i più bravi d`Italia

Transcription

i più bravi d`Italia
Domenica
l’inchiesta
Sushi economy, storia del cibo global
La
di
DOMENICA 8 LUGLIO 2007
FEDERICO RAMPINI
la memoria
Repubblica
Il secolo sovietico nelle foto Izvestia
LEONARDO COEN
I più bravi
d’Italia
Ecco i ragazzi selezionati
dalla Normale di Pisa
Ritratto di una élite
FOTO ALFREDO FALVO/CONTRASTO
generazionale che sarà
la futura classe dirigente
MICHELE SMARGIASSI
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CORTONA
ualche volta Andrea Mariello soffre la sindrome da fratello del figliol prodigo. «Prenda quello che ha tre o quattro debiti: l’ultimo mese di scuola si decide a studiare, si
spacca la testa, agguanta il sei. E gli fanno festa, gli regalano il motorino. A me invece dicono “bravo” ed è finita lì». In effetti, Andrea è svantaggiato. Lui non può migliorare i suoi voti. Ha la
media del dieci. Vuol dire che ha dieci in tutte le materie, compresa
ginnastica. E ce l’ha per il quarto anno scolastico consecutivo. Al liceo classico di Gallipoli. Dove naturalmente è una specie di celebrità, diciamo così. «Sì, quello che mi chiama secchione c’è sempre,
ma che m’importa? Mica sono un secchione, io. Studio solo dalle tre
alle sette e mezza, poi gioco a calcetto o vado in bici».
Qui a Cortona, comunque, Andrea si gode finalmente le gioie dell’omologazione. Sul grande scalone del palazzo comunale medievale, tra i suoi centocinque coetanei in posa per la foto ricordo, il più
scarso ha tutti otto in pagella.
(segue nelle pagine successive)
SALVATORE SETTIS
cultura
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Censura a Brancati, le carte segrete
entralità della conoscenza, qualità delle competenze,
primato del talento e del merito: non è una sorpresa, anche con la presidenza portoghese della Comunità europea (inaugurata in questi giorni) ritornano le identiche
parole d’ordine che abbiamo sentito ripetere da Angela Merkel nel
semestre di presidenza tedesca. L’Europa del futuro non può perdere la sfida degli altri paesi e continenti, dagli Stati Uniti all’India,
dal Giappone alla Cina: e per competere con essi deve saper cogliere il momento opportuno (cioè oggi, e non domani), e affrettarsi a
promuovere la conoscenza e l’innovazione, e dunque a individuare i suoi migliori talenti, favorendo rapide carriere in posizioni di responsabilità per i giovani più brillanti. Solo così l’Europa potrà aspirare alla leadership sul fronte dei grandi problemi d’attualità, dal
controllo del clima all’equità nell’assistenza medica, dalla lotta contro la fame alla promozione delle energie “pulite”, alla diffusione
dell’istruzione nei paesi a sviluppo stagnante.
(segue nelle pagine successive)
SIMONETTA FIORI
la lettura
Il romanzo giovanile di Cortázar
JULIO CORTÁZAR
spettacoli
Dalì e il cinema, il sogno infranto
NATALIA ASPESI
Repubblica Nazionale
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Sono i cinquecento diciottenni più bravi d’Italia, selezionati
dalla Normale di Pisa. Li abbiamo incontrati per tracciare
l’identikit di una futura classe dirigente che crede molto poco
alle regole e alle dinamiche della società che dovrebbe guidare
La sfida dei ragazzi dell’89
MICHELE SMARGIASSI
(segue dalla copertina)
a maggioranza galleggia
sulla media del nove. Crema
scolastica superiore, distillato di pagelle pregiate. La
Normale di Pisa se li è fatti
segnalare dai presidi, i più
bravi d’Italia della classe 1989, nati
quando cadevano muri e illusioni. Sono
i più brillanti tra quelli che hanno appena finito la quarta superiore. Erano quasi duemila: i normalisti hanno scremato
ancora, pesando curriculum e auto-presentazioni. Sono scesi a cinquecento.
Cerchio ristretto. Le beautiful mind di
un’annata, una vendemmia speciale, da
non sciupare. Non li vuole arruolare per
forza, la nostra scuola d’élite più prestigiosa: se vorranno, fra un anno faranno
domanda per entrare nel solenne edificio dove studiarono Carducci e Rubbia,
Fermi e Ciampi, altrimenti sceglieranno
altri atenei. Questa convocazione estiva,
che si ripete da trent’anni, è un servizio
al paese: cerca di far sì che il talento non
si disperda nell’ambiente, non si smarrisca nel labirinto dell’università italiana,
che i più bravi abbiano un suggerimento
per scegliere consapevolmente il loro futuro di studio. “Corso di orientamento
pre-universitario”: in realtà è una settimana da shock intellettuale, terapia
d’urto mentale, full-immersion senza
respiratore nel clima degli studi d’eccellenza: lezione sulla produzione energetica, a seguire analisi del dilemma in filosofia morale, di seguito le basi molecola-
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ri della chiralità (ascoltare per capire cos’è), poi ancora le controversie religiose
nel Novecento... Una scuola di sopravvivenza intellettuale. «Andate pure a pranzo», crolla esausto uno con la maglietta
Impossible is nothing, «io devo dormire
un’oretta...».
Nei chiostri del convento di Sant’Agostino, il professor Mario Vietri, astrofisico, accoglie così i primi cento: «Voi siete
la futura classe dirigente di questo paese». Risatine represse. Imbarazzo. «A diciott’anni è una responsabilità un po’ eccessiva», obietta Sofia, media nove e
mezzo al classico di Palermo. «E chi
dev’essere allora? Totti? La sua fidanzata?», Vietri è inflessibile. Sembra quasi
che qui si allevi una stirpe speciale, Alessia di Foggia s’inalbera: «Non mi va questa cosa della classe dirigente, è classista,
appunto». «Non mi sento di un genere
diverso dagli altri», l’appoggia Vanessa
di Noci, Bari. No, infatti, almeno a primo
sguardo non sembrano di un’altra razza.
Forse un po’ meno chiassosi di una gita
scolastica standard, girano per la cittadina medievale passando inosservati. Magliette dei gruppi rock, jeans, brufoli, minigonne, iPod, collanine, all-star, zainetti: look generazionale adeguato. Forse un tasso leggermente più alto di occhiali. Piercing, scarsi ma non assenti. E
soprattutto belle facce da teenager, nessun colorito verdastro da nerd interfacciato al computer ventiquattr’ore al dì.
«Impegno sì, morire sui libri no».
Dove stia il segreto di quelle performance, neanche loro sanno dirlo. «A me
basta stare attenta a scuola». Ringraziate il Cielo, il Destino, la Natura, il vostro
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carattere? «La mamma», prova una brunetta, arrossendo. Conta avere una buona famiglia alle spalle? «Sì ma non per i
soldi». Piccolo sondaggio sul mestiere
dei papà e delle mamme: medici, professionisti, dirigenti, commercianti; meno
gli insegnanti e gli impiegati. Una barriera sociale al successo scolastico come
quella che denunciava don Milani c’è
ancora, ma complicata da nuove variabili. «Buona famiglia è quella che ti fa da
filtro», spiega Danila di Borgotaro, «che
non ti piazza davanti alla tivù a tre anni,
non ti mette in mano il gameboya cinque
e il cellulare a otto». Mamme consapevoli, ok, è questo tutto quel che avete in
comune? Ci pensano: «La curiosità per il
mondo». Federica di Trento lo dice con
autoironia: «Siamo quelli che alzano
sempre la mano quando il prof chiede “ci
sono domande?”».
Un po’ poco, forse, per spiegare il talento, come lo chiamano qui in Normale senza farsi scrupoli. Talento è una definizione impegnativa. Esigente. Nella
parabola evangelica significa dono, ma
anche dovere. Infatti sembra quasi una
chiamata alle armi del pensiero, questa
naja intellettuale di Cortona. Obbediranno? Si schermiscono. «È quel che si
attendono da noi, questo si vede», medita Fabio di Bagheria, «ma chi ha detto che
siamo quelli giusti? Una buona media
non è di per sé prova dell’intelligenza».
Non in queste scuole, almeno. Mica tanto teneri, i sapientini, con quelle che
stanno frequentando loro. «La preparazione scolastica conta meno del cinquanta per cento», calcola Luca. Benedetta è impietosa: «Professori sessantot-
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tini sfiduciati, avevano ideali, ora hanno
delusioni e ci comunicano sfiducia».
Alessia ha «incontrato più prof sbagliati
che giusti». Almeno uno, però, brilla in
ciascuna storia personale, spesso è stato
l’incontro giusto, quello che ha fatto
scattare la molla segreta che trasforma
uno studente vivace in una mente. Ma è
difficile far miracoli coi fichi secchi. «La
mia scuola è desolante, non c’è neanche
un laboratorio», Annarita di Bari si sente
«un’autodidatta. Cerco bibliografie, seguo conferenze, al pomeriggio m’infilo
di straforo nelle aule dell’università».
Una scuola sofferente forse sforna anche giudizi non così attendibili, e il professor Vietri lo sa bene: «Alla prova d’ingresso in Normale partecipano solo diplomati alla maturità con cento centesimi. Un terzo di loro lascia il foglio in bianco». La docimologia è una scienza imperfetta e applicata in modo diseguale
sul territorio nazionale. La scuola premia, ma la scuola sa anche soffocare il talento: «Chissà quanti ragazzi stanno facendo un mestiere che non è il loro», si
chiede David Regazzoni, che era uno come loro cinque anni fa, adesso si laurea,
e sa che la sua sfida è appena cominciata. E allora, questi ragazzi pieni di medaglie scolastiche sono davvero i migliori?
«Lo siamo, ma all’interno del sistema di
riferimento dato, che è la scuola», ammette Luca di Arcore, non sa che facoltà
scegliere ma ha un linguaggio da fisico
teorico. «Abbiamo più che altro il talento di capire cosa la scuola richiede per
darci un buon voto», sdrammatizza Andrea di Trieste. «La pagella brillante dice
solo che hai propensione a studiare», in-
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siste Massimo. «Siamo solo i meglio
adattati», sintetizza infine Danila con
scatto darwiniano. Chiara di Trento ha lo
sguardo altrove, sta pensando a qualcuno: «Ho un amico che è un genio, è più capace di me. La scuola non gli piace, potrebbe fare tutto, s’accontenta del sei. E
lui qui non c’è».
Modestia? No, prudenza. “Primi a
scuola ultimi nella vita”, questa è la vecchia scusa dei poltroni, si sa. Ma che sia
più vero “primi a scuola e anche nella vita” non lo garantisce nessuno. «Ci sarà
sempre il raccomandato che ti sorpassa». O quello che fa un mucchio di soldi
vendendo auto usate, molto più del tuo
stipendio da luminare della fisica, anche
se prendeva quattro in trigonometria. La
meritocrazia, allora? «Ma dov’è?», sbottano. A scuola c’è, voi ne siete la prova.
«Ma non si trasmette fuori», lo garantisce
Chiara del Visconti di Roma, liceo blasonato. I vostri genitori, almeno, saranno
contenti. «Sì, ma ormai danno per scontato che andiamo bene a scuola, come se
fosse automatico». Ma spesso sono proprio gli adulti, i parenti, gli amici di famiglia i primi a disincentivare: «Dicono
“ma divertiti un po’, non studiare così
tanto, ti perdi gli anni migliori della vita”», sospira Chiara (l’ennesima, questa
è di Lucca). O anche peggio: «Prendi matematica? Vai a fare la fame», s’è sentita
apostrofare Elisa di Tortona. Il sospetto,
diavolo tentatore, è che non abbiano poi
tutti i torti, «se quel che ci aspetta dopo la
laurea sono anni di precariato intellettuale, allora le nostre belle pagelle a cosa
servono? Sarà triste». Questo spiega perché i genietti quando provano a entrare
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LE FACCE
Nelle foto di queste pagine
alcuni dei ragazzi selezionati
dalla Normale di Pisa come
“i più bravi d’Italia” e invitati
a Cortona per uno stage
pre-universitario. In copertina,
una foto di gruppo degli stagisti
Talento e merito, questi fantasmi
SALVATORE SETTIS
FOTO ALFREDO FALVO/CONTRASTO
alla Normale puntano alle facoltà difficili e astratte, matematica, fisica, perché
un matematico e un fisico che escono
dalla Normale hanno un futuro, ma se
poi non ci riescono allora ripiegano su
ingegneria o medicina o giurisprudenza, perché bisogna pur puntare a uno stipendio.
Comunque, meritocrazia, ammettiamo pure. «Ma chi è che decide cos’è il
merito? Chi la nomina una classe dirigente?», chiede Fabio il siciliano e sa che
non c’è una vera risposta. «La classe dirigente italiana ha bisogno delle nostre capacità?», è quasi beffarda Gloria di Camerata Picena, «a giudicare da chi è
adesso classe dirigente, non direi». I politici? Smorfie. Anche quelli che ci stanno, che accettano la sfida, come Margherita di Alessandria, mica pensano di
fare carriera in parlamento: «Per me
classe dirigente non è la testa, ma la spina dorsale di un paese». Del resto quella
del politico non è una vocazione che
possa meritare l’impegno di una vita di
studi: «I politici sono come i pannolini,
vanno cambiati spesso e per lo stesso
motivo», Andrea, quello con tutti dieci,
ride alla sua stessa battuta, «l’ho sentita
in un film, ma è giustissima». Nella vita
futura si vedono primari, fisici nucleari,
giornalisti. Ma a diciott’anni si può anche essere più romantici: «Realizzarsi
non è per forza raggiungere i vertici»,
«Successo è non avere rimpianti», «Successo è non annoiarsi mai», all’Andrea di
Trieste basterebbe «aprire una biblioteca con cioccolateria, sono due modi per
addolcire un po’ il mondo». Non è che
non abbiano ambizioni. È che temono la
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(segue dalla copertina)
olo così, mettendo a fuoco valori e buone pratiche e diffondendole nel mondo grazie a una società in espansione, potremo meritarci la qualità
della vita che desideriamo per noi stessi.
Il traguardo della “strategia di Lisbona” avviata nel
marzo 2000 è di fare dell’Unione europea l’economia
più dinamica e più competitiva del mondo, perché
basata sulla conoscenza. È sempre più improbabile
che ci riusciremo, come allora si progettò, entro il
2010: ma è sempre più necessario farlo, e prestissimo.
Se siamo indietro (se, in particolare, il contributo italiano non è stato finora brillante) è per scarsezza di finanziamenti, ma non solo. L’ostacolo più pesante è
l’insufficiente riconoscimento del talento e del merito, che nel nostro Paese è a rischio per il pesante equivoco, di un populismo un po’ sgangherato, secondo
cui la “meritocrazia”, o l’individuazione e la promozione di élites, sarebbero “di destra”. Nulla di più stolto. Il talento è una risorsa che per sua natura è distribuita equamente a prescindere dall’età, dal sesso, dal
luogo o dalla famiglia d’origine. Non c’è nulla di più
democratico della meritocrazia: cioè di un sistema
che riesca a scovare il talento dove c’è, a premiarlo e a
promuoverlo: perché è dal talento congiunto col merito (cioè con la capacità di accumulare e confrontare
saperi, di riflettere criticamente, di produrre innovazione) che nasce quella conoscenza dinamica dei problemi della natura, della scienza e della società che
produce sviluppo, genera occupazione, fonda e sostiene l’iniziativa e la leadership sui grandi problemi
del futuro.
Lo riconosce la Costituzione, quando afferma (articolo 34) che «i capaci e i meritevoli, anche se privi di
mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi»; articolo, questo, che va letto in sintonia con
l’articolo 3, secondo il quale la Repubblica garantisce
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«il pieno sviluppo della persona umana» rimuovendo
«gli ostacoli di ordine economico e sociale». Viceversa,
serpeggia ancora in Italia una “meritofobia” suicida e
senza futuro: quasi che promuovere il merito voglia dire perpetuare i privilegi delle classi dirigenti, e non sia,
al contrario, lo snodo essenziale per rinnovare le classi dirigenti. Promozioni in base all’anzianità, meccanismi di ope legis mascherati da lotta al precariato, furberie accademiche intese a privilegiare non i migliori
ma i locali: queste e altre pestilenze affliggono il mondo della ricerca e dell’università in Italia. La sola ricetta per sconfiggerle è puntare esclusivamente sul talento, sulla qualità degli studi, sul merito più alto e più
garantito secondo standard internazionali. Promuovere il merito dei migliori non è affatto incoerente con
la difesa del diritto allo studio per tutti, ma la generalizzazione del diritto allo studio universitario non deve comportare appiattimento della qualità; al contrario, le punte d’eccellenza devono essere promosse anche perché fanno da traino all’intero sistema.
Scuole come la Normale di Parigi e la Normale di Pisa, che hanno nel proprio codice genetico l’individuazione del talento e la sua coltivazione mediante
l’alta qualità degli studi, sono (è vero), incubatori delle élites del futuro: ma questa meritocrazia è essenziale alla democrazia, garantisce il progresso della società, assicura lo sviluppo basato sulla conoscenza e
sull’innovazione, in Italia e in Europa. Ma i normaliens di Parigi hanno riconoscimenti ufficiali, sanciti
dallo Stato, ben più chiari e netti dei normalisti di Pisa: nel contesto di un’Europa che cresce, che dà alla
competizione delle conoscenze un ruolo tanto grande nel disegnare l’agenda del futuro, non sarebbe ora
di porre rimedio a questa differenza? Non sarebbe ora
di produrre un provvedimento di sistema sulle Scuole “d’eccellenza” italiane, a cominciare dalla Normale che è di gran lunga la più antica (farà duecento anni nel 2010)?
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fregatura dopo le illusioni. «Magari diventerò davvero classe dirigente, ma di
quale paese?»: è sarcastica, Benedetta di
Pisa, o forse rassegnata, comunque ha
già le valigie pronte. Intellighenzia takeaway, sapere già in formato esportazione: questo dice l’esperienza post-universitaria dei loro fratelli maggiori.
Ma per adesso, è una favola bellissima.
Verso sera le lezioni cattedratiche si
sciolgono in crocchi peripatetici attorno
ai relatori sotto i portici del vecchio chiostro, con la carriera accidentata di
Sant’Agostino dipinta nelle lunette. «C’è
un rapporto tra materia oscura e antimateria?», «Ma il dilemma etico indecidibile non è una contraddizione in filosofia morale?», d’accordo, questi ragazzi quasi-Normali hanno una marcia in
più. Stasera, sul parapetto della rotonda
che sbircia da lontano il Trasimeno giocheranno a recitarsi a memoria i film di
Pieraccioni, di Verdone, di Troisi, festival di dialetti e risate da bambini. Ma
adesso i ragazzi dell’89 allenano i muscoli del ragionamento a costo di sfinirsi, bevono tutto quel che possono, riempiono i serbatoi della mente fino all’orlo,
ne avranno bisogno per la traversata del
deserto dell’anti-meritocrazia. Premiati
da una scuola delle cui capacità di valutare dubitano, lusingati da una società
delle cui promesse non si fidano, cercano un posto nel mondo, e contano solo
su se stessi. Se partono con un po’ di vantaggio, se arriveranno, forse il merito
sarà tutto loro. Poi, magari, in un’altra
Italia, il premio Nobel lo prenderebbe
l’amico geniale di Chiara, quello che
s’accontenta del sei.
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l’inchiesta
Si chiama Tsukiji, è l’antico mercato ittico di Tokyo
ed è il motore della forma attualmente più avanzata
di “globalizzazione dal basso”: il successo senza frontiere
delle strisce di tonno crudo adagiate sugli involtini di riso
bollito. Una storia che comincia nella notte dei tempi
e che oggi è un argomento studiato nei libri di economia
Consumi vincenti
Sushi, il miracolo del cibo ubiquo
FEDERICO RAMPINI
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TOKYO
e immaginiamo che esistano
le cabine di regìa della globalizzazione pensiamo a Wall
Street o alla Banca Mondiale;
ai colossi multimediali di New York e agli
studios di Hollywood; alle grandi agenzie
di Londra che dominano pubblicità e
marketing. In questo elenco manca un
luogo essenziale: Tsukiji, il mercato del
pesce di Tokyo. Da qui viene governato
uno dei consumi universali che rendono
il pianeta sempre più omogeneo. Il sushi,
striscia di pesce crudo adagiato su un involtino di riso bollito, sfida l’hamburger e
la pizza per la sua ubiquità universale, ha
conquistato San Francisco e Milano, Berlino e Rio de Janeiro.
Il sushi è un esempio singolare di globalizzazione “dal basso”, perché dietro la
sua diffusione non c’è la potente pianificazione di multinazionali come MacDonald, Coca Cola o Pizza Hut. Il suo trionfo
sono affezionati vivendo a Nashville, nel
Tennessee, dove non c’è un solo ristorante francese o italiano che sia decente, ma
i sushi-bar sono ottimi». A Hermosa Beach è stata aperta la California Sushi Academy per rispondere a un bisogno impellente: non ci sono abbastanza cuochi per
tutti i sushi-bar che si aprono negli Stati
Uniti, e l’Immigration Service non rilascia le Green Card a ritmo sufficiente per
importare cuochi nipponici.
La storia di come il sushi ha espugnato
i nostri palati è sorprendente perfino per
i giapponesi. Il mercato di Tsukiji, istituzione fondamentale per sfamare gli abitanti di Tokyo, non sembrava destinato a
diventare l’epicentro di un business
mondiale. Ai visitatori occidentali più intrepidi le guide turistiche ne consigliavano la visita — con sveglia alle quattro del
mattino — per penetrare in uno dei luoghi misteriosi dove si custodiscono le tradizioni del Sol Levante. Situato nel centro
della capitale, a pochi isolati dal quartiere dello shopping Ginza, Tsukiji ha origini che risalgono all’inizio del Diciassette-
Il primo “salto” è all’inizio dei Settanta,
quando i cargo-jet giapponesi scaricano
negli Usa tecnologia a buon mercato
e tornano ricolmi del tonno dell’Atlantico
si sposa con le nuove tendenze salutiste
del Ventunesimo secolo. Le top model di
Brera e i giovani cervelli della Google nella Silicon Valley disdegnano il fast-food
americano, il consumo di hamburger scivola inesorabilmente verso ceti mediobassi. Il pesce crudo invece fa sognare chi
ha l’ossessione di cellulite e colesterolo, i
frequentatori di fitness, i cultori dell’eterna giovinezza. Il costume del sushi si è imposto vincendo le nostre resistenze culturali più profonde; ha cancellato in noi la
memoria ancestrale di epoche in cui la
cottura del pesce era di rigore per esigenze igienico-sanitarie. Jay McInerney,
scrittore e gourmet americano, ricorda
quanto è stato rapido il cambiamento
nella sua esperienza personale: «La prima volta che provai il sushi a Tokyo nel
1977 mi consideravo un intrepido avventuriero culinario. Se mai fossi sopravvissuto, mi dicevo, sarei tornato in America
a raccontare una storia incredibile, che
avevo mangiato del pesce crudo su palline di riso. Un giorno, chissà, lo avrei detto ai miei figli. Quando tornai negli Stati
Uniti due anni dopo c’erano sushi-bar in
tutta Manhattan. I miei figli oggi lo mangiano tre o quattro volte a settimana. Ci si
simo secolo. Da trecento anni, ogni giorno e in tutte le stagioni, molto prima delle luci dell’alba lungo i moli del fiume Sumida attraccano i barconi dei pescatori, e
folle di mercanti si accalcano per gareggiare nelle aste competitive, agitando le
mani nei gesti arcani di un codice cifrato
noto solo a loro.
Ma oggi questo antico bazar affronta
una rivoluzione. Non è bastato che i cinquantamila commercianti che lo popolano adottassero i laptop computer e le comunicazioni satellitari, non è bastato che
i loro broker imparassero a gestire ordini
in quattro continenti, a spostare capitali
sui conti correnti di banche off-shore:
ben presto il Tsukiji dovrà traslocare vicino all’aeroporto intercontinentale di Narita per poter svolgere meglio i suoi compiti di istituzione multinazionale, arbitro
e mediatore di un traffico globale. Theodore Bestor, antropologo di Harvard, si
dedica da anni a studiare questo fenomeno e generazioni di studenti preparano
tesi di dottorato sulle sue analisi del mercato Tsukiji. Il reporter Sasha Issenberg
ha pubblicato un saggio intitolato The
Sushi Economy: l’odissea di un pesce crudo come metafora della globalizzazione.
Edo-mae nigiri, quello che banalmente chiamiamo sushi, è l’ultimo stadio di
evoluzione di un alimento le cui origini si
perdono nella notte dei tempi. Per secoli
in tutta l’Asia il pesce fu conservato infilandolo nel riso bollito e sigillandolo in
una giara. Al chiuso gli zuccheri del riso
fermentavano e l’alcol serviva da disinfettante contro il rapido deperimento. Alla fine di questo trattamento il riso andava buttato via perché era diventato acido
e aveva un gusto orribile: secondo una
fonte giapponese del Dodicesimo secolo
sapeva di «vomito di ubriaco». Quattro
secoli fa l’inconveniente viene risolto dai
giapponesi con l’invenzione dell’aceto di
riso. Dall’inizio dell’Ottocento il sushi si
diffonde come un cibo semplice e a buon
mercato, servito ai lavoratori da venditori ambulanti. L’aggiunta della salsa di
soya serve a riprodurre l’acidità della ricetta più antica.
Con il terremoto di Tokyo del 1923, e
l’esodo di cuochi verso il resto del Paese,
il sushi entra nella dieta nazionale. Bisogna aspettare il miracolo economico del
Ha un problema, però. I suoi Boeing 747
decollano da Narita verso gli Stati Uniti
stracolmi di apparecchiature Canon e
Sony, orologi e calcolatrici e macchine fotografiche. Al ritorno gli stessi Jumbo Jet
volano desolatamente vuoti. L’industria
americana in crisi non riesce a produrre
quasi nulla che si possa vendere sul mercato giapponese. Con uno squilibrio che
ricorda il rapporto Cina-Usa di oggi, il deficit commerciale americano verso il
Giappone si gonfia di anno in anno. È il
“pericolo asiatico” nella versione anni
Settanta, quando il deputato John Dingell del Michigan dichiara: «C’è una sola
ragione per cui le nostre case automobilistiche sono in crisi, è tutta colpa di quei
piccoli uomini gialli».
La Jal recluta dei manager nel Nordamerica con una missione: trovare qualcosa, qualsiasi cosa, che si possa importare in Giappone per riempire le stive dei
suoi Jumbo Jet quando tornano a casa.
Secondo la ricostruzione di Sasha Issenberg è un oscuro impiegato canadese della compagnia aerea, Wayne MacAlpine,
Da allora il prezzo dei “pinna blu”
è cresciuto del diecimila per cento:
una performance che sta mettendo a rischio
la sopravvivenza stessa della specie
dopoguerra perché il palato sempre più
esigente e il crescente potere d’acquisto
della middle class giapponese selezionino il nuovo “re” del sushi: è il kuromaguro, il favorito tra le infinite possibili variazioni di pesci e frutti di mare e alghe offerti
nei sushi-bar. Thunnus thynnus per gli ittiologi, “pinna blu” in inglese, per noi
tonno comune. Un po’ grasso ma ben digeribile, energetico e ricco di proteine, il
pranzo ideale per manager indaffarati
nella conquista del mondo. Essendo la
prelibatezza più ricercata, le riserve di
banchi di tonno si assottigliano molto rapidamente nelle acque nipponiche durante gli anni Sessanta e Settanta. È a quel
punto che si apre il primo ciclo della globalizzazione del sushi, che attraversa le
grandi sfide tra superpotenze dell’economia mondiale.
All’inizio degli anni Settanta il Sol Levante macina successi industriali travolgenti. In poco tempo il made in Japan invade tutti i mercati, comincia con l’acciaio e i cantieri navali, poi si impone nell’automobile, nell’elettronica, nell’ottica
di precisione. La Japan Airlines (Jal) in
quell’epoca diventa il numero uno mondiale nel trasporto aereo di cargo merci.
ad aver risolto l’equazione nel 1971 mettendo in moto uno sconvolgimento mondiale dei commerci. Sulla costa atlantica
del Canada MacAlpine scopre che la pesca del tonno viene praticata a scopi
esclusivamente sportivi: il prezzo di mercato è così basso che i pescatori locali si
fanno fotografare con i loro trofei poi buttano i tonni nelle discariche (e gli tocca
pure pagare una tassa). Così scatta la logica implacabile della domanda e dell’offerta e si apre l’èra del “pesce volante”.
Grazie ai progressi nella velocità di trasporto nonché nella tecnologia di refrigerazione, i Jumbo della Jal tornano in patria carichi di tonni. Mentre i conglomerati finanziari del Sol Levante si comprano il Rockefeller Center e i campi di golf
sulla Pebble Beach in California, i rudi pescatori del Maine sono gli unici che riescono a invadere il Giappone con una
merce americana. Nel frattempo un geniale ristoratore ha presentato all’Expo
Universale di Osaka (1970) l’innovazione
del “nastro acquatico” dove le barchette
cariche di sushi sfilano davanti ai clienti
che si servono da soli: è un adattamento
della catena di montaggio, per ottimizzare la velocità di servizio e la produttività
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DOMENICA 8 LUGLIO 2007
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33
LA FILIERA DEL TONNO
FOTO CORBIS
Nelle foto di queste pagine una sequenza
delle attività che si svolgono all’alba di ogni
giornata nello storico mercato del pesce
Tsukiji, al centro di Tokyo. I tonni vengono
scaricati, pesati e messi all’asta
dai cinquantamila operatori
del mercato, che nel prossimo futuro
dovrà trasferirsi vicino all’aeroporto
internazionale per guadagnare spazio
e migliorare tempistica ed efficienza
del cuoco; è anche un curioso presagio
del toyotismo, la rivoluzione industriale
dei flussi continui che metterà in ginocchio l’industria d’Occidente.
La tappa successiva vede ancora per
protagoniste le stesse multinazionali
nipponiche che dominano i mercati
americani. Moltiplicano le loro filiali sulla West Coast, creando così tante nuove
Japan-town dove i manager non esitano
a mettere sulla nota-spese aziendale
pranzi da cento dollari a testa a base di
“pinna blu”. Questa testa di ponte lanciata dal sushi in America incrocia una nuova tendenza californiana. È il “fenomeno” Alice Waters, la creatrice del ristorante Chez Panisse a Berkeley, un’antesignana di Carlo Petrini e del suo movimento
Slow Food. La Waters affonda le radici
nella cultura hippy, attacca l’industrializzazione del cibo, prende le distanze anche dalla cucina francese troppo grassa,
propone una gastronomia naturale. L’ideologia della Waters — si può star bene
mangiando cose squisite — è molto più
gradevole delle diete dimagranti che la
del tonno si impenna del diecimila per
cento, una performance che nessuno
hedge fund riuscirà a eguagliare. Tsukiji
diventa un iperspazio, luogo virtuale dove si fissano prezzi di partite di tonno
scambiate all’istante in tutti gli angoli del
pianeta. Issenberg fa entrare negli annali
della sushi-story l’agghiacciante reazione di un broker davanti alle prime immagini dell’attacco alle Twin Towers l’11 settembre 2001: «Bastardi, c’è del tonno su
uno di quegli aerei!». E dopo lo tsunami
che devasta l’isola di Phuket nel dicembre 2004, quando l’aeroporto dell’isola è
intasato di aerei coi soccorsi umanitari, il
primo jet che decolla alla volta degli Stati
Uniti è carico di tonno fresco thailandese. I broker globali del sushi battono Onu
e Croce rossa.
La caccia al tonno impazzisce, se ne pescano oltre sessantamila tonnellate all’anno, gli ambientalisti temono per la sopravvivenza della specie e l’equilibrio
dell’ecosistema. Una dozzina di nazioni
concordano un “disarmo controllato”
con l’obiettivo di ridurre del venti per
Ora la moda del pesce crudo ha fatto breccia
nei due grandi mercati del futuro: dilaga
nelle metropoli cinesi e anche l’India si allinea
inaugurando un “tre stelle” sushi a Mumbai
Weight Watchers propone a quei tempi.
Su questo terreno propizio il sushi dilaga all’improvviso. Viene raccomandato
autorevolmente dai dietologi californiani per prevenire le malattie cardiovascolari. A Hollywood Richard Dreyfus inaugura l’abitudine del sushi “take-away”,
consegnato in vassoio agli attori sui set
durante le riprese dei film. In pochi anni
lo star-system se ne impadronisce. Robert De Niro lancia una joint venture con
lo chef Nobu Matsuhisa, che vanta tra i
clienti affezionati Bill Clinton e Céline
Dion. “Nobu” diventa l’equivalente dei
tre stelle Michelin nella ristorazione sushi: dopo Los Angeles apre a Manhattan,
Las Vegas, Malibu, Aspen, Paradise
Island nelle Bahamas. A Milano è Armani
a inaugurare il ristorante Nobu nei suoi
locali. L’effetto di emulazione è irresistibile, partito dalla fascia alta il sushi si
espande in ogni direzione. In poco tempo nella città meneghina, capitale italiana della moda e della finanza, diventa più
facile trovare un sushi-bar che un risotto
al salto o una cassoeula.
Il mercato di Tsukiji, termometro sensibile, registra l’ascesa forsennata dei
prezzi: dagli anni Settanta a oggi il prezzo
cento la pesca, ma è dubbio che il limite
sarà rispettato. A Tokyo l’inquietudine su
possibili penurie genera ondate di panico, si diffondono leggende metropolitane su partite di carne di cervo spacciate
per tonno (è il titolo d’apertura di un telegiornale recente). La nuova sensibilità
ambientalista sul surriscaldamento climatico rimette in discussione un traffico
mondiale di pesce crudo movimentato
dal kerosene dei jet. Il grande magazzino
londinese Marks&Spencer, per educare il
pubblico ad acquistare alimenti locali,
introduce l’etichetta con l’immagine di
un aeroplano per segnalare i prodotti importati da grandi distanze. Ma la marcia
del sushi come emblema della globalizzazione procede senza freni. La moda ha
ormai fatto breccia anche nei due mercati del futuro. Nelle grandi metropoli della
Cina è stata introdotta, come in America,
dai manager delle multinazionali nipponiche, e ormai è onnipresente. In India lo
chef Masaharu Morimoto inaugura un
“tre stelle” sushi a Mumbai. Dopotutto,
se gli indù non mangiano il manzo e i musulmani non toccano il maiale, al tonno
crudo si scopre un’altra virtù: la dieta alternativa allo scontro di civiltà.
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34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
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la memoria
Il quotidiano russo festeggia il novantesimo compleanno
con una mostra delle immagini migliori tratte dal suo archivio
Secolo sovietico
Guerre e rivoluzioni, vertici politici e parate militari, eroi
del lavoro e dello spazio. Ma a sorpresa emergono una serie
di scatti dove, accanto ai leader inossidabili, una mano ignota
ha cancellato il volto dei dignitari caduti in disgrazia
Le foto proibite delle Izvestia
LEONARDO COEN
E
MOSCA
ra l’aprile del 1961. Doveva fotografare
Krusciov che baciava sulla bocca Gagarin, l’eroe del cosmo, appena rientrato
dal primo volo orbitale di un uomo attorno alla Terra. Gliel’aveva ordinato Alexsei Ivanovic Agiubei, direttore delle Izvestia, nonché deputato al Soviet Supremo e soprattutto intoccabile genero di Krusciov. «Che significa?», gli rispose Serghej Smirnov, il fotoreporter più famoso dell’epoca. «Significa che dovrai seguire passo per passo Gagarin, dall’aeroporto al Cremlino. Vedrai che al
momento opportuno Nikita lo bacerà in bocca. Stai
tranquillo: so per certo che succederà. E tu sarai lì,
testimone di un gesto che tutti i russi vorrebbero fare e che noi avremo immortalato sulla nostra prima
pagina. Guai se quelli della Pravda ci precederanno. Non sopporto quei baciapile del partito. Ti
mando un elicottero che ti porterà sulla Piazza Rossa». «Non ce n’è bisogno. Mi basta un’auto e il permesso di entrare al Cremlino». «Kharasciò», tagliò
corto Agiubei. Avrebbe umiliato ancora una volta i
rivali della paludata e governativa Pravda, l’organo
ufficiale del Comitato centrale del Pcus. Con la sua
brillante direzione — spregiudicata nel contesto
del regime sovietico — sfruttando la parentela,
Agiubei aveva ritagliato per le Izvestia(«Le notizie»)
pezzettini di autonomia: il giornale era diventato
popolare perché aveva svecchiato l’informazione,
dedicando spazio ai reportage di costume, alle corrispondenze dalle capitali occidentali; perché vi si
coglievano velate critiche
IDENTITÀ CENSURATE/1 contro l’ottusità burocraFOTO 1. Lenin, dopo l’attentato tica; e perché pubblicavaalla fabbrica Mikhelson di Mosca no le fotografie migliori.
nel 1918, tiene il comizio
Fu uno sforzo epocale.
per l’anniversario della Rivoluzione La censura dell’occhiuto
di ottobre. La faccia “cancellata” potere vigilava implacanell’angolo destro della foto bile. Lo imponeva, del repotrebbe essere sto, l’incessante turnover
quella di Lev Trotskij. L’altro volto, delle purghe. Il ritocco era
che si intravede dietro a Lenin, delicata pratica quotidiapuò essere quello di Varlam na. Compagni di lotta e di
Avanessov, commissario partito finivano in disgradella CeKà zia: subito si provvedeva a
FOTO 2. Mikhail Kalinin accoglie cancellarli dalle foto.
il presidente del parlamento cinese Tratti di penna sulle aniSun-Fo in visita per le trattative me morte della politica.
su Ciang Kai Shek, il leader Come al funerale di Makdella Cina del Kuomintang sim Gorkij nella Piazza
La persona “cancellata” Rossa. In una celebre fodalla censura potrebbe essere to-regime si vedono in
Nikolaj Ezhov, allora prima linea Stalin, Molocommissario del Nkvd, artefice tov, Krusciov, Kaganovidella severa ondata repressiva ch, Voroscilov. C’erano
del 1937 e poi assassinato pure Lavrentij Beria, allora onnipotente commissario del Nkvd, e i suoi vice. Sino al 1953. Dopo, la foto venne «aggiornata». Beria e i suoi liquidati due
volte. In vita. E in foto.
Si vede che Gorkij sollecitava associazioni pericolose. Infatti, in un’altra immagine, lo vediamo
con Romain Rolland, ospite al campeggio dei giovani pionieri Artek, in Crimea. C’era anche Aleksandr Kossarev, battezzato dai compagni «onestà e
morale». Leader del Komsomol sovietico dell’Associazione dei giovani comunisti finì calunniato, deportato nel gulag e fucilato il 23 febbraio 1939. L’amico Gorkij lo chiamava affettuosamente Sasha. Il
suo «errore politico» consistette nell’aver sposato la
figlia di un «nemico» personale di Stalin. Risultato:
faccia raschiata, per renderla irriconoscibile.
Tutti sapevano di queste pratiche, inaugurate fin
dai tempi della Rivoluzione d’Ottobre. Lev Trotskij
ne è stata la vittima per eccellenza: certe volte in modo grossolano, come al primo comizio di Lenin dopo l’attentato alla fabbrica Mikhelson di Mosca del
1918. Era lì, ascoltava il leader della rivoluzione. La
Storia ritoccata da Stalin lo negò. Punito, in quella
stessa foto, Varlam Avanessov, commissario della
CeKa, la polizia segreta.
Quando Mikhail Kalinin, (formale capo dell’Unione sovietica, in qualità di presidente del Soviet
Supremo) accolse il presidente del parlamento cinese Sun-Fo, c’erano in ballo importantissime trattative con Ciang Kai Shek, il leader del Kuomintang.
Un ruolo non secondario lo ebbe Nikolaj Ezhov,
commissario del Nkvd, colui che scatenò una severa ondata di purghe nel 1937. Finì fucilato pochi anni dopo. E le sue immagini furono accuratamente
«purgate». Degno contrappasso.
Ardua impresa «riflettere sulle cose del Paese ed
inquadrarle — anche con una semplice macchina
fotografica — da un’ottica non sempre gradita agli
occhi del potere», commenta Rosa Nezhina, una
delle responsabili dell’immenso archivio fotografico di Izvestia. Si lavorava ingessati dalle perverse logiche di regime. Salvo occasioni eccezionali. Come
il giorno di Gagarin: «La sola cosa che contava era
non fallire. Fu il “servizio” più difficile della mia carriera. Sapevo che questa foto sarebbe rimasta per
sempre nella storia e nella memoria della Russia»,
1
2
3
4
LA MOSTRA
La mostra fotografica Fumo di patria - Ventesimo secolo, inaugurata al Museo
di Storia Contemporanea di Mosca, toccherà quest’estate le principali città russe
ed è dedicata al novantesimo anniversario dell’Izvestia, il più antico dei quotidiani russi
in vendita dal febbraio del 1917. In rassegna sono esposti, per la prima volta,
anche documenti e foto che all’epoca non potevano essere pubblicati sul giornale
ricorda Serghej Smirnov. E così fu. «Dissi all’autista
di aspettarmi col motore acceso sotto San Basilio,
nella Piazza Rossa. Il bacio di Krusciov a Gagarin ci
fu. E c’ero pure io. Corsi al giornale: mancava solo la
mia foto. Tempo un’ora ed ero già di ritorno con le
prime copie fresche d’inchiostro. Le consegnai a
Krusciov e a Gagarin. Poi li fotografai mentre insieme leggevano Izvestia con la foto del bacio in prima
pagina». Smirnov oggi ha ottantatré anni. È rimasto
il fotoreporter più famoso di Russia. Sta sulla breccia da sessantadue anni, quarantanove li ha spesi
per Izvestia, il più vecchio dei quotidiani russi: esce
da novant’anni, dal fatidico 1917, quando nacque
come portavoce dei menscevichi e degli «s.r.», ossia
i socialisti rivoluzionari.
Sono mesi che Izvestia celebra l’anniversario
perché «quella che è passata attraverso le nostre pagine è la nostra vita. Grazie ad esse non è caduta in
oblìo. Il giornale può dire con coraggio che è sempre stato con il suo popolo. Là, dove è capitato il nostro popolo, per sfortuna. O per fortuna». La vita di
Sergej è la metafora di tutto ciò. È sopravvissuto alla spaventosa carneficina della Seconda guerra
mondiale, la Grande guerra patriottica; è passato
indenne lungo i tornanti insidiosi dei cambi di potere al Cremlino; ha sopportato il crollo dell’Urss, il
caos post-sovietico, l’irruzione del consumismo
sfrenato, il dilagare impunito della criminalità, l’oligarchismo; è stato in Afghanistan quando le truppe russe lo invasero e in Cecenia, guerra sporca che
la povera Anna Politovskaja descrisse come il luogo
del «disonore russo». È appena rientrato da una mega operazione anti-bracconaggio della polizia nel
Mar Caspio, giusto in tempo per essere premiato alla mostra fotografica Fumo di Patria-Ventesimo IDENTITÀ CENSURATE/2
Secolo, al Museo di Storia FOTO 3..Maksim Gorkij con Romain
Contemporanea di Mo- Rolland, ospiti al campeggio
di giovani pionieri Artek,
sca, che si è chiusa ieri.
Molte, di quelle cento in Crimea. Nella foto è stato
stupende immagini, sono “cancellato” il volto di Aleksandr
sue: «Ho cominciato in Kossarev, leader del Komsomol
guerra. Ero pilota durante sovietico (l’associazione dei giovani
l’assedio di Leningrado. comunisti) soprannominato
Sorvolavo e fotografavo le dai compagni “onestà e morale”
linee tedesche col mio Morì per fucilazione nei gulag
piccolo ricognitore di Stalin il 23 febbraio 1939
Yakovlev. Un giorno mi Il suo “errore politico” fu l’aver
presentai alla Tass. Fui as- sposato la figlia di un “nemico”
sunto un’ora dopo quel personale di Stalin
colloquio. Mi misero in FOTO 4. I funerali di Maksim Gorkij
una mano la tessera del nella Piazza Rossa del Cremlino
razionamento, nell’altra In prima fila si riconoscono
il pass del fotografo». Di Stalin, Molotov, Khrusciov,
quella guerra, l’immagi- Kaganovich, Voroscilov
nario occidentale conser- “Cancellati” dalla censura
va la memoria dei film di Lavrentij Beria, l’allora
Hollywood e delle foto Li- onnipotente commissario
fe. I russi stanno risco- della Nkvd, e i suoi vice
prendo soltanto adesso il
«minimalismo bellico», dopo i lavaggi del cervello a
base di trionfalismo e grandiosità. Dagli archivi
emergono immagini antiretoriche. L’universo degli individui. Foto spesso scartate, la più ipocrita
delle censure. Perché trattavano guerre viste dalla
retrovia, più che dalle prime linee. Volti e risvolti di
una Storia messa da parte. La sigaretta di traverso
tra le labbra d’un fante sorridente, per esempio:
«Fumiamocela compagni, una per una, così un po’
amaro, un po’ col nodo in gola, gustiamo il fumo
della patria», era il ritornello di una famosissima
canzone d’allora.
Nikolaj Petrov, Dmitri Debanov, Vladimir Mussinov, Pavel Troshkin, Anatolij Shurikhin, Gheorghij
Zelma, Samarij Gurarij, Dmitri Baltermants,
Alexandr Sekretarev, i fotografi di Izvestia, chissà
quante volte l’hanno fischiettata mentre documentavano servitù e grandezza della vita militare
senza ricorrere al filtro dell’ideologia o alle istruzioni della propaganda. Persino i giganteschi e gloriosi cantieri del socialismo offrono spunti di mirabile
arte fotografica, senza l’alito pesante del regime onnipresente. La guerra civile e fratricida appare per
quella che è stata. La tragedia dei contadini nell’epoca delle collettivizzazioni forzate è documentata
impietosamente. Le foto della Grande guerra patriottica svelano le atroci sofferenze della popolazione civile.
E le visite degli ospiti illustri dell’Urss mostrano
aspetti più «umani». Che Guevara e Krusciov che si
apprestano a sbronzarsi: lo promette il notevole
schieramento delle bottiglie maliziosamente ritratte con loro. Fanno pendant con l’orsacchiotto
— l’animale totem della Russia — che un maldestro
Fidel Castro colbaccato tenta di portare a spasso. Sino alla terribile mimesi di Breznev. Foto dopo foto
l’invecchiamento devastante sembra quella dell’Urss. L’ultima visita all’estero, a Bonn, lo tradisce
spietatamente: gli occhi vacui, assenti, preannunciano la fine.
Altri occhi, invece, raccontano l’oggi. Quelli di
Putin. Occhiali scuri da 007, lasciano trapelare lo
sguardo di sottecchi di un uomo sempre in guardia,
che non si fida mai di nessuno. Ma che sa bene quello che vuole.
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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35
GLI OPERAI Due operai siderurgici in pausa dal lavoro, la foto è degli anni Venti
GLI INCURSORI Tute da neve e scarpe pesanti per gli incursori russi in azione nel 1939/’40
I CARRISTI Due carristi russi durante la Seconda guerra mondiale
IL SOLDATO Il corpo di un soldato ucciso dai nemici durante la Seconda guerra mondiale
IL FÜHRER Adolf Hitler sfila in auto con i suoi generali per le strade di Berlino
IL COSMONAUTA Il russo Jurij Aleksejevic Gagarin dopo l’impresa nello spazio nell’aprile del 1961
LA PARATA Missili in parata sulla Piazza Rossa a Mosca negli anni Settanta
IL LÌDER MAXIMO Fidel Castro mentre porta al guinzaglio un orsetto. Unione Sovietica 1963
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36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 8 LUGLIO 2007
la storia
Nel 1821 Esprit Blanche aprì a Parigi una casa di cura
per malattie mentali. La frequentarono Alexandre Dumas,
Jules Verne, Eugène Delacroix; ci si ricoverarono
Gerard de Nerval e Guy de Maupassant. Un avamposto
delle tesi freudiane e un laboratorio sulla “luce nera”,
ovvero l’intreccio delle “sorelle sfortunate: arte e follia”
La clinica che inventò l’analisi
D
UMBERTO GALIMBERTI
ell’anima s’era detto tutto:
che era buona o cattiva,
mortale o immortale, che
poteva salvarsi o dannarsi,
conoscere la verità o cadere
nell’errore. Elevata a dimora di Dio, la si trovava nei discorsi degli
amanti, a garanzia che il desiderio non era
solo desiderio di corpi. Il suo compito era
nobilitare tutto ciò che nell’uomo “senz’anima” sarebbe apparso poco nobile. Fu
nel Settecento che si prese a pensare una
cosa impensata: che l’anima potesse ammalarsi e richiedere medici dell’anima.
Nacque la psichiatriae con essa la medicalizzazione (iatria) dell’anima. L’ipotesi
psichiatrica tolse all’anima un po’ della
sua aureola e soprattutto ridusse la sua distanza dal corpo. Se l’anima poteva ammalarsi, dov’era più quella differenza tra
anima e corpo che dall’antichità al Settecento e oltre aveva prodotto tante visioni
gratificanti e compensatorie del destino
umano?
Un secolo dopo nacquero la psicologia,
studio scientifico dell’anima consegnato
alle ipotesi e alle verifiche di laboratorio, e
subito dopo la psicoanalisi per “sciogliere
(in greco: analyo) con la parola i nodi dell’anima. Tra l’anima e la parola ci fu sempre una profonda parentela. Fu infatti il
linguaggio (e non l’amore) ad affascinare
l’anima, che da allora si produsse in tutte le
parole che, dalle più semplici alle più complesse, compongono quel concerto dell’anima che si chiama arte, poesia, narrazione, letteratura, in una parola cultura.
E uomini ci cultura — come Gerard de
Nerval e Guy de Maupassant per farsi curare, Alfred de Vigny, Hector Berlioz, Eugène Delacroix, Alexandre Dumas come visitatori e saltuari frequentatori, Jules Verne
e Ernest Renan come padri angosciati per
la salute mentale dei loro figli — ritroviamo
ne La Maison du docteur Blanche. Una casa di cura privata per malattie mentali
aperta a Parigi da Esprit Blanche (17961852) e diretta, dopo la sua morte dal figlio
Emile (1920-1893), i quali, ai terribili metodi di contenzione in uso all’epoca, sostituirono l’ascolto dei pazienti e quella cura
con la parola che, nel secolo successivo, diverranno le forme terapeutiche adottate
dalla psicoanalisi e dalla psichiatria fenomenologica.
Ma La casa del dottor Blanche, non era
solo un luogo di cura, era anche un luogo
di osservazione per studiare da un lato i
rapporti tra ragione e follia e dall’altro i legami segreti che legano la follia alla creatività. A promuovere questo tipo di ricerca
era la persuasione che la follia è una condizione umana presente in noi come lo è la
ragione. E una società, che per dirsi civile
dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia, in realtà incarica una scienza, la
psichiatria, per tradurre la follia in malattia allo scopo di eliminarla. Come diceva
Franco Basaglia: «Il manicomio ha qui la
sua ragion d’essere che è poi quella di far
diventare razionale l’irrazionale. Quando
qualcuno è folle ed entra in manicomio
smette di essere folle per trasformarsi in
malato. Diventa razionale in quanto malato».
Non era questo l’intento di Philippe Pinel (1745-1826) che nel 1793 inaugurò a
Parigi il primo manicomio, liberando i folli dalle prigioni, in base al principio che il
folle non può essere equiparato al delinquente. Con questo atto di nascita la psichiatria si presenta come scienza della liberazione dell’uomo. Ma fu un attimo,
perché il folle, liberato dalle prigioni, fu subito rinchiuso in un’altra prigione che si
chiamerà manicomio. Da quel giorno incomincerà il calvario del folle e la fortuna
della psichiatria. Se infatti passiamo in rassegna la storia della psichiatria vediamo
emergere i nomi di grandi psichiatri, mentre dei folli esistono solo etichette: isteria,
astenia, mania, depressione, schizofrenia.
Ma la depressione, la mania, la schizofrenia sono davvero “malattie” come l’ulcera, l’epatite virale, il cancro? O il modo
d’essere schizofrenico è così diverso da individuo a individuo e così dipendente dalla storia personale di ciascuno da non consentire di rubricare storie e sintomi così diversi sotto un’unica denominazione? A partire da
queste
considerazioni,
Esprit ed
Emile Blanche, che
possiamo
considerare
discepoli
ideali di Pinel, si avvicinano alla sofferenza psichica non come a una malattia, ma come
alla storia potenziale
di
chiunque che,
da un giorno all’altro, può trovarsi in una deriva
di pensieri, sensazioni e sentimenti,
i quali, sconnessi,
affogano in quella
luce nera e così poco rassicurante che,
con un nome che
oscilla tra il poetico, il geniale e il patologico, siamo soliti chiamare “follia” che, come vuole la bella immagine di Clemens
Brentano, è «la sorella sfortunata della
poesia».
C’è infatti una creatività sempre incistata nella follia, c’è un bisogno di esprimere
mondi altri da quello che abitualmente
abitiamo, c’è un desiderio di espandere
IL FONDATORE
Sotto, una lettera
di de Nerval a Emile
Blanche e in basso,
Esprit Blanche
A destra
nella foto grande,
Casa Blanche
orizzonti fino alla vertigine del senza-confine, c’è la perla della conchiglia, come
vuole l’immagine di Jaspers là dove scrive
che: «Lo spirito creativo dell’artista, pur
condizionato dall’evolversi di una malattia, è al di là dell’opposizione tra normale e
anormale e può essere metaforicamente
rappresentato come la perla che nasce
dalla malattia della conchiglia. Come non
si pensa alla malattia della conchiglia
ammirandone la perla, così di fronte alla
forza vitale dell’opera non pensiamo alla schizofrenia che forse era la condizione della sua nascita».
Conosciamo la follia in due accezioni: come il contrario della ragione e come ciò che precede la stessa distinzione tra ragione follia. Nella prima accezione la follia ci è nota: essa nasce dalle procedure d’esclusione che scaturiscono da quel sistema di regole in
cui la ragione consiste. Dove c’è regola c’è deroga, e la storia della follia,
raccontata dalla psichiatria, è la storia di queste deroghe. Ma c’è una follia che non è deroga, per la semplice ragione che viene prima delle regole e delle deroghe. Di essa non c’è
sapere, perché ogni sapere appartiene all’ordine della ragione, che
può mettere in scena il suo discorso tranquillo solo quando la violenza è stata cacciata dalla scena,
quando la parola è data alla soluzione del conflitto, non alla sua esplosione, alla
sua minaccia.
A conoscere questa follia non è la psichiatria ma la creazione artistica che, di
fronte al cosmo della
ragione, il solo che gli
uomini possono abitare, sa da quale fondo
esso si è liberato, e perciò non chiude l’abisso
del caos, non ignora la
terribile apertura verso la
fonte opaca e buia che
chiama in causa il fondamento stesso della razionalità, perché sa che è da quel mondo che vengono le parole che poi la ragione ordina in maniera non oracolare e non
enigmatica. Sono parole dettate da forze
terribili perché, come nell’Empedocle di
Hölderlin, insorgenti con la potenza incontenibile del vulcano che scaraventa il
suo fuoco verso il cielo, affinché non si dimentichi che l’ordine della terra ha la durata di un giorno. Un giorno lucido, che
tenta di far dimenticare quella luce nera e
così poco naturale, da cui in ogni istante ci
difendiamo per non precipitare nelle tenebre dell’insensatezza.
Eppure c’è chi si fa testimone di questa
insensatezza per portarla alle sue espressioni più alte. Costui sacrifica la sua mente
e mette la sua parola al servizio del nonsenso. Precipizio di tutti gli ordini logici,
massima vertigine, congedo del buon senso e delle sue ordinate parole. Per questo,
scrive Jaspers nel sue considerazioni psicopatologiche sulla follia di Hölderlin:
«Nel caso dei poeti la questione della follia
si pone altrimenti: ora il pericolo minaccia
lo stesso poeta, ne può essere schiacciato,
mentre il suo compito è proprio quello di
trasmettere agli uomini, con la sua opera,
ciò che di mortale vi è nel divino, già da lui
assimilato e reso inoffensivo».
Due ancelle giungono soccorrevoli intorno all’abisso che si è appena spalancato: la psichiatria con il suo catalogo di nomi, a proposito dei quali vale sempre il monito di Kant: «C’è un genere di medici, i medici della mente, che ogni volta che trovano un nome, pensano di aver conosciuto
una malattia», e la creazione artistica che
non dispone di nomi perché, abitando da
sempre l’abisso, ne conosce l’insondabilità. Qui la pato-logia raggiunge la sua essenza, che non è da cercare nella malattia,
ma in quel patire (pathos) che si fa parola
(loghia).
Se non accediamo a questa parola, che
è “straniera” perché è “estranea” alla ragione, non sapremo più nulla di Dio e degli dèi e resteremo indecisi nei loro confronti, non sapremo morire perché più
non intenderemo la nostra condizione di
“mortali”, non conosceremo il dolore se
non nella forma dell’impedimento e della
disperazione, non sapremo parlare se non
in modo sempre più tecnico e impersonale, per cui finiremo con l’abitare il “chiuso”
di un mondo popolato da uomini che conoscono un solo linguaggio, con cui danno titoli ai loro discorsi e regole alle loro
azioni, le quali, oramai sorde al richiamo
dell’“Aperto”, come vuole l’espressione di
Rilke, presiedono solo il recinto chiuso
della sicurezza.
Se, come Heidegger ci ricorda, la ragione
è l’ambito rac-chiuso nella previsione del
pensiero che calcola, allora la folliaè la condizione dove è possibile arrischiare nell’Aperto, dis-chiuso del pensiero che dispone
le cose in relazioni che oltrepassano il recinto delimitato del calcolo e chiamano in
gioco i mortali e i divini, il cielo e la terra? Di
questo sono capaci quei folli che già Platone segnalava “abitati dal dio”. E allora qui si
scorge il nesso tra follia e creazione artistica, naturalmente con il sacrificio dell’artista, il quale, con la sua catastrofe biografica, segnala la condizione che è la vita come
assenza di protezione, da cui noi ci difendiamo non oltrepassando il recinto chiuso
della nostra ragione, che abbiamo edificato come rimedio all’angoscia.
Qui la psichiatria si ritira rossa di vergogna, mentre accanto alla follia resta l’arte
come espressione sintomatologica della
condizione umana. “Sin-tomo” è parola
greca che vuol dire “co-incidenza”. Quello
che forse abbiamo ancora il timore di capire è perché, nelle loro espressioni più alte, arte e follia coincidono, perché accadono insieme.
Repubblica Nazionale
DOMENICA 8 LUGLIO 2007
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37
Jules Verne
Alexandre Dumas
Il creatore del Nautilus,
preoccupato per la salute
mentale del figlio Michel,
si rivolse a Blanche che
lo visitò ma non lo ricoverò
Il grande romanziere
frequentava Casa Blanche
per osservare
il comportamento
dei pazienti
Guy de Maupassant
Edouard Manet
La malattia mentale
lo colpì a quarant’anni
Scrisse: “La morte
è imminente
e io sono pazzo”
Un altro grande
frequentatore di Casa
Blanche, anche se
il professore non amava
lo stile impressionista
I segreti del dottor Blanche
AMBRA SOMASCHINI
Hector Berlioz
Il dottor Blanche amava
la compagnia dei musicisti
Conobbe il librettista
in gioventù e la loro
amicizia durò tutta la vita
to proprio Blanche a incoraggiare Nerval a scrivere i
a vostra casa è un palazzo incantato». Gèsuoi sogni prefigurando così il metodo chiave della
rard de Nerval descrive così la casa di cura
psicoanalisi».
per malati di mente fondata da Esprit BlanBlanche studiava il rapporto tra arte e follia?
che nel 1821 a Passy, un luogo-mito per la Parigi in«Per lui l’arte era diventata un mezzo terapeutico
tellettuale dell’Ottocento. Laure Murat racconta
per curare la follia. Maupassant, ad esempio, era inquesto posto speciale e i suoi casi di follia celebre ne
teressato al potenziale poetico dell'isteria ma nello
La casa del dottor Blanche, storia di un luogo di cura e
stesso tempo temeva il potere distruttivo deldei suoi ospiti, da Nerval a Maupassant(Il Mela follia, l’annullamento del pensiero».
langolo, 441 pagine, 25 euro). «Ho avviato una
Che cosa l’ha appassionata di più durante
ricerca - spiega l'autrice - e ho trovato i registri
la sua ricerca?
dei pazienti in una clinica vicino Parigi. La cli«Le mie scoperte. Emile Blanche, il figlio di
nica aveva riscattato gli archivi di Blanche che
Esprit, diceva che i dossier medici non esistedescrivevano i casi di Maupassant, Van Gogh,
vano più, che erano stati bruciati su richiesta di
Gounod. In quei testi c’era una miniera».
suo padre. Non ci credevo, una legge imponeCome le è venuto in mente un libro del geva a tutte le case di cura di conservare i registri
nere? Folli celebri ospitati in una clinica «alcon date, ricoveri, dimissioni, diagnosi. Alla fiternativa» che, osserva Mauro Mancia nelne li ho trovati: i discendenti del dottor Blanche
l'introduzione, «anticipò la psicoanalisi».
COPERTINA
avevano donato la corrispondenza dei loro avi
«Avevo i documenti. È stato un amico a sugLa casa
all’Institut de France, centinaia di lettere, Dugerirmi: “Ma perché non butti giù qualcosa su
del dottor
mas, Verne, Monet, Renoir, Degas».
questa casa di cura di cui non si sa nulla?”».
Blanche
Un caso unico in Europa all’inizio dell’OtGèrard de Nerval ha annotato nei suoi tactocento?
cuini: «Ho paura di essere in una clinica di sa«Ci furono altri esperimenti del genere in Inghilvi e che i pazzi siano fuori». Era così la villa del dottor
terra. Ma soltanto il dottor Blanche riuscì ad accoBlanche?
gliere i personaggi dell'epoca. Le sue rette però erano
«Si avvicinava più a una pensione famigliare che a
molto care e Charles Baudelaire non fu ricoverato
un ricovero psichiatrico, il metodo terapeutico era
proprio per questo motivo. La madre si rifiutò di sborbasato sulla parola e sulla comprensione, un «metosare tutti quei soldi per Passy».
do morale» come lo chiamava Esprit Blanche. Era sta-
«L
Gerard de Nerval
Del poeta morto suicida
Dumas disse: “In lui
c’erano due uomini,
quello sensato guardava
agire il pazzo”
Repubblica Nazionale
38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 8 LUGLIO 2007
“Un’aria di sacrestia invade il paese”, denunciò lo scrittore quando
tra il 1951 e il ’52 si mise il veto su “La governante”, centrata su un amore
lesbico, come “opera contraria alla morale”. La decisione fu
di Giulio Andreotti. Le carte che pubblichiamo raccontano gli inediti della vicenda
LA FINESTRA DEL PAPA
Uno dei tagli sul copione della “Governante”
proposto da Nicola De Pirro, allora presidente della Commissione Censura. È una scena
successiva all’accusa di lesbismo della governante Caterina alla servetta Jana. Il padrone di casa, Leopoldo Platania: In Sicilia Jana
era un angelo «e qui, a pochi passi da San
Pietro», con «la luce della finestra del Papa»
che arriva in casa, questa piccola canaglia
si comporta in questo modo... Il riferimento
al Pontefice è cassato.Il copione coi tagli
sarà pubblicato a cura di Sonia Gentili
sul “Bollettino di italianistica” diretto
da Alberto Asor Rosa
OMNIA MUNDA MUNDIS
Qui si misurano censore e censurato.
Brancati fa dire a un personaggio:
«La moralità italiana consiste tutta
nell’istituire la censura. Non solo non
vogliono leggere o andare a teatro,
ma vogliono essere sicuri che nelle
commedie che non vedono e nei libri che
non leggono non ci sia nessuna delle
cose che essi fanno tutto il giorno...». Il
censore annota: «Non sembra opportuno
tagliare il pezzo, quasi riconoscendo
che è offensivo, accusando il colpo.
Omnia munda mundis».
La commedia storta e i suoi censori
N
SIMONETTA FIORI
on ci si poteva riferire al Pontefice né
parlare di omosessualità, tanto meno
se di specie femminile. Ma neanche i
cedimenti carnali o i palpeggi rigorosamente «etero» erano ammessi in
quell’Italia pudibonda dei primi anni
Cinquanta, che vietava con
disinvoltura Machiavelli e
Brecht e non esitò a bocciare La governante di Brancati, perché «scabrosa» e
«contraria alla morale». Un
paese lunarmente distante
dall’attuale, ancora contadino e ammaccato dalla
guerra, ma neppure così diverso nella pruderie sessuale e nel diffuso ossequio
alle gerarchie sante. «Un’aria di sacrestia invade il paese», denunciò ferito lo scrittore. «Dopo il nero fascista il
nero prete», ripete oggi la
moglie Anna Proclemer,
mentre insieme alla figlia
Antonia sfoglia per la prima
volta le carte dei censori,
ora affiorate dall’Archivio
Centrale dello Stato grazie
alla tesi di laurea di Barbara Rossi. Dopo oltre mezzo
secolo, le eredi Brancati possono finalmente leggere
il copione teatrale con i tagli proposti dall’allora Ufficio Censura, mesta prosecuzione in democrazia
della burocrazia fascista, oltre ai documenti ufficiali
e ufficiosi con cui tra il dicembre del 1951 e il marzo
del 1952 fu negato il nullaosta al capolavoro teatrale
dedicato da Vitaliano alla sua Annina. «Sì, fu una dichiarazione d’amore», dice la Proclemer. «Brancati
aveva sempre nutrito sentimenti ambivalenti nei
Anna Proclemer racconta:
“Quel testo teatrale?
Una dichiarazione d’amore”
“Per me volle scrivere
il personaggio di Caterina
ma non lo vide in scena”
Normale di Pisa
METTERE IN GIOCO
IL SAPERE
PER GIUNGERE
ALL’INVENZIONE
SCUOLA
NORMALE
SUPERIORE
Pisa
SUL PALCO
Gianrico Tedeschi
e Anna Proclemer
ne La Governante nel 1965
Sono on-line i bandi per i concorsi di ammissione
al corso ordinario e al Phd della Scuola Normale Superiore.
Per informazioni consultare il sito www.sns.it
confronti del mio lavoro d’attrice, che per lui significava lontananza e abbandono. Per me volle il personaggio di Caterina, che non riuscì a vedere in scena.
La governante poté essere rappresentata solo nel
1965, undici anni dopo la sua morte».
Prima di entrare nelle ovattate stanze di via Veneto dove, in quel dicembre del 1951, operavano solerti i funzionari della Commissione consultiva per la
Censura teatrale, occorrerà rievocare la «licenziosa»
storia narrata da Brancati, incentrata più sulla calunnia che sull’amore tra due donne. A reggere la scena è infatti l’accusa di lesbismo rivolta da una governante giovane e charmeuse, Caterina, a una selvatica cameriera siciliana, Jana, entrambe al servizio del
vecchio Leopoldo Platania. Indignazione e scandalo provocano la cacciata della «innocente» Jana,
mentre poi si scopre che l’omosessualità è «stortura»
della sola Caterina, la quale sconterà nel suicidio la
propria «terribile colpa».
«Se c’è un difetto della commedia è proprio nel suo
moralismo», commenta oggi la Proclemer, che confessa essere stata lei l’ispiratrice della storia. «Nel
1948 avevo scritto a mio marito dell’inquietante colloquio avuto con la governante di nostra figlia, una
puericultrice riservata e casta, quasi una monaca. Fu
questa austera signorina ad accusare una mia antica
domestica di essere un po’ «storta», insomma viziosa. Nella commedia c’è una scena che ricalca quasi
parola per parola il dialogo della mia lettera. Nella
realtà l’episodio non ebbe seguito. Nella fantasia di
Brancati invece rimase per tre anni in incubazione,
mescolandosi ad altri umori e a temi a lui cari». Nell’opera finita, di «contrario alla morale» non c’è nulla, come notava Brancati stupefatto dalla censura:
«La morale che vige nella commedia è quella provinciale del vecchio Leopoldo. E la peccatrice finisce
con l’uccidersi. Qual è il principio sovvertitore che
viene enunciato nella commedia?».
Per dare una risposta alle legittime inquietudini
dello scrittore occorrerà ritornare in quell’elegante
palazzo di via Veneto, che ospita nel dicembre del
Repubblica Nazionale
DOMENICA 8 LUGLIO 2007
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39
IN BIANCO E NERO
Nel disegno, Vitaliano Brancati
visto da Tullio Pericoli;
più in basso, lo scrittore e Anna
Proclemer in una foto giovanile
L’AMMISSIONE DELLA COLPA
È una delle scene chiave della
commedia, Caterina chiede scusa
a Leopoldo perché è lesbica. «Non
le ho mentito, le giuro - fuorché in un
punto... C’è questo nella mia vita. Io
ho letto dei libri che mi giustificavano.
Erano libri di grandi scrittori. Ma non
sono riusciti a ottenere da me che io
mi perdonassi». Qui il censore non
ha dubbi: cassare. Poi però Caterina
aggiunge: «Non mi sono perdonata
mai. Ho la religione di ciò che è
naturale e comune a tutti. E forse
per questo il mio diavolo ha avuto
tanto potere su di me». Il censore:
«Da notare come in questa scena
c’è tutta la sconfessione
che Caterina fa della sua vita
di errore». Ma alla fine prevarrà
il taglio, come s’evince dall’appunto
di Nicola De Pirro indirizzato
ad Andreotti nel marzo 1952
ori
1951 «i più perfetti mandatari dell’odio per la cultura» (copyright Brancati). Intorno a un tavolo — sotto
la presidenza di Nicola De Pirro, direttore generale
dello Spettacolo — siedono i membri della Commissione Censura: Zuccaro dalla Pubblica Istruzione,
Gerlini dagli Interni, De Leone dal Lavoro. Alla riunione non partecipa Libero Bigiaretti, probabilmente il solo che ne capisca. Il parere negativo sulla
commedia, «tutta impostata sull’equivoco personaggio di un’anormale», raccoglie quasi l’unanimità. Una donna «storta» non ha diritto di esistere
sui palcoscenici nazionali. Bocciata.
L’autorità ministeriale che deve ratificare il divieto è un democristiano poco più che trentenne:
Giulio Andreotti. «Nel suo volto c’è come una implorazione d’indulgenza, ma può essere anche un
modo troppo disinvolto di chiedere scusa per
quello che penserà e dirà», lo ritrae Brancati con
accenti profetici. Ricopre la carica di Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, Direzione generale dello Spettacolo: il numero uno, in sostanza, della censura. Trattandosi di Andreotti, annusa da lontano l’odore della
miccia nascosta nel copione di uno dei maggiori
scrittori italiani. Per mettersi al riparo, chiede un
parere a Giuseppe Sala, direttore del Centro Sperimentale di Cinematografia. Arte o non arte?
Scomodando un po’ a sproposito Aristotele, l’erudito Sala sembra non avere dubbi: «La scabrosità del
tema non è redenta da catarsi artistica» e in fondo l’opera, omologandosi «al consueto genere delle commedie infarcite di anomalie sessuali», ispira «compassione e ammirazione per tutte le lesbiche ». Si vieti, per carità.
Il 26 gennaio del 1952 Andreotti dà disposizione di
comunicare a Brancati che il visto è stato negato. «È
stata proibita La governante!», griderà Brancati alla
sua bambina Antonia, la quale ancora oggi sorride:
«Gli risposi “ma che dici papà?” pensando alla mia
tata». Lo scrittore non si dà per vinto. Già colpito negli anni Trenta dalla censura fascista, s’infuria da-
RECITAL ALL’ETNAFEST DI CATANIA
Nel centenario della nascita si celebra un “anno brancatiano”
il cui primo evento è Viaggio attraverso Brancati, un inedito recital
con letture di Anna Proclemer e la partecipazione di Antonia
Brancati (Catania, 24 luglio alle 21 all’Anfiteatro del Centro
Culturale
Le Ciminiere). Il recital si tiene nel quadro dell’Etnafest di Catania
2007, nel cui calendario spicca anche, il 21 luglio, il concerto
dei Bajofondo Tango Club con Gustavo Santaolalla, oscar
per le colonne sonore de I segreti di Brokeback Mountain e di Babel
ANDREOTTI FIRMA
A sinistra il documento,
datato 26 gennaio 1952,
con cui Giulio Andreotti,
allora sottosegretario
di Stato alla Presidenza
del Consiglio, Direzione
generale
dello Spettacolo,
dà disposizione
di comunicare
a Brancati che la sua
commedia non andrà
in scena. Già colpito
negli anni Trenta
dalla censura fascista,
lo scrittore s'infuria
davanti alla nuova
"dittatura clericale”
Nel marzo De Pirro tenta
una strada più morbida,
proponendo dei tagli
al copione. Ma
Andreotti annota: «Mi
pare proprio una
materia indigeribile».
Brancati muore nel
1954. La governante
andrà in scena nel 1965
vanti alla nuova «dittatura clericale». Annuncia di
voler scrivere per il Mondoun pamphlet di denuncia
contro quel «partito di erotomani» che è lo scudocrociato. Lo viene a sapere anche De Pirro, il presidente della Commissione Censura, che nel marzo
del 1952 avverte Andreotti suggerendo una strada
più morbida, «numerosi tagli che alleggeriscano situazioni troppo evidenti e particolari crudezze»: così la commedia potrebbe essere autorizzata. «Mi pare proprio una materia indigeribile...», replica Andreotti. Neppure con i tagli — sui turbamenti della
carne, sui riferimenti innocenti al Papa, sugli sguardi sospetti di erotismo omosessuale — La governante può essere ospitata sui palcoscenici.
Esplode il caso. Brancati reagisce al divieto con un
saggio che diventerà proverbiale: Ritorno alla censura. Può essere rivelatore che né il prudente Valentino Bompiani né l’impegnato Giulio Einaudi accettano di pubblicare il testo. Si fa avanti il giovane Vito
Laterza, che ospita il saggio insieme a La governante
nei “Libri del Tempo”. In una lettera a Brancati, Visconti confessa di non essere sorpreso: lui, quell’Italia medioevale, la conosce bene. Ma l’ambiente teatrale non è fatto di leoni: alla lettura del copione, un
mugugno increspa le labbra di Orazio Costa, un mito per la scena italiana. Nel 1954 Brancati muore senza aver mai visto i suoi personaggi in scena.
Due anni più tardi, nell’ottobre del 1956, ci riproveranno la Proclemer e Giorgio Albertazzi. Anche
questa volta la censura è implacabile: «Commedia
morbosa». L’Italia non è cambiata. «Scrissi una lettera a De Pirro per convincerlo», rievoca oggi la Proclemer, «ma non servì a nulla». Il verdetto in poco si
discosta dalla precedente bocciatura: «Contraria alla morale e offensiva nei confronti dei principi costitutivi della famiglia». Censurata.
Accadeva il secolo scorso, ma è come se la trama
del discorso arrivasse fino a oggi. Lo dice bene Brancati: «L’Italia non si stanca mai d’essere un paese arretrato. Fa qualunque sacrificio, perfino delle rivoluzioni, pur di rimanere vecchio».
Repubblica Nazionale
40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 8 LUGLIO 2007
la lettura
Baires a rovescio
Un gruppo di artisti nel loro universo surreale, fatto
di giochi di parole, spiritismo, quadri metafisici
È il romanzo giovanile di uno dei più grandi scrittori
argentini che ora Voland pubblica in Italia. Anticipiamo
il primo capitolo in cui si racconta di un poeta di nome
Jorge e che non solo per questo assomiglia a Borges
Il realismo magico
nel tempo perduto
JULIO CORTÁZAR
arlo di un tempo distante
e ormai cinerario, quando eravamo in tanti e vivevamo come racconto qui, poco per
gli altri e quasi tutto per i
miei giorni festivi che
riempio instancabilmente di parole.
L’arancia si apre in spicchi traslucidi che alzo al sole di una lampada
per vedere tra la linfa il globulo
scuro dei semi. Da uno degli spicchi escono i Vigil, ora sto con loro
e con gli altri nella casa di Villa del
Parque dove giocavamo a vivere.
Jorge si dedicava all’introspezione, recitava poesie automatiche di inconfutabile bellezza. Allungato sul tavolo da disegno, i capelli tra fogli canson e carboncino, mormorava tra sé le melopee preliminari che lo facevano cadere in trance.
— Sta oliando la bicicletta — mi disse
Marta che allora prediligeva le immagini
forti. — Vieni a vedere questa meraviglia.
Mi avvicinai alla vetrata che dava a ovest.
Dietro una tenda da sole a righe arancione
e blu c’era il paesaggio agreste, ma qualcuno aveva fatto un buco rettangolare da dove entrava il sole delle quattro mescolato a
brandelli di figure e di nubi.
— Guarda qui, è un Poussin favoloso.
Non era affatto un Poussin, piuttosto un
Rousseau, però la luce del pomeriggio, il
caldo, qualcosa in quel frammento d’esterno che si stagliava attraverso la tenda, gli
davano un’importanza a cui non si poteva
sfuggire. Chinandomi verso l’angolo dove
Marta mi esortava a guardare, capii la ragione della sua meraviglia. In un prato non
troppo distante, proprio accanto alla facoltà di agraria, una gran quantità di mucche pascolava in pieno sole, bianche e nere, in perfetta simmetria. Avevano qualcosa del mosaico e del quadro vivente, un balletto idiota di figure lentissime e ostinate; la
distanza impediva di distinguerne i movimenti, ma osservando con attenzione si vedeva cambiare a poco a poco la forma dell’insieme, la costellazione bovina.
— È fantastico che sedici mucche riescano a stare in questo buchetto — disse Marta — Conosco già la storia della prospettiva, ecc. Con un dito si copre il sole, e bla bla
bla. Ma se ti fidi soltanto dei tuoi occhi, per
un attimo soltanto dei tuoi occhi, e vedi
quella decalcomania purissima laggiù, tutto è perfetto: il prato verde le mucche nere
e bianche, due vicine, altre più in là, tre in
fila e ritagliate; la cosa fantastica è l’irrealtà
di queste figure che sembrano tanto una
cartolina illustrata.
— La cornice del buco permette l’illusione — dissi. — Quando torna Renato possiamo chiedergli di dipingerlo. Realismo
magico, sedici mucche che celebrano la
nascita di Venere in un torrido pomeriggio.
— Il titolo va bene, senza contare che sarebbe l’unico modo per convincere Renato
a dipingere qualcosa che vediamo anche
noi. Anche se il quadro che sta facendo
adesso è piuttosto fotografico.
— Be’, sì. Ma fotografato da un marziano
o visto attraverso l’occhio sfaccettato di
una mosca. Immàginati come deve essere
fotografare la realtà attraverso l’occhio di
una mosca.
— Preferisco le mie mucchette. Guardale ancora, Insetto, guardale ancora. Peccato che Jorge stia dormendo, sarebbe bello
fargliele vedere. Sapevo quello che sarebbe
successo. Jorge mosse un braccio con uno
scatto nervoso, sollevandosi a metà dal tavolo di Renato. Era un po’ pallido, guardava fisso sua sorella.
— Ascolta, sciocca, ce l’ho già. Ascoltate
tutti e due, ora comincia. La parola è menta, tutto nasce da lì, lo vedo ma non so cosa
diventerà. Adesso aspettate, l’ombra della
menta fra le labbra, l’origine segreta di cer-
P
In questa terra di vini corposi la geografia
è colma di sapori rossi e aurei, mosti piccanti
di San Juan, bottiglie di Bianco di Cuyo
te bevande centellinate sotto luci fumose,
a volte tornano come parole e si aggregano
al ricordo per non lasciarlo andare solo sotto le antiche lune. («Bella poesia» mi disse
Marta all’orecchio mentre scriveva velocissima.)
Tutto questo è vano, l’importante permane nell’atteggiamento sobrio degli edifici e
delle nuvole basse; nondimeno fa parte di
vite già depositate sul fondo di bicchieri
vuoti, con impronte di labbra sul bordo dove il pulviscolo dell’alba si decanta infinito.
È così che ricordo un anice secco e penetrante bevuto in una casa di calle Paysandú;
un aloja tracannato per il caldo torrido di
Tucumán e una granatina fior di fuoco in
un caffè letterario di Mendoza. In questa
terra di vini corposi la geografia è colma di
sapori rossi e aurei, mosti piccanti di San
Juan, bottiglie di Bianco di Cuyo e breve gloria nelle altissime botti dei leggendari Súter.
Questo vino è una lumaca andina, quello,
una notte insonne trascorsa a tracannarne
fiumi, e il più amaro e umile, il vino sfuso da
bottega su strade sterrate e salici ormai altissimi, ai margini di Buenos Aires dove la
noia chiama la sete.
Jorge si interruppe per respirare rumorosamente, fece una strana smorfia con la
bocca.
— È giusto anche essere inclini alla diafana miseria dell’acquavite, che… Merda,
non non riesco ad andare avanti.
Si tirò su ansimando. Il colore gli tornava
in viso, ma non ancora del tutto. Si gettò su
una sedia.
— Troppo spettacolo per così poco — mi
disse Marta. — Sembra un catalogo di Arizu. Mi sono piaciute di più quelle di ieri sera, gli sono uscite improvvise e perfette. Le
hai sentite, Insetto?
— No.
— Si intitolano Poesie con orsi pigri.
— Ogni orso avrà il suo orologio — dissi
con malizia. — Ci sono anche plagi automatici.
— E cos’è un plagio, me lo sai dire? Bisogna analizzare l’idea del plagio all’origine.
Non vedi le mie mucche? Una plagia l’altra,
sedici plagi in bianco e nero; il risultato, una
stupenda cartolina stile idiota. Un capolavoro.
— Marta, Marta… — canticchiai io, attaccando M’appari. Ma Jorge la guardava
fisso, scomponendola in pezzi; ricordo che
rimase un intero secondo a osservarle la
Repubblica Nazionale
DOMENICA 8 LUGLIO 2007
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41
ILLUSTRAZIONE DI GIPI
IL LIBRO
Si intitola Divertimento, è il primo romanzo di Julio Cortázar,
pubblicato dopo la sua morte nel 1986
Ora il libro (nella foto la copertina disegnata da Alberto
Lecaldano) viene pubblicato da Voland e uscirà
il 13 luglio. A Buenos Aires, durante il “Carnaval”
del 1949, un gruppo di ragazzi trascorre il proprio tempo
in un atelier tra poesie, dipinti e sedute spiritiche raccontate
da “Insetto”, la voce narrante
fibbia della cintura.
— L’hai trascritto Marta? Che cos’era?
— Un trattato di enologia, tesoro mio. Ma
conosci l’accordo, non lo leggerai fino a domani. Le straccia, Insetto; gliele do e lui trova che non sono abbastanza geniali e le distrugge.
— Il pennello del silenzio scrive per te la
parola figlia di puttana — disse Jorge pensieroso. — E ora mi dedicherò alle diagonali, al mate amaro, a decifrare il comportamento delle coccinelle.
— Ottimo materiale — gli dissi con la mia
più sottile ironia. — È curioso come voi automatici lavoriate con tanto impegno per la
prossima esibizione.
— Oliano la bicicletta — disse Marta.
— La ginnastica del cuore si compone di
numerosi movimenti oscillatori e di sussulti — osservò Jorge, guardandomi e sorridendo. — Bene, basta poesia. — Era davvero capace di uscire dalla trance e ricomporsi in un attimo. Fece un paio di piegamenti e si avvicinò alla vetrata. — Cosa farneticavate a proposito di mucche? —
guardò il pezzetto di paesaggio si fece serio.
— C’è qualcosa lì. Costellazione bovina,
placca microscopica, pulci pezzate domestiche. Di tutto. Avevi ragione Marta, è una
cartolina bellissima. La mandiamo a zio
Tomás? “Con i nostri più cari saluti da questi splendidi prati, i Vigil”.
— Gli piacciono i versi. Meglio uno dei
tuoi.
— Va bene.
“Da questi splendidi prati,
i tuoi nipoti affezionati”.
— Eccellente, si vede che hai talento, audacia. Senti, posso avanzare un sospetto?
— Sì. La risposta è no.
— Jorge, hai appena finito di dettarmi
questa poesia. — Tu l’hai trascritta perché
ne avevi voglia, nonostante i nostri accordi.
— Non fare lo stupido — mormorò Marta, andandosi a sedere sul vecchio sofà di
Renato. — Sai benissimo quello che voglio
dirti. Quella poesia era già stata composta.
— Guardò con la coda dell’occhio le pagine. — In questa terra di vini corposi… Non
dici mai cose così, a meno che non le pensi.
Jorge mi guardò facendo una smorfia.
— Che iattura, le sorelle intelligenti. Tu
sei la mia scrivana, per ogni poesia che mi
trascrivi al volo io ti do quello che abbiamo
concordato. Va bene, lo ammetto, una parte era già stata masticata. Le faccio prima di
È così che ricordo un anice secco e penetrante bevuto
in una casa di calle Paysandù: un aloja tracannato
per il caldo torrido di Tucumàn
addormentarmi, frasi sciolte, mescolate
con i fosfeni e i dormiveglia. Per dopo devo
determinare il tutto, mettere in moto. Andiamo a fare il caffè, Insetto?
Il cucinino era accanto all’atelier. Sentivamo Marta canticchiare mentre versavamo l’acqua, Jorge contava le cucchiaiate di
caffè e le gettava in un fazzoletto che serviva da filtro.
— Renato è una vera bestia — disse mostrandomi il fazzoletto. — È capace di ripetere le immortali gesta di don Luis Molla,
farmacista.
Entrambi salmodiammo in coro:
— Il farmacista don Luis Molla
Si lavava l’uccello in un’ampolla.
Ma la moglie, che più tonta non c’è,
con l’acqua dell’ampolla fece il caffè.
E dopo una maestosa pausa:
— Morale: Non dire mai
questa a bere non me la dài
— Abbiamo cantato magnificamente —
disse Jorge. — Hai sentito, Marta?
— Bella coppia di sporcaccioni, tu e Insetto. Per me un caffè doppio. Scrivana
esaurita necessita bombole ossigeno da
somministrarsi tramite soccorsi Reuter.
— Quando arriveremo a uno stile simile?
— mormorò Jorge, versando serio il caffè.
— Guarda l’economia, perfino la bellezza
di certe strutture. Funziona benissimo:
Scrivana esaurita necessita bombole ossigeno. Noi Vigil siamo intelligenti. Io, per
esempio, mi sono accorto che Renato è
mezzo matto da una settimana.
— Renato è un po’ più matto di una settimana fa — corressi.
— Renato è matto — disse Marta da fuori. — Ha questo vantaggio su voi due, che
siete semplicemente stupidi. La poesia di
Jorge è poesia stupida e finirà per imporsi.
Bisogna coltivare la stupidità. Manifesto
dei Vigil, creature d’eccezione.
— Eccezione l’Africano — rise Jorge. —
Giunto a Capua, Annibale si dedicò a una
vita dissoluta. Gli ozi di Capua, li chiamano.
Traduci questo nel tuo stile, Marta.
— Annibale raggiunge Capua scopo dissolutezza.
— Cinque parole, tariffa ridotta. Il nostro
caro e defunto padre, don Leonardo Nuri,
avrà forse lavorato alle poste? Pensava a un
telegramma la notte in cui ti ha concepita?
— Io penso a Renato — disse Marta. — Io
penso che Renato è triste, che non arriva,
che mi piace il suo quadro.
Repubblica Nazionale
42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 8 LUGLIO 2007
Ci provò in tutti i modi:
all’inizio con Buñuel
poi con Hitchcock, Pasolini,
Fellini. Cercò di portare sullo schermo le sue visioni,
ma fu un fiasco. L’ossessione di sfondare in un’arte
non sua durò fino alla morte. Ora la Modern Tate
Gallery dedica una mostra a questa sconfitta
Un poste
r
del film
Babaou
o del ’32
, un dise
gno di H
arpo Ma
rx e
H
Dalì che
ritrae il c
omico (’
37). E
LONDRA
ollywood allora era a caccia di talenti europei, possibilmente noti per sregolatezze e trasgressioni, di
rinomato temperamento artistico e in
grado di attirare l’interesse mondano e
mediatico del nuovo pubblico di massa.
Con quei baffi sottili e ridicolmente lunghi, gli occhi neri luciferini, i capelli unti,
una compagna di origine russa che continuava ad andare a letto con l’ex marito,
il poeta surrealista-comunista Paul
Eluard, Salvador Dalì, che vantava anche
la fama di surrealista tra i più intemperanti, parve subito una preda di massima
commerciabilità alla sempre più potente industria del cinema americano.
L’artista catalano aveva già scandalizzato il mondo — e il settimanale Timenel
1936 gli aveva dedicato una copertina —
oltre che con i suoi dipinti e le sue stravaganze, anche con due film, passati per
sempre alla storia del cinema, girati assieme all’allora amico Luis Buñuel. Venerati e anche scopiazzati tuttora da
maestri dell’horror come George Romero e Eli Roth, entusiasmarono i giovani
intellettuali di allora, mai sazi di spaventi rivoluzionari e anti-artistica spazzatura, con la celebre nauseante scena del
globo oculare lacerato da una rasoiata
(Un chien andalou, 24 minuti muti, 1929)
e con la scandalosa sequenza delle figure
che ricordano Cristo impegnate in orge
sadiche (L’age d’or, 63 minuti, 1930).
Quest’ultimo film fu ritirato dagli schermi dopo solo sei giorni per manifesta blasfemia e i suoi nobili e miti finanziatori, i
visconti d’avanguardia Charles e MarieLaure de Noailles, rischiarono la scomunica. Un chien andalou aveva di colpo
dato una sulfurea celebrità ai suoi giovani autori, ma portò invece sfortuna agli
interpreti: il protagonista, Pierre Batcheff, morì a ventiquattro anni, nel 1932,
per un’overdose di Veronal, mentre la ragazza dall’occhio cinerasoiato, nel 1954,
in stile con il film, si cosparse di benzina e
si diede fuoco.
I curatori di mostre, soggiogati dal fascino pasticcione e mercantile di Dalì,
stanno tuttora trascinando le celebrazioni del centenario della sua nascita, avvenuta il 4 maggio 1904 nella catalana Figueras: essendo ormai stato esposto anche il più piccolo frammento dell’opera
dell’artista e dei suoi affezionati falsari, la
Tate Modern dedica una grandiosa mostra (sedici sale), a Dalì & Film, interessante soprattutto per il modo in cui viene
esaltato il legame tra le opere pittoriche
dell’artista e il suo lavoro per il cinema;
quella cosiddetta settima arte che non
volle prenderlo sul serio, allettandolo,
usandolo, piegandolo agli standard di
una industria giustamente legata al profitto, e soprattutto mandandolo elegantemente a quel paese.
Dal conflitto con il cinema, che lui considerava anti-artistico e perciò surrealisticamente importante, il baffuto stregone uscì sconfitto: a parte i due film giovanili (lui aveva venticinque anni, Buñuel,
che iniziò da lì la sua magnifica carriera di
regista, trenta), non restano che frammenti rimaneggiati da altri, sceneggiature respinte, bozzetti mai realizzati, idee
inascoltate, scritti dementi e anche ritratti propiziatori di personaggi che non
se ne lasciarono sedurre. Nel dopoguerra Dalì ritrasse il produttore Jack Warner
con enorme cane (1951), invano, perché
lui respinse la proposta di realizzare un
documentario dal suo libro 50 segreti dei
magici mestieri;né maggior successo ebbe quello sdoppiato di Laurence Oliver
(1955), bello al naturale e nasone nel ruolo di Riccardo III; sicché il meno servile e
più dalidiano resta l’opera intitolata
Shirley Temple, il più giovane mostro sacro del cinema in cui il viso fotografato
Il sogno
infranto
del mago
dei sogni
NATALIA ASPESI
una sce
na
di Spellb
ound (’4
4)
della celebre piccina ha un pipistrello tra
i capelli e si propaga in un corpo rosso da
sfinge tra ossa e teschi umani. Era il 1939
e la piccola diva ormai undicenne stava
PIC
Un’immCOLA ICONA
scivolando verso la nemica adolescenza
ag
Templeine di Shirley
e la sua alienazione non poteva sfuggire
del 193
all’artista che nello stesso anno aveva
0
composto con foto e pennelli il ritratto intitolato Piccino bulgaro mentre mangia
un topo, che pende sanguinante dalla rosea bocca. Anni prima, già ossessionato
dalle esagerazioni hollywoodiane, aveva
dipinto La faccia di Mae West che può essere usata come appartamento surrealista: bocca come divano, naso come conSHIR
solle, occhi come quadretti, capelli come
La sfin LEY TEMPLE
tendaggi.
bambin ge dedicata a
ll
a prod
Dalì continuava a scrivere e disegnare
igio (19 a
39)
progetti di film surrealisti (La capra igienica, Cinque minuti a proposito del surrealismo, Contro la famiglia, Babaouo, I
misteri surrealisti di New York) quindi
improponibili a qualsiasi produttore sano di mente. Ma lui e Gala, anche per ragioni finanziarie, volevano assolutamente infiltrarsi con la loro celebrità trasgressiva tra i grandi di Hollywood che, a
OCCHIO
La
parte i baffi di Adolphe Menjou e le estadi Un C scena shoc
k
hien an
si della Garbo, aveva, secondo il pittore,
dalou (1
tre pilastri surrealisti: Harpo Marx (Ani929)
mal Crackers), Cecil B. De Mille (Cleopatra) e Walt Disney (Silly Symphonies).
«Incontrai Harpo per la prima volta nel
suo giardino, era nudo, con una corona
di rose in testa, al centro di una foresta di
arpe (almeno cinquecento). Come novella Leda, accarezzava uno splendido
cigno bianco nutrendolo con una statua
SPELLB
della Venere di Milo fatta di formaggio
OUND
Uno stu
che grattugiava sulle corde dell’arpa più
per il fi dio di Dalì
lm del
vicina…». Spesso il surrealismo di Dalì, e
1944
non solo il suo, rasenta la scempiaggine,
come in questo saggio del 1937.
Non fu per scempiaggine invece che
andò a monte la sua prima collaborazione con il cinema americano. Gli era stata
affidata la sequenza del sogno del drammatico Moontide, (Ondata d’amore), con
Jean Gabin e Ida Lupino, regia dell’imS
sequenza eliminata. Il resto
migrato antinazista Fritz Lang, poi sostiUna scURREALISTA
en
del sogno si rivelò, e non per
tuito da Archie Mayo. La lavorazione coAndalo a di Un Chien
responsabilità di Dalì, per
minciò il 24 novembre 1941, e tredici
u di Bu
ñuel
niente emozionante, e fu riorgiorni dopo gli Stati Uniti entrarono in
ganizzato senza l’intervento
guerra. Non solo l’industria del cinema
dell’artista: i titoli di testa del
era chiamata a collaborare alla futura
film, uscito negli Stati Uniti nel
vittoria con film di massimo ottimismo,
febbraio del 1945, descrivono le
e quindi Moontide andava rimanegscene oniriche come «basate su
giato, ma si scoprì anche che il veneradisegni di Salvador Dalì».
to artista aveva simpatie fasciste e che
All’infaticabile maestro andò
nel febbraio del ‘34 Breton e altri surbuca anche con il suo amato Direalisti lo avevano espulso dal loro
ANTIGR
A
Un altro
VITÀ
sney, che pure lo aveva invitato a
gruppo perché si era macchiato «riper il fi studio di Da
collaborare con un episodio di sei
petutamente di atti controrivolulm Spe
lì
llbound
minuti che doveva combinare imzionari allo scopo di magnificare il
magini vere e disegni animati, e ispifascismo hitleriano».
rarsi alla canzone messicana DestiMa “Avida Dollars”, come l’ano. Secondo l’artista stesso, il film
veva soprannominato Breton
doveva essere «il tentativo di iniziare
anagrammando il suo nome,
il pubblico al surrealismo, più facilcontinuava ad essere una ecmente della pittura e della parola scritcentrica celebrità, e fu Alfred
ta». Di quel progetto, non andato in
Hitchcock a volergli affidare la
porto, rimangono dipinti e disegni molsequenza del sogno in SpelIR
to arzigogolati (figura femminile con lubound, (Io ti salverò), in cui la
Disegn IDI
od
mache al posto delle scarpe e carrozzina
psichiatra Ingrid Bergman si
per Sp
ellboun el set
con neonato al posto della testa, fanciulinnamora dell’impostore e
d del 1
9
4
5
la nuda che esce da una conchiglia e si trasmemorato forse assassino
scina sul bordo di una specie di pozzo da
Gregory Peck. Per una somcui sporgono i soliti globi oculari dalidiama allora ingente, Dalì preni). Dieci anni dopo, nel 1957, Disney e
parò quattro sequenze
moglie raggiunsero Gala e marito nella
molto freudian-surrealiloro casa di Port Lligat in Spagna, dove si
ste, spaventando il parsidiscusse di un altro film basato su Don
monioso produttore
Chisciotte, ma anche di questo non se ne
Selznick. La scena del
parlò più.
ballo prevedeva coppie
SIR OLIV
IER
L
I baffi diventavano sempre più lunghi
immobili minacciate
nel Ric aurence Oliv
cardo II
ie
e sottili, i capelli sempre più radi e sporda quindici pianoforti
I e visto r
chi, Gala, costringendolo a sposarla,
sospesi sulle loro teste,
da Dalì
sempre più esosa; si accavallavano soe il produttore usò per
lenni mostre a lui dedicate, appariva alla
i piano dei modellini
Sorbona per una conferenza dentro una
e, per rispettare le
Roll’s Royce bianca riempita di cavolfioproporzioni, per le
ri, si inventava la conversione al «misticicoppie scelse quasmo nucleare», veniva ricevuto da Pio
ranta nani. Il risulXII, omaggiava il dittatore Franco, nella
tato fu orribile e la
Repubblica Nazionale
DOMENICA 8 LUGLIO 2007
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43
Dalì
e il cinema
sua vita entravano prima Nanita, così nasona da essere da lui chiamata Louis XIV,
poi Amanda Lear cui confidava: «Solo
una duchessa può provocarmi un’erezione». Ma il cinema continuava ad evitarlo. Ci fu attorno agli anni Cinquanta il
rischio che riuscisse a realizzare La Carretilla de carne(La carriola di carne): protagonista doveva essere Anna Magnani,
secondo lui entusiasta nel ruolo di figlia
muta di uno zoppo moribondo sistemato su una carriola, che lei difende agitan-
do una croce e rifiutando tutti gli uomini
che la insidiano. Ci furono altri tentativi
filmici, importunando anche Federico
Fellini e Pierpaolo Pasolini, per cui disegnò senza completarlo un manifesto per
Salò. Impiegò otto anni per non finire
Storia prodigiosa della merlettaia e del rinoceronte, con Robert Descharnes che lo
filmava mentre lui avanti e indietro dal
Louvre, asseriva di voler copiare la celebre Merlettaiadi Vermeer che, diventando uno “Studio critico-paranoico” del
quadro, mostrava solo corna convergenti di rinoceronte.
A parte sue collaborazioni con la televisione, il suo ultimo tentativo con il cinema avvenne nel 1982, l’anno della
morte della quasi novantenne Gala. Gli
era venuta la nostalgia di Buñuel, l’amico
con cui aveva fatto i suoi due celebri e unici film e con cui non si parlava da più di
quarant’anni: da quando, nel 1939, avaro come sempre, gli aveva rifiutato un
prestito in un momento di assoluto biso-
gno. Gli mandò un paio di telegrammi, ricordandogli le lettere inviate ogni dieci
anni a cui Buñuel non aveva mai risposto
e proponendogli di fare ancora un film
insieme, un filmino intitolato Piccolo
diavolo. Questa volta il vecchio regista
gli rispose, ma per declinare l’invito
avendo abbandonato il cinema da cinque anni. Commosso, l’anno dopo Dalì
chiese al regista spagnolo Revenga di riprenderlo mentre, stanchissimo, cantava La filla del marxantin catalano per
stanare l’amico dalla sua reclusione. Il
corto non fu spedito e Buñuel morì
poco dopo. Anche per Dalì era ormai
troppo tardi: quell’anno lui dipinse il
suo ultimo quadro, Coda di rondine,
e uscì il profumo col suo nome. Le gallerie di tutto il mondo venivano invase da montagne di falsi e lui, forse il
più celebre dei surrealisti, si spegneva nel gennaio del 1989 col rimpianto, dicono, di non essere riuscito a
conquistare Hollywood.
50° Festival dei Due Mondi di Spoleto
FONDAZIONE SIGMA-TAU
XIX
edizione
2007
Il genere (femminile)... e il numero (digitale)
LA SCIENZA NELL’ERA DELLA SUA COMUNICAZIONE DIGITALE (a cura di Moebius, www.moebiusonline.eu). Incontri non-stop con i viaggiatori nella Rete, coordina Federico Pedrocchi
SABATO 14 LUGLIO 2007 ore 10.30
IMMERSIONI NELLA RETE: IN VIAGGIO NEL “DEEP WEB” in compagnia di Federico Pedrocchi
COME SI VIVE IN UNA METROPOLI VIRTUALE, SECOND LIFE? in compagnia di Mario Gerosa
YOU TUBE E LA SCIENZA: NUOVI CONTENUTI, NUOVI FORMAT in compagnia di Barbara
Gallavotti e … alle ore18.30 la performance musicale e teatrale
"Star Trek, in cammino verso le stelle" con la Compagnia della Gru
Spoleto, Chiostro San Nicolò
Per tutto il periodo del 50° Festival dei Due Mondi
di Spoleto, a SPOLETOSCIENZA 2007 sarà visitabile,
presso il Chiostro di San Nicolo’ la mostra “Nobel negati alle Donne di Scienza”, a cura di Lorenza Accusani.
DOMENICA 15 LUGLIO 2007 ore 10.30
STRANE SIGLE S’AVANZANO: GPS E CRS4 con Pietro Zanarini
SOUNDSCAPE, O COME INSERIRE SUONI NELL’AMBIENTE con Andrea Minidio
ASTRONOMIA ON LINE con Maurizio Melis
PALINSESTI MULTIMEDIALI, LA SCIENZA IN BBC con Sylvie Coyaud, via Skype
L’IMMENSA POTENZA DELLA GRID con Barbara Gallavotti
H3G OVVERO NON SOLO CELLULARI MA INTERNET-TV con Alessandro Floris
WIKI, LA COMUNICAZIONE È PER TUTTI UN ATTO DI FORUM con Susanna Sancassani
MATEMATICA E PIXEL con la redazione di “Per la tangente”
BUCHI NERI E SIMULAZIONI DELLO SPAZIO PROFONDO con Albino Carbognani
LA RETE E LE DIGITAL LIBRARIES con Fabio Di Giammarco
Info: Fondazione Sigma-Tau - Viale Shakespeare 47 - 00144 Roma - tel 065926443 www.fondazionesigmatau.it
Repubblica Nazionale
44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
i sapori
Profumo di mare
DOMENICA 8 LUGLIO 2007
Dalla Svezia alla Sicilia e alla Sardegna, passando
per il Belgio e le altre coste italiane, luglio e agosto
pullulano di sagre e feste dedicate a scampi, astici,
aragoste. Un tempo considerati cibo da ricchi,
oggi - crudi o cotti - sono di casa nelle nostre cucine
Con qualche problema per la salute di Madre Terra
Crostacei
Cannocchia
Detta anche pannocchia o cicala di mare, è biancogrigiastra con riflessi rosa. Lunga fino a 20 cm,
vive in gallerie che scava sul fondale
Ha carne profumatissima, ma va consumata fresca
Granchio
Il nome identifica vari
crostacei decapodi
dalla camminata laterale,
con solida corazza e due
pinze potenti. Possono
essere di mare, di fiume,
di terra. Nel mare di Barents
vive il Reale rosso
di Norvegia, di grandi
dimensioni e carni squisite
Gambero
Ha corpo diviso in due parti
(anteriore con testa
e torace, posteriore, ovvero
l’addome, segmentato)
e vanta varietà diverse
Tra le più pregiate,
il rosso (o imperiale),
la mazzancolla,
il gamberone
Molto delicata la carne
di quello d’acqua dolce
Scampo
Della stessa famiglia dell’astice, ma di colore rosaaranciato, ha corpo allungato, carapace robusto,
chele sottili, coda a ventaglio. Il maschio arriva
a 25 centimetri di lunghezza. Quando è freschissimo,
ha carne fragrante e soave, perfetta per le tartare
Granseola
O grancevola (Maja squinado),
è un granchio con il corpo a forma
di cuore e il carapace spinoso
Amatissimo in Veneto e in Bretagna
per la sua polpa, si fa maledire
dai cuochi per la difficoltà
nel pulirlo e l’alta percentuale
di scarto
uattro passi da granchio, ordinava il bambino più grande. E i piccoli, obbedienti e ridenti,
si spostavano un po’ di lato e un po’ all’indietro, mimando l’incedere sghembo dei mini-cingolati marini. Una volta cresciuti, abbiamo imparato a conoscerli a tavola, membri golosi della
famiglia dei crostacei, che celebriamo in queste settimane da una parte all’altra d’Europa. Luglio e
agosto sono percorsi da sagre e feste con un itinerario ghiotto che parte dalla Svezia (gamberi), scende
verso il Belgio (astici) e corre lungo tutte le nostre coste, fino a Sicilia (gamberoni) e Sardegna (aragoste).
Dicono i marinai che i crostacei pescati durante il chiaro di luna sono più pieni e gustosi. Sarà vero? Difficile verificare. Li addentiamo senza sapere se arrivano da notti luminose o albe livide. Ci dispiacciamo per una cannocchia con sotto il carapace niente, godiamo per la soave carnalità di un gambero polposo. Ci affidiamo alla clemenza (e alla sapienzialità) del cuoco, del venditore, del pescatore raggiunto sul molo al rientro dal mare. Sotto quella corazza da burberi dei
fondali, gamberi e soci nascondono corpi morbidi, suadenti, irresistibili. A
patto, però, di saperli trattare coi guanti bianchi. Altrimenti, si vendicano,
diventando insipidi, stopposi, banali.
Stretti tra l’etichetta di cibo da ricchi, le preparazioni ampollose e l’incubo del colesterolo (ma brioche e sardine sott’olio sono ben peggio), abbiamo oscillato per anni tra l’aragosta Thermidor (ipersalsata e gratinata) e i
gamberetti con la rucola. Oggi che i crostacei sono diventati di casa, o quasi, nelle nostre cucine come nei menù di locali anche poco convenzionali,
cominciamo a preoccuparci di qualità e preparazioni più rispettose di tanta bontà.
A partire dai “crudi”, che l’Italia dell’interno ha introiettato dalla tradizione marinara e dalle gastronomie orientali. Lontano dalle padelle, bastano pochi accorgimenti — togliere il filamento scuro in gamberi e scampi (a meno di pescarli e mangiarli nel giro di qualche ora), limitare al minimo le marinature, accompagnare (a parte) con emulsioni delicate — per
LICIA GRANELLO
regalarsi un piatto elegante e lieve.
Ma sulla scia del “mai più senza” di tavole e menù, dilagano i guai legati all’insostenibilità degli allevamenti. Nel suo
libro bello e terribile Non c’è sull’etichetta, la giornalista inglese Felicity Lawrence elenca i disastri della gambericoltura,
che in molti paesi asiatici sta sostituendo le tradizionali coltivazioni di riso: inquinamento, malattie, debito pubblico,
espropriazione illegale, lavoro minorile. In quanto al degrado ambientale, dallo tsunami del 2004 agli uragani più recenti è stato accertato che i danni peggiori si sono concentrati dove le difese naturali delle coste, a partire dalle foreste di
mangrovie, sono state azzerate per lasciare spazio agli allevamenti di gamberi.
Come risolvere le contraddizioni tra palato e salute di Madre Terra? Per esempio, scegliendo italiano. E non certo per
nazionalismo ottuso. Tante le conseguenze virtuose della filiera corta: diminuzione dell’impatto di trasporti planetari
e produzioni forzate, incoraggiamento a diminuire l’addizione di conservanti e coloranti (dai bisolfiti all’ossido di carbonio), diffusione di una “cultura crostacea” allargata a tipologie diverse.
Bisogna imparare a leggere le etichette — e pretendere che siano complete —, aguzzare vista e olfatto al momento
della scelta: odore sano di mare, colori netti ma non artefatti, consistenza turgida. E poi, dulcis in fundo, dimenticare forchetta e coltello. I crostacei sono creature rustiche, da affrontare a mani nude, esercitando la golosa, rumorosa arte del
risucchio per teste e chele. Possibilmente con un ampio tovagliolo a portata di mano.
Q
LA RICETTA
La bisque è una squisita salsa
di carapaci di crostacei, con cui
si accompagnano diverse preparazioni
di pesce. Le corazze vanno schiacciate
e tostate con poco olio e sale grosso,
perché così rilasciano l'albumina,
proteina con capacità di "legare" i piatti
Dopo venti minuti, si aggiungono carota,
sedano, pomodoro e cipolla a pezzetti,
con vino bianco o cognac. Una volta
evaporato l'alcol, acqua a coprire e altri
venti minuti di cottura. Poi frullare ad alta
velocità o filtrare schiacciando
A piacere aggiungere prezzemolo,
curry, zafferano
Corpi irresistibili
sotto la corazza
71
le calorie in 100 gr di gamberi
8 kg
il peso massimo di un’aragosta
81
le specie di crostacei nel Tirreno
Repubblica Nazionale
DOMENICA 8 LUGLIO 2007
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45
Chioggia (Ve)
itinerari
Straordinario
conoscitore
della fauna
marina, Nando
Fiorentini
è stata l’anima
della cooperativa
dei pescatori di Orbetello
Trasferitosi per amore
a Bra, dove ha aperto
una pescheria,
oggi dirige il reparto ittico
del supermercato-culto
“Eataly”, a Torino
Pesaro
Mazara del Vallo (Tp)
La “piccola Venezia”
raccontata
da Carlo Goldoni
nelle Baruffe
chiozzotte ospita
uno dei porti
pescherecci
più importanti
dell’Adriatico
In laguna, oltre alle moleche, a fine estate si pescano
le masanete, femmine di granchio ricche di uova
Affacciata
sull’Adriatico, la città
natale di Gioacchino
Rossini offre
un’originale fusione
culinaria di Marche
e Romagna
Tra i piatti
tradizionali di pesce
spiccano i garagoli, crostacei saltati con olio, aglio,
rosmarino, pepe e finocchio selvatico
Affacciata sul mare
alla foce del fiume
Màzaro e distante
meno di 200 km
dalle coste tunisine,
vanta uno dei più
importanti e noti
porti pescherecci
italiani, con una
flotta che dà lavoro a oltre quattromila pescatori
Pregiatissima la pesca di gamberi e scampi
DOVE DORMIRE
DOVE DORMIRE
DOVE DORMIRE
HOTEL GRANDE ITALIA
Rione S.Andrea 597
Tel. 041.400515
Camera doppia da 116 euro, colazione inclusa
AGRITURISMO BADIA
Strada della Torraccia 20
0721.405730
Camera doppia da 70 euro, colazione inclusa
GRETA HOTEL
Via Bessarione 107
Tel. 0923.653889
Camera doppia da 80 euro, colazione inclusa
DOVE MANGIARE
DOVE MANGIARE
DOVE MANGIARE
OSTERIA DA PENZO
Calle Larga Bersaglio 526
Tel. 041.400992
Chiuso martedì, menù da 35 euro
DA ALCEO (con camere)
Via Panoramica Ardizio 121
Tel. 072.151360
Chiuso domenica sera e lunedì, menù da 50 euro
RISTORANTE DEL PESCATORE
Via Castelvetrano 191
Tel. 0923.947580
Chiuso lunedì, menù da 40 euro
DOVE COMPRARE
DOVE COMPRARE
DOVE COMPRARE
COOPESCA
Calle S.Andrea 292
Tel. 041.400220
PESCHERIA PANTANO
Via Rossi 80
Tel. 0721.410019
PESCHERIA MUNICIPIO
Piazza Scalo
Tel. 0923.941604
Moleca
O moeca, termine dialettale che identifica
il granchio della laguna veneta (Carcinus
aestuarii) nel periodo della muta, quando perde
il carapace rimanendo nudo e quindi tenerissimo
È protetto da un Presidio Slow Food
Aragosta
La regina dei crostacei
è presente
nel Mediterraneo
con due varietà:
Mauritanicus, di un bel
rosso vivo maculato,
e Regius, dalle sfumature
verdastre. Ha ben
tredici appendici –
tra apparato locomotore,
antenne e occhi –
coda a ventaglio,
ma nessuna chela
Astice
Ha corpo corazzato, due chele
diseguali e potenti, torace liscio,
colore azzurro intenso, striato
di bianco-giallo. Vive in profondità
(fino a 100 metri)
e può raggiungere
i 70 centimetri
di lunghezza
Si pesca in tutto
l’Adriatico
‘‘
Cammina, cammina, cammina,
alla fine sul far della sera, arrivarono
stanchi morti all'osteria del Gambero Rosso
Da Le avventure di Pinocchio di Carlo Collodi
I segreti dello chef-patron di un ristorante di culto, nei cui piatti gamberi e mazzancolle sono protagonisti
E per cuocerli, niente acqua e molto fuoco
FULVIO PIERANGELINI
on i crostacei ho un rapporto di passione lungo quanto la storia del mio ristorante. Quando con Emanuela, mia moglie, decidemmo di aprire un locale,
questo locale, piccolo, luminoso, affacciato sulla spiaggia di San Vincenzo, facemmo finta che fosse una barca. In quel momento, l’Italia della ristorazione era
piena di Gamberi Rossi. In ogni paese, vicino o lontano dal mare, c’era almeno un’osteria con questo nome. Noi lo trovammo e come omaggio a Pinocchio lo mantenemmo.
Non eravamo sicuri di voler continuare a chiamarla così, la nostra barca sulla
spiaggia. Qualche anno dopo l’apertura, era il 1981, pensammo anche di cambiare,
di ribattezzarla semplicemente Pierangelini. Ma a quel punto eravamo già abbastanza conosciuti, forse non aveva tanto senso, forse era troppo tardi. E rimanemmo Gambero Rosso. Il giornale arrivò anni dopo, la televisione ancora più avanti.
Ma il mio rapporto coi crostacei non si esaurisce certo qui. Anche nel mio piattofeticcio il protagonista è un crostaceo, il gambero, anzi la mazzancolla, le meravigliose mazzancolle che vivono nel mare davanti alle nostre finestre. La passatina di
ceci con gamberi è quella che è anche grazie alla soave gentilezza del gambero, alla
sua polpa duttile, facile da declinare, pronta ai miei giochi. Un tempo, preparavo un
riso dolce agli scampi, dove al di là del loro profumo esisteva solo quello dell’alloro.
Il risotto è sdegnoso come una ragazza che sa di essere bella. Lo preparo solo se so di
potergli dedicare tutta la mia cura.
E il crudo? È stato protagonista di un chaud-froidcon il Sanpietro, ma era fin troppo facile. Odio i parvenus della cucina che presentano il crudo di crostacei senza
cambiare loro forma, come tanti cadaverini… Lo so, in Giappone lo vogliono così,
quasi ancora palpitante. Ma quello è una sorta di rito pagano che non appartiene alla nostra cultura. Io rifiuto l’idea di mettere nel piatto un animale con la sua forma
anatomica. Trovo che sia una volgare mancanza di educazione e di rispetto.
C
A proposito di rispetto. Ho aspettato a parlare di aragoste. Troppo facile. Diciamo
crostacei e pensiamo aragosta. La regina che occupa la scena. Ci scandalizziamo di
fronte a chi la butta viva nell’acqua bollente. Lo trovo demagogico, populista, senza contare l’errore tecnico della bollitura…
Io credo che per fare il cuoco si debba il massimo del rispetto e dell’amore nei confronti delle creature che ogni giorno sacrifichiamo per trasmettere gioia e sapori ai
nostri piatti. Dico creature e penso ai maiali, alle galline, ai pesci, ma anche alle patate e alle carote. Che nascono, appassiscono, e quindi sono vita. Io le rispetto tutte,
le creature, animali o vegetali che siano. I pesci mi piace immortalarli nel freddo o
lavorarli un attimo dopo la pesca. Comunque, mai bollita un’aragosta: sono contrario alle preparazioni canoniche che obbediscono alle leggi della falsa opulenza.
Peggio ancora se parliamo di astice. Lessandolo, il risultato sarà una consistenza
di caucciù e un odore di stallatico. L’homard è il re, non ammette scorciatoie. Non
vuole essere riscaldato, guai, si offende. Non ha bisogno d’acqua ma di fuoco, come
un dio guerriero: la coda s’arrostisce, così, appoggiata sul carapace. Poi, a fuoco
spento, si appoggia sul fondo della padella la parte morbida. Invece le chele, di consistenza più muscolosa, si brasano qualche minuto in poca acqua e olio.
Il massimo è trovarli quando fanno la muta. Il loro corallo è color blu notte, che in
cottura diventa un rosso entusiasmante. Esibisce i colori più profondi, quelli del mare, impossibili da riprodurre.
Ma io amo anche il gambero bianco, e la cicala, e il batti-batti, faccia da astice ma
senza chele, come un delizioso rospetto, e il gobbetto, con le sue uova blu sulla pancia. Lo penso crudo, in tartare, con profumo di lime, polvere di banana e una piccola riga d’olio. Cum grano salis, naturalmente.
Fulvio Pierangelini è lo chef-patron
del ristorante Gambero Rosso di San Vincenzo (Livorno)
Repubblica Nazionale
46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 8 LUGLIO 2007
le tendenze
Un materiale che compie un secolo, delizia del business globale che ne sforna
Trend di stagione
cento milioni di tonnellate all’anno, croce degli ambientalisti che temono
la sua indistruttibilità. E ora icona della moda
che inonda il mercato di zoccoli, abiti,
gioielli, accessori ma anche
gadget tecnologici plasmati
con le resine industriali
PICNIC EN ROSE
Un picnic formato Moët Chandon. Una borsa
che contiene quattro flute e una cuvée
magnum di Rosé Imperial
SPAGHETTATA IN PIEDI
SPESA TRASPARENTE
Mangiare in piedi tra onde
e spruzzi si può. Per una
spaghettata fuori dagli schemi
il divertente e innovativo piatto
DOC’spag di Gallina Matta
Borsa di Furla in crystal
trasparente con manici colorati
È una shopping bag salva-spruzzi
ottima anche per i rigidi controlli
in aeroporto
PARTITE IN ACQUA
Dall’accoppiata Marcel Wanders e Puma una collezione quasi unica: solo sette pezzi per giocare a pallone con stile
La regina della spiaggia
IRENE MARIA SCALISE
gni anno, solo in Italia, se ne producono circa due milioni di tonnellate. Nel resto del
mondo più di cento milioni. È la regina della
società moderna. Icona incontrastata della
rivoluzione del vivere “pratico”; ma anche
flagello dei più accaniti ambientalisti: la plastica. Dei cento milioni di tonnellate generati a ritmo continuo la maggior parte si materializza in sacchetti per la spesa, contenitori e bottiglie. Il sette per cento è riciclato. Ma
non tutti sanno che una minima parte ha una destinazione
più glamour. C’è infatti un’anima chic anche per la plastica.
Ed eccola apparire, soprattutto in quest’estate 2007, come
sfacciata protagonista di abiti, gioielli, scarpe e accessori.
E non è certo la prima volta. Uno dei miti dell’haute couture, lo stilista francese Paco Rabanne, le ha spianato la strada negli anni Sessanta. Se pur, anche allora, tra mille scandali e proteste. Coco Chanel fu lapidaria: «Questo non è un
sarto ma un metallurgico». Ma intanto il suo vestito a dischetti di plastica, indossato da Audrey Hepburn, è ancora
oggi in bella mostra al Metropolitan Museum di New York.
E dopo di lui tanti altri. Stilisti e designer indaffarati a disegnare borsette, trousse, abiti e bigiotteria. Un lungo e lucido itinerario fatto di celluloide, bakelite, lucite e tutti quei
materiali che hanno anticipato la plastica moderna. Fino ad
arrivare al trionfo di quest’anno. Il Science Museum di Londra le ha anche dedicato una mostra: Plasticity, 100 Years of
Making Plastic (fino a gennaio 2009). Anche se, in realtà, il
compleanno di questa disinvolta e spesso coloratissima signora è piuttosto discusso. Nel 1907 nasceva infatti ufficialmente, non la generica plastica, ma la bachelite.
Celebrazioni a parte, quella della plastica è stata una vita
di alterne fortune. In alcuni momenti è stata ignorata e considerata un materiale povero. Quindi la sua indistruttibilità
O
INGUAINATE
Plastica in tre
colori per questo
completo
di Marni
La linea
è sobria
ma il materiale
inedito
Per un look
decisamente
diverso dal solito
le si è rivoltata contro trasformandola in nemica dell’ambiente. Ora torna in auge grazie all’aspetto fashion. Un
esempio per tutti: i coloratissimi zoccoli di plastica con i buchi. Adorati dallo streetlife. Amati dai giovanissimi e non solo. Approdati in America già dallo scorso anno, ora sono arrivati anche in Europa. Ed è un autentico boom. I più famosi sono i Crocs ma ci sono anche Lofu e Puma. In termini tecnici sono uno zoccolo in crosite, una resina brevettata a cellula chiusa. Il quotidiano inglese The Times ha ironizzato:
«Le scarpe più brutte mai create, eppure hanno avuto l’approvazione dell’industria della moda». E loro, incuranti delle critiche, calpestano l’arroventato asfalto di Hollywood ai
piedi di star come Jack Nicholson, Isabella Rossellini e Matt
Damon.
Sotto forma di zoccolo, ma non solo, la plastica scende
naturalmente in spiaggia. Senza limiti di fantasia: occhiali
da sole dalle montature fluo, giacche resistenti agli schizzi,
borse in grado di sostenere traversate in barca a vela, cuffie
che promettono di proteggere anche l’ultimo ciuffo di capelli, abiti griffati dai coutourier. Non mancano i gioielli.
Perché la plastica, nobilitata dall’abbinamento con metalli
pregiati o semplicemente da un design originale, offre soluzioni inaspettate anche nel lusso. Basti pensare a un paio di
Diamond Flip-Flops (Moszkito) in vendita al prezzo di ventimila dollari, quasi quindicimila euro per delle ciabatte di
pura plastica abbinata ad altrettanto puri diamanti.
E anche la tecnologia si adegua: telefonini, iPod e macchine fotografiche sono tutti rivisitati nel materiale dell’anno. Un discorso a parte meritano gli accessori. Borse e cinture, se plastificate, diventano immediatamente cool. Piacciono anche alle giovanissime che riscoprono, come un
tempo le loro mamme, il piacere dell’accessorio da spiaggia. Perché, ancora una volta, tutto ritorna.
LUNA ROSSA
Giacca e pantalone
in cirè rosso vivo
di Prada. Ricorda
tanto le vele
di Luna Rossa
Per spiaggia
o da barca
DONNA DI POLSO
Bracciale in plastica trasparente
della linea di accessori di Jean Paul
Gaultier. Per chi non rinuncia al vezzo
di un gioiello anche in mezzo al mare
Repubblica Nazionale
DOMENICA 8 LUGLIO 2007
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47
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CHEEEEESE!
Batte tutte le digitali più tecnologiche
l’intramontabile usa e getta in plastica
di Kodak a prova di schizzi e di sabbia
CHIACCHIERE E FITNESS
VITA A COLORI
Antispruzzo e antisabbia, il Nokia
5500 Sport Music Edition è ideale
per chi vuole tenersi in forma
Un personal trainer mobile che controlla
i progressi in allenamento
Chic alla Pucci: la cintura in pura
plastica con bordi colorati. È perfetta
per nobilitare pareo o copricostume
SUONO SICURO
Gli altoparlanti di Muji
si possono collegare a un cd
player o all’iPod. Una salda
guarnizione di gomma
assicura contro l’acqua
SALVARE LA MUSICA
Portare l’iPod al mare rischiando? La soluzione è DryPod, la cover che lo rende impermeabile
Amata, odiata, comunque onnipresente: un’invenzione che ha cambiato il mondo
Da cheap a chic, la lunga marcia dei polimeri
LAURA LAURENZI
ccoci sulla spiaggia, sotto l’ombrellone. Guardiamoci
attorno, a cominciare da noi stessi. Siamo letteralmente coperti di plastica, tutto quello che tocchiamo e quello che usiamo, tutto quanto è di plastica. Non solo gli oggetti
più banali e tipicamente marini — le pinne, la maschera subacquea, il materassino che galleggia, la palla — ma anche
tutto il resto. I sandali infradito, o per chi è più alla moda gli
zoccoli Crocs uguali a quelli di Bush, gli occhiali da sole, l’orologio, il costume da bagno, il tubetto delle creme, il cellulare, la macchina fotografica che va sott’acqua, l’iPod, il walkman, la bottiglia di minerale.
Siamo seduti su una sdraio che qualche anno fa sarebbe
stata di legno e di elegante tela, ma oggi è di plastica. Andremo forse a fare il bagno al largo su un pattino, che oggi si chiama pedalò ed è diventato molto più leggero: anche lui una volta era di legno, oggi è di qualche misteriosa resina riconducibile all’immensa famiglia delle plastiche. Siamo assediati —
ma forse anche confortati — dal materiale più duttile (e inquinante) del pianeta, capace di stupefacenti performance
ma anche antipaticamente plebeo, seriale, ordinario.
È andato molto di moda disprezzare la plastica, fare crociate passatiste, arricciare il naso, rimpiangere i bei tempi andati, quelli dei cestini da picnic coi piatti di coccio e degli zoccoli tipo Forte dei Marmi rigorosamente in legno. Tutto il resto sembrava fare schifo: omologazione per le masse, appiattimento del gusto, quantità a sfavore della qualità. Anche in
senso traslato: dire di qualcosa o di qualcuno «è di plastica»
implicava una connotazione fortemente negativa. Anni di
plastica, per esempio: a evocare il vuoto, la mancanza di spessore e di cultura. Facce (labbra, nasi, zigomi, seni) di plastica
poi non ne parliamo: facce finte, di plastica come quelle delle bambole, e insieme come quelle ritoccate in serie dai chirurghi (plastici appunto).
E
MOSAICO DA INDOSSARE
Abito in dischetti di plastica
di una giovane artista
australiana, Liana Kabel
I suoi lavori sono esposti
al museo cittadino
di Brisbane
Fortunatamente è arrivata la riabilitazione. E anche la nobilitazione, a opera di grandi architetti e di idoli del design. La
tanto bistrattata plastica è riuscita a diventare materiale per
leggerissimi oggetti di culto. Mantenendo la sua serialità. L’estate è la stagione in cui la plastica dispiega tutte le sue possibilità, i suoi impieghi e le sue forme, ad azzerare ogni snobismo e a capovolgere i luoghi comuni. Plastica è chic, va ostentata, è persino retrò. È da cent’anni che ci circonda, ci facilita,
ci alleggerisce, ci aiuta. Un big bang di polimeri sintetici cominciato in sordina, nel 1907, quando negli Usa il chimico
belga Leo Baekeland dalla condensazione del fenolo e della
formaldeide inventò un polimero resinoso chiamato bakelite, la prima plastica completamente sintetica prodotta su scala industriale. Un’invenzione che ha cambiato il mondo, rivoluzionando i campi più diversi, dall’abbigliamento alla tecnologia avanzata: un’invasione di prodotti di massa accessibili a tutti (o quasi), dalla biro al rasoio, dalla pellicola per
avvolgere gli alimenti al televisore, dai collant alla carta di
credito al sangue sintetico.
Il problema, si sa, è lo smaltimento, se è vero che ci vogliono duecento anni per distruggere un banale sacchetto della spesa. Considerando che ogni anno solo in
Europa ne vengono consumati e gettati via cento miliardi, possiamo immaginarci l’immenso immondezzaio di
oggetti di scarto che durano in eterno. Il rampollo di una delle famiglie più ricche del mondo, David de Rothschild, con
una zattera fatta solo di bottiglie di plastica cercherà quest’estate di attraversare il Pacifico lungo le correnti che trasportano i rifiuti da un continente all’altro. Chilometri di spazzatura galleggiante. Chissà che l’ultimo dei banchieri non riesca, con questa sua sortita mediatica, a farci riflettere su quanto sprechiamo, buttiamo, sporchiamo senza neanche accorgercene. Probabilmente no.
RETRÓ
Giacchino
in plastica effetto
retró di Malo
Per un tuffo
direttamente
negli anni
Sessanta
Abbinato
al calzoncino
mini diventa
subito d’attualità
Repubblica Nazionale
48 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 8 LUGLIO 2007
l’incontro
È cambiata molto dallo strip tease
casalingo di “9 settimane e ½”
A 53 anni la bionda-bella-sciocca,
cui Hollywood aveva già scritto
tutti i copioni, ha provato a ribellarsi
e ha perso, ha sofferto
un divorzio difficile,
ha trovato un equilibrio
“Certe cose le fai perché
gli anni sono quelli giusti
per fregartene e restare
pulita e leggera
Poi sbagliare diventa
arrogante e occorre ricordare che
domani non è mai un altro giorno
ma quello che resta dell’oggi”
Sempreverdi
Kim Basinger
hiara e dritta, peso intorno
ai cinquanta chili forse, un
corpo appuntito contro il
vestito leggero di seta blu,
«è di Vera Wang», taglio anni Trenta.
Braccia e ginocchia scoperte, rami
asciutti infilzati per sostenere l’abito.
Kim Basinger non sembra proprio la
sexy bomb di 9 settimane e ½. Qualcosa
si è prosciugato, ingentilito, calmato. È
molto bella, più di allora. Anziché ormoni, acqua melanconica negli occhi
azzurri, guardano davvero. La prima cosa che dice: «Bisogna ridere, fa bene,
porta bene». La seconda: «Bere acqua,
fare esercizio, una vita sana». Strizza la
bottiglietta di minerale, aggiunge: «Naturalmente, contano anche altre cose:
l’energia dentro, la tua differenza».
La sua è essere questa ragazza di cinquantatré anni che dà schiaffi al tempo.
Che ha tolto carne e sensualità ai muscoli, ci ha messo pace e dolcezza. Rivale storica di Sharon Stone, ma più provinciale e in senso buono, al posto di
borchie e Basic Instinct, fragole e seduzione casalinghe. L’estetica erotica degli anni Ottanta declinata in una più
prudente nuova giovinezza, non proprio pensierosa, ma riflessiva sì. Una 50something come si dice adesso, la vita
che ricomincia da un altro inizio. Spostato più avanti, ma è da lì che il panorama diventa limpido. Ex modella da Eileen Ford a mille dollari al giorno, lei
però voleva fare l’attrice e quando ci è
riuscita ad arrivare a Hollywood non è
mai stata abbastanza premiata dalla
fortuna. Qualche titolo noto: Mai dire
mai, debutto nel grande cinema, Fool
for Love di Robert Altman, Batman e Final Therapy. Memorabile 9 settimane e
1/2, quello spogliarello su musica di Joe
teratura. Beh, solo pregiudizi. E poi lei
ha molte storie nel sangue, antenati tedeschi, svedesi, indiani Cherokee, irlandesi. Una trama fitta di parole diverse.
Le piccole rughe attorno agli occhi sono una spugna per lo sguardo liquido.
Segni dolci, non ferite. Ha una maniera
orgogliosa di mostrarle, non se ne vergogna, non risulta che siano state manipolate con ritocchi. «Non ho niente
contro la chirurgia estetica, la bellezza
però è un sentire». Meglio così, perché
adesso servono quelle impronte degli
anni: la Lancaster l’ha scelta per lanciare una linea di prodotti per la pelle antietà, lei con il suo viso attraversato dall’esperienza. Così com’è, senza finzioni, con le tracce di quello che è passato,
questa nuova femminilità più sedata e
matura e piena, come succede a un certo punto. «Lo slogan della campagna mi
piace: aggiungi vita all’età, non il contrario». Beve altra minerale, «questo è
un segreto. Ne ho altri». Ce li dica. «Mangiare bene, io sono vegetariana anche se
adoro il pesce, il sushi in particolare,
Non è semplice
liberarsi
dell’immagine
che altri decidono
per te, degli stereotipi
che ti si conficcano
nel profondo
e diventano
la tua identità
FOTO UFFICIO STAMPA LANCASTER
C
LOS ANGELES
Cocker rimasto nelle fantasie private di
molte coppie. Lei lo sa che quella scena
non ha mai smesso di ripetersi nelle nostre memorie, la penombra, il sudore, il
ghiaccio, come se tutto fosse ancora qui
a sciogliersi e a bruciare. «Sono felice
che abbia contribuito a risolvere molte
noie coniugali». Risponde da analista,
sociologa, non da diva di quegli anni di
lussi e abbondanze, da femmina rigogliosa e allegramente superflua. È che la
disegnavano così, come direbbe Jessica
Rabbit. «Non è semplice liberarsi dall’immagine che altri decidono per te,
dagli stereotipi che si conficcano
profondi. Finiscono per diventare la tua
identità. Hollywood non ha un principio generale, delle regole fisse. Si comporta come il mercato, è il mercato, funziona secondo quello che si vende». E lei
vendeva bene, un prodotto da vetrina.
Un altro film da antologia, L. A. Confidential di Curtis Hanson, bianco e nero
laccati, thriller noir filosofico, prova di
qualità insomma. Le è valso l’Oscar come migliore attrice non protagonista e
un Golden Globe, se li meritava, interpretava una Veronica Lake evanescente, signora del mistero, sangue refrigerato e secco. Ma sotto si capiva che era
pronto a bollire, arrossire. Molti ruoli
mediocri dopo e qualche flop, una brutta vicenda per Boxing Helenache non ha
voluto più fare («istigava alla violenza
sulle donne») e come penale una multa
da otto milioni di dollari. Ha venduto
Braselton per pagare, il paese di 450 abitanti che si era comprata per venti milioni in Georgia sognando di farne una
piccola Hollywood. Poi la mamma di
Eminem in 8 Mile, si disse allora che c’era stata una svolta, l’erotismo epurato in
scorbutica e ammaccata maternità. Prima, in mezzo e poi, testimonial di calze
e orologi, un divorzio difficile da Alec
Baldwin e una figlia da lui, Ireland, oggi
dodicenne.
«Ne ho passate come tutti nella vita.
Sono stata più fortunata di molti altri.
Ridere, crede ci sia una strada migliore?
La fede, certo: Dio e delle gran risate». Lo
dimostra subito, incarna con quel poco
di corpo che c’è la tesi: il riso le sale su dai
fianchi stretti verso le braccia magre e il
collo bianco, stringe i pugni, sul polso sinistro una vena si gonfia e sposta il braccialetto di argento sottile, l’unico gioiello addosso. I sandali di vernice nera, tacchi medi, pattinano come quelli di una
bambina sulla moquette. L’ex sensualona si diverte, urla «I love it, I love it so
much» e non è importante chi stia
amando, ma che abbia quella voglia
dentro. La testa svolazza e non trova più
appigli quando parla della figlia e dei
suoi anni da ragazza in Georgia, «ah
quanto mi piaceva la musica e mi piace,
tutta la musica, classica, country, rock,
sono storie infinite le canzoni, un racconto delle cose delicato eppure che
cuoce il cuore, mi fanno lo stesso effetto
gli scrittori del sud, Faulkner e gli altri,
Capote, Flannery O’Connor». La ragazza dello shampoo Breck che parla di let-
faccio esercizio ogni giorno, ho un personal trainer. Una vita sana insomma.
Però non è solo questo che serve». Cos’altro. «Se hai rancore, rabbia, invidia,
cattivi pensieri: tutto torna su, addosso,
si vede. Per questo credo nel perdono,
perché abbellisce il futuro».
Non parla di Alec, non vuole. Ma si capisce che lì c’è stato dolore, c’è stata una
speranza interrotta. Lo ha incontrato
sul set di Bella, bionda... e dice sempre sì
nel ‘91, lo ha sposato due anni dopo, dichiarò che aveva trovato la serenità e per
una ex ragazza di provincia con problemi di timidezza e agorafobia lui rappresentava il compagno comprensivo e finalmente non nemico. Poi tutto a rotoli. Sciupato l’amore, fallito il tentativo di
far inciampare il destino preparato per
lei: bionda bella sciocca, alla Marilyn. Si
ribellò, fu emarginata. «Le nuove generazioni sono molto sofisticate, tecnologiche, leggere. Sentono che tutto è possibile, se lo prendono. Per me e quelle
della mia età è stato diverso, non un
dramma perché questo non posso dirlo,
ma più faticoso sì, per conquistarti una
credibilità o una carezza dovevi dimostrare cento volte il tuo valore».
Anche adesso le donne hanno il fiato
corto, il lavoro, i figli e se non riescono a
tenere tutto qualcosa devono mollare,
la società non le aiuta e persistono molte riserve. In Italia l’argomento è molto
sentito. «Lo è dappertutto, le donne sono molto intelligenti, hanno incarichi
importanti nelle aziende e nella politica
e insieme sono il centro delle relazioni
sociali e affettive, crescono figli e mandano avanti la baracca. Tutto a costo di
compromessi e rinunce, più di quelli richiesti agli uomini, e questo è ormai insopportabile. I paesi del Mediterraneo
sono molto sensibili a questi temi, in
realtà riguardano tutti. Lo sviluppo dipende dalle opportunità che si daranno
alle donne di crescere e realizzare i loro
scopi. Altrimenti non è pensabile una
società giusta, magari anche più libera».
In Italia si discute molto anche del significato sociale e culturale da attribuire alla famiglia, se il concetto tradizionale funzioni ancora, se le unioni alternative a quella del matrimonio siano da
considerare alla pari, se per caso un tasso di natalità tra i più bassi in Europa ci
stia segnalando qualcosa. «La famiglia è
un nodo centrale, lo è sempre stato e lo
rimarrà. Non vedo qual è la differenza, le
relazioni tra due uomini o tra due donne che condividono un progetto si scontrano con gli stessi problemi e le stesse
stanchezze di qualsiasi altra coppia, tirare su un figlio è una scommessa difficile e spaventosa per chiunque abbia
coscienza. Ci vorrebbe un’accoglienza
illuminata, invece alle signore si richiede l’irrealtà della perfezione. Mi piacerebbe una società solidale più che una
vita glamour».
Che mamma è lei, che consigli dà a
Ireland. «Consigli? Già la vedo molto autonoma e indipendente nei giudizi, ama
essere amata questo sì, ma per il resto ha
una consapevolezza di sé molto sviluppata, forte, espressiva. Rispetta gli animali e in questo deve aver imparato da
me, ha un senso della giustizia e della
lealtà, ma come tutti commetterà errori, conoscendo le conseguenze delle
proprie azioni». Le ha mai chiesto dei
suoi trascorsi da modella per Playboy?
«Sa che gli esseri umani sono soggetti ai
peccati. E ai ripensamenti». Si è pentita,
allora. «No, dico che certe cose le fai perché succedono e perché gli anni sono
quelli giusti per fregartene e per rimanere puliti e leggeri. Poi le cose cambiano, e sbagliare diventa arrogante». Progetti? «While she was out, uscirà il prossimo anno, un thriller di una regista
scozzese, Susan Montford, faccio la casalinga di periferia che si ritrova in una
brutta vicenda, quattro balordi che mi
minacciano e io devo sopravvivere con
pochi semplici mezzi». Una metafora.
«Io ho avuto chance. Ma sì, anche coraggio».
Al dodicesimo piano del Four Seasons di Beverly Hills a Los Angeles, la suite della Basinger si trasforma nella stanza delle chiacchiere, confidenze e sorrisi, poco divismo. Entrano ed escono ragazze con i cambi d’abito per le sessioni
fotografiche, chiedono se anche domani sarà di buon umore. È un pomeriggio
fresco di giugno, fuori dalle finestre la
brezza spettina le palme e si porta dietro
una luce di cenere che impolvera il cielo, nei corridoi dell’albergo delle star la
temperatura frizza verso il grado zero.
Non è autunno, è un inizio d’estate lieve, strano e diverso, una stagione più
sincera che scandalosa.
Kim lo sa, 9 settimane e 1/2è un attimo,
la vita è più lunga. Meglio non correre
troppo in fretta, trattare con dolcezza le
proprie illusioni. Si può essere selvaggi e
melanconici, e avanzare con equilibrio.
Domani non è mai un altro giorno, ma
quello che resta dell’oggi.
‘‘
ALESSANDRA RETICO
Repubblica Nazionale