meno soldi alla Famiglia. Affamato di celebrità, Nicky corteggia i media
75
robert casillo
e liquida sbrigativamente la notizia che il suo nome rischia di comparire
sul Libro Nero definendola “una gran stronzata”.
Ma nonostante Ace e Nicky siano diversissimi, molte cose li accomunano. Come Nicky, anche Ace è pieno di sé, ambizioso e prepotente. Il
suo egocentrismo lo spinge oltre i limiti della ragione, come dimostrano i
frequenti cambi d’abito e l’ossessione per i dettagli sartoriali. Deve sempre
essere perfetto: avere un aspetto impeccabile è fondamentale per un “dio”
come lui. Altra prova dell’egocentrismo di Ace è la tentazione di far trapelare durante un’intervista il suo ruolo di “boss” del Tangiers, rischiando così
di giocarsi la licenza. Come Nicky, anche Ace assume un atteggiamento di
autosufficienza e gode del potere d’intimidazione che i boss gli permettono
di esercitare. Per l’uno e per l’altro, la brama di notorietà riflette un forte
desiderio di essere ammirati: entrambi vorrebbero incarnare una parte del
fascino e del terrore tradizionalmente suscitati dal sacro. L’inconsapevole
somiglianza e sdoppiamento dei due personaggi, la loro rivalità, il rancore
e le reciproche recriminazioni emergono in quello scambio di battute
tipico della sticomitìa greca e che ha luogo quando appare evidente che
Ace non riuscirà ad ottenere la tanto sospirata licenza: l’annullamento
delle differenze esistenti tra i due è evidente tanto nell’identità quanto
nella simmetria delle reciproche accuse. Ace dice: “Che mi è successo? E
che è successo a te?... Hai perso il controllo” e Nicky risponde: “Ho perso
il controllo?”.22
Il matrimonio tra Ginger ed Ace dimostra quanto quest’ultimo sia
affascinato dagli eccessi di Las Vegas, che lo lasciano disarmato. Il fatto che
Ginger rappresenti un pericolo per Ace è già evidente nella scena in cui
egli se ne innamora, proprio quando Ginger, in evidente violazione delle
regole proprio nel casinò che Ace dirige, ruba delle fiche a un habitué, fiche
che poi lancerà a piene manciate verso il soffitto. Ace pare attratto dall’impertinenza e dalla freddezza dell’anarchica Ginger, quasi fosse il riflesso
della sua anima arrogante. Trattandosi di un tipo “che vuole certezze”, si
rende conto che sposare Ginger è una “scommessa rischiosissima”, perché
lei non lo ama e lui lo sa. Mentre per Ace regole, ordine e calcoli sono importantissimi, Ginger crede nell’astrologia ed è infedele: alla fine progetta
di ucciderlo e di fuggire con i suoi soldi e i suoi gioielli. Tossicomane e
76
il sacro e il profano in “casinò” di martin scorsese
alcolizzata, Ginger rappresenta non solo l’alea, simboleggiata dal lancio
dei dadi in cui i giocatori si abbandonano inconsciamente ad una sorta di
“vertigine”, ma anche l’ilinx, la forma di gioco più primitiva, nella quale
l’individuo cerca di ricreare quella stessa vertigine nella vita quotidiana,
finendo in un vortice sempre più rapido di alcol e droghe che le fanno
perdere il controllo della propria esistenza.
La commissione incaricata di esaminare la richiesta di licenza è presieduta dal senatore a cui, al Tangiers, Ace stesso aveva concesso molti favori.
Ma sebbene il senatore gli avesse promesso un’udienza imparziale, questi
poi rifiuta di riesaminare il caso. Le ragioni sono due: l’aver inutilmente
offeso Pat Webb, commissario della contea, licenziando il suo incompetente
genero; ma soprattutto il comportamento inammissibile di Nicky. In una
scena del film, gli agenti federali che stanno sorvegliando Nicky con un
piccolo aereo privato, finiscono il carburante e atterrano nel giardino di
Ace proprio mentre questi è in riunione con alcuni rappresentanti della
commissione.
Tanto l’udienza reale di Rosenthal, avvenuta alla fine degli anni ‘70,
quanto la sua versione cinematografica dimostrano che lo stato considera
questi episodi come rituali volti a bandire simbolicamente dalla città i capri
espiatori scegliendo in modo arbitrario le persone su cui accanirsi, non
molto diverse da coloro che godono dell’approvazione dello stato. Ace sa
che in Nevada non è ben accetto, ma ricorda al Senatore che al Tangiers è
stato suo “ospite”, implicandolo direttamente in quella corruzione morale
che il funzionario a parole condanna. Ma le accuse di ipocrisia che Ace
muove alla commissione vengono screditate dai media, che liquidano le
sue parole come un banale eccesso d’ira.
Ace ritorna al Tangiers nella veste di direttore artistico e subito si
ritrova a condurre uno spettacolo televisivo tutto suo, il “Sam Rothstein
show”, che ha come unico scopo quello di attaccare le autorità preposte
al controllo del gioco d’azzardo. Il titolo del programma, “The Sam Rothstein Show - Aces High” (gioco di parole tra Ace, gli “assi” in un mazzo
di carte e l’idea di eccesso o “sballo”, n.d.t.) associa ad Ace l’idea di una
serie infinita di assi, come se la sua pienezza ontologica fosse talmente
grande da consentirgli di mettere in scena personalità molteplici. Questo
77
robert casillo
prova che Ace ha ceduto all’ilinx. Descrivendolo come “l’uomo che vi
condurrà nel cuore della vera Las Vegas come nessuno ha mai fatto prima”,
la presentatrice del programma intende sottolineare che Ace, giocatore
per antonomasia, non può essere escluso dal mondo del gioco d’azzardo.
Ma Ace non aveva previsto che tutto ciò avrebbe reso furiosi i boss, che
rifuggono ogni forma di pubblicità e non vogliono che Ace si esponga.
Se prima era protetto dallo stato e dalla mafia, godendo di una posizione
privilegiata, ora si ritrova solo e privo di protezione – condizione tipica
del capro espiatorio.
Nel frattempo il conflitto con Nicky si inasprisce. Nonostante Ace
sappia benissimo che Nicky lo sta mettendo nei guai, non si rende conto
dei guai che lui stesso ha creato a sé e agli altri. Tallonato giorno e notte,
Nicky se la prende con Ace per avere complottato con i boss alle sue spalle
e crede che questi lo voglia allontanare. I due si incontrano nel deserto
fuori Las Vegas, regno di paria e capri espiatori.
Quando Ace ricorda erroneamente che fu lo stesso Nicky a chiedere
la sua autorizzazione per trasferirsi a Las Vegas, Nicky afferma di essere
“l’unico che conta quaggiù” e che Ace esiste solo grazie a lui. Dopo avergli
dato dell’“ebreo figlio di puttana”, Nicky gli dice che senza la sua protezione qualsiasi “mafiosetto si prenderebbe un pezzo del tuo merdoso culo
da ebreo. E dopo dove te ne andresti?”. Nell’immaginario di Nicky, Ace è
ora vittima della violenza settaria perpetrata dalla feccia della mafia e sono
proprio le sue origini ebraiche a fare di lui una vittima.
Ad alimentare l’odio di Nicky nei confronti di Ace concorrono la
fama che quest’ultimo ha ottenuto e la sempre maggiore ambizione del
primo. Nella scena al “Jubiliation Nightclub”, Ace e i suoi tirapiedi ignorano Nicky e i suoi scagnozzi, che a loro volta li guardano con disprezzo.
Questo episodio esemplifica ciò che Girard definisce “la festa rovinata”,
da noia, apatia e dissapori. Tra i sintomi di una violenza imminente c’è la
relazione tra Nicky e Ginger, la quale, davanti a tutti, rivela ad Ace che si
sta “scopando” il suo nuovo “protettore”. Ace capisce che quest’adulterio
è pericoloso, dato che i boss proibiscono la rivalità in amore tra mafiosi
per evitare che si creino faide intestine. Un altro segno inquietante di
violenza è legato alle radici ebraiche di Ace, che ora gli giocano contro.
78
il sacro e il profano in “casinò” di martin scorsese
Infatti, quando Nicky dice a Marino di volere Ace morto, gli intima di
andare “dall’ebreo”.
Ma la situazione precipita anche per i boss. Un tempo signori del
caso, del caso ora sono diventati le vittime: l’FBI intercetta una loro conversazione e scopre la “scrematura”. Vengono immediatamente arrestati e
devono difendersi da chi sa e può parlare.
Il climax di Casinò è una versione in miniatura della crisi sacrificale in
cui la violenza prolifera imprevedibilmente man mano che la società precipita in quegli antagonismi primordiali da cui, a detta di Girard, nascono
rituali come il gioco d’azzardo. In una scena Nicky colpisce Billy, l’aiutante
di Ace, chiamandolo “cazzone ebreo calvo”. La componente sacrificale,
in questo atto di violenza improvviso, consiste nella somiglianza di Billy
con Ace perché ebreo, arrivando a prendere il suo posto. Inizialmente Ace
aveva tollerato le irregolarità di Nicky ai tavoli del Tangiers, ma un baro
perlomeno è tenuto a onorare le regole che infrange. In questa scena, Nicky
è invece un guastafeste che rifiuta completamente le regole del gioco, ormai inadatte a fermare la violenza. Subito dopo, uno dei ragazzi di Nicky
viene ucciso da un poliziotto che scambia l’involucro di alluminio del suo
panino per una pistola. In una scena precedente girata in un ristorante,
il fratello di Nicky aveva sputato in un panino destinato ad un poliziotto
del quartiere. L’omicidio quindi preannuncia una vendetta simbolica, se
non premeditata.
Della serie di omicidi ordinati dai boss al fine di eliminare testimoni
pericolosi, i più agghiaccianti sono quelli decisi dal caso. In una pausa
durante il processo, i boss si riuniscono attorno ad un tavolo per decidere
la sorte di Andy Stone, un loro complice ebreo. Basta un voto contrario
a decretarne la condanna. Stone viene difeso da tre dei boss ma Gaggi, il
capo, chiede: “perché rischiare?”. Per Stone, il tentativo estremo da parte dei
boss di dominare la sorte si trasforma in malasorte: quella tavola rotonda
diventa una ruota della fortuna a lui fatale.
Analogamente, l’antisemitismo consente anche di spiegare il tentativo
di far saltare in aria Ace nella sua macchina, un piano elaborato da Nicky
o dai boss. La terribile esplosione è già presentata, a mo’ di antefatto,
nella scena iniziale del film, quando si vede Ace catapultato in aria, quasi
79
robert casillo
la dimostrazione di come Ace si sia arreso alla sorte: sembra un dado che
rotola a caso, mentre la sua spinta e il suo volteggiare in alto rievocano
l’ilinx, quasi a simboleggiare come Ace sia stato spazzato via dal “delirio” di
Las Vegas e sembra volersi autodistruggere. Ma chi aveva messo la bomba
non poteva sapere che “quell’automobile era stata costruita con una lastra
di metallo sotto il posto di guida”. Così, l’uomo che voleva dominare la
sorte deve la vita soltanto al caso.
Non tutti gli italiani vengono risparmiati dalla mafia, dato che Nicky e
suo fratello Dominic vengono picchiati a sangue e sepolti vivi in un campo
dell’Indiana. Concentrandosi sulla ricchezza di questo paesaggio agricolo,
Scorsese allude ai temi pagani della violenza, della morte e della rinascita;
un sacrificio, come dice Frazer, perpetrato al fine di assicurare la fertilità.
Anche la conclusione richiama lo stesso simbolismo, in cui la Las Vegas
della mafia viene sostituita da quella delle grandi corporations.
Questo processo ebbe inizio nel 1969 con la Corporate Licencing Act,
la legge che consentì l’accesso delle grandi società alla gestione delle case
da gioco. In meno di un decennio queste aziende riuscirono ad ottenere il
controllo sull’industria del gioco d’azzardo di Las Vegas. La condanna dei
boss, avvenuta nel 1983, inflisse un duro colpo alla mafia; ma quell’anno
segnò anche la fine del controllo mafioso sui casinò. Da quel momento in
poi, le grandi fortune della mafia si sarebbero create non più con i fondi
pensione ma con la speculazione finanziaria e i junk bonds. I casinò divennero uno dei tanti servizi offerti dalle società dell’intrattenimento quotate
in borsa. I vecchi hotel, che si concentravano completamente sui casinò
e su poche altre attrazioni, vennero sostituiti da nuovi, enormi complessi
per famiglie, con attrazioni pensate appositamente per i bambini. I casinò
divennero una delle componenti di quella macchina dei divertimenti,
sebbene quella economicamente più importante.23
Nel film, Scorsese rappresenta la trasformazione di Las Vegas accostando le immagini della demolizione dell’hotel-casinò Dunes a quelle
del nuovo MGM Grand. “La città non sarà più la stessa” dice Ace, perché
dopo il Tangiers le grandi società “si sono impossessate di tutto” e oggi
“assomiglia a Disneyland”. Mentre scorrono le immagini dell’Excalibur, un
altro hotel di 5.000 stanze che ricorda il castello di re Artù, Ace lamenta
80
il sacro e il profano in “casinò” di martin scorsese
l’impersonalità delle grandi corporation: “Quando chiedi il servizio in
camera, sei fortunato se ti arriva per giovedì”. Dal buio poi spunta il Luxor,
una piramide di vetro alta trenta piani con una sfinge enorme sul davanti:
un simbolo così sacro e sublime ridotto a semplice trovata commerciale.
Girard osserva come il gioco d’azzardo nasca come rituale e venga
poi spogliato della propria sacralità, fino ad essere quasi totalmente secolarizzato. Ci si deve quindi chiedere se il gioco d’azzardo possa mantenere
quel suo carattere sacro, anche quando viene trasformato da vizio in uno
dei tanti passatempi commerciali per famiglie. Proprio come negli ultimi
vent’anni sono caduti i tabù che segnavano il gioco d’azzardo, con l’uscita
di scena della malavita scompaiono i signori della violenza e i loro servi.
Tutto questo non fa che sottrarre al gioco d’azzardo quel fascino e quel
terrore che un tempo lo avvolgeva, lasciando solamente la meccanicità,
l’ottusità e il materialismo della nuova era che Ace lamenta.
Ma che il mondo del gioco d’azzardo non sia ancora completamente
separato dal sacro lo si desume dal fatto che, anche nel pieno del rinnovamento e del successo, questo si affidi a quei mezzi attraverso i quali le società
hanno tradizionalmente nascosto, alterato, commemorato e santificato le
origini di una violenza a cui devono il loro ordine e la loro prosperità.
I capi della mafia e i giocatori clandestini hanno fornito al gioco
d’azzardo di Las Vegas non solo le capacità e il potere, ma anche il sostegno finanziario per la realizzazione degli impianti e delle infrastrutture.
Inoltre hanno potuto contare sul tacito consenso di uno stato ipocrita che
fingeva di condannarli. Senza il consistente contributo di questi criminali
apparentemente respinti ed emarginati, l’oasi di ricchezza di Las Vegas non
sarebbe mai esistita: sono loro le vittime che ne hanno consentito l’edificazione. E sebbene né le grandi società né il pubblico ammetteranno mai
che la loro attuale prosperità dipenda solo da quei paria ora banditi, tutti
finiscono comunque per commemorare in forma mascherata e mimetica
la violenza che ha dato origine a Las Vegas. Così i pirati che combattono
in una piscina d’hotel non rappresentano altro che uno sbiadito ricordo
di quelli veri – Tony Spilotro e la sua “Banda del buco”; la piramide del
Luxor rievoca, anche se indirettamente, tutte quelle vittime ancora sepolte
nel deserto circostante; e la sfinge ricorda, come nel mito di quell’altro
81
robert casillo
capro espiatorio, Edipo, il difficile enigma del rapporto tra prosperità e
violenza sociale.
note
1. Peter Brunette, introduzione a Peter Brunette, a cura di, Martin Scorsese: Interviews,
Jackson, Univ. Press of Mississippi, 1999, p. ix.
2. Jim Sangster, Scorsese, London, Virgin, 2002, p. 247.
3. William F. Roemer, War of the Godfathers: The Bloody Confrontation between the Chicago
and New York Families for Control of Las Vegas, New York, Donald I, Fine, 1995; Ovid
Demaris, The Last Mafioso: The Treacherous World of Jimmy Fratianno, New York, Times
Books, 1981, p. 271 (trad. it. L’ultimo mafioso: Jimmy Fratianno racconta i segreti del crimine,
Milano, SugarCo, 1981).
4. Sull’industria del gioco d’azzardo di Las Vegas e le connessioni con la mafia si vedano
i molti studi apparsi: Eugene Moehring, Resort City in the Sunbelt: Las Vegas, 1930-2000,
Reno, Univ. of Las Vegas Press, 2000; William F. Roemer, The Enforcer: Spilotro – The Chicago Mob’s Man over Las Vegas, New York, Donald I, Fine, 1994.
5. Johan Huizinga, Homo Ludens: il gioco come funzione sociale, (1938), trad. Corinna von
Shendel, Einaudi, Torino, 1962, passim.
6. Roger Caillois, L’uomo e il sacro, cur. Ugo M. Olivieri, Bollati Boringhieri, Torino, 2001,
pp. 146-156; Caillois, I giochi e gli uomini: La maschera e la vertigine, trad. Laura Guarino,
Bompiani, Milano, 1981, pp. 7, 21-22-23, 89.
7. Caillois, L’uomo e il sacro, passim cit.; Caillois, I giochi e gli uomini, cit., pp. 155-156.
8. Rene Girard, La violenza e il sacro (1980), trad. Ottavio Fatica e Eva Czerkl, Adelphi,
Milano, 2000, passim.
9. Girard, La violenza e il sacro, cit., pp. 130-149.
10. Girard, La violenza e il sacro, cit., passim.
11. Caillois, I giochi e gli uomini, cit., passim; vedere anche Roger Munting, An Economic
and Social History of Legalized Gambling in Britain and the U.S., Manchester, Manchester
Univ. Press, 1996, pp. 146-7; Vicki Abt, James F. Smith, and Eugene Martin Christiansen,
The Business of Risk: Commercial Gambling in Mainstream America, Lawrence, Kansas. Univ.
of Kansas Press, 1985, p. 79.
12. Vedere Ian Christie, “Introduction: Stardust in Vegas”, in Nicholas Pileggi e Martin
Scorsese, Casino, London, Faber & Faber, 1996, p. xii.
13. Jerome H. Skolnick, House of Cards: The Legitimation and Control of Casino Gambling,
Boston, Little, Brown, 1978, pp. 13, 102.
14. Skolnick, House of Cards, cit., pp. 31-2, 117, 176, 211, 217.
82
il sacro e il profano in “casinò” di martin scorsese
15. Bill Friedman, Casino Management, Secaucus, N.J., Lyle Stuart, 1974, pp. 36-7,
39‑41, 43-4.
16. Skolnick, House of Cards, cit., p. 118.
17. Quanto segue a proposito della concessione delle licenze e del Libro Nero si basa
soprattutto su The Black Book and the Mob: The Untold Story of the Control of Nevada’s
Casinos, di Ronald A. Farrel e Carole Case, Madison, Univ. of Wisconsin Press, 1995,
pp. xi-xii, 3, 4, 9, 10-2, 13, 14, 17-20, 24, 31, 37, 51-2, 76, 91-2, 113, 142, 143, 167,
173, 208-12, 219, 221, 222, 223, 228-9.
18. Farrel e Case, The Black Book and the Mob, cit., p. 221.
19. Caillois, L’uomo e il sacro, cit., p. 43.
20. Pileggi e Scorsese, Casino, cit., p. 6.
21. Skolnick, House of cards, cit., p. 71-3.
22. La sticomitìa è una caratteristica della tragedia greca interpretata da Girard come un
processo di indifferenziazione. Essa consiste, infatti, in un dialogo nel quale i personaggi
si scambiano reciproche accuse ed insulti fino ad annullare le differenze tra di loro. In
questo la sticomitìa preannuncia la violenza di una crisi sacrificale. Vd. Girard, Violence
and the Sacred, cit., pp. 44-45.
23. Hal Rothman, Neon Metropolis: How Las Vegas Started the Twenty-First Century,
New York, Routledge, 2003, pp. xix, xx, xxii, xxiii, xxviii, 18, 23-4, 25, 26, 34, 38, 45,
46, 79; Mark Gottdiener, Claudia Collins, e David Dickens, Las Vegas: the Social Production of an All-American City, Oxford, Blackwell, 1999, pp. 29, 35-6, 38-9, 49, 64-6, 81,
118; Eugene Moehring, Resort City in the Sunbelt, cit., pp. 55,81-2, 151, 261, 264, 267,
268, 269, 270-1, 272-3.
83
PARTE SECONDA
TORONTO E LA CULTURA CANADESE CONTEMPORANEA
Toronto: una città senza confini,
un centro lontano dal centro
carmen concilio
Università di Torino
Poco fuori Bruxelles è situato un piccolo parco tematico, “Mini
Europe”, in cui si può camminare fra le miniature dei più famosi
monumenti europei e fra le riproduzioni in scala ridotta di minuscoli
villaggi di tutta Europa. Il visitatore è ovviamente invitato ad apprezzare i
dettagliatissimi simulacri dei diversi stili architettonici, dei piani urbanistici,
dei materiali e dei metodi di costruzione, e le fedeli riproduzioni di forme
e colori degli elementi decorativi distintivi dei vari paesi.
Su più vasta scala e più realisticamente, a Toronto si può osservare
la medesima grande varietà di edifici e stili, però ingigantita come da un
potente telescopio. Inoltre, non solo l’Europa, ma gran parte del mondo
si trovano riprodotti in quella lente grandangolare che è Toronto.
Toronto sembra essere fra le città più ospitali del mondo, dove varie
etnie oggi coesistono pacificamente. Naturalmente questa è l’immagine
edulcorata di una città dove conflitti etnici sono esistiti in varie epoche;
eppure oggi a prevalere è l’alto profilo della città multiculturale.
Ciò che più colpisce di Toronto, infatti, è l’assenza di confini esterni,
la sua apertura. La vasta estensione a macchia d’olio, pianeggiante, si trova
al crocevia ideale fra il confine polare con la Russia, il confine atlantico con
l’Europa e il confine meridionale con gli Stati Uniti. Tuttavia, mentre il
49° parallelo si perde nell’ampia distesa del Lago Ontario a Sud, il confine
Est con l’Europa si dissolve nel bel mezzo dell’Oceano Atlantico, mentre
il Nord soffia i suoi gelidi aliti direttamente lungo la direttrice di Yonge
Street, una delle strade più lunghe e diritte del mondo.
Parte della sua naturale ospitalità e della sua apertura culturale Toronto
la deve forse a tale caratteristica di città sconfinata.
87
carmen concilio
Eppure Toronto sembra imbrigliata in un doppio gioco. Da un lato
la città sembra funzionare come Grande Attrattore di rifugiati e immigrati
da tutte le parti del mondo, dall’altro sembra trasformarsi in Rifrattore
che respinge il resto del Canada, assecondando una sorta di indole schizofrenica, centripeta e centrifuga ad un tempo. Le Province dell’Ovest
hanno infatti sempre avuto un ruolo periferico rispetto a quello che viene
percepito come il “centro” del Canada, vale a dire, l’Ontario e Toronto.
Quest’ultima è considerata la capitale finanziaria e culturale della Federazione canadese, mentre Ottawa ne è la capitale politica. Questo “centro”,
però, si trova chiaramente ai margini del Paese e non nel suo cuore, in senso
convenzionale. Nel saggio Borderlands, Bill New, professore di Letteratura
canadese all’Università della British Columbia, riferisce di come studenti
universitari di geografia a cui è stato chiesto di disegnare una mappa del
Canada e di disporvi tutto ciò che del Paese conoscevano, collocavano
Ottawa molto più lontano di quanto in realtà non fosse dalla località in cui
si trovavano loro. Questo esperimento dimostra, secondo lo studioso, “una
resistenza omogenea di tutto il Canada al potere simbolico rappresentato da
Toronto e Ottawa”. Inoltre, insiste l’autore, “Il referendum separatista del
1995 in Quebec ha promosso il dibattito su dove avrebbe potuto o dovuto
essere collocato il ‘centro’: Ottawa o Quebec. In quel caso Toronto non
è stata pressoché menzionata, mentre Montreal veniva associata a luogo
rappresentativo del benessere e dell’opposizione della comunità anglofona
o allofona. La maggior parte dei quebecchesi aspirano alla separazione
per due ragioni principali: la prima è che vedono Toronto e Ottawa come
‘Altro’, un’invenzione nota come ‘Canada inglese’, la seconda è che nel
corso degli ultimi trent’anni sono stati indotti a pensare in questo modo
dalle istituzioni scolastiche e statali, forse anche dalla chiesa, e certamente
dai mezzi di comunicazione”.1
Dunque, almeno un confine ideologico e culturale esiste ed è quello
storico tra il Quebec francofono e l’Ontario anglofono. Va ricordato,
tuttavia, che economicamente la secessione del Quebec sarebbe rovinosa
poiché la Provincia dipende dalla ridistribuzione del prelievo fiscale attuato nelle province dell’Alberta, della British Columbia e, per ironia, dello
stesso Ontario.
88
toronto: una città senza confini, un centro lontano dal centro
Il perdurare di tale scissione dimostra proprio come Toronto sia il
centro di un doppio movimento di attrazione e repulsione: città centripeta
rispetto ai flussi migratori dall’estero, città centrifuga rispetto alle rivendicazioni politiche delle Province confinanti; aperta all’inclusione del mondo
e pronta ad escludere i suoi più immediati vicini.
Allo stesso modo, le varie etnie, o ethnoscapes – come le definisce più
propriamente il sociologo indiano Arjun Appadurai2 – che convivono
nella zona metropolitana di Toronto hanno istituito altrettante invalicabili
quanto impercettibili barriere culturali.
In particolare sono i detrattori della cosiddetta politica del Multiculturalismo (programma del governo federale, divenuto legge il 21 luglio del
1988) a temere il sedimentarsi delle varie realtà culturali in forma di danze
folcloristiche e festival locali e a temere la conseguente trasformazione della
città in vero parco tematico quale alternativa istituzionalizzata a forme più
efficaci di dialogo inter- o trans- culturale. Fra costoro va ricordato lo scrittore indiano Neil Bissondath il quale sostiene che la politica multiculturale
non sia altro che “un sistema sanzionato ufficialmente per evitare che le
minoranze abbiano un effettivo ruolo politico” (New, 10). Ma anche, più
recentemente, Nino Ricci, canadese di seconda generazione, di origine
italiana, lamenta come talvolta il multiculturalismo “sia meramente teso
a consolidare la ghettizzazione delle culture etniche segregandole dalla
cultura dominante e obbligandole a chiudersi in se stesse”.3
Se Toronto è davvero crocevia di sempre mutevoli flussi di realtà etniche che incontrano flussi di altrettanto veloci e mutevoli realtà mediatiche
– poiché sono queste, secondo Appadurai, le vere entità postmoderne nel
mondo globale – è evidente come i mass media in generale possono contribuire a rinforzare, smantellare o destabilizzare quell’idea di “centro” che
si è andata sin qui configurando. Per esempio, Toronto è divenuta in tempi
recenti la sostituta fotogenica preferita di New York – come Vancouver lo
è di San Francisco. Evidentemente un tale scambio fa sì che il confine tra
Canada e Stati Uniti si assottigli e divenga maggiormente permeabile e mobile come gli altri confini di cui si è parlato. Paradossalmente, Toronto, città
né puramente americana, né meramente britannica, se guardata secondo
una certa prospettiva che ne cancella le peculiarità e l’unicità urbanistica
89
carmen concilio
e architettonica, può diventare la città canadese che più di altre somiglia a
una città statunitense. Così, questa Toronto che può essere alternativamente
come-New York, come-Boston o come-Chicago di fatto è una perfetta
falsa America, o una perfetta falsificazione americana. Questo processo
di dislocazione cinematografica, dovuta esclusivamente ai minori costi
di produzione, crea immagini mobili e instabili che vengono trasmesse a
un pubblico di spettatori altrettanto disorientati: americani che guardano
film girati in una Toronto che credono essere New York, torontoniani che
guardano film in cui l’America ha le stesse sembianze di casa propria. Tale
inversione è solo uno dei tanti esempi di quei processi di dislocazione dei
mediascapes, vale a dire, sempre secondo la definizione di Appadurai, dei
nuovi flussi di immagini e dei prodotti mediatici dell’era globale.4 E ciò
non significa che il Canada e le sue città stiano attraversando un processo
di macdonaldizzazione o americanizzazione, quanto piuttosto che le città
sono crocevia per i nuovi movimenti globali e le nuove forme frattali di
panorami etnografici e culturali.
Un diverso esempio testimonia invece come tali nuovi panorami etnici possono essere manipolati da forze propagandistiche trans-nazionali
attraverso i mezzi di comunicazione. In un recentissimo articolo di giornale
Nino Ricci lamenta che la proposta del Governo italiano di trasmettere
i programmi della TV di stato, precisamente del canale satellitare Rai
International, attraverso le reti di una TV canadese, Telelatino, non è
altro che un tentativo meschino di controllare e manipolare la comunità
italiana canadese in vista dell’estensione del voto alle comunità italiane
all’estero. Inoltre, Telelatino di conseguenza perderebbe il suo primato
di trasmissione etnica modello che riesce a riflettere la realtà della comunità di cui è al servizio. Guerre mediatiche come questa costituiscono lo
scenario tipico del mondo globalizzato descritto da Appadurai, secondo
cui lo sradicamento coinvolge movimenti di forza lavoro e talvolta crea
atteggiamenti esageratamente critici o sentimentali verso la politica della
madrepatria. In entrambi i casi la politica nazionale si scontra con una
realtà sociale post-nazionale di dislocazione. Gli italiani che vivono in
Canada hanno formato nel tempo una comunità molto diversa da quella
degli italiani che vivono in Italia, con diverse esigenze, ma probabilmente
90
toronto: una città senza confini, un centro lontano dal centro
intrappolata in atteggiamenti o eccessivamente critici o troppo nostalgici
verso l’ormai lontana madrepatria.
È proprio la deterritorializzazione a promuovere lo sviluppo di nuove
forme di fondamentalismo e nazionalismo su scala globale. Grazie all’apertura di nuovi mercati per le compagnie di produzione cinematografica, per
gli artisti, per gli operatori turistici, per le reti televisive e per l’industria
editoriale, tali entità si avvantaggiano del bisogno – reale o indotto – di
un contatto tra la comunità deterritorializzata e lo Stato di origine. Questo è un altro fenomeno che complica il nostro mondo globalizzato e le
città globali come Toronto, e il “caso” della comunità italiana è solo un
esempio fra tanti.
Quale crocevia di masse in movimento di emigranti, Toronto è certamente una città multietnica e poliglotta. Alcune delle espressioni più
comunemente usate per definirla sono “Commonwealth postmoderno”,
“cosmopoli”, “mega città”, “nuova città-mondo”, “città globale”. Si tratta
in definitiva di una delle capitali della diaspora mondiale.
Nell’opera di Amitava Kumar, Bombay, London, New York, lo scrittore
e giornalista indiano, ora residente negli Stati Uniti, fornisce una topografia
sia letteraria sia geografica della traiettoria, delle fermate e delle stazioni
della diaspora dal Sud dell’Asia verso Occidente. Toronto non è altro che
l’anello mancante in quella catena di città; recuperata, infine, quando nei
ringraziamenti Kumar si rivolge alla propria famiglia smembrata fra Patna,
Virginia, Karachi e Toronto. Inoltre una fotografia nel libro mostra due
ragazze vestite con la sari mentre fumano una sigaretta durante la prove
di danza del festival Desh Pardesh a Toronto. Un’altra fotografia mostra
un giovane asiatico in piedi davanti al poster di una famosa attrice di
Bollywood in Girard Street, sempre a Toronto. A questo punto l’autore
aggiunge: “Qualche anno più tardi ho sposato una donna pakistana in
quella città e proprio in un negozio di quella stessa strada furono acquistati
i miei abiti da sposo”.5 Per Amitava Kumar, indiano, Toronto è la città in
cui ha potuto sposare una donna pakistana, ha acquistato vestiti alla moda,
e in cui partecipare a festival tradizionali.
Si tratta infatti di una “città globale”, dove masse migratorie transnazionali o post-nazionali incrociano mezzi di comunicazione di massa
91
carmen concilio
elettronici, e altri flussi diasporici. E Toronto è una delle città in cui convergono flussi globali di emigranti, di denaro, di beni e politiche culturali.
Per concludere questa panoramica sull’unicità sociale di Toronto e
sulle sue contraddizioni, bastino ancora due esempi. Nell’autunno 2002
il Governo canadese era impegnato in una battaglia diplomatica volta ad
espellere i rifugiati algerini dal territorio, nonostante questi avessero ormai
chiesto la cittadinanza canadese per i figli neonati, li mandassero all’asilo
e a scuola, parlassero inglese e avessero amici canadesi.
Oppure, nel visitare l’inevitabile Royal Ontario Museum, in cui la
storia delle migrazioni dalla Cina al Canada è ben documentata anche
mediante la ricostruzione fedele delle abitazioni e del mobilio in uso nella
Cina tradizionale, può capitare di scorgere un vecchio con la nipotina per
mano intento a spiegarle, in cinese, cosa sono e a che cosa servono gli
oggetti in esposizione. Quest’ultimo episodio ci autorizza a sperare che lo
speciale multiculturalismo torontoniano, la sua poliglossia, e il suo grado
di avanzata sperimentazione sociale – quella che Appadurai chiamerebbe una
società frattale – possa diventare un modello funzionale anche per la nostra
futura Europa. Toronto – per la sua efficienza, il perfetto sistema di trasporti
pubblici, la sicurezza, la pulizia, la varietà etnica e architettonica – potrebbe
davvero diventare non un ideale parco tematico, bensì un modello per la
città europea ideale del futuro.
note
1. William H. New, Borderlands, Vancouver, University of British Columbia Press, 1998,
pp. 7-8.
2. Arjun Appadurai, Modernity at Large: Cultural Dimensions of Globalization, MinneapolisLondon, University of Minnesota Press, 1996.
3. Nino Ricci, Roots and Frontiers / Radici e frontiere, a cura di Carmen Concilio, Torino,
Tirrenia, 2003, p. 122.
4. Recentemente gli studios hollywoodiani hanno scelto un set canadese anche per il film
The Aviator, i cui interni sono stati ricostruiti nella Ciné Cité di Montréal.
5. Amitava Kumar, London, Bombay, New York, New York-London, Routledge, 2002,
p. 262.
92
Toronto: la città “ideale”
tra postmodernismo e multiculturalismo
simona bertacco
Università di Milano
Voltati, guarda giù:
la città non esiste;
questo è il centro di una foresta
M. Atwood, The Journals of Susanna Moodie
Come veramente sia la città sotto questo fitto involucro di
segni, cosa contenga o nasconda, l’uomo esce da Tamara senza
averlo saputo. Fuori s’estende la terra vuota fino all’orizzonte,
s’apre il cielo dove corrono le nuvole.
I. Calvino, Le città invisibili
1.
yonge street o l’immaginario mancante
Con i suoi 1.896 chilometri di lunghezza, Yonge Street è considerata
la strada più lunga del mondo e forse è l’unica via di Toronto e del Canada
che abbia raggiunto una fama internazionale. Dopo aver sezionato la città
verticalmente in due emisferi paralleli, East e West, Yonge Street si estende
dalle rive del waterfront di Toronto verso ovest, mappando il percorso di
esplorazione e colonizzazione dell’interno canadese, fino ad esaurirsi al
confine con gli Stati Uniti nella cittadina di Rainy River. Nonostante la sua
storia sia molto simile a quella della Route 66, Yonge Street/Highway 11
non si è trasformata nell’immaginario collettivo, canadese o meno, in quel
palinsesto di storia e mito della nazione che è invece stato il destino della
“Mother Road” statunitense (Wiwa 2001, 1). A Toronto, infatti, ben si
applica la descrizione di Tamara fatta dal Marco Polo di Calvino: “[f ]uori
s’estende la terra vuota fino all’orizzonte, s’apre il cielo dove corrono
le nuvole” (Calvino 1972, 22). Se qualcuno è mai uscito da Toronto,
proseguendo verso nord su Yonge Street, sa che questa immagine coglie
93
simona bertacco
appieno la sensazione di vuoto e di solitudine, nel mezzo della wilderness
canadese, di questa via.
L’assenza di una rielaborazione mitica per la strada più famosa del
Canada nella letteratura, nelle canzoni o nei film, mi offre lo spunto per collocare le mie riflessioni su Toronto quale città ideale del postmodernismo,
per così dire, in medias res, nel tessuto cartografico della sua rete urbana.
Lo scopo è quello di visitare Toronto attraverso le sue finestre letterarie per
stabilire un dialogo tra l’esperienza vissuta della città e la Toronto proiettata,
distorta o idealizzata, nella letteratura canadese contemporanea.
Il ruolo straordinario di Toronto all’interno della scena politica, culturale ed economica del Canada, la sua rivalità con le altre città canadesi
e soprattutto con Montreal come centro propulsore di cultura sono tutti
elementi che potrebbero far presagire la presenza di una nutrita letteratura
di e su Toronto, o almeno di una mitologia nazionale in cui questa città occupi un posto prominente. Al pari di Yonge Street, invece, Toronto occupa
un posto marginale nella letteratura canadese e non pare essere diventata,
nelle pagine delle storie che in essa trovano ambientazione, la città-mito
che ritroviamo legata ad altri immaginari urbani nordamericani come
New York, Los Angeles, San Francisco o Las Vegas. Può essere interessante,
a questo proposito, notare come sia Montreal, non Toronto o Ottawa, forse
l’unica città canadese che ha prodotto un corpus significativo di letteratura
(Cfr. Wolfe & Daymond 1977, IX). Nell’introduzione ad una delle due
raccolte di racconti su Toronto che si trovano oggi nelle biblioteche, Cary
Fagan scrive che “Toronto ha impiegato molto tempo a trovare i suoi
‘storytellers’, segno questo della sua iniziale modestia, virtuosità e del suo
grande desiderio di conformità” (Fagan 1990, 7).
La presenza a dir poco sparuta sullo scaffale della letteratura torontoniana di due uniche raccolte di racconti dedicati a Toronto (Toronto
Short Stories, 1977 e Streets of Attitude, 1990) è integrata unicamente
dalla pubblicazione di due numeri speciali della rivista Open Letter dal
titolo significativo di Toronto Since Then (1994). Un’anomalia, questa, che
conduce a chiedersi se una certa ritrosia nei confronti della propria città
più visibile internazionalmente non vada letta ed interpretata quale rifiuto
di un certo ethos urbano che, dall’esterno, verrebbe automatico attribuire
94
toronto: la città “ideale” tra postmodernismo e multiculturalismo
all’intera civiltà nordamericana. Secondo il curatore di uno studio intitolato
The Canadian City, le motivazioni vanno ricercate nell’evoluzione storica
dell’urbanistica canadese:
Il governo canadese ha lavorato sistematicamente contro lo sviluppo di un etos
urbano. Sin dai tempi coloniali, le città canadesi sono state tenute in una condizione di debolezza politica in modo che la gestione urbanistica rimanesse staccata
dal coinvolgimento diretto dei cittadini. Le città come “figlie delle province”
hanno una storia lunga e dolorosa e molti sono i canadesi illustri che hanno
percepito il nostro paese come una paese senza città significative. L’ironia è che
negli anni il Canada si è evoluto in una delle nazioni maggiormente urbanizzate
al mondo, con più dell’80% della popolazione residente in città. Naturalmente,
eravamo impreparati a vedere e a conoscere le nostre città (Gerecke 1991, 1-2
traduzione mia).
Tale evoluzione spiegherebbe lo status di inferiorità attribuito alla città
canadese, a qualsiasi città canadese, se messa a confronto con una delle
sue gemelle americane, ma è una spiegazione che mi sembra insufficiente
alla luce delle successive ondate di anti-americanismo e di nazionalismo
culturale che hanno caratterizzato lo sviluppo della cultura e della letteratura canadesi.
Un’osservazione dello scrittore Alistair MacLeod punta verso una
direzione che vale la pena considerare: i canadesi, scrive MacLeod, si
identificano maggiormente “non con Toronto o Vancouver, ma con le
strade polverose della Manawaka di Margaret Lawrence o della Jubilee di
Alice Munro” (MacLeod in Wolfe & Raymond 1977, VIII). È l’unicità
regionale che rende non solo ogni città canadese fortemente distinta dalle
altre – basti pensare all’enorme differenza tra una ‘prairie city’ come Winnipeg e una città metropolitana come Toronto – ma che spiega e in parte
giustifica la scarsa attenzione che, fino agli anni Ottanta, la città canadese
ha ricevuto in quanto oggetto di studio e di analisi.
Come sia cambiato il volto di Toronto negli ultimi venti o trent’anni
è in larga misura dovuto al modello multiculturale che il Canada sta offrendo al mondo: Pico Iyer, nel suo recente libro The Global Soul, dedica
l’intero capitolo intitolato “Multiculture” a Toronto, convogliando quindi
l’impressione che multicultura è, e si identifica con, Toronto:
95
simona bertacco
Toronto [...] con meno da perdere ed un senso di identità meno chiaramente
definito [rispetto a Parigi, Londra e New York] si è lanciata in un esperimento
multiculturale di cui è lei stessa la cavia: nel suo accettare prontamente, così sostiene, i nuovi arrivati tanto dai paesi in via di sviluppo che dall’Europa, e nello
spendere centinaia di milioni di dollari per incoraggiarli poi a preservare i loro
diversi bagagli culturali, Toronto ha osato sognare un nuovo tipo di cosmopoli
(Iyer 2000, 123-4).
Lasciando per un momento successivo l’analisi critica di questa immagine, vera o edulcorata, della Toronto multiculturale, ciò che mi preme
ora sottolineare è la metamorfosi delle città canadesi, nella percezione sia
interna che esterna al Canada, da “figlie delle province” a città multiculturali, con Toronto, Vancouver, Montreal e Winnipeg in testa alla lista. Se
Toronto, anche a livello letterario, si è scrollata di dosso un certo provincialismo vittoriano di matrice britannica, è senz’altro dovuto al fatto che
le successive ondate migratorie e le azioni di sostegno del Canada Council
nei confronti delle comunità etniche interne alla nazione hanno portato
alla ribalta della scena letteraria nuovi autori, testi e tematiche. Nelle parole
di Cary Fagan, “la recente fioritura di talenti – scrittori che sono nati qui
o che sono arrivati qui o che di qui sono passati – è una prova tangibile
di quanto sia cambiata la città” (Fagan 1990, 7).
Gli anni Ottanta e Novanta del Novecento hanno infatti assistito
all’esplosione editoriale del Canada, un’esplosione che, ancora una volta,
ha visto Toronto in prima linea in quanto qui si concentra il maggior
numero delle case editrici del Canada anglofono. Toronto così ha fatto la
sua comparsa – o ricomparsa per non dimenticare le storie torontoniane
di Morley Callaghan e Patrick Slater negli anni Venti e Trenta – più di
frequente nelle pagine dei libri, se non come protagonista, almeno come
sfondo ricorrente di molte narrazioni. Se prendiamo in esame Toronto
come città letteraria, allora diventa automatico stabilire un confronto tra
la Toronto della mainstream literature e del festival letterario di Harbourfront e la Toronto della letteratura multietnica e multiculturale e, infine,
la Toronto della scena sperimentale legata alla figura di bp nichol, con
l’intento di aprire un dialogo tra quartieri, o neighbourhood, della città che
sembrano condurre vite parallele ma separate.
96
toronto: la città “ideale” tra postmodernismo e multiculturalismo
2. “toronto the blue”: margaret atwood e la mainstream literature
Nelle rappresentazioni letterarie, Toronto è stata tradizionalmente descritta come “una città di bianchi” (Brand 1990, 272), con scrittori diversi
quali Morley Callaghan, Robertson Davies, Margaret Atwood quali suoi
cantori. Avviandoci, dunque, verso nord lungo Yonge Street, ci troviamo
in meno di mezzora immersi in una periferia suburbana fatta di casette
perfettamente simmetriche e identiche tra loro. Margaret Atwood è la
figura letteraria che è legata al volto essenzialmente bianco dell’Ontario e
del Canada. Considerata, a torto o a ragione, l’emblema della “canadesità”
(Cfr. Huggan 2001, 214), Atwood vanta, oltre ad una produttività letteraria
straordinaria, una multiforme ed instancabile attività intellettuale come
commentatrice, docente, culturalista e femminista; e in questo modo ha
contribuito a tradurre e a far conoscere almeno una parte dello scenario
critico ed intellettuale del Canada contemporaneo al mondo intero.
In quella che si è rivelata, a detta della stessa autrice, la sua opera più
influente, Survival: A Thematic Guide to Canadian Literature, pubblicata
per la prima volta nel 1972 e ripubblicata quest’anno, Margaret Atwood
articola il suo pensiero sul legame profondo tra letteratura e territorio,
leggendo il Canada come uno stato psichico, “come lo spazio che si abita
non solo con il corpo ma anche con la mente” (Atwood 1972, 18). La
letteratura, dunque, può e in alcuni momenti deve essere letta anche come
“una mappa, una geografia della mente. La nostra letteratura è una di
queste mappe solo se impariamo a leggerla come nostra, frutto di quello
che siamo stati e di dove siamo stati” (ibid., 19).
Quale conseguenza logica del sentire dell’autrice nei confronti del
luogo della sua stessa scrittura, la sua narrativa mappa Toronto, la sua
cartografia, la sua psicologia, descrivendone gli abitanti e le peculiarità con
l’occhio attento del conoscitore. La sua è una scrittura fortemente radicata
nella città, con quelle neighbourhood, quei nomi delle strade citati con
ricorrenza e quelle gravine esplorate dai vari personaggi. La pagina iniziale
del romanzo The Blind Assassin (2000), per esempio, racconta il suicidio
di Laura Chase precipitata in auto dal ponte di St. Clair Avenue dentro
una gravina: “L’auto precipitò per un centinaio di piedi nella gravina,
fracassandosi contro le cime degli alberi, soffici per le foglie nuove, prese
97
simona bertacco
fuoco e rotolò giù fino al torrente poco profondo che scorreva nel fondo”
(Atwood 2002, 1). “Questa”, commenta Robert Fulford, “è una morte
tipica di Toronto” (Fulford 2000, np). Che la scelta dell’ambientazione
del suicidio non sia casuale è ovvio, ma può essere interessante chiedersi
in quale misura questa sia una morte tipicamente torontoniana. Nella sua
colonna sul National Post, Fulford sostiene che questa scena “sottolinea
l’intenso rapporto che lega Atwood a Toronto e al suo folclore. È diventata,
più di chiunque altro, la nostra romanziera, la cronista intima delle nostre
vite, la vera erede di Robertson Davies come grande mitologa della vita,
passata e presente, di Toronto” (ibid.).
Atwood trasforma la morte di Laura Chase, sorella della protagonista,
in un evento specificamente torontoniano collocandolo sopra e dentro
una gravina, vale a dire utilizzando una della caratteristiche principali ed
uniche della formazione geologica della città, una sorta di firma topografica.
Come si legge in Accidental City:
Le gravine stanno a Toronto come i canali stanno a Venezia, le colline a San Francisco e il fiume Thames a Londra. Sono il cuore della geografia emotiva della città
e per capire Toronto bisogna capire anche le sue gravine (Fulford 1995, 1).
Oltre ad aggiungere una nota di colore locale, la precisa locazione della
morte di Laura assume un valore altamente simbolico. Rosedale, la zona in
cui avviene l’incidente, è un’enclave d’élite per i “WASP Torontonians” ed è
presa come correlativo oggettivo della vita agiata, ma provinciale, alto-borghese, etnicamente uniforme, che si riproduce nelle facciate all’europea delle
sue ville e dei suoi palazzi. La vita da cui la venticinquenne Laura Chase sta
fuggendo, dunque, è l’esistenza claustrofobica nei quartieri della Torontobene – “Toronto the Blue” come viene spesso chiamata dall’autrice – che ne
ha impedito e distrutto la creatività e la vitalità.
I racconti e l’immaginario popolare di Toronto popolano la narrativa di
Margaret Atwood: da The Journals of Susanna Moodie (1970), a Lady Oracle
(1976), da Life Before Man (1979) a The Robber Bride (1993), da Alias Grace
(1996) a The Blind Assassin, molti fra i romanzi e i racconti di Atwood
sembrano farsi raccoglitori delle storie locali, dando una collocazione precisa a leggende, cliché o pregiudizi. In The Journals of Susanna Moodie, per
98
toronto: la città “ideale” tra postmodernismo e multiculturalismo
esempio, il fantasma della pioniera britannica viene espressamente lasciato
vagare indomito per le strade della Toronto metropolitana, “la città finale”
(Atwood 1970, 114) che sta cercando di costruirsi come un “paradiso d’argento con un bulldozer” (ibid., 115) sopra le tracce, volutamente ignorate,
dei precedenti abitanti della città. Susanna Moodie diventa il simbolo di
un passato non urbano, anzi ferocemente anti-urbano, che non accetta di
essere “sotterrata completamente. Fa la sua ultima comparsa nel presente,
come una donna anziana su un autobus di Toronto che vive la città come
una terra desolata inesplorata e minacciosa” (ibid., 64).
Nel racconto “The Man from Mars”, pubblicato nella raccolta Dancing
Girls (1977), ancora una volta Atwood presenta la storia, molto torontoniana per ambientazione e tematica, di una giovane studentessa universitaria
alle prese con l’avvento della multicultura, una storia che dal contrasto tra
il titolo e la quotidianità degli eventi trattati estrapola una significatività
aggiunta: l’incontro con lo studente orientale, senza nome, senza patria,
senza identità coincide, per la protagonista almeno, con un’esperienza di
incomunicabilità assoluta, un’avventura marziana appunto.
L’esperienza dell’immigrazione come parte essenziale della storia del
Canada contemporaneo ricompare in Alias Grace, la cui giovane protagonista, Grace Marks, sbarca in Canada dalla natia Irlanda cercando di
sfruttare il senso di possibilità e di potenzialità dell’emigrazione. In realtà,
anche in questo romanzo, come nella storia precedente, sono presenti altre
figure, i Nativi canadesi per esempio o gli immigrati di colore, ma ricevono
una rappresentazione sommaria, uno schizzo veloce, mentre l’angolo di
percezione rimane sempre, indiscutibilmente, bianco ed anglosassone.
Ora, considerando l’attivismo di Margaret Atwood come “celebrità culturale” (Huggan 2001, 210) riguardo a tematiche estremamente diverse,
dalla guerra in Irak alle campagne in difesa dei diritti umani per Amnesty
International, dalle battaglie femministe alla questione dei diritti terrieri
delle popolazioni native in Canada, c’è un aspetto della sua strabiliante
produzione letteraria che non può non colpire la nostra attenzione, specialmente ora che la fama multiculturale di Toronto si va espandendo:
la Toronto di Margaret Atwood è indiscutibilmente bianca. Sembra che
l’autrice non voglia entrare in questo dibattito sulla multicultura della
99
simona bertacco
città e preferisca concentrare la propria attenzione sulle contraddizioni e i
regionalismi che fanno ancora parte della percezione artistica del Canada
di oggi quanto la vitalità creativa delle sue città multiculturali.
3. “toronto the good”: austin clarke e la metropoli coloniale
All’interno dei medesimi spazi urbani, ma all’altro capo dei confini
di gender e di etnia, si snoda la narrativa di un altro grande rappresentante
della Toronto letteraria, lo scrittore di origine caraibica Austin Clarke. Un
altro tipo di atmosfera cupa avvolge la Toronto che viene chiamata in vita
nelle pagine dei suoi libri, soprattutto nelle raccolte di racconti e, soprattutto, altre neighbourhood, altri colori, suoni, profumi rispetto a quelli che
si ritrovano nelle pagine di Atwood. L’esperienza che l’immigrato caraibico
fa di Toronto è in grande misura spogliata della sua proiezione positiva
fatta di speranza e rinnovamento ed indaga con lucidità e dovizia di particolari i recessi di una mentalità dominante, ancora fortemente razzista
e coloniale. Molti dei personaggi di Clarke sembrano essere consapevoli
dei “soffitti bassi che le strutture canadesi impongono alle aspirazioni dei
neri” (Ball 1994, 11) e si sentono quindi destinati ad una vita di fallimenti
e di progressiva esclusione dal centro (della) città, sia a livello topografico
che a livello metaforico.
Una delle storie più famose dello scrittore, “Canadian Experience”
(1986), mostra il volto oscuro di “Toronto the Good”, Toronto la Buona:
la sua ostilità nei confronti delle persone di colore e la sua tendenza ad
isolarle, sfruttarle e ignorarle:
“La gente in metropolitana sembrava così colta, come se tutti avessero una laurea.
E non uno, uomo o donna, che mi chiedesse se avevo bisogno di indicazioni”.
“Perdio! Come facevano a sapere che non avevi esperienza canadese?”.
“Mi guardavano, sopra, sotto e attraverso, proprio attraverso. Ero come una lastra
di vetro” (Clarke 1990, 58).
Nella storia, seguiamo i movimenti e le riflessioni di George mentre
si prepara per un colloquio di lavoro, “il primo in cinque anni” (Clarke
1990, 49). George è un outsider, escluso dalla società sia economicamente
che umanamente:
100
toronto: la città “ideale” tra postmodernismo e multiculturalismo
Negli otto anni che aveva passato in questo paese, aveva volato basso per i primi
cinque, come immigrato irregolare, facendo uno dopo l’altro i lavoretti mal pagati
creati apposta per gli immigrati non in regola, sempre aspettando l’arrivo di una
regolarizzazione (ibid., 53).
George si suiciderà gettandosi sotto un treno della metropolitana
diretta a sud. La direzione del treno non è casuale. Come sottolinea John
Clement Ball, lo spazio urbano di Toronto è letto come un’allegoria coloniale in quanto riproduce nella topografia cittadina le strutture imperiali del
centro del potere – emblematicamente rappresentato dal cuore finanziario
di Bay Street – e il margine – qui rappresentato dalla stanza che George
ha preso in affitto in Major Street:
A Sud ci sono gli uffici con le vetrate e i fiori e le donne vestite di nero e con
BANCA scritto sui vetri. A Sud c’è Bay Street dove nessuno cammina dopo che
gli italiani e i greci e i portoghesi hanno finito di pulire gli uffici e sono saliti sulla
metropolitana diretta a nord verso College Street. A Sud non c’è niente. A Sud c’è
il lago, acqua fredda e nera che sa di pesce morto, di urla di bambini nella breve
estate, e di macchine e barche e grasso (ibid., 61).
Le storie di Austin Clarke si prestano ad essere facilmente identificabili sulla carta topografica della città: la precisione con cui viene ricreato
l’ambiente urbano in cui vivono e muoiono i personaggi è notevole.
Abilitando i lettori a riconoscere i bar, i club, i parchi, Austin Clarke
scrive un immaginario urbano per Toronto di notevole impatto emotivo.
Nonostante l’autore sostenga che le sue storie “succedono a Toronto per
caso, potrebbero essere ambientate anche a Londra, Parigi, New York o
Mosca” (Clarke 1986, 1-2), una tale presa di distanza dalla città sembra
poco credibile alla luce della precisione fotografica di alcune descrizioni,
per cui sembra davvero, in quanto lettori, di entrare ad abitare una certa
rete di ambienti cittadini e di respirare l’atmosfera stessa della città. Così,
per esempio, nel racconto “In an Elevator”, la protagonista non acquista
il suo vestito in un negozio qualsiasi di Toronto, bensì “da Chanel su
Bloor” (Clarke 1993, 53), e l’uomo che l’abbandona alla fine della storia
“si dirigeva verso il Lago, e il Fish, Tackle & Bone Café verso Harbourfront” (ibid., 62).
101
simona bertacco
Anche l’intensità lirica di certe descrizioni di Austin Clarke merita
di essere menzionata. La Toronto che viene evocata nelle pagine dei suoi
racconti è in grado di esercitare un fascino intenso su alcuni dei personaggi
descritti, coloro i quali proiettano sulla città le loro speranze di successo
e di gratificazioni materiali. Ma anche la faccia impassibilmente fredda e
disumana della metropoli, descritta con il suo vento tagliente, la neve, i
treni della metropolitana affollati di lavoratori, gli ascensori – simbolo dei
lavori a cui possono aspirare tanti “Landed Immigrants” – tutto crea un
immaginario urbano molto potente, fortemente locale ma di facile fruizione
anche da parte di chi non conosce a fondo la città, un immaginario in cui
l’intensità lirica è in grado di trasformare la pregnanza e la suggestione
dell’elemento locale utilizzato:
C’è un bancomat in cima alle scale della metropolitana. Un vento sale costantemente dalla metropolitana. In inverno, il vento è forte e gelido. Quest’anno l’inverno si
è protratto fino all’inizio di maggio e stamattina, mentre mi allontano dalla coda
davanti al bancomat, vengo sfiorato da una donna con una cartella di pelle nella
mano sinistra e una borsa enorme nella destra, che imprecando si fa strada a fatica
nella corrente di persone, mentre cerca di infilare il denaro in un borsellino rosso.
Il borsellino ha una chiusura a scatto color oro. Ho in mano cinque banconote
da venti che ho appena prelevato e sto cercando di metterle dentro al portafogli
mentre entro nella metropolitana dalle pesanti porte di vetro (ibid., 63).
In un’altra storia, “If the Bough Breaks” (1993), invece, Clarke affronta nella sua complessità la problematica degli stereotipi razziali in una
città in cui la mentalità coloniale si è trasferita dal piano militare a quello
economico. La storia si svolge nel salone del parrucchiere per signora
Christophe, su Bay e Davenport, dove cinque donne borghesi caraibiche
di mezza età passano tranquillamente il venerdì pomeriggio chiacchierando del più e del meno. Le sirene della polizia che si fermano sotto al
negozio interrompono d’improvviso la conversazione: “Ci scommetto,”
dice una delle donne, “che c’è un uomo di colore in quella macchina”. “E
di diciottanni al massimo,” aggiunge un’altra (Clarke 1993, 11-12). Dalla
finestra, però, vedono con sorpresa che i poliziotti stanno portando via una
ragazzina bianca di neanche sedici anni e ne segue un’accesa discussione sul
razzismo in Canada, negli Stati Uniti e ogni donna porta la sua personale
102
toronto: la città “ideale” tra postmodernismo e multiculturalismo
esperienza di discriminazione, dissimulata dall’esistenza agiata che tutte
ormai conducono. Alla fine del racconto, la ragazzina entra nel salone e
tutti i presenti ammutoliscono alla vista del suo corpo. Alla violenza e
all’ingiustizia del razzismo se ne sostituisce un’altra, altrettanto atroce, che
cancella ogni distinzione di pelle:
C’era sangue sulla gamba.
Nessuna aveva il coraggio di chiedere.
Sapevano già la risposta senza aver bisogno di chiedere, di chiederselo. Sapevano
che poteva essere solo una cosa. Solo una causa. Solo un tipo di violenza. Era la
violenza che conoscevano. Che avevano conosciuto dalla nascita. Dolore e sangue.
Sangue e dolore, in una combinazione di gioia, dolore, funzioni naturali, e per
quelle benedette dalla fertilità, il dolore e il sangue del parto.
“Perché deve essere così?” disse la donna la cui figlia era stata ammanettata. “Perché
deve essere così, sempre?” […]
“Perché deve andare sempre così con le donne? E per le donne?” (ibid., 27-28)
Clarke critica i limiti di ogni discorso razziale, ma decide di incastonare
la scena della solidarietà femminile all’interno di una storia che documenta
in maniera dettagliata il persistente razzismo contro le persone di colore in
Canada. Ciò che queste donne riescono a fare è abbandonare, anche solo
per un attimo, le loro esistenze razzializzate per affermare, in quanto donne
e in quanto madri, altri aspetti della loro esistenza. Il calore emanato da
queste madri raccolte intorno alla ragazzina alla fine della storia è un segno
di un’intuizione, di una prospettiva positiva per i rapporti interetnici, anche
se ancora vincolata ad un’esperienza di violenza e di dolore.
4. toronto: una città “ideale”?
Vorrei ora concludere questa visita di Toronto sulle pagine dei suoi
libri, portando i termini della discussione sull’immagine che la città, che
questa città in particolare, sta dando di sé al mondo. Ogni città ha alle
spalle una storia fatta di nascita e di pianificazione urbana, ma anche di
distruzioni e ricostruzioni, che la rende unica. Anche se, come sottolineato
in precedenza, le città canadesi non sono facili da interpretare – soprattutto se guardate attraverso le lenti di una tipologia univoca, quella della
città nordamericana – e anzi proprio per questa ragione, è interessante
103
simona bertacco
prendere in esame le circostanze storico-culturali che hanno caratterizzato
l’immagine più recente di Toronto e il passaggio da città di provincia al
nuovo ruolo di ‘World City’ che le viene attribuito.
La città di Toronto, scrive Pico Iyer, sembra essere stata volutamente
costruita attorno alla parola ‘multiculturalismo’ (Cfr. Iyer 2000, 121).
L’eterogenea composizione e vitalità culturale di Toronto si riflette anche
nella sua architettura, nel come la città si presenta, con le sue neighbourhood
colorate, i suoi festival etnici, le persone che la abitano. Ecco, l’architettura
che fa di Toronto una cosmopoli post-nazionale è composta in larga misura
dalla mescolanza etnica, linguistica, alimentare – in una parola culturale – dei suoi abitanti. Tuttavia il fenomeno dell’immigrazione, in Canada,
non ha riguardato storicamente solo la città di Toronto, bensì la nazione nel
suo intero; eppure è solo Toronto – e in seconda misura Vancouver – che
ritorna sempre più spesso come modello della città multiculturale. Che
cosa rende Toronto tanto speciale? Secondo Pico Iyer:
Quello che era diverso a Toronto era che qui tutti, ad Harboufront almeno,
parlavano dei libri come del nuovo potere non legislativo, invocando un nuovo
ordine interculturale, e molti di questi romanzi (che erano poi invariabilmente i
più interessanti e originali che avessi letto) facevano di Toronto non solo la loro
ambientazione, ma la loro fonte di ispirazione (Iyer 2000, 120).
Due grandi fenomeni critici e culturali – il postmodernismo e il
multiculturalismo – hanno a mio parere svolto una funzione straordinariamente abilitante per la cultura canadese, soprattutto anglofona, e hanno
trovato nella città di Toronto il loro emblema. A partire dagli anni Settanta
ed in concomitanza con un acceso nazionalismo culturale, la letteratura
del Canada anglofono ha sviluppato un legame speciale con il discorso
postmoderno, trovando nell’ambiguità, nella coesistenza di storia e innovazione, nel pastiche come modello di creazione artistica il terreno fertile
per esprimere la propria idiosincratica visione del mondo. Dalla somma
dei discorsi del postmodernismo e della sua applicazione nel settore dei
diritti civili – il multiculturalismo, appunto – emerge in Canada nel corso
degli anni Ottanta e Novanta quello che Bhabha chiamerebbe la nazione
come forma di narrazione. E, pur rammentandoci che la letteratura non
produce effetti sociali, non possiamo comunque negare la base esperienziale
104
toronto: la città “ideale” tra postmodernismo e multiculturalismo
che essa ci offre per capire una cultura e le circostanze materiali ed ideali
che la costituiscono.
Verso la metà degli anni Settanta, come sostiene Linda Hutcheon,
era come se il Canada si fosse trasformato nel banco di prova per illustrare
i paradossi del postmodernismo. In particolare, l’elusività dell’idea del
postmoderno offriva un quadro concettuale ideale per la cultura nazionale
canadese e la debolezza del suo senso di identità nazionale, prestandosi
agilmente all’articolazione di un alto numero di utopie e distopie critico-politiche, dalle versioni di liberazione ed emancipazione di una certa
narrativa femminista e multiculturale, alle visioni apocalittiche di Margaret
Atwood, Audrey Thomas e Micheal Ondaatje. In altre parole, un elemento fondamentale per l’ascesa di Toronto al rango di “World City” è stata
appunto la sua letteratura: la Toronto multiculturale è sbocciata in pieno
postmodernismo trasformandosi, nella letteratura che ad essa si ispirava,
in una sorta di città immaginaria, scenario ideale in cui vedere applicate le
idee e i valori del futuro post-nazionale che si andava prefigurando.
Negli anni Ottanta, il postmodernismo canadese sembrava prediligere
il filone utopico, anziché quello distopico, della cultura contemporanea.
E questo probabilmente perché il postmoderno in Canada è stato sin dal
principio un fenomeno fortemente “fazioso”, in quanto è coinciso con
lo sforzo immaginativo di inventare un nuovo passato per una nazione
il cui cronico senso di inferiorità aveva fino a quel momento inibito tali
operazioni. Si trattava di un postmodernismo sui generis, quello che è stato
elaborato concettualmente da Linda Hutcheon in cui l’artista – non il
consumatore come direbbe Jameson – è il centro propulsore e il produttore
della nuova sensibilità. Inoltre, per l’enfasi posta sul concetto di differenza,
“il postmodernismo offre un contesto in cui capire il concetto di differenza
in un modo che è particolarmente pertinente per il Canada” (Hutcheon
1988, IX) e Hutcheon vede nelle potenzialità espressive del postmoderno
(autoreferenzialità, parodia, ironia) gli strumenti ideali per dare voce al
rapporto ambiguo che il Canada e i suoi abitanti hanno con il passato:
L’arte canadese (pittura, scultura, installazioni, video, performance, fotografia) è
fiorita nel contesto postmoderno, grazie almeno in parte alla concettualizzazione
storica che esso invoca. […] A differenza dell’arte o della letteratura moderniste,
105
simona bertacco
il postmoderno usa la propria tendenza verso l’autoreferenzialità come un modo
per porsi in relazione con il passato, generalmente attraverso l’ironia e la parodia,
e per coinvolgere il proprio pubblico. In Canada esiste quasi un embarras de
richesses, per il numero elevato di opere che ripensano la storia e il suo rapporto
sia con l’elemento estetico che con quello politico (ibid., XI).
All’interno di una prospettiva canadese, quindi, l’epoca postmoderna
sembra essere coincisa con una vera e propria liberazione dell’immaginazione creativa che corre sul binario parallelo dell’abbandono dei modelli
stranieri, oltre le problematiche della dipendenza coloniale, e della sterilità
del dibattito identitario.
Inoltre, se per la letteratura europea e statunitense, il modernismo
aveva segnalato un periodo di eccellenza a livello di espressione artistica,
in Canada aveva costituito nel migliore dei casi una fase di transizione.
Fino agli anni Cinquanta, infatti, le scrittrici e gli scrittori canadesi erano
ancora alle prese con il tentativo di asserire l’esistenza di una tradizione
locale che cercavano di accordare ai movimenti internazionali dell’epoca.
Nel rifiutare le convenzioni formali del modernismo, i primi postmoderni
canadesi cercavano anche di porre in discussione il ruolo prioritario della
cultura europea ed americana, e sia gli scrittori sperimentali che molti
critici interpretarono l’assenza di una fase modernista ben definibile nella
tradizione canadese quale punto di partenza per lo sviluppo di una letteratura e di una cultura autonome per il Canada contemporaneo, o – con
questa valenza particolare del termine – “postmoderno”.
Alla luce di questo sfondo, il postmodernismo canadese assume,
dunque, una pregnanza culturale del tutto particolare, rappresenta una
parte integrante dell’evoluzione culturale e politica del paese e si mescola
con i valori del postcolonialismo e del post-europeismo. Ad emblema della
percezione del nuovo stato delle cose e della nuova sensibilità si pone la
Toronto, per metà reale e per metà immaginata, degli scrittori. È una città
che assomiglia molto da vicino ad una delle città invisibili descritte da
Calvino, e la cui vita, scrive Maria Del Sapio, “coincide non tanto con la
sua realtà quanto con le sue potenzialità di rifrazione, con le capacità che
essa ha di far nascere dal catalogo delle forme esistenti altre sue possibili
forme” (Del Sapio 1988, 27).
106
toronto: la città “ideale” tra postmodernismo e multiculturalismo
L’impressione che si ottiene nel visitare Toronto come “WORD City”
oppure – nella Toronto materiale – passeggiando per le sue vie è che la città
si sia concessa nel corso della sua storia ai nuovi venuti come una pagina
bianca desiderosa di essere riscritta, una tabula rasa smaniosa di ricoprire
il proprio passato indigeno con le storie di chiunque la volesse eleggere a
propria casa, dai pionieri fino alle ondate successive di immigrati. Come
Robert Kroetsch ha scritto a proposito della forza ispiratrice dell’idea di
assenza nella cultura delle praterie (Cfr. Kroetsch 1989, 41), è stata l’assenza
di un simbolo unificante, di una cultura ufficiale condivisa da tutti, ovvero
di una “Grande Narrativa” nazionale che ha condotto all’attribuzione
differenziale di significato al termine “canadese”. Lo spazio di movimento
fornito da una tale situazione discorsiva è stato utilizzato nei decenni scorsi
dagli scrittori variamente definiti “minori”, “etnici” o “new Canadian”, a
volte in maniera problematica – come nel caso di Austin Clarke – altre volte
in maniera apertamente celebrativa – come nel caso della politica ufficiale
del multiculturalismo canadese e del suo marketing mediatico.
Il Canada è noto al mondo come una nazione multiculturale, uno
dei pochi paesi – se non l’unico – che ha istituzionalizzato il rispetto per
la differenza e legiferato in modo tale che, partendo dal riconoscimento
dell’assenza di una cultura ufficiale, la cultura nazionale non potesse che
risultare dal mutuo arricchimento delle diverse culture. Tuttavia, il volto
multiculturale del Canada ne nasconde un altro, essenziale per comprendere a fondo le complessità e le contraddizioni del multiculturalismo
canadese, vale a dire la doppia identità culturale del Canada – Quebec e
Canada Outside Quebec (COQ) come direbbe Charles Taylor (Cfr. Taylor
1992) – che relega tutti gli altri abitanti ad una condizione di alterità costitutiva e costituzionale. È a questa dualità originaria che si deve il livello
di accettazione di lingue e culture non anglofone nel COQ, ed è a questa
dualità che si deve il passaggio dal modello bi-culturale a quello multi-culturale come logica di “nation-building” (Berry & Laponce 1994, 9). In altre
parole, il multiculturalismo ha rappresentato un’alternativa liberale per, da
un lato, ‘mettere’ tutte le culture ad un medesimo livello, ma soprattutto
per contenere le aspirazioni separatistiche quebecchesi.
107
simona bertacco
Questo fenomeno è essenziale per capire il ruolo ambiguo di una città
come Toronto all’interno del panorama culturale canadese. In larga misura
l’identità culturale di Toronto è data dalla sua differenza da Montreal o
Quebec City, vale a dire dal suo non essere diventata una guarnigione di
mono-culturalismo (Cfr. Iyer 2000, 133). Infine, data la dominazione della
lingua inglese nel continente nordamericano, molti immigranti tendono
a collocarsi nel Canada anglofono e, se possibile, in città quali Toronto
e Vancouver. Non credo ci sarebbe stata una politica multiculturale già
nel 1971 se non ci fosse stato, a livello di politica interna, il movimento
centrifugo del Quebec da gestire in primo luogo.
Sfruttando questo contesto unico, Toronto, e significativamente non
Ottawa, è la città che più di ogni altra in Canada sembra parlare la lingua
del presente e del futuro post-nazione. Effettivamente dà il senso della
liberazione da griglie culturali rigide ed opprimenti, dà un’immagine ben
precisa alla convivenza pacifica di persone da moltissime parti del mondo e
– perché no? – della bellezza che tale incontro produce nelle nuove famiglie
inter-etniche. Una nota di idealismo pervade molti dei volantini turistici
su Toronto, una luce positiva risplende in gran parte della letteratura multiculturale che sembrano dire che ci sono delle potenzialità enormi dietro
la crisi dei concetti di identità e nazione. Ora, l’impressione che si riceve
leggendo il recente fenomeno della Toronto letteraria è che questo nuovo
scenario sia stato reso possibile anche dagli scrittori che sono riusciti ad
articolare, nelle loro opere, il volto post-nazionale del Canada, diventando
così centrali al dibattito culturale nazionale ed internazionale.
Chiaramente questo non significa negare la presenza del razzismo a
Toronto o in Canada: basta solo scendere dalla metropolitana nel quartiere
periferico di Scarborough, o leggere le pagine di cronaca sul Globe and Mail
o andare a Kensington Market per pranzare in uno dei tanti ristorantini
giamaicani dove si distribuiscono i bollettini della comunità caraibica per
avere un’immagine diversa dello stato delle cose. Il razzismo ha sempre fatto
parte della storia canadese, ma a differenza che negli Stati Uniti – dove il
discorso razziale si è articolato prevalentemente come opposizione binaria
tra “bianco” e “nero” – i rapporti razziali canadesi si sono sviluppati lungo
delle linee razziali mobili (Cfr. Padolsky 1998, 24), a seguito dei vari cam108
toronto: la città “ideale” tra postmodernismo e multiculturalismo
biamenti nelle politiche di immigrazione e nelle pratiche di discriminazione
verso ora uno ora un altro gruppo di immigrati (le popolazioni native, gli
ebrei, i cinesi, i giapponesi, gli italiani, i caraibici, gli africani, ecc.).
Un notevole iato esiste tuttora tra l’ideale della politica multiculturale
e l’ideologia del pluralismo culturale attuato in Canada oggi che spesso
finisce per rafforzare proprio gli stereotipi e le tendenze di marginalizzazione
che sarebbe chiamata a contrastare. Lo scrittore di origine indiana Arnold
Itwaru scrive che “il Canada, la società multiculturale, è un’invenzione
dalle proporzioni oscene” (Itwaru 1990, 20). Eppure questa invenzione ha
creato molto dello charme di Toronto e della sua letteratura più recente.
Concludendo con le parole di Dionne Brand: “la città si sta colorando
in bellezza. In modo strano, sta diventando una città piena di speranza”
(Brand 1994, 77).
Le traduzioni di tutte le citazioni di questo saggio sono mie.
bibliografia
Ball, John, “White City, Black Ancestry: The Immigrant’s Toronto in the Stories of Austin
Clarke and Dionne Brand”, Open Letter, 8.8, 1994, pp. 9-19.
Berry, J.W. and J.A. Laponce, Ethnicity and Culture in Canada: The Research Landscape,
Toronto, University of Toronto Press, 1994.
Bhabha, Homi, The Location of Culture, London, Routledge, 1994.
Brand, Dionne, “Interview with Dagmar Novak”, in Other Solitudes: Canadian Multicultural
Fictions, a cura di Linda Hutcheon & Marion Richmond, Toronto, Oxford University
Press, 1990, pp. 271-277.
Brand, Dionne, Bread Out of Stone, Toronto, Coach House Press, 1994.
Calvino, Italo, Le città invisibili, Torino, Einaudi, 1972.
Clarke, Austin, Nine Men Who Laughed, Marham, Penguin, 1986.
Clarke, Austin, “Canadian Experience”, in Other Solitudes: Canadian Multicultural Fictions, a cura di Linda Hutcheon & Marion Richmond, Toronto, Oxford University Press,
1986/1990, pp. 49-63.
Clarke, Austin, “Beggars”, in There Are No Elders, Toronto, Exile Editions, 1993,
pp. 63‑80.
109
simona bertacco
Clarke, Austin, “In an Elevator”, in There Are No Elders, Toronto, Exile Editions, 1993,
pp. 46-62.
Clarke, Austin, “When the Bough Breaks”, in There Are No Elders, Toronto, Exile Editions,
1993, pp. 9‑28.
De Sapio, Alice nella città, postfazione “L’icona e il teleschermo di Carlo Pagetti”, Pescara,
Tracce, 1988.
Fagan, Cary, Introduction, in Streets of Attitude: Toronto Stories, a cura di Cary Fagan &
Robert MacDonald, Toronto, Yonge & Bloor, pp. 6-7.
Fulford, Robert, Accidental City: The Transformation of Toronto, Macfarlane Walter &
Ross, 1995.
Fulford, Robert, The National Post, August 24, 2000. http://www.robertfulford.com/
Ravines.html
Gerecke, Kent (a cura di), The Canadian City, Montreal, Black Rose Books, 1991.
Huggan, Graham, The Post-Colonial Exotic: Marketing the Margins, London, Routledge,
2001.
Hutcheon, Linda, The Canadian Postmodern: A Study of Contemporary English-Canadian
Fiction, Toronto, Oxford University Press, 1988.
Hutcheon, Linda, Introduction, in Other Solitudes: Canadian Multicultural Fictions, a
cura di Linda Hutcheon & Marion Richmond, Toronto, Oxford University Press, 1990,
p. 1-16.
Itwaru, Arnold Harrichand, The Invention of Canada: Literary Text and the Immigrant
Imaginary, Toronto, TSAR, 1990.
ords: Essays Selected and New, Toronto, Oxford
Kroetsch, Robert, The Lovely Treachery of W
University Press, 1989.
Padolsky, Enoch, “Ethnicity and Race: Canadian Minority Writing at a Crossroads”, in
Literary Pluralities, a cura di Christl Verduyn, Peterborough, Ontario, Broadview Press,
1998, p. 19-36.
Taylor, Charles, Multiculturalism and the ‘Politics of Recognition’, Princeton, Princeton
University Press, 1992.
Wiwa, Ken, “Yonge and Restless” Saturday, August 4, 2001. http://www.theglobeandmail.
com/series/yonge/story.html
Wolfe Morris & Douglas Raymond, introduction, in Toronto Short Stories, a cura di Wolfe
Morris & Douglas Raymond, Toronto, Doubleday Canada Ltd, pp. VIII-XIV.
110
Toronto: le nuove sfide della città globale
franca bernabei
Università Ca’ Foscari di Venezia
La nozione di città globale è oggi al centro del dibattito di varie discipline che ne sottolineano il ruolo strategico nella scena mondiale a livello
economico, politico e sociale. Per città globale Engin F. Isin intende una
“città-regione globale” che rappresenta il passaggio dalla metropoli, e cioè
la città dominante circondata da città, cittadine, villaggi economicamente
e socialmente integrati, secondo un modello che si è affermato durante
il periodo 1921-1971, alla cosmopoli, ovvero una regione urbana policentrica, una metropolis unbound, ancora polis ma a crescita incontrollata
e transnazionale. Includendo anche Toronto in questa definizione, lo
studioso canadese sottolinea dunque da un lato la sua dispersione spaziale
e dall’altro la sua integrazione in una rete di flussi e di beni di consumo,
servizi, capitale, lavoro, immagini e idee che eccedono la sovranità del
singolo stato.1
Ma, nella misura in cui la globalizzazione comporta uno sfondamento di confini, e la creazione di nuove frontiere transnazionali, essa
produce anche spazi eterogenei, ineguali, contraddittori e conflittuali. In
quest’ottica, Saskia Sassen, la nota studiosa della “economia informale”,
puntualizza come nella città globale trovino il terreno strategico per le
loro operazioni due tipi di “attori non-statali”: il capitale globale, supervalorizzato, e la componente, svalorizzata, ma sempre più emergente, di
immigrati, minoranze, rifugiati. Entrambi questi attori, in crescente contrapposizione, contribuiscono alla denazionalizzazione dello spazio urbano
e alla espressione di rivendicazioni, spesso diasporiche, che prospettano
una nuova “geografia della centralità”, una nuova politica transnazionale.
Secondo Sassen, infatti, in questi nuovi spazi creati dalla globalizzazione
le distinzioni familiari tra centro e periferia, Nord e Sud, Primo e Terzo
Mondo, non reggono più, perché queste realtà coesistono e nuove gerarchie
111
franca bernabei
attraversano tutte le regioni del mondo, che non può più essere diviso in
zone territoriali separate.2
D’altro canto, se a livello globale, argomentano Isin e Wood, il
dibattito riguarda la democrazia e la cittadinanza cosmopolita, a livello
subnazionale si afferma il ruolo della città nella democrazia, in quanto
i cittadini si costituiscono in forza non di diritti e obblighi legali ma di
pratiche sociali.3 Emergono così nuovi gruppi politici che reclamano nuovi
tipi di diritti o cercano di espandere i moderni diritti civili, politici e sociali.
E se il rischio è la divisione e la tensione tra i vari gruppi, le città globali
sono comunque spazi in cui il significato e il contesto della cittadinanza
si formano e si trasformano; dove globalizzazione (come sconfinamento) e
postmodernizzazione (nel senso di frammentazione e formazione di varie
identità di gruppo) sono attuate e contestate.
L’urgenza di queste complesse (e contingenti) problematiche emerge
anche dalle dinamiche spaziali e discorsive di alcuni testi letterari, che, focalizzandosi su Toronto, non solo esprimono diversi modi di pensare la città
globale ma incalzano a pensare – tramite la città globale (Isin 2000,13) – nuove articolazioni e richieste di riconoscimento, di partecipazione e appropriazione della sfera pubblica. In questi testi, inoltre, la specificità spaziale
dell’urbanesimo come esperienza di vita individuale e collettiva definisce il
passaggio da una visione (anglo-canadese) del diritto alla città-metropoli
come atto di rifondazione di una nazione unificata e multiculturale, capace
di capitalizzare le sue varie componenti nazionali ed etniche, a una visione
diasporica che rivendica lo ius migrandi e che sembra perlomeno alludere
al diritto delle minoranze alla cosmopoli – intesa come globalizzazione
dello spazio urbano che si produce e riproduce attraverso trasformazioni
e differenziazioni ai confini tra le culture e “oltre” la nazione.
terra di nessuno
Gwendolyn MacEwen, scrittrice anglo-canadese nata a Toronto
(1941‑1987), poliglotta, fortemente attratta dalla critica archetipica di
Northrop Frye e dalla psicologia junghiana, dal pensiero mitico e dal
misticismo esoterico ebraico, oltre che dai testi alchemici e gnostici,
112
toronto: le nuove sfide della città globale
pubblica nel 1985 Noman’s Land,4 un romanzo, o sequenza di racconti,
che rispecchia il suo proposito di esplorare, da una prospettiva estraniata
e universalizzante, l’enigma poliedrico dell’identità nazionale. Il protagonista-eroe archetipico, Noman appunto, dopo essere sbucato fuori da una
foresta a Kingsmere, vicino a Ottawa, è bruscamente immesso, sperduto,
senza memoria, vestiti e documenti di identificazione, nella topografia di
una “strana città” che non (ri)conosce. Come spiega a Kali, la donna di
origine Mohawk, ma affascinata dall’India, che ha dato un passaggio nella
sua macchina e offerto ospitalità a Toronto a quello che lei stessa interpella
come “straniero”, i suoi bisogni sono “semplici”:
“Non voglio fortuna. Voglio un passato, voglio un secondo nome, un numero di
assicurazione sociale, un’anima”.
“Tu hai già un’anima”.
“Non ho mai fatto la sua conoscenza. Le anime sono merce a buon mercato. Io
voglio mandare in pezzi questa finestra, voglio volare, voglio scrivere un seguito
all’Odissea, voglio morire, voglio attraversare a nuoto il lago, voglio infrangere
tutte le regole esistenti e poi farne delle nuove per infrangere anche quelle, voglio
inventare l’elettricità […]” (43)
La risposta di Kali, che in realtà fa parte della vita precedente di Noman, e
condivide la dimensione mitica e paradossalmente molteplice del suo non
sconosciuto compagno, è altrettanto disarmante: “Puoi fare tutto quello
che vuoi, allora… La città ti aspetta”. E, infatti, solo alla fine delle sue
peregrinazioni urbane, a cui Kali ha simbolicamente dato l’avvio, questo
Ulisse-Nessuno-Ognuno dall’incerta nazionalità, questo “essere plurale
dalle molte vite” (120), e dai mille passati (48), “che mette in scena i suoi
inesauribili atti di sparizione, ma che ritorna sempre, dopo lunghissime
pause, con il suo sfolgorante sorriso e la sua sfolgorante amnesia” (120)
sarà in grado di comprendere appieno il significato delle parole dell’amica: “C’è un altro paese, sai, ed è all’interno di questo” (42). “Questo” è
definito, fin dal titolo del primo capitolo-racconto, come “il paese più
desolato del mondo”, mentre il suo nome, scritto nel testo e “pronunciato”
testardamente da Noman con la K, sembra sottolineare la sua sommersa,
alternativa, sincronica miticità.5
113
franca bernabei
La prima immagine di Toronto, che Noman contempla dall’alto dell’appartamento in cui è andato ad abitare, è quella di un festival chiamato
Caravan:
Si poteva iniziare la giornata con i soliti corn flakes, guardare ballerini indigeni che
piroettavano e percuotevano tamburi tutta la mattina, mangiare falafel libanese a
pranzo, comprare ricami russi e bambole spagnole al pomeriggio, cenare a base di
pasta italiana e Brio, andare a vedere danze ungheresi alla sera e concludere con la
cucina cinese a mezzanotte, il tutto avendo visto soltanto uno o due anglosassoni
di circostanza per l’intera giornata. Non si riusciva ad immaginare in quale paese
ci si trovasse; era perfettamente kanadese. Era magnifico. Non si era mai sentito
così solo. (45)
Qui lo straniero-voyeur si confronta a distanza colla con-presenza
spaesante di differenti pluralità culturali, “altre” rispetto alla sparuta costituente anglo-sassone, ciascuna rappresentata e racchiusa in se stessa dalla
specificità di quel sottile montaggio di gesti, riti e codici, di ritmi e scelte,
di usanze ricevute e di costumi osservati6 attraverso cui si esprimono le
pratiche alimentari delle varie etnie. La sua allucinata alienazione, l’assenza
di parametri di riferimento individuali e nazionali, è confermata quando
affronta, “dal basso” e in orizzontale, la dinamica spaziale della città,
esplorandone a piedi le strade e immettendosi nel suo sistema semiotico di
segni e comportamenti. Solo, e afflitto da una “orribile visione inclusiva, la
dolorosa capacità di vedere tutto allo stesso tempo. Così l’oscurità a fianco
del bagliore […]” (46), Noman attraversa una città socialmente e culturalmente eterogenea le cui varie componenti, impegnate nella quotidiana
performance che è la vita urbana, non lo conoscono o riconoscono:
E nessuno lo conosceva; la donna con i tacchi alti che passeggiava sicura su e giù
per la città, in stivali di camoscio color porpora… non lo conosceva; i Greci, che
trascinavano con sé l’insostenibile peso della loro esistenza, non lo conoscevano;
la donna che chiamavano la “regina svedese”, che portava dei pantaloni rosa stile
harem, eccentrici gioielli e, a tracolla, una fascia dorata con su scritto SOCIALISMO, non lo conosceva; i Cinesi e i Giamaicani, gli Ungheresi e i Filippini non
lo conoscevano; le prostitute non lo conoscevano…
Percorse a piedi tutta la città, rivolgendosi a venditori di pop-corn provenienti
da luoghi come Lisbona, Gibilterra, Corinto, a giovani venditori di giornali, a
114
toronto: le nuove sfide della città globale
postini e spazzini […] Alla fine fu certo che nessuno lo conosceva. E perché mai
avrebbero dovuto? Il mondo era loro – o si sbagliava? Erano soli anch’essi? Magari
questa città era l’approssimativo diagramma della realtà di qualcuno o forse un
puro miraggio? (46)
Città carrozzone, città spettacolo, città miraggio, prodotto e produttrice di pratiche spaziali singolari, di gestualità e impersonificazioni ostentate,
di fuggevoli convergenze, di differenze che rimangono tali nonostante la
loro contiguità, Toronto è per Noman anche la città dei Carnevali che
periodicamente autorizzano le varie minoranze a occupare con le loro
licenze ed “eccessi” festosi lo spazio pubblico, rovesciandone la consueta,
quotidiana funzionalità:
Ma la città era un continuo carnevale. Si girava l’angolo e prima o poi ci si ritrovava di fronte quello che suonava il tamburo o quello che ballava e cantava
tirando i magnifici carri di Lord Jagannath. Oppure c’erano i Cinesi con uno dei
loro festival del drago o i Mistici Templari vestiti da antichi Egizi o i Turchi che
sfilavano in corteo. Quel giorno c’era musica che veniva da un isolato più avanti.
Svoltò e in un lampo la strada si riempì di magici bambini neri con palloni e rose
di carta in mano. La musica gli cacciò dalla mente ogni pensiero. Era una banda di
strumenti a percussione improvvisati, che faceva uscire una melodia dalle budella
di tamburi metallici – il corteo Caribana degli Indiani occidentali. Ballerini con
lustrini sulle sopracciglia comparivano dal nulla […] (68-69)
In realtà, l’incontro di Noman con l’invasione rituale di parate,
maschere, travestimenti, suoni e colori che esibiscono vistosamente il
tempo fuori tempo e lo spazio autonomo della festa etnica, si affianca
senza particolare soluzione di continuità alla rappresentazione complessiva
di Toronto come “un luogo favoloso e terrificante” (43) dove è possibile
contemplare dalla finestra di casa “un albero magico – Ygdrasil” (44) e
bambini meravigliosi che vivono in un mondo fantastico:
Meravigliosi bambini avevano segnato tutto il marciapiede di gesso bianco e
porpora per giocare alla campana. Dopo il tramonto i ragazzini non sedevano
sui bordi dei marciapiedi, perché allora l’asfalto nero diventava un fiume e una
cosa chiamata Orca lo discendeva per mordere loro i piedi. Era magnifico; non
c’erano limiti al mondo. (45)
115
franca bernabei
In altre parole, sottolineando l’aspetto spettacolare e fantasmagorico
della differenza culturale, MacEwen la inserisce in una epistemologia urbana sincretica e mitopoietica in cui l’assenza di limiti, lo sconfinamento
tra realtà e immaginazione, norma ed eccezione, quotidianità e miracolo,
costituiscono il paradigma conoscitivo dominante. Se per Aristotele la
filosofia nasce dalla meraviglia, lo sguardo recettivo e non “naturalizzato”
dello straniero/esploratore, è, come quello del filosofo, capace di stupirsi
e penetrare con il suo stupore la concreta e al tempo stesso portentosa
topografia di Toronto:
Ma, nonostante tutto, la sua era una vita fortunata. Spesso si ritrovava in qualche
via sconosciuta a guardare stupefatto come, d’un tratto, tutto ai suoi occhi cominciasse a brillare e risplendere di uno spaventoso fulgore. L’allucinata presenza
delle cose. Gli alberi, l’erba, il marciapiede sembravano sul punto di confessare a
lui e a lui soltanto i loro luminosi segreti. Di fronte al meraviglioso riusciva solo
a scuotere la testa, mormorando ma guarda un po’, guarda un po’, mentre una
sorta di delizioso terrore lo assaliva e qualcosa, che lui chiamava fuoco di Dio, lo
consumava. (45-46)
Un esempio di questa visione multidimensionale dello spazio sociale,
ancora una volta filtrata attraverso la prospettiva “spettatorialmente” ermeneutica di Noman, lo troviamo in occasione dell’incontro del protagonista
con Spiros Ikaris, un immigrato greco (incarnazione di Icaro?) che gestisce
un ristorante a Danforth Avenue.
Camminava lungo Danforth Avenue, qualche giorno prima della Pasqua greca, e
ovunque nelle macellerie pendevano capovolti giovani agnelli, che gocciolavano
sangue sulle bistecche e le costate di vitello e sul ghigno delle teste dei maiali.
I Greci passeggiavano nei loro costosi abiti confezionati su misura, con vistose
cravatte e magliette color pastello (il loro termine per abito era “costume”), ed
enormi anelli e gemelli d’oro. Le donne facevano mostra dei loro splendidi bambini, prima rimproverandoli con voci stridule e poi afferrandoli e stringendoli a
sé fino a togliergli il respiro. I bambini si fermavano in estasi davanti alle vetrine
dei negozi, a guardare caramelle e finti coniglietti e agnellini, e le uova rosse blu
e verdi in cesti foderati di centrini e carta argentata. In una vetrina c’erano un
uovo della misura di un pallone e un municipio alto più di un metro modellato
in cioccolato fondente. In un’altra c’erano un cavallo fatto di perle di gelatina,
116
toronto: le nuove sfide della città globale
un dolce a forma di bibbia ed un altro a forma di Boeing 767, con la scritta AIR
KANADA di glassa rosa brillante lungo i fianchi. (51)
La visione “terribilmente inclusiva” dell’outsider coglie l’“oscurità” e
il “bagliore” di un quartiere etnicamente coeso, saturato di gestualità, di
stili di vita, di riti culinari e pratiche alimentari residuali, oltre che di antiche strutture concettuali e comportamentali, alcune delle quali sono rese
pubbliche e messe in mostra alla stregua delle carcasse insanguinate degli
animali o delle ghiottonerie che ammiccano dalle vetrine, e altre rimangono
più implicite e oblique. Iscrive nella mappa di Toronto lo spazio sociale
di una comunità immigrata che, grazie alla sua attività di home-building
(costruzione della casa) e place-making (costituzione del luogo)7 si è visibilmente situata nella città, e contemporaneamente ne rileva la “presenza
allucinatoria”, sospesa tra la volontà collettiva di non dimenticare l’origine
e la consapevolezza della cesura del viaggio e della necessità di una nuova
lealtà politica (come attestano nella loro disarmante, iperreale evidenza, le
riproduzioni, affiancate l’una all’altra, del municipio e dell’aereo).
È nel contesto di questa intricata modalità di esistenza urbana, e della
registrazione della sua discrepante attestazione di appartenenza nazionale,
che si svolge l’incontro tra i due “stranieri”. Spiros spiega allo sconosciuto di
sentirsi alienato da una nazione che, a suo dire, discrimina i suoi cittadini.
“Ho la cittadinanza Kanadese eppure sono uno straniero” (53), afferma,
perché tutti lo chiamano il Greco, ignorando le antiche connessioni tra
estraneità e ospitalità che il termine racchiude etimologicamente in sé.
D’altro canto, “il Greco”, sospeso come Ibrahim, un immigrato siriano
che si sente esiliato a Toronto, tra la fuga e l’origine, sembra coltivare la sua
ferita segreta, il suo fanatismo dell’assenza, la sua passione della solitudine,
convinto, come sostiene Kristeva, di essere il solo ad avere una biografia,
cioè, una vita fatta di traversie.8
“Voi che siete nati in libertà non potete sapere quel che abbiamo passato noi per
ottenere la libertà”. (51)
“Voi Kanadesi non avete sofferto. Noi Greci siamo perseguitati dai nostri morti…
Non ci sono fantasmi qui perché non c’è passato. Questo paese è un altro paio di
maniche, un cavallo di colore diverso, come dici tu. Allora perché rimango qui,
117
franca bernabei
mi chiederai? Odio restare qui, eppure non me ne vado. Resto finché il mio paese
comincerà a tramutarsi, nella mia mente, in un sogno e dico sempre di voler tornare
a casa, ma non ce la faccio mai. Forse ho paura che ritornando indietro, come
hanno provato a fare alcuni miei amici, la verità sarebbe così diversa dai sogni da
costringermi a tornare qui, a questo freddo, questo vuoto…”. (52)
Poco dopo, dimostra di aderire in pieno (e qui sono evidenti i sottintesi
ironici della autrice) alla nota visione “smitizzante” del Canada: “Non stai
ridendo… È perché, come tutti i Kanadesi, non hai senso dell’umorismo.
Ah, che paese. Senza fantasmi, né storia, né passato. Niente umorismo, né
mistero, né magia. Solo questo freddo, questo vuoto…” (53). “Non ci sono
miracoli qui. E neppure autori di miracoli” (54). Ma il suo interlocutore
contraddice queste certezze. Innanzitutto, anche se non riesce a convincerlo, gli spiega: “Sono più straniero di te e sono kanadese. Forse sono
l’unico vero straniero qui” (52). Enfatizzando il motivo dello straniero, o,
in questo caso, del citizen/national (il cittadino iscritto in virtù della nascita
nella nazione) come straniero, Noman sembrerebbe avvallare le parole di
Jubilas, un suo amico, che, paragonando a una torre di Babele Honest
Ed’s, “quell’enorme e assurdo magazzino che vende merci all’ingrosso”
favorito dagli immigrati, osserva: “è terrificante, probabilmente siamo
gli unici parlanti inglese qui, d’un tratto so come ci si sente ad essere in
minoranza” (84). A proposito di Noman, Jubilas poi rileva:
Omph ed io passavamo ore a cercare di capire chi fosse veramente e quale nazionalità avesse – russa o spagnola, greca o albanese, araba o ungherese o gitana o,
chissà, forse addirittura franco-kanadese, il che vale a dire più straniero di qualunque altro […] E nemmeno si comportava come gli altri stranieri – gli Italiani
che insistevano ancora su qualche vecchio problema dell’antica Roma, i Greci che
il problema l’avevano risolto, ma non riuscivano a dimenticarlo, gli Arabi che si
accusavano reciprocamente di accusarsi, i Portoghesi che si rimproveravano di
esistere, i Cinesi che ridevano per niente, gli Ungheresi che mangiavano pepe rosso
e giallo e discutevano di libri. Le cento e ottantanove Solitudini. (84)
Se qui Jubilas, chiaramente animato da pregiudizi “monistici”, denuncia il fallimento babelico di una società/nazione immaginaria, frammentata
in componenti culturali individuali, separate da storie e geografie diverse e
incomunicabili, inabili a formare una comunità organica, egli mette anche
118
toronto: le nuove sfide della città globale
in rilievo come la “strana esteriorità”9 se non l’indicibilità, di Noman si
collochi in una dimensione fantasmatica che esula dal rapporto societario
tra maggioranza e minoranze. E infatti, la sua sconcertante estraneità emerge più scopertamente quando si congeda da Spiros operando un miracolo
che dà realtà materiale al segno linguistico: riflesso nello specchio del suo
locale il Greco vede così “un enorme cavallo, purpureo come le lontane
montagne di Creta al tramonto, quieto come una nuvola notturna, avvicinarsi al banco su cauti zoccoli di velluto” (54). In altre parole, Noman
è lo straniero in quanto struttura profonda e necessaria dell’inconscio
individuale e nazionale, e in questa sua veste segretamente ospitale accoglie
Spiros, il cittadino che non appartiene, in quel Kanada sommerso che egli
non è in grado di percepire, vittima e perpetratore, come lo sono in tanti,
delle stereotipizzazioni culturali della differenza.10
Come spiega Kali, la donna che, prima di legarsi a Noman, aveva
amato esuli e stranieri, ricongiungendoli, lei che era indigena, alle loro
terre, mentre questi le rivelavano “i molti Kanada riflessi nei loro occhi”,
Noman era “più straniero di tutti, in quanto non veniva da fuori, ma da
dentro il paese” (120). Su questa reciproca, irriducibile e fondante alterità,
che l’uno e l’altra si sono donati, si è radicata la complementarità del loro
rapporto:
Il tempo ci aveva giovato, salvaguardando i nostri io, le nostre identità distinte,
consentendo ora di presentarci reciprocamente i nostri mondi distinti e complementari. Nessuno di noi ha mai affermato di “conoscere” l’altro; l’idea ripugna
ad entrambi. Ci offriamo l’un l’altro il dono incommensurabile dei nostri misteri
– perché cos’abbiamo da donare, in fondo, se non l’enigma di noi stessi? […]
(Dunque non voglio conoscere lui, ma quello che non è, tutte le persone che non è,
tutti i luoghi in cui non lo si può trovare. I contorni delle sue assenze. Lo definisco
solo per difetto, come dovete fare anche voi, e come farete). (121-122)
Inoltre, è proprio grazie alla sua paradossale “esteriorità” rispetto al
contesto, e alla sua capacità stralunata di vedere tutto, di esoticizzare la
città multietnica11 e percorrerla non solo orizzontalmente ma anche in
verticale, archeologicamente, nella sua compresenza simultaneamente
mitica e concreta di tradizioni “multilineari”, che Noman, mago, trickster,
119
franca bernabei
bardo ed esploratore (Mengo 2003-4, 104-151) (ri)scopre (ricorda) man
mano il proprio sconosciuto paese. A differenza di quanto poteva ritenere
Spiros, la città/nazione canadese ha il suo passato, i suoi fantasmi, il suo
mistero. Il passato di Noman, la terra straniera che riaffiora in superficie, è
stratificato come quello di Toronto, la città-sito della memoria: “Il passato
era un luogo dove i giochi venivano fatti con una serietà mortale, la terribile
arena dell’infanzia […] Il passato era un luogo con delle piscine, in cui
d’estate nuotava ogni giorno […] Il passato era la città segreta e misteriosa,
la città dentro la città, la città dei vicoli e delle piscine e la città in riva al
lago” (96-97) – riva i cui padiglioni assumono, a seconda dell’osservatore, le
sembianze di castelli medievali o templi bizantini (123). E il lago, “che era
indifferente al tempo” e “rigettava spesso sulle sue spiagge strani relitti del
futuro quanto del passato” (97) è infatti l’ultimo, decisivo, spazio-tempo
da attraversare, come Noman farà a completamento della sua quest, dopo
aver danzato “uno spettacolare zembekiko, quella danza tragica, inquietante, fiera, giuliva, difficile a ballarsi, una danza della vita e della morte”
in un nightclub greco chiamato Ithaki (131). Ritrova così “l’altro paese”,
il “paese più eccitante e misterioso al mondo, con il passato alle spalle e i
futuri alternativi in attesa davanti a lui” (140). Quando gli viene chiesto
il perché di questa traversata, la risposta è semplice: “Era l’unica via che
conoscessi per ritornare a casa” (141).12
In ultima istanza, per “ritornare a casa”, Noman deve non solo riconcettualizzare la topografia di Toronto, aggiungendo altre configurazioni
nella mappa (alterità, mito, memoria, archeologia, immaginazione, magia)
ma letteralmente uscire dalla mappa per trovare, nella solitudine della
foresta e dell’acqua che incorniciano la sua avventura urbana, la traccia
mnestica della sua fantasmatica identità. Non per niente la CN Tower,
il monumento più rappresentativo dell’orgoglio civico e tecnologico di
Toronto, della sua iconografia metropolitana, è inizialmente svuotato ai
suoi occhi di qualsiasi potenza architettonica e simbolica: “Si mise a contemplare la Torre – la più alta struttura autoportante al mondo – ed essa
scintillava nell’aria grigia, un monumento al nulla, una navicella spaziale
che non sarebbe mai decollata, un razzo senza piattaforma di lancio” (46).
La ragione di questo vacuo, inane luccichio sta nella stessa storia dell’inse120
toronto: le nuove sfide della città globale
diamento (e qui è ovvio il richiamo alla nota tesi di Northrop Frye, per cui
l’edificazione delle città canadesi aveva rappresentato, da parte dei settlers,
un’arrogante manifestazione di conquista della natura e un arroccamento
difensivo nella “mentalità da guarnigione”13):
Non sapevano chi fossero, così vennero a costruire queste grandi città in territori
desolati. Continuarono a trovarli vuoti, e così, nel vuoto, eressero questa torre. Erano
talmente soli che non sapevano di esserlo, forse addirittura più soli di me. (46, corsivo
nel testo)
La presenza della torre nel paesaggio urbano è, inoltre, intrusiva,
arrogante, addirittura oscena:
Era un giorno luminoso e la Torre era presente più che mai, perforandogli la visuale,
causandogli un dolore nel lato est della testa, rubando un pezzo enorme di cielo
alla sua vista. Aveva qualcosa di decisamente osceno; era una sorta di dito medio
alzato al resto del mondo. Non era, come credevano alcuni, un monumento al
futuro, ma al passato. L’odiava. Le torri potevano solo sminuirti e umiliarti. (Aveva
letto che, a costruzione ultimata, gli operai avevano celebrato l’evento pisciando
giù dal punto più alto su tutta la metropoli). (68)
Dalla prospettiva finale del lago, dove il Noman nuotatore-esploratore
si appresta a rivendicare la nuova terra scoperta “in nome di tutto ciò che
è prodigioso e vero” (140), e, dunque, da questa ricostituita topografia
della memoria, la Torre si riconfigura invece come indispensabile punto
di riferimento. Quello che ora la sua solitaria presenza sembra segnalare è
l’accoglienza dell’estraneo che è in noi come condizione ultima del nostro
essere con gli altri: “un nuovo cosmopolitismo che scavalcando governi,
economie e mercati possa operare per un’umanità la cui solidarietà si fondi
sulla consapevolezza del suo inconscio” (Kristeva 1991, 192).
non c’è una nuova terra?
Alla Toronto straniata, magica, esoticizzata, della MacEwen, nella
cui rappresentazione le politiche e le geografie della razzializzazione e del
razzismo,14 così come le dimensioni politiche e sociali della cittadinanza
sono scavalcate da una visione primariamente mitopoietica e celebrativa
di una inclusiva molteplicità culturale, si contrappongono le “metropola121
franca bernabei
rità” e la “fratturata geometria sociale” (Soja 2000, 265) della Toronto che
M.G. Vassanji ci presenta nel suo romanzo No New Land (1991).15
Scrittore immigrato, nato in Kenia e cresciuto in Tanzania, ma di
origine asiatica, Vassanji appartiene a una comunità caratterizzata da una
lunga storia di dislocazione, e risente, egli stesso, di una pluralità di filiazioni
e affiliazioni.16 In un suo editoriale pubblicato una quindicina di anni fa ha
giudicato il “mosaico” canadese “un espediente per l’assimilazione” bianco,
rivendicando per la sua produzione il diritto di essere definita canadese
anche se ambientata prevalentemente in Africa e incentrata sul suo gruppo
etnico.17 E, a proposito di No New Land, e della sua contestualizzazione
a Toronto, ha specificato che “la venuta di queste persone non riguarda
solo il Canada; esse portano con sé i propri intricati passati”.18 Sullo spazio
conflittuale e segregato dell’etnicità e della sua “razzializzazione”, oltre che
sulle differenziazioni che producono e mantengono l’ineguaglianza socioeconomica, compromettendo il diritto alla presenza (Castles & Davidson
2000, 95) degli immigrati, si focalizza appunto la sua epistemologia urbana.
I personaggi del romanzo, membri di una comunità asiatica proveniente
dall’Africa orientale, vivono a Don Mills, la prima new town di Toronto
costruita tra il 1952 e il 1962, in un caseggiato situato a Rosecliff Park.
Questo insediamento, un tempo simbolo della prosperità e dell’espansione
metropolitana, ha perso il suo lustro originario ma costituisce ancora un
chimerico oggetto di desiderio che alimenta sogni di migrazione negli amici
e nei parenti rimasti in Tanzania, dove i processi di nazionalizzazione e
africanizzazione successivi all’indipendenza hanno radicalmente cambiato
le condizioni di vita della componente indiana. Anche per chi vi abita, è
difficile sottrarsi al fascino del sogno coltivato a distanza:
Rosecliff Park Sessantanove. Il nome ha ancora un’eco romantica, esotica, da libro
di fiabe. A volte è difficile credere di essere qui, a questo indirizzo, seduti all’interno,
a pensare questi pensieri, circondati dal lusso: la moquette, i divani, il telefono,
il frigorifero, la televisione – sì, lussi secondo gli standard di Dar – cose che non
si sarebbero potute possedere nel corso di tutta una vita. (59-60)
In realtà, qui si manifestano tutte le ambivalenze sia della condizione
diasporica che della politica multiculturale sponsorizzata dallo stato, che
porta da un lato alla istituzionalizzazione e dall’altro alla interiorizzazione,
122
toronto: le nuove sfide della città globale
da parte dei suoi “quasi- cittadini” (Castles & Davidson 2000, 94-97), di
vari tipi di confine.
Non assimilati o integrati, gli immigrati di Dar19 hanno fatto del
caseggiato di “Sixty-nine Rosecliff Park Drive” un “villaggio verticale” (60)
auto-sufficiente, controllato dalla operatività di una economia localizzata
e informale che consente di guadagnarsi da vivere o usufruire dei suoi
servizi senza uscire dal suo ambito. Distribuita nei diversi piani, e
basata su un principio di iniziativa individuale che consente tuttavia
l’organizzazione collettiva di uno spazio sociale, questa economia è in
grado di provvedere ai bisogni quotidiani di duecentoquaranta famiglie
(“Venti piani […] Dodici abitazioni per piano – fanno duecentoquaranta
famiglie – l’equivalente di tre grandi caseggiati di una strada qualsiasi di
Dar”) etnicamente differenziate (“Qui si mescolano una dozzina di razze,
che conoscono almeno altrettante lingue” [60]). Viene così assicurata una
serie di prestazioni che comprendono la preparazione casalinga e vendita
di pasti completi e chappatis, l’allevamento di galline dell’Ontario per la
produzione di carne halal, babysitting e housesitting, lezioni di Corano,
consulenza medica e legale, etc.
Nonostante gli inevitabili adattamenti alla nuova collocazione (la preparazione dei pasti da portar via avviene senza l’aiuto della servitù di cui si
poteva usufruire in Africa, le pietanze sono messe nei contenitori del gelato
o nei vasetti dello yogurt, i chappatis vengono mangiati con “un sottaceto, o
burro e marmellata, o curry inscatolato negli USA” [60-1]) il cibo, soprattutto, sembra costituire non solo un collante intra-culturale ma anche un
agente di mediazione inter-etnica. Mentre il suo apparato di “scene, suoni,
odori, anche troppo reali e concreti” si diffonde per il corridoio comune
a ricordare che “non ci si è ancora veramente lasciati Dar alle spalle” (60),
all’interno dei singoli appartamenti, tuttavia, permane l’attaccamento alla
cucina d’origine:
Checché se ne pensi degli odori, bisogna ammettere che gli inquilini del Sessantanove mangiano bene. Chappatis e riso, verdure, patate, e pietanze di carne al
curry preparate secondo la cucina Goan, Madrasi, Hyderabadi, Gujarati, e Punjabi,
channa come ai Caraibi e fou-fou come nell’Africa orientale. Abbastanza per fare
123
franca bernabei
di un residente un intenditore, ma un intenditore solo di odori perché ciascun
gruppo si aggrappa gelosamente alla propria cucina. (65)
A corroborare la coesione del gruppo di Dar, una open house con vendita di tè e samosas al diciottesimo piano accoglie ogni sabato sera i residenti,
mentre ogni mattina gli immigrati (maschi) che non hanno trovato lavoro,
si riuniscono nell’atrio del caseggiato per discutere assieme di “vita” e di
“politica”, sorseggiare il tè, e condividere degli spuntini, seduti in circolo
attorno a una statua di gesso, un nudo femminile che forse impersona
Afrodite ma che qualche pio indù ha naturalizzato o ibridato in figura
mitologica asiatica, mettendole vicino una statuetta di Krishna. Nel corso
di queste sessioni, regna “una democrazia tacita, incurante dell’educazione,
dell’età, e dell’ambiente sociale”(78).
Benché gli abitanti del “villaggio” suburbano siano riusciti a privatizzare e “contaminare” parte dello spazio pubblico sottraendola alla totalità
della città con cui si devono comunque confrontare, questo neighbourhood
non riesce però ad affermarsi come coerente o esaustiva formazione sociale.
O, se vogliamo, in esso si determina uno scollamento tra contesto materiale
e costruzione di località. Se, nelle parole di Arjun Appadurai, la località, in
quanto dimensione relazionale e contestuale, è da intendersi come struttura
del sentimento, proprietà della vita sociale, e ideologia di una comunità
situata,20 qui assistiamo piuttosto alla segmentazione e (auto)-segregazione
di una comunità se non deterritorializzata certamente contradditoriamente
collocata, e alle conflittualità inerenti alla costituzione di gruppi etnici
difensivi, riluttanti all’assimilazione con altre minoranze.
La preservazione di pratiche, vincoli e attaccamenti culturali residuali, quotidianamente reiterati, si affianca così alla determinazione di non
ricordare quello che è stato lasciato (“Questo-è-il Canada”, è il motto):
mentre il perseguimento di un presente consumistico e “canadese” intreccia
le reti transnazionali di una diaspora asimmetrica (i borghesi dell’Africa
sono diventati, attraverso l’immigrazione, proletari) che si tiene in contatto
attraverso la trasmissione di mondi immaginati. Honest Ed’s, il grande
magazzino già presentato dalla MacEwen attraverso lo sguardo sgomento
del citizen/national, è visto dal narratore, in questo contesto, come uno
spettacolare e profano sito del consumo, un “paradiso degli acquisti” (41)
124
toronto: le nuove sfide della città globale
che, invitando a entrare e perdersi al suo interno (“entrate e smarritevi!”
recita un cartello) induce gli immigrati alla frenesia dell’acquisto, a una
irragionevole e spensierata corsa verso gli scaffali. Non solo, ma in quanto
produttore di nuovi desideri e bisogni, e manipolatore di fantasie possibili,
questo non luogo crea, come dicevo, delle reti informali di connessione
tra i clienti presenti, che si passano informazioni, da un corridoio all’altro, sulle offerte speciali, e i parenti assenti, partecipi di un neighbourhood
translocale e virtuale (“lo splendore e il luccichio che si vedono fino in Asia
e in Africa in seno alle case borghesi dove si sognano i beni di consumo
stranieri e l’emigrazione” [40]). Potremmo parlare anche di mediascape o
“mediorama”,21 inteso come intreccio di produzione e recezione mediatica
di beni di consumo dematerializzati, interpretato dalle varie società in un
processo di continua costruzione di immaginari. Per gli assidui frequentatori del magazzino il consumo sembra comunque porsi come elemento
costitutivo della formazione della “nuova” identità e prospettare una
peculiare forma di cittadinanza, una consumer citizenship non totalmente
passiva ma certamente implicata nelle relazioni di potere che caratterizzano
il capitalismo avanzato (Isin & Wood 1999, 138-140).
Ad ogni modo, questi contradditori ethnoscapes, o “paesaggi dell’identità di gruppo” (Appadurai 1997, 48) precariamente sospesi tra
riproduzione del consueto e produzione di nuovi contesti, neighbourhood
e località, territorializzazione e globalizzazione, identità residue coloniali
e cittadinanza diasporica, aiutano a capire come pur avendo gli immigrati
ricreato a Toronto i luoghi della loro comunità, “le moschee, i quartieri,
i club e le associazioni”, essi non possano poi riprodurre, collettivamente,
la specificità fenomenologica e sociale del contesto lasciato. “La loro Dar,
per quanto vicina all’originale cercassero di renderla, non era esattamente
la stessa […] mancava il luccichio. Mancava quella qualità intangibile che
illumina l’atmosfera – lo spirito, forse” (171). In altre parole, sia l’attività
individuale o famigliare di home-building che quella collettiva di placemaking della comunità etnica si scontrano con gli inevitabili cambiamenti
e negoziazioni identitarie che l’emigrazione comporta.
Del resto, sulle implicazioni del passaggio al Canada e sulla dialettica
tra uprooting e rerooting, sradicamento e riradicamento, si interrogano
125
franca bernabei
ripetutamente i personaggi del romanzo. “Dove siamo venuti, cosa stiamo diventando?” (97) si chiede l’eticamente rigoroso e intellettualmente
tormentato Nanji, che, al di fuori dello spazio familiare del quartiere, si
sente inadeguato non solo ad affrontare espliciti episodi o atteggiamenti
razzisti, ma anche a interpretare la complessità dei segni della comunicazione sociale e dunque a porsi come soggetto pubblico urbano (“sempre
pronti a sospettare il razzismo, senza esserne mai certi, sensibili come una
ferita aperta, ce la prendiamo con gli innocenti e lasciamo che i colpevoli
si allontanino tutti soddisfatti perché non siamo mai capaci di rispondere
con prontezza. Per sentirci poi arrabbiati e frustrati. Avrei dovuto dire così,
potevo almeno dirlo… la prossima volta…” [93]). Mentre la domanda
che si pone Nurdin Lalani, il meno colto e sofisticato protagonista che,
circolando per la città, si trova costretto a confrontarsi con nuovi, imprevisti
desideri, è: “Quand’è che un uomo incomincia a marcire?” (82). In effetti,
a partire da un primo atto di “seria incontinenza – iniziato coll’assaggiare
un boccone di salsiccia per poi mangiarne una considerevole porzione”
(136), Nurdin si mette a trasgredire, complici un amico e gli allettamenti
urbani, le norme della tradizione e il suo sistema di proibizioni alimentari.
Nonostante le rassicurazioni del suo tentatore (“Vedi, sei sempre tu. Non
ti è successo niente […] Dovrei pensare che sei sporco. Tu pensi che loro
siano sporchi. Chi ha ragione? Tutte superstizioni”, 127) Nurdin si arrovella
sulle implicazioni “metamorfiche” del suo gesto: “Tu sei già cambiato nel
momento in cui ti passa per la mente di mangiare carne di maiale. Riflettici sopra. Ci deve essere qualcosa nell’aria canadese che ci cambia, come
dicono i nostri vecchi […] Dipende tutto dall’aria […]” (136-7). E i suoi
“peccati”, gli sembra, si sono moltiplicati a partire da quel cedimento fatale:
beve birra, assiste, anche se non di sua iniziativa, a un peep show. Questo
tardivo risveglio di una sessualità repressa, in un paese percepito come privo
di inibizioni, lo porta quasi a rimpiangere l’innocenza della sua gioventù.
Ora, tuttavia, “Nurdin si era accorto che il suo occhio lussurioso indugiava
non solo sul corpo prosperoso ma proibito di sua moglie – cosa che Dio
avrebbe certamente giustificato – ma praticamente, a quanto sembrava, su
tutte le donne. Come un ragazzino che aveva raggiunto l’età della pubertà
aveva scoperto la Donna […]” (141). Se l’incontro con una connazionale
126
toronto: le nuove sfide della città globale
di Dar, riemersa dal passato africano come un fulmine a ciel sereno, sembra
poi aprirgli, grazie alla sua “emancipazione”, delle possibilità impreviste
e promettergli una libertà impensata, un’accusa, infondata, di stupro lo
porta a mettere in dubbio la purezza delle proprie intenzioni.
A questo episodio fa seguito l’arrivo di un predicatore di Dar, la cui
presenza in Canada era stata sollecitata dai membri della comunità come
elemento indispensabile di rassicurazione e ricompattazione identitaria.
“Missionary”, così si fa chiamare, gli consegna il fez rosso del padre, simbolo della sua pavida sottomissione a una autorità dominante che aveva
deciso il corso della sua vita, facendo così recedere “lontano, in un altro
mondo, inconoscibile” (208) le speranze di un nuovo inizio. Infatti, anche
se esorcizzato da questo atto di restituzione, in No New Land il passato,
in quanto diasporico e fortemente “etnicizzato”, non costituisce, come
abbiamo visto in Mac Ewen, un elemento vitalmente enigmatico e necessario per (ri)fondare l’identità individuale e nazionale. O, perlomeno,
questo ricupero si carica di una valenza ambigua: “Prima, il passato provava a segnarti da lontano e tu guardavi da un’altra parte; ma Missionary
gli aveva fatto attraversare l’abisso, vivido, svuotato di mistero. Adesso
incombeva tutto su di te. E con questo passato davanti a te, tutto intorno
a te, affronti il futuro più alla pari” (207). Non per niente, al romanzo fa
da premessa la citazione di una poesia di Costantino Kavafis, tradotta da
Laurence Durrell in Justine: “Né terre nuove troverai, né nuovi mari./ Ti
verrà dietro la città. Per le vie girerai:/ le stesse”.22
Mentre Jamal, un intraprendente e ambizioso membro della comunità, riesce a sfuggire al “mondo a due dimensioni del Sessantanove” (114)
perché in possesso del necessario capitale sociale e culturale, il quartiere
suburbano rappresenta per Nurdin, che di questo capitale è sprovvisto, uno
spazio protettivo ma implosivo in cui la disgiunzione tra cittadino nazionale e soggetto locale, e la molteplicità di filiazioni e affiliazioni culturali
discrepanti, impediscono una significativa azione sociale capace di generare
o interpretare nuovi contesti (Appadurai 1997, 184); in cui la rassegnata
acquiescenza alla persistenza spettrale dell’“altra” città induce a rinunciare
alla sfida lanciata dalla città globale. Sfida la cui figura emblematica sembra
racchiusa nella CN Tower, che ricompare anche in questo romanzo, ma
127
franca bernabei
con diverse valenze rispetto al testo di MacEwen. La sua cima rappresenta
lo spettacolo permanente che Nurdin e la sua famiglia contemplano, fin
dal loro arrivo, dalla finestra o dal balcone del salotto: “Col sole o colla
pioggia, una presenza permanente nelle loro vite, un sigillo sulla loro
nuova esistenza, la divinità verso cui si riversavano le automobili sul viale
e da cui, dopo essersela propiziata, si allontanavano per ritornare a casa a
gran velocità” (43). Nurdin si sente attratto dalla città lontana: “Trovava
difficile accontentarsi di casa sua. Il suo cuore sembrava attirato là fuori
– fuori dal balcone, oltre la valle e verso la città…” (166). “Là fuori ”, tra
l’altro, si è già simbolicamente portato via i suoi figli, “ormai sul punto di
diventare Canadesi, o quasi” (116). In particolare, Fatima, la ragazza, che
studia con la ferma intenzione di elevarsi socialmente, rigetta la mancanza
di educazione e la rozzezza del padre e quello che definisce come “questo
merdoso piccolo Pakistan di Don Mills”23 (167). E il lampeggiare misterioso
della torre, a cui in vari momenti Nurdin indirizza le proprie riflessioni e
i propri interrogativi, rimarrà per lui criptico e irraggiungibile, nella sua
distaccata sacralità, fino alla fine.
Del resto, Toronto stessa non sembra in grado di armonizzare i discorsi
del multiculturalismo (o “multivulturalism”, come qualcuno ironicamente
lo definisce24) con effettive pratiche di integrazione sociale e di garanzia
del diritto alla città. E non solo perché è difficile per gli immigrati, discriminati per il loro aspetto o per il loro inglese, e vittime di pregiudizi,
trovare un lavoro downtown adeguato alle loro aspettative (Nurdin, che
in Africa era stato rappresentante commerciale della Bata Shoe Company,
dopo vari tentativi falliti trova, e accetta di buon grado, un posto come
fattorino in un centro di cura della tossicodipendenza). Ma anche perché
non si è costituito quel capitale sociale di cui parla Robert Putnam, fondato su valori altruistici e alimentato da una solida, lungamente radicata,
educazione civica. Un esempio di come maggiore democrazia in più luoghi non garantisca questa virtù civica (Castles & Davidson 2000, 217)
lo troviamo quando Esmail, un immigrato che orgogliosamente indossa
un vestito africano per sottolineare la propria differenza, è vittima di una
aggressione razzista nella metropolitana. “Toronto la Buona” (107) si mobilita per l’occasione rendendosi conto che “gli immigrati erano qui per
128
toronto: le nuove sfide della città globale
restare, non volevano, non potevano, semplicemente andarsene” (107).
Mentre il quartiere si raccoglie intorno alla vittima, interrogandosi sulle
ragioni di un tale atto e sulla propria scelta del Canada come terra di immigrazione, e altre minoranze manifestano la loro solidarietà, del suo caso
si appropriano poi i Pakistani, con cui gli immigrati di Dar non vogliono
essere identificati. Una dimostrazione di parecchie centinaia di persone,
organizzata da insegnanti, professori, dottori e funzionari governativi, tutti
espatriati di successo che si atteggiano a leaders della comunità asiatica,
invade Rosecliff Park Drive affollandola con la sua presenza aliena: ma,
sottolinea il narratore, riportando il punto di vista dei locali,
Sembrava che fossero forzati ad assumere un’identità che a loro non interessava,
dai media, dalla gente, e ora da questi Asiatici Pakistani che avevano buone intenzioni ma non sapevano rispettare le distanze. Nessuno di loro sembrava rendersi
conto, o preoccuparsi, del fatto che Esmail apparteneva a loro, alla loro particolare
comunità Shamsi, comunità asiatica dell’Africa orientale. (109)
L’affermazione della propria specificità25 sia nei confronti della Toronto
“bianca” che della Toronto polietnica, e dunque la rivendicazione accorata
dei propri diritti culturali, oltre che civili, politici e sociali, la dice lunga
sulle difficoltà che incontra oggi il progetto, insito nella costituzione dello
stato-nazione, di “definire il cittadino come un individuo astratto senza
particolari qualità che lo identifichino e che prescindano dalle sue determinanti culturali” (Castles & Davidson 2000, 212). Ma pone in una luce
critica anche la politica ufficiale del multiculturalismo che il Canada ha
adottato a partire dal 1971, sia nelle sue implicazioni teoriche di liberalismo plurale che nella sua effettiva attuazione. Non è un caso, dunque, se,
nonostante l’inaspettata popolarità raggiunta, un anno dopo l’incidente
Esmail ritorna definitivamente a Dar: conservando, a detta della sorella,
quella cittadinanza canadese dei cui diritti sostanziali non era stato in grado
di beneficiare e che invece, attraverso le intricate vie della cattiva (o falsa)
coscienza postcoloniale, gli facilita una carriera artistica in Africa. (Come
racconta Jamal, lì si aggrega a una colonia di artisti che esporrà le sue opere
a New York: “una retrospettiva dell’Africa orientale o qualcosa del genere
[…] adesso non fa che dipingere maschere” [164]).
129
franca bernabei
Nella prospettiva di Vassanji, in conclusione, la politica urbana di
Toronto sembra risentire del sovraccarico di responsabilità di cui, secondo
Zygmunt Bauman, sono investite le città contemporanee, inadeguate a
trovare soluzioni locali a contraddizioni globali.26 Gli spazi della rappresentazione multietnica, immigrata e diasporica, attraversano dunque lo spazio
giuridico della cittadinanza, violano una stabile e statutaria nozione di identità nazionale. Mettono in luce le dinamiche sottostanti al cambiamento
paradigmatico nella contemporanea teoria politica che ha posto l’accento
più sul “riconoscimento” che sulla “ridistribuzione”, ma segnalano anche
che il diritto alla differenza senza eguaglianza sociale, politica ed economica
è “solo un progetto concepito per mantenere l’ingiustizia dove ci sono delle
maggioranze e delle minoranze” (Castles & Davidson 2000, 216). E, se
è vero che l’esperienza umana si forma e si negozia “intorno” ai luoghi,
e che nei luoghi e dai luoghi si sviluppano i suoi desideri e i suoi slanci
(Bauman 2003, 102), la via verso un nuovo senso civico sembra puntare a
uno spazio globale, “per risolvere le differenze attraverso la comprensione
di ciò che accomuna tutti i vicini” (Castles & Davidson 2000, 217).
In un’intervista Dionne Brand, una delle più importanti scrittrici
della diaspora caraibica, vede Toronto come città cosmopolita, il sito di
qualcosa che non è ancora accaduto.
[…] mi è venuto in mente che questa città in cui viviamo non è mai accaduta
prima. Toronto non è mai accaduta prima, e questo ha qualcosa dell’incredibile.
E non è mai accaduta prima perché tutti questi differenti tipi di persone, che
condividono diversi tipi di esperienze, o quella che noi chiamiamo identità, semplicemente non sono mai state insieme nello stesso luogo prima d’ora.27
E, in un’altra occasione, in cui afferma di appartenere a quella generazione di scrittori e scrittrici “che affrontano le questioni difficili, che
non sono mai soddisfatti della nostra condizione, che vogliono vedere
l’eguaglianza nel mondo e che impiegheranno le loro idee, il loro linguaggio e le loro menti per sostenerla”, ribadisce: “Siamo in pieno divenire,
abbiamo queste persone che devono-ancora-divenire”. Del resto, Brand,
pur denunciando l’irreparabile cancellazione dell’origine che sottende
la coscienza diasporica africana, contesta al tempo stesso il concetto di
radicamento:
130
toronto: le nuove sfide della città globale
Se radicamento significa quello che la gente vuole che significhi, famiglia, luogo,
suolo, ecc., francamente io credo che nel mondo ci dovremmo sentire completamente sradicati – quello sarebbe il posto migliore da cui cominciare. Un sacco
di guerre, e di cose orribili, cesserebbero. Se la usassimo bene, quest’idea di non
avere un luogo, di sradicamento, sarebbe un punto di partenza incredibilmente
interessante per ricollocarci nel mondo. Da un lato, qualcosa emerge dalla distruzione, ma quello che se ne può fare mi sembra infinito.28
In effetti, in thirsty, un poemetto o “long poem” pubblicato nel 2002,29
Toronto, molto più radicalmente di quanto abbiamo visto finora (anche
per quanto riguarda la stessa produzione della scrittrice), funge da terreno
e metodo di un’inchiesta spaziale tutta incentrata sui sinergismi e le dispersioni, le disarticolazioni e le agglomerazioni, le interpolazioni e le nuove,
imprevedibili ibridazioni determinate dalla condivisione, da parte degli
immigrati, di un habitat urbano policentrico. Questa complessa produzione
e riproduzione di vita sociale, questo forzato e disordinato agglomerarsi in
quello che viene definito “baraccamento urbano”,30 produce tuttavia una
moltitudine irriducibile (nel senso politico di anti-popolo) che determinando solidarietà impellenti sembra poi dar luogo a una peculiare forma
di communitas (cittadinanza?) diasporica che fa leva sull’empatica, fluida e
sempre contingente alterazione del sé e accettazione del proprio vicino.
Alla luce di questa nuova epistemologia urbana, o, se vogliamo, di
questa etica (politica?) pluralistica di responsabilizzazione e condivisione
della propria singolarità, non possiamo non concordare con Isin che è
dunque dalla città globale che vengono lanciate nuove sfide. Sfide a ripensare le nozioni di cittadinanza e democrazia, le politiche culturali del
riconoscimento e le istanze di comunità, giustizia sociale e ordine morale,
non più, forse, di pertinenza esclusiva dello stato-nazione. C’è chi ipotizza,
ad esempio, una forma cosmopolita di cittadinanza in cui gruppi diversi
negoziano la loro differenza all’interno e al di là dello stato, come movimenti e flussi transnazionali (Isin &Wood 1999, 23). E, tra i sostenitori
e le sostenitrici del concetto di cosmopoli, termine col quale ci si riferisce
alla città-regione globalizzata e culturalmente eterogenea, c’è chi ritiene
che essa possa essere un’utopia raggiungibile. Giocando sull’idea di cosmonatura e di polis, radicata nella società, connessa alla nostra comprensione
131
franca bernabei
delle comunità umane come unità politico-territoriali, si sottolinea come
questa utopia, mai realizzabile ma sempre in fieri, possa essere in grado di
forgiare collettivamente nuove culture e spazi ibridi (Soja 2000, 229-230).
Di questa politica radicalmente trasformativa della differenza, e della qualità
della vita civile all’interno delle società nazionali, ma, anche, di una nuova
“virtù cosmopolita”, contraria alle “lealtà calde” e alle “spesse solidarietà”
del passato,31 sembrano “assetati” i quasi-cittadini di Vassanji e di Brand.
note
1. Edward Soya, Postmetropolis. Critical Studies of Cities and Regions, Oxford, Blackwell,
2000, pp. 230‑231.
2. Saskia Sassen, “The Global City. Strategic Site / New Frontier”, in Democracy, Citizenship
and the Global City, a cura di Engin F. Isin, London, Routledge, 2000, pp. 48-6.
3. Engin F. Isin & Patricia K. Wood, Citizenship & Identity, London, Thousand Oaks,
New Delhi, SAGE Publications, 1999, p. 6.
4. Gwendolyn MacEwen, Noman’s Land, Toronto, The Coach Press, 1985. Edizione
italiana: Terra di nessuno. Verso l’uomo primordiale, traduz. e cura di Carolina Fabricci,
Ravenna, Longo Editore, 2003. Ho scelto di non modificare la traduzione, nel complesso
buona, anche se in alcuni punti dei brani citati sarebbe stata auspicabile una più corretta
aderenza al testo.
5. La K potrebbe anche alludere, come è stato suggerito, al termine Kanata, che nella lingua
degli Uroni significava villaggio, e che si ritiene possa essere all’origine del nome Canada.
Si veda Diana Mengo, “Gwendolyn MacEwen’s Noman’s Land”, Università degli Studi di
Venezia, a.a. 2002-2003, p. 33 (tesi di laurea non pubblicata).
6. Michel de Certeau, Luce Giard e Pierre Mayol, The Practice of Everyday Life, Vol. 2,
Minneapolis, London, University of Minnesota Press, 1998, p. 171.
7. Stephen Castles & Alastair Davidson, Citizenship and Migration. Globalization and the
Politics of Belonging, New York, Routledge, 2000, p. 130.
8. Julia Kristeva, Strangers to Ourselves, trad. di Leon S. Roudiez, New York, Columbia
University Press, 1991, pp. 4, 5, 12, 7.
9. Umberto Curi, “Introduzione. Filosofia dello straniero”, in Xenos. Filosofia dello straniero,
a cura di Umberto Curi e Bruna Giacomini, Padova, il Poligrafo, 2002, p. 25.
10. L’atto di Noman è anche riparatorio nei confronti del suo atteggiamento passato, in
quanto si ricorda, improvvisamente, di essere stato uno di quei ragazzini che erano soliti
farsi beffa del “Greco” per via del suo “strano” inglese.
11. “ << Se guardi abbastanza a lungo>>, disse Nessuno, <<vedrai che la neve ha tutti i
colori dello spettro. Kali, questo è il più esotico dei paesi>>” (132).
132
toronto: le nuove sfide della città globale
12. Per quanto riguarda l’aspetto iniziatico, mitico e alchemico della traversata, si veda
l’ “Introduzione” di Carolina Fabricci a Terra di Nessuno, pp. 30-34.
13. Northrop Frye, “Conclusion”, in Literary History of Canada (1965), a cura di Carl
F. Klinck, Toronto, University of Toronto Press, 1967, pp. 821-849.
14. Jane M. Jacobs, Edge of Empire: Postcoloniality and the City, London, Routledge, 1996,
pp. 31-32.
15. M. G. Vassanji, No New Land, Toronto, McClelland & Stewart Inc., 1997. Traduzione
mia.
16. Jeanne Delbaere, “Re-configuring the Postcolonial Paradigm: The Fiction of M.G. Vassanji”, in Reconfigurations. Canadian Literatures and Postcolonial Identities, a cura di Marc
Maufort & Franca Bellarsi, Bruxelles, P.I.E. Peter Lang, 2002, p. 168.
17. Michael Thorpe, “The Uses of Diversity: The Internationalization of English-Canadian
Literature”, Ariel, 23, vol. 2, Aprile 1992, pp. 118, 120.
18. Shane Rhodes, “M.G. Vassanji: An Interview”, Literature, 22, vol. 2, 1997, p. 115.
19. La storia della città, come spiega Vassanji nel romanzo (12-30), è un’intricata matassa
che risente delle alterne capitolazioni, conquiste e forzate imposizioni del colonialismo europeo in Africa. Edificata dai coloni tedeschi quando essi avevano il controllo del Tanganica,
passò poi, nel 1920, sotto il dominio inglese finché quel territorio acquistò l’indipendenza
nel 1961, divenendo una repubblica nell’ambito del Commonwealth (1962). Nel 1964
dall’unione col Zanzibar si costituì l’attuale Tanzania. La conseguente politica di africanizzazione e nazionalizzazione colpì pesantemente la comunità asiatica, non solo perché
essa era riluttante ad accettare la fine dell’impero britannico ma, soprattutto, perché venne
privata delle sue proprietà immobiliari. Di qui la corsa verso il Canada.
20. Arjun Appadurai, Modernity at Large. Cultural Dimensions of Globalization, Minneapolis, University of Minnesota Press, 1997, p. 189.
21. Giorgia Capoccia, “Mediorama”, Reset, 82, Marzo-Aprile 2004, p. 50.
22. Costantino Kavafis, 53 Poesie, trad. di Filippo Maria Pontani, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1996, p. 15.
23. Nel testo inglese: “this little Paki-shitty-stan of Don Mills”.
24. Giocando sulla parola “vulture” che significa avvoltoio.
25. Come chiarisce lo stesso Vassanji nell’intervista già citata, la comunità degli Shamsi,
anche se ispirata agli Ismailiti musulmani, è frutto della sua invenzione: “La ragione per
cui a suo tempo creai gli Shamsi, e penso ancora che quella scelta sia stata saggia, fu che
volevo una certa libertà di invenzione. Se scrivessi di un gruppo religioso realmente esistente,
allora le mie date dovrebbero essere esatte. Non mi interessa quel livello di dettaglio; non
rientra nella mia pratica narrativa” (Rhodes 1997, 116).
26. Zygmunt Bauman, Liquid Love, Cambridge, Polity Press, 2003, p. 102.
133
franca bernabei
27. Maya Mavjee, “Opening the Door. An Interview with Dionne Brand”, Read Magazine,
27 Nov. 2002, par. 7. <http: //www. Randomhouse. Ca/ readmag/ page 28. Htm>.
28. Paulo da Costa, “An Interview with Dionne Brand”, Ciberkiosk, 1 dic. 2002, par. 35,
19, 8. <http://www.Ciberkiosk.pt/entrevista/brand.Html>.
29. Dionne Brand, thirsty, Toronto, McClelland & Stewart Ltd., 2002. Ho analizzato
più estesamente questo poemetto e la poetica di Brand in “Atlantic Crossings and
(Post)Metropolitan Transitions in Caribbean Diasporic Fiction”, in Sites of Ethnicity: Europe
and the Americas, a cura di William Boelhower, Rocìo Davis e Carmen Birkle, Heidelberg,
Winter, 2004, pp. 45-62.
30. Brand usa il termine “barracoon”, che si riferisce ai recinti o baraccamenti in cui, in
Africa, gli schiavi erano temporaneamente confinati in attesa di essere trasferiti sulle navi.
31. Bryan S. Turner, “Cosmopolitan Virtue, Loyalty and the City”, in Democracy, Citizenship
and the Global City, a cura di Engin F. Isin, London, Routledge, 2000, p. 142.
134
La poesia tra comunità e istituzione:
il caso di Toronto1
barbara del mercato
Università Ca’ Foscari di Venezia
…purché resti un’abnegazione capace d’innocenza di là
dalla mercede…
Vittorio Sereni, Toronto sabato sera
Si sente sempre più spesso parlare di città. Ci si interroga sulla natura
e sulla materia urbana, su come si possa descrivere, spiegare, catturare
l’idea di città o lo “spirito” di una particolare metropoli e, così facendo, si
tesse quella fitta rete di discorsi che ricopre ogni centro urbano come una
seconda pelle.2 Da un certo punto di vista, questo interesse non dovrebbe
sorprenderci: per la prima volta nella storia, vive in città quasi il cinquanta
per cento della popolazione mondiale, una percentuale altissima rispetto
anche solo a qualche decennio fa.3
Nemmeno il Canada sfugge alla tendenza globale all’urbanizzazione
e, se pure l’identità nazionale canadese è spesso descritta in termini di
inestricabile legame con la natura e con selvaggi spazi aperti e nevosi, le
città sono sempre più popolose e multiculturali, centri attivi di produzione
culturale. Toronto lo dimostra come meglio non si potrebbe.4
Secondo Henry Lefebvre esistono due approcci possibili per comprendere una città: “il primo va dal generale allo specifico (dalle istituzioni alla
vita quotidiana), per poi rivelare la città come una mediazione specifica e
(relativamente) privilegiata. Il secondo comincia da questo livello e costruisce il generale identificando elementi e significati di ciò che è osservabile
nello spazio urbano. Procede in questa maniera per raggiungere, dall’osservabile e “privato”, la vita quotidiana nascosta: i suoi ritmi, le sue attività,
la sua organizzazione spazio-temporale, la sua “cultura” clandestina, la sua
vita sotterranea”.5 Visitando Toronto per la prima volta, tre anni fa, ebbi
135
barbara del mercato
l’impressione che esistesse un rapporto molto particolare tra questa città e
la poesia. Volevo articolare meglio questa sensazione, sostanziarla con una
ricerca sulla storia della poesia a Toronto e sulle sue attuali manifestazioni,
ma soprattutto volevo reagire alla poesia utilizzando il secondo metodo
citato da Lefebvre – osservandone, per così dire, la vita quotidiana. Questo
mi ha indotto a preferire lo studio della “poesia nello spazio” a quello dello
“spazio nella poesia” (quelle che chiameremmo le immagini della città). Un
approccio di questo tipo spinge a preferire ai luoghi descritti, nominati o
evocati nelle poesie, quelli dove i poeti abitano e scrivono (i luoghi della
produzione), dove si incontrano e leggono (i luoghi della performance),
dove la poesia è affissa e letta come testo senza performer (autobus, muri,
parchi, i luoghi della fruizione).6
Andare a caccia di poesia per le strade ci aiuta a riflettere sulla letteratura da un’angolatura insolita, ricordandoci, per esempio, che la scrittura,
in quanto pratica culturale, è un’attività insieme privata e sociale. Privata
per gli ovvi motivi di autorialità e soggettività, sociale perché nel momento
in cui va incontro a un pubblico, essa avrà bisogno delle infrastrutture economiche e sociali in grado di portare il testo a contatto con tale pubblico
– tutto secondo modalità che non possono che essere influenzate dallo
spazio e dall’ambiente circostante.7
In secondo luogo, da questa prospettiva la visibilità e la vitalità della
scena poetica di Toronto appaiono il risultato della compenetrazione di
livelli diversi: i poeti stessi, che, singolarmente oppure organizzati in comunità, promuovono il tipo di poesia in cui si riconoscono, e le istituzioni
attraverso cui le poesie circolano sul mercato, sono immesse nei programmi
scolastici e così via.
Non c’è lo spazio, qui, per entrare nel merito dello sviluppo storico
della poesia canadese, ma possiamo tracciare una sorta di inventario della
presenza della poesia a Toronto.
136
la poesia tra comunità e istituzione: il caso di toronto
word magazine
Una ricognizione degli “eventi” legati alla poesia è offerta mensilmente
da Word, un calendario di otto pagine che è un buon punto di partenza
per ricercare i “segni” poetici nello spazio urbano di Toronto.8
Nel numero di giugno 2003 che qui useremo come caso di studio,
Word pubblicizzava:9
• 24 eventi elencati come “reading series”, sei dei quali accompagnati da “open stage” e quindici come reading esclusivamente
di poesia.
La gamma delle serie di letture va dagli incontri nei bar con
autori pubblicati e “open mike”, a una serata di “stellar poetry” ad Harbourfront per la serata conclusiva e la consegna del
Griffin Prize 2003 ($40.000 al miglior libro di poesia canadese
e non canadese; finalisti Margaret Avison, P.K. Page, Dionne
Brand, Kathleen Jamie, Paul Muldoon, Gerald Stern e C.D.
Wright).
Gli eventi in elenco sono generalmente gratuiti, ad eccezione
di Harbourfront ($8, comunque meno di un biglietto del cinema);10
• 0 poetry slams;
• 11 Workshops/Gruppi di lettura.
Tra i workshops collegati alla poesia troviamo:
• un workshop per migliorare le proprie capacità di lettura in
pubblico ($60/tre workshops);
• “esplorazione pratica delle diverse forme e strategie poetiche
per ampliare la vostra voce poetica e migliorare il vostro profilo
editoriale” (tassa di iscrizione non indicata);
• un incontro per scrittori (“critiche costruttive in narrativa,
teatro, poesia e prosa”, gratuito);
oronto campus-radio
• 5 programmi radiofonici (University of T
spoken-word show);
• 9 presentazioni di libri (7 libri di poesia) in varie biblioteche o
locali;
• 10 reading/conferenze (3 eventi legati alla poesia);
137
barbara del mercato
• 1 fiera del libro (pulp&plastic, dedicata alla small press);
• 1 evento benefico (raccolta fondi con musica e poesia);
Più:
• Una sezione di eventi settimanali, comprendente circa quattro
eventi per ciascun giorno della settimana – principalmente gruppi di scrittura e workshops. Nell’elenco: Poets on the Run, The
Fresh Squeezed Reading Series, Millennial Wave community
cable poetry show, Writers’ Circle of Durham Region’s Open
Stage Poetry night, Haiku Deer Park (“un gruppo affermato di
poeti Haiku di Toronto”), un workshop con Robert Priest, ma
anche The Queer Writing Group, Flying Mermaids Women’s
Writing Group e GAY OLD GALS, “un gruppo di discussione
cinematografico e letterario per donne gay over 60”.
Gli eventi del mese occupano il paginone centrale, mentre il resto del
giornale è diviso in varie rubriche regolari:
• Rubrica “Space for Rant” con commenti di gordon phinn
[sic];
• “Hot Off the Press”, notizie e pubblicazioni recenti riguardanti
la small press;
• “Wet Ink”, recensioni di libri di poesia;
• Una pagina intera di annunci economici:
“Writers’ Retreat on Toronto Island”, “Diventa uno
scrittore di successo e scrivi per denaro e per piacere con
il nostro corso”, ecc.;
Concorsi: “Camp-write-a-way short story contest”, “The
Ontario Poetry Society’s The Simply Good Poetry Contest ”,
“The Ontario Poetry Society’s The Motion of Metaphor
Contest”;
Richiesta di contributi a riviste, e-zines, siti web, antologie,
serie di letture e una rivista letteraria di medicina;
• Una pagina di interventi editoriali e lettere dei lettori;
• 12 messaggi pubblicitari di varie dimensioni (case editrici,
workshops, eventi e il festival Scream in High Park).
138
la poesia tra comunità e istituzione: il caso di toronto
La copertina è occupata da due fotografie di Sharon Harris, la responsabile del sito www.iloveyougalleries.com, che, come una Fred McDarrah
canadese, pubblica in rete le foto di tutti gli eventi legati alla poesia che si
svolgono nella città di Toronto.
Word, dunque, è una prima ricognizione degli eventi poetici che avvengono ogni mese a Toronto – ma dove altro possiamo trovare la poesia
in città?
la città come paratesto
Nel 1994 è nata la prima strada di Toronto dedicata a uno scrittore
canadese. Il 30 aprile di quell’anno, lo stesso giorno in cui si svolse la
prima “Toronto Small Press Bookfair”, una viuzza senza nome a pochi
metri dalla biblioteca Robard’s (tra St. George Street e Huron), divenne
bpNichol lane.
La cerimonia inaugurale ebbe luogo in presenza di una folla che
cercava di apparire festosa sotto una pioggia battente, come si vede nelle
immagini catturate dal documentario di bNash bp (pushing the boundaries) a process documentary, (Cinémat, 1998). Gli amici di bpNichol che
avevano presentato domanda al City Surveyor, l’ufficio incaricato di tali
questioni, dovettero vedersela con l’ordinanza in base alla quale “solo il
cognome di una persona dovrebbe essere usato come toponimo, a meno
che non sia necessario un ulteriore elemento per evitare la duplicazione
di un nome di via già esistente a Toronto e nei comuni limitrofi”11, ma
riuscirono ad ottenere che la strada portasse anche le iniziali del nome
del poeta, rigorosamente minuscole e senza spazio prima del cognome
(anche su questo si dovette combattere, a causa di possibili difficoltà con
i motori di ricerca).
L’unico altro spazio pubblico a Toronto dedicato a uno scrittore canadese, anzi a una scrittrice, è Gwendolyn MacEwen Parkette, un modesto
triangolino verde con due panchine non lontano dall’incrocio tra Spadina e
Bloor, dove nell’estate 2004 si è svolta una giornata di letture per ricordare
la poetessa scomparsa nel 1987.
139
barbara del mercato
Il giorno dell’inaugurazione di bpNichol lane l’artista dbsmith incise
una breve poesia di Nichol sul manto stradale, proprio di fronte alla sede di
Coach House Press, storica casa editrice. Nel libro dove la poesia apparve
originariamente (Extreme Positions, Edmonton, Longspoon Press, 1981),
il testo appare così:
a
lake
a
lane
a
line
a
lone
ma dbsmith optò per le lettere maiuscole, seguite dal nome dell’autore.12
La poesia si fonde magnificamente con l’atmosfera della via, linea
grigia che non porta da nessuna parte e, dopo la pioggia, le lettere piene
d’acqua riflettono il cielo come un laghetto. La strada, la città stessa diventano dunque una forma di paratesto, il contesto urbano porta le parole della
poesia agli occhi del lettore senza l’intermediazione di altri supporti.13
La “lane poem” è menzionata nella guida Lonely Planet di Toronto
– la poesia come luogo da visitare.
poetry on the way
Nel 1998 e nel 2000 la Toronto Transit Commission lanciò due edizioni del programma chiamato “Poetry on the Way”: gruppi di trentacinque
poesie erano disseminati in molti autobus e vagoni della metropolitana. Il
progetto era finanziato dai Millennium Grants Funds del Canada Council,
con $60.000 nel 1998 e $90.000 nel 2000, amministrato da un gruppo
di volontari appartenenti al mondo editoriale e artistico cittadino. I poeti
prescelti ricevettero $400 per l’utilizzo del loro lavoro.14
La prima città ad offrire poesie ai pendolari fu Londra, nel 1986.
L’iniziativa ebbe un tale successo che oltre una dozzina di altre città in tutto
140
la poesia tra comunità e istituzione: il caso di toronto
il mondo seguirono l’esempio, tra cui New York, Stoccolma e, in Canada,
Halifax, Fredericton, Kitchener, Hamilton e Windsor.
La grafica del programma Poetry on the Way di Toronto è particolarmente poco attraente, ma le poesie sono sotto gli occhi di migliaia di
pendolari ogni giorno, con la possibilità di stimolare la curiosità anche
di non lettori di poesia. La scelta delle poesie sembra totalmente casuale
– qualsiasi cosa da poesie cinesi del Decimo secolo, a Emily Dickinson, a
Leonard Cohen, a giovani autori pubblicati da Coach House, ma da un sito
dedicato a questa iniziativa apprendiamo che “la versione di Toronto [di
Poetry on the Way] è in larga misura una vetrina per il talento canadese […]
e pur non essendoci un tema o uno stile prefissati, molte [poesie] riflettono
motivi canadesi come la solitudine delle praterie, la desolazione invernale
e la bellezza naturale”.15 Nella cornice urbana per eccellenza, si pensa comunque alla natura come al tema più autenticamente “canadese”.
poetry on the way, ii
Il 13 febbraio 1994, all’età di trentaquattro anni, il poeta e romanziere
Daniel Jones (chiamato Jones) si uccise nella sua stanza, avendo prima
appeso alla maniglia della porta un cartello che diceva: “Non aprite. Chiamate la polizia”. Jones era un membro molto attivo della comunità della
small press e della scena punk a Toronto, uno degli organizzatori della
prima Small Press Book Fair e lo si poteva facilmente ascoltare ai reading
di poesia.16 Il giorno dopo la sua scomparsa, trecento fotocopie della poesia
di Jones intitolata Things that I Have Put into My Asshole furono affisse in
giro per Toronto.17 L’anno seguente il tributo fu ripetuto – stessa poesia,
stessa data, ma questa volta il testo fu spruzzato a stencil con della vernice
rossa in tutta la città. La commemorazione di Jones continuò ogni anno
fino al 1998, la poesia è ancora visibile su una panchina di un parco e su
un muro vicino a Coach House.
In questo caso, una poesia appare sulla superficie della città grazie
all’azione di un gruppo di amici (che si firmano come The Outsider):
il testo e la grafica sono congruenti con le frequentazioni underground
dell’autore, il gesto è più tattico e meno visibile per via delle scarse risorse
141
barbara del mercato
economiche in gioco, ma ha lasciato un segno nel ricordo delle persone
che conobbero Jones – le stesse che, poi, me ne hanno parlato.
i libri di poesia
Esistono quattro tipologie principali di editori attivi in Canada: i
grandi editori commerciali di paperback (Dell, Bantam/Seal), le cosiddette “trade houses” (McClelland&Stewart, Macmillan), le case editrici
letterarie e le small press.
Uno studio sul fenomeno della small press a Toronto pubblicato
qualche anno fa afferma che la percentuale di titoli canadesi pubblicati da
questi piccoli editori e la percentuale delle vendite rispetto al totale nazionale sono inversamente proporzionali: meno dell’uno percento di quanto
è pubblicato ogni anno dalle case editrici che si rivolgono a un pubblico
di massa è di autori canadesi, (40 percento delle vendite di settore); le
“trade houses” pubblicano circa il 20 percento di tutti i titoli canadesi; le
case editrici letterarie hanno un catalogo composto al 90 percento circa
da titoli di letteratura canadese (pari all’8 percento delle vendite di settore); le opere pubblicate dalle small press sono per il 99 percento di autori
canadesi.18 Anche la presenza in catalogo di titoli di poesia è inversamente
proporzionale alle dimensioni della casa editrice, ed è per questo che è bene
soffermarsi sugli editori piccoli e piccolissimi – sono il veicolo privilegiato
attraverso cui la poesia si diffonde per la città.
Toronto è sede di tredici (su quarantasei) membri del Literary Press
Group, un’associazione no-profit di editori canadesi nata nel 1975 con
l’obiettivo di “promuovere la sopravvivenza, la crescita e il perdurare delle
case editrici letterarie di proprietà canadese”.19 Queste tredici case editrici
sono: Coach House Books; Cormorant Books; ECW Press; Goose Lane
Editions; Gutter Press; House of Anansi; Insomniac; The Mansfield Press;
The Mercury Press; Nightwood Editions; Playwright Canada Press; TSAR
Publications; Wolsak&Wynn (l’unica di questo elenco a pubblicare esclusivamente poesia). A queste dobbiamo aggiungere le small press, quasi
tutte specializzate esclusivamente in poesia: Blood & Aphorisms; Charnel
House; CURVD H&Z; Expert Press; Flat Singles Press; Front Press; GA142
la poesia tra comunità e istituzione: il caso di toronto
Press; Gesture Press; INDUSTRIAL SABOTAGE; Junction Books; letters;
Lowlife Publishing; Midnight Pumpkin Press; narc; Nietzsche’s Brolly/
Imago Press; Nightwood Editions; Pangen Subway Ritual; Peckerwood;
Pedlar Press; pres sure press; Proper Tales Press; red iron press; Room 302;
serif of nottingham; Streetcar Editions; Surrealist Poets Gardening Assoc.;
Underwhich Editions; Wendysstomack.
Questi ventotto nomi non compongono, probabilmente, che un
elenco parziale; è difficile disegnare una mappa completa e aggiornata di
questo genere di iniziative editoriali (Daurio, 1992, 11). È inoltre importante ricordare che l’insieme delle “literary press” e quello delle “small
press” non sono completamente distinti e che a volte è difficile tracciare
una chiara linea di demarcazione (Wolsak & Wynn e Nightwood sono a
tutti gli effetti small press, mentre Blood & Aphorisms è forse più vicina
a una literary press).
Le pubblicazioni delle varie small press si possono trovare alla Toronto
Small Press Book Fair (due volte l’anno), ai numerosi reading dei poetieditori e in un numero sempre più esiguo di librerie indipendenti, quali
letters bookshop (su appuntamento), The Annex, Pages, This Ain’t the
Rosedale Library, Apollinaire’s bookshoppe.
I librai svolgono a volte un ruolo attivo e determinante nella produzione e promozione della poesia, diventano attori a tutti gli effetti nel
sistema-poesia. Nicky Drumbolis di letters bookshop, per esempio, ha
organizzato per anni serie di reading nel suo negozio, ha promosso edizioni
indipendenti di poesia che coniugavano l’opera di bravissimi tipografi
e stampatori con quella di poeti affermati ed emergenti, ha compilato
centinaia di meticolosissimi e precisissimi cataloghi della small press
canadese (la sua collezione di libri Coach House è ora un grosso fondo
consultabile presso la National Library di Ottawa) e moltissime altre iniziative – complessivamente, 642 pubblicazioni che avevano anche il senso
di una sfida, un esperimento per vedere “quanto era possibile pubblicare
in Canada senza farsi notare, intenti ad esaminare la ricezione prevalente
di intuizioni che un’etica che pensa al profitto non è riuscita a sfruttare, e
aventi come unico contrappunto di ritorno la “generosità dell’ascolto”.20
Tra il 1983 e il 1996, anno in cui gli affitti proibitivi lo costrinsero a chiu143
barbara del mercato
dere la libreria e a trasferirsi in un magazzino in cui oggi vive insieme ai
suoi libri, Drumbolis pubblicò una serie di sessantatre libricini di poesia,
la cosiddetta serie “two-bitter”. La sua conoscenza della poesia canadese
permise di presentare versi scelti nel novero degli autori indipendenti
(Marshall Hrciuyk, arthur cravan, Daniel f. Bradley, ecc.) e tra i poeti pubblicati anche da case editrici più conosciute (David McFadden, bpNichol,
Fraser Sutherland, ecc.). La serie dei two-bitter era realizzata interamente
a mano (comprese le cuciture del dorso, in filo di cotone annodato), in
un formato minuscolo ma curatissimo, e venduta al prezzo incredibile
di venticinque cents (una moneta da 25 c. è detta anche two-bits). Altri
progetti, come la pubblicazione di singole poesie su scatole di fiammiferi,
erano nella stessa linea di disseminazione poetica, attraverso pubblicazioni
ad alto valore estetico ma a prezzo irrisorio e dunque alla portata anche
delle tasche dei poeti. Tirature limitate (dalle venti alle duecentocinquanta
copie) potevano raggiungere il pubblico interessato alla nuova poesia senza
dover poggiare sul mercato gonfiato che gli editori commerciali devono
presupporre (e che contribuiscono a creare) e senza fare affidamento su
finanziamenti statali.
Per via di un processo produttivo e distributivo in larga misura
autogestito, è probabile che i titoli della small press circolino in maniera
imprevedibile per la città, e il loro valore economico è variabile poiché la
poesia è spesso scambiata o regalata.
La “stampa alternativa” non è certo un fenomeno esclusivamente
canadese, ma a Toronto pare perdurare un forte legame di ispirazione con
gli esperimenti degli anni sessanta e settanta. Gli artisti che sperimentarono
la “dematerializzazione dell’oggetto d’arte”, per dirla con Lucy Lippard,21
furono tanti, e se gli esempi di Lippard sono tratti quasi tutti dalla sfera
statunitense, per il Canada possiamo citare Michael Snow e la sua serie The
Walking Woman Work (1961 e 1967), composta da numerosi lost works:
opere stampate con timbri di gomma e disseminate in vari spazi pubblici
o privati (stazioni o carrozze della metropolitana, librerie, nascoste a casa
di amici). Da un punto di vista concettuale, opere di questo tipo non sono
certo lontane dalla disseminazione di poesie tramite manifestini, scatole
di fiammiferi, ecc. portate avanti da un libraio come Drumbolis. Michael
144
la poesia tra comunità e istituzione: il caso di toronto
Snow ha spiegato che la sua era un’indagine sulle possibilità di esperire
e conoscere l’arte in luoghi diversi dal museo o dalla galleria22 e lo stesso
direbbero i poeti, desiderosi di tenere le loro opere lontane dalle istituzioni
“museificanti” o almeno di sfidarle (per esempio, creando riviste dai formati
impossibili o numerate secondo logiche bizzarre).
Negli anni ottanta, Stuart Ross (classe 1959), di Proper Tales Press,
vendette migliaia di poesie per le strade di Toronto (di solito indossando
un cartello intorno al collo che diceva: “Scrittore, sto andando all’inferno
– Comprate i miei libri!”). Erano chapbooks fotocopiati, o fogli sciolti, resi
possibili da strumenti per la riproduzione dei testi sempre più economici
e accessibili. Ross seguiva l’esempio di un altro poeta, jwcurry, dal quale
adottò il principio di “piazzare la poesia davanti al naso di quelli che
altrimenti non la vedrebbero mai”,23 e almeno un altro poeta, Daniel f.
Bradley, confessa di essere stato a sua volta influenzato da Stuart Ross e
da lui indotto alla frenetica produzione e disseminazione poetica. Ross è il
motore di svariate riviste dai titoli quali Mondo Hunkamooga, Who Torched
Rancho Diablo? e, la più recente, Peter O’Toole – altrettante preziose fonti
di informazioni sul mondo della small press.24
la toronto small press fair
Nel 1987, Ross e Nick Power co-fondarono la Toronto Small Press
Book Fair, derivazione di una serie di letture con cadenza non proprio
mensile chiamata Meet the Presses, che si svolgeva la domenica sera presso
il Community Centre di Scadding Court e dove, mentre alcuni poeti leggevano, altri allestivano banchi per vendere pubblicazioni di small press.25
La fiera è attualmente co-finanziata da Ontario Arts Council e Toronto Arts
Council. Le case editrici partecipanti cambiano di anno in anno: alcune
hanno vita breve, altre superano la dimensione tacitamente considerata
“sufficientemente piccola”. A questa manifestazione si incontrano poesie
stampate su fogli sciolti, libri, micro-libri, riviste, ma anche in CD e LP
(per esempio, Underwhich Editions di Paul Dutton vende le registrazioni
delle performance dei Four Horsemen).
145
barbara del mercato
I prezzi sono sempre modici, anche quando gli oggetti sono il frutto di
abilità e dedizione, perché gli autori sono consapevoli di avere un pubblico
prevalentemente di poeti e, dunque, adeguano il prezzo al loro bacino di
utenza. A volte il prezzo è una provocazione esplicita, come nel caso della
“one cent series” di jwcurry.
Immaginate un libretto di circa 5 cm di lato, con la copertina di solida
carta da acquerello, il cui bordo superiore è irregolare, come fosse stato
accuratamente strappato. Il testo è interamente dattiloscritto: sulla copertina il titolo e il nome degli autori A POEM ON SHEILA VOLLMER’S
GLASS TOWER. Nelson Ball/Barbara Caruso. All’interno, un rettangolo
di carta più leggero piegato in tre e che si apre verso l’alto a rivelare un’unica
poesia, visivamente costruita come una torre. Questo oggetto trasmette
un intenso piacere tattile grazie alla forma, al peso e alla consistenza della
carta. Il segno grafico lasciato dalla macchina da scrivere ha una qualità
impercettibilmente irregolare e il modo in cui sono incollati i due pezzi di
carta e l’armonia delle loro forme ne fanno un vero piacere per gli occhi. La
poesia allude all’opera dell’artista canadese Sheila Vollmer, le cui sculture
di vetro sono solitamente esposte all’aperto. Il testo di Nelson Ball, infatti,
gioca con la contrapposizione di tre sole parole – sky, blue, light – organizzate
in dodici righe secondo diverse combinazioni.
Nel suo piccolo, questo libro è un oggetto magnifico, che offre una
mini-scultura di carta e una poesia visiva catturate in un’unità stilistica
fragile e perfetta. Porta i nomi di un poeta canadese piuttosto noto (Nelson Ball) e di un’artista grafica di grande rilievo (Barbara Caruso). È stato
battuto a macchina e incollato e piegato a mano in centosessanta copie. E
costa un cent canadese. Ed è il numero 358 della serie da un cent (un’altra
opera della medesima serie consisteva in un minuscolo cestino di carta
alto tre cm dentro al quale erano appallottolate tutte le micro-pagine del
libro in vendita).
Che tipo di affronto è questo all’idea di editoria commerciale? Che
cosa, a parte il prezzo, differenzia il libro da un cent da un Libro d’Artista?
Innanzitutto, l’intenzione.
146
la poesia tra comunità e istituzione: il caso di toronto
Credo sia pertinente qui un commento di bpNichol sui prodotti
“effimeri” realizzati in collaborazione con Coach House sul finire degli
anni sessanta:
semplicemente, avevi qualcosa che possedeva tutte le qualità dell’oggetto prezioso
– confezionato con maestria, ecc. – ma che era reperibile a basso prezzo per
chiunque desiderasse possederlo. Il “Libro d’artista”, come concetto, è legato alla
nozione di Libro Sacro, ed è dunque legato all’idea del sapere come qualcosa di
riservato a pochi eletti. Il “libro”, dall’invenzione dei tipi a stampa, porta con sé
l’idea della disseminazione delle informazioni, dei suoi valori intellettuali e artistici,
a un pubblico largo quanto il numero di persone che li desiderano.26
Ma il nostro catalogo non è ancora finito. Dove altro possiamo trovare
la poesia?
Il susseguirsi di innovazioni e rivoluzioni tecnologiche che dagli anni
cinquanta (con il ciclostile), passando per i sessanta e settanta (fotocopie,
stampa in off-set) hanno permesso ai poeti di controllare o addirittura
possedere i mezzi di riproduzione dei testi impallidiscono di fronte alla
rivoluzione informatica e all’esplosione del World Wide Web.27 Marjorie
Perloff considera Internet e, in generale, i progressi in campo informatico,
tra i fattori chiave che hanno contribuito alla crescente popolarità della
poesia negli Stati Uniti. Come Perloff ha osservato in un articolo recente:
“nell’ultimo decennio, grazie al mondo di internet e dell’iperspazio, alle
pubblicazioni fatte in casa e alla produzione delle small press, la poesia,
come persino i giornali ci rammentano di continuo, è tornata ad essere una
forma d’arte largamente praticata e molto popolare, e il discorso che si è sviluppato attorno ad essa diventa sempre più interessante”.28 Il World Wide
Web ha senza dubbio promosso un maggiore accesso alle informazioni e
la creazione di reti di comunicazione tra poeti con propensioni estetiche
simili che vivono lontani gli uni dagli altri. Come ha detto Darren Wershler-Henry, ex-editor di poesia per Coach House e poeta prolifico, collegato
alle comunità poetiche di Buffalo e New York: “Internet ha cambiato tutto,
sia in termini di cosa scriviamo, sia di dove scriviamo”.29
La poesia su Internet appare sotto forma di:
• Comunità virtuali per la discussione e promozione di poesie – di
taglio accademico, come www.alienated.net o il North American
147
barbara del mercato
Centre for Interdisciplinary Poetics (con sede presso la York
University, www.poetics.yorku.ca), o di taglio non accademico
come www.torontopoets.com, un gruppo di giovani poeti che
affermano di voler “diffondere la pace” attraverso la poesia.
• Promozione on-line di poesie. I libri di Coach House, per
esempio, sono scaricabili dalla rete, con pagamento su base
volontaria (un sistema denominato “tipping the author”, vedi
www.chb.ca);
• Pubblicità di associazioni di poeti come la League of Canadian
Poets (www.poets.ca) e la Canadian Poets’ Association (www.
cpa.ca);
• Siti Web contenenti informazioni sulla poesia e i poeti canadesi,
per esempio il Center for Contemporary Canadian Art (www.
ccca.ca), o link a risorse quali bibliografie e materiale critico
(cfr. University of Toronto Poetry Website, www.library.utoronto.ca/canpoetry, con links a eventi, premi, finanziamenti e
borse, concorsi e corsi di scrittura creativa).
l’università
L’università ha una lunga tradizione come sede di letture e conferenze
sulla poesia (la Hart House di Uof T, per esempio, ha accolto un’infinità di
reading e incontri con poeti).30 La lunga tradizione del “poet in residence”,
inoltre, ha garantito una preziosa entrata fissa a molti poeti.31
Il legame più diretto tra mondo accademico e pratica poetica è quello
dei corsi di scrittura creativa, che supervisionano le capacità degli studenti
caldeggiando al tempo stesso l’ingresso degli studenti sul mercato poetico.
L’ufficio di Toronto della Canadian Authors’ Association, per esempio (circa
duecento membri, quota annua $160,50), opera in collegamento con il
Creative Writing Course della York University per creare un “Anthology
Program” così pubblicizzato:
Studenti di livello avanzato del programma della York University, sotto la supervisione della Coordinatrice del Programma e autrice /poetessa Priscilla Uppal,
gestirà il processo di selezione, curerà i manoscritti selezionati e si occuperà della
grafica. Il Programma di Scrittura Creativa della York University avrà il compito
148
la poesia tra comunità e istituzione: il caso di toronto
di apportare un alto livello di professionalità e qualità all’Antologia, e accrescerà
notevolmente le credenziali dei membri come scrittori. La partecipazione al programma, inoltre, offrirà l’opportunità di accedere alla distribuzione commerciale
dell’Antologia [corsivo mio].32
A questo si aggiungono gli effetti, imprevedibili e non certo tracciabili su una mappa, di un’università che si riveli il terreno di incontro per
persone con interessi per la scrittura e la poesia.
Mi rendo conto che questo catalogo sta diventando piuttosto lungo,
ma c’è ancora una categoria che mi preme aggiungere:
la poesia parlata
Per quel che riguarda la poesia come oralità, dovremmo citare le serie,
più o meno regolari, di letture poetiche. Possono durare mesi o anni e lasciano tracce nella memoria di molti partecipanti. A parte quelle citate su
Word, vanno ricordate alcune serie “storiche”. La prima, nel deserto degli
anni Cinquanta, fu la Contact Reading Series, organizzata da Raymond
Souster, forse il singolo personaggio più influente nella diffusione della
poesia a Toronto e prototipo di tanti poeti-promotori che instancabilmente
hanno incoraggiato la poesia-come-azione nella città di Toronto. Da allora:
la Parliament Street Library series condotta da Hans Jewinsky e Ted Plantos
negli anni settanta, e, nei novanta, la Blanc Mange Reading Series (Steve
Venright), la Axel Tree Series e la Fascist Panties Reading Series (Gordon
Michael Allen e Stefan Pilipa, sul tetto di un caffè) e, oggi, la Lexiconjury
Reading Series.
Le letture più famose, tuttavia, sono quelle organizzate da Greg
Gatenby ad Harbourfront.
Nel 1974, anno della prima edizione del Festival degli Autori ad
Harbourfront, il governo federale credette possibile attirare la popolazione
di Toronto verso il waterfront per mezzo di nuovi eventi culturali. Toronto,
infatti, è una città che stranamente volta le spalle al suo lago, grazie anche
alla Gardiner Expressway, una superstrada costruita negli anni cinquanta:
spingersi a sud della Gardiner in quegli anni dava un senso di avventura,
perché l’area dove sorge Harbourfront era ancora in gran parte un molo
149
barbara del mercato
in disuso.33 La letteratura, dunque, faceva parte di un piano di sviluppo
urbanistico. L’esperimento attirò fin dai primi mesi folle di qualche
centinaio di persone (gigantesche per gli standard del tempo, ma ora
ampiamente superate). I primi autori stranieri furono invitati nel 1978 e
il primo International Festival at Harbourfront ebbe luogo nel 1980.
In quasi trent’anni, Harbourfront si è trasformato in un evento dotato di ottime ripercussioni sulla reputazione di un poeta: il fatto stesso
di essere invitati è sinonimo di un certo livello qualitativo e assicura una
discreta esposizione mediatica e qualche aiuto promozionale. Come ha
osservato Greg Gatenby:
Gli standard elevati fissati da Harbourfront per le letture internazionali rassicurano
il pubblico circa il talento dei partecipanti: un invito a leggere è il riconoscimento
dei meriti di un determinato autore. Per gli autori all’inizio della carriera, la possibilità di leggere ad Harbourfront è una magnifica occasione di trovare un pubblico,
anche in virtù della attenzione riservata dai media a questa manifestazione. Non
dimentichiamo che il reading di un autore avviene solitamente in concomitanza
con l’uscita di un nuovo libro.34
Una manifestazione improntata a un’idea più conviviale e informale
della poesia è Scream in High Park, che si svolge ogni anno all’aperto,
appunto ad High Park. La prima edizione risale al 1992, con radici nella
comunità della small press. È un appuntamento della vita letteraria di
Toronto molto amato e attira più di mille persone ogni anno – un pubblico che generalmente si raduna molto prima dell’inizio delle letture per
godersi un pic-nic nel parco. Il Festival è finanziato da Canada Council,
Ontario Arts Council e Toronto Arts Council.35
la poesia tra comunità e istituzione
Questa parziale ricognizione delle tracce poetiche a Toronto ci rivela
alcuni elementi interessanti. La poesia osservata attraverso la lente del
contesto urbano ci appare un insieme ibrido di pratiche, ciascuna delle
quali è influenzata dalle regole di una comunità attiva, da quelle delle
istituzioni o, il più delle volte, da entrambe queste cose.
150
la poesia tra comunità e istituzione: il caso di toronto
La poesia, in altre parole, è un sistema complesso. Suoi attori non sono
solo i poeti, ma anche librai, editori, agenti, organizzatori di serie di lettura,
giurati nelle commissioni finanziatrici e nei premi letterari, professori di
scrittura creativa, i lettori e coloro che comprano libri di poesia (un insieme, quest’ultimo, in larga misura corrispondente a quello dei poeti). Tutti
questi attori si raggruppano attorno a una serie di pratiche che formano il
corollario della scrittura vera e propria: stampa e distribuzione, ma anche
discussione e valutazione/validazione delle poesie stesse. Attorno a questo
quadro, incombenti e interferenti, vigono le leggi del mercato.
Volendo, potremmo ulteriormente riassumere questi elementi in
tre strati compenetranti e diversamente presenti nell’ideale campione di
poesia da noi estratto dal tessuto urbano: la società, l’economia e lo spazio,
ai quali andrebbe aggiunto l’elemento temporale e storico (lo “sviluppo”
della poesia a Toronto) che qui non c’è stato il tempo di affrontare se non
per minimi cenni.
Ma torniamo alla distinzione tra comunità e istituzione. Una comunità può variare da un livello locale (in un determinato quartiere, o legata
a un luogo particolare come una libreria o un caffè dove le poesie sono
messe in mostra, lette o discusse) fino a un livello più ampio, regionale
o nazionale, come nel caso delle comunità dei language poets, surrealist
poets, slam poets, o regional poets.
La poesia indipendente illustra bene quello che Pierre Bourdieu ha
chiamato il campo della produzione ristretta: un campo che produce beni
culturali destinati a un pubblico di produttori di beni culturali.36 Sempre
più poeti, a partire dagli anni cinquanta, hanno svolto un ruolo fondamentale come promotori culturali – inizialmente creando riviste ciclostilate in
cantina, poi allestendo piccole case editrici o eventi culturali, aiutati anche
dal rapido progresso di tecnologie per la stampa sempre più economiche.
L’autonomia del campo creativo in cui essi operarono è misurabile dalla
capacità di definire criteri propri per la creazione e soprattutto per la valutazione delle opere così create37 attraverso un vivace dibattito “interno”
non animato da un’etica dell’esclusione ma piuttosto da un concetto di
cultura come qualcosa di aperto a tutti, a prescindere dalla formazione.
151
barbara del mercato
Un’istituzione, d’altro canto, è una forma di organizzazione sociale
strutturata da una forza esterna al controllo o alla giurisdizione diretta dei
poeti ed è solitamente al servizio di qualcosa di diverso dei bisogni privati
di questi ultimi.38 Esistono moltissime istituzioni: l’Università, con i suoi
programmi di scrittura creativa e con il suo potere “canonizzante”, le case
editrici, le riviste letterarie e le organizzazioni come la League of Canadian
Poets o la Canadian Authors’ Association, e gli enti che stanziano i finanziamenti, come il Canada Council for the Arts, l’Ontario Arts Council e
il Toronto Arts Council.
Le comunità si evolvono generalmente fino ad un livello in cui richiedono e ricevono finanziamenti pubblici, ma non necessariamente perdono
la loro aspirazione organica (vedi Scream in High Park e Toronto Small
Press Book Fair). L’ambito della comunità e quello istituzionale non sono
così facilmente separabili ed esiste un certo grado di sovrapposizione. Alcuni esponenti della comunità della small press, per esempio, sono affiliati
ad un’università o sono ben lieti di pubblicare con i grandi editori o di
ricevere finanziamenti, anche se questa non è una regola – su questi temi
il dibattito è sempre aperto e vivace.39
Il lato istituzionale della poesia (come abbiamo detto, non formato
solo dai vari livelli di enti pubblici finanziatori, ma anche da università,
ecc.) è interessante anche perché ci aiuta a mettere a fuoco la cultura come
merce.40 Come ha scritto Christopher Beach nel suo studio sulla poesia
statunitense “tra comunità e istituzione”, uno studio di grande aiuto nella
definizione dell’ambito del presente studio:
A differenza delle comunità, che si sviluppano organicamente a partire dalle
necessità di gruppi particolari di poeti, le istituzioni normalmente prevedono un
certo grado di burocrazia. A differenza delle comunità, inoltre, che tendono ad
essere entità autosufficienti […] le istituzioni richiedono un contesto più ampio,
sia esso definito in termini di bacino di lettori, di commerciabilità, o di un piano
culturale o ideologico più vasto. Le istituzioni culturali sono in una certa misura
necessarie per disseminare la cultura al di là di un gruppo relativamente ristretto,
ma allo stesso tempo rischiano di portare non solo alla burocratizzazione della
cultura, ma anche a una crescente mercificazione della produzione culturale.
(Beach 1999, 6)
152
la poesia tra comunità e istituzione: il caso di toronto
Quella di Beach non è certo l’unica interpretazione possibile; sul
rapporto tra arte, cultura e burocrazia ci sarebbe molto da dire e molto è
stato detto. T.W. Adorno, nel saggio dedicato a “Cultura e amministrazione”, osservava che “la cultura soffre ad essere pianificata e amministrata;
d’altro canto, quando è lasciata a se stessa […] tutto ciò che è culturale
minaccia non solo di perdere la propria efficacia culturale, ma la propria
stessa esistenza”.41
In Canada il denaro pubblico stanziato per la poesia (per scriverla e
per pubblicarla) ha portato alla crescita lenta e costante di un’infrastruttura, a un sistema di finanziamenti, contributi, associazioni che è, per le
sue dimensioni, uno dei tratti distintivi e peculiari del panorama culturale
canadese. Per valutare il ruolo svolto dal Canada Council for the Arts
(nato nel 1957) è importante capire il suo funzionamento e l’entità dei
contributi da esso elargiti annualmente al settore letterario ed editoriale.
In The Governance Policy of the Canada Council for the Arts, gennaio 2003,
leggiamo:
Il Canada Council for the Arts è l’ente finanziatore delle arti canadesi a livello
nazionale. […] lo scopo (o il mandato) del Council è di “promuovere lo studio,
il godimento e la produzione di opere in tutti i campi artistici”. […] Il Council
e il suo personale sono coadiuvati da artisti e professionisti del mondo dell’arte
da ogni parte del Canada […] Nel decidere quali artisti, progetti artistici e organizzazioni artistiche riceveranno sussidi, il Council usa un sistema di valutazione
“tra pari”: sono artisti e altri professionisti del ramo a valutare le domande di
finanziamento, a stabilire le priorità e a consigliare il Council circa l’assegnazione dei sussidi. Nel formulare i propri suggerimenti, i comitati usano come
criterio principale il merito artistico dei richiedenti […]. Il Council è finanziato
dal Parlamento e ad esso rende conto, attraverso il Ministero per il Patrimonio
Canadese. Un fondo annuale stanziato dal Parlamento costituisce la principale
fonte di finanziamento per le attività del Council; nel 2001-2002 questa cifra è
stata pari a $151.776.000, provenienti dagli interessi maturati da un apposito
fondo creato dal Parlamento nel 1957 e dai proventi di donazioni private e lasciti
ricevuti nel corso degli anni.42
L’importanza del sistema delle giurie balza agli occhi: per ottenere
un finanziamento, un poeta dovrà essere valutato positivamente da una
153
barbara del mercato
“giuria di pari”, il che ovviamente rende molto importante la capacità di
nominare giurie valide ed esperte.
Associazioni come la League of Canadian Poets acquistano sempre
maggior potere nel determinare quali poeti riceveranno fondi di finanziamento e cioè agiscono da intermediario tra poeta e istituzioni governative
(solo i membri della LCP hanno diritto a finanziamenti tramite questo
canale).
Vorrei fornire qualche altro dato riguardante i fondi destinati a scrittura ed editoria. Nel 1999-2000 il Canada Council ha speso $23,6 milioni
per “le arti” a Toronto (il 23% dei finanziamenti stanziati da questo ente
nel medesimo anno). Il 19% di quella somma (pari a $4,4 milioni) è
andata a scrittura ed editoria.
A questa somma dobbiamo aggiungere $1.234.516 prodotti dal Public
Lending Rights Program (tassa corrisposta agli autori in base alla circolazione dei loro libri nelle biblioteche), distribuiti tra 1.902 autori residenti
a Toronto i cui libri sono conservati in varie biblioteche canadesi.
Ci sono, inoltre, i fondi stanziati da Ontario Arts Council e Toronto
Arts Council (sommati, fanno altri venti milioni di dollari canadesi per
le arti. Se la percentuale dedicata a scrittura ed editoria è simile a quella
del Canada Council, significa approssimativamente altri quattro milioni
per il settore).43
Non è facile stabilire che percentuale di questi dieci milioni di dollari
canadesi (circa) stanziati per la scrittura in generale abbia raggiunto le attività legate alla poesia ma, per citare qualche esempio concreto, sappiamo
che nell’anno 2000-2001 la Art Bar Poetry Series ricevette $3.900, la serie
di letture internazionali ad Harbourfront $44.000, la League of Canadian
Poets (solo per i reading) $65.000, e Scream in High Park ricevette $10.000
di finanziamenti.44
La gerarchia dei finanziamenti è dunque chiaramente proporzionale
alla dimensione (e ai proventi) dell’evento e i contributi statali sono diventati tanto importanti da far temere che essi siano di importanza vitale
per la sopravvivenza stessa dell’editoria canadese.
154
la poesia tra comunità e istituzione: il caso di toronto
Forse non è il caso, in questa sede, di entrare nel merito della pericolosa
dipendenza delle case editrici, soprattutto se di piccole dimensioni, dai
finanziamenti statali, ma è bene tenere a mente che, nel bene e nel male,
l’intervento governativo è difficilmente un filtro trasparente nel sistema
culturale. Ma questa discussione ci porta troppo lontano da Toronto, ed
è invece lì che vorrei tornare per concludere.
La vitalità delle pratiche legate alla poesia nella città di Toronto ci aiuta
a ricordare che la letteratura, a prescindere dalla sua visibilità sul mercato,
può svolgere un ruolo vivo e importante, il cui valore non è misurabile
esclusivamente attraverso la lente accademica. La poesia stimola forze
creative e interagisce in molti modi con la sfera sociale e con gli spazi della
città, portando le persone ad agire insieme all’interno di una comunità
e, o in opposizione a, le varie istituzioni. Per molti Toronto è una città
che sta tutta nelle tre sillabe del suo nome, perché ancora non produce
quell’eco di allusioni che invece circonda le città con una mitologia letteraria o cinematografica già affermata. Parlare della sua poesia-nei-luoghi
non è che uno dei molti modi possibili per tessere la rete di associazioni
immaginifiche cui ogni spazio urbano ha diritto.
note
1. I temi qui trattati sono più estesamente esposti in Toronto, Poetry in Place, tesi di Dottorato in Letterature Anglo Americane e Ibero Americane discussa presso l’università di
Venezia Ca’ Foscari nel febbraio 2004 (tutor: Prof. Rosella Mamoli Zorzi).
2. Cfr., per esempio, Maria Balshaw e Liam Kennedy (a cura di.), Urban Space and Representation, London, Pluto, 2000; Iain Borden, Joe Kerr, Jane Rendell et al. (a cura di),
The Unknown City: Contesting Architecture and Social Space, London and Cambridge Mass.,
MIT Press, 2001; Mary Ann Caws (a cura di), City Images: Perspectives from Literature,
Philosophy and Film, New York, Gordon and Beach, 1991; Mark Gottdiedner e Alexandros
Lagopoulos (a cura di), The City and the Sign: and Introduction to Urban Semiotics, New
York, Columbia U. P., 1986. Tra i più riusciti tentativi di allargare lo spazio di una città
(Nantes) con le parole, vedi Julien Gracq, La forma di una città, Roma, Quasar, 2001.
3. United Nations for Human Settlements (HABITAT), Cities in a Globalizing World. Global
Report on Human Settlements in 2001, London and Sterling VA, Earthscan, 2001, p. 5.
4. Nel 1901, il 92,85% della popolazione canadese era definita “rurale” – nel 1997, il
76,7% dei canadesi rientravano nella categoria degli “urban settlers”, il 77,9% in 2001.
Stato del Mondo 1997, Milano, Il Saggiatore, 1997, and www.statcan.ca. Il Canada aveva
155
barbara del mercato
5.371.315 abitanti nel 1901 e 31.29.77 nel 2001, Toronto aveva 208.000 abitanti nel
1901 e 2.481.494 nel 2001 [4.907.000 nella Great Toronto Area].
5. Henry Lefebvre, “Levels of Reality and Analysis”, in Id., Writings on Cities, a cura di
Eleanor Kofman e Elisabeth Lebas, Oxford, Blackwell, 1996, p. 113.
6. Anche lo studio della “rappresentazione di Toronto” nella poesia sarebbe un fertile
terreno d’analisi: potremmo concentrarci sui versi di Raymond Souster, su Thirsty di
Dionne Brand, su Civil Elegies di Dennis Lee o Hogg’s Poems di Barry Callaghan, oppure
potremmo porre l’accento sull’elemento biografico e selezionare un gruppo di “poeti di
Toronto” (nati e cresciuti a Toronto, o che ci hanno vissuto/insegnato/lavorato per periodi
significativi). La scelta certo non manca: Margaret Atwood, Gwendolyn MacEwen, Joe
Rosenblatt, Anne Michaels, ma anche Michael Ondaatje, bpNichol, Piergiorgio Di Cicco,
Mary Di Michele, ecc.
7. Utilissimi spunti di riflessione sul rapporto tra azioni e conoscenza della città sono in
Michel De Certeau, L’invenzione del quotidiano, Roma, Lavoro, 2000.
8. www.themercurypress.ca/main.html. Sulla prima pagina di ogni numero si legge: “10.000
copie stampate ogni mese e distribuite per abbonamento [$10/12 numeri] e in librerie e
caffè a Toronto e nei dintorni, oltre che a svariati eventi elencati nel calendario”.
9. Nel 2003, Word era ancora pubblicato da Insomniac Press.
10. Il pubblico delle letture di poesia oscilla grosso modo tra le venti e le cinquanta persone. I biglietti per i trecento posti della Brigantine Room ad Harbourfront per la serata
di consegna del Griffin Prize erano esauriti già due settimane prima.
11. www.city.toronto.on.ca/mapping/svy_str_naming.htm.
12. Cfr. David B. Smith e Duncan Kincaid, A Stone in the Sea. The Public Projects by
dbsmith, Toronto, Coach House Press, 1998, p. 23-27.
13. Il concetto di paratesto è illustrato da Gérard Genette in Palimpsestes. La litérature
au second degré, Paris, Seuil, 1982, and Seuils, Paris, Seuils, 1987. Solitamente si riferisce
a tutti gli aspetti di un libro che fungono da corollario al testo stesso: copertina, indice,
note, dimensioni ecc. Cfr. Cristina Demaria and Riccardo Fedriga (a cura di), Il paratesto,
Milano, Bonnard, 2001.
14. http://transit.toronto.on.ca/archives/data/20001106.htm.
15. Ibid.
16. Cfr. Jamie Kastner, “Brave words. Poet punk or influential man of letters?” Eye,
Feb. 15 1996, pp. 40‑41.
17. Poesia originariamente pubblicata in: Jones, Jack and Jill in Toronto, Toronto, Unfinished
Monument Press, 1983.
18. Beverly Daurio, Internal Document. A Response to Clint Burnham’s “Allegories of Publishing: The Toronto Small Press Scene”, Toronto, Streetcar, 1992, p. 9.
156
la poesia tra comunità e istituzione: il caso di toronto
19. www.lpg.ca.
20. [Nicky Drumbolis], Millennial Report, Toronto, letters, 1999, p. 58.
21. Lucy Lippard, Six Years: the Dematerialization of the Art Object from 1966 to 1972,
London, Studio Vista, 1973.
22. Antonio Bisaccia, “Digital Snow,” Alias, 34, 30 agosto 2003, p. 11.
23. Conversazione con Stuart Ross, Toronto, giugno 2003.
24. La più recente raccolta di poesie di Stuart Ross, Hey Crumbling Balcony!, è pubblicata
da ECW Press: alla presentazione del libro erano presenti circa duecento persone (giugno
2003).
25. Stuart Ross intervistato da Kerri Huffman, estate 2001 (pubblicato originariamente
su Taddle Creek), www.hunkamooga.com.
26. bpNichol, “Primary Days: Housed with the Coach at the Press, 1965 to 1987”, in
Meanwhile. The Critical Writings of bpNichol, a cura di Roy Miki, Vancouver, Talonbook,
2002, p. 428.
27. L’impatto di Internet sulla vita contemporanea ha prodotto una vasta bibliografia. Io
ho letto: William Mitchell, E-topia: “Urban Life, Jim – But Not As We Know It”, Cambridge
Mass., MIT Press, 1999, Manuel Castells, “Citizen Movements, Information and Analysis:
An Interview” City, 7, 1997, pp. 140-55, e Derrick De Kerckhove, Brainframes. Technology,
Mind and Business, Utrecht, BSO/Origin, 1991.
28. Marjorie Perloff, What We Don’t Talk About When We Talk About Poetry. Some Aporias
of Literary Journalism, http://wings.buffalo.edu/epc/authors/perloff/lit.html.
29. Intervista a Darren Wershler-Henry, Toronto, 19 giugno 2003.
30. Nel 1975 vi si svolse il primo festival internazionale di poesia, cui parteciparono
Robert Creeley, Thom Gunn, Seamus Heaney, Octavio Paz, Margaret Atwood, Al
Purdy, Irving Layton, e molti altri. Greg Gatenby, Toronto. A Literary Guide, Toronto,
McArthur&Company, 1999, p. 209.
31. Il problema della sussistenza dei poeti non va sottovalutato. In un’intervista del 1976
John Newlove dichiarò di guadagnare $1.000 l’anno, al che l’intervistatore gli chiese
come facesse a sopravvivere. Newlove rispose: “Speri che qualcuno ti scelga come poet in
residence, partecipi a letture di poesia finché i tuoi versi non ti annoiano a morte, cerchi
di mantenere rapporti amichevoli con il Canada Council, e poi c’è la grande istituzione
letteraria famosa in tutto il mondo che ha fatto più del Canada Council per gli artisti: si
chiama la moglie che lavora, e dovrebbero erigerle un monumento a Ottawa”. Where to
From Here/Publish or Perish, a Global Television Network Film, 1976.
32. www.tacob.org.
33. www.readings.org/history.htm.
34. Ibid.
157
barbara del mercato
35. www.thescream.ca.
36. Pierre Bourdieu, “The Market of Symbolic Goods,” in The Field of Cultural Production,
a cura di Randal Johnson, Cambridge, Polity Press, 1993, p. 115.
37. Ibid., p, 117.
38. Christopher Beach, Poetic Culture. Contemporary American Poetry between Community
and Institution, Evanston, Ill., Northwestern University Press, 1999, pp. 5-6.
39. “Le small press di Toronto esistono in un contesto che è storico, geografico, sociale,
politico, culturale ed economico; animate da individui con un’ampia gamma di punti di
vista. Queste piccole case editrici e l’arte da esse prodotta non sono astratte: esistono in
un tempo e in un luogo ben precisi, e sono nate in parte grazie al talento e al desiderio
di produrre libri, in parte per colmare le lacune nella sotto-cultura intellettuale canadese,
in parte per via della scarsità di occasioni offerte da altre “comunità” editoriali. […]. Gli
editori di small press sono outsider per scelta, ma sono marginali solo perché tendono ad
essere ignorati dal grosso dell’infrastruttura culturale canadese e sono svantaggiati dal punto
di vista economico” (Daurio 1992, 8).
40. Cfr. Ron Silliman, “The Political Economy of Poetry”, in Open Letter, 5.1 (Winter
1982), pp. 52-65.
41. Theodor W. Adorno, “Culture and Administration”, in The Culture Industry: Selected
Essays on Mass Culture, New York, Routledge, 1990, p. 94.
42. The Governance Policy of the Canada Council for the Arts, January 2003 (www.canadacouncil.ca).
43. The Canada Council for the Arts Profile of Funding to Arts and Arts Organizations in the
City of Toronto 1999-2000, Planning and Research, The Canada Council for the Arts, July
2000, www.canadacouncil.ca.
44. The Canada Council for the Arts Profile of Funding to Writing and Publishing 2000-2001
www.canadacouncil.ca.
158
note sugli autori
Franca Bernabei insegna letteratura inglese e postcoloniale
all’Università Ca’ Foscari di Venezia. Ha scritto saggi e articoli sulla
letteratura inglese, americana, canadese e della diaspora caraibica. È autrice
di La teoria del romanzo americano e la lezione francese (Paideia) e Jean Rhys
e il pensiero del luogo (Supernova).
Simona Bertacco è ricercatrice di letteratura inglese all’Università di Milano. Si occupa di letteratura canadese, di teoria postcoloniale e di
“translation studies” in prospettiva culturalista. Ha pubblicato la monografia
Out of Place: The Writings of Robert Kroetsch (Peter Lang 2002), un’antologia
sulla cultura dei paesi di lingua inglese Postcolonial to Multicultural: An
Anthology of Texts from the English-Speaking World (Hoepli 2004) e saggi
sul valore culturale della traduzione nella letteratura postcoloniale.
Andrea Carosso è docente di studi americani all’Università di
Torino, dove coordina anche il Master in American Studies. È autore di
Invito alla lettura di Vladimir Nabokov (Mursia, 1999), T.S. Eliot e i miti del
moderno (Edizioni dell’Orso, 1995) e Decostruzione e\è America (Tirrenia
Stampatori, 1994). Negli ultimi anni ha pubblicato, tra gli altri, svariati
saggi sulla cultura urbana del sud-ovest americano.
Robert Casillo è docente di letteratura inglese alla University of
Miami. Tra i suoi libri: The Genealogy of Demons: Anti-Semitism, Fascism,
and the Myths of Ezra Pound (1988), The Empire of Stereotypes: Germaine
de Stael and the Idea of Italy (Palgrave Macmillan, di prossima pubblicazione) e Gangster Priest: The Italian American Cinema of Martin Scorsese
(University of Toronto Press, di prossima pubblicazione). È anche autore
159
note sugli autori
di saggi su Pound, Ruskin, Stendhal, Hemingway, Samuel Butler, Martin
Scorsese, Rene Girard.
Carmen Concilio è ricercatrice di letteratura inglese all’Università di Torino, dove insegna Letteratura dei paesi di lingua inglese. È
autrice di Le declinazioni dell’io (Liguori 2001), ha curato e tradotto Roots
and Frontiers (Tirrenia 2003) e ha pubblicato saggi sulla città “postcoloniale” e su Coetzee, Rushdie, Ondaatje, Desai, Gordimer.
Barbara Del Mercato ha conseguito il dottorato in “Studi
Iberici e Anglo-Americani” all’Università Ca’ Foscari di Venezia, con una
tesi sulla scena poetica nella città di Toronto dagli anni Cinquanta ad oggi.
Lavora come traduttrice. Ha pubblicato con Shaul Bassi, “Venetian (Still)
Life: The displacement of ethical response in the travel writing of W.D.
Howells”, Journeys, Vol. 4, I, 2003.
Federico Luisetti insegna presso il dipartimento di Lingue
Romanze della University of North Carolina at Chapel Hill. È autore del
volume Plus Ultra. Enciclopedismo barocco e modernità (Trauben, 2001)
e di numerosi saggi di teoria letteraria, filosofia dell’immagine e critica
culturale.
Joy Ramirez insegna letteratura italiana e comparata alla Vanderbilt University. È autrice di saggi di cinema e italianistica. Sta attualmente
terminando un volume dal titolo Do the Sirens Sing? A Critical Re-Reading
of the Myth of the Femme Fatale.
John Paul Russo è docente di letteratura inglese e attualmente
dirige il Dipartimento di Studi Classici presso la University of Miami.
È tra i curatori del periodico Italian Americana e membro del comitato
scientifico della American Italian Historical Association. È autore di saggi
di culturologia ed etnologia, poetica e storia della critica. Tra i suoi libri:
I.A. Richards: His Life and Work e il recentissimo The Future without a Past:
The Humanities in a Technological Society (2005).
160
I saggi di questo volume analizzano la tendenza dei luoghi urbani in questo inizio
di millennio a proporsi, nella loro s truttura urbanistica e nella loro articolazione
sociale, come modello di città del futuro. Questo sguardo , dall’Europa v erso il
Nordamerica, teso a cogliere nuo vi modelli urbani nella loro complessità e non
più solo nella loro “div ersità” o totale “alte rità”, è un in vito ai lettori specializzati
oppure semplicemente curiosi ad avvicinarsi a questi luoghi reali attraverso varie
prospettive teoriche, letter arie, cinematografiche ed esperienz e individuali che
restituiscono immagini vivide di un mondo in pieno divenire.
Real Cities
Las Vegas e Toronto sono importanti esempi di come la città in Nordamerica oggi
tenda a “farsi discorso”: alla frontiera avanzata del cambiamento urbano,
sebbene per ragioni e con modalità differenti e poco assimilabili, sono città che si
fanno rappresentazione, diventando il luogo privilegiato di messa in scena di
nuovi sensi del nostro con vivere quotidiano: spazi, modelli economici, contesti
sociali, linguaggi.
A. Carosso, C. Concilio
Esiste oggi, nel contin ente nordamericano, una forma urbana distintiv a che
segnali la peculiarità dell’esistenza in questo inizio di millennio? Esistono a fianco
delle molteplici città “irreali”, “immaginarie”, “digitali”, utopie, distopie ed
eterotopie urbane, città reali con cui fare i conti per comprendere le
trasformazioni e i nuovi segnali provenienti dal continente nordamericano, da noi
e dalla nostra cultura sempre troppo lontano e diverso?
nova americana
Real Cities
rappresentazioni della città
negli Stati Uniti e in Canada
a cura di
Andrea Carosso e Carmen Concilio
ANDREA CAROSSO è docente di studi americani all'Università di Torino, dove
coordina anche il Master in American Studies. È autore di monografie su Vladimir
Nabokov e T.S. Eliot. Ha pubblicato saggi di teoria critica e, di recente, svariati
studi sulla cultura urbana del sud-ovest americano.
CARMEN CONCILIO è docente di letteratura inglese all’Università di Torino, dove
insegna Letteratura dei paesi di lingua inglese. È autrice di una monografia su
tematiche legate all’identità e ha pubblicato saggi sulla città “postcoloniale” e su
Coetzee, Rushdie, Ondaatje, Desai, Gordimer.
I libri della collana "No va Americana" sono disponibili anche in
elettronico al sito www.otto.to.it
ISBN 978-88-87503-93-7
formato
€ 9.00