ML - Update n. 69
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MUSICLETTER .IT INTERVISTA MASSIMO VOLUME © ML 2010 - FREE Musica & altri percorsi | La prima non-rivista che “sceglie il meglio” - www.musicletter.it - Anno VI - Update N. 69 MUSICA BEST OF 2009, CODEINE VELVET CLUB, JESU, VAMPIRE WEEKEND, DJ SPRINKLES, PLASMA EXPANDER, BLAKROC, FIRST AID KIT, RONIN, THE BRUNETTES, GET BACK GUINOZZI!, THE CULT, PIPERS, TIN MACHINE, PEARL JAM, VINICIO CAPOSSELA, THE KIM SQUAD AND DINAH SHORE ZEEKAPERS, NINE INCH NAILS, AA.VV. (ORIGINAL SEEDS: SONGS THAT INSPIRED NICK CAVE AND THE BAD SEEDS), LITTLE MURDERS, JOHN FOGERTY, MIRACLE WORKERS, AMY WINEHOUSE, SIOUXSIE AND THE BANSHEES, THE SONICS, THE CURE, AA.VV. (PANAMA!3 – CALYPSO PANAMEÑO, GUAJIRA JAZZ & CUMBIA TIPICA ON THE ISTHMUS 1960-75), FUNKADELIC, AA.VV. (TUMBÉLÉ! - BIGUINE, AFRO & LATIN SOUNDS FROM THE FRENCH CARIBBEAN, 1963-74), JUSTIN ADAMS & JULDEH CAMARA, ELLIOTT MURPHY, WILCO, MOLTHENI LIBRI SPINGENDO LA NOTTE PIÙ IN LÀ FRAMMENTI DI CINEMA RIMOSSO NONA PARTE musicletter.it chi siamo Luca D’Ambrosio Domenico De Gasperis Nicola Guerra Jori Cherubini Massimo Bernardi Marco Archilletti Manuel Fiorelli Pier Angelo Cantù Pasquale Boffoli Franco Dimauro Gianluca Lamberti Nicola Pice Gianluigi Palamone Daniele Briganti Domenico Marcelli Costanza Savio Michele Camillò Marco Tudisco Claudia De Luca Alessandro Busi Costanza Savio Ecco, per stilare una classifica, le cinque più memorabili fregature di tutti i tempi, in ordine cronologico: 1) Alison Ashworth Laura Carrozza Antonio Anigello Valerio Granieri 2) Penny Hardwick Stefano Sezzatini 3) Jackie Allen Luigi Lozzi 4) Charlie Nicholson 5) Sarah Kendrew Gaia Menchicchi Ecco quelle che mi hanno ferito davvero. Ci vedi forse il tuo Ilario La Rosa nome lì in mezzo, Laura? Ammetto che rintreresti fra le musicletter.it prime dieci, ma non c'è spazio per te fra le prime cinque; sono posti destinati a quel genere di umiliazioni e di strazi che tu semplicemente non sei in grado di appioppare. Questo webmaster / progetto grafico Luca D’Ambrosio forse suona più cattivo di quanto vorrei, ma il fatto è che noi siamo troppo cresciuti per rovinarci la vita a vicenda, e musicletter.it questo è un bene, non un male, per cui se non sei in informazioni e contatti classifica, non prenderla sul piano personale. Quei tempi sono passati, e che liberazione, cazzo; l'infelicità significava davvero qualcosa, allora. Adesso è solo una seccatura, un po' www.musicletter.it [email protected] come avere il raffreddore o essere al verde. Se volevi musicletter.it veramente incasinarmi, dovevi arrivare prima. copertina update n. 69 / 2010-01-31 (Nick Hornby, Alta Fedeltà) MASSIMO VOLUME | photo by Massimo Spadotto Screenshots from “High Fidelity” (film by Stephen Frears) ML 02 musicletter.it update n. 69 sommario MUSICA | BEST OF 2009 04 TOP 25 by ML MUSICA | SPECIALE INTERVISTE 05 MASSIMO VOLUME by Jori Cherubini MUSICA | RECENSIONI 09 CODEINE VELVET CLUB S.T. (2010) by Nicola Pice 10 VAMPIRE WEEKEND Contra (2010) by Nicola Pice 11 FIRST AID KIT The Big Black And The Blue (2010) by Luca D’Ambrosio 12 RONIN L’ultimo Re (2009) by Nicola Guerra 13 DJ SPRINKLES Midtown 120 Blues (2009) by Domenico De Gasperis 14 THE BRUNETTES Paper Dolls (2009) by Nicola Pice 15 GET BACK GUINOZZI! Carpet Madness (2009) by Nicola Pice 16 PEARL JAM Backspacer (2009) by Marco Tudisco 18 BLAKROC S.T. (2009) by Antonio Anigello 19 PIPERS No One But Us (2009) by Nicola Guerra 20 LITTLE MURDERS Stop Plus Singles 1978-1986 (2009) by Franco Dimauro 21 AA.VV. | AA.VV. Panama!3 | Tumbélé! (2009 | 2009 ) by Luigi Lozzi 23 PLASMA EXPANDER Kimidanzeigen (2009) by Antonio Anigello 24 ELLIOTT MURPHY Alive in Paris (2009) by Luigi Lozzi 25 JOHN FOGERTY The Blue Ridge Rangers - Rides Again (2009) by Luigi Lozzi 26 JUSTIN ADAMS & JULDEH CAMARA Tell No Lies (2009) by Luigi Lozzi 27 JESU Infinity (2009) by Antonio Anigello 28 AMY WINEHOUSE Back to Black (2006) by Franco Dimauro 29 AA.VV. Original Seeds: Songs That Inspired Nick Cave and the Bad Seeds (1998 | 2004) by Franco Dimauro 30 VINICIO CAPOSSELA All’una e Trentacinque Circa (1990) by Laura Carrozza 32 NINE INCH NAILS Pretty Hate Machine (1989) by Manuel Fiorelli 33 TIN MACHINE S.T. (1989) by Manuel Fiorelli 34 MIRACLE WORKERS Overdose (1988) by Franco Dimauro 36 THE KIM SQUAD AND DINAH SHORE ZEEKAPERS Young Bastards (1987) by Franco Dimauro 38 THE CULT Dreamtime (1984) by Franco Dimauro 39 SIOUXSIE AND THE BANSHEES Juju (1981) by Franco Dimauro 40 THE CURE Boys Don’t Cry (1980) by Franco Dimauro 41 FUNKADELIC One Nation Under a Groove (1978) by Nicola Guerra 42 THE SONICS !!! Here are The Sonics!!! (1965) by Franco Dimauro MUSICA | LIVE REVIEW 44 WILCO Firenze, Teatro della Pergola (13.11.2009) by Marco Archilletti 45 MOLTHENI Roma, Circolo degli Artisti (04.12.2009) by Luca D’Ambrosio ALTRI PERCORSI | LIBRI 47 MARIO CALABRESI Spingendo la notte più in là (2007) by Luca D’Ambrosio FRAMMENTI DI CINEMA RIMOSSO | NONA PARTE 48 IL GINOCCHIO DI CLAIRE Eric Rohmer (1970) by Nicola Pice 49 TRSITANA Luis Buñuel (1970) by Nicola Pice © ML 2005-2010 BY L UCA D’AMBROSIO ML non ha scopi di lucro, il suo unico obiettivo è la diffusione della buona musica www.musicletter.it non contiene informazioni aggiornate con cadenza periodica regolare, non può quindi essere considerato "giornale" o "periodico" ai sensi della legge 68/01. Non esiste un editore e il webmaster non è responsabile di quanto scritto, pubblicato e contenuto nel sito e in ciascun pdf (vedi privacy e note legali su www.muscletter.it) ML 03 musicletter.it update n. 69 best of 2009: top 25 BEST OF 2009 I migliori 25 album scelti dai collaboratori, dagli amici e dai lettori di ML © 2010 di ML WILCO Wilco (The Album) ANIMAL COLLECTIVE Merriweather Post Pavilion THE FLAMING LIPS Embryonic ANTONY AND THE JOHNSONS The Crying Light BILL CALLAHAN Sometimes I Wish We Were An Eagle IL TEATRO DEGLI ORRORI A Sangue Freddo PINK MOUNTAINTOPS Outside Love THE XX S.T. ANDREW BIRD Noble Beast ARCTIC MONKEYS Humbug GRIZZLY BEAR Veckatimest THE BLACK HEART PROCESSION Six EDDA Semper Biot VIC CHESNUTT At the Cut BENJAMIN BIOLAY La Superbe SONIC YOUTH The Eternal ZEN CIRCUS Andate Tutti Affanculo DM STITH Heavy Ghost EELS Hombre Lobo: 12 Songs of Desire FRANZ FERDINAND Tonight: Franz Ferdinand MULATU ASTATKE & THE HELIOCENTRICS Inspiration Information THE LEISURE SOCIETY The Sleeper THE PAINS OF BEING PURE AT HEART S.T. ZU Carboniferous SUNN O))) Monoliths & Dimensions Per saperne di più andate su www.musicletter.it/bestalbums ML 04 musicletter.it update n. 69 speciale intervista MASSIMO VOLUME Intervista a Emidio Clementi Dal primo all’ultimo Dio; Bologna, il rock e una straordinaria ripartenza © 2010 di Jori Cherubini Prima di ritirarsi provvisoriamente dalle scene, sul finire dello scorso millennio, i Massimo Volume sono stati tra i nomi di spicco della scena underground; termine forse desueto ma assolutamente indicativo. Dopo quasi due lustri di attesa - in parte colmati da libri e progetti "paralleli" - il gruppo di "Mimì'" è tornato alla grande. Classe immutata, carisma, numerosi live e un nuovo album (in arrivo). Buona lettura! Altri Nomi, ultima traccia di Club Privé, sembrava sigillare definitivamente la storia dei Massimo Volume. Invece, a circa dieci anni di distanza, cosa vi ha spinto a riunirvi? È stato un caso. La proposta del museo del cinema di Torino per la rimusicazione di Caduta di Casa Usher abbinata alla serata del Traffic ci è piaciuta da subito. Non si trattava solo di un evento celebrativo, ma di tornare in scena con del materiale nuovo. Al resto ci ha pensato il fattore umano, l’affetto reciproco, che non è mai stato messo in discussione, nemmeno dopo lo scioglimento del gruppo. Pochi mesi fa la Mescal ha dato alle stampe un vostro live (Bologna Nov. 2008). Più che a una tappa di un “reunion-tour”, somiglia alla performance di un gruppo omogeneo, che si conosce a memoria, che macina la perfezione. Avete provato di nascosto in questi anni? Pensa che avevamo pianificato due mesi di prove per rimettere insieme la scaletta. Invece ci siamo resi conto da subito che era molto più semplice di quanto avevamo previsto. I pezzi uscivano fuori con la stessa intensità di un tempo, con una pulizia addirittura maggiore. Credo che questo sia stato un fattore determinante per convincerci ad andare avanti: sapevamo ancora suonare, anzi lo facevamo ancora meglio. ML 05 musicletter.it update n. 69 speciale intervista: massimo volume “Le cose non riescono a trattenere i colori. Dentro questa foto gli oggetti sono solo macchie, incerte, dai colori differenti. Non c'è nessuno dentro queste stanze illuminate, dentro questo poster "Manhattan di notte" che nasconde l'interno della cucina di un ristorante cinese". I testi che scrivi sono colmi di immagini suggestive che definirei “postmoderne” se non fosse un aggettivo abusato. Poesia e narrativa. Come nasce un brano e dove cerchi ispirazione? Ti rispondo come immagino ti risponderebbe chiunque altro che ha a che fare con la parola scritta: mi ispiro al mondo che mi circonda, alle esperienze personali, a tutto ciò che tocca la mia sensibilità. Col tempo ho preso maggiore confidenza con l’immaginazione, sono meno crudo di un tempo, probabilmente ho anche perso qualcosa per strada. Ma è un genere di trasformazione piuttosto comune, naturale direi. L’importante è continuare ad avere stimoli. Può sembrare una frase fatta questa e forse lo è, ma è anche la verità. Nel settembre del 1919 Emanuel Carnevali scriveva le seguenti frasi all'interno della poesia Giorno D'Estate: “Tutti i miei giorni sono in questa stanza, si accalcano contro di me. So quello che ho fatto, fatto male, sbagliato, frainteso, quello che ho dimenticato, trascurato e ho perduto la mia giovinezza.” Chi era costui, e quanto ha influito Il Primo Dio (unico romanzo di Carnevali, pubblicato postumo nel 1978), sulla scrittura di Emidio Clementi? Emanuel Carnevali è stato un poeta e uno scrittore, ma anche un agitatore culturale, vissuto a cavallo del Novecento. Emigrato giovanissimo negli Stati Uniti, ha fatto parte della nuova scena artistica americana che vedeva in lui un modello di riferimento. La malattia e gli stenti lo hanno però costretto a tornare in Italia, dove è morto, ancora molto giovane. Per me la sua scrittura è stata un’illuminazione. Il mio sguardo nei confronti della realtà non è stato più lo stesso dopo aver letto “Il primo dio”. Su L'ultimo dio (Fazi Editore, 2004) hai scritto che al calcio devi la scoperta della solitudine. Ne fai cenno anche in Ronald, Tomas e io: "Poi percorrevo il tratto di strada ghiacciata fino alla biblioteca comunale per i risultati di calcio sul Corriere della Sera della settimana precedente". Che rapporto hai con la solitudine e con il calcio? Della solitudine ho bisogno. Sto bene in mezzo agli altri, ma i rapporti umani mi affaticano. Restare solo serve a ricaricarmi, a riordinare i pensieri. Il calcio invece è una vecchia passione, a cui non riesco a rinunciare. Se c’è un legame tra le due cose riguarda la mia infanzia. A cinque anni la mia famiglia si trasferì da Ascoli a San Benedetto del Tronto. All’inizio nessuno voleva giocare con me in quanto tifoso dell’Ascoli e ne soffrivo. Ma al di là del calcio provo molto più affetto nei confronti di San Benedetto che non di Ascoli. ML 06 musicletter.it update n. 69 speciale intervista: massimo volume Ti chiami Emidio, adori il Primo Dio di Carnevali e hai intitolato un tuo romanzo autobiografico L'ultimo dio. Ma chi è Dio e che rapporto hai con la spiritualità? È una domanda troppo complessa per essere affrontata in poche righe. Al di là delle coincidenza che citi, non so chi sia Dio. La sua assoluta perfezione me lo rende un'entità impalpabile, troppo distante per poterci trovare dei punti di contatto. Mi affascinano molto di più le figure di Cristo, di Sant'Agostino o di certi rabbini chassidi che hanno operato nel mondo, si sono sporcati le mani, mettendo a repentaglio la loro purezza. Per lo stesso motivo non provo una particolare attrazione nei confronti del buddismo, che mi appare una forma di pensiero eccessivamente algida, quasi asettica, nella sua ricerca del vuoto. Sul tuo ultimo romanzo (Matilde e i suoi tre padri. Rizzoli, 2009) scrivi di anni '70, di ribellioni e Lotta Continua, di Re Nudo e di eroina. Parli di Bologna descrivendola come "eterno ritorno". Anarchia e libertà. Al centro Matilde, suo malgrado, sballottata e volenterosa di una vita "normale". Qual è il tuo legame con l’epoca descritta? I miei anni '70 li ho trascorsi in provincia, dove comunque l’aria che si respirava non era così diversa da quella delle grandi città. Il libro però tratta di una storia privata, dove il contesto storico è delineato ma mai in primo piano. Detto questo, quando sono arrivato a Bologna provavo una forma di rigetto verso tutto ciò che avevano rappresentato quegli anni, parlo soprattutto da un punto di vista artistico. Pensa che ho ascoltato per la prima volta un disco dei Pink Floyd negli anni ’90. Oggi il discorso è diverso, ma non sono mai stato un nostalgico. Massimo Volume, Marlene Kuntz, C.S.I, Afterhours… Durante gli anni '90 vennero alla luce o si affermarono numerosi gruppi fondamentali, in grado di cambiare in meglio l'intero panorama "rock" della penisola. Quali sono le formazioni odierne meritevoli di attenzione, che reputi particolarmente interessanti? La vecchia scena è ancora viva e questo mi fa piacere. Dei nuovi mi piacciono: Le luci della centrale elettrica, Grazian, Moltheni, i Bachi da Pietra. Si è sempre piuttosto pessimisti quando si parla del presente, a tutti i livelli, invece bisognerebbe prestare più attenzione a ciò che ha da dire. L'attesa, le urla del pubblico, gli strumenti da accordare. Cosa provi a salire su un palco? Tensione, energia, brevi attimi in cui vorrei mollare tutto e tornarmene a casa. Ma faccio fatica a distinguere un concerto dall’altro. Se penso alla mia vita sulla scena, riesco a racchiuderla in pochissime immagini, molto simili tra loro. ML 07 musicletter.it update n. 69 speciale intervista: massimo volume In base a quale criterio scegliete i brani da eseguire durante concerto alla i live? Flog di Nel corso Firenze del (dicembre 2008) in molti chiedevano Pizza Express. In base alla qualità dell’esecuzione durante le prove, a come si inseriscono nel contesto generale, a quanto ancora riescono a comunicarci emozione. Visto che nessuno di noi possiede una buona memoria, è raro che eseguiamo un pezzo senza prima averlo provato. Da questo punto di vista il testo di Pizza Express è veramente ostico, pieno com’è di: andò, fece, si volse, infilò. Avete suonato alle feste de l'Unità, ai festival estivi, nei piccoli circuiti underground e nei palazzetti dello sport. Esiste un posto, magari che esula dall'ordinario, dove ti piacerebbe portare i Massimo Volume? Non sono di quelli che vorrebbe esportare l’arte in spazi diversi da quelli abituali. Certo vedere i Pink Floyd a Pompei o il Beatles che eseguono il White Album sul tetto di un grattacielo fa il suo effetto ma a me piace la cornice del club. Sfondo nero, nessuna réclame pubblicitaria, delle buone luci, il pubblico vicino. So che è come chiedere a un padre di indicare il migliore dei suoi figli. Ci provo lo stesso. Qual è il più bel disco dei Massimo Volume? Quello a cui mi sento più legato è Da qui. Non so se sia il più bello, ma ho un bellissimo ricordo della sua gestazione, del periodo passato in studio con Steve e Kaba (Steve Piccolo e Kaba Cavazzuti, addetti alla produzione artistica, ndr). Pochissime tensioni, la voglia di spaccare il mondo facendo semplicemente quello che sapevamo fare, uno stato perenne di eccitazione. Durante un'intervista, rilasciata nel gennaio del 2009 al Mucchio Selvaggio, dichiarasti di non avere ancora un CD pronto: "… niente di definitivo". A distanza di un anno possiamo rassicurare i fan con l'imminenza, magari in primavera, di un "atto definitivo"? Ci stiamo lavorando. Abbiamo già metà disco pronto, il resto è ancora da scrivere. L’idea è quella di registrarlo prima dell’estate e buttarlo fuori prima dell’autunno. Sarà stampato anche in vinile? Sicuro. Siamo dei grandi appassionati del vinile. MASSIMO VOLUME: www.myspace.com/massimovolume Foto di Massimo Spadotto Intervista di Jori Cherubini www.musicletter.it ML 08 musicletter.it update n. 69 musica ARTIST: CODEINE VELVET CLUB TITLE: S.T. LABEL: Island records RELEASE: 2010 WEBSITE: www.myspace.com/codeinevelvetclub MLVOTE: 9/10 Ossessionati dall'idea di una (impossibile) vagheggiata purezza sonora, libera dalle ibridazioni postmoderne ma - al contrario - prigioniera dei clichè del "genere" a cui è pigramente rassicurante affidarsi, i dotti soloni della critica (?!) musicale esprimeranno perplessità snobistiche dopo l'ascolto dell'omonimo debutto dei Codeine Velvet Club. In pieno (perenne?) revival Eighties i dischi che non suonano anche solo vagamente come quelli usciti nell'Inghilterra della prima metà della decade thatcheriana per antonomasia non sembrano degni di menzione. L'alternativa? In ossequio alle mode d'oltreoceano qualsiasi altro genere a cui poter appiccicare in successione la parola folk oppure le care vecchie categorie - rock e/o pop - seguite o precedute da indie, post e così... semplificando. Nell'attesa che taluni (pseudo-perchè ignari-puristi) chiariscano a loro stessi il senso della postmodernità - pastiche frammentario, indeterminato e ripetitivo di generi - altri (come chi vi scrive) continueranno a fruirne piacevolmente e consapevolmente, per nulla spaventati dalla sua indefinita e indefinibile complessità quanto - al contrario - divertiti dai suoi giochi di rimando, da quel meccanismo, cioè, di citazioni a scatole cinesi con cui tenta di nascondere la consapevolezza che in qualsiasi manifestazione dell'arte contemporanea (musica compresa) nulla può essere nuovo. Jon Lawler (già componente della band The Fratellis) con l'apporto fondamentale della deliziosa Lou Hickey rinuncia a qualsiasi tentativo di assecondare tendenze e movimenti modaioli e sposta, invece, le lancette di quel grande orologio che è la storia della musica leggera sugli anni '60 del Novecento confezionando un disco che è un tuffo nell'epoca aurea del pop. Quella più sfacciatamente commerciale, quella dei sublimi duetti tra Lee Hazelwood e Nancy Sinatra, quella del Wall of Sound di philspectoriana memoria, quella che coniugava il soul afro con gli irresisitibili riff rock 'n' roll, quella che costringeva le big band jazz a suonare pezzi da tre/quattro minuti nei dancefloor di infimo ordine dove neri e bianchi ballavano insieme sudati e appiccicati anni prima che l'apartheid fosse abolito. I brani sono un distillato di melodie appiccicose che zigzagano senza soluzione di continuità tra il rock e il soul blues (il vizio delle etichette appartiene anche a me) secondo lo schema dei gruppi musicali sixties (voce maschile +voce femminile + chitarra + basso + batteria) arrangiati, però, alla maniera sontuosa del pop orchestrale (con un'eccelsa sezioni di fiati e di archi). Un disco, dunque, all'insegna del passato che sa alternare momenti più divertiti ad altri più malinconici ma vi sorprenderete, comunque, a trovare anche echi shoegaze (in Time) e acidamente rock (come non pensare ai B-52s in The Black roses?) e, incredibile ma vero, persino la cover di I am the resurrection degli Stone Roses. Insieme drammatico e leggero, ruvido e dolce, probabilmente saturo ma senza ombra di dubbio meraviglioso. Come quei vecchi musical hollywoodiani che nessuno propone più. Paradossale che in piena sede di bilanci sull'anno appena trascorso si debba già iniziare a parlare di uno dei migliori dischi del 2010. Nicola Pice ML 09 musicletter.it update n. 69 musica ARTIST: VAMPIRE WEEKEND TITLE: Contra LABEL: XL Recordings RELEASE: 2010 WEBSITE: www.myspace.com/vampireweekend MLVOTE: 8,5/10 A dispetto delle cassandre che quotidianamente ne preconizzano la fine, gli Arcade Fire (i migliori?) hanno dimostrato nel corso della decade ormai alle spalle quanto il rock (quella strana ma bellissima mistura di tensione emotiva ed enfasi espressiva) abbia ancora un senso quando riesce a rappresentare le dismutazioni sociali di fronte alle quali ci sentiamo tutti sempre più indifesi e, soprattutto, le rinnovate inquietudini trans-generazionali (anche se quel capolavoro che è stato Funeral, comunque, andava dritto al centro di paure universalmente accumunabili a tutto il genere umano). Il rock, però, sa essere nelle sue molteplici articolazioni sonore anche altro (fortunatamente, verrebbe da aggiungere). Desiderio di riscatto dal conformismo mediocre del quotidiano, rielaborazione del proprio vissuto, anelito di libertà e/o di fuga, distruzione del buon senso comune o, in alcuni casi, semplice voglia di vivere. I Vampire Weekend appartengono alla ristretta schiera di coloro che hanno deciso (almeno fino a questo punto della loro breve carriera) di costruire un universo musicale gioioso ed esuberante ai limiti d'una spensieratezza di stampo adolescenziale. L'elegante effervescenza del'omonimo (celebratissimo) debutto del 2008 era stata in grado d'entrare in magica sintonia con gli umori d'una gioventù desiderosa di divertirsi con gusto e misura in discoteca senza troppi pensieri, lasciandosi alle spalle, piuttosto, le paure del terrorismo e della crisi economica che hanno segnato gli anni '00. I brani del nuovo disco, Contra, seguono il solco tracciato dal precedente ricreando un'atmosfera di allegra vitalità scevra da qualsiasi dietrologia socio-politica e sotteso simbolico grazie alla capacità (poco comune) del gruppo di confezionare melodie twee dall'irresistibile andamento danzereccio. I Vampire Weekend, dunque, si nutrono di pop ma ciò che li differenzia da decine di altre bands che, al contrario, non raggiungeranno mai egual successo, pur altrettanto indie nell'approccio sonoro, è la veste ritmica con cui sono ornate le loro canzoni. Una riuscita fusione di raggae, di dub, di esotismi caraibici e indiani, di ska, di percussioni afro che è perfettamente funzionale all'originario, giocoso progetto musicale e il cui mix dei vari elementi dosano con arguzia senza scivolare nei clichè della word-music. In fondo, i nostri dimostrano di aver imparato alla perfezione la lezione di Paul Simon in Graceland o dei Talking Heads più terzomondisti ma il falsetto spregiudicato del cantante Ezra Koenig (soprattutto in White Sky brano dall'incredibile complessità ritmica) dimostra voglia di osare e di spingersi anche al di là delle proprie possibilità vocali. D'altronde ad un'analisi attenta (che non si limiti ad assecondare l'impulso danzante) è evidente che i “Vampire weekend” siano profondi quanto astuti conoscitori di più di venticinque anni di pop music e che i campionamenti, le aperture elettroniche, i delicati arpeggi chitarristici alternati ad improvvisi riff, gli inattesi incisi orchestrali, le continue citazioni (Brenda Fassie, i Postal Service, gli Stars, Peter Grabriel e, persino, gli Strokes in Cousins) che spargono nei lori brani, siano il segno d'un talento cristallino che – c'è da scommetterci – il futuro svelerà compiutamente. Per il momento: let's dance! Nicola Pice ML 10 musicletter.it update n. 69 musica ARTIST: FIRST AID KIT TITLE: The Big Black And The Blue LABEL: Wichita Recordings RELEASE: 2010 WEBSITE: www.myspace.com/thisisfirstaidkit MLVOTE: 7,5/10 Chi ha iniziato questo nuovo anno all’insegna di sonorità particolarmente rock, elettroniche o sperimentali e non avverte ancora il bisogno di un ritorno a certe melodie bucoliche e riposanti, sicuramente è incappato nella recensione sbagliata perché The Big Black And The Blue – esordio sulla lunga distanza delle giovanissime sorelle svedesi Klara & Johanna Söderberg – è un lavoro essenzialmente folk. Niente di più e niente di meno. Un bel disco di popular music che ha come protagoniste due talentuose ragazze cresciute con Buffy SainteMarie, Gram Parsons e i classici americani, in grado di dar vita da sole a undici belle canzoni dalle miscele country/pop e in odore di Fleet Foxes e Leisure Society. Un intreccio di voci davvero incantevoli che ricalcano in qualche modo quelle delle più celebri Joanna Newsom, Alela Diane e Zooey Deschanel. Quaranta minuti circa da ascoltare tutti di un fiato, a partire dall’iniziale In The Morning fino alla conclusiva Will Of The River. Un susseguirsi di ballate acustiche, opportunamente ritmate e arrangiate, che non lasciano alcun dubbio sulle qualità del duo nordeuropeo che si firma First Aid Kit e che, per nostra fortuna, non ha nulla a che vedere con l’omonima rock bandamericana. The Big Black And The Blue (che segue l’EP del 2009 intitolatoDrunken Trees) è il primo album del 2010 che abbiamo avuto modo di ascoltare e che vi consigliamo vivamente di reperire, soprattutto se siete riusciti ad arrivare alla fine di questa recensione. Nulla di nuovo, ma pur sempre un bel sentire. Luca D’Ambrosio ML 11 musicletter.it update n. 69 musica ARTIST: RONIN TITLE: L’ultimo Re LABEL: Ghost Records RELEASE: 2009 WEBSITE: www.myspace.com/ronintheband MLVOTE: 9/10 “Ho perso le parole”, cantava il buon Luciano Ligabue. Dichiarazione d’intenti non mantenuta, visto che il romagnolo ci ammorba da tempo con testi a tratti irritanti che rispecchiano il mal costume generale di questo paese. Ci sono, però, luoghi dove amore non fa sempre rima con cuore, ci sono luoghi dove le parole vengono addirittura messe da parte per far parlare un concetto espresso attraverso la musica. Musica vera, popolare, intensa che tocca corde emozionali e che proietta immagini poetiche nella nostra mente. Quel luogo si chiama L’ultimo Re, nuovo lavoro dei Ronin di Bruno Dorella che, partendo da un film visto da bambino, ci riconduce a quel ricordo suonando una colonna sonora immaginaria. Sarà capitato a tutti di associare vita vissuta a musiche perfette per quel momento, e in questo momento di bassezza e crudeltà questa poesia ristabilirà lo squilibrio. Come in Lemming del 2007 dove la barca tornò sola (mare carogna, mare carogna) anche qui le budella dell’ultimo prete serviranno per impiccare l’ultimo re. Di musica strumentale si parla, quindi, che però suscita grandi emozioni perché carica di pathos, malinconia e profondità, suonata da ottimi musicisti che assecondano le idee che girano nella testa dell’eclettico Dorella (OvO e Bachi da Pietra gli altri progetti nel quale il musicista è coinvolto). Un modo diretto e senza elucubrazioni nel suonare musica strumentale che ricorda le atmosfere western di Morricone ma si tinge anche di tex mex, Calexico e musica surf, riuscendo ad avvolgere tocchi leggeri di chitarra con violino, tuba, contrabbasso, organo e poco altro, offrendo all’insieme un senso compiuto e di grande amalgama. Il mio disco dell’anno del 2009 appena passato. Un anno di silenzi e di paure ma ricco di grandi soddisfazioni che saziano il cuore. Nicola Guerra ML 12 musicletter.it update n. 69 musica ARTIST: DJ SPRINKLES TITLE: Midtown 120 Blues LABEL: Mulemusiq RELEASE: 2009 WEBSITE: www.comatonse.com/thaemlitz MLVOTE: 8/10 Terre Thaemilitz è un dj e produttore presente sulla scena musicale elettronica e ambient nordamericana da più di un ventennio. Nativo dello stato del Minnesota e cresciuto nel Missouri si trasferisce verso la metà degli anni Ottanta a New York dove inizia a frequentare la comunità transgender per diventare presto uno dei più apprezzati dj del giro. Le radici musicali di Thaemilitz spaziano tra l’avanguardia e il minimalismo di Pauline Oliveros e l’elettronica teutonica dei Kraftwerk, mentre le prime esperienze musicali risalgono alla Deep House suonata nei club della Grande Mela verso la fine degli anni ‘80. Come dj usa lo pseudonimo DJ Sprinkles e con tale ragione sociale (fatto inedito) firma nel 2009 Midtown 120 Blues sua ultima fatica e capolavoro di una carriera discografica iniziata nel 1994 con Tranquilizer. L’operazione che il Nostro compie in questo lavoro è spiegata dallo stesso nelle note di copertina dove parla di house che fugge dalle piste da ballo, di transessuali che vivono l’emarginazione sociale e della loro fatica di vivere e “lavorare”, delle varie dipendenze dall’alcol e dalle droghe, del razzismo e dei tanti dj sfigati che nessuno mai ricorderà. In Midtown 120 Blues si ha la sensazione che Sprinkles partendo dal grande amore per la house sia andato così tanto in profondità da provocare non solo lo svuotamento dei dancefloor ma anche l’effetto che gli ex occupanti anziché sbattere le chiappe abbiano preso un paio di cuffie e si siano messi ad ascoltare una musica nuova fatta da bianchi e diafani omosessuali (graziati dall’AIDS) ma allo stesso tempo grondante di negritudine. In un tappeto sonoro fatto di house al valium e ridotta all’osso, vi è racchiusa tutta la musica nera del secolo scorso (blues, soul, jazz e funk) assimilata e fatta propria da quelle minoranze sociali che con le loro sofferenze indotte da una società omofobica riescono ad attualizzare e restituire all’arte in una versione inedita. Sembra quasi che il malessere esistenziale di chi non riesce a stare in nessun luogo convenzionale e normale trovi piena cittadinanza in questo progetto musicale inaudito ricalcando nello spirito quello che per tanti anni è stato il blues dolente del popolo nero. Tuttavia anche il buon Thaemilitz dopo averci regalato tanta meravigliosa angoscia si congeda con una composizione piena di brio e apparentemente priva di malessere con la conclusiva The Occasional Feel-Good. Una grande canzone piena di ritmo e gioia di vivere: un messaggio di speranza per il futuro? Domenico De Gasperis ML 13 musicletter.it update n. 69 musica ARTIST: THE BRUNETTES TITLE: Paper Dolls LABEL: Lil' Chief Records RELEASE: 2009 WEBSITE: www.myspace.com/thebrunettes MLVOTE: 9/10 Il duo (musicale) più cool del pianeta è tornato a miracol mostrare. Jonathan Bree e Heather Mansfield, conosciuti ai più (?!) come The Brunettes, hanno realizzato un nuovo disco: Paper Dolls che, forse più dei precedenti (se possibile), brilla per forza catchy e originalità. In questa circostanza, però, è stato messo al bando qualsiasi tipo di barocchismo. L'opera precedente (Structure & Cosmetics, datata 2007) che, comunque, m'era piaciuta assai per la sfrontatezza sonora esibita, aveva i contorni di un delizioso seppur inconsistente melange, multiforme e originale quanto si vuole ma probabilmente stucchevole. Il pop etereo e sognante abbracciava suggestioni cinematiche western, la morbidezza beatlesiana lasciava il passo ad acustici e taglianti suoni banjo blues, il carillion del metallofono rincorreva le vibrazioni della marimba. Ogni suono era pertanto destinato al tritacarne di una sperimentazione audace che faceva dell'orpello un elemento portante della forma canzone al pari della struttura melodica e dell'arrangiamento. In Paper Dolls, invece, i nostri si affidano soltanto ad un sintetizzatore, a una drum machine e alle loro voci riuscendo, comunque, a riprodurre un'infinità di suoni differenti. Il lavoro di sottrazione compiuto, dunque, non ha precluso alla band neozelandese la possibilità di continuare a essere testimonianza sonora di straordinaria pluralità musicale. Come nel cinema (tanto per fare paragoni arditi) il compianto Akira Kurosawa poneva in ogni sua opera le basi per almeno altri dieci (possibili) film (talmente tanti erano i temi trattati), alla stessa maniera questo bizzaro quanto affascinante duo scrive brani musicali che partono da una semplice idea sonora e seguono, nell'ambito della stessa composizione, altre strade finendo per suonare diversamente da come ci si aspetterebbe per un brano pop che si rispetti. The Brunettes in Paper Dolls ci appaiono – meno indefinitamente che in altre circostanze - un duo vocale del bel canto anni '60 che "suona" alla maniera (retrò) degli anni '80 attraversando di volta in volta nella successione dei brani (o in uno stesso brano) l'electro, il pop, il beat, il funky, il glitch in un saliscendi musicale dal fascino incommensurabile che sa riprodurre molteplici gamme emozionali. Le voci (l'una maschile, l'altra femminile) di Jonathan ed Heather, infatti, si sovrappongono e si incrociano in un gioco continuo di rimandi secondo la lezione dei Blonde Redhead (che continua ad essere un loro punto di riferimento) o dei Fiery Fournaces passando dalla frenesia all'introspezione, dalla malinconia alla gioia, come in un labirinto di Escher dove si citano con fresca ironia e senza soluzione di continuità (questo tipo d'ossessione è rimasto intatto) gli “Architecture in Helsinki” in Thank you o i Polyphonic Spree (In Colours), gli Human League (sfacciatamente in Magic, No Bunny), gli Stereolab così come i They Might Be Giants. Un raro caso di intelligenza applicata al pop quello dei Brunettes. Se vi par poco... Nicola Pice ML 14 musicletter.it update n. 69 musica ARTIST: GET BACK GUINOZZI! TITLE: Carpet Madness LABEL: FatCat Records RELEASE: 2009 WEBSITE: www.myspace.com/getbackguinozzi MLVOTE: 8/10 Come si può definire (musicalmente) ciò che sfugge per propria natura qualsiasi tipo di definizione? I Get Back Guinozzi! sono l'archetipo di un'anarchia sonora allegra quanto sgangherata: sin già dal nome un monumento vivente alla stravaganza. Il duo francese (ma i brani sono in inglese) composto dalla vivace vocalist Eglantine Gouzy e dall'allampanato polistrumentista Fred Landini dopo la finto-psichedelia-finto-esotica del singolo Low Files Tropical (accompagnato da un video dal gusto retro-pornografico) debutta con un disco - Carpet Madness - che fa dell'incoerenza stilistica la propria bandiera. Il background musicale, con i cui rimandi nel myspace affermano (con un'incoscienza pari alla sfrontatezza) di nutrire il loro universo sonoro, spiega fino a un certo punto il senso (o sarebbe il caso di dire il non-sense) del progetto Get Back Guinozzi!. Tastierine giocattolo, drum machine fuori sincrono, chitarra non propriamente accordata ad eseguire melodie semplici quanto sghembe che ondivaghe passano da dolci vocalizzazioni armoniche a taglienti improvvisazioni hip-hop in un contesto ritmico altrettanto incerto: di volta in volta electro, onirico, rockeggiante. Così, dunque, tra echi surf pop e ugualmente shoegaze, tra frammenti sonori che scorrono velocissimi (i brani sono brevi) in cui non si può non sentire qualcosa dei Feelies o dei Cure, dei Smiths (che il dio della musica mi perdoni...) o degli Animal Collective, dei Talking Heads e, persino, di Serge Gainsbourg (quando Eglantine Gouzy gioca alla pupa yè-yè)... Si parla di inquilini particolari, della scuola, delle proprie ossessioni, di guardie e ladri (nell'omaggio ai Clash di Police and Thieves) e, udite udite, di King Kong in maniera del tutto follemente surreale. Qualcuno ha parlato di melting-pot musicale ma, a mio avviso, il meticciato figlio della globalizzazione e/o dell'incrocio multiculturale è un fenomeno troppo complesso (al pari della sua importanza epocale) per interpretare e spiegare le scelte della band, soprattutto perchè presuppone un processo di metabolizzazione più o meno cosciente dell''enorme mole di sonorità eterogenee e implica la volontà di rielaborazione (originale o pedissequa che sia) di quei suoni che, vista la struttura dei brani, al contrario qui manca. Carpet Madness, invece, è "divertissement" che lambisce appena il situazionismo ben attento a non sprofondare nel trash citazionista giocando, piuttosto, con i generi musicali che scivolano senza soluzione di continuità in un pastiche delirante di matrice surrealista. A ben vedere, dunque, la mia stessa recensione diventa sterile come, ugualmente, lo sforzo di appiccicare categorie estetiche a ciò vuol essere inclassificabile. Nel dubbio se considerare i Get Back Guinozzi! banali, eccentrici o (più probabilmente) sublimi, tra voci sovra incise che suonano come un coro di bambini, risa insensate, effervescenze naïve, sincopi dub e chissà quant'altro ancora... alzo bandiera bianca con l'unica certezza che questi strani figuri sarebbero piaciuti ad André Breton nella stessa misura con cui piacciono (molto più modestamente) a me e per non meglio precisati motivi. Nicola Pice ML 15 musicletter.it update n. 69 musica ARTIST: PEARL JAM TITLE: Backspacer LABEL: Monkeywrench | Universal RELEASE: 2009 WEBSITE: www.pearljam.com MLVOTE: 7,5/10 Allora, la scena si presenta più o meno così: sono a cena da Daniele, amico che divide equamente il suo tempo libero tra la passione sfrenata per Lou Reed e la produzione di quiche. Per qualche strano motivo Lou non è della serata. Non manca invece, al centro della tavola, una splendida quiche lorraine. In sottofondo Tom Waits racconta di essersi perso nel culo del mondo. Ne prendiamo atto con una certa soddisfazione, mentre Daniele taglia la prima fetta. A quel punto, tra un morso e una chiacchiera sui massimi sistemi, si finisce come sempre a parlare di musica e allora gli chiedo cosa ne pensa di Backspacer, l'ultimo album dei Pearl Jam. Quello che mi ha risposto suona più o meno: “É un bellissimo disco inutile”. Così, secco, diretto, tranchant. Io ho accusato un po' il colpo. Qui, però, bisogna fare un passo indietro. Io amo in maniera viscerale i Pearl Jam e la questione non è solo strettamente tecnica, come d'altronde succede sempre con la musica. È qualcosa che ha a che fare con il 1991 (anno di pubblicazione di Ten), con i miei sedici anni, con un walkman rosso e con la sensazione costante di essere in uno di quei meravigliosi pomeriggi di settembre prima che ricominci la scuola, anche se magari era inverno e faceva -15... Ma questa è un'altra storia, signori della giuria (giuro: mi sto alzando in piedi...). Analizziamo i fatti e partiamo dall'album in questione. Trovo che Backspacer sia un disco molto interessante, un lavoro in cui è evidente un cambio d'atmosfera rispetto almeno agli ultimi due lavori (Riot Act del 2002 e Pearl Jam del 2006). La fine dell'era Bush, e il conseguente cambio di amministrazione con Obama, sembra aver influenzato positivamente le dinamiche compositive del gruppo che, negli ultimi anni, aveva apertamente osteggiato la politica dell'ex presidente. L'album, infatti, si presenta più “leggero”, veloce (11 pezzi in circa 37 minuti!) e diretto, e la voglia di suonare viene urlata fin da subito in Gonna see my friend, graffiante pezzo d'apertura in cui esplodono le chitarre e, quasi, le corde vocali di Eddie Vedder. Stesso DNA hanno pezzi come The Fixer (primo singolo dell'album) e Supersonic, canzoni che sembrano concepite con il chiaro intento di essere suonate dal vivo e dare modo alla band di esprimere a pieno la sua innata e oramai proverbiale attitudine live. I riff sparati di queste canzoni lasciano spazio, poi, anche ad altri episodi più strutturati come Johnny guitar, tra i pezzi più interessanti dell'album e Amongst the Waves, in cui la voce (qui più morbida) di Eddie Vedder prepara l'ingresso prepotente delle chitarre e dell'assolo di un ispirato Mike Mc Cready. Ma è su due pezzi in particolare, The End e Just Breathe (musica e parole di Eddie Vedder) che credo, signori della giuria, sia utile soffermarsi. Chiedo che siano aggiunte al resto delle prove in modo che confortino quanto detto fino a ora, anche se, per una serie di motivi che ora andremo a chiarire, queste due straordinarie canzoni possono anche rafforzare la tesi dell'accusa (“un bellissimo disco inut...” non ci riesco: mi si inceppa la lingua e l'anima). ML 16 musicletter.it update n. 69 musica: pearl jam Mi spiego meglio. In entrambi i pezzi, accompagnata dagli arpeggi morbidi della chitarra e dalla leggerezza degli archi, a farla da padrone assoluto è la voce splendida di Eddie Vedder, che riesce a toccare, sopratutto in The End, vette interpretative incredibili. Il leader dei Pearl Jam, credo che a oggi possa essere considerato a tutti gli effetti una sorta di moderno “crooner”, tanto da far diventare indimenticabile, se la cantasse, anche la posologia della Tachipirina! Eppure la bellezza e l'intimità struggente di queste due perle sembrano creare un empasse, tracciando un solco netto che le separa dalle pure ottime prove dei pezzi che abbiamo precedentemente citato. In pratica la loro eccezionalità rende evidente come all'interno della band di Seattle oggi sembrino convivere ormai due anime. Da una parte c'è il gruppo con la sua energia che, per quanto grande, a volte rischia di apparire un po' prevedibile. Dall'altra troviamo Eddie Vedder, che dopo l'ottima prova solista di Into the wild, sembra aver raggiunto una nuova consapevolezza e una maturità compositiva che lo avvicinano al miglior cantautorato americano (non a caso Just Breathe è una reprise, con l'aggiunta del testo, di Tuolumne, pezzo presente solo in versione strumentale nella colonna sonora del film diretto da Sean Penn). La sensazione è che queste due anime, queste due entità compositive, non sempre sembrino integrarsi perfettamente, anche se rimango dell'idea che Backspacer sia un ottimo disco, da ascoltare tutto d'un fiato e regalandosi delle apnee emotive durante i suoi momenti più riusciti. Con questo, signori della giuria, chiudo la mia arringa, convinto che questo rappresenti un capitolo estremamente interessante, ma di passaggio, nella discografia del gruppo, prima di nuove e ci si augura di nuovo indimenticabili prove come quelle degli esordi. Nell'attesa, prenderei un'altra fetta di quiche lorraine. S'il vous plait... Marco Tudisco ML 17 musicletter.it update n. 69 musica ARTIST: BLAKROC TITLE: S.T. LABEL: V2 Records RELEASE: 2009 WEBSITE: www.blakroc.com MLVOTE: 7,5/10 I Black Keys sono probabilmente uno dei gruppi che più mi hanno conquistato gradualmente, produzione dopo produzione, facendomi cambiare parere grazie alla crescita del loro sound dall’esordio datato 2002. Il motivo è presto detto: la loro è sempre stata una ricetta perfetta ma molto semplice, un rock scarno fatto di chitarra, una splendida voce, batteria e calde trame blues sporcate dal germe incendiario del Dio R’n’R, cosa che chiaramente li ha sempre troppo avvicinati alla caricatura di un altro (e più famoso) duo autore di Seven nation army. In realtà Dan Auerbach e Patrick Carney possiedono un DNA tutto loro: essenziali e non presuntuosi, nel corso degli anni hanno scritto canzoni calde e coinvolgenti, facendo sussurrare per la passione come saltare per l’energia, riuscendo a produrre la bellezza di cinque dischi, due EP e un live (senza menzionare i 7”) in otto anni sempre rimanendo a un ottimo livello compositivo. Ancora caldi dai tanti ascolti dell’ultimo Attack & Release, i padiglioni auricolari dei loro fan si sono trovati nel corso del 2009 ad ascoltare Keep it hid, scommessa solista del cantante Dan Auerbach. Un grande album di cantautorato sempre religiosamente vicino alle sue influenze blues ma svuotato dall’irruenza dei Black Keys, molto più dedito al soul e al rythm’n’blues e comprendente una manciata di canzoni dall’intensità impressionante e che senza ombra di dubbio rimarranno anche negli anni a seguire (When the night comes spedisce Dan diretto nel paradiso dei grandi della musica contemporanea). Detto questo, passa qualche mese, si arriva quasi alla chiusura del 2009 e, sorpresa delle sorprese, esce un ulteriore progetto parallelo delle chiavi nere, questo Blakroc. Blues? Rock? Soul? Garage? Macché, i due di Akron hanno fatto un disco hip hop. Poi rilasciano una marea d’interviste e cosa si scopre? Chiaro, i Black keys (parole degli interessati) sono stati pesantemente influenzati sin dagli esordi dall’hip hop, certo anche da Son House e dal blues del delta ma anche pesantemente da RZA e i Wu-tang clan (?!?). Allo shock iniziale, che tra l’altro è certamente immotivato, si aggiunge la curiosità per questo nuovo esperimento che consiste nell’improvvisazione vocale di gente come Ludacris, il compianto Old dirty bastard (nell’iniziale Coochie), Mos Def e RZA sulle basi suonate dei Keys, nel loro stile, chiaramente con un’ottica più groove e caldamente accattivante. Qual è il risultato finale? Un altro centro pieno, una raccolta di canzoni che fa battere il piede per tenere il tempo e che piace per tutta la durata dell’ascolto, alternando i martelli della già citata Coochie alle calde e soleggiate influenze di On the vista. Pharoahe Monch e RZA duettano splendidamente scansando viziosi assoli di chitarra in Dollaz & sense ma è la sensualissima voce di Nicole Wray in Why can’t i forget him che fa prendere una virata verso l’alto a questo Blakroc. Dan tace, non prende spazio agli MC’s, tesse trame suadenti con i suoi accordi, lo immaginiamo scuotere la testa e ammiccare sorridente al rapper di turno, sino al timido approccio ai cori in Ain’t nothing like you o nel ritornello super soul di What you do to me. Il duo afferma che non sarà un capitolo isolato questo Blakroc ma che, tra qualche mese, potrebbe già uscire la part two, personalmente io ne sono più che contento, il progetto è piacevolmente riuscito e ha le caratteristiche per conquistare, tra l’altro, anche tanti amanti di sonorità differenti a quelle del mondo rock ma è senza remore che mi auguro anche di poter ascoltare, in tempi ancora più rapidi, nuove canzoni a nome Black Keys degne del precedente Attack & release. Antonio Anigello ML 18 musicletter.it update n. 69 musica ARTIST: PIPERS TITLE: No One But Us LABEL: Materia Principale RELEASE: 2009 WEBSITE: www.myspace.com/pipersonline MLVOTE: 7/10 Basterebbe la tripletta iniziale No One But Us, Golden Sand ed Eveline per accorgersi che i Pipers sono un altro piccolo diamante pop scovato chissà dove dall’etichetta Materia Principale, che annovera fra le proprie scoperte quei Gentlemen’s Agreement, osannati e meritevoli di copertina per la nostra rivista (ML 59). Il disco d’esordio di quest’ultimi (Let Me Be A Child) parlava la lingua del folk giocoso con influenze Violent Femmes, mentre No One But Us dei napoletani Pipers si muove in territori completamente diversi, molto internazionali e indubbiamente Pop, con la P maiuscola. Melodie zuccherine che preferiscono lo zucchero di canna al miele, canzoni che imparano a memoria la lezione dei Coldplay e degli Starsailor e senza trastullarsi in ineluttabili ritornelli centrano il bersaglio in soli tre minuti tre. Tracce dal forte appiglio radiofonico di chiara matrice anglosassone che deliziano nella loro semplicità apparente, per poi delineare un grande lavoro in fase di produzione; non a caso il disco è stato masterizzato presso il Pierce Entertainment da Bunt Stafford Clark (Suede, Graham Coxon, Idlewild, Manic Street Preachers, Elbow tra i crediti). Se i riferimenti guardano dall’Inghilterra elogiandone la scrittura, l’italianità fuoriesce mestamente e l’unico gruppo al quale potrebbero essere paragonati sono gli …A Toys Orchestra però più attaccati alla forma canzone. La qualità dei brani, le trame acustiche che giocano contemporaneamente con sole e pioggia e la voce trasognata del vocalist fanno sì che il golfo di Napoli sia inglobato nella manica. Ottima scoperta di cui sentirete presto parlare. Nicola Guerra ML 19 musicletter.it update n. 69 musica ARTIST: LITTLE MURDERS TITLE: Stop Plus Singles 1978-1986 LABEL: Off The Hip RELEASE: 2009 WEBSITE: www.littlemurders.wetpaint.com MLVOTE: 7/10 Un omicidio piccolino, quello dei Little Murders di Melbourne. Roba che non regge il confronto con i crimini ben più efferati che si stanno consumando in quegli anni proprio in quella città. Pur soffocato dalla montante onda punk, Rob Griffiths riuscirà tuttavia a farsi largo in una scena delirante “proteggendo” la sua idea di suono “english” (lui è da lì che proveniva, ed è dal suo amor patrio che avrebbe preso l’abitudine di vestire se stesso e i suoi ampli con la Union Jack) dagli sbrodolamenti hard tipici del periodo riformulando la line-up quando i rischi sembravano voler prendere la forma di una reale minaccia e facendo dei Little Murders una delle più incontaminate power pop band in giro per l’Australia, assieme ai Sunnyboys di Sidney. Il suono che affascinò allora un giovane Greg Shaw resta ancora oggi un grande esempio di scintillante guitar pop di cui Stop riassunse, nel lontano 1986, formula e ricettario: era come ascoltare i Saints rifare le canzoni dei Monkees. Una ricetta che Rob avrebbe messo da parte per dieci anni salvo poi riprenderla in mano al momento di tornare ai fornelli per realizzare solo nel 1997 il primo vero album (…And Stuff Like That per la cronaca, realizzato in parte con materiale vecchio di cui troverete qualche sputo pure qui dentro, seguito poi a distanza ravvicinata da First Sight e We Should Be Home By Now, NdLYS). Un monumento alla coerenza e all’amore per la più perdente delle musiche perdenti. Franco Dimauro ML 20 musicletter.it update n. 69 musica ARTIST: AA.VV. | AA.VV. TITLE: Panama!3 | Tumbélé! LABEL: Sound Way | Family Affair RELEASE: 2009 | 2009 WEBSITE: www.soundwayrecords.com MLVOTE: 8/10 | 8/10 Per comprendere la ragione per cui vi propongo i dischi di cui vado a parlare bisogna avere chiara in mente la straordinaria rivoluzione avviata negli anni Ottanta da Paul Simon, David Byrne e Peter Gabriel (e ci aggiungerei, su un piano diverso, anche Bob Marley) che dischiusero le porte dell’industria discografica di largo consumo alla world music e alle espressioni delle tradizioni di paesi non anglosassoni. In seguito ci si è resi conto di quanta ispirazione molti artisti traessero dalla musica (prima negletta, ghettizzata, “on the border”) popolare (e consentitemi l’uso del termine) “indie” per le loro opere più acclamate. Provate a quantificare quale straordinario contributo alla causa, per esempio, abbiano dato Ry Cooder e Ali Farka Tourè con l’album Talking Timbuctu nel 1994 (ne abbiamo parlato sul N° 60 della nostra fanzine; N.d.R.). Potrò sembrare a molti eretico al riguardo, ma la mia personale convinzione è che il rock sia vetusto, anacronistico, privo di autentica forza eversiva, e che una strada innovativa, una via che guardi in avanti, si possa percorrere recuperando l’antico, le radici della musica. E oggi andare a scavare nel mercato discografico alla ricerca di espressioni indigene sconosciute è, oltre che dilettevole, anche esercizio proficuo. Magnifici sono in questa ottica i due album assemblati dall’etichetta inglese Sound Way Records, specializzata – sono loro a dirlo nella presentazione nel loro sito internet – nel “recupero di registrazioni perdute o dimenticate delle vibranti culture musicali del mondo.” Panama! 3 reca quale sottotitolo Calypso Panameño, Guajira Jazz & Cumbia Tipica on the Isthmus 1960-75 che esprime bene la gamma di generi che contraddistinguono la musica in quella regione nevralgica che separa il Nord America da quella del Sud, circoscritta al periodo 1960-1975. Un’accurata compilation di pezzi da “ballo” caraibici e funky tropicale (contaminati da Afro-Cuban soul, jazz fusion e hip-hop) che al primo impatto può far sorridere, ma poi lascia prevalere la prospettiva storica e sociale in cui si muove il suo contenuto, e nel mix culturale e multietnico che in quella particolare zona del mondo prende vita. Dettagliate note di copertina (curate dal compilatore, Roberto Ernesto Gyemant) vi guideranno all’ascolto, le riproduzione degli originali LP dell’epoca – così “cool” - solleticheranno il vostro piacere ‘vintage’, la musica contenuta contribuirà a farvi scoprire un universo sonoro vibrante che da sempre aleggia sulle nostre teste senza aver mai preso forma compiuta sebbene i nomi degli interpreti appaiano del tutto sconosciuti (Lord Panama & the Stickers, Los Silvertones, Beby Castor, Black Czar). Un ascolto che alla lunga si rivelerà foriero di buone sorprese. Musica fresca e vitale benché in alcuni casi abbia più di 40 anni. Tumbélé! (Biguine, Afro & Latin Sounds from the French Caribbean, 1963-74) propone musiche dalle Antille Francesi (Guadalupe e Martinica) risalenti agli anni tra il 1963 e il 1974, ben prima dell’esplosione giamaicana internazionale del Reggae e del dub, presenti nella stessa area geografica, anche se basate su differenti tradizioni musicali. ML 21 musicletter.it update n. 69 musica: Generi come il beguine (importante per quest’area quanto il calypso a Trinidad), una combinazione di hot jazz di New Orleans e ritmi danzanti arrivati sulle navi degli schiavi dall’Africa, il bele, il gwo ka, tutte musiche di chiara identità creola, in gran parte conosciute anche nella vicina Cuba. Ritmi frenetici, groove afro-cubano affascinante e ballabile di matrice french jazz & latin, con una decisa predominante di percussioni, riverberi e (talvolta) dell’organo. Compilation curata da Hugo Mendez; anche qui con dettagliate note di copertina e un accurate repertorio iconografico. Luigi Lozzi ML 22 musicletter.it update n. 69 musica ARTIST: PLASMA EXPANDER TITLE: Kimidanzeigen LABEL: Wallace Records | Here I Stay Records RELEASE: 2009 WEBSITE: www.plasmaexpander.net MLVOTE: 7/10 Non vorrei sembrare ripetitivo, ma il concetto espresso già qualche ML fa si ripropone ancora attualissimo con l’album dei Plasma Expander (ML 64 recensione Bachi da Pietra, Tarlo Terzo): possibile che gruppi di ottimo valore italiani non riescano a far sentire forte la loro voce in patria? Poco importa, il secondo disco dei cagliaritani ci ripresenta comunque un gruppo in grande spolvero, pieno di classe, privo di compromessi e dal cervello fino. Quanto la lezione del guru Steve Albini ha influito nell’evoluzione musicale del trio? Abbastanza ascoltando Kimidanzeigen, una raccolta che fa del noise, free rock e adrenalina rock and roll un vessillo da sfoggiare, groove accattivanti e solide melodie. A tre anni dall’esordio prodotto dal solito tandem Wallace e Here i stay records, i sentieri percorsi li portano a intraprendere strade non asfaltate, non cercando alcun che di accattivante ma mettendo in gioco il grado d’attenzione (e di sopportazione al rumore) dell’ascoltatore ricreando trame complesse e geometricamente post rock. Ci si perde tra pezzi di space-core e divagazioni progressive, di grande impatto, indispensabile metterli al vaglio del fatidico live che, vedendo stralci in rete, promette scossoni tellurici, del resto la macchina è stata rodata da qualche tempo per tutta l’Italia e parte d’Europa. Non resta altro che lasciarsi andare al flagello auricolare di Hands in your guts, Why not o No moustache segnandosi sul calendario le date dei Plasma Expander vicino a casa, il modo più economico per fare una vacanza nella rumorosa e spigolosa Sardegna Rock. Antonio Anigello ML 23 musicletter.it update n. 69 musica ARTIST: ELLIOTT MURPHY TITLE: Alive in Paris LABEL: [CD + DVD] Blue Rose | I.R.D. RELEASE: 2009 WEBSITE: www.elliottmurphy.com MLVOTE: 8/10 Americano, newyorkese, ma da tantissimi anni residente a Parigi, Elliott Murphy propone il suo ultimo album live registrato nella capitale francese. Da subito, da quando si è affacciato sulla scena del rock agli inizi degli anni ’70 (Aquashow nel ’73 il suo album d’esordio, ma prima di allora si esibiva per strada o nelle metropolitane e addirittura partecipava come comparsa a Roma di Fellini), è stato additato dalla critica come uno dei possibili eredi di Bob Dylan, al crocevia là dove si intersecano le istanze del rock, del songwriting d’autore e del folk. Mai realmente sugli scudi Elliott però ha potuto sempre contare sul consenso e la stima dei suoi colleghi, Bruce Springsteen in primis, e sul supporto incondizionato dei suoi fan che lo hanno collocato nella schiera romantica dei ‘beautiful loser’ del rock accanto a gente come Willy De Ville, Bob Seger, Southside Johnny, Tom Waits, Graham Parker, Garland Jeffreys, John Mellencamp & Co. Lost Generation (’75), Night Lights (’76) e Just A Story From America (’77) gettano le basi per la sua credibilità artistica, ma mentre negli Usa, a causa delle scarse vendite dei suoi album, gli vengono concesse poche chance dall’industria discografica, egli trova nella decadente Europa maggiori attenzioni nei confronti del suo genuino, onesto talento. E tra esibizioni live (che spesso lo hanno condotto anche nel nostro paese), dischi pubblicati per etichette indipendenti (se ne contano in tutto una trentina; e con ques’ultimo siamo a 31), qualche romanzo niente male (“Café Notes“ e “Poetic Justice”), influenzato da gente come Francis Scott Fitzgerald, Jack Kerouac e Henry Miller, Murphy ha portato avanti il suo credo (che punta anche su solidi riferimenti letterari) con immutati slancio, convinzione, integrità e carica espressiva, e continua a farlo anche ora che ha superato la sessantina. Da tempo ha instaurato un sodalizio artistico con il chitarrista francese Olivier Durand, ed è quest’ultimo che lo asseconda a dovere sul palcoscenico (Alan Fatras e Laurent Pardo al basso completano l’organico) in lunghe, simbiotiche ballate elettro-acustiche (accanto a ballate più morbide, parentesi blues e momenti intimistici nei quali inforca l’armonica) che ammaliano un pubblico devoto e partecipe. Dodici brani coinvolgenti ed entusiasmanti con il bonus di un DVD (registrato nella stessa occasione) che di pezzi ne propone sei in più. Luigi Lozzi ML 24 musicletter.it update n. 69 musica ARTIST: JOHN FOGERTY TITLE: The Blue Ridge Rangers (Rides Again) LABEL: Fortunate Son | Verve | Universal RELEASE: 2009 WEBSITE: www.johnfogerty.com MLVOTE: 7/10 Bastano poche energiche battute, il vocalismo distintivo e i riff della sua chitarra a farla da padrone, a rendere immediatamente riconoscibile lo stile spumeggiante e swamp di John Fogerty, e a evocare magnifici ricordi intorno a una band unica e irripetibile qual è stata Creedence Clearwater Revival, di cui John è stato leader e frontman (gli altri essendo il fratello Tom, Stu Cook e Doug Clifford). La rivista Rolling Stone lo ha inserito al 40° posto nella classifica dei 100 migliori chitarristi di tutti i tempi; negli States Fogerty è considerato una colonna portante del rock alla stregua di Dylan, Springsteen ed Elvis. Capace sempre di regalare al suo pubblico concerti spumeggianti, coinvolgenti e ricchi di energia, e intimisti nella giusta dose, come è avvenuto nella tournée dello scorso anno (immortalata nel DVD “Comin’ Down The Road – Concert At Royal Albert Hall” pubblicato di recente su etichetta Verve; N.d.R.) e nell’esibizione romana di quest’estate all’Auditorium, con la freschezza e lo slancio di un rocker che non dimostra affatto di avere gli anni che ha (64 suonati). Ottavo album per il cantantechitarrista californiano che nell’intero arco della sua carriera, iniziata all’indomani dell’abbandono dei C.C.R. (subito dopo discioltisi) nel 1973, ha in verità inciso pochi dischi, restando peraltro per un paio di lunghi periodi lontano dalle scene tra i ’70 e i ’90 e divenendo più regolare solo nel nuovo millennio. Questo nuovo lavoro prende le mosse dal suo primissimo e indimenticato disco solista del ’73, The Blue Ridge Rangers, peraltro esplicitamente citato nella grafica della copertina. E ha una scaletta – adesso come allora - con tanti brani adorati di artisti celebrati del country & rock (Paradise di John Prine, Never Ending Song Of Love di Delaney & Bonnie Bramlett, I Don’t Care di Buck Owens, Back Home Again di John Denver etc.). Unico brano che egli firma è Change In the Weather (in una versione in parte diversa da quella comparsa su Eye Of the Zombie nell’86). In Garden Party, scritta da Rick Nelson, divide la scena con gli Eagles Don Henley e Timothy B. Schmit a disegnare sognanti armonie vocali. Poi quella cover di When Will I Be Loved degli Everly Brothers in chiusura, cantata in coppia con l’amico Bruce Springsteen. Il Boss ha sempre dimostrato grande stima nei confronti di John inserendo spesso brani dei Creedence (soprattutto Who’ll Stop the Rain) nelle scalette dei suoi concerti in giro per il mondo. Disco non proprio imperdibile. Un passaggio – direi – interlocutorio e transitorio nella carriera di Fogerty; non va biasimato se si è concesso un disco come questo, omaggio alla sua musica preferita, se si pensa a lui come a un artista che non ha mai speculato sulla sua produzione discografica. La Deluxe Edition include anche un DVD con il “Making Of” di Rides Again. Luigi Lozzi ML 25 musicletter.it update n. 69 musica ARTIST: JUSTIN ADAMS & JULDEH CAMARA TITLE: Tell No Lies LABEL: Real World | Family Affair RELEASE: 2009 WEBSITE: www.myspace.com/justinadamsproducer MLVOTE: 8/10 Un magistrale crossover culturale realizzato da due musicisti i cui rispettivi background non potevano (apparentemente) essere più distanti tra loro. Justin Adams suona la chitarra, è cresciuto ascoltando la musica della sua regione d’origine nel Nord Africa, ha all’attivo collaborazioni con Robert Plant, Jah Wobble e Natacha Atlas e ha prodotto album per Lo'Jo e Tinariwen. Juldeh Camara è un Griot Fula, virtuoso del ritti, strumento mono corda abitualmente utilizzato nella musica tradizionale del Gambia, e titolare di diverse incisioni discografiche. Qualcosa di davvero speciale fin dal primo ascolto per gli appassionati di World Music, qualcosa che lascia senza fiato e incanta. È del 2007 il primo disco inciso insieme in coppia, Soul Science, nel quale splendeva un pezzo, Ya Ta Kaaya, che proponeva un sound simile a un Bo Diddley con al fianco Pete Townsend ed entrambi accompagnati da una di quelle band che è possibile ascoltare a Bamako, la capitale del Mali. In questo secondo appuntamento – della cui realizzazione produttiva si è fatta carico la Real World di Peter Gabriel - ecco un nuovo magistrale esempio di contaminazione tra avvolgenti e fluidi ritmi africani e tratti distintivi del rock. Fin dall’apertura affidata a Sahara, un brano nel quale coesistono magistralmente sonorità e vocalismi africani con riff acid e psichedelici di chitarra elettrica, possiamo apprezzare la bontà del mix sonoro realizzato. In Fulani Coochie Man poi il suono diventa inequivocabilmente blues, di quel blues che - abbiamo imparato a decifrare da una quindicina d’anni a questa parte (grazie a Ry Cooder e Ali Farka Toure, con Talking Timbuktu, prima, e Martin Scorsese e il suo progetto “The Blues”) - non è originario dei campi di cotone del sud degli States ma affonda le sue radici nella terra madre Africa. Ma non meno coinvolgenti sono pure gli altri brani dell’album, da "Achu", che si veste di vigorose sonorità e vocalismi sahariani, a Madam Mariama con un egregio lavoro chitarristico in avvio che lascia poi spazio ad una frenetica melodia prodotta dal ritti di Camara, a Banjul Girl. Luigi Lozzi ML 26 musicletter.it update n. 69 musica ARTIST: JESU TITLE: Infinity LABEL: Avalanche inc. RELEASE: 2009 WEBSITE: www.avalancheinc.co.uk MLVOTE: 6,5/10 Non so descrivervi le aspettative che nutrivo per la nuova uscita di Justin K. Broadrick, quanto attendessi le nuove trame sonore, le delicate vibrazioni elettroniche miste a bassi gelidi, le chiare aurore boreali ricreate da questo genio britannico ma, come da detto, la montagna ha partorito il topolino. Insomma, tanto scadente è questo Infinity? No, assolutamente no. E allora cosa c’è di tanto negativo in questo monolitico e unico brano della lunghezza di ben 49 minuti? Forse niente, ma un interrogativo rimane, perché gli Jesu non riescono a confrontarsi da vincenti sulla lunga durata? Perché disseminano qualsiasi annata con decine e decine di EP splendidi, sperimentali e tutt’altro che scontati e quando c’è da fare un intero LP cadono nella routine? Il problema di fondo è proprio questo, Jesu, Conqueror e Infinity sono delle buone opere ma mai quello che ci si sarebbe aspettati dopo le nebbie ipnotiche di Silver o l’elettronica raffinata di Pale Sketches, si lascia uno spazio di tutto rispetto nelle top ten per l’album dell’anno e ci si ritrova purtroppo con la caricatura dei precedenti. Certo, si rimane sempre ammaliati dal loro mix di shoegaze, industrial ambient e metal, meglio dei suoni vecchi e ormai troppo stagionati dei Grey Machine (l’ultima creatura di JKB e di Aaron B. Turner degli Isis), ma troppo poco per non avere la sensazione di trovarsi bloccati nel solito angolo monotono e privo di sbocchi creato dallo scialbo suono di un album che andrà, già dopo qualche settimana, nello scaffale dei dischi dimenticabili. Quindi, che sia ben chiaro a tutti, l’album è bello esattamente come gli altri, per i neofiti rimane un ascolto consigliatissimo ma, per chi li ama e ne è fan, Infinity è una piccola delusione in questo bel 2009. Antonio Anigello ML 27 musicletter.it update n. 69 musica ARTIST: AMY WINEHOUSE TITLE: Back to Black LABEL: Island RELEASE: 2006 WEBSITE: www.amywinehouse.com MLVOTE: 9/10 Non capita spesso che un disco di classe scali le charts, facendo sbavare i magnaccia delle case discografiche e progettando un furto senza pari durante la diretta della 50ma edizione dei Grammy Awards. Il tutto senza mettere in gioco la propria credibilità. Back to Black è quindi, un cigno nero. Amy Winehouse riesce a cantare di case di cura per alcolisti cronici sotto una pioggia di campanelline, prende a calci sulle palle i paparazzi e passa i weekend a vomitare assieme a Pete Doherty restando nonostante tutto la regina delle classifiche. Dietro di lei, sul disco, ci sono i Dap-Kings: gente dalla classe inaudita che suona come la backing band di Otis Redding; strumentazione vintage registrata come si usa in casa Datone; tecnologia analogica e pochi microfoni. Sono loro a rifare il letto su cui si struscia la voce della giovanissima Winehouse su gran parte delle tracce di questo secondo album. Sono proprio loro e il produttore Mick Ronson a fare la differenza rispetto al disco di debutto di tre anni più vecchio, in parte stuprato da alcune scelte imposte dall’ etichetta discografica. Nel frattempo le influenze di Amy si sono allargate: non più solo Frank Sinatra e il blue jazz di Billie Holiday o Nina Simone ma anche il rocksteady giamaicano dei primi anni Sessanta (la Winehouse dedicherà al genere un intero EP, un paio di anni dopo, NdLYS) e le all female band come Supremes o Shirelles dentro la sua trousse. Accanto, qualche bottiglia di Gilbey‘s Gin e qualche pipa di crack. Quello che ne esce fuori è un disco incredibile, un gioco dove seduzione e dolore si spartiscono la scacchiera, da quella furba rilettura di Ain‘t no mountain high enough che è Tears dry on their own alle arie da mercato di Kingston di Just friends, dalle lacrime di dolore di Love is a losing game allo Spector Sound di Addicted, dalla You know I‘m no good gonfia di fiati alle sincopi pianistiche di Back to Black, dalle arie melodrammatiche di Me and Mr. Jones a quelle languide di He can only hold her. Nessun brano che non sia meno che indispensabile. In epoca di dischi da grandi magazzini, ecco un best seller che non si concede alle svendite. Meraviglia. Franco Dimauro ML 28 musicletter.it update n. 69 musica ARTIST: AA.VV. TITLE: Original Seeds: Songs That Inspired Nick Cave and the Bad Seeds LABEL: Rubber Records RELEASE: 1998 (vol. 1) | 2004 (vol. 2) WEBSITE: www.rubberrecords.com.au MLVOTE: 8/10 Come per i Cramps, la musica dei Bad Seeds si è a lungo sfamata di avanzi, di scarti e rottami blues e rock‘n roll, di ossa di country music e folk noir. Tutta la prima parte della vicenda artistica di Nick Cave (diciamo fino alle Murder Ballads del 1996, NdLYS) è imbevuta di questo catrame, in questa furia necrofila che sugge con una cannuccia da quarant’anni di musica nera come l’inchiostro. Non un semplice gioco di rifacimenti e riletture come quello ufficializzato con la pubblicazione di Kicking Against The Pricks o con le cover disseminate sugli altri dischi dei Bad Seeds ma un intricato domino di citazioni e di sottili, per quanto scuri, rimandi. Nick Cave gioca in un’enorme casa degli specchi dove gli spettri deformati di vecchi folksinger, di rugosi bluesmen, di truci teddy boys e di efebici blue-eyed singer lo costringono a un confronto doloroso ed esorcizzante con la propria anima. Sono i demoni di quel dolore di cui tutta la musica di Mr. Cave è impregnata a danzare in cerchio come sul valzer di Weeping Annaleah. Original Seeds ci fa intingere i piedi in quel bitume e ci offre un pomeriggio a casa di Nick Cave. Odore di tabacco ovunque, bicchieri in cui qualche cubetto di ghiaccio mezzo sciolto e imbrunito dal whisky resta a scintillare come il fuoco fatuo di un dolore difficile da sopportare. Da un vecchio giradischi gracchiante escono fuori i fotogrammi in bianco e nero di questa messinscena dello spleen caveiano. Vecchi blues logorati dal tempo, piccole apocalissi folk, il suono metallico di Stooges e Gang of Four, il rassicurante abbraccio della voce di Scott Walker, qualche rock‘n’roll sgangherato, il confortante saluto gospel di Oh Happy Day, il rurale canto di dolore di Odetta e mister Leadbelly. C’è quest’aria di morte tutt’attorno, pesante come un sudario. Fuori dalla finestra nuvole basse, troppo cariche di pioggia per poter solo pensare di volare. La nebbia ha già invaso le strade e sono sicuro che qualcuno da qualche parte, sta preparando un cappio cui affidare il proprio collo. Franco Dimauro ML 29 musicletter.it update n. 69 musica ARTIST: VINICIO CAPOSSELA TITLE: All’una e Trentacinque Circa LABEL: CGD RELEASE: 1990 WEBSITE: www.viniciocapossela.it MLVOTE: 6,5/10 Di Vinicio Capossela tanto si è detto e scritto e tanto ancora si continuerà a dire e scrivere in futuro. È quanto di più naturale può accadere a un artista, nel senso puro e reale del termine, uno dei pochi rimasti in circolazione, almeno per quanto concerne la scena musicale nostrana. Il suo album d’esordio, All’una e Trentacinque Circa, esce nel 1990, Vinicio ha appena 24 anni e con quel disco si aggiudica il premio Tenco come migliore opera prima. Già, opera prima e in quanto tale non priva di sfumature da correggere e angoli da smussare. Vinicio Capossela nasce, artisticamente, dal cilindro di Francesco Guccini: i due sono accomunati da quello spirito emiliano che scoppia letteralmente di vita e dalla voglia di far musica per certi versi impopolare ma destinata a lasciare un segno in tutti coloro che sanno ascoltarla e farla propria. All’una e Trentacinque Circa inaugura e rende palesi i tratti somatici della musica di Capossela: le atmosfere circensi di colorata allegria, la struggente malinconia, i tratti gitani di stampo esteuropeo, l’incredibile abilità linguistica. La delicatezza e l’armonia di alcuni brani, ad esempio Suite delle quattro ruote, non bastano a mitigare quel senso di tormentata malinconia: lo rendono, anzi, ancora più disperato, nello sforzo costante e sovrumano di tenersi a galla (E i ricordi son come monete/persi al gioco della memoria/ricordi consumati/e poi fuggiti via). Molti pezzi dell’album hanno il sapore amaro della nostalgia, raccontano e sussurrano storie di un passato che non tornerà ma che ha lasciato impronte impossibili da cancellare. È il caso di uno dei brani forse più riusciti del disco, I vecchi amori, canzone di amori perduti dai toni romantici ma mai smielati, di storie che si perdono nella memoria, ridotte a condivisione di momenti tanto inutili quanto indispensabili. Non si sottrae alle leggi del ricordo e del ritorno neppure Scivola vai via, quasi un’implorazione caratterizzata dalla lotta feroce tra la voglia di dimenticare e cancellare vecchie tracce ormai scolorite e il bisogno di trattenere qualcosa, per tentare di sopravvivere, seppure nel dolore dell’assenza. L’atmosfera da bar, goliardica e amara nello stesso tempo e tanto cara a Capossela, esplode letteralmente nella trascinante title track: All’una e trentacinque circa diventa un interessante esperimento di catalogazione dei vari personaggi che si possono trovare nei migliori/peggiori locali di ogni paese ossia clienti, gestori, artisti tanto geniali quanto squattrinati, con un sottofondo fatto di musica e alcool, un binomio indispensabile per sopportare la vita e le sue amarezze. In Pongo sbronzo c’è tanto jazz e c’è improvvisazione curata nei minimi dettagli (anche se detta così sembra un controsenso), storie avvincenti e politically - incorrect come la maggior parte del mondo in cui si muove Capossela. Anche Christmas song va ricordata: è un brano dalla dolcezza sconfinata, una canzone d’amore reale o solo immaginario, un canto di gioia e riconciliazione, una perfetta alternativa alle solite e insopportabili canzonette natalizie. ML 30 musicletter.it update n. 69 musica: vinicio capossela Tuttavia gli unici due pezzi che meritano un’approvazione a pieni voti, senza se e senza ma, restano Una giornata senza pretese e Stanco e perduto. La prima, dal testo incredibilmente significativo, è poesia fatta musica, basta a se stessa. La seconda unisce la voce ruvida e le note del pianoforte in una sublimazione che trascina in un mondo surreale dove la tristezza e la gioia si mescolano e si confondono, tanto da non riuscire più a distinguerne i tratti. Manca la maturità artistica in questo disco, la consapevolezza del proprio talento e della strada da seguire e a volte cambiare. Tutte doti che Capossela farà sue velocemente e grazie al cielo non a scapito di quella libertà espressiva che tanto è evidente nella sua opera prima. C’è senza dubbio da apprezzare la capacità di infrangere da subito i canoni rigidi e inquadrati del cantautorato italiano, spesso monotono e privo di quel guizzo creativo che in Capossela sembra, invece, non avere mai fine, neppure a ormai 20 anni dall’esordio. Laura Carrozza ML 31 musicletter.it update n. 69 musica ARTIST: NINE INCH NAILS TITLE: Pretty Hate Machine LABEL: TVT Records RELEASE: 1989 WEBSITE: www.nin.com MLVOTE: 8,5/10 Per quanto il concetto possa apparire pretenzioso, Pretty Hate Machine rappresenta a mio parere l’atto primigenio di un percorso che, negli anni a venire, si svilupperà in un genere inteso come “metal moderno”; se da un lato questa interpretazione si espone a ogni tipo di discussione, dall’altro appare indubbia la profonda influenza esercitata dal genio di Trent Reznor sulla scena musicale rock mondiale e non mi limito al solo discorso musicale. I suoi metodi di lavoro sono sempre stati considerati piuttosto sorprendenti e bizzarri tuttavia gli stessi hanno generato e alimentato il crescente culto che ha caratterizzato l’attesa di ogni pubblicazione targata N.I.N., basti pensare alla ridda di voci che si rincorrevano nel 1994 quando, per incidere il capolavoro The Downward Spiral, avrebbe affittato la villa “Le Pig”, il teatro dell’efferato massacro compiuto dalla setta di Charles Manson nel quale perse la vita anche Sharon Tate, mamma in attesa e moglie del regista Roman Polansky. Pretty Hate Machine è essenzialmente la trasposizione su disco dei brani contenuti nel demo Purest Feeling e di più recenti composizioni come Head like a hole e Sin; per completare la scaletta non ci sarebbe stato bisogno di un grande lavoro di scrematura dal momento che lo stesso Trent affermò che, entrando in studio, tutto ciò che aveva pronto erano proprio i dieci pezzi che compongono l’album. C’è farina del sacco di Reznor lungo tutti i solchi; a parte infatti alcuni sporadici contributi di fidati collaboratori (il produttore Mark “Flood” Ellis e il cantante e chitarrista Richard Patrick in futuro meglio noto come leader dei Filter) le incisioni delle parti strumentali nonché di quelle vocali sono da attribuire allo stesso leader. L’album sancisce il matrimonio tra la tecnologia, i sintetizzatori e un più tipico rock di stampo chitarristico, dalle tinte hard e volutamente oscure, con particolare predilezione per tematiche fortemente introspettive e vagamente “maledette”, un insieme di ingredienti che nessuno era ancora riuscito ad amalgamare con tale perizia e successo. Impossibile difendersi dalla potenza sprigionata da Head like a hole e dal suo letale connubio tra computer e le chitarre distorte, alla irriverente e marziale solennità di Terrible lie o al ritmo coinvolgente e incalzante di Sin così come al tempo stesso catturano e ipnotizzano episodi più oscuri e riflessivi come That’s what I get e l’incredibile Something I can never have, perfetta per arrangiamento e atmosfera, a mio parere uno dei vertici compositivi dell’intero lavoro. La “Graziosa Macchina dell’Odio” non ha bisogno di revisione; non i due decenni trascorsi dalla sua pubblicazione né le migliorie apportate da progresso e tecnologie che viaggiano a velocità esorbitanti sono riuscite a scalfirne né a ridimensionarne il fascino l’importanza. Un disco veramente seminale… E il meglio doveva ancora venire! Manuel Fiorelli ML 32 musicletter.it update n. 69 musica ARTIST: TIN MACHINE TITLE: S.T. LABEL: EMI RELEASE: 1989 WEBSITE: www.davidbowie.com MLVOTE: 7,5/10 Se il successo planetario di Let’s Dance e Never Let Me Down aveva riportato Bowie ai fasti commerciali dei tempi d’oro, non c’è dubbio che gli eccessi visivi e artificiali avevano assunto proporzioni talmente preoccupanti da aver allontanato il Duca dalle sue stesse radici; Tin Machine è il disco del ritorno alla sostanza cruda ed essenziale, fin troppo ruvido se paragonato alle ultime release in studio. Fortemente influenzato dall’estro chitarristico di Reeves Gabrels, l’ex Ziggy avrebbe finalmente tracciato le coordinate di un deciso ritorno a una veste rock per troppo tempo accantonata; il primo passo sarebbe stato quello di compattare attorno a sé una vera e propria band, assoldando la robusta sezione ritmica dei fratelli Tony e Hunt Sales (già con Iggy Pop di Lust For Life) decretando di fatto la nascita di un combo che avrebbe sorpreso, spiazzato e lasciato perplessi i fans del Bowie più mainstream. L’alchimia tra i quattro musicisti (coadiuvati dalla regia del produttore Tim Palmer e dalla preziosa collaborazione in studio del polistrumentista Kevin Armstrong) ha dato vita a un disco grezzo, nervoso, carico di echi hard e blueseggianti e non certo scevro da una buona dose di sperimentazione; si intendano Bus Stop, Tin Machine e Sacrifice Yourself come valido esempio in questo senso. Più che di un progetto estemporaneo, TM è stato un reale collettivo in cui ogni componente ha avuto il medesimo peso specifico; Gabrels ha apportato durezza e inventiva, i fratelli Sales hanno iniettato solidità e attitudine “raw & live” mentre Bowie ha sguinzagliato libera la sua identità più incazzata! Episodi come Heaven’s in here o la rilassata Amazing contribuiscono a elevare il livello qualitativo del lotto ma è con Under the god, cruda denuncia contro la crescente intolleranza, che la band assesta la scossa più entusiasmante del disco. C’è comunque un rovescio della medaglia; il suono appare a tratti un po’ freddo, la tecnologia digitale era ancora agli albori e un approccio classico e analogico avrebbe certamente giovato di più e indubbiamente le quattordici composizioni non brillano tutte della stessa luce ma è l’effetto d’insieme a convincere, soprattutto nella sua trasposizione in sede live in cui la band si è contraddistinta per esibizioni energiche e infuocate. Il merito di questo album è stato soprattutto quello di restituire un David Bowie più umano e meno icona pop che ha saputo reincarnarsi per l’ennesima volta, al di là di critiche discordanti ed esiti commerciali. Non si perda tempo a chiedersi cosa c’entri il Duca con una proposta del genere, questo è rock, duro, un po’ sgraziato e magari frastornante ma con attributi decisamente spessi. Manuel Fiorelli ML 33 musicletter.it update n. 69 musica ARTIST: MIRACLE WORKERS TITLE: Overdose LABEL: Love‘s Simple Dream RELEASE: 1988 WEBSITE: MLVOTE: 8/10 Al giro di boa degli anni Ottanta, dopo un quinquennio segnato da un’attitudine quasi impermeabile al compromesso, il garage punk muta pelle. Il suono delle garage band si infetta, gradatamente, con le scorie degli anni Settanta. Chesterfield Kings, Fuzztones, Sick Rose, Fourgiven, Yard Trauma, Creeps, Miracle Workers, Morlocks stanno mutando il loro suono, piegandone gli angoli ognuno secondo la propria attitudine. Gli Unclaimed non esistono più. E con loro va via l’anima etica del movimento. Ramones, Flamin’ Groovies, New York Dolls, Oblivion Express, Johnny Thunders, Alice Cooper, Real Kids, Stooges, MC5 iniziano a spingere dal basso cercandosi un varco tra Music Machine, Standells, Count V o Syndicate of Sound. Vengono fuori alcuni mostri e qualche creatura informe. Ma anche qualche buon androide. Roba che comunque allora fece storcere la bocca a tanti. Il simulacro del sixties-punk è stato profanato. E qualcuno grida allo scandalo. Overdose è il disco che seppellisce definitivamente il garage punk degli anni Ottanta sotto quintali di macerie proto-hard. Non è il primo tentativo. Prima c’era già stato Don ‘t open til doomsday dei Chesterfield Kings ad inclinare l’asse del pianeta neo-beat. E i Morlocks avevano già cominciato ad affogare i loro vagiti in una poltiglia hard manipolandola fino a creare i piccoli frankenstein di fine decennio. Sull’altra costa i Fuzztones avevano già cominciato a portare a spasso il rantolo malato di Iggy Pop. Mano nella mano con Arthur Lee, Link Wray, i Bold e gli Outcasts. Ma Overdose sembrò tuttavia essere il punto di non ritorno. I Miracle Workers furono i più sfacciati tra tutti, probabilmente. Danny Demiankow, che era l’uncino che li attaccava agli anni Sessanta, non c’è più. Lui era stato il chitarrista degli Aftermath, oscura band di Los Angeles di venti anni prima, finita quasi per caso sulla copertina del ventesimo volume delle High in the Mid-Sixties proprio mentre era impegnato a suonare le tastiere su Inside Out. Ha fiutato l’aria, e ha deciso di aprire le finestre. Assieme a lui salta Joel Barnett. Al suo posto entra Robert Butler degli Untold Fables. Porta con sé il suo Rickenbacker e una pila di dischi. Nel mucchio ci sono gli Stooges, Beggars Banquet degli Stones, Flamin’ Groovies. Nessuno nella band ha i capelli lunghi come i suoi. Non ancora. Nel giro di pochi mesi i Miracle Workers si riassettano e cambiano completamente strumentazione e set. Love has no time, Already Gone, You‘ll know why, Tears escono progressivamente dalla loro scaletta così come i pezzi dei Wailers, dei Sonics o dei Bad Roads che coloravano i loro primi concerti. Al loro posto entrano con prepotenza No Fun, I got a right, Dirt e Little Doll degli Stooges, Slow Death e Teenage Head dei Flamin’ Groovies, Lookin’ at you degli MC5. Addirittura Evil Woman dei Black Sabbath. ML 34 musicletter.it update n. 69 musica: miracle workers Accanto a loro ci sono le nuove canzoni della band: veloci, rumorose, a volte tirate fino al parossismo (Light, Camera, Action scritta pensando a Fellini, ha la stessa foga di un pezzo hardcore, NdLYS), altre volte lasciate bruciare a fuoco lento come se le sagome accartocciate di Mick Jagger e di Ron Wood fossero state infilate nello spiedo, lasciando gocciolare la broda di When a woman‘s call my name o She ‘s got a patron saint. Non c’ è più nessuna adesione agli schemi del garage punk. I canoni sono stati definitivamente abbattuti. Il suono viene dapprima oltraggiato, poi lasciato libero di sbattere il muso come un cane carico di rabbia. Fino all’apoteosi finale affidata al rituale di Little Doll, allo scioglimento del corpo del garage punk dentro l’acido muriatico. Disordine confuso allora col disonore. Frustate confuse con la frustrazione di doversi adeguare. Overdose avrebbe bruciato tutto e subito, band compresa. Incapaci di replicarsi. Loro che erano i perfetti replicanti degli Stooges. Che beffa! Franco Dimauro ML 35 musicletter.it update n. 69 musica ARTIST: THE KIM SQUAD AND DINAH SHORE ZEEKAPERS TITLE: Young Bastards LABEL: I Soluzionisti RELEASE: 1987 WEBSITE: www.myspace.com/kimsquad MLVOTE: 8/10 Belli e dannati. Anzi, giovani e bastardi. E veloci, come una meteora. Anzi no: luminosi. Come una cometa. Era il 9 Maggio del 1987 quando Rai Stereo Uno trasmise in diretta la finale di Indipendenti, il concorso di Fare Musica che premiava la miglior band emergente italiana dell’ anno. Sul palco dell’Auditorium della Rai di Torino quattro band: le inutili Funky Lips di Torino, gli Entropia di Palermo, i bravi Lonely Boys di Porto Sant’ Elpidio e poi loro: una band con il rock‘n’roll fin dentro le mutande che si mangiò tutti, critica e pubblico compresi. Viscerale, deragliante, sudicia di rock‘n’roll come raramente si era ancora sentito in Italia. C’è dentro il garage rock con cui stiamo ancora tutti condividendo il sogno di un rock‘n’roll sanguigno e radicale ma c’è pure tanto altro. C’è l’aria maudit del diciassettenne Francois Regis Cambuzat e c’è la chitarra assassina di Giorgio Curcetti che restituisce sul palco le orge infette degli MC5. E c’è il sudore che fa colare il make-up attorno agli occhi di Roberta Possamai ed Elena Palmieri. Chissà cos’altro un po’ più sotto. Dietro, c’è la batteria implacabile di Angelo Pinna che non cede il passo, segue l’assalto, inflessibile, monolitica. Esplosivi. Arrabbiati e cattivi. La finale di Indipendenti la vincono loro, manco a dirlo, a soli 40 giorni dal primo round giocato sul palco della prima edizione di Arezzo Wave, assieme a piccole glorie dell’epoca (Weimar Gesang, Rats, Party Kidz, Underground Life, Sleeves, Ritmo Tribale, Art Boulevard, ecc. ecc.). Dopodiché si chiudono dentro gli Studi Pollicino di Roma in compagni di Oderso Rubini e, nel giro di soli due giorni, Young Bastards è pronto. Missaggio compreso. Perché i Kim Squad suonano col sangue. E bisogna registrare tutto prima che coli via anche l’ultima goccia. L’album è, nei fatti, un live in studio. Ed è così che suona. È una lacerazione sul corpo vivo del rock ‘n’ roll. Sotto, le carni si muovono ancora, macerandosi nell’ alcool ad ogni frustata. L’inizio è affidato a Broken Promises, rodatissimo purosangue che cavalca le intemperie elettriche della band, con la consueta alternanza di vuoti e pieni che il gruppo ha imparato a dosare sin dagli esordi, quando si aggiravano come una versione capitolina dei Violent Femmes con un carico di musica acustica da buskers. Le chitarre che fremono, di tanto in tanto ammansite dall’ organo di Roberta e dal tocco discreto del basso della Palmieri. Ci girano sopra pure un video, nei dintorni di Torvajanica. Roba low-budget che Videomusic passa un paio di volte, prima di metterlo in archivio, sullo scaffale degli sfigati. The world ‘s a burn è un 4/4 che pesta a sangue e cita gli Standells (“I’m a young barracuda swimming in the deep blue see, I mean barracuda, don‘t you mess with me”) prima del crescendo conclusivo. Che dal vivo non arriva mai prima del quinto minuto. Alla faccia di quanti storcono la bocca ricordando che Talk Talk dei Music Machine non toccava manco il secondo minuto e che guardano inorriditi al minutaggio di Renaissance, la cavalcata che chiude l’album sfoggiando orgogliosa i suoi 11 minuti dentro cui succede di tutto, con il “Greco” che si masturba sulla tastiera della chitarra finché la Possamai, intenerita, non gli arriva in soccorso sbocchinando con la sua tastiera. Sulla carta, roba da pornazzo anni Ottanta, insomma. ML 36 musicletter.it update n. 69 musica: the kim squad and dinah shore zeekapers O da padelloni di vinile anni Settanta ma qui il gioco riesce. E pure bene. Suona orgoglioso e strafottente. C’è aria di amplificatori che friggono e odore di sesso. 7 Tex Mex & Gilbert Gin è invece un tripudio di tastiere doorsiane. Serge est un salaud è cantato nella lingua del Cambuzat. È un ballatone che odora di alberghi francesi, di voci che si accarezzano e spasimano di lussuria, con Francois e Roberta a vestire i panni che furono di Gainsbourg e della Birkin. Macaibo ristringe le cosce attorno al folk/punk imbevuto di sambuca. L’ anno dopo finirà dentro una delle tante piccole compilation di cui il rock italiano di quegli anni, in cerca di visibilità, si satura i polmoni. La raccolta si intitola Rockbeef e i Kim Squad fanno la loro bella igura a fianco di Liars, D.H.G., Not Moving, Settore Out e View. La portano in tivù sul palco di DOC offerto loro gentilmente da Renzo Arbore. L’anno dopo i Kim Squad cominceranno a mutare pelle, primi a sdoganare l’italiano dentro un contesto “fisicamente” rock (e lo farà un francese, questo è bene ricordarlo), e a reclutare gente nuova (tra cui il Cesare Basile in fuga dai Candida Lilith e pronto per inaugurare il progetto Quartered Shadows, NdLYS), poi via via sfaldandosi per lasciare spazio prima alle introverse ballate amare di Francois, e quindi all’ estetica decadente del Gran Teatro Amaro, dove i sogni di rock ‘n’ roll si schiantavano contro il muro della consapevolezza dell’ età adulta. Per lui arrivano gli anni degli scontri a fuoco, della ribellione rivoluzionaria, dei sabotaggi, degli scioperi selvaggi. È la ricerca di un’identità sociale e politica estremista mutuata dal padre che troverà compimento artistico nelle profezie anarchiche dell’Enfance Rouge e valvola di sfogo guerrigliero nelle fila dei Justicieros, braccio armato della lotta anti-capitalista. Elena cercherà riparo negli Overlord. Il “Greco” finirà in Inghilterra a suonare nei Nubiles assieme a Tara Milton dei Five Thirty dividendo il palco persino con Oasis e Blur. Poi il rientro in Italia e una banale sortita solista. Angelo presterà le sue bacchette per gruppi senza fortuna come Green Rose e Rouge Dada fino a incrociare la musica tradizionale e popolare coi Ned Ludd. Roberta proseguirà a Groningen l’avventura del Gran Teatro Amaro assieme a Davide Van Der Tol prima di trasferirsi ad Amburgo e infine riapprodare in Italia. Oggi che basta sollevare la sottana di Youtube o Myspace per scrostare la polvere dei ricordi i Kim Squad tornano a far capolino dalla rete, senza clamori. Ma il brivido di quei concerti dove la Possamai alzava il dito medio contro chi le chiedeva di togliersi i jeans mentre il vortice di chitarre di Francois e di un Curcetti perso tra mille svolazzanti frange di renna ti stampava in faccia non uno, ma venti dita… Be’, quello non ce lo ridarà più nessuno. Forse. Franco Dimauro ML 37 musicletter.it update n. 69 musica ARTIST: THE CULT TITLE: Dreamtime LABEL: Beggars Banquet RELEASE: 1984 WEBSITE: www.the-cult.com MLVOTE: 9/10 Love li avrebbe consegnati alla storia, gli album successivi alle grandi arene del rock da stadio, gli ultimi all’oblio. Ma Dreamtime, cazzo, Dreamtime resta uno dei più begli album di debutto di tutti gli anni Ottanta. Un disco che ti si attorciglia sull’anima come un serpente maculato di nerodolore. Un viaggio nell’oltretomba pellerossa, nel sogno infranto di un popolo massacrato dall’ipocrisia cristiana. Come il piccolo Jim Morrison che incrocia i Navaho insanguinati e morenti lungo la strada del New Mexico, Ian Astbury resta affascinato dalla cultura indiana tanto da onorarne la memoria sin dagli inizi della carriera battezzando la sua band Death Cult, in onore a una piccola comunità indiana rifugiatasi lungo le sponde del Mississippi. Anche dopo l’abbreviazione della sigla in Cult, quella degli indiani sarà un’ossessione che accompagnerà Ian per tutta la sua vicenda artistica e privata. Le formulazioni ritmico-tribali riconducibili alle tradizioni percussive e sciamaniche del popolo pellerossa saranno la chiave dentro cui Ian innesterà, a inizio carriera, il suo amore per la cultura gotica e ossianica. Quando la band mette mano a Dreamtime queste coordinate trovano altri sbocchi creativi sfociando nelle reminescenze psichedeliche e nell’hard blues triviale di stampo hendrixiano che in quel momento sembrano affascinare Ian e Bill Duffy, forse l’unico guitar hero della stagione new wave. Quello che ne esce fuori è un disco dove epica guerriera e barbarie gotica convivono fianco a fianco e dove nulla è sprecato, dalle messianiche invocazioni di cui è capace la voce di Ian ai variopinti strati di chitarre annegate nel flanger di Duffy, dalle marziali rullate di Nigel Preston agli evocativi cori lanciati da Jamie Stewart sotto il suo implacabile basso. La prima facciata del disco riallaccia i nodi col recente passato, snodandosi dalla rilettura di Horse Nation attraverso Spiritwalker, 83rd Dream e Butterflies in una tetralogia carica di suggestioni tribali. Go West è già proiettata verso le visioni darkedeliche di Love, con gran spreco di voci e controcori sovrapposti e un’intricata maglia chitarristica ed è un po’ il preludio ai toni della seconda parte del disco dove l’esigenza ritmica si fa meno prepotente e il clima sfocia in quel gioco di luci fredde che la band svilupperà con She sells sanctuary e Resurrecion Joe di lì a breve. In quest’ottica viene riletta pure la Flowers in the forest risalente all’ epoca dei Southern Death Cult che dal funky sgangherato che era in origine diventa qui una splendida power ballad dall’anima nera che annuncia il grido disperato di Dreamtime: “io avrò il mio tempo dei sogni, l‘unica cosa intoccabile che mi è rimasta, avrò il mio tempo dei sogni, il tempo per i miei sogni. Lascerò crescere i miei capelli, come un’estensione della mia anima, i miei lunghi capelli”. Che Dio costringa il generale Custer e gli altri carnefici a veder scorrere per mille e mille anni i cadaveri di Little Big Horn in un fiume di sangue e carni maciullate. Franco Dimauro P.S.: Nella mia originale versione in doppio vinile venne incluso un secondo disco registrato dal vivo al Lyceum il 20 Maggio dello stesso anno, con apocalittiche versioni di vecchi primi classici come Moya o God ‘s zoo. Ma Dreamtime era già oltre. ML 38 musicletter.it update n. 69 musica ARTIST: SIOUXSIE AND THE BANSHEES TITLE: Juju LABEL: Polydor RELEASE: 1981 WEBSITE: www.myspace.com/siouxsieandthebanshees MLVOTE: 9/10 “Dalle barre della culla arriva una voce che chiama, ti fa ruotare, non hai scelta” quindi il tetro arpeggio di John McGeogh si spezza e si trasforma in una marziale cavalcata delle valchirie da vigilia di Ognissanti: la discesa negli inferi è cominciata e Siouxsie è la nostra Beatrice, stavolta destinata a cambiare verso più infelice rotta e ad accompagnarci attraverso uno dei più maestosi capolavori di musica gotica mai realizzati in epoca moderna. JuJu è un autentico vero disco da casa infestata. È il 1981 e i Banshees sono in stato di grazia, dopo un disco di assestamento qual era stato Kaleidoscope. John McGeogh conferisce ai toni del disco una drammaticità mai più eguagliata. Perfetta la calibratura estetica da metallo liquido ottenuta impastando una leggera dose di distorsione con l’amato pedale flanger e micidiale l’alternanza di arpeggi, accordi pieni e di glissati discendenti e ascendenti che lo renderanno il pioniere della chitarra goth e il più influente chitarrista del movimento post-punk. Tutti, da Johnny Marr a Jonny Greenwood dei Radiohead passando per The Edge cercheranno di emularne lo stile. Artisticamente, è un ritorno alla musica asciutta e ossianica di Join Hands, incentrata oltre che sulla creatività di McGeogh e le ormai indomabili doti vocali della Sioux adesso capace di vocalizzi di ogni tipo e fattura, anche sulle intricate abilità percussive di Budgie, l’ ex-Slits che li aveva raggiunti sul precedente disco: un alchimia capace di generare vertici di visionarietà come l’ incredibile danza delle streghe di Voodoo Dolly o l’ andamento spiroidale di Into the light, l’ agghiacciante sinfonia di Halloween o le implosioni dei neon che si fulminano in sequenza su Head Cut. Un intero, abominevole inferno spalancato per la vostra curiosità. Non me ne vogliano Marilyn Manson e le puttanelle di Gothic Girls ma è qui che si fa la storia. Franco Dimauro ML 39 musicletter.it update n. 69 musica ARTIST: THE CURE TITLE: Boys Don’t Cry LABEL: Fiction RELEASE: 1980 WEBSITE: www.thecure.com MLVOTE: 8/10 Boys Don‘t Cry segnò l’inizio della mia lunga infatuazione per i Cure. Non Three Imaginary Boys ma proprio Boys Don’t Cry che ne fu la versione riveduta e corretta che in parte guarì la delusione di Robert Smith per una scaletta, quella del disco di debutto, che non lo soddisfaceva in pieno già a poche settimane dall’ uscita sul mercato. Io non mi sentii di dargli torto, né allora né dopo: Boys Don’t Cry, architettato per ficcarci dentro i tre singoli (Killing an Arab, 6 Febbraio ‘79, Boys don ‘t cry, 12 Giugno ’79 e Jumping Someone Else ‘s Train, 20 Novembre 1979) e sdoganare la band in America è una spanna sopra l’album originale. Dentro c’ è già il “carattere” della band seppure manchino i “tratti distintivi” (diciamo pure i cliché) di quello che sarà il suono dei Cure negli anni immediatamente successivi e poi, tra bilanciamenti e aggiustamenti vari, svolte repentine e improvvisi flashback, lungo una carriera ormai più che trentennale. Ci sono già dentro le idee che frullano nella mente di Robert Smith e che i Cure recupereranno e approfondiranno col tempo: Three Imaginary Boys ha questa chitarra “molle”, annegata nel delay, che caratterizzerà il suono chitarristico di Smith per la famosa “trilogia” dark, la prepotente marcia di World War (successivamente esclusa, assieme ad Object, dalla versione CD, NdLYS) è invece, in tutto e per tutto, il prototipo hard su cui i Cure scriveranno la Shake Dog Shake che segnerà il loro ritorno al rock dopo le divagazioni dance di The Walk e Japanese Whispers. Il romanticismo funereo e onirico tipico di molta scrittura di Robert alita invece su Another Day, perla melodrammatica del disco. Ma l’appeal dell’album, così come la musica dei primi Cure, si poggia su altre coordinate: c’è innanzi tutto un minimalismo quasi osceno, figlio non tanto del punk che li ha appena attraversati ma del glam rock di Bowie e di Marc Bolan, riveduto in chiave decadente e surrealista e che genera piccoli mostri come 10:15 Saturday Night, Grinding Halt o Object. Ci sono i richiami alla letteratura colta di Camus che fanno di Killing an Arab uno dei singoli più scomodi della storia della musica contemporanea (i Cure saranno costretti a tenerla fuori dai concerti dopo l’11 Settembre 2001 salvo poi ripresentarla sotto il titolo di Kissing an Arab, NdLYS). C’è il gusto noir non ancora raffinato che qui produce il jazz horror con tanto di atroce urlo finale di Subway Song, ci sono i tratti vagamente medio-orientali che si muovono in tracce come Accuracy, Fire in Cairo e, soprattutto Killing an Arab (e che daranno il via, soprattutto in ambito wave italiana, a una serie infinita di richiami alle musiche di origine araba) e c’è la chitarra di Robert Smith, essenziale ma totalmente innovativa, a tratteggiare un suono imitatissimo ma inimitato e che negli anni diventerà ancora più ricercato e personale. Ma soprattutto, quello che c’ è qui e che non ci sarà in nessun altro album dei Cure è un suono adolescenziale, ancora poco scalfito dal dolore (spesso simulato ed estetizzato fino al parossismo ma altre volte vissuto in tutta la sua atroce disperazione) eppure imbevuto di un esistenzialismo pateticamente votato all’autocommiserazione. Franco Dimauro ML 40 musicletter.it update n. 69 musica ARTIST: FUNKADELIC TITLE: One Nation Under a Groove LABEL: Warner Bros RELEASE: 1978 WEBSITE: www.georgeclinton.com MLVOTE: 9,5/10 Siamo nel 1978. Il punk ha appena depositato le armi, un solo anno di vita che ha rivoluzionato menti e costumi. La musica è in fermento e si sente puzza di cambiamento, sia in Europa che in America. I focolai di new wave divampano e la cultura psichedelica sembra già un lontano ricordo. Invece George Clinton, santone nero con il soul di James Brown nel sangue e le cellule del cervello attizzate da Sly & the Family Stone e da Hendrix, decide di radunare tutti sotto il sole del ritmo. Una nazione inglobata in un unico groove, che è funky anni ‘70 fino al midollo ma anche soul, reggae e liquida psichedelica. Fondatore dei Parliament prima e Funkadelic dopo, Clinton celebra con One Nation Under a Groove il suo personalissimo stile che varierà nel corso degli anni rimanendo comunque ancorato all’idea di movimento. Lontano da mode e tendenze, il funky è quel genere musicale che assorbe tutto ciò che lo circonda e ne trae linfa vitale; è musica della comunità che vuole risvegliare il mondo attraverso la libertà di espressione, la contaminazione fra i generi e la voglia di sballarsi e divertirsi; mai come in questo seminale disco tutto ciò coincide alla perfezione. Chitarre che danno ritmo a forza di wah-wah in Who says a Funk Band Can’t Play Rock (quanto devono i primi Red Hot Chili Peppers a questo gruppo!), linee di basso dal groove perfetto a opera di William “Bootsy” Collins (Funk Gettin Ready to Roll!), le lunghe jam infette di soul Promentalshitbackwashpsychosis Enema Squad (the Dooo Doo Chaser), l’hip hop che si abbronza al sole jamaicano e diventa nero fino a dileguarsi in una sinuosa coda hard/psichedelica (Groovallegiace) fino ad arrivare alla title track che è Funk con tutti i suoi crismi: parrucconi cotonati, pantaloni a zampa, occhiali colorati, palla multicolore che gira proiettando gocce sul soffitto e gente di tutte le razze che respira fumo nella sala semivuota ma balla. Inevitabilmente. Il disco funky per eccellenza e il più bel matrimonio di questo genere con la musica che più amiamo. Nicola Guerra ML 41 musicletter.it update n. 69 musica: the sonics ARTIST: THE SONICS TITLE: !!! Here are The Sonics!!! LABEL: Etiquette RELEASE: 1965 WEBSITE: www.thesonicsboom.com MLVOTE: 8/10 Quando, nel 1965, venne registrato !!! Here Are !!! (tre punti esclamativi prima, tre dopo. I dettagli non sono solo dettagli, cari miei. NdLYS) il termine punk non era stato ancora coniato. Ecco spiegato l’ imbarazzo di Kent Morril, allora presidente della Etiquette, nell’ annunciare al pubblico la musica dei Sonics. “È difficile descrivere il suono dei Sonics” scriveva sulla copertina di questo schiacciasassi. Lo è adesso, figurarsi allora. Garage band come ce n’erano tante in giro per Stati Uniti e Inghilterra in quel periodo ma con una fissa per il rock‘n’roll triviale di Little Richard e il suono secco ed asciutto del beat di Kinks e Troggs. E per i volumi altissimi. Quando si raccolgono attorno al mixer dell’Audio Recording Studios di Seattle, Keaney Barton non ha ancora finito di contare i dollari richiesti per il noleggio della sala che ha già cominciato a bestemmiare. I ragazzi vogliono ottenere il massimo col minimo. Gli basta un registratore a due canali e pochi microfoni. Per la batteria decidono di usarne uno soltanto che non raccolga i particolari ma il “mood”. Non gli serve altro. A patto che i cursori del volume stiano in rosso fisso. Era successa la stessa cosa poco tempo prima, negli studi di Lyle Thompson (i Commercial Productions Inc., NdLYS). Da lì era uscito il meglio della musica da intrattenimento del Northwest. Dal soft jazz alla musica per gli spot. Da lì uscirà il primo singolo dei Sonics. Una canzone che parla di streghe con, sul retro, una cover strappamutande di un classico di Little Richard. Ne esce pure un Lyle Thompson devastato, costretto a leccare le ferite del suo Ampex 350. I Sonics non rimetteranno mai più piede al settimo piano dello Skinner Building, al n. 1426 della Quinta Strada. E neppure le Shangri-La‘s torneranno a suonare con loro, dopo essere state sbeffeggiate sul palco, ma questa è un’altra storia. I Sonics sono, assieme agli amici Wailers, la prima college band devastata dalla distorsione e dal rumore. Suonano per fare male, a denti stretti. Con una chitarra crepitante, un piano honky tonk picchiettato con le nocche delle dita e un barrito di sassofono che ti strappa la carne. I fratelli Parypa hanno cominciato a usarlo nel 1960, per ammorbidire le serate in balera e permettere qualche struscio in più. Ma nel 1963 ingaggiano Rob Lind dei Searchers, che soffia dentro il sax come se stesse tirando via le culotte di Marylin Monroe. Assieme a lui si portano dietro Bob Bennett e Gerry Roslie decretando la fine dei Searchers e la nascita dei nuovi Sonics. Roslie si siede al piano, come da contratto. Poi comincia quasi per gioco a ringhiare sugli standard che la band mette sul banco dell’ officina: Walkin’ the dog, Roll over Beethoven, Good Golly Miss Molly, Money, Do you love me, Night time is the right time, Have love will travel. Non canta, urla. Perfetto. Lui sarà la voce della band, e siccome le ragazzine si terrano le mutande quando sentiranno quell’ugola lacerante cantare di amore e serate al drive-in, tanto vale eccedere nel gusto per lo shock: The Witch, Psycho, Strychnine e Boss Hoss sono i titoli scelti per le prime composizioni autoctone. Perfette per la voce spiritata di Gerry e per mettere scompiglio tra i teenagers ancora sedotti dalle canzoncine d’amore di Beatles e Herman‘s Hermits. ML 42 musicletter.it update n. 69 musica: the sonics I Sonics le ficcano nel disco, assieme ai classici di cui sopra e un pezzo imprestatogli dai Wailers: Dirty Robber. A poche miglia di distanza le officine della Boeing stanno costruendo il primo B737 ma dentro gli studi di Barton si fa ancora più fracasso. I Sonics diventano i re del Northwest. Se nel 1966 stai festeggiano i tuoi sedici anni non puoi non sognare una festa con i Sonics a bordo piscina e la stanza da bagno piena di verginelle con la loro bella coppa di champagne in mano. Altro che no Martini no Party. I Sonics devastano le feste e preparano alle orge mentre in Italia i re delle classifiche sono Il mondo di Jimmy Fontana, Un anno d’amore di Mina e La Notte di Adamo. Se nessuna mamma avrebbe fatto uscire la propria figlia con uno Stones, nessuna avrebbe voluto saperla compagna di classe di uno dei Sonics. Quegli strafottenti, volgari, boccacceschi e impavidi eroi del garage punk. Franco Dimauro ML 43 musicletter.it update n. 69 live review ARTIST: WILCO LOCATION: Firenze, Teatro della Pergola DATE: 13.11.2009 WEBSITE: www.wilcoworld.net photo by www.wilcoworld.net Ho fatto l'ultrà dal palco di un teatro seicentesco, rischiando gli insulti del pubblico impeccabile dei palchi limitrofi. Qualcuno ha pensato di girare immagini a pochi passi da Jeff Tweedy, dunque non sono l'unico che l'ha presa come una festa pagana più che come un evento nobile. Era un concerto da seduti, nelle intenzioni, ma qualcuno si è alzato finché non si sono alzati tutti. Sono stati una cosa mondiale, gli Wilco, impeccabili ma generosi, travolgenti e nuovi perché (è bene dirlo) non sono un gruppo di Americana come gli altri che ci sono in giro. Da quando c'è Nels Cline sono i Velvet Underground che spingono come il parassita di Shivers (del filosofo applicato al cinema David Cronenberg) per uscire da una creatura che ha preso a sorpresa l'eredità dei Beatles. Non è Americana la musica della band di Chicago perché quell'aggettivo così buscaderiano può portarci dalle parti di belle cose tipo Calexico o di cose solide ma bollite tipo Counting Crows ma non può spiegarci nulla di Bull Black Nova e del suo baratro disperato. Soprattutto, non può spiegarci perché arriva il casino dissonante in una ballata come Via Chicago, che è qualcosa che va oltre, che diventa eresia. Ho fatto l'ultrà perché gli Wilco sono i più grandi, perché li sento vicini pure se ogni tanto (ma proprio ogni tanto) somigliano ai Supertramp e perché in pochi anni hanno saputo costruire un repertorio straordinario di canzoni e di idee musicali; non parlo di livello medio della loro musica perché la loro musica è sempre eccellente e l'aggettivo medio risulterebbe offensivo. Nella loro eccellenza possono permettersi di lasciare fuori dal concerto la loro canzone più bella per poi suonarla la sera dopo. Nella loro grandezza non riescono a essere star, così lontani da una società dello spettacolo che ha raggiunto bassezze terrificanti. Dentro di loro ci sono i fantasmi che popolano la mia vita e che spero restino cosa per pochi anche se, visti i tempi che corrono, ne dubito... Marco Archilletti ML 44 musicletter.it update n. 69 live review ARTIST: MOLTHENI LOCATION: Roma, Circolo degli Artisti DATE: 04.12.2009 WEBSITE: www.moltheni.org photo by www.motheni.org Oltre alla nostra naturale e più che giustificata inclinazione anglofona, Musicletter ha sempre prestato particolare attenzione alla scena indipendente italiana tanto che nel corso di questi anni ha dedicato diverse recensioni e copertine a band e cantautori del Bel Paese. Tra questi c’è n’è uno molto caro alla redazione di ML e il suo nome è Umberto Giardini, un personaggio di indiscutibile talento che, fin dagli albori della nostra non-rivista, è sempre stato un ospite gradito su queste pagine (tanto da condividere nel 2007 una copertina con l’altrettanto brava e talentuosa Cristina Donà). Ecco, quindi, che in occasione dei suoi primi dieci anni di attività, che lo hanno visto calcare con la stessa dignità e con lo stesso entusiasmo i più disparati palcoscenici italiani (dal Festival di Sanremo alla Cantina Mediterraneo di Frosinone), non potevamo mancare a questo live romano del nostro cantautore “indie folk” italiano per eccellenza (ma se vogliamo anche “indie pop” italiano) ovvero Moltheni. La serata è di quelle giuste: partenza alle ore 18.30 con gli amici “Mecozze” e “Mimmo Rocker”, arrivo alle 19.45 a Roma, qualche pezzo di pizza dal simpatico pizzaiolo rumeno e un paio di bicchieri di birra tra risate e discussioni serie che tuttavia rischiano di farci arrivare in ritardo. A esser sinceri infatti varchiamo la porta del Circolo degli Artisti giusto in tempo per il primo brano, Io, non potendoci godere pertanto quella classica atmosfera pre-concerto fatta di umori, sospiri e incitamenti vari. A colpo d’occhio il pubblico sembra essere numeroso e già abbondantemente elettrizzato da questo avvio di concerto che vede sul palco Gianluca Schiavon (batteria), Marco Marzo Caracas (chitarra elettrica), l’inseparabile Giacomo Fiorenza (basso) e Moltheni defilato sulla destra. È la volta poi di L’età migliore, Oh, Morte e Montagna Nera, quest’ultima la preferita del caro “Habitual” accorso anche lui a questo appuntamento capitolino in compagnia di amici e dolce metà. Il pubblico canta appassionatamente quasi tutte le sue canzoni, a testimonianza che in tutti questi anni Umberto Giardini è riuscito – grazie alla sua onestà intellettuale – a farsi apprezzare da una platea sempre più ampia e attenta, entrando e uscendo dal circuito nazionale mediatico senza mai svendersi. Dieci anni di carriera che lo hanno portato alla realizzazione della sua prima antologia più DVD intitolata Ingrediente Novus (2009), a cui partecipano anche Vasco Brondi e Mauro Pagani, e dove Umberto Giardini rispolvera, per l’appunto, gran parte del suo repertorio “underground” iniziato con la Cyclope Records del compianto Francesco Virlinzi (Natura in Replay del 1999 e Fiducia del Nulla Migliore del 2001). Un percorso artistico segnato nel 2000 da un passaggio al Festival di Sanremo e proseguito, dopo svariate vicissitudini, con l’etichetta dei Tre Allegri Ragazzi Morti che, album dopo album (da Splendore Terrore del 2005 a I Segreti del Corallo del 2008, passando per Toilette Memoria del 2006), lo ha magnificato con questa bella raccolta fatta di brani vecchi e recenti che, in qualche modo, ha riproposto durante l’esibizione romana (Fiori di carne, L’amore acquatico, Nella mia bocca, Nutriente, Il Bowling o il Sesso…) assieme ai due inediti del nuovo lavoro, Petalo e Per carità di Stato. ML 45 musicletter.it update n. 69 live review: moltheni Un Moltheni più cortese del solito che, dall’alto del palcoscenico, ci chiede se siamo felici. Beh, quanto meno sereni, ci verrebbe da rispondere, soprattutto dopo aver ascoltato le sue composizioni così incredibilmente catartiche e poetiche. Un’ora abbondante di concerto che finisce tra gli applausi entusiasti di un parterre davvero soddisfatto, e noi non possiamo che sentirci complici di tutto questo, anche se poi quando cerchiamo di avvicinarlo ci rendiamo conto che sono lontani i tempi in cui a fine serata (una volta spenta l’inseparabile abat-jour) ci capitava, spesso e volentieri, di parlare con il nostro songwriter di musica alternativa, degli Handsome Family, di Bonnie “Prince” Billy e di molte altre cose. Ora ad accoglierlo c’è un numero abbastanza consistente di fan e di sostenitori che lo cercano in una sequenza quasi maniacale di abbracci e di scatti fotografici, che ci danno la misura del successo (meritato) del signor Umberto Giardini da Sant’Elpidio a Mare ma che ci rendono assai difficile l’impresa di un normale contatto umano. Riusciamo infatti a salutarlo a malapena, a scambiarci qualche veloce pacca sulle spalle e a renderci conto di aver visto crescere un bravissimo artista di cui ci sentiamo testimoni e narratori. Alla prossima, Umberto. Luca D’Ambrosio ML 46 musicletter.it update n. 69 altri percorsi: libri MARIO CALABRESI Spingendo la notte più in là Storia della mia famiglia e di altre vittime del terrorismo Mondadori | Collana Strade Blu, 2007 di Luca D’Ambrosio Ci sono dei libri che andrebbero letti assolutamente, non tanto per arricchire il proprio bagaglio culturale e le proprie conoscenze (cosa che non fa mai male) ma più che altro per non continuare a commettere quegli stessi madornali errori politici compiuti in Italia in quei maledetti anni ’70. Anni cosiddetti “di piombo” che hanno svelato il lato peggiore di un’Italia socialmente disastrata. Un’Italia iraconda che ha perseguito idealismi politici (di destra e di sinistra) attraverso ricatti, ritorsioni, sequestri, vendette e atti efferati che hanno prodotto soltanto una sequela di “crimini e misfatti” (per dirla alla Woody Allen, benché riferita a un contesto differente) e che non hanno per niente giovato al nostro paese,bloccandone oltretutto l’evoluzione socio-culturale, e di cui paghiamo ancora oggi le conseguenze. Un’Italia estremamente violenta, incapace di dialogare, che ha ucciso in nome della giustizia e della democrazia gettando nello sconforto e nel dolore numerose famiglie di onesti lavoratori. Un’Italia insomma funestata dal terrorismo che il bravissimo Mario Calabresi ha saputo raccontare in maniera pacata, equilibrata e con profondo sentimento attraverso questo agevole libricino che prende spunto dalla strage di Piazza Fontana (12-12-1969), dalla morte di Giuseppe Pinelli (15-12-1969) e in particolar modo dalla scomparsa del papà, il commissario Luigi Calabresi ucciso il 17 maggio 1972 con due colpi di pistola. Un numero inverosimile di omicidi e di attentanti politici, ma soprattutto una tragedia familiare personale, rievocata, prima, attraverso lo sguardo e gli occhi di un bambino incosciente e poi attraverso il desiderio di conoscenza di un uomo alla ricerca della verità e di un perché. Una narrazione che sa essere tanto didascalica quanto poetica, che non scade mai nella pateticità e che, in alcuni momenti, riesce a essere addirittura ironica. Un libro che rivela l’immagine di uno Stato debole e indifferente capace di generare solamente scontri sociali, mettendo in lotta dei gruppi di stupidi esaltati contro i “figli del popolo” (per dirla alla Pasolini); uno Stato insomma che soggiace alla smisurata ipocrisia di politici e di fanatici a discapito della vera sofferenza, quella delle famiglie delle vittime abbandonate a loro stesse. Spingendo la notte più in là è un libro che scopre con orgoglio e con dignità tutta la grandezza, il coraggio, il sacrificio e la tenacia di mamma Gemma in grado di educare, meravigliosamente e senza alcun livore, il proprio nucleo familiare nonostante tutto e tutti. Un bel racconto di vita vissuta, quindi, che andrebbe letto se non altro per scoprire dei piccoli e amorevoli episodi (come per esempio L’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters regalata da Giuseppe Pinelli a Luigi Calabresi), ma soprattutto per non cadere in quelle stesse e tragiche situazioni di conflitto sociale in nome di una politica rossa, nera o verde che sia. ML 47 musicletter.it update n. 69 frammenti di cinema rimosso: nona parte IL GINOCCHIO DI CLAIRE Un film di Eric Rohmer Regia di Eric Rohmer Films du Losange 1970 (Francia) di Nicola Pice “La mia notte con Maud” (realizzato nel 1969) è probabilmente l’esempio più riuscito dell’ossessione di Eric Rohmer per la costruzione della “messinscena” perfetta. Gli impercettibili movimenti di macchina durante la lunga conversazione dei protagonisti accompagnano la voce narrante e costituiscono il contrappunto ideale all’ironica leggerezza (l’autentica cifra stilistica di questo regista) che pervade un film imperniato interamente sulle leggi del caso (o della Provvidenza: fate voi). A fronte di un successo inatteso, l’anno successivo l’autore – pur muovendosi nei parametri della struttura formale che aveva prestabilito d’imprimere al ciclo stesso dei “contes moraux” - reagisce decidendo di modificarne leggermente il registro per arricchire il “narrato” di ulteriori prospettive di senso. Le vicende di Jerome, la sua visita ad un’amica d’infanzia, l’incontro con la scrittrice Aurora, l’attrazione per la giovane Laura che lo respinge durante un gita sulle Alpi, il desiderio feticistico di toccare il ginocchio di Claire (sorella di Laura nonché seconda figlia di Madame Walter, l’amica che lo ospita), la sospirata carezza all’oggetto concupito, la partenza verso il matrimonio che l’attende seguono lo schema circolare dei racconti morali rohmeriani del ritorno alla donna scelta per “la vita in comune” dopo un lungo viaggio psicologico nell’universo femminile ma costituiscono - anche – intima meditazione sul significato della seduzione fallita. Il conflitto (spesso irriducibile) tra il desiderio e la realtà, fra il sogno e la vita - che rappresenta la mancata realizzazione di quel sogno – è, infatti, la novità introdotta da Rohmer in questa raffinatissima commedia psicologica nata da un soggetto scritto dallo stesso autore vent’anni prima sui “Cahiers du Cinemà”. A ben vedere…un elemento di estrema drammaticità che, al contrario, il regista elabora con una leggiadria assolutamente unica ed un’inimitabile finezza piegando qualsiasi tensione a graziosi dialoghi di eccelsa qualità letteraria e alla maestria figurativa di struggenti scenari dalla colorata luminosità. Inoltre, il diario della maliziosa scrittrice Aurora (provocatrice dì intrighi erotici in omaggio alla tradizione della migliore letteratura libertina francese) sorta di voce narrante e/o guida al racconto, diventa il simbolo della riflessione di Rohmer sul processo creativo e sul significato stesso del cinema. Il luogo, per l’autore, dove nella finzione o nella verosimiglianza della messa in scena si dipanano i conflitti dell’animo, la misura dei quali è data proprio dalla rappresentazione del corpo o, per meglio dire, dei piccoli dettagli del corpo: un viso, una mano o un ginocchio. È , dunque, tra le increspature, i dettagli, i frammenti d’un dialogo (in tutte le cose piccole… ma di preziosa importanza) che - nell’artificio cinematografico come nella finzione della vita - per Rohmer va cercato e trovato il senso stesso di un film e, dunque, dell’esistere. ML 48 musicletter.it update n. 69 frammenti di cinema rimosso: nona parte TRISTANA Un film di Luis Buñuel Regia di Luis Buñuel Epoca Films | Talia Films | Selenia | Les Films Corona 1970 (Spagna | Italia | Francia) di Nicola Pice Per il suo rientro in patria (dove mancava da dieci anni) e, soprattutto, dopo le feroci polemiche seguite a “La via lattea”, Luis Buñuel cerca (e trova) ispirazione nelle pagine più tranquille di uno degli autori spagnoli più amati: Pèrez Galdòs. Il realismo di tipo naturalistico del grande scrittore e l’acuta descrizione della decadenza sociale iberica alla fin de siècle (ma nel film l’azione si svolge negli anni ’30 a Toledo invece che a Madrid) nelle schermaglie del controverso rapporto fra la giovane Tristana e l’anziano Don Lope viene stravolta da Buñuel in maniera ferocemente sottile fino ad assumere i contorni di un vero e proprio trattato di acida misoginia e implacabile condanna dei perbenismi e dei conformismi della borghesia più reazionaria e delle ipocrisie del cattolicesimo più bigotto. L’opportunismo ondivago della ragazza che non respinge le avances del suo tutore, che in un primo tempo abbandona per gettarsi nelle braccia del giovane pittore Horacio e dal quale, poi, ritorna una volta scoperto d’avere un tumore alla gamba (che le sarà amputata) e che, infine, sposa per denaro appare come la metafora del disprezzo buñueliano per un mondo femminile freddo e calcolatore, profondamente falso, pronto a rinnegare affetti ed aspirazioni ideali (Tristana rinuncerà ad una vita artistica con l’uomo che ama) pur di godere non solo delle migliori cure mediche ma in particolare degli agi connessi ad uno status sociale altoborghese. La celebrazione del matrimonio con Don Lope, imposto dal parroco per regolarizzare la sconveniente situazione di convivenza fra i due protagonisti, è il segno per l’autore della profonda insensatezza della ritualistica cattolica, il momento in cui si congiungono e si saldano due pianeti diversi ma ugualmente inautentici: la borghesia e la chiesa (i bersagli preferiti di Buñuel) per i quali “apparire” secondo lo schema delle convenzioni (per l’una) o dei precetti (per l’altra) deve prevalere sempre e comunque sui moti dell’animo. L’autore sembra apparentemente rinunciare ai provocatori stilemi surrealisti (non mancano, però, le scene madri) in favore di una narrazione descrittiva e, in taluni casi, persino melodrammatica (prontamente riscattata, però, dall’ironia) per sfuggire alle maglie strette della censura franchista disseminando, però, l’opera di una innumerevole serie di significati simbolici che mirabilmente rappresentano le angustie morali della provincia. Gli oggetti, infatti, i gesti, lo spazio stesso sono immersi nei colori opachi della fotografia “sporca” di Josè Aguayo che molto s’ispira alle opere del Velazques e di de Riberia e che contribuisce alla creazione di un’atmosfera cupa accentuata, per di più, da numerosi pianisequenza che trasformano i luoghi in immaginari quanto opprimenti labirinti che rappresentano bene la situazione di oggettiva “impotenza” dei personaggi e l’ambiguità morale in cui si dibattono. Il finale del film in cui Tristana, fingendo di telefonare al medico, lascia morire Don Lope vittima d’un attacco cardiaco è la (terribile) certificazione buñueliana della prevalenza delle forze infere dell’animo umano e l’aria fredda dell’abbondante nevicata che invade la stanza quando la ragazza apre la finestra gela soprattutto il cuore degli spettatori. 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