la domenica - La Repubblica.it
Transcription
la domenica - La Repubblica.it
LADOMENICA DOMENICA 1 LUGLIO 2012 NUMERO 383 DIREPUBBLICA CULT All’interno La copertina Attilio Cubeddu, Anonima sequestri, latitante in Sardegna dal ’97 Ora è ripartita la caccia. Viaggio in un passato che non passa “Felicismo” la nuova ideologia dove la felicità è scienza del piacere FERRARIS e MAGRELLI La recensione Torna Giovene e il romanzo-fiume che fu considerato l’altro Gattopardo PAOLO MAURI L’intervista DATI ANAGRAFICI Nome Attilio Cognome Cubeddu Nato il 2 marzo 1947a Arzana (OG) Ahmed Mourad “Io, fotografo di Mubarak svelo il noir del potere” SUSANNA NIRENSTEIN ATTIVITÀ CRIMINALE 1981 sequestro Peruzzi 1983 sequestri Rangoni Machiavelli e Bauer 1997 sequestro Soffiantini Arrestato il 31 marzo 1984 Condannato a 30 anni più ergastolo Latitante dal 7 febbraio1997 L’opera I luoghi Karen Blixen, alla ricerca della sua Africa EMANUELA AUDISIO Next Il popolo del Ted e il festival che inventa il futuro RICCARDO LUNA ATTILIO BOLZONI L MARCELLO FOIS ARZANA (Ogliastra) o davano per morto. E lui, il morto lo faceva bene. Mai ceduto un segno della sua esistenza in vita, mai lasciata una piccola traccia di sé, neanche il respiro del suo fantasma sentivano più dentro la montagna che lo proteggeva — il Gennargentu — fra boschi di leccio e distese di querce, anfratti nascosti da spinose ginestre, gole, caverne, costoni di granito, voragini. Per quindici anni ne abbiamo avuto un ricordo sfuggente dalla foto segnaletica attaccata ai muri dei posti di polizia, faccia di fronte e faccia di profilo, gli occhi pesti, il collo gonfio, la capigliatura nerissima di quando era un giovane sardo che stava già diventando erede di quei balentes che su quest’isola si prendono il rispetto dovuto agli uomini d’orgoglio e di coraggio. Fino a qualche giorno fa c’era rimasto solo e soltanto quello di lui, il bollettino dei latitanti del ministero dell’Interno. (segue nelle pagine successive) P arlare oggi di banditismo in Sardegna è come aprire l’armadio di casa e provare a indossare, dopo vent’anni, l’abito del proprio matrimonio. Quella giacca che non si abbottona ci ricorda che non siamo più gli stessi, che ci siamo trasformati senza rendercene conto. Il nostro fisico si è espanso, gli assetti e le proporzioni sono cambiati. Così il corpo sociale di una regione che si preferisce pensare immobile. I miti del balente, del bandito, dell’Anonima sequestri, sembrano ancora vivi solo a chi non considera l’evoluzione della società sarda negli ultimi trent’anni. Tuttavia quello della delinquenza resistenziale è stato un mito esotico persino per molti sardi che dovevano subirlo come endemico in virtù di una tendenza generalizzante che vedeva, e spesso ancora vede, la Sardegna tutta uguale, tutta pastorale, tutta rivendicativa, tutta arcaica. (segue nelle pagine successive) I bambini cattivi di Henry James sono il capolavoro musicale di Britten DINO VILLATICO Il libro Una certa idea di mondo: La fiction filosofica secondo Cartesio ALESSANDRO BARICCO llaa RReeppuubbbblliiccaa LA DOMENICA DOMENICA 1 LUGLIO 2012 ■ 28 La copertina L’ultimo bandito Si chiama Attilio Cubeddu, è ricercato dal ’97 per rapimento, omicidio ed evasione . È un residuo dei tempi dell’Anonima sequestri che lo Stato aveva dimenticato. Finché all’improvviso è ripartita la caccia. Siamo andati in Sardegna a scoprire perché Il fantasma dell’Ogliastra (segue dalla copertina) ubeddu Attilio, nato ad Arzana il 2 marzo 1947, ricercato dal 7 febbraio 1997 per non avere fatto rientro, al termine di un permesso, nella casa circondariale di Badu’ e Carros, ove era ristretto, per sequestro, omicidio e lesioni gravissime». Sicuramente disperso. Apparentemente morto. Accidentalmente vivo. È resuscitato dalla sua tomba l’ultimo bandito dell’Ogliastra, terra aspra che da una parte si confonde con l’impenetrabile Barbagia e dall’altra precipita in un mare esageratamente azzurro, cime di neve e cale al riparo dal maestrale, sperduti ovili e luccicanti imbarcaderi con lì in mezzo Arzana, piccola grande capitale sarda che il Duce minacciò di bombardare per liberarsi dei suoi fuorilegge e soprattutto di uno, Samuele Stocchino, Medaglia d’oro al valore sul Carso con Emilio Lussu nella Grande guerra e poi — per faida di famiglia — l’assassino più temuto e braccato di Sardegna, “Sa tigre de Ogliastra” la tigre dell’Ogliastra, l’antenato di questo Attilio Cubeddu che è ricomparso all’improvviso dopo un silenzio quasi infinito. Dalla leggenda dell’“eroe” che tiene in scacco lo Stato carabiniere alla cronaca degli ultimi giorni, dalla visione romantica del bandito solitario e ribelle tramandata dai cantastorie agli elicotteri che all’alba del 12 giugno si sono abbassati sui tetti delle case di Arzana e di Lanusei mentre anche i paesi di Gairo e Cardedu venivano cinti d’assedio da reparti speciali, teste di cuoio, incursori, tiratori scelti. Una grande caccia. Qualcuno aveva fatto sapere che uno dei nove ricercati «più pericolosi d’Italia» era «C sempre lì, nel suo reame, difeso dalla sua tribù. Inverosimile la soffiata, più probabile il tentativo (andato male) di una resa da “concordare”, una trattativa in salsa sarda. Un altro mistero intorno a un bandito di cui si sa tutto e niente, catturato nel 1984 a Riccione dopo i sequestri di Ludovica Macchiavelli e di Patrizia Bauer, condannato a trent’anni di reclusione, detenuto modello, evaso dopo un permesso premio e poi ancora accusato di avere segregato l’imprenditore bresciano Giuseppe Soffiantini e sospettato — ma mai incriminato — di avere preso in ostaggio anche la ragazza di Tortolì Silvia Melis. Due sequestri del 1997, appena dopo la libertà ritrovata e mai più perduta. Siamo saliti nella “sua” Arzana per raccontare il ritorno di Attilio Cubeddu, siamo partiti dall’ultimo suo domicilio conosciuto per ricostruire le segrete vicende di questo latitante che più di un capo dell’Anonima è considerato uomo «di mano», ruvido, lontano da MANETTE Attilio Cubeddu in manette nel 1984: condannato a trent’anni per più sequestri di persona; a sinistra, foto storiche di banditi sardi FOTO ANSA ATTILIO BOLZONI contaminazioni politiche, privo di istinto rivoluzionario o da rivendicazioni separatiste, solo uno spietato esecutore che non assomiglia in nulla al suo complice di tante scorribande Giovanni Farina, bandito poeta che manda lettere a giovani suore e vince premi letterari, luogotenente di quel Mario Sale di Mamoiada che definiva la sua banda «la base mobile operativa toscana dell’Anonima sarda intitolata al grande compagno Antonio Gramsci». Attilio Cubeddu è solo Attilio Cubeddu. Rapimenti e orecchie mozzate. Arzana, 2.526 abitanti, 670 metri sul livello del mare, sedicimila ettari di territorio quasi tutti sul Gennargentu, 60 aziende pastorizie, 65 forestali, 12 imprese edili con 250 operai. Le personalità del paese secondo Wikipedia: «Stanis Dessy, artista; Anselmo Contu, politico; Attilio Cubeddu, bandito; Pasquale Stocchino, bandito». Un altro Stocchino questo, catturato nel 2003 dopo trentun anni alla macchia, una latitanza superata in lunghezza solo dal siciliano Bernardo Provenzano. Sembra il suo sosia Attilio Cubeddu, introverso come Pasquale, taciturno, diffidente. L’ultima volta, Attilio l’hanno visto in via San Martino al civico 30, a un passo dalla nuova caserma dei carabinieri di Arzana. È in fondo al paese, una casa di tre piani, pietra grigia, un giardino abbandonato, uno scivolo arrugginito. Qui abita la figlia Samuela con i suoi tre ragazzi: Anita, Efisio, Fabiana. All’alba del 12 giugno i poliziotti sono piombati in questa casa. «Era il giorno che dovevo ritirare la pagella e hanno messo tutto sottosopra», ricorda Efisio, terza media e i capelli rasati come usano ancora i pastorelli sardi. Sono andati anche davanti alla farmacia dove sta Cristina, un’altra figlia di Attilio Cubeddu. E a Cardedu, dove vive la terza figlia Valeria e pure Marisa Caddori, la moglie del latitante. Niente. Non l’hanno trovato neanche lì. È morto un’altra volta Attilio Cubeddu. llaa RReeppuubbbblliiccaa DOMENICA 1 LUGLIO 2012 DAL PASSATO Lotta contro il banditismo in Sardegna negli anni Sessanta In copertina, tre foto segnaletiche di Attilio Cubeddu Il sindaco di Arzana è Mario Melis. Racconta di quella mattina: «Mi hanno svegliato i rumori delle pale degli elicotteri, avevamo organizzato un tour dell’Ogliastra in mountain bike, settantacinque atleti provenienti da tutto il mondo. Doveva essere un giorno di festa». È sconfortato Melis: «Bastava che gli elicotteri arrivassero poche ore dopo e gli stranieri non avrebbero visto nulla, invece hanno visto tutto». È andata come è andata ma il sindaco è consapevole: «La nostra storia purtroppo è quella che è e non cambierà fino a quando non si chiuderà l’ultimo capitolo». Fino a quando Attilio Cubeddu sarà libero, Arzana avrà il destino segnato. Gli resterà quel marchio ignobile: paese di banditi, di omertosi, paese di conniventi. Perfino l’urbanistica inchioda e infama Arzana. «Quando ti arrampichi da Tortolì verso il Gennargentu guarda il paese e vedrai che è a forma di fucile», ci avverte un amico sardo. Il calcio appoggiato sulla collina, la canna — una stretta fila di case — che scende verso valle. Una nomea che risale al tempo del fascismo e ai suoi briganti, quando Mussolini mise una taglia di 250mila lire — un record per quell’epoca — sulla testa dello Stocchino che aveva combattuto sul Carso nella Brigata Sassari. Il resto l’hanno fatto gli incendiari anni Ottanta con i nuovi balentes, brutali imitatori dei loro capostipiti, solo più ricchi, poche pecore e tanti soldi. «Ma tutto questo appartiene a un’altra Arzana, qui siamo andati avanti, quelli che chiamano banditi sono ormai solo poveri cristi», dice Raffaele Sestu, medico condotto e presidente delle Proloco della Sardegna, innamorato del suo paese e di tutto quello che c’è intorno. Sentieri, salti d’acqua, erbe mediche e i suoi quattro pazienti ultracentenari. Paolino ha 103 anni, Antonio 102 anni; Cicita e Maria 101 anni. Il dottor Sestu dal 1985 ha avuto in cura venti- Quella giacca da “balente” diventata troppo stretta MARCELLO FOIS (segue dalla copertina) ome guardarsi l’ennesimo film americano in cui tutta l’Italia è rappresentata da tovaglie a quadri, fisarmoniche, mandolini e gondolieri che cantano Santa Lucia. L’isola banditesca dunque è innanzitutto un luogo comune e ha rappresentato un modello storicamente funzionale a giustificare tentativi di lavanderia sociale e a sfumare le plateali deficienze dell’amministrazione locale e nazionale nei confronti di quella periferia. Ribadiamolo: equiparare quel modello territoriale alla Sardegna in toto significa affermare che i siciliani sono endemicamente mafiosi o che i genovesi sono tutti taccagni. Eppure il balente, il bandito, l’Anonima sequestri sono state, sono e saranno cose serissime che hanno caratterizzato un disagio pesantissimo, una difficoltà precisa della Sardegna interna di trovare un tratto di convivenza partecipata nella nazione Italia. La crisi nelle Barbagie, periferiche, ignorate, trascurate, è più crisi; la disoccupazione, più disoccupazione; il ricatto del pane, più ricattatorio. Siamo quattro gatti che contano poco in una regione di quattro gatti che contano pochissimo. Siamo stati arruolati; siamo morti di leucemia fuori e dentro casa nostra; siamo stati deportati in fabbrica secondo un assurdo modello di industrializzazione coatta; siamo stati licenziati successivamente secondo uno schema di C sacrifici ad personam. Nel mito, nei nostri sogni di gloria, a tutto questo ci siamo ribellati; nei fatti abbiamo semplicemente considerato cura una malattia peggiore: quella del livore sociale. A noi si dice continuamente che gli sforzi per affrancarsi da questo sentimento sono inutili, che noi siamo i figli cadetti di questa regione di figli cadetti. A noi si dice che sarebbe auspicabile un assetto in cui come operosi trogloditi dell’interno contribuiamo, in orbace, a soddisfare i desideri del turista che in Barbagia vuole brividi, sguardi torvi, donne con i baffi. Che vuole ospitalità incondizionata, un po’ fessacchiotta e amicizia sempiterna: si sa come son fatti sardi no? Quando ti sono amici, ti sono amici per tutta la vita. Per questo motivo il mitema facilone della primula rossa in questo preciso momento storico del Paese è quanto di peggio si possa offrire a tutta la massa di disoccupati che, gioco forza, affollano i bar dei paesi dell’interno in Sardegna. Perché la risposta retorica, la richiesta di folk, è letale esattamente come la solita, esclusiva, priva di argomenti, risposta repressiva. E ci si chiede fino a che punto, visto che comunque ci disegnerebbero così, noi sardi dell’interno per primi non ci siamo convinti che l’unica giacchetta che ci sta bene è quella del balente, del banditismo, dell’Anima sequestri. E così, pateticamente, cerchiamo di abbottonarla nonostante la pancetta. © RIPRODUZIONE RISERVATA sei vecchietti sopra il secolo d’età. Arzana, oltre al primato dei banditi, ha anche quello della longevità. La più vecchia fra i vecchi, Raffaella Monni, è morta nel 2007 a 109 anni e sei mesi. Sarà cambiata Arzana ma ai suoi banditi ci tiene sempre. Cubeddu è stato aiutato ogni giorno da quel 7 febbraio del 1997. Accudito, sfamato, nascosto. Fino a quando un misteriosissimo personaggio — uno di quelli di confine fra banditi e Stato — all’inizio della primavera si è presentato al procuratore capo di Lanusei Domenico Fiordalisi e ha cercato una strana “mediazione”. Gli ha fatto capire che “il morto” si sarebbe anche potuto costituire, magari in cambio di qualche indagine patrimoniale in meno contro la sua famiglia. È cominciata una partita tutta psicologica. Fatta di mosse e contromosse, di spiate, di talpe che diffondono informazioni vere e fasulle. Il procuratore, un calabrese tutto d’un pezzo che per qualche anno ha avuto come casa una cella del carcere San Daniele e dopo minacce vigliacche ha rispedito moglie e figli in Calabria, a un certo punto ha alzato il tiro. E ha ordinato di circondare Arzana. Dieci i favoreggiatori trovati. Sono solo i primi. Dopo quindici anni, Attilio Cubeddu non si può più fidare di tutto il suo paese. Nemmeno dei poeti. Anche loro non sono più quelli di una volta. Come quel Sebastiano Satta, avvocato penalista di Nuoro, amico dei socialisti sassaresi, giornalista e scrittore che quasi un secolo fa alle gesta degli avi di Cubeddu dedicò un Vespro di Natale. Dai suoi canti barbaricini: «Incappucciati, foschi, a passo lento, tre banditi ascendevano la strada [...] ai banditi piangea la nostalgia. E mesti eran, pensando al buon odore. Del porchetto e del vino, e all’allegria. Del ceppo, nelle lor case lontane». I banditi hanno sempre avuto i loro ammiratori. © RIPRODUZIONE RISERVATA FOTO ARCHIVIO STORICO UNITÀ ■ 29 llaa RReeppuubbbblliiccaa DOMENICA 1 LUGLIO 2012 ■ 30 LA DOMENICA L’attualità Restyling Tre lettere e un “love” stampati su migliaia di gadget Dal 1976 sono più di uno slogan, sono un simbolo di appartenenza. Ma secondo Andrew Cuomo, governatore dello Stato di New York, è venuto il momento di cambiare Questa la proposta: inviate disegni per un nuovo logo. Eccone alcuni. Funzionerà? GABRIELE ROMAGNOLI elcuore di tenebra della Tanzania due ragazzini scalzi corrono sollevando polvere. Macchie colorate si avvicinano definendosi: a quel punto appare chiaro che uno indossa la maglia blu del Chelsea, l’altro una t-shirt bianca con la scritta “I love Ny”, dove il verbo è rappresentato da un cuoricione rosso. L’universalità è questo: raggiungere ogni angolo di mondo e in ciascuno risultare comprensibile perché si evoca una fantasia condivisa. Ma che cosa c’entra un bambino africano con i canyon delle avenue, Colazione da Tiffany e quel che resta delle notti “vale tutto” al Meatpacking District? C’entra, anche se non sa neppure di che cosa sto parlando. Un giorno lontano, proprio a New York, entrai nello studio di un tizio di origini russe che aveva fondato una strana agenzia pubblicitaria: traduceva campagne per Paesi culturalmente distanti da quello originale, spiegava come correggere spot americani nell’Europa orientale o nel mondo arabo. Ultimo suo cliente era stata la Nike, che gli aveva chiesto come tradurre altrove lo slogan “Just do it”. E questo genio aveva messo insieme un fascicolo di svariate pagine per dire: non tocca- N L’arte di vendere il cuore di una città ponte di Brooklyn. Neppure conta che tu sappia che queste cose esistono, basta che ammetta un universo parallelo capace di contenerne la possibilità. Lontano o vicino, raggiungibile o già raggiunto, non conta. Il cuore attribuiva a New York la natura di oggetto del desiderio. E quello, inevitabilmente, è unico (anche se ci culliamo nell’illusione della poligamia). Hanno provato a clonare l’idea, a declinarla in forme alternative, di cui la più tragica rimane il palindromo “Amoroma”. Non ha mai funzionato. Né si sa se funzionerà una delle migliaia di proposte alternative (alcune sono pubblicate in queste pagine) che rispondono alla proposta del governatore di New York Andrew Cuomo di inventare un nuovo logo per mandare in pensione quello di Milton Glaser del ’76. “I love Ny” era il “Just do it” applicato alla promozione di un luogo. Non replicabile in altre forme. Avere addosso quella scritta conferiva un’aura di appartenenza. Non siamo mai stati e mai saremo “tutti americani”, ma possiamo essere “tutti newyorchesi”, giacché (ce ne hanno convinto) New York è uno stato mentale. Va da sé che, lontano dalla polvere della Tanzania, tutta l’operazione è finalizzata a che tu ti compri un pezzetto di questo luogo-non luogo: un biglietto aereo per raggiungerlo, un libro o un film ambientati lì, dozzine di capi Non importa se sei stato a Brooklyn o a Manhattan Quel che conta è la fantasia condivisa sotto quella scritta telo, lasciatelo esattamente così, nessuno lo capisce ma tutti lo capiscono, passa il senso, l’energia, passa il messaggio. “I love Ny”, stessa cosa: puoi non averci mai messo piede, puoi aver perfino visto pochi film ambientati a Manhattan, non sapere che cosa sia Sex and the City, non ha importanza: you can love New York, anyway. Non sei convinto? Guardati allo specchio: hai un cuore rosso sopra il cuore. Si può vendere una città come fosse un prodotto? Certo che sì. La prova è nei fatti: è successo. Hanno venduto New York. Gli assassini del Bronx e quelli di Wall Street, le puttane di Times Square e quelle dei quartieri alti, tutti sepolti sotto un telo bianco, sul quale campeggiava la scritta “I love Ny”. Tre lettere e un simbolo, capaci di trasformare una città in uno stato della mente, in una fantasia condivisa. Tu ami New York. Non per aver passeggiato a Central Park, aver pranzato accanto a Martin Scorsese in un ristorante di Tribeca o per aver fatto jogging sul d’abbigliamento che ne portano il nome, il profumo con il suo prefisso by Carolina Herrera. E ha funzionato. A volte succede l’opposto. Il caso tipico è lo slogan “Milano da bere” inventato per l’amaro Ramazzotti. È rimasto come un adesivo sul petto della città a segnalarne una stagione di fatuità e corruzione. Cerchi l’espressione su Wikipedia et voilà: appaiono le foto di Berlusconi e Craxi in smoking a qualche festa con nani e ballerine. A quel punto, esci al casello di Melegnano. O vai a Malpensa e ti imbarchi sul primo volo per New York. Atterri, prendi il taxi, ti fermi in un negozio di souvenir e, prima che le ritirino dal commercio, ti compri e indossi una maglietta con le tre lettere e il cuore (per quanto reperibile anche su una bancarella di Milano). A quel punto ci sei dentro, ti sei messo nel punto esatto dove eri stato precollocato da un’attenta campagna e l’amore per la città che non conosci te l’hanno, innegabilmente, venduto. © RIPRODUZIONE RISERVATA llaa RReeppuubbbblliiccaa DOMENICA 1 LUGLIO 2012 ■ 31 Niente copyright solo amore MILTON GLASER uando, a cinque anni, vidi mio cugino disegnare un cavallo su un sacchetto di carta ne rimasi turbato: davvero si poteva replicare un essere vivente solo con un lapis? Decisi allora cosa avrei fatto nella vita. Non disegnare cavalli su sacchetti di carta, ma creare cose, l’aspetto che più mi affascina del design. Col tempo scoprii che la mia passione poteva essere remunerativa — i primi lavori per cui venni pagato erano le vignette di donne nude che vendevo ai miei compagni di scuola a un penny — ma non immaginavo avrei progettato musei, ristoranti e supermercati, creato riviste, disegnato copertine di libri e dischi e... il logo “I love New York”. Lo concepii nel ’76, mi era stato commissionato per riposizionare l’immagine della città in un periodo di disaffezione. Ero in taxi, ne feci uno schizzo, piacque e divenne «il logo più riprodotto nella storia». Il suo successo resta per me un mistero, forse ha a che fare con un potere che non esisteva nella grafica, un clic sulle emozioni. Sono sempre stato affascinato dai meccanismi del cervello, che decodifica informazioni come puzzle, e qui il messaggio è semplice: c’è una parola, un simbolo, due iniziali. Tre elementi che necessitano uno sforzo minimo per essere compresi, ma che riescono a fare clic. Presi duemila dollari, forse l’equivalente del penny di quando avevo otto anni. Niente copyright: non volevo che i newyorchesi pagassero per il loro trademark. (Testo raccolto da Carlotta Magnanini) Q © RIPRODUZIONE RISERVATA IL CONCORSO Sopra, dal faro all’aquilone, dalla vespa alla coccinella, sono solo alcuni dei bozzetti inviati al sito www.iloveny.com, dove tutte le proposte vengono visualizzate in una galleria online llaa RReeppuubbbblliiccaa LA DOMENICA DOMENICA 1 LUGLIO 2012 ■ 32 I luoghi Settantacinque anni fa, dopo Conrad e prima di Hemingway, con il suo romanzo raccontò il continente nero ai bianchi. Oggi la fattoria in cui lo scrisse,“ai piedi degli altipiani del Ngong”, è un museo da Oscar nascosto tra le ville dei ricchi di Nairobi. Il nostro viaggio Casa Blixen alla ricerca della sua eredità Quel che resta di Karen La sua Africa non abita più qui EMANUELA AUDISIO E NAIROBI ra la sua Africa. Meno virile, più sfortunata, ma altrettanto aspra di quella di Hemingway. La fece scoprire al mondo settantacinque anni fa. Stesse colline, stessi leoni, diversi gli affanni: con le piantagioni di caffè al posto del whisky. Aroma di fatica e non di bottiglia. La baronessa Karen beveva il tè, Ernest la birra. Altri gradi alcolici. Diverso anche il modo di usare armi, cartucce e polvere da sparo. Lei per diciassette anni visse l’Africa, lui ci passò per vacanza e safari. Però Hemingway fu sincero e quando nel ’54 gli dettero il Nobel mandò a dire che lo meritava anche la «meravigliosa Isak Dinesen». La signora venuta dal freddo (Danimarca) fu una meravigliosa anche se sofferta cartolina turistica per quell’altopiano dopo che Conrad con il suo Cuore di tenebra dal Congo aveva un po’ incupito l’atmosfera. Il Kenya nelle parole di Karen era più attraente. «In Africa avevo una fattoria ai piedi degli altipiani del Ngong. A centocinquanta chilometri più a nord su quegli altipiani passava l’equatore; eravamo a milleottocento metri sul livello del mare. Di giorno si sentiva di essere in alto, vicino al sole, ma i mattini, come la sera, erano limpidi e calmi, e di notte faceva freddo». Settantacinque anni dopo cosa resta de La mia Africa? Il libro uscì nel ’37, il film di Pollack nell’86 (vinse 7 premi Oscar). Karen è morta a settantasette anni nel ’62 a casa sua, davanti ad un mare grigio, lontana da quei colori che l’avevano riscaldata. Nessun’altra scrittrice ha avuto il suo passo sull’Africa e la sua camera con vista, ma onestamente sono cambiati temi e tempi. Nadine Gordimer, Nobel nel ’91, è nata e vive in Sudafrica, da sempre impegnata contro l’apartheid, sicuramente non è tipa da dire «quando dormo sogno e i sogni sono sempre belli». Dice il protagonista de Il giovane Holden che Out of Africa (titolo originale del romanzo, ndr) è bellissimo, anche se ha preso il libro per sbaglio alla biblioteca, chiamerebbe l’autore volentieri al telefono. Ma Salinger scrive nel ’51 e poi certe telefonate non si fanno mai. Karen aveva una fattoria, una piantagione, un mondo. Tutto liquidato, in frantumi, in bancarotta. Non era brava a fare affari, anzi era un disastro, anche se il suo soprannome era Njeri Wagoka, “quella indaffarata”. Se è rimasto qualcosa è per le donazioni danesi e dell’Universal Studios che ha girato il film e ha lasciato abiti e materiali. Il quartiere di Ngong, quindici chilometri fuori da Nairobi, oggi è una affollata zona residenziale dove tutto si chiama Karen: ospedale, albergo, supermercato, centro commerciale, college. La vegetazione è bella, le ville nascoste anche. Quella di Karen era modesta, tra cactus giganti, cipressi, bouganville: la casa Mbogani Farm House costruita dall’ingegnere svedese Ake Sjo- gren nel 1912, fu comprata dal governo danese nel ’59, ristrutturata e donata nel ’64 al Kenya per la sua indipendenza. È aperta al pubblico dall’86. Tutto sembra vero, quasi tutto è falso. Gli stivali nella stanza da letto sono quelli che Meryl Streep ha indossato nel film, la piccola macchina da scrivere Corona è una copia, l’orologio a cucù pure, come la vecchia cucina Dove Stove e il grammofono su cui l’ado- rato Denys Finch Hutton e l’altrettanto amato Robert Redford ascoltavano Mozart. L’atmosfera c’è, anche se il legno del tetto del cottage viene dall’Uganda, il baule è di Vuitton, la pelle di leopardo è offerta dal National Museum of Kenya. Per respirarla basta vedere la piccola vasca da bagno in zinco e il menù affisso della cena del ’28 con H. E. Edward, principe di Wales: zuppa, prosciutto, spinaci e cipolle cara- llaa RReeppuubbbblliiccaa DOMENICA 1 LUGLIO 2012 ■ 33 DIARIO A sinistra, una pagina del diario del marito di Karen con una foto della scrittrice che si esercita al tiro davanti alla fattoria Sopra, la prima edizione di Out of Africa Nelle foto: la Blixen e il marito in casa nel 1919 e durante un safari nel 1914 e, a destra, la scrittrice con i cani nel 1918 ‘‘ mellate, macaroni salad con salsa al tartufo, ossobuco, savarin alla frutta. Karen quando partì era una donna sconfitta, il suo mobilio venne messo all’asta e finì in Sudafrica come il tavolo di noce con otto sedie e la libreria di quercia, anche se qualcosa è stato ricomprato o donato dagli amici come Lady McMillan, americana di Boston, a cui si deve la fondazione della Biblioteca nazionale di Nairobi, e che ha voluto essere seppellita sotto il monte Kilimambogo. Di vero ci sono le lettere di Karen, una datata 20 gennaio 1914: «A runner is just leaving». Un corridore sta per partire. Già perché per messaggi e comunicazioni usava i ragazzi Masai, rapidi e veloci, visto che il servizio postale nato a Nairobi nel 1908 serviva solo la città. Gli stessi atleti Masai che poi andranno a vincere le Olimpiadi e a imporsi oggi come grandi mangiatori di fatica nella maratone, capaci di scrivere la storia con piedi e fiato. Loro che portavano lontano le parole di Karen sono stati bravi nell’inventarsi la favola vera di corridori della lunga distanza. Poi c’è l’eredità letteraria. Settantacinque anni dopo l’Africa cerca altre parole e non resuscita la bianca straniera Karen. Ma se tanti scrittori trovano spazio, cattedre, futuro è perché c’è stata una scia Blixen. Ngugi Wa Thiong’o, settantaquattro anni, da tempo in gara per il Nobel, romanziere, drammaturgo e saggista, nato a Limuru, in Kenya, uno dei massimi esponenti della letteratura africana, come i nigeriani Wole Soyinka e Chinua Achebe, dopo aver insegnato per un decennio all’università di Nairobi (1967-1977), arrestato e detenuto per le sue critiche alla società keniota postcoloniale, è andato in esilio in Inghilterra e ora vive e ha una cattedra all’università di California. Ha deciso di scrivere nella nativa lingua kikuyu invece che in inglese. Il suo Sogni in tempo di guerra, appena pubblicato da Jaca Book, parla di una crescita, di adolescenza, di repressione, di caccia all’antilope, di libertà, del passaggio da una comunità poligama a una famiglia con un nuovo genitore. Può essere un sogno, ma non è una favola. E su Karen ha idee chiare. «Blixen è bravissima, è una romanziera vera. Sa come tradurre le immagini in parole. Non c’è malizia nei suoi toni e nelle sue intenzioni. Per questo i suoi commenti razzisti e certe Sapeva come tradurre le immagini in parole. Anche i suoi commenti razzisti hanno uno stile bello, non sono urlati, e non per questo fanno meno male. Oggi è molto letta nelle nostre scuole, ormai fa parte del nostro patrimonio culturale LE IMMAGINI Sotto, la casa della scrittrice dove sono state girate alcune scene del film. Nell’altra pagina, Karen Blixen nel 1905, nel 1918 durante un safari e negli anni Cinquanta sue riflessioni sono dannose e fuorvianti. Hanno uno stile bello, non sono urlate, ma fanno lo stesso male. Una sua eredità resta: è molto letta nelle nostre scuole e l’area dove viveva fuori Nairobi adesso è diventata la più richiesta e lussuosa. In questo senso fa parte del nostro patrimonio. Ma la sua visione semplicistica e riduttiva del popolo è in contrasto con quella di altri autori. Jomo Kenyatta, futuro presi- dente del paese, nel ’38, appena un anno dopo la Blixen, scrive Facing Mount Kenya. Sono contemporanei, parlano della stessa comunità e dello stesso panorama. Ma Kenyatta è più complesso, la sua gente chiede di avere indietro le terre che gli europei come la Blixen hanno rubato agli africani. Mentre la società indigena che lei descrive è primitiva e ingenua». Karen andò in Africa, scrisse storie davanti al fuoco, e le narrò al mondo. Oggi è l’Africa che va al mondo e si racconta. Alain Mabanckou, quarantacinque anni, nato a Pointe-Noire, città costiera del Congo Brazzaville, dopo la laurea in Lettere e Filosofia, parte per la Francia dove prende una laurea in Diritto. Nel 2006 vince il premio Renaudot, nel 2010 con Demain j’aurais vingt ansè il primo nero ad essere pubblicato nella prestigiosa collana Blanche di Gallimard. Dal suo romanzo Black Bazar è stata tratta una pièce teatrale rappresentata al festival di Avignone (2011). Insegna all’università di California a Los Angeles. Il suo pamphlet Le sanglot de l’homme noire uscito in Francia prima delle ultime elezioni presidenziali è stato molto polemico con Sarkozy sul tema della francofonia di colore. E poi piccole Karen crescono, di taglie e colore diverso. Dentro l’Africa, ma estranee a quella sua Africa. Lola Shoneyn, trentotto anni, poetessa, nata a Ibadan, in Nigeria, da una famiglia di origine cristiana, viene mandata in Inghilterra dove trascorre l’infanzia in diversi collegi, torna nel suo paese per studiare letteratura inglese. Ha pubblicato tre raccolte di poesie, nel 2010 con Prudenti come serpenti, (66thand2nd editore), che parla di poligamia e del contrasto tra vecchia e nuova mentalità, è stata inserita nella long list dell'Orange Prize for Fiction in Gran Bretagna. Attualmente insegna in un liceo in Nigeria, è sposata da dodici anni con Olao Kun, figlio di Wole Soyinka, conosciuto via mail, ha quattro figli. Ha avuto un precedente matrimonio coatto durato quaranta giorni appunto perché lei non accettava la poligamia. Dice di non aver mai letto Karen Blixen. «Ma ho visto il film, non sono preparata a dare un giudizio su di lei». E pensare che il tormento di Karen era in fondo la poligamia di Denys. Lui voleva stare anche con le altre, lei solo con lui. © RIPRODUZIONE RISERVATA llaa RReeppuubbbblliiccaa DOMENICA 1 LUGLIO 2012 ■ 34 LA DOMENICA Spettacoli Cantò a fianco dei disperati della Grande Depressione, visse come un vagabondo, ispirò Dylan e Springsteen. A cent’anni dalla nascita e con il mondo in una nuova crisi economica, Menestrelli il testamento politico dell’uomo che diceva ai diseredati: “Questa terra è la tua terra” ANGELO AQUARO o, questa terra non sarà mai la sua terra e perfino adesso che il mondo intero s’appresta a celebrare cent’anni di «cielo senza fine» e «valli d’oro», adesso che il suo inno rimbalza dalle volte della Carnegie Hall alle piazze di Occupy Wall Street, adesso che l’America e il mondo intero trattengono il fiato sul precipizio di una nuova Grande Depressione, adesso come allora il suo nome mette ancora paura: e forse anche più. Riuscirà almeno Barack Obama, l’uomo che ha portato alla Casa Bianca Bob Dylan e Bruce Springsteen e che proprio al Boss e a Pete Seeger chiese di cantare This Land Is Your Land alla sua inaugurazione, riuscirà il presidente del nuovo New Deal a pronunciare quel nome e cognome, a cent’anni dalla nascita? Riuscirà l’America a riabbracciare, un secolo dopo, il figlio più amato e più odiato, l’uomo che mise in musica e versi il sogno a stelle & strisce, scarabocchiandoci però sopra — orrore orrore — la sua falce & martello? Il fascicolo intestato a «Guthrie, Woody, 14/7/12» arrivò sulla scrivania di J. Edgar Hoover la mattina di venerdì 3 giugno 1955. Il padre padrone dell’Fbi, l’uomo che visse con l’incubo dei neri e dei rossi, era ancora fuori di sé per la sentenza della Corte Suprema che tre giorni prima aveva definitivamente ordinato a tutti gli Stati di eliminare la segregazione razziale «il più velocemente possibile». Hoover sfogliò frettolosamente quel memo. «Viste le condizioni di salute del soggetto e la mancanza di notizie credibili, e di prima mano, sulla sua appartenenza, negli ultimi cinque anni, al Partito comunista, si suggerisce di cancellare il nome dall’Indice di Sicurezza». L’uomo che nel giro di una decina d’anni avrebbe cercato d’insabbiare le verità d’America, dall’assassinio di Jfk al sacrificio di Martin Luther King, abbozzò un sorrisetto: anche questa è fatta. E mise infine la firma più temuta di Washington sotto il fascicolo che decretava la fine della più che ventennale sorveglianza dell’ex vagabondo dell’Oklahoma, l’artista che aveva riscritto la storia del folk d’America (e non solo), l’amico di John Steinbeck che come lui aveva raccontato la Grande Depressio- ne, il cantante che sbandierava la chitarra con la scritta: «Questa macchina uccide i fascisti». Fine di un incubo? Macché. La verità è che quando il potentissimo J. Edgar — come verrà ricordato nel film di Clint Eastwood con Leonardo DiCaprio — mette la firma sotto quel fascicolo, Woodrow Wilson “Woody” Guthrie è già un morto che cammina. E ha soltanto 43 anni. Nell’ambiente, perfino in famiglia, tutti spiegano quei comportamenti un po’ matti, l’irascibilità permalosa, la difficoltà di imbracciare la chitarra, come la conseguenza dell’alcolismo ormai galoppante, ultima fermata di una vita spericolata vissuta appunto nel mito della frontiera in continuo movimento, dall’Oklahoma alla California, dalla California alla New York del Village ribelle, poi ancora California, poi ancora New York ma questa volta Brooklyn, a quei tempi ancora periferia dell’impero. Per tutti Woody è ormai andato, alcolismo e schizofrenia è la diagnosi con cui a pochi mesi dall’“assoluzione” dell’Fbi lo rinchiudono al Greystone Park Psychiatric Hospital di Morris Plain, New Jersey, fino alla morte dodici anni dopo, al capezzale quella chitarra che lui non può suonare ma che rivive nelle mani dei vecchi e nuovi amici che lo vanno a trovare, soprattutto quel ricciolino che si fa chiamare Bob Dylan e che — confessa nelle sue Cronache — è arrivato dal Minnesota a New York «proprio per conoscere Woody Guthrie». Woody è già finito. Ma nessuno chiama allora la malattia per quello che è, il morbo di Huntington, una degenerazione dei neuroni ereditaria che aveva colpito anche la madre, una maledizione vera che lo aveva perseguitato per tutta la vita, probabilmente anche la causa — con quei lampi di follia, quei movimenti senza più controlli — dei misteriosissimi incendi che avevano funestato la sua infanzia e si ripeteranno nella sua famiglia: la sorella morta bambina, il padre ferito, perfino sua figlia, Cathy, uccisa tanti anni dopo in quell’altro incidente che lo gettò in un’atrocissima depressione, perfino lui stesso ferito al braccio. Sembra una storia davvero mitica, il Prometeo dell’Oklahoma scottato dal fuoco che gli brucia dentro: ma tutta l’epopea di Woody Guthrie è un’esplosione di simboli. A partire dalla data di nascita, 14 luglio, la presa del- GETTY N NEW YORK IL LIBRO Esce il 4 luglio Woody Guthrie American Radical di Will Kaufman (Arcana, 330 pagine, 22 euro), la prima biografia politica del folksinger Chitarra, falce e martello per le strade d’America la Bastiglia, madre di tutte le rivoluzioni moderne. A partire dallo stesso nome, lui che si chiama appunto Woodrow Wilson in onore del governatore democratico del New Jersey che diventerà presto presidente: un omaggio voluto dal padre Charles, politicante democratico ma acerrimo nemico dei socialisti — «il serpente tentatore dai denti micidiali» — che diventeranno invece gli amici di Woody. Proprio il padre resterà per tutta la vita l’incubo di Woody, che arriverà a rivelare la sua iscrizione al Ku Klux Klan, il padre che le cronache ricordano affacciato sul ponte di Okemah, protagonista del linciaggio di Laura e Lawrence Nelson, la vergogna da cui il figlio non riuscirà mai a liberarsi. Sì, Woody Guthrie è una contraddizione in termini, «oggi non cambieresti una riga dalle sue canzoni per raccontare il mondo che ci circonda», dice a Repubblica Will Kaufman, il professore dell’University of Central Lancashire che al suo mito ha dedicato la prima biografia politica, American Radical, e che è anche l’unica persona al mondo ad aver intonato Questa terra è la mia terra durante un ricevimento a Buckingham Palace. Eppure proprio il nome Guthrie, oggi, fa tremare all’incontrario i progressisti di tutta l’America, col figlio Arlo, l’eroe di Woodstock e di Alice’s Restaurant, che è diventato repubblicano. «Una provocazione», lo giustifica naturalmente il professore, «lui dice che di buoni democratici ce ne sono già abbastanza, ma per uscire dalla polarizzazione occorre che ci sia qualcuno di buono anche dall’altra parte». Bah. Chissà che avrebbe detto papà Woody, l’uomo che perse il posto alla Kfvd, la mitica radio ultrademocratica di Los Angeles, perché perfino alla notizia del patto di non aggressione tra Adolf Hitler e Joseph Stalin, e poi all’invasione della Polonia, volle giustificare Baffone: «Anche Stalin è entrato in gioco / s’è preso mezza Polonia e ha ridato indietro / le terre ai contadini. / Se vivessi in Polonia / sarei felice della venuta di Stalin / che scambiò il mio fucile per la terra». Ok ok, certo che tutto va contestualizzato. Ma è chiaro, adesso, perché neppure Barack Obama, malgrado quel concerto inaugurale, si è mai spinto, finora, all’elogio di Woody? «Sarebbe il bacio della morte», scherza Kaufman, che però ricorda che il radicalissimo Guthrie era anche un uomo capace di restare con i piedi per terra. «Uno storico non può ragionare con i se: però certo che Woody oggi starebbe con Obama, lui che negli anni Quaranta, in piena guerra, fece campagna per Franklyn Delano Roosevelt, che pure aveva tanto criticato». Quando lo rinchiudono a Greystone, l’ospedale psichiatrico, quel morto che cammina ha il coraggio di scherzare con i pochi amici che lo vengono a trovare. Sono gli anni Cinquanta e la caccia alle streghe comuniste è imperante: «Non siete voi a dovervi preoccupare di me, sono io a essere preoccupato per voi. Lì fuori, se vi dite comunisti vi sbattono in prigione. Ma qui dove sono io, posso dirlo quanto voglio: ci sarà sempre qualcuno che dirà: che volete, è pazzo». No, questa terra non sarà mai la sua terra. «Credetemi», disse l’uomo sbattuto in manicomio, «è proprio questo l’ultimo posto libero d’America». © RIPRODUZIONE RISERVATA llaa RReeppuubbbblliiccaa DOMENICA 1 LUGLIO 2012 ■ 35 KILLS FASCISTS Nella foto grande, Woody Guthrie con la sua famosa chitarra con la scritta “Questa macchina uccide i fascisti”; in basso, pagine dei suoi taccuini con i buoni propositi per l’anno nuovo Pete Seeger Se ne venne fuori come se niente fosse... un ometto con tanto di cappello da cowboy, stivali, blue jeans e barba sfatta, che tirava fuori storie e canzoni appena create DISEGNI Nell’altra pagina in alto da sinistra, due disegni di Woody Guthrie del ’46 contenuti nel libro Woody Guthrie American Radical; il folksinger nel ’43 canta in una strada di New York (Per gentile concessione dei Ralph Rinzler Archives and Collections, Smithsonian Institution, con l’autorizzazione dei Woody Guthrie Archives) Bob Dylan Aveva una grande spontaneità, in lui c’era una grande innocenza Un’innocenza che mi ha sempre colpito e che io ricercavo Dopo Woody è scomparsa per sempre Bruce Springsteen “This Land Is Your Land” è una canzone piena di rabbia ed è una delle più belle mai scritte Ti entra dentro e tira fuori quella parte di te che pensa a chi ti sta vicino Joan Baez Così torna Woody Guthrie Torna tra noi ora. Strappa i tuoi occhi dal paradiso e in qualche modo rinasci Se lo chiedi a Gesù forse lui può aiutarti Torna Woody Guthrie, torna tra noi ora llaa RReeppuubbbblliiccaa DOMENICA 1 LUGLIO 2012 ■ 36 LA DOMENICA Next Uno scienziato, un inventore o un attivista salgono sul palco Hanno 18 minuti per raccontare la loro scoperta: carburanti puliti, auto low cost, politica aperta. La Rete ascolta e giudica In occasione della kermesse di Edimburgo, Villaggio globale ecco il dietro le quinte della fabbrica del futuro Lo stupore subacqueo visualizzazioni: 7 milioni David Gallo propone un’esplorazione nelle profondità degli oceani. Polipi, totani, barracuda e altre creature marine tra fondali corallini e colori luminescenti Come la luce delle lucciole Un festival delle idee cambierà il mondo Il sesto senso visualizzazioni: 8 milioni Pranav Mistry è l’inventore di SixthSense, un dispositivo indossabile attraverso cui con un proiettore e una piccola telecamera si crea un’interfaccia gestuale e le informazioni digitali si sovrappongono al mondo fisico RICCARDO LUNA E quindi, ricapitolando, quest’anno abbiamo avuto: il giovane matematico inglese che ha sviluppato un algoritmo che ti dice se hai il Parkinson analizzando la voce ed è in cerca di diecimila persone che gli mandino un messaggio vocale registrato per testare il prodotto; l’informatico che ha scoperto che gli africani non hanno bisogno di computer ma di automobili, made in Africa e a basso costo, ci ha messo un anno a fare il prototipo in Kenya e adesso ha già una cinquantina di prenotazioni. E ancora, il tunisino che ha trovato un modo per rendere finalmente conveniente l’energia eolica sostituendo le pale con una vela e se solo trova i fondi inizia a produrle subito. Non è meraviglioso? Di solito a questo punto, se la presentazione è stata particolarmente convincente, gli ottocento spettatori dell’auditorium, persone che hanno pagato seimila dollari ciascuno per cinque giorni di storie così, scattano in piedi per tributare a chi ha parlato una standing ovation e per un attimo, solo per un attimo, ogni problema sembra meno grande. Dai che ce la facciamo a migliorare le cose. Bentornati al Ted, il festival di quelli che voglio- 800 1.275 800 Gli spettatori che hanno partecipato all’ultimo TedGlobal di Edimburgo, pagando seimila dollari MLN 1.275 I TedTalks pubblicati su ted.com Ognuno con biografia di chi parla, link e commenti Il numero di persone da tutto il mondo che hanno visualizzato le conferenze in Rete no cambiare il mondo e che in molti casi lo stanno già cambiando. L’edizione che si è appena chiusa a Edimburgo ha confermato che questa ormai non è più solo una conferenza: è una formidabile fabbrica di idee. «Siamo solo giardinieri che gettano semi», si schermisce Chris Anderson che nel 2001 ha ereditato il format lanciato nel 1984 da Saul Wurman in California. «Siamo catalizzatori, alle idee degli altri noi aggiungiamo la piattaforma per diffonderle», chiarisce Bruno Giussani, il giornalista italo-svizzero salito a bordo del Ted nel 2006 diventando il curatore della sua versione europea, il Ted Global. Per dare un’idea della forza della “piattaforma” vale l’esempio di quello che è accaduto qualche giorno fa al video dell’intervento di Massimo Banzi. Banzi è l’inventore di Arduino, un microcomputer che sta conquistando il mondo e che secondo molti è alla base della prossima rivoluzione industriale. Ha parlato martedì 26, il giorno di apertura, ed è stato davvero molto bravo. Infatti Anderson e Giussani hanno deciso che il primo video ad andare online sarebbe stato il suo. Risultato: è stato visto 14mila volte nella prima ora, 88mila volte dopo 24 ore. Ed è solo l’inizio. L’empatia visualizzazioni: 5 milioni “Forse le storie sono solo dati con un’anima”, dice Brené Brown che studia le connessioni tra gli esseri umani, la capacità di empatia e condivisione Cerca di esporre il significato della vulnerabilità e del coraggio llaa RReeppuubbbblliiccaa DOMENICA 1 LUGLIO 2012 ■ 37 ‘‘ Bisogna sforzarsi per cercare di tenere il miglior discorso che si è in grado di fare Rivelare cose nuove, parlare con passione ed entusiasmo, raccontare storie Al Ted non diciamo mai cosa accadrà, ma incoraggiamo piuttosto questa conversazione meravigliosamente disordinata Siamo giardinieri che gettano semi, non i capi di una fabbrica Scuola e creatività visualizzazioni: 11 milioni LE REGOLE DELL’ORATORE Ken Robinson contesta i tradizionali sistemi educativi dei bambini che limitano le idee e la creatività Propone nuovi metodi che possano stimolare la fantasia Parlare chiaro, cioè non usare un gergo tecnico e fare a meno delle astrazioni Non ostentare se stessi, non vantarsi di quello che si è fatto Conferenza non significa pubblicità, marketing o promozioni Provare, provare, provare: così migliora la qualità dell’esposizione e si sta nei tempi Chris Anderson direttore di Wired Usa Stare lontano dalle lunghe introduzioni, arrivare subito al punto Ted Significa Technology Entertainment Design Conferenza nata nel 1984 con un format di discorsi da 18 minuti. Si svolge in California a febbraio Studiare la mente visualizzazioni: 8 milioni Jill Bolte studia le malattie mentali gravi. Nel ’96 ha un ictus Questo momento diventa per lei un’opportunità per capire come reagisce l’organismo e osservare le funzioni cerebrali, il linguaggio e il movimento perfetti, le è stato chiesto di ripartire dal momento in cui si era interrotta. Lei lo ha fatto ed è stata ancora più brava. Ma a quel punto qualcuno si è accorto che per effetto del blackout i famosi primi minuti non erano stati registrati. E le è stato chiesto di tornare sul palco per la terza volta e ripetere solo l’inizio. La prima svolta del Ted, quella che ha trasformato una conferenza californiana in un fenomeno mondiale, avvenne nel 2006 quando Anderson mise i video degli interventi in rete e milioni di persone iniziarono a vederli. La seconda svolta è più recente: è la nascita dei TedX. Sono Ted organizzati autonomamente in tutto il mondo seguendo alcune regole. Chiunque può chiedere di fare un TedX: a proprie spese naturalmente. Negli ultimi dodici mesi ne sono stati fatti più di duemila: vuol dire che tutti i giorni dell’anno in qualche angolo del pianeta ci sono sette “piccoli” Ted. Piccoli si fa per dire: ne hanno fatto uno in Amazzonia, uno sulla Grande Muraglia, uno in un carcere spagnolo e nell’aprile 2013 se ne farà uno in Vaticano. Per questo il Ted ormai non è più solo una conferenza ma un movimento globale che seleziona e produce video in 88 lingue grazie al lavoro di circa novemila vo- Leadership visualizzazioni: 5 milioni Da Martin Luther King ai fratelli Wright a Apple, tutti i grandi leader usano lo stesso semplice ma potente modello, che Simon Sinek chiama il cerchio d’oro. Tutto inizia dalla domanda: “Perché?” Versione europea nata nel 2006 curata dal giornalista italo-svizzero Bruno Giussani Dopo Oxford, da due anni si svolge a Edimburgo, tra giugno e luglio lontari che spiegano così la loro missione: «Queste idee devono essere conosciute da tutti». Al Ted le idee convivono e si scontrano. Così capita di ascoltare, uno dopo l’altro, il pedagogo israeliano che dice che è ora di finirla con i voti, e il professore tedesco responsabile mondiale dei test studenteschi che spiega che solo così migliora l’istruzione per tutti. E ancora la paladina della rivoluzione economica che avviene attraverso la rete assieme al giovane studioso che vede nella tecnologia pericoli immensi. L’avvocato di New York che ha portato la Casa Bianca sulla strada del governo aperto assieme al politologo bulgaro che teme la troppa trasparenza perché quando c’è troppa luce c’è anche una grande ombra. «Questo è il posto dove le idee fanno sesso!» ha urlato l’altra notte l’organizzatore di un TedX durante un goliardico fuoriprogramma nel quale alcuni giganti dell’innovazione si sfidano in un combattimento di parole in tre round. La storia delle idee che fanno sesso è molto efficace per spiegare il fenomeno ma era una citazione: l’ha detta l’anno scorso Matt Ridley, l’autore dell’Ottimista razionale. Naturalmente in un video di Ted. TedX Sono Ted organizzati autonomamente in qualsiasi posto. Chiunque può chiedere la licenza (è gratuita) e organizzare un TedX che dura un giorno TedEd Clip di tre minuti con risposte a grandi problemi. Dirette agli studenti e a chi vuole imparare. Si affiancano ai Tedbooks: libri digitali di 20mila parole massimo © RIPRODUZIONE RISERVATA 28MILA 2000 287 Le traduzioni dei TedTalks pubblicate online. Oltre 9.000 volontari hanno tradotto le conferenze in 88 lingue I TedX fatti nel mondo nell’ultimo anno. In Italia una decina Nel 2013 se ne farà uno in Vaticano I Ted fellows, conferenze che riuniscono giovani dall’Asia, Africa, Caraibi, America Latina e Medio Oriente GLOSSARIO «Oggi il Ted fa tante altre cose», spiega Giussani, «ma il cuore di tutto resta il talk». Il talk è il discorso da 18 minuti massimo (quasi sempre qualcuno in meno) che una settantina di innovatori, in gran parte sconosciuti ai più, vengono chiamati a fare nelle due conferenze di Long Beach e di Edimburgo. Con i talk vengono allestite una decina di sessioni tematiche di un’ora e mezza ciascuna. Le sessioni sono costruite con abilità da alchimisti: ci sono sempre uno scienziato, un inventore, un attivista, un comico, una storia commovente e un artista che fa una performance dal vivo. Pausa di un’ora e si ricomincia. Sette telecamere ad alta definizione filmano ogni intervento per farlo diventare un video memorabile. Il video infatti conta molto di più di quello che accade nel teatro come dimostra quello che è capitato giovedì a Jane McGonical, la giovane e acclamatissima autrice di saggi sull’importanza del gioco. Insomma, la McGonical stava raccontando come qualche tempo fa si era trovata sull’orlo del suicidio, quando c’è stato un blackout che ha lasciato l’intero quartiere al buio per quasi un’ora. La sessione è ripartita nel pomeriggio e visto che i suoi primi minuti erano stati TedGlobal TedPrize È il premio di 100mila dollari per realizzare un sogno “Dream bigger” è lo slogan Quest’anno è stato diviso in 10 parti e verrà assegnato a progetti sulla città del futuro llaa RReeppuubbbblliiccaa DOMENICA 1 LUGLIO 2012 ■ 38 LA DOMENICA I sapori Double-face Ovviamente la pasta e fagioli, ma anche lo zabaione e persino il bollito. Trasformare i piatti invernali in ricette freschissime è possibile Ecco come fare LICIA GRANELLO enùdella cena: pasta e fagioli, bollito con una cucchiaiata di caponata e zabaione per dessert, ovvero la perfetta sequenza gastronomica per una serata invernale, tovaglia a quadrettoni, vetri appannati, fuoco nel caminetto e rosso poderoso nei bicchieri. Ma la cartolina è double-face: la volti e c’è una terrazza estiva, tavola apparecchiata con tovagliette, candele a prova di ventilatore, bottiglie affondate nelle glacette, cubetti di ghiaccio a go-go. Cambia tutto, tranne i piatti. Il piacere dell’alta cucina popolare è tutto qui, nel sapersi adattare a temperature e stagioni senza smarrire l’anima. Nuove tecniche e antica maestria fanno il miracolo di cambiare l’attitudine dei piatti, pronti a lasciare l’abito invernale per quello estivo con l’apparente nonchalance che molto ci difetta quando affrontiamo il cambio del guardaroba. Alcuni trucchi sono evidenti, a partire dall’abbattimento della temperatura: qualche ora di riposo — o una notte in frigorifero — placano i bollenti spiriti di zuppe e pietanze, consegnandole alla tavola domate nei sapori e più accondiscendenti ai comandamenti della cucina estiva, primo fra tutti non aumentare il senso di calore, che aggiunto alla spossatezza di fine M Non la solita minestra raffreddata giornata uccide ogni desiderio gastronomico. Ma per mutare la vocazione di un piatto si può fare molto di più. Intanto, gli ingredienti: usare le verdure di stagione invece delle evergreen — zucchine, finocchi, melanzane, disponibili tutto l’anno — cambia la percezione gustativa in termini di freschezza e appetibilità. E allora, via libera a piattoni e rapanelli, fagiolini e fiori di zucca, borragine e cipollotti. Allo stesso modo, diminuire la quantità di carni rosse e privilegiare gli alimenti acidi — yogurt, cetrioli, lime, erbette — serve a dare alle ricette tradizionali gusto più pulito. E poi, l’uso della piccola tecnologia. Una macchina per il sottovuoto — che costa come un pranzo in pizzeria ed è grande quanto due rotoli di carta da forno — permette di bollire i vari tagli di carne in singoli sacchetti sigillati, evitando di disperdere il sapore nell’acqua. Che si scelga l’insalata ricca o il vitel tonné, il successo è assicurato. Oppure il famigerato sifone, che per anni ha malignamente etichettato la genialità creativa di Ferran Adrià codificando la cucina del Bulli come un’incessante estrusione di cibi attraverso la bocchetta del monta-panna. In realtà, caricato il sifone con la bomboletta d’azoto e riempito con una peperonata, frullata e passata al setaccio fine, si ottiene la più salutare delle mousse da spalmare sui crostini. Se i peperoni, pur privati della buccia, vi promettono notti insonni abbracciati a una damigiana d’acqua, al posto della peperonata mettete lo zabaione: per la versione salata, basta sostituire lo zucchero col burro ammorbidito, 15 grammi per tuorlo, e il marsala col vino bianco secco. Roba da leccarsi i baffi (estivi). © RIPRODUZIONE RISERVATA Versione Estiva Pomodori ripieni Nella modalità calda, si riempiono con riso, verdure e carne, per poi cuocerli in forno. In estate, tonno, uovo sodo e maionese Capperi per decorare LOCANDA DEL PILONE Strada della Cicchetta Alba (Cuneo) Tel. 0173-366616 Chiuso martedì e mercoledì menù 50 euro llaa RReeppuubbbblliiccaa DOMENICA 1 LUGLIO 2012 ■ 39 I piatti Pasta e fagioli Cotoletta impanata Minestrone Zabaione Il più antico dei piatti unici, mix perfetto di carboidrati e proteine vegetali, trasloca nei menù estivi appena tiepido, con foglie di salvia fritte Il tandem milanese-patatine fritte resiste al cambio di temperatura: carne a temperatura ambiente servita con le chips (buone anche non calde) La tradizionale zuppa scalda-mani, rinfrescata dalle verdure estive, si offre fredda, profumata con un pesto leggero o zenzero grattugiato Amato dagli sciatori per le sue virtù corroboranti, si trasforma in semifreddo, gelato o bavarese, goloso compagno di albicocche, pesche e fragoline DISPENSA FRANCIACORTA Via Principe Umberto Torbiato (Brescia) Tel. 030-7450757 Sempre aperto menù 40 euro MANGIARI DI STRADA Via Lorenteggio 269 Milano Tel. 02-4150556 Solo pranzo, chiuso domenica menù 25 euro LA REFEZIONE Via Milano 166 Garbagnate Milanese (Mi) Tel. 02-9958942 Chiuso domenica menù 40 euro RISTORANTE MARCONI Via Porrettana 285 Sasso Marconi (Bologna) Tel. 051-846216 Chiuso domenica sera e lunedì menù 50 euro A tavola Un abbacchio a Ferragosto FILIPPO CECCARELLI era come la pece è la leggenda che grava, anche ingiustamente, sugli osti romani dei quali con autorità da qualche secolo si dice che accolgano ogni nuovo cliente con uno sguardo tra l’allegro e il corrucciato che può significare: «Tanto, si nun ce rivieni tu, ce verrà quarcun antro, buon appetito!». A tale diffamatissima categoria di ristoratori, cui di nuovo con il più discutibile arbitrio e generalizzato viene pure messo nel conto di essere così incuriosi e cinici da rasentare la villania, sarebbe dunque ingiusto attribuire anche l’eventuale scomparsa dei piatti estivi, che in effetti nella Città Eterna per lo più si limitano a qualche pasta e ceci rafferma, oltre all’ovvio prosciutto & melone ad altissima permanenza frigorifera. Ecco, avranno tanti difetti, gli osti capitolini, ma non è colpa loro, o meglio non è colpa soltanto loro, se a Roma si continua a mangiare “caldo” — carbo- ILLUSTRAZIONE DI CARLO STANGA N nara, fritto, abbacchio, interiora — quando tutto intorno è bollente. Primo, forse, perché l’antica cucina pastora nasce povera, e i poveracci non stavano tanto lì a distinguere tra le stagioni, la loro prima urgente necessità rimanendo quella di «riempisse la panza». E poi per le difficoltà di reperimento di ingredienti che i capricci della moda gastronomica hanno ulteriormente contribuito a emarginare. Ciò detto, con il necessario capriccio e approfittando del ciclo biologico continuo tra i possibili sapori perduti dell’estate romana non sarebbe malaccio recuperare: minestra di pasta e broccoli, tiepida, anche con variazione di arzilla, cioè razza; spaghetti leggeri con la ricotta di pecora; cicorietta, però autentica, e altre eventuali erbe pare di grande consumo durante la guerra: ramolacci, raponzoli, pastinache. E se abbacchio deve essere, che sia: però “brodettato”, cioè con uovo, succo di limone e maggiorana, qui altrimenti detta “persa”. Dopo di che anche questa estate finirà, non solo a tavola. © RIPRODUZIONE RISERVATA Bollito Caponata Involtini di pesce Pappa al pomodoro Il re delle carni invernali, padre di brodi e gelatine, va lasciato raffreddare prima di affettarlo sottile, per servirlo col bagnetto verde o in insalata Calda, è una delle pietanze no-carne più appetitose, ma la versione migliore è quella fredda, dopo un giorno di riposo Ottima anche sui crostoni Spatola, spada e ricciola, farciti nella ricetta invernale con uvetta, erbe e mollica e sfumati col vino bianco, si arrostiscono nelle foglie di limone Povera e squisita, d’inverno ha per base pelati e passate I pomodori dell’orto firmano la ricetta estiva, fredda, aromatizzata con basilico fresco IL QUINTO QUARTO Via della Farnesina 13 Roma Tel. 06-3338768 Chiuso sabato e domenica menù 30 euro LA DISTILLERIA Via Roma 281 Pomigliano d’Arco (Napoli) Tel. 081-8033702 Sempre aperto menù 35 euro BYE BYE BLUES Via del Garofalo 23 Mondello (Palermo) Tel. 091-684141 Chiuso lunedì menù 40 euro IL PALAGIO (FOUR SEASONS) Borgo Pinti 99 Firenze Tel. 055-26261 Aperto solo la sera menù 65 euro LA RICETTA Niko Romito è uno dei grandi giovani chef italiani Nella sua scuola-ristorantelocanda “Casadonna” di Castel di Sangro, L’Aquila, elabora piatti di territorio con tecnica finissima come questa ricetta ideata per i lettori di Repubblica Ingredienti per 4 persone 200 g. di riso Vialone Nano 1,3 kg di sedano 400 g. di patate lesse a pasta gialla 2 cipollotti 2 rametti di rosmarino Cuocere il riso al dente in acqua bollente salata e scolare. Centrifugare un chilo di sedano, aggiungendo qualche goccia di limone, per evitare che scurisca Pelare il restante sedano con un pelapatate e tagliarlo a dadi Tagliare a cubi le patate lesse e stufarle in padella con il cipollotto e aghi di rosmarino, salare e aggiungere il riso In un piatto fondo, disporre il riso, le patate stufate al rosmarino e la dadolata di sedano Versare il centrifugato freddo e rifinire con un giro di olio a crudo ✃ Minestra di riso, sedano e patate llaa RReeppuubbbblliiccaa DOMENICA 1 LUGLIO 2012 ■ 40 LA DOMENICA L’incontro Irrequieti La provincia barese, la fuga a vent’anni in Norvegia, la gavetta a teatro e l’incontro folgorante con Fellini e il cinema. Ma anche le donne, l’insicurezza, l’analisi per “liberarmi della compulsività” E ora che sta lavorando al prossimo film, l’attore-regista confessa il suo traguardo più bello: “Aver risposto a quella domanda letale della gente del Sud: ma dove vuoi andare?” Sergio Rubini utto sta nei capelli. Il fatto che non mi sono mai pettinato genera una serie di equivoci. Io scomposto, caotico, scapigliato, zingaro, casinista del sud. E invece poi sono uno regolare, molto meno meridionale di come sono visto. A vent’anni sono scappato a vivere in Norvegia, dove regnano l’ordine e il rigore, e dove c’è la biondezza, un mistero lontano dal mio che però mi attraeva. Ecco, questa tensione verso un’altra natura, un altro mondo, è il conflitto che vivo. Il cinema m’ha dato una grande opportunità: quella di conoscere, e conoscermi». Sergio Rubini parla col suo tono pacato un po’ filosofale, sornione, anche bonariamente grifagno. Ha i capelli (effettivamente) molto in disordine. La pelle ambrata e liscia di un cinquantaduenne eterno ragazzino. Offre caffè e acqua alle nove di mattina a casa sua, uno splendido secondo piano con terrazzo cechoviano su una delle più raccolte piazze del centro storico di Roma, terrazzo dove s’accede attraverso stanze fatte di poltrone dispari, di librerie non uniformi, di mobili mai ortodossi. «Io non mi ritengo geniale, perché tra le cose che so e quelle che non so fare, preferisco quello che non so fare. Mi metto sempre in discussione, anche al limite dell’inadeguatezza. Mozart scriveva alla sorella «stanotte sono tanto stanco che preferisco comporti una sinfonia piuttosto che inviarti una lettera», e lì c’è l’essenza del genio, che mette a frutto la sua inclinazione. Io invece m’ostino a fare l’attore malgrado le mie io ero strano. Ero capace di fargli telefonate anonime per sentire la sua voce. Anche un’amicizia, una collaborazione stretta che s’interrompe, è un mistero. È sembrato che io fossi diventato più antipatico, ma questa è la mia conquista: non avere più la voglia assidua di piacere... Poi adesso io e Umberto Marino ci siamo ritrovati nel progetto del film che sto per girare, Mi rifaccio vivo». Una figura con cui Rubini non potrà rifamiliarizzare è Federico Fellini, di cui interpretò il ruolo autobiografico del regista giovane in Intervista del 1987. «È una voragine, quella che m’ha lasciato l’assenza di Fellini, un padre senza che io me ne accorgessi, lui così presente con le sue battaglie da autore, con la sua lotta a Berlusconi contro le interruzioni dei film, con quelle antenne della televisione al posto delle frecce degli indiani, con quel suo impegno ironico contro teoremi oscuri a forza di telefonate mattiniere a direttori di giornale, a politici, a scrittori. E pure a me, che mi preparavo la voce per parlargli all’alba». E ce n’è un’altra, di persona di riferimento, che è scomparsa dall’orizzonte di Ho preso Margherita a casa col motorino, siamo corsi in tribunale, abbiamo perfezionato sorridendo il divorzio FOTO AGF «T ROMA spigolosità». L’arte del contraddirsi, ammette, lo carica, lo motiva, lo stimola. «Le prove della vita mi fanno paura, ma le affronto meglio senza protezione. Non perché sia coraggioso, ma semplicemente perché sono spaventato e allora mi ci butto più volentieri in un rischio». Un fatto concreto? «Rompere o interrompere i rapporti, “scucire” una relazione, è una delle avventatezze che sono state il mio sport preferito. Un salto nel buio cui però ho scoperto di saper rimediare, ricucendo». Fatale che si parli di Margherita Buy... «Ma sa che abbiamo divorziato una settimana fa? Perché pensavamo che dopo la separazione fosse tutto automatico. Sono andato a prenderla a casa col motorino, siamo corsi in tribunale, abbiamo perfezionato sorridendo le pratiche del divorzio, con quelli degli uffici che ci facevano i complimenti perché molti ci percepiscono sempre insieme, e d’altronde io nei film faccio spesso il marito di Margherita: lo sono in un recente cortometraggio di Quartullo, e faccio il suo compagno nell’opera seconda di Susanna Nicchiarelli, La scoperta dell’alba, tratta dal romanzo di Walter Veltroni, di prossima uscita». Non è altrettanto di dominio pubblico il solido rapporto personale (e artistico) che Rubini ha («da dodici anni, l’unione più stabile della mia vita») con Carla Cavalluzzi. «È del mio paese, di Grumo Appula in provincia di Bari, era amica di famiglia e la conoscevo quando era ragazzina. Poi l’ho incontrata di nuovo girando Tutto l’amore che c’è, scoprendola appassionata di cinema e laureata con una tesi su Kieslowski. Con lei ho stretto subito, ha partecipato con me e Starnone alle sceneggiature de L’anima gemella, L’amore ritorna e L’uomo nero e ha condiviso con me e Angelo Pasquini La terra e Colpo d’occhio». Dice che l’assiduità, la continuità di questo legame costituisce una svolta dopo una bella esistenza nevrotica, e il merito è tutto dell’analisi. «Sono quattordici anni che faccio psicoterapia, e m’è servito a essere più consapevole, a liberarmi della mia compulsività, a disperdere meno sforzi, a finirla di consumarmi nel cercare conferme e a trovare armonia con la mia donna». Tra le persone con le quali s’è risintonizzato c’è Umberto Marino. «Il sodalizio con Umberto cominciò a teatro a metà degli Ottanta, all’inizio c’era con noi anche Ennio Coltorti. La collaborazione con Umberto proseguì finché non ci siamo persi di vista anche noi. Ma Rubini. «Dopo Colpo d’occhioPaolo Vagheggi diventò per me il Cicerone dell’arte contemporanea, ed è stato anche un amico...». Rubini parla volentieri di maestri, di decani della cultura, di persone-faro. «Si dice che non c’è spazio per i giovani, ed è vero, ma io metterei l’accento anche su una denuncia alla rovescia: ci sono pochi grandi vecchi, pochi intellettuali scomodi, e le personalità di spicco sono elastiche, inclini inconsciamente al compromesso da quando nel nostro Paese c’è stato a lungo un presidente del consiglio identificabile col padrone delle tv, con la scusa io-lavoro-sotto-ilgoverno-o-per-le-produzioni-di-unoche-non-condivido-ma-che-mi-lascia-libero. Un’anomalia, con lieve censura strisciante. E le conseguenze di questo — la trasformazione orwelliana del cittadino italiano, il trionfo del prodotto di massa — oggi si sentono. Io da ragazzino, negli anni Settanta, facevo parte della gioventù anarchica di provincia, poi quando sono tornato in Puglia ho trovato la sconfitta dei sogni e la vittoria dei soldi. E non accetto questa mancanza di luce, questo buco nero. Nei film, l’happy end è un atto di coraggio, è indicare comunque una strada. Mi piacciono le persone, la capacità dostoevskiana o tolstoiana di salvarsi, non trovo giusto classificare la letteratura “prima o dopo Kerouac”, ho bisogno dei classici, d’un legame col passato che non sia retorico, e anche d’un recupero di me». Parla quasi sempre di sé, nei suoi film? «Certo, ma con mistificazioni. Nel senso che mi viene da raccontare ciò che avrei volutoche fosse successo, incontri come non sono mai avvenuti. I film più “miei” sono anche menzogneri, tipo L’amore ritorna, o Tutto l’amore che c’è. Non metto in giro messaggi nella bottiglia: quando scrivo una storia, sento la responsabilità di regole narrative precise. Ciò non esclude che la scrittura abbia una dimensione intima e struggente. E se dirigere un film è continuare a scrivere, interpretarlo è un fatto di irrazionalità». Rubini nasce teatrante («e tuttora ho anche un progetto a due personaggi per la scena» confessa), e dopo American Buffalo di Mamet, La stazione di Marino e La notte è madre del giorno di Norén ha avuto un mutamento genetico, un transfert per il cinema. «Quando feci a teatro La stazione, dove evocavo un po’ mio padre capostazione oltre che intenditore d’arte e teatrante filodrammatico, pretendevo un minuzio- so naturalismo, e uscire in quinta era frustrante. Il teatro, lo dico con amore, è un imbroglio, e lo insegnava Eduardo che solo con una mossuccia di spalle dava l’impressione di piangere. Il cinema è più spazioso, per come lo penso e lo vivo. Ma tornerò a essere anche teatrante, lo sento». Intanto c’è il suo nuovo film, che girerà da luglio. «Mi rifaccio vivo è una commedia del post-rancore, dove un uomo s’immagina d’avere un nemico che l’ha messo in ombra, e attraverso un espediente plautino da scambio d’identità entra come angelo custode nella vita dell’altro per rovinarlo, sennonché scopre che anche quello è un disgraziato. È il quarto film con la Fandango, con Neri Marcorè, Lillo (di Lillo & Greg), Emilio Solfrizzi, Margherita Buy, Valentina Cervi, Vanessa Incontrada e io nei panni di un barbone». Curriculum. Le radici famigliari? «Apprendistato eterogeneo. Molto di tutto. Una sera papà mi costrinse a prender parte a un Natale in casa Cupiello con lui. Non recitava bene. Io m’entusiasmai. Poi con la professione mi sono trovato a fare da esempio. Sono senza figli. Mi domando chi si prenderà cura di me». Idea della crisi attuale? «Diceva Hölderlin che dove c’è crisi c’è cambiamento, c’è salvezza, un ridare valore alle cose». Amici? «Per esempio un anziano primario di chirurgia toracica del Forlanini, che dalle 5,45 della mattina riceve telefonate da tutti». La letteratura? «Si parla sempre di Philip Roth, ma conta anche Joseph Roth cantore della fine asburgica. Murakami. Orhan Pamuk». La musica? «Sto tra Bach e Mozart, tra rigore e genio». Il traguardo più bello? «Aver risposto alla domanda letale di quelli del Sud: “Ma dove vuoi andare?”». © RIPRODUZIONE RISERVATA ‘‘ RODOLFO DI GIAMMARCO
Similar documents
la domenica - La Repubblica.it
della nomina a baronetti ecc. — ho risposto secondo quel che ricordavo — e ricordo perfettamente di aver provato un po’ di imbarazzo — anche tu, Paul, no? — oppure (mi viene il sospetto) continui a...
More information