la Primavera di Koudelka
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la Primavera di Koudelka
Domenica l’attualità Il Campidoglio, colle del potere La di DOMENICA 27 APRILE 2008 ANDREA CARANDINI e FILIPPO CECCARELLI la società Repubblica Bambini-contadini a lezione di orto MAURIZIO CROSETTI e CARLO PETRINI Praga ’68 la Primavera di Koudelka A quarant’anni dall’invasione dei carri armati sovietici un libro raccoglie lo straordinario reportage del grande fotografo ceco. Ecco le immagini mai viste FOTO JOSEF KOUDELKA / MAGNUM / CONTRASTO che costarono al loro autore vent’anni di esilio MARIO CALABRESI «I cultura BERNARDO VALLI NEW YORK l telefono squilla alle quattro del mattino; rispondo; un’amica grida: “Sono arrivati i russi”. Penso ad uno scherzo e abbasso. Suona una seconda volta, non ci credo e riattacco di nuovo. Alla terza telefonata la voce urla: “Apri la finestra e ascolta”. Mi alzo, metto la testa fuori per due minuti e sento il rumore degli aerei militari. Capisco che sta succedendo qualcosa. Mi vesto in fretta, prendo la macchina fotografica e tutte le pellicole che mi sono rimaste, ero tornato il giorno prima dalla Romania dov’ero stato a fotografare gli zingari. Scendo in strada, comincia appena ad albeggiare, istintivamente mi dirigo verso la sede della radio, a meno di un quarto d’ora da casa. I russi erano andati alla radio anche nel 1945. Ma allora erano venuti per liberarci». (segue nelle pagine successive) E PARIGI rano circa le tre, nella notte tra martedì 20 e mercoledì 21 agosto 1968, quando i praghesi furono svegliati da un rumore grave e forte, sempre più intenso. Un brontolio sordo. Sulle loro teste si muoveva il ponte aereo più importante organizzato nel cuore dell’Europa dalla Seconda guerra mondiale. Vibravano le vetrine di piazza San Venceslao, lunga come un ippodromo e dominata dall’imponente Museo nazionale che poche ore dopo sarebbe stato scalfito dai proiettili dell’Armata Rossa. Quello che sembrava un interminabile tuono echeggiava nei cortili dei solenni palazzi di Mala Strana, ai piedi del Castello di Hradcany. E investiva le facciate liberty allineate sulla Moldava e sulla stravagante via Parigi, tra il fiume e il ghetto defunto. (segue nelle pagine successive) L’occhio, il re dei simboli DANIELE DEL GIUDICE la lettura Quando Lawrence incontrò Tolkien STEFANO MALATESTA e WU MING 4 spettacoli Il ritorno delle canzoni ribelli EDMONDO BERSELLI e SILVANA MAZZOCCHI Repubblica Nazionale 34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 27 APRILE 2008 la copertina LA GENTE CANTA L’INNO NAZIONALE DAVANTI AL PALAZZO DEL COMITATO CENTRALE DEL PARTITO COMUNISTA CECOSLOVACCO LA REAZIONE DELLA FOLLA ALL’ARRIVO DEI BLINDATI È l’alba del 21 agosto 1968 A Josef Koudelka telefona un’amica: “Sono arrivati i russi” Un fotografo contro i tank MARIO CALABRESI (segue dalla copertina) «L a prima cosa che vedo è un automobile d’epoca con il tetto scoperto che suona senza sosta il clacson per svegliare la città, a bordo ci sono tre ragazzi e una ragazza con una bandiera ceca. Gridano la stessa frase che ho sentito al telefono: “I russi sono arrivati”». La foto della macchina in corsa, che percorre Avenue Stalin, è la prima che Josef Koudelka, trent’anni, scatta quel 21 agosto del 1968. La prima di duecento rullini. La prima di uno dei più grandi reportage della storia della fotografia: la testimonianza della repressione della Primavera di Praga nel sangue. Duecento pellicole che costeranno al suo autore vent’anni di esilio. Sono passati quarant’anni, Koudelka è diventato uno dei più famosi fotografi del mondo, ha la barba e i capelli bianchi, occhialini rotondi, tiene tra le mani la prima copia del libro che raccoglie molte delle foto inedite di quei giorni. Uscirà in otto paesi d’Europa alla fine di aprile e negli Stati Uniti quest’estate. Lo sfoglia con cura, come fosse cosa viva, è un pezzo della sua vita e si accende in continuazione mentre lo racconta. Siamo nella stanza dei fotografi nella sede dell’agenzia Magnum, nel quartiere di Chelsea a New York. Due tavoli, due sedie, una catasta di libri e fogli sparsi ovunque. Ci si aspetterebbe un luogo grandioso e autocelebrativo come sede dell’agenzia che raccoglie l’elite dei fotografi, invece sembra la redazione di una rivista di provincia, se non fosse che le ragazze riordinano gli scatti di Cartier-Bresson e stanno rimettendo a posto le immagini di Martin Luther King mentre pronuncia il suo discorso più noto: «I Have a Dream», Washington 1963. Josef Koudelka parlerà senza sosta per novanta minuti, alternando tre lingue: inglese, spagnolo e italiano. È normale per un uomo che non ha mai avuto una casa, o meglio che non si è mai sentito a casa in nessun luogo. «La ragazza che mi ha svegliato si chiama Marie Lakatošova, lavorava in una rivista di teatro, suo padre era un grande musicista gitano. Ci sentiamo ancora: le porterò il libro non appena torno a Praga. Se sono stato il primo ad arrivare, lo devo a lei». Raggiunge la sede della Radio che i russi non ci sono ancora. «Erano atterrati all’aeroporto e stavano muovendo verso il centro con dei veicoli leggeri, solo più tardi sarebbero apparsi i blin- LA GENTE OSSERVA L’ARRIVO DELL’ARMATA DI OCCUPAZIONE dati e i carri armati». Una piccola folla riesce ad anticipare i soldati del Patto di Varsavia e blocca l’accesso alla Radio: «I soldati all’inizio erano confusi e disorientati, non sapevano dove fossero, erano sorpresi che non li volessimo. Erano giovani come me e ho pensato che vivevamo sotto lo stesso sistema e un giorno poteva toccarmi la stessa sorte: trovarmi su un blindato da qualche parte a Varsavia o a Budapest». Li si vede che fumano, discutono e scrutano i volti delle persone nelle strade e sentono ripetere lo slogan: «Vai a casa, o Ivan, ti aspetta Natasha». Le foto sono sfocate, mosse, frutto della poca luce e della concitazione. «La gente non li lasciava passare, li inseguiva, riuscì a fermarli, intanto la folla cresceva». Koudelka mette a fuoco l’uomo che dirige l’operazione, poi si arrampica sul blindato e comincia a scattare immagini della popolazione: «Le foto diventano come un film, in cui la storia adesso è vista dal punto di vista opposto, con lo sguardo di un soldato russo. Sono stato fortunato che non mi hanno fatto niente, ma all’inizio c’era grande confusione e nessuno era preparato». Koudelka racconta soltanto quello che ricorda con certezza, e prima di parlare controlla il libro: «Sono passati quarant’anni e non ti puoi fidare della memoria, ma delle foto sì, ti puoi fida- re». E le foto in bianco e nero mostrano la sproporzione tra i carri armati del Patto di Varsavia e quelle che la Pravda il 21 agosto definiva «le forze controrivoluzionarie che minacciano l’ordine socialista». Ma si vedono soltanto ragazzi che gridano, anziani che si mettono le mani sulla bocca, donne che piangono, persone che cantano l’inno nazionale e una scritta tracciata con il gessetto sul muro: «Russi, tornate a casa». Poi i paracadutisti occupano la Radio e per farsi strada i blindati sparano i primi colpi. Una donna viene schiacciata dai cingoli. Ci sono sparatorie. Arrivano le notizie dei primi morti. Le foto scandiscono ogni attimo. Bruciano automobili e il cielo si riempie di fumo. Gruppi di giovani disegnano svastiche sui carri armati, poi li attaccano. Alcuni prendono fuoco. Un vecchio con il basco e la cartella di pelle tira un sampietrino. La sera gli incendi bruciano alcuni palazzi già distrutti dai proiettili. Poi arriva il coprifuoco. Koudelka entra in una casa accanto alla sede della Radio e trova alcuni cadaveri, un ragazzo con gli occhi spalancati e il sangue che cola dal naso. Per tre giorni testimonia la repressione, i funerali delle vittime, la protesta che si fa sempre più silenziosa. Qualcuno ha l’idea di distruggere la segnaletica: scompaiono improvvisamente i nomi delle vie e delle piazze, i numeri civici, perfino le targhette sui citofoni, la città diventa anonima. Praga è una città morta per gli ospiti indesiderati e il motto diventa: «Il postino trova l’indirizzo, il bastardo no». «Il secondo giorno i russi mi hanno visto che fotografavo i tank da una finestra, hanno pensato che ero un cecchino e allora sono entrati nel palazzo per venirmi a prendere. Mi sono salvato scappando dai tetti ma prima ho consegnato tutti i rullini a un ragazzo perché li mettesse in salvo». Koudelka scatta senza sosta ma non sviluppa nulla, non c’è tempo, comincerà a farlo solo un mese dopo. Quando tornerà dal ragazzo per recuperare le pellicole scoprirà che quello le ha mandate a Vienna a Radio Free Europe. «Mi arrabbiai. Non volevo, non mi interessava. Fotografavo per me stesso e per la memoria, non per un giornale, non avevo scattato per pubblicare». «Non ho mai fatto foto d’attualità, prima dell’agosto del 1968 mi ero occupato solo di zingari e teatro, dopo avrei fotografato solo paesaggi e persone. Non mi sono mai interessate le news, non avevo mai visto Life o Paris Match, ma penso di essermi comportato bene. Quella mattina quando sono stato svegliato mi sono trovato davanti a qualcosa più grande di me. Era una situazione straordinaria, in cui non c’era QUARTIERE DELLA CITTÀ VECCHIA Repubblica Nazionale DOMENICA 27 APRILE 2008 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35 SGUARDI TRA I SOLDATI SOVIETICI E LE RAGAZZE DI PRAGA Comincia così, nelle strade di Praga invasa, uno dei più grandi reportage della storia della fotografia zio cercando di non tradirmi. Dovevo tornare a casa e non potevo rischiare. Ma il giorno dopo riuscii a contattare l’Agenzia Magnum e loro ebbero l’idea di farmi una lettera con cui mi invitavano a fotografare gli zingari dell’Europa occidentale». Tornò a Praga, dove grazie a un amico al ministero della Cultura riuscì ad avere il permesso di espatriare per tre mesi. Lasciò la Cecoslovacchia il 20 maggio del 1970. «Me ne sono andato perché avevo paura che la polizia scoprisse che ero io l’anonimo fotografo praghese. Non avevo voglia di finire in galera e sarebbe successo perché le mie immagini sono la testimonianza di quello che è successo, sconfessavano le falsificazioni, mostravano i morti, smentivano il racconto di quanto fossero contenti i cechi nel vedere arrivare i russi. Ci sono le foto delle persone uccise in mezzo alla strada e quello proprio non andava bene». Koudelka era l’unico fotografo che non si nascondeva: «Correvo da una parte all’altra, volevo testimoniare tutto, non restare fermo in un solo posto. Mi mettevo davanti ai russi e cominciavo a scattare, gli amici mi dicevano che sarei stato ammazzato, i soldati pensavano che fossi pazzo o particolarmente coraggioso. Ma il coraggio è un’altra cosa, è quello che hanno avuto quei sette russi che sono andati sulla Piazza Rossa per IL PRIMO SCATTO Josef Koudelka quel 21 agosto 1968 aveva trent’anni L’immagine qui sopra fu la prima che fermò quella mattina, subito dopo essere uscito di casa «La prima cosa che vedo racconta oggi - è un’automobile d’epoca col tetto scoperto che suona senza sosta il clacson per svegliare la città Sopra tre ragazzi e una ragazza con la bandiera ceca. Gridano: “I russi sono arrivati”» Nella foto di copertina i primi carri armati sovietici a piazza Venceslao protestare per l’invasione della Cecoslovacchia. Dopo tre minuti li hanno arrestati e alcuni si sono fatti sette anni di galera. Uno di loro molto tempo dopo ha detto: “Ne è valsa la pena: quei tre minuti sono stati gli unici nella mia vita in cui mi sono sentito libero”». Koudelka avrebbe rivisto Praga soltanto nel 1991 quando i genitori erano già morti: «Mio padre aveva capito che non sarei tornato, era bastato che gli dicessi: “Ho fotografato i russi”, e a lui fu chiaro tutto. Faceva il sarto, cuciva le uniformi, mi guardò e mi disse: “Se fossi giovane, io me ne andrei”. Partii per la Camargue per fotografare i gitani. Novanta giorni dopo avrei chiesto asilo politico a Londra». Koudelka era diventato un uomo libero, le foto invece sarebbero rimaste senza padre, anonime, per altri quattordici anni per evitare guai alla famiglia. La dedica del libro recita: «Ai miei genitori che non hanno mai visto queste fotografie». «Ci siamo incontrati una sola volta, a Parigi nel 1977: avevano avuto il permesso di uscire per qualche giorno ed erano venuti a trovarmi. Avevo pubblicato da un paio di anni il libro sugli zingari e glielo regalai con una dedica molto lunga e affettuosa. Ma quando sono partiti il libro era rimasto sul tavolo. Mio padre si giustificò dicendo che era troppo pesante, la verità è che vivevano nella paura e quella pote- va essere la prova che il fotografo ero io». L’esilio ha lasciato il segno e cambiato una vita: «Oggi vivo dove sono: una settimana fa ero in Spagna, ieri a Parigi, adesso per sei settimane negli Stati Uniti. Per quindici anni non ho pagato un affitto, ho due abitazioni, una nel centro di Praga e una nella periferia di Parigi, però non sono case ma luoghi di lavoro dove c’è un grande tavolo e tutto quello che mi serve». «L’esilio però ti fa due regali: il primo è che ti costringe a costruirti una nuova vita e ti dà la possibilità di farlo in un ambiente nuovo dove nessuno ti conosce e ha pregiudizi su di te; il secondo è che quando torni a vedere il tuo Paese lo fai con occhi diversi. Nel 1991 a Praga è stato formidabile: ogni mattina mi svegliavo prestissimo e cominciavo a camminare per guardare più cose possibile. Quando vivi in un luogo a lungo, diventi cieco perché non osservi più nulla. Io viaggio per non diventare cieco». Josef Koudelka ha un figlio di tredici anni che vive a Torino. «Quando ho visto che disegnava gli aerei come facevo io da ragazzo mi sono commosso e mi è venuto da pensare che l’invasione mi ha regalato una cosa bellissima: se non fossero arrivati i russi, io non sarei scappato e questo mio figlio non esisterebbero. La prima copia di questo libro sarà per lui». FOTO JOSEF KOUDELKA / MAGNUM / CONTRASTO tempo di ragionare, ma quella era la mia vita, la mia storia, il mio Paese, il mio problema». Due settimane dopo riesce ad andare a Vienna — «avevo un passaporto ottenuto durante la Primavera di Praga» — recupera le foto e se le riporta a casa. Solo un mese più tardi, dopo averle stampate, si farà convincere da un’amica a darne cinque a Eugene Ostroff, curatore dello Smithsonian di Washington che le porterà al presidente di Magnum Eliott Erwitt. Gli fanno sapere che vogliono i negativi: «Non avevo nessuna voglia di consegnare tutto il mio lavoro ad altri, ma la mia amica, che era la critica d’arte Anna Farova, mi convinse che erano delle persone serie. I negativi arrivarono in America nella valigia di un medico che era venuto a Praga per un congresso». Per anni rimasero anonime, sul retro delle stampe nell’archivio di Magnum c’è un timbro con scritto: «Photograph by P.P». P.P. significa fotografo praghese, poi solo nel 1984, a penna, è stato aggiunto il nome. «Ho visto le mie foto pubblicate a Londra nel primo anniversario dell’invasione, nell’agosto del 1969. Era una domenica, ero a Londra per seguire e fotografare un gruppo teatrale del mio Paese. Uno di loro comprò il Sunday Times e cominciò a sfogliarlo, io riconobbi i miei scatti, l’emozione era grandissima ma non potevo dire niente. Rimasi in silen- EDIFICI DISTRUTTI DAI PROIETTILI E DAGLI INCENDI SU VIALE VINOHRADSKÁ Repubblica Nazionale 36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 27 APRILE 2008 la copertina SULLA STRADA PER HLOUBETIN UN SOLDATO CANCELLA LE SVASTICHE DAL SUO BLINDATO L’invasione sovietica schiacciò il tentativo di rinnovare il sistema comunista dall’interno La Primavera insanguinata BERNARDO VALLI (segue dalla copertina) orse faceva fremere anche i moschettieri di terracotta appollaiati su un tetto di via Parigi, come se dovessero proteggere dall’alto l’indimenticabile cimitero ebraico che è li a due passi. In quelle ore la preziosa città mitteleuropea, resa ancor più romantica, evanescente dalla ventennale trascuratezza del regime, era un antico, magico lampadario di cristallo, sbrecciato e polveroso, scrollato da una forza misteriosa, senz’altro infida. Provati dalle emozioni delle ultime settimane, non pochi praghesi, i meno decisi, si rigirarono nel letto e cercarono di riaddormentarsi. Era evidente che la capitale era sorvolata da ondate di aerei a bassa quota, ma per loro doveva trattarsi di una manovra. Era comodo pensarlo. E non mancavano gli spunti che potevano rassicurare. La controversa, contrastata Primavera di Praga, il processo di rinnovamento comunista iniziato (o accelerato) il 5 gennaio con la nomina del riformatore Alexander Dubcek alla testa del partito, al posto dell’ortodosso Antonin Novotny, era arrivata al 204esimo giorno. F E le minacce sembravano per il momento sospese se non proprio svanite del tutto. Il vertice di Bratislava del 3 agosto aveva fatto tirare un sospiro di sollievo. Riuniti a congresso, come un tribunale di ultima istanza, i capi di cinque Paesi comunisti (Urss, Bulgaria, Germania orientale, Ungheria e Polonia) avevano emesso una sentenza in apparenza assolutoria: avevano dato l’impressione di tollerare l’esperimento cecoslovacco e di non volerlo schiacciare come era accaduto dodici anni prima con lo scisma ungherese. A una sola condizione: che esso confermasse la sottomissione totale al Patto di Varsavia, ossia all’alleanza militare comunista, dominata dai sovietici. Questa condizione annessa all’apparente assoluzione creava un’equazione irrisolvibile. Quindi esplosiva. Bratislava aveva acceso una breve illusione. Alla stessa ora, mentre i praghesi meno sensibili si agitavano nei loro letti infastiditi e impensieriti dal passaggio degli aerei, Dubcek e i suoi compagni venivano catturati dai paracadutisti sovietici nella sede del Comitato centrale. Dopo le cinque, quel mattino di mercoledì 21 agosto, al rumore del ponte aereo se ne aggiunsero altri più allarmanti. All’Hotel Esplanade, all’angolo di piazza San Venceslao, un CON LA BANDIERA CECOSLOVACCA CONTRO I CARRI ARMATI giornalista straniero non ancora del tutto emerso dal sonno pensò a un martello pneumatico in funzione nei paraggi. Ma a quell’ora non potevano esserci lavori stradali in corso. Quei tonfi ritmati, lenti erano quelli di una mitragliatrice pesante, attutiti dalla distanza. Quando il cronista assonnato si affacciò sulla piazza San Venceslao scoprì che era affollata come in un giorno di festa. La gente era tanta che traboccava nelle strade adiacenti. C’erano molte bandiere. Bandiere ceche di tutte le dimensioni, sventolate dalle automobili, appese alle finestre, in testa a cortei che si incrociavano, diretti verso il Museo, all’estremità alta della piazza, o nella direzione opposta, verso il fiume. Si avvertiva una disperata esaltazione. I giovani, ragazzi e ragazze, ma anche gli anziani, uomini e donne, tutti a mani nude, avevano voglia di confrontarsi con gli invasori. La maggioranza dei praghesi non si era illusa. Era saltata giù dal letto. Non era stata tanto ottimista da pensare a una manovra militare. L’invasione era un incubo che accompagnava il Paese da mesi. Il tuono nella notte d’agosto già un po’ autunnale non aveva lasciato dubbi: l’invasione era cominciata. E subito masse di praghesi si erano rovescia- te per le strade, prima ancora dell’alba, mentre si accendevano sparatorie sulle due sponde del fiume, e nella parte alta, verso Hradcany. Più che scontri armati erano spari sovietici di intimidazione. Non era la resistenza delle milizie del partito o dell’esercito nazionale che poteva fermare l’invasore. La storia e la cultura hanno insegnato a un piccolo Paese ritagliato tra imperi prepotenti, dei quali non può contrastare la forza, quali sono le forme di resistenza consentitegli dalla ragione: l’ironia, il sarcasmo, il dialogo, la polemica. Armi spuntate quando prevale la violenza, ma che salvano la dignità e lasciano tracce ricche di sviluppi nell’attesa di tempi migliori. Piazza San Venceslao era diventato il punto di raccolta dei manifestanti. Era in quelle ore il cuore di Praga. Clacson e voci esasperate rimbalzavano tra gli edifici dell’ampia spianata rettangolare, mentre le finestre via via si illuminavano, avvertendo che ormai tutti avevano abbandonato i loro letti, e con i letti l’illusione. Gli Ilyushin erano ormai ben visibili nel cielo, stanati dalle prime luci. E all’alba la gente scagliava le sue maledizioni alzando lo sguardo. Alcuni accompagnavano le imprecazioni con degli sputi. L’Armata Rossa si era impossessata della città «con la rapidità di una piovra che stende i tentacoli» (si leggerà più tardi in uno dei tanti racconti anonimi di quelle ore). I russi erano sul Ponte Carlo, davanti a San Nicola, sulla piazza della Città Vecchia, davanti al monumento di Jan Hus, il teologo riformista bruciato vivo (nel Quattrocento), al quale un praghese avrebbe poi bendato gli occhi affinché non vedesse quello spettacolo vergognoso. I carri armati, i T55 e i più moderni T62, si aggiravano per la città con le torrette chiuse, senza che gli equipaggi mostrassero le facce, subendo gli insulti e gli sputi della folla. Non reagivano neppure quando alcuni giovani, rassicurati da quell’inerzia, si arrampicavano sui carri e sventolavano la bandiere cecoslovacche, come se esibissero un trofeo di guerra catturato a mani nude. L’Armata Rossa aveva l’ordine di evitare il più possibile l’uso delle armi. Ma qualche comandante perse le staffe o ricevette l’ordine di reagire. Tre autoblindo aprirono il fuoco, prendendo di infilata piazza San Venceslao. Scaricarono le loro mitragliatrici, tenendo però alto il tiro, mirando al primo piano del Museo nazionale. Anche quello era un fuoco di intimidazione ma sul selciato, quando la piazza si vuotò, c’erano tracce di sangue. UNO STUDENTE E UN CARRISTA Repubblica Nazionale DOMENICA 27 APRILE 2008 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37 VIA MÁNESOVA NEL QUARTIERE DI VINOHRADY Ma la fine di quel mondo cominciò proprio allora: vent’anni dopo le idee di Praga riaffioreranno a Mosca pitati. I loro padri, nel ‘45, avevano avuto un’accoglienza diversa. Le donne di Praga li avevano presi sottobraccio, strappandoli dai ranghi, mentre sfilavano vincitori per le strade appena sgombrate dalle truppe naziste sconfitte. Neppure un quarto di secolo dopo le ragazze cecoslovacche chiamavano i figli o i nipoti dei liberatori di un tempo con lo stesso nome. Per loro erano tutti «Ivan» senza distinzione. Affibbiavano a tutti lo stesso nome, come se fossero stati fabbricati in serie, uguali, ubbidienti. Non individui, ma elementi senza identità di un’unica massa umana. La Primavera di Praga era stata un tentativo di recuperare gli individui, schiacciati da un collettivismo inefficace e umiliante. Quegli «Ivan», spesso inconsapevoli, cancellavano con i loro carri armati quel tentativo, quella speranza, quell’illusione. Gli storici ci dicono che la fine del mondo comunista è cominciata nell’agosto 1968 a Praga. Altri risalgono alla Budapest del ‘56. È un fatto che per evitare il contagio politico, o la depressione, i soldati russi vennero spesso sostituiti, durante l’invasione della Cecoslovacchia. E le idee della Primavera di Praga sarebbero riaffiorate a Mosca, vent’anni dopo, e avrebbero contribuito all’autoaffon- IL LIBRO Invasione. Praga 68 è pubblicato da Contrasto Editore e sarà in libreria entro fine aprile (296 pagine, 249 foto in bianco e nero, 40 euro). Per la prima volta, a quarant’anni esatti da quel drammatico momento storico, viene raccolta e mostrata per intero la straordinaria documentazione fotografica dell’invasione sovietica in Cecoslovacchia realizzata da Josef Koudelka È stato lo stesso Koudelka, oggi uno dei più celebri fotografi del mondo, a curare il volume damento, al suicidio, dell’Unione Sovietica. Le armi spuntate dei giovani cechi sulla piazza San Venceslao, il sarcasmo, l’ironia, la polemica, servirono poco nell’agosto ‘68. Ma fa piacere pensare che abbiano poi dato dei frutti, proprio nel cuore dell’impero degli «Ivan», favorendone il crollo. Stupito che l’avvenimento fosse ufficialmente ignorato, dieci anni fa, trovandomi a Praga per il trentesimo anniversario dell’invasione, scrissi che dopo essere stata condannata e sepolta nel 1968 dall’Unione Sovietica, la Primavera di Praga era stata condannata e sepolta nel 1993 dal Parlamento ceco liberamente eletto. L’Urss aveva usato i carri armati. La democrazia ceca usava una legge. In quest’ultima, nella legge ceca, si definiva senza distinzione il periodo dal 1948 al novembre 1989, vale a dire gli anni in cui il Paese fu governato dal partito comunista, una fase durante la quale la società fu violentata da un’organizzazione criminale. Nel presentare questa legge un esponente del governo aveva precisato che neppure i promotori dell’effimera Primavera, durata 204 giorni, potevano sfuggire a quel giudizio. Anche loro erano stati in definitiva guardiani del campo di concentramento: guardiani buoni rispetto ai loro predecessori e ai loro successo- ri, ma pur sempre guardiani. Ricavai questa scarna, un po’ brutale, interpretazione dell’atteggiamento cecoclovacco ufficiale nei confronti della Primavera dal discorso del filosofo Karel Kosic, un coraggioso intellettuale e protagonista della Primavera, che mi aveva aiutato a capire gli avvenimenti nella Praga del ‘68, prima e durante l’occupazione sovietica. E che per me era stato anche un amico. Un amico per il quale avevo una grande ammirazione. Adesso, nella Praga democratica, il giudizio sulla Primavera sta cambiando. È cambiato, poiché si valuta la Primavera con rispettosa attenzione. Era tempo. Karel Kosic e tanti suoi amici lo meritavano da un pezzo. In quei mesi del ‘68 facevo la spola tra Parigi e Praga. Seguivo il Maggio francese e la Primavera cecoslovacca. Sulla diversità dei due avvenimenti simultanei vale la pena citare la laconica analisi di Milan Kundera (nella prefazione a Miracolo in Boemia di Josef Skvorecky). Tra l’altro Milan Kundera, non comunista, era un amico di Karel Kosic, filosofo critico marxista. Per Kundera, dunque, sulle rive della Senna ci fu un’esplosione di lirismo rivoluzionario, mentre sulle rive della Moldava ci fu l’esplosione di uno scetticismo postrivoluzionario. FOTO JOSEF KOUDELKA / MAGNUM / CONTRASTO La folla si disperse nelle strade vicine inseguita dall’odore aspro di polvere e di grasso bruciato e dai frammenti di pietra strappati dalla facciata del Museo. Al panico, alle urla di paura, alle imprecazioni, segui un silenzio non tanto lungo. Poi la gente riempì di nuovo la piazza occupata dai carri armati. E lentamente si spalancò una scena destinata a durare alcuni giorni. Giovani e anziani, uomini e donne, inermi, avevano accerchiato i carri armati, dai quali adesso spuntavano le facce stralunate di soldati per lo più imberbi. I cecoslovacchi parlavano il russo. L’avevano imparato a scuola. Era la lingua obbligatoria. La lingua dell’impero. La lingua dei liberatori del ‘45 diventati invasori nel ‘68. Più di vent’anni dopo la lingua imperiale serviva a polemizzare con i nuovi occupanti, a insultarli; a invitarli a tornare a casa, ad andarsene al più presto. C’era chi strappava la tessera del partito davanti ai cingoli e gettava i frammenti in faccia agli ufficiali che spuntavano a mezzo busto dalla torretta. Le ragazze boeme dicevano, senza sorridere: «Ritornate dalle vostre Natasha, con noi non combinerete mai niente. Neanche se ci minacciate con i vostri cannoni». I sovietici erano esterrefatti. Non tutti sapevano in che Paese fossero ca- VIALE VINOHRADSKÁ. I SOLDATI ABBANDONANO UN CARRO ARMATO IN FIAMME Repubblica Nazionale 38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 27 APRILE 2008 l’attualità I romani eleggono oggi il loro primo cittadino Simboli La posta in gioco è l’altura che Goethe chiamò “secondo Olimpo” e che è sopravvissuta a duemila anni di storia Campidoglio il colle del potere «P FILIPPO CECCARELLI PALAZZO NUOVO Medaglia di papa Innocenzo X (1644-55) con la facciata di Palazzo Nuovo erdona, l’eccelso / monte del Campidoglio è un secondo Olimpo per te», canta Goethe. E dunque la tentazione rimane costante nei secoli di ascendere agli dei; o se si preferisce, la tentazione di salire sul tetto primigenio del comando. La rocca di tutto il mondo, dall’antichità immemore a queste ultime elezioncine municipali che il tempo lunghissimo del colle rende perfino trascurabili. Perché poi, davvero: nessun altro luogo al mondo più del Campidoglio raccoglie e condensa i segni del potere, la sua gloria e le male arti per conservarlo, i privilegi, le minacce, gli incantesimi, le malinconie, le liturgie, le devastazioni. È un fatto visivo, cognitivo: basta attraversare il piazzale, salire le scale del Palazzo Senatorio, buttare un occhio nell’aula Giulio Cesare, affacciarsi dal balconcino dell’ufficio del Sindaco. Basta farsi un giretto, con una guida in mano. Qui si tenne un banchetto-monstre, lì montarono un enorme teatro. Lo stomaco e la fantasia del popolo, l’origine stessa della società. Su quel muro, con gli stemmi delle corporazioni, prendono vita gli interessi organizzati. In certe occasioni, per volontà superiore quella fontana buttava vino: e bianco, e rosso. La gente si faceva sotto a cazzotti, immaginarsi la scenetta. Attorno a quel leone di pietra si comminavano le pene; sotto quest’altra scultura si esponevano le vittime alla gogna. Qui venne incoronato Petrarca, dietro quell’angolo fu rotolato e trascinato il cadavere di Cola di Rienzo, «grasso era orribilemente — lo descrive la potentissima Cronica dell’Anonimo — bianco como latte insanguinato. Tanta era la soa grassezza, che pareva uno esmesurato bufalo overo vacca a maciello». E lì l’appesero, due giorni e una notte, come diligentemente specificato. E vabbé: tutto si ridimensiona lassù. Rutelli, già «sindaco col motorino», e Alemanno, che è la seconda volta che ci prova. Era la mattina del 21 settembre 1870, poche ore dopo la breccia di Porta Pia, quando il giovane cronista Edmondo De Amicis vide in quell’angolo dei bersaglieri che amabilmente chiacchieravano con frati zoccolanti della chiesa dell’Aracoeli: «Ci fosse stato un fotografo!», annota il futuro autore di Cuore con profetica video-ispirazione. Su quella scalinata, poco più in giù, nell’aprile del 1926 una signora irlandese un po’ pazzerella, Violet Gibson, si parò dinanzi a Mussolini, appena uscito da un congresso medico, e gli sparò; solo che lui in quel momento si era girato per fare il saluto romano e la revolverata, rivolta alla tempia, gli sbucciò la cartilagine del naso. E allora tornò, il Duce, dai medici: «Signori, vengo a mettermi sotto la vostra cura professionale». Un concentrato di simboli del dominio. Attentati, pacificazioni, rituali di trionfo e di sottomissione, festività e scannamenti, in Campidoglio, ebbrezze, rapine, estrazioni del lotto, notti bianche e notti in bianco per la paura, epidemie, statue parlanti, firme e ri-firme di trattati europei, poster di sequestrati, campane strappate a eretici viterbesi, civette augurali fin sotto lo zoccolo del caval- lo di Marco Aurelio, impronte di angeli, visioni. Questa è di Giuseppe Mazzini: «Di mezzo all’immenso, vi sorgerà davanti allo sguardo, come faro in oceano, un segno di lontana grandezza. Piegate il ginocchio e adorate: là batte il core d’Italia: là posa eternamente solenne, Roma. E quel punto saliente è il Campidoglio del Mondo Cristiano. E a pochi passi sta il Campidoglio del Mondo Pagano. E quei due mondi giacenti aspettano un terzo Mondo, più vasto e sublime dei due, che s’elabora fra le potenti rovine». Rovine sull’abisso della storia. Le pecore a brucare l’erba sulle pendici di Monte Caprino, poi bonificato dai gay e poi ancora tosato per la Costituzione Europea, esordio del “Veltrusconi”. Ora affollato, ora deserto, a lungo incerto, il Campidoglio, tra il rimanere una fortezza e il reinventarsi come luogo civico, suprema magistratura, Senatus. Le torri merlate che vanno e vengono, il continuo sommovimento di muraglioni e ponti levatoi, il Tabularium a un certo punto trasformato in deposito di sale. Poi Michelangelo. Un guizzo di soluzione che per geometrica volontà pontificale restituisce al luogo il volto grandioso e sereno dell’epoca nuova. Ma per secoli si continua a scavare, a riportare alla luce il passato, con l’inesorabile avversione dei poveracci, come lascia capire la retriva intemerata di uno sfaticatissimo “cariolante” belliano: «Mo’ s’ariscava ar Campidojo; e, amico, / già so’ du’ vorte o tre che cianno provo. / Ma io, pe’ parte mia, poco me movo, / perch’io nun so più io quanno fatico. / E lo sapete voi cosa ve dico/ de tutti ‘sti frantumi ch’hanno trovo? / Che manneno a fa’ fotte er monno novo, / pe’ le cojonerie del monno antico! / Ve pare un ber procede da cristiani / d’empì de ‘ste pietracce ogni cantone? / perché addosso ce piscino li cani? / Inzomma, er ZantoPadre è un gran cojone / a da’ retta a ‘sti arcoggioli romani / ch’arinegheno Cristo pe’ Nerone». E comunque di nuovo l’archeologia, o rabbiosa «arcoggiolia», torna talmente indietro da rivelare ancora una volta l’essenza oscura e arcaica del potere, fino allo stordimento, fino alla resa, perché sull’Olimpo tutto sembra o forse tutto è troppo per tutti quelli che più o meno fortunosamente vi arrivano. Sono gli effetti beffardi della storia, gli scherzetti di Roma che, unica città al mondo, può concedersi il lusso di allineare uno dopo l’altro, senza troppe distinzioni, caporioni, senatori, governatori, sindaci. E su quel colle alto sulla città, ma isolato, li abbandona alla memoria e insieme all’oblio: estenuati nobili papalini, liberali ardenti di patriottismo, operosi massoni alla Nathan, e poi fascisti inutilmente risoluti, quindi principi che dopo i disastri, i lutti, i bombardamenti, non possono che aprire le finestre e rivolgersi alla cittadinanza allargando le braccia: «Volemose bene». È il Campidoglio, ormai, del secolo scorso. Piccola cosa. I pallidi democristiani, Cioccetti a Rebecchini, poi divenuti rubicondi e sensibili assai a una certa rendita edilizia. Il “Gattone” Petrucci, la “Volpe argentata” Darida. E il freddo storico Argan, i comunisti come Petroselli che sul colle di lavoro si sfiancano fino a morirne, e Vetere, anagrammato “Tevere”; e poi ancora i dc, “Pennacchione” Signorello, “er Monaco” sbardelliano Giubilo, i pranzi nella Protomoteca, “Ajo ojo e Campidojo”, il socialista di rito andreottiano Carraro, quante storie. Primo e secondo Rutelli, Veltroni uno e due, e ora comunque: perdona, l’eccelso monte è davvero un secondo Olimpo, ma per tutti e per nessuno. LA SCALINATA IL CORTILE LA PIAZZA IL MARC’AURELIO LA LUPA Nella foto in alto a sinistra, un particolare della balaustra della scalinata di Palazzo Senatorio La scalinata fu aggiunta da Michelangelo al preesistente edificio In alto a destra, il cortile di Palazzo dei Conservatori, sul lato destro della piazza del Campidoglio (per chi sale dalla scalinata) Il palazzo fu ultimato nel1568 sui disegni di Michelangelo Al centro della pagina (e nella stampa sulla destra) il celebre disegno michelangiolesco per piazza del Campidoglio Il Buonarroti però non riuscì a vedere ultimato il suo capolavoro In basso a sinistra e al centro, due particolari della statua di Marco Aurelio in bronzo dorato al centro della piazza Questo originale è oggi spostato all’interno dei Musei Capitolini Qui accanto a destra, un particolare della Lupa capitolina custodita nel Palazzo dei Conservatori Gli storici dell’arte discutono se si tratti di un’opera etrusca oppure medioevale Repubblica Nazionale DOMENICA 27 APRILE 2008 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39 Sul Palatino risiedettero i re e poi gli imperatori Serviva un’altra sommità per rappresentare la “cosa pubblica”: è lì che nacque l’idea di interesse generale Quassù abitava il dio dei cittadini P ANDREA CARANDINI er fare Roma serviva un abitato non solamente unito ma retto da un potere centrale: il re e la cittadella benedetta e inviolabile del Palatino. Serviva un abitato diviso in rioni dove ospitare un popolo: i Quirites nelle curiae, protetti dal Quirinus venerato sul Quirinale. Serviva un luogo centrale e neutrale in cui il potere “primario” del re potesse confrontarsi con quelli “secondari” degli aristocratici e del popolo uniti in assemblea: il Forum e il Comitium, che erano al di fuori di ogni curia. Serviva un dio civico ospitato su una altura, anch’essa al di sopra di ogni parte: Giove Feretrio sul Campidoglio. Serviva un’altra altura da cui osservare il volo degli uccelli, espressione di Giove: l’Arx (altra cima del Campidoglio, dove è l’Ara Coeli) con l’osservatorio o auguraculum protetto da Giunone. La città era dunque fatta di parti (l’insieme di curiae, il Palatino inaugurato) e di parti al di sopra delle parti (il Foro e il Campidoglio/Arce), come Washington nel neutrale Columbia District. Giove presiedeva allora un “triumvirato” di cui facevano parte Marte, dio del Lupercale (ai piedi del Palatino verso l’Aventino), generatore e protettore di re, e Quirino, protettore del popolo articolato in rioni. Vi è dunque una triade topografica oltre che teologica, ché il Palatino rappresentava i montes (“rione Monti”), il Quirinale il collis (“il colle più alto”) e il Foro-Capidoglio/Arce la “cosa pubblica” dei Romani. Qui nasce l’idea di “interesse generale”. Questo Giove era rappresentato da una pietra (lapis) custodita in una capanna posta ai piedi di una quercia sacra, cui Romolo aveva appeso le armi di Acrone di Caenina (La Rustica?), monito ai poteri signorili nelle campagne che non intendevano assoggettarsi al sovrano: all’origine della città-stato vi è il sangue. La guerra era allora attività stagionale e, quando a fine estate i cittadini armati tornavano in città, il re deponeva le spoglie del nemico al lapis del Campidoglio: era l’ovatio. La pietra sacra sanciva anche il giuramento (iusiurandum). Con essa si uccideva una scrofa a monito dello spergiuro, destinato al fulmine di Giove. Era un modo di dare prevedibilità al futuro che venne chiamato ius. Sul Campidoglio è stato inventato il diritto, nel Foro la politica, sul Palatino il potere sovrano, da Romolo a Augusto. Sul Campidoglio era venerato anche un masso sacro a Terminus, dio delle inamovibili pietre di confine, garanzia delle proprietà pubbliche e private. Simboleggiava il centro dell’agro, il cui limite era segnato da un altro culto allo stesso dio, all’Acqua Acetosa. Terminus era anche il dio della fine dell’anno. Sul Campidoglio si osservavano le fasi della luna che regolavano il tempo festivo organizzato in un calendario di dieci mesi: quanto la gravidanza di una donna, più una ventina di giorni di sterilità dopo parto, che era il natale dei Romani, prima di diventare IL SINDACO La stanza del sindaco di Roma evidenziata nel profilo di Campidoglio e Foro Romano, tratto da Monumenti d’Italia- Le piazze, edito dall’Istituto Geografico De Agostini negli stessi giorni il natale di Cristo. Il calendario era presieduto da Giove che proteggeva le idi al culmine del ciclo lunare, e da Giunone che proteggeva le calende, all’inizio del ciclo lunare. Giunone aveva un suo luogo di culto sull’Arce e davanti al suo tempio c’era l’osservatorio del volo degli uccelli da cui si dominava l’urbs e l’ager. Questa è la prima Roma, da Romolo a Anco Marcio. Venne poi Tarquinio Prisco, grande signore cosmopolita (greco-etrusco-romano). Diede inizio a una rivoluzione antiaristocratica, che Servio Tullio — suo bastardo? — porterà a termine: servo della dimora regia fattosi tiranno per sconfiggere la fronda gentilizia e farsi amare dal popolo. Fu lui a ideare agli inizi del Sesto secolo avanti Cristo un nuovo Giove sul Campidoglio. Non più il triumviro divino, ma un Giove ottimo e massimo, che con le donne di casa — Giunone e Minerva — dominava ogni altro dio, un tiranno divino buono il cui rappresentante in terra era il tiranno buono umano... Per lui, non una capannetta, ma un tempio colossale, dove terminavano i trionfi (ma si continuò a giurare a Giove Feretrio). Tarquinio riuscì solo a cominciare i lavori, ma la statua di Giove in terracotta, prima statua di culto in forma umana, venne subito realizzata, per cui venne costruito sul Quirinale un tempietto (Capitolium Vetus) per ospitare la statua durante i lavori. Completò il tempio Tarquinio il Superbo, tiranno cattivo presto cacciato da Roma, dove i patrizi riguadagnarono il terreno perduto, fondarono la Repubblica e dedicarono il tempio trasformandolo in simbolo della res publica liberata dai re. Il calendario acquisì allora due mesi: gennaio e febbraio, ma dicembre è ancora l’ultimo mese pur alludendo ai dieci mesi del calendario primitivo. Chiunque si rechi nel Palazzo dei Conservatori può osservare le fondazioni immani del tempio capitolino: uno dei maggiori del Mediterraneo, manifestazione della grande Roma dei Tarquini. Dovrebbero andarci anche gli storici antichi che ritengono ancora che Roma sia nata come città al tempo dei Taurini e non in quello di Romolo. Si accorgeranno che nel Sesto secolo Roma non è neonata ma florida ragazza. Faranno concorrenza a questo Giove l’ApolloSole di Augusto sul Palatino e il Cristo di Costantino venerato in periferia. Così Roma è tramontata, ma il Campidoglio guadagnato alla democrazia è ancora parte ineliminabile della nostra identità: la cosa pubblica e il conseguente interesse generale. Roma è ancora da raccontare e, se non la narriamo, i turisti sciameranno verso le “città proibite”, contrario esatto della “città aperta” per eccellenza, miscuglio di latini, sabini, etruschi. Ma per raccontare Roma all’altezza dei tempi occorre smettere di guardare indietro, alla cartapesta delle passate dittature, e progettare una storia seria e comunicativa guardando in avanti, preparando il futuro. Teatro-portale di questo racconto deve essere il Museo della città previsto nell’edificio in fondo al Circo Massimo. Riusciremo nei prossimi anni a realizzarlo? PALAZZO SENATORIO Medaglia di papa Gregorio XIII (1572-1585) con la facciata di Palazzo Senatorio N 10 9 2 1 3 4 7 5 11 13 12 15 14 6 16 17 18 21 20 22 19 8 SESTO SECOLO AVANTI CRISTO La pianta descrive il Campidoglio del Sesto secolo a. C., all’epoca dei Tarquini 1 Iuppiter Optimus Maximus, aedes; 2 Terminus, ara; 3 Casa Romuli?; 4 Iuppiter Feretrius, aedes?; 5 Curia Calabra; 6 Porta Pandana/Saturnia; 7 Vieiovis, ara?; 8 Auguraculum; 9 Iuno, aedes; 10 Porta Fontinalis?; 11 Carcer; 12 Tullianum; 13 Scalae Gemoniae; 14 Saturnus, ara; 15 Clivus Capitolinus; 16 Sepulchrum Tarpeiae?; 17 Saturnus, aedes; 18 Vicus Iugarius; 19 Sepulchrum et ara Carmentae; 20 Porta Carmentalis; 21 Centum gradus; 22 Mura Repubblica Nazionale 40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 27 APRILE 2008 la società Esperimenti Sono finiti i tempi del fagiolo nel cotone. Ora in cento scuole elementari si coltiva sul serio. Grazie a maestre che hanno studiato con Slow Food, nonni entusiasti e soprattutto piccoli ma già informatissimi ambientalisti I bambini-contadini a lezione nell’orto MAURIZIO CROSETTI «S SAN MAURO TORINESE enti, la pimpinella sa di melone». Marika fa la quinta elementare e nella sua scuola c’è un orto. Si china verso la pianta, la accarezza e poi si annusa la mano. Infine, la allunga verso un naso un po’ scettico. Però sì, la pimpinella sa di melone, e anche un po’ di anguria. «Invece la maggiorana sa di chewing-gum». Proprio. Dopo la rotonda con la fontana c’è un semaforo, poi si svolta a sinistra e lì sta la scuola “Giorgio Catti”, una costruzione bassa che custodisce un segreto pieno di piante, erbe, frutti, fiori. C’è la serra. C’è il campo delle coccinelle. C’è l’orto dei semplici. E ci sono quelli di prima elementare che armeggiano con gli annaffiatoi accanto ad alberelli più alti di loro. I più grandi, uomini e donne di anni dieci, aiutano e spiegano. «Maestra, che insetto è? È po’ verde». La maestra Maria Grazia Vincoletto, che di campagna non sapeva niente ma ha studiato con Slow Food all’Università di Pollenzo e adesso è “formatrice”, insomma una maestra col bollino blu, risponde: «Direi un coccinellide. A occhio, un Cryptolaemus Montrouzieri». Ecco, appunto. La scuola che non t’aspetti invece c’è. E non sta a lontananze geografiche siderali, e neppure nei migliori mondi possibili, la Svezia, la Svizzera. Non rincorre le tre “i”, accontentandosi di qualche “p”, passione, pazienza, e di qualche “a”, ascolto, amore. Il progetto si chiama “Orto in condotta”. L’idea è di Slow Food, perché insegnare a coltivare significa anche imparare a mangiare, fare la spesa, conoscere la propria bocca e la propria pancia, oltre al profumo di un giacinto. Gli orti scolastici sono un’invenzione americana. La prima a pensarci fu Alice Waters, a metà degli anni Novanta, in California: studiò per i bambini un nuovo metodo di I DISEGNI I disegni delle pagine sono dei bambini della I B, II A e B, e V B della scuola elementare “Giorgio Catti”, San Mauro Torinese educazione alimentare, basato sull’attività pratica nell’orto e sullo studio e la trasformazione dei prodotti in cucina. Ogni scuola, un pezzo di terra. Lezioni di piante, fiori, frutti e cibo. Le mani nelle zolle, per imparare senza quasi accorgersene. Nacque il progetto The Edible Schoolyards, in Italia dal 2003: dire che ha messo radici è persino troppo facile. Oggi gli orti scolastici sono più di cento e coinvolgono quattromila bambini, oltre ai loro insegnanti, ai genitori e ai nonni (un motore fortissimo della faccenda, vedrete perché). Il Piemonte è la regione italiana con il maggior numero di “scuole verdi”: trentatré. E la città di San Mauro Torinese è stata tra le prime a crederci. Risultato: quattro scuole elementari e una dell’infanzia, sette orti, seicento bambini e ventuno volontari: tre papà, due mamme e il resto nonni come Alberto, Martino, Felice, Rocco e Luigi, eccoli qui insieme ai nipoti e alle maestre. «Facciamo i lavori più pesanti, zappiamo, prepariamo la baracca degli attrezzi, aiutiamo a piantare». Martino ha lavorato nei campi fino a diciotto anni, in provincia di Treviso. Poi l’emigrazione e la fabbrica, con l’orto sempre nel cuore. «Un pezzetto di terra l’abbiamo tutti, a casa o da qualche parte in paese», racconta Felice. «È bello fare le cose con i bambini: di noi si fidano. E noi abbiamo la memoria dei nostri padri e dei nostri nonni». I bambini vanno nell’orto nell’intervallo. «Ma solo chi vuole, non è obbligatorio, chi preferisce va a giocare», dice la maestra Maria Grazia, che i nonni hanno appena definito “un trattore”. «Però, quando c’è da seminare, bisogna muoversi, darsi da fare tutti. Tra poco è ora di insalate, ravanelli e carote». Sara, anche lei di quinta, vuole proprio raccontare la storia della salvia. «Un giorno ci siamo accorti che le piante erano piene di parassiti, però l’intervallo era già finito e non c’era tempo per fare niente. Dopo qualche giorno abbiamo visto che le coccinelle si erano mangiate tutti i parassiti». È il principio della coltivazione biologica: niente chimica, le piante proteggono le altre piante. «Nel campo delle fragole, il frutto tipico di San Mauro, abbiamo messo anche l’aglio e la cipolla che rilasciano sostanze antibiotiche naturali e proteggono i frutti. Si chiama con- Repubblica Nazionale DOMENICA 27 APRILE 2008 sociazione». Sara ha detto proprio così: rilasciano sostanze antibiotiche naturali. E poi, consociazione. «All’inizio, l’idea era quella vecchia del fagiolo nel barattolo con il cotone: vedere come cresce. Poi si è spalancato un mondo», dice la maestra che intanto convoca “gli ecologisti”. «Cioè la squadra dei bambini che puliscono e raccolgono le schifezze». Per seminare si segue il calendario lunare biodinamico, appoggiato sulla cattedra insieme agli altri libri e quaderni. Dietro la porta si allarga una nuvola di profumi un po’ stordenti, lì dietro ci sono le erbe aromatiche. Su un cartello c’è scritto a pennarello “Hortus Conclusus”. Perché, incalza Riccardo, nel Medioevo si chiamava proprio così. Accanto a ogni pianta c’è una targhetta con le notizie scaricate da Internet. E i nomi sembrano una filastrocca antica: liquirizia, cedrina, santoreggia, calendula, tanaceto, tagete («che puzza molto e tiene lontani i nemici!»), erba di San Pietro («ottima per le frittate»), ruta, rabarbaro, pimpinella («si trita ed è buonissima come salsa sui formaggi molli, poi aiuta nella mancanza di appetito»), dragoncello, lavanda. I bambini più grandi stanno giocando con quelli di prima, sembra mosca cieca ma non è: li bendano, e gli mettono sotto il naso le erbe da indovinare dal profumo. «Il gioco degli odori piace molto», conferma la maestra Enrica Valabrega. «A parte basilico, origano e rosmarino, è difficile che un ragazzino del 2008 ne riconosca altre con l’olfatto. A volte, andiamo a trovare gli anziani della casa di riposo di Sambuy, qui vicino. È stato commovente vedere una donna cieca che annusava le erbe, aiutata dai bambini». Insieme ai nonni, hanno costruito anche la compostiera. Lo racconta Valentina, quinta B: «È fatta a strati. Sopra si mettono i rifiuti organici, noi li portiamo anche da casa, abbiamo spiegato ai nostri genitori che è importante. Lo strato in fondo è quello della terra concimata che si chiama “compost” e si ottiene più o meno in otto mesi. Noi non usiamo né concimi chimici né pesticidi, mai». Riccardo “arieggia” il terreno sforacchiandolo con la punta di un forcone della sua taglia: «Così respira e diventa più fertile. Poi ci mettiamo della paglia sopra, in modo che non si indurisca». Tra una visita al vecchio mulino e un laboratorio di cucina, dove si fanno il pane e la pasta insieme alle nonne, si è realizzato pure il miracolo estremo: bambini che mangiano la verdura! Giorgia rivela di avere detto alla sua mamma che i broccoli della mensa sono più buoni di quelli di casa. «Abbiamo imparato a mangiare la frutta e la verdura di stagione, che è più gustosa e costa meno, e soprattut- LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41 Così riaffiora la terra nei giardini di cemento CARLO PETRINI n una scuola di un quartiere ispanico di San Francisco un mattino fui accolto da un’orda di bambini che mi trascinò nel vasto cortile dell’istituto, dove dominava il cemento. In un angolo, strappato al parcheggio dei professori, occhieggiava un fazzoletto di terra rigoglioso: piante di mais, pomodori, legumi, insalate e anche fiori. Tutto coltivato da quei piccoli simpatici studenti. L’entusiasmo che avevano nel mostrarmi i frutti del loro lavoro mi lasciò di stucco: oltretutto il contesto era molto povero, la zona era di quelle dove non vorresti trovarti solo di notte a passeggio. Un bambino che coltiva un piccolo orto, insieme ai suoi coetanei, oggi sembra un miracolo. Non soltanto in un quartiere difficile di San Francisco. È una forma di educazione rivoluzionaria. Perché ribalta il concetto di “somministrazione” dell’insegnamento e perché riavvicina intimamente ai ritmi della Natura, all’interno di contesti urbani in cui questa conoscenza è quasi del tutto sparita da almeno un paio di generazioni. Le ripercussioni di questo distacco traumatico, sull’alimentazione e sulla coscienza ecologica di milioni di persone, sembrerebbero irrecuperabili. Invece con un semplice pezzetto di terra si può realizzare qualcosa di efficace, e i risultati sono sorprendenti: la capacità dei bambini di assorbire conoscenza attraverso la semplice pratica, attraverso piccole scoperte quotidiane che fanno con i loro sensi, è qualcosa che in età matura diventa difficile. Le giovani generazioni sono il terreno più fertile su cui seminare un rinnovato sapere nei confronti del cibo e del territorio. Lo scambio di conoscenze intergenerazionale, l’impiego di volontari pensionati all’interno di questi progetti è poi un altro valore aggiunto. Si trasmette così una sensibilità destinata a sparire perché molti genitori, non per colpa loro, non sono più in grado di insegnare ai loro figli. E qui si realizza un altro piccolo miracolo, perché i bambini portano in famiglia quanto appreso a scuola, diventano dei piccoli moderni gastronomi, che sanno scegliere il loro cibo in funzione della qualità e del rispetto della Natura. Che i programmi ministeriali trascurino così tanto l’alimentazione e la conoscenza diretta della Natura rimane un mistero: forse rispecchiano ancora la sensibilità di un tempo in cui la campagna e il mestiere del contadino dovevano essere accantonati nel nome della modernità, quasi fossero un peccato originale di povertà e di pochezza culturale. Quel tempo è finito, e dobbiamo ringraziare tutti quegli insegnanti, quei genitori e quei nonni che si impegnano con passione in qualcosa che riuscirà realmente a cambiare l’approccio di tanti futuri cittadini al cibo, e quindi anche alla Terra su cui vivono. Un rispetto sacrale, che nasce dall’intima conoscenza, dal contatto diretto: dire che in questo caso i libri servono a poco non è facile retorica, è una “comoda verità” che spero moltiplichi gli orti scolatici in tutta Italia. I to è locale. Se viaggia poco, inquina poco perché non la devono trasportare i camion». A proposito: è anche successo che i ragazzini della scuola “Catti” si siano accorti che in mensa veniva servita acqua minerale umbra. «Con tutta l’acqua che abbiamo in Piemonte! E allora hanno chiesto di cambiare fornitori. Sono tremendi, leggono tutte le etichette», dice la maestra-trattore. «Insieme all’insegnante di matematica abbiamo fatto un lavoro sulle distanze che percorrono i cibi e sui costi che variano secondo i periodi dell’anno. Così i bambini imparano un po’ di statistica, di geografia e magari suggeriscono alle famiglie come si dovrebbe fare la spesa». Zappano, strappano le erbacce, annaffiano («solo la terra e mai la pianta»), spingono la carriola, ascoltano i nonni, aiutano i più piccoli. Ma cos’è, il paradiso dell’educazione? La vera riforma della scuola, magari? «Noi vogliamo solo conoscere. I bambini prendono le erbe, le fanno seccare, le plastificano tra due fogli trasparenti e poi scrivono la loro ricerca». Tutto semplice, sporcandosi le scarpe e le mani. E quelle stesse erbe le macinano, le mettono nei sacchetti e poi le vendono al mercatino: con il ricavato si comprano le cose utili all’orto, per esempio il sangue di bue secco che è un ottimo concime, oppure il “litotamnio”, una polvere di alghe coralline: «Soffoca i pidocchietti», spiega Marika. «Invece l’euforbia è repellente, tiene lontani i topi e le talpe». Secondo miracolo, dopo quello della verdura nel piatto: topi e vermi non fanno schifo ai bambini. Anzi, Riccardo ha piazzato sotto il naso della maestra un bastoncino dove un bel millepiedi arancione fa il contorsionista. «Prendere in mano le bestioline e osservarle, questo è davvero educativo. Abbiamo anche girato un piccolo film sui lombrichi». E poi naturalmente si mangia. L’anno scorso, con sette enormi zucche hanno preparato il risotto per tutta la scuola. Nell’orto ci sono quattro varietà di peperoncini, vicino a fiori all’apparenza gentili («però attenzione, il mughetto è velenoso!») e alle piante da frutto messe lì dai nonni: un melograno, un fico, tre varietà di meli antichi della Valgrana e quattro ciliegi donati dal sindaco di Pecetto. Uno scambio culturale niente male: a Pecetto, il paese delle ciliegie, San Mauro ha risposto con le sue favolose fragole. Le stesse che cresceranno nel campo della scuola: ora sono un tappeto di fiori bianchi, ma tra poco diventeranno rosse e succose. Sul loro destino vigila, sotto il sole tiepido di aprile, uno spaventapasseri vestito da sposa. www.mikado.it Repubblica Nazionale 42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 27 APRILE 2008 CULTURA* Occhio l’ Quel cuore che guarda e ci fa conoscere il mondo DANIELE DEL GIUDICE guardo penetrante, un tempo, non era un modo di dire, ma corrispondeva, per esempio in Marsilio Ficino e nei neoplatonici, all’idea che dall’occhio di chi guardava si dipartisse qualcosa che raggiungeva l’occhio del guardato, o della guardata, lo toccava, lo colpiva, lo impressionava, lo penetrava. Per questo, forse, le figure femminili in Dante e Petrarca tengono gli occhi bassi, non soltanto per pudore o riserbo della propria “anima”, ma per non essere penetrate da ciò che muove dall’occhio altrui, preservando così un’ulteriore verginità. Il vedere non è dunque sempre vissuto come un atto incorporeo, né come una mancata relazione fisica con l’oggetto della visione. Piuttosto l’occhio governa e fa premio su tutte le percezioni, concentra tutto con un solo organo e un solo senso, escludendo gli altri. Nel nostro tempo il vedere, più che un atto, è diventato una azione, talvolta la nostra azione principale, spesso merce e lavoro: non si è mai guardato tanto e visto tanto, e mai così forte è stata l’illusione che non esista più alcun mistero, alcun invisibile. Quando c’è l’immagine, non c’è la cosa. È un’eventualità che la filosofia stoica conosceva perfettamente, sebbene ritenesse che la cosa o la persona si fossero momentaneamente allontanate. Oggi, al contrario, le cose sembrano sparite sempre più, ed è l’immagine che è diventata indubbiamente cosa, oggetto di mestiere e di commercio. È difficile dire se tutto questo vedere consumi l’occhio. È possibile però che consumi i sentimenti. Le nostre emozioni davanti alle immagini, così come le opinioni che ci formiamo all’istante e poi lasciamo subito cadere, si accendono e bruciano in un attimo, totalmente intransitive, e incontrollabili come una salivazione. Non so da quando, ma le immagini hanno preso a scorrere come una specie di ritmo visivo, un ritmo di sottofondo, o meglio di rumore visivo di fondo, seguendo in questo il destino che fu già della musica e dell’ascolto. Vedere è un’azione, e ci sono le buone azioni e le cattive azioni. Cos’è un “buon” vedere? E cosa un “cattivo” vedere? Non posso pensare che dipenda dall’oggetto della visione; l’osceno, credo, non esiste, non c’è nulla di avverso, nulla che si “ponga contro” il nostro occhio. Dipende da noi, dal nostro modo di vedere che resta segreto, una questione del tutto privata. sped. abb. post. - comma 26 - art. 2 legge 549/95 Maggio 2008 - N° 1 S A differenza delle altre azioni, non c’è nessuno a cui dobbiamo rendere conto del nostro occhio che vede, nessuno (se non un oculista, il quale tuttavia non cura l’anima e giudica solo in termini di metropia) che possa domandare: il suo occhio com’è? lei come vede? Per costruire un sentimento del vedere — poiché di questo si tratta — non c’è autorità di insegnamento né ci sono prove da superare, non precetti né consigli. Eppure è solo un sentimento del vedere, un cuore che guarda, che può redimere, se non noi stessi almeno le immagini che il nostro occhio percepisce. René Guénon nel suo Simboli della scienza sacra dedica un paragrafo all’occhio che vede tutto, nel capitolo sul simbolismo del cuore. Uno dei simboli comuni al cristianesimo e alla massoneria, ricorda, è il triangolo nel quale è inscritto il Tetragramma ebraico oppure lo iod che può esserne considerato un’abbreviazione, sorta di “terzo occhio”, né destro né sinistro, un occhio frontale come quello di Shiva, né solare né lunare, corrispondente al fuoco, il cui sguardo riduce tutto in cenere perché esprime il presente senza dimensioni, cioè la simultaneità, e così distrugge ogni manifestazione. L’occhio unico e senza palpebra è il simbolo dell’essenza della conoscenza divina. L’occhio unico del ciclope indica al contrario una condizione subumana. Come subumana è la condizione di Argo, Argo Panoptes, «che tutto vede», gigante con un solo grande occhio secondo alcuni miti, ma secondo altri con quattro, due davanti e due dietro, e secondo altri ancora con cento occhi (dormiva chiudendone cinquanta per volta) oppure con un’infinità di occhi disseminati sull’intero corpo, che non si chiudevano mai tutti insieme, una vigilanza rivolta esclusivamente all’esterno. Di una persona molto accorta i Greci dicevano che era un Argo oppure che aveva più occhi di Argo. L’occhio umano è un simbolo universale di conoscenza, l’apertura degli occhi è un rito di apertura alla conoscenza, un rito di iniziazione. Ma l’occhio ha colpito l’immaginario comune innanzitutto per la sua forma ovale e per la sua condizione di luogo aperto/chiuso, da cui qualcosa può entrare e qualcosa può uscire. Nella lingua italiana l’occhio ha infinite declinazioni. Oltre che l’organo della vista e l’apparato visivo o anche la capacità di leggere bene, vuol dire, ad esempio, il foro aperto in una porta o una parete per spiare di nascosto, oppure la toppa della serratura, oppure i buchi nella mollica del pane ben lievitato, o ancora, in architettura, ogni il mensile per chi legge CHELIBRI India Express C un viaggio nella letteratura del Paese delle vacche sacre S da Caterpillar ai libri, la politica fai da te S N Letture per prenderla con filosofia A V il romanziere del lago mensile - anno I - numero 1 - € 3,00 CHE LIBRI il mensile per chi legge, per chi non legge, per chi ha voglia di leggere ma non ha tempo, per chi ha tempo ma ha già letto tutto. in edicola a solo 3 € Repubblica Nazionale DOMENICA 27 APRILE 2008 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43 IN LIBRERIA Uscirà nella seconda metà di maggio nella collana Nuova Cultura di Bollati Boringhieri il libro di Waldemar Deonna Il simbolismo dell’occhio (a cura di Sabrina Stroppa, Introduzione di Carlo Ossola, 352 pagine, 35 euro) Si tratta di uno straordinario percorso erudito che ricostruisce il ricchissimo uso simbolico che dall’antichità è stato fatto dell’occhio, nella cultura, nell’arte e nelle religioni (l’occhio è stato infatti usato per significare la divinità) L’archeologo svizzero Waldemar Deonna (1880-1959) studiò alla scuola francese di Atene. Dal 1920 al 1955 fu professore di archeologia a Ginevra. Nel 1932 fondò la rivista Genava. Dal 1922 fu inoltre direttore del Museo di arte e di storia e del Museo archeologico di Ginevra e dal 1950 diresse la nuova Biblioteca di arte e di archeologia Le Symbolisme de l’oeil fu pubblicato postumo nel 1965 a Parigi Ha rappresentato la divinità e la conoscenza; è una metafora, un simbolo, un’ossessione. Mentre il libro di un famoso archeologo, per la prima volta tradotto, ci trasporta attraverso i millenni per ripercorrere l’uso culturale che è stato fatto di questo meraviglioso organo del nostro corpo, uno scrittore ci invita a sperimentare “il sentimento del vedere” apertura circolare o ellittica. Anche le chiazze naturali sulle piume, il pelo o la pelle di certi animali si chiamano occhi, come le macchie azzurre sulla coda del pavone, e anche le macchie evidenti sulla superficie di marmi o pietre. Occhi sono i dischi del capolino di una margherita o di un girasole, o i cerchi su una superficie liquida agitata. Alcune cose escono dagli occhi, e qualcuno può andare per occhio, cioè colare a picco con la sua nave. L’occhio pineale è l’ossessione di Georges Bataille. Come lui stesso ricorda nella Critica dell’occhio, quest’idea risale al 1927 e risponde probabilmente alla sua concezione anale, cioè notturna, del disco solare. Scrive: «Mi raffiguravo l’occhio in cima al cranio come un orribile vulcano in eruzione, proprio con il carattere losco e comico che si attribuisce al di dietro e alle sue escrezioni. Ora l’occhio è senza alcun dubbio il simbolo del sole abbagliante, e quello che io immaginavo in cima al mio cranio era necessariamente infuocato, essendo votato alla contemplazione del sole al sommo del suo splendore». Scrive ancora: «Io non esitavo a pensare seriamente alla possibilità che quest’occhio straordinario finisse per farsi strada attraverso la parete ossea della testa, perché credevo necessario che dopo un lungo periodo di servilità gli esseri umani avessero un occhio speciale per il sole (mentre i due occhi che sono nelle orbite se ne allontanano con una specie di ostinazione stupida). Non ero pazzo ma davo senza dubbio eccessiva importanza alla necessità di uscire in una maniera o nell’altra dai limiti della nostra esperienza umana […]». Buono o malvagio, qualunque sia il sentimento del suo vedere, l’occhio è sempre oggetto di acute inquietudini e suscita comunque emozioni contrastanti. Ancora Bataille, scrive che non c’è nulla di più seducente dell’occhio, nulla di più attraente nel corpo degli uomini e degli animali, e in questo appealè simile al filo della lama. D’altra parte, la seduzione estrema è al limite dell’orrore, ed è forse quello che ha ispirato Salvador Dalì e Luis Buñuel nel film Chien andalou, dove un rasoio incideva l’occhio di una donna giovane e affascinante sotto lo sguardo di un uomo, ammirato fino alla follia, che tiene in mano un cucchiaino da caffè e improvvisamente ha voglia di prendersi un occhio nel cucchiaino. Voglia piuttosto singolare per un occidentale la cui cultura gli impedisce di mangiare l’occhio dei buoi, degli agnelli o dei maiali. È golosità cannibale, secondo l’espressione di Robert Louis Stevenson. Nessuno di noi morderebbe mai un occhio. Ci sono quelli che non danno troppa importanza all’occhio e al suo vedere, e preferiscono sentire. Era appunto il caso di Stevenson nella sua ultima e appassionata discussione letteraria. Quando l’amico Henry James gli lamentò di non vedere nulla nel romanzo Catriona — «ho l’impressione di trovarmi in presenza di voci nell’oscurità, voci tanto più distinte e vivaci […] quanto lo sguardo resta occultato» — Stevenson gli rispose con una frase memorabile: «Ascolto le persone parlare e le sento agire, il racconto mi sembra questo. I miei due obbiettivi possono essere descritti così: 1. guerra all’aggettivo e 2. morte al nervo ottico». Secondo Stevenson «la letteratura è scritta per e da due sensi: una specie di orecchio interno, lesto a percepire melodie silenti, e l’occhio che — semplicemente — guida la penna e decifra la frase stampata. Ebbene, proprio come vi sono rime per l’occhio, così noterete che esistono assonanze e allitterazioni». E poi ci sono quelli che preferiscono l’assenza dell’occhio, come José Saramago che ha scritto uno dei suoi migliori romanzi, Cecità, straordinaria metafora di una perdita del vedere nei nostri tempi. Quanto all’“occhio della coscienza”, poco prima di morire, nel 1847, l’illustratore fantastico e caricaturista francese Jean-Ignace-Isidore Gérard, detto Grandville, sognò quest’occhio ossessionante e lugubre, occhio vivente e totalmente vigile. Lo raccontò in Crime et expiation, e Victor Hugo lo riprese. L’aspetto assolutamente negativo dello sguardo invidioso, pieno di cattive intenzioni, l’occhio malevolo, cioè il malocchio, mal d’occhio, è ancora molto vivo nella cultura mediterranea. Ci sarebbero occhi particolarmente pericolosi, come quelli delle donne anziane, ma anche delle vipere o dei gechi, perché l’intero mondo animato partecipa di questa presa di potere su altro e altri. E particolarmente sensibili al malocchio sarebbero i bambini, le puerpere, il latte, il grano ma anche cavalli, cani e il bestiame in generale, perché il malocchio può uccidere gli animali. Come difendersi dal malocchio: con veli che nascondono allo sguardo, fumigazioni profumate, ferro rosso, sale, corni, mezzelune, ferri di cavallo, mani di Fatima. Per la posizione nel corpo, e nella preminenza sulle percezioni del nostro mondo, l’occhio, il suo simbolo, la sua parola stessa si adeguano all’infinito: occhio del ciclone, occhiolino, occhiello, occhio di bue, occhio di gatto, locuzioni tutte riguardanti tutt’altro. Fondazione Centro Sperimentale di Cinematografia Pubblicati i Bandi di concorso per l’accesso alla più antica Scuola di cinema al mondo Sede di Milano - Corso di creazione e produzione Fiction - Corso di Cinematografia d’impresa Documentario e Pubblicità le domande dovranno pervenire entro il 5 maggio 2008 per informazioni: [email protected] Sede di Roma - Corsi di Fotografia, Montaggio, Produzione, Recitazione, Regia, Scenografia-Arredamento-Costume, Sceneggiatura, Tecnica del suono le domande dovranno pervenire entro il 31 maggio 2008 per informazioni: [email protected] Sede di Torino - Corso di Animazione le domande dovranno pervenire entro l’11 luglio 2008 per informazioni: [email protected] I Bandi di Concorso sono disponibili sul sito: www.csc-cinematografia.it Repubblica Nazionale 44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA la lettura Anticipazioni DOMENICA 27 APRILE 2008 Oxford, 1919. La guerra è finita, i reduci tornano a casa a ricucire le proprie vite. Tra loro, un esperto di miti nordici che sta scrivendo la sua Grande opera “Piacere, Lawrence”. “Tolkien” L WU MING 4 a pista si perdeva tra i ghiacci. Il mostro cercava il suo elemento. Scovarlo era un’impresa degna di Beowulf e degli impavidi Geati. Per metà cavallo e per metà balena, con zanne affilate come spade, l’essere poteva muoversi a piacimento nell’oceano e sulla terraferma. Gli antichi inglesi lo chiamavano Horschael. Il nome aveva raggiunto l’isola sulle navi vichinghe. Hrosshvalr o Rosmhvar, lo appellavano i norreni: il cavallo marino, la balena anfibia. Per scovarlo bisognava riattraversare il mare del Nord fino a toccare i fiordi norvegesi, dove di solito si nascondeva. Lassù si poteva avvistare il suo nero dorso frangere i flutti. L’animale fuggiva sentendo il battere dei remi sull’acqua; nuotava verso il circolo polare, dove la banchisa avrebbe bloccato la chiglia delle navi baleniere. Sulla vetta del mondo i lapponi lo chiamavano Morsa, animale sacro da rispettare e temere. Ma l’inseguimento si spingeva ancora oltre, doppiava il Capo Nord e raggiungeva la terra dei finni. Nella loro lingua la chimera zannuta era detta Mursu. Sulle rocce piatte, ormai spossata, attendeva il colpo dell’eroe, che dalla prua scagliava l’arpione e la trafiggeva spaccandole il cuore. La penna centrò il portamatite e lo ribaltò sul tavolo. Il rumore fece voltare tutti. L’occhiata del professor Bradley solcò la stanza fino a inchiodare il responsabile. Ronald si affrettò a raccogliere i lapis e si rimise al lavoro. La luce del pomeriggio iniziava a calare. Guardò l’orologio: un quarto alle quattro. Aveva impiegato troppo tempo per l’etimologia della parola walrus, tricheco. L’aveva inseguito fino al Polo Nord. Del resto si era dilungato perfino su waggle, agitare, e già paventava le infinite accezioni di want, volere. Una distesa di foglietti fitti di appunti ricopriva la scrivania. La maggior parte erano attraversati da serpentine o già accartocciati. Ipotesi, tentativi di battere piste sconosciute. Per il tricheco ne aveva azzardate ben sei. Serviva a sopportare la noia di quel lavoro compilativo. Bradley invece aveva fretta, le ultime lettere del Dizionario dovevano essere pronte entro un anno. Si era già dovuto aspettare anche troppo: che finisse la guerra, «che la civiltà della parola riprendesse il sopravvento sulla barbarie delle armi», che la squadra di lavoro venisse ricomposta colmando le defezioni inflitte dal Kaiser. Ronald era lì per quello. E perché, nonostante la lentezza, era bravo. Bradley lo sapeva. Pochi tra i giovani collaboratori padroneggiavano le lingue nordiche come lui. Inoltre era lì perché lo pagavano: con una famiglia a carico, c’era poco da essere schizzinosi. Ronald amava le parole, ma in un modo privato e peculiare. Erano arcani, enigmi da risolvere, contenevano storie, abbracciavano secoli e continenti. Ogni parola ne suggeriva altre, forse mai pronunciate, ma del tutto plausibili, ancora più dense di significati e rimandi, quindi più vere. Ma tra quelle pareti non ci si poteva spingere troppo in là, vigeva un limite invalicabile. Nell’ottica dei fondatori, l’Oxford English Dictionary doveva essere la pietra miliare della civiltà britannica, la summa di ciò che si era detto in inglese e di come lo si era det- to dall’alba dei tempi all’evo moderno. La fantasia restava fuori dalla porta. «Parole, parole, parole» era la citazione preferita da Bradley, la ripeteva talmente spesso che a volte non se ne accorgeva nemmeno, lo faceva sovrappensiero, tra sé e sé. Ronald detestava Shakespeare. Trovava incredibile quante occorrenze gli spettassero, come se avesse voluto usare tutti i vocaboli possibili. Un vero usurpatore della lingua, vorace e ingordo. Qualcuno iniziò ad alzarsi e accomiatarsi con sobri cenni di saluto. Il grigiore delle mansioni contagiava i costumi. Parlare a bassa voce, muoversi il minimo indispensabile. Ronald si era adattato. Uscì dalla vecchia sede del museo, concessa ai compilatori del Dizionario per portare a termine la grande opera. Broad Street era ancora sgombra dal via vai di toghe e colletti inamidati che in capo a un’ora l’avrebbero riempita. La percorse fino all’angolo e si diresse verso casa. All’incrocio successivo si fermò a contemplare il nuovo palazzo dell’Ashmolean, che biancheggiava sul lato di Beaumont Street. La scalinata, le linee neo- classiche dell’edificio, il frontone sorretto da quattro colonne ioniche, ogni dettaglio magnificava la gloria di chi, grazie alla propria fama, aveva convinto l’università a trasferirvi il museo. Sir Arthur Evans non si sarebbe accontentato di niente di meno per contenere i ninnoli di re Minosse che aveva portato alla luce con tanta cura. Archeologi e classicisti regnavano sovrani nella Nuova Arcadia Oxoniense. Per loro si costruivano palazzi. I filologi dovevano accontentarsi degli edifici dismessi. Fu proprio al museo che si diresse. Da qualche tempo aveva preso quell’abitudine, una deviazione prima di tornare a casa, un innocuo segreto. A quell’ora le sale erano deserte, mancava poco alla chiusura. All’ingresso il custode lo salutò portandosi la mano alla visiera. Per qualche oscura ragione lo credeva un artigliere suo commilitone e per questo gli concedeva di trattenersi qualche minuto fuori orario. Ronald era stato nei Lancashire Fusiliers, ma non si era mai presentata l’occasione di smentire quell’uomo, quindi poteva indulgere nell’equivoco senza sentirsi in colpa. Repubblica Nazionale DOMENICA 27 APRILE 2008 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45 Finché un giorno piomba all’università l’uomo che ha guidato la rivolta araba per Sua Maestà È “Stella del mattino”, il nuovo libro di Wu Ming 4 Eroe schivo o attore vanesio? STEFANO MALATESTA l vero caso di T.E. Lawrence non è nato al tempo delle sue imprese in Arabia, durante la Prima guerra mondiale, ma quasi trent’anni dopo, nel 1955, con la biografia di Richard Aldington, un piccolo monumento di perfidia letteraria. Aldington aveva cominciato a scrivere queste stroncature ai danni dell’altro Lawrence, D.H., e poi di Norman Douglas suscitando polemiche e malumori. Ma quando apparve in libreria, Lawrence of Arabia. A Biografy Enquiry, l’indignazione salì alta nei cieli fino alle eccelse cime dell’establishment inglese. Fino a quel momento i suoi innumerevoli estimatori, tra cui Winston Churchill, erano riusciti a impedire che dubbi e perplessità sulle imprese in Medio Oriente superassero un certo limite o venissero troppo alla scoperto. Per tutti o quasi tutti Lawrence era un eroe-martire, dotato in egual misura di capacità guerrigliere e di nobile spiritualità, tradito alla fine dal suo stesso governo che si era servito di lui per ingannare le tribù hashemite dell’Arabia, promettendo loro quello che era già stato diviso tra Francia e Inghilterra con l’accordo Sykes-Picot. Come inviato dei servizi segreti inglesi presso la corte hashemita, aveva avuto un notevole successo, spingendo le tribù arabe a ribellarsi al vassallaggio ottomano. La sua quasi copia conforme, il capitano Shakespeare, mandato sempre dagli inglesi presso Ibn Saud, carismatico e spietato capo dei Wahabiti, tradizionali rivali degli Hashemiti, era stato meno fortunato, rimanendo ucciso durante uno dei primi scontri, mentre Lawrence aveva conquistato Aqaba, fatto saltare alcuni treni e dato fastidio alle guarnigioni turche. Durante la Prima guerra mondiale c’erano stati altri giovani ufficiali che avevano combattuto con temerarietà e compiuto audaci imprese, anche dall’altra parte della barricata: Erwin Rommell, la futura volpe del deserto, con poco più di cento uomini a Caporetto aveva catturato l’intera brigata Salerno ed era stato portato in trionfo sulle spalle dei soldati italiani che non volevano più combattere. In Tanzania, il maggiore Von Lettow Vorbeck, oggi ritenuto dal Pentagono il più grande tattico della guerriglia che ci sia mai stato, con tredicimila ascari per cinque anni aveva preso in giro oltre duecentocinquantamila soldati anglo-indiani riuscendo a batterli in tutti gli scontri e a non farsi mai prendere. Se Lawrence diventò così famoso da oscurare qualsiasi altra fama guerresca dell’epoca fu perché gli inglesi videro nelle sue imprese una forma di riscatto per una guerra spaventosa, che non aveva avuto nulla di glorioso, condotta per quasi cinque anni sul fronte occidentale da comandanti spesso incompetenti e anche imbecilli. Il fronte orientale, teatro delle operazioni di Lawrence, aveva contato molto poco nella strategia globale dell’Inghilterra, scesa in campo per battere la Germania. Ma l’epopea araba con tutto il suo contorno romantico, sembrava creata apposta per dimenticare le trincee della Somme. A questo mito Lawrence aveva dato più di una mano: diciamo pure, ne aveva scritto soggetto e sceneggiatura, fingendo di essere un tipo schivo e nello stesso tempo assicurandosi la copertura dei giornalisti. Queste e altre contraddizioni erano state rilevate, ma al tempo stesso rimosse, fino al libro di Aldington, certamente non un membro della confraternita “Fate bene fratelli”. Il ritratto che veniva fuori dalla sua inchiesta biografica era esattamente l’opposto di quello tramandato dalla vulgata: un personaggio sempre in maschera e dunque impossibile da definire, un attore consumato e estremamente vanitoso, un raccontatore di balle formidabile quando c’era da mettersi in mostra. In particolare la storia della presa di Damasco, così come era stata raccontata nel suo libro I sette pilastri della saggezza (e riportata come verità indiscussa anche dai cinque autori paracinesi della Stella del mattino), da parte dei leggendari beduini Howeitat guidati dallo stesso Lawrence e dal loro capo Auda abu Tayi, temibile capo arabo, era pura invenzione. A sconfiggere i Turchi erano stati gli australiani, fermati all’ultimo momento da Allemby, che aveva preferito per chiare ragioni politiche che fossero degli arabi e dei musulmani ad entrare per primi a Damasco (così come nella Seconda guerra mondiale Eisenhower fermò gli americani, che già stavano distribuendo caramelle Life savers e cioccolata lungo i viali della periferia di Parigi, accogliendo la richiesta di De Gaulle di fare entrare per prime le truppe francesi nel giorno della liberazione della loro capitale). E se era vero che l’accordo Sykes-Picot era un pasticcio infernale, che peserà in modo totalmente negativo su tutte le future vicende mediorientali, gli uomini dei governi inglesi non erano stati imbecilli fino al punto di promettere qualcosa che non potevano nemmeno far finta di mantenere. Il loro disegno, assolutamente classico nella tradizione dell’impero, era quello della “Indirect rule”, con la creazione di stati arabi solo in apparenza indipendenti, che avrebbero preso l’imbeccata da loro o dai francesi. Un fatto di cui Lawrence doveva aver avuto sicuramente conoscenza, per poter calibrare i rapporti con gli Hashemiti. Quanto a Feisal, il “magnifico” ed esangue principe dai nobilissimi intenti, interpretato stupendamente nel film su Lawrence da Alec Guinness, era un tipo sufficientemente degradato e lontano dalla leggiadra miniatura disegnata da Lawrence ne I Sette pilastriper dirigere un governo corrotto e incapace quando venne nominato dagli inglesi re dell’Iraq, arrivando a far uccidere nel 1924 un suo rivale politico, Taufiq al-Khalid. Aldington era ancora più devastante nell’accurata descrizione del carattere proteiforme, diciamo così, dell’eroe che aveva finto tutta la vita di detestare la pubblicità e l’eccessiva esposizione delle sue vicende. Ma che ogni giorno andava in casa dei suoi biografi, gente del calibro di Robert Graves e di Liddle Hart, il migliore storico militare del secolo, a rivedere le bozze, a correggerle di sua mano, arrivando al punto di riscrivere interi capitoli. Da allora parlare di lui è diventato molto difficile, perché ci si muove su terreni paludosi e su sabbie mobili, con pochi punti fermi e sicuri. E con la poco simpatica sensazione di stare scrivendo delle agiografie quando ci sono delle cose in positivo e di essere accusati di denigrazione alla prima nota negativa. ILLUSTRAZIONE DI GIPI I Superò le collezioni minoiche e filò al piano di sopra. Quando entrò nella sala sentì una sottile emozione solleticargli la nuca. L’illuminazione degli espositori era l’unica fonte di luce rimasta. La grande teca ottagonale dominava il centro della stanza. Da lontano era già un bel colpo d’occhio vederli disposti sul piano inclinato, quasi a formare una freccia puntata verso l’alto. Anelli. Forme e dimensioni erano le più svariate. Angeli e dragoni, croci e stemmi, perle e pietre preziose. Erano appartenuti a papi, vescovi, principi italiani. Cerchi che racchiudevano patti tra gli uomini, vincoli di potere, il senso di una fede immortale. Alcuni suggellavano un vincolo coniugale sopravvissuto agli stessi amanti, e forse celavano motti incisi all’interno. Sfiorò il vetro col naso per osservarli meglio. La fascetta d’oro che portava al dito era ben poca cosa davanti a quello sfarzo. Pensò a Edith, a quanto l’amava. Si sentì in colpa e gli venne voglia di correre a casa. Voltandosi trasalì e quasi urtò la teca. C’era qualcuno sulla soglia, una sagoma illuminata a malapena. Un piccolo essere, anche più basso di lui, con una grossa testa. Gli ricordò l’illustrazione di un goblin su un libro di favole di quando era bambino. Rabbrividì, proprio come allora davanti a quella pagina. «Domando scusa — disse l’uomo minuto — Credevo non ci fosse più nessuno». Si avvicinò a passi piccoli e delicati. Ronald lo osservò sbirciare oltre il vetro. Aveva occhi di un azzurro intenso che catturavano la luce. «Provo spesso a immaginare chi li portava al dito». Sembrava alludere a un discorso iniziato da tempo. Ecco uno che condivideva il suo segreto. «Uomini che reggevano il peso del potere» disse Ronald. Per un attimo l’altro parve incupirsi, ancora sovrappensiero. «Chissà se tutti ne erano all’altezza». «Immagino di no. Il potere corrompe — Ronald diede un colpetto di tosse — Credo che il museo sia chiuso». «Oh, non sono un visitatore — rispose l’altro, gli occhi sulla collezione di anelli — E nemmeno un ladro» ammiccò. «Avevo un appuntamento con il diret- IL LIBRO Si intitola Stella del mattino (Einaudi, 401 pagine, 16,80 euro) il nuovo libro di Wu Ming 4, uno dei membri del collettivo Wu Ming Il romanzo mescola vite e ricordi di personaggi storici come Lawrence d’Arabia, J.R.R. Tolkien e Robert Graves all’indomani del primo conflitto mondiale In libreria il 29 aprile tore. Lei viene qui spesso?». «No — mentì Ronald — Lei sì?». «Ci venivo prima della guerra. Mi perdoni, — disse mostrando la mano destra bendata e porgendo la sinistra — Mi chiamo Lawrence». Ronald si adattò. «Tolkien». * * * «Hai fatto tardi. La cena si è freddata». Ronald poggiò la valigetta sulla sedia nell’ingresso, baciò la moglie e lasciò che gli sfilasse il soprabito. «Scusa. Mi hanno trattenuto». Il piccolo John gli corse incontro rischiando di inciampare e pretese d’essere preso in braccio. Il suo riso infantile tolse a Ronald l’aria trasognata che si era portato dietro dalla sala degli anelli. Scherzò per qualche minuto con il figlio, poi sedette a tavola. Di fronte a lui, Edith lo osservò mangiare in silenzio. Parlò soltanto quando ebbe finito. «Vuoi dirmi che ti è successo?». (© 2008 by Wu Ming 4. Published by arrangement with Agenzia Letteraria Roberto Santachiara) Repubblica Nazionale 46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 27 APRILE 2008 SPETTACOLI Nella memoria di chi era ragazzo allora, la colonna sonora del Sessantotto è una chitarra che accompagna strofe incendiarie oppure tributi commossi al “comandante Che Guevara”. In realtà, l’anno comincia con la “lacrima al vento” di Adamo e prosegue con Mino Reitano, Maurizio dei New Dada... Nuovi libri e cd in uscita aiutano a rimettere i ricordi nella giusta prospettiva Canzoni ribelli Paolo Pietrangeli Che roba contessa, all’industria di Aldo han fatto uno sciopero quei quattro ignoranti; volevano avere i salari aumentati, gridavano, pensi, di esser sfruttati [...] Compagni dai campi e dalle officine prendete la falce, portate il martello, scendete giù in piazza, picchiate con quello [...] Da CONTESSA Una contessa e 44 gatti EDMONDO BERSELLI rima di dire che il Sessantotto è stato un’esplosione di libertà e creatività, di immaginazione e fantasia, di questo e di quello, e che la società a quel tempo si diede una mossa, e che nacquero fermenti e si svilupparono tendenze, bisogna fare mente locale e controllare a puntino i documenti. Tecnica di San Tommaso, metterci il dito. Quindi si può prendere con una certa fiducia il libro di Riccardo Bertoncelli e Franco Zanetti, Avant Pop ’68, titolo difficile da pronunciare davanti a qualsiasi libraio, che sta per uscire in questi giorni per la Rizzoli Bur, con il sottotitolo fortunatamente più evocativo che recita Canzoni indimenticabili di un anno che non è mai finito. La fiducia deriva dal fatto che la coppia di autori composta da Bertoncelli e Zanetti è un marchio di fabbrica eccellente: basta non lasciarsi fuorviare dal vecchio ricordo di Bertoncelli motteggiato ai tempi dei tempi da Francesco Guccini (per ritorsione dopo una recensione ispida) in una delle strofe dell’Avvelenata («tanto ci sarà sempre, lo sapete, un musico fallito, un pio, un teorete, un Bertoncelli, un prete, a sparare cazzate »), e considerarne soltanto la lunga carriera di critico, collezionista e musicofilo; e poi avere presente per benino la vicenda di agitprop culturale di Zanetti, animatore della rivista online Rockol (www. rockol. it), ma soprattutto inventore di iniziative pazzesche come le canzoni di Battisti-Panella eseguite in una bellissima forma oratoriale, e come il concerto battistiano per le 172 bande che in tutta Italia eseguirono contemporaneamente La canzone del sole, a sette anni giusti dalla scomparsa del «maestro solitario». È sufficiente quindi aprire il libro di Bertoncelli e Zanetti per accorgersi che per parlare decorosamente delle canzoni del Sessantotto, e magari degli «anni Sessantotto» (come cita Anna Bravo nel suo recentissimo e serissimo saggio laterziano sulla cultura dell’anno fatale, A colpi di cuore), occorre in primo luogo spogliarsi dei pregiudizi e di un’intera fila di luoghi comuni. Almeno per quanto riguarda le canzoni popolari, infatti, il Sessantotto ci ha messo molto tempo a ingranare. Se si scorrono le classifiche della hit parade di allora, si deve prendere nota di un elenco che comincia con Affida una lacrima al vento P di Salvatore Adamo, il languoroso italobelga emigrato nel 1947 da Comiso di Ragusa, e di cui si favoleggiò a lungo sui rotocalchi un flirt presunto con Paola Ruffo di Calabria, alias Paola di Liegi, cioè la bionda e affascinante cognata di Baldovino e attuale regina. Lui le dedicò una canzone, Dolce Paola, in cui dopo qualche apprezzamento alla sua dimensione regale («mi offrì il suo sguardo… nella sua maestà»), le rivolgeva apprezzamenti dal lato ornitologico (rive- lando che in lei «ho visto in verità una colomba fragile»). Vola colomba, insomma, parole d’antan. E difatti il Sessantotto ci mette un po’ a farsi sentire. Le top ten sono tutto un tripudio di Fausto Leali, con il dramma da zio Tom di Angeli negri, «Pittore, ti voglio parlare, mentre dipingi un altare», e giù a scendere con i Camaleonti, Mino Reitano che aveva un cuore che ti amava tanto, Adriano Celentano, Don Backy che aveva litiga- to con Celentano, Marisa Sannia, Gianni Morandi, Maurizio ex New Dada (quello di Cinque minuti e poi, con l’aereo che si porta via per sempre la ragazza e lui quasi piange, praticamente singhiozza, esulcerato com’è per la perdita della morosa, e piange comunque molto meglio e con più credibilità che non nella tarda versione di Claudio Baglioni). E poi Sylvie Vartan, Dalida, Dino, Franco IV e Franco I che scrivevano «t’amo sulla sabbia», Giuliano e i Not- turni, la bambola di Patty Pravo, l’angelo blu dell’Equipe 84, «che se fischio torna giù», e tutti gli altri, famosi e dimenticati, italiani e stranieri, i Pooh di Piccola Katy (che pure risale alla fine dell’anno precedente) e gli Iron Butterfly dell’irripetibile In-A-Gadda-Da-Vida. Fino a Vengo anch’io, di Enzo Jannacci, che forse contende ad Azzurro il titolo di inno nazionale del Sessantotto all’italiana. Il merito di Bertoncelli e Zanetti è di avere preferito la documentazione, anche quando è un pochino paranoica, alla teoria astratta. Bertoncelli si è occupato della natura più o meno politica della musica di allora: e allora è il caso di aggiungere che al volume è allegato un cd che documenta «l’“altra” canzone di quel periodo, quella dei circoli operai, delle sezioni, delle prime manifestazioni, quella diffusa principalmente per via orale con rari sbocchi e riscontri discografici» (il disco, prodotto da Ala Bianca di Toni Verona, comprende fra gli altri brani di Giovanna Marini, Sergio Liberovici, Fausto Amodei, tratti dal repertorio dei Dischi del Sole, un giacimento culturale depositato nell’archivio sonoro dell’Istituto Ernesto De Martino). Ma sarebbe un fraintendimento limitare la musica del Sessantotto a quell’insieme di canzoni o inni che vanno da Contessa di Paolo Pietrangeli a Hasta siempre! (Comandante Che Guevara) di Carlos Puebla. E difatti per riequilibrare l’operazione c’è la minuziosa ricostruzione di Zanetti, tutta dedicata alla più spudorata canzone commerciale, e soprattutto una formidabile enciclopedia di 68 canzoni più una: quest’ultima, vedi caso, è Quarantaquattro gatti, inno nazionale degli infanti d’Italia, «l’unica vera canzone di protesta del 1968 che abbia avuto davvero un successo duraturo», con il suo resoconto di un’assemblea di rivendicazione di «diritti felini». Per la cronaca, la canzone, Repubblica Nazionale DOMENICA 27 APRILE 2008 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47 IL LIBRO La colonna sonora del ’68 tra canzoni militanti e non solo. È Avant Pop ’68 di Riccardo Bertoncelli e Franco Zanetti in uscita il 30 aprile per Rizzoli (392 pagine, 17,50 euro) Sono sessantanove schede di dischi di quell’anno magico da pezzi leggeri come Tu che m’hai preso il cuor a quelli impegnati come Contessa Con il libro un cd con dieci canzoni di protesta Ivan Della Mea quarant’anni dopo La musica “color terra” della nostra generazione SILVANA MAZZOCCHI C LA COPERTINA La copertina del doppio cd È finito il 68?, in uscita il 23 maggio per Ala Bianca REPUBBLICA.IT Da oggi su Repubblica.it si possono ascoltare le canzoni ribelli del ’68: da Contessa ad Hasta Siempre Nello speciale multimediale testimonianze e video dei protagonisti, da Paolo Pietrangeli a Ivan Della Mea scritta dal musicista modenese Pippo Casarini, venne presentata allo Zecchino d’orodalla udinese-goriziana Barbara Ferigo, quattro anni e mezzo, e superò altre canzoni epocali, Il torero Camomillo e Il valzer del moscerino, eseguita dalla precocissima star Cristina D’Avena (come si vede erano tempi in cui la musica per bambini non scherzava, se è vero che pochi mesi dopo fu addirittura Mina a interpretare Quarantaquattro gatti in un duetto con il pupazzo Provolino). Ecco, se si vuole sapere come sono nate quelle canzoni che fanno parte di un frammento mitologizzato di storia patria, vale la pena di leggere, golosamente, tutte le curiosità citate in questo sublime repertorio. Maniacali annotazioni, frutto di archivi fantastici, che raccontano tutte le cover, i titoli, le versioni, le date, i precedenti, e segnalano tutte le curiosità, sottolineano tutto ciò che si sa e si credeva di sapere sui Rokes, su Jimmy Fontana, su De Andrè, sui Moody Blues, ma sempre aggiungendo con insolenza filologica un particolare sconosciuto, un indizio in più, un elemento che era sfuggito finora. Si possono così trovare “voci” deliranti come la seguente, ripresa da documenti d’epoca (l’Enciclopedia dei cantanti e delle canzoni di Tullio Barbato, De Vecchi Editore, 1969): «Capellone barbuto dell’ultima leva, che ha da poco abbracciato l’attività di cantante in senso professionale, ottenendo buoni risultati con vari complessi e incidendo il suo primo disco con la Jolly. Pieno di belle speranze, è convinto di percorrere molta strada con i suoi stivaletti. Dicono che lo meriterebbe. Il suo genere è il folk». Per chi non l’avesse riconosciuto, si parla di Franco Battiato, segnalato anche come esecutore della versione italiana di Rain and Tearsdegli Aphrodites Child. Che dire? In effetti se n’è fatta di strada, dal Sessantotto a La cura, stivaletti o no. LA MOSTRA Le immagini che illustrano queste pagine sono manifesti politici torinesi in mostra per tutto il mese di maggio al Circolo dei lettori di Torino (via Bogino, 9). L’esposizione è un’appendice de L’arte per la strada. I manifesti del Maggio Francese. In mostra fino al 6 maggio 92 manifesti e bozzetti originali della collezione Antonio Ricci, un quinto dell’intera produzione realizzata nel maggio del ’68, suddivisa in due parti: i manifesti prodotti dall’Atelier populaire, le opere di quindici artisti di fama come Pietro Cascella e Jean Ipoustéguy antava già nel 1967, nell’Università di Trento occupata dagli studenti, quando manifestava per i condannati a morte spagnoli garrotati dai tribunali fascisti di Franco e partecipava a Firenze alle veglie nella chiesa dell’Isolotto di don Mazzi, dove intonava Hasta siempre. Era la vigilia del ’68, una stagione alimentata da sogni impossibili e da passioni assolute, anticamera di delusioni e di degenerazioni. Ma anche irripetibile ventata di rinnovamento culturale. Ivan Della Mea, classe 1940, animatore e memoria dei Dischi del Sole, affollata colonna sonora di quell’anno formidabile, lasciò allora il laboratorio del Nuovo Canzoniere Italiano per vivere full time la politica e l’impegno, «in vista della rivoluzione». Canzoni pensate e interpretate con Paolo Pietrangeli, Giovanna Marini, Paolo Ciarchi, Pino Masi, Alfredo Mandelli e tanti altri. Come Due, tre, molti Vietnam, scritta di ritorno da Cuba dove erano andati tutti insieme, invitati da Fidel Castro. «Da noi il Vietnam era la scuola, era la fabbrica, erano le carceri, era l’amore». Quarant’anni dopo Ivan Della Mea, presidente dell’Istituto della canzone popolare Ernesto De Martino, ha avuto l’idea di restituire l’ennesima vita a trenta fra i brani più famosi del tempo che fu. E il 23 maggio escono per Ala Bianca, l’azienda indipendente con distribuzione Warner che da trent’anni rappresenta un po’ «la cultura della musica», due cd dal titolo provocatoriamente retorico, È finito il 68?, con un libretto ricco di ricordi e con la copertina illustrata per l’occasione da Vauro: un eskimo (il giaccone divisa dell’epoca) avvolto in una sciarpa rossa volante. Una raccolta completa, ragionata e illustrata delle stesse canzoni che, in numero più ridotto, accompagnano, ancora con la collaborazione di Ala Bianca, altri due tra i tanti libri in uscita per il celebratissimo quarantennale del ’68: Avant Pop, per Rizzoli, e un volume, ancora senza titolo, che Feltrinelli manderà in libreria alla fine del mese prossimo. Della Mea assicura che «il ’68 è tutt’altro che finito». O meglio, secondo lui, sopravvive la sua essenza «poiché le tematiche affrontate allora sono presenti ancora oggi». Canzoni sopravvissute per quattro decenni e mai andate definitivamente in sonno. Longseller dice lui, «che non si sono mai del tutto fermate e che ancora vengono scoperte, da una generazione all’altra». Brani, come scrive nella prefazione Stefano Arrighetti, «dove c’è tutto quello che ci dovrebbe essere»: la cronaca e le date delle manifestazioni, gli studenti e gli operai, Cuba e il Vietnam, la Fiat e l’emigrazione (che all’epoca era nostra, dal Sud al Nord), i manifesti politici e le storie personali. Da Contessa, a La ballata della Fiat, da Valle Giulia a Io so che un giorno, fino a Cara moglie e a tante altre. «Era giusto promuovere un’iniziativa speciale per celebrare una data che non vuol dire soltanto dodici mesi. Il ’68 è il poco che c’è stato prima e il molto che c’è stato dopo. Perché, se è vero che non ci fu la rivoluzione ingenuamente pensata, certamente c’è stato un grande cambiamento del costume che ha prodotto effetti importantissimi. Il ’68 ha cambiato la famiglia e il rapporto tra l’uomo la società e tra le donne e la società. Da quel seme, negli anni successivi, sono venute le grandi battaglie democratiche per la legge sull’aborto e sul divorzio e tante altre conquiste. E le nostre canzoni hanno raccontato tutto questo. Alcune sono diventate manifesti, altre dei veri e propri simboli. E poi ancora adesso rappresentano quasi un certificato di esistenza in vita di certi valori che oggi non ci sono più, ma per motivi simili a quelli che noi, all’epoca, abbiamo messo nei nostri brani». Tra delusione e rimpianto. Ivan Della Mea tornò nel Nuovo Canzoniere Italiano nel 1971, subito dopo aver abbandonato Lotta continua. E «ci si scontra a muso duro, ma ci si ritrova». Quando muore il suo amico Gianni Buoso, scrive: «…qualcosa abbiamo fatto, / sì per capire, / che questo cantare color terra vuol dire creare. / E anche vivere». Repubblica Nazionale 48 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 27 APRILE 2008 i sapori Gusto primavera La leggenda vuole che i piccoli frutti rossi e profumati siano nati dalle lacrime sparse da Venere sulla tomba dell’amato Adone Questa origine passionale ha lasciato il segno e da sempre, al di là del fatto che sono sani e buoni, vengono considerati afrodisiaci. Ma attenzione a quelli “palestrati”, imbottiti di chimica Risotto Al cioccolato Bavarese Marmellata Gelato Base classica – cipolla, burro, olio – riso fatto brillare e sfumato con vino bianco e brodo A pochi minuti da fine cottura, si aggiungono (piano) le fragole a tocchetti, il vino bianco in cui sono state marinate, e pochi cucchiai di panna Ricetta golosa e ineccepibile per i nutrizionisti (33 calorie per fragola, vitamine e acidi grassi polinsaturi). Prevede di tuffare i frutti nel cioccolato amaro al 70 per cento, sciolto a bagnomaria. Posare su carta oleata e raffreddare in frigo A 250 grammi di fragole, frullate con zucchero, limone e scorza, si aggiungono quattro fogli di colla di pesce ammollata e sciolta e mezzo litro di panna Poi riposo in frigo. Versione alleggerita: fruttosio e yogurt invece di zucchero e panna Lavate delicatamente senza lasciarle a bagno, asciugate senza tagliarle, irrorate di limone o fatte riposare con un baccello di vaniglia, le fragole devono cuocere piano con lo zucchero (metà del peso della frutta) fino alla densità voluta Versione senza gelatiera: le fragole (250 grammi, lavate, asciugate e ridotte a purea) vengono spolverate di zucchero a velo (100 grammi) e passate al colino. Aggiungere un limone e 200 grammi di panna. Riposo in freezer, girare ogni venti minuti itinerari Lino Scarallo è il talentuoso cuoco di Palazzo Petrucci, ristorante che si trova nel quattrocentesco edificio di piazza San Domenico Maggiore, cuore di Napoli. Tra i suoi piatti migliori: la millefoglie croccante al cioccolato con fragoline di bosco Martello (Bz) Lagosanto (Fe) Nemi (Rm) Borgo suggestivo nel cuore della Val Martello (laterale della Val Venosta), vanta un microclima mite e asciutto, ideale per la coltura di fragole grandi con dolcezza e profumo da fragoline. Festa dedicata l’ultimo week end di giugno Tra il bosco della Mesola e i Lidi Ferraresi, è la patria botanica della fragaria: qui si coltiva il 90 per cento delle piante di fragola prodotte in Italia. Dal 17 al 25 maggio celebrazione con menù, laboratori e degustazioni Le lacrime di Venere trasformate in cuoricini rossi dal sangue di Adone: ecco la mitica storia delle fragoline coltivate sul lago, davanti a Genzano. Qui le “fragolare” sfilano con i loro cesti la prima domenica di giugno Il “cibo delle fate” da sempre galeotto LICIA GRANELLO DOVE DORMIRE DOVE DORMIRE DOVE DORMIRE HOTEL BERGFRIEDEN Meiern 84 Tel. 0473-744516 Doppia da 50 euro colazione inclusa LOCANDA IL VARANO Via Valle Oppio 6, Marozzo Tel.0533-949135 Doppia da 75 euro colazione inclusa IL PORTICO FIORITO Via del Tempio di Diana Tel. 340-7633560 Doppia da 100 euro colazione inclusa DOVE MANGIARE DOVE MANGIARE DOVE MANGIARE KUPPELRAIN (con camere) Piazza Stazione 16, Maragno Tel. 0473-624103 Chiuso domenica e lunedì a pranzo, menù da 47 euro TRATTORIA PAVANI Borgo Dei Fiocinini 13 Tel. 0533-900069 Chiuso martedì sera menù da 25 euro LA GROTTA Via Belardi 31 Tel. 06-9364224 Chiuso mercoledì menù da 33 euro DOVE COMPRARE DOVE COMPRARE DOVE COMPRARE AGRICOLA COOP. MEG Transacqua 249 Tel. 0473-744700 AZ. AGRICOLA FRANCHINA Via Franchina 7 Località S. Maria Codifiume Tel. 0532-725365 AGRITURISMO AGROPOLIS Via S. Gennaro 2, Genzano Tel. 06-9370335 «L a fragola, che cresce sotto l’ortica, rappresenta l’eccezione più bella alla regola, poiché innocenza e fragranza sono i suoi nomi. Essa è cibo da fate». La regola a cui Shakespeare cercava di sottrarre il suo frutto preferito condannava le piante ad assorbire il bene e il male dall’ambiente in cui vivevano. Eppure, perfino sotto l’erba che urtica e punge — a sua volta ampiamente riabilitata dalla cucina popolare e d’autore — i rossi cuoricini polposi conservavano il loro fascino allegro. Furono i Romani a battezzarla con il nome fragrans, per imprigionarne idealmente il profumo inebriante. Soprattutto, però, già allora la fragola era considerata un frutto afrodisiaco. A sancirne l’irresistibile eroticità, la sua stessa origine: si diceva fosse nata dalle lacrime versate da Venere, dea dell’amore, sulla tomba dell’innamorato Adone. Una malia che ha attraversato intatta i secoli, supportata dalla forma a cuore e dal colore rosso acceso. In effetti, c’è stato anche un tempo in cui la fragola ha dismesso i panni maliardi per essere assunta come medicina dei sentimenti: nel Medioevo, ribattezzata “frutto cuore”, veniva prescritta agli amanti disperati, in quanto cibo capace di placare le passioni d’amore. Una parentesi virtuosa spazzata via dal regno del Re Sole. Furono i suoi giardinieri ad addomesticare la fragola, reimpiantando le piantine selvatiche nelle aiuole di Versailles, e le sue dame a restituirla a un ruolo irresistibilmente cocotte: durante le feste di corte, affondare il cucchiaino nelle coppe cosparse di zucchero e panna era invito inequivocabile al cavaliere prescelto. Una virtù galeotta mai sconfessata, tanto che nel film-simbolo del nuovo erotismo patinato anni Ottanta, Nove settimane e mezzo, il regista Adrian Lyne mise le fragole al centro di una delle scene bollenti tra Mickey Rourke e Kim Basinger. Ma, se l’abbinamento fragole&champagne resiste impavido in tutti i manuali di seduzione, anche dal punto di vista nutrizionale il “frutto cuore” non scherza: incrementa la riserva alcalina dell’organismo, regala vitamine e antiossidanti, vanta proprietà dissetanti, diuretiche, antiuriche, antinfiammatorie, depurative, lenisce il bruciore delle scottature, rende vellutata la pelle. Il tutto, con un carico calorico risibile (a patto di essere mangiata nature). Una messe di virtù azzerate dalle coltivazioni intensive e destagionalizzate. La produzio- Fragole Gli appuntamenti 130mila Le tonnellate di fragole prodotte ogni anno in Italia Esplode nel prossimo fine settimana il tempo delle fragole. Si comincia a Cassibile (Siracusa), ad Arborea (Oristano), e a Capezzano Pianore, in Versilia, con tre succosi appuntamenti “farciti” di ricette a cielo aperto, degustazioni, mostre-mercato, menù monodedicati Bisognerà invece aspettare fine maggio per gustare il week end della fragola biologica a Cesena e quello (imperdibile!) che celebra la fragola con panna, a Reggello, Firenze ne intensiva in serra e le forzature hi-tech per renderle grandi, gonfie, rosse, pronte in qualsiasi momento dell’anno, trasformano le fragole in piccoli, malsani assemblaggi di chimica, lontani anni luce dalla magia incontaminata del «cibo per fate» cantato da Shakespeare. Scoprire i frutti bionici, per fortuna è semplice: basta chiudere gli occhi e ricordare. Perché il profumo di fragola rappresenta una sorta di imprinting sensoriale, come il pane buono appena sfornato o il caffè che gorgoglia piano nella moka: non c’è limone, vino, panna, zabaione che possano restituire profumo e sapore alle imitazioni-Big Jim. Allora, meglio evitare le fragole palestrate e scegliere le produzioni naturali, biologiche, privilegiando quelle piccine e sode, dolcissime. Sapendo che la resistenza in frigo è (giustamente) poca cosa: un paio di giorni, allargando il contenuto del cestino su un panno poi coperto, lavando rapidamente, togliendo la rosetta di foglie con una piccola torsione, aggiungendo il condimento all’ultimo momento per evitare che cuociano, smarrendo il meglio di sé. Agli itinerari tracciati dalle sagre che si inseguono dagli inizi di maggio, aggiungete una gita tra Maletto, alle falde dell’Etna, e Ribera (sede di presidio Slow Food), Sciacca e Marsala, terre di fragoline odorose. Se invece soffrite di orticaria, pazientate un paio di settimane: il tempo delle ciliegie sta per arrivare. Repubblica Nazionale DOMENICA 27 APRILE 2008 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 49 Di campo Tante le varietà della fragaria comune: al sud Chandler, Pajaro, Tudla e Miranda, mentre al nord si coltivano Idea, Marmolada, Elsanta, Cesena Tra le straniere, la Chiloensis, di origine sudamericana, e l’americana Virginiana tiche e credo più probabile che di queste si trattasse, al banel 1655 la regina Cristina di Svezia scese in Italia dichetto di Mantova del 1655. retta a Roma, dopo essersi convertita al cattolicesiPiuttosto, facciamo mente alla data: 27 novembre. Assomo e avere abdicato al trono. Il 27 novembre fece lutamente fuori stagione. Con un colpo così, il cuoco dei pausa a Mantova, alla corte dei Gonzaga, dove fu festeggiaGonzaga aveva già conquistato l’ospite illustre. Carni prelita con un grande banchetto allestito da Bartolomeo Stefabate e succulente preparazioni sarebbero seguite, ma il sucni, uno dei più celebri cuochi del tempo. Di quel banchetto cesso del banchetto era in partenza assicurato. All’epoca, sappiamo tutto perché lo stesso Stefani lo raccontò, sette come già nel Medioevo, e poi nell’età rinascimentale, offrianni dopo, in appendice a un suo libro di ricette intitolato re cibi “fuori stagione” dava prestigio al padrone di casa (coL’arte di ben cucinare. Lo raccontò con orgoglio, come uno me lo stesso Stefani ama precisare, commentando le sue dei momenti più alti della sua luminosa carriera. scelte gastronomiche). E questo, nonostante fosse chiaro a Nella lunga lista di vivande che furono presentate in queltutti che «il frutto non è buon’fuor di stagione», come dicela occasione, una attira subito la nostra attenzione. In aperva un proverbio cinquecentesco. tura furono servite «fraghe», ossia fragole, «lavate con vino Ma se il frutto non è buono, che imbianco servite con zuccaro sopra». Un porta? Non si mangia solo per piacepiatto semplicissimo dunque, pur se re. La tavola del principe serve anziarricchito da piccole sculture in zuctutto a mostrare ricchezza, potere, cachero, un vero must della tavola bapacità di mettere insieme risorse e inrocca. Sculture in tema: «Nel circuito gredienti non scontati. In un mondo dell’ala del piatto, conchiglie fatte di in cui osservare la stagionalità dei prozuccaro empite delle stesse fraghe, dotti era normale, anzi d’obbligo, non tramezate con uccelletti fatti di pasta farlo era un segno di distinzione. di marzapane, che sembravano voler In questo desiderio antico di inbeccare dette fraghe». frangere i ritmi stagionali, sentiti coNon stupiscano le fragole con zucme una costrizione “contadina”, è chero e marzapane servite in apertuMASSIMO MONTANARI forse la radice di certi comportamenra: la cucina seicentesca, sulla scia di ti attuali, non più elitari ma di massa. quella rinascimentale, amava il dolce Solo che, oggi, le ragioni del prestigio non valgono più: mana tutto pasto e metteva zucchero dappertutto. Quanto alle giar fragole nella stagione fredda non è più un privilegio rifragole, è difficile dire se fossero coltivate o selvatiche. All’eservato a pochi. Democraticamente parlando, ciò non sapoca di Stefani erano già cominciati gli esperimenti di inrebbe così negativo, se non si accompagnasse a una perdicrocio tra le fragoline selvatiche (le sole conosciute nel Meta collettiva della cultura della stagionalità, minata dai ritmi dioevo) e nuove specie venute dall’America. Da questi indell’industria e dai circuiti del commercio alimentare. Procroci nacquero vari tipi di «fragole grosse», come quelle che prio quella cultura — paradossalmente — dava un senso alil giardiniere di re Luigi XIV, Jean de la Quintinie, selezionò l’infrazione di Stefani. Recuperarla come valore forte e ponei giardini di Versailles sul finire del secolo. Ma siamo apsitivo, rovesciando il paradigma del lusso alimentare, sarà pena agli inizi di una storia (quella dei fragoloni) che si sviuna piccola rivoluzione culturale, a vantaggio anche del nolupperà solo in epoca successiva, dal Sette-Ottocento in stro piacere. Perché «il frutto non è buon’fuor di stagione». poi. Il gusto seicentesco era ancora legato alle fragole selva- N Selvatica La fragaria più ambita e preziosa si chiama vesca, è originaria di Europa settentrionale e Siberia, cresce in boschi, radure e ripe erbose, fino a 1800 sul livello del mare. Minuta e profumata, le sue foglioline si usano per tisane rinfrescanti Di bosco Dalla specie selvatica originaria sono state selezionate varietà coltivabili, che fruttificano sia all’aperto che in serra, garantendo (almeno in parte) fragranza e profumo. In Trentino il periodo della raccolta dura da giugno a settembre Piatto da regina le “fraghe fuor di stagione” A cuore Tra le varietà coltivate, il falso frutto (i frutti veri sono i semini gialli nella polpa rossa, detti acheni) più romantico è quello della Gorella, cuoriforme Ma esistono anche forme oblunghe, come la Belrubi, e la rotonda Pocahontas Rifiorente Merito di questa numerosa famiglia botanica se la fruttificazione di varietà dal calibro piccolo e medio continua da primavera a inizio autunno. Le unifere, invece, regalano falsi frutti grandi e pieni, ma maturano solo in autunno Repubblica Nazionale 50 LA DOMENICA DI REPUBBLICA le tendenze Moda e memoria GIACOMO CASANOVA Di eleganza e fascino proverbiale lo scrittore e avventuriero veneziano (17251798) possedeva molti panciotti ricamati finemente DOMENICA 27 APRILE 2008 Torna in auge il panciotto che un tempo definiva lo stile maschile e che oggi, a sorpresa, si riconverte in seducente dettaglio femminile. In seta, jeans o tessuto tecnologico compare in passerella (e in vetrina) sotto giacche dal taglio rigoroso o più audacemente indossato a pelle. Perfetto sia da giorno che da sera, non teme neppure l’ostacolo dell’età era una volta, tanti tanti anni fa, il classico gilet da uomo. Un pezzo da intenditori, realizzato con sobri tessuti manageriali, come flanelle e gessati. O con stoffe di sportiva eleganza britannica come tweed e pie de poule. Si trattava di un capo tradizionale, simbolo di un vestire vecchio stile, ormai caduto in disuso salvo qualche rara eccezione. Nelle boutique non se ne trovavano quasi più. E chi voleva indossarlo era costretto a comprarlo nei negozi vintage o a farselo fare dal sarto. Poi, improvvisamente, tutto è cambiato. E il gilet è tornato sotto i riflettori. Indossato per le strade di Londra, Parigi e New York da attrici e top model, come Kate Moss e Sienna Miller, che ne hanno fatto quasi un’uniforme. Rivisitato e corretto in versione moderna dai grandi della moda che, in un batter d’occhio, lo hanno trasformato da capo d’abbigliamento per uomini all’antica in gadget di seduzione per femmine all’ultima moda. «Cre- C’ Gilet L’eleganza senza maniche JACARANDA CARACCIOLO FALCK CHARLIE CHAPLIN Nei panni di Charlot l’attore rese celebre il gilet nero in versione “indigente” indossandolo sotto la giacchetta stretta e logora JOHN TRAVOLTA Nel film La febbre del sabato sera del 1977 il divo John è Tony Manero e sfoggia gilet candidi o scuri scatenandosi sulla pista da ballo do che la novità più interessante del nuovo gilet sia che, da elemento maschile tradizionale utilizzato nei completi più classici, si è trasformato in un oggetto sensuale e iperfemminile», spiega la stilista Anna Molinari che, nella sua collezione estiva, ha introdotto diverse varianti sull’indumento. A cominciare da un modello tricotato alla Lolita da portare a pelle sopra gli hot pants. Ecco allora che, all’inizio della primavera 2008, quella giacca senza maniche nata alla fine del Seicento come indumento elegante è tornata a far parlare di sé. Certo non è la prima volta che il waistcoat, come lo chiamano gli inglesi, torna in auge. Accadde già negli anni Settanta del secolo scorso, quando gli hippy lo recuperarono come capo simbolo della loro generazione, in alternativa alla giacca, considerata più noiosa e borghese. Di jeans o fatto all’uncinetto, di pelle o in versione patchwork, il gilet dei figli dei fiori si portava di giorno come di sera, in spiaggia o in discoteca, con gli hot pants o con i pantaloni dello smoking. Missoni lo realizzò in maglia zigzag, Yves Saint Laurent in gabardine beige. I Beatles lo indossarono, con camicia bianca e cravatta nera, sui palchi di mezzo mondo. Mentre il giovane John Travolta ne fece il simbolo del suo disco-style. Attenzione però, il gilet dell’estate 2008 è molto diverso dal suo antenato rivoluzionario di quarant’anni fa. Di trasgressivo, infatti, ha poco o nulla. Anzi. Nell’immaginario dei più importanti stilisti, da Valentino a Giorgio Armani, da Anna Molinari a Karl Lagerfeld, è il nuovo indumento elegante per eccellenza. Utilizzato di giorno sulla pelle nuda al posto di camicie e t-shirt. E la sera in sostituzione di top e giacchini per dare un tocco di ironia agli abiti più eleganti. Un esempio? La versione in lana verde, melange, con scollo profondo, proposta da Miuccia Prada. Una variante quasi sportiva che si indossa però insieme alla lunga gonna da ballo a fiori. Un leitmotiv riproposto anche sulla passerella di Louis Vuitton, dove il designer Marc Jacobs ha scelto di abbinare il suo gilet gessato, da indossare rigorosamente senza nulla sotto, con una gonna di tulle viola lunga fino ai piedi. «Non c’è dubbio: il gilet di oggi è l’elemento giusto per sdrammatizzare un incontro formale», aggiunge Molinari, «o per esprimere tutta la propria femminilità in un’occasione informale». MACHO MAN FORMATO MAXI Molto macho il modello bicolore, con colletto a giacca, firmato Emporio Armani Da portare semi sbottonato sopra la semplice canotta grigia Maxi lunghezza per il modello a due bottoni di Max Mara Di pelle nera si indossa senza assolutamente nulla sotto Effetto shock FORMATO MICRO W LE BORCHIE È realizzato in lino naturale fresco e giovanile il micro gilet da giorno di Gas. Attillato in vita e dotato di taschine laterali Si abbina bene al pantalone ecru La maison Etro rilancia lo stile hippy con un bolerino di pelle nero tempestato di mini borchie Prezioso e aggressivo da vera guerriera Repubblica Nazionale DOMENICA 27 APRILE 2008 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 51 OLTRE IL CLASSICO SERATA SPECIALE Cotone grigio ferro con interno in raso della stessa tonalità per il modello super classico proposto da Benetton È perfetto da indossare con camicia e jeans, ma anche sulla pelle abbronzata C’è una nuova idea look per una serata speciale: il gilet di paillettes blu elettrico firmato Moncler Fa parte della collezione Gamma Rouge, ha bottoni d’oro, bordo smerlato e colletto di raso BELLI E DANNATI Ispirazione “belli e dannati” alla James Dean (versione 2008) per l’intramontabile gilet in pelle con due tasche frontali e zip Di Marlboro classic, finisce in guardaroba come un indumento che non teme l’usura delle mode Dalla corte di Francia al grande schermo una carriera abbottonata e trasversale LAURA LAURENZI a davvero molte anime il gilet. Già se lo chiami panciotto ha qualcosa di vecchio, molto ancien régime, gli manca solo l’orologio a cipolla nel taschino: assieme al cappotto di cammello fa subito commendatore. Ma fortunatamente è stato svecchiato e sdrammatizzato, diventando un capo per tutte le stagioni, anche quelle politiche. Come dimenticare i gilet floreali degli hippy, quelli folk da ambientalista, o il gilet femminista e androgino, se portato da una donna, in stile Ultimo tango a Parigi? Il panciotto fa quasi sempre parte di una maschera: può essere quella di Totò, ma soprattutto, in versione indigente, quella di Charlot almeno quanto il bastone di canna ricurvo. Ma c’è anche il gilet del riflusso, del disimpegno: quello sfoggiato in discoteca da John Travolta nella Febbre del sabato sera. Quanti gilet ci sfilano sotto gli occhi in fotografie soltanto in bianco e nero: quello, impeccabile, color perla portato sotto il tight dall’avvocato Agnelli, con un’orchidea all’occhiello, il giorno delle nozze con Marella Caracciolo a Strasburgo. Il panciotto di Edward G. Robinson, siamo nel 1944, ne La fiamma del peccato di Billy Wilder. I gilet perfetti del duca di Windsor, sempre e immancabilmente con l’ultimo bottone slacciato, e quelli, ironico-british, di David Niven con piccoli revers, i panciotti dandy del conte Nuvoletti. È l’unico capo di abbigliamento maschile in cui agli uomini era concesso qualche capriccio, qualche civetteria, qualche licenza poetica. Ma poi è arrivata la deregulation e il gilet si è deformato e trasformato, ha saputo diventare una scalcagnata marsina come su Rino Gaetano, o una tavolozza multipla di colori e disegni come su Renzo Arbore che i panciotti, non solo quelli di Fausto Sarli, li colleziona a decine. Primi arrivarono i futuristi, a usare il gilet come tazebao se non come terreno di provocazione. Un nome per tutti: quello di Balla. Fra le opere di Depero più cariche di significato ci sono proprio i Gilet Futuristi ideati per gli artisti del movimento, in stoffe variopinte a colori violenti e ardite geometrie di arabeschi. È a inserti rossi, gialli e arancione quello per Marinetti del 1923, è addirittura a pesci blu quello per Azari. Quadri di Cezanne, di Degas, di Modigliani raffigurano giovani uomini in gilet, spesso l’unica pennellata di colore forte sulla tela. Il gilet è un indumento trasversale: alle classi sociali e alle latitudini. Lo porta, nero, il picciotto siciliano con la coppola, e lo porta il banchiere della City con il suo gessato da conservatore. Indossava il panciotto con rara eleganza nonostante il fisico poco longilineo Winston Churchill e lo indossano squadre di cacciatori, pescatori, operai specializzati, elettricisti, cameramen che utilizzano il gilet, meglio se multitasche, come indumento da lavoro. Classico o stravagante, decorativo o soltanto utile, dinamico o passatista. Oggi il gilet, che spesso con termine avvilente si chiama smanicato, può essere tecnico, tattico, autoriscaldato a batteria, fluorescente: molto lontano da quell’esempio di eleganza dettato da un gigante della vanità come Lord Brummell, consigliere e amico del sovrano reggente Giorgio IV, principe del Galles. E fu proprio un principe del Galles, quello che sarebbe diventato re Edoardo VII, a dettare la moda dell’ultimo bottone slacciato, cui ancora oggi si uniformano e si sottomettono tutti gli uomini convinti di essere eleganti. Lui lo fece però perché il giro vita cresceva, e i chili di troppo gli impedivano di chiudersi il gilet fino in fondo. Pure Gabriele D’Annunzio, anche quando era soltanto il Duca Minimo, pseudonimo con cui firmava le sue cronache mondane, aveva una predilezione per i panciotti, meglio se candidi. Quando nel 1895 si imbarca sul panfilo “Fantasia” di Edoardo Scarfoglio per una crociera in Grecia, annota meticolosamente i capi di vestiario che chiude in valigia: oltre al tight, allo smoking e a tre abiti sportivi, ben sei gilet bianchi. Oggi il gilet, nato in Francia sotto il regno di Luigi XVI quando alle giacche sparirono le maniche e gli uomini di corte riempirono il nuovo indumento di ricami e applicazioni incredibilmente lussuosi, è diventato anche un capo femminile. Victoria Beckham lo porta a pelle, sul seno nudo, rubandolo al guardaroba del marito. Alicia Keys è andata in tournée in jeans Armani e panciotto di coccodrillo. Kate Moss lo usa su svolazzanti camicie maschili oversize portate fuori dai pantaloni. Deregulation, dicevamo: la vera eleganza è un miraggio sparito. H FUTURISMO Panciotto Futurista (1923) con tarsie in panni di lana di diversi colori di Fortunato Depero. Fa parte della collezione Baccoli. A destra, Panciotto di Tina Strumia ideato da Depero per Tina Strumia nel 1924. Si trova oggi al museo dell’Aeronautica “Gianni Caproni” di Trento Accanto, Liza Minnelli in Cabaret del 1972 NUDE LOOK EFFETTO PITONE FOTO EYEDEA La griffe Ferrè sceglie di giocare con i materiali e lancia un modello in pelle senza bottoni effetto pitone Si chiude solo con un gancio davanti Sembra uscito dal guardaroba di Al Capone il doppiopetto gessato della collezione donna di Dior Da indossare nude look ma con i pantaloni BON TON RAGAZZACCI In versione cardigan il gilet di maglia nei toni del verde proposto da Prada. Lungo fino a metà coscia si porta con i pantaloni a zampa Torna di moda il tradizionale panciotto da uomo doppio bottone. Versace lo propone ai “ragazzacci” Da indossare sopra la T-shirt bianca Repubblica Nazionale 52 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 27 APRILE 2008 l’incontro Adesso per il grande pubblico è l’incarnazione del “capo dei capi” della mafia. La sua interpretazione è stata un’impresa da mutante: nella realtà l’attore palermitano è un trentatreenne mite, misurato e sorridente Gli si riconosce un solo vizio maturo: una voglia di teatro che lo fa stare sempre in movimento. Mette un valore al di sopra di tutti gli altri: “Non rinuncerei mai all’indipendenza, rifiuto i pregiudizi e l’ordine imposto” Volti da fiction Claudio Gioè n Cesare Lombroso dei nostri giorni, o un Desmond Morris che tanto ha studiato e teorizzato il rapporto tra gesti, fisionomia e comunicazione degli esseri umani, farebbero carte false per indagare a fondo le ragioni che hanno spinto otto-dieci milioni di italiani ad associare, a identificare naturalmente Totò Riina, solido e tragico boss corleonese della mafia (milleduecento morti sulla coscienza), con l’oggi trentatreenne Claudio Gioè, l’attore palermitano mite, misurato e sottile, volto flemmaticamente sorridente, interprete apprezzatissimo della parte del re ombra di Cosa Nostra nella fiction Il capo dei capi che i registi Enzo Monteleone e Alexis Sweet e gli sceneggiatori Bises, Fava e Starnone (romanzando un libro di D’Avanzo e Bolzoni) hanno condotto a un memorabile successo di share, di gradimenti e di clamori polemici su Canale 5. Un anno fa Gioè s’è sottoposto all’impegno di modellare il proprio corpo e le proprie espressioni ricostruendo minuziosamente la parabola della vita di Riina dai suoi venticinque ai suoi sessantatré anni. Un’impresa da mutante, da museo siciliano live delle cere, da faustiano interprete delle altrui età dell’uomo. E quando te lo trovi davanti, questo giovane artista che ha somatizzato in tv quasi quaranta stagioni della Mente del Male, avendo già alle spalle le esperienze da sindacalista ne I cento passi e da operaio ne La meglio gioventù, film entrambi di Marco Tullio Giordana, reduce anche dal successo personale a teatro delle voci date al mondo catanese delittuoso e offeso de L’istruttoria di Claudio Fava, quando sei a tu per tu con lui t’accorgi d’avere a che fare con un ragazzo, una specie di fool isolano, un giovanotto di taglia adolescenziale. L’unico vizio maturo che nei primi mi- nuti gli scorgi negli occhi è una voglia di teatro. Quella ce l’ha nel sangue. E in fondo, l’anno scorso, non ha fatto altro, davanti alle telecamere, che teatralizzare scientificamente, antropologicamente e mimeticamente un personaggio non scritto, una figura reale, potente, temibile, oggi sotto chiave a scontare quasi una ventina di ergastoli. «Ho studiato a lungo come Riina si muoveva, che sguardo aveva, come “recitava” davanti ai giudici, ogni sua mezza occhiata, ogni suo mezzo tono, ogni sua ruvida piega culturale, il modo in cui non riusciva a stare seduto sulla sedia in aula, il suo atteggiamento sempre impassibile che però tradiva l’istinto di saltare al collo ai pentiti (agghiacciò il tribunale, quel suo sussurrare “Ma statti zitto” al pentito Gaspare Mutolo, suo autista), e insomma m’ha interessato l’uomo, la sagoma, i suoi limiti, le contrazioni, l’uso delle mani e in particolare del pollice, come girava la testa, come reagiva alle descrizioni feroci dei crimini con l’acido, dei delitti messi a segno con le proprie mani dopo aver magari offerto un pranzo alla vittima, e ho spiato la sua rabbia animalesca sotto le apparenze di una prossemica inalterabile, quando si schermiva, quando i testimoni gli davano del lei, il vossia, rispondendo a un cerimoniale scopertamente mafioso». E come ogni attore di antica tradizione, il giovane Gioè s’è sottoposto, per incarnare le varie età del Capo dei capi, a un meticoloso, paziente, anatomico lavoro di trucco. «Il problema dell’assumere i tratti più attempati del Riina sessantenne sono stati risolti con una protesi che mi irrobustiva di una trentina di chili, ma anche certi abiti suggerivano una postura, un andamento, una mentalità da soggetto molto vissuto, e io ho contribuito agendo con restrizioni delle articolazioni, riducendo la gestualità, economizzando le occhiate. Perché più il suo potere era accresciuto, più in proporzione inversa lui si muoveva di meno, più emetteva segnali con un solo minimo cenno, con un’essenza di cenno». Fatalità vuole che quest’attore depositario dell’immagine del più temuto e spietato degli uomini della mafia abbia avuto una vocazione infantile liliale, e una crescita artistica con tutti i crismi. «Avevo sette-otto anni quando mia nonna mi regalò un registratore a cassette, e lì mi venne, per gioco, d’inventare un radiodramma dove facevo vari personaggi, varie voci, suscitando gran divertimento in famiglia. La mia prima performance pubblica fu a sedici anni, al liceo, dove interpretai un fruttivendolo dei mercati di Palermo, una figura comica a tu per tu con Goethe. Poi, quando ero già iscritto a Lettere classiche, mi convinsi a fare un tentativo con l’Accademia d’arte drammatica, dove per provino portai Ricorda con rabbiacon inflessioni siciliane, e Mario Ferrero vide in me la passione, e con mia sorpresa fui ammesso, frequentando poi tutti e tre gli anni». Ma non tarda a tirar fuori una certa irrequietezza, una certa vena indipenden- te. «Buttai giù una riscrittura di Edipo che realizzai a Palermo, Edipo e controedipo ispirato a Laforgue e a Carmelo Bene, operazione strana ma il pubblico s’entusiasmava, s’emozionava. Subito dopo Lavia mi chiamò all’Eliseo per Il gioco delle parti con Orsini: una tournée di sei mesi, io in scena ogni sera tre minuti, un’esperienza di disciplina che fruttò un po’ di crisi depressiva ma anche un serio apprendistato di meticolosità e reiterazione. E ancora una volta, alla ricerca di un’opportunità tutta mia, appena finito Pirandello costruii da me uno spettacolo, Historia von Doctor Johannes Faustus, un patchwork dall’opera dei pupi su Faust, fino a Thomas Mann, passando per Nietzsche, per Marlowe e ovviamente per Goethe». Teatralmente non stava mai fermo, e su commissione riscrisse un’Ifigenia («era un divertissement alla Coward») ma gli venne in mente anche Caligola Night Live gettandone su carta la traccia mentre era di turno sulle ambulanze di Palermo dove espletò il servizio militare civile. Però intanto incrociò anche il cinema, nel 1998, prendendo parte con Tilda Swinton, musa di Derek Jarman, a The Mille coincidenze mi hanno portato a fare Riina in tv Ma io non vedo la differenza tra Riina e il delirio d’onnipotenza di un Riccardo III o di un Caligola FOTO GRAZIA NERI U ROMA Protagonists di Luca Guadagnino, che andò alla rassegna collaterale del Festival di Venezia. «Ma la vera visibilità l’ottenni nel ruolo di un intellettuale impegnato nel sociale, amico di Peppino Impastato, in Cento passi di Giordana, un film potentissimo che alla sua presentazione mi commosse». Nel frattempo s’era trasferito a Roma, e ci fu l’altro nuovo salto di popolarità fatto in televisione nei panni dell’operaio licenziato de La meglio gioventù, cui segue, dopo il film Passato prossimo, una piccola parte in Paolo Borsellino di Tavarelli. «Dato che reputo la rabbia intima un grande veicolo creativo, ho ripreso in mano il Caligola Night Liveche era un triplo salto mortale nato con la lettura di Camus, e mi sono organizzato, l’ho interpretato riducendo tutto a un solo personaggio. Mi venne a vedere Valsecchi, che poi doveva produrre Il capo dei capi, e mi propose un provino». In teatro si concretizza intanto, due anni fa, l’impresa che ha rappresentato una svolta, il corrispettivo scenico di quel balzo in avanti di Gioè nel grande e nel piccolo schermo. «Mi chiamò il regista Ninni Bruschetta, per far parte de L’istruttoria, oratorio civile fondato sui verbali delle testimonianze al processo per la morte di Giuseppe Fava, su testo del figlio Claudio. Mentre provavamo L’istruttoria commentai con una frasaccia incredula lo sceneggiato su Riina cui m’aveva accennato Valsecchi, e il caso volle che Claudio Fava, lì presente (già co-autore dei Cento passi), mi rispondesse che era coinvolto anche lui nell’impresa sull’ultimo dei Corleonesi. Capii che i destini si incrociavano sempre di più. Tant’è che ad Alexis Sweet, co-regista scritturato per Il capo dei capi, piacque il mio Caligola, e l’altro coregista, Monteleone, aveva apprezzato molto la mia prova a teatro ne L’istruttoria. Insomma una serie di coincidenze, di cui la prima e la più decisiva è l’essere siciliano, m’hanno portato dritto dritto a fare Riina. Temevo il ridicolo, e invece sono stato preso tanto sul serio da suscitare anche un mucchio di riserve sulla popolarità toccata a un mostro freddo e assetato di potere (con l’aggravante della leggenda d’essere piaciuto a Riina stesso). Ma io non vedo la differenza tra Riina e il delirio d’onnipotenza di un Riccardo III, o di un Caligola». Ora però Gioè se la dovrà vedere con un mito più vertiginoso, e universale. Da mente e killer malvagio per la certezza del primato nella Cupola, passerà ai panni del più sofferto e tragico dei personaggi del dubbio. Ancora diretto da Bruschetta, debutterà come Amleto nel gennaio 2009 a Messina. «Per il Principe di Danimarca non ci sarà alcuna trasformazione fisica. Un’apparente analogia potrebbe stare nel fatto che lo vediamo come personaggio negativo, ma Amleto è sicuramente un folle, e in alcune scene il gioco teatrale volge molto in commedia, per poi fare i conti con intoppi del pensiero, coi conflitti dell’uomo moderno la cui fe- de e le cui conoscenze s’infrangono con una solitudine assoluta, un confine che porta alla morte». Non ci si aspetti un Amleto di cadenze isolane. «Tutt’al più Bruschetta potrebbe volerne fare un villain». E ha già un quadro fitto di altri programmi in cantiere, Gioè: potrebbe replicare con Paola Cortellesi e Valerio Mastandrea la recente intensa lettura-spettacolo Col ferro e col fuoco tratta dall’articolo di Ezio Mauro sul caso Thyssen; vorrebbe lavorare con registi coetanei come Beniamino Catena; dovrebbe essere vice questore della mobile nella fiction Squadra antimafia; e avrà a che fare con un commissario in un film noir di Alessandro Piva tratto dal romanzo Henrydi Giovanni Mastrangelo. Lui parla volentieri di lavoro, ma è misurato con tutto ciò che riguarda la sfera personale. Ovvero: cordiale, sì, ma imperturbabile. La famiglia? «La vedo per le feste comandate». Emozioni? «Mi suggestiona la capacità di reagire di fronte alla presunta mancanza di speranza». I maestri che hanno influito su di lei uomo e attore? «Ho avuto a cuore Salvo Randone, Turi Ferro e Leo de Berardinis, ho stravisto per Carmelo, sono un cultore di Petrolini». Cosa legge? «Saggi d’economia, di fisica, di cibernetica e di genetica». Il carattere? «Ero intollerante, ma ora passo dall’indisciplina alla determinazione, e poi alla tenerezza». Senso dell’umorismo? «Prediligo il gioco fatto con tutto se stesso piuttosto che lo scherzo di testa». I valori? «Non rinuncerei mai all’indipendenza». L’origine palermitana? «So che, come ogni siciliano, ho forse un secondo o terzo grado di parentela con qualche associato alla mafia». Il mondo dei sentimenti? «Nella donna cerco sintonia, e intelligenza fisica. Ho una fidanzata danzatrice». Scelte ecologiche? «Guido un’auto ibrida». Amori e odi? «Adoro le scarpe basse, Gadda, Calvino, Caravaggio, Brahms, Mozart, Bernini, l’analogico. Rifiuto i pregiudizi, l’ordine imposto, Kant, l’arte contemporanea, i conflitti tra opposti, Picasso, il digitale, Pollock». ‘‘ RODOLFO DI GIAMMARCO Repubblica Nazionale