PDF del libro - Ugo Riva scultore

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PDF del libro - Ugo Riva scultore
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A mia moglie Irvana, compagna intelligente e complice di una vita.
Sporcarsi le mani
Intervista di Flavio Arensi
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In salvo
Leggevo il dattiloscritto a Capri (noblesse oblige), al Quisisana (ma
non a spese mie), ospite come giurato del Premio Malaparte, e pensavo
appunto di chiedere a Ugo di firmare uno dei prossimi manifesti del
Premio, cui in diciassette edizioni hanno contribuito tanti artisti. Avevo ragione, come ho poi scoperto leggendo: “Il disegno è il mio gioco,
la mia passione, la mia droga, il grande amore.”
Quand’ecco, proprio fuori dall’albergo, la visione di una scultura inconfondibile mi attira dentro una galleria d’arte. Era uno dei suoi Angeli, quello con le ali spalancate e il piedino vezzoso che poggia sulla
punta, in un passo verso l’osservatore/vincitore/protetto. Ugo ne ha
regalato un altro, più grande, al Vittoriale degli Italiani, e l’abbiamo
messo proprio di fronte all’ingresso, a protezione e incoraggiamento
alla visita. Non ci credo ma porta fortuna, i visitatori crescono di mese
in mese.
L’Angelo era in partenza per Mosca, insieme a altre sculture, ripercorrendo così lo stesso percorso di Lenin. Guardandole in mezzo a tante
altre opere di vari autori – classicheggianti o astratte – mi è sembrato
di capire che un segno della potenza di Riva sta proprio nel riproporre
l’austerità del classico in un’astrazione della sua mente: e sono tornato
più volentieri a leggere il dattiloscritto. Ho sottolineato una serie di
passaggi, che sono ciò che ho ricevuto dal libro.
Questo, per esempio, mi basta a capire il suo lavoro: “Una scultura è
perfetta quando trova il suo luogo, quel luogo che la esalta e la accoglie, quel luogo con il quale dialoga ogni attimo.” Sembra un’affermazione modesta, ma significa voler entrare negli spazi, trasformandoli
con la propria opera al punto da farli propri. Dici niente.
È anche più entusiasmante, nella lettura, capire l’uomo Riva. Dando
la ricetta esistenziale al giovane scultore, indica i propri ingredienti:
“L’onestà intellettuale, la coerenza sinceramente anarchica.” Giovane
scultore non sono, ma ecco perché Ugo e io siamo amici, sia pure vedendoci di rado.
Ecco la conferma, quando si parla di Dio: “Solo l’uomo può salvare se stesso.” E noi siamo in salvo, caro Ugo, sporcandoci le mani.
E anche un po’ la faccia, via.
Giordano Bruno Guerri
Capri, 5 ottobre 2014
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Ugo Riva è uno scultore che modella, che si sporca le mani. Con lui ho
spesso ragionato intorno al mestiere dello scultore e sempre più sono
convinto che la scultura sia poco conosciuta, poco frequentata. Non
parlo solo della gente comune, mi riferisco agli addetti ai lavori. Un
giorno, muovendo da Ravello verso Firenze, all’incirca dalle parti del
Tevere, abbozzai questo pensiero a Tony Cragg che mi sedeva innanzi,
mentre dal finestrino del treno passava la campagna laziale, che è
straordinaria. Mi rispose con una chiarezza che sapeva di normalità
eppure era un lampo di grande intelligenza: non ricordo le parole esatte, ma disse solo che la scultura è reale, è qualcosa con cui si fa i conti
anche spazialmente, un oggetto in cui incappi e non il quadro alla
parete che tifa sognare. Mi spiace sintetizzare un pensiero che era certo
più ampio, ma penso avesse ragione. Ripetendo questo dialogo a Riva,
il sentiero si fa più definito, o forse sarebbe meglio dire “definitivo”.
Il discorso è molto complesso e lo affronto a muso duro: la scultura è
fuori moda, o meglio è “fuori dalla cultura” di chi dovrebbe proporla,
ovvero urbanisti, architetti, mercanti e galleristi. Senza contare chi dovrebbe studiarla e non è mai stato nello studio di uno scultore a vedere
quali sono i mezzi della scultura, o come si fonde un’opera.
Temo il problema sia anche in parte una cattiva cultura plastica contemporanea, il pubblico non è messo nella condizione di capirla, o non
la vuole affrontare.
Purtroppo quello che si vede, non parlo solo delle mostre, ma anche
degli spazi urbani, è sovente brutto o incomprensibile, inoltre ciò che
viene portato agli onori della cronaca diventa per lo più un motivo di
scandalo o un pretesto per darsi un minimo di notorietà. Il tema resta
la consuetudine con cui la scultura contemporanea allontana le persone per chiudersi in uno spazio autoreferenziale dove si gioca coi mezzi
della comunicazione più che quelli dell’arte.
Il filosofo Edgar Wind aveva notato come l’arte occidentale è divenuta
autonoma e sovrana e ha così perduto il suo vero potere, quello che
spaventava Platone. Piuttosto si è venuta a trovare in una zona ornamentale, marginale, della realtà.
Platone non sarebbe assolutamente spaventato dall’arte contemporanea che ha perso da tempo immemorabile il suo potere rivoluzionario
di agitatrice di coscienze, dal momento che nella nostra società, ricopre ormai un ruolo molto marginale.
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Ciò che noi chiamiamo genericamente “avanguardia” è un prodotto
sostenuto da una congrega elitaria di “sacerdoti” e praticanti autoreferenziali, che si muovono secondo logiche spesso solo finanziarie. La
loro ritualità si estrinseca in quella sorta di cerimonia che è la battuta
d’asta, dove l’acme si raggiunge col superamento del record di vendita,
quindi tutta una serie di gregari giudicano secondo questi standard:
quanto più un autore ha valore di mercato tanto più è significativo.
Tuttavia, nello stesso istante in cui ciò accade, si verifica automaticamente un passo indietro, si consuma un ulteriore stacco fra il sistema
dell’arte e il resto del mondo. Parlo di sistema perché sarebbe ingenuo
non immaginare che certe logiche nascano per esigenze precise, che
nulla hanno a che fare con le motivazioni profonde che spingono un
artista a mettersi in gioco. Si tratta di una vicenda che potremmo far
risalire a Duchamp, che mette in crisi il concetto stesso di arte, forse
per un’ambizione rivoluzionaria, o forse come passatempo fra amici
impegnati in una partita di scacchi. Poi, quando arriva la Pop Art,
ultimo grande fenomeno di massa, la voragine diventa incolmabile.
Lo stato attuale ci vorrebbe insegnare che da un lato stanno pochi
“illuminati” intenditori in grado di dettare il gusto, come avviene nella moda, e dall’altro invece una congerie ignorante e “agnostica”, se
non conservatrice. Anche solo per questo Platone sarebbe totalmente
disinteressato al tema dell’arte, volgendo i sui attacchi contro i social
networks, le televisioni, i chirurghi plastici, gli avventori di photoshop
e tutto ciò che “inganna” il popolo. Saprebbe ben distinguere i manipolatori dagli speculatori.
Tornando un passo indietro, prima dicevi che sono gli stessi operatori
ad escludere la scultura, perché?
Le ragioni sono chiaramente molteplici, ma un paio sono comuni. In
primis il costo di realizzazione dell’opera, i limiti che sorgono dalla sua
movimentazione e i tempi di esecuzione, ma soprattutto la complessità
tecnica, di mestiere, per lo più sconosciuta, che rende gli scultori ortodossi sempre meno numerosi, cosi come trovo che siano sempre meno
quegli addetti ai lavori davvero competenti in grado di comprendere
un linguaggio complesso però non complicato.
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Vorrei chiederti una precisazione, cosa intendi per scultori ortodossi?
Sono tutti quelli che mettono in campo un “manufatto”, cioè qualcosa
di realizzato con le proprie mani. Tutti coloro che al di là degli stili e
dei supporti utilizzati (marmo, bronzo, plastica, ferro, etc etc.) dimostrano la capacità di modificare o di trasformare a loro piacimento e
gusto la materia, elevandola da stato amorfo, inerte, a elemento vivo e
pulsante contrassegnato sulla pelle dal crisma del gesto e dall’energia
di chi l’ha creata.
Il mio vecchio amico Leonardo Cremonini, prima di morire, aveva cercato di approfondire il rapporto fra presentazione e rappresentazione
dell’opera d’arte e, con gli anni, penso avesse intuito una problematica che ormai è sostanziale.
La scultura vera è esattamente il contrario della presentazione mediatica! La scultura merita il suo tempo per poter parlare, ha bisogno di
rappresentare quello che vuol dire, deve essere un elemento della quotidianità, come in passato. In quest’ottica, se prima ti indicavo i limiti
del sistema dell’arte, è evidente che manca anche il rapporto con chi
crea i nostri luoghi sociali, gli spazi cittadini. Architetti e urbanisti, a
meno che non siano scultori o amanti della scultura, non la utilizzano,
forse perché dovrebbero alzare la testa dai loro tavoli, avere un confronto con l’artista, collaborare come nei cantieri rinascimentali, invece sappiamo bene che è un mondo totalmente egocentrico popolato da
star impegnate ad alimentare la propria auto-affermazione.
Ha ragione Cragg, la scultura è una presenza reale, fisica, che puoi
toccare, attraversare, che vedi dall’auto mentre sei in coda, che sfida
le architetture circostanti cambiando al cambiar delle stagioni e della
luce del giorno. È forse l’elemento di congiunzione, il trait d’union tra
l’uomo e le sue costruzioni, i suoi templi, i grattacieli. Forse il primo
passaggio tra lui e il cielo, o Dio, per chi ci crede. Noi italiani queste
cose le abbiamo nel sangue, parlo dal saper stare nella tridimensionalità con armonia e fluidità.
Forse era nel nostro DNA, ma oggi è difficile credere che gli stessi
che portavano in trionfo la «Maestà» di Duccio abdichino a qualsiasi
giudizio critico rispetto alle tante orrende sculture nelle nostre città.
Spesso la scultura ha una committenza pubblica o privata che permette di realizzare certi progetti talvolta impegnativi sotto molti punti
di vista. Le nostre città, come le nostre chiese, sono piene di brutte
statue e anche io come te mi domando come sia possibile accettare il
brutto, anzi, addirittura pagarlo profumatamente, o come si faccia a
non riconoscere che una scultura non ha senso? Come dicevo, la scul-
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tura è un fatto artistico molto complesso che implica e tocca diverse
conoscenze: non sono solo la tecnica e il pensiero nel progettare l’opera
vera e propria, bensì il suo rapporto con lo spazio, l’eleganza dei ritmi
e dei piani che la attraversano e la compongono, il rapporto dei vuoti
e dei pieni, la vibrazione della pelle finale, quella che vedi e accarezzi,
senza dimenticarci del colore.
La scultura è come una partitura musicale, c’è un rigo, ma le note si
muovono liberamente e ritmicamente al suo interno quanto all’esterno, fino a comporre una melodia. Ecco... la bella scultura, la scultura
con la S maiuscola, deve essere una melodia. Una melodia che suona
bene sia da sola che rapportandosi ad altro e ad altri e, in primis, al
luogo.
Installazione
Anima Mundi,
2011.
Foto A. Modonesi.
Quindi?
Quindi una scultura è perfetta quando trova il suo luogo, quel luogo
che la esalta e la accoglie, quel luogo con il quale dialoga ogni attimo.
Oggi, invece, si producono opere d’arte che non hanno più la capacità,
e credo persino la volontà, di cercare questo luogo proprio, di intessere
un dialogo con quello che le circonda. Sono finiti i tempi del nostro Rinascimento, dei Lorenzo, delle Isabelle, dei Gonzaga, del clero capace
di un gusto straordinario intuendo la grandezza del mezzo artistico,
il tempo in cui ogni oggetto doveva rappresentare l’eccellenza, doveva sfidare il tempo, ambire all’eternità. La nostra epoca è quella del
“Pensiero debole”, delle costruzioni le cui fondamenta poggiano sulla
sabbia e dove l’orizzonte finisce sulla punta del naso.
L’importante è creare una finanza dell’arte per riempire le tasche e
tanta pubblicità per riempire le teste.
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Trovi che vi sia un’ulteriore caduta della qualità della proposta artistica?
Ritengo vi sia persino un’offerta eccessiva del “prodotto artistico”, anche facilitato da tutta una serie di possibilità tecnologiche che hanno
allargato la base linguistica, ma non sempre aumentando il livello della proposta culturale ed estetica. Con l’avvento della fotografia digitale tutti ci siamo inventati fotografi, non devi più neppure attendere
i tempi dello sviluppo, puoi intervenire direttamente sull’immagine se
impari a usare un buon programma di grafica. Molto è divenuto dozzinale e di basso livello, anzitutto nei materiali usati e questo anche per
l’ignoranza di chi dovrebbe selezionare: ignoranza tecnica.
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Ti chiedo ancora una volta la soluzione quale potrebbe essere?
Il futuro sarà di coloro che faranno tesoro delle loro mani e del loro
cervello. Di tutti coloro che riprenderanno a realizzare l’opera con passione, con amore approfondendo le tecniche antiche per applicarle a
quelle contemporanee, magari studiando, analizzando, i maestri grandi e piccoli che sono stati prima di noi. In questo percorso troveranno
quegli elementi che Arturo Martini chiamava “trucchi” e che sono gli
ingredienti indispensabili per dare all’opera la propria unicità, la forza
per sfidare il tempo. Su questa strada c’è molto futuro e molto da fare.
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Il limite maggiore che trovo nel sistema dell’arte, dentro e fuori il mercato, dentro e fuori le accademie, è la scarsa conoscenza della storia
della scultura, come si diceva in principio, la sua bassa frequentazione. L’ultimo grande intenditore resta ancora Mario de Micheli, una
tua vecchia frequentazione.
Avevo circa quarant’anni quando ho incontrato Mario. Lui era ormai
lontano dalla critica militante e fuori dai giochi di potere, trovandosi
in quella straordinaria età in cui la saggezza e la riflessione prendono
il sopravvento su ogni aspetto della vita. Forse proprio per questo mi
sono cosi attaccato a lui, come a uno di famiglia, quasi fosse il nonno
che non ho mai avuto, il saggio, il “grande vecchio” a cui chiedere
consiglio. Con fermezza e con dolcezza mi ha fatto prendere consapevolezza del mio essere scultore. È stato un critico anomalo, non mi ha
mai indirizzato su nulla e su niente, ha solo sempre voluto che io fossi
sinceramente autentico, profondamente vero. L’onestà intellettuale, la
coerenza nelle scelte, la libertà creativa, che poteva anche essere contraddittoria all’interno di questi presupposti, doveva essere la base del
mio lavoro. Culturalmente mi ha aperto il cervello in due. Stare con
lui era come stare al tavolo con Manzù, Moore, Picasso. Siqueiros, e
molti altri, contemporaneamente. Si passava da Sironi a Brecht alla
poesia di Camillo Sbarbaro o al Pastore errante di Leopardi. Tutto era
possibile. Era come in un film; mi pareva di parlare con Martini, con
la Kollwitz o il suo grande amore Courbet. Non sempre le nostre idee
collimavano e questa era la cosa migliore che poteva succedere, poiché
si innescava un dibattito, un dialogo serrato.
Oggi scrivo di scultura perché me lo ha chiesto proprio lui, facendomi
capire con i suoi saggi “Carte d’artista”, quanto sia importante lasciare una testimonianza diretta della propria opera, come fecero Rodin e
Bourdelle.
E tu cosa lasceresti a un giovane che volesse fare la tua professione?
L’onesta intellettuale, la coerenza sinceramente anarchica, la solidarietà tra artisti, innaffiando il tutto con l’invito rituale di Martini:
“anima, anima, anima”. Dobbiamo ricordarci ogni mattina, appena
appoggiamo i piedi fuori dal letto, che siamo dei piccoli nani e che se
vogliamo fare un passo avanti anche solo guardare più lontano dobbiamo appoggiarci sopra le spalle dei giganti che ci hanno preceduto.
Da osservatore, sicuramente coinvolto, sicuramente privilegiato, che
rendiconto faresti di questo nostro tempo?
Scriverei che oggi, ed e quasi un paradosso parlando di arte, le qualità
intrinseche da sempre riconosciute all’opera, cioè la bellezza, il pregio della lavorazione, la preziosità dei materiali, sono ritenuti difetti.
Parafrasando un vecchio film di Ettore Scola, bisogna essere “Brutti
sporchi e cattivi”.
Ma non bisogna cadere in questa trappola, soprattutto, noi scultori
italiani abbiamo la responsabilità di continuare l’opera iniziata migliaia di anni fa nella Magna Grecia e poi dagli Etruschi, dai Romani,
fino all’Antelami e poi i Pisano per non dire di Desiderio e Donatello,
Michelangelo e Bernini, Sanmartino della Cappella San Severo, arrivando a Canova e alla meravigliosa stagione dell’Ottocento piena di
fermenti regionali, ogni scuola il suo timbro, passando dalla classicità
di Bartolini all’impressionismo di Medardo alla nordicità del Vela, alle
vibrazione degli “acquaioli” in terra cotta di Gemito, fino ad arrivare
ai nostri tempi con Martini, Marino, Manzù o il dimenticato Perez.
La scultura è nel nostro DNA e non è per becero nazionalismo che lo
affermo, piuttosto un fatto oggettivo riconosciutoci dalla storia e dal
collezionismo mondiale. In Italia ci sono le migliori fonderie e i migliori laboratori di marmo. Da noi vengono artisti da tutti i continenti per
apprendere le tecniche scultoree o anche solo per vedere realizzate le
loro opere nel miglior modo possibile. Come non ricordare quel gigante di Henri Moore ringraziare, davanti alla Principessa Margherita in
visita alla sua mostra a Forte Belvedere in Firenze, il suo “scalpellino”
di Pietrasanta dicendo più o meno: “Non ci fosse stato lui queste opere
non sarebbero nate”. La scultura è un fatto collettivo, che ha portato
necessariamente al formarsi delle botteghe in cui attorno al maestro
nascevano una serie variegata di specializzazioni e professionalità: dai
cesellatori ai patinatori per le fonderie, dagli sbozzatori ai raffinati
rifinitori nelle botteghe del marmo. Professionalità insostituibili co-
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struitesi di generazione in generazione in centinaia di anni. Mestieri
senza codici scritti, trucchi passati da maestro a garzone per affinità
elettive, segreti rubati spiando dal buco della serratura oppure origliando dietro le porte.
A. Perez, Testa,
anni ‘60.
Sempre che esista, quale dovrebbe essere lo scopo finale da perseguire
per uno scultore?
L’obbiettivo rimane, come da tradizione, il “capolavoro”, l’opera perfetta che sfida la storia senza aver bisogno di esegesi o interpreti che la
traducano perché capace di parlare da sola a tutti gli uomini di ogni
tempo. Normalmente non si arriva nemmeno a sfiorarla, la “Grande
Bellezza”, ma provarci è assolutamente indispensabile.
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Da che ti conosco ho notato un rapporto molto stretto col disegno. Ne
parli sempre in maniera convinta, si capisce che è una parte fondante
della tua poetica. Quando mi è capitato di vederti lavorare a opere
importanti, anche dal punto di vista dimensionale, non solo linguistico, accanto tenevi sempre un disegno.
Il disegno è il mio universo, da cui tutto nasce e tutto finisce. Da
sempre lo frequento. Il nostro e un rapporto viscerale che mi ha permesso, da bambino, di giocare, poi crescendo di liberare e rappresentare i miei fantasmi facendomi prendere consapevolezza di me
stesso, aiutandomi a maturare trovando un equilibrio. “Il disegno è
la prima espressione dell’anima” cosi pare si esprimesse Jacopo Carucci, il Pontormo, pittore e disegnatore immenso che mi commuove
ogni qual volta il mio sguardo incroci la sua opera. Per quanto mi
riguarda, non so stare senza un foglio di carta, o parete, o supporto
qualsivoglia, ne può mancarmi qualcosa che lo possa segnare sfiorandolo, graffiandolo, incidendolo. Il disegno è il mio gioco, la mia
passione, la mia droga, il grande amore. Di lui sono assolutamente
geloso e possessivo.
Al contrario, questa è la prima volta che lo affermo, non mi capita di
esserlo delle mie sculture, che anzi sono felice prendano altre strade,
escano dallo studio sperando siano amate dal collezionista. Mi piace
rivederle, quando reggono, nelle case o nei giardini dove sono andate
ad abitare. Le guardo con distacco, spesso molto critico, come nemmeno le avessi realizzate. Non sono più mie, sono di se stesse, spero
solo abbiano gambe per camminare più lontano possibile nel tempo.
La preoccupazione che rimane è che appunto sappiano reggere.
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Invece col disegno cosa capita?
Esattamente l’opposto. Sono attaccato morbosamente anche al più
piccolo frammento di carta su cui ho lasciato un segno. Per giunta,
dove questo segno è meno chiaro, più confuso o tormentato, l’attaccamento si dimostra maggiore. Soffro ogni volta che me li chiedono e
staccarmene è un dolore.
Quando per motivi inderogabili se ne vanno, capita di farne delle fotocopie per tenerne un ricordo. Difficilmente i miei disegni sono messi in
vendita, soprattutto gli abbozzi. Mal che vada li regalo... ma credimi,
è pur sempre una grande fatica!
Hanno una funzione preparatoria rispetto al lavoro scultoreo o sono
liberi?
Non necessariamente l’intenzione è preparatoria, molti vivono in totale autonomia, hanno una loro poetica e valenza unica. Sovente, come
scrisse molti anni fa in occasione di una mia mostra a Como Mario
Radice, sono “anticipatori di possibili realizzazioni future”. Ho sempre tenuto in grande conto questa riflessione del maestro, tant’è che
sovente, se in crisi di idee, vado a spulciare in quella montagna di
carta “scarabocchiata automaticamente” negli anni che tengo meticolosamente raccolta, alla ricerca di nuovi stimoli.
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Prima dicevi che sei molto critico coi tuoi lavori, hai usato un’espressione che non lascia scampo: «quando reggono». Ricordo che un amico
poeta e giornalista, Enzo Fabiani, mi faceva notare come, correggendo alcuni componimenti giovanili, la cosa più difficile fosse evitare di
criticarli o riscriverli “mettendoci la barba”. Ti capita lo stesso? Non
credi che i tuoi occhi, oggi, leggano difetti che in realtà non ci sono?
Sei semplicemente cambiato tu.
Può essere sicuramente vero quello che affermava Fabiani, soprattutto
se il percorso creativo ha avuto vari e diversi passaggi o addirittura ha vissuto stagioni totalmente differenti. Qui, forse, sussisterebbe
il rischio di “misconoscerli”, affezionandosi per vari motivi a quello
maggiormente riconosciuto o apprezzato, come se si potesse annullare
il concetto fondamentale di lettura “globale” dell’opera nel più vasto
percorso creativo. Anche su questo concetto ancora una volta il mercato ci ha messo lo zampino nel frammentare l’artista a tal punto di
valutarlo per periodi, come fosse una vacca divisa in quarti di prima
e seconda scelta.
Com’è rivedere i lavori giovanili?
Alcune volte è come guardare le foto dell’infanzia, quando si avevano le “braghette” corte o i foruncoli sul viso. Viene da chiedersi: “Ma
sono io quello li?” Ebbene si! Sei tu, o meglio sei stato tu. Manipolare in chiave più attuale sarebbe ridicolo, vorrebbe dire cambiare
quello che è stato in un altro tempo, un’altra anima, di cui non ci si
deve in ogni caso vergognare poiché lì ci sono i prodromi del futuro.
In fondo, se stai appieno “collegato” con te stesso, traspare sempre
nelle opere il filo rosso che lega tutta la produzione artistica. L’anima
di ognuno è un unicum la cui unicità porta un occhio attento a riconoscerla, persino nella genialità più complessa e poliedrica. Pensa,
ad esempio, a Picasso: il suo segno rimane nella fluidità, nella leggerezza dello scorrere su qualsiasi superficie, con qualsiasi linguaggio,
immutato negli anni, benché negli ultimi risenta di una certa stanchezza.
Eppure, l’ultimo Picasso è così debordante. Capisco cosa intendi, ma
inizio a pensare che ogni quadro fosse il tassello di un progetto più
ampio, una specie di opera fatta di tante opere. Ma, si era partiti
dalla tua preoccupazione di sperare che le opere «reggano», immagino nel confronto col tempo. Cosa intendevi dire?
Ho sempre cercato di selezionare molto, distruggendo, rifacendo,
insomma “uccidendo” il bambino nella culla. Il mio è un lavoro di
cancellazione, di lacerazioni, di annullamento e ricostruzione che
può sembrare nato di getto ma non è cosi. Quello che si vede è solo
la parte finale di un lungo percorso faticoso di accettazione di un
risultato sempre inferiore rispetto alla luminosità e alla grandezza
dell’idea originale che scuoteva l’anima. Con il tempo ho imparato
ad accettare i miei limiti, altrimenti sarei impazzito. Il mio istinto di
sopravvivenza ha acceso in automatico un sistema di sicurezza che
mi distacca dall’opera, quasi già prima che sia terminata, prima di
non sentirla più mia. Per molte sculture non ho nemmeno ricordo di
quando le ho realizzate e parlo di opere anche importanti. Mi succede sempre comunque quando le incontro di non avvertire la loro
appartenenza, come se non gli avessi mai fatto né da padre né da
madre. Sono quasi sdoppiato, le guardo da estraneo, da osservatore
critico e l’unico sentimento che provo è appunto il timore che non
“reggano”. Così fosse sicuramente non le rifarei, le distruggerei per
realizzarne altre, diverse.
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Ci sono opere di cui sei pienamente soddisfatto dopo anni? Sculture
che ti soddisfano perché hanno centrato il giusto equilibrio fra idea e
realizzazione?
Assolutamente no. L’idea e sempre troppo pura e grande rispetto al risultato. Trovo però che “Sfiorato dalla mano di Dio” e “Come una resurrezione” opere nate a corollario della mostra “Anima Mundi” abbiano
ancora oggi delle potenzialità inespresse importanti che mi intrigano e
che forse solo la grande dimensione riuscirebbe a farle sentire realizzate
compiutamente come è successo per Anima Mundi, il Paradiso Perduto”
e “Sull’abisso dell’eternità” che reggono e mi soddisfano più di altre.
Sfiorato dalla mano
di Dio, 2011.
Foto C. Modonesi.
Come mai?
Sarà sicuramente per la grande dimensione visto che superano anche i
tre metri in altezza e che hanno avuto bisogno di una lunga gestazione,
oltre a un complesso iter realizzativo. Io lavoro solo, non mi limito a
tracciare due linee progettuali sulla carta lasciando ad altri il compito
di sviluppare la scultura. Quando si decide di affrontare questo tipo
di soggetti, devi averne un’idea prepotentemente forte per mantenere
viva la concentrazione per parecchi mesi. La grande scultura è una
bestia faticosa da gestire, e se interiormente non sei carico e pronto,
ti domina franandoti addosso: lasciami dire che è una lotta titanica
comprensibile solo nel momento in cui la si affronta. A questa dimensionalità monumentale ci sono arrivato per gradi. Queste tre opere le
ho modellate una dopo l’altra e in definitiva forse potrei dire che erano
un bisogno perché le sentivo da molto tempo.
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I loro titoli mi sembrano siano esplicativi di questa tua esigenza.
Le ho realizzate per puro piacere, anche se “Anima Mundi” risponde
a una committenza così illuminata e partecipe da condividere incondizionatamente il mio progetto. Sono opere che concentrano tutto lo
spirito dei mie anni, delle riflessioni di un uomo di mezza età che comincia a tirare le somme della sua esistenza. Sono il punto di arrivo di
un percorso etico ed estetico, la vittoria sulla tremenda e antica paura
della monumentalità. Una vittoria per la quale ho lasciato sul campo
molto di me stesso. A distanza di due anni non mi sono ancora ripreso,
le troppe energie messe in gioco hanno drenato anche le riserve più
profonde. Per ricaricarmi disegno, in attesa che torni nuovamente la
voglia di plasmare i sogni. Dentro però sono pienamente soddisfatto
per aver affrontato la paura e aver sciolto il dubbio sul poter essere
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L’altro angelo,
2005.
Foto E. Savi.
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pienamente scultore. Ancora una volta aveva ragione Mario de Micheli quando mi diceva che a sessant’anni avrei cominciato a capire
la scultura.
Ti rivolgo una domanda molto personale, visto il rapporto fra di noi,
i nostri continui dialoghi. Mi ricordo bene, dopo l’antologica di Bergamo nel 2008, mi dicesti che vedere tutte le tue opere insieme, per lo
meno tante di loro, ti mandò in crisi. Quando dici che questi grandi
lavori «Sono opere che concentrano tutto lo spirito dei mie anni, delle
riflessioni di un uomo di mezza età che comincia a tirare le somme della sua esistenza», immagino subito quell’episodio, quella confessione
fra amici.
Era la mostra che si tenne allo Spazio Viterbi a Bergamo per la caparbia volontà dell’allora Presidente della Provincia, Valerio Bettoni,
come primo capitolo di un programma espositivo inteso al recupero
delle energie creative passate e presenti nel territorio. Fu una stagione
di fermenti e speranze forse irripetibile per la città, terminata miseramente, come sempre in Italia, al primo cambio politico. Per me non
si trattava di una mostra qualsiasi, era la mia prima antologica, ma
soprattutto mancavo espositivamente da Bergamo dal 1995 e avevo
dunque l’opportunità di raccontare gran parte del mio percorso all’interno di ambienti ampi collocati in un palazzo ottocentesco e nel suo
giardino. Ci lavorai per un paio di anni e il primo problema che rilevai
fu proprio l’allestimento degli spazi esterni che occupai con la mia prima opera monumentale “Come imperturbabili dei”, affiancandola ai
due grandi angeli che ora stanno al Vittoriale degli Italiani. Per le sale
del palazzo recuperai varie opere dai collezionisti, per rappresentare
tutti i periodi e i temi del mio lavoro, raccogliendo oltre quaranta sculture per trent’anni di ricerca. Passai mesi concentrato sull’allestimento, costruito per lo più su un rapporto estetico-emozionale e contenutistico tra le opere che non rigidamente temporale. Mi fu molto d’aiuto
in quella occasione l’amico e curatore Nandi Noris. Alle mie sculture
alternai, grazie al prestito del fondo artistico della Banca dell’Etruria,
pale e dipinti antichi, per far dialogare le mie maternità con quelle
del Sassoferrato o di Francesco di Gentile da Fabriano o Neri di Bicci,
per non citare lo splendido Guercino e del potente (nonché più affine)
Stanzione. Opere che datavano dal 1470 fino alla fine del 1600 stavano faccia a faccia con le mie terrecotte, mostrando una naturalezza e
fluidità sconcertante, come si fossero frequentate da sempre. In questo
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contesto, pur non ricordando esattamente la nostra conversazione, rivedere attraverso tutte quelle opere gran parte della mia vita mi turbò
profondamente.
Risentii nuovamente riaffiorare sotto pelle ferite che credevo definitivamente rimarginate. Rividi i dubbi, le fatiche, i compagni di viaggio
che mancavano, penso a Mario de Micheli, Ada, il grande Gasta…
chissà cosa avrebbero detto loro. Quella mostra non significò una semplice linea tirata sul quaderno della vita con le conseguenti somme
e sottrazioni; ma piuttosto segnò il riemergere bruscamente di tutto
quello che avevo tirato fuori dal profondo negli ultimi tre decenni e
disperso nel mondo nell’assurda convinzione di essermene liberato per
sempre. Invece, quel magma di emozioni, l’avevo trasformato in materia palpabile e in quell’occasione tornava indietro come un rigurgito.
Questo è il rovescio della medaglia del mestiere di scultore: quello
che fai ti sopravvive. Ora, a distanza di anni, la crisi nascerebbe nel
prendere atto che gran parte della vita se ne è andata, ho imparato
nel frattempo qualche lezione, però le domande fondamentali sono
rimaste le medesime e tutte senza risposta. Ti confesso che comunque,
oggigiorno il distacco con la mia opera si è fatto più netto e deciso; ho
intrapreso la dimensione di chi sta al di fuori e con una certa serenità
guarda dall’alto come tutto fosse stato solamente un film.
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Visto che hai citato il disegno, vorrei tornare a questo mezzo espressivo, perché nel nostro paese lo si fa troppo poco spesso, mentre invece
da lì traspare l’essenza di un’artista. Ricordo un altro mio punto di
riferimento, una sorta di mentore, Gianfranco Bruno che, quando iniziai a fare i primi passi nel mondo della critica d’arte, mi insegnò a
guardare con grande attenzione il disegno perché sincero. Ecco, nei
tuoi emergono colori che poi nella scultura non ritrovo. L’uso del nero,
per esempio lo lego proprio alla tua modalità segnica.
Il nero mi cattura, m’ipnotizza. il segno nero con il contrasto del chiaro del foglio, diventa subito contorno, ombra e se c’è ombra vuol dire
che c’è corpo, è presente la vita, c’è qualcosa, per riprendere Cragg in
cui incappi. Siamo quindi di fronte alla scultura. Credo che il processo
mentale sia questo. L’ombra poi è piena di luce, di vibrazioni, è un
mondo nascosto, che si palesa lentamente a chi sà cogliere con discrezione e silenzio le sfumature. L’ombra è un buco nero che ti risucchia
e ti trasporta in un “oltre” che non conosci. L’ombra è il mistero, l’inconscio, il non ancora espresso, il luogo dell’infinito.
Dunque non è un caso che trovare in casa tua i lavori di quegli autori che indagano l’ombra prima della luce, o forse indagano l’ombra
della luce?
O forse la luce dell’ombra, e mentre rispondo guardo il grande disegno sopra di me di Jean Robert, detto Ipousteguy, o la straordinaria “macchia” scura davanti ad un letto bianco pieno di “teste” che
emergono dalla stampa del disoccupato della Kollwitz, o l’elegante e
rapido schizzo della moglie modella di Moore. Che dire della gestuale
macchia di inchiostro di Scanavino? in quelle ombre, in quei neri c’è
un mondo che mi scuote e ipnotizza. Personalmente non scambierei
mai un olio, anche straordinario, di Van Gogh con un suo piccolissimo,
disegno. So che per molti quello che scrivo resta incomprensibile, ma
per me non lo è poiché si tratta di una questione che ha a che fare col
cuore, con la sua irrazionalità.
Ti interrompo e vorrei parlare ancora più avanti del tuo “collezionismo”; adesso però dimmi se anche nel disegno stai affrontando nuove
grammatiche espressive.
In questo ultimissimo periodo sto lavorando per la prima volta su
grandi superfici di carta che incollo su masonite tracciando segni e vibrazioni con il carbone. A secondo della pressione, o addirittura della
pelle della carta, ottengo effetti in bianco e nero con tante gamme di
grigi strabilianti per i miei occhi. Percorsi mai battuti prima. È stupefacente che a sessant’anni anni mi emozioni ancora come le prime
volte, tanto più che utilizzo il mezzo più antico dell’uomo: il carbone.
Lo stesso carbone che hanno tenuto tra le dita i maestri delle grotte
di Altamira, di Lescaut e di altri luoghi magici.Forse sta ancora nelle
origini la parte più vera e misteriosa di noi. Tutto questo cambiamento
che non so quanto durerà avviene dopo anni di colori accesi scaturiti
durante la realizzazione di una grande vetrata con l’amico e maestro
vetraio Lino Reduzzi.
Si è trattato di un momento di svolta?
Di una rivoluzione radicale! Ho scoperto il piacere di osare col colore innervandolo con delle profonde linee nere. Ho realizzato disegni
di grande formato slegati totalmente dallo studio preparatorio della
scultura, utilizzando colori violenti, acidi, in contrapposizione fra loro.
Di questa maniera è ad esempio il grande quadro “Omaggio all’Angelus” di Millet che ora si trova a Barbizon, dove ha sede la galleria
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dell’amico Massoud Besharat, proprio davanti alla casa abitata dal
genio simbolista francese. Credo che la libertà creativa stia anche in
questa anarchia di modi espressivi.
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Citavi Ipousteguy, la Kollwitz, Moore, tre grandi passioni di De Micheli, e i primi due almeno sono nomi che fanno parte anche del mio
bagaglio umano prima che professionale. Allora ti chiedo di partire da
loro, di quello che hanno significato per te, per il tuo lavoro, immaginando che vi sia uno stretto legame se li hai collezionati.
Henry Moore è stato ed è uno dei mie grandi amori. Ho iniziato a frequentarlo sin dall’inizio dei miei approcci seri alla scultura tant’è che,
nel 1977, modello l’opera “Simonmattia” (che è il nome di mio figlio)
nato in quell’anno, proprio ispirandomi alle sue forme. Le troncature,
le superfici ruvide, gli abiti bagnati delle donne distese, le grandi sintesi formali, i buchi che fanno penetrare l’opera nello spazio circostante
con un armonia unica legandola indissolubilmente al cielo e alla terra.
Bisogna andare a Perry Green, dove un tempo c’era la sua tenuta laboratorio e ora la Fondazione Moore, nei pressi di Londra e respirarne
la luce, scrutare le curvature delle basse colline all’orizzonte, per poter
capire e godere sino in fondo della sua opera. Per me è sempre stato
fondamentale calpestare le case, gli studi degli artisti che ho amato. Li
chiamo pellegrinaggi. Si capiscono molte più cose, ci si addentra nei
meccanismi della loro creatività anche solo osservando dei sassi “banali” o frammenti di ossa sulle mensole impolverate. Ho visto le opere
di Moore in altri luoghi suggestivi come Forte Belvedere a Firenze, ma
posso dirti che solo a Perry Green i lavori di Moore esprimono tutta la
loro forza innovativa ed eterna, ci si rende conto che lì sono nate e che
quello è il loro Paradiso.
Kollwitz e Ipousteguy, insieme a Meštrovic, sono amori più tardivi scoperti con la frequentazione di Mario de Micheli, e fra loro Ipousteguy
è quello che mi ha maggiormente graffiato, soprattutto nella visione
longitudinale e dinamica dell’opera: penso a l’ “Ecbatane” di Berlino
o “L’uomo che passa la porta” che hai esposto a Legnano. Sono opere
che stravolgono la rappresentazione canonica della scultura. Oltre a
ciò, penso sia anche una questione di vicinanze tematiche esistenziali
che me lo fanno sentire molto prossimo. Kollwitz è la potenza del segno del bulino che incide la lastra di zinco con la forza del dolore di
una madre che ha perduto suo figlio. È la fatica di un popolo che cerca
di emanciparsi, che lotta per la dignità delle future generazioni e non
Simonmattia, 1977.
Foto Studio Canali.
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Michelangelo,
Pietà Rondanini,
(part.) 1555-1564.
Foto A. Amendola.
vuole vedere i suoi figli tirare gli aratri come bestie da soma. Sono i
contadini di Ermanno Olmi de “L’Albero degli zoccoli”: ultimi baluardi di una cultura antica che io ho sfiorato e visto sotterrare dai blocchi
di cemento di una speculazione edilizia senza ordine né stile, anzi con
l’unico scopo di fare denari.
Qual è il portato di Manzù nella tua opera?
Per un cero periodo, soprattutto alla fine degli anni Settanta, nel momento in cui cercavo di uscire da stereotipi informali per ricostruire
l’immagine, l’ho sicuramente guardato con attenzione: mi interessava
la sintesi dei tagli delle sue opere. L’ho sempre amato e stimato più
come modellatore nel rilievo, assolutamente unico, che nel tuttotondo.
Tematicamente sono lontano da lui, anche solo per una questione generazionale, ma succede che essendo pure io bergamasco diventi facile
accostarmi.
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Qual è lo scultore che hai studiato di più?
Potrebbe sembrare strano, però è Michelangelo, non quello del “David” o della “Pieta Vaticana” bensì quello che ha realizzato la “Pieta
Bandini” nel Duomo di Firenze e, soprattutto, la “Pieta Rondanini”.
Di tanto in tanto, quando sono a Milano vado a trovarla al Castello
Sforzesco, e ogni volta ne ricavo una grande lezione oltre che un’enorme emozione, nonostante la malaugurata ultima “ripulitura”. Resta il
sublime apice della ricerca di Michelangelo, formale e contenutistica,
e forse azzarderei essere anche l’apice assoluto della contemporaneità.
Lì Michelangelo ci mette mano e cuore sino agli ultimi giorni di vita,
sradicando con le forze rimanenti un Cristo forse troppo lontano dal
corpo della madre, reinventandolo invece dentro il corpo stesso della
Madonna, come se volesse far tornare quel Figlio nel suo luogo d’origine per essere nuovamente carne della sua carne, per diventare di
nuovo un unico corpo. Credo avesse coscienza di essere arrivato alla
fine dei suoi giorni e quest’opera ci rivela la sua serena accettazione
del senso della vita che è fatta anche di morte, di mistero e abbandono.
Non c’è pathos, non c’è dolore, bensì una stanchezza infinita, i muscoli hanno perso le tensioni, un abbandono sicuro riempie l’aria della
scena, la madre con la mano sulla spalla tira dentro di se per l’ultima
volta il figlio, che si lascia andare chinando la testa come faceva da
bambino. Questi due corpi di marmo entrano nello spazio con una
leggerezza senza pari. Rimane in primo piano un braccio giovane e
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potente, solo, davvero spiazzante, a testimonianza di un tempo andato
e di uno nuovo all’orizzonte. Il tutto trattato con subbia e gradino,
senza finitura, anticipando un modellato che molti, cinquecento anni
dopo dichiarandosi avanguardie innovative, copieranno. Immagino
che infinite generazioni di scultori dovranno fare i conti ancora con
quest’opera.
G. Manzù,
Studio
anni 40.
Quando hai iniziato a collezionare?
Fin dalla gioventù. Ricordo che uno dei mie primi stipendi da bancario, 150.000 lire, lo impiegai, con grande scandalo e disappunto di mia
madre, nell’acquisto di un’opera, che ancora conservo, di un giovane
promettente pittore bergamasco. L’autore nel tempo si è “perso”, però
l’opera continua a funzionare. In principio sono andato un poco zigzagando, quasi con una metrica umorale, quello che capitava, che mi
emozionava, magari attraverso degli scambi, oppure dei veri e propri
acquisti. Ho avuto la passione delle opere di grandi dimensioni, poi poco
alla volta la sensibilità si è affinata ed è maturata la scelta del supporto
cartaceo e del piccolo formato, con particolare attenzione agli scultori o
frequentatori della scultura. Ciò mi permetteva di accedere a più opere,
perché le carte sono più accessibili rispetto agli altri supporti, poi col
tempo ho scoperto una verità straordinaria che mi ha conquistato.
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La spontaneità? La verità di cui mi parlava Bruno? Mentre parli mi
ricordo il pranzo in cui emerse questo argomento. Aveva curato una
mostra di Sutherland e il gallerista aprì il suo “forziere” dicendo di
scegliere un’opera del maestro. Gianfranco si accorse del fastidio del
mercante, il quale temeva prelevasse un’opera di grande formato, lui
invece preferì due piccoli pastelli. Ho impressa la scena, mi guardò e
disse: “Flavio non ho avuto dubbi, belli come quelle carte non c’era
null’altro, io scelsi le cose più belle, ma lui non lo capì”. Scusami ti ho
interrotto...
Esattamente questo! Anche io ho scoperto che nei piccoli formati e sui
supporti a volte improvvisati o poveri si trova una qualità pittorica o
segnica, una spontaneità di anima, di forza di libertà, che molto spesso
non si trovano nel grande formato: quasi che la dimensione ammortizzasse, annacquasse l’energia vitale dell’opera. Talvolta mi chiedo se
sono il solo ad accorgermene poiché, più volte, chi entra in casa non
sente assolutamente tutto questo, anzi nei loro occhi vedo tanta perplessità per non dire spaesamento, forse come capitò al mercante.
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Ho già nominato Cremonini, al quale mi legò una grande amicizia
e una bella storia professionale. Quando curai la sua mostra con gli
inediti braidensi, a fine esposizione, mi disse di tenere un quadro. Io
scelsi un piccolo nudo. Lui mi disse se non avessi preferito una tela
successiva, magari degli anni più importanti dal punto di vista commerciale, oppure una più grande. Ringraziai, ma espressi nuovamente
la mia preferenza. Cremonini era di una intelligenza acutissima e di
grande ironia. Sorrise e mi disse che quello era un quadro che non
avrebbe mai voluto dar via. Poi me lo porse e mi disse che era felice
l’avessi io. Mentre te lo dico provo ancora quella commozione che ho
vissuto in quel momento.
Credo Cremonini ti abbia fatto un grande regalo affidandoti un pezzo
della sua eredità spirituale, ma la cosa più importante è che tu ancora
oggi ti commuova al solo pensiero di quel gesto. Vuol dire che lui ha
visto giusto mettendo quel momento della sua vita nelle tue mani.
tibili. Negli ultimi tempi se le trovo scelgo opere dedicate a qualcuno,
oppure con annotazioni dell’autore. Ho ad esempio un piccolo disegno
a penna di Manzù, credo degli anni Quaranta, in cui, a margine del
foglio, compare un’annotazione dello scultore in cui dice “definitivo,
raccogliere il braccio davanti”. Ecco, queste sono le piccole storie che
mi intrigano, creano nuove curiosità e passioni, mi danno l’idea di impossessarmi di un pezzo della loro vita, della loro arte. Io dialogo sempre con le opere, me le guardo tutti i giorni e ogni mattina sono felice
di trovarle davanti agli occhi. Prima di collocare la nuova arrivata in
parete la lascio ambientare in studio, o a casa, mettendola a terra fintanto non matura il “suo posto”, quello che le permette di stabilire una
relazione con le altre. È un equilibrio non facile da trovare, quando lo
azzecco però diviene sublime armonia. Non mischio mai i miei disegni
con loro. Le mie opere sono marginali a casa, pochissime sculture e i
disegni in un luogo niente affatto frequentato, persino da me.
Curioso, ma non più di tanto visto cosa mi hai raccontato finora, che
uno scultore collezioni disegni. In verità la tua passione non ha confini
così delineati, si allarga ad altri campi. Però viene spontaneo chiederti intorno a quale idea si forma.
Non seguo regole rigide e rimango aperto a qualsiasi incontro interessante e stimolante. Non ho preclusioni di stili e di epoche, per me
conta la qualità del lavoro e ancor più l’emozione che mi trasmette. La
si potrebbe definire una collezione eclettica, che si costruisce negli incontri, nei viaggi, nelle occasioni di scambio con amici, colleghi o galleristi. Non so darle un’etichetta, ne voglio farlo, tuttavia so bene cosa
non voglio sia: un album di figurine da riempire a tutti i costi perché
al contrario è un’opportunità di arricchimento artistico ed emozionale.
Certamente ci sono opere che amerei avere ma non me ne faccio un
cruccio se non posso. Il sogno di questi anni è trovare un disegno di
Marino Marini, ma non un disegno qualsiasi: me ne sono stati offerti
diversi senza che nessuno mi abbia fatto battere il cuore. Con Marino,
del resto, ho un “conto in sospeso” perché trent’anni fa non acquistai
un suo “Cavallo e cavaliere” magnifico a un prezzo accessibile, e così
ancora oggi me ne pento. Ho una bella litografia dello stesso soggetto
degli anni Quaranta ma è un’altra cosa. Con il passare del tempo sono
molto attento alla composizione, alla qualità del segno, del gesto, alla
particolarità o all’originalità del pezzo, per quanto sovente capiti sia
ritenuto marginale dal mercato perché certe cose non le ritiene appe-
Molto del tuo stesso lavoro artistico si basa sull’emozionalità, quasi
femminile, e non a caso i temi dell’eros sono molti. Eros, ma si dovrebbe parlare di amore, di Agape (benché non mi piacciano le citazioni
intellettualoidi), e di istintualità. Non credo di sbagliare ricordando
che il nostro primo lavoro insieme nacque proprio da questa tua accettazione istintuale dell’altro. Ci conoscemmo e poco dopo mi trovai,
giovanissimo, a Pennabilli vicino a Tonino Guerra per parlare delle
tue opere, fra cui ricordo mi impressionò molto «Maria Maria Maria».
Pennabilli, Guerra, «Maria Maria Maria» in qualche modo sono tutti
elementi che si legano a Piero della Francesca. Lì infatti è ricoverata la copia della «Madonna del parto» usata da Andrej Tarkovski in
«Nostalghia» e non per caso visto che Guerra ne scrisse il soggetto cinematografico, senza contare che la tua «Maria» deriva proprio dalla
«Pala di Brera» dell’artista toscano. Un lungo preambolo per parlare
di Piero, insomma...
Piero è il mio grande mentore, la guida assoluta che mi folgorò alla
fine degli anni ottanta quando, in un momento cruciale della mia ricerca, lasciavo l’Informale, sfinito da una nullità etica ed estetica, alla
ricerca di un senso profondo, sia della mia opera che della vita (che
camminano di pari passo). Erano gli anni delle grandi scelte, gli anni
della “Milano da bere”, dove tutto pareva possibile. Gli anni in cui la
mia città di provincia mi stava stretta e ancora più stretto e soffocante
il lavoro bancario. Ero alla ricerca di una nuova vita, di un nuovo
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Piero della Francesca,
Pala di Brera,
(part.) 1472.
utero, di un nuovo grembo. L’ho trovato una mattina tra i corridoi di
Brera, davanti alla sua pala che racconta di una maestosa Madonna
in trono con il bimbo di traverso, gli angeli alle spalle, Federico da
Montefeltro in armi inginocchiato e con quell’uovo in mezzo al quadro. Cosa non è quell’uovo sospeso? Luminoso, muto, di quel silenzio
parlante impronunciabile, perfetto, talmente rivoluzionario da farmi
dimenticare tutta l’arte moderna che avevo amato sino a quel momento. Immediatamente non ce ne fu più per nessuno e non ce ne sarebbe
più stato, se non con le assolute eccezioni e i dovuti parametri. Ancora
non sapevo che quell’opera avrebbe segnato, in molti dei suoi elementi
costitutivi, gran parte della mia ricerca artistica degli anni futuri.
Cosa fu a colpirti particolarmente in quel nuovo incontro/scontro?
Intendi quando mi ripresi? Non era affatto la prima volta che avevo
incontrato la “Pala di Brera”, mi era capitato molti anni addietro, persino sui banchi di scuola avevo studiato le sue riproduzioni. Tuttavia,
da cieco presuntuoso come ero, mi accorsi che non l’avevo mai guardata, non l’avevo vista. In quegli anni volevo essere a la page, o come
si dovrebbe dire oggi glamour; cercavo la modernità, l’avanguardia.
Ero talmente inebetito dalla filosofia dominante da soffocare i miei
bisogni profondi, il mio linguaggio naturale, per inseguire la moda,
l’inesistente e impalpabile modernità. Anni dopo mi sarei confidato
con Mario de Micheli lamentandomi di quanto tempo avevo sprecato
a rincorrere il nulla.
E lui?
Mi rispose come un buon padre: “sei fortunato perché te ne sei accorto
in tempo, hai ancora una vita davanti. Lavora, lavora, uno scultore lo
si vede a 60 anni”. Come sempre avrebbe avuto ragione.
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Cosa ti interessò della «Pala di Brera»?
Tutto: la sintesi, l’armonia della composizione, l’architettura, la raffinatezza dei dettagli, gli angeli, ma soprattutto quell’uovo, che, come
un pendolo immobile, impregnava l’atmosfera di una sospensione
temporale e intellettuale. Dino Campana, secoli dopo e in totale autonomia, avrebbe scritto un verso per me illuminante: “e del tempo
fu sospeso il corso”. Il tempo, in quella rappresentazione, è sospeso
perché i protagonisti sono avvolti nell’eternità. Il loro spirito non abita
né l’oggi né il domani, bensì è per sempre. Un amore infinito, una luce
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Agguato, 1989.
Foto Gianni Canali.
senza ombre, un grembo in cui stare, una pace conquistata.
Tutto quello che non avevo, o sentivo di non avere, mi si spalancava
davanti. Avevo toccato il fondo e avevo la possibilità di salvarmi, a
quel punto non mi rimaneva che seguire le indicazioni della rivelazione di Piero. Io mi sentivo lì, proprio su quelle ginocchia in attesa di
una carezza, forse di un abbraccio, di una mano tra i capelli, di una
sospensione del dolore, dell’angoscia di vivere. Si trattava di una forza
pacata ma decisa, che mi veniva in aiuto per affrontare i fantasmi che
mi tiravano in luoghi sperduti dove è facile smarrire la ragione, dove le
voci ingannano il cuore. Era tempo di guardarsi dentro con coraggio,
di sporcarsi le mani cercando di ricostruire il poco o tanto rimasto.
Tutto questo come si è trasformato in esperienza artistica?
Con Piero sono rinato e tutto si è esplicitato nel grembo di una monca
madre di argilla che poco alla volta, in un lungo percorso, si è mutata
miracolosamente con la cura e la dolcezza di mia moglie per me e
mio figlio, in una calda madre avvolgente. Sono passati tanti anni, ho
realizzato tante madri in bronzo e terracotta, tutte con grande amore
e trasporto. Ora ho preso un certo distacco da questo tema, o se vuoi,
problema. L’ultima maternità risale a diversi anni or sono e rappresenta una moderna “Mater Matuta”, una donna gravida, seduta in
una postura quasi di sfida e lo sguardo profondo, forse preoccupato
per il futuro del nascituro. Sulle ginocchia due gemelli già svezzati che
litigano tra loro per chi vuole accomodarsi meglio o trovare il modo
migliore per andarsene prima, chissà. Io ormai sono un tranquillo osservatore pronto a ricevere sulle ginocchia un piccolo bimbo a cui raccontare le storie di modellatori d‘argilla e di pittori stralunati in cerca
di gloria o solo di un pezzo di pane.
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La tua sensibilità mescola spesso l’eros alla brutalità, a una sessualità che scompagina, che sa essere forte, almeno in un certo periodo.
Sicuramente la mia poetica non è “estetizzante”, sebbene la ricerca del
bello “ortodosso” mi catturi, senza pero mai impossessarsi totalmente
delle mie opere. Ci sarà sempre un punto di visione informale, gestuale, non finito o mancante. Come ben sai, suono molto più volentieri i
tasti bassi e profondi di quelli alti e squillanti. Mi sento assolutamente
più a mio agio tra Eros e Thanatos che nelle pieghe languide dei corpi
al sole o tra le trombe dei Cherubini e i Serafini. Probabilmente, è
una questione di anima, di sentire, di luna o forse di destino. Raccon-
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to quello che sono senza freni, passando dall’Inferno al Paradiso, in
modo assolutamente circolare, convinto che tutto sia dentro di noi e
che per conoscerci fino in fondo sia necessario fare emergere questo
magma dandogli forma e sostanza per poterlo guardare dritto negli
occhi. L’arte non è luogo di infingimenti bensì di ricerca della conoscenza: per quel poco che ci è dato, vogliamo sapere chi siamo e dove
andiamo. Questo credo sia il mio compito al di là delle mode o delle
scuole di pensiero in voga. Certamente oggi stare su questo sentiero
marginale non è facile, così come vivere in questo mondo “narcotizzato” - come lo definisce il caro amico pittore Maurizio Bonfanti – spesso
diviene un’esperienza ardua.
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Molto spesso in queste tue risposte si arriva a intravedere un afflato
religioso, che forse ha il sapore di speranza. Non hai mai usato il termine Dio, non hai messo mai in relazione il tuo lavoro alla religiosità.
Quello della fede è comunque un tema che hai affrontato spesso, sia
con l’icnografia religiosa, che con argomentazioni antropologiche che
sconfinano in quei territori.
Domanda complessa, che vuol toccare l’indicibile; che non è indicibile perché non lo voglio dire ma perché non lo so dire. Proverò a
risponderti partendo dalla speranza che in me non nasce da un afflato religioso, quanto dalla convinzione che solo l’uomo può salvare se
stesso. Gramsci lo chiamava l’ “ottimismo della volontà”. L’umanità
è su una locomotiva che sta correndo troppo veloce senza meta e senza conducente, una volta c’era almeno l’idea di Dio che dava bene o
male una direzione oggi non c’è più fede e nemmeno ragione. Faccio
fatica ad usare il termine Dio perché non sono mai riuscito a dargli
sostanza, mi è molto più vicino Cristo “verbum caro factum est”. La
parola si fa carne e come nella scultura il pensiero e la parola si fanno
forma, sostanza. Cristo poi muore e risorge: qui comincio a perdermi,
a barcollare tra momenti di buio e di luce alla ricerca di un senso
dell’esistere, al profondo afflato dell’eterno che vuole convincermi che
non moriremo per sempre, che in un modo o nell’altro saremo vivi. Mi
ricordo le parole di mio padre, in una notte di santa Lucia, avevo cinque anni e guardando le stelle mi disse: “quando non mi vedrai più io
sarò li dentro in una di loro, dopo qualche giorno se ne andò”. Il senso
dell’eterno lo trovo lì, in quei cieli profondi senza luna dove l’occhio
un poco alla volta riesce ad andare sempre più lontano e ritrovo la sua
presenza, la sua voce che in silenzio mi guida ogni giorno.
Ecce Agnus Dei,
2000.
Foto Gianni Canali.
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Con lui ci sono tutti coloro con cui ho condiviso un pezzo di vita e mi
dicono: “alza gli occhi, guarda il cielo, continua a sognare, cerca di
volare” Un’energia cosmica, un equilibrio delicato che si può rompere
con un non nulla, ma che mi fa sperare che non si possa mai morire.
È forse questo Dio? È questa la fede? Per quello che mi hanno insegnato da bambino, credo proprio di no. Qui mi fermo perché sono
nel buco nero dell’indicibile. Con questo spirito ho sempre affrontato
l’iconografia religiosa sia come “illustratore” di libri che come scultore, facendomi guidare dalla passione per l’uomo, scavando nei suoi
dubbi, nelle debolezze, sia che si trattasse di Giuda o Cristo. In questi
interventi ho sempre messo la mia attenzione al rispetto del credente, conscio che quel viso di donna che io andavo modellando per lui
sarebbe diventato oggetto di culto: una Madonna, una santa a cui affidarsi nel momento del bisogno. Ho comunque sempre operato nella
massima libertà, dichiarando anticipatamente al mio committente del
mio stare sulla lama del coltello in bilico tra carne e spirito, tra il buio
e la luce, in linea con tutta la mia scultura nella spasmodica ricerca di
farla parlare correndo il rischio di farla cadere.
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Sei stato molto chiaro prima, parlando del tuo nuovo inizio attraverso
il confronto con l’opera di Piero, si è capito bene il momento di crisi
che devi aver attraversato e quello che ti si stava prospettando. Martin
Buber analizza in maniera fulminante un piccolo verso della Genesi,
quando Adamo si nasconde dopo aver mangiato il frutto dell’albero
del bene e del male. Io scoprii il suo commento al liceo e da allora mi
accompagna sempre siccome verte su una domanda fondamentale:
«Adamo dove sei?». Qui il Dio della Bibbia chiede di rendere conto
della nostra vita, della nostra posizione in questa vita. Tu dovessi
rispondere che diresti?
Ti risponderei con le stesse parole di Martin Buber: “io sono nel luogo
in cui si trova il mio tesoro”. Io sono dove è la mia scultura, che non
è il tesoro che avrei voluto, ma è quello che ho trovato, che mi è stato dato, quello con il quale mi misuro ogni giorno da quarant’anni,
imparando ad amarlo, accudirlo, curarlo come si fa con le cose più
preziose. Il mio sogno è sempre stato suonare uno strumento. Ci ho
provato in tanti modi: con quelli a corda e poi a fiato e ancora il pianoforte e poi anche i tamburi, ma nulla è successo, solo una perdita
di tempo e spreco di denaro. Poi un giorno, un amico scultore, sbircia
due quadri che stavano nella stanza dove mi cimentavo a dipingere e
sconcertandomi mi chiede se non ho mai provato a fare della scultura.
A dire il vero ci avevo pensato, tuttavia mi pareva troppo complesso.
Ma quella domanda mi smuove qualcosa dentro: per gioco acquisto
un pacco di argilla e voilà, senza fatica, inizio a fare della scultura.
L’argilla si modella da sola tra le dita, quasi un miracolo! Ti confesso che la cosa non mi entusiasmò in modo particolare e ancora oggi
posso dirti che se avessi potuto scegliere, al di là del grande piacere
del modellare, avrei preferito essere musicista. Tu non mi crederai,
ma i sogni più belli sono quando mi trovo a suonare la tromba o il
sax con gruppi fantastici, facendo musica straordinaria mai sentita.
Ma la mia strada era un’altra, il mio destino era segnato in mezzo
alla terra e se volevo arrivare alla pienezza del mio essere è lì che
dovevo scavare. Non ci sono altre strade e quando tu trovi la tua devi
amarla con passione, devi ascoltare le voci che vengono dal profondo,
seguirle senza paura. Allora tutto, non so come, no so perché, prende forma, ha un senso e scivola via armoniosamente un giorno dopo
l’altro, idea dopo idea. L’anima si apre su percorsi sconosciuti e anche
nei momenti difficili accade il miracolo. I nodi si sciolgono, improbabili relazioni si fondono, tasselli impossibili si incastrano. Scopri che
il tuo fare scultura non è importante per l’oggetto finale, ma quanto
per il percorso interiore che fai per raggiungerlo e per le relazioni che
costruisci attorno a questo percorso. La scultura diventa mezzo per
raggiungere il senso della vita. Scopri così che nulla avviene per caso,
che tutto si lega, tutto “torna”. L’importante è che rimanga per dirla
con Buber: “nel compimento dell’esistenza alla mia portata”. Queste
due parole “alla mia portata” sono la chiave per aprire lo scrigno del
tesoro. Ti voglio raccontare un episodio fondamentale della mia vita
riguardo a questo concetto. Erano gli inizi degli anni Ottanta, mi trovavo una sera a Milano accompagnato da un gallerista bergamasco,
con l’obbiettivo di presentarmi a un suo collega “importante” per una
possibile collaborazione. Milano, per uno che veniva dalla provincia,
in quegli anni era pura mitologia. Allestire una mostra lì era come
toccare il cielo. Passando in via Turati al numero 8, davanti alla Galleria Ada Zunino, sentii una di quelle “vibrazioni” interiori forti che
altre volte ho provato nella vita. Oggi lo riconoscerei immediatamente
come un “mio luogo”, ma la presunzione che mi impregnava allora mi
portò a ricacciare indietro quella voce e a girare velocemente l’angolo
convinto di meritarmi molto di più. Quella sera l’incontro con il gallerista “importante” fu fallimentare. Aveva una squadra ben fornita
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di nomi altisonanti e della scultura in generale poco gli interessava...
nulla della mia!! Passarono anni confusi di viaggi in treno verso la
mitica Milano alla ricerca bulimica di una galleria, buttandomi in ogni
porta senza ordine ne stile, solo attratto dalla bella vetrina o dalla
dimensione dello spazio. Tornavo a casa sempre più interiormente disordinato, furono anni in cui il girare a vuoto, dentro e fuori di me,
era diventato il mio stato creativo permanente. Finché, un giorno, il
proprietario della galleria Vinciana, allora in zona Montenapoleone,
forse preso da compassione o da amore filiale, molto gentilmente mi
fece accomodare e mi ascoltò. Guardò con attenzione le quattro foto di
opere e il misero catalogo che avevo tra le mani e mi disse: “Vada da
Ada Zunino, lei è l’unica che può aiutarla a introdursi in città”. Il mio
destino mi riportava lì, in via Turati al numero 8. La presunzione in
tutti quei viaggi Bergamo-Milano si era dissolta come la nebbia della
pianura , finalmente stavo diventando un altro e la galleria di Ada era
sempre più mitica ogni volta che la frequentavo. Solo alla fine degli
anni Ottanta la signora decise fossi pronto per il grande balzo, dando
inizio al mio percorso con una presentazione in catalogo del giovane
Vittorio Sgarbi. Ero entrato finalmente nel solco del mio destino e
tutto cominciò a crescere armoniosamente, a fluire senza fatica fino ai
nostri giorni. Come ben sai il mio cammino è sempre stato ai margini
dalle luci della ribalta, ma assolutamente non mi tocca, consapevole
fino in fondo che questa è la mia portata. Dove sono oggi? Qui, davanti a una nuova scultura nella continua ricerca di capire il senso della
vita magari nell’angusto tentativo di riunire i due mondi, quello della
terra con quello del cielo. Forse la ragione intima dei miei angeli sta
proprio in questo percorso.
di fare, tutta presa com’era per lo studio della storia dell’arte. Non mi
fu assolutamente d’aiuto. Io, testardo, non desistetti e mi feci regalare
per il compleanno un bellissimo cavalletto in legno da plein air, quelli
che si piegano come una valigetta che puoi portarti in spalla, qualche
tubetto di colore e quatto cartoni intelaiati. Le prime esperienze si
erano consumate appoggiato a un leggio da tavolo con dipinti a olio
su cartone. Ma la rivoluzione arrivo attorno al 1967, l’anno in cui
la Fratelli Fabbri editò I classici dell’arte. Il primo che acquistai fu
La scuola di Barbizon: riletta oggi, dopo l’incontro con Besharat e la
sua galleria a pochi metri dallo studio-casa di Millet e Rousseau, sa
quasi di profetico. Conservo questo volume come una reliquia, pagine
inzuppate di pittura ad olio, impronte di carboncino sulle riproduzioni delle opere allora prescelte: Daubigny, Troyon e le Primule di
Millet. Poi mi innamorai di Constable, fino a che iniziai una pittura
mia fatta di uomini lunghi alla Giacometti, che cercavano di reagire
all’accerchiamento della città. Vennero i primi muri con sabbia e sassi
su tavole di legno, perché dovevano sopportare il peso della preparazione e inconsciamente la pittura si stava trasformando in scultura. I
pennelli servivano solo per trasportare il pigmento dalla tavolozza al
supporto, poi intervenivo direttamente con le mani o con degli stracci
per stendere il colore. Devo confessarti che vinsi anche un premio in
un concorso con un’opera di quel periodo. Tutto era però faticoso: il
colore ad olio, per la sua morbidezza e leggerezza, mi sfuggiva dalle
dita ed era totalmente refrattario alla mia sensibilità, ne mi portava ai
risultati desiderati. Non fu un periodo di grandi soddisfazioni, finché
appunto non arrivò l’amico scultore che dissipò con due semplici parole e un punto interrogativo la certezza di aver trovato la mia strada.
Prima di fare scultura quindi hai avuto un periodo pittorico. Come hai
iniziato a dipingere? È rimasto qualcosa di quella esperienza o è stata
solo una parentesi in attesa di trovare «qualcosa alla tua portata»?
Come dicevo la propensione alla scultura non si è palesata immediatamente: quasi come un cercatore d’oro ho dovuto scavare per trovarla.
La pittura fa parte di questo percorso ed è successiva al fallimentare
approccio con la musica, che è durato però molto di più nel tempo.
Erano i primi anni delle Magistrali, forse per reazione a una mia insegnante invasata dell’Optical Art, che ancora oggi non sopporto, cominciai a interessarmi di pittura. L’insegnante, dopo il biennio, cambiò, tuttavia anche la nuova si dimostrò disinteressata al mio bisogno
Dopo la Zunino venne Pino (Valigia) Gastaldelli, un personaggio che
purtroppo pochi della mia generazione ricorderanno. Io lo intervistai
quando stava per chiudere la Galleria vicino al Castello. Era un furbo, mi disse: «ieri sono stato allo stadio e ho capito cos’è la bellezza».
Io pensai a qualche quadro, qualche scultura, e lui se ne uscì: «le
gambe di Naomi Campbell». Col tempo gli do ragione, bello come la
vita non c’è nessuna opera d’arte. Te lo ricordi?
Pino Gastaldelli era una persona eccezionale. Per me era semplicemente il Gasta. Potrei parlarti ore della sua arguzia, dei suoi aneddoti,
di quelle storie strane di artisti che non riuscivi mai a capire dove
finiva la verità e iniziava il suo romanzo e viceversa. Gli artisti però
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Dedicata a Piero,
1990.
Foto Gianni Canali.
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il Gasta li conosceva veramente, li frequentava e loro frequentavano
lui e parliamo di Fontana, Guttuso, Scanavino, Jorn e Manzoni, per
arrivare a quelli che incontravo in galleria, Tadini, Mondino, Dova o
il vecchio Minguzzi che, quasi cieco, mandò il suo assistente all’inaugurazione della mia prima mostra. Pino era uomo intelligente, a suo
modo molto sensibile, dotato di quella intuizione istintiva per l’arte
che gli permetteva sempre di scegliere i pezzi migliori di un artista.
Non era mai banale: gli Scanavino o i Fontana ammirati nella sua
galleria non li ho mai visti nel mercato delle fiere, avevano un’altra
qualità, altra forza. Pino aveva il fiuto del grande gallerista, ma questo
dono lo educava andando negli studi dei suoi prediletti del momento,
anche due volte a settimana, per capire il meccanismo creativo, ne era
curioso, chiedeva, osservava, toccava. Il suo sforzo era di entrare in
sintonia totale con il lavoro: ecco perché poi riusciva a distinguere uno
Scanavino o un Guttuso falso a distanza di dieci metri. Mi fece cercare
da un collezionista che aveva acquistato una mia opera dalla Zunino e
che frequentava entrambe le gallerie. Capii immediatamente di essere
davanti a un personaggio di altro livello, a volte cinico, anche spietato, ma profondamente corretto. Una volta stabilite le regole del gioco
tutto filava via senza intoppi. Professionista e professionale senza pari,
stimato e rispettato nell’ambiente.
Pino si era costruito nel tempo una fiducia e una credibilità unica
basata sul prezzo, ma soprattutto sulla qualità dell’opera e sul proporre in anticipo pittori che avrebbero raggiunto vette considerevoli.
Un giorno mi accennò di una mostra di disegni, credo intorno agli
anni Sessanta, di Cy Twombly andata piuttosto deserta e il rimpianto
successivo di alcuni collezionisti che poi l’avrebbero ascoltato come
un guru. Gasta era un uomo attento a quello che succedeva, non inseguiva mode o tendenze, ma correva dietro al suo fiuto raggiungendo
un mix di innovazione, mestiere e qualità oggettiva dell’opera. Aveva
un suo rigore e dei parametri di giudizio ben precisi con i quali oggi
avrebbe fatto molta fatica a orientarsi.
Come fu il distacco professionale?
La sera che decisi, dopo un lungo travaglio interiore e tanti dubbi, di
anticipargli che avrei firmato il mio primo e unico contratto di esclusiva con un suo collega concorrente, si sentì tradito e non fu certamente
tenero con me. Quel contratto mi permetteva di lasciare il mio lavoro
di bancario e dedicarmi totalmente alla scultura, non potevo assolu-
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tamente perdere l’occasione. Compresi e feci mio questo suo disagio.
Ero diventato in quei pochi anni il figlio che non aveva avuto e lui, per
me, un poco il padre che mi era mancato. Col tempo la mia crescita
sul mercato e tra la critica lo rese sempre più orgoglioso, fin quando
un giorno, abbracciandomi, mi disse: “hai fatto bene a firmare quel
contratto, io non sarei mai riuscito a proporti una soluzione cosi definitiva per la tua vita e la tua arte”. Le mie visite a Milano non potevano escludere un passaggio obbligato dal Gasta e ci incontrammo sino
a che chiuse la seconda galleria in zona SanVittore. Poi, persone che
non avevo mai conosciuto prima lo isolarono, forse in un suo momento
di debolezza e difficoltà; ho il rimpianto di non averlo potuto salutare
neppure al telefono prima della sua morte.
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Un altro incontro importante è stato con Massoud Besharat, che una
volta hai definito «l’unico vero sognatore che ho incontrato nella mia
vita», come mai?
Massoud Besharat, iraniano poliglotta, agnostico e intimamente,
fors’anche, apolide, imprenditore-collezionista negli anni più recenti
e diventato un gallerista o forse meglio dire promotore d’arte che si
divide tra Atlanta, Parigi e Barbizon, dopo aver girato il mondo intero. Il primo incontro avvenne nel 2012, nella sua bellissima casa in
Boulevard Kennedy a Parigi a fianco dell’appartamento dove nel 1972
Bernardo Bertolucci girò l’allora “scandaloso” Ultimo tango a Parigi.
Per un giorno intero ci siamo studiati, parlando di tutto senza parlare
di nulla di quello che ci interessava veramente, poi ci siamo trasferiti
a Barbizon e qui ho toccato con mano il suo “sogno”, ossia riportare
nella cittadina di campagna ai margini della foresta di Fontaineblau
l’arte, fatta di quella pittura, quella scultura comprensibile e fruibile
da tutti. Riprendendo in mano idealmente l’eredità morale e culturale
di Millet e compagni che proprio lì si erano trasferiti numerosi in un
afflato di riconciliazione tra arte, natura e umanità. Questo movimento
portava dentro di se valori rivoluzionari sotto un profilo etico e morale
straordinari, ieri come oggi. Furono gli antesignani dei moderni movimenti ecologisti. Grazie ai barbisonniers, così venivano chiamati, noi
possiamo ancora godere della foresta di Fontainebleau, perché furono
loro, con l’aiuto di artisti richiamati da mezza Europa, a salvarla da
un devastante progetto di disboscamento. In seguito al loro impegno
nel 1848 le autorità la dichiararono “riserva artistica”, introducendo,
per la prima volta nella nostra storia, il concetto del rispetto e della
tutela della natura alla pari di un’opera d’arte. Come puoi ben capire,
quel “sogno” mi colpì profondamente e istintivamente da quell’istante
decisi di entrare a farne parte, per quel poco o tanto che mi veniva
chiesto. Mi parse e mi pare tutt’ora follia pura, non foss’altro che per
l’impegno finanziario, ma i grandi sognatori, come i grandi navigatori,
vivono giorno per giorno, attimo per attimo nella profonda certezza di
veder spuntare la nuova terra all’orizzonte: chi vuol condividere con
loro la scoperta o si affida senza timori o rimane in porto, non ci sono
altre alternative. Senza questi pazzi, credo l’umanità non si sarebbe
mai evoluta. Ci sentiamo sovente per telefono e noto con piacere che,
nonostante le tante difficoltà, resiste, anzi continua a camminare sulle nuvole ampliando il progetto, spostando l’attenzione sulla scultura
quale ideale collante tra il paese, la galleria e la foresta. Per quale
scopo? Per il piacere e l’amore per l’arte che lui ama. Non posso che
augurarci buona fortuna.
I tuoi rapporti mostrano sempre una visceralità profonda, che poi torna anche nel dialogo - quasi fisico con l’opera.
Questo, come dicevo, accade in particolare con il disegno-progetto,
quello che comunemente definiamo “schizzi”. Forse perché è la parte
più profonda del mio essere, quella che emerge e in qualche modo cerca di prendere forma, e in questo suo status indefinito ha in nuce una
miriade di soluzioni che potrebbero svilupparsi e crescere. Fors’anche
perché le idee sono come fantasmi che appaiono una volta per poi
sparire per sempre e tu devi catturarli in quell’attimo o mai più. La
ritrosia a mostrarli può essere generata da una istintiva autodifesa
oppure dalla certezza dell’incomprensione. Il rapporto con la scultura
è completamente diverso, a volte il portarla alla luce mi sfinisce talmente tanto che arrivo al punto di odiarla o non amarla mai: il suo
sfuggirmi e scivolarmi dalle mani mi fa sentire come un amante tradito. È una lotta continua con l’assoluta purezza dell’idea primordiale,
dunque più lontano pare ciò che vedo formarsi tra le dita da questo
assoluto, più l’opera in divenire si rende elemento di disequilibrio interiore, a volte di sofferenza, disturbo; quando non ho avuto il coraggio
di distruggerla, già il solo ripudiarla o non vederla diventa motivo di
sollievo. Per fortuna ho distrutto molto. Comunque non riuscendo mai
a raggiungere un senso di “pienezza” il distacco dall’opera non è traumatico, anzi. Al contrario, sono sempre eccezionalmente innamorato
di quelle che stanno per venire.
Pagina seguente,
Angelus omaggio
a J. F. Millet, 2013.
Foto Yuri Colleoni.
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Quali sono i materiali delle tue sculture?
All’inizio per motivi pratici, economici e pure di inesperienza, ho usato
molto l’argilla. Poi è stato il cemento, il bronzo, il marmo, quindi contaminazioni tra bronzo e ferro, bronzo e terracotta, a volte il tutto con
qualche inserto di vetro. Oggi preferisco lavorare su “anime” di polistirolo che rimodello in cera, con l’aggiunta di sabbia, argilla o tutto
ciò che ritengo utile allo svolgimento di un linguaggio che non ha più
barriere. Non mi pongo limiti, il materiale deve solo essere funzionale
e affine, direi in sintonia con quanto si sta concretizzando.
Torso, 1984.
Foto Gianni Canali.
Poni sempre una certa attenzione alle basi, che talvolta sono parte
integrante dell’opera, in ogni caso dimostrano di essere pensate.
Le basi sono un chiodo fisso, che immagino già nello schizzo, dunque
nascono assieme al soggetto e quando questo non succede può accadere che l’opera rimanga sulla carta oppure modellata in un angolo
dello studio per molto tempo prima di fonderla perché finalmente ha
trovato la base corretta. “In equilibrio sopra la follia”, ora a Barbizon,
è rimasta appunto su di un foglio e nella testa per tre-quattro anni,
finché non ho individuato l’asse di equilibrio controbilanciato da una
gabbia di farfalle. Lo stesso per “Quando il cielo ti accarezza” una figura di donna in piedi davanti al mare. Qui il problema è che non sono
mai riuscito a modellare il mare, dunque l’ho inizialmente esposta
collocata su di un semplice cubo in ferro finché, una sera, disegnando,
mi è apparsa sopra una barca alla deriva. Era il suo destino, piuttosto
faticoso da individuare. Tutta questa ricerca la ritrovi nei disegni preparatori che non possono prescindere dalla base e non potrebbe essere
altrimenti perché la scultura é come una casa e la base sono le sue
fondamenta. Torniamo sempre allo stesso punto di partenza: l’opera
ha un suo luogo preciso e la base è l’inizio di questo luogo. Separarle
sarebbe come togliere le nuvole dal cielo.
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Molti tuoi colleghi tuttavia l’hanno eliminata, o comunque non la considerano con la stessa attenzione.
Comprendo chi la mette in discussione perché per molti anni ho modellato a prescindere dalla base, poi, nel 1986, concepii una mostra in
cui le opere, frammenti di poltrone con figure appena abbozzate, torsi
maschili, lunette e altro, stavano tutti bellamente infilzati su dei leggeri ferri neri con l’intendimento di far “sparire” il supporto. Mi ricordo
che aggiunsi persino della sabbia sulle piastre per nascondere il tutto.
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Il risultato fu che terminato l’allestimento fui preso da un’angoscia
tremenda. Le opere risultavano sospese in un vuoto innaturale, artificiale, apparivano false, la loro drammaticità era totalmente azzerata
dall’ipocrisia di una finta leggerezza. Non toccavano terra, la sfioravano appena, eppure, avevano la presunzione di raccontare di uomini e
di donne, di carne e di sangue, di vita e di morte. Ma dove affondavano
i loro piedi, le loro radici? Non c’era coerenza, anzi erano una mezza
verità. Fu un colpo allo stomaco durissimo, avrei buttato all’aria tutto
e sarei fuggito via. Ancora oggi sento l’angoscia di quella rivelazione,
cosi’ improvvisa e inopportuna. Non potevo accorgermene prima? Fu
una grande lezione! Da li ripresi con pazienza e umiltà lo studio della
scultura antica, classica o moderna, perché anche Moore, Martini e
persino Giacometti, come molti altri, non prescindono dalla base.
All’inizio i problemi espressivi immagino fossero altri, da dove sei partito?
La mia prima scultura faceva riferimento alla metafisica di Giorgio
de Chirico, perché lì ero arrivato con la pittura. Oltre ad essere affascinato dal mistero intrinseco di questo linguaggio, le teste a uovo mi
permettevano di nascondere il rischio di affrontare il tema della testa.
Poi, man mano che prendevo confidenza con l’argilla e la tridimensionalità istintivamente sceglievo l’espressività del corpo, in modo particolare il busto, le teste sono arrivate qualche anno dopo, gli arti ancora
più in là. Il periodo dei “torsi” è contemporaneo a quello dei “muri”,
delle “lunette” informali. Sono temi che si intrecciano, o meglio, sono
un unico tema con nomi diversi. I torsi non sono altro che muri, ultimi baluardi a difesa del cuore dell’uomo, le lunette stanno sopra le
porte delle chiese o dei templi e introducono alla sacralità dell’essere.
Ponevo tutto questo armamentario su tondini di ferro ed esposto in
verticale in guisa di trofeo.
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Di che anni stiamo parlando?
La decade 80-90. Quelli difficili di cui accennavo della “rivelazione”
offertami da Piero della Francesca. Anni di denuncia, di impegno politico e presa di coscienza di un’epoca ormai agli sgoccioli, mentre si
percepiva la possibilità di costruire un tempo nuovo e forse migliore,
che in verità si è rivelato, al contrario, un fallimento totale! La scultura sgorgava libera, portando alla luce aspetti inconfessabili e nascosti,
cominciavo a conoscermi meglio.
A un certo punto però cambi la modellazione, i visi cominciano a
emergere, il tuo modo di relazionarti al corpo trova una definizione
che prima mancava.
La verità non è mai limpida, soprattutto all’inizio, e la strada verso di
lei è sempre incerta e confusa. La giovinezza, con la sua esuberanza e
persino la sua incoscienza, miscelate a una buona dose di presunzione,
trituravano ogni cosa velocemente, ma soprattutto in questi frangenti
è normale possedere la convinzione di aver già capito tutto. Poi una
mattina mi guardo allo specchio e una voce dentro mi chiede: “ma
sai fare una mano, un viso?”. Credo ci sia una regola imprescindibile quando fai l’artista: puoi ingannare gli altri ma mai te stesso. Io
ben sapevo di essere in grave difetto e cercai subito di porre rimedio.
Iniziarono i viaggi a Firenze: il Bargello, l’Accademia, Forte Belvedere divennero gli appuntamenti fissi delle vacanze. Anni di studio, di
prove di recupero della figura. I temi sempre gli stessi, ma vestiti di
un linguaggio nuovo. Venne poi l’innamoramento per gli Etruschi e la
Roma classica, poi il Romanico, che mi porto in lungo e in largo per
l’Italia e la Francia Meridionale. Allo stesso tempo, non disdegnavo
Canova, Rodin, Medardo o il Grandi del Monumento di piazza Cinque
giornate a Milano, attento comunque sempre ai contemporanei, arte
concettuale compresa. L’insegnamento che ne ho tratto è che all’interno della storia dell’arte il tempo non esiste perché le idee, soprattutto
quelle buone, non hanno tempo e rimangono li come stelle in un universo eternamente in evoluzione. Si tratta solo di alzare la testa, aprire
gli occhi e vedere. Spesso si guarda senza mai vedere e se non si vede
non si capisce. È una questione di conoscenza, di approfondimento, di
ricerca e di studio. Il punto critico della scultura contemporanea sta
qui, si parlano molti linguaggi, forse troppi, ma il gran numero degli
attori in scena non conosce la lingua e nemmeno il copione. Gente che
balbetta e insegue a braccio una labile idea, Quasi sempre ha bisogno
del “traduttore” o del “suggeritore” perché il pubblico capisca.
Questa ricerca dove pensi ti abbia condotto, e quale è stato il limite
oltre il quale non saresti voluto andare?
Comincio dal fondo: questo mio lungo e necessario percorso autoimposto per impossessarmi di un linguaggio fondamentale della storia
della scultura, di cui sentivo un bisogno profondo, si è esplicitato in
un continuo scavo con la piena consapevolezza che non avrei mai voluto raggiungere quel verismo dalla “perfezione” stucchevole. Voglio
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Sull’abisso
del’eternità, 2011.
Foto Gianni Canali.
anche chiarire che non ho assolutamente nulla contro questo modo di
fare scultura, è solo questione di gusto. Il mio istinto gestuale, imperfetto, spesso abbozzato e amante delle troncature mi spinge verso una
dimensione che chiamerei “aperta”, a un’opera in divenire, sia nel
farsi che nel disfarsi, sempre in piedi per miracolo, asimmetrica, posta
in equilibrio instabile o appoggiata a un qualcosa che la sostenga, la
rassicuri e le dia forza. In questi ultimi anni cerco spasmodicamente
la leggerezza più assoluta, o meglio ancora, come sostiene in un suo
scritto sul marmo di Rodin Aline Magnien, cerco la “trasparenza”.
Ricerco una scultura che entri armoniosamente nello spazio e che non
solo lo occupi, ma lo penetri e ne sia penetrata fin da divenire un unico
elemento. In questo senso la figurazione verista mostra inevitabilmente tutti i suoi limiti, non solo nel racconto quanto nei confronti del
“luogo” contemporaneo. Il tema decostruttivo è sempre stato fondamentale nel mio lavoro, pure negli anni della figurazione più estrema,
tant’è che, magari anche marginalmente, potevi trovare soluzioni di
non finito o la presenza di elementi grumosi.
Si tratta di un filo rosso che compare e scompare carsicamente nella
tua produzione e che ha attraversato il periodo informale di fine anni
Ottanata ma si è ripresentato in quello più decostruttivo di oggi.
L’informale era un linguaggio primordiale, istintivo, che usciva dalle
mani di getto, senza controllo, come un fiume in piena. Oggi trovo che
la decostruzione linguistica sia il risultato di anni di maturazione formale ed estetica, di esperienza tecnica su materiali diversi e differenti
approcci alla gestazione dell’opera. È sempre l’istinto che governa il
gesto, ma ora è un istinto controllato, educato, un gesto “sapiente” e
tuttavia immensamente più libero. Oggi sono libero di scegliere il linguaggio che voglio. La conoscenza è libertà.
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Un esempio potrebbe essere la grande «Anima Mundi»?
Questa scultura ne è una dimostrazione perfetta, perché nasce da oltre
un anno di studio. Un grande momento di libertà, ma aggiungerei anche di illuminata committenza da parte della Fondazione del Credito
Bergamasco e del suo segretario Angelo Piazzoli. Mi va di ricordarlo
perché questa esperienza e stata fondamentale nel mio percorso e ha
dato la stura alla successiva realizzazione di quattro opere monumentali che, da quel input, presero abbrivio e vita. Qui, dovendomi confrontare con la piazza e i grandi spazi della città, sono stato obbligato
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a ripensare le masse, i vuoti e i pieni in maniera totalmente diversa.
La figurazione diventa marginale rispetto alla trama del racconto, che
non si svolge più nell’intimità di quattro mura domestiche, o di un
chiostro silenzioso, ma in mezzo alla strada, tra un marciapiede e una
panchina, tra un palazzo di 30 metri di marmo e uno ancora più alto
in acciaio e cristallo. Nella Trilogia che ne segue: “Il giudizio”, “Il
Paradiso perduto” e “Sull’abisso dell’eternità” l’opera riprende totalmente il suo linguaggio magmatico partendo da due piani verticali
contrapposti che generano con una sorta di cortocircuito, una nuova
raffigurazione fuori dai canoni tradizionali. Questo nuovo linguaggio
scenico è corredato da innesti di architetture in ferro che, partendo
dall’opera, penetrano nello spazio circostante e nel contempo se ne
assicurano uno proprio, autonomo e vitale, amplificandone simultaneamente il senso e l’energia. Ritengo che in questo modo la scultura
perda in qualche maniera la sua rigidità formale, acquistando invece
possibilità di varianti future in armonia con il luogo nuovo da occupare. L’obbiettivo e quello di cercare di dare una risposta ai limiti
oggettivi della figurazione nella monumentalità contemporanea, quei
limiti già intravisti e dichiarati da Martini nel pamphlet La scultura
lingua morta.
Non so se sono riuscito nell’intento, ho cercato di fare del mio meglio.
Come sempre, “ai posteri l’ardua sentenza”...
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Il Giudizio, 2011.
Foto Gianni Canali.
Pagina seguente,
Anima Mundi,
2011.
Foto Gianni Canali.
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Dedicated to Irvana, throughout my life, my understanding
companion and support.
Getting Your Hands Dirty
Interview by Flavio Arensi
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In a Safe Haven
Whilst in Capri (noblesse oblige) I was reading the typescript, at the Quisisana (not at my own expenses), as a guest judge of the Malaparte Prize, and
I was indeed thinking of asking Ugo to sign one of the Prize’s next posters,
which many artists have contributed to, over its seventeen editions. I was
right in doing so, as I then discovered whilst reading: “Drawing is my game,
my passion, my drug, my great love.”
When, lo and behold, just outside the hotel, the sight of an unmistakable
statue lured me into an art gallery. It was one of his Angels, with its wings
wide open and its graceful foot standing on the tips of its toes, stepping
towards the observer/winner/protected. Ugo also donated another, much
larger, one to the Vittoriale degli Italiani, which we placed right in front of
the entrance, to protect and encourage people to visit. I don’t usually believe in these things but in this case it has brought good luck, there is a steady
increase in visitors every month.
The Angel was on its way to Moscow, together with two other sculptures,
traveling along the same route that Lenin once took. As I observed them
amongst other pieces by various other artists –both classical and abstract –
it seemed to me that a sign of Riva’s power lies in his ability to propose that
same classical austerity in an abstraction from his own mind: and I happily
read over the typescript many times. I underlined a series of transitions,
which convey what I picked up from the book.
This, for example, is enough for me to understand his work: “Therefore a
sculpture is perfect when it finds its place, the place which makes it stand
out and which welcomes it at the same time, a place with which it can share
a dialogue at every moment.” It sounds like a modern statement, but what
it actually means is a desire to enter empty spaces, and transform them,
using your own original work, to the point of making them seem like your
very own. Without the need to say a word.
What proves most exciting, whilst reading, is that you begin to understand
who Riva really is. When giving an existential recipe to young sculptors, he
points out his very own ingredients: “Intellectual honesty, sincerely anarchic coherence”. I am by no means a young sculptor, but here you can see
why Ugo and I are friends, even though we rarely see each other.
Here we have the confirmation, when discussing God: “only man is capable
of saving himself.” And we have been saved, dear Ugo, by getting our hands dirty. And even our faces a little, in the process.
Giordano Bruno Guerri
Capri, 5 October 2014
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Ugo Riva is a sculptor who models directly, and is not afraid to get
his hands dirty. I have often spoken to him about the sculptor’s task
and the more we speak, the more it seems to me that sculpture is not
very well known or well observed. I’m not just talking about people
in general, but also those who work in this particular field. One day,
whilst travelling from Ravello to Florence, somewhere along the Tiber,
I mentioned this thought to Tony Cragg who was sitting beside me,
and in the meantime Lazio’s countryside, which is truly extraordinary, was rushing past the train window. He answered in a clear and
concise way, displaying both normality and also great intelligence; I
can’t remember exactly how he phrased it, but he simply told me that
sculpture is real, something to be approached spatially, an object you
can bump in to, and not simply a painting on a wall that may inspire you to dream. I regret having to summarise in such brief terms a
concept that is certainly wider in its scope, but I believe that his statement was correct. As I repeat this dialogue to Riva, the meaning becomes clearer and more defined, or perhaps I should say “definitive”.
“It’s a very complex subject – he tells me, straight off the bat – and
I deal with it with a straight face: Sculpture is unfashionable, or, to
be more precise, it lies outside the field of expertise of those involved
in putting it on display. Urban planners, architects, tradesmen, and
gallery owners. Not to mention those who claim to study the subject
but have never actually entered a sculptor’s studio to see which tools
the artist uses, or how casting is carried out”.
I’m afraid the problem may also be due, in part, to a contemporary
neglect of the plastic arts, the viewing public not being in a position
to make sense of what they see, with some even preferring to avoid
dealing with sculpted objects altogether.
“Unfortunately, what you tend to see on display around you, and I’m
not only thinking of art galleries but also urban spaces, is often ugly or
incomprehensible, not to mention the fact that only scandals seem to
find their way into the noble hands of the press, such scandals serving
as an excuse to increase ones visibility. The problem is that contemporary sculpture does everything in its power to distance the viewing
public, it encloses itself in a self-serving space where it plays more
with communication, rather than artistic, techniques”.
The philosopher Edgar Wind realized that as western art became au-
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Provocazione,
1983-2007.
Foto Gianni Canali.
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tonomous and sovereign it also began to lose its real power, precisely
what Plato feared. As a result, it has become a decorative, and marginal, part of reality.
“Plato wouldn’t be at all scared of contemporary art – which has long
lost its revolutionary power as an agitator of the public conscience,
seeing as it covers only a marginal role in our society. Everything we
tend to label as “avant-garde” is simply a product that is sustained by
an elite council of “priests” and self-serving observers, whose decisions
are often influenced solely by financial questions. Their rituality is expressed in that sort of ceremony known as the auction, which reaches
its peak when a record sale is made, and as a result a whole series of
gregarious judges base their evaluations upon this standard, the more
artists gain in commercial value, the more important they become.
However, a further step back is automatically taken in the precise moment when this takes place, causing the art system and the rest of the
world to drift further and further apart. I mention a system because it
would be naïve not to imagine that certain decisions are prompted by
specific reasons that have nothing whatsoever to do with the profound
motivation that drives an artist to express himself. This is a situation
we could more or less date back to Duchamp, and which places the
very concept of art at risk, perhaps the result of to revolutionary ambitions, or perhaps no more than casual conversation between friends
whilst playing chess. Then, with the arrival of Pop Art, the very last
mass phenomenon, this abyss became truly immense. The current state of affairs effectively teaches us how on the one hand there are a
handful of “illuminati”, capable of dictating current trends, just as it
is for the world of fashion, while on the other hand there is an ignorant
and “agnostic”, perhaps even conservative, group (of people). If for no
more reason than this, Plato would be completely uninterested in art,
turning his attacks towards social networks, television, plastic surgery,
patrons of Photoshop and anything that “tricks” the community. He
would know full well how to tell manipulators from speculators”.
Taking a step back, earlier you mentioned that these self-same artists
are the first to exclude sculpture, why?
“There are obviously many reasons for this, a couple being more frequent. First of all, the cost itself involved in making a work of art, and
therefore the limits that arise in transporting such a piece and the time
taken to create it, but most of all the complex techniques, the exper-
65
tise, which are largely unknown and means there are fewer and fewer
orthodox sculptors, just as I find there to be fewer and fewer people in
this field who are really competent and able to understand a complex,
but not complicated, language”.
I would like to ask you to clarify something: what do you mean by
orthodox sculptors?
“Anyone who puts an ‘artefact’ on display, namely, something made
with their own hands. Everyone who – setting aside style and the materials used (whether it be marble, bronze, plastic, iron, etc.) – demonstrates the ability to modify and transform materials to their own
liking and taste, elevating it from a formless and motionless state to a
living and pulsing element characterized by the chrism of the act and
energy of the creator”.
66
My old friend Leonardo Cremonini had attempted, before his death,
to delve deeper into the relationship between the presentation and display of works of art, and as time goes by, I fear he may have guessed
at a problem that has now become substantial.
“Real sculpture is the exact opposite of how it is portrayed by the
media! Sculpture needs time for it to begin to speak, it attempts to represent what it intends to say, it must play a role in everyday life, just
as in the past. From this point of view, although earlier I pointed out
the limits to this artistic medium, it’s obvious there is a missing link
between it and those who plan social venues, city spaces. Architects
and urban planners, unless they are sculptors themselves or passionate about sculpture, do not use it, and do not even understand it as
far as I can see. This is possibly because they need to raise their heads
from their desks and actually share thoughts with the artist, work
together as they did on construction sites during the Renaissance; but
instead, as we well know, the world has now become totally egocentric, populated by stars who spend their time and energy massaging
their egos. Cragg is correct, sculpture is a real presence, physical, something you can touch, go through, something you might spot whilst
stuck in your car because of a traffic jam, something which challenges
the surrounding architecture and changes with the seasons or daylight. It’s perhaps the connecting element, the trait d’union, between
man and his constructions, his temples, his skyscrapers. Maybe the
first step towards the sky, or God, for those who are religious. We Ita-
lians have these things in our blood; I refer to the ability of living in a
three-dimensional plane harmoniously and fluidly”.
It may well be that it’s in our DNA, but nowadays it’s hard to believe
that the very same nation that brought to light the Maestà of Duccio could respond to any critical opinion regarding the many horrid
sculptures in our cities.
“Sculpture often has a public or private commissioning committee
which allows certain projects to be created that are challenging under
many aspects. Our cities, just like our churches, are full of ugly statues
and I too ask myself how it is possible to accept, or rather to pay, for
such atrocities. How is it possible not to notice that a statue is void of
sense? As I was saying, sculpture is a very complex art form that implies and touches upon various fields of knowledge: not just the technique and the underlying idea behind the work that is later created,
but rather how it relates to space, the elegance of the rhythm and the
plane which runs through it and of which it is composed: the relationship of the empty void and the complete fullness, the vibrations of its
final skin, which you can see and stroke, without forgetting its colour.
A sculpture is like a sheet of music, even though there’s a straight line,
the notes still move freely and rhythmically as much inside as outside
the line until they compose a melody. There you go… beautiful sculpture, sculpture with a capital S, has to be a melody. A melody which
sounds good both on its own and also when relating to others”.
Therefore?
“Therefore a sculpture is perfect when it finds its place, the place
which makes it stand out and which welcomes it at the same time, a
place with which it can share a dialogue at every moment. Nowadays,
on the other hand, modern works of art no longer have the ability – or
the intention, in my opinion – to seek out a personal place, or to interweave a dialogue with their immediate surroundings. Long past are
the years of our Renaissance of Lorenzo, of Isabelle, of the Gonzaga,
of those of the clergy capable of choosing with exquisite taste, and capable of understanding the importance of artistic methods, a period in
which every object was supposed to represent excellency, had to challenge time, ambitiously sought eternity. The times in which we live are
those of feeble thoughts, of constructions built on foundations of sand
and where the horizon ends at the tip of the nose. What’s important
67
is to create profitable art that fills pockets and advertises in order to
fill heads”.
Do you believe that the quality of artistic products has decreased?
“I believe there to be/that there’s an excess of options for “artistic
products”, made even easier by a whole series of technological possibilities which, whilst widening the linguistic foundation, have not
necessarily increased the quality of cultural and aesthetic proposals. With the advent of digital photography, we have all reinvented
ourselves as photographers. You no longer even need to wait for the
photographs to be developed; it’s now possible to work directly on
the image itself if you learn how to use a good art graphics program.
A lot of work is produced by the truckload and is of poor quality
mainly because of the materials used as well as the ignorance shown
during the selection made by those in a position to choose; technical
ignorance”.
I’ll ask you yet again, what could the solution be?
“The future lies in the hands of those who treasure their hands and
minds, of all those who decide to return to making art with passion,
with love. Delving deep into ancient techniques and applying them to
contemporary ones. Perhaps by studying and analysing both the great
and less well-known teachers who have lived before us. Along this
route they will find elements that Arturo Martini would have called
“tricks”, which are essential ingredients when attempting to render
the work of art unique, the strength to challenge time and eternity.
Along this path there is much in store for the future and a lot to do”.
68
The biggest limit that I have encountered in the art system, outside
and inside the market, outside and inside the academies, is a lack of
knowledge of the history of sculpture, demonstrated by the initially
small amount of interest it has attracted. The last great expert still
remains Mario de Michelli, who is an old friend of yours.
“I was around forty years old when I met Mario. By that time he had
steered clear of militant criticism and was far outside the web of power
games, finding himself at that extraordinary age in which wisdom and
meditation gain the upper hand over every other aspect of life. Perhaps
it’s precisely for this reason that I have become so fond of him, as if
he were a family member, almost as if he were the grandfather I never
had, the elderly wise man of whom you may ask any question. With
both firmness and kindness he helped me gain an awareness of what
it means to be a sculptor. He was an unusual critic, he never directed
me towards anything or anywhere, all he wanted was for me to be
sincerely authentic, profoundly true. Intellectual honesty, make coherent choices, be creatively free, which could at times be contradictory
when dealing with these assumptions; these had to be the basis of my
work. This is the great inheritance he has left in my heart. Culturally
he split my mind in two. Spending time with him was like sitting at a
table with Manzù, Moore, Picasso, Siquieros, and many others, all at
the same time. He could discuss anything from Sironi to Brecht, to the
poetry of Camillo Sbarbaro or to the wandering shepherd, Leopardi.
Anything was possible. It was like being in a film, as though I were
speaking to Martini, to Kollwitz or his great love Courbet. We didn’t
always agree, although that was the best thing that could have happened because we would then begin a debate, a tightly locked dialogue.
Nowadays I write about sculpture because that’s precisely what he
asked me to do, helping me to understand, via his stories Carte d’artista, how important it is to leave a direct account of ones own work,
just as Rodin and Bourdelle did”.
And what would you leave behind for a youngster interested in entering your profession?
“Intellectual honesty, sincerely anarchic coherence, solidarity amongst
artists, watered down with the greeting ritual of Martini: “soul, soul,
soul” reminding ourselves every morning, as soon as you place our feet
outside our bed, that we are only small dwarves and that if we want
to take a step forward – even just to see further – then we must rest on
the shoulders of the giants who preceded us”.
As a decidedly engaged and privileged observer, how would you sum
up the times in which we live?
“I would write that nowadays, - and it’s almost a paradox when talking about art - the intrinsic values that have always been attributed
to works of art, namely beauty, the quality of production, the preciousness of the materials used, are now considered to be defects.
Nowadays, to paraphrase an old Ettore Scola film, you must be Ugly
dirty and mean. But we mustn’t fall into this trap, for we Italian
sculptors, above all, have the responsibility to continue the line of
69
work first made use of thousands of years ago in Ancient Greece and
later by the Etruscans, by the Romans up until Antelami and then the
Pisanos, not to mention Desiderio and Donatello, Michelangelo and
Bernini, Sammartino of the chapel of San Severo, and finally Canova
and the marvellous nineteenth century full of regional ferment, each
school with its own defining mood, passing from Bartolini’s classicism to the impressionism of Medardo, to the Nordic qualities of Vela,
to the clay vibrations of the dippers by Gemito, finally reaching us,
arriving at Martini, the Marinos, Manzù and the forgotten Perez.
Sculpture is in our DNA and it’s not due to vulgar nationalism that I
make this statement, rather it seems to be an objective fact for which
we have been recognised for historic reasons and thanks to worldwide collections. The best foundries and the best marble laboratories
are in Italy; artists from every continent come to us to learn sculpting
techniques and also to see their works produced in the best possible
way. How can we forget the great Henry Moore who, in front of Queen Margherita during her visit to his exhibition at Forte Belvedere in
Florence, thanked his “gouge” from Pietrasanta by saying something
on the lines of: “If it weren’t for him these works would have never
come into existence”. Sculpture is a collective activity that gave rise
to the necessity of workshops in which a whole series of various specializations and professional skills would come into play around the
master: from engravers to finishers for the foundries, from sketchers
to refined gougers who would complete the work in the marble workshops. Irreplaceable professionalism passed on from generation to
generation over a period of hundreds of years. Crafts without written
codes, tricks passed on from teacher to apprentice thanks to elective
affinity, secrets stolen by spying through keyholes or eavesdropping
behind doors. This is a priceless heritage the whole world envies;
however – because of the mad tendencies of contemporary art – there
is a great risk of it vanishing due to the lack of commissions. The
idea behind our “Dialogue” exhibition is to highlight this Italian particularity. Tradition, evolution, research and contemporaneity in a
unique mix in which one ingredient in no way excludes the other, but
rather complements and amplifies the others, creating in the process
a unicum, an unrepeatable and inimitable work of art”.
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Assuming it exists, what should be considered the chief goal for a
sculptor?
Fusion,
Anima Mundi, 2010.
Foto C. Modonesi.
71
Study around,
Metamorphosis,
2013.
“Traditionally the objective is considered to be the ‘masterpiece’, the
perfect piece which challenges history with no need for exegesis or
interpreters to translate it because it is capable of speaking on its own
to anyone in any period of time. Usually, you don’t get anywhere near
achieving ‘great Beauty’ but it’s absolutely essential to try”.
Ever since I first met you, I have noticed that you have a very close relationship with drawing. You always display certainty when addressing
the subject, it’s easy to understand that it’s an important part of your
poetics. Whenever I’ve had the chance to see you at work on important
pieces, also in terms of their size, not just linguistically, you always keep
a drawing close at hand.
“Drawing is my universe, in which everything is born and where everything ends. I have always studied it closely. We have a visceral relationship which first allowed me, as a child, to play, and as I grew
up, to set free and portray my demons, allowing me to become more
self-conscious, and helping me to grow wiser and find my own balance. ‘Drawing is the first expression of the soul’. These are supposedly
the words of Jacopo Carucci, or da Pontormo, as he is usually known,
the immense painter and drawer, who is capable of moving me deeply
whenever I come across his work. I personally find it impossible to survive without a sheet of paper, a panel, or some sort of support, and the
same goes for anything that could be used to leave a mark by brushing,
scratching or etching on or into it. Drawing is my game, my passion, my
drug, my great love, about which I am totally jealous and possessive. On
the other hand, this is the first time that I have stated this, I don’t often
feel the same way about my sculptures which I’m actually rather happy
to see take on another direction, and leave my studio in the hope of
finding a loving collector. I like to see them again, when they survive, in
the houses or gardens where they have gone to live. I look at them with
detachment, often rather critically, as if I hadn’t made them. They are
no longer mine, they belong to themselves; my only hope is that their
legs are strong enough to walk as far as possible over time. The remaining worry is – indeed – whether they will be able to withstand time”.
72
Whilst with drawing what happens?
“The exact opposite. I’m morbidly attached to even the smallest fragment of paper I have left a mark on. What’s more, whenever these
signs are less clear, more confused or tormented, the feeling of attach-
73
ment is much stronger. I suffer each time I’m asked to separate myself
from them, and detaching myself always causes heartache. Whenever,
due to binding reasons, they have to leave, I often make photocopies of them to keep as memories. My drawings are rarely put up for
sale, especially the sketches. If worse comes to worse I may happen to
give them away…but believe me, it proves to be very difficult all the
same!”.
Do they have a preparatory function in relation to the sculpting work
that follows or are they free?
“Their purpose isn’t necessarily preparatory, many of them live in total autonomy, they have their own unique poetics and meaning. Often, just as Mario Radice wrote many years ago on the occasion of
one of my exhibitions in Como, they act as “anticipatory possibilities
for future works”. I have always taken this expert consideration into
account, to the point that I have frequently, when in crisis for a lack
of ideas, taken to rummaging through mountains of paper of “automatic scribbles” which I have meticulously collected, in search of new
stimuli”.
74
Earlier you said that you are very critical of your own work, you used
an expression that leaves no way out: “when they withstand time”. I
remember the poet, journalist, and friend of mine, Enzo Fabiani, once
made me notice how, when correcting some younger elements, the
most difficult thing to do was to avoid criticising or reworking them
by “putting a beard on them”. Does the same thing happen to you?
Don’t you think that your eyes, now, find defects that aren’t actually
present? Maybe you have simply changed.
“What Fabiani stated can definitely be true, especially if one’s creative journey has had various diverse transitions or even lived through
completely different seasons. In this case, perhaps, the risk of “failing
to appreciate” exists, having grown fond of the path which has been
mainly acknowledged and appreciated, for various reasons, as if it
were possible to nullify the fundamental concept of the “global” interpretation of a work of art in the vastest of creative journeys. Even
in this concept the art market has once again managed to interfere
by fragmenting artists to the point of basing evaluations on different
periods, as if they were cattle divided in quarters of first and second
choice”.
How does it feel to see younger work again?
“Sometimes it’s like looking at a childhood photo of yourself, wearing
shorts or covered in pimples. You start to ask yourself: “Is that really
me?” And, of course, it is! It’s you, or perhaps better still, it was you.
It would be ridiculous to attempt to manipulate this following current
tendencies, it would mean changing everything that happened in another time period, another soul, which we shouldn’t be ashamed of for
it is here that we can find the origins of our future. At the end of the
day, if you stay fully “linked” to yourself, that red thread, which ties
together all of your artistic productions, shines through. Everyone’s
soul is a unique specimen, whose very distinctiveness takes a careful
eye to recognize, even in its most complex and versatile genius. Take,
for example, Picasso: his defining sign lies in that fluidity that flows
lightly on any surface, in any language, unaltered through the years,
even though it was affected by a certain amount of fatigue in his final
years”.
But yet, later Picasso was full to the point of overflowing. I know what
you mean, but I’m starting to think that every painting was a small
tile of a larger project, a sort of piece made up of many different pieces. But, we originally took off from your worries concerning the ability of a piece to “withstand”, I should imagine you mean the test of
time. What exactly did you mean by this?
“I have always tried to be very selective, by destroying, reworking,
or in other words “killing” the baby in its cradle. My job has a lot to
do with elimination, laceration, cancellation and reconstruction, and
although my work may appear to be the fruit of instinct, this is not the
case. What you see on display is only the final part of a long and laborious process that involves accepting a result that is always inferior
to the brilliance and greatness of the original idea, which was capable
of moving the soul. As time goes by I have learnt to accept my limits,
otherwise I would have gone crazy. My survival instinct automatically
sets off a security system, which allows me to detach myself from the
piece, almost before it’s finished and before I begin to feel that it’s no
longer mine. I have no memory of the process that took place when
making many of my pieces, even some of the most important ones.
As is the case when I finally meet them again, I never feel a sense of
belonging, as if I had never been either father or mother to them. It’s
almost as if there were two of me, I look at these pieces with the eyes of
75
a stranger, a critical observer, and the only sentiment I feel is, indeed,
the fear that they may not manage to “withstand” time. If this were
the case I would definitely not repeat them, I would destroy them in
order to make others, different from the originals”.
Are there any pieces that you are completely satisfied with even after
many years? Sculptures that give you satisfaction for the very fact that
they achieved the correct balance between the original idea and the
creative process that followed?
“Absolutely not. The idea is always too pure and grand in comparison
to the final result. Having said this, however, I think that “Sfiorato
dalla mano di Dio (Touched by the Hand of God)” and “Come una
resurrezione (Like a Resurrection)”, which were both created so as to
be displayed in the exhibition “Anima Mundi”, still maintain, to this
very day, an important unexpressed potential which intrigues me and
that maybe only larger sizes could really succeed in finally completing
them, which is precisely what happened in the cases of “Paradiso Perduto (Paradise Lost)” and “Sull’abisso dell’eternità (On the Abyss of
Eternity)”, that both withstand time and satisfy me more than others”.
76
What is the reason for this?
“It’s probably due to the large sizes, which exceed three metres in
height and which needed a long preparation process, in addition to
a complex creation procedure. I work alone, I don’t limit myself to
simply jotting down a couple of planning lines on a piece of paper and
then leaving the job of developing the sculptures to other people. If
you make the choice of dealing with these types of people, you must
have an assertively strong idea of what you want in order to maintain
concentration for many months. Large sculpture is a hard beast to
tame and if you’re not profoundly charged and ready, it will dominate
you by collapsing on top of you: let me just say that it’s a gigantic
struggle that can only be conceived when engaging it face to face. It
took me many small steps before reaching these monumental sizes. I
modelled these three pieces one after the other and perhaps I could
ultimately say that it’s something which I had been feeling the need to
do for a long time”.
Their titles appear to be quite indicative of this need.
“I created them purely for pleasure, even though “Anima Mundi” was
my answer to a commission that was so engaged and enlightened as
to unconditionally share my project. They are pieces that focus on the
entire spirit of my age, the thoughts of a middle-aged man who is beginning to take stock of his own existence. They are the arrival point
of a long ethical and aesthetic journey, a victory over the unbearable
and age-old monumental fear. A victory that cost me dearly, having
left behind a large part of myself in the field of battle. After two years
I still haven’t managed to regain the energy that was drained during
that period, in which I used up every last remaining reserve of energy
I had. Drawing is my way of recharging, whilst I await the return of
that desire to give my dreams form once again. On the inside, however,
I’m completely satisfied with how I faced that fear and resolved the
doubts about being fully a sculptor. Once again Mario de Micheli was
right when he used to tell me that at sixty years old I would begin to
understand sculpture”.
I’d like to ask you a personal question, given our friendship, our continuous dialogues. I still remember how, after the retrospective exhibition held in Bergamo in 2008, you confided in me that you found it distressing to see all, or at least most of, your work gathered together at
the same time. When you said that these great works of art “are pieces
that focus on the entire spirit of my age, the thoughts of a middle-aged
man who is beginning to take stock of his own existence”, I thought
straight back to that episode, that confession between friends.
“It was the exhibition held at the Spazio Viterbi in Bergamo thanks
to the stubborn will of then President of the Province of Bergamo,
Valerio Bettoni, originally intended as the first chapter in a series of
exhibitions devoted to the recovery of past and present creative energies in the locality. It was a season of hope and creative ferment such
as the city had never before seen, and, I fear, may never witness again,
that ended miserably, as always in Italy, due to the first small political
change in the system. For me it wasn’t just a run-of-the-mill exhibition, it was the first retrospective one, and most of all I had been
absent from Bergamo’s art scene since 1995 and therefore this gave
me the chance to exhibit a large part of my creative journey in large
open spaces inside an old building from the 1800s and its surrounding garden. I worked at it for a couple of years and the first problem
I encountered was precisely how to go about setting up the external
area where I placed my first monumentally sized piece “Come imperturbabili dei (Like Imperturbable Gods)”, next to the two large angels
On the next page,
Come imperturbabili
dei, 2000-2011.
Foto Gianni Canali.
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80
which are now on display at the Vittoriale degli Italiani. I recovered
various pieces from collectors that I then placed in the rooms of the
building in order to represent all the different periods and themes
of my work, gathering more than forty sculptures for thirty years of
work. I spent months in preparation, building mainly around an aesthetic-emotional and content-related relationship between the pieces
rather than sticking to a rigidly time-related connection. On this
occasion, I received great help from friend and curator Nandi Noris.
I alternated my sculptures with antique altarpieces and paintings,
thanks to the loan that I received from the the Bank of Etruria’s artistic fund, in order to initiate a dialogue between my creations and
those of Sassoferrato or Francesco di Gentile, Fabriano, Nero di Bicci, not to mention the splendid works of Guercino and the powerful
(if not also more similar) Stanzione. Pieces that dated back to 1470
up to the end of the sixteen hundreds, were placed face to face with
my terracotta pieces, displaying a natural fluidity which was rather
disconcerting, as if they had always lived side by side. Although I
cannot remember the exact words of our conversation, seeing most
of my life on display via my artwork in this context profoundly disturbed me. I began to feel the reopening of wounds, which I thought
had healed definitively. I started to think back to the doubts, efforts,
and travel companions who were missing, for example Mario de Micheli, Ada the great Gasta…who knows what they would have had to
say about all this. That exhibition meant more to me than a simple
line drawn on the notebook of life, containing the resulting sums
and subtractions: it marked the abrupt moment in which everything
I had dug out from the depths of myself and scattered around the
world, in the absurd belief of having freed myself forever, suddenly re-surfaced. Instead, I had turned that magma of emotions into
something palpable, and on that occasion it kept returning in like a
repeated regurgitation. The other side of the coin of a sculptor’s job
is: whatever you create will outlive you. Now, after years have gone
by, a similar crisis could be that a large part of my life has passed by,
I have learnt a few lessons in the meantime, but those fundamental
questions have remained the same and unanswered. I’ll confess that
– in any case – nowadays that detachment between myself and my
work has become much stronger and more decisive; I have taken on
a new dimension similar to those who look back with ease and comfort as if it had all just been a film”.
Seeing as you mentioned drawing, I would like to return, as is done
far too rarely in our country, to the use of this expressive tool, specifically because it allows the essence of an artist to shine through.
I can remember another reference point of mine, a sort of mentor,
Gianfranco Bruno, who, when I was starting to take my first steps
in the world of art criticism, taught me to take great care when
looking at drawings, precisely because they are sincere. Here we
have it, in your own drawings many colours emerge which I don’t
find in your sculptures. The use of black, for example, which I link
inextricably to your semiotic approach.
“The colour black grabs me, hypnotizes me. A black sign, with the
contrast of a white sheet of paper, immediately becomes a contour,
a shadow, and if there’s a shadow there must be a body, you become
aware of life within it, it’s something – to quote Cragg – that you
can bump into it. Therefore, we find ourselves faced with sculpture.
I think that this is the mental process behind it. Shadows are also
full of light, vibrations, a hidden world that slowly reveals itself
to those who know how to discreetly and silently observe its shades. Shadows are like black holes that swallow you and transport
you somewhere “beyond” anything you have ever seen before, somewhere unknown. Shadows are a mystery, the subconscious, that
which has yet to be expressed, infinite places”.
Therefore, it’s not a coincidence that many artists who investigate
shadow before light, or perhaps light before shadow, can be found
in your house?
“Or perhaps shadows’ light, and whilst I answer this question
I’m looking at the large drawing above me by Jean Robert, called
Ipousteguy, or the extraordinary black “mark” in front of a white
bed covered in “heads” which emerge from my print of Kollwitz’s
Unemployment, or the swift and elegant sketch of Moore’s wife and
model. What can be said of the gestural ink mark of Scanavino?
Within those dark black shadows there lies a world that shakes and
hypnotizes me. Personally, I would never exchange an oil painting,
even an extraordinary one by Van Gogh, with a tiny drawing of his.
I know that for many people what I’m saying may be incomprehensible, but for me it is not because I find myself faced with a matter
that has more to do with the heart’s irrationality, than the mind’s
reasoning”.
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I’ll interrupt you for just a minute because I would like to discuss your
“collecting” further on; now though, tell me, are you dealing with new
grammatical expressions in your drawing as well?
“Most recently I have been working for the first time on large supports
made of card which I then glue onto masonite boards, tracing signs
and vibrations using charcoal. Depending on the pressure applied, or
even the grade of paper, I manage to obtain black and white effects
with a wide range of astonishing shades of grey. Unbeaten paths. It’s
amazing when you think that even at sixty years old I still get the same
overwhelming feeling that I used to feel at the very beginning of my
journey, and stranger still that I’m using one of the most antique methods known to man: charcoal. The very same charcoal that the great
masters used to hold in their hands whilst in the caves of Altamira, Lescant and other magical places. Perhaps, the most real and mysterious
part of us still lies in these origins. This change of direction – which
I’m not sure how long will last – came about after years of working
with bright colours and took off whilst creating a large glass wall together with friend, and great expert glass maker, Lino Reduzzi”.
Ipousteguy,
Homme passant
la porte, 1956.
Did you consider that moment as a sort of turning point?
“A radical revolution! I discovered the pleasure of daring with colour
by interweaving it with intense dark black lines. I began to work on
large drawings, completely free from my preparatory studies in sculpture – using violent, acid colours, in contrast with one another. A good
example of this method is the large painting “Omaggio all’Angelus (Homage to the Angelus)”, orginally by Millet, which can now be found in
Barbizon, in the gallery of my friend Massoud Besharat, right in front
of the house where the French symbolist genius used to live. I think
that creative freedom also lies in these anarchical expressive methods”.
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Before you mentioned Ipousteguy, Kollwitz, and Moore, three great
passions of De Micheli, and the first two are names that I have had the
pleasure of getting to know both personally as well as professionally.
Therefore, I’d like to ask you to start from them, from what they have
meant, for you, for your work, as I imagine there must be a strong
connection seeing as you’ve collected them as well.
“Henry Moore has been one of my great passions. I have been studying
his work ever since I started approaching sculpture seriously, to the
point that, in 1977, I modelled the piece “Simonmattia” (which is
83
the name of my son) who was born that year, inspired by his forms.
His truncations, uneven surfaces, his women lying down in their wet
clothes, his great formal summary, those voids which allow the piece to penetrate the area surrounding it with a unique harmony that
indissolubly ties it to both the earth and the sky. You have to go to
Perry Green, near London, where his studio once was, and where the
Moore Foundation can now be found, breathe in the air, take in the
light and inspect the curves of the little hills on the horizon, in order
to understand and fully appreciate his work. I have always believed
that visiting the houses, and studios, of the artists I adore is of fundamental importance. I call these trips pilgrimages. Many things can be
learnt from these trips, such as a closer inspection of the mechanism
of their creativity, even just by taking a look at the “banal” pebbles or
fragments of bones lying on their dusty shelves. I have seen Moore’s
work on display in other evocative places, such as Forte Belvedere in
Florence, but I have to say that Perry Green is the only place where
his work manages to completely express its eternal and innovative
strength, only there do you realize that you are in the birthplace and
paradise of his work. Kollwitz and Ipousteguy, together with Mestrovic, are later lovers of mine, which I discovered whilst spending time
with Mario de Micheli, of the three Ipousteguy is the one who made
the most impression on me, especially in his vision of longitude and
dynamics within the piece: I’m thinking of “Ecbatane” in Berlin or
“Man passing through the door” which you yourself put on display in
Legnano. These are pieces that turned the standard views of sculpture upside down. In addition to this, I think that his use of existential
themes also makes me feel closer to him artistically speaking. Kollwitz
shows the powerful mark of a burin that gouges into sheets of zinc
with the same powerful pain of a mother who has lost a child. Struggling like a nation that is attempting to emancipate itself, fighting for
the dignity of its future generations, not prepared to accept to see its
children pulling ploughs like beasts of burden. These are the peasants
of Ermanno Olmi in “The Tree Of Clogs”: the last bastions of an antique culture that I witnessed become buried under blocks of cement by
the hand of a construction speculation void of all order and style, with
the sole purpose of making money”.
84
How has Manzù affected your work?
“For a certain period of time, especially towards the end of the 70s,
I Magi, stained
glass window,
2007.
85
Michelangelo,
Pietà Rondanini,
1555-1564.
Foto A. Amendola.
86
whilst I was attempting to overcome informal stereotypes in order to
reconstruct images, I certainly studied him carefully: what interested
me most was the use of small incisions in his work. I have always loved
and thought more highly of him as an absolutely unparalleled relief
modeller, rather than in the round. Our themes are fairly different,
even just in terms of the generation gap between us, but as it happens,
seeing as we are both from Bergamo, our work is quite easy to place
side by side”.
Which sculptor have you studied most of all?
“As strange as it may seem, I would have to say Michelangelo, not so
much for pieces such as “David” or the “Pietà”, but rather for “The
Deposition” which can be found in Florence Cathedral, or especially
the “Rondanini Pietà”. Every so often, when I’m in Milan, I go and
visit it at the Sforza Castle, and every time I learn a great lesson as well
as receiving an enormous thrill, in spite of the most recent unfortunate
“restoration”. It remains, to this day, the sublime peak of Michelangelo’s work, formal with an emphasis on content (rather than presentation), or dare I say, the absolute peak of contemporary art. Here we
can see how Michelangelo put both heart and soul into his work up to
the very last days of his life, eradicating with all his remaining strength the image of Christ as being somewhat far away from the body of
his mother, reinventing the whole concept and placing him, rather,
inside the very body of the Holy Mother, almost as if she were attempting to bring her Son back to his place of origin in order to become
once again her own flesh and blood, unified in a single body. I think he
was aware of the fact that he had reached his final days and this piece
reveals his serene acceptance of the meaning of his life, which is also
made up of death, mystery, and abandonment. There is no pathos, no
pain, but rather, an infinite weariness, as the muscles lose tension, a
sense of a certain abandonment fills the air of the scene, the mother,
placing her hand on her son’s shoulder, pulls him back towards her for
the last time, he collapses into her lap and bows his head, just as he
did as a child. These two marble bodies enter the space surrounding
them with unparalleled lightness. A strong young arm can be seen in
the forefront, alone, truly surprising, testimony to the end of an era,
and the beginning of a new one on the horizon. Worked entirely using
a punch and toothed chisels, without applying a finish, anticipating a
modelling technique that many self-proclaimed innovative and avant-
87
garde artists copied over five hundred years later. I imagine that infinite generations of sculptors will still have to face up to this sculpture
in years to come”.
When did you start collecting?
“When I was young. I remember that I spent one of the first pay checks
I received whilst working in a bank, around 150.000 Lire, on a piece
created by a young and promising painter from Bergamo, which I have
conserved amongst my possessions to this very day, causing somewhat
of a scandal at home with the great disapproval of my mother. The artist – in the meantime – has been lost, but the piece continues to work.
At the beginning, I zigzagged about a little bit, more or less following
the metrics of my mood, whatever happened to turn up, whatever
moved me, at times through trades, or also by downright purchasing
them. I originally had an obsession with large pieces, but gradually,
over time, my tastes became more refined and increasingly sensitive to
the more mature choice of paper supports and small formats, paying
particular attention to sculptors and those engaged in sculpture. This
allowed me to obtain more pieces, because paper costs much less in
comparison to other types of material, then, in time, I discovered an
extraordinary truth which really won me over”.
88
Was it spontaneity? The truth that Bruno used to tell me about? Whilst
you were speaking I suddenly remembered the precise lunch meeting
when this topic came up. He was working as a curator for one of
Sutherland’s exhibitions and the gallery owner opened up his “treasure chest” and asked him to choose one of the great master’s pieces.
Gianfranco noticed the look of worry on the merchant’s face, terrified
that he might choose one of the larger pieces, but instead he picked
two small pastel works. He then looked at me and what he said really
made an impression on me: “I had no doubt whatsoever, Flavio, there
was nothing else quite as beautiful as those pieces, I chose the most
beautiful works, and he didn’t even realize”. Sorry if I interrupted
you…
“Precisely this! I also discovered that it is on smaller formats and improvised or poor supports that you come across a quality in the painting and marks made, a spontaneity of the soul, a powerful freedom,
which you don’t often find with large formats: it’s almost as if the size
tends to dampen, water down the vital energy of the piece. Sometimes
I ask myself whether I am the only one who notices this because – most
of the time – upon entering my house people don’t tend to pick up on
this whatsoever, on the contrary, their uncertainty, or should I say sense of bewilderment, comes over, just as it did, perhaps, when dealing
with that merchant”.
I have already mentioned Cremonini, with whom I shared a great
friendship and professional journey. When I was working as a curator
for his exhibition involving unseen works from Brera, he asked me to
keep one of his paintings, once the exhibition had ended. I chose a
small nude painting. He then asked me if would not have preferred a
later painting, from a more important period commercially speaking,
or otherwise a larger one. I thanked him, and reassured him of my
preference for the smaller one I had originally chosen. Cremonini was
acutely intelligent and had a great sense of irony. He smiled and told
me that that was the one painting he would never have wanted to
part with. He then gave it to me and told me how happy he was that I
should have it. As I tell you this, I can still feel that same overwhelming
and touching emotion I felt that very day.
“I think that Cremonini gave you an incredible gift by trusting you
with a part of his spiritual legacy, but the most important thing is
that you are still moved to this very day by the memory of that act.
It means that he made the right choice by placing that moment of his
life in your hands”.
What I find curious, or perhaps less so considering what you have told
me so far, is that a sculptor should decide to collect drawings. In reality your passion has no limits or boundaries, it veers in all directions,
also into other fields. But I feel inclined, all the same, to ask you to
clarify this a little bit.
“I don’t follow rigid rules and I’m open to any interesting and stimulating encounter. I don’t preclude anything solely for stylistic reasons
or based on its period, what matters to me is the quality of the piece
and, even more so, the feelings it is capable of communicating. It
could almost be considered an eclectic collection that has been built
up over the years thanks to encounters, trips, the occasional trade
between friends, colleagues or gallery owners. I wouldn’t know how
to label it exactly and I don’t think I would even want to, although
I know exactly what I don’t want it to become: a sticker album that
89
needs to be filled at all costs, because this would be the exact opposite of its purpose, an opportunity to grow artistically and emotionally
richer. Of course there are some pieces that I would love to own, but
I don’t go around beating myself up about it if I do not own these
pieces. My dream is to find a drawing by Marino Marini, but not just
any drawing: I have been offered various ones that have not managed to grab me particularly. After all, I have a score to settle with
Marino, thirty years ago I hesitated at the chance of buying his magnificent “Cavallo e cavalliere” at an accessible price, I have never
managed to forgive myself. I have a lovely lithograph portraying the
same subject that dates back to the 40’s but it’s something different
altogether. As the years go by, I have started to focus my attention
on composition, the quality of its marks, the gesture, what makes it
particular or original, or even whether the art market considers it
to be of marginal importance due to certain aspects which are not
believed to be desirable, although this rarely occurs. In recent times
– if I happen to find them – I will tend to choose pieces that have
been dedicated to someone, or otherwise which contain notes made
by the artist himself. I have, for example, a small drawing in pen by
Manzù, which I believe to be from the 40’s, containing a small note
made by the artist on the edge of the page which reads “definitive,
move the arm in front”. There you have it, these are the little stories
that intrigue me, by creating new curiosities and passions, and giving
me the impression of owning a small part of their life, of their art.
I always chat to works to of art, I look at them everyday and every
single morning I’m happy to have them around me. Before deciding
where to hang a new arrival (on the wall), I let it familiarize itself
with its surroundings either in my studio, or at home, by placing it
on the floor until “its place” becomes clear, a place that allows it to
establish a relationship with the other pieces surrounding it. It’s a
very difficult balance to find, but when I do manage to find it, however, the harmony it creates is something truly sublime. I never mix
my drawings with them. My drawings are rather scarce at home, as
are the very few sculptures, whilst the drawings are kept somewhere
where even I rarely wander off to”.
90
A lot of your artistic work is based on emotions, almost feminine, and
not surprisingly there are many themes linked to Eros in your work.
We could call it Eros, although what we are really talking about is
K. Kollwitz,
Frau mit
Übereinandergelegten Händen,
1898-99.
91
Piero della
Francesca,
Pala di Brera,
(part.) 1472.
92
love, Agape (although I’m not a big fan of pseudo-intellectual quotes), and instinct. I don’t believe I’m mistaken in remembering that
our first collaboration grew out of an instinctive acceptance of one
another. We got to know each other and soon thereafter I, a youngster, found myself in Pennabilli, near Tonino Guerra, in order to talk
about your work, amongst which I remember “Maria Maria Maria”
which grabbed me particularly. Pennabilli, Guerra, “Maria Maria
Maria”, are all, to some extent, elements that bring us to Piero della
Francesca. That is, in fact, where the copy of “Madonna del parto”
has been housed, used by Andrei Tarkovsky in “Nostalghia”, and it’s
no coincidence seeing as Guerra wrote the movie treatment, not to
mention that your “Maria” derives precisely from the “Pala di Brera”
of that Tuscan artist. A long preamble in order to bring us to Piero,
so…
“Piero is my great mentor, he has been my absolute guide ever since I
was struck by his work towards the end of the eighties, when, in a crucial moment of my studies, after a series of informal art experiences
which had left me exhausted by an ethical and aesthetic void, I was searching for a profound sense of purpose both in art and in life (which
journey side by side). Those were the years of great choices, the years
of “drinking up Milan”, where everything seemed possible. It was in
these years that I began to grow tired of my provincial city and, even
more so, of my suffocating bank job. I was searching for a new life
and a new uterus, and a new lap. I found what I was looking for one
morning in the corridors of Brera, right in front of its altarpiece, which
tells the story of a majestic Madonna sitting on her throne with her
son lying on her lap, angels standing behind her, Federico de Montefeltro kneeling down in his armour, and that egg right in the middle of
the painting. What doesn’t that suspended egg possess? It’s luminous,
mute, unpronounceable silent speech; perfect, so revolutionary in fact
that it caused me to forget everything I had ever learnt about modern
art and loved up to then. Immediately afterwards, I had no space left
for anyone or anything else, apart a few rare exceptions and their necessary parameters. I was not yet aware the extent to which that piece,
and its numerous constructive elements, would continue to influence a
large part of my artistic research in the years to come”.
Which element struck you in particular during that new encounter/
collision?
93
“Do you mean when I recovered? It was, by no means, the first time
I had met with the “Brera Madonna”, I had already seen it years earlier, even on desks at school I had studied its reproductions. However,
being the blind and pretentious schoolboy I was, I suddenly realized
that I had never actually looked at it or observed it properly. In those years, I wanted to be up-to-date, or, as you would say nowadays
glamorous, attempting to be modern, avant-garde. The dominating
philosophy of that period totally dominated me, suffocating my own
personal needs, my natural language, in order to follow fashions, an
inexistent and out-of-reach modernity. Years later I confided in Mario
de Micheli, complaining about how long I had spent running around
in circles”.
And how did he reply?
“He replied just like any good father would: “you’re lucky because
you realized in time, you still have your whole life ahead of you. Work,
work, you only begin to see a real sculptor once he has reached sixty
years old”. As always, he was correct”.
94
What was it about the “Brera Madonna” that interested you?
“Everything, its synthesis, the harmony of its composition, the architecture, its refined details, the angels, but most of all that egg which,
like a motionless pendulum, creates an atmosphere of temporary and
intellectual suspension. Dino Campana, centuries later and completely
independently, wrote a line that I found enlightening: “and the course
of time was suspended“. In that representation, time is suspended because the subjects are timeless. Their spirit lives neither today nor
tomorrow, but rather, forever. An infinite love, light without shadow, a
lap to lie in, finally achieving peace. Everything I didn’t have, or I felt
that I didn’t have, was revealed before me. I had touched rock bottom
and I now had the possibility to save myself, at that point in my life
I could do nothing other than follow the indications of Piero’s revelation. I felt as though I were right there, lying on those knees, waiting
to be caressed, or perhaps hugged, a hand running through my hair,
suspending all the pain, anxieties, of living. A calm yet determined
strength helped me confront those very demons that kept pulling towards distant places where it’s easy to lose all reason, where voices
deceive hearts. The time had come to courageously look inside myself,
to get my hands dirty in an attempt at reconstructing however little,
or much, remained”.
How did all of this transform into an artistic journey?
“Thanks to Piero I was reborn, and everything clearly revealed itself
in the lap of that incomplete clay mother which little by little, over the
course of time, miraculously mutated, thanks to my wife’s tender care
for both me and my son, into a warm embracing mother. Many years
have passed; I have created many terracotta and bronze mothers, all
made with the same great love and enthusiasm. I now keep a certain
distance from this theme, or if you like, problem. My last pregnancy
dates back to many, many years ago and represents a modern “Mater
Matuta”, a pregnant woman, sitting in an almost challenging position
wearing a worried look on her face, concerned perhaps about the future of her unborn. On her knees are two weaned twins, fighting between
themselves in order to obtain greater comfort or to find the best way
to get away first, who knows. By now I have become a calm observer,
ready to tell a young child, sitting on my knees, stories about clay
modellers and dazed painters in search of glory or just a little piece of
bread”.
Your perception often mixes Eros with brutality, a sexuality that
throws everything into disorder, which also knows how to be quite
intense, at least during a certain period.
“My poetics certainly aren’t “aesthetically accommodating”; although
the search for “orthodox” beauty grabs me, it never manages to completely take hold of my work. There will always be an informal, gestural point of view, incomplete or lacking something. As you well know,
I’d much rather play low and profound notes rather than high shrill
ones. I feel much more comfortable around Eros and Thanatos rather
than amongst the folds of the Cherubs’ and Seraphs’ languid sunlit
bodies or their trumpets. It’s probably a matter of soul, of feeling, of
mood or destiny perhaps. I describe who I am without holding back,
going from Heaven to Hell, in an absolutely circular fashion, firmly
convinced that everything we are is inside of us and in order to really
discover who we are me must let this internal magma emerge and give
it form, or some kind of essence so as to look it straight in the eyes. Art
is no place for pretence; on the contrary, it’s a search for our conscience, since seeing as we know so little, we would at least like to find out
who we are and where we’re going. This, I think, is my task, putting
95
aside fashion trends and popular schools of thought. Nowadays, of
course, belonging to this marginal reality is not easy, just as living in
this “narcotized” world – as my dear friend Maurizio Bonfanti often
describes it – is often an arduous experience”.
96
Your answers quite often lead to glimpses of religious inspiration,
which might taste of hope. I have never used the word God, just as
I have never correlated your work with sacredness. Faith is a theme
you have often dealt with, by using both religious iconography, and
anthropological reasoning that often crosses the border into that territory.
“A complex question which touches upon the unspeakable; which is
not unspeakable because I don’t want to say it but because I don’t
know how to. I’ll attempt to answer by starting with the feeling of
hope that is not due to religious inspiration, but rather to the certainty
that only man is capable of saving himself. Gramsci used to call this
the “optimism of the will”. Humanity is on a locomotive that is travelling too fast, with no point of arrival or driver; once there was at
least the idea of God which gave a direction for better or for worse,
nowadays there is no more faith, and not even reason. I find it hard
to use the word God because I have never managed to give him form,
I find it easier to relate to Christ “verbum caro factum est”. Words
become flesh, and in sculpture words and thoughts are transformed
into forms, shapes. Christ then dies and resurrects: here I begin to lose
myself, stumbling between moments of darkness and enlightenment
in search for the meaning of existence, eternity’s profound inspiration
that would have us believe that we won’t die forever, that in one way
or another we will continue living. I remember my father’s words on
the night of Saint Lucia, I was five years old and as we were looking
up at the stars he told me: “when you will no longer see me I’ll be up
there, inside one of those” a few days later he passed away. For me the
meaning of eternity lies in the infinite moonless sky, as your eyes slowly manage to see further and further, which is where I recapture his
presence, his quiet voice that silently guides me every day. Together
with him there are also all of the others who I have shared a part of
my life with, saying: “raise your eyes, look at the sky, keep dreaming,
keep trying to fly”. A cosmic energy, a delicate balance that nothing
can break, it makes me hope that we never really die. Is this God?
Is this faith? Not according to what I was taught when I was young.
Here I shall come to a halt, for I am now right in the middle of that
black hole known as the inexpressible. This is the spirit with which I
have always dealt with religious iconography, both as an “illustrator”
of books and as a sculptor, allowing my passion for mankind to guide
me, digging into his doubts, his weaknesses, whether he be Judas or
Christ. In these operations I have always focused my attention on the
religious believer, knowing full well that the woman’s face which I was
modelling for him, would later become a holy object: a Holy Mother, a
saint to rely on in his time of need. In any case I have always worked
in total freedom, by stating in advance that I’m balancing on a knifeedge between flesh and spirit, darkness and light, in line with the rest
of my work, spasmodically trying to make it speak whilst running the
risk of causing it to fall”.
You were extremely clear when you spoke about starting anew via a
comparison with Pietro’s work, the moment of crisis you must have
passed through is evident, together with what seemed to lie ahead.
Martin Buber makes a striking analysis of the small verse in Genesis, in which Adam hides after eating from the fruit of the Tree of the
Knowledge of Good and Evil. I encountered his comment while at high
school and it has remained with me constantly since then because it
poses a fundamental question: “Adam, where are you?”. Here, the
God of the Bible asks us to take account of our life, of our place in this
life. If you had to reply, what would you say?
I would answer you in Martin Buber’s own words: “I am in the place
where my treasure is to be found”. I am where my sculpture is, which
is not the treasure I might have wished for, but is the treasure I have
found, which has been given to me, against which I have measured
myself every day for forty years, learning to love it, nurture it, care
for it as you care for the most precious things. My dream was always
to play an instrument. I’ve tried in many different ways: with string
instruments, wind instruments, and then the piano and even drums,
but nothing seemed to work, it was just a waste of time and money.
Then one day, a sculptor friend looked over a couple of pictures in the
room where I grappled with painting and threw me by asking whether
I had ever considered sculpting. To be honest, I had thought about it,
but it seemed too complicated to me. Yet this question set something
in movement inside me: just for fun, I bought a pack of clay and voilà,
without effort, I began making sculptures. The clay shaped itself at
97
Nel segno del
Leone, 1989.
Foto Gianni Canali.
98
my touch almost miraculously! I confess I wasn’t especially taken by
it and even today I’m prepared to admit that if I could have chosen I
would have preferred to be a musician. You might not believe me, but
my most beautiful dreams are when I find myself playing the trumpet
or sax with fantastic groups, making extraordinary music never before
heard. But my path was another, my destiny lay within the earth and
if I wanted to completely fulfill my existence, it was there that I had
to dig.
There are no other paths, and when you discover yours you must love
it passionately, you must listen to the voices that come from deep within, you must follow it fearlessly. In this way, everything, though I
don’t know how, I don’t know why, takes shape, makes sense and slips
forward harmoniously day after day, idea after idea. The soul opens
itself to unknown pathways and even in the most difficult moments,
the miracle happens. Knots unravel, unlikely relationships are created, impossible forms fit together. I discovered that in sculpture the
final object itself is not important, but rather the interior path followed to achieve it and the relationships that arise around this path.
Sculpture becomes a way of realizing life’s meaning. You discover that
nothing happens by chance, that everything is connected, everything
“returns”. The important thing is what remains to be said with Buber:
“the fulfillment of existence within my grasp”. These words, “within
my grasp”, are the key that opens the treasure chest. I want to tell
you about a fundamentally important episode in my life linked to this
concept. It was the early 80s, I happened to be in Milan one evening
with an art dealer from Bergamo who intended introducing me to an
“important” colleague of his, with a view to a possible collaboration.
At that time, Milan was totally like a myth for someone coming from
the provinces. An exhibition would have meant entering seventh heaven. While passing Via Turati 8, in front of the Ada Zuino Gallery, I
felt one of those powerful interior “vibrations” I’ve felt at other times
during my life. Nowadays, I would immediately recognize this as one
of “my places”, but my the expectations that filled me caused me to
silence this voice deep inside and I quickly turned the corner, convinced I was worthy of much more. The encounter, that evening, with the
“important” art dealer was a failure. He was already fully supplied
with a team of well-known names and was not especially interested
in sculpture… certainly not in mine!! Years of confusion passed by,
with train journeys to that mythical Milan in a voracious search for a
99
gallery, knocking at every door without order or style, simply attracted
by the gallery window or the size of the space. I would return home with
an ever-increasing interior chaos; they were years in which wandering
aimlessly, in both interior and external senses, represented my permanent creative state. Then at last, one day, the owner of the Vinciana
Gallery, then in the Montenapoleone area, was perhaps taken by pity or
filial love and very kindly invited me to make myself comfortable while
he listened. He looked carefully at the four photos of work and the meager catalogue he was holding and said: “Go to Ada Zunino. She is the
only one who can help you find a place in this city.” Destiny took me
back to Via Turati 8. The assumption behind all those Bergamo-Milan
trips dissolved like mist on the plain, I was at last becoming someone
else and Alda’s gallery became more mythical each time I visited it. It
was only at the end of the 80s that she decided I was ready to make the
great leap, launching myself onto my path, with an introduction by the
young critic, Vittorio Sgarbi.
I had finally entered the groove destined for me and everything began
to develop harmoniously, flowing effortlessly up to this very day. As you
well know, my path has always been at the margins of the limelight, but
this in no way bothers me, being aware to the depths of my being that
this is where I belong. Where am I today? Here in front of a new sculpture in the continual search to grasp the meaning of life, possibly in a limited attempt to unite two worlds, that of the earth and that of the sky.
Perhaps my angels’ intimate rationale lies precisely along this path.”
100
Thus, before turning to sculpture, you were a painter for a period.
How did you begin painting? Has something remained from this experience and was it only a footnote while you waited for “something
to grasp”?
“As I’ve said, the drive towards sculpture was not immediately evident, just like someone looking for gold I had to dig to find it. Painting
formed part of this path and followed my failed attempt at music,
although it lasted much longer in time. It was during my early high
school years, possibly as a reaction to a teacher obsessed with Optical
Art – which I can’t stand to this very day – I began to grow interested
in painting. After the first two years, the teacher changed, although
the new one showed no interest in my need to work, being preoccupied
by the study of art history. The teacher was of absolutely no help to
me. Being stubborn, I refused to give up and, as a present, I asked for
a wooden outdoor easel, one of those that fold up into a case and can
be carried on your back, together with a few tubes of colour and four
canvas boards. My first attempts were carried out at a table stand with
oil painted onto card. But the revolution took place in 1967, with the
arrival of the Fratelli Fabbri collection of art classics. The first one I
bought was about the Barbizon School: rereading it today, following
my encounter with Besharat and his gallery, just a few metres from
the home-studios of Millet and Rousseau, it seems almost prophetic.
I still keep this volume as a kind of reliquary, its pages impregnated
with oil paint, charcoal marks across the reproductions of works favoured at the time: Daubigny, Troyon and Millet’s Primroses. Then I
fell in love with Constable, up until the time I began my own paintings depicting long, Giacometti-style figures that sought to react to
the encircling city. The first walls were created in sand and pebbles
on wooden boards, as they had to bear the weight of the materials,
and unconsciously painting began to turn into sculpture. Brushes were
used just to move pigment from palette to support, and I then worked
directly with hands or rags to spread the colour. I admit that I also
won a prize in a competition with one of the works from that period.
But everything was too laboured: because of its softness and lightness,
oil colour slipped between my fingers and was unresponsive to my
sensibilities, so that I failed to achieve the desired results. It was not a
satisfying period; that is, not until my sculptor friend turned up and,
with a couple of words and a question mark, undermined the certainty
that I had found my path.”
Ada Zunino was followed by Pino (Valigia) Gastaldelli, a figure known
to few of my generation, unfortunately. I interviewed him when he was
about to close the Gallery near the Castle. He had a sly air and said
to me: “Yesterday I was at the stadium and understood what beauty
is”. My thoughts turned to a picture, a sculpture perhaps, and then he
came out with: “Naomi Campbell’s legs”. As time passes, I think he’s
right: no work of art can be as beautiful as life. Do you remember him?
“Pino Gastaldelli was an exceptional person. For me he was simply Gasta. I could spend hours recalling his anecdotes and wit, those strange
stories about artists in which you could never figure out where truth
ended and story-telling began, and vice versa. However, Gasta really
did know these artists very well, he hung out with them and they hung
out with him, and we’re talking about Fontana, Guttuso, Scanavino,
On the next page,
L’ Aigle,
E. Scanavino,
1955.
101
102
103
Jorn and Manzoni, to say nothing of those I met in the gallery, Tadini, Mondino, Dova or the aged Minguzzi, who, almost blind, sent his
assistant to the opening of my first exhibition. Pino was an intelligent
man, sensitive in his own way, gifted with an instinctive intuition for
art that meant he always selected an artist’s best pieces. He was never
ordinary: the works by Scanavino or Fontana that I admired in the
gallery I’ve never seen in the marketplace of fairs; they had different
quality, a different strength. Pino had the instinct of a great art dealer,
but he trained this gift with visits to the studios of whoever interested
him at that moment, even twice a week, so as to understand the creative mechanism; he was curious about it, asked questions, observed,
touched. He made an effort to enter into total harmony with the work:
which is how he was able to spot a fake Scanavino or Guttuso from
ten metres away. He sent a collector to seek me out, someone who had
acquired one of my works from Zunino and was a regular in both
galleries. I understood immediately that I was in the presence of a
high-level person, at times cynical, even ruthless, but profoundly correct in his dealings. Once the rules of the game had been established,
everything went smoothly, without a hitch. He was an unequalled professional in all senses and highly respected in his world.
Over the years, Pino had created a unique sense of trust and credibility based not just on price, but above all on the quality of work and
on his ability to present artists early on, who later would have reached
considerable heights. Once he mentioned an exhibition of drawings,
sometime in the 60s I think, by Cy Twombly, which was somewhat
ignored, and the later regret of certain collectors who were then to
hang on his words as if he were a guru. Gasta was a man who paid
attention to what was happening, without following fashions or trends, but who followed his instinct for a mixture of innovation, craft
and objective quality in work. He was rigorous in his own way and
had precise parameters of judgment that in today’s world would have
made it very difficult for him to orient himself.”
104
What was your professional separation like?
“The evening I decided, after much anguish and so many doubts, to
tell him I intended signing my first, and only, exclusive contract with a
rival colleague of his, he felt betrayed and was certainly not especially
tender with me. That contract meant I could quit my job at the bank
and dedicate myself completely to sculpture, so there was no way I
could let the chance pass by. I understood and took his discomfort on
board. In just a few years, I had become the son he had never had,
while he, for me, was something of the father I had lost. As time went
by, my growth on the market and among critics made him more and
more proud until finally one day, embracing me, he said: “You did the
right thing in signing that contract, I could never have managed to
offer you such a definitive solution for your life and art.” My visits to
Milan could never be made without an obligatory stop at Gasta’s and
would meet up until he closed the second gallery in the San Vittore
area. He was then isolated by people I had never met before, perhaps
in a moment of weakness and difficulty of his; I regret not being able
to say goodbye to him, not even on the phone, before his death.”
Another important meeting was with Massoud Besharat, whom you
once defined as “the only true dreamer I have ever met in my life”;
why is this?
“Massoud Besharat, Iranian polyglot, agnostic and intimately – perhaps
also – stateless, businessman-collector in recent years and now turned
to art dealer or, perhaps it would be better to say, art promoter who
divides his time between Atlanta, Paris and Barbizon, having traveled
all over the world. Our first meeting took place in 2012 in his superb
home in the Boulevard Kennedy in Paris, next door to the apartment
where Bernardo Bertolucci shot his, at the time, “scandalous” Last
Tango in Paris, in 1972. For a whole day we studied each other, talking about everything without talking about what really interested us,
then we moved to Barbizon and here, with my own hand, I was able
to touch his “dream”, which is to say, to bring art to a small town at
the edge of the Fontainebleau forest, art made up of such paintings
and sculptures as can be understood and enjoyed by everyone. Ideally
taking in hand the moral and cultural heritage of Millet and companions, who, in such numbers, moved precisely there in a gesture
of cooperative reconciliation between art, nature and humanity. This
movement carried within it revolutionary values under an extraordinary ethical and moral profile, yesterday just as today. They were the
forerunners of modern ecological movements. Thanks to the Barbizon
School we can still enjoy the Fontainebleau forest today because, with
the help of artists called upon from half of Europe, they saved it from
devastating plans for deforestation; following on from their efforts in
1848, the authorities declared it an “artistic reserve”, introducing, for
On the next page,
Quando il cielo
ti accarezza,
2007-2012.
Foto Gianni Canali.
105
106
107
Study for
crucifixion, (part.)
2009.
108
the first time in our history, the concept of the respect and protection
of nature as equal to that of a work of art.
As you can easily imagine, I was deeply moved by this “dream” and
from that moment, instinctively, I decided to become part of it for
however much or little would be asked of me. It seemed, and still seems to me, pure folly if only for the financial commitment, but great
dreamers, like great navigators, live day by day, moment by moment,
in the deep certainty of seeing new lands appear over the horizon and
whoever wishes to share in such discoveries must either have faith or
remain at home in the harbour. There are no alternatives. Without
such madmen, mankind would never have evolved. We often phone
each other and I’m pleased to note that despite so many setbacks he
persists, in fact he continues to have his head in the clouds, enlarging the project, shifting the focus onto sculpture as an ideal adhesive
between town, gallery and forest. For what purpose? Because of the
delight in, and love for, the art he adores. I can only wish him good
luck.”
Your relationships always have a deeply visceral quality, which can be
found again in your dialogue – almost physical – with work.
“As I was saying, this happens especially at the drawing-project stage, which usually we define as ‘sketches’. Possibly because it’s the
deepest part of my being, what emerges and in some way tries to take
form, and in its undefined status it contains the seeds of myriad possibilities that might develop and grow. Perhaps also because ideas are
like phantoms that appear once and then disappear forever, and you
must either seize them in an instant or never again. Any reluctance
to show them might be caused by instinctive self-defense or by the
certainty of not being understood. The relationship with sculpture is
entirely different; at times, the process of bringing it to light exhausts
me to such an extent that I end up hating it or never loving it. The
way in which it escapes me and slips between my fingers makes me
feel like a betrayed lover. It’s a continual struggle with the absolute
purity of a primordial idea, so that the further away from this absolute what forms between my fingers seems to be, the more the work in
progress becomes part of an internal imbalance, at times of suffering,
disorder; whenever I’ve lacked the courage to destroy it, simply rejecting it or not looking at it was in itself a relief. Luckily, I’ve destroyed
a great deal. However, not managing to achieve a sense of ‘fulfillment’
109
means separating myself from the work is not traumatic. In fact quite
the opposite, I’m always particularly in love with what is going to exist
next.”
Which materials are used in your sculptures?
“Initially, for reasons of practicality, money and simple inexperience,
I mostly used clay. Then it was concrete, bronze, marble, followed by
cross-contaminations between bronze and iron, bronze and terracotta,
at times everything with the addition of glass. Today I prefer working
with a polystyrene “core” which I model with wax, adding sand, clay
or anything I consider useful in developing a language which no longer
has barriers. I place no limits on myself, which means materials need
only be functional and fitting, let’s say in harmony with what is taking
shape.”
You always place a certain importance on the base, which is often an
integral part of your work and in any case shows it has been carefully
thought out.
“Bases are a fixation of mine, already present in sketches, so they
develop together with the subject and when this fails to happen it
can mean that the work remains on paper, or as a model in a corner
of the studio, for some time before being cast, which is when I’ve finally found the right base. “In Equilibrium over Madness” – now at
Barbizon – remained on a sheet of paper and in my head for threefour years for this reason, until I identified the axis of equilibrium
counterbalanced by a cage of butterflies. The same thing was true
for “When the Sky Caresses You”, the figure of a woman standing in
front of the sea. Here the problem was that I had never succeeded in
modelling the sea, and so I’d initially exhibited her placed on a simple
iron cube until, one evening while I was drawing, she appeared to me
over a drifting boat. It was her destiny, rather difficult to figure out.
This research can all be found in those preparatory drawings I can’t
do without and it could never be otherwise because sculpture is like
a house and the base is its foundations. We always come back to the
same starting point: the work has its precise place and the base is the
beginning of this place. Separating them would be like taking clouds
away from the sky.”
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Many of your colleagues have eliminated it, or in any case do not pay
the same attention to it.
“I understand whoever questions the base, since for many years I modelled without reference to it, then, in 1986, I conceived an exhibition
in which the works – fragments of armchairs which figures scarcely
sketched out, male torsos, lunettes and so on – were all nicely positioned on lightweight black rods with the intention of making the supports “disappear”. I remember even placing sand on the base plates to
hide everything. The works seemed suspended in an unnatural void,
artificial, seemingly false, their dramatic qualities were totally cancelled out by the hypocrisy of a false lightness. They didn’t touch the
ground, just brushing it, and yet they presumed to speak of men and
women, of flesh and blood, of life and death. So where did they put
down their feet, their roots? There was no coherency, they were just
a half-truth. It was a really hard punch in the stomach, I would have
thrown everything to the winds and fled. Even today I feel the anxiety
of that revelation, so sudden and unfortunate. Couldn’t I have noticed
earlier? It was an powerful lesson! After this, I went back to a patient
and humble study of ancient, classical and modern sculpture, because
both Moore and Martini, and even Giacometti, like many others, do
not disregard the base.”
At first I expect there were other creative problems, what was your
starting point?
“My first sculpture was inspired by Giorgio de Chirico’s metaphysics,
as that’s where I had got to through painting. Besides being fascinated
by the intrinsic mysteries of this language, the egg-like heads allowed
me to conceal the risks involved in dealing with the question of heads.
Then, as I slowly gained confidence with clay and three-dimensionality, I instinctively chose the expressive potential of the body, especially
the bust, coming to terms with heads a few years later, limbs later still.
The “torso” period is contemporary with that of “walls” and informal
“lunettes”. They are interweaving themes, or better, a single theme
with different names. The torsos are no more than walls, the final
bastion defending the human heart; lunettes are found over church or
temple doors and open onto the sacredness of existence. I set all these
objects on iron rods and exhibited them upright, like trophies.”
Which years are we talking about?
“The decade of the 80s. Those difficult years, regarding which I men-
111
tioned the “revelation” offered by Piero della Francesca. Years of protest, political struggle and taking sides in a period coming to an end,
in which it seemed possible to build new and perhaps better times,
though in fact this turned out to be – on the contrary – a total failure!
Sculpture flowed freely, revealing forbidden and hidden aspects; I began to know myself better.”
112
At a certain point, however, your approach to modelling changes, faces begin to emerge, your way of relating to the body finds a defined
quality previously missing.
“Truth is never transparent, especially at the beginning, and the path
towards it is always uncertain and confused. Youth, with its exuberance
and even recklessness, mixed with a healthy dose of arrogance, rapidly
ground everything to bits; moreover, in this state of mind it’s normal
to believe you’ve already understood everything. Then, one morning,
I stared at myself in the mirror and a voice inside asked: “But do you
know how to model a hand, a face?” I think it’s a fixed rule of being an
artist, that is, you can fool others but never yourself. I knew full well
there was a serious defect and immediately set about putting it right. I
began my trips to Florence. The Bargello, the Accademia and the Forte di Belvedere became fixed holiday stop-off points. Years of study, of
coming to terms with the figure. Themes still the same, but clothed in
a new language. There followed my love affair with the Etruscans and
Classical Rome, then the Romanesque, which led me to every corner
of Italy and Southern France. At the same time, I was also drawn to
Canova, Rodin, Medardo or the Grandi of the Monument in Piazza
Cinque Giornate in Milan, being nevertheless always careful to keep
up with contemporary work, including conceptual art. What I learned
from it is that time has no existence within the flow of art history, because ideas, especially good ones, are outside time and remain there
like stars in a universe continually in evolution. It’s enough to lift your
head, open your eyes and look. Often you look without ever seeing and
if you can’t see, you can’t understand. It’s a question of awareness,
in-depth analysis, research and study. The key point of sculpture lies
here, so many languages are spoken – perhaps too many – but a large
number of actors onstage are unfamiliar with the language and even
with the script. People who stutter and jump onto the bandwagon of
a feeble idea. Almost inevitably a “translator” or “prompt” is needed
for the public to understand.”
Where do you think these studies led you and what was the limit
you had no wish to go beyond?
“I’ll begin from the end: this long and necessary journey I imposed
upon myself so as to grasp the fundamental language of history and
sculpture, which I felt I deeply needed to do, has turned out to be
a continual excavation in the full knowledge I had no real wish to
reach a “perfect”, but sickly, realism. I also want to make it clear
I have absolutely nothing against this approach to sculpture; it’s
merely a question of taste. The gestures produced by my instinct,
imperfect, often sketchy and in love with truncation, drives me
towards a dimension I’d call “open”, towards work in the process
of becoming, both in being made and unmade, standing as if by a
miracle, asymmetrical, placed in an unstable equilibrium or resting
against something that supports it, reassures it and gives it strength. Over the last few years I’ve undertaken a spasmodic search for
total lightness, or better still – as stated in a text about marble by
Rodin Aline Magnien – I’m seeking “transparency”. I’m aiming at
sculpture that enters space harmoniously, not simply occupying it,
but also penetrating it or being penetrated by it, so as to become
a single element. In this regard realistic representation inevitably
displays all its limits, not only in terms of dialogue but also with
respect to contemporary “space”. A deconstructive thematic has
always been fundamental in my work, even during those years of
my most extreme figurativeness, so that – even if only marginally
– you can find sculptural solutions that are unfinished or contain
uneven elements.”
It’s a line of thought that surfaces here and there in your work,
being present during your informal period at the end of the 80s as
well as in your current, more deconstructive productions.
“The language of the informal was primordial and instinctive, issuing from my hands without control, like a river in full flow. Nowadays, it seems to me that linguistic deconstruction is the result
of years of formal and aesthetic maturation, of technical experience
with various materials and different approaches to the artistic gestation of work. Gesture continues to be ruled by instinct, but now
it’s an instinct that is controlled, educated, an “informed” gesture
and in any case much, much freer. Today I am free to choose the
language I want. Knowledge is freedom.”
113
Could your large “Anima Mundi” be considered an example?
“This sculpture is a perfect demonstration of this, because it arose
from more than a year of study. A great moment of freedom, though
I should add also of enlightened commissioning on the part of the
Credito Bergamasco and its secretary, Angelo Piazzoli. I’m happy to
recall this experience because it was a key one along the path of my
artistic career and made possible the subsequent realization of four
monumental works, which, thanks to such input, were able to develop and take life. In this case – given I had to reckon with the square
and large city spaces – I needed to reconsider mass, with empty and
filled spaces, in a totally different way. Figurative qualities become
marginal compared to the drama of the tale, which no longer unfolds
within the intimacy of four domestic walls, or a silent courtyard, but
in the middle of the street, between a pavement and a bench, between
a 30-metre-high building in marble and another taller still in steel
and glass. In the following Trilogy, “Judgment”, “Paradise Lost” and
“On the Abyss of Eternity”, the works entirely reclaim their magmatic language, starting from the two counterposed vertical planes
that create a kind of short circuit, a new representativeness outside
the traditional canon. This new scenic language is supplemented by
intervening iron architecture that penetrates the surrounding space
and at the same time guarantees a space of its own, autonomous and
vital, simultaneously amplifying its sense and energy. I’m convinced
that with this approach sculpture in some way loses its formal rigidity,
gaining instead the possibility of future variations in sympathy with
new spaces to be occupied. The aim is to discover a way of responding
to the objective limits of figurative representation in contemporary
monumentality, those limits already glimpsed and stated by Martini
in his pamphlet “The Dead Language of Sculpture”. I don’t know
whether I’ve succeeded in my intentions, but I’ve tried to do my best.
I’ll leave the arduous verdict to posterity.”
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Il Paradiso Perduto
(part.) 2011.
Foto Gianni Canali.
On the next page,
Anima Mundi, 2011.
Foto Gianni Canali.
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Ringraziamenti
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Ho sempre sentito la necessità di dire la mia sul mio essere scultore,
aggiungendola a tutte le altre opinioni, più o meno qualificate, suscitate negli anni dalle mie opere, nutrendo nel contempo la convinzione
profonda che nessuno abbia colto totalmente la verità su di esse, nemmeno io che le ho create.
Ma proprio per questo motivo dovevo mettere nero su bianco qualche
punto fermo.
Forse la verità risulta avviluppata in un magma di sensazioni, emozioni e contraddizioni che si sono generate nel tempo e che solo il tempo
ci ridarà, purificata da inutili scorie, se l’opera dimostrerà di possederne anche solo una briciola. In tal caso quest’opera avrà la chance di
rimanere nel piccolo universo della storia dell’uomo, altrimenti verrà
risucchiata nel buco nero del nulla eterno.
Questa è la ragione primaria del mio scritto, poi ce n’è un’altra altrettanto importante e significativa: negli ultimi anni ho riscontrato
in molti collezionisti, soprattutto stranieri, la necessità di conoscere le
motivazioni profonde dell’opera che andavano scegliendo e, nel dubbio tra varie tematiche o soggetti, questa necessita’ diventava sempre
più evidente e dirimente. Mi è sembrato doveroso e non più procastinabile ricompensare questa passione, prendendo in mano carta e
penna affrontando una confessione spietata sul mio percorso senza se
e senza ma, in assoluta libertà e trasparenza, dichiarando l’inscindibilità tra me e la mia opera.
Perchè Flavio? Perchè Flavio l’ho conosciuto anni fa come giovane
critico alle prime armi, mentre oggi è ormai uomo fatto, direbbe Mario
de Micheli, e in questi anni ha seguito con attenzione e puntualità il
mio percorso. Perchè Flavio ha più o meno l’età di mio figlio e come lui
è intelligente, volitivo e sognatore, con quella dose di anarco-nichilismo che ogni tanto ti fa arrabbiare a tal punto che li manderesti a quel
paese, ma poi ti trattieni perchè non puoi dimenticarti di essere stato
peggio di loro. La “vera verità” è però che Flavio Arensi, per frequentazioni, studio e mostre curate, è uno dei pochissimi in Italia a saper
leggere e capire profondamente la scultura... arte piuttosto complessa!
Ma i progetti fatti col cuore riannodano destini che pensavi ormai del
tutto divergenti ed ecco che, quasi per miracolo, di fronte alla necessità di trovare un editore, ti ritrovi tra le mani l’invito alla presentazione
di un libro a Roma e scopri che l’editore altri non è che il tuo vecchio
amico e compagno di tanti progetti Fabio Lazzari, ora presidente di
UTET-FMR, che ti offre la sua incondizionata disponibilità.
Che dire poi di Giordano Bruno Guerri, che in un millesimo di secondo
ha risposto “sì” alla mia e-mail in cui gli chiedevo un breve pensiero
come introduzione.?
“Subito non ce la faccio ma settimana prossima si”: questa è stata la
sua lapidaria risposta. Sinceramente, mi hanno tutti commosso, ma
è giusto che sia così, perchè questo piccolo libro è tenuto assieme dai
sentimenti, dalla passione, dall’amore per la bellezza che ognuno di
noi cerca di mettere nel prorpio lavoro.
La stessa passione che ci porta a condividere e a batterci, anche su
sentieri differenti, per la valorizzazione e il recupero del patrimonio
di questa straordinaria Italia, nel tentativo di riprenderci quella stima
e rispetto da parte di tutto il mondo avuti in eredità dalla storia dei
nostri padri.
Grazie a tutti i miei collezionisti e estimatori, senza i quali oggi non
sarei un uomo libero e felice: questo libro è per voi!
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Thanks
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I have always felt the need to have my say regarding my work as a
sculptor, in addition to many other, more or less qualified, observations, which have come up during the years when discussing my works, feeding the profound certainty that no-one has completely understood the truth about them, not even I who made them.
But precisely because of this I had to put down some definite points,
black on white.
Perhaps the truth may appear to be enveloped by a magma of sensations, emotions and contradictions which have come up over time and
which only time will return to us, purified of all useless waste, if the
work is to show it possesses even a tiny part of all this.
In this case the work might have a chance of lasting in the history of
man’s small universe, or otherwise be sucked into the void of eternity’s
black hole.
This is the main reason that I have decided to write this, alongside another just as important and meaningful one: in recent years I have noticed something in a lot of, mostly foreign, collectors whom I have met;
the need to know the profound motivation which lies behind the piece
they have chosen to acquire; this need has grown more and more evident and decisive. It seemed hard and no longer possible to postpone
rewarding this passion, therefore I decided to grab pen and paper and
put down a no-holds-barred confession concerning my artistic journey,
in complete freedom, and without giving any idea of my work as being
something inseparable from me.
Why Flavio? Because I met Flavio many years ago as a young novice
art critic, who has by now become an accomplished man, as Mario
de Micheli would have said, and during these years he has carefully
and punctually followed my artistic journey. Also because Flavio is,
more or less the same age as my son and just as intelligent, determined
and a dreamer, with the right dose of anarchic-nihilism which every
so often makes you so angry you would almost like to tell them to go
to hell, but you control yourself because you can’t forget having been
even worse than them at the time. The “real truth” is, nevertheless,
that Flavio Arensi, given his studies in the field and involvement as an
exhibition curator, is one of the few people in Italy nowadays capable
of reading and profoundly understanding sculpture…a fairly complex
form of art!
But when projects are truly heartfelt they manage to stitch back together destinies that appeared to have taken completely diverging directions, and here we have it, almost thanks to a miracle, we find ourselves
searching for an editor, receive an invitation to the book’s presentation
in Rome and then discover the editor is no other than our old friend
and fellow collaborator of many projects, Fabio Lazzari, now president
of UTET-FMR, offering his complete and undivided availability.
As if this weren’t enough, what can I say about Giordano Bruno Guerri,
who, in a split second, replied, “yes” to my email asking him whether
he would write a brief introduction to my book?
“I won’t be able to prepare it straight away but I’ll have it ready by
next week”: this was his concise reply. To be honest, I was moved by
every single one of them, rightly so, seeing as this book is held together
by feelings, passion and that love of beauty that every one of us tries
to put into his work.
The very same passion that leads us to share and travel, at times along
different paths, for the recouping and renovation of the artistic heritage of this extraordinary country, attempting to regain the whole world’s
esteem and respect, inherited from the history of our forefathers.
Thanks to all of my collectors, and devotees, without whom I would
not be the happy and free man that I am today: this book is for you!
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FLAVIO ARENSI: Milano, 1975, giornalista e critico d’arte. Ha curato
per dieci anni l’attività degli spazi espositivi della città di Legnano. Da
sempre si è interessato di scultura, curando fra le altre le mostre di Tony
Cragg, Ipousteguy, Mimmo Paladino, Augusto Perez, Auguste Rodin.
Collabora con enti e musei e si occupa della programmazione espositiva
del Ravello Festival.
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FLAVIO ARENSI is a journalist and art critic who was born in Milan in
1975. He has been in charge of organizing events in the city of Legnano’s
exhibition centres for 10 years. He has always been interested in sculpture, having worked as a curator for artists such as Tony Cragg, Ipousteguy,
Mimmo Paladino, Augusto Perez, Auguste Rodin. He works with both
private agencies and museums, and organizes the Ravello Festival exhibition programming.
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Traduzione testo: Frederick e Michael Paysden, Serena Oldrati
Progetto grafico: Ugo Riva, Maurizio Bignotti
Stampa: Gammalito - Curno - (Bg)
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Tutti i diritti riservati - Finito di stampare novembre 2014
100 / 100
Studio per il
Paradiso Perduto
(part.) 2010.
126
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