Anno 2 Numero 15 - 20.04.2009
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Anno 2 Numero 15 - 20.04.2009
una settimana dopo aver varato un piano edilizio senza regole che finge di ignorare tutti i presupposti su cui si fondai l’edilizia italiana e che invece gli abruzzesi hanno conosciuto benissimo sulla propria pelle. Anno 2 Numero 15 - 20.04.2009 Cimiteri a orologeria Editoriale di Gian Maria Tosatti Il terremoto ha iniziato a dare i suoi frutti. E chi li raccoglie non ha pudore di metterli in bella vista come trofei sventolanti sulle macerie. Ha cominciato il Tg1 che per la giornalista Susanna Petruni ha scritto un monologo degno di Werner Schwab sul trionfo nei dati auditel. E a ruota, anzi, a valanga, è arrivato Berlusconi la cui popolarità - ci racconta Renato Mannheimer sul Corriere di ieri – è schizzata letteralmente alle stelle con più che probabili ripercussioni sulle prossime elezioni amministrative ed europee. D’altra parte formula vincente non si cambia e se le sgambate tra la “munnezza” nella crisi dei rifiuti del napoletano è valsa al premier l’accesso a Palazzo Chigi, quelle tra le macerie aquilane gli varranno il bis in Europa e nelle province. E allora eccolo lì, pronto, col suo caschetto da pompiere in pieno stile trasformista, infaticabile, appena Eccoli allora i vincitori (?) e i vinti che sanno sempre tutto, anche quando nessuno dice niente. Perché, come al solito, della cosa più importante non si parla mai. Uno dei pochi a dire qualcosa è stato un certo vignettista, tale Vauro, che pare non passi la vita alla scrivania ma sia spesso in prima linea con Emergency dove ci sono catastrofi senza riflettori accesi. Il giovedì successivo al terremoto firmava un disegno la cui didascalia recitava «Non è il momento per le polemiche» e sotto il fumetto proseguiva «Ché in Italia si rispettano sempre i morti e mai le norme antisismiche». La Rai l’ha reputata una caduta di stile più grave dell’allucinante monologo della Petruni e Vauro è stato mandato in vacanza. Ma cosa c’era dietro la vignetta di Vauro? Per noi non è difficile dirlo. Ne avevamo parlato in un editoriale dell’anno scorso. La tesi allora era semplice: la principale attività industriale italiana è la fabbricazione di morti. Un’idea non troppo difficile da sostenere se si tiene conto che l’azienda (una delle poche vere multinazionali italiane) col più alto giro d’affari di questo paese è la mafia. Ma non la mafia di una volta, quella delle lupare, quanto piuttosto quella sotterranea che emerge di tanto in tanto anche nel nord Italia, a Duisburg, a Parma. E’ la mafia che s’è messa in affari e gestisce partecipazioni in aziende di ogni tipo, con particolare predilezione per l’edilizia. E allora quello che Vauro racconta in quella vignetta non è la tradizionale incuria italiana che fa le cose “alla romanella”. Dietro quella satira amara c’è un mondo che da quarant’anni, ossia dagli anni ’70 di Vito Ciancimino, è diventato sistema, con le sue regole, i suoi cartelli e le sue percentuali d’indebolimento del cemento come strategia di business. E questo non solo nella Palermo del sindaco picciotto arrestato nel 1984, ma anche nella Napoli del dopo-terremoto irpino, in cui l’anno dopo, nel 1985, perdeva la vita Giancarlo Siani, giornalista che cercava di rintracciare la rotta dei miliardi che sparivano nel tragitto da Roma ai paesi del sisma campano. A ricostruire quel terremoto fu la camorra, che allora, agli inizi degli anni Ottanta iniziava ad avere già pieni poteri sulle gare d’appalto e sulla gestione di società edilizie fantasma che nel gioco di scatole cinesi dei subappalti ha tirato fuori quanto bastava per pagare gli studi ad una nuova generazione di mafiosi che ormai non ha quasi più bisogno di sparare per alzare la produzione della propria fabbrica di morti. Lo scandalo dei rifiuti che Saviano ci racconta attraverso un panorama di colline artificiali su cui uomini e animali si ammalano quotidianamente ha fatto saltare la percentuale alle stelle e anche il terremoto abruzzese, in tempi di crisi industriale, ha fatto segnare una virtuosa controtendenza nel business dei morti radendo al suolo quei cimiteri ad orologeria che sono le case italiane. E, oltre a quello dei cadaveri, un altro parametro si appresta a salire, quello della voce “edilizia” che secondo i dati dell’Eurispes dovrebbe essere la seconda voce nel bilancio di Cosa Nostra (il primo è il traffico di droga – agente chimico di prima importanza nella trasformazione di uomini in cadaveri). L’edilizia frutta annualmente a Cosa Nostra (quindi solo alla mafia siciliana) una cifra che si aggira attorno ai 2 miliardi e ottcentocinquanta milioni di euro. Ciò basterebbe a dimostrare che l’infiltrazione della malavita organizzata in questo segmento economico è strutturale. Ma a rendere le cose più chiare ci pensa la magistratura con migliaia di intercettazioni telefoniche che si possono trovare nei libri di certi cronisti giudiziari (il lavoro che piaceva fare appunto Siani) come Lirio Abbate (il mese scorso è uscito “I complici” per Fazi Editore sui rapporti fra la cupola di Provenzano e il mondo di politica e affari), finiti sotto scorta per non avere lo stesso magro destino del giovane predecessore la cui storia è diventata questa settimana un bel film di Marco Risi. In queste intercettazioni, alcune delle quali lette da Travaglio nella puntata di Anno Zero che è costata il posto a Vauro (e riportate nel video allegato al nostro editoriale della settimana scorsa) c’è l’esatta spiegazione della vignetta del disegnatore toscano e anche l’esatta spiegazione di come mai una intera città sia crollata tutta insieme come fosse di carta. In piedi, è vero, sono rimaste le costruzioni più vecchie e ad Onna, il paese che più di tutti ha risentito del sisma, hanno resistito senza un graffio le pochissime villette costruite a noma anti-terremoto, ossia l’eccezione che conferma la REGOLA. si sono viste le fotografie, si sono ascoltati i drammi, si sono scatenate le polemiche, ma nessuno ha parlato di mafia. Come se non esistesse. Come se fosse solo una questione di lupare che in Abruzzo non hanno sparato un colpo. E invece non è così. Per raccontarlo abbiamo voluto pensare un numero diviso in due parti. La prima è dedicata al concetto ambivalente di ricostruzione – da intendersi sia in senso edilizio che in senso giornalistico. Ne fanno parte due figure diverse ma dai destini non troppo dissimili, Roberto Saviano, che qualche giorno fa sulle colonne di Repubblica ha voluto spiegare quanto la penetrazione delle cosche in Abruzzo sia una realtà in attesa di occasioni di sviluppo già da qualche anno, e il già citato Siani, la cui morte, legata ad un’altra ricostruzione (edilizia e giornalistia), quella dell’Irpinia, ha trovato in questi giorni una ruvida e precisa narrazione cinematografica. La seconda parte, aperta come trait d’union dalla ricostruzione giornalistica di Alberto Nerazzini su una storia di ‘Ndrangheta, affronta invece una realtà che non è più marginale, quella del ruolo delle donne dentro e fuori le organizzazioni criminali, dalle donne boss al centro delle cronache giornalistiche di questi giorni e di quelle cinematografiche, alle mogli e alle madri di Forcella, in prima linea con la cultura per disegnare un futuro diverso per sé stesse e per i loro figli. La ricostruzione a rischio clan Ricostruzioni #1: Ecco il partito del terremoto di Roberto Saviano L'AQUILA - "Non permetteremo che ci siano speculazioni, scrivilo. Dillo forte che qui non devono neanche pensarci di riempirci di cemento. Qui decideremo noi come ricostruire la nostra terra...". Al campo rugby mi dicono queste parole. Me le dicono sul muso. Naso vicino al naso, mi arriva l'alito. Le pronuncia un signore che poi mi abbraccia forte e mi ringrazia per essere lì. Ma la sua paura non è finita con il sisma. Per questo particolare rispetto dei morti che si vive nel nostro paese abbiamo dovuto aspettare due settimane perché il Presidente della Repubblica chiedesse chiarimenti sul tema delle responsabilità in ambito edilizio. E il Presidente della Camera Gianfranco Fini ha atteso che a pronunciarsi fosse il suo più alto in grado prima di avanzare una richiesta di indagini che è arrivata soltanto ieri. Nel frattempo, si è parlato di tutto, La maledizione del terremoto non è soltanto quel minuto in cui la terra ha tremato, ma ciò che accadrà dopo. Gli interi quartieri da abbattere, i borghi da restaurare, gli alberghi da ricostruire, i soldi che arriveranno e rischieranno non solo di rimarginare le ferite, ma di avvelenare l'anima. La paura per gli abruzzesi è quella di vedersi spacciare come aiuto una speculazione senza limiti nata dalla ricostruzione. Qui in Abruzzo mi è tornata alla mente la storia di un abruzzese illustre, Benedetto Croce, nato proprio a Pescasseroli che ebbe tutta la famiglia distrutta in un terremoto. "Eravamo a tavola per la cena io la mamma, mia sorella ed il babbo che si accingeva a prendere posto. Ad un tratto come alleggerito, vidi mio padre ondeggiare e subito in un baleno sprofondare nel pavimento stranamente apertosi, mia sorella schizzare in alto verso il tetto. Terrorizzato cercai con lo sguardo mia madre che raggiunsi sul balcone dove insieme precipitammo e io svenni". Benedetto Croce rimase sepolto fino al collo nelle pietre. Per molte ore il padre gli parlava, prima di spegnersi. Si racconta che il padre gli ripeteva una sola e continua raccomandazione "offri centomila lire a chi ti salva". Gli abruzzesi sono stati salvati da un lavoro senza sosta che nega ogni luogo comune sull'italianità pigra o sull'indifferenza al dolore. Ma il prezzo da pagare per questa regione potrebbe essere altissimo, ben oltre le centomila lire del povero padre di Benedetto Croce. Il terrore di ciò che è accaduto all'Irpinia quasi trent'anni fa, gli sprechi, la corruzione, il monopolio politico e criminale della ricostruzione, non riesce a mitigare l'ansia di chi sa cosa è il cemento, cosa portano i soldi arrivati non per lo sviluppo ma per l'emergenza. Ciò che è tragedia per questa popolazione per qualcuno invece diviene occasione, miniera senza fondo, paradiso del profitto. Progettisti, geometri, ingegneri e architetti stanno per invadere l'Abruzzo attraverso uno strumento che sembra innocuo ma è proprio da lì che parte l'invasione di cemento: le schede di rilevazione dei danni patiti dalle case. In questi giorni saranno distribuite agli uffici tecnici comunali di tutti i capoluoghi d'Abruzzo. Centinaia di schede per migliaia di ispezioni. Chi avrà in mano quel foglio avrà la certezza di avere incarichi remunerati benissimo e alimentati da un sistema incredibile. "Più il danno si fa grave in pratica, più guadagni", mi dice Antonello Caporale. Arrivo in Abruzzo con lui, è un giornalista che ha vissuto il terremoto dell'Irpinia, e la rabbia da terremotato non te la togli facilmente. Per comprendere ciò che rischia l'Abruzzo si deve partire proprio da lì, dal sisma di 29 anni fa, da un paese vicino Eboli. "Ad Auletta - dice il vicesindaco Carmine Cocozza - stiamo ancora liquidando le parcelle del terremoto. Ogni centomila euro di contributo statale l'onorario tecnico globale è di venticinquemila". Ad Auletta quest'anno il governo ha ripartito ancora somme per il completamento delle opere post sisma: 80 milioni di euro in tutto. "Il mio comune ne ha ricevuti due milioni e mezzo. Serviranno a realizzare le ultime case, a finanziare quel che è rimasto da fare". Difficile immaginare che dopo 29 anni ancora arrivino soldi per la ristrutturazione ma è ciò che spetta ai tecnici: il 25 per cento del contributo. Ci si arriva calcolando le tabelle professionali, naturalmente tutto è fatto a norma di legge. Costi di progettazione, di direzione lavori, oneri per la sicurezza, per il collaudatore. Si sale e si sale. Le visite sono innumerevoli. Il tecnico dichiara e timbra. Il comune provvede solo a saldare. Il rischio della ricostruzione è proprio questo. Aumenta la perizia del danno, aumentano i soldi, gli appalti generano subappalti e ciclo del cemento, movimento terre, ruspe, e costruzioni attireranno l'avanguardia delle costruzioni in subappalto in Italia: i clan. Le famiglie di camorra, di mafia e di 'ndrangheta qui ci sono sempre state. E non solo perché nelle carceri abruzzesi c'è il gotha dei capi della camorra imprenditrice. Il rischio è proprio che le organizzazioni arrivino a spartirsi in tempo di crisi i grandi affari italiani. Ad esempio: alla 'ndrangheta l'Expo di Milano, e alla camorra la ricostruzione in subappalto d'Abruzzo. L'unica cosa da fare è la creazione di una commissione in grado di controllare la ricostruzione. Il presidente della Provincia Stefania Pezzopane e il sindaco de L'Aquila Massimo Cialente sono chiari: "Noi vogliamo essere controllati, vogliamo che ci siano commissioni di controllo...". Qui i rischi di infiltrazioni criminali sono molti. Da anni i clan di camorra costruiscono e investono. E per un bizzarro paradosso del destino proprio l'edificio dove è rinchiusa la maggior parte di boss investitori nel settore del cemento, ossia il carcere de L'Aquila (circa 80 in regime di 416 bis) è risultato il più intatto. Il più resistente. I dati dimostrano che la presenza dell'invasione di camorra nel corso degli anni è enorme. Nel 2006 si scoprì che l'agguato al boss Vitale era stato deciso a tavolino a Villa Rosa di Martinsicuro, in Abruzzo. Il 10 settembre scorso Diego Leon Montoya Sanchez, il narcotrafficante inserito tra i dieci most wanted dell'Fbi aveva una base in Abruzzo. Nicola Del Villano, cassiere di una consorteria criminal-imprenditoriale degli Zagaria di Casapesenna era riuscito in più occasioni a sfuggire alla cattura e il suo rifugio era stato localizzato nel Parco nazionale d'Abruzzo, da dove si muoveva, liberamente. Gianluca Bidognetti si trovava qui in Abruzzo quando la madre decise di pentirsi. L'Abruzzo è divenuto anche uno snodo per il traffico dei rifiuti, scelto dai clan per la scarsa densità abitativa di molte zone e la disponibilità di cave dismesse. L'inchiesta Ebano fatta dai carabinieri dimostrò che alla fine degli anni '90 vennero smaltite circa 60.000 tonnellate di rifiuti solidi urbani provenienti dalla Lombardia. Finiva tutto in terre abbandonate e cave dismesse in Abruzzo. Dietro tutto questo, ovviamente i clan di camorra. Sino ad oggi L'Aquila non ha avuto grandi infiltrazioni. Proprio perché mancava la possibilità di grandi affari. Ma ora si apre una miniera per le imprese. La solidarietà per ora fa argine ad ogni tipo di pericolo. Al campo del Paganica Rugby mi mostrano i pacchi arrivati da tutte le squadre di rugby d'Italia e i letti allestiti da rugbisti e volontari. Qui il rugby è lo sport principale, anzi lo sport sacro. Ed è infatti la palla ovale che alcuni ragazzi si lanciano in passaggi ai lati delle tende, che mi passa sulla testa appena entro. Ed è dal rugby che in questo campo sono arrivati molti aiuti. La resistenza di queste persone è la malta che unisce volontari e cittadini. È quando ti rimane solo la vita e nient'altro che comprendi il privilegio di ogni respiro. Questo è quello che cercano di raccontarmi i sopravvissuti. Il silenzio de L'Aquila spaventa. La città evacuata a ora di pranzo è immobile. Non capita mai di vedere una città così. Pericolante, piena di polvere. L'Aquila in queste ore è sola. I primi piani delle case quasi tutti hanno almeno una parte esplosa. Avevo un'idea del tutto diversa di questo terremoto. Credevo avesse preso soltanto il borgo storico, o le frazioni più antiche. Non è così. Tutto è stato attraversato dalla scossa. Dovevo venire qui. E il motivo me lo ricordano subito: "Te lo sei ricordato che sei un aquilano..." mi dicono. L'Aquila fu una delle prime città anni fa a darmi la cittadinanza onoraria. E qui se lo ricordano e me lo ricordano, come un dovere: presidiare quello che sta accadendo, raccontarlo. Tenere memoria. Mi fermo davanti alla Casa dello studente. In questo terremoto sono morti giovani e anziani. Quelli che a letto si sono visti crollare il soffitto addosso o sprofondare nel vuoto e quelli che hanno cercato di scappare per le scale, l'ossatura più fragile del corpo d'un palazzo. I vigili del fuoco mi fanno entrare ad Onna. Sono fortunato, mi riconoscono, e mi abbracciano. Sono sporchi di polvere e soprattutto fango. Non amano che si ficchino i giornalisti dappertutto : "Poi li devo andare a pescare che magari cade un soffitto e rimangono incastrati" mi dice un ingegnere romano Gianluca che mi fa un regalo che avrebbe fatto impazzire qualsiasi bambino, un elmetto rosso fuoco dei Vigili. Onna non esiste più. Il termine macerie è troppo usato. È come se non significasse più nulla. Mi segno sulla moleskine gli oggetti che vedo. Un lavabo finito a terra, un libro fotocopiato, un passeggino, ma soprattutto lampadari, lampadari, lampadari. In verità è quello che non vedi mai fuori da una casa. E invece qui vedi ovunque lampadari. I più fragili, gli oggetti che per primi hanno dato spesso inutilmente l'allarme del terremoto. È una vita ferma e crollata. Mi portano davanti la casa dove è morta una bambina. I vigili del fuoco sanno ogni cosa. "Questa casa vedi, era bella, sembrava ben fatta, invece era costruita su fondamente vecchie". Si è fatto poco per controllare... La dignità estrema di queste persone me la raccontano i vigili del fuoco: "Nessuno ci chiede niente. È come se per loro bastasse essere rimasti in vita. Un vecchietto mi ha detto: mi puoi chiudere le finestre sennò entra la polvere. Io sono andato ho chiuso le finestre ma alla casa mancano tetto e due pareti. Qui alcuni non hanno ancora capito cosa è stato il terremoto". Franco Arminio uno dei poeti più importanti di questo paese, il migliore che abbia mai raccontato il terremoto e ciò che ha generato scrive in una sua poesia: "Venticinque anni dopo il terremoto dei morti sarà rimasto poco. Dei vivi ancora meno". Siamo ancora in tempo perché in Abruzzo questo non accada. Non permettere che la speculazione vinca come sempre successo in passato è davvero l'unico omaggio vero, concreto, ai caduti di questo terremoto, uccisi non dalla terra che trema ma dal cemento. © 2009 by Roberto Saviano - Published by arrangement with Roberto Santachiara Literary Agency L’articolo è apparso su «la Repubblica» del 14 aprile 2009. Dentro Fortapàsc Ricostruzioni #2: Risi filma la storia di Giancarlo Siani, giornalista ucciso da un “dopo-terremoto” di Federico Pontiggia Una carriera fulminante, e breve, quella di Giancarlo Siani. La sera che venne ucciso, il 23 settembre 1985, il cronista del Mattino aveva solo 26 anni. Un "praticante abusivo", amava definirsi, senza contratto ed eternamente a rischio. Non un giornalista impiegato ma un "giornalistagiornalista", uno che va a caccia di scoop, che si sporca le mani e non vanta amicizie importanti. «Né Don Chisciotte né santo», sottolinea il fratello Paolo, ma «un ragazzo che aveva tanta voglia di vivere e che faceva per bene il suo lavoro: informava, e perciò ha pagato con la vita». Una sorta di eroe per caso, ingenuo e brillante, che Marco Risi racconta in Fortapàsc, biopic a lungo accarezzato dal regista, e scritto insieme ad Andrea Purgatori e Jim Carrington. Quattro mesi nella vita di Siani (interpretato da un sorprendente, misurato Libero De Rienzo): le corse in macchina tra i vicoli di Torre Annunziata insieme all'amico Rico (Michele Riondino), i rimbrotti del caporedattore Sasà (Ernesto Mahieux), i primi contatti in polizia e l'amicizia col pretore Rosone (Gianfelice Imparato), la scoperta di un enorme mercato di appalti per la ricostruzione post-terremoto e dei pericolosi rapporti tra i politici locali e gli esponenti del clan di Valentino Gionta, fino alla morte annunciata per mano della camorra. Garrone, che lavora drammaturgicamente su una rapsodica sottrazione e ridisegna l’identikit del camorrista odierno, antropologicamente più simile a Cannavaro e ai tronisti di Uomini e Donne che non all’enciclopedia del genere cinematografico, ci sono già tutte le premesse di una definitiva riscrittura del mafia-movie – alcuni parlano addirittura di punto di non ritorno – Risi, viceversa, privilegia una rappresentazione piana, quasi paratattica – già a partire dal montaggio – instradandosi sulla lunga e gloriosa scia del cinema d’impegno civile, ovvero rivendicando per la settima arte il ruolo di coscienza civico-morale oggi saldamente in mano alla fiction televisiva. Intenzione nobile e complessivamente riuscita, con un lavoro biografico e memoriale che trova sul grande schermo nitidezza formale, definizione stilistica e forza morale raramente riscontrabili in nei prodotti per il piccolo schermo tarati sulle logiche della mera fruibilità commerciale. Ineluttabilmente datato? Forse, ma Fortapàsc deve “aderire” a una camorra profondamente diversa da quella attuale: non ancora quella frammentata e feroce dei Casalesi, ma quella verticistica, comandata da due o tre famiglie, e fortemente ancorata a Cosa Nostra. «Fortapàsc però - afferma Risi - non è tanto un film sulla camorra, ma sul rapporto che il giornalismo italiano intrattiene con la realtà. Nel film si dice che a Napoli tutta l'acqua diventa fango. Ebbene, gli esempi alla Siani, ci ricordano che è possibile riconvertire quel fango in acqua», come testimoniano i cammei di alcuni familiari delle vittime di camorra, da Lorenzo Clemente marito di Silvia Ruotolo, una giovane mamma uccisa per sbaglio - ad Annamaria Torre - figlia di Marcello Torre, sindaco di Pagani, ammazzato nel 1980. Datato, dunque? Poco importa, in fondo, perché estremamente attuale e inquietante è il monito che conserva: «Fortapàsc, questo fortino inespugnabile della malavita, è cresciuto e si sta prendendo il Paese». Il triangolo delle Bermude Mafia – sostantivo femminile #1: «Scandalo a Filadelfia» di Alberto Nerazzini racconta di come si possa sparire tra Lamezia e Vibo di Gian Maria Tosatti Classica la struttura e pure la caratterizzazione dei personaggi, Giancarlo Siani, pur senza oleografia, assurge a eroe, almeno della residua speranza. In questo, ma soprattutto nel ricorso a una antropologia mafiosa marcata e prevedibile, Fortapàsc si discosta da Gomorra, del quale potrebbe legittimamente essere inteso prologo fuori tempo massimo. Se nell’adattamento di Recensire un solo racconto all’interno di un’antologia potrebbe sembrare una operazione politicamente scorretta e potrebbe far desumere che il resto non valga neppure una riga di analisi. E invece è tutto l’opposto. Almeno in questo caso, perché il testo in questione è un racconto contenuto in una delle raccolte di Minimum Fax, ossia di quella casa editrice che ha letteralmente resuscitato il concetto di antologia per farne uno strumento letterario d’indagine sul presente. Così che questa, come le altre raccolte dell’editore romano finiscono per essere abissi tascabili entro cui infilare di tanto in tanto il naso, un po’ a caso, senza la necessità di una lettura progressiva. E il libro in questione, ossia Il corpo e il sangue d’Italia, uscito alla fine del 2007, ne è evidentemente un esempio. A comporlo, sotto la cura di Christian Raimo, cui si deve gran parte del merito di questo restyling editoriale, sono un gruppo di giornalisti che hanno cercato di trovare una forma letteraria per raccontare storie reali che potessero fungere da osservatorio privilegiato su un paese che quotidianamente sfugge a se stesso pur non facendo altro che parlarsi addosso. E dell’unico racconto di cui si parlerà in questa recensione, la cosa che forse colpisce di più è l’accenno rapidissimo che l’autore fa ad una videocassetta vista a casa della famiglia di Va l e n t i n o G a l a t i , u n r a g a z z o s c o m p a r s o (letteralmente) nel quadro della particolare storia di mafia (‘ndrangheta per la precisione) che è oggetto della storia. Quando il televisore viene acceso Alberto Nerazzini ha appena condotto una crudissima intervista alla madre del ragazzo. Per tutto il tempo, domanda dopo domanda, una donna in nero, con le sue mezze risposte ha dato uno dei più lancinanti ritratti di cosa sia la mafia. Nelle sue esitazioni di fronte alle domande del giornalista che le chiedeva conto dell’omicidio del figlio da parte dei suoi vicini di casa, la famiglia del boss, c’era la rabbia e l’impotenza, il disorientamento e la consapevolezza. Nerazzini per circa dieci pagine insiste, provoca la donna, in modo quasi insopportabile per chi non abbia l’ostinazione del reporter a far uscire la verità e tutti i suoi risvolti, per chi non abbia lo stomaco del chirurgo che per fare l’autopsia deve aprire in due il corpo di un uomo e frugarci dentro. Alla fine, la tensione si allenta. Nel videoregistratore una delle figlie della donna mette la videocassetta su cui si susseguono i diversi interventi televisivi fatti dalla madre a seguito della scomparsa del fratello. E’ sempre la stessa intervista. Il tema non può cambiare, eppure nel pomeriggio di Rai Uno, per un quarto d’ora, il conduttore della trasmissione, anch’egli un giornalista, uno con lo stesso tesserino di Nerazzini, riesce a condurre un dialogo senza mai far emergere l’ombra della mafia. Neppure un accenno, neppure un’allusione. Dopo pochi capoversi il racconto si chiude. Questo piccolo dettaglio, queste cinque righe tra sessanta pagine mettono il sigillo sull’intera vicenda e spiegano da una parte il perché l’autore fa il mestiere che fa e dall’altra definiscono il valore di questa piccola inchiesta trattata come un racconto letterario. Eccola lì a confronto la stessa storia vista da due angolazioni diverse. In una non c’è niente se non appunto una scomparsa, nell’altra c’è appunto un racconto di «corpo e sangue». Per conoscerlo bisogna andare un po’ indietro, bisogna raccontare la storia di un altro ragazzo scomparso, uno la cui madre non ha avuto esitazione a rompere il silenzio a fare nomi e cognomi a sfidare l’omertà di tutti. Santo Panzarella come Valentino Galati scompare nel nulla un pomeriggio di primavera. Che fine ha fatto lo racconterà tempo dopo un testimone dell’esecuzione senza però raccontarne i motivi. Alla base di tutto c’è una donna, Angela Bartucca, moglie del capoclan di Filadelfia (che non si trova negli Stati Uniti, ma incastrata tra le province di Lamezia Terme e Vibo Valentia), donna bellissima, capelli neri e occhi dello stesso colore, figura umana, quasi animale, in cerca di un amore che non riesce a provare per un marito che passa lunghissimi soggiorni in carcere. E’ lei la misteriosa fidanzata di cui alcuni picciotti parlano senza farsi capire pochi giorni prima di sparire nel nulla. E’ così che va. Così raccontano quelle due madri così diverse, chiuse dal destino in un tagliente triangolo femminile che getta una luce bruciante su un mondo fatto di ombre, di lati oscuri. Attorno una massa indistinta di personaggi che regolano conti, che «fanno pulizia» dell’onore del boss la cui donna «non può» tradire e se lo fa allora la controparte deve sparire, diventare nessuno appunto. Ed ecco la semplice trama di questa storia di corpi mai trovati, dove tutto sembra chiaro solo a chi legge il racconto a centinaia di chilometri da quella terra in cui anche una madre con un figlio ucciso può dire solo mezze verità. Nerazzini, con una puntualità che gli è consueta quando fa il giornalista (ricordiamo il documentario La mafia bianca di cui ci occupammo nell’anno 1 numero 6) mette in fila tutti gli indizi, tutti i dettagli di un racconto che riesce a tenere il ritmo avvincente di una prosa letteraria rubando il respiro al lettore dall’inizio alla fine. Ci sono i fatti, sì, ma anche tutte quelle sfumature di cui talvolta le storie di cronaca hanno bisogno per poter essere comprese sul serio, per poter mostrare i moventi di una macchina omicida come la mafia, che, per quanto sia difficile crederlo è composta da esseri umani, uomini e donne di «corpo e sangue». In libreria: a cura di Christian Raimo, Il corpo e il sangue d’Italia, minimum fax, 2007, pp. 326, 16 euro. Nessun genere Mafia - sostantivo femminile #2: Due film raccontano l’ascesa delle donne nelle cosche di Federico Pontiggia e Gianluca Arnone Un paesino della Sicilia, alla metà degli anni '80. Rita Mancuso (Veronica D'Agostino), figlia di un uomo d'onore del posto, assiste impotente all'uccisione del padre. Sei anni dopo la stessa sorte tocca al fratello di Rita, Carmelo (Carmelo Galati). Decisa a vendicarsi si presenterà al procuratore antimafia di Palermo con le prove necessarie per incriminare l'intera "piovra" locale. Dovrà però fare i conti con le minacce dei boss, il ripudio della madre (Lucia Sardo) e le difficoltà di adattamento alla vita da testimone protetto... Per l'esordio nel lungometraggio di finzione il palermitano Marco Amenta riprende il soggetto di un suo documentario, Diario di una siciliana ribelle (1998) - sulla tragica vicenda di Rita Atria, una ragazza di 17 anni che si dissociò dalla famiglia per diventare collaboratrice di giustizia di Borsellino e morire suicida una settimana dopo l'uccisione del giudice -, cambia i nomi dei personaggi reali e alcune situazioni, ma lascia intatto l'obiettivo di fondo: ricostruire la memoria di un personaggio unico nella storiografia mafiosa e farne il testimone esemplare di un riscatto. Amenta si riallaccia alla doppia tradizione del cinema d'impegno civile e dei mafia movie italiani, respingendo però come Gomorra ogni fascinazione per i gangster e introducendo in un immaginario logoro una figura inedita, quella di un'affiliata (ma dalla fedina penale pulita) che decide di ribellarsi e passare dalla parte della giustizia. Sulla carta interessante, l'operazione non mantiene però tutte le promesse. Amenta non riesce a infondere al racconto una sua cifra personale, appiattendo immagini e sintassi su una discorsività di matrice televisiva. A dispetto poi degli elementi di novità della storia, il film procede per accumulo di cliché e situazioni tipo la rappresentazione del côte criminale è banale e simile a tante altre, mentre la via crucis dei testimoni di mafia era stata restituita con maggiore efficacia dal Testimone a rischio di Pozzessere -, segnando un passo indietro rispetto all'evoluzione del genere portata avanti da altri registi italiani (Capuano, ad esempio). Ma a mancare più di ogni altra cosa alla Siciliana ribelle, è una definizione forte della protagonista. Se la Rita di Amenta "reagisce" più che agisce, non è per via di un destino ineluttabile al quale l'eroina si piega, ma per assecondare gli snodi di sceneggiatura. Il passaggio dalla sete di vendetta al senso di giustizia è repentino e immotivato, il fondamentale apporto della cognata Piera (la moglie del fratello di Rita, che fu la prima in famiglia a pentirsi) omesso del tutto, e il trattamento del personaggio avrebbe richiesto maggiore adesione psicologica. Non a caso il regista, che fino ad allora aveva liberamente ricostruito e inventato, recupera nel finale i filmini in super 8 della vera Rita Atria e le immagini di repertorio della strage di via d'Amelio: un'ammissione, forse, di quanto inadeguata sia la finzione a risarcire la verità. Cambia mafia, ma non risultato Galantuomini di Edoardo Winspeare, che dopo il non riuscito Miracolo a Taranto del 2003 torna in Salento per tallonare la storia d'amore impossibile definizione sua - tra il magistrato Gifuni e la boss Donatella Finocchiaro negli anni '90 della Sacra Corona Unita. Scritto da Winspeare, Andrea Piva e Alessandro Valenti, il film mette al centro la loro relazione pericolosa, delegando ai margini - forzatamente il milieu sociale, ovvero criminale. Peccato, perché i suoi criminali cialtroni, simpatici e in definitiva deficienti (salvo la boss Finocchiaro e il Carmine Za' di Giorgio Colangeli) sono divertenti, pur se non attendibili - riuscito soprattutto il bullo, cocainomane ed erotomane Beppe Fiorello - mentre il passo doppio di Gifuni e Finocchiaro va a picco, sia per mera verosimiglianza - al lumicino, checché ne dicano i magistrati "consulenti" del film - sia per la mancanza di alchimia interpretativa tra i due, con un Gifuni spaesato e spaesante. Sceneggiatura scellerata, loro sono il focus, e il loro fallimento nonostante la discreta prova della Finocchiaro decreta quello globale del film. C'è poco da salvare, tra cui la magistrata Gioia Spaziani, qualche piano d'insieme umoristico della Sacra Corona Unita, come dicevamo, e qualche nota della colonna sonora, di certo dopo Gomorra, ma anche a prescindere, questa (non-)ntropologia mafiosa è vecchia, drammaticamente vecchia. E dire che Galantuomini è solo una storia d'amore non salva, anzi affossa senso e dimensione del “boss in gonnella”. Come a dire, la mafia si scrive al femminile, ma la si pensa unicamente al maschile: almeno al cinema. Non è giunta l’ora di aprire lo schermo a una mafia transgender? Strumenti di difesa Mafia – sostantivo femminile #3: creare una comunità consapevole a Forcella attraverso il teatro di Mariateresa Surianello Già il luogo scelto per le aperture al pubblico dei laboratori è impregnato dei vissuti delle donne, delle loro emozioni, delle loro solitudini e sofferenze. Il Complesso dell’Annunziata, dove fino alla fine dell’Ottocento girava la Ruota degli Esposti, e, in particolare, il suggestivo Succorpo ha ospitato le serate conclusive de La scena delle donne, un articolato progetto sulle arti sceniche ideato e organizzato da Marina Rippa e Fernanda Fucillo. Coppia inedita di operatrici (una del teatro e l’altra della scuola) che ha coinvolto in questa iniziativa, realizzata a Forcella, uno dei quartieri più difficili di Napoli, una serie di professioniste della scena, ciascuna chiamata per la propria specificità artistica. E sono state cento le partecipanti ai laboratori teatrali, tenutisi presso l’Istituto Comprensivo Ristori-Durante, diretto proprio da Fernanda Fucillo, che ha concepito gli spazi scolastici come luoghi di incontro e di formazione non solo per i giovani e ben oltre gli orari canonici delle lezioni. In una zona del centro città in cui sono assenti aree verdi e spazi di aggregazione, questa scuola (elementare e media) è riuscita a svolgere quella che dovrebbe essere la funzione della Scuola, trasformandosi in luogo di accoglienza, ascolto e formazione per le alunne ma anche per mamme, nonne, sorelle, zie e amiche. Non a caso è stata rintitolata alla memoria di Annalisa Durante, la quattordicenne uccisa il 27 marzo del 2004 nel corso di una sparatoria tra clan camorristi. Annalisa era testimone silenziosa di una realtà insostenibile, contro la quale si sarebbe sicuramente battuta, se le fosse stato concesso di vivere. Scriveva Annalisa e nel suo diario aveva annotato anche la morte del giovane Claudio Tagliatatela, avvenuta qualche mese prima della sua, in quelle stesse strade del quartiere, dal quale la ragazzina sarebbe voluta fuggire. Un’uccisione casuale che mostra la feroce barbarie con cui la criminalità napoletana regola i suoi conti in mezzo a folle di innocenti. Episodio che, riportato da Roberto Saviano in Gomorra, ha scatenato la reazione di Matilde Andolfo, curatrice con Mario Fabbroni, della pubblicazione per i tipi della Pironti del Diario di Annalisa. In questo contesto di guerre tribali ha preso corpo La scena delle donne, dimostrando che altre relazioni sono possibili, altri pensieri possono trasformare la vita di tutti i giorni. Marina Rippa (tra l’altro, fondatrice e anima della compagnia Libera mente, per la quale ha curato il gesto e il movimento di tutte le produzioni con la regia di Davide Iodice), forte dell’esperienza laboratoriale di Donne con la folla nel cuore, condotta al Teatro Trianon nel 2007, è tornata a lavorare sul territorio, riaffermando la funzione sociale del teatro. E ricreando un’occasione per trasmettere quel linguaggio scenico che permette poi, a chi lo sperimenta, di guardare e leggere la propria esistenza e i fatti quotidiani con una diversa consapevolezza. Sostenuto dall’Assessorato alle politiche sociali e alle pari opportunità della Regione Campania, il progetto è di quelli che non creano il grande evento, ma provocano invece una traccia profonda nel territorio dove sono impiantati. E quando si concludono lasciano un vuoto, sine die, perché il suo rifinanziamento – come del resto è prassi in Italia – per il 2009-10, non è assicurato, nel frattempo è cambiata assessore nella Giunta campana. Un’incertezza che però non cancella la soddisfazione di Marina Rippa per quanto accaduto in questi mesi a Forcella con quel centinaio di donne, dai 9 ai 73 anni, e con le sue compagne di lavoro. «Siamo riuscite a sviluppare competenze, a colmare le distanze culturali, a far socializzare le persone, a formare il gruppo, a integrare le diversità e, non ultimo, a creare le condizioni migliori – dice Rippa - per una crescita equilibrata della persona nella comunità in cui vive». Per molte partecipanti ai laboratori non è stato facile entrare in quella scuola, togliersi le scarpe e iniziare a raccontarsi, ad ascoltare le altre, a stare insieme. Il teatro è servito come «alimento, utensile, come luogo del ritrovamento di sé, della propria storia, della propria dimensione di soggetto – sottolinea Rippa - e del proprio ruolo all’interno del mondo che abitiamo». Le donne, madri lavoratrici o madri casalinghe, hanno dovuto spezzare la routine quotidiana e ritagliarsi uno spazio per ripensare se stesse, entrando in relazione le une con le altre. Hanno vissuto conflitti, superato timori e resistenze delle famiglie, dei propri compagni e personali, rimettendo in gioco se stesse. E dai frammenti di testo, raccolti per le aperture finali, quest’ansia compare come momento di passaggio verso una presa di coscienza e il riconoscimento dei propri bisogni. «Scusate…maaa…’e che se tratta? ‘O teatro? E che s’adda fa’? [...] All’inizio ho avuto un po’ di problemi – ripete una donna - perché mio marito diceva “ma che vai a fa'? A perdere 'o tiempo?”. Mia mamma ca mi diceva: “No, se devi fare un lavoro concreto, pure se ti danno poco, io i bambini te li tengo, però pe’ fa e strunzate, no! [...] la famiglia era contraria, me sentiv’ in difetto! Io sono timida, comm’ vaggià spiegà: me metto scuorn! Poi ho partecipato a qualche incontro... e mi vergognavo di fare tutto! Chiedevano delle cose che sembravano strane… diciamo, non le capivo. Però tutta la settimana ci pensavo e mi faceva stare bene. Per esempio, ci andavo il lunedì e il martedì mattina mi scetavo più… più contenta, con più voglia di fare la mamma, la moglie. Poi, succedeva che mentre camminavo per strada ripensavo a certe cose che ci facevano fare al laboratorio e ridevo da sola, allora mi chiedevo tra me e me “stesse addiventann' scema?”. Poi succedeva che il mercoledì non vedevo l’ora che veniva il giovedì per ritornare al laboratorio. Sentivo questa voglia forte… [...] allora tutte quelle voci di mamma, mia sorella, mio marito, l’aggio menat’ a vie 'e for’ perché sta cosa vulev’ capì si ‘a putev’ fa’. E allora ho detto: “Manna a fan culo a tutt’ quanti e continua!”». Per rendere più autonome le donne madri e agevolarle nella decisione di partecipare ai laboratori è stato attivato in concomitanza anche un servizio di baby sitting, al piano terra della scuola. E addirittura, per dare valore al lavoro svolto, a queste donne sarà corrisposto un gettone di presenza. Diviso in due segmenti, “Trame adulte” e “Trame bambine”, questo laboratorio sulle arti sceniche ha fornito i mezzi per l’esplorazione dell’universo femminile, a partire dal racconto anche autobiografico e dalla capacità di ognuna di costruire oggetti, mettendosi alla prova con un’artigianalità extra quoditiana. Il segmento dedicato alle adulte è stato seguito da sessanta donne (a loro volta suddivise in quattro gruppi), condotte nella ricerca della propria espressione attraverso la guida della stessa Marina Rippa (corpo e scena) e di Alessandra Cutolo (scrittura per la scena), rispettivamente occupate nella creazione del movimento e del racconto. Mentre Daniela Salernitano ha lavorato alla realizzazione dei costumi e Rosellina Leone, studiando l’uso dei materiali e le scenografie, ha costruito con il suo gruppo un teatro delle ombre. Ne è uscita una composizione collettiva fatta di pezzi di vita vissuta, di esperienze soggettive, di emozioni soffocate e qui finalmente condivise con le altre. «Il teatro nasce dove ci sono delle ferite, dei vuoti, delle differenze, / ossia nella società frantumata, dispersa, / in cui la gente è ormai priva di ideologie, / dove non vi sono più valori; / in questa società il teatro ha la funzione di creare l'ambiente / in cui gli individui riconoscano di avere dei bisogni / a cui gli spettacoli possono dare delle risposte. / Quindi ogni teatro è pedagogia.» - le trame di donne sono state rintracciate anche seguendo questo pensiero di Jacques Copeau per innestare le arti sceniche in questo contesto e farne un percorso esperenziale per ogni donna, giovane, adulta e vecchia. “Trame bambine” è stato invece seguito da venti alunne (dalla quinta elementare alla terza media) e dalle loro mamme. Le coordinatrici (Daniela Politi e Luisa Cavaliere, con la collaborazione di Linda Dalisi, Tonia Garante, Chiara Licenziati e Laura Massa) hanno raccolto le storie, indagato desideri, speranze, delusioni di queste giovanissime donne con l’intento di procedere all’interno di una scrittura “di sé come cura”. «Attraverso questo percorso si è ritenuto di poter intervenire empiricamente sulla consapevolezza di sé e degli altri, contribuendo – affermano le curatrici - a favorire la pratica della cittadinanza attiva». Tutta questa esperienza, documentata dalle foto di Irene De Caprio e dalle riprese video di Alessandra Carchedi, sarà raccolta in un libro che uscirà il prossimo giugno. Servirà a diffornedere la conoscenza della Scena delle donne di Forcella e a conservarne la memoria. «La bellezza del lavoro che abbiamo svolto, e anche la sua unicità, sta nel mettere insieme, operatrici comprese, donne di provenienza, età, cultura diverse, attraverso le arti della scena. E sentire – conclude Marina Rippa - che questo percorso ha gettato un seme sulla qualità della vita di ciascuna». Le aperture de La scena delle donne si sono svolte presso il Complesso dell’Annunziata – Succorpo, dal 26 al 28 marzo 2009. la differenza settimanale di cultura on-line su www.differenza.org direttore responsabile Gian Maria Tosatti in redazione Graziano Graziani, Giorgina Pilozzi, Attilio Scarpellini, Mariateresa Surianello. La rivista è finanziata nell'ambito del progetto Scenari Indipendenti, promosso dalla Provincia di Roma in collaborazione con il Ministero per i Beni e le Attività Culturali e la Regione Lazio.