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Q 28 uesta settimana il menù è DA NON SALTARE Come si dice macho in arabo? “ Come ex-immigrato da 40 anni orgogliosamente italiano denuncio la nomina di Cécile Kyenge a ministro della Cooperazione internazionale e l’Integrazione come un atto di razzismo nei confronti degli italiani. Lei personalmente non c’entra nulla: il fatto che sia di origine congolese, che abbia o meno la doppia cittadinanza e, per cortesia, lasciamo stare il discorso sul colore della pelle che è indegno di una nazione civile Magdi Cristiano Allam 29 aprile 2013 Lerner e Haddad a pagina 2 IL DIBATTITO SÌ Maggio, che fare? Aglietti a pagina 7 OCCHIO X OCCHIO Fotografi a occhio nudo Cecchi a pagina 9 ICON Non c’è nessuna scusa RIUNIONE DI FAMIGLIA a pagina 4 Ben venga il Maggio Il governo di Benigno Letta Siliani a pagina 15 C U O .com DA NON SALTARE o Intervista di Gad Lerner a Joumana Haddad Testo raccolto da Simone Siliani J oumana Haddad è nata a Beirut nel 1970. E’ donna di straordinaria bellezza e acume. Autrice di molti libri sulla condizione femminile nel mondo arabo, ne ha scritto di recente uno sulla condizione maschile: “Superman è arabo. Su Dio, il matrimonio, il machismo e altre invenzioni disastrose” (Mondadori, 2013). Ne ha parlato insieme a Gad Lerner lo scorso 8 aprile in occasione della proiezione del documentario “Jasad & The Queen of Contradictions” al Film Middle East Now al cinema Odeon di Firenze. G.Lerner Mi sento un po’ di troppo: mi sembra sia già stato detto tutto. Ho provato una nostalgia struggente guardando nel documentario quella Beirut; la luce soprattutto. Ma anche riconoscendo la parzialità della Beirut che viene raccontata: abbiamo visto i tabelloni pubblicitari della biancheria intima, ma sappiamo che vi sono interi quartieri nella vasta periferia sud-occidentale di Beirut dove gli unici manifesti affissi sono quelli dei cd. martiri. Anche se poi, Joumana, il pettegolezzo corre veloce in Libano e persino il capo assoluto degli Hezbollah, Nasrallah, è stato indicato come protagonista di un flirt con una procace cantante con una capigliatura disinvolta. La contraddizione passa anche fra i quartieri della città. Dunque, una battaglia aperta, in cui c’è un protagonismo, il corpo delle donne, che è cruciale. A partire dal Libano, ma non più soltanto il Libano. Mi sento di troppo anche perché chiamare un maschio ebreo a commentare un pamphlet aspro e severo contro il maschio arabo è quanto meno poco sportivo. J.Haddad Contro il macho arabo, non contro il maschio. G.Lerner Devo dire che anche la cinematografia israeliana di recente ha indagato con Amos Gitai e non solo, la regina delle contraddizioni, la dimensione uomo-donna. E’ quindi una dimensione mediorientale. Voglio entrare nel merito di alcune tesi di questo libro. Che è molto ambizioso, nella sua forma talvolta ironica, poetica, che molto spesso sceglie la chiave dell’invettiva. Spara non alto, ma altissimo, perché va a ricercare il nucleo di questa regina delle contraddizioni nella matrice religiosa. Ma prima vorrei che tu estendessi le tue considerazioni da quella città - che è un mosaico per sua natura, un crogiolo di contraddizioni esplosive che non esplode perché è già esploso perché tutti i protagonisti di quelle esplosive contraddizioni hanno memoria di 15 anni di bagno di sangue (1975-1990) ed è difficile prescindere dallo sterminio che è stata la guerra civile libanese. Ricordo quando sei venuta da me in televisione nei primi mesi del 2011 quando guardavamo con entusiasmo alla cd. Primavera araba e tu mi raccomandavi prudenza. Adesso è facile con il senno di poi dire che la direzione non è ancora determinata perché le situazioni sono apertissime, con battaglie ancora in corso, dalla Tunisia all’Egitto, per non parlare del 2 n 28 PAG. sabato 4 maggio 2013 Joumana Haddad (Foto di Mahmoud Forrouhi) Come si dice macho in arabo cuore della contraddizione che è la Siria. Ma ti chiedo: la liberazione sessuale, l’ansia di libertà femminile si è espressa in questo moto che ormai con alti e bassi prosegue da due anni, oppure ne è rimasta ai margini? J.Haddad Direi che è ovvio che non si è espressa. Questa cosidetta Primavera non è stata una primavera sessuale e, almeno per me, non è stata affatto una primavera. Ho detto sin dall’inizio che è un altro inverno e, spero, un ultimo inverno. E’ normale che dopo tutti questi anni di dittatura in cui l’estremismo religioso ha potuto sfruttare la frustrazione della gente, la corruzione del governo, la povertà; sfruttare tutti questi elementi negativi per diventare una consolazione per tanti – è normale, dicevo, che la rivoluzione dovesse portare al governo questo estremismo. Ma anche se appaio pessimista, non lo sono poi effettivamente. Era una fase necessaria, ed è per questo che dico che è un ultimo inverno. Non si può fare un passaggio repentino da una dittatura ad una democrazia , senza passare per un elemento primordiale di quelle società, cioè la religione. Quindi anche se è una battaglia aperta, ormai ci sono una opposizione e un governo – che sono i Fratelli Musulmani, i Salafisti - e tocca a questa opposizione civile e laica organizzarsi e forse fra 10 anni avremo finalmente questa attesa primavera. G.Lerner In questa opposizione laica che ormai esiste, la presenza femminile quanto conta? J.Haddad E’ molto importante. Ma devo dire che anche la presenza femminile nei quartieri controllati dai Fratelli Musulmani è importante: molte donne in burqa sono scese in piazza con loro per protestare contro Mubarack e che hanno lavorato per le elezioni. Quando parlo di liberazione sessuale, essa non è l’unica prova del cambiamento positivo della democrazia. Questo sarebbe banale. Ma quando parlo di liberazione sessuale parlo innanzi tutto dei diritti della donna: quando si parla di sessualità frustrata è soprattutto la donna a soffrirne perché le donne non dispongono del loro corpo; questo è solo un dono a disposizione degli uomini. E parlo anche di religione, cioè dell’importanza di andare oltre questa disastrosa commistione fra religione e sessualità e arrivare ad una società civile e laica dove ci sia separazione tra religione e Stato. Anche in Libano, che è un paese dove c’è un margine più ampio di libertà, siamo tutti fino ad ora considerati membri di comunità religiose. Ad esempio, io sono atea, ma sarò sempre classificata fino al giorno della mia morte come cattolica: questa appartenenza ci definisce; io esisto in quanto cattolica. C’è stata una forte battaglia in Libano per il matrimonio civile, ma non è stata vittoriosa, perché i leader religiosi hanno il monopolio della vita dei cittadini. G.Lerner Questa è una cosa che il Libano ha in comune con Israele dove non esiste il matrimonio civile ma solo quello religioso. La lettura di Superman è arabo mi ha colpito per lo sforzo provocatorio e quasi blasfemo con il quale affronti la questione religiosa, proclami il tuo ateismo e la nocività delle religioni monoteiste nella conformazione della fisionomia del maggio arabo tanto da ap- ? C U O .com parire un libro quasi “religioso”. Perché tu affronti un nucleo, la Genesi, la creazione in particolare, che è il tuo nucleo poetico (chi ha seguito i tuoi lavori sa che tutto parte dalla figura di Lilith). Voglio chiederti se il tema non sia quello che aveva molto serenamente ma coraggiosamente posto Papa Luciani che aveva detto che Dio è donna, o anche donna; mentre il presupposto della creazione dal quale sembrano discendere tutti gli stereotipi culturali, sta proprio nel fatto di dare scontato che Dio è maschio e ha generato innanzi tutto Adamo un maschio di cui la donna era un’appendice. Mi sembra che tu contesti una versione del monoteismo e in questo senso che tu sia abbastanza religiosa. J.Haddad Prima di arrivare alla base della mia critica al monoteismo, per cui l’affermazione che Dio sia anche donna mi potrebbe anche placare, sta il fatto che io sono prima di tutto atea. Per cui questo Dio per me non esiste e quindi non sono in una situazione di blasfemia. Essa infatti presuppone una certa fede. G.Lerner Però nel tuo libro inserisci anche una Preghiera: “Grazie Dio per lo tsunami in Indonesia/ per l’uragano Katrina / e per il terremoto in Giappone. / Grazie per la Prima guerra mondiale, / per la Seconda guerra mondiale, / e per qualsiasi seguito ci manderai / il prossimo Natale. / Grazie Dio per i bambini che muoiono di fame in Africa / per i bambini che muoiono per l’odio in Palestina / Grazie per George W.Bush; Mahmoud Ahmadinejad / e per quel tesoruccio di Adolf Hitler...” J.Haddad Sì, perché come ha detto una volta Nietzsche se tutto quel che avviene in questo mondo avviene per la volontà di Dio, io non vorrei un Dio simile. Comunque, parliamo di queste tre religioni monoteiste. L’inizio della mia ribellione contro la religione inizia proprio così: tanto nel Vecchio Testamento, quanto nel Nuovo e nel Corano la donna è solo un accessorio. Se guardiamo la Genesi in cui si parla della creazione dell’uomo ed Eva è stata estratta da lui: questo spiega molto del modo di guardare il mondo. Il sistema patriarcale non è stato inventato dalle religioni monoteiste. Esisteva fin da prima, grazie al potere fisico dell’uomo che lo ha reso cacciatore mentre la donna accudiva alle faccende domestiche. Quindi la forza fisica del maschio ha già posto la donna in una posizione meno forte. Però le religioni monoteiste, invece di basarsi su una visione più giusta ed equa, come dichiarano, esse hanno invece promosso la violenza. Tante guerre sono state fatte in nome delle religioni. Quindi io vede che nel mondo attuale c’è troppa esistenza sugli effetti negativi dell’Islam. Invece dobbiamo avere il coraggio di criticare anche il Cristianesimo, di farsi delle domande. Non sto parlando tanto di chi non ha la fede, bensì di chi ce l’ha;; soprattutto delle donne che hanno la fede. Perché le donne devono imparare in silenzio e sottomettersi all’uomo. E’ vero che succede sempre di meno, ma in modo superficiale. A livello delle leggi esiste una forte discriminazione nei confronti delle donne: esse non possono trasmettere la nazionalità, non possono iniziare una causa di divorzio, rischia di perdere i suoi DA NON SALTARE o 3 n 28 PAG. sabato 4 maggio 2013 Dialogo tra Gad Lerner e Joumana Haddad su Islam, sesso e genere figli se lo fa. Non c’è una legge che difende la donna dallo stupro coniugale. E c’è una legge che dice che se una donna viene violentata e lo stupratore la sposa, egli non è penalmente perseguibile. Ci sono delle leggi che proteggono le donne qui in Occidente, ma non da noi. G.Lerner Hai ragione. Anzi leggiamo con preoccupazione dei passi indietro che il nuovo Codice della Famiglia rischia di far fare in Tunisia. Questo è il cuore della contraddizione che tu stessa evidenzi. Questo però non toglie da parte mia la fiducia nel fatto che le religioni non restano uguali nei secoli. Purtroppo anche in senso regressivo, come avvenuto nell’Islam. J.Haddad Sì, è vero, però siamo nel 2013, nel XXI secolo e c’è ancora un Papa che mi dice se posso o meno prendere la pillola; se mio marito può usare o meno il preservativo; un uomo musulmano può avere quattro spose. Io non credo che le religioni cambiano moltissimo, oppure cambiano troppo lentamente. G.Lerner Oppure cambiano in peggio: quando diventano più fragili, quando la gente ci crede di meno, la reazione è che si irrigidiscono: diventano più settarie e aggressive e sviluppano fenomeni di fondamentalismo. Più piccole sono e più aggressive diventano. E la spiritualità, il rapporto con il trascendente, vanno fuori da queste armature. Proprio per questo io immagino che dalla loro fragilità possono darsi delle grandi rotture. Sarebbe stato impensabile, anche nella civilissima Firenze, porre i temi del rapporto uomo-donna nella Chiesa cattolica nei modi in cui l’hai posti tu; e non escludo che ci sia presto un Papa che alzi le mani e faccia progredire il discorso. Ma il problema è quale nesso vedi tu fra questa dimensione degli archetipi fondamentali e la quotidianità del nostro nostro rapporto con loro. J.Haddad Infatti, dopo “Ho ucciso Sha- harazad” dove ho parlato della donna nel mondo arabo, ho voluto anche trattare temi legati alla mascolinità. Ci sono tanti Superman ovunque: sono uomini che pretendono di salvare il mondo che credono di di sapere e di capire molto meglio di noi, di essere più intelligenti e più forti di noi; che ci trattano con condiscendenza e vogliono salvarci. Possono essere padri, mariti, fratelli; un politico (ne avete tanti di Superman in politica!). Non solo arabi, ma anche francesi, italiani. Questa malattia – il machismo – ha bisogno di una rivoluzione, una reinvenzione del significato di essere uomo, che ormai è legato a troppi valori negativi (l’oppressione, la violenza, ecc.). Accanto alla donna che ha bisogno di credere in se stessa, c’è anche bisogno di un uomo che abbia coscienza del fatto che il machismo come vissuto da tanti uomini è un disastro. G.Lerner Ecco raccontiamo questo disastro. Questi maschi che circolano per le strade di Beirut, che vedono questi appariscenti cartelloni pubblicitari di lingerie intima e che allo stesso tempo devono pensare di volere una moglie che arrivi vergine al matrimonio (e sono uomini giovani), vivono una schizofrenia. Possono soddisfare gli occhi anche attraverso internet, ma devono vivere una frustrazione. E’ una situazione che mi appare provvisoria. In passato c’era una repressione sessuale che però era totalizzante. Abbiamo una potente sessualità virtuale, impotente e frustrante. Per cui quanto tempo può durare questo Superman arabo? J.Haddad Eh sì, costa essere donna nel mondo arabo, ma costa anche essere uomo. Tante frustrazioni; una divisione fra sé e sé, questa incapacità di essere all’altezza della sua verità, che gli fa dire una cosa e desiderarne un’altra. Quando hanno trovato film porno nel nascondiglio di Osama Bin Laden, è un esempio caricaturale di questa scissione. Il suo ultimo libro, Joumana Haddad lo dedica ai due figli, maschi, Mounir e Ounsi, ai quali ha scritto una lettera a conclusione . Eccone un estratto “Amori miei, ci sono un sacco di cose che strada facendo non vi ho detto. Cose che credevo aveste saputo per istinto. Cose che pensavo, crescendo, prima o poi, avreste scoperto da soli, Che supponevo di potervi risparmiare. (...) Comunque, ho finito per cambiare idea. Sono arrivata a pensare che alcune cose vanno espresse in modo chiaro e diretto (...)Perciò eccole qui. Noi (donne, la maggior parte di noi) siamo stanche che voi (uomini, la maggior parte di voi) ci vediate solo come le vostre madri, le vostre figlie, le vostre sorelle, le vostre amanti, le vostre mogli, le vostre proprietà, i vostri accessori, le vostre serve, i vostri giocattolini (...) Siamo stanche di non credere più in noi stesse. Stanche che voi non crediate in noi. Stanche di non essere considerate come abbastanza per voi, o considerate troppo per voi (...) Stanche di sentirci in colpa perché andiamo al lavoro invece di stare a casa a preparare biscotti. (...) Siamo stanche di scegliere uomini vuoti invece cge decenti, rudi invece che gentili, ricchi e potenti invece che ambiziosi e gran lavoratori. Stanche che voi scegliate donne stronze invece che oneste, rifatte invece che naturali, giovani e belle invece che fedeli e amorevoli. (...) Stanche di dover scegliere fra manipolarvi e rassegnarci a voi. Stanche che non vi permettiate di lasciarvi andare con noi. (...) Stanche che voi riteniate che avere bisogno di noi sia un segno di debolezza (...) Stanche che voi decidiate cosa è ‘adatto a una signora’ e cosa non lo è. Stanche di preoccuparci della nostra ciccia sulla pancia, della profondità dell’incavo dei nostri seni e del trucco che abbiamo in viso. Stanche che voi vi concentriate sulla nostra ciccia sulla pancia, sulla profondità dell’incavo dei nostri seni e sul trucco che abbiamo in viso. (...) Stanche che voi evitiate le conversazioni vere, fatte con il cuore in mano. (...) Stanche di confondere la vostra cavalleria con la mancanza di carattere. (...) Siamo stanche di fingere l’orgasmo per rassicurarvi, di tenere un basso profilo per confortarvi e di raccontarvi bugie per rallegrarvi. Stanche che voi vi sentite intimiditi dalla nostra forza, minacciati dai nostri successi, terrorizzati dalla nostra intelligenza, irritati dalla nostra libertà, sfidati dalla nostra indipendenza (...) Siamo stanche di dovervi dimostrare che siamo forti. Stanche che voi dobbiate dimostrarci di essere più forti. (...) Stanche che crediate che qualsiasi cosa, persino la fame nel mondo, si possa risolvere con una pastiglia di Viagra. Siamo stanche di essere prigioniere di un femminismo alienante. Stanche che voi siate prigionieri di un machismo alienante. Sì, siamo indiscutibilmente, infinitamente stanche. Siate sinceri: non lo siete anche voi?” C RIUNIONE DI FAMIGLIA U O .com LO ZIO DI TROTSKY Un po’ di brutto per tutti Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012 direttore simone siliani redazione sara chiarello aldo frangioni rosaclelia ganzerli michele morrocchi progetto grafico emiliano bacci editore Nem Nuovi Eventi Musicali Viale dei Mille 131, 50131 Firenze contatti www.culturacommestibile.com [email protected] [email protected] www.facebook.com/ cultura.commestibile “ Con la cultura non si mangia Giulio Tremonti S'inaugura il Maggio Musicale, 76° edizione, come al solito sull'orlo del baratro. Anche il 2012 si è chiuso con 3 milioni di euro di deficit. Eppure la mirabolante Soprintendente Colombo ebbe a dire nel luglio 2010 che per arrivare al pareggio di bilancio, “ci sarà da fare qualche sacrificio”. Ma c'era grande fiducia; si viaggiava col vento in poppa. Il sindaco nonché presidente del CdA ci disse che “il 2011 sarà l'anno della verità”. Eh, già, la colpa era di quelli che c'erano prima. Infatti nel 2007 il deficit fu di 1,8 milioni, nel 2008 di 2,5 e nel 2009 si arrivò a 4,5 . Ma l'anno della verità dette il suo responso: 8,3 milioni di deficit! Comunque, allora la coppia Colombo-Renzi aveva la soluzione in tasca: la Tata. Cioè il miliardario Ratan Tata e tutto il gotha del mondo economico indiano: trasferta lampo a Mumbay, semina ampia e un’aspettativa di 3-5 milioni di euro... che poi effettivamente ci sono stati, sebbene nella forma del grande matrimonio indiano di qualche settimana fa, ma al Maggio neanche una rupia. Replica la Colombo: “bisogna ragionare con mentalità nuova, coinvolgendo le aziende in progetti specifici di loro interesse” e così ti assume la Pettinari, già marketing account del Festival dei Due Mondi di Spoleto per far 4 I CUGINI ENGELS Ben venga Maggio Del Professor Givone, che dichiara orribile Piazza della Repubblica con i suoi “dehors”, invidiamo lo slancio utopico di volerla rifare dopo che da pochi mesi è stata “a nuova vita restituita” dal già vice-sindaco Nardella. Ci permettiamo di suggerirgli di lasciar fare. Come si può pensare che i bar che si affacciano su una delle più brutte piazze del mondo (il parere è nostro e del nostro zio, naturalmente) possano rimetter mano ai capannoni stile Osmannoro prospicienti le loro botteghe? Quella sfilzata di cassettoni, che solo architetti della DDR potevano pensare più tronfi e pesanti, devono essere costati un occhio della testa. Professore lei vuol chiamare “progettisti che hanno dimostrato di avere Firenze nel cuore” a ridisegnare tutto. Uomini così si possono solo “evocare” con un tavolino a tre gambe più che con inviti mirati. Ma poi se lo immagina la fiera delle fantasie che verrebbe fuori. Qualcuno, magari, proporrà anche ricostruire il vecchio Ghetto, rigorosamente tutto di cristallo, che forse non dispiacerebbe al già giovane sindaco. E' una battaglia persa, lasci perdere, col tempo accetteremo anche il brutto in Centro Storico. In fin dei conti è anche un motivo di giustizia sociale che il brutto non sia solo riservato alle periferia della città. “ LE SORELLE MARX o n 28 PAG. sabato 4 maggio 2013 confluire fiumi di soldi verso il Maggio. I fiumi, tuttavia, rimasero secchi. Poi fu la volta della imprescindibile delibera salva-Maggio del luglio 2012 che se non si votava si chiudeva. E la delibera passò, qualche esubero ne pagò le spese ... ma il Maggio non si è salvato, evidentemente. E così, siamo arrivati al commissariamento. Tutto si risolve! Il neoministro Bray, presente alla Prima del Maggio (e già questa è una novità!), con un sol tweet sbroglia la matassa: “Salviamo il Maggio Musicale Fiorentino!”. Inveterato vizio italico questo: chi ha responsabilità, invece di dire “Ecco, io farò questo e quest'altro per risolvere questo problema perché ne sono responsabile”, la butta sul solidarismo. “All together! Avanti! Facciamo! Forza! Tutti uniti!”. Come? “Vedremo”. Intanto, come nel più classico dei Giri dell'Oca, giunti a questa casella si torna al via e il sempreverde Nastasi (già Commissario) se ne viene fuori con una idea originalissima: una legge speciale per il Maggio (e, già che ci siamo, anche per l'Arena di Verona). Peccato che già ne ebbero a discutere in un incontro a porte chiuse il 6 ottobre 2010 fra – udite, udite – Renzi, Bondi (ricordate? Fu Ministro della Repubblica) e Bonaiuti: risultato, zero! Ben venga Maggio! Finzionario di Paolo della Bella e Aldo Frangioni Lorenzo Forte è stato il primo critico a voler dissacrare le celebrate archistar che hanno globalizzato l'architettura: occorre dargliene atto. Decine di architetti hanno imitato gli stilisti e, sia che costruiscano nel Dubai, a Hong Kong o a Londra fanno tutti gli stessi “soprammobili da città” perché, come per la moda, ciò che conta è la griffe. Ricordiamo il via vai di progettisti che sono passati da Firenze nel periodo dei progetti Fiat e Fondiaria. A parte qualche solitaria eccezione i risultati sono stati disastrosi: andatevi a vedere la costruzione Assiro-Babilonese della Scuola dei Marescialli dei Carabinieri nella Piana). Il nuovo libro di Forte che in questi giorni esce per i tipi della Arc & Star editori raggiunge una radicalità estremista da risultare spaventoso. Infatti, per scongiurare l'ego narcisistico sconfinato degli architetti, egli propone l'abbattimento di numerosi edifici costruiti nelle città del mondo negli ultimi 40 anni per essere sostituiti da “progetti laici”realizzati nell'anonimato e privi di ogni segno di riconoscimento. Siamo inorriditi al pensiero che l'esempio supremo da lui portato è l'edilizia della periferie dei Paesi dell'ex- socialismo realizzato: più che un trattato sull'architettura da dissacrare ci sembra un banale romanzo dell'horror. Il primo governo di Benigno Letta Nell’ozio di uno dei primi pomeriggi di sole di questo umido 2013 ci siamo messi a seguire sul nostro tablet il discorso con il quale Enrico Letta ha chiesto alla Camera la fiducia per il proprio governo. Dobbiamo ammettere che sin da subito più che i contenuti (non certo banali) ci ha rapito l’eloquio. Il tono calmo, rassicurante, le pause giuste, termini colti ma non aulici, citazioni alte e popolari. Parola dopo parola, frase dopo frase, non ci siamo più chiesti quale potesse essere la copertura finanziaria e quella politica di quanto ci veniva detto; ci siamo scordati del tradimento di Prodi, dell’impallinatura di Marini, di Berlusconi rinato, di Rodotà assurto a novello Che Guevara. Tutto passato, dimenticato. Solo Letta e i suoi colleghi, quasi una foto di gruppo dell’ultimo congresso della giovanile DC. Persino noi ci siamo crogiolati nel rassicurante tepore demoscristiano e siamo andati subito a scaricare un app per vedere lo streaming in bianco e nero, monocolore più adatto a quanto avveniva davanti ai nostri occhi. Peccato solo, ci siamo detti, che Letta si chiamo Enrico e non Benigno o Mariano. C IL DIBATTITO SÌ U O .com di Paolo Aglietti [email protected] Con questo articolo di Paolo Aglietti, Coordinatore Toscano SLC CGIL (Sindacato Lavoratori della Comunicazione) e dipendente del Maggio Musicale Fiorentino, avviamo un ciclo di interventi sulle sorti della nostra Fondazione Lirico-sinfonica, mentre si apre il Festival con il “Don Carlo” di Verdi in versione sinfonica, diretto da Zubin Metha. o 5 n 28 PAG. sabato 4 maggio 2013 Maggio L a situazione odierna, in sintesi, è del giorno prima della tragedia: la Fondazione è stata Commissariata dal MIBAC il 31 gennaio scorso per “gravi irregolarità amministrative”; il Commissario, dott. Francesco Bianchi, dopo una prima ricognizione ha descritto un quadro desolante: un debito consolidato di poco superiore a 35 milioni di euro (poco meno del 50 % con il sistema bancario, oltre 9 milioni con istituti previdenziali, assistenziali e fisco, circa 6 per il Tfr dei dipendenti ed il rimanente con fornitori ed artisti). Il bilancio 2012, che avrebbe dovuto determinare un piccolo attivo si chiude con 3 milioni di euro di deficit (pur essendo in linea con le previsioni il capitolo di spesa per il personale, il più importante, con uno scostamento di circa 200mila euro) ed il preventivo 2013 indica una perdita di circa 6 milioni di euro. Senza interventi emergenziali, la situazione preclude alla liquidazione coatta amministrativa. Il Commissario, quindi, ha deciso tagli e assestamenti sulla stagione 2013 che produrranno 2,1 milioni di euro di risparmi ed ha chiesto alle organizzazioni sindacali di raggiungere un accordo finalizzato alla riduzione delle spese del personale per ulteriori 4,5 milioni di euro. A tale riguardo preme precisare che tra il 2011 ed il 2012 il costo del personale è già sceso di 3 milioni di euro al netto del conferimento del Tfr per circa 2,2 milioni di euro. Un ulteriore intervento di tali dimensioni è già stato valutato insostenibile dalle organizzazioni sindacali pena la modifica strutturale di teatro di produzione del Maggio, restando indispensabile la necessità di salvarlo, in quanto è una delle poche finestre biunivocamente aperta sul mondo del nostro territorio, per il volano economico diretto ed indiretto che rappresenta (studi europei dimostrano che queste strutture hanno effetto sul Pil territoriale di oltre 1,5 punti), per il bacino occupazionale di circa 400 lavoratori diretti (340 tempi indeterminati) più indotto... La situazione in cui versano tutte le Fondazioni Lirico–sinfoniche è la risultante di diversi pregiudizi ideologici dei governi che si sono succeduti e delle opportunità concesse alle burocrazie ministeriali. Il minoritarismo politico / culturale antropologico della sinistra folgorata sulla via di New York ha ritenuto che un intervento legislativo di ingegneria societaria/giuridica pensato per il Teatro alla Scala (trasformazione da enti pubblici a fondazioni) rappresentasse la soluzione di un problema strutturale, determinando contraddizioni in termini di governance, di rapporti tra Stato ed enti decentrati, di deresponsabilizzazione di un quadro dirigenziale autoprodotto ed autogenerato in stretta simbiosi con i riferimenti politici. Il pauperismo culturale ideologico della destra (con la cultura non si mangia) ed i tagli lineari hanno prodotto il dimezzamento del Fus e l’asfissia economica e finanziaria di tutto il mondo della produzione culturale. Chi vuole avere significative presenze su queste frontiere, se le paghi, in una specie di federalismo rovesciato. Quante realtà importanti sono già scomparse nel silenzio assordante della disattenzione. Le burocrazie ministeriali, nella loro che fare Il punto di vista del Sindacato ? usuale lungimiranza, hanno fatto approvare provvedimenti urgenti, già in diverse occasioni sottoposti a pareri negativi dell’autorità giudiziario, asfittici, inconcludenti e senza prospettive. Basta pensare all’ultimo Regolamento sulle Fondazioni che il Governo ha imposto venisse affrontato dalla Conferenza Unificata. Anche i rappresentanti sindacali territoriali hanno vissuto dentro questo brodo culturale: hanno scaricato sulle organizzazioni sindacali nazionali e sul contratto nazionale non rinnovato da quasi 8 anni il problema dei costi; non hanno potuto, voluto o saputo imporre per tempo soluzioni organizzative in tema di flessibilità ed organizzazione del lavoro ed attenzione ai costi. Chi è entrato in difficoltà prima ed ha fatto interventi, pur stando oggi, male, sopravvive meglio degli altri che hanno come orizzonte possibile la chiusura. Il legislatore degli anni ‘60, tanto vituperato, invece, era in possesso di una lungimiranza e di un’attenzione sconosciuta e lontana dall’attuale classe dirigente. Osservando e studiando la realtà aveva disegnato un quadro di opportunità che aveva come orizzonte lo sviluppo ed il supporto alla libertà della produzione artistica, non sull’intero sistema, ma sicuramente per il settore musicale; la degenerazione della politica e la crisi della finanza pubblica degli inizi degli anni ‘90 del secolo scorso hanno messo in crisi quel sistema; oggi rischiamo di tirare la catenella del cesso senza sapere neppure che cosa c’è dentro. C REBUS U O .com o di Laura Monaldi [email protected] L a potenzialità della sintassi verbo visiva applicata a slogan pubblicitari è solo una piccola parte della vasta produzione artistica di Eugenio Miccini. L’accostamento e la sovrapposizione di parole e immagine non si esaurisce nella ricerca dei codici della società di massa, passando oltre e superando i limiti dei codici della quotidianità. La serie dei “Rebus” - iniziata nel 1964 con la collaborazione di altri pittori come Barni, Ruffi, Lastraioli e Coppini – è prova di un’audace esaltazione di iterazioni e possibilità operative che s’incontrano, valorizzando l’aspetto verbo-visivo del collage e degli interventi poetico-visuali. Con i “Rebus” Eugenio Miccini attua un recupero del messaggio in nome dell’immagine, attraverso una narrazione labirintica e concettuale, al fine di una lettura simbolica della realtà, colma di aporie da svelare e contraddizioni da demistificare. Si tratta di un divertissement poetico, di un gioco linguistico di grande attualità, in cui la visualità diviene la nuova dimensione della parola: una metafora puramente illustrativa del reale, che si esplica in un’unione discontinua e po- Eugenio Miccini - Adversis rebus, 1972 Lettera metallica su tela emulsionata cm 114,5x145,5 - Courtesy Collezione Carlo Palli I divertissement poetici e i rebus di Miccini livalente di parole e immagini. In tali opere la parola aliena l’immagine, che a sua volta è alienata dalla parola, in un silenzio enigmatico e quasi sarcastico, dal quale scaturisce una poeticità inedita. Con i “Rebus” e – in seguito – gli “Anagrammi”, l’intento dell’artista non è quello di mettere in luce le infinite relazioni che possono intercorrere fra parola e immagine nella società di massa e dei consumi, si tratta di mettere in gioco tali possibilità, al fine di vedere la poesia oltre la linearità del discorso poetico e l’immediatezza visiva del supporto pittorico. Segno e significante divengono i validi strumenti della nuova retorica contemporanea, in cui i ruoli e le funzioni della letteratura e dell’arte vengono ribaltati in nome dell’estetizzazione del quotidiano e dei vari processi operanti nei termini sociali e artistici, che tendono a corrodere gli spazi di autonomia e di identificazione con la realtà. La metafora e la retorica iconica della poesia visiva post-ermetica di Eugenio Miccini è un rimando al punto d’origine del linguaggio, ossia al momento della coincidenza perfetta fra nome e cosa, in contrasto con la sordità e la cecità del mondo e dell’uomo contemporaneo. 6 n 28 PAG. sabato 4 maggio 2013 U.S.A. Rebus gestis, 1972 Lettere metalliche su tela emulsionata cm 114,5x150,5 - Courtesy Collezione Carlo Palli C ICON U O .com o 7 n 28 PAG. sabato 4 maggio 2013 di Angela Rosi [email protected] L a mostra Museo di storia innaturale di Andrea Marini alla Galleria Die Mauer di Prato è equilibrio, un'armonia tra aria e terra, equilibrio tra le superfici, tra i vuoti e i pieni, tra il movimento e la staticità. Al centro della galleria appesi al soffitto con sottili fili e sospesi nel vuoto Erranti, 2013 sette opere leggere, fatte di respiro e fragilità, dischi molati in alluminio, ferro e plexiglas di varie dimensioni che creano forme simili a bruchi, soffioni, nuvole e, che, con un lieve tintinnio, si muovono cambiando colore secondo la La storia innaturale Andrea Marini alla Galleria Die Mauer di Prato luce. Il plexiglas diventa traslucido come alabastro o madreperla, il ferro è di un grigio scuro e l’allumino sembra argento vivo. Il materiale dialoga con lo spazio e comunica tutta la complessità dell'arte di Marini. Il suo percorso artistico è mimesi della natura ma poi ci narra ben altro, le forme create sono autonome e ci permettono di liberare l’immaginazione. Marini sperimenta la materia e la forma mantenendo la classicità, nei suoi lavori c'è il gioco ma anche qualcosa di più oscuro che si accresce rivelando l’innaturale della natura stessa. Marini porta la natura verso qualcosa di anomalo, la sua complessa semplicità può spingersi fino al “mostruoso” che si può moltiplicare diventando invadente e non più solo giocosità. Le sue opere si espandono e s’impongono nello spazio creando un possibile pericolo, facendoci scorgere la possibilità di follia e anomalia nella natura e nell’uomo. L'equilibrio che sentiamo in galleria è dato dalle sculture Vibratili, 2013 ed Erranti, 2013 perché le une danno la terra e le altre l'aria cioè il soffio di vita, Erranti sono semi portati dal vento per fecondare la terra. Erranti donano il respiro ai Vibratili radicati nella terra, essi sono aghi di pino in- gigantiti, strusciano, come la processionaria, ma poi si contorcono, lentamente si alzano, si animano e si muovono, ricordando i dinosauri. Tra queste due istallazioni c'è un continuo dialogo come se le une non possono esistere senza le altre. A suggello, in parete, Scotchage 2013 tre quadri in plexiglas nero, l’uovo “dipinto” si fa ellisse e poi ellisse allungata cioè potenziale bozzolo per una farfalla. Marini ha usato piccoli pezzi di scotch in alluminio, sembrano piccole pennellate argentee, un mosaico. Nelle sue opere c’è un continuo mutamento, non c’è staticità, ogni lavoro è in continua evoluzione come Informi composti di protuberanze, assembramenti di cellule che si sviluppano all'infinito fino al movimento. Ancora Ibridoteche, 2009 teche in vetro, piccole serre dove si conservano surreali piante grasse composte di materiali metallici e sintetici e lo Pseudo ritratto, un vuoto con grandi occhi, naso e bocca. L'arte di Andrea Marini fa appello alla fantasia e all'emozione, le sue opere ci portano in con-fusione con l'effetto di velare la distinzione tra il vero e falso incarnata nella nebulosità resa dai fili di Erranti che, liberi, scendono verso terra. C ICON U O .com di Laura Monaldi [email protected] È in chiusura alla Galleria Civica d’Arte Contemporanea MuVi di Viadana, la mostra, in omaggio al Gruppo 70, a cura di Claudio Cerritelli e Melania Gazzotti. Il percorso museale offre una panoramica sulle opere e l’attività del gruppo fiorentino fondato da Eugenio Miccini e Lamberto Pignotti, in occasione del convegno “Arte e comunicazione” svoltosi nel maggiogiugno 1963 al Forte Belvedere di Firenze. Un omaggio alla Poesia Tecnologica e ai collages poetico-visuali degli artisti e intellettuali che aderirono al gruppo, come Luciano Ori, Ketty La Rocca e Lucia Marcucci. Una focalizzazione interna al movimento internazionale della Poesia Visiva, che vuole essere – a cinquant’anni dalla nascita – una presa di posizione su una delle più significative avanguardie italiane del secondo Novecento. Le problematiche aperte sulle relazioni fra “arte e comunicazione” e fra “arte e tecnologia”, proprie della prassi artistica del Gruppo 70, rivivono in questa mostra come sintesi di una visione militante e impegnata a livello sociale della letteratura e dei problemi della responsabilità dello scrittore dell’epoca, che deve operare il riscatto estetico dei simboli della civiltà contemporanea, attraverso un linguaggio poetico-artistico inedito. Grazie alla mimesis linguistica e all’ironia verso tutte le forme di comunicazione mass-mediatica si esplica una nuova retorica dell’arte contemporanea: calco, trascrizione, contaminazione, paradosso, ripetizione e concentrazione divengono i cardini della sperimentazione linguistica, in cui si realizza il fenomeno verbo-visuale in virtù dei gerghi del tecnicismo operante – secondo i vari contesti e funzioni dell’attualità – e i nessi fra parola e immagine. I manifesti, le riviste d’artista, i documenti e le fotografie in mostra mettono in luce la volontà dei fondatori del gruppo di proporre una linea comunicativa capace di compiere il rinnovamento sociale e culturale, in nome di una critica impegnata alla modernità degli anni Sessanta. La mostra, oltre a offrire uno sguardo generale sull’interazione fra parola e immagine del Gruppo 70, mette in rilievo l’importanza di Mantova nella storia della Poesia Visiva, rievocando l’evento museale del 1998 al Palazzo della Ragione, dal titolo “Poesia Totale, 1987-1997: dal colpo di dadi alla Poesia Visuale” e la donazione di Eugenio Miccini alla Biblioteca Comunale, destinata a diventare un primo nucleo del Centro Internazionale di Documentazione della Poesia Contemporanea. o 8 n 28 PAG. sabato 4 maggio 2013 50 anni di Gruppo 70 SPIRITI DI MATERIA La festa del giaggiolo e lo scudetto del 1969 di Franco Manescalchi [email protected] I fiorentini chiamano giglio il giaggiolo: una varietà dell’iris da cui deriva il simbolo della loro città, detta anche “città del Giglio”. Questo fiore era così diffuso nella campagna fiorentina che a San Polo in Chianti ai primi di maggio si effettua ancora la Festa del Giaggiolo. Pure i calciatori della Fiorentina, che portano il simbolo sul petto, si chiamano “i gigliati” o, per il colore della maglia, “i viola”. Anche altrove le società di calcio assumono il simbolo della loro città, così è il Toro a Torino o la Lupa a Roma. Ma per nessuna squadra il simbolo rimanda alla natura e a una Festa, come dire la festa del Toro o della Lupa. E questa nostra omonimia dette luogo a una doppia Festa, quando nel 1969 la Fiorentina vinse il suo secondo scudetto. Doppia Festa a cui pure io partecipai, dalle gradinate della Maratona, a seguire le gesta di Amarildo, Merlo, De Sisti e degli altri giovani talenti, e nelle escursioni in campagna, dove a volte si aprivano stupefacenti vallate di giaggioli. Proprio in quell’anno Piero Bargellini era andato a San Polo a presenziare alla Festa, che si tenne nel giorno in cui la Fiorentina sigillò il suo secondo scudetto e gli accadde così di mettere insieme in tempo reale le due Feste in una cronaca scritta in punta di penna, apparsa su La Nazione il 12 maggio del 1969. “Guardavo sulle tavole sparecchiate la guarnizione dei giaggioli e andavo sempre pensando: “Come andrà la partita?” Non mi ero mai reso conto di come la Fiorentina avesse scelto per colore simbolico il viola, e ora mi accorgevo come il fiore più tipicamente fiorentino, il giaggiolo, non incrociato, non ibridato, ma genuino, fosse proprio di quel colore. Andavo, per questo, pensando dentro di me : “Vincerà il giaggiolo ?” Se avessi espresso il mio pensiero ad alta voce, gli stranieri che erano con me non avrebbero capito. Non c’erano apparecchi radio in quelle verdi vallate, e non si udivano che versi d’uccelli su quei campi viola di giaggioli. Quando siamo risaliti sulle automobili, l’ora era già passata, ma, transitando dai caseggiati, non ho voluto raccogliere notizie. Avevo furia di giungere a Firenze e, lasciandomi dietro le distese viola di giaggioli, pensavo ad altrettante bandiere viola sulla città. Giunti a Ponte Ema abbiamo trovato un ingorgo. Si udivano grida e un gruppo di giovani, a un bivio, agitavano bandiere viola. “Contestatori ?”, mi han chiesto gli stranieri che erano con me. Ho sorriso. Avevo già capito che il giaggiolo aveva vinto. Gli stranieri mi guardavano, interdetti e anche un po’ intimoriti. Li ho rassicurati. “Questa è soltanto letizia!” (…) . “Grande e bel popolo il vostro”, ha commentato un danese. “Si merita questa gioia, come la vostra terra si merita i fiori che oggi abbiamo ammirato”.” C OCCHIO X OCCHIO U O .com o 9 n 28 PAG. sabato 4 maggio 2013 di Danilo Cecchi [email protected] “V edo gli occhi che hanno visto l’Imperatore” scrive Roland Barthes all’inizio del suo “La camera chiara”, alludendo ad un ritratto fotografico del 1852 di Jérome Bonaparte, ultimo dei fratelli di Napoleone. L’occhio fotografato è sempre un poco inquietante, specialmente quando guarda nella fotocamera, direttamente verso il fotografo, e di conseguenza verso l’osservatore delle immagini. Sostenere lo sguardo non è sempre facile, ed i fotografi ne sono sempre stati coscienti, tuttavia l’occhio rimane uno dei loro temi preferiti. L’occhio, al singolare, ancora più degli occhi, perché la visione fotografica è rigidamente monoculare, ad eccezione della stereoscopia, considerata da quasi tutti poco più di un gioco. Le immagini fotografiche nascono, quasi sempre, da uno sguardo, ed è difficile, anche se non impossibile, fotografare senza vedere. Fotografare significa avere un incontro visivo con la realtà, instaurare un rapporto tra il mondo esterno ed il nostro mondo interno attraverso l’atto del vedere. Le immagini fotografiche intenzionali sono (o dovrebbero essere) un prodotto dello sguardo, di uno sguardo educato, che permette il riconoscimento, nel flusso della realtà percepita, di determinate forme, figure, situazioni e momenti “significanti”. Per questi motivi l’occhio, inteso come organo e come strumento di lavoro, nella sua singolarità e nelle sue diverse manifestazioni, è stato e rimane al centro dell’attenzione dei fotografi. A partire dall’occhio della Contessa di Castiglione, isolato dalla cornice nell’immagine scattata nel 1863 da Pierre Louis Pierson (1822-1913), all’occhio di Picasso, nella ben nota immagine di Irving Penn (1917-2009) del 1957, fino all’occhio di Brassai immortalato nel 1981 da André VIllers (1930). Talvolta la mano nasconde il volto lasciando vedere solo l’occhio, oppure copre un occhio mostrando solo l’altro. Altre volte è il gesto della mano che sottolinea l’occhio incorniciandolo, come nella celebre foto scattata da Charlotte March (1929) a Donyale Luna nel 1966 e nella foto scattata da John Leongard (1934) nel 1981 ancora a Brassai, mentre Elliott Erwitt (1928) sostituisce l’occhio di Ernst Haas, inquadrato dal gesto quasi identico della mano, con un mirino multifocale. La casistica, in mancanza di una catalogazione precisa, ed anche giudicando ad occhio, sembrerebbe vasta e praticamente inesauribile. Con l’impiego dei programmi di elaborazione digitale delle immagini, gli occhi fotografati vengono inseriti dappertutto, sulla nuca, sulle mani o sulla schiena delle persone, sulle pareti o sui soffitti degli edifici, dilatando ancora le possibilità espressive ed allungando un elenco che nessuno ha mai compilato, perché chiunque lo facesse rischierebbe comunque di presentare un lavoro incompleto. Ma in fotografia, si sa, bisogna imparare a chiudere un occhio. Fotografi a occhio nudo C LUCE CATTURATA U O .com Notturni urbani o Firenze 2004-2013 Il brivido lungo e misterioso della notte in città di Sandro Bini www.deaphoto.it Sandro Bini - Notturni Urbani - Firenze 2004 otturni Urbani” è un Progetto Fotografico in progress che mira ad una analisi territoriale complessiva, su zone differenziate, dell'Area Metropolitana Fiorentina, con locations che sono di volta in N volta individuate, in base a criteri poetico-topografici: una geografia urbana che privilegia, con la visione notturna, le architetture di luce e le gerarchie sociali degli spazi: dai transiti dei nodi nevralgici agli aspetti più malinconici L’APPUNTAMENTO BIZZARRIA DEGLI OGGETTI Artlands Dalla Collezione di Rossano Le accensioni aeree a cura di Cristina Pucci Escursione lungo il Parco Fluviale di Lastra a Signa, alla scoperta di antichi paesaggi degradati tornati a vivere: Artlands, il programma di incontri e sopralluoghi verso nuove forme di costruzione del territorio, invita a un tour con descrizione itinerante del paesaggio e delle possibilità di valorizzazione del territorio agreste nelle aree vicine alla città. Appuntamento al Bar del Parco Fluviale, sabato 4 maggio 2013, ore 10,30. [email protected] Accendino da tavolo a forma di aereo, in metallo cromato, anni ‘60, funziona a benzina. Made in England, marcato “Dunhill”. Per fare fuoco si preme sulla fusoliera dell’aereo per alzare il cupolino sopra il posto di comando è così che si innesca la scintilla per l’accensione. Rossano “per questo oggetto ricevo molte proposte di acquisto, a volte anche molto interessanti, ma resisto! non lo vendooooo!!!!” 10 n 28 PAG. sabato 4 maggio 2013 e desolanti della città diffusa. Il lavoro, nato da un naturale sviluppo del mio studio e del mio progetto fotografico sulla città, trovava illustri modelli nella storia della fotografia (da Stieglitz a Brassai) e nella più recente scuola ita- liana di Paesaggio degli anni 80-90 (Luigi Ghirri, Olivo Barbieri ecc). Un passaggio quindi dall’analisi architettonica e sociale delle configurazioni urbane, riprese in piena luce naturale, alle evocative gerarchie luminose della fotografia notturna, che trasfigurano il tempo e lo spazio nella dimensione poetica ed onirica di una visione incantata. L’esperienza della notte in città ha regalato quindi stimoli diversi ed emozioni inaspettate. La lenta e rituale messa a punto della macchina fotografica sul cavalletto, i lunghissimi tempi di esposizione, lo studio delle fonti di luce artificiale, gli spazi bui e luminosi, deserti e silenziosi della notte urbana, mi hanno avvicinato ad una esperienza di contemplazione straniata e straniante, in una dimensione spazio-temporale e luminosa diversa e privilegiata, vicina a quella del sogno o della fiaba, in cui gli stessi scenari del quotidiano mutano di senso per aprirsi al “mistero abitato” della notte e a rimandi culturali sia visivi che letterari. I “Notturni urbani” sono dunque il frutto di questa esperienzavissuta di contemplazione e transito, di visione e lettura, ma anche il nome che vorrei affettuosamente dare tutti coloro che, fotografi o meno, non hanno saputo, non sanno o non sapranno resistere al richiamo notturno, al brivido lungo e misterioso della notte in città. C VUOTI&PIENI U O .com di Clementina Ricci [email protected] “L eonardo Ricci” è il titolo dell’ultimo volume a lui dedicato edito da Palombi. La storia di questo testo è densa di amore, di emozioni e di passioni, difficoltà, incertezze e talvolta di infelicità. Proprio come lui; esistenzialista, come lo definisce Corinna Vasic nel suo omonimo libro. Antonella Greco scopre lo spazio del testo con un’introduzione d’ispirazione epistemologica assolutamente indispensabile per ricollocare il soggetto all’interno del suo mondo, che all’epoca studiava come liberare le banche da ogni protezione e sfondare i muri del carcere di Sollicciano. Un perfetto esercizio filosofico con effettive implicazioni architettoniche. Poi il momento delle grandi archistar, ma adesso, come dice l’autrice Maria Clara Ghia, qualcosa è cambiato e non possiamo più fare finta di niente. La prima volta che ho preso in mano e ho letto il testo del giovane architetto con un dottorato in filosofia, ho capito che, oltre a dirlo, lei lo aveva anche fatto. In primis con il linguaggio: il testo si apre con una citazione di Ernst Bloch, una strofa di Thom Yorke e un brano tratto da “Lo Zen e l’Arte della Manutenzione della Motocicletta”. Stiamo sempre parlando di architettura e di filosofia, ma il lucchetto della serratura si apre con una chiave meno tecnica e più umanistica. La generazione definita “perduta” dalla recente classe politica italiana in una rara sorta di ammissione del proprio fallimento cerca di trovarsi uno spazio per parlare agli architetti e non, soprattutto ai coetanei, che si suppone traggano qualcosa dalla lettura e la rielaborino con riflessioni sottoforma di oggetti. Perché anche di oggetti si parla in architettura e Leonardo rifletteva sulla nostra relazione con essi, carica di emotività, di commozione e di vita, come raccontano le interviste con Paolo Riani, Vittorio Giorgini, Elena Poccetto Ricci e alla sottoscritta al termine del testo. La grande frustrazione denunciata dagli architetti contemporanei è quella dell’incatenamento alla normativa e all’anonimato, tuttavia questo testo suggerisce una via di fuga, soprattutto a chi Leonardo Ricci non lo conosce. Egli annuncia spazi possibili, l’importanza del campo del sacro e l’ispirazione dall’infelicità ed affronta l’architettura in termini di comunicazione; un linguaggio che crei un nuovo rapporto con gli oggetti vivi. Umberto Eco ne “La struttura assente” definisce l’architetto come l’unica e forse ultima figura di umanista della società contemporanea, ma la domanda che ci poniamo allora è: come mai non ne abbiamo più visti all’orizzonte? Che sia colpa delle archistar? E perché le materie umanistiche e filosofiche non sono più insegnate agli architetti come sarebbe necessario? Leonardo fu un grande insegnante, lo ricordano tutti coloro che hanno assistito alle sue lezioni, ma forse nessuno è riuscito a cogliere il nocciolo della que- O o 11 n 28 PAG. sabato 4 maggio 2013 stione, ovvero ripulire il pensiero e gettare lo scarto, poiché in fondo si traccia un solco nella terra: si prendono dei sassi. Si murano i sassi con la malta: Il muro sale e divide lo spazio creando un nuovo spazio che prima non c’era. Di qua tira generalmente il vento: Qui c’è il sole del sud. Di qua di vede il mare. E i muri dividono spazi sempre più vivi. Alcune parti nell’ombra. Altre nella luce. Qui alto. Qui basso. Qui è bello riposare. Qui dormire. Qui lavorare. E’ nata una casa (L. Ricci, “Anonimo del XX secolo”, Il Saggiatore, Milano 1965). Antonella Greco e Maria Clara Ghia intraprendono una strada nobile, poco segnata, quella che riconduce l’architetto alla sua perduta anima: l’architetto come in una storia d’amore, è coinvolto in un processo creativo di cui non conosce gli esiti […]. L’architetto si colloca in una zona grigia fra geometria e fenomenologia, fra razionalità e irrazionale, fra intelletto ed emozione, fra ésprit de géométrie ed ésprit de finesse. Allo stesso modo Sartre prende in mano un ciottolo e la mano comincia a provare un senso di nausea. ltre le archistar PUÒ ACCADERE Sipari calati di Susanna Stigler [email protected] Firenze, Aprile 2013 C ICON U O .com di Sara Chiarello [email protected] A Firenze viviamo insieme a 15mila peruviani, e sono oltre 150mila solo in Toscana. Ma ne sappiamo poco. Anche per colmare le lacune sulle queste culture, rimosse e discriminate per secoli, che sono state riaccreditate solo negli ultimi decenni nell’arte e nella letteratura, si inaugura lunedì 6 maggio fino al 2 giugno a Palazzo Medici Riccardi la mostra in prima nazionale organizzata dal Centro Studi Eielson, sotto la direzione di Martha Canfield, in collaborazione con la Provincia di Firenze e l’Università degli studi di Firenze. Dedicata a Jorge Eielson, artista e collezionista peruviano scomparso nel 2006, espone per la prima volta oltre 30 opere di arte precolombiana, tra tessuti e vestiti rari, alcuni di oltre 1000 anni fa, di civiltà preincaiche quali Chancay, Paracas, Chimù, provenienti dalla collezione privata d’arte precolombiana di Eielson. In parallelo, saranno in mostra le opere di Eielson, che proprio da queste culture ha preso ispirazione per la sua ricerca poetica, quali la Suite Paracas, tela che rappresenta figure umane stilizzate, Unku, abito cerimoniale di ispirazione peruviana, o i Quipu, celebre serie di opere di Eielson ispirate all’antico sistema di comunicazione basato sui nodi. Sono la traccia degli antichi ‘quipus amerindi’ (i nodi della cultura inca) e sintesi del legame tra le sue origini latinoamericane e l’esperienza europea. In essi convergono la pittura, l’arte plastica, la poesia, la narrativa e il teatro di Eielson. Oltre ai reperti della collezione privata di Eielson, verrà esposto un quipu originale, prestato per l’occasione dal Museo di Storia naturale di Firenze, sezione di Antropologia ed Etnologia. Le opere preincaiche giustapposte a quelle dell’artista creeranno un ideale ponte estetico concettuale tra passato e presente. Ad aprire l’iniziativa lunedì, l’incontro, alle ore 16 a Palazzo Medici Riccardi, con il saluto del Console peruviano Manuel Veramendi i Serra; a seguire gli interventi del professor Antonio Aimi dell’Università di Milano, tra i maggiori esperti di culture precolombiane, che recentemente ha preso parte alla progettazione del museo del Complesso Archeologico di Huaca Rajada a Sipán (Perù), e di Martha Canfield. Il programma si completa della giornata di studi, martedì 7 maggio nell’Aula Magna del Rettorato dell’Università di Firenze (piazza San Marco n.4), dal titolo L’America precolombiana nella cultura contemporanea. La prima sessione della giornata (orario 10-13) sarà presieduta dalla professoressa Silvia Lafuente, mentre la seconda sessione (15-18) da Martha Canfield. La mostra è visitabile tutti i giorni (escluso il mercoledì) in orario 9-18. Ingresso da via Cavour 3. La visita alla mostra è inclusa nel bi- o 12 n 28 PAG. sabato 4 maggio 2013 Sulle tracce di Eielson glietto di ingresso al percorso Museale di Palazzo Medici Riccardi (biglietto intero 7 euro, ridotto 4 euro). Per informazioni www.centroeielson.com. LETTERE&LETTERATI di Leandro Piantini [email protected] Non si finirebbe mai di parlare di Dino Campana, di aggiungere notizie e svelare segreti intorno ad uno scrittore così irregolare e affascinante, che sembra fatto apposta per indurre gli studiosi a sempre nuove indagini. Ora si è scoperto che nel 1911 Campana partecipò a Firenze a due concorsi pubblici, che peraltro furono due insuccessi. Con il primo tentò di entrare in polizia, come “alunno delegato di Pubblica Sicurezza”. Il secondo concorso riguardava invece l’insegnamento delle lingue straniere nel ginnasio. Può sembrare paradossale che un uomo rinchiuso più volte in carcere e in manicomio volesse diventare poliziotto. Certo cercava soprattutto un posto di lavoro ma forse era attirato anche dalla possibilità di entrare nel mondo del potere, di quella forza pubblica da cui aveva subito numerosi arresti e umiliazioni. Di quel che aveva fatto nel 1911 Campana- nato nel 1985- finora non si sapeva nulla. Una scoperta casuale ha permesso allo studioso e poeta Paolo Maccari di entrare in possesso di nuovi documenti custoditi negli archivi dell’università di Firenze. Ne è nato un libro edito da Passigli nel 2012 (Paolo Maccari, Il poeta sotto esame), nel quale tra le tante cose possiamo leggere un tema scritto dal poeta di Marradi che ha per titolo “A zonzo per Firenze”, che contiene brani di grande bellezza degni del futuro autore dei Canti Orfici. Certo il titolo era Non si finirebbe mai di parlare di Campana quanto mai campaniano se si pensa che Dino, fino all’internamento nel manicomio di Castelpulci, aveva sempre viaggiato molto, e spesso a piedi, magari da Marradi a Firenze o a Faenza. Aveva condotto una vita di vagabondo, spinto dal suo dàimon irrequieto, da un bisogno spasmodico di inseguire qualcosa che forse nemmeno lui sapeva cosa fosse. Campana viaggiò in Francia, in Svizzera, in Germania, si spinse fino nell’America del sud- anche se non manca chi mette in dubbio, privi come siamo di documenti, che alcuni di quei viaggi siano realmente avvenuti. Si legge nel tema:”Firenze si delinea nettamente tra i miei ricordi…il suo cielo profondo, spirituale, lontano dalla terra come in nessun altro paese, risvegliò in me una nostalgia acuta verso le sorgenti più alte e più pure della vita; e mi parvero un paradiso i suoi colli…C’è una porta magnifica a S. Frediano, altissima, con battenti immensi e ferrati aperti sull’infinito del cielo. Nelle sere calde e fantastiche , una folla disparata passa ininterrottamente, con un rumore confuso di grida, di risa, di canti…”. Il tema scritto in francese dimostra che Campana non conosceva bene la lingua e che la bocciatura fu dunque meritata. Ma resta il rimpianto che non abbia superato l’esame. Un posto di lavoro sicuro gli avrebbe fatto abbandonare la sua vita errabonda e forse lo avrebbe salvato dalla follia. Non dimentichiamo che la sorte gli fu spesso nemica. Basta pensare allo smarrimento del manoscritto dei Canti Orfici ad opera di Ardengo Soffici, che costrinse Campana a riscrivere a memoria quelle poesie che –pubblicate dal Ravagli a Marradi nel 1914- segnano forse l’inizio della grande poesia moderna in Italia. C Le storie di Pam U O .com NUVOLETTE o 13 n 28 PAG. sabato 4 maggio 2013 www.martinistudio.eu C VUOTI&PIENI U O .com di Elisa Fiorini A nima è acronimo di uno spazio dinamico in cui convivono attività culturali eterogenee, il nuovo polo culturale di Grottammare, commissionato a Bernard Tschumi dal Comune omonimo e dalla Cassa di Risparmio di Ascoli Piceno. I 7.000 mq verranno realizzati in un lotto posto appena fuori dal centro storico, in una posizione di margine tra due poli paesaggistici, l’Appennino umbro-marchigiano da un lato, e la fascia costiera adriatica dall’altra. Così come la Chiesa dell’autostrada di Michelucci e la non ancora realizzata Città dello sport di Calatrava, l’edificio si pone nel paesaggio antropizzato come una emergenza architettonica in posizione nodale: un attrattore facilmente identificabile dalla dorsale autostradale adriatica pensato per il rilancio urbano e per lo svolgimento di attività di promozione del territorio attraverso la cultura. L’attenzione alle opere e alla poetica di artisti come Burri, Rotella, Manzoni e Fontana sono un riferimento per l’approccio alla prima opera in territorio italiano di Tschumi. Il polo, che si prevede sarà ultimato nel 2016, rappresenta un’esperienza progettuale lontana dalle quelle precedenti e da quelle mediorientali: les folies parigine e la progettazione per frammenti tipici del senso decostruttivista sono concetti che si perdono in Anima, nel volume intatto Deriddiano, eterogeneo come pluri-funzioni, contenitore come spazio flessibile nell’organizzazione e fluido nella percorrenza. La flessibilità funzionale è ottenuta con la variabilità dell’interpiano, i cui sbalzi, notevoli ma dinamici, si raccordano nella continuità della rampa; memorie delle carceri piranesiane, le passerelle aeree panoramiche consentono l’interazione con il paesaggio e mettono in comunicazione lo spazio principale con il blocco servizi a est (uffici, ristorante e laboratori). Lo spazio, gioco di geometrie e di layer, è costruito su un modello di corte lontano dall’archetipo dell’impluvium romano, il cui centro non è lo spazio vuoto ma il costruito: un volume rettangolare ruotato, con una capacità di 1.500 posti, che incide sul terreno una traccia che occupa lo spazio centrale della corte e che segmenta lo spazio in triangoli che assumono talvolta la veste d’ingresso, talaltra di spazio verde e espositivo. Continuità (nei materiali), flessibilità (funzionale) e dinamismo (nelle geometrie) sono caratteri che costruiscono il progetto e permangono nel trattamento dell’involucro traforato. La ricerca formale e dei materiali in facciata Un’Anima per Grottammare o 14 n 28 PAG. sabato 4 maggio 2013 precedenti è ribaltata: una pelle esterna, introversa ma attrattiva, illusionistica ma funzionale, attuale ma omogenea sui fronti e in copertura: compromesso tra globalizzazione e individualismo, citazione del mondo prerinascimentale, ribadisce scelte che vanno oltre tendenze estetizzanti e avverse al consumismo, nessuna geometria formale dedotta da complessi volumi curvi, come afferma Tschumi, ma attenzione al contenuto e al budget dell’opera in tempi di crisi. STRANIERI INFATUATI Casa Guidi un sogno di libertà e poesia di Francesco Calanca [email protected] Casa Guidi è la dimora storica dei poeti Robert e Elizabeth Barrett Browning che soggiornarono in Firenze dal 1847 al 1861, anno in cui la poetessa morì, esattamente due mesi dopo la proclamazione del Regno d’Italia. Risorgimentale convinta, Elizabeth dedicò alla causa italiana un suo celebre componimento, Casa Guidi Windows, ma per lei l’Italia fu sempre un sogno di libertà (dalla londinese Wilson Street era fuggita per amore insieme a Robert, la governante Wilson e l’amato cagnolino, Flush), un incontro romantico fra natura e cultura. Firenze, in particolare, rappresenta per lei la coesione dei cuori che battono per patriottici ideali, i grandi artisti “whose strong hearts beat through stone” raccolgono gli spiriti dei cittadini, fieri, che hanno osato sfidare il cielo con le loro opere (il campanile è una “Unperplexed question to Heaven”). Le pietre della città costituiscono le basi per la liberazione dall’invasore austriaco: “O freedom! O my Florence!”, scriveva Elizabeth. All’arrivo a Firenze, i Browning affittarono uno degli appartamenti del piano nobile del palazzo dei Guidi, già proprietà di un principe russo, ma trovandolo “beyond our means”, Elizabeth decise di ribattezzarlo “Casa” Guidi, in ottemperanza alle loro simpatie repubblicane. L’arredamento esistente è stato scelto sulla base di un disegno che George Mignaty nel 1861 fece della stanza preferita di Elizabeth, la drawing room, dove ella scriveva e riceveva gli anglo-fiorentini (“impecunious English people” giunti in Firenze perché esclusi “from polite society in England”, scriveva aspramente Robert). Mentre Elizabeth componeva, Robert collezionava arte e, oltre a un Ghirlandaio e un Pollaiolo, scovati al mercato di San Lorenzo, egli acquistò diversi oggetti contribuendo al recupero tipicamente anglosassone del passato pre-rinascimentale, visto come emblema di libertà e senso civico. Oggi, come purtroppo in passato, Casa Guidi non è molto frequentata da italiani e nell’aria sembrano ancora risuonare le parole di Elizabeth che lamentava l’assenza della società fiorentina fra i suoi ospiti (“it seems quite inaccessible”, scriveva). Tuttavia, se ci si siede nel salotto, in silenzio, si possono udire le voci della trafficata via Mazzetta sottostante e si può capire come la chiassosa Firenze, ai tempi di Elizabeth e Robert, abbia ispirato la loro poesia, in voci, forme e immagini, forse, ancora tutte da scoprire. C ICON U O .com di Simone Siliani [email protected] U n’opera monumentale, quella che Maurizio Nannucci ha realizzato alla Stazione Leopolda per la XX edizione di Fabbrica Europa. Lui, in verità, la definisce “antimonumentale”: si spegne con un ‘click’, è leggera come la luce di cui è fatta, un miraggio dice perché in fondo sarà visibile complessivamente una ventina di ore. Eppure, il monumento è lì: definisce lo spazio sconfinato della navata centrale dell’ex Stazione Leopolda, imprime con i 277 punti luce blu installati sul tetto l’imperativo categorico universale No more excuses, ti avvolge con il campionamento e la sovrapposizione della frase letta da 8 voci con accenti diversi di varie parti del mondo in una moltiplicazione seriale di combinazioni quasi infinite (il lavoro sorprendete di Simone Conforti). La Leopolda non è mai stata così funzionale: è tornata ad essere luogo di partenze ed arrivi, senza sosta, luogo di passaggio fra dimensioni diverse dell’essere. La monumentalità dell’opera/stazione, possente per come la percepisce il visitatore che prolunga il suo sguardo fra le colonne di luce per i 100 Niente scuse metri di lunghezza della navata, è scalfita solo dalle persone/viaggiatori che con la loro presenza interrompono le colonne di luce. Anch’essa metafora della funzione originaria della Leopolda: nel flusso incessante e immateriale di arrivi e partenze, solo le immanenti persone smarrite nel buio delle oro esistenze si materializzano, sovrapponendosi e mescolando destini e identità, come fanno qui le voci campionate da Simone Conforti. “Non ci sono scuse” per la nostra indifferenza verso gli altri, il destino rovinoso del pianeta, se non forse questa condizione stessa di ombre immanenti che solo una colonna blu di luce talvolta interrompe ma proprio per questo consente una qualche breve esistenza. La luce, nell’opera di Nannucci, è fenomenologica, non metafisica, spiega il curatore Sergio Risaliti. L’arte di Nannucci è monumentale senz’altro e ci dice qualcosa di nuovo su come interpretare lo spazio pubblico, troppo spesso occupato dal ruolo totalizzante del potere. Ma è al tempo stesso un’architettura interiore, che dalla consapevolezza del nostro vagare, soli, nel buio di un eterno viaggiare senza predeterminati punti d’arrivo, può rompere le rigide rappresentazioni del potere e smascherarlo, gridandogli: “No more excuses”. Non perdete l’occasione di fare esperienza di questo miraggio di uno dei più importanti artisti contemporanei, fiorentino, sempre in viaggio fra la sua “Base” (il centro d’arte di S.Niccolò, da 15 anni, miracolo vitale in una città dove il contemporaneo è difficile ma presente) e ogni angolo del mondo. Alla Stazione Leopolda fino a sabato 11 maggio: no excuses, se la mancate. o 15 n 28 PAG. sabato 4 maggio 2013 C PARIGI VAL BENE UNA FOTO U O .com di Danilo Cecchi [email protected] B onjour, posso dare un’occhiata a questi libri? Un amico mi ha parlato di questo negozio e mi ha messo addosso una certa curiosità. Mi ha detto che avete anche dei libri usati, interessanti e quasi introvabili. Manuali dei primi del Novecento, atlanti geografici di prima della guerra, un trattato di chimica fotografica di fine Ottocento, molti libri degli anni Cinquanta. Veramente interessante. Anche la sezione letteraria è ben fornita, i Miserabili nella edizione Testard del 1890, I Fiori del Male in un’edizione del 1925. Credo che anche questo Rimbaud provenga da questo negozio. Vedete, c’è un timbro sull’ultima pagina. Mettete sempre il timbro del negozio sui libri che sono in vendita? Quasi sempre. Non ricordate per caso se questo libretto è stato acquistato di recente? No, non potete ricordarlo. Non ricordate neppure chi lo ha acquistato, naturalmente. Immagino che la vostra clientela sia molto ampia e varia. Avete per caso dei libri sull’inferno? L’inferno di Dante… Naturalmente, l’inferno di Dante, di quale altro inferno possiamo parlare? Ne avevate uno molto bello, un’edizione illustrata con delle grandi tavole, delle pregevoli incisioni di Gustave Doré. Un libro grande, rilegato con cura, un’edizione dell’inizio del secolo, forse precedente la prima guerra mondiale. Non avete più questo libro? Peccato, mi sarebbe interessato veramente. Ricordate chi lo ha acquistato? No, è impossibile ricordare un cliente fra tanti, mi rendo conto. Però qualcosa vi ricordate. Non ricordate la persona, né il nome né la faccia, ma c’è un particolare che vi ha colpito. Il libro è stato comprato insieme ad altri due, quasi delle stesse dimensioni. Un album di incisioni di Aubrey Beardsley degli anni Venti ed un libro moderno con le poesie di François Villon illustrate da Moebius. I tre libri sono stati pagati regolarmente, ma il vostro cliente non li ha ritirati personalmente. Il compratore ha pagato qualcosa in più perché i tre libri fossero spediti per corriere internazionale, ma solamente dopo qualche giorno dall’acquisto. Ricordate dove li avete spediti? Avete gli indirizzi? Non erano tre indirizzi diversi, era un unico indirizzo, una libreria antiquaria di Firenze, una libreria del centro. Se conosco Firenze? Sì, un poco, e credo di avere capito dove può essere. Vi ringrazio, farò delle ricerche. Quei libri mi interessano in modo particolare, cercherò di ritrovarli. Chi ha acquistato i tre libri può essere la stessa persona che ha acquistato Rimbaud? Molto improbabile. Ah, c’è un’ultima cosa, molto importante. Ci sono delle altre persone che cercano quei tre libri. Se qualcuno dovesse venire a chiedere queste stesse notizie, vi prego di non dire assolutamente niente di quello che sapete, e soprattutto non dite che qualcuno è o 16 n 28 PAG. sabato 4 maggio 2013 Litterature Litterature già stato qui a fare le stesse domande. Si tratta di una questione molto delicata, e parlare troppo potrebbe essere pericoloso anche per voi. No, non vi sto minacciando, tutt’altro. Non è certo di me che dovete avere paura, il pericolo viene da un’altra parte. Tratto liberamente dal romanzo “Jed, Ced, Zed” PASTICCIOTERAPIA PsicoBudino al cioccolato di Andrea Caneschi [email protected] Ieri sera cena con gli amici. Menù spettacolare, di grande successo: lasagne ai carciofi, delicatissime e apprezzatissime; agnello in crosta, tenero, saporito e meno pungente, con il suo particolare gusto forte diluito dalla crosta con buccia di limone aglio e prezzemolo: pregevole. Infine, ultimo ma non ultimo, budino al cioccolato con panna. Preparazione del budino al cioccolato: prima di tutto psicologica (cosa succede del cuore morbido del budino se la cottura non sarà perfetta?), poi l’organizzazione: servono almeno quattro ore - a me, naturalmente - per completare l’opera, partendo dalla infornata del Pan di Spagna, che sarà poi sbriciolato nell’impasto di cioccolato e per amalgamare latte, cioccolato, zucchero, uova, eccetera. Intanto la mattina era passata alla ricerca della materia prima e degli utensili necessari, secondo la logica che pezzo per pezzo si tira su una pasticceria intera. Risultato ineccepibile, con qualche ansia e un’ora e mezzo di cottura a bagnomaria in forno: sembra facile il bagnomaria - pare da Miriam, sorella di Mosè, mitica alchimista -, ma non riesco mai a far tornare i miei tempi con quelli degli esperti, miei consulenti. Alla fine, ottima cottura, perfetto distacco dalla forma, momento massimo di angoscia per il futuro del budino. A tavola, quando lo presento, qualcuno è incredulo, l’hai fatto tu? Non ci credo... Poi si convince e attacca a dire che sì lui lo ha fatto tanto volte e così e cosà, come sono bravo io - lui! - e poi comunque chi non sa cucinare fa dolci. Fanculo, detto con la mia nota educazione e rispetto. Insomma, grande successo. Mi chiedo come farò a migliorare se viaggio a questi livelli già adesso. Budino al cioccolato alla maniera di Ada (liberamente tratto da Ada Boni, Il talismano della felicità, Carlo Colombo Editore in Roma, 1952) Per otto persone: Latte, l. 1 – Cioccolato fondente, g. 100 – Zucchero, g. 100 – Pan di Spagna, g. 100 – Uova intere, 4 Si fa sciogliere il cioccolato, ridotto in piccoli pezzi, nel latte caldo. Si aggiunge lo zucchero e il Pan di Spagna (chi non volesse cimentarsi nella fondamentale esperienza della preparazione del Pan di Spagna, può ricorrere a savoiardi commerciali). Si mescola il tutto e lo si lascia sobbollire per una decina di minuti, continuando a mescolare perché non si attacchi. Si sbattono bene le uova con una frusta e si versano nel composto del latte, che avremo provveduto a filtrare con un colino e lasciato raffreddare. Si mescola per amalgamare il tutto e si versa in una forma da budino unta di burro e velata di zucchero, se ci piace arricchire. Si cuoce a bagnomaria, in forno caldo a 180° in un recipiente che accolga lo stampo, con l’acqua calda che arriva ai due terzi della forma. Attenzione a non far bollire l’acqua del bagno, che rassoderebbe il budino e lo riempirebbe di bolle d’aria (qualche cubetto di ghiaccio a portata di mano, da versare nel bagno, consente un sicuro controllo). Un’ora e più di cottura, finché il budino non sarà ben rappreso. Togliere dal forno, lasciar raffreddare e conservare in frigo. Sformare al momento di servire, pregando che l’opera tenga e non si afflosci miseramente sul piatto di portata. C ICON U O .com 17 A fianco Fuori dal giro, Tecnica mista su tela cm 30x30 - Anno 2012 Collezione privata, sotto mater Olio, acrilico su tela, Cm 100x120 - Anno 2002 Collezione privata. In basso a sinistra acqua piovana, Olio, acrilico su tela Cm 150x150 - Anno 2007 Collezione privata e a destra l’erba del vicino, Acrilico su 49 tele Cm 90x90 - Anno 1996 Collezione privata di Cinzia Assante [email protected] R ipercorrere il lavoro finora fatto da Lorenzo Lazzeri è stato per me un viaggio affascinante e coinvolgente. Come quando al cinema da spettatori guardiamo un film e rubiamo un po’ dell’anima del regista, allo stesso modo è stato come frugare nella sua anima. Ho conosciuto Lorenzo nel suo studio, una ex-fattoria immersa nelle colline appena fuori Firenze. Ho sempre immaginato un artista come una persona con un Ego smisurato mentre lui, artista vero, era gentile, mite, genuino, semplice e, mentre ci mostrava i suoi lavori, sembrava quasi scusarsi del tempo che ci stava facendo perdere. Lo avevo appena conosciuto e mi sembrava di conoscerlo da sempre. Mi chiesi il perché della scelta di isolarsi in quel paradiso appartato ma, non ci misi molto a capire che da quel contesto nasceva l’energia creativa che lui traduce in arte. Lorenzo Lazzeri elabora le immagini di questo micro-cosmo con la geniale lente della fantasia restituendoci l'interpretazione di ciò che solo lui vede. I suoi lavori sorprendono per semplicità ed essenzialità. È la sua personale capacità di vedere il mondo di tutti i giorni, ripreso con immediatezza primitiva e fanciullesca. Lorenzo Lazzeri coglie particolari, li elabora e li trasferisce in una realtà parallela dove l’idea diventa oggetto e l’oggetto acquista nuova vitalità, si veste di un’anima, ingenua e incantata, come la poesia che l’artista ancora coglie nella natura intorno a noi. Come ha detto la giornalista Annamaria Salviati: “in fondo la natura è semplice per chi la sa ascoltare e purtroppo stiamo vivendo in un mondo di sordi”. Il palcoscenico, cui l’artista dà vita, è quella natura nella quale ha scelto di con-fondersi. Una natura, a tratti rumorosa, divertente e divertita, a tratti dispettosa, dove i soggetti (pecore, pesci, uccelli) ci scorrono davanti come in un carosello diretto da un regista impertinente. Una natura, a tratti silenziosa, intima, triste come un passato felice che non ritorna più. Gli oggetti evocati, richiamati, cercati e messi a fuoco nella memoria della sua infanzia, trasferiti sulle tele e nelle sculture, hanno la leggerezza e l’evanescenza di un ricordo, ma allo stesso tempo l’immagine è così potente da emozionare profondamente. I catini sotto la pioggia o l’ombra di una sedia che viene fuori dalla tela, o una porta, sono visioni emerse dal subconscio dell'artista e restituite con pudore alla tela. L’essere umano è stato ed è centrale nella serie di tele “biancosolo”. Qui il colore è negato e l’artista in un gioco di chiaro-scuri si cimenta nella produzione di tele che assomigliano a grandi ritagli di giornale. Grandi foto di gruppo: donne con il burka, musul- o n 28 PAG. sabato 4 maggio 2013 La natura divertente e divertita di Lorenzo Lazzeri mani in preghiera, bambine e soldati cinesi che silenziosamente marciano allineati in una parata, vivaci spettatori a una partita di calcio a cui è stato tolto l’audio. I soggetti, ossessiva- mente ripetuti, affollano le tele in religioso silenzio. Non appartengano più a questo mondo assordante, ma a un mondo ovattato, impresso con pazienza e bravura. C U O .com L’ULTIMA IMMAGINE o 18 n 28 PAG. sabato 4 maggio 2013 Back Yard sale, San Jose 1972 [email protected] Dall’archivio di Maurizio Berlincioni Questo era un luogo dove amavo fermarmi tutte le volte che passavo da quelle parti. C’era sempre un po’ di tutto nel back yard di questa specie di rigattiere occasionale e ovviamente, per uno arrivato fresco fresco dall’Italia come me, anche le cose più banali avevano sempre quel tocco di esotico che suscitava curiosità e fascinazione. Si sono abituati presto alle mie incursioni ed è scattata una complicità interessata che mi ha portato in pochi mesi a riempire il garage dei miei suoceri con ogni tipo di inutili cianfrusaglie. Quando ho capito che non potevo andare avanti così ho chiesto aiuto ad alcuni amici traslocando presso di loro i miei nuovi tesori. La cosa è durata poco più di due mesi e quando anche loro hanno dato i primi segni di insofferenza ho deciso di interrompere definitivamente questa mia “non brillante” carriera di collezionista facendo anch’io la prima ed ultima back yard sale della mia vita!