La Domenica di Repubblica 16 settembre 2007

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La Domenica di Repubblica 16 settembre 2007
Domenica
il fatto
La
di
DOMENICA 16 SETTEMBRE 2007
Il mito della “tolleranza zero”
GEORGE KELLING, ALEXANDER STILLE e JAMES WILSON
la memoria
Repubblica
L’ultimo giorno del Papa Re
MIRIAM MAFAI
Callas
segreta
A trent’anni
dalla morte solitaria
della Divina
FOTO BRUNO TOSI
l’amica e confidente
di una vita racconta
per la prima volta
la sua grande infelicità
LEONETTA BENTIVOGLIO
MILANO
e intime verità di Maria Callas. Il suo mistero forte e
senza fondo. Il divario tra la fragilità della persona e
l’imperiosa potenza dell’artista. Difficile comprendere, esplorare. Maria se n’è andata il 16 settembre del
1977, con una morte solitaria, spettacolare per tristezza, nella casa parigina di Rue Georges Mendel, dove s’erano consumate le stagioni del declino. È stata la sua voce,
segno teatrale e musicale senza confronti, duttile e splendente
nella varietà dei colori, e non immune da zone aspre e opache, ad
avviare la rinascita del belcanto a metà Novecento. Però in Maria
c’è dell’altro: icona tragica e bellezza oltre le mode, non è catalogabile come cantante perché appartiene al mito. In questi giorni,
con la cadenza del trentennale della morte, la si celebra tra mostre
(due visibili alla Scala, al Museo Teatrale e nel Ridotto dei Palchi),
concerti, biografie, epistolari ritrovati (quello col marito Gianbattista Meneghini è parte del lotto che sarà messo all’asta in dicembre da Sotheby’s), trasmissioni radio (dal primo al 19 ottobre alle
20, su Radio3 Suite), dischi e film (il nuovo Callas di Philippe Coly
sarà presentato in prima mondiale oggi alla Scala).
In tanti provano a scoprire e riscoprire la divina Callas e nessuno sonda veramente il suo segreto, alimentato dall’inesauribilità
di una leggenda fondata non solo sul carisma dell’interprete, ma
sugli interrogativi sospesi di un’esistenza ferita dagli inizi: «Maria
L
era bisognosissima di affetto, desiderosa di calore e famiglia, sempre in cerca di un alone di difesa», racconta l’amica milanese Giovanna Lomazzi, che le fu vicina per molti anni. «C’era in lei un dolore antico, originato dal suo sofferto rapporto con la madre. Odiava parlare dell’infanzia, come se vi avesse calato sopra un velo, anzi una saracinesca. Ma una volta che eravamo insieme a Londra mi
disse a un tratto: guarda, mostrandomi un brutto segno su una
gamba. Questo è quanto mi ha lasciato una sedia che mi tirò addosso mia madre».
Bella signora imponente ed elegante («da giovane avevo le misure sottili di Maria qund’era magra, e lei mi regalò molti dei suoi
abiti meravigliosi, tutti firmati Biki»), Giovanna Lomazzi è stata
per la Callas una di quelle fidate e discrete presenze indispensabili alla sopravvivenza psicologica degli artisti, soprattutto se squassati da conflitti interni come lo fu Maria. «Avevo vent’anni quando
la conobbi, una decina meno di lei, che in seguito avrebbe detto di
considerarmi come una sorella minore», riferisce la Lomazzi, oggi vicepresidente del Teatro Sociale di Como e impegnata nell’Aslico, associazione che riunisce e promuove giovani cantanti. «Ho
accompagnato la Callas in tanti viaggi e le sono stata accanto in fasi diverse della sua vita. La conoscevo bene, mi era legata. E ora detesto le troppe sedicenti amiche pronte a scrivere sue biografie dopo averla frequentata solo pochi mesi, o i detrattori che la fischiavano in teatro e oggi non esitano a professarsi suoi cultori. C’è un
continuo, incontrollato sfruttamento della sua immagine».
(segue nelle pagine successive)
CON UN TESTO DI ERIC-EMMANUEL SCHMITT
l’immagine
Cinzano, due secoli e mezzo di spot
UGO VOLLI
cultura
Auden e Isherwood poeti alla guerra
FRANCO MARCOALDI
la lettura
L’amore secondo Hannah Arendt
HANNAH ARENDT e AMBRA SOMASCHINI
spettacoli
Perry Mason, il fascino della legge
GIANRICO CAROFIGLIO e MARIA PIA FUSCO
Repubblica Nazionale
32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
la copertina
Callas segreta
DOMENICA 16 SETTEMBRE 2007
“Quando la conobbi era grassa, brutta, inelegante,
carica di gioielli vistosi. Poi perse cinquanta chili,
divenne un’altra persona”, racconta Giovanna Lomazzi,
che incontrò la cantante a Milano nel 1952 e le rimase
vicina negli anni del trionfo e poi in quelli del declino
“Nessun mistero nella sua morte: è stata uccisa dal dolore”
Le verità di Maria
Divina e infelice
LEONETTA BENTIVOGLIO
(segue dalla copertina)
l primo incontro tra Maria e Giovanna avvenne nel ‘52 al ristorante Biffi Scala, «luogo deputato di Milano per le cene dopo gli spettacoli. Vi andavo coi miei genitori che avevano
un amico in comune con Battista Meneghini,
all’epoca marito della Callas, più vecchio di
lei di ventotto anni. Un coniuge affettuoso, protettivo e solido. In quel periodo Maria cantava Gioconda
alla Scala e la vedevamo al Biffi dopo la recita. Grassa, brutta, inelegante, carica di gioielli vistosi, fatti
con grandi pietre comprate in Brasile. Ci presentarono, mi diede una sua foto con dedica, nacque molta simpatia. Io, molto appassionata di musica, veneravo l’artista ed ero fiera che mi fosse amica. Intanto la vedevo cambiare, perdere peso, diventare
sempre più sofisticata e bella».
S’è favoleggiato molto sul dimagrimento della
Callas: qualcuno ha detto che arrivò a ingerire un
verme solitario. «Ma quale verme! Semplicemente
non mangiava. Mai che toccasse pane, vino, pasta
o dolci. Sia a pranzo che a cena ordinava solo filetto o pesce ai ferri con verdura scondita. Perse cinquanta chili, in pratica si dimezzò. Rispetto alla
donna sciatta e gonfia che avevo visto quella prima
volta al Biffi divenne un’altra persona». Callas
cantò moltissimo a Milano negli anni Cinquanta,
«e io andavo a tutte le sue prove, e quando non lavorava la accompagnavo nei negozi,
beandomi di tante piccole banalità
femminili condivise nella quotidianità. La seguii a Berlino
con la Scala, poi a New York
per tre mesi, quando
andò a cantare al Metropolitan. Battista
volle che partissimo
in quattro, lui, Maria,
io ed un’altra amica.
Prese in affitto un
meublé con due camere da letto su
Park Avenue, alla
79esima. Quando
Maria non era alle
prove o alle recite
noi donne andavamo
nei grandi magazzini,
mentre lui si occupava
dei contratti».
Ci furono molte altre
trasferte “callasiane” per
Giovanna, anche durante la fase dell’amore con Onassis, periodo
che definisce «drammatico e tremendo». Intanto, col passare degli anni, Maria aveva cominciato ad avere problemi vocali, «con cedimenti forse legati al dimagrimento, che
aveva indebolito la muscolatura del diaframma. Però
si ostinava a non cambiare
repertorio, riproponendosi
nei suoi cavalli di battaglia
come Norma e Tosca, opere
ormai per lei troppo impegnative vocalmente. Le ultime Norme a Parigi furono
terribili. Aveva una tale paura di cantare che non
era neanche più brava scenicamente. S’era persa la
sua grinta, dileguata l’espressione». La voce l’abbandona ma Maria spera di poter cambiare vita,
trasformandosi nella signora Onassis: «Passava da
una crociera e da una festa all’altra, senza più studiare. Era capace di chiamarmi la mattina e dirmi
che voleva andare a Parigi il pomeriggio. Io ero giovane e mi divertivo da matti, però capivo che certi
strapazzi nuocevano alla sua voce. Ricordo che
una volta arrivammo ad Anversa e ripartimmo l’indomani perché non se l’era sentita di cantare».
Con Onassis, hanno scritto in molti, la passione
fu sconvolgente: un’ondata di eros rivelatoria a paragone del quieto rapporto col marito-padre Meneghini. «Credo che quello con Onassis fosse piuttosto un innamoramento di natura cerebrale. Erano entrambi greci partiti dal niente e saliti all’apice della fama. C’era complicità, una sorta d’intesa.
Però Maria era disperata. Sul Christina, il panfilo di
Onassis, facemmo una volta una crociera noi tre,
solo lei, lui ed io. Stavamo mangiando al bordo della piscina dello yacht, e Maria improvvisamente
scoppiò a piangere a dirotto, senza motivo. Ero
molto scossa, quando stava con Battista non l’avevo mai vista così. La verità è che non era fatta per
quella vita piena di niente, tra mondanità, navigazioni e jet set: si rendeva conto che stava smarrendo la sua identità più autentica. Era nata per essere
cantante e lavorare in teatro, regolata dagli orari
I
dello studio e delle prove. Quegli anni con Onassis,
con cui tra l’altro non poteva parlare di musica,
perché lui non ne sapeva nulla, scardinarono le sue
basi esistenziali».
Giovanna, che definisce l’armatore «di una bruttezza inavvicinabile», narra che in quel periodo
Maria fece la Norma a Epidauro, «e io vidi lo spettacolo seduta a fianco di Onassis, il quale non solo
non capiva niente dell’opera, ma non seppe neppure distinguere la Callas alla sua entrata in scena.
La scambiò col mezzosoprano. Poi, finita la recita,
salimmo a bordo del Christina per una crociera di
sogno nel Pireo, restando svegli tutta la notte e approdando ad Atene alle sette del mattino. Eppure
Maria, regina della festa, sembrava la più infelice».
Quando Onassis si sposò con Jackie Kennedy l’umiliazione fu atroce. «E arrivò il momento disastroso in cui Di Stefano le propose di fare un giro di
concerti. S’ingannarono a vicenda, illudendosi di
poter tornare a cantare come un tempo, e la
tournée fu faticosissima. Non volli assistere a nessuna di quelle esibizioni. D’altra parte Maria, in
quel periodo, non aveva piacere che noi amici di
Milano andassimo a sentirla: si rendeva conto del
declino e non voleva testimoni».
Rievocando l’amica, Giovanna rammenta la sua
mancanza assoluta di senso del denaro («dopo la
separazione da Battista lasciava mance spropositate nei ristoranti, addirittura somme pari al conto,
e quando la rimproveravo mi diceva: devo farlo
non per il valore dei soldi, ma per ciò che io sono»).
Soprattutto ricorda la straziante consapevolezza della fine: «Nel ‘59 mi chiese di
accompagnarla a Dallas dove
avrebbe dovuto cantare Lucia,
passando per Kansas City
dov’era fissato un suo concerto. La vedevo sempre
più insicura e fragile,
stanca dei viaggi sul Christina. Mai un vocalizzo, mai una lettura di
spartito. Giunte a Kansas City mi chiese: cosa canto stasera? Non
aveva preparato nulla.
Le suggerii l’aria d’ingresso della Lucia, almeno l’avrebbe ripassata prima di Dallas.
Dopo il concerto volle
tornare per una settimana
a Montecarlo da Onassis,
per poi presentarsi a Dallas il
giorno della prova generale di
Lucia. Dalla sartoria di Roma non
erano arrivati i costumi, Zeffirelli era
furente. Eppure Maria non batté ciglio.
Quando l’opera andò in scena, nel primo atto si adattò a
indossare il costume di una
corista, mentre Zeffirelli e io
attaccavamo le perle al costume di un’altra corista per
arricchire l’atto dello sposalizio. Maria non protestò
mai: era passiva, non coinvolta. Se fosse accaduto
qualche anno prima avrebbe piantato una grana infernale, perché era una grande
professionista».
La Callas quella sera cantò in modo discutibile,
«e alla fine della scena della pazzia mancò i due mi
bemolle di tradizione, ma riuscì a fare due scale
cromatiche discendenti e il pubblico non se ne accorse. La applaudirono e le andai incontro in palcoscenico: era stravolta. Mi disse, cacciandomi le
sue unghie lunghe nella carne della mano: la mia
carriera finisce qui. In albergo dormivamo nella
stessa stanza e la sentii singhiozzare l’intera notte.
E fu patetico quando la rividi a Torino, dove andò a
fare la regia dei Vespri Siciliani. Nello spettacolo
non succedeva niente, non trovò alcuna chiave registica. Il fatto è che Maria non poteva fare altro che
cantare, era questa la sua totale vocazione. Anche
come insegnante non trasmetteva granché, non
era in grado di spiegare la propria arte».
La morte è l’ultimo capitolo dell’oscuro e fascinoso romanzo della Callas: «Nessun mistero, nessun
avvelenamento: Maria è morta di dolore», sostiene
Giovanna. «Soffriva di pressione bassa, prendeva
tranquillanti per dormire che le buttavano giù la
pressione e la mattina doveva tirarsi su con i tonici.
Ma ciò che l’ha uccisa veramente è la sua infelicità.
Lei, che dalla vita aveva avuto tutto, nel giro di cinque anni perse ogni cosa: voce, amori, gloria. Prima
era celebre e popolare come Audrey Hepburn o Ava
Gardner, poi entrava nei ristoranti di Parigi e non la
riconosceva quasi più nessuno. Era confusa, desolata, priva di riferimenti. È morta perché non aveva
più alcun motivo per stare al mondo».
“Con Onassis
non poteva
parlare di musica
perché lui
non ne sapeva nulla”
I DOCUMENTI
In alto a destra, tre documenti inediti
della carriera di Maria Callas
Dall’alto: contratto col Teatro Comunale
di Firenze del 5 novembre 1948:
è la prima Norma di Maria; contratto
col Teatro La Fenice di Venezia (1947);
telegramma dell’Aga Khan
del 22 novembre 1958: “Sei più divina
che mai”. Saranno tra i moltissimi rari
cimeli messi all’asta da Sotheby’s
a Milano il 12 dicembre a Palazzo Broggi
LE FOTO
Le foto inedite che illustrano la pagina
(tranne quella grande al centro)
provengono dall’album personale
di Giovanna Lomazzi. Nella colonna
di sinistra: festa di San Giovanni, il 24
giugno 1956, a Salice Terme (Pavia)
nella villa di famiglia dei Lomazzi
Nel tondo a centro pagina
e nella colonna di destra, vacanza
a Ischia nel luglio 1956: Giovanna
Lomazzi è sdraiata accanto alla Callas
nella penultima foto; nell’ultima, Maria
le spalma la crema solare sulla schiena
L’INIZIATIVA
È in edicola da venerdì
con Repubblica e L’Espresso
il secondo dei sei cd delle arie più belle
di Maria Callas. Su Repubblica TV
lo speciale dedicato alla Divina
Repubblica Nazionale
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33
FOTO © GIANCOLOMBO/CONTRASTO
DOMENICA 16 SETTEMBRE 2007
L’ammirazione dello scrittore francese per la grande soprano
Nella sua voce cantavano anche i silenzi
ERIC-EMMANUEL SCHMITT
Q
uando si parla della Callas, niente è carino, tutto è bello. Passate oltre, cultori di voci angeliche, estimatori di
timbri luminosi e suoni zuccherini! Andate a mettere in
funzione altrove il vostro orecchio edonista che cerca solo vibrazioni opulente, incantatrici, adulatorie! Qui non troverete che passione, furore, sgomento, entusiasmo, humour, solitudine, estasi e agonia. Ascoltando la Callas proverete turbamento, fastidio, disturbo, talvolta vi sentirete
stremati, spesso rinvigoriti, ma non vi scontrerete
mai con la noia né con l’indifferenza.
Maria Callas sembra uscita dritta dritta da una tragedia greca. La voce non le viene fuori dalla bocca, ma dalla pancia. Intensa, imperiosa, potente, perentoria, la
Callas fa suoi i sentimenti, incarna i drammi. Mai cerca
di schivare, mai prova a imbrogliare. Se la cantante resta in piedi, l’attrice si rotola per terra.
Siamo tutti d’accordo nel riconoscere alla Callas
un’estensione di voce eccezionalmente lunga, la ricordiamo musicista più che scrupolosa, ma se si parla ancora di lei non è in quanto fenomeno vocale — ce ne sono altri — bensì in quanto fenomeno drammatico. In
lei, canto e musicalità si limitano a essere dei presupposti messi
al servizio del teatro; la Callas è, prima di tutto e in fondo a tutto,
un’attrice che recita la situazione, proietta i sentimenti, e per far
ciò si serve di tutti i mezzi a sua disposizione: usa le parole — dizione eccezionale — , le frasi musicali, le accelerazioni, i ritardi,
colora il proprio timbro, varia il volume della voce, si fonde nell’orchestra o decide di tirarsene fuori.
Persino i suoi silenzi hanno un senso: è così completamente calata in quello che fa che mi ha sempre dato l’impressio-
ne di essere l’unica cantante che canta anche i silenzi.
Le registrazioni non deludono le aspettative. Certo, manca la
sua figura fisica, ma è talmente fonogenica che è come se ci fosse. Il disco non fa in tempo a iniziare, che la sua voce entra nella
stanza e si impadronisce della nostra attenzione. Poche voci
hanno altrettanta presenza. È un mistero, la presenza! Che si
tratti di una voce o di un corpo, è un dono, una grazia inspiegabile... La Callas l’ha ricevuto.
Maria Callas ha la capacità di proiettare tutta
un’anima in un suono. Aprendo la bocca, alza il sipario sul proprio teatro: uno spettacolo dove l’umano vive, ama e soffre con intensità. Impossibile
ascoltarla in sottofondo o come “musica d’arredamento”, perché all’istante stesso che attraverso gli
altoparlanti irrompe nei nostri salotti vi impone il
suo clima, le sue tempeste, i suoi uragani. C’è, c’è
completamente. C’è solo lei.
Io non la ascolto sempre. Non ce la faccio. È troppo avvincente, troppo possessiva. Certe volte, nei
suoi confronti, mi sento come Onassis: non riesco a
starle dietro giorno per giorno, ho bisogno di lasciarla e di ritrovarla, sento la necessità di incontri distaccati, di una certa intermittenza... Però torno sempre da lei.
Traduzione Aberto Bracci Testasecca
(© 2007 Edizioni e/o)
Il brano è tratto dal libro “La rivale” (Edizioni e/o, 72 pagine,
8 euro) in libreria da domani. Tra i libri di Eric-Emmanuel
Shmitt, pubblicati da e/o, “Monsieur Ibrahim e i fiori
del Corano”, “La parte dell’altro”,
“La mia storia con Mozart”, “Quando ero un’opera d’arte”
Repubblica Nazionale
34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
il fatto
Law and order
DOMENICA 16 SETTEMBRE 2007
I sindaci delle grandi città italiane, alle prese con i crescenti
problemi della sicurezza, citano sempre più spesso
come modello Rudolph Giuliani, che governò New York
dal 1994 al 2001, riducendovi drasticamente la criminalità
Ma a rivisitare quell’esperienza si scopre che la vera strategia
adottata da “Rudy” non fu quella che oggi si crede...
Tolleranza zero, mito metropolitano
C
ALEXANDER STILLE
NEW YORK
Tendenze nazionali
come l’enorme
aumento del numero
di detenuti hanno
molta più influenza
delle scelte locali,
sostengono gli esperti
strati. Ma facendo della lotta alla crimine il marchio della sua amministrazione, Giuliani poté assumersi il merito di
quello che in massima parte si configura come un trend storico nazionale.
Si reputa che tendenze nazionali su
vasta scala come l’invecchiamento
della popolazione americana, l’altalena nel consumo di crack, la riduzione
delle nascite indesiderate tramite l’introduzione dell’aborto (stando a una
teoria), il triplicarsi del numero di detenuti, abbiano pesato di più nel calo
dei reati rispetto alle strategie di polizia. «Il solo sviluppo demografico incide per il dieci per cento», dice James
Alan Fox, professore di criminologia
pressiva. Il numero degli americani
dietro le sbarre è passato dai circa 600
mila dei primi anni Settanta ai 2,2 milioni odierni, una popolazione pari a
quella di una metropoli. «È improbabile che impennate e crolli dei tassi di criminalità di questa portata siano riconducibili a un unico fattore», dice Fox.
«Questo non significa però negare il
ruolo di una strategia di ordine pubblico intelligente».
George Kelling, criminologo della
Rutgers University, considerato uno
dei padri delle strategie newyorkesi
contro il crimine, afferma che il merito
del maggior calo della criminalità registrato a New York rispetto alla maggioranza delle altre città continua a essere
attribuibile alla strategia di ordine pubblico adottata. «Se si cerca un fattore X
che spieghi la discrepanza, a mio avviso va individuato in una buona gestione dell’ordine pubblico».
Kelling, a suo tempo consulente di
William Bratton, nominato sovrintendente della polizia di NY City quando
Giuliani divenne sindaco nel 1993, ribadisce che quanto accaduto a New
York ha poco o nulla a che fare con la
“tolleranza zero”. «Né Giuliani, né il sovrintendente Bratton, né io abbiamo
mai usato il termine “tolleranza zero”,
dice Kelling. «”Tolleranza zero”, vale a
dire pugno di ferro per tutti i reati minori ovunque, implica fanatismo. E noi
siamo sempre stati convinti che una
della Northeastern University, «semplicemente perché sono diminuiti del
dieci per cento i giovani di sesso maschile, responsabili della maggior parte dei reati violenti».
Un altro importante fattore, a giudizio di Alfred Blumstein, esimio criminologo della Carnegie Mellon University di Pittsburgh, è la devastante diffusione del consumo di crack che sconvolse le città americane in quegli anni:
«L’aumento degli omicidi registrato
negli anni Ottanta era ampiamente imputabile a giovani armati, in gran parte
afroamericani, coinvolti nel mercato
del crack». Il crack, un derivato della cocaina, creava forte dipendenza e i consumatori erano particolarmente violenti. I giovani spacciatori erano invariabilmente armati e le dispute sul controllo del territorio, la droga e il denaro
sfociavano frequentemente in violenza. «Nel 1993 iniziarono a diffondersi
voci sulla pericolosità del crack e la domanda crollò. I ragazzi non giravano
più per strada armati. Si registrò un costante calo degli arresti per possesso illegale di armi. In parte esso fu dovuto
all’enorme sviluppo economico degli
anni Novanta, che offrì ad alcuni di
questi giovani occupazioni lecite, e in
parte allo straordinario numero di carcerazioni».
Gli anni Settanta e Ottanta — nonostante una reputazione “lassista” —
hanno visto una politica sempre più re-
FOTO TRATTE DA: 65 VIEWS NEW YORK CITY DI RAMAK FAZEL
FOTO CORBIS
hi ha soggiornato a New
York tra la fine degli anni
Ottanta e i primi anni Novanta, della città ricorderà
forse le notti lacerate dal suono degli allarmi delle auto, le fiale di crack nei parchi, le scritte nella metropolitana e i più
di duemila morti ammazzati ogni anno. Tornando a quindici anni di distanza trova una città dall’aspetto radicalmente trasformato: le prostitute e i
peep show sono spariti da Times Square, le metropolitane sono in genere pulite e in buono stato, i parchi sono gremiti a qualunque ora e gli omicidi —
nonché la maggioranza degli altri reati
— sono calati del 70 per cento, a livelli
mai registrati dai primi anni Sessanta.
Agli occhi dei visitatori stranieri, New
York — spesso principale o unica tappa
del loro viaggio negli Usa — è un modello allettante di trasformazione sociale. Sanno che Rudolph Giuliani è stato sindaco per gran parte degli anni Novanta e suppongono che la radicale trasformazione di New York sia da ricondurre a lui e alla tesi della cosiddetta
“tolleranza zero”, un’impressione che
Giuliani, oggi in corsa per le presidenziali, non ha fatto nulla per scoraggiare.
Ma prima di fare della “tolleranza zero” un mantra nazionale, pensando
che arrestare gli immigrati che vendono profumi nelle piazze ridurrà la percentuale dei furti e degli omicidi in Italia, è bene distinguere il mito dalla
realtà e capire cosa è successo esattamente a New York e negli Usa.
Un dibattito serio deve necessariamente partire dalla constatazione che
il calo dei reati rientra in un contesto
più ampio in cui New York, le strategie
di polizia e Rudy Giuliani hanno un
ruolo minore. Stando ai dati del dipartimento della Giustizia Usa, tra il 1993
e il 2001 si è registrato un calo di più del
60 per cento dei reati violenti di ogni
genere. In quello stesso periodo i furti
sono diminuiti del 67 per cento. La
percentuale delle morti violente è scesa a livello nazionale di circa il 40 per
cento, da dieci su centomila a circa sei
su centomila, tornando a livelli che
non si registravano negli Usa dagli anni Sessanta.
È chiaro che negli Stati Uniti era in atto un enorme cambiamento, di dimensioni ben superiori ai fatti di New York,
dei quali è in gran parte responsabile. A
livello nazionale il 1993, anno in cui fu
eletto Giuliani, segnò l’apice di incidenza per molti reati mentre il 2000 e il
2001, ultimi anni dell’era Giuliani, ne
registrarono il minimo storico. Giuliani ebbe quindi la grande fortuna di essere sindaco in un periodo di otto anni
in cui la criminalità in tutti gli Stati Uniti subì uno dei maggiori cali mai regi-
Repubblica Nazionale
DOMENICA 16 SETTEMBRE 2007
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35
IN AZIONE
FOTO CORBIS
Qui accanto,
un barbone in una via
di New York
In basso a sinistra,
Rudolph Giuliani
quando era sindaco
della città. Nelle altre
foto, la polizia
di New York in azione
valida gestione dell’ordine pubblico
implica prudenza, senno, e capacità di
valutare il contesto».
La “tolleranza zero”, spiega il professor Fox della Northeastern University,
«rimanda a una politica di rigida repressione su ogni manifestazione di
una problematica. È questo l’uso che se
ne fa ad esempio nelle scuole, dove con
l’intento di stroncare il possesso di armi, rischia la sospensione anche chi
porta in classe una pistola giocattolo. O
in aeroporto, dove basta una battuta
per essere arrestati con l’accusa di progettare un dirottamento. Questa è la
“tolleranza zero”».
La strategia messa in atto a New
York è un’altra, collegata alla teoria
cosiddetta dei “vetri rotti”. In un famoso saggio pubblicato nel 1982 (di
cui diamo pubblichiamo un estratto
in questa pagina, ndr) il professor Keller e James Wilson sostenevano che
varie forme di turbativa dell’ordine
pubblico e di trascuratezza — vetri
rotti, marciapiedi sporchi, scritte sui
muri, consumo di alcolici in pubblico
— erano un segnale di incoraggiamento per il vandalismo e altre, più
gravi forme di criminalità.
La teoria dei “vetri rotti” si differenzia fondamentalmente dalla “tolleranza zero”, dice Kelling, in quanto la prima è estremamente flessibile, mentre
la seconda è molto rigida. «Parte dell’approccio ispirato alla teoria dei “ve-
tri rotti” consisteva nel dare ai poliziotti operanti nel quartiere grande discrezionalità di azione». Agli occhi di un
agente l’abitudine di radunarsi in strada ad ascoltare musica ad alto volume
poteva rendere più sicuro il quartiere
favorendo la coesione sociale, mentre
in altri casi poteva apparire pericoloso
e antisociale. «Se reprimi costantemente ogni iniziativa, in certi quartieri
poveri ad alta densità di criminalità gli
abitanti possono sentirsi perseguitati e
si può ottenere l’effetto contrario», dice il professor Fox.
Spesso la “tolleranza zero” è stata
chiamata in causa a sostegno di un pesante giro di vite su tutte le forme di
consumo occasionale di droga e della
politica di arrestare tutti i consumatori
invece di incoraggiarli a disintossicarsi. «Nancy Reagan promosse l’idea di
“dire no” alla droga e negli anni Ottanta furono tagliati tutti i finanziamenti
per le terapie disintossicanti aggravando notevolmente il problema», dice
Michael Massing, autore di un saggio
sulla droga dal titolo The Fix (Il buco).
Nel 1990, David Dinkins, predecessore di Giuliani nell’incarico di sindaco
di New York, nominò Bratton responsabile della polizia stradale, cui è affidata la sicurezza del vasto sistema di
trasporto sotterraneo urbano. Bratton,
a sua volta, incaricò il professor Kelling
di applicare la teoria dei “vetri rotti” in
questo problematico settore. «Benché
Il cambiamento
più importante
introdotto
negli anni Novanta
dalla polizia di N.Y.
City fu il sistema
“Compstat”
nel sistema sotterraneo non si registrassero alti livelli di criminalità»,
spiega Kelly, «le metropolitane erano
sporche, caotiche e inquietanti e il numero dei passeggeri in forte calo». Sotto Bratton la municipalità di New York
diede avvio a una campagna di lotta su
vasta scala alle scritte nella metropolitana, acquistando nuove vetture resistenti ai graffiti e ripulendole non appena imbrattate. Usarono il pugno di
ferro anche contro chi entrava nella
metropolitana senza biglietto scavalcando i tornelli. «Scoprimmo che uno
su dieci aveva commesso un qualche
reato più grave, quindi l’iniziativa ebbe anche un impatto positivo indiretto
in termini di criminalità».
Ma persino Kelling non esita ad ammettere che la politica ispirata alla teoria dei “vetri rotti” e persino le strategie
di ordine pubblico in genere rappresentano solo un fattore concomitante. In
realtà la maggioranza delle innovazioni
introdotte durante l’era Bratton-Giuliani non aveva nulla a che fare né con la
teoria dei “vetri rotti” né con la “tolleranza zero”. Il cambiamento più importante apportato da Bratton al Dipartimento di polizia di New York City consiste in un sistema chiamato Compstat,
abbreviazione di Computer Statistics. Il
dipartimento utilizzava i computer per
analizzare le tendenze della criminalità
in modo da poter concentrare risorse in
aree a forte incidenza di reati. I responsabili dei commissariati di queste zone
dovevano presentare un programma
dettagliato di iniziative per affrontare il
problema. «Il semplice fatto di incaricare i capitani di polizia di illustrare il proprio operato e di ritenerli responsabili
della criminalità nelle zone di competenza potrebbe aver avuto un peso maggiore dell’uso dei computer».
Mentre esiste unanime consenso
sull’importanza di una valida strategia
di ordine pubblico, molti criminologi
dubitano che la teoria dei “vetri rotti” e
persino il Compstat abbiano avuto un
ruolo decisivo nel calo della criminalità
registrato negli anni Novanta. «I reati
hanno subito il calo più drastico nelle
città dove avevano registrato un’impennata nel decennio precedente», dice il professor Fox. «In criminologia vale una sorta di legge di gravità di Newton, quello che sale, scende».
«La tesi secondo cui la strategia ispirata alla teoria dei “vetri rotti” ha contribuito alla netta diminuzione dei reati nel corso degli anni Novanta è scarsamente documentata», scrivono Bernard E. Harcourt e Jens Ludwig in una
recente pubblicazione sul fenomeno.
«Mantenere il decoro urbano e la quiete pubblica può avere valide ragioni sociali ma non è detto che sia di grande
aiuto per i reati gravi», dice Blumstein.
Dall’esperienza newyorkese si possono
trarre degli insegnamenti, ma non sono
quelli normalmente sbandierati. Non
esiste una soluzione unica alla criminalità. Le tendenze sociali che si manifestano su larga scala sono più importanti della politica del governo. Le soluzioni vecchio stampo, tipo “poliziotti in
strada, delinquenti in cella”, possono
influire sulla diminuzione dei reati in
misura pari alle soluzioni nuove. Riparare le finestre rotte e sbarazzarsi delle
scritte potrà forse rendere più gradevole l’aspetto delle città, ma non è detto
che le renda molto più sicure. Delle strategie di ordine pubblico attuate a New
York (e altrove) alcune meritano di essere approfondite, ma la “tolleranza zero” non rientra in quel novero.
Traduzione di Emilia Benghi
Il saggio che ha ispirato la politica dello “sceriffo”
La teoria dei vetri rotti
JAMES WILSON e GEORGE KELLING
n una collettività il disordine e la criminalità sono in genere inestricabilmente collegati, in una sorta di spirale ascendente. Psicologi sociali e agenti di polizia sono tendenzialmente concordi nell’affermare che se in un palazzo viene
rotto il vetro di una finestra e non si provvede alla riparazione, ben presto tutte le
altre finestre verranno infrante. Questo nei bei quartieri come in quelli degradati. Il fatto che gli atti di vandalismo si verifichino su larga scala in determinate zone non dipende dall’indole degli abitanti. È che una finestra rotta non riparata indica incuria, così romperne altre non comporta niente. (Ed è sempre stato un divertimento).
Philip Zimbardo, psicologo di Stanford, nel 1969 pubblicò il risultato di alcuni esperimenti di verifica della “teoria dei vetri rotti”. Fece parcheggiare un’automobile senza targa, col cofano aperto in una strada del Bronx, e un’automobile analoga in una via di Palo Alto, in California. La macchina nel Bronx subì l’assalto dei “vandali” nel giro di dieci
minuti. La prima ad arrivare fu una famiglia — madre, padre e un figlio piccolo — che si
portarono via il radiatore e la batteria. Tempo ventiquattrore e in pratica tutte le componenti di valore erano state estratte dall’auto. Iniziò poi la demolizione casuale, finestrini infranti, componenti fatte a pezzi, tappezzeria strappata. I bambini iniziarono ad
usare l’auto come parco giochi. La maggioranza dei “vandali” adulti erano bianchi ben
vestiti, dall’aspetto per bene. La macchina a Palo Alto restò intatta per più di una settimana. Poi Zimbardo ne fracassò una parte con una mazza da fabbro. Presto i passanti
lo imitarono. Nel giro di poche ore l’auto era stata ribaltata e completamente distrutta.
Di nuovo i “vandali” erano all’apparenza prevalentemente bianchi rispettabili.
I beni incustoditi diventano bersaglio di gente in cerca di svago o di bottino e anche
di persone che normalmente non si sognerebbero di fare cose del genere e che probabilmente si considerano ligi alla legge. Date le caratteristiche della collettività del Bronx,
la vita anonima, la frequenza di abbandono delle auto, di furti e distruzioni, le esperienze passate di incuria e indifferenza, il vandalismo inizia ben prima che nella compassata Palo Alto, dove la gente sa che i beni privati sono custoditi e che il comportamento indisciplinato costa caro. Ma il vandalismo può verificarsi ovunque una volta
che le barriere collettive — il senso di rispetto reciproco e i doveri di civiltà — vengono
abbassate da atti interpretabili come segnale di incuria.
La nostra tesi è che il comportamento “trascurato” porta anche alla distruzione degli strumenti di controllo collettivi. La popolazione stabile di un quartiere
composta da famiglie che curano le loro case, badano ai bambini del vicinato, e
guardano con sospetto gli estranei indesiderati si può trasformare in pochi anni
o addirittura in pochi mesi in una giungla spaventosa e inospitale. Una proprietà
viene abbandonata, il terreno invaso dalle erbacce, una finestra spaccata. Gli
adulti smettono di rimproverare i bambini chiassosi, e i bambini si sentono incoraggiati a fare ancora più chiasso. Le famiglie traslocano altrove e nel quartiere si
trasferiscono adulti senza legami. Gli adolescenti si radunano davanti al negozio
all’angolo. Il commerciante li invita a sloggiare. Rifiutano. Scoppiano risse. La
spazzatura si accumula. La gente inizia a bere davanti al negozio. Col tempo un
ubriaco si accascia sul marciapiedi e lo lasciano dormire lì. Mendicanti abbordano i passanti.
A questo punto non è detto che nel quartiere prosperi la criminalità grave o si verifichino violenze sugli estranei, ma molti residenti penseranno che la criminalità,
soprattutto il crimine violento, sia in aumento e modificheranno il loro comportamento di conseguenza. Limiteranno la frequenza delle uscite in strada e, nel caso, si
terranno in disparte, distoglieranno lo sguardo, bocca chiusa e passo spedito. “Non
ti impicciare”. Per alcuni residenti questa crescente atomizzazione avrà scarso peso, perché il quartiere non è “casa loro” ma “dove abitano”. I loro interessi sono altrove, sono dei cosmopoliti. Ma conterà moltissimo per la vita di altri che trae significato e appagamento dai legami con la realtà locale più che con il resto del mondo.
Per loro il quartiere cesserà di esistere, fatta eccezione per quel paio di amici affidabili che faranno in modo di frequentare. Un quartiere simile è vulnerabile all’invasione da parte della criminalità.
Traduzione di Emilia Benghi
(Da “Broken Windows”, pubblicato sulla rivista “Atlantic Monthly”
del marzo 1982)
I
Repubblica Nazionale
36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 16 SETTEMBRE 2007
la memoria
Stato e Chiesa
Il giorno della breccia di Porta Pia, il 20 settembre 1870,
data cruciale della nostra storia patria, fu segnato
dalla massima confusione e incertezza nei due campi,
quello sabaudo e quello pontificio. Caos, inazione,
divergenze tattiche, ordini che non arrivavano
Un nuovo libro ricostruisce nel dettaglio quelle ore fatali
L’ultimo giorno del Papa Re
«T
MIRIAM MAFAI
ra le 10.10 e le 10.15
non si spara più su
tutto il fronte del
Gianicolo meno che
a Porta S.Pancrazio
dove si combatte
ancora perché qui non è giunto alcun
ordine di cessare il fuoco. Alle 10.15 il
capitano Roversi, che sta difendendo
con tenacia la postazione al comando di due compagnie pontificie, vede
arrivare a spron battuto un dragone a
cavallo diretto verso di lui in una nuvola di polvere. Il soldato gli consegna un biglietto firmato dal comandante del settore, dove è scritto: “Alzi bandiera bianca”. Già, ma dove
prenderla, dove recuperare una bandiera bianca? Nessuno ce l’ha. Roversi non sa come obbedire a quell’ordine…».
Il dragone a cavallo che arriva in
una nuvola di polvere, una bandiera
bianca che non si trova… Sembra di
stare in un film di Monicelli. E invece
no, stiamo nella storia. In una pagina
importante della nostra storia. Sono
infatti le 10.15 del 20 settembre 1870,
e mentre il capitano Roversi si affanna a cercare qualcosa che assomigli
ad una bandiera bianca i primi bersaglieri attraversano di corsa, in una
nuvola di polvere e di confusione, la
breccia di Porta Pia, ed entrano a Roma finalmente capitale d’Italia.
Antonio Di Pierro ricostruisce con
la documentazione e l’intelligenza
dello storico unite allo scrupolo del
grande cronista “l’ultimo giorno del
Papa Re”. Una giornata che comincia
nella notte tra il 19 e il 20 settembre,
quando le tre divisioni al comando
del generale Cadorna si dispongono
finalmente attorno alle porte della
città, e si conclude alla mezzanotte
successiva, con i romani in festa, gli
ufficiali piemontesi che occupano il
caffè Giglio, sul Corso, e lo ribattezzano Caffè Cavour, Edmondo De
Amicis che, con l’amico Ugo Pesci,
riesce a saltare su una “botticella” e
farsi portare fino al Colosseo, mentre
a S.Pietro, ammassati sulla piazza, gli
sconfitti cantano in coro l’Inno a Pio
IX. E sulla cupola sventola ancora la
bandiera bianca.
L’esito dello scontro tra i 50.000
piemontesi e i 10.000 uomini al servizio del Papa si poteva considerare
scontato. Giocava a favore dell’Italia
non solo la sproporzione delle forze
ma soprattutto la favorevole situazione internazionale: Napoleone III,
gran protettore di Pio IX, è già stato
sconfitto a Sedan e a Parigi sta per essere proclamata la Repubblica. Pio IX
non ha più sostenitori. Ma, nonostante le condizioni favorevoli sul
piano militare come su quello politico, nel campo dei piemontesi dominano l’incertezza e la confusione.
Non si capisce, come racconta senza
indulgenze Di Pierro, chi comanda
davvero, a chi spetta prendere le decisioni politiche e quelle logistiche. Il
ministro della Guerra pretende di decidere da Firenze, sede del governo,
la dislocazione delle truppe e l’itinerario da seguire per arrivare sotto le
mura di Roma: se dalla riva sinistra
del Tevere, o dalla destra... Il generale Cadorna ha sull’argomento le sue
opinioni, le prospetta al ministro ma
alla fine non può che subirne la decisione. E, disciplinatamente, glielo
comunica. Ma il giorno dopo il ministro ci ripensa, cambia la decisione
già presa, convoca il generale a Firenze, e quando quello arriva poi non
lo riceve…
Anche qui insomma sembra di stare in un film di Monicelli anziché nella storia. La verità è che il ministro
della Guerra sta diventando matto e
che dunque va sostituito. Intanto il
Re, prima di dare il via all’operazione
militare, vuole fare un ultimo tentativo di composizione diplomatica. Da
Firenze parte dunque un autorevolissimo messaggero che consegnerà
al Pontefice una lettera con la quale
Vittorio Emanuele «con affetto di figlio, con fede di cattolico, con animo
di italiano» chiede che le sue truppe
possano entrare pacificamente in
città. Il Papa, durissimo, liquida il
messo del Re con queste parole: «Io
non sono profeta, né figlio di profeta
ma in verità vi dico che non entrerete
in Roma».
“In verità vi dico che
non entrerete
in Roma”, risponde
Pio IX al messo
inviato da re Vittorio
IL LIBRO
Mondadori manda nelle librerie
martedì 18 settembre, due giorni prima
dell’anniversario della breccia
di Porta Pia, L’ultimo giorno del Papa Re
di Antonio Di Pierro (288 pagine,
18 euro). Di Pierro ha pubblicato
nel 2002, sempre per Mondadori,
Il sacco di Roma, ricostruzione
della calata dei lanzichenecchi nel 1527
Fallita la composizione diplomatica e insediatosi il nuovo ministro della Guerra, il piano militare può finalmente partire. Domenica 11 settembre dunque le truppe italiane muovono verso i confini dello Stato pontificio. Ma permane, insanabile, il
contrasto tra il generale Cadorna e il
nuovo ministro della Guerra: il problema è sempre lo stesso, se si debba
entrare a Roma dalla parte destra del
Tevere (dove imperversa la malaria)
o dalla parte sinistra (dove mancano
sufficienti punti di approvvigionamento). E quando finalmente l’armata italiana arriva in vista della
città, il ministro ordina a Cadorna di
fermarsi e di mandare un messo a Roma per chiedere il libero ingresso
delle truppe, e intanto di predisporre
il passaggio del Tevere dalla riva destra alla riva sinistra. La missione di
pace non ha successo. Ha più successo, per fortuna, il passaggio delle
truppe dalla riva destra a quella sinistra del Tevere, su un ponte di barche
all’altezza di Grottarossa. Esaurito il
nuovo tentativo di conciliazione,
l’ultima parola passa finalmente a
Cadorna. È la notte tra il 19 e il 20 settembre.
Se grande è la confusione nel campo dei piemontesi, non minore è la
confusione in Vaticano. E grande
l’incertezza sul da farsi. Bisognerà
prevedere una resistenza puramente
simbolica, sufficiente per certificare
di fronte all’Europa che il sommo
pontefice è stato vittima di una aggressione? O invece sarà più opportuno resistere presidiando l’intero
Stato pontificio? E se fosse meglio
concentrare le esigue truppe pontificie dentro Roma? E anche in Vaticano non si sa bene chi comanda. Se il
cardinal Antonelli, segretario di Stato, o il capo di Stato Maggiore Fortu-
nato Rivalta, o il generale Hermann
Kanzler proministro delle armi e comandante supremo dell’esercito
pontificio. Tutto il mese di agosto
passerà dunque, racconta il nostro
storico, tra allarmi, rassicurazioni e
decisioni contrastanti. Il clima cambia quando si saprà che uno dei generali piemontesi, posto al comando
dei reparti che si stanno formando a
Orvieto, si chiama Nino Bixio, un ex
volontario garibaldino che ha già
combattuto contro il Papa, uno dei
protagonisti della Repubblica romana del 1849.
Il 6 settembre l’ufficiale Giornale di
Roma riporterà dettagliatamente la
notizia della battaglia di Sedan. Fino
ad allora solo gli ambienti di corte e
alcuni gruppi di aristocratici legati
alle ambasciate straniere sapevano
della sconfitta di Napoleone III e della proclamazione della Repubblica. Il
7 settembre il generale Kanzler va a
colloquio dal Papa per aggiornarlo
sulla situazione e subito dopo chiama a rapporto tutti gli ufficiali responsabili della difesa di Roma. Il 12
settembre su tutte le cantonate viene
affisso un proclama del generale
Kanzler che dichiara lo stato d’assedio. Cinque giorni dopo vengono
chiuse e protette le porte della città,
dalle quali passavano d’abitudine
ogni mattina all’alba i vetturali che
portavano ai romani vino verdura
frutta e notizie fresche sugli spostamenti delle truppe piemontesi. Sui
palazzi abitati dal corpo diplomatico
vengono issate le bandiere dei rispettivi Stati. Chi aveva una terrazza invitava gli amici a cena, per avvistare
con un binocolo nell’ora del tramonto le truppe italiane.
Eppure in Vaticano non tutti ancora sono convinti dell’imminenza dell’attacco. «La Roma di certi salotti»,
scrive Di Pierro, «ancora fino a poche
ore dal 20 settembre era come imbambolata, quasi non volesse con
ostinazione guardare la realtà… Al
Palazzo della Consulta, i cardinali
giocano alla calabresella quando
mancano ormai poche ore all’attacco».
L’attacco scatterà la mattina del
20, all’alba. Per la precisione alle
5.15. Ma i primi a sparare, cinque minuti prima, sono gli uomini della fucileria papalina. E la prima vittima
Repubblica Nazionale
DOMENICA 16 SETTEMBRE 2007
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37
LA CRONACA
ORE 3-4
ORE 7-8
ORE 9-10
ORE 10-11
ORE 15-16
0RE 17-18
Primi allarmi
dei pontifici:
lungo la via
Nomentana
le truppe
piemontesi
si dirigono
verso
la Porta Pia
Pio IX dice messa
nella cappella
privata, davanti
al corpo
diplomatico,
mentre si odono
distintamente
le cannonate
delle truppe di Bixio
Il Papa ordina
che venga
innalzata
la bandiera bianca
sulla cupola
di San Pietro
I comandanti
pontifici sono
d’accordo
Roma
è conquistata:
il bersagliere
Federico Cocito
è il primo,
alle 10.10,
a varcare
la breccia aperta
nelle mura
La milizia
pontificia
che presidiava
il Campidoglio
si arrende. Viene
issato il tricolore
e suonata
la Marcia reale
Intorno è il caos
A Villa Albani
i generali Kanzler
e Rivalta firmano
la capitolazione
dello Stato
pontificio
Per l’Italia
firmano Cadorna
e Primerano
LA BRECCIA
In basso Carlo Ademollo,
La breccia di Porta Pia
(Milano, Museo
del Risorgimento / Scala Group)
Qui sotto, un ritratto anonimo
di Papa Pio IX
Il principe Doria
abbandona il Vaticano
e issa sul suo palazzo
la bandiera inglese
per evitare un assalto
essersi consultato con il cardinal Antonelli, Pio IX decide che è giunto il
momento della resa e ordina di far innalzare una bandiera bianca sulla
cupola di S.Pietro.
Ma naturalmente gli scontri continuano. «Tutta l’area che va da Porta
Salara alla Breccia», racconta il nostro cronista, «è ormai una enorme
piazza d’armi, un carnaio, un brulicare di soldati che avanzano a spintoni e gomitate, tra urla, imprecazioni, spari. La confusione è al massimo
livello. La colonna italiana di destra,
partita all’assalto della breccia da
Villa Albani, si è scontrata con la colonna centrale uscita da villa Falzacappa, diretta verso il medesimo
obiettivo… Un numero troppo alto di
soldati si è trovato nello stesso momento di fronte all’area della breccia… Così lungo le mura, alla destra e
alla sinistra del varco aperto a cannonate, si forma una folla di uomini che
preme, ansiosa di conquistare Roma.
Un’occasione d’oro per i pontifici
che dagli spalti sparano sul mucchio
mietendo vittime su vittime…» .
È un carnaio, ma finalmente gli uomini di Cadorna e del Re entrano nella città che dovrà essere la capitale
d’Italia. Ed è, per questi primi soldati italiani una profonda delusione.
Dove sono le fontane, le piazze, le
statue, i monumenti di cui hanno
sentito parlare? Via di Porta Pia è una
strada polverosa di campagna, tra orti e vigne, qualche casale diroccato e
alte mura e inferriate che nascondo-
no e proteggono le ville. Questa è
dunque Roma?
Un giornalista, Vittorio Bersezio,
direttore della Gazzetta piemontese,
racconta: «Fa impressione vedere accumulati agli angoli delle vie, anche
le principali, mucchi enormi di immondizie, rottami e tritumi di ogni
genere, una miscela di ogni reliquia,
d’ogni sconcezza, schifosa alla vista,
orribile all’olfatto».
Un altro giornalista, Ugo Pesci, inviato del Fanfulla di Firenze, segue la
folla entusiasta che, a notte, si è raccolta su Via del Corso e manifesta per
chiedere la liberazione dei detenuti
politici. Alla fine, sfinito, si rifugia nel
nuovo Caffè Cavour e qui incontra
Edmondo De Amicis, inviato della rivista Italia Militare, entrato a Roma
con la brigata Bologna. Ormai è notte, ma nonostante la stanchezza vogliono almeno vedere il Colosseo.
Riescono a trovare una “botticella”,
la tipica carrozza romana. «Il bottaro», racconta Pesci, «voleva darci per
forza delle nozioni archeologiche
nelle quali la immaginazione superava la dottrina. Noi stentavamo a capirlo mentre la botte sobbalzava sopra le grandi pietre quadrate che lastricano la Via Sacra. Alla fine abbiamo visto, in fondo, una gran massa
nera, enorme, i contorni della quale
si confondevano nella oscurità della
notte». Non si vedeva altro. Era il Colosseo.
FOTO MUSEO DEL RISORGIMENTO / SCALA GROUP
FOTO MARY EVANS / ALINARI
della giornata è un artigliere italiano,
il caporale Michele Plazzoli. Poi comincia la battaglia. Il fronte principale, racconta il nostro cronista, è
quello tra Porta Pia e Porta Salara
(l’attuale Porta Pinciana), ma si spara anche ai Tre Archi, sul fronte di
Porta S.Giovanni, e più a sud, verso
Porta Latina e Porta S.Sebastiano.
Sulla riva destra del Tevere il generale Nino Bixio sta schierando le sue
truppe che dopo aver percorso Via
della Nocetta puntano su S.Pancrazio e sul Gianicolo. I primi a sparare,
anche qui, sono gli artiglieri pontifici. Ma le batterie di Bixio rispondono,
colpo su colpo.
Pio IX dalle 5 del mattino è chiuso
nel suo studio privato. «Non c’è bisogno che qualcuno gli porti la notizia
ufficiale che si è cominciato a combattere sotto le sue finestre. La cattiva novella viaggia alla velocità del
suono con le cannonate che fanno
tremare non solo i vetri della sua
stanza, ma tutte le pareti, il pavimento, la sua scrivania. Anche il cuore del
Santo Padre è in tumulto. Il generale
garibaldino, nemico dichiarato della
Chiesa di Roma, ha cominciato il suo
attacco frontale… Il bombardamento acquista una tale intensità e produce un fragore così forte da essere
udito distintamente dall’altra parte
della città, fino a S.Maria Maggiore…
In Vaticano intanto è un via vai frenetico di prelati, di dignitari, militari,
inservienti, impiegati, ambasciatori… Le stanze e i punti strategici dei
palazzi vaticani brulicano di soldati e
ufficiali che per compito istituzionale sono destinati alla difesa della persona del pontefice… Intanto si sono
fatte le 7 e il papa non sa ancora, dopo quasi due ore di combattimento,
qual è il quadro della situazione»
La battaglia infuria attorno a Porta
Pia, ai Tre Archi, a S.Giovanni, a Porta S.Sebastiano, a Villa Pamphili, al
Casino dei Quattro Venti. Dovranno
passare ancora alcune ore prima che
in Vaticano si decida di alzare bandiera bianca. Nessuno è sceso in
campo per difenderlo. Nemmeno le
grandi famiglie. «Il principe Doria,
osserva con amarezza il Pontefice, ha
alzato sul suo palazzo una bandiera
inglese, nella speranza di essere risparmiato da un eventuale assalto
delle truppe italiane». Alle 9.40, dopo
Repubblica Nazionale
38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 16 SETTEMBRE 2007
l’immagine
Stile italiano
La prima bottega-laboratorio dei fratelli Cinzano apre
a Torino nel 1757. Il marchio ha resistito e festeggia ora
il suo primo “quarto di millennio”. Un traguardo legato
alla qualità e alla tradizione, ma anche a una particolare
sensibilità per la comunicazione che ne ha fatto
un pioniere e un protagonista della storia della pubblicità
Cin Cin, uno spot lungo 250 anni
UGO VOLLI
ono poche le istituzioni e
perfino gli Stati che possono
vantare un’anzianità di duecentocinquant’anni, cioè
un quarto di millennio, dieci
generazioni. A maggior ragione sono rarissime le imprese capaci
di arrivare a questo traguardo: sempre
soggette come sono a tutti gli imprevisti
del mercato, ai mutamenti del gusti e
dell’economia, alle vicissitudini della
proprietà, si considerano longeve già
dopo mezzo secolo di vita. L’Italia, che
come Stato nel 2011 compirà solo il suo
centocinquantesimo anniversario, ha
una delle maggiori concentrazioni
mondiali di aziende storiche, traccia di
un percorso di innovazione che è iniziato coi Comuni e il Rinascimento. Fra
esse arriva quest’anno a festeggiare il
fatidico quarto di millennio una delle
marche più popolari, più autenticamente italiane e più note nel mondo, la
Cinzano di Torino.
Era infatti il 6 giugno 1757 quando
due fratelli, Giovanni Giacomo e Carlo
Stefano Cinzano, appartenenti a una
famiglia di vignaioli della collina torinese la cui attività è documentata dalla
metà del Cinquecento, ottennero per la
prima volta dalla corte sabauda il diploma di maestri distillatori e l’autorizzazione ad aprire una bottega laboratorio in via Dora Grossa, oggi via Garibaldi, proprio nel centro della città a
due passi da piazza Castello. Era l’inizio di un’avventura industriale di
grande successo. I vini e i distillati della famiglia piacevano ai nobili di una città in piena espansione che stava rinnovandosi
completamente sul piano
urbanistico ed economico,
per diventare il centro di
un regno con molte ambizioni. Nel 1786 i Cinzano furono nominati
fornitori della Real Casa, essendo divenuti i
migliori fabbricanti di
una specialità torinese di vino speziato
con erbe che tutti oggi conoscono col nome di vermouth (la
parola, a quanto pare, viene dal tedesco
vermud, assenzio).
In quel periodo furono anche eletti rappresentanti ufficiali
della loro “corporazione” o organiz zazione di categoria, con
il compito di stilare i regolamenti e di controllare la qualità.
Dopo gli sconvolgimenti della Rivoluzione
S
francese, i Cinzano furono incaricati
dal re di Sardegna di cercare di emulare in Piemonte i metodi francesi di fabbricazione dello champagne, sperimentandoli nei domini reali di Santo
Stefano Belbo e Santa Vittoria d’Alba. È
di qui che ha origine una produzione
italiana di spumanti radicata fra il territorio astigiano e le Langhe, che ancora
ha grande successo. A metà dell’Ottocento incominciava l’espansione all’estero del commercio di vini e vermouth
dei Cinzano, che arrivò presto in tutta
Europa, in Sudamerica e perfino in
Africa, teatro delle avventure di un incredibile personaggio di commesso
viaggiatore internazionale, Giuseppe
Lampiano, che si faceva ritrarre in abiti da sceicco o in mezzo alle popolazioni tropicali, sempre con una bottiglia in
mano. Mentre il successo e la fama del
nostro vino erano di là da venire, insieme a qualche altra casa italiana, come
Campari e Martini, Cinzano stava inventando un consumo alcolico e una
merceologia nuova, quella degli aperitivi: prodotti più alcolici di un vino normale e meno di un distillato,
dolci o secchi, da consumare da soli o
mescolati
con altri
Le prime etichette
illustrate nel 1853,
la prima inserzione
sui giornali nel 1887
L’anno dopo il primo
di una serie
di splendidi manifesti
firmati da Capiello,
Dudovich, Crepax...
ingredienti in quegli intrugli deliziosi
che gli americani avrebbero chiamato
cocktail.
Al di là dei successi industriali e commerciali e di un’identità italiana — anzi torinese — così caratteristica, quel
che rende particolarmente interessante il compleanno di Cinzano è la sua
continua popolarità, che a sua volta dipende da una straordinaria sensibilità
che l’azienda ha sempre avuto per la
comunicazione e l’immagine. Le prime etichette illustrate e stampate sulla
bottiglia, con l’immagine delle medaglie vinte in fiere e concorsi, furono
adottate al posto delle vecchie etichette scritte a mano a partire dal 1853: un
passo che oggi nel mondo dei consumi
industriali sembra ovvio ma che sottolineava allora l’inizio di un processo di
trasformazione di un’impresa di famiglia locale e basata sulla vendita diretta
in ciò che noi oggi conosciamo come
una marca: un prodotto industriale, di
qualità garantita, che chiede la fiducia
dei propri clienti sulla base della notorietà del suo nome e della sua immagine, non della conoscenza personale.
È un passaggio fondamentale
che la maggior parte delle imprese europee compie verso la fine del secolo ma
che Cinzano anticipa di parecchi
decenni.
Il momento
successivo di questa evoluzione verso
la marca moderna è la pubblicità. Anche in questo caso a noi sembra del tutto scontato che un produttore di merci
di largo consumo come spumanti e vermouth debba farsi conoscere dai suoi
consumatori usando i mezzi di comunicazione; ma la pubblicità sui giornali e sulle affissioni arriva abbastanza
tardi nella storia industriale europea e
in particolare italiana. Cinzano è uno
dei primi a provarci con un annuncio
pubblicato su un giornale significativamente collocato abbastanza lontano
dalla sua base geografica, prova di
un’espansione commerciale già avviata. L’8 dicembre 1887, centoventi anni
fa, usciva sul quotidiano Il Telegrafo di
Livorno un annuncio, ovviamente in
bianco e nero e senza immagini che
pubblicizzava il «Vino Vermouth della
rinomata Casa F. Cinzano».
È l’inizio di un percorso di comunicazione che è durato fino a oggi, restando negli occhi e nella fantasia di
consumatori non solo italiani. Solo un
anno dopo, nel 1888, esce il primo manifesto firmato da Adolf Hohenstein,
uno dei fondatori della grafica pubblicitaria italiana: un dio Pan che suona e
danza. I manifesti pubblicitari, splendidamente illustrati e coloratissimi, furono il mezzo di comunicazione aziendale principe fino all’avvento della televisione, quello in cui investivano
maggiori mezzi e creatività, coinvolgendo spesso grandi artisti. E Cinzano
IL DIO PAN
LA ZEBRA
BOTTIGLIE CON BANDIERE
CILINDRO CON BOTTIGLIA
DONNA CHE BACIA LA BOTTIGLIA
A. Hohenstein, 1898
L. Cappiello, 1910
L. Cappiello, 1921
G. Magagnoli, 1927
G. Magagnoli, 1938
Repubblica Nazionale
DOMENICA 16 SETTEMBRE 2007
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39
LE ETICHETTE
IL GRAPPOLO
Una carrellata
di etichette
per i mercati
italiani ed esteri
che ricostruiscono
la storia
della produzione
La donna
adagiata
sul grappolo,
realizzata nel 1920
da Cappiello
sintetizza il gusto
dell’epoca
li usò con grande ricchezza e abilità. Illustratori importanti come Leonetto
Capiello, Mario Gross, Marcello Dudovich, e molti altri fino ad arrivare a Ugo
Nespolo e Guido Crepax, hanno prodotto per Cinzano centinaia di affiches
che si possono ora vedere nel museo
aziendale di Santa Vittoria d’Alba. In
genere sono scene allegre, piene di colori e di euforia, con una grande figura
di solito femminile, o una coppia, qualche tralcio di vite o dei grappoli, l’idea
di una festa, il piacere della socialità,
un’aria di lusso e di raffinatezza, e l’immancabile bottiglia, magari collocata
in secondo piano, ma strategicamente
ben visibile. Alcuni di questi, come la
“Giraffa” di Capiello, sono veri e propri
capolavori che hanno oggi un importante mercato antiquario.
Anche gli altri mezzi di comunicazione sono stati usati dalla Cinzano fin dall’inizio in maniera sempre molto moderna e innovativa. Suo è per esempio
il primato di aver usato per la prima volta, a Parigi verso il 1910, la pubblicità luminosa col neon. Il marchio diffuso in tutto il
mondo con i due campi
rosso e blu divisi dalla
diagonale risale al 1925.
Alla radio, quando questa era il mezzo
di comunicazione più moderno, migliaia di annunci ripetevano quel «Cincin... Cinzano!» che è rimasto nella tradizione nazionale italiana come brindisi allegro e un po’ infantile. Nel 1949
fu prodotta una serie di poster con foto
di Totò costruite secondo uno stile vagamente fumettistico o da fotoromanzo. Un’altra star usata come testimonial è stata Rita
Pavone che in una serie
di Caroselli degli anni
Sessanta cantava
«Cin-cin cinzoda /
una voglia da
morir». Negli
anni Settanta
era invece Joan Collins a cantare «Cincin / C’innamoriam».
Secondo una modalità caratteristica
del tempo, Cinzano sponsorizzò anche
un vero e proprio film, girato nel ‘68 con
Anthony Quinn, Anna Magnani, Virna
Lisi, Giancarlo Giannini. La trama è costruita sulla rielaborazione fantastica
di un episodio della Resistenza realmente accaduto: i preziosi depositi di
milioni di bottiglie della Cinzano necessari per la produzione vengono sottratti alle razzie dei tedeschi e salvati
dalla popolazione di Santa Vittoria
d’Alba, nelle Langhe, murando le cantine. Intorno al salvataggio economico
e politico dell’aperitivo nazionale si intrecciano episodi romantici e avventurosi. A pochi anni dopo, verso l’inizio
degli anni Ottanta, risale una serie di
brevi filmati pubblicitari (oggi diremmo spot) che ebbero grandissimo successo internazionale: in ambienti sempre un po’ lussuosi e mondani (un albergo alpino, una festa in una casa
elegante, un incontro d’affari con
imprenditori giapponesi, la cabina di un aeroplano) si presenta un tipo chiacchierone
e un po’ prepotente (Leonard Rossiter, interprete
inglese di 2001: Odissea
nello spazio, della Pantera rosa e di Barry Lindon), che vanta da intenditore i meriti del
Cinzano Bianco, si
impadronisce magari di un bicchiere
non suo e lo sorseggia deliziato,
ma poi per una
ragione o per l’altra finisce per rovesciarlo sulla
camicetta di seta
della sua interlocutrice, che è
sempre Joan
Collins. Airliner,
uno di questi filmati, è entrato
nella classifica
degli spot più famosi della storia
della pubblicità curata dalla rivista
Brand Republic.
Il resto è cronaca recente. Estinta la famiglia, la Cinzano è stata
comprata nel 1999 dalla
Campari, storica concorrente, e insieme a questa
rappresenta oggi nel mondo
delle merci una certa immagine
dell’Italia, raffinata e allegra, dedita al piacere della socialità e capace di sedurre. I secondi duecentocinquanta anni sono già iniziati con un’edizione limitata di spumante.
DISEGNI E PAROLE
Manifesti, calendari,
bozzetti, schizzi, slogan:
nell’archivio Cinzano
si trovano circa 80 mila
documenti, gran parte
dei quali di tipo iconografico
I TRE CAVALLINI
DONNA SOTTO L’OMBRELLONE
JOLLY
GIOVANI
FA PARTE DI UN UOMO
N. Edel, 1946
F. Mosca, 1950
P. Monnerat, 1958
G. Crepax, 1967
A. Testa, 1972
Repubblica Nazionale
40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 16 SETTEMBRE 2007
Il primo era W. H. Auden, a detta di Brodskij “la più grande mente
del secolo”. Il secondo era Christopher Isherwood, già celebre per il suo
“Addio a Berlino”. Nel ’37 due case editrici commissionarono loro un libro
su Cina e Giappone. Partirono armati solo di una macchina fotografica e del loro talento
e si trovarono nel mezzo del conflitto. Scrissero e documentarono tutto quello che videro
dando vita a un reportage unico al mondo ora pubblicato in Italia
Viaggio
in
una Guerra
Poeti inviati al fronte orientale
FRANCO MARCOALDI
l primo si era equipaggiato come se
dovesse partecipare a una spedizione artica: un berretto di lana svizzera, un cappotto immenso e informe,
ai piedi le usuali «pantofole felpate
per lenire i dolori dei calli». Il secondo aveva in testa un basco, addosso un maglione a collo alto e ai piedi degli stivali da
equitazione. Per loro stessa ammissione,
sembravano usciti da «uno di quei romanzi di Jules Verne sulle avventure di stravaganti esploratori inglesi». I due non erano
certo personaggi qualunque: l’uomo delle
pantofole rispondeva al nome di Wystan
Hugh Auden, poeta formidabile, e, a detta
di Josif Brodskij, «la più grande mente del
ventesimo secolo»; l’uomo degli stivali era
Christopher Isherwood, l’autore di Addio a
Berlino e Il signor Norris se ne va.
Nell’estate del 1937 la casa editrice Faber
and Faber di Londra e la Random House di
New York avevano commissionato loro un
“libro di viaggio” sull’Estremo Oriente:
niente di più e niente di meno. Auden e
Isherwood avrebbero potuto scegliere la
meta e la forma più congeniale per ottemperare a quel contratto. E tanto la scelta del
luogo, quanto il montaggio del volume, risultarono decisamente originali: i due sarebbero partiti nel gennaio del
‘38 per la Cina, allora
nel pieno del conflitto col Giappone, e al
ritorno, dopo sei mesi,
I
avrebbero congegnato un libro (Viaggio in
una guerra), ora ripubblicato da Adelphi
per la traduzione di Aurora Ciliberti e Lucia
Corradini, nel quale si succedono un gruppo di poesie di Auden sul tema del viaggio,
il lungo reportage in prosa di Isherwood, le
fotografie di Auden e infine, a chiudere, una
sequenza di sonetti dello stesso Auden sulla guerra.
Insomma, un esemplare unico, che rende merito alla magnanima liberalità degli
editori e allo strepitoso talento dei due autori. I quali, prima di allora, mai si erano
spinti a est di Suez; dunque nulla sapevano
dell’immenso territorio cinese e dei suoi
abitanti: «Gente arguta e / glabra che come
un cereale ha ereditato queste valli: / il Tarim li nutrì; il Tibet fu l’alta rocca protettiva,
/ e dove il Fiume Giallo muta corso, appresero / a viver bene, per quanto minacciasse
sovente la rovina».
Tale ignoranza non è affatto celata; al
contrario, viene esplicitamente dichiarata
sin dalla premessa, firmata a quattro mani:
«Non
parlavamo il
cinese e
n o n
possedevamo una conoscenza specifica
delle questioni estremo-orientali. È quasi
superfluo, dunque, sottolineare che non
possiamo garantire la precisione di molte
affermazioni contenute in questo libro. Alcuni dei nostri informatori erano forse inattendibili, altri semplicemente cortesi, altri
ancora possono averci deliberatamente
presi in giro. Ci siamo quindi limitati a registrare, nell’interesse del lettore che non sia
mai stato in Cina, una serie di impressioni
su quanto probabilmente avrebbe visto e su
quel genere di racconto che probabilmente avrebbe udito».
Il fatto però è che per vedere certe cose e
udire certi racconti bisogna avere mente e
cuore e sensi sempre all’erta; insomma, bisogna essere dei veri viaggiatori. Ma prima
ancora, neanche a dirlo, bisogna essere dei
grandi poeti e scrittori per saper riportare
sulla pagina scritta esperienze e emozioni
con tanta precisione e humour e pietase vividezza. Dunque, davvero poco importa se
il Viaggio in una guerranon risponderà alle
caratteristiche del saggio di orientalistica
scientificamente inappuntabile. In cambio, entreremo in un
mondo fatto di sapori, odori,
suoni, idee e sensazioni per
molti versi indimenticabile. Comunque sempre sorprendente,
sempre paradossale.
Comincia Auden, dapprima togliendo la
terra sotto l’idea stessa di viaggio («Il viaggio
è falso; il falso viaggio realmente una / malattia / sulla falsa isola dove il cuore non può
agire e non soffrirà; / egli indulge alla febbre;
è più debole di quanto / pensasse; la sua debolezza è reale»), salvo ridargli subito dopo
piena legittimità: «E forse la febbre avrà una
cura, il vero viaggio / una fine / dove i cuori
s’incontrano e sono proprio sinceri: / e lontano questo mare che divide / i cuori in mutamento, ma è lo stesso, sempre; e va / dovunque, unendo il falso e il vero, ma non
può / soffrire».
Quanto a Isherwood, esordisce affermando che «il primo approccio come osservatore neutrale di un paese colpito dalla
guerra è fatalmente simile a un sogno, irreale». Non appena però sale sul Tai-Shan,
un battello fluviale che da Hong Kong si
muove alla volta di Canton,
avverte che la musica sta
cambiando. Lui e Wystan non
sono due ragazzini che giocano
agli indiani. Sono due adulti che,
per quanto dilettanti, svolgono le
funzioni di corrispondenti di guerra.
Anche se, certo, la sensazione di irrealtà
non si è del tutto diradata.
Passa, vicinissima, una cannoniera giapponese carica di marinai che si muovono
sul ponte lucidando i fucili, e Isherwood
commenta: «Il loro totale isolamento, su
quella letale isoletta d’acciaio, era quasi patetico. Autosegregati nell’odio, come fossero stati vittime di una mortale malattia infettiva, se ne stavano reietti e distanti, ripu-
diati dal placido, prospero fiume e dalla pura sanità del cielo. Erano come qualcosa
contro natura, qualcosa di perverso, un’aberrazione. Assorti nelle loro mansioni, ci
gettarono appena un’occhiata — e questo
sembrò ancora più strano, più innaturale di
tutto. Ecco cos’è la Guerra, pensavo: due
imbarcazioni passano quasi sfiorandosi, e
nessuno saluta con la mano».
Il Nostro avrà tempo e modo per rivedere quell’impressione iniziale; quando, con
l’amico, uscirà progressivamente dal bozzolo delle ambasciate, dei ricevimenti eleganti della comunità internazionale, degli
incontri con i massimi dirigenti cinesi. Delle cerimonie del tè offerte dai missionari inglesi e americani in raffinati salotti, con ricchi piatti di pasticcini sul tavolo e i saggi di
Repubblica Nazionale
DOMENICA 16 SETTEMBRE 2007
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41
IL LIBRO
Si intitola Viaggio in una guerra (Adelphi, 246 pagine, 22 euro)
e sarà in libreria il 19 settembre. Commissionato
a W. H. Auden e Christopher Isherwood nel 1937, raccoglie
l’esperienza del poeta e dello scrittore sul fronte della guerra
tra Cina e Giappone. È un mix tra reportage, riflessioni
e poesie corredate dalle fotografie scattate dallo stesso Auden
Tutte le foto di queste pagine, tranne le prime due in alto a
sinistra e quella grande in basso, sono state scattate da Auden
(© 1939 W.H. Auden and Christopher Isherwood renewed
1967 by W.H. Auden and Christopher Isherwood
© 2007 Adelphi edizioni Spa, Published by arrangement
with Roberto Santachiara Literary Agency)
SCATTI IN TRINCEA
Nella pagina accanto in alto,
Auden e Isherwood;
in basso, il giornalista
Peter Fleming e il fotografo
Robert Capa. In questa pagina,
scene dal fronte
e personaggi famosi
come Chiang Kai-shek
e la moglie e Isherwood
fotografato in trincea
In basso, truppe cinesi
in marcia nel 1938
molto il bel mondo. Hanno un’agenda fitta
di impegni e non mancano certo di entrature. Ma la guerra vogliono vederla, annusarla, toccarla con mano. E così da Canton
si spostano verso Hankow, attraverso una
linea ferroviaria perennemente bombardata dai giapponesi («le risaie coprivano i
dolci pendii delle colline, terrazza dopo terrazza, come specchi appannati stesi a riflettere il cielo») e quando giungono in città
hanno l’impressione di aver raggiunto la fine del mondo.
Questa è la vera capitale della Cina in
guerra. Qui vive ogni genere di persone:
Chiang Kai-shek, Agnes Smedley, Chou Enlai, e poi generali, ambasciatori, giornalisti,
ufficiali di marina straniera, soldati di ventura, spie. «La Storia, ormai stanca di Shangai, satura di Barcellona, ha fissato il suo capriccioso interesse su Hankow. Ma dove se
ne sta? Tutti si vantano di averla incontrata,
ma nessuno può dimostrarlo. La troveremo
al bar del Grand Hotel, a bere whisky con i
giornalisti? È forse ospite del Generalissimo, o
dell’ambasciatore sovietico? Preferisce il
quartier generale dell’Ottava armata campale, o i consiglieri militari
tedeschi? Si accontenta
della capanna di un conducente di risciò?».
I due frugano in ogni
anfratto. Hanno l’occhio
dello sparviero, il fiuto del
cane da caccia. E annotano
ogni particolare, ogni fisionomia, ogni parola. Monsignor Roots, il vescovo americano di Hankow, li invita con tono profetico ad abbandonare una lettura contingente dei fatti: «Dovete pensare in termini
di cinquecento anni [...] Questo sarà il luogo di nascita della nuova civiltà mondiale e
i cinesi l’hanno capito». Il Generalissimo,
che nelle occasioni pubbliche rivela una
presenza sinistra, «la fragile impassibilità di
una fantasma», in privato invece pare gentile e timido. Quanto a Chou En-Lai, Auden
ha la fortuna d’incontrarlo per puro caso
mentre sta andando a fotografare Agnes
Smedley. E ovviamente il
poeta gli chiede lumi sulla
situazione politica interna:
quanto più a
lungo durerà
la guerra,
tanto più
completa sarà la vittoria della Cina e più
stretta l’intesa tra il Partito comunista e il
Kuomintang, risponde Chou En-lai.
Ma via via che si avvicinano al fronte, Auden e Isherwood paiono concentrare sempre più la loro attenzione sul conflitto in
quanto tale. E dopo l’ennesima lezione di
strategia militare tenuta per loro dall’ennesimo generale, con le immancabili freccette a segnalare impeccabili quanto irreali
movimenti di truppe, Isherwood commenta: la guerra non è questa cosa qui. «La guerra è bombardare un arsenale già sgomberato, mancare il bersaglio e massacrare qualche povera vecchietta. La guerra è giacere in
una stalla con una gamba in cancrena. La
guerra è bere acqua calda in una baracca e
preoccuparsi per la propria moglie. La
guerra è un pugno di uomini spaventati e
sperduti sulle montagne, che sparano a
qualcosa che si muove nel sottobosco. La
guerra è aspettare un giorno dopo l’altro
senza aver niente da fare; urlare in un telefono fuori uso; andare avanti senza dormire, senza far sesso, senza lavarsi. La guerra è disordinata, inefficiente, oscura e in
gran parte affidata al caso».
Al viaggio manca ancora un’ultima, decisiva tappa: Shangai, mera facciata di una
grande città che non esiste. Chi ha i mezzi,
qui può soddisfare ogni desiderio: concorsi ippici, partite di football, film americani.
Bordelli, fumerie d’oppio, antiquari e
gioiellieri. Ma al di fuori della colonia internazionale e della concessione
francese, si distende un immenso,
spaventoso deserto urbano
controllato dai giapponesi,
«formidabili cani da guardia».
In ogni baracca dei
campi profughi,
formata da tre fi-
le di ripiani sotto un tetto di paglia, possono
vivere fino a cinquecento individui. Negli
ospedali sopravvivono con le loro menomazioni, dimenticati da tutti, i resti delle
truppe che combatterono per difendere
Shangai. Quanto agli operai, c’è chi sostiene che lo sfruttamento dei giapponesi sia
ancora più cinico e sfrenato di quello dei
passati proprietari cinesi.
Anche questa è la guerra; un quartiere
«con i garden-party e i night-club, i bagni
caldi e i cocktail, le cantanti e il cuoco dell’ambasciatore» e tutto attorno un mare di
indicibile sofferenza, sulla quale il
poeta appunta il suo sguardo:
«Sì, siamo destinati a soffrire,
adesso; il cielo / pulsa come
una fonte febbrile; il dolore è
reale; / brancolanti riflettori rivelano d’un tratto / le
piccole nature che ci faranno piangere, / che mai pensammo potessero davvero
esistere, / non lì, dove eravamo. Ci colgono di sorpresa / come brutti ricordi da
tempi dimenticati, / e, come
una coscienza, resistono a
tutti i cannoni».
FOTO ROBERT CAPA MAGNUM / CONTRASTO
Chesterton e le poesie di Kipling sullo scaffale: «Il mio cervello cercava di stabilire un
nesso tra queste immagini e i suoni provenienti dall’esterno: il sibilo del potente
bombardiere in picchiata, i tonfi sordi delle
esplosioni in lontananza. Cerca di capire,
mi dissi, che questi rumori, questi oggetti
fanno parte di un’unica scena integrata.
Svegliati. È tutto perfettamente reale. E, in
quel preciso momento, effettivamente mi
svegliai. In quel momento, all’improvviso,
arrivai in Cina».
Paradossalmente è solo allora, soltanto
quando risulta chiara la percezione di un
paese in guerra, che quel paese svela fino in
fondo anche i suoi tratti più ordinari, quotidiani. Dall’uso pervasivo dei biglietti da visita, senza i quali viaggiare in Cina sarebbe
risultata un’impresa proibitiva, al fenomeno imperscrutabile del cibo: «Ci fermammo a far benzina vicino a un ristorante dove cucinavano il bambù in tutte le sue varianti — compresi i listelli usati per fare le sedie. Un fenomeno caratteristico di questo
paese. Niente è specificamente commestibile. Si potrebbe incominciare con lo sgranocchiare un cappello o mordere un pezzo
di muro; alla stessa stregua, si potrebbe costruire una capanna con il cibo predisposto
per il pranzo. Tutto è tutto».
Sì, Auden e Isherwood frequentano e
Repubblica Nazionale
42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 16 SETTEMBRE 2007
la lettura
Filosofia al femminile
Ha dedicato la vita allo studio del totalitarismo
e della politica. Ha scritto un libro fondamentale
sulla banalità burocratica del male nazista. È stata
l’amante di Heidegger. La Arendt ha sempre parlato poco
di se stessa, ma ha scritto moltissimo. Come si legge
nei suoi diari ora pubblicati in Italia
L’amore secondo Hannah
potenza senza tenerezza
HANNAH ARENDT
Febbraio 1951
uel che siamo e sembriamo,
A chi importa.
Quel che facciamo e pensiamo
Nessuno se ne indigna.
Il cielo è in fiamme,
Chiaro il firmamento
Sopra l’unione
che non conosce la via.
Q
Giugno 1951
I pensieri vengono a me,
non sono più un’estranea per loro.
Cresco e divento la loro dimora
come un campo coltivato.
Vieni e abita
nella buia stanza obliqua del mio cuore,
ché la vastità delle onde ancora
si chiude allo spazio.
Vieni e cadi
nei fondi colorati del mio sonno,
che ha paura del ripido
abisso del nostro mondo.
Vieni e vola
nella lontana curva della mia nostalgia,
che l’incendio divampi
all’altezza di una fiamma.
Stai e resta.
Aspetta che l’arrivo giunga
inesorabile dal lancio
di un istante.
Sopravvivere
Ma come si vive con i morti? Di’,
dov’è il suono che ne tradisce la
presenza,
com’è il gesto se, condotti da loro,
desideriamo che la prossimità stessa a
noi si neghi?
Chi sa il lamento che li allontana da noi
e tira il velo sullo sguardo vuoto?
A che cosa serve rassegnarsi alla loro
assenza,
e rivolta il sentimento che impara a sopravvivere.
Il sentimento rivoltato è come il coltello rivoltato nel cuore.
Agosto 1951
Che fretta ha
il tempo,
non si sofferma,
aggiunge
anno dopo anno
alla sua catena.
I capelli
son presto
bianchi e soffiati via.
Ma se il
tempo si divide
ogni anno
in notte e giorno,
se il cuore
si sofferma —
non gioca
all’eternità
col tempo?
è incontestabile che a Friburgo io mi sia
recata (e non caduta) in una trappola. Ma
è ugualmente incontestabile che Martin
[Heidegger], lo sappia o no, si trovi in questa trappola, che in essa sia di casa, che abbia costruito la sua casa attorno a questa
trappola; cosicché si può andare a trovarlo soltanto se si va a trovarlo nella trappola, se si va in trappola. Quindi sono andata a trovarlo nella trappola. Il risultato è
che ora lui sta di nuovo seduto da solo nella sua trappola.
Gennaio 1952
Ogni solitudine portata con coerenza
sino alla fine sfocia in disperazione e abbandono — semplicemente perché non
è possibile gettarsi al collo di se stessi.
Sembra che tutto debba ripetersi. E mi
chiedo che ne sarà di Te fra sette anni. La
prossima tempesta, che soffia già da ogni direzione, come se si esercitasse nel soffiare e
nello spazzare via, Ti risucchierà e Ti farà girare nel vortice, poiché navigando — e anche nei pericoli della navigazione — hai gettato tutto di bordo e sei rimasto senza un peso tuo? Oppure, per parlare una lingua diversa e molto più precisa, che non è la mia
lingua, vuoi veramente fare di Te un “contenitore” [...] e condividere l’essenza del contenitore, che è il vuoto?
Non respingerlo subito. Se vuoi (devi?)
imboccare questa strada, hai soltanto
un’opportunità — che ti si possa ancora
incontrare.
La forza diventa potere solo nel momento in cui si allea con altri. La forza che
non può diventare potere, perisce da sé in
se stessa.
Maggio 1952
Sono solo una
Delle cose,
Quelle piccole,
Che riuscirono
Per esuberanza.
Stringimi fra le Tue mani,
Che si espandano
Oscillanti
Nella riuscita,
Quando hai paura.
Giugno 1952
Manchester
Finché abitiamo questa terra, abbiamo
tanto bisogno gli uni degli altri quanto
avremo bisogno di Dio nell’ora della morte, quando cioè lasceremo la terra.
Ottobre 1952
In qualunque modo lo si voglia vedere,
Soltanto quando
è spezzato il cuore
batte al proprio ritmo
Se non si spezza,
si pietrifica
Maggio 1953
L’amore è una potenza e non un sentimento. S’impadronisce dei cuori, ma non
nasce dal cuore. L’amore è una potenza
dell’universo, nella misura in cui l’universo è vivo. Essa è la potenza della vita e ne
garantisce la continuazione contro la
morte. Per questo l’amore “supera” la
morte. Appena si è impossessato di un
cuore, l’amore diventa una potenza ed
eventualmente una forza.
L’amore brucia, colpisce l’infra, ovvero lo spazio-mondo fra gli uomini, come
il fulmine. Questo è possibile soltanto se
vi sono due uomini. Se si aggiunge il terzo, allora lo spazio si ristabilisce immediatamente. Dall’assoluta assenza di
mondo (=spazio) degli amanti nasce il
nuovo mondo, simboleggiato dal figlio.
In questo nuovo infra, nel nuovo spazio di
un mondo che inizia, devono stare ora gli
amanti, essi vi appartengono e ne sono responsabili. Proprio questa è però la fine
dell’amore. Se l’amore persiste, anche
questo nuovo mondo viene distrutto. L’eternità dell’amore può esistere soltanto
nell’assenza di mondo (dunque: «e se Dio
vorrà, ti amerò anche di più dopo la morte» — ma non perché allora io non “vivrò”
più e di conseguenza potrò forse essere
fedele o qualcosa del genere, ma a condizione di continuare a vivere dopo la morte e di aver perduto in essa soltanto il mondo!) o come amore degli “abbandonati”,
non a causa dei sentimenti, ma perché,
assieme agli amanti, è andata perduta la
possibilità di un nuovo spazio mondano.
Gennaio 1954
Amo la terra
come in viaggio
il luogo straniero,
e non diversamente.
Così la vita mi tesse
piano al suo filo
in una trama sconosciuta.
All’improvviso,
come il commiato in viaggio,
il grande silenzio irrompe nel telaio.
Il cuore è un organo curioso; soltanto
quando è spezzato, batte al proprio ritmo;
se non si spezza, si pietrifica. La pietra che
ci cade dal cuore è quasi sempre quella in
cui il cuore si era quasi trasformato.
Marzo 1955
Amor mundi — perché è cosi difficile
amare il mondo?
Una volta che abbiamo iniziato a pensare, i pensieri arrivano come le mosche e
ci succhiano il sangue vitale.
Maggio 1955
Dolcezza grave
La dolcezza è
all’interno delle nostre mani,
quando la superficie si
accomoda alla forma estranea.
La dolcezza è
nella volta celeste notturna,
quando la lontananza si
concede alla terra.
La dolcezza è
nella tua mano e nella mia,
quando la vicinanza bruscamente
ci fa prigionieri.
La malinconia è
nel tuo sguardo e nel mio,
quando la gravità ci
accorda uno nell’altro.
Fine 1957
Ti vedo soltanto
come stavi alla scrivania.
Una luce cadeva in pieno sul tuo viso.
Il vincolo degli sguardi era così stretto,
come se dovesse portare il tuo peso
e il mio.
Il legame si è spezzato,
e fra noi si è creato
non so quale strano destino,
che non si può vedere e che nello sguardo
non parla e non tace.
La voce trovò e cercò
ascolto nella poesia.
Natale 1964
Un tempo, per corazzarmi contro la vanità, l’ambizione e i desideri folli, ho spesso
giocato con la morte. Al cospetto della morte, della mortalità dei mortali — Vanitas vanitatum vanitas. Un pensiero assai consolatorio. Ma oggi, poiché in parte il mondo
viene incontro proprio alla mia vanità, ricompensa la mia ambizione e ogni tanto
Repubblica Nazionale
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43
FOTO ULSTEIN BILD / ALINARI
DOMENICA 16 SETTEMBRE 2007
Tra vita pubblica e privata
Officina di idee
colori e dolore
AMBRA SOMASCHINI
a dolcezza è / nella tua mano
e nella mia, / quando la vicinanza bruscamente / ci fa
prigionieri. La malinconia è / nel tuo
sguardo e nel mio, / quando la gravità ci
/ accorda uno nell’altro». Hannah
Arendt intima, privata, sconosciuta al
pubblico italiano. Lo stile è scarno, sobrio, essenziale, spesso privo di verbi,
un diario filosofico diretto, mai mediato da setacci editoriali. La filosofa della
“banalità del male” racconta emozioni
e sentimenti, mette insieme il suo sé. i
Diari (curati da Chantal Marazia, Neri
Pozza, 688 pagine, 55 euro, in libreria
dal 21 settembre) rivelano un mondo
nuovo fatto di colori («Il colore fa apparire l’universo, / i colori separano cosa
da cosa») di amori («Vieni e abita / nella buia stanza obliqua del mio cuore»,
«vieni e cadi / nei fondi colorati del mio
sonno») di dolori («Il mio dolore ha lavorato un tempo il ciglio a lamenti /
contro la giungla del mondo»).
I quaderni, stampati in Germania da
Piper, curati da Ursula Lutz e Ingeborg
Nordmann, coprono vent’anni di storia, dal 1959 al ‘73. Un universo a parte
che forse si lega di più alla sua scelta di
presentare una tesi di laurea nel ‘29 ad
Heidelberg sull’amore in Sant’Agostino che alla sua vita passata a formulare
idee sugli orrori dei totalitarismi.
Arendt scrive a mano e nel testo è stato
fatto uno studio dettagliato per rendere la sua dinamicità linguistica: le parti
in inglese sono in corsivo, le citazioni
dal greco, dal latino e dal francese sono
riproposte in lingua originale; le citazioni dal tedesco e dall’inglese sono
state tradotte. Tutto conservato al
Deutsches Literaturarchiv di Marbach
tranne il primo taccuino, approdato
nella Library of Congress di Washington.
Ventinove quaderni in tutto, ricettacoli ideali per esprimere pensieri, laboratori senza mediazioni, nemmeno
quella della macchina da scrivere.
Arendt ha avuto due mariti, Gunter
Stern e Heinrich Blucher, e un amante,
Martin Heidegger. «Nell’inverno 192425 Heidegger tenne un corso magistrale su Platone e Aristotele — ha spiegato
Franco Volpi — il filosofo trentacinquenne rimase colpito, come scriverà
nelle lettere, “da quello sguardo che mi
rivolgevi mentre parlavo dalla cattedra”. A fulminarlo furono gli occhi di
Hannah diciottenne che seguiva con
soggezione le sue lezioni».
«L’amore — sostiene la filosofa — è
un evento da cui può derivare una storia o un destino. Il matrimonio come
istituzione della società riduce in briciole questo evento, come tutte le istituzioni consumano gli eventi sui quali
erano state fondate». Poi ci illumina sul
significato della poesia: «La poesia concentra densamente, protegge il nucleo
degli avversi sensi. / Il guscio, quando
emerge il nucleo, / mostra al mondo il
denso interno»; del tempo, degli anni:
«Un ragazzo e una ragazza / al torrente
e nei boschi / prima sono giovani assieme / poi assieme sono vecchi. / Fuori
giacciono gli anni / e ciò che chiamiamo
vita / dentro vive l’assieme, / che non
conosce né anni né vita».
«Questi diari sono un’officina del
pensiero — osserva Chantal Marazia —
Arendt come filosofa dello spazio pubblico ha sempre tenuto rigorosamente
separato il suo privato fino al punto di
definire la vita privata una tautologia.
Scrive lei stessa: “Ogni vita è privata.
Finché viene vissuta, nessuna vita può
tollerare lo spazio pubblico”».
«L
PENSATRICE
Hannah Arendt in una delle ultime foto prima della morte nel 1975
esaudisce i miei folli desideri, mi rendo
conto che il gioco con la morte non serve
più. La morte stessa non è più il nostro letto di morte o d’agonia. Non che io abbia
paura, ma le mie preoccupazioni vanno al
di là della morte, voglio che il mio testamento sia in ordine, le mie carte al sicuro,
che quel po’ di denaro sia distribuito in modo giusto — insomma, quando il mondo ci
sorride, in fin dei conti siamo subito disposti a provare un interesse estremamente disinteressato nei suoi confronti.
Maggio 1965
A dire il vero, da quando avevo sette an-
ni, ho sempre pensato a Dio, ma non ho
mai riflettuto su Dio.
Ho desiderato spesso non dover più vivere, ma non mi sono mai interrogata sul
senso della vita.
PAGINE
Qui sopra la copertina dei Diari
di Hannah Arendt
Nell’altra pagina, due fogli originali
La nostra cognizione del tempo si orienta esattamente rispetto al numero di anni
che abbiamo vissuto. Più si è giovani, più un
anno è lungo, ma anche un’ora o un giorno.
Se ho cinque anni, un anno corrisponde a
un quinto della mia vita; se ne ho cinquanta, è soltanto un cinquantesimo. Ciò cambia
solo quando si diventa vecchi e si inizia a
contare partendo dalla morte e non più dal-
la nascita. Allora gli anni diventano di nuovo impercettibilmente più lunghi.
Novembre 1968
La notte scorsa ho sognato Kurt Blumenfeld — per la prima volta in vita mia,
credo. Nel sogno, lo incontravo inaspettatamente su un bel ponte nel bosco. Si levava di bocca il sigaro, per baciarmi. Gli
dicevo: «Sei veramente tu? Non posso mica farmi baciare da uno sconosciuto». Ma
lo dicevo ridendo. Nel sogno non sapevo
che era morto. Mi sono svegliata ridendo.
Per la gioia di questo incontro inatteso.
(© 2007 Neri Pozza)
Repubblica Nazionale
44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 16 SETTEMBRE 2007
Nel 1957 l’avvocato nato dalla fantasia di Erle Stanley
Gardner approdava in tv. La sua umanità, il suo rigore
e i suoi “obiezione vostro onore” lo resero universale
Ancora oggi, a cinquant’anni esatti, è l’archetipo dell’eroe che salva
gli innocenti, il mattatore sul palcoscenico dell’aula di giustizia
Come spiega uno scrittore di legal thriller che conosce bene quel mondo
RAYMOND BURR
BARBARA HALE
WILLIAM HOPPER
CONNIE CEZON
Nelle vesti dell’inflessibile e carismatico
Perry Mason vince quasi tutte
le sue cause
Voluta, si dice, dall’autore del romanzo
Erle Stanley Gardner, interpreta
la devota e leale segretaria Della Street
Nel serial presta il volto al fido
investigatore Paul Drake
che completa il terzetto
Nel ruolo dell’allegra receptionist
Gertrude Lade appare raramente
nella serie tv anche se presente nei racconti
Perry
Il fascino della legge
Mason
RAY COLLINS
È l’abile e irascibile investigatore
di polizia Arthur Tragg
della squadra omicidi
FOTO EVERET/CONTRASTO
WILLIAM TALMAN
Veste di frequente nella serie
i panni del procuratore distrettuale
Hamilton Burger
GIANRICO CAROFIGLIO
e storie di Perry Mason sono uno dei
più classici esempi di narrazione seriale, non solo nel senso della proposizione ripetuta dello stesso personaggio (anzi: dello stesso gruppo di
personaggi, dalla segretaria, all’investigatore privato, al procuratore distrettuale), ma
anche e soprattutto nel senso della riproposizione del medesimo, rassicurante schema narrativo.
Tutti gli episodi della serie raccontano la stessa
storia. Un innocente accusato di un grave delitto
si rivolge all’avvocato Perry Mason che ne assume
la difesa, affida le necessarie indagini al suo investigatore privato di fiducia e nel corso di spettacolari interrogatori riesce a dimostrare al giudice, alla giuria e anche a un inebetito pubblico ministero, l’innocenza del suo cliente e la colpevolezza
del vero responsabile. Di regola, il principale testimone d’accusa.
Nella vita reale, ovviamente, le cose vanno in
modo diverso, ma il successo di Erle Stanley Gardner e dei numerosi autori che dopo di lui si sono
dedicati alla narrazione giudiziaria ha ragioni sicuramente più complesse della rassicurante ripetizione di uno schema e della felice costruzione di
personaggi accattivanti. Il processo ha uno
straordinario fascino narrativo perché è esso stesso un meccanismo per la produzione di storie e
perché ha a che fare con il bisogno di mettere ordine nel caos dell’esistenza e dei diversi punti di
vista sul male e sulla colpa.
Rashomon, capolavoro di Akira Kurosawa, è a
suo modo la storia di un processo, e ripercorrerne
la trama consente di capire molte cose sul fascino
della narrazione giudiziaria e sul carattere illusorio delle nostre idee tradizionali sulla verità. In Rashomon si racconta di un bandito accusato di avere assassinato un samurai e di averne violentato la
moglie. I tre protagonisti della vicenda, incluso il
samurai morto (il cui spirito viene evocato da una
maga) raccontano tre diverse versioni dei fatti,
scaricando sugli altri la responsabilità, soprattutto morale dell’accaduto. Un boscaiolo, testimone
esterno del dramma, racconta a sua volta una
quarta versione, radicalmente diversa da quella
dei tre protagonisti.
La storia di Rashomon ci fa riflettere su come i
punti di vista incidano in modo determinante sulla percezione, sulla narrazione e, in un qualche
modo, sulla creazione stessa della realtà da parte
di soggetti diversi. In questo senso costituisce una
L
Il processo è spesso tragedia, a volte
commedia, comunque un affascinante
macchinario spettacolare; per quello
che accade e per le storie che racconta
sorta di paradigma di quello che accade sul palcoscenico processuale. Non è — palcoscenico —
una parola presa a caso. Nel processo si discute del
bene e del male, o quanto meno del giusto e dell’ingiusto in un contesto — l’udienza — che richiama alla mente i canoni aristotelici di unità di
azione, di tempo e di luogo e nel quale si consumano conflitti spettacolari. Drammatici spesso,
ma a volte anche comici.
Nei paesi di common law si tramandano numerosi aneddoti, a volte veri, spesso comunque verosimili, che mostrano la parte grottesca, ridicola
o comica del processo. Un uomo era accusato di
lesioni personali per aver staccato con un morso
un pezzo di orecchio al suo avversario durante un
litigio. Il pubblico ministero aveva esaminato il
principale teste d’accusa, presente al fatto e dunque toccava al difensore dell’imputato procedere
al controesame per cercare di inficiare l’attendibilità della deposizione.
Avvocato: «Dunque lei afferma che il mio cliente ha staccato l’orecchio alla persona offesa?»
Teste: «Sì».
Avvocato: «A che distanza dalla colluttazione
si trovava lei?»
Teste: «Una ventina di metri, forse anche di
più».
Avvocato: «Che ora era, più o meno?»
Teste: «Le nove di sera».
Avvocato: «Ed eravate nel parcheggio del supermercato, all’aperto, esatto?»
Teste: «Sì, esatto».
Avvocato: «Era ben illuminato?»
Teste: «Non molto».
Avvocato: «Si può dire che il tutto è accaduto
nella semioscurità?»
Teste: «Sì, più o meno. Insomma, non c’era
molta luce».
Avvocato: «Quindi mi faccia riepilogare: il fatto è accaduto alle nove di sera, in un parcheggio
male illuminato e lei si trovava a più di venti metri dal punto specifico in cui si svolgeva l’azione.
È esatto?»
Teste: «È esatto».
A questo punto — dicono i manuali — il difensore avrebbe dovuto fermarsi. Aveva ottenuto un
risultato utile e durante la discussione avrebbe
potuto attaccare l’attendibilità della testimonianza, sostenendo con buoni argomenti, che in
quelle condizioni (distanza e cattiva illuminazione) non era possibile che il teste avesse visto l’azione del morso. Una delle regole fondamentali
della cross examination è quella di non fare una
DIFESA
ALL’ATTACCO
Nella foto grande
Perry Mason
in azione. L’avvocato
nato dalla penna
di E.S. Gardner,
è solito difendere clienti
accusati d’omicidio
che riesce a far
scagionare dopo aver
trovato il vero
colpevole: ha perso
solo tre cause
in carriera. Nell’altra
pagina, Mason
interroga una teste
Repubblica Nazionale
DOMENICA 16 SETTEMBRE 2007
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45
SU REPUBBLICA.IT
Da oggi online
due audiogallery
a cura di Repubblica.it,
Repubblica TV
e La Domenica
di Repubblica realizzate
da Matteo Pucciarelli
e Valentina Clemente
Un successo mai eguagliato
L’attore inquieto
e la serie perfetta
MARIA PIA FUSCO
enza Perry Mason 270 innocenti
sarebbero finiti nella camera a
gas. Li ha salvati con la dialettica e
la scoperta del vero colpevole, stanato
con l’aiuto dell’infaticabile Paul Drake
e le intuizioni di Della Street. Dei 273
casi di cui si è occupato — tanti gli
show andati in onda dal ‘57 al ‘66 e riproposti dalle tv di mezzo pianeta,
perfino in Urss e nella Germania dell’Est, malgrado i complotti comunisti
denunciati nella serie — solo tre volte
il suo assistito è stato condannato, ma
due erano davvero colpevoli. A cinquant’anni dal debutto, Perry Mason
resta l’avvocato tv più famoso del
mondo, con laurea ad honorem a Raymond Burr dall’università di Sacramento, sessanta interventi dell’attore
nei congressi di categoria e la stella
n.6.656 di Hollywood Boulevard.
Nessuna delle serie giudiziarie
create in seguito, da Practice a Law
and Order, ha raggiunto la fama di
Perry Mason, forse solo con Ironside,
l’avvocato sulla sedia a rotelle in azione dal ‘67 al ‘75, Burr si è avvicinato allo stesso successo. Perry Mason era costruito con una ripetitività rituale.
Nella prima mezz’ora c’è un omicidio
e la polizia arresta la persona sbagliata, che chiama Perry Mason come difensore. La parcella è di cinquemila
dollari, ma, generoso e giusto, difende
anche poveri
cristi in cambio di pochi
dollari e tanta
gratitudine.
Nella seconda
metà al processo nell’aula
giudiziaria si
alternano le
sequenze della
ricerca di prove a favore dell’imputato,
spesso con
SECONDO TEMPO
Paul Drake
Raymond Burr,
(William Hopdopo Perry Mason,
per) in situainterpretò un altro grande
zioni di alto ripersonaggio tv, Robert
schio e anche
Ironside, uno specialista
Della (Barbara
legale in carrozzella. Poi
Hale), molto di
tornò al primo, senza mai
più di una seripeterne il successo
gretaria, pariniziale, negli anni Ottanta
tecipa all’indagine. Il finale è il più atteso: Mason produce prove talvolta bizzarre — profumi, pappagalli, scarpe, oggetti strani — ma inconfutabili e il massimo è quando
interroga un testimone e con domande implacabili lo spinge a confessare
in aula.
Gli italiani l’hanno scoperto nel fascino del bianco e nero sul finire degli anni Cinquanta, spesso sul televisore dei
vicini di casa più abbienti. Mason però
è nato negli anni Trenta, protagonista
di un’ottantina di gialli di Erle Stanley
Gardner ed era stato interpretato da vari attori in almeno cinque film, nessuno
di successo. E di scarso successo, dopo
anni di teatro e di cinema, era la carriera di Raymond Burr, quando fu scelto.
Nei film era stato spesso il cattivo, era
lui l’assassino in La finestra sul cortile,
ma nel ‘73 fu papa Giovanni XXIII in un
telefilm e, secondo le cronache, venne
ad incontrare il pontefice e si stupì che
sapesse tutto di Mason. Fu scelto per lo
sguardo intenso, indagatore, ironico e
la bella voce sonora di cui variava le intonazioni per pronunciare «obiezione,
vostro onore».
Nato in Canada nel 1917 (è morto in
California nel 1993), Burr ha avuto fama e soldi — un milione di dollari
l’anno fu un record — ma una vita segnata dal dolore. Tre matrimoni finiti, due per vedovanza e uno per divorzio, un figlio morto, una serie di malattie, dal tifo alla malaria. Se non bastasse, negli ultimi anni di vita partì
una campagna pettegola sulla sua
omosessualità, la ragione per cui
Gardner e gli autori della serie avevano evitato di creare un legame sentimentale tra Perry e Della, che pure
molti fan avrebbero voluto. Si diceva
che i matrimoni fossero tutti un’invenzione dei pierre in un tempo in cui
Hollywood soffriva di omofobia. Malgrado lo sdegno dei fan che gli chiedevano di smentire, Burr tacque: nessuna obiezione.
S
3.937
il cast della serie; in media
14,5 persone a episodio
271
gli episodi andati
in onda negli Stati Uniti
58
9
domanda di troppo, perché un risultato brillante
potrebbe venire sciupato o addirittura capovolto.
In questo caso l’avvocato non si attenne a questa
regola fondamentale. Vediamo l’epilogo del controesame.
Avvocato: «E lei vuol farci credere che in queste condizioni è riuscito a vedere il mio cliente
che staccava un piccolo pezzo di orecchio al
suo avversario?»
Teste: «Ma io non l’ho visto mentre lo staccava…»
Avvocato: «Allora come fa a sostenere che …»
Teste: «…l’ho visto mentre lo sputava subito
dopo».
Il processo dunque è spesso tragedia, a volte
anche commedia, comunque un sofisticato
macchinario spettacolare a doppio taglio; per
quello che in esso accade e per le storie che in
esso si raccontano.
Tutti nel processo, anche se in modi diversi, rac-
contano storie. I testimoni e gli imputati raccontano la loro versione di fatti vissuti o percepiti. I
pubblici ministeri, gli avvocati, gli stessi giudici al
momento di motivare le loro sentenze, prendono
il materiale grezzo costituito da prove e indizi, lo
mettono insieme, cercano di dargli struttura e
senso in storie che raccontino in modo plausibile
i fatti del passato.
Noi tutti costruiamo storie (nei processi ma anche nella vita) per cercare di mettere ordine nel
caos, per cercare di estrarne una verità accettabile. Lo scopo del processo è selezionare, fra le storie proposte dalle parti in competizione, quella
munita del migliore grado di accettabilità. Quella
capace di spiegare tutti i dati di fatto, senza lasciarne fuori nessuno, secondo un criterio di congruenza narrativa. Superando i punti di vista e le
prospettive particolari.
Il processo dunque, attraverso la narrazione
di storie, mira alla ricerca e alla ricostruzione
le stagioni andate in onda
dal ’57 al ’66 sulla Cbs
della verità. Ma “la verità” è un concetto difficile da immobilizzare, che custodisce nelle pieghe
delle lettere che la compongono, contraddizioni e significati nascosti. La locuzione “la verità”
può essere anagrammata in “relativa”; ma anche in “rivelata” e anche, ancora, in “evitarla”.
Ognuno può scegliere l’anagramma e il significato che preferisce.
Per chi crede nel primato della tolleranza e dell’intelligenza critica è facile scegliere la soluzione
proposta da Norberto Bobbio nella prefazione al
Trattato dell’argomentazione di Perelman e Tyteca: «La teoria dell’argomentazione rifiuta le antitesi troppo nette: mostra che tra la verità assoluta
degli invasati (rivelata ndr) e la non verità degli
scettici (evitarla ndr) c’è posto per le verità (relative ndr) da sottoporsi a continua revisione mercè
la tecnica di addurre ragioni pro e contro. Sa che
quando gli uomini cessano di credere alle buone
ragioni, comincia la violenza».
FOTO EVERET/CONTRASTO
i paesi in cui il telefilm
è stato trasmesso
Repubblica Nazionale
46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 16 SETTEMBRE 2007
i sapori
Germania in tavola
Per anni la gastronomia tedesca è stata
sinonimo di pochi, semplici piatti. Oggi
i cuochi teutonici hanno preso confidenza
con l’alta ristorazione. E l’Oktoberfest,
in programma da sabato, è un’altra buona
occasione per sperimentare
Bavarese
Cucina
Birra e wurstel
fu solo l’inizio
LICIA GRANELLO
6,2 mln
I litri di birra bevuti
all’Oktoberfest
380 mila
I wurstel consumati ogni
anno all’Oktoberfest
6,3 mln
I visitatori dell’ Oktoberfest
lo scorso anno
n principio furono wurstel e crauti. Quelli ingollati, allegramente intrisi di senape e innaffiati di birra, in tutti i locali d’ispirazione teutonica, dalla mirabolante Oktoberfest — madre di tutte le gastro-zingarate, in programma
da sabato prossimo al 7 ottobre — alla più modesta birreria di Iesolo. Al massimo ci si spingeva ad addentare un
pretzel, i nastri di pane a forma di cuore, a gustare una delle cento ricette con le patate — kartoffeln! — protagoniste.
Per anni abbiamo pensato che la cucina tedesca — meglio, quella del sud della Germania, a noi più vicina e non solo in termini
chilometrici — fosse tutta lì, ancorata ai suoi comandamenti
strabici che la vogliono invernale nel piatto ed estiva nel boccale (mass, in bavarese). Solo gli entusiasti della Foresta Nera —
natura forte, incontaminata, residenze deliziose e cene pantagrueliche — favoleggiavano di meravigliosi arrosti, acquaviti
profumate, torte soffici e tentatrici.
È toccato ai grandi chef border-line con l’Italia — a cominciare dal talentuoso tirolese Norbert Niederkofler — sdoganare
la gastronomia tutta birra&salsicce e portarla in passerella. Per
fortuna dei nostri palati, la comunicazione tra cuochi è più veloce di Internet. Le virtuose produzioni figlie di uno sterminato
territorio agricolo-boschivo (quasi l’80 per cento dell’intera
Germania) hanno preso rapidamente confidenza con le passerelle dell’alta ristorazione, e, per ricaduta, con quelle delle nostre case.
Poi è toccato alla cultura. In primavera, il Teatro stabile di Bologna ha portato alcuni supercuochi a far la spesa in presa diretta, tra pascoli e vigne, per realizzare nel bel chiostro dell’Arena del Sole le cene estive à côté della stagione teatrale. È stato un
successo continuato, convinto, pieno di richieste curiose e di
scoperte memorabili. Tra un autografo di Moni Ovadia e una
domanda al console Hartmann, gli spettatori-gourmet hanno
I
appreso il godimento della trota affumicata, la succosa croccantezza del maialino alla brace, la carnale bontà dei bianchi
wurst(in tedesco) di Monaco, accompagnati da pani scurissimi
e gagliardi.
Così, negli ultimi mesi il conto dell’import-export agroalimentare con l’Italia è andato addirittura in positivo: abbiamo
scoperto d’improvviso che per qualità e quantità le carni bovine e suine tedesche sono al primo posto nella classifica delle importazioni. Dalla più grande e visitata regione della Germania
infatti arrivano i maialini da latte che Mauro Uliassi presenta in
tre goduriose cotture, gli asparagi bianchi preferiti da Marco
Fadiga, il manzo che Mario Ferrara rinchiude a cubi in dorata
crosta di pane. I distributori della Selecta, abituati a soddisfare
richieste semi-amatoriali per timide quantità di prodotti bavaresi, oggi evadono ordini sempre più polposi e allargati. Merito
anche di filiere molto rigorose, con certificazioni di qualità che
sfiorano quelle, per altro molto diffuse, del biologico. Nel “Libero Stato della Baviera” — Freistaat Bayern, come recitano i
cartelli stradali ai confini della regione — il recupero di razze e
colture in via di estinzione rende orgogliosi i rappresentati locali di Slow Food, che hanno fatto dei formaggi a latte crudo e
dei wurstel senza conservanti (imparagonabili per gusto e digeribilità alle scialbe salsiccette gonfie di chimica dei nostri negozi) la loro bandiera.
Se avete un residuo di vacanze da regalarvi, organizzate una
puntata nei giorni feriali dell’Oktoberfest (il martedì è dedicato
alle famiglie, con attività ludiche per i più piccoli) per evitare il
surplus festivo di visitatori, con fermata d’obbligo nei bei negozi di delikatessen. Al ritorno dal Theresienwiese (il “Prato di Teresa”, sede della festa), assaporando un weisswurst con una birra Munchner vi sentirete pronti per le battaglie d’autunno: quasi come un protagonista di Sturmtruppen.
Repubblica Nazionale
DOMENICA 16 SETTEMBRE 2007
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47
Norimberga
Monaco
itinerari
Petros Michelidakis
è l’esperto
giramondo
del Cma, Centrale
di marketing
tedesca per
l’agroalimentare
Greco con moglie
spagnola, è da poco
approdato a Milano,
fiero del pareggio
dell’import-export
merito della qualità
di carni e latticini
Augusta
La “capitale segreta
della Germania”, quasi
un milione e mezzo
di abitanti, affianca
a una colta miscellanea
di cucine del mondo
le sue trattorie-birrerie
ipertradizionali,
a partire dalla gloriosa
Hofbräuhaus. Nei menù, stinchi di maiale,
salsicce e polpettoni
Sede della fiera
mondiale del biologico
(Biofach), vanta
un bellissimo
mercatino di Natale,
con migliaia di visitatori
dal mondo. Tra i piatti
tipici della Franconia,
i Rostbratwurst,
mini-wurst cucinati alla griglia, serviti con patate
in insalata o crauti
La medievale
Augsburg, antica,
potente sede
di banche e commerci,
città natale di Bertolt
Brecht, fa parte della
Romantische Strasse,
che attraversa
la Svevia in verticale
Nei locali tradizionali, spätzle e piatti di pesce,
serviti con birra di convento
DOVE DORMIRE
DOVE DORMIRE
DOVE DORMIRE
HOTEL ISARTOR
Baaderstrasse 2
Tel. (0049) 089-2163340
Camera doppia da 90 euro, colazione inclusa
HOTEL DEUTSCHER KAISER
Königstrasse 55
Tel. (0049) 0911-242660
Camera doppia da 105 euro, colazione inclusa
PRINZ LEOPOLD HOTEL
Bürgermeister-Widmeier Strasse 54
Tel. (0049) 0821-80770
Camera doppia da 90 euro, colazione inclusa
DOVE MANGIARE
DOVE MANGIARE
DOVE MANGIARE
ZUM ALTEN MARKT
Dreifaltigkeitsplatz 3
Tel. (0049) 089-299995
Chiuso domenica, menù da 30 euro
NASSAUER KELLER
Karolinenstrasse 2
Tel. (0049) 0911-225967
Chiuso domenica, menù da 25 euro
DIE ECKE
Elias-Holl-Platz 2
Tel. (0049) 0821-510600
Chiuso domenica, menù da 20 euro
DOVE COMPRARE
DOVE COMPRARE
DOVE COMPRARE
ALOIS DALLMAYR
Dienerstrasse 14
Tel. (0049) 089-21350
GÜNTHER STRAUB
Hauptmarkt 12
Tel. (0049) 0911-224950
FEINKOST KAHN (CON CUCINA)
Annastrasse 16
Tel. (0049) 0821-312031
Il mio menù
da centravanti...
LUCA TONI
ono emiliano, sono cresciuto con l’odore
delle piadine e del ragù, con la pasta fatta in
casa. Mi piace la buona cucina, anche se facendo il calciatore devo stare attento all’alimentazione. Ma ogni tanto qualche eccezione la faccio. L’impatto con la Germania è stato sorprendente. Soprattutto per l’entusiasmo della
gente. Un po’ meno per la sua cucina, che è molto diversa dalla nostra. Non mi capita quasi mai di mangiare specialità bavaresi, però da quando sono a Monaco
ho scoperto i wurstel. Niente a che vedere con quelli che
I pretiola (premi) erano
si trovano in Italia. Quando ho assaggiato quelli tedeelargiti nel 1600
schi ho capito che i nostri sono proprio un’altra cosa. Un
po’ la differenza che c’è tra un bel ragù fatto in casa e
dai monaci dell’arco
quello che si compra al supermercato. Se li avete provaalpino ai piccoli allievi
ti tutti e due sapete cosa voglio dire. Insomma, i wurstel
mi piacciono. E mi piace la birra. Qui la differenza si nomeritevoli. Impasto
ta meno, anche in Italia se ne trovano di buone, però
di farina, acqua
quella tedesca è più buona. La mia piccola esperienza
e lievito, modellato
con le specialità tedesche per il momento finisce qui.
Anzi una volta ho assaggiato anche lo stinco e non mi fa
e bollito una manciata
impazzire. Insomma, finora la mia Germania è stata
di secondi in acqua
tanto calcio e poca cucina, ma visto che dovrò stare a
e bicarbonato
Monaco a lungo sono sicuro che piano piano imparerò
ad apprezzare anche qualche altro piatto tipico.
Asciugatura, sale
Adesso penserete: ecco, il solito italiano che mangia sogrosso e cottura
lo spaghetti. Non è così. Non nel mio caso almeno. Io continuo a mangiare italiano per necessità. In Gerin forno per 20’
mania, al contrario di quanto succede in
Italia, le società di calcio non stanno
troppo attente all’alimentazione e
lasciano a ognuno di noi la libertà
di gestirsi da solo. E per me è più
“O’zapft is!”, la
facile andare avanti con le mie
parola che in dialetto
vecchie abitudini alimentari
bavarese
identifica che sperimentare piatti nuol’apertura della botte di vi. Tra l’altro a Monaco ci sono tanti ristoranti italiani e
birra con il tradizionale in alcuni si mangia veracolpo di martello, anche mente bene. E poi io passo
molto tempo a casa, per
quest’anno battezzerà l’inizio dell’Oktoberfest, a cui
è normale cucinare
Monaco da sabato 22 al 7 ottobre. Nata nel 1812 piatti italiani. Quelli di
per le nozze tra il principe Ludwig e Teresa di sempre. Pasta, carne, pesce, verdure. Soprattutto
Sassonia, la festa offre decine qualità di birra. Il quando a Monaco c’è anche
boccale standard da un litro, die Mass, la mia morosa, Marta. Anche
lei sta attenta all’alimentaziocosta 7 euro. Imperdibile la birra
ne, per cui quando siamo insieaffumicata, rauchbier, prodotta da
me non sgarriamo mai. Se uno fa
il calciatore professionista dopo un
500 anni nella zona di
po’ diventa uno stile di vita. E io non
Bamberg
l’ho cambiato, anche se ogni tanto per curiosità faccio qualche incursione nella cucina
tedesca.
Del resto dopo aver accettato l’offerta del Bayern Monaco mi sono chiesto spesso quale sarebbe stato il mio
impatto con la Germania. Per la prima volta nella mia
carriera ero un emigrante del pallone e non sapevo bene che cosa mi aspettasse. Facendo il calciatore sono
abbastanza abituato ai cambiamenti, ma questo era un
L’acqua di ciliegie, o semplicemente kirsch,
cambiamento radicale. E non riguardava solo il mio lavoro. Anzi, il pallone in tutta questa vicenda era la cosa
è l’acquavite-simbolo della tradizione locale,
che mi preoccupava meno. Quando sei su un campo da
con i frutti protagonisti. Dopo la frantumazione
calcio le differenze non si vedono. Era tutto il resto che
di polpa e noccioli, si attiva la fermentazione
mi incuriosiva. Un Paese nuovo, una lingua che non conoscevo e non conosco (sto prendendo lezioni di tedecon zucchero. Alla distillazione,
sco), uno stile di vita e abitudini diverse e una cucina
segue affinamento in piccole botti
molto lontana dalla nostra. Passare dalle tagliatelle ai
wurstel non è facile, ma piano piano mi sto abituando.
Testo raccolto da Giuseppe Calabrese
S
Pretzel
Schrobenhausen
Spargel
L’asparago bianco carnoso
è la gloria di Schrobenhausen,
cittadina che ospita un museo
monodedicato, l’Europäisches
Spargelmuseum. Si usa come
contorno o in crema, frullato
con acqua di cottura e burro
Schwarzwälder
Kirschtorte
Il dolce di ciliegie
della Foresta Nera
è una monumentale,
golosa torta a tre
strati, realizzata
con una base
Margherita al cacao,
alternata a sciroppo
e crema aromatizzati
all’acquavite
di ciliegia, frutti
freschi e panna
Si decora con riccioli
di cioccolata
Oktoberfest
Maultaschen
Si dice che i sontuosi
ravioli di tradizione
sveva siano stati inventati
per ingannare Dio,
nascondendo la carne
tra le sfoglie di pasta
nei giorni di penitenza
La farcitura prevede
anche erbe, formaggio
e verdure. Si servono
in tavola conditi
con il burro o in brodo
Kirschwasser
Haxen
La tradizionale coscia di maiale o vitello, viene
massaggiata con sale, aglio, pepe e un trito
d’erbe prima di essere infornata. Frequenti
spennellature con la birra rendono la superficie
croccante. Il piatto si serve con crauti o gnocchi
(knodel) ben conditi con il sugo di cottura
Spätzle
Weißwurst
A differenza dei knödel – fatti
con pane raffermo, uova e latte
– questi gnocchetti, battezzati
col nome di passerotti
(in dialetto svevo) sono a base
di farina, uova e acqua
Dopo la bollitura, condimento
a base di pane grattugiato
spadellato con burro
Il wurstel bianco di Monaco,
preparato con carne di vitello,
manzo e maiale, va servito caldo
– immersione in acqua calda –
e rigorosamente gezzuelt,
spellato Troneggia nei menù
di colazione e pranzo,
accompagnato
da senape dolce e pretzel
Repubblica Nazionale
48 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 16 SETTEMBRE 2007
le tendenze
Corsi e ricorsi
Lunghissimi, al polso, sportivi o sofisticati, gli storici
accessori perdono la loro funzione primaria di antifreddo
e assumono questo autunno un nuovo ruolo glamour
Coprono le maniche di giacche e golfini, fasciano
le braccia, nascondono le dita: diventano, insomma,
compagni inseparabili di giorno e di sera
RAFFINATI MUST
BASE FRANCESE
PIÙ VIVACITÀ
COME TOPOLINO
Gucci non ha alcun dubbio:
i guanti in versione serale
come quelli neri, lunghi,
proposti in passerella
sono un must irrinunciabile
Parola di una griffe storica
Sono audacemente corti,
ma indossati di sera
e con sontuoso collo
di pelliccia, i guantini
proposti da Givenchy
Eleganza francese
Moschino si distingue
per vivacità e propone
morbidi guanti lunghi
(si possono anche arrotolare)
color arancio
Da indossare sempre
Sembrano proprio usciti
da un fumetto di Disney
i guanti Blugirl giallo oro
pensati per le più giovani
Per sentirsi un po’ come
l’eroico Topolino
INVERNO A COLORI
Coloratissimi, in cinghiale
e altri tipi di pelle, i guanti
Ferragamo da uomo
Contro il grigiore dell’inverno
VECCHIE FANTASIE
Hanno l’inconfondibile
marchio Pucci i guanti
fantasia ocra-biancomarrone beige proposti
in coppia con la borsa
Capricci di moda: mai più mani nude
LAURA LAURENZI
l nuovo conformismo impone
guanti a ogni ora del giorno. Soprattutto li impongono gli stilisti,
che si sono lanciati in una gara in
cui tutto, in quei pochi centimetri
di pelle, sembra concesso. Mai
più senza è la nuova parola d’ordine. Retrò o futurista il guanto è il nuovo (nuovo?) dettaglio moda soggetto a ogni capriccio: nella foggia, nella lunghezza,
nel materiale, nel design. E dunque si
salvi chi può nel diluvio di proposte: da
quella più classica a quella più osé, capovolgendo contesti e abitudini. Il nero
guanto di raso alla Gilda, una volta usato per andare al Teatro dell’Opera, si
porterà di giorno abbinato allo sportivissimo abitino di lana con le maniche
corte. E il guanto da automobilista, con
oblò sul dorso della mano, si esibisce a
I
sorpresa per la gran sera. I guanti si arrampicano su per il braccio a coprire la
manica della giacca e della camicia,
hanno enormi chiusure lampo sul dorso, sono di nappa bicolore profilati in
tinta a contrasto con schiere di bottoncini primo Novecento. Sono di pelliccia,
sono leopardati, di rafia, di pizzo, di lattice. Possono essere ornati con pendenti vari ed eventuali, ciondoli, charms,
cuoricini e anche teschi e brillanti Swarovski. Possono denudare le dita in stile
punk o addirittura la mano intera diventando intriganti polsiere, caricatura del
fetish. Proteggere dal freddo è l’ultimo
degli optional. Dopo le borse e le scarpe,
terreno di confronto creativo ma soprattutto di margini di guadagno miliardari, i guanti ci vengono proposti in questa nuova stagione come l’accessorio
per eccellenza, il must have, quello cui è
impossibile rinunciare.
Marlene Dietrich portava spesso i
guanti anche perché non le piacevano
le sue mani. I guanti consentono di occultare unghie non perfette, manicure
trascurate, rughe, macchie. Inoltre, ci
soccorrono gli esperti di look, aggiungono un tocco di classe al tubino un po’
spento, alla semplice camicia bianca,
al tailleur non fiammante. E conferiscono oltre a un’aria très chic anche un
alone di mistero e di fascino. Seducono. Evocano la “gelida manina”.
Con un semplice gesto il guanto ti
consente di mascherarti. A chi vuoi somigliare? Alla signora bon ton anni Cinquanta modello Grace Kelly, con i suoi
guantini chiari, bianchi, crema, ghiaccio? All’esile e sofisticatissima Audrey
Hepburn di Colazione da Tiffany, parametro di ogni moderna eleganza? A Lara Croft, dai corti e operativi guanti in
lattice nero? A Jessica Rabbit, che li por-
ta solo viola, e lunghi, naturalmente?
Alla “ragazza con guanti” (bianchi, da
moschettiere, su un impalpabile abito
da sera) ritratta da Tamara De Lempicka, che negli anni Venti precorreva
la moda di oggi? Nessun accessorio come il guanto evoca raffinatezza e insieme seduzione, nessun capo di abbigliamento è in modo così suggestivo e
paradossale una promessa di nudo.
Non a caso, quando ancora vigevano i
canoni dell’eleganza classica, quanto
più lunghi e coprenti erano i guanti, la
sera, tanto maggiori erano le porzioni
nude di spalle e di scollatura offerte agli
sguardi. Lo spogliarello più sexy della
storia del cinema non è forse quello di
Rita Hayworth in Gilda? Cantando
(doppiata) Amado mio, in fondo non si
sfila che un guanto. Il resto lo lascia sognare. E mai rinuncerebbe ai guanti,
nei suoi numeri di strip tease, Dita Von
Teese, la nuova reginetta del burlesque che infiamma le platee denudandosi con le movenze lente e felpate
delle dive di un tempo, cantando dentro un’enorme coppa di champagne.
Molto (astutamente) retrò.
E deliziosamente retrò, riletti oggi,
erano i dettami contenuti nei manuali di
etichetta e buona creanza, che imponevano alla vera signora di non uscire mai
di casa senza guanti. Nel suo Dizionario
del successo, dell’insuccesso e dei luoghi
comuni Irene Brin suggeriva alla donna
«di media età, di media situazione, di
medie ambizioni» di possedere nel suo
guardaroba «un paio di guanti in pelle
robusta, uno in camoscio-e-pelle, uno in
raso, e quanti può in capretto lavabile o,
economicamente, in satin elastico e picché». Colette Rosselli, in arte Donna Letizia, nel suo Saper vivere tesse le lodi dei
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DOMENICA 16 SETTEMBRE 2007
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 49
MEGLIO ZEBRATI
FOTO RUE DES ARCHIVES
Palmo in pelle nera
e dorso zebrato
effetto cavallino
Così Trussardi
“veste” le mani
delle donne
VITA DA RING
VERVE SPORTIVA
Color crema,
interamente foderati
in morbido cashmere:
ecco i guanti da pugile
proposti da Cucinelli
‘‘
Proposti da Tod’s, i guanti
neri in pelle hanno il dorso
scamosciato e una stringa
con bottoncino
Per chi sceglie lo stile sportivo
Gustave Flaubert
Emma si sfilava
le soprascarpe,
si cambiava
i guanti, si aggiustava
lo scialle e, venti passi
più avanti, scendeva
dalla Rondine
La città si stava
svegliando allora...
Da Madame Bovary
1856
ESPLOSIVA GILDA
Rita Hayworth nei panni di Gilda,
il film di Charles Vidor del 1945
La pellicola fece sognare i fan
della rossa attrice anche grazie
alla scena cult in cui lei balla
sulle note di Amado mio
FUMO DI LONDRA
JUST CAVALLI
SEXY ZIP
DARK LADY
Grigio fumo di Londra
e morbidezza impalpabile
Dior sceglie la versione
lunga (e serale) dei guanti
più classici alla Gilda
per conquistare le signore
Viola intenso. È il colore
che Just Cavlli propone
per sdramatizzare
gli eleganti guanti
che ben si accompagnano
alle mise da giorno
La lampo che corre lungo
il braccio assicura ai guanti
in pelle Burberry un’allure
altamente seduttiva
Per chi ama la comodità
senza rinunciare al look
È una dark Lady
raffinatissima la donna
Ferrè che opta
per la versione classica
dei guanti, con tubino
e calze in tinta
GRANDE FREDDO
In classica lana
come quelli
dei bambini,
ma lunghi fino
all’avambraccio
Ecco i guanti
Blumarine
per proteggersi
dal grande freddo
dell’inverno 2007
VELLUTO GIALLO
Preziosi,
in vellutato
camoscio
giallino, i guanti
Anna Molinari
(disponibili
in vari colori)
sono perfetti
da abbinare
ad un rigoroso
tubino nero
TOCCO DI LUSSO
Bicolori, brillanti, in pelle d’agnello cucita a mano,
i guanti lunghi firmati Prada sono nati per essere
indossati in ogni ora della giornata
«guanti glacés di antilope finissima». E
andando più indietro nel tempo, il
conte d’Orsay, arbitro di eleganza in
Francia e coevo di Lord Brummel,
consigliava al vero gentiluomo di
usare sei diverse paia di guanti
al giorno: uno per andare in
carrozza, uno per la caccia,
uno per il passeggio, uno
per la cena, uno per il teatro e uno per le serate
mondane.
Erano già in uso
presso gli Egizi, riservati ai Faraoni e
carichi di valore
simbolico. Contraddistinguevano le caste
ed erano emblema di
privilegio,
dalla forte carica liturgica. Nel Medioevo
il guanto è parte del rito dell’investitura
feudale, un pegno d’amore per la donna
cui veniva donato, un segnale di disprezzo e di sfida a duello se gettato o sbattuto
in faccia. Ai tempi dei Borgia i guanti potevano essere avvelenati: una semplice
stretta di mano impregnava il nemico di
una sostanza tossica fino alla morte. Portava guanti bianchi ornati di perle il Papa. Indossa ancora oggi i guanti anche
mentre mangia la regina Elisabetta durante i banchetti di Stato: lo ha fatto pure al Quirinale ospite del nostro presidente della Repubblica durante il suo ultimo viaggio ufficiale in Italia.
Ma il guanto è anche un indispensabile accessorio nei lavori e nei mestieri.
Nell’Odissea Laerte porta i guanti mentre cura l’orto. Hanno guanti in maglia
metallica le armature dei cavalieri. Nel
1200, con culmine poi nel Rinascimen-
to, la nostra penisola è già rinomata in
tutto il mondo conosciuto per l’eccellenza dei suoi guanti, di ogni tipo. Mostrarsi a mani nude per secoli è stato segno di scarsa educazione. Per uomini e
donne, con diversi codici di comportamento, i guanti sono stati soprattutto un
esercizio di eleganza: anche per chi contestava le regole. Il più maledetto fra i
poeti, Charles Baudelaire, nemico acerrimo della borghesia, è ricordato come
“il ribelle in guanti rosa”. Fu il Sessantotto a spazzare via ogni guanto che non
fosse da lavoro, oppure del genere indispensabile, meglio se alternativo, contro
il freddo. Considerato simbolo borghese
di distinzione e dunque di perbenismo è
caduto nell’oblio, tranne rare eccezioni,
adottato poi come segnale di ribellione
da alcune tribù metropolitane e gruppi
rock. Ora il grande rilancio a opera degli
stilisti: un vero business.
Repubblica Nazionale
50 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 16 SETTEMBRE 2007
l’incontro
Ha venduto 15 milioni di album
in tutto il mondo, ha collaborato
con mostri sacri come Miles Davis
e Bono, tra pochi giorni suonerà
alla Carnegie Hall. Ma pochi sanno
quanta è stata dura
la sua gavetta,
incominciata
all’oratorio e passata
per sconfitte e umiliazioni
Lo hanno aiutato il suo
carattere spigoloso
e quel coraggio che,
dice, gli iniettò l’amico e maestro
Luciano Pavarotti. “Adesso che è
morto, non farò duetti per un bel po’”
Bluesmen
Zucchero
o con la tecnologia faccio a pugni. Mi hanno regalato un paio
di iPod, ma li ho riciclati», borbotta Zucchero. «Papà, perché
non li hai dati a me?», strilla Blu, il figlio di
nove anni e mezzo, una cascata di riccioli
biondi sul bel viso da putto di Munier.
«Amore, ne ho dato uno a Alice l’altro a Irene». «Uffa», sbuffa il piccolo, mentre cerca
di scuotere Chico, il randagio che ormai si
è adattato al lusso e non ne vuol sapere di
abbandonare il cuscino morbido della
poltrona. Con la compagna Francesca
Mozer e il figlio Blu (Alice e Irene, che fa la
cantante, le ragazze avute con la prima
moglie, hanno ormai superato la maggiore età), Zucchero ha scelto di vivere in un
triangolo di terra abbracciato dalle montagne, «una zona di frontiera» incastrata
tra Emilia, Liguria e Toscana. Roncocesi, il
paese natale, è a un’ora di macchina. Nel
suo ranch, il Lunisiana Soul (l’assonanza
Lunigiana-Louisiana non poteva sfuggire
a un amante del blues), un vecchio mulino
sul fiume Verde magnificamente restaurato, si respira un’aria familiare e allo stesso tempo internazionale. Per via di quello
studio di registrazione ricavato nel fienile,
di quella House of Blues piena di cimeli, di
quei laghetti dove starnazzano rumorosamente oche canadesi, della foresteria che
ha ospitato Bono e Sting, Eric Clapton e
Brian May dei Queen. Ma siamo in Italia,
non c’è dubbio: si arriva a Pontremoli, comune conteso dai duchi di Parma e di Toscana, si attraversa il centro, poi, dopo il cimitero, si volta a destra nella stradina di
campagna fiancheggiata da cespugli di rosmarino e coperta da un pergolato con
grappoli caravaggeschi che invocano la
vendemmia.
Nella sua piccola New Orleans, o
Tijuana che dir si voglia, Zucchero si prepara per i tre concerti sold out all’Arena
di Verona, il 21, 22 e 23 settembre. E per
la grande prova americana, il 28 alla Carnegie Hall di New York. Qui il rocker si ritempra dagli stress estivi; sulla tavola
mia voce, e soprattutto nella mia faccia.
Un giorno, mentre facevo anticamera per
parlare col direttore generale, dalla porta
semiaperta lo sentii dire: “Mandatelo a
casa, tanto questo non andrà da nessuna
parte”. Piansi tutta la notte: ero sposato,
avevo già una figlia. Devi trovarti un lavoro serio, mi dissi, le 150 mila lire delle serate non bastano più».
Si giocò l’ultima carta con un viaggio a
San Francisco. Un amico che vendeva
jeans gli passò un biglietto aereo vinto
con un concorso della Levi’s. «Lì mi misi
alla ricerca di Corrado Rustici, e grazie a
lui e Narada Michael Walden, che mi fece
registrare gratis nel suo studio, tornai a
casa col mio bel nastrino che conteneva
anche Donne. Lo mandai a tutte le case discografiche usando il nome del mio benefattore. Il primo a chiamarmi fu proprio quello che mi aveva fatto fuori. Non
aveva capito che ero io». Oggi Adelmo
“Zucchero” Fornaciari, 52 anni da compiere il prossimo 25 settembre, 15 milioni di copie vendute nel mondo, ha una
bella storia da raccontare: dall’oratorio
alla Carnegie Hall. «Non ho mai sognato
di diventare una rockstar. Non avevo poster di Elvis o dei Beatles in camera mia.
Volevo fare dischi e tournée, essere un
onesto musicista a tempo pieno. Invidia-
Non ho mai sognato
di diventare
una rockstar
Non avevo poster
di Elvis o dei Beatles
in camera mia
Volevo essere
un onesto musicista
a tempo pieno
FOTO MASTER PHOTO LTD
I
«
PONTREMOLI (Massa-Carrara)
spaghetti al pesto, affettati misti, formaggio alla griglia, verdura e frutta di
stagione dall’orto di casa. «Lo so, lo so,
quello non è il mio habitat, ma quando
hai ottanta persone che lavorano per te,
devi ben rientrare delle spese», protesta,
ripensando all’incidente di Cala di Volpe, un mese fa, quando in un locale per
vip ha energicamente battibeccato con il
pubblico. «Li ho provocati un po’, per
movimentare la serata. “Dài, divertitevi
anche se siete ricchi, facciamo un po’ di
casino”, insomma tutto nel mio linguaggio. Non sono uno politically correct, e
me ne vanto. Poi c’è stata quella reazione proveniente dal tavolo della Santanchè: “Comunista, comunista, comunista”, non ci ho visto più. Mi ha consolato
il fatto che la gente di strada, quella delle
feste paesane qui intorno, i vecchietti, mi
hanno simpaticamente sostenuto: “Hai
fatto bene Zu a cantargliele a quelli lì”».
Impreca contro il conformismo dilagante e l’arroganza alimentata dalla litigiosità dei politici. «“Era il mio cantante
preferito, ora sconsiglio a tutti di comprare i suoi dischi”, ha detto la Santanchè. Mi
ha messo al bando. Al rogo il rocker!»,
sbotta. «Cosa credeva, che fossi un’ostrica del suo menù da mille euro? Il rock è per
definizione una musica “contro”, ma ormai neutralizzata dal politically correct.
Una volta c’erano Guccini e De André che
fustigavano la società con le loro canzoni.
C’era Gino Paoli che al pubblico della
Bussola gridò borghesi di merda. Io sono
uno alla buona, non rinuncio alla mia
schiettezza, al linguaggio da osteria. Maleducato io? E la televisione allora? Va a
cagher è un’espressione spontanea, bellissima, si usa con affetto anche tra amici.
Vai a quel paese non ha la stessa forza. Sa
che i discografici fecero di tutto per bloccare l’uscita di “Pippo che cazzo fai”? Insistevano perché il testo fosse cambiato in
“Pippo che cosa fai”. Anche allora mi dissero: “Sei un maleducato”».
Non aveva ancora fa forza contrattuale
per reagire, l’unico successo era stato
Donne, ma riuscì a non cambiare il testo,
e quelli, subodorando il tormentone, lasciarono correre. «La mia gavetta è stata
interminabile, ho iniziato a 16 anni, nel
1971; suonavo il sax tenore, m’improvvisavo batterista o chitarrista. Poi un giorno
il cantante dell’orchestra non si presentò
perché aveva litigato con la fidanzata e mi
costrinsero a sostituirlo. Eravamo all’Alhambra di Sarzana, non lontano da
qui. Lì iniziò il mio peregrinare da un
gruppo all’altro. Con Sugar & Candies
(1977) incidemmo un 45 giri per la Saar
che non comprò nessuno (è su eBay, base d’asta 50 euro, ndr). D’estate suonavamo tutte le sere alla Bussola. Le attrazioni
erano Fred Bongusto e Peppino di Capri,
noi facevamo i tappabuchi fino alle cinque di mattina. Una consumazione a testa, la seconda Bernardini ce la faceva pagare. Per sbarcare il lunario cominciai a
scrivere canzoni per altri, Bongusto, Michele Pecora, Fiordaliso, Stefano Sani.
Ma io restavo nell’ombra. Mi volevano
solo come autore. Non credevano nella
vo B. B. King, mica Mick Jagger. Sono un
impiegato della musica io, entro in studio
la mattina alle dieci e ci sto fino all’ora di
cena. Non sono di quelli che scrivono la
canzone fulminante in un raptus, alle
quattro del mattino».
Nessun artista italiano ha mai collaborato con tante star del rock e del jazz nella
sua carriera. Zucchero ha avvicinato i più
grandi, e con quasi tutti è riuscito a duettare. All’inizio sembrò una smania provinciale. «Qualcuno scrisse, non capisco
perché Miles Davis abbia suonato con lui,
gli avrà regalato una Ferrari. Ma se ancora non avevo neanche gli occhi per piangere! Miles cadde dal cielo. Ero alle Maldive con mia moglie, ci eravamo appena separati, cercavamo di rimettere insieme i
pezzi. Mimmo D’Alessandro, che era il
promoter di Davis in Italia, era in macchina col trombettista mentre andava il mio
disco. Quando arrivò Dune mosse, Miles
borbottò: “Chi è questo? Voglio suonare
con lui”. Mimmo mi chiamò alle quattro
del mattino. Manco a dirlo, interruppi la
vacanza e il matrimonio andò definitivamente a rotoli».
La passione di Adelmo nacque in parrocchia, i nostri sacerdoti non sapevano
ancora che il blues era la musica del diavolo. «Andavo a fare il chierichetto nella
chiesa di Roncocesi, vicino a casa mia,
per sdebitarmi col prete, che mi faceva
usare un organo a due tastiere bellissimo, a mantice, dove imparai a suonare
le canzoni dei Procol Harum. Nella canonica, dove andavamo a giocare a pallone, io e altri tre miei compagni organizzavamo dei minispettacoli. Avevo
l’età di Blu, e già ero capace di fare le imitazioni, la mia specializzazione era Ruggero Orlando: “Qui Nuova York vi parla…”. Poi iniziarono gli anni duri, le balere, lo sfruttamento. Il nostro tastierista
morì in un incidente stradale a cinquecento metri da casa, la notte di Capodanno. Eravamo malpagati e alla fine i
nostri sogni andarono in fumo, letteralmente: nell’incendio doloso di un locale perdemmo il nostro impianto nuovo
di zecca, luci comprese. Piangemmo come vitelli quella notte, avevamo tutte le
cambiali ancora da pagare. Durante il
funerale di Luciano, l’altro giorno, mi è
tornata in mente la cooperativa di Roncocesi dove facevano ascoltare Verdi e
Puccini. Le donne che la domenica mattina impastavano cantando arie d’opera, mia nonna Diamante davanti al
grammofono e mio nonno Cannella che
andava a teatro d’inverno, con la nebbia
e il tabarro, ma non al Regio, non se lo
poteva permettere, al circolo o nei teatrini di paese. Io non capivo, mi piaceva
il blues, ma quella musica era nell’aria.
Modena, Parma, Reggio Emilia… Lì si
cresce in mezzo all’opera».
La sera dopo il funerale di Luciano Pavarotti, Zucchero, Bono, The Edge e le loro signore hanno cenato al Club Europa
con Nicoletta Mantovani, ricordando gli
anni del “Pavarotti & friends”, che ogni
anno veniva concertato proprio lì. Di
fronte al primo rifiuto del maestro di can-
tare Miserere, Zucchero finse di gettare
nel fuoco il nastrino della canzone. «Poi
l’abbiamo incisa e mi ha ringraziato», ricorda il cantante, che è stato complice
della conversione pop di Big Luciano.
«Era diventato parte della famiglia. Quando Nicoletta gli proponeva le liste dei cantanti da coinvolgere nel progetto, lui chiamava me, si consigliava. Storpiando tutti
i nomi, naturalmente. “Che dici lo facciamo venire questo Bubi Bobi Babi… Bavi,
come si chiama? David Bowie? Sì, proprio
lui. Gli dissi: “Dovresti fare You Are So
Beautiful con Joe Cocker”. “Cocker?”
“Sì… Boh… Dici? Ma chi è? Dài mandami
un nastrino che sento qualcosa”».
Lo imita talmente bene, spalancando gli
occhi e gesticolando come faceva il maestro, che riesce anche a somigliargli fisicamente. «Quanto coraggio mi ha dato Luciano», esclama. «Era umile e dinamico, a
casa sua era un continuo fare progetti: dài,
vieni qua, che chiamiamo Bono. Con il
“Pavarotti & friends” era rinato. Tutti
avrebbero pagato oro per duettare con lui.
Bryan Adams mi disse: “Mio padre mi ha
preso sul serio come cantante solo quando
mi ha visto sul palcoscenico con Pavarotti”. Ricordo una cena nel suo appartamento a Central Park, lui ai fornelli. Tira fuori
due borse portate dall’Italia zeppe di sughi,
spaghetti, salami, i ciccioli di cui andava
matto e il lambrusco. “Non toccare quel salame, s’inizia a mangiare tutti insieme”, ordinava. Era come stare in una famiglia d’altri tempi. Io lo guardavo incredulo: un gigante dell’opera lì a scolar la pasta. Che tenerezza, lo rivedo ancora dopo cena che
sonnecchia in poltrona col suo grosso sigaro e un bicchierino di Varnelli. Con Bono,abbiamoricordatoquellavoltacheeravamo con lui sull’elicottero militare dell’Onu che ci portava all’inaugurazione della scuola musicale di Mostar. A un certo
punto s’incomincia a ballare tra le nuvole.
Luciano affonda le mani nella borsa. Pensiamo: cercherà delle pastiglie per il mal
d’aria. Invece tira fuori una punta di parmigiano: “Questo viene da Reggio!”, esclama, e comincia a distribuirne a tutti. Adesso che Luciano è morto, non farò duetti per
un bel po’. Neanche alla Carnegie Hall».
‘‘
GIUSEPPE VIDETTI
Repubblica Nazionale