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la Biblioteca di via Senato mensile, anno vi Milano n. 10 – ottobre 2014 ARCHIVIO MARTINI Fra le carte di Giuseppe Martini di giancarlo petrella LETTERATURA “O gran bontà de’ cavallieri antichi” di marco cimmino FANTASCIENZA Il fascismo boicottò la fantascienza? di gianfranco de turris LIBRO DEL MESE Mussolini alla vigilia della sua morte di pierre pascal e emilio del bel belluz L’ALTRO SCAFFALE Un salotto esclusivo e una libreria tentatrice di alberto cesare ambesi la Biblioteca di via Senato – Milano MENSILE DI BIBLIOFILIA – ANNO VI – N.10/55 – MILANO, OTTOBRE 2014 Sommario 4 BvS: Archivio Martini FRA LE CARTE DI GIUSEPPE MARTINI di Giancarlo Petrella 18 Editoria NOTE A MARGINE1 (E A PIÈ DI PAGINA)2 di Massimo Gatta 28 BvS: Fondo Fantascienza IL FASCISMO BOICOTTÒ LA FANTASCIENZA? di Gianfranco de Turris 33 Guerra e Letteratura “O GRAN BONTÀ DE’ CAVALLIERI ANTICHI” di Marco Cimmino 37 IN SEDICESIMO – Le rubriche LE MOSTRE – LO SCAFFALE – L’INTERVISTA DEL MESE – LA NOTIZIA DEL MESE a cura di Luca Pietro Nicoletti, Luigi Sgroi e Federica Balza 54 Punture di penna CONSIGLI INTELLETTUALI PER IL VERO MAÎTRE À PENSER di Luigi Mascheroni 58 Il libro del mese MUSSOLINI ALLA VIGILIA DELLA SUA MORTE di Pierre Pascal e Emilio del Bel Belluz 66 L’Altro Scaffale UN SALOTTO ESCLUSIVO E UNA LIBRERIA TENTATRICE di Alberto Cesare Ambesi 70 BvS: il ristoro del buon lettore UNA “LAVANDERIA FRANCESE” di Gianluca Montinaro 72 HANNO COLLABORATO A QUESTO NUMERO SI RINGRAZIANO LE AZIENDE CHE SOSTENGONO QUESTA RIVISTA CON LA LORO COMUNICAZIONE Fondazione Biblioteca di via Senato Biblioteca di via Senato – Edizioni Presidente Marcello Dell’Utri Redazione Via Senato 14 - 20122 Milano Tel. 02 76215318 - Fax 02 798567 [email protected] [email protected] www.bibliotecadiviasenato.it Consiglio di Amministrazione Marcello Dell’Utri Giuliano Adreani Fedele Confalonieri Ennio Doris Fabio Pierotti Cei Fulvio Pravadelli Carlo Tognoli Segretario Generale Angelo de Tomasi Collegio dei Revisori dei conti Presidente Achille Frattini Revisori Gianfranco Polerani Francesco Antonio Giampaolo Direttore responsabile Gianluca Montinaro Servizi Generali Gaudio Saracino Coordinamento pubblicità Ines Lattuada Margherita Savarese Progetto grafico Elena Buffa Fotolito e stampa Galli Thierry, Milano Referenze fotografiche Saporetti Immagine d’Arte - Milano Immagine di copertina Collage di riviste di fantascienza d’epoca Stampato in Italia © 2014 – Biblioteca di via Senato Edizioni – Tutti i diritti riservati L’Editore si dichiara disponibile a regolare eventuali diritti per immagini o testi di cui non sia stato possibile reperire la fonte Reg. Trib. di Milano n. 104 del 11/03/2009 Editoriale A ppare, su questo numero di ottobre della rivista, la prima parte di un ampio articolo che Giancarlo Petrella dedica a Giuseppe Martini e al suo formidabile archivio (immensa raccolta di dati e, per gli studiosi, fonte inesauribile di nuove scoperte). Celebre libraio antiquario e collezionista, Martini ha consacrato la sua vita ai libri, fondendo la passione del bibliofilo con l’acribia dello studioso e il pragmatismo del mercante. È stato un personaggio esemplare, quasi un modello, per tutti coloro che hanno a cuore il libro. Per la Biblioteca di via Senato è un onore possedere e conservare, fra i propri tanti fondi, anche l’archivio di quest’uomo straordinario. Ma è anche una sorta di quotidiana “dichiarazione d’intenti”: un impegno, fiero e continuo, a tenere alta la bandiera della libera cultura e della proficua ricerca del sapere. Gianluca Montinaro 4 la Biblioteca ottobre 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano 5 BvS: Archivio Martini FRA LE CARTE DI GIUSEPPE MARTINI Spigolature collezionistiche di un libraio bibliografo GIANCARLO PETRELLA Prima parte «P er molti anni, negli anni più memorabili dell’antiquariato, fra il 1920 e il 1930 soprattutto, i grandi organizzatori delle vendite più solenni attesero con ansia l’arrivo di Giuseppe Martini. Se c’era lui il successo era sicuro. E lui c’era, quasi sempre. Arrivava con quella sua aria bonaria e distratta, gli occhi grossi dietro le lenti irrequiete, con la giacca ciondolante e le tasche gonfie di libri. Lo sentivi, mentre passava in rassegna i libri, infilzare a memoria dinastie di stampatori e scaffalate d’incunaboli; recitare senza errore numeri di segnature, date di stampa, formule sacramentali di explicit». Giuseppe Martini (1870-1944), A destra dall’alto: cataloghi della vendita all’asta della Bibliothéque Martini 1934-1935. Nella pagina accanto: secondo tipo di ex libris allegorico con motto “Ioseph Martini Luc.”, probabilmente su disegno del padre Domenico Martini libraio per professione nonché collezionista e studioso in prima persona, lucchese di nascita trasferitosi a New York e infine a Lugano, fu protagonista di primissimo piano della più mirabile stagione dell’antiquariato librario italiano, al pari del prussiano trapiantato in Italia Leo S. Olschki (1861-1940) e dei napoletani Tammaro De Marinis (1878-1969) e Mario Armanni (1878-1956), quest’ultimo responsabile della sezione antiquaria della Libreria Hoepli. Alle aste, come ricordava Achille Pellizzari in limine al monumentale catalogo degli incunaboli che Martini diede alle stampe nel 1934,1 era dunque atteso con trepidazione, poiché si sapeva che agiva per una clientela facoltosa ed esigente d’Oltreoceano che si valeva della sua competenza per rimpinguare le proprie collezioni improntate a buon gusto e passione per il libro a stampa rinascimentale. Comprava anche per se stesso, per una privatissima collezione, solo 6 la Biblioteca di via Senato Milano – ottobre 2014 Da sinistra: fotografia di Giuseppe Martini; terzo ex libris allegorico (quello più diffuso) con motto “Adsit Fortuna Non Invita Minerva” e “Iosephi Martini Lucensis”. Nella pagina accanto da sinistra: frontespizio del catalogo degli incunaboli del 1934; marca tipografica di Leonardo Torrentino in parte testimoniata dal Catalogo degli incunaboli, che andò parzialmente all’incanto in due tornate tra l’agosto del 1934 e il maggio 1935 per la Galerie Fisher e la Libreria Antiquaria Hoepli.2 Della sua infaticabile attività di libraio e bibliografo rimangono i cataloghi di vendita (una trentina in tutto, a loro volta oggetti da collezione, anche per l’assoluta rarità di quelli del periodo preluganese), il citato Catalogo degli incunaboli (purtroppo privo di indici, soprattutto quello delle provenienze!) e i due volumi d’asta Bibliothèque Joseph Martini. Così almeno ufficialmente. In realtà lo ‘scrittoio’ di Giuseppe Martini, le sue quarantennali ricerche e veglie bibliografiche, i dubbi e le incertezze in merito a collazioni e identificazioni, riemergono piuttosto da quello che, un po’ impropriamente, possiamo definire il suo archivio personale: quasi 8.000 schede autografe dei manoscritti e libri a stampa passati fra le sue mani, corredate da trascrizioni diplomatiche, note bibliografiche, divagazioni erudite che rappresentano in molti casi il cartone preparatorio da cui presero poi forma le schede ‘pulite’ dei cataloghi ufficiali, compreso quello straordinario degli incunaboli in cui Martini seppe radunare, per sé e per gli studiosi, 405 incunaboli che riguardano direttamente la letteratura italiana. L’archivio, dopo la morte di Martini andato a impreziosire la raccolta bibliografica di un altro bibliofilo e libraio, il milanese Carlo Alberto Chiesa (1926-1998), è stato acquistato nel giugno 2010 dalla Biblioteca di via Senato, di cui costituisce uno dei fondi più preziosi e meno noti.3 In realtà, come si avrà modo di capire avendo la costanza di leggere le pagine che seguono, si tratta di un’autentica miniera di informazioni, non sempre facile da maneggiare – come imparai fin dalle prime con- ottobre 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano sultazioni qualche anno fa inseguendo la pista che portava ad alcuni introvabili incunaboli bresciani – , che disvelano il modus operandi di Martini bibliografo bibliologo e bibliofilo, prima ancora di metterci sulla traccia di esemplari oggi dispersi e ricostruire così, almeno virtualmente, l’intera sua collezione. È in questi foglietti stipati all’inverosimile di appunti e disseminati di ripensamenti e cancellature che trova piena conferma il giudizio espresso, all’indomani della sua scomparsa avvenuta a Lugano il 20 ottobre 1944, dalle pagine de La Bibliofilia (XLVII, 1945, p. 128): «Pochi uomini sono stati così decisamente e, vorremmo dire, così interamente bibliografi come lo fu il Martini. Libraio antiquario, per lui la ricerca bibliografica non si esauriva mai con gli scopi pratici ai quali essa avrebbe dovuto mirare. Ne conseguiva che i suoi 7 cataloghi, modelli di precisione, avevano un carattere erudito tutto speciale e parevano diretti più a una ristretta cerchia di studiosi che non a una folla di compratori. Dagli intendenti erano infatti ricevuti sempre con la più viva curiosità, ricchi com’erano di descrizioni, riferimenti e rare notizie. … Il catalogo della sua collezione privata di incunabuli, ch’egli pubblicò a cura della Casa Hoepli, è il suo capolavoro e si è assicurato un posto duraturo in ogni biblioteca di consultazione». È dunque tempo, a questo punto, di aprire lo schedario spiando, per così dire, l’antiquario al lavoro. Lo schema adottato è pressoché sempre lo stesso, una sorta di modello che Martini migliorò nel tempo, cucendolo quasi su misura per le proprie esigenze e le aspettative di una clientela nient’affatto superficiale. Le schede sono organizzate 8 secondo l’ordine alfabetico dell’autore (e del titolo) e così collocate nell’apposito archivio-contenitore. La prima parte della scheda, dopo l’intestazione normalizzata autore-titolo cui segue la trascrizione facsimilare dell’incipit (con rilevazione e descrizione di eventuali bordure e silografie), prevede l’area della collazione e dettagliata descrizione bibliologica dell’edizione, secondo pressappoco quest’ordine: serie di caratteri impiegati, disposizione del testo e numero di righe per pagina, numero delle carte (con indicazione di carte bianche ed eventuali errori di paginazione-cartulazione), fascicolatura secondo la formula con numero a esponente, indicazioni sull’apparato illustrativo e ornamentale, formato e tipo di legatura. Quest’ultima indicazione, si badi, è però già con- la Biblioteca di via Senato Milano – ottobre 2014 cettualmente un’indebita intromissione rispetto alla descrizione dell’edizione, riguardando, di fatto, la singola copia messa a catalogo di cui si riprenderà infatti la descrizione più avanti nel corso della scheda. Questa, di norma, prosegue a questo punto con la trascrizione semi-diplomatica dell’explicit e del colophon. Il modello cui si attiene Martini è facilmente rilevabile in filigrana. Nient’affatto inedito, pare piuttosto assai prossimo a quello, all’epoca già autorevole e quasi standard, predisposto negli anni Novanta dell’Ottocento dal bibliografo inglese Roberti Proctor per gli incunaboli della Bodleian Library di Oxford e della British Library di Londra (allora ancora formalmente British Museum) e poi perfezionato da Alfred Pollard e Victor Scholderer per la redazione del monumentale Ca- ottobre 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano 9 Nella pagina accanto dall’alto: Charles Fairfax Murray (1849-1919), The Kings’ Daughters (1875), Dulwich Picture Gallery, Londra; probabile primo ex libris in forma di un timbro tondo in inchiostro nero con motto “Iosephi Martini Lucensis” e al centro arma famigliare. Sopra: scheda tratta dall’Archivio Martini talogo degli stampati del XV secolo della British Library (Catalogue of books printed in the XV th century, meglio noto con la sigla BMC).4 Lo si intuisce non solo dal tipo di scheda descrittiva analitica impiegato, ma soprattutto dall’ampio spazio riservato, anche a fini attributivi, ai caratteri tipografici, con rilevazione dell’altezza in millimetri sulla misura delle 20 linee di testo, e dettagliata descrizione delle caratteristiche tipologiche e delle lettere distintive. Qui i modelli sono espliciti e dichiarati dai frequenti rimandi al pionieristico censimento dei caratteri tipografici impiegati dai diversi tipografi di Proctor e alle descrizioni, corredate da indispensabili specimina fotografici, fornite dal Catalogo della British Library. Martini recepisce l’importanza straordinaria della rilevazione del carattere tipografico, consa- pevole che la descrizione tipologica, se non limitata a poche lettere ma estesa all’intera cassa (alta e bassa), può rivelarsi un forte indizio per avanzare verisimili ipotesi attributive nel caso delle problematiche edizioni sine notis. L’antiquario e il bibliologo sono dunque tutt’uno, come si apprende da alcuni casi metodologicamente esemplari. Si veda la lucidissima analisi tipologica a margine della princeps, priva appunto di sottoscrizione tipografica, del De civitate Dei in volgare, ancora oggi bibliograficamente in bilico fra l’officina veneziana o fiorentina di Antonio Miscomini [Venezia o Firenze, Antonio di Bartolommeo Miscomini, c. 147678 – non dopo 1483] (ISTC ia01248000): «Caratt. 78 R … quasi indistinguibile dal 79R usato dal medesimo stampatore a Firenze e forse il medesimo, fatta eccezione della e che qui è stretta con occhio 10 la Biblioteca di via Senato Milano – ottobre 2014 Sopra e a sinistra: schede tratte dall’Archivio Martini ristretto e linea di chiusura obliqua e della a leggermente più larga … dopo aver confrontato accuratamente il carattere di questa edizione coll’altro della traduzione italiana di Tito Livio uscito dalla prima stamperia del Miscomini a Venezia il 1478, trovo che il carattere dell’Agostino è più nitido e meno usato di quello del Livio, il che dimostra che il primo fu pubblicato antecedentemente. Le filigrane della carta … sono quelle che si trovano ordinariamente a Venezia circa questo tempo … il volume V del Catalogo del British Museum omette l’Agostino nella descrizione dei libri stampati a Venezia dal Miscomini, ma il volume VI lo toglie alla tipografia del Miscomini a Firenze e lo dà a Venezia, vero luogo di stampa. La Pellechet dà il libro a Firenze, Buonaccorsi, il che è inammissibile». Il modus operandi di Martini è ineccepibile e non si limita al rilevamento, puramente tecnico, della misura del carattere, ma si allarga al confronto con lo stato dello stesso carattere impiegato nell’edizione di Livio, esplicitamente sottoscritta e datata (BMC V, p. 241; ISTC il00252000), per giustificare una possibile retrodatazione. A corroborare la propria ipotesi di identificazione dell’officina tipografica invoca infine anche l’analisi delle filigrane che sembrano puntare ancora verso Venezia. Marie Pellechet ha dunque torto. Carattere e filigrane orientano verso l’officina veneziana del Miscomini e l’ipotesi fu accolta fra gli Addenda nel VII volume ottobre 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano 11 Sopra e a destra: schede tratte dall’Archivio Martini del Catalogo degli incunaboli della British Library (BMC VII, p. 1136).5 Dopodiché può tornare a vestire i panni dell’antiquario, ma anche qui con aperture mentali sorprendenti. Se è infatti inevitabile che una buona scheda d’antiquariato assicuri innanzitutto riguardo le condizioni fisiche e la completezza della copia offerta (molte schede segnalano perciò a se stesso e ai futuri clienti l’odiosa mancanza della carta bianca iniziale o finale, oltre che, ovviamente, di altre carte che minano l’integrità del testo), Martini aveva piuttosto già intuito e imparato a leggere la storia del singolo esemplare, ricostruendone, e sfoggiandone, le precedenti provenienze. Di tutto prende nota in quei suoi vecchi appunti in cui scioglie dubbi, descrive legature ed ex libris e accosta proprietari blasonati a misconosciuti personaggi. Al di là di ogni sterile voyeurismo bibliografico, l’analisi dell’archivio Martini si rivela per- tanto fecondissima di informazioni volte a individuare tessere di collezioni un tempo sontuose e andate poi disperse in mille rivoli. Il sussulto è dietro l’angolo. Ci sono i Trionfi di Petrarca stampati a Venezia nel 1484 da Piero de’ Piasi appartenuti all’architetto fiorentino Giuliano da San Gallo e poi al figlio Francesco, che vi annotò persino un promemoria per un prestito alla carta di guardia finale («Questo libro e di Giuliano di francesco da san ghalo fiorentino», «Questo libro e di Francescho 12 la Biblioteca di via Senato Milano – ottobre 2014 Sopra: scheda tratta dall’Archivio Martini di Giulian da Sangallo Fiorentino»);6 la copia (venduta nel 1934 all’asta per 260 franchi svizzeri e finita chissà dove) della princeps Bologna 1550 della Descrittione d’Italia con legatura personale di Robert Dudley conte di Leicester, favorito della regina Elisabetta d’Inghilterra («legatura contemporanea inglese in vitello bruno, sui piatti inquadratura di fregi formati da linee a freddo e in oro racchiudenti arabeschi dorati, nel centro di ambedue i piatti una cornice ovale coll’orso che tiene un rozzo bastone accostato dalle iniziali R e D, impresa e iniziali di Robert Dudley, conte di Leicester 1532? – 88, il ben noto favorito della regina Elisabetta d’Inghilterra» scrisse sulla scheda preparatoria poi quasi pedissequamente tradotta in francese per il catalogo d’asta del 1934). Frequenti gli incunaboli e le cinquecentine già del famelico Guglielmo Libri o un tempo sugli scaffali del marchese Girolamo D’Adda e dei conti Giacomo Manzoni, Bertrand Ashburnham o del bibliofilo russo, trapian- tato a Firenze, Dimitrij Petrovi Boutourlin. Tramite il collega De Marinis, Martini sembra fosse però soprattutto riuscito a rastrellare parecchi frammenti di quella che fu la pregevolissima raccolta allestita dal preraffaellita Charles Fairfax Murray (1849-1919), l’allievo prediletto di Dante Gabriel Rossetti, innamorato delle plaquettes rinascimentali figurate.7 Genere bibliograficamente assai complicato, e manco a dirlo rarissimo, era offerto come autentica delizia per palati bibliofilici raffinatissimi. Qualche assaggio? Si cominci sfogliando il catalogo degli incunaboli alla voce Istoria: sono già un buon esempio l’unicum della Storia di Liombruno (attribuita a Venezia, Vindelino da Spira, c. 1476), che accerto aver concluso il suo girovagare alla Public Library di Toronto (ISTC il00224100); l’Istoria d’un mercadante Pisano (forse Bologna, Bazalerius de Bazaleriis, c. 1490) finita alla Houghton Library di Harvard (ISTC ih00565000); l’unica copia (oggi irrimediabilmen- 14 te dispersa) di un’edizione forse veneziana [Christoforus Arnoldus, c. 1478] dell’Istoria del Castellano della campagna di Roma di cui, a oggi, non si conosce che un’edizione fiorentina di fine secolo (ISTC il00034500); o ancora, l’Istoria della distruzione di Gerusalemme, Roma, Stephanus Plannck, 31 marzo 1490 di cui ISTC (id00144620) censisce due soli esemplari, il primo presso la biblioteca Casanatense di Roma, l’altro al di là dell’Adriatico a Dubrovnik (solo la rilevazione del tipo di legatura «cartone colorato, dorso in pergamena» può accertare quale sia la copia già Martini).8 Si prosegua, armati di lucida pazienza, sfogliando le cassettiere dell’archivio cartaceo. A esempio: Historia di tre giovani disperate e di tre fate (espressamente «esemplare proveniente dalla biblioteca di Charles Fairfax Murray» in legatura londinese in marocchino rosso con tagli dorati), opuscolo sine notis (ma da Martini assegnato a «Firenze c. 1560») in quarto di 6 carte, stampato su due colonne con delicata silografia au dessous du titre così descritta da Martini la Biblioteca di via Senato Milano – ottobre 2014 «incis. in legno (83 x 107 mm.) rappres. a destra tre giovani che dormono in un boschetto, a sinistra tre giovani donne in piedi, una delle quali suona un corno ed un’altra tiene una borsa».9 Oppure, La hystoria e festa di Susanna, Brescia, Ludovico Britannico, [c. 1525], altro poemetto di esilissima consistenza (in quarto, 4 carte, testo su due colonne) introdotto alla prima carta da «incisione in legno su terreno tratteggiato (82 x 104 mm.) rappres. Susanna al bagno mentre i due vecchi la contemplano, i medesimi che l’accusano e la loro punizione». La descrizione della silografia (che evidentemente accosta tre fotogrammi della medesima storia secondo il procedimento medievale dell’arte continuativa) non fa che acuire la curiosità per un’edizione di cui non sembrano oggi conoscersi esemplari in biblioteche pubbliche (così in prima battuta certifica Edit16 CNCE 23050). D’altronde già Martini ne annunciava l’estrema rarità con la consueta nota «apparentemente la sola copia di questa edizione», che trova conferma ottobre 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano 15 Sopra e nella pagina accanto: schede tratte dall’Archivio Martini nei repertori bibliografici più aggiornati.10 Riprendiamoci da questa digressione e torniamo ora al Martini bibliografo e al criterio col quale procedeva nella stesura di quelle schede che sarebbero poi state definite «modelli di precisione». Espletati i doveri bibliologici e assolti gli obblighi connessi al mestiere di vendere libri, nella terza parte della scheda Martini sembra dare libero sfogo a una personalissima vocazione bibliografico-erudita. Chi si sarebbe poi trovato fra le mani quelle schede, o quei cataloghi, ne avrebbe giustamente colto non solo la precisione, ma «un carattere erudito tutto speciale» tanto che «parevano diretti più a una ristretta cerchia di studiosi che non a una folla di compratori … ricchi com’erano di descrizioni, riferimenti e rare notizie». L’ultima sezione della scheda – a volte succinta, talora estesa, soprattutto nella versione manoscritta, per parecchie decine di righe che si risolvono in impecca- bili saggi di bibliografia quattro-cinquecentesca – , è destinata innanzitutto a ricostruire la tradizione a stampa dell’opera e la sua fortuna editoriale. Non è infrequente però che in questa sede Martini affronti anche questioni di natura storico-filologica e infine sventagli puntuali e minutissimi rimandi bibliografici. È il caso, per fare qui solo un paio di esempi venutimi sottomano, della questione della presunta paternità boccacciana della novella nota col titolo di Urbano in calce alla scheda per l’edizione Opera iucundissima novamente ritrovata dal facundissimo et elegantissimo poeta messer Giovanni Boccaccio, [Bologna, Franciscus Plato de Benedictis, 1493];11 o della copiosissima bibliografia che correda la scheda relativa all’Istoria d’Alessandro Magno, Venezia, [Nel Beretin Convento della Ca Grande], 28 luglio 1477.12 Anche ai non addetti ai lavori e a chi non sia ammesso ai riti, non solo linguistici, per certi versi esoterici della bibliografia, è 16 la Biblioteca di via Senato Milano – ottobre 2014 Sopra: scheda tratta dall’Archivio Martini facilmente comprensibile la straordinaria ricchezza di schede così concepite, lontanissime da taluni esempi stringatissimi e banalmente omertosi che ancora si incontrano non solo nell’ambito dei cataloghi d’antiquariato. Cancellature, aggiunte interlineari e ripensamenti, che consentono di seguirne passo dopo passo l’evoluzione, vanno infine interpretati come una sorta di ‘filologia d’autore’ (o piuttosto, in questo caso, ‘filologia d’antiquario’). Il lettore gradirà forse a questo punto venire a conoscenza di questo valente antiquario. Procediamo dunque con ordine. Questa la trascrizione della scheda della citata Istoria d’un mercadante Pisano estratta dall’archivio Martini: Istoria d’un mercadante Pisano. Gothic character, double columns, 36 lines to the page; 4 unnumbered leaves, without signatures or catchwords [a4]. Leaf 1r, col 1: Hystoria d’un me | cadante (sic) Pisano. || G Ratia mi di ache alsacro f te. | donde le celeste che asalire. | poi dimora in cima del m te. | lo fronduto lauro afiorire | … Leaf 4v col. 2, line 22: malenconia non se piu ueduta | e de malinconia non fati memoria | al uostro honor finita e la historia || FINIS 4to, early 19th century italian binding in red boards, red morocco back, with the title printed in gold capitals on the front cover, uncut. [Bologna, Bazalerius de Bazaleriis, 1490]. Title type 140 G (Proctor 3), probably the same used afterwards by Caligula de Bazaleriis; text, type 78 G (Proctor 1). A, F, T (especially A) larger than the other capitals, M depressed to right, N with diagonal double line, round h; Lombard initial G (9 mm) at the beginning of the text. Apparently the only copy know; mentioned briefly only by Passano (Novellieri Italiani in verso, pp. 80-81). The earliest and only know edition of this novel in ottava rima. As the subject is interesting, nothwistanding the assertion of Passano, who calls it insulsa novella (foolish novel) we gave here a brief resume [segue un dettagliato riassunto della ottobre 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano novella che occupa altre tre schede]. La versione definitiva della scheda, scorciata del prolisso riassunto finale e dell’accenno al giudizio poco lusinghiero di Passano, andò a stampa nel catalogo degli Incunaboli del 1934 e infine in quello di vendita all’asta del 1934/35 (rispettivamente schede 226, 116). Rispetto alla versione ufficiale a stampa offerta al pubblico, è interessante notare che Martini era propenso in prima istanza ad attribuire l’edizione al tipografo Caligola de Bazaleriis piuttosto che al fratello Bazalerius de Bazaleriis (come da «Cali» poi cancellato, ma ancora leggibile, alle note tipografiche) e soprattutto retrodatarla all’anno 1487 (poi corretto in un cautelativo 1490), probabilmente indotto dalla descrizione del carattere di testo fornita dal Catalogo della British Library («78G plain open text type … in use in 1487»).13 Alle note bibliografiche Martini aveva ini- NOTE 1 Anticipo per il lettore de la Biblioteca di via Senato alcuni stralci di una più ampia ricerca su Giuseppe Martini avviata alcuni anni fa durante una campagna di scavo sulle edizioni incunabole bresciane passate sul mercato antiquario che troverà, forse, forma compiuta in un prossimo contributo scientifico. Catalogo della libreria di Giuseppe Martini compilato dal possessore da servire come saggio per una nuova bibliografia di storia e letteratura italiana. Parte prima Incunabuli, prefazione del prof. Achille Pellizzari, Milano, Ulrico Hoepli editore, 1934, pp. XI-XII. 2 Bibliothèque Joseph Martini: livres rares et precieux d’autres provenances. Librairie ancienne Ulrico Hoepli, 2 voll., Milan, Hoepli, 1934-1935. 3 Asta Bolaffi Ambassador, La raccolta bibliografica e saggistica di Carlo Al- 17 zialmente formulato l’ipotesi «The earliest edition of this novel», poi modificata, evidentemente in seguito a più accorta indagine, in «The earliest and only know edition». Entrambe le ipotesi sembrano trovare oggi conferma nel repertorio bibliografico delle edizioni quattrocentesche ISTC, che registra (ISTC ih00565000) quest’unica edizione, nota, ça va sans dire, soltanto tramite l’esemplare già Martini ora confluito presso l’Houghton Library dell’Harvard College Library (USA, Cambridge MA). Dalla copia personale Martini del catalogo d’asta con aggiudicazioni manoscritte a margine (anch’essa ora presso il fondo Martini di via Senato) risulta che l’esemplare fu aggiudicato nel 1934 per la cifra di 1800 franchi svizzeri. Fine prima parte. La seconda e ultima parte verrà pubblicata sul prossimo numero, novembre 2014 berto Chiesa (11 giugno 2010, ore 16.00), Catalogo, Milano, Bolaffi Aste, 2010, p. 26, lotto 52. 4 EDOARDO BARBIERI, Haebler contro Haebler. Appunti pe runa storia dell’incunabolistica novecentesca, Milano, ISU Diritto allo Studio Università Cattolica, 2008, pp. 25-46. 5 GW 2892 è invece propenso ad assegnarlo a [Florenz] [vielmehr Venedig], Antonio Miscomini, nicht nach 1483]. 6 Catalogo della libreria di Giuseppe Martini … Incunaboli, n. 267. 7 SEYMOUR DE RICCI, English collectors of books and manuscripts (1530-1930), London, The Holland Press, 1960, pp. 178179. Sui risultati della vendita all’asta si veda la nota stilata da LEO S. OLSCHKI, Vendita C. Fairfax Murray - Londra, «La Bibliofilia», XX, 1919, pp. 53-58. 8 Catalogo della libreria di Giuseppe Martini … Incunaboli, nn. 220, 222, 225, 226. 9 La descrizione di Martini mi induce a identificare l’edizione con quella descritta da SANDER 3160 e censita da EDIT16 CNCE 22887 sulla scorta dell’unico esemplare noto (già citato da Martini) della Nazionale di Firenze. 10 SANDER 7140; ENNIO SANDAL, La stampa a Brescia nel Cinquecento. Notizie storiche e annali tipografici (1501-1553), Baden-Baden, V. Koerner, 1999, n. 87 censisce una sola copia in collezione privata milanese. 11 ISTC ib00762000. Catalogo della libreria di Giuseppe Martini … Incunaboli, n. 388. 12 ISTC ia00409500. Catalogo della libreria di Giuseppe Martini … Incunaboli, n. 219. 13 BMC VI, p. 832. 18 la Biblioteca di via Senato Milano – ottobre 2014 Editoria NOTE A MARGINE1 (E A PIÈ DI PAGINA)2 Quattro passi in un genere (letterario3) d’antica data4 MASSIMO GATTA “Io credo che non si possa più scrivere libri. Perciò non scrivo libri. Quasi tutti i libri sono note a piè di pagina gonfiate in volumi (volumina). Io scrivo solo note a piè di pagina”.5 (Roberto Bazlen) “Eric, l’amico di Henri, un dotto barbiere che faceva collezione di prime edizioni di scrittori i quali non avevano mai pubblicato né una seconda Edizione, né un secondo libro”. (John Steinbeck)6 E se, parafrasando Giorgio Manganelli, alla fine davvero il testo fosse solo pretesto per note a margine7, a piè di pagina, per postille8, glosse, marginalia, scolii? E se tutto quest’affannarsi intorno alle soglie9 del libro non fosse che un espediente letterario per parlare d’altro? E alla fine dove finiranno tutte queste note, che sono come le “parentesi” di cui parlava Delio Cantimori10, quando tutta la memoria vegetale11 avrà definitivamente lasciato il posto a quella minerale?12 NOTE 1 C’è una sorta di mise en abîme nei marginalia, un collocare nell’infinito il propagarsi della riflessione sul testo, errando ed extravagando sui margini dove, analogamente a quanto è osservabile in certi manoscritti gotici, tutto un mondo brulicante e bizzarro “preme” per impossessarsi del resto della pagina: i margini, appunto. I marginalia sono in un certo senso il corrispettivo, sul piano letterario, delle drôleries di cui parlava Jurgis Baltrušaitis, il grande iconologo fortemente interessato allo spazio marginale: “Il margine della pagina … il margine geografico … c’è tutto uno scambio continuo tra margine e significato, ed infine ciò che conta si trova sui margini”, in Sandra Joxe, Intervista a Jurgis Baltrušaitis, Torino, Umberto Allemandi, 1993, p. 13, [I grandi storici dell’arte. Le interviste – Autoritratto del Louvre], corsivo mio. Doveva pensarla così anche Edgar Allan Poe che, a proposito dei propri marginalia, scriveva: “Nell’acquistare i libri ho sempre avuto l’accortezza di sceglierli con un ampio margine: questo non tanto perché mi piaccia la cosa in se stessa, per quanto possa essere gradevole, ma perché mi consente di annotarvi con una certa facilità i pensieri, i consensi o le divergenze di opinione che mi vengono alla mente o alcuni brevi commenti critici. Quando le mie note sono troppo lunghe per essere incluse nei ristretti limiti di un margine, le affido ad una striscia di carta che depongo tra le pagine, non senza averla prima fissata con un po’ di colla. […] Queste annotazioni non hanno però nulla a che fare con la stesura di semplici memoranda, abitudine questa che presenta senza dubbio i suoi inconve- ottobre 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano 19 Francesco Petrarca, Le volgari opere del Petrarca con la esposizione di Alessandro Vellutello, in Vinegia per Giuanniantonio & Fratelli da Sabbio, 1525, con postille di Lucantonio Ridolfi, Milano, Biblioteca Ambrosiana (S.C.L. X. 41) nienti. […] Ma le annotazioni poste in margine della pagina, scritte con spirito diverso da quello del taccuino, hanno un carattere preciso – e non soltanto un fine preciso: infatti non ne hanno alcuno ed è proprio ciò a conferire loro un particolare significato. […] i marginalia sono scritti appositamente a matita, perché la mente dello scrittore desidera liberarsi di un pensiero, per quanto superficiale, per quanto sciocco, per quanto scontato possa essere è pur sempre un pensiero […]. Nei marginalia, inoltre, ci rivolgiamo soltanto a noi stessi; parliamo quindi con spontaneità, originalità, coraggio. […] Lo spazio limitato di questi scritti a matita presenta inoltre più svantaggi che inconvenienti. Ci obbliga […] ad avvicinarci a Montesquieu, a Tacito […]”, Edgar Allan Poe, Marginalia, presentazione di Maurizio Cucchi, Roma, Il Melograno, 1981, pp. 13-17, corsivo nel testo. Anche se, sul valore letterario dei marginalia o delle note al testo, non tutti sono d’accordo. Con finezza e gusto dell’ironia, infatti, Antonio Baldini ne ha fatto un capitolo del suo gustoso Le scale di servizio, dove in Le note in margine ovvero vietato lordare, se la prende con i dilettanti e i millantatori dei marginalia. Scrive Baldini: ”[…] Uno di questi libri che non avrebbero dovuto a nessun patto uscire dalla mia libreria […] l’avevo dunque prestato tempo addietro all’amico […]. Il libro, in capo a un tempo doppio del pattuito, m’è ritorna- 20 Aristotele, Etica Nicomachea. Commento di Tommaso d’Aquino, appartenuto a Giovanni Boccaccio con sue note autografe, Milano, Biblioteca Ambrosiana (A 204 inf.) to. Non dico di no: m’è ritornato, ma ascoltate come: con un baffone d’inchiostro e un cul di lampada a petrolio sulla copertina, due gocce di cera a pagina duecento quattordici, una pecetta di carta gommata sopr’uno strappo dell’ultima pagina, e tutte le pagine piene poi di segni d’unghia e d’annotazioni a matita nera e blu […]. Ma i libri tuoi gli annoti pure, e commenti pure; dunque, cosa sono queste smanie? O bella! Ma li annoto per me, a mio intendimento, uso e consumo, e per questo ci tengo moltissimo che i mei segni, le mie intacche, i miei esclamativi e interrogativi non s’abbiano a confondere coi segni degli altri; perché nei miei segni io ritrovo via via le mie letture e le mie prime illuminazioni e interpretazioni, e sulla scorta di quelli posso sempre rintracciare i miei gusti e le loro mutazioni. […] I segni e le la Biblioteca di via Senato Milano – ottobre 2014 annotazioni fatte in margine a certi libri sono un po’ come i segni fatti sopra un muro per ricordar l’altezza del ragazzo a dieci, poi a dodici, a diciassett’anni. […]”, Antonio Baldini, Le scale di servizio. Introduzione al libro e alla lettura, a cura di Nello Vian, Milano-Napoli, Riccardo Ricciardi, agosto 1971, pp. 50-55; questo aureo libretto è stato di recente ristampato, sempre a cura di Nello Vian, Pesaro, Metauro Edizioni, 2003 [Archivio Baldini, 1]. Di analogo tenore la critica espressa da Giuseppe Fumagalli nel suo Aneddoti bibliografici, Roma, Formìggini, ottobre 1933, pp. 77-79, aneddoto n. 59. Del resto già Gaetano Volpi, oltre due secoli prima, aveva criticato l’inutilità delle note a margine e così scriveva: “Soleano alcuni saccenti dell’età trasandate, nel leggere i Libri, oltre a segnarli del continuo con tratti di penna interlineari, notar ne’ margini i nomi proprj che incontravan ne’ testi, forse per ricordarsene, ma esser ciò cosa inutile e dannosa si è già notato nel paragrafo linee”, La Libreria de’ Volpi e la Stamperia Cominiana, illustrate con utili e curiose annotazioni. Avvertenze necessarie e profittevoli a’ Bibliotecari, e agli Amatori de’ buoni Libri, opera di don Gaetano Volpi prete padovano, in Padova, appresso Giuseppe Comino, 1756, p. 558, vedine la recente ristampa, con titolo peraltro falso, Del furore d’aver libri, con una nota di Gianfranco Dioguardi, Palermo, Sellerio, 1988, p. 53. Quasi a voler rispondere alle perplessità espresse sia da Volpi che da Baldini la studiosa H. J. Jackson nel settimo capitolo di Marginalia (vedi oltre) stende una sorta di decalogo delle annotazioni, che dovrebbero quindi essere: intellegibili, pertinenti, oneste, esatte ed esaurienti, succinte per ragioni di spazio e saporose. Il margine come luogo aperto, incontaminato. Kenneth Grahame, l’autore di Vento nei salici, sognava libri di poesia fatti solo di margini e fu accontentato da un suo ammiratore che gliene regalò uno tutto bianco, intitolato appunto Margini. E Virginia Woolf aveva addirittura classificato quattro tipologie di estensori di marginalia: il Colonnello, che sfoga la sua rabbia “violentando” i margini; l’Ecclesiastico, che si limita a fornire ottobre 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano timidamente i passi paralleli; la Lady sentimentale, che traccia suoi flebili versi a lato di poesie su morti premature, e il Pedante, che corregge trionfalmente gli errori di stampa. Ai marginalia fu dedicato anche un importante convegno internazionale a Erice, Talking to the Text: Marginalia from Papyri to Print (settembre-ottobre 1998), promosso da Guglielmo Cavallo, sul quale vedi la rec. di Giuseppe Frasso, Certi testi nidificano sui margini di altri, «Il Sole 24 Ore-Domenica», 1998. Si segnala anche una interessante bibliografia dedicata ai volumi postillati della British Library, cfr. R. Alston, Books with Manuscript. A Short-Title Catalogue of Books with Manuscript Notes, London, The British Library, 1994, vedine la rec. di Giuseppe Frasso, Per chi ama le postille a margine, «Il Sole 24 Ore-Domenica», 1994; di grande interesse è anche l’altro catalogo, redatto da Bernard M. Rosenthal, con la collaborazione di Robert G. Babcock della Beinecke Library di Yale, The Rosenthal Collection of Printed Books with Manuscript Annotations. A Catalog of 242 editions mostly before 1600 annotated by contemporary or near-contemporary readers, New Haven, Yale University, 1997. Ma cosa accade quando la postilla, la glossa, gli scolii, le note, 21 insomma tutto quel maremagnum paratestuale, costellano un testo? Come lo rendono? E’ quanto cercava di indagare un interessante saggio di qualche anno fa, Nel mondo delle postille. I libri a stampa con note manoscritte, a cura di Edoardo Barbieri, premessa di Giuseppe Frasso, Milano, CUSL, 2002, vedine la rec. di Carlo Carena, Quando la postilla fa grande il libro, «Il Sole 24 Ore-Domenica», 18 novembre, 2001, p.III. Infine segnalo H. J. Jackson, Marginalia. Readers Writing in Books, New Haven, Yale University Press, 2001, dove la Jackson afferma, tra l’altro: “E’ difficile pensare a qualsiasi valore di un libro che non sia accresciuto dall’aggiunta delle nostre postille”. 2 Un grande storico come Anthony Grafton ha affrontato l’arduo compito di storicizzare questa pratica paratestuale in The Footnote. A curious history, London, Faber and Faber, 1997, trad. it., La nota a piè di pagina. Una storia curiosa, Milano, Sylvestre Bonnard, 2000; segnalo al riguardo l’interessante intervista di Antonio Monda a Grafton, L’implacabile odio del filologo, «la Repubblica», 2002. Protagonista indiscusso di questo sottogenere letterario è sicuramente l’Edward Gibbon dell’History of the De- 22 cline and Fall of the Roman Empire, London, printed by Thomas Davison for Thomas Tegg, 1827 (Storia del declino e della caduta dell’Impero romano),“[…] al tempo stesso il capolavoro della storiografia solenne ed erudita e l’apogeo della nota a piè pagina sussurrata, confidenziale, mordace” (Achille Varzi, vedi nota 12). Anche la pratica paratestuale della nota a margine, come tutto del resto, può avere delle impennate deliranti in puro stile Borges; cos’altro sarebbe, infatti, la nota “u” all’ultimo paragrafo, del settimo capitolo, del terzo volume, della seconda parte della History of Northumberland (1840) del reverendo John Hodgson, se non una mise en abîme di straordinaria modernità? Tale nota, infatti, ci ricorda Achille Varzi (cfr. nota 12), occupava ben 264 pagine, principiando a pagina 157 e lasciando solo due righe di testo principale che termina qualche pagina dopo (p. 174). La nota invece continua nel suo delirante tragitto fino a pagina 421, contenendo al suo interno anche 659 sotto-note le quali, ma ora siamo la Biblioteca di via Senato Milano – ottobre 2014 Benedetto Croce, Parole agli italiani delle terre invase, 1943, manoscritto con note autografe (Napoli, Fondazione Biblioteca Benedetto Croce). nel miglior Perec, contengono al loro interno delle sotto-sotto-note. La nota “u” poteva essere un capitolo a sé, o ancor meglio un volume autonomo, e invece il suo autore ha optato per il genere marginale perché è in esso che si sarebbe meglio compresa. Note a piè di pagina che lentamente vengono ammassate alla fine dove perdono la loro aura. Ed è così non solo nel cartaceo ma anche negli eBooks; nella versione per Kindle della Storia delle note di Chuck Zerby (The Devil’s Details, 2002), ci ricorda infine Varzi, le note sono finite tutte in coda al testo. Volendo si può cliccare e così facendo si accede alle note ma, ci ricorda mestamente Varzi “[…] non sono più a piè pagina come nell’originale; sono tutte a fine testo. Anche quando sostengono, con dovizia di esempi, che le note a fine testo sono una disgrazia” 24 (per questa citazione vedi nota 12). Cfr. infine L’Asterisco. Spunti, notizie, visioni e passioni tra i libri e il cosmo. Viva le note a margine (o in calce), http://www.emi.it/EmiBlog/?tag=leggere. 3 “Ho cercato di spiegare che si tratta di un vero e proprio genere letterario (le note, N.d.A.) che può essere sviluppato in molte differenti maniere: le note possono rendere morale, immorale, ironico o semplicemente accademico il libro che le contiene. Inoltre rivelano la professionalità e la personalità dell’autore. Pensi a un’opera come Il declino dell’impero romano di Gibbon: la struttura neoclassica del testo poggia le sue fondamenta proprio sulle note. E’ un esempio che possiamo applicare a innumerevoli importanti opere storiche”, Anthony Grafton, la Biblioteca di via Senato Milano – ottobre 2014 L’implacabile odio del filologo, cit., p. 42; secondo Carena quelle note furono “[…] l’agguato preferito di Gibbon, dove far scempio dei preti e a brani la superstizione”, Carlo Carena, Note per spiegare e per deridere, «Il Sole 24 Ore-Domenica», 1998. 4 Risale infatti al 1743 un affascinante dissertazione sulle note a margine, opera di Gottlieb Wilhelm Rabener, Hinkmars von Repkow Noten ohne Text, inserito nelle Satiren, Leipzig, Johann Gottfried Dyck. Questa pubblicazione era in fondo frutto di una progressiva attenzione alle note in calce che stavano progressivamente soppiantando quelle a margine, com’era avvenuto ad esempio a metà del Cinquecento con la pubblicazione della Holie Bible di Richard Jugge: “Non riuscendo a posizionare tutte le note in margine relative a un passo di Giobbe, lo stampatore elisabettiano non trovò altra soluzione che spostare le ultime due ai piedi della pagina, e da quel momento l’idea si affermò così rapidamente che nel giro di poco tempo le note in calce soppiantarono quelle in margine”, (Achille Varzi vedi oltre). La dissertazione di Rabener è in fondo l’apoteosi dell’esplosione erudita dei commentatori; essa consisteva infatti soltanto di note in calce, lasciando ad altri (i lettori?) il compito di produrre il testo da lui “annotato con abile prolessi” (Varzi). Del resto Rabener, a inizio della sua paradossale dissertazione e a giustificazione della stessa, principia affermando di essere a caccia della fama e della fortuna, cose queste che ai suoi tempi si conquistavano non scrivendo un proprio testo ma commentando quelli degli altri. In tal modo Rabener ha esplicitamente “[…] deciso di fare a meno del mediatore: di scrivere le sue note e diventare famoso, senza aspettare un testo a cui agganciarle. Dopo tutto la nota a piè di pagina era diventata la strada maestra alla fama anche per coloro che non la meritavano”, Anthony Grafton, La nota a piè di pagina. Una storia cuVirgilio, Bucoliche. Il celebre codice con il commento di Servio e le note autografe di Francesco Petrarca Milano, Biblioteca Ambrosiana (Ambr. A 79 inf.) ottobre 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano riosa, cit., p. 108. 5 Questo testo di Roberto Bazlen (scrittore di nessun libro e, in gioventù, “in lotta con la macchina da scrivere”, tema per il quale rimando a La lotta con la macchina da scrivere di Roberto Bazlen, a cura di Luciano Foà e Helena Janeczek, Milano, Adelphi, 1993, volume fuori commercio stampato in 799 esemplari numerati) è contenuto nel cosiddetto Quaderno E, databile tra il 1945 e il 1965. Lo scritto è ora disponibile, con titolo redazionale, in Roberto Bazlen, Note senza testo, a cura, e con uno scritto, di Roberto Calasso (Da un punto vuoto, pp. 7-15), Milano, Adelphi, aprile 1970 [Quaderni di Roberto Bazlen, 2], p. 70. Ristampa in Roberto Bazlen, Scritti, a cura, e con uno scritto, di Roberto Calasso (Da un punto vuoto, pp. 15-20), Milano, Adelphi, 1984 [Biblioteca Adelphi, 136], p. 203. Il risvolto di copertina di questa edizione, non firmata, è di Roberto Calasso, ora ristampato in Roberto Calasso, Cento lettere a uno sconosciuto, Milano, Adelphi, 2003 [Piccola Biblioteca, 500], pp. 152-153. Enrique Vila-Matas ha citato questo straordinario passo di Bazlen in una riflessione sul concetto di impossibilità a scrivere: “Diceva il triestino Bobi Bazlen: “Credo che ormai non si possano più scrivere libri. Per cui non ne scrivo più. Quasi tutti i libri non sono altro che note a piè di pagina, gonfiate fino a diventare volumi. Per questo scrivo solo note a piè di pagina”. Le sue Note senza testo, raccolte in quaderni, furono pubblicate dalla casa editrice Adelphi nel 1970, cinque anni dopo la sua morte”, Enrique Vila-Matas, Bartleby e compagnia, Milano, Feltrinelli, 2002, p. 31. Anche il risvolto di copertina è tematica paratestuale quanto mai ampia e affascinante, assimilabile, per certi aspetti, alla nota a margine e a piè di pagina; benché la sua trattazione esuli da questo scritto mi piace rimandare al- 25 meno a due pregevoli testi di supporto: Italo Calvino, Il libro dei risvolti, a cura, e con una Nota (p. V) di Chiara Ferrero, Torino, Giulio Einaudi Editore, novembre 2003 [edizione fuori commercio stampata in 1000 copie numerate a macchina] e L’arte del risvolto. Dieci note di Salvatore Silvano Nigro per dieci libri di Andrea Camilleri, con testi di Andrea Camilleri (Il risvolto dei risvolti, pp. 5-8) e Salvatore Settis (Alette, pp. 9-12), Palermo, Sellerio editore, dicembre 2007 [stampa Officine Grafiche Riunite di Palermo], edizione fuori commercio per gli amici della Sellerio, stampata in 300 copie numerate a mano in numeri arabi, più 20 in numeri romani, contenenti ciascuna un’acquaforte originale di Edo Janich, numerata e firmata dall’artista, tirata al torchio su carta Hahnemühle e su carta Cina, dalla Stamperia Calcografica di Venezia. 6 John Steinbeck, Vicolo Cannery, Milano, Bompiani, 1946, citato in Ambrogio Borsani, Il morbo di Gutenberg. Avventure e sventure di uno schiavo della carta stampata, Napoli, Liguori, 2014, p. 9 [Per Passione, 10]. 7 Anthony Grafton ricordava che Lichtenberg, a proposito del libro di Rabener, aveva osservato: “Le note senza un testo di Rabener suscitarono il riso, ma Lavater andò molto oltre. Ci diede delle note alle quali il testo serve da commentario. E’ questo il vero linguaggio dei profeti, che si capisce soltanto dopo che sono accaduti gli eventi annunciati”, in Id., La nota a piè di pagina. Una storia curiosa, cit., p. 108; del resto nel commento cinquecentesco del cardinale Gaetano alla Summa di san Tommaso non si legge questo motto insieme disperato e sdegnoso? Si vis intelligere Caietanum, lege Thomam: se vuoi capire il commento leggiti il testo. Al polo opposto si ricorda il magistrato francese Jacques Auguste de 26 Thou (1609-1677), autore di una delle opere più vaste mai realizzate: Historiae sui temporis, una sequenza di tutto ciò che accadde dal 1546 al 1607, pubblicato in ben 138 volumi; l’immane impresa di de Thou fu resa possibile grazie alla miriade di appunti, notazioni, note e quant’altro riuscì a mettere insieme anche grazie ad una rete di corrispondenti europei di enorme vastità. Ebbene l’intera documentazione rimase nei dossiers della sua corrispondenza; l’opera doveva essere, e rimanere, algida e senza polverosi accumuli. D’altronde, come scrive Carlo Carena, la riconosciuta onestà di de Thou era tale che quanto ne usciva detto non si sarebbe potuto mettere in dubbio e non aveva, quindi, bisogno di prove documentarie. De Thou fu anche possessore di una straordinaria biblioteca, dopo la morte del bibliofilo messa in vendita nel 1679 e della quale ci resta il catalogo di vendita, oggi conservato presso la Biblioteca Angelica di Roma. Su questa importante raccolta, e sul relativo catalogo di vendita, rimando a Maria Grazia Ceccarelli, Vocis et animarum pinacothecae. Cataloghi di biblioteche private dei secoli XVII-XVIII nei fondi dell’Angelica, Roma, Ist. Pol. e Zecca dello Stato, 1990, pp. 8-16. In seguito, invece, persino i dizionari vennero corredati da note. Scrive ancora Carena: “Così fece con la sua enorme erudizione e col suo spirito critico Pierre Bayle nel suo famoso Dictionnaire historique et critique; e con tale sfrenatezza che Sainte-Beuve – forse con condanna, e forse non solo del suo Bayle – paragonò a sua volta quel dizionario ai carrettini degli ambulanti, in cui un asinello scompare sotto la moltitudine di balocchi d’ogni genere esposti agli sguardi dei passanti: i balocchi sono le note e il testo è l’asinello”, Carlo Carena, Note per spiegare e per deridere, cit. E ancora in Bayle si osserva la più perfetta “integrazione di contenuti, di stile e di ideologia fra testo e note, praticamente indistinguibili se non per la collocazione e per il corpo tipografico” (Carena). E una satira settecentesca delle note a piè di pagina è infine il “divertentissimo” (Grafton) lavoro di J.F. Lamprecht, Der Stundenrufer zu Ternate (1739). la Biblioteca di via Senato Milano – ottobre 2014 Tra i più celebri postillati con “fiorellini” nella storia del manoscritto e del libro è sicuramente il Virgilio della Biblioteca Ambrosiana di Milano (Ambr. A 79 inf.), contenente le Bucoliche, Georgiche ed Eneide col commento di Servio e le postille appunto di Francesco Petrarca. Su questo unicum di straordinario valore paleografico e culturale rimando a Marco Baglio, Le postille del Petrarca a Virgilio, in Francesco Petrarca. Manoscritti e libri a stampa della Biblioteca Ambrosiana, a cura di Marco Ballarini, Giuseppe Frasso, Carla Maria Monti, presentazione di Giancarlo Ravasi, Milano, Libri Scheiwiller, 2004, pp. 29-39, e a Marco Petoletti, Le postille del Petrarca al Servio, ibid, pp. 43-50. 9 Come non ricordare quell’isolario di estrema raffinatezza, Seuils, di Gérard Genette? trad. it. Soglie. I dintorni del testo, cura di Camilla Maria Cederna, Torino, Einaudi, 1989 [Einaudi Paperbacks, 195]. 10 Così infatti Cantimori cercava di descrivere il valore e l’uso che le parentesi tonde avevano nella sua prassi scrittoria: “La parentesi è la nicchia dello storico. Siamo in biblioteca, stiamo lavorando a una ricerca. Abbiamo ben chiara in mente la nostra strada maestra, ma il fatto di sapere come s’articolerà non vuol dire affatto che la seguiremo con assoluto rispetto. Una scheda del soggettario, non appena – in piedi – la trascriviamo, è il nostro improvviso segnale di deviazione. Non possiamo non seguirlo. E’ molto probabile che ci porterà altrove. Questo “altrove” è una parentesi. Non è grave che ci siano parentesi nel nostro lavoro. Magari possono essere tante, persin troppe, al punto da riuscire fastidiose – ma non per noi stessi, in ogni caso. Ciò che in uno storico “disturba” realmente è quando perde la strada maestra, non quando s’annida in troppe nicchie, che conveniamo chiamare le sue parentesi. Se perde la strada maestra, il lettore se n’accorge, e capisce (o, almeno, può ritenere) che non è un buon storico, perché lui stesso ha perso il filo”, Guido Davico Bonino, Delio Cantimori, in Id., In8 ottobre 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano contri con uomini di qualità. Editori e scrittori di un’epoca che non c’è più, Milano, il Saggiatore, 2013, p. 70. 11 Cfr. Umberto Eco, La memoria vegetale, Milano, Rovello, 1992 [edizione stampata in 1000 esemplari], ristampa col titolo La memoria vegetale e altri scritti di bibliofilia, Milano, Rovello, 2006 [I germogli dell’Esopo, 2] e di recente col medesimo titolo, Milano, Bompiani, 2011 [Tascabili Bompiani, 435]. 12 Un interrogativo straordinariamente attuale oggi che ci troviamo a fare i conti con la presenza sempre più inquietante del virtuale dematerializzato. Lo stesso interrogativo che si poneva Achille Varzi in un documentato articolo; scrive Varzi: “Dopo avere ucciso la pagina protagonista incontrastata dell’era di Gutenberg, gli eReader stanno cominciando a restituirci almeno i numeri di pagina. C’è speranza che ci vengano restituite anche le loro umili appendici, le note a piè pagina? Adoro le note. Belle o brutte che siano, acute o banali, stimolanti o irritanti, quando leggo un testo la mia attenzione è catturata soprattutto da loro. Un’attrazione irresistibile, quasi morbosa. Eppure stanno scomparendo anche nelle nuove versioni, cartacee, dei classici. Per molti lettori sono la parte più inutile di un testo. Per altri sono la parte più tediosa. Per altri ancora, una fastidiosa distrazione. Noël Coward, per esempio, diceva che fermarsi a leggere una nota a piè pagina è come scendere per aprire al postino nel bel mezzo di un amplesso. Non per me. Per me le note sono spesso la parte migliore, e tornare al testo principale è come rientrare in una pomposa sala conferenze dopo una pausa in corridoio a tu per tu con l’oratore, da soli, in confidenza. E’ come se lì, in quei momenti sottovoce, l’autore uscisse dai panni ufficiali e rivelasse i suoi come e i suoi perché. E’ lì, in quel mondo in corpo minore, che mi sembra di capire davvero che cosa mi voglia dire; è nel sotterraneo regno degli ivi, degli ibid. e dei loc. cit. che emergono le tracce del percorso. E spesso il percorso è più istruttivo della destinazione 27 finale […]”, Achille Varzi, Salviamo le note (a margine), «la Repubblica», 18 dicembre 2012, p. 59. In effetti il “percorso”, a volte, è veramente più istruttivo della “destinazione finale”, un po’ come per Blanchot è la “domanda”, e non la “risposta”, ad essere decisiva. Il richiamo, poi, al simpatico giudizio di Coward fin troppo facile sarebbe opporgli, su piani ovviamente diversi, quello di Wilde secondo il quale il momento più bello dell’amore è quando si salgono le scale (ancora il “percorso”). Grafton ritiene, invece, la frase di Coward intelligentemente provocatoria: “Io ritengo che uno studioso debba imparare a leggere simultaneamente le note ed il testo: più che di una interruzione parlerei di dialogo. Ogni pagina contiene molte voci che parlano nello stesso momento”, L’implacabile odio del filologo, cit., corsivo mio. La documentata passeggiata di Varzi nel “sottobosco marginale” ci fa incontrare una serie di testi che, a vario titolo, si sono intrattenuti con questa tematica paratestuale, anche sul versante narratologico. E’ il caso, ad esempio, di Ibid: A Life, di Mark Dunn (London, MacAdam/Cage, 2004), scritto completamente in forma di note sopravvissute a un testo preesistente scomparso; o ancora, sempre seguendo la mappa topografica di Varzi, Armand V. Fotnoter til en uutgravd roman, (Armand V. Note a piè di pagina di un romanzo rimasto sepolto), di Dag Solstad (2006), inedito in Italia, o ancora Banlieu di Paul Fournel (Paris, La Bibliothèque Oulipienne, 1990) e Bartleby y compañia di Enrique Vila-Matas, trad. it. Bartleby e compagnia, Milano, Feltrinelli, 2002: “[…] Per il resto sono felice. Oggi più che mai, perché do inizio – in data 8 luglio 1999 – a questo diario che sarà al contempo un quaderno di note a piè di pagina a commento di un testo invisibile che spero possa dimostrare la mia bravura come cercatore di bartleby. […] Scriverò note a piè di pagina che commenteranno un testo invisibile, ma non per questo inesistente, giacché tale testo fantasma potrebbe benissimo finire per rimanere come in sospensione sulla letteratura del prossimo millennio”, p. 11, 13, corsivo mio. ottobre 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano 29 BvS: Fondo Fantascienza IL FASCISMO BOICOTTÒ LA FANTASCIENZA? Il Ventennio e un nuovo genere letterario GIANFRANCO DE TURRIS «S olo allora [dopo il versa da quella che ha “fatto” 1945] la cultura itaquesto genere letterario nel doliana poté aprirsi a poguerra, dagli anni Cinquanta una molteplicità di influssi e di agli anni Ottanta almeno. Ora, suggerimenti provenienti dal tra le innumerevoli, anzi infininuovo mondo americano, che, te, colpe attribuite nei decenni pur essendosi già fatto sentire al fascismo in tutti i campi possianche durante il fascismo con bili e immaginabili, non si può l’inarrestabile ascesa del cinema certamente aggiungere adesso come mezzo di comunicazione quella di aver ostracizzato e/o di massa privilegiato, era guarboicottato la narrativa fantastica dato con sospetto e perfino con e fantascientifica straniera, spedisprezzo dal regime. È semmai cificatamente americana. È interessante ricordare la pronta quanto sembra di capire dalle ritraduzione italiana di Brave New ghe sopra riportate. World di Aldous Huxley, pubbliPagetti è un pioneristico cato in Inghilterra nel 1932 e su- Sopra: L’universo fantasma, romanzo di critico della fantascienza in Itabito dopo arrivato da noi come Il Adrien Sobra (pubblicazione numero lia sin dal suo Il senso del futuro mondo nuovo, ma in questo caso si 153 della collana “Urania”, edita da (1970), la tesi di laurea, stampatrattava appunto di un romanzo Arnoldo Mondadori, 6 giugno 1957). to dalle prestigiose Edizioni di futuristico, anzi di una distopia e Nella pagina accanto: copertina del Storia e Letteratura, critico midunque poteva benissimo essere primo numero della rivista mensile litante e curatore delle opere di accettato nell’ambito dell’ideo- “Urania” (Milano, Arnoldo Philip Dick (dove tra sommi caMondadori, 1° novembre 1952) logia fascista…». polavori sono però apparse anÈ questo un brano significhe cose pessime e giustamente cativo della introduzione del professor Carlo Pa- bocciate e rimaste nel cassetto vivente lo scrittogetti all’ottimo saggio Fantascienza italiana (Mi- re). Quindi ci si sarebbe aspettati da lui qualcosa di mesis) di Giulia Iannuzzi, un lavoro cui sarebbe il più approfondito e meno generico anche perché caso di tornare in modo approfondito dato che è nel corso degli anni sempre più materiale docustato scritto da un’autrice di una generazione di- mentario è venuto alla luce, spesso accompagnato 30 la Biblioteca di via Senato Milano – ottobre 2014 Da sinistra: copertina del primo numero della rivista a fumetti «L’Avventuroso» (Firenze, Casa Editrice Nerbini, 14 ottobre 1934); copertina del primo numero della rivista «Amazing Stories» (aprile 1926), con dedica autografa di Hugo Gernsback da ricostruzioni storiche, grazie a diverse antologie pubblicate a partire almeno dal 2000. Espresse così, soprattutto se chi legge non conosce la materia, sono tesi semplicistiche e politicamente corrette: ci si potrebbe tra l’altro chiedere che differenza si poteva fare allora tra un romanzo “futuristico” ed uno “fantascientifico” (anche se l’aggettivo ancora non esisteva), ovverosia “avveniristico”. Quello «futuristico… poteva benissimo essere accettato dall’ideologia fascista», spiega il critico, forse perché l’allucinante mondo descritto da Huxley poteva ricordare in qualche modo quelli macchinistici immaginati da Marinetti, Volt, Fillia, Vasari? Appunto, non è affatto chiaro. Il problema di fondo, che Pagetti non coglie, è il rapporto tra la narrativa alta e quella bassa, tra quello che oggi chiamiamo il mainstream e allora la grande letteratura da un lato, e dal- l’altro la letteratura popolare nelle sue varie espressioni, come si dirà più avanti. È necessario allora precisare alcune cose ricostruendo il contesto: soltanto così si spiegano esattamente i motivi per cui la fantascienza “popolare” americana nata concretamente nel 1926 con «Amazing Stories» di Hugo Gersnback e poi con «Astounding Stories» di Harry Bates (1930), cioè la fantascienza delle riviste, dei pulp magazines, non ebbe eco in Italia, perché è quella che conta e incide sui lettori, non i grandi scrittori del mainstream, come Huxley (ma anche altri) che Pagetti cita. Infatti, come ho in dettaglio elencato nella mia introduzione a Le aeronavi dei Savoia (Nord, 2001) praticamente tutti i grandi scrittori “futuristici”, “fantastici”o “antiutopici”dell’epoca di lingua inglese e francese erano tradotti da importanti editori ita- ottobre 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano liani: da Poe a Wells, da Stevenson a Conan Doyle, da Rider Haggard a Verne, da Benoit a Flammarion, sino a giungere alla russo-americana Ayn Rand con La vita è nostra nel 1939, anno dello scoppio della guerra (nuova edizione critica: Antifona, Liberilibri, 2007). Per non parlare dei citati futuristi che appunto scrivevano romanzi e racconti che definiremmo oggi di fantascienza. Se vogliamo allargare l’orizzonte, si può ricordare che all’epoca anche Edgar Rice Burroughs era noto in Italia con le sue le avventure di Tarzan, ma non con quelle di John Carter su Marte o Carson Napier su Venere, anche se le riviste a fumetti stampavano senza problemi le storie avventuroso-spaziali, molto simili a quelle di Burroughs, di Brick Bradford di Ritt e Gray (1933) su «L’Avventuroso» e «L’Audace», e Flash Gordon di Alex Raymond (1934) su «L’Avventuroso». Si vede bene dai fatti che non c’era alcun ostracismo o ostilità ufficiale preconcetta al genere in sé, né italiano né straniero, e questo almeno sino alla vigilia del conflitto quando avvenne una stretta “autarchica” a livello popolare (fumetti, polizieschi ecc.): certi 31 testi non vennero più tradotti, oppure si cambiò nome ai protagonisti italianizzandoli, oppure anche se ne disegnarono imitazioni nazionali. Il fatto è, come dimostrano i dati e le tabelle pubblicati sin dagli anni Settanta da Mike Ashley nella sua History of Science Fiction Magazinesin più volumi tradotti anche in italiano, che in Europa, quasi neppure in Gran Bretagna, non uscirono riviste specializzate in sola fantascienza sino al 1940, e noi non facevamo una eccezione, indipendentemente dalla ostilità o meno, “sospetto” o “disprezzo” che fosse, del regime a quel genere letterario in quanto espressione della cultura americana (il che ovviamente non vuol dire che la “cultura americana” in sé, quale espressione della american way of life, fosse ben accetta o recepita acriticamente, basti ricordare le sarcastiche strofe dello strapaesano Mino Maccari). Nei confronti della letteratura dell’Immaginario nel suo complesso in realtà non esistette proprio perché in Italia essa era diffusa sin dall’inizio del Novecento nei media dell’epoca, anche se aveva altri nomi: sia nei supplementi dei grandi quotidiani («La Tribuna Illustrata», «La domenica del Corriere», «Il Sotto da sinistra: copertina del primo numero della rivista «Astounding Stories» (1930); copertina della rivista a fumetti «Audace» (Milano, Editrice Vecchi, 21 settembre 1939); copertina della rivista «Avventure del Cielo» (1939-1941), fondata e diretta da Armando Silvestri 32 la Biblioteca di via Senato Milano – ottobre 2014 Romanzo Mensile», «Il Mattino narrativa avveniristica basandosi Illustrato»), sia i settimanali di soprattutto sulla editoria americacultura e informazione che ospitana, invece che un ventennio dopo, vano narrativa («La Lettura», «Il e Mondadori avesse pubblicato Secolo XX», «Noi e il mondo», anche, poniamo, I Rossi o I Bianchi «Le Grandi Firme» ecc.) pullulao I Blu dedicati alla “fantascienza” vano di racconti fantastici, fantail gioco sarebbe stato fatto. Su scientifici, sovrannaturali, avvenquesto si potrebbe scrivere un sagturosi e dell’orrore, soprattutto getto di storia alternativa (in parte italiani ma anche stranieri. Per qualcuno lo ha già fatto…). non parlare di due testate che poCi provò nella realtà l’ingetremmo definire a loro modo spegner Armando Silvestri (1909cializzate: «Il Giornale Illustrato 1990), vero pioniere della fantadei Viaggi» quindicinale e il menscienza in Italia avendone scritta sile «Il romanzo d’avventure», giovanissimo, appena quindicenzeppi di questo genere di storie, e ne, su «Il Giornale Illustrato dei dove i romanzi a puntate erano so- Copertina della prima edizione di Viaggi», il quale, comprati i pulp prattutto stranieri (francesi, ingle- Brave New World di Aldous Huxley magazines americani nelle edicole si, americani, tedeschi).Tra essi (Londra, Chatto&Windus, 1932) di Via Montenapoleone a Milano c’era vera e propria fantascienza e Via Veneto a Roma, ed essendo “spaziale” con astronavi, extraterrestri, invasioni, redattore di riviste tecniche e poi di aviazione, nel 1938 guerre del futuro. (Un prolifico autore di guerre in un propose alla Editoriale Aereonautica che faceva capo al domani più o meno lontano era Luigi Motta, allievo, relativo Ministero di pubblicare a cadenza mensile seguace, concorrente e poi “continuatore” di Emilio quattro riviste, «L’avventura», «Avventure del mare», Salgari). La mancanza di una grande diffusione del «Avventure del cielo» e «Avventure dello spazio». Ovgenere “fantascientifico” in Italia durante quel perio- viamente venne accettata soltanto «Avventure del ciedo fu quindi soltanto di tipo editoriale, di scelte e deci- lo»che uscì dal 1939 al 1941 (e non al 1943, come ebbi a sioni editoriali, né politico, né religioso, né sociale, né scrivere in una precedente occasione), quando chiuse culturale, né di arretratezza industriale come in vari per il razionamento della carta a causa della guerra. Foshanno man mano ipotizzato nel corso degli anni,. Fu se uscita anche «Avventure dello spazio», la storia della dunque un motivo squisitamente “tecnico”: come nel fantascienza italiana e in Italia sarebbe stata molto diresto d’Europa mancarono le riviste a esso dedicate versa (idea buona anch’essa per una ucronia su cui anche che lo divulgassero in modo ampio presso un pubbli- qui qualcuno si è cimentato) in quanto avrebbe creato in co soprattutto giovanile. Mondadori credette al pro- tre-quattro anni un pubblico di lettori e una piccola getto di Alberto Tedeschi e pubblicò nel 1933 I Gialli, squadra di scrittori che nel momento in cui apparve nel facendo conoscere in una pubblicazione da edicola 1952 «Urania» (pubblicazione che la Biblioteca di via solo ad esso dedicata il poliziesco di marca americana, Senato possiede nella sua interezza, insieme a molte alinglese e francese, che non era in precedenza ignoto tre assolute rarità letterarie di genere fantascientifico) ma non aveva ancora una collana tutta sua e un nome avrebbero costituito un retroterra italiano non da poco, che lo identificasse in modo preciso. Se in quegli anni forse sottraendo almeno in parte il genere alla totale un Giorgio Monicelli (1910-1968) non così giovane esterofilia che lo caratterizzò sino al 1990 quando naccome in effetti era, gli avesse proposto una collana di que il Premio Urania dedicato ai romanzi italiani. ottobre 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano 33 Guerra e Letteratura “O GRAN BONTÀ DE’ CAVALLIERI ANTICHI” La poesia di guerra europea, tra l’XI ed il XX secolo L MARCO CIMMINO a poesia di guerra medievale di dolore alla notizia della morte ruota, come l’epica omerica, del marito in battaglia. Si tratta, intorno al concetto di eroisdunque, di una società militare, mo individuale, anche se, spesso, cache vuole tramandare soltanto il lato in un contesto di generico valproprio carattere valoroso ed ore collettivo, sotto l’egida della reaustero. È pur vero, però, che ligione e delle sue inevitabili implitutta la civiltà dei Romans, che si cazioni storiche. Nelle sue prime sviluppò, quasi contemporaneamanifestazioni, questa poesia risentì mente alle Chansons, in ambito certamente di fenomeni epocali esnormanno-angioino, introtremamente significativi per la culdusse, accanto a questi temi dicitura dell’occidente medievale, come amo così “politici” una nuova etla Reconquista, nel caso dei cantari ica, originata dalla trasforispanici, o le lotte dei Franchi mazione del concetto di cavallecontro le armate mozarabiche, Matteo Maria Boiardo (1441-1494), ria: nacque un nuovo genere di com’è nel caso della più celebre in un'incisione d’autore anonimo del guerriero, che poneva, accanto delle Chansons de Geste. Il soldato 1840 alla battaglia, altri valori fondacarolingio (o pseudo-carolingio, mentali, come l’amore, l’avvendato che il modello è, in realtà, il cavaliere feudale tura ed un codice d’onore che rappresentava già dell’XI-XII secolo) vi appare del tutto votato alla una prima forma di archetipo culturale cavpropria causa religiosa e militare, e sembra alleresco. Possiamo dire che le tre materie dell’episprovvisto tanto di aspetti psicologici complessi ca medievale, quella antica, quella di Francia e quanto di venature sentimentali. Roland vive un’e- quella di Bretagna, segnarono il graduale passagsistenza lineare e perfettamente coerente, tutta gio da una poesia storico-celebrativa ad una poesia racchiusa tra la fedeltà cieca al proprio signore, fantastica e di intrattenimento, come sarebbe stata Carlo Magno, e al Signore Dio, dal quale derivano essenzialmente quella del XV e XVI secolo, con il l’autorità dell’imperatore e il suo dovere di guer- poema italiano in ottave, che di queste materie rapriero. Assenti o ininfluenti, le figure femminili ri- presentò un ardito sincretismo. L’eroe medievale, mangono sullo sfondo, e perfino Aude, la bella alla fine di questo processo mitopoietico, appare moglie del paladino, compare soltanto per morire come un guerriero dall’eccezionale valore (addirit- 34 tura capace di imprese sovrumane, grazie all’aiuto di Dio), che combatte a cavallo, pesantemente corazzato, e che, in definitiva, fa il soldato di mestiere, perché a questo lo destina la sua nascita aristocratica. Esso è, però, anche un modello morale, che incarna una sorta di canone eroico e, al contempo, etico, arricchendosi, progressivamente, di sfumature psicologiche e comportamentali, che ne fanno un eroe positivo. L’epica medievale è, insomma, una poesia figlia del feudalesimo, che ne celebra i valori e la mistica. Sarebbe, però, sbagliato ridurre tutta la poesia polemica medievale ai tre generi di cui si è detto poc’anzi. Impossibile dimenticare il grande cantore della guerra che fu il trovatore (il termine è usato estensivamente, giacché Gisors non faceva certo parte dell’area linguistica trobadorica) Bertran de Born, valoroso cavaliere e inascoltato consigliere di Riccardo I d’Inghilterra: in Bertran è espresso a chiare lettere un concetto che sarebbe riapparso, carsicamente, nella nostra civiltà letteraria, ossia quello della bellezza della guerra in sé, come atto estetico. la Biblioteca di via Senato Milano – ottobre 2014 Per il poeta, solo la guerra rallegra l’animo, con i suoi colori sgargianti e la sua feroce animazione. Il resto è noia, in attesa di un’occasione propizia per montare a cavallo ed impugnare la lancia. Del pari, non vanno trascurati cicli epici minori, ma certamente significativi, come quello finnico di Kalevala, il russo Slovo, le saghe e i poemi eddici di area scandinava oppure la materia irlandese che ruota intorno alla regina Maev e a Cuchulain. Ognuno di questi cicli ci mostra una società primitiva, che alterna l’uso della violenza e della guerra a peculiari operazioni di diplomazia, in quelle che appaiono, nella stragrande maggioranza dei casi, come lotte tribali o poco più. Naturalmente, a seconda della società in cui si svilupparono questi cicli epici, che definiamo minori solo in virtù della rarità di loro manifestazioni scritte e canonizzate, possiamo rilevare l’insorgere di elementi peculiari, come la magia, le maledizioni o il canto, essi, comunque, corrispondono quasi sempre al modello individualista e metareligioso da cui parte tutta l’epica europea dell’Età di mezzo. Questi cicli epici si fanno inoltre ottobre 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano 35 Sopra da sinistra: Rodomonte, uno degli eroi dell’Orlando Furioso, in una incisione di Gustav Dore (1832-1883); Tiziano (1485-1576), Ritratto di Ludovico Ariosto (1510 circa), Londra, National Gallery. Nella pagina accanto: episodio della Chanson de Roland, raffigurato nella Cattedrale d'Angouleme (XIV sec.) apprezzare per essere l’espressione genuina di quella carica combattiva e di quei protovalori che si affinarono nei secoli, fino a produrre la raffinata poesia epica moderna. D’altronde, la primitiva strategia del combattimento a cavallo, resa sempre più evoluta dalla pratica militare, dai tempi di Hastings (1066) alle clamorose sconfitte della cavalleria francese nella guerra dei cent’anni, rappresentò a lungo l’ideale di valore militare europeo, che, pur essendo soppiantato da armi tecnologicamente più avanzate e, in sostanza, dal prevalere nuovamente della fanteria sulla cavalleria, delle armi da lancio e da fuoco su quelle da taglio e da punta, e della difesa sull’attacco, venne rimpianto da poeti e letterati per molti anni ancora. Si pensi all’epilogo dell’incompiuto Orlando Innamorato, di Matteo Maria Boiardo, in cui, nel 1494, si lamenta la mancanza di cavalleria dei soldati di Carlo VIII e ancor più all’esecrazione delle armi da fuoco, morte della cavalleria, espressa trent’anni più tardi dall’Ariosto nel Furioso: è evidente che, nell’immaginario collettivo, anche in età rinascimentale, il vero eroe era il cavaliere che combatteva all’arma bianca. Questa tradizione sopravvisse nei duelli, nei tornei e, in tempi più recenti, nello sport. La poesia, invece, poco alla volta volse la propria attenzione altrove: la letteratura di guerra sarebbe rinata soltanto in tempi assai recenti. Possiamo dire che la fine dell’epica militare ed eroica dati intorno agli anni della battaglia di Lepanto o giù di lì: alla fine del XVI secolo apparvero due capolavori che avrebbero segnato, con caratteri diversissimi tra loro, l’epigrafe funebre del poema cavalleresco e dell’epica 36 Carlo Magno uccide un condottiero moro (miniatura di un codice del XII secolo contenente la Chanson de Roland, conservato all’Aja, presso la Biblioteca reale) guerriera: La Gerusalemme liberata di Tasso e Il Don Quijote di Cervantes Saavedra. Nella prima, il cavaliere diviene una sorta di attore che recita il proprio ruolo in uno scenario ‘maraviglioso’e assai poco realistico; nel secondo, il vecchio hidalgo, che si crede un grande eroe poetico, preferisce sognare che vivere il proprio presente: anzi, vive il proprio presente come se sognasse. Quando gli viene tolto il suo sogno eroico, Don Quijote muore. E nell’avversione del personaggio cervantiano per le armi moderne, è labile il confine tra l’ironia e la nostalgia autentica.Quale epitaffio migliore per il gran sogno della gloria cavalleresca? Alla fine, dei valori della cavalleria e degli eroi a cavallo del medioevo feudale, per lungo tempo, non sarebbe rimasto che il feroce cachinno della Macheronea: sic transit gloria mundi. La poesia di guerra, dopo la straordinaria fioritura che la caratterizzò tra il basso Medioevo e l’avvento delle armi da fuoco campali, subì una notevole battuta d’arresto: nei secoli XVII e XVIII essa rimase un genere marginale oppure non si discostò dai rigidi canoni di una pedissequa imitazione dei modelli cavallereschi. Possono essere, in qualche modo, indicate come poesia di guerra le parodie, i poemi macheronici, le liriche celebrative la Biblioteca di via Senato Milano – ottobre 2014 di questo o quel condottiero: si tratta, però, fin troppo evidentemente, di opere in cui l’adesione dell’autore al tema bellico è del tutto accademica, laddove non appaia una vera e propria volontà antibellicista. Per assistere ad un nuovo riavvicinarsi della poesia ai temi polemici bisognò attendere il Romanticismo, con il suo recupero di valori sia estetici che etici delle letterature romanze. Per la verità, però, l’eroe romantico possiede caratteri un po’ troppo individualisti e psicospiritualmente anomali per incarnare pienamente il concetto di eroe guerriero: la gran battaglia che egli combatte è soprattutto una battaglia dello spirito. Così, anche la guerra divenne secondaria, tematicamente, rispetto al punto di vista dell’eroe: il pensiero stava prendendo decisamente il sopravvento sull’azione, nonostante i proclami altisonanti, cui non sfuggì neppure il meno romantico dei nostri poeti ottocenteschi, Giacomo Leopardi, nella sua canzone All’Italia. E, se in Francia, i narratori naturalisti scelsero spesso il conflitto franco-prussiano del 1870-71 come sfondo per i loro racconti, il Verismo italiano confinò perfino un episodio saliente della terza guerra d’indipendenza del tutto sullo sfondo. In definitiva, dunque, possiamo dire che, soltanto con il Novecento, le nuove tensioni sociali e il nuovo, straordinario, sviluppo della scienza e della tecnica, che ne caratterizzò i primi anni, la guerra tornò ad occhieggiare, se non nei versi dei poeti europei e, in particolare, italiani, almeno nei pensieri degli intellettuali. Dapprima, semplicemente come metafora della vita, poi, come vedremo, come soggetto letterario e politico. Non si trattava di un fenomeno del tutto nuovo, quanto, piuttosto, di una sorta di ritorno storico: esso prese le mosse da quella che noi qui definiamo “mobilitazione totale permanente”, che, secondo l’opinione di chi scrive, fu la vera matrice del fenomeno interventista italiano, accanto all’idea, maturata in senso all’Intesa, di una crociata contro la barbarie germanica e a quella, tipicamente nazionale, di un Risorgimento da completare. ottobre 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano 37 inSEDICESIMO LE MOSTRE – LO SCAFFALE – L’INTERVISTA DEL MESE – LA NOTIZIA DEL MESE LA MOSTRA/1 PROMEMORIA PER AJMONE Da Marini, a Milano a cura di luca pietro nicoletti no studio monografico moderno che rimetta in ordine la vicenda artistica di Giuseppe Ajmone e la sua ricezione critica, intrecciando storia e filologia, non è stato ancora scritto. Sono convinto, infatti, che un’immersione nel laboratorio creativo del pittore, con l’appoggio degli sguardi che via via si sono posati sul suo lavoro, potrebbe riservare qualche sorpresa: ci si accorgerebbe, infatti, che la sua storia intreccia trasversalmente altre storie, e che determinati periodi del suo lavoro devono essere letti all’interno di serie orizzontali più ampie, come delle cronologie parallele che mettano in evidenza i rapporti di dare e avere: le fonti visive fondative del suo linguaggio e i casi, per converso, in cui il suo lavoro è stato fonte di ispirazione per le generazioni più giovani, É il solo modo, credo, per non appiattire la lezione di Ajmone in un facile “naturalismo”, nell’icona sentimentale del poeta del fiume Sesia e delle sue rive. É la stessa etichetta di “naturalismo”, in verità, a dover essere rimessa in discussione e U ripensata, anche nell’accezione, forse troppo fortunata, di “ultimo naturalismo”. Sono, queste, alcune delle riflessioni che affiorano visitando la mostra curata da Elena Pontiggia presso la Galleria Marini, a Milano, che offre l’occasione di accostarsi di nuovo a testi visivi così difficili da avvicinare, se non nelle abitazioni dei collezionisti privati. La selezione proposta, infatti, consente qualche considerazione iniziale. Non so dire se davvero questa pittura sia preveggente nei confronti del disfacimento della natura avvenuto nel secondo dopoguerra, ma forse, come dice giustamente la Pontiggia in catalogo, dovranno passare almeno due secoli prima di poter avere la giusta distanza per far emergere le figure davvero significative della pittura dell’ultimo mezzo secolo. Preliminarmente, però, credo che per decifrare il lavoro di Ajmone sia necessario, più che in altri casi, porsi qualche domanda in merito al suo rapporto con la pittura del passato e del presente. Non sono sicuro che dietro l’Ajmone degli anni Cinquanta ci siano davvero Fautrier e De Staël: credo che Il nudo e la rosa, 1970, olio su tela, 146 x 115 cm; Nudo seduto, 1990, olio su tela, 60 x 50 cm 38 la Biblioteca di via Senato Milano – ottobre 2014 La Camera, s.d. (anni '70), olio su tela, 81x65 cm si possa riconoscere, invece, un dialogo serrato, in nome del venturiano “astratto-concreto”, con la “peinture de tradition française”, che in quel momento stava incontrando un lustro di particolare fortuna (Manessier in primis), cioè quei pittori che avevano conciliato le ragioni del cubismo e del fauvismo in una pittura di colore e di immagine. Si potrebbe anzi dire, senza esitazione, che Ajmone fu fra i più “francesi” della sua generazione. La critica se ne era accorta già a suo tempo: non a caso, le sue opere di trovavano perfettamente a loro agio nella compagine delle rassegne torinesi Pittori d’oggi. Francia-Italia, volute e coordinate da Vittorio Viale con l’appoggio di Luigi Carluccio. Come quei pittori, in fondo, anche lui era uscito dalle secche del picassismo, come mise bene a fuoco Enrico Crispolti in un importante saggio su “Commentari” nel 1956, senza abbracciare la via della pittura esclusivamente di segno e di materia, preferendo anzi un groviglio di linee capace di evocare la natura lacustre. Sin da subito, in effetti, la vocazione prevalente (ma non esclusiva) del pittore per la vegetazione, acquatica e non, è evidente: è quella che meglio si presta all’evocazione che alla descrizione. Eppure, non è senza fascino accostare quel respiro lirico, come fu fatto da certi critici in occasione di Francia-Italia 1959 -sotto il comune nume tutelare di Paul Klee- al lavoro di Peverelli e della portoghese Vieira da Silva. Bisognerà domandarsi, poi, quanto può aver contato, per artisti di una generazione più giovane, vedere un’opera come il bozzetto per arazzo del 1959, con quei lunghi filamenti in punta di pennello che percorrono la tela. Eppure, nel giro di un decennio, la vicenda di Ajmone si sarebbe evoluta in direzione di una progressiva ricomposizione dell’immagine: ecco che quell’intreccio di arbusti e giunchi diventa un affastellarsi di abitazioni e tralicci. Il pittore si sta avvicinando a grandi passi alla figurazione, anzi a un ritorno di figura che non si può fare a meno di leggere in rapporto a quel più ampio fenomeno che caratterizza la pittura europea della fine degli anni Settanta. Non è questione di capire chi sia arrivato prima e chi dopo a certe soluzioni: è un dato di fatto che, a prescindere dalle intenzioni di poetica individuali, la figura irrompe sulla tela ottobre 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano in tutta la sua evidenza di immagine. Se anche non tutte le donne dipinte in quegli anni, secondo una felice definizione di Sebastiano Grasso per quelle di Ajmone, «odorano di talco e si sciolgono nel colore» (“Corriere della Sera”, 9 giugno 1997), tutte fanno i conti, in un modo o nell’altro, con l’arte, più o meno smaccatamente dichiarata, della citazione. Nella soffusa nube grafica da cui emergono per pochi tocchi di luce o di biacca, alcuni dei suoi nudi, in un ritorno post-moderno di “bella maniera”, sono atteggiati come gli Ignudi michelangioleschi della Sistina. È ormai un dato pacificamente accettato che le alterne fortune della pittura del passato, con i suoi ritorni e le sue riscoperte, intercetta e condiziona le scelte e la cultura visiva del presente: non è quindi senza significato che certe scelte, la citazione e il prelievo di determinati atteggiamenti e posture, avvengano in concomitanza con la rivalutazione dello “stylish style” o “bella maniera”. Un certo compiaciuto e sensuale modo di stendere il colore, con una materia che si sfarina e si disgrega nello stesso pigmento particolarmente evidente, per esempio nelle Les ninfhéas se sont noyees, un quadro su cui l’artista è tornato a più riprese fra 1977 e 1982- è impensabile a prescindere dalla rivalutazione avuta, in quel decennio, dalla pittura del Tiziano più maturo. Per questa ragione, io credo, le donne di Ajmone, coeve agli Imbarchi di Franco Francese e ai nudi più secchi e crudi di Vacchi e Sughi, e che si muovono in ambienti non del tutto GIUSEPPE AJMONE. OPERE 1944-2002 Testo di Elena Pontiggia MILANO, GALLERIA MARINI 18 settembre 10 dicembre 2014 dissimili dagli interni della migliore stagione di Giancarlo Ossola, prendono a prestito, talvolta, le 39 posture e i fianchi a quelle di Correggio. E bisognerà chiedersi quanto si potesse vedere, in quegli anni e in Italia, di Boucher e di altri maestri della più sensuale intimità femminile. La loro radice è di certo diversa dal ritorno al nudo, leggermente più tardo, delle giunoniche bagnanti di Morlotti: non ha credenziali, qui, il nume tutelare di Cézanne. (lpn) Les ninfheas se sont noyees, olio su tela, 1977-1982, 130x97 cm 40 la Biblioteca di via Senato Milano – ottobre 2014 LA MOSTRA/2 PERCEZIONI INGANNEVOLI Grazia Varisco da A Arte Invernizzi Qui sopra: Grazia Varisco (da sinistra a destra) Quadri comunicanti, 2011, Ferro e alluminio, 8 elementi - dimensioni variabili Risonanza al tocco, 2010, Acciaio, 200x50 cm In alto: Grazia Varisco, (da sinistra a destra) Gnomoni,i 1986, Ferro, 3 elementi dimensioni variabili, Ventilati,i 2013-2014 Cartone vegetale, 4 elementi - dimensioni variabili. A destra: un’altra veduta dell’esposizione. Courtesy A arte Invernizzi, Milano. Foto Bruno Bani, Milano. l fruitore in visita alla galleria A Arte Invernizzi troverà ad accoglierlo, lungo le scale, una teoria di metalliche “farfalle” volanti: sono gli Gnomoni ideati da Grazia Varisco negli anni Ottanta piegando lamine di ferro in modo da ottenere una suggestiva illusione spaziale. La sua “rivoluzione permanente”, come ha detto efficacemente Francesca Pola nel conciso ed esauriente saggio I introduttivo alla mostra, partendo dal principio di riduzione formale e materiale dell’opera d’arte, si poteva riassumere nei termini di “misurazione” e “percorrenza” dello spazio, per raggiungere, nei decenni più prossimi, la questione dell’allineamento e del disagio percettivo. Come sempre, il lavoro della Varisco sfugge per sua stessa natura alle maglie cronologiche di un’esposizione antologica sequenziale: la necessità di una relazione immediata con lo spazio in cui l’opera va a collocarsi, infatti, impone un dialogo serrato con l’architettura e un allestimento che riesca a trasformare lo spazio in un “racconto” proprio e autonomo. Si tratta, scrive sempre Pola, di una «volontà di catturare e tradurre in presenze aperte, attive, quell’energia in movimento sottesa a ogni evento nel suo accadere, a ogni forma nel suo divenire, a ogni esperienza nel suo farsi». Sta proprio qui, infatti, il punto in cui il lavoro di Grazia Varisco chiama in causa i problemi dell’opera aperta: il suo lavoro fornisce degli elementi predeterminati, ma sta poi al fruitore interagire con l’opera, talvolta in modo diretto (come nelle tavole magnetiche a elementi lineari variabili degli anni Sessanta), talvolta come spettatore al mutevole gioco percettivo (come negli Schemi luminosi variabili, anche questi degli anni Sessanta) oppure decriptando l’inganno ottico. È il caso, quest’ultimo, dei Comunicanti e, in ultimo, dei Ventilati del 2013-2014, presentati qui per la prima volta. Si tratta di serie in cui, con modalità differenti, Grazia Varisco gioca con un’assenza: nel primo caso un liquido ottobre 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano comunicante da forma a forma, di fatto evocato da una linea d’orizzonte per indicare un liquido che non c’è; nel secondo una piega, memore delle Extrapagine degli anni Ottanta, ma ottenuta da un’accorta sovrapposizione di due grandi fogli di cartone in fibra vegetale. In entrambi i casi, però, basilare rimane l’approccio ludico, il gioco e il conseguente smascheramento dell’illusione concettuale e visiva. Per questo motivo, come scrive giustamente Pola, il suo lavoro non è gravato, a differenza di analoghe e coeve esperienze, di implicazioni politico-sociali: «l’adozione di meccanismi proto tecnologici e cinetici non ha, se non solo marginalmente e per riflesso, il valore di un tentativo di ridefinizione dello statuto sociale dell’azione artistica: è piuttosto lo strumento di un coinvolgimento umano -psichico e fisico insieme- che vuole produrre una partecipazione attiva da parte dello spettatore». (lpn) GRAZIA VARISCO. VENTILATI Saggio di Francesca Pola MILANO, A ARTE INVERNIZZI 23 settembre 5 novembre 2014 41 LA MOSTRA/3 DIARIO IN FORMA DI PITTURA Mario Raciti alla San Carlo a pittura di Mario Raciti dichiara una lunga fedeltà a una modalità di racconto lirica ed evocativa di segno grafico e diafana rarefazione pittorica. Come ha scritto con efficace ispirazione poetica Sandro Parmiggiani, la sua è «una pittura che mai si è arresa alla tentazione di ricorrere alle seduzioni di un colore sfarzoso o di una forma che si protendesse a gridare la propria presenza; al contrario è, la sua, una pittura che s’impone per la preziosità della tecnica e il controllo delle stesure». Negli anni recenti, anzi, questa materia leggera e ineffabile si è andata ulteriormente smaterializzando, fino a rendere palpabile, con l’uso della carta velina come supporto, quella fragilità metaforicamente tradotta, fino a quel momento, per il tramite della pittura. I suoi sono «segni di breve o lungo corso», scrive sempre Parmiggiani nella presentazione in catalogo, «di andamento disteso o tormentato, che navigano fluidi nello spazio, che talvolta si rinserrano in un palpito di forma o che si perdono, si dissolvono nel vuoto, dentro ciò che a noi appare come il nulla, in una densità che è quella dei vapori aerei o acquei, ma che potrebbe custodire e celare al suo interno terre incognite». Il vero filo conduttore, alla fine, è quel «lattiginoso bianco che vela ciò che si muove sotto la pelle della pittura». L RACITI. VELINE UNA O DUE FIGURE Testo di Sandro Parmiggiani MILANO, GALLERIA SAN CARLO 25 settembre 30 ottobre 2014 In questi fogli esposti presso la Galleria San Carlo, tutti relativi agli ultimi anni, Raciti sembra aver accentuato la dimensione diaristica del suo lavoro: il piccolo formato di questi “racconti” affidati alla trasparenza della carta velina, dà spazio, come scrive sempre il critico, a «vapori, sommovimenti dell’aria e dell’acqua, formazioni di nubi», ma in una dimensione, prendendo a prestito un termine dal gergo musicale, di pittura “da camera”. (lpn) 42 la Biblioteca di via Senato Milano – ottobre 2014 LA MOSTRA/4 L’EVENTO DELLA PITTURA Giorgio Griffa a Milano on era intenzione di Giorgio Griffa, quando si affacciò alla ribalta artistica negli anni Sessanta, presentarsi come un sovversivo: lo dichiara serenamente la lunga e bella intervista rilasciata a Marco Meneguzzo in occasione della mostra personale presso Luca Tommasi Arte contemporanea di Milano. Una piccola ma preziosa mostra che si concentra sul quinquennio N 1968-1973, quando Griffa, a Torino, cominciava a porsi nei termini, come afferma egli stesso, di una «pittura che pensa ad altra pittura». Non è da trascurare, forse, che in tutta l’intervista riportata in catalogo non si incontri mai il termine “analitico”, con cui pure l’esperienza di Griffa – ed altre a lui coeve - erano state intese. Ciò non toglie, ovviamente, che gli statuti fondativi del linguaggio fossero il perno attorno al quale si articolava il suo discorso espressivo, da una sottolineatura dei bordi del campo compositivo, alla reiterazione modulare di linee replicanti le strutture della tela di formato rettangolare. Eppure, in questo gesto ripetitivo e consapevole non c’è una freddezza speculativa: i segni di Griffa ottobre 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano somigliano a un esercizio zen a cui non manca, invero, un gradiente di poesia. E non manca nemmeno una certa sofferenza dell’atto creativo: credo si debbano interpretare in questo senso le parole dell’artista quando afferma che «la mia pittura rientra in quel che è sempre stata la pittura nei vari cicli di civiltà, che possono avere vari modelli, ma che è sempre la stessa cosa: Orfeo che scende agli Inferi!». Una discesa agli inferi, forse, che comprende la necessità di prendere le distanze con i modelli e le fonti visive a cui, inevitabilmente, anche la pittura più austera e rarefatta non può fare a meno di appoggiarsi. Nulla toglie la sensazione, guardando le sue Impronte a tempera e colla del 1968, che a monte ci sia una riflessione intelligente sulla pittura improntuale di Remo Bianco. Ed anche i suoi Punti bianchi (1970) ad acrilico, con fare lieve e cadenzato, riecheggiano traiettorie spazialiste: qui, però, non c’è un telaio teso come un tamburo e pronto a farsi lacerare dal punteruolo di Lucio Fontana, e il solo “urto” che può sopportare è quello del tubetto che, con una leggera spremuta di colore, lascia un’impronta circolare. La tela è lasciata libera, è uscita dal telaio, dichiarando la propria fragilità. La vera chiave di volta del discorso, però, è chiarita da Griffa stesso, in una breve e lancinante definizione, che si annida di sfuggita fra le sue parole: «l’evento era la pittura stessa». (lpn) GIORGIO GRIFFA. EARLY WORKS 1968-1973 A cura di Marco Meneguzzo MILANO, LUCA TOMMASI ARTE CONTEMPORANEA 18 settembre 25 ottobre 2014 43 Nella pagina accanto dall’alto: 1968, 72x100, dall'alto e da destra; 1969, 34x49, segni orizzontali. In questa pagina dall’alto: 1969, 67x99, linee; 1972, 50x73, orizzontale 44 la Biblioteca di via Senato Milano – ottobre 2014 LO SCAFFALE Pubblicazioni recenti, fra libri, tomi e volumi di piccoli e grandi editori Romano Tamani, “Diario di un lavapiatti di campagna”, Milano, Bompiani, 2014, pp. 240, 17 euro. Ci sono vite segnate dal destino e quella di Romano Tamani, settantenne chef del celebre ristorante Ambasciata di Quistello, vicino Mantova, è una di queste. Il suo destino è la cucina, il cibo, la gastronomia - e insieme a questi, la tradizione. In questo libro (impreziosito da una bella introduzione di Vittorio Sgarbi), attraverso le sue ricette, Tamani rievoca in modo quasi epico il mondo contadino arcaico, patriarcale e matriarcale insieme, da cui proviene; rievoca le sue terre; rievoca il suo passato, nutrito di religione, senso della famiglia, rispetto del destino. E critica alcuni vizi della modernità: il fast food, di cibi di importazione, la passione per l’estetica a scapito della qualità. La testimonianza di uno chef che ha fermato il tempo, e così ha conquistato i palati d’Italia e la Michelin. “Giorgio Morandi Roberto Longhi. Opere. Lettere. Scritti”, a c. di Maria Cristina Bandera, Cinisello Balsamo, Silvana Editoriale, 2014, pp. 208, 30 euro. Nel cinquantesimo anniversario della scomparsa di Giorgio Morandi (Bologna, 1890-1964), questo volume (reso ancor più prezioso da una interessante introduzione di Mina Gregori) intende rievocare il lungo sodalizio che unì il pittore al critico d’arte Roberto Longhi, attraverso opere e documenti appartenenti alla fondazione Longhi e alla collezione Merlini. Nati entrambi nel 1890, Morandi e Longhi strinsero amicizia a Bologna, dove l’uno viveva e l’altro insegnò dal 1934. Il loro rapporto, consolidato da incontri e fitti carteggi proseguiti anche dopo la guerra, fu improntato a una profonda e reciproca ammirazione. Sarà proprio Longhi, che già aveva consacrato ufficialmente il pittore eleggendolo «uno dei migliori pittori viventi d’Italia», a ricordare il grande pittore al momento della sua scomparsa, durante la trasmissione televisiva «L’Approdo», registrata nel giugno 1964. Nel volume, che ripercorre le vicende dei due protagonisti, sono presentate una serie di opere di Morandi appartenute a Longhi, insieme ad altre provenienti dalla Collezione Merlini, alcune delle quali inedite. I saggi sono accompagnati dall’antologia critica dei testi di Longhi dedicati a Morandi e dalla pubblicazione del carteggio inedito intercorso tra il pittore e lo storico dell’arte. “Francesco Panigarola. Predicazione, filosofia e teologia nel secondo Cinquecento”, a c. di Francesco Ghia e Fabrizio Meroi, Firenze, Olschki, 2014, pp. 202, 22 euro. Figura tra le più importanti del panorama culturale della seconda metà del Cinquecento, Francesco Panigarola (Milano 1548 - Asti 1594) non fu solamente - secondo il giudizio dei suoi contemporanei, sostanzialmente confermato dalla critica moderna - il più grande predicatore cattolico dell’età della Controriforma; fu anche esegeta e lettore di teologia, esperto di filosofia e di arte della memoria, storico e poeta, vescovo di Asti e protagonista sulla scena infuocata delle guerre di religione in Francia. I contributi raccolti in questo volume - che traggono origine dal primo convegno a lui interamente dedicato - si propongono di indagare la sua vita e la sua opera in una prospettiva critica e interdisciplinare. 46 la Biblioteca di via Senato Milano – ottobre 2014 L’INTERVISTA DEL MESE OTTOCENTO MUSICALE ITALIANO Riflessioni di Massimiliano Caldi, direttore della Filarmonica Polacca Baltica di Danzica di luigi sgroi erché numerosi grandi musicisti italiani dell’Ottocento sono stati dimenticati dalle istituzioni musicali e, di conseguenza, dal grande pubblico? In un paese come l’Italia, che tanto ha dato con la musica al mondo, come è possibile tutto questo? In generale credo che l’indole italiana porti a non valorizzare o addirittura a sottovalutare ciò che viene prodotto in casa propria. È come se a un certo punto l’italiano si illuda che il proprio patrimonio, sia esso frutto di scoperte o invenzioni P possa continuare a muoversi con le proprie gambe e a splendere di luce propria. La sciatteria che regna in alcuni grandi musei e la vaghezza con cui sono segnalati siti archeologici di rilievo sono sotto gli occhi di tutti. In Italia la musica cameristica e il repertorio sinfonico in particolare, soffrono da tempo di questa debolezza. Quali sono le cause? Le risposte sono molteplici e complesse e affondano in questioni storiche e socio-culturali. Inoltre, ricordiamo, l’Italia è la patria del bel canto e della musica operistica. La predilezione del pubblico per questa espressione artistica è da sempre stata piuttosto evidente, forse perché collimava e collima tutt’oggi, col carattere aperto, espansivo, “colorito”, del popolo italiano. Tuttavia alcuni grandi operisti come Verdi, Rossini e Puccini si sono cimentati nella cameristica; ma lo hanno fatto per “sfida” o per divertimento, senza voler lasciare davvero qualcosa di importante alla storia della musica. Verdi scrisse il suo celebre Quartetto per archi a Napoli in due settimane, quasi come passatempo, durante le prove di una sua opera. Rossini scrisse le sei famose Sonate a Quattro in cui lui stesso imbracciò il violino con discreti risultati (a suo dire) e Puccini compose un brano per archi, Crisantemi e tre minuetti che introdusse poi nella sua Manon Lescaut.t Ognuno di questi scrisse dunque brani di musica da camera ma solo per uno scopo preciso, una determinata situazione; dunque con ispirazione ma senza una vera e propria “missione”. Forse essi stessi scrissero questi brani senza pensare che un giorno sarebbero stati eseguiti di frequente ottobre 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano 47 in pubblico, né minimamente pensarono di poterli comparare ai propri capolavori teatrali. Eppure qualche altro nome di rilievo è emerso. Nell’Ottocento, ad esempio, un nome da segnalare è quello di Antonio Cagnoni. Ci può dire qualcosa delle peculiarità e dell’importanza di questo autore? Era un compositore vigevanese, nato e morto proprio all’interno di quel secolo. Ebbi l’occasione di dirigere Don Bucefalo e Re Lear,r rispettivamente la prima e l’ultima opera da lui scritte prima di cadere nel dimenticatoio. Eppure la prima in particolare, quando l’autore era ancora in vita, era molto popolare e anche l’ultima, Re Lear,r cadde nell’oblio proprio a causa della morte del compositore che non poté curare i dettagli della messinscena che la Scala aveva cominciato ad allestire. In effetti sono stati davvero pochi i compositori che abbiano saputo “curare la propria immagine” si direbbe oggi, e avere l’arguzia e la fortuna di circondarsi delle persone giuste che riconoscessero e divulgassero le loro opere. Nell’Ottocento i nostri autori sono considerati “in ritardo” rispetto ai sinfonisti stranieri, tedeschi in particolare. Eppure, un certo Martucci… Giuseppe Martucci è un autore ingiustamente trascurato. Il grande pubblico sa poco o nulla di lui. Le uniche composizioni conosciute da quel pubblico esperto o sensibile alla grande musica non “famosa”, sono la Sinfonia in re minore e il Concerto per Pianoforte e Orchestra in Si bemolle 48 la Biblioteca di via Senato Milano – ottobre 2014 proprio all’inizio dei primi successi pucciniani che già mietevano vittime… Insomma, mi si perdoni l’ardire, bella musica ma nel posto e nel momento sbagliati, anche politicamente. Maggiore. Un compositore dotato di alta sensibilità e raffinatezza che ha avuto il “torto” di essere vissuto negli anni in cui, poco distante, operavano Brahms, Bruckner, Ciajkovskij che vivevano in aree anche politicamente più stabili e quindi pronte a offrire al grande pubblico i loro capolavori. Ci può indicare qualche altro nome importante dell’Ottocento che è stato indebitamente trascurato? Sicuramente Giovanni Sgambati. Lui e Martucci si collocano, diremmo, in un momento difficile. Il confronto con i grandi operisti italiani del tempo li penalizza in quanto a popolarità. Hanno composto brani sinfonici importanti, ben strutturati e realizzati ma il pubblico non era pronto a tutta quella… grazia! Sgambati era un MASSIMILIANO CALDI, è Direttore Principale della Filarmonica Polacca Baltica “F. Chopin” di Danzica e Direttore Principale e Consulente Artistico della Filarmonica “S.Moniuszko” di Koszalin. In Italia Caldi collabora con diverse istituzioni quali l’Accademia Teatro alla Scala (con la cui orchestra ha diretto un galà lirico alla Royal Opera House di Muscat in Oman), il Maggio Musicale Fiorentino, con il Teatro Comunale di Bologna, con il Teatro Regio di Torino, con il Teatro Massimo di Palermo e con la Fondazione Arena di grande pianista. Allievo di Liszt, conobbe Brahms e Ciajkovskij. Scrisse due sinfonie, un Concerto per pianoforte e orchestra due Quintetti con pianoforte e un Quartetto per archi.i Musica suggestiva, ben scritta, ma ebbe la sventura di capitare Verona. In Europa si è esibito inoltre alla Konzerthaus di Vienna, alla E poi arriva il Novecento… secolo di mille contrasti. Anche qui forse sarebbe il caso di recuperare qualche nome illustre. Ci fa qualche nome? Direi Ottorino Respighi, un grandissimo di cui si conoscono solo i celebri Pini di Roma e Fontane di Roma. Tuttavia negli archivi della Casa Musicale Ricordi, ma anche negli archivi privati, giacciono decine e decine di manoscritti inediti di cui il sottoscritto ha potuto “assaggiare” qualcosa solo saltuariamente e ha scoperto autentici capolavori pieni di Brucknerhaus di Linz, alla Beethoven Halle di Bonn, alla Jarhunderthalle Hoechst di Francoforte, all’Accademia Franz Liszt di Budapest, al Rudolfinum di Praga, al Festspielhaus di Baden-Baden, al Rosengarten di Mannheim e nelle città di San Pietroburgo, Mosca, Amsterdam, Monaco di Baviera, Szeged, Biel e Murten e nella regione spagnola di Extremadura. In Israele ha diretto la Israel Sinfonietta Beer Sheva, in Brasile l’Orchestra Sinfonica di Santo Andrè e in Cile l’Orchestra Sinfonica del Cile. 50 la Biblioteca di via Senato Milano – ottobre 2014 Ottima. Ad esempio mi viene da ricordare l’immenso Nino Rota, che divenne tanto famoso per le colonne sonore di celebri film, capolavori immortali firmati Visconti, Fellini e Coppola. Pochi sanno però che Rota ha scritto chilometri di musica cameristica e sinfonica di incredibile valore artistico, ma il suo carattere schivo e riservato gli impedì di essere un buon promotore di se stesso. A causa del suo linguaggio fortemente comunicativo e immediato (così Rota definiva la sua musica) e una musica non propriamente, diremmo, innovativa, è passato alla storia attraverso il cinema e dunque, in maniera indiretta. suggestione, di inventiva, di magia e di emozione coloristico-narrativa. Nei primi anni del ‘900 poi, Respighi ebbe la “colpa” di non essere propriamente d’accordo con la tendenza politica imperante e non riuscì a diventare il compositore sinfonico del momento, pur avendo tutti i numeri per diventare il contraltare “sinfonico” di Puccini. Ci suggerisce qualche composizione interessante di Respighi a cui avvicinarsi? Sì, le Antiche Arie e Danze, per orchestra d’archi, e anche le suite: Vetrate di chiesa, Trittico botticelliano e Gli uccelli.i C’è anche un meraviglioso oratorio per soli, coro, organo e orchestra, La Primavera, che ho avuto l’onore di dirigere con la Filarmonica di Varsavia. Veramente emozionante. Proprio lì, a Varsavia, considerano Respighi il più grande musicista italiano del ‘900 a testimonianza del fatto che conoscono meglio di noi la nostra musica. In qualità di esperto di “musica d’arte”, o “colta”, lei che ha diretto le opere dei grandissimi della musica, che considerazione ha della musica da film? In chiusura, Maestro Caldi: qualche buona indicazione di ascolto per chi come noi non è esperto in materia ma ha a cuore la cultura italiana? Il Notturno di Martucci con il Concerto per pianoforte e orchestra di Sgambati. Poi la Rapsodia op. 11 Italia di Arturo Casella, la già citata Primavera di Respighi e il Concerto per pianoforte e orchestra di Nino Rota Piccolo Mondo Antico. All’ascolto di questi brani, si avrà senza dubbio la sensazione di “sentirsi a casa” anche se mai ascoltati prima. Altre cose da segnalare, il Preludio Sinfonico e il Capriccio Sinfonico di Puccini, due “chicche” del giovanissimo compositore lucchese che, del Capriccio, avrebbe usato alcune note per l’incipit della sua Boheme, capolavoro consegnato alla storia dell’opera. ottobre 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano 51 LA NOTIZIA DEL MESE AD ACQUI TERME LA PREMIAZIONE DEL 47° PREMIO ACQUI STORIA Grandi nomi e grande pubblico per un importante appuntamento di federica balza abato 18 ottobre alle ore 17.15 presso il Teatro Ariston di Acqui Terme, Piazza Matteotti si è tenuta la cerimonia di premiazione della 47° edizione del Premio Acqui Storia. Condotta da Franco Di Mare e Antonia Varini è stata il culmine di un intenso programma di eventi, iniziati nella mattinata al Grand Hotel Terme di Acqui con l’incontro dei vincitori con la stampa, gli studenti ed il pubblico, moderato da Carlo Sburlati (instancabile promotore e responsabile del Premio). S Nel pomeriggio sul palco del teatro Ariston, oltre alla presenza dei vincitori delle tre sezioni, si sono avvicendate le personalità insignite dei premi speciali “Testimone del Tempo”, “La Storia in TV”, Premio alla Carriera. Quest’anno sono Luciano Mecacci (con il volume La Ghirlanda fiorentina e la morte di Giovanni Gentile, edito da Adelphi), Vasken Berberian (con il romanzo storico Sotto un cielo indifferente), Gianpaolo Romanato (con il testo Pio X. Alle origini del cattolicesimo contemporaneo, pubblicato da Lindau) e Giancristiano Desiderio (con il saggio Vita intellettuale e affettiva di Benedetto a Croce) i vincitori della 47 edizione del Premio Acqui Storia. Al campione olimpico Livio Berruti, alla soubrette Lorella Cuccarini, al direttore del TG1 Mario Orfeo e al regista Enrico Vanzina è andato il premio “Testimoni del Tempo”. A MAGAZZINO 18 (spettacolo dedicato alla tragedia dimenticata delle foibe) e al suo interprete Simone Sotto da sinistra: Elisa Isoardi, presentatrice dell'Acqui Storia; Vittorio Feltri e Carlo Sburlati a un dibattito nella città termale. In alto: Carlo Sburlati con Franco Di Mare, uno dei presentatori delle ultime due edizioni al Teatro Ariston 52 In alto: Vittorio Sgarbi e Carlo Sburlati, mattatori all'Acqui Ambiente; sempre numerosissimo il pubblico alle premiazioni, il regista Carlo Verdone in prima fila Cristicchi il premio “La Storia in TV”. Mentre allo storico Roberto Vivarelli (recentemente scomparso) il Premio alla Carriera. Il Premio Acqui Storia, nato nel 1969, è divenuto in questi ultimi la Biblioteca di via Senato Milano – ottobre 2014 anni uno dei più importanti riconoscimenti europei nell’ambito della storiografia scientifica e divulgativa, del romanzo storico e della storia al cinema ed in televisione, ottenendo una grande visibilità internazionale. «Il numero dei volumi partecipanti al concorso quest’anno è stato di 189 a fronte di una media di circa 25-30 delle prime quaranta edizioni, record assoluto di scrittori e case editrici di tutti i 47 anni di vita del nostro Premio dalla fondazione nel 1968 e lo ha reso un premio veramente libero, autorevole, refrattario ed impermeabile al pensiero unico» ha rimarcato Carlo Sburlati, artefice in questi ultimi anni di uno spettacolare rilancio scientifico, culturale, mediatico e mondano del Premio, come evidenziato dai maggiori quotidiani italiani e raccontato in quasi tutti i telegiornali nazionali. 54 la Biblioteca di via Senato Milano – ottobre 2014 Punture di penna Consigli intellettuali per il vero Maître à penser Ovvero: come furoreggiare nei salotti – parte undicesima LUIGI MASCHERONI BAR Luogo letterario per eccellenza. E anche molto piacevole, in genere. A patto di non incontrarci letterati e scrittori. laci eventualmente. LIBRI CHE CAMBIANO LA VITA/1 Se vi chiedono quali libri vi hanno cambiato la vita, ribattere categorici: Nessuno. Aggiungendo che i libri non cambiano la vita. Servono solo ad alleggerirla. VIZI NAZIONALI La cosa migliore che ha l’Italia. VITA E OPERE A chi so- stiene che la vera opera d’arte è la vita, rispondere perentori che la vostra è un capolavoro. ONORE Checché ne dicano la Morale e la Letteratura, anche se si perde - a differenza del portafoglio - non è un grande problema. Ah, evitare la troppo scontata locuzione: “È un onore e un onere…”. Fa troppo provinciale. PERCENTUALI Quando si entra in un salotto culturale - la sala stampa di un festival, la Prima alla Scala, il vernissage di una grande mostra, la riunione di un premio letterario… cose così - ricordarsi bene, ma bene, che l’80 per cento delle persone che vi LIBRI CHE CAMBIANO Sopra: Luigi Mascheroni stanno intorno sono delle carogne. E che l’altro venti è lì per sbaglio. PAESE REALE Espressio- ne di cui non si può più fare a meno. A differenza di questo Paese, cui rinunceremmo volentieri, se potessimo. Dire tutto ciò sommessamente, senza guardare in faccia l’interlocutore. Perché voi, nonostante tutto, amate l’Italia. Come ogni vero anti-italiano. Citare Malaparte, Prezzolini, Montanelli… Anche la Fal- LA VITA/2 Se qualcuno sollevasse dubbi sul fatto che i libri non cambiano la vita, insistere: la vita non la cambiano i libri, ma le cose della vita. I libri possono solo, a volte, renderla più piacevole. Nient’altro, purtroppo. E, semmai, i libri cambiano le vite in peggio: la Storia insegna che le persone che leggono di più, le persone cosiddette “colte”, gli intellettuali, sono mediamente più ciniche, insensibili, egoiste, spesso immorali. E i peggiori massacri dell’umanità non li hanno compiuti i barbari e gli ignoranti, ma dittatori che avevano studiato e letto molto, raffinati teologi e inqui- ottobre 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano 55 sitori, intellettuali cresciuti alla Sorbona che hanno reso la Cambogia un inferno sulla terra, filosofi che hanno mandato al massacro intere generazioni di studenti invasati, Imam che hanno passato metà della vita a leggere e pregare, e l’altra a indottrinare ‘soldati’ alla guerra Santa. Anche Hitler aveva una splendida biblioteca. Mao pure. Mentre spesso i veri eroi della democrazia e della pace hanno letto poco, o nulla. CLASSIFICHE DEI LIBRI Utilissime. Per sapere cosa non leggere. RICCHEZZA Qualsiasi cosa pensate, tenere presente che esistono qua e là anche ricchi simpatici. OMOSESSUALITA’/1 Non dimenticare che i gay sono più sensibili. sè. Abusarne. ANIMALISMO Far intui- OMOSESSUALITA’/2 Nel dubbio tra “gay” e “omosessuale”, pur essendo la stessa cosa, preferire l’espressione “diverso”. FALLIMENTI I vostri in Joshua Reynolds (1723–1792), Ritratto di Henry Howard, circa 1770 re con sottili allusioni che ci ha fracassato i coglioni. E poi, il salame di orso è eccellente. LIBRI Il possesso della cul- realtà sono progetti troppo in anticipo sui tempi. tura passa dal possesso dei libri. Indifferentemente che si leggano o no. LUSSO Quello massimo è PETIZIONI Firmarne ogni tanto. Con moderazione. non doversi concedersi lussi. BLASÈ Termine molto bla- MERITO/DEMERITO Al fine di ottenere il successo, si equivalgono. Si solito per arrivare in cima si passa da tutt’altre strade. ECONOMISTI Generalmente, inguaribili pessimisti. Sempre noiosi. ECONOMIA In generale, prima di affrontare l’argomento, premettere: “Io di economia non capisco nulla, però ogni mese faccio sempre quadrare i conti della mia famiglia e della mia azienda …” a questo punto 56 la Biblioteca di via Senato Milano – ottobre 2014 di cui nessuno, neppure Dio, può fare a meno: imprescindibile per i potenti, ossessionati dal giudizio degli inferiori. E modello per i deboli, sedotti dalla potenza dei superiori. Lungimirante, paziente, inoffensivo (il suo è un delitto senza vittime, utile a chi lo commette e a chi lo subisce), il leccaculo ha nell’ombra il massimo della luce, dietro le scene il suo miglior palcoscenico e in colui che ha di fronte la propria identità. È uno specchio che riflette solo pregi. Come farne a meno? Thomas Gainsborough (1727-1788), La famiglia Gravenor, (1754), Connecticut, Yale Center for British Art potete dire qualsiasi cosa. Otterrete comprensione. Se qualcuno lo dice al vostro posto, rispondere: “Ma lo Stato non è né una famiglia né un’azienda… È molto di più”. Otterrete ammirazione. BIBLIOTECA PERSONALE Per averne una notevole, ricordarsi che i libri sono l’aspetto secondario. Servono prima altre tre cose: spazio, soldi e una moglie paziente. INSULTI Ultimamente uno dei peggiori è “thatcheriano”. Funziona molto bene anche “renziano” (che chissà perché alcuni usano come sinonimo del primo). Ciclicamente torna “craxiano”. Ormai desueto “fascista”. Quello che zittisce tutto e tutti, naturalmente, resta ancora “berlusconiano”. FIDUCIA Nell’ambiente intellettuale, concederla col contagocce. Appena si gira qualcuno, sussurrare “Serpe…”. ELKANN, ALAIN Voi non Lo leggete. Se se ne parla, cambiare argomento stizziti. MERITOCRAZIA Quella LECCACULO Tesserne l’elogio: creatura increata, frutto dell’autocompiacimento, senza alcuna forza se non la propria debolezza, che fa della menzogna la verità e dell’annientamento personale il trionfo altrui, il leccaculo - come ha insegnato in una pagina magistrale Robert Musil - è persona vera, è truccata. VERITÀ Uno dei motivi più probabili per i quali scrittori, filosofi, politici e soprattutto giornalisti, non dicono mai la verità molto probabilmente è perché non la conoscono. Tenerlo presente. 58 la Biblioteca di via Senato Milano – ottobre 2014 Il libro del mese Mussolini alla vigilia della sua morte L’ultimo incontro di Pierre Pascal con il Duce, a Gargnano PIERRE PASCAL L unedì di Pasqua 1945 - La voce di Goffredo Coppola mi chiama al telefono la mattina presto. È una voce un poco rauca ed energica la quale mi annunzia che Fernando Mezzasoma mi aspetta alle 10. Coppola aggiunge però che farò bene ad arrivare alle 9,45. Niente più di questo, ma il tono del messaggio non mi è sconosciuto. Lo so che verso le 10 sarò ricevuto da Mussolini. Mi preparo con una nervosità che non è del mio carattere, senza sapere precisamente perché. Rammento ancora che durante il viaggio sgranavo nella mia memoria i nomi melodiosi di alcune delle piccole città che si specchiano nel lago di Dante: Sirmione, Lazise, Bardolino, Cisano, Brezone, Magugnano, Cassone, Malcesine, Navene, Tòrbola, Riva, Tremosine, Gardola, Gargnano, Cecina, Toscolano, Maderno, Fasano, Gardone, Portese, Montinelle, Desenzano, Rivoltella, Peschiera - tanti altri ancora! Sapevo che qui Goethe era venuto a sognare di Elena e del suo Euforione. Sapevo anche che qui era stato generato, in questa bella conca di perle e di diamanti neri, Gasparo Bertolotti, inventore del violino! Come sempre si dice, ma inventore ancora più grande (il violino esisteva prima del Liutaio dei Liutai) perché per primo accordò in quinta le quattro corde! In questo modo conversando con i miei sogni a occhi aperti, arrivai nei primi sobborghi della piccola città attraverso stradicciole tristi e sporche. Chiesi la strada. La gentilezza italiana si offrì quasi ad accompagnarmi. Infatti, poi, chi poteva essere questo strano Francese, proprio in quel posto, su una vettura così impaziente e rapida? Raggiunsi una grande piazza ombrosa, passai per la porta di una torre con l’orologio. Percorsi un’altra strada. E il lago In alto a sinistra: Benito Mussolini legge un giornale, in uno dei salotti di Villa Feltrinelli. In alto a destra: Mussolini in bicicletta, nel parco di Villa Feltrinelli ottobre 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano mi abbagliò di nuovo, lunga linea di acqua stretta e scintillante ora vicinissima e già familiare. Come era tranquilla l’aria, calma e profumata di bontà! Notai una caserma ancora sonnacchiosa in quest’ora non del tutto mattutina, dopo aver salutato la Collegiale e il suo presbiterio virgiliano. Arrivai infine alla grande villa ove, secondo le mie guide, risiedeva il Ministero dell’Informazione. E pensai, “quella dell’ultima ora”... Un uomo affabile e giovane dagli occhi chiari e tristi sembrava mi aspettasse: era il Conte Manzoni. Ero puntuale. Il Conte Manzoni mi introdusse nel suo ufficio di cui la doppia finestra si apriva su un dolce declivio di alberi, di rosai precoci e di prati inclinati verso la trasparenza increspata del PIERRE PASCAL, “MUSSOLINI ALLA VIGILIA DELLA SUA MORTE E L’EUROPA”, a cura di Federico Prizzi, Pinerolo, Novantico editrice, 2014, pp. 176, 20 euro a caratteristica principale di questo volume non è solo quella di rappresentare il testamento spirituale di Mussolini a poco più di venti giorni dalla sua tragica fine. Bensì, di essere un libro scritto da Pierre Pascal, uno dei più grandi poeti francesi del ‘900 che visse e lavorò per quarantacinque anni in Italia. Yamatologo, iranista, scrittore, traduttore, editore e soldato, conoscitore di molte L lago. Mi tese una manata delle prime notizie della giornata, spinse l’uscio di una piccola porta nell’angolo della stanza e sparì. Mi misi a sfogliare obliquamente la storia del mondo. Il Conte Manzoni riapparve, si fece da una lingue antiche e moderne, Pascal ebbe una vita letteraria e umana intensissima. Unico occidentale ad avere l’onore di essere ammesso dell’Accademia Imperiale della Foresta dei Pennelli e di essere considerato al pari degli eroi giapponesi dall’Imperatore Hirohito, lavorò anche per l’Ambasciata iraniana presso la Santa Sede ai tempi dello Scià. Discepolo di Charles Maurras, amico di d’Annunzio, Mishima, Henry de Montherlant, Guenon ed Evola, fu volontario in Spagna con i franchisti, in Marocco con i legionari contro i ribelli del Rif e nell’ultimo conflitto mondiale con i francesi di Vichy, tanto da seguirne persino le sorti nel castel- 59 parte, mettendomi in presenza di un uomo attento e preciso che sapeva parlare la mia lingua con una perfezione da artista. «Partiamo subito, caro Pascal. Voi siete aspettato alle 10. Vi guido io. Parleremo per strada. La vostra vettura ci raggiungerà laggiù per il ritorno». Fernando Mezzasoma riempiva una grande borsa con le pratiche della giornata di cui esaminava rapidamente il contenuto continuando a parlarmi. Partimmo subito. Mezzasoma guidava con violenza e prudenza insieme. Guardavo il suo profilo con gli occhiali d’oro e il suo sorriso malizioso ed ascoltavo le sue considerazioni, i suoi ricordi inattesi di viaggiatore in Francia. Mi interrogava con molta finezza, si informava di lo di Sigmaringen. Intellettuale cattolico e profondo conoscitore dell’esegesi cristiana incontrò più volte Padre Pio, ma si dedicò anche allo studio delle Scienze Tradizionali grazie a maestri del calibro di Alex Carrel, Armand Barbault e Raymond Abellio. Curato da Federico Prizzi, questo libro rappresenta un vero e proprio “viaggio letterario” nell’opera pascaliana che ha visto pure la partecipazione di firme prestigiose del calibro di Sandro Giovannini, Gabriella Chioma, Renato Del Ponte e Silvano Panunzio che, con i loro studi inediti, presentano al lettore un quadro completo della vita letteraria del grande poeta francese. 60 la Biblioteca di via Senato Milano – ottobre 2014 A sinistra dall’alto: Benito Mussolini, mentre redige una lettera (foto degli anni Trenta); Mussolini con i figli, nel giardino di villa Torlonia (fine anni Trenta); la fucilazione dei gerarchi fascisti, sul lungolago di Dongo (28 aprile 1945). Nella pagina accanto dall’alto: Ferdinando Mezzasomma (1907-1945) ministro della Cultura Popolare della Repubblica Sociale, mentre inaugura l’anno culturale a Venezia, in mezzo ad Alfredo Cucco e Rudolf Rahn (1944); una immagine della bestiale esposizione dei cadaveri a piazzale Loreto. Nel mezzo Mussolini e Claretta Petacci (29 aprile 1945) tutto e avendomi domandato se io avevo un’opinione sul Maresciallo Pétain, dimostrava di non ignorare nessun particolare di quelle tenebre. Mezzasoma si mise poi a raccontarmi che era venuto a Parigi per non so quali “Olimpiadi universitarie” e mi disse quanto era stato colpito dalla condizione ridicola e pietosa in cui la gioventù francese era palesemente tenuta da coloro che Mezzasoma chiamava i “Geronti di Marianna”. Del suo commentario malinconico, mi è rimasta impressa una frase «Ho avuto l’impressione che la gioventù stesse alla finestra e che i Geronti facessero la sentinella alle porte della prigione... natale». Gli domandai notizie di Mussolini. Ebbe un gesto vago, immediatamente represso, poi soggiunse: «Mussolini ha saputo del vostro arrivo. Me lo ha telefonato ieri. Pareva molto impaziente di vedervi, anzi mi ha detto, di rivedervi... Siete un uomo ricercato ed io me ne rallegro con voi». Un uomo ricercato... Queste tre parole mi diedero un immenso piacere, per l’altro significato che potevano assumere. Infatti non ero io anche un evaso di Sodoma e di Yvetot? Mi venne fatto di pensarvi come se fosse la prima volta ed anche con un certo disgusto quando Mezzasoma esclamò: «Guardate presto! Gardone! La Tomba...» L’orizzonte ad un tratto si elevò. A sinistra apparivano delle colline con i loro giardini, i loro cipressi, i loro deserti, a destra il lago, imperturbabile sempre più scintillante e grandioso. Ad un tratto, sull’altra riva, apparvero delle montagne con le loro liste di neve. Certo ottobre 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano con le aquile... Un’ultima barriera bianca e rossa si sollevò per noi. Ma andavamo forse a visitare un prigioniero? Si vedevano da per tutto dei soldati, armati come per l’assalto... La vettura si arrestò davanti al limitare di una villa, specie di palazzo lacustre che era la residenza di un certo destino. Salimmo rapidamente i primi gradini. A sinistra della porta una sentinella italiana con il mitra al collo. A destra una sentinella tedesca con il fucile poggiato orizzontalmente sulla spalla sinistra e le gambe leggermente divaricate. A destra e a sinistra di questo ingresso si vedevano altri soldati di fazione allineati lungo il muro. Tutti presentarono le armi con un impercettibile sibilo per meglio coordinare i movimenti. Odo ancora sbattere i tacchi, le palme delle mani schiaffeggiare il legno dei fucili, in mezzo ad una specie di lampo dolce di acciaio bene ingrassato. Eravamo già entrati. Salivamo una grande scala. Un vasto silenzio regnava in quei luoghi, ove andavano e venivano degli ufficiali italiani. Noi raggiungemmo una specie di atrio ombroso, alto due piani: notai ad un tratto che Mezzasoma teneva in mano una borsa di cuoio naturale, morbida su cui era stata impressa in rilievo una sola parola: “Duce”. E mi ricordo che in quel momento mi traversò il cuore un verso di Dante quello di cui avevo fatto la mia impresa interiore al tempo della guerra dei vigliacchi: ...lo tuo piacere omai prendi per duce... Fernando Mezzasoma si scusò di entrare un poco prima di me per trattare gli affari del giorno. Passarono forse dieci minuti durante i quali ebbi l’impressione che io ero il visitatore di una specie di casa di oltretomba. Squillò brevemente un campanello. Un usciere corse verso di me. Proseguii in un corridoio che era a sinistra dell’ingresso, fi- 61 no ad una doppia porta di vetri smerigliati. Questa porta si apriva a sinistra per mezzo di un nottolino per il pollice e per un secondo lasciava vedere una camera deserta. Ebbi però il tempo di scorgere un piccolo armadio a griglie, ed in mezzo al muro una bandiera tricolore con un’aquila nera su un fascio orizzontale... Ma il pensiero è più rapido della vista. Ero in una piccola stanza con le tendine chiare e nebulose ove regnavano un silenzio ed un tepore severi. Nessun tappeto ma un pavimento rustico scintil- 62 lante come uno specchio. Ero pronto ed ero incerto. Sapevo bene che colui il quale si lascia cogliere dall’importanza di un momento inatteso non vede niente e non ascolta che i battiti del suo cuore. Invece un presentimento dello spirito mi diceva che io dovevo vedere tutto e tutto intendere e sopratutto ricordare. E se fosse stato necessario, anche di là da me stesso. Tutto ciò sarebbe forse insensato e difficile... Entrai implorando l’assistenza del demone ch’io sento sempre dietro di me nei momenti solenni della mia vita. Mussolini è in fondo alla stanza seduto davanti ad un tavolino nudo, uno di quei tavolini che si trovano presso tutti i mobilieri d’Italia, con piedi di drago, orlatura di acanto, perle, ovoli. Si alza svelto con agilità un po’ stanca. Mi fermo. Mi viene incontro con vivacità. Da principio non avevo veduto nella penombra che il pallore del viso e l’urto degli occhi leonini bruni, anche un poco rossi, eppure neri e brillanti come di un fuoco giallo. Mi tende le due mani prendendo le mie. Mi guarda e mi lascia il tempo di guardarlo. Un pallido sorriso si è sostituito al primo sorriso dell’accoglienza. Perché? Non so. Lo vedo e non vedo che le mostre dell’uniforme ornate con un gladio romano a punta diritta nel centro di una corona di lauri. «Eccellenza, sono passati dieci anni...» la Biblioteca di via Senato Milano – ottobre 2014 INTERVISTA AL CURATORE DELL’OPERA, FEDERICO PRIZZI di Emilio del Bel Belluz N ella sua introduzione al libro, intitolata Pierre Pascal, il Ronin d’Occidente, lei parla di un vero e proprio “viaggio letterario” che l’ha portata a riscoprire un autore, Pierre Pascal, che era caduto nell’oblio. Esattamente, lo scopo di questo “viaggio letterario” è stato quello di recuperare il maggior numero di informazioni tra chi lo ha conosciuto, nel suo esilio italiano, per cercare di fornire una base di partenza a chiunque volesse in futuro approfondire gli studi su quello che fu, indubbiamente, uno dei più grandi poeti francesi del ‘900. Un letterato fine e poliedrico, profondo conoscitore dell’italiano, del russo, del giapponese e del parsi, che visse da protagonista la Storia europea degli anni ‘30 e ‘40 tanto da essere ricordato, da alcuni storici americani, quale l’ultimo straniero ad aver intervistato Mussolini prima della sua tragica fine. Chi era Pierre Pascal? Pascal era un poeta che rifiutava questo mondo moderno, materialista e privo di ogni spiritualità. Un mondo a cui si sentiva completamente estraneo. Divenne così, come Rutilio Namaziano, il cantore di un mondo in rovina che stava scomparendo. Un mondo la cui fine non coincise solamente con la sconfitta dei suoi ideali nella Seconda ottobre 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano Guerra Mondiale, ma soprattutto con quell’oblio letterario al quale fu relegato perché poeta dei vinti. Pierre Pascal può essere considerato il discepolo prediletto di Charles Maurras? Fu senza ombra di dubbio Maurras il grande maestro di Pierre Pascal, sebbene la sua formazione poetica e letteraria si possa far risalire anche al pensiero di Henri Bornecque, di de Paul Manzon e Pierre de Nolhac. Un maestro, Maurras, che gli trasmise non solamente un amore per la letteratura e la poesia, ma soprattutto un mondo valoriale che Pascal, lungo tutta la sua vita, non rinnegò mai e che diverrà una vera e propria testimonianza leale e peritura al Vate d’Oltralpe. Poco più che ventenne, Pascal si formò così agli ideali maurrassiani sul quotidiano «Action Française» ed entrò anche in contatto con intellettuali del calibro di Georges Bernanos, Jacques Bainville, Leon Daudet, Jacques Maritain e con quelli che, come Robert Brasillach, Lucien Rebatet, Pierre Drieu La Rochelle, Maurice Bardèche, gravitavano intorno alla rivista A sinistra: Pierre Pascal (1909-1990), in una rarissima fotografia. A destra: foto ufficiale dell'imperatore Hirohito (1901-1989) del Giappone, in alta uniforme. «Je suis partout». Nel Dicembre 1933, inoltre, fondò a Parigi, in Rue Crébillon 4, la rivista neoclassica «Eurydice - Cahiers des Poésie et d’Humanisme», su suggerimento dello stesso Maurras, che aveva individuato in Pascal l’unico in grado di dar vita a una rivista poetica dell’Action Française. Pubblicata con la casa editrice Editions du Trident, rimase in vita fino al 1939. Fin dai suoi primi numeri, illustri firme della letteratura francese scrissero su «Eurydice», tra queste si ricordano in modo particolare: Paul Valery, Pierre de Nolhac, Marcel Brion, Henri Bosco, Fernand Mazade e Xavier de Magallon. Pierre Pascal fu anche un grande yamatologo, non è vero? Sì, amico di Mishima fu autore di Haiku, di Tanka e di 63 Waka, fece anche parte, unico europeo, dell’Accademia Imperiale della Foresta dei Pennelli, una foresta che simbolizzava tutte le generazioni dei Wagakusha. Ovvero, di quei letterati giapponesi cultori della Tradizione del calibro di Motoori Norinaga, O-no Yasumaro e Kino Tsurayuki. Questo atteggiamento titanico, tipico del bushi, il guerriero-poeta del Medioevo giapponese, già emerso in Pascal nella prefazione di Sole e Acciaio, trovò il suo ultimo kiai nella celebre opera La voie de l’éternité, comment surent mourir les “criminels de guerre” japonais. Libro scritto da Shinsho Hanayama, tradotto dal giapponese e commentato da Pierre Pascal, che fu pubblicato in lingua francese per Guy Le Prat Editeur di Parigi nel 1973. Questo testo, fu scritto da un prete buddista, professore all’Università Imperiale di Tokyo, che fu anche il cappellano di numerosi “criminali di guerra” condannati a essere impiccati dal Tribunale Internazionale per l’Estremo Oriente. Cappellano, in particolare, dei cosidetti “Sette” fra i quali compariva il famoso Generale Hideki Tojo, Primo Ministro giapponese durante gran parte del secondo conflitto mondiale. Per l’egregio lavoro fatto da Pascal, l’Imperatore Hirohito in persona gli fece sapere che se lo avesse voluto, avrebbe potuto chiedere di essere seppellito nella cripta 64 la Biblioteca di via Senato Milano – ottobre 2014 Villa Feltrinelli, a Gargnano, sulle sponde del lago di Garda. Qui avvenne il lungo colloquio fra Mussolini e Pierre Pascal del tempio di Kanazawa. Tempio nel quale sono sepolti gli eroi di guerra giapponesi. Pascal è noto, oltre che yamatologo, anche come iranista traduttore e commentatore delle celebri “Quartine” di Omar Khayyam. Pascal ricoprì per dieci anni l’incarico di Cancelliere della prima Ambasciata Imperiale dell’Iran presso la Santa Sede. Un lavoro che gli diede l’occasione di dedicarsi allo studio della lingua persiana e di condurre la traduzione di alcuni poeti mettendosi così in luce come iranista di spessore. La traduzione di Pascal delle Roba’iyyat di Omar Ibrhaim Khayyam fu la prima mai avvenuta in lingua francese. Pubblicata con le Éditions du Coeur Fidèle, rappresentava un fac-simile di un manoscritto conservato alla biblioteca dell’Università di Cambridge. Tuttavia, Pascal si distinse anche per la traduzione delle opere di altri due grandi poeti persiani: Abû Sa’id ben Abî ‘lKheir e Bâbâ Tahîr Uryân Hamadâni. Di quest’ultimo curò Le Roba’iyyat del venerabile Baba Tahir Uryan Hamadani. Si dimostrò, pertanto, un fine conoscitore della mistica islamica soprattutto di matrice persiana, nonché delle correnti esoteriche islamiche legate alla mineralogia sacra, all’astrologia e alla numerologia. Rimane comunque il fatto che Pascal fu un intellettuale profondamente cattolico, però di un cattolicesimo tradizionale alla Attilio Mordini, Guido De Giorgio e Alfredo Cattabiani, cioè di autori che non negarono mai l’importanza delle Scienze Tradizionali ed esoteriche nel Cattolicesimo. Assolutamente sì, basti pensare ai suoi incontri con San Pio da Pietralcina o agli studi sulla Scienza Numerale fatti da Pascal nel libro Risoluzione Aritmetica del Memento Mori cifrato di ottobre 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano Santa Teresa d’Avila. Opera nella quale effettuò una vera e propria esegesi esoterica che si basava sugli insegnamenti e sui testi di Heinrich Cornelius Agrippa von Nettesheim, Pierre de Combas, René Allendy e Matila Ghyka. Oppure quando scrisse parafrasi in versi di opere immortali quali il Il Cantico dei Cantici, L’Ecclesiaste, il Libro di Isaia, i quattro Vangeli ed anche di poesie come S. Bernardo: Laus Virginis Matris e l’Apocalypsis Iesu Xristi. Libri questi che, nella mente di Pascal, dovevano essere letti e rappresentati sui sagrati delle chiese e nei chiostri dei monasteri. Testi che erano vere e proprie opere d’arte, come ad esempio l’Apocalisse di San Giovanni, parafrasata in alessandrini francesi, con sedici xilografie di Albert Dürer ristampate sui legni originali, le cui copie oggi sono conservate alla Casa-Museo di Dürer a Nürnberg e al Museo Güttemberg di Magonza. Oppure come il Libro di Giobbe, illustrato da quarantadue tavole di William Blake e preceduto da uno studio di G. K. Chesterton scritto apposta in inglese per Pascal quattro anni prima della sua morte. Come nasce il rapporto Mussolini-Pascal e, consegeuentemente, questo libro, vero e prorprio testamento spirituale del grande condottiero italiano? Pascal ebbe una vita molto movimentata non solo dal punto di vista letterario, ma anche militare. Fu, infatti, volontario in Spagna con i franchisti, in Marocco con i legionari contro i ribelli del Rif e nell’ultimo conflitto mondiale con i francesi di Vichy. Nel 1934 fu inviato a Roma dal Governo francese, su suggerimento di Charles Maurras a Pierre Laval, per partecipare ai lavori con i rappresentanti del governo italiano necessari a preparare gli accordi di quello che fu in seguito nominato Mussolini-Laval”. “Trattato Esiste persino una fotografia poco conosciuta nella quale si vede il giovane Pierre Pascal, che in quel momento aveva 25 anni, accanto a Benito Mussolini, a Piazza Venezia, mentre il Duce arringa la folla. Un onore mai concesso a nessun altro straniero. A seguito di quell’incontro nacque una profonda stima reciproca tra Pascal e il Duce tanto che il Poeta-Soldato tradusse in francese il libro di Benito Mussolini Parlo con Bruno. Questa versione nella lingua d’oltralpe piacque molto al Duce al punto che se ne compiacque con Pascal definendola aderente al suo testo in italiano stravolto invece da altre edizioni straniere. Undici anni dopo il primo incontro, Pascal, proveniente dal Castello di Sigmaringen, sede del governo di Vichy in esilio in Germania capeggiato dal Maresciallo Pétain, fu inviato da Mussolini sul Lago di Gar- 65 da da Jean Luchaire. Quest’ultimo, Commissario dell’Informazione del Governo Vichy, fondatore del quotidiano La France, in prossimità dell’arrivo degli eserciti Alleati, decise di salvare Pierre Pascal da morte certa mandandolo in Italia proprio da Mussolini. Fu così che Pascal divenne l’unico scrittore straniero a incontrare Mussolini prima della sua tragica fine. L’intervista, che avvenne tra le ore 10 e le 13.20 del 2 aprile 1945 a Villa Feltrinelli, in località San Faustino, vicino Gargnano, fu condotta in lingua francese. Questo racconto, psicologico e introspettivo, verrà raccolto da Pascal nel Mussolini alla vigilia della sua morte e l’Europa il cui titolo originale, nell’edizione del 1948, fu Sul cammino della Morte, Mussolini disse… Inoltre, quando Pascal fu condannato in contumacia si trovava da quasi due anni in Italia ove aveva iniziato il suo esilio italico lavorando per diversi mesi come custode della biblioteca della casa-museo di Gabriele d’Annunzio del Vittoriale. Nella dimora del Vate, il poeta francese ci arrivò proprio grazie a quell’ultimo incontro con Mussolini. Il Duce, infatti, in quei drammatici giorni che stavano segnando la fine di un’Era, volle proteggere Pascal nascondendolo sul lago di Garda come splendida dimostrazione di amicizia e di stima per la sua grande conoscenza dell’opera di d’Annunzio. 66 la Biblioteca di via Senato Milano – ottobre 2014 L’Altro Scaffale Un salotto esclusivo e una libreria tentatrice Piccole ma preziose proposte di collezionismo ALBERTO CESARE AMBESI L a Galleria Subalpina di Torino è aperta a tutti: persino invitante, dopo che si sia bevuto un punt’mes nel contiguo, elegante caffè di piazza Castello. Eppure - strano, ma vero - il luogo esercita un fascino sottile, quasi invitasse ogni passante ad abbassare la voce, come se bastasse un relativo silenzio per udire bisbigli vecchi di secoli. Un’ennesima “magia” dell’antica capitale del Regno sardo-piemontese? Perché no? Dalle vetrine della Galleria e Libreria Antiquaria Gilibert, per esempio, la periodica scelta di libri e grafica lascia intendere, come ammiccando, che, in codesto spazio, malgrado l’avvicendarsi delle mode e delle ideologie, riusciranno pur sempre a convivere tutte ( o quasi tutte) le espressioni del passato, del presente e del futuro. Incluse le correlate contraddizioni storiografiche, come è naturale. Ne è riprova il recente catalogo Dal Piemonte all’Italia, Stampa raffigurante Giuseppe Mazzini (1805-1872), con l’epitafio presente al cimitero di Staglieno folto di titoli, ora di orientamento imparziale, quanto meno nelle intenzioni, ora dettati da qualche esplicita passione partigiana. Comprensibilmente. Ancora oggi il Risorgimento italiano appare come un fenomeno che può prestarsi a letture disparate, oppure a tacite, ma eloquenti omissioni. Perciò non stupisce che la pubblicazione citata possa proporre due opere molto, molto diverse, nei prezzi (ottanta e quaranta euro) e nei rispettivi, antitetici contenuti: La nemesi subalpina ossia dieci anni di liberalismo in Piemonte, anonimo «Canzoniero politico» in 16° di 535 pagine e Il governo pontificio e la quistione romana di Edmond About, pure in 16°, ma di pp. (8)192. Nel primo caso, infatti, è indubbio che lo sconosciuto verseggiatore tentò di dare una qualche consistenza poetica, e con qualche successo, a certi sentimenti antiunitari che erano fermentati in Piemonte nel decennio che aveva preceduto l’anno di uscita del libro, il 1858; atteggiamento pseudo regionalistico presumibilmente ispirato dalle cerchie cattoliche più retrive. Nella seconda e avversa circostanza, si attribuirà invece al più vivace laicismo anticlericale la simultanea pubblicazione in ottobre 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano Francia e in Italia, nel 1859, di questo pamphlet che auspicava con toni repentini il completo abbandono, da parte del governo pontificio, di ogni esercizio di potere entro la sfera temporale. Giusto rammentare che l’autore del libro, Edmond About (1828-1885), per l’appunto, fu un brillante scrittore e versatile critico d’arte, nonché, a partire dal 1862, un convinto massone di gauche e, come tale, nemico giurato degli alti gradi di quella istituzione, poiché riteneva - non senza ragione - che in quelle cerchie si coltivassero simbologie e ritualità di stampo deista. Due parole sullo stato di conservazione delle due opere proposte in vendita: l’esemplare del «Canzoniero politico», prima e unica edizione stampata dalla Tipografia Economica di Torino, ha conservato, in buone condizioni, la brossura originale con titolo entro bordura; il testo di Edmond About, recante 67 Sopra da sinistra: Edmond About (1828-1885), in una incisione del 1870; Edoardo Matania (1847-1929), I martiri di Belfiore (xilografia); Ritratto di Agostino Bertani (18121886). A sinistra: Gabriel Decker (1821-1855), ritratto litografico del feldmaresciallo Radetzky (1766-1858) il falso luogo di stampa “Italia”, appare in barbe e in uno stato di conservazione più che accettabile. Come da allegato Ex-libris, il volume risulta originariamente proveniente dalla biblioteca del giornalista e scrittore milanese Francesco Cazzamini Mussi (1888-1954). Spostiamoci ora sul versante degli studi storico-critici. Almeno in apparenza sovra- stanti le passioni di parte e dunque, in linea teorica, inattaccabili dalle polemiche. Ma sappiamo tutti che così non è e non è mai stato, in quanto non esiste documento di archivio che non si presti a divergenti interpretazioni, o procedimento di studio che non abbia qualche aspetto suscettibile di altrui osservazioni critiche… più o meno fondate, è sottinteso. Ne costituiscono viva testimonianza gli scritti di Alessandro Luzio (18571946), storico e giornalista di schietto animo conservatore, ma ammiratore di Mazzini e spesso impegnato a contraddirsi, ora nei confronti del fasci- 68 la Biblioteca di via Senato Milano – ottobre 2014 Da sinistra: Jessie Meriton White Mario (1832-1906), in una foto del 1870 circa; Silvio Pellico (1789-1854) smo e dell’antifascismo, ora a proposito delle leggi razziali, tanto da finire radiato dall’Accademia dei Lincei, nell’immediato dopoguerra (1946). Ebbene, è stato grazie a questo studioso se, a partire dalla fine del XIX secolo, principiò a delinearsi una storia del nostro Risorgimento in grado d’inglobare e “giustificare” le contrarie ragioni a cui si erano appellate le autorità austriache di diverso grado. Esemplari, a tale propo- sito: l’edizione, in 8° del 1903, de Il processo Pellico-Maroncelli secondo gli atti officiali segreti e la prima edizione del 1905 de I Martiri di Belfiore e il loro processo: una Narrazione storica documentata in 2 volumi in 8°, arricchita, come la precedente opera, da una legatura in mezza pergamena con titolo in oro sul tassello in pelle rossa al dorso, piatti in tela rossa con triplice filettatura verticale in oro con applicato l’ex-libris nobiliare a colori degli Arborio di Gattinara, recante il blasone araldico, cimiero e cartiglio con il motto: “Aut vincendum aut moriendum”. Da sottolinearsi che, per quanto redatti con criteri similari, i due lavori trovarono pubblico e critica concordi nell’attribuire a ciascuno di essi una dissimile accoglienza. Forse con più di una giustificazione politica, in quanto nella rievocazione del processo Pellico- ottobre 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano Maroncelli, Luzio non aveva potuto esimersi dal rilevare la sostanziale correttezza della giustizia absburgica, attirandosi le accuse d’essere un occulto austriacante, laddove, nel racconto della più sbrigativa e crudele condanna comminata dal feldmaresciallo Radetzky, non poteva non esservi, da parte di un autore italiano, che una manifesta indignazione e dunque una facile raccolta di fervidi consensi. Da quivi, per l’appunto, le concordi e difformi reazioni di tutti i lettori di fronte a due esiti storiografici che, a un primo sguardo, apparivano alquanto discordi. A noi, comunque, spetta invece il più agevole compito di completare la sommaria schedatura dei libri di cui stiamo chiacchierando. Rammenteremo quindi che il saggio dedicato al processo PellicoMaroncelli è di pp. 569 (8), comprendente anche il ritratto di Pellico in antiporta, 13 altre tavole nel testo e fuori testo e una dedica a stampa ad Antonio Manno (1834 -1918), storico e araldista di stretta osservanza cattolica e conservatrice. L’esemplare offerto presenta qualche restauro alla cerniera anteriore, ma, per il resto, risulta in buone condizioni. Non meno ragguardevole, anzi eccellente, lo stato di conservazione dell’opera rievocativa dei fatti e antefatti che, fra il 1851 e il 1853, avevano portato al martirio, a Belfiore, diversi patrioti, laici ed ecclesiastici. Divisa in due volumi, rispettivamente di pp. XX, 414 e 422 (4), l’accurata monografia di Alessandro Luzio presenta pure, in appendice della prima parte, un interessante gruppo di documenti inediti, a cui si aggiungono ulteriori serie di analoghi fogli in tutto il secondo volume: un plurimo giacimento di notizie presumibilmente ancora esplorabile con profitto da parte di qualche storico, quando animato da una puntigliosa curiosità. Si è giunti al dunque, ossia vicini alle conclusioni, ma davanti ad un’ultima tentazione offerta dalla Libreria Gilibert: la biografia Agostino Bertani e i suoi tempi scritta con appassionati intenti “radicali” dalla scrittrice anglo-italiana Jessie Meriton White-Mario (18321906), ardente mazziniana e sposa di Alberto Mario (18251883), scrittore e patriota. Perché si è voluta segnalare quest’opera? Per un duplice motivo: prima di tutto, in quanto vi risulta tratteggiata la coerente parabola esistenziale (1812- INDIRIZZI E RECAPITI GALLERIA E LIBRERIA ANTIQUARIA GILIBERT Galleria Subalpina, 17 10123 Torino Tel. 011/5619225 69 1886) di un medico e uomo politico capace di astrarsi, quando occorresse, dal suo estremismo repubblicano; in secondo luogo, perché si tratta di una preziosa, prima edizione, in perfetto stato, pubblicata a Firenze nel 1888 dall’editore G.Barbera e con una straordinaria attenzione ai dettagli, sia ornamentali sia tipografici. Vediamone da vicino alcune di tali soluzioni. Il volume, in 8° grande, conta pp. XVI, 653 e ha una legatura editoriale in tutta tela, avente un decoro, al centro del piatto, con fiori impressi in oro e un nastro rosso con la dicitura: “In memoria di Agostino Bertani”. L’insieme risulta incorniciato perimetralmente da una bordura in rosso con greche, anfore, putti, grifoni e altre immagini della stessa natura. Un’identica bordura incornicia, al piatto posteriore, un fleuron centrale dorato. Pure il titolo è in oro; rossi, invece, gli ornamenti al dorso. Le sguardie hanno calibrate decorazioni in azzurro e in blu; rossi i tagli. L’antiporta ospita un pensoso ritratto fotografico di Agostino Bertani. Tredici facsimili di suoi autografi sono presenti fuori testo. sette dei quali ripiegati. Un dato importante e che stavamo per dimenticare: la valida e suggestiva opera di Jessie Meriton White-Mario è proposta in vendita con l’accattivante prezzo di centosessanta euro. 70 la Biblioteca di via Senato Milano – ottobre 2014 BvS: il ristoro del buon lettore Una “Lavanderia francese” Thomas Keller e il miglior ristorante degli Stati Uniti P er un europeo una sosta a The French Laundry (il miglior ristorante degli Stati Uniti) è un’esperienza straniante. È impossibile non rimanerne conquistati, senza cadere nell’estasi. Iconico, rarefatto, «superterrestre»… tutti aggettivi che ben si adattano a The French Laundry, piccola casa in pietra, con balconcino in legno e giardino ben curato, posta all’angolo di una strada di un pittoresco paesino - Yountville - nel bel mezzo della Napa Valley. Realizzazione del sogno di un uomo, Thomas Keller (uno dei più talentuosi e misurati cuochi del mondo), The French Laundry è un’esperienza straniante perché un europeo non può non vedere in questo luogo, fra richiami e citazioni (come nel romanzo di Edith Wharton L’età dell’innocenza, che la Biblioteca di via Senato possiede nell’edizione milanese approntata dalla casa editrice Longanesi nel 1979) un serrato dialogo fra inclinazioni europee e intraprendenza americana. Se lì sono i protagonisti a confrontarsi sul senso ultimo dell’amore e del dovere (sempre in instabile equilibrio fra abitudini continentali e statunitensi), qui è Thomas Keller a narrare di un fascinoso Nuovo Mondo, ricco di in- GIANLUCA MONTINARO The French Laundry 6640 Washington street Yountville, CA Tel. +1 707-944-2380 fluenze europeizzanti. A The French Laundry c’è la Francia e c’è l’Italia. C’è, per esempio, molto Lameloise nello stile, e molto Dal Pescatore nell’atmosfera. In questo prezioso ristorante (ove le prenotazioni vengono richieste con due mesi di anticipo esatti), all’ospite viene data la scelta fra due menu degustazione che mutano giornalmente. Le portate, circa una dozzina, si susseguono lungo un arco temporale di quattro ore. E disegnano, con tratto liturgico, un pasto che non può non rimane impresso per sempre nella mente. Fra i piatti più celebri di Thomas Keller è giusto ricordare l’“ostriche e perle” (uno zabaione di tapioca con ostriche Island Creek e caviale bianco); l’aragosta del Maine al burro dolce con riso basmati, cavolfiore, uvetta sultanina, mandorle, coriandolo, cocco e curry di Madras; la pancetta di maialino della fattoria Salmon Creek con pomodorini, carciofi, lattuga romana ed emulsione di bottarga d’uovo. Larry Nadeau, storico maître d’, dirige un servizio che rasenta la perfezione. E ognuno si sente l’ospite d’onore di un rito, come in occasione del pranzo di gala offerto da Newland Archer e da sua moglie May. A ogni commensale è riservato un «menu su cartoncino», mentre le piccole sale sono adorne di «orchidee disposte in vista, in diversi vasi di porcellana e argento sbalzato». In ogni angolo aleggia una tranquilla serenità, e lo spirito si rinfranca «come se si dissetasse a una fresca fonte sotto i raggi del sole». Nel miglior ristorante del Nuovo Mondo non si può che bere il miglior vino del Nuovo Mondo: l’Opus One. Coltivato e imbottigliato a pochi chilometri da The French Laundry, l’Opus One è la più grande espressione del taglio bordolese prodotta a Napa Valley. Impenetrabile, opulento, interminabile: un vino che sigla l’esperienza, e fissa il sempiterno ricordo, «mentre il fiume della vita scorre…». 72 la Biblioteca di via Senato Milano – ottobre 2014 HANNO COLLABORATO A QUESTO NUMERO ALBERTO C. AMBESI Alberto Cesare Ambesi (1931), scrittore e saggista, ha insegnato storia dell’arte e semiotica all’International College of Sciences and Arts e all’Istituto Europeo del Design. Fra le sue opere si ricordano qui: Oceanic Art (1970), L’enigma dei Rosacroce (1990), Atlantide e Le Società esoteriche (1994), Il panteismo (2000), Scienze, Arti e Alchimia (riedizione ampliata e rinnovata di un precedente saggio, Hermatena, Riola, 2007) e le particolari monografie Nella luce di Mani (2007) e Il Labirinto (2008). È stato critico musicale del quotidiano «L’Italia» e ha collaborato alle pagine culturali de «La Stampa». FEDERICA BALZA Federica Balza (1986), ha studiato Ingegneria Logistica e della Produzione al Politecnico di Torino, si occupa di pianificazione approvvigionamenti e analisi logistica nel settore industriale. Collabora con articoli scientifici, storici ed economici a diversi settimanali e periodici italiani. Nel 2013 è stata designata dai 60 giuratipopolari dell’Acqui Storia, Rappresentante dei lettori nella sezione storico-divulgativa. MARCO CIMMINO MASSIMO GATTA Massimo Gatta (1959) ricopre l’incarico, dal 2001, di bibliotecario presso la Biblioteca d’Ateneo dell’Università degli Studi del Molise dove ha organizzato diverse mostre bibliografiche dedicate a editori, editoria aziendale e aspetti paratestuali del libro (ex libris). Collabora alla pagina domenicale de «Il Sole 24 Ore» e al periodico «Charta». È direttore editoriale della casa editrice Biblohaus di Macerata specializzata in bibliografia, bibliofilia e “libri sui libri” (books about books), e fa parte del comitato direttivo del periodico «Cantieri». Numerose sono le sue pubblicazioni e i suoi articoli. LUIGI MASCHERONI Luigi Mascheroni ha lavorato per «Il Sole24 Ore», «Il Foglio» e, dal 2001, per «il Giornale». Scrive soprattutto di Cultura, Spettacoli e Costume. Ha una cattedra di Teoria e tecnica dell’informazione culturale all’Università Cattolica di Milano. Fra i suoi libri, il pamphlet Manuale della cultura italiana (2010) e Scegliere i libri è un’arte. Collezionarli una follia (2012). Sta lavorando a un saggio sui plagi letterari e giornalistici. È fra i fondatori del blog “Dcult” (difendere la cultura): http://www.dcult.it/. Dal 2011 ha un videoblog, primo in Italia, di videor e c e n s i o n i : http://blog.ilgiornale.it/masc heroni. GIANLUCA MONTINARO Gianluca Montinaro (Milano, 1979) è docente a contratto presso l’università IULM di Milano. Storico delle idee, si interessa ai rapporti fra pensiero politico e utopia legati alla nascita del mondo moderno. Collabora alle pagine culturali del quotidiano «il Giornale». Fra le sue monografie si ricordano: Lettere di Guidobaldo II della Rovere (2000); Il carteggio di Guidobaldo II della Rovere e Fabio Barignani (2006); L’epistolario di Ludovico Agostini (2006); Fra Urbino e Firenze: politica e diplomazia nel tramonto dei della Rovere (2009); Ludovico Agostini, lettere inedite (2012); Martin Lutero (2013). Marco Cimmino (Bergamo, 1960). Storico, membro della Società Italiana di Storia Militare e socio accademico del Gruppo Italiano Scrittori di Montagna, si occupa prevalentemente di Grande Guerra. Collaboratore Rai, scrive su molte testate. Membro del comitato scientifico del Festival Internazionale della Storia di Gorizia, è uno dei responsabili del progetto èStoriabus. Tra i suoi saggi più recenti: La conquista dell’Adamello (2009), Da Yalta all’11 settembre (2010) e La conquista del Sabotino (2012), finalista al premio Acqui Storia 2013. EMILIO DEL BEL BELLUZ Emilio del Bel Belluz (1959), scrittore e studioso, si interessa particolarmente alla storia del Risorgimento e del ‘900. Ha curato diverse pubblicazioni, fra cui: Isonzo, Piave e Montello (1995), La Neve e il Sangue (2010), Anima-spada anima-libro, la vita dialogante di Pio Filippani Ronconi (2010) e Operazione Barbarossa o il suicidio della Wehrmacht (2012). È autore di numerosi volumi e romanzi, fra cui: Da Vienna al Livenza. Un secolo di memorie (1996), Il prussiano (1999) e Nel nome del Padre nel nome dell’Onore (2013). GIANFRANCO DE TURRIS G. de Turris ha lavorato in Rai dal 1983 al 2009, come vice-caporedattore dei servizi culturali del Giornale Radio. Ha ideato e condotto la trasmissione di approfondimento culturale L'Argonauta, con cui ha vinto nel 2004 il Premio Saint-Vincent di giornalismo. Si occupa di politica culturale da un lato e di letteratura dell'Immaginario dall'altro, scrivendo di questi argomenti su quotidiani, settimanali e mensili, nonché su enciclopedie e dizionari, dirigendo riviste e collane, curando l' edizione e l'introduzione di centinaia fra romanzi e saggi, e pubblicando una quindicina di libri. È direttore responsabile della rivista «Antares». LUCA PIETRO NICOLETTI Luca Pietro Nicoletti, storico dell’arte, si interessa di arte e critica del Secondo Novecento in Italia e in Francia. Ha pubblicato: Gualtieri di San Lazzaro. Scritti e incontri di un editore italiano a Parigi (Macerata 2013). GIANCARLO PETRELLA Giancarlo Petrella (1974) è docente a contratto di discipline del libro presso l’Università Cattolica di Milano-Brescia. Nel 2013 ha conseguito l’abilitazione per la I fascia di insegnamento di Scienze del libro e del documento. È autore di numerose monografie fra cui: L’officina del geografo; Uomini, torchi e libri nel Rinascimento; La Pronosticatio di Johannes Lichtenberger; Gli incunaboli della biblioteca del Seminario Patriarcale di Venezia (2010). Ha curato le mostre Petrarca alla Trivulziana e Libri mei peculiares. Collabora con «Il Giornale di Brescia» e la «Domenica del Sole24ore». LUIGI SGROI Luigi Sgroi (Milano, 1961) lavora in ambito artistico, interessandosi alle “vie del corpo”. Spazia dal teatro d’avanguardia, al mimo classico, al buddhismo zen e, dal 1990, alle varie forme dello yoga.