ML - Update n. 67

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ML - Update n. 67
MUSICLETTER
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INTERVISTA
WYE OAK
MUSICA PINK MOUNTAINTOPS, HÜSKER DÜ, KEITH CAPUTO, THE POSTMARKS, LIFE OF AGONY, THE THERMALS,
DUBBLESTANDART, …AND YOU WILL KNOW US BY THE TRAIL OF DEAD, THE PREACHERS, SONDRE LERCHE,
LLOYD COLE AND THE COMMOTIONS, WILLIAM ORBIT, EVERYTHING BUT THE GIRL, PIXIES, THE HANGEE FIVE,
GIACOMO SCHEMBARI, FOL CHEN, PARLIAMENT, DINOSAUR JR., REACHING HAND, DAVID BYRNE, GREEN DAY,
INCOMING CEREBRAL OVERDRIVE, DAVID MURRAY BLACK SAINT QUARTET, TALKING HEADS, YO LA TENGO, JJ,
MARISA SANNIA, GORDON GANO & THE RYANS, MAGIK MARKERS, JOHNNY GRIECO, BEARDFISH,
GIORGIO CANALI & ROSSOFUOCO, VERACRASH, THE CHROME CRANKS, PAVEMENT, GLUECIFER, MOTÖRHEAD,
SPECIALE MOTOWN, SPECIALE TEEN SOUND RECORDS FRAMMENTI DI CINEMA RIMOSSO
© ML 2009 - FREE
La prima non-rivista che sceglie il meglio della musica in circolazione - www.musicletter.it - Anno V - Update N. 67
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«A cosa serve una grande profondità
di campo se non c'è un'adeguata
profondità di sentimento?»
William Eugene Smith
chi siamo
Luca D’Ambrosio
Domenico De Gasperis
Nicola Guerra
Jori Cherubini
Massimo Bernardi
Marco Archilletti
Manuel Fiorelli
Pier Angelo Cantù
Pasquale Boffoli
Franco Dimauro
Gianluca Lamberti
Nicola Pice
Gianluigi Palamone
Daniele Briganti
Domenico Marcelli
Costanza Savio
Michele Camillò
Marco Tudisco
Claudia De Luca
Alessandro Busi
Costanza Savio
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Antonio Anigello
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copertina update n. 67/ 2009-09-30
WYE OAK | photo by DAN STACK
photo by luka
ML 02
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update n. 67
sommario
MUSICA | SPECIALE INTERVISTE
04 WYE OAK by Luca D’Ambrosio
MUSICA | RECENSIONI
08 PINK MOUNTAINTOPS Outside Love (2009) by Luca D’Ambrosio & Domenico De Gasperis
09 MAGIK MARKERS Balf Quarry (2009) by Marco Archilletti
10 GORDON GANO & THE RYANS Under The Sun (2009) by Franco Dimauro
11 DAVID MURRAY BLACK SAINT QUARTET Live In Berlin (2009) by Luigi Lozzi
12 …AND YOU WILL KNOW US BY THE TRAIL OF DEAD The Century Of Self (2009) by Antonio Anigello
13 BEARDFISH Destined Solitaire (2009) by Luigi Lozzi
14 THE POSTMARKS Memoirs At The End Of The World (2009) by Nicola Pice
15 WILLIAM ORBIT My Oracle Lives Uptown (2009) by Gianluigi Palamone
16 DUBBLESTANDART (feat. Lee Scratch Perry & Ari Up) Return From Planet Dub (2009) by Gianluigi Palomone
17 THE CHROME CRANKS Murder Of Time 1993-1996 (2009) by Pasquale Boffoli
18 SONDRE LERCHE Heartbeat Radio (2009) by Nicola Pice
19 JJ JJ N°2 (2009) by Nicola Pice
20 YO LA TENGO Popular Songs (2009) by Luca D’Ambrosio
21 GIACOMO SCHEMBARI Per Ogni Parola Che Non Dico (2009) by Franco Dimauro
22 THE THERMALS Now We Can See (2009) by Nicola Guerra
23 VERACRASH 11:11 (2009) by Nicola Guerra
24 GREEN DAY 21st Century Breakdown (2009) by Laura Carrozza
26 INCOMING CEREBRAL OVERDRIVE Controverso (2009) by Antonio Anigello
27 REACHING HAND A Divina Threshold (2009) by Franco Dimauro
28 THE HANGEE FIVE Preachin’ Unpleasantly Yours (2009) by Franco Dimauro
28 THE PREACHERS Preachin’ At Psychedelic Velocity (2008) by Franco Dimauro
29 MARISA SANNIA Rose de Papel (2008) by Luigi Lozzi
30 KEITH CAPUTO A Fondness for Hometown Scars (2008) by Manuel Fiorelli
31 JOHNNY GRIECO I’m Cool (2008) by Gianluigi Palamone
32 FOL CHEN Part I: John Shade, Your Fortune’s Made (2008) by Gianluigi Palamone
33 GLUECIFER Basement Apes (2003) by Manuel Fiorelli
34 PAVEMENT Slanted And Enchanted (1992) by Marco Archilletti
35 LIFE OF AGONY River Runs Red (1992) by Antonio Anigello
36 PIXIES Doolittle (1989) by Nicola Guerra
37 HÜSKER DÜ Warehouse: Songs And Stories (1987) by Antonio Anigello
38 EVERYTHING BUT THE GIRL Eden (1984) by Franco Dimauro
39 LLOYD COLE AND THE COMMOTIONS Rattlesnakes (1984) by Franco Dimauro
41 PARLIAMENT Osmium …plus (1970) by Franco Dimauro
MUSICA | DVD
42 TALKING HEADS Live in Rome (2008) by Luigi Lozzi
MUSICA | LIVE REVIEW
43 MOTÖRHEAD Roma, Ippodromo Capannelle (15.07.2009) by Manuel Fiorelli
44 DAVID BYRNE Roma, Cavea Auditorium (20.07.2009) by Gianluca Lamberti
45 GIORGIO CANALI & ROSSOFUOCO Brescia, Offlaga (01.09.2009) by Nicola Guerra
46 DINOSAUR JR. Roma, Circolo degli Artisti (08.09.2009) by Stefano Sezzatini
SPECIALE MOTOWN
47 LA PIÙ GRANDE ETICHETTA INDIPENDENTE DELLA STORIA by Luigi Lozzi
SPECIALE TEEN SOUND RECORDS
50 SEI PRODUZIONI DELL’INFATICABILE ETICHETTA ROMANA by Pasquale Boffoli
FRAMMENTI DI CINEMA RIMOSSO | SETTIMA PARTE
53 BLIND BEAST (La bestia cieca) Yasuzo Masamura (1969) by Nicola Pice
54 NEROSUBIANCO Tinto Brass (1969) by Nicola Pice
55 KES Kenneth Loach (1969) by Nicola Pice
© ML 2005-2009
BY L UCA D’AMBROSIO
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ML 03
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update n. 67
speciale intervista
WYE OAK
Intervista
© 2009 di
Luca D’Ambrosio
Capita di rado di imbattersi in dischi capaci di catturare
la nostra attenzione già a partire dalla copertina e di
rifletterne poi, attraverso le canzoni, quella stessa
immagine e quella stessa sensazione che ci hanno spinto
ad ascoltarli. Capita di rado, dicevamo, ma talvolta
accade, come nel caso di “The Knot”, secondo lavoro
sulla lunga distanza del duo di Baltimora (Maryland),
formato dalla cantante/chitarrista Jenn Wasner e dal
batterista
Andy
Stack,
che
riesce
a
mescolare
mirabilmente folk e noise all’interno di dieci brani dalle
pieghe elettriche e vellutate, trafugando quelle stesse
emozioni suscitate dall’artwork. Con “The Knot” (Merge
records / Affairs Of The Heart) gli Wye Oak rovistano con
discrezione in quei luoghi a noi cari (Neil Young, Velvet
Underground, Sonic Youth, Yo La Tengo, Low…) e il
risultato che ne consegue è davvero entusiasmante.
Nella forma, ma anche nella sostanza. Per saperne di più
abbiamo fatto due chiacchiere con Jenn Wasner.
The Knot è davvero un bel disco. Vi aspettavate una risposta così immediata e così
positiva da parte della critica specializzata? Oppure, nonostante i giudizi positivi, vi
sentite ancora non soddisfatti appieno del lavoro svolto?
Grazie tanto. Sono contenta che ti piaccia. Onestamente, cerco di non dare troppa attenzione alle
recensioni del disco una volta finito. Ho imparato che è sciocco aspettarsi come la gente reagirà a
ciò che hai fatto. Devo dire che sono rimasta toccata e lusingata dai molti consensi della gente
riguardo al disco. Ovviamente, per me significa molto il fatto che tante persone si relazionino a
queste canzoni che hanno occupato una posizione centrale nella mia mente per almeno un anno.
Come siete arrivati a realizzare questo secondo lavoro dopo If Children del 2008?
Andy e io abbiamo realizzato il nostro primo disco solo come un progetto di registrazione, senza
avere direzioni o ambizioni tranne che la pubblicazione. Le persone meravigliose della nostra
etichetta, la Merge Records, lo hanno ascoltato e apprezzato, e, praticamente dal nulla, hanno
deciso di pubblicarlo. Per un’etichetta come la Merge, avvicinarsi a una band nuova come la
nostra, senza averla mai vista o ascoltata, è stato abbastanza straordinario. Il loro sostegno e
incoraggiamento, mentre realizzavamo il secondo disco, è stato di enorme sollievo in un periodo
molto difficile.
ML 04
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update n. 67
speciale intervista: wye oak
The Knot è una miscela miracolosa di
folk e noise. Quando ho ascoltato
l’album in qualche passaggio, come
For Prayer e Take It In per esempio,
ho avuto l’impressione di ascoltare
un mix di Neil Young e Sonic Youth.
Poi, andando
avanti negli ascolti,
escono fuori tanti altri riferimenti
come gli Yo La Tengo, gli Elk City,
L’Altra e persino qualcosa dei Low.
Insomma, mi rendo conto che non è
affatto facile “catalogare” la propria arte, ma quanto è vicina la vostra musica a questi
personaggi e a queste band?
Beh, io sono probabilmente l’ultima persona sul pianeta alla quale chiedere di catalogare la nostra
musica… Sono sempre sorpresa davanti alle interpretazioni della gente su come ci sentono.
Suppongo che le nostre canzoni abbiano una certa semplicità di base che può far riferimento a
folk e al country, ma gli arrangiamenti hanno un po’ di tutto. Sicuramente non ho mai capito di
aver catturato un certo sound o di far parte di un certo genere quando registriamo… Stiamo solo
cercando di giustificare ciò che proviamo e l’idea della canzone alla quale stiamo lavorando in quel
momento.
Quale canzone di questo nuovo album esprime meglio e più delle altre lo stile e il
carattere degli Wye Oak?
È come chiedermi di scegliere tra i miei figli e qualcos’altro! Io credo ciecamente nel disco e in
ogni singolo pezzo. Abbiamo lavorato duro per rendere questo album uniforme, sia in senso
tematico che altro, quindi è molto dura per me separare un pezzo da un altro. Spero che
nell’insieme essi siano percepiti come inscindibili.
C’è una particolare alchimia quando tu e Andy lavorate su un brano?
Di solito scriviamo separatamente e poi facciamo insieme l’arrangiamento ma per questo album
abbiamo collaborato un po’ di più anche durante la composizione. I testi sono per la maggior
parte miei ma mi affido molto ad Andy quando facciamo l’arrangiamento.
The Knot come sodalizio nella vita, nel lavoro, in amore e nella musica? Insomma:
perché questo titolo?
Non credo che il titolo abbia un significato particolare. È importante che rimanga abbastanza
ambiguo così da avere varie interpretazioni, a seconda dell’approccio. D’altro canto, mi piace
pensare che il titolo indichi che queste canzoni sono tutte legate tra di loro sia per i testi che
musicalmente, così da risultare inscindibili (speriamo!).
ML 05
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update n. 67
speciale intervista: wye oak
A esser sincero ciò che mi ha spinto ad ascoltare The Knot è
stata la copertina che, anche se molto diversa, mi ha
ricordato l’immagine notturna di And Then Nothing Turned
Itself Inside-out degli Yo La Tengo. Non a caso poi ti accorgi
che, in qualche modo, il disco riflette quelle stesse atmosfere
quiete, vellutate e al contempo elettriche. Di chi è stata
l’idea di questa scelta?
La foto della copertina è stata scattata dal padre di Andy alla fine
degli anni ’70. Per la maggior parte credo che la nostra decisione di usarla si basi su qualcosa di
intangibile. Credo sia tutta un’atmosfera… Ci è piaciuta dal primo momento in cui l’abbiamo vista.
Mi piace pensare che sia un’immagine che ruoti attorno a un’idea nascosta, come quei pensieri e
quelle idee che mi giravano per la testa mentre facevo il disco.
Quanto è importante la scelta di una copertina per un disco?
Sono convinta che tutti i componenti siano importanti, e visivamente parlando, la copertina è la
rappresentazione più iconica della tua musica che tu possa avere. Era importante per noi che
colpisse ma anche che fosse un po’ lunatica e misteriosa. Sono contenta che abbia catturato la
tua attenzione (ndr, sorride)
C’è qualche nuova band o qualche cantante emergente che stimi davvero tanto?
Scopro continuamente nuove band e onestamente non me ne rendo conto… Non sono la migliore
a tenere il passo con la nuova musica attualmente, anche perché c’è così tanta musica solo qui a
Baltimore che mi tiene occupata! Mi piace molto Sharon Van Etten da Brooklyn, NY. Lei è
un’amica e il suo nuovo disco mi prende molto. Inoltre, sono ossessionata dai Dirty Projectors,
ma chi non lo è?
C’è invece un album o un gruppo o un songwriter
che torni ad ascoltare sovente?
Torno sempre ad ascoltare i miei dischi preferiti degli
Smog (uhm… tutti?), Neil Young, Cass McCombs,
Lambchop, Yo La Tengo, ascolto costantemente anche
Notorious B.I.G.. È uno dei miei autori preferiti di tutti i
tempi.
Da artista americana quale sei, cosa pensi della musica e della cultura europea?
Uhm, domanda trabocchetto. Credo che la maggior parte degli americani abbiano un’alta
considerazione dell’Europa in generale… Sfortunatamente, però, non conoscono bene la musica
europea così come gli europei conoscono ciò che succede musicalmente in America. Durante la
tournée estera siamo sempre rimasti sorpresi dal gran numero di band interessanti e di successo
mai sentite prima, mentre gli ascoltatori europei sembrano conoscere cosa succede qui molto più
di me!
ML 06
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update n. 67
speciale intervista: wye oak
… e in particolar modo, qual è la tua
opinione sull’Italia?
Alcuni dei piatti migliori mai mangiati in
vita mia sono stati in Italia! Poi, mi sento
terribilmente poco attraente di fronte alla
maggior parte delle italiane. Senza fare
stereotipi o altro. Ma tu me l’hai chiesto
(ndr, sorride).
Com’è la vita a Baltimora? Ci sono
novità?
Baltimora è abbastanza grande. La gente continua a fare bei dischi. Abbiamo visto suonare i
nostri amici Beach House l’altra sera e le loro nuove canzoni sembravano eccellenti.
Quali saranno i prossimi passi dopo The Knot? Avete già qualche idea sul futuro
prossimo?
Tournée finché non crolliamo, poi ci riprendiamo e proviamo a fare il prossimo disco.
Beh, allora io controllerò il vostro sito per vedere se, e quando, verrete in Italia…
Spero di sì! Contiamo di tornare prima della fine dell’anno.
WYE OAK: www.myspace.com/wyeoak
Foto Dan Stack
Intervista di Luca D’Ambrosio
www.musicletter.it/extra
ML 07
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update n. 67
musica
ARTIST: PINK MOUNTAINTOPS
TITLE:
Outside Love
LABEL:
Jagjaguwar
RELEASE: 2009
WEBSITE:
www.myspace.com/pinkmountaintops
MLVOTE: 9/10
Che il canadese Stephen McBean fosse una delle menti più fervide dell’attuale panorama
musicale ce ne eravamo accorti già nel 2004 quando, non stanco dei progetti Jerk With A Bomb
e Black Mountain, aveva dato vita all’omonimo esordio The Pink Mountaintops. Un album che
in qualche modo ci aveva stregati per quella capacità di saper combinare, in maniera del tutto
originale e con un risultato superiore alla media, Neil Young con i Grant Lee Buffalo, dando
vita a una classicità dall’anima psichedelica e dai passaggi folk rock in grado di rievocare tanto i
Velvet Underground quanto i Pink Floyd. Una “moderna classicità” affogata poi nell’isterismo
dell’inquietante Axis Of Evol del 2006 che, pur allettandoci, ci aveva però lasciati attoniti e
sbigottiti per quella eccessiva vena di eclettismo che rivelava tutta la disperazione e tutti i
fantasmi di un artista alla ricerca di una stabilità. Un condensato di sonorità elettriche, ossessive
e intimiste capaci tuttavia di osare qualcosa in più del lavoro precedente ma incapace di
raggiungere quella maturità e quello splendore ottenuti invece con questo Outside Love.
Un’opera che prende le distanze dal catartico Axis Of Evol e che
realizza appieno, nelle
intenzioni e nei risultati, quanto già iniziato nel 2004, rivelandosi una realizzazione tradizionale
ma allo stesso tempo attuale, amplificata da una misurata psichedelia che dona intensità e
freschezza ai suoi dieci meravigliosi capitoli. Ballate senza tempo, più o meno elettriche (Axis:
Thrones Of Love ed Execution), evocative e slowcore alla maniera dei Low (While You Were
Dreaming e Outside Love) e con l’immane Vampire che riconduce la nostra mente a quel
capolavoro assoluto della musica popolare che corrisponde al titolo di Automatic For The
People. Un peccato mortale non citare, poi, il country quasi byrdsiano di Holiday e quello
cantautoriale di Come Down, l’impostazione vocale alla Lou Reed di And I Thank You, il Nick
Cave in formato Grinderman di The Gayest Of Sunbeams con un tempo incalzante tipicamente
velvettiano che cede il finale alla trasognata e corale Closer To Heaven. Troppa carne al fuoco?
Non è così, in quanto gli innumerevoli riferimenti sono tutti filtrati da Stephen McBean con uno
stile personale e maturo che amalgama, quasi alla perfezione, i dieci solchi di Outside Love.
Miglior disco del 2009? Perché no? Siamo tutti consapevoli che da diversi anni non escono dischi
innovativi nel vero senso della parola. In altri termini: album che indichino una nuova strada.
Taluni continuano a ignorare questa realtà e non possono fare a meno di straparlare di lavori
“pseudorivoluzionari” ignorando, al contrario, quelli che sono “semplicemente” delle raccolte di
belle canzoni. Questo modo di agire non ci appartiene e dopo innumerevoli ascolti (l’uscita di
Outside of Love risale ai primi di maggio) siamo convintissimi che l’ultima fatica del cantante e
chitarrista di Vancouver sia un capolavoro candidato a essere eletto disco dell’anno. Un classico
contenente per la maggior parte canzoni incantevoli e altre non meno che belle, suoni e parole
che ci rinfrancheranno ancora per molto tempo, soprattutto in quei malinconici giorni di pioggia
dell’incipiente stagione autunnale.
Luca D’Ambrosio & Domenico De Gasperis
ML 08
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update n. 67
musica
ARTIST: MAGIK MARKERS
TITLE:
Balf Quarry
LABEL:
Drag City
RELEASE: 2009
WEBSITE:
www.myspace.com/theemagikmarkers
MLVOTE: 8/10
Il suono dei Magik Markers è tanto urbano quanto minaccioso, è un autobus che non si ferma
allo stop perché è stato dirottato da un pazzo. È una di quelle cose che ancora si possono
definire sovversive così da far pensare ai vecchi che il disco o lo stereo abbiano qualcosa che non
va. La band del Connecticut ha mantenuto il cinismo dei primi tempi pur avendo raffinato le idee,
prova ne sia la magnifica e inquietante Shells, traccia finale dell'album, che fa pensare al cinema
di Terrence Malick come alle deviazioni dei Velvet Underground più acidi. Potrebbe essere
dolce e carina, Elisa Ambrogio, carismatica leader del progetto, potrebbe essere una star
dell'indie rock. Potrebbe ammiccare e giocare: non le mancano i contatti, non le manca il talento
ma il punto è che questa ragazza è una di quelle persone destinate a sfiorare il baratro. Esalta il
mito del rock'n'roll nel senso più depravato del termine, è un'artista che tende alla rottura
dell'equilibrio sociale, come David Cronenberg, come Pasolini, come i mai dimenticati
Starfuckers. È vero, molti fanno notare che i Magik Markers non sono più caotici come qualche
anno fa. Il bello, mi pare, comincia proprio da questa considerazione. I Magik Markers ora fanno
ancora più paura, con un accordo tesissimo e una voce spettrale, con una produzione che
ha abbassato il volume e sporcato se possibile ancora di più i concetti. La loro ricerca non fa a
botte con la coerenza perché le armi sono sempre le stesse, non ancora addomesticate dalla
viltà dell'arte rassicurante, quella che piace tanto agli intellettuali in giacca e cravatta. La loro
qualità ha affascinato i Sonic Youth, è cosa nota, e ha svegliato certa critica da un
preoccupante torpore. È arrivato il momento di crescere, di arricchire una discografia che è già un
culto assoluto. Balf Quarry è una splendida risposta noir, a un passo dalla rivoluzione.
Marco Archilletti
ML 09
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update n. 67
musica
ARTIST: GORDON GANO & THE RYANS
TITLE:
Under The Sun
LABEL:
Yep Roc
RELEASE: 2009
WEBSITE:
www.myspace.com/gordonganoandtheryanbrothers
MLVOTE: 8/10
La tentazione era forte e, perdonatemi, anche io ho ceduto alla banale lusinga di immaginare
Brian Ritchie e Victor DeLorenzo imbracciare i loro strumenti acustici al posto dei fratelli Ryan
e intonare il loro vecchio, sghembo folk ubriaco sotto la voce di Gordon Gano. È accaduto dopo
una trentina di minuti, a disco ormai lanciato, quando lo scioglilingua bislacco di Oholah Oholibah
e la filastrocca emofiliaca di Red hanno sviscerato suggestioni dei tempi che furono, con le
Femmes sui palchi delle coffee house di Milwaukee. Ma Under The Sun non è un disco delle
Femmes, è un disco di Gordon Gano, Billy e Brendan Ryan, è un album nato nella metropoli
di New York City e su cui aleggia, oltre all’ovvio fantasma delle Femmes, lo spirito dei Talking
Heads il cui marchio è impresso sui tratti nervosi di Wave and water e Judge to widow.
Un’ammirazione ricambiata in passato con la produzione targata Jerry Harrison per The blind
leading the naked delle Femmes e per Life Begins at 40 Million dei Bogmen, l’altra band dei fratelli
Ryan e con l’ invito rivolto a Gano di sostituire David Byrne per l’ ultimo disco degli Heads. Chi
cercasse l’anarchia dei primi dischi delle Femmes sappia dunque che qui non ve ne è traccia. E
del resto chi si professa musicalmente anarchico dopo i 40 anni o mente spudoratamente, o è
Julian Cope. Ecco, Gordon Gano non è Julian Cope. È un tranquillo americano di mezza età
che si diverte ancora a giocare con le sue ossessioni, che ha da tempo perso l’humour nero e
sente un urgente bisogno di tornare a casa, quando mette il naso fuori di casa o quando si è
spappolato i coglioni di vedere solo aule di tribunale e studi legali e guardare in cagnesco il suo
vecchio allampato compare Brian. Difficile stare sulla terra, come lui stesso dice sulla bellissima e
dolente Here as a Guest, ballatona un po’ retrò come il Cave di The Good Son. Ma Under The
Sun, al di là del benaugurante titolo prova, per tre fette di orologio, a farcelo sembrare un posto
migliore, col rockabilly di Way that I creep, le sincopi reggae di Still Suddenly Here, il funky
spastico di Wave and water, il doloroso incresparsi del piano sulla title track, lo strampalato
boogie di Red e la banalità rassicurante di marcette country rock come Hired Gun o Better than
you
know.
Non
l’avrei
mai
detto.
Alla
mia
età…
re-innamorarmi
di
Gordon
Gano…
Invece… R-E-D spells Red, spells Red.
Franco Dimauro
ML 10
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update n. 67
musica
ARTIST: DAVID MURRAY BLACK SAINT QUARTET
TITLE:
Live In Berlin
LABEL:
Jazzwerkstatt | Giucar Services
RELEASE: 2009
WEBSITE:
www.Jazzwerkstatt.eu
MLVOTE: 8/10
David Murray è un sassofonista (ma all’occorrenza suona anche il clarinetto basso) molto
apprezzato negli ambienti del jazz contemporaneo che non ha però disdegnato, nella sua carriera,
di indirizzare le proprie attenzioni verso le contaminazioni prodotte dall’intersezione con la World
Music (sonorità africane e dei Caraibi) e con la Fusion, con l’hip hop e con il gospel. Ha soli 54
anni ma vanta già una lunga militanza di campo e un’ancor più grande considerazione come
solista. Agli inizi, nei ’70, Murray ereditava lo stile d’improvvisazione di maestri del sassofono
quali Albert Ayler e Archie Shepp, divenendo ben presto parte integrante del mainstream del
jazz. I suoi primi dischi sono del ’76 (Flowers For Albert e Low Class Conspiracy). Suonando
standard del jazz, circondato da una sezione ritmica convenzionale, il fraseggio aspro e irregolare
(sia
melodico
che
ritmico)
del
sassofonista
si
combina
al
meglio
con
gli
stilemi
dell’improvvisazione. Registrato al Radialsystem V di Berlino (nel novembre 2007) il disco in
esame documenta la straordinaria performance dal vivo del musicista assecondato da un
magnifico terzetto di strumentisti composto dal pianista Lafayette Gilchrist, dal bassista Jaribu
Shahid e dal batterista Hamid Drake, e brilla per la perfezione del set musicale. La qualità
distintiva di Murray, la ricchezza e l’originalità del suo sound dall’ampio vibrato, profondo e black
– che non dimentica di confrontarsi con la tradizione rappresentata dagli illustri musicisti che
vengono annoverati tra i suoi maestri (Dexter Gordon, Hamiet Bluiett, Julius Hemphill,
James Spaulding, Oliver Lake, Ben Webster, Coleman Hawkins) -, va rintracciata
nell’abilità di costruire il climax dei pezzi per passaggi successivi, con diversi livelli di intensità.
Album dalla lunga durata, circa 70’, nel quale ognuno dei cinque brani dura non meno di un
quarto d’ora (con la sola eccezione di Banished che è di soli sei minuti). La perla è Sacred Ground,
brano dalla lenta combustione, e il giovane pianista Lafayette Gilchrist, che già da qualche anno
si propone al fianco di Murray, che lo ha preso sotto la sua ala protettrice, si rivela astro
nascente e qualcosa di più di un semplice talento. Per apprezzare il suo contributo basta
soffermarsi sull’iniziale Dirty Laundry oppure l’abilità con cui affianca Murray in Waltz Again,
brano in cui si lancia in un magnifico “a solo”.
Luigi Lozzi
ML 11
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update n. 67
musica
ARTIST:
…AND YOU WILL KNOW US BY THE TRAIL OF DEAD
TITLE:
The Century Of Self
LABEL:
Superball Music
RELEASE: 2009
WEBSITE:
www.trailofdead.com
MLVOTE: 8/10
La band dal nome più lungo del pianeta è tornata, se non con il botto poco ci manca. Com’è ormai
consuetudine degli alcolici texani, l’orchestra …And You Will Know Us By The Trail Of Dead ci
proietta in una realtà magica, fatta di chitarre a volumi altissimi, melodie soavi e progressive.
Eccezion fatta per lo sconclusionato So Divided del 2006, con The Century Of Self è
confermata la loro concezione di album/opera, dove ogni singola canzone è un tassello di una
forma sonora indivisibile, da ascoltare dal primo all’ultimo minuto. Così, con la solita classe che li
contraddistingue e che li ha fatti ormai allontanare dai primi pesanti paragoni, a proposito delle
prime produzioni, con i giganti Sonic Youth, ora piazzano semplicemente una gemma dopo
l’altra, da The far pavilions (la più diretta e in classico stile Worlds apart) alla mistica Isis
unveiled. Tra le migliori cose fatte rientra a pieno titolo Bells of creation, dove con la voce stridula
di Conrad Keely cinguettano una tastiera e una chitarra dal forte gusto progressive, non nuovo
al sound del gruppo che sempre più sembra volersi muovere verso questa direzione, non
dimenticando il vecchio amore per il sano rock rumoroso che è stato marchio di fabbrica
dell’omonimo debutto (1998), di Madonna (1999) e Source Tags And Codes (2002). Gli …And
You Will Know Us By The Trail Of Dead hanno solo due piccoli problemi, il doversi
confrontare, album dopo album, con il loro capolavoro Worlds Apart (2005), picco difficile da
raggiungere nuovamente, e la loro enorme capacità di sviluppare live set esplosivi, che
letteralmente sbriciola e fa rileggere totalmente il lavoro fatto in studio di registrazione. Consiglio
settembrino: correte a vederli dal vivo… il resto è noia!
Antonio Anigello
ML 12
musicletter.it
update n. 67
musica
ARTIST: BEARDFISH
TITLE:
Destined Solitaire
LABEL:
InsideOut | SPV | Audioglobe
RELEASE: 2009
WEBSITE:
www.myspace.com/beardfishband
MLVOTE: 8/10
La musica degli svedesi Beardfish (costituitisi nel 2001 e punta di diamante tra i numerosi gruppi
prog che affollano la scena scandinava: Anglagard, Anekdoten, Pain Of Salvation, Isildur
Bane, Flower Kings, Ritual) si colloca nell’ampio alveo del rock progressivo; che vuol dire tanto
e non vuol dire nulla se si considerano le tante sfaccettature e variazioni e spunti musicali
(addirittura sconfinamenti nel jazz o nei più ovvi e compatibili hard rock e folk), il gioco dei
rimandi e delle citazioni (non male l’eco al Zappa più jazzy, sulfureo e sinfonico) che emergono
all’ascolto di questo loro album. Personalmente, in alcuni frangenti, mi hanno ricordato i Gentle
Giant - splendida formazione inglese che si mise per la prima volta in luce da noi in Italia come
gruppo spalla a un concerto romano dei Jethro Tull del 1972 – e i Beggar's Opera. Chiara
comunque l’influenza di sonorità tipiche dei Settanta che in fondo poi vanno a caratterizzare il
sound della formazione pur senza inficiarne l’esprit d’originalità. I Beardfish danno degno seguito
a Sleeping In The Traffic Pt. I e II, gli album che ci hanno permesso di scoprirli dopo un paio
di dischi passati del tutto inosservati, con sonorità variegate, imprevedibili e mai ripetitive,
proponendosi con vigore e senza cali di tensione tra melodie e improvvise accelerazioni: un deciso
passo avanti in quanto a freschezza dell’impianto musicale. Nove solo i brani, ma tutti molto
lunghi (77’ totali di durata), fluenti e complessi nelle trame sonore. Intrigante e coraggioso il
lungo pezzo strumentale d’avvio, Awaken The Sleeping, belle la inebriante Until You Comply
Including Entropy e la sinuosa e affascinante Coup De Grâce in cui emerge addirittura il suono di
una fisarmonica. Il gruppo scandinavo mostra di possedere padronanza assoluta del caleidoscopio
di suoni di cui si rende artefici e il risultato finale è quanto mai raffinato e godibile. Reiteratene
l’ascolto e vi appassionerete.
Luigi Lozzi
ML 13
musicletter.it
update n. 67
musica
ARTIST: THE POSTMARKS
TITLE:
Memoirs At The End Of The World
LABEL:
Unfiltered Records | ILG
RELEASE: 2009
WEBSITE:
www.myspace.com/thepostmarks
MLVOTE: 9/10
I Postmarks hanno la caratteristica rarissima dell'atemporalità: una miscela delle sonorità più
dolcemente retrò (il pop degli anni '60, quello francese codificato da Gainsbourg e quello inglese
beatlesiano) con quelle che hanno reso celebre l'indie pop britannico dagli anni '80 in poi che
viene resa affine ai gusti della contemporaneità con sofisticati arrangiamenti. Memoirs At The
End Of The World - che segue il positivo omonimo esordio del 2007 e l'interlocutoria raccolta di
cover, By The Numbers, dell'anno scorso – non differisce da un percorso musicale che sembra
(una volta di più) segnato dall'impiego di melodie accattivanti che vincono la sfida nei confronti
del “già sentito” attraverso un procedimento di ibridazione che confonde fluidamente stili con un
irresistibile gioco citazionista di rimandi in cui epoche “sonore” differenti vanno a braccetto.
L'incipit epico-sinfonico di No one said this would be easy (che apre il disco) ricorda
nell'arrangiamento orchestrale i Moody Blues, la grazia sixties di My Lucky Charm si trasfigura in
una pop-song dove l'armonia vocale si fonde con un pianoforte dal retrogusto malinconico, gli
archi sognanti in tonalità minore di Thorn in Your Side sono il sottofondo ideale alle nostalgie di
Tim Yehezkely e preparano il mood elettro-wave di Don't know till you try a cui segue il folk
sghembo dai toni vagamente orientaleggiante di All you ever wanted. Il valzer tenue dei cuori
infranti di Run away love cede il passo alla morriconiana For better... or worse che incrocia il
western de “La donna della domenica” con le oscurità darkeggianti dei Japan. Lo stupefacente
crogiuolo sonoro, infatti, ha un incedere cinematico che oltre al sopracitato maestro romano
rimanda qua e là anche alle composizioni di John Barry (The Girl from Algenib). I Postmarks
hanno concepito questo disco come la colonna sonora “triste” di un film che segni il bilancio di
un'esistenza in chiaroscuro. Sogni disattesi e amori passati assortiscono un campionario di
rimpianti che è evidente soprattutto nella parte finale dell'opera: emblematico in questo senso,
dopo l'indiepop alla Camera Obscura di Go Jetsetter, il noir strumentale di Theme from Memoirs
che prepara il finale del disco. Gone è rarefazione dreampop che sembrerebbe sgorgare eterea e
dolcissima da qualche lavoro dei Mazzy Star e si chiude, invece, con una dissonanza lievemente
rumorosa a suggellare uno dei prodotti pop migliori di questa annata musicale che probabilmente,
però, non eserciterebbe sui nostalgici cercatori di bellezza musicale lo stesso fascino senza la
malìa della voce meravigliosa della vocalist Tim Yehezkely. Una musa dell'indie: al contempo
sensuale e aggressiva come Astrud Gilberto ed elegantemente ennuì come una Françoise
Hardy del terzo millennio solo meno yè-yè ma altrettanto snob. Una delle poche in grado di
trasformare un ottimo disco di brani pop in un'esperienza emozionale, in un viaggio suggestivo
nelle pieghe dell'animo umano.
Nicola Pice
ML 14
musicletter.it
update n. 67
musica
ARTIST: WILLIAM ORBIT
TITLE:
My Oracle Lives Uptown
LABEL:
Guerrilla Studios Ltd
RELEASE: 2009
WEBSITE:
www.williamorbit.com
MLVOTE: 9/10
Disco dell’Estate 2009, con la maiuscola, è stato per me il ritorno, dopo “soli” 3 anni, di William
Orbit in download (Optical Illusions EP-remixes) e su CD (vale assolutamente la pena di
cercare l’edizione con 16 brani) con nuova etichetta e solita idiosincrasia per lo star system. Prego
chi non lo conosce di ascoltare almeno 2 classici: Water from a Vineleaf e Million Town, di quelle
gemme che ti rapiscono di tanto in tanto più o meno a tempo indeterminato. Tanto quanto il
precedente Hello Waveforms era immerso in un mood invernale da viaggio negli spazi siderali,
così My Oracle Lives Uptown sembra molto “prossimo” al pianeta Terra, ci si può immergere
nelle sue pulsazioni, adagiarsi cogliendo sapori esotici o soavi sussurri che apparirebbero alieni
agli insensibili, sovente si plana su panorami di struggente bellezza, giusto il tempo per fermare
una lacrima… È musica che entra piano e ti rapisce fondendosi con i colori dell’estate. Musica
ideale per un viaggio contro l’alba di una notte, partendo da una spiaggia del cuore. Bando al mio
personale innamoramento per l’artista, vi dico: qui trovate bassi profondi (cfr. Wobble/Laswell)
e tutto lo scibile in tema di elettronica, partendo dalla funky-soul-house, passando per l’electro,
l’ambient e la techno, fino alla trance, attraverso territori e spazi aerei inesplorati e intrisi del
blueprint che William ha impresso alla storia della musica contemporanea e che incidentalmente
sarà stato ascoltato da tutti (Madonna con Ray of Light). Musica eterea di per sé: le voci (da
segnalare la ricomparsa di Laurie Mayer) non possono essere che fatate ed evocative
(…touching the sky disappears…); sulle ritmiche si può dire che la classe di chi nasce con la voglia
di far ballare, restando sempre all’avanguardia, è un dono per pochi. Tra una cavalcata spaziale
(Radioharp), una pronta immersione downtown (Purdy) con coda di rimando in volo fino all’elegia
davisiana dell’ultima traccia (City Lights Reflections), si apre il caleidoscopio sul mondo e
sull’animo umano, partendo da Optical Illusions (celestiale il canto) e poi e poi… Non posso dirle
tutte, aggiungo solo che la title track è un sorriso stampato in faccia, indelebile!
Gianluigi Palamone
ML 15
musicletter.it
update n. 67
musica
ARTIST: DUBBLESTANDART
TITLE:
(featuring Lee Scratch Perry & Ari Up)
Return From Planet Dub
LABEL:
Collision
RELEASE: 2009
WEBSITE:
www.dubblestandart.com
MLVOTE: 8/10
Alzino la mano quanti di voi sono portati a pensare che ormai da molti anni non esce un disco di
reggae e dub fatto di composizioni originali e davvero dissetante all’ascolto, insomma un “grande”
disco o “discone” che dir si voglia… Siete in tanti, vero? Io mi astengo dal farlo, semplicemente
perché proprio poche settimane fa ho rischiato l’acquisto, dopo fugace lettura di recensione su
Mojo, di questo doppio CD e ne sono stato gratificato oltremodo: fulminato dalla pienezza del
suono e dalla ricchezza dei testi fin dal primo ascolto; cullato e fischiettante nell’inoltrarmi poi nei
meandri dub/drum’n’bass/dubstep delle versioni e dei remix che donano ben oltre 2 ore di ottima
compagnia. Quanto detto fin qui potrebbe già bastare, se vi fidate di me e se amate il genere, ma
alcune annotazioni sono importanti. La prima, clamorosa: i Dubblestandart, che non conoscevo
prima d’ora, sono austriaci! Robbie Ost, Paul Zasky, Ali Tersch ed Herb Pirker sono attivi da
inizio secolo e operano a Vienna. Musica, arrangiamento e registrazione sono opera loro, mentre
Lee “Scratch” Perry (guest star di questo disco) compone quasi tutti i testi, e che testi: “Caccia
al demonio”, “la lavagna su cui Jah segna i ricchi (cattivi) che opprimono i poveri”, “la difesa dei
diritti e della giustizia”, solo per citarne alcuni… e poi Ari Up, rediviva (chi ricorda le Slits?), che
dà energia ad alcuni brani composti e cantati da lei… e infine due gioiellini: il rifacimento di
Oxigen pt.4 di J.M.Jarre in due versioni carine assai, con la voce di David Lynch, e un brano di
Adrian Sherwood e Prince Far I Wadada-Means Love in una profonda versione dubstep! Bella
soddisfazione davvero quando ci si trova tra le mani un disco così… ancor più bella se condivisa
con gli amici, lo spirito e l’additivo giusti!
Gianluigi Palamone
ML 16
musicletter.it
update n. 67
musica
ARTIST: THE CHROME CRANKS
TITLE:
Murder Of Time
LABEL:
Bang! Records | Goodfellas
(1993-1996)
RELEASE: 2009
WEBSITE:
www.myspace.com/chromecranks
MLVOTE: 8/10
Che i Chrome Cranks siano stati una delle band essenziali del punk blues americano degli anni
’90 del trascorso millennio non mi stancherò mai di sottolinearlo. La notizia della loro
ricostituzione, fornitami da Peter Aaron lead singer e frontman del gruppo, e avvenuta nel primo
scorcio dei 2000 mi ha riempito di gioia, alla stregua di un teenager. Contemporaneamente ad
alcune esibizioni i Chrome Cranks hanno dato alle stampe Murder Of Time (1993-1996),
album antologico a opera della piccola etichetta spagnola Bang Records. Nel 2007
era uscito
Diabolical Boogie (1992-1998), una doppia raccolta curata da Peter Aaron di single, demo e
rarities davvero molto esaustiva: per fortuna Murder Of Time cerca nell’archivio Cranks in altre
direzioni non doppiandone le scelte. Per esempio tra i 19 brani del disco ci
sono quattro live
inediti, Lost Woman, cover degli Yardbirds, e le incendiarie Some Kinda Crime, Burn Baby Burn
e Hit the Sand che li riconfermano in quegli anni al massimo di una forma brutale e feroce. Peter
Aaron geme, guaisce, strapazza le corde vocali e distorce le parole quasi ogni brano fosse
l’ultimo della sua vita e volesse elargire le ultime energie rimastegli, sempre ricalcando i vocalismi
dissonanti e sopra le righe di un Jeffrey Lee Pierce. William Weber lancia le sue corde in una
tempesta noise, sfiorando a più riprese le battute blues ma abbandonandole sempre fatalmente.
Jerry Teel e Bob Bert assicurano una ritmica oppressiva e lucida. Attendendo un loro nuovo
lavoro si può lasciarsi avvolgere dalla disperazione strascicata di Heaven (Take me now), esaltarsi
agli estremismi emozionali di Desperate Friend, stordirsi ai singhiozzi di We’re Going Down e alla
furia cieca di Driving Bad.
Pasquale Boffoli
ML 17
musicletter.it
update n. 67
musica
ARTIST: SONDRE LERCHE
TITLE:
Heartbeat Radio
LABEL:
Rounder Records
RELEASE: 2009
WEBSITE:
www.myspace.com/sondrelerche
MLVOTE: 8/10
Sentivamo la mancanza di Sondre Lerche! Phantom Punch aveva un po' deluso - ca va sans
dire - tutti coloro che con il meraviglioso Two Way Monologue avevano creduto di trovarsi
dinnanzi alla reincarnazione dei grandi crooner del passato rielaborati in chiave indie. Sebbene la
pop attitude dell'enfant prodige norvegese fosse (ancora) presente, sembrava troppo diluita nel
tentativo di scimmiottare gli stereotipi dell'indie guitar rock degli anni '90 snaturando un talento
melodico purissimo. Una sorta di nemesi che colpisce talvolta i compositori più bravi che hanno
bisogno di percorrere strade diverse da quelle che il destino (musicale) ha per loro tracciato prima
di rendersi conto che ben “altri” sono i sentieri da attraversare. Probabilmente il biondino di
Bergen avrà pensato che l'alt rock alla Pavement o - ancor più - alla Radiohead è meglio
lasciarlo agli originali ben più dotati. Con Heartbeat Radio si torna, dunque, a quelle origini
sonore che hanno intrigato gli ascoltatori d'Europa. Il pop, infatti, è l'autentica “cup of tea” di
questo raffinato musicista che usa la grazia di confezionarci un disco ricolmo di autentiche gemme
melodiche impreziosite da quegli arrangiamenti bacharachiani che sono il suo marchio di fabbrica.
Un'opera in cui i rimandi ai padri nobili della catchy-music (Paul McCartney, Elvis Costello,
XTC, Prefab Sprout) sono strettamente congiunti all'indie inglese di stampo Belle and
Sebastian, sorretti da sofisticate armonie vocali che strizzano l'occhio ora al bel canto degli anni
'60 (Like Lazenby gustoso omaggio all'attore australiano che interpretò uno dei migliori James
Bond di sempre in On Her Majesty's Secret Service) ora al cantautorato più recente (sono sfiorati
Jeff Buckley e Beck). Se I cannot let you go sembra uscire per intensità e soluzioni sonore dal
mai abbastanza celebrato Steve McQueen (con una buona dose di synth in più), Easy to
persuade lambisce gli eighties commercialmente più ruffiani con una melodia che unisce gli A-ha
agli Spandau Ballet e ai Cure di Kiss me, Kiss me, Kiss me. Vera e propria sorpresa If only che
esplora il soul-pop più elegante catturando l'essenza del philadelphia-sound di Kenneth Gamble
& Leon Huff, Words & Music, invece, è anomalo pastiche alla Scritti Politti mentre Pioneer con
una giravolta minimalista è folk in punta di piedi. Un gradevolissimo e più che convincente ritorno
al passato, dunque, quello di Lerche che avrebbe potuto essere ancor più apprezzabile senza la
debolezza imputabile – ad avviso di chi scrive – alla profondità lirica di versi che pagano dazio,
talvolta, ad una qualche scontata banalità. Il ragazzo, però, ha appena ventisette anni e la lunga
strada che lo separa dalla presumibile maturità umana e artistica non gli impedisce d'essere,
comunque, uno dei musicisti più dotati ed interessanti del panorama contemporaneo. Quando il
folletto farà posto all'uomo, sarà lecito aspettarsi più d'un capolavoro.
Nicola Pice
ML 18
musicletter.it
update n. 67
musica
ARTIST: JJ
TITLE:
JJ N° 2
LABEL:
Sincerely Yours | Tough Alliance
RELEASE: 2009
WEBSITE:
www.sincerelyyours.se/yours0115.php
MLVOTE: 8/10
Chi si cela dietro la criptica sigla JJ? Chi è il responsabile della pubblicazione per la Sincerely
Yours, etichetta svedese gestita dalla Tough Alliance, del disco JJ N° 2? Nonostante la rete sia il
grimaldello capace di scardinare le porte dell'ignoto aprendoci quelle di una presunta onniscienza,
nessuno sembra in grado di fornire agli appassionati le informazioni necessarie a svelare l'arcano
mistero. Tutto ciò che abbiamo – davvero poco in verità - è il sito della stessa casa discografica
spartano quant'altro mai. Alla fine, però, tutto questo ha un valore relativo. Sicuramente inferiore
a quello del disco che - a dispetto d'una certa brevità: 28’ su un totale di 9 brani - è davvero
buono. Il mio giudizio, ovviamente, è il frutto d'un gusto musicale che - come intuibile da chi
abbia la bontà di legger(mi)e - si alimenta anche dell'inconsueto. E nel caso di JJ N° 2 la
stravaganza sonora gioca un ruolo di non poco conto. La matrice è indissolubilmente riconducibile
all'indie pop (svedese) tradizionale, labrador style, ora arrangiato, però, in maniera orchestrale
con gli archi ora elettronicamente plasticoso (anche nello stesso brano vedi la folgorante Things
will never be the same again) che viene interpolato talvolta con l'esotico balearic sound (quel
pastiche
dolce
di
ritmo
africano
e
impennate
caraibico-spagnoleggianti
codificato
dalla
lussureggiante From Africa to Malaga) e, in altri casi, con un andante dancereccio piacevolissimo.
Le malinconie acustiche della bellissima ballad Are you still in vallda? - a proposito
straordinariamente melodiosa è la voce femminile che canta in tutti i brani - si alternano ai suoni
sintetici e algidi di Ecstasy che cita i Royksopp migliori (quelli di Melody A.M. per intenderci), le
oniriche dolcezze di Masterplan lasciano il passo ai riverberi alternati ai bisbigli, ai colpi di tosse,
alle esitazioni della conclusiva Me & Dean registrata come fosse un live. Le perplessità esistenziali
di My hopes and dreams - dall'andamento timidamente shoegaze – e il romanticismo sussurrato
di My love, invece, si muovono nel solco d'una affinità con il twee-pop più comunemente svedese
(sempre che quello stile musicale possa essere definito convenzionale). Il mistero su questo
piccolo progetto, pertanto, rimane ma il disco è una delle cose migliori che si possa ascoltare in
questo periodo: il gusto melodico semplice ma niente affatto banale, l'originale equilibrio fra l'uso
dell'elettronica e l'acustica, la ritmica mai scontata a definire un flusso sonoro morbido che ha il
pregio di evocare terre lontane dagli indefiniti contorni mitologici. E se gli autori fossero i
discendenti di Erik il rosso e dei suoi figli? Gli antichi navigatori scandinavi che scoprirono per
primi nelle loro esplorazioni la Groenlandia e Terranova? Per svelare l’arcano aspettiamo l’uscita
del prossimo disco che si chiamerà di certo JJ N° 3 ma, nel frattempo, se non l’avete ancora
ascoltato… Affrettatevi e salpate l’ancora.
Nicola Pice
ML 19
musicletter.it
update n. 67
musica
ARTIST: YO LA TENGO
TITLE:
Popular Songs
LABEL:
Matador
RELEASE: 2009
WEBSITE:
www.myspace.com/yolatengo
MLVOTE: 8/10
Artefici di un’evoluzione artistica iniziata nel 1986 con Ride The Tiger e proseguita, poi,
attraverso numerose produzioni tra cui quel meraviglioso album quasi completamente di cover
intitolato Fakebook (1996)
e
tre
gemme
come I
Can
Hear
The
Heart
Beating
As
One (1997), And Then Nothing Turned Itself Inside-Out (2000) e I Am Not Afraid of You
and I Will Beat Your Ass (2006), gli Yo La Tengo sono sempre riusciti a entusiasmarmi grazie
a un atteggiamento e un linguaggio musicale degni della migliore cultura underground. Con lo
sguardo perennemente rivolto verso i Velvet Underground e con un suono a cavallo
tra pop e psichedelia (o se preferite, tra dream pop e noise rock), talvolta impreziosito anche da
atmosfere elettroniche minimaliste (leggasi ambient), il trio di Hoboken (New Jersey) non hai mai
perso un colpo, e la conferma ci è data proprio da questa ennesima fatica sulla lunga distanza
capace di mettere in secondo piano molte nuove uscite del 2009. Popular Songs, infatti,
dispiega tutta la bellezza di un lavoro artistico realizzato con estrema passione; quella stessa
passione che anima l’esistenza della formazione americana e ogni solco di questo disco fatto di
ballate lisergiche, melodie carezzevoli e vuoti elettrici che non hanno nulla a che a fare con il
semplice esercizio di stile come qualcuno, invece, vorrebbe farci credere. Basta ascoltare Here To
Fall, All Your Secrets e More Stars Than
There Are in Heaven per rendersene conto e
innamorarsene immediatamente.
Luca D’Ambrosio
ML 20
musicletter.it
musica
update n. 67
ARTIST: GIACOMO SCHEMBARI
TITLE:
Per Ogni Parola Che Non Dico
LABEL:
Autoprodotto
RELEASE: 2009
WEBSITE:
www.myspace.com/giacomoschembari
MLVOTE: 7 /10
Giacomo Schembari è uno che ama e odia la sua terra, come tutti. Ne è sedotto di quella
seduzione che ti fa schiavo e da cui senti l’esigenza di sottrarti, senza averne il coraggio.
Un’inquietudine che fa parte del suo bagaglio artistico e umano e da cui nasce il bisogno di
costruirsi una tana, un rifugio, un covile. Il suo album di debutto è un disco d’ autore, e come
ogni disco d’ autore si mette a nudo, si dona e si mostra facendosi portare dalla risacca delle
emozioni, cullato dai propri ricordi, animato da quell’aria densa che ti gonfia i polmoni mentre
cedi al peso del rimpianto e ti senti inadeguato e sconfitto. Lo fa assumendosi tutto il rischio che
si corre in giochi come questo che è fondamentalmente quello di parlarsi troppo addosso e così le
parole non dette cui allude il titolo finiscono invece per caderci addosso come stelle comete che
hanno esaurito la loro corsa, come aeroplani di carta che hanno l’urgenza di planare, anche se le
piste non sono così sgombre da poter loro assicurare un atterraggio confortevole. Come se il suo
autore avesse capito di avere bisogno di un pentagramma per poter scrivere meglio, come se
quelle quattro strette parallele fossero indispensabili per avere una strada tracciata, un percorso
da seguire che non sia quello disagevole e apparentemente libero di un foglio bianco. È dentro
queste righe che le parole di Giacomo trovano un senso, un proprio mondo dove potersi adattare,
plasmandosi sulle note, sciogliendosi attorno alle circonferenze di qualche croma come gli orologi
molli di Dalì. È un mondo dove la dimensione privata e personale è centripeta e dominante e
l’esterno è sempre filtrato dal proprio setaccio emozionale, come nelle immagini evocate da Ibla,
omaggio alla sua città che diventa paradigma per le dissertazioni sulla solitudine e sulla
fermentazione dei ricordi. Musicalmente Per Ogni Parola Che Non Dico si concede il lusso di
variare registro adattandosi alle voglie del suo autore. C’è il tango di Richiami ad aprire le danze,
il notturno jazz di Se la luna potesse parlare, il boogie di La notte degli incanti vicina alle unghiate
metropolitane di Folco Orselli, il gioioso ritmo in levare di Se l’ eternità, il cantuccio intimista di
Tra loro e me o la soffice e languida resa di Io vorrei essere là di Tenco che si accosta per
sensibilità ai restauri di Mauro Ermanno Giovanardi. Ed è proprio all’ex voce dei La Crus, oltre
al conterraneo Pippo Pollina, alle ombrose nicchie di Gina Fabiani e a certe pozze tra jazz e
canzone italiana della Piccola Orchestra Avion Travel più che al Capossela che qualche pigro
gli aveva cucito addosso che mi sento di accostare la concia di Giacomo, così umanamente
suscettibile alle intemperie dei sentimenti. Un disco nudo.
Franco Dimauro
ML 21
musicletter.it
musica
update n. 67
ARTIST: THE THERMALS
TITLE:
Now We Can See
LABEL:
Kill Rock Stars
RELEASE: 2009
WEBSITE:
www.thethermals.com
MLVOTE: 7/10
Dischi del genere dovrebbero uscire tutti i mesi, e la mutua dovrebbe passarli senza obbligo di
ricetta per il benessere collettivo della popolazione annoiata e malata di stress. Il quarto disco del
terzetto di Portland (che abbandona l’isola felice Sub Pop e approda alla Kill Rock Stars) s’intitola
Now We Can See ed è uno scintillare di puro e semplice power pop. Non sono certo i paladini
dell’innovazione, i Thermals, non sono rivoluzionari e non hanno scritto un disco che salverà le
sorti del mondo da virus inattaccabili, ma queste canzoni sono la medicina ideale per combattere
emicranie, si sciolgono facilmente in acqua fresca e producono bollicine di chiara effervescenza
r’n’r. I testi di Hutch Harris si fanno più introspettivi rispetto al passato (The Body, The Blood,
The Machine del 2006 attaccava pesantemente la politica americana di Bush) ma le canzoni
conservano energia accattivante e denotano una semplicità di scrittura davvero difficile da
scorgere in gruppi odierni, che tendono sempre più a complicarsi la via cercando improbabili
sperimentazioni invece che concentrarsi sulle canzoni. In questi 34 minuti le canzoni ci sono e c’è
di che gioire; dal singolo tormentone che dà il titolo all’album, alle abrasive punk song When We
Were Alive e I Let It Go, alle sfavillanti chitarre che chiamano lunghi viaggi in auto di I Called Out
Your Name e When I Died fino alla riflessiva e intensa At The Bottom of the Sea. I Thermals
oggi sono degli Hüsker Dü rilassati, o se preferite dei Nada Surf particolarmente incazzati
capaci di cantare la vita.
Nicola Guerra
ML 22
musicletter.it
musica
update n. 67
ARTIST: VERACRASH
TITLE:
11:11
LABEL:
Go Down Records
RELEASE: 2009
WEBSITE:
www.myspace.com/veracrash
MLVOTE: 7/10
Malediciamo tutti quanti Josh Homme per avere smesso di scrivere album all’altezza dei suoi
Queens of the Stone Age e ringraziamo i Veracrash per essersi fatti carico di riesumare qui in
Italia uno stoner rock acido e abrasivo. L’esordio del gruppo milanese vede la luce oggi dopo una
lunghissima attesa carica di speranza, giustificata dal fatto di avere ascoltato il Ghost EP nel
lontano 2006. Tempi lunghi di cui hanno beneficiato 11:11, masterizzato negli Jupiter Studios di
Seattle da Martin Feveyear (già al lavoro con Mudhoney, R.E.M., Mark Lanegan e Q.O.T.S.A)
e distribuito dalla Go Down Records (un marchio di garanzia per queste sonorità), questo debutto
è un concentrato di suoni che si omaggiano e ricalcano le regine nell’età della pietra, ma riescono
a piazzare due o tre colpi che valgono certamente l’acquisto. Fra questi segnaliamo la conclusiva
e strumentale Snakes for Breakfast, densa e magmatica suite psichedelica che si nutre del sacro
fluido rosa, Russian Roulette che ospita alla voce Johann Merrich e che volteggia nei territori
indie dei Blonde Redhead, l’intro synth di Spoon e le cavalcate elettriche del trittico centrale
Jeeza, Santa Sagre e Broken Teeth, Golden Mouth. Ultimo plauso alla copertina disegnata da
Seldon Hunt; oscura come il suono dei Veracrash.
Nicola Guerra
ML 23
musicletter.it
musica
update n. 67
ARTIST: GREEN DAY
TITLE:
21st Century Breakdown
LABEL:
Reprise Records
RELEASE: 2009
WEBSITE:
www.greenday.com
MLVOTE: 6,5/10
Un’opera rock: è questa la definizione più immediata e ricorrente utilizzata da tutti coloro (addetti
ai lavori e non) che hanno a che fare con l’ultimo album dei Green Day, 21st Century
Breakdown. La band statunitense aveva già sperimentato la formula con American Idiot,
incredibilmente significativo e degno successore, a dieci anni di distanza, del capolavoro Dookie
(1994). L’album ebbe un successo planetario, squadra che vince non si cambia e la strada verso
un lavoro altrettanto complesso è stata breve. 21st Century Breakdown si apre con Song of the
Century, un’intro che sembra uscire da un vecchio e polveroso grammofono e che racchiude in 58
secondi il concept dell’intero album: la critica sprezzante e feroce della società in cui ci
muoviamo, vista con gli occhi disillusi di una giovane coppia, Christian & Gloria (degni sostituti di
Saint Jimmy e Jesus of Suburbia, al centro delle vicende narrate in American Idiot). L’album si
snoda, dunque, in tre atti, proprio come fosse un’opera teatrale: Heroes and Cons, Charlatans
and Saints, Horseshoes and Handgrenades, 18 brani in tutto a raccontare la delusione, la rabbia,
il desiderio di rivalsa nei confronti di un mondo tutto sbagliato e dai valori anestetizzati. Le
citazioni musicali, più o meno nascoste, sono diverse: Who, Clash, una spruzzata di
Springsteen e Beatles vagamente riecheggiati in un paio di pezzi. La title track (21st Century
Breakdown) rievoca il crollo del 21esimo secolo, con il racconto di una generazione smarrita nelle
pieghe di un sistema e di una nazione malati, alla ricerca continua e disperata di una via d’uscita
che conduca alla salvezza. È una canzone manifesto, più volte indicata come la Bohemian
Rapsody del gruppo ma dal ritmo molto veloce in puro stile Green Day, capace di smuovere la
massa che aspetta solo un segno per ribellarsi. E la ribellione prende il via con Know your enemy:
è lampante nel pezzo la presa di coscienza della necessità di combattere contro il nemico
(“Silence is the enemy/against your urgency/So rally up the demons of your soul”). Il suono si fa
più distorto, Billie Joe inneggia alla rivoluzione non solo con il testo (“Gimme gimme revolution!”)
ma anche con la sua inconfondibile e trascinante forza vocale. I toni provano ad addolcirsi quando
entra in scena (è proprio il caso di dirlo) la protagonista femminile: in Viva La Gloria!, Christian
coinvolge appunto Gloria nel suo canto e quasi inneggia a lei, implorando il suo indispensabile
aiuto in questa eterna lotta contro stato, chiesa, politica (nel terzo atto troviamo Viva La Gloria?
[Little Girl], secondo brano dedicato alla ragazza). Before the lobotomy, al pari di altri brani
dell’album come Peacemaker o Last of the American Girl, scivola via senza quasi senza lasciare
traccia.
ML 24
musicletter.it
musica: green day
update n. 67
Il secondo atto si apre, invece, con un ottimo pezzo: East Jesus Nowhere, accusa molto poco
velata alla Chiesa in quanto istituzione e alla sua incapacità di far fronte ai bisogni dei singoli,
incapacità sempre più evidente in una società dominata dal falso buonismo e dalla facilità nel
puntare il dito contro i “peccatori”; il pezzo è energia e potenza allo stato puro, musicalmente
ricorda alcuni spezzoni di Holiday, anche se lì l’oggetto d’accusa erano guerre ingiuste e Governo,
nonostante i toni almeno apparentemente più leggeri. Murder City fa emergere prepotentemente
le radici punk del gruppo, è un elogio alla speranza e un grido disperato nello stesso tempo
mentre Horseshoes and Handgreanades, tiene il passo a livello ritmico e segna il passaggio, quasi
inevitabile, dalla disperazione alla rabbia. 21guns è senza dubbio il pezzo meglio riuscito
dell’intero lavoro: si sente chiaramente l’eco di Boulevard of Broken Dreams (che vinse premi su
premi e trascinò American Idiot in testa a molte classifiche di mezzo mondo) e le sensazioni
sono nitide: la consapevolezza di trovarsi in un mondo dai colori cupi e la rassegnazione di aver
lottato fino allo stremo delle forze (“When it’s time to live and let die/And you can’t get another
try/Something inside this heart has died/You’re in ruins”). 21st Century Breakdown è stato
prodotto da Butch Vig, stesso geniale artefice di album come Nevermind dei Nirvana o
Siamese Dream dei compianti Smashing Pumpkins; la sua impronta si sente (vedi alla voce
rock classico batte punk 1-0) e seppure talvolta anacronistica, non si può certo dire che Vig non
sappia far bene il suo mestiere. La denuncia delle piaghe della società, la capacità di farsi
portavoce di una generazione che ha smarrito la strada, il tentativo di irradiare la volontà di
cambiare il mondo sono tutte attitudini apprezzabili per una band che assurge spesso a modello
per i fans. Il processo cominciato con American Idiot e continuato con 21st Century
Breakdown è tuttavia complesso e insidioso: porta con sé il rischio di essere ripetitivi e di non
riuscire a trasmettere più nulla al pubblico, diventando nient’altro che una pallida copia di sé
stessi. È sì impossibile pretendere di avere una nuova Basket Case a ogni album ma l’originalità e
la valenza creativa sono fattori da cui non si può prescindere per essere annoverati nell’Olimpo
della musica.
Laura Carrozza
ML 25
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update n. 67
ARTIST: INCOMING CEREBRAL OVERDRIVE
TITLE:
Controverso
LABEL:
Supernaturalcat
RELEASE: 2009
WEBSITE:
www.incomingcerebraloverdrive.com
MLVOTE: 6/10
Dipende tutto dai punti di vista. Se quest’album fosse uscito una quindicina di anni fa, si sarebbe
probabilmente scritto: gli Incoming Cerebral Overdrive sono un rivoluzionario e interessante
quintetto di Pistoia che propone un mix tra la nuova scuola metalcore in chiave Victory/Relapse
e la cerebralità di reminiscenze prog e psichedeliche, un suono estremamente complesso,
geometrico, dove l’impatto furioso dell’ugola d’oro del cantante si muove tra un flusso sempre
mutevole di suoni vicini al free jazz e tastiere dal sapore anni settanta (un caso la canzone dal
titolo Oxygen?) splendidamente suonate e momenti d’inquieto ed estraniante rilassamento alieno,
ci si assopisce e si viaggia per mondi lontani prima di essere svegliati a calci in faccia. Questa è
vera avanguardia, sperimentale, il futuro della musica estrema passa da qui… Purtroppo non
siamo più nel 1994, gli ICO farebbero scuola e io avrei ancora diciassette anni, mentre nel 2009
di musica del genere ne abbiamo ascoltata a iosa, gruppi come Botch, Dillinger Escape Plan,
Locust, Converge, Bloodlet, etc. etc. etc. hanno avuto il tempo di fare decine di album nuovi,
sciogliersi e riformansi non so quante volte. La realtà dei fatti è che gli ICO sono un buon gruppo,
hanno pezzi ben costruiti, non lesinano vere sfuriate metalliche come in Sound, suonano senza
dubbio bene e dal vivo promettono tuoni e fulmini, il problema è che peccano in personalità,
suonano il già sentito, pur dando l’impressione di poter fare molto di più. La casa discografica
Supernaturalcat degli spaziali Ufomammut, dopo gli ottimi album di MoRkObOt e Lento, non
prende un abbaglio, la band c’è, deve solo tentare di divincolarsi dal vecchio e guardare avanti,
Controverso dà delle soddisfazioni con l’incedere apocalittico di there (Isis docet) e
controversial (Deadguy docet) e nel complesso ha spunti che fanno ben sperare per il futuro. In
attesa del terzo capitolo, sei d’incoraggiamento e ci rivediamo alla prossima.
Antonio Anigello
ML 26
musicletter.it
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update n. 67
ARTIST: REACHING HAND
TITLE:
Threshold
LABEL:
Chorus of One
RELEASE: 2009
WEBSITE:
www.myspace.com/reachinghand
MLVOTE: 6/10
Premetto che seguo ormai solo marginalmente la scena hardcore, deluso per anni da una
montagna di uscite Victory e Revelation che ancora affollano i miei scaffali e in cui mi illudevo di
trovare la replica di piccole rivoluzioni domestiche firmate Hüsker Dü o Circle Jerks. Niente di
tutto questo, ovviamente, a parte sparuti e temporanei picchi di tensione emotiva. Peggio
sarebbe stata la successiva esplosione emo-core, piena di pattume indie-rock imbottito di gain e
di ragazzini che suonavano le proprie frustrazioni in attesa del rientro di papà
cospicua
paghetta
settimanale.
Il
riavvicinamento
alle
raffiche
per la solita
dell’hardcore
avviene
periodicamente attraverso i “libri” cruciali: Metal Circus, Fresh Fruit, Damaged, Group Sex, Out of
step e via discorrendo. Sempre più raramente attraverso dischi di nuova manifattura. Non per
partito preso, ma per i motivi di cui sopra. Il dischetto dei Reaching Hand è buono per una
carica veloce. Dura dieci minuti appena, quindi perfetto per una bella dose di rumore mentre ti
rechi al lavoro a guardare il grugno del capo o il culo a mandolino della tua segretaria. Ha quel
poco di cattiveria che basta a farceli sentire sinceri e a ufficiarne l’ingresso nella comunità
hardcore anche se il suono sembra cedere a volte alle lusinghe del metal-core (Settle the score)
pur senza scadere nel triviale rifferama delle crossover-band. L’impianto resta insomma solido
hardcore, con voce arrabbiata (ma femminile, il che li rende atipici), mealstrom chitarristico
(bellissimo quello di Insight), cori, ritmica serrata e quant’altro. Manca però il quid che si lascia
ricordare. Non basta essere incazzati con tutto e con tutti (e del resto, chi non lo è? NdLYS)
altrimenti ci basterebbe urlare davanti alle immagini del TG. Occorre uscire dal mucchio, piuttosto
che sputare in faccia agli sbirri con la speranza di non essere riconosciuti. E, per ora, i Reaching
Hand restano tra la folla dei facinorosi della curva HC.
Franco Dimauro
ML 27
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update n. 67
musica
ARTIST: THE PREACHERS | THE HANGEE FIVE
TITLE:
Preachin’ At Psychedelic Velocity | Unpleasantly Yours
LABEL:
Teen Sound | For Monsters
RELEASE: 2008 | 2009
WEBSITE:
www.myspace.com/thepreachersit | www.myspace.com/thehangeev
MLVOTE: 7,5/10 | 7,5/10
I Preachers sono italianissimi ma predicano gli stessi sermoni dei Fuzztones. Che sono quelli di
un garage tinto di nero, spesso avvolto in spore darkedeliche e spirali ipnotiche memori del beat
spiritato di Seeds e Leo & The Prophets. Una cripta di fuzz e vibrati vox cui My darling ci
introduce con garbo sinistro e che ci inghiotte con la grazia di un’Erinni andando a tuffarsi a piene
mani nel suono californiano e texano dei mid-sixties e creando degli incastri tra l’uno e l’altro fino
ad assistere a un simbolico incesto tra i Sick Rose di Double Shot! e i Beach Boys nella
bellissima Wild Girl o tra gli Stereo Shoestring e i Turtles nella dolce Lovely Girl. Intermission è
uno strumentale horror surf che taglia in due il disco incastrandosi a Turn me out, il pezzo scritto
e suonato con Rudi Protrudi e che è in tutto e per tutto un pezzo dei ‘tones epoca Braindrops. A
seguire You ‘ll never know che si apre con un “sample” dalla Boss Hoss dei re di Tacoma e
prosegue in un turbinio di sirene e cori dal sapore rockabilly snodandosi in un beat marziale e
implacabile dominato dall’ organo di Scaio. La faccia agli estrogeni dei Fuzztones, ovvero quella
supervixen in latex nero che risponde al nome di Lana Loveland, è invece ospite nell’unica cover
del disco, ovvero l’abusatissima 99th Floor dei Moving Sidewalks che i Preachers riaccendono
di una bella furia vintage che non ricordavo dai tempi del debutto dei Chesterfield Kings,
complice anche la splendida blues harp di Valerio Tedeschi. Summer Rain e la sua schiuma di
acide piogge psichedeliche chiudono il sipario su uno dei migliori dischi garage italiani degli ultimi
anni, malgrado la concorrenza nuovamente agguerrita, come in pieno 1987. Secondo album pure
per i “Cinque Impiccati” cagliaritani che, nel frattempo, sono diventati quattro. In questo caso
la registrazione non conta niente. Anzi, tutto. Nessun costoso studio, nessun ospite eccellente:
tutto quello che serve è il proprio garage e qualche microfono. Riverberi naturali e ampli che
ballano l’hangee stomp ciondolando come cadaveri al suono di questo beat surf degli inferi.
Quattro cover oscurissime depredate da raccolte come Texas Punk, Hang It Out To Dry e
Florida Punk From The Sixties e dieci originali in perfetta tenuta da becchino. Un suono
invasato e lacerante, talmente becero da rifiutare ogni compromesso col facile ascolto o anche
solo con l’ammiccante surf sdoganato da Tito and Tarantula e dai film di Tarantino. Qui, e
passatemi la battutaccia, siamo proprio su un’altra spiaggia. Quella dove Tim Warren, gli
Unrelated Segments, i Reasons Why, i Nobody‘s Children e i Raunch Hands imbastiscono
barbecue e gare sulle tavole mentre le tettone di Las Vegas Grind! prendono il sole con le
coppette di strass sui capezzoli. Italia 2 - Resto del mondo 0.
Franco Dimauro
ML 28
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update n. 67
ARTIST: MARISA SANNIA
TITLE:
Rose de Papel
LABEL:
Felmay | Egea
RELEASE: 2008
WEBSITE:
www.sannia.it
MLVOTE: 8/10
Molti, cui non fa difetto la memoria, hanno un ricordo di Marisa Sannia legato a quel lontano
Festival di Sanremo del 1968 in cui si piazzava seconda con la canzone “Casa bianca” (in coppia
con Ornella Vanoni, per la cronaca, pezzo scritto da Don Backy), dopo che Sergio Endrigo e
Luis Enriquez Bacalov avevano provveduto a scrivere per lei il brano dell’esordio discografico
l’anno prima (“Tutto o niente”); sono pochi però quelli che hanno continuato a seguire il percorso
musicale della cantante sarda che ha sempre mantenuto un profilo basso e defilato ma ricco di
contenuti alti tra poesia, musica della sua terra, impegno costante in favore delle donne.
Particolarmente importante è stata la svolta attuata negli anni novanta con l’attenzione (e grande
sensibilità) dedicata alla poesia sarda del passato e del presente, in dischi di assoluta bellezza,
come Sa Oghe De Su Entu E De Su Mare e Melagranàda. Marisa Sannia purtroppo è venuta
a mancare il 14 aprile 2008, a causa di un'improvvisa e grave malattia, e qualche mese dopo è
uscito postumo il suo ultimo lavoro, Rosa de Papel (Rosa di carta), registrato qualche mese
prima della scomparsa e che contempla dodici composizioni che la cantautrice ha musicato e
cantato utilizzando i versi (nell’originale lingua castigliana) di uno dei maggiori poeti del
Novecento: Federico Garcia Lorca. Tra le canzoni alcune sono autentici gioielli musicali come: El
nino mudo, Rosa de papel, Laberytos y espeyos, Aguila de los ninos. Il libretto si apre con una
frase del poeta: «Un canto profondo, molto più profondo di tutti i pozzi di tutti i mari del mondo,
ancora più profondo del cuore che oggi lo crea, della voce che oggi lo canta. È un canto quasi
infinito, viene da molto lontano attraverso gli anni i mari e i venti del tempo, viene dal primo
pianto, dal primo bacio». L’intero album ha una magia dolce e malinconica nei suoni e i contenuti
ne esaltano la bellezza assoluta, avvolgente e inestricabile. Le musiche sono di Marisa Sannia,
tranne La canción de la mariposa di Amancio Prada e Pequeño vals vienés di Leonard Cohen.
Perfette in conclusione le parole di una sua collega, Gigliola Cinquetti: «... Naturalmente
ascoltando Rosa de Papel ho rivisto il film che la memoria mi restituisce del volto proteso di
Marisa Sannia impegnata nel canto, l'elegante postura, il collo lungo, il caschetto biondo. Ma ho
scoperto anche una sua presenza nuova e intensa che il successo dei tempi di “...c'è una casa
bianca che...” non poteva raccontare. Mi ha colpito soprattutto il suo rapporto con la lingua
castigliana. Un rapporto che solo chi è nato in Sardegna può avere. Non c'è ombra di accento
italiano nella sua pronuncia, perfetta ed esotica a un tempo. É un rapporto che le permette di
capire la poesia di Garcia Lorca in presa diretta, e non mi riferisco solo a un accesso linguistico.
C'è un ponte culturale esclusivo fra la Sardegna e la penisola iberica, un percorso che in Marisa
Sannia sembra molto breve, addirittura più breve di quello che lei percorre quando canta in
italiano. Ama ciò che canta profondamente, sembra felice di farsi avvolgere dalla musica, di
toccare con la gola le parole del poeta. Non a caso tocar in Castigliano vuol dire suonare. Non c'è
musica e arte in genere senza corporeità, e in “Rosa de Papel” sento quest'evidenza a
commuovermi.»
Luigi Lozzi
ML 29
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update n. 67
ARTIST: KEITH CAPUTO
TITLE:
A Fondness for Hometown Scars
LABEL:
Suburban
RELEASE: 2008
WEBSITE:
www.keithcaputo.com
MLVOTE: 7,5/10
Ok lo ammetto, sono stato un fan della prima ora dei newyorkesi Life Of Agony! È risultato
impossibile per me restare indifferente alla sorprendente qualità del loro esaltante debut album,
quel capolavoro di hardcore metal intitolato River Runs Red (1993) ma anche o forse dovrei dire
soprattutto, all’ugola che dei L.O.A. è stata immagine e caratteristica distintiva, quella di Keith
Caputo. La sua voce, l’esperienza e l’attitudine sono state croce e delizia per la carriera della
band che, a eccezione di quell’esordio incandescente, ha sempre sofferto una certa mancanza di
focus dovuta alle diverse sfaccettature che la componevano; troppo hard e di impatto i musicisti
per l’animo intimista del cantante e viceversa… Non sempre i compromessi hanno partorito
risultati eccellenti e questo ha creato ogni presupposto per un percorso solista di Caputo. Il mood
di A Fondness for Hometown Scars impregnano di sensazioni spesso malinconiche e autunnali
eppure, sebbene si tratti di un lavoro dalla matrice prevalentemente cantautoriale e riflessiva, non
mancano quei guizzi elettrici che comunque influenzano il dna artistico del buon Keith (Troubles
down, Devil’s Pride) quasi a voler rivendicare una radice rock mai definitivamente sposata e al
tempo stesso mai del tutto abbandonata. Si tratta comunque di pochi episodi, né violenti né
tantomeno pesanti come in passato, che si distaccano all’improvviso dall’andamento generale del
disco, quasi a voler creare una camera di decompressione dalla carica emotiva che pervade il
resto del lavoro. Dal pianoforte e dalle chitarre acustiche di Crawling alle spazzole sul rullante (e
la tromba di Flea) della sognante e sospesa Bleed for something beautiful c’è tutto un percorso
attraverso una fitta vegetazione di note e toni carichi e avvolgenti, poi magari ti capita di
imbatterti in una ballata come Son of a gun che coadiuva non poco il pensiero nel volare verso
cose e persone speciali e il gioco è fatto. La performance di Caputo è un concentrato di feeling e
di talento incredibilmente stipato in un corpo minuto, lo si avverte da ogni solco, da ogni
sfumatura, indipendentemente dal fatto che sussurri le sue liriche o che dia fiato a tutta la sua
potenza vocale; questo disco è la dimostrazione che estro e capacità non necessitano d’essere
veicolate attraverso parametri predefiniti, buon per quanti abbiano orecchie per intendere e
ascoltare!
Manuel Fiorelli
ML 30
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update n. 67
ARTIST: JOHNNY GRIECO
TITLE:
I’m Cool
LABEL:
Autoprodotto
RELEASE: 2008
WEBSITE:
www.myspace.com/johnnygrieco
MLVOTE: 7/10
Ci sta prendendo gusto Mr. Johnny Grieco. Lo avevamo lasciato qualche anno fa a rimescolare le
carte sminuzzando e centrifugando i brani storici dei suoi Dirty Actions, gruppo punk genovese
attivo dagli anni ‘80, ed ecco che esce I’m Cool, primo progetto solista autoprodotto che
dovrebbe anticipare l’album Affanno D’Artista con alcuni brani cantati in italiano. Un EP di
cinque tracce che si distacca dal punk e dai remix di 21 Dirty RMXs (2007 – Le Silure D’Europe
International) e che affonda nell’elettronica umanizzata. Un piccolo progetto oltraggioso,
destabilizzante e multiforme che denota la purezza artistica di questo grande uomo. Derivativo
quando aleggiano spettri di Suicide ieri e N.I.N. minimali oggi, ma lo sberleffo con il quale
Grieco declama di essere Cool nel mantra iniziale lungo quasi sette minuti fa comprendere
quanto questo progetto sia sentito e fuori da meri scopi commerciali. Se poi aggiungiamo al lotto
la spettrale Dark Rainbows (David Bowie e Iggy Pop affetti da deliri crooner post industriali) e
le irresistibili danze sintetiche di Next Imminent Catastrophe e Dirty Inside, non possiamo che
promuovere il dischetto. Niente chitarre abrasive, solo drum machine e sintetizzatori. Allora com’è
che I’m Cool sosta sul mio scaffale del punk?
Nicola Guerra
ML 31
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update n. 67
ARTIST: FOL CHEN
TITLE:
Part I: John Shade, Your Fortune’s Made
LABEL:
Asthmatic Kitty Records
RELEASE: 2008
WEBSITE:
www.myspace.com/folchen
MLVOTE: 8,5/10
Nella mia libreria di iTunes ho creato un genere, “New Century Wave”, che uso per tenere in link
molti dei nuovi gruppi emergenti, che al di là di ogni evidente derivazione sonora e stilistica di
quei favolosi anni del post punk (when we were younger), mi danno altresì sensazioni di
freschezza e libertà creativa meritevoli di plauso e di motivate speranze per il futuro. I Fol Chen
rientrano, per me, in tale “genere” soprattutto per queste ultime peculiarità e ora si guadagnano,
dopo ripetuti ascolti, una mia personale standing ovation e una ragionevole attesa per qualcosa di
ancora più grande a venire. Altro approccio è quello di gruppi, uno per tutti gli White Lies, che
sembrano cresciuti a “pane e new wave”, ragazzi splendidi, da copertina del NME, eleganti in
black & white che ti colgono in reminescenze piacevolissime (… that’s the nightmare I’m running
from…). I Fol Chen mettono in musica un piano diverso. La prima canzone prega l’ascoltatore:
“don’t follow me now” e dopo averti indotto comunque a farlo te ne raccontano una bella, come
No Wedding Cake, e una triste, You and Your Sister in Jericho per esempio, con grande apertura e
approccio neo-folk, lasciandoti rincorrere una o più voci su trame godibilissime (Cable TV su tutte)
o su arrangiamenti arditi (Red Skies Over Garden City costruita su batteria, campane e voci!) in
un alternarsi di brani che va sorseggiato in sequenza pronti a rimandare a chi sa quale paragone
di gloria futura (almeno per le nostre orecchie). Note di copertina? Etichetta Asthmatic Kitty
(USA); mente del gruppo tale Samuel Bing (annotare, prego). Questa urgenza “corale”
accomuna tante delle nuove realtà d’oltreoceano (cfr. Fleet Foxes, Anathallo, Welcome
Wagon) ed è lo specchio dei tempi: nuovo umanesimo, nuova speranza, senso di comunione e di
responsabilità, di disincanto perché ormai “le abbiamo viste tutte, ma proprio tutte”. A essa si
aggiunge, nei Fol Chen, una spontaneità che richiede all’ascoltatore solo… amicizia! E così: non
sappiamo chi sia John Shade, ma visto che la sua fortuna è fatta, aspettiamo la parte II…
Gianluigi Palamone
ML 32
musicletter.it
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update n. 67
ARTIST: GLUECIFER
TITLE:
Basement Apes
LABEL:
Sony Music Entertainment
RELEASE: 2003
WEBSITE:
www.gluecifer.com
MLVOTE: 7,5/10
C’erano una volta i Gluecifer ed è veramente un peccato che già dal 2005 non ci siano più. Nati a
Oslo, in Norvegia, nel 1994, complici di degni compari come Hellacopters, Turbonegro,
Hardcore Superstar e Backyard Babies (solo per citare qualche nome) hanno dato vita
all’interessantissima e rilevante scena hard’n’roll scandinava, determinante per la rinascita e il
rinvigorire di certe sonorità in Europa. Basement Apes (titolo che alcuni rumors suggeriscono
sia stato liberamente ispirato al ben più famoso The Basement Tapes, disco di Bob Dylan del
1975), è il lavoro con cui è iniziata la collaborazione con la Sony; si tratta del penultimo album di
una carriera nata all’insegna delle mille traversie, così come la più classica delle gavette
comanda; il disco successivo, Automatic Thrill, pubblicato nel 2004, sarebbe stato assai
beffardamente il loro miglior successo commerciale nonché, contestualmente, il canto del cigno…
Misteri del Rock. Che stia divagando un po’ troppo? Diamine, se siete in buona vena e volete
impatto, sfrontatezza, energia, rifferama a go-go e cori coinvolgenti e ben assestati da urlare
mentre ballate scatenati, accomodatevi pure perché qui ce n’è in sana abbondanza, ve lo
garantisco. La banda capeggiata dal cantante Biff Malibu (vero nome Fritjof Jacobsen) non si
fa certamente pregare per generare un flusso di energia ininterrotta dal principio alla fine della
scaletta e le chitarre di Captain Poon e Raldo Useless non smettono un solo attimo di graffiare
piacevolmente, azzeccando suoni e idee sia nelle parti ritmiche che in quelle soliste. Dicevamo
dunque impatto e sfrontatezza? Niente paura, Reversed e Brutus, le due canzoni poste in
apertura, ne producono in abbondanza, una festa di rock’n’roll è appena cominciata e Losing end
è soltanto un pretesto per prendere fiato prima della vera bomba del disco, il singolo Easy living;
non c’è bisogno di alcun losco pusher per ottenere altre dosi di questa fantastica sorgente di
adrenalina, è sufficiente premere il tasto “repeat” per beneficiarne a oltranza! Non starò qui a
citare altri brani poiché la media qualitativa che li caratterizza giustifica ampiamente il voto
positivo, piuttosto vi invito a riascoltare (o a farlo per la prima volta) un album di spumeggiante
hard/rock’n’roll da assumere senza star lì a preoccuparsi delle dosi. “I’m done with the easy
living, I’m done with the easy living”.
Manuel Fiorelli
ML 33
musicletter.it
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update n. 67
ARTIST: PAVEMENT
TITLE:
Slanted And Enchanted
LABEL:
Matador
RELEASE: 1992
WEBSITE:
www.matadorrecords.com/pavement/
MLVOTE: 9/10
La prima volta che mi imbattei nei Pavement fui attratto dal titolo di un articolo che recitava I
Pavement hanno imparato a suonare? Nel tempo ho perso la sicurezza che ci fosse davvero il
punto interrogativo ma per me sapere che c'era una band caotica e romantica in giro era già
tanto. Sì, c'è questa nuova ondata dall'Inghilterra. Questo fu il commento di un mio amico che,
giustamente, avrebbe abbandonato presto il rock'n'roll per dedicarsi esclusivamente all'hip hop.
Quella nuova ondata esisteva veramente, si chiamava britpop, ma i Pavement non c'entravano
nulla. Provenivano da Stockton (California) ed erano spinti dalla Matador, un'etichetta di culto che
nel suo roster annoverava (in quegli anni) gente adorabile come gli Spoon, i Come e i Guided
By Voices, tutti gruppi caotici e romantici, tutti meravigliosamente americani. Ai tempi di
quell'articolo usciva Wowee Zowee, il più completo e anarchico album del gruppo di Stephen
Malkmus, ma il mondo era già stato cambiato dai Pavement nel 1992, quando le chitarre
scordate e la batteria insana di Summer Babe si erano permesse di riportare l'underground
americano all'essenza del rock'n'roll (che in quel periodo veniva pericolosamente aggredito dalla
MTV Generation). Nota è l'avversione, per esempio, che Malkmus e soci provavano verso la
spocchia dell'idolatrato Billy Corgan (autore con i suoi Smashing Pumpkins di alcune cose
notevoli ma personaggio a dir poco fastidioso). La rivalità verrà codificata dai Pavement nel
secondo album, Crooked Rain, Crooked Rain, comprendente una serie di inni per una nuova
generazione etichettata con il termine slacker. Tornando a quel 1992, a un altro titolo con
l'assonanza (Slanted and Enchanted) e ad altri piccoli inni, non si possono riascoltare senza che
scorrano autentici brividi le gemme di chi aveva deciso di rendere melodrammatico il rumore dei
Sonic Youth avvicinandolo ai Velvet Underground meno nichilisti (quelli, per intenderci, del
terzo album), il tutto partendo da una base folk insospettabile per una band alternative, che
meglio sarà compresa grazie alle collaborazioni dei ragazzi con l'amico David Berman dei Silver
Jews. Un classico su tutti, Here, ballata scentrata illuminata da un testo brillante e da un
magnifico e decadente ritornello. Basterebbe da sola per fare di un esordio un bel momento ma
siccome da sola non è, siccome ci sono pure la follia rock'n'roll di Two States, la confusione postpop di Loretta's Scars, la melodia inconsapevole di In The Mouth A Desert e il già citato caos
organizzato di Summer Babe, eccoci davanti a un capolavoro, il primo di una carriera che con il
senno di poi ci sembra ancora più grande.
Marco Archilletti
ML 34
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update n. 67
ARTIST: LIFE OF AGONY
TITLE:
River Runs Red
LABEL:
Roadrunner records
RELEASE: 1992
WEBSITE:
www.lifeofagony.com
MLVOTE: 9/10
Negativismo puro, paranoia e depressione, duro realismo fatto dall’asfalto e acciaio della città di
New York. Il debutto discografico del quartetto Life Of Agony, di sede a Brooklyn, che si
compone di tredici tracce e di un unico concept basato sulla vita di un ragazzo aspirante suicida,
si rivela uno dei capisaldi metal dei primi anni Novanta. La voce baritonale del minuto cantante
Keith Caputo dà un tocco grottesco a questo dinosauro sonoro, che digerisce una carcassa fatta
dai rimasugli del miglior hardcore NY style anni Ottanta con l’epicità di un certo metal d’annata.
Proprio da questo ibrido zoppicante di Cro-mags e Black Sabbath è partorito un sound
esplosivo, pieno di sbocchi melodici mai ruffiani e forte di un impatto granitico dove la chitarra di
Joey Z. e il basso di Alan Robert (ora attuale cantante dei punkers Spoiler NYC), come degli
instancabili muratori bergamaschi, piazzano mura su mura di rumore, triturate dall’incedere
spacca ossa del batterista (ex- Type-O-Negative) Sal Abruscato. L’iniziale This time (primo
singolo) e la cupa Underground sono tra le canzoni di maggiore impatto, gettonatissime nei
concerti della band, mentre, più vicino alle sonorità metal anni Ottanta con una chitarra/grattugia
che fa da cornice a scatenati headbanging, la canzone omonima River runs red. Se per fantasia e
originalità i LOA non hanno mai brillato particolarmente, per intensità e mal de vivre la raccolta è
un vero manifesto. Perviene un senso di angoscia e di perdita che, misto alla stesura di ottimi
pezzi, dà la sensazione di avere a che fare con classici di genere e se, nel 1993, all’uscita
dell’album si urlò al capolavoro, è anche vero che il quartetto è riuscito, con la pubblicazione dei
successivi tre dischi ufficiali (l’ultimo in salsa nu-grunge nel 2005) a far rimangiare a tutti le belle
parole spese. Come si fa a passare dalla trascendentale Bad seed, dal groove di My eyes e
Respect o dalla rabbia hardcore di Method of groove alla pomposità di pezzi come Love to let you
down o Wicked ways (in Broken valley datato 2005)? Nonostante tutto, pur sottolineando
nuovamente che il resto delle successive produzioni a nome Life Of Agony è certamente
trascurabile, questo River Runs Red rimane un mazzo di rose spinose, canzoni da ascoltare e
riascoltare per tutta una vita, chiaramente di agonia.
Antonio Anigello
ML 35
musicletter.it
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update n. 67
ARTIST: PIXIES
TITLE:
Doolittle
LABEL:
4AD
RELEASE: 1989
WEBSITE:
www.myspace.com/pixies
MLVOTE: 8,5/10
È tutta una questione di equilibrio. Se un cuoco riesce a trovare una ricetta capace di soddisfare il
palato grezzo e quello raffinato, la sua creazione rimarrà nel tempo. I Pixies trovarono
quell’equilibrio nella propria musica, un ibrido di pop e punk del quale ancora oggi non si conosce
l’ingrediente segreto. Doolittle è il successore di Surfer Rosa e non voglio certo aprire diatribe
su quale sia il disco migliore; vorrei solo cercare di conoscere quell’elemento segreto che rende
ancora oggi così speciale la musica di Black Francis (voce e chitarra), Kim Deal (bassista
eccezionale capace di dare ritmo anche al rumore), Joey Santiago (chitarra) e David Lovering
(batteria). Alchimia musicale fuori dagli schemi che fu sintetizzata in una semplice equazione
matematica: due terzi di rumore e un terzo di pop. Assaggiando il famoso disco della scimmia
diretta in paradiso è facile scottarsi la lingua con le spezie piccanti in salsa tex-mex di Tame e
Crackity Jones, restare deliziati dalla crema chantilly che ricopre la melodia di brani (storici) quali
Here Comes Your Man, Monkey Gone to Heaven e Hey e assaporare il gusto unico e fragrante di
un pane caldo con la tenera mollica di Debaser, Wave of Mutilation e La La Love You (punk, pop e
granelli di ironia cotti in forno che generano stupore al primo morso). Più si guarda Doolittle, e
più non se ne viene a capo. Più si ascolta, e più si gusta un piatto ricco, ricchissimo. Quindi non
dannatevi per trovare l’ingrediente segreto che forse nemmeno esiste ma semplicemente
ascoltate e godetene tutti. Questo è l’indie rock offerto in sacrificio per voi.
Nicola Guerra
ML 36
musicletter.it
musica
update n. 67
ARTIST: HÜSKER DÜ
TITLE:
Warehouse: Songs And Stories
LABEL:
Warner Bros. Records
RELEASE: 1987
WEBSITE:
www.myspace.com/flipyourwig
MLVOTE: 8/10
Ecco a voi il gruppo più sventurato e sottovalutato della storia del rock, copiato, adulato, amato e
citato, ma che, nella sua (troppo) breve vita musicale, non è riuscito a racimolare un bel niente.
Gli Hüsker Dü ora sono osannati e considerati dei pilastri del rock indipendente a stelle e strisce
ma il perché del non raggiungimento di un meritato successo di massa rimane tra i più grossi
arcani della storia a pari merito con quello della Sacra Sindone e della morte di Michael Jackson.
Certo, il trio non è mai stato portatore di un’estetica accattivante (vogliamo ricordare i baffoni da
porno attore anni settanta del bassista Greg Norton?) ed è rimasto sempre molto legato alle sue
origini cittadine (facendosi per tutta la carriera promotore della scena di Minneapolis) e musicali,
preservando sempre una certa credenziale e legame con il punk degli esordi. Warehouse: Songs
And Stories è il secondo (doppio) album pubblicato dalla major Warner Bros., dopo anni di fiera
indipendenza discografica a braccetto con un certo Greg Ginn e con la famiglia SST records, e
l’ultimo prima dello scioglimento dovuto ai forti contrasti interni tra Bob Mould e Grant Hart.
Dell’impeto hardcore delle prime produzioni qui non rimane in pratica niente ma si consolidano le
doti
melodiche
del
trio
con
canzoni
degne
di
una
heavy
rotation
in
qualsiasi
iPod/giradischi/mangiacassette di qualsiasi “vero” amante del sano rock indie made in U.S.A., tra
le venti canzoni si evidenziano, solo per diritto di cronaca, le splendide Charity, chastity, prudence
and hope, Standing in the rain e She floated away, ma in realtà ogni singolo brano dell’album
sarebbe già un buon punto di arrivo per molti giovani gruppi contemporanei. L’emotività di Bed of
nails (i R.E.M. in salsa Neil Young) e le successive Tell you why tomorrow e It’s not peculiar in
fondo sono le canzoni che tutti vorrebbero sentire in qualsiasi stazione radio, magari a scapito di
una Lady Gaga o Giusy Ferreri in meno. Warehouse: songs and stories non è il capolavoro degli
Hüsker Dü (… quello è Zen Arcade) ma, in un momento discograficamente così fiacco da far
passare l’ultimo dei Green Day come l’album rock dell’anno (vedi TV), rimane una raccolta di
brani dal tiro micidiale, coinvolgente e quasi commuovente.
Antonio Anigello
ML 37
musicletter.it
musica
update n. 67
ARTIST: EVERYTHING BUT THE GIRL
TITLE:
Eden
LABEL:
Blanco Y Negro
RELEASE: 1984
WEBSITE:
www.myspace.com/heknowsthesun
MLVOTE: 7,5/10
Tutte le stagioni hanno i loro dischi, legati a esse come quei rituali quotidiani che ne
caratterizzano l’arrivo o il loro lento o frenetico srotolarsi. Eden è il disco dell’autunno. È il disco
dei cappotti che ridiventano protagonisti degli armadi, delle sciarpe che tornano a proiettare le
loro curve grigie sulle grucce. Delle prime piogge che odorano di ozono e di appuntamenti traditi.
Dello spleen appassionato che si appiccica ai vetri e li imbianca di vapore pesante. Delle foglie che
corrono impaurite e in fuga sotto i marciapiedi come croccanti larve di clorofilla riuscite a
diventare farfalle per un solo giorno. Eden ha un torpore tutto autunnale, quel bisogno di rifugio
dopo le esposizioni solari dell’ estate appena passata, quella necessità di sostituire con l’ovatta
l’odore di poliestere dei costumi appena sfilati e di trovare riparo tra le coperte lasciando
sedimentare i ricordi della bella stagione. Ben Watt sceglie di raffigurare l’estate che scolora con
un batida chitarristico rubato ai maestri della bossanova Joao Gilberto e Antonio Carlos Jobim
che caratterizza buona parte dei brani (Each and everyone, Bittersweet, Even so, Fascination, I
must confess) ma allo stesso tempo aggiungendo a questa saudade l’amore per il jazz
ammiccante ed elegante di Cole Porter (una cover di Night and Day era stato il loro debutto su
45giri solo un anno prima, NdLYS). Lo dimostrano l’ incedere “spazzolato” di Tender Blue, le
trombe Bakeriane di Crabwalk o l’ organo sincopato della bella Frost and Fire che diventano gli
avamposti per il recupero del cool jazz che in quello stesso momento stanno operando personaggi
come Style Council, Joe Jackson, Working Week, Sade Adu, Carmel, Matt Bianco. La voce
di Tracey Thorn è l’altro strumento determinante per tratteggiare con misurato distacco questo
diagramma di linee semitonali discendenti e di ance discrete. Mai disperatamente accorata, mai
del tutto lieta anche quando tutte le altre condizioni sembrerebbero volgerle a favore (il solare
riscatto morale cantato su Another Bridge tutta scintillante di chitarre semiacustiche e organo
Hammond o nei sapori vagamente spagnoleggianti della poesia d’amore di Even so punteggiata
da un sottile gioco di nacchere o nella rilassata e morbida dolcezza sprigionata da The spice of
life). Languori pop/jazz che il duo di Hull abbandonerà presto scivolando verso il guitar-pop, il
country, il pop orchestrale, fino a rigenerarsi totalmente (e riscattarsi economicamente, NdLYS)
nell’elettronica figlia della jungle e del trip-hop dei mid-Nineties ma che qui rappresentano la
raffigurazione musicale perfetta dei molli ed esangui pomeriggi autunnali che tornano ad
ammuffirci il cuore ogni anno.
Franco Dimauro
ML 38
musicletter.it
musica
update n. 67
ARTIST: LLOYD COLE AND THE COMMOTIONS
TITLE:
Rattlesnakes
LABEL:
Polydor
RELEASE: 1984
WEBSITE:
www.lloydcole.com
MLVOTE: 8/10
Quando cresci con certi dischi è difficile scrollarteli di dosso. Ecco, Rattlesnakes e Lloyd Cole
furono una delle mie ossessioni di quel lontano 1984, assieme all’esordio degli Smiths. Un’affinità
di gradimento che era in qualche modo specchio delle molte analogie stilistiche tra le due band,
all’epoca dei rispettivi debutti: il gusto ricercato per il jangle pop di matrice Byrds di Johnny
Marr e Neil Clark, l’amore per certe arie retro pop, l’ironia beffarda e arguta dei testi imbastiti
da Lloyd Cole e Morrissey erano in qualche modo speculari. Ma, a rischio di far arricciare il naso
ai fanatici degli Smiths, dirò che l’esordio dei Commotions è, a confronto con quello dei “fratelli”
di Manchester, una spanna sopra. Uno scarto che diventa ancora più marcato se lo si confronta
con la prima versione di The Smiths, quella prodotta da Troy Tate e ancora orfana delle
attenzioni di John Porter. C’è, tanto per cominciare, la voce di Lloyd. Laddove The Smiths
sfoggia un cantato monocorde, nasale e annoiato come quello di Morrissey arrivando sino al
paradossale e irritante falsetto di Pretty Girls Make Graves e Miserabile Lie, Rattlesnakes sfodera
quella armonicamente carezzevole e modulata su tonalità basse e cautamente grevi da crooner
del signor Cole. Ci sono poi gli arrangiamenti. Che sono una roba che gli Smiths cominceranno a
usare solo da Meat is Murder in poi, lasciando (volutamente?) del tutto scarna e asciutta la
musica dei loro primi lavori e che invece colorano già la musica dei Commotions (che
commetteranno di lì a breve l’errore opposto eccedendo nella “posa” delle rifiniture coprendo
quasi del tutto il colore naturale della pietra, NdLYS) grazie alle partiture orchestrali di Anne
Dudley (che, forse in pochi lo sanno, fu una delle artefici del progetto Art of Noise, NdLYS) che
si adagiano su brani come la title track o Patience ma grazie anche all’aria campestre da roots
rock della bellissima Four Flights Up tutta gonfia di fisarmoniche e di chitarre che suonano come
mandolini (su un canovaccio da musica rurale che gli Smiths impareranno a sfruttare in pezzi
come Rusholme Ruffians, Nowhere Fast, Death at One‘s Elbow abbinandola al vecchio amore di
Marr per Bo Diddley e il rockabilly anni ’50, NdLYS) e impreziosita da versi tipo “sei arrivata in
città su una scassata macchina alla Grace Kelly/ e ti atteggiavi come un’amica di Truman
Capote/sembravi proprio quella che eri/perché è quello l’unico fascino che hai”. Una galleria di
personaggi degni del catalogo di Lou Reed (uno dei pochi autori americani di riferimento,
assieme a Tom Verlaine, per la scena jangle pop inglese di quegli anni, dai Daintees agli Aztec
Camera passando per Jazz Butcher, NdLYS): c’è la Louise dalla pelle perfetta che somiglia a
Greta Garbo di Perfect Skin, Julie e Jim a bordo della Speedboat, la Jodie che sembra Eva Marie
Saint su Fronte del Porto, legge i romanzi femministi di Simone de Bauvoir e ha bisogno di un
fucile per difendersi da tutti i “serpenti a sonagli” e tutta “the rest of the crew” (per dirla con le
parole di Ronald, l’autore di novelle che fa da voce narrante ai personaggi di Speedboat).
ML 39
musicletter.it
musica: lloyd cole and the commotions
update n. 67
Anche dal punto di vista squisitamente chitarristico, pur senza voler sminuire il genio di Marr,
dobbiamo notare come Rattlesnakes mostri una fluidità e fantasia che ancora manca ai giovani
Smiths. Se infatti Marr usa ancora per costruire le esili impalcature delle sue prime canzoni
pattern semplici e ripetitivi, Neil Clark sfodera già un ampio ventaglio di cristallini arpeggi
byrdsiani di gran classe (Perfect Skin e Rattlesnakes su tutti ma anche Down on Mission Street e
Charlotte Street) e morbidissime trame acustiche (Are you ready to be heartbroken? e 2CV) che
ne fanno il vero riff maker della giovane Inghilterra di quell’anno. Una verve troppo presto
ingrigita da un manierismo sempre più crudele. Un disco che non avrebbe lasciato eredi. Non
dallo stesso padre, perlomeno.
Franco Dimauro
ML 40
musicletter.it
musica
update n. 67
ARTIST: PARLIAMENT
TITLE:
Osmium …plus
LABEL:
Edsel
RELEASE: 1970
WEBSITE:
www.georgeclinton.com
MLVOTE: 8,5/10
Un disco della Madonna. Anzi, un disco di George Clinton, il Dio nero dello “stoned funky”. Inciso
nel 1970, quasi in contemporanea con il secondo album dell’altra band di Clinton di quegli anni,
ovvero i Funkadelic, in realtà Osmium …plus sembra una costola di Funkadelic, il debutto di
Clinton come profeta del p-funk, dopo i successi (e le delusioni) nel mondo del doo-woop con i
Parliament. Osmium …plus è un disco carico di funky spastico, quello che tornerà anni dopo ad
influenzare più certe indie band (Moonshine Heater è un pezzo dove troviamo i Make-Up e i
Lynnfield Pioneers con venticinque anni di anticipo, ad esempio, NdLYS) che le centinaia di
crew hip hop che faranno di Clinton il Dio pagano della musica nera a fianco di James Brown.
Ma è anche un disco parossistico, caricaturale, che sconfina nella country music nashvilliana
(Little Ole Country Boy sottolineata da violini agresti, pedal steel e scacciapensieri e dal famoso
coro yodel poi campionato dai De La Soul e sfruttata come retro per ben quattro singoli!), nello
spiritual (l’invocazione Oh Lord, Why Lord/Prayer che sembra una elegia barocca figlia di Traffic e
Procol Harum) e nei canti folk (The silent boatman con tanto di cornamusa), in parte figlie della
collaborazione con Ruth Copeland che il gruppo ricambierà partecipando in toto alla
registrazione del suo Self Portrait e al successivo I am what I am (entrambi da poco ristampati,
sempre da Edsel, NdLYS). Tuttavia non è là che risiede il germe malato della musica dei
Parliament, quanto piuttosto nelle tracce dove l’elettricità psichedelica si insinua dentro le
impalcature ritmiche di Billy Bass Nelson e Tiki Fulwood. Sono pezzi come I call my baby
pussycat, Moonshine Heater, Nothin’ bifore me but thang, Funky Woman e nei singoli successivi
Breakdown, Red Hot Mama e Come in and out of the rain, tutti qui inclusi assieme ad altre tracce
seminali come Loose Booty e Fantasy is reality. La prima illuminante esempio di funk “corretto” in
chiave rap e la seconda figlia dell’ ossessione per lo space funky che Clinton subirà lungo il corso
di tutto il decennio. Osmium …plus è soul music infetta, mutante e freak, figlia degli eccessi
della cultura psichedelica e in qualche modo sintomatica delle smanie progressive che
incomberanno sugli anni Settanta. Pruriginoso come ogni disco di musica nera ma anche
multiforme e pazzoide, capace di inghiottire bocconi di rock bianco e ruminare qualcosa che non
ne è una rilettura secondo altri canoni, come in passato era pure stato fatto da Otis Redding,
Ray Charles e quanti altri si erano trovati costretti a dover osteggiare il crescente successo della
montante invasione inglese di Stones e Beatles reinterpretandone il catalogo, ma un blob
organico figlio delle crisi rapsodiche e delle doti camaleontiche del suo creatore.
Franco Dimauro
ML 41
musicletter.it
musica: dvd
update n. 67
ARTIST: TALKING HEADS
TITLE:
Live in Rome [DVD]
LABEL:
MC Records | Giucar
RELEASE: 2008
WEBSITE:
www.talking-heads.nl
MLVOTE: 8/10
È mia opinione – condivisibile o meno; so di tirarmi addosso più di una obiezione ma nel dare
giudizi è importante assumersi la responsabilità di quel che si afferma, e io provo a farlo – che
dell’ondata rivoluzionaria punk & new wave avviata alla fine degli anni Settanta i Talking Heads
siano stati tra i pochi a lasciare un segno tangibile del loro passaggio (assieme Clash, Cure, Sex
Pistols, Jam, Television, Devo, Police, Costello, Joy Division, R.E.M., ma siamo già nel
post-punk, oltre ovviamente a Patti Smith) e a radicarsi nel tessuto connettivo della musica che
conta. Quando il gruppo guidato da David Byrne giungeva a Roma per un indimenticabile
concerto al Palaeur, il 18 dicembre del 1980, era da poco stato pubblicato il loro quarto album,
Remain In Light, prodotto come i due che l’avevano preceduto dal demiurgo Brian Eno; album
epocale con il quale davano una decisa virata verso un funky molto ritmato alla loro musica.
Solida musica metropolitana corroborata da schegge di musica etnica in un impareggiabile mix di
suoni e vibrazioni. Byrne & Co. (Tina Weymouth al basso, Jerry Harrison alle tastiere, Chris
Frantz alla batteria) arrivavano quindi in Italia (integrati per il tour da Adrian Belew alla
chitarra, Busta Jones al basso, Steven Scales alle percussioni, la vocalist Dollette
MacDonald, Bernie Worrell alle tastiere) nel momento di massimo fulgore della loro carriera e
non potevano non lasciare il segno tra il folto pubblico corso ad acclamarli. Un groove ipnotico, il
serrato sostegno della sezione ritmica, un uso generoso di percussioni, la presenza autorevole
della chitarra di Belew che si concede un paio di assolo da brivido. Il DVD (non ufficiale, ma
regolarmente in circolazione) testimonia solo poco più di un’ora delle due di concerto e gli Heads
snocciolano una dietro l’altra Psycho Killer, Stay Hungry, Cities, I Zimbra, Drugs, la cover di Take
Me To The River, Crosseyed And Painless, Life During Wartime, Houses In Motion, Born Under
Punches e The Great Curve. Peccato per la mancanza di completezza, ma tant’è. Quello che
sfugge alla visione è il vezzo del gruppo di iniziare il set con l’introduzione di pochi strumenti per
poi, via via, aumentare gli ingredienti fino a farsi formazione corposa di nove elementi. Questo
preclude ai più la magnifica sensazione di un concerto in crescita continua ed inesorabile offerto
alla platea dei fortunati presenti. La qualità non è eccelsa (così come il sonoro, appena in Dolby
Digital 2.0 che si va ad aggiungere alla proverbiale pessima acustica del Palaeur) ma le immagini
sono più che sufficienti a suscitare i ricordi (e le buone vibrazioni) in chi quella sera c’era e a
incuriosire coloro che vogliono farsi un’idea del gruppo di Byrne del quale esistono pochissime
testimonianze filmate, la più importante delle quali sarebbe arrivata solo quattro anni dopo, nel
1984, con il film Stop Making Sense filmato da Jonathan Demme.
Luigi Lozzi
ML 42
musicletter.it
live review
update n. 67
ARTIST: MOTÖRHEAD
LOCATION:
Roma, Ippodromo Capannelle
DATE: 15.07.2009
WEBSITE:
www.imotorhead.com
photo by Manuel Fiorelli
Appena due settimane prima di questo evento avevo visto un signore di sessantasette anni, tal
Ronnie James Dio, esibirsi tanto mirabilmente da annichilire un trentenne. Poi, a stretto giro,
ecco Ian Fraser “Lemmy” Kilmister, vera e propria icona a cui, a sessantaquattro anni suonati,
è sufficiente sibilare “Good evening… Nice to be back in Roma… We are Motörhead and we play
rock’n’roll” per scatenare l’inferno! Non so quali siano i loro segreti e me ne dolgo ma pare proprio
che l’hard rock abbia contribuito a farli invecchiare davvero bene. Non starò qui a ricordare
l’importanza di una band seminale e il rispetto con cui questa è venerata da generazioni di fan, mi
limiterò a dire che sono bastate le prime note di una feroce Iron fist per mescolare e uniformare
fasce d’età, status e religione di ogni singolo presente; siamo tutti giovanotti schiavi di un solo
culto quando sul palco ci sono i Motörhead. Il calore della risposta dell’audience fa invidia alla
temperatura sahariana di questa metà di luglio e così tanto le vecchie Stay Clean e Metropolis
quanto la recente Rock on colpiscono il bersaglio senza fatica alcuna. Sono sempre loro,
inossidabili, non c’è bisogno di fuochi, bombe, laser e pose stereotipate… Volevamo la
strafottenza impertinente di Phil Campbell, il drumming mostruoso di Mikkey Dee e la presenza
magnetica del loro leader e tutto ci è stato servito con la stessa grazia di un panzer. La parte
centrale dello show, a eccezione di un paio di estratti da Another Perfect Day, è imperniata
sugli ultimi lavori in studio, con una predilezione per i tempi solidi e cadenzati ma ci pensa
l’accoppiata Going to Brazil / Killed by death a rispolverare fragorosamente la verve più
adrenalinica tipicamente motorheadiana. Pochi secondi per riprendere fiato ed ecco che Lemmy,
presentando la fine del set pronuncia, digrignando i denti, le sei lettere che stavo aspettando fin
dall’inizio, Bomber! Faccio fatica a descrivere con lucidità cosa sia successo nei tre minuti
successivi ma faccia tranquillamente fede l’aggettivo “meraviglioso”! Il set ufficiale termina così in
un tripudio di applausi e di braccia alzate di svariate generazioni di rockers ma prima ancora che il
clamore si affievolisca riecco i tre brutti ceffi sul palco, armati di chitarre acustiche. Whorehouse
blues è un gradevole siparietto che ben prepara il terreno all’impetuoso avvento delle due
mazzate conclusive che chiudono un concerto favoloso (suonato a un volume assassino) con una
micidiale coda all’insegna degli straclassici, Ace of spades e Overkill. È la terza volta su tre che
questi immarcescibili bastardi mi mandano a casa sfinito e senza voce e a me non resta che
ringraziarli per l’ennesima massiccia, ruvida e intensa celebrazione di rock’n’roll. Sarà anche il
2009, saranno anche i vecchi e soliti Motörhead ma il mio mondo ha ancora bisogno di loro!!!
Manuel Fiorelli
ML 43
musicletter.it
live review
update n. 67
ARTIST: DAVID BYRNE
LOCATION:
Roma, Cavea Auditorium
DATE: 20.07.2009
WEBSITE:
www.davidbyrne.com
photo by www.davidbyrne.com
La musica dei Talking Heads sembra un condensato di tutti i generi possibili, di tutti i colori
esistenti. Uno dei rarissimi esempi di musica in grado di essere divertente e “intellettuale” allo
stesso tempo. Fin troppo facile riuscire a capire quindi, come anche in occasione del concerto
all'Auditorium di Roma, il filo conduttore che ha tenuto in piedi il tutto è stata l’ironia. Non a caso
lo spettacolo inizia con Byrne sul palco che scherza con il pubblico attraverso una serie di battute
sghembe che aprono la pista alla musica, ai suoi accenti e alle coreografie che i tre ballerini
eseguono per tradurre in danza la gioia e l’ironia della sua arte. La scaletta proposta ripercorre la
collaborazione decennale di Byrne con Brian Eno. Si parte con Strange Overtone, e si prosegue
con I Zimbra capolavoro a metà tra la World Music e il post-punk. Houses in motion viene
proposta come quinto brano, ma a questo punto il pubblico è già conquistato. L’applauso che
segue l’ultima nota del brano sembra infatti interminabile, e si fa fatica a realizzare che lo
spettacolo è di fatto appena iniziato. I brani tratti dall’ultimo Everything That Happens Will
Happen Today reggono bene il confronto con i classici. Dal vivo forse addirittura meglio che sul
disco, a dimostrazione che la vena creativa di Byrne non si è ancora esaurita. Lo spettacolo si
chiude con Byrne richiamato sul palco per ben quattro volte, con il pubblico dell’Auditorium tutto
in piedi attorno all’enorme palco (una struttura inutilmente troppo spaziosa con almeno 6 metri
tra l’artista ed il pubblico) a battere le mani trasformando l’atmosfera della Cavea in un’atmosfera
da stadio. La parte finale è dedicata a brani immortali come Born under punches, Once in a
lifetime, Take me to the river, Burning down the house e Road to nowhere. La chiusura è affidata
alla title track dell’ultimo lavoro con Eno. Un brano più intimo e raccolto, ideale per spegnere le
luci sullo splendido spettacolo, e sulla Cavea che per una sera si è trasformata in un piccolo
stadio.
Gianluca Lamberti
ML 44
musicletter.it
live review
ARTIST: GIORGIO CANALI & ROSSOFUOCO
update n. 67
LOCATION:
Brescia, Offlaga
DATE: 01.08.2009
WEBSITE:
www.myspace.com/giorgiocanali
photo by Nicola Guerra
A Giorgio Canali il superfluo non è mai interessato. Una chitarra elettrica basta a spazzar via le
voci del passato, basta per coprire le lodi del suo ultimo lavoro con i PGR e basta per presentare
il nuovo disco dei suoi Rosso Fuoco: Nostra Signora della Dinamite. Un album che, come tutti
i dischi del Canali solista, ha solo la voglia di viaggiare di piazza in piazza e di generare sorrisi
amari e tremiti interiori. Le verità applicate al rock’n’roll, parole che non concedono equivoci e che
sono solo ritornelli di vita quotidiana. Eccoci, di nuovo, a seguire l’agguerrito menestrello elettrico
in una splendida cornice arroccata nel nulla, la cascina della Bariloca a Offlaga, in provincia di
Brescia. Un luogo sperduto e magico che si anima con la musica folk dei Postcard Writer, nuovo
progetto di Pierre Ballarin, già voce dei Records. Avvolti dalla luce della luna, le canzoni di Love
is Analog deliziano gli ascoltatori con la loro
semplicità; un ottima brezza estiva prima della
tempesta elettrica. Difatti quando Giorgio Canali sale sul palco con i Rosso Fuoco iniziano ad
avvertirsi le prime scosse, la gente si posiziona sotto il palco per ricevere gli schiaffi di rumore che
tanto fanno risvegliare le coscienze. Un muro di suono si alza e dentro le crepe delle melodie le
parole dell’ex CSI fuoriescono come mostri che non vogliono spaventare ma aizzare contro
questo mondo sempre più malato. E desideroso di poesia. Canzoni dall’indole rock che spaziano
dal nuovo disco già imparato a memoria dai presenti (segnaliamo una intensa lezioni di poesia)
fino ad arrivare ai “classici” quali Precipito, Questa è una canzone d’amore, Mostri sotto il letto e
Alealè che confermano lo stato di grazia dei Rosso Fuoco, che oltre a lezioni di poesia
impartiscono lezioni di vibrante e fragoroso r’n’r. Tutto si quieta, la gente accorre a bere metri di
short colorati e ballare musica odiosa che nemmeno la chitarra nera di Canali è riuscita a
scacciare. D’altronde è la stessa storia dei fantasmi e dei malcostumi italiani. Si possono
esorcizzare ma mai cancellare.
Nicola Guerra
ML 45
musicletter.it
live review
ARTIST: DINOSAUR JR.
update n. 67
LOCATION:
Roma, Circolo degli Artisti
DATE: 08.09.2009
WEBSITE:
www.dinosaurjr.com
photo by www.dinosaurjr.com
È stato bellissimo e appagante aver assistito, purtroppo per chi scrive, soltanto per la prima volta
allo spettacolo offerto dai Dinosaur Jr. al Circolo degli Artisti di Roma. Non ho seguito la loro
ultraventennale produzione (compresa la sospensione), ma considero l’ultima opera della band
americana un vero capolavoro di qualità che lascia ben sperare anche per il futuro. Dal vivo il
gruppo ha dimostrato di avere un’ottima intesa esaltando all’ennesima potenza, oltre che
all’ennesimo volume (“erano i volumi più assurdamente alti che io abbia mai ascoltato” Thurston
Moore), i pezzi suonati, la maggior parte da Farm con l’aggiunta di chicche quali Feel the pain,
Out there e la cover di Just like heaven dei Cure, per un’abbondante ora di ottima musica. Le
sonorità prodotte da Mascis (chitarra), da Barlow (bassista, tra l’altro, fondatore dei Sebadoh)
e da Murph (batteria), stimolanti e capaci di comunicare piacevoli sensazioni, rispondono
all’entusiasmo degli spettatori ampiamente ripagati e soddisfatti. Un disco che non stanca affatto
e che, quindi, consiglio senza controindicazioni. In attesa di un prossimo concerto, lunga vita ai
Dinosaur Jr.!
Stefano Sezzatini
ML 46
musicletter.it
speciale
SPECIALE MOTOWN
update n. 67
La più grande etichetta indipendente della storia
© 2009 di
Luigi Lozzi
Ci sono città degli Stati Uniti nel cui nome si identificano
interi movimenti o correnti musicali. Così, se Nashville è
l’incontrastata patria della country music o Chicago quella
del blues urbano e Seattle del grunge, Detroit è da sempre
associata al classico sound della Motown, la più grande
etichetta indipendente della storia della musica.
La Motown, il cui nome deriva dalla contrazione di Motor Town, ovvero Detroit, sede della Ford, è
dall’anno della sua fondazione, il 1959, anche sinonimo della prima grande ed importante
corporazione americana completamente gestita da gente di colore. Erano quelli gli anni in cui
l’evoluzione della musica Soul coincideva con il processo di integrazione dei neri avviato in quel
periodo. La sua fondazione si deve alle felici intuizioni di un uomo, Berry Gordy jr. che riuscì a
far emergere l’anima nera della sua città, il Northern soul, il soul scatenato e rurale dei dance
floor, mescolato con il gospel, la coralità della musica nera, espressione dell’anima. Un uomo in
grado di creare il concetto di hit single e di invadere le classifiche con oltre 100 Number One
nell’arco di un decennio. Mentre lavorava come meccanico nelle officine Ford, Berry si divertiva a
scrivere canzoni. Nel ’58 scrisse Lonely Teardrops per Jackie Wilson e l’anno seguente You Got
What It Takes, un grande successo per Marv Johnson. Quello stesso anno, il ’59, Gordy jr.
inaugurò la sua label discografica. Nel 1961 venne pubblicato il primo disco che superò un milione
di copie vendute, Money interpretata da Barret Strong. Il segreto, di quello che venne definito il
sound dell’America giovane, consisteva nell’abilità dei produttori di rendere il Rhythm & Blues
gradito allo stesso tempo sia alle platee bianche che a quelle di colore. A Gordy fin fondo
interessava diffondere, divulgare, distribuire musica nera, di qualità, nel mondo. A scrivere
canzoni provvedevano anche William Smokey Robinson, Nick Ashford, Valerie Simpson,
Norman Whitfield, e soprattutto un trio affiatatissimo composto dai fratelli Brian ed Eddie
Holland e da Lamont Dozier. Impressionante è il numero di hit sfornati dal marchio HollandDozier-Holland. Diana Ross & The Supremes devono alla loro accattivante vena melodica
buona parte del loro successo. Shop Around, scritta da Smokey Robinson e cantata dallo stesso
assieme al suo gruppo, i Miracles, e Please Mr. Postman delle Marvelettes, furono altri due
dischi d’oro a breve distanza l’uno dall’altro. Nel 1964 la Tamla Motown era diventata già un
fenomeno di vaste proporzioni e si andava affermando come la più importante etichetta
indipendente.
ML 47
musicletter.it
speciale motown
update n. 67
Quell’anno ben dodici canzoni realizzate comparivano nei posti
alti delle classifiche, e il prestigioso Billboard, non sapendo se
etichettare quei brani come Pop o Rhythm & Blues, con una
decisione significativa unificò le due classifiche fino a quel
momento ben distinte. La genialità di Gordy era stata quella di
pescare gli artisti della sua label tra i ragazzi di colore con tanta
rabbia in corpo e altrettanta voglia di affermarsi. La lista dei
nomi
è lunghissima; può bastare citare
Mary
Wells, i
Temptations, i Miracles, i Four Tops, le Supremes, le
Marvelettes, Martha & the Vandellas, Junior Walzer, i
Commodores, Lionel Richie, i Jackson Five, Jimmy Ruffin,
i Boys II Men, Rick James, Johnny Gill, Queen Latifah,
Brian McKinght. Ma le punte di diamante della Tamla Motown
sono state senza ombra di dubbio Smokey Robinson, Marvin
Gaye, Stevie Wonder e Diana Ross che, dopo qualche tempo avrebbe sposato lo stesso Gordy.
Smokey Robinson è stato colonna fondante della Motown, a lui si devono classici del soul come
Going To A Go Go, You’ve Really Got A Hold On Me, Shop Around, Mickey's Monkey e la
magistrale The Tears Of A Clown. Stevie Wonder, grazie a un multiforme talento è ancora oggi
considerato una delle figure più leggendarie della musica moderna. Il suo esordio nelle classifiche,
avvenuto a 13 anni, si colora di leggenda se si pensa che già a 11 little Stevie Wonder era
considerato un piccolo genio ed aveva inciso un album dedicato al suo grande Maestro: Ray
Charles. Wonder ha contribuito in modo determinante all’affermazione internazionale della
Motown durante gli anni Sessanta e, assieme a Marvin Gaye, è stato protagonista di una
importante svolta artistica all’interno dell’etichetta agli inizi degli anni Settanta. Allora gli album
venivano pubblicati esclusivamente per fare da traino all’affermazione dei singoli o per raccogliere
in compilation i maggiori successi della label. Gaye, grazie alla credibilità conquistata negli anni
precedenti, fu il primo artista ad ottenere un controllo totale sulla propria musica ed il primo a
realizzare un concept-album nell’ambito della musica di colore,
offrendo così alla compagnia nuovi territori di sviluppo creativo. Era
il 1971 e il disco si intitolava What’s Going On; ancora oggi è
considerato uno dei 5 dischi più importanti della musica moderna.
Gaye era stato nel corso dei Sessanta l’artista di maggior successo
della Tamla raggiungendo ripetutamente i Top 10 delle classifiche
Usa e proponendosi spesso, in virtù di una voce sensuale e
vellutata, in duetti con partner femminili come Mary Wells, Kim
Weston e Tammi Terrell. Come singolo, il maggior successo di
Marvin Gaye era stato nel 1968 I Heard It Through The Grapevine, divenuto un classico della
Motown, interpretato anche da Gladys Knight and the Pips e ripreso in una splendida versione
rock blues dai Creedence Clearwater Revival. Molti brani prodotti dalla Tamla sarebbero
diventati cavalli di battaglia di più di un artista come Reach Out I’ll Be There (‘66) dei Four Tops,
My Girl (‘65) dei Temptations, Dancing In the Street (‘64) di Martha & the Vandellas,
incomparabile miscela di R&B, Gospel e Pop, You Keep Me Hanging On e You Can’t Hurry Love di
Diana Ross & the Supremes e tanti altri ancora.
ML 48
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speciale motown
update n. 67
I Rolling Stones, tanto per citare un altro nome,
hanno incluso nel proprio repertorio più di un brano
targato Motown (pensiamo a Going To A Go Go o
Just My Immagination). Nel frattempo Stevie
Wonder incideva dischi come Talking Book (‘72),
Innervisions (‘73) e Songs in the Key of Life
(‘76) che ne confermavano lo straordinario talento
e gli permettevano di diventare un solido punto di
riferimento non solo per gli artisti neri, ma anche
per gran parte dei più importanti musicisti bianchi.
Diana Ross con le sue Supremes è stata
l’indiscussa regina del glam soul agli albori della
propria carriera, capace di dare vitalità, grazie a un
team di compositori impareggiabili, a brani quali
Stop! In The Name Of Love, Where Did Our Love Go, Baby Love, You Can't Hurry Love, Someday
We'll Be Together, The Happening. I Temptations hanno rappresentato l’essenza del gruppo
vocale nel passaggio dalla forma di gospel ad una più moderna espressione; brani indimenticabili
sono Papa Was A Rolling Stone, My Girl, Get Ready, Ball Of Confusion e Just My Immagination.
Sul finire degli anni ’60 un’altra perla veniva inanellata dal genio di Gordy: la scoperta di cinque
fratellini scatenati, i Jackson 5, guidati dal più piccolo e più dotato di essi, Michael, che negli anni
’80, come solista sarebbe diventato un assoluto fenomeno commerciale. Le vicende degli anni ’80
hanno segnato un po’ il passo rispetto al decennio d’oro dei ’60: il lancio di nuovi artisti ai quali
mancava l’elemento principale che aveva determinato il successo dell’etichetta, cioè la
spontaneità, la nascita di nuove agguerrite realtà nell’ambito della musica di colore; tutti questi
fattori concorsero a determinare il declino di questo prestigioso nome. Ma il catalogo assemblato
dalla Motown ha un peso specifico che lo rende pressoché immortale. Per chiunque abbia voglia di
comprendere in modo compiuto la forza e la straordinaria influenza del sound della Motown sulla
musica contemporanea e sulla ‘musica’ in quanto prodotto di consumo per le masse, potrà
rivolgere la propria attenzione ad un magnifico cofanetto (Motown Essentials) realizzato dalla
Universal Music Group, a prezzo speciale e contenente ben 8 CD, sette dei quali sono compilation
dedicate agli artisti principali (Wonder, Gaye, Diana Ross, Smokey Robinson, Four Tops,
Temptations, Jackson Five) e uno riepilogativo del meglio delle altre stelle della Motown.
ML 49
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speciale
update n. 67
SPECIALE TEEN SOUND RECORDS
Sei produzioni dell’infaticabile etichetta romana
© 2009 di
Pasquale Boffoli
Eccoci
a
parlare
dell’infaticabile
e
prolifica
Teen
Records - etichetta romana di sixties, garage e non
solo, diretta da Massimo Del Pozzo - attraverso sei
produzioni uscite tra il 2008 e il primo scorcio del
2009. Buona lettura.
THE A’DAM SYKLES – Out Of The Circle Game (2008) - Alcune
note di sitar aprono Om, brano iniziale di Out Of The Circle
Game,
primo
album
dei
romani
A’dam
Sykles,
ultima
incarnazione di Massimo Del Pozzo, qui in veste di lead vocal,
chitarrista e compositore. L'avvio orientaleggiante e meditativo è
già un ottimo preludio ai toni malinconici e autunnali che avvolgono
un disco che si avvale di preziosi apporti strumentali di diversi
collaboratori (flute, violins, cello, horn, harpsichord, dulcimer, tabla
drum). L'approccio garage é notevolmente stemperato dalla delicatezza compositiva di brani
come Feel the pain (Roby's song), Mary Grace's mind, The big green e lo strumentale Victor's
lullaby. La versatilità degli A'dam Sykles è poi confermata dalla bossa di Sunshine girl,
dall'atmosfera folk/barocca degli altri strumentali Daisy e Sugarplum fairy. Le più energiche
Yellow day, Rain Child, She lives in my mind, con l'organo di Daniele Onorati in bella evidenza,
mostrano invece il lato piu' vigoroso degli A.S. Quello che colpisce in Out Of The Circle Game è
come le influenze esterne, barrettiane in primo luogo, siano metabolizzate mirabilmente
originando un sound ricco, ben amalgamato nelle sue diverse componenti ma soprattutto
decisamente personale: il risultato sono delle canzoni armonicamente affascinanti, sature di
splendidi cori e dalla perfetta taratura che a primo ascolto
colpiscono spirito e mente, a secondo conquistano sensi e memoria
insinuandovisi con sobrietà ed eleganza, rari di questi tempi. THE
STRANGE FLOWERS - Aeroplanes In The Backyard (2008) In una cosa gli Strange Flowers, pisani, eccellono nel loro
Aeroplanes In The Backyard: scrivere ballate mid-tempo pigre e
indolenti,
accattivanti
nella
loro
attitudine
proto-garage.
Mai
aggressivo il vocalist Michele Marino (autore di musica e testi) sa
catturare con le sue movenze decadenti, mentre il chitarrista
Nicola Cionini nei suoi interventi misurati colpisce acidamente (Clouds of blonde girls).
ML 50
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speciale teen sound records
update n. 67
Tutto l'album si muove secondo queste coordinate, risultando di volta in volta più psichedelico
(Aeroplanes/Yellow of sun) o morbidamente colloquiale (Helen says). Summa di questi elementi la
finale Everyone has a spot in the sunshine, quasi sette minuti di splendore lisergico con la chitarra
solista che si libra acida e sfolgorante a suggellare un album in bilico magicamente tra tentazioni
hard e oasi psichedeliche. LES PLAYBOYS - Abracadabrantesque
(2008) - Cinque maturi giovanotti francesi dediti ad un fuzz garage
rock di estrazione sixties che con questo secondo lavoro celebrano i
30 anni di vita musicale. Hanno preso il moniker da uno dei piu'
grandi successi di Jacques Dutronc, tra i rocker francesi più in
vista negli anni '60. È nel 1976 che tre degli attuali membri dei Les
Playboys (F. Albertini, F. Lejeune, F. Durban) fondano uno dei
primi punk garage acts francesi, Les Dentistes, ma è dall'entrata di
Pierre Negre alla chitarra solista nel 1979 che diventano una Nuggets/Pebbles band,
accodandosi in sostanza a Fuzztones, Lyres e Chesterfield Kings nel revival garage
internazionale. Incidono il primo album nel 1985 e attraverso varie vicissitudini giungono a questo
Abracadabrantesque che è la celebrazione in una mezz'oretta del loro beat-garage ancora
freschissimo, molto vicino nello spirito al party-sound dei sempreverdi americani Fleshtones.
Brani dai tipici titoli “capelloneschi” come Les jours ou' tout va da travers, Je revendique, Pour qui
me prenez-vous?, Mieux vaut etre seul incarnano paradossalmente nel 2009 la colonna sonora
ideale di feste beat in casa di quarant'anni fa, ma i vocalismi insolenti di Albertini, il fuzz guitar
onnipresente a sottolineare riff ingenui e le tastiere non invadenti non suonano datati: sono
portatori sani di una rabbia esistenziale ruspante e naif, alla Nino Ferrer (Albertini lo ricorda
molto nel timbro vocale!), ancora coinvolgente. Abbiamo a che fare quindi con dei Fleshtones
francesi? Decisamente sì, basti ascoltare le grezze Mon obsession, Abracadabra e Qu'est-ce que je
peux faire. Animal, lento e rarefatto, è l'unico brano a prendere le distanze dal mood generale del
disco. Let’s have a party with the Playboys! THE JUNE - Magik Circles (2009) - Anche questi
June
sembrano
in
pieno
sballo
“indiano”
a
giudicare
dall'introduttiva Barber shop, carica di sitar e bansuri meditativi. Ma
è solo l'inizio: da Rolling desperate in giù attraverso Better than you
si rivelano un trio mod robusto dal chitarrismo vitale. Poi in Big
black mouth e Sir Eugene Maddox emergono cori brillanti tra duri
riff jam style. Daisy, con mellotron, flute, trumpet e chitarre
riverberate li fa cadere in piedi tra densi aromi Oasis. I tre italiani,
che più anglofili non si può, continuano a opporre cantati melodici e
armonici a solide strutture strumentali in Getting high e Living in
the park. E mentre in mente si alternano fantasmi Beatles/Rain e Byrds/Notorius, i June
affondano i manici-bisturi nella sopraffina psichedelia pop di Sketches of sound, Revolver e Makes
me feel good. Magic Circles è un rilucente gioiello a cavallo tra i '60 e i '70: non chiedetevi (mi)
come i tre parmensi siano riusciti a raggiungere questo magico equilibrio in poco meno di una
mezz'oretta. Godetevi Magic Circles in un unico afflato elettrico!
ML 51
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update n. 67
LOS IMMEDIATOS – Second Chance (2009) Gli spagnoli Los
Immediatos giungono al secondo appuntamento discografico con
la Teen Sound dopo il debutto su For Monsters R. del 2007,
indirizzato verso un fresco power pop. In Second Chance i ritmi
rallentano e i brani, Something's wrong with you, A crying shame,
Princesa imboccano il sentiero di un pop garage mai aggressivo,
corroborato dal vox e acetone organ e dalla doppia chitarra di
Mazarro e Perez. Eccolo il power pop emergere, con precise
connotazioni spagnoleggianti, in episodi come No vuelvas, So sad about me, sad about us, la
cover I Wonder (The Gants). Los Immediatos sanno essere anche delicati come in Everybody
knows e nel songwriting leggiadro di Happy story e tornare graffianti nell'altra cover Bajo el sol
(Juan & Junior). La soffice ballata Garden paradise, ricca di tastiere colorate, conclude un disco
dall'approccio garage leggero e gradevole. TONY BORLOTTI E I SUOI FLAUERS – A Che Serve
Protestare ? (2009) - Entusiasmante l'inizio di questo nuovo lavoro di Tony Borlotti e i suoi
Flauers, con E voi e voi e voi, vecchio brano di Gene Guglielmi, sorta di blues in crescendo
sottolineato dall'aggressiva entrata del farfisa a metà brano. È un ideale dialogo tra un alieno e i
terrestri a sottolineare i fatali numerosi lati negativi esistenziali di questi ultimi. A Che Serve
Protestare sfoggia tutto l'armamentario beat italiano sixties, sia dal punto di vista strumentale
(armonica, farfisa, chitarre riverberate/distorte, cori, voce solista ingenua ma pungente) che nelle
tematiche: il rapporto con la religione (Giovane prete), la voglia di
libertà (Viaggio di un provo/Viva la libertà), l'amore (Un giorno
ancora/Gli occhi tuoi), la protesta (A che serve protestare?).
Azzeccata la graffiante cover No no no no dei mitici Sorrows e lo
strumentale beat Bagordo Shake. Da sottolineare la “cantabilità” e
l'energia di Viva la libertà (brano di Carlo Pavone), con la tagliente
chitarra solista di Mick Coppola, Lei se ne va e l'atmosfera S.
Leone/graffiti
di
A
Che
Serve
Protestare,
con
tromba
e
fisarmonica, sottilmente ironica, tutti brani che negli anni '60
avrebbero potuto scalare le classifiche beat. Nostalgica e strumentalmente ricca la finale Il peso
delle ore. Un revival italiano intelligente, ricco di humour ed estremamente fresco quello di Tony
Borlotti e i suoi Flauers, che finisce con l'essere senza tempo, per tutte le stagioni.
ML 52
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frammenti di cinema rimosso: settima parte
update n. 67
BLIND BEAST (La bestia cieca)
Un film di Yasuzo Masamura
Regia di Yasuzo Masamura
Daiei
1969 (Giappone)
di Nicola Pice
“L'impero dei sensi” di Nagisa Oshima e, persino, “Ultimo tango a Parigi” di Bernardo Bertolucci
devono molto all'opera di Yasuzo Masamura che con un'ostinazione pari al coraggio contribuì a
liberare il cinema nipponico - ormai degenerato in clichè barocchi - dal formalismo di maniera dei
grandi autori del passato (Mizoguchi, Yoshimura, Ozu). Formatosi al Centro Sperimentale di
Cinematografia di Roma negli anni '50 e, dunque, in possesso di una più ampia ed europea
visione del cinema, Masumura diventa il padre spirituale della “nuberu bagu” (nouvelle vague)
giapponese realizzando per conto della casa di produzione “Daiei” una manciata di film che
stravolgono (con un uso del montaggio che impone un ritmo narrativo rapidissimo) la tradizionale
sintassi cinematografica di un paese che si specchia nel lirismo dei drammi intimisti – girati ad
altezza di “tatami” - di Ozu e Naruse e che riempe le sale per guardare i cavallereschi “ninkyoeiga” o i “kaiju-eiga” (film di mostri) alla maniera del “Godzilla” di Inoshiro Honda. L'eros – o per
meglio dire il suo delirio perverso - è il grimaldello di cui Masumura si serve per scardinare il
perbenismo ipocrita di un popolo che pratica la censura sessuale (gli organi sessuali non vengono
mai mostrati esplicitamente nei film) ma che, al contempo, tollera la rappresentazione della
violenza più efferata. “Mojuu”, una novella di Edogawa Rampo, fornisce a Masumura il sostrato
narrativo di “Blind Beast” (La bestia cieca). La messa in scena delle ossessioni sessuali dello
scultore cieco Michi che con la complicità della madre rapisce la modella Aki per imprigionarla nel
proprio studio popolato da gigantesche sculture di nudi femminili diventa una sorta di viaggio
psichedelico all'interno delle oscure pulsioni dell'animo umano. La mutilazione inferta alla ragazza
dall'artista ed il suo harakiri successivo (in un finale che gioca atrocemente tra la brutalità della
morte e la sontuosa eleganza della confezione scenica di Mano Shigeo) sono la dimostrazione
della distruttività intrinsecamente umana. Nel conflittuale dualismo (freudiano) tra Eros e
Thanatos, Masamura indica il prevalere della pulsione di morte su quella di vita: il tentativo,
dunque, di ricondurre l'amato/a allo stato inorganico nello sforzo inutile e disperato di
possederlo(a) compiutamente supera la (naturale) tensione alla sopravvivenza dell'individuo e
della specie che spinge, al contrario, gli esseri umani ad amarsi e ad accoppiarsi. Crollo delle
utopie hippies sull'amore in voga negli anni '60, spietata metafora dell'incomunicabilità
uomo/donna, j'accuse totale sulle mistificazioni confuciane d'una società perbenista, difficoltà (se
non persino impossibilità) dell'arte a ri-definire il senso stesso dell'esistere: il capolavoro di
Masamura tritura i codici culturali di un popolo (e d'una intera generazione) con i meccanismi
della pop-art e ci consegna un funereo kabuki post-moderno in cui s'agitano marionette infelici
destinate al dolore e alla morte. La storia del cinema erotico non sarà più la stessa.
ML 53
musicletter.it
frammenti di cinema rimosso: settima parte
update n. 67
NEROSUBIANCO
Un film di Tinto Brass
Regia di Tinto Brass
Lion Film
1969 (Italia)
di Nicola Pice
Il successo commerciale riscosso negli anni '80 con “La chiave” (deleterio col senno di poi) e la
recente deriva simil pornografica non traggano in inganno gli spettatori: la querelle sullo spessore
autorale di Tinto Brass è del tutto pretestuosa. L'eccezionalità (in senso letterale) delle sue
travagliate opere – comprese le costose e controverse produzioni cinematografiche degli anni '70
– appare del tutto indiscutibile. Gli esordi rappresentano, infatti, un unicuum che lo rendono
difficilmente catalogabile nell'ambito del pur variegatissimo panorama del cinema italiano degli
anni '60. A dispetto dell'assoluta padronanza della macchina da presa e dell'eccellente conoscenza
delle tecniche del montaggio (di cui s'occuperà personalmente in tutti i suoi film), Brass sembra
del tutto insofferente alla rigidità formale del cinema “colto” - la critica più snob, infatti, storcerà il
naso dinnanzi alla sua incoerenza stilistica – e altrettanto lontano dagli stilemi della commedia
all'italiana per un'inclinazione al grottesco esteticamente incompatibile con il gusto popolare. Il
regista veneziano evidenzia, piuttosto, una verve anarcoide che lo assimila con tutta chiarezza al
mondo surrealista che aveva imparato a conoscere negli anni parigini. Una manciata di film – tra i
quali il bruciante “Chi lavora è perduto” e la satira feroce del cult “Il disco volante” - sono i
prodromi alla trilogia londinese di cui “nEROSubianco” (la seconda della serie) costitusce la prova
più inconcludente e, al contempo, geniale. L'autore mescola abilmente Marx e Freud, Buñuel e
Burroughs, Richter e Duchamp, Antonioni e Godard, il movimentismo avanguardista sessantottino
con l'erotismo alla Crepax (con cui aveva già collaborato nel precedente “Col cuore in gola”), gli
slogan pubblicitari con “inserts” televisivi o documentaristici in un turbinio di eccessi visivi così
densamente simbolici o altrettanto privi di senso da collocarsi come l'esempio più desacralizzante
e aggressivo della contro-cultura degli anni a venire. Un gioco di matrice tipicamente surrealista il
cui intento è quello di accostare un flusso vorticoso di immagini - apparentemente inconciliabili per analogia visiva piuttosto che per logica narrativa in un'opera di decostruzione della “cosa
cinema” che rafforzi la centralità del “visibile” sul “significato” propriamente detto. Ancorchè
manifesto programmatico del brass-pensiero in cui la frenesia con la quale la protagonista
Barbara/Anita Sanders tradisce il marito costituisce l'espediente necessario per rinsaldare il
rapporto di coppia e che – tra proibizione borghese ed esaltazione dionisiaca – definisce le
caratteristiche d'una gioiosa ed appagante libertà sessuale avulsa da ogni contesto sociale,
“nEROSubianco” assume i connotati d'un abnorme videoclip ante-litteram il cui compito principale
è quello di rompere la linearità artificiale del cinema “classico” e avvicinarlo ai territori del sogno,
del desiderio, dell'inconscio. Un cinema che alluda fino ad un certo punto all'esperienza diretta
con la realtà e che regali soprattutto emozioni.
ML 54
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frammenti di cinema rimosso: settima parte
update n. 67
KES
Un film di Kenneth Loach
Regia di Kenneth Loach
Woodfall Films | Kestrel Film
1969 (Gran Bretagna)
di Nicola Pice
La (lunga) stagione televisiva di Kenneth (Ken) Loach fu l'utile palestra in cui affinare uno stile a
metà strada tra la finzione e il reportage di tipo documentaristico. Sono gli anni del “free cinema”
britannico - una delle espressioni culturalmente più significative del '900 – ma il regista, dopo i
convincenti debutti sul grande schermo di “Chaty come home” e “Poor Cow”, epigoni per alcuni
aspetti di quel movimento glorioso, inizia un percorso estetico per altri versi differente. “A kestrel
for a knave” - romanzo di Barry Hines che collaborerà anche alla stesura della sceneggiatura con
lo stesso Loach ed il suo sodale labourista Tony Garnett - fornisce il soggetto al suo terzo film:
“Kes”. Lo sguardo con cui Loach segue le vicende di Billy, ragazzino triste e silenzioso, vittima
dell'indifferenza familiare, dell'incapacità educativa di un autoritario e arrogante sistema
scolastico e delle violente angherie dei propri compagni, è attento e di acuta profondità etica ma,
al contempo, sinceramente partecipe e di vibrante lirismo. Il giovane Billy diventa il simbolo
stesso degli “ultimi” che, per l'autore, si identificano con tutti coloro che sono schiacciati dallo
spietato meccanismo di un sistema socio-economico (quello capitalista) che non mostra alcuna
pietà per i più deboli. Lo scenario descritto è di desolante cupezza: l'irreversibile crisi
dell'istituzione familiare - in cui ciascun componente è estraneo all'altro se non ostile – fa il paio
con la disgregazione di una scuola che educa all'odio, acuendo i conflitti inter-personali, mortifica
l'iniziativa individuale, spersonalizzando studenti che, come se non bastasse, sono soffocati da un
becero e, in alcuni casi, grottesco ed insensato autoritarismo. L'addestramento intelligente ed
amorevole che Billy impartisce al falchetto Kes, ritrovato in campagna, costituisce un surrogato
all'impossibilità del ragazzo di penetrare la barriera d'ostilità di un mondo insensibile ed
indifferente alla sua richiesta di comprensione umana e, al contempo, diventa la metafora della
fuga da una realtà insostenibile e la speranza di un “altrove” che assume i colori verdi della
campagna riscattandolo da una quotidianità cupa e senza alcuna prospettiva futura che non sia
un lavoro in miniera. La crudele uccisione di Kes ad opera del violento fratello di Billy testimonia il
repentino crollo di qualsiasi sogno e dell'illusione della possibilità di un cambiamento non solo
sociale ma anche emotivo. La rabbia e la tristezza con cui Billy mostra la mano che sorregge il
falchetto morto ad una madre, indifferente al dolore del figlio e inorridita alla vista delle spoglie
dell'animale, equivale figurativamente ad una michelangiolesca “pietà” laica che cristallizza il
senso dell'opera e che diventa il manifesto stesso della poetica di Ken Loach: la rappresentazione
delle contraddizioni e degli squilibri del capitalismo che determinano alienazione sociale e disagio
psicologico. Da questo momento in poi la copiosa produzione cinematografica dell'autore
britannico sarà tesa alla dimostrazione di questo principio.
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