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Domenica La di DOMENICA 26 FEBBRAIO 2006 Repubblica la memoria Gorazde, la guerra in punta di matita GUIDO RAMPOLDI e BILJANA SRBLJANOVIC il racconto L’addio ai fotografi di paese GIANNI BERENGO GARDIN e MICHELE SMARGIASSI Tortura Repubblica Nazionale 29 26/02/2006 La democrazia e gli orrori di Guantanamo Un testimone racconta, uno scrittore accusa CARLO BONINI COLUM MCCANN cultura eclinail ricordo al presente. Come se il tempo si fosse fermato per sempre. E quando provi a chiedergli di affidare l’immagine di Guantanamo ad un solo sostantivo, va a pescarlo nel medioevo della caccia alle streghe. Dice: «Ordalia. Sì, Guantanamo è l’ordalia di ogni musulmano. Lo è per i prigionieri. Lo è stata per me, cittadino americano colpevole di venerare lo stesso Dio, lo stesso Libro Sacro dei nostri nemici». La voce di James Yee ha conservato il timbro deciso di un’estate non troppo lontana. Quando — era il luglio 2003 — in una baracca di Guantanamo, insaccato in una mimetica troppo larga, rivolgeva a Repubblica più domande sull’Italia di quelle a cui volesse rispondere sui dannati di Camp Delta. Allora, era per tutti semplicemente «Yee». Il cadetto di West Point. Il cappellano musulmano nato nel New Jersey e convertito all’islam, il capitano dell’esercito americano «in guerra per difendere la libertà». Il ragazzo-poster che il Pentagono aveva affisso alle porte dell’inferno, per renderne tollerabile lo sguardo. Il pastore di 600 anime in gabbia, simbolo del rispetto religioso nella cattività. Sono passati tre anni e quel poster non esiste più. Perché il cappellano Yee non esiste più. Oltraggiato dall’esercito cui aveva giurato fedeltà e obbedienza, lui, protagonista di quello spot di tolleranza, si è trasformato nel testimone oculare capace di svelarne la menzogna. (segue nelle pagine successive) na sensazione di terrore può pervadere persino i luoghi più anonimi. Sono le sei del mattino all’aeroporto di Shannon, nella regione occidentale dell’Irlanda, quel momento poco prima dell’alba in cui l’oscurità sembra assoluta. Le ultime stelle appaiono come segni di artigli sul cielo. Qualche aereo rulla sulla pista. All’interno i locali del duty-free sono gremiti di soldati americani che tornano a casa dalla guerra in Iraq. Dovrebbero essere felici. Sgravati. Sollevati. Stanno ritornando a casa. Il loro periodo di servizio è concluso. Sono sopravvissuti. Ci si potrebbe aspettare che facciano gli sbruffoni e gli arroganti, che si vantino al bar e gettino qualche dinaro alla giovane cameriera irlandese, oppure che vaghino tra i corridoi degli alcolici da poco prezzo, o se ne stiano appartati accanto al banco dei profumi. Dopo tutto, persino una storia di guerra può essere anche una storia d’amore. Invece no. Nessun bacio in estasi, nessun tracannare vodka nel corridoio 4, nessun racconto di guerra, nessun istrionismo. Anzi, i soldati (e ogni giorno dall’aeroporto Shannon ne passano almeno 900) hanno un’aria sfiduciata, nostalgica, melanconica. Si siedono e tengono strette in mano le loro birre. Si aggirano senza meta tra i corridoi, guardando fisso le torte natalizie di frutta secca ormai scadute, le macchine fotografiche digitali, la sfilza di vestiti per neonati. Parlano a bassa voce, educatamente. Sembrano storditi. (segue nelle pagine successive) L’illuminismo secondo Todorov D U FABIO GAMBARO spettacoli Sanremo e la mappa della musica italiana ERNESTO ASSANTE, EDMONDO BERSELLI e GINO CASTALDO la lettura Ilan Fernandez, lo stilista nato in galera CONCITA DE GREGORIO l’incontro Moni Ovadia, ovvero l’elogio del meticcio PAOLO RUMIZ 30 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 26 FEBBRAIO 2006 la copertina Tortura È il ragazzo-spot che il Pentagono nell’autunno 2002 spedì a Camp Delta, il cappellano musulmano formato a West Point cui furono affidati 600 “detenuti-terroristi” E che poi fu accusato di alto tradimento e messo in galera Ora, scagionato, James Yee ha scritto un libro e ricorda... “Vi racconto Guantanamo” A (segue dalla copertina) CARLO BONINI “Per primo me ne parla Rhuhel, un giovane con passaporto britannico: i soldati mi hanno infilato una mano nel retto, è come se fossi stato violentato” ccusato di alto tradimento, di intelligenza con i prigionieri in tuta arancio, di insubordinazione e adulterio, James Yee ha lasciato per sempre Guantanamo nel settembre 2003, imprigionato nelle stesse pesanti catene, lapidato dallo stesso sospetto. Ha marcito per 76 giorni in una cella di isolamento in un compound militare della North Carolina, ha rischiato di perdere la giovane moglie siriana, Huda, e la sua bambina Sarah. Fino a quando un giudice militare non ha riconosciuto le accuse nei suoi confronti per quel che erano: un’infamia figlia del pregiudizio, di cui l’esercito ha dovuto scusarsi. A Yee non è bastato. Si è congedato e per oltre un anno ha provato a rimettere insieme quel che restava della sua esistenza, tentando di ragionare sulla «cosa giusta da fare». E «la cosa giusta» era raccontare. Raccontare tutto ciò che i suoi occhi avevano visto tra le gabbie di quel lembo dell’isola di Cuba. Fare del suo contrappasso una spina conficcata nella coscienza dell’America. Ne è uscito un libro, For God and country, “A Dio e alla Patria” e una nuova vita in giro per l’America come testimone di se stesso e dei prigionieri senza nome rinchiusi a Camp Delta. Oggi, dice: «Quel che ho lasciato dietro di me non mi abbandona un istante. Sono tormentato dalla consapevolezza che Guantanamo ha reso estremista chi non lo era, ha radicalizzato una parte di islam, ha marchiato per sempre l’immagine del mio Paese. Ma per comprenderlo ho dovuto attraversare quell’infer- no, di cui non solo ero ignaro, ma inconsapevole». Anche perché, nell’autunno del 2002, quando lo sorprende la chiamata sull’isola, l’incubo si manifesta con segni appena percettibili, che Yee non può o forse non vuole neppure raccogliere. «Qualche giorno prima del mio arrivo a Camp Delta, raggiungo telefonicamente Dan O’Keefe, che era stato il primo cappellano militare di Guantanamo. Mi sussurra delle parole cui non presto troppa attenzione e che oggi non riesco più a togliermi dalla testa. “Vedi James — mi dice — mi piacerebbe molto dirti quel che succede su quell’isola. Ma proprio non posso. Lo capirai da solo. Posso solo dirti che quella galera è l’ambiente più ostile in cui mi sia mai trovato in vita mia…”». «Ostile». La notte del 4 novembre 2002, quell’aggettivo sinistro torna ad accarezzare la pelle madida di sudore di James. In un clangore di chiavistelli, di ordini gridati tra le torri di guardia e i bracci di detenzione, tra lamenti dei prigionieri che si fanno nenia, Yee varca la soglia di Camp Delta. Lo accompagna Hamza AlMubarak, il cappellano che James si prepara ad avvicendare. E anche quel colloquio appare oggi per quel che voleva essere. Un ultimo, quanto rassegnato monito: «Sì, James, ostile. Te l’hanno raccontata con la parola giusta. Non ti voglio scoraggiare, ma ci sono cose che vedrai qui dentro che ti sarà difficile sopportare. Questo è un brutto posto per dei musulmani. E non mi riferisco soltanto ai prigionieri…». Ricorda Yee: «Muovo i miei primi passi all’interno del braccio 1 e mi fermo quasi subito di fronte a una delle prime gabbie, dove un prigioniero accucciato su se stesso fugge il mio sguardo. “As-salaamu alaikum”, saluto. Ma non ne ottengo alcuna risposta. Scopro allora con orrore che quell’uomo sta facendo i suoi bisogni nella turca che, visibile a tutti, in ogni gabbia è al lato del letto. Realizzo la mia e la sua vergogna. L’umiliazione che a quel poveretto ho appena involontariamente inflitto». L’educazione sentimentale di Yee alla ferocia che governa la prigione e al segreto in cui deve essere custodita è un percorso di assuefazione psicologica, etica, che deve rendere prigionieri tutti. Vittime e carnefici. Ne fa fede l’ordine spiccio che il generale Geoffrey Miller, allora comandante e responsabile di Camp Delta (lo stesso ufficiale che nell’autunno 2003 il Pentagono spedirà in Iraq per “guantanamizzare” Abu Ghraib), affida al giovane cappellano appena arrivato: «Caro James, ricordati. Non perdere mai l’occasione di tenere la bocca chiusa». Perché quel che accade a Guantanamo a Guantanamo deve restare. Perché tutti sospettano di tutti a Camp Delta. I secondini dei prigionieri. I prigionieri dei prigionieri. I secondini di quel cappellano musulmano troppo tenero con «i terroristi». La prigione, del resto, pullula di spie. «Fbi, servizio indagini criminali della Marina, controspionaggio militare, Cia… Li chiamiamo gli “scoiattoli segreti”, perché non sappiamo mai dove siano, chi siano. Cosa stiano ascoltando. Se siano lì per spiare e interrogare i prigionieri o, anche, per rubare brandelli di conversazione tra i prigionieri e chi, come un cappellano militare musulmano, è lì per alleviarne la sofferenza». Yee comprende presto la ragione del segreto. I prigionieri subiscono violenze fisiche e psicologiche che il mondo ignora. «Me ne par- COLUM MCCANN (segue dalla copertina) LE CELLE Qui sotto, una delle celle del carcere di Guantanamo. Sopra, l’ingresso del Camp Delta con la celebre scritta “Honor bound to defend freedom”, l’onore obbliga a difendere la libertà FOTO © RICHARD ROSS/ANZENBERGER/CONTRASTO Repubblica Nazionale 30 26/02/2006 Quei marines tristi con l’orrore ancora negli occhi uò anche darsi che stiano obbedendo al severo ordine dell’esercito americano di comportarsi bene durante quello che in modo eufemistico essi chiamano «uno scalo per rifornirsi di carburante». Oppure può anche essere che se ne stanno tranquilli allo scopo di non attirare l’attenzione sul fatto che — con grande sdegno del popolo irlandese — stanno conducendo alcuni prigionieri a Guantanamo. O infine può darsi che, di ritorno da una guerra, abbiano assistito a scene di tortura. E non solo la tortura di altre persone, ma anche loro, interiore. *** Le nuove fotografie venute a galla la settimana scorsa, che suggeriscono un ricorso diffuso e sistematico a brutali metodi di interrogatorio in Iraq e a Guantanamo, non avrebbero dovuto costituire una grossa sorpresa. Si tratta di qualcosa di osceno, ma non certo di un segreto. Tutti sanno che questi metodi sono utilizzati, fin su, agli alti vertici. Il paradosso è che poche persone ne parlano nel panorama politico americano. La tortura, concepita per farci parlare, fa tacere chi la pratica. In teoria, la democrazia è il sistema con le maggiori probabilità di controllarsi. Si presume che abbracci il libero pensiero, un linguaggio trasparente, un atteggiamento aperto, e che sia stata addirittura progettata per questo. Essa dovrebbe, nella sua essenza più pura, essere in grado di reggere e portare il proprio peso, e sicuramente quello delle proprie parole. La parola “tortura”, però, nelle nostri menti evoca l’immagine di tante e tali cose — elettrodi, cappucci, tavoli di metallo, pungoli per il bestiame, manici di scopa, sigarette accese — che gli orrori indotti dalla sua sola evocazione sono già sufficienti a farci crollare. Finiamo così col raccontare menzogne, e non soltanto nella stanza delle torture, ma anche sulla democrazia. Così stanno le cose, pure e semplici: il Paese che afferma di contenere il meglio dell’umanità tutta ricorre al peggiore di tutti i mezzi inventati dall’uomo per umiliare non soltanto i propri nemici, ma in primo luogo se stesso. La maggior parte delle idee — persino quelle valide — diventano menzogne quando le si abbraccia troppo strette. Gli Stati Uniti (il Paese nel quale vivo, dove sono marito, padre, patriota nato all’estero, ammiratore e uno che protesta) sono diventati un Paese nel quale il lin- P DOMENICA 26 FEBBRAIO 2006 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 31 LA STORIA L’APERTURA LE INCHIESTE LE TORTURE IL RAPPORTO ONU L’11 gennaio 2002 i primi detenuti sospettati di terrorismo provenienti dall’Afghanistan e da altri paesi arrivano nella prigione militare speciale. Le prime fotografie con i detenuti ritratti in ginocchio e ammanettati scatenano le polemiche sui giornali La Casa Bianca dichiara che la Convenzione di Ginevra non sarà applicata ai detenuti, ai quali viene negato anche un processo legittimo. Nel 2004, all’Fbi arrivano informazioni sulle torture durante gli interrogatori: si aprono le prime inchieste Il 2 maggio 2005 “Newsweek” rivela che alcuni soldati americani hanno gettato copie del Corano nelle latrine del campo. Esplode la protesta in molti paesi musulmani. Il Pentagono si difende, ma poi ammette episodi di abusi e di profanazione Si moltiplicano le denunce su abusi e torture e il 16 febbraio 2006 esce un dossier delle Nazioni Unite che descrive la condizione dei prigionieri e conferma le accuse di detenzione arbitraria: viene subito chiesta la chiusura del carcere quenza degli episodi, che l’uso brutale della forza non è il rimedio estremo per piegare la ribellione dei prigionieri, ma uno strumento preventivo per spezzarne la resistenza psichica e fisica». Come gli interrogatori, del resto. «Non li chiamano con il loro nome. Li chiamano “prenotazioni”. E prima di ogni “prenotazione” i prigionieri vengono ammorbiditi, secondo una routine operativa detta “dell’uomo di sabbia”. Per l’intera notte il prigioniero viene tenuto sveglio con ogni mezzo possibile. Con la luce, cambiandolo di cella non appena si assopisce. Poi, all’alba va all’interrogatorio». Dove l’umiliazione conosce ogni sua nuova possibile variante: psichica, sessuale, religiosa. «L’islam non è soltanto una religione. È un modo di vivere. E a Guantanamo comprendo che la religione è diventata la più importante delle armi per spezzare i prigionieri». Nei ricordi di Yee, affonda così un’altra bugia del Pentagono, forse la più inconfessabile. «Normalmente, la preghiera è il momento più importante per i prigionieri. In ogni blocco, la intona il detenuto nella gabbia all’estremo angolo nord-est del campo, il più vicino alla Mecca. Bene, noto presto che i secondini si stringono regolarmente intorno a quella gabbia colpendola con delle pietre, provando a dare sulla voce del prigioniero con musica rock a tutto volume…». Una provocazione che altrimenti si fa profanazione. Con il Libro Sacro. «Scopro che durante le perquisizioni delle gabbie, le copie del Corano vengono regolarmente scaraventate in terra e ne viene smembrata la legatura. In almeno due distinte occasioni — mi dicono — le pagine del Libro sono state profanate con epiteti scritti in inglese, guaggio è stato privato di ogni valore dall’esagerazione. Poche persone analizzano veramente che cosa può ancora significare la parola “libertà” e forse ancora meno persone analizzano veramente cosa può ancora significare la parola “democrazia”, anche se per entrambe sarebbero disposte a combattere. Non è che siano stupide — in effetti il modo che hanno sia i media europei sia quelli americani di trattare il popolo americano come fosse un bambino piccolo è uno dei trend più pericolosi degli ultimi tempi — più che altro è che il popolo americano è stato confuso di proposito dalla costante svalutazione della lingua. Pare quasi di sentire il rumore bianco alla Casa Bianca, sulle onde radio, nei corridori del potere. “Freedom”, “freedom”, “freedom”. “Democracy”, “democracy”, “democracy”. Sempre più forte, più forte, più forte. “FREEDOM”! “DEMOCRACY”! E alla fine le orecchie sanguinano. Prima si spezza il corpo, poi si piega la mente. Come metafora funziona anche per il sistema politico. Si attacca il corpo politico, ed esso non è più capace di riconoscere se stesso. Le parole di coloro che sono favorevoli ai metodi di tortura — ma loro li hanno usati con noi, tutti sanno che è così, se lo meritano, non sono in grado di comprendere altro, il fine giustifica i mezzi — sono chiacchiericcio da asilo infantile. Una democrazia la si valuta, prima di ogni altra cosa, più di ogni altra cosa, da quello che essa fa per il suo stesso popolo e in seguito da quello che essa fa agli altri. La tortura non è soltanto un mucchio di fotografie provenienti da Abu Ghraib o da Guantanamo — anche se sono raccapriccianti quanto basta da togliere il respiro. La tortura è anche un’immagine speculare. Un paese che utilizza una brutalità simile (anche quando la si chiama coercizione) è verosimile che nel lungo periodo patisca il senso di colpa del carnefice. Persino in una bolla politica così chiaramente poco empatica come la Casa Bianca di George Bush, sotto quelle costose camicie bianche, corre sicuramente un brivido di disgusto. La tortura dimostra altresì una spiccata mancanza di immaginazione. Bush, che non ha immaginazione alcuna, deve essere consapevole che le bastonate e i trattamenti con l’acqua ghiacciata e i manici di scopa spezzati alla fine non funzionano. L’esercito americano avrebbe catturato Osama bin Laden e Abu Musab al-Zarqawi da un bel pezzo, se la tortura fosse efficace. Il fatto è che, se si malmena qualcuno abbastanza a lungo, costui finirà col confessare qualsiasi cosa gli si vuole sentir dire. Si riesce quasi a sentire la lugubre eco proveniente dalle celle di Guantanamo, mentre i detenuti che fanno lo sciopero della fame sono alimentati a forza: “Freedom”. “Democracy”. “Freedom”. “Democracy”. Al di là di tutto, ricorrere alla tortura indica una mancanza di rispetto per se stessi. Ridursi al minimo comune denominatore significa diventare il minimo comune denominatore. La tortura alla fine si ritorce contro chi la pratica. Ma nonostante tutto, l’indecente uso della tortura in un sistema democratico non dovrebbe diventare un atto d’accusa della democrazia stessa: essa è un atto d’accusa contro quei militari (britannici, americani, iracheni e di altri paesi) che abusano del sistema. Sappiamo tutti che è sbagliato, ed ecco perché siamo scossi ogni qualvolta vediamo quelle fotografie. Ecco perché una gelida frecciata ci trapassa fino al midollo ogni qualvolta contempliamo un tale orrore. Ed ecco una delle ragioni per le quali quei soldati diretti a casa loro e in transito all’aeroporto di Shannon portano dentro di sé una simile afflizione. Può darsi che abbiano assistito a episodi di tortura con i loro stessi occhi, può darsi di no. Ma a modo loro tutti si portano dentro la tortura di essere stati in una guerra insensata. Ecco un’altra delle cose che provoca la tortura: ci fa tornare a casa sgomenti, avviliti, smarriti. © Colum McCann 2005 L’autore è uno scrittore irlandese che vive a New York. L’ultimo romanzo si intitola “Dancer” (Traduzione di Anna Bissanti) con fotografie blasfeme». La fede come arma brandita per far impazzire. «Vengo a sapere che durante gli interrogatori, spesso vengono alternate cassette con incise letture del Corano a musica rock e si ripetono le umiliazioni sessuali. Soprattutto da parte di una delle donne ufficiale, dei cui metodi tutta la prigione sa e parla. Mentre i secondini immobilizzano il prigioniero di turno, lei simula la masturbazione, strofinando sul poveretto il seno e i genitali. Chi prova ad opporsi viene picchiato». E ancora: «Mamddouh Habib, un detenuto di origini australiane, mi racconta che spesso gli interrogati vengono avvolti in una bandiera israeliana e che più di una volta è accaduto che siano stati costretti a sedere sul pavimento, all’interno di un cerchio satanico illuminato da candele, obbligati a gridare “Non Allah, ma Satana è il mio Dio”». Ora Yee tira un profondo respiro. Come se avesse riaperto gli occhi sul presente. Ma non è così. Lui è ancora lì, sull’isola. Ha soltanto voglia di usare un’altra parola da cui sin qui si è tenuto alla larga. «Sto ripensando a chi ho lasciato nelle gabbie. In questo momento, alcuni di loro stanno subendo quello che io ho provato nei miei 76 giorni di galera. Si chiama “privazione sensoriale” e per l’Associazione degli psichiatri americani è una forma di tortura. Proprio così, tortura». È la stessa parola che hanno usato gli osservatori delle Nazioni Unite nel loro recente rapporto sulla violazione dei diritti umani a Camp Delta. È la parola che l’America ha un solo modo per cancellare. Dice Yee: «Il Pentagono apra subito Guantanamo a osservatori internazionali e poi lo chiuda. Per sempre». “Dei metodi di un ufficiale donna si mormora in tutta la prigione: simula la masturbazione strofinandosi sul prigioniero immobilizzato dai secondini” LE GABBIE Qui sotto, i prigionieri con le tute arancioni inginocchiati a terra davanti alle “gabbie” dove venivano concentrati i detenuti di Guantanamo. Nella foto sopra, le recinzioni che circondano il carcere per evitare la fuga dei reclusi FOTO ANSA la per primo Rhuhel Ahmed, un ragazzo con il passaporto britannico. Mi riferisce il dettaglio delle tecniche di “privazione sensoriale” cui viene sottoposto e dell’ispezione anale cui ogni prigioniero che arriva sull’isola deve sottostare. Ruhehel mi confida con occhi pieni di orrore: “Cappellano, i soldati mi hanno infilato una mano intera nel retto. È come se fossi stato violentato”. E ancora: “Cappellano, soprattutto nei primi mesi di prigionia, quando le gabbie erano ancora a Camp X-ray, i soldati gettavano il Corano nelle latrine”». Yee prova a convincersi che in quelle confessioni raccolte nei bracci, sia la disperazione a rendere iperbolica la sostanza del racconto. Ma deve ricredersi. I prigionieri non mentono. «Mi capita di osservare presto come lavora l’Unità di reazione rapida, quella incaricata di sedare le intemperanze dei detenuti. Accade che un prigioniero si rifiuti di fare i suoi venti minuti di passeggio fuori dalla gabbia. Protesta per una perquisizione corporale. Quella che, in gergo, i soldati chiamano “il passaggio della carta di credito”. Un secondino infila le proprie dita nell’ano del prigioniero e le strofina su e giù per controllare che non nasconda nulla nelle pieghe del sedere. Un’umiliazione inaccettabile per chiunque, a maggior ragione per un musulmano, la cui religione vieta questo tipo di contatto fisico. Ebbene, arriva l’Unità di reazione rapida e otto uomini in assetto antisommossa affrontano il prigioniero. Lo picchiano e quindi, tra le urla e il sangue, lo trascinano lungo il corridoio, tra grida di vittoria e “high-five”». Le percosse sono una routine. «Non avevo mai visto tanta violenza nei confronti di tanta debolezza. E mi convinco presto, per la fre- 32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 26 FEBBRAIO 2006 la memoria Gorazde è una città della Bosnia non lontana da Srebrenica. “Gorazde” è il titolo di un libro di Joe Sacco che racconta con scabre strisce in bianco e nero l’assedio di tre anni che i suoi abitanti musulmani subirono dalle milizie serbe. Una tragedia attualissima e rimossa che è un dovere ricordare Testimonianze La guerra fantasma in punta di matita G GUIDO RAMPOLDI li angeli di Sarajevo avevano nere ali bruciate e visi tristi di sarajeviti. Se ne stavano appostati dentro case squarciate dall’artiglieria, di solito in gruppo, talvolta isolati. Camminavi nel centro e ti si paravano davanti senza preavviso. Erano angeli poveri, in bianco e nero, angeli smagriti. Non chiedevano nulla ma ti seguivano ovunque con i loro sguardi che non davano tregua. Restarono in città poche settimane, poi sparirono. Quando una tempesta di neve se li portò via la gente s’era affezionata a quelle apparizioni — anche se ricordo un uomo, probabilmente un matto, agitare il cappello davanti ad un’angelessa con angiolino come per dire: via!, via!, volate via prima che sia troppo tardi! Insieme agli angeli sparì l’artista francese che li aveva disseminati tra le macerie di Sarajevo. Aveva fotografato adulti e bambini, aggiunto a carboncino ali da serafini e incollato i poster dentro macerie abbandonate. Ma cosa volessero dire quegli angeli muti, questo lasciava dubbiosi. Erano molto solenni, anche i bambini, con espressioni serie, intense, maestose. A parere dei cineasti del Saga, Sarajevo group of authors, rappresentavano un’umanità superiore. Incarnavano l’invincibile dignità d’una sconfitta, la solidarietà che resiste alla fame, il coraggio che rifiuta i metodi del nemico; e poiché presumibilmente appartenevano alle varie etnie sarajevite — chi serbo e chi musulmano, chi croato e chi ebreo — erano la libertà che sfida il destino scritto in un nome, in una religione, in un’appartenenza etnica. I poster del 1993, l’anno peggiore della guerra, furono uno dei modi più originali, e forse il più efficace, per raccontare un conflitto che ci disorientò. Era insieme antico e nuovissimo. Ispirò sia teorie collisionali sullo “scontro tra civiltà”, sia il sospetto, ci pare confermato dal processo dell’Aja, che quelle costruzioni grandiose fossero un artefatto, un trucco, un gioco di parole. Qualunque cosa fosse, se ci avessimo fatto pace non capiremmo perché, undici anni dopo, escano libri come il Gorazde dello statunitense Joe Sacco. Gorazde è una città bosniaca non lontano da Srebrenica. Come fotografo, Sacco fu testimone dell’assedio che le posero per tre anni le milizie serbe; adesso ne racconta in un fumetto. A costo di far sollevare più d’un sopracciglio diremo che i suoi disegni scabri, rudimentali, rendono quanto all’epoca le sedentarie tribù degli storici e degli opinionisti raramente riuscivano a cogliere dalle loro scrivanie, e cioè l’odore dei fatti. Non è poco. Potevi leggere pacchi di agenzie di stampa, dotte analisi e rapporti diplomatici, ma non capivi la guerra di Bosnia finché non ci finivi dentro. E allora un gesto, un’emozione, un dettaglio ti precipitava in una storia molto più grande dell’ennesimo conflitto balcanico, con ferocie contadine e “scambi di popolazione”, non foss’altro perché questa volta anche noi — l’Europa, l’Occidente, l’Onu — ne eravamo parte. Però ci stavamo dentro con una tale riluttanza, con tali ipocrisie, che il fumetto di Sacco sembra anche un graffito inciso sulla vernice bianca di uno di quei blindati Onu che portavano in giro certi generali europei, furbi e ipocriti. Quel che accadde in quei tre anni fu un singolarissimo divorzio tra la realtà e le parole. La guerra andava in un modo, la sua rappresentazione in un altro. Succede in ogni conflitto, ma non in quella misura. All’inizio la realtà non era immediatamente percepibile. Però presto intuivi che non v’era nulla di spontaneo nella secessione dei territori serbi e nella successiva sollevazione croata. Tudjman e Milosevic stavano divorando la Bosnia, questo stava accadendo. E i governi europei, la Nato, gli americani avevano deciso che fermarli comportava rischi eccessivi, politici e militari. Non potendo però ammetterlo, dovevano co- struire una rappresentazione del conflitto che giustificasse l’inazione. Per negare che vi fossero aggressori da fermare e aggrediti da difendere inventarono la formula delle “warring factions”, le fazioni in guerra, che nella sua neutralità metteva tutti sullo stesso piano. Ma allora perché le “fazioni” si combattevano? La formula dell’equidistanza fu corredata dall’attribuzione ai popoli ex jugoslavi d’una tendenza atavica a scannare il vicino, sicché la mischia bosniaca risultava irrisolvibile e insensato frapporsi. Per simulare comunque buona volontà gli europei mandarono in Bosnia i caschi blu dell’Onu, a far da notai del massacro. In buona sostanza attesero serenamente la resa di Sarajevo alle milizie serbe che chiudevano la città dai quattro lati, spalleggiate dai croati sul fronte di Ilidza. I giornalisti che non credettero alla storia delle “warring factions” dovettero misurarsi con un doppio problema. Innanzitutto, era difficile raccontare l’orrore nella sua ripetitività: dopo l’ennesima strage di sarajeviti falciati da una granata al mercato, o davanti al forno, o mentre erano in coda presso una fontana, le parole prendevano un suono sordo, stanco. E quanto più si sfibravano, tanto più facilmente le travolgeva il maestoso fiume di formule che sgorgava dalle diplomazie e dai telegiornali, per i quali quel che accadeva in Bosnia era ineluttabile quanto un terremoto. Fatte salve alcune eccezioni trasversali (i libdem britannici, i Verdi tedeschi, alcuni pacifisti italiani, qualche liberale sparso) pareva che tutta l’Europa avesse deciso di lasciare i bosniaci al loro destino — arrendersi o morire. Invece negli Stati Uniti crebbe una corrente d’opinione favorevole ad un intervento militare, e dopo il massacro di Srebrenica finì per travolgere le Il conflitto andava in modo diverso dalla sua rappresentazione In questi disegni c’è il sapore della verità esitazioni dell’amministrazione Clinton. Perché questa differenza, oggi diremmo “culturale”, tra europei e statunitensi? Esistono in proposito varie teorie. Ma alla sostanziale indifferenza europea, e italiana in particolare, certo contribuì l’identità della vittima. Gli umani che il lettore incontra nei disegni di Sacco sembrano europei del genere comune, non diversi da tanti di noi. Se poi aveste conosciuto alcuni cittadini di Sarajevo avreste detto d’aver trovato il meglio della “cultura europea” — coraggio intellettuale, fierezza, indipendenza di giudizio, libertà interiore. Ebbene, dovete ricredervi: quelle persone d’aspetto così innocuo sono nientemeno che musulmani, insomma un’umanità nemica, gente che si porta dentro la cultura della sopraffazione, la vocazione alla guerra o, come direbbe Calderoli, l’odio per i nostri valori. Che poi in maggioranza neppure praticassero la religione, risultò del tutto indifferente. Avevano quel nome, Musulmani, e all’Europa, perista prim’ancora di Pera, non la diedero a bere. Nessuno voleva uno Stato musulmano nel continente “cristiano”: questo contò moltissimo, nella scelta di lasciare che milizie “cristiane”, serbe e croate, ammazzassero decine di migliaia di bambini, donne, anziani, inermi. Cominciavo a sospettare in questa mia idea una di quelle fissazioni che ossessionano i reduci, quando ho ritrovato la medesima convinzione in un discorso tenuto presso l’associazione “A buon diritto” da Gadi Luzzatto Voghera, forse il maggior storico italiano dell’antisemitismo. Ascoltiamolo: «Non sarà forse il caso di chiederci se le recenti e ancora sanguinanti ferite delle guerre nei Balcani negli anni Novanta non debbano essere lette anche alla luce di una radicata e storica islamofobia europea? (...) Sono certo che una componente forte dell’immobilismo dell’Europa di fronte all’assedio di Sarajevo interetnica DOMENICA 26 FEBBRAIO 2006 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33 DALLA PALESTINA ALLA BOSNIA Mondadori manderà a giorni in libreria “Gorazde” di Joe Sacco, il giornalista americano che usa per i suoi reportage la tecnica del fumetto. Il libro narra le vicende della cittadina a maggioranza musulmana, che rimase a lungo assediata dalle milizie serbe malgrado fosse stata proclamata dall’Onu “zona protetta”. Sacco si è imposto all’attenzione internazionale con “Palestina, una nazione occupata”, edito in Italia da Mondadori nel 2002 Prendere Mladic per dare un finale alla storia BILJANA SRBLJANOVIC L BELGRADO eggo questa triste, commovente storia su Gorazde mentre con la coda dell’occhio seguo costantemente i notiziari. Sempre nuove voci di ora in ora: è stato arrestato, non è stato arrestato; si consegnerà, no, piuttosto si suiciderebbe; è finita, è già all’Aia, no, ancora neanche sanno dove sia. Leggo una storia di guerra mentre aspetto che il falso generale di un esercito falso, Ratko Mladic, responsabile di crimini compiuti dappertutto in Bosnia, compresa Gorazde, venga finalmente consegnato al tribunale dell’Aia. Leggo questo fumetto, frammenti illustrati della vita di persone che tutto d’un tratto, senza venire mai a sapere né perché né perché proprio loro, vivono la realtà della guerra. Persone adulte che tutto il giorno non fanno altro che aspettare sedute, ascoltano le voci o le diffondono, aspettano che qualcun altro senza chiedere loro niente, a loro nome, firmi la pace. Non posso fare a meno di immaginare come adesso, dieci anni dopo, Joe Sacco descriverebbe col disegno questo epilogo: la gente rimane seduta ad aspettare, ascolta le voci o le diffonde, aspetta che qualcun altro a nome di tutti gli uccisi, i morti, i dispersi delle loro mai ricomposte famiglie, finalmente arresti Mladic, trascinandolo davanti a un qualche tribunale. Provo a immaginare che cosa ci sarebbe scritto nelle nuvolette del fumetto, non in quelle che contengono le parole dette, bensì in quelle che riportano i pensieri. Mi chiedo se gli abitanti di Gorazde, di Srebrenica, di Foca, di Sarajevo e di tutte le altre parti della Bosnia ascoltano queste notizie sulla possibile cattura del generale macchiato di sangue. Che cosa ne pensano il vero Edin e gli altri personaggi? Mi domando se dieci anni d’attesa non siano troppi. Se non sia troppo tardi. Il fatto è che, leggendo questa storia, mi sembra di conoscere tutte queste persone senza essere mai stata a Gorazde né in nessun altra città in guerra salvo la mia Belgrado. Sono simpatiche persone qualunque, quasi allegre. Aspettano che la guerra passi avvelenandosi con la nicotina, fumando e parlando forsennatamente, perché solo così si rimane normali. Passano il tempo della guerra vivendo e rallegrandosi delle piccole cose, semplicemente aspettandone la fine. Per quanto rese esauste dall’assedio e dall’isolamento hanno ancora la forza di parlare di cose insignificanti, triviali, di sognare l’America e i Levis 501 (ma original, in nessun caso ta- roccati) come se fossero l’unica cosa importante della vita. Ma quando la storia prende a svolgersi a ritroso — quando qualcuno dall’alto pronuncia l’ordine e la guerra comincia tra cortili, auto in sosta, caffè e muoiono intere famiglie nello spazio di due vie, tra due angoli di strada, tra due macchine in fila e quelle stesse persone anche se sopravvivono hanno almeno una volta guardato la morte dritto negli occhi e fingono di tenere di più al filo rosso originale dei jeans che ad evitare il proiettile di un cecchino mentre vanno alla ricerca di acqua potabile — quando questo accade, leggo e non ne so più nulla. Conosco la sensazione di essere un bersaglio, ma non so come ci si sente quando ti spara addosso il vicino di casa o l’ex compagno di banco. So come ci si sente a non sapere se arriverai vivo al mattino, ma non so che sensazione si prova a esser costretti a fuggire dalla propria casa perdendo strada facendo tutto ciò che si ha. In realtà non so nulla di Gorazde, anche se tutto questo accadeva qui, molto vicino, anche se capitava a persone del tutto uguali a me. Una delle ragazze del libro a un certo punto chiede che da Sarajevo le procurino un farmaco per l’acne. Di altro non ha bisogno, né di cibo né di jeans originali, solo della pomata per calmare il viso. La ragazza spiega: «Il mio viso si è infiammato quando un cecchino ha ucciso mia sorella». E mentre leggo anche il mio viso si infiamma, tutto il mio corpo si infiamma, solo a pensarci. La mia coetanea — ha una sorella come me, in quel disegno persino mi assomiglia, dieci anni fa non stava neanche tanto lontana dalla mia casa e dalla mia vita — vive una vita terribile, vive una tragedia inguaribile di cui in certo qual senso sono responsabile anch’io. Mi domando dove sia quella ragazza adesso. È rimasta in Bosnia oppure se n’è andata da qualche parte dove fanno i jeans originali? Sta seguendo come me le notizie sulla cattura di Mladic? Chissà se per lei significano qualcosa oppure tutto questo la offende e la umilia ulteriormente, questa titubanza nel catturare il criminale per farlo processare per la morte di sua sorella e per tutto ciò di cui è responsabile. Ascolto con attenzione le notizie in questi giorni, ascoltatele insieme a me. Credo che fra poco avremo una ragione per rallegrarci, credo che dopo dieci anni di silenzio noialtri belgradesi potremo finalmente guardare negli occhi i nostri vicini bosniaci. Scrittrice e giornalista, l’autrice ha tenuto su “Repubblica” un diario da Belgrado durante la guerra in Serbia (traduzione di Branka Nicija) (ma a maggioranza musulmana — e me lo si lasci ricordare, con la presenza di un’attivissima comunità ebraica che si prodigò per assistere la popolazione civile) e soprattutto di fronte al massacro di Srebrenica, è stata senza dubbio l’islamofobia. La Bosnia è nel cortile di casa nostra, mai l’Europa avrebbe permesso dopo Auschwitz un simile massacro se ad essere colpite non fossero state popolazioni tutto sommato percepite come estranee, quando non ostili». Detto altrimenti: non v’è forse un lato oscuro anche nell’Europa “cristiana”, così come nell’islam, o come in ogni altra fede quando la religione dell’altro diventa alibi all’indifferenza, pretesto per lasciare che venga ucciso? Mentre rimbombano discorsi sulle “radici cristiane d’Europa”, richiami a non genuflettersi davanti all’islam e appelli a ritorsioni contro gli immigrati musulmani, forse non è inutile fare chiarezza. I presidenti di Camera e Senato, vari ministri, larghi settori della maggioranza, l’intera stampa lombarda, tutti fustigano l’Europa, colpevole, citiamo Casini, di «ignavia, doppiopesismo, viltà» per non aver reagito alle uccisioni di cristiani avvenute in queste settimane. Cinquanta uccisi, quali sia la loro fede, sono comunque un’enormità, e l’Europa non dovrebbe lavarsene le mani. Ma i Musulmani assassinati in Bosnia furono almeno mille volte di più. Cosa dissero all’epoca gli odierni indignati? Condannarono «ignavia, doppiopesismo e viltà» con cui l’Europa tollerò il massacro dei Musulmani in Bosnia? Levarono appelli a fermare le infamie commesse non solo dalle milizie serbe, ma anche dai generali della cattolicissima Croazia, oggi imputati dall’Aja? Restiamo in rispettosa attesa di risposte. Ma se non le avessimo, dovremo considerare i nostri sdegnati alla stregua di quei guitti che ieri celebravano il dio Po con riti pagani e oggi si pretendono campioni della cristianità. 34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA il racconto Mestieri a perdere DOMENICA 26 FEBBRAIO 2006 Per un secolo e mezzo sono stati i cronisti-notai dell’Italia di provincia, la loro vetrina era il giornale murale della città. Documentavano nascite, matrimoni, lauree, funerali. Ma sapevano anche “rubare l’anima”, creare un doppio di carta che somigliava davvero ai clienti-amici. Adesso il loro lavoro sta sparendo, e muore beffardamente in mezzo all’abbondanza: di telefonini ruba-immagini, di stampantine digitali, di aggeggi che sanno fare qualcosa che sembra una foto Addio al fotografo di paese MICHELE SMARGIASSI E TREVIGLIO rano i padroni dei sorrisi: «Davanti a me i volti s’illuminavano, non solo per il flash». Erano i registi dei momenti felici: «Mi fermano ancora per strada, “lei fotografò il mio matrimonio, ricorda?”, mi pagano il caffè, mi dicono grazie». Erano i custodi dell’identità: «Ho fatto il ritratto per la patente al papà, al figlio, al nipote». Erano gli officianti dei riti di comunità: «Ci sono persone di cui ho fotografato il battesimo, la comunione, le nozze, perfino il funerale». Ma adesso. «Un bicchiere di bianco?». Adesso è materia da brindisi di nostalgia a un tavolo del Toscano di Robbiate, vista mozzafiato sul vecchio ponte di ferro dell’Adda, scenario fotogenico quant’altri mai. Quattro fotografi di paese: l’Usuelli Carlo di Bernareggio, l’Agazzi Giulio di Treviglio, l’Agostoni Federico di Rovagnate, il Manzocchi Ernesto di Olginate. Tutti tra i sessanta e i settanta, tutti con mezzo secolo di onorata bottega a carico, nel profondo della Brianza profonda. «Siamo gli ultimi. Cin cin, alla nostra». Manco a farlo apposta c’è un matrimonio, oggi al Toscano. All’Usuelli gli prude l’Hasselblad. L’ha sempre con sé, la sua fotocamera preferita, dentro una borsa gialla. La prende, l’accarezza: «Gli astronauti la portarono sulla luna. Ci faceva impazzire, da ragazzi». È un riflesso condizionato: senza alzarsi dal tavolo inquadra la sposa, regola le ghiere, mette il dito sul pulsante. L’Agostoni sfotte: «Ma lascia andare Usuelli, prendi giù un’altra fetta di tagliata di manzo». Ce l’hanno già un fotografo, gli sposi. Un ragazzo con la coda di cavallo, al collo seimila euro di attrezzatura, macchina digi- Un giorno qualsiasi, attorno a un tavolo nella Brianza profonda, con quattro angeli custodi FOTO MARIO GABINIO Repubblica Nazionale 34 26/02/2006 dell’identità della gente di qui LE BOTTEGHE Sopra, una fotografa al mercato di Torino nel 1930. A destra, il laboratorio di fotografia Salmoiraghi su Corso Umberto (attuale via del Corso) a Roma, nel 1940. A seguire: il negozio dei fratelli Agamben a L’Aquila all’inizio del ’900, la bottega Ottolenghi a Torino nel 1950, una posa davanti a una polaroid anni ’50 e la “Premiata fotografia Perillo” a Senigallia, nel 1930. In alto, un negozio di fotografia alla periferia di Bergamo nel 1956 tale da 12 milioni di pixel, flash elettronici eccetera. Il Manzocchi, serio: «Veh Usuelli, ti fa mica pena quello lì? Crede di avere un futuro». Be’, un presente ce l’ha. L’Usuelli scuote il capo con un sorriso strano: «No, guardi meglio. Lui fotografa gli sposi, ma gli sposi non guardano lui. Vede? Guardano gli amici con i fotocellulari, le macchinette, le videocamere. Sorridono solo a loro». Perché l’hanno chiamato, allora? Costerà parecchi quattrini. «Perché il matrimonio è l’ultima nostra spiaggia. Nessuno se la sente ancora di fare un matrimonio senza il servizio del professionista. Hanno speso migliaia di euro per la cerimonia, il vestito, il pranzo, hanno paura che non resti nulla. Ma durerà poco. Già oggi è solo un’abitudine, una formalità. Lo sa che molti sposi, dopo, non passano a ritirare l’album? Ne ho uno lì nel cassetto da maggio, pronto. E non pagato». Cin-cin allora, per un mestiere che scompare. E beffardamente muore d’inedia in mezzo all’abbondanza. Mai come oggi la fotografia è ubiquitaria e invadente. Ogni adolescente che incontri per strada ha in tasca un aggeggio che sa fare qualcosa che somiglia a una foto. Ma per i sapienti artigiani della fotografia non c’è più ingaggio. «Un mese fa ho fatto un battesimo, non mi capitava da anni. C’erano nove bambini. Ero l’unico professionista. Ho dovuto farmi largo a gomitate nella folla di parenti con le macchinette. Perfino il parroco alla fine ha tirato fuori un aggeggino e s’è messo a scattare, allora non sono riuscito a tacere, “Senta don, lei pensi alle anime che i corpi sono affar nostro”». Ma l’Usuelli sa che non è così. Sa che i fotografi per primi hanno invaso il campo dell’interiorità, scendendo dalla superficie al profondo, dal corpo all’anima, dall’immagine all’essenza. Della gran religione dell’immagine che ebbe Nadar e Disdéri per profeti, gli ateliers parigini per cattedrali, i manuali Hoepli per libri sacri, santa Veronica (la fotografa di Gesù) per patrona, loro sono stati i curati di campagna. La quarta autorità del paese: «Dopo il sindaco, il parroco, il maresciallo, e prima del medico condotto». Perché il dottore conosceva i segreti del fisico di ogni compaesano: il fotografo, quelli dello spirito. «Il ritratto in studio era una com- media. Teatro puro. Venivano a recitare se stessi, avevano già la loro posa in mente, volevano apparire come pensavano di essere, non come erano davvero. Allora io li giravo e rigiravo, mettiti così, voltati di là, dammi retta, guarda che io ti conosco meglio di te». Quell’intimità coi corpi, quel tête à tête nella penombra della sala di posa erano perfino sospetti per la pubblica moralità. «Una ragazza volle delle foto un po’ osé per il fidanzato», sorride l’Usuelli, «niente in tutto, un décolletégeneroso, uno sguardo languido. Venne in gran segreto, però chissà come il giorno dopo mi piombò il parroco in negozio: “Carlo se vuoi che restiamo amici non fare più certe cose”...». Tanto non vengono più, neppure per la fototessera. Quel momento sciamanico, quella trasmigrazione d’anima dal ritratto al ritraente che terrorizzava Balzac, s’è trasferito in luoghi più sciatti e profani. Le cabine automatiche per fototessere somigliano a confessionali, ma senza il confessore. Mettersi in posa davanti a una macchina a gettoni, che gusto c’è? «Nessuno si riconosce in quei francobolli lì». Però costano poco. «Io faccio sei ritratti per otto euro, è tanto? È che posare per un fotografo in carne ed ossa ormai li annoia, pensano di perdere tempo». Per le nuove carte d’identità, plastificate come bancomat, la foto si farà direttamente al banco dell’anagrafe, davanti a una webcam. «E sembreremo tutti delinquenti alla matricola del carcere. Io invece so come scende la luce sui capelli, dove deve cadere l’effetto ombra sulla guancia sinistra...». Maledetto secolo materialista, individualista e digitale: non abbiamo più un rispetto sacrale per l’icona di noi stessi. «Un cliente si lamentava di com’era venuto. Irritato, gli strappai le foto sotto il naso. Chiamò i carabinieri perché avevo offeso la sua dignità». Era quasi magia. Ora si affida la fabbrica del proprio doppio di carta, ormai desacralizzato, al primo che passa. La concorrenza, allora, si fa spietata. «Perfino le pompe funebri ti regalano la fotoceramica per la lapide fatta all’istante». L’estromissione del fotografo dalla vita familiare è iniziata dalla fine: «Oggi solo gli zingari vogliono fotografi ai loro funerali sontuosi». E dal principio: quasi esauriti anche i bat- LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35 FOTO ALFREDO CAMISA DOMENICA 26 FEBBRAIO 2006 tesimi. I matrimoni invece resistono ancora, ma ci si sposa di meno: «Quest’anno ne ho fatti quindici. Ai tempi d’oro ne facevo novanta in un anno, anche tre al giorno, di corsa da una chiesa all’altra, con l’ansia di non arrivare, una volta sbagliai sposi e me ne accorsi solo al terzo rullino». E quella volta che la sposa non arrivò? «Non solo persi il guadagno, mi toccò anche consolare i parenti in lacrime». I ricchi del paese assoldavano anche quattro fotografi, per far scena, «eravamo uno status symbol». L’immagine pubblica del sé, curata da un professionista, doveva incrociare il sistema di valori brianzolo: «Dané, laurà, e il Signur se gh’è». Fotografie come certificati notarili di ogni successo conseguito, familiare o professionale, come attestati di possesso della propria vita: ecco i miei eredi, ecco la mia casa, i miei averi, il mio credo, ecco me stesso, leggetemi in faccia quanto valgo. Foto private di pubblico consumo. Usuelli ricorda: «La mia vetrina era il giornale murale del paese. Eventi e volti, tutto esposto alla vista di tutti». Un panopticon democratico, lo specchio di una comunità. Ride: «Adesso rischierei una denuncia per la privacy...». Certo, anche spazzacamini e maniscalchi sono scomparsi. Non sarà un po’ banale piangere sui relitti che il progresso abbandona lungo la sua strada? Sì, però il fotografo non è un mestiere antichissimo o pittoresco. Anzi. È figlio della modernità e della tecnologia, e ha appena un secolo e mezzo di vita. Una meteora antropologica, un lampo nella lunga durata delle società umane. Per una breve parentesi storica i fotografi di bottega sono stati dei pubblici ufficiali, i funzionari della società dell’immagine di massa: nessun’altra epoca storica ne ha posseduti, i pittori ritrattisti erano solo fornitori a domicilio di un’élite di potenti. Ma la stessa società ora li dispensa dal servizio, pronta a fare da sé. Felice di poter fare da sé. Di quel cronista e notaio che per una manciata di decenni è stato necessario far entrare in casa, ammettere al segreto degli affetti e delle liturgie familiari, ora si può fare a meno. L’immagine familiare può finalmente chiudersi nel privato più privato, non uscire più di casa, neppure per necessità. Il pixel domestico fa crollare anche l’ultima mediazione tecnicamente obbligata: la consegna dei rullini delle vacanze per lo sviluppo-e-stampa. Usuelli fu il primo in Brianza a comperare le macchine per stampare a colori. Se ne pentì quando esplose la concorrenza dei centri commerciali. «Fanno prezzi stracciati solo per attirare clienti». La presero male, i fotografi, si passò al sabotaggio, «qualche collega», racconta Agazzi, «va in giro a infilare nelle buchette dei supermercati rullini vergini, per farli lavorare a vuoto. Io non l’ho mai fatto, ma li capisco». Ma adesso è finita anche per i supermercati. Pochi l’hanno capito, ma col matrimonio fotocamera-computer va in frantumi una filiera commerciale che ha dominato il mercato per centovent’anni: il sistema Kodak, inventato da quel genio di George Eastman nel 1880, you press the button we do the rest, che legò il fotoamatore a quel meccanismo di servizi su cui l’industria fotografica maturava i suoi veri guadagni. Adesso tu premi il bottone e fai anchetutto il resto, da solo, in casa. Le stampantine fotodigitali sono stati tra i gadget elettronici più regalati a Natale. «Sabato scorso sa quanto ho incassato? Diciannove euro». Cos’erano i sabati del villaggio fotogenico se lo ricorda bene l’Usuelli. Chiuso in camera oscura, unghie annerite dagli acidi, occhi da gatto allenati alla penombra sulfurea della lampadina rossa, uno sguardo ogni tanto allo spioncino per vedere se entrava qualcuno in negozio, «sto stampando, arrivo!». C’era la fila per il ritratto. Sabato, perché avevano il vestito buono addosso. «Adesso viene qualche extracomunitario. Loro sì che ci tengono ancora, al ritratto in posa. Per mandarlo ai parenti a casa. Abiti della festa, gioielli, parrucchiere. Vogliono la figura intera, in piedi, come noi una volta». L’Usuelli ha smantellato la camera oscura già dieci anni fa, convinto dai figli. «Papà, mica vorrai morire con le dita negli acidi?». Ora in quella stanza c’è il camerino per l’esame della vista. I figli hanno studiato ottica. L’antro del fotografo diverrà negozio di lenti e occhiali. «Ma quando sento l’odore dei bagni di sviluppo mi viene il magone». Agostoni in cantina ha «migliaia di negativi. L’altro giorno li volevo buttare: prendono solo polvere. Non ce l’ho fatta. Lì dentro c’è la storia di Treviglio. Chi sono io per buttare via la storia?». Microstoria iscritta nei volti, negli abiti, nei riti, negli oggetti. L’archivio di un fotografo di paese è un trattato di antropologia visuale. Negli Usa ha sconvolto il mondo della fotografia la scoperta di Mike Disfarmer, piccolo professionista degli anni Trenta con bottega a Heber Springs, Arkansas: dicono, non senza ragione, che i suoi ritratti di farmers raccontano l’America rooseveltiana più delle celebri foto di Dorothea Lange o di Walker Evans. Gli dedicano mostre a Manhattan, cataloghi con pensosi saggi critici. Ma l’Usuelli, il Manzocchi, l’Agazzi, l’Agostoni non sanno a chi lasciare il loro lavoro di una vita. «C’è almeno una foto mia in ogni casa del paese, a me basta questo», si consola Usuelli, però il magone non gli va giù. La prof di mineralogia del “Mosé Bianchi” che cinquant’anni fa, guardando i suoi scatti di principiante fatti con l’Eura 6x6 di bachelite, gli consigliò «Carlo, fai il fotografo che hai stoffa, di geometri ce n’è già tanti», aveva ragione? «Aveva ragione. Da capocantiere oggi avrei una bella pensione. Ma non rimpiango niente». Niente, né le corse in Vespa 125 con quindici chili a tracolla, né le domeniche mattina al gelo sul sagrato ad aspettare i comunicandi «perché in chiesa non ci facevano entrare». Il fotografo con la coda di cavallo s’è ormai arreso. Gli sposi invece civettano ancora coi fotocellulari dei ragazzini. «Scattano migliaia di foto con quei cosi», dice l’Agazzi, «se le spediscono come sms, poi le cancellano. Delle foto fatte con le digitali finisce stampata una su cento. Una foto oggi è come una parola detta ma non scritta. Più ne fanno, meno ne resteranno». Non rimpiangono un passato carico di ricordi, i curati di campagna della fotografia. Compiangono un futuro smemorato. Ormai hanno tutti fra i sessanta e i settanta anni, con mezzo secolo di onorata bottega a carico: “Siamo gli ultimi. Cin cin, alla nostra” Il celebre fotografo: così ho scoperto la loro vocazione ante litteram al “reality” Abili registi della “commedia umana” L FOTO PUBLIFOTO/OLYCOM GIANNI BERENGO GARDIN o confesso, ho sottovalutato a lungo i miei colleloro mestiere scomparirà. Non finché ci saranno maghi fotografi di paese e di bottega. Sfogliavo gli altrimoni. Passerà al digitale, sì, ma non è lo strumento bum di nozze degli amici e mi dicevo: ma che poche fa la differenza: e lo dico io, che detesto le manise artificiose, ma che atteggiamenti esagerati, da mopolazioni al computer. Il nemico più insidioso, forse, delli, da soubrette, innaturali, finti. Poi un giorno è caè la videocamera: se l’impronta televisiva nell’immapitato a me di vestire i panni del fotografo di matriginario comune si farà ancora più forte, forse il piccomoni. Seguii la troupe di un’inchiesta telo reality show in videocassetta sostituirà levisiva di Davide Mengacci che si l’album. Già oggi molte coppie vogliono occupava proprio dei matrimoni degli itaentrambi. liani: mi misi a fare ritratti agli sposi. AlloMa io voglio essere ottimista: l’immagira capii che la colpa non era dei fotografi. ne fissa, l’icona ha ancora un fascino. E Erano gli sposi a volersi così, a recitare se dev’essere bella. Le immagini prese con i stessi come fossero sotto le telecamere di fotocellulari o le macchinette economiche un reality show, non a una cerimonia relisono inguardabili, piatte, noiose. Infatti se giosa. Come se si fossero detti: oggi finalne fanno di più ma se ne guardano di memente tocca a me. L’intelligenza dei fotono. In Sicilia ho incontrato mamme che grafi di matrimoni è assecondare questo portavano i figli mascherati dal fotografo, loro desiderio e farsi abili registi della loro a carnevale, per avere almeno una bella commedia. Io sono un reporter, non metimmagine, «perché se lo chiedo a mio maGianni Berengo Gardin to in posa la realtà, e non lo capivo. Loro inrito viene orribile». Su una rivista di fotovece sono gli impresari di una grande scena teatrale, i grafia ho trovato la lettera di una signora disperata: creatori di una fiction. «Ho comprato una macchina a pellicola perché mio Da quel momento ho cominciato a fermarmi damarito fa mille foto digitali e non le stampa mai, allovanti alle loro vetrine, studiando le fotografie esibite ra faccio da sola e le porto dal fotografo». Forse questa come un campionario di abilità: quei volti di ragazze sbornia di brutte immagini che tutti fanno e nessuno messi in diagonale, con la luce di taglio, gli occhioni guarda finirà, per nausea e stanchezza. Forse tornerespalancati… perfetto. Io non saprei fare nulla del gemo tutti ad avere voglia e bisogno della fotografia belnere. In sala di posa loro sono molto più bravi di me. la, pensata, composta. Forse. Per questo, contro ogni evidenza, non credo che il (testo raccolto da m. s.) 36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA i luoghi Terre di frontiera DOMENICA 26 FEBBRAIO 2006 Attraverso la città di El Paso, in Texas, e quella messicana di Ciudad Juarez, al di là del fiume che fa da confine, si entra nel mondo percorso dagli eroi dello scrittore americano. Sono spazi sconfinati, sotto un sole implacabile. Ma in questa natura senza tempo l’intervento dell’uomo comincia a farsi strada in maniera irreversibile Oltre il Rio Grande nel deserto di McCarthy E I ROMANZI ANTONIO MONDA FOTO CORBIS l Paso è l’ultimo lembo d’America che Billy Parham e John Grady Cole — i personaggi della trilogia della frontiera di Cormac McCarthy, le cui avventure esprimono la possibilità di un’esistenza libera e irraggiungibile — attraversano prima di sconfinare nel Messico. È anche la città in cui ha deciso di vivere lo scrittore, nativo del Rhode Island, piccolo stato dell’est, e figlio adottivo di una regione del sud come il Tennessee. La città suscita spaesamento e desolazione per la mancanza di una qualunque definizione urbanistica, architettonica o semplicemente culturale. È un piccolo gruppo di grattacieli nei quali hanno sede potenti corporation quali la Chase e la Well Fargo, circondati da un’infinità di case basse che hanno inglobato i pochi palazzi degli anni Venti definiti con orgoglio «storici». L’unica presenza autenticamente caratterizzante è quella militare, per la prossimità di Fort Mills e per i segnali che ricordano che nella parte desertica a nord della città, accanto alle spettacolari White sands, le sabbie bianche, vengono fatti periodicamente esperimenti missilistici. Non esiste una città che porti in maniera più evidente le stigmate della terra di frontiera. Da un punto di vista amministrativo El Paso è ancora Texas, ma il Messico è separato dal centro cittadino unicamente dal Rio Grande, mentre il New Mexico è a meno di dieci miglia ad ovest, separato da un confine in parte artificiale e in parte segnato da un’ansa dello stesso fiume. Se si continua ad andare verso ovest si incrocia il confine dell’Arizona dopo appena settanta miglia. Ma è a sud che si notano i contrasti più drammatici. Attraversato il Santa Fe Bridge si entra a Ciudad Juarez, case anonime di colore bianco e rosa che di notte si illuminano in maniera uniforme lungo un’area sconfinata, suggerendo un’idea di benessere smentita brutalmente dalla luce del giorno. La luce rivela anche i colori chiassosi e artificiali del centro, dove nel mercato intorno alla cattedrale compaiono negozi improbabili come “Paris Juarez” (moda francese e souvenir parigino-messicani) e una impressionante sequela di “renta de tuxedos”, nelle quali si propongono in affitto smoking dai ricami e colori impensabili. Con il suo milione e trecentomila abitanti Ciudad Juarez è grande quasi il doppio di El Paso e ciò che colpisce immediatamente è il contrasto tra la scelta di mantenere con orgoglio le proprie radici e la volontà di assimilarsi al più presto con il paese dei ricchi gringos che vivono al di là del fiume. Anche se molti deridono il grattacielo della Wells Fargo, che si trasforma di notte in una enorme bandiera americana. Ciudad Juarez è lontana dagli itinerari turistici e sia nei poster che negli annunci politici la città parla unicamente a se stessa, comunicando un’atmosfera di caos povero e disincantato. Gli eroi di McCarthy e lo CAVALLI SELVAGGI Due cowboy a cavallo lasciano il Texas e partono per il Messico. Il romanzo è del 1996 Di notte le case s’illuminano, suggerendo FOTO CORBIS un’idea di benessere brutalmente smentita dalla luce del giorno OLTRE IL CONFINE È la storia struggente di due fratelli fra le valli e le montagne della frontiera. Uscito nel 1997 FOTO MAGNUM/CONTRASTO Repubblica Nazionale 36 26/02/2006 EL PASO CITTÀ DELLA PIANURA Nel 2001 si chiude la trilogia della frontiera: i protagonisti dei primi due libri si incontrano stesso scrittore la evitano accuratamente, puntando per le proprie escursioni a sud o a nord-est, ma per tutti loro è impossibile sfuggire all’enorme scritta che campeggia sui monti e ricorda: «La Bibla es la verdad: leela». La presenza della religione è costante e imprescindibile, ma sin dai sobborghi della città si ibrida con culti e miti locali. Le immagini di Cristo e dei santi sono esposte vicino a quelle di leggendari cowboy della terra di confine e di Geronimo, che scorrazzava nelle montagne dell’interno. Seguendo l’itinerario dei cowboy di McCarthy ci si addentra nello stato di Chihuahua. Appena usciti da Ciudad Juarez lo scenario si rivela in tutta la sua asprezza e le praterie sconfinate che caratterizzano le terre a nord del Rio Grande lasciano il posto a un deserto di piccoli arbusti. È un territorio assolutamente piatto che si estende a perdita d’occhio sotto un sole implacabile. Le montagne che si intravedono a centinaia di chilometri sembrano delle isole mitiche, che al tramonto assumono i colori del fuoco. Si capisce immediatamente perché i giovanissimi cowboy di Cavalli selvaggi e di Oltre il confine siano costantemente alla ricerca delle città e perché l’acqua abbia un’importanza vitale. Tra Ciudad Juarez e il primo centro abitato, chiamato Janos, ci sono 220 chilometri di traversata di un deserto torrido, con un unico punto di ritrovo per rifocillare gli incauti viaggiatori: una decina di costruzioni basse, con un distributore di benzina, un meccanico e un posto di ristoro che vende unicamente gorditos, burritos e Coca Cola. Il posto non è neanche segnato sulle mappe e deve la propria esistenza a una modesta fonte d’acqua dove si abbeverano alcuni animali. Un paio di cavalli legati all’esterno di una delle casupole sembrano cristallizzare il luogo all’epoca raccontata da McCarthy, ma l’interno della tavola calda rivela il passaggio del tempo. Accanto al ritratto di Geronimo c’è uno stereo che propina musica locale a tutto volume, un murale dedicato a un cowboy morto (la dedica in inglese dice «Peter lives»), un condizionatore estremamente rumoroso e una televisione sintonizzata con pessima ricezione su un canale di Chihuaha. Con ogni probabilità è in questa località senza nome che si è fermato Billy Parham per rifocillare il cavallo, ma le donne che gestiscono il locale non hanno mai sentito parlare di McCarthy, né dei suoi personaggi. Hanno vestiti dai colori sgargianti e la proprietaria, giovane e sovrappeso, esibisce su una spalla l’enorme tatuaggio di una farfalla. Sopra la cassa sono incorniciati un brano del Salmo 27 («Il Signore è la mia Luce e la mia Salvezza: chi posso temere?») e il passo dell’evangelista Luca in cui Cristo annuncia che il Padre ha promesso un regno a tutti coloro che lo seguiranno. La proprietaria guarda fisso negli occhi chi legge i brani incorniciati, cerca di capire se trova condivisione nell’interlocutore, e quindi si addolcisce in un sorriso misterioso e antico come il paesaggio. Una delle caratteristiche più affascinanti di molti libri di McCarthy è l’ambientazione negli anni Quaranta, che non rivela nulla di diverso dall’epoca più eroica del vecchio West. Oggi la natura appare ancora intatta e senza tempo, ma l’intervento dell’uomo comincia a farsi spazio in maniera irreversibile: si vedono antenne, neon e la pubblicità di una birra locale. Superata la minuscola Janos si raggiunge dopo altri 60 chilometri Casas Grandes, la città nella pianura dove approdano i cowboy di Mc- DOMENICA 26 FEBBRAIO 2006 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37 IN USCITA FOTO GETTY/RONCHI I ROMANZI MERIDIANO DI SANGUE L’iniziazione di un ragazzo alle spietate leggi del West nel libro uscito nel 1998 molte miglia un multiplex della catena Cinemark, una scuola pubblica simile a una fabbrica, uno stabilimento di aspirapolveri Hoover e una gigantesca loggia massonica di rito scozzese. Sulla strada asfaltata che ha sostituito i sentieri si incrociano soltanto carcasse di pneumatici rotti e di coyote travolti dai camion. Compare ripetutamente una scritta che invita i giovani ad entrare a Fort Mills proclamando: «È un gran giorno per essere un soldato». È un percorso interiore segnato dalla violenza anche quello di Llewelyn Moss, il protagonista dell’ultimo romanzo di McCarthy No country for old men, che in una battuta di caccia all’antilope immaginata proprio in questa zona si imbatte in numerosi cadaveri, un enorme quantitativo di eroina e due milioni e mezzo di dollari misteriosamente abbandonati. Gli scenari e i conflitti morali sono quelli di sempre, ma l’ambientazione di questa ultima vicenda di inseguimento e fuga disperata è spostata negli anni Ottanta, quasi che McCarthy volesse segnalare l’irreversibile degrado di un mondo che all’epoca di Meridiano di sangue ancora appariva puro e primordiale. I cowboy e i cacciatori che celebrano con la loro stessa esistenza la grandiosità di queste pianure devono confrontarsi con assassini spietati che non hanno alcun valore morale di riferimento. Sembra non ci sia più spazio per le lunghissime pause di silenzio e solitudine nelle quali «le stelle cadono ogni notte lasciando dietro di sé degli archi malinconici». Se il primo romanzo che ha dato la popolarità a McCarthy era nelle parole di Harold Bloom «una tragedia universale di sangue», No country for old men è una vicenda di morte senza riscatto, nella quale la maggiore tragedia sembra l’ineluttabile declino di questo paesaggio. In questa storia ambientata oltre vent’anni fa, che i fratelli Cohen stanno per tradurre in un film, McCarthy racconta che si tratta di cambiamenti impercettibili. Ma addentrandosi lungo i sentieri che costeggiano il Rio Grande ti accorgi che c’è qualcosa di profondamente immutato nello spirito della popolazione, che sembra resistere con indifferenza a ogni cambiamento. La violenza che proviene dall’esterno è sempre una tempesta occasionale e quella che nasce all’interno segue il ritmo infinito e misteriosamente etico del tempo. Ancora oggi gli immensi allevamenti sono tutti recintati e i cowboy sconfinano soltanto la domenica, per riunirsi a festeggiare all’interno di ranch nei quali vengono macellati per l’occasione i migliori capi di bestiame. In questa celebrazione della terra e della carne il mondo dello scrittore non è affatto cambiato, come nella considerazione della città: una realtà lontana, vissuta con sospetto e malinconia. Un luogo dove l’uomo decide di ritirarsi quando non ha la forza di reggere la vera vita degli spazi aperti. Non c’è abitante che non sia felice che in questa area il turismo sia pressoché sconosciuto. L’unico souvenir disponibile è una maglietta in vendita presso un ranch con scritto: «Vegetariano: termine indiano che indica un cattivo cacciatore». La violenza caratterizza questi posti in modo indelebile e nessun personaggio romanzesco riesce ad evitarla FOTO MASTERFILE Carthy prima di decidere se affrontare la catena montuosa verso ovest o puntare a est verso il Rio Pecos. Casas Grandes non ha nulla a che vedere con quello che noi intendiamo per città. Alle caratteristiche del paese western (un lungo viale con bar e uffici, alle cui spalle scorrono altri due viali con le case degli abitanti), si sono sovrapposti una serie di elementi della modernità: un piccolo stadio colorato di verde elettrico, una infinità di insegne pubblicitarie, una banca appena costruita, un locale che garantisce accesso a Internet. Nello spiazzo accanto allo stadio due squadre di bambini si affrontano in una agguerrita partita di baseball e poco più avanti c’è un ragazzo che indossa una maglia del Milan, su cui c’è scritto anche “Italy”. La cosa che colpisce maggiormente — e infligge un colpo mortale al fascino dei luoghi creati da McCarthy — è una enorme costruzione denominata Camelot. È un vero e proprio castello inglese ricostruito in cemento grezzo, adibito a ricevimenti e banchetti, accanto al quale si è installato un piccolo botteghino in cui si vende formaggio mennonita. Non sembra esser rimasto nulla della città dei romanzi e anche le case più ricche, edificate intorno al castello, tradiscono per stile ed imponenza l’epica promessa dagli spazi e dalle montagne infuocate. Al di là di quella catena si è concluso l’inseguimento tra il giovane bandito William Bonney, chiamato da tutti Billy the Kid, e Pat Garrett, l’amico che aveva deciso di passare al servizio dei proprietari terrieri e farsi nominare sceriffo. McCarthy ha pensato certamente al film di Sam Peckinpah quando ha descritto la caccia al tacchino nelle piane desolate sotto le Guadalupe Mountains e condivide con il regista di origine pellerossa il fascino per personaggi ancorati a principi morali che li collocano fuori dal proprio tempo. E ha pensato sia a Peckinpah che a McCarthy Tommy Lee Jones, che ha girato in queste stesse zone The Three Burials of Melquiades Estrada, dolente e riuscitissimo adattamento da Guillermo Arriaga. L’area è diventata il set cinematografico ideale per storie che utilizzano il contrasto tra la purezza epica del paesaggio ed il senso di disorientamento di chi lo affronta per la prima volta. Persino una diva come Jennifer Lopez ha voluto girarvi un film intitolato Bordertown, nel quale interpreta una giornalista di Chicago che indaga sugli omicidi che avvengono lungo la linea di confine. La violenza è l’altro elemento che caratterizza in maniera indelebile questi luoghi e nessun eroe riesce ad evitarla. I posti di blocco si ripetono a distanza regolare e lungo la strada compare un cartello in cui su una pistola è contrassegnato il segno di divieto. Coloro che decidono di seguire il corso del Rio Pecos possono leggere in ogni centro abitato il decalogo approntato dagli abitanti della zona, che inizia con questi due comandamenti: «1) Non entrare mai in una terra non tua senza chiedere permesso. 2) Non chiedere mai a un uomo quanta terra possieda». Gran parte dell’avventura di Billy Parham e della sua lupa descritta in Oltre il confine avviene all’interno di questo territorio e il senso di minaccia costante immortalato dallo scrittore non è minimamente cambiato. Tuttavia, quanto è stato costruito dall’uomo negli ultimi trent’anni arreca un senso di disorientamento: sul territorio assolutamente brullo, che non offre punti di riferimento al viaggiatore, si stagliano a distanza di IL BUIO FUORI Due fratelli-amanti abbandonano il loro figlio. Poi inizia la ricerca. Uscito nel ’99 FOTO GILLES PERESS / MAGNUM PHOTOS Repubblica Nazionale 37 26/02/2006 Si chiama “Non è un paese per vecchi” il nuovo romanzo di Cormac McCarthy, in uscita a inizio marzo in Italia per i tipi di Einaudi. È ambientato negli anni Ottanta del secolo scorso, ma sempre al confine tra Texas e Messico. Narra la storia di tre uomini i cui destini all’improvviso si intrecciano. Due di essi sono legati ai vecchi valori della frontiera, che costituiscono un elemento fondamentale nell’epopea di McCarthy, mentre il terzo incarna il male assoluto. Nelle foto della pagina, immagini della zona di confine Usa-Messico attorno a El Paso e Ciudad Juarez. In quella in basso a destra, Cormac McCarthy dietro il vetro di un bar IL GUARDIANO DEL FRUTTETO Tre uomini, legati da un misterioso cadavere, vanno incontro al loro destino. Uscito nel 2002 38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 26 FEBBRAIO 2006 La Bibliothèque Nationale de France dedica al secolo dei lumi una mostra di quadri, stampe, manoscritti, libri e oggetti, intitolandola significativamente “Un’eredità per il futuro”. Perché, come spiega il curatore Tzvetan Todorov, la lezione dei grandi del pensiero settecentesco è tornata di grande attualità: “In un mondo in cui proliferano i conflitti religiosi e l’oscurantismo, ricordare i principi di libertà e tolleranza di Rousseau, Voltaire, Montesquieu e Kant è diventato indispensabile” FABIO GAMBARO Repubblica Nazionale 38 26/02/2006 «O Illuminismo Le idee immortali PARIGI ggi abbiamo più che mai bisogno di ripartire dall’illuminismo». Tzvetan Todorov non ha dubbi: «Dopo l’11 settembre, in un mondo in cui proliferano i conflitti religiosi e l’oscurantismo, ricordare i grandi principi di libertà, autonomia e tolleranza enunciati da Rousseau, Voltaire, Montesquieu, Kant o Hume è diventato indispensabile». Per questo, il celebre studioso francese — nel cui percorso coesistono gli interessi per la letteratura, la storia delle culture e delle idee, la filosofia morale e politica — ha accettato volentieri di curare, insieme a Yann Fauchois, il progetto dell’interessantissima mostra che la Bibliothèque Nationale de France, nella sua moderna sede sulle rive della Senna, nel quartiere di Tolbiac, dedica oggi all’illuminismo. Due anni di lavori, discussioni, letture e ricerche, per presentare a un pubblico che si spera numeroso un movimento complesso, ricco di sfaccettature e implicazioni diverse, che però in passato è stato spesso imprigionato entro coordinate eccessivamente rigide e riduttive. La mostra parigina, invece, prova a sottrarsi ad ogni facile schematismo, proponendo una lettura originale fin dalla prima sala. Qui Rousseau e Mozart, entrambi considerati come figure esemplari dello spirito dell’illuminismo, sono celebrati sullo sfondo di una mappa dell’Europa del Settecento. Scelta che mira a sottolineare il carattere europeo — e non solo esclusivamente francese — di un movimento che fu filosofico, ma anche artistico, letterario e musicale. La mostra, che s’intitola significativamente Illuminismo! Un’eredità per il futuro, grazie a duecentocinquanta tra quadri, stampe, manoscritti, libri e oggetti, ricostruisce l’universo d’idee e discussioni affrontate dall’illuminismo, spaziando dalla religione alla politica, dalla scienza all’educazione, dalla pluralità del mondo alla libertà dell’individuo. E se il risultato finale, oltre che pedagogicamente efficace, è pure molto affascinante, lo si deve anche all’immenso patrimonio della Bibliothèque Nationale che ha messo a disposizione dei curatori alcuni manoscritti eccezionali, tra cui quelli della Nuova Eloisa di Rousseau, dello Spirito delle leggi di Montesquieu e delle Relazioni pericolose di Choderlos de Laclos. O ancora quello del Testamento del curato Meslier, il cui materialismo ateo aveva tanto affascinato Voltaire. Sono moltissime poi le edizioni originali e rare delle opere del tempo, tra cui un esemplare dello Spirito di Helvetius annotato personalmente da Rousseau, la Critica del giudiziodi Kant o le Riflessioni sulla schiavitù dei negri di Condorcet, senza dimenticare l’Enciclopedia di Diderot e D’Alambert, opera monumentale da sempre considerata come la più compiuta espressione del progetto illuminista. Per Todorov — già autore di studi importanti come La conquista dell’Ameri- che parlano al nostro tempo ca, Noi e gli altri, Le morali della storia e Memoria del male, tentazione del bene — presentare la ricchezza e la varietà della stagione illuminista significa ribadirne innanzitutto l’attualità, a conferma della quale egli ricorda anche l’interesse suscitato qualche anno fa dal dibattito sull’illuminismo lanciato da Eugenio Scalfari proprio sulle pagine di questo giornale (un dibattito i cui interventi sono stati di recenti tradotti in francese in un volume intitolato Les Lumières aux XXIe siècle: un débat européen). «Quella discussione collettiva fu molto importante e noi vorremmo proseguirla», spiega lo studioso, che, oltre ad aver curato il bel catalogo della mostra, pubblica un saggio intitolato L’esprit des Lumières (Robert Laffont, pagg. 133, in Italia in traduzione da Garzanti). «La differenza, forse, è che Scalfari manteneva il discorso sul piano del dibattito intellettuale, mentre all’origine della mostra c’è una motivazione più politica che filosofica. Il nostro progetto, infatti, è nato in un contesto in cui l’intolleranza, il fanatismo e l’oscurantismo, che “Difendere quei valori significa anche liberarli da alcuni dogmatismi: è sbagliato, per esempio, imporre la tolleranza con la forza” sono i tradizionali nemici dell’illuminismo, conquistano ogni giorno nuovi spazi. Naturalmente, ci siamo anche resi conto che non si poteva difendere l’illuminismo in maniera cieca e monolitica. Difendere l’illuminismo significa anche criticarlo. Gli irrigidimenti e gli stravolgimenti del progetto illuminista vanno combattuti, perché certo dogmatismo si ritorce inevitabilmente contro l’illuminismo stesso». Può fare qualche esempio? «La scienza è certamente figlia dell’illuminismo, perché incarna la nostra liberazione dal peso delle tradizioni e delle credenze. Ma quando essa vuole essere padrona del mondo, quando pretende di dettare le finalità della società, allora le sue conseguenze diventano negative. La scienza che diventa scientismo, proponendosi come unica regola morale della società, può avere effetti disastrosi. Un’altra deriva pericolosa è quella di chi, in nome dell’universalismo, pensa di poter imporre con la forza un ideale generoso come quello dell’illuminismo. In passato, lo pensava il dispotismo illuminato, che impediva al popolo di fare le proprie scelte. Oggi, lo pensano coloro che s’illudono d’imporre la democrazia e la tolleranza con la forza». Nonostante queste derive, per lei l’illuminismo resta una pagina essenziale della nostra storia. «Il secolo dei lumi ha rimesso in discussione i principi che fino ad allora avevano retto la società. In passato, l’umanità si era sempre sottomessa a leggi e ordini, sui quali non poteva intervenire, in quanto provenienti da un altrove. L’illuminismo invita gli uomini a formulare e a scegliere da soli le norme a cui aderire. Questo passaggio dalla sottomissione all’emancipazione rappresenta una svolta senza precedenti, che ancora oggi è bene tenere a mente. È la grande novità dell’illuminismo». Un movimento di cui lei sottolinea molto la dimensione europea. «L’illuminismo nasce essenzialmen- DOMENICA 26 FEBBRAIO 2006 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39 I DOCUMENTI IL MAESTRO A sinistra, una pagina del “Systema naturae per regna tria naturae” di Carl von Linné, stampato a Vienna nel 1767. Sotto, il frontespizio della “Encyclopédie” di Diderot e d’Alembert In basso, una delle lettere de “La nuova Eloisa” di Rousseau Sotto, Voltaire visto da Pericoli Nella pagina accanto, il manoscritto del “Don Giovanni” di Mozart e una fotoincisione di Gilles Demarteau Repubblica Nazionale 39 26/02/2006 L’ESPOSIZIONE DI PARIGI La mostra dedicata all’illuminismo, dal titolo “Lumières! Un héritage pour demain” sarà inaugurata il primo marzo nella Bibliothèque Nationale de France e rimarrà aperta fino al 28 maggio. Due anniversari ne sono l’occasione: i 250 anni dalla nascita di Wolfgang Amadeus Mozart e dalla pubblicazione del “Discorso sulle origini della diseguaglianza” di JeanJacques Rousseau. Non a caso ai due grandi protagonisti della musica e della filosofia settecentesca è dedicata la prima sala della mostra, dominata dalla stampa di una mappa dell’Europa del XVIII secolo. Tra gli oggetti esposti ci saranno manoscritti ed edizioni originali di grandi autori (da Rousseau a Diderot, da Montesquieu a Vico, da Kant a Fielding), quadri di artisti dell’epoca, stampe, giornali ma anche strumenti scientifici te da quattro culture europee: la francese, l’inglese, la tedesca e l’italiana. In seguito, anche altre nazioni, dalla Polonia alla Russia, dall’Ungheria alla Svezia, parteciperanno al grande fermento d’idee e forme. Tuttavia, va ricordato che l’illuminismo rappresenta un momento di sintesi più che d’innovazione. In fondo, molte delle idee proposte erano già emerse in passato, nel Rinascimento e nell’antichità, in Europa ma anche nelle culture extraeuropee. L’illuminismo però le ha elaborate e sistematizzate, trasformandole in forze ideali per intervenire nel vivo della società». Perché ciò è avvenuto proprio nell’Europa del Settecento? «Naturalmente i fattori che hanno permesso la cristallizzazione dell’illuminismo sono molteplici. Ma va soprattutto ricordato che l’Europa è un continente frammentario, con molti stati, ciascuno con le proprie tradizioni, culture e religioni. Sono mondi simili, ma differenti. Per Hume, tale pluralismo ha abituato gli europei all’osservazione e alla critica degli altri, ma anche di se stessi. Inoltre, nella tradizione europea c’è un riconoscimento dell’individuo all’interno della società. Ciò ha consentito la nascita della democrazia, che è figlia dell’illuminismo, vale a dire un ordine politico che riconosce contemporaneamente l’autonomia del popolo e quella dell’individuo. Naturalmente, il progetto illuminista non è monolitico. Al suo interno si discute molto e le posizioni sono spesso distanti. All’epoca, ad esempio, Rousseau era percepito come un nemico degli enciclopedisti. Anche Gian Battista Vico era considerato un anticartesiano, quindi lontano dai principi dell’illuminismo. Di fronte a questa varietà, noi abbiamo cercato di evidenziare soprattutto gli aspetti di quella stagione che consideriamo più vivi e utili». Una tematica centrale della mostra — per altro, oggi di grande attualità — è quella del rapporto con le religioni. Quali erano le posizioni degli illuministi? «Dal principio d’autonomia che rifiuta le tutele esterne deriva la critica della religione, intesa come forza che controlla lo spazio sociale. Voltaire, infatti, attacca la Chiesa perché è un’istituzione che tortura e condanna chi si allontana dal dogma. Egli non è però ateo. Come non lo sono Lessing, Kant o Rousseau, il quale ad esempio combatte contro il materialismo determinista di chi nega la dimensione spirituale dell’uomo. Per gli illuministi, che spesso si rifanno alla religione naturale, è però importante liberare la società dalla tutela delle religioni, sul terreno della conoscenza, che deve essere sempre libera, come su quello dell’educazione o della giustizia. In pratica, preparano la separazione tra Stato e Chiesa. Per quanto riguarda la religione come esperienza interiore, essi difendono la più completa tolleranza religiosa». Per gli illuministi, tutte le religioni vanno rispettate? «Assolutamente. Per loro, non esiste più un’unica religione data da Dio una volta per tutte. Essi affermano la libertà di scelta e di coscienza. Nel mondo esistono numerose credenze e tutte meritano rispetto. Nella mostra abbiamo messo in luce la curiosità e l’apertura di spirito degli illuministi nei confronti di altre religioni e culture. Dall’Islam alla Cina». Il riconoscimento della singolarità non esclude l’universalità dei diritti dell’uomo. Come si articolano i due principi? «Anche su questo piano l’illuminismo ha anticipato una problematica con la quale oggi siamo costretti a confrontarci spesso. Lo spirito delle leggi di Montesquieu esemplifica questa doppia attenzione per la pluralità e l’unità. Da un lato, egli adotta una posizione relativista, che, senza giudicare, prova a comprendere le ragioni delle diverse leggi, dall’altro però fa una riflessione generale sui valori che ispirano i diversi regimi politici. Per gli illuministi, occorre riconoscere la diversità delle culture, ma preservando l’unità delle categorie e dei valori con i quali affrontiamo e giudichiamo il mondo. L’illuminismo, quindi, non si stanca mai di denunciare l’intolleranza e l’oscurantismo ovunque si manifestino». La battaglia contro l’intolleranza religiosa deve porsi dei limiti? «L’illuminismo si oppone sempre al fanatismo religioso. Chi vuole impedire la critica delle religioni va contro un principio fondamentale dell’illuminismo, per il quale tutto deve poter essere criticato. Tuttavia, lo stesso illuminismo c’insegna che non possiamo imporre i nostri valori agli altri con la violenza, perché ciò significa rifiutare agli altri quella libertà che rivendichiamo per noi stessi. Così, quando oggi qualcuno cerca d’imporre con tutti i mezzi le caricature di Maometto al mondo musulmano, magari in nome della laicità e del diritto alla critica delle religioni, in realtà si allontana dall’illuminismo. La libertà di coscienza non può essere imposta senza domandarsi cosa pensino gli altri. All’intolleranza si risponde con la tolleranza. È una posizione difficile, ma è la sola coerente. Non possiamo comportarci come coloro che condanniamo. Ciò è purtroppo avvenuto molte volte in passato. Anche nel secolo dei lumi, quando gli europei nelle colonie non rispettavano assolutamente i principi di libertà e uguaglianza proclamati nei loro paesi, mantenendo i colonizzati in uno stato d’inferiorità. Oggi dobbiamo stare attenti a non rifare gli stessi errori». 40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 26 FEBBRAIO 2006 Accadde tutto al Festival di Sanremo del 1958, quando Domenico Modugno si presentò sul palco con “Nel blu dipinto di blu”. L’Italia del boom economico trovò all’improvviso il suo inno, che aprì la strada ad una rivoluzione canora senza precedenti. Perché tutti gli artisti che hanno battuto la scena in questi ultimi decenni, da Mina a Celentano, da Gino Paoli a Gaber, possono dirsi figli di quelle note EDMONDO BERSELLI n quegli anni democristiani, nel primo decennio del Festival di Sanremo, sembrava che il tempo si fosse fermato e che nel Paese risuonassero solo note e strofe che parlavano del campanaro della Valpadana, del mercato di Pizzighettone, della barca che tornò sola, e naturalmente di Buongiorno tristezza, con cui Claudio Villa, mancato tenorino di grazia e perfetto animale da Sanremo, vinse l’edizione del 1955 riassumendo integralmente lo spirito del tempo. Tempo in cui le mamme imbiancano mentre i bimbi crescono. Clima da bavero color zafferano, papaveri e papere, tra voli di colombe e casette in Canadà. Uno strazio, in cui si esprimeva al suo acme la piagnoneria nazionale, insieme a un senso opprimente di provincia profonda. In questo senso, Buongiorno tristezza era qualcosa meno di un inno nazionale, tanto più che il suo autore, Mario Ruccione, era lo stesso di Faccetta nera (come ricordano Paola Maraone e Paolo Madeddu nel loro libro Da una lacrima sul viso…, dedicato alle canzoni più deprimenti ovvero strappalacrime dell’ultimo mezzo secolo), e qualcosa in più di una semplice canzone da due soldi: era un diapason dello Zeitgeist. Ci voleva una botta di vita, un colpo alla roulette, un cambio di marcia e di fase. Avvenne nel Festival del 1958, quando Domenico Modugno sbancò con Nel blu dipinto di blu, la strafamosa Volare. Canzone leggendaria, mitopoietica, sociologica. Canzone totale. Perché può anche non importare niente che Modugno e il suo coautore Franco Migliacci si fossero ispirati a un quadro di Chagall, o di Miró, e che poi quel «volare oh oh» potesse alludere, grazie alle interpretazioni psicoanalitiche più trash e alle codificazioni romanzesche di Erica Jong, a virtuali esperienze erotiche e orgasmiche. Piuttosto, Volare coincideva puntualmente con la sintesi suprema del Financial Times secondo cui l’Italia era in pieno “miracolo”, e la lira era degna dell’Oscar per la stabilità delle monete. A vedere Modugno spalancare le braccia nel volo possibile, si capisce quindi anche l’emozione del pubblico del Festival e dell’Italia televisiva: a Sanremo la gente singhiozzava e agitava i fazzoletti, come se all’improvviso il grigiore del dopoguerra fosse stato spazzato via dall’impeto di quell’uomo del Sud, con i baffetti da Figaro, che secondo una celebre definizione di Massimo Mila produceva una musica in cui si stratificavano decenni o secoli o millenni di cultura musicale mediterranea. Alla faccia del sentimentalismo peninsulare, Modugno urlava «volare» e gli italiani capivano Autosole, motorizzazione, Cinquecento e Seicento, le partecipazioni statali, Enrico Mattei: volendo, si poteva perfino intravedere nel post-Volareanche la fine del centrismo e la nascita del centrosinistra “storico”, quello di Moro, Fanfani e Nenni. Certo, ci sarebbe voluto del tempo. L’esplosione universale di Modugno, una specie di Big Bang che lancia nel co- Repubblica Nazionale 40 26/02/2006 I Le famiglie della Musica Dal magico dna di “Volare” la mappa delle note italiane smo intere galassie canore, avrebbe dato i suoi frutti, ma con calma. La rivoluzione di Modugno avrebbe aperto la via ad alcuni volonterosi riformisti, come i melodici moderni Gianni Morandi e Rita Pavone. Per qualche anno sembrò che gli alfieri di un cambiamento copernicano fossero Adriano Celentano e Mina. Ma Celentano avrebbe sempre oscillato fra ironiche scalmane teppistiche e convinti rigurgiti reazionari. Intorno al pianeta del “Molleggiato” avrebbero orbitato i cugini di Elvis, con il rocchettaro de noantri Little Tony e il lacrimevole e sussurrante Bobby Solo. Mentre Mina, che pure aveva scandalizzato il paese portando a Sanremo un pezzo dadaista come Le mille bolle blu, che sembrava clonata da qualche avanguardia novecentesca e riprodotta sui canoni della canzonaccia provocatoria, per épater la nostra povera borghesia televisiva, avrebbe poi aperto un filone di interpreti, inaugurato dalla Milva pre-Strehler, proseguito con la “cantante della mala” Ornella Vanoni, con il rock melodico di Gianna Nannini, con le sofisticate e talora vedovili interpretazioni di Fiorella Mannoia, e che sarebbe arrivata fino alle esperienze commerciali della “glocal” Laura Pausini, diva squillante del submondo latino. Insomma, dicono i critici più severi, nel pianeta si manifestavano i fenomeni impersonati da Bob Dylan, dai Beatles e dai Rolling Stones, i Sessanta cominciavano a ruggire e qui si era ancora alla fase belante «in ginocchio da te». Per inaugurare l’era “beat” è necessario che l’onda inglese arrivi a lambire le coste italiane. Ragazzi, cambia il mood, è venuta l’era dell’anticonformismo, i Per osservare un fenomeno simile abbiamo dovuto aspettare l’esplosione di Battisti, la cui influenza arriva fino a Vasco, Zucchero e Ligabue nemici sono gli square, cioè i tipi moderati e inquadrati, si ascolta di notte Radio Luxembourg, e l’Equipe 84 tira giù una quantità impressionante di cover. I Rokes di Shel Shapiro intercettano gli spazi della protesta moderata (È la pioggia che va diventa «l’inno nazionale dei capelloni»), i “complessi” dilagano, ci sono i Dik Dik, i Camaleonti, i Delfini, i Pooh, una fauna di rifacitori di roba inglese e americana. Per le quote rosa, Caterina Caselli si dimena sulle note dei Them e Patty Pravo diveggia alla grande. Naturalmente è una stagione brevissima, perché incombe il Sessantotto. Alle spalle del mediterraneo Modugno, c’è una costiera napoletana in cui qualcuno scava fuori dalla tradizione tammurriate e percussioni molto folk (la Nuova compagnia di canto popolare ed Eugenio Bennato). Sotto lo sguardo simpatetico e le rivisitazioni sentimentali di Renzo Arbore sarebbe venuto fuori il blues partenopeo di Pino Daniele. I sottoproletari di Fuorigrotta si sarebbero stretti intorno all’immagine filmica e canora di Nino D’Angelo, alla ricerca di un’identificazione e di un riscatto. Poi c’è una via molto italiana, quella che illumina o affligge, secondo i gusti, tutti gli anni Settanta: la via lattea intellettuale è segnata naturalmente dai cantautori. C’è la scuola genovese, in cui vengono accomunati Gino Paoli, Luigi Tenco, Umberto Bindi, Bruno Lauzi. Più appartata si intravede anche la figura borghese di Paolo Conte, che all’epoca scrive ancora meravigliose canzonette (Insieme a te non ci sto più), prima di inventarsi una sequenza prodigiosa di pezzi storici, da Bartali alla Topolino amaranto e a Genova per noi. E su un trono culturalmente altissimo si insedia sovrano Fabrizio De Andrè che dalle influenze francesi, Brassens in particolare, sarebbe giunto fino alla DOMENICA 26 FEBBRAIO 2006 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41 Lo stupore per l’esibizione dei Giganti LemagiedellavoceprorompentediGiorgia Anno ’67,quandoilrock sconvolseilFestival Anno ’95,cosìaSanremo nacqueunastella ERNESTO ASSANTE FOTO FARABOLA Repubblica Nazionale 41 26/02/2006 E L’ESIBIZIONE Nella foto grande, le braccia aperte di Domenico Modugno al Festival di Sanremo del 1958. “Volare” è diventata un simbolo della musica italiana nel mondo. Nella foto in alto, Giorgia. GINO CASTALDO e folgorazioni, al festival, si contano sulle dita di una sola mano. Sono rare, rarissime, sbucano dispettose e impreviste come epifaniche sorprese dal brodo soporifero offerto di solito dalla estenuante carrellata di canzoni. Ma quando arrivano sono potenti, indimenticabili. Come quando, in tempo reale, al festival del 1995 vedemmo “nascere una stella”. È una frase topica, come “the winner is”, ma a Sanremo era praticamente estinta, almeno a partire dal declino degli anni Settanta. Eppure successe. La stella era Giorgia, che già nel 1994 aveva vinto tra i giovani, e l’anno successivo entrò di diritto tra i big, scarsamente favorita, però, schiacciata nei pronostici da giganti come Gianni Morandi e il povero Fiorello che tutti davano come sicuro vincitore e ogni volta lui giustamente si toccava le parti basse. Che dire, sarà anche stato il contrasto con la mediocrità circostante, sarà stato l’effetto di rottura nei confronti di quel velo tra l’inutile e il lezioso che è il rito canoro sanremese, ma fin dal suo primo apparire si capì che nell’esecuzione di Come saprei accadeva qualcosa di speciale. La canzone, scritta con Eros Ramazzotti, non era da urlo, ma sembrava fatta apposta per emozionare, cucita in modo geniale per esaltare il talento di quella ragazzina, 23 anni, esile, dalla faccia da uccellino spaurito, ma che quando attaccava a cantare sprigionava una potenza sensazionale. Da urlo era lei, Giorgia, che sulle note scendeva, risaliva, saltava come una consumata performer, ci girava intorno come fanno le cantanti di jazz e soul, le accarezzava, era talmente intonata da glissare abilmente sull’intonazione, evocava un ritmo che la canzone di per sé non possedeva, si arrochiva al momento giusto, volava in acuto con naturale leggerezza. Tre minuti d’apnea che si ripeterono sera dopo sera, man mano che l’Italia si accorgeva di questo scricciolo che sembrava brava come Mina. Il talento era talmente prorompente che Giorgia si permise il lusso di cantarla ogni volta in modo lievemente diverso, altro segno di autenticità, di classe da vera interprete, fuori dalla sterile ripetitività dei cantanti in provetta. Stava nascendo una stella, sera dopo sera, fino alla vittoria finale. Giorgia vinse trionfalmente e per una volta accadde il vero miracolo. Vinse il migliore, e anche a questo a Sanremo non capita praticamente mai. L FOTO PUCCIARIELLO MASSI ra il 1967 e il rock, nelle strade di San Francisco, suonava le note della sua rivoluzione. Jimi Hendrix pubblicava il suo primo album, Bob Dylan era già una star planetaria, i ragazzi, anche in Italia, ascoltavano i Beatles, gli Stones, abbandonando la musica che fino ad allora aveva governato le loro esistenze. Noi, piccoli, cresciuti pensando che la “nostra” musica fosse quella di Gianni Morandi e di Rita Pavone, guardammo Sanremo quell’anno e… Tutto cambiò all’improvviso, perché in quel piccolo mondo italico, fatto ancora di “collettine e collettoni”, dove le minigonne non avevano il sapore della rivoluzione ma quello della moda, dove le chitarre elettriche erano ancora uno strumento assai esotico, dove i “contenuti”, la “politica”, il “messaggio” erano entità lontane e ben poco chiare, beh, in quel mondo simpatico, allegro, leggero e giovanile irruppe qualcosa di nuovo, qualcosa che i nostri fratelli maggiori già conoscevano bene e coltivavano da tempo. Qualcosa che si chiamava, anche dalle nostre parti, rock. E sul palco di Sanremo assunse le dimensioni di una realtà, grande, forte, esplosiva e italiana. Erano le note dei Giganti a far diventare vero quello che sembrava lontano e irraggiungibile a dei ragazzini come noi. Cantavano «mettete dei fiori nei vostri cannoni» e per noi iniziava un mondo nuovo. Ma la cosa bella, straordinaria, unica è che improvvisamente tutto quello che avevamo ascoltato fino ad allora sembrava vecchio. Morandi, la Pavone, Celentano, quella musica che aveva rappresentato l’arrivo di una generazione nuova, veniva scavalcata da chi era già andato oltre, da Lucio Dalla che con quei “capelloni” dei Rokes ci diceva che «bisogna saper perdere», battendo il piede per terra, da Gianni Pettenati, che azzardava il pronostico «ci sarà la rivoluzione, nemmeno un cannone però sparerà», da Ricky Maiocchi, persino da Antoine che ridendo prefigurava un contestatario lancio di pietre contro ogni cosa. E poi c’era il rock, quello vero, con Sonny & Cher, con la musa di Mick Jagger Marianne Faithfull, e tante altre canzoni che, all’improvviso, sembravano tutte orientate a raccontare un mondo che era in movimento, e che era sul punto di cambiare, assieme a Sanremo. Ed invece dei suoni e dei fiori, a vincere fu la morte, con il colpo di pistola che mise a tacere per sempre Luigi Tenco. E una brutta canzone, come Non pensare a me, cantata da Claudio Villa e da Iva Zanicchi, lontanissimi da tutto quello che stava accadendo davvero attorno a loro. Nulla fu più lo stesso dopo quel Sanremo, nemmeno la musica italiana. Solo il festival non cambiò. E noi, crescendo, avremmo deciso di ascoltare altre canzoni, che arrivavano da altri palcoscenici. sperimentazione sonora di Creuza de mä, un’esperienza che recuperava, vedi un po’, strati di cultura musicale mediterranea, forse perché segretamente attratto dal mondo di Modugno (e di Mila). Ci sono i milanesi, che fanno tendenza con Enzo Jannacci, e fanno controideologia con Giorgio Gaber, fanno lacrime a San Siro con Roberto Vecchioni. Se volete la scuola romana ci sono il dylaniato Francesco De Gregori e Antonello Venditti, quello della maestà del Colosseo e la santità del Cupolone (ma Roma ha un’inclinazione particolare per gli stornelli e la melodia, e talvolta il messaggio socioculturale cede il posto al crepuscolarismo, come nel caso dello stornellatore moderno Claudio Baglioni, e all’afflato quasi mistico del guru sorcinesco Renato Zero). A Bologna c’è il fratello maggiore Francesco Guccini, che era partito con il beat, i Nomadi e l’inno generazionale Dio è morto, e giunge all’intimismo (celebri per gli aficionados le sue «stoviglie color nostalgia»). Sotto le due torri o nelle vicinanze agiscono Lucio Dalla, Claudio Lolli, Pierangelo Bertoli, e poi un altro intimista sentimentale, Luca Carboni, e un ulteriore ermetico alla “mi spezzo ma non mi spiego”, Samuele Bersani. Per osservare l’apparizione di un’altra stella simile per importanza a quella di Modugno, occorre attendere l’arrivo di Lucio Battisti. Che prima esordì come autore per i Ribelli di Celentano (Per una lira, 1966) e poi si impose con la collaborazione di Mogol, diventando il centro di un’altra galassia musicale. Per alcuni anni, Battisti è stato un centro di irradiazione, componendo per sé e per una quantità di gruppi e cantanti: un elenco sintetico comprende Mina, Patty Pravo, Iva Zanicchi, Lauzi, la Formula tre, i Dik Dik, l’Equipe 84, i Rokes. E, quel che più conta, la prodigiosa artigianalità del “maestro solitario”, con il suo sincretismo capace di miscelare suoni anglosassoni e melodia italiana (e anche gli accordi di “settima napoletana”), ha contagiato pensieri e parole di altri protagonisti. In primo luogo Vasco Rossi, che ha spesso confessato la tentazione di incidere un disco di cover battistiane; Zucchero Fornaciari, che lo ha mimato talora fino al ricalco; Eros Ramazzotti, le cui prime esibizioni sanremesi erano autentiche citazioni dalla sfera Mogolbattisti; Rino Gaetano, che era uno spirito bizzarro ma non fino al punto di negare qualche avvertibile ascendenza battistiana. Oggi si dichiara esplicitamente battistiano Luciano Ligabue, per l’idea di usare il rock per proporre una musica autenticamente popolare. E in quella galassia si colloca anche, come ebbe a dire il suo talent scout Claudio Cecchetto, il provinciale per eccellenza, ossia Max Pezzali, con le sue storie di bar, di scuola, di discoteca, di stadio, di motorini e automobili in cui condividere una nottata con gli amici, in una ineluttabile «rotta per casa di Dio». Un satellite laterale, postmogoliano, che non rinuncia mai a una sua italianità. Piace, non piace, l’Italia in musica. Spesso è l’indizio di una subalternità. Ma è il nostro mondo, e ci risuona sempre nella mente, dopo il Big Bang, proprio come una radiazione fossile. 42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 26 FEBBRAIO 2006 la lettura/1 Carriere alternative Si chiama Fernandez, è colombiano, e aveva bruciato le tappe: a 19 anni era un narcotrafficante di successo Poi l’arresto, il carcere in Spagna e Stati Uniti, una nuova vita pulita in Italia. E l’idea vincente: il marchio De Puta Madre 69 che stampa su t-shirt, felpe e accappatoi slogan come “Kill Barbie” o “Fuck the baby sitter”. E va a ruba Ilan, lo stilista nato in galera CONCITA DE GREGORIO Repubblica Nazionale 42 26/02/2006 Q ROMA ui si parla di un tizio che dovrebbe essere in carcere ma avendo ingaggiato i migliori avvocati su piazza è fuori. Un tipo molto seducente e piuttosto pericoloso, bella faccia, gran sorriso. Concepisce solo idee forse scorrette ma certamente di successo, idee che producono soldi: ha fatto in poco tempo, in Italia, una fortuna partendo da nulla. Ha una moglie stupenda, vecchi amici potenti, è un imprenditore. Il gioco si ferma qui: non è un politico. «No, no. La politica non mi interessa». Bene, tranquilli dunque: Ilan Fernandez è uno stilista e lì vuole restare. Moda. Gli adolescenti sono pazzi per le sue felpe, le sue maglie che dicono “bastardo latino”, “gigolò: first night free”, “mi coca es tu coca”. Lo slogan che ha lanciato il marchio, qualche anno fa, è stato “Kill Barbie” intesa come la bambola: la Mattel ha fatto causa ma l’ha persa, non è un reato incitare all’omicidio di un pupazzo. “Italian mafia” va forte all’estero ma “sicilian killer” anche in patria. “Pablo Escobar” è un evergreen. La novità di quest’anno è “Fuck the baby sitter”: «Il sogno di ciascuno di noi», commenta lui; mah, insomma, non tutti; «Tutti, mi creda». Il marchio si chiama De Puta Madre 69. Letteralmente: figlio di puttana, ma nella lingua della strada «estar de puta madre» vuol dire anche stare benissimo, stare da dio. 69 è in più, per chiarezza. Al salone della moda Bread and Butter di Berlino hanno ricostruito un carcere, a quello di Barcellona, un mese fa, hanno preso 250 metri quadri per rifare lo Studio 54 di New York. La Vanguardia e altri giornali gli hanno dedicato pagine: nelle foto lui espone il dito medio. Vive a Roma con Elisa Sabatino, splendida campionessa mondiale di moto acquatica, atleta Coni, figlia di un carabiniere e prossima madre del figlio che nascerà a luglio. I soci della De Puta Madre sono due romani: in principio loro ci hanno messo i soldi, Ilan le idee. Quest’anno hanno fatturato 35 milioni di euro. L’appuntamento è in un capannone alla periferia di Roma, introvabile. Ci si approda con un quarto d’ora di ritardo ma è una sciocchezza: lui arriva un’ora e mezza dopo, aveva un problema, SCRITTE TRASGRESSIVE Sopra, lo stilista colombiano Ilan Fernandez e due modelli del marchio “De Puta Madre 69” era in questura. Che problema? «Ma niente, devo andare in America al Project, la fiera di Las Vegas, e c’è qualche difficoltà col passaporto». La difficoltà nasce dal fatto che Fernandez, colombiano di nascita, è stato condannato negli Usa a 18 anni di carcere per narcotraffico. Da ragazzino, a 17 anni, faceva questo: organizzava viaggi per esportare cocaina dalla Colombia a Miami. «La mia famiglia si è trasferita a Miami dopo la morte di mio padre, che era un funzionario dell’ambasciata colombiana. Una morte oscura. Comunque io tornavo spesso a far visita ai miei zii e ho capito subito che un chilo di coca in Colombia costava 250 dollari, a Miami 50mila. Era facile. Due anni dopo, a 19, ero ricchissimo. Mi hanno preso a Barcellona». Come mai era a Barcellona? «Beh, è la centrale dello smistamento in Europa. Insomma mi hanno preso. Volevano che facessi i nomi dei capi dell’organizzazione ma non avevo capi. Mi hanno dato 18 anni. Due li ho fatti in Spagna, nel carcere di Quatre Camins. Sei a San Quintino: mi avevano estradato». E gli altri dieci anni? «I miei avvocati mi hanno fatto scendere la pena a dieci. Due me li hanno abbuonati per buona condotta». Di San Quintino dice che «è un posto normale». Se tu «paghi il caffè a quelli che non hanno soldi e poi gli chiedi di stare accanto a te in cortile dopo un po’ hai i tuoi uomini, e nessuno ti disturba: sanno chi sei, da dove vieni, ti rispettano». Il ricordo più struggente però è quello di Quatre Camins: è lì che è nato il marchio. «C’era un colombiano come me, condannato per omicidio. Esce nel 2011. Un giorno era morta sua sorella, gli ho chiesto come stai, e lui con un sorriso storto: de puta madre. Allora ci siamo messi a ridere e l’abbiamo scritto su una maglietta col pennarello. Un secondino ci ha chiesto di fargliene una uguale, poi l’ha data a suo nipote che c’è andato in discoteca. Abbiamo aggiunto 69 perché, sa, il primo pensiero dei carcerati è la libertà, il secondo il sesso. Il ragazzo è tornato dalla disco entusiasta: tutti volevano una maglia come la sua. È nato un commercio: ci facevamo portare le t-shirt bianche dai parenti in visita e le decoravamo con le frasi dei carcerati. Facevamo dei concorsi di idee: le cose più pesanti si scartavano, ciascuno diceva le sue fantasie. Fuck Barbie e kill Barbie sono piaciute molto». Poi gli anni di San Quintino, poi la libertà. «Volevo ricominciare da capo, uscire dal giro. Non è stato facilissimo perché quelli non ti lasciano andare. Sono andato prima a San Diego, ho fatto il lavapiatti, poi quando ho avuto i soldi mi sono comprato un biglietto per la Spagna. Ho lavorato a Formentera, in un bar di Es Pujols. C’erano solo italiani. Ho ricominciato a fare le maglie, le vendevo ai negozietti dell’isola. Un giorno ho incontrato due ragazzi ebrei di Roma, imprenditori del tessile. Avevano preso in affitto un villone, facevano feste, li aiutavo a orga- nizzarle. Mi hanno detto, se vieni a Roma chiama. Sono venuto, ho chiamato, ho esposto il progetto: non ci credevano molto, mi hanno detto ti diamo un po’ di tessuto e un cinese per lavorare, l’indirizzo di una stamperia. Ho cominciato così. Ho conosciuto un cameriere in pizzeria e gli ho detto: vai nei negozi a vendere maglie per me. In tre mesi ne abbiamo vendute 20mila. Poi un giorno è uscito Pappalardo dall’Isola dei Famosi e aveva la maglietta De Puta Madre 69. È finito sui giornali. Io ho preso il giornale e ho detto ai soci romani: eccomi, io sono qui. Allora abbiamo fatto una società, un terzo per uno, 500mila euro l’investimento iniziale. Ora ho 50 dipendenti, 35 milioni di euro di fatturato, un locale a Roma che tutti i mercoledì fa De Puta Madre parties, la settimana scorsa c’era Aida Yespica, Aldo Montano e Manuela Arcuri vengono a scegliere i pezzi della nuova collezione, i ragazzi del Grande Fratello anche». Preferiscono “Colombia narcotrafico” o “psicopatico”? «Piace molto l’accappatoio DPM con scritto “after sex”. Sa qual è il problema? Che queste maglie, queste scritte sono una maschera. I ragazzi vogliono essere protagonisti. Se tu entri in un locale con una maglia con scritto “un gramo de coca es una puta vida loca” tutti ti guardano. Sei qualcuno in quel momento, e io penso che basti. Penso che il travestimento di una sera possa prendere il posto della realtà. Nelle nostre etichette c’è scritto no drugs, no violen- ce». Sì, ci sono anche tre pasticche di acido in un blister. «Finte. Io ho conosciuto il mondo vero della violenza e della droga. Penso che non siano i soldi il vero motore dei ragazzi che ci finiscono dentro, ma il desiderio di essere qualcuno. Di uscire da un mondo anonimo, di essere considerati. Una maglietta aiuta, mi creda. A volte basta. I ragazzi sono fragili. Esibire una scritta come “idraulico per signora” o “manicomio criminal” agli occhi del gruppo li fa diventare attraenti, acquisiscono una sicurezza che è un antidoto contro le droghe». Dice che Elisa l’ha conosciuta a una festa a Rimini, che tutti gli amici di lei dicevano: lascialo perdere, è un narcotrafficante. «Ma poi lei ha visto che ero il primo ad andare a letto la sera e che droga attorno a me non ne circolava. Mi piace stare a casa, sono una persona tranquilla, voglio una famiglia, sono felice di questo figlio che nasce». I genitori di lei come l’hanno presa? «Bene, sono gente discreta». Dice che a Natale è andato in giro per Roma a distribuire coperte (con la scritta DPM69, ovvio) ai senzatetto di Roma. Che l’anno scorso ha organizzato a Lavagna una serata per i bambini del Mozambico. Dice che la sua idea adesso è andare a lavorare nelle carceri minorili: «Vorrei mettere su un progetto con loro, portargli la mia esperienza e spiegargli che ce la possono fare. Io ho avuto fortuna, certo, ma soprattutto molta determinazione. Se vuoi, esci. Se vuoi, ce la fai. Adesso conquisto il mercato americano, c’è un mega-imprenditore dei jeans che vuole venire a prendermi con l’aereo privato, hanno già depositato l’opzione sul marchio. Se l’operazione va in porto, apro un’attività con le carceri minorili. Certo però che in Italia c’è tanta diffidenza...». Magari potrebbe addolcire gli slogan: la linea di intimo con Gesù e la Madonna e la frase “non mi rompere le palle” sulle mutande non è esattamente quel che si intende come rieducativo. «È una posizione ipocrita. Detesto gli ipocriti, si lamentano sempre a vuoto. Se vuoi lamentarti vai dove la gente sta male davvero. Vai in un ospedale, vai a San Quintino. Poi parliamo». A proposito: quando nel 2011 esce dal carcere di Barcellona il suo amico, l’inventore del marchio, che fa? «Una festa. Divido tutto con lui. Quello che è mio è suo, gliel’ho scritto. Lo aspetto». DOMENICA 26 FEBBRAIO 2006 la lettura/2 Tipi contromano LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43 Pugile dilettante, medium e fachiro, agit-prop e clochard, poi scrittore e straordinario regista di se stesso Un libro racconta Gian Carlo Fusco e regala aneddoti sconosciuti a chi lo ha frequentato negli anni d’oro L’uomo che lottava a colpi di dentiera «M GIANNI CLERICI Repubblica Nazionale 43 26/02/2006 a sai cosa mi ha combinato ieri sera?». Nella redazione del Giorno, fine anni Cinquanta, il mio collega non cessava di scuotere il capo, quasi non credesse a se stesso. «Usciamo, con il giornale in pratica chiuso, e Fusco inizia l’abituale pellegrinaggio ai night, scolandosi ad ogni fermata un grappino che ovviamente pago io. Ci facciamo il Caprice e La Porta d’oro, e, infine, sediamo ad un tavolo del Sir Anthony dove lui avvia la disamina delle entraineuses, classificandole secondo vari canoni e, soprattutto, secondo presunti talenti erotici, dei quali mima i contenuti alzandosi in piedi, e mettendosi, a un certo punto, addirittura a quattro zampe. Quando alfine, dopo un altro paio di cocktail, si sente abbastanza gasato per passare all’azione, prima che possa fermarlo punta dritto ad un tavolino presidiato da due tipi della mala, che stanno intrattenendo una delle signorine. Si inchina, per invitare la più carina. Con qualche disagio, la ragazza lo segue sulla pista, dove lui inizia un suo numero di boogie-woogie. Passano un paio di minuti, che uno di quei tipi si alza, per afferrare un gomito della entraineuse, e ricondurla al tavolo». «Solo, al centro della pista, Fusco oscilla, a metà tra il cobra e l’ubriaco. Si decide alfine a ritornare da me, che invano lo esorto alla calma. “Non mi conoscono ancora. Non conoscono Pepé le Fuscò” ripete, sinché “adesso gli faccio vedere io, a quei gangster da strapazzo”. Riparte e, mentre io trattengo il respiro, si pianta di fronte al tavolino, si porta la mano alla bocca, per estrarne la dentiera, e scagliarla in una coppa di champagne. Men- tre i due, sbalorditi, non muovono muscolo, si dirige verso l’uscita, per scomparire nella notte. Dopo un minuto, sono andato a scusarmi con quei tipi, anche per recuperare la dentiera. Com’è noto è nuova, pagata dal direttore Gaetano Baldacci. Quella vecchia, in oro, l’aveva venduta in un momento di crisi: non lo sai? Ma è un’altra delle sue mille storie». Erano davvero mille le storie che Gian Carlo Fusco, che noi preferivamo chiamare Fusco tout court, raccontava, e scriveva, nella colonna quotidiana di quel nuovo giornale, uscito il 20 aprile del 1956. Un posto talmente divertente, da sottrarmi al mio destino di giovane petroliere, figlio unico di un concorrente dei Moratti. Era approdato lì, quel tipo straordinario, dopo vicende che definire picaresche sarebbe riduttivo eufemismo. Vicende che distribuiva generosamente ad un pubblico del quale facevo parte: pubblico diviso a metà, tra quanti ascoltavano ammirati, il direttore, l’uomo macchina Rozzoni, i giovani Settembrini, Madeo, Del Buono, e quanti rifiutavano la recita, come Gioan Brera e Giorgio Bocca. A credergli, la sua lunga storia inizia con un «concepimento involontario» tra un padre contrammiraglio di origini beneventane e una mamma maestra comasca. «Stai attento Clerici al conformismo del tuo paese. Sei mezzo ebreo? Allora è meno grave. Mia madre lo era tutta, è di lì che viene il mio genio. I Nobel sono tutti ebrei». A tredici anni si segnala per la prima volta quale personaggio pubblico, offrendo un mazzetto di fiori e recitando il benvenuto in francese ad Hailè Selassié, il futuro Negus d’Etiopia. «L’avrei rivisto detronizzato, e avrebbe pianto nel riconoscermi». Magnifica storia, destituita di ogni attendibilità. Rinchiuso in collegio per disperazione paterna, viene ripetutamente bocciato, e non otterrà mai la maturità UNA NUOVA BIOGRAFIA Il libro sulla vita di Gian Carlo Fusco (1915-1984) scritto da Dario Biagi (“L’incantatore”, Avagliano Editore, pp 240, euro 14,50) è basato su numerosi documenti inediti e mai utilizzati prima d’ora dagli studiosi. Tra questi, le lettere scritte dal giornalista a Italo Calvino, ad Antonio Delfini e al produttore cinematografico De Laurentiis. La nuova biografia si sforza soprattutto di fare luce sugli episodi più controversi della vita di Fusco, come la mitizzata fuga giovanile a Marsiglia, e di ricostruire le fonti e la genesi delle sue opere «ancorché abbia seguito corsi universitari nella mia Marsiglia», affermazione onirica. Trova modo, peraltro, di sottoporre un racconto a Pirandello, ricevendone (chissà?) il suggerimento di riscriverlo. Inizia le frequentazioni della mala di La Spezia, dei bordelli, e «a Milano vinsi i campionati dilettanti dei pesi gallo, e ci rimisi tutti i denti e il naso» (affermazione smentita dallo storico Tommasi). «Costretto ad espatriare a Marsiglia per antifascismo», ci raccontava. In realtà, ipnotizzato dalle gambe di una ballerina, tanto da tentare lui stesso una attività «di concorrente di Fred Astaire. Questo prima di aver convissuto con Corinne Luchaire» (diva cinematografica francese, che in quei tempi non aveva più di undici anni). Dal presunto milieux di Marsiglia (a volte buttafuori, a volte maquereau, a volte pugile sotto lo pseudonimo di Charles Fiori) lo traggono i buoni uffici di famiglia, e ritorna a casa per vedersi sequestrato dalla censura fascista Biancheria, racconto definito disfattista. Mentre è in corso un giro dei night e dei casini italiani insieme al suo miglior amico e cantante, Rick Rolando detto Bubù, viene richiamato alle armi. Nel vantare alcune eroiche imprese quale telegrafista al seguito della Divisione Julia, rischiò l’aggressione da parte di un mio cugino, Pigi Tajana, che nella Julia c’era stato. Ma, per Fusco, la verità esiste in quanto racconto. Contatti con i partigiani di Tito lo fanno condannare — a credergli — alla pena capitale per alto tradimento. Pare invece che, prigioniero dei tedeschi, sia stato effettivamente internato a Fellingbostel, presso Hannover, di dove lo trae d’impaccio una disinvolta firma per la Repubblica Sociale. Appena in Italia fugge, viene ripreso e rinchiuso a Marassi, e inscena una delle sue recite predilette. Si finge pazzo, «sino a che — racconta — dovetti subire dodici elettroshock». Prontamente rimessosi, fugge di nuovo, per trascorrere gli ultimi mesi di guerra quale segretario tuttofare del sommo attore Ermete Zacconi, segnalandosi anche in qualità di medium, tanto da evitare una retata con inclusa strage da parte tedesca. Nell’immediato dopoguerra si improvvisa fachiro, coadiuvato da un autentico serpente, in un night della Versilia. Ma non riuscirà a conciliare questo suo nuovo personaggio con quello diurno di agit-prop. Indignati, quei moralisti dei suoi compagni non gliela perdonano e, dopo un processo improvvisato, lo massacrano di botte, e lo espellono dal diletto Pci. Privo di un mestiere qualsiasi, Fusco non tarda a trasformarsi in autentico barbone, ed è proprio lì che venderà la dentiera, rifinita in oro. Siamo ritornati, vedete, alla dentiera nuova, e all’inizio di quella che fu, controllabile sui suoi libri e le sue mille colonne, la fase attendibile — oh, in parte — della carriera di questo Fregoli straordinario. Di più: di questo inattendibile regista del personaggio di se stesso. Dopo le esperienze del Mondo, dell’Europeo, di Cronache, Fusco è cooptato al nuovissimo Giorno da Gaetano Baldacci, direttore anticonformista e lui stesso nottambulo. E, in quell’aprile del 1956, diviene presto il centrattacco di una redazione nella quale abbondano le star, da Bocca a Brera, dal giovanissimo Arbasino a Soldati. È lui il solo ad aprire ogni giorno una rubrica, La Colonna di Fusco, sulla quale campeggia un ritratto caricaturale e sgherro, tratteggiato da un pittore che ha in odio ogni aspetto figurativo, Roberto Crippa. Su quella colonna, novissima per le nostre terre, Fusco spazia dalle confidenze del suo portinaio, a quelle delle nobildonne con palco di famiglia alla Scala. Di molte sue incorreggibili birichinate sarà perdonato anche perché «io amo Milano. Mi piace starci, lavorarci, ancor di più divertirmici». Saranno tre anni di gloria, ai quali il giovane Clerici ha la ventura di partecipare, divertito testimonio. Sinché il conformismo, nelle vesti dell’Eni e addirittura del ministero delle Partecipazioni statali, non interviene nel ruolo di autentico padrone, tramite un suo uomo d’ordine, il nuovo direttore Italo Pietra. Privato del suo sponsor Baldacci, Fusco spazia dal romanzo al teatro, ma nel 1962 il suo rapporto col Giorno si spezza definitivamente, in un banale casus belli su una nota spese stratosferica. Il taglio dal giornale lo costringerà ad emigrare a Roma, dove, pur lavorando per il cinema, non sarà più il Fusco degli anni d’oro. Una sera che c’incontrammo da Poldo, il ristorante che rappresentava, di fatto, il suo ufficio, mi avrebbe preso sottobraccio per raccontarmi, sino a che il primo bar non si fosse aperto all’alba, una nuova versione della sua vita. Da quello straordinario conteur-viveur che ha avuto soltanto nel newyorchese Damon Runyon un avversario degno. Ma questi brandelli di ricordi sono piccola parte di quanto il lettore troverà in una biografia di Dario Biagi, uno troppo giovane per aver conosciuto Fusco, ma anche uno capace di offrircene un ritratto indimenticabile (L’incantatore, Avagliano Editore, 260 pagg., 14,50 euro). Si dice, ed è vero, che la nostra cronaca umana manchi di diaristi. Questa, di Biagi, è qualcosa più di una smentita. 44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 26 FEBBRAIO 2006 le tendenze Si chiamano pagnes, kuba, kanga le stoffe più antiche e ricercate i cui grafismi oggi sono diventati spunto creativo per stilisti e designer. Capita così che teli nati per essere adagiati sulla sabbia trovino posto, come splendidi arazzi o copriletto, nelle nostre case. E che i simboli di una cultura lontana finiscano come elemento decor su abiti e parei per la spiaggia Stile etnico Trame d’Africa La nuova avventura global di un antico mondo a colori AMBRA SOMASCHINI Kuba Repubblica Nazionale 44 26/02/2006 Originari del Congo. In fibre vegetali e colori naturali, questi velluti (più o meno morbidi) venivano prodotti per le offerte funerarie Ma quelli con applicazioni in versione geometrica venivano indossati dalle donne. Oggi, che sono ormai quasi introvabili, vengono usati come arazzi essuti africani che parlano. Trame variopinte che raccontano storie grazie alla comunicazione non verbale fatta di segni, simboli, disegni, allegorie. Arazzi, pezze da arredo, teli-vestiti che dopo il successo degli anni Settanta tornano a colorare il mondo. Compaiono nelle mostre, nei libri, nelle sfilate di moda, nei film come nuovi timbri dell’african style, diventato un business globale. Un giro d’affari e di creatività gestito da editori, espositori, designer che rilanciano oggi lo Street African Wear da Bamako (Senegal) all’East-end londinese, dalle strade di Brooklyn all’Esquilino romano. Perché, come spiegano i modaioli americani, i tessuti del continente nero danno vita ai “Dress to impress”, abiti che caratterizzano chi li indossa secondo i disegni, i tagli, la trama. È così soprattutto nei pagnes dell’Africa occidentale dove ogni simbolo o segno ha una suo messaggio preciso. Qualche esempio: il simbolo Mari capable significa “marito economicamente e sessualmente capace”; il disegno della macchina da cucire equivale all’espressione “modernità”; la borsa, invece, vuol dire “vita moderna”. Come dizionari di stoffa, i tessuti raccontano storie di sesso, potere, denaro. Gli astratti e geometrici velluti kuba del Congo interpretano segni: spine di pesce, ganci, croci. I kente ghanesi esportano addirittura filosofia, etica, letteratura, codici sociali. I kikoi kenyoti sfumano i rossi, gli indaco, i viola nei rigati dei contadini kikuyu e masai. Ma il primo interprete dell’african print è il wax, telo stampato a cera prodotto dall’olandese Vlisco (esportatore di pagnes dall’inizio del Novecento) che sarà in mostra, in molti esemplari, da metà maggio a Parigi nella rassegna So Wax alla galleria Espace Champerret. Paul Smith usa il tessuto wax nei cappelli, nelle borse, nelle stole. E il ModeMuseum di An- T versa lo celebra con Hommage à l’Afrique in programma fino ad agosto. I velluti kuba, invece, potranno essere ammirati fino al 2007 nella sessione The art of the Congo, Roth Collection dell’Orlando Museum of Art (ad Orlando in Florida) e dal prossimo autunno anche in Italia, a Cagliari. Per farsi un’idea dell’arcobaleno tessile del Sud del mondo a marzo sarà possibile sfogliare i nuovi libri francesi Textiles, le tour du monde illustré des techniques traditionnelles, di John Gillow & Bryan Sentance, o Elégances africaines di Renée Ongoundou (Editions Alternatives, Parigi). Ma da cosa nasce tanto rinnovato interesse per le trame d’Africa? «Con questi tessuti l’Africa trasmette una nuova identità — spiega Egidio Cossa, che curerà l’allestimento autunnale dei kuba per la mostra in Sardegna — e una visibilità non più chiusa in ambiti continentali. C’è piuttosto un mix tra simboli interculturali antichi e disegni proiettati nel futuro». A intercettare la nuova tendenza, già esportata in Usa e Europa, sarà in agosto la Fashion week di Johannesburg sollecitando un uso antropologico e intimista della moda con lo slogan: «Vesti il tuo corpo come la tua anima». Le “stoffe dei sogni” approdano anche in un Festival cinematografico milanese (dal 20 al 26 marzo) curato da Annamaria Gallone e centrato sul rapporto tra cultura, teli e creatività africana a cominciare dalle pezze dipinte col fango del Burkina Faso. «Il tessuto è il manifesto dell’identità africana come i Levi’s lo sono della gioventù occidentale — sostiene Yinka Shonibare, l’artista anglo-nigeriano che ha usato i pagnes per decorare le case vittoriane e che esporrà le sue opere a marzo nella rassegna Africa Remix al Mori Art Museum di Tokyo — la ridondanza decorativa rimanda ai codici tribali mentre il suo uso globale diffonde la tendenza a un moderno esotismo». Pagnes Commercializzati e usati in Africa occidentale e centrale attraverso la Vlisco olandese che produce i più prestigiosi Sono cotoni pesanti stampati a cera. In Africa si usano come vestiti, in occidente come arredi I simboli sovraimpressi hanno diversi significati sociali e culturali DOMENICA 26 FEBBRAIO 2006 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45 in vetrina EFFETTO AVORIO TOTEM DI LUCE Linee purissime e tondeggianti per i vasi e il piatto in ceramica color avorio proposti da Natuzzi È disegnata da Helmut Jousten la Nakuru lamp disponibile in due versioni (alta 35 o 75 cm) Come un totem luminoso, nasce per essere protagonista in salotto Di Roche-Bobois L’ALTRA ELLISSE ATMOSFERE TRIBALI Fa parte della linea Africa Re-mix proposta da Coin, il telo etnico da usare come tovaglia o copritavolo. In vendita nei grandi magazzini Coin fino al 31 marzo Disegno etnico e colori della terra per la lampada Ellisse prodotta da Cottoveneto Da coordinare con vasi e piastrelle Così l’Europa produce e modifica i tessuti del Continente nero L’esotismo in formato occidentale L Kanga Repubblica Nazionale 45 26/02/2006 Originari dalla costa est: Kenya, Tanzania, Zanzibar In cotone stampato con simboli e scritte in lingua swahili, vengono indossati solo dalle donne. In occidente sono utilizzati come parei per la spiaggia. Come i pagnes “parlano” un linguaggio simbolico ad uso e consumo del gruppo d’appartenenza MARINO NIOLA cidentale dopo essersi mescolato con quello indonesiano. Un bell’esempio di globalizzazione coloniale e di confezione della tradizione, per cui l’Olanda vende stoffe africane agli africani e batik agli indonesiani. Oggi il wax è diventato oggetto di una riappropriazione produttiva e culturale da parte degli africani, al punto da essere considerato il simbolo stesso dell’identità africana. Metabolizzato dalle culture nere fino a diventare strumento di espressione delle grandi questioni sociali, politiche ed economiche, ha dato vita a vere e proprie forme di capitalismo lumpen, come quello delle cosiddette Nana-Benz, le matriarcali venditrici dei mercati del Togo, diventate tanto ricche col commercio di tessuti made in Africa, a costi dieci volte inferiori a quelli olandesi, da muoversi solo in Mercedes-Benz. Se la moda è sempre una questione di sguardi, vedere e esser visti, la cosiddetta moda etnica assomiglia ad un infinito gioco di specchi, in cui ciascuno contempla la propria immagine riflessa in quella dell’altro. Da una parte, infatti, l’Europa ha contribuito a costruire il fashion africano che a sua volta ha impresso il suo segno nell’uso e riuso del prodotto europeo finendo per riafricanizzarlo. Di contro l’Africa ha influenzato la nostra moda, offrendosi come fantastico giacimento di immagini che riflettono l’idea di una umanità selvaggia, più vicina alla natura. Motivi zebrati, maculati, leopardati, pelle di coccodrillo e di serpente hanno segnato massicciamente il prêt-à-porter come la haute couture. Due esempi memorabili: la collezione Bambara di Ives Saint Laurent del 1967 e i modelli Masai creati da John Galliano per la Maison Dior negli anni Novanta. È proprio la moda l’ultimo rifugio dell’esotismo postmoderno, come lo furono in passato le arti, la letteratura e il cinema. Forse perché con i tempi che corrono, l’abito consente un rapporto take away con l’alterità, rapido e istantaneo. Basta mettersela addosso prima di uscire. a più sublime deformazione della natura è la moda, diceva Baudelaire. Se è così, i tessuti africani sono l’essenza stessa della moda. I mitici panni dogon disegnati dal fango, i sontuosi drappi gialli e neri dei Bambara tinti con l’antracite e la noce di cola, le decorazioni di piume degli abiti Masai, non imitano mai fedelmente la natura, ma ne trasformano incessantemente la materialità concreta in astrazione, in geometria, in linguaggio. Rombi, triangoli, punti, linee, cerchi, esagoni, scacchi, intrecci, frecce, labirinti sono i caratteri originari dell’alfabeto estetico delle culture africane. Caratteri che hanno i colori di quelle terre, ocra, bruciati, marroni, creta, sabbia, fango, nero. È ai primi dell’Ottocento che la raffinata creatività dei tessuti decoratidelcontinenteneroinizialasuaavventuraeuropea.Precisamente quando il cotone prodotto da olandesi e inglesi sostituisce i primitivi materiali vegetali usati dagli artigiani autoctoni. Nasce allora il pagnedi cotone, la versione industriale dell’indumento simbolo dell’abbigliamento africano. Il termine pagne, che deriva dallo spagnolo paño, indica quella stoffa che in molte culture africane serve da gonna, tunica, sciarpa, copricapo, coperta, fascia porte-enfant e perfino da sudario. Abito per la vita e per la morte insomma. Pare proprio che l’introduzione di questo tipo di tessuto nel continente nero sia dovuta all’incontro con un altro simbolo della moda esotica e cioè con il batik indonesiano, portato in Africa per la prima volta da mercenari del Ghana che avevano combattuto a Giava al soldo degli olandesi. In realtà a produrre su scala industriale il tessuto africano per eccellenza sono gli europei, e in particolare Olanda e Inghilterra, che per primi fiutano l’affare colossale costituito dal mercato africano e cominciano a produrre stoffe esotiche ispirate ai motivi tradizionali per intercettare i gusti autoctoni. Nasce allora l’african print, detto anche wax print, perché prodotto con una tecnica di stampa a cera, molto simile a quella del batik. Nato in Africa, il pagne vi ritorna dunque come prodotto oc- Kente Originari del Ghana In cotone o cotone e seta, sono tessuti a strisce su piccolo telaio e poi cuciti insieme a formare mantelli Prodotti e indossati dal re e dai grandi capi della corte per le cerimonie, sono segno di forza e potere. In occidente vengono utilizzati come copriletti o come arazzi 46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 26 FEBBRAIO 2006 i sapori Bontà di nicchia Farina, malto, lievito naturale, un pizzico di sale e grande pazienza. È quanto basta a “costruire” un prodotto d’eccellenza, nato sotto la Mole Antonelliana e diventato celebre in tutto il mondo. Peccato che “il piccolo bastoncino croccante” tanto amato dai Savoia e da Napoleone vanti troppe pessime imitazioni La ricetta 1 kg farina 30 grammi lievito di birra 80 grammi extravergine 20 grammi sale 10 grammi zucchero 550 grammi acqua non fredda Impastare tutti gli ingredienti Formare un filone e ungerlo un poco Coprire con la pellicola e far riposare mezz’ora Tagliare a pezzi da allungare con le mani per ottenere bastoncini sottili Mettere in teglia unta d’olio e infornare a 220 gradi per un quarto d’ora Grissini L’arte di fare crunch una storia piemontese Grispolenta Curiose e golose eccezioni allo strapotere piemontese, sono parte della cultura contadina in Carnia. Grossi quanto un dito, fragranti e friabili, sono fatti con misto di farina di mais e frumento, impastati con acqua, olio d’oliva, strutto e lievito madre Repubblica Nazionale 46 26/02/2006 Robatà Il grissino “ruzzolato” (robatà) tipico di Chieri deve il suo nome al robat, vecchio attrezzo agricolo che spianava, comprimendoli, i terreni appena lavorati. Impastato rigorosamente a mano, si arrotola comprimendolo e si cuoce nel forno a legna Con olive Più tozzi e morbidi dei grissini classici, vengono impastati con olive verdi o nere snocciolate e spezzettate, olio extravergine e malto d’orzo I panetti rettangolari vengono divisi in strisce larghe due cm e appiattiti dopo la prima lievitazione Stirati a mano La versione smilza delle grissia, pane diffuso nel Torinese già 500 anni fa. Si ottengono da un impasto addizionato di strutto o extravergine Le striscioline si “stirano” tenendole per gli estremi e facendole oscillare con movimento circolare LICIA GRANELLO runch. Verbo onomatopeico, ovvero l’esatto rumore dello sgranocchiare (in inglese). Ci sediamo a tavola, dalla trattoria più modesta al ristorante più sontuoso, e nell’attesa dei piatti sgranocchiamo, quasi sempre estraendo un bastoncino dalla busta. Crunch. Il suono del grissino. La maggior parte delle volte, ahinoi, al suono corrisponde un gusto mediocre: nei cartocci di “Torinesi” surrogati di quelli stirati a mano e sfornati da artigiani abili e pazienti, troviamo prodotti “soffiati”, con un carico calorico ampiamente superiore a quello del pane, addizionati di grassi idrogenati e aromatizzanti, con nessun altro appeal della fame con cui li addentiamo. Come dire l’esatto contrario del grissino doc. Perché i grissini, quelli veri, profumano di farina tostata, malto, crosta lievitata, e rimandano la stessa fragranza al palato. I più buoni lasciano al naso e in bocca un che di fresco, dato dall’utilizzo del lievito naturale (madre). Una produzione antica e di nicchia, perché richiede attenzione, sensibilità, tempi lunghi, non codificabili. E rigetta l’uso di farine addizionate con gli acceleratori di lievitazione. Lunga e fragrante, la storia dei grissini. Punteggiata di celebri innamoramenti golosi, dal casato Savoia, pronto ad accoglierli per motivi “terapeutici”, a Napoleone Bonaparte, che dopo aver assaggiato i petites batons de Turin durante un viaggio in Italia, fece istituire un servizio postale celere per poter gustare tutti i giorni i grissini freschi direttamente dai fornai di Torino. Potere di un bastoncino croccante che negli anni abbiamo imparato ad “ornare” con dettagli golosi, primi fra tutti i semi oleosi — sesamo, zucca, girasole, papavero, cumino — dilatatori di gusto e fragranza. Oppure impastati con noci, uvetta e olive, che tramutano i grissini in veri e propri (irresistibili) attentati alla linea. Golosi comunque: avvolti in una fettina di prosciutto crudo, di lardo o bresaola per accompagnare l’aperitivo, tuffati nella mousse di prosciutto o in una crema di caprino fresco come antipasto, impreziositi col cioccolato fondente per traghettare il palato verso il caffè dopopasto o come rompidigiuno. Gli spericolati dei fornelli sanno che prepararli in casa è meno complicato del temuto. In realtà, la vera difficoltà è la cosiddetta stiratura: alle piccole porzioni di pasta lievitata si dà forma cilindrica, poi si prendono per le estremità con le dita e si tirano allargando progressivamente le braccia, facendole ondeggiare come piccole corde. I fornai più bravi arrivano quasi a due metri, senza che la pasta, elastica e duttile, si rompa. Se invece non vi sentite all’altezza, ripiegate, si fa per dire, sui robatà, di forma e consistenza più grossolane, ma egualmente golosi. Soprattutto se prima di infornarli farete loro piovere sopra qualche granello di fleur de sel, sale di prima raccolta — come l’italianissimo sale dolce di Cervia — che esalta il gusto della farina. Un quarto d’ora di cottura è sufficiente a renderli croccanti e appetitosi. Estraetene subito uno dalla teglia, a rischio di scottarvi le dita, e addentatelo prima che si asciughi del tutto, con un sorso di bel vino appresso. Semplice, antico, e maledettamente buono. C DOMENICA 26 FEBBRAIO 2006 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47 Torino itinerari Mimma Ordine, letteralmente “nata” nella farina (genitori e sette fratelli, tutti panettieri), gestisce con la figlia Selene “Il Fornaio”, panificio torinese di donne, famoso per gli eccellenti grissini lunghi quasi due metri che vengono impastati con pazienza a partire dall’alba Chieri (To) Monforte d’Alba (Cn) È la città-madre dei grissini, inventati nel 1675 dal fornaio Antonio Brunero, come versione alleggerita e croccante del pane torinese, la ghersa. Da un quartiere all’altro, i migliori panificatori offrono varianti dalle ricette segretissime La Carreum (nome pre-romanico) celebrata da Plinio il Vecchio è una bella cittadina della collina torinese, arricchita da numerosi produzioni alimentari e patria dei robatà (si legge Rubatà). Tra i migliori quelli di Franco Gallo Posizionata nel cuore delle Langhe, è una delle mete più golose del Piemonte. Nel laboratorio affacciato sulle vigne da cui si produce il Barolo, il fornaiopoeta roddinese Roberto Marcarino panifica secondo i princìpi della biodinamica DOVE DORMIRE DOVE DORMIRE DOVE DORMIRE HOTEL AMADEUS Via Principe Amedeo 41 bis Tel. 011-8174951 Camera doppia da 85 euro, colazione inclusa LA MADDALENA (con cucina) Via Fenoglio 4 Tel. 011-9413025 Camera doppia da 75 euro, colazione esclusa VILLA BECCARIS Via Bava Beccaris 1 Tel. 0173-78158 Camera doppia da 140 euro, colazione inclusa DOVE MANGIARE DOVE MANGIARE DOVE MANGIARE LOCANDA MONGRENO Strada comunale Mongreno 50 Tel. 011-8980417 Chiuso lunedì, menù da 50 euro SANDOMENICO Via San Domenico 2/b Tel. 011-9411864. Menù da 50 euro Chiuso sabato a pranzo, domenica sera, lunedì GIARDINO DA FELICIN (con camere) Via Vallada 18 Tel. 0173-78225 Chiuso domenica sera e lunedì, menù da 30 euro DOVE COMPRARE DOVE COMPRARE DOVE COMPRARE IL FORNAIO Via San Massimo 49 Tel. 011-884667 PANETTERIA GALLO Via Palazzo Città 6 Tel. 011-9471098 IL FORNO DEL BUON PANE Borgo Corini 3, Roddino Tel. 0173-794088 La ricetta: fornai torinesi, acqua di montagna, ingredienti naturali Un prodigio artigianale CARLO PETRINI l grissino altro non è che una delle tante forme moneta prestabilita. Nel momento in cui, alla del pane. Senz’altro è il più conosciuto tra i pametà del Trecento, una forte inflazione si abbatté ni piemontesi, tanto da assurgere ad autentico sul Piemonte, la grissia divenne man mano più simbolo della torinesità. Lungo e sottile, senza leggera fino diventare ghërssin. mollica, asciutto ed essenziale pare voler richiaArrivando ai giorni nostri, nessuno come Mario mare fin dalla forma quello che, almeno nel più Soldati nella seconda puntata del suo celebre classico dei luoghi comuni, è il carattere domiViaggio lungo il Po è riuscito a sintetizzare meglio nante dei piemontesi: la riservatezza. Sia esso stil’unicità di questo alimento e il suo legame indisrato o robatà, in Piemonte è considerato alimento solubile con il territorio. «Pur essendo rifatto dapfondamentale e non c’è abitante della regione dipertutto in Italia e nel mondo — asseriva con voce sposto a privarsi volentieri dei grissini durante il sicura il grande scrittore — non può essere esporpasto. Dovunque prenda posto a tavola, fosse antato perché, anche soltanto a cinquanta chilomeche nel luogo più impervio e isolato che si riesca a tri da Torino, non è più lui. Il tocco leggero e natuimmaginare, il vero piemontese di solide radici rale dei fornai torinesi, gli unici in grado di posare non rinuncia mai a chiedere se, per caso, sia posla pasta sulla teglia un attimo prima che si rompa, sibile avere «due grissini». Il fatto che si tratti di e l’acqua di montagna che affluisce a Torino sono un’eventualità del tutto improbabile non basta indicati senza alcun dubbio a fondamento dell’incerto a scoraggiarlo. discussa superiorità del grissino autoctono». Il problema è che il grissino fatto a mano è l’uniRicostruire le origini di questo pane dalla forma co buono e non c’è alcun paragone con quanto singolare è tutt’altro che semplice. Sulla nascita di può uscire da una macchina. A invadere il mondo ogni alimento fioriscono le più varie leggende e però, dispiace doverlo ammettere, non sono i veri non c’è motivo per cui il grissino debba fare eccegrissini torinesi ma proprio la loro brutta copia inzione. Una tradizione consolidata attribuisce la dustriale che li imita nella forma e nel nome ma sua invenzione, negli anni Settanta del Seicento, non nella sostanza. Sono bastoncini mefitici, conal fornaio Antonio Brunero il quale, su indicaziofezionati in anonimi pacchetti di plastica colorata ne del medico di Casa Savoia, avrebbe trovato nella leggerezza del grissino la soluzione definitiva ai da cui traspare bene tutta la loro scarsa naturalità. frequenti malanni del giovane duca Vittorio AmeLa vista di una voluminosa scatola di questi, per di deo II. Questa versione fu avvalorata con dovizia più con la scritta Torino in bella evidenza, all’indi particolari dai biografi del sovrano ma, come terno di un modesto negozio di alimentari nella spesso accade, c’è chi sostiene un’ipotesi alternaGerusalemme vecchia mi ha lasciato non poche tiva. Ad alcuni pare più verosimile che i grissini perplessità sull’immagine che a volte siamo capasiano nati ben prima e che la chiave per sciogliere ci di trasmettere della nostra gastronomia nel il mistero dell’origine vada ricercata nell’etimolomondo. L’esperienza mi ha convinto, una volta di gia della parola ghërssin, letteralmente piccola più, della necessità di riappropriarci di cibi buoni ghërssia (grissia). Quando il pane non era ancora e naturali, con solide radici nella tradizione. Come venduto a peso, a ogni forma corrispondeva una i grissini torinesi, quelli veri. I L’impasto più goloso è pronto ad accogliere olive, semi di sesamo o girasole 48 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 26 FEBBRAIO 2006 l’incontro Saltimbanco, cantastorie, venditore di frottole. Ma prima ancora principe dei meticci: italiano, greco, serbo, turco, europeo infiltrato, ebreo e dunque nomade. Nessuno come lui insegna che l’origine di un uomo non è genealogica, è la ricerca dei pezzi di straniero che fanno la sua identità. Nessuno come lui può convincerti che “chi trova dolce la sua patria è un tenero dilettante e che solo è perfetto chi si sente straniero in ogni luogo” Maestri di vita Moni Ovadia buca dalla notte come un gufo, occhi a spillo piantati tra zigomi larghi e pallidi come due lune. Sui Navigli piove, sui giornali tuonano i cannoni dello scontro di religione, e Salomone Ovadia, professione «saltimbanco», ti fa entrare nel segreto palcoscenico della sua casa, fino a una cucina enorme, fumante e piena di libri come l’antro di un alchimista. Ovadia detto Moni, classe ‘46, residente a Milano, nato a Plovdiv, Bulgaria. Attore, cantastorie, venditore di frottole, marxista, ebreo laico. Ovadia italiano, greco, turco, serbo e altro ancora. Europeo infiltrato, fuggiasco da cinque secoli. I bastardi come lui, il padano Calderoli li manderebbe al rogo nel nome della civiltà cristiana. Ma Ovadia ci sguazza nella sua tempesta identitaria, rovista divertito nel pentolone delle sue generalità. «Per cominciare sono uomo, ebreo, di sinistra». Bontà sua, si spiega: «Sono di sinistra in quanto ebreo, ed ebreo in quanto essere umano». Nel senso? Che l’utopia della giustizia sociale in terra è figlia del messianismo ebraico. E la condizione di ebreo, a sua volta, è fondata sulla centralità dell’uomo, il figlio di Adamo, in ebraico «Benadam». Laddove «Adam» significa «fatto d’argilla»; da «Adamà», terra. Semplice, no? E poi? «Sono esule. Vengo dalla Bulgaria, per cominciare. Non ho le radici sotto il culo. Son figlio di chi “ha camminato”. Nomade, che poi è sinonimo di ebreo; da “Ivrì”, colui che attraversa. Soltanto l’esule sa che nessuna patria è definitiva». Molla improvvisamente il mestolo del risotto, rovista sugli scaffali, afferra un libro, lo apre con reverenza. Ne toglie un motto di Ugo da San Vit- ta dall’uso. Legge Samuele, libro primo, ne estrae il senso. «Il mio popolo non costruirà nazioni, ma libertà, quella che rende inutile la figura del re, quella che non concede deleghe a nessuno. Sotto il Dio-Uno, gli uomini sono uguali, hanno lo stesso dna. La redenzione non scende dall’alto ma si costruisce dal basso. Nasce tutto qui, nel Sinai. Il decalogo etico che libera un popolo di schiavi dalla tirannia. La costruzione quotidiana della libertà, dell’eguaglianza e della giustizia sociale. La forza del pensiero contro la logica della potenza. È questo il mio modello, questo il mio peso, la fatica di una vita». Ed è questo, anche, il motivo dello sterminio. «Abramo era l’antagonista primo della discriminazione, aveva spezzato lo scettro nelle mani dei tiranni senza usare le armi. I nazisti lo sapevano e hanno radunato tutti gli ebrei in un unico posto per sterminarli: temevano che uno solo di essi sfuggisse…». Ora la sua faccia da uzbeco emana un pallore impressionante. «Che senso Sono slavo. E se la lingua è un canto, io sono figlio di un canto slavo Non si abita un paese ma una lingua, perciò fu un abominio l’idea dei fascismi di negare le lingue FOTO A3 S MILANO tore, mistico medievale: «Chi trova dolce la propria patria è solo un tenero dilettante. Chi trova dolci tutte le patrie s’è già avviato sulla strada giusta. Ma solo è perfetto chi si sente straniero in ogni luogo». E poi, che altro nel pedigree? «Sono slavo. E se la lingua è anche un canto, ecco, io sono figlio di un canto slavo. Il rumeno Cioran diceva che non si abita un paese ma una lingua. È verissimo. Per questo l’idea di negare le lingue, inventata dai fascismi, fu abominio assoluto». E come in un lampo gli torna in mente l’ineffabile Calderoli, che di fronte a una giornalista palestinese in tv non ha voluto nemmeno pronunciarne il nome. «È tutto così oscenamente chiaro: se non pronunci il nome di una persona, vuol dire che la vuoi cancellare». E all’improvviso senti, dietro la diga dell’ironia, un fiume in piena di indignazione. Ma c’è ancora da scavare nella genealogia. «Sono figlio del mare e della luce. Mediterraneo. La mia gente viene dalla Spagna, ha abitato l’impero ottomano». Sì, ma allora, quei canti yiddish, quelle barzellette sugli ebrei polacchi? Che c’entrano col sole e col mare? «L’origine di un uomo non è genealogica. È la ricerca dei pezzi di straniero che hanno fatto la sua identità. E quindi io posso ritrovare nel mondo yiddish l’humus slavo che l’ha fertilizzato e che mi appartiene… Questa ricerca è tipica della mia gente. Heine e Kafka erano ebrei, tedeschi ed europei nello stesso tempo, senza che questo generasse contraddizione». Improvvisamente gli occhi da predatore notturno diventano umidi e grandi. Sorride: «Per questo, vecchio mio, per questo mi sono dannato per la Yiddishheit! Il piccolo ebreo polacco di Oylem Goylem (l’ultimo suo libro stampato da Einaudi) era l’apologia di questo europeo ubiquo, che passava i confini e sbugiardava i nazionalismi! Gente che non si sarebbe mai accontentata dell’inglese standardizzato del business, parlava cinque-sei lingue… Gente che, con la sua molteplicità identitaria, sperimentava l’Europa! Sono andati in cenere… ma hanno lasciato un’energia immensa che cerco di rilanciare». Ora la voce gli diventa stridula. «Di quest’energia l’Europa ha bisogno, non di un rozzo conglomerato di piccole patrie isteriche! L’Europa non trova più uomini all’altezza del compito grandioso che s’è data. Ma io non disarmo, spero. Nei miei deliri europeisti, faccio un sogno ricorrente. Uno stadio pieno di tifosi con le facce dipinte d’azzurro a stelle gialle, che s’alzano in piedi all’ingresso della squadra e sotto un grande display, che lo riproduce in tutte le lingue comunitarie, cantano l’Inno alla gioia di Beethoven, intonano “Alle Menschen werden Brueder”, tutti gli uomini diventano fratelli…». In cucina torna il silenzio, Moni cerca un altro libro, una Bibbia consuma- aveva, altrimenti, prelevare un vecchio morente e deportarlo a duemila chilometri per ridurlo in cenere? Che senso, se non il timore che anche quel vecchio fosse il depositario di un segreto, di un immenso potere soprannaturale?». «L’arma con cui Mosé va dal Faraone è un Dio che dichiara di essere “Sarò che sarò”. Un essere che, con quella pazzesca relativa, si moltiplica all’infinito, demolisce come illusione l’eterno presente imbalsamato del monarca e la sua logica solipsistica di potenza, gli dimostra che è polvere rispetto al tempo. La sua arma è un tetragramma che contiene il “Fui”, il “Sono” e il “Sarò”». Per questo Mosé non si è fatto tomba. Non voleva aggregare attorno a sé un’identità statica. Voleva lasciare solo un pensiero, sapendo che quel pensiero redentore era mille volte più forte di una piramide. Il Dio vivente non sarebbe mai diventato coccio, rudere, passato. Il figlio di Adamo dilaga, si avvicina ai nodi del presente. «Contro i soprusi e le dittature nulla è più potente di ciò che è tramandato. Ha una forza tale che le tirannie non hanno avuto altra scelta che entrare nei monoteismi per depotenziarli dall’interno, rendendoli a loro volta perversi e idolatri. È successo con tutte le grandi idee: cristianesimo, ebraismo, islam, comunismo…». Anche il cristianesimo? «Ma certo. Da quando Costantino ha reclutato la Croce e trasferito in cielo la giustizia che Cristo voleva realizzata in terra...». «Cosa m’è saltato in mente di inventare la religione», brontola Dio in una vignetta di Altan. «Ecco, Altan ha ragione, dobbiamo proteggere Dio dai credenti che vogliono rubargli il posto, per imporre agli altri quello che si deve o non si deve fare. In troppi gridano “Dio con noi”. Con che autorità? La religione è un prodotto dell’uomo, non si basa su rivelazioni dirette, ma su racconti. Ruini, per capirsi, non c’era quando Cristo faceva miracoli. E allora non può imporre niente a nessuno». Siamo in guerra con l’Islam? «Il problema non sono i musulmani ma i regimi non democratici che li rappresentano. È a quelli che dobbiamo chiedere parità di trattamento in termini di fede. Togli i regimi, e il dialogo diventa facile, naturale, come nella Spagna andalusa di un tempo, dove ebrei, musulmani e cristiani si mescolarono dando vita a canti unici al mondo. Gli stessi che sto portando in giro per l’Europa col nome di Shir del Essalem, inciso anche su dvd, insieme a un cristiano serbo e a un musulmano di Palestina». «Ma poi, diciamocelo, che cos’è questo Occidente? Un piercing? Il telefonino? Il week end con file interminabili? Un buon libro come massima espressione dello spirito? Nooo. Il mio maestro Daniele Epstein si chiede: è per questo che dovrei rinunciare e 3500 anni di cammino ebraico? Nooo. È questa la democrazia che vogliamo esportare a Oriente? Il totalitarismo dell’econo- mia, sull’uomo e sulla politica? Nooo. È qui che l’estremismo islamico ha gioco facile sulle masse. Siamo troppo imbottiti di materialismo. Banche e ipermercati, ecco le piramidi del nostro tempo». Ma anche lo stato di Israele non sfugge alla deriva. «È il caso più straordinario di ricomposizione dell’infranto che si sia mai visto nella storia dell’uomo. Ma Israele è rimasto intrappolato in una logica di potenza. Ha voluto tornare agli eserciti di Davide, rimuovendo i duemila anni d’esilio nel deserto. Ha dimenticato la Sukkah, la capanna misera del Sinai dove è nato il pensiero moderno. Levitico 25, versetto 23: le terre non si venderanno per sempre perché la terra è di Dio… Nella Torah sta scritto che la Terra Promessa non è dell’uomo, quindi la dividerai con lo straniero, che amerai come te stesso». E poi l’Italia, l’ultimo nodo. «Qui la battaglia è politica, ma prima di tutto culturale. Berlusconi ha inquinato il sistema mentale del Paese. Dobbiamo salvarci da quest’uomo che si crede infallibile, che si paragona a Gesù… Salvarci da questa pornografia mediatica. Riprenderci dignità e decenza, che non sono optional. Se rinunciassi a questo in nome di una convenienza momentanea, mi sputerei in faccia». S’alza d’impeto, rovescia un vaso di miele sul tavolo, rovista ancora tra gli scaffali, sembra un orso pasticcione. Ora brandisce le poesie di Kostantinos Kavafis. Legge in greco: «Quando ti metterai in viaggio per Itaca / devi augurarti che la strada sia lunga / fertile in avventure e in esperienze… Soprattutto, non affrettare il viaggio / fa che duri a lungo, per anni, e che da vecchio / metta piede sull’Isola, tu, ricco / dei tesori accumulati per strada / senza aspettarti ricchezze da Itaca…». Ora gli occhi sono due laghi. «Facile nascere uomini, vecchio mio. Diventarlo è il capolavoro di una vita». ‘‘ PAOLO RUMIZ