Quelli della Pixar

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Quelli della Pixar
Domenica
La
di
DOMENICA 4 LUGLIO 2010/Numero 282
Repubblica
l’attualità
Belgio, la Chiesa e il grande inquisitore
ANDREA BONANNI e AGOSTINO PARAVICINI BAGLIANI
cultura
Quando l’uomo disegna il tempo
UMBERTO GALIMBERTI e GABRIELE PANTUCCI
Quelli
della
Pixar
Un po’ parco giochi
un po’ comune hippy
FEDERICO RAMPINI
D
SAN FRANCISCO
imenticate la tecnologia. Benvenuti nel mondo
delle fiabe, quello eterno, il paese dei balocchi. Lo
hanno nascosto bene. La sua fabbrica segreta è in
una periferia industriale, Emeryville. Gli abitanti di
San Francisco la conoscono solo perché vanno a farci la spesa da
Ikea. Traversi il ponte della Baia, appena raggiunta la terraferma a
metà strada tra Berkeley e Oakland c’è questo strano posto: depositi, officine, svincoli autostradali. Dissimulato, immerso in un’oasi verde c’è lo scatolone di mattoni rossi che contiene la Pixar.
È un nome da leggenda, il laboratorio di disegni animati creato
da George Lucas (Star Wars) nel 1979, rilevato da Steve Jobs (fondatore di Apple) nel 1986. Un atelier di artisti che sono i veri eredi
di Walt Disney, undici film, ventiquattro premi Oscar, il record ine-
guagliato di incassi nella storia dell’animazione digitale con 5,5 miliardi di dollari. Proprio la Disney lo ha comprato nel 2006 e il successo del vecchio Walt continua tra bambini e adulti grazie agli
stregoni di Emeryville. Con Toy Story 3 si sono presi una bella libertà: la scena iniziale è una caricatura feroce di Hollywood, un
succedersi di inseguimenti in stile western, apparizioni di extraterrestri, violenze e distruzioni a catena. L’ironia è pungente: quello lì è il cinema da non fare. Quella è la fantasia di tanti bambini di
oggi stritolata, omogeneizzata dagli effetti speciali. Cinque minuti infernali, cancellati e smentiti da tutto il resto del film. Che invece sotto strati di burle frenetiche nasconde una storia molto vera di
crescita e di distacco, di anni che passano e affetti che cambiano.
Andy, il bambino delle prime Toy Story, lascia la casa dei genitori per andare al college. I suoi giocattoli dell’infanzia finiranno in
soffitta o nella spazzatura. A meno che servano a qualche altro
bambino? Il resto non va detto.
(segue nelle pagine successive)
PHOTO BYDEBORAH COLEMAN /PIXAR
Mentre esce in Italia
“Toy Story 3”, viaggio
nella fabbrica dei sogni
spettacoli
La doppia vita di Marilyn Monroe
MARILYN MONROE e CLAUDIA MORGOGLIONE
i sapori
Gelati, la stagione dello stecco
LICIA GRANELLO e MICHELE SERRA
l’incontro
George Romero e gli zombie proletari
MARIO SERENELLINI
Repubblica Nazionale
30 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
la copertina
Quelli della Pixar
DOMENICA 4 LUGLIO 2010
Primo comandamento: qui i film non si fanno come a Hollywood
Secondo: ognuno ha il diritto di lavorare come gli pare. Terzo:
ma questo non è un lavoro. Il 7 luglio esce in Italia “Toy Story 3”
Siamo andati a San Francisco a vedere
come funziona la più grande fabbrica
di fiabe del mondo
REGISTA
Lee Unkrich,
al centro,
durante
una sessione
di animazione
Viaggio
verso l’infinito
...e oltre
FEDERICO RAMPINI
(segue dalla copertina)
D
i numeri
11
i film
realizzati
dalla Pixar
dal 1995
5
hanno vinto
l’Oscar
per miglior
film animato
5,5 mld
i dollari
incassati
nel mondo
a aficionado dei disegni animati non tollero che si rovini la sorpresa. Solo la sede
di Google e di Apple, tutt’e due qui vicine
nella Silicon Valley, sono circondate da
un simile alone di mistero, di fascino, e di
gelosa segretezza. È raro poter sbirciare
nel laboratorio dei sogni. Quando si
apre, in occasione dell’uscita di Toy Story
3, l’esplorazione segue riti severi. All’ingresso del campus di Emeryville devi
consegnare ogni gadget elettronico, telefonino compreso: guai a “rubare” le
immagini dei maghi. Quando sei finalmente disarmato, più che la sede della
Nasa è un parco-giochi quello che si disvela. In mezzo ai viali alberati immersi
nel sole californiano, in formato gigante
ti dà il benvenuto la lampada flessibile,
simbolo dell’“idea Pixar” nei titoli di
apertura dei film. In un cortile tra i giardini c’è un baule di giocattoli. Dal cofano
aperto spuntano il cowboy Woody, l’astronauta Buzz, la fanciulla del West Jessie, pupazzoni giganti. L’aspetto da parco-giochi continua dentro la palazzina
degli studi cinematografici: anche lì personaggi dei film in dimensione maxi.
Non siamo a Disneyland, non ci sono
orde di turisti, i rari visitatori si muovono
circospetti. Come in Toy Story, questi
giocattoloni forse ci osservano, fanno
finta di essere immobili, si animeranno
dietro le nostre spalle. Nell’atrio principale della palazzina un’insegna al neon
(«Aperto 24 ore!») sembra l’ingresso di
una discoteca. È la sala dei computer che
materializzano le animazioni digitali
degli artisti. Gli atelier dei creativi sono
ben visibili ai piani alti, perché tutto l’edificio è fatto di vetrate, invaso dal sole
WOODY
come se si lavorasse all’aperto. Ognuno
può disegnare il suo studio come gli pare: ce n’è uno in stile capanna polinesiana, un altro sembra una comune hippy
degli anni Settanta. Ci sono bar-birrerie.
Il paese dei balocchi è costruito perché
gli artisti restino sempre bambini, nulla
deve evocare un “lavoro”.
Eppure non si è prodotta qui la prima
scintilla di Toy Story 3. Per trovare l’idea
iniziale, la storia giusta, c’è un luogo più
remoto. È il Loft del Poeta, uno chalet a
Tomales Bay, una spiaggia a settanta
chilometri a nord da San Francisco. Tra
scogliere battute dai venti del Pacifico, in
un luogo dove regnano foche e gabbiani,
lì si diedero appuntamento tre anni fa gli
artisti del team creativo, guidati dal regista Lee Unkrich. Lo sceneggiatore Michael Arndt (quello di Little Miss Sunshine) aveva provato a sottrarsi al ritiro. «Volevo lavorare come per i film normali —
dice — cioè da solitario nella mia casa di
New York, e mandargli i testi man mano
che li scrivevo». Impossibile. Proibito
dalle regole sacre della casa. «Il Primo comandamento della Pixar è questo: i film
non si fanno come a Hollywood, con
squadre di mercenari formate per l’occasione, che poi si disfano e ciascuno riparte per conto suo».
Il team creativo include autori che a
Emeryville sono la memoria storica di
tanti film precedenti, insieme con gli innesti più recenti venuti dal cinema d’autore. Sono abituati al gioco al massacro
che avviene nello chalet sulla spiaggia.
«Proibiti i telefonini, la tv, i contatti col
mondo esterno — dice il regista Unkrich
— si sta in clausura». Un’idea di storia
viene rigirata da tutte le parti, bersagliata in un tiro a segno. Così è stato bocciato un spunto che forse sarebbe stato geniale: l’astronauta Buzz, made in
Il cowboy
Woody,
protagonista
insieme
all’astronauta
Buzz
Lightyear,
dei tre episodi
di Toy Story
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DOMENICA 4 LUGLIO 2010
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 31
WORK IN PROGRESS
PHOTO BYDEBORAH COLEMAN /PIXAR
© DISNEY / PIXAR
Queste pagine sono illustrate
con schizzi, bozzetti, disegni
e storyboard originali di Toy Story 3
3D
Sessioni di
animazione;
a sinistra,
una prova
in 3D su Toy
Story 2
VOCI DA STAR
A sinistra, riunione con Unkrich;
in basso Tom Hanks registra
la voce del cowboy Woody
Taiwan, viene richiamato dalla fabbrica
per un difetto, si ritrova in mezzo a un popolo di giocattoli che furono amati dai
bambini ma tornano nelle mani del
creatore. È una storia che non vedremo
mai. Solo quando i creativi sono convinti di aver trovato la trama giusta, lasciano
la costa selvaggia di Tomales Bay e tornano nel paese dei balocchi di Emeryville. Gli artisti cominciano a sfornare bozzetti. Prendono forma una scena dopo
l’altra ma sono ancora statiche, come nei
fumetti. Si riuniscono in una sala con
una grande lavagna e recitano ogni pezzo di storia accennato in quei disegni:
devono riuscire a “venderlo” ai colleghi,
è il primo test per capire se
funzionano, per dare
corpo ai personaggi, mimarne le emozioni. Ciascuno “pubblicizza” la sua
idea, s’improvvisa attore. Deve convin-
cere, essere credibile. Passa un mese e i
personaggi più importanti vengono plasmati in terracotta. Poi scannerizzati su
computer. Via via si aggiungono materiali reali: pelli, tessuti, capigliature. Entrano nei “reel”, le prime successioni di
immagini in movimento. Le battute sono registrate, inizialmente con le voci
degli impiegati della Pixar, e sottoposte
al giudizio dei colleghi. «È un momento
cruciale per la nascita del film — dice il
co-fondatore della Pixar Ed Catmull —
Guardando il risultato in mezzo a una
audience si comincia a capire cosa fa ri-
dere, cosa commuove, cosa va scartato».
Il primo anno se n’è andato così. Allora
vengono chiamati a Emeryville gli attori
che doppiano i personaggi: Tom Hanks,
Tim Allen, Michael Keaton. Registrano
decine di versioni diverse: sfumature,
inflessioni della voce, un ventaglio da cui
si sceglierà il tono giusto alla fine.
I tecnici dell’animazione progrediscono sui primi bozzetti: sagome e profili si riempiono di colore, dietro di loro
appaiono gli ambienti, il Tirannosauro e
l’Uomo-Patata diventano tridimensionali, la scenografia dà corpo e profondità
alle stanze, ai mobili. Gli incidenti sono
in agguato. Si scopre che migliaia di immagini della prima versione di Toy Story,
pur conservate in memoria digitale, non
possono essere rielaborate in versione
tridimensionale. Quel film era del 1995,
quindici anni dopo è già preistoria. Oggi
il 3-D ha cambiato questo: al cinquecentesimo giorno di lavorazione ogni personaggio viene dotato di un migliaio di
“avar”, altrettanti punti di possibile movimento. Da quel momento in poi i disegnatori li muovono come fossero burattini, l’animazione li manipola come i fili
invisibili delle marionette. Cento avar
sono necessari solo per muovere le
espressioni facciali. Di ogni scena vengono filmate virtualmente decine di
prove, destinate al lavoro di editing, selezione, rifinitura. Scorre un tempo infinito, il contatore supera il giorno mille.
Le sale dei disegnatori sono come set
di Hollywood ma i personaggi hanno la
pazienza che manca alle star del cinema:
migliaia e migliaia di volte devono ripetersi, aggiustare le pose di frazioni di millimetro, spostarsi rispetto a una telecamera immaginaria. La fantasia dei narratori continua a sfornare idee: la Barbie
femminista, il suo bamboccione Ken
catturato in una scena sadomaso, l’orsacchiotto di pelouche rosa che si rivela
un capomafia, alle comiche chapliniane
si aggiungono i doppi sensi e le “citazioni” di altri film per divertire il pubblico
adulto. «A malincuore — dice Unkrich
— al terzo anno di lavorazione abbiamo
dovuto licenziare il prodotto finale.
Avremmo potuto continuare all’infinito». Come artigiani medievali di una fabbrica del Duomo: le tecnologie sono la
moderna versione degli scalpelli da scultori, per i perfezionisti della fiaba.
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32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 4 LUGLIO 2010
l’attualità
Angeli e demoni
Una cattedrale, una cripta, due tombe violate alla ricerca
di prove. Blitz della polizia, dossier confiscati. Anatemi
del Vaticano e lettere del Papa. Nel Belgio cattolico e laico,
fiammingo e vallone, una storia che sembra scritta da Dan
Brown. Protagonista, un uomo misterioso: il sostituto
procuratore che mette sotto inchiesta la chiesa per pedofilia
ANDREA BONANNI
L
BRUXELLES
e tombe di due eminentissimi cardinali, Jozef-Ernest Van Roey e Leon-Joseph
Suenens, defunti arcivescovi di Mechelen-Bruxelles, perquisite nella cripta della cattedrale di SaintRombaut. Cinquecento dossier riservati sui casi di pedofilia nella Chiesa
confiscati. L’intera conferenza episcopale sequestrata per nove ore dalle forze dell’ordine durante una perquisizione nella sede dell’arcivescovado. I vescovi che si vedono requisire il telefonino. Il nunzio apostolico che viene rilasciato solo dopo aver invocato l’immunità diplomatica di rappresentante
dello Stato Vaticano. Il computer dell’ex primate del Belgio, cardinal Danneels, sequestrato e sottoposto a perizia per ricostruire i file rimossi. Gli anatemi del segretario di Stato vaticano e le
accorate lettere del Papa. Un uomo, un
tensione innescata dall’inchiesta della
magistratura è difficile da controllare.
«Non bisogna cedere alla tentazione di
gridare al complotto — dice a Repubblica padre Eric De Beukelaer, portavoce
della Conferenza episcopale belga —
Capisco la collera e l’irritazione per il sequestro dei dossier e per la violazione
delle tombe dei cardinali. Ma in una situazione come questa occorre che la ragione prenda il sopravvento. Fino a
prova contraria dobbiamo avere fiducia nel nostro sistema democratico».
In realtà la chiesa cattolica, nel pieno
della bufera per i casi di pedofilia che
stanno emergendo un po’ dovunque,
dagli Stati Uniti alla Germania, dall’Italia all’Irlanda, per la prima volta si trova
di fronte a una giustizia che procede a
perseguire i reati senza alcuna considerazione per l’istituzione in seno alla quale sono stati commessi. L’accordo che
era stato raggiunto tra i vertici dell’episcopato belga e il ministero della Giustizia, per consentire il lavoro della commissione indipendente creata dai ve-
PRIMA E DOPO
In questa
pagina,
il cardinale
dimissionario
Godfried
Danneels
e il suo
successore,
monsignor
André-Mutien
Leonard
scovi, è saltato di fronte alla determinazione del sostituto procuratore De Troy.
Di lui si sa poco o nulla. Per nulla incline ai riflettori, tantomeno alle interviste, il giudice che ha distrutto l’aura di
intoccabilità della chiesa cattolica, ha
fama di uomo integerrimo. In passato
non ha esitato a far arrestare un collega
accusato di passare informazioni alla
malavita sulle inchieste in corso. Perfettamente bilingue, è stato a lungo il
portavoce della procura di Bruxelles.
Da quando ha assunto l’incarico di magistrato inquirente, quattro anni fa, si è
occupato con successo di numerosi casi di droga, di omicidi e di tratta di esseri umani. Nulla trapela della sua vita privata, foto introvabili, niente dichiarazioni, niente di niente. Come se la sua
funzione e la sua carica esaurissero da
sole la sua figura. Anche la politica ha
dovuto piegarsi di fronte all’indipendenza della magistratura perfettamente incarnata da De Troy. «I giudici agiscono in piena autonomia e hanno il
dovere di perseguire le indagini sui cri-
mini di cui sono venuti a conoscenza
utilizzando tutti i mezzi che ritengono
necessari», ha ammesso il ministro della Giustizia Stefaan De Clerck.
Così il grande inquisitore va vanti per
la sua strada. Di fronte a lui ci sono due
alti prelati che rappresentano i due volti del cattolicesimo belga. L’uomo accusato di aver protetto i pedofili in seno
alla Chiesa è il cardinale Godfried Danneels, fiammingo, per trent’anni primate del Belgio ed esponente di spicco
dell’ala più progressista dell’episcopato europeo. Le sue posizioni sulla contraccezione, sui preservativi, considerati «un male minore» rispetto al pericolo dell’Aids, lo hanno spesso visto in
contrapposizione a Ratzinger. L’anno
scorso ha lasciato l’incarico per limiti di
età, ma resta comunque una personalità influente nella Chiesa belga e un
punto di riferimento per il cattolicesimo progressista.
Il suo successore è monsignor Leonard, di origini francofone, docente di
filosofia, perfettamente allineato con la
Di Wim De Troy
si sa poco o nulla
In passato ha fatto
arrestare un collega
Si è occupato
con successo di tratta
di esseri umani
accusato di passare
informazioni
alla malavita
solo uomo dietro tutto questo. Un magistrato, un sostituto procuratore del re,
una versione laica e secolare di grande
inquisitore. Si chiama Wim De Troy.
C’è un po’ di romanzo gotico d’appendice e molto di Dan Brown nella vicenda dei preti pedofili in Belgio, degenerata in una spirale di sospetti velenosi. Il giornale fiammingo De Morgen
scrive che i magistrati sospettano la
Chiesa belga di aver volutamente e sistematicamente coperto i sacerdoti accusati di pedofilia e ipotizzano contro i
vertici religiosi nazionali una incriminazione per associazione a delinquere.
Il quotidiano cattolico La Libre Belgique
parla apertamente di un complotto della massoneria «che avrebbe per obiettivo la distruzione della Chiesa» e di cui il
sostituto procuratore a capo dell’inchiesta sarebbe un esponente.
Le gerarchie ecclesiastiche e gli esponenti politici cercano di mantenere il
sangue freddo. Ma in un Paese che, oltre alla tradizionale divisione tra fiamminghi e valloni, è anche attraversato
da una profonda spaccatura tra una
cultura cattolica molto radicata e un laicismo duro, dai toni risorgimentali, la
posizioni conservatrici di Benedetto
XVI. Considera l’omosessualità un
comportamento anormale, frutto di
una distorsione dello sviluppo psicologico normale. E Le Soir riporta sue dichiarazioni che definiscono l’epidemia
di Aids «una sorta di giustizia immanente» a causa dei comportamenti sessuali devianti. Appena nominato primate del Belgio, Leonard ha fatto sua la
nuova politica vaticana di tolleranza
zero verso i casi pedofilia in seno alla
Chiesa. E subito si è trovato a dover gestire le dimissioni del vescovo di Bruges, reo confesso di aver avuto rapporti
con un minore. Di fronte all’esplodere
di sempre nuovi casi di abuso in seno al
clero, in particolare nelle Fiandre, Leonard non ha esitato a chiedere perdono
alle vittime in nome della Chiesa e a criticare «la sottovalutazione» del fenomeno da parte del suo predecessore.
Ma certo ora, dopo le perquisizioni e i
sequestri e mentre il Vaticano grida alla
persecuzione, deve trovare una difficile convivenza con il grande inquisitore
che sta perseguitando i crimini di pedofilia senza guardare in faccia nessuno.
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Repubblica Nazionale
DOMENICA 4 LUGLIO 2010
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33
Quando Cesare
vuole giudicare Dio
AGOSTINO PARAVICINI BAGLIANI
rapporti tra la Chiesa e la giustizia, che accompagnano la storia del cristianesimo fin dalla sua affermazione storica sotto l’imperatore Costantino († 337), hanno conosciuto da
sempre oscillazioni e situazioni conflittuali. Pur considerando il cristianesimo religione di stato, Costantino ordinò che le cause dottrinali dei donatisti fossero portate davanti al
giudice imperiale. L’imperatore Giustiniano intervenne in modo ancor più incisivo nella vita
interna della Chiesa, garantendo sì protezione ma anche il rispetto di sanzioni in caso di violazione della legge. Il suo Codice (533) regolava in modo dettagliato i problemi disciplinari anche
di preti e diaconi. L’imperatore permise persino a ciascuno di denunciare all’imperatore contravvenzioni alla legge.
Costantino aveva però anche concesso ai vescovi di poter giudicare le cause civili riguardanti i
semplici chierici, e così si comporteranno i concili fin dal Quarto secolo. Il Concilio di Ippona (393),
di cui Agostino era il vescovo, minacciò di deporre il chierico che avesse sottomesso una causa, civile o criminale, al giudice secolare. Nacque dunque già nel Quarto secolo quello che i giuristi del Medioevo e dell’età moderna chiameranno il «privilegio del foro». Anche Carlomagno legiferò con i suoi
numerosi “capitolari” sulla disciplina del clero, pur concedendo ai vescovi ampi spazi giurisdizionali. La situazione cambiò radicalmente nell’Undicesimo secolo, in seguito alla volontà del papato
romano di liberarsi dalla tutela dei grandi signori laici. Uno dei punti fermi della lotta contro le
investiture fu proprio la “libertà della Chiesa” anche in termini giurisdizionali. Papi come Alessandro III (1159-1181) e Innocenzo III (1198-1216) estesero alle autorità
ecclesiastiche tutte le cause civili e criminali riguardanti il clero, lasciando alle autorità civili il diritto di giudicare le cause di natura feudale. Nacquero così nuovi gravi conflitti con i poteri laici che tentarono
sovente di opporsi, giungendo in molte regioni dell’Europa medievale
a una sorta di compromesso. Si distinse infatti tra la deposizione e la degradazione dei chierici colpevoli dei più gravi delitti. La deposizione, che
non comportava la perdita dei privilegi, fu riservata alla giustizia ecclesiastica. Con la deposizione si sanzionavano crimini come la lussuria. La degradazione, ancora più severa, veniva invece decisa anche da giudici laici. Il
rituale prevedeva che con un coltello o un vetro si raschiasse la pelle delle dita del chierico (che servono a consacrare l’Eucarestia) e si scalfisse con delle
forbici la tonsura (simbolo della sua dignità). L’esecuzione della sanzione finale (generalmente il rogo) spettava all’autorità civile.
Come ebbe ad affermare Gregorio VII (1075-1084), «il papa non poteva essere giudicato da nessuno» (Dictatus pape). Soltanto in caso di eresia, poteva
però essere deposto da un concilio. Ed è proprio per farlo deporre da un concilio che Guglielmo di Nogaret, in compagnia di Sciarra Colonna, catturò ad Anagni (settembre 1303) papa Bonifacio VIII (1294-1303) cui aveva rivolto fin dal 1302
gravissime accuse, come quella di adorare gli idoli, di essersi dato a pratiche magiche e quant’altro. Accuse storicamente insostenibili ma che avrebbero permesso al re di Francia di trasformare il concilio parigino in un vero e proprio tribunale.
L’affermarsi del diritto canonico medievale, e poi il Concilio di Trento, confermarono l’eccezionalità delle prerogative giurisdizionali ecclesiastiche, dovendo però
sempre fare i conti con forti resistenze e tradizioni locali. Del resto, anche il Codice di
diritto canonico del 1917 prevedeva la possibilità di deroghe locali che tra Otto e Novecento furono sovente oggetto di negoziati concordatari.
I
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SACRE LAPIDI
In questa pagina
in alto, le tombe
dei cardinali
Van Roey
e Suenens
nella cripta
della cattedrale
di Saint-Rombaut
a Mechelen;
sotto, immagini
della cattedrale
e ancora Danneels
e Leonard
Repubblica Nazionale
34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 4 LUGLIO 2010
CULTURA*
Tra mappe celesti
e teatri della memoria
GABRIELE PANTUCCI
l Tempio del tempo (Temple of Time) realizzò in America
nel 1846 quello che l’umanista italiano Giulio Camillo Delminio (1480-1544) avrebbe voluto realizzare tre secoli prima. Delminio aveva ideato il Teatro della memoria: che in modello ligneo avrebbe contenuto l’impronta mnemonica di tutta la conoscenza universale. Lo spettatore, dal centro del palcoscenico avrebbe appreso i principi del neoplatonismo, del
mito, dell’astrologia... ogni componente dello scibile. Li
avrebbe ricordati grazie alle rispettive posizioni: su un gradino, in una nicchia, sul soffitto... perché noi siamo predisposti
a ricordare le cose nel contesto del luogo, come aveva scritto
Cicerone. Un’educatrice americana, Emma Willard, grazie ai
suoi studi classici aveva ricordato il principio, realizzandolo
sulla grande tavola del Tempio del tempo con la proiezione tridimensionale della cronografia storica. Le colonne a destra
coi secoli nel vecchio mondo: decorate dai nomi dei grandi che
li avevano dominati. Quella dimezzata del secolo in corso indicava già Napoleone nella sua parte inferiore. Sulla sinistra
quelle del nuovo mondo. Le cinque lunghe corsie del soffitto
erano carte biografiche: statisti, filosofi e inventori, teologi,
poeti e pittori e guerrieri. Sul pavimento la carta dello scorrere storico del tempo. La tavola, in colori brillanti su sfondo nero, ebbe successo e molti studenti americani avrebbero ricordato per il resto delle loro vite le successioni storiche grazie all’intelligente concatenazione.
Lo spirito pratico del diciannovesimo secolo si profuse nella creazione di strumenti che contribuissero alla diffusione del
sapere rispondendo all’antico quesito: come si rappresenta il
tempo? I greci incidevano sulle lapidi il succedersi delle Olimpiadi, i romani quello dei consoli, mentre ebrei e persiani elencavano i re. Soltanto nel quarto secolo il teologo cristiano Eusebio di Cesarea stese la prima linea del tempo. Due storici
americani — Anthony Grafton della Princeton University e
Daniel Rosenberg della University of Oregon — hanno osservato che i problemi formali e storici posti dalle rappresentazioni grafiche del tempo sono stati largamente ignorati. Col
volume Cartographies of Time: A History of the Timeline(Princeton Architectural Press: www.papress.com), ricco di riproduzioni, hanno documentato quanto di più significativo si è
fatto dal Medioevo. Il New York Timeslo ha già definito «il libro
più bello dell’anno». Dal monaco Hermann Rolewinck (Colonia 1502) che per primo sviluppò una cronaca del mondo in
forma di codice di genealogia all’umanista tedesco Petrus
Apianus (1495-1552) che creò una sorta di “computer astronomico”, al domenicano Giovanni Maria Tolosani che introdusse nel 1537 prove astronomiche nelle sue tavole cronologiche. Ma è negli ultimi duecentocinquanta anni che si è sviluppata soprattutto in America una mini industria della riproduzione del tempo. Dalle mappe dell’atlante storico di
Edward Quin, ai giochi di carte, al ventaglio di James Ludlow,
fino all’umoristica interpretazione di Francis Picabia. Non va
ignorato il Mark Twain’s Memory Builder che lo scrittore creò
e fece brevettare per irrobustire la memoria dei connazionali .
I
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Gli antichi greci ricordavano
il succedersi delle Olimpiadi, i romani
i governi dei consoli. Persiani
ed ebrei elencavano i loro re
Rappresentare lo scorrere
dei secoli è stato da sempre
uno degli assilli dell’uomo
Adesso, un gruppo di storici
delle università di Princeton
e dell’Oregon raccoglie e
analizza per la prima volta
ATLANTI
A sinistra e in basso, la carta
di Richard C. Shimeall
Sotto, l’atlante storico
di Edward Quin; lungo
le due pagine, la carta
cronologica di Adamns (1878)
in un volume gli esperimenti
di cartografia cronologica
realizzati dal Medioevo
al Novecento
Disegnare
Tempo
il
I
l tempo è un enigma. Ogni popolazione, ogni cultura,
ogni civiltà se ne sono fatte una figurazione. Noi occidentali, che abbiamo le nostre radici nella grecità e nella tradizione giudaico-cristiana, abbiamo elaborato sostanzialmente tre concezioni del tempo, riferite rispettivamente alla natura, all’uomo, a Dio.
1. I greci, che considerano la natura come quell’oriz-
Storia occidentale
di un enigma
UMBERTO GALIMBERTI
zonte immutabile che, al dire di Eraclito, «nessun uomo
e nessun dio fece», elaborano una prima figura del tempo che chiamano «ciclico», e che noi possiamo immaginare come successione delle stagioni dell’anno — primavera, estate, autunno, inverno e poi il ciclo ricomincia — o come successione delle stagioni della vita: nascita, crescita, maturità, vecchiaia, morte, perché la natura necessita della morte dei singoli individui affinché
altre vite possano vivere. Nel tempo ciclico non c’è futuro che non sia la pura e semplice ripresa del passato.
E perciò i vecchi che hanno visto più cicli, sono per questo i depositari del sapere.
2. Accanto al tempo ciclico della natura i greci individuano anche quel tempo tipico dell’uomo che anticipa
degli scopi e si propone di raggiungerli. Chiamano questo tempo «scopico», da skopéoche significa «guardare,
avendo ben in vista il bersaglio che si vuol raggiungere».
Anche le parole italiane: micro-scopio, tele-scopio, endo-scopia, ribadiscono la qualità di questo sguardo che
tende a uno scopo. Il tempo scopico, che possiamo
chiamare anche “progettuale”, perché l’uomo pro-getta, getta innanzi, anticipa lo scopo che vuole raggiungere, non guarda il passato, ma il futuro. Non un futuro
lontano, ma un futuro prossimo, perché solo la prossimità traduce le cose in “mezzi” e in “fini”. Infatti, se dispongo di denaro sufficiente per comprare una casa,
ma sul mercato non ci sono case, quel denaro non è un
“mezzo” per comprare una casa; allo stesso modo se ci
sono case, ma non denaro per acquistarle, quelle case
non sono un fine, ma un sogno. Perché qualcosa sia
mezzo e qualcosa sia scopo è necessario che i due siano
temporalmente vicini, per cui il tempo scopico è un
tempo breve, oggi e domani. È il tempo tipico della tecnica, che si propone di raggiungere il massimo degli scopi con l’impiego minimo dei mezzi.
3. La tradizione giudaico-cristiana introduce nella
cultura occidentale una figura del tempo assolutamen-
Repubblica Nazionale
DOMENICA 4 LUGLIO 2010
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35
CRONOLOGIE
Da sinistra, una cronologia del 1475;
lo stereogramma di Luigi Perozzo (1879);
il New Game of Universal History di Wallis (1840)
Quando
è iscritto
in un disegno,
il tempo
acquista un senso,
e
e quando il tempo
è fornito di senso,
nasce la “storia”
Non c’è infatti
nel tempo ciclico
che ripete se stesso,
e neppure
in quello progettuale
che si esaurisce
nel raggiungimento
dello scopo
te imprevista dalla cultura greca. Si tratta del tempo
«escatologico» dove alla fine (éschaton) si realizza quello che all’inizio era stato annunciato. A differenza del
tempo ciclico e di quello progettuale, il tempo escatologico iscrive la temporalità in un “disegno” che va dall’origine alla fine del mondo. Quando è iscritto in un disegno, il tempo acquista un “senso”, e quando il tempo è
fornito di senso, nasce la “storia”. Non c’è infatti storia
nel tempo ciclico che ripete se stesso, e neppure nel
tempo progettuale che si esaurisce nel raggiungimento
dello scopo.
Il cristianesimo, annunciando all’uomo una sopravvivenza ultraterrena, ha immesso nella cultura occidentale un’enorme carica ottimistica investita sul futuro. Per il cristianesimo infatti il passato è male (colpa originaria), il presente è redenzione, il futuro è salvezza.
Questa differenza qualitativa delle figure del tempo la
ritroviamo pari pari nella scienza, per la quale il passato è ignoranza, il presente è ricerca, il futuro è progresso. Lo stesso si può dire per la sociologia prima illuminista e poi marxista, per le quali il passato è ingiustizia, il
presente rivoluzione, il futuro giustizia sulla terra. Così
ragiona la psicoanalisi: il passato è trauma o nevrosi infantile, il presente è analisi, il futuro è guarigione.
Tutto è cristiano in Occidente, perché, in ogni sua
espressione, questa cultura è percorsa da una carica ottimistica orientata al futuro, promossa dall’annuncio
della salvezza, di cui il progresso scientifico, la giustizia
sociale, la guarigione della malattia sono le sue figure
laicizzate. Ne consegue che
quando papa Ratzinger invoca
il riconoscimento delle radici
cristiane dell’Occidente, a mio
parere chiede troppo poco, perché
non solo le radici, ma il tronco, i rami, le foglie, i frutti, tutto è cristiano
in Occidente, per effetto della concezione escatologica del tempo, dove alla fine si realizza quello che all’inizio
era stato promesso.
Ma Nietzsche, circa un secolo e mezzo orsono, ha annunciato che «Dio è morto». Che significa? Significa che se nel Medioevo l’arte è sacra, la letteratura è inferno, purgatorio, paradiso, persino la donna è donna-angelo, Dio è vivo, perché
crea un mondo che non riuscirei a capire se
togliessi la parola “Dio”. Ma se tolgo la parola “Dio” dal mondo contemporaneo, lo capisco ancora? Direi di sì. Non lo capirei se togliessi la parola “denaro” o la parola “tecnica”. Ciò significa che Dio è morto, che il mondo accade a prescindere da Dio. E, con la morte di Dio, muore la visione ottimistica sul futuro che rintracciamo in ogni
espressione della storia d’Occidente. Dove si vede che
la fisionomia delle civiltà dipende rigorosamente dalla
concezione che esse si sono fatte del tempo.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
IL GIOCO
Da sinistra, il Tempio del tempo
di Emma Willard; gioco da tavolo
del XIX secolo; il codice di Pietro Apiano
Le immagini sono tratte da Carthographies
of Time (Princeton Architectural Press)
Repubblica Nazionale
36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 4 LUGLIO 2010
SPETTACOLI
Stavolta a parlare è lei. Esce per la prima volta in Italia
quella che è considerata l’unica autobiografia della Monroe
Raccolte dallo scrittore Ben Hecht, ci sono le confessioni
di una diva nel pieno del suo fulgore. È il racconto dell’attrice che, negli anni Cinquanta,
sposa felice di Joe DiMaggio, vive le luci di Hollywood con disincanto. Tra i lustrini
e la fama, affiora l’ombra di un’infanzia di rifiuti, vissuta con troppe famiglie e poco amore
Autoritratto di una bambina triste
CLAUDIA MORGOGLIONE
a un punto di vista clinico, il libro autobiografico di Marilyn
Monroe è il perfetto ritratto di una schizofrenica. Lucidamente consapevole di essere divisa in due. Da un lato c’è la stella del
cinema, oggetto perenne di attrazione maschile e «paura sessuale femminile» (la definizione è sua); dall’altro, indicata sempre col vero nome di battesimo, c’è Norma Jean, la bambina vissuta in ben nove famiglie affidatarie, affamata di cibo e d’amore. «Un fenomeno da circo», «un ninnolo smarrito», «un gatto randagio»: lei si descrive così, in
un misto di pietà e rabbia sottile. Ma La mia storia, pubblicato adesso per la
prima volta in edizione italiana da Donzelli, non è solo la testimonianza in presa diretta della doppia vita dell’attrice, scomparsa nell’agosto del 1962 in circostanze mai chiarite. È un’analisi spietata su Hollywood, «un posto dove ti pagano mille dollari per un bacio e cinquanta centesimi per la tua anima»; è un
percorso che attraversa passaggi clou della storia americana, dalla Seconda
guerra mondiale al maccartismo; ed è un racconto che contiene una inquietante autoprofezia: «Avevo qualcosa di speciale e sapevo cos’era. Ero il tipo di
ragazza che trovano morta in una camera da letto con un flacone vuoto di sonniferi in mano».
Pubblicato negli Usa nel 1974 e poi nel 2000, corredato da 47 immagini (alcune inedite) del fotografo Milton H. Greene, il libro raccoglie le confidenze
che la Monroe, a metà degli anni Cinquanta, dettò a un ghostwriter di lusso:
Ben Hecht, autore della commedia teatrale Prima pagina, sceneggiatore di
film come Notoriuse A qualcuno piace caldo. Una presenza discreta, la sua. Anche se certe immagini raffinate tradiscono la mediazione di uno specialista:
quando ad esempio la Monroe descrive la sua iniziale «mancanza di talento
come un abito scadente che indossavo dentro», il contributo di uno scrittore
si sente. Resta però lei, la protagonista assoluta. Soggetto attivo della narrazione, e non semplice oggetto come nelle decine di titoli, molti anche italiani,
che le sono stati dedicati nel corso del tempo. Fra i tanti, bisogna ricordare almeno Marilyn di Norman Mailer, il romanzo Blonde di Joyce Carol Oates
(Bompiani), o la biografia dello specialista hollywoodiano Donald Spoto.
E proprio Hollywood è la grande protagonista della Mia storia. Anche se l’attrice, all’apice del successo, non attacca mai direttamente, con nomi e cognomi, i pezzi grossi del cinema. Alla faida stile Eva contro Eva con Joan Crawford,
però, è dedicato un intero capitolo: «Mi suggerirono di perdonare una donna
che un tempo era stata giovane e seducente», chiosa lei con sottile perfidia. Eppure l’autobiografia, anche nelle piccole furbizie o reticenze, trasuda verità.
Non solo descrivendo meccanismi dello showbiz ancora attualissimi — con
cui ad esempio un vecchio calendario senza veli trasforma la stellina emergente Marilyn in superstar. Ma anche raccontando un’infanzia durissima: orfanotrofio, mamma in manicomio, papà inesistente, girandola di famiglie affidatarie. La Monroe ripete più volte di non voler dimenticare il passato: «Questa bambina triste e amareggiata, cresciuta troppo in fretta, difficilmente
uscirà dal mio cuore. Nonostante tutto questo successo, posso avvertire i suoi
occhi spaventati che si affacciano dai miei».
C’è poi il capitolo amori. Su cui l’attrice è abbastanza abbottonata. Con
un’unica eccezione: Joe DiMaggio. L’entusiasmo con cui ne parla è legato al
fatto che le sue conversazioni con Ben Hecht coincidono col matrimonio con
il campione di baseball. Perché poi, come sappiamo, arriveranno il divorzio e
le nuove, infelici nozze con Arthur Miller. Nessun accenno — come ovvio — ai
membri del clan Kennedy che negli anni seguenti l’avrebbero conosciuta molto da vicino: né Jfk, né Bobby, che in seguito molti accuseranno di essere coinvolto nella sua scomparsa, archiviata come «probabile suicidio».
Ma oltre a La mia storia esiste anche un’altra testimonianza diretta, in cui
l’attrice parla di sé senza filtri. È il docufilm Marilyn Dernières Séances, diretto
da Patrick Jeudy, tratto dal libro Marilyn. Gli ultimi giorni di Michel Schneider
(Bompiani), passato recentemente al Biografilm Festival di Bologna. E in cui
si possono ascoltare i famosi nastri audio dei colloqui tra la star e lo psicoanalista hollywoodiano Ralph Greenson. I due erano legati da un rapporto morboso: lui fu l’ultimo a vederla viva e il primo a trovarla senza vita, ed è stato sempre sospettato di essere implicato nella sua fine. Nelle registrazioni, mai autenticate ufficialmente, udiamo la voce stentata, sottile e disperata della donna che di lì a poco sarebbe morta: «Vorrei scomparire nell’immagine. E fuori
dall’immagine…».
D
IL LIBRO
La mia storia di Marilyn
Monroe, in uscita
per Donzelli (traduzione
di Andrea Mecacci,
224 pagine, 19 euro)
contiene le confessioni
della più grande diva
americana, scomparsa
nel 1962, raccolte
dallo sceneggiatore
Ben Hecht negli anni
Cinquanta. Il libro
è illustrato da 47 scatti
(alcuni rari) di Milton
Greene, fotografo
e amico fraterno
di Marilyn
La prefazione
è affidata al figlio
di Greene, Joshua
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Repubblica Nazionale
DOMENICA 4 LUGLIO 2010
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37
‘‘
Gli uomini
PHOTOGRAPHS BY MILTON H. GREENE © 2010 JOSHUA GREENE
Capitava
che gli uomini
non si
scomodassero
a scoprire
chi fossi
Inventavano
al mio posto
un personaggio
Stavano
amando qualcuno
che non ero io
Meno sono me stessa
più Norma Jean è felice
MARILYN MONROE
o tante cattive abitudini in società. La gente mi rimprovera sempre per questo. Agli appuntamenti sono immancabilmente in ritardo, a volte anche di due ore. Ho
provato a cambiare questi miei modi, ma i motivi che mi fanno
ritardare sono troppo forti e troppo piacevoli. Quando devo essere da qualche parte per cena alle otto, me ne rimango nella vasca da bagno per un’ora e più. Si fanno le otto e io sono ancora
nella vasca. Continuo a versare essenze profumate nell’acqua,
lascio scorrere l’acqua e riempio la vasca con acqua fresca. Mi dimentico che sono le otto e che ho un appuntamento a cena. Mi
perdo nei miei pensieri e mi sento lontana da tutto.
A volte so il vero motivo di quello che faccio. Nella vasca non
c’è Marilyn Monroe, ma Norma Jean. Sto facendo un regalo a
Norma Jean. Lei doveva farsi il bagno con dell’acqua che era stata usata da sei o otto persone. Adesso può farsi il bagno in un’acqua limpida e trasparente come una lastra di vetro. E sembra che
Norma non ne abbia mai abbastanza di quell’acqua limpida che
profuma di essenze vere.
C’è anche un’altra cosa che mi «aiuta» a ritardare. Quando esco
dalla vasca passo molto tempo a stendere la crema sulla pelle. Mi
piace moltissimo farlo. E a volte se ne va, felicemente, un’altra ora.
Quando finalmente mi vesto mi muovo più lentamente che posso. Inizio a sentirmi un po’ colpevole perché sembra che ci sia un
impulso che mi fa essere il più possibile in ritardo per l’appuntamento. C’è qualcosa in me che è felice quando sono in ritardo.
La gente mi aspetta. La gente è ansiosa di vedermi. Sono desiderata. E mi ritornano in mente gli anni in cui non lo ero. Le centinaia di volte nelle quali nessuno voleva vedere la piccola servetta, Norma Jean, nemmeno sua madre. Provo una strana soddisfazione nel punire le persone che ora mi vogliono. In realtà non
sto punendo loro, ma tutte quelle persone del passato che non volevano Norma Jean. Quello che provo non è soltanto una punizione. Mi emoziono come se io fossi Norma Jean che va a un party
e non Marilyn Monroe. Meno sono io, più Norma Jean è felice.
La gente mi disapprova per questo mio essere una ritardataria cronica. Mi riprendono e mi spiegano che lo faccio perché voglio sembrare importante e fare un’entrata spettacolare. Questo
in parte è vero, tranne che a desiderare di essere importante non
sono io, ma Norma.
Le mie pecche mondane come questa, e anche la mia incapacità di ridere tutto il tempo a una festa come se stessi svenendo
dalla gioia o di stare a chiacchierare come un pappagallo con altri pappagalli, mi sembrano meno importanti di quelle che noto negli altri. [...]
Le feste di Hollywood non solo mi confondono, ma spesso mi
deludono. La disillusione scatta quando incontro una star che
ammiro da quando ero bambina.
Ho sempre pensato che le stelle del cinema fossero persone
eccitanti, di talento, dalla grandissima personalità. Quando ne
incontro una a una festa di solito scopro che, uomo o donna che
sia, è scialba e persino spaventata. Ci sono stati party nei quali
me ne sono rimasta in silenzio per ore ascoltando i miei idoli
mentre si tramutavano in persone sciocche e meschine.
Traduzione di Andrea Mecacci © 2010 Donzelli editore
H
LE FOTOGRAFIE
Gli scatti che pubblichiamo, tratti da La mia storia,
furono realizzati da Milton Greene tra il 1953 e il 1957
Nella foto qui sopra, Marilyn si prepara per una serata
newyorchese. A destra, la Monroe è ritratta in una pausa,
nel periodo della lavorazione di Fermata d’autobus. La foto sopra,
in bianco e nero, mostra la diva all’Hotel Pierre di New York
‘‘
Lo star system
Hollywood
è un posto
dove ti pagano
mille dollari
per un bacio
e cinquanta
centesimi
per la tua anima
Ho rifiutato spesso
la prima proposta
e resistito davanti
a quei cinquanta
centesimi
Repubblica Nazionale
38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 4 LUGLIO 2010
i sapori
Color nostalgia
Camillino, Cornetto, Cremino, Croccante, Coppa del nonno
Nomi che si sentivano al Carosello o si leggevano
sui cartelloni di latta negli anni Sessanta,
quando l’Italia scopriva le ferie e l’ozio da spiaggia
Mezzo secolo dopo cambiano le esigenze, sempre più bio
e dietetiche, ma il fascino del “confezionato” resiste
*
L’ANNIVERSARIO
Compie cinquant’anni, il principe dei cornetti-gelato,
creato nel 1960 dalla Algida, fabbrica fondata a Roma
nel 1945. Una storia lunga e felice, supportata
da campagne di lancio che hanno fatto la storia
del marketing televisivo, dalle gag di Rita Pavone
alle seduzioni di Patty Pravo
Per celebrare l’anniversario, uno spot
che riassume mezzo secolo
di sorrisi, baci e jingle pubblicitari
Coppa del nonno
Cremino
La regina delle coppe gelato
vanta un gusto
così suadente e caratteristico
da aver sedotto successive
generazioni di golosi,
cambiando poco
o nulla del suo status
originario di delicato
semifreddo al caffè
Tanti nomi (Pinguino,
Ricoperto, Mottarello...)
per il prototipo del gelato
da passeggio al gusto
crema e copertura
di cacao magro supportato
da uno stecco di legno,
nato nell’immediato
dopoguerra
LICIA GRANELLO
«S
tate a veder che fa Chitarra Joe!», esclamava un Giorgio Gaber ragazzo sotto il cappellone da cow-boy nel Carosello del Camillino Eldorado, il padre di tutti i gelati-biscotto. In un tourbillon di personaggi famosi (da Nada a Lia Zoppelli) e amatissimi cartoni animati (Cocco
Bill, Toto e Tata) la pubblicità dei gelati confezionati piaceva e faceva
vendere. Erano gli anni Sessanta, l’Italia scopriva le vacanze al mare,
gli ombrelloni e i baracchini sulla spiaggia. Il gelato da scegliere sul tabellone di latta era un segno di modernità, le nuove creazioni una tentazione facile da soddisfare, il fattore nutrizionale un plusvalore destinato a scemare nel tempo fino a sconfinare vent’anni dopo nell’handicap (il gelato fa ingrassare).
Estate con lo stecco da passeggio
Dove comprare
MILANO
ROMA
FROZEN YOGURT
Via Ravizza 5
Tel. 02-48010917
AL SETTIMO GELO
Via Vodice 21
Tel. 06-3725567
GAZZO (PD)
VICO EQUENSE (NA)
GOLOSI DI NATURA
Via Vittorio Emanuele 22
Tel. 049-9426264
GELATERIA GABRIELE
Corso Umberto Primo 5
Tel. 081-8798744
SALSOMAGGIORE (PR)
MOTTOLA (TA)
GELATERIA SANELLI
Piazza del Popolo 21
Tel. 0524-574261
LA CREMERIA
Via Palagianello 128
Tel. 099-8862229
BOLOGNA
NOTO (SR)
IL GELATAURO
Via Emilia Levante 147
Tel. 051-540892
CAFFÈ SICILIA
Corso V. Emanuele III 125
Tel.0931-835013
FIRENZE
CAGLIARI
CARAPINA
Via Lambertesca 18/r
Tel. 055-291128
IL GELATO ARESU
Corso V. Emanuele 244
Tel. 070-684646
Mezzo secolo dopo i primi successi “ever-ice” — cominciati col
Mottarello su su fino al Calippo, la Coppa Olimpia, la Bomboniera e
tutta la serie dei Croccanti — i gelati in serie continuano a piacere maledettamente, in un mix di nostalgia e moda, ansie retrò, gusti nuovissimi, con tanto di siti e profili sui social network, dedicati da una
parte alle creazioni d’antan e dall’altra alle ricette più rigorose, latte
bio in primis. Due mondi che si toccano cercando di non sovrapporsi mai, se è vero che l’equazione estate-gelati si scompone in due grandi famiglie gastronomiche: prodotti industriali e realtà artigianali.
Che a loro volta si frammentano in cento approcci qualitativi differenti, grazie a una normativa a dir poco mediocre.
La battaglia tra sciolti e confezionati è lunga più di un secolo: da una
parte, le preparazioni casalinghe, dall’altra i primi tentativi di trasformare il latte in eccesso — ancora non esistevano le quote-latte —
in qualcosa di appetibile al di là del formaggio e la frutta supermatura in altro dalle composte. I due piani — fai da te e automatizzato —
hanno corso affiancati, senza mai perdersi di vista, a volte rincorrendosi, a volte marcando la distanza. In scia a loro, esperti, dietologi e
nutrizionisti hanno cercato di trovare il buono negli uni e negli altri.
Perché un gelato incartato è considerato un attestato incontrovertibile di igiene alimentare, esattamente come la tecnica della “soffiatura” abbatte la quota calorica. Sicuro, economico, poco ingrassante: che altro chiedere a un gelato?
Sul fronte opposto, i migliori artigiani vengono difesi e promossi
nel buon nome di latte e frutta freschi e nessun additivo chimico: come dire, perfetti per una merenda sana. Tra i due estremi, la vasta produzione finto-artigianale, dato che la legge consente a chiunque elabori il gelato tra le mura del proprio laboratorio-rivendita — anche
solo miscelando acqua e preparati in polvere — di battezzarlo come
artigianale. Se i gioielli dell’Unilever (proprietaria di Algida e di un’altra trentina di marchi sparsi in tutto il mondo) e i coni da passeggio vi
lasciano tiepidi, mantecate nel turbomix una miscela di zucchero,
panna e caffè liofilizzato (più un uovo, facoltativo). Dopo qualche ora
di frigorifero ritroverete la coppa del nonno della vostra infanzia.
Astenersi sovrappeso.
Menta bianca
Infusione a freddo di menta
piperita bianca fresca,
per il gusto più aromatico
dell’estate. L’abbinamento
con il latte è memoria
d’infanzia. Nella ricetta
più golosa, anche chips
di cioccolato fondente
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Repubblica Nazionale
DOMENICA 4 LUGLIO 2010
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39
1851
1949
a Baltimora nasce
il primo gelato industriale
160
in Italia nasce
il Fiordilatte Motta
le calorie contenute
in un gelato-biscotto
Ghiacciolo
Camillino
Economico, dissetante,
poco calorico, realizzato
in un arcobaleno di gusti,
dal limone all’anice,
dalla menta al lampone
La variante più golosa
prevede una pallina
di gelato o sorbetto
sulla superficie
Creato dalla Eldorado
nel 1963, il gelato
fra due biscotti al cacao
(suoi parigrado, lo Zatterino
e il Cucciolone) aveva come
testimonial Cocco Bill,
ideato da Jacovitti,
con il motto: bastano
quattro passi in più
Castelli di sabbia e calcio balilla
i mille usi del mottarello
MICHELE SERRA
l mottarello (con la minuscola, come aspirina, come nutella, come moka:
sono nomi propri che hanno l’onore di diventare nomi comuni, ed è una
promozione sul campo) è uno dei pochi prodotti trans-generazionali che
sfidano i tempi e le mode, diventano archetipi, se ne infischiano delle tendenze e della mutevolezza dei gusti di massa. I più lo chiamano mottarello, non a
caso, anche quando è di marca difforme, e malgrado industrie private e parastatali si siano ingegnate di offuscarne la fama o migliorarne il design, chiaramente non migliorabile...
Questo imperituro successo gli è arriso nonostante un problema strutturale (ignoro se risolto dalle nuove tecnologie) assolutamente notevole: la copertura di cioccolata collassava nella sua parte inferiore, scendendo lungo il bastoncino di legno e lasciando colare il fiordilatte, che si scioglieva al sole dell’estate. La colata del fiordilatte seguiva un percorso molto articolato: bastoncino di legno, mano del bambino, avambraccio del bambino, gomito e infine
maglietta e pantaloni, se si era vestiti; fianco o gambe se si era in costume. Solo una parte del mottarello era destinata a essere mangiata. Un’altra parte, variabile a seconda della voracità del bambino e della sua goffaggine, finiva dispersa nell’ambiente, appiccicata alla pelle o restituita alla natura. Era un incidente dallo sviluppo lento, ma inarrestabile: il bambino sporco di mottarello è un classico da spiaggia e da lungomare. Non so se siano mai stati fatti studi comparati sulle cedevolezza dei coni raffrontata a quella dei mottarelli: per
mia esperienza, il mottarello era imbattibile, anche perché al primo collasso
del basamento di cioccolata ne seguivano altri lungo le pareti, che si disfacevano in larghe scaglie. Molte di queste cadevano per terra, altre riuscivano a
essere ingoiate intere dai bambini più esperti un attimo prima di staccarsi e
precipitare sul giornale del padre.
Ma il vero segreto del mottarello era la sua totale riciclabilità, in anticipo sui
tempi e sulla coscienza ambientale. La sua anima di legno, accuratamente leccata, serviva per un’infinità di giochi da spiaggia: decorazione di castelli di sabbia, fragile confine di uno di quei misteriosi territori che i bambini tracciano
sul bagnasciuga cercando di calcolare la risacca, o infisso su quei montarozzi
di sabbia che si affettano a turno con le mani cercando di non fare cadere il bastoncino e venire squalificati. Infine, e soprattutto, trucco ignobile per giocare gratis a calcio balilla: tagliato esattamente a metà, il bastoncino del mottarello era della lunghezza giusta per bloccare il tirante di plastica e ferro che regolava la discesa delle palline. Con il tirante bloccato, le palline continuavano
a scendere senza doverci mettere altre cento lire. Ricordo una partita finita 100
a 95, durata fino al tramonto, interrotta dal bagnino che sequestrò il mezzo bastoncino e ci infamò davanti a madri e padri increduli di avere allevato dei piccoli truffatori. Chissà se i bambini di oggi si divertono ancora con così poco.
I
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Pecorino
Fico
Sorbetto di cioccolato
Fragolino
Solo formaggi d’autore
nell’interpretazione gelatiera
degli artigiani che sanno
tenere i sapori in bilico
tra dolce e salato. Da gustare
con un bicchiere di birra
artigianale o una pallina
di gelato al melone
Dolce senza slabbrature,
seducente
ma non eccessivo
Nella mantecatrice,
frutti maturi, acqua
e pochissimo zucchero
(meglio ancora miele)
per bilanciare la pastosità
Per intolleranti al latte
e nemici del colesterolo,
la sfida (vinta) di mixare acqua
e cacao, come nelle mousse
più leggere. I gelatieri virtuosi
utilizzano il fruttosio,
lo zucchero della frutta ad alto
potere dolcificante
Se il vino di uva fragola
(o americana)
è una trasgressione
commerciale (l’Ue consente
l’uso della vitis labrusca solo
per produzioni familiari)
il gelato di uva da giardino
è profumato e dissetante
Repubblica Nazionale
40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
le tendenze
Non solo pin-up
DOMENICA 4 LUGLIO 2010
Lisce, levigate, scolpite, toniche. Non ci sembrano
mai perfette. I nemici da battere sempre quelli:
smagliature, capillari, macchie
E soprattutto, l’ostinata e onnipresente cellulite
Ecco come cosmetici e trattamenti possono aiutare,
ma a patto di seguire un sano stile di vita
Gambe
Il pensiero fisso (delle donne)
LAURA LAURENZI
L
isce e levigate, senza nessuna imperfezione. Perfettamente toniche, scolpite, senza un filo di grasso,
senza ombra di buccia d’arancia. Depilate dall’alluce all’inguine, la famosa “depilazione bikini”, senza
macchie, senza efelidi, senza traccia violacea di capillari. Ginocchia levigate, caviglie sottili, cosce sode, piedi ammorbiditi con appositi scrub e unghie
scintillanti di French pedicure. Gambe da pin-up,
gambe da fotografie di moda, gambe massimo oggetto del desiderio: non solo e non tanto quello maschile legato alla seduzione, quanto il desiderio
femminile. Desiderio nel senso di massima aspirazione. Le gambe sono la parte del corpo di cui le donne sono più insoddisfatte, che scatena in loro — più
del seno, più del viso, più del fondoschiena — un
drammatico senso di inadeguatezza. E allo stesso
tempo sono, e continuano a essere in ogni sondaggio di stagione, l’elemento femminile che più colpisce l’uomo, più lo seduce, lo intriga, lo attrae.
Un’inflazione di nudo, di libero, di esposto. Sempre meno però le gambe sono utilizzate come arma
letale di un supremo arsenale feticista; all’opposto,
sono curate, esibite, depilate con la luce pulsata,
idratate, liposcolpite in chiave fitness, come accessorio, strumento, emblema, lasciapassare di vita
sana e salutare. Un atteggiamento che tendenzialmente intimidisce l’uomo, propenso a passare sopra più di un’imperfezione, a essere indulgente, a
non pretendere: la donna d’inverno è meglio, come
canta Paolo Conte, «è tutta più morbida e pelosa,
ma anche afgana, algebrica e pensosa...».
Ma se è vero che le donne si vestono, e dunque si
curano, più per le altre donne, o al massimo per se
stesse, che non per gli uomini, questa corsa ad armarsi di gambe spettacolari — a cancellare le smagliature, levigare i cuscinetti, drenare i liquidi, snellire, elasticizzare, decongestionare — appare soprattutto come un atto di narcisismo estremo, di
autogratificazione quotidiana da vivere davanti allo specchio.
Per le adolescenti il problema numero uno sono le smagliature, per le trentenni la cellulite, dopo i quaranta quasi sempre i capillari come sottolinea Norma Cameli,
responsabile dell’ambulatorio di dermatologia
estetica dell’ospedale San Gallicano a Roma: «Oltre
l’ottanta per cento delle donne soffre di cellulite.
Anche quelle magre: è una predisposizione genetica. Per prevenirla bisognerebbe adottare uno stile
di vita più sano, un regime dietetico bilanciato a
basso contenuto di sodio per ridurre la ritenzione
idrica. No all’alcol, al fumo, ai superalcolici. Limitare i grassi saturi, privilegiare gli alimenti che riducono il gonfiore e proteggono i capillari, come l’ananas, gli asparagi, i frutti di bosco». E anche bere
molto. «Sì, ma senza esagerare per non affaticare i
reni. Non più di un litro e mezzo al massimo due litri al giorno. Indispensabile l’attività fisica: corsa,
bicicletta e soprattutto nuoto lo sport più indicato».
È vero che i tacchi bassi possono essere nocivi?
«Sì, non solo quelli alti naturalmente, ma anche
quelli bassi — afferma Norma Cameli — L’ideale è
quattro centimetri. Quanto alle creme anticellulite, funzionano soprattutto quelle a base di caffeina,
carnitina, centella asiatica, perché stimolano, drenano e forniscono ossigeno ai tessuti. Ma vanno
applicate con costanza e con massaggi approfonditi, due volte al giorno. Ricordiamoci però che in
dermatologia estetica i miracoli non esistono, e
niente è per sempre». Nella lotta ai capillari è sempre più diffuso il laser: “È ottimale perché li cancella. Però il vaso si può riformare. Un consiglio fondamentale, per chi soffre di capillari dilatati, è di
evitare tutte le forme di calore. In spiaggia bisognerebbe stare poco al sole, e rinfrescarsi spesso le
gambe». E le smagliature? «Una volta che si sono
formate, sono delle vere e proprie cicatrici ed è impossibile mandarle via del tutto. Per quelle più
profonde si può tentare con la microchirurgia, per
quelle più piccole con i peeling esfolianti».
RIGENERANTE
Un elisir
di giovinezza
per la pelle
dei piedi: nutriente,
levigante,
rigenerante
dai talloni
alle unghie
Clarins
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Repubblica Nazionale
DOMENICA 4 LUGLIO 2010
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41
NUTRIENTE
Un concentrato
di oli preziosi
da applicare
tutti i giorni
per dare luminosità
e morbidezza
alla pelle secca
Biotherm
RASSODANTE
Un latte che rigenera
la pelle, aumentando
tono, elasticità
e compattezza
Formula potenziata
con coenzima Q10
Nivea
BIOLOGICA
Gel che dona leggerezza
e senso di freschezza
alle gambe gonfie
e affaticate, soprattutto
a fine giornata
Prodotto con ingredienti
vegetali naturali
Ruscoven
PROTEICA
Accelera
l’eliminazione
dei grassi
stimolando
una proteina
chiave
nell’attivazione
del metabolismo
Vichy
Oscuro oggetto del desiderio
poi arrivò il seno al silicone
GIUSEPPE VIDETTI
SNELLENTE
Gel crema
che penetra
rapidamente
con effetto
guaina
Da applicare
con movimenti
a spirale
Lancôme
ra le due guerre c’era poco da scegliere. Saran belli gli occhi neri, saran
belli gli occhi blu, ma le gambe, ma le gambe a me piacciono di più, cantava Enzo Aita nel ’38, mentre le ragazze del Trio Lescano gli scodinzolavano intorno. Era il massimo dell’ammiccamento che al brunone fascinoso di Acireale, una carriera fulminante consumata tra canzone e operetta,
era concesso. Non tutte le donne avevano ancora “scoperto” le gambe, non
tutti gli italiani potevano permettersi una puntatina nei teatrini d’avanspettacolo, tantomeno in una delle “case”. Eppure Alfredo Bracchi e Giovanni
D’Anzi non avevano scritto una canzone innocente, si erano pure concessi
qualche allusione — «Due manine deliziose ti sapranno accarezzar, ma due
gambe un po’ nervose ti faranno innamorar» — un bel paio di gambe piantate su tacchi alti facevano lo stesso effetto che fanno oggi due tette in odor
di silicone sventolate davanti agli occhi di telespettatori velino-dipendenti.
Che sia stata la tv a tagliare le gambe alle… gambe? Davvero, come recita
la canzone, ci s’innamorava di un paio di gambe? Perché no? Una donna con
due gambe da urlo e un viso non bellissimo era comunque una bella donna.
La Loren cenciosa de La ciociara e la Mangano contadina di Riso amaro non
erano sexy dalle gambe in su? Quelle erano in bella vista, le altre dotazioni
delle maggiorate invece tutte da immaginare. Se si diceva: «Nell’insieme…
una bella donna», voleva dire che la ragazza aveva tutte le cose al posto giusto, ma le gambe lasciavano a desiderare.
Quando la londinese Lydia Thompson alla fine dell’Ottocento sbarcò nell’America puritana con la sua peccaminosa armata di ragazze — le temibili
British Blondes — dando inizio alla tradizione del burlesque, aveva poco altro da mostrare se non la caviglia e il polpaccio nei teatri di varietà delle grandi città (in provincia le avrebbero linciate). Dopo i ruggenti anni Venti, quando, complice la frenesia del charleston le gonne, già ben più corte di quelle
delle nonne, ondeggiavano pericolosamente fin sopra al ginocchio, Hollywood cominciò a edificare un impero sulle due gambe un po’ nervose della canzone. Jean Louis, il sarto delle star, inventava maliziosi pigiama palazzo con spacchi strategici da cui Hayworth e Crawford potevano far spuntare gambe che hanno fatto storia. «Le mie non sono poi così belle, so solo cosa farci», diceva Marlene Dietrich sapendo di mentire.
Per le necessità dei soldati in guerra, in cerca di brividi a buon mercato, c’erano i calendari delle pin-up. Betty Grable diventò un’icona grazie a una posa poco ortodossa che la ritraeva di spalle in costume da bagno (l’attenzione
era tutta per le gambe; quanto al resto… oggi si direbbe «ha il culo piatto»).
Grace Kelly, Audrey Hepburn, Lee Remick, Faye Dunaway: gambe da Oscar.
Ma il silicone a un certo punto ha sigillato anche le migliori menti di Hollywood e le rotondità di Pamela Anderson hanno avuto la meglio sull’immaginario erotico. Anche se c’è ancora qualcuno che si diverte a stilare una
top ten (che ai primi posti vede Jennifer Aniston, Cameron Diaz, Elizabeth
Hurley, Eva Longoria, Gisele Bundchen e Keira Knightley), le gambe, adeguatamente inguainate in calze a rete o stivali-stiletto, sono diventate un accessorio che solletica le fantasie degli amanti del fetish, come insegna la rinata passione per il burlesque. Non le vedeva così François Truffaut, che sul
potere della femminilità vagheggiava: «Le gambe delle donne sono il compasso che misura il mondo».
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42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 4 LUGLIO 2010
l’incontro
Da quarant’anni racconta società
e politica attraverso il cinema horror
Dalla “Notte dei morti viventi” in poi,
i suoi zombie tornano ciclicamente
per attaccare consumismo,
guerre e disastri
di un mondo impazzito
“I miei mostri sono
proletari alla riscossa”,
dice mentre prepara
il remake in 3D
di “Profondo rosso” , “a differenza
dei vampiri, molto più viziati
e troppo aristocratici”
Maestri di paura
George Romero
i ha risuscitati tante volte da
renderli immortali. Sempre di ritorno, sempre affamati, sempre traballanti o
obliqui, oltre che arrugginiti dalla vita
postuma, tarlati dall’aldilà, e sempre
stupefatti o imbambolati. È da oltre quarant’anni che ci riprovano, a riattecchire
sulla Terra, con cicliche rentrée: sei, finora, dalla prima, epocale, di La notte dei
morti viventinel 1968 a quella, ancor fresca di zolla, dell’anno scorso, alla Mostra
di Venezia, Survival of the Dead. Ogni
volta, automi risvegliati ma con un orologio in corpo, che li mette al passo con i
tempi. Trapassati ma mai anacronistici.
«I miei zombie si aggiornano, conoscono il “dopo”: sono, in questo, i primi della classe dell’ultimo commiato, i più lesti
a rientrare nei ranghi della realtà, senza
bisogno di onerosi corsi di recupero»,
scherza il loro papà dell’al di qua, George A. Romero, che a settant’anni, compiuti il 4 febbraio, ha ormai fatto degli
zombie i suoi vicini di casa, almeno cinematografica, richiamandoli in vita in
altri quattro film: Zombi - Dawn of the
Dead nel ’78, Il giorno degli zombi
nell’86, La terra dei morti viventi nel
2005, Diary of the Dead - Le cronache dei
morti viventi nel 2008.
Trapiantato a Toronto da New York,
dov’è nato da padre d’origine cubana e
madre lituana, sposato e divorziato due
volte, due figli grandi, il cineasta sarà il 12
alla Milanesiana di Elisabetta Sgarbi, dove ha già fatto tappa quattro anni fa, per
leggere al Dal Verme uno scritto inedito
e presentare all’Oberdan, in dialogo con
Enrico Ghezzi, tre suoi classici: una bella occasione per aggiornare anche i vi-
Non è un caso che nella sua lunga cine-parabola dei morti viventi, siano i
morti a divenire sempre più umani: «È
questo che denuncio nei film. Ovviamente con il massimo consentito di sequenze gore per tenere desta l’attenzione tra un sottinteso politico e l’altro. Non
ho mai considerato l’horror fine a sé stesso. Il mio cinema vuole anzi essere il contrario dell’horror corrente, dove tutto è
messo sottosopra per ricomporsi alla fine nell’ordine stabilito. I miei morti viventi rappresentano l’elemento perturbatore che permette di avviare una situazione nuova. Quel che m’interessa è
la reazione umana davanti agli zombie.
Nel confronto, purtroppo, sono gli uomini a far la parte dei cattivi, non gli zombie, che fan solo da cartina di tornasole».
A chiudere il cerchio, assisteremo, in
un suo prossimo film, al capovolgimento paradossale, con un gruppo di zombie
rifugiati in un casolare circondato dagli
uomini? «Chissà. Mi basterebbe che i
due gruppi arrivassero a un punto d’equilibrio. Se gli uomini smettessero di
sparare loro addosso e farne esplodere le
Se Hitler vivesse oggi,
avrebbe il suo blog
politically correct,
per far cadere
ancora più devoti
nella sua rete
Internet e la tv
dividono la società
in piccole tribù
FOTO ALESSANDRO BIANCHI/REUTERS
L
TORONTO
venti sugli attuali impegni di Romero, al
lavoro a Toronto sul remake in 3D di
Profondo rosso, del fratello d’emoglobina Dario Argento, e, finalmente, Diamond Dead, «storia d’un complesso
zombie di rock, filiazione letale del Fantasma del palcoscenico di Brian De Palma». «L’horror, l’ho succhiato col biberon, da bambino andavo matto per i brividi, su schermo o letterari, tipo I racconti della cripta. Anche il cinema è iniziato
come pratica infantile: a quattordici anni ho girato il mio primo film, in otto millimetri», racconta il regista, giaccone
verde guerrigliero sulla camicia aperta,
barbina bianca curatissima, radi capelli
tirati fino al folto codino, occhialiscope
che allargano la faccia simpatica, pronta
alla risata: «Anche per questo, i miei exmorti sono più vivi dei vivi: ogni volta che
riappaiono, fanno scattare l’allarme sull’orrore sociale del momento. Nel ’68,
erano la maggioranza silenziosa o, come
altri vi han visto, una denuncia del Vietnam. Dieci anni dopo, erano le larve del
consumismo: gli assuefatti al supermarket che tornano nel protettivo paradiso perduto. Nel decennio successivo
(Il giorno degli zombi), sono l’incognita
scientifica contro l’ottuso automatismo
militare».
E, quattro anni dopo l’11 settembre, in
La terra dei morti viventi, sono la minaccia terrorista: «Un richiamo alla sicurezza della nazione, alle sue idee di frontiera, alle discriminazioni di classe. Davanti alle emergenze sociali, l’uomo blocca
la porta e raduna il suo clan. Chiuso nella sua torre di cristallo, armato fino ai
denti, il personaggio di Dennis Hopper è
un’inutile cariatide, che “non negozia”.
Si sa che il potere ci manipola. Ma il problema siamo noi, che continuiamo a farci rappresentare da gente del genere».
Anche negli ultimi due film, i mutanti
sono simboli delle mutazioni storiche:
«In Diary of the Dead - Le cronache dei
morti viventi, sono i media a essere dissepolti e radiografati. Studenti di cinema
girano in diretta, Internet diventa il solo
mezzo per sapere che succede, con relativi pro e contro: la fede cieca (“se è filmato è vero”) e le dubbie coorti di blog
d’ogni tipo. Se Hitler vivesse oggi, avrebbe probabilmente il suo blog, ben levigato e politically correct, per far cadere
ancora più devoti nella sua rete. È spaventoso come si possa far credere qualsiasi cosa a chiunque con un bel sito e
tante belle promesse... Senza contare
che Internet, tv e media “tribalizzano”
sempre più. Assistiamo a una segmentazione della società in centinaia di piccole tribù che rifiutano di condividere, di
farsi “uno”. Ciascuno per sé e a casa sua.
Stiamo perdendo il senso dell’umanità».
teste, gli zombie probabilmente smetterebbero di mangiarli. Fin dal primo film,
ho iniziato a stuzzicare le contraddizioni più tenaci negli Usa d’oggi. In La notte dei morti viventi, è un nero a gestire la
resistenza e la sopravvivenza degli assediati dagli zombie. Un protagonista di
colore, con funzioni di leader: impensabile nel 1968, in un sistema di cinema
commerciale, cioè consensuale». Un
preannuncio di Obama, in anticipo di
quattro decenni: «Se devo essere sincero, all’attore di colore ho dato via via più
spessore perché si rivelava il migliore in
una troupe raccogliticcia di interpreti
improvvisati. Avevo racimolato centomila dollari con un paio d’amici, il film
era nato un po’ per gioco, lo giravamo la
domenica, nel tempo libero: non ci saremmo mai aspettati che sarebbe esploso al botteghino (incassando cinque milioni), diventando un film di culto. Ero rimasto anche indeciso se mantenere il finale, dove l’eroe nero è eliminato dall’imbecillità e dalla violenza umane. Ma
proprio a fine riprese, nella notte in cui
siamo partiti da Pittsburgh per andare a
New York a sviluppare la pellicola, abbiamo appreso dell’assassinio di Martin
Luther King. Immediatamente, quel finale ha trovato tutta la sua attualità sanguinosa».
Ulteriore metafora: «Continuo a
scandalizzarmi davanti a un cinema
senza metafore, così facili da sviluppare,
sulla falsariga dei sogni e delle illusioni: è
la metafora la forma del cinema». Una
critica ai film di denuncia diretta, alla Michael Moore? «Siamo agli antipodi:
Moore sviluppa dissertazioni, cerca risposte. Per me è più facile: sollecito riflessioni sotto le spoglie dell’horror. Non
sono obbligato ad andare fino in fondo
ai miei assunti, non sono costretto a terminare la frase. Racconto semplicemente quel che vado constatando nella
realtà. Survival of the Dead, per esempio,
è, formato isola, l’invasione Usa dell’Iraq. I militari attaccano gli zombie in
quanto minaccia d’un potere costituito,
emergenza d’una nuova società che
vuole sostituirsi alla vecchia: anzi, alla
lettera, la divora».
Non si è ancora stancato di tutte queste bocche da sfamare? «Ma è un mondo
che adoro, che nessuno potrà mai togliermi. Finché ci sarà la morte, ci sarà la
vita per i miei film di zombie! Dovrei anche dire: finché ci saranno i videogame.
Grazie a loro, gli zombie sono stati tenuti in vita, si sono moltiplicati, diventando
popolari. Non è di loro che non ne posso
più, ma dei produttori. Con i loro continui no, mah, però, che alla fine mi hanno convinto a tornare indipendente. Anche gli zombie sono indipendenti, a dif-
ferenza dei vampiri, più viziati, un po’
aristocratici. Gli zombie sono proletari,
magari alla riscossa. Mostri di sinistra?».
I suoi zombie divorano non solo carne umana ma anche pellicola d’autore:
lei è ricordato ovunque per la saga dei
morti viventi, un po’ meno per altri film
di qualità, come Martin, Monkey Shines
o Bruiser, di gentile, felpatissima orripilanza, applaudito al Torino Film Festival
e al Fantastic’Arts di Gérardmer: «Bruiser è una fiaba, più che un film del terrore. Ispirato a Les yeux sans visage del ’59
del francese Franju, è la storia d’un nessuno vessato e tradito da chi lo considera uno zero, che si risveglia e si vendica il
giorno in cui si ritrova incollata alla faccia una maschera (essa pure anonima).
Una parabola, orribile, ma non horror,
sulla perdita di identità: problema diffusissimo negli Usa, dove i media ci impongono una faccia e un look, le magliette griffate e gli hamburger omologati. Anche se i muri si riempiono di graffiti e i corpi dei giovani si arabescano di tatuaggi e piercing, non siamo alla ventata
di rivolta: è anche questa un’onda di
consenso, è l’America di oggi, cui indirizzo ogni possibile lama e morso con i
morti viventi».
Lui che è così amato in Europa, dove
viene chiamato e omaggiato (come a
Clermont-Ferrand che gli ha dedicato
un programma di “morti corti”, reduci
d’oltretomba formato cortometraggio),
non ha mai pensato di scoperchiare le
tombe in Francia o in Italia? «Le mie sono storie molto americane, nascono da
situazioni che ho sotto gli occhi. Non conosco abbastanza bene il vostro Paese.
Certo — scoppia a ridere il regista — se i
miei zombie fossero italiani, mangerebbero meglio: lascerebbero la carne umana per abbuffarsi di pizza e fettuccine!».
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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MARIO SERENELLINI
Repubblica Nazionale