DI Repubblica - La Repubblica.it

Transcription

DI Repubblica - La Repubblica.it
Domenica
La
di
DOMENICA 20 AGOSTO 2006
Repubblica
la memoria
L’ultima vendetta della ghigliottina
FRANCO CORDERO e GABRIELE ROMAGNOLI
il reportage
A 260 all’ora dentro l’America di Bush
VITTORIO ZUCCONI
Mare
Nostro
Pesca senza freni
né regole, turismo
sempre più arrogante
L’appello a salvare
il Mediterraneo
ILLUSTRAZIONE DI TULLIO PERICOLI
Repubblica Nazionale 33 20/08/2006
di un celebre velista
e di un grande scrittore
GIOVANNI SOLDINI
LUIS SEPÚLVEDA
cultura
idea di poter andare da un posto all’altro utilizzando solo l’energia della natura mi ha sempre
appassionato. Con la barca a vela ho girato un
bel pezzo di Mediterraneo nella mia infanzia.
Mio padre era il capitano mentre l’equipaggio
era composto dai miei due fratelli adolescenti e
da mia madre. Ognuno partecipava come poteva alla navigazione. Ricordo con terrore certi atterraggi alle Baleari dopo tre
giorni di navigazione stimata; le notti dove anch’io facevo il mio
turno e mi sentivo parte integrante dell’equipaggio; le albe in
mare, i sonnellini nella base della randa… le prime balene, i delfini, i primi colpi di vento, la barca che sbanda, gli ormeggi…
Il Mediterraneo mi affascina perché è stato una delle rotte
commerciali più trafficate nella storia e la culla di importanti
scambi culturali. Oggi mantiene un’importanza vitale per milioni di persone che dipendono dalla pesca e dal turismo. È infatti la prima destinazione turistica mondiale e, nonostante
rappresenti meno dell’un per cento degli oceani del mondo, gli
scienziati ci dicono che accoglie quasi il nove per cento di tutta
la vita marina, con più di diecimila specie finora identificate.
Nella mia infanzia ho passato nel Mediterraneo delle splendide vacanze, che sono state anche un modo di viaggiare, conoscere posti e gente diversi, scoprire la vita marina.
(segue nelle pagine successive)
n un negozio di articoli sportivi, a Ibiza, fanno pubblicità alle moto d’acqua con uno slogan molto suggestivo:
«Diventa il padrone del mare», e la frase è qualcosa di più
di un trucco per vendere un gran numero di quegli arnesi velocissimi, che sono un segno di riconoscimento
per gente tanto ricca quanto insensibile. In groppa alle
sue scattanti moto acquatiche, quella gente è davvero padrona del tratto di mare in cui si muove, bruciando benzina e mettendo in pericolo i bagnanti o le piccole imbarcazioni che incrocia nelle sue evoluzioni a velocità vertiginosa.
Da lussuosi porti turistici, da lussuose dimore costruite dalla longa manus della speculazione immobiliare, gli odierni padroni del mare guardano i tramonti senza vederli, troppo
preoccupati dai metri di lunghezza del nuovo yacht di qualche
conoscente o dalla potenza dei motori che li portano da un’isola all’altra nel giro di pochi minuti, e allora decidono di cambiare al più presto i loro navigli bianchi, grazie ai quali godono
del discutibile status di capitani del fine settimana, o di sciocchi con il diritto di prendere in mano un timone.
Qualche anno fa mi trovavo a Formentera e all’improvviso,
sorpreso dalla quantità di imbarcazioni da diporto, tutte dotate di potenti motori, che uscivano dalla baia in mare aperto,
chiesi cosa stesse succedendo.
(segue nelle pagine successive)
Il Feroce Saladino, eroe multimediale
L’
I
EDMONDO BERSELLI
la lettura
Duveen, l’arte di vendere l’arte
STEFANO MALATESTA
spettacoli
Istanbul sound, ecco la musica turca
GIUSEPPE VIDETTI
l’incontro
Il violino vivo di Anne-Sophie Mutter
LEONETTA BENTIVOGLIO
34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 20 AGOSTO 2006
la copertina
Mare Nostro
Pesca senza tregua né regole, inquinamento crescente, turismo
aggressivo che occupa le sponde e spoglia i fondali: sono sempre
di più le minacce che mettono a rischio la vita delle acque profonde
attorno al nostro Paese. Un navigatore solitario e uno scrittore
controcorrente si sono alleati per difenderle
Salviamo il Grande Blu
(segue dalla copertina)
così, da adolescente, ho continuato a sognare di diventare un giorno un vero vagabondo dei mari, di quelli che
non hanno problemi di tempo e di spazio, che se arrivano in un bel posto si possono fermare sei
mesi e poi ripartire alla ricerca di altri
orizzonti, altri luoghi, altre avventure.
Certo non ho mai pensato di mettermi ad
arpionare balene e l’orrenda pratica della caccia commerciale che oggi si effettua
con arpioni a testata esplosiva mi è sempre sembrata crudele e anacronistica.
Nel corso dell’ultimo secolo, la caccia
a fini commerciali ha decimato gran parte delle popolazioni di balene del mondo.
Tra il 1925, anno di introduzione della
prima nave-fabbrica per l’uccisione e il
trattamento delle balene, e il 1975 si stima che siano stati uccisi in totale più di un
milione e mezzo di esemplari. I cacciatori hanno quasi sterminato numerose popolazioni di cetacei: decimata una popolazione si passava a un’altra. A seguito
delle ripetute pressioni della comunità
internazionale, e grazie anche all’intervento di Greenpeace, alla quale io sono
molto vicino, nel 1986 la Commissione
baleniera internazionale ha approvato
una moratoria sulla caccia commerciale
alle balene. Ma la caccia di giapponesi e
norvegesi, con il pretesto della ricerca
scientifica, è continuata al punto che
questi animali rischiano ormai l’estinzione. Per la prima volta quest’anno il
Giappone è riuscito a conquistare una
maggioranza alla Commissione baleniera internazionale a favore della caccia alle balene. Chi avrebbe mai pensato che
dopo tanti anni di campagne per la protezione dei grandi cetacei, ci saremmo
trovati di fronte al tentativo di riaprire la
caccia commerciale alle balene?
Quello che è ancora più preoccupante
è che qualcosa di molto simile stia accadendo sotto al nostro naso, proprio qui
nel Mediterraneo. Quando leggiamo
che «il tonno sta scomparen-
Repubblica Nazionale 34 20/08/2006
E
do», che le reti vengono tirate su completamente vuote, dovremmo ascoltare
questo campanello d’allarme. Il mare è in
crisi profonda. Ancora una volta i giapponesi, amanti del sushi, stanno esercitando una pressione sfrenata sul tonno
rosso del Mediterraneo. L’ottanta per
cento della popolazione di questo pesce
è stata cancellata negli ultimi anni. Gli
amici di Greenpeace, con la loro nave
ammiraglia, “Rainbow Warrior”, stanno
pattugliando il Mediterraneo e hanno incontrato sul loro cammino pescherecci
italiani, francesi, spagnoli e turchi alla disperata ricerca dell’ultimo tonno. Le reti
vengono tirate su sempre più vuote.
E non parliamo di un pescetto da prendere all’amo: oltre due metri di lunghezza, settecento chili di peso, veloce e scattante come un cavallo, il tonno è uno dei
re del mare. Come noi, è a sangue caldo e
la capacità di regolare la temperatura del
suo corpo gli permette di migrare attraverso gli oceani, nuotando migliaia di chilometri ogni anno e sopravvivendo in
condizioni ambientali molto diverse. Il
tonno, però, non riuscirà a sopravvivere
alla pesca industrializzata che sta minacciando gravemente il suo regno. Ogni anno una flotta sempre più grande di pescherecci di dimensioni sempre maggiori va all’assalto dei tonni in una fase importante e vulnerabile della loro vita,
quando vengono a riprodursi nel Mediterraneo. Queste imbarcazioni usano reti conosciute come tonnare volanti, grandi abbastanza da circondare un intero
banco. Come se catturare i pesci nella loro zona di riproduzione non
fosse già una pazzia, le flotte
pescano più del consentito e aumentano così le
quantità di pesci che
vengono pescati
troppo giovani.
Il tonno rosso
arriva alla
maturità tra
i cinque e gli otto anni, ma gran parte degli esemplari catturati non ha avuto alcuna possibilità di riprodursi.
Il Mediterraneo è una delle due uniche
zone di riproduzione del tonno rosso e i
pescherecci non solo pescano nelle zone
di riproduzione ma catturano altri tonni
per metterli in vasche, allevarli e ingrassarli per l’esportazione. Questo “allevamento” causa un aumento della pesca
dei tonni e richiede grandi quantità di
piccoli pesci per farli ingrassare: per produrre un chilo di tonno, ci vogliono tra
venti e venticinque chili di pesce azzurro
da trasformare in mangime.
Se questo non è sufficiente a farvi rimanere sconcertati penso che, come per le
immagini delle balene arpionate in mare
aperto per l’avidità di pochi, bisognerebbe avere la stessa reazione di fronte alle
migliaia di delfini e tartarughe che finiscono ogni anno nelle reti da pesca illegali. Le cosiddette “spadare”, le avrete sentite nominare, sono state bandite dall’Unione europea e dall’Onu perché catturano qualsiasi cosa dalla sardina alla balena. Sono lunghe anche venti chilometri e alte quindici metri e vengono
ancora calate nel nostro mare,
in barba al bando, nelle
notti in cui non c’è
luna piena,
per catturare i
pe-
scispada. Le chiamano anche «muri della morte»: tra Ponza e Ischia, Greenpeace
ha tagliato un pezzo di una rete spadara illegale e vi ha trovato una tartaruga marina, che è stata subito liberata perché in
buone condizioni, ma di solito non va a finire così. Infatti, chi va per mare, anch’io
posso testimoniarlo, non incontra più
tartarughe e balene come una volta.
Dobbiamo rimboccarci le maniche
adesso. Il nostro mare, il Mediterraneo,
non è un’enorme piscina per le vacanze
estive e poi pazienza se il tonno sta finendo o le balene non si vedono più. Bisogna
rendersi conto che il mare ha bisogno di
essere protetto e non sfruttato fino al collasso. Voglio unirmi, quindi, alla richiesta
di Greenpeace, che chiede di porre fine a
questo sfruttamento indiscriminato delle
risorse del mare e di istituire invece una rete di aree marine protette in mare aperto.
Le aree protette oggi sono meno dell’un per cento del Mediterraneo, molto
meno del venticin-
que/cinquanta per cento raccomandato
dagli scienziati. Occorre una rete globale
di riserve marine che comprenda il quaranta per cento degli oceani del mondo e
il quaranta per cento del Mar Mediterraneo. Questa è l’unica soluzione possibile
e va incontro sia alle necessità della conservazione che a quelle dei pescatori. Se
non si dà modo agli stock ittici di rinnovarsi, proteggendo i luoghi dove i pesci si
riproducono e si alimentano, non ci sarà
più nulla da fare.
Non sono solo le balene ad aver bisogno di protezione, c’è tutto un mare da
salvare. Fatto di balene e di tartarughe, di
calamari, di tonni e di persone che delle
risorse del mare vivono. Il mare non è il
nostro ambiente, forse per questo ci
sembra sterminato e infinito ma in realtà
rimane vulnerabile come il resto del pianeta. Se non saremo in grado di porre delle regole e dei limiti alla nostra folle corsa
al dio denaro, in pochissimi anni distruggeremo la più grande risorsa che abbiamo.
ILLUSTRAZIONE (PARTICOLARE) DI KATSUSHIKA HOKUSAI/CORBIS
GIOVANNI SOLDINI
DOMENICA 20 AGOSTO 2006
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35
Il Mediterraneo
non ha padroni
22
gli stati che si affacciano
sul Mediterraneo
2.505.000 km²
la superficie del bacino, pari
allo 0,8% delle acque del globo
3860 km
l’ampiezza massima
da Est a Ovest
1800 km
GREENPEACE DÀ BATTAGLIA
Sia il velista Giovanni Soldini
che lo scrittore Luis Sepúlveda,
entrambi impegnati nella difesa
dell’ambiente marino, stanno
collaborando con Greenpeace
La nave del movimento
ecologista, il Rainbow Warrior,
opera nel mare Mediterraneo
contro la pesca illegale
l’ampiezza massima
da Nord a Sud
5017 m
la massima profondità, al largo
di capo Matapan, in Grecia
46.000 km
la lunghezza totale
della linea di costa
300
gli tsunami registrati
nel Mediterraneo dal 1300 a. C.
580 le specie di pesci
21 i mammiferi marini
48 le specie di squali
36 le specie di razze
5 le specie di tartarughe
1.289 le specie vegetali marine
1.700 le specie di molluschi
LE CURIOSITÀ
Repubblica Nazionale 35 20/08/2006
1.Più di diecimila le specie che vivono nel Mediterraneo (nove per cento
di tutta la biodiversità marina), una specie su quattro è esclusiva
2.Solo l’uno per cento della superficie del bacino del Mediterraneo
fa parte di aree marine protette
3.Dai tremila ai quattromila metri la profondità media, che permette
ad alcune specie di balene, al pesce spada, al tonno e al delfino di viverci
4.Sono circa cinquemila le isole, grandi e piccole, che punteggiano
il bacino del Mediterraneo
5.Nei paesi rivieraschi si concentra il sei per cento delle specie vegetali
presenti sulla Terra e il dodici per cento di quelle minacciate di estinzione
6.Su 62 specie di anfibi, 35 sono endemiche (56 per cento)
Delle 179 specie di rettili sono endemiche 111 (62 per cento)
7.Due miliardi di uccelli appartenenti a 150 specie diverse fanno tappa
durante le migrazioni nelle zone umide mediterranee
8.Circa mille il numero delle specie esotiche, molte delle quali dannose
per l'ecosistema e per l'economia, immigrate nel Mediterraneo
9.Circa seicento le specie di spugne, il quarantacinque per cento
delle quali esclusive del Mediterraneo
10.Il centro geometrico del Mediterraneo cade sulla punta della penisola
italiana, precisamente nella città di Reggio Calabria
LUIS SEPÚLVEDA
(segue dalla copertina)
no di quei marinai del fine settimana aveva visto
dei «pesci strani» che saltavano sul pelo dell’acqua, e da bravo idiota facoltoso, invece di spegnere il motore, aveva deciso di seguirli
mentre un altro (o un’altra) idiota abbronzato chiamava con il cellulare tutti
i suoi conoscenti. In pochi minuti si radunarono una cinquantina di barche
che, solcando le onde con le loro prue alte, fecero rotta sull’avventura gratuita
offerta dal mare, quel vasto spazio blu di
loro esclusiva proprietà.
La flotta di banchieri, produttori cinematografici, avvocati televisivi, industriali inquinatori e chirurghi estetici
avvistò i «pesci strani» e prese a girare attorno a quelli che in realtà erano due
delfini disorientati e atterriti dal rumore delle imbarcazioni. Immaginiamo di
camminare in campagna e di vederci
piombare addosso all’improvviso cinquanta fuoristrada, dai motori rombanti, che ci circondano accecandoci con
nuvole di polvere, e per di più rendono
irrespirabile l’aria con i fumi dei loro tubi di scappamento. Si sentivano esattamente così quei delfini: non riuscivano
più a captare i segnali del branco, se mai
ne arrivavano, ed erano in
preda al panico davanti alle barche sempre più vicine, perché i marinai del fine settimana dovevano a
ogni costo fotografare o filmare quei «pesci strani».
L’epilogo non si fece attendere: un’elica toccò il
dorso di un delfino, il sangue tinse l’acqua, ma il sacrificio del primo cetaceo
permise all’altro di rompere il cerchio e fuggire in mare aperto, perché le cinquanta imbarcazioni fermarono i motori e tutti si
diedero a controllare l’elica assassina. Una barca da
250mila euro suscita grande solidarietà.
Questa storia non è l’invenzione di uno scrittore,
l’ho vista accadere a Formentera, così come ho visto l’inutilità della Guardia
Civil che non interrogò
nemmeno uno di quegli
sventati, responsabili della morte di un animale protetto e in via di estinzione.
Si trattava di gente facoltosa, dei padroni del mare, e
a loro non si possono addossare responsabilità
ecologiche.
Una delle maggiori
sciocchezze che si sentono
dire ai politici dei paesi affacciati sul mare è che il turismo è una delle attività economiche
più importanti, ma non precisano quale turismo, e non spiegano nemmeno se
porti qualcosa di più di camerieri e rifiuti. I proprietari delle strutture che accolgono il turismo di massa sono un’altra variante dei padroni del mare
— e questa non è affatto un’affermazione azzardata —
perché hanno ottenuto
che governi e amministrazioni locali
accettino come una
cosa
U
logica e naturale la separazione del mare dal suo contesto costiero, istituendo
una sorta di confine di convenienza che
nega il rapporto di interdipendenza
biologica fra la terra e il mare, da cui fra
le altre cose deriva quel microclima.
Una semplice veduta aerea dei litorali mediterranei fa sì che qualunque persona mediamente informata si ponga
alcune domande. Tutte le strutture del
turismo di massa sono dotate di impianti di depurazione? O si è invece lasciato l’onere di depurare le acque reflue alle piccole città che fino a venticinque anni addietro non ospitavano questo tipo di strutture? La maggior parte
delle bandiere blu conferite dall’Unione europea sono fraudolente; vengono
infatti concesse sulla base di rapporti
predisposti secondo gli interessi dell’industria turistica, grazie a mazzette,
perché la corruzione è strettamente legata a questo tipo di sviluppo e in realtà
milioni di turisti fanno il bagno in un misto di merda, prodotti chimici industriali, residui tossici dell’agricoltura e,
con un po’ di fortuna, acqua.
Chi controlla davvero il poco pesce
che ancora si pesca nel Mediterraneo, di
cui in estate si moltiplica mille volte la
domanda? Nei ristoranti delle coste
spagnole, francesi, italiane e greche
vengono servite specie quasi estinte
con la totale compiacenza delle autorità
incaricate di proteggere il mare.
Sarebbe lunga, ma anche facile da
stendere, la lista di chi, per opera di leggi liberali legate al mercato, si considera
padrone del mare. Al di là delle considerazioni biologiche, bioetiche, ecologiche e di semplice buon senso, è fondamentale rientrare in possesso del mare
in nome dell’umanità, individuare gli
spazi recuperabili e metterli in salvo
dall’avidità immobiliare e turistica.
Urge realizzare finalmente un censimento delle specie e concedere risorse
per far rispettare i divieti di pesca. Urge
adottare nuove misure a livello europeo
— se davvero l’Unione europea serve a
qualcosa —, misure che limitino l’inquinamento primario del mare, per
esempio l’inquinamento acustico, chimico ed estetico provocato dalle centinaia di migliaia di imbarcazioni la cui
unica giustificazione è l’ozio irrazionale dei ricchi. E naturalmente urge limitare la produzione di rifiuti non riciclabili che concludono il loro viaggio in
mare.
E se qualcuno ha dei dubbi al riguardo, che contempli gli scenari del meridione italiano, spagnolo e greco, dove le coste sono coperte
di plastica, biodegradabile,
nel migliore dei casi, dopo
novant’anni.
È molto lunga la lotta ai padroni del mare.
(Traduzione di Ilide
Carmignani)
36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
la memoria
Controstoria
DOMENICA 20 AGOSTO 2006
Venticinque anni fa, il 26 agosto 1981, in Francia fu abolita
la pena di morte e dunque lo strumento che per due secoli
l’aveva somministrata, mozzando decine di migliaia di teste
Ma quest’arma implacabile ha finito per rivelarsi anche
un boomerang, capace di colpire chi via via ne ha promosso
l’uso: scienziati, carnefici, sovrani e perfino intere civiltà
L’estrema vendetta
di madama ghigliottina
GABRIELE ROMAGNOLI
ltimo venne un immigrato musulmano, decapitato dal boia appositamente stipendiato da una nazione cristiana d’Occidente. Erano le
4 e 40 della mattina del 10 settembre 1977. Il tunisino Hamida Djandoubi salì i gradini del patibolo nel cortile di un
carcere senza pubblico. Lo fece a fatica perché gli
mancava una gamba, amputata dopo un incidente sul lavoro nel porto di Marsiglia dove era
stato scaricatore. Al processo la difesa aveva tentato invano di convincere la giuria che, con l’arto, Djandoubi aveva perduto anche il senno. Non
sembrò sufficiente a giustificare l’omicidio dopo
le torture inflitte alla sua ex amante, che aveva invano tentato di avviare alla prostituzione. Gli
toccò l’ultima corsa della lama di una ghigliottina. Quattro anni più tardi, il 26 agosto 1881, presidente Mitterrand, il suo uso fu abolito.
Fine di una storia che contò oltre duecento anni,
decine di migliaia di teste mozzate e una singolare
tendenza alla vendetta. Come se lo strumento di
morte, implacabile nel suo percorso, conoscesse
una segreta strada di ritorno. Come se fosse, anche,
un boomerang, capace di colpire chi ne promuoveva l’impiego: fossero scienziati, carnefici, sovrani e perfino intere, se così per convenzione vogliamo chiamarle, civiltà.
Questa dunque è una controstoria della ghigliottina, quella del suo viaggio inverso e altrettanto letale. Comincia con il suo promotore, a torto scambiato per l’inventore.
Il dottor Joseph Ignace Guillotin un’intenzione di certo non l’aveva: quella di legare il suo nome allo strumento di morte. Invece non lo poté
impedire, benché abbia cercato di riuscirci per
tutta la vita. I suoi veri realizzatori, lo scienziato
Antoine Louis e il falegname Tobias Schmidt,
tanto ci avrebbero tenuto e non l’ottennero mai.
Guillotin fu due volte tradito: la seconda nell’intento. Quel che voleva era un rito pulito, preciso
e poco spettacolare. Basta con la scure che non
uccide al primo colpo provocando una mattanza sul palco per la gioia del popol sadico. Quel che
ottenne fu una cerimonia di massa, con esecuzioni a catena davanti a folle festanti e quell’ultimo gesto osceno: il sollevamento da parte del
boia del capo reciso per i capelli o (in caso di calvizie) per le orecchie, in un tripudio malato.
D’altronde, lo prescriveva un rigido protocollo.
Perché le esecuzioni d’Occidente sono così: più
inseguono l’asetticità e più diventano crudeli. L’iniezione letale ora in voga in America viene praticata davanti a due tribune protette da un vetro do-
U
ve possono sedere i parenti del condannato e
quelli della vittima per condividere o assaporare il
finale annunciato per anni, resocontato per giorni e minuti fino alla patetica elemosina dell’ultimo pasto. Così la “despettacolarizzata” ghigliottina prevedeva la sequenza: spoliazione del condannato (salvo pantaloni e camicia), taglio dei capelli, taglio del colletto, trasporto al patibolo in
carretta, immobilizzazione, decapitazione, esibizione della testa al pubblico.
A convincersi che questo metodo fosse ideale fu
re Luigi XVI. Esperto bricoleur, volle apportare una
modifica: invece della poco affidabile lama a mezzaluna adottata dal falegname tedesco, ne suggerì
una obliqua. «Complimenti», gli dissero dopo averla provata. La prima vendetta della ghigliottina fu
che si abbatté anche sul suo collo. La seconda fu
che, dopo aver funzionato perfettamente per anni,
nel suo caso combinò un pasticcio, non riuscendo
a segarlo del tutto, lasciandolo a morire dissanguato tra urla atroci e un accresciuto giubilo popolare.
Si dice che il boia di Parigi, il leggendario Henri
Sanson, pur avendo già eseguito migliaia di tagli
perfetti, davanti alla testa coronata si emozionò e
fece del suo peggio. Anche per lui era pronta la vendetta dello strumento. Passò infatti il mestiere ai figli e non si perse una delle loro esecuzioni, annuendo orgoglioso a ognuna. Finché un giorno
uno dei suoi eredi, mentre culminava la prestazione mostrando la testa mozzata alla folla, ebbro
d’entusiasmo cadde dal palco e si sfracellò al suolo. Benché immediata e apparentemente indolore,
la sua morte strappò le prime lacrime del boia per
un simile evento. La beffa ulteriore fu che, mentre
lui smetteva di soffrire, il condannato che aveva appena ucciso ne contemplava la morte. Così è, se vogliamo credere alla teoria per cui il cervello continua a funzionare ancora per alcuni minuti (da due
a, addirittura, quindici), ancora irrorato di sangue.
Di qui le espressioni di orrore delle vittime, i loro occhi roteanti e lo sguardo beffardo di quel particolare decapitato precipitato nell’anticamera dell’inferno con il suo giustiziere.
Tra Nicholas Pellettier (prima vittima, il 25 aprile del 1792) e Hamida Djandoubi, la ghigliottina
ha ucciso migliaia di volte. Dalla Francia fu esportata in Asia e Africa. I nazisti la impiegarono con
gioia in oltre diecimila occasioni. La sua storia è
stata tragica e, inevitabilmente, ridicola. Il vertice
dell’assurdo è nel presunto dialogo tra il boia Henri Sanson e la sua regale vittima Maria Antonietta.
Lei, emozionata, gli pesta un piede e, in un riflesso condizionato di nobiltà, gli dice: «Pardon!». A
ruota seguono il genitore condannato per l’omicidio di un figlio (tal Moyse) che obietta al boia:
«Come potete uccidere un padre di famiglia?»; e
La credenza popolare
sostiene che decapitare
non assicura una fine
immediata: il cervello
continuerebbe a funzionare
ancora per qualche minuto
Di qui le espressioni
d’orrore delle vittime
quando il boia sollevava
le teste davanti alla folla
un presunto marchese che si oppone gridando:
«Non potete uccidermi! Sono un siciliano!».
Poi, dopo quell’alba del 1977 nel carcere di Aixen-Provence, la lama obliqua che tante soddisfazioni aveva dato a Luigi XVI smette di scendere. La
Francia rinuncia a una sua creatura. L’Europa
compie un altro piccolo passo verso la decenza.
L’estrema vendetta è lì che aspetta di compiersi.
Se l’ultimo giustiziato era musulmano, la decapitazione ritornerà come incubo, benché non tramite ghigliottina, ma più rude coltello, ad opera
degli integralisti islamici che vogliono gli infedeli
fuori dall’Iraq. In filmati capaci di far rabbrividire
quello stesso Occidente che fino a poco più di
vent’anni prima si baloccava con la testa nel canestro si compie un rituale non troppo dissimile.
Un prigioniero spogliato e infilato in una tuta
arancione viene condotto al videopatibolo, sgozzato e la sua testa tenuta per i capelli viene mostrata all’immensa folla del web.
E si grida alla barbarie. Come se esistessero un
modo civile di uccidere, una giustizia che lo consente, un qualunque livello di tollerabilità che permetta di tenere gli occhi aperti davanti a un’esecuzione. Eppure sentiamo la differenza. Nella confessione della giornalista americana del Washington Times rapita in Iraq che rivela di aver supplicato i suoi sequestratori: «Se dovete uccidermi fucilatemi, non decapitatemi». Nell’analoga richiesta
(anche se chiede di evitare l’impiccagione, ma a
maggior ragione non vorrebbe conoscere la lama)
avanzata addirittura da Saddam Hussein al tribunale che lo sta giudicando.
Resta da chiedersi perché la decapitazione
spaventa e (quindi) attrae tanto? Probabilmente
per il motivo sbagliato (se qualcosa mai può essere giusto parlando di un simile argomento). A
generare il terrore è l’atto finale in sé, il momento della morte e il modo in cui avviene. Comunque vada, anche nel caso mal riuscito di re Luigi
XVI, cosa di pochi secondi. Nulla in confronto
agli orrori veri. Quello del prima: l’attesa interminabile dell’esecuzione, la certezza della sua
venuta o peggio ancora la vana illusione di evitarla, i giorni, i mesi o gli anni passati senza poter
fare altro che aspettare la fine. E poi l’orrore più
grande: quello del dopo. Perché se una cosa ci
può pacificare con la morte è il nulla che ne segue, la mancanza di ogni consapevolezza, il silenzio infinito della coscienza. Invece, a voler
credere alle più diffuse teorie, il ghigliottinato resta per minuti che valgono eternità a contemplare la propria (non) fine, cristallizzato nel più
inaccettabile degli assunti filosofici: l’anticartesismo assoluto «penso eppure non sono».
DOMENICA 20 AGOSTO 2006
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37
SIMBOLO
FOTO CORBIS
Accanto, un ritratto
di Joseph Ignace
Guillotin
Sotto, una scena
di un film
del cineasta
francese di inizio
Novecento
Georges Méliès
Quando la “fulminea chirurgia” della lama veniva invocata come progresso
Vecchia la macchina, nuova l’idea
garantire l’“égalité” patibolare
FRANCO CORDERO
uneo, anni Trenta. Sul fianco dell’altopiano che scende alla sponda destra della
Stura, c’era la stazione d’una tramvia a vapore dell’omonima valle: sito misterioso nel lessico dei vecchi, lo chiamano «‘l rondò di suspir»;
rifugio d’innamorati bisbiglianti?; no, l’angolo
della forca. Mio nonno raccontava d’un caso.
Eventi d’almeno mezzo secolo prima, quando
nasceva la gran piazza con i dieci palazzi in stile
neoclassico dal Duomo verso gli Orti, intorno alla statua del ministro carloalbertino Giuseppe
Barbaroux, diplomatico, guardasigilli, codificatore. Erano spettacoli radi: negli anni 1831-65, il
boia en titre Pietro Pantoni lavora 127 volte sulla terraferma sabauda, una forca molto parsimoniosa se la paragoniamo ai 348 impiccati londinesi 1783-87 (nella capitale piemontese ne
contiamo 15 dal 1831 al 1848, 51 nei 12 anni seguenti). L’atto ha un calendario: va in scena il sabato, ore 11; «‘l brod d’undes ure» è la scodella
offerta al paziente. L’Avvocatura fiscale difende
gli usi d’una giustizia «folgorante» ma le parole
esalano malessere: nessuno scrive «forca», solo
allusioni e metafore; «orrido istrumento», «tetro
spettacolo», «triste bisogna» e simili. Spira cattiva coscienza. Se ne vergognano tutti, a parte l’infima plebe, borsaioli, cantastorie, affittacamere
sulla via del corteo o, meglio ancora, dell’atto finale, e qualche sapiente paranoico. L’archetipo
è Joseph de Maistre, magistrato savoiardo, massone nella loggia dei “Tre mortai”, fratello della
Misericordia, visionario dagli occhi corruschi,
straparlante, filosofo della storia ad usum
delphini, papista, declamatore sulla mistica patibolare nelle Soirées de Saint-Pétersbourg, dove
rappresenta i Savoia espulsi da Napoleone. In
una supplica sgrammaticata, agosto 1852, se ne
duole persino quel signor Pantoni, sebbene corrano buoni emolumenti (primo stipendio 1200
lire annue, come i professori universitari): non è
fiero d’impersonare Sua Maestà vittorioso nell’ordalia col Male; gli dispiace buttare il paziente giù dalla scala, saltandogli sul «capo unto del
S. Battesimo», mentre l’aiutante tira i piedi. Esistono metodi più puliti. Tale la «guillottina». Se
ne afferma esperto: non è «scienza fisica» ma
fantasia popolaresca che il decollato veda, oda,
senta; se ripugna il sangue, basta raccoglierlo in
recipienti fuori della vista pubblica; e invoca
una riforma «con tutta l’energia de’ sensi» (cfr.
U. Levra, L’altro volto di Torino risorgimentale,
1989, 205-41; a cura dello stesso, La scienza e la
colpa, 1985, 141).
Il nome viene da Joseph Ignace Guillotin, professore d’anatomia nella Facoltà medica parigina, deputato all’Assemblea costituente, autore
d’una proposta il 10 ottobre 1789, approvata do-
C
RIVOLUZIONE
Accanto,
un’illustrazione
che rappresenta
Luigi XVI
poco prima
della morte
durante
la rivoluzione
francese
Nell’immagine
grande
l’esecuzione del re
po sedici mesi, ma l’ordigno è antico: figura tale
e quale nel frontespizio della Practica causarum
criminalium d’Ippolito Marsili, capostipite dei
cattedratici penalisti italiani a Bologna, Venetiis
1529 (iconografia riprodotta dalla sopracopertina della mia Procedura penale nelle nove edizioni sul vecchio codice): sabato 11 settembre 1599,
davanti a Ponte Sant’Angelo, nel mortale scirocco pomeridiano, decapita Lucrezia e Beatrice
Cenci; l’adoperano in Scozia sotto l’appellativo
eufemistico «maiden» (ragazza). Particolare curioso: esistono ancora i fogli in cui l’ultimo re, futuro paziente, disegnava la macchina; era abile
meccanico Luigi XVI. Appare nuova l’idea: chirurgia fulminea, soi-disanteindolore, la stessa rispetto a tutti, mentre l’ancien régime pratica una
sontuosa varietà, secondo specie delittuosa e
rango personale; il castigo va commisurato alla
colpa, donde una contabilità del dolore; i nobili
però hanno diritto al taglio della testa. In Place de
Grève lunedì 20 marzo 1757, dura due ore lo
squartamento a sei cavalli del mattoide innocuo
Robert-François Damiens, lacchè disoccupato,
previ attanagliamenti e ustioni: aveva punto Luigi XV; non che volesse ucciderlo, né l’arma era
idonea, ma il corpo regale è santo. Casanova
chiude gli occhi inorridito: guardava da una camera in affitto, presenti due dame in calore; spia,
imbroglione, libertino, non condivide i loro gusti; molti bienséants covano istinti feroci. Tardivamente abolita la tortura istruttoria, 1780, restano i supplizi: nel 1785 tre ladri notturni finirebbero intrecciati alla ruota con le ossa rotte, se
un Mémoire justificatif non sollevasse l’opinione pubblica; l’autore occulto è Jean-Baptiste
Mercier Dupaty, magistrato dissidente dai confratelli (gli alti uffici sono patrimonio familiare).
La ghigliottina inaugura una meccanica égalité
patibolare. Non è differenza da poco.
Forse era l’ultima quell’impiccagione nel
rondò dei sospiri: forca (alias «vedova») e mannaia lavorano assidui nel mondo potente, ricco,
istruito, industriale, dalla democrazia d’America agl’imperi europei; anno Domini 1889 l’Italia
scalcagnata e ancora mezza analfabeta li precede quasi d’un secolo abolendo la pena capitale.
Gesto glorioso d’una cultura senza fumi teologali. Quarantun anni dopo l’idea macabra riappare nel codice fascista. L’art. 27 Cost., c. 3, detta una norma d’esclusione. Ma l’anima collettiva contiene fango e muffe continuamente riprodotti. Ogni tanto voci rauche in guerra con
l’alfabeto, negromanti, esteti misticoidi rimpiangono i vecchi riti, dal confortatorio al corteo
e cerimonia culminante. Speriamo nell’anticorpo della scepsi, così malfamata tra i bisognosi d’una fede.
38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 20 AGOSTO 2006
il reportage
Sport e società
I Nascar race, le corse per auto di serie “taroccate”,
sono la moda del momento negli Stati Uniti: circuiti strapieni,
milioni di spettatori tv, film-spazzatura che sbancano i botteghini
Parteciparvi significa entrare in uno dei fenomeni politico-culturali
più importanti ma trascurati da chi guarda gli Usa da lontano
Così un inviato di “Repubblica” è sceso in pista per raccontarlo
342 km/h
il record di velocità
su un circuito Nascar
750 cavalli
la potenza che un motore
Nascar può raggiungere
945 litri
4,8 miliardi di $
la quantità minima
di benzina per auto a gara
il valore dei diritti televisivi
nel periodo 2006-2014
A 260 all’ora dentro
VITTORIO ZUCCONI
«A
DOVER (DELAWARE)
Repubblica Nazionale 38 20/08/2006
re you nervous?», mi
crepita nelle cuffie
del casco la voce sarcastica del
mio capo-meccanico. Nervoso io? Ma come ti permetti? Ma come osi pensare che un figlio della
Bassa Modenese come me, con olio motore nelle arterie, cresciuto nei fossi di Maranello a spiare Enzo
Ferrari far strage di
galline, possa sentirsi
nervoso al volante di
questo catorcio per bovari americani, su una pista
da autoscontro di provincia?
Ok, gli faccio segno come ho visto fare nei film da Steve McQueen e da
Paul Newman a Daytona, col pollice del
guanto eretto e il sorriso strafottente alla James Dean. «Pronti?», s’informa la
voce dello starter nelle cuffie, mentre il
capo-meccanico mi stringe nelle cinture da pilota di jet sopra la tuta anti-incendio che mi allessa come un cotechino e l’estintore automatico. Pronto,
pronto, vai, cammina. «Go!», grida la
voce nel casco e la bandiera si abbassa.
Vroaaaar, strepitano i quattrocentocinquanta cavalli sotto il
fiberglass della carrozzeria,
frizione, prima, stacca, le
gomme slick mordono il
cemento, il rettilineo finisce, la pista si impenna nella prima parabolica alta come il Muro di
Berlino e il muretto verniciato di bianco e annerito dalle auto impastate
contro mi corre addosso a
duecento all’ora. E sono già
cento metri dietro tutti gli altri. Visto? Non sono affatto nervoso, vile meccanico. Sono semplicemente una schiappa. Sorry, Enzo.
Sono alla guida dell’America di Bush,
dell’America dei buoni, dell’America
ad alto contenuto di ottani patriottici.
Per un compleanno, al traguardo di
un’età nella quale si dovrebbe dar da
mangiare ai piccioni ai giardinetti, mi
È qui, in questi catini
brulicanti di camper,
bikers e famiglie
attorno ai barbecue,
che si cucinano
e si fondono gli umori
che diventano voti,
bandiere, eserciti...
BORN TO RUN
Le foto di quattro piloti Nascar
da sinistra Todd Bodine (Toyota),
Kelly Sutton (Chevrolet), Jonnhy Benson
(Toyota) e Rick Crawford (Ford)
In basso, il circuito di Martinsville in Virginia
avevano regalato una Nascar Experience, una giornata da pilota delle auto da
corsa che hanno conquistato l’America
di Dio, Patria e Cavalli. Nascar — l’acronimo di National Association for
Stock Car Auto Racing, una formula
verbosa che significa “corse fra automobili di serie” — perché così
era cominciato tutto, settant’anni or sono. Un
gruppo di matti, quasi
tutti contrabbandieri
di whiskey clandestino distillato nelle
notti del sud, e infatti
chiamato moonshine, chiaro di luna,
avevano cominciato a
gareggiare fra loro, e
ad ammazzarsi, lungo
le spiagge deserte della
Florida, attorno a Daytona
Beach. Portavano le loro
Ford, Chevrolet, Cadillac, Studebaker, Oldsmobile, Pontiac di serie
anabolizzate nei garage di famiglia per
sfuggire agli inseguimenti degli esattori lungo le strade tortuose del Kentucky, del Tennessee, della Carolina.
Era tutto deliziosamente illegale, stupendamente James Dean, e segretamente incoraggiato dalle case automobilistiche. «Chi vince alla domenica,
vende al lunedì», spiegava la Ford, che
infatti vedeva le proprie vendite schizzare dopo una vittoria del proprio marchio sulla spiaggia.
Ma la bestia ringhiante che tento di
controllare tra le mani sul chilometro e
mezzo della superspeedway del Delaware, uno dei tre circuiti più veloci del
Nord America grazie a quelle paraboliche ripidissime che ti risucchiano e ti
sparano fuori come una fionda, ha perduto ogni parentela con le miti somare
per famiglia vendute oggi a rate dai concessionari. A parte qualche vaga somiglianza nelle forme della carrozzeria di
plastica, e i nomi fittizi dei modelli di se-
rie, le macchine che partecipano al
campionato sono auto da corsa vere,
con motori fuori serie, niente altro che
gabbie di ponteggi di acciaio avvitate a
un volante, a una trasmissione e a un
motore da settecentocinquanta cavalli.
«Trust your car, trust your car», mi
grida la voce del capo-meccanico dentro il casco, e io della
macchina mi fiderei anche,
ma temo che sia la macchina a non fidarsi di me.
All’inizio del secondo
rettilineo il branco dei
nove avversari è già all’imbocco dell’altra
curva parabolica. La
mia bestia nera, con il
numero 42 dipinto tra i
nomi degli sponsor, freme e vibra innervosita dalla mia inettitudine e dalla
mia incapacità di soddisfarla.
In un sussulto di orgoglio, schizzando davanti ai famigliari che intravedo
inquieti perché vado troppo adagio, e
dunque ansiosi al pensiero che anche
per questa volta non erediteranno un
centesimo, schiaccio il pedale. La mia
Chevrolet Lumina schizza verso il vertice della parabola e poi piomba giù
verso la corda. Sto rimontando, sto rimontando, Enzo, guardami, il sangue
Ferrari non è Lambrusco. I sederi dei
miei avversari si avvicinano.
Ma si avvicina anche the wall, il muretto, che sfioro all’apice della parabola. Sotto le mie gomme lisce e appiccicose come chewing gum, le tracce nere
lasciate da altri idioti che hanno avuto
troppa fiducia nella macchina puntano sparate verso il muro. Viaggio a duecentoventi all’ora, mi diranno poi i cronometristi ai box e intravedo appena
uno dei commissari di corsa che dall’alto di una torre si sbraccia al mio
passaggio, indicandomi con gesti imperiosi i box. Giro troppo alto sulla parabola e nella picchiata verso la corda
DOMENICA 20 AGOSTO 2006
75 milioni
i fan delle corse Nascar
in tutto il mondo
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39
25 milioni di $
la sponsorizzazione
massima annuale di un team
260 mila
2 miliardi di $
i posti a sedere nel circuito
più grande, a Indianapolis
il valore annuale
del merchandising
l’America di Bush
special forces con gli occhiali neri e certezze di essere il più grande e libero paese del mondo. Mentre l’Europa guarda
Woody Allen, ascolta Chomsky, adora
Oliver Stone e legge gli inutili e sussiegosi editoriali del New York Times o del
Wall Street Journal, decine di milioni di
americani vanno in questi giorni a vedere Talladega Nights,
una farsaccia sulle gare
Nascar che incassa centocinquanta milioni di
dollari per week end; e i
bambini impazziscono per l’ultimo film di
animazione di Disney,
Cars, automobili, protagonista di nuovo una
macchina del Nascar
chiamata naturalmente
McQueen.
Nessun altro sport genera altrettanta passione, scatena altrettanta fedeltà verso i protagonisti, che non si cambiano di maglietta e mutande come i saltimbanchi
del football, del basket o del calcio, perché qui tutti corrono da soli, per la propria vittoria, per la propria pelle e gli
sponsor lo sanno. Trasformano le loro
auto in cartelloni pubblicitari per detersivi, dentifrici, carburanti, batterie
auto, birra, gazzose, grandi magazzini,
biancheria e soprattutto pillole per la
virilità. Questo è uno sport per maschioni, anche se apparentemente afflitti da una certa difficoltà erettile, per
americani da tre “B”, Bibbia, Bush e Birra. Le donne sono molte, ma sulle tribune, gli angeli dei pistoni, a curare i
marmocchi o a indossare blue jeans attillati che sembrano dipinti sulle chiappe, per la gioia dei guerrieri. Questo è il
regno dei Nascar daddies, i papà dei circuiti automobilistici che hanno ormai
rimpiazzato le tremule, e troppo politically correct, Soccer moms, le mammine del calcio che votavano Clinton. All’America femminizzata che ha predi-
Queste sono gare
fatte su misura
per un mondo macho
Le donne stanno
in tribuna, a badare
ai figli o ad aspettare
per il riposo
dei “guerrieri”
cato i buoni sentimenti e il maschio
sensibile, risponde il ruggito degli stalloni del Nascar, del nuovo maschilismo
a motore. Se dipingessero sui muretti
un ritratto di Hillary Clinton, i piloti andrebbero volentieri a sbatterle contro.
A me, alla mia “Chevy” nera che spingo fino a duecentosessanta chilometri all’ora nel rettilineo
del traguardo senza guadagnare un millimetro
sugli avversari lontani,
è stata almeno risparmiata la sponsorizzazione di una pillola
del tiramisù. Corro
con i colori di una virile, ma dignitosa marca di lubrificanti, nel
senso dei motori, la Valvoline. «Due giri, due giri», mi avverte la voce nelle
cuffie, e sembra una liberazione. I pochi villici locali che si
erano appollaiati sulle tribune nella
sportiva, affettuosa speranza di vedere
un imbranato come me inchiodarsi sul
muro, se ne vanno delusi. In due giri,
ormai al sicuro dalla vergogna del doppiaggio (almeno questo, Enzo) hanno
capito che neppure io andrò a baciare il
muro a duecento all’ora.
Domani cominceranno le prove per
una corsa vera e dobbiamo toglierci dai
piedi. Le tribune si gonfieranno. Il
grande spazio all’interno dell’ovale
sarà gremito da camper, roulotte,
bikers con le loro moto da Easy Rider,
venuti per bere, per impasticcarsi, per
arrostire bistecche e salsicce, per sentirsi «vicini alla nostre truppe in guerra»
come dicono milioni di nastri gialli,
perfettamente convinti che rosolare
costate in mezzo al frastuono di migliaia di cavalli isterici sia difendere la
patria, quanto quei poveri cristi in divisa che da tre anni saltano in aria a migliaia fra il Tigri e l’Eufrate. Tutti sono
con i «nostri soldati», purché i soldati
siano i figli degli altri.
Cala la bandiera anche per me, misericordiosa. Arranco verso i box, dove il
capo-meccanico ha almeno il
buon gusto di non dirmi «bravo». Ha vinto una donna,
l’unica pilotessa, che viene qui una volta al mese,
paga i trecento dollari
per la gara, e si vendica
così dei maschi che deve sopportare negli altri ventinove giorni del
mese. I meccanici che
le mettono a punto la
macchina sorteggiata
per la guida la chiamano
“the Blond Flash”, il lampo
biondo. Penultimo, davanti a
me, un dentista trippone di Philadelphia che il crew ha dovuto insaccare
nella macchina come il ripieno di una
salsiccia alla partenza, perché le Nascar
non hanno portiere, e ora estraggono in
quattro, tirandolo fuori cicciolo per cicciolo dal finestrino.
Io riesco almeno a divincolarmi e a
uscire da solo, con dignità, respingendo ogni aiuto. «Da dove ha detto che veniva?», mi chiede il pilota istruttore al
quale restituisco il casco, i guanti, le
scarpe, la tuta antincendio e i resti della mia boria ferrarista. Dalla Francia, gli
rispondo, I was born in France, sono
francese e non ho votato per Bush. Lui
sorride e scuote il capo. Questi francesi, sinistra spazzatura d’Europa.
FOTO GETTY IMAGES
Repubblica Nazionale 39 20/08/2006
del rettilineo sento la bestia agitarsi. Le
auto da corsa con le gomme slick sono
leggerissime da pilotare e incollate al
cemento, ma quando ti scappano non
le riprendi più, se non sei Schumacher.
Subirò l’ignominia della bandiera
gialla, tutti rimessi in fila da muli alpini per colpa mia? Addirittura di
quella nera, che significa
espulsione?
Il piede si alleggerisce
sul gas. Scalo le marce.
La bestia brontola ma il
commissario si tranquillizza. Addio al
gruppo. Sul cruscotto
spoglio, senza tachimetro, soltanto con il
contagiri, ci sono levette e pulsanti da vecchio
Spitfire nella Battaglia
d’Inghilterra, e qualcosa
devono pur fare ma il capomeccanico mi aveva severamente
intimato di non toccarli mai. La tentazione è forte (un compressore? un post-bruciatore come nei jet?) ma la paura di fare la fine di un James Bond con
la pancetta ed essere schizzato fuori
dal tetto o di scaricare raffiche di missili mi paralizza.
Vivere la Nascar Experience non è soltanto fare una sauna di umiltà e scoprire quanto sia difficile giocare al pilota da
corsa in questi circuiti identici, sempre
ellittici, brevi e implacabili. Significa
entrare in uno dei fenomeni sociali,
commerciali, politici, dunque culturali, oggi più importanti e più trascurati da
chi guarda l’America da lontano. È qui,
in queste ciambellone di cemento dove
le macchine ruotano sempre a sinistra,
e sempre a branchi, sotto gli occhi di settantacinque milioni di persone davanti
alle tv e dei centocinquantamila che
brulicano sugli spalti, più che a San Siro, all’Olimpico e al Delle Alpi assieme,
che si cucinano e si fondono gli umori
che diventano voti, bandiere, marines,
40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 20 AGOSTO 2006
i luoghi
Merci leggendarie
Bassi, radi e contorti
spuntano dalla terra arida
delle colline costiere
del sultanato di Oman
Bosco
dell’
il
Eppure questi alberi
distillano una resina mitica
che per millenni ha dato
il suo profumo alla civiltà
FOTO GREGOR SCHUSTER/ZEFA/CORBIS
Incenso
FABIO SCUTO
U
MUSCAT
n soffio di brezza spira dall’Oceano Indiano portando l’aroma del mare sulla strada costiera che collega
Mughsail a Salalah, l’antica capitale del sultanato
dell’Oman; le alture che svettano a una ventina di
chilometri dalla costa difendono dalla calura macchie di verde cresciute grazie ai monsoni; gli wadi hanno ancora qualche rivolo
d’acqua che lentamente scorre verso il mare. L’infernale estate araba brucia tutto anche a ridosso della fascia costiera di Dhofar, ultima propaggine della penisola araba protesa verso Oriente, divisa
dall’Asia da un braccio di mare che ancora oggi i dhow, le barche a
vela latina che hanno scritto la storia dell’Oceano Indiano, attraversano portando i loro carichi verso i mercati indiani. Questa è l’unica parte della penisola toccata
dal Khareef, il monsone stagionale
che disseta con le sue piogge le
montagne coprendole di vegetazione, rendendo fertili le pianure
costiere. Poi la strada punta all’interno e attraversa alture verdeggianti dove la borghesia omanita
viene a rinfrescarsi durante la stagione calda.
Ma appena superata la zona dellecolline, attorno alla strada che da
Salalah conduce verso Muscat, la
vegetazione di colpo scompare e
un sole impietoso sembra capace
di ardere ogni cosa, la temperatura
è già a quota 44 gradi. È un’area pre-desertica dominata dalle depressioni naturali degli wadi: il Rub Al Khali, il “Territorio Vuoto” dove solo i beduini riescono a sopravvivere muovendosi tra le oasi su
piste millenarie che attraversano una terra estrema, ostile. È qui, alle porte del deserto di sabbia più vasto del mondo, che spuntano dal
suolo alcuni alberi bassi, il legno torto come un arbusto mediterraneo e le foglie spesse e dure come il cuoio. Il boschetto è abbrancato su un lato del letto di un torrente in secca, siamo a 500-600 metri
di altitudine ma l’aria è secca, bollente, respirare fa bruciare i polmoni: è come essere affacciati sull’orlo di un vulcano in attività. Il
boschetto si vede bene dalla strada, gli alberi delle “lacrime degli
dei” sono centinaia, copriranno sei-sette chilometri quadrati.
Wadi-Doka è uno dei cento boschi dell’incenso del Dhofar. Il nome scientifico di questi alberi è “Boswellia sacra”, è fascinoso e pieno
di mistero ma poco in linea col loro aspetto quasi sofferente. Difficile
immaginare che da questo arbusto alto un paio di metri si estragga un
Sull’orlo del deserto
più grande del mondo
i tronchi che sudano
le “lacrime degli dei”
si addensano attorno
a un torrente in secca
PROFUMO D’ORIENTE
Sopra, bacchette di incenso da bruciare
e un albero di incenso fiorito
Nella foto grande, la raccolta della resina
profumo mitico, quella resina più preziosa dell’oro che molti millenni fa cominciò a scorrere dall’Arabia Felix in fiumi di fragranza, imbevendo di sé intere civiltà, che crebbero, prosperarono e morirono lasciandosi alle spalle una scia di lingue, leggi e religioni diverse ma unite da un aroma: l’incenso. Solo in tre aree della Terra c’è un habitat
adatto a questi alberi. La “Boswellia carteri” e la “Boswellia serrata”,
crescono in Somalia (l’antica terra di Punt) e nell’India orientale, ma
il migliore incenso del mondo è sempre stato quello prodotto dagli alberi che crescono in Oman (e Yemen) nella regione di Dhofar, gli unici a meritare il nome di “Boswellia sacra”.
Dalle città costiere dell’Oman, animate da mercanti giunti da ogni
parte del mondo, partivano navi ricolme di spezie rare e avorio africano, bastimenti carichi di schiavi vi facevano scalo. Ma il commercio più florido era garantito dai vascelli che salpavano con le stive colme di incenso. Il sultanato — che oggi deve la prosperità al milione di
barili di petrolio estratto ogni giorno dai suoi pozzi — è stato potenza
regionale per mare e per terra grazie alle ricchezze accumulate con la
produzione e il commercio dell’incenso. Il suo dominio si estendeva
dalla costa africana di Malindi e Zanzibar fino al Belucistan. Grazie alla sua posizione strategica era lo snodo essenziale dei commerci fra
l’Africa orientale e l’India occidentale.
Il commercio degli ambitissimi balsami era monopolio dei regni
dell’Arabia meridionale, che ne ricavano ricchezza, fama e potere e
dunque la coltura e la produzione di queste sostanze erano un segreto di stato accuratamente custodito. Questi regni fiorirono per secoli ed erano già antichi e potenti ai tempi degli storici greci Strabone
(che coniò per questa regione il termine Arabia Felix), Teofrasto ed
Erodoto, che descrissero i paesi di Mina, Qtaban, Hadhramawt e naturalmente il potentissimo reame di Saba, che comprendeva l’Oman
dove la leggendaria regina aveva i suoi palazzi nel Dhofar. Il regno Sabeo per mille anni dominò la produzione e il commercio dell’incenso, i suoi porti videro il grande traffico sulle rotte della Via delle Spezie, le sue ricchezze divennero leggenda.
Tutte le civiltà antiche, dall’Asia al Mediterraneo, facevano un
enorme consumo di aromi e soprattutto di incenso per usi medicinali, funebri e cerimoniali con una richiesta crescente che aveva
fatto raggiungere prezzi elevatissimi in tutti i mercati. Dal Secondo
millennio avanti Cristo, quando le popolazioni arabiche addomesticarono il cammello, si aprì la Via dell’Incenso che partiva dai luoghi di produzione tra il Dhofar e l’Hadhramawt, attraversava lo Yemen e, di oasi in oasi, l’Arabia fino alla Giordania e alla Siria, dove
poi le carovane venivano smistate verso i mercati dell’Egitto, della
Mesopotamia e delle civiltà che si sono susseguite nel Mediterraneo fino a Roma imperiale.
La Via dell’Incenso si snodava lungo una rotta di quasi tremila chilometri che tagliava in due la penisola arabica, le carovane superavano deserti e altipiani, antichi posti di guardia e città di cui ormai si sono persi il nome e la memoria, sfidando temperature insopportabili
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41
Repubblica Nazionale 41 20/08/2006
FOTO GAMMA
DOMENICA 20 AGOSTO 2006
e gli assalti dei predoni, per far arrivare “le lacrime degli dei” sulle coste del Mediterraneo dopo un viaggio di oltre due mesi. Dell’antica
Via dell’Incenso oggi non c’è più una traccia evidente, la si indovina
dalle gole di passaggio, dai valichi fra l’arenaria, dai pozzi d’acqua, dai
mucchi di pietre tombe di viaggiatori ignoti. Ma come in altri luoghi
del deserto è rimasto nell’aria un senso indefinibile di passaggi lontani nel tempo, di uomini che hanno lasciato come fragili tracce frecce di pietra, scalpelli, manici d’accetta che sulla pista il vento scopre
e ricopre con la sabbia, come l’onda che va e viene sulla battigia.
Per mare i bastimenti dei mercanti egiziani, che giudicavano
più sicuro far viaggiare l’incenso in barca, costeggiavano lo Yemen per risalire il Mar Rosso verso i mercati di casa. L’altro percorso attraverso il mare risaliva l’Oman per l’antico porto di Dhofar, dove la preziosa essenza veniva imbarcata e proseguiva sulle
rotte marittime della Via delle Spezie per l’Asia Orientale. Più a
nord la carovaniera raggiungeva Muscat e i dhow, le veloci imbarcazioni arabe, attraversavano le acque del Golfo dirette verso
i mercati persiani. E poi ancora oltre, verso l’India occidentale, la
Cina. I tre Re magi che nella tradizione cristiana portarono a Betlemme oro, incenso e mirra in segno di omaggio per la nascita di
Gesù venivano proprio dall’Arabia Felix.
L’incenso ha accompagnato per secoli i riti della venerazione e
della sepoltura, i culti magici e le cerimonie di stato di egizi, babilonesi, persiani, greci e romani. Nel Primo secolo dopo Cristo, all’apice del commercio, ogni anno tremila tonnellate di incenso lasciavano l’Arabia meridionale. Il centro del traffico era Sumhuram,
che i Greci chiamavano Moscha e che oggi è conosciuta come Khor
Rouri, dove è presente una importante missione archeologica italiana dell’università di Pisa.
Nel corso dei millenni l’incenso è stato offerta, imposta, medicina, bottino di guerra, diritto di vassallaggio, espressione di adorazione per gli dei. Inizialmente le occasioni in cui venivano bruciate le resine profumate erano esclusivamente religiose o cerimoniali. Per primo Ramsete Terzo d’Egitto ne permise l’uso in circostanze profane, ma si trattava di un lusso che solo i più ricchi potevano permettersi. Quando fece visita a re Salomone, la leggendaria regina di Saba gli offrì sei tonnellate d’oro, d’incenso e di pietre
preziose. L’incenso era anche la nuvola che accompagnava i morti nel loro estremo viaggio. Nerone bruciò, nei funerali di Agrippina, tutto quello che l’Arabia esportava in un anno, mandando in fumo milioni di sesterzi. Era talmente caro che Plinio il Vecchio scriveva che «qualsiasi vigilanza è insufficiente» per proteggere i magazzini di Alessandria, e descrive come, alla fine della loro giornata di lavoro, gli operai venissero denudati e ispezionati per essere
sicuri che non si portassero via un solo grano di incenso.
Ancora oggi dopo millenni, come in un rituale, la resina dell’incenso si raccoglie a partire da aprile praticando qualche incisione nella corteccia dell’albero. Apparentemente questi alberi non hanno
L’antica via dei commerci col Mediterraneo
Le carovane delle spezie
sulle piste d’Arabia
e grandi carovane che percorrevano la Via
dell’Incenso si formavano in autunno. Migliaia di cammelli venivano caricati con le
merci stoccate nei magazzini dei porti del sud dell’Arabia o nei villaggi fra i boschi d’incenso. Gli imballaggi erano contenitori di fibre di palma intrecciate o robuste ghirbe di cuoio. Cammello e
dromedario avevano un’autonomia di quindici
giorni senza acqua né cibo. Le femmine, nella
buona stagione, erano in grado di dare una decina di litri di latte al giorno di grandi qualità nutritive. Il carico medio del cammello era di cento chili, bilanciati in due some da cinquanta. Altri cammelli erano adibiti al trasporto di riserve alimentari, carne secca, uva passa e datteri pressati. Il
rifornimento idrico era assicurato dagli otri di pelle di capra e dai pozzi scaglionati lungo le piste.
Le carovane delle spezie che partivano dal sud
dell’Arabia impiegavano oltre due mesi a percorrere circa tremila km lungo piste nel deserto appena visibili fino a Petra, in Giordania, dove i carichi
venivano venduti e trasferiti poi verso i mercati mediterranei. La carovana percorreva in media una
quarantina di chilometri al giorno, ma i tempi potevano variare in base a condizioni della pista, incidenti, attacchi di bande di razziatori nomadi. Ma
le carovane erano sempre scortate da compagnie
di meharisti per la loro protezione. Il pedaggio nelle città carovaniere era salato, corrispondeva al 25
per cento del valore della merce trasportata e faceva lievitare in maniera abnorme i prezzi.
Le carovane partivano a scaglioni, a distanza
di qualche giorno l’una dall’altra, per permettere alle acque dei pozzi lungo le piste di ritornare
a livello.
L
proprietari ma qui tutti sanno chi può raccogliere la resina da ognuno: sono diverse famiglie, i cui diritti vengono trasmessi di generazione in generazione. Dapprima dal tronco esce un liquido bianco
che si secca subito. Una settimana più tardi nello stesso punto viene
fatta un’altra incisione, e questa volta l’albero comincia a lacrimare
resina, ma di qualità scadente. Solo dopo la terza incisione, la “Boswellia sacra” offre l’incenso più puro. In autunno si raccoglie il prodotto trasudato dalle incisioni praticate in estate: è l’incenso bianco,
più puro e più pregiato. Un secondo raccolto si fa in primavera sulle
incisioni fatte in inverno, ma l’incenso ha un colore rossastro e non
vale quanto il precedente. L’incenso degli alberi più vecchi è più profumato. La Boswellia vive molto a lungo, e può raggiungere i tre metri di altezza, ma bisogna aspettare circa otto-dieci anni prima di poter cominciare a sfruttare una pianta, ognuna delle quali può produrre in un anno fino a dieci chili di resina. Prima di arrivare sui mercati l’incenso viene diviso per qualità nei tipi: Hujari, Najdi, Shasry e
Sha’abi. L’incenso bianco e blu Hujari è il più prezioso e viene prodotto solo nel Dhofar, che ne commercializza ogni anno dalle seimila
alle settemila tonnellate.
Nelle botteghe del bazar dei profumi di Salalah, davanti alle magnifiche spiagge bianche dell’Oceano Indiano, i grani d’incenso
oggi vengono venduti ai pochi turisti in bustine di plastica al prezzo di
un rial (due euro) al sacchetto per
la qualità più scarsa. Difficile per i
moderni viaggiatori che li comprano come souvenir immaginare che
un tempo queste “lacrime degli
dei” avevano il potere di mobilitare eserciti, scatenare guerre e far
crollare regni millenari.
Ma sono proprio loro, i turisti, la scommessa dell’Oman. Il petrolio che si estrae dai pozzi omaniti, che finora ha garantito una rendita interessante ma non sfacciata e opulenta come quella di Dubai
o di Abu Dhabi, non è eterno. E il sultano Qabus — l’uomo che fatto
uscire in trent’anni l’Oman da un medioevo dove non esistevano le
scuole ed erano vietati radio, tv e occhiali da sole — vuole aprire il
Paese al turismo, farne la terza risorsa economica del Paese. Il petrolio e la pesca non sono in grado di offrire la piena occupazione ai
tre milioni di omaniti, mentre il turismo — spiega la ministra Rajima Al Lawati nel suo studio affacciato sulla splendida baia di Muscat — «è in grado di dare lavoro ai giovani che escono dalle nostre
università, crea altre attività collaterali che assorbono personale.
Nel passato l’incenso ci ha reso ricchi, nel presente il petrolio ci rende benestanti. Ma il nostro futuro è nel turismo».
La regina di Saba
lo portò in dono
al re Salomone
E Nerone circondò
i funerali d’Agrippina
di nuvole aromatiche
42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 20 AGOSTO 2006
Gli italiani degli anni Trenta impazzivano per l’introvabile
figurina, ispirata a una fortunata serie radiofonica. Adesso
la Cineteca di Milano ha riscoperto l’omonima pellicola
del 1936 di Mario Bonnard, che fa del truce guerriero
un antesignano dei Pokémon
Feroce
il
Saladino
Un eroe multimediale
EDMONDO BERSELLI
una figura favolosa, possiede
un alone quasi mitologico:
apparsa più di settant’anni fa,
l’immagine leggendaria del
Feroce Saladino si è fissata
nel lessico collettivo. Oggi, in
tempi di multiculturalismo, non è più
politicamente corretta, ma appartiene
comunque al novero delle citazioni
quotidiane: fu addirittura recuperata,
con un piccola variazione fonetica, il
«Feroce Salatino», quando George Bush jr rischiò di strangolarsi davanti alla
tivù con la sua dose di junk food rimastagli di traverso in gola: segno che in
Italia permane l’eco immaginaria di
quel nome.
E si capisce: la mania del Feroce Saladino esplode in un’Italia che ha conosciuto la potenza pubblicitaria e
mediatica del fascismo, con la figura di
Benito Mussolini proiettata in ogni
angolo dell’immaginario italiano, dalla retorica scolastica
agli exploit testimoniati dai film Luce: ma in
cui i generi spettacolari
sono codificati piuttosto rigidamente, e separati da confini non
facilmente valicabili. Il
cinema è il cinema, il
teatro di rivista è una
specializzazione a sé.
La letteratura si è dilatata a show in seguito al
dannunzianesimo,
concentrazione di arditismo militare e avventurismo estetizzante, fenomeno di gusto
mimato poi in chiave
popolare dalle dolicocefale bionde di Pitigrilli e dal decadentismo provinciale di Guido Da Verona.
Ma nell’epoca fascista, pur fra le esaltazioni
nazionalistiche e la retorica sugli antichi romani, la società era ancora un terreno vergine.
Per innescare il cortocircuito fra i media e il
pubblico ci voleva l’esplosione di un fenomeno di massa che
coinvolgesse tutti i
mezzi di informazione e nello stesso
tempo i canali di consumo. Questo fenomeno fu per l’appunto il Feroce Saladino. Lo strumento casuale per fare
entrare l’Italia nell’era dell’industria
culturale di massa.
Occorre immaginare un paese ancora arretrato, con le sue strade bianche,
con un’economia fortemente strutturata dal lavoro agricolo; ma in cui cominciava ad agire la modernizzazione
autoritaria del mussolinismo, con le
grandi opere, le bonifiche, i primi istituti di welfare in risposta alle esigenze
di un assetto sociale che sperimentava
mutamenti profondi e tensioni inedite. In questa società, era la radio a rappresentare il principio di modernità,
una connessione costante con il fluire
del mondo, l’attualità, la cronaca, gli
eventi politici. E la radio, cioè l’Eiar,
poteva significare le cronache sportive
del giovane Niccolò Carosio, anche se
il fascismo fino alla vittoria nella Coppa Rimet del 1934 non aveva puntato
molto sul “football”; la musica, con le
canzoni sentimentali dell’epoca; e implicava anche la «nazionalizzazione»
del paese, per usare il lessico dello storico George L. Mosse, attraverso la voce totalitaria del regime ma anche at-
Repubblica Nazionale 42 20/08/2006
FOTO FONDAZIONE CINETECA ITALIANA
È
DALLA CARTA
ALLA CELLULOIDE
Un fotogramma
del “Feroce Saladino”
di Mario Bonnard
Nel resto della pagina
alcune figurine
della celebre raccolta
traverso la lingua degli annunciatori e
degli “artisti”.
Forse il Feroce Saladino rappresenta quello scarto rispetto alla norma,
l’invenzione eccentrica che talvolta
mette in accelerazione la storia. Tutto
nasce con la trasmissione radiofonica
Le avventure dei quattro moschettieri,
una rivista umoristica, parodia di Dumas e del romanzo rosa, ideata da Angelo Nizza e Riccardo Morbelli. Nizza
aveva 29 anni, Morbelli 27: erano cresciuti nella Torino colta di Norberto
Bobbio e Cesare Pavese, di Leone
Ginzburg e Giulio Argan, compagni di
scuola e di ludi goliardici. Il programma prese il via il 18 ottobre 1934, sotto
la guida di un regista di operette, Riccardo Massucci, e andò in onda dalla
sede Eiar di Torino ogni giovedì fino al
4 luglio 1935. Ma il successo dilagante
indusse ben presto a una ripresa, con
il titolo I moschettieri, che durò per
ventitré domeniche, dalla fine di ottobre 1936 alla fine di marzo 1937.
È un programma di cui esistono poche tracce, se non mnemoniche, anche se sull’onda del successo popolare fu realizzata anche una serie di prodotti discografici: dalla labilità delle
testimonianze orali e dai reperti collezionistici affiora il ricordo di Nunzio
Filogamo, l’Aramis del programma,
spadaccino dandy con la erre blesa, e
prima studente alla Sorbona, laureato
in giurisprudenza a Torino, un protagonista della radiofonia che sarebbe
giunto a qualche presenza anche nell’età della televisione (successe anche,
durante la prima serata di un non troppo lontano Festival di Sanremo, che
Pippo Baudo lo desse per morto, suscitando l’immediata protesta, dalla
quieta casa di riposo a Rodello d’Alba,
dove si trovava da tempo, del vispissimo ultranovantenne).
Personaggio laterale di quel teatro di
rivista radiofonico, il Saladino non
avrebbe avuto chance di assurgere all’empireo dei piccoli miti novecenteschi se l’impressionante successo delle
Avventure dei quattro moschettieri non
avesse dato luogo a una trovata da “ambient marketing” — o di marketing virale, primordiale e rudimentale fin che
si vuole ma evidentemente efficace —
della Perugina (a cui si integrò la Buitoni in coincidenza con la seconda serie
del programma) che aveva deciso di
«offrire al pubblico», cioè di sponsorizzare, il programma. L’azienda infatti
lanciò un concorso a premi, basato sulla raccolta delle figurine della trasmissione, con apposito album.
Il disegno delle illustrazioni fu affidato alla penna di Angelo Bioletto (un illustratore raffinato che qualche anno
dopo sarebbe passato al fumetto, con
una versione del Don Chisciotte per
L’Audace, e al cinema di animazione,
collaborando a La rosa di Bagdad). Ma
in quegli anni Trenta gli aspetti artistici restavano sullo sfondo: anche il volume con i testi di Nizza e Morbelli e i disegni di Bioletto, pubblicato nel 1936,
rappresentò più che altro un complemento alla Saladinomania. Invece,
completare un album e spedirlo alla
Buitoni-Perugina significava l’opportunità pratica di ricevere in regalo confezioni di pasta, stecche di cioccolata e
di torrone. C’erano anche premi che si
proiettavano oltre i sogni dell’italiano
medio di allora, flagellato dalla perdita
di potere d’acquisto degli stipendi: chi
fosse riuscito a spedire centocinquanta album completi, avrebbe ricevuto in
premio una “Fiat 500 Topolino”. Furono in duecento a riuscirci, sconfiggendo l’irreperibilità del Saladino. Perché
va da sé che c’erano figurine e figurine.
Quelle facili da trovare e quelle quasi
impossibili. Il Feroce Saladino divenne
l’emblema, l’araba fenice dei collezionisti, «che ci sia ognun lo dice, dove sia
nessun lo sa».
In sostanza, il Feroce Saladino era
DOMENICA 20 AGOSTO 2006
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43
Il restauro prodigio
di un film dimenticato
ILLUSTRAZIONI MUSEO STORICO PERUGINA
OLTRE che nella realtà, la figurina del Feroce Saladino fu ricercatissima anche nella
finzione. Tanto ricercata che nel film girato
da Mario Bonnard nel 1936, è l’elemento
con cui un artista di varietà, ormai decaduto, riacciuffa il successo. Ridottosi a smerciare cioccolatini in un teatro, vende in un
unico spettacolo numerosi dolcetti contenenti l’ambita figurina. La confusione che
per questo si scatena in sala suggerisce all’impresario del teatro di mettere in scena
una rivista musicale. Al vecchio artista viene così affidata la parte del Feroce Saladino. Se ad Alberto Sordi toccò quella del leone, un’esordiente Alida Valli interpretò invece la bella Sulamita. Passata la “saladino-mania”, il film è caduto nell’oblio fino a
diventare una rarità: in Italia ne esiste un’unica copia. Grazie alla fondazione Cineteca
italiana di Milano, alla Biennale di Venezia,
alla Provincia di Milano, al Museo nazionale del cinema di Torino, al ministero per i Beni culturali e alla Jeager LeCoultre, quell’unica copia è stata restaurata. E sarà presentata il primo di settembre a Venezia nell’ambito della 63esima Mostra del cinema.
passato dal sonoro al cartaceo, dall’etere alla fisicità: e subito dopo, a causa
della sua rarità, si era proiettato
nella sfera dei desideri, delle
aspettative continuamente
frustrate e quindi di nuovo
ravvivate dalla speranza di
possedere l’immagine
del Turco, o della seconda figurina nella gerarchia dell’introvabilità,
cioè la Bella Sulamita
e il Cagnolino pechinese. Profumi di esotico, perfino effluvi
leggeri di castissimo
erotismo orientale si
univano all’immagine casalinga dell’azienda sponsorizzatrice. Il film di
Mario Bonnard, che
adesso è stato riportato a nuova vita dalla Cineteca di Milano
e dal Museo nazionale del cinema di Torino, è un documento
d’epoca che permette
di identificare il successo di massa dell’“operazione Saladino”, e l’articolarsi multimediale di una
strategia industriale.
Di certo oggi il Feroce Saladino può apparire, in modo
plausibile, un precursore di tutte le mode che hanno invaso la
cultura del nostro tempo sfruttando l’intera catena del sistema dei
consumi: un antenato dei Pokémon, o
del merchandising sui dinosauri di Jurassic Park. E come sempre un bene apparentemente immateriale, un’immagine disegnata, e anche una metafora
del possesso, produsse una specie di
economia materiale, un’area semi-formalizzata in cui la mania collettiva
orientata al possesso delle figurine e al
conseguimento di quella più preziosa
diventava braudeliano gioco dello
scambio. A Roma, in via dell’Umiltà,
venne aperta una bottega chiamata “La
borsa delle figurine”, dove si potevano
acquistare le figurine quotate. Intervenne allora il regime, che mise fine a
quel primo ibrido fra economia virtuale e reale, forse perché ogni governo illiberale nutre un oscuro timore per lo
spontaneismo del mercato.
L’Italietta dei gerarchi rifiutava infatti la contaminazione con l’industria
culturale, con la modernità americana
(“barbara” secondo la cultura di Strapaese), e dunque con i meccanismi della civiltà di massa, indifferente ai valori
dell’eroismo fascista. Dietro i fasti dell’impero, persisteva un clima culturalmente regressivo, con la pubblicità,
espressione del moderno per eccellenza, sottoposta ai dettami del purismo
linguistico; il codice autarchico proiettava inibizioni e tabù sul consumismo,
mentre l’ideologia fascista dell’uomo
integro, sobrio, disposto al sacrificio,
rendeva sfasata con il potere anche
quella prima esperienza di identificazione fra merce e immagine, fra il prodotto e il suo riverbero nella mentalità
collettiva.
Frutto di un connubio poco casto tra
radiofonia, arte, cultura, teatro, cinema, industria, il Saladino doveva morire. Il 17 ottobre del 1937, un decreto del
ministero delle Finanze decretò la soppressione dei concorsi basati sulle figurine inserite nelle confezioni dei prodotti: la piccola modernità inaugurata
dai Moschettieri di Nizza e Morbelli,
dal talento di Bioletto, e dall’istinto
commerciale di una grande società italiana, poteva aspettare.
44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 20 AGOSTO 2006
la lettura
Fu il più grande antiquario del Novecento
Personaggi celebri
Accumulò una fortuna smerciando quadri
e statue ai magnati americani
Una biografia oggi ripubblicata rivela
strategie, trucchi e tecniche teatrali
per far abboccare i suoi ricchissimi clienti
Duveen, l’arte
di vendere l’arte
STEFANO MALATESTA
i sono testi che senza troppo parere
hanno creato un genere letterario, rivelatosi nello stesso tempo un’impareggiabile chiave di lettura del mondo
reale. La biografia di Joseph Duveen,
il più grande mercante d’arte del suo
tempo, poi lord Duveen di Millbank,
scritta da S. N. Behrman e pubblicata a
puntate sul New Yorker tra il 1951 e il
1952 con le illustrazioni di un puro genio, Saul Steinberg, è uno di questi. Naturalmente anche all’epoca, cinquant’anni fa, tutti sapevano che i mercanti di quadri antichi, veri e falsi, tra l’Europa e gli Stati Uniti non facevano parte
della Fatebenefratelli. E che molte opere
d’arte valevano non solo per le bellezze formali e di composizione, o per una misteriosa emissione di fascinazione taumaturgica
che faceva star bene chi li rimirava, ma per
essere anche delle commodities, legate ad un
sostanziale margine di profitto, che andava
calcolato quando i quadri e il resto cambiavano mano e proprietà. Per il resto mancavano
informazioni in modo così clamoroso, come
una congiura del silenzio, per cui molti sapevano e nessuno parlava, come se il frusciare delle
banconote, così gradito quando si trattava di
incassare alla svelta, fosse considerato un rumore intollerabile per
la morale di chi si occupava del sublime dell’arte.
Chi ha interpretato questa
impostura meglio di chiunque
altro, raggiungendo livelli che si perdono nell’empireo,
è stato Bernard Berenson, il sapiente
dei Tatti, l’autore dei
“Four Gospels”, dei
quattro vangeli, come
venivano chiamati i
suoi libri fondamentali,
con cui aveva stabilito
una volta per tutte i canoni di autenticazione per la
pittura italiana del Rinascimento. E consulente, diciamo così, di Duveen. Nello stesso tempo in cui realizzava il suo sogno estatico, circondato dai panorami più
meravigliosi del mondo in un
clima di febbrile ardore che lo
esaltava e lo faceva sentire moralmente puro, sempre alla ricerca dell’arte per l’arte, la sera
Berenson scendeva dal suo scranno sistemato poco sotto quello di
Dio padre onnipotente per firmare
più in basso tutte le expertise dei
quadri, quasi tutti veri ma anche
qualche falso, che Duveen, più datore di lavoro che socio in affari, stava
vendendo ai magnati americani.
L’aspetto straordinario di questa come di altre vicende consimili, è che di questi affari
non è mai trapelato nulla per un tempo vergognosamente lungo. Nelle centinaia di articoli, memoriette, cronache che tutti gli innumerevoli visitatori dei Tatti, la residenza di B.B. sulle colline di Fiesole, hanno scritto di questa loro fondamentale
esperienza, mai una volta qualcuno si è azzardato
ad accennare di compensi, o percentuali, per non
parlare della parola che stava ad indicare il senso di
tutta la vicenda: quattrini.
La biografia di Duveen ripubblicata in Italia
qualche tempo fa da Enzo Sellerio (S. N. Behrman,
Duveen. Il re degli antiquari, 239 pagine, 14 euro) è
stata la prima, più vivace, e in certi momenti più esilarante ricostruzione di quel mondo che girava intorno al traffico delle quadrerie classiche. Naturalmente c’erano già state inchieste nei grandi giornali americani e inglesi in cui si raccontavano fatti e misfatti di un mercato molto particolare e riservato. Ma gli articoli rimanevano isolati come pezzi
di un puzzle incompiuto e chi aveva tentato di forzare la porta d’ingresso posteriore per raggiungere
i camerini veniva additato come un traditore. Tutto refluiva davanti alla facciata posticcia dove ai lettori venivano distribuite notizie che si bevevano
come l’acqua fresca, non facevano male e non contenevano nulla che non fosse previsto.
Le puntate di Behrman non erano in apparenza
-DEUTS
CH COLL
ECTION
/CORBIS
FOTO H
ULTON
Repubblica Nazionale 44 20/08/2006
C
ATTRICI E MILIONARI
Dall’alto: Joseph Duveen
nel 1910; Marion Davies, l’attrice
che non subì il suo fascino
e due esponenti della famiglia
Rockefeller a inizio secolo
minacciose, tutt’altro, e non promettevano rivelazioni sbalorditive. L’autore, noto commediografo,
sapeva maneggiare come pochi l’arte del contrappunto e aveva improntato il libro a un tono leggiadro e spiritoso, facendo il verso alla sophisticated
comedy degli anni Trenta. Al centro di ogni vicenda
c’era sempre lui, Joseph Duveen, visto da giovane e
da anziano, nell’intimità o in polpe nelle manifestazioni pubbliche. Era morto da oltre quindici anni e gli inglesi continuavano a trattarlo con la massima deferenza: non era forse stato nominato baronetto con titolo trasmissibile ai figli? E a suo nome non erano state intitolate una strada
a lato della Tate Gallery e al
British Museum forse la
sala più famosa
dell’immenso
edificio, quella
che ospitava i cavalieri greci scolpiti in bassorilievo
da Fidia?
Behrman ammetteva senza sforzi che Duveen era
un uomo straordinariamente pieno di
talenti, senza specificare quali. Poi iniziava a raccontare: una
volta a New York, dove
viveva in un appartamento attrezzato a galleria, una sua amica del
gran mondo gli aveva
telefonato convincendolo a ricevere un californiano avventuroso,
la cui ricchezza spropositata era in stretto rapporto con la velocità con cui
era stata ammassata. In
quegli anni il mercante aveva perfettamente messo a punto la sua strategia generale, che consisteva
nel dividere i clienti in pesci grossi e pesci piccoli —
i secondi più rognosi dei primi — e allettare e poi ri-
fiutare di vendere a tutt’e due le categorie, per un
tempo anche lungo, qualsiasi cosa uno gli potesse
chiedere. E più rifiutava, più veniva incalzato dagli
old rogues, i vecchi furfanti come venivano affettuosamente chiamati Pierpont Morgan, Rockefeller, Kress o anche Mellon, autorevole membro del
governo degli Stati Uniti e grande collezionista.
Perché Duveen non vendeva solo quadri ma qualcosa di molto più interessante: l’immortalità, che
costoro cercavano di acquistare proprio con le collezioni che egli andava proponendo.
Quando si era messo in commercio, sulle orme
del padre, i magnati americani come Morgan, che
si faceva fotografare nel suo studio mentre maneggiava il coltello a due lame del West, avevano già
comprato il comprabile, mentre le loro ricchezze
salivano di mese in mese a livelli mai registrati nelle cronache del genere umano. Ora cercavano di rivaleggiare con le vecchie famiglie, quelle sbarcate
con il Mayflower, nei ricevimenti, nell’architettura
e nell’addobbo delle magioni, e soprattutto nelle
collezioni d’arte. Qualcuno aveva detto loro che i
veri signori si distinguevano dal fatto che avessero
moltissime opere d’arte in casa ed era patetico vedere come questi vecchi leoni, temutissimi nel loro campo e con una impareggiabile esperienza di
mondo, gente durissima che era riuscita a sopravvivere nella giungla darwiniana dell’industria e
Divideva i potenziali
compratori in pesci grossi
e pesci piccoli. Poi rifiutava
le offerte di entrambi
i gruppi. E il prezzo saliva
DOMENICA 20 AGOSTO 2006
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45
“NEW YORKER”
Un disegno
di Saul Steinberg,
il celebre artista
che illustrò le puntate
della biografia
di Duveen scritta
da S. N. Behrman
quando uscirono
sul “New Yorker”
nel 1951-52
La biografia è pubblicata
in edizione italiana
da Sellerio
Repubblica Nazionale 45 20/08/2006
della finanza Usa, si facessero infinocchiare con
due battute da quel finto gentiluomo. Duveen attribuiva tutto il merito dei suoi successi alla simpatia, al fascino e ad un fortissimo intuito psicologico.
E non c’era alcun dubbio che incantasse come il
pifferaio di Hamelin. Ma un aiuto gigantesco lo riceveva dall’immenso schedario che aveva messo
su, dove erano stivate tutte le informazioni riguardanti i suoi clienti, dalle abitudini sessuali al conto
in banca, alle verruche che avevano sulla schiena.
Per riprendere la storia del californiano, il pesce
piccolo fu finalmente ammesso nel sancta santorum di Duveen, dove erano appesi decine e decine
di quadri provenienti dall’Europa. E più marciavano per i corridoi, più il pesce piccolo sembrava impressionato, fino a quando, in un momento di sosta, alzò il braccio per indicare un Rembrandt che
costava centomila dollari. Alla richiesta del quadro
Duveen rispose inarcando a sua volta un sopracciglio, come faceva spesso quando le cose non marciavano bene, e chiese con tono brusco: «Quanti
quadri possiede a casa sua?». Il californiano ammise che aveva numerosi dipinti, ma nessuno di grande importanza. «Allora non posso assolutamente
venderle un Rembrandt, si sentirebbe troppo solo». Tuttavia fu concesso al poveretto di acquistare
un pittore che costava molto meno. Negli anni il pesce piccolo continuò sempre ad andare da Duveen,
fino a quando non accumulò così tante opere da
sentirsi in grado di chiedere il Rembrandt per portarselo a casa. Ma a quel punto non aveva speso
centomila dollari, ne aveva spesi un milione.
La tattica usata per un altro pesce piccolo, completamente diversa dalla precedente, avrebbe
meritato a Duveen la cittadinanza onoraria di
una di quelle città del Levante, Alessandria d’Egitto o Salonicco, dove la fantasia creatrice dei
mercanti assurgeva a capolavori d’invenzione.
Prima di incontrare un certo Thomson, proprietario di una immensa catena di ristoranti, ricchissimo, si era informato così bene sulla ristorazione e sui suoi problemi che quando i due si misero a parlare sembrava che Duveen ne sapesse
molto più del suo interlocutore. Per un’ora andò
avanti così. «Guardi», lo interruppe Thomson,
che non ne poteva proprio più, «io qui sono venuto per parlare di quadri e non di ristorazione».
E Duveen: «Ah, me sciagurato, i quadri. Li ho quasi dimenticati». E per tutta la cena continuò a dimenticarli, fino a quando di colpo se ne uscì con
questa secca frase: «A proposito dei quadri, non
ritengo che siano nelle sue possibilità, tanto dal
punto di vista estetico che da quello finanziario».
Thomson lo interruppe: «Quanto contante vuole
per questa roba?». E Duveen: «Un milione di dollari». «Li prendo», replicò l’altro. E si sentì nell’aria qualcuno che diceva: «Bingo».
I magnati costituivano una grande famiglia di
cui Duveen era il “consigliori” amato e temuto per
le cose d’arte. Non tutti i ricchissimi potevano entrare in questo giro ristretto: Hearst, il famoso tycoon della stampa, non ne faceva parte, declassato da collezionista ad accumulatore, perché troppo dispersivo, eclettico e volgare nelle sue scelte
— dal castello finto ai lama che pascolavano nel
giardino di Saint Simeon — e veniva considerato
un pesce piccolo. Con le loro arie da superuomini
e da gente abituata allo scontro anche fisico i magnati, quelli che alla fine della loro vita avevano
speso decine di milioni di dollari in capolavori, ma
anche in opere molto discutibili, erano tosti solo
in apparenza. La loro libido per dipinti e statue era
pari alla loro intolleranza verso qualsiasi rivale.
Una situazione che li rendeva clienti ideali per
Duveen, il quale riusciva a portarli ai suoi prezzi, e
mai che succedesse il contrario. Qualche problema si poneva per il genere di pittura da essi preferita: prediligevano sempre la carne fresca delle
schiave, come soggetto su cui meditare, piuttosto
che le madonne e i santi che Duveen continuava a
proporre su consiglio di B.B. Ostacoli che, quando voleva, il lord inglese faceva dissolvere con un
gesto ampio della mano, come un prestigiatore.
Una delle poche persone che non subirono il fascino di Duveen fu una ragazza americana, diva del
muto, sposatasi poi con Hearst: Marion Davis.
Avendo lavorato a Hollywood, aveva una certa
esperienza di maschere e di travestimenti e non
c’era cascata, definendolo «un commesso viaggiatore in tight». C’erano altri della stessa opinione.
Ma il mercante era così abile nei trucchi e mandava così tanti mazzi di rose alle donne dei clienti —
figlie, madri, mogli — che i magnati preferivano andare da lui, perché era sempre il più bravo anche nel
truffarli. E soprattutto, naturalmente, perché ogni
opera era stata sottoscritta da Berenson.
Lituano di nascita e ebreo, Berenson aveva capito subito — non ci voleva molto — che quell’accoppiata di provenienza non lo avrebbe portato
molto lontano. La decisione di mantenersi agli studi non col magro stipendio da professore, ma entrando a pieno titolo nel mercato dell’arte non fu
una scelta sofferta, né gli provocò mai ambasce
morali. Come Duveen faceva il mercante senza alcuno scrupolo che non fosse il guadagno, B.B. non
esitò un attimo a mettere a disposizione di interessi economici la sua conoscenza sterminata della
cultura italiana del Rinascimento. Per cinquantamila sterline l’anno — questa grosso modo era la
media dei suoi compensi — insieme a Duveen aveva creato un mercato che non esisteva, dando un
nome a migliaia di dipinti che non avevano avuto,
fino ad allora, né babbo né mamma. Un’operazione di dimensioni colossali, che venne favorita da
fatti indipendenti, come la reinvenzione del Rinascimento ad opera di Burckhardt, i cui echi si facevano ancora sentire negli Stati Uniti, dove ogni magnate voleva rassomigliare ad un condottiero o almeno avere una sua immagine dipinta o scolpita da
un maestro italiano.
L’unico magnate a non rimanere vittima della
tattica mongola messa in atto da Duveen — fuggire davanti al nemico per costringerlo ad inseguirti
— fu Henry Ford, il re delle automobili, che si rivelò
un finissimo umorista, degno dei fratelli Marx. Anche quel megalomane di Duveen si era reso conto
che vendere una qualsiasi cosa ad Henry Ford sarebbe stata un’impresa difficilissima. Chiese perciò l’aiuto di altri quattro grandi mercanti. Così
coalizzati, prepararono tre sontuosi volumi illustrati e rilegati in oro che mostravano «le cento opere più belle del mondo», naturalmente in loro possesso, e chiesero udienza a Ford. L’industriale, che
abitava in una casa giudicata «primitiva» rispetto a
quella di Duveen, li ricevette con entusiasmo e davanti ai libri si estasiò, affermando che non aveva
mai visto nulla di simile. «Che meraviglia», disse,
chiamando la moglie e la madre a dare il loro parere, «ma chissà quanto costano!». Duveen fece un
passo avanti: «Questi non si vendono, sono un regalo per lei. Quelle che vendiamo sono le opere». A
questo punto Ford dette una gran manata sulla coscia: «Ma perché dovrei comprare gli originali se
questi qui sono così belli e per di più gratis?». La battuta fece il giro degli Stati Uniti e contribuì a far salire ancora di più la vasta popolarità di cui godeva
Henry Ford.
46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 20 AGOSTO 2006
Esce nelle sale il primo settembre il film “Crossing the bridge”
di Fatih Akin, il regista della “Sposa turca”. Una immersione nel mondo
dei cantanti e delle canzoni made in Turkey. Sullo schermo prendono
forma l’immagine e i suoni di una tradizione viva, alimentata dalle molte etnie
che popolano il paese e che si consuma nelle sale da concerto, nei bar, negli hamam,
nei bordelli e in strada più che sui dischi e sui dvd
AVANGUARDIA
RADIO BOSFORO
ROCK ANGLO-TURCO
I Baba Zula mescolano rock e acid
jazz con aggiunta di suoni orientali
Più successo in Europa che in patria
Impazzano su tutte le radio
del Paese: gli Orient Expressions
sono stati i primi dj made in Turkey
Influenzati dalla musica hippy
ed heavy metal, i Duman suonano
nei locali e cantano in inglese
Istanbul
sound
ON THE ROAD
DISCO DERVISCIO
JAZZ ZINGARO
L’idea romantica del musicista
da strada guida i Siyasiabend, una band
a metà tra cantastorie e homeless
Tra strumenti tradizionali e suoni
di moderni computer Mercan Dede
fonde la musica sufi con la disco
Il gitano Selim Sesler è così bravo
con il clarinetto che ha vinto
la diffidenza dei turchi per le sue origini
GIUSEPPE VIDETTI
Repubblica Nazionale 46 20/08/2006
L’
ISTANBUL
albergo è uno di quelli vicini all’aeroporto, un quattro stelle turistico. Né bello né brutto, anonimo. Il salone delle feste è addobbato per Capodanno, festoni agganciati ai lampadari finto Murano, stelle filanti e cappellini pronti sui
tavoli per turisti (pochi) e turchi che hanno voglia di
festeggiare all’occidentale. Ce ne sono moltissimi,
perché l’occasione è speciale, una delle rare occasioni di vedere in carne e ossa colui che da mezzo secolo è il divo della musica turca, Zeki Müren, un idolo, un simbolo, talmente osannato dal popolo da
passare indenne attraverso i regimi, da essere amato anche da chi segue alla lettera i comandamenti
dell’Islam. Quando si accomoda davanti all’orchestra, ben dopo la mezzanotte, si scatena il putiferio.
L’entusiasmo della folla sovrasta la musica, Zeki sotto i riflettori è una maschera: gli occidentali lo guardano con un misto di ammirazione e di disprezzo, i
turchi gli lanciano petali di fiori, ne invocano il nome
commossi, gli mandano baci.
Solo quando quell’inquietante creatura — fatta
con pezzi di Renato Zero, Malgioglio e Mina di Studio Uno — comincia a cantare, si svela il mistero di
tanta devozione. Zeki li accarezza con una voce potente e dolcissima, virile e autorevole, nonostante il
cerone, i tirabaci, i capelli cotonati alla Cocky Mazzetti anno 1963, le sopracciglia più sottili di quelle di
Marlene. Artista transgender, senza età, come il suo
pubblico, fatto di quindicenni, di genitori e di nonni.
Müren piace ai rockettari e ai poppettari, agli appassionati dell’arabesque e a chi ama il jazz. Müren in
Turchia piace a tutti, e guai a dire che è gay. Anzi, che
era gay. Perché è morto, il 24 settembre del 1996, a 65
anni, nella casa-ritiro di Bodrum. Il funerale, nella
nativa Bursa, era affollato come quello di Carlos Gardel a Buenos Aires, Oum Kalthoum al Cairo, Amalia
Rodrigues a Lisbona, Edith Piaf a Parigi. Il ricordo del
concerto nei saloni dell’hotel dell’aeroporto è legato ai tardi anni Ottanta, quando le apparizioni di Zeki
erano già diventate sporadiche.
Nel periodo di massima esplosione della world
music, gli ultimi quindici anni, la musica turca è rimasta misteriosamente relegata ai confini dell’impero. Forse a causa della lingua, ostile al primo ascolto, forse a causa della struttura musicale stessa, difficile da addomesticare con i suoni occidentali, come il raï algerino ad esempio. Eppure i turisti rimangono conquistati da una tradizione viva, alimentata
da dozzine di diverse etnie che popolano il paese, misteriosa, esotica, che si consuma più nelle sale da
concerto, nei locali, nei bar, nei ristoranti, nei bordelli, negli hamam, in strada, che su disco, cd, dvd o
cassetta.
Fatih Akin, il regista trentaduenne della Sposa turca, ci ha costruito un film documentario — Crossing
the bridge-The sound of Istanbul, dal primo settembre nelle sale — partendo da una frase di Confucio,
più che mai vera se si parla di una città come Istanbul: «Quando arrivi in un posto e vuoi comprendere
la cultura che prevale, profonda o superficiale che
sia, ascolta la musica che lì si suona. Allora imparerai tutto di quel posto». Tutto visto attraverso gli occhi di un visitatore d’eccezione, Alexander Hacke, da
vent’anni con il gruppo d’avanguardia tedesco Einstürzende Neubauten, già rapito da quei suoni nel
periodo in cui lavorava alla colonna sonora della
Sposa turca.
Da un hotel de charme dove lascia zaini e strumenti, il Büyük Londra Oteli ai margini di Beyoglu, il
quartiere che “suona” ventiquattro ore al giorno,
Hacke si aggira per la metropoli come un cowboy
alieno, abbandonandosi senza riserve al suono seducente della musica “arabesca”, ammirando l’abilità di rapper e break dancer locali, suonando con
musicisti formidabili di ud (il liuto arabo), saz e mey,
passando da un matrimonio rom a una band neopsichedelica. Senza riuscire a penetrare il mistero di
quel groviglio di suoni che regolano meglio dei semafori il ritmo della metropoli, ma tornando a casa
con la certezza che niente succede in quella città che
non abbia profondi legami con la tradizione: i canti
dei giannizzeri e i cori della corte ottomana, l’esplosione dell’arabesque dei primi anni Ottanta, lamenti curdi, musiche devozionali dei sufi che guidano il
mistico ruotare dei dervisci, e l’aggressione pop-
MUSICA E ARTE
Anonimo, “Dama
di corte che suona
il tamburello”, inizio
XIX secolo. Londra
Victoria and Albert
Museum
(Immagine tratta
da “Il sogno di Fmr”,
Franco Maria
Ricci, 2005)
DOMENICA 20 AGOSTO 2006
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47
TUTTI I PERSONAGGI DEL DOCUFILM
Diretto da Fatih Akin, lo stesso regista della “Sposa turca”, “Crossing the bridge”
è un docufilm sul mondo musicale di Istanbul. La storia è quella di Alexander Hacke,
esponente dell’avanguardia tedesca che, venuto in contatto con la città per
scrivere la colonna sonora della “Sposa turca”, rimane affascinato dalla sua vita
musicale. Hacke inizia così un’esplorazione del variegato mondo musicale di Istanbul
che lo porterà ad avvicinarne tutte le espressioni: dalla neo-psichedelia all’hip-hop,
dalla canzone popolare turca alla breakbeat, al jazz in salsa gitana, fino alla tradizione
curda e al riadattamento delle melodie sufi. Senza trascurare i suoni stradali della città.
Il film, distribuito da Fandango, sarà nelle sale italiane dal primo settembre.
La colonna sonora è distribuita da Radiofandango.
TRADIZIONE NASCOSTA
IL NONNO ROCK
HIP-HOP ALLA TURCA
Band sperimentale e sofisticata,
nei Replikas la tradizione
vive sotto la superficie musicale
Ormai sulla scena da 40 anni,
l’eroe della chitarra elettrica
Erkin Koray è sempre in forma
Dallo stile secco e inquietante,
il rapper Ceza è la risposta turca
ai Public Enemy ma senza eccessi
Viaggio nella città-ponte
tra Europa e Asia
in cerca della musica turca
UNA CANADESE A ISTANBUL
GOSPEL CURDO
LA VOCE DI ISTANBUL
Brenna MacCrimmon è canadese,
ma ha Istanbul nel sangue. Canta
in turco ed è famosa in tutto il Paese
La cantante Aynur usa le nuove
aperture politiche imposte dalla Ue
per raccontare la storia dei curdi
Per Sezen Aksu la sua città è fonte
di ispirazione. È venerata come
una dea fin dagli anni Settanta
Repubblica Nazionale 47 20/08/2006
COWBOY TEDESCO
Alexander Hacke
della band tedesca
Einstürzende
Neubauten
è entrato in contatto
con la città
e la sua musica
mentre produceva
la colonna sonora
del film “La sposa
turca”
rock a cui nessun paese al mondo è riuscito a sottrarsi. Tutto quel che si ascolta a Istanbul, che arrivi
da un cantante che sculetta come Ricky Martin, da
un chitarrista che imita Paco de Lucia o da una rapper più provocante di Lil’Kim, ha un sapore unico,
che appartiene a quei mari, a vicoli e saliscendi, a
quei minareti, ai tramonti sul Corno d’oro, a quel
blob ribollente di Europa e Asia, al fasto di un impero che si era messo in mente di conquistare il mondo
intero, al bellicoso nazionalismo che dopo Atatürk
non si è mai spento.
«I musicisti e i cantanti che abbiamo filmato potrebbero essere personaggi di un film», spiega Akin,
turco di Germania nato ad Amburgo. «M’interessava mostrare la loro dignità a un’Europa che in questo momento ha gli occhi puntati sulla Turchia. I media guardano le cose da una certa prospettiva, io voglio mostrare altri risvolti della storia. Una volta la
Turchia era un paese molto più liberale. Adesso sia la
sinistra che la destra sono schierate contro globalizzazione e compromessi. Rimangono aperti la questione armena e il problema di Cipro… I turchi cambiano idea spesso, come i bambini. Sembra un controsenso, ma adesso gli islamici sembrano gli unici
interessati a entrare in Europa». Crossing the bridge
non giudica, non dà risposte, lascia parlare la musica, che ha già conquistato l’equilibrio (tra Oriente e
Occidente, tra etnie che si disprezzano) che i politici
stentano a trovare. La malinconica voce di Aynur,
cantante curda, esprime l’orgoglio di
un popolo oppresso meglio di qualsiasi protesta del sabato in piazza Taksim.
È una diva dimenticata di 87 anni,
Muzeyyen Senar, a raccontare la storia
della canzone turca tra le due guerre.
Gran temperamento, classe, e ancora
una bella voce: è nata dall’altra parte
del ponte, sulla riva asiatica. Da bambina era balbuziente, si rifiutava di parlare. Il canto riuscì a farle superare il
problema, negli anni Trenta fu star della radio, negli anni Quaranta la Dietrich dei quartieri francesi, quando alla
Rue de Pera (oggi Istiklal Caddesi) si
entrava solo in giacca e cravatta. L’ha
ripescata dall’oblio Sezen Aksu, cantante, compositrice, produttrice, arrangiatrice cinquantaduenne, oggi la
massima autorità della canzone turca
(il disco inciso con Bregoviç è uscito
anche sul mercato internazionale).
Che i giovani turchi, un po’ come i francesi e molto più degli italiani, siano intrigati dal pop internazionale ma molto legati alla tradizione lo dimostra
non solo la devozione che ognuno conserva per Zeki
Müren, di cui nel film forse si parla troppo poco, ma
anche la passione con cui ancora seguono un veterano come l’ultrasessantenne Erkin Koray (che invece è ben presente in Crossing the bridge), Jimi Hendrix della porta d’oriente che già negli anni Sessanta
suonava cover dei Beatles con strumenti tradizionali e ancora non è out. I ventenni lo chiamano affet-
tuosamente “Erkin baba” e conoscono a memoria
tutte le sue canzoni.
Ahmet Ertegun, figlio di un diplomatico turco che
negli anni Quaranta a New York fondò la Atlantic Records insieme a suo fratello Nesuhi, ci ha raccontato
che gli artisti turchi sono pigri. Tentò di produrre un
disco made in Usa di Ajda Pekkan, bionda diva pop
che maschera bene i sessanta e passa con vistosi colpi di bisturi, ma la cantante non riuscì ad adeguarsi
alla routine massacrante dello star system americano, piantò tutto e tornò in patria. Dove è ancora una
star (l’ultimo disco, Cool kadin, è prodotto da Sezen
Aksu).
Forse l’erede di Zeki non è ancora arrivato, forse
non ci sarà mai, come non c’è mai stata un’altra Piaf.
Oggi l’artista di cui i giovani vanno fieri è Tarkan, 34
anni, nato in Germania da genitori turchi, grande
successo in patria e un milione di copie vendute sul
mercato internazionale grazie a Simarik(incisa dall’australiana Holly Valance con il titolo di Kiss kiss),
una casa a New York e una a Parigi. Ha appena pubblicato il suo primo cd in inglese, Come closer, a metà
strada tra George Michael e Shakira. Errore colossale: il pubblico è più che mai avido di esotismo in questi anni in cui il pop non fa che vomitarsi addosso. Ma
i suoi concerti sono la cosa più vicina alla magia che
si stabiliva tra Zeki e il pubblico. Alla serata dell’8 agosto all’Acikhava di Harbiye, nel cuore di Istanbul, c’erano ragazzine in lacrime (il registro drammatico,
nella canzone turca, è quasi obbligato) e ragazzi in
adorazione davanti a un idolo dall’ambigua sessualità che inevitabilmente fa pensare a Müren e, più indietro, ai köçek, efebi en travestiche danzavano, cantavano, amavano per il piacere dei sultani, e tanto
stupore crearono in De Amicis e Pierre Loti nella Costantinopoli fin de siècle.
Ma la cartolina più bella di Crossing the bridge si
svela sul finale, quando Sezen Aksu, l’ultima diva
del pop turco, fa la sua apparizione per cantare dal
vivo, in una stanza nuda, con la supervisione di
Hacke, le memorie della sua città, Istanbul hatirasi (da Söylüyor, album glorioso del 1989). Personalità, carisma, talento al servizio di un arabesque mai
grossolano né grottesco, anzi raffinato, pieno di riferimenti, colto e popolare insieme, modernissimo, sublime.
La incontriamo nella sua casa sopra il quartiere di
Ortaköy, mentre il suo unico figlio, che ha studiato in
un college inglese, assiste muto alla conversazione.
Madre senza marito, Sezen è irrequieta, indipendente, volitiva, capricciosa. Dice che quando ama,
ama totalmente. Dicono che quando smette di amare licenzia gli uomini come fossero commessi. Dicono che ha flirtato troppo con la cocaina, per questo
la voce ora è così roca, malata. Diva fino al midollo,
con il gatto che fa le fusa sulle ginocchia, racconta di
notti insonni passate in compagnia dei pescatori del
Bosforo, di albe rosate che portano sempre la nota
giusta. La sera, sul palcoscenico, la macchina del
vento fa ondeggiare le stoffe leggere e preziose degli
abiti di Sezen, Nike alla guida di un popolo che col
canto sa lenire il dolore.
48 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 20 AGOSTO 2006
i sapori
È ricchissimo di vitamine e gode fama di essere un buon aperitivo
agli incontri amorosi. Ora il peperoncino sarà festeggiato
in un festival a Diamante, in Calabria. Ma anche il Nord Italia
ama speziare i suoi “cibi poveri” con rafano e senape
Allegria in tavola
Cremona
itinerari
La friulana
Delia Clapiz
ha portato
nella trattoria
di Ravenna
“Al Gallo” la zucca
di Venzone (Udine)
coniugata col peperoncino
Gnocchi di zucca
al peperoncino e purè
di fave con erbette piccanti
sono tra i piatti preferiti
del supercliente
Riccardo Muti
Spilinga (Vv)
Digione (Francia)
Appoggiata
nella bassa
lombarda tra Adda
e Po, comune fedele
a Federico
Barbarossa
e Federico II, vanta
bellezze artistiche
medievali
e rinascimentali. La città di Antonio Stradivari è culla
gastronomica di cotechino e mostarda di frutta
Sorta a partire
dalle spelonche
in cui si erano
rifugiati gli abitanti
di Condrochillone,
paese distrutto
da una frana,
nel cuore geografico
di Capo Vaticano,
famosa per i tessuti a telaio e l’acqua oligominerale
di Madonna delle Fonti, è la patria dell’’nduja
Il Castrum Divionense
dei Romani, capitale
storica della
Borgogna, deve
ai Duchi di di Valois
(XV secolo)
l’invenzione
della mostarda, nata
per coprire i sapori
sgradevoli della carne. Specialità locale quella
“all'antica” con i semi interi o appena rotti
DOVE DORMIRE
DOVE DORMIRE
DOVE DORMIRE
HOTEL CREMONA
Viale Po 131
Tel. 0372.32220
Camera doppia da 75 euro
CALA DI VOLPE
Contrada Torre Marino
Loc. Santa Domenica
Tel. 0963.669699
Camera doppia da 98 euro, colazione inclusa
DOVE MANGIARE
HOTEL WILSON (con cucina)
1 Rue Longvic
Tel. (0033) 03.80668250
Camera doppia da 74 euro, colazione inclusa
DOVE MANGIARE
HOSTERIA 700
Piazza Gallina 1
Tel. 0372.36175
Chiuso lunedì sera e martedì, menù da 25 euro
DOVE MANGIARE
OSTERIA DEL PESCATORE
Via del Monte 7
Tel. 0963.603018
BISTROT DES HALLES
10 Rue Bannelier
Tel. (0033) 03.80499415
Chiuso domenica e lunedì, menù da 28 euro
DOVE COMPRARE
DOVE COMPRARE
DOVE COMPRARE
VINI & TAVOLA CREMONA
Via Ghisleri 21
Tel. 0372.451771
FRATELLI PUGLIESE
Località Sorda 3, Calimera Calabra
Tel. 0963.366938
BOUTIQUE MAILLE
32 Rue de la Liberté
Tel. (0033) 03.80304102
I piatti di Afrodite
Piccante
LICIA GRANELLO
vitiamo fraintendimenti. Se nelle ricette della scrittrice Laura
Esquivel l’aggettivo piccante equivale ad afrodisiaco (come da sottotitolo del suo celeberrimo Dolce come il cioccolato), non è così
scontato che un piatto di spaghetti aglio, olio & peperoncino preluda a una straordinaria performance amorosa. Semplicemente,
si mangia piccante perché piace. A volte, in modo perfino esagerato, come testimoniano i partecipanti alla finale del Campionato italiano
mangiatori di peperoncini, in programma sabato 9 settembre a Diamante, Cosenza. L’occasione è l’annuale festival monodedicato (6-10 settembre, informazioni sul sito www. peperoncino. org): i partecipanti avranno mezz’ora di
tempo per mangiare tanti peperoncini crudi da superare il mezzo chilo abbondante ingollato l’anno scorso dai campioni in carica.
Una sfida infernale, che solo quantità industriali di latte o vino potranno in
qualche modo tamponare. Il principio attivo del peperoncino — la capsaicina
— infatti, è solubile nei grassi e nell’alcol, mentre l’acqua aumenta la superficie contaminata. Latte anche sulle mani (insieme a un mezzo pomodoro maturo) per evitare che un accidentale sfregamento degli occhi ci trasformi in altrettanti “Aigor” (l’irresistibile servo occhiuto di Frankenstein Junior).
Dal punto di vista medico, invece, il piccante del peperoncino equivale a una
sorta di benefico passe-partout: digestivo e anti-fermentativo, vanta la maggior concentrazione
di vitamina C esistente in natura. Ha proprietà vasodilatatrici (da cui la fama di
“Viagra dei poveri”) e anti-colesterolo, mentre la vitamina PP rende
Contarli è impossibile. Le magie
elastici i capillari e la E aumenta
dell’impollinazione e gli incroci genetil’ossigenazione nel sangue.
Il tutto, regalando gusto, vici realizzati dei botanici (niente a che vetamine e allegria a piatti tradere con gli Ogm) allargano a dismisura le
dizionalmente poveri, molvarietà dei peperoncini coltivati nel mondo.
to spesso carenti di proteiTutti, però, sono riconducibili a cinque famiglie
ne. Sul diario di bordo della prima spedizione di Cridi Capsicum. Tra gli Annuum, la specie più imColombo, Bartoloportante e diffusa, spicca il pepe di Cayenna (dalla stoforo
meo de Las Casas scriveva:
città di Cayenne, nella Guyana francese). Bacca«La spezia che gli indigeni
tum e Frutescens hanno come territorio d’elezione mangiano, e che chiamano agi, è abbondante e più
rispettivamente Messico e India, mentre il Pubeimportante del pepe nescens viene coltivato sugli altipiani più inospitali ro...».
Rimasero piuttosto
delle Ande, perché la carnosità lo rende partidelusi, i Reali di Spagna,
colarmente resistente al freddo. Ai Chinenquando si scoprì che rispetto
alle costosissime spezie delle
ses, originari dei Caraibi, invece, apparMolucche, il peperoncino attiene il terribile Habanero, consideratecchiva ovunque, azzerando i
to il peperoncino più piccante
costi di approvvigionamento.
del mondo.
Nella metà alta d’Italia, però, la
cultura del peperoncino va considerata un’acquisizione recente, se è vero che
dal Friuli al Piemonte il piccante si declina tradizionalmente grazie all’apporto di rafano e senape.
L’uso della senape arriva dalla Francia (Digione), dove l’utilizzo di semi e foglie mischiato a zucchero, vino, birra, aceto, acqua e altre spezie è conosciuto
da almeno mezzo millennio. Dagli hot dog al filetto alla Woronoff, si può scegliere in base alla piccantezza (dalla forte di Digione a quella dolce di Meaux)
e alla finezza della textura (da quella impalpabile a quella à l’ancienne).
Nella pianura Padana, invece, la senape ha trovato una strada tutta sua, ovvero la mostarda piccante, a base di frutta immersa in uno sciroppo piccante senapato. Una ricetta per ogni città: a Cremona sono protagonisti fichi, albicocche, ciliegie; a Mantova spicca la mela cotogna; mentre i parmigiani assemblano zucca, anguria bianca, pere e succo di limone. Obiettivo, dar vigore al tradizionalissimo piatto di bolliti misti, esattamente come il cren, salsa veneta a base di rafano, altra pianta delle crucifere dal gusto inequivocabilmente piccante.
Se poi siete ammiratori della Esquivel, e il vostro debole per il piccante abbisogna di una giustificazione intellettuale, potete sempre citare Brillat Savarin: «Gli alimenti ritenuti afrodisiaci, il più delle volte non hanno nessun effetto positivo, ma in certe circostanze possono rendere le donne più tenere e
comprensive e gli uomini più amabili». Provare per credere. Meglio con un bicchiere di latte a portata di mano.
E
Repubblica Nazionale 48 20/08/2006
Capsicum
RAFANO
E’ una pianta
erbacea di cui
si utilizza la radice
grattugiata. In Italia
se ne coltiva
una varietà marrone
Quello giapponese,
verde brillante (wasabi)
si serve col pesce crudo
Il succo della varietà
nera è un buon
depurativo epatico
SENAPE
Pianta spontanea
dell’Asia, è stata coltivata
in India a partire
da tremila anni prima
di Cristo. La pianta produce
baccelli con semi bianchi
o scuri macinati insieme
e fatti riposare
in un liquido. Il gusto
particolare è dovuto
ai glucosidi sinalbina
e sinagrina
PAPRIKA
Utilizzato in Ungheria
come rimedio
per la malaria durante
la dominazione turca
è una miscela di polpa
e semi essiccati
di diverse qualità
di peperone. Nell’800
è diventato l’ingrediente
base della “carne
alla maniera del pastore”
il Gulyas (gulash)
DOMENICA 20 AGOSTO 2006
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 49
La storia controversa del sapore “acutus”
Quel gusto-fantasma
che morde e riscalda
PEPERONCINO
Conosciuto da millenni e importato
in Europa da Colombo, fu studiato
dal medico ungherese Szent
Gyorgy che vi scoprì e isolò
la vitamina C. La ricerca
gli fruttò il premio Nobel
per la medicina nel 1937
Il suo principio attivo
è la capsaicina
MASSIMO MONTANARI
l piccante è un sapore? Nei corsi di degustazione
non se ne parla: le uniche categorie oggi ascritte alla nozione di sapore sono il dolce, il salato, l’acido e
l’amaro, secondo il canone che fu elaborato nel 1864
dall’anatomista Fick, distinguendo nettamente fra
sensazioni “chimiche” del gusto e sensazioni “fisiche”
del tatto: il piccante, come il grasso, come l’astringente, furono allora ricondotti a una diversa categoria sensoriale, quella appunto del tatto (tecnicamente parlando, il piccante è una sorta di lacerazione delle mucose, che per reazione produce piacevoli endorfine).
Eppure, fino a quel momento nessuno aveva
messo in dubbio che
quelle sensazioni
(piccante, grasso,
astringente…) facessero parte della
categoria dei sapori.
Aristotele, il grande
filosofo e scienziato dell’antichità greca, aveva classificato otto sapori fondamentali: dolce, amaro,
grasso, salato, agro,
aspro, acerbo, acido. Il
pensiero medico-scientifico dell’età medievale
allargò o modificò l’elenco, portando il numero dei
sapori a nove o a dieci, oppure lasciandolo a otto ma aggiustandoli in modo diverso:
il piccante, in particolare, denominato acutus, entrò definitivamente a far parte del sistema.
Ciò che in ogni caso risultava confermato era l’appartenenza del sapore
alla fisica naturale: esso era inteso come
espressione sensibile della qualità delle cose,
a sua volta determinata dalla combinazione fra i
quattro “umori” fondamentali: caldo e freddo, secco
e umido. Questi non solo definivano la natura dei cibi, ma anche il loro sapore. Per esempio, spiegavano i
medici della Scuola di Salerno, il piccante è di natura
calda, «assottiglia, morde, riscalda, infiamma, scioglie le parti solide». Qualità dietetiche: «I sapori acuti
sono più di ogni altro aperitivi (ossia facilitano l’assunzione dei cibi ndr), eccitano il calore del sangue,
restituiscono la salute ai sofferenti di milza e più in generale ai temperamenti freddi».Questo sistema di
pensiero, assegnando ai sapori un ruolo quasi di
“spia” della natura dei cibi, finì per riservare al gusto
una funzione fondamentale nel riconoscimento di
ciò che è buono per noi: se un sapore è percepito come buono, ciò significa che “trasporta” un contenuto
che al nostro organismo in quel momento fa bene. Al
centro dell’atto nutrizionale vi è quindi una responsabilità soggettiva, legata alla capacità dell’individuo
di ascoltare le reazioni e i messaggi del proprio corpo.
Ma le scelte alimentari non sempre nascono dall’ascolto di sé. Esse dipendono anche (soprattutto?) da
sollecitazioni esterne, dettate da convenzioni sociali, mode, ragioni di circostanza o di prestigio. Un
esempio chiarissimo è quello delle spezie, che, nel
Medioevo, furono impiegate a profusione nelle vivande destinate alle classi alte: il loro costo proibitivo
bastava a farne un segno di prestigio, mentre l’origine esotica le arricchiva di un fascino e di una suggestione ineguagliabili. A ciò si aggiungeva l’opinione
favorevole dei medici, che ritenevano le spezie, produttrici di calore corporeo, particolarmente adatte a
favorire la digestione, ovvero la “cottura” dei cibi nello stomaco. Per tutti questi motivi, solo in parte riconducibili a scelte personali, il sapore piccante delle spezie orientali caratterizzava come pochi altri la
cucina di élite, e non è certo un caso che proprio nel
Medioevo il piccante sia entrato a far parte in modo
organico del “sistema” dei sapori.
Che si trattasse di una convenzione sociale lo si vide quando, in età moderna, dopo i viaggi transoceanici inaugurati da Colombo e proseguiti da un esercito di navigatori, il prezzo delle spezie diminuì drasticamente, rendendole accessibili a un più alto numero di consumatori. Nello stesso periodo, dall’America arrivò in Europa il peperoncino, che, acclimatato
e coltivato in varie regioni, rese davvero “popolare” il
sapore piccante. A iniziare da allora il piccante non fu
più un segno di distinzione sociale — e infatti i ricchi
lo abbandonarono.
Ultime notizie. Gli scienziati tendono oggi a ripensare la nozione di “sapore” come insieme complesso
di sensazioni diverse, che includono anche il tatto
nella nozione di gusto. Dopo un esilio di un secolo e
mezzo, il piccante è forse destinato a rientrare nel novero dei sapori.
I
‘‘
Jorge Amado
L’oro dell’olio
di palma,
la dolcezza
della jaca,
il piccante
del peperoncino,
la sensualità
delle donne bahiane
con il vestito
di pizzo bianco
sulla pelle
color cannella
Da LA CUCINA DI BAHIA
Cren
Mostarda
’Nduja
Spaghetti aglio e olio
La salsa di rafano
– radice sbollentata e cotta
con burro, farina e brodo –
accompagna le carni
più sostanziose, dal musetto
ai tranci di prosciutto cotto
caldo, dai bolliti agli affettati
Nell’impiego a crudo,
si grattugia e si mescola
con aceto, sale, zucchero
In Francia e Inghilterra,
la mout ardent, definisce
pianta, semi e salse
derivate. Nel Nord Italia,
la parola deriva dal mustum
latino ed è una preparazione
piccante con la frutta
candita immersa in uno
sciroppo a base di senape,
mosto aceto, zucchero
Malgrado il nome ricordi
il salame di trippa francese
(andouille), è un insaccato
calabrese preparato
con i tagli più poveri
del maiale, macinati
e mescolati col peperoncino
rosso piccante in rapporto
di quattro a uno. Deve
stagionare un anno
Sani, gustosi e semplici,
sono la ricetta più popolare
nelle cene estive
(e nei dopo-discoteca)
Gli spaghetti cotti ben
al dente vengono spadellati
nell’olio extravergine
caldissimo, aromatizzato
con lo spicchio d’aglio
e il peperoncino sbriciolato
50 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 20 AGOSTO 2006
le tendenze
Posizione orizzontale
Chaise longue sempre più anatomiche, pareti porta-cd
che nascondono un letto, poltrone avvolgenti in stile
nipponico conquistano per sempre la zona giorno
della casa. Stare composti non serve più: gli ospiti
si mettono comodi. E noi riscopriamo un vecchio
piacere: non sentirsi in colpa per la nostra pigrizia
L’irresistibile richiamo
della forza di gravità
CLASSICO, CON BRIO
Sasha è una lunga
chaise longue in pelle
colorata con poggiatesta
e base girevole. Un invito
al relax di Natuzzi
COME NATURA VUOLE
AURELIO MAGISTÀ
la definitiva sepoltura dell’Italia
dei tinelli. L’estremo smantellamento ideologico dei sacrari, rigorosamente interdetti ai bambini e ai loro giochi, dove si metteva in scena il teatrino piccolo
borghese del ricevere, gli striminziti palcoscenici di anodine conversazioni con
l’ospite di riguardo, imbastite seduti in
punta di sedia o di sofà, come si amava dire allora, piedi uniti, ginocchia strette,
gomiti aderenti ai fianchi. Un portamento estinto come l’idea che sottintendeva.
Oggi sdraiarsi è dominante.
Dicono gli evoluzionisti che ci sono
voluti milioni di anni per conquistare la
stazione eretta. Oggi i comportamenti
dell’abitare cancellano in un attimo quei
milioni di anni e l’apprendistato con un
movimento a 180 gradi: proni, dritti in
piedi, infine supini. Infatti adesso nel living domina lo stile informale. Sfilacciata la conversazione, mentre si scambiano borborigmi e lacerti di frasi con gli
amici, ci si mette comodi: sapientemente appoggiati, gambe ben distese o disordinatamente accavallate, sdraiati o semisdraiati, come se la forza di gravità
fosse diventata improvvisamente irresistibile e spalmasse i corpi sulle superfici
disponibili. Una volta poteva essere una
forma di ribellione giovanile, oggi è un
comportamento socialmente e anagraficamente trasversale, la risposta profonda, comportamentale, al grande bisogno
di relax nel nostro tempo, stretto fra lo
stress di ritmi sempre più accelerati e le
grandi paure globali.
Padri, figli e nipoti, ci si trova tutti d’accordo. Ma sdraiarsi ha
ormai sconfinato
dagli spazi domestici della socialità familiare e
amicale
per
diffondersi nei luoghi
pubblici, tra cui quelli che
ne portano il segno anche
nel nome: i lounge bar o caffè.
Naturalmente, come quasi sempre, c’è puntuale corrispondenza
tra contenuti e forme, comportamenti di un’epoca e connotati del
suo design. Datano già a qualche
anno fa le sedute di divani e poltrone sempre più profonde, gli schienali più bassi, le strutture sempre
più declinate in un lessico di elementi limitati ma componibili, che
offrono la possibilità di numerose varianti grazie a sapienti arti combinatorie.
Ancora di più, tuttavia, il bisogno di
sdraiarsi si manifesta in tutta la sua forza
rompendo gli argini della convenzione
divano-poltrona e dilagando in percorsi
inconsueti, qualche volta sorprendenti.
Percorsi che non temono di rivolgersi al
passato, ad altri passati, con la rivisitazione di reperti dell’arredamento: canapé, dormeuse, chaise longue, o con il
rilancio di un design intensamente ironico, per esempio il Pratone riproposto da
Gufram: una gigantesca zolla d’erba tra i
cui fili ci si può allungare fino a perdersi.
Ma percorsi che sanno anche esplorare territori nuovi, con oggetti indefinibili, ricchi di fascino e di mistero (la chaise
longue alcova di VG New trend), sorprendenti (la morbida parete porta-cd che,
messa a terra, si improvvisa letto, di Campeggi), votati all’eclettismo (Reversi di
Molteni, un divano componibile che diventa day bed, pouf o dormeuse), zoomorfi (Kaiman di Edra, Leaf di Dedon) o
di frontiera (Aster, la morbida stella marina in tessuto iridescente di Edra). E,
fra tante varianti, il trionfo della
comodità diventa anche la
piccola medicina quotidiana per le grandi
ansie del nostro
tempo.
Lettino, singolo o doppio,
con forma leggermente
concava, accogliente
come una foglia. È Leaf di Dedon
realizzata in tessuto Hularo
con cuscino incorporato
(Prezzo: 2.150 euro)
È
VECCHIE
ABITUDINI
La riedizione
della classica
chaise longue
di Le Corbusier
rivista da Alivar
Struttura in tubo
di acciaio,
poggiatesta
in espanso,
seduta in canapa
(Prezzo: da 991 euro)
DUE CUORI E...
Ricorda un’alcova
la chaise longue di VG New Trend
in intreccio di pvc bianco
o nero. Per esterni ma non solo
RELAX IN GIARDINO
Un lettino classico, con grandi ruote
posteriori per facilitarne lo spostamento
e struttura in legno di teak. Saint Tropez
di Foppapedretti ha schienale regolabile
in quattro posizioni e braccioli disponibili
su richiesta (Prezzo: 940 euro)
SEDUTE DAL SOL LEVANTE
Forma monolitica con struttura
in espanso per il sofà Saruyama
di Moroso, disegnato
da Toshiyuki Kita
Composto da tre pezzi,
non è sfoderabile
COMPOSTO AD ARTE
Disegnato da Ferruccio Laviani, Freestyle è un sistema di sedute
composto da elementi geometrici. Prevede due tipi di bracciolo
alto allineato allo schienale, oppure cuscino laterale a guanciale
che diventa corpo unico con il sedile. Di Molteni
DOMENICA 20 AGOSTO 2006
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 51
L’ultima forma di resistenza passiva
Elogio dell’ozio
piccolo atto eroico
MICHELE SERRA
draiarsi, parlando di noi da vivi, sembrerebbe la posizione numero uno, quella basica, quella più facile e ovvia. L’alfa delle posizioni. Dalla quale il corpo
poi parte per costruire tutte le sue altre stazioni, da quella ginocchioni a quella seduta a quella eretta, affrontando la legge di gravità e guardando il mondo dritto negli
occhi. (Mentre lo sdraiato, si sa, vede solo il soffitto o le
nuvole, o il cielo in una stanza o altre situazioni comunque molto divaganti rispetto a tutto il daffare che compete all’homo erecuts).
Invece non è così. Sdraiarsi non è affatto facile. La posizione dello sdraiato è diventata, nel corso dei millenni,
forse la più impervia. Anche volendo tralasciare la pur ricca e dolorosa tematica dei letti scomodi, lo status orizzontale implica sovente uno strisciante sentimento di
colpa, o di renitenza agli impegni sociali e familiari. È
chiaro che non stiamo parlando del sonno notturno:
quello, sia pure nelle modiche quantità concesse dalle
raffiche di impegni che ci fischiano sopra la testa, come
pallottole, anche quando dormiamo, quello, dicevo, è
consentito. Stiamo parlando dello sdraiato in stato di veglia, la persona che giace ad occhi aperti, o semichiusi, ed
è vigile quel tanto che basta per godersi la raggiunta quiete fisica: cioè l’inerzia simultanea (direi quasi un’inerzia
di tipo orchestrale) di tutti i muscoli e di tutte le ossa, cullati dalla sola forza di gravità che li preme dolcemente verso la Terra (maiuscolo) in una sublime carezza.
Ebbene, contro questo abbandono panico, che ci fa
sentire finalmente in armonia con l’orizzonte, e paralleli alla volta celeste, agisce un’infinità di disturbi. Di vario
tipo. Il primo, e forse il più grave, è quello psico-sociale,
che classifica il pigro e l’inerte come un traditore e un disertore, e squalifica l’ozioso dal rango del fortunato e del
benestante a quello del fannullone. È questo il principale svantaggio (tra altri innegabili vantaggi) del passaggio
alla civiltà borghese, che ha per postulato l’attivismo
economico, e il febbrile ruolo di ciascuno in società. Il secondo disturbo, si può dire, è conseguenza del primo: nel
senso che il nostro corpo ha talmente introiettato l’etica
del lavoro, che sdraiarsi è diventato via via meno agevole, come se la nostra carcassa avesse ormai somatizzato
i sensi di colpa derivati dall’ozio.
Se volete fare un esperimento — ma certamente l’avete già fatto — provate a sdraiarvi su un prato, che è l’habitat perfetto. L’erba vi sembrerà o troppo secca, e dunque pungente, o troppo verde, e dunque umida. Il prato,
per quanto piano, dopo pochi istanti vi si rivelerà gibboso, o declinante da una parte. La temperatura, che avevate percepito da eretti e da attivi, improvvisamente diventerà cocente, se siete sdraiati al sole, o freddina, se all’ombra. Gli abitanti del prato, specie le formiche e i grilli (rumorosissimi, questi ultimi), impercepibili fino a pochi istanti prima, si manifesteranno tutti insieme, circondandovi in moltitudine come i lillipuziani ostili
fecero con Gulliver. Le nuvole che, da
S
VERSATILE
Ambrogio di Tisettanta
è un componibile versatile da usare
a piacere con più funzioni: seduta,
pouf, punto di appoggio
LEGAMI DI LUNGA DATA
Bolide è una chaise longue
in paglia intrecciata. Creata
da Tom Dixon per Cappellini
nel 1991, rivive in edizione
limitata a soli 99 pezzi
OSPITE INATTESO
Repubblica Nazionale 51 20/08/2006
SOCIALIZZANTE
Sd
rai
ars
i
È una parete soffice porta-cd
che, ruotata e poggiata a terra,
si rivela un letto per l’ospite
inatteso. Ercolino
di Campeggi è bilanciato
da un meccanismo interno
Un divano composto
da pochi elementi ma
aperto a diverse combinazioni
grazie alla sua forma
asimmetrica; lo schienale
è un parallelepipedo,
il bracciolo un cubo
e aggiungendo in modo diverso
pouf e tavolino, Isola diventa
anche chaise longue o letto
matrimoniale. Un progetto
Cerri&Associati per Poltrona Frau
A PROVA DI INTEMPERIE
Il lettino Oasis di Unopiù
è progettato per resistere al clima
grazie alla speciale fibra sintetica
Waprolace che lo compone,
il cui nome deriva da “water-proof”
e “lace” (merletto)
(Prezzo: 390 euro)
bambino, ricordate di avere
osservato per
lunghi minuti
mentre trascorrevano in cielo, vi
parranno sinistramente informi, niente a
che fare con la sagoma da
coniglio o da coccodrillo
che quasi ogni nube vi regalò
al vostro remoto debutto di
cloud-watcher. Al massimo, foriere di maltempo. E poi — e soprattutto — le articolazioni delle ossa, le fasce lombari, la nuca senza requie, intoneranno un coro di protesta,
spingendovi a rialzarvi.
Penserete, allora, che lo Sdraiato Antico,
quello dell’Età dell’Oro (non pensate a ere mitologiche: è l’infanzia, in termini scientifici, la
sola vera età dell’oro) non pativa alcuna di queste
turbe. Le gobbe del terreno, gli spini, i ristagni d’umido erano sensazioni osmotiche rispetto al corpo,
permeabile a tutte le nuove esperienze. La formiche e i
grilli erano visitatori graditi, e il loro solletico un gioco. Le
nuvole, tutte indistintamente, altrettante filastrocche di
Gianni Rodari. Il corpo di gomma, di elastico, vergine da
indolenzimenti, si adattava subito alla condizione inerte e poteva rialzarsi o riadagiarsi senza il minimo sforzo.
Il problema è che sdraiarsi da svegli non è uno status
da adulto. Anziché svuotarsi e perdersi nel nulla, come
accade ai bambini sdraiati, la psiche si affolla di pensieri spesso tormentosi, come se l’orizzontalità colmasse
un vaso. E poi rialzarsi, con l’aumentare degli anni, diventa sempre meno agevole, piccolo odioso memento
dell’attimo in cui rialzarsi non sarà più consentito.
In conclusione, e per risollevare il morale: non ci resta
che considerare lo sdraiarsi un piccolo atto eroico, una
resistenza passiva contro l’ostracismo sociale alla pigrizia, una sfida attiva al nostro corpo meno elastico e meno disponibile a lasciarsi pervadere dagli umori della
Terra, e della terra. Accogliamo di buon grado le formiche, con benevolenza francescana. Accettiamo che le sagome delle nuvole sia meno fantastiche di un tempo, e
piuttosto testimoni della varietà non sempre bonaria
della realtà materiale. E proviamo a sdraiarci lo stesso,
sdraiamoci a oltranza, abbandoniamoci al rompete le righe anche se magari minaccia di rompere la schiena. Un
maglione ripiegato sotto la nuca ci aiuterà a dimenticare perfino la cervicale.
Per rialzarsi c’è sempre tempo. È il tempo di sdraiarsi
quello che rischiamo di perdere. Rimandare gli impegni.
Sostare un attimo di più con lo sguardo al cielo. Ripassare De André: «Vanno, vengono, qualche volta ritornano».
Le Nuvole. Almeno un vantaggio degli adulti sdraiati:
avere già ascoltato molte canzoni, e contare sul tempo
(ancora tanto tempo) per riascoltarle.
52 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 20 AGOSTO 2006
l’incontro
“Il violino è vivo, sensuale,
un prolungamento del corpo
Per questo suono indossando vestiti
senza maniche e con le spalle nude:
mi piace sentirlo sulla pelle”
Tedesca di 43 anni,
è uno dei più grandi
musicisti al mondo,
Primedonne
Anne-Sophie Mutter
sembra una top model
e suona come un angelo,
fervida e sorvegliata,
esatta e folgorante
“Mi è sempre piaciuta
l’idea di creare il suono io stessa,
con le mani. Posso modellarlo
con un’arcata, come uno scultore”
elle fotografie che la ritraggono sulle copertine
dei suoi dischi sembra
una top-model. Ma una
top-model particolare, profonda ed
enigmatica, prodiga di sguardi interrogativi e sfidanti. In un’immagine è
fasciata da un vestito aureo: girata di
schiena, ci guarda voltando il capo,
mentre il tessuto stringe i fianchi sinuosi. In un’altra il viso è in primo piano, la bocca soffice, gli occhi ardenti, i
lunghi capelli biondi stretti e raccolti
all’indietro, da casta diva. Un’altra foto ce la mostra in jeans, sdraiata su un
divano, e i piedi nudi da ninfa sono esibiti con grazia.
Può una delle massime musiciste del
nostro tempo avere quest’aspetto? La
grande musica non richiede abnegazioni e supplizi? Può una signora tanto
fascinosa suonare il violino come un
angelo, fervida e sorvegliata, esatta, folgorante, ricca di tinte soffuse, tecnicamente formidabile nel centellinare i
suoi incantesimi? La violinista tedesca
Anne-Sophie Mutter dimostra che si
può. E non c’è trucco, non c’è alcun inganno. Perché vista da vicino, sulla terrazza del lussuoso hotel di Monaco dove ha fissato il nostro incontro, stretta
in un coloratissimo e scollato abito
estivo, nell’afa di un mezzogiorno d’agosto, è anche più bella di come appare nelle foto. Non ha neppure il “callo”
dei violinisti, che macchia il collo e denuncia le ore trascorse con lo strumento letteralmente addosso: «Non devi
schiacciare il viso contro il legno, ma
solo poggiarlo», spiega. «Il violino è vivo, sensuale. Un prolungamento del
corpo. Per questo, da sempre, suono
indossando vestiti senza maniche e
con le spalle nude: mi piace sentirlo
sulla pelle. Se non sei tesa, se ti abbandoni a lui, ti accompagnerà senza farti
male». Suona sempre lo stesso Stradivari del 1710, e ne parla come fosse un
i periodi gloriosi e disperati. Suonare
tutti questi pezzi in modo ravvicinato
dà una visione coerente dello sviluppo
del genio mozartiano, dall’innocenza
degli inizi a una raffinatezza sempre più
accentuata. È una musica generosa ed
essenziale, mai ridondante, limitata al
numero necessario di note. Delicata e
molto esposta. Per questo è tanto difficile da eseguire».
Anne-Sophie Mutter eseguirà le stesse Sonate, con Lambert Orkis al pianoforte, al Festival di Lucerna, in tre recital a partire dal 23 agosto, data del trentennale del suo debutto al prestigioso
festival svizzero, che avvenne nel ‘76, lo
stesso anno delle sue prime esibizioni in
pubblico: «Quando suonai a Lucerna
non sapevo com’era importante quel
concerto, la mia insegnante non me l’aveva detto, il che fu saggio da parte sua,
perché così non avevo paura. La sede,
per noi giovanissimi, era una villa priva-
L’età è un dato
privo di importanza
- dice del marito
Andrè Previn, ben più
anziano di lei - ciò
che conta è il carisma
che equivale
alla bellezza
FOTO TINA TAHIR / SHOTWIEV PHOTOGRAPHERS / DG
Repubblica Nazionale 52 20/08/2006
N
MONACO DI BAVIERA
essere vivente: «Ha una personalità fortissima. Non smette di sorprendermi,
ha infiniti segreti da svelare».
In questo periodo lo porta in giro per
il mondo per suonare Mozart, «che mi
allarga il cuore e mi fa sentire un’eletta.
Difficile spiegare quanto mi emozionino la purezza e la linearità del suo linguaggio. Ha una levità fantastica, con
addensamenti improvvisi e zone
d’ombra: la notte e il giorno, l’intimamente umano e il senso del divino, ambivalenze che appartengono a noi tutti. Ho appena fatto un tour in Estremo
Oriente e mi ha colpito il modo passionale in cui la gente lo accoglie. Non mi
aspettavo che gli abitanti della parti più
remote della Cina reagissero con tanto
entusiasmo a una musica aliena, estranea alla civiltà che li ha formati. Eppure in Corea, come in Giappone o a
Taiwan, potevo sentire e vedere che
Mozart coinvolgeva adulti e bambini».
Nata a Rheinfelden, in Germania, nel
1963, e cresciuta in campagna, in una
casa nella Foresta Nera, con due fratelli più grandi («per questo ero un maschiaccio, mi arrampicavo sugli alberi,
correvo, pescavo, e solo da grande mi
sono convertita in qualcosa di più femminile»), Anne-Sophie Mutter scelse di
essere violinista da piccola per vocazione inesorabile: «Ricevetti delle lezioni di violino come regalo per il mio
quinto compleanno. A sei vinsi il primo
concorso e mi fu chiesto: che farai da
grande? Risposi subito: la solista. Mi è
sempre piaciuta l’idea di creare il suono io stessa, con le mani. Posso modellarlo con un’arcata, come uno scultore.
E poi il violino è uno strumento che ha
la magia della voce, il suo colore. Anche
il tocco è ammaliante. Con la mano sinistra, nell’uso del vibrato, ho la sensazione di muovere davvero il suono».
Lanciata a tredici anni da Karajan,
con un concerto a Salisburgo che fece
storia, e da allora incoronata protagonista di una carriera strepitosa, che ne
avrebbe fatto la violinista più acclamata del nostro tempo, una dea del business musicale e l’unica interprete che
detta sempre le sue condizioni, la Mutter ha appena completato un’immane
impresa discografica per la Deutsche
Grammophon, un omaggio a Mozart
nell’anno delle celebrazioni per i 250
anni dalla nascita: «Nessun compositore ha scritto così tanti pezzi per violino
ed è stato altrettanto capace di emancipare lo strumento dal ruolo di “braccio
destro” del pianoforte, conducendolo a
una vera indipendenza. Nei mesi scorsi
ho registrato i Concerti, la Sinfonia Concertante e i Trii con pianoforte, e a settembre escono quattro cd con sedici Sonate per violino e pianoforte. È un progetto che mi ha permesso di ripercorrere un’ampia fetta della vita di Mozart,
seguendo le sue emozioni di ragazzo e il
suo dolore per la morte della madre, i
viaggi in Italia e i successi a Vienna, i
conflitti col padre e gli innamoramenti,
ta, con arazzi alle pareti, vasti saloni e un
gran caldo. C’erano molti tappeti, ricordo di essere scivolata. Quel concerto mi
cambiò la vita. Il clamore fu tale che Karajan mi chiamò per un’audizione».
Fu un incontro decisivo, di quelli che
coronano un destino. «Libertà e massimo coinvolgimento: questo mi ha insegnato Karajan. Avere un punto di vista
molto personale è l’essenza del fare musica, e lui me l’ha trasmessa. Ancora oggi mi capita di sentire un brano alla radio
e di emozionarmi tanto da piangere. E
scopro che è Karajan a dirigere. Nelle
sue esecuzioni non c’è un momento in
cui la musica è “semplicemente” suonata bene, senza intensità né significato. Era un uomo meraviglioso, ma anche
di tremenda fermezza. Aveva il culto
della disciplina, che viveva in lui come
conseguenza del suo amore per la musica. Quel suo magnetico sguardo blu poteva fulminare gli orchestrali. Eppure
così riusciva a tirare fuori il meglio».
Il modo in cui Karajan si separò dall’orchestra dei Berliner Philharmoniker, racconta ancora la Mutter, le è
tornato in mente per associazione
quando è avvenuto il divorzio tra Riccardo Muti e la Scala: «Uno degli ultimi
ricordi che ho dell’Italia (dove lavoro
poco, perché mi programmo con anni
di anticipo, e i vostri inviti arrivano sempre all’ultimo momento) risale al 2004,
quando suonai in concerto con Muti a
Milano, e in quell’occasione trovai altissimo il livello dell’orchestra. Sei mesi
dopo esplose lo scandalo che portò alle
dimissioni del maestro dopo quasi
vent’anni. Mi ha inorridito il modo in
cui lo hanno trattato gli orchestrali. Mi
ha riportato al brutto clima che si respirava quando finì la relazione tra i Berliner e Karajan, dopo trentasei anni di
collaborazione. A volte accade di scalpitare quando si lavora a lungo in determinate circostanze: un grande direttore può dare un senso di protezione contro la realtà, ed è allora che gli strumentisti cominciano ad opporsi».
Tutto il percorso della Mutter è stato
segnato da figure paterne: non solo Karajan, ma anche il mecenate Paul Sacher e il mitico violoncellista Rostropovich, con cui stabilì un forte legame
emotivo. Molto più anziano di lei era
anche il primo marito, l’avvocato di Karajan, Detlef Wunderlich, con cui la
Mutter ha avuto due figli, una femmina
e un maschio, che oggi hanno quattordici e dodici anni. Wunderlich morì nel
‘95, e di questa perdita la star, ossessionata dal culto della privacy (sono rarissime le sue interviste), si è sempre rifiutata di parlare. Nel 2002 si è risposata,
stavolta con un celebre musicista, l’americano André Previn (già coniuge di
Mia Farrow e padre adottivo di Soon Yi,
attuale moglie di Woody Allen). Nato
nel ‘29, anche Previn è ben più vecchio
di Anne-Sophie, «ma per me l’età è un
dato privo di importanza, come l’aspetto fisico», confessa fiera e ridente la
giovane signora. «Ciò che conta è il carisma, che equivale alla bellezza».
Insieme a Previn vive tra New York e
la casa di Monaco di Baviera, «dove i
miei figli vanno a scuola. Devo seguirli
molto, sono in piena adolescenza. È la
ragione per cui ho ridotto il numero di
concerti, ora ne faccio una sessantina
all’anno. Anch’io ho bisogno di stare
con loro, li amo profondamente e li rispetto. Per questo non voglio darli in
pasto ai giornali, detesto vedere pubblicati i loro nomi». Il suo secondo matrimonio sembra renderla felice: «Con
André ho appena registrato gli ultimi
Trii per piano e violino di Mozart e l’anno prossimo faremo insieme Beethoven. Ma uno dei nostri progetti principali è la prima del Doppio Concerto che
lui ha scritto per me e per un contrabbassista, allievo della mia fondazione,
che offre borse di studio a giovani strumentisti particolarmente dotati. Lo
eseguiremo a Boston l’anno prossimo.
Viaggiamo tanto, facciamo numerose
tournée, suoniamo spesso insieme. È
un modo meraviglioso di condividere
la vita. André ha già scritto brani molto
belli per me, come il Concerto per Violino e Tango Song and Dance, pieno di
appeal. È il musicista più eclettico che
io abbia conosciuto. Compone, dirige,
è un ottimo pianista e un dotatissimo
musicista jazz, il che dà un’inesauribile freschezza al suo modo di suonare.
Ora sta scrivendo una nuova opera lirica, una coproduzione tra Houston e
Washington, che debutterà l’anno
prossimo. Ciò che trovo straordinario
nella sua musica, specie nei pezzi scritti per la voce, per esempio nell’opera
Un tram chiamato desiderio, è la comprensione della linea melodica e del
fraseggio. Che si riflette in tutto ciò che
scrive per gli archi. È uno dei rari compositori contemporanei che non temono le belle melodie. In anni recenti il
pubblico è stato allontanato dalla musica da pezzi pesanti e noiosi. Oggi, finalmente, si è capito che la musica è
fatta per la gente, per imprimere e far vivere emozioni».
‘‘
LEONETTA BENTIVOGLIO