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LADOMENICA DOMENICA 7 OTTOBRE 2012 NUMERO 397 DIREPUBBLICA CULT A cinquant’anni dall’esordio dei “Fab Four” ecco le lettere mai viste del loro leader Parole d’amore, ma non solo JOHN LENNON All’interno La copertina Dai saggi al cinema la crisi ha ispirato il romanzo dell’economia GOTOR e RICUPERATI La recensione Lo stile di Donoso nei ritratti feroci che assomigliano a quelli di Buñuel Cari Beatles vi scrivo LEONETTA BENTIVOGLIO L’intervista Rachel Joyce “I sentimenti si rivelano camminando” SUSANNA NIRENSTEIN Il teatro L’immagine GINO CASTALDO JOHN LENNON Ermanno Rea viaggio in Italia con una Leica lla fine si pensa di conoscerlo, come fosse un vecchio amico. E del resto la storia dei Beatles è forse la più indagata in assoluto nella storia della cultura popolare. Ogni giorno della vita dei quattro, e quella di John Lennon in particolare, è stato studiato e setacciato, passato al microscopio incrociato della storia e della leggenda. Eppure quando si pensa di essere arrivati a comprendere davvero, Lennon sfugge, è oltre, sembra rifiutarsi di lasciarsi stringere nella morsa delle definizioni, delle categorie. Era matto, era megalomane, era fragile come un bambino, era un genio, era tenero o aggressivo, un deliberato working class hero o un guerriero romantico, cinico e assente per il primo figlio, amoroso e devoto col secondo. A rovistare nella vicenda personale di Lennon c’è da perdersi, ma ne vale la pena, anche perché a un certo punto la sua storia personale, i suoi tormenti, la sua utopia, sono diventati un patrimonio dell’umanità. (segue nelle pagine successive) icordo un tempo in cui tutti quelli che amavo mi odiavano perché io odiavo loro. E allora? E allora? Che cazzo, e allora? Ricordo un tempo in cui gli ombelichi arrivavano al ginocchio Quando solo cacare era sudicio e tutto il resto puro e bello. Non so ricordare niente senza una tristezza talmente profonda da non riuscire a esserne consapevole, così profonda che le sue lacrime mi lasciano spettatore della mia stessa STUPIDITÀ e così vado divagando tra hey nonny nonny no. Quanto si può andare avanti a scrivere e scrivere come te. Ormai non so più veramente a chi sto scrivendo e neanche perché è così strano. In genere scrivo così e non sto a pensarci, ma quando spedisco è come una piccola parte di me che se ne va nelle mani di qualcuno lontano chilometri e chilometri che si chiederà che cazzo sta succedendo o magari userà la mia lettera come carta igienica. (segue nelle pagine successive) NELLO AJELLO e ERMANNO REA Spettacoli Belli, bravi e sexy i nuovi Caruso conquistano l’Opera GIUSEPPE VIDETTI A R Nella Napoli di Antonio Latella come in un film di Tim Burton RODOLFO DI GIAMMARCO Il libro Una certa idea di mondo: “Nell’impero dei supermercati” ALESSANDRO BARICCO llaa RReeppuubbbblliiccaa DOMENICA 7 OTTOBRE 2012 ■ 30 LA DOMENICA La copertina Paperback Writer A cinquant’anni dall’uscita del primo disco dei Beatles, “Love Me Do”, un libro Mondadori raccoglie i manoscritti inediti di Lennon Biglietti, cartoline, pensieri d’amore per donne e amici Ma anche le prove di un rapporto via via più complicato con gli ex colleghi, fino alla separazione e oltre. Eccoli in anteprima mondiale Hey, John: le lettere segrete GINO CASTALDO (segue dalla copertina) eggere per la prima volta tutte queste lettere inedite fa una certa impressione, ma non attenua il mistero. Le lettere di John Lennon (in uscita da Mondadori) appassiona come fosse un romanzo, anche se fatto, oltre che di lettere vere e proprie, di cartoline, stralci, messaggi concisi, scherzi, perché ci restituisce una parte dell’umanità di Lennon. Ce lo mostra un po’ più da vicino, e ci permette di capire meglio le sue tante facce. Certo, si tratta di una scelta mirata. Il libro è quello che si definirebbe una “biografia ufficiale”, se fosse una biografia, ma in un certo senso lo è, curata dal fido Hunter Davies, amico della band, portavoce che già molti anni fa produsse una biografia riveduta e corretta dai quattro Beatles. Anche questa volta, ovviamente, c’è L il benestare – e non è stato immediato come racconta Davies nell’introduzione – di Yoko Ono, che alla fine ha accettato, certo, ma di sicuro non avrebbe permesso che uscissero lettere, e sicuramente ne esistono, più scabrose, più scandalose. Insomma, Davies non è uno di quegli accaniti e violenti biografi che hanno scavato intorno ai segreti di Lennon per scoprire l’inverosimile. Del genere: aveva avuto una relazione omosessuale con Brian Epstein, aveva picchiato il suo amico Stu Sutcliffe, si era drogato come un pazzo e via dicendo. Lennon era semplicemente il ragazzo che aveva trasformato la sua vita in un’opera d’arte e lo aveva fatto partendo dalla riscrittura del rock’n’roll americano elaborata sui grigi dock di Liverpool fino all’invenzione di un territorio della musica ancora inesplorato. Il suo estro irriverente lo percepiamo già nella sua vocazione di scrittore e disegnatore che lo portava a organizzare giornalini scolastici pieni di ironia e sarcasmo. Poi nel rispetto meticoloso con cui nei primi mesi dell’esplosione della Beatlesmania risponde ai fan, o nei toni affettuosi con cui manda cartoline e lettere alle zie. Il libro ricostruisce attraverso stralci e frammenti il rapporto di amore e odio con la tanto vituperata zia Mimì, e anche col padre Fred, assente per buona parte della sua vita. Ci sono poi le lettere inviate alla prima moglie Cynthia, la ragazza della porta accanto della sua adolescenza a Liverpool, sposata in fretta e furia perché incinta di Julian. John cercava disperatamente di mantenere un qualche tipo di rapporto col piccolo, che vedeva poco o nulla, travolto com’era dal successo clamoroso che lo stava trascinando via come un tornado. C’è il Lennon pungente e polemico che emerge con brillante arguzia nella stizzosa alterigia con cui nell’aprile del 1974 risponde a Todd Rundgren, chiamandolo Runtlestuntle, reo di aver detto di Lennon, «non è un rivoluzionario, è un idiota del c…» a proposito di alcune intemperanze esibite da Lennon e Harry Nillson al Troubadour di Los Angeles. Ma ovviamente la parte più succosa è quella che riguarda i rapporti interni al gruppo. Da un certo punto in poi John comincia a firmare tutti i suoi messaggi con la firma John/Yoko, rinuncia al suo secondo nome Winston (datogli ovviamene in onore di Churchill), che però continua a usare per scherzo firmandosi a volte Winston O’Boogie, in favore di John Ono Lennon, e così si firma scrivendo all’amico Paul, e ci sono un paio di lettere piuttosto forti, aggressive, ma di grande interesse perché spedite nel 1971, l’anno dopo lo scioglimento dei Beatles, nel periodo della massima acredine, quando Lennon se ne uscì nel disco Imagine, con un pezzo intitolato How Do You Sleep?, molto pesante nei confronti del suo ex compagno di strada. Nella lettera, John è molto arrabbiato, e svela che anche gli attacchi personali via musica era stato Paul a iniziarli: cita il secondo album solista di Paul, Ram, dove ci sarebbero riferimenti pungenti alla folle condotta pubblica della coppia John and Yoko. «Non ti rendi conto di quanta merda ci avete gettato addosso?» chiede Lennon esasperato, e poi continua in calce: «La cosa che ci ha veramente lasciati perplessi è il fatto che tu chieda un incontro SENZA LINDA E YOKO. Pensavo avessi capito ORMAI che io sono JOHNEYOKO». Anche la parte politica è densa. John si difende via lettera dai radicali di ogni risma che cercano di trascinarlo dalla loro parte: era imprevedibile, volubile, gentilissimo a volte. Ma era capace di rispondere a una lettera di un ammiratore con improvvisa ferocia: «Ascolta, Amico, perché non la smettete di asfissiare la gente voialtri fanatici di Gesù? Sono duemila anni che va avanti questa storia — imparerete mai? Chi sa non parla, chi parla non sa. Dalla tua lettera nevrotica non traspare nessuna pace interiore, ragazzo. De gustibus — amico! Vaffanpace! John &Yoko». Grazie al fatto che all’epoca non c’erano sms e email, abbiamo molto ma- llaa RReeppuubbbblliiccaa DOMENICA 7 OTTOBRE 2012 ■ 31 LE INIZIATIVE Dal 16 ottobre uscirà con Repubblica la discografia completa dei Beatles: in 14 puntate, ogni martedì fino al 15 gennaio 2013, gli album originali completamente rimasterizzati a 9,90 euro più il prezzo del giornale: tutti i cd contengono anche un mini documentario con filmati delle registrazioni in studio, interviste e riprese varie. Inoltre, per tutto il mese di ottobre è in edicola il libro The Beatles Revolution, a 7,90 euro più il prezzo del giornale: la storia dei “Fab Four” raccontata dalle grandi firme di Repubblica: da Ernesto Assante e Gino Castaldo a Filippo Ceccarelli, da Gabriele Romagnoli a Michele Serra e Vittorio Zucconi. Infine, è online su repubblica.it lo speciale 50 anni di Beatles ‘‘ Alla Regina Elisabetta Vostra Maestà, restituisco questa onorificenza in segno di protesta contro il coinvolgimento della Gran Bretagna nella faccenda del Biafra, contro il nostro sostegno all’America nel Vietnam e contro il calo di vendite di Cold Turkey Cordialmente, John Lennon 25 novembre 1969 ‘‘ A Ringo Starr Cari Ringo Mo Zack giusto una vibrazioncina dall’India Abbiamo canzoni per un paio di lp, per cui tira fuori i tamburi. Puoi chiedere a Dot di far aggiustare il mio videotape (mi sono dimenticato di dirglielo)? Qui è tutto come prima, Denis ha il suo mantra, e va tutto a meraviglia Abbiamo anche il soggetto per un film Miei cari Paul e Linda ma chi vi credete di essere? JOHN LENNON (segue dalla copertina) omunque non mi importa della fine che fa perché, se ci penso, non conta proprio nulla. Ma che cosa conta? Chi ha il diritto di dire che questa lettera non è importante e che invece Gesù, quello sì che conta, e conta in assoluto? Già! Mi chiedo che effetto faccia essere stupidi o roba del genere. Scommetto che dev’essere fantastico. E allora come te la passi, vecchio Stu. Stai bene? Come ti va la vita — bene, male, di merda, di lusso — alla grande come un tempo o è solo un migliaio d’anni di niente, e carbonai senza fine? Questo è quanto, penso. Ciao Stu, e non scrivere per… ehm, cosa? Be’, non perché ti senti in dovere. Scrivi quando ti va. Allora ciao (da John. Quello con gli occhiali, sai) COMUNQUE bye bye a presto Non so perché l’ho detto. (A Stuart Sutcliffe, 1961) C Cari Linda e Paul stavo leggendo la vostra lettera e mi domandavo quale sciroccato fan dei Beatles di mezza età l’avesse scritta. Ho resistito alla tentazione di andare all’ultima pagina per scoprirlo. Continuavo a pensare: chi può essere? Queenie? La madre di Stuart? La moglie di Clive Epstein? Alan [sic] Williams? Che cavolo… è Linda! Pensate davvero che i giornalisti mi/vi stiano dietro? Pensate questo? Chi ci crediamo/vi credete di essere? La solita storia del «chi è indulgente con se stesso non si rende conto del male che fa agli altri» — spero vi rendiate conto di tutta la merda che voi e il resto dei miei amici «gentili e altruisti» avete riversato addosso a me e a Yoko da che ci siamo messi insieme. A volte sarà stata un po’ più delicata o più «ceto medio», diciamo — ma non tanto spesso. Più di una volta ci siamo «mostrati superiori» — & vi abbiamo perdonati entrambi — per cui questo è il meno che possiate fare per noi, voi nobili persone. Linda — se non t’importa di ciò che dico — sta’ zitta! — fa’ scrivere Paul — o quant’altro. Quando mi hanno chiesto cosa avevo pensato a suo tempo della nomina a baronetti ecc. — ho risposto secondo quel che ricordavo — e ricordo perfettamente di aver provato un po’ di imbarazzo — anche tu, Paul, no? — oppure (mi viene il sospetto) continui a crederci? Perdonerò Paul per aver incoraggiato i Beatles — se lui mi perdona per aver fatto lo stesso — per essere «onesto e troppo premuroso con me»! Che cazzo, Linda, mica stai scrivendo per il libro dei Beatles!!! Non è dei Beatles che mi vergogno — (sono stato io a metterli insieme) — ma di certa merda che abbiamo dovuto sopportare per farli diventare così grandi . Pensi davvero che tutta l’arte di oggi sia nata grazie ai Beatles? — Io non credo che tu sia pazzo fino a questo punto — Paul — ci credi? Prova a smettere di crederci e magari ti svegli! Non abbiamo sempre detto di essere parte del movimento — e non il movimento? Abbiamo cambiato il mondo, è vero — ma ora cerca di completare l’opera — MOLLA IL TUO DISCO D’ORO E SPICCA IL VOLO! [...] (Lettera 142: a Linda e Paul, 1971?) (Traduzione di Alessio Catania) © Yoko Ono Lennon 2012 IL LIBRO Le lettere di John Lennon, a cura di Hunter Davies (Mondadori, 408 pagine, 22 euro) è in libreria dal 9 ottobre: quasi trecento fra lettere e cartoline, a familiari, amanti, amici, ammiratori, estranei e perfino alla lavanderia Dal biglietto più antico per ringraziare una zia nel 1951, quando Lennon aveva dieci anni, all’ultimo autografo a una centralinista di New York, l’8 dicembre 1980, il giorno in cui fu ucciso Cartolina dall’India, 1968 I DOCUMENTI Sopra, la cartolina a Ringo dall’India (1968); a sinistra, una lettera a George Martin e Richard Williams (1971); in alto la lettera polemica inviata a Paul e Linda McCartney (1971) A sinistra, Lennon alla macchina per scrivere. In copertina: il disegno dedicato alla prima moglie Cynthia per il primo Natale insieme, nel 1958 teriale scritto: a John piaceva scrivere, a macchina o a penna, e quasi sempre scusandosi se lo faceva a macchina, come fosse un gesto poco educato, e in genere accompagnando le parole con disegni, facce, svolazzi decorativi. Scriveva ai parenti, anche dopo anni in cui non li frequentava più, mandava precisazioni ai giornali, soprattutto quando se la prendevano, circostanza non rara, con la sua diletta Yoko. In un caso racconta che in effetti lei e Miles Davis si conoscevano e che in effetti era possibile che qualcosa potesse venirne fuori, ma ribadisce ai detrattori che comunque lei aveva già lavorato con Ornette Coleman. Le lettere svelano, raccontano, aggiungono pezzi alla conoscenza di una personalità tormentata e poliedrica, le letterine a Ringo e a George, ammiccanti e complici, ma in fondo si comprendono perfettamente alcune linee guida: l’infanzia funestata dall’essere stato abbandonato sia dal padre che dalla madre, lo shock di perdere la ma- dre Julia proprio quando finalmente l’aveva recuperata in pieno nella sua vita, la catarsi beatlesiana, la terapia Primal Scream che ispirò i suoi primi lavori da solista, la fusione con Yoko, totale, destabilizzante, regressiva. E poi gli anni del ritiro a New York, nella Dakota House, dove si occupava del figlio Sean, senza più apparire in pubblico, in quella casa davanti alla quale nel 1980 lo aspettò la follia di Mark Chapman che gli sparò addosso senza nessuna ragione plausibile. John sembra sempre l’Ulisse in cerca di se stesso, personaggio esemplare, con tutta la sua nevrotica complessità, del secolo scorso, un misto di fragilità e potenza che riassume l’essenza stessa della musica. Non era lui, del resto, che ha scritto la canzone più dolce, ma allo stesso tempo più potente dell’era moderna? Non era lui che chiedeva con un sussurro un mondo senza divisioni, senza religioni, senza soprusi? Immagina, diceva, immagina... © RIPRODUZIONE RISERVATA llaa RReeppuubbbblliiccaa LA DOMENICA DOMENICA 7 OTTOBRE 2012 ■ 32 L’attualità Razzismi Non più bianchi contro “coloured”, ma ricchi contro poveri e poveri contro poverissimi. Dopo la strage dei minatori di Marikana, uccisi dalla polizia ad agosto, siamo andati a vedere che fine ha fatto il sogno di pace e riconciliazione voluto da Mandela e de Klerk. Per scoprire che in Sudafrica la discriminazione si ripropone sotto spoglie diverse. O forse non è mai scomparsa Ritorno il dell’ Neri contro più neri LE TAPPE DANIELE MASTROGIACOMO M JOHANNESBURG FOTO GREAME WILLIAMS arikana come Soweto. La violenza della polizia contro chi sciopera, scende in piazza, rivendica diritti essenziali, inalienabili. Salari più alti, migliori condizioni di vita. Una casa degna di questo nome: quattro mura con un tetto, elettricità, acqua, un sistema fognario. Non è così. In Sudafrica la realtà non cambia, resta immutata negli anni. Con una differenza che stride e fa pensare. Il progetto del paese dei mille colori è fallito? La fine dell’apartheid è stata un’illusione? Nel 1976 furono gli studenti neri della storica township a cadere sotto i colpi degli agenti bianchi. Nel 2012 sono i minatori neri a essere falciati dai poliziotti di colore. Nadine Gordimer, la grande scrittrice simbolo della lotta antirazzista, premio Nobel per la letteratura nel 1991, riesce ancora a inorridirsi nonostante i suoi LA SEGREGAZIONE LE LEGGI RAZZIALI GLI SCONTRI L’OPPOSIZIONE LA VITTORIA MARIKANA ll National Party nel 1948 vince le elezioni: la parte più reazionaria della minoranza bianca instaura il regime di apartheid Tra il ’48 e il ’53 sono vietate nozze e relazioni tra razze diverse; nascono i ghetti; ai neri è fatto divieto di usare spazi riservati ai bianchi Iniziano le prime manifestazioni di piazza, la polizia spara sulla folla: a Sharpeville sono 69 i morti nel ’61; nel 1975 la rivolta scoppia a Soweto Le opposizioni nere vengono messe fuori legge Tra queste, anche l’Anc: il suo leader, Nelson Mandela, viene arrestato nel ’62 Nel ’90 de Klerk fa scarcerare Mandela. Nel ’94 ci sono le prime elezioni col voto esteso ai neri: Mandela diventa presidente Il 16 agosto 2012 la polizia fa fuoco sui minatori di Marikana in sciopero: 34 morti La peggior tragedia dagli anni ’60 ottantanove anni: «Non avrei mai immaginato di assistere a un simile massacro. Di vedere neri che uccidono neri. Poliziotti contro operai». Ci volevano trentaquattro morti, saliti a quarantacinque in cinque settimane di sciopero lungo la “cintura del platino”, nella regione di Rusternburg, nord ovest del paese, per scuotere le coscienze e riesumare il fantasma dell’apartheid. Lo gridano i ventisettemila minatori mentre invadono il grande stadio di Marikana. Le mani in alto in segno di tregua. I bastoni, le lance, i machete, le zappe agitate in aria come simboli di battaglia. Ne parlano i delegati della Cosatu, la Federazione sindacale sudafricana legata all’African national congress (Anc), riuniti nel più drammatico congresso della storia a Johannesburg. «Quei morti», dice il presidente Jacob Zuma con enfasi studiata, «ricordano a molti di noi scene che credevamo definitivamente seppellite ma che la storia ci ha restituito come uno schiaffo». Perfino i dirigenti della Lonmin, la multinazionale anglo-americana terza produt- trice di platino al mondo, simbolo di una battaglia che ha scosso il Sudafrica, parlano di «shock», di «sveglia che ci ha posto davanti a situazioni drammatiche». Il dramma sono migliaia di baracche fatte con assi di legno, cartoni e lamiere. Sorgono alla rinfusa, in mezzo agli sterpi, ciuffi di alberi, colline artificiali create dalla terra di rimessa delle miniere. Punteggiano, con la loro dignitosa povertà, questa immensa pianura che si perde all’infinito. Dovevano costituire gli avamposti dei futuri quartieri che lo Stato e le multinazionali delle miniere si erano impegnati a costruire. Piccole città che avrebbero ospitato le migliaia di lavoratori giunti da ogni angolo del Sudafrica per strappare al sottosuolo i minerali di cui l’industria del benessere, del lusso, della tecnologia ha bisogno. Impegni disattesi, promesse rinviate e poi tradite. Dalla classe nera al potere. Non dai dirigenti politici di un regime razzista che quasi un secolo fa sull’apartheid fondò la sua ascesa e la sua tirannia, fino a trasformarla in una dottrina giuridica che regolò la più odiosa discriminazione tra la popolazione a seconda del colore della pelle. Neri e coloured(indiani, meticci) costretti per legge a usare bus diversi dai bianchi, a frequentare scuole separate, a vivere in quartieri isolati, a sostare su marciapiedi e incroci a loro riservati. Per non parlare del lavoro, dei negozi, degli ospedali, dei matrimoni, delle aspirazioni, degli stessi sogni. Bianchi e neri divisi su tutto. Per evitare contaminazioni, miscugli, diritti, pretese. La purezza della razza che non andava persa, inquinata, svilita. Le coscienze di alcuni leader illuminati, l’indignazione internazionale, l’isolamento e il boicottaggio commerciale fecero leva su un risveglio collettivo che riuscì a sconfiggere quello che in afrikaans, la lingua parlata dai bianchi sudafricani, significa letteralmente “separazione”. Non fu una passeggiata: la scelta della lotta armata da parte dell’Anc, il partito fondato da Nelson Mandela, con la nascita di un’ala milita- llaa RReeppuubbbblliiccaa DOMENICA 7 OTTOBRE 2012 FOTO JOAO SILVA ■ 33 Il potere, chiosò a suo tempo Giulio Andreotti, logora chi non c’è l’ha. Ha logorato, invece, la classe dirigente sudafricana: la leadership dell’Anc, padrona del campo dal 1994 quando stravinse le prime elezioni libere. Lo sviluppo tecnologico, il mondo degli affari, la presenza di mille minerali che rendono questa terra ricca e appetibile, hanno corroso la classe media nera emersa dalle ceneri dell’apartheid. Oggi sono i nuovi ricchi. Il business ha fatto dimenticare le grandi sacche di povertà che resistono e si amplificano. Le fortune non sono state distribuite, il neo liberismo è stata un’illusione che è fallita anche qui. Le undici tribù del Sudafrica hanno fatto valere il loro peso politico. Che si è tradotto in favori, nepotismi; fino alla corruzione, alle truffe, al peculato. Oggi l’apartheid torna sotto spoglie diverse: non più neri contro bianchi, ma ricchi contro poveri e poveri contro poverissimi. Ci sono almeno due milioni di immigrati dai paesi vicini, come lo Zimbabwe, la Somalia, il Mozambico, che affollano le nuove township. Sono gli ultimi nella scala sociale del moderno Sudafrica. Ricattati, disposti a salari di fame, diventano il bersaglio della rabbia di chi è rimasto ai margini del benessere e dello sviluppo. Popolano i nuovi insediamenti abusivi attorno alle miniere. Hanno subito gli attacchi dei minatori in sciopero perché crumiri: volevano andare a lavorare per non essere rimandati negli Stati da cui erano fuggiti. Erano reduci dalle violenze nella furibonda caccia all’uomo che vide uccisi a bastonate, impiccati agli alberi, bruciati vivi oltre trecento clandestini. Neri contro neri. Poveri contro poverissimi. I ricchi, bianchi e neri, osservano distratti. Chiusi nelle loro isole protette da guardie armate, fili spinati e cavi elettrici. Fuori ci si scanna per sopravvivere. La violenza è stata una costante nella storia sudafricana. Ci si abitua, ci convivi. Riesce perfino a diminuire (6,5 per cento), come declamano le statistiche contro la criminalità. L’apartheid è tornato. Forse non è mai scomparso. Si è trasformato nell’apartheid dei dannati. LE IMMAGINI In alto, sepoltura di una vittima della violenza politica a Kwa-Zulu Natal, 1994 Sotto da sinistra, manifestazione dell’African National Congress, a Sebokeng, 1991; la battaglia di Ventersdorp tra Awb (movimento di resistenza afrikaaner pro-apartheid) e polizia, 1991; esiliati tornano nella township di Soweto, 1991; due dell’Awb manifestano a Pretoria, 1991 LA MOSTRA La vita in Sudafrica ai tempi dell’apartheid: fino al 6 gennaio 2013, all’International Center of Photography di New York, Rise and Fall of Apartheid: Photography and the Bureaucracy of Everyday Life mette in mostra cinquecento poster, video, documenti e foto (alcune qui in pagina) sull’avvento e la caduta dell’apartheid © RIPRODUZIONE RISERVATA FOTO GREAME WILLIAMS FOTO PAUL WEINBERG re, la Umkhonto weSizwe, inaugurò la stagione degli attentati e delle rivolte armate. Il lungo cammino verso la libertà, descritto da Madiba nella sua autobiografia, fu segnato dal sangue e dai morti. La maggioranza nera si fece coraggio e si ribellò. Pagò un altissimo prezzo. Ma solo la saggezza e l’acume politico di due uomini diversi e al tempo stesso simili riuscirono a trasformare il Sudafrica in una moderna democrazia. Evitarono un massacro. Il trapasso, una vera rivoluzione, fu incruento. Impensabile in quegli anni e in pieno spirito razzista. Frederick de Klerk, l’ultimo presidente dell’apartheid, capì che con la pace (e la rinuncia al potere dei bianchi) avrebbe conquistato un posto nei libri di storia. Glielo suggerì sua moglie: la grande donna che c’è sempre dietro un grande uomo. Una scelta vincente. Incontrò Nelson Mandela, trattò l’accordo, lo liberò dal carcere. Insieme suggellarono una svolta che ha resistito anni e ha trasformato il paese in un gigante economico del pianeta e nel simbolo del riscatto. A loro fu assegnato il Premio Nobel per la pace nel 1994. llaa RReeppuubbbblliiccaa DOMENICA 7 OTTOBRE 2012 ■ 34 LA DOMENICA L’immagine Nel 1956, l’autore di “Mistero napoletano” lavora all’“Unità” Non ha ancora trent’anni ed è in crisi I fatti d’Ungheria lo allontanano dal Pci Così lascia il giornale e parte Album Tornerà con una Leica in spalla e comincerà a fotografare il suo Paese con nuovi occhi Un libro, ora, raccoglie quegli scatti Ermanno Rea NELLO AJELLO modi per trasformarsi da giornalista “scrivente” in fotoreporter (e ritorno) sono i più vari. Possono rappresentare, nella vita d’un professionista, un’evoluzione o una sconfitta, offrirgli la soddisfazione d’un bisogno di concretezza o un espediente provvisorio per meglio proclamare: «Io c’ero». Per quanto riguarda Ermanno Rea l’itinerario si presenta assai più complesso. Ci riporta allo stato d’animo di un intellettuale comunista, che si trovò, a meno di trent’anni, impigliato in quel frangente di delusione e di protesta che dilaniò per lungo tempo le viscere del partito all’indomani dell’invasione sovietica dell’Ungheria, nel 1956. Ed ecco che questo suo caso biografico viene ora spiegato dallo scrittore nel volume 1960. Io reporter, in uscita il 10 ottobre da Feltrinelli. Gliene ha offerto l’occasione l’aver ritrovato un gruppo di foto da lui scattate in ogni parte del mondo. Quella di preparare servizi fotografici è infatti l’attività che egli prende a esercitare dopo anni di lavoro in redazione. Ma non darebbe l’idea del volume soltanto vedervi, in appendice, una raccolta di reperti in quel “bianco e nero” che, già di per sé, suscita nostalgia. Il vero senso dell’opera risiede nel fatto che l’autore vi ha versato una dose di quella sensibilità sussultoria che è il segno della sua narrativa più felice, da Mistero napoletano (1995) in poi. Rea ricostruisce ancora una volta una storia del nostro dopoguerra: gli anni della crisi ideale da lui vissuta nella redazione partenopea dell’Unità. Nel raccontare questo frangente, il suo talento di “ritrattista” offre un nutrito gruppo di esemplari umani: dagli amici o colleghi Renzo Lapiccirella, Nicola Cattedra, Franco Grassi, Fausto De Luca, Ugo Gregoretti ai più anziani e autorevoli Paolo Ricci, Renato Caccioppoli. Alcune, insomma, di quelle sagome che nutrono la memoria di ogni intellettuale che a Napoli stesse preparandosi, in quegli anni, all’esistenza. A Roma, l’autore lavorerà a Vie Nuove, sotto l’imperio di una capziosa despota, la direttrice Maria Antonietta Macciocchi. E intanto conoscerà Pannunzio e Flaiano: ecco, ai suoi occhi, «i padri fondatori della fotografia giornalistica italiana». Il passaggio dalla macchina Olivetti alla Rolleiflex e alla Leica — che della foto sono regine — è già in I Il suo talento di “ritrattista” offre un gruppo davvero molto nutrito di esemplari umani Viaggio in Italia agguato. È come se la nuova pelle che decide di assumere, quella del fotoreporter, lo rigenerasse. Ma, soprattutto, la periodica fuga dall’Italia rappresenta per lui un «taglio di cordoni ombelica- li». Gli fa assaporare un «soffio di sregolatezza» dopo anni di vita vissuta nei ranghi del partito e nei suoi giornali. Il «divorzio dalla parola scritta» coincide con la scoperta di civiltà e modelli so- ciali imprevisti. Dopo essersi agganciata alle spalle una «macchina», non è più, ormai, un militante desolato per i tradimenti della storia, ma un libero «uccello migratore». E così questo suo fram- mento autobiografico diventa un racconto di viaggi. Prima tappa, Berlino, l’hotel Allemania, dove “scende”, è un covo di guardoni — così ama definire i suoi colleghi fotografi nel cuore di un’Europa spaccata. Lì, accanto alla cortina di ferro, si sente battere il cuore d’un continente che esce da una traversia storica. Quella che poi si chiamerà «fotografia stradale» è nata proprio qui, nella Germania e negli altri paesi dell’Est, dove si girava con la «macchina fotografica seminascosta nella manica della giacca ma sollecita a balzare fuori al primo stimolo». Dopo la Germania, Grecia e Turchia, ma soprattutto Spagna, un paese — scrive — che «mi stregò». A Siviglia quasi perse la testa fidanzandosi «con una ragazza che mi insegnò a cucinare la paella ballando in maniera stupenda». È certamente improprio paragonare tali sensazioni a quelle che si provano oggi, quando in quei paesi si sbarca con l’aereo, magari tra frotte di liceali in gita. A quei tempi, invece, tutto dava il senso di un’iniziazione. Ancora: la Lubecca di Thomas Mann. Poi l’Irlanda. Di nuovo la Germania, Amburgo, dove trova Annette, una ragazza che sarà — per un tempo non lungo — sua moglie, e gli darà un figlio. A Katmandu, in Nepal, s’imbatte in Alberto Moravia e Dacia Maraini che sono lì in vacanza «di lavoro». L’autore vorrebbe ora ricordare l’episodio all’autrice di Marianna Ucrìa: ero io quel signore con cui avevi scambiato qualche parola. Ammesso che abbia un senso riportare alla memoria d’una tua amica il fatto di «averla incontrata anni prima in cima al mondo». Non sono che alcune tappe di un pellegrinaggio che l’autore commemora con un sorriso nascosto tra le pagine. «Ho girato un bel po’ di mondo…». Finché — parola sua — il mestiere di fotografo gli «viene a noia»: non può durare. Lo aggredisce una crisi di malinconia. Una notte, a Dublino, mentre passeggia lungo la sponda del fiume Liffey, d’improvviso gli capita di mettersi a «cantare a squarciagola» Qualche passante pensa che sia ubriaco. «Però non ero ubriaco, cantavo per farmi coraggio», è la testimonianza dello scrittore. Voleva tornare. Così, come l’ultima pagina d’un romanzo d’avventura, si conclude questo lungo viaggio con la Leica a tracolla. © RIPRODUZIONE RISERVATA È come se la nuova pelle che ha deciso di assumere, quella di fotoreporter, lo rigenerasse llaa RReeppuubbbblliiccaa DOMENICA 7 OTTOBRE 2012 ■ 35 IN STRADA Dall’alto in basso: ragazze calabresi; una bancarella di fichi d’India davanti alla chiesa del Purgatorio all’Arco di Napoli; giugno 1963: in piazza San Pietro, aspettando il nuovo papa Nella pagina accanto: sopra, la facciata di un palazzo della Duchesca, quartiere napoletano regno del contrabbando di merci; in basso, una coppia di signore conversa al balcone di un noto caffè romano Quando attraversai la mia linea d’ombra ERMANNO REA «Q uesta non è la storia di un matrimonio. Non mi andò così male. Il mio atto, per quanto avventato, ebbe più il carattere di un divorzio, quasi di una diserzione. Senza una ragione plausibile per una persona di buon senso, piantai il mio lavoro, abbandonai il mio posto…». La linea d’ombra. Conrad, nel suo sublime racconto, riflette su certi stati d’animo: i cosiddetti momenti di confusione. «Quelli di tedio, di stanchezza. Di scontento. Momenti d’irriflessione. Parlo di quei momenti nei quali i giovani sono propensi a commettere atti inconsulti, come sposarsi all’improvviso o rinunziare a un’occupazione senza motivo». Come ho detto, io non mi sposai. Mi limitai a lasciare «il bastimento di cui non si sarebbe potuto dir altro di peggio che era un bastimento a vapore». Si chiamava l’Unità, redazione napoletana in Angiporto Galleria. Era il 1957. Tedio? Stanchezza? Sicuramente, ma non soltanto questo. In più, il desiderio di prendere qualche distanza da quel Partito comunista che ormai aveva invaso la mia vita pretendendo di regolarla, tanto occhiuto quanto protettivo, fin nei suoi più privati dettagli. Chi ero io? Che cosa valeIL LIBRO vo? In che misura sarei Ermanno Rea 1960 stato capace di cavarmeIo reporter (Feltrinelli, la come uomo senza il 240 pagine, 25 euro) soffocante abbraccio del esce il 10 ottobre mio padre-padrone poLo stesso giorno Rea litico? Insomma, diedi le riceverà a Roma dimissioni dall’Unità, il Premio De Sanctis raccontando la consueta per la saggistica frottola che avevo bisodi viaggio. Venerdì 12, gno di una «pausa di ril’autore presenta il libro, flessione». E per «riflettecon Raffaele La Capria re» meglio me ne andai e Alberto Rallo, per alcuni giorni a Capri alla Feltrinelli di Piazza dei Martiri a Napoli con la Montagna incantata di Thomas Mann Sempre dal 12 si apre sottobraccio. a Napoli la mostra Ma ero giù di corda con le foto di Rea che farà anche per un’altra ragiopoi tappa in altre città ne. Avevo dato in lettura un mio lungo racconto a una persona che stimavo molto e che sapevo sinceramente amica. Dopo averlo letto con cura, questi però non aveva esitato a manifestarmi, anche se con garbo, tutta la sua delusione. «Il fatto è che non conosci la vita, e come si fa a raccontare quello che non si sa?» era stato il suo commento conclusivo. Paolo Ricci, pittore di buona fama e uomo molto autorevole, era il mio secondo «mito» e punto di riferimento dopo quel Renzo Lapiccirella di cui parlo a lungo in Mistero napoletano, scritto circa quarant’anni dopo. Decisi di colpo di mettere in sonno le mie velleità letterarie per affrontare con occhi ben spalancati quel che si usa chiamare «l’animo umano». Insomma la vita. Avevo poco più di ventinove anni. Un altro al mio posto, come dice Conrad, si sarebbe sposato dandosi magari al commercio (mio padre ne sarebbe stato felice). Io invece mi misi a contemplare il mare e a scattare qualche fotografia. [...] Nel giugno, [...] del 1956 – vale a dire circa quattro mesi dopo il Plenum sovietico –, sulla rivista Nuovi Argomenti, diretta da Alberto Moravia e Alberto Carocci, apparve finalmente una lunga intervista a Palmiro Togliatti intitolata Nove domande sullo stalinismo. Che dire? Ne rimasi molto deluso. Togliatti si arrampicava sugli specchi, cavillava, ammetteva e non ammetteva. Dopo averla letta e riletta non so quante volte, dopo averla discussa e contestata con amici, compagni e perfino in qualche capannello di sconosciuti, decisi che forse era arrivato il momento di dar corso al progetto che da tempo covavo dentro di me. Il progetto di concedermi una «pausa di riflessione», anzi, per dirla ancora una volta con Conrad, di abbandonare almeno provvisoriamente il «bastimento» sul quale avevo lavorato sino ad allora con il titolo, quasi più comico che enfatico, di «rivoluzionario di professione». © RIPRODUZIONE RISERVATA llaa RReeppuubbbblliiccaa DOMENICA 7 OTTOBRE 2012 ■ 36 LA DOMENICA Spettacoli Do di petto Da Grigolo a Schrott, le giovani leve della lirica somigliano più ai divi di Hollywood che ai vecchi tenori di grande stazza, inespressivi e immobili Sfoderano in scena acuti e fisici impeccabili con un unico obiettivo: diventare finalmente pop Sex symbol all’Opera GIUSEPPE VIDETTI U ROMA - VIENNA na volta era l’arte che li faceva belli. I cantanti d’opera potevano essere autorevoli, geniali, carismatici — magari anche le tre cose insieme. Sex symbol però, mai. Oggi invece baritoni, bassi e tenori hanno altre ambizioni. Crisi delle vocazioni anche nel bel canto? No, per fortuna, la passione esiste ed è ancora fortissima. Ma dai cantanti si pretende molto di più di una bella voce. Capacità mimiche, prestanza fisica, abilità di entrare nel personaggio e rendere credibile un’arte — «dove ogni dramma è un falso» — alle platee disincantate del nuovo millennio. Le istituzioni più autorevoli, dal Metropolitan al Covent Garden, promuovono le nuove stagioni con campagne aggressive, audaci persino, cartellonistica da far invidia a Broadway. I sovrintendenti sono a caccia di artisti con la voce di Pavarotti, il carisma di Johnny Depp e l’energia di Vin Diesel. Peter Gelb mise nero su bianco già quando prese in mano le redini del Met: basta tenori dalla grande stazza, inespressivi e immobili. E per la Bohème del dopo-Pavarotti ha puntato tutto su un altro italiano, Vittorio Grigolo, trentacinque anni, romano, allevato a pane e canto nel coro della Cappella Sistina. «New York mi ha dato moltissimo, mi ha aperto le porte del Met e degli Stati Uniti», conferma il tenore in un raro momento di pausa, sdraiato nel salotto della casa dei genitori, poco distante da San Pietro. «Lì hanno un modo diverso di vedere l’opera. Vogliono cantanti-attori, capaci di arditi movimenti scenici anche durante le performance. È proprio vero che in Italia per essere qualcuno devi prima aver successo all’estero. A me in patria sembra ancora di essere uno sconosciuto». Dinamico, tonico, palestrato, Grigolo è l’esatto prototipo del nuovo tenore. C’è chi giura che la sua voce e la sua prestanza sono una garanzia: il nuovo Pavarotti è un italiano — anche se i pretendenti al trono sono almeno una mezza dozzina: dall’afroamericano Noah Stewart, che già quest’estate è stato Radames nell’Aida, a Stephen Costello, tenore di Philadelphia con una spiccata vocazione attoriale; dal maltese Joseph Calleja, che si propone come il Mario Lanza dei nostri giorni, all’albanese Samir Pirgu, che ha sedotto l’Arena di Verona con la Traviata. A fine anno Grigolo pubblica Ave Maria, un disco di arie sacre, ricordo degli anni trascorsi alla Sistina, ed è protagonista di una ricca stagione scaligera: dallo scorso 26 settembre la Bohème diretta da Daniele Rustioni (bacchetta d’oro già a ventinove anni dopo i trionfi al Covent Garden) con Angela Gheorghiu, il 6 novembre il Rigolettodiretto da Gustavo Dudamel con Elena Mosuc, il 7 gennaio un recital tutto suo, un’occasione che la Scala concede con estrema parsimonia. Recentemente è anche finito nell’obiettivo di Bruce Weber, fotografo che predilige po- Vittorio Grigolo Trentacinque anni, è stato il più giovane tenore alla Scala nel 2000 Nel 2003 è un memorabile Tony in West Side Story Con i trionfi di Bohème al Metropolitan, Manon al Covent Garden, Roméo et Juliette alla Scala è tra i cantanti d’opera più richiesti e pagati llaa RReeppuubbbblliiccaa DOMENICA 7 OTTOBRE 2012 ■ 37 Noah Stewart Mirco Palazzi Il tenore afroamericano (31 anni) nato e cresciuto a Harlem ha fatto lunga gavetta prima della standing ovation al Covent Garden con Miss Fortune. L’album Noah, che contiene arie di Puccini e Massenet, è volato al primo posto in classifica Dopo il debutto nel Don Giovanni, la carriera del trentatreenne basso riminese è inarrestabile. In dieci anni ha collezionato un repertorio invidiabile. L’anno scorso ha trionfato con Lucia di Lammermoor alla Washington National Opera Stephen Costello Jonas Kaufmann A 31 anni, il tenore di Philadelphia ha conquistato il pubblico dei teatri più prestigiosi: Covent Garden, Metropolitan, Lyric Opera di Chicago. Prestanza fisica e verve comica l’hanno aiutato a dar vita a un Rodolfo (Bohème) già cult Don José, Alfredo, Cavaradossi, Pinkerton: mai sbagliato un ruolo Il tenore tedesco naturalizzato svizzero, classe 1969, è stato uno dei primi a richiamare l’attenzione sul sex appeal di un cantante d’opera. E continua a sedurre Joseph Calleja Saimir Pirgu Il tenore maltese, 34 anni, è il Gary Barlow della lirica (per la sua angel face, non per il timbro) Ha debuttato nel Macbeth di Verdi a 19 anni e ha vinto il premio Caruso Il cd appena pubblicato, “Be My Love”, è un tributo a Mario Lanza A 22 anni il tenore albanese (ora ne ha 31) venne scelto da Abbado per Così fan tutte. Ha lavorato per bacchette prestigiose: Muti, Harnoncourt, Maazel, Pappano Ultimo trionfo: quest’estate nella Traviata di Zeffirelli all’Arena stadolescenti col fisico da surfisti. Grigolo, che rifiutò l’opportunità di far parte dei Divo, un gruppo vocale di crossover, per inseguire il suo sogno di tenore “puro”, non nasconde le sue tentazioni da pop star né le amicizie modaiole con Franca Sozzani e Anna Wintour, le signore a capo di Vogue Italia e America. «A Los Angeles ho partecipato all’edizione americana di Ballando sotto le stelle», racconta. «Al party di Vogue, al Met, ho cantato Nessun dorma e ho abbattuto un muro, ho fatto ridere la Wintour. Quella sera ho conosciuto Gwyneth Paltrow, Eva Mendes e Adrien Brody. Alla fine siamo andati tutti a fare bisboccia alla Boom Boom Room, un club di Manhattan». Anche lui è convinto che non è la stazza a fare il bravo tenore. «Guarda Samuel Ramey (il basso americano classe 1942 specializzato in Händel, Mozart e Rossini, ndr) è uno stecchino, eppure…», esclama. E quanto alla capacità di recitare e magari anche di fare qualche acrobazia: «L’anno scorso in Roméo et Juliette alla Scala saltavo come una scimmia da una parte all’altra del palco. Che spettacolo quella sciabolata!». Tra i diciassette brani dell’album in uscita c’è anche Maria che dolce nome, che cantò a Pavarotti poco prima che il maestro morisse. «Ero andato a trovarlo nella sua casa di Pesaro per preparare la Bohème», ricorda. «Mi disse: “Che bella, dobbiamo registrarla quando torni da Washington”. Purtroppo se n’è andato prima che potessimo rivederci». La mamma lo coccola, gli porta il cappuccino con la schiuma, poi sfoglia con lui l’album dei ricordi. Anno 1990 — foto con dedica: «A Vittorio Primo per caro ricordo», firmato Luciano Pavarotti. Vittorio aveva tredici anni. Altra foto dello stesso anno: «A Vittorio con ammirazione», firmato Lucio Dalla. «Fu scattata nel camerino di Vittorio al Teatro dell’Opera, a Roma. Faceva il pastorello nella Tosca. Lucio era lì per parlare con Luciano del progetto Caruso», spiega la signora Marcella Vittoria. «Guardi che scrive Zeffirelli: “Caro, caro Vittorio, incalzati fatalmente dal destino non abbiamo più scelta, siamo condannati ad amarci fino all’ultimo respiro”». Una didascalia che sembra scritta per una foto di Anna Netrebko ed Erwin Schrott, lei soprano russa, lui baritono uruguayano: sono la coppia d’oro della lirica contemporanea. Vivono a Vienna, hanno un figlio di quattro anni, Tiago, e sono gli artisti più coccolati dai teatri d’opera mitteleuropei. Nei cartelloni del Gala di Stelle, il recital trionfale che hanno tenuto ad agosto nella Waldbühne di Berlino insieme a Jonas Kaufmann, sembravano supereroi, photoshoppati come per una nuova edizione di Ben-Hur. Schrott, trentanove anni, lascia il segno ovunque passa. Irruento, impaziente, aggressivo come i suoi ruoli impongono, ha dato vita a un Don Giovannisopra le righe e «porcaccione» — per dirla alla Zeffirelli — e ha trasformato il Mefistofele in un palestrato diavolo leather. La voce asseconda le sue capacità camaleontiche: capelli ossigenati, punk, dark, e addominali scolpiti che fanno sgranare gli occhi anche alle melomani più attempate. «Adoro i ruoli mozartiani, mi hanno insegnato tutto: Don Giovanni, Figaro, Leporello. Oltre al Faust di Gounod. E Verdi: se riesci a cantare Verdi vuol dire che la tua tecnica vocale, il controllo del fiato sono a posto», dice Schrott seduto al bar di Franziskanerplatz, davanti al bel palazzo del centro storico di Vienna dove abita con la Netrebko. Più di Kaufmann, il tenore tedesco rinomato per Erwin Schrott Il basso-baritono uruguayano, trentanove anni, è diventato celebre con Don Giovanni. Dopo il debutto al Metropolitan nel 2000, vive a Vienna con la compagna, la soprano russa Anna Netrebko. I recital della coppia sono stati gli eventi più acclamati delle ultime due stagioni concertistiche il suo sex appeal, Schrott ostenta una fisicità che ai tempi di Tito Gobbi e Tom Krause sarebbe risultata trasgressiva, se non sacrilega. «Adoro recitare, se posso dare un corpo al personaggio che interpreto, rendendolo più gradevole e credibile, è per me un dovere farlo», conferma. «Oggi i registi sono a caccia di cantanti-attori». Amministrare l’opera come un disco pop o un musical di Lloyd-Webber sembra l’unica soluzione per traghettarla alle nuove generazioni. «Perché no? La lirica è ancora pensata come un’arte elitaria; musica noiosa interpretata da cantanti che non si muovono sul palcoscenico, bravi solamente a ostentare la voce. Se facciamo flop i contribuenti hanno il sacrosanto diritto di dire: state sperperando le nostre tasse per un teatro di 1600 posti sempre vuoto. L’opera è per tutti, bisogna solo farla conoscere. Non raggiungi il grande pubblico se non fai operazioni di marketing». Schrott è supersexy anche nella copertina di Arias, il cd appena pubblicato in cui, con l’orchestra diretta dal nostro Rustioni, passa in rassegna Mefistofele, Tosca, Faust, I Lombardi, Carmen e Don Quichotte. «Nove anni fa, quando avevo trent’anni, volevo già cantare questo repertorio», spiega. «Ho saggiamente aspettato, ho frenato l’ambizione artistica e la mia naturale impazienza. È facile bruciarsi nella lirica, mica solo nel pop. La carriera è una donna capricciosa. Osserva ogni tuo movimento, anche mentre dormi. Il giorno in cui decidi che sei più importante di quello che fai, lei ti dirà addio». Schrott ha trovato la sua ancora alla Staatsoper di Vienna, come Grigolo al Metropolitan di New York. «Mi sono cullato nel sogno americano», conclude il tenore romano che ora sta lavorando sodo per l’autunno scaligero. «Ricordo ancora la Bohème al Met dopo la morte di Luciano: una pressione terribile e tanta voglia di fare bene. Col Met sono impegnato fino al 2017: Elisir d’amore, Rigoletto, Il Pescatore di perle. L’America è nel mio cuore. Cento dollari in tasca, giubbotto di pelle, jeans, t-shirt bianca, una Harley-Davidson e il serbatoio pieno». L’ex ragazzino della Sistina è un easy rider. © RIPRODUZIONE RISERVATA llaa RReeppuubbbblliiccaa LA DOMENICA DOMENICA 7 OTTOBRE 2012 ■ 38 Next Marketing DOVE SKY Photoshop? No grazie Vince chi arriva primo La campagna è dedicata alla bellezza femminile e al modo in cui i media trattano questo tema Tra le iniziative: una piattaforma digitale per le discussioni, cartelloni che ritraggono donne comuni e un manifesto ufficiale È il campionato virtuale lanciato sul social network Facebook Gli utenti possono aggiungere o togliere punti alle squadre usando i tasti “gufa” o “tifa”; viene poi stilata la classifica in cui risulta vincitrice la squadra con più tifosi Sono finiti i tempi dei persuasori occulti, di Mad Men e dei semplici banner. Oggi la pubblicità è costretta ad ascoltare il consumatore-utente, a comprare la sua opinione prima di vendergli un prodotto Addio advertising, benvenuti nell’era dell’invertising BBC WORLD CHIQUITA LEVI’S Sms interattivi Sticker da 10 e lode Condivisione no profit Ha dialogato con il pubblico posizionando per le strade della città una serie di poster capaci di ricevere sms dai passanti L’idea è del canale di news che ha annunciato così il suo arrivo negli Stati Uniti L’azienda è riuscita a conquistare anche le fasce più giovani grazie ad alcune idee: frequentare gli stessi luoghi, parlare lo stesso linguaggio e aprire un sito web con un forum dove i ragazzi si confrontano Il marchio ha creato una campagna su Facebook per sostenere Water.org. Al raggiungimento di centomila condivisioni da parte degli utenti l’iniziativa promette di portare acqua potabile a ottomila persone per la vita Il cliente (online) ha sempre ragione RICCARDO LUNA I l primo banner fu una vera rivoluzione. C’era già stato qualche timido esperimento, ma quando il magazine californiano Wired pubblicò sul sito HotWired una striscia orizzontale dove c’era scritto: «Hai mai cliccato con il tuo mouse qui sopra? Lo farai», tutti sapevano che nulla sarebbe più stato come prima. Era nata la pubblicità online e faceva quello che ha sempre fatto la pubblicità: vendere prodotti. Punto. Era il 25 ottobre 1994. Il primo banner fu una rivoluzione annunciata, anzi gridata; la seconda invece è iniziata sottovoce. È stato dapprima un passaparola, poi una conversazione, a volte anche un focolaio di rivolta contro il cattivo gusto di certi spot. Come denominatore comune, l’esigenza di contare e non farsi contare e basta. E così quasi diciotto anni dopo quello squillo di tromba, si arriva a un’altra data da ricordare: il 19 marzo del 2012. Quel giorno sul blog ufficiale di Google è apparso un post breve intitolato: «Un nuovo modo per accedere a contenuti di qualità online». Il nuovo modo si chiama Consumer Surveys ed è una piattaforma per fare una cosa che la pubblicità non ha fatto mai: invece di vendere qualcosa ai consumatori, compra la loro opinione, scopre come la pensano. Non in maniera occulta, ma alla luce del sole. Alla luce del web. Consumer Surveys fa dei semplici sondaggi, ma rischia di mandare in pensione la pubblicità tradizionale. «Lo stanno usando il New York Daily News, il Christian Science Monitor, il Texas Tribune e Pandora» racconta Hal Varian, capo del dipartimento economico di Google, secondo cui per le piccole aziende e i giornali è una grande opportunità. «Fun- ziona così. Le aziende, soprattutto quelle che non potrebbero permettersi ricerche di mercato, creano un sondaggio con il quale riescono a sapere che prodotto vogliono i loro potenziali clienti. Se preferiscono un certo colore, una certa forma, un certo prezzo. Gli utenti completano le domande del sondaggio al fine di accedere ai contenuti a pagamento del sito. E gli editori vengono remunerati quando gli utenti completano il sondaggio e questo rappresenta per loro un’alternativa al modello classico di far pagare i contenuti». Per sondaggi generici, Google riceve dieci centesimi di dollari a risposta che diventano 50 per indagini mirate. Ma il punto non sono i soldi. È il ribaltamento di prospettiva: Google, che pure ha costruito un impero sulla pubblicità online mirata, sta battendo da sei mesi una strada nuova per consentire alle aziende non di vendere prodotti cliccando su un banner, ma di comprare opinioni. Questa cosa è il banner 2.0 di cui si fantastica da anni, ma in realtà dal punto di vista filosofico è molto di più: «È il passaggio dall’advertising all’invertising» spiega Paolo Iabichino, direttore creativo di Ogilvy e autore nel 2010 di un libro diventato cult chiamato proprio Invertising. «Non parliamo di una chincaglieria tecnologica ma di un nuovo atteggiamento, una nuova sensibilità, una nuova attitudine che la tecnologia rende finalmente possibile. L’invertising non è un modo per personalizzare meglio i propri messaggi, ma per aprire, attraverso la pubblicità, un dialogo con le persone. Farle partecipare». La campagna simbolo di questa svolta fu, nel 2004, quella sulla bellezza autentica di Dove con un video di Tim Piper che su YouTube ha fatto oltre 15 milioni di visualizzazioni e una serie di affissioni interatti- llaa RReeppuubbbblliiccaa DOMENICA 7 OTTOBRE 2012 ■ 39 MINI IKEA ‘‘ FIAT 500 L’invertising non è un modo per personalizzare meglio i propri messaggi, ma per aprire un dialogo con le persone Farle partecipare Paolo Iabichino Direttore creativo di Ogilvy Il poster sa chi sei Hotel Ikea Come tu la vuoi Negli Usa ai clienti che rilasciano i propri dati viene regalato un portachiavi con un rilevatore a radiofrequenza: quando guidano, i manifesti pubblicitari intercettano il segnale e lanciano messaggi che si rivolgono a ognuno di loro A Oslo quaranta famiglie sono state invitate a trascorrere una notte nel negozio. L’azienda ha dato ai fortunati la possibilità di usufruire di tutti gli spazi: salotto, camera da letto, bagno e infine la cucina per fare colazione al mattino Prima dell’arrivo sul mercato l’azienda ha sviluppato una piattaforma partecipativa dove appassionati e professionisti hanno dato consigli e suggerimenti. I dati sono stati poi raccolti in un database e analizzati dalla Fiat Banner GLOSSARIO Tecnicamente in inglese è una bandiera Sul web è una pubblicità, cioè uno spazio in un sito che promuove qualcosa: cliccandolo si va sul sito del prodotto pubblicizzato Advertising È la pubblicità, ovvero una forma di comunicazione di marketing per convincere un gruppo di persone a fare qualcosa (spesso a comprare un prodotto) Invertising È un nuovo filone della pubblicità che punta a valorizzare il dialogo con i potenziali consumatori, spesso attraverso il web, e la promozione di messaggi autentici Survey È un sondaggio: un metodo per raccogliere informazioni quantitative su un fenomeno. Se fatto ai consumatori, serve a orientare il comportamento delle aziende Le applicazioni nei telefonini Sempre più numerose le app di aziende pensate in una logica di servizio, usate dai consumatori per interagire con i marchi in modo ludico ve in cui si chiedeva agli abitanti di New York di partecipare a un sondaggio via sms. Il tema era: basta con queste pubblicità di donne finte e ritoccate al computer, la bellezza autentica è un’altra cosa. Fu un trionfo e anche l’inizio di una nuova consapevolezza. Questa: al tempo del web 2.0, con le opinioni che viaggiano in rete alla velocità di un tweet, non hanno più senso le campagne che impongono modelli fuori dal mondo. Come ha scoperto lo scorso 22 giugno la commissaria europea all’innovazione Marie Gheoghegan Quinn che per il lancio di una campagna per incoraggiare le studentesse a diventare scienziate ha messo in rete una clip in cui tre adolescenti sculettanti, armate di rossetto e tacchi a spillo, entrano in un laboratorio seminando il panico. Quel video ha resistito online 36 ore appena, sommerso dalle furiose proteste arrivate via twitter e da IBM MC DONALD Cambio di rotta Tu chiedi e lui risponde Manifesti pieni di testo che stimolano il lettore e un sito in cui tutti sono liberi di esprimere la propria idea Questo cambio di atteggiamento verso il cliente ha permesso all’azienda di allargare la propria clientela superando Microsoft In Canada, la società ha deciso di ascoltare i consumatori inventando una piattaforma digitale per poter rispondere alle loro curiosità I clienti possono anche leggere le domande degli altri e le risposte che hanno ottenuto centinaia di altri video caricati su YouTube da vere giovani scienziate che chiedevano «qualcosa di autentico». Morale, via il video dello scandalo e parliamo di chi sono davvero le scienziate, ha detto la commissaria. Bing!, anzi, invertising! Ora questo modello sta dilagando, sostiene Iabichino. Tra i casi più emozionanti c’è la recente campagna di Levi’s: «Per il video di lancio di una nuova collezione di jeans, hanno cercato gli interpreti sul sito di foto Instagram e hanno fatto un grande uso di Twitter per alimentare la conversazione creando una piattaforma dove ciascuno è invitato a raccontare cosa fa nel suo quotidiano per migliorare un po’ il mondo che abitiamo». La cosa ha un sapore “buonista” come la campagna UnHate di Benetton che ha vinto l’ultimo Grand Prix della pubblicità a Cannes puntando sul tema del pacifismo. Ma invertising non è solo questo. Uno degli esempi più riusciti è il sito di McDonald Canada. Si chiama Our food. Your questionse consente a chiunque di fare domande e ottenere risposte pubbliche su cosa si mangia. Roba tosta, come: «Il vostro cibo è fresco?» «Usate additivi?» O addirittura «ci mettete un antivomito?» Ma anche semplici informazioni del tipo: «Quante calorie ci sono nel McFlurries?». Il tutto su una grande bacheca pubblica che offre la possibilità di “seguire” una domanda e spararla su Twitter e Facebook. Come dice una bella campagna, in pieno stile invertising, appena lanciata da Ibm, siamo entrati nell’era del “chief executive customer”. Il cliente al tempo di internet non solo ha sempre ragione: ma devi pure starlo a sentire per capire che prodotto fare. © RIPRODUZIONE RISERVATA INFOGRAFICA A CURA DI DAMIANA ERNESTO App llaa RReeppuubbbblliiccaa LA DOMENICA DOMENICA 7 OTTOBRE 2012 ■ 40 I sapori Sottobosco I primi ad arrivare sono gli ovuli, più riservati e amanti del sole rispetto a galletti e porcini Sono i sovrani della tavola, non accettano pause in frigorifero, perfetti anche crudi con l’altro gioiello della terra, il tartufo Ma attenzione ai loro gemelli maligni LICIA GRANELLO Ovulo reale L’amanita caesarea ha gambo giallino e cappello arancio-rosso Di profumo delicato e polpa soda, battezzato dai romani “cibo degli dei” Muscaria Varietà velenosa — come la sorella amanita phalloides (mortale) — malgrado l’accattivante cappello rosso a pois bianchi rappresentato nelle fiabe Sott’olio La conservazione che più ne rispetta il sapore fine, a patto che l’extravergine non lo sovrasti Si può anche congelare a crudo o mettere in aceto Il vino Champagne per l’abbinamento più semplice, o un bianco dalle note morbide, con legno e profumi sotto traccia (come un Verdicchio invecchiato) eale, dei Cesari, imperiale, cibo degli dei. Impossibile trovare un cibo che negli ultimi duemila anni abbia assommato una tale quantità di definizioni sontuose, a fronte del suo status di semplice miceto. Nemmeno il tartufo bianco arriva a tanto, segnato com’è dalla diffidenza che per secoli lo ha costretto a passare per la pentola prima di arrivare in tavola. L’ovulo reale, invece, è stato amato da subito, sia in versione nature, sia spadellato, pur con la cura che si deve ai gioielli alimentari e con l’attenzione a distinguerlo dai parenti maligni. Bello da farne l’archetipo del fungo, così come lo disegnano i bambini, buono da farlo assurgere a campione dei campioni, malgrado le discussioni con i sostenitori del primato del porcino siano infinite. Le mitezze di inizio ottobre ce lo regalano al meglio della forma, amante com’è delle temperature senza brividi, con il sole che intiepidisce il sottobosco di faggi e castagni dopo la pioggia. Trovarlo è una magia rara, che rallegra i cercatori. Un cesto di ovuli è un evento da segnare sul calendario. Perché mentre porcini e gal- R Un destino da colti e mangiati letti si lasciano scoprire, mostrando gambi panciuti e cappelli frastagliati, gli ovuli sono riservati e sobri, come richiede l’appartenenza al ceppo nobiliare. In compenso, a saperli raccogliere con il giusto garbo, inondano il terreno di spore con generosità. Dove è nato un ovulo ne nasceranno altri: gli esperti dicono che nessun altro fungo regala la stessa, rassicurante certezza. Ma guai a farsi prendere dalla frenesia. Al di là della raccolta giustamente contingentata, la legge proibisce la sua asportazione dal terreno prima che sia giunto a maturità. Così facendo, si protegge da una parte il futuro della fungaia e dall’altra l’incolumità dei raccoglitori. L’amanita caesaria, infatti, allo stadio iniziale è completamente inbozzolata in una membrana bianca, che la rende simile a un uovo. Solo al momento giusto, la membrana si rompe e l’ovulo buono si manifesta in tutta la sua specificità, che lo rende ben riconoscibile agli occhi dei cercatori esperti. Dal bosco alla tavola, il passo deve essere brevissimo, data la delicatezza dei suoi tessuti. Guai a conservarlo per il prossimo fine settimana: dal soggiorno in frigo esce avvilito, al limite della commestibilità. Per rispettarlo in tutta la sua fragile gastro-seduzione, occorre attuare la tattica del «colto e mangiato». Quando arriva il tempo del tartufo bianco — una manciata di giorni per gustarli entrambi, dato che uno odia il freddo e l’altro lo ama — un velo d’olio e un nonnulla di pepe battezzano una meravigliosa tavolozza di fragranze e profumi, anche se c’è chi aggiunge qualche briciola d’acciuga per rendere il piatto ancora più malandrino. Approfittate dei primi weekend d’autunno per regalarvi una full immersion fungaiola, che dedica le prime due settimane d’ottobre al culto dell’ovulo reale. In caso d’urgenze golose, raggiungete Cesena, dove si svolge il Festival del cibo di strada. Se i cartocci di ovuli fritti latitano, consolatevi con una piadina farcita di rucola e squacquerone. © RIPRODUZIONE RISERVATA Col pesce Un’insalata di ovuli tagliati a fettine accompagna il tonno alla griglia Andar per Funghi llaa RReeppuubbbblliiccaa DOMENICA 7 OTTOBRE 2012 ■ 41 Indirizzi DOVE DORMIRE DOVE MANGIARE DOVE COMPRARE CASTELLO DI CAMERLETTO Corso Susa 300 Località Caselette Tel. 011-9688404 Doppia da 80 euro, colazione inclusa IL CIABOT Via Costa 7, Località Roletto Tel. 0121-542132 Chiuso dom. sera e lunedì, menù da 25 euro ORTAGGI FRATELLI BUSIA Via Umberto I 24 Giaveno Tel. 011-9363280 LOCANDA TRUC BALARI Frazione Costa, Cumiana Tel. 329-6718445 Doppia da 60 euro, colazione inclusa RISTORANTE REGINA Piazza Barbieri 22 Pinerolo Tel. 0121-322157 Chiuso domenica, menù da 23 euro COOPERATIVA AMOUNT E AVAL Via Roma 20 Perosa Argentina Tel. 0121-81786 VILLA DORIA IL TORRIONE Strada Galoppatoio 20 Pinerolo Tel. 0121-322616 Doppia da 110 euro, colazione inclusa LA BETULLA Strada Provinciale Giaveno 29 Località San Bernardino Tel. 011-933106 Chiuso lunedì, menù da 35 euro AGRITURISMO FIORENDO Via Talucco Alto 65 Pinerolo Tel. 0121-543481 In insalata In padella Con tartufo bianco Gambo e cappello tagliati in lamelle, conditi con un’emulsione di extravergine delicato e limone Sopra, pepe macinato fresco e scaglie di parmigiano reggiano Patate di montagna bollite sode, affettate, saltate in olio e burro, aggiunte agli ovuli insaporiti in poco extravergine profumato con aglio e rosmarino Incontro a crudo di altissima valenza gastronomica tra gli ultimi ovuli della stagione e le prime trifole bianche profumate (da novembre) Condimento lieve Sulla strada Il posto che conosco solo io GIAN LUCA FAVETTO i vuole la pioggia. Perché senza terra bagnata, senza umidità, non vengono. E poi ci vuole il sole. Perché se, dopo la pioggia, non salta fuori il caldo, non vengono. E poi bisogna che non ci sia nessuno intorno. Perché se ci sono degli intrusi o degli spioni, non vengono; peggio, se ne vanno, nel senso che te li portano via, quindi non bisogna farsi seguire, non bisogna farsi vedere, bisogna dissimulare. È una questione fra te e loro, quella con i funghi. Una questione privata, seppure all’aperto, in mezzo alla natura. Ha riti e consuetudini che si affinano in anni di pazienza e camminate. Non è che, i funghi, li vai a cercare: i funghi si vanno a trovare. Vai direttamente a casa loro, come se andassi in visita. Conosci l’indirizzo. Sai dove nascono, dove si raccolgono. E loro, generalmente, ti aspettano sempre nello stesso posto, seminascosti sotto quelle foglie, sotto quell’albero, quel castagno, in quel cafas, al li- ILLUSTRAZIONE DI CARLO STANGA C mite di quel prato, là dove c’è uno sbanco di terra e comincia il sottobosco. Chi va a funghi conosce i posti segreti dei funghi. Da noi si chiamano reje, una parola che suona regale, preziosa. Sono un bene prezioso, le reje. Ciascuno ha le sue, in una parte di bosco che diventa come una tasca, qualcosa di intimo. Si passano in eredità, ma non si rendono pubbliche, non si raccontano. L’andare a funghi preferisce il silenzio alle parole. Puoi regalarli tutti o condividerli a cena, ma non sveli il luogo da cui provengono. Non è ingenerosità, è il piacere della raccolta, quel gesto che comincia dagli occhi, quella carezza che diventa strappo morbido, quella golosità del tocco. C’è chi raccomanda l’uso del coltello per raccoglierli, ma tagliarli è come mozzare la coda ai cani. Non si va a funghi con un’arma. Si va con naso, occhi, tatto. E con quella parte di corpo che richiama la fortuna. © RIPRODUZIONE RISERVATA Zuppa Filetto Soffritto di dadini di lardo, burro e olio per insaporire gli ovuli a fettine, poi brodo vegetale Nella zuppiera, un uovo sbattuto con parmigiano e crostini Acciuga sciolta lentamente in extravergine e poi la carne a dorare per sigillarne gli umori, lasciando il cuore rosa e salando alla fine Sopra, lamelle di ovuli crude LA RICETTA Figlio d'arte (la famiglia gestisce la pasticceria Converso di Bra, Cuneo), Alessandro Boglione guida la cucina del Castello di Grinzane Cavour, tra tradizione e spirito innovativo, come nella ricetta ideata per Repubblica Ingredienti per 4 persone 12 scampi freschi di media grandezza 200 gr di ovuli reali 2 uova fresche olio extravergine del Garda sale marino pepe nero al mulinello patata viola Pulire gli scampi, tagliarli a metà e adagiarli tra due fogli di carta da forno leggermente unta. Con un batticarne ridurne lo spessore a un paio di millimetri. Disporre il carpaccio ottenuto al centro del piatto. Mondare gli ovuli, eliminando la parte esterna bianca, tagliarli con un coltello in fettine sottili e, dopo averli conditi con poco olio, sale e pepe, posizionarli sul carpaccio Mettere le uova in acqua fredda e bollire cinque minuti, raffreddare Emulsionare il rosso cotto con poco olio, pochissimo pepe e niente sale. Guarnire il tutto con delle chips di patata viola, qualche cristallo di sale, un filo di olio ed erbe fresche aromatiche ✃ Carpaccio di scampi, ovuli reali e crema cotta di rosso d’uovo llaa RReeppuubbbblliiccaa DOMENICA 7 OTTOBRE 2012 ■ 42 LA DOMENICA L’incontro Era l’attore biondo, collezionista di love story e di film non sempre memorabili. Ma quest’anno qualcosa è cambiato: le nozze, un terzo figlio, la casa a New Orleans. Al cinema si spoglia in “Magic Mike”, è un reporter gay in “Paper Boy”, uccide in “Killer Joe” E, per la prima volta, convince i critici: Star system Matthew McConaughey “Ho seminato e aspettato Non sono più il principe azzurro di cui ero prigioniero” iao, sono Matteo». Matthew McConaughey si esprime in un italiano traballante ma volenteroso. Telefona dal suo cellulare mentre percorre in macchina le strade della Lousiana, in sottofondo la voce della moglie, l’ex modella Camila Alves. «Stiamo cercando una nuova casa a New Orleans. Ho girato qui Killer Joee anche due dei miei prossimi film, da attore e produttore, saranno ambientati in zona. Ci staremo molti mesi e quindi abbiamo bisogno di una casa, una casa piacevole». Il tono di voce, si intuisce anche dalla linea che viene e va, è da felicità assoluta. «Credo di essere al culmine della mia vita. Ho quarantadue anni, una carriera che mai avrei sognato di raggiungere, una famiglia vera e una fondazione che assorbe il mio bisogno di aiutare gli altri. Non saprei davvero cosa chiedere di più». Non è stato, ovviamente, sempre così. Matthew McConaughey, fusto texano, sguardo vagamente somigliante a quello del suo idolo Paul Newman, nel suo tragitto verso il successo s’è incagliato spesso. Non è stato uno di quelli che «il palcoscenico a quattro anni». Il più piccolo di tre fratelli maschi, è nato a Uvalde, in Texas, la madre insegnante d’asilo e il padre ex sportivo riciclatosi nel business petrolifero. «Ero bravo a scuola, soprattutto eccellevo nello sport. Ho iniziato a girare qualche spot. Pensavo che tutto fosse facile e non era così». Incurante della distanza, come se fosse una normale conversazione a quattr’occhi, racconta di come le sue ambizioni si siano infrante presto con- a Penélope Cruz, conosciuta sul set dell’avventuroso Sahara. Ma la donna della sua vita è la modella brasiliana Camila Alves. Oggi la coppia ha due figli: Levi, quattro anni, e Vida di due, e un terzo è in arrivo: la notizia del lieto evento (postata su Twitter da entrambi i genitori) che li ha costretti ad anticipare la data delle nozze, celebrate lo scorso 9 giugno: «La stabilità sentimentale, l’avere una famiglia mi ha davvero cambiato la vita: i figli ti costringono a pensare positivo, a rivedere il mondo dalla loro prospettiva. Devo a loro se oggi ho chiarezza di prospettive e il coraggio di scelte artistiche più azzardate». L’estate scorsa è arrivato il momento della verità professionale: tre ruoli forti in altrettanti film controversi che gli sono valsi il plauso sbalordito della critica. È il sicario psicopatico Killer Joe nel film omonimo di William Friedkin (nelle sale italiane in questi giorni), un Ho sempre avuto un ottimo rapporto con mia madre, ma non dimenticherò mai quando mi disse: “Ti voglio bene, ma adesso non mi piaci più” FOTO ANTHONY HARVEY/PHOTOSHOT/SINTESI «C ROMA tro una serie di audizioni fallimentari. «Fu allora che decisi di prendermi una pausa di due anni e di studiare davvero. Poi ho capito che dovevo avere forza, coraggio, e una personalità autonoma. Quando ho ricominciato con i provini i risultati sono stati diversi». L’occasione gliela diede Richard Linklater con il film La vita è un sogno. Matthew si fa notare dai critici, «avevo ventun anni, in quel periodo morì mio padre e io sentii che non ero più un ragazzo. Il motto Just keep living, che è oggi il nome della mia casa di produzione, è nato così». Il ruolo che lo consolida è quello dell’avvocato Jake Brigance del film Il momento di uccidere, basato sul romanzo di John Grisham. Steven Spielberg lo vuole in Amistad, Ron Howard lo sceglie per Edtv. Ma dal 2000 il prestante latifondista (ha una proprietà in Texas di 1.600 acri pagata 500mila dollari) cavalca l’onda delle commedie romantiche da grande incasso. Prima o poi mi sposo con Jennifer Lopez, Come farsi lasciare in 10 giorni con Kate Hudson, A casa con i suoi con Sarah Jessica Parker. L’ormai divo, cristallizzato nel personaggio di scapolo attraente e poco impegnato che cambia per amore, crea quasi un lucroso sottogenere di commedia a sé. L’immagine a torso nudo è marchio distintivo: «Amo lo sport e la vita all’aria aperta: logico che circolino questo tipo di foto», si difende al telefono. Anche se però continua a spogliarsi: per lo spot di un profumo italiano e molto al cinema. Al punto che una rivista inglese specializzata ha pubblicato un diagramma con le percentuali corporee in cui l’attore è “scoperto” sul grande schermo. Allo status cinematografico di fidanzato ideale fa da contrappunto una vita reale sregolata. Nel ’98, chiamati da un vicino di casa, i poliziotti lo trovano impegnato a suonare i bonghi in piena notte, completamente nudo. Viene arrestato per resistenza a pubblico ufficiale e possesso di marjiuana, ma l’accusa per droga decade e lui paga solo una multa per schiamazzi. Quando glielo si ricorda, dice: «Ho sempre avuto un rapporto meraviglioso con mia madre, ma non dimenticherò mai di quando mi disse: “Ti voglio bene, ma non mi piaci più”». Il fatto è che Matthew piace molto alle donne, passione che ricambia con entusiasmo. Una teoria di fidanzate famose: da Sandra Bullock a Ashley Judd giornalista omosessuale nel disturbante The Paper Boy di Lee Daniels e il guru dello spogliarello maschile in Magic Mike di Steven Soderbergh. «Ho scelto questi personaggi uno a uno, consapevole che ciascuno di loro era un rischio. Ho seminato e aspettato. Sapevo che se fossero venuti fuori tre film buoni o almeno decenti, avrei cambiato per sempre l’immagine di principe azzurro di cui ero ormai noiosamente prigioniero». È decisamente un principe perverso quello di Killer Joe, che s’innamora di una seducente adolescente interpretata dalla ventenne Juno Temple: «La prima volta che ho letto il copione ho rifiutato il ruolo, lo trovavo un personaggio ripugnante. Ma poi Friedkin mi ha fatto riflettere sul lato ironico della storia in cui tutti i personaggi sono immorali». Anche in questi film ci sono ampie scene di sesso e nudo, «ma il corpo stavolta è stato strumento fondamentale al servizio del personaggio e del film». Ora però Matthew è pronto per sgonfiare i muscoli: è calato oltre 13 chili per interpretare la vera storia di Ron Woodroof, tossicomane che nel 1986 contrasse l’Aids, «gli diedero un mese di vita, era incompatibile ai farmaci usati per le cure. Trovò rimedi alternativi, si affidò all’omeopatia, visse più a lungo di quando si potesse sperare e aiutò gli altri». Un ruolo, quello in The Dallas Buyers Club, che sembra fatto apposta per concorrere agli Oscar. Come non bastasse, è arrivata la chiamata di Martin Scorsese. «Sono andato da lui un mese fa, mentre guidavo per raggiungere la sua casa a New York, pensavo che esattamente vent’anni prima, nel ’92, ero stato alla prima lezione di cinema dedicata proprio ai suoi film. È stato un flashback entusiasmante». Nel film The Wolf of Wall Street interpreta il capo e mentore di Leonardo Di Caprio. «Sono stato sul set una settimana. Leonardo è un collega formidabile ma soprattutto Scorsese mi ha conquistato. Non mi aspettavo il suo senso dell’umorismo, si ride insieme tutto il giorno. E il fatto che ti lascia libertà creativa. Alla mia età, a questo punto della carriera, credo di essere in grado di aggiungere qualcosa di mio ai personaggi che interpreto, e Martin mi è venuto dietro». McConaughey ha lasciato New York in fretta. Non ama il caos urbano. Perfino Malibu, dove ha una bella villa, è un posto con una densità abitativa troppo alta per uno abituato alla solitudine e agli spazi aperti. Per anni le sue vacanze sono state in roulotte in posti sperduti. La vacanza spartana è stato uno dei motivi di rottura con la fin troppo metropolitana Penélope Cruz. La neosposa Camila, invece, condivide di buon grado le vacanze itineranti: «che si possono fare benissimo con i bambini al seguito», dice l’attore. Non che McConaughey sia un teorico della vita frugale. Almeno a giudicare dalle pretese riguardo alla casa che sta cercando a New Orleans. Eccolo che al telefono descrive i suoi criteri: «Il problema di questi luoghi è che le case sono stratificate su più piani. Tipo la cucina al primo e la camera da letto al terzo. Così se ti viene voglia di uno spuntino notturno fai avanti e dietro in continuazione, no grazie. La cerchiamo tutta su un piano, ma non è facile perché vogliamo almeno quattro stanze da letto, visto il terzo figlio in arrivo». E poi c’è il problema della piscina: «I bimbi la vorrebbero, ma io sono un tipo ansioso. Una piscina significa vivere lo stress che se perdi di vista uno dei bambini quello poi magari ci cade dentro. No, grazie, niente piscina». Ma il ricchissimo McConaughey si occupa anche degli altri, con la sua fondazione: «Aiutiamo adolescenti talentuosi ma poveri a sviluppare le proprie capacità, a continuare gli studi». Alle teorie filosofiche sulla mancanza di idealità e di motivazioni che il mondo politico regala ai giovani di oggi il pragmatico, il divo repubblicano stigmatizza: «I discorsi contano poco, quello che conta in America è darsi da fare, frequentare buone scuole, portare a casa un lavoro ben retribuito. Queste sono le cose che ti cambiano la vita». Clic. © RIPRODUZIONE RISERVATA ‘‘ ARIANNA FINOS
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