DI Repubblica - La Repubblica.it

Transcription

DI Repubblica - La Repubblica.it
Domenica
La
di
DOMENICA 26 FEBBRAIO 2006
Repubblica
la memoria
Gorazde, la guerra in punta di matita
GUIDO RAMPOLDI e BILJANA SRBLJANOVIC
il racconto
L’addio ai fotografi di paese
GIANNI BERENGO GARDIN e MICHELE SMARGIASSI
Tortura
Repubblica Nazionale 29 26/02/2006
La democrazia e gli orrori di Guantanamo
Un testimone racconta, uno scrittore accusa
CARLO BONINI
COLUM MCCANN
cultura
eclinail ricordo al presente. Come se il tempo si fosse fermato per sempre. E quando provi a chiedergli
di affidare l’immagine di Guantanamo ad un solo
sostantivo, va a pescarlo nel medioevo della caccia
alle streghe. Dice: «Ordalia. Sì, Guantanamo è l’ordalia di ogni musulmano. Lo è per i prigionieri. Lo è
stata per me, cittadino americano colpevole di venerare lo stesso
Dio, lo stesso Libro Sacro dei nostri nemici». La voce di James Yee
ha conservato il timbro deciso di un’estate non troppo lontana.
Quando — era il luglio 2003 — in una baracca di Guantanamo, insaccato in una mimetica troppo larga, rivolgeva a Repubblica più
domande sull’Italia di quelle a cui volesse rispondere sui dannati
di Camp Delta. Allora, era per tutti semplicemente «Yee». Il cadetto di West Point. Il cappellano musulmano nato nel New Jersey e convertito all’islam, il capitano dell’esercito americano «in
guerra per difendere la libertà». Il ragazzo-poster che il Pentagono aveva affisso alle porte dell’inferno, per renderne tollerabile lo
sguardo. Il pastore di 600 anime in gabbia, simbolo del rispetto religioso nella cattività. Sono passati tre anni e quel poster non esiste più. Perché il cappellano Yee non esiste più. Oltraggiato dall’esercito cui aveva giurato fedeltà e obbedienza, lui, protagonista
di quello spot di tolleranza, si è trasformato nel testimone oculare capace di svelarne la menzogna.
(segue nelle pagine successive)
na sensazione di terrore può pervadere persino i luoghi più anonimi. Sono le sei del mattino all’aeroporto
di Shannon, nella regione occidentale dell’Irlanda,
quel momento poco prima dell’alba in cui l’oscurità
sembra assoluta. Le ultime stelle appaiono come segni di artigli sul cielo. Qualche aereo rulla sulla pista.
All’interno i locali del duty-free sono gremiti di soldati americani che
tornano a casa dalla guerra in Iraq. Dovrebbero essere felici. Sgravati. Sollevati. Stanno ritornando a casa. Il loro periodo di servizio è concluso. Sono sopravvissuti.
Ci si potrebbe aspettare che facciano gli sbruffoni e gli arroganti, che
si vantino al bar e gettino qualche dinaro alla giovane cameriera irlandese, oppure che vaghino tra i corridoi degli alcolici da poco prezzo, o se ne stiano appartati accanto al banco dei profumi. Dopo tutto,
persino una storia di guerra può essere anche una storia d’amore.
Invece no. Nessun bacio in estasi, nessun tracannare vodka nel
corridoio 4, nessun racconto di guerra, nessun istrionismo. Anzi, i
soldati (e ogni giorno dall’aeroporto Shannon ne passano almeno
900) hanno un’aria sfiduciata, nostalgica, melanconica. Si siedono e
tengono strette in mano le loro birre. Si aggirano senza meta tra i corridoi, guardando fisso le torte natalizie di frutta secca ormai scadute,
le macchine fotografiche digitali, la sfilza di vestiti per neonati. Parlano a bassa voce, educatamente. Sembrano storditi.
(segue nelle pagine successive)
L’illuminismo secondo Todorov
D
U
FABIO GAMBARO
spettacoli
Sanremo e la mappa della musica italiana
ERNESTO ASSANTE, EDMONDO BERSELLI e GINO CASTALDO
la lettura
Ilan Fernandez, lo stilista nato in galera
CONCITA DE GREGORIO
l’incontro
Moni Ovadia, ovvero l’elogio del meticcio
PAOLO RUMIZ
30 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 26 FEBBRAIO 2006
la copertina
Tortura
È il ragazzo-spot che il Pentagono nell’autunno 2002
spedì a Camp Delta, il cappellano musulmano formato
a West Point cui furono affidati 600 “detenuti-terroristi”
E che poi fu accusato di alto tradimento e messo in galera
Ora, scagionato, James Yee ha scritto un libro e ricorda...
“Vi racconto Guantanamo”
A
(segue dalla copertina)
CARLO BONINI
“Per primo
me ne parla Rhuhel,
un giovane
con passaporto
britannico: i soldati
mi hanno infilato
una mano nel retto,
è come se fossi
stato violentato”
ccusato di alto tradimento, di
intelligenza con i prigionieri in
tuta arancio, di insubordinazione e adulterio, James Yee ha lasciato per sempre Guantanamo
nel settembre 2003, imprigionato nelle stesse pesanti catene, lapidato dallo
stesso sospetto. Ha marcito per 76 giorni in
una cella di isolamento in un compound militare della North Carolina, ha rischiato di perdere la giovane moglie siriana, Huda, e la sua
bambina Sarah. Fino a quando un giudice militare non ha riconosciuto le accuse nei suoi
confronti per quel che erano: un’infamia figlia
del pregiudizio, di cui l’esercito ha dovuto scusarsi. A Yee non è bastato. Si è congedato e per
oltre un anno ha provato a rimettere insieme
quel che restava della sua esistenza, tentando
di ragionare sulla «cosa giusta da fare». E «la cosa giusta» era raccontare. Raccontare tutto ciò
che i suoi occhi avevano visto tra le gabbie di
quel lembo dell’isola di Cuba. Fare del suo
contrappasso una spina conficcata nella coscienza dell’America. Ne è uscito un libro, For
God and country, “A Dio e alla Patria” e una
nuova vita in giro per l’America come testimone di se stesso e dei prigionieri senza nome rinchiusi a Camp Delta.
Oggi, dice: «Quel che ho lasciato dietro di me
non mi abbandona un istante. Sono tormentato dalla consapevolezza che Guantanamo
ha reso estremista chi non lo era, ha radicalizzato una parte di islam, ha marchiato per sempre l’immagine del mio Paese. Ma per comprenderlo ho dovuto attraversare quell’infer-
no, di cui non solo ero ignaro, ma inconsapevole». Anche perché, nell’autunno del 2002,
quando lo sorprende la chiamata sull’isola,
l’incubo si manifesta con segni appena percettibili, che Yee non può o forse non vuole
neppure raccogliere.
«Qualche giorno prima del mio arrivo a
Camp Delta, raggiungo telefonicamente Dan
O’Keefe, che era stato il primo cappellano militare di Guantanamo. Mi sussurra delle parole cui non presto troppa attenzione e che oggi
non riesco più a togliermi dalla testa. “Vedi James — mi dice — mi piacerebbe molto dirti
quel che succede su quell’isola. Ma proprio
non posso. Lo capirai da solo. Posso solo dirti
che quella galera è l’ambiente più ostile in cui
mi sia mai trovato in vita mia…”».
«Ostile». La notte del 4 novembre 2002, quell’aggettivo sinistro torna ad accarezzare la pelle madida di sudore di James. In un clangore di
chiavistelli, di ordini gridati tra le torri di guardia e i bracci di detenzione, tra lamenti dei prigionieri che si fanno nenia, Yee varca la soglia
di Camp Delta. Lo accompagna Hamza AlMubarak, il cappellano che James si prepara
ad avvicendare. E anche quel colloquio appare oggi per quel che voleva essere. Un ultimo,
quanto rassegnato monito: «Sì, James, ostile.
Te l’hanno raccontata con la parola giusta.
Non ti voglio scoraggiare, ma ci sono cose che
vedrai qui dentro che ti sarà difficile sopportare. Questo è un brutto posto per dei musulmani. E non mi riferisco soltanto ai prigionieri…».
Ricorda Yee: «Muovo i miei primi passi all’interno del braccio 1 e mi fermo quasi subito di
fronte a una delle prime gabbie, dove un prigioniero accucciato su se stesso fugge il mio
sguardo. “As-salaamu alaikum”, saluto. Ma
non ne ottengo alcuna risposta. Scopro allora
con orrore che quell’uomo sta facendo i suoi
bisogni nella turca che, visibile a tutti, in ogni
gabbia è al lato del letto. Realizzo la mia e la sua
vergogna. L’umiliazione che a quel poveretto
ho appena involontariamente inflitto».
L’educazione sentimentale di Yee alla ferocia che governa la prigione e al segreto in cui
deve essere custodita è un percorso di assuefazione psicologica, etica, che deve rendere
prigionieri tutti. Vittime e carnefici. Ne fa fede
l’ordine spiccio che il generale Geoffrey Miller,
allora comandante e responsabile di Camp
Delta (lo stesso ufficiale che nell’autunno 2003
il Pentagono spedirà in Iraq per “guantanamizzare” Abu Ghraib), affida al giovane cappellano appena arrivato: «Caro James, ricordati. Non perdere mai l’occasione di tenere la
bocca chiusa». Perché quel che accade a Guantanamo a Guantanamo deve restare. Perché
tutti sospettano di tutti a Camp Delta. I secondini dei prigionieri. I prigionieri dei prigionieri. I secondini di quel cappellano musulmano
troppo tenero con «i terroristi». La prigione,
del resto, pullula di spie. «Fbi, servizio indagini criminali della Marina, controspionaggio
militare, Cia… Li chiamiamo gli “scoiattoli segreti”, perché non sappiamo mai dove siano,
chi siano. Cosa stiano ascoltando. Se siano lì
per spiare e interrogare i prigionieri o, anche,
per rubare brandelli di conversazione tra i prigionieri e chi, come un cappellano militare
musulmano, è lì per alleviarne la sofferenza».
Yee comprende presto la ragione del segreto. I prigionieri subiscono violenze fisiche e
psicologiche che il mondo ignora. «Me ne par-
COLUM MCCANN
(segue dalla copertina)
LE CELLE
Qui sotto, una delle celle del carcere di Guantanamo.
Sopra, l’ingresso del Camp Delta con la celebre scritta “Honor bound
to defend freedom”, l’onore obbliga a difendere la libertà
FOTO © RICHARD ROSS/ANZENBERGER/CONTRASTO
Repubblica Nazionale 30 26/02/2006
Quei marines tristi
con l’orrore
ancora negli occhi
uò anche darsi che stiano obbedendo al severo ordine dell’esercito americano di
comportarsi bene durante quello che in modo eufemistico essi chiamano «uno scalo per rifornirsi di carburante». Oppure può anche essere che se ne stanno tranquilli allo scopo di non attirare l’attenzione sul fatto che — con grande sdegno del popolo irlandese — stanno conducendo alcuni prigionieri a Guantanamo. O infine può darsi che,
di ritorno da una guerra, abbiano assistito a scene di tortura. E non solo la tortura di altre
persone, ma anche loro, interiore.
***
Le nuove fotografie venute a galla la settimana scorsa, che suggeriscono un ricorso diffuso
e sistematico a brutali metodi di interrogatorio in Iraq e a Guantanamo, non avrebbero dovuto costituire una grossa sorpresa. Si tratta di qualcosa di osceno, ma non certo di un segreto. Tutti sanno che questi metodi sono utilizzati, fin su, agli alti vertici. Il paradosso è che poche persone ne parlano nel panorama politico americano. La tortura, concepita per farci parlare, fa tacere chi la pratica.
In teoria, la democrazia è il sistema con le maggiori probabilità di controllarsi. Si presume
che abbracci il libero pensiero, un linguaggio trasparente, un atteggiamento aperto, e che sia
stata addirittura progettata per questo. Essa dovrebbe, nella sua essenza più pura, essere in
grado di reggere e portare il proprio peso, e sicuramente quello delle proprie parole. La parola “tortura”, però, nelle nostri menti evoca l’immagine di tante e tali cose — elettrodi, cappucci, tavoli di metallo, pungoli per il bestiame, manici di scopa, sigarette accese — che gli orrori indotti dalla sua sola evocazione sono già sufficienti a farci crollare. Finiamo così col raccontare menzogne, e non soltanto nella stanza delle torture, ma anche sulla democrazia.
Così stanno le cose, pure e semplici: il Paese che afferma di contenere il meglio dell’umanità tutta ricorre al peggiore di tutti i mezzi inventati dall’uomo per umiliare non soltanto i
propri nemici, ma in primo luogo se stesso.
La maggior parte delle idee — persino quelle valide — diventano menzogne quando le si
abbraccia troppo strette. Gli Stati Uniti (il Paese nel quale vivo, dove sono marito, padre, patriota nato all’estero, ammiratore e uno che protesta) sono diventati un Paese nel quale il lin-
P
DOMENICA 26 FEBBRAIO 2006
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 31
LA STORIA
L’APERTURA
LE INCHIESTE
LE TORTURE
IL RAPPORTO ONU
L’11 gennaio 2002 i primi
detenuti sospettati
di terrorismo provenienti
dall’Afghanistan e
da altri paesi arrivano
nella prigione militare
speciale. Le prime
fotografie con i detenuti
ritratti in ginocchio
e ammanettati scatenano
le polemiche sui giornali
La Casa Bianca dichiara
che la Convenzione
di Ginevra non sarà
applicata ai detenuti,
ai quali viene negato anche
un processo legittimo.
Nel 2004, all’Fbi arrivano
informazioni sulle torture
durante gli interrogatori:
si aprono le prime
inchieste
Il 2 maggio 2005
“Newsweek” rivela
che alcuni soldati
americani hanno gettato
copie del Corano
nelle latrine del campo.
Esplode la protesta
in molti paesi musulmani.
Il Pentagono si difende,
ma poi ammette episodi
di abusi e di profanazione
Si moltiplicano
le denunce su abusi
e torture e il 16 febbraio
2006 esce un dossier
delle Nazioni Unite
che descrive la condizione
dei prigionieri e conferma
le accuse di detenzione
arbitraria: viene subito
chiesta la chiusura
del carcere
quenza degli episodi, che l’uso brutale della
forza non è il rimedio estremo per piegare la ribellione dei prigionieri, ma uno strumento preventivo per spezzarne la resistenza psichica e
fisica». Come gli interrogatori, del resto. «Non li
chiamano con il loro nome. Li chiamano “prenotazioni”. E prima di ogni “prenotazione” i
prigionieri vengono ammorbiditi, secondo
una routine operativa detta “dell’uomo di sabbia”. Per l’intera notte il prigioniero viene tenuto sveglio con ogni mezzo possibile. Con la luce, cambiandolo di cella non appena si assopisce. Poi, all’alba va all’interrogatorio». Dove
l’umiliazione conosce ogni sua nuova possibile variante: psichica, sessuale, religiosa.
«L’islam non è soltanto una religione. È un
modo di vivere. E a Guantanamo comprendo
che la religione è diventata la più importante
delle armi per spezzare i prigionieri». Nei ricordi di Yee, affonda così un’altra bugia del
Pentagono, forse la più inconfessabile. «Normalmente, la preghiera è il momento più importante per i prigionieri. In ogni blocco, la intona il detenuto nella gabbia all’estremo angolo nord-est del campo, il più vicino alla Mecca. Bene, noto presto che i secondini si stringono regolarmente intorno a quella gabbia
colpendola con delle pietre, provando a dare
sulla voce del prigioniero con musica rock a
tutto volume…». Una provocazione che altrimenti si fa profanazione. Con il Libro Sacro.
«Scopro che durante le perquisizioni delle
gabbie, le copie del Corano vengono regolarmente scaraventate in terra e ne viene smembrata la legatura. In almeno due distinte occasioni — mi dicono — le pagine del Libro sono
state profanate con epiteti scritti in inglese,
guaggio è stato privato di ogni valore dall’esagerazione. Poche persone analizzano veramente
che cosa può ancora significare la parola “libertà” e forse ancora meno persone analizzano
veramente cosa può ancora significare la parola “democrazia”, anche se per entrambe sarebbero disposte a combattere.
Non è che siano stupide — in effetti il modo che hanno sia i media europei sia quelli americani di trattare il popolo americano come fosse un bambino piccolo è uno dei trend più pericolosi degli ultimi tempi — più che altro è che il popolo americano è stato confuso di proposito dalla costante svalutazione della lingua.
Pare quasi di sentire il rumore bianco alla Casa Bianca, sulle onde radio, nei corridori del potere. “Freedom”, “freedom”, “freedom”. “Democracy”, “democracy”, “democracy”. Sempre
più forte, più forte, più forte. “FREEDOM”! “DEMOCRACY”! E alla fine le orecchie sanguinano.
Prima si spezza il corpo, poi si piega la mente. Come metafora funziona anche per il sistema politico. Si attacca il corpo politico, ed esso non è più capace di riconoscere se stesso. Le
parole di coloro che sono favorevoli ai metodi di tortura — ma loro li hanno usati con noi, tutti sanno che è così, se lo meritano, non sono in grado di comprendere altro, il fine giustifica i
mezzi — sono chiacchiericcio da asilo infantile.
Una democrazia la si valuta, prima di ogni altra cosa, più di ogni altra cosa, da quello che
essa fa per il suo stesso popolo e in seguito da quello che essa fa agli altri. La tortura non è soltanto un mucchio di fotografie provenienti da Abu Ghraib o da Guantanamo — anche se sono raccapriccianti quanto basta da togliere il respiro. La tortura è anche un’immagine speculare. Un paese che utilizza una brutalità simile (anche quando la si chiama coercizione) è
verosimile che nel lungo periodo patisca il senso di colpa del carnefice. Persino in una bolla
politica così chiaramente poco empatica come la Casa Bianca di George Bush, sotto quelle
costose camicie bianche, corre sicuramente un brivido di disgusto.
La tortura dimostra altresì una spiccata mancanza di immaginazione. Bush, che non ha
immaginazione alcuna, deve essere consapevole che le bastonate e i trattamenti con l’acqua
ghiacciata e i manici di scopa spezzati alla fine non funzionano. L’esercito americano avrebbe catturato Osama bin Laden e Abu Musab al-Zarqawi da un bel pezzo, se la tortura fosse efficace. Il fatto è che, se si malmena qualcuno abbastanza a lungo, costui finirà col confessare
qualsiasi cosa gli si vuole sentir dire. Si riesce quasi a sentire la lugubre eco proveniente dalle
celle di Guantanamo, mentre i detenuti che fanno lo sciopero della fame sono alimentati a
forza: “Freedom”. “Democracy”. “Freedom”. “Democracy”.
Al di là di tutto, ricorrere alla tortura indica una mancanza di rispetto per se stessi. Ridursi
al minimo comune denominatore significa diventare il minimo comune denominatore. La
tortura alla fine si ritorce contro chi la pratica.
Ma nonostante tutto, l’indecente uso della tortura in un sistema democratico non dovrebbe diventare un atto d’accusa della democrazia stessa: essa è un atto d’accusa contro quei
militari (britannici, americani, iracheni e di altri paesi) che abusano del sistema.
Sappiamo tutti che è sbagliato, ed ecco perché siamo scossi ogni qualvolta vediamo quelle fotografie. Ecco perché una gelida frecciata ci trapassa fino al midollo ogni qualvolta contempliamo un tale orrore. Ed ecco una delle ragioni per le quali quei soldati diretti a casa loro e in transito all’aeroporto di Shannon portano dentro di sé una simile afflizione. Può darsi che abbiano assistito a episodi di tortura con i loro stessi occhi, può darsi di no. Ma a modo loro tutti si portano dentro la tortura di essere stati in una guerra insensata. Ecco un’altra delle cose che provoca la tortura: ci fa tornare a casa sgomenti, avviliti, smarriti.
© Colum McCann 2005
L’autore è uno scrittore irlandese che vive a New York. L’ultimo romanzo si intitola “Dancer”
(Traduzione di Anna Bissanti)
con fotografie blasfeme». La fede come arma
brandita per far impazzire. «Vengo a sapere
che durante gli interrogatori, spesso vengono
alternate cassette con incise letture del Corano a musica rock e si ripetono le umiliazioni
sessuali. Soprattutto da parte di una delle donne ufficiale, dei cui metodi tutta la prigione sa
e parla. Mentre i secondini immobilizzano il
prigioniero di turno, lei simula la masturbazione, strofinando sul poveretto il seno e i genitali. Chi prova ad opporsi viene picchiato». E
ancora: «Mamddouh Habib, un detenuto di
origini australiane, mi racconta che spesso gli
interrogati vengono avvolti in una bandiera
israeliana e che più di una volta è accaduto che
siano stati costretti a sedere sul pavimento, all’interno di un cerchio satanico illuminato da
candele, obbligati a gridare “Non Allah, ma Satana è il mio Dio”».
Ora Yee tira un profondo respiro. Come se
avesse riaperto gli occhi sul presente. Ma non
è così. Lui è ancora lì, sull’isola. Ha soltanto voglia di usare un’altra parola da cui sin qui si è
tenuto alla larga. «Sto ripensando a chi ho lasciato nelle gabbie. In questo momento, alcuni di loro stanno subendo quello che io ho provato nei miei 76 giorni di galera. Si chiama “privazione sensoriale” e per l’Associazione degli
psichiatri americani è una forma di tortura.
Proprio così, tortura». È la stessa parola che
hanno usato gli osservatori delle Nazioni Unite nel loro recente rapporto sulla violazione
dei diritti umani a Camp Delta. È la parola che
l’America ha un solo modo per cancellare. Dice Yee: «Il Pentagono apra subito Guantanamo a osservatori internazionali e poi lo chiuda. Per sempre».
“Dei metodi
di un ufficiale donna
si mormora in tutta
la prigione: simula
la masturbazione
strofinandosi
sul prigioniero
immobilizzato
dai secondini”
LE GABBIE
Qui sotto, i prigionieri con le tute arancioni inginocchiati a terra davanti
alle “gabbie” dove venivano concentrati i detenuti di Guantanamo. Nella foto
sopra, le recinzioni che circondano il carcere per evitare la fuga dei reclusi
FOTO ANSA
la per primo Rhuhel Ahmed, un ragazzo con il
passaporto britannico. Mi riferisce il dettaglio
delle tecniche di “privazione sensoriale” cui
viene sottoposto e dell’ispezione anale cui
ogni prigioniero che arriva sull’isola deve sottostare. Ruhehel mi confida con occhi pieni di
orrore: “Cappellano, i soldati mi hanno infilato una mano intera nel retto. È come se fossi
stato violentato”. E ancora: “Cappellano, soprattutto nei primi mesi di prigionia, quando
le gabbie erano ancora a Camp X-ray, i soldati
gettavano il Corano nelle latrine”».
Yee prova a convincersi che in quelle confessioni raccolte nei bracci, sia la disperazione a
rendere iperbolica la sostanza del racconto. Ma
deve ricredersi. I prigionieri non mentono. «Mi
capita di osservare presto come lavora l’Unità
di reazione rapida, quella incaricata di sedare le
intemperanze dei detenuti. Accade che un prigioniero si rifiuti di fare i suoi venti minuti di
passeggio fuori dalla gabbia. Protesta per una
perquisizione corporale. Quella che, in gergo, i
soldati chiamano “il passaggio della carta di
credito”. Un secondino infila le proprie dita
nell’ano del prigioniero e le strofina su e giù per
controllare che non nasconda nulla nelle pieghe del sedere. Un’umiliazione inaccettabile
per chiunque, a maggior ragione per un musulmano, la cui religione vieta questo tipo di contatto fisico. Ebbene, arriva l’Unità di reazione
rapida e otto uomini in assetto antisommossa
affrontano il prigioniero. Lo picchiano e quindi, tra le urla e il sangue, lo trascinano lungo il
corridoio, tra grida di vittoria e “high-five”».
Le percosse sono una routine. «Non avevo
mai visto tanta violenza nei confronti di tanta
debolezza. E mi convinco presto, per la fre-
32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 26 FEBBRAIO 2006
la memoria
Gorazde è una città della Bosnia non lontana
da Srebrenica. “Gorazde” è il titolo di un libro
di Joe Sacco che racconta con scabre strisce
in bianco e nero l’assedio di tre anni che i suoi abitanti
musulmani subirono dalle milizie serbe. Una tragedia
attualissima e rimossa che è un dovere ricordare
Testimonianze
La guerra fantasma
in punta di matita
G
GUIDO RAMPOLDI
li angeli di Sarajevo avevano
nere ali bruciate e visi tristi di
sarajeviti. Se ne stavano appostati dentro case squarciate dall’artiglieria, di solito
in gruppo, talvolta isolati.
Camminavi nel centro e ti si paravano davanti senza preavviso. Erano angeli poveri, in bianco e nero, angeli smagriti. Non
chiedevano nulla ma ti seguivano ovunque con i loro sguardi che non davano tregua. Restarono in città poche settimane,
poi sparirono. Quando una tempesta di
neve se li portò via la gente s’era affezionata a quelle apparizioni — anche se ricordo
un uomo, probabilmente un matto, agitare il cappello davanti ad un’angelessa con
angiolino come per dire: via!, via!, volate
via prima che sia troppo tardi!
Insieme agli angeli sparì l’artista francese che li aveva disseminati tra le macerie di
Sarajevo. Aveva fotografato adulti e bambini, aggiunto a carboncino ali da serafini
e incollato i poster dentro macerie abbandonate. Ma cosa volessero dire quegli angeli muti, questo lasciava dubbiosi. Erano
molto solenni, anche i bambini, con
espressioni serie, intense, maestose. A parere dei cineasti del Saga, Sarajevo group of
authors, rappresentavano un’umanità superiore. Incarnavano l’invincibile dignità
d’una sconfitta, la solidarietà che resiste
alla fame, il coraggio che rifiuta i metodi
del nemico; e poiché presumibilmente appartenevano alle varie etnie sarajevite —
chi serbo e chi musulmano, chi croato e chi
ebreo — erano la libertà che sfida il destino scritto in un nome, in una religione, in
un’appartenenza etnica.
I poster del 1993, l’anno peggiore della
guerra, furono uno dei modi più originali, e
forse il più efficace, per raccontare un conflitto che ci disorientò. Era insieme antico e
nuovissimo. Ispirò sia teorie collisionali
sullo “scontro tra civiltà”, sia il sospetto, ci
pare confermato dal processo dell’Aja, che
quelle costruzioni grandiose fossero un artefatto, un trucco, un gioco di parole. Qualunque cosa fosse, se ci avessimo fatto pace non capiremmo perché, undici anni dopo, escano libri come il Gorazde dello statunitense Joe Sacco. Gorazde è una città
bosniaca non lontano da Srebrenica. Come fotografo, Sacco fu testimone dell’assedio che le posero per tre anni le milizie serbe; adesso ne racconta in un fumetto.
A costo di far sollevare più d’un sopracciglio diremo che i suoi disegni scabri, rudimentali, rendono quanto all’epoca le sedentarie tribù degli storici e degli opinionisti raramente riuscivano a cogliere dalle loro scrivanie, e cioè l’odore dei fatti. Non è
poco. Potevi leggere pacchi di agenzie di
stampa, dotte analisi e rapporti diplomatici, ma non capivi la guerra di Bosnia finché
non ci finivi dentro. E allora un gesto, un’emozione, un dettaglio ti precipitava in una
storia molto più grande dell’ennesimo conflitto balcanico, con ferocie contadine e
“scambi di popolazione”,
non foss’altro perché questa volta anche noi — l’Europa, l’Occidente, l’Onu
— ne eravamo parte. Però
ci stavamo dentro con una
tale riluttanza, con tali
ipocrisie, che il fumetto di
Sacco sembra anche un
graffito inciso sulla vernice bianca di uno di quei
blindati Onu che portavano in giro certi generali europei, furbi e ipocriti.
Quel che accadde in
quei tre anni fu un singolarissimo divorzio tra la
realtà e le parole. La guerra andava in un modo, la sua rappresentazione in un altro. Succede in ogni conflitto,
ma non in quella misura. All’inizio la realtà
non era immediatamente percepibile.
Però presto intuivi che non v’era nulla di
spontaneo nella secessione dei territori
serbi e nella successiva sollevazione croata. Tudjman e Milosevic stavano divorando la Bosnia, questo stava accadendo. E i
governi europei, la Nato, gli americani
avevano deciso che fermarli comportava
rischi eccessivi, politici e militari. Non potendo però ammetterlo, dovevano co-
struire una rappresentazione del conflitto
che giustificasse l’inazione. Per negare che
vi fossero aggressori da fermare e aggrediti da difendere inventarono la formula delle “warring factions”, le fazioni in guerra,
che nella sua neutralità metteva tutti sullo
stesso piano. Ma allora perché le “fazioni”
si combattevano? La formula dell’equidistanza fu corredata dall’attribuzione ai popoli ex jugoslavi d’una tendenza atavica a
scannare il vicino, sicché la mischia bosniaca risultava irrisolvibile e insensato
frapporsi. Per simulare comunque buona
volontà gli europei mandarono in Bosnia i
caschi blu dell’Onu, a far da notai del massacro. In buona sostanza
attesero serenamente la
resa di Sarajevo alle milizie serbe che chiudevano
la città dai quattro lati,
spalleggiate dai croati sul
fronte di Ilidza.
I giornalisti che non
credettero alla storia delle “warring factions” dovettero misurarsi con un
doppio problema. Innanzitutto, era difficile
raccontare l’orrore nella
sua ripetitività: dopo
l’ennesima strage di sarajeviti falciati da una
granata al mercato, o davanti al forno, o mentre erano in coda presso una fontana, le parole prendevano un
suono sordo, stanco. E quanto più si sfibravano, tanto più facilmente le travolgeva il maestoso fiume di formule che sgorgava dalle diplomazie e dai telegiornali,
per i quali quel che accadeva in Bosnia era
ineluttabile quanto un terremoto. Fatte
salve alcune eccezioni trasversali (i libdem britannici, i Verdi tedeschi, alcuni pacifisti italiani, qualche liberale sparso) pareva che tutta l’Europa avesse deciso di lasciare i bosniaci al loro destino — arrendersi o morire. Invece negli Stati Uniti
crebbe una corrente d’opinione favorevole ad un intervento militare, e dopo il massacro di Srebrenica finì per travolgere le
Il conflitto
andava in modo
diverso dalla sua
rappresentazione
In questi disegni
c’è il sapore
della verità
esitazioni dell’amministrazione Clinton.
Perché questa differenza,
oggi diremmo “culturale”, tra
europei e statunitensi? Esistono in proposito varie teorie. Ma
alla sostanziale indifferenza europea, e italiana in particolare,
certo contribuì l’identità della vittima. Gli umani che il lettore incontra nei disegni di Sacco sembrano europei del genere comune,
non diversi da tanti di noi. Se poi
aveste conosciuto alcuni cittadini di
Sarajevo avreste detto d’aver trovato
il meglio della “cultura europea” —
coraggio intellettuale, fierezza, indipendenza di giudizio, libertà interiore.
Ebbene, dovete ricredervi: quelle persone d’aspetto così innocuo sono nientemeno che musulmani, insomma un’umanità nemica, gente che si porta dentro
la cultura della sopraffazione, la vocazione alla guerra o, come direbbe Calderoli,
l’odio per i nostri valori. Che poi in maggioranza neppure praticassero la religione, risultò del tutto indifferente. Avevano
quel nome, Musulmani, e all’Europa, perista prim’ancora di Pera, non la diedero a
bere. Nessuno voleva uno Stato musulmano nel continente “cristiano”: questo
contò moltissimo, nella scelta di lasciare
che milizie “cristiane”, serbe e croate, ammazzassero decine di migliaia di bambini,
donne, anziani, inermi.
Cominciavo a sospettare in questa mia
idea una di quelle fissazioni che ossessionano i reduci, quando ho ritrovato la medesima convinzione in un discorso tenuto
presso l’associazione “A buon diritto” da
Gadi Luzzatto Voghera, forse il maggior
storico italiano dell’antisemitismo. Ascoltiamolo: «Non sarà forse il caso di chiederci se le recenti e ancora sanguinanti ferite
delle guerre nei Balcani negli anni Novanta non debbano essere lette anche alla luce di una radicata e storica islamofobia europea? (...) Sono certo che una componente forte dell’immobilismo dell’Europa di
fronte all’assedio di Sarajevo interetnica
DOMENICA 26 FEBBRAIO 2006
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33
DALLA PALESTINA ALLA BOSNIA
Mondadori manderà a giorni in libreria “Gorazde” di Joe Sacco,
il giornalista americano che usa per i suoi reportage la tecnica
del fumetto. Il libro narra le vicende della cittadina a maggioranza
musulmana, che rimase a lungo assediata dalle milizie serbe
malgrado fosse stata proclamata dall’Onu “zona protetta”. Sacco
si è imposto all’attenzione internazionale con “Palestina, una
nazione occupata”, edito in Italia da Mondadori nel 2002
Prendere Mladic per dare un finale alla storia
BILJANA SRBLJANOVIC
L
BELGRADO
eggo questa triste, commovente storia su Gorazde mentre con
la coda dell’occhio seguo costantemente i notiziari. Sempre nuove
voci di ora in ora: è stato arrestato, non è stato arrestato; si consegnerà,
no, piuttosto si suiciderebbe; è finita, è già all’Aia, no, ancora neanche
sanno dove sia. Leggo una storia di guerra mentre aspetto che il falso
generale di un esercito falso, Ratko Mladic, responsabile di crimini
compiuti dappertutto in Bosnia, compresa Gorazde, venga finalmente consegnato al tribunale dell’Aia.
Leggo questo fumetto, frammenti illustrati della vita di persone che
tutto d’un tratto, senza venire mai a sapere né perché né perché proprio loro, vivono la realtà della guerra. Persone adulte che tutto il giorno non fanno altro che aspettare sedute, ascoltano le voci o le diffondono, aspettano che qualcun altro senza chiedere loro niente, a loro
nome, firmi la pace. Non posso fare a meno di immaginare come
adesso, dieci anni dopo, Joe Sacco descriverebbe col disegno questo epilogo: la gente rimane seduta ad aspettare, ascolta le voci o le
diffonde, aspetta che qualcun altro a nome di tutti gli uccisi, i morti, i dispersi delle loro mai ricomposte famiglie, finalmente arresti Mladic, trascinandolo davanti a un qualche tribunale.
Provo a immaginare che cosa ci sarebbe scritto nelle nuvolette del fumetto, non in quelle che contengono le parole dette, bensì in quelle che riportano i pensieri. Mi chiedo se gli abitanti di
Gorazde, di Srebrenica, di Foca, di Sarajevo e di tutte le altre parti della Bosnia ascoltano queste notizie sulla possibile cattura
del generale macchiato di sangue. Che cosa ne pensano il vero Edin e gli altri personaggi? Mi domando se dieci anni d’attesa non siano troppi. Se non sia troppo tardi.
Il fatto è che, leggendo questa storia, mi sembra di conoscere tutte queste persone senza essere mai stata a Gorazde né in nessun altra città in guerra salvo la mia Belgrado.
Sono simpatiche persone qualunque, quasi allegre. Aspettano che la guerra passi avvelenandosi con la nicotina, fumando e parlando forsennatamente, perché solo così si rimane normali. Passano il
tempo della guerra vivendo e rallegrandosi delle piccole cose, semplicemente aspettandone la fine. Per quanto rese esauste dall’assedio e
dall’isolamento hanno ancora la forza di parlare di cose insignificanti,
triviali, di sognare l’America e i Levis 501 (ma original, in nessun caso ta-
roccati) come se fossero l’unica cosa importante della vita.
Ma quando la storia prende a svolgersi a ritroso — quando qualcuno dall’alto pronuncia l’ordine e la guerra comincia tra cortili, auto in
sosta, caffè e muoiono intere famiglie nello spazio di due vie, tra due
angoli di strada, tra due macchine in fila e quelle stesse persone anche
se sopravvivono hanno almeno una volta guardato la morte dritto negli occhi e fingono di tenere di più al filo rosso originale dei jeans che
ad evitare il proiettile di un cecchino mentre vanno alla ricerca di acqua potabile — quando questo accade, leggo e non ne so più nulla. Conosco la sensazione di essere un bersaglio, ma non so come ci si sente
quando ti spara addosso il vicino di casa o l’ex compagno di banco. So
come ci si sente a non sapere se arriverai vivo al mattino, ma non so che
sensazione si prova a esser costretti a fuggire dalla propria casa perdendo strada facendo tutto ciò che si ha. In realtà non so nulla di Gorazde, anche se tutto questo accadeva qui, molto vicino, anche se capitava a persone del tutto uguali a me.
Una delle ragazze del libro a un certo punto chiede che da Sarajevo
le procurino un farmaco per l’acne. Di altro non ha bisogno, né di cibo né di jeans originali, solo della pomata per calmare il viso. La ragazza spiega: «Il mio viso si è infiammato quando un cecchino ha ucciso mia sorella». E mentre leggo anche il mio viso si infiamma, tutto
il mio corpo si infiamma, solo a pensarci. La mia coetanea — ha una
sorella come me, in quel disegno persino mi assomiglia, dieci anni fa
non stava neanche tanto lontana dalla mia casa e dalla mia vita — vive una vita terribile, vive una tragedia inguaribile di cui in certo qual
senso sono responsabile anch’io.
Mi domando dove sia quella ragazza adesso. È rimasta in Bosnia oppure se n’è andata da qualche parte dove fanno i jeans originali? Sta seguendo come me le notizie sulla cattura di Mladic? Chissà se per lei significano qualcosa oppure tutto questo la offende e la umilia ulteriormente, questa titubanza nel catturare il criminale per farlo processare
per la morte di sua sorella e per tutto ciò di cui è responsabile.
Ascolto con attenzione le notizie in questi giorni, ascoltatele insieme a me. Credo che fra poco avremo una ragione per rallegrarci, credo che dopo dieci anni di silenzio noialtri belgradesi potremo finalmente guardare negli occhi i nostri vicini bosniaci.
Scrittrice e giornalista, l’autrice ha tenuto su “Repubblica”
un diario da Belgrado durante la guerra in Serbia
(traduzione di Branka Nicija)
(ma a maggioranza musulmana — e me lo
si lasci ricordare, con la presenza di un’attivissima comunità ebraica che si prodigò
per assistere la popolazione civile) e soprattutto di fronte al massacro di Srebrenica, è stata senza dubbio l’islamofobia. La
Bosnia è nel cortile di casa nostra, mai l’Europa avrebbe permesso dopo Auschwitz
un simile massacro se ad essere colpite
non fossero state popolazioni tutto sommato percepite come estranee, quando
non ostili».
Detto altrimenti: non v’è forse un lato
oscuro anche nell’Europa “cristiana”, così
come nell’islam, o come in ogni altra fede
quando la religione dell’altro diventa alibi
all’indifferenza, pretesto per lasciare che
venga ucciso? Mentre rimbombano discorsi sulle “radici cristiane d’Europa”, richiami a non genuflettersi davanti all’islam e appelli a ritorsioni contro gli immigrati musulmani, forse non è inutile fare
chiarezza. I presidenti di Camera e Senato,
vari ministri, larghi settori della maggioranza, l’intera stampa lombarda, tutti fustigano l’Europa, colpevole, citiamo Casini, di «ignavia, doppiopesismo, viltà» per
non aver reagito alle uccisioni di cristiani
avvenute in queste settimane. Cinquanta
uccisi, quali sia la loro fede, sono comunque un’enormità, e l’Europa non dovrebbe
lavarsene le mani. Ma i Musulmani assassinati in Bosnia furono almeno mille volte
di più. Cosa dissero all’epoca gli odierni indignati? Condannarono «ignavia, doppiopesismo e viltà» con cui l’Europa tollerò il
massacro dei Musulmani in Bosnia? Levarono appelli a fermare le infamie commesse non solo dalle milizie serbe, ma anche
dai generali della cattolicissima Croazia,
oggi imputati dall’Aja? Restiamo in rispettosa attesa di risposte. Ma se non le avessimo, dovremo considerare i nostri sdegnati
alla stregua di quei guitti che ieri celebravano il dio Po con riti pagani e oggi si pretendono campioni della cristianità.
34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
il racconto
Mestieri a perdere
DOMENICA 26 FEBBRAIO 2006
Per un secolo e mezzo sono stati i cronisti-notai dell’Italia di provincia, la loro
vetrina era il giornale murale della città. Documentavano nascite, matrimoni,
lauree, funerali. Ma sapevano anche “rubare l’anima”, creare un doppio
di carta che somigliava davvero ai clienti-amici. Adesso il loro lavoro sta sparendo,
e muore beffardamente in mezzo all’abbondanza: di telefonini ruba-immagini,
di stampantine digitali, di aggeggi che sanno fare qualcosa che sembra una foto
Addio al fotografo di paese
MICHELE SMARGIASSI
E
TREVIGLIO
rano i padroni dei sorrisi: «Davanti a me i volti
s’illuminavano, non solo per il flash». Erano i
registi dei momenti felici: «Mi fermano ancora per strada, “lei fotografò il mio matrimonio,
ricorda?”, mi pagano il caffè, mi dicono grazie». Erano i custodi dell’identità: «Ho fatto il ritratto per la patente al
papà, al figlio, al nipote». Erano gli officianti dei riti di comunità: «Ci sono persone di cui ho fotografato il battesimo, la comunione, le
nozze, perfino il funerale».
Ma adesso. «Un bicchiere di bianco?».
Adesso è materia da brindisi di nostalgia a
un tavolo del Toscano di Robbiate, vista
mozzafiato sul vecchio ponte di ferro dell’Adda, scenario fotogenico quant’altri
mai. Quattro fotografi di paese: l’Usuelli
Carlo di Bernareggio, l’Agazzi Giulio di
Treviglio, l’Agostoni Federico di Rovagnate, il Manzocchi Ernesto di Olginate. Tutti
tra i sessanta e i settanta, tutti con mezzo
secolo di onorata bottega a carico, nel
profondo della Brianza profonda. «Siamo
gli ultimi. Cin cin, alla nostra».
Manco a farlo apposta c’è un matrimonio, oggi al Toscano. All’Usuelli gli prude
l’Hasselblad. L’ha sempre con sé, la sua fotocamera preferita, dentro una borsa gialla. La prende, l’accarezza: «Gli astronauti la portarono sulla luna. Ci faceva
impazzire, da ragazzi». È un riflesso condizionato: senza alzarsi dal tavolo inquadra la sposa, regola le ghiere, mette il
dito sul pulsante. L’Agostoni sfotte: «Ma lascia andare
Usuelli, prendi giù un’altra fetta di tagliata di manzo». Ce
l’hanno già un fotografo, gli sposi. Un ragazzo con la coda di
cavallo, al collo seimila euro di attrezzatura, macchina digi-
Un giorno qualsiasi,
attorno a un tavolo
nella Brianza
profonda, con quattro
angeli custodi
FOTO MARIO GABINIO
Repubblica Nazionale 34 26/02/2006
dell’identità
della gente di qui
LE BOTTEGHE
Sopra, una fotografa al mercato
di Torino nel 1930. A destra,
il laboratorio di fotografia
Salmoiraghi su Corso Umberto
(attuale via del Corso) a Roma,
nel 1940. A seguire: il negozio
dei fratelli Agamben a L’Aquila
all’inizio del ’900, la bottega
Ottolenghi a Torino nel 1950,
una posa davanti a una polaroid
anni ’50 e la “Premiata fotografia
Perillo” a Senigallia, nel 1930.
In alto, un negozio di fotografia
alla periferia di Bergamo nel 1956
tale da 12 milioni di pixel, flash elettronici eccetera. Il Manzocchi, serio: «Veh Usuelli, ti fa mica pena quello lì? Crede
di avere un futuro». Be’, un presente ce l’ha. L’Usuelli scuote il capo con un sorriso strano: «No, guardi meglio. Lui fotografa gli sposi, ma gli sposi non guardano lui. Vede? Guardano gli amici con i fotocellulari, le macchinette, le videocamere. Sorridono solo a loro». Perché l’hanno chiamato,
allora? Costerà parecchi quattrini. «Perché il matrimonio è
l’ultima nostra spiaggia. Nessuno se la sente ancora di fare
un matrimonio senza il servizio del professionista. Hanno
speso migliaia di euro per la cerimonia, il vestito, il pranzo,
hanno paura che non resti nulla. Ma durerà poco. Già oggi
è solo un’abitudine, una formalità. Lo sa che molti sposi, dopo, non passano a ritirare l’album? Ne ho uno lì nel cassetto da maggio, pronto. E non pagato».
Cin-cin allora, per un mestiere che scompare. E beffardamente muore d’inedia in mezzo all’abbondanza. Mai come oggi la fotografia è ubiquitaria e invadente. Ogni adolescente che incontri per strada ha in tasca un aggeggio che sa
fare qualcosa che somiglia a una foto. Ma per i sapienti artigiani della fotografia non c’è più ingaggio. «Un mese fa ho
fatto un battesimo, non mi capitava da anni. C’erano nove
bambini. Ero l’unico professionista. Ho dovuto farmi largo
a gomitate nella folla di parenti con le macchinette. Perfino
il parroco alla fine ha tirato fuori un aggeggino e s’è messo a
scattare, allora non sono riuscito a tacere, “Senta don, lei
pensi alle anime che i corpi sono affar nostro”».
Ma l’Usuelli sa che non è così. Sa che i fotografi per primi
hanno invaso il campo dell’interiorità, scendendo dalla superficie al profondo, dal corpo all’anima, dall’immagine all’essenza. Della gran religione dell’immagine che ebbe Nadar e Disdéri per profeti, gli ateliers parigini per cattedrali, i
manuali Hoepli per libri sacri, santa Veronica (la fotografa
di Gesù) per patrona, loro sono stati i curati di campagna. La
quarta autorità del paese: «Dopo il sindaco, il parroco, il maresciallo, e prima del medico condotto». Perché il dottore
conosceva i segreti del fisico di ogni compaesano: il fotografo, quelli dello spirito. «Il ritratto in studio era una com-
media. Teatro puro. Venivano a recitare se stessi, avevano
già la loro posa in mente, volevano apparire come pensavano di essere, non come erano davvero. Allora io li giravo e rigiravo, mettiti così, voltati di là, dammi retta, guarda che io
ti conosco meglio di te». Quell’intimità coi corpi, quel tête à
tête nella penombra della sala di posa erano perfino sospetti per la pubblica moralità. «Una ragazza volle delle foto un
po’ osé per il fidanzato», sorride l’Usuelli, «niente in tutto,
un décolletégeneroso, uno sguardo languido. Venne in gran
segreto, però chissà come il giorno dopo mi piombò il parroco in negozio: “Carlo se vuoi che restiamo amici non fare
più certe cose”...».
Tanto non vengono più, neppure per la fototessera. Quel
momento sciamanico, quella trasmigrazione d’anima dal
ritratto al ritraente che terrorizzava Balzac, s’è trasferito in
luoghi più sciatti e profani. Le cabine automatiche per fototessere somigliano a confessionali, ma senza il confessore.
Mettersi in posa davanti a una macchina a gettoni, che gusto c’è? «Nessuno si riconosce in quei francobolli lì». Però
costano poco. «Io faccio sei ritratti per otto euro, è tanto? È
che posare per un fotografo in carne ed ossa ormai li annoia,
pensano di perdere tempo». Per le nuove carte d’identità,
plastificate come bancomat, la foto si farà direttamente al
banco dell’anagrafe, davanti a una webcam. «E sembreremo tutti delinquenti alla matricola del carcere. Io invece so
come scende la luce sui capelli, dove deve cadere l’effetto
ombra sulla guancia sinistra...». Maledetto secolo materialista, individualista e digitale: non abbiamo più un rispetto
sacrale per l’icona di noi stessi. «Un cliente si lamentava di
com’era venuto. Irritato, gli strappai le foto sotto il naso.
Chiamò i carabinieri perché avevo offeso la sua dignità».
Era quasi magia. Ora si affida la fabbrica del proprio doppio di carta, ormai desacralizzato, al primo che passa. La
concorrenza, allora, si fa spietata. «Perfino le pompe funebri ti regalano la fotoceramica per la lapide fatta all’istante».
L’estromissione del fotografo dalla vita familiare è iniziata
dalla fine: «Oggi solo gli zingari vogliono fotografi ai loro funerali sontuosi». E dal principio: quasi esauriti anche i bat-
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35
FOTO ALFREDO CAMISA
DOMENICA 26 FEBBRAIO 2006
tesimi. I matrimoni invece resistono ancora, ma ci si sposa
di meno: «Quest’anno ne ho fatti quindici. Ai tempi d’oro ne
facevo novanta in un anno, anche tre al giorno, di corsa da
una chiesa all’altra, con l’ansia di non arrivare, una volta
sbagliai sposi e me ne accorsi solo al terzo rullino». E quella
volta che la sposa non arrivò? «Non solo persi il guadagno,
mi toccò anche consolare i parenti in lacrime». I ricchi del
paese assoldavano anche quattro fotografi, per far scena,
«eravamo uno status symbol». L’immagine pubblica del sé,
curata da un professionista, doveva incrociare il sistema di
valori brianzolo: «Dané, laurà, e il Signur se gh’è». Fotografie come certificati notarili di ogni successo conseguito, familiare o professionale, come attestati di possesso della
propria vita: ecco i miei eredi, ecco la mia casa, i miei averi,
il mio credo, ecco me stesso, leggetemi in faccia quanto valgo. Foto private di pubblico consumo. Usuelli ricorda: «La
mia vetrina era il giornale murale del paese. Eventi e volti,
tutto esposto alla vista di tutti». Un panopticon democratico, lo specchio di una comunità. Ride: «Adesso rischierei
una denuncia per la privacy...».
Certo, anche spazzacamini e maniscalchi sono scomparsi. Non sarà un po’ banale piangere sui relitti che il progresso abbandona lungo la sua strada? Sì, però il fotografo
non è un mestiere antichissimo o pittoresco. Anzi. È figlio
della modernità e della tecnologia, e ha appena un secolo e
mezzo di vita. Una meteora antropologica, un lampo nella
lunga durata delle società umane. Per una breve parentesi
storica i fotografi di bottega sono stati dei pubblici ufficiali,
i funzionari della società dell’immagine di massa: nessun’altra epoca storica ne ha posseduti, i pittori ritrattisti
erano solo fornitori a domicilio di un’élite di potenti. Ma la
stessa società ora li dispensa dal servizio, pronta a fare da sé.
Felice di poter fare da sé. Di quel cronista e notaio che per
una manciata di decenni è stato necessario far entrare in casa, ammettere al segreto degli affetti e delle liturgie familiari, ora si può fare a meno. L’immagine familiare può finalmente chiudersi nel privato più privato, non uscire più di
casa, neppure per necessità. Il pixel domestico fa crollare
anche l’ultima mediazione tecnicamente obbligata: la consegna dei rullini delle vacanze per lo sviluppo-e-stampa.
Usuelli fu il primo in Brianza a comperare le macchine per
stampare a colori. Se ne pentì quando esplose la concorrenza dei centri commerciali. «Fanno prezzi stracciati solo
per attirare clienti». La presero male, i fotografi, si passò al
sabotaggio, «qualche collega», racconta Agazzi, «va in giro
a infilare nelle buchette dei supermercati rullini vergini, per
farli lavorare a vuoto. Io non l’ho mai fatto, ma li capisco».
Ma adesso è finita anche per i supermercati. Pochi l’hanno capito, ma col matrimonio fotocamera-computer va in
frantumi una filiera commerciale che ha dominato il mercato per centovent’anni: il sistema Kodak, inventato da quel
genio di George Eastman nel 1880, you press the button we
do the rest, che legò il fotoamatore a quel meccanismo di servizi su cui l’industria fotografica maturava i suoi veri guadagni. Adesso tu premi il bottone e fai anchetutto il resto, da
solo, in casa. Le stampantine fotodigitali sono stati tra i gadget elettronici più regalati a Natale. «Sabato scorso sa quanto ho incassato? Diciannove euro».
Cos’erano i sabati del villaggio fotogenico se lo ricorda
bene l’Usuelli. Chiuso in camera oscura, unghie annerite
dagli acidi, occhi da gatto allenati alla penombra sulfurea
della lampadina rossa, uno sguardo ogni tanto allo spioncino per vedere se entrava qualcuno in negozio, «sto stampando, arrivo!». C’era la fila per il ritratto. Sabato, perché
avevano il vestito buono addosso. «Adesso viene qualche
extracomunitario. Loro sì che ci tengono ancora, al ritratto
in posa. Per mandarlo ai parenti a casa. Abiti della festa,
gioielli, parrucchiere. Vogliono la figura intera, in piedi, come noi una volta».
L’Usuelli ha smantellato la camera oscura già dieci anni
fa, convinto dai figli. «Papà, mica vorrai morire con le dita
negli acidi?». Ora in quella stanza c’è il camerino per l’esame della vista. I figli hanno studiato ottica. L’antro del fotografo diverrà negozio di lenti e occhiali. «Ma quando sento
l’odore dei bagni di sviluppo mi viene il magone». Agostoni
in cantina ha «migliaia di negativi. L’altro giorno li volevo
buttare: prendono solo polvere. Non ce l’ho fatta. Lì dentro
c’è la storia di Treviglio. Chi sono io per buttare via la storia?». Microstoria iscritta nei volti, negli abiti, nei riti, negli
oggetti. L’archivio di un fotografo di paese è un trattato di
antropologia visuale. Negli Usa ha sconvolto il mondo della fotografia la scoperta di Mike Disfarmer, piccolo professionista degli anni Trenta con bottega a Heber Springs,
Arkansas: dicono, non senza ragione, che i suoi ritratti di
farmers raccontano l’America rooseveltiana più delle celebri foto di Dorothea Lange o di Walker Evans. Gli dedicano
mostre a Manhattan, cataloghi con pensosi saggi critici.
Ma l’Usuelli, il Manzocchi, l’Agazzi,
l’Agostoni non sanno a chi lasciare il loro
lavoro di una vita. «C’è almeno una foto
mia in ogni casa del paese, a me basta
questo», si consola Usuelli, però il magone non gli va giù. La prof di mineralogia
del “Mosé Bianchi” che cinquant’anni fa,
guardando i suoi scatti di principiante
fatti con l’Eura 6x6 di bachelite, gli consigliò «Carlo, fai il fotografo che hai stoffa,
di geometri ce n’è già tanti», aveva ragione? «Aveva ragione. Da capocantiere oggi avrei una bella pensione. Ma non rimpiango niente». Niente, né le corse in Vespa 125 con quindici chili a tracolla, né le
domeniche mattina al gelo sul sagrato ad
aspettare i comunicandi «perché in chiesa non ci facevano entrare».
Il fotografo con la coda di cavallo s’è ormai arreso. Gli sposi invece civettano ancora coi fotocellulari dei ragazzini. «Scattano migliaia di foto con quei cosi»,
dice l’Agazzi, «se le spediscono come sms, poi le cancellano. Delle foto fatte con le digitali finisce stampata una su
cento. Una foto oggi è come una parola detta ma non scritta. Più ne fanno, meno ne resteranno». Non rimpiangono
un passato carico di ricordi, i curati di campagna della fotografia. Compiangono un futuro smemorato.
Ormai hanno tutti
fra i sessanta e i settanta
anni, con mezzo
secolo di onorata
bottega a carico:
“Siamo gli ultimi.
Cin cin, alla nostra”
Il celebre fotografo: così ho scoperto la loro vocazione ante litteram al “reality”
Abili registi della “commedia umana”
L
FOTO PUBLIFOTO/OLYCOM
GIANNI BERENGO GARDIN
o confesso, ho sottovalutato a lungo i miei colleloro mestiere scomparirà. Non finché ci saranno maghi fotografi di paese e di bottega. Sfogliavo gli altrimoni. Passerà al digitale, sì, ma non è lo strumento
bum di nozze degli amici e mi dicevo: ma che poche fa la differenza: e lo dico io, che detesto le manise artificiose, ma che atteggiamenti esagerati, da mopolazioni al computer. Il nemico più insidioso, forse,
delli, da soubrette, innaturali, finti. Poi un giorno è caè la videocamera: se l’impronta televisiva nell’immapitato a me di vestire i panni del fotografo di matriginario comune si farà ancora più forte, forse il piccomoni. Seguii la troupe di un’inchiesta telo reality show in videocassetta sostituirà
levisiva di Davide Mengacci che si
l’album. Già oggi molte coppie vogliono
occupava proprio dei matrimoni degli itaentrambi.
liani: mi misi a fare ritratti agli sposi. AlloMa io voglio essere ottimista: l’immagira capii che la colpa non era dei fotografi.
ne fissa, l’icona ha ancora un fascino. E
Erano gli sposi a volersi così, a recitare se
dev’essere bella. Le immagini prese con i
stessi come fossero sotto le telecamere di
fotocellulari o le macchinette economiche
un reality show, non a una cerimonia relisono inguardabili, piatte, noiose. Infatti se
giosa. Come se si fossero detti: oggi finalne fanno di più ma se ne guardano di memente tocca a me. L’intelligenza dei fotono. In Sicilia ho incontrato mamme che
grafi di matrimoni è assecondare questo
portavano i figli mascherati dal fotografo,
loro desiderio e farsi abili registi della loro
a carnevale, per avere almeno una bella
commedia. Io sono un reporter, non metimmagine, «perché se lo chiedo a mio maGianni
Berengo
Gardin
to in posa la realtà, e non lo capivo. Loro inrito viene orribile». Su una rivista di fotovece sono gli impresari di una grande scena teatrale, i
grafia ho trovato la lettera di una signora disperata:
creatori di una fiction.
«Ho comprato una macchina a pellicola perché mio
Da quel momento ho cominciato a fermarmi damarito fa mille foto digitali e non le stampa mai, allovanti alle loro vetrine, studiando le fotografie esibite
ra faccio da sola e le porto dal fotografo». Forse questa
come un campionario di abilità: quei volti di ragazze
sbornia di brutte immagini che tutti fanno e nessuno
messi in diagonale, con la luce di taglio, gli occhioni
guarda finirà, per nausea e stanchezza. Forse tornerespalancati… perfetto. Io non saprei fare nulla del gemo tutti ad avere voglia e bisogno della fotografia belnere. In sala di posa loro sono molto più bravi di me.
la, pensata, composta. Forse.
Per questo, contro ogni evidenza, non credo che il
(testo raccolto da m. s.)
36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
i luoghi
Terre di frontiera
DOMENICA 26 FEBBRAIO 2006
Attraverso la città di El Paso, in Texas, e quella messicana
di Ciudad Juarez, al di là del fiume che fa da confine,
si entra nel mondo percorso dagli eroi dello scrittore
americano. Sono spazi sconfinati, sotto un sole
implacabile. Ma in questa natura senza tempo l’intervento
dell’uomo comincia a farsi strada in maniera irreversibile
Oltre il Rio Grande
nel deserto
di McCarthy
E
I ROMANZI
ANTONIO MONDA
FOTO CORBIS
l Paso è l’ultimo lembo d’America che Billy Parham
e John Grady Cole — i personaggi della trilogia della
frontiera di Cormac McCarthy, le cui avventure
esprimono la possibilità di un’esistenza libera e irraggiungibile — attraversano prima di sconfinare nel Messico.
È anche la città in cui ha deciso di vivere lo scrittore, nativo del
Rhode Island, piccolo stato dell’est, e figlio adottivo di una regione del sud come il Tennessee.
La città suscita spaesamento e desolazione per la mancanza
di una qualunque definizione urbanistica, architettonica o
semplicemente culturale. È un piccolo gruppo di grattacieli nei
quali hanno sede potenti corporation quali la Chase e la Well
Fargo, circondati da un’infinità di case basse che hanno inglobato i pochi palazzi degli anni Venti definiti con orgoglio «storici». L’unica presenza autenticamente caratterizzante è quella
militare, per la prossimità di Fort Mills e per i segnali che ricordano che nella parte desertica a nord
della città, accanto alle spettacolari
White sands, le sabbie bianche, vengono fatti periodicamente esperimenti
missilistici.
Non esiste una città che porti in maniera più evidente le stigmate della terra di frontiera. Da un punto di vista amministrativo El Paso è ancora Texas, ma
il Messico è separato dal centro cittadino unicamente dal Rio Grande, mentre
il New Mexico è a meno di dieci miglia
ad ovest, separato da un confine in parte artificiale e in parte segnato da un’ansa dello stesso fiume. Se si continua ad andare verso ovest si incrocia il confine dell’Arizona dopo appena settanta miglia.
Ma è a sud che si notano i contrasti più drammatici. Attraversato il Santa Fe Bridge si entra a Ciudad Juarez, case anonime di
colore bianco e rosa che di notte si illuminano in maniera uniforme lungo un’area sconfinata, suggerendo un’idea di benessere
smentita brutalmente dalla luce del giorno. La luce rivela anche
i colori chiassosi e artificiali del centro, dove nel mercato intorno alla cattedrale compaiono negozi improbabili come “Paris
Juarez” (moda francese e souvenir parigino-messicani) e una
impressionante sequela di “renta de tuxedos”, nelle quali si propongono in affitto smoking dai ricami e colori impensabili.
Con il suo milione e trecentomila abitanti Ciudad Juarez è
grande quasi il doppio di El Paso e ciò che colpisce immediatamente è il contrasto tra la scelta di mantenere con orgoglio le
proprie radici e la volontà di assimilarsi al più presto con il paese dei ricchi gringos che vivono al di là del fiume. Anche se molti deridono il grattacielo della Wells Fargo, che si trasforma di
notte in una enorme bandiera americana. Ciudad Juarez è lontana dagli itinerari turistici e sia nei poster che negli annunci politici la città parla unicamente a se stessa, comunicando un’atmosfera di caos povero e disincantato. Gli eroi di McCarthy e lo
CAVALLI SELVAGGI
Due cowboy a cavallo lasciano il Texas
e partono per il Messico. Il romanzo è del 1996
Di notte le case
s’illuminano, suggerendo
FOTO CORBIS
un’idea di benessere
brutalmente smentita
dalla luce del giorno
OLTRE IL CONFINE
È la storia struggente di due fratelli fra le valli
e le montagne della frontiera. Uscito nel 1997
FOTO MAGNUM/CONTRASTO
Repubblica Nazionale 36 26/02/2006
EL PASO
CITTÀ DELLA PIANURA
Nel 2001 si chiude la trilogia della frontiera:
i protagonisti dei primi due libri si incontrano
stesso scrittore la evitano accuratamente, puntando per le proprie escursioni a sud o a nord-est, ma per tutti loro è impossibile sfuggire all’enorme scritta che campeggia sui monti e ricorda:
«La Bibla es la verdad: leela».
La presenza della religione è costante e imprescindibile, ma
sin dai sobborghi della città si ibrida con culti e miti locali. Le immagini di Cristo e dei santi sono esposte vicino a quelle di leggendari cowboy della terra di confine e di Geronimo, che scorrazzava nelle montagne dell’interno. Seguendo l’itinerario dei
cowboy di McCarthy ci si addentra nello stato di Chihuahua. Appena usciti da Ciudad Juarez lo scenario si rivela in tutta la sua
asprezza e le praterie sconfinate che caratterizzano le terre a
nord del Rio Grande lasciano il posto a un deserto di piccoli arbusti. È un territorio assolutamente piatto che si estende a perdita d’occhio sotto un sole implacabile. Le montagne che si intravedono a centinaia di chilometri sembrano delle isole mitiche, che al tramonto assumono i colori del fuoco.
Si capisce immediatamente perché i giovanissimi cowboy di
Cavalli selvaggi e di Oltre il confine siano costantemente alla ricerca delle città e perché l’acqua abbia un’importanza vitale.
Tra Ciudad Juarez e il primo centro abitato, chiamato Janos, ci
sono 220 chilometri di traversata di un deserto torrido, con un
unico punto di ritrovo per rifocillare gli incauti viaggiatori: una
decina di costruzioni basse, con un distributore di benzina, un
meccanico e un posto di ristoro che vende unicamente gorditos,
burritos e Coca Cola. Il posto non è neanche segnato sulle mappe e deve la propria esistenza a una modesta fonte d’acqua dove si abbeverano alcuni animali.
Un paio di cavalli legati all’esterno di una delle casupole sembrano cristallizzare il luogo all’epoca raccontata da McCarthy,
ma l’interno della tavola calda rivela il passaggio del tempo. Accanto al ritratto di Geronimo c’è uno stereo che propina musica
locale a tutto volume, un murale dedicato a un cowboy morto (la
dedica in inglese dice «Peter lives»), un condizionatore estremamente rumoroso e una televisione sintonizzata con pessima ricezione su un canale di Chihuaha. Con ogni probabilità è in questa località senza nome che si è fermato Billy Parham per rifocillare il cavallo, ma le donne che gestiscono il locale non hanno mai
sentito parlare di McCarthy, né dei suoi personaggi. Hanno vestiti dai colori sgargianti e la proprietaria, giovane e sovrappeso,
esibisce su una spalla l’enorme tatuaggio di una farfalla. Sopra la
cassa sono incorniciati un brano del Salmo 27 («Il Signore è la mia
Luce e la mia Salvezza: chi posso temere?») e il passo dell’evangelista Luca in cui Cristo annuncia che il Padre ha promesso un
regno a tutti coloro che lo seguiranno. La proprietaria guarda fisso negli occhi chi legge i brani incorniciati, cerca di capire se trova condivisione nell’interlocutore, e quindi si addolcisce in un
sorriso misterioso e antico come il paesaggio.
Una delle caratteristiche più affascinanti di molti libri di McCarthy è l’ambientazione negli anni Quaranta, che non rivela
nulla di diverso dall’epoca più eroica del vecchio West. Oggi la
natura appare ancora intatta e senza tempo, ma l’intervento
dell’uomo comincia a farsi spazio in maniera irreversibile: si vedono antenne, neon e la pubblicità di una birra locale. Superata la minuscola Janos si raggiunge dopo altri 60 chilometri Casas
Grandes, la città nella pianura dove approdano i cowboy di Mc-
DOMENICA 26 FEBBRAIO 2006
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37
IN USCITA
FOTO GETTY/RONCHI
I ROMANZI
MERIDIANO DI SANGUE
L’iniziazione di un ragazzo alle spietate leggi
del West nel libro uscito nel 1998
molte miglia un multiplex della catena Cinemark, una scuola
pubblica simile a una fabbrica, uno stabilimento di aspirapolveri Hoover e una gigantesca loggia massonica di rito scozzese.
Sulla strada asfaltata che ha sostituito i sentieri si incrociano
soltanto carcasse di pneumatici rotti e di coyote travolti dai camion. Compare ripetutamente una scritta che invita i giovani
ad entrare a Fort Mills proclamando: «È un gran giorno per essere un soldato».
È un percorso interiore segnato dalla violenza anche quello
di Llewelyn Moss, il protagonista dell’ultimo romanzo di McCarthy No country for old men, che in una battuta di caccia all’antilope immaginata proprio in questa zona si imbatte in numerosi cadaveri, un enorme quantitativo di eroina e due milioni e mezzo di dollari misteriosamente abbandonati. Gli scenari e i conflitti morali sono quelli di sempre, ma l’ambientazione
di questa ultima vicenda di inseguimento e fuga disperata è
spostata negli anni Ottanta, quasi che McCarthy volesse segnalare l’irreversibile degrado di un mondo che all’epoca di Meridiano di sangue ancora appariva puro e primordiale. I cowboy
e i cacciatori che celebrano con la loro stessa esistenza la grandiosità di queste pianure devono confrontarsi con assassini spietati che non
hanno alcun valore morale di riferimento. Sembra non ci sia più spazio per
le lunghissime pause di silenzio e solitudine nelle quali «le stelle cadono ogni
notte lasciando dietro di sé degli archi
malinconici».
Se il primo romanzo che ha dato la
popolarità a McCarthy era nelle parole
di Harold Bloom «una tragedia universale di sangue», No country for old men
è una vicenda di morte senza riscatto,
nella quale la maggiore tragedia sembra l’ineluttabile declino di questo paesaggio. In questa storia
ambientata oltre vent’anni fa, che i fratelli Cohen stanno per
tradurre in un film, McCarthy racconta che si tratta di cambiamenti impercettibili. Ma addentrandosi lungo i sentieri che costeggiano il Rio Grande ti accorgi che c’è qualcosa di profondamente immutato nello spirito della popolazione, che sembra
resistere con indifferenza a ogni cambiamento. La violenza che
proviene dall’esterno è sempre una tempesta occasionale e
quella che nasce all’interno segue il ritmo infinito e misteriosamente etico del tempo.
Ancora oggi gli immensi allevamenti sono tutti recintati e i
cowboy sconfinano soltanto la domenica, per riunirsi a festeggiare all’interno di ranch nei quali vengono macellati per l’occasione i migliori capi di bestiame. In questa celebrazione della
terra e della carne il mondo dello scrittore non è affatto cambiato, come nella considerazione della città: una realtà lontana, vissuta con sospetto e malinconia. Un luogo dove l’uomo decide di
ritirarsi quando non ha la forza di reggere la vera vita degli spazi
aperti. Non c’è abitante che non sia felice che in questa area il turismo sia pressoché sconosciuto. L’unico souvenir disponibile
è una maglietta in vendita presso un ranch con scritto: «Vegetariano: termine indiano che indica un cattivo cacciatore».
La violenza caratterizza
questi posti in modo
indelebile e nessun
personaggio romanzesco
riesce ad evitarla
FOTO MASTERFILE
Carthy prima di decidere se affrontare la catena montuosa verso ovest o puntare a est verso il Rio Pecos.
Casas Grandes non ha nulla a che vedere con quello che noi
intendiamo per città. Alle caratteristiche del paese western
(un lungo viale con bar e uffici, alle cui spalle scorrono altri due
viali con le case degli abitanti), si sono sovrapposti una serie di
elementi della modernità: un piccolo stadio colorato di verde
elettrico, una infinità di insegne pubblicitarie, una banca appena costruita, un locale che garantisce accesso a Internet.
Nello spiazzo accanto allo stadio due squadre di bambini si affrontano in una agguerrita partita di baseball e poco più avanti c’è un ragazzo che indossa una maglia del Milan, su cui c’è
scritto anche “Italy”.
La cosa che colpisce maggiormente — e infligge un colpo
mortale al fascino dei luoghi creati da McCarthy — è una enorme costruzione denominata Camelot. È un vero e proprio castello inglese ricostruito in cemento grezzo, adibito a ricevimenti e banchetti, accanto al quale si è installato un piccolo botteghino in cui si vende formaggio mennonita. Non sembra esser rimasto nulla della città dei romanzi e anche le case più ricche, edificate intorno al castello, tradiscono per stile ed imponenza l’epica promessa dagli spazi e dalle montagne infuocate.
Al di là di quella catena si è concluso l’inseguimento tra il giovane bandito William Bonney, chiamato da tutti Billy the Kid, e
Pat Garrett, l’amico che aveva deciso di passare al servizio dei
proprietari terrieri e farsi nominare sceriffo. McCarthy ha pensato certamente al film di Sam Peckinpah quando ha descritto
la caccia al tacchino nelle piane desolate sotto le Guadalupe
Mountains e condivide con il regista di origine pellerossa il fascino per personaggi ancorati a principi morali che li collocano
fuori dal proprio tempo. E ha pensato sia a Peckinpah che a McCarthy Tommy Lee Jones, che ha girato in queste stesse zone
The Three Burials of Melquiades Estrada, dolente e riuscitissimo
adattamento da Guillermo Arriaga. L’area è diventata il set cinematografico ideale per storie che utilizzano il contrasto tra la
purezza epica del paesaggio ed il senso di disorientamento di
chi lo affronta per la prima volta. Persino una diva come Jennifer Lopez ha voluto girarvi un film intitolato Bordertown, nel
quale interpreta una giornalista di Chicago che indaga sugli
omicidi che avvengono lungo la linea di confine.
La violenza è l’altro elemento che caratterizza in maniera indelebile questi luoghi e nessun eroe riesce ad evitarla. I posti di
blocco si ripetono a distanza regolare e lungo la strada compare
un cartello in cui su una pistola è contrassegnato il segno di divieto. Coloro che decidono di seguire il corso del Rio Pecos possono leggere in ogni centro abitato il decalogo approntato dagli
abitanti della zona, che inizia con questi due comandamenti: «1)
Non entrare mai in una terra non tua senza chiedere permesso.
2) Non chiedere mai a un uomo quanta terra possieda».
Gran parte dell’avventura di Billy Parham e della sua lupa descritta in Oltre il confine avviene all’interno di questo territorio
e il senso di minaccia costante immortalato dallo scrittore non
è minimamente cambiato. Tuttavia, quanto è stato costruito
dall’uomo negli ultimi trent’anni arreca un senso di disorientamento: sul territorio assolutamente brullo, che non offre
punti di riferimento al viaggiatore, si stagliano a distanza di
IL BUIO FUORI
Due fratelli-amanti abbandonano il loro figlio.
Poi inizia la ricerca. Uscito nel ’99
FOTO GILLES PERESS / MAGNUM PHOTOS
Repubblica Nazionale 37 26/02/2006
Si chiama “Non è un paese per vecchi” il nuovo
romanzo di Cormac McCarthy, in uscita a inizio marzo
in Italia per i tipi di Einaudi. È ambientato negli anni Ottanta
del secolo scorso, ma sempre al confine tra Texas
e Messico. Narra la storia di tre uomini i cui destini
all’improvviso si intrecciano. Due di essi sono legati
ai vecchi valori della frontiera, che costituiscono
un elemento fondamentale nell’epopea di McCarthy,
mentre il terzo incarna il male assoluto. Nelle foto della
pagina, immagini della zona di confine Usa-Messico
attorno a El Paso e Ciudad Juarez. In quella in basso
a destra, Cormac McCarthy dietro il vetro di un bar
IL GUARDIANO DEL FRUTTETO
Tre uomini, legati da un misterioso cadavere,
vanno incontro al loro destino. Uscito nel 2002
38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 26 FEBBRAIO 2006
La Bibliothèque Nationale de France dedica al secolo dei lumi una mostra
di quadri, stampe, manoscritti, libri e oggetti, intitolandola significativamente
“Un’eredità per il futuro”. Perché, come spiega il curatore Tzvetan Todorov,
la lezione dei grandi del pensiero settecentesco è tornata di grande attualità: “In un mondo
in cui proliferano i conflitti religiosi e l’oscurantismo, ricordare i principi di libertà e tolleranza
di Rousseau, Voltaire, Montesquieu e Kant è diventato indispensabile”
FABIO GAMBARO
Repubblica Nazionale 38 26/02/2006
«O
Illuminismo
Le idee immortali
PARIGI
ggi abbiamo più
che mai bisogno
di ripartire dall’illuminismo». Tzvetan Todorov non ha dubbi: «Dopo l’11
settembre, in un mondo in cui proliferano
i conflitti religiosi e l’oscurantismo, ricordare i grandi principi di libertà, autonomia e tolleranza enunciati da Rousseau,
Voltaire, Montesquieu, Kant o Hume è diventato indispensabile». Per questo, il celebre studioso francese — nel cui percorso coesistono gli interessi per la letteratura, la storia delle culture e delle idee, la filosofia morale e politica — ha accettato
volentieri di curare, insieme a Yann Fauchois, il progetto dell’interessantissima
mostra che la Bibliothèque Nationale de
France, nella sua moderna sede sulle rive
della Senna, nel quartiere di Tolbiac, dedica oggi all’illuminismo. Due anni di lavori, discussioni, letture e ricerche, per
presentare a un pubblico che si spera numeroso un movimento complesso, ricco
di sfaccettature e implicazioni diverse,
che però in passato è stato spesso imprigionato entro coordinate eccessivamente rigide e riduttive. La mostra parigina, invece, prova a sottrarsi ad ogni facile schematismo, proponendo una lettura originale fin dalla prima sala. Qui Rousseau e
Mozart, entrambi considerati come figure esemplari dello spirito dell’illuminismo, sono celebrati sullo sfondo di una
mappa dell’Europa del Settecento. Scelta
che mira a sottolineare il carattere europeo — e non solo esclusivamente francese — di un movimento che fu filosofico,
ma anche artistico, letterario e musicale.
La mostra, che s’intitola significativamente Illuminismo! Un’eredità per il futuro, grazie a duecentocinquanta tra
quadri, stampe, manoscritti, libri e oggetti, ricostruisce l’universo d’idee e discussioni affrontate dall’illuminismo,
spaziando dalla religione alla politica,
dalla scienza all’educazione, dalla pluralità del mondo alla libertà dell’individuo.
E se il risultato finale, oltre che pedagogicamente efficace, è pure molto affascinante, lo si deve anche all’immenso patrimonio della Bibliothèque Nationale
che ha messo a disposizione dei curatori
alcuni manoscritti eccezionali, tra cui
quelli della Nuova Eloisa di Rousseau,
dello Spirito delle leggi di Montesquieu e
delle Relazioni pericolose di Choderlos
de Laclos. O ancora quello del Testamento del curato Meslier, il cui materialismo
ateo aveva tanto affascinato Voltaire. Sono moltissime poi le edizioni originali e
rare delle opere del tempo, tra cui un
esemplare dello Spirito di Helvetius annotato personalmente da Rousseau, la
Critica del giudiziodi Kant o le Riflessioni
sulla schiavitù dei negri di Condorcet,
senza dimenticare l’Enciclopedia di Diderot e D’Alambert, opera monumentale da sempre considerata come la più
compiuta espressione del progetto illuminista.
Per Todorov — già autore di studi importanti come La conquista dell’Ameri-
che parlano
al nostro tempo
ca, Noi e gli altri, Le morali della storia e
Memoria del male, tentazione del bene —
presentare la ricchezza e la varietà della
stagione illuminista significa ribadirne
innanzitutto l’attualità, a conferma della
quale egli ricorda anche l’interesse suscitato qualche anno fa dal dibattito sull’illuminismo lanciato da Eugenio Scalfari
proprio sulle pagine di questo giornale
(un dibattito i cui interventi sono stati di
recenti tradotti in francese in un volume
intitolato Les Lumières aux XXIe siècle: un
débat européen). «Quella discussione
collettiva fu molto importante e noi vorremmo proseguirla», spiega lo studioso,
che, oltre ad aver curato il bel catalogo
della mostra, pubblica un saggio intitolato L’esprit des Lumières (Robert Laffont,
pagg. 133, in Italia in traduzione da Garzanti). «La differenza, forse, è che Scalfari manteneva il discorso sul piano del dibattito intellettuale, mentre all’origine
della mostra c’è una motivazione più politica che filosofica. Il nostro progetto, infatti, è nato in un contesto in cui l’intolleranza, il fanatismo e l’oscurantismo, che
“Difendere quei
valori significa
anche liberarli
da alcuni
dogmatismi:
è sbagliato,
per esempio,
imporre
la tolleranza
con la forza”
sono i tradizionali nemici dell’illuminismo, conquistano ogni giorno nuovi spazi. Naturalmente, ci siamo anche resi
conto che non si poteva difendere l’illuminismo in maniera cieca e monolitica.
Difendere l’illuminismo significa anche
criticarlo. Gli irrigidimenti e gli stravolgimenti del progetto illuminista vanno
combattuti, perché certo dogmatismo si
ritorce inevitabilmente contro l’illuminismo stesso».
Può fare qualche esempio?
«La scienza è certamente figlia dell’illuminismo, perché incarna la nostra liberazione dal peso delle tradizioni e delle credenze. Ma quando essa vuole essere padrona del mondo,
quando pretende di dettare le finalità della società, allora le sue conseguenze diventano negative. La
scienza che diventa scientismo, proponendosi come unica regola morale della società, può avere effetti disastrosi. Un’altra deriva pericolosa è quella di chi, in nome dell’universalismo, pensa di poter imporre con la forza un
ideale generoso come quello
dell’illuminismo. In passato, lo pensava il dispotismo
illuminato, che impediva al
popolo di fare le proprie scelte. Oggi, lo pensano coloro
che s’illudono d’imporre la
democrazia e la tolleranza
con la forza».
Nonostante queste derive,
per lei l’illuminismo resta una
pagina essenziale della nostra
storia.
«Il secolo dei lumi ha rimesso
in discussione i principi che fino
ad allora avevano retto la società. In passato, l’umanità si
era sempre sottomessa a leggi e
ordini, sui quali non poteva intervenire, in quanto provenienti da un altrove. L’illuminismo invita gli uomini a formulare e a scegliere da soli le norme a
cui aderire. Questo passaggio dalla sottomissione all’emancipazione
rappresenta una svolta senza precedenti, che ancora oggi è bene tenere a
mente. È la grande novità dell’illuminismo».
Un movimento di cui lei sottolinea
molto la dimensione europea.
«L’illuminismo nasce essenzialmen-
DOMENICA 26 FEBBRAIO 2006
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39
I DOCUMENTI
IL MAESTRO
A sinistra, una pagina
del “Systema naturae
per regna tria
naturae” di Carl
von Linné, stampato
a Vienna nel 1767.
Sotto, il frontespizio
della “Encyclopédie”
di Diderot e d’Alembert
In basso,
una delle lettere
de “La nuova
Eloisa” di Rousseau
Sotto, Voltaire visto da Pericoli
Nella pagina accanto,
il manoscritto del “Don Giovanni”
di Mozart e una fotoincisione
di Gilles Demarteau
Repubblica Nazionale 39 26/02/2006
L’ESPOSIZIONE DI PARIGI
La mostra dedicata all’illuminismo, dal
titolo “Lumières! Un héritage pour demain”
sarà inaugurata il primo marzo nella
Bibliothèque Nationale de France e rimarrà
aperta fino al 28 maggio. Due anniversari
ne sono l’occasione: i 250 anni dalla
nascita di Wolfgang Amadeus Mozart e
dalla pubblicazione del “Discorso sulle
origini della diseguaglianza” di JeanJacques Rousseau. Non a caso ai due
grandi protagonisti della musica e della
filosofia settecentesca è dedicata la prima
sala della mostra, dominata dalla stampa
di una mappa dell’Europa del XVIII secolo.
Tra gli oggetti esposti ci saranno
manoscritti ed edizioni originali di grandi
autori (da Rousseau a Diderot, da
Montesquieu a Vico, da Kant a Fielding),
quadri di artisti dell’epoca, stampe,
giornali ma anche strumenti scientifici
te da quattro culture europee: la francese, l’inglese, la tedesca e l’italiana. In seguito, anche altre nazioni, dalla Polonia
alla Russia, dall’Ungheria alla Svezia,
parteciperanno al grande fermento d’idee e forme. Tuttavia, va ricordato che
l’illuminismo rappresenta un momento di sintesi più che d’innovazione. In
fondo, molte delle idee proposte erano
già emerse in passato, nel Rinascimento e nell’antichità, in Europa ma anche
nelle culture extraeuropee. L’illuminismo però le ha elaborate e sistematizzate, trasformandole in forze ideali per intervenire nel vivo della società».
Perché ciò è avvenuto proprio nell’Europa del Settecento?
«Naturalmente i fattori che hanno
permesso la cristallizzazione dell’illuminismo sono molteplici. Ma va soprattutto ricordato che l’Europa è un continente frammentario, con molti stati,
ciascuno con le proprie tradizioni,
culture e religioni. Sono mondi simili, ma differenti. Per Hume, tale pluralismo ha abituato gli europei all’osservazione e alla critica degli altri, ma anche di se
stessi. Inoltre, nella tradizione
europea c’è un riconoscimento dell’individuo all’interno
della società. Ciò ha consentito la nascita della democrazia,
che è figlia dell’illuminismo,
vale a dire un ordine politico
che riconosce contemporaneamente l’autonomia del popolo e quella dell’individuo. Naturalmente, il progetto illuminista non è monolitico. Al suo interno si discute molto e le posizioni
sono spesso distanti. All’epoca, ad
esempio, Rousseau era percepito come un nemico degli enciclopedisti. Anche Gian Battista Vico era considerato
un anticartesiano, quindi lontano dai
principi dell’illuminismo. Di fronte a
questa varietà, noi abbiamo cercato di
evidenziare soprattutto gli aspetti di
quella stagione che consideriamo più vivi e utili».
Una tematica centrale della mostra
— per altro, oggi di grande attualità — è
quella del rapporto con le religioni.
Quali erano le posizioni degli illuministi?
«Dal principio d’autonomia che rifiuta le tutele esterne deriva la critica della
religione, intesa come forza che controlla lo spazio sociale. Voltaire, infatti, attacca la Chiesa perché è un’istituzione
che tortura e condanna chi si allontana
dal dogma. Egli non è però ateo. Come
non lo sono Lessing, Kant o Rousseau, il
quale ad esempio combatte contro il
materialismo determinista di chi nega la
dimensione spirituale dell’uomo. Per gli
illuministi, che spesso si rifanno alla religione naturale, è però importante liberare la società dalla tutela delle religioni,
sul terreno della conoscenza, che deve
essere sempre libera, come su quello
dell’educazione o della giustizia. In pratica, preparano la separazione tra Stato e
Chiesa. Per quanto riguarda la religione
come esperienza interiore, essi difendono la più completa tolleranza religiosa».
Per gli illuministi, tutte le religioni
vanno rispettate?
«Assolutamente. Per loro, non esiste
più un’unica religione data da Dio una
volta per tutte. Essi affermano la libertà di
scelta e di coscienza. Nel mondo esistono numerose credenze e tutte meritano
rispetto. Nella mostra abbiamo messo in
luce la curiosità e l’apertura di spirito degli illuministi nei confronti di altre religioni e culture. Dall’Islam alla Cina».
Il riconoscimento della singolarità
non esclude l’universalità dei diritti dell’uomo. Come si articolano i due principi?
«Anche su questo piano l’illuminismo
ha anticipato una problematica con la
quale oggi siamo costretti a confrontarci
spesso. Lo spirito delle leggi di Montesquieu esemplifica questa doppia attenzione per la pluralità e l’unità. Da un lato,
egli adotta una posizione relativista, che,
senza giudicare, prova a comprendere le
ragioni delle diverse leggi, dall’altro però
fa una riflessione generale sui valori che
ispirano i diversi regimi politici. Per gli illuministi, occorre riconoscere la diversità delle culture, ma preservando l’unità
delle categorie e dei valori con i quali affrontiamo e giudichiamo il mondo. L’illuminismo, quindi, non si stanca mai di
denunciare l’intolleranza e l’oscurantismo ovunque si manifestino».
La battaglia contro l’intolleranza religiosa deve porsi dei limiti?
«L’illuminismo si oppone sempre al
fanatismo religioso. Chi vuole impedire
la critica delle religioni va contro un principio fondamentale dell’illuminismo,
per il quale tutto deve poter essere criticato. Tuttavia, lo stesso illuminismo
c’insegna che non possiamo imporre i
nostri valori agli altri con la violenza,
perché ciò significa rifiutare agli altri
quella libertà che rivendichiamo per noi
stessi. Così, quando oggi qualcuno cerca
d’imporre con tutti i mezzi le caricature
di Maometto al mondo musulmano,
magari in nome della laicità e del diritto
alla critica delle religioni, in realtà si allontana dall’illuminismo. La libertà di
coscienza non può essere imposta senza
domandarsi cosa pensino gli altri. All’intolleranza si risponde con la tolleranza.
È una posizione difficile, ma è la sola coerente. Non possiamo comportarci come
coloro che condanniamo. Ciò è purtroppo avvenuto molte volte in passato. Anche nel secolo dei lumi, quando gli europei nelle colonie non rispettavano assolutamente i principi di libertà e uguaglianza proclamati nei loro paesi, mantenendo i colonizzati in uno stato d’inferiorità. Oggi dobbiamo stare attenti a
non rifare gli stessi errori».
40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 26 FEBBRAIO 2006
Accadde tutto al Festival di Sanremo del 1958, quando Domenico
Modugno si presentò sul palco con “Nel blu dipinto di blu”.
L’Italia del boom economico trovò all’improvviso il suo inno,
che aprì la strada ad una rivoluzione canora senza precedenti. Perché tutti gli artisti
che hanno battuto la scena in questi ultimi decenni, da Mina a Celentano, da Gino Paoli
a Gaber, possono dirsi figli di quelle note
EDMONDO BERSELLI
n quegli anni democristiani, nel
primo decennio del Festival di
Sanremo, sembrava che il tempo
si fosse fermato e che nel Paese risuonassero solo note e strofe che
parlavano del campanaro della
Valpadana, del mercato di Pizzighettone, della barca che tornò sola, e naturalmente di Buongiorno tristezza, con cui
Claudio Villa, mancato tenorino di grazia e perfetto animale da Sanremo, vinse l’edizione del 1955 riassumendo integralmente lo spirito del tempo. Tempo in cui le mamme imbiancano mentre i bimbi crescono. Clima da bavero
color zafferano, papaveri e papere, tra
voli di colombe e casette in Canadà.
Uno strazio, in cui si esprimeva al suo
acme la piagnoneria nazionale, insieme a un senso opprimente di provincia
profonda. In questo senso, Buongiorno
tristezza era qualcosa meno di un inno
nazionale, tanto più che il suo autore,
Mario Ruccione, era lo stesso di Faccetta nera (come ricordano Paola Maraone e Paolo Madeddu nel loro libro Da
una lacrima sul viso…, dedicato alle
canzoni più deprimenti ovvero strappalacrime dell’ultimo mezzo secolo), e
qualcosa in più di una semplice canzone da due soldi: era un diapason dello
Zeitgeist.
Ci voleva una botta di vita, un colpo
alla roulette, un cambio di marcia e di
fase. Avvenne nel Festival del 1958,
quando Domenico Modugno sbancò
con Nel blu dipinto di blu, la strafamosa Volare. Canzone leggendaria, mitopoietica, sociologica. Canzone totale.
Perché può anche non importare niente che Modugno e il suo coautore Franco Migliacci si fossero ispirati a un quadro di Chagall, o di Miró, e che poi quel
«volare oh oh» potesse alludere, grazie
alle interpretazioni psicoanalitiche più
trash e alle codificazioni romanzesche
di Erica Jong, a virtuali esperienze erotiche e orgasmiche. Piuttosto, Volare
coincideva puntualmente con la sintesi suprema del Financial Times secondo cui l’Italia era in pieno “miracolo”, e
la lira era degna dell’Oscar per la stabilità delle monete.
A vedere Modugno spalancare le
braccia nel volo possibile, si capisce
quindi anche l’emozione del pubblico
del Festival e dell’Italia televisiva: a Sanremo la gente singhiozzava e agitava i
fazzoletti, come se all’improvviso il grigiore del dopoguerra fosse stato spazzato via dall’impeto di quell’uomo del
Sud, con i baffetti da Figaro, che secondo una celebre definizione di Massimo
Mila produceva una musica in cui si
stratificavano decenni o secoli o millenni di cultura musicale mediterranea.
Alla faccia del sentimentalismo peninsulare, Modugno urlava «volare» e gli
italiani capivano Autosole, motorizzazione, Cinquecento e Seicento, le partecipazioni statali, Enrico Mattei: volendo, si poteva perfino intravedere nel post-Volareanche la fine del centrismo e la
nascita del centrosinistra “storico”,
quello di Moro, Fanfani e Nenni.
Certo, ci sarebbe voluto del tempo.
L’esplosione universale di Modugno,
una specie di Big Bang che lancia nel co-
Repubblica Nazionale 40 26/02/2006
I
Le famiglie
della
Musica
Dal magico dna di “Volare”
la mappa delle note italiane
smo intere galassie canore, avrebbe dato i suoi frutti, ma con calma. La rivoluzione di Modugno avrebbe aperto la via
ad alcuni volonterosi riformisti, come i
melodici moderni Gianni Morandi e Rita Pavone. Per qualche anno sembrò
che gli alfieri di un cambiamento copernicano fossero Adriano Celentano e
Mina. Ma Celentano avrebbe sempre
oscillato fra ironiche scalmane teppistiche e convinti rigurgiti reazionari.
Intorno al pianeta del “Molleggiato”
avrebbero orbitato i cugini di Elvis, con
il rocchettaro de noantri Little Tony e il
lacrimevole e sussurrante Bobby Solo.
Mentre Mina, che pure aveva scandalizzato il paese portando a Sanremo un
pezzo dadaista come Le mille bolle blu,
che sembrava clonata da qualche avanguardia novecentesca e riprodotta sui
canoni della canzonaccia provocatoria, per épater la nostra povera borghesia televisiva, avrebbe poi aperto un filone di interpreti, inaugurato dalla Milva pre-Strehler, proseguito con la “cantante della mala” Ornella Vanoni, con il
rock melodico di Gianna Nannini, con
le sofisticate e talora vedovili interpretazioni di Fiorella Mannoia, e che sarebbe arrivata fino alle esperienze commerciali della “glocal” Laura Pausini,
diva squillante del submondo latino.
Insomma, dicono i critici più severi,
nel pianeta si manifestavano i fenomeni impersonati da Bob Dylan, dai Beatles e dai Rolling Stones, i Sessanta cominciavano a ruggire e qui si era ancora alla fase belante «in ginocchio da te».
Per inaugurare l’era “beat” è necessario
che l’onda inglese arrivi a lambire le coste italiane. Ragazzi, cambia il mood, è
venuta l’era dell’anticonformismo, i
Per osservare
un fenomeno simile
abbiamo dovuto
aspettare l’esplosione
di Battisti,
la cui influenza
arriva fino a Vasco,
Zucchero e Ligabue
nemici sono gli square, cioè i tipi moderati e inquadrati, si ascolta di notte Radio Luxembourg, e l’Equipe 84 tira giù
una quantità impressionante di cover. I
Rokes di Shel Shapiro intercettano gli
spazi della protesta moderata (È la
pioggia che va diventa «l’inno nazionale dei capelloni»), i “complessi” dilagano, ci sono i Dik Dik, i Camaleonti, i Delfini, i Pooh, una fauna di rifacitori di roba inglese e americana. Per le quote rosa, Caterina Caselli si dimena sulle note dei Them e Patty Pravo diveggia alla
grande.
Naturalmente è una stagione brevissima, perché incombe il Sessantotto.
Alle spalle del mediterraneo Modugno,
c’è una costiera napoletana in cui qualcuno scava fuori dalla tradizione tammurriate e percussioni molto folk (la
Nuova compagnia di canto popolare ed
Eugenio Bennato). Sotto lo sguardo
simpatetico e le rivisitazioni sentimentali di Renzo Arbore sarebbe venuto
fuori il blues partenopeo di Pino Daniele. I sottoproletari di Fuorigrotta si sarebbero stretti intorno all’immagine
filmica e canora di Nino D’Angelo, alla
ricerca di un’identificazione e di un riscatto.
Poi c’è una via molto italiana, quella
che illumina o affligge, secondo i gusti,
tutti gli anni Settanta: la via lattea intellettuale è segnata naturalmente dai
cantautori. C’è la scuola genovese, in
cui vengono accomunati Gino Paoli,
Luigi Tenco, Umberto Bindi, Bruno
Lauzi. Più appartata si intravede anche
la figura borghese di Paolo Conte, che
all’epoca scrive ancora meravigliose
canzonette (Insieme a te non ci sto più),
prima di inventarsi una sequenza prodigiosa di pezzi storici, da Bartali alla
Topolino amaranto e a Genova per noi.
E su un trono culturalmente altissimo si
insedia sovrano Fabrizio De Andrè che
dalle influenze francesi, Brassens in
particolare, sarebbe giunto fino alla
DOMENICA 26 FEBBRAIO 2006
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41
Lo stupore per l’esibizione dei Giganti
LemagiedellavoceprorompentediGiorgia
Anno ’67,quandoilrock
sconvolseilFestival
Anno ’95,cosìaSanremo
nacqueunastella
ERNESTO ASSANTE
FOTO FARABOLA
Repubblica Nazionale 41 26/02/2006
E
L’ESIBIZIONE
Nella foto grande,
le braccia aperte
di Domenico
Modugno al Festival
di Sanremo
del 1958. “Volare”
è diventata un simbolo
della musica italiana
nel mondo.
Nella foto in alto,
Giorgia.
GINO CASTALDO
e folgorazioni, al festival, si contano sulle dita
di una sola mano. Sono rare, rarissime, sbucano dispettose e impreviste come epifaniche
sorprese dal brodo soporifero offerto di solito dalla
estenuante carrellata di canzoni. Ma quando arrivano sono potenti, indimenticabili. Come quando, in
tempo reale, al festival del 1995 vedemmo “nascere
una stella”. È una frase topica, come “the winner is”,
ma a Sanremo era praticamente estinta, almeno a
partire dal declino degli anni Settanta. Eppure successe.
La stella era Giorgia, che già nel 1994 aveva vinto tra i giovani, e l’anno successivo entrò di diritto tra i big, scarsamente favorita,
però, schiacciata nei pronostici da giganti
come Gianni Morandi e il povero Fiorello
che tutti davano come sicuro vincitore e
ogni volta lui giustamente si toccava le parti basse. Che dire, sarà anche stato il contrasto con la mediocrità circostante, sarà stato
l’effetto di rottura nei confronti di quel velo
tra l’inutile e il lezioso che è il rito canoro
sanremese, ma fin dal suo primo apparire si
capì che nell’esecuzione di Come saprei accadeva qualcosa di speciale. La canzone,
scritta con Eros Ramazzotti, non era da urlo, ma sembrava fatta apposta per emozionare, cucita in modo geniale per esaltare il talento di quella ragazzina, 23 anni, esile, dalla faccia da uccellino spaurito, ma che quando attaccava a cantare sprigionava
una potenza sensazionale.
Da urlo era lei, Giorgia, che sulle note scendeva, risaliva, saltava come una consumata performer, ci
girava intorno come fanno le cantanti di jazz e soul,
le accarezzava, era talmente intonata da glissare
abilmente sull’intonazione, evocava un ritmo che la
canzone di per sé non possedeva, si arrochiva al momento giusto, volava in acuto con naturale leggerezza. Tre minuti d’apnea che si ripeterono sera dopo sera, man mano che l’Italia si accorgeva di questo scricciolo che sembrava brava come Mina. Il talento era talmente prorompente che Giorgia si permise il lusso di cantarla ogni volta in modo lievemente diverso, altro segno di autenticità, di classe
da vera interprete, fuori dalla sterile ripetitività dei
cantanti in provetta.
Stava nascendo una stella, sera dopo sera, fino alla
vittoria finale. Giorgia vinse trionfalmente e per una
volta accadde il vero miracolo. Vinse il migliore, e anche a questo a Sanremo non capita praticamente mai.
L
FOTO PUCCIARIELLO MASSI
ra il 1967 e il rock, nelle strade di San Francisco, suonava le note della sua rivoluzione. Jimi Hendrix pubblicava il suo primo album, Bob Dylan era già una star planetaria, i ragazzi, anche in Italia, ascoltavano i Beatles, gli
Stones, abbandonando la musica che fino ad allora aveva governato le loro esistenze. Noi, piccoli, cresciuti pensando
che la “nostra” musica fosse quella di Gianni Morandi e di Rita Pavone, guardammo Sanremo quell’anno e…
Tutto cambiò all’improvviso, perché in quel piccolo mondo italico, fatto ancora di “collettine e collettoni”,
dove le minigonne non avevano il sapore della rivoluzione ma quello della moda, dove le chitarre elettriche erano ancora uno strumento assai
esotico, dove i “contenuti”, la “politica”, il “messaggio” erano entità lontane e ben poco chiare,
beh, in quel mondo simpatico, allegro, leggero e
giovanile irruppe qualcosa di nuovo, qualcosa
che i nostri fratelli maggiori già conoscevano bene e coltivavano da tempo. Qualcosa che si chiamava, anche dalle nostre parti, rock. E sul palco
di Sanremo assunse le dimensioni di una realtà,
grande, forte, esplosiva e italiana. Erano le note
dei Giganti a far diventare vero quello che sembrava lontano e irraggiungibile a dei ragazzini
come noi. Cantavano «mettete dei fiori nei vostri
cannoni» e per noi iniziava un mondo nuovo.
Ma la cosa bella, straordinaria, unica è che improvvisamente tutto quello che avevamo ascoltato fino ad allora sembrava vecchio. Morandi, la Pavone, Celentano, quella musica che aveva rappresentato l’arrivo di una generazione nuova, veniva scavalcata da chi era già andato oltre, da Lucio Dalla che con quei “capelloni” dei Rokes ci diceva che «bisogna
saper perdere», battendo il piede per terra, da Gianni Pettenati, che azzardava il pronostico «ci sarà la rivoluzione, nemmeno un cannone però sparerà», da Ricky Maiocchi, persino da Antoine che ridendo prefigurava un contestatario lancio di pietre contro ogni cosa. E poi c’era il rock, quello vero,
con Sonny & Cher, con la musa di Mick Jagger Marianne
Faithfull, e tante altre canzoni che, all’improvviso, sembravano tutte orientate a raccontare un mondo che era in movimento, e che era sul punto di cambiare, assieme a Sanremo.
Ed invece dei suoni e dei fiori, a vincere fu la morte, con il
colpo di pistola che mise a tacere per sempre Luigi Tenco. E
una brutta canzone, come Non pensare a me, cantata da
Claudio Villa e da Iva Zanicchi, lontanissimi da tutto quello
che stava accadendo davvero attorno a loro. Nulla fu più lo
stesso dopo quel Sanremo, nemmeno la musica italiana. Solo il festival non cambiò. E noi, crescendo, avremmo deciso
di ascoltare altre canzoni, che arrivavano da altri palcoscenici.
sperimentazione sonora di Creuza de
mä, un’esperienza che recuperava, vedi un po’, strati di cultura musicale mediterranea, forse perché segretamente
attratto dal mondo di Modugno (e di
Mila).
Ci sono i milanesi, che fanno tendenza con Enzo Jannacci, e fanno controideologia con Giorgio Gaber, fanno lacrime a San Siro con Roberto Vecchioni. Se volete la scuola romana ci sono il
dylaniato Francesco De Gregori e Antonello Venditti, quello della maestà del
Colosseo e la santità del Cupolone (ma
Roma ha un’inclinazione particolare
per gli stornelli e la melodia, e talvolta il
messaggio socioculturale cede il posto
al crepuscolarismo, come nel caso dello stornellatore moderno Claudio Baglioni, e all’afflato quasi mistico del guru sorcinesco Renato Zero). A Bologna
c’è il fratello maggiore Francesco Guccini, che era partito con il beat, i Nomadi e l’inno generazionale Dio è morto, e
giunge all’intimismo (celebri per gli aficionados le sue «stoviglie color nostalgia»). Sotto le due torri o nelle vicinanze agiscono Lucio Dalla, Claudio Lolli,
Pierangelo Bertoli, e poi un altro intimista sentimentale, Luca Carboni, e un ulteriore ermetico alla “mi spezzo ma
non mi spiego”, Samuele Bersani.
Per osservare l’apparizione di un’altra stella simile per importanza a quella di Modugno, occorre attendere l’arrivo di Lucio Battisti. Che prima esordì
come autore per i Ribelli di Celentano
(Per una lira, 1966) e poi si impose con
la collaborazione di Mogol, diventando
il centro di un’altra galassia musicale.
Per alcuni anni, Battisti è stato un centro di irradiazione, componendo per sé
e per una quantità di gruppi e cantanti:
un elenco sintetico comprende Mina,
Patty Pravo, Iva Zanicchi, Lauzi, la Formula tre, i Dik Dik, l’Equipe 84, i Rokes.
E, quel che più conta, la prodigiosa
artigianalità del “maestro solitario”,
con il suo sincretismo capace di miscelare suoni anglosassoni e melodia italiana (e anche gli accordi di “settima napoletana”), ha contagiato pensieri e parole di altri protagonisti. In primo luogo
Vasco Rossi, che ha spesso confessato
la tentazione di incidere un disco di cover battistiane; Zucchero Fornaciari,
che lo ha mimato talora fino al ricalco;
Eros Ramazzotti, le cui prime esibizioni sanremesi erano autentiche citazioni dalla sfera Mogolbattisti; Rino Gaetano, che era uno spirito bizzarro ma
non fino al punto di negare qualche avvertibile ascendenza battistiana.
Oggi si dichiara esplicitamente battistiano Luciano Ligabue, per l’idea di
usare il rock per proporre una musica
autenticamente popolare. E in quella
galassia si colloca anche, come ebbe a
dire il suo talent scout Claudio Cecchetto, il provinciale per eccellenza, ossia Max Pezzali, con le sue storie di bar,
di scuola, di discoteca, di stadio, di motorini e automobili in cui condividere
una nottata con gli amici, in una ineluttabile «rotta per casa di Dio». Un satellite laterale, postmogoliano, che non rinuncia mai a una sua italianità. Piace,
non piace, l’Italia in musica. Spesso è
l’indizio di una subalternità. Ma è il nostro mondo, e ci risuona sempre nella
mente, dopo il Big Bang, proprio come
una radiazione fossile.
42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 26 FEBBRAIO 2006
la lettura/1
Carriere alternative
Si chiama Fernandez, è colombiano, e aveva bruciato
le tappe: a 19 anni era un narcotrafficante di successo
Poi l’arresto, il carcere in Spagna e Stati Uniti, una nuova
vita pulita in Italia. E l’idea vincente: il marchio De Puta
Madre 69 che stampa su t-shirt, felpe e accappatoi slogan
come “Kill Barbie” o “Fuck the baby sitter”. E va a ruba
Ilan, lo stilista nato in galera
CONCITA DE GREGORIO
Repubblica Nazionale 42 26/02/2006
Q
ROMA
ui si parla di un tizio
che dovrebbe essere in carcere ma
avendo ingaggiato
i migliori avvocati su piazza è
fuori. Un tipo molto seducente e
piuttosto pericoloso, bella faccia,
gran sorriso. Concepisce solo idee forse scorrette ma certamente di successo, idee che producono soldi: ha fatto
in poco tempo, in Italia, una fortuna
partendo da nulla. Ha una moglie stupenda, vecchi amici potenti, è un imprenditore. Il gioco si ferma qui: non è
un politico.
«No, no. La politica non mi interessa». Bene, tranquilli dunque: Ilan Fernandez è uno stilista e lì vuole restare.
Moda. Gli adolescenti sono pazzi per
le sue felpe, le sue maglie che dicono
“bastardo latino”, “gigolò: first night
free”, “mi coca es tu coca”. Lo slogan
che ha lanciato il marchio, qualche anno fa, è stato “Kill Barbie” intesa come
la bambola: la Mattel ha fatto causa ma
l’ha persa, non è un reato incitare all’omicidio di un pupazzo. “Italian mafia” va forte all’estero ma “sicilian killer” anche in patria. “Pablo Escobar” è
un evergreen. La novità di quest’anno
è “Fuck the baby sitter”: «Il sogno di
ciascuno di noi», commenta lui; mah,
insomma, non tutti; «Tutti, mi creda».
Il marchio si chiama De Puta Madre
69. Letteralmente: figlio di puttana,
ma nella lingua della strada «estar de
puta madre» vuol dire anche stare benissimo, stare da dio. 69 è in più, per
chiarezza.
Al salone della moda Bread and Butter di Berlino hanno ricostruito un carcere, a quello di Barcellona, un mese
fa, hanno preso 250 metri quadri per
rifare lo Studio 54 di New York. La Vanguardia e altri giornali gli hanno dedicato pagine: nelle foto lui espone il dito medio. Vive a Roma con Elisa Sabatino, splendida campionessa mondiale di moto acquatica, atleta Coni, figlia
di un carabiniere e prossima madre
del figlio che nascerà a luglio. I soci
della De Puta Madre sono due romani:
in principio loro ci hanno messo i soldi, Ilan le idee. Quest’anno hanno fatturato 35 milioni di euro.
L’appuntamento è in un capannone
alla periferia di Roma, introvabile. Ci si
approda con un quarto d’ora di ritardo
ma è una sciocchezza: lui arriva un’ora e mezza dopo, aveva un problema,
SCRITTE TRASGRESSIVE
Sopra, lo stilista colombiano
Ilan Fernandez e due modelli
del marchio “De Puta Madre 69”
era in questura. Che problema? «Ma
niente, devo andare in America al
Project, la fiera di Las Vegas, e c’è qualche difficoltà col passaporto». La difficoltà nasce dal fatto che Fernandez,
colombiano di nascita, è stato condannato negli Usa a 18 anni di carcere
per narcotraffico. Da ragazzino, a 17
anni, faceva questo: organizzava viaggi per esportare cocaina dalla Colombia a Miami. «La mia famiglia si è trasferita a Miami dopo la morte di mio
padre, che era un funzionario dell’ambasciata colombiana. Una morte
oscura. Comunque io tornavo spesso
a far visita ai miei zii e ho capito subito
che un chilo di coca in Colombia costava 250 dollari, a Miami 50mila. Era
facile. Due anni dopo, a 19, ero ricchissimo. Mi hanno preso a Barcellona». Come mai era a Barcellona? «Beh,
è la centrale dello smistamento in Europa. Insomma mi hanno preso. Volevano che facessi i nomi dei capi dell’organizzazione ma non avevo capi.
Mi hanno dato 18 anni. Due li ho fatti
in Spagna, nel carcere di Quatre Camins. Sei a San Quintino: mi avevano
estradato». E gli altri dieci anni? «I miei
avvocati mi hanno fatto scendere la
pena a dieci. Due me li hanno abbuonati per buona condotta».
Di San Quintino dice che «è un posto normale». Se tu «paghi il caffè a
quelli che non hanno soldi e poi gli
chiedi di stare accanto a te in cortile
dopo un po’ hai i tuoi uomini, e nessuno ti disturba: sanno chi sei, da dove vieni, ti rispettano». Il ricordo più
struggente però è quello di Quatre Camins: è lì che è nato il marchio. «C’era
un colombiano come me, condannato per omicidio. Esce nel 2011. Un
giorno era morta sua sorella, gli ho
chiesto come stai, e lui con un sorriso
storto: de puta madre. Allora ci siamo
messi a ridere e l’abbiamo scritto su
una maglietta col pennarello. Un secondino ci ha chiesto di fargliene una
uguale, poi l’ha data a suo nipote che
c’è andato in discoteca. Abbiamo aggiunto 69 perché, sa, il primo pensiero dei carcerati è la libertà, il secondo
il sesso. Il ragazzo è tornato dalla disco
entusiasta: tutti volevano una maglia
come la sua. È nato un commercio: ci
facevamo portare le t-shirt bianche
dai parenti in visita e le decoravamo
con le frasi dei carcerati. Facevamo
dei concorsi di idee: le cose più pesanti si scartavano, ciascuno diceva le sue
fantasie. Fuck Barbie e kill Barbie sono piaciute molto».
Poi gli anni di San Quintino, poi la libertà. «Volevo ricominciare da capo,
uscire dal giro. Non è stato facilissimo
perché quelli non ti lasciano andare.
Sono andato prima a San Diego, ho
fatto il lavapiatti, poi quando ho avuto
i soldi mi sono comprato un biglietto
per la Spagna. Ho lavorato a Formentera, in un bar di Es Pujols. C’erano solo italiani. Ho ricominciato a fare le
maglie, le vendevo ai negozietti dell’isola. Un giorno ho incontrato due ragazzi ebrei di Roma, imprenditori del
tessile. Avevano preso in affitto un villone, facevano feste, li aiutavo a orga-
nizzarle. Mi hanno detto, se vieni a Roma chiama. Sono venuto, ho chiamato, ho esposto il progetto: non ci credevano molto, mi hanno detto ti diamo un po’ di tessuto e un cinese per lavorare, l’indirizzo di una stamperia.
Ho cominciato così. Ho conosciuto un
cameriere in pizzeria e gli ho detto: vai
nei negozi a vendere maglie per me. In
tre mesi ne abbiamo vendute 20mila.
Poi un giorno è uscito Pappalardo dall’Isola dei Famosi e aveva la maglietta
De Puta Madre 69. È finito sui giornali.
Io ho preso il giornale e ho detto ai soci romani: eccomi, io sono qui. Allora
abbiamo fatto una società, un terzo
per uno, 500mila euro l’investimento
iniziale. Ora ho 50 dipendenti, 35 milioni di euro di fatturato, un locale a
Roma che tutti i mercoledì fa De Puta
Madre parties, la settimana scorsa c’era Aida Yespica, Aldo Montano e Manuela Arcuri vengono a scegliere i pezzi della nuova collezione, i ragazzi del
Grande Fratello anche».
Preferiscono “Colombia narcotrafico” o “psicopatico”? «Piace molto l’accappatoio DPM con scritto “after sex”.
Sa qual è il problema? Che queste maglie, queste scritte sono una maschera. I ragazzi vogliono essere protagonisti. Se tu entri in un locale con una
maglia con scritto “un gramo de coca
es una puta vida loca” tutti ti guardano. Sei qualcuno in quel momento, e io
penso che basti. Penso che il travestimento di una sera possa prendere il
posto della realtà. Nelle nostre etichette c’è scritto no drugs, no violen-
ce». Sì, ci sono anche tre pasticche di acido in un blister.
«Finte. Io ho conosciuto il
mondo vero della violenza
e della droga. Penso che
non siano i soldi il vero
motore dei ragazzi che ci finiscono dentro, ma il desiderio di
essere qualcuno. Di uscire da un mondo anonimo, di essere considerati.
Una maglietta aiuta, mi creda. A volte
basta. I ragazzi sono fragili. Esibire
una scritta come “idraulico per signora” o “manicomio criminal” agli occhi
del gruppo li fa diventare attraenti, acquisiscono una sicurezza che è un antidoto contro le droghe».
Dice che Elisa l’ha conosciuta a una
festa a Rimini, che tutti gli amici di lei
dicevano: lascialo perdere, è un narcotrafficante. «Ma poi lei ha visto che ero
il primo ad andare a letto la sera e che
droga attorno a me non ne circolava. Mi
piace stare a casa, sono una persona
tranquilla, voglio una famiglia, sono felice di questo figlio che nasce». I genitori di lei come l’hanno presa? «Bene, sono gente discreta». Dice che a Natale è
andato in giro per Roma a distribuire
coperte (con la scritta DPM69, ovvio) ai
senzatetto di Roma. Che l’anno scorso
ha organizzato a Lavagna una serata
per i bambini del Mozambico. Dice che
la sua idea adesso è andare a lavorare
nelle carceri minorili: «Vorrei mettere
su un progetto con loro, portargli la mia
esperienza e spiegargli che ce la possono fare. Io ho avuto fortuna, certo, ma
soprattutto molta determinazione. Se
vuoi, esci. Se vuoi, ce la fai. Adesso conquisto il mercato americano, c’è un
mega-imprenditore dei jeans che vuole venire a prendermi con l’aereo privato, hanno già depositato l’opzione sul
marchio. Se l’operazione va in porto,
apro un’attività con le carceri minorili.
Certo però che in Italia c’è tanta diffidenza...».
Magari potrebbe addolcire gli slogan: la linea di intimo con Gesù e la
Madonna e la frase “non mi rompere le
palle” sulle mutande non è esattamente quel che si intende come rieducativo. «È una posizione ipocrita. Detesto gli ipocriti, si lamentano sempre
a vuoto. Se vuoi lamentarti vai dove la
gente sta male davvero. Vai in un ospedale, vai a San Quintino. Poi parliamo». A proposito: quando nel 2011
esce dal carcere di Barcellona il suo
amico, l’inventore del marchio, che
fa? «Una festa. Divido tutto con lui.
Quello che è mio è suo, gliel’ho scritto.
Lo aspetto».
DOMENICA 26 FEBBRAIO 2006
la lettura/2
Tipi contromano
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43
Pugile dilettante, medium e fachiro,
agit-prop e clochard, poi scrittore
e straordinario regista di se stesso
Un libro racconta Gian Carlo Fusco
e regala aneddoti sconosciuti a chi
lo ha frequentato negli anni d’oro
L’uomo che lottava
a colpi di dentiera
«M
GIANNI CLERICI
Repubblica Nazionale 43 26/02/2006
a sai cosa mi ha combinato ieri
sera?». Nella redazione del
Giorno, fine anni Cinquanta, il
mio collega non cessava di
scuotere il capo, quasi non credesse a se stesso. «Usciamo,
con il giornale in pratica chiuso, e Fusco inizia l’abituale pellegrinaggio ai night, scolandosi ad ogni fermata un
grappino che ovviamente pago io. Ci facciamo il Caprice e La Porta d’oro, e, infine, sediamo ad un tavolo del Sir
Anthony dove lui avvia la disamina delle entraineuses,
classificandole secondo vari canoni e, soprattutto, secondo presunti talenti erotici, dei quali mima i contenuti alzandosi in piedi, e mettendosi, a un certo punto,
addirittura a quattro zampe. Quando alfine, dopo un altro paio di cocktail, si sente abbastanza gasato per passare all’azione, prima che possa fermarlo punta dritto
ad un tavolino presidiato da due tipi della mala, che
stanno intrattenendo una delle signorine. Si inchina,
per invitare la più carina. Con qualche disagio, la ragazza lo segue sulla pista, dove lui inizia un suo numero di
boogie-woogie. Passano un paio di minuti, che uno di
quei tipi si alza, per afferrare un gomito della entraineuse, e ricondurla al tavolo».
«Solo, al centro della pista, Fusco oscilla, a metà tra il
cobra e l’ubriaco. Si decide alfine a ritornare da me, che
invano lo esorto alla calma. “Non mi conoscono ancora. Non conoscono Pepé le Fuscò” ripete, sinché “adesso gli faccio vedere io, a quei gangster da strapazzo”. Riparte e, mentre io trattengo il respiro, si pianta di fronte
al tavolino, si porta la mano alla bocca, per estrarne la
dentiera, e scagliarla in una coppa di champagne. Men-
tre i due, sbalorditi, non muovono muscolo, si dirige
verso l’uscita, per scomparire nella notte. Dopo un minuto, sono andato a scusarmi con quei tipi, anche per
recuperare la dentiera. Com’è noto è nuova, pagata dal
direttore Gaetano Baldacci. Quella vecchia, in oro, l’aveva venduta in un momento di crisi: non lo sai? Ma è
un’altra delle sue mille storie».
Erano davvero mille le storie che Gian Carlo Fusco, che
noi preferivamo chiamare Fusco tout court, raccontava,
e scriveva, nella colonna quotidiana di quel nuovo giornale, uscito il 20 aprile del 1956. Un posto talmente divertente, da sottrarmi al mio destino di giovane petroliere, figlio unico di un concorrente dei Moratti. Era approdato lì, quel tipo straordinario, dopo vicende che definire picaresche sarebbe riduttivo eufemismo. Vicende che
distribuiva generosamente ad un pubblico del quale facevo parte: pubblico diviso a metà, tra quanti ascoltavano ammirati, il direttore, l’uomo macchina Rozzoni, i
giovani Settembrini, Madeo, Del Buono, e quanti rifiutavano la recita, come Gioan Brera e Giorgio Bocca.
A credergli, la sua lunga storia inizia con un «concepimento involontario» tra un padre contrammiraglio di
origini beneventane e una mamma maestra comasca.
«Stai attento Clerici al conformismo del tuo paese. Sei
mezzo ebreo? Allora è meno grave. Mia madre lo era tutta, è di lì che viene il mio genio. I Nobel sono tutti ebrei».
A tredici anni si segnala per la prima volta quale personaggio pubblico, offrendo un mazzetto di fiori e recitando il benvenuto in francese ad Hailè Selassié, il futuro Negus d’Etiopia. «L’avrei rivisto detronizzato, e
avrebbe pianto nel riconoscermi». Magnifica storia, destituita di ogni attendibilità.
Rinchiuso in collegio per disperazione paterna, viene
ripetutamente bocciato, e non otterrà mai la maturità
UNA NUOVA BIOGRAFIA
Il libro sulla vita di Gian Carlo Fusco
(1915-1984) scritto da Dario Biagi
(“L’incantatore”, Avagliano Editore,
pp 240, euro 14,50) è basato su numerosi
documenti inediti e mai utilizzati prima
d’ora dagli studiosi. Tra questi, le lettere
scritte dal giornalista a Italo Calvino,
ad Antonio Delfini e al produttore
cinematografico De Laurentiis. La nuova
biografia si sforza soprattutto di fare luce
sugli episodi più controversi della vita
di Fusco, come la mitizzata fuga
giovanile a Marsiglia, e di ricostruire
le fonti e la genesi delle sue opere
«ancorché abbia seguito corsi universitari nella mia
Marsiglia», affermazione onirica. Trova modo, peraltro,
di sottoporre un racconto a Pirandello, ricevendone
(chissà?) il suggerimento di riscriverlo. Inizia le frequentazioni della mala di La Spezia, dei bordelli, e «a Milano vinsi i campionati dilettanti dei pesi gallo, e ci rimisi tutti i denti e il naso» (affermazione smentita dallo storico Tommasi).
«Costretto ad espatriare a Marsiglia per antifascismo», ci raccontava. In realtà, ipnotizzato dalle gambe
di una ballerina, tanto da tentare lui stesso una attività
«di concorrente di Fred Astaire. Questo prima di aver
convissuto con Corinne Luchaire» (diva cinematografica francese, che in quei tempi non aveva più di undici
anni). Dal presunto milieux di Marsiglia (a volte buttafuori, a volte maquereau, a volte pugile sotto lo pseudonimo di Charles Fiori) lo traggono i buoni uffici di famiglia, e ritorna a casa per vedersi sequestrato dalla censura fascista Biancheria, racconto definito disfattista.
Mentre è in corso un giro dei night e dei casini italiani
insieme al suo miglior amico e cantante, Rick Rolando
detto Bubù, viene richiamato alle armi. Nel vantare alcune eroiche imprese quale telegrafista al seguito della
Divisione Julia, rischiò l’aggressione da parte di un mio
cugino, Pigi Tajana, che nella Julia c’era stato. Ma, per Fusco, la verità esiste in quanto racconto.
Contatti con i partigiani di Tito lo fanno condannare
— a credergli — alla pena capitale per alto tradimento.
Pare invece che, prigioniero dei tedeschi, sia stato effettivamente internato a Fellingbostel, presso Hannover,
di dove lo trae d’impaccio una disinvolta firma per la Repubblica Sociale. Appena in Italia fugge, viene ripreso e
rinchiuso a Marassi, e inscena una delle sue recite predilette. Si finge pazzo, «sino a che — racconta — dovetti subire dodici elettroshock». Prontamente rimessosi, fugge
di nuovo, per trascorrere gli ultimi mesi di guerra quale
segretario tuttofare del sommo attore Ermete Zacconi,
segnalandosi anche in qualità di medium, tanto da evitare una retata con inclusa strage da parte tedesca.
Nell’immediato dopoguerra si improvvisa fachiro,
coadiuvato da un autentico serpente, in un night della
Versilia. Ma non riuscirà a conciliare questo suo nuovo
personaggio con quello diurno di agit-prop. Indignati,
quei moralisti dei suoi compagni non gliela perdonano
e, dopo un processo improvvisato, lo massacrano di botte, e lo espellono dal diletto Pci. Privo di un mestiere qualsiasi, Fusco non tarda a trasformarsi in autentico barbone, ed è proprio lì che venderà la dentiera, rifinita in oro.
Siamo ritornati, vedete, alla dentiera nuova, e all’inizio di quella che fu, controllabile sui suoi libri e le sue mille colonne, la fase attendibile — oh, in parte — della carriera di questo Fregoli straordinario. Di più: di questo
inattendibile regista del personaggio di se stesso. Dopo
le esperienze del Mondo, dell’Europeo, di Cronache, Fusco è cooptato al nuovissimo Giorno da Gaetano Baldacci, direttore anticonformista e lui stesso nottambulo. E, in quell’aprile del 1956, diviene presto il centrattacco di una redazione nella quale abbondano le star, da
Bocca a Brera, dal giovanissimo Arbasino a Soldati.
È lui il solo ad aprire ogni giorno una rubrica, La Colonna di Fusco, sulla quale campeggia un ritratto caricaturale e sgherro, tratteggiato da un pittore che ha in
odio ogni aspetto figurativo, Roberto Crippa. Su quella
colonna, novissima per le nostre terre, Fusco spazia dalle confidenze del suo portinaio, a quelle delle nobildonne con palco di famiglia alla Scala. Di molte sue incorreggibili birichinate sarà perdonato anche perché «io
amo Milano. Mi piace starci, lavorarci, ancor di più divertirmici». Saranno tre anni di gloria, ai quali il giovane
Clerici ha la ventura di partecipare, divertito testimonio.
Sinché il conformismo, nelle vesti dell’Eni e addirittura
del ministero delle Partecipazioni statali, non interviene nel ruolo di autentico padrone, tramite un suo uomo
d’ordine, il nuovo direttore Italo Pietra. Privato del suo
sponsor Baldacci, Fusco spazia dal romanzo al teatro,
ma nel 1962 il suo rapporto col Giorno si spezza definitivamente, in un banale casus belli su una nota spese
stratosferica. Il taglio dal giornale lo costringerà ad emigrare a Roma, dove, pur lavorando per il cinema, non
sarà più il Fusco degli anni d’oro.
Una sera che c’incontrammo da Poldo, il ristorante
che rappresentava, di fatto, il suo ufficio, mi avrebbe
preso sottobraccio per raccontarmi, sino a che il primo
bar non si fosse aperto all’alba, una nuova versione della sua vita. Da quello straordinario conteur-viveur che
ha avuto soltanto nel newyorchese Damon Runyon un
avversario degno.
Ma questi brandelli di ricordi sono piccola parte di
quanto il lettore troverà in una biografia di Dario Biagi,
uno troppo giovane per aver conosciuto Fusco, ma anche uno capace di offrircene un ritratto indimenticabile
(L’incantatore, Avagliano Editore, 260 pagg., 14,50 euro).
Si dice, ed è vero, che la nostra cronaca umana manchi di
diaristi. Questa, di Biagi, è qualcosa più di una smentita.
44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 26 FEBBRAIO 2006
le tendenze
Si chiamano pagnes, kuba, kanga le stoffe più antiche e ricercate
i cui grafismi oggi sono diventati spunto creativo per stilisti
e designer. Capita così che teli nati per essere adagiati
sulla sabbia trovino posto, come splendidi arazzi o copriletto,
nelle nostre case. E che i simboli di una cultura lontana finiscano
come elemento decor su abiti e parei per la spiaggia
Stile etnico
Trame d’Africa
La nuova avventura global
di un antico mondo a colori
AMBRA SOMASCHINI
Kuba
Repubblica Nazionale 44 26/02/2006
Originari del Congo. In fibre
vegetali e colori naturali,
questi velluti (più o meno
morbidi) venivano prodotti
per le offerte funerarie
Ma quelli con applicazioni
in versione geometrica
venivano indossati
dalle donne. Oggi, che sono
ormai quasi introvabili,
vengono usati come arazzi
essuti africani che parlano. Trame variopinte che
raccontano storie grazie alla comunicazione non
verbale fatta di segni, simboli, disegni, allegorie.
Arazzi, pezze da arredo, teli-vestiti che dopo il
successo degli anni Settanta tornano a colorare il
mondo. Compaiono nelle mostre, nei libri, nelle
sfilate di moda, nei film come nuovi timbri dell’african style,
diventato un business globale. Un giro d’affari e di creatività
gestito da editori, espositori, designer che rilanciano oggi lo
Street African Wear da Bamako (Senegal) all’East-end londinese, dalle strade di Brooklyn all’Esquilino romano. Perché,
come spiegano i modaioli americani, i tessuti del continente
nero danno vita ai “Dress to impress”, abiti che caratterizzano chi li indossa secondo i disegni, i tagli, la trama.
È così soprattutto nei pagnes dell’Africa occidentale dove
ogni simbolo o segno ha una suo messaggio preciso. Qualche
esempio: il simbolo Mari capable significa “marito economicamente e sessualmente capace”; il disegno della macchina da
cucire equivale all’espressione “modernità”; la borsa, invece,
vuol dire “vita moderna”. Come dizionari di stoffa, i tessuti raccontano storie di sesso, potere, denaro. Gli astratti e geometrici velluti kuba del Congo interpretano segni: spine di pesce,
ganci, croci. I kente ghanesi esportano addirittura filosofia, etica, letteratura, codici sociali. I kikoi kenyoti sfumano i rossi, gli
indaco, i viola nei rigati dei contadini kikuyu e masai.
Ma il primo interprete dell’african print è il wax, telo stampato a cera prodotto dall’olandese Vlisco (esportatore di pagnes dall’inizio del Novecento) che sarà in mostra, in molti
esemplari, da metà maggio a Parigi nella rassegna So Wax alla galleria Espace Champerret. Paul Smith usa il tessuto wax
nei cappelli, nelle borse, nelle stole. E il ModeMuseum di An-
T
versa lo celebra con Hommage à l’Afrique in programma fino ad agosto. I velluti kuba, invece, potranno essere ammirati fino al 2007 nella sessione The art of the Congo, Roth Collection dell’Orlando Museum of Art (ad Orlando in Florida) e
dal prossimo autunno anche in Italia, a Cagliari.
Per farsi un’idea dell’arcobaleno tessile del Sud del mondo a marzo sarà possibile sfogliare i nuovi libri francesi Textiles, le tour du monde illustré des techniques traditionnelles,
di John Gillow & Bryan Sentance, o Elégances africaines di
Renée Ongoundou (Editions Alternatives, Parigi).
Ma da cosa nasce tanto rinnovato interesse per le trame
d’Africa? «Con questi tessuti l’Africa trasmette una nuova
identità — spiega Egidio Cossa, che curerà l’allestimento autunnale dei kuba per la mostra in Sardegna — e una visibilità
non più chiusa in ambiti continentali. C’è piuttosto un mix tra
simboli interculturali antichi e disegni proiettati nel futuro».
A intercettare la nuova tendenza, già esportata in Usa e Europa, sarà in agosto la Fashion week di Johannesburg sollecitando un uso antropologico e intimista della moda con lo slogan: «Vesti il tuo corpo come la tua anima». Le “stoffe dei sogni” approdano anche in un Festival cinematografico milanese (dal 20 al 26 marzo) curato da Annamaria Gallone e centrato sul rapporto tra cultura, teli e creatività africana a cominciare dalle pezze dipinte col fango del Burkina Faso.
«Il tessuto è il manifesto dell’identità africana come i Levi’s
lo sono della gioventù occidentale — sostiene Yinka Shonibare, l’artista anglo-nigeriano che ha usato i pagnes per decorare le case vittoriane e che esporrà le sue opere a marzo nella
rassegna Africa Remix al Mori Art Museum di Tokyo — la ridondanza decorativa rimanda ai codici tribali mentre il suo
uso globale diffonde la tendenza a un moderno esotismo».
Pagnes
Commercializzati e usati
in Africa occidentale e centrale
attraverso la Vlisco olandese
che produce i più prestigiosi
Sono cotoni pesanti
stampati a cera. In Africa
si usano come vestiti,
in occidente come arredi
I simboli sovraimpressi
hanno diversi significati
sociali e culturali
DOMENICA 26 FEBBRAIO 2006
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45
in vetrina
EFFETTO AVORIO
TOTEM DI LUCE
Linee purissime
e tondeggianti
per i vasi e il piatto
in ceramica
color avorio
proposti da Natuzzi
È disegnata
da Helmut Jousten
la Nakuru lamp
disponibile
in due versioni
(alta 35 o 75 cm)
Come un totem
luminoso,
nasce per essere
protagonista
in salotto
Di Roche-Bobois
L’ALTRA ELLISSE
ATMOSFERE TRIBALI
Fa parte della linea Africa Re-mix
proposta da Coin, il telo etnico
da usare come tovaglia
o copritavolo. In vendita nei grandi
magazzini Coin fino al 31 marzo
Disegno etnico e colori
della terra
per la lampada Ellisse
prodotta
da Cottoveneto
Da coordinare
con vasi e piastrelle
Così l’Europa produce e modifica i tessuti del Continente nero
L’esotismo in formato occidentale
L
Kanga
Repubblica Nazionale 45 26/02/2006
Originari dalla costa est:
Kenya, Tanzania, Zanzibar
In cotone stampato
con simboli e scritte in lingua
swahili, vengono indossati
solo dalle donne. In occidente
sono utilizzati come parei
per la spiaggia. Come i pagnes
“parlano” un linguaggio
simbolico ad uso e consumo
del gruppo d’appartenenza
MARINO NIOLA
cidentale dopo essersi mescolato con quello indonesiano. Un
bell’esempio di globalizzazione coloniale e di confezione della
tradizione, per cui l’Olanda vende stoffe africane agli africani e
batik agli indonesiani.
Oggi il wax è diventato oggetto di una riappropriazione produttiva e culturale da parte degli africani, al punto da essere
considerato il simbolo stesso dell’identità africana. Metabolizzato dalle culture nere fino a diventare strumento di espressione delle grandi questioni sociali, politiche ed economiche, ha
dato vita a vere e proprie forme di capitalismo lumpen, come
quello delle cosiddette Nana-Benz, le matriarcali venditrici dei
mercati del Togo, diventate tanto ricche col commercio di tessuti made in Africa, a costi dieci volte inferiori a quelli olandesi,
da muoversi solo in Mercedes-Benz.
Se la moda è sempre una questione di sguardi, vedere e esser
visti, la cosiddetta moda etnica assomiglia ad un infinito gioco
di specchi, in cui ciascuno contempla la propria immagine riflessa in quella dell’altro. Da una parte, infatti, l’Europa ha contribuito a costruire il fashion africano che a sua volta ha impresso il suo segno nell’uso e riuso del prodotto europeo finendo per riafricanizzarlo. Di contro l’Africa ha influenzato la nostra moda, offrendosi come fantastico giacimento di immagini che riflettono l’idea di una umanità selvaggia, più vicina alla
natura. Motivi zebrati, maculati, leopardati, pelle di coccodrillo e di serpente hanno segnato massicciamente il prêt-à-porter
come la haute couture. Due esempi memorabili: la collezione
Bambara di Ives Saint Laurent del 1967 e i modelli Masai creati
da John Galliano per la Maison Dior negli anni Novanta. È proprio la moda l’ultimo rifugio dell’esotismo postmoderno, come lo furono in passato le arti, la letteratura e il cinema. Forse
perché con i tempi che corrono, l’abito consente un rapporto
take away con l’alterità, rapido e istantaneo. Basta mettersela
addosso prima di uscire.
a più sublime deformazione della natura è la moda, diceva
Baudelaire. Se è così, i tessuti africani sono l’essenza stessa
della moda. I mitici panni dogon disegnati dal fango, i sontuosi drappi gialli e neri dei Bambara tinti con l’antracite e la noce di cola, le decorazioni di piume degli abiti Masai, non imitano
mai fedelmente la natura, ma ne trasformano incessantemente
la materialità concreta in astrazione, in geometria, in linguaggio.
Rombi, triangoli, punti, linee, cerchi, esagoni, scacchi, intrecci,
frecce, labirinti sono i caratteri originari dell’alfabeto estetico
delle culture africane. Caratteri che hanno i colori di quelle terre,
ocra, bruciati, marroni, creta, sabbia, fango, nero.
È ai primi dell’Ottocento che la raffinata creatività dei tessuti
decoratidelcontinenteneroinizialasuaavventuraeuropea.Precisamente quando il cotone prodotto da olandesi e inglesi sostituisce i primitivi materiali vegetali usati dagli artigiani autoctoni.
Nasce allora il pagnedi cotone, la versione industriale dell’indumento simbolo dell’abbigliamento africano. Il termine pagne,
che deriva dallo spagnolo paño, indica quella stoffa che in molte
culture africane serve da gonna, tunica, sciarpa, copricapo, coperta, fascia porte-enfant e perfino da sudario. Abito per la vita e
per la morte insomma. Pare proprio che l’introduzione di questo tipo di tessuto nel continente nero sia dovuta all’incontro con
un altro simbolo della moda esotica e cioè con il batik indonesiano, portato in Africa per la prima volta da mercenari del Ghana che avevano combattuto a Giava al soldo degli olandesi.
In realtà a produrre su scala industriale il tessuto africano per
eccellenza sono gli europei, e in particolare Olanda e Inghilterra, che per primi fiutano l’affare colossale costituito dal mercato africano e cominciano a produrre stoffe esotiche ispirate ai
motivi tradizionali per intercettare i gusti autoctoni. Nasce allora l’african print, detto anche wax print, perché prodotto con
una tecnica di stampa a cera, molto simile a quella del batik.
Nato in Africa, il pagne vi ritorna dunque come prodotto oc-
Kente
Originari del Ghana
In cotone o cotone e seta,
sono tessuti a strisce
su piccolo telaio e poi cuciti
insieme a formare mantelli
Prodotti e indossati dal re
e dai grandi capi della corte
per le cerimonie, sono segno
di forza e potere. In occidente
vengono utilizzati come
copriletti o come arazzi
46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 26 FEBBRAIO 2006
i sapori
Bontà di nicchia
Farina, malto, lievito naturale, un pizzico di sale e grande
pazienza. È quanto basta a “costruire” un prodotto d’eccellenza,
nato sotto la Mole Antonelliana e diventato celebre in tutto
il mondo. Peccato che “il piccolo bastoncino croccante” tanto
amato dai Savoia e da Napoleone vanti troppe pessime imitazioni
La ricetta
1 kg farina
30 grammi lievito di birra
80 grammi extravergine
20 grammi sale
10 grammi zucchero
550 grammi acqua non fredda
Impastare tutti gli ingredienti
Formare un filone e ungerlo
un poco
Coprire con la pellicola
e far riposare mezz’ora
Tagliare a pezzi da allungare
con le mani per ottenere
bastoncini sottili
Mettere in teglia unta d’olio
e infornare a 220 gradi
per un quarto d’ora
Grissini
L’arte di fare crunch
una storia piemontese
Grispolenta
Curiose e golose eccezioni allo strapotere piemontese, sono parte
della cultura contadina in Carnia. Grossi quanto un dito, fragranti
e friabili, sono fatti con misto di farina di mais e frumento, impastati
con acqua, olio d’oliva, strutto e lievito madre
Repubblica Nazionale 46 26/02/2006
Robatà
Il grissino “ruzzolato” (robatà) tipico di Chieri deve il suo nome
al robat, vecchio attrezzo agricolo che spianava, comprimendoli,
i terreni appena lavorati. Impastato rigorosamente a mano, si arrotola
comprimendolo e si cuoce nel forno a legna
Con olive
Più tozzi e morbidi dei grissini classici, vengono impastati con olive
verdi o nere snocciolate e spezzettate, olio extravergine e malto d’orzo
I panetti rettangolari vengono divisi in strisce larghe due cm e appiattiti
dopo la prima lievitazione
Stirati a mano
La versione smilza delle grissia, pane diffuso nel Torinese già 500 anni
fa. Si ottengono da un impasto addizionato di strutto o extravergine
Le striscioline si “stirano” tenendole per gli estremi e facendole
oscillare con movimento circolare
LICIA GRANELLO
runch. Verbo onomatopeico, ovvero l’esatto rumore dello sgranocchiare (in inglese). Ci sediamo a tavola, dalla trattoria
più modesta al ristorante più sontuoso, e
nell’attesa dei piatti sgranocchiamo,
quasi sempre estraendo un bastoncino
dalla busta. Crunch. Il suono del grissino. La maggior
parte delle volte, ahinoi, al suono corrisponde un gusto mediocre: nei cartocci di “Torinesi” surrogati di
quelli stirati a mano e sfornati da artigiani abili e pazienti, troviamo prodotti “soffiati”, con un carico calorico ampiamente superiore a quello del pane, addizionati di grassi idrogenati e aromatizzanti, con nessun altro appeal della fame con cui li addentiamo. Come dire l’esatto contrario del grissino doc.
Perché i grissini, quelli veri, profumano di farina tostata, malto, crosta lievitata, e rimandano la stessa fragranza al palato. I più buoni lasciano al naso e in bocca un che di fresco, dato dall’utilizzo del lievito naturale (madre). Una produzione antica e di nicchia, perché richiede attenzione, sensibilità, tempi lunghi,
non codificabili. E rigetta l’uso di farine addizionate
con gli acceleratori di lievitazione.
Lunga e fragrante, la storia dei grissini. Punteggiata
di celebri innamoramenti golosi, dal casato Savoia,
pronto ad accoglierli per motivi “terapeutici”, a
Napoleone Bonaparte, che dopo aver assaggiato i petites batons de Turin durante un viaggio
in Italia, fece istituire un servizio postale celere per poter gustare tutti i giorni i grissini freschi direttamente dai fornai di Torino.
Potere di un bastoncino croccante
che negli anni abbiamo imparato ad
“ornare” con dettagli golosi, primi
fra tutti i semi oleosi — sesamo,
zucca, girasole, papavero, cumino
— dilatatori di gusto e fragranza.
Oppure impastati con noci, uvetta e olive, che tramutano i grissini in veri e propri (irresistibili) attentati alla linea.
Golosi comunque: avvolti in
una fettina di prosciutto crudo,
di lardo o bresaola per accompagnare l’aperitivo, tuffati nella
mousse di prosciutto o in una
crema di caprino fresco come
antipasto, impreziositi col cioccolato fondente per traghettare il
palato verso il caffè dopopasto o
come rompidigiuno.
Gli spericolati dei fornelli sanno
che prepararli in casa è meno complicato del temuto. In realtà, la vera difficoltà è la cosiddetta stiratura: alle piccole porzioni di pasta lievitata si dà forma cilindrica, poi si prendono per le estremità
con le dita e si tirano allargando progressivamente le braccia, facendole ondeggiare come
piccole corde. I fornai più bravi arrivano quasi a
due metri, senza che la pasta, elastica e duttile, si
rompa.
Se invece non vi sentite all’altezza, ripiegate, si fa
per dire, sui robatà, di forma e consistenza più grossolane, ma egualmente golosi. Soprattutto se prima
di infornarli farete loro piovere sopra qualche granello di fleur de sel, sale di prima raccolta — come l’italianissimo sale dolce di Cervia — che esalta il gusto
della farina.
Un quarto d’ora di cottura è sufficiente a renderli
croccanti e appetitosi. Estraetene subito uno dalla teglia, a rischio di scottarvi le dita, e addentatelo prima
che si asciughi del tutto, con un sorso di bel vino appresso. Semplice, antico, e maledettamente buono.
C
DOMENICA 26 FEBBRAIO 2006
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47
Torino
itinerari
Mimma Ordine,
letteralmente
“nata”
nella farina
(genitori e sette
fratelli, tutti
panettieri),
gestisce con la figlia
Selene “Il Fornaio”,
panificio torinese di donne,
famoso per gli eccellenti
grissini lunghi quasi
due metri che vengono
impastati con pazienza
a partire dall’alba
Chieri (To)
Monforte d’Alba (Cn)
È la città-madre
dei grissini,
inventati nel 1675
dal fornaio Antonio
Brunero,
come versione
alleggerita
e croccante
del pane torinese,
la ghersa. Da un quartiere all’altro, i migliori
panificatori offrono varianti dalle ricette segretissime
La Carreum (nome
pre-romanico)
celebrata
da Plinio il Vecchio
è una bella cittadina
della collina
torinese, arricchita
da numerosi
produzioni
alimentari e patria dei robatà (si legge Rubatà).
Tra i migliori quelli di Franco Gallo
Posizionata nel cuore
delle Langhe,
è una delle mete
più golose
del Piemonte.
Nel laboratorio
affacciato sulle vigne
da cui si produce
il Barolo, il fornaiopoeta roddinese Roberto Marcarino panifica
secondo i princìpi della biodinamica
DOVE DORMIRE
DOVE DORMIRE
DOVE DORMIRE
HOTEL AMADEUS
Via Principe Amedeo 41 bis
Tel. 011-8174951
Camera doppia da 85 euro, colazione inclusa
LA MADDALENA (con cucina)
Via Fenoglio 4
Tel. 011-9413025
Camera doppia da 75 euro, colazione esclusa
VILLA BECCARIS
Via Bava Beccaris 1
Tel. 0173-78158
Camera doppia da 140 euro, colazione inclusa
DOVE MANGIARE
DOVE MANGIARE
DOVE MANGIARE
LOCANDA MONGRENO
Strada comunale Mongreno 50
Tel. 011-8980417
Chiuso lunedì, menù da 50 euro
SANDOMENICO
Via San Domenico 2/b
Tel. 011-9411864. Menù da 50 euro
Chiuso sabato a pranzo, domenica sera, lunedì
GIARDINO DA FELICIN (con camere)
Via Vallada 18
Tel. 0173-78225
Chiuso domenica sera e lunedì, menù da 30 euro
DOVE COMPRARE
DOVE COMPRARE
DOVE COMPRARE
IL FORNAIO
Via San Massimo 49
Tel. 011-884667
PANETTERIA GALLO
Via Palazzo Città 6
Tel. 011-9471098
IL FORNO DEL BUON PANE
Borgo Corini 3, Roddino
Tel. 0173-794088
La ricetta: fornai torinesi, acqua di montagna, ingredienti naturali
Un prodigio artigianale
CARLO PETRINI
l grissino altro non è che una delle tante forme
moneta prestabilita. Nel momento in cui, alla
del pane. Senz’altro è il più conosciuto tra i pametà del Trecento, una forte inflazione si abbatté
ni piemontesi, tanto da assurgere ad autentico
sul Piemonte, la grissia divenne man mano più
simbolo della torinesità. Lungo e sottile, senza
leggera fino diventare ghërssin.
mollica, asciutto ed essenziale pare voler richiaArrivando ai giorni nostri, nessuno come Mario
mare fin dalla forma quello che, almeno nel più
Soldati nella seconda puntata del suo celebre
classico dei luoghi comuni, è il carattere domiViaggio lungo il Po è riuscito a sintetizzare meglio
nante dei piemontesi: la riservatezza. Sia esso stil’unicità di questo alimento e il suo legame indisrato o robatà, in Piemonte è considerato alimento
solubile con il territorio. «Pur essendo rifatto dapfondamentale e non c’è abitante della regione dipertutto in Italia e nel mondo — asseriva con voce
sposto a privarsi volentieri dei grissini durante il
sicura il grande scrittore — non può essere esporpasto. Dovunque prenda posto a tavola, fosse antato perché, anche soltanto a cinquanta chilomeche nel luogo più impervio e isolato che si riesca a
tri da Torino, non è più lui. Il tocco leggero e natuimmaginare, il vero piemontese di solide radici
rale dei fornai torinesi, gli unici in grado di posare
non rinuncia mai a chiedere se, per caso, sia posla pasta sulla teglia un attimo prima che si rompa,
sibile avere «due grissini». Il fatto che si tratti di
e l’acqua di montagna che affluisce a Torino sono
un’eventualità del tutto improbabile non basta
indicati senza alcun dubbio a fondamento dell’incerto a scoraggiarlo.
discussa superiorità del grissino autoctono».
Il problema è che il grissino fatto a mano è l’uniRicostruire le origini di questo pane dalla forma
co buono e non c’è alcun paragone con quanto
singolare è tutt’altro che semplice. Sulla nascita di
può uscire da una macchina. A invadere il mondo
ogni alimento fioriscono le più varie leggende e
però, dispiace doverlo ammettere, non sono i veri
non c’è motivo per cui il grissino debba fare eccegrissini torinesi ma proprio la loro brutta copia inzione. Una tradizione consolidata attribuisce la
dustriale che li imita nella forma e nel nome ma
sua invenzione, negli anni Settanta del Seicento,
non nella sostanza. Sono bastoncini mefitici, conal fornaio Antonio Brunero il quale, su indicaziofezionati in anonimi pacchetti di plastica colorata
ne del medico di Casa Savoia, avrebbe trovato nella leggerezza del grissino la soluzione definitiva ai
da cui traspare bene tutta la loro scarsa naturalità.
frequenti malanni del giovane duca Vittorio AmeLa vista di una voluminosa scatola di questi, per di
deo II. Questa versione fu avvalorata con dovizia
più con la scritta Torino in bella evidenza, all’indi particolari dai biografi del sovrano ma, come
terno di un modesto negozio di alimentari nella
spesso accade, c’è chi sostiene un’ipotesi alternaGerusalemme vecchia mi ha lasciato non poche
tiva. Ad alcuni pare più verosimile che i grissini
perplessità sull’immagine che a volte siamo capasiano nati ben prima e che la chiave per sciogliere
ci di trasmettere della nostra gastronomia nel
il mistero dell’origine vada ricercata nell’etimolomondo. L’esperienza mi ha convinto, una volta di
gia della parola ghërssin, letteralmente piccola
più, della necessità di riappropriarci di cibi buoni
ghërssia (grissia). Quando il pane non era ancora
e naturali, con solide radici nella tradizione. Come
venduto a peso, a ogni forma corrispondeva una
i grissini torinesi, quelli veri.
I
L’impasto
più goloso
è pronto
ad accogliere
olive, semi
di sesamo
o girasole
48 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 26 FEBBRAIO 2006
l’incontro
Saltimbanco, cantastorie, venditore
di frottole. Ma prima ancora principe
dei meticci: italiano, greco, serbo,
turco, europeo infiltrato, ebreo
e dunque nomade. Nessuno come lui
insegna che l’origine
di un uomo
non è genealogica,
è la ricerca dei pezzi
di straniero che fanno
la sua identità. Nessuno
come lui può convincerti
che “chi trova dolce
la sua patria è un tenero
dilettante e che solo è perfetto
chi si sente straniero in ogni luogo”
Maestri di vita
Moni Ovadia
buca dalla notte come un
gufo, occhi a spillo piantati
tra zigomi larghi e pallidi come due lune. Sui Navigli piove, sui giornali tuonano i cannoni dello
scontro di religione, e Salomone Ovadia, professione «saltimbanco», ti fa
entrare nel segreto palcoscenico della
sua casa, fino a una cucina enorme, fumante e piena di libri come l’antro di un
alchimista. Ovadia detto Moni, classe
‘46, residente a Milano, nato a Plovdiv,
Bulgaria. Attore, cantastorie, venditore
di frottole, marxista, ebreo laico. Ovadia italiano, greco, turco, serbo e altro
ancora. Europeo infiltrato, fuggiasco
da cinque secoli.
I bastardi come lui, il padano Calderoli li manderebbe al rogo nel nome
della civiltà cristiana. Ma Ovadia ci
sguazza nella sua tempesta identitaria,
rovista divertito nel pentolone delle
sue generalità. «Per cominciare sono
uomo, ebreo, di sinistra». Bontà sua, si
spiega: «Sono di sinistra in quanto
ebreo, ed ebreo in quanto essere umano». Nel senso? Che l’utopia della giustizia sociale in terra è figlia del messianismo ebraico. E la condizione di
ebreo, a sua volta, è fondata sulla centralità dell’uomo, il figlio di Adamo, in
ebraico «Benadam». Laddove «Adam»
significa «fatto d’argilla»; da «Adamà»,
terra. Semplice, no?
E poi? «Sono esule. Vengo dalla Bulgaria, per cominciare. Non ho le radici
sotto il culo. Son figlio di chi “ha camminato”. Nomade, che poi è sinonimo
di ebreo; da “Ivrì”, colui che attraversa.
Soltanto l’esule sa che nessuna patria è
definitiva». Molla improvvisamente il
mestolo del risotto, rovista sugli scaffali, afferra un libro, lo apre con reverenza. Ne toglie un motto di Ugo da San Vit-
ta dall’uso. Legge Samuele, libro primo, ne estrae il senso. «Il mio popolo
non costruirà nazioni, ma libertà, quella che rende inutile la figura del re, quella che non concede deleghe a nessuno.
Sotto il Dio-Uno, gli uomini sono uguali, hanno lo stesso dna. La redenzione
non scende dall’alto ma si costruisce
dal basso. Nasce tutto qui, nel Sinai. Il
decalogo etico che libera un popolo di
schiavi dalla tirannia. La costruzione
quotidiana della libertà, dell’eguaglianza e della giustizia sociale. La forza del pensiero contro la logica della
potenza. È questo il mio modello, questo il mio peso, la fatica di una vita».
Ed è questo, anche, il motivo dello
sterminio. «Abramo era l’antagonista
primo della discriminazione, aveva
spezzato lo scettro nelle mani dei tiranni senza usare le armi. I nazisti lo sapevano e hanno radunato tutti gli ebrei in
un unico posto per sterminarli: temevano che uno solo di essi sfuggisse…».
Ora la sua faccia da uzbeco emana un
pallore impressionante. «Che senso
Sono slavo. E se
la lingua è un canto,
io sono figlio
di un canto slavo
Non si abita un paese
ma una lingua, perciò
fu un abominio
l’idea dei fascismi
di negare le lingue
FOTO A3
S
MILANO
tore, mistico medievale: «Chi trova dolce la propria patria è solo un tenero dilettante. Chi trova dolci tutte le patrie
s’è già avviato sulla strada giusta. Ma
solo è perfetto chi si sente straniero in
ogni luogo».
E poi, che altro nel pedigree? «Sono
slavo. E se la lingua è anche un canto,
ecco, io sono figlio di un canto slavo. Il
rumeno Cioran diceva che non si abita
un paese ma una lingua. È verissimo.
Per questo l’idea di negare le lingue, inventata dai fascismi, fu abominio assoluto». E come in un lampo gli torna in
mente l’ineffabile Calderoli, che di
fronte a una giornalista palestinese in
tv non ha voluto nemmeno pronunciarne il nome. «È tutto così oscenamente chiaro: se non pronunci il nome
di una persona, vuol dire che la vuoi
cancellare». E all’improvviso senti, dietro la diga dell’ironia, un fiume in piena
di indignazione.
Ma c’è ancora da scavare nella genealogia. «Sono figlio del mare e della
luce. Mediterraneo. La mia gente viene
dalla Spagna, ha abitato l’impero ottomano». Sì, ma allora, quei canti yiddish, quelle barzellette sugli ebrei polacchi? Che c’entrano col sole e col mare?
«L’origine di un uomo non è genealogica. È la ricerca dei pezzi di straniero che
hanno fatto la sua identità. E quindi io
posso ritrovare nel mondo yiddish
l’humus slavo che l’ha fertilizzato e che
mi appartiene… Questa ricerca è tipica
della mia gente. Heine e Kafka erano
ebrei, tedeschi ed europei nello stesso
tempo, senza che questo generasse
contraddizione».
Improvvisamente gli occhi da predatore notturno diventano umidi e grandi. Sorride: «Per questo, vecchio mio,
per questo mi sono dannato per la Yiddishheit! Il piccolo ebreo polacco di Oylem Goylem (l’ultimo suo libro stampato da Einaudi) era l’apologia di questo
europeo ubiquo, che passava i confini e
sbugiardava i nazionalismi! Gente che
non si sarebbe mai accontentata dell’inglese standardizzato del business, parlava cinque-sei lingue… Gente che, con
la sua molteplicità identitaria, sperimentava l’Europa! Sono andati in cenere… ma hanno lasciato un’energia immensa che cerco di rilanciare».
Ora la voce gli diventa stridula. «Di
quest’energia l’Europa ha bisogno,
non di un rozzo conglomerato di piccole patrie isteriche! L’Europa non trova più uomini all’altezza del compito
grandioso che s’è data. Ma io non disarmo, spero. Nei miei deliri europeisti, faccio un sogno ricorrente. Uno stadio pieno di tifosi con le facce dipinte
d’azzurro a stelle gialle, che s’alzano in
piedi all’ingresso della squadra e sotto
un grande display, che lo riproduce in
tutte le lingue comunitarie, cantano
l’Inno alla gioia di Beethoven, intonano “Alle Menschen werden Brueder”,
tutti gli uomini diventano fratelli…».
In cucina torna il silenzio, Moni cerca un altro libro, una Bibbia consuma-
aveva, altrimenti, prelevare un vecchio
morente e deportarlo a duemila chilometri per ridurlo in cenere? Che senso,
se non il timore che anche quel vecchio
fosse il depositario di un segreto, di un
immenso potere soprannaturale?».
«L’arma con cui Mosé va dal Faraone
è un Dio che dichiara di essere “Sarò
che sarò”. Un essere che, con quella
pazzesca relativa, si moltiplica all’infinito, demolisce come illusione l’eterno
presente imbalsamato del monarca e la
sua logica solipsistica di potenza, gli dimostra che è polvere rispetto al tempo.
La sua arma è un tetragramma che contiene il “Fui”, il “Sono” e il “Sarò”». Per
questo Mosé non si è fatto tomba. Non
voleva aggregare attorno a sé un’identità statica. Voleva lasciare solo un pensiero, sapendo che quel pensiero redentore era mille volte più forte di una
piramide. Il Dio vivente non sarebbe
mai diventato coccio, rudere, passato.
Il figlio di Adamo dilaga, si avvicina ai
nodi del presente. «Contro i soprusi e le
dittature nulla è più potente di ciò che
è tramandato. Ha una forza tale che le
tirannie non hanno avuto altra scelta
che entrare nei monoteismi per depotenziarli dall’interno, rendendoli a loro
volta perversi e idolatri. È successo con
tutte le grandi idee: cristianesimo,
ebraismo, islam, comunismo…». Anche il cristianesimo? «Ma certo. Da
quando Costantino ha reclutato la Croce e trasferito in cielo la giustizia che
Cristo voleva realizzata in terra...».
«Cosa m’è saltato in mente di inventare la religione», brontola Dio in una
vignetta di Altan. «Ecco, Altan ha ragione, dobbiamo proteggere Dio dai credenti che vogliono rubargli il posto, per
imporre agli altri quello che si deve o
non si deve fare. In troppi gridano “Dio
con noi”. Con che autorità? La religione
è un prodotto dell’uomo, non si basa su
rivelazioni dirette, ma su racconti. Ruini, per capirsi, non c’era quando Cristo
faceva miracoli. E allora non può imporre niente a nessuno».
Siamo in guerra con l’Islam? «Il problema non sono i musulmani ma i regimi non democratici che li rappresentano. È a quelli che dobbiamo chiedere
parità di trattamento in termini di fede.
Togli i regimi, e il dialogo diventa facile, naturale, come nella Spagna andalusa di un tempo, dove ebrei, musulmani e cristiani si mescolarono dando
vita a canti unici al mondo. Gli stessi
che sto portando in giro per l’Europa
col nome di Shir del Essalem, inciso anche su dvd, insieme a un cristiano serbo e a un musulmano di Palestina».
«Ma poi, diciamocelo, che cos’è questo Occidente? Un piercing? Il telefonino? Il week end con file interminabili?
Un buon libro come massima espressione dello spirito? Nooo. Il mio maestro Daniele Epstein si chiede: è per
questo che dovrei rinunciare e 3500 anni di cammino ebraico? Nooo. È questa
la democrazia che vogliamo esportare a
Oriente? Il totalitarismo dell’econo-
mia, sull’uomo e sulla politica? Nooo. È
qui che l’estremismo islamico ha gioco
facile sulle masse. Siamo troppo imbottiti di materialismo. Banche e ipermercati, ecco le piramidi del nostro tempo».
Ma anche lo stato di Israele non sfugge alla deriva. «È il caso più straordinario di ricomposizione dell’infranto che
si sia mai visto nella storia dell’uomo.
Ma Israele è rimasto intrappolato in
una logica di potenza. Ha voluto tornare agli eserciti di Davide, rimuovendo i
duemila anni d’esilio nel deserto. Ha
dimenticato la Sukkah, la capanna misera del Sinai dove è nato il pensiero
moderno. Levitico 25, versetto 23: le
terre non si venderanno per sempre
perché la terra è di Dio… Nella Torah
sta scritto che la Terra Promessa non è
dell’uomo, quindi la dividerai con lo
straniero, che amerai come te stesso».
E poi l’Italia, l’ultimo nodo. «Qui la
battaglia è politica, ma prima di tutto
culturale. Berlusconi ha inquinato il sistema mentale del Paese. Dobbiamo
salvarci da quest’uomo che si crede infallibile, che si paragona a Gesù… Salvarci da questa pornografia mediatica.
Riprenderci dignità e decenza, che non
sono optional. Se rinunciassi a questo
in nome di una convenienza momentanea, mi sputerei in faccia». S’alza
d’impeto, rovescia un vaso di miele sul
tavolo, rovista ancora tra gli scaffali,
sembra un orso pasticcione.
Ora brandisce le poesie di Kostantinos Kavafis. Legge in greco: «Quando ti
metterai in viaggio per Itaca / devi augurarti che la strada sia lunga / fertile in
avventure e in esperienze… Soprattutto, non affrettare il viaggio / fa che duri
a lungo, per anni, e che da vecchio /
metta piede sull’Isola, tu, ricco / dei tesori accumulati per strada / senza
aspettarti ricchezze da Itaca…». Ora gli
occhi sono due laghi. «Facile nascere
uomini, vecchio mio. Diventarlo è il capolavoro di una vita».
‘‘
PAOLO RUMIZ