la domenica - La Repubblica.it

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LADOMENICA
DOMENICA 1 LUGLIO 2012
NUMERO 383
DIREPUBBLICA
CULT
All’interno
La copertina
Attilio Cubeddu, Anonima sequestri, latitante in Sardegna dal ’97
Ora è ripartita la caccia. Viaggio in un passato che non passa
“Felicismo”
la nuova ideologia
dove la felicità
è scienza del piacere
FERRARIS e MAGRELLI
La recensione
Torna Giovene
e il romanzo-fiume
che fu considerato
l’altro Gattopardo
PAOLO MAURI
L’intervista
DATI ANAGRAFICI
Nome Attilio
Cognome Cubeddu
Nato il 2 marzo 1947a Arzana (OG)
Ahmed Mourad
“Io, fotografo
di Mubarak svelo
il noir del potere”
SUSANNA NIRENSTEIN
ATTIVITÀ CRIMINALE
1981 sequestro Peruzzi
1983 sequestri Rangoni Machiavelli
e Bauer
1997 sequestro Soffiantini
Arrestato il 31 marzo 1984
Condannato a 30 anni più ergastolo
Latitante dal 7 febbraio1997
L’opera
I luoghi
Karen Blixen,
alla ricerca
della sua Africa
EMANUELA AUDISIO
Next
Il popolo del Ted
e il festival
che inventa il futuro
RICCARDO LUNA
ATTILIO BOLZONI
L
MARCELLO FOIS
ARZANA (Ogliastra)
o davano per morto. E lui, il morto lo faceva bene. Mai
ceduto un segno della sua esistenza in vita, mai lasciata una piccola traccia di sé, neanche il respiro del
suo fantasma sentivano più dentro la montagna che
lo proteggeva — il Gennargentu — fra boschi di leccio e distese di
querce, anfratti nascosti da spinose ginestre, gole, caverne, costoni di granito, voragini. Per quindici anni ne abbiamo avuto un ricordo sfuggente dalla foto segnaletica attaccata ai muri dei posti di
polizia, faccia di fronte e faccia di profilo, gli occhi pesti, il collo gonfio, la capigliatura nerissima di quando era un giovane sardo che
stava già diventando erede di quei balentes che su quest’isola si
prendono il rispetto dovuto agli uomini d’orgoglio e di coraggio.
Fino a qualche giorno fa c’era rimasto solo e soltanto quello di lui,
il bollettino dei latitanti del ministero dell’Interno.
(segue nelle pagine successive)
P
arlare oggi di banditismo in Sardegna è come aprire
l’armadio di casa e provare a indossare, dopo vent’anni, l’abito del proprio matrimonio. Quella giacca che
non si abbottona ci ricorda che non siamo più gli stessi, che ci siamo trasformati senza rendercene conto. Il nostro fisico si è espanso, gli assetti e le proporzioni sono cambiati. Così il corpo sociale di una regione che si preferisce pensare immobile. I miti del balente, del bandito, dell’Anonima sequestri, sembrano ancora vivi solo a chi non considera l’evoluzione della società sarda
negli ultimi trent’anni. Tuttavia quello della delinquenza resistenziale è stato un mito esotico persino per molti sardi che dovevano
subirlo come endemico in virtù di una tendenza generalizzante
che vedeva, e spesso ancora vede, la Sardegna tutta uguale, tutta
pastorale, tutta rivendicativa, tutta arcaica.
(segue nelle pagine successive)
I bambini cattivi
di Henry James
sono il capolavoro
musicale di Britten
DINO VILLATICO
Il libro
Una certa
idea di mondo:
La fiction filosofica
secondo Cartesio
ALESSANDRO BARICCO
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LA DOMENICA
DOMENICA 1 LUGLIO 2012
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La copertina
L’ultimo bandito
Si chiama Attilio Cubeddu, è ricercato dal ’97
per rapimento, omicidio ed evasione . È un residuo
dei tempi dell’Anonima sequestri che lo Stato
aveva dimenticato. Finché all’improvviso
è ripartita la caccia. Siamo andati
in Sardegna a scoprire perché
Il fantasma dell’Ogliastra
(segue dalla copertina)
ubeddu Attilio, nato
ad Arzana il 2 marzo
1947, ricercato dal 7
febbraio 1997 per
non avere fatto rientro, al termine di un
permesso, nella casa circondariale di Badu’ e
Carros, ove era ristretto, per sequestro, omicidio e lesioni gravissime». Sicuramente disperso. Apparentemente morto. Accidentalmente vivo. È resuscitato dalla sua tomba
l’ultimo bandito dell’Ogliastra, terra aspra
che da una parte si confonde con l’impenetrabile Barbagia e dall’altra precipita in un
mare esageratamente azzurro, cime di neve
e cale al riparo dal maestrale, sperduti ovili e
luccicanti imbarcaderi con lì in mezzo Arzana, piccola grande capitale sarda che il Duce
minacciò di bombardare per liberarsi dei
suoi fuorilegge e soprattutto di uno, Samuele Stocchino, Medaglia d’oro al valore sul
Carso con Emilio Lussu nella Grande guerra
e poi — per faida di famiglia — l’assassino più
temuto e braccato di Sardegna, “Sa tigre de
Ogliastra” la tigre dell’Ogliastra, l’antenato di
questo Attilio Cubeddu che è ricomparso all’improvviso dopo un silenzio quasi infinito.
Dalla leggenda dell’“eroe” che tiene in
scacco lo Stato carabiniere alla cronaca degli
ultimi giorni, dalla visione romantica del
bandito solitario e ribelle tramandata dai
cantastorie agli elicotteri che all’alba del 12
giugno si sono abbassati sui tetti delle case di
Arzana e di Lanusei mentre anche i paesi di
Gairo e Cardedu venivano cinti d’assedio da
reparti speciali, teste di cuoio, incursori, tiratori scelti. Una grande caccia.
Qualcuno aveva fatto sapere che uno dei
nove ricercati «più pericolosi d’Italia» era
«C
sempre lì, nel suo reame, difeso dalla sua
tribù. Inverosimile la soffiata, più probabile il
tentativo (andato male) di una resa da “concordare”, una trattativa in salsa sarda. Un altro mistero intorno a un bandito di cui si sa
tutto e niente, catturato nel 1984 a Riccione
dopo i sequestri di Ludovica Macchiavelli e di
Patrizia Bauer, condannato a trent’anni di reclusione, detenuto modello, evaso dopo un
permesso premio e poi ancora accusato di
avere segregato l’imprenditore bresciano
Giuseppe Soffiantini e sospettato — ma mai
incriminato — di avere preso in ostaggio anche la ragazza di Tortolì Silvia Melis. Due sequestri del 1997, appena dopo la libertà ritrovata e mai più perduta.
Siamo saliti nella “sua” Arzana per raccontare il ritorno di Attilio Cubeddu, siamo partiti dall’ultimo suo domicilio conosciuto per
ricostruire le segrete vicende di questo latitante che più di un capo dell’Anonima è considerato uomo «di mano», ruvido, lontano da
MANETTE
Attilio Cubeddu
in manette
nel 1984:
condannato
a trent’anni
per più sequestri
di persona;
a sinistra,
foto storiche
di banditi sardi
FOTO ANSA
ATTILIO BOLZONI
contaminazioni politiche, privo di istinto rivoluzionario o da rivendicazioni separatiste,
solo uno spietato esecutore che non assomiglia in nulla al suo complice di tante scorribande Giovanni Farina, bandito poeta che
manda lettere a giovani suore e vince premi
letterari, luogotenente di quel Mario Sale di
Mamoiada che definiva la sua banda «la base
mobile operativa toscana dell’Anonima sarda intitolata al grande compagno Antonio
Gramsci». Attilio Cubeddu è solo Attilio Cubeddu. Rapimenti e orecchie mozzate.
Arzana, 2.526 abitanti, 670 metri sul livello
del mare, sedicimila ettari di territorio quasi
tutti sul Gennargentu, 60 aziende pastorizie,
65 forestali, 12 imprese edili con 250 operai.
Le personalità del paese secondo Wikipedia:
«Stanis Dessy, artista; Anselmo Contu, politico; Attilio Cubeddu, bandito; Pasquale Stocchino, bandito». Un altro Stocchino questo,
catturato nel 2003 dopo trentun anni alla
macchia, una latitanza superata in lunghezza solo dal siciliano Bernardo Provenzano.
Sembra il suo sosia Attilio Cubeddu, introverso come Pasquale, taciturno, diffidente.
L’ultima volta, Attilio l’hanno visto in via
San Martino al civico 30, a un passo dalla nuova caserma dei carabinieri di Arzana. È in fondo al paese, una casa di tre piani, pietra grigia,
un giardino abbandonato, uno scivolo arrugginito. Qui abita la figlia Samuela con i
suoi tre ragazzi: Anita, Efisio, Fabiana. All’alba del 12 giugno i poliziotti sono piombati in
questa casa. «Era il giorno che dovevo ritirare
la pagella e hanno messo tutto sottosopra»,
ricorda Efisio, terza media e i capelli rasati come usano ancora i pastorelli sardi. Sono andati anche davanti alla farmacia dove sta Cristina, un’altra figlia di Attilio Cubeddu. E a
Cardedu, dove vive la terza figlia Valeria e pure Marisa Caddori, la moglie del latitante.
Niente. Non l’hanno trovato neanche lì. È
morto un’altra volta Attilio Cubeddu.
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DOMENICA 1 LUGLIO 2012
DAL PASSATO
Lotta contro il banditismo
in Sardegna negli anni Sessanta
In copertina, tre foto segnaletiche
di Attilio Cubeddu
Il sindaco di Arzana è Mario Melis. Racconta di quella mattina: «Mi hanno svegliato
i rumori delle pale degli elicotteri, avevamo
organizzato un tour dell’Ogliastra in mountain bike, settantacinque atleti provenienti
da tutto il mondo. Doveva essere un giorno di
festa». È sconfortato Melis: «Bastava che gli
elicotteri arrivassero poche ore dopo e gli
stranieri non avrebbero visto nulla, invece
hanno visto tutto». È andata come è andata
ma il sindaco è consapevole: «La nostra storia purtroppo è quella che è e non cambierà
fino a quando non si chiuderà l’ultimo capitolo». Fino a quando Attilio Cubeddu sarà libero, Arzana avrà il destino segnato. Gli resterà quel marchio ignobile: paese di banditi, di omertosi, paese di conniventi. Perfino
l’urbanistica inchioda e infama Arzana.
«Quando ti arrampichi da Tortolì verso il
Gennargentu guarda il paese e vedrai che è a
forma di fucile», ci avverte un amico sardo. Il
calcio appoggiato sulla collina, la canna —
una stretta fila di case — che scende verso valle.
Una nomea che risale al tempo del fascismo e ai suoi briganti, quando Mussolini mise una taglia di 250mila lire — un record per
quell’epoca — sulla testa dello Stocchino che
aveva combattuto sul Carso nella Brigata
Sassari. Il resto l’hanno fatto gli incendiari
anni Ottanta con i nuovi balentes, brutali imitatori dei loro capostipiti, solo più ricchi, poche pecore e tanti soldi. «Ma tutto questo appartiene a un’altra Arzana, qui siamo andati
avanti, quelli che chiamano banditi sono ormai solo poveri cristi», dice Raffaele Sestu,
medico condotto e presidente delle Proloco
della Sardegna, innamorato del suo paese e
di tutto quello che c’è intorno. Sentieri, salti
d’acqua, erbe mediche e i suoi quattro pazienti ultracentenari. Paolino ha 103 anni,
Antonio 102 anni; Cicita e Maria 101 anni. Il
dottor Sestu dal 1985 ha avuto in cura venti-
Quella giacca da “balente”
diventata troppo stretta
MARCELLO FOIS
(segue dalla copertina)
ome guardarsi l’ennesimo film americano in cui tutta l’Italia è rappresentata da
tovaglie a quadri, fisarmoniche, mandolini e gondolieri che cantano Santa Lucia. L’isola
banditesca dunque è innanzitutto un luogo comune e ha rappresentato un modello storicamente funzionale a giustificare tentativi di lavanderia sociale e a sfumare le plateali deficienze dell’amministrazione locale e nazionale nei
confronti di quella periferia. Ribadiamolo: equiparare quel modello territoriale alla Sardegna in
toto significa affermare che i siciliani sono endemicamente mafiosi o che i genovesi sono tutti
taccagni. Eppure il balente, il bandito, l’Anonima sequestri sono state, sono e saranno cose serissime che hanno caratterizzato un disagio pesantissimo, una difficoltà precisa della Sardegna
interna di trovare un tratto di convivenza partecipata nella nazione Italia.
La crisi nelle Barbagie, periferiche, ignorate,
trascurate, è più crisi; la disoccupazione, più disoccupazione; il ricatto del pane, più ricattatorio. Siamo quattro gatti che contano poco in una
regione di quattro gatti che contano pochissimo. Siamo stati arruolati; siamo morti di leucemia fuori e dentro casa nostra; siamo stati deportati in fabbrica secondo un assurdo modello
di industrializzazione coatta; siamo stati licenziati successivamente secondo uno schema di
C
sacrifici ad personam. Nel mito, nei nostri sogni
di gloria, a tutto questo ci siamo ribellati; nei fatti abbiamo semplicemente considerato cura
una malattia peggiore: quella del livore sociale.
A noi si dice continuamente che gli sforzi per affrancarsi da questo sentimento sono inutili, che
noi siamo i figli cadetti di questa regione di figli
cadetti. A noi si dice che sarebbe auspicabile un
assetto in cui come operosi trogloditi dell’interno contribuiamo, in orbace, a soddisfare i desideri del turista che in Barbagia vuole brividi,
sguardi torvi, donne con i baffi. Che vuole ospitalità incondizionata, un po’ fessacchiotta e
amicizia sempiterna: si sa come son fatti sardi
no? Quando ti sono amici, ti sono amici per tutta la vita.
Per questo motivo il mitema facilone della primula rossa in questo preciso momento storico
del Paese è quanto di peggio si possa offrire a tutta la massa di disoccupati che, gioco forza, affollano i bar dei paesi dell’interno in Sardegna. Perché la risposta retorica, la richiesta di folk, è letale esattamente come la solita, esclusiva, priva di
argomenti, risposta repressiva. E ci si chiede fino
a che punto, visto che comunque ci disegnerebbero così, noi sardi dell’interno per primi non ci
siamo convinti che l’unica giacchetta che ci sta
bene è quella del balente, del banditismo, dell’Anima sequestri. E così, pateticamente, cerchiamo di abbottonarla nonostante la pancetta.
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sei vecchietti sopra il secolo d’età. Arzana, oltre al primato dei banditi, ha anche quello
della longevità. La più vecchia fra i vecchi,
Raffaella Monni, è morta nel 2007 a 109 anni
e sei mesi.
Sarà cambiata Arzana ma ai suoi banditi ci
tiene sempre. Cubeddu è stato aiutato ogni
giorno da quel 7 febbraio del 1997. Accudito,
sfamato, nascosto. Fino a quando un misteriosissimo personaggio — uno di quelli di
confine fra banditi e Stato — all’inizio della
primavera si è presentato al procuratore capo di Lanusei Domenico Fiordalisi e ha cercato una strana “mediazione”. Gli ha fatto capire che “il morto” si sarebbe anche potuto
costituire, magari in cambio di qualche indagine patrimoniale in meno contro la sua famiglia. È cominciata una partita tutta psicologica. Fatta di mosse e contromosse, di spiate, di talpe che diffondono informazioni vere
e fasulle. Il procuratore, un calabrese tutto
d’un pezzo che per qualche anno ha avuto
come casa una cella del carcere San Daniele
e dopo minacce vigliacche ha rispedito moglie e figli in Calabria, a un certo punto ha alzato il tiro. E ha ordinato di circondare Arzana. Dieci i favoreggiatori trovati. Sono solo i
primi. Dopo quindici anni, Attilio Cubeddu
non si può più fidare di tutto il suo paese.
Nemmeno dei poeti. Anche loro non sono
più quelli di una volta. Come quel Sebastiano
Satta, avvocato penalista di Nuoro, amico dei
socialisti sassaresi, giornalista e scrittore che
quasi un secolo fa alle gesta degli avi di Cubeddu dedicò un Vespro di Natale. Dai suoi
canti barbaricini: «Incappucciati, foschi, a
passo lento, tre banditi ascendevano la strada [...] ai banditi piangea la nostalgia. E mesti
eran, pensando al buon odore. Del porchetto e del vino, e all’allegria. Del ceppo, nelle lor
case lontane». I banditi hanno sempre avuto
i loro ammiratori.
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FOTO ARCHIVIO STORICO UNITÀ
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LA DOMENICA
L’attualità
Restyling
Tre lettere e un “love” stampati su migliaia di gadget
Dal 1976 sono più di uno slogan, sono un simbolo
di appartenenza. Ma secondo Andrew Cuomo, governatore
dello Stato di New York, è venuto il momento di cambiare
Questa la proposta: inviate disegni
per un nuovo logo. Eccone alcuni. Funzionerà?
GABRIELE ROMAGNOLI
elcuore di tenebra della Tanzania due ragazzini scalzi corrono sollevando polvere. Macchie colorate si avvicinano definendosi: a
quel punto appare chiaro che uno indossa la maglia blu del Chelsea, l’altro
una t-shirt bianca con la scritta “I love
Ny”, dove il verbo è rappresentato da
un cuoricione rosso. L’universalità è
questo: raggiungere ogni angolo di
mondo e in ciascuno risultare comprensibile perché si evoca una fantasia
condivisa. Ma che cosa c’entra un
bambino africano con i canyon delle
avenue, Colazione da Tiffany e quel
che resta delle notti “vale tutto” al
Meatpacking District? C’entra, anche
se non sa neppure di che cosa sto parlando.
Un giorno lontano, proprio a New
York, entrai nello studio di un tizio di
origini russe che aveva fondato una
strana agenzia pubblicitaria: traduceva campagne per Paesi culturalmente
distanti da quello originale, spiegava
come correggere spot americani nell’Europa orientale o nel mondo arabo.
Ultimo suo cliente era stata la Nike,
che gli aveva chiesto come tradurre altrove lo slogan “Just do it”. E questo genio aveva messo insieme un fascicolo
di svariate pagine per dire: non tocca-
N
L’arte di vendere
il cuore di una città
ponte di Brooklyn. Neppure conta che
tu sappia che queste cose esistono, basta che ammetta un universo parallelo
capace di contenerne la possibilità.
Lontano o vicino, raggiungibile o già
raggiunto, non conta. Il cuore attribuiva a New York la natura di oggetto del
desiderio. E quello, inevitabilmente, è
unico (anche se ci culliamo nell’illusione della poligamia). Hanno provato a clonare l’idea, a declinarla in forme alternative, di cui la più tragica rimane il palindromo “Amoroma”.
Non ha mai funzionato. Né si sa se
funzionerà una delle migliaia di proposte alternative (alcune sono pubblicate in queste pagine) che rispondono
alla proposta del governatore di New
York Andrew Cuomo di inventare un
nuovo logo per mandare in pensione
quello di Milton Glaser del ’76. “I love
Ny” era il “Just do it” applicato alla promozione di un luogo. Non replicabile
in altre forme. Avere addosso quella
scritta conferiva un’aura di appartenenza. Non siamo mai stati e mai saremo “tutti americani”, ma possiamo essere “tutti newyorchesi”, giacché (ce
ne hanno convinto) New York è uno
stato mentale.
Va da sé che, lontano dalla polvere
della Tanzania, tutta l’operazione è finalizzata a che tu ti compri un pezzetto di questo luogo-non luogo: un biglietto aereo per raggiungerlo, un libro
o un film ambientati lì, dozzine di capi
Non importa
se sei stato a Brooklyn
o a Manhattan
Quel che conta
è la fantasia condivisa
sotto quella scritta
telo, lasciatelo esattamente così, nessuno lo capisce ma tutti lo capiscono,
passa il senso, l’energia, passa il messaggio.
“I love Ny”, stessa cosa: puoi non
averci mai messo piede, puoi aver perfino visto pochi film ambientati a
Manhattan, non sapere che cosa sia
Sex and the City, non ha importanza:
you can love New York, anyway. Non
sei convinto? Guardati allo specchio:
hai un cuore rosso sopra il cuore.
Si può vendere una città come fosse
un prodotto? Certo che sì. La prova è
nei fatti: è successo. Hanno venduto
New York. Gli assassini del Bronx e
quelli di Wall Street, le puttane di Times Square e quelle dei quartieri alti,
tutti sepolti sotto un telo bianco, sul
quale campeggiava la scritta “I love
Ny”. Tre lettere e un simbolo, capaci di
trasformare una città in uno stato della mente, in una fantasia condivisa. Tu
ami New York. Non per aver passeggiato a Central Park, aver pranzato accanto a Martin Scorsese in un ristorante di Tribeca o per aver fatto jogging sul
d’abbigliamento che ne portano il nome, il profumo con il suo prefisso by
Carolina Herrera. E ha funzionato. A
volte succede l’opposto. Il caso tipico è
lo slogan “Milano da bere” inventato
per l’amaro Ramazzotti.
È rimasto come un adesivo sul petto
della città a segnalarne una stagione di
fatuità e corruzione. Cerchi l’espressione su Wikipedia et voilà: appaiono
le foto di Berlusconi e Craxi in smoking
a qualche festa con nani e ballerine. A
quel punto, esci al casello di Melegnano. O vai a Malpensa e ti imbarchi sul
primo volo per New York. Atterri,
prendi il taxi, ti fermi in un negozio di
souvenir e, prima che le ritirino dal
commercio, ti compri e indossi una
maglietta con le tre lettere e il cuore
(per quanto reperibile anche su una
bancarella di Milano). A quel punto ci
sei dentro, ti sei messo nel punto esatto dove eri stato precollocato da un’attenta campagna e l’amore per la città
che non conosci te l’hanno, innegabilmente, venduto.
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Niente copyright
solo amore
MILTON GLASER
uando, a cinque anni, vidi mio
cugino disegnare un cavallo su
un sacchetto di carta ne rimasi
turbato: davvero si poteva replicare un essere vivente solo con un lapis?
Decisi allora cosa avrei fatto nella vita.
Non disegnare cavalli su sacchetti di carta, ma creare cose, l’aspetto che più mi affascina del design. Col tempo scoprii che
la mia passione poteva essere remunerativa — i primi lavori per cui venni pagato
erano le vignette di donne nude che vendevo ai miei compagni di scuola a un
penny — ma non immaginavo avrei progettato musei, ristoranti e supermercati,
creato riviste, disegnato copertine di libri
e dischi e... il logo “I love New York”.
Lo concepii nel ’76, mi era stato commissionato per riposizionare l’immagine
della città in un periodo di disaffezione.
Ero in taxi, ne feci uno schizzo, piacque e
divenne «il logo più riprodotto nella storia». Il suo successo resta per me un mistero, forse ha a che fare con un potere che
non esisteva nella grafica, un clic sulle
emozioni. Sono sempre stato affascinato
dai meccanismi del cervello, che decodifica informazioni come puzzle, e qui il messaggio è semplice: c’è una parola, un simbolo, due iniziali. Tre elementi che necessitano uno sforzo minimo per essere compresi, ma che riescono a fare clic. Presi
duemila dollari, forse l’equivalente del
penny di quando avevo otto anni. Niente
copyright: non volevo che i newyorchesi
pagassero per il loro trademark.
(Testo raccolto da Carlotta Magnanini)
Q
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IL CONCORSO
Sopra, dal faro all’aquilone, dalla vespa alla coccinella, sono solo alcuni dei bozzetti inviati al sito www.iloveny.com, dove tutte le proposte vengono visualizzate in una galleria online
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LA DOMENICA
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I luoghi
Settantacinque anni fa, dopo Conrad e prima
di Hemingway, con il suo romanzo raccontò il continente
nero ai bianchi. Oggi la fattoria in cui lo scrisse,“ai piedi
degli altipiani del Ngong”, è un museo da Oscar nascosto
tra le ville dei ricchi di Nairobi. Il nostro viaggio
Casa Blixen
alla ricerca della sua eredità
Quel
che
resta
di
Karen
La sua Africa non abita più qui
EMANUELA AUDISIO
E
NAIROBI
ra la sua Africa. Meno virile, più sfortunata, ma altrettanto aspra di quella di
Hemingway. La fece scoprire al mondo settantacinque anni fa.
Stesse colline, stessi leoni, diversi gli affanni: con le piantagioni di caffè al posto del whisky. Aroma di fatica e non di
bottiglia. La baronessa Karen beveva il
tè, Ernest la birra. Altri gradi alcolici. Diverso anche il modo di usare armi, cartucce e polvere da sparo. Lei per diciassette anni visse l’Africa, lui ci passò per
vacanza e safari. Però Hemingway fu
sincero e quando nel ’54 gli dettero il
Nobel mandò a dire che lo meritava anche la «meravigliosa Isak Dinesen». La
signora venuta dal freddo (Danimarca)
fu una meravigliosa anche se sofferta
cartolina turistica per quell’altopiano
dopo che Conrad con il suo Cuore di tenebra dal Congo aveva un po’ incupito
l’atmosfera. Il Kenya nelle parole di Karen era più attraente. «In Africa avevo
una fattoria ai piedi degli altipiani del
Ngong. A centocinquanta chilometri
più a nord su quegli altipiani passava
l’equatore; eravamo a milleottocento
metri sul livello del mare. Di giorno si
sentiva di essere in alto, vicino al sole,
ma i mattini, come la sera, erano limpidi e calmi, e di notte faceva freddo».
Settantacinque anni dopo cosa resta de La mia Africa? Il libro uscì nel ’37,
il film di Pollack nell’86 (vinse 7 premi
Oscar). Karen è morta a settantasette
anni nel ’62 a casa sua, davanti ad un
mare grigio, lontana da quei colori che
l’avevano riscaldata. Nessun’altra
scrittrice ha avuto il suo passo sull’Africa e la sua camera con vista, ma onestamente sono cambiati temi e tempi.
Nadine Gordimer, Nobel nel ’91, è nata e vive in Sudafrica, da sempre impegnata contro l’apartheid, sicuramente
non è tipa da dire «quando dormo sogno e i sogni sono sempre belli». Dice il
protagonista de Il giovane Holden che
Out of Africa (titolo originale del romanzo, ndr) è bellissimo, anche se ha
preso il libro per sbaglio alla biblioteca,
chiamerebbe l’autore volentieri al telefono. Ma Salinger scrive nel ’51 e poi
certe telefonate non si fanno mai.
Karen aveva una fattoria, una piantagione, un mondo. Tutto liquidato, in
frantumi, in bancarotta. Non era brava a fare affari, anzi era un disastro, anche se il suo soprannome era Njeri Wagoka, “quella indaffarata”. Se è rimasto
qualcosa è per le donazioni danesi e
dell’Universal Studios che ha girato il
film e ha lasciato abiti e materiali. Il
quartiere di Ngong, quindici chilometri fuori da Nairobi, oggi è una affollata
zona residenziale dove tutto si chiama
Karen: ospedale, albergo, supermercato, centro commerciale, college. La
vegetazione è bella, le ville nascoste
anche. Quella di Karen era modesta,
tra cactus giganti, cipressi, bouganville: la casa Mbogani Farm House costruita dall’ingegnere svedese Ake Sjo-
gren nel 1912, fu comprata dal governo danese nel ’59, ristrutturata e donata nel ’64 al Kenya per la sua indipendenza. È aperta al pubblico dall’86.
Tutto sembra vero, quasi tutto è falso.
Gli stivali nella stanza da letto sono
quelli che Meryl Streep ha indossato
nel film, la piccola macchina da scrivere Corona è una copia, l’orologio a
cucù pure, come la vecchia cucina Dove Stove e il grammofono su cui l’ado-
rato Denys Finch Hutton e l’altrettanto amato Robert Redford ascoltavano
Mozart. L’atmosfera c’è, anche se il legno del tetto del cottage viene dall’Uganda, il baule è di Vuitton, la pelle di
leopardo è offerta dal National Museum of Kenya. Per respirarla basta vedere la piccola vasca da bagno in zinco
e il menù affisso della cena del ’28 con
H. E. Edward, principe di Wales: zuppa, prosciutto, spinaci e cipolle cara-
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DIARIO
A sinistra, una pagina del diario del marito
di Karen con una foto della scrittrice
che si esercita al tiro davanti alla fattoria
Sopra, la prima edizione di Out of Africa
Nelle foto: la Blixen e il marito in casa
nel 1919 e durante un safari nel 1914
e, a destra, la scrittrice con i cani nel 1918
‘‘
mellate, macaroni salad con salsa al
tartufo, ossobuco, savarin alla frutta.
Karen quando partì era una donna
sconfitta, il suo mobilio venne messo
all’asta e finì in Sudafrica come il tavolo di noce con otto sedie e la libreria di
quercia, anche se qualcosa è stato ricomprato o donato dagli amici come
Lady McMillan, americana di Boston,
a cui si deve la fondazione della Biblioteca nazionale di Nairobi, e che ha voluto essere seppellita sotto il monte Kilimambogo. Di vero ci sono le lettere di
Karen, una datata 20 gennaio 1914: «A
runner is just leaving». Un corridore
sta per partire. Già perché per messaggi e comunicazioni usava i ragazzi Masai, rapidi e veloci, visto che il servizio
postale nato a Nairobi nel 1908 serviva
solo la città. Gli stessi atleti Masai che
poi andranno a vincere le Olimpiadi e
a imporsi oggi come grandi mangiatori di fatica nella maratone, capaci di
scrivere la storia con piedi e fiato. Loro
che portavano lontano le parole di Karen sono stati bravi nell’inventarsi la
favola vera di corridori della lunga distanza.
Poi c’è l’eredità letteraria. Settantacinque anni dopo l’Africa cerca altre
parole e non resuscita la bianca straniera Karen. Ma se tanti scrittori trovano spazio, cattedre, futuro è perché c’è
stata una scia Blixen. Ngugi Wa
Thiong’o, settantaquattro anni, da
tempo in gara per il Nobel, romanziere,
drammaturgo e saggista, nato a Limuru, in Kenya, uno dei massimi esponenti della letteratura africana, come i
nigeriani Wole Soyinka e
Chinua Achebe, dopo
aver insegnato per un decennio all’università di
Nairobi (1967-1977), arrestato e detenuto per le sue
critiche alla società keniota postcoloniale, è andato
in esilio in Inghilterra e ora
vive e ha una cattedra all’università di California.
Ha deciso di scrivere nella
nativa lingua kikuyu invece che in inglese. Il suo Sogni in tempo di guerra, appena pubblicato da Jaca
Book, parla di una crescita, di adolescenza, di repressione, di caccia all’antilope, di libertà, del passaggio da una
comunità poligama a una famiglia con
un nuovo genitore. Può essere un sogno, ma non è una favola. E su Karen ha
idee chiare. «Blixen è bravissima, è una
romanziera vera. Sa come tradurre le
immagini in parole. Non c’è malizia nei
suoi toni e nelle sue intenzioni. Per
questo i suoi commenti razzisti e certe
Sapeva come tradurre le immagini in parole. Anche i suoi commenti
razzisti hanno uno stile bello, non sono urlati,
e non per questo fanno meno male. Oggi è molto letta
nelle nostre scuole, ormai fa parte del nostro patrimonio culturale
LE IMMAGINI
Sotto, la casa della scrittrice
dove sono state girate alcune scene
del film. Nell’altra pagina, Karen
Blixen nel 1905, nel 1918 durante
un safari e negli anni Cinquanta
sue riflessioni sono dannose e fuorvianti. Hanno uno stile bello, non sono
urlate, ma fanno lo stesso male. Una
sua eredità resta: è molto letta nelle nostre scuole e l’area dove viveva fuori
Nairobi adesso è diventata la più richiesta e lussuosa. In questo senso fa
parte del nostro patrimonio. Ma la sua
visione semplicistica e riduttiva del popolo è in contrasto con quella di altri
autori. Jomo Kenyatta, futuro presi-
dente del paese, nel ’38, appena un anno dopo la Blixen, scrive Facing Mount
Kenya. Sono contemporanei, parlano
della stessa comunità e dello stesso panorama. Ma Kenyatta è più complesso,
la sua gente chiede di avere indietro le
terre che gli europei come
la Blixen hanno rubato
agli africani. Mentre la società indigena che lei descrive è primitiva e ingenua».
Karen andò in Africa,
scrisse storie davanti al
fuoco, e le narrò al mondo.
Oggi è l’Africa che va al
mondo e si racconta.
Alain Mabanckou, quarantacinque anni, nato a
Pointe-Noire, città costiera del Congo Brazzaville,
dopo la laurea in Lettere e
Filosofia, parte per la Francia dove
prende una laurea in Diritto. Nel 2006
vince il premio Renaudot, nel 2010 con
Demain j’aurais vingt ansè il primo nero ad essere pubblicato nella prestigiosa collana Blanche di Gallimard. Dal
suo romanzo Black Bazar è stata tratta
una pièce teatrale rappresentata al festival di Avignone (2011). Insegna all’università di California a Los Angeles. Il
suo pamphlet Le sanglot de l’homme
noire uscito in Francia prima delle ultime elezioni presidenziali è stato molto
polemico con Sarkozy sul tema della
francofonia di colore.
E poi piccole Karen crescono, di taglie e colore diverso. Dentro l’Africa,
ma estranee a quella sua Africa. Lola
Shoneyn, trentotto anni, poetessa, nata a Ibadan, in Nigeria, da una famiglia
di origine cristiana, viene mandata in
Inghilterra dove trascorre l’infanzia in
diversi collegi, torna nel suo paese per
studiare letteratura inglese. Ha pubblicato tre raccolte di poesie, nel 2010 con
Prudenti come serpenti, (66thand2nd
editore), che parla di poligamia e del
contrasto tra vecchia e nuova mentalità, è stata inserita nella long list dell'Orange Prize for Fiction in Gran Bretagna. Attualmente insegna in un liceo
in Nigeria, è sposata da dodici anni con
Olao Kun, figlio di Wole Soyinka, conosciuto via mail, ha quattro figli. Ha avuto un precedente matrimonio coatto
durato quaranta giorni appunto perché lei non accettava la poligamia. Dice di non aver mai letto Karen Blixen.
«Ma ho visto il film, non sono preparata a dare un giudizio su di lei». E pensare che il tormento di Karen era in fondo
la poligamia di Denys. Lui voleva stare
anche con le altre, lei solo con lui.
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LA DOMENICA
Spettacoli
Cantò a fianco dei disperati della Grande Depressione,
visse come un vagabondo, ispirò Dylan e Springsteen. A cent’anni
dalla nascita e con il mondo in una nuova crisi economica,
Menestrelli
il testamento politico dell’uomo che diceva
ai diseredati: “Questa terra è la tua terra”
ANGELO AQUARO
o, questa terra non sarà mai la sua terra e perfino adesso che il mondo intero s’appresta a celebrare cent’anni di «cielo senza fine» e «valli d’oro»,
adesso che il suo inno rimbalza dalle volte della Carnegie Hall alle piazze
di Occupy Wall Street, adesso che l’America e il mondo intero trattengono il fiato sul precipizio di una nuova Grande Depressione, adesso come
allora il suo nome mette ancora paura: e forse anche più. Riuscirà almeno
Barack Obama, l’uomo che ha portato alla Casa Bianca Bob Dylan e Bruce Springsteen e che proprio al Boss e a Pete Seeger chiese di cantare This
Land Is Your Land alla sua inaugurazione, riuscirà il presidente del nuovo New Deal a pronunciare quel nome e cognome, a cent’anni dalla nascita? Riuscirà l’America a riabbracciare, un secolo dopo, il figlio più amato e più odiato, l’uomo che mise in musica e versi il sogno a stelle & strisce,
scarabocchiandoci però sopra — orrore orrore — la sua falce & martello?
Il fascicolo intestato a «Guthrie, Woody, 14/7/12» arrivò sulla scrivania
di J. Edgar Hoover la mattina di venerdì 3 giugno 1955. Il padre padrone
dell’Fbi, l’uomo che visse con l’incubo dei neri e dei rossi, era ancora fuori di sé per la sentenza della Corte Suprema che tre giorni prima aveva definitivamente ordinato a tutti gli Stati di eliminare la segregazione razziale «il più velocemente possibile». Hoover sfogliò frettolosamente quel memo. «Viste le condizioni di salute del soggetto e la mancanza di notizie credibili, e di prima mano, sulla sua appartenenza, negli ultimi cinque anni,
al Partito comunista, si suggerisce di cancellare il nome dall’Indice di Sicurezza». L’uomo che nel giro di una decina d’anni avrebbe cercato d’insabbiare le verità d’America, dall’assassinio di Jfk al sacrificio di Martin
Luther King, abbozzò un sorrisetto: anche questa è fatta. E mise infine la
firma più temuta di Washington sotto il fascicolo che decretava la fine della più che ventennale sorveglianza dell’ex vagabondo dell’Oklahoma,
l’artista che aveva riscritto la storia del folk d’America (e non solo), l’amico di John Steinbeck che come lui aveva raccontato la Grande Depressio-
ne, il cantante che sbandierava la chitarra con la scritta: «Questa macchina uccide i fascisti».
Fine di un incubo? Macché. La verità è che quando il potentissimo J. Edgar — come verrà ricordato nel film di Clint Eastwood con Leonardo DiCaprio — mette la firma sotto quel fascicolo, Woodrow Wilson “Woody”
Guthrie è già un morto che cammina. E ha soltanto 43 anni. Nell’ambiente, perfino in famiglia, tutti spiegano quei comportamenti un po’ matti,
l’irascibilità permalosa, la difficoltà di imbracciare la chitarra, come la
conseguenza dell’alcolismo ormai galoppante, ultima fermata di una vita spericolata vissuta appunto nel mito della frontiera in continuo movimento, dall’Oklahoma alla California, dalla California alla New York del
Village ribelle, poi ancora California, poi ancora New York ma questa volta Brooklyn, a quei tempi ancora periferia dell’impero.
Per tutti Woody è ormai andato, alcolismo e schizofrenia è la diagnosi
con cui a pochi mesi dall’“assoluzione” dell’Fbi lo rinchiudono al Greystone Park Psychiatric Hospital di Morris Plain, New Jersey, fino alla morte dodici anni dopo, al capezzale quella chitarra che lui non può suonare
ma che rivive nelle mani dei vecchi e nuovi amici che lo vanno a trovare,
soprattutto quel ricciolino che si fa chiamare Bob Dylan e che — confessa nelle sue Cronache — è arrivato dal Minnesota a New York «proprio per
conoscere Woody Guthrie». Woody è già finito. Ma nessuno chiama allora la malattia per quello che è, il morbo di Huntington, una degenerazione dei neuroni ereditaria che aveva colpito anche la madre, una maledizione vera che lo aveva perseguitato per tutta la vita, probabilmente anche la causa — con quei lampi di follia, quei movimenti senza più controlli
— dei misteriosissimi incendi che avevano funestato la sua infanzia e si ripeteranno nella sua famiglia: la sorella morta bambina, il padre ferito, perfino sua figlia, Cathy, uccisa tanti anni dopo in quell’altro incidente che lo
gettò in un’atrocissima depressione, perfino lui stesso ferito al braccio.
Sembra una storia davvero mitica, il Prometeo dell’Oklahoma scottato
dal fuoco che gli brucia dentro: ma tutta l’epopea di Woody Guthrie è un’esplosione di simboli. A partire dalla data di nascita, 14 luglio, la presa del-
GETTY
N
NEW YORK
IL LIBRO
Esce il 4 luglio
Woody Guthrie
American Radical
di Will Kaufman
(Arcana,
330 pagine,
22 euro),
la prima biografia
politica
del folksinger
Chitarra, falce e martello
per le strade d’America
la Bastiglia, madre di tutte le rivoluzioni moderne. A partire dallo stesso
nome, lui che si chiama appunto Woodrow Wilson in onore del governatore democratico del New Jersey che diventerà presto presidente: un
omaggio voluto dal padre Charles, politicante democratico ma acerrimo
nemico dei socialisti — «il serpente tentatore dai denti micidiali» — che
diventeranno invece gli amici di Woody. Proprio il padre resterà per tutta
la vita l’incubo di Woody, che arriverà a rivelare la sua iscrizione al Ku Klux
Klan, il padre che le cronache ricordano affacciato sul ponte di Okemah,
protagonista del linciaggio di Laura e Lawrence Nelson, la vergogna da cui
il figlio non riuscirà mai a liberarsi.
Sì, Woody Guthrie è una contraddizione in termini, «oggi non cambieresti una riga dalle sue canzoni per raccontare il mondo che ci circonda»,
dice a Repubblica Will Kaufman, il professore dell’University of Central
Lancashire che al suo mito ha dedicato la prima biografia politica, American Radical, e che è anche l’unica persona al mondo ad aver intonato Questa terra è la mia terra durante un ricevimento a Buckingham Palace. Eppure proprio il nome Guthrie, oggi, fa tremare all’incontrario i progressisti di tutta l’America, col figlio Arlo, l’eroe di Woodstock e di Alice’s Restaurant, che è diventato repubblicano. «Una provocazione», lo giustifica naturalmente il professore, «lui dice che di buoni democratici ce ne sono già abbastanza, ma per uscire dalla polarizzazione occorre che ci sia
qualcuno di buono anche dall’altra parte».
Bah. Chissà che avrebbe detto papà Woody, l’uomo che perse il posto
alla Kfvd, la mitica radio ultrademocratica di Los Angeles, perché perfino
alla notizia del patto di non aggressione tra Adolf Hitler e Joseph Stalin, e
poi all’invasione della Polonia, volle giustificare Baffone: «Anche Stalin è
entrato in gioco / s’è preso mezza Polonia e ha ridato indietro / le terre ai
contadini. / Se vivessi in Polonia / sarei felice della venuta di Stalin / che
scambiò il mio fucile per la terra». Ok ok, certo che tutto va contestualizzato. Ma è chiaro, adesso, perché neppure Barack Obama, malgrado quel
concerto inaugurale, si è mai spinto, finora, all’elogio di Woody? «Sarebbe il bacio della morte», scherza Kaufman, che però ricorda che il radicalissimo Guthrie era anche un uomo capace di restare con i piedi per terra.
«Uno storico non può ragionare con i se: però certo che Woody oggi starebbe con Obama, lui che negli anni Quaranta, in piena guerra, fece campagna per Franklyn Delano Roosevelt, che pure aveva tanto criticato».
Quando lo rinchiudono a Greystone, l’ospedale psichiatrico, quel morto che cammina ha il coraggio di scherzare con i pochi amici che lo vengono a trovare. Sono gli anni Cinquanta e la caccia alle streghe comuniste
è imperante: «Non siete voi a dovervi preoccupare di me, sono io a essere
preoccupato per voi. Lì fuori, se vi dite comunisti vi sbattono in prigione.
Ma qui dove sono io, posso dirlo quanto voglio: ci sarà sempre qualcuno
che dirà: che volete, è pazzo». No, questa terra non sarà mai la sua terra.
«Credetemi», disse l’uomo sbattuto in manicomio, «è proprio questo l’ultimo posto libero d’America».
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KILLS FASCISTS
Nella foto grande, Woody
Guthrie con la sua famosa
chitarra con la scritta
“Questa macchina
uccide i fascisti”;
in basso, pagine
dei suoi taccuini
con i buoni propositi
per l’anno nuovo
Pete Seeger
Se ne venne fuori come
se niente fosse... un ometto
con tanto di cappello
da cowboy, stivali,
blue jeans e barba sfatta,
che tirava fuori storie
e canzoni appena create
DISEGNI
Nell’altra pagina in alto
da sinistra, due disegni
di Woody Guthrie del ’46
contenuti nel libro Woody
Guthrie American Radical;
il folksinger nel ’43 canta
in una strada di New York
(Per gentile concessione
dei Ralph Rinzler Archives
and Collections,
Smithsonian Institution,
con l’autorizzazione
dei Woody Guthrie Archives)
Bob Dylan
Aveva una grande
spontaneità, in lui
c’era una grande innocenza
Un’innocenza
che mi ha sempre colpito
e che io ricercavo
Dopo Woody
è scomparsa per sempre
Bruce Springsteen
“This Land Is Your Land”
è una canzone piena
di rabbia ed è una
delle più belle mai scritte
Ti entra dentro e tira fuori
quella parte di te
che pensa a chi ti sta vicino
Joan Baez
Così torna Woody Guthrie
Torna tra noi ora. Strappa
i tuoi occhi dal paradiso
e in qualche modo rinasci
Se lo chiedi a Gesù
forse lui può aiutarti
Torna Woody Guthrie,
torna tra noi ora
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LA DOMENICA
Next
Uno scienziato, un inventore o un attivista salgono sul palco
Hanno 18 minuti per raccontare la loro scoperta: carburanti
puliti, auto low cost, politica aperta. La Rete ascolta e giudica
In occasione della kermesse di Edimburgo,
Villaggio globale
ecco il dietro le quinte
della fabbrica
del futuro
Lo stupore subacqueo
visualizzazioni: 7 milioni
David Gallo propone
un’esplorazione nelle profondità
degli oceani. Polipi, totani,
barracuda e altre creature marine
tra fondali corallini
e colori luminescenti
Come la luce delle lucciole
Un festival delle idee
cambierà il mondo
Il sesto senso
visualizzazioni: 8 milioni
Pranav Mistry è l’inventore
di SixthSense, un dispositivo
indossabile attraverso cui
con un proiettore e una piccola
telecamera si crea un’interfaccia
gestuale e le informazioni digitali
si sovrappongono al mondo fisico
RICCARDO LUNA
E
quindi, ricapitolando, quest’anno abbiamo avuto:
il giovane matematico inglese che ha sviluppato un
algoritmo che ti dice se hai il Parkinson analizzando la voce ed è in cerca di diecimila persone che gli
mandino un messaggio vocale registrato per testare il prodotto; l’informatico che ha scoperto che gli
africani non hanno bisogno di computer ma di automobili, made in Africa e a basso costo, ci ha messo un anno a fare il prototipo in Kenya e adesso ha
già una cinquantina di prenotazioni. E ancora, il
tunisino che ha trovato un modo per rendere finalmente conveniente l’energia eolica sostituendo le
pale con una vela e se solo trova i fondi inizia a produrle subito. Non è meraviglioso? Di solito a questo
punto, se la presentazione è stata particolarmente
convincente, gli ottocento spettatori dell’auditorium, persone che hanno pagato seimila dollari
ciascuno per cinque giorni di storie così, scattano
in piedi per tributare a chi ha parlato una standing
ovation e per un attimo, solo per un attimo, ogni
problema sembra meno grande. Dai che ce la facciamo a migliorare le cose.
Bentornati al Ted, il festival di quelli che voglio-
800
1.275 800
Gli spettatori
che hanno
partecipato
all’ultimo
TedGlobal
di Edimburgo,
pagando
seimila dollari
MLN
1.275
I TedTalks
pubblicati
su ted.com
Ognuno
con biografia
di chi parla, link
e commenti
Il numero
di persone
da tutto
il mondo
che hanno
visualizzato
le conferenze
in Rete
no cambiare il mondo e che in molti casi lo
stanno già cambiando. L’edizione che si è appena chiusa a Edimburgo ha confermato che
questa ormai non è più solo una conferenza: è
una formidabile fabbrica di idee. «Siamo solo
giardinieri che gettano semi», si schermisce Chris Anderson che nel 2001 ha ereditato il format
lanciato nel 1984 da Saul Wurman in California.
«Siamo catalizzatori, alle idee degli altri noi aggiungiamo la piattaforma per diffonderle», chiarisce Bruno Giussani, il giornalista italo-svizzero salito a bordo del Ted nel 2006 diventando il curatore
della sua versione europea, il Ted Global.
Per dare un’idea della forza della “piattaforma”
vale l’esempio di quello che è accaduto qualche
giorno fa al video dell’intervento di Massimo Banzi. Banzi è l’inventore di Arduino, un microcomputer che sta conquistando il mondo e che secondo
molti è alla base della prossima rivoluzione industriale. Ha parlato martedì 26, il giorno di apertura,
ed è stato davvero molto bravo. Infatti Anderson e
Giussani hanno deciso che il primo video ad andare online sarebbe stato il suo. Risultato: è stato visto
14mila volte nella prima ora, 88mila volte dopo 24
ore. Ed è solo l’inizio.
L’empatia
visualizzazioni: 5 milioni
“Forse le storie sono solo dati
con un’anima”, dice Brené
Brown che studia le connessioni
tra gli esseri umani, la capacità
di empatia e condivisione
Cerca di esporre il significato
della vulnerabilità e del coraggio
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‘‘
Bisogna sforzarsi
per cercare
di tenere il miglior
discorso che
si è in grado di fare
Rivelare cose
nuove, parlare
con passione
ed entusiasmo,
raccontare storie
Al Ted non diciamo
mai cosa accadrà,
ma incoraggiamo
piuttosto questa
conversazione
meravigliosamente
disordinata
Siamo giardinieri
che gettano semi,
non i capi
di una fabbrica
Scuola e creatività
visualizzazioni: 11 milioni
LE REGOLE DELL’ORATORE
Ken Robinson contesta
i tradizionali sistemi educativi
dei bambini che limitano
le idee e la creatività
Propone nuovi metodi
che possano
stimolare la fantasia
Parlare chiaro,
cioè non usare
un gergo tecnico
e fare a meno
delle astrazioni
Non ostentare
se stessi,
non vantarsi
di quello
che si è fatto
Conferenza
non significa
pubblicità,
marketing
o promozioni
Provare, provare,
provare: così
migliora la qualità
dell’esposizione
e si sta nei tempi
Chris Anderson
direttore di Wired Usa
Stare lontano
dalle lunghe
introduzioni,
arrivare subito
al punto
Ted
Significa Technology
Entertainment Design
Conferenza nata nel 1984
con un format di discorsi
da 18 minuti. Si svolge
in California a febbraio
Studiare la mente
visualizzazioni: 8 milioni
Jill Bolte studia le malattie
mentali gravi. Nel ’96 ha un ictus
Questo momento diventa
per lei un’opportunità per capire
come reagisce l’organismo
e osservare le funzioni cerebrali,
il linguaggio e il movimento
perfetti, le è stato chiesto di ripartire dal momento in cui si era interrotta. Lei lo ha fatto ed è stata
ancora più brava. Ma a quel punto qualcuno si è
accorto che per effetto del blackout i famosi primi
minuti non erano stati registrati. E le è stato chiesto di tornare sul palco per la terza volta e ripetere
solo l’inizio.
La prima svolta del Ted, quella che ha trasformato una conferenza californiana in un fenomeno
mondiale, avvenne nel 2006 quando Anderson mise i video degli interventi in rete e milioni di persone iniziarono a vederli. La seconda svolta è più recente: è la nascita dei TedX. Sono Ted organizzati
autonomamente in tutto il mondo seguendo alcune regole. Chiunque può chiedere di fare un TedX:
a proprie spese naturalmente. Negli ultimi dodici
mesi ne sono stati fatti più di duemila: vuol dire che
tutti i giorni dell’anno in qualche angolo del pianeta ci sono sette “piccoli” Ted. Piccoli si fa per dire:
ne hanno fatto uno in Amazzonia, uno sulla Grande Muraglia, uno in un carcere spagnolo e nell’aprile 2013 se ne farà uno in Vaticano. Per questo il
Ted ormai non è più solo una conferenza ma un
movimento globale che seleziona e produce video
in 88 lingue grazie al lavoro di circa novemila vo-
Leadership
visualizzazioni: 5 milioni
Da Martin Luther King ai fratelli
Wright a Apple, tutti i grandi
leader usano lo stesso semplice
ma potente modello,
che Simon Sinek chiama
il cerchio d’oro. Tutto inizia
dalla domanda: “Perché?”
Versione europea nata
nel 2006 curata dal giornalista
italo-svizzero Bruno Giussani
Dopo Oxford, da due anni
si svolge a Edimburgo,
tra giugno e luglio
lontari che spiegano così la loro missione: «Queste
idee devono essere conosciute da tutti».
Al Ted le idee convivono e si scontrano. Così capita di ascoltare, uno dopo l’altro, il pedagogo
israeliano che dice che è ora di finirla con i voti, e il
professore tedesco responsabile mondiale dei test
studenteschi che spiega che solo così migliora l’istruzione per tutti. E ancora la paladina della rivoluzione economica che avviene attraverso la rete
assieme al giovane studioso che vede nella tecnologia pericoli immensi. L’avvocato di New York che
ha portato la Casa Bianca sulla strada del governo
aperto assieme al politologo bulgaro che teme la
troppa trasparenza perché quando c’è troppa luce
c’è anche una grande ombra.
«Questo è il posto dove le idee fanno sesso!» ha
urlato l’altra notte l’organizzatore di un TedX durante un goliardico fuoriprogramma nel quale alcuni giganti dell’innovazione si sfidano in un combattimento di parole in tre round. La storia delle
idee che fanno sesso è molto efficace per spiegare
il fenomeno ma era una citazione: l’ha detta l’anno
scorso Matt Ridley, l’autore dell’Ottimista razionale. Naturalmente in un video di Ted.
TedX
Sono Ted organizzati
autonomamente in qualsiasi
posto. Chiunque può
chiedere la licenza
(è gratuita) e organizzare
un TedX che dura un giorno
TedEd
Clip di tre minuti con risposte
a grandi problemi. Dirette
agli studenti e a chi vuole
imparare. Si affiancano
ai Tedbooks: libri digitali
di 20mila parole massimo
© RIPRODUZIONE RISERVATA
28MILA
2000 287
Le traduzioni
dei TedTalks
pubblicate
online. Oltre
9.000 volontari
hanno tradotto
le conferenze
in 88 lingue
I TedX fatti
nel mondo
nell’ultimo
anno. In Italia
una decina
Nel 2013
se ne farà
uno in Vaticano
I Ted fellows,
conferenze
che riuniscono
giovani
dall’Asia,
Africa, Caraibi,
America Latina
e Medio Oriente
GLOSSARIO
«Oggi il Ted fa tante altre cose», spiega Giussani,
«ma il cuore di tutto resta il talk». Il talk è il discorso
da 18 minuti massimo (quasi sempre qualcuno in
meno) che una settantina di innovatori, in gran
parte sconosciuti ai più, vengono chiamati a fare
nelle due conferenze di Long Beach e di Edimburgo. Con i talk vengono allestite una decina di sessioni tematiche di un’ora e mezza ciascuna. Le sessioni sono costruite con abilità da alchimisti: ci sono sempre uno scienziato, un inventore, un attivista, un comico, una storia commovente e un artista
che fa una performance dal vivo. Pausa di un’ora e
si ricomincia.
Sette telecamere ad alta definizione filmano
ogni intervento per farlo diventare un video memorabile. Il video infatti conta molto di più di
quello che accade nel teatro come dimostra quello che è capitato giovedì a Jane McGonical, la giovane e acclamatissima autrice di saggi sull’importanza del gioco. Insomma, la McGonical stava raccontando come qualche tempo fa si era trovata
sull’orlo del suicidio, quando c’è stato un
blackout che ha lasciato l’intero quartiere al buio
per quasi un’ora. La sessione è ripartita nel pomeriggio e visto che i suoi primi minuti erano stati
TedGlobal
TedPrize
È il premio di 100mila dollari
per realizzare un sogno
“Dream bigger” è lo slogan
Quest’anno è stato diviso
in 10 parti e verrà assegnato
a progetti sulla città del futuro
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LA DOMENICA
I sapori
Double-face
Ovviamente la pasta
e fagioli, ma anche
lo zabaione e persino
il bollito. Trasformare
i piatti invernali
in ricette
freschissime
è possibile
Ecco come fare
LICIA GRANELLO
enùdella cena: pasta e fagioli, bollito con una cucchiaiata di caponata e zabaione
per dessert, ovvero la perfetta sequenza gastronomica
per una serata invernale, tovaglia a quadrettoni, vetri appannati, fuoco nel
caminetto e rosso poderoso nei bicchieri. Ma la
cartolina è double-face: la volti e c’è una terrazza estiva, tavola apparecchiata con tovagliette,
candele a prova di ventilatore, bottiglie affondate nelle glacette, cubetti di ghiaccio a go-go.
Cambia tutto, tranne i piatti.
Il piacere dell’alta cucina popolare è tutto
qui, nel sapersi adattare a temperature e stagioni senza smarrire l’anima. Nuove tecniche e
antica maestria fanno il miracolo di cambiare
l’attitudine dei piatti, pronti a lasciare l’abito invernale per quello estivo con l’apparente nonchalance che molto ci difetta quando affrontiamo il cambio del guardaroba.
Alcuni trucchi sono evidenti, a partire dall’abbattimento della temperatura: qualche ora
di riposo — o una notte in frigorifero — placano i bollenti spiriti di zuppe e pietanze, consegnandole alla tavola domate nei sapori e più accondiscendenti ai comandamenti della cucina
estiva, primo fra tutti non aumentare il senso di
calore, che aggiunto alla spossatezza di fine
M
Non la solita
minestra
raffreddata
giornata uccide ogni desiderio gastronomico.
Ma per mutare la vocazione di un piatto si
può fare molto di più. Intanto, gli ingredienti:
usare le verdure di stagione invece delle evergreen — zucchine, finocchi, melanzane, disponibili tutto l’anno — cambia la percezione gustativa in termini di freschezza e appetibilità. E
allora, via libera a piattoni e rapanelli, fagiolini
e fiori di zucca, borragine e cipollotti. Allo stesso modo, diminuire la quantità di carni rosse e
privilegiare gli alimenti acidi — yogurt, cetrioli,
lime, erbette — serve a dare alle ricette tradizionali gusto più pulito. E poi, l’uso della piccola tecnologia. Una macchina per il sottovuoto
— che costa come un pranzo in pizzeria ed è
grande quanto due rotoli di carta da forno —
permette di bollire i vari tagli di carne in singoli
sacchetti sigillati, evitando di disperdere il sapore nell’acqua. Che si scelga l’insalata ricca o
il vitel tonné, il successo è assicurato. Oppure il
famigerato sifone, che per anni ha malignamente etichettato la genialità creativa di Ferran
Adrià codificando la cucina del Bulli come
un’incessante estrusione di cibi attraverso la
bocchetta del monta-panna. In realtà, caricato
il sifone con la bomboletta d’azoto e riempito
con una peperonata, frullata e passata al setaccio fine, si ottiene la più salutare delle mousse
da spalmare sui crostini.
Se i peperoni, pur privati della buccia, vi promettono notti insonni abbracciati a una damigiana d’acqua, al posto della peperonata mettete lo zabaione: per la versione salata, basta sostituire lo zucchero col burro ammorbidito, 15
grammi per tuorlo, e il marsala col vino bianco
secco. Roba da leccarsi i baffi (estivi).
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Versione
Estiva
Pomodori ripieni
Nella modalità calda, si riempiono
con riso, verdure e carne,
per poi cuocerli in forno. In estate,
tonno, uovo sodo e maionese
Capperi per decorare
LOCANDA DEL PILONE
Strada della Cicchetta
Alba (Cuneo)
Tel. 0173-366616
Chiuso martedì e mercoledì
menù 50 euro
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I piatti
Pasta e fagioli
Cotoletta impanata
Minestrone
Zabaione
Il più antico dei piatti unici,
mix perfetto di carboidrati
e proteine vegetali, trasloca
nei menù estivi appena tiepido,
con foglie di salvia fritte
Il tandem milanese-patatine fritte
resiste al cambio di temperatura:
carne a temperatura ambiente
servita con le chips
(buone anche non calde)
La tradizionale zuppa
scalda-mani, rinfrescata
dalle verdure estive, si offre
fredda, profumata con un pesto
leggero o zenzero grattugiato
Amato dagli sciatori
per le sue virtù corroboranti,
si trasforma in semifreddo, gelato
o bavarese, goloso compagno
di albicocche, pesche e fragoline
DISPENSA FRANCIACORTA
Via Principe Umberto
Torbiato (Brescia)
Tel. 030-7450757
Sempre aperto
menù 40 euro
MANGIARI DI STRADA
Via Lorenteggio 269
Milano
Tel. 02-4150556
Solo pranzo, chiuso domenica
menù 25 euro
LA REFEZIONE
Via Milano 166
Garbagnate Milanese (Mi)
Tel. 02-9958942
Chiuso domenica
menù 40 euro
RISTORANTE MARCONI
Via Porrettana 285
Sasso Marconi (Bologna)
Tel. 051-846216
Chiuso domenica sera e lunedì
menù 50 euro
A tavola
Un abbacchio a Ferragosto
FILIPPO CECCARELLI
era come la pece è la leggenda che grava, anche ingiustamente, sugli osti romani dei quali con autorità da qualche secolo si dice che
accolgano ogni nuovo cliente con uno sguardo tra
l’allegro e il corrucciato che può significare: «Tanto,
si nun ce rivieni tu, ce verrà quarcun antro, buon appetito!».
A tale diffamatissima categoria di ristoratori, cui di
nuovo con il più discutibile arbitrio e generalizzato
viene pure messo nel conto di essere così incuriosi e
cinici da rasentare la villania, sarebbe dunque ingiusto attribuire anche l’eventuale scomparsa dei piatti
estivi, che in effetti nella Città Eterna per lo più si limitano a qualche pasta e ceci rafferma, oltre all’ovvio prosciutto & melone ad altissima permanenza
frigorifera.
Ecco, avranno tanti difetti, gli osti capitolini, ma
non è colpa loro, o meglio non è colpa soltanto loro,
se a Roma si continua a mangiare “caldo” — carbo-
ILLUSTRAZIONE DI CARLO STANGA
N
nara, fritto, abbacchio, interiora — quando tutto intorno è bollente. Primo, forse, perché l’antica cucina
pastora nasce povera, e i poveracci non stavano tanto lì a distinguere tra le stagioni, la loro prima urgente necessità rimanendo quella di «riempisse la panza». E poi per le difficoltà di reperimento di ingredienti che i capricci della moda gastronomica hanno
ulteriormente contribuito a emarginare.
Ciò detto, con il necessario capriccio e approfittando del ciclo biologico continuo tra i possibili sapori perduti dell’estate romana non sarebbe malaccio recuperare: minestra di pasta e broccoli, tiepida,
anche con variazione di arzilla, cioè razza; spaghetti
leggeri con la ricotta di pecora; cicorietta, però autentica, e altre eventuali erbe pare di grande consumo durante la guerra: ramolacci, raponzoli, pastinache. E se abbacchio deve essere, che sia: però “brodettato”, cioè con uovo, succo di limone e maggiorana, qui altrimenti detta “persa”. Dopo di che anche
questa estate finirà, non solo a tavola.
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Bollito
Caponata
Involtini di pesce
Pappa al pomodoro
Il re delle carni invernali, padre
di brodi e gelatine, va lasciato
raffreddare prima di affettarlo
sottile, per servirlo col bagnetto
verde o in insalata
Calda, è una delle pietanze
no-carne più appetitose,
ma la versione migliore è quella
fredda, dopo un giorno di riposo
Ottima anche sui crostoni
Spatola, spada e ricciola, farciti
nella ricetta invernale con uvetta,
erbe e mollica e sfumati
col vino bianco, si arrostiscono
nelle foglie di limone
Povera e squisita, d’inverno
ha per base pelati e passate
I pomodori dell’orto firmano
la ricetta estiva, fredda,
aromatizzata con basilico fresco
IL QUINTO QUARTO
Via della Farnesina 13
Roma
Tel. 06-3338768
Chiuso sabato e domenica
menù 30 euro
LA DISTILLERIA
Via Roma 281
Pomigliano d’Arco (Napoli)
Tel. 081-8033702
Sempre aperto
menù 35 euro
BYE BYE BLUES
Via del Garofalo 23
Mondello (Palermo)
Tel. 091-684141
Chiuso lunedì
menù 40 euro
IL PALAGIO (FOUR SEASONS)
Borgo Pinti 99
Firenze
Tel. 055-26261
Aperto solo la sera
menù 65 euro
LA RICETTA
Niko Romito è uno dei grandi
giovani chef italiani
Nella sua scuola-ristorantelocanda “Casadonna”
di Castel di Sangro, L’Aquila,
elabora piatti di territorio
con tecnica finissima
come questa ricetta ideata
per i lettori di Repubblica
Ingredienti per 4 persone
200 g. di riso Vialone Nano
1,3 kg di sedano
400 g. di patate lesse
a pasta gialla
2 cipollotti
2 rametti di rosmarino
Cuocere il riso al dente in acqua bollente salata
e scolare. Centrifugare un chilo di sedano,
aggiungendo qualche goccia di limone,
per evitare che scurisca
Pelare il restante sedano con un pelapatate
e tagliarlo a dadi
Tagliare a cubi le patate lesse e stufarle
in padella con il cipollotto e aghi di rosmarino,
salare e aggiungere il riso
In un piatto fondo, disporre il riso, le patate stufate
al rosmarino e la dadolata di sedano
Versare il centrifugato freddo e rifinire con un giro di olio a crudo
✃
Minestra di riso, sedano e patate
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DOMENICA 1 LUGLIO 2012
■ 40
LA DOMENICA
L’incontro
Irrequieti
La provincia barese, la fuga a vent’anni
in Norvegia, la gavetta a teatro
e l’incontro folgorante con Fellini
e il cinema. Ma anche le donne,
l’insicurezza, l’analisi per “liberarmi
della compulsività”
E ora che sta lavorando
al prossimo film,
l’attore-regista confessa
il suo traguardo più bello:
“Aver risposto
a quella domanda letale
della gente del Sud:
ma dove vuoi andare?”
Sergio Rubini
utto sta nei capelli. Il fatto che
non mi sono
mai pettinato
genera una serie di equivoci. Io scomposto, caotico, scapigliato, zingaro, casinista del sud. E invece poi sono uno regolare, molto meno meridionale di come sono visto. A vent’anni sono scappato a vivere in Norvegia, dove regnano
l’ordine e il rigore, e dove c’è la biondezza, un mistero lontano dal mio che però
mi attraeva. Ecco, questa tensione verso un’altra natura, un altro mondo, è il
conflitto che vivo. Il cinema m’ha dato
una grande opportunità: quella di conoscere, e conoscermi». Sergio Rubini
parla col suo tono pacato un po’ filosofale, sornione, anche bonariamente
grifagno. Ha i capelli (effettivamente)
molto in disordine. La pelle ambrata e
liscia di un cinquantaduenne eterno
ragazzino. Offre caffè e acqua alle nove
di mattina a casa sua, uno splendido secondo piano con terrazzo cechoviano
su una delle più raccolte piazze del centro storico di Roma, terrazzo dove s’accede attraverso stanze fatte di poltrone
dispari, di librerie non uniformi, di mobili mai ortodossi.
«Io non mi ritengo geniale, perché tra
le cose che so e quelle che non so fare,
preferisco quello che non so fare. Mi
metto sempre in discussione, anche al
limite dell’inadeguatezza. Mozart scriveva alla sorella «stanotte sono tanto
stanco che preferisco comporti una
sinfonia piuttosto che inviarti una lettera», e lì c’è l’essenza del genio, che mette a frutto la sua inclinazione. Io invece
m’ostino a fare l’attore malgrado le mie
io ero strano. Ero capace di fargli telefonate anonime per sentire la sua voce.
Anche un’amicizia, una collaborazione stretta che s’interrompe, è un mistero. È sembrato che io fossi diventato più
antipatico, ma questa è la mia conquista: non avere più la voglia assidua di
piacere... Poi adesso io e Umberto Marino ci siamo ritrovati nel progetto del
film che sto per girare, Mi rifaccio vivo».
Una figura con cui Rubini non potrà rifamiliarizzare è Federico Fellini, di cui
interpretò il ruolo autobiografico del
regista giovane in Intervista del 1987. «È
una voragine, quella che m’ha lasciato
l’assenza di Fellini, un padre senza che
io me ne accorgessi, lui così presente
con le sue battaglie da autore, con la sua
lotta a Berlusconi contro le interruzioni
dei film, con quelle antenne della televisione al posto delle frecce degli indiani, con quel suo impegno ironico contro teoremi oscuri a forza di telefonate
mattiniere a direttori di giornale, a politici, a scrittori. E pure a me, che mi preparavo la voce per parlargli all’alba». E
ce n’è un’altra, di persona di riferimento, che è scomparsa dall’orizzonte di
Ho preso Margherita
a casa col motorino,
siamo corsi
in tribunale,
abbiamo
perfezionato
sorridendo
il divorzio
FOTO AGF
«T
ROMA
spigolosità». L’arte del contraddirsi,
ammette, lo carica, lo motiva, lo stimola. «Le prove della vita mi fanno paura,
ma le affronto meglio senza protezione.
Non perché sia coraggioso, ma semplicemente perché sono spaventato e allora mi ci butto più volentieri in un rischio». Un fatto concreto? «Rompere o
interrompere i rapporti, “scucire” una
relazione, è una delle avventatezze che
sono state il mio sport preferito. Un salto nel buio cui però ho scoperto di saper
rimediare, ricucendo». Fatale che si
parli di Margherita Buy... «Ma sa che
abbiamo divorziato una settimana fa?
Perché pensavamo che dopo la separazione fosse tutto automatico. Sono andato a prenderla a casa col motorino,
siamo corsi in tribunale, abbiamo perfezionato sorridendo le pratiche del divorzio, con quelli degli uffici che ci facevano i complimenti perché molti ci percepiscono sempre insieme, e d’altronde io nei film faccio spesso il marito di
Margherita: lo sono in un recente cortometraggio di Quartullo, e faccio il suo
compagno nell’opera seconda di Susanna Nicchiarelli, La scoperta dell’alba, tratta dal romanzo di Walter Veltroni, di prossima uscita».
Non è altrettanto di dominio pubblico il solido rapporto personale (e artistico) che Rubini ha («da dodici anni,
l’unione più stabile della mia vita») con
Carla Cavalluzzi. «È del mio paese, di
Grumo Appula in provincia di Bari, era
amica di famiglia e la conoscevo quando era ragazzina. Poi l’ho incontrata di
nuovo girando Tutto l’amore che c’è,
scoprendola appassionata di cinema e
laureata con una tesi su Kieslowski. Con
lei ho stretto subito, ha partecipato con
me e Starnone alle sceneggiature de
L’anima gemella, L’amore ritorna e
L’uomo nero e ha condiviso con me e
Angelo Pasquini La terra e Colpo d’occhio». Dice che l’assiduità, la continuità
di questo legame costituisce una svolta
dopo una bella esistenza nevrotica, e il
merito è tutto dell’analisi. «Sono quattordici anni che faccio psicoterapia, e
m’è servito a essere più consapevole, a
liberarmi della mia compulsività, a disperdere meno sforzi, a finirla di consumarmi nel cercare conferme e a trovare
armonia con la mia donna».
Tra le persone con le quali s’è risintonizzato c’è Umberto Marino. «Il sodalizio con Umberto cominciò a teatro a
metà degli Ottanta, all’inizio c’era con
noi anche Ennio Coltorti. La collaborazione con Umberto proseguì finché
non ci siamo persi di vista anche noi. Ma
Rubini. «Dopo Colpo d’occhioPaolo Vagheggi diventò per me il Cicerone dell’arte contemporanea, ed è stato anche
un amico...».
Rubini parla volentieri di maestri, di
decani della cultura, di persone-faro.
«Si dice che non c’è spazio per i giovani,
ed è vero, ma io metterei l’accento anche su una denuncia alla rovescia: ci sono pochi grandi vecchi, pochi intellettuali scomodi, e le personalità di spicco
sono elastiche, inclini inconsciamente
al compromesso da quando nel nostro
Paese c’è stato a lungo un presidente del
consiglio identificabile col padrone
delle tv, con la scusa io-lavoro-sotto-ilgoverno-o-per-le-produzioni-di-unoche-non-condivido-ma-che-mi-lascia-libero. Un’anomalia, con lieve
censura strisciante. E le conseguenze di
questo — la trasformazione orwelliana
del cittadino italiano, il trionfo del prodotto di massa — oggi si sentono. Io da
ragazzino, negli anni Settanta, facevo
parte della gioventù anarchica di provincia, poi quando sono tornato in Puglia ho trovato la sconfitta dei sogni e la
vittoria dei soldi. E non accetto questa
mancanza di luce, questo buco nero.
Nei film, l’happy end è un atto di coraggio, è indicare comunque una strada.
Mi piacciono le persone, la capacità dostoevskiana o tolstoiana di salvarsi, non
trovo giusto classificare la letteratura
“prima o dopo Kerouac”, ho bisogno
dei classici, d’un legame col passato che
non sia retorico, e anche d’un recupero
di me». Parla quasi sempre di sé, nei
suoi film? «Certo, ma con mistificazioni. Nel senso che mi viene da raccontare ciò che avrei volutoche fosse successo, incontri come non sono mai avvenuti. I film più “miei” sono anche menzogneri, tipo L’amore ritorna, o Tutto
l’amore che c’è. Non metto in giro messaggi nella bottiglia: quando scrivo una
storia, sento la responsabilità di regole
narrative precise. Ciò non esclude che
la scrittura abbia una dimensione intima e struggente. E se dirigere un film è
continuare a scrivere, interpretarlo è un
fatto di irrazionalità».
Rubini nasce teatrante («e tuttora ho
anche un progetto a due personaggi per
la scena» confessa), e dopo American
Buffalo di Mamet, La stazione di Marino e La notte è madre del giorno di
Norén ha avuto un mutamento genetico, un transfert per il cinema. «Quando
feci a teatro La stazione, dove evocavo
un po’ mio padre capostazione oltre
che intenditore d’arte e teatrante filodrammatico, pretendevo un minuzio-
so naturalismo, e uscire in quinta era
frustrante. Il teatro, lo dico con amore,
è un imbroglio, e lo insegnava Eduardo
che solo con una mossuccia di spalle
dava l’impressione di piangere. Il cinema è più spazioso, per come lo penso e
lo vivo. Ma tornerò a essere anche teatrante, lo sento». Intanto c’è il suo nuovo film, che girerà da luglio. «Mi rifaccio
vivo è una commedia del post-rancore,
dove un uomo s’immagina d’avere un
nemico che l’ha messo in ombra, e attraverso un espediente plautino da
scambio d’identità entra come angelo
custode nella vita dell’altro per rovinarlo, sennonché scopre che anche quello
è un disgraziato. È il quarto film con la
Fandango, con Neri Marcorè, Lillo (di
Lillo & Greg), Emilio Solfrizzi, Margherita Buy, Valentina Cervi, Vanessa Incontrada e io nei panni di un barbone».
Curriculum. Le radici famigliari?
«Apprendistato eterogeneo. Molto di
tutto. Una sera papà mi costrinse a
prender parte a un Natale in casa Cupiello con lui. Non recitava bene. Io
m’entusiasmai. Poi con la professione
mi sono trovato a fare da esempio. Sono senza figli. Mi domando chi si prenderà cura di me». Idea della crisi attuale? «Diceva Hölderlin che dove c’è crisi
c’è cambiamento, c’è salvezza, un ridare valore alle cose». Amici? «Per esempio un anziano primario di chirurgia toracica del Forlanini, che dalle 5,45 della
mattina riceve telefonate da tutti». La
letteratura? «Si parla sempre di Philip
Roth, ma conta anche Joseph Roth cantore della fine asburgica. Murakami.
Orhan Pamuk». La musica? «Sto tra Bach e Mozart, tra rigore e genio». Il traguardo più bello? «Aver risposto alla domanda letale di quelli del Sud: “Ma dove vuoi andare?”».
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RODOLFO DI GIAMMARCO