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Domenica
La
di
DOMENICA 25 LUGLIO 2010/Numero 285
Repubblica
l’attualità
Così funziona il welfare di Cosa Nostra
ENRICO BELLAVIA e ATTILIO BOLZONI
cultura
Papà Stalin e i bambini del Gulag
SIEGMUND GINZBERG
Officina
Moebius
Una minuscola galleria
piena di quadri e risate
Qui lavora il genio
del fumetto
ILLUSTRAZIONE MOEBIUS/ARZAK
Che a Repubblica
racconta i suoi sogni
e le sue ultime visioni
MARIO SERENELLINI
S
MICHELE SERRA
PARIGI
piega i suoi fumetti come partite di calcio: folla-giocatori, azioni-boati, interazioni mutanti, organiche e orgasmiche, che si gonfiano come un pallone, generate
da un pallone. «Le mie tavole nascono un po’ così: un
saliscendi di turgori e silenzi. Lievitano, fermentano su se stesse:
come scatole cinesi, bambole russe, visioni a incastro». «Proliferazioni», «metamorfosi»... parole che arrivano presto incontrando
Moebius. Oggi arrivano subito, in un’estate che gli stuzzica il buonumore e lo sguardo incandescente di mago metropolitano. L’8
maggio ha compiuto settantadue anni («sono un creativo o un vegliardo?»). Dal 12 ottobre al 13 marzo sarà festeggiato a Parigi con
la personale “Moebius transe-forme”, alla Fondation Cartier.
(segue nelle pagine successive)
Q
uando le prime tavole di Moebius arrivarono in Italia sulle pagine di Alter Linus noi giovani fumettari,
convinti che quella non era una vice-arte, ma arte di
serie A, ci trovammo di fronte a una prova schiacciante. La prova definitiva. Le figure alate di Moebius, i suoi umanoidi mitologici, galleggiavano nel vuoto come i sogni galleggiano nel sonno.
Apparizioni inedite, sbucate dal nulla. Il mondo di carne e pietra, di sabbia e cristallo di quegli eroi silenziosi aveva la potenza
evocativa del cinema unita alla libertà figurativa della grande pittura. Moebius aveva inventato un mondo mai visto prima: un lusso da Creatore.
(segue nelle pagine successive)
spettacoli
Audrey, prima sexy in the city
ANGELO AQUARO
i sapori
Terra e mare, la cucina delle Eolie
ROBERTO ALAJMO, LICIA GRANELLO e LIDIA RAVERA
l’incontro
Giovanni Soldini, paure di un solitario
IRENE MARIA SCALISE
Repubblica Nazionale
28 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
la copertina
Universi paralleli
DOMENICA 25 LUGLIO 2010
Da bambino, a letto con la febbre, viaggiava sfogliando
le incisioni di Doré. Capì così che “non si può far nulla
di sensato se non si sfiora il sogno”. Oggi, a settantadue
anni, continua ad accompagnarci nei suoi mondi fantastici
“È il mio lavoro: ripulisco il mondo dall’ovvietà”
MARIO SERENELLINI
(segue dalla copertina)
a FondationCartier nel 1999 gli aveva già dedicato un altro giubileo fantasy, “1 monde réel”:
«Il mio percorso, lungo più di mezzo secolo,
sarà documentato dal diario a matita, Inside
Moebius, da opere degli ultimi vent’anni e da
quel che resta dei primi trenta. Sarà la celebrazione dell’espandersi, dell’uscire da se stessi, dal proprio sapere, in una tensione, attraverso il processo creativo, a un
più alto livello di coscienza, cioè di fuga dalle sottomissioni». E qui le equivalenze col calcio cominciano a vacillare.
Ma Moebius, uno e trino, si sdoppia tra stili e pseudonimi —
Jean Giraud, Gir... — , si srotola e si rincorre beffardo (come
il nastro trompe l’oeil dell’astronomo da cui ha preso nome)
anche nella realtà d’ogni giorno, come adesso, nella minuscola galleria invasa dai suoi libri, dai suoi quadri e dalle sue
risate, con cui glossa riflessioni a se stesso inattese, paradossali: «A sei-sette anni, mi sentivo già calamitare verso due
poli d’attrazione: la storia dell’arte, con la sua sacralità sovrana, la solennità di cattedrale, e i fumetti, all’epoca Topolino e Tintin. C’erano due voci in lotta dentro di me: una mi
spronava ai media, l’altra al mondo più vasto e aleatorio dell’arte. Mi sono trovato, fin da bambino, davanti alla necessità d’una scelta tra fumetto e pittura. Già allora l’arte m’appariva una vetta lontana, mi sentivo escluso dalla cattedrale. Il fumetto aveva un’aria più accogliente, invitante, come
una sorgente fresca. Per me è stato il dito puntato su un
cammino possibile, già ricco di tracce sicure: il richiamo di
una voce materna. Invece che in una chiesona severa, giudicante, mi pareva d’entrare in un capannone, che sa di fumo e di birra: dove anche un cattivo ragazzo (i nostri genitori disapprovavano i fumetti) avrebbe ricevuto un riconoscimento».
I suoi primi maestri appartengono però all’arte, non alle
strip: Piranesi, William Blake, Gustave Doré... «Doré mi ha
subito sconvolto. Come, poi, Steinberg, un grande. Ho trascorso un’infanzia pregna d’incisioni dell’Ottocento. Negli
anni Trenta - Quaranta circolavano in famiglia libroni illustrati, ricevuti in regalo a ogni promozione: erano cronache
di viaggio intorno al mondo, mirabilmente illustrate da star
dell’incisione. Una cosa buona creata dal colonialismo! —
scoppia a ridere Moebius — . Tra gli illustratori ho imparato presto a distinguere Doré, di gran lunga superiore a tutti.
Di solito, mi immergevo in queste pagine quand’ero a letto
con la febbre, per la malattia infantile di turno. Erano tutte
letture febbricitanti». È stata questa la sua prima fantascienza? Hanno forse cominciato così, nelle trasparenze
del dormiveglia, a prendere corpo i suoi mondi paralleli, allucinatori? «È da lì che è nato il personaggio
del Major Grubert, col suo bravo casco coloniale,
che racconta storie fantastiche. È modellato su
quei reporter che alle mie febbri comunicavano
erranze metafisiche, molto vaghe ma molto ben
argomentate: rituali esotici, decapitazioni, cannibalismi. Più il soggetto era orribile e più appariva meraviglioso. Attraverso quelle cronache visionarie, il mondo occidentale mi si rivelava un’oasi civilizzata, mentre mi addentravo in quegli universi di magica, ingegnosa barbarie, resi più affascinanti dall’idea di
una loro sparizione imminente, darwiniana: il fatto di
ridurli a descrizione evocativa, a mitologia, era un modo di
estinguerli, di consegnarli a un paradiso perduto».
Il mistero, l’oscuro tradotto in disegno particolareggiato,
implacabilmente esatto, è la caratteristica, anzi il “programma” del suo stile. La sua fantascienza si manifesta come scienza: «Quanto più un fenomeno è vago, sfuggente,
tanto più precisa deve esserne la descrizione. È il lavoro
compiuto dalla poesia, che rivela l’ignoto attraverso il noto.
Una mela, in poesia, squarcia veli atavici. È compito dell’arte rendere il mondo enigmatico, ripulirlo dell’ovvietà. Per
questo amo l’arte contemporanea. Marcel Duchamp, con
le nuove epifanie degli objets trouvés, il loro capovolgimento di senso, ci ha liberato e acuito la vista». È quanto le riconosceva Folon («Moebius trasforma una pietra in montagna, vede l’oceano in una goccia d’acqua»): «La veggenza
grafica è il contrario del ragionamento costruito: capta con
la matita immagini volatili, fuggiasche. Non si può far nulla
di sensato se non si arriva all’estremo di se stessi, se non si
sfiora il sogno, l’enigma. I surrealisti ci avevano provato con
la scrittura automatica, con la casualità grafica del cadavre
exquis: ma la logica era ancora lì, l’inesplorato della ragione
rimaneva inesplorato. L’artista dev’essere sempre un passo
L
più in là della percezione corrente: fare scoprire
ogni volta la mela, in un modo in cui non è mai stata vista prima».
Già dal ’63, negli album a decine della sagaBlueberry, disegnata a partire dalle storie di
Jean-Michel Charlier («e con gli occhi puntati
sui film di Sergio Leone e sul West crepuscolare
di Sam Peckinpah!»), l’iperrealismo del tratto
s’apre a suggestioni mimetiche, a attrazioni
mutanti eroe-ambiente: s’è parlato per alcune
tavole di uomo-minerale, uomo-animale. Pur in una grafica fotografica, lo sconfinato West di Gir fa da test alle impennate cosmiche, psichedeliche del parallelo Moebius,
che si liberano nelle volute mute di Arzach e nei racconti fluttuanti del Garage hermétique, cioè nella grande stagione anni Settanta - Ottanta degli Humaoïdes Associés e della rivista Métal Hurlant, che farà ancora dire a Folon: «I sogni di
Alice ci portano nell’altro lato dello specchio, i voli di Arzach nell’altro lato dello spazio». Di nuovo Moebius: «Fondamentale, in quel periodo, è stata la grande libertà nella quale operavamo: ci eravamo dati obiettivi precisi ma senza limitazioni, non avevamo da rispettare ortodossie com’era
avvenuto tra i surrealisti. Era sufficiente disegnare. Ci riunivamo, prima di ogni numero: ma poi, ognuno per sé. Dopo
il colpo di pagaia, la pagaille, il caos. Ciascuno sprofondava
nei suoi personali abissi, rassicurato dall’idea che il gruppo
degli Humanoïdes (oltre a me, Philippe Druillet, Bernard
Farkas e Jean-Pierre Dionnet) formasse un’identità collettiva da cui, una volta costituita, divenisse naturale scivolar via,
eclissarsi, sparire».
È, quella, l’epoca degli incontri e degli scambi più creativi e mediatici: Ridley Scott, per cui cura il design di Alien e
Blade Runner, la Disney (Tron), René Laloux (il cartoon Les
maîtres du temps) e soprattutto Alejandro Jodorowski (suo
collaboratore per le strisce Les yeux du chat e il comico-mistico Incal), con cui realizza lo story board di Dune, poi “dismesso” e assorbito nel film di David Lynch. Il guardingo
magnetismo tavole-schermo segna il cambio di millennio,
continuando con Il quinto elemento di Luc Besson e Blueberry di Jan Kounen, fino a proliferare, occultamente, in film
recenti: le magrittiane
stalattiti celesti di
Avatar o l’az-
zurra donna-gigante emergente dalle acque
di Venezia che anticipa l’inquadratura
regina di Valzer con Bashir. L’evento mancato è un fantasy con Fellini. Cine-rimpianti,
Moebius? L’artista sorride al ricordo della
proposta ricevuta nel 1979 dal regista che, abbagliato dalle sue strip dalla «luce fosforica, ossidrica, perpetua, proveniente dai limbi solari», gli aveva reso omaggio tre anni prima nel
Casanova col personaggio di Moebius (lui ricambierà ritraendo Fellini e Sutherland nel suo
Casanova del 1998): «Il disegno non è, in sé, un
passaporto naturale per la scrittura o il cinema.
Lo sento se mai più vicino alla danza, alla musica.
Ho scelto di essere autore di fumetti, un Don Chisciotte dell’arte, conquistandomi le mie Dulcinee:
come Il Paradiso, illustrato nel 1999 per la milanese Nuages, dove ho potuto finalmente lavorare sulle spalle di Doré, il più infantile degli artisti, il più
danzatore, sciogliendomi in uno spazio tra fantascienza e metafisica, con in più quel tocco d’animismo che ha Dante. L’unico cruccio è il lavoro fatto in
fretta, col rischio della superficialità. Rembrandt lavorava seriamente su un disegno: anche Koons, anche
Picasso. Al confronto, mi sento uno che insegue Topolino, sempre di corsa».
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Moebius
“Sono il Don Chisciotte dell’arte”
Repubblica Nazionale
DOMENICA 25 LUGLIO 2010
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 29
IL PARADISO
A destra e in basso, quattro
illustrazioni del Paradiso
della Divina Commedia
realizzate da Moebius
alla fine del 1999:
avevano partecipato
con lui a questa edizione
illustrata della Commedia
Lorenzo Mattotti per i disegni
dell’Inferno e Milton Glaser
per quelli del Purgatorio
A sinistra, una gondola
sospesa, disegnata
da Moebius appositamente
per i lettori di Repubblica
Sotto, tavola da Chasseur
Déprime, nuovo capitolo
della saga Garage hermétique
Con lui il fumetto
diventò una cosa da grandi
MICHELE SERRA
(segue dalla copertina)
iente sapevamo dei suoi precedenti “umili”, da disegnatore di
storie western e da sperimentatore su riviste francesi delle quali eravamo all’oscuro (non c’era mica Internet, tutto viaggiava su carta in quegli
anni Settanta).Sapevamo, questo sì,
che il fumetto francese era grande,
pari a quello americano per qualità
anche se non per quantità di autori.
Un fumetto “colto”, sia quello avventuroso sia quello satirico che
proprio su Linussi era manifestato
con le storie dello strepitoso Lauzier e di Claire Bretecher. Di quello avventuroso alcuni di noi conoscevano Tintin, Asterix, Lucky
Luke, qualche albo di Pilote. Ma
Moebius era davvero cosa mai vista, sbaragliava il campo, cambiava le carte in tavola, i comics, per sua
mano, uscivano di prepotenza dal “buffo”, dal caricaturale, dall’infantile, e assumevano
una potenza iperreale, perfino più che cinematografica. Quegli adulti che ci invitavano a lasciar perdere gli albi a fumetti, “cose da bambini”, per dedicarci a letture più
mature, erano serviti: di fronte a Moebius svaniva ogni riserva sulla minorità del fumetto.
Pochi anni fa rividi a Parigi una memorabile
mostra di Moebius. Mi diede l’occasione di rivivere l’emozione originaria della prima lettura,
del primo sguardo, quando Arzach, l’eroe volante di Moebius, decollò dalla rivista Métal Hurlante
atterrò nel mondo di Linus e di Alter. Con Moebius
la fantascienza diventa un crocevia tra post-storia e
preistoria. Tutta la fiction dopo di lui, cinematografica e non, è stata profondamente influenzata da questa sua visione extra-cronologica del futuro. Assieme
a Roland Topor, il maestro parigino ha strappato la fantascienza dalla sua fissità futurista, scintillante e cosmocentrica, e l’ha trascinata in un mondo viscerale,
terricolo, pietroso, ricco di richiami ancestrali, dalle teste sacre dell’Isola di Pasqua ai mastodonti pre-umani.
I rimandi a Moebius, nel cinema, nel fumetto, nell’arte,
sono così numerosi che non basterebbero cento tesi di laurea a catalogarli tutti. Da Alien a Tron a Dune, dai manga al
nostro Andrea Pazienza, le forme di Moebius, l’ambiguità
dei suoi corpi sincretici (un po’ di carne, un po’ di pietra,
un po’ di metallo) sono davvero un archetipo dell’immaginario contemporaneo. Nel Pazienza più visionario,
quello che dava sagoma alle pulsioni più fonde, l’omino che cavalca il mastodonte è forse quanto di più moebiusiano si sia visto dopo Moebius. C’è, come in Moebius, un eroismo epico e struggente, la sfida del piccolo bipede indifeso che affronta la natura e il cosmo.
Anche in Avatar qualcosa di Moebius aleggia: i
guerrieri che vanno a combattere gli aerei da caccia
cavalcando grandi uccelli rostrati. Ma il tocco hollywoodiano aggiunge a quei voli una destrezza giocosa e troppo colorata, da videogame, da gioco infantile. Il mondo di Moebius è invece per adulti, e
comunque tale da far sentire adulti i ragazzini che
ne restano presi. I suoi cavalieri e le sue cavalcature hanno una imponenza ieratica che il cinema difficilmente può restituire. Nella pagina di
Moebius non solo il tempo, anche l’uomo è sospeso. La fissità del disegno, in questo senso, avvantaggia il grande autore, impressiona la retina con una precisione che il cinema non possiede. Se poi il grande autore —
e questo è il nostro caso — è un genio, quell’immagine diventa archetipo, come se esistesse da sempre, fosse già nei
nostri pensieri reconditi, e la matita di Moebius l’avesse finalmente evocata, facendola sprigionare dal bianco del foglio, liberandola per sempre.
N
GLI INEDITI
Al centro, l’immagine inedita che farà da manifesto
alla mostra “Moebius transe-forme”, in programma
a ottobre alla Fondation Cartier di Parigi. Inediti anche
i tre disegni qui sopra: fanno parte di un adattamento,
non terminato, de La tempesta di Shakespeare
in chiave avveniristica
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Repubblica Nazionale
30 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 25 LUGLIO 2010
l’attualità
Si commuovono quando i boss escono in manette dalle caserme
Fingono stupore mentre raccontano che qualcuno ha fatto a pezzi
le statue di Falcone e Borsellino. Sono ragazzi. Vivono negli eleganti
Antistato
palazzi del centro di Palermo come nelle informi periferie
Ai loro fan le cosche offrono un futuro di successo
o un reddito minimo di sussistenza. È un welfare che funziona
Forza mafia
Chi fa il tifo per Cosa Nostra
ENRICO BELLAVIA
S
PALERMO
non ancora trentenni, dopo aver dimostrato sul
campo il valore della vendetta. Sotto l’ala dei corleonesi si presero Brancaccio, dalla piazza dei Signori, vicino alla Chiesa, dove risiedeva l’élite della
borgata, fino a Ciaculli e Croceverde, il cuore dei
giardini del mandarino tardivo, dove Palermo resta, nonostante tutto, campagna, e anche la parte
opposta, lungo la via maestra del quartiere che dal
budello affastellato di casupole, porta giù fino alla
piazza dell’Ammiraglio, con gli orrori di cortile Macello, la strage di piazza Scaffa.
Dicono che a Brancaccio, Settecannoli, Sperone,
Acqua dei Corsari, il potere dei tre fratelli — Giuseppe, il capo muto; Filippo, l’astuto mafia manager che si è messo in tasca fior di giudici al tempo in
cui ci si aspettava che si afflosciasse come un souf-
i sbracciano, salutano, si commuovono e mandano baci quando i boss escono dalle caserme con le manette ai polsi. Sbuffano se l’ennesimo corteo celebra l’ennesimo anniversario. Fingono sorpresa
mentre raccontano che qualcuno, in pieno giorno, nella ricorrenza della strage di via D’Amelio, ha
fatto a pezzi le statue di Falcone e Borsellino.
Sono i fan della mafia, il dietro le quinte della tranquillizzante retorica del cambiamento. Quella che
si culla nel mito degli eroi o che parla di paura per
spiegare il racket, e non di convenienza.
I fan della mafia vivono nei
palazzi eleganti del centro come nelle remote periferie. Li
diresti borghesi o proletari,
perché Cosa Nostra continua
a parlare agli uni e agli altri. Ai
primi racconta di formidabili
opportunità, li assiste e si fa assistere negli affari, li blandisce
perché ne ha bisogno e loro si
lasciano irretire. Ai secondi offre un reddito minimo di sussistenza, chiede in cambio occhi
svegli e mano leste. Li impiega
come vedette nei quartieri, assegna loro una piazza di spaccio o un lotto di videopoker da
curare. Li paga quanto nessuno Stato assistenziale potrebbe permettersi di fare. Ne
ascolta i bisogni e li governa. IL PARROCO
Casa, acqua, luce, auto. È il Maurizio Francofonte, parroco di Brancaccio, è il successore
welfare di Cosa Nostra, quello di don Pino Puglisi, ucciso dalla mafia il 15 settembre 1993
che tiene in piedi nel buio del
sommerso l’economia invisibile dei traffici. È lo
zoccolo duro del consenso.
Un mondo nel quale un ragazzino come Gianni
Nicchi, griffato dalla testa ai piedi, che molla il covo
per una serata al pub, che si fa assistere nella latitanza da una coppia squinternata, ha la pretesa di
tenere sotto scacco mezza città. E quasi ci riesce.
Un giovane leone, come Sandrino Lo Piccolo, poco più che trentenne, curato nell’aspetto come un
tronista di Uomini e donne, che cerca di mandare a
memoria formule e riti, dovesse capitargli di aggrapparsi alla tradizione per esercitare il suo dominio. E se li appunta, tenendo nella borsa quell’abbecedario del dire mafioso trovatogli il giorno della
cattura.
Ragazzi. Come lo erano i fratelli Graviano quando gli ammazzarono il padre all’alba della guerra di
mafia degli anni Ottanta e loro si ritrovarono boss
flè andato a male davanti al killer di fiducia Gaspare Spatuzza; e Benedetto, il meno attrezzato — sia
intatto. Nunzia, la sorella che si era innamorata di
un medico francese quando la famiglia pensava di
traslocare a Nizza con l’aiuto dell’avvocato, e i fratelli le dissero di no, ha scontato il carcere e si è defilata. Per la mamma c’era sempre una suite all’ultimo piano del San Paolo Palace, l’albergo costruito
con i loro soldi, spuntato come un fungo sulla costa
sfregiata di Palermo. Fuori, ad occuparsi di loro, ci
sono le mogli impegnate ad allevare figli che la cicogna ha misteriosamente portato dal 41 bis.
È intatto il loro potere perché il loro indotto economico funziona. Attività legali: imprese, negozi,
bar, una torrefazione. E quelle illegali: droga, pizzo e macchinette.
Nella borgata sono quelli che ce l’hanno fatta,
nonostante i rigori di un’esistenza blindata. Erano
il mito e in parte lo sono ancora. Il senatore di riferimento, Enzo Inzerillo, è alle prese con il suo processo per mafia, ma un paio di consiglieri di quartiere che gli erano vicini muovono un pacchetto da
tremila voti che nelle campagne elettorali si moltiplica. Da qui escono ancora consiglieri comunali e assessori. Che a loro volta spingono all’Assemblea regionale siciliana il cavallo di turno. Il quartiere resta un monopolio di Udc e centrodestra,
dopo una ventata di novità che però risale ormai a
vent’anni fa.
Paolo Agnilleri, il militante comunista, già segretario della sezione del Pci di Brancaccio e poi
spinto in Consiglio comunale dal voto operaio al
Nel quartiere Brancaccio
il potere dei fratelli Graviano
è intatto. Ipermercati,
imprese e bar. Droga,
pizzo e macchinette
Repubblica Nazionale
DOMENICA 25 LUGLIO 2010
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 31
L’intelligenza collettiva
del crimine
ATTILIO BOLZONI
rima o poi avremo una mafia senza mafiosi. Per sopravvivere la mafia deve liberarsi dei suoi uomini più rappresentativi e dei loro discendenti, far dimenticare gli orrori,
deve abbandonare quelle «ossessioni» che quasi in un secolo e
mezzo di esistenza (ufficialmente è nata il 25 aprile 1865: è stato quel giorno, infatti, che la parola «mafia» compare per la prima volta in un dispaccio che il prefetto di Palermo aveva inviato al ministro degli Interni del tempo) le hanno permesso di diventare l’organizzazione criminale più potente dell’Occidente.
Ma i tempi sono cambiati, il mondo è cambiato. E se la mafia alleverà e proteggerà ancora i suoi mafiosi — per esempio quelli
di Corleone, o quegli altri che abbiamo conosciuto nelle borgate intorno a Palermo — non avrà futuro. La continuità Cosa Nostra se la assicurerà ancora e come sempre con la sua trasformazione. Ma questa volta dovrà snaturare se stessa, svincolarsi da un’eredità che dopo centocinquant’anni l’ha portata verso l’inizio del declino.
Basta con i Totò Riina e con i Bernardo Provenzano, basta con
chi si chiama Ganci o Madonia, Galatolo o Santapaola, i legami
di sangue e quelle facce sconce non li vuole vedere più nessuno. Nemmeno gli amici degli amici. Alla mafia — a tutte le mafie — servono nomi e volti nuovi, sconosciuti, presentabili e rispettabili. Il «doc», l’uomo d’onore con almeno tre quarti di nobiltà mafiosa, d’ora in poi non sarà più garanzia di qualità. E basta anche con santine che bruciano, riti tribali, giuramenti, lupare e sfregi ai simboli dei nemici: la mafia si salverà se fingerà
di suicidarsi e se seppellirà i suoi capi.
A Palermo è già accaduto. La mafia resiste ma i grandi boss di
un passato lontano o recente non ci sono più. La mafia non è che
muterà nei prossimi anni, è già mutata. Chi sono i suoi padroni? Quali i condottieri che guidano un popolo che da una parte
perennemente si riproduce e dall’altra ha la necessità di scomparire? Per quel che se ne sa rimane l’ultimo, l’ultimo dei latitanti, l’ultimo dei boss delle stragi, l’ultimo che è il primo della
lista, il trapanese Matteo Messina Denaro.
La fama della mafia siciliana già oggi supera il suo effettivo
potere. La mafia che conta non ha più bisogno di grandi mafiosi in carne e ossa, c’è una “intelligenza collettiva” di Cosa Nostra
che la mantiene in vita e fa da riferimento a tutti coloro che in Sicilia o altrove con mafia e mafiosi si sono trovati sempre bene.
Per gli affari che verranno, soprattutto. La mafia prossima ventura la ritroveremo solo nel business o nella politica. E nessuno
avrà più il coraggio di chiamarla mafia. Ai pochi che lo faranno,
diranno: siete pazzi, mafiosi non ce ne sono più.
P
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tempo in cui il quartiere si impose un destino da
periferia industriale, i Graviano li conobbe da
bambino.
I vecchi raccomandavano allora di non andare a
cortile Bagnasco, la casa degli spiriti, che ancora si
vede arrivando dall’autostrada. Non potevano dire
che lì si tenevano i summit.
Il padre dei futuri boss curava le terre del padre di
Paolo e di suo nonno. E portarono da lui Benedetto
perché gli facesse un po’ di doposcuola. Vide crescere e affermarsi i tre fratelli, annettersi uno dietro
l’altro i bravi ragazzi di borgata che andavano dietro ai soldi e alla bella vita. Se li ritrovò davanti incappucciati una sera dell’83, quando gli spezzarono le ossa per dargli una lezione e non lo ammazzarono per via di quell’antico rispetto. E si ritrovò di
fronte altre facce conosciute quando, per ricordare
Padre Puglisi, il parroco ucciso nel 1993, insieme
con i compagni disseminò di candele il quartiere
per indicare a ogni angolo una vita spezzata, un
morto di mafia. E conosce la storia degli altri capi del
rione, il medico Gioacchino Pennino che era la temibile eminenza grigia della Dc di Settecannoli o
IL QUARTIERE
Nelle fotografie
di Mauro
D’Agati, scorci
del quartiere
Brancaccio
di Palermo
Al centro,
la vista da piazza
dei Signori,
il cuore
del quartiere:
sulla destra
c’è il castello
di Maredolce,
sulla sinistra
la casa
di Spatuzza
Qui sopra,
Padre Pio
e la Vergine
l’altro medico, Giuseppe Guttadauro, che al mattino teneva la contabilità delle estorsioni e il pomeriggio nello stesso salotto discuteva di politica regionale, primariati e concorsi. E non dimenticava di
rifilare con profitto i giardini delle famiglie a qualche multinazionale a caccia di aree per i megastore.
Finita la sbornia dell’edilizia, che fece di Brancaccio un immenso cantiere, con i capimastri che si
inventavano palazzinari da un giorno all’altro, con
le cooperative di cui si occupava il giovane avvocato Renato Schifani, con le imprese che tiravano su
casermoni, Brancaccio conta ora nove ipermercati. E una geografia dettata dalle loro esigenze: uno
svincolo, il tram, la ferrovia. Nelle piazze, come ai
“cancelli”, il fortino di spaccio più inespugnabile
della città, coca e hashish passano di mano velocemente. Spacciano tutti, spaccia anche il fruttivendolo settantenne che si alza al mattino va a comprare cassette di frutta che marciscono al sole e lui
batte cassa con le bustine. E fa reddito. Di mafia,
perché qui, nonostante tutto, Cosa nostra è ancora
classe dirigente.
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32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 25 LUGLIO 2010
CULTURA*
Orfani, poveri e ladri. Oppure figli
della nomenklatura caduta
in disgrazia. Furono milioni i piccoli
“nemici del popolo” deportati, rinchiusi negli orfanotrofi,
spesso derubati della propria identità. Ora, per la prima volta,
un libro dà un volto e una voce alle loro storie
Bambini
del
Gulag
SIEGMUND GINZBERG
è una foto molto famosa di Stalin con in
braccio una bambina
che gli cinge affettuosamente il collo. Era
stata scattata nel 1936,
durante un incontro al Cremlino con
una delegazione della Repubblica autonoma sovietica buriato-mongola. Fu
pubblicata il giorno dopo quasi a piena
pagina sulla Izvestia e tutti gli altri giornali. Lei aveva sei anni, si chiamava
Gelya Markizova, era la figlia del secondo segretario del Partito comunista locale. Quel che si seppe solo molto più tardi
è che suo padre fu fucilato poco dopo come «spia al soldo dei giapponesi». La madre fu anche lei uccisa in un misterioso
incidente automobilistico. La bambina
finì in un orfanotrofio per «nemici del
popolo» in Kazakhstan. Poi se ne persero le tracce fino a che, nei primi anni Novanta, fu rintracciata, ormai sessantenne, da una troupe della televisione finlandese. Raccontò che della fine dei suoi
genitori aveva saputo solo dopo la destalinizzazione. Dall’orfanotrofio aveva
scritto a Stalin, allegando un ritaglio dei
giornali con quella foto, ma non aveva
mai ricevuto risposta. Eppure era una
bambina fortunata. Ad altri milioni di
suoi coetanei era capitato di ben peggio.
Molti avevano perso anche il nome,
qualcuno non è mai riuscito a risalirvi,
nemmeno dopo il crollo dell’Urss.
Fu un immane massacro di innocenti protrattosi per oltre mezzo secolo. Di
generazione in generazione. Di cui si
sapeva pochissimo. Finché nel 2002 fu
pubblicata a Mosca una
ponderosa raccolta di documenti intitolata Deti Gulaga 1918-1956, i bambini
del Gulag. Di queste cose
non si parlava. Non ci sono
bambini nei libri di Solzhenitsyn e Šalamov. Le stesse
piccole vittime, quelli che
erano sopravvissuti, e ormai
erano adulti, anzi vecchi, non
si raccapezzavano. Nessuno
gli aveva raccontato nulla,
men che meno i genitori o i parenti. Per il loro bene. Una frase ricorrente nelle testimonianze raccolte tra coloro che
erano bambini nei molti decenni di anni terribili è: «Il silenzio
era la nostra salvezza». Ora è fresco di stampa un volume in inglese di Cathy Frierson e del curatore della raccolta originale di
Dieti Gulaga, Semyon Vilensky,
intolato Children of the Gulag
(Yale University Press). Non mi risulta che ne sia in programma
una edizione in italiano. Non è un
romanzo. Solo documenti, pezze
burocratiche ufficiali, rapporti di
commissioni di inchiesta, direttive degli organi superiori, lettere,
diari, fino alle più recenti ricostruzioni
fondate sugli spezzoni di memoria di
C’
bambini che avevano pochi anni all’epoca dei fatti. Niente effetti speciali, solo aridi fatti e ancor più aride note.
L’ho letto e sono scoppiato a
piangere. Non mi era mai
capitato per un libro. E dire che talvolta forse ho il
vezzo di atteggiarmi a
cinico.
Credevo di saperne
ormai tutto sul Gulag.
È noto che gli anni
della guerra civile seguita alla Rivoluzione d’Ottobre furono
tremendi. Nel solo
1918 la mortalità infantile superava il cinquanta per cento. Si
stima che tra il 1921 e il
1922 sette milioni e mezzo di bambini patissero la
fame e che perirono il novanticinque per cento dei
bambini al di sotto dei tre anni, e un
terzo di quelli che ne avevano più di tre.
Il quaranta per cento dei deportati nel
corso della campagna di “dekulakizzazione” erano bambini. Nei soli anni
1937-1938, all’apice del terrore, furono giustiziate settecentomila persone. Se si stimano due figli piccoli per giustiziato, fa 1,4 milioni di orfani. Il paese era
invaso da piccoli vagabondi che vivevano di
furti ed espedienti, si organizzavano in bande
che perpetravano saccheggi, stupri, assassinii. Nel 1935, dopo l’efferato omicidio di due
anziani coniugi nella
loro casa a Mosca, un
decreto del Soviet supremo abbassò l’età in
cui si era passibili di una
condanna penale a dodici
anni. L’opinione pubblica
plaudì la fermezza di Stalin.
Poi negli istituti di pena per minori e negli orfanotrofi cominciarono ad arrivare i figli dei «nemici del popolo». Che non erano più solo poveracci
La silenziosa strage
di papà Stalin
“...Siamo scalzi, nudi, affamati
e pieni di pidocchi. A colazione
ci danno un pezzetto di pane,
cipolla e sale...”
in libreria
Mario Guarino
David Ruelle
Storie di malaffare,
arricchimenti illeciti e tangenti
RITRATTO DI FAMIGLIA
La famiglia di Valentin Muravsky, uno dei bambini di Leningrado bollati come
“nemici del popolo”. La foto è stata scattata nei primi anni Trenta. Nel 1937
il padre venne arrestato dagli uomini del Nkvd: Valentin aveva nove anni,
fu mandato in esilio in Asia Centrale. Sopra, Evgenia Suzdaltseva Osipova
prefazione di Marco Travaglio
www.edizionidedalo.it
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DOMENICA 25 LUGLIO 2010
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33
LE VITTIME
A sinistra, bambini nel Gulag
di Bessarabian. Sotto, Valery Osipov,
vittima della repressione staliniana
IL DITTATORE E LA BAMBINA
La celebre foto di Stalin con una bambina
che lo abbraccia: è Gelya Markizova, sei anni,
figlia del segretario del Partito comunista
della Repubblica sovietica buriato-mongola
La foto fu scattata nel 1936 e pubblicata
su tutti i giornali. Poco dopo il padre di Gelya
fu fucilato come spia dei giapponesi, la madre
uccisa in un misterioso incidente. La bambina
spedita in un orfanotrofio in Kazakhstan
NEMICI DEL POPOLO
Rudolf Yakson, comandante
dell’Armata Rossa, insieme
alla moglie. Fu arrestato
e ucciso nel ’37. In alto la figlia
Maya, rimasta orfana
IL LIBRO
Documenti, rapporti di commissioni di inchiesta,
lettere, diari, ricostruzioni: è stato appena pubblicato
in inglese il volume Children of the Gulag (Yale University
Press, 2010). Gli autori sono Cathy Frierson e Semyon
Vilensky, quest’ultimo curatore della raccolta di documenti
uscita a Mosca nel 2002 e intitolata Deti Gulaga
Lo stesso Vilensky è un sopravvissuto al Gulag
ma sempre più spesso gli esponenti della nomenklatura che aveva represso i
precedenti «nemici». L’ordinanza n.
00486 del commissario del popolo per gli
affari interni dell’Urss, datata 15 agosto
1937, prescrive con agghiacciante dettaglio l’«Operazione di repressione delle
mogli e dei figli dei traditori della Patria».
Andavano trattati come elementi «socialmente pericolosi», non per quello
che avevano fatto o non fatto, ma solo
per quello che avrebbero potuto fare, o
solo pensare, in quanto parenti di arrestati. Per le mogli divenne obbligatorio
l’arresto, con la sola esclusione di quelle che avevano denunciato i mariti. Per
gli adolescenti erano prescritti deportazione e campo di concentramento, per gli infanti gli orfanotrofi speciali gestiti dall’Nkvd. Meno male
che Stalin in persona aveva detto
che «i figli non devono pagare per
le colpe dei padri». È noto che
aveva un gran senso dell’humour. Nel
suo Il primo cerchio,
Solzhenitsyn gli attribuisce, a
proposito di
mandare al
gulag i minorenni, la battuta: «Sono ancora giovani, sopravviveranno». Con la guerra si aprì per loro
una possibilità di
uscirne, per andare a morire al
fronte. Molti si sacrificarono eroicamente. La guerra ai
piccoli nemici continuò negli anni successivi. La stima,
prudente, fatta nel
2002 dal presidente
dell’allora Commissione del Cremlino
per la riabilitazione
delle vittime della repressione politica,
Aleksandr Yakovlev, è di
venti-venticinque milioni di vittime nell’intera era sovietica e,
quindi, di almeno dieci milioni di orfani.
Queste le cifre, che già conoscevo.
Ma un altro paio di maniche è dar loro
un nome, un volto, sentirne la voce. Nei
primi capitoli le lettere, rigorosamente
protocollate, che gli orfani della guerra
civile, e poi della campagna contro i kulaki, inviavano a Yekaterina Peshkova,
moglie di Gorki e presidente della Croce rossa sovietica, e a Nadezhda Krupskaya, la vedova di Lenin, vice commissario all’istruzione e responsabile
degli orfanotrofi e istituti correzionali
per minorenni, sono dure. Ma tutto
sommato ancora come Dickens, anche
se all’ennesima potenza. «Krupskaya,
mammina nostra… non abbiamo né
vestiti né scarpe, e non sappiamo con
cosa andare al lavoro, ma se non andiamo al lavoro perché non abbiamo nulla
da metterci addosso ci cacciano… una
nostra compagna dell’orfanotrofio ha
fatto quattro assenze perché non aveva
né scarpe né vestiti… l’hanno cacciata
via, si è messa a piangere, il direttore le
ha risposto in scherno: vai a battere… se
ci cacciano ci sarà una nuova massa di
ragazzi di strada e ladri…». «Siamo scalzi, nudi, affamati e pieni di pidocchi… a
colazione ci danno un pezzetto di pane,
cipolla e sale. A pranzo una barbabietola lessa con del cavolo, e alla cena non
dobbiamo neanche pensare, perché
non c’è…». «Facciamo il bagno ogni
due mesi, qualche volta tre, la biancheria ce la danno di rado… il direttore dà
scarpe vecchie solo ad alcune bambine
cui vuole bene…». Le ispezioni confermano. Un funzionario dei servizi di sicurezza scrive a Dzerzhinskij, il fondatore di quello che poi sarebbe divenuto
il Kgb, che le istituzioni per l’infanzia
sono divenute «senza esagerazione, cimiteri e latrine dell’infanzia». La Krupskaya si dà da fare, scrive accorati articoli sulla Pravda. Ma quando la corrispondente di un giornale socialdemocratico europeo le chiede delucidazioni sulle voci che cominciano a filtrare
anche all’estero, le risponde con una favola che invita a non curarsi dei «cani
che abbaiano».
Poi si passa all’intollerabile, all’inimmaginabile. A pagina 312 un rapporto
ufficiale, top secret, depreca «il lavoro
estremamente irresponsabile» nella
gestione degli infanti al seguito di «madri prigioniere». Con freddo linguaggio
burocratico si elenca, istituzione per
istituzione, il numero dei bambini febbricitanti, ammalati di dissenteria cronica, tifo, difterite, polmonite, distrofia,
tbc, sifilide. Traghetto per traghetto si
censiscono i trasporti di madri con lattanti a Magadan. Sei su dieci vengono
imbarcati gravemente malati. Quasi
tutti muoiono prima di arrivare a destinazione. Il documento è datato novembre 1952. A guerra finita da un pezzo.
Questi, i milioni, sono anonimi. Le altre, le innumerevoli storie di cui i protagonisti hanno ancora qualcosa da raccontare, sono in fin dei conti storie di sopravvivenza. Qualcuno, soprattutto
quelli che facevano parte dell’alta nomenklatura finita da un giorno all’altro
in disgrazia, ha anche foto di famiglia.
Straordinario come somiglino a tutte le
foto di famiglia. Sono uguali a quelle di
due miei zii che andarono clandestinamente in Russia negli anni Trenta, per
«fare la rivoluzione», e di cui non ho mai
ritrovato traccia, nemmeno dopo l’apertura degli archivi (che con Putin si sono richiusi). In alcune delle reminiscenze raccolte da Memorial negli anni Novanta ho trovato una possibile spiegazione. A molti di quei bambini fu cancellata persino l’identità, gli cambiarono
nome, non sono mai riusciti a risalire ai
certificati di nascita, nemmeno oggi.
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34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 25 LUGLIO 2010
Un mattino di cinquant’anni fa Blake Edwards girava
la prima scena del film che, tratto dal romanzo di Capote,
entrerà nella storia della commedia romantica
In realtà “Breakfast at Tiffany’s” è stato molto di più, una bomba
che annunciava la liberazione sessuale. Come ora racconta un libro
che dietro le quinte ha scovato tanti segreti, qualche timore e molte censure
IL BIGLIETTO D’INVITO
E sulla Quinta Strada
nacque la donna moderna
ANGELO AQUARO
«P
NEW YORK
osso provare con un
gelato?». Bisogna
ringraziare Blake
Edwards per non
avere ceduto ai capricci di Audrey Hepburn all’alba di un pungente giorno di
ottobre di mezzo secolo fa. Un gelato?
Ma quale gelato: chi mai avrebbe digerito un gelato a colazione? Sul copione
c’era scritto: «danese». E quel particolare tipo di brioche Holly Golightly avrebbe consumato — tutta di Givenchy vestita — davanti alle vetrine dell’indirizzo del lusso più famoso del mondo: 727
Fifth Avenue, New York.
Ah, Colazione da Tiffany. Quanti film,
oltre alla storia del cinema, hanno fatto
la storia? Ci sono voluti cinquant’anni
ma finalmente davanti a nostri occhi
scorre la pellicola nascosta dietro a quel
mito confezionato come una bomboniera: e che nascondeva, invece, una
bomba vera. Per carità, la critica applaudì entusiasta. «Accattivante davvero» scrisse il New York Times. «Una sorpresa che ti prende» rincarò Variety.
Tutti lì incantati di fronte alla love story
impossibile tra lo scrittore introverso e
quella ragazza ribelle venuta dalla provincia e che per vivere prende «50 dollari per la toeletta», come diceva la traduzione italiana.
Pochissimi, nell’autunno del 1961,
riuscirono a cogliere una piccola grande verità: malgrado lo stravolgimento
dal romanzo di quello scrittore strambo
e talentuoso, Truman Capote — che
raccontava il rapporto impossibile tra
una giovane prostituta d’alto bordo e il
narratore che in realtà era gay — sotto la
patina della commedia romantica Colazione da Tiffany nascondeva il mes-
saggio di liberazione sessuale che
avrebbe portato all’«alba della donna
moderna», come dice il sottotitolo di
Fifth Avenue, 5 A. M. «Hollywood ha
sempre parlato di sesso» scrive Sam
Wasson, l’autore del libro che ricostruisce la genesi controversa del capolavoro, «ma prima di Colazione da Tiffany
solo le cattive ragazze lo facevano».
Quel film apre agli anni Sessanta della
liberazione: naturalmente con tutto il
tatto e l’ipocrisia di un’industria il cui
massimo della trasgressione era stata
fino ad allora Quando la moglie è in vacanza.
Non per niente la prima scelta di Capote è proprio lei, Marilyn Monroe. Ma
i produttori, Marty Jurow e Richard
Shepherd, sanno che sarebbe una Holly pessima: la diva è incontrollabile ma,
soprattutto, è una bomba del sesso. Già
lo sceneggiatore, George Axelrod, ha i
suoi guai a smorzare l’eroticità della si-
Firmato da Holly
(Audrey Hepburn) il biglietto
d’invito per la prima proiezione
di Breakfast at Tiffany’s
al Radio City Music Hall,
il 5 ottobre del 1961
tuazione: la censura bloccherebbe tutto. E se non Marilyn chi? Le star dell’epoca sono un quartetto d’assi: Doris
Day, Elizabeth Taylor, Debbie Reynolds, Sandra Dee. Poi ci sono due
emergenti: Shirley MacLaine, Jane
Fonda. No, nessuna sembra tagliata per
quel ruolo impossibile: ci vuole una
classe altissima per portare sullo schermo un personaggio così moralmente
delicato.
«Lo script è meraviglioso», risponde
Audrey Hepburn, «ma io non posso interpretare una puttana». La principessa
di Vacanze romane, la ballerina senza
esperienza di recitazione che la stessa
Colette aveva scelto per far rivivere la
sua «Gigi», è in cerca di un ruolo che la
faccia uscire dal suo stereotipo acqua e
sapone. Ma questo è troppo. I produttori che sono volati fino al suo eremo in
Svizzera che divide con Mel Ferrer non
demordono: «Non vogliamo fare un
film su una puttana: vogliamo fare una
film su una sognatrice. Ma se
non ti senti pronta vuol dire che sei la
scelta sbagliata.... ». Punta nell’onore (e
forse dall’offerta di 750 mila dollari) Audrey capitola. «Posso dire» le scrive Capote «che sono contento che abbia accettato? Non posso dare nessun giudizio sulla sceneggiatura, non avendo
avuto l’opportunità di leggerla, ma dato
che Holly e Audrey sono entrambe due
ragazze meravigliose, sento che nulla
potrà scalfirle».
Nulla? A proteggere le due ragazze ci
pensa la censura di Geoffrey Shurlock,
il nuovo sforbiciatore di Hollywood,
l’uomo che ha riscritto per la prima volta da vent’anni il Codice di Produzione
delle major. George Axelrod è uno sceneggiatore scaltro e gli mette in mano
uno script pieno di paginate hard lì apposta per essere tagliate e distrarlo co-
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DOMENICA 25 LUGLIO 2010
sì dai punti critici. Ma Geoffrey è inflessibile. «Pagina 15: Holly dovrebbe portare tutta la sottoveste invece di mutande e reggiseno». «Qui le sue scene
devono essere girate con cura per evitare che si vedano nudità anche parziali». «Holly non può essere divorziata da Doc, il suo matrimonio è stato
semplicemente annullato».
Molti anni dopo, in un’intervista data in un momento d’euforia drogata e
ubriaca, Capote sconfesserà completamente quella Colazione da Tiffany:
«Mio Dio, è il film meno azzeccato che
abbia mai visto: il giorno in cui ho firmato il contratto, quelli hanno fatto l’esatto opposto di quanto avevamo pattuito. Hanno preso un regista schifoso
come Blake Edwards, che io ci sputo sopra...». Blake Edwards sarà naturalmente la fortuna del film. Un’altra seconda scelta. Audrey impone quattro
registi: William Wyler, Billy Wilder,
George Cukor o Fred Zinnemann. Ma
nessuno è disponibile e la produzione
si rivolge a quel regista brillante ma il
cui più grande successo finora è stato in
tv con Peter Gunn. Fortuna doppia.
Vuol dire che nel gruppo di lavoro entra
il giovane musicista che sta rivoluzionando le colonne sonore a ritmo di jazz:
Henry Mancini. È lui, l’autore di Peter
Gunn, la musica che poi rivivrà nei
Blues Brothersdi John Belushi, a scrivere apposta per Audrey Moon River con
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35
le parole del grande Johnny Mercer. Un
altro scandalo. Il capo della Paramount
non vuole che quella canzone compaia
nel film: ha in mente qualcosa di più impressionante, «siamo a New York, voglio musica di Broadway», e invece
Mancini ha fatto di tutto per inventare
quella melodia jazzy e folk, voce e chitarra, che poteva davvero essere stata
partorita da una ragazzina in fuga da
Tulip, Texas. È l’unico momento in cui
sentono Audrey — una parola buona
per tutti, sempre sorridente, una stellina sul set — rispondere a muso duro:
«Dovrai passare sul mio cadavere».
Canzone e colonna sonora furono gli
unici Oscar che il film vincerà: Hepburn
miglior attrice sarà battuta dalla Ciociara Sophia Loren. Ma quel mattino del 2
ottobre 1960 — quando Blake Edwards
dice «Motore!» davanti alla vetrina di
Tiffany, gridando di fare in fretta perché
di lì a poco sulla Quinta sarebbe passato il corteo di Nikita Kruscev — resterà
un punto di non ritorno. Le mamme di
mezzo mondo chiameranno Holly le
proprie figlie. E quarant’anni prima di
Sex & The City le ragazze scopriranno al
cinema che il sesso prematrimoniale
esiste e che c’è tutto un mondo lì fuori
da vedere: «Moon River, off to see the
world / There’s such a lot of world / To
see». Possibilmente, senza le mance.
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1. COLONY RESTAURANT
(Madison Avenue & 61st Street)
Qui il produttore Marty Jurow
si aggiudica i diritti
per Breakfast at Tiffany’s
2. COMMODORE HOTEL
6. TIFFANY & C0.
(Lexington Avenue & 42nd Street)
Qui la Paramount organizza
il casting per “Cat”, il gatto
della Hepburn nel film
(727 57th Street at Fifth Avenue)
Qui, davanti al tempio del lusso,
il primo ciak, girato alle cinque
del mattino del 2 ottobre 1960
3. 21 CLUB
7. NAUMBURG BANDSHELL
(21 West 52nd Street)
Nel film, dove Paul (l’attore George
Peppard) porta Holly (Audrey
Hepburn) per un drink
(72nd Street & Fifth Avenue)
Esterni in Central Park,
dove nel film
Doc e Paul discutono di Holly
4. EL MOROCCO
8. NEW YORK PUBLIC LIBRARY
(154 East 54th Street)
Qui Marylin Monroe (inizialmente
scelta per la parte di Holly) si toglie
le scarpe e balla con Capote
(42nd Street & Fifth Avenue)
Qui, ancora sulla Quinta Strada,
sono stati girati alcuni degli esterni
della commedia
5. FOUNTAIN
9. RADIO CITY MUSIC HALL
(52nd Street & Park Avenue)
Qui, sull’angolo nordest,
sono stati girati molti degli esterni
di Breakfast at Tiffany’s
(1260 Avenue of The Americas)
Qui la prima proiezione
di Breakfast at Tiffany’s
È il 5 ottobre 1961
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36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
i sapori
DOMENICA 25 LUGLIO 2010
Pomodori, cipolle, cucunci, origano, peperoncini, ma anche totani,
pesci spatola, tonno e ricci: nei ristoranti delle sette perle
del Mediterraneo il meglio della sapienza culinaria siciliana
si “contamina” di odori speciali. Tutto merito del sole e dell’aria
Isole
LICIA GRANELLO
umero uno: onde
alla cala di sotto.
Piccole. Numero
due: onde grandi.
Numero tre: vento
della scogliera. Numero quattro: vento dei cespugli. Numero
cinque: reti tristi di mio padre. Numero sei:
campane dell’Addolorata, con prete. Numero sette: cielo stellato dell’isola. Bello
però, non me n’ero mai accorto che era così
bello...”.
Il protagonista de Il postino di Neruda di
Antonio Skarmeta registra incantato i suoni
della sua isola. Che dal libro di Antonio Skarmeta al film con Massimo Troisi assume i
tratti di Salina, la piccolina di un arcipelago
magico, mix affascinante di calma e ruvidezza, tradizione e voglia d’altrove, semplicità e mistero.
In nessun luogo come questo la cucina sa
essere tutt’uno con il suo terroir, che è terra,
aria, clima, atmosfera, eredità di geni e paesaggi. Se è vero che l’olfatto sta diventando
un senso posticcio, avvilito com’è da profumi sintetici e cibi che di profumo non ne
hanno proprio, queste sono le isole dove far
pace con il proprio naso, ubriacandolo di
sentori veri, sani, straordinari. Qui, nessun
cameriere vi guarderà storto se farete vibrare le narici su un piatto di spaghetti alla
strombolana — aglio, acciughe, olive, peperoncini — su una ciotola di niputiddata, la
zuppa di pomodorini, uova e formaggio profumata alla nepitella, o su un tortino di pesce
spatola.
È come se il meglio della cucina siciliana
si fosse concentrato nei pochi chilometri
quadrati che le “sette perle del Mediterraneo” hanno strappato al mare. Dentro ogni
piatto, dentro le singole ricette si avverte il
respiro gastronomico di tutti i popoli che
hanno abitato l’arcipelago a partire da quattromila anni prima di Cristo.
Guai a pensare che sia solo una questione
d’ingredienti. Fosse così, basterebbe portare
a casa bustine di capperi e collane di peperoncini, mazzetti d’origano e cartocci d’olive, uva passa e limoni verdelli per ritrovare in
città sapori e profumi di Lipari e dintorni. Errore. A fare la differenza sono il sole e l’aria, il
salmastro che è odore di mare senza mollezze, la campagna impregnata di erbe odorose,
la commistione millenaria di terre laviche diverse (ossidiana, pomice, calcare). Impossi-
“N
Profumi di mare
essenze di terra
la magia è tutta qui
bile pensare lontano da qui una minestra come la gnotta i scogghiu e maccaruna i mari,
fatta con i sassi di mare coperti di alghe, pane
secco, pomodoro, pesce se c’è.
Sapori e aromi per fortuna restano imprigionati nelle bottiglie di Malvasia delle Lipari (secondo dizione tradizionale) piccolo
gioiello enologico nato grazie ai Greci, che
importarono la “Malvagia” intorno al 500 a.
C. utilizzando uva e vino come lucrosa merce di scambio. Se la tipologia secca è un esercizio retorico, la versione passita incanta,
merito di produttori virtuosi come Hauner,
Fenech e Tasca d’Almerita, sospesi fra tradizione (appassimento dei grappoli sui graticci, che induce lo sviluppo di sentori caramellati), e innovazione (utilizzo di grandi locali aerati dove gli acini si asciugano mantenendo profumi di frutta fresca).
Un bicchiere a temperatura giusta, un
crostino con pesto isolano — olive, acciughe, capperi, origano — e una poesia di Neruda vi regaleranno un francobollo di estate
eoliana, da godere perfino davanti al ventilatore di casa.
Cucina
Eolie
delle
2000
7
Le isole che compongono
l’arcipelago delle Eolie
L’anno in cui le Eolie diventano
patrimonio dell’Unesco
200mila
I turisti che arrivano
ogni anno alle Eolie
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DOMENICA 25 LUGLIO 2010
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37
Lipari
itinerari
Lucio Tasca
d’Almerita
è uno degli uomini
che ha rivoluzionato
la vinicultura
siciliana. Tra le vigne
della sua Malvasia
di Salina, è nato
un relais, “Capo Faro”,
mix di ospitalità,
enogastronomia
e paesaggio
Panarea
Vulcano
Con i suoi dieci chilometri di lunghezza,
le sue coste frastagliate e i suoi dodici
vulcani, è l’isola più importante
delle Eolie. Conta dodicimila abitanti
L’isola più piccola, circondata
da isolotti: Basiluzzo, Lisca Bianca,
Spinazzola, Dattilo, Bottaro, Lisca Nera,
più gli scogli Panarelli e Formiche
Adagiata a una manciata di miglia
da Capo Milazzo, ha quattro vulcani
Affascinanti le sue spiagge, da Sabbie
Nere a Levante, fino ai fanghi termali
DOVE DORMIRE
DOVE DORMIRE
DOVE DORMIRE
RESIDENCE AGAVE
Vico Selinunte
Tel. 090-9814896
Camera doppia 100 euro, con colazione
LA PIAZZA
Via San Pietro
Tel. 090-983154
Camera doppia 110 euro, con colazione
HOTEL CONTI (con cucina)
Via Porto Ponente
Tel. 090-9852012
Camera doppia 110 euro, con colazione
DOVE MANGIARE
DOVE MANGIARE
DOVE MANGIARE
FILIPPINO
Piazza Municipio
Tel. 090-9811002
Sempre aperto in estate
Menù da 30 euro
ADELINA
Porto
Tel. 090-983246
Sempre aperto in estate
Menù da 40 euro
THERASIA (con camere)
Località Vulcanello
Tel. 090-9852555
Sempre aperto in estate
Menù da 40 euro
DOVE COMPRARE
DOVE COMPRARE
DOVE COMPRARE
PESCHERIA IL DELFINO
Via Garibaldi 82
Tel. 090-9811549
PASTICCERIA DA CLAUDIA
Via San Pietro 3
Tel. 090-9834405
GELATERIA REMIGIO
Porto Levante
Tel. 090-9852555
GLI INGREDIENTI
Totani
Capperi
Verdelli
Malvasia
Origano
Più tenaci e gustosi dei fratelli
calamari, si farciscono
dopo averli saltati in padella
con mollica, uova, prezzemolo
e tentacoli rosolati. Cottura
nella salsa di pomodoro
o spruzzati di vino bianco
Non c’è spaccatura di pietra
assolata che resista a questa
pianta bassa, tosta, con foglie
larghe e fiorellini eleganti
che annunciano i bottoncini
di calibro crescente,
ma anche i carnosi cucunci
Hanno profumo di mare
i limoni battezzati dal loro
colore particolare, utilizzati
in molte ricette, dolci e salate
Su tutte spicca l’insalata
di agrumi, fresca e condita
con olio, sale e capperi
Un’uva antica, amica del sole,
avvezza al clima asciutto
e ventoso delle isole
Con l’appassimento acquista
colore dorato e profumo
sensuale, perfetto per dolci
e formaggi stagionati
Impossibile lasciare le isole
senza il mazzetto odoroso,
essiccato al sole d’agosto,
da appendere a testa in giù
Insieme alla nepitella firma
piatti senza tempo, dai sughi
alle caponate, ai pesci arrosto
LE RICETTE
Pane caliatu
Pasta con i ricci
Caponata eoliana
Scorfano alla liparota
Nacatuli
È il pane dei pescatori
Biscottato e ben sbriciolato,
si sposa con cipolle, capperi,
aglio, pomodorini, cetrioli,
foglie verdi, patate, sottaceti,
olive, odori. Per condire
extravergine e sale
Soffritto leggero d’aglio
e peperoncino tritati finemente
a cui aggiungere, a fuoco
spento, la polpa cruda
con olio, prezzemolo,
qualche pomodorino. Si versa
sugli spaghetti appena scolati
Melanzane tagliate a dadini,
fritte leggermente, aggiunte
a una salsa di cipolla, sedano,
pomodoro, olive, capperi
e lasciate sobbollire. A metà
cottura, zucchero e aceto
Deliziosa anche fredda
Cipolle dorate, pomodori,
olive e poi capperi, basilico,
prezzemolo, per il sugo dove
cuocere i filetti, da profumare
con il vino bianco, prima
di coprire la pentola. Si serve
con crostini di pane tostato
La difficoltà è nell’impasto
di farina, uova, zucchero
e burro da tirare sottile
per realizzare le formine
All’interno un mix di mandorle,
zucchero, tuorli d’uovo,
strutto, uva passa e cannella
STROMBOLI
SALINA
Capperi, unica certezza
Il brodo di sasso
LIDIA RAVERA
effetto si raggiunge quando il mare si gonfia e la nave
non attracca, non attraccano gli aliscafi, nessuno parte e nessuno arriva. Nessuno e niente.
Le merci restano sulla terraferma [...]. I negozi registrano allora un impoverimento progressivo. Guardo gli scaffali con
sconsolata intensità. In fondo, nel reparto frutta e verdura,
sono più evidenti i segni della carestia. Fare la spesa richiede
fantasia, abitudini alimentari austere e capacità di adattamento. L’unica certezza sono i capperi. Le cipolle rosse di
Tropea, che palpeggio ansiosa, mostrano, dopo tre giorni di
libeccio, affossamenti del colore del mosto. Dalle ultime insalate e dai cavoli verza si leva un leggero sentore di marcio.
Le mele sono maculate. Le patate fioriscono muffa. Tutto il
resto non c’è. Finocchi cavolfiori zucchini fagiolini carciofi
uva pere mele. Niente. Guardo il mio carrello semivuoto. [...]
Mi avvento sull’ultimo spicchio di un cacio pepato duro come la pietra. Il prosciutto è arrivato al gambuccio, è bianco di
grasso. Ne oso un etto [...]. Con il mio magro bottino, risalgo
in bicicletta. Pedalo avvolta in una giacca di plastica gialla, il
vento mi fa sbandare. [...]
L’
Da “A Stromboli” Editori Laterza 2010
112 pagine, 14 euro
© Editori Laterza
ROBERTO ALAJMO
L’APPUNTAMENTO
L’estate eoliana
è un piacevole succedersi
di appuntamenti,
molti dei quali
sono legati
alla gastronomia
Nel primo weekend
di agosto, a Lipari,
la celebrazione
di San Gaetano prevede
un corteo di barche
e la festa del pesce,
passerella trionfale
per i piatti che esaltano
il sapore di totani,
spatole (pesci bandiera),
alici, pesci spada, simboli
della pesca eoliana
on sono certo più i tempi in cui il piatto ricorrente nelle case dei salinari era il cosiddetto brodo di sasso, realizzato facendo bollire a lungo un grosso ciottolo marino, fin quando non rilasciava i suoi umori più reconditi regalando una zuppa di pesce talmente povera da prevedere
del pesce solo una memoria minerale. Oggi il corso di Salina
è costellato di negozietti di genere sfizioso, dove si vendono
capperi, un’antica e precaria risorsa di tutte queste isole, ma
soprattutto parei, oggetti di design in stile finto etnico e fighetteria in genere. Questa tendenza non è niente di irrimediabile, però. Niente che sia passato nel Dna della popolazione.
Anche nei giorni peggiori d’agosto, per sfuggire agli assembramenti balneari, il viaggiatore potrà sempre disperdersi nell’entroterra, tenendo il mare come il sottofondo
musicale si tiene alle feste delle persone adulte: basso, di modo che non disturbi la conversazione. Un posto dove il silenzio assume una consistenza tangibile, paesaggistica, è il
laghetto di Lingua, dove quando è stagione di migrazioni
qualche cicogna si sofferma a riprendere fiato. [...]
N
Da “L’arte di annacarsi. Un viaggio in Sicilia”
Editori Laterza 2010, 284 pagine, 16 euro
© Editori Laterza
Repubblica Nazionale
38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 25 LUGLIO 2010
le tendenze
A mezze maniche
Battezzata sui campi da tennis da René Lacoste e Fred Perry,
è diventata simbolo del vestire comfort ma chic. Negli ultimi
anni, poi, le è stato consentito anche l’ingresso in ufficio
conquistando così una porzione più grande nel guardaroba
maschile. Sempre in puro cotone, meglio se effetto vintage,
oggi torna con infinite varianti di stampe e colori
ARCOBALENO
DANDY
Righe colorate arcobaleno
e silhouette dalla forma
molto aderente
Da donna, Lacoste
Colletti sfiziosi per U.S.
Polo. Questa, da bambino,
ha le righe sul retro
Dall’impronta dandy
POLO
CLASSICA
Per chi ama la perfezione
del classico: ecco
la Fay rosa con righine
al collo e sulle maniche
È
LAURA ASNAGHI
un mondo affollato quelle delle polo. Insieme alle camicie, si sono conquistate una intera sezione del
guardaroba maschile. Gli addetti ai lavori hanno
classificato le polo come l’espressione di un
“dress code” non formale ma chic e quindi adatte a essere indossate in momenti di relax ma anche in ufficio.
Nel ricco panorama delle magliette con il
colletto svolazzante, storicamente primeggiano e si sfidano da sempre la Lacoste e la
Fred Perry. La prima francese e la seconda
inglese, ma con un filo rosso che le accomuna. La Lacoste è distribuita in Italia
dalla manifattura Mario Colombo (la
Colmar di Monza) mentre la Fred Perry
è una creatura della Beta di Biella. Due
marchi in perenne competizione. La
Lacoste ha come simbolo il celebre
coccodrillo, che corrisponde al soprannome del suo inventore, Renè
Lacoste, una leggenda del tennis. Era
un uomo che amava le sfide e una volta scommise, con il suo capitano, una valigia in coccodrillo se avesse vinto una gara.
Vinse e i compagni iniziarono a chiamarlo il “coccodrillo”.
Una lunga storia nata per gioco
DONNA
L’inconfondibile alloro
Fred Perry campeggia
sul modello da donna
con colletto bianco
Quel soprannome spinse un suo amico a fargli ricamare sulla
camicia bianca quello che sarebbe diventato un simbolo famoso nel mondo.
Altrettanto celebre è l’alloro che contraddistingue il marchio Fred Perry, con le righine sul collo. Fred Perry era un tennista celebre, figlio di un sindacalista di Manchester, trasferito a Londra dopo essere stato eletto tra le file dei laburisti. Il ragazzo che non poteva vantare una ricca famiglia alle spalle era
guardato con sufficienza a Wimbledon, dove i campi di terra
rossa era battuti esclusivamente da facoltosi rampolli. Ma
lui, Fred, con le sue strabilianti vittorie li conquistò tutti,
passando alla storia anche per la maglietta con l’alloro.
Oggi i fan delle nuove polo si dividono tra quelli che
hanno nell’armadio vecchie Lacoste ereditate dai papà
e Fred Perry vintage talmente comfort che non si buttano mai via. Così che una Lacoste o una Fred Perry
non mancano mai in un guardaroba che si rispetti
e che ora si arricchisce di altri marchi. Come Ralph
Lauren o Fay, John Ashfield, Etiqueta Negra o
Brooksfield. La polo, dunque, trionfa purché sia
in cotone: più la usi e più diventa bella.
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DOMENICA 25 LUGLIO 2010
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39
ARTISTICA
JUNIOR
TRENDY
RIGATA
Colletto e fondo manica rosso
acceso, righe alternate a fiorellini
Proposta da Arts District
Il logo diventa grande e colorato
sulla polo bianca junior che ha le righe
solo sul colletto. Brooksfield
Sciancrata e corta: la polo da donna
ha dettagli grigi che risaltano
sul rosso. È la trendy Etiqueta Negra
Stravagante negli accostamenti
di righe strette e larghe, il modello
Gant ha il colletto candido
Mario Colombo, Lacoste
Cristina Fila, Fred Perry
“Il nostro coccodrillo
è sempre giovane”
“La corona d’alloro
per spiriti ribelli”
ario Colombo, amministratore delegato di Lacoste Italia, come spiega il
mito del coccodrillo di Lacoste?
«Bisogna essere capaci di stare al passo con i
tempi e fare in modo che la polo inventata nel ’33
da Renè Lacoste, grande tennista, resti sempre
un capo di culto, bello e desiderabile»
Tradotto cosa significa?
«Fare in modo che le proporzioni e i modelli si
adeguino perfettamente ai gusti del mercato. La
polo è sempre in piquet ma per esaltare il fisico
è diventata stretch, con un appeal maggiore sia
per la donna che per gli uomini, giovani compresi».
Tra gli obiettivi di Lacoste c’è quello di conquistare le giovani generazioni. Come?
«Di recente a Berlino, durante la fiera
Bread&Butter, è stata presentata la nuova linea
Live, destinata proprio ai giovani: rende omaggio alla musica, alla pop art e alle nuove tendenze culturali».
Quante sono le polo Lacoste vendute in un
anno?
«Siamo a quota tredici milioni, un numero
enorme, che da solo testimonia la forza di questa maglia che ha settantasette anni di vita e li
porta splendidamente».
In origine la Lacoste era solo bianca. Oggi
quante sono le varianti di colore?
«La palette dei colori va da quelli decisi a quelli pastello, si parla quindi di una gamma infinita
che varia di stagione in stagione. La 1212, modello icona della Lacoste, offre un ventaglio di
quarantuno tonalità differenti».
(l. a.)
ristina Fila, coordinatrice di Fred Perry,
qual è il segreto delle vostre magliette?
«Hanno una “anima” cattivella che piace
ai giovani. Loro le interpretano in maniera trasgressiva. Volutamente se le mettono di una o
due taglie più piccole in modo tale da fasciare il
corpo e svelarlo allo stesso tempo. Così le indossa Peter Doherty, il classico esempio di ragazzo
ribelle».
È vero che tra i più affezionati clienti del marchio figura John Fitzgerald Kennedy?
«Sì, fu uno dei primi a ricevere queste magliette e ne diventò un fan. Il modo in cui lui le indossava ha certamente contribuito a creare uno
stile Fred Perry»
Perché fu scelto come simbolo proprio la corona di alloro?
«Perché è il simbolo della grande tradizione
sportiva fin dall’antica Grecia e con questo trofeo venivano insigniti i vincitori di Wimbledon.
Fred Perry fu il primo tennista inglese a vincere
il torneo di singolo maschile a Wimbledon, nel
1934».
Come si mantengono giovani le polo Fred
Perry?
«Giocando sui dettagli, sui colli botton down
o slim, vale a dire quelli a listino da mettere sotto la giacca. Ma le polo si fanno apprezzare moltissimo anche per i colori».
Tra le new entry dei fan del marchio Fred
Perry chi c’è?
«Amy Winehouse, per non smentire la tradizione che ci vuole graffianti e sempre un po’ controcorrente».
(l. a.)
M
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C
RUGBY
Righe bianche alternate a colori
brillanti nelle polo Harry & Sons
che imitano le maglie da rugby
COLLEGE
John Ashfield a grandi
righe ispirazione college,
come piace ai ragazzi
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PERSONALIZZATA
Polo sempre più personalizzata
per La Martina. Femminile il modello
rosa con plastron bianco al centro
INFANTILE
Rosa, grigio e nero si alternano
sul fondo bianco. È la proposta
estiva di Jeckerson per il bambino
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40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 25 LUGLIO 2010
l’incontro
Ha sempre sognato di viaggiare
“Fin da piccolo ho capito
che il modo più libero per farlo
era seguendo il mare”. Dopo trenta
transoceaniche e due giri
del mondo, è diventato
il miglior navigatore
solitario di tutti i tempi
Ha visto da vicino
la morte, e ha sempre
come compagna
di viaggio la paura: “Si fa sentire
alla vigilia della partenza ed è lei
che ogni volta mi riporta a casa”
Solitari
Giovanni Soldini
a risata di Giovanni Soldini
travolge come un’onda del
mare. Quello stesso mare
che lui, navigatore solitario, attraversa con il cuore leggero e l’adrenalina in corpo. Quel mare fatto di
colline d’acqua che entrano nella testa e
nello stomaco. Follia e passione. Giovanni Soldini, arruffato e sorridente, è
riuscito a portare le meraviglie della vela nelle case di tutti. E per molti è stato un
colpo di fulmine. Lo hanno amato per i
suoi occhi brillanti. Per i capelli spettinati e la pelle bruciata dal sole. Per l’allegria di chi sembra non conoscere la paura, e per l’aria da eterno ragazzo. Ma, soprattutto, perché è un tipo “normale”.
«Non è vero che non ho timori», racconta, «la paura è la migliore compagna,
perché è quella che ti fa vedere i tuoi limiti e ti fa tornare a casa vivo».
Giovanni Soldini, considerato da
molti come il miglior navigatore solitario di tutti i tempi, da bambino non immaginava una vita così avventurosa. Milanese, terzo di tre fratelli, ha sempre
avuto un sogno: viaggiare. «Desideravo
conoscere il mondo e ho capito che il
modo più libero per farlo era seguendo
il mare», racconta seduto in un bar del
centro di Roma dove con la sua risata
contagiosa rompe il pigro silenzio mattutino. Agita le mani e non è possibile
non notarle: screpolate, grandi, dure.
Mani da lavoratore. A quindici anni
scappa di casa e, quando torna in famiglia, si mette a lavorare in un cantiere dove costruisce barche. A diciassette compie la prima transoceanica, a venticinque una regata in solitaria e a trenta, in
centoventi giorni, il giro del mondo. E
oggi, dopo diciassette anni di navigazio-
to ero veramente contento d’immaginarmelo senza quei baffoni», racconta
con gli occhi che ridono prima ancora di
parlare.
Nella sua vita non ci sono stati però
solo momenti felici. Il più brutto, sicuramente, durante un tentativo di record
della traversata atlantica da New York a
Cap Lizard, quando un’onda, più maledetta delle altre, ha rovesciato il Fila e gli
ha portato via l’amico di sempre, Andrea
Romanelli. Il buio. «Andrea era un marinaio eccezionale e anche un grande progettista, purtroppo abbiamo preso una
tempesta enorme che per due giorni ci
ha sbattuto contro a centosessanta chilometri l’ora. Poi è arrivata un’onda anomala che si è scontrata sullo “zoccolo
continentale”, il che vuol dire che è diventata un muro d’acqua di quasi trenta
metri, e in due secondi i due compagni
che erano fuori si sono slegati e Andrea
non è riuscito a risalire». A quel punto la
tempesta, come un veleno, è entrata anche nella testa di Soldini: «Dopo quella
furia ti rimane dentro un grande dolore
e una domanda: che senso ha tutto questo? Poi ho capito che l’unica risposta era
Mi piace il rapporto
intimo con la barca,
impari a sentire
qualsiasi fruscio
e rumore. La natura
ti parla, ed è allora
che subentra
una sensibilità
pazzesca
FOTO GETTY
L
ROMA
ne, di giri del mondo ne ha collezionati
due e di transoceaniche più di trenta. Instancabile.
«Durante l’estate lavoravo come skipper e questo mi ha permesso di entrare
in un mondo che mi piaceva sempre di
più», spiega con lo sguardo perso tra i ricordi, «poi giovanissimo ho incontrato
un amico, Jim Shearston, che mi ha offerto di fare la mia prima traversata dell’Atlantico. Eravamo in tre, lui che di anni ne aveva settantuno, io e un altro ragazzo. Pensavo: ora arriviamo noi e
spacchiamo il mondo. E, invece, quel
vecchio marinaio ci ha dato più di una
lezione». Da allora Soldini non ha più
abbandonato il mare. In perfetta solitudine, seppur in modo non competitivo,
ha esordito a diciannove anni: «Ero stato a Cuba per condurre dei turisti e mi
avevano lasciato una barca di sei metri
che ho trasportato da Cala Galera sino a
Barcellona». Nel 1989 vince l’Atlantic
Rally for Cruisers, la regata transatlantica per imbarcazioni da crociera. Come
navigatore solitario diventa famoso durante la Baule-Dakar del 1991, al timone
di un cinquanta piedi di seconda mano.
Ma è all’alba del 3 marzo del 1999 che, a
Punta dell’Este, tifosi e giornalisti lo
aspettano trepidanti. Da quel momento
Giovanni Soldini diventa mito. Quando
il suo sessanta piedi Filataglia per primo
il traguardo della terza tappa della
Around Alone (il giro del mondo a vela
per navigatori solitari) stabilisce un
nuovo record: centosedici giorni, venti
ore, sette minuti e cinquantanove secondi. Un fulmine, per il grande pubblico. Un’eternità, per chi è solo in mezzo
al mare. «Il vero problema di navigare in
solitaria è dormire, perché più riesci a
essere presente e vigile e più la barca va
forte. Quindi ti concedi dei sonnellini da
venti minuti al massimo». Mentre si racconta assaggia con gusto un piatto d’insalata: «Il bello delle privazioni è che poi
ti fanno apprezzare le cose semplici, come riposare in un letto o mangiare seduto a tavola». Quando è in barca, però,
Soldini non si arrende alla dittatura del
cibo liofilizzato. Anzi. «Ho inventato
un’ottima pasta in pentola a pressione,
cotta con un bicchiere d’acqua dolce e
uno di acqua salata perché in mezzo al
mare la cosa più importante è risparmiare. Altro segreto è cucinare mezzo
chilo di pasta per pranzo perché non sai
cosa ti può succedere nelle ore successive. E poi, naturalmente, scorte di nutella e biscotti». Piccoli sacrifici ricompensati da momenti magici. «La mia prima
vittoria è stata una tappa del giro del
mondo da Cape Town a Sidney, il diretto concorrente era un australiano che si
era giocato i baffi e quando l’ho supera-
rimettersi in piedi e fare il giro del mondo. La vittoria è arrivata perché la barca
era progettata bene, Andrea si era sacrificato tanto per renderla perfetta, e questo è il riconoscimento alla sua bravura».
Soldini ama la solitudine. «Mi piace il
rapporto intimo con la barca, imparare
a sentire qualsiasi fruscio e rumore.
Mettersi in contatto con tutti i sensi e
non avere bisogno di nulla. Sei piccolissimo in mezzo all’immenso e la natura ti
parla. Subentra una sensibilità pazzesca
derivata dal fatto che, se non capisci che
c’è un problemino, potrebbe diventare
un problemone se non c’è nessuno ad
aiutarti. Però in fondo ti consoli pensando che non sei mai solo, c’è chi ti aspetta
nelle tappe, chi controlla l’aspetto multimediale. Mia moglie sa sempre perfettamente dove sono. Ci sono fax, telex, internet e telefoni satellitari. Il nostro è un
gran lavoro di team che per gli altri, quelli che rimangono a terra, è molto faticoso e senza visibilità». Ma è anche bello
navigare in gruppo: «Con gli altri dell’equipaggio s’instaura un rapporto speciale, parli di tutto. Bisogna avere molta
fiducia ed essere perfettamente coordinati il che, forse, è l’aspetto più difficile».
Le giornate di chi va per mare sono tutte
simili e tutte diverse. I pensieri sembrano uscire dal tempo. «È un immenso privilegio. Trenta o settanta giorni è lo stesso, vivi il presente e ti accorgi dello scorrere delle ore solo quando sei vicino all’arrivo. Prima di quel momento non c’è
oggi o domani, neppure mattina o sera,
magari hai l’orologio che segna mezzanotte ma dalla parte del mondo in cui sei
finito il sole ti spacca la pelle». Anche il risultato non deve condizionare troppo.
L’ansia fa fare scelte sbagliate. «Dovresti
essere contento di essere lì, comunque
vada. Per me vincere non è mai stata l’unica cosa che conta. Solo così puoi mantenere l’equilibrio perché nessuno resisterebbe centosedici giorni con il solo
obiettivo di arrivare per primo fisso nel
cervello».
La paura è l’inevitabile compagna. Si
fa sentire, puntuale, alla vigilia di ogni
partenza. «È il momento di massima
adrenalina e del buco nello stomaco,
quello in cui vorresti essere dall’altra
parte del mondo. Poi però passa e tutto
rientra in una sorta di normalità». Diverso è il panico. Quell’ansia feroce che impedisce di ragionare. «Se ti capita un incidente non hai il tempo di pensare, per
fortuna il senso di sopravvivenza ti aiuta
a tenerlo sotto controllo». Ogni mare riserva insidie diverse. «Le acque cristalline del sud sono le più affascinanti con la
loro atmosfera esotica ma sai che, se ti
succede qualcosa, non c’è terra nelle vicinanze. Se sei sopra il cinquantesimo,
invece, non ci sono navi e nessuno ti può
salvare se non i tuoi amici». Di salvataggi Soldini ne sa qualcosa: quando Isabelle Autisser si è rovesciata in pieno Pacifico meridionale, con un cielo e un mare che sembravano un unico inferno, lui
è riuscito a recuperarla urlando come un
pazzo: «L’ho beccata, l’ho beccata!». Il
battito del cuore così forte da non far
sentire il rumore del mare.
Quando non naviga Soldini è apparentemente tranquillo. Ha quattro
bambini, avuti da due donne diverse,
che naturalmente già porta in barca. Vive a Sarzana e cerca di fare le cose che
ama di più: leggere, sentire musica, stare con i figli. Una cosa che invece non
ama affatto, ma che fa parte del suo mestiere, è la ricerca del denaro necessario
per costruire le barche e per finanziare le
imprese. La caccia all’indispensabile
sponsor. Una volta è ricorso anche al fai
da te. Con una comunità di recupero per
tossicodipendenti ha costruito Stupefacente: «È stata un’esperienza speciale, in
otto mesi coinvolgendo tantissime persone e alla fine è arrivato anche lo sponsor». Adesso si prepara a una nuova avventura. Nell’ottobre del 2011 porterà il
tricolore alla Volvo Ocean Rice. È la sfida
epica per eccellenza. Un giro del mondo
in equipaggio che tocca tutti i continenti e gli oceani nell’arco di otto mesi. Un
incredibile test di resistenza fisica e psicologica. «Il nostro obiettivo è quello di
aggregare un gruppo di aziende che sostenga un team tutto italiano, creando
un’immagine forte attorno alla barca
“Italia70”». Il 2010, per Giovanni Soldini,
è dedicato invece a comunicare il mondo della vela a un pubblico ancora più
grande. «Vogliamo uscire dall’idea di
sport d’élite e avvicinare scuole e giovani al mare e a un’idea ecologica di sport».
Conoscendolo, non sarà difficile.
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IRENE MARIA SCALISE
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