La Domenica di Repubblica 16 settembre 2007
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La Domenica di Repubblica 16 settembre 2007
Domenica il fatto La di DOMENICA 16 SETTEMBRE 2007 Il mito della “tolleranza zero” GEORGE KELLING, ALEXANDER STILLE e JAMES WILSON la memoria Repubblica L’ultimo giorno del Papa Re MIRIAM MAFAI Callas segreta A trent’anni dalla morte solitaria della Divina FOTO BRUNO TOSI l’amica e confidente di una vita racconta per la prima volta la sua grande infelicità LEONETTA BENTIVOGLIO MILANO e intime verità di Maria Callas. Il suo mistero forte e senza fondo. Il divario tra la fragilità della persona e l’imperiosa potenza dell’artista. Difficile comprendere, esplorare. Maria se n’è andata il 16 settembre del 1977, con una morte solitaria, spettacolare per tristezza, nella casa parigina di Rue Georges Mendel, dove s’erano consumate le stagioni del declino. È stata la sua voce, segno teatrale e musicale senza confronti, duttile e splendente nella varietà dei colori, e non immune da zone aspre e opache, ad avviare la rinascita del belcanto a metà Novecento. Però in Maria c’è dell’altro: icona tragica e bellezza oltre le mode, non è catalogabile come cantante perché appartiene al mito. In questi giorni, con la cadenza del trentennale della morte, la si celebra tra mostre (due visibili alla Scala, al Museo Teatrale e nel Ridotto dei Palchi), concerti, biografie, epistolari ritrovati (quello col marito Gianbattista Meneghini è parte del lotto che sarà messo all’asta in dicembre da Sotheby’s), trasmissioni radio (dal primo al 19 ottobre alle 20, su Radio3 Suite), dischi e film (il nuovo Callas di Philippe Coly sarà presentato in prima mondiale oggi alla Scala). In tanti provano a scoprire e riscoprire la divina Callas e nessuno sonda veramente il suo segreto, alimentato dall’inesauribilità di una leggenda fondata non solo sul carisma dell’interprete, ma sugli interrogativi sospesi di un’esistenza ferita dagli inizi: «Maria L era bisognosissima di affetto, desiderosa di calore e famiglia, sempre in cerca di un alone di difesa», racconta l’amica milanese Giovanna Lomazzi, che le fu vicina per molti anni. «C’era in lei un dolore antico, originato dal suo sofferto rapporto con la madre. Odiava parlare dell’infanzia, come se vi avesse calato sopra un velo, anzi una saracinesca. Ma una volta che eravamo insieme a Londra mi disse a un tratto: guarda, mostrandomi un brutto segno su una gamba. Questo è quanto mi ha lasciato una sedia che mi tirò addosso mia madre». Bella signora imponente ed elegante («da giovane avevo le misure sottili di Maria qund’era magra, e lei mi regalò molti dei suoi abiti meravigliosi, tutti firmati Biki»), Giovanna Lomazzi è stata per la Callas una di quelle fidate e discrete presenze indispensabili alla sopravvivenza psicologica degli artisti, soprattutto se squassati da conflitti interni come lo fu Maria. «Avevo vent’anni quando la conobbi, una decina meno di lei, che in seguito avrebbe detto di considerarmi come una sorella minore», riferisce la Lomazzi, oggi vicepresidente del Teatro Sociale di Como e impegnata nell’Aslico, associazione che riunisce e promuove giovani cantanti. «Ho accompagnato la Callas in tanti viaggi e le sono stata accanto in fasi diverse della sua vita. La conoscevo bene, mi era legata. E ora detesto le troppe sedicenti amiche pronte a scrivere sue biografie dopo averla frequentata solo pochi mesi, o i detrattori che la fischiavano in teatro e oggi non esitano a professarsi suoi cultori. C’è un continuo, incontrollato sfruttamento della sua immagine». (segue nelle pagine successive) CON UN TESTO DI ERIC-EMMANUEL SCHMITT l’immagine Cinzano, due secoli e mezzo di spot UGO VOLLI cultura Auden e Isherwood poeti alla guerra FRANCO MARCOALDI la lettura L’amore secondo Hannah Arendt HANNAH ARENDT e AMBRA SOMASCHINI spettacoli Perry Mason, il fascino della legge GIANRICO CAROFIGLIO e MARIA PIA FUSCO Repubblica Nazionale 32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA la copertina Callas segreta DOMENICA 16 SETTEMBRE 2007 “Quando la conobbi era grassa, brutta, inelegante, carica di gioielli vistosi. Poi perse cinquanta chili, divenne un’altra persona”, racconta Giovanna Lomazzi, che incontrò la cantante a Milano nel 1952 e le rimase vicina negli anni del trionfo e poi in quelli del declino “Nessun mistero nella sua morte: è stata uccisa dal dolore” Le verità di Maria Divina e infelice LEONETTA BENTIVOGLIO (segue dalla copertina) l primo incontro tra Maria e Giovanna avvenne nel ‘52 al ristorante Biffi Scala, «luogo deputato di Milano per le cene dopo gli spettacoli. Vi andavo coi miei genitori che avevano un amico in comune con Battista Meneghini, all’epoca marito della Callas, più vecchio di lei di ventotto anni. Un coniuge affettuoso, protettivo e solido. In quel periodo Maria cantava Gioconda alla Scala e la vedevamo al Biffi dopo la recita. Grassa, brutta, inelegante, carica di gioielli vistosi, fatti con grandi pietre comprate in Brasile. Ci presentarono, mi diede una sua foto con dedica, nacque molta simpatia. Io, molto appassionata di musica, veneravo l’artista ed ero fiera che mi fosse amica. Intanto la vedevo cambiare, perdere peso, diventare sempre più sofisticata e bella». S’è favoleggiato molto sul dimagrimento della Callas: qualcuno ha detto che arrivò a ingerire un verme solitario. «Ma quale verme! Semplicemente non mangiava. Mai che toccasse pane, vino, pasta o dolci. Sia a pranzo che a cena ordinava solo filetto o pesce ai ferri con verdura scondita. Perse cinquanta chili, in pratica si dimezzò. Rispetto alla donna sciatta e gonfia che avevo visto quella prima volta al Biffi divenne un’altra persona». Callas cantò moltissimo a Milano negli anni Cinquanta, «e io andavo a tutte le sue prove, e quando non lavorava la accompagnavo nei negozi, beandomi di tante piccole banalità femminili condivise nella quotidianità. La seguii a Berlino con la Scala, poi a New York per tre mesi, quando andò a cantare al Metropolitan. Battista volle che partissimo in quattro, lui, Maria, io ed un’altra amica. Prese in affitto un meublé con due camere da letto su Park Avenue, alla 79esima. Quando Maria non era alle prove o alle recite noi donne andavamo nei grandi magazzini, mentre lui si occupava dei contratti». Ci furono molte altre trasferte “callasiane” per Giovanna, anche durante la fase dell’amore con Onassis, periodo che definisce «drammatico e tremendo». Intanto, col passare degli anni, Maria aveva cominciato ad avere problemi vocali, «con cedimenti forse legati al dimagrimento, che aveva indebolito la muscolatura del diaframma. Però si ostinava a non cambiare repertorio, riproponendosi nei suoi cavalli di battaglia come Norma e Tosca, opere ormai per lei troppo impegnative vocalmente. Le ultime Norme a Parigi furono terribili. Aveva una tale paura di cantare che non era neanche più brava scenicamente. S’era persa la sua grinta, dileguata l’espressione». La voce l’abbandona ma Maria spera di poter cambiare vita, trasformandosi nella signora Onassis: «Passava da una crociera e da una festa all’altra, senza più studiare. Era capace di chiamarmi la mattina e dirmi che voleva andare a Parigi il pomeriggio. Io ero giovane e mi divertivo da matti, però capivo che certi strapazzi nuocevano alla sua voce. Ricordo che una volta arrivammo ad Anversa e ripartimmo l’indomani perché non se l’era sentita di cantare». Con Onassis, hanno scritto in molti, la passione fu sconvolgente: un’ondata di eros rivelatoria a paragone del quieto rapporto col marito-padre Meneghini. «Credo che quello con Onassis fosse piuttosto un innamoramento di natura cerebrale. Erano entrambi greci partiti dal niente e saliti all’apice della fama. C’era complicità, una sorta d’intesa. Però Maria era disperata. Sul Christina, il panfilo di Onassis, facemmo una volta una crociera noi tre, solo lei, lui ed io. Stavamo mangiando al bordo della piscina dello yacht, e Maria improvvisamente scoppiò a piangere a dirotto, senza motivo. Ero molto scossa, quando stava con Battista non l’avevo mai vista così. La verità è che non era fatta per quella vita piena di niente, tra mondanità, navigazioni e jet set: si rendeva conto che stava smarrendo la sua identità più autentica. Era nata per essere cantante e lavorare in teatro, regolata dagli orari I dello studio e delle prove. Quegli anni con Onassis, con cui tra l’altro non poteva parlare di musica, perché lui non ne sapeva nulla, scardinarono le sue basi esistenziali». Giovanna, che definisce l’armatore «di una bruttezza inavvicinabile», narra che in quel periodo Maria fece la Norma a Epidauro, «e io vidi lo spettacolo seduta a fianco di Onassis, il quale non solo non capiva niente dell’opera, ma non seppe neppure distinguere la Callas alla sua entrata in scena. La scambiò col mezzosoprano. Poi, finita la recita, salimmo a bordo del Christina per una crociera di sogno nel Pireo, restando svegli tutta la notte e approdando ad Atene alle sette del mattino. Eppure Maria, regina della festa, sembrava la più infelice». Quando Onassis si sposò con Jackie Kennedy l’umiliazione fu atroce. «E arrivò il momento disastroso in cui Di Stefano le propose di fare un giro di concerti. S’ingannarono a vicenda, illudendosi di poter tornare a cantare come un tempo, e la tournée fu faticosissima. Non volli assistere a nessuna di quelle esibizioni. D’altra parte Maria, in quel periodo, non aveva piacere che noi amici di Milano andassimo a sentirla: si rendeva conto del declino e non voleva testimoni». Rievocando l’amica, Giovanna rammenta la sua mancanza assoluta di senso del denaro («dopo la separazione da Battista lasciava mance spropositate nei ristoranti, addirittura somme pari al conto, e quando la rimproveravo mi diceva: devo farlo non per il valore dei soldi, ma per ciò che io sono»). Soprattutto ricorda la straziante consapevolezza della fine: «Nel ‘59 mi chiese di accompagnarla a Dallas dove avrebbe dovuto cantare Lucia, passando per Kansas City dov’era fissato un suo concerto. La vedevo sempre più insicura e fragile, stanca dei viaggi sul Christina. Mai un vocalizzo, mai una lettura di spartito. Giunte a Kansas City mi chiese: cosa canto stasera? Non aveva preparato nulla. Le suggerii l’aria d’ingresso della Lucia, almeno l’avrebbe ripassata prima di Dallas. Dopo il concerto volle tornare per una settimana a Montecarlo da Onassis, per poi presentarsi a Dallas il giorno della prova generale di Lucia. Dalla sartoria di Roma non erano arrivati i costumi, Zeffirelli era furente. Eppure Maria non batté ciglio. Quando l’opera andò in scena, nel primo atto si adattò a indossare il costume di una corista, mentre Zeffirelli e io attaccavamo le perle al costume di un’altra corista per arricchire l’atto dello sposalizio. Maria non protestò mai: era passiva, non coinvolta. Se fosse accaduto qualche anno prima avrebbe piantato una grana infernale, perché era una grande professionista». La Callas quella sera cantò in modo discutibile, «e alla fine della scena della pazzia mancò i due mi bemolle di tradizione, ma riuscì a fare due scale cromatiche discendenti e il pubblico non se ne accorse. La applaudirono e le andai incontro in palcoscenico: era stravolta. Mi disse, cacciandomi le sue unghie lunghe nella carne della mano: la mia carriera finisce qui. In albergo dormivamo nella stessa stanza e la sentii singhiozzare l’intera notte. E fu patetico quando la rividi a Torino, dove andò a fare la regia dei Vespri Siciliani. Nello spettacolo non succedeva niente, non trovò alcuna chiave registica. Il fatto è che Maria non poteva fare altro che cantare, era questa la sua totale vocazione. Anche come insegnante non trasmetteva granché, non era in grado di spiegare la propria arte». La morte è l’ultimo capitolo dell’oscuro e fascinoso romanzo della Callas: «Nessun mistero, nessun avvelenamento: Maria è morta di dolore», sostiene Giovanna. «Soffriva di pressione bassa, prendeva tranquillanti per dormire che le buttavano giù la pressione e la mattina doveva tirarsi su con i tonici. Ma ciò che l’ha uccisa veramente è la sua infelicità. Lei, che dalla vita aveva avuto tutto, nel giro di cinque anni perse ogni cosa: voce, amori, gloria. Prima era celebre e popolare come Audrey Hepburn o Ava Gardner, poi entrava nei ristoranti di Parigi e non la riconosceva quasi più nessuno. Era confusa, desolata, priva di riferimenti. È morta perché non aveva più alcun motivo per stare al mondo». “Con Onassis non poteva parlare di musica perché lui non ne sapeva nulla” I DOCUMENTI In alto a destra, tre documenti inediti della carriera di Maria Callas Dall’alto: contratto col Teatro Comunale di Firenze del 5 novembre 1948: è la prima Norma di Maria; contratto col Teatro La Fenice di Venezia (1947); telegramma dell’Aga Khan del 22 novembre 1958: “Sei più divina che mai”. Saranno tra i moltissimi rari cimeli messi all’asta da Sotheby’s a Milano il 12 dicembre a Palazzo Broggi LE FOTO Le foto inedite che illustrano la pagina (tranne quella grande al centro) provengono dall’album personale di Giovanna Lomazzi. Nella colonna di sinistra: festa di San Giovanni, il 24 giugno 1956, a Salice Terme (Pavia) nella villa di famiglia dei Lomazzi Nel tondo a centro pagina e nella colonna di destra, vacanza a Ischia nel luglio 1956: Giovanna Lomazzi è sdraiata accanto alla Callas nella penultima foto; nell’ultima, Maria le spalma la crema solare sulla schiena L’INIZIATIVA È in edicola da venerdì con Repubblica e L’Espresso il secondo dei sei cd delle arie più belle di Maria Callas. Su Repubblica TV lo speciale dedicato alla Divina Repubblica Nazionale LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33 FOTO © GIANCOLOMBO/CONTRASTO DOMENICA 16 SETTEMBRE 2007 L’ammirazione dello scrittore francese per la grande soprano Nella sua voce cantavano anche i silenzi ERIC-EMMANUEL SCHMITT Q uando si parla della Callas, niente è carino, tutto è bello. Passate oltre, cultori di voci angeliche, estimatori di timbri luminosi e suoni zuccherini! Andate a mettere in funzione altrove il vostro orecchio edonista che cerca solo vibrazioni opulente, incantatrici, adulatorie! Qui non troverete che passione, furore, sgomento, entusiasmo, humour, solitudine, estasi e agonia. Ascoltando la Callas proverete turbamento, fastidio, disturbo, talvolta vi sentirete stremati, spesso rinvigoriti, ma non vi scontrerete mai con la noia né con l’indifferenza. Maria Callas sembra uscita dritta dritta da una tragedia greca. La voce non le viene fuori dalla bocca, ma dalla pancia. Intensa, imperiosa, potente, perentoria, la Callas fa suoi i sentimenti, incarna i drammi. Mai cerca di schivare, mai prova a imbrogliare. Se la cantante resta in piedi, l’attrice si rotola per terra. Siamo tutti d’accordo nel riconoscere alla Callas un’estensione di voce eccezionalmente lunga, la ricordiamo musicista più che scrupolosa, ma se si parla ancora di lei non è in quanto fenomeno vocale — ce ne sono altri — bensì in quanto fenomeno drammatico. In lei, canto e musicalità si limitano a essere dei presupposti messi al servizio del teatro; la Callas è, prima di tutto e in fondo a tutto, un’attrice che recita la situazione, proietta i sentimenti, e per far ciò si serve di tutti i mezzi a sua disposizione: usa le parole — dizione eccezionale — , le frasi musicali, le accelerazioni, i ritardi, colora il proprio timbro, varia il volume della voce, si fonde nell’orchestra o decide di tirarsene fuori. Persino i suoi silenzi hanno un senso: è così completamente calata in quello che fa che mi ha sempre dato l’impressio- ne di essere l’unica cantante che canta anche i silenzi. Le registrazioni non deludono le aspettative. Certo, manca la sua figura fisica, ma è talmente fonogenica che è come se ci fosse. Il disco non fa in tempo a iniziare, che la sua voce entra nella stanza e si impadronisce della nostra attenzione. Poche voci hanno altrettanta presenza. È un mistero, la presenza! Che si tratti di una voce o di un corpo, è un dono, una grazia inspiegabile... La Callas l’ha ricevuto. Maria Callas ha la capacità di proiettare tutta un’anima in un suono. Aprendo la bocca, alza il sipario sul proprio teatro: uno spettacolo dove l’umano vive, ama e soffre con intensità. Impossibile ascoltarla in sottofondo o come “musica d’arredamento”, perché all’istante stesso che attraverso gli altoparlanti irrompe nei nostri salotti vi impone il suo clima, le sue tempeste, i suoi uragani. C’è, c’è completamente. C’è solo lei. Io non la ascolto sempre. Non ce la faccio. È troppo avvincente, troppo possessiva. Certe volte, nei suoi confronti, mi sento come Onassis: non riesco a starle dietro giorno per giorno, ho bisogno di lasciarla e di ritrovarla, sento la necessità di incontri distaccati, di una certa intermittenza... Però torno sempre da lei. Traduzione Aberto Bracci Testasecca (© 2007 Edizioni e/o) Il brano è tratto dal libro “La rivale” (Edizioni e/o, 72 pagine, 8 euro) in libreria da domani. Tra i libri di Eric-Emmanuel Shmitt, pubblicati da e/o, “Monsieur Ibrahim e i fiori del Corano”, “La parte dell’altro”, “La mia storia con Mozart”, “Quando ero un’opera d’arte” Repubblica Nazionale 34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA il fatto Law and order DOMENICA 16 SETTEMBRE 2007 I sindaci delle grandi città italiane, alle prese con i crescenti problemi della sicurezza, citano sempre più spesso come modello Rudolph Giuliani, che governò New York dal 1994 al 2001, riducendovi drasticamente la criminalità Ma a rivisitare quell’esperienza si scopre che la vera strategia adottata da “Rudy” non fu quella che oggi si crede... Tolleranza zero, mito metropolitano C ALEXANDER STILLE NEW YORK Tendenze nazionali come l’enorme aumento del numero di detenuti hanno molta più influenza delle scelte locali, sostengono gli esperti strati. Ma facendo della lotta alla crimine il marchio della sua amministrazione, Giuliani poté assumersi il merito di quello che in massima parte si configura come un trend storico nazionale. Si reputa che tendenze nazionali su vasta scala come l’invecchiamento della popolazione americana, l’altalena nel consumo di crack, la riduzione delle nascite indesiderate tramite l’introduzione dell’aborto (stando a una teoria), il triplicarsi del numero di detenuti, abbiano pesato di più nel calo dei reati rispetto alle strategie di polizia. «Il solo sviluppo demografico incide per il dieci per cento», dice James Alan Fox, professore di criminologia pressiva. Il numero degli americani dietro le sbarre è passato dai circa 600 mila dei primi anni Settanta ai 2,2 milioni odierni, una popolazione pari a quella di una metropoli. «È improbabile che impennate e crolli dei tassi di criminalità di questa portata siano riconducibili a un unico fattore», dice Fox. «Questo non significa però negare il ruolo di una strategia di ordine pubblico intelligente». George Kelling, criminologo della Rutgers University, considerato uno dei padri delle strategie newyorkesi contro il crimine, afferma che il merito del maggior calo della criminalità registrato a New York rispetto alla maggioranza delle altre città continua a essere attribuibile alla strategia di ordine pubblico adottata. «Se si cerca un fattore X che spieghi la discrepanza, a mio avviso va individuato in una buona gestione dell’ordine pubblico». Kelling, a suo tempo consulente di William Bratton, nominato sovrintendente della polizia di NY City quando Giuliani divenne sindaco nel 1993, ribadisce che quanto accaduto a New York ha poco o nulla a che fare con la “tolleranza zero”. «Né Giuliani, né il sovrintendente Bratton, né io abbiamo mai usato il termine “tolleranza zero”, dice Kelling. «”Tolleranza zero”, vale a dire pugno di ferro per tutti i reati minori ovunque, implica fanatismo. E noi siamo sempre stati convinti che una della Northeastern University, «semplicemente perché sono diminuiti del dieci per cento i giovani di sesso maschile, responsabili della maggior parte dei reati violenti». Un altro importante fattore, a giudizio di Alfred Blumstein, esimio criminologo della Carnegie Mellon University di Pittsburgh, è la devastante diffusione del consumo di crack che sconvolse le città americane in quegli anni: «L’aumento degli omicidi registrato negli anni Ottanta era ampiamente imputabile a giovani armati, in gran parte afroamericani, coinvolti nel mercato del crack». Il crack, un derivato della cocaina, creava forte dipendenza e i consumatori erano particolarmente violenti. I giovani spacciatori erano invariabilmente armati e le dispute sul controllo del territorio, la droga e il denaro sfociavano frequentemente in violenza. «Nel 1993 iniziarono a diffondersi voci sulla pericolosità del crack e la domanda crollò. I ragazzi non giravano più per strada armati. Si registrò un costante calo degli arresti per possesso illegale di armi. In parte esso fu dovuto all’enorme sviluppo economico degli anni Novanta, che offrì ad alcuni di questi giovani occupazioni lecite, e in parte allo straordinario numero di carcerazioni». Gli anni Settanta e Ottanta — nonostante una reputazione “lassista” — hanno visto una politica sempre più re- FOTO TRATTE DA: 65 VIEWS NEW YORK CITY DI RAMAK FAZEL FOTO CORBIS hi ha soggiornato a New York tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta, della città ricorderà forse le notti lacerate dal suono degli allarmi delle auto, le fiale di crack nei parchi, le scritte nella metropolitana e i più di duemila morti ammazzati ogni anno. Tornando a quindici anni di distanza trova una città dall’aspetto radicalmente trasformato: le prostitute e i peep show sono spariti da Times Square, le metropolitane sono in genere pulite e in buono stato, i parchi sono gremiti a qualunque ora e gli omicidi — nonché la maggioranza degli altri reati — sono calati del 70 per cento, a livelli mai registrati dai primi anni Sessanta. Agli occhi dei visitatori stranieri, New York — spesso principale o unica tappa del loro viaggio negli Usa — è un modello allettante di trasformazione sociale. Sanno che Rudolph Giuliani è stato sindaco per gran parte degli anni Novanta e suppongono che la radicale trasformazione di New York sia da ricondurre a lui e alla tesi della cosiddetta “tolleranza zero”, un’impressione che Giuliani, oggi in corsa per le presidenziali, non ha fatto nulla per scoraggiare. Ma prima di fare della “tolleranza zero” un mantra nazionale, pensando che arrestare gli immigrati che vendono profumi nelle piazze ridurrà la percentuale dei furti e degli omicidi in Italia, è bene distinguere il mito dalla realtà e capire cosa è successo esattamente a New York e negli Usa. Un dibattito serio deve necessariamente partire dalla constatazione che il calo dei reati rientra in un contesto più ampio in cui New York, le strategie di polizia e Rudy Giuliani hanno un ruolo minore. Stando ai dati del dipartimento della Giustizia Usa, tra il 1993 e il 2001 si è registrato un calo di più del 60 per cento dei reati violenti di ogni genere. In quello stesso periodo i furti sono diminuiti del 67 per cento. La percentuale delle morti violente è scesa a livello nazionale di circa il 40 per cento, da dieci su centomila a circa sei su centomila, tornando a livelli che non si registravano negli Usa dagli anni Sessanta. È chiaro che negli Stati Uniti era in atto un enorme cambiamento, di dimensioni ben superiori ai fatti di New York, dei quali è in gran parte responsabile. A livello nazionale il 1993, anno in cui fu eletto Giuliani, segnò l’apice di incidenza per molti reati mentre il 2000 e il 2001, ultimi anni dell’era Giuliani, ne registrarono il minimo storico. Giuliani ebbe quindi la grande fortuna di essere sindaco in un periodo di otto anni in cui la criminalità in tutti gli Stati Uniti subì uno dei maggiori cali mai regi- Repubblica Nazionale DOMENICA 16 SETTEMBRE 2007 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35 IN AZIONE FOTO CORBIS Qui accanto, un barbone in una via di New York In basso a sinistra, Rudolph Giuliani quando era sindaco della città. Nelle altre foto, la polizia di New York in azione valida gestione dell’ordine pubblico implica prudenza, senno, e capacità di valutare il contesto». La “tolleranza zero”, spiega il professor Fox della Northeastern University, «rimanda a una politica di rigida repressione su ogni manifestazione di una problematica. È questo l’uso che se ne fa ad esempio nelle scuole, dove con l’intento di stroncare il possesso di armi, rischia la sospensione anche chi porta in classe una pistola giocattolo. O in aeroporto, dove basta una battuta per essere arrestati con l’accusa di progettare un dirottamento. Questa è la “tolleranza zero”». La strategia messa in atto a New York è un’altra, collegata alla teoria cosiddetta dei “vetri rotti”. In un famoso saggio pubblicato nel 1982 (di cui diamo pubblichiamo un estratto in questa pagina, ndr) il professor Keller e James Wilson sostenevano che varie forme di turbativa dell’ordine pubblico e di trascuratezza — vetri rotti, marciapiedi sporchi, scritte sui muri, consumo di alcolici in pubblico — erano un segnale di incoraggiamento per il vandalismo e altre, più gravi forme di criminalità. La teoria dei “vetri rotti” si differenzia fondamentalmente dalla “tolleranza zero”, dice Kelling, in quanto la prima è estremamente flessibile, mentre la seconda è molto rigida. «Parte dell’approccio ispirato alla teoria dei “ve- tri rotti” consisteva nel dare ai poliziotti operanti nel quartiere grande discrezionalità di azione». Agli occhi di un agente l’abitudine di radunarsi in strada ad ascoltare musica ad alto volume poteva rendere più sicuro il quartiere favorendo la coesione sociale, mentre in altri casi poteva apparire pericoloso e antisociale. «Se reprimi costantemente ogni iniziativa, in certi quartieri poveri ad alta densità di criminalità gli abitanti possono sentirsi perseguitati e si può ottenere l’effetto contrario», dice il professor Fox. Spesso la “tolleranza zero” è stata chiamata in causa a sostegno di un pesante giro di vite su tutte le forme di consumo occasionale di droga e della politica di arrestare tutti i consumatori invece di incoraggiarli a disintossicarsi. «Nancy Reagan promosse l’idea di “dire no” alla droga e negli anni Ottanta furono tagliati tutti i finanziamenti per le terapie disintossicanti aggravando notevolmente il problema», dice Michael Massing, autore di un saggio sulla droga dal titolo The Fix (Il buco). Nel 1990, David Dinkins, predecessore di Giuliani nell’incarico di sindaco di New York, nominò Bratton responsabile della polizia stradale, cui è affidata la sicurezza del vasto sistema di trasporto sotterraneo urbano. Bratton, a sua volta, incaricò il professor Kelling di applicare la teoria dei “vetri rotti” in questo problematico settore. «Benché Il cambiamento più importante introdotto negli anni Novanta dalla polizia di N.Y. City fu il sistema “Compstat” nel sistema sotterraneo non si registrassero alti livelli di criminalità», spiega Kelly, «le metropolitane erano sporche, caotiche e inquietanti e il numero dei passeggeri in forte calo». Sotto Bratton la municipalità di New York diede avvio a una campagna di lotta su vasta scala alle scritte nella metropolitana, acquistando nuove vetture resistenti ai graffiti e ripulendole non appena imbrattate. Usarono il pugno di ferro anche contro chi entrava nella metropolitana senza biglietto scavalcando i tornelli. «Scoprimmo che uno su dieci aveva commesso un qualche reato più grave, quindi l’iniziativa ebbe anche un impatto positivo indiretto in termini di criminalità». Ma persino Kelling non esita ad ammettere che la politica ispirata alla teoria dei “vetri rotti” e persino le strategie di ordine pubblico in genere rappresentano solo un fattore concomitante. In realtà la maggioranza delle innovazioni introdotte durante l’era Bratton-Giuliani non aveva nulla a che fare né con la teoria dei “vetri rotti” né con la “tolleranza zero”. Il cambiamento più importante apportato da Bratton al Dipartimento di polizia di New York City consiste in un sistema chiamato Compstat, abbreviazione di Computer Statistics. Il dipartimento utilizzava i computer per analizzare le tendenze della criminalità in modo da poter concentrare risorse in aree a forte incidenza di reati. I responsabili dei commissariati di queste zone dovevano presentare un programma dettagliato di iniziative per affrontare il problema. «Il semplice fatto di incaricare i capitani di polizia di illustrare il proprio operato e di ritenerli responsabili della criminalità nelle zone di competenza potrebbe aver avuto un peso maggiore dell’uso dei computer». Mentre esiste unanime consenso sull’importanza di una valida strategia di ordine pubblico, molti criminologi dubitano che la teoria dei “vetri rotti” e persino il Compstat abbiano avuto un ruolo decisivo nel calo della criminalità registrato negli anni Novanta. «I reati hanno subito il calo più drastico nelle città dove avevano registrato un’impennata nel decennio precedente», dice il professor Fox. «In criminologia vale una sorta di legge di gravità di Newton, quello che sale, scende». «La tesi secondo cui la strategia ispirata alla teoria dei “vetri rotti” ha contribuito alla netta diminuzione dei reati nel corso degli anni Novanta è scarsamente documentata», scrivono Bernard E. Harcourt e Jens Ludwig in una recente pubblicazione sul fenomeno. «Mantenere il decoro urbano e la quiete pubblica può avere valide ragioni sociali ma non è detto che sia di grande aiuto per i reati gravi», dice Blumstein. Dall’esperienza newyorkese si possono trarre degli insegnamenti, ma non sono quelli normalmente sbandierati. Non esiste una soluzione unica alla criminalità. Le tendenze sociali che si manifestano su larga scala sono più importanti della politica del governo. Le soluzioni vecchio stampo, tipo “poliziotti in strada, delinquenti in cella”, possono influire sulla diminuzione dei reati in misura pari alle soluzioni nuove. Riparare le finestre rotte e sbarazzarsi delle scritte potrà forse rendere più gradevole l’aspetto delle città, ma non è detto che le renda molto più sicure. Delle strategie di ordine pubblico attuate a New York (e altrove) alcune meritano di essere approfondite, ma la “tolleranza zero” non rientra in quel novero. Traduzione di Emilia Benghi Il saggio che ha ispirato la politica dello “sceriffo” La teoria dei vetri rotti JAMES WILSON e GEORGE KELLING n una collettività il disordine e la criminalità sono in genere inestricabilmente collegati, in una sorta di spirale ascendente. Psicologi sociali e agenti di polizia sono tendenzialmente concordi nell’affermare che se in un palazzo viene rotto il vetro di una finestra e non si provvede alla riparazione, ben presto tutte le altre finestre verranno infrante. Questo nei bei quartieri come in quelli degradati. Il fatto che gli atti di vandalismo si verifichino su larga scala in determinate zone non dipende dall’indole degli abitanti. È che una finestra rotta non riparata indica incuria, così romperne altre non comporta niente. (Ed è sempre stato un divertimento). Philip Zimbardo, psicologo di Stanford, nel 1969 pubblicò il risultato di alcuni esperimenti di verifica della “teoria dei vetri rotti”. Fece parcheggiare un’automobile senza targa, col cofano aperto in una strada del Bronx, e un’automobile analoga in una via di Palo Alto, in California. La macchina nel Bronx subì l’assalto dei “vandali” nel giro di dieci minuti. La prima ad arrivare fu una famiglia — madre, padre e un figlio piccolo — che si portarono via il radiatore e la batteria. Tempo ventiquattrore e in pratica tutte le componenti di valore erano state estratte dall’auto. Iniziò poi la demolizione casuale, finestrini infranti, componenti fatte a pezzi, tappezzeria strappata. I bambini iniziarono ad usare l’auto come parco giochi. La maggioranza dei “vandali” adulti erano bianchi ben vestiti, dall’aspetto per bene. La macchina a Palo Alto restò intatta per più di una settimana. Poi Zimbardo ne fracassò una parte con una mazza da fabbro. Presto i passanti lo imitarono. Nel giro di poche ore l’auto era stata ribaltata e completamente distrutta. Di nuovo i “vandali” erano all’apparenza prevalentemente bianchi rispettabili. I beni incustoditi diventano bersaglio di gente in cerca di svago o di bottino e anche di persone che normalmente non si sognerebbero di fare cose del genere e che probabilmente si considerano ligi alla legge. Date le caratteristiche della collettività del Bronx, la vita anonima, la frequenza di abbandono delle auto, di furti e distruzioni, le esperienze passate di incuria e indifferenza, il vandalismo inizia ben prima che nella compassata Palo Alto, dove la gente sa che i beni privati sono custoditi e che il comportamento indisciplinato costa caro. Ma il vandalismo può verificarsi ovunque una volta che le barriere collettive — il senso di rispetto reciproco e i doveri di civiltà — vengono abbassate da atti interpretabili come segnale di incuria. La nostra tesi è che il comportamento “trascurato” porta anche alla distruzione degli strumenti di controllo collettivi. La popolazione stabile di un quartiere composta da famiglie che curano le loro case, badano ai bambini del vicinato, e guardano con sospetto gli estranei indesiderati si può trasformare in pochi anni o addirittura in pochi mesi in una giungla spaventosa e inospitale. Una proprietà viene abbandonata, il terreno invaso dalle erbacce, una finestra spaccata. Gli adulti smettono di rimproverare i bambini chiassosi, e i bambini si sentono incoraggiati a fare ancora più chiasso. Le famiglie traslocano altrove e nel quartiere si trasferiscono adulti senza legami. Gli adolescenti si radunano davanti al negozio all’angolo. Il commerciante li invita a sloggiare. Rifiutano. Scoppiano risse. La spazzatura si accumula. La gente inizia a bere davanti al negozio. Col tempo un ubriaco si accascia sul marciapiedi e lo lasciano dormire lì. Mendicanti abbordano i passanti. A questo punto non è detto che nel quartiere prosperi la criminalità grave o si verifichino violenze sugli estranei, ma molti residenti penseranno che la criminalità, soprattutto il crimine violento, sia in aumento e modificheranno il loro comportamento di conseguenza. Limiteranno la frequenza delle uscite in strada e, nel caso, si terranno in disparte, distoglieranno lo sguardo, bocca chiusa e passo spedito. “Non ti impicciare”. Per alcuni residenti questa crescente atomizzazione avrà scarso peso, perché il quartiere non è “casa loro” ma “dove abitano”. I loro interessi sono altrove, sono dei cosmopoliti. Ma conterà moltissimo per la vita di altri che trae significato e appagamento dai legami con la realtà locale più che con il resto del mondo. Per loro il quartiere cesserà di esistere, fatta eccezione per quel paio di amici affidabili che faranno in modo di frequentare. Un quartiere simile è vulnerabile all’invasione da parte della criminalità. Traduzione di Emilia Benghi (Da “Broken Windows”, pubblicato sulla rivista “Atlantic Monthly” del marzo 1982) I Repubblica Nazionale 36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 16 SETTEMBRE 2007 la memoria Stato e Chiesa Il giorno della breccia di Porta Pia, il 20 settembre 1870, data cruciale della nostra storia patria, fu segnato dalla massima confusione e incertezza nei due campi, quello sabaudo e quello pontificio. Caos, inazione, divergenze tattiche, ordini che non arrivavano Un nuovo libro ricostruisce nel dettaglio quelle ore fatali L’ultimo giorno del Papa Re «T MIRIAM MAFAI ra le 10.10 e le 10.15 non si spara più su tutto il fronte del Gianicolo meno che a Porta S.Pancrazio dove si combatte ancora perché qui non è giunto alcun ordine di cessare il fuoco. Alle 10.15 il capitano Roversi, che sta difendendo con tenacia la postazione al comando di due compagnie pontificie, vede arrivare a spron battuto un dragone a cavallo diretto verso di lui in una nuvola di polvere. Il soldato gli consegna un biglietto firmato dal comandante del settore, dove è scritto: “Alzi bandiera bianca”. Già, ma dove prenderla, dove recuperare una bandiera bianca? Nessuno ce l’ha. Roversi non sa come obbedire a quell’ordine…». Il dragone a cavallo che arriva in una nuvola di polvere, una bandiera bianca che non si trova… Sembra di stare in un film di Monicelli. E invece no, stiamo nella storia. In una pagina importante della nostra storia. Sono infatti le 10.15 del 20 settembre 1870, e mentre il capitano Roversi si affanna a cercare qualcosa che assomigli ad una bandiera bianca i primi bersaglieri attraversano di corsa, in una nuvola di polvere e di confusione, la breccia di Porta Pia, ed entrano a Roma finalmente capitale d’Italia. Antonio Di Pierro ricostruisce con la documentazione e l’intelligenza dello storico unite allo scrupolo del grande cronista “l’ultimo giorno del Papa Re”. Una giornata che comincia nella notte tra il 19 e il 20 settembre, quando le tre divisioni al comando del generale Cadorna si dispongono finalmente attorno alle porte della città, e si conclude alla mezzanotte successiva, con i romani in festa, gli ufficiali piemontesi che occupano il caffè Giglio, sul Corso, e lo ribattezzano Caffè Cavour, Edmondo De Amicis che, con l’amico Ugo Pesci, riesce a saltare su una “botticella” e farsi portare fino al Colosseo, mentre a S.Pietro, ammassati sulla piazza, gli sconfitti cantano in coro l’Inno a Pio IX. E sulla cupola sventola ancora la bandiera bianca. L’esito dello scontro tra i 50.000 piemontesi e i 10.000 uomini al servizio del Papa si poteva considerare scontato. Giocava a favore dell’Italia non solo la sproporzione delle forze ma soprattutto la favorevole situazione internazionale: Napoleone III, gran protettore di Pio IX, è già stato sconfitto a Sedan e a Parigi sta per essere proclamata la Repubblica. Pio IX non ha più sostenitori. Ma, nonostante le condizioni favorevoli sul piano militare come su quello politico, nel campo dei piemontesi dominano l’incertezza e la confusione. Non si capisce, come racconta senza indulgenze Di Pierro, chi comanda davvero, a chi spetta prendere le decisioni politiche e quelle logistiche. Il ministro della Guerra pretende di decidere da Firenze, sede del governo, la dislocazione delle truppe e l’itinerario da seguire per arrivare sotto le mura di Roma: se dalla riva sinistra del Tevere, o dalla destra... Il generale Cadorna ha sull’argomento le sue opinioni, le prospetta al ministro ma alla fine non può che subirne la decisione. E, disciplinatamente, glielo comunica. Ma il giorno dopo il ministro ci ripensa, cambia la decisione già presa, convoca il generale a Firenze, e quando quello arriva poi non lo riceve… Anche qui insomma sembra di stare in un film di Monicelli anziché nella storia. La verità è che il ministro della Guerra sta diventando matto e che dunque va sostituito. Intanto il Re, prima di dare il via all’operazione militare, vuole fare un ultimo tentativo di composizione diplomatica. Da Firenze parte dunque un autorevolissimo messaggero che consegnerà al Pontefice una lettera con la quale Vittorio Emanuele «con affetto di figlio, con fede di cattolico, con animo di italiano» chiede che le sue truppe possano entrare pacificamente in città. Il Papa, durissimo, liquida il messo del Re con queste parole: «Io non sono profeta, né figlio di profeta ma in verità vi dico che non entrerete in Roma». “In verità vi dico che non entrerete in Roma”, risponde Pio IX al messo inviato da re Vittorio IL LIBRO Mondadori manda nelle librerie martedì 18 settembre, due giorni prima dell’anniversario della breccia di Porta Pia, L’ultimo giorno del Papa Re di Antonio Di Pierro (288 pagine, 18 euro). Di Pierro ha pubblicato nel 2002, sempre per Mondadori, Il sacco di Roma, ricostruzione della calata dei lanzichenecchi nel 1527 Fallita la composizione diplomatica e insediatosi il nuovo ministro della Guerra, il piano militare può finalmente partire. Domenica 11 settembre dunque le truppe italiane muovono verso i confini dello Stato pontificio. Ma permane, insanabile, il contrasto tra il generale Cadorna e il nuovo ministro della Guerra: il problema è sempre lo stesso, se si debba entrare a Roma dalla parte destra del Tevere (dove imperversa la malaria) o dalla parte sinistra (dove mancano sufficienti punti di approvvigionamento). E quando finalmente l’armata italiana arriva in vista della città, il ministro ordina a Cadorna di fermarsi e di mandare un messo a Roma per chiedere il libero ingresso delle truppe, e intanto di predisporre il passaggio del Tevere dalla riva destra alla riva sinistra. La missione di pace non ha successo. Ha più successo, per fortuna, il passaggio delle truppe dalla riva destra a quella sinistra del Tevere, su un ponte di barche all’altezza di Grottarossa. Esaurito il nuovo tentativo di conciliazione, l’ultima parola passa finalmente a Cadorna. È la notte tra il 19 e il 20 settembre. Se grande è la confusione nel campo dei piemontesi, non minore è la confusione in Vaticano. E grande l’incertezza sul da farsi. Bisognerà prevedere una resistenza puramente simbolica, sufficiente per certificare di fronte all’Europa che il sommo pontefice è stato vittima di una aggressione? O invece sarà più opportuno resistere presidiando l’intero Stato pontificio? E se fosse meglio concentrare le esigue truppe pontificie dentro Roma? E anche in Vaticano non si sa bene chi comanda. Se il cardinal Antonelli, segretario di Stato, o il capo di Stato Maggiore Fortu- nato Rivalta, o il generale Hermann Kanzler proministro delle armi e comandante supremo dell’esercito pontificio. Tutto il mese di agosto passerà dunque, racconta il nostro storico, tra allarmi, rassicurazioni e decisioni contrastanti. Il clima cambia quando si saprà che uno dei generali piemontesi, posto al comando dei reparti che si stanno formando a Orvieto, si chiama Nino Bixio, un ex volontario garibaldino che ha già combattuto contro il Papa, uno dei protagonisti della Repubblica romana del 1849. Il 6 settembre l’ufficiale Giornale di Roma riporterà dettagliatamente la notizia della battaglia di Sedan. Fino ad allora solo gli ambienti di corte e alcuni gruppi di aristocratici legati alle ambasciate straniere sapevano della sconfitta di Napoleone III e della proclamazione della Repubblica. Il 7 settembre il generale Kanzler va a colloquio dal Papa per aggiornarlo sulla situazione e subito dopo chiama a rapporto tutti gli ufficiali responsabili della difesa di Roma. Il 12 settembre su tutte le cantonate viene affisso un proclama del generale Kanzler che dichiara lo stato d’assedio. Cinque giorni dopo vengono chiuse e protette le porte della città, dalle quali passavano d’abitudine ogni mattina all’alba i vetturali che portavano ai romani vino verdura frutta e notizie fresche sugli spostamenti delle truppe piemontesi. Sui palazzi abitati dal corpo diplomatico vengono issate le bandiere dei rispettivi Stati. Chi aveva una terrazza invitava gli amici a cena, per avvistare con un binocolo nell’ora del tramonto le truppe italiane. Eppure in Vaticano non tutti ancora sono convinti dell’imminenza dell’attacco. «La Roma di certi salotti», scrive Di Pierro, «ancora fino a poche ore dal 20 settembre era come imbambolata, quasi non volesse con ostinazione guardare la realtà… Al Palazzo della Consulta, i cardinali giocano alla calabresella quando mancano ormai poche ore all’attacco». L’attacco scatterà la mattina del 20, all’alba. Per la precisione alle 5.15. Ma i primi a sparare, cinque minuti prima, sono gli uomini della fucileria papalina. E la prima vittima Repubblica Nazionale DOMENICA 16 SETTEMBRE 2007 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37 LA CRONACA ORE 3-4 ORE 7-8 ORE 9-10 ORE 10-11 ORE 15-16 0RE 17-18 Primi allarmi dei pontifici: lungo la via Nomentana le truppe piemontesi si dirigono verso la Porta Pia Pio IX dice messa nella cappella privata, davanti al corpo diplomatico, mentre si odono distintamente le cannonate delle truppe di Bixio Il Papa ordina che venga innalzata la bandiera bianca sulla cupola di San Pietro I comandanti pontifici sono d’accordo Roma è conquistata: il bersagliere Federico Cocito è il primo, alle 10.10, a varcare la breccia aperta nelle mura La milizia pontificia che presidiava il Campidoglio si arrende. Viene issato il tricolore e suonata la Marcia reale Intorno è il caos A Villa Albani i generali Kanzler e Rivalta firmano la capitolazione dello Stato pontificio Per l’Italia firmano Cadorna e Primerano LA BRECCIA In basso Carlo Ademollo, La breccia di Porta Pia (Milano, Museo del Risorgimento / Scala Group) Qui sotto, un ritratto anonimo di Papa Pio IX Il principe Doria abbandona il Vaticano e issa sul suo palazzo la bandiera inglese per evitare un assalto essersi consultato con il cardinal Antonelli, Pio IX decide che è giunto il momento della resa e ordina di far innalzare una bandiera bianca sulla cupola di S.Pietro. Ma naturalmente gli scontri continuano. «Tutta l’area che va da Porta Salara alla Breccia», racconta il nostro cronista, «è ormai una enorme piazza d’armi, un carnaio, un brulicare di soldati che avanzano a spintoni e gomitate, tra urla, imprecazioni, spari. La confusione è al massimo livello. La colonna italiana di destra, partita all’assalto della breccia da Villa Albani, si è scontrata con la colonna centrale uscita da villa Falzacappa, diretta verso il medesimo obiettivo… Un numero troppo alto di soldati si è trovato nello stesso momento di fronte all’area della breccia… Così lungo le mura, alla destra e alla sinistra del varco aperto a cannonate, si forma una folla di uomini che preme, ansiosa di conquistare Roma. Un’occasione d’oro per i pontifici che dagli spalti sparano sul mucchio mietendo vittime su vittime…» . È un carnaio, ma finalmente gli uomini di Cadorna e del Re entrano nella città che dovrà essere la capitale d’Italia. Ed è, per questi primi soldati italiani una profonda delusione. Dove sono le fontane, le piazze, le statue, i monumenti di cui hanno sentito parlare? Via di Porta Pia è una strada polverosa di campagna, tra orti e vigne, qualche casale diroccato e alte mura e inferriate che nascondo- no e proteggono le ville. Questa è dunque Roma? Un giornalista, Vittorio Bersezio, direttore della Gazzetta piemontese, racconta: «Fa impressione vedere accumulati agli angoli delle vie, anche le principali, mucchi enormi di immondizie, rottami e tritumi di ogni genere, una miscela di ogni reliquia, d’ogni sconcezza, schifosa alla vista, orribile all’olfatto». Un altro giornalista, Ugo Pesci, inviato del Fanfulla di Firenze, segue la folla entusiasta che, a notte, si è raccolta su Via del Corso e manifesta per chiedere la liberazione dei detenuti politici. Alla fine, sfinito, si rifugia nel nuovo Caffè Cavour e qui incontra Edmondo De Amicis, inviato della rivista Italia Militare, entrato a Roma con la brigata Bologna. Ormai è notte, ma nonostante la stanchezza vogliono almeno vedere il Colosseo. Riescono a trovare una “botticella”, la tipica carrozza romana. «Il bottaro», racconta Pesci, «voleva darci per forza delle nozioni archeologiche nelle quali la immaginazione superava la dottrina. Noi stentavamo a capirlo mentre la botte sobbalzava sopra le grandi pietre quadrate che lastricano la Via Sacra. Alla fine abbiamo visto, in fondo, una gran massa nera, enorme, i contorni della quale si confondevano nella oscurità della notte». Non si vedeva altro. Era il Colosseo. FOTO MUSEO DEL RISORGIMENTO / SCALA GROUP FOTO MARY EVANS / ALINARI della giornata è un artigliere italiano, il caporale Michele Plazzoli. Poi comincia la battaglia. Il fronte principale, racconta il nostro cronista, è quello tra Porta Pia e Porta Salara (l’attuale Porta Pinciana), ma si spara anche ai Tre Archi, sul fronte di Porta S.Giovanni, e più a sud, verso Porta Latina e Porta S.Sebastiano. Sulla riva destra del Tevere il generale Nino Bixio sta schierando le sue truppe che dopo aver percorso Via della Nocetta puntano su S.Pancrazio e sul Gianicolo. I primi a sparare, anche qui, sono gli artiglieri pontifici. Ma le batterie di Bixio rispondono, colpo su colpo. Pio IX dalle 5 del mattino è chiuso nel suo studio privato. «Non c’è bisogno che qualcuno gli porti la notizia ufficiale che si è cominciato a combattere sotto le sue finestre. La cattiva novella viaggia alla velocità del suono con le cannonate che fanno tremare non solo i vetri della sua stanza, ma tutte le pareti, il pavimento, la sua scrivania. Anche il cuore del Santo Padre è in tumulto. Il generale garibaldino, nemico dichiarato della Chiesa di Roma, ha cominciato il suo attacco frontale… Il bombardamento acquista una tale intensità e produce un fragore così forte da essere udito distintamente dall’altra parte della città, fino a S.Maria Maggiore… In Vaticano intanto è un via vai frenetico di prelati, di dignitari, militari, inservienti, impiegati, ambasciatori… Le stanze e i punti strategici dei palazzi vaticani brulicano di soldati e ufficiali che per compito istituzionale sono destinati alla difesa della persona del pontefice… Intanto si sono fatte le 7 e il papa non sa ancora, dopo quasi due ore di combattimento, qual è il quadro della situazione» La battaglia infuria attorno a Porta Pia, ai Tre Archi, a S.Giovanni, a Porta S.Sebastiano, a Villa Pamphili, al Casino dei Quattro Venti. Dovranno passare ancora alcune ore prima che in Vaticano si decida di alzare bandiera bianca. Nessuno è sceso in campo per difenderlo. Nemmeno le grandi famiglie. «Il principe Doria, osserva con amarezza il Pontefice, ha alzato sul suo palazzo una bandiera inglese, nella speranza di essere risparmiato da un eventuale assalto delle truppe italiane». Alle 9.40, dopo Repubblica Nazionale 38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 16 SETTEMBRE 2007 l’immagine Stile italiano La prima bottega-laboratorio dei fratelli Cinzano apre a Torino nel 1757. Il marchio ha resistito e festeggia ora il suo primo “quarto di millennio”. Un traguardo legato alla qualità e alla tradizione, ma anche a una particolare sensibilità per la comunicazione che ne ha fatto un pioniere e un protagonista della storia della pubblicità Cin Cin, uno spot lungo 250 anni UGO VOLLI ono poche le istituzioni e perfino gli Stati che possono vantare un’anzianità di duecentocinquant’anni, cioè un quarto di millennio, dieci generazioni. A maggior ragione sono rarissime le imprese capaci di arrivare a questo traguardo: sempre soggette come sono a tutti gli imprevisti del mercato, ai mutamenti del gusti e dell’economia, alle vicissitudini della proprietà, si considerano longeve già dopo mezzo secolo di vita. L’Italia, che come Stato nel 2011 compirà solo il suo centocinquantesimo anniversario, ha una delle maggiori concentrazioni mondiali di aziende storiche, traccia di un percorso di innovazione che è iniziato coi Comuni e il Rinascimento. Fra esse arriva quest’anno a festeggiare il fatidico quarto di millennio una delle marche più popolari, più autenticamente italiane e più note nel mondo, la Cinzano di Torino. Era infatti il 6 giugno 1757 quando due fratelli, Giovanni Giacomo e Carlo Stefano Cinzano, appartenenti a una famiglia di vignaioli della collina torinese la cui attività è documentata dalla metà del Cinquecento, ottennero per la prima volta dalla corte sabauda il diploma di maestri distillatori e l’autorizzazione ad aprire una bottega laboratorio in via Dora Grossa, oggi via Garibaldi, proprio nel centro della città a due passi da piazza Castello. Era l’inizio di un’avventura industriale di grande successo. I vini e i distillati della famiglia piacevano ai nobili di una città in piena espansione che stava rinnovandosi completamente sul piano urbanistico ed economico, per diventare il centro di un regno con molte ambizioni. Nel 1786 i Cinzano furono nominati fornitori della Real Casa, essendo divenuti i migliori fabbricanti di una specialità torinese di vino speziato con erbe che tutti oggi conoscono col nome di vermouth (la parola, a quanto pare, viene dal tedesco vermud, assenzio). In quel periodo furono anche eletti rappresentanti ufficiali della loro “corporazione” o organiz zazione di categoria, con il compito di stilare i regolamenti e di controllare la qualità. Dopo gli sconvolgimenti della Rivoluzione S francese, i Cinzano furono incaricati dal re di Sardegna di cercare di emulare in Piemonte i metodi francesi di fabbricazione dello champagne, sperimentandoli nei domini reali di Santo Stefano Belbo e Santa Vittoria d’Alba. È di qui che ha origine una produzione italiana di spumanti radicata fra il territorio astigiano e le Langhe, che ancora ha grande successo. A metà dell’Ottocento incominciava l’espansione all’estero del commercio di vini e vermouth dei Cinzano, che arrivò presto in tutta Europa, in Sudamerica e perfino in Africa, teatro delle avventure di un incredibile personaggio di commesso viaggiatore internazionale, Giuseppe Lampiano, che si faceva ritrarre in abiti da sceicco o in mezzo alle popolazioni tropicali, sempre con una bottiglia in mano. Mentre il successo e la fama del nostro vino erano di là da venire, insieme a qualche altra casa italiana, come Campari e Martini, Cinzano stava inventando un consumo alcolico e una merceologia nuova, quella degli aperitivi: prodotti più alcolici di un vino normale e meno di un distillato, dolci o secchi, da consumare da soli o mescolati con altri Le prime etichette illustrate nel 1853, la prima inserzione sui giornali nel 1887 L’anno dopo il primo di una serie di splendidi manifesti firmati da Capiello, Dudovich, Crepax... ingredienti in quegli intrugli deliziosi che gli americani avrebbero chiamato cocktail. Al di là dei successi industriali e commerciali e di un’identità italiana — anzi torinese — così caratteristica, quel che rende particolarmente interessante il compleanno di Cinzano è la sua continua popolarità, che a sua volta dipende da una straordinaria sensibilità che l’azienda ha sempre avuto per la comunicazione e l’immagine. Le prime etichette illustrate e stampate sulla bottiglia, con l’immagine delle medaglie vinte in fiere e concorsi, furono adottate al posto delle vecchie etichette scritte a mano a partire dal 1853: un passo che oggi nel mondo dei consumi industriali sembra ovvio ma che sottolineava allora l’inizio di un processo di trasformazione di un’impresa di famiglia locale e basata sulla vendita diretta in ciò che noi oggi conosciamo come una marca: un prodotto industriale, di qualità garantita, che chiede la fiducia dei propri clienti sulla base della notorietà del suo nome e della sua immagine, non della conoscenza personale. È un passaggio fondamentale che la maggior parte delle imprese europee compie verso la fine del secolo ma che Cinzano anticipa di parecchi decenni. Il momento successivo di questa evoluzione verso la marca moderna è la pubblicità. Anche in questo caso a noi sembra del tutto scontato che un produttore di merci di largo consumo come spumanti e vermouth debba farsi conoscere dai suoi consumatori usando i mezzi di comunicazione; ma la pubblicità sui giornali e sulle affissioni arriva abbastanza tardi nella storia industriale europea e in particolare italiana. Cinzano è uno dei primi a provarci con un annuncio pubblicato su un giornale significativamente collocato abbastanza lontano dalla sua base geografica, prova di un’espansione commerciale già avviata. L’8 dicembre 1887, centoventi anni fa, usciva sul quotidiano Il Telegrafo di Livorno un annuncio, ovviamente in bianco e nero e senza immagini che pubblicizzava il «Vino Vermouth della rinomata Casa F. Cinzano». È l’inizio di un percorso di comunicazione che è durato fino a oggi, restando negli occhi e nella fantasia di consumatori non solo italiani. Solo un anno dopo, nel 1888, esce il primo manifesto firmato da Adolf Hohenstein, uno dei fondatori della grafica pubblicitaria italiana: un dio Pan che suona e danza. I manifesti pubblicitari, splendidamente illustrati e coloratissimi, furono il mezzo di comunicazione aziendale principe fino all’avvento della televisione, quello in cui investivano maggiori mezzi e creatività, coinvolgendo spesso grandi artisti. E Cinzano IL DIO PAN LA ZEBRA BOTTIGLIE CON BANDIERE CILINDRO CON BOTTIGLIA DONNA CHE BACIA LA BOTTIGLIA A. Hohenstein, 1898 L. Cappiello, 1910 L. Cappiello, 1921 G. Magagnoli, 1927 G. Magagnoli, 1938 Repubblica Nazionale DOMENICA 16 SETTEMBRE 2007 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39 LE ETICHETTE IL GRAPPOLO Una carrellata di etichette per i mercati italiani ed esteri che ricostruiscono la storia della produzione La donna adagiata sul grappolo, realizzata nel 1920 da Cappiello sintetizza il gusto dell’epoca li usò con grande ricchezza e abilità. Illustratori importanti come Leonetto Capiello, Mario Gross, Marcello Dudovich, e molti altri fino ad arrivare a Ugo Nespolo e Guido Crepax, hanno prodotto per Cinzano centinaia di affiches che si possono ora vedere nel museo aziendale di Santa Vittoria d’Alba. In genere sono scene allegre, piene di colori e di euforia, con una grande figura di solito femminile, o una coppia, qualche tralcio di vite o dei grappoli, l’idea di una festa, il piacere della socialità, un’aria di lusso e di raffinatezza, e l’immancabile bottiglia, magari collocata in secondo piano, ma strategicamente ben visibile. Alcuni di questi, come la “Giraffa” di Capiello, sono veri e propri capolavori che hanno oggi un importante mercato antiquario. Anche gli altri mezzi di comunicazione sono stati usati dalla Cinzano fin dall’inizio in maniera sempre molto moderna e innovativa. Suo è per esempio il primato di aver usato per la prima volta, a Parigi verso il 1910, la pubblicità luminosa col neon. Il marchio diffuso in tutto il mondo con i due campi rosso e blu divisi dalla diagonale risale al 1925. Alla radio, quando questa era il mezzo di comunicazione più moderno, migliaia di annunci ripetevano quel «Cincin... Cinzano!» che è rimasto nella tradizione nazionale italiana come brindisi allegro e un po’ infantile. Nel 1949 fu prodotta una serie di poster con foto di Totò costruite secondo uno stile vagamente fumettistico o da fotoromanzo. Un’altra star usata come testimonial è stata Rita Pavone che in una serie di Caroselli degli anni Sessanta cantava «Cin-cin cinzoda / una voglia da morir». Negli anni Settanta era invece Joan Collins a cantare «Cincin / C’innamoriam». Secondo una modalità caratteristica del tempo, Cinzano sponsorizzò anche un vero e proprio film, girato nel ‘68 con Anthony Quinn, Anna Magnani, Virna Lisi, Giancarlo Giannini. La trama è costruita sulla rielaborazione fantastica di un episodio della Resistenza realmente accaduto: i preziosi depositi di milioni di bottiglie della Cinzano necessari per la produzione vengono sottratti alle razzie dei tedeschi e salvati dalla popolazione di Santa Vittoria d’Alba, nelle Langhe, murando le cantine. Intorno al salvataggio economico e politico dell’aperitivo nazionale si intrecciano episodi romantici e avventurosi. A pochi anni dopo, verso l’inizio degli anni Ottanta, risale una serie di brevi filmati pubblicitari (oggi diremmo spot) che ebbero grandissimo successo internazionale: in ambienti sempre un po’ lussuosi e mondani (un albergo alpino, una festa in una casa elegante, un incontro d’affari con imprenditori giapponesi, la cabina di un aeroplano) si presenta un tipo chiacchierone e un po’ prepotente (Leonard Rossiter, interprete inglese di 2001: Odissea nello spazio, della Pantera rosa e di Barry Lindon), che vanta da intenditore i meriti del Cinzano Bianco, si impadronisce magari di un bicchiere non suo e lo sorseggia deliziato, ma poi per una ragione o per l’altra finisce per rovesciarlo sulla camicetta di seta della sua interlocutrice, che è sempre Joan Collins. Airliner, uno di questi filmati, è entrato nella classifica degli spot più famosi della storia della pubblicità curata dalla rivista Brand Republic. Il resto è cronaca recente. Estinta la famiglia, la Cinzano è stata comprata nel 1999 dalla Campari, storica concorrente, e insieme a questa rappresenta oggi nel mondo delle merci una certa immagine dell’Italia, raffinata e allegra, dedita al piacere della socialità e capace di sedurre. I secondi duecentocinquanta anni sono già iniziati con un’edizione limitata di spumante. DISEGNI E PAROLE Manifesti, calendari, bozzetti, schizzi, slogan: nell’archivio Cinzano si trovano circa 80 mila documenti, gran parte dei quali di tipo iconografico I TRE CAVALLINI DONNA SOTTO L’OMBRELLONE JOLLY GIOVANI FA PARTE DI UN UOMO N. Edel, 1946 F. Mosca, 1950 P. Monnerat, 1958 G. Crepax, 1967 A. Testa, 1972 Repubblica Nazionale 40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 16 SETTEMBRE 2007 Il primo era W. H. Auden, a detta di Brodskij “la più grande mente del secolo”. Il secondo era Christopher Isherwood, già celebre per il suo “Addio a Berlino”. Nel ’37 due case editrici commissionarono loro un libro su Cina e Giappone. Partirono armati solo di una macchina fotografica e del loro talento e si trovarono nel mezzo del conflitto. Scrissero e documentarono tutto quello che videro dando vita a un reportage unico al mondo ora pubblicato in Italia Viaggio in una Guerra Poeti inviati al fronte orientale FRANCO MARCOALDI l primo si era equipaggiato come se dovesse partecipare a una spedizione artica: un berretto di lana svizzera, un cappotto immenso e informe, ai piedi le usuali «pantofole felpate per lenire i dolori dei calli». Il secondo aveva in testa un basco, addosso un maglione a collo alto e ai piedi degli stivali da equitazione. Per loro stessa ammissione, sembravano usciti da «uno di quei romanzi di Jules Verne sulle avventure di stravaganti esploratori inglesi». I due non erano certo personaggi qualunque: l’uomo delle pantofole rispondeva al nome di Wystan Hugh Auden, poeta formidabile, e, a detta di Josif Brodskij, «la più grande mente del ventesimo secolo»; l’uomo degli stivali era Christopher Isherwood, l’autore di Addio a Berlino e Il signor Norris se ne va. Nell’estate del 1937 la casa editrice Faber and Faber di Londra e la Random House di New York avevano commissionato loro un “libro di viaggio” sull’Estremo Oriente: niente di più e niente di meno. Auden e Isherwood avrebbero potuto scegliere la meta e la forma più congeniale per ottemperare a quel contratto. E tanto la scelta del luogo, quanto il montaggio del volume, risultarono decisamente originali: i due sarebbero partiti nel gennaio del ‘38 per la Cina, allora nel pieno del conflitto col Giappone, e al ritorno, dopo sei mesi, I avrebbero congegnato un libro (Viaggio in una guerra), ora ripubblicato da Adelphi per la traduzione di Aurora Ciliberti e Lucia Corradini, nel quale si succedono un gruppo di poesie di Auden sul tema del viaggio, il lungo reportage in prosa di Isherwood, le fotografie di Auden e infine, a chiudere, una sequenza di sonetti dello stesso Auden sulla guerra. Insomma, un esemplare unico, che rende merito alla magnanima liberalità degli editori e allo strepitoso talento dei due autori. I quali, prima di allora, mai si erano spinti a est di Suez; dunque nulla sapevano dell’immenso territorio cinese e dei suoi abitanti: «Gente arguta e / glabra che come un cereale ha ereditato queste valli: / il Tarim li nutrì; il Tibet fu l’alta rocca protettiva, / e dove il Fiume Giallo muta corso, appresero / a viver bene, per quanto minacciasse sovente la rovina». Tale ignoranza non è affatto celata; al contrario, viene esplicitamente dichiarata sin dalla premessa, firmata a quattro mani: «Non parlavamo il cinese e n o n possedevamo una conoscenza specifica delle questioni estremo-orientali. È quasi superfluo, dunque, sottolineare che non possiamo garantire la precisione di molte affermazioni contenute in questo libro. Alcuni dei nostri informatori erano forse inattendibili, altri semplicemente cortesi, altri ancora possono averci deliberatamente presi in giro. Ci siamo quindi limitati a registrare, nell’interesse del lettore che non sia mai stato in Cina, una serie di impressioni su quanto probabilmente avrebbe visto e su quel genere di racconto che probabilmente avrebbe udito». Il fatto però è che per vedere certe cose e udire certi racconti bisogna avere mente e cuore e sensi sempre all’erta; insomma, bisogna essere dei veri viaggiatori. Ma prima ancora, neanche a dirlo, bisogna essere dei grandi poeti e scrittori per saper riportare sulla pagina scritta esperienze e emozioni con tanta precisione e humour e pietase vividezza. Dunque, davvero poco importa se il Viaggio in una guerranon risponderà alle caratteristiche del saggio di orientalistica scientificamente inappuntabile. In cambio, entreremo in un mondo fatto di sapori, odori, suoni, idee e sensazioni per molti versi indimenticabile. Comunque sempre sorprendente, sempre paradossale. Comincia Auden, dapprima togliendo la terra sotto l’idea stessa di viaggio («Il viaggio è falso; il falso viaggio realmente una / malattia / sulla falsa isola dove il cuore non può agire e non soffrirà; / egli indulge alla febbre; è più debole di quanto / pensasse; la sua debolezza è reale»), salvo ridargli subito dopo piena legittimità: «E forse la febbre avrà una cura, il vero viaggio / una fine / dove i cuori s’incontrano e sono proprio sinceri: / e lontano questo mare che divide / i cuori in mutamento, ma è lo stesso, sempre; e va / dovunque, unendo il falso e il vero, ma non può / soffrire». Quanto a Isherwood, esordisce affermando che «il primo approccio come osservatore neutrale di un paese colpito dalla guerra è fatalmente simile a un sogno, irreale». Non appena però sale sul Tai-Shan, un battello fluviale che da Hong Kong si muove alla volta di Canton, avverte che la musica sta cambiando. Lui e Wystan non sono due ragazzini che giocano agli indiani. Sono due adulti che, per quanto dilettanti, svolgono le funzioni di corrispondenti di guerra. Anche se, certo, la sensazione di irrealtà non si è del tutto diradata. Passa, vicinissima, una cannoniera giapponese carica di marinai che si muovono sul ponte lucidando i fucili, e Isherwood commenta: «Il loro totale isolamento, su quella letale isoletta d’acciaio, era quasi patetico. Autosegregati nell’odio, come fossero stati vittime di una mortale malattia infettiva, se ne stavano reietti e distanti, ripu- diati dal placido, prospero fiume e dalla pura sanità del cielo. Erano come qualcosa contro natura, qualcosa di perverso, un’aberrazione. Assorti nelle loro mansioni, ci gettarono appena un’occhiata — e questo sembrò ancora più strano, più innaturale di tutto. Ecco cos’è la Guerra, pensavo: due imbarcazioni passano quasi sfiorandosi, e nessuno saluta con la mano». Il Nostro avrà tempo e modo per rivedere quell’impressione iniziale; quando, con l’amico, uscirà progressivamente dal bozzolo delle ambasciate, dei ricevimenti eleganti della comunità internazionale, degli incontri con i massimi dirigenti cinesi. Delle cerimonie del tè offerte dai missionari inglesi e americani in raffinati salotti, con ricchi piatti di pasticcini sul tavolo e i saggi di Repubblica Nazionale DOMENICA 16 SETTEMBRE 2007 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41 IL LIBRO Si intitola Viaggio in una guerra (Adelphi, 246 pagine, 22 euro) e sarà in libreria il 19 settembre. Commissionato a W. H. Auden e Christopher Isherwood nel 1937, raccoglie l’esperienza del poeta e dello scrittore sul fronte della guerra tra Cina e Giappone. È un mix tra reportage, riflessioni e poesie corredate dalle fotografie scattate dallo stesso Auden Tutte le foto di queste pagine, tranne le prime due in alto a sinistra e quella grande in basso, sono state scattate da Auden (© 1939 W.H. Auden and Christopher Isherwood renewed 1967 by W.H. Auden and Christopher Isherwood © 2007 Adelphi edizioni Spa, Published by arrangement with Roberto Santachiara Literary Agency) SCATTI IN TRINCEA Nella pagina accanto in alto, Auden e Isherwood; in basso, il giornalista Peter Fleming e il fotografo Robert Capa. In questa pagina, scene dal fronte e personaggi famosi come Chiang Kai-shek e la moglie e Isherwood fotografato in trincea In basso, truppe cinesi in marcia nel 1938 molto il bel mondo. Hanno un’agenda fitta di impegni e non mancano certo di entrature. Ma la guerra vogliono vederla, annusarla, toccarla con mano. E così da Canton si spostano verso Hankow, attraverso una linea ferroviaria perennemente bombardata dai giapponesi («le risaie coprivano i dolci pendii delle colline, terrazza dopo terrazza, come specchi appannati stesi a riflettere il cielo») e quando giungono in città hanno l’impressione di aver raggiunto la fine del mondo. Questa è la vera capitale della Cina in guerra. Qui vive ogni genere di persone: Chiang Kai-shek, Agnes Smedley, Chou Enlai, e poi generali, ambasciatori, giornalisti, ufficiali di marina straniera, soldati di ventura, spie. «La Storia, ormai stanca di Shangai, satura di Barcellona, ha fissato il suo capriccioso interesse su Hankow. Ma dove se ne sta? Tutti si vantano di averla incontrata, ma nessuno può dimostrarlo. La troveremo al bar del Grand Hotel, a bere whisky con i giornalisti? È forse ospite del Generalissimo, o dell’ambasciatore sovietico? Preferisce il quartier generale dell’Ottava armata campale, o i consiglieri militari tedeschi? Si accontenta della capanna di un conducente di risciò?». I due frugano in ogni anfratto. Hanno l’occhio dello sparviero, il fiuto del cane da caccia. E annotano ogni particolare, ogni fisionomia, ogni parola. Monsignor Roots, il vescovo americano di Hankow, li invita con tono profetico ad abbandonare una lettura contingente dei fatti: «Dovete pensare in termini di cinquecento anni [...] Questo sarà il luogo di nascita della nuova civiltà mondiale e i cinesi l’hanno capito». Il Generalissimo, che nelle occasioni pubbliche rivela una presenza sinistra, «la fragile impassibilità di una fantasma», in privato invece pare gentile e timido. Quanto a Chou En-Lai, Auden ha la fortuna d’incontrarlo per puro caso mentre sta andando a fotografare Agnes Smedley. E ovviamente il poeta gli chiede lumi sulla situazione politica interna: quanto più a lungo durerà la guerra, tanto più completa sarà la vittoria della Cina e più stretta l’intesa tra il Partito comunista e il Kuomintang, risponde Chou En-lai. Ma via via che si avvicinano al fronte, Auden e Isherwood paiono concentrare sempre più la loro attenzione sul conflitto in quanto tale. E dopo l’ennesima lezione di strategia militare tenuta per loro dall’ennesimo generale, con le immancabili freccette a segnalare impeccabili quanto irreali movimenti di truppe, Isherwood commenta: la guerra non è questa cosa qui. «La guerra è bombardare un arsenale già sgomberato, mancare il bersaglio e massacrare qualche povera vecchietta. La guerra è giacere in una stalla con una gamba in cancrena. La guerra è bere acqua calda in una baracca e preoccuparsi per la propria moglie. La guerra è un pugno di uomini spaventati e sperduti sulle montagne, che sparano a qualcosa che si muove nel sottobosco. La guerra è aspettare un giorno dopo l’altro senza aver niente da fare; urlare in un telefono fuori uso; andare avanti senza dormire, senza far sesso, senza lavarsi. La guerra è disordinata, inefficiente, oscura e in gran parte affidata al caso». Al viaggio manca ancora un’ultima, decisiva tappa: Shangai, mera facciata di una grande città che non esiste. Chi ha i mezzi, qui può soddisfare ogni desiderio: concorsi ippici, partite di football, film americani. Bordelli, fumerie d’oppio, antiquari e gioiellieri. Ma al di fuori della colonia internazionale e della concessione francese, si distende un immenso, spaventoso deserto urbano controllato dai giapponesi, «formidabili cani da guardia». In ogni baracca dei campi profughi, formata da tre fi- le di ripiani sotto un tetto di paglia, possono vivere fino a cinquecento individui. Negli ospedali sopravvivono con le loro menomazioni, dimenticati da tutti, i resti delle truppe che combatterono per difendere Shangai. Quanto agli operai, c’è chi sostiene che lo sfruttamento dei giapponesi sia ancora più cinico e sfrenato di quello dei passati proprietari cinesi. Anche questa è la guerra; un quartiere «con i garden-party e i night-club, i bagni caldi e i cocktail, le cantanti e il cuoco dell’ambasciatore» e tutto attorno un mare di indicibile sofferenza, sulla quale il poeta appunta il suo sguardo: «Sì, siamo destinati a soffrire, adesso; il cielo / pulsa come una fonte febbrile; il dolore è reale; / brancolanti riflettori rivelano d’un tratto / le piccole nature che ci faranno piangere, / che mai pensammo potessero davvero esistere, / non lì, dove eravamo. Ci colgono di sorpresa / come brutti ricordi da tempi dimenticati, / e, come una coscienza, resistono a tutti i cannoni». FOTO ROBERT CAPA MAGNUM / CONTRASTO Chesterton e le poesie di Kipling sullo scaffale: «Il mio cervello cercava di stabilire un nesso tra queste immagini e i suoni provenienti dall’esterno: il sibilo del potente bombardiere in picchiata, i tonfi sordi delle esplosioni in lontananza. Cerca di capire, mi dissi, che questi rumori, questi oggetti fanno parte di un’unica scena integrata. Svegliati. È tutto perfettamente reale. E, in quel preciso momento, effettivamente mi svegliai. In quel momento, all’improvviso, arrivai in Cina». Paradossalmente è solo allora, soltanto quando risulta chiara la percezione di un paese in guerra, che quel paese svela fino in fondo anche i suoi tratti più ordinari, quotidiani. Dall’uso pervasivo dei biglietti da visita, senza i quali viaggiare in Cina sarebbe risultata un’impresa proibitiva, al fenomeno imperscrutabile del cibo: «Ci fermammo a far benzina vicino a un ristorante dove cucinavano il bambù in tutte le sue varianti — compresi i listelli usati per fare le sedie. Un fenomeno caratteristico di questo paese. Niente è specificamente commestibile. Si potrebbe incominciare con lo sgranocchiare un cappello o mordere un pezzo di muro; alla stessa stregua, si potrebbe costruire una capanna con il cibo predisposto per il pranzo. Tutto è tutto». Sì, Auden e Isherwood frequentano e Repubblica Nazionale 42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 16 SETTEMBRE 2007 la lettura Filosofia al femminile Ha dedicato la vita allo studio del totalitarismo e della politica. Ha scritto un libro fondamentale sulla banalità burocratica del male nazista. È stata l’amante di Heidegger. La Arendt ha sempre parlato poco di se stessa, ma ha scritto moltissimo. Come si legge nei suoi diari ora pubblicati in Italia L’amore secondo Hannah potenza senza tenerezza HANNAH ARENDT Febbraio 1951 uel che siamo e sembriamo, A chi importa. Quel che facciamo e pensiamo Nessuno se ne indigna. Il cielo è in fiamme, Chiaro il firmamento Sopra l’unione che non conosce la via. Q Giugno 1951 I pensieri vengono a me, non sono più un’estranea per loro. Cresco e divento la loro dimora come un campo coltivato. Vieni e abita nella buia stanza obliqua del mio cuore, ché la vastità delle onde ancora si chiude allo spazio. Vieni e cadi nei fondi colorati del mio sonno, che ha paura del ripido abisso del nostro mondo. Vieni e vola nella lontana curva della mia nostalgia, che l’incendio divampi all’altezza di una fiamma. Stai e resta. Aspetta che l’arrivo giunga inesorabile dal lancio di un istante. Sopravvivere Ma come si vive con i morti? Di’, dov’è il suono che ne tradisce la presenza, com’è il gesto se, condotti da loro, desideriamo che la prossimità stessa a noi si neghi? Chi sa il lamento che li allontana da noi e tira il velo sullo sguardo vuoto? A che cosa serve rassegnarsi alla loro assenza, e rivolta il sentimento che impara a sopravvivere. Il sentimento rivoltato è come il coltello rivoltato nel cuore. Agosto 1951 Che fretta ha il tempo, non si sofferma, aggiunge anno dopo anno alla sua catena. I capelli son presto bianchi e soffiati via. Ma se il tempo si divide ogni anno in notte e giorno, se il cuore si sofferma — non gioca all’eternità col tempo? è incontestabile che a Friburgo io mi sia recata (e non caduta) in una trappola. Ma è ugualmente incontestabile che Martin [Heidegger], lo sappia o no, si trovi in questa trappola, che in essa sia di casa, che abbia costruito la sua casa attorno a questa trappola; cosicché si può andare a trovarlo soltanto se si va a trovarlo nella trappola, se si va in trappola. Quindi sono andata a trovarlo nella trappola. Il risultato è che ora lui sta di nuovo seduto da solo nella sua trappola. Gennaio 1952 Ogni solitudine portata con coerenza sino alla fine sfocia in disperazione e abbandono — semplicemente perché non è possibile gettarsi al collo di se stessi. Sembra che tutto debba ripetersi. E mi chiedo che ne sarà di Te fra sette anni. La prossima tempesta, che soffia già da ogni direzione, come se si esercitasse nel soffiare e nello spazzare via, Ti risucchierà e Ti farà girare nel vortice, poiché navigando — e anche nei pericoli della navigazione — hai gettato tutto di bordo e sei rimasto senza un peso tuo? Oppure, per parlare una lingua diversa e molto più precisa, che non è la mia lingua, vuoi veramente fare di Te un “contenitore” [...] e condividere l’essenza del contenitore, che è il vuoto? Non respingerlo subito. Se vuoi (devi?) imboccare questa strada, hai soltanto un’opportunità — che ti si possa ancora incontrare. La forza diventa potere solo nel momento in cui si allea con altri. La forza che non può diventare potere, perisce da sé in se stessa. Maggio 1952 Sono solo una Delle cose, Quelle piccole, Che riuscirono Per esuberanza. Stringimi fra le Tue mani, Che si espandano Oscillanti Nella riuscita, Quando hai paura. Giugno 1952 Manchester Finché abitiamo questa terra, abbiamo tanto bisogno gli uni degli altri quanto avremo bisogno di Dio nell’ora della morte, quando cioè lasceremo la terra. Ottobre 1952 In qualunque modo lo si voglia vedere, Soltanto quando è spezzato il cuore batte al proprio ritmo Se non si spezza, si pietrifica Maggio 1953 L’amore è una potenza e non un sentimento. S’impadronisce dei cuori, ma non nasce dal cuore. L’amore è una potenza dell’universo, nella misura in cui l’universo è vivo. Essa è la potenza della vita e ne garantisce la continuazione contro la morte. Per questo l’amore “supera” la morte. Appena si è impossessato di un cuore, l’amore diventa una potenza ed eventualmente una forza. L’amore brucia, colpisce l’infra, ovvero lo spazio-mondo fra gli uomini, come il fulmine. Questo è possibile soltanto se vi sono due uomini. Se si aggiunge il terzo, allora lo spazio si ristabilisce immediatamente. Dall’assoluta assenza di mondo (=spazio) degli amanti nasce il nuovo mondo, simboleggiato dal figlio. In questo nuovo infra, nel nuovo spazio di un mondo che inizia, devono stare ora gli amanti, essi vi appartengono e ne sono responsabili. Proprio questa è però la fine dell’amore. Se l’amore persiste, anche questo nuovo mondo viene distrutto. L’eternità dell’amore può esistere soltanto nell’assenza di mondo (dunque: «e se Dio vorrà, ti amerò anche di più dopo la morte» — ma non perché allora io non “vivrò” più e di conseguenza potrò forse essere fedele o qualcosa del genere, ma a condizione di continuare a vivere dopo la morte e di aver perduto in essa soltanto il mondo!) o come amore degli “abbandonati”, non a causa dei sentimenti, ma perché, assieme agli amanti, è andata perduta la possibilità di un nuovo spazio mondano. Gennaio 1954 Amo la terra come in viaggio il luogo straniero, e non diversamente. Così la vita mi tesse piano al suo filo in una trama sconosciuta. All’improvviso, come il commiato in viaggio, il grande silenzio irrompe nel telaio. Il cuore è un organo curioso; soltanto quando è spezzato, batte al proprio ritmo; se non si spezza, si pietrifica. La pietra che ci cade dal cuore è quasi sempre quella in cui il cuore si era quasi trasformato. Marzo 1955 Amor mundi — perché è cosi difficile amare il mondo? Una volta che abbiamo iniziato a pensare, i pensieri arrivano come le mosche e ci succhiano il sangue vitale. Maggio 1955 Dolcezza grave La dolcezza è all’interno delle nostre mani, quando la superficie si accomoda alla forma estranea. La dolcezza è nella volta celeste notturna, quando la lontananza si concede alla terra. La dolcezza è nella tua mano e nella mia, quando la vicinanza bruscamente ci fa prigionieri. La malinconia è nel tuo sguardo e nel mio, quando la gravità ci accorda uno nell’altro. Fine 1957 Ti vedo soltanto come stavi alla scrivania. Una luce cadeva in pieno sul tuo viso. Il vincolo degli sguardi era così stretto, come se dovesse portare il tuo peso e il mio. Il legame si è spezzato, e fra noi si è creato non so quale strano destino, che non si può vedere e che nello sguardo non parla e non tace. La voce trovò e cercò ascolto nella poesia. Natale 1964 Un tempo, per corazzarmi contro la vanità, l’ambizione e i desideri folli, ho spesso giocato con la morte. Al cospetto della morte, della mortalità dei mortali — Vanitas vanitatum vanitas. Un pensiero assai consolatorio. Ma oggi, poiché in parte il mondo viene incontro proprio alla mia vanità, ricompensa la mia ambizione e ogni tanto Repubblica Nazionale LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43 FOTO ULSTEIN BILD / ALINARI DOMENICA 16 SETTEMBRE 2007 Tra vita pubblica e privata Officina di idee colori e dolore AMBRA SOMASCHINI a dolcezza è / nella tua mano e nella mia, / quando la vicinanza bruscamente / ci fa prigionieri. La malinconia è / nel tuo sguardo e nel mio, / quando la gravità ci / accorda uno nell’altro». Hannah Arendt intima, privata, sconosciuta al pubblico italiano. Lo stile è scarno, sobrio, essenziale, spesso privo di verbi, un diario filosofico diretto, mai mediato da setacci editoriali. La filosofa della “banalità del male” racconta emozioni e sentimenti, mette insieme il suo sé. i Diari (curati da Chantal Marazia, Neri Pozza, 688 pagine, 55 euro, in libreria dal 21 settembre) rivelano un mondo nuovo fatto di colori («Il colore fa apparire l’universo, / i colori separano cosa da cosa») di amori («Vieni e abita / nella buia stanza obliqua del mio cuore», «vieni e cadi / nei fondi colorati del mio sonno») di dolori («Il mio dolore ha lavorato un tempo il ciglio a lamenti / contro la giungla del mondo»). I quaderni, stampati in Germania da Piper, curati da Ursula Lutz e Ingeborg Nordmann, coprono vent’anni di storia, dal 1959 al ‘73. Un universo a parte che forse si lega di più alla sua scelta di presentare una tesi di laurea nel ‘29 ad Heidelberg sull’amore in Sant’Agostino che alla sua vita passata a formulare idee sugli orrori dei totalitarismi. Arendt scrive a mano e nel testo è stato fatto uno studio dettagliato per rendere la sua dinamicità linguistica: le parti in inglese sono in corsivo, le citazioni dal greco, dal latino e dal francese sono riproposte in lingua originale; le citazioni dal tedesco e dall’inglese sono state tradotte. Tutto conservato al Deutsches Literaturarchiv di Marbach tranne il primo taccuino, approdato nella Library of Congress di Washington. Ventinove quaderni in tutto, ricettacoli ideali per esprimere pensieri, laboratori senza mediazioni, nemmeno quella della macchina da scrivere. Arendt ha avuto due mariti, Gunter Stern e Heinrich Blucher, e un amante, Martin Heidegger. «Nell’inverno 192425 Heidegger tenne un corso magistrale su Platone e Aristotele — ha spiegato Franco Volpi — il filosofo trentacinquenne rimase colpito, come scriverà nelle lettere, “da quello sguardo che mi rivolgevi mentre parlavo dalla cattedra”. A fulminarlo furono gli occhi di Hannah diciottenne che seguiva con soggezione le sue lezioni». «L’amore — sostiene la filosofa — è un evento da cui può derivare una storia o un destino. Il matrimonio come istituzione della società riduce in briciole questo evento, come tutte le istituzioni consumano gli eventi sui quali erano state fondate». Poi ci illumina sul significato della poesia: «La poesia concentra densamente, protegge il nucleo degli avversi sensi. / Il guscio, quando emerge il nucleo, / mostra al mondo il denso interno»; del tempo, degli anni: «Un ragazzo e una ragazza / al torrente e nei boschi / prima sono giovani assieme / poi assieme sono vecchi. / Fuori giacciono gli anni / e ciò che chiamiamo vita / dentro vive l’assieme, / che non conosce né anni né vita». «Questi diari sono un’officina del pensiero — osserva Chantal Marazia — Arendt come filosofa dello spazio pubblico ha sempre tenuto rigorosamente separato il suo privato fino al punto di definire la vita privata una tautologia. Scrive lei stessa: “Ogni vita è privata. Finché viene vissuta, nessuna vita può tollerare lo spazio pubblico”». «L PENSATRICE Hannah Arendt in una delle ultime foto prima della morte nel 1975 esaudisce i miei folli desideri, mi rendo conto che il gioco con la morte non serve più. La morte stessa non è più il nostro letto di morte o d’agonia. Non che io abbia paura, ma le mie preoccupazioni vanno al di là della morte, voglio che il mio testamento sia in ordine, le mie carte al sicuro, che quel po’ di denaro sia distribuito in modo giusto — insomma, quando il mondo ci sorride, in fin dei conti siamo subito disposti a provare un interesse estremamente disinteressato nei suoi confronti. Maggio 1965 A dire il vero, da quando avevo sette an- ni, ho sempre pensato a Dio, ma non ho mai riflettuto su Dio. Ho desiderato spesso non dover più vivere, ma non mi sono mai interrogata sul senso della vita. PAGINE Qui sopra la copertina dei Diari di Hannah Arendt Nell’altra pagina, due fogli originali La nostra cognizione del tempo si orienta esattamente rispetto al numero di anni che abbiamo vissuto. Più si è giovani, più un anno è lungo, ma anche un’ora o un giorno. Se ho cinque anni, un anno corrisponde a un quinto della mia vita; se ne ho cinquanta, è soltanto un cinquantesimo. Ciò cambia solo quando si diventa vecchi e si inizia a contare partendo dalla morte e non più dal- la nascita. Allora gli anni diventano di nuovo impercettibilmente più lunghi. Novembre 1968 La notte scorsa ho sognato Kurt Blumenfeld — per la prima volta in vita mia, credo. Nel sogno, lo incontravo inaspettatamente su un bel ponte nel bosco. Si levava di bocca il sigaro, per baciarmi. Gli dicevo: «Sei veramente tu? Non posso mica farmi baciare da uno sconosciuto». Ma lo dicevo ridendo. Nel sogno non sapevo che era morto. Mi sono svegliata ridendo. Per la gioia di questo incontro inatteso. (© 2007 Neri Pozza) Repubblica Nazionale 44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 16 SETTEMBRE 2007 Nel 1957 l’avvocato nato dalla fantasia di Erle Stanley Gardner approdava in tv. La sua umanità, il suo rigore e i suoi “obiezione vostro onore” lo resero universale Ancora oggi, a cinquant’anni esatti, è l’archetipo dell’eroe che salva gli innocenti, il mattatore sul palcoscenico dell’aula di giustizia Come spiega uno scrittore di legal thriller che conosce bene quel mondo RAYMOND BURR BARBARA HALE WILLIAM HOPPER CONNIE CEZON Nelle vesti dell’inflessibile e carismatico Perry Mason vince quasi tutte le sue cause Voluta, si dice, dall’autore del romanzo Erle Stanley Gardner, interpreta la devota e leale segretaria Della Street Nel serial presta il volto al fido investigatore Paul Drake che completa il terzetto Nel ruolo dell’allegra receptionist Gertrude Lade appare raramente nella serie tv anche se presente nei racconti Perry Il fascino della legge Mason RAY COLLINS È l’abile e irascibile investigatore di polizia Arthur Tragg della squadra omicidi FOTO EVERET/CONTRASTO WILLIAM TALMAN Veste di frequente nella serie i panni del procuratore distrettuale Hamilton Burger GIANRICO CAROFIGLIO e storie di Perry Mason sono uno dei più classici esempi di narrazione seriale, non solo nel senso della proposizione ripetuta dello stesso personaggio (anzi: dello stesso gruppo di personaggi, dalla segretaria, all’investigatore privato, al procuratore distrettuale), ma anche e soprattutto nel senso della riproposizione del medesimo, rassicurante schema narrativo. Tutti gli episodi della serie raccontano la stessa storia. Un innocente accusato di un grave delitto si rivolge all’avvocato Perry Mason che ne assume la difesa, affida le necessarie indagini al suo investigatore privato di fiducia e nel corso di spettacolari interrogatori riesce a dimostrare al giudice, alla giuria e anche a un inebetito pubblico ministero, l’innocenza del suo cliente e la colpevolezza del vero responsabile. Di regola, il principale testimone d’accusa. Nella vita reale, ovviamente, le cose vanno in modo diverso, ma il successo di Erle Stanley Gardner e dei numerosi autori che dopo di lui si sono dedicati alla narrazione giudiziaria ha ragioni sicuramente più complesse della rassicurante ripetizione di uno schema e della felice costruzione di personaggi accattivanti. Il processo ha uno straordinario fascino narrativo perché è esso stesso un meccanismo per la produzione di storie e perché ha a che fare con il bisogno di mettere ordine nel caos dell’esistenza e dei diversi punti di vista sul male e sulla colpa. Rashomon, capolavoro di Akira Kurosawa, è a suo modo la storia di un processo, e ripercorrerne la trama consente di capire molte cose sul fascino della narrazione giudiziaria e sul carattere illusorio delle nostre idee tradizionali sulla verità. In Rashomon si racconta di un bandito accusato di avere assassinato un samurai e di averne violentato la moglie. I tre protagonisti della vicenda, incluso il samurai morto (il cui spirito viene evocato da una maga) raccontano tre diverse versioni dei fatti, scaricando sugli altri la responsabilità, soprattutto morale dell’accaduto. Un boscaiolo, testimone esterno del dramma, racconta a sua volta una quarta versione, radicalmente diversa da quella dei tre protagonisti. La storia di Rashomon ci fa riflettere su come i punti di vista incidano in modo determinante sulla percezione, sulla narrazione e, in un qualche modo, sulla creazione stessa della realtà da parte di soggetti diversi. In questo senso costituisce una L Il processo è spesso tragedia, a volte commedia, comunque un affascinante macchinario spettacolare; per quello che accade e per le storie che racconta sorta di paradigma di quello che accade sul palcoscenico processuale. Non è — palcoscenico — una parola presa a caso. Nel processo si discute del bene e del male, o quanto meno del giusto e dell’ingiusto in un contesto — l’udienza — che richiama alla mente i canoni aristotelici di unità di azione, di tempo e di luogo e nel quale si consumano conflitti spettacolari. Drammatici spesso, ma a volte anche comici. Nei paesi di common law si tramandano numerosi aneddoti, a volte veri, spesso comunque verosimili, che mostrano la parte grottesca, ridicola o comica del processo. Un uomo era accusato di lesioni personali per aver staccato con un morso un pezzo di orecchio al suo avversario durante un litigio. Il pubblico ministero aveva esaminato il principale teste d’accusa, presente al fatto e dunque toccava al difensore dell’imputato procedere al controesame per cercare di inficiare l’attendibilità della deposizione. Avvocato: «Dunque lei afferma che il mio cliente ha staccato l’orecchio alla persona offesa?» Teste: «Sì». Avvocato: «A che distanza dalla colluttazione si trovava lei?» Teste: «Una ventina di metri, forse anche di più». Avvocato: «Che ora era, più o meno?» Teste: «Le nove di sera». Avvocato: «Ed eravate nel parcheggio del supermercato, all’aperto, esatto?» Teste: «Sì, esatto». Avvocato: «Era ben illuminato?» Teste: «Non molto». Avvocato: «Si può dire che il tutto è accaduto nella semioscurità?» Teste: «Sì, più o meno. Insomma, non c’era molta luce». Avvocato: «Quindi mi faccia riepilogare: il fatto è accaduto alle nove di sera, in un parcheggio male illuminato e lei si trovava a più di venti metri dal punto specifico in cui si svolgeva l’azione. È esatto?» Teste: «È esatto». A questo punto — dicono i manuali — il difensore avrebbe dovuto fermarsi. Aveva ottenuto un risultato utile e durante la discussione avrebbe potuto attaccare l’attendibilità della testimonianza, sostenendo con buoni argomenti, che in quelle condizioni (distanza e cattiva illuminazione) non era possibile che il teste avesse visto l’azione del morso. Una delle regole fondamentali della cross examination è quella di non fare una DIFESA ALL’ATTACCO Nella foto grande Perry Mason in azione. L’avvocato nato dalla penna di E.S. Gardner, è solito difendere clienti accusati d’omicidio che riesce a far scagionare dopo aver trovato il vero colpevole: ha perso solo tre cause in carriera. Nell’altra pagina, Mason interroga una teste Repubblica Nazionale DOMENICA 16 SETTEMBRE 2007 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45 SU REPUBBLICA.IT Da oggi online due audiogallery a cura di Repubblica.it, Repubblica TV e La Domenica di Repubblica realizzate da Matteo Pucciarelli e Valentina Clemente Un successo mai eguagliato L’attore inquieto e la serie perfetta MARIA PIA FUSCO enza Perry Mason 270 innocenti sarebbero finiti nella camera a gas. Li ha salvati con la dialettica e la scoperta del vero colpevole, stanato con l’aiuto dell’infaticabile Paul Drake e le intuizioni di Della Street. Dei 273 casi di cui si è occupato — tanti gli show andati in onda dal ‘57 al ‘66 e riproposti dalle tv di mezzo pianeta, perfino in Urss e nella Germania dell’Est, malgrado i complotti comunisti denunciati nella serie — solo tre volte il suo assistito è stato condannato, ma due erano davvero colpevoli. A cinquant’anni dal debutto, Perry Mason resta l’avvocato tv più famoso del mondo, con laurea ad honorem a Raymond Burr dall’università di Sacramento, sessanta interventi dell’attore nei congressi di categoria e la stella n.6.656 di Hollywood Boulevard. Nessuna delle serie giudiziarie create in seguito, da Practice a Law and Order, ha raggiunto la fama di Perry Mason, forse solo con Ironside, l’avvocato sulla sedia a rotelle in azione dal ‘67 al ‘75, Burr si è avvicinato allo stesso successo. Perry Mason era costruito con una ripetitività rituale. Nella prima mezz’ora c’è un omicidio e la polizia arresta la persona sbagliata, che chiama Perry Mason come difensore. La parcella è di cinquemila dollari, ma, generoso e giusto, difende anche poveri cristi in cambio di pochi dollari e tanta gratitudine. Nella seconda metà al processo nell’aula giudiziaria si alternano le sequenze della ricerca di prove a favore dell’imputato, spesso con SECONDO TEMPO Paul Drake Raymond Burr, (William Hopdopo Perry Mason, per) in situainterpretò un altro grande zioni di alto ripersonaggio tv, Robert schio e anche Ironside, uno specialista Della (Barbara legale in carrozzella. Poi Hale), molto di tornò al primo, senza mai più di una seripeterne il successo gretaria, pariniziale, negli anni Ottanta tecipa all’indagine. Il finale è il più atteso: Mason produce prove talvolta bizzarre — profumi, pappagalli, scarpe, oggetti strani — ma inconfutabili e il massimo è quando interroga un testimone e con domande implacabili lo spinge a confessare in aula. Gli italiani l’hanno scoperto nel fascino del bianco e nero sul finire degli anni Cinquanta, spesso sul televisore dei vicini di casa più abbienti. Mason però è nato negli anni Trenta, protagonista di un’ottantina di gialli di Erle Stanley Gardner ed era stato interpretato da vari attori in almeno cinque film, nessuno di successo. E di scarso successo, dopo anni di teatro e di cinema, era la carriera di Raymond Burr, quando fu scelto. Nei film era stato spesso il cattivo, era lui l’assassino in La finestra sul cortile, ma nel ‘73 fu papa Giovanni XXIII in un telefilm e, secondo le cronache, venne ad incontrare il pontefice e si stupì che sapesse tutto di Mason. Fu scelto per lo sguardo intenso, indagatore, ironico e la bella voce sonora di cui variava le intonazioni per pronunciare «obiezione, vostro onore». Nato in Canada nel 1917 (è morto in California nel 1993), Burr ha avuto fama e soldi — un milione di dollari l’anno fu un record — ma una vita segnata dal dolore. Tre matrimoni finiti, due per vedovanza e uno per divorzio, un figlio morto, una serie di malattie, dal tifo alla malaria. Se non bastasse, negli ultimi anni di vita partì una campagna pettegola sulla sua omosessualità, la ragione per cui Gardner e gli autori della serie avevano evitato di creare un legame sentimentale tra Perry e Della, che pure molti fan avrebbero voluto. Si diceva che i matrimoni fossero tutti un’invenzione dei pierre in un tempo in cui Hollywood soffriva di omofobia. Malgrado lo sdegno dei fan che gli chiedevano di smentire, Burr tacque: nessuna obiezione. S 3.937 il cast della serie; in media 14,5 persone a episodio 271 gli episodi andati in onda negli Stati Uniti 58 9 domanda di troppo, perché un risultato brillante potrebbe venire sciupato o addirittura capovolto. In questo caso l’avvocato non si attenne a questa regola fondamentale. Vediamo l’epilogo del controesame. Avvocato: «E lei vuol farci credere che in queste condizioni è riuscito a vedere il mio cliente che staccava un piccolo pezzo di orecchio al suo avversario?» Teste: «Ma io non l’ho visto mentre lo staccava…» Avvocato: «Allora come fa a sostenere che …» Teste: «…l’ho visto mentre lo sputava subito dopo». Il processo dunque è spesso tragedia, a volte anche commedia, comunque un sofisticato macchinario spettacolare a doppio taglio; per quello che in esso accade e per le storie che in esso si raccontano. Tutti nel processo, anche se in modi diversi, rac- contano storie. I testimoni e gli imputati raccontano la loro versione di fatti vissuti o percepiti. I pubblici ministeri, gli avvocati, gli stessi giudici al momento di motivare le loro sentenze, prendono il materiale grezzo costituito da prove e indizi, lo mettono insieme, cercano di dargli struttura e senso in storie che raccontino in modo plausibile i fatti del passato. Noi tutti costruiamo storie (nei processi ma anche nella vita) per cercare di mettere ordine nel caos, per cercare di estrarne una verità accettabile. Lo scopo del processo è selezionare, fra le storie proposte dalle parti in competizione, quella munita del migliore grado di accettabilità. Quella capace di spiegare tutti i dati di fatto, senza lasciarne fuori nessuno, secondo un criterio di congruenza narrativa. Superando i punti di vista e le prospettive particolari. Il processo dunque, attraverso la narrazione di storie, mira alla ricerca e alla ricostruzione le stagioni andate in onda dal ’57 al ’66 sulla Cbs della verità. Ma “la verità” è un concetto difficile da immobilizzare, che custodisce nelle pieghe delle lettere che la compongono, contraddizioni e significati nascosti. La locuzione “la verità” può essere anagrammata in “relativa”; ma anche in “rivelata” e anche, ancora, in “evitarla”. Ognuno può scegliere l’anagramma e il significato che preferisce. Per chi crede nel primato della tolleranza e dell’intelligenza critica è facile scegliere la soluzione proposta da Norberto Bobbio nella prefazione al Trattato dell’argomentazione di Perelman e Tyteca: «La teoria dell’argomentazione rifiuta le antitesi troppo nette: mostra che tra la verità assoluta degli invasati (rivelata ndr) e la non verità degli scettici (evitarla ndr) c’è posto per le verità (relative ndr) da sottoporsi a continua revisione mercè la tecnica di addurre ragioni pro e contro. Sa che quando gli uomini cessano di credere alle buone ragioni, comincia la violenza». FOTO EVERET/CONTRASTO i paesi in cui il telefilm è stato trasmesso Repubblica Nazionale 46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 16 SETTEMBRE 2007 i sapori Germania in tavola Per anni la gastronomia tedesca è stata sinonimo di pochi, semplici piatti. Oggi i cuochi teutonici hanno preso confidenza con l’alta ristorazione. E l’Oktoberfest, in programma da sabato, è un’altra buona occasione per sperimentare Bavarese Cucina Birra e wurstel fu solo l’inizio LICIA GRANELLO 6,2 mln I litri di birra bevuti all’Oktoberfest 380 mila I wurstel consumati ogni anno all’Oktoberfest 6,3 mln I visitatori dell’ Oktoberfest lo scorso anno n principio furono wurstel e crauti. Quelli ingollati, allegramente intrisi di senape e innaffiati di birra, in tutti i locali d’ispirazione teutonica, dalla mirabolante Oktoberfest — madre di tutte le gastro-zingarate, in programma da sabato prossimo al 7 ottobre — alla più modesta birreria di Iesolo. Al massimo ci si spingeva ad addentare un pretzel, i nastri di pane a forma di cuore, a gustare una delle cento ricette con le patate — kartoffeln! — protagoniste. Per anni abbiamo pensato che la cucina tedesca — meglio, quella del sud della Germania, a noi più vicina e non solo in termini chilometrici — fosse tutta lì, ancorata ai suoi comandamenti strabici che la vogliono invernale nel piatto ed estiva nel boccale (mass, in bavarese). Solo gli entusiasti della Foresta Nera — natura forte, incontaminata, residenze deliziose e cene pantagrueliche — favoleggiavano di meravigliosi arrosti, acquaviti profumate, torte soffici e tentatrici. È toccato ai grandi chef border-line con l’Italia — a cominciare dal talentuoso tirolese Norbert Niederkofler — sdoganare la gastronomia tutta birra&salsicce e portarla in passerella. Per fortuna dei nostri palati, la comunicazione tra cuochi è più veloce di Internet. Le virtuose produzioni figlie di uno sterminato territorio agricolo-boschivo (quasi l’80 per cento dell’intera Germania) hanno preso rapidamente confidenza con le passerelle dell’alta ristorazione, e, per ricaduta, con quelle delle nostre case. Poi è toccato alla cultura. In primavera, il Teatro stabile di Bologna ha portato alcuni supercuochi a far la spesa in presa diretta, tra pascoli e vigne, per realizzare nel bel chiostro dell’Arena del Sole le cene estive à côté della stagione teatrale. È stato un successo continuato, convinto, pieno di richieste curiose e di scoperte memorabili. Tra un autografo di Moni Ovadia e una domanda al console Hartmann, gli spettatori-gourmet hanno I appreso il godimento della trota affumicata, la succosa croccantezza del maialino alla brace, la carnale bontà dei bianchi wurst(in tedesco) di Monaco, accompagnati da pani scurissimi e gagliardi. Così, negli ultimi mesi il conto dell’import-export agroalimentare con l’Italia è andato addirittura in positivo: abbiamo scoperto d’improvviso che per qualità e quantità le carni bovine e suine tedesche sono al primo posto nella classifica delle importazioni. Dalla più grande e visitata regione della Germania infatti arrivano i maialini da latte che Mauro Uliassi presenta in tre goduriose cotture, gli asparagi bianchi preferiti da Marco Fadiga, il manzo che Mario Ferrara rinchiude a cubi in dorata crosta di pane. I distributori della Selecta, abituati a soddisfare richieste semi-amatoriali per timide quantità di prodotti bavaresi, oggi evadono ordini sempre più polposi e allargati. Merito anche di filiere molto rigorose, con certificazioni di qualità che sfiorano quelle, per altro molto diffuse, del biologico. Nel “Libero Stato della Baviera” — Freistaat Bayern, come recitano i cartelli stradali ai confini della regione — il recupero di razze e colture in via di estinzione rende orgogliosi i rappresentati locali di Slow Food, che hanno fatto dei formaggi a latte crudo e dei wurstel senza conservanti (imparagonabili per gusto e digeribilità alle scialbe salsiccette gonfie di chimica dei nostri negozi) la loro bandiera. Se avete un residuo di vacanze da regalarvi, organizzate una puntata nei giorni feriali dell’Oktoberfest (il martedì è dedicato alle famiglie, con attività ludiche per i più piccoli) per evitare il surplus festivo di visitatori, con fermata d’obbligo nei bei negozi di delikatessen. Al ritorno dal Theresienwiese (il “Prato di Teresa”, sede della festa), assaporando un weisswurst con una birra Munchner vi sentirete pronti per le battaglie d’autunno: quasi come un protagonista di Sturmtruppen. Repubblica Nazionale DOMENICA 16 SETTEMBRE 2007 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47 Norimberga Monaco itinerari Petros Michelidakis è l’esperto giramondo del Cma, Centrale di marketing tedesca per l’agroalimentare Greco con moglie spagnola, è da poco approdato a Milano, fiero del pareggio dell’import-export merito della qualità di carni e latticini Augusta La “capitale segreta della Germania”, quasi un milione e mezzo di abitanti, affianca a una colta miscellanea di cucine del mondo le sue trattorie-birrerie ipertradizionali, a partire dalla gloriosa Hofbräuhaus. Nei menù, stinchi di maiale, salsicce e polpettoni Sede della fiera mondiale del biologico (Biofach), vanta un bellissimo mercatino di Natale, con migliaia di visitatori dal mondo. Tra i piatti tipici della Franconia, i Rostbratwurst, mini-wurst cucinati alla griglia, serviti con patate in insalata o crauti La medievale Augsburg, antica, potente sede di banche e commerci, città natale di Bertolt Brecht, fa parte della Romantische Strasse, che attraversa la Svevia in verticale Nei locali tradizionali, spätzle e piatti di pesce, serviti con birra di convento DOVE DORMIRE DOVE DORMIRE DOVE DORMIRE HOTEL ISARTOR Baaderstrasse 2 Tel. (0049) 089-2163340 Camera doppia da 90 euro, colazione inclusa HOTEL DEUTSCHER KAISER Königstrasse 55 Tel. (0049) 0911-242660 Camera doppia da 105 euro, colazione inclusa PRINZ LEOPOLD HOTEL Bürgermeister-Widmeier Strasse 54 Tel. (0049) 0821-80770 Camera doppia da 90 euro, colazione inclusa DOVE MANGIARE DOVE MANGIARE DOVE MANGIARE ZUM ALTEN MARKT Dreifaltigkeitsplatz 3 Tel. (0049) 089-299995 Chiuso domenica, menù da 30 euro NASSAUER KELLER Karolinenstrasse 2 Tel. (0049) 0911-225967 Chiuso domenica, menù da 25 euro DIE ECKE Elias-Holl-Platz 2 Tel. (0049) 0821-510600 Chiuso domenica, menù da 20 euro DOVE COMPRARE DOVE COMPRARE DOVE COMPRARE ALOIS DALLMAYR Dienerstrasse 14 Tel. (0049) 089-21350 GÜNTHER STRAUB Hauptmarkt 12 Tel. (0049) 0911-224950 FEINKOST KAHN (CON CUCINA) Annastrasse 16 Tel. (0049) 0821-312031 Il mio menù da centravanti... LUCA TONI ono emiliano, sono cresciuto con l’odore delle piadine e del ragù, con la pasta fatta in casa. Mi piace la buona cucina, anche se facendo il calciatore devo stare attento all’alimentazione. Ma ogni tanto qualche eccezione la faccio. L’impatto con la Germania è stato sorprendente. Soprattutto per l’entusiasmo della gente. Un po’ meno per la sua cucina, che è molto diversa dalla nostra. Non mi capita quasi mai di mangiare specialità bavaresi, però da quando sono a Monaco ho scoperto i wurstel. Niente a che vedere con quelli che I pretiola (premi) erano si trovano in Italia. Quando ho assaggiato quelli tedeelargiti nel 1600 schi ho capito che i nostri sono proprio un’altra cosa. Un po’ la differenza che c’è tra un bel ragù fatto in casa e dai monaci dell’arco quello che si compra al supermercato. Se li avete provaalpino ai piccoli allievi ti tutti e due sapete cosa voglio dire. Insomma, i wurstel mi piacciono. E mi piace la birra. Qui la differenza si nomeritevoli. Impasto ta meno, anche in Italia se ne trovano di buone, però di farina, acqua quella tedesca è più buona. La mia piccola esperienza e lievito, modellato con le specialità tedesche per il momento finisce qui. Anzi una volta ho assaggiato anche lo stinco e non mi fa e bollito una manciata impazzire. Insomma, finora la mia Germania è stata di secondi in acqua tanto calcio e poca cucina, ma visto che dovrò stare a e bicarbonato Monaco a lungo sono sicuro che piano piano imparerò ad apprezzare anche qualche altro piatto tipico. Asciugatura, sale Adesso penserete: ecco, il solito italiano che mangia sogrosso e cottura lo spaghetti. Non è così. Non nel mio caso almeno. Io continuo a mangiare italiano per necessità. In Gerin forno per 20’ mania, al contrario di quanto succede in Italia, le società di calcio non stanno troppo attente all’alimentazione e lasciano a ognuno di noi la libertà di gestirsi da solo. E per me è più “O’zapft is!”, la facile andare avanti con le mie parola che in dialetto vecchie abitudini alimentari bavarese identifica che sperimentare piatti nuol’apertura della botte di vi. Tra l’altro a Monaco ci sono tanti ristoranti italiani e birra con il tradizionale in alcuni si mangia veracolpo di martello, anche mente bene. E poi io passo molto tempo a casa, per quest’anno battezzerà l’inizio dell’Oktoberfest, a cui è normale cucinare Monaco da sabato 22 al 7 ottobre. Nata nel 1812 piatti italiani. Quelli di per le nozze tra il principe Ludwig e Teresa di sempre. Pasta, carne, pesce, verdure. Soprattutto Sassonia, la festa offre decine qualità di birra. Il quando a Monaco c’è anche boccale standard da un litro, die Mass, la mia morosa, Marta. Anche lei sta attenta all’alimentaziocosta 7 euro. Imperdibile la birra ne, per cui quando siamo insieaffumicata, rauchbier, prodotta da me non sgarriamo mai. Se uno fa il calciatore professionista dopo un 500 anni nella zona di po’ diventa uno stile di vita. E io non Bamberg l’ho cambiato, anche se ogni tanto per curiosità faccio qualche incursione nella cucina tedesca. Del resto dopo aver accettato l’offerta del Bayern Monaco mi sono chiesto spesso quale sarebbe stato il mio impatto con la Germania. Per la prima volta nella mia carriera ero un emigrante del pallone e non sapevo bene che cosa mi aspettasse. Facendo il calciatore sono abbastanza abituato ai cambiamenti, ma questo era un L’acqua di ciliegie, o semplicemente kirsch, cambiamento radicale. E non riguardava solo il mio lavoro. Anzi, il pallone in tutta questa vicenda era la cosa è l’acquavite-simbolo della tradizione locale, che mi preoccupava meno. Quando sei su un campo da con i frutti protagonisti. Dopo la frantumazione calcio le differenze non si vedono. Era tutto il resto che di polpa e noccioli, si attiva la fermentazione mi incuriosiva. Un Paese nuovo, una lingua che non conoscevo e non conosco (sto prendendo lezioni di tedecon zucchero. Alla distillazione, sco), uno stile di vita e abitudini diverse e una cucina segue affinamento in piccole botti molto lontana dalla nostra. Passare dalle tagliatelle ai wurstel non è facile, ma piano piano mi sto abituando. Testo raccolto da Giuseppe Calabrese S Pretzel Schrobenhausen Spargel L’asparago bianco carnoso è la gloria di Schrobenhausen, cittadina che ospita un museo monodedicato, l’Europäisches Spargelmuseum. Si usa come contorno o in crema, frullato con acqua di cottura e burro Schwarzwälder Kirschtorte Il dolce di ciliegie della Foresta Nera è una monumentale, golosa torta a tre strati, realizzata con una base Margherita al cacao, alternata a sciroppo e crema aromatizzati all’acquavite di ciliegia, frutti freschi e panna Si decora con riccioli di cioccolata Oktoberfest Maultaschen Si dice che i sontuosi ravioli di tradizione sveva siano stati inventati per ingannare Dio, nascondendo la carne tra le sfoglie di pasta nei giorni di penitenza La farcitura prevede anche erbe, formaggio e verdure. Si servono in tavola conditi con il burro o in brodo Kirschwasser Haxen La tradizionale coscia di maiale o vitello, viene massaggiata con sale, aglio, pepe e un trito d’erbe prima di essere infornata. Frequenti spennellature con la birra rendono la superficie croccante. Il piatto si serve con crauti o gnocchi (knodel) ben conditi con il sugo di cottura Spätzle Weißwurst A differenza dei knödel – fatti con pane raffermo, uova e latte – questi gnocchetti, battezzati col nome di passerotti (in dialetto svevo) sono a base di farina, uova e acqua Dopo la bollitura, condimento a base di pane grattugiato spadellato con burro Il wurstel bianco di Monaco, preparato con carne di vitello, manzo e maiale, va servito caldo – immersione in acqua calda – e rigorosamente gezzuelt, spellato Troneggia nei menù di colazione e pranzo, accompagnato da senape dolce e pretzel Repubblica Nazionale 48 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 16 SETTEMBRE 2007 le tendenze Corsi e ricorsi Lunghissimi, al polso, sportivi o sofisticati, gli storici accessori perdono la loro funzione primaria di antifreddo e assumono questo autunno un nuovo ruolo glamour Coprono le maniche di giacche e golfini, fasciano le braccia, nascondono le dita: diventano, insomma, compagni inseparabili di giorno e di sera RAFFINATI MUST BASE FRANCESE PIÙ VIVACITÀ COME TOPOLINO Gucci non ha alcun dubbio: i guanti in versione serale come quelli neri, lunghi, proposti in passerella sono un must irrinunciabile Parola di una griffe storica Sono audacemente corti, ma indossati di sera e con sontuoso collo di pelliccia, i guantini proposti da Givenchy Eleganza francese Moschino si distingue per vivacità e propone morbidi guanti lunghi (si possono anche arrotolare) color arancio Da indossare sempre Sembrano proprio usciti da un fumetto di Disney i guanti Blugirl giallo oro pensati per le più giovani Per sentirsi un po’ come l’eroico Topolino INVERNO A COLORI Coloratissimi, in cinghiale e altri tipi di pelle, i guanti Ferragamo da uomo Contro il grigiore dell’inverno VECCHIE FANTASIE Hanno l’inconfondibile marchio Pucci i guanti fantasia ocra-biancomarrone beige proposti in coppia con la borsa Capricci di moda: mai più mani nude LAURA LAURENZI l nuovo conformismo impone guanti a ogni ora del giorno. Soprattutto li impongono gli stilisti, che si sono lanciati in una gara in cui tutto, in quei pochi centimetri di pelle, sembra concesso. Mai più senza è la nuova parola d’ordine. Retrò o futurista il guanto è il nuovo (nuovo?) dettaglio moda soggetto a ogni capriccio: nella foggia, nella lunghezza, nel materiale, nel design. E dunque si salvi chi può nel diluvio di proposte: da quella più classica a quella più osé, capovolgendo contesti e abitudini. Il nero guanto di raso alla Gilda, una volta usato per andare al Teatro dell’Opera, si porterà di giorno abbinato allo sportivissimo abitino di lana con le maniche corte. E il guanto da automobilista, con oblò sul dorso della mano, si esibisce a I sorpresa per la gran sera. I guanti si arrampicano su per il braccio a coprire la manica della giacca e della camicia, hanno enormi chiusure lampo sul dorso, sono di nappa bicolore profilati in tinta a contrasto con schiere di bottoncini primo Novecento. Sono di pelliccia, sono leopardati, di rafia, di pizzo, di lattice. Possono essere ornati con pendenti vari ed eventuali, ciondoli, charms, cuoricini e anche teschi e brillanti Swarovski. Possono denudare le dita in stile punk o addirittura la mano intera diventando intriganti polsiere, caricatura del fetish. Proteggere dal freddo è l’ultimo degli optional. Dopo le borse e le scarpe, terreno di confronto creativo ma soprattutto di margini di guadagno miliardari, i guanti ci vengono proposti in questa nuova stagione come l’accessorio per eccellenza, il must have, quello cui è impossibile rinunciare. Marlene Dietrich portava spesso i guanti anche perché non le piacevano le sue mani. I guanti consentono di occultare unghie non perfette, manicure trascurate, rughe, macchie. Inoltre, ci soccorrono gli esperti di look, aggiungono un tocco di classe al tubino un po’ spento, alla semplice camicia bianca, al tailleur non fiammante. E conferiscono oltre a un’aria très chic anche un alone di mistero e di fascino. Seducono. Evocano la “gelida manina”. Con un semplice gesto il guanto ti consente di mascherarti. A chi vuoi somigliare? Alla signora bon ton anni Cinquanta modello Grace Kelly, con i suoi guantini chiari, bianchi, crema, ghiaccio? All’esile e sofisticatissima Audrey Hepburn di Colazione da Tiffany, parametro di ogni moderna eleganza? A Lara Croft, dai corti e operativi guanti in lattice nero? A Jessica Rabbit, che li por- ta solo viola, e lunghi, naturalmente? Alla “ragazza con guanti” (bianchi, da moschettiere, su un impalpabile abito da sera) ritratta da Tamara De Lempicka, che negli anni Venti precorreva la moda di oggi? Nessun accessorio come il guanto evoca raffinatezza e insieme seduzione, nessun capo di abbigliamento è in modo così suggestivo e paradossale una promessa di nudo. Non a caso, quando ancora vigevano i canoni dell’eleganza classica, quanto più lunghi e coprenti erano i guanti, la sera, tanto maggiori erano le porzioni nude di spalle e di scollatura offerte agli sguardi. Lo spogliarello più sexy della storia del cinema non è forse quello di Rita Hayworth in Gilda? Cantando (doppiata) Amado mio, in fondo non si sfila che un guanto. Il resto lo lascia sognare. E mai rinuncerebbe ai guanti, nei suoi numeri di strip tease, Dita Von Teese, la nuova reginetta del burlesque che infiamma le platee denudandosi con le movenze lente e felpate delle dive di un tempo, cantando dentro un’enorme coppa di champagne. Molto (astutamente) retrò. E deliziosamente retrò, riletti oggi, erano i dettami contenuti nei manuali di etichetta e buona creanza, che imponevano alla vera signora di non uscire mai di casa senza guanti. Nel suo Dizionario del successo, dell’insuccesso e dei luoghi comuni Irene Brin suggeriva alla donna «di media età, di media situazione, di medie ambizioni» di possedere nel suo guardaroba «un paio di guanti in pelle robusta, uno in camoscio-e-pelle, uno in raso, e quanti può in capretto lavabile o, economicamente, in satin elastico e picché». Colette Rosselli, in arte Donna Letizia, nel suo Saper vivere tesse le lodi dei Repubblica Nazionale DOMENICA 16 SETTEMBRE 2007 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 49 MEGLIO ZEBRATI FOTO RUE DES ARCHIVES Palmo in pelle nera e dorso zebrato effetto cavallino Così Trussardi “veste” le mani delle donne VITA DA RING VERVE SPORTIVA Color crema, interamente foderati in morbido cashmere: ecco i guanti da pugile proposti da Cucinelli ‘‘ Proposti da Tod’s, i guanti neri in pelle hanno il dorso scamosciato e una stringa con bottoncino Per chi sceglie lo stile sportivo Gustave Flaubert Emma si sfilava le soprascarpe, si cambiava i guanti, si aggiustava lo scialle e, venti passi più avanti, scendeva dalla Rondine La città si stava svegliando allora... Da Madame Bovary 1856 ESPLOSIVA GILDA Rita Hayworth nei panni di Gilda, il film di Charles Vidor del 1945 La pellicola fece sognare i fan della rossa attrice anche grazie alla scena cult in cui lei balla sulle note di Amado mio FUMO DI LONDRA JUST CAVALLI SEXY ZIP DARK LADY Grigio fumo di Londra e morbidezza impalpabile Dior sceglie la versione lunga (e serale) dei guanti più classici alla Gilda per conquistare le signore Viola intenso. È il colore che Just Cavlli propone per sdramatizzare gli eleganti guanti che ben si accompagnano alle mise da giorno La lampo che corre lungo il braccio assicura ai guanti in pelle Burberry un’allure altamente seduttiva Per chi ama la comodità senza rinunciare al look È una dark Lady raffinatissima la donna Ferrè che opta per la versione classica dei guanti, con tubino e calze in tinta GRANDE FREDDO In classica lana come quelli dei bambini, ma lunghi fino all’avambraccio Ecco i guanti Blumarine per proteggersi dal grande freddo dell’inverno 2007 VELLUTO GIALLO Preziosi, in vellutato camoscio giallino, i guanti Anna Molinari (disponibili in vari colori) sono perfetti da abbinare ad un rigoroso tubino nero TOCCO DI LUSSO Bicolori, brillanti, in pelle d’agnello cucita a mano, i guanti lunghi firmati Prada sono nati per essere indossati in ogni ora della giornata «guanti glacés di antilope finissima». E andando più indietro nel tempo, il conte d’Orsay, arbitro di eleganza in Francia e coevo di Lord Brummel, consigliava al vero gentiluomo di usare sei diverse paia di guanti al giorno: uno per andare in carrozza, uno per la caccia, uno per il passeggio, uno per la cena, uno per il teatro e uno per le serate mondane. Erano già in uso presso gli Egizi, riservati ai Faraoni e carichi di valore simbolico. Contraddistinguevano le caste ed erano emblema di privilegio, dalla forte carica liturgica. Nel Medioevo il guanto è parte del rito dell’investitura feudale, un pegno d’amore per la donna cui veniva donato, un segnale di disprezzo e di sfida a duello se gettato o sbattuto in faccia. Ai tempi dei Borgia i guanti potevano essere avvelenati: una semplice stretta di mano impregnava il nemico di una sostanza tossica fino alla morte. Portava guanti bianchi ornati di perle il Papa. Indossa ancora oggi i guanti anche mentre mangia la regina Elisabetta durante i banchetti di Stato: lo ha fatto pure al Quirinale ospite del nostro presidente della Repubblica durante il suo ultimo viaggio ufficiale in Italia. Ma il guanto è anche un indispensabile accessorio nei lavori e nei mestieri. Nell’Odissea Laerte porta i guanti mentre cura l’orto. Hanno guanti in maglia metallica le armature dei cavalieri. Nel 1200, con culmine poi nel Rinascimen- to, la nostra penisola è già rinomata in tutto il mondo conosciuto per l’eccellenza dei suoi guanti, di ogni tipo. Mostrarsi a mani nude per secoli è stato segno di scarsa educazione. Per uomini e donne, con diversi codici di comportamento, i guanti sono stati soprattutto un esercizio di eleganza: anche per chi contestava le regole. Il più maledetto fra i poeti, Charles Baudelaire, nemico acerrimo della borghesia, è ricordato come “il ribelle in guanti rosa”. Fu il Sessantotto a spazzare via ogni guanto che non fosse da lavoro, oppure del genere indispensabile, meglio se alternativo, contro il freddo. Considerato simbolo borghese di distinzione e dunque di perbenismo è caduto nell’oblio, tranne rare eccezioni, adottato poi come segnale di ribellione da alcune tribù metropolitane e gruppi rock. Ora il grande rilancio a opera degli stilisti: un vero business. Repubblica Nazionale 50 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 16 SETTEMBRE 2007 l’incontro Ha venduto 15 milioni di album in tutto il mondo, ha collaborato con mostri sacri come Miles Davis e Bono, tra pochi giorni suonerà alla Carnegie Hall. Ma pochi sanno quanta è stata dura la sua gavetta, incominciata all’oratorio e passata per sconfitte e umiliazioni Lo hanno aiutato il suo carattere spigoloso e quel coraggio che, dice, gli iniettò l’amico e maestro Luciano Pavarotti. “Adesso che è morto, non farò duetti per un bel po’” Bluesmen Zucchero o con la tecnologia faccio a pugni. Mi hanno regalato un paio di iPod, ma li ho riciclati», borbotta Zucchero. «Papà, perché non li hai dati a me?», strilla Blu, il figlio di nove anni e mezzo, una cascata di riccioli biondi sul bel viso da putto di Munier. «Amore, ne ho dato uno a Alice l’altro a Irene». «Uffa», sbuffa il piccolo, mentre cerca di scuotere Chico, il randagio che ormai si è adattato al lusso e non ne vuol sapere di abbandonare il cuscino morbido della poltrona. Con la compagna Francesca Mozer e il figlio Blu (Alice e Irene, che fa la cantante, le ragazze avute con la prima moglie, hanno ormai superato la maggiore età), Zucchero ha scelto di vivere in un triangolo di terra abbracciato dalle montagne, «una zona di frontiera» incastrata tra Emilia, Liguria e Toscana. Roncocesi, il paese natale, è a un’ora di macchina. Nel suo ranch, il Lunisiana Soul (l’assonanza Lunigiana-Louisiana non poteva sfuggire a un amante del blues), un vecchio mulino sul fiume Verde magnificamente restaurato, si respira un’aria familiare e allo stesso tempo internazionale. Per via di quello studio di registrazione ricavato nel fienile, di quella House of Blues piena di cimeli, di quei laghetti dove starnazzano rumorosamente oche canadesi, della foresteria che ha ospitato Bono e Sting, Eric Clapton e Brian May dei Queen. Ma siamo in Italia, non c’è dubbio: si arriva a Pontremoli, comune conteso dai duchi di Parma e di Toscana, si attraversa il centro, poi, dopo il cimitero, si volta a destra nella stradina di campagna fiancheggiata da cespugli di rosmarino e coperta da un pergolato con grappoli caravaggeschi che invocano la vendemmia. Nella sua piccola New Orleans, o Tijuana che dir si voglia, Zucchero si prepara per i tre concerti sold out all’Arena di Verona, il 21, 22 e 23 settembre. E per la grande prova americana, il 28 alla Carnegie Hall di New York. Qui il rocker si ritempra dagli stress estivi; sulla tavola mia voce, e soprattutto nella mia faccia. Un giorno, mentre facevo anticamera per parlare col direttore generale, dalla porta semiaperta lo sentii dire: “Mandatelo a casa, tanto questo non andrà da nessuna parte”. Piansi tutta la notte: ero sposato, avevo già una figlia. Devi trovarti un lavoro serio, mi dissi, le 150 mila lire delle serate non bastano più». Si giocò l’ultima carta con un viaggio a San Francisco. Un amico che vendeva jeans gli passò un biglietto aereo vinto con un concorso della Levi’s. «Lì mi misi alla ricerca di Corrado Rustici, e grazie a lui e Narada Michael Walden, che mi fece registrare gratis nel suo studio, tornai a casa col mio bel nastrino che conteneva anche Donne. Lo mandai a tutte le case discografiche usando il nome del mio benefattore. Il primo a chiamarmi fu proprio quello che mi aveva fatto fuori. Non aveva capito che ero io». Oggi Adelmo “Zucchero” Fornaciari, 52 anni da compiere il prossimo 25 settembre, 15 milioni di copie vendute nel mondo, ha una bella storia da raccontare: dall’oratorio alla Carnegie Hall. «Non ho mai sognato di diventare una rockstar. Non avevo poster di Elvis o dei Beatles in camera mia. Volevo fare dischi e tournée, essere un onesto musicista a tempo pieno. Invidia- Non ho mai sognato di diventare una rockstar Non avevo poster di Elvis o dei Beatles in camera mia Volevo essere un onesto musicista a tempo pieno FOTO MASTER PHOTO LTD I « PONTREMOLI (Massa-Carrara) spaghetti al pesto, affettati misti, formaggio alla griglia, verdura e frutta di stagione dall’orto di casa. «Lo so, lo so, quello non è il mio habitat, ma quando hai ottanta persone che lavorano per te, devi ben rientrare delle spese», protesta, ripensando all’incidente di Cala di Volpe, un mese fa, quando in un locale per vip ha energicamente battibeccato con il pubblico. «Li ho provocati un po’, per movimentare la serata. “Dài, divertitevi anche se siete ricchi, facciamo un po’ di casino”, insomma tutto nel mio linguaggio. Non sono uno politically correct, e me ne vanto. Poi c’è stata quella reazione proveniente dal tavolo della Santanchè: “Comunista, comunista, comunista”, non ci ho visto più. Mi ha consolato il fatto che la gente di strada, quella delle feste paesane qui intorno, i vecchietti, mi hanno simpaticamente sostenuto: “Hai fatto bene Zu a cantargliele a quelli lì”». Impreca contro il conformismo dilagante e l’arroganza alimentata dalla litigiosità dei politici. «“Era il mio cantante preferito, ora sconsiglio a tutti di comprare i suoi dischi”, ha detto la Santanchè. Mi ha messo al bando. Al rogo il rocker!», sbotta. «Cosa credeva, che fossi un’ostrica del suo menù da mille euro? Il rock è per definizione una musica “contro”, ma ormai neutralizzata dal politically correct. Una volta c’erano Guccini e De André che fustigavano la società con le loro canzoni. C’era Gino Paoli che al pubblico della Bussola gridò borghesi di merda. Io sono uno alla buona, non rinuncio alla mia schiettezza, al linguaggio da osteria. Maleducato io? E la televisione allora? Va a cagher è un’espressione spontanea, bellissima, si usa con affetto anche tra amici. Vai a quel paese non ha la stessa forza. Sa che i discografici fecero di tutto per bloccare l’uscita di “Pippo che cazzo fai”? Insistevano perché il testo fosse cambiato in “Pippo che cosa fai”. Anche allora mi dissero: “Sei un maleducato”». Non aveva ancora fa forza contrattuale per reagire, l’unico successo era stato Donne, ma riuscì a non cambiare il testo, e quelli, subodorando il tormentone, lasciarono correre. «La mia gavetta è stata interminabile, ho iniziato a 16 anni, nel 1971; suonavo il sax tenore, m’improvvisavo batterista o chitarrista. Poi un giorno il cantante dell’orchestra non si presentò perché aveva litigato con la fidanzata e mi costrinsero a sostituirlo. Eravamo all’Alhambra di Sarzana, non lontano da qui. Lì iniziò il mio peregrinare da un gruppo all’altro. Con Sugar & Candies (1977) incidemmo un 45 giri per la Saar che non comprò nessuno (è su eBay, base d’asta 50 euro, ndr). D’estate suonavamo tutte le sere alla Bussola. Le attrazioni erano Fred Bongusto e Peppino di Capri, noi facevamo i tappabuchi fino alle cinque di mattina. Una consumazione a testa, la seconda Bernardini ce la faceva pagare. Per sbarcare il lunario cominciai a scrivere canzoni per altri, Bongusto, Michele Pecora, Fiordaliso, Stefano Sani. Ma io restavo nell’ombra. Mi volevano solo come autore. Non credevano nella vo B. B. King, mica Mick Jagger. Sono un impiegato della musica io, entro in studio la mattina alle dieci e ci sto fino all’ora di cena. Non sono di quelli che scrivono la canzone fulminante in un raptus, alle quattro del mattino». Nessun artista italiano ha mai collaborato con tante star del rock e del jazz nella sua carriera. Zucchero ha avvicinato i più grandi, e con quasi tutti è riuscito a duettare. All’inizio sembrò una smania provinciale. «Qualcuno scrisse, non capisco perché Miles Davis abbia suonato con lui, gli avrà regalato una Ferrari. Ma se ancora non avevo neanche gli occhi per piangere! Miles cadde dal cielo. Ero alle Maldive con mia moglie, ci eravamo appena separati, cercavamo di rimettere insieme i pezzi. Mimmo D’Alessandro, che era il promoter di Davis in Italia, era in macchina col trombettista mentre andava il mio disco. Quando arrivò Dune mosse, Miles borbottò: “Chi è questo? Voglio suonare con lui”. Mimmo mi chiamò alle quattro del mattino. Manco a dirlo, interruppi la vacanza e il matrimonio andò definitivamente a rotoli». La passione di Adelmo nacque in parrocchia, i nostri sacerdoti non sapevano ancora che il blues era la musica del diavolo. «Andavo a fare il chierichetto nella chiesa di Roncocesi, vicino a casa mia, per sdebitarmi col prete, che mi faceva usare un organo a due tastiere bellissimo, a mantice, dove imparai a suonare le canzoni dei Procol Harum. Nella canonica, dove andavamo a giocare a pallone, io e altri tre miei compagni organizzavamo dei minispettacoli. Avevo l’età di Blu, e già ero capace di fare le imitazioni, la mia specializzazione era Ruggero Orlando: “Qui Nuova York vi parla…”. Poi iniziarono gli anni duri, le balere, lo sfruttamento. Il nostro tastierista morì in un incidente stradale a cinquecento metri da casa, la notte di Capodanno. Eravamo malpagati e alla fine i nostri sogni andarono in fumo, letteralmente: nell’incendio doloso di un locale perdemmo il nostro impianto nuovo di zecca, luci comprese. Piangemmo come vitelli quella notte, avevamo tutte le cambiali ancora da pagare. Durante il funerale di Luciano, l’altro giorno, mi è tornata in mente la cooperativa di Roncocesi dove facevano ascoltare Verdi e Puccini. Le donne che la domenica mattina impastavano cantando arie d’opera, mia nonna Diamante davanti al grammofono e mio nonno Cannella che andava a teatro d’inverno, con la nebbia e il tabarro, ma non al Regio, non se lo poteva permettere, al circolo o nei teatrini di paese. Io non capivo, mi piaceva il blues, ma quella musica era nell’aria. Modena, Parma, Reggio Emilia… Lì si cresce in mezzo all’opera». La sera dopo il funerale di Luciano Pavarotti, Zucchero, Bono, The Edge e le loro signore hanno cenato al Club Europa con Nicoletta Mantovani, ricordando gli anni del “Pavarotti & friends”, che ogni anno veniva concertato proprio lì. Di fronte al primo rifiuto del maestro di can- tare Miserere, Zucchero finse di gettare nel fuoco il nastrino della canzone. «Poi l’abbiamo incisa e mi ha ringraziato», ricorda il cantante, che è stato complice della conversione pop di Big Luciano. «Era diventato parte della famiglia. Quando Nicoletta gli proponeva le liste dei cantanti da coinvolgere nel progetto, lui chiamava me, si consigliava. Storpiando tutti i nomi, naturalmente. “Che dici lo facciamo venire questo Bubi Bobi Babi… Bavi, come si chiama? David Bowie? Sì, proprio lui. Gli dissi: “Dovresti fare You Are So Beautiful con Joe Cocker”. “Cocker?” “Sì… Boh… Dici? Ma chi è? Dài mandami un nastrino che sento qualcosa”». Lo imita talmente bene, spalancando gli occhi e gesticolando come faceva il maestro, che riesce anche a somigliargli fisicamente. «Quanto coraggio mi ha dato Luciano», esclama. «Era umile e dinamico, a casa sua era un continuo fare progetti: dài, vieni qua, che chiamiamo Bono. Con il “Pavarotti & friends” era rinato. Tutti avrebbero pagato oro per duettare con lui. Bryan Adams mi disse: “Mio padre mi ha preso sul serio come cantante solo quando mi ha visto sul palcoscenico con Pavarotti”. Ricordo una cena nel suo appartamento a Central Park, lui ai fornelli. Tira fuori due borse portate dall’Italia zeppe di sughi, spaghetti, salami, i ciccioli di cui andava matto e il lambrusco. “Non toccare quel salame, s’inizia a mangiare tutti insieme”, ordinava. Era come stare in una famiglia d’altri tempi. Io lo guardavo incredulo: un gigante dell’opera lì a scolar la pasta. Che tenerezza, lo rivedo ancora dopo cena che sonnecchia in poltrona col suo grosso sigaro e un bicchierino di Varnelli. Con Bono,abbiamoricordatoquellavoltacheeravamo con lui sull’elicottero militare dell’Onu che ci portava all’inaugurazione della scuola musicale di Mostar. A un certo punto s’incomincia a ballare tra le nuvole. Luciano affonda le mani nella borsa. Pensiamo: cercherà delle pastiglie per il mal d’aria. Invece tira fuori una punta di parmigiano: “Questo viene da Reggio!”, esclama, e comincia a distribuirne a tutti. Adesso che Luciano è morto, non farò duetti per un bel po’. Neanche alla Carnegie Hall». ‘‘ GIUSEPPE VIDETTI Repubblica Nazionale
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