Cabanel, Alexandre Cabaret Voltaire Storia dell`arte Einaudi

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Cabanel, Alexandre Cabaret Voltaire Storia dell`arte Einaudi
C
Cabanel, Alexandre
(Montpellier 1823 - Parigi 1889). Ottenne il prix de Rome
nel 1845; entrò nell’Institut de France nel 1863. Eseguí ritratti di bellissima qualità (Alfred Bruyas, 1840: conservato
a Montpellier; Catharine Lorillard Wolfe, 1876: New York,
mma) e tele mitologiche abilmente impostate, in cui privilegia la raffigurazione di nudi femminili in stile pompier (Nascita di Venere, 1863: Parigi, Louvre). I suoi celebri quadri
di storia (il Riposo di Ruth, 1866: già coll. dell’imperatrice
Eugenia; Morte di Francesca da Rimini e di Paolo Malatesta,
1870: Amiens, Museo di Piccardia), dalla composizione studiata, dalla fattura esatta, ricchi di accurati dettagli iconografici, sono talvolta declamatori e popolati di eroine da teatro (Fedra, 1880: conservato a Montpellier). Realizzò a Parigi numerose decorazioni murali per palazzi privati (hôtel
Pereire, 1858-64; hôtel de Say, 1861) e, per il Panthéon, Vita di san Luigi (1878). Ricevette numerosi incarichi da Napoleone III e da sovrani stranieri (il Paradiso perduto, 1867
(dipinto per il re di Baviera): Monaco, Maximilianum) e svolse un ruolo notevole nella direzione del salon ufficiale sotto
il secondo impero, opponendosi fortemente agli impressionisti. (tb).
Cabaret Voltaire
L’antica birreria Meiereie, posta al n. 1 della Spiegelgasse a
Zurigo, fu la culla del movimento Dada. Qui infatti Hugo
Ball e la sua amica Emmy Hemmings aprirono un «cabaret
artistico», che era insieme club, galleria e teatro, e che fu
inaugurato il 5 febbraio 1916 con il concorso di Jean Arp,
Marcel Janco e T. Tzara. Vi si tennero concerti «brutisti»,
«poesie simultanee», mostre cui presero parte, in particola-
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re, Arp, Janco, Macke, Marinetti, Modigliani, Picasso,
Slodki. Ball pubblicò nel maggio 1916 un opuscolo intitolato Cabaret Voltaire, cui contribuirono, oltre al gruppo, Apollinaire, Cendrars, Kandinsky e Picasso. Nel marzo 1917 al
C V succedette una «galerie dada». (pge).
Cabel, Adriaen van der
(Rijswijk (L’Aja) 1631 - Lione 1705). Si formò presso Jan
van Goyen. Nel 1654 è segnalato all’Aja; nel 1660-65 ca.
soggiornò a Roma, ove la Bentvogel, associazione dei pittori olandesi, gli assegnò il soprannome di Corindone. Si stabilí poi a Lione, dove rimase fino alla morte. Dipinse paesaggi, vedute marine e alcuni ritratti. Le prime opere rammentano il suo maestro Jan van Goyen (Paesaggio, 1652: Monaco, ap). Piú tardi conferí un andamento piú barocco ai suoi
paesaggi, che da allora rammentano l’opera di Gaspard Dughet e quella di Salvator Rosa, pur preservando elementi
olandesi. È rappresentato a Lione (mba). (abl).
Cabezalaro, Juan Martín
(Almaden (Nuova Castiglia) 1630 - Madrid 1670). Morí
mentre la sua fama stava affermandosi. È tra i migliori pittori madrileni della seconda metà del xvii sec.; fu uno dei
piú notevoli allievi di Carreño de Miranda e altrettanto apprezzato come affrescatore che come pittore da cavalletto.
Dipinse soprattutto per le chiese di Madrid. Gran parte delle sue opere è scomparsa; altre attribuzioni sono incerte. Il
San Girolamo dell’ex coll. Cook di Richmond (1666) e le
quattro grandi Scene della Passione nella cappella del terzo
ordine francescano a Madrid (1667-68) manifestano, oltre
al consueto influsso di Rubens e Van Dyck, uno stile solido
e un vigore espressivo quasi brutale. (pg).
Cabirio
Santuario presso Tebe in Beozia, che ha dato nome ad un
gruppo di vasi beoti d’epoca classica. (cr).
Cabrera, Jaime
(attivo all’inizio del xv sec.). Si formò nella bottega di Jaime Serra, di cui proseguí la tradizione italianeggiante. Autore del Polittico di san Nicolas (1406: Manresa, Collegiata),
avrebbe pure eseguito i pannelli laterali di un polittico del-
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la chiesa di San Martín de Sarroca, il cui centro è ornato da
una statua della Vergine col Bambino. (mbe).
Cabrera, Miguel
(Tialixac 1695 - Città di Messico 1768). Originario dello stato di Oaxaca, nel Sud del paese, compare a Città di Messico nel 1719 e svolge presto un ruolo di primo piano nella
scuola pittorica nazionale. Discepolo e amico del più anziano José de Ibarra (che fu chiamato «il Murillo messicano»),
dopo di lui divenne il pittore in voga presso gli ordini religiosi, con l’aiuto di una bottega assai bene organizzata: vennero cosí eseguiti, nel 1756-57, cicli di oltre cinquanta quadri, dedicati alle vite di san Domenico e di sant’Ignazio.
Dànno un’idea abbastanza esatta di quest’arte del «far presto», brillante e superficiale, dai colori chiari e dalla disinvoltura un po’ fiacca, le grandi pitture consacrate alla Vergine regina, dipinte per i francescani e passate poi alla cattedrale di Città di Messico, la serie della Via Crucis nella cattedrale di Puebla, i quadri conservati nella Pin. Virreinal di
Città di Messico (Sant’Anselmo e san Bernardo, e soprattutto la grande composizione sulla Vergine dell’Apocalisse). La
parte piú interessante della sua opera è costituita però dal
ritratto. Ritrattista di fama sia fra l’aristocrazia sia fra i religiosi, C abbandona lo stile rigido e ieratico, indifferente
allo spazio, in voga fino ad allora (e che ancora si riscontra
nel suo ritratto del Viceré di Güemes). Abile nel modellare
le carni e nell’illuminare volti e mani, riesce anche a caratterizzare la personalità dei suoi modelli. La sua opera piú celebre è il ritratto di Sor Juana Inés de la Cruz (dipinto nel 1750
molto tempo dopo la morte della santa, che era poetessa e
mistica, e scriveva nella sua cella colma di libri), opera che
prosegue, raddolcendolo, lo stile dei grandi ritratti monastici, meditativi e tranquilli, del secolo d’oro spagnolo. Ma
C ha pure lasciato ritratti piú semplici, di stile piú familiare, come il suo eccellente Autoritratto (Città di Messico, Pin.
Virreinal). Pittore di camera dell’arcivescovo, fondatore
(1753) e presidente perpetuo dell’Accademia di pittura, C
godette fino alla morte di una fama senza eclissi. Ebbe numerosi allievi: Juan Patricio Morlete e José de Alzibar furono anch’essi ritrattisti di valore. (pg).
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Cacault, François
(Nantes 1743 - La Madeleine (Clisson, Loire-Atlantique)
1805). Svolse carriera diplomatica in Italia. Esordí a Napoli nel 1785 e dal 1793 fu incaricato di delicate missioni, in
particolare in occasione della firma del trattato di Tolentino nel 1797. Ambasciatore di Francia a Roma dal 1800 al
1803, approfittò del suo soggiorno in Italia per raccogliere
una collezione di 1200 dipinti e 10 000 stampe, che intendeva donare alla cittadina di Clisson, ove si era ritirato nel
1804 dopo essere stato nominato senatore del dipartimento
della Loira inferiore. Non ebbe però il tempo di realizzare
il museo che progettava; e il fratello Pierre (1744-1810), disperando di riuscirvi, vendette la collezione alla città di Nantes nel 1808; essa costituisce ora il fondo principale del museo. Molto numerosi i dipinti italiani, compresi i primitivi,
il che denota una curiosità allora rara (Maestro del Bigallo,
Daddi, Bergognone, Tura, il Perugino), con opere del xvi
sec. (Tintoretto, Genga) e soprattutto un bel complesso del
xvii sec. italiano comprendente napoletani (Recco, Preti) e
genovesi (Castiglione, Strozzi). Vi si trovano pure opere
olandesi (Flinck) e fiamminghe, e importanti dipinti francesi, fra cui tre capolavori di Georges de La Tour. Il xviii
sec. – altra prova dell’indipendenza di gusto dei fratelli Cacault – è ben rappresentato con opere di Watteau, Lancret,
Tournières. (gb).
Caccia, Guglielmo → Moncalvo
cadavre exquis
Espressione francese (cadavere squisito), cosí definita nel
Dictionnaire abrégé du Surréalisme: «Gioco con carta piegata, consistente nel far comporre una frase o un disegno da
parte di piú persone senza che nessuna possa tener conto della collaborazione o collaborazioni precedenti». L’esempio,
divenuto classico, che ha dato nome al c e consiste nella prima frase ottenuta mediante questa tecnica: «Le cadavre exquis boira le vin nouveau» (Il cadavere squisito berrà il vino novello). Il procedimento rientra nel gusto della casualità e del bizzarro caro ai surrealisti, ed è nel contempo gioco di società e atto di magia. Inventato nel 1925 in rue du
Château, in casa di Marcel Duhamel, ebbe grande succes-
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so. Le riviste surrealiste ne pubblicarono esempi dal 1927
(Ernst, Masson, Max Morise; A. Breton, J. Hérold, Tanguy, Brauner). Il gruppo surrealista portoghese (Azevedo,
Dominguez, Moniz-Pereira, Antonio Pedro e Vespeira) ha
eseguito nel 1948 un c e interamente dipinto. (sr).
Cades, Giuseppe
(Roma 1750-99). Nato a Roma da padre francese (Jean Cades, naturalizzato Cadeotti, sarto e pittore amatore, giunto
nella capitale nel 1731 dal villaggio di Saint-Orens in Linguadoca) e da madre romana, C fu un artista precoce, le cui
prime opere datate (esclusivamente disegni) risalgono al
1762. Nel 1766, a seguito di un litigio con il maestro, Domenico Corvi, che non apprezzava l’eccessiva indipendenza
dell’allievo, lascia la scuola di quest’ultimo e interrompe la
formazione accademica, aprendosi agli influssi meno tradizionali e decisamente innovatori degli stranieri presenti in
quegli anni nella capitale: in particolare della cerchia dei nordici, riuniti intorno a Füssli e a Sergel, e di alcuni francesi,
dipendenti o meno dall’ambiente accademico di palazzo
Mancini. All’inizio degli anni ’70 risale la prima commissione pubblica a C: il Martirio di san Benigno (retribuito nel
1774) per l’abbazia di San Benigno di Fruttuaria (San Benigno Canavese). Ma la produzione giovanile è costituita essenzialmente da disegni, generalmente modelli compiuti e
rifiniti, probabilmente destinati alla vendita (Achille, Patroclo e Ulisse, 1774: Parigi, Louvre (l’unico eseguito in un dipinto attualmente noto, anch’esso al Louvre); Achille e Briseide, 1776: versioni di Montpellier e di Londra; Marte e Venere: Firenze, Museo Horne; Atena incoraggia Diomede ferito: Parigi, coll. priv.). Essi rivelano lo sguardo nuovo che C
rivolgeva all’antichità, ora considerandola con giocosa ironia ora rileggendola in chiave drammatica e patetica. Lo stile personale e originalissimo adottato in queste opere appare in netta rottura con le correnti tardo marattesche, classiciste o rococò, che convivevano senza difficoltà nell’eclettica scuola romana contemporanea. La forma espressiva e neomanierista, la presenza vivace dei personaggi, sbalzati in primo piano come figure di bassorilievi, costituiscono un equivalente, nel grand genre storico, dei modi sviluppati dal Giani in ambito decorativo. La pala con l’Estasi di san Giuseppe
da Copertino per la basilica dei Santi Apostoli (1777) segna
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una svolta in senso neoveneto dei modi di C, influenzata forse dall’esperienza romana di Ricci e Trevisani, ma dovuta
soprattutto ai contatti del pittore con l’ambiente dei veneziani di Roma, gravitante intorno all’ambasciata di palazzo
Venezia e ai nipoti di Clemente XIII (nella dimora di uno
di questi, Abbondio Rezzonico, senatore di Roma, C dipinse a tempera le decorazioni della nuova sala di musica, conobbe Canova e forse Piranesi, di cui eseguí il ritratto, inciso dal figlio Francesco). Nel decennio ’80-90, C partecipa,
in quanto pittore di figura, a molti rifacimenti neoclassici
d’interni romani: in palazzo Ruspoli (1782), palazzo Chigi
(1784), palazzo Altieri (1787 e 1791) ed esegue i suoi due
massimi interventi al casino Borghese di Porta Pinciana (Riconoscimento di Gualtieri d’Anversa, 1787) e in palazzo Chigi ad Ariccia (due stanze dipinte a tempera con storie
dall’Ariosto, 1788-90). Il tema letterario (ispirato a una fonte classica in lingua italiana) e l’evocazione storica, espressa
con un sorridente e fantasioso gusto troubadour, anticipano,
in entrambe le opere, un preciso filone della pittura romantica. C esegue contemporaneamente acqueforti originali (Roma, Calcografia nazionale) e si afferma con dipinti religiosi
di ampio respiro (San Pietro appare a santa Lucia e a sant’Agata, 1781: Ascoli Piceno; Nascita della Vergine, 1785: Genova; Adorazione dei pastori, 1788: modello a Bergamo), caratterizzati da un relativo classicismo, da un’esecuzione morbida e sciolta e dalla ricchezza dei valori cromatici, sempre
piú chiari e vibranti. Lo stile grafico si alleggerisce e diventa fiorito, guizzante, accurato nei contorni e di una grande
eleganza formale, evocando (sino a creare, a volte, confusioni) i modi di un disegnatore bolognese quale Ubaldo Gandolfi. Quattro grandi tele per Fabriano (già nel convento di
San Francesco, ora nelle chiese di Sant’Agostino e Santa Caterina), eseguite fra il 1789 e il 1791, inaugurano la tendenza
piú epurata e classicista dell’ultimo C (cfr. anche, a Roma,
San Bonaventura (depositi di palazzo Venezia) e Sacra Famiglia (chiesa di San Nicola da Tolentino), entrambi del 1790
e i molti disegni dell’album conservato a Lisbona (maa) che
anticipano le poetiche nazarene e i modi del primo Minardi); tale tendenza non esclude, tuttavia, il risorgere di un
manierismo lineare e a volte concitato in alcuni disegni tardi (Riscatto di una giovane prigioniera, 1794: coll. priv.; Nozze di Alessandro e Rossana, 1793: Roma, Istituto nazionale
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per la grafica; Cristo in casa di Simone: Londra, coll. priv.) e
una lettura sempre piú sensibile e attenta dell’opera di Michelangelo, di cui testimonia una delle ultime opere di C, il
San Michele Arcangelo per la Russia (bozzetto a Chicago, coll.
Young). L’artista muore prematuramente a Roma l’8 dicembre 1799. (mtc).
Cadice
Non è mai stata un centro di pittura, ma la sua prosperità
commerciale nel xvii e soprattutto nel xviii sec., quando soppiantò Siviglia come porto per la flotta delle Indie, la ricchezza degli appassionati d’arte locali e delle colonie di stranieri (in particolare genovese e fiamminga), provocarono un
afflusso di pittura spagnola ed europea sia nelle chiese sia
presso i privati. Antonio Ponz, nel suo Viaje de España, descrive le collezioni di C, in particolare la piú celebre, quella
di Sebastián Martinez, amico e modello di Goya. Tale ricchezza si è in gran parte dissipata col declino di C nel xix
sec. Ne restano peraltro tracce notevoli nelle chiese. Vanno
almeno ricordati il magnifico San Francesco di El Greco
all’Hospitalillo de Mujeres, gli ultimi dipinti di Murillo, chiamato dai cappuccini e morto a C nel 1682 (Matrimonio mistico di santa Caterina, al convento dei cappuccini; una delle
sue piú belle Immacolate in San Filippo Neri), e i dipinti,
troppo poco noti, rembrandtiani (Ultima cena) con i quali
Goya decorò nel 1792 l’oratorio della Santa Cueva.
Museo provincial de bellas artes Fu aperto nel 1852 sotto
il controllo dell’accademia di belle arti di C, e rimodernato
ai giorni nostri da Cesar Péman. È interessantissimo. Raccoglie buoni quadri di provenienza e scuole molto diverse:
primitivi spagnoli e fiamminghi; trittici di Luis de Morales;
spagnoli, italiani e fiamminghi del xvii sec. (Immacolata di
F. Rizi, Estasi della Maddalena di Cl. Coello, Presentazione
al Tempio di Solis, Cristo in croce di Borgianni, Giudizio universale di Pickenoy), nonché un interessante gruppo di spagnoli del xix sec., in ispecie romantici andalusi (Rodriguez
El Panadero, Fernandez Cruzado, Becquer). Ma l’attrattiva maggiore del museo sta nell’eccezionale gruppo di Zurbarán. Oltre alla magnifica Porziuncola del primo periodo,
proveniente dai Capucinos di Jerez, comprende una parte
importante del complesso dipinto dal 1637 al 1639 per la
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certosa di Jerez. Possiede, oltre al San Brunone in estasi del
polittico principale e alla Pentecoste, tutti i dipinti che decoravano il corridoio di accesso alla cappella del Santo Sacramento: due angeli incensieri e otto santi certosini, che
per la qualità dei bianchi e l’intensità espressiva vanno annoverati tra i capolavori del pittore. (pg).
Cadorin, Guido
(Venezia 1892-1976). Giovanissimo, inizia a dipingere presso lo studio del padre scultore. Partecipa dal 1908 alle mostre di Ca’ Pesaro, nel 1909 è invitato alla Biennale di Venezia e nel 1911 all’esposizione internazionale di Roma. Negli anni ’20 realizza una pittura di gusto liberty, costruita
per masse cromatiche semplici ma di forte accento monumentale. Celebre soprattutto per i suoi ritratti (Ritratto del
padre, 1921: Venezia, gam), aperto ai piú vari influssi culturali, si dedica anche alle tecniche dell’affresco (decorazione dell’Hotel degli Ambasciatori, Roma 1926) e del mosaico. Espone inoltre alla prima mostra del Novecento italiano
(1926), alla Biennale di Venezia (dal 1920 al 1934) e alla
Quadriennale (1931, 1935, 1943, 1951). (im).
Caen
Musée des beaux-arts Fu uno dei quindici musei creati con
decreto consolare del 14 fruttidoro dell’anno ix; sin dalla
sua formazione beneficiò di notevoli assegnazioni da parte
dello Stato. Le collezioni, prima collocate nel municipio, distrutto nel 1944, fortunatamente in gran parte si salvarono;
sono sistemate dal 1970 in un nuovo edificio entro la cinta
del castello. Vi si trovano dipinti importanti, in particolare
di scuola italiana (Perugino, Nozze della Vergine; Cima da
Conegliano; Tintoretto, Deposizione dalla croce; Veronese,
Tentazione di sant’Antonio; G. D. Tiepolo, Ecce Homo; Pannini), opere fiamminghe (Floris, Ritratto di donna; Sustris;
Jordaens; Rubens, Incontro tra Abramo e Melchisedec) e francesi del xvii (Poussin, Morte di Adone; Rigaud, Marie Cadenne), del xviii (Boucher, Oudry) e del xix sec. (Courbet,
Couture, Ravier). I pittori originari di C e della regione (Belin de Fontenay, Tournières, R. Lefèvre, S. Lépine) sono
rappresentati da parecchie opere. I locali del museo ospitano inoltre opere raccolte da Pierre-Bernard Mancel
(1798-1872), lasciate alla città nel 1872: dipinti, scelti sem-
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pre con grande discernimento (alcuni vennero comperati nel
1845 alla vendita del cardinal Fesch a Roma), di Rogier van
der Weyden (Vergine), Tura (San Giacomo), di maestri olandesi e fiamminghi dei xvii sec.; nonché incisioni di tutte le
scuole. (gb).
Caffi, Ippolito
(Belluno 1809 - Lissa 1866). Formatosi presso l’accademia
di Venezia, poté studiarvi i vedutisti del Settecento, ammirando soprattutto Canaletto. Effettuò numerosi viaggi attraverso l’Italia, a Parigi e in Oriente. Nel 1833-34 si trasferisce e lavora a Roma; nel ’37, a Venezia, presenta il fortunato quadro L’ultima ora di Carnevale a Roma, noto come
I moccoletti, più volte replicato per gli amatori; poi torna a
Roma. Nel 1838 l’imperatore d’Austria gli acquista L’ingresso a Venezia e La regata; partecipa con dodici quadri
all’esposizione di Milano, oltre che a quella triestina del
1840. L’anno dopo, a Padova, prende parte alla decorazione del Caffè Pedrocchi. Dopo una nuova sosta a Roma e una
a Napoli, s’imbarca nel 1843 per Atene, Costantinopoli,
l’Asia minore, Alessandria d’Egitto, il Cairo e il corso del
Nilo; poi si reca a Gerusalemme e torna a Roma nel 1844.
Ovunque esegue vedute e disegni; e nel ’44 espone a Roma
(mostra di cultori di belle arti) le vedute del viaggio orientale. L’anno dopo, papa Gregorio XVI gli commissiona Piazza San Pietro e Piazza San Marco. Nel ’48-49 prende parte attiva alla rivolta antiaustriaca e dipinge quadri sulla resistenza di Venezia insorta. Proscritto, vaga per il Nord e il Centro Italia; dipinge vedute di Genova (1850). È anche a Londra e vi espone, per poi recarsi a dipingere in Spagna (1854)
e quindi a Parigi per oltre un anno, partecipando con tre opere all’esposizione universale del 1855. Di nuovo a Roma
(1855-57) esegue, tra l’altro, per Pio IX una serie di vedute
nella Biblioteca Vaticana. Nel ’58 può tornare stabilmente
a Venezia, ma vi è arrestato nel 1860. A Napoli dipinge l’Ingresso di Vittorio Emanuele II, che nel 1862 lo fa cittadino
italiano. Partecipa alla battaglia navale di Lissa con la flotta italiana, e vi muore in combattimento.
C fu essenzialmente un paesaggista «esatto» ma estroso; le
sue opere, chiare e rigorosamente costruite – talvolta pretesto per curiosi effetti di luce artificiale – proseguono la tradizione dei paesaggio urbano di un Canaletto (il Pincio di
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mattina, 1846; Veduta di Torino, 185o; Boulevard Saint-Denis a Parigi, 1855: Venezia, Ca’ Pesaro). Il Museo Correr a
Venezia conserva anch’esso una serie di suoi disegni. Il soggiorno romano e la conoscenza di Corot gli valsero talora
morbidezza di toni, tagli originali, novità di colori. Nitido
vedutista, sa cogliere tuttavia i valori cromatici dell’atmosfera con grande sottigliezza, rendendo efficacemente il carattere specifico dei tanti luoghi da lui osservati. (sr).
Cagli, Corrado
(Ancona 1910 - Roma 1976). Studiò a Roma e vi frequentò
l’accademia di belle arti. Nel 1929-30 diresse una fabbrica
di ceramica a Umbertide nell’Umbria. Ha lavorato poi a Roma fino al 1938, salvo un soggiorno di alcuni mesi, l’anno
prima, a Parigi e New York. Trasferitosi a Parigi alla fine
del 1938 a causa delle persecuzioni razziali, nel 1940 è di
nuovo a New York. Dopo l’interruzione della guerra, cui
partecipò sul fronte europeo, riprese a lavorare nel 1945 a
New York. Tornato a Roma nel 1948 vi si stabilisce fino alla morte, con soggiorni a Milano negli anni ’50. Durante gli
anni ’30, fino al suo espatrio, fu vicino agli artisti della cosiddetta Scuola romana, facendo gruppo in particolare con
Capogrossi e Cavalli, insieme ai quali espose a Roma (1932,
Gall. di Roma), a Milano (1933, Gall. del Milione) e a Parigi (1933, Gall. Bonjean) all’insegna dell’Ecole de Rome,
secondo la definizione coniata in quell’occasione dal critico
francese Waldemar George. Significative mostre personali
ebbe C a Roma alla Gall. della Cometa (1935 e 1936) e alla
seconda Quadriennale (1935). Nelle sue prime opere spunti cubisti s’inseriscono su una struttura classica e figurativa,
derivata da una consapevole opera di recupero della tradizione rinascimentale italiana. In polemica con la retorica di
Novecento sviluppò una pittura narrativa ricercando nuovi
miti in favole eseguite in ampie composizioni: affreschi, tempere, encausti, mosaici (esempio la fontana monumentale di
Terni, 1931-35). Il problema del rapporto della pittura con
l’architettura fu al centro dei suoi interessi: esso deriva dalle premesse stesse della sua arte, nata da esigenze d’ordine
formale, di chiarezza di linguaggio, da uno spiccato gusto
per lo sperimentalismo tecnico, contro ogni concessione intimistica o sentimentale. A partire dal 1933 eseguí una serie di grandi cicli murali per opere pubbliche, in parte di-
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strutti per ordine del regime fascista: per la Mostra edilizia
a Roma (1932); la Corsa dei barbari a Castel dei Cesari, Roma (1935); le decorazioni nella rotonda della seconda Quadriennale di Roma (1934); alla Triennale di Milano del ’33
(Preludi alla guerra) e del ’36 (Battaglia di San Martino); al padiglione italiano all’Esposizione internazionale di Parigi
(1937); nella rotonda della XXI Biennale di Venezia (1938,
Orfeo incanta le belve) e, nel 1953, la grande parete a tempera per la Mostra nazionale dell’agricoltura all’Eur. Nel dopoguerra sviluppò una pittura d’indirizzo fantastico, alternando un linguaggio astratto al figurativo. La propensione
al vario, all’eteroclito, allo sperimentale lo portò ad una forma di surrealismo neometafisico che, sulla scia dei frottages
di Max Ernst, si sviluppò a partire dalle possibilità tecniche
della materia, sfruttandone ad un tempo l’elemento casuale
e l’intervento sapiente sul mezzo tecnico. Una complessa iconografia tratta da simboli arcani o da alfabeti primitivi è alla base dei cieli di opere di questo periodo: i Tarocchi, Motivi cellulari, Le Impronte (1949-50), dove le tecniche tradizionali sono sostituite da una continua ricerca tecnica: carta incollata, impronte con stampini, pittura a spruzzo (ad
esempio nelle Metamorfosi, 1957; Carte, 1958-59). Sono del
1959 la serie di sculture e, successivamente, gli inchiostri
colorati (ad esempio Le Siciliane, 1962-63). Numerose le
esposizioni personali e collettive del 1948 (a Roma, Milano,
in altre città d’Italia e all’estero, specialmente negli Stati
Uniti). Nel 1958 vinse il premio Marzotto. Una sola personale gli è stata consacrata alla XXVI Biennale di Venezia del
1952 e alla XXXII del ’64; e tre vaste retrospettive sono
state allestite alla Galleria d’arte moderna di Milano (1965),
a quella di Palermo (1967) e in Castel dell’Ovo a Napoli
(1982). Fu anche attivo come scenografo e costumista, nonché come critico e scrittore d’arte. (lm+sr).
Cagliari
Pinacoteca Il Regio Museo di C fu fondato nel 1802 dal vicerè Carlo Felice come «gabinetto di storia naturale» privato del duca di Genova; nel 1806 fu concesso all’università
e le collezioni scientifiche furono disperse tra le varie discipline, mentre la sezione archeologica, rimasta unita e continuamente accresciuta da nuovi ritrovamenti, dal 1860 ebbe
un proprio direttore. La necessità di istituire a C una rac-
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colta civica «moderna» in grado sia di documentare la civiltà regionale sarda, sia di fungere – con una propria galleria di pittura – da luogo di studio e di formazione per gli artisti, venne sostenuta dal canonico Giovanni Spano
(1803-78), fondatore del «Bullettino Archeologico sardo»
(da lui diretto negli anni 1855-64), il quale raccolse inoltre
un’importante serie di dipinti, illustrata nella sua Storia dei
pittori sardi e Catalogo descrittivo della privata Pinacoteca
(1870) e attualmente suddivisa tra la casa parrocchiale del
suo paese natale, Ploaghe, e la Pinacoteca di C. Questa ebbe un ordinamento e una sede stabile nell’edificio oggi sede
del Museo nazionale, a Porta Cristina presso la Torre di San
Pancrazio, solo nei primi anni del nostro secolo, per opera
dell’allora soprintendente Antonio Taramelli. A lui seguirono Carlo Aru e Raffaello Delogu, che promossero una politica attiva di recupero e di restauro di opere provenienti
dal territorio, e ai quali si deve l’attuale, insostituibile funzione della pinacoteca quale luogo di studio della civiltà pittorica sarda di cui offre una documentazione pressoché completa, importante soprattutto per i secoli xiv-xvii, quando
l’isola era provincia dei regni di Castiglia e d’Aragona. Vi si
conserva una ricca serie di polittici, rappresentativi della
committenza e del collezionismo principalmente ecclesiastico, come il Polittico dell’Annunciazione di Joan Mates, la Madonna col Bambino di Alvaro Pirez, il Polittico di san Bernardino di Joan Figuera e Rafael Thomás, e quello della Visitazione di Joan Barcelo; mentre i pittori locali sono documentati dal Polittico della Porziuncola, del Maestro di Castelsardo, da quello del Giudizio Universale, del Maestro di
Olzai, di Sant’Eligio, del Maestro di Sauluri e da una cospicua serie di dipinti dei maggiori – e piú noti – Pietro e Michele Cavaro. (sr).
Cagnacci, Guido
(Sant’Arcangelo di Romagna 1601 - Vienna 1663). Le vicende biografiche non sono ben note. Giunto a Bologna
quindicenne avrebbe studiato, secondo i biografi, con Ludovico Carracci, morto poco dopo il 1619, e poi con il Reni, della cui influenza però non è traccia nei primi dipinti
dell’artista. Nel 1631 risiedeva a Rimini, dove lasciò alcuni
notevolissimi dipinti di soggetto religioso il cui stile appare
decisamente orientato in senso naturalista (Vocazione di san
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Matteo, 1631-35 ca.: Rimini; Madonna col Bambino e Santi,
1640 ca.: Rimini, San Giovanni Battista). Si è pertanto ragionevolmente supposto che egli avesse conosciuto direttamente, a Roma, le opere di Caravaggio e dei suoi seguaci – in
particolare, Vouet e Gentileschi –, ed è d’altronde evidente che dei discepoli dei Carracci allora in auge, certo avvicinati a Bologna e nella stessa Roma, il piú congeniale a lui era
il meno accademico, cioè Giovanni Lanfranco. È ormai documentato comunque che nel 1620 da Bologna il C si recò
a Roma, e che vi tornò di nuovo alla fine del 1621 in compagnia del Guercino, con il quale, insieme a Lorenzo Gennari, viveva in via Paolina nel 1622. La corporea sensualità
e il luminismo dello stile guercinesco esercitarono sul C, piú
giovane di dieci anni, un’innegabile e duratura influenza.
Non si conosce la durata del soggiorno romano del C; già nel
1627 era tornato in Romagna e lavorava alla decorazione di
una cappella nella parrocchiale di Saludecio; poi visse quasi
ininterrottamente a Rimini per quindici anni. Nel 1636 firma e data una pala per Sant’Arcangelo (Cristo ed i SS. Giuseppe ed Eligio), suo paese natale. Nel 1644, a due anni dalla commissione, egli collocava due grandi tele nella cappella della Madonna del Fuoco nel duomo di Forlí (ora nella pinacoteca locale); ma non realizzò la prevista decorazione a
fresco della cupola. Nel 1650 abbandonò per sempre l’Emilia e si stabilí a Venezia; poi, verso il 1657-58, fu chiamato
a Vienna dal giovane imperatore Leopoldo I, come il suo
amico Pietro Liberi. Dell’ultimo periodo della sua attività si
conservano molte tele sparse in vari luoghi, di soggetto profano, in cui l’interesse naturalistico si concreta in sensuali
rappresentazioni del nudo femminile (Lucrezia, Cleopatra,
Maddalena, in varie versioni), ma con una solidità di pittura che ha indotto la critica a supporre la conoscenza, da parte del C, di esemplari olandesi del Seicento, accennando anche al nome di Vermeer. (eb+sr).
Cagnaccio di San Pietro
(pseudonimo di Natale Scarpa) (Desenzano 1897 -Venezia
1946). Allievo di Ettore Tito all’accademia di Venezia. Già
nella prima personale di Ca’ Pesaro nel 1923 abbandona gli
effetti della tradizione pittorica veneta per un’immagine nitida, resa con cristalline stesure di colore che lo avvicina al
«realismo magico» di Nocevento e alla Nuova Oggettività.
Storia dell’arte Einaudi
Partecipa alla Biennale di Venezia, con eccezione di alcuni
anni, dal ’24 al ’42; nel ’25 espone alla Biennale romana e
nel ’35 alla II Quadriennale. (ddd).
Cagnola, Guido
(Milano 1857-1946). Storico d’arte (fondò nel 1900 la rivista «Rassegna d’arte antica e moderna»), umanista e diplomatico, raccolse dapprima a Milano una collezione d’arte,
che trasferí in seguito nella settecentesca villa della Gazzada, presso Varese; alla sua morte legò l’intero patrimonio artistico alla Santa Sede per garantirne la conservazione e l’inalienabilità. La collezione può essere distinta in due nuclei separati: il primo e piú importante comprende dipinti di scuola toscana, veneta e padana dal xiv al xv secolo: tra essi, Taddeo Gaddi, Jacopo Bellini, Antonio Vivarini. Ricordiamo
soprattutto due tondi di Francesco del Cossa appartenenti
al polittico Griffoni, il Cristo deposto dagli angeli, importante opera giovanile del Bergognone, e la Madonna in trono,
parte centrale di un raro polittico che recenti studi hanno
ricostruito e assegnato a Zanetto Bugatto, pittore lombardo
in rapporto con Rogier van der Weyden. Il secondo nucleo
raccoglie opere settecentesche venete. Appartenevano alla
collezione Cagnola la Madonna del Latte di Ambrogio Lorenzetti donata a Brera, il trittico di Jacopo del Casentino
ora agli Uffizi di Firenze e il libro di disegni del Canaletto
ora alle Gallerie dell’Accademia di Venezia. (lcv).
«Cahiers d’art»
Rivista d’arte francese fondata a Parigi nel 1926 (primo numero in gennaio) da Christian Zervos (Argostoli (Cefalonia)
1889 - Parigi 1970); uscí fino al 1960. Nel 1929 si aprí nei
locali del n. 14 di rue du Dragon la Gall. dei C d’a. I C d’a
si sono interessati di vari campi: archeologia mediterranea
(dal 1934), architettura contemporanea, scultura, poesia e
pittura. Le pubblicazioni sull’arte antica (Il polittico di Issenheim, 1936; Nudi di Cranach il Vecchio, 1950) cedono il
passo a quelle riguardanti l’epoca moderna: articoli su Idealismo e naturalismo nella pittura moderna, da Corot e Courbet a Matisse (1927-28), Una domenica alla Grande Jatte e la
tecnica di Seurat (1928), Problemi della giovane pittura (1931).
Nel 1932 cominciò la monumentale pubblicazione del Catalogo ragionato di Picasso, il cui 28° volume comparve nel
Storia dell’arte Einaudi
1975. Dopo la guerra i C d’a accolsero altri pittori (Lam,
Corpora, Poliakoff, N. de Staël), pur continuando a pubblicare articoli di sintesi: Situazione del disegno nell’arte contemporanea (1953). (sr).
Cahn, Marcelle
(Strasburgo 1895). Studiò per breve tempo a Berlino, frequentando gli artisti dello Sturm; conobbe in Svizzera le ultime manifestazioni dadaiste a Zurigo, e le teorie dell’astrattismo. Si trasferí poi a Parigi, operando nel 1925 nello studio di Léger, e traendo dal cubismo una forma purista che
le sarà peculiare (le Racchette da tennis, 1926); presto poi
adottò un linguaggio astratto rigorosamente geometrico, alla fine dominato dalla struttura lineare. Incontrò Mondrian,
si legò a Jean Arp, e nel 1930 divenne membro del gruppo
Cercle et Carré, costituito da Michel Seuphor. Dopo la fine
della guerra partecipò regolarmente al Salon des réalités
nouvelles. È rappresentata particolarmente a Parigi (mnam)
e in musei di Strasburgo e Lilla. (rvg).
Caillaud, Aristide
(Moulins (Deux-Sèvres) 1902). Nel 1937 si recò a Parigi per
dedicarsi alla pittura, pur continuando a praticare molti mestieri. Fatto prigioniero durante la seconda guerra mondiale, cominciò a disegnare in campo di concentramento. Tornato in Francia continuò a dipingere, suscitando nel 1946
l’interesse della critica; nel 1949 partecipò all’Art brut con
Dubuffet. Tenne alcune personali a Parigi e nel 1953 prese
parte alla manifestazione Paule Marot e i suoi amici (Parigi,
mad); eseguí poi arazzi per i Gobelins (il Villaggio). Attratto dall’arte religiosa, nel 1952 compose il Trittico della Vergine per la parrocchia di Jaunay-Clan (Deux-Sèvres) e in seguito la Deposizione nel sepolcro (1955) e la Pesca miracolosa (1956). La sua arte si riallaccia a quella dei naïf per il disegno chiuso e la ricchezza dei colori smaltati. I soggetti sono vari e si distinguono per un’immaginazione fantastica: la
Pastora (1954); la Route Napoléon (1955); Parigi (1956); la
Corrida (1957); l’Elicottero rosso (1957). La sua opera si trova soprattutto in coll. priv., nonché a Parigi (mnam). (pge).
Caillebotte, Gustave
(Parigi 1848 - Gennevilliers 1894). Il padre, giudice al tri-
Storia dell’arte Einaudi
bunale della Senna, lo lasciò in possesso, a venticinque anni, di una notevole fortuna, di cui egli si serví per dedicarsi
alla pittura e sostenere gli impressionisti, allora assai combattuti. Nel 1876 partecipò alla seconda mostra del loro
gruppo (la Colazione: coll. priv.); l’anno precedente aveva
abbandonato il corso di Bonnat all’Ecole des beaux-arts. La
sua opera piú nota è stata per lungo tempo i Piallatori di parquet (1875: Parigi, mo), ma di alta qualità sono pure le scene d’interni e i ritratti (Giovane uomo al pianoforte, 1876:
coll. priv.; Uomo al caffè: Rouen, mba) che C sembra prediligere sui soggetti en plein air. Particolarmente interessanti
le sue scene di vita operaia e le vedute di Parigi (Place de
l’Europe, 1877: Chicago, Art Inst.; i Pittori edili, 1877: coll.
priv.; il Giardino di Gennevilliers, 1893: ivi). Dal 1876 C aveva acquistato opere dei suoi amici impressionisti. Ne possedeva 67, che lasciò allo Stato francese nel 1894. Dopo tre
anni di difficili negoziati, indice del contrasto allora vigente tra l’arte viva e il potere ufficiale, lo Stato ne accettò solo una parte (oggi a Parigi, mo): sei Renoir, tra cui la Liseuse, l’Altalena, il Moulin de la Galette; otto Monet, tra cui la
Gare Saint-Lazare e le Barche, Regate ad Argenteuil; sette Pissarro, tra cui i Tetti rossi; due Manet, sei Sisley, due Cézanne, tra cui l’Estaque; e sette Degas. L’importanza del C artista, oltre che amico e acquirente degli impressionisti, è stata rivalutata dalla critica recente. (sr).
Cailleux, Paul
(Parigi 1884-1964). Fondò nel 1912 la galleria parigina che
ne reca il nome. Fu nel contempo esperto e mercante di quadri e disegni antichi – in particolare del xviii sec. – e collezionista. Era tra i migliori conoscitori del xviii sec. francese, ma s’interessò pure del Settecento veneziano: nel 1952
presentava cosí al pubblico della sua galleria Tiepolo e Guardi delle collezioni francesi. Tra le numerose mostre che hanno regolarmente scandito la vita della galleria citiamo: nel
1929, presentazione dei dipinti di Hubert Robert; nel 1951
un’eccezionale raccolta, il Disegno francese da Watteau a
Prud’hon; nel 1957, Hubert Robert, Louis Moreau. Nel 1964,
poco prima che morisse, i suoi figli Jean e Denise resero
omaggio a François Boucher, primo pittore del re. Si ebbero
poi nel 1968 Watteau e la sua generazione e nel 1973 Au tour
du Néo-Classicisme. Nel 1971 la galleria accoglieva nel suo
Storia dell’arte Einaudi
arredo di mobilio e oggetti d’arte i Dipinti del xviii secolo
del museo di Bordeaux. Le opere della coll. Cailleux sono state presentate in numerose mostre in Francia e all’estero.
L’organizzazione a Londra, nel 1934, della mostra Three
French Reigns era stata in gran parte fatica di C.
Dal 1961 Jean Cailleux pubblica inoltre un supplemento al
«Burlington Magazine», il cui titolo generale è tratto dai
Goncourt: L’Art du dix-huitième siècle. Nel medesimo spirito venne creato il premio della fondazione Paul Cailleux
per lo studio dell’arte nel Settecento, allo scopo di consentire la pubblicazione di opere importanti. (sr).
Cairo, Francesco
(Milano 1607-65). Erede del clima artistico creatosi in Lombardia nel primo trentennio del Seicento col Cerano, il Morazzone e il Procaccini, è soprattutto dal conterraneo Morazzone che dipende il suo stile giovanile, quale si riconosce
in una pala eseguita per gli Scalzi di Milano (Visione di santa Teresa, ora nella Certosa di Pavia), probabilmente anteriore al trasferimento a Torino nel 1663. Un gruppo di dipinti già citati nel 1635 (Torino, Gall. Sabauda) ed eseguiti
per Vittorio Amedeo I di Savoia, che nel 1634 lo fece cavaliere dell’Ordine Mauriziano, appaiono già maturi. Dal 1633
al 1647-48 il C fu pittore ufficiale della corte sabauda, con
soggiorni e viaggi a Milano e altrove. Subito dopo il 1635
va probabilmente collocata la pala di Sant’Andrea Avellino
per i teatini di Milano. Del 1647 è l’Apparizione della Vergine a Petrina Tesio nel santuario dell’Apparizione di Savigliano. Altri dipinti per chiese si scalano fino agli anni ’60.
Numerosi quelli di destinazione privata, dove la sottile perversione nella scelta e nell’interpretazione dei soggetti (scene di martirio, estasi torbide, Erodiadi, Lucrezie, Maddalene...) è accentuata talvolta da un luminismo d’ispirazione
caravaggesca, forse mediato attraverso il Tanzio. Un viaggio a Roma nel 1638-39 dovette porlo in contatto con la cultura neoveneta del Cortona e del Sacchi; gli divennero familiari anche inflessioni rubensiane, vandyckiane, reniane e
neocorreggesche-lanfranchiane. Una profonda trasformazione stilistica in senso venezianeggiante caratterizza le opere della tarda maturità del pittore, nell’ambito degli orientamenti verso il barocco lombardo e genovese. La pala del
Rosario nella Certosa di Pavia (1660) e la Visione di sant’An-
Storia dell’arte Einaudi
tonio (Piacenza, Santa Teresa) sono da considerarsi tra i capolavori della pittura barocca dell’Italia del Nord. (mg+sr).
Cairo, Il
Museo copto Inaugurato nel 1910, conserva anche manoscritti miniati: pergamene di al Fayym (x sec.), con miniature rappresentanti santi in nicchia; lezionari della settimana santa dai margini adorni di animali e uccelli dai vivi colori. Gli affreschi piú belli del museo provengono da al-BÇw¥<
e da $aqqarÇ (convento di San Geremia); quello di al-BÇw¥<
rappresenta il Cristo in gloria circondato dai quattro simboli dell’Apocalisse. Un affresco naïf, proveniente da Umm
al-Brey_Çt (al-Fayym), mostra Adamo ed Eva prima e dopo
il peccato nel Paradiso terrestre. Il museo non possiede icone del periodo cristiano in Egitto, ma opere piú tarde caratterizzate da influssi bizantini, cretesi e poi italiani.
Museo egizio I frammenti conservati al Museo egizio del C
non consentono di farsi un’idea dell’evoluzione dell’arte pittorica in epoca faraonica. I monumenti in situ in Egitto sono assai piú ricchi di capolavori di vari periodi; sono stati
trasferiti al museo soltanto i pezzi che rischiavano di rovinarsi rimanendo in luogo. Il museo contiene però categorie
di oggetti dipinti che completano la nostra conoscenza di
questo settore dell’arte egiziana. La preistoria è rappresentata da vasi in terracotta decorati in genere con barche, talvolta con animali e persino personaggi umani. Questo procedimento di pittura su ceramica, scomparso, a quanto sembra, durante il Regno Antico e Medio, rinasce sotto la XVIII
dinastia (ca. 1500-1300 a. C.), quando si vedono comparire
ghirlande floreali spesso multicolori su fondi chiari. La pittura murale piú antica proviene da una tomba arcaica di Hierakonpolis, che segna la transizione tra la preistoria e la I dinastia storica (ca. 3000 a. C.). Sfortunatamente è assai rovinata. Vi si distinguono ancora barche, che ricordano quelle raffigurate su vasi preistorici, nonché scene di caccia prefiguranti quelle delle epoche seguenti. Per il Regno Antico,
le celebri Oche di Meydm formano un bel pannello, proveniente dalla tomba di NefermÇt e Itet (inizio della IV dinastia, ca. 2700 a. C.). Il pannello era dipinto su una preparazione in stucco sostenuta da uno strato di argilla e paglia.
Provengono dalla stessa tomba pareti di calcare sulle quali
erano state eseguite scene in impasti di colore applicati per
Storia dell’arte Einaudi
incrostazione entro cavità scavate allo scopo: in particolare
vi si scorgono una caccia alla tesa, un’aratura e scimmie in
corsa. Bassorilievi dipinti del Regno Antico mostrano che,
presso gli Egizi, scultura e pittura erano complementari:
l’esempio migliore è una giostra navale della VI dinastia (ca.
2400 a. C.). Le altre pitture caratteristiche del museo del C
risalgono al Regno Nuovo. Una cappella con volta, dedicata alla dea Hathor e ornata di dipinti religiosi, è stata trasferita al C da Deir al-Ba®r¥: risale al regno di Amenofi II
(1448-1422 a. C.). Dai palazzi di Akhnaton a Tell al-‘AmÇrna (1375-1358 a. C.) sono stati trasportati pavimenti e parti di parete dipinti con scene di eccezionale naturalismo
(sfortunatamente assai rovinati): boschi di papiro e altre
piante egiziane, uccelli. Nella tomba di Tutankhamon (13581350 a. C.) sono stati rinvenuti tre oggetti di arredo ricollegabili alla pittura: il celebre tronetto, la cui spalliera è riccamente decorata con una scena policroma di vita familiare
del re, un coperchio di cofanetto in avorio scolpito e dipinto mostrante la giovane regina che tende al suo sposo mazzi di fiori, e infine un cofanetto in legno stuccato e dipinto
con varie rappresentazioni che simboleggiano la potenza del
faraone. Per le loro piccole dimensioni questi ultimi dipinti
appartengono piuttosto all’arte della miniatura: caccia al leone e ad altri animali del deserto, il re in guerra, la sfinge reale che calpesta i nemici. Del Regno Nuovo inoltre il Museo
egizio del C possiede numerosi ostraca, disegni su schegge di
calcare (esercizi o schizzi di artisti), nonché papiri illustrati, di solito con vignette dal Libro dei morti. Tra i papiri a
soggetto profano si trova una scena umoristica trattata con
molto brio: una dama-topo servita da gatte che le fanno da
cameriere, pettinatrici o nutrici. Alla fine del Regno Nuovo
si generalizza il principio di decorare le bare e i sarcofaghi
di legno con temi iconografici tratti dal repertorio religioso
o funerario: il museo ne conserva eccellenti esempi. Le opere piú tarde raccolte al C risalgono ad epoca romana: in particolare due affreschi scoperti a Hermopolis nel Medio Egitto, e alcuni bellissimi ritratti di al-Fayym, dipinti a encausto su tavolette di legno (ii sec. della nostra èra).
Museo d’arte islamica Sistemato dal 1903 in uno speciale
edificio, ospita una ricca raccolta (corani, ceramiche, calligrafie) riguardante tutte le regioni toccate dall’Islam, e in
particolare oggetti provenienti da Fus<Ç<.
Storia dell’arte Einaudi
Museo d’arte moderna Possiede opere di pittori europei dal
xv sec. ai giorni nostri: Cranach, Van Goyen, Steen, Gainsborough, Delacroix, Corot, Ingres, Millet, Isabey, Renoir,
Monet, Degas. Conserva inoltre un bel complesso di opere
di artisti egiziani contemporanei.
Biblioteca araba È collocata nello stesso edificio del Museo
d’arte islamica. Tra i 75 000 volumi che conserva, taluni sono illustrati da belle miniature. Citiamo il KitÇb al-AghÇn¥
(1217), il Kal¥lah wa-Dimnah (1343), il KitÇb al-Bay<ara (Libro dei veterinari, 1210), il Corano di Arghn ShÇh (1368-88
ca.), il D¥wÇn al-‘AttÇr (1454), il BustÇn as-Sa‘d¥ e il Libro dei
re di Firdaws¥. (sr).
Calabria
Sita nell’estremo lembo continentale del Sud d’Italia, la C
attuale, dal Pollino allo Stretto, coincide con la regione storica. Paese dei Bruttii, area del thema bizantino di Sicilia e
poi thema autonomo, contea normanna e, quindi, parte del
regnum e della successiva formazione statale sveva, ha avuto – dal basso medioevo all’Ottocento – partizioni amministrative che non costituiscono telaio di riferimento per una
sua geografia artistica. La sua cultura figurativa, piú facilmente unificabile in età alto- e proto-medievale, consente,
piú che un’articolazione in subaree regionali, l’individuazione di vicende spazio-temporali caratterizzabili per la pertinenza a feudi laici o ecclesiastici, status di demanialità, localizzazioni interne o costiere; mentre d’indispensabile riferimento per la formazione e dislocazione territoriale del
suo patrimonio artistico, appaiono la diffusione e distribuzione degli insediamenti monastico-conventuali e l’organizzazione della Chiesa secolare (circoscrizioni diocesane). Va,
tuttavia, considerato che il corpus sul quale si va tentando
di ritessere una trama, è solo parte superstite d’una vicenda
di dispersioni e distruzioni e che solo di recente restauro e
ricerca vanno aprendo – pur tra vuoti e assenze – possibilità
d’individuarne le valenze storico-critiche.
Dai mosaici pavimentali romani all’approdo del Codice di
Rossano, quasi nulla è noto di pittura pertinente al Bruttium
paleocristiano, il cui assetto è documentato da fonti scritte
e da testimonianze archeologiche ed epigrafiche. Recente il
rinvenimento d’un pavimento musivo figurato in edificio sacro del v-vi sec. nel Vibonese (Piscopio) e, in orbita giudai-
Storia dell’arte Einaudi
ca, d’altra composizione musiva affiorata nella sinagoga (iv
sec.) messa da poco in luce a Bova Marina. Solo cenni da
scritti dell’Otto-Novecento (Taccone-Gallucci, Frangipane,
Toraldo) si hanno su affreschi in ipogei cristiani del Poro.
Fra vii e viii sec. la regione, conquistata dall’impero d’Oriente, prende il nome di C. Ne restano scisse Cosenza e Cassano, gastaldati longobardi sino al sec. x, quando anch’esse
vengono a far parte del thema di C, che resterà tale sino alla conquista normanna. Il rapporto con Bisanzio e l’Oriente cristiano si protrae a lungo, oltre la fase di dipendenza politica, attraverso la capillare diffusione del monachesimo
orientale (dal vii sec. giungono numerosi i monaci profughi
dalle loro sedi asiatiche e africane occupate dagli Arabi), il
ruolo sociale e organizzativo svolto dai piú tardi cenobi, la
dipendenza delle diocesi calabresi dal patriarcato di Costantinopoli. L’adesione alla religiosità bizantina e alla connessa realtà figurativa, con matrici variamente aperte nell’arco dell’Oriente cristiano, è fenomeno riscontrabile anche sino al xv-xvi sec. nella fascia meridionale della regione con
ulteriori persistenze nelle zone rurali. È sedimento culturale tenace, specie nella pittura, che la Rekatholieserung normanna, la diffusione degli ordini monastici latini, i rapporti con Cassino e Cava dei Tirreni aprono solo limitatamente alla cultura occidentale, sensibile nella scultura e piú
nell’architettura, fortemente innovata da accenti latini e germanici. Scomparsa di edifici, cancellazioni e inalbamenti
conseguenti al ripristino del rito latino, abbandono d’intere fasce geoculturali (il Mercourion, le Tebaidi rupestri da
Rossano a Stilo all’Aspromonte), degrado di organismi anche notevoli sono fenomeni d’una difficile conservazione,
cui hanno contribuito anche il tardivo interesse della storiografia per le aree cosiddette «minori» e la difficile accessibilità delle zone interne nell’estremo Sud. Oltre le ricerche dello Jordan e del Diehl, è solo col Bertaux e con l’Orsi (e molto con le indagini sul campo del Cappelli e del Frangipane) che la pittura della C bizantina prende una sua consistenza, consentendo agli studi successivi di delineare, con
ulteriori apporti, la facies d’una provincia italogreca, oggetto di recenti revisioni e indagini, anche se manca ancora
un’indagine sistematica e la sigla «bizantino» non può definire tutta la produzione nota (si veda tra Castrovillari e Saracena la recente individuazione di affreschi di prevalente
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ascendenza paleocristiana accanto ai quali affiora un’esperienza di magistra barbaritas da Longobardia minor). Tra gli
oggetti che, dal vii sec. pellegrini e profughi recano in C
(enkolpia, bratteate, icone, ecc.), è un unicum il Codex purpureus rossanensis, aulico prodotto del tardo antico siro-palestinese, che studi recenti hanno riferito al centro di Cesarea di Palestina rilevandone l’alto valore iconologico e formale, e anche paleografico. Mentre appare isolata nella sua
derivazione forse cassinese (viii sec.) una figurazione dei
complesso cassiodoreo conservata a Bamberga a corredo
d’una copia delle Institutiones, resta la documentazione notevole d’una produzione miniaturistica fiorita negli scriptoria monastici fra ix e xiii-xiv sec., con punte emergenti nelle cosiddette scuole niliana e potiriense. Individuata in piú
centri – europei ed extraeuropei – ove giunse con la diaspora subita dal patrimonio nobile ecclesiastico calabrese in età
moderna, questa produzione testimonia i termini d’una pratica decorativa di piú gruppi monastici d’origine orientale
(Siria, Palestina, Egitto), aperta a contatti coll’area cassinese-beneventana e, dal xii sec., alle suggestioni di Bisanzio
comnena affluite per contatti diretti (Bartolomeo da Simeri) o mediati da una cultura ruggeriana non esente da echi
islamici (si veda, tra influsso campano-longobardo e siro-palestinese, il reggino Patmiaco 33). Piú scarse le vestigia note d’una pittura che sembra muovere da modi greco-continentali e insulari, non senza spunti riferibili a fonti slave o
microasiatiche, per attingere poi a matrici di rinascenza comnena, dirette o mediate tramite il mondo cassinese-desideriano o siculo-normanno. Nel Nord della regione (Paola,
Guadimare, Ascensione, Teofania), contatti col gusto campano-longobardo appaiono, oltre il Mille, decantati in sigle
d’accento classicistico. Tra Scalea, Stilo, Rossano, stratificazioni pittoriche murali si sovrappongono tra ix e xv sec.
(una koimesis d’accento internazionale chiude le sovrapposte figurazioni della Cattolica. Nel Potirion resta documentata memoria d’una vasta stesura di affreschi. Asportati in
parte i resti d’una decorazione esterna nel San Giovanni
Vecchio di Bivongi, tra cui una tarda Madonna in Trono
d’iconografia bizantina aperta a stilemi gotici, restano altre
immagini isolate (Santa Severina, Santa Maria del Cedro)
anteriori al piú ricco episodio costituito dalla decorazione
affrescata di San Demetrio Corone (Sant’Adriano), datata
Storia dell’arte Einaudi
fra xii e xiii sec. e forse di poco anteriore ad una deisis di
buon livello formale conservata a Caulonia (San Zaccaria).
L’impegno devozionale esteso oltre i limiti storici della C bizantina è attestato da piú immagini sacre individuate in chiesette rurali del Reggino, da Sant’Aniceto ad Amendolea. Poche le icone giunte sino a noi (Crotone, Belcastro, Isola Capo Rizzuto, Reggio Calabria). Sono iconografie orientali della Vergine non ancora inseribili in un contesto d’importazione-produzione, tranne che per alcuni casi documentati e
studiati (Vergine e Crocifissione del sec. xv, Museo diocesano di Rossano; Madonne di Romania a Tropea e del Pilerio a Cosenza (xiv e xiii sec.) inserite in un arco di produzione aperto ad accenti toscani). Il «nuovo», vigorosamente affermatosi nell’architettura e connessa decorazione plastica fra tardo xi e xii sec., in età normanna può trovarsi fra
memorie d’immagini perdute e resti di musivaria pavimentale, entrambe da collocarsi fra cultura cassinese-desideriana e siculo-normanna. Di figurazioni celebrative della regalità esemplate forse sui modelli della Martorana e di Monreale, sono noti un mosaico (già nella cattedrale di Gerace),
descritto da fonte cinquecentesca e, da testo seicentesco, una
tabula depicta (Mileto) raffigurante la famiglia comitale di
Ruggero. I resti di pavimenti musivi normanni (Reggio Calabria, Ottimati; San Demetrio Corone, Sant’Adriano; Rossano, Patirion) rinviano, con iconografie e modi tecnici non
uniformi, al gran nodo di Montecassino, con una prima derivazione di accento campano e un’elaborazione piú complessa inseribile in una circolazione d’esperienza apulo-sicula. Dalla cultura di Palermo normanna e dalle esperienze di
tecnica e di gusto facenti capo al Tiraz regale, nasce la Stauroteca che Federico II donerà nel 1222 alla cattedrale di Cosenza, coi suoi smalti realizzati da maestri greci, portatori
del limpido classicismo di Dafnì e di Kiev nei mosaici tra la
Martorana e Cefalú. Solo un cenno a «picturae destructae»
nel castello di Roseto suggerisce la presenza d’una decorazione profana fra palacia e castra imperiali nella C sveva. Di
ambito cistercense restano una tarda figurazione della Vergine (xv sec.) affrescata nell’interno della Sambucina e la memoria delle «belle historie sacre del nostro glorioso padre san
Bernardo», già nel chiostro di San Giovanni in Fiore.
L’età angioina (1266-1442) reca lotte, tensioni feudali e dinastiche, devastazioni, frazionamenti o aggregazioni di ter-
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re signoriali, emarginazione della C dai centri del potere politico. La vita dei monasteri perde vigore, mentre la presenza degli ordini mendicanti (francescani dal sec. xiii, domenicani dal sec. xv) diventa forza attiva nella formazione d’un
patrimonio pittorico unificato da scelte iconografiche, aree
di committenza, soggetti produttivi. Poche isole feudali si
qualificano per la presenza di opere impostate o prodotte per
volontà signorile: Altomonte, Mileto, Monteleone (oggi Vibo Valentia), Tropea, Scalea. Elementi emergenti: la tomba
del Signore e la sua idealizzazione oltre la morte; attorno ad
essa, possono raggrupparsi altre opere, frammenti, ricordi
legati al prestigio di grandi famiglie feudali (Sangineto, Sanseverino, De Sirica, Ruffo). A Tropea, accanto a frammenti funerari e lastre tombali, affreschi trecenteschi attestano
una linea di cultura giottesca dovuta ad artefici d’origine napoletana, presente anche ad Altomonte e a Fiumefreddo
Bruzio. A Mileto, devastata nel 1783, restano solo vistosi
segni d’una produzione scultorea autoctona. Ad Altomonte, la tomba di Filippo I di Sangineto è punto di riferimento per un eccezionale episodio di mecenatismo facente capo
al signore dell’antico centro, alto dignitario di Roberto d’Angiò, siniscalco di Provenza e Folcaquier. Le opere da lui importate, oggi raccolte nel Museo di Santa Maria della Consolazione, sono scelte sul filo del piú aggiornato gusto della
Napoli trecentesca e dei suoi interessi d’oltralpe, da Simone Martini ai Daddi, agli alabastri francesi lumeggiati d’oro
e ai piú tardi doni dei successori di Filippo I, tra cui quella
Madonna delle pere, forse da ignoto originale antonelliano,
nella quale «lievi ricordanze» del grande maestro sembrano
aprire al «nuovo» un linguaggio partecipe d’eleganze catalane e fiamminghe (Carandente). Il fenomeno Altomonte,
ulteriormente infoltito dalle commesse domenicane, arricchisce la regione ma ne segna limiti di prevalente passività
ricettiva rispetto alle scelte della capitale, che sarà anche sede di formazione e lavoro per piú artisti calabresi. La situazione ricostruita da indagini recenti non sembra sostanzialmente incrinabile, anche se va considerato il fatto che si lavora sui resti d’un patrimonio fortemente depauperato, oggetto solo recente di campagne d’individuazione e di restauro, penalizzato dalle soppressioni e incameramenti susseguitisi dal Settecento borbonico all’Ottocento unitario. Di
contro al prevalere delle importazioni per le opere di spicco,
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sta l’emergere d’un contesto locale di attività artigianali e la
documentata attività di pittori e miniatori calabresi oltre regione (Nicoluccio Calabrese allievo di Lorenzo Costa, Iohannes de Calabria miniatore a Montecassino e, con lui, Cola
Rubicano da Amantea e Matteo da Terranova alluminatori
di codici per gli abati cassinesi, Alfonso d’Aragona e il duca di Milano). Poche le possibilità di ricostruire la figura di
Paolo di Ciaco, allievo di Antonello, di recuperare un’eventuale operosità calabrese di Marco Cardisco, di Pietro Spanò
da Tropea. In un contesto socio-culturale dominato dalle
strutture feudali, fenomeno significante è la qualificata produzione di tessuti serici in Catanzaro. Centro manifatturiero e mercantile di lunga vita demaniale, è detentore di una
attività d’origine medievale, favorita da privilegi ed esenzioni fiscali (è l’unica città del Sud con Napoli ad avere facoltà di tessitura pregiata) e organizzata negli aspetti tecnici e produttivi da antiche norme codificate nei Capitoli, Ordinationi et Statuti del 1519. Sono i suoi telai a realizzare
l’«apparato» di velluto verde e oro per la reggia di Ladislao
di Durazzo in quel sec. xv in cui la committenza feudale ed
ecclesiastica importa dipinti da Napoli e da Messina nell’ambito del piú aggiornato gusto mediterraneo, con un terzo polo a Murano, da dove giungono due opere di Bartolomeo Vivarini d’alto respiro (Morano Calabro e Zumpano). Dal gotico internazionale in chiave valenciano-napoletana (Madonna della Porta: Scilla; polittico in San Francesco d’Assisi, Cosenza; Reggio, San Michele Arcangelo) agli esordi
d’una maniera meridionale (trittico in San Teodoro, Laino
Castello; trittico in San Francesco di Paola: Cosenza; Sposalizio di santa Caterina: Badolato), la committenza importa
significanti testimonianze della pittura in fiore fra Napoli e
Messina antonelliana (tavolette di Antonello, Reggio, mn,
conservate a Paola) e postantonelliana (la Madonna degli Angeli di Iacobello di Antonello; Madonna della Ginestra di
Antonello De Saliba già degli Osservanti, Catanzaro). Né
mancano tracce della cultura attorno a Colantonio (San Marco Argentano, San Nicola) o di tardive importazioni da madonneri veneti toccati dal flusso delle «rotte mediterranee»
(una Dormitio a Cropani).
Nella pittura fra i due secoli predominano apporti esterni,
anche se fra Papasidero, Verbicaro, Abatemarco, Cirella e
Orsomarso vanno emergendo segni di un’attività locale di
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frescanti. E ciò conferma la possibilità di acquisire nuovi elementi in un contesto su cui gravano larghe zone d’ombra.
Dopo la guerra franco-ispanica, il Cinquecento segna un periodo di relativa vitalità per la regione. Ripresa demografica, attività edilizio-architettonica nei centri maggiori (Cosenza, Catanzaro) e in alcune unità feudali (Aiello, Aieta,
Belcastro, San Mauro, Terranova). L’arricchirsi del patrimonio pittorico è massimamente legato alla diffusione degli
impianti conventuali, agli aggiornamenti iconografici e formali post-tridentini, al sorgere delle nuove congregazioni religiose (gesuiti, teatini, scolopi), alle esperienze – pur non
folte – di un’architettura sacra (Castrovillari, Monteleone,
Montalto Uffugo, Mormanno), nella quale hanno spicco le
grandi imprese di ricostruzione della Certosa di Santo Stefano del Bosco e del piú tardo (xvii sec.) complesso dei domenicani a Soriano, con tutto quel che di immagini, decorazioni e arredo liturgico comportano. Attorno alle piccole
e grandi iniziative edilizie sacre e civili (la Certosa serrese
risorge in termini d’arte italiana ed europea, Soriano guarda all’Escorial), l’attività locale s’intreccia alle commesse
esterne. Gli altari si rinnovano nel gusto del commesso marmoreo di derivazione sicula o napoletana. I francescani s’impegnano nella scultura e nell’intaglio ligneo, mentre i cappuccini intarsiano di madreperla i loro cibori foggiati in forma di tempietti centrici; fra interni ed esterni, ferve l’attività dei lapicidi roglianesi, serresi, di Altilia, di Val Savuto.
Nei rinnovati interni chiesiastici trovano luogo le immagini
richieste dai dettami tridentini. È ancora una vicenda di prevalenti apporti allogeni, in cui eccezionale appare, per qualità e numero di opere nella regione, l’attività del calabrese
Pietro Negroni. Marco Cordisco lascia invece presto «la sua
patria» e con lui l’«altro calabrese», che il Vasari ricorda a
lungo operoso in Roma con Giovanni da Udine. La provincia calabra accoglie in primis esperienze pittoriche napoletane, ma anche siciliane, toscane, marchigiane.
I francescani di Stilo guardano a Messina postantonelliana
(Salvo d’Antonio) per la grande pala della Madonna del Borgo. A metà del secolo (1547) saranno i cappuccini del Reggino a chiedere forse a Stefano Giordano l’ancona della Madonna della Consolazione, protettrice della città dello Stretto. Col suo morbido polidorismo, si apre quella documentazione della pittura sacra fra le prime accezioni della manie-
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ra e il piú tardo pietismo controriformistico, che gusti e trame della committenza han lasciato in Calabria tra Cinque e
Seicento: alcune prove «meridionali» del senese Marco Pino e del nordico «romanizzato» Teodoro d’Enrico il Fiammingo, un Michele Curia partecipe d’un tardo manierismo
romano aperto a suggestioni nordiche, un Andrea Lilio giovanile ed estroso chiamato dai Minimi a Paola dopo aver lavorato per gli stessi religiosi ad Ancona, un consistente gruppo d’immagini «divote» che si pongono nelle chiese calabresi quali perfetti modelli di adesione alle forme controriformate (tra gli altri: i fiorentini Giovanni Balducci ed Agostino Ciampelli; i napoletani Giovanni Angelo d’Amato e
Fabrizio Santafede, Bernardo Azzolino detto il Siciliano, Ippolito Borghese, Daniele Russo, Andrea Molinari).
Nel Seicento è Taverna che, già custode di tele e sculture
commesse oltre regione da prelati e devoti (Azzolino, Balducci, Santafede, Ortega), accoglie numerosi dipinti del Preti e rinnova d’intagli lignei, stucchi e tele minori le chiese,
mentre qualche dimora aristocratica (palazzo Gironda) adorna di affreschi profani la sua galleria. Terzo centro di feconda operosità nel Seicento, la Soriano dei domenicani, ove
resta un piccolo nucleo di dipinti cinque-settecenteschi, dopo le distruzioni apportate dal terremoto del 1783. Ma è lo
stesso Seicento che vede l’esodo del Cozza, di Gregorio e
Mattia Preti, di Francesco Peresi, sospinti ad emigrare per
realizzarsi. Restano isolate ed arcaizzanti figure di pittori locali come Ioannes de lo Prete operoso per i cappuccini di Catanzaro o Ioanne de Simone da Mesoraca che ritroviamo in
pieno Seicento a Taverna e, di cultura piú aggiornata, quel
Giovan Battista Colimodio, attivo fra Orsomarso e Morano, noto ad Artemisia Gentileschi. Nel Seicento, già ricca
era la quadreria dei Ruffo a Scilla ed in fieri alcune collezioni d’arte di mercanti reggini ed extra-regnicoli attivi a Reggio. Eventi che pongono interrogativi sulle vicende d’un perduto patrimonio pittorico calabrese, ai quali non possono
darsi ancora risposte esaustive. Il fenomeno piú vistoso noto appare quello delle importazioni, aperte nel Seicento dal
Sacchi (Ebbrezza di Noè: Catanzaro, Amministrazione provinciale) e da Battistello Caracciolo (Madonna in Gloria: Catanzaro, Museo provinciale; Pala d’Ognissanti: Stilo, Matrice), continuate col Giordano della cattedrale di Cosenza, col
Solimena di Fiumefreddo Bruzio, col Conca di Reggio Ca-
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labria, coi giordaneschi e solimeniani privilegiati sino
all’avanzato Settecento dalla committenza calabrese (De Mura, De Matteis, Giaquinto, Diano). Di contro, verso Napoli e Roma muovono alcuni tra i piú dotati settecentisti calabresi, come il Martini, il Pascaletti attratto dal Batoni e dal
Conca, il Cannizzaro passato da una fase demuriana al milieu di San Luca nel secondo Settecento, il crotonese La Piccola, formatosi presso il Mancini a Roma ove lavora con lo
Stern nel Salone d’oro di palazzo Chigi. Intensa e calabrese, invece, l’attività di Cristoforo Santanna da Rende, diffusa dal Cosentino all’alto Crotonese. Tra Sette e Ottocento, ma con premesse anteriori, è Monteleone a presentare
un ciclo di cultura figurativa autoctona, stimolata dal ricco
patrimonio locale, dal collezionismo e dagli interessi «antiquari» dei Cardopatri e dei Capialbi, dal milieu culturale che
muove attorno a Vito Capialbi. Decisamente aperto verso la
cultura romana fra neocinquecentismo ed orientamenti neoclassici impersonati dal Camuccini e dal Milizia, le cui linee
teoriche sono al fondo del rinnovamento edilizio ed urbanistico cui la cittadina s’avvia nel decennio francese, il movimento monteleonese conta architetti, teorici, pittori (dallo
Zoda operoso nel Seicento, al Mergolo, al Curatoli, ai Rubino, ad Emanuele Paparo ch’è presenza emergente nel gruppo). Esso sembra avere una tarda ripresa in tempi a noi vicini, col delicato paesismo di Domenico Colao.
Nell’Ottocento, emerge dagli studi recenti vivacità d’interessi aperta a contatti con centri-guida della pittura. Non
grandi esodi né ondate d’importazioni, ma soggiorni di studio e di lavoro oltre regione, incontri e fervore di ricerca fra
discussioni teoriche e partecipazione a competizioni anche
nazionali. Breve il filone neoclassico aperto dal Paparo, seguito dal Santoro, dal Granata, dal Cosentino, dagli esordi
di Vincenzo Morani che, passato da Napoli a Roma, si accosterà ai Nazareni e all’Overbeck. Dal Fergola e da Giacinto Gigante, i paesaggi romantici di Ignazio Lavagna-Fieschi. Dalla metà del secolo, piú numerosi i giovani pittori
calabresi che muovono verso Napoli, Roma, Firenze, attratti
in primis dal romanticismo del Morelli, dal naturalismo palizziano, dalle esperienze del Dalbono, dalle «macchie» di
Costa e Borzani. È un folto gruppo al quale si comincia a
guardare con interesse (Martelli, Talarico, Mazzia, Scerbo,
Petruolo). A Firenze opera a lungo Eugenio Tano e, con lui,
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Gaele Covelli e Rubens Santoro. Un’incessante ansia di superare i limiti provinciali è il Leitmotiv dell’Ottocento pittorico calabrese, un variegato sottofondo, sul quale emergono eventi di rilievo: l’attività di alcuni pittori di spicco,
fiorentini, napoletani, settentrionali fra Catanzaro, Cosenza, Corigliano. Leader il fiorentino Federigo Andreotti (Catanzaro, palazzi Fazzari e Serravalle; Cosenza, Amministrazione provinciale), accanto al quale opera Andrea Cefaly, pittore, teorico, politico socialmente impegnato. A Cosenza, tra il Rendano e il Duomo, lavorano il Morelli e Paolo Vetri; a Corigliano, Ignazio Perricci col suo allievo calabrese Rocco Ferrari. Breve e recuperabile solo in raccolte
private, la memoria del soggiorno catanzarese di Nicolò Barabino, che lascia nel Museo provinciale di Catanzaro un
bozzetto legato alla tradizione decorativa della sua Genova.
Col sec. xx, a parte nostalgie ottocentesche, è evidente l’interesse per il nuovo. Enzo Benedetto e Antonio Marasco
partecipano al movimento futurista. In un’orbita che non ha
limiti territoriali s’inseriscono figure di punta uscite dalla
vecchia C: Andrea Alfano, espressionista e spiritualista,
Alessandro Monteleone, piú noto come scultore, Angelo Savelli, espressionista e astrattista operoso oggi negli Stati Uniti, Mimmo Rotella, inquieto interprete del nostro tempo,
Francesco La Monaca, noto come scultore sul piano internazionale ed assai men conosciuto in Italia come pittore.
La situazione museale, che ha avuto una razionale organizzazione nel settore archeologico di Stato, è assai piú debole
in quello medievale e moderno. A Cosenza è prevista l’istituzione del Museo nazionale di palazzo Arnone. La città
ospita attualmente nell’ex convento di San Francesco d’Assisi, sede del laboratorio di restauro della Soprintendenza,
mostre di opere restaurate e in parte depositate da centri e
chiese non attrezzate per la loro idonea conservazione. Tra
le raccolte di enti locali, il Museo provinciale di Catanzaro,
creato all’indomani dell’Unità, richiede sistemazione adeguata. Di piena rispondenza alle moderne esigenze, il già ricordato Museo civico di Santa Maria della Consolazione
nell’ex convento domenicano di Altomonte, cui segue, per
importanza delle raccolte e ambientazione nell’antico palazzo zagarese, il Museo civico di Rende. Il Museo nazionale reggino della Magna Grecia ha un’ampia sezione me-
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dievale e moderna, che accanto ad acquisizioni anche recenti
(Mattia Preti) raccoglie preziosi materiali provenienti dalle
precedenti raccolte civiche e dal collezionismo locale. Di notevole interesse le raccolte diocesane (Rossano, Nicotera,
Squillace), cui s’associa un piccolo museo parrocchiale
dell’arte e della vita popolare istituito presso la chiesa cinquecentesca di San Pantaleone a Montauro. A Cosenza, in
corso di allestimento un Museo del Duomo che, accanto alla Stauroteca fridericiana, accoglierà opere legate alle vicende dell’antica archidiocesi. Anche Mileto, fra opere di
proprietà civica e diocesana, dovrebbe dare sistemazione
scientifica a preziosi materiali. Nel settore privato, le antiche collezioni Capialbi, Lombardi Satriani, Toraldo nel Poro e, di recente formazione, la Pinacoteca della Cassa di Risparmio di Calabria e Lucania a Cosenza. Nuovi orientamenti emergono dalle diverse raccolte dedicate al mondo
folklorico ed al lavoro artigianale e contadino, dal Museo
Calabrese di etnografia e folklore R. Corso in Palmi, al demologico di San Giovanni in Fiore, alla raccolta in fieri di
Morano Calabro, al Museo della civiltà contadina e artigiana di Monterosso Calabro, ospitato in un palazzetto settecentesco dell’antico centro serrese. Pertinente al Comune di
Castrovillari la Pinacoteca Andrea Alfano, che raccoglie opere e ricordi del maestro calabrese (Castrovillari 1879 - Roma 1967). Recente anche la sistemazione d’una raccolta di
gessi di Francesco Ierace (Polistena 1854-1937), a cura
dell’Amministrazione provinciale di Catanzaro. (ez).
Calame, Alexandre
(Vevey 1810 - Mentone 1864). Allievo a Ginevra di Diday,
di cui fu poi rivale, s’impose nei salons parigini col suo stile
nervoso e brillante, e fu tra i migliori pittori romantici di
paesaggi alpini (Paesaggio di montagna: Parigi, Louvre). Si
perfezionò a contatto con i pittori di Barbizon, poi in Olanda studiando i paesaggisti del xvii sec., infine in Italia sulle
tracce di Poussin e di Claude Lorrain. Le sue opere, che raffigurano le montagne (Monte Rosa, 1843: ora a Neuchâtel)
o la violenza degli elementi scatenati (Temporale alla Handeck, 1839: ora a Ginevra), si organizzano secondo un gioco di contrasti luminosi che conferiscono ai suoi paesaggi potenza drammatica. Realizzò pure litografie e acqueforti. (bz).
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Calandrucci, Giacinto
(Palermo 1646-1707). Pittore attivo soprattutto a Roma e
principale artefice della diffusione della cultura marattesca
in Sicilia. Dopo una giovanile esperienza palermitana al seguito di A. Carreca, si trasferí a Roma, dove a detta del Passeri (1736) fu ben presto accolto nella bottega del Maratta.
Una conferma di questo discepolato si rintraccia nei dipinti superstiti eseguiti durante il soggiorno romano (il Battesimo di Cristo e affreschi della volta e delle lunette, chiesa di
Sant’Antonio dei Portoghesi; e nella stessa chiesa la pala
dell’altar maggiore; 1682-86: cappella Cimini, Sacra famiglia
con sant’Anna e santi: chiesa di San Bonaventura; quadri ed
affreschi, 1690 ca.: chiesa di Santa Maria Traspontina, cappella di Sant’Elia), nei quali rifluiscono anche echi della tradizione bolognese e della corrente neoveneta propri della
prima metà del secolo. Nelle opere dell’ultimo periodo elementi stilistici del tardo barocco sfumano, attraverso forme
piú leggere e soluzioni coloristiche delicate, verso il rococò
(affreschi, cappella del Crocifisso e navata centrale in Santa Maria dell’Orto a Roma). Nel 1705 ritornò a Palermo per
affrescare la volta dell’Oratorio di San Lorenzo; lavoro che
rimase incompiuto e andò poi distrutto nel 1823. (rdg).
Calapata
Scoperte dall’archeologo spagnolo Juan Cabre Aguilo nel
1903, le pitture preistoriche del rifugio rupestre di Roca del
Mora, sulla riva del fiume Calapata presso Cretas in Aragona, vennero studiate nel 1908 dall’abate Breuil. Oltre a
qualche traccia di pittura rossa che consente di distinguere
soltanto la parte posteriore di bovidi, il fondo del rifugio
era ornato da magnifici cervi, dipinti in un rosso piatto, in
uno stile naturalista che rendeva particolarmente bene le
pose. Su una roccia vicina alcuni animali dipinti in nero e
due cervi, in parte sovrapposti, appartengono al medesimo
stile, che l’abate Breuil paragonava a quello degli animali
del Portel. (yt).
calcidica, ceramica dipinta
Un gruppo di oltre trecento vasi a figure nere (soprattutto
anfore, idrie, crateri e coppe), realizzati in tutta la seconda
metà del vi sec. con eccellente qualità tecnica, reca spesso
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iscrizioni che impiegano l’alfabeto di Calcide (città dell’Eubea in Grecia). Benché trovati soltanto nell’Ovest mediterraneo, possono essere stati prodotti nella Magna Grecia, in
una colonia di Calcide (Reggio?) o, secondo altri, in Etruria.
L’influsso della figura nera attica è assai forte sia nella tecnica sia nell’impianto delle scene mitologiche o delle coppe
«a occhi» del Pittore di Fineo; in altri casi, gli animali ricordano quelli dei vasi corinzi della prima metà del secolo. Il
dettaglio del disegno, di solito robusto, è qui spesso un poco
secco; e i motivi ornamentali abbastanza monotoni. (cr).
calcografia
Arte di incidere su rame. Per estensione, istituzione nella
quale si conservano le lastre di rame, e dove si vendono copie da esse tirate (esistono Calcografie di Stato a Roma, Madrid, Parigi). (sr).
Caldecott, Randolph
(Chester 1846 - Saint Augustine Fla. 1886). Dopo aver realizzato eleganti acquerelli (Londra, vam) e illustrato opere
di Washington Irving (Old Christmas, 1875; Brace Bridge
Hall, 1876), trovò nel 1878 la sua vera strada nella pubblicazione di album a colori per bambini: John Gilpin, The House that Jack built. Fu anche tra i piú apprezzati disegnatori
del «Punch», del «Pictorial World» e del «Graphic». È ampiamente rappresentato a Londra (vam), particolarmente
con disegni redatti per il «Graphic».(jv).
Calder, Alexander
(Filadelfia 1898 - New York 1976). Proveniente da una famiglia in cui si era scultori di padre in figlio, sin da età giovanissima s’interessò piú di «utensili meccanici che di creta
o di pennelli». Fatti gli studi d’ingegneria praticò vari mestieri, che presto abbandonò; s’iscrisse infine all’Art Students League di New York eseguendo disegni e caricature
per vari giornali (1923-25). Giunse a Parigi nel 1926, e qui
cominciò la sua carriera di scultore.
La sua opera dipinta e grafica resterà sempre legata ai primi
«fili di ferro» esposti nel 1927 al Salon des humoristes a Parigi; preferendo all’impasto la penna o la matita, eseguí numerosi disegni, specie a inchiostro di china, ove la sicurezza del tratto riecheggia le strutture lineari dei suoi perso-
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naggi da circo: Two Trapeze Performers, 1930; Couple on the
Beach, 1930; Setting Sun, 1931. I primi guazzi risalgono anch’essi a questo periodo: prima al limite della figurazione,
egli evolve poi rapidamente verso un puro astrattismo che,
liberatosi dall’influsso di Miró, trova piena espressione negli anni del dopoguerra: Nuvola arancione, 1950; Rossonero,
1950. Furono tenute molte mostre dei suoi guazzi, specialmente a Parigi (1954, Gall. des Cahiers d’Art), Londra
(1961, Lincoln Gall.) e Düsseldorf (1963, Gall. Vömel). Parallelamente ai molteplici disegni che ne accompagnano i mobiles ed alle litografie a colori, gli ultimi guazzi di C, serie
di figure grottesche e mostruose, attestano lo humor, ma anche la ferocia d’uno spirito incisivo: Personaggi (1967: Gall.
Maeght), il Naso all’aria (1968, ivi). Nel 1973 ha decorato
18 carlinghe di aerei di compagnie americane. (em).
Caletti, Giuseppe, detto il Cremonese
Pittore ed incisore attivo a Ferrara. Non se ne conoscono le
date di nascita e morte, ma è probabile che sia nato attorno, o poco dopo, il 1600 e morto verso il 1660. Curiosa e
ben caratterizzata figura di «indipendente», C getta luce
sull’identità figurativa dell’ormai emarginata Ferrara del Seicento. Con speditezza pittorica moderna (oltrepassò l’incerto naturalismo locale di F. C. Catanio guardando al vicino Guercino e, forse, al Fetti), C reinventò a passo ridotto
situazioni stilistiche e tematiche di esplicita allusione cinquecentesca. Con una capacità allusiva priva di ogni vocazione «accademica», fece confluire in una fresca vena nostalgica Dosso, Giorgione e Tiziano, Pordenone e gli eccentrici padani del secolo precedente. Di conseguenza, sia in
tempi recenti sia in antico, è accaduto che i dipinti del C
(spesso di dimensioni ridotte e destinati al collezionismo)
siano stati riferiti a piú prestigiosi e antichi maestri. (acf).
Caliari, Paolo → Veronese
Callani, Gaetano
(Parma 1736-1809). Frequentò l’accademia di belle arti, riportando vari premi; nel 1764 entrò nella bottega del Peroni; nello stesso anno aveva terminato otto statue in stucco
con le Beatitudini per Sant’Antonio, modellate sull’impressione delle sculture romane di Velleia. Questa aderenza al
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classicismo rimase una breve parentesi nel percorso stilistico dell’artista. Infatti fin dai primi grandi dipinti per chiese di Parma e Piacenza, verso il 1761, si evidenziano le tendenze a cui rimarrà fedele in tutto il suo percorso: le tematiche fortemente pietistiche, la correttezza formale e la «grazia» mediate da Cignaroli, dal Batoni, ma soprattutto dal
Correggio: una sorta di «neoclassicismo cattolico». Il soggiorno a Milano, dove rimase fino verso l’80, e il periodo a
Roma non mutarono i suoi modi, che si erano andati confermando in grandi pale per le chiese di Parma e Piacenza e
nel Compianto di Cristo, ordinatogli dal pio duca Ferdinando che lo occupò per vent’anni. Reagí alle idee dell’epoca
napoleonica dipingendo il Ritratto di Pio V, e l’Incontro di
Luigi XI con san Francesco. (pcl).
Calicott, Augustus Wall
(Londra 1779-1844). Cominciò la carriera come ritrattista;
ma dal 1804 si dedicò quasi esclusivamente al paesaggio, pur
introducendovi personaggi di grande formato. Nel 1810 divenne membro della Royal Academy; viaggiò in Francia,
Olanda ed Italia (1827); i paesaggi che rappresentò, la maggior parte dei quali venne esposta nel 1834, sono tra le sue
tele principali: Paesaggio olandese con animali da cortile (1834:
Londra, Tate Gall.), Contadini che attendono il ritorno del
traghetto (ivi). È pure rappresentato a Londra (Porto e molo:
vam) e a Manchester (ag). (mri).
Callet, Antoine-François
(Parigi 1741-1823). Prix de Rome (1764), venne accolto
nell’accademia nel 1780 con la Primavera (Parigi, Louvre,
gall. di Apollo). Dopo un soggiorno a Genova (soffitto in palazzo Spinola), eseguí scene decorative: Allegoria della Scultura (Digione, Museo Magnin), poi praticò un’arte all’antica molto piú dura (Morte di Ettore, 1785: Saint-Omer, Museo). Le sue quattro composizioni delle Stagioni vennero tessute ai Gobelins: l’Inverno o i Saturnali, 1783 (Parigi, Louvre), l’Autunno o le feste di Bacco, 1787 (ivi); l’Estate o le feste di Cerere, 1789 (oggi ad Amiens); la Primavera ovvero
Omaggio delle dame romane a Giunone Lucina, 1791 (ivi). Gli
si deve uno dei ritratti ufficiali di Luigi XVI (numerosi esemplari, particolarmente in musei di Versailles, Clermont-Ferrand e Grenoble). (cc).
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Callot, Jacques
(Nancy 1592? - 1635). Dopo molti brevi soggiorni in Italia
attestati da Félibien, C entrò a quindici anni come apprendista presso un orafo di Nancy, Demange Crocq, presso il
quale – sempre secondo Félibien – apprese i «rudimenti del
disegno con... Bellange e Deruet». Prima del 1612, data nota del trasferimento a Firenze, era a Roma presso l’incisore
di Troyes Philippe Thomassin, che gli insegnò a maneggiare il bulino. Restò a Firenze nove anni sotto la protezione
di Cristina di Lorena, vedova di Ferdinando I, che di fatto
governò il ducato fino alla morte del figlio Cosimo II nel
1621. Divenne prediletto dell’incisore Giulio Parigi e incise presso di lui due dei suoi capolavori, la Tentazione di
sant’Antonio (1616 ca.) e la Fiera dell’Impruneta (1620). Nel
1621 si stabilí a Nancy. Incise i numerosi disegni che aveva
riportato dall’Italia (i Gobbi, i Balli di Sfessania, la Grande
Passione) e sposò nel 1624 Catherine Kuttinger. Non ottenne
alla corte di Lorena il posto d’onore cui mirava, occupato allora da Claude Deruet, pittore ufficiale dal 1620, di cui incise il ritratto nel 1632 (disegno preparatorio a Parigi, Louvre). Si recò a Breda (1627) per incidere l’assedio della città;
commemorò poi con la stessa tecnica, su incarico di Luigi
XIII, altri due assedi: quello di Saint-Martin-de-Ré e quello
di La Rochelle. Ebbe pertanto occasione di soggiornare piú
volte a Parigi (tra il 1628 e il 1631) e di affidare a Israël Henriet l’edizione delle sue lastre. Tornato definitivamente a
Nancy nel 1632, C assistette alla fine dell’indipendenza del
ducato di Lorena, invaso a piú riprese dalle truppe di Richelieu e di Luigi XIII (1631, 1632, 1633) e devastato dalla peste. In tale clima l’artista pubblicò le ultime sue opere:
i Disastri della guerra (1633) e la seconda versione della Tentazione di sant’Antonio dedicata a Louis Phélypeaux, signore di La Vrillière.
Non è rimasto alcun quadro di sua propria mano, ma nulla
di fatto prova che egli ne abbia dipinti. I disegni e le incisioni lo pongono all’altezza dei massimi maestri lorenesi del
xvii sec., accanto a Claude Gellée, Georges de La Tour e
Jacques Bellange. Le sue incisioni, e soprattutto le acqueforti
(tecnica che egli perfezionò), diffuse in tutta Europa, sono
di eccezionale maestria. Notevoli sono soprattutto i disegni
(conservati per la maggior parte a Leningrado (Ermitage), a
Storia dell’arte Einaudi
Londra (bm), a Chatsworth (coll. del duca del Devonshire)
e a Firenze (Uffizi), dove impiega diverse tecniche e tratta
molti temi (teatro, paesaggi, soggetti sacri e scene dal vivo).
Benché i temi siano spesso tratti dagli artisti nordici del xvi
sec., C si rivela sensibile a una duplice corrente manierista:
quella della Lorena del primo quarto del xvii sec. (Bellange), e quella fiorentina del medesimo periodo (Boscoli e gli
incisori di feste e di entrate trionfali). È considerato uno degli ultimi grandi manieristi. (pr).
Calonne, Charles-Alexandre de
(Douai 1734 - Parigi 1802). Fu ministro e controllore generale delle finanze sotto Luigi XVI, dopo aver occupato alte
cariche come procuratore generale al parlamento di Douai,
poi intendente delle Fiandre. Caduto in disgrazia nel 1787,
si ritirò in Inghilterra, portando con sé la sua galleria di dipinti, che aveva costituito in Francia e nel corso di viaggi in
Italia, in Germania, nelle Fiandre e in Olanda; e che si accrebbe della collezione di Micault d’Harveloy, di cui aveva
sposato la vedova. Sin dai prodromi della Rivoluzione si pose a disposizione degli emigrati; si rovinò per sostenerli e fu
costretto a mettere all’asta la collezione a Londra nel 1795,
per pagare i debiti dei principi di cui si era fatto garante. Il
catalogo elencava numerosi dipinti italiani, tra cui molte opere di Tiziano, del Veronese, del Tintoretto, di Poussin (Orione: oggi a New York, mma), Rubens, Rembrandt, nonché
altri lavori di maestri olandesi. Citiamo inoltre la Toeletta di
Venere di Boucher (New York, mma). Visse da allora a Londra, quasi in povertà, e rientrò in Francia soltanto un mese
prima di morire. (gb).
Calraet, Abraham van
(Dordrecht 1642-1722). Pittore di paesaggi, nature morte e
ritratti, si rivela essenzialmente fedele continuatore di Aelbert Cuyp, di cui fu probabilmente allievo, nonché di Philips Wouwerman. Molto istruttivi a questo proposito i suoi
Interni di scuderia (un esempio a Londra, ng). Lo si è a lungo confuso con Aelbert Cuyp, in particolare come pittore di
animali, tanto piú che le iniziali A. C., con le quali firmava,
potevano prestarsi a confusione (numerosi esempi di tali assimilazioni erronee, oggi corrette, si trovano a Londra (Wallace Coll. e ng) e in musei di Rotterdam e Amsterdam). (jf).
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Calvaert, Denys
(Anversa 1540 ca. - Bologna 1619). Partí per Roma nel 1560
ca. e vi fu allievo di P. Fontana, collaborando poi con L.
Sabbatini e Vasari. Si stabilí a Bologna nel 1574-75 ca. Qui,
otto anni prima dei Carracci, aprí un’accademia, che diresse fino alla morte e che tra i suoi allievi ebbe Guercino, Guido Reni, Albani, Domenichino, tutti piú tardi allievi dei Carracci. L’opera di C indica una reazione agli eccessi degli imitatori di Michelangelo, ma partecipa sempre di un esasperato manierismo fiammingo. La Flagellazione (Bologna, pn)
e la sua replica alla Gall. Borghese di Roma, e cosí pure le
Nozze di santa Caterina (1590: Roma, Gall. Capitolina), dimostrano che l’artista, pur sforzandosi di raggiungere una
composizione piú sintetica, conserva nella sua fattura il gusto del finito, tipico dei fiamminghi del xvi sec. (jl).
Calvert, Edward
(Appledore (Devonshire) 1799 - Londra 1883). Giunto a
Londra nel 1824, vi conobbe nel 1826 Samuel Palmer e, come lui, venne fortemente influenzato dall’opera di Blake;
cosí disegnò (Londra, bm) e soprattutto incise composizioni
simboliche e primitiviste caratterizzate dal misticismo cristiano di Blake: la Sposa (1828), la Festa del sidro (1828), il
Ruscello (1829). Dopo il 1831 la sua opera perse tali qualità
visionarie; dipinse allora paesaggi arcadici. Viaggiò in Grecia nel 1844 (il Mare Egeo: Oxford, Ashmolean Museum),
senza peraltro ritrovare l’ideale di bellezza che aveva nutrito negli anni ’20. È rappresentato principalmente a Oxford
(Ashmolean Museum: Paesaggio classico), a Bristol (ag: Scena classica), a Birmingham. (City Museum: Pan e Pithys, Ulisse e le sirene, il Boschetto di Artemisia), a Parigi (Louvre: Pastorale virgiliana) e soprattutto alla Tate Gall. di Londra (la
Sposa, 1828; Studio di nudo, 1830 ca.; Paesaggio con pastori
d’Arcadia, 1860-80). (jv).
Calvi, Jacopo Alessandro
(Bologna 1740-1815). Fu introdotto alla pittura da Giuseppe Varotti e dai consigli dell’amico G. P. Zanotti, ma le sue
prime opere sembrano maggiormente risentire del Franceschini, del Graziani e forse anche del Creti, e appaiono
orientate verso una rigorosa intrerpretazione del classicismo
Storia dell’arte Einaudi
bolognese, secondo una soluzione che incontrerà il favore
della committenza in una vasta area estesa anche ai paesi
germanici. Piú tardi, come attesta la pala con I santi Erasmo
e Lorenzo (Bologna, San Petronio), risente anche della produzione dei Gandolfi che lo induce ad una partizione piú
drammatica di luci ed ombre e all’adozione di un registro
fortemente patetico dei sentimenti. Dal 1773 insegna come
pittore di figura presso l’Accademia Clementina, della quale era membro dal 1769. Altre accademie artistiche e letterarie (a Venezia, Perugia, Siena) lo accolsero fra i loro iscritti. Non trascurabile appare infine la sua produzione letteraria e storico-artistica. (ff).
Camargo, Iberê
Pittore e incisore (Restinga Sêca (Rio Grande do Sul) 1914).
Giunto in Europa nel 1947, vi si formò frequentando gli studi di Lhote e De Chirico. La sua opera, assai personale, si
distingue per gli spruzzi materici e nel contempo per il vigore dei segni. Dalle superfici sovraccariche emerge una
drammatica figurazione. C, che risiede a Rio, ove è docente di pittura presso l’Instituto de Belas Artes, è divenuto
uno dei principali artisti brasiliani della sua generazione. La
Biennale di San Paolo gli ha dedicato nel 1966 una sala personale. La sua opera è rappresentata nel mac della stessa
città (Espansione, 1964) e in numerose coll. priv. (wz).
Camarón y Bonomat, José
(Segorbe (Valencia) 1730 - Valencia 1803). Figlio di uno scultore di origine aragonese, completò gli studi a Madrid
(1752), stabilendosi poi a Valencia, dove svolse un ruolo considerevole per mezzo secolo, come pittore e come organizzatore dell’Accademia di San Carlos. Virtuoso fecondo, abile decoratore, praticò tutti i generi: pittura religiosa (Incoronazione di spine nella cattedrale; Martirio di santa Caterina
nel grande polittico della chiesa di Santa Catalina; Vergine
degli afflitti: mba), composizioni allegoriche (Allegoria delle
arti, ivi), ritratti (Carlo III, datore e protettore dell’Accademia:
ivi). Ma ha lasciato pure scene di genere, soggetti campestri,
maschere, majas dalle linee curiosamente allungate, che sono per noi la parte migliore della sua opera. (pg).
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Camassei, Andrea
(Bevagna 1602 - Roma 1649). Le fonti lo dicono allievo del
Domenichino in Roma, dove si trasferí prima del 1625 dalla natia Bevagna. Entrato ben presto nel novero dei pittori
di Urbano VIII, vi conquistò un ruolo di primo piano, a fianco del Sacchi e del Cortona con i quali prese parte alla decorazione di villa Sacchetti a Castelfusano (1628-30). Di
orientamento classicista, si mosse quasi esclusivamente
nell’orbita sacchiana, assumendo una posizione indipendente rispetto all’imperante cortonismo. Alle opere di committenza Barberini (Compianto sul corpo di Cristo in Santa
Maria della Concezione, San Sebastiano nell’omonima chiesa sul Palatino, affreschi e tele nel palazzo alle Quattro Fontane, tutte nel quarto decennio del Seicento), informate anche sulla poetica poussiniana, affiancò una cospicua produzione destinata alla città natale e al territorio tra Foligno e
Spello, il cui eloquio classicista, declinato in modi semplificati ma di considerevole efficacia, suscitò un certo seguito
tra i locali (G. B. Pacetti detto lo Sguazzino, di Città di Castello, e il folignate G. B. Michelini). Nonostante l’alta considerazione tributatagli dal Bellori, il suo livello restò tuttavia quello di un comprimario, di rango non comparabile a
quello dei protagonisti della cultura pittorica del tempo. Alla morte di Urbano VIII, suo principale protettore, ottenne
qualche incarico anche dai Pamphili (una stanza nel palazzo
di piazza Navona e due affreschi – Battaglia di Ponte Milvio
e Trionfo di Costantino – nel battistero lateranense). (lba).
Cambiaso, Luca
(Moneglia 1527 - Escorial 1585). Iniziato alla pittura dal padre Giovanni, fu segnato agli inizi da Perin del Vaga e da
artisti lombardi e veneziani, in particolare dal Pordenone.
A Genova la sua prima opera importante è la decorazione
(l’Iliade) di palazzo Doria Spinola, eseguita a diciassette anni, con l’aiuto di Lazzaro Calvi; il ricordo di Michelangelo
vi si manifesta quanto basta a suggerire l’ipotesi d’un viaggio a Roma prima del 1547. Collaborò con Galeazzo Alessi,
suo amico, in San Matteo, nella villa imperiale di Campetto e, nel 1567, nella cappella Lercari della cattedrale di Genova. Nello stesso anno partiva per la Spagna Giovan Battista Castello detto il Bergamasco, l’abile decoratore con cui
Storia dell’arte Einaudi
C aveva diviso il lavoro di San Matteo e di Campetto, giovandosi certamente della sua provata esperienza. Nelle opere di questo periodo C ha già elaborato una maniera decorativa piena di brio e di energia. Viaggi in Emilia, a Firenze e a Roma arricchiranno ancora la cultura di C, che trascorse poi gli ultimi tre anni di vita in Spagna alla corte di
Filippo II, decorando la chiesa dell’Escorial (affreschi nel
presbiterio e nel coro, e quattro tele). Il periodo 1568-80 rispecchia il culmine del suo talento; le sue ricerche si orientano da un lato verso una semplificazione geometrica delle
forme (che talvolta, soprattutto nei disegni, diventa una curiosa specie di cubismo); dall’altro verso ricercati effetti notturni (Natività: Milano, Brera; Madonna della candela, Cristo davanti a Caifa: Genova, Gall. di palazzo Bianco).
Suoi dipinti sono tuttora conservati in gran numero a Genova e nella regione: quadri nelle chiese (San Lorenzo, San
Francesco di Paola, Sant’Annunziata di Portoria, Santa Chiara, San Giorgio) e nei musei (gallerie di palazzo Bianco e di
palazzo Rosso, Accademia Ligustica); affreschi nei palazzi
(Doria Spinola; ex Saluzzo; Pallavicini Pessagno), nelle ville
(del Peschiere; Imperiale) e nelle chiese (Santa Maria del Canneto a Taggia; Santa Maria delle Grazie a Chiavari). Fu infaticabile disegnatore, dal tratto rapido e animato; la sua opera grafica, abbondantissima, è tra le piú originali di questo
periodo ed ebbe grande diffusione. La maggior parte dei gabinetti di disegni possiedono, talvolta in gran numero, fogli
di C eseguiti assai spesso a penna e acquerellati. (cmg).
Cambo, Francisco
(Vergès (Ampurdan) 1876 - Buenos Aires 1947). Finanziere,
fondatore della Lliga (ala destra dell’autonomismo catalano),
ministro delle finanze di Alfonso XIII, C, la cui prima formazione era letteraria e giuridica, fu pure umanista e mecenate. Al tempo delle sue grandi fondazioni a Barcellona (fondazione Bernat Metge, 1922, per l’edizione dei classici catalani) e a Parigi (cattedra e biblioteca di studi catalani alla Sorbona), cominciava a riunire dipinti antichi, pochi ma scelti
con grande intelligenza. Arricchí in seguito notevolmente la
sua collezione quando, ritiratosi dalla vita politica poco prima della guerra civile, si stabilí a Buenos Aires, dove morí.
Aveva fatto nel 1941 un primo dono al Prado di Madrid: otto dipinti, tutti, tranne una natura morta attribuita a Zur-
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barán, italiani del Trecento e del Quattrocento (Giovanni
del Ponte e soprattutto Botticelli, con i tre celebri pannelli
della Storia di Nastagio degli Onesti, da Boccaccio). Ma un lascito assai piú importante doveva arricchire, dopo la morte
di C, la città di Barcellona: una cinquantina di tele di diverse
scuole, la cui uscita dall’Argentina venne a lungo vietata dal
governo Perón e che giunsero a destinazione solo nel 1954.
Tale collezione fu provvisoriamente collocata al secondo piano del palazzo della Virreina, che già ospitava il museo delle arti decorative. In questo complesso assai eclettico, senza una sola opera mediocre, si notano in particolare: per l’Italia, la Vergine col Bambino e due angeli di Filippo Lippi, la
Laura de Dianti di Tiziano e affascinanti scene di genere di
G. D. Tiepolo (il Minuetto, il Ciarlatano); per le Fiandre, il
ritratto del Conte d’Arundel di Rubens; per la Francia, il ritratto dell’Abate di Saint-Non, opera fondamentale di Fragonard; per l’Inghilterra,la Contessa Spencer di Gainsborough. La scuola spagnola è rappresentata da molte opere interessanti (Filippo III di Pantoja de la Cruz, Natura morta di
Zurbarán, pendant di quella donata al Prado) e soprattutto
due importanti Goya: il ritratto del compositore Quijano e
la scena mitologica, molto stile «direttorio», di Cupido e Psiche, piuttosto eccezionale nell’opera del pittore. (pg).
Cambogia
Non ci è nota la pittura della C nel periodo khmer (prima
del xiii sec.). Nel xiv e xv sec. le scorrerie e le conquiste dei
Thai o Siamesi comportarono la caduta dell’impero khmer
e favorirono in seguito lo sviluppo di un’arte cambogiana assai vicina a quella thai, e talvolta anche a quella del Laos. La
pittura in C presenta dunque le medesime caratteristiche e
ha seguito la stessa evoluzione tarda di quella thailandese.
Un’opera su tela al Museo Guimet di Parigi illustra il tema
buddista del ÇyÇma-jÇtaka e dimostra come influssi occidentali, giunti nelle due regioni, abbiano potuto modificare
la concezione tradizionale della prospettiva e l’interpretazione del paesaggio. (mha).
Cambridge
(Gran Bretagna).
Fitzwilliam Museum Museo fondato nel 1816 da Richard,
settimo visconte Fitzwilliam of Merrion (1745-1816), che
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lasciò all’università di C la propria biblioteca, centomila sterline per la costruzione d’una galleria d’arte e soprattutto la
sua collezione di dipinti, alcuni dei quali provenivano dalle
raccolte di Rodolfo II, di Cristina di Svezia e di Filippo
d’Orléans; oltre ai quadri olandesi (Berckheyde, Both,
Breenbergh, Dou, Van Ostade, Steen e soprattutto Rembrandt, Ritratto d’uomo), l’essenziale della collezione era
composto da opere italiane (A. Carracci, San Rocco e l’angelo; L. Carracci, Cristo che appare alla Vergine), principalmente di scuola veneziana (Tiziano, Venere; Veronese, Mercurio e Aglaura; Palma il Vecchio, Venere; Canaletto, San
Marco a Venezia, il Cortile di Palazzo Ducale). Il Fitzwilliam
Museum fu tra i primi musei aperti al pubblico in Gran Bretagna. Lo progettò George Basevi; i lavori iniziarono nel
1837 e l’edificio venne completato da C. R. Cockerell. Le
collezioni vi furono installate nel 1848. Ai 144 dipinti appartenuti a Lord Fitzwilliam vennero ad aggiungersi oltre
duecento quadri lasciati in eredità da Daniel Mesman nel
1834, in prevalenza opere olandesi e fiamminghe. Nel 1912
il museo si arricchí di un legato di Ch.-B. Marlay, contenente opere spagnole e soprattutto fiorentine e veneziane.
Piú tardi, importanti donazioni vennero effettuate da
Graham Robertson (opere di Blake), Lord Fairhaven (fondo stanziato per l’acquisto di paesaggi inglesi), Louis Clarke
(soprattutto disegni), Bruce Ingram (disegni olandesi e fiamminghi) e Frank Hindley Smith, che nel 1939 donò un’importante serie di quadri francesi: Bonnard, Cézanne, Corot,
Courbet, Degas, Matisse, Renoir, Sisley, Vuillard.
Al Fitzwilliam Museum la scuola meglio rappresentata resta
quella italiana: Crivelli, Vergine e Bambino circondati da santi;
Domenichino, Paesaggio con san Giovanni Battista; Guercino,
la Cattura di Cristo; Rosa, l’Umana fragilità; S. Martini, ante
di un polittico; Tiziano, Tarquinio e Lucrezia; D. Veneziano,
Annunciazione, Miracolo di San Zenobio. Citiamo inoltre le serie spagnola (Murillo, Visione di fra Lauterio, San Giovanni
Battista con gli scribi e i farisei), francese (Gauguin, Paesaggio;
Le Brun, Sacra Famiglia; Monet, la Primavera, 1886; C. Pissarro, Giardino a Pontoise, 1882, e la Strada di Port-Marly; Sisley, l’Inondazione a Port-Marly), fiamminga e olandese (Rubens, sette schizzi per il Trionfo dell’Eucaristia; Hobbema;
Hals), e infine importanti dipinti britannici di Reynolds, Wilson, Gainsborough, Raeburn, Lawrence e Constable.
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Il nucleo della ricca collezione d’incisioni venne costituito
dal lascito di Lord Fitzwilliam: 520 volumi, contenenti le
piú importanti serie di acqueforti di Rembrandt che esistessero in quell’epoca in Inghilterra, notevoli Dürer e altri
maestri tedeschi antichi, nonché numerose incisioni del xvii
sec. francese. La raccolta di disegni, costituita dal 1930 in
poi, è rappresentativa di tutte le scuole, peraltro con una forte percentuale di olandesi e fiamminghi e alcuni bei Watteau. Il Fitzwilliam Museum conserva pure, in parte proveniente dalla donazione del suo fondatore, un’importante collezione di manoscritti medievali miniati (miniature di W. de
Brailes e di Maestro Honoré; Pontificale di Metz). (jh).
Cambridge
(Usa, Massachusetts).
The Fogg Art Museum of Harvard University Un lascito di
Mrs William Hayes Fogg fu all’origine del museo, nel 1891.
Nel 1892 l’Università offrí un terreno e il museo venne aperto al pubblico nel 1895. Il suo scopo era, e resta, essenzialmente didattico; infatti sin dal 1873 i corsi del celebre prof.
Norton avevano risvegliato a Harvard il gusto per la storia
dell’arte. L’interesse tradizionale dei professori per i primitivi e il Rinascimento italiano, nonché la stretta collaborazione con Edward Forbes, direttore del museo, orientarono
in modo determinante l’acquisizione delle prime collezioni
(fra Angelico, Spinello Aretino, Lorenzetti, Piero di Cosimo), cui si aggiunsero opere di Ruisdael, Van Goyen e Rembrandt, nonché l’importante raccolta di disegni e di stampe
di quest’ultimo, creata sotto gli auspici dei professori Paul
Sachs e Jakob Rosenberg.
Nel 1943 l’uomo d’affari Grenville Winthrop lasciò al museo la sua ricchissima collezione, comprendente un notevole complesso di dipinti preraffaelliti, nonché opere del xix
sec. francese (Ingres, Odalisca con schiavo; David, Ritratto
di Sieyès), tra cui una collezione significativa di disegni di
Ingres (oltre sessanta), David, Delacroix, Géricault, Corot
e Puvis de Chavannes, oltre a fogli di Dürer, Luca di Leida,
Rubens, Tiepolo e Watteau. Si hanno inoltre due quadri di
Poussin (Sacra Famiglia, Nascita di Bacco), e gran numero di
opere di scuola americana. La Vergine col Bambino di Gentileschi, proveniente dalla collezione Contini Bonacossi, è
entrata nel museo nel 1976.
Storia dell’arte Einaudi
Busch Reisinger Museum Ospita collezioni di arte germanica, dall’epoca medievale al Bauhaus. (jhr).
Camden Town
Quartiere povero posto a nord di Londra, abitato da operai,
che acquistò celebrità artistica quando Sickert e i suoi giovani colleghi, L. Pissarro, G. Ginner e S. Gore, vi abitarono e vi dipinsero nei primi anni del nostro secolo, praticando uno stile postimpressionista. Il Camden Town Group,
neorealista, esistette dal 1911 al 1913 e organizzò numerose mostre. Le sue ricerche vennero riprese nel 1914 dal London Group. (abo).
Camerino
Oggi in provincia di Macerata; con Urbino, fu nel xiv e xv
sec. il centro politico e culturale piú attivo delle Marche, grazie alla signoria dei Varano, che sotto Elisabetta Malatesta
(1443-48) e soprattutto sotto Giulio Cesare da Varano
(1464-1502) costituirono una vera e propria piccola corte
umanistica. Distrutta dai terremoti (xviii sec.) e a lungo dimenticata, C attesta oggi la sua passata gloria solo con le opere pittoriche (raccolte per la maggior parte nella Pinacoteca
civica).
La pittura trecentesca, benché non del tutto indagata (ma
studi recenti hanno condotto a nuovi risultati), si rivela ricca soprattutto nella zona settentrionale; e già dalla fine del
xiv sec. C si mostra aperta alle tendenze pittoriche píú nuove, principalmente giottesche e senesi, col suo primo pittore conosciuto, Cola di Pietro. All’inizio del xv sec. essa fu,
accanto a Fabriano, uno dei grandi centri di elaborazione
del gotico internazionale, con Carlo da Camerino, iniziatore certamente di questo linguaggio nelle Marche (attivo soprattutto ad Ancona), e Arcangelo di Cola, già segnato dalla «rivoluzione» di Masaccio. Tuttavia C appare centro di
una scuola pittorica chiaramente caratterizzata soltanto durante la seconda metà del xv sec.: G. Boccati, Giovanni Angelo d’Antonio (identificato da Zeri con il Maestro delle tavole Barberini) e Girolamo di Giovanni, dopo un periodo
d’iniziazione alle novità del Rinascimento nei centri piú attivi (Perugia, Firenze, Padova, Urbino: 1440-65 ca.), tornati a C ne fecero un’autentica piccola capitale del nuovo
stile. La pittura camerinese tuttavia rimane fortemente con-
Storia dell’arte Einaudi
notata da caratteri propri, quali la ricerca d’equilibrio tra
prospettiva e linearismo gotico, la struttura e la spontaneità
narrativa, e C costituisce una tappa fondamentale per la diffusione del Rinascimento verso altre regioni. (sde+sr).
Camilo, Francisco
(Madrid 1615 ca. - ?, dopo il 1672). Allievo del suocero Pedro de las Cuevas, allora pittore di fama ma del quale non
resta alcuna opera, fu tra le figure piú interessanti della Madrid di Filippo IV. Il suo stile è risolutamente barocco e ampolloso, ma animato da una ricca gamma di colori (polittico
del santuario della Fuencisla a Segovia, 1662). Fu autore di
affreschi oggi scomparsi, in particolare cicli mitologici realizzati per l’Alcázar reale di Madrid. (aeps).
Cammarano, Michele
(Napoli 1835-1920). Nipote di Giuseppe, entrò nel 1853
nell’accademia di Napoli, dove fu allievo dello Smargiassi
nel corso di paesaggio. Ma piú gli giovarono gli esempi della Scuola di Posillipo, e soprattutto il serio e schietto naturalismo dei fratelli Palizzi. Amico di Bernardo Celentano e
di Domenico Morelli, si recò con loro a Firenze nel 1861 per
la prima esposizione nazionale italiana e poté cosí conoscere i macchiaioli del caffè Michelangelo e le loro proposte innovatrici. Intorno al ’59-62 predilige una tematica sociale e
populista (Terremoto a Torre del Greco, 1862: Napoli, Museo di San Martino; Lavoro e ozio: Napoli, Capodimonte),
protratta anche in seguito (Incoraggiamento al vizio, 1867) e
influente nell’affermarsi in Italia del cosiddetto «verismo
sociale». Nel 1865 si trasferí a Roma, dove frequentò Faruffini, Vertunni, Fortuny e altri. A quel soggiorno risalgono interessanti ed efficaci studi d’interni, di luci artificiali,
di vita cittadina. Nel 1867-68 a Venezia esegue diversi studi della laguna e della città, tra i quali il giustamente famoso, per libertà e immediatezza, Caffè in piazza San Marco (Roma, gnam). Nel 1870 è a Parigi; vi conosce Courbet e studia Delacroix, Géricault, Ingres, Th. Rousseau e i barbizoniers; ne ricevette impulso soprattutto a volgersi costantemente verso la vita contemporanea (ma l’ammirazione per
Courbet non si tradusse in crescita artistica). Dal 1870 in
poi, quando assistette alla breccia di Porta Pia, C si dedicò
in particolare a tele di soggetto patriottico, non oltrepas-
Storia dell’arte Einaudi
sando il livello di una certa efficacia descrittiva e di una vibrata oratoria. Vanno citati, come esemplari, La carica di
Porta Pia (1872: Napoli, Capodimonte), l’enorme Battaglia
di San Martino (1883: Roma, gnam) e infine La battaglia di
Dogali (1888-96: Roma, Museo Africano), ultima fatica del
pittore. Acquistata cosí una notorietà ufficiale, nel 1900 C
ritorna da Roma a Napoli per dedicarsi all’insegnamento
all’Istituto di belle arti. Nel complesso, i suoi migliori risultati sono da avvistare tra i dipinti di paesaggio, di scene di
genere, di resa della vita contemporanea, ogni volta che
schietti valori pittorici riescono a risolvere pienamente gli
intenti illustratori e aneddotici. (sr).
Giuseppe (Sciacca 1766-1850). Formatosi a Roma, operò
dopo il 1788 a Napoli, dove decorò numerosi palazzi cittadini, il Teatro San Carlo, nonché la reggia di Caserta e il palazzo reale di Napoli (salone da ballo, cappella), con composizioni mitologiche di spirito idillico. Dipinse anche ritratti ufficiali: La famiglia di Francesco di Borbone, 1820: reggia di Caserta. (jv).
Camoin, Charles
(Marsiglia 1879 - Parigi 1964). Destinato a studi commerciali, presto scelse invece la pittura: venne accolto a Parigi
nel corso di Gustave Moreau all’Enba; ne profittò per soli
quattro mesi e, come Matisse e Marquet, lo abbandonò alla
morte del maestro nel 1898. L’anno successivo, durante il
servizio militare ad Aix, visitava Cézanne, suscitando, al termine della vita del grande pittore, un’amicizia e una corrispondenza tra le piú ricche. La pittura di C è agli esordi vigorosa e colorata; la sua Bettoliera (1900: ora in museo a Sydney) ha potuto venir confusa con un Gauguin; come Marquet, si esprime mediante il colore puro; ma senza l’autentica violenza del primo, né il rigore del secondo. Il suo fauvisme venne allora temperato dall’influsso di Cézanne, per
la fluidità del tocco, e da quello, piú remoto, di Manet nella semplificazione dell’impaginazione (Ritratto di Albert Marquet, 1904: Parigi, mnam; la Piccola Lina: Marsiglia, Museo
Cantini). Nel 1905, un anno dopo Matisse, andò a dipingere con Marquet e Manguin presso Signac: e Cross a SaintTropez, dove soggiornò poi durante la maggior parte dell’anno, per tutta la vita. Nel 1912 incontrò Renoir a Cagnes; la
loro amicizia fece infine fiorire il suo latente impressioni-
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smo, in paesaggi, nudi e nature morte (la Coppa azzurra,
1930: Parigi, mnam). (fc).
Camondo, Isaac de
(Costantinopoli 1851 - Parigi 1911). Discendente da una famiglia di banchieri di Costantinopoli stabilitasi a Parigi sotto il secondo impero, per un trentennio costituí con passione
una collezione che lasciò allo stato francese. Oltre a numerose opere d’arte dell’Estremo Oriente (tra cui quattrocento
esemplari giapponesi) e un importante complesso del xviii sec.
francese (mobili, maioliche, qualche disegno), questa raccolta comprende una prestigiosa scelta di circa 130 dipinti, pastelli, acquerelli e disegni, per la maggior parte impressionisti, che per quanto riguarda tale scuola costituisce uno dei
fondi piú ricchi conservati al Louvre di Parigi. C aveva infatti acquistato non meno di venticinque Degas (tra cui Ripetizione di un balletto in scena, Danzatrice con mazzolino mentre saluta, Davanti alle tribune, l’Assenzio, le Stiratrici, la Tinozza), e quattordici Monet (tra cui quattro dipinti della serie delle Cattedrali di Rouen e due della serie delle Ninfee),
dieci Manet (tra cui Lola di Valenza e il Pifferaio), nove Cézanne (tra cui la Casa dell’impiccato e i Giocatori di carte), otto Sisley (in particolare l’Inondazione a Port-Marly), dipinti di
Boudin, Pissarro, Renoir, Van Gogh e trentacinque acquerelli e acquerellati di Jongkind. Vanno pure menzionate tele
piú antiche, molto meno numerose ma altrettanto celebri (Delacroix, Cavalli che si battono in una scuderia; Corot, l’Atelier).
Il conte Moïse (1860-1935), cugino germano del precedente e come lui fine amatore d’arte, raccolse una preziosa collezione di opere del xviii sec. francese: dipinti di Mme
Vigée-Lebrun (Baccante, Madame Le Coulteux du Molay),
Oudry (schizzi per l’arazzo delle Cacce di Luigi XV),
Jean-Baptiste Huet, e soprattutto pannelli lignei, mobili e
oggetti d’arte, che lasciò, unitamente al palazzo parigino che
li racchiude, al Museo delle arti decorative di Parigi; secondo la sua volontà il complesso, divenuto museo, al n. 63 di
rue de Monceau, reca il nome del figlio Nissim, ucciso in
combattimento aereo nel 1917. (ic) .
Campagnola, Domenico
(Padova 1500 ca. - 1564 ca.). Considerato dai contemporanei allievo di Tiziano, è da identificare con quel Domenico
Storia dell’arte Einaudi
Veneziano che era figlio di un ciabattino tedesco e che fu allievo di Giulio Campagnola, da cui prese il nome. Le sue incisioni del 1517-18 sono infatti manifestamente ispirate da
quest’ultimo. Nelle numerose opere a olio e a fresco in chiese e palazzi padovani, molte delle quali riconosciutegli da
studi recenti, il C si mostra debitore non solo della lezione
di Tiziano ma anche degli esempi del Pordenone (vedi ad
esempio l’affresco con i SS. Francesco e Antonio di Padova,
1533: Padova, Scuola del Santo). A partire dal quinto decennio fu per lui importante la presenza a Padova di esponenti di un gusto di diversa estrazione, anche centro-italiana, come Giuseppe Porta detto il Salviati, o nordica, come
Lambert Sustris (Re e imperatori romani, 1540-41: Padova,
Palazzo del Capitanio, Sala dei Giganti). La sua produzione piú tarda non regge il confronto con quella precedente (Il
podestà Marino Cavalli presentato al Redentore, 1563: Padova, Santa Giustina). Gli si attribuiscono numerosi disegni,
in generale grandi paesaggi a penna con figure, vicini a quelli di Tiziano (Londra, bm; Firenze, Uffizi). (sr).
Campagnola, Giulio
(Padova 1482 ca. - 1515-18). Incisore e pittore, fu anche
musicista e studioso di lingue classiche. Nel 1499 è documentato a Ferrara alla corte di Ercole I e nel 1507 a Venezia; dopo il 1515, anno in cui il suo nome è citato nel testamento di Aldo Manuzio, non si hanno piú sue notizie. Se
nell’insieme la sua opera rivela tracce di una formazione tra
mantegnesca e belliniana, essa fu profondamente segnata
dalla conoscenza di Giorgione. A lui spetta così il merito di
aver aperto la sua città alle novità veneziane, in particolare
alla pittura «tonale», che cercò di tradurre anche nelle incisioni, mettendo a punto una tecnica di sua invenzione, una
sorta di puntinismo: Donna nuda distesa in un paesaggio, Concerto, Natività, l’Astrologo (1509). Gli si attribuiscono, benché la critica non sia unanime al riguardo, piccoli dipinti a
carattere nettamente giorgionesco. (sr).
Campana, Giampietro
(Roma 1807-80). Raccolse nei suoi palazzi romani una prodigiosa collezione di antichità, ma anche importantissime serie di dipinti primitivi italiani di tutte le scuole, di cui fu tra
i primi a comprendere l’interesse. Godeva della confidenza
Storia dell’arte Einaudi
del pontefice: era, come il padre e il nonno, direttore del
Monte di Pietà, che costituiva in quell’epoca la vera e propria banca di deposito del governo papale. Trascinato dalla
sua passione di collezionista, che i suoi mezzi non potevano
piú soddisfare, C giunse a prendere in prestito, dal Monte
che dirigeva, somme sempre piú considerevoli, con la garanzia degli oggetti della sua collezione, facendosi cosí il creditore di se stesso. Nel 1857 una verifica dei conti rivelò
l’enorme deficit. Arrestato, C fu condannato (1858) a
vent’anni di galera; la pena venne commutata sei mesi dopo
da papa Pio IX in esilio perpetuo.
Le collezioni, sequestrate e messe in vendita dal governo
pontificio, vennero acquistate dalla Francia nel 1861; esse
comprendevano un’importante raccolta di vasi greci. Le collezioni di dipinti comprendevano 646 quadri; un centinaio
restò a Parigi al Louvre (tra cui la Battaglia di San Romano
di Paolo Uccello, la Pietà di C. Tura, l’Annunciazione di Leonardo, gli Uomini illustri dello studiolo di Federico da Montefeltro). Gli altri, prima dispersi in musei di provincia (in
particolare nel 1863 e nel 1872), e a poco a poco rimessi insieme dal 1953, sono stati raggruppati ad Avignone, nei locali rinnovati del Petit-Palais, edificio del xv sec. (gb).
Campaña, Pedro (Peeter de Kempeneer)
(Bruxelles 1503-1580 ca.). Si sa da Pacheco che C era nativo di Bruxelles e che fece un lungo soggiorno in Italia, forse di dieci anni, lavorando nel 1530 a Bologna alle decorazioni (perdute) di un arco di trionfo eretto in occasione
dell’incoronazione di Carlo V. La sua presenza è documentata dal 1537 al 1562 a Siviglia, ove divenne il pittore piú
celebre. Nel 1563 ricompare a Bruxelles dove la città lo incarica, in sostituzione di Michiel Coxcie, di disegnare cartoni di arazzi. Egli va considerato uno dei manieristi di spicco a livello internazionale. Degl’inizi di C, che apparteneva
ad una nota famiglia di arazzieri, si conoscono oggi due frammenti di cartoni molto simili a quelli della Scuola nuova (realizzati su modelli degli allievi di Raffaello) e allora a Bruxelles (Oxford, Ashmolean Museum), e qualche dipinto intriso della conoscenza di Dürer e assai vicino a quelli di Bernard van Orley, presso il quale egli ha dovuto formarsi e con
il quale ha collaborato, eseguendo fra l’altro le grisaglie sulla parte esterna dei pannelli laterali del trittico del Giudizio
Storia dell’arte Einaudi
universale (1525: Anversa, mba). Intorno al 1530 C dovette sostare a lungo in Emilia, italianizzandosi rapidamente a
contatto, fra l’altro, con Girolamo da Carpi, Baldassarre Peruzzi e il Parmigianino, la cui cultura affiora nella Lavanda
dei piedi (Milano, Ambrosiana), nel Ritratto di dama (Francoforte, ski) e nella grande Adorazione dei pastori (Cento,
mc). Dopo essere passato per Roma, dove studiò le opere di
Raffaello e dei suoi allievi, fra l’altro di Perin del Vaga, egli
proseguí probabilmente per Messina, giacché le sue prime
opere sivigliane risentono fortemente della conoscenza
dell’opera di Polidoro da Caravaggio attorno al 1535 (Santi
eremiti Antonio e Paolo: Siviglia, San Isidoro; Flagellazione:
Varsavia, mn; e Crocefissione: Parigi, Louvre, pendants provenienti da un medesimo piccolo polittico; Cristo alla colonna: Siviglia, Santa Caterina; polittico di San Bartolomeo:
Carmona, Santa Maria; Cristo porta croce e Resurrezione,
pannelli circolari a pendants di un polittico scomparso: Spagna, coll. priv.). I colori si rischiarano nella Discesa della croce proveniente da Santa Maria de Gracia (Montpellier, Museo Fabre) e poi nella versione monumentale dello stesso soggetto già in Santa Cruz (1547: Siviglia, Cattedrale), dove si
avverte una decisa ispanizzazione, in chiave espressionistica. Nei pannelli dai colori molto accesi dei polittici della Vita della Vergine (1555: Siviglia, Cattedrale), di san Nicola da
Bari (Córdova: Cattedrale) e di sant’Anna (in opera nel
1557; Siviglia, Santa Ana de Triana) il pittore si rinnova,
forse tramite Luis de Vargas, tornato dall’Italia già nel 1555
con una cultura aggiornata sull’ultimo Perin del Vaga e su
Salviati, e crea capolavori di un lirismo esasperato, senza
però rinunciare del tutto alla sua originaria visione. Lo stesso stile si ritrova negli arazzi con storie dei santi Pietro e
Paolo, tessuti di ritorno a Bruxelles per l’abbazia San Pietro di Gand (fra il 1563 e il 1567; cinque dei dieci pezzi in
una collezione privata francese, uno in un’altra collezione
privata francese e due a Gand, Bijlokemuseum). Le composizioni di C, allora nuovamente influenzato dai cartoni di
Raffaello, rimasti a Bruxelles, si fanno piú classiche negli otto arazzi della Guerra di Giudea, ordinati probabilmente in
occasione dell’amnistia proclamata nel 1570 (Marsala, Museo degli arazzi), e nel progetto iniziale della prima scena (già
nel commercio antiquario a New York). Intanto egli continua a dipingere, specie quadri di piccole dimensioni, che se-
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condo Pacheco mandava a Siviglia (ad esempio Crocifissione: Praga, mn; stesso soggetto: New York, coll. St. Moss;
trittico di stesso soggetto: Barcellona, coll. priv.) e prepara
disegni di storie del Vecchio Testamento per una lunga serie di incisioni, purtroppo non realizzate. Vi si avverte un
processo di allungamento delle composizioni e di semplificazione delle figure, che quasi si riducono a meri segni.
Non si sa nulla dell’attività che secondo Pacheco l’artista
avrebbe svolto come architetto, teorico della prospettiva,
astrologo e, di ritorno a Bruxelles, ingegnere del duca d’Alba. Vanno invece messe in relazione con la sua qualifica di
scultore le statue di cui egli ha fornito i disegni per la cattedrale di Siviglia (Visione d’Isaia, 1552; Re, 1555-56) e forse
una Vergine col bambino (Siviglia, Cattedrale), rilievo di alabastro che egli potrebbe aver spedito dai Paesi Bassi. (nd).
Campania
Il paleocristiano e l’alto medioevo Nel 61 d. C. sbarcava a
Pozzuoli Paolo di Tarso, durante il celebre viaggio verso il
processo che lo attendeva a Roma. Se questa rappresenta
una data simbolo dell’introduzione del cristianesimo nell’area campana, è certo però che già nel i sec. dell’era volgare (si fosse il nuovo verbo diffuso da Roma oppure per altre vie) i centri cosmopoliti della costa campana contavano
fiorenti comunità cristiane. Come a Roma, anche a Napoli,
le prime manifestazioni di una iconografia cristiana nella pittura del tempo sono date dai dipinti delle catacombe. La pratica di decorare di pitture i cimiteri extraurbani era diffusa
nell’antichità classica, e gli artisti cristiani, come è noto,
niente innovano rispetto alla cultura pagana, se non nell’ambito dei soggetti da rappresentare. Il formarsi di una iconografia cristiana è processo abbastanza lento, anche a causa
dell’avversione esplicita dei primi cristiani nei riguardi delle rappresentazioni d’immagini sacre, avversione ereditata
dalla cultura ebraica, e di cui è precisa testimonianza nella
piú antica letteratura della nuova religione. È nel corso del
iii sec. che una simile tendenza viene decisamente attenuandosi e comincia cosí a svilupparsi una vera e propria iconografia cristiana. Le piú antiche espressioni nell’area napoletana sono forse rappresentate da due raffigurazioni nel
vestibolo superiore della cosiddetta catacomba di san Gennaro extra moenia, una con Adamo ed Eva, l’altra con la co-
Storia dell’arte Einaudi
struzione di una torre, che molti studiosi hanno supposto
tratta da un testo della metà del ii sec., il Pastore di Erma,
che costituisce, dunque, un sia pur vago post quem. Delle tre
principali catacombe napoletane (San Gennaro, San Severo, San Gaudioso), quella di San Gennaro (cosí chiamata dopo la traslazione in quel cimitero delle reliquie del martire,
avvenuta sotto l’episcopato di Giovanni I, tra il 410 e il 432
ca.) è certo la piú importante, anche per il numero e la qualità delle pitture. Il corpus delle pitture cimiteriali napoletane segue un’evoluzione in parte analoga a quella delle pitture delle catacombe romane: ad uno stile ancora improntato al «naturalismo» classico, alla organica resa di corpi saldamente plastici (come ritroviamo anche al di fuori delle catacombe in un affresco frammentario, unico superstite
dell’antica decorazione della basilica di San Gennaro, forse
del v sec.), si vengono gradatamente sostituendo raffigurazioni piú schematiche e stilizzate, improntate al gusto bizantino. A Napoli, città bilingue, anzi «urbs quasi graeca»,
come l’aveva definita già Tacito, fortemente legata nella liturgia e nelle istituzioni ecclesiastiche della chiesa greca, rimasta poi anche politicamente estranea alla conquista lombarda (e quindi nell’orbita dell’impero bizantino), le influenze orientali erano particolarmente forti e vennero poi
rinforzate dall’arrivo di esuli fuggiti dalle provincie bizantine, a causa delle lotte iconoclaste. Accanto a queste, le influenze africane. Anche in questo caso Napoli e le coste campane erano state le mete privilegiate di quanti erano fuggiti
davanti all’invasione dei Vandali. Tra questi il vescovo Gaudioso, morto a Napoli nel 470 e sepolto nella catacomba che
da lui prese il nome. Gaudioso è tra gli artefici dell’introduzione a Napoli di cenobi monastici e di rifugi eremitici,
un fenomeno che raggiunse ben presto uno sviluppo notevole, divenendo uno degli aspetti piú caratteristici della devozione campana ed importante anche per i suoi riflessi
sull’arte figurativa. Le grotte eremitiche disseminate sul territorio campano, dalla costa (Maiori, Castellammare) all’interno (Calvi Risorta, Olevano sul Tusciano), verranno arricchendosi, nei secoli dell’alto medioevo, di affreschi, di un
gusto bizantino piú «popolareggiante», che costituiranno un
valido sostrato all’altrettanto imponente diffusione della pittura, bizantineggiante anch’essa, irradiatasi, dopo il Mille,
dal grande centro benedettino di Montecassino e che avrà
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nel ciclo di Sant’Angelo in Formis la sua piú celebre espressione. Se le pitture delle catacombe (abbandonate nel corso
del x sec.) e poi quelle delle grotte eremitiche possono considerarsi come le espressioni piú «popolari» dell’arte del tempo, altrettanta vastità ed importanza ebbero le espressioni
pittoriche che potremmo definire «ufficiali». Infatti, «se i
monasteri nella Napoli medievale furono di un numero davvero cospicuo» citiamo lo storico Nicola Cilento, «le chiese
furono addirittura una selva che si levava alta sulla modestia delle abitazioni comuni». E Napoli non era una capitale, come Roma, Milano, Ravenna! All’epoca costantiniana
risale la cattedrale di Santa Restituta, a cui, forse durante il
v sec. fu aggiunto, dal vescovo Sotere, il battistero di San
Giovanni in Fonte. Tra la fine del v sec. e l’inizio del successivo un’altra cattedrale, detta Stefania dal vescovo che la
fece costruire (Stefano I, 499-504 ca.), fu affiancata a quella piú antica. Un grande quadriportico univa le due basiliche cattedrali; l’abside della Stefania era stata arricchita dal
vescovo Giovanni II (533-55 ca.) di un grande mosaico raffigurante la Trasfigurazione. Il vescovo Severo aveva fatto
costruire un’altra grande basilica, intitolata, in aperta polemica con l’eresia ariana, al Salvatore. Nell’abside aveva fatto raffigurare Il Salvatore con i dodici apostoli e al di sotto I
profeti Isaia, Geremia, Daniele, Ezechiele. Sotere, che fu vescovo attorno alla metà del v sec., aveva fatto erigere la basilica dedicata ai Santi Apostoli e un secolo dopo Vincenzo
aveva fondato la basilica di San Giovanni Battista, ornata
di cupole dorate ad imitazione della costantinopolitana Santa Sofia, e praefulgida di mosaici. Di tutta questa imponente massa di mosaici, niente è rimasto ad eccezione di quelli
che ancora ornano la volta del battistero di San Giovanni in
Fonte, e i resti del pavimento della basilica paleocristiana di
San Lorenzo, recentemente riportati alla luce. Assai discussa è la datazione dei mosaici del battistero, ancora fortemente naturalistici, e con accenti quasi di pittura «compendiaria», a cui però cominciano ad affiancarsi stilizzazioni di
derivazione orientale (e del resto caratteri orientali denuncia anche la struttura architettonica del battistero) che inducono a fissarne la datazione piuttosto intorno alla metà
del v sec. A conclusione di questo breve excursus sulla Napoli paleocristiana occorre citare il principale complesso monastico sorto in quella città, a partire dalla fine del v sec.,
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nell’oppidum Lucullanum sul monte Echia, cioè nello spazio
anticamente occupato dalle ville e dai giardini di Lucullo.
Nel luogo del sacello che aveva accolto le spoglie dell’evangelizzatore del Norico, san Severino, era sorto un monastero dedicato al santo, attorno al quale si erano aggregati altri
monasteri grandi e piccoli. Tra il vi e il x sec., quando il luogo fu abbandonato dalla sua variegata popolazione monastica, l’oppido lucullano fu un centro vivissimo di cultura,
con la sua «università» e il suo scrittorio, un centro d’irradiazione di importanza europea, specie per la diffusione dei
suoi codici manoscritti.
Fuori di Napoli i centri principali della cultura artistica paleocristiana sono rappresentati dalla basilica di San Felice in
Pincis a Cimitile e a Santa Maria Capua Vetere, perdutasi
nel Settecento la decorazione musiva della cattedrale di Santa Maria Maggiore, dai mosaici della cappella di Santa Matrona in San Prisco. Forse leggermente posteriori, questi ultimi, rispetto ai mosaici del battistero napoletano, coi quali condividono l’ispirazione classica e naturalistica di fondo,
nella solennità d’impianto delle raffigurazioni, assieme ad
una vivacità impressionistica nella resa degli ampi elementi
vegetali che hanno spesso indotto a richiamare il grande modello del ravennate mausoleo di Gala Placidia. Influenze piú
decisamente orientali denuncia invece il complesso basilicale di San Felice, la «Pompei cristiana», come è stata efficacemente definita. Sulla tomba del santo era stata eretta,
all’inizio del iv sec., una basilica che san Paolino vescovo di
Nola profondamente rimaneggiò, a cominciare dal recinto
che racchiudeva la tomba di Felice, da Paolino ornato di mosaici su fondo azzurro, di carattere piuttosto astrattivo che
naturalistico. Caratteristiche che dovevano ricorrere anche
nel perduto mosaico absidale della basilica paoliniana, dove
la raffigurazione mostrava accenti di profonda stilizzazione
simbolica, simili (ma in anticipo) alle soluzioni adottate
nell’abside ravennate di Sant’Apollinare in Classe. Oltre al
frammentario mosaico paoliniano esistono a Cimitile altre
pitture piú tarde di carattere bizantineggiante; ma l’importanza di Cimitile, piú che dai resti pittorici, è data dalle numerose sculture, che ne fanno il piú significativo museo di
scultura paleocristiana della C. Tutt’altro discorso merita invece l’area beneventana, dove si conservano le piú originali ed intense pitture della C altomedievale. Divenuta sede di
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un ducato longobardo, Benevento conosce una storia politica ben distinta da quella di Napoli. Questa però non la isola da quella grande circolazione di cultura mediterranea e
orientale che caratterizza anche nel medioevo l’arte dell’Italia meridionale. Al tempo del duca Arechi II (nell’ultimo
quarto dunque dell’viii sec.) risalgono le pitture, invero bellissime, della chiesa beneventana di Santa Sofia. L’angelo
dell’Annunzio a Zaccaria ha un piglio e una possanza plastica di carattere ancora «classico», derivante probabilmente
da influssi provenienti dalla costa della Siria, dove la grande tradizione ellenistica aveva avuto, specie ad Antiochia,
una sopravvivenza ben piú viva che in Occidente, prima di
essere anch’essa sommersa dalla cultura «bizantina». La figura di Zaccaria che esce muto dal tempio pare quasi, nella
sua intensa passionalità, un preludio (e in forte anticipo) della violenza espressiva delle grandi miniature ottoniane. Cosí il caricato «espressionismo» della Visitazione preannuncia
l’altrettanto accentuata passionalità degli affreschi dell’abbazia di San Vincenzo al Volturno che, eseguiti al tempo
dell’abate Epifanio (826-43), paiono profondamente derivare dalle pitture beneventane.
Dal bizantino al gotico La pittura di carattere bizantineggiante conosce invece la sua ultima, grande stagione in epoca romanica, e soprattutto nella C settentrionale. In questa
direzione un ruolo importante svolse l’abbazia di Montecassino che l’abate Desiderio (eletto nel 1058) aveva iniziato a riedificare e che fu consacrata nel 1071. Sappiamo che
Desiderio aveva chiamato, tra le altre, anche maestranze bizantine. È probabile che qualcuna di queste lavorasse anche
in Sant’Angelo in Formis (il Toesca vedeva infatti una mano bizantina nella Madonna e nel San Michele arcangelo
dell’atrio) che proprio l’abate Desiderio aveva voluto riedificare, a partire dal 1073. Il vasto ciclo pittorico che orna le
pareti della chiesa capuana rappresenta una vexata quaestio
tra le piú accanite, nell’ambito degli studi sulla pittura medievale campana. Considerato da una larga schiera di studiosi come il nucleo centrale di una vera e propria «scuola
benedettina» con caratteristiche sue proprie, il ciclo capuano rappresenta piuttosto un «adattamento» locale, piú
espressivo e popolareggiante, dell’aulica tradizione bizantina. Un adattamento su cui una certa influenza dovette esercitarla il sostrato di quella tradizione di «bizantinismo po-
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polareggiante» e vivacemente espressivo rappresentato, si è
visto, dagli affreschi delle grotte eremitiche. Al ciclo di
Sant’Angelo in Formis si affianca nel Casertano una vasta
fioritura di pittura bizantineggiante: da Sessa Aurunca
(Sant’Angelo di Lauro, Marzoli) a San Pietro ad Montes, a
Ventaroli (Santa Maria in Foro Claudio, dove però compaiono anche precise influenze islamiche), a Teverola, a Rongoli. Una piú diretta, e rigorosa, derivazione bizantina è invece presente, in epoca normanna, nei centri costieri della
C meridionale; un aspetto piú aulico, derivante dalla grande produzione bizantina siciliana (Monreale, Messina) e che
ha le sue prove piú significative in opere come il Crocifisso
del conservatorio di Gesú Sacramentato a Salerno, e la pala amalfitana di Santa Maria de Flumine (oggi a Napoli, Capodimonte). Si tratta di una corrente fortemente conservatrice se ancora in quest’ambito va collocato un mosaico absidale nel duomo di Salerno, commissionato nel 1260 (in piena epoca sveva, dunque) da Giovanni da Procida e nel quale «il sottile splendore notturno dell’opera e certe erbette
fiorite nel piano di posa sono forse già il segno della cresciuta
tenerezza dei tempi; ma la stilizzazione predominante rinvia alla Sicilia piú rigorosamente bizantineggiante, anzi a
Monreale» (Bologna). Un aspetto similmente conservatore,
di persistenze bizantineggianti in piena epoca sveva, è dato
da alcuni centri della miniatura (lo scriptorium dell’abbazia
benedettina di Cava dei Tirreni per esempio) solo marginalmente toccati dal grande rinnovamento in senso gotico e
naturalistico portato avanti dalla cultura sveva, specie nelle
straordinarie, vivissime miniature del De arte venandi cum
avibus, del De balneis puteolanis, delle cosiddette Bibbie di
Manfredi. Epoca sveva, si diceva. Rispetto all’importanza
che assumono la Sicilia o la Puglia, Napoli e la Campania
(ma si rammenti che a Napoli Federico II aveva fondato lo
Studio generale del Regno, e la presenza di una grande università presuppone la produzione e la circolazione di codici)
restano forse in una posizione piú marginale nell’ambito del
potere svevo, ma certamente partecipi del fervore culturale, delle aperture (verso l’Europa gotica come verso l’Islam)
promosse da Federico, dalla sua visione del mondo, tutta
proiettata al superamento di antiche nuove trascendenze,
verso una visione laica e «scientifica» della realtà. Ed è infatti il variopinto aspetto del mondo ad affascinare soprat-
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tutto gli artisti federiciani, in contrapposizione allo stereotipato formulario bizantino.
La Campania angioina Con l’avvento della dominazione angioina (1266) Napoli diviene la capitale del regno. Inizia quel
processo di graduale conquista di una decisa egemonia culturale da parte della capitale nei confronti del resto del Meridione, che possiamo dire pienamente concluso nel corso
del Cinquecento. L’avvento di una dinastia francese sul trono napoletano implica una ancor piú marcata apertura
dell’arte dell’Italia meridionale verso il gotico transalpino.
In architettura, soprattutto, dove il massiccio insediarsi a
Napoli di francescani e domenicani e l’arrivo di architetti
francesi trasformeranno radicalmente l’aspetto edilizio della vecchia città ducale. I rapporti si fanno stringenti anche
con la Catalogna, quasi certamente via Provenza. Un pittore probabilmente catalano esegue a Salerno la bella Crocifissione nella cripta della chiesa del Crocifisso. A Napoli una
chiara influenza franco-catalana presentano sia il San Domenico conservato nella omonima chiesa, sia le miniature del
Missale secundum consuetudinem regiae Curiae (Napoli, bn).
Ma la grossa novità della Napoli artistica di fine secolo è la
puntuale registrazione di quanto veniva svolgendosi sui ponti della basilica francescana di Assisi. Del cantiere assisiate
al tempo in cui lavoravano Cimabue e la sua bottega dovette esser stato assiduo il frescante della Cappella Minutolo
nel duomo di Napoli, autore anche, qualche anno piú tardi,
della Morte della Vergine in San Lorenzo Maggiore. Il primissimo Giotto assisiate è, poco dopo, riecheggiato sia
nell’Assunzione della Vergine già in San Salvatore Piccolo a
Capua che nell’autore delle storie della Maddalena in San
Lorenzo (una chiesa anch’essa francescana!) Vi è quindi una
circolazione strettissima che lega, in un crescendo che non
conosce soste, Napoli ed Assisi, probabilmente tramite Roma, in un momento in cui il papato è sempre piú strettamente legato alla causa angioina. Da Roma, nel 1308, un altro arrivo di grande importanza: quello di Pietro Cavallini,
che, probabilmente tra il 1308 e il 1309, affresca nella cappella del cardinal Landolfo Brancaccio in San Domenico
Maggiore storie della Maddalena, di sant’Andrea e dell’evangelista Giovanni. Un ciclo pittorico che dimostra giunto ormai a piena maturazione l’aggiornamento giottesco del pittore, aggiornamento che nella limpida, tersa luminosità del-
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le figure dimostra di andare oltre la conoscenza del Giotto
assisiate fino a toccare forse la produzione riminese del maestro. Al ciclo della Cappella Brancaccio si legano, con qualche punta di maggiore arcaismo, gli affreschi, ricuperati da
un recente restauro, della cappella di Sant’Aspreno nel duomo di Napoli. L’intervento del Cavallini, e poi della sua
scuola, rappresenta certo l’episodio principale nell’ambito
della pittura napoletana del primo trentennio del secolo, prima dell’arrivo nella capitale angioina di Giotto. L’invio, infatti, nel 1317, del San Ludovico in trono da parte di Simone Martini fu un episodio del tutto particolare e che non ebbe, per allora, un’influenza e un seguito pari all’importanza
e alla qualità del dipinto. Ferdinando Bologna ha dimostrato infatti come il particolare aspetto (elegante, ornatissimo,
di una preziosità alquanto «profana») dell’opera martiniana, cosí opposto a quella che fu la personalità vera di Ludovico d’Angiò, spirituale acerrimo e strenuo pauperista, obbedisse a un sottile gioco politico tra la curia papale e la corte angioina. Ma nella Napoli fortemente segnata dal clima
del francescanesimo spirituale la mistificazione sottesa al dipinto nei riguardi delle reali posizioni religiose di Ludovico
fu forse una causa non secondaria della scarsa fortuna che il
capolavoro martiniano incontrò nell’ambiente artistico napoletano. Il principale seguito cavalliniano è da indicare
nell’opera di quel Lello (variamente indicato come romano
od orvietano) che firma in Santa Restituta il mosaico con la
Madonna in trono tra i santi Gennaro e Restituta, ed è autore
dell’affresco con l’albero di Jesse nel contiguo duomo; in anni piú tardi (in un affresco in Santa Chiara) mostra un chiaro aggiornamento in chiave giottesca. Un simile nodo di cultura cavalliniano-giottesca presentano anche le parti piú recenti (le storie di Sant’Agnese e di Elisabetta d’Ungheria)
nel vasto ciclo dipinto sulle pareti di Donnaregina vecchia,
dove vengono raffigurati, oltre alle storie citate, figure di
apostoli e profeti, storie di Cristo, di santa Caterina e,
nell’abside, il Giudizio universale. Tradizionalmente riferito al Cavallini (specie per le figure affrontate di apostoli e
profeti) il ciclo non dovette però essere iniziato prima del
1317-20, in anni cioè in cui il Cavallini era ormai già lontano da Napoli. È al lavoro dunque in Donnaregina una maestranza di artisti diversi (romani e napoletani) accumunati
da una medesima radice di formazione cavalliniana. Ma nel-
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la capitale angioina sbarcava, nel 1328, Giotto stesso, accompagnato da parte della sua bottega (è certa la presenza a
Napoli almeno di Maso di Banco) per un soggiorno quinquennale (fino al 1333) che condizionerà in modo decisivo
la produzione pittorica napoletana per molti degli anni a venire. Delle opere che Giotto eseguí a Napoli poco è rimasto,
ma anche dai frammenti superstiti (a Castelnuovo e, in Santa Chiara, una Crocifissione e i resti di un Compianto su Cristo morto) è possibile vedere come il maestro si avvalesse di
una larga messe di aiuti, alcuni già ampiamente sperimentati (da Maso al maestro che lo affiancò nell’esecuzione delle
storie dell’infanzia di Cristo nella basilica inferiore di Assisi), altri probabilmente reclutati sul posto. Tra le teste decorative che ornano gli strombi dei finestroni nella cappella
palatina di Castelnuovo, unica parte superstite del ciclo dipintovi da Giotto e dai suoi, Bologna identificava, accanto
a Maso, la presenza di un pittore, il Maestro della Cappella
Barrile, cosí chiamato dagli affreschi che dipinse nella Cappella Barrile in San Lorenzo e che potremmo definire come
la piú felice acquisizione della bottega napoletana di Giotto
tra i pittori locali. Che il pittore di Giovanni Barrile (alla cui
fase tarda andranno restituiti gli affreschi della Cappella Pipino in San Pietro a Maiella e le miniature della Bible moralisée di Parigi) fosse napoletano e pittore già formato quando Giotto lo accolse tra i suoi collaboratori lo farebbe pensare la possibilità che la sua mano, in una fase giovanile e
tutta inedita di carattere cavalliniano, possa essere riconosciuta nel ciclo di Donnaregina (e precisamente nel Miracolo di san Giovanni nella Cappella Loffredo). Parallelamente
all’attività del maestro Barrile si svolge quella dell’altra grande personalità del giottismo napoletano, cioè Roberto
d’Oderisio, la cui fase giovanile appare fortemente improntata alla poetica di Maso. Ancora nelle storie bibliche dipinte all’Incoronata (1540-43 ca.) Roberto si mostra fortemente legato allo «slargo» coloristico, alle campiture cromatiche tipiche di Maso, per volgersi successivamente, nel
ciclo dei Sacramenti, sempre all’Incoronata, preziosamente,
sontuosamente «ornati», a una rimeditazione del tardo Simone Martini ad Avignone. Occorre ricordare che i rapporti
tra Avignone (possedimento personale degli Angioini di Napoli fino al 1348) e la corte napoletana erano molto assidui
e continui per tutto il Trecento. L’aspetto «neomartiriano»
Storia dell’arte Einaudi
resterà una caratteristica anche degli anni tardi di Roberto
d’Oderisio che nel 1382 Carlo III di Durazzo nominerà pittore regio. In una rapidissima sintesi come la presente non
è naturalmente possibile dare conto di tutta la ricca varietà
del Trecento pittorico napoletano. Ma almeno a un’altra personalità occorre accennare, soprattutto per le implicazioni
«ideologiche» che sia l’iconografia dei suoi dipinti sia il particolare, appassionato, quasi popolaresco «espressionismo»
comportano. Si tratta del cosiddetto Maestro delle tempere
francescane, cosí chiamato da un gruppo di tempere di soggetto francescano, provenienti probabilmente da Santa
Chiara e di committenza regia. Il patetismo fortemente caricato, le forme scabre, puntute, semplificate sembrano una
precisa trasposizione figurativa dei sentimenti e delle idee
dell’ala spirituale dei francescani che, protetti dalla stessa
corte angioina, aveva in Santa Chiara una delle sue roccaforti. Occorre anche ricordare che negli anni ’70 del Trecento appare a Napoli una nuova ondata di arrivi toscani,
senesi e fiorentini. Tra il 1383 e il 1385 soggiorna a Napoli
Andrea Vanni. Nel 1371 il fiorentino Niccolò di Tommaso
eseguiva per la chiesa di Sant’Antonio abate un polittico oggi a San Martino. A Niccolò, pittore di formazione masesca,
poi aggiornatosi sugli Orcagna, spetta una parte degli affreschi dipinti nella chiesa del castello dei Del Balzo a Casaluce. Una grande apertura culturale verso le esperienze piú moderne del tempo, in linea con la tradizione «a frontiere aperte» dell’arte napoletana, caratterizza anche l’intensa stagione del gotico internazionale in C. Soprattutto ad opera di
due maestri, il pittore delle storie di san Ladislao all’Incoronata e il Maestro di Antonio ed Onofrio Penna. Il primo,
di una poesia accalorata e patetica, di umori spiccatamente
espressionistici, è probabilmente identificabile, come ho proposto in altra occasione, con Antonio Baboccio da Piperno,
il maggior scultore del tardo-gotico presente a Napoli, personalità di esperienze veramente internazionali e che fu anche pittore ed orafo. Il secondo, che del Babocchio fu aiuto, sia all’Incoronata sia in Santa Chiara (il nome gli deriva
proprio da un affresco inserito nella tomba di Antonio ed
Onofrio Penna scolpito dal Baboccio) stempera l’accigliato
espressionismo del maestro in cadenze piú delicatamente
cortesi. L’ampia, apertissima circolazione di influenze e di
culture diverse (iberiche, francesi, dell’Italia centrale) nella
Storia dell’arte Einaudi
pittura del gotico internazionale campano è ben visibile nelle prove migliori ancora superstiti nella regione. Nel 1419
un probabile Ferrante Maglione (un nome decisamente catalano) eseguiva l’Annunciazione sull’altar maggiore dell’Annunziata di Aversa; un’opera che presenta stringenti rapporti con il Giudizio Universale dipinto sulla controfacciata
dell’Annunziata di Sant’Agata dei Goti (a questo maestro
spettano anche altri dipinti nell’abside della stessa chiesa)
che, a sua volta, appare orientato verso una cultura decisamente «mediterranea», provenzale e catalana (Vich, soprattutto). I due bellissimi cicli di affreschi di San Biagio a
Piedimonte d’Alife e di Sant’Angelo di Ravescanina mostrano anch’essi un complesso intreccio di rapporti, che va
dagli echi della cultura valenzana di cui il cosiddetto Maestro del Bambino Vispo (oggi identificato con il fiorentino
Gherardo Starnina) fu uno dei diffusori in Italia, a quelli
della particolare koiné linguistica laziale-umbro-abruzzesecampana in cui erano entrati come componenti essenziali sia
apporti marchigiani (dai fratelli Salimbeni di San Severino,
all’espressionismo della scuola di Camerino) che iberici, risalenti anche dalla Sicilia aragonese e dalla Sardegna. A
Sant’Angelo di Ravescanina dovette probabilmente lavorare anche quel Perinetto da Benevento che divise col lombardo Leonardo da Besozzo l’esecuzione del vasto ciclo di
affreschi nella Cappella Caracciolo del Sole in San Giovanni a Carbonara a Napoli.
Dagli Aragonesi al viceregno La cultura tardogotica campana ha una lunga «coda», una tenace sopravvivenza, soprattutto in provincia, ancora ben addentro la seconda metà
del secolo. Ne è il principale rappresentante Giovanni da
Gaeta la cui piú antica opera datata (1448) proviene dalla
Sardegna, regione che fu uno dei punti nodali del grande interscambio tra il filone vitalissimo dell’«irrealismo» dell’Italia centro-meridionale e quello altrettanto vitale di tipo iberico, valenzano-catalano. L’attività tarda del pittore gaetano si svolse quasi tutta in provincia, nella zona che oggi appartiene al Lazio meridionale (Sezze, Gaeta, Itri, Fondi), come in provincia, ma nel Sud della Campania, a Salerno, Eboli, Castellabate, si svolge quella di pittori che ai modi del
gaetano strettamente si apparentano: l’anonimo Maestro
dell’Incoronazione di Eboli e Pavanino da Palermo. Un altro caso particolare di persistenze «arcaiche» (di tipo goti-
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co-internazionale e di forte influenza iberica) è quello di Angiolillo Arcuccio, che, per quanto pittore di corte degli Aragonesi, non disdegnò di lavorare ampiamente anche in provincia: a Giugliano, Somma Vesuviana, Sarno, Sant’Agata
dei Goti (1483). Mentre la «provincia» campana conosceva
queste tenaci persistenze arcaiche, fenomeni di ben altro peso accadevano nella capitale del regno. Già gli anni (1438-42)
in cui sul trono di Napoli sedette il provenzale Renato d’Angiò avevano fatto conoscere la grande pittura fiammingo-provenzale, specie il Maestro di Aix-en-Provence che fu fondamentale per la formazione del maggior pittore napoletano del Quattrocento, Colantonio. Nel 1448 a Napoli giungeva uno dei massimi esponenti del tardo-gotico, Pisanello.
Qualche anno prima erano approdati alla corte di Alfonso il
valenciano Jacomart Baço e il francese Jean Fouquet. È su
queste componenti provenzali, fiamminghe (e dei fiamminghi dell’«epoca eroica» come notava il Longhi, citando segnatamente Van Eyck) e fouquettiane (di un fiamminghismo, cioè, per citare ancora Longhi «rettificato sui modi italiani dell’Angelico e di Piero») che si basa l’attività di Colantonio nel polittico di San Lorenzo (attorno al 1445) e nella piú tarda pala di San Vincenzo Ferreri (circa il 1460) dove accanto all’attenta, insaziabile indagine delle «verità» naturali, della variegata apparenza delle cose di questo mondo, compare una piú nitida e calibrata struttura spaziale che
può ben dirsi appoggiata alla grande cultura rinascimentale
italiana. La forza d’irradiazione di questa felicissima congiuntura culturale ha un raggio assai vasto a Napoli, dove, è
ben noto, di Colantonio fu allievo, forse durante la prima
metà del sesto decennio del secolo, il giovane Antonello da
Messina. Un precoce riflesso colantoniano è rappresentato
dalla bella personalità ricostruita dal Bologna sotto il nome
di Pittore di Pere Roig de Corella, mentre dal Colantonio
piú svolto in senso pierfranceschiano degli anni ’60 del secolo deriva il Maestro di San Giovanni da Capestrano attivo tra Napoli, Roma e l’Abruzzo. Attorno al 1482 in una
congiuntura che è ancora di vasta circolazione «mediterranea» fiammingo-provenzale-valenciana andrà posta l’esecuzione del polittico dedicato a San Severino nell’omonima
chiesa napoletana, opera tra le principali dipinte a Napoli
sullo scorcio del xv sec., e nella cui orbita si colloca l’attività di due notevoli pittori salernitani, Pietro Befulco e Pie-
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tro Buono (il Monogrammista PETR). Sono quelli gli anni
di altre, e piú accentuate, circolazioni pittoriche internazionali. Tra il 1472 e il 1476 il napoletano Francesco Pagano dipinge nella cattedrale di Valencia, insieme a un Maestro Riquart, che è quasi certamente identificabile con il palermitano Riccardo Quartararo. A Valencia è in quel tempo
attivo Bartolomé Bermejo, i cui stretti legami con il pittore
del polittico di San Severino sono stati sottolineati dal Bologna; con il Pagano collabora il ferrarese Paolo da San Leocadio. La collaborazione a Valencia di un pittore napoletano con uno ferrarese non è del tutto casuale se si tiene presente che Napoli e Ferrara intrecciarono per tutto il Quattrocento rapporti assai stringenti, rinsaldati sullo scorcio del
secolo dall’attività napoletana di Costanzo de Moysis che a
Ferrara si era formato e a Napoli divenne pittore di corte e
poi prese a collaborare, dal 1491, con Riccardo Quartararo,
anche lui stabilitosi a Napoli. Su queste matrici s’innesta,
aggiornandosi sulla pittura romana del tempo, la personalità
forse piú alta operosa a Napoli nell’ultimo decennio del secolo, l’autore del polittico dedicato ai Santi Michele e Omobono, e dei due scomparti di polittico (con le figure dei santi Giovanni Battista ed Agostino) della collezione Serra di
Cassano. È soprattutto guardando a questi aspetti laziali del
Maestro di Sant’Omobono (identificato ora col Quartararo
ora con il Pagano stesso) che si forma un’altra interessante
personalità napoletana attiva sullo scorcio del secolo, Cristoforo Faffeo, autore anche lui di un polittico dedicato a
san Michele Arcangelo nel duomo di Aversa (1495) e, nel
1497, di una Natività a Novi Velia, fortemente antoniazzesca, nonché di altri dipinti sparsi per la provincia cilentana
e calabrese. Antoniazzo stesso aveva inviato opere in C (la
pala del 1489 nel duomo di Capua) e sotto la sua influenza
appare un pittore come Francesco Cicino da Caiazzo. Anche nel ciclo dipinto dal Solario del chiostro del Platano (oggi incorporato nell’Archivio di Stato di Napoli) dove, accanto allo squadernarsi perfettamente prospettico di spazi
ampi popolati dall’operosa vita di ogni giorno, certi accenti
di realismo piú minuto e rustico paiono discendere dagli affreschi di Antoniazzo nel convento romano di Tor de’ Specchi. Questo richiamo insistito a fatti romani che si viene ad
affiancare alla piú vasta circolazione franco-iberica e agli apporti dell’Italia settentrionale è ben visibile sia nella forma-
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zione peruginesca-pinturicchiesca di Stefano Sparano, sia in
quella, simile, e in piú ben attenta alle prove del giovane Raffaello, del principale attore del Cinquecento campano, Andrea Sabatini da Salerno. Una componente romana antoniazzesco-melozzesca compare anche nelle piú antiche opere eseguite nel regno dal veronese Cristoforo Scacco, il polittico dell’Annunciazione in San Pietro a Fondi (ante 1491)
e il polittico di Penta (1493), unitamente al portato squarcionesco-mantegnesco-ferrarese su cui il pittore si dovette
formare. Nel corso dell’ultimo decennio del secolo lo Scacco verrà ad arricchire la propria maniera avvicinandosi al
«quadraturismo» bramantesco soprattutto negli affreschi
della Cappella Tolosa nella chiesa napoletana di Monteoliveto. Riflessi lombardi dello Zenale e di Pedro Fernández
compaiono nelle opere tarde del pittore veronese. Anche lo
spagnolo di Murcia Pedro Fernández (è con questo pittore
che va infatti ormai identificata la personalità che andava
sotto il nome di Pseudo-Bramantino) giunge a Napoli (un
soggiorno piú o meno decennale il suo, poiché attorno alla
metà del secondo decennio appare attivo a Roma, per tornare in Spagna almeno dal 1521) con un bagaglio di cultura
lombarda legata ai modi del Bramantino e dello Zenale a cavallo dei due secoli e con una probabile rivisitazione ferrarese. Ma in quegli anni la cultura napoletana si andava orientando ormai verso la «maniera moderna», per merito soprattutto di Andrea da Salerno. La sua era stata, abbiamo
visto, una formazione peruginesco-pinturicchiesca. È con
l’arrivo a Napoli (probabilmente agli inizi del 1512) del milanese Cesare da Sesto, portatore di una piú aggiornata cultura leonardesco-raffaellesca, che Andrea da Salerno si volge decisamente verso la maniera raffaellesca, con richiami
alle Stanze vaticane. Influenzato dallo spagnolo Pedro Machuca, formatosi nell’équipe raffaellesca delle logge vaticane, Andrea si avvicina alla poetica del «manierismo» in una
serie di opere che si scalano tra lo Sposalizio di santa Caterina in San Francesco a Nocera, che è del 1519, e la Madonna e Santi in San Giorgio a Salerno, del 1523. Nella fase tarda (Andrea da Salerno muore nel 1530) si colloca il grande
polittico bifronte dipinto per Montecassino probabilmente
a partire dagl’inizi del 1529. Il portato raffaellesco appare
in quest’opera estrema dell’attività del Sabatini aggiornato
sui soggiorni napoletani del grande allievo di Raffaello, Po-
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lidoro Caldara da Caravaggio. Due furono i soggiorni napoletani di Polidoro, uno tra il 1523 e il 1524, un altro, nel
1527, dopo il sacco di Roma, e quale tappa del suo trasferimento a Messina. Soggiorni brevi ma non cosí infruttuosi
come tramanda il Vasari secondo cui Polidoro sarebbe fuggito disperato da Napoli per l’insensibilità dimostrata nei
suoi confronti dalla committenza aristocratica. Sarà anche
stato cosí, ma certo le opere lasciate a Napoli dal pittore di
Caravaggio avranno un’importanza fondamentale nell’orientare la maniera napoletana degli anni ’30 e ’40 del secolo,
dal principale creato di Andrea da Salerno, Giovan Filippo
Criscuolo, che appare in una serie di opere centrali del suo
percorso, il polittico oggi a Capodimonte (del 1545) o la Natività Harrach, fortemente debitore di Polidoro; a Marco
Cardisco, che, educatosi nella congiuntura lombardo-raffaellesca del primo quindicennio del secolo e avvicinatosi poi
al Sabatini sullo scorcio del terzo decennio, elabora nella fase piú tarda una sua personalissima risposta agli influssi polidoreschi. A Pietro Negroni, che volge la passionalità travolgente di Polidoro in una curiosa sorta di caricato «grottesco»; al «Roviale spagnolo», infine, i cui affreschi in Castel Capuano sono quanto di piú furiosamente, pateticamente polidoresco sia dato trovare a Napoli in quegli anni.
Una sopravvivenza polidoresca così intensamente radicata
nell’ambiente pittorico napoletano ancora allo scadere degli
anni ’40 del Cinquecento fa ragionevolmente ipotizzare la
possibilità di un terzo soggiorno napoletano di Polidoro, durante una pausa del suo soggiorno messinese, forse tra il
quarto e il quinto decennio del secolo (Vasari poneva la data di morte del pittore caravaggino nel 1543). Per la prima
metà del xvi sec. resta da accennare alla personalità di Agostino Tesauro, anch’essa rimessa in luce da studi recenti.
Originario dei Salernitano, come il Sabatini, il Tesauro appare ricordato per la prima volta nel 1502. Formatosi probabilmente anche lui su un terreno umbro-romano-signorellesco, viene poi aggiornandosi, in parallelo con Sabatini,
sul raffaellismo eccentrico del Machuca, con tangenze aspertiniane nella sua opera di maggior spicco, gli affreschi nella
Cappella Tocco del duomo di Napoli. Attorno ormai alla
metà del secolo, l’attività giovanile di Silvestro Buono, improntata ad un verismo patetico, quasi neofiammingo, mo-
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stra l’irrompere nella pittura napoletana di fremiti nuovi, legati alle inquietudini religiose scatenate dalla Riforma. (fra).
Dalla seconda metà del Cinquecento ai primi del Seicento
Fin dagli inizi del xvi sec. si determina in C una tendenza,
destinata a restare pressoché irreversibile, di accentramento delle esperienze artistiche nella città capitale. Al di là delle ragioni storiche, sociali ed economiche che chiariscono tale circostanza, emergono sul piano artistico due fenomeni
complementari: il primo, di continua immigrazione di pittori e maestranze dell’intera regione, costiera e dell’entroterra, verso Napoli; e, il secondo, di mancata formazione di
scuole locali extracittadine. La provincia fa suoi sostanzialmente i risultati napoletani, pur concorrendo ad amplificarne le caratteristiche e ad offrirne un’immagine piú propria.
Un sistema che rispecchia dati storici oggettivi, come mostrano le risultanze dei primi spogli documentari, quali le caratteristiche della committenza extraurbana, orientata ad
avere opere simili a quelle napoletane; l’organizzazione delle botteghe, specializzate nella replica su tela dei loro prodotti, proprio per renderli piú facilmente esportabili in provincia e dotate sia di capi bottega sia di lavoranti disposti ad
agire sull’intero territorio regionale. Naturalmente, la quasi contemporaneità tra elaborazione cittadina di un discorso artistico e sua diffusione territoriale ha un tratto positivo nel momento di formazione e primo sviluppo di quel linguaggio, ma comporta irrimediabilmente, per la provincia,
una limitazione di ricerche autonome e una strutturale vocazione conservativa. Cosí, rispetto a proposte piú complesse
ed eccentriche provenienti dalla capitale, il territorio circostante si attarda su espressioni già consolidate. In questo tipo di dinamica generale, che la campionatura seguente documenta solo secondo una delle possibili scelte, assume una
particolare rilevanza il fenomeno di maggiore portata cittadina a partire dagli anni ’60 e ’70: l’arrivo dai Paesi Bassi di
una folta colonia di pittori fiamminghi, destinati a restare e
ad avere fortuna nel Meridione fino ai primi del Seicento. I
loro percorsi artistici non solo attraversano l’intera C, quanto anche la collegano alle regioni vicine, Abruzzo, Basilicata, Calabria e Puglia. Dirk Hendricksz (in Italia Teodoro
d’Errico), il principale tra i fiamminghi naturalizzati, fin dagli esordi negli anni ’80 all’incirca, lavora intensamente sia
in città, dove realizza insieme ad altri maestri l’imponente
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decorazione del soffitto della chiesa di San Gregorio Armeno, sia in provincia: una delle scene del soffitto, la Decollazione del Battista, viene replicata dal pittore per la chiesa
dell’Annunziata di Marcianise (Caserta), probabilmente nel
1583, quando lo stesso soffitto napoletano era ancora in lavorazione. In egual modo, diventa un modello continuamente richiesto quello della Madonna del Rosario con i Misteri intorno e la Predica di san Domenico nella predella: modello di cui i documenti indicano una precoce presenza a Napoli, ma che ha un tale riscontro in provincia da essere tuttora rintracciabile materialmente piú fuori Napoli che in
città. Tra gli esemplari piú significativi rientra quello che il
D’Errico realizzò nel 1585 nella chiesa dell’Assunta di Santa Maria a Vico (Caserta), autentica macchina d’altare che
arreda con la sua fastosa carpenteria l’intera parete di fondo della cappella in cui si trova, inscenando un’iconografia
affollata di personaggi sacri e di particolari esornativi, in una
formula religiosa che, proprio perché semplifica ed umanizza le tematiche controriformistiche, non dovette restare
estranea alle ragioni di una cosí singolare fortuna territoriale. Replicata fino ad Itri, in territorio laziale, la Madonna del
Rosario ritorna nel 1586 a Saviano (Nola), nella chiesa di
Santa Maria della Libera, senza che le modifiche ogni volta
da Teodoro d’Errico apportate alterino il modello di base.
D’altra parte, una storia molto simile si produce nel caso di
un secondo importante fiammingo meridionalizzato, Cornelis Smet, dalla cui mano e dalla cui bottega derivano numerose Adorazioni dei pastori variamente disseminate ad
Aversa (Caserta), a Torella dei Lombardi (Avellino) e con
risonanze perfino in Sicilia (il fiammingo Ettore Cruzer
nell’Adorazione di Chiusa Sclafani). Altri fiamminghi, di cui
i documenti restituiscono i nomi, conducono alla provincia
salernitana (un Guglielmo Pronoste risulta attivo a Lancusi, presso Fisciano; lo stesso Smet avrebbe lavorato a Mercato San Severino; nel duomo di Scala Pietro Todos esegue
nel 1591 un’Assunzione tuttora in loco) e altresí alla zona irpinate, dove nella chiesa di San Francesco di Ariano è Wenzel Cobergher che firma un’importante Annunciazione. Persino a Castrovetere in Valfortore, nella C nord orientale, la
Capitanata storica (oggi Beneventano), si spinse la fiorente
bottega di Smet. La diramazione fiamminga, inoltre, non è
disgiunta da altre componenti culturali, con cui interagisce
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sia in città che nella regione: nella chiesa di Santa Maria delle Grazie di Massalubrense (Napoli), ad esempio, è possibile constatare la presenza documentaria di Teodoro d’Errico
accanto a quella, tuttora rappresentata da un Battesimo di
Cristo (1590 ca.), di Girolamo Imparato, collaboratore del
fiammingo a Napoli e, soprattutto, protagonista di un linguaggio che include sollecitazioni baroccesche di genesi romana e senese. Sarà proprio il baroccismo, peraltro, ben diffuso a Napoli tra Cinque e Seicento grazie alle incisioni e
agli artisti operosi nella Certosa di san Martino, a trovare in
Belisario Corenzio uno dei più prolifici divulgatori nella regione, dalla chiesa di Santa Maria a Parete di Liveri (Nola),
a quella dell’Annunziata di Nola, fino a Salerno, Arienzo
(Caserta), Sorrento e indirettamente Amalfi, dove il pittore locale Vincenzo de Pino esegue gli affreschi con Storie della vita di sant’Andrea in duomo, in modi corenziani. Una diffusione stilistica che resisterà anche all’urto caravaggesco
configurandosi, allora, come un’esplicita predilezione provinciale. Ne è prova l’esperienza di Giovan Vincenzo Forlí,
molisano attivo a Roccarainola (zona del Nolano) nel 1597,
nella chiesa di San Mauro di Casoria (Napoli) nel 1600 e,
tra l’altro, in grandi cantieri provinciali, come il soffitto
dell’Annunziata di Capua nel 1617 o quello dell’Annunziata di Giugliano, tra il 1620 e il 1622. Un pittore nella cui
cultura compaiono, oltre al richiamo baroccesco, altre componenti attive a Napoli e nel Meridione in quegli anni; tra
l’altro, un certo contatto con Francesco Curia, tra i maggiori
protagonisti della scena artistica napoletana dagli anni ’80
al primo decennio del Seicento, ma la cui estrosità neoparmense e correggesca, maturata a contatto con gli aspetti piú
vivaci della cultura di Teodoro d’Errico (quelli documentati in provincia in misura inferiore che non i suoi tratti devozionali) aveva poi avuto un seguito territoriale ristretto,
anche perché egli stesso, specialmente dai primi del Seicento, realizzò per chiese fuori Napoli opere più convenzionali di quelle destinate alla città: è il caso della Madonna con i
santi Giovanni Battista ed Evangelista nella parrocchiale di
Sant’Antimo (Napoli) o dell’Assunzione della Vergine
nell’Annunziata di Airola (Avellino), del 1602. È a questi
dipinti che sembra risultasse maggiormente sensibile il Forlí
che, d’altra parte, anche quando si troverà a diretto contatto con la pittura del Caravaggio (lavorando al Pio Monte del-
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la Misericordia di Napoli proprio nel 1607-1608, quando il
Caravaggio vi aveva appena lasciato le Sette opere di misericordia), avrà cura di amalgamare le citazioni caravaggesche
ai modi del Corenzio, del tardo Imparato e di Fabrizio Santafede, come nel caso della Natività e dell’Assunzione del
duomo di Castellammare di Stabia (Napoli). Quanto al Santafede, egli è tra i campioni, con Giovan Bernardo Azzolino, di un ulteriore discorso napoletano destinato ad un ampio respiro territoriale: quello noto come «riforma naturalistica veneto-fiorentina», per le componenti di moderato verismo e di accoglimento dei modi fiorentini venezianeggianti
di pittori come il Boscoli, il Macchietti, il Ciampelli, attivi
nei dintorni napoletani e nel Beneventano, come anche dei
Bassano, presenti a Montecassino, a Piano di Sorrento e ancora nella zona di Benevento. In simile congiuntura va vista
l’opera di Giovanni Balducci, fiorentino che giunge a Napoli nel 1596 e che, dopo l’Annunciazione dell’Annunziata
di Piedimonte Matese (Caserta), del 1599, realizza l’imponente decorazione lignea e dipinta del soffitto dell’Annunziata di Maddaloni (Caserta, 1604), con iconografie mariane di gusto controriformistico.
Il Seicento Una svolta nella cultura tardo-manieristica è segnata dalle venute a Napoli di Michelangelo da Caravaggio,
prima nel 16o6-1607, poi nel 1609-10; è intorno alla sua pittura che si sviluppa un seguito precoce, al cui interno le stesse sopravvivenze manieriste assumono un diverso significato e si fondono a esperienze varie, provenienti anche da campi opposti a quello naturalistico. Ha pertanto un carattere
tardo-manierista e arcaizzante il Sant’Antonio da Padova
dell’Annunziata di Arienzo (Caserta), documentato al 160911, di Carlo Sellitto che viene comunque riconosciuto tra i
primi caravaggeschi napoletani. Allo stesso modo non sembra casuale che un primo, piú organico riscontro provinciale delle novità cittadine si possa trovare nel soffitto dell’Annunziata di Capua, già citato come contesto essenzialmente
manierista, al cui interno, entro il 1617, lavora il caravaggesco Filippo Vitale, a ben otto tele di cui quelle che oggi
sopravvivono mostrano una ricerca luministica non estranea
ai modi battistelliani, ma uniti ad un gusto disegnativo neocinquecentesco. Lo stesso Battistello, peraltro, pur tra i migliori seguaci del Caravaggio, non è esente da ricordi manieristi, oltre che da aperture in direzione classicista, come
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si vede nella maestosa Madonna con Bambino e santi Francesco e Chiara con un’anima del Purgatorio nella chiesa di Santa Chiara di Nola, datata al 1624-25. Cosí, nel caso di Paolo Finoglia, la formazione tardo-manierista tra Borghese e
Corenzio si unisce a una forte vena naturalistica, che include persino accenti popolareschi, in uno dei maggiori cicli pittorici del primo Seicento, il soffitto della chiesa dell’Annunziata di Airola con Storie della Vergine. Una serie di tre
tele i cui tratti di ricercatezza iconografica e di raffinatezza
culturale convivono con una decorazione lignea di gusto innegabilmente popolare, profusa di dorature che riprendono
stilemi tardo cinquecenteschi, ma con un effetto complessivo già prebarocco. Tuttavia, una delle piú complesse emergenze territoriali della prima metà del secolo, da cui è possibile misurare il netto scarto rispetto al passato, è il ciclo di
tele della navata e del transetto della collegiata di San Michele Arcangelo a Solofra (Avellino), rispettivamente eseguite da Giovan Tommaso Guarino con Storie di angeli tratte dal Vecchio Testamento e dal figlio Francesco con le Storie del Nuovo Testamento. Se le prime, le venti tele di Giovan Tommaso, sono paragonabili culturalmente al nesso ancora tardo-cinquecentesco del soffitto di Capua, le ben ventuno tele di Francesco Guarino (solo poche registrano interventi di bottega) esprimono una cosí articolata e fitta serie di scelte artistiche da riverberare molte delle piú qualificanti componenti culturali cittadine. D’altra parte va subito ricordato che, diversamente dal depresso e spopolato Cilento, Solofra godeva fin dalla seconda metà del Cinquecento di una notevole prosperità economica garantita dalle
numerose concerie di pelli, dalle altrettanto numerose officine di «battiloro» e da una favorevole posizione geografica, che la rendeva non lontana da Avellino, da Salerno e dalla stessa Napoli, grazie alle tante strade cosiddette «vicinali», percorsi attualmente irricostruibili perché spezzati dalle arterie carreggiabili e dalla rete ferroviaria. A Solofra,
dunque, Francesco Guarino, in un arco di tempo che le date su due tele indicano dal 1637 al 1642, passa da una fase
intensamente caravaggesca e battistelliana (Cristo nell’orto,
Liberazione di san Pietro dal carcere, Sogno di Giuseppe) a una
evidente attenzione al Ribera, al Maestro dell’Annuncio ai
pastori e al Velázquez (Gesú tra i dottori, Annuncio ai pastori); si apre quindi alle innovazioni introdotte da Massimo
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Stanzione (Presentazione della Vergine al tempio, Annuncio a
Zaccaria del 1637), per accostarsi infine al classicismo di Domenichino, Mellin, Poussin (Annunciazione del 1642, Cristo
confortato dagli angeli). Una serie di esperienze che, tra altre
ancora, trova compiutezza all’interno della capitale, dove il
colto collezionismo del mercante fiammingo Jan Vandeneynden aveva fatto confluire opere di Guercino, dei Carracci, di Albani e Poussin, e dove dal 1641 era vescovo il
cardinale Ascanio Filomarino, anche’egli collezionista; esperienze a cui la provincia stessa non resta estranea, se si considerano i riflessi poussiniani nelle Storie di Mosè di Aniello
Falcone in villa Bisignano a Barra (Napoli) che, peraltro, era
in origine la dimora dell’eccellente collezionista Gaspare
Roomer. E ancor piú se si guarda al complesso decorativo,
purtroppo in parte devastato dall’incendio del maggio 1964,
del duomo di Pozzuoli (Napoli). In esso il vescovo Martino
de León y Cardenas fece realizzare un’importante serie di
quadri da quasi tutti i maggiori pittori napoletani: ad Artemisia Gentileschi spettano il San Procolo e la madre santa Nicea e l’Adorazione dei Magi, databili al 1636; essi riflettono
gli orientamenti degli anni ’30 verso il classicismo di Stanzione, alimentato dell’apporto di Vouet (che a Napoli aveva spedito due sue opere), del Reni e dei caravaggeschi francesi romani. Non è un caso che lo stesso Stanzione condivida con Artemisia i lavori di Pozzuoli, fra il 1635 e il 1637
(Predica di san Patroba), e che sempre a Pozzuoli, quasi a testimoniare il contemporaneo alternarsi dei linguaggi artistici, sia anche il Finoglia che indugia su una fede battistelliana nel Battesimo di san Celso del 1635, mentre un’intonazione tra Aniello Falcone e il Grechetto ha il Martirio dei SS.
Gennaro e Procolo di Agostino Beltrano. E infine, accanto
a questi pittori, e ad altri ancora, era presente nel duomo puteolano Giovanni Lanfranco, con cui si apriva per l’ambiente
napoletano e campano il discorso barocco e del quale anche
le testimonianze lasciate fuori Napoli – oltre alle opere di
Pozzuoli va ricordata la Madonna con Bambino e santi della
chiesa del Rosario ad Afragola – contribuirono a creare un
riferimento esemplare per la pittura successiva.
Dal barocco alla fine del Settecento L’affermarsi a Napoli,
dopo la peste del 1656, delle personalità di Luca Giordano,
Mattia Preti, Francesco Solimena; l’ubicazione non esclusivamente cittadina delle loro opere; l’elevato numero di al-
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lievi, diretti e non, concorrono a spiegare il monopolio territoriale che giordanismo e solimenismo esercitarono per l’intero periodo. Lungo un asse che va dagli immediati dintorni di Napoli alla provincia di Caserta e a Gaeta, l’opera del
Giordano diffonde nella regione prima modi venetizzanti
(cattedrale di Sessa Aurunca, Caserta), poi cortoneschi (parrocchiale di Crispano, Napoli, 1672), maratteschi (Santa Caterina d’Alessandria, Gaeta), fino all’espressione quasi impressionistica della maturità (Castellammare di Stabia,
1704). Allo stesso modo, nella zona serinese-solofrana (Avellino), roccaforte di un perdurante naturalismo generato
dall’impatto locale dell’opera di Francesco Guarino sia nella collegiata che in altre chiese del circondario (a Canale di
Serino, a San Sossio e fino a Campobasso), cominciava la
collaborazione tra Angelo Solimena, che del Guarino era allievo, e suo figlio Francesco. La cattedrale di San Prisco a
Nocera Inferiore (Salerno) conserva, nella cupola del Cappellone del Rosario, l’affresco con il Paradiso, 1674-77, dove l’arcaico naturalismo di Angelo si unisce all’impostazione già barocca di Francesco. In San Prisco, alle spalle dell’altare, una tela con San Marco è un esempio di solimenismo
ormai inoltrato nel Settecento, rapportabile a Jacopo Cestaro, di Bagnoli Irpino (Avellino); lo stesso che nella parrocchiale di quel luogo aveva affrescato la volta del coro, lavorando a contatto con Andrea d’Aste, altro solimeniano
anch’egli bagnolese. Di quest’ultimo, un intero ciclo pittorico raffigurante le Storie di sant’Andrea si trova nella cattedrale di Amalfi (Salerno), ed essendo posteriore al 1708 include l’esperienza dell’accademismo del Solimena, cioè di
quel suo decisivo passaggio, dopo il 1691, dalle componenti lanfranchiane, giordanesche e cortoniane, che ancora caratterizzano gli affreschi della cappella di Santa Tecla in San
Giorgio a Salerno (1680), ai prelievi luministici dal Preti,
dalla pittura classicista francese e dal Maratta. Un discorso
che proprio un’opera «provinciale» come la grande tela del
1710 per la chiesa di Santa Maria degli Angeli di Aversa doveva documentare con grande autorità, se le repliche di bottega che ne furono fatte giungono fino a Palermo. Ma nello
stesso tempo non mancarono articolazioni nuove: il quadraturismo, anticipo della piena stagione settecentesca, che Andrea d’Aste mette in opera ad Amalfi e che spicca al confronto delle soluzioni tanto piú scolastiche di altri solime-
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niani, come Giuseppe Castellano, anch’egli nel duomo di
Amalfi, Matteo Chiariello nel San Matteo di Salerno e, nella provincia casertana, il gruppo di Giovan Battista Natali,
Crescenzo la Gamga, Filippo Andreoli (1714), nonché il piú
importante Filippo Tomajoli (1742), che decorano l’Annunziata di Arienzo. Il Tomajoli si era formato con Giacomo Del Po, la cui figura conduce, con quelle di Domenico
Antonio Vaccaro e Francesco Peresi, alla stagione della cosiddetta «fronda solimeniana», antiaccademica e rococò; nel
soffitto della collegiata di Santa Maria delle Grazie a Marigliano (Napoli), infatti, i quattro interventi di D. A. Vaccaro (1730) traducono le strutture solimeniane in liberi vortici aerei; Michele Ricciardi, decoratore di numerosi complessi
nel Salernitano e nel Serinese tra il 1709 e il 1716 (Salerno,
Baronissi, Santa Lucia di Serino), perviene ad esiti quasi affini a quelli del Del Po e recupera ascendenze giordanesche.
Sulla linea del giordanismo si orientano, tra i molti, Giuseppe Simonelli, attivo ad Aversa, nella cappella del Manicomio Giudiziale, Filippo Ceppaluni nella chiesa di San
Francesco a Forio d’Ischia, Giovanni de Simone che esegue
nel 1747 le Storie della vita di san Lorenzo nella cattedrale di
Scala e, piú importante degli altri, Paolo de Matteis. Egli riceve commissioni in tutta la C e a Guardia Sanframondi (Benevento), nel 1706-1707, affresca la volta della navata e il
presbiterio con fluidità non disgiunta da intenti classicizzanti. La presenza, nell’iconografia del complesso, di una
Vergine che intercede presso la Trinità per la protezione di Guardia Sanframondi esprime uno spiccato senso della municipalità rivendicato dalle scelte della committenza locale e restituisce un secondo esempio, con quello di Solofra, dell’esigenza di autonomia cui aspiravano certe comunità campane,
che affidavano anche alla decorazione artistica la loro ambizione di riconoscimento sociale (Guardia, Solofra, Maddaloni, Marcianise, Massa Lubrense e altre). Anche i contenuti religiosi erano di norma consegnati alla divulgazione
pittorica, come mostra la vasta opera decorativa di Paolo De
Maio, che si sviluppa sull’intero territorio regionale, dalla
provincia di Caserta (Marcianise, Capua, Casapulla) a quella napoletana (Barra, Caivano, Crispano, Visciano), salernitana (Pagani, Sarno), beneventana (Sant’Agata dei Goti) e
avellinese (Solofra). Essa diffonde, negli anni ’30-’60, un’intenzionale ripresa dei culti mariani, espressa nei modi del
Storia dell’arte Einaudi
piú puro accademismo solimeniano-demuriano e protetta
dalle autorità ecclesiastiche, in chiara funzione neo-controriformistica ed anti-illuministica. Tra i cicli pittorici piú
avanzati del secolo meritano un accenno quelli della Reggia
di Caserta (Bonito, Mondo, Fischetti, Starace, De Dominici, Costanzo Angelini), del Palazzo Reale di Portici (la Gamba, Bonito, Vincenzo Re) e, in opposizione programmatica
al rococò in nome dei convincimenti neoclassici, le tele con
le Stagioni di Philip Hackert del Padiglione borbonico del lago Fusaro (Napoli), oggi note soltanto attraverso una serie
di bozzetti.
Ottocento e Novecento La restaurazione borbonica dal
1799 al 1806, il decennio di dominazione francese, il secondo ritorno dei Borboni dal 1815 fino all’unità d’Italia e
tutti i problemi dell’intero Meridione postunitario determinarono un regresso della vita intellettuale napoletana che, al
di là dei casi di singoli artisti, spesso di grande valore, uscí
sostanzialmente dal dialogo paritetico con altre capitali europee. Ciò comportò un vistoso approfondimento della discriminazione tra città e provincia e l’ingresso di quest’ultima in una storia di silenzio culturale da cui tuttora fatica ad
uscire. Tra Ottocento e Novecento la produzione pittorica
ebbe una connotazione spiccatamente urbana, al punto che
qui converrà solo indicare alcuni atteggiamenti e scelte che
dalla capitale si rifletterono sul territorio circostante. I paesaggisti «di Posillipo», ad esempio, che dal 1815 al ’40 tentano un primo rinnovamento della tradizione accademica e
del vedutismo di tipo neoclassico, attingono dalla geografia
campana un vasto repertorio di immagini. Rappresentano il
Matese, Sant’Angelo dei Lombardi, Capri, Ravello, Castellammare di Stabia, la tradizionale «caccia ai colombi selvatici» di Cava dei Tirreni, ma la mancanza di attenzione
all’identità storica di quei luoghi, la selezione iconografica
che privilegia il paesaggio turistico concorrono a ratificare
sul piano della rappresentazione tutte le dicotomie e gli squilibri maturati tra città e provincia, nonché tra zona costiera ed entroterra. Non diversamente accade per la linea naturalistica dei Palizzi negli anni ’40, che, pur soffermandosi su luoghi di lavoro e di campagna, esclude esiti denunciatari e immobilizza le situazioni descritte. Della componente romantica e letteraria rappresentata a Napoli dal Morelli, e dell’accademizzazione sua propria, si trova presenza nel
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sipario del Teatro Verdi di Salerno con l’Ingresso dei Normanni a Salerno, e nei cartoni che il Morelli forní per il rifacimento a mosaico della facciata del duomo di Amalfi, tra il
1875 e il 1894, dove il pittore affrescò anche, insieme a Paolo Vetri, un’Assunta, nella lunetta soprastante il portale. Sono poi le tematiche religiose e storiche generate dalle piú
conformistiche propaggini della cultura accademica ad affermarsi nelle decorazioni dei non pochi rifacimenti di chiese e complessi provinciali, nella seconda metà del secolo, pervenendo a risultati da «arte senza tempo» in casi come il
santuario di Pompei, dove operano i vari Loverini, Richter,
Orazi, Palmieri fino al primo trentennio del Novecento. Dimensione accademica, ma di buon livello, hanno gli affreschi che Camillo Guerra esegue nell’area presbiteriale del
duomo di Aversa nel 1857, con Storie di san Paolo; un’opera che ha risonanza immediata nella storiografia coeva, se il
Parente (1857-58) ne dà un’accurata descrizione iconografica, ricca d’interpretazioni simboliche. Analogamente, per
il restauro e la decorazione del duomo di Capua, la Sacra Guida di Gabriele Jannelli del 1858 descrive in dettaglio, con
una lettura iconografica allo stesso tempo erudita e devozionale, i dipinti di Gennaro Maldarelli, Giuseppe Mancinelli, Francesco Oliva, Michele da Napoli, che occupano le
pareti e la volta della navata centrale. Di contro a tutto questo sta il fenomeno di gran lunga piú avanguardistico del periodo, quella «scuola di Resina» che con De Gregorio, Rossano, De Nittis, e il fiorentino Cecioni, imposta dal 1865 al
’75 una ricerca nuovamente fondata sul rapporto con la natura, sulla resa analitica delle emozioni visive, su posizioni
poetiche prima mazziniane, poi paleosocialiste e perfino su
un’organizzazione interna che rende meno soffocanti i vincoli della committenza privata tradizionalista. Sono pittori
al corrente sia dei macchiaioli che delle tecniche fotografiche, affiancati da una letteratura critica avanzata che ne teorizza e difende le posizioni (Vittorio Imbriani e Saro Cucinotta sulla rivista «L’Arte moderna» del 1865). Tuttavia,
anche se dislocati a Portici, questi stessi pittori non possono non considerarsi napoletani per l’effettiva gravitazione
storica della loro opera, non certo espressasi in provincia.
Successivamente, tutti i tentativi di aggiornamento che si
susseguono dall’anteguerra (Circumvisionismo, uda) ai vari
Gruppo Sud, Gruppo 58, Operativo Sud e altri «non sono
Storia dell’arte Einaudi
riusciti a creare una vita culturale realmente decentrata, incorrendo spesso nel doppio pericolo di fare un’azione volontaristica o di essere i tramiti di una colonizzazione» (M.
Picone). (cva).
Campendonk, Heinrich
(Krefeld 1889 - Amsterdam 1957). Dal 1905 al 1909 è allievo della scuola di belle arti di Krefeld, ove ha come insegnante Thorn-Prikker. Si lega a Helmuth Macke, che gli fa
conoscere il cugino, August Macke. C entra nell’ambiente
di Der Blaue Reiter e raggiunge a Sindelsdorf (1911) Kandinsky e Marc. Rimane, all’inizio, nella scia di quest’ultimo
(Cavallo balzante, 1911: Saarbrücken, Gall. moderna); poi,
nel 1912, adotta un impianto cubista (Natura morta con contrabbasso: Münster, Museo). A tali influssi si mescolano quello delle pitture popolari su vetro bavaresi, di cui egli ama i
colori vivi e la rappresentazione naïve, di Chagall, cui lo avvicina una certa fantasia poetica, e talvolta di Kandinsky,
da cui prende motivi compositivi astratti (il Sesto Giorno,
1914: Duisburg, Museo). Il suo stile è cosí stabilito per molti anni. Dal 1920 al 1922 viaggia molto, soprattutto in Italia. Docente alla scuola di belle arti di Krefeld nel 1922,
quattro anni dopo sostituisce Thorn-Prikker all’accademia
di Düsseldorf. Destituito dai nazisti, emigra ad Amsterdam
(1937), ove termina la sua carriera. La sua evoluzione si era
volta negli ultimi anni verso un’arte sempre piú decorativa
e un grafismo piuttosto secco. Gli si debbono anche vetrate (in museo a Krefeld). È rappresentato particolarmente ad
Amsterdam (sm), Basilea, Eindhoven (Van Abbe Museum),
Colonia (wrm), New York (moma e Guggenheim Museum)
e Strasburgo. (mas).
Camphuysen, Govert Dircksz
(Gorinchem 1623-24 - Amsterdam 1672). Fu probabilmente allievo del fratello Rafael Dircksz. Lavorò ad Amsterdam
dal 1646 al 1651, poi soggiornò a Stoccolma dal 1652 al
1663, divenendo nel 1655 pittore di corte; infine tornò ad
Amsterdam, dove morí. Ritrattista, paesaggista, pittore di
animali e d’interni contadini (esempi a Copenhagen, smfk,
e a Bruxelles, mrba, datato 1650), ha lasciato pure alcune
incisioni. Si rivela assai vicino a Potter, particolarmente nei
paesaggi pastorali, e realizza un autentico capolavoro nella
Storia dell’arte Einaudi
Fattoria al tramonto (Londra, Wallace Coll.) nella quale l’effetto della luce crepuscolare raggiunge una sicurezza e una
poesia sconosciute a Potter. È pure rappresentato all’Ermitage di Leningrado: Paesaggio boschivo; a Rotterdam (bvb):
la Sosta; a Kassel: Bestiame in un paesaggio; a Lilla: Guglielmo II a caccia.
Rafael Dircksz (Gorinchem 1598 - Amsterdam 1657), pittore di scene notturne, operò secondo il gusto di Van der
Neer: Chiaro di luna (Dresda, gg), Paesaggio sul fiume (Brunswick, Herzog-Anton-Urlich-Museum). (jf).
Campi
Famiglia lombarda di pittori (Cremona, sec. xvi), il cui capostipite Galeazzo (1470 ca. - 1536) rimane fino alla fine legato alla tradizione tardo quattrocentesca cremonese, influenzata da Perugino e Costa, e risente fortemente dell’arte di Boccaccio Boccaccino.
Il piú anziano dei suoi tre figli, Giulio (1500 ca.-1573), esempla con un massimo di eclettismo i successivi influssi manieristici sulla scuola cremonese, risentendo inizialmente del
Pordenone (Madonna e Santi, 1527: Cremona, Sant’Abbondio), riprendendo poi la maniera piú clamorosa e aulica di
Giulio Romano negli affreschi di Sant’Agata a Cremona
(1537) e infine affinandosi in senso parmigianinesco, per influsso di Camillo Boccaccino, negli affreschi in Santa Margherita (1547) e in San Sigismondo (1557).
Antonio (1523-87) muove inizialmente dal gusto romanista
del fratello, accentuandolo con un brutale verismo, ma, a
partire dalla Pietà del Duomo di Cremona (1566), ricerca effetti di drammatico luminismo dedotti dalla scuola bresciana e dal tardo Tiziano, vieppiú accentuati nei grandi teloni
milanesi (Storie di Maria in San Marco, 1577; Martirio di san
Lorenzo e Decollazione del Battista in San Paolo, 1579-81;
Storie di santa Caterina in Sant’Angelo, 1583), in cui il Longhi ha sottolineato brani di «verità» precaravaggesca, sempre irrigiditi però da un illusionismo di chiara ascendenza
manieristica nordica.
Meno clamorosa, ma piú intima ed efficace, appare l’adesione al gusto bresciano, e particolarmente savoldesco, del
terzo fratello, Vincenzo (1525-30 ca. - 1591), specie nel San
Matteo e angelo di San Francesco a Pavia; anch’egli non è immune dal tipico eclettismo della famiglia, come dimostrano
Storia dell’arte Einaudi
l’impianto romanistico della decorazione a fresco di San Paolo a Milano (1588) e ancor piú i bodegones (Kirckheim in Baviera; Milano, Brera), nettamente derivati da Aertsen e
Beuckelaer.
Non parente, ma allievo di Giulio, è Bernardino (1522-91),
che rappresenta, con coerenza non priva di monotonia, il
filone piú prettamente emiliano-parmense, non senza legami con il manierismo fiammingo di Anversa e Utrecht (Floris). (mr).
Campidoglio, Michelangelo da
(Michele Pace, detto) (Roma? 1610 - ? 1670). Tra le numerosissime nature morte di frutta rese note col nome di questo pittore, attivo a Roma verso la metà del xvii sec., ben
poche possono essergli attribuite con assoluta certezza. Quella dell’Ermitage di Leningrado, incisa col suo nome sin dal
1776, quando si trovava in una collezione inglese, può servire di base per ricostruire una personalità artistica caratterizzata da composizioni cariche e sontuose, ove frutti stillanti succo coprono l’intera superficie della tela. Fu attivo
per i Pamphili e per i Chigi; tra le opere oggi a lui assegnate, con qualche verosimiglianza, si possono citare le nature
morte conservate ad Ajaccio, a New York (mma), a Venezia
(Ca’d’Oro). (pr).
Campigli, Massimo
(Firenze 1885 - Saint-Tropez 1971). Autodidatta come formazione, nel 1909 si trasferí a Milano dove conobbe Boccioni e Carrà e partecipò al movimento futurista collaborando alla rivista «Lacerba». Dopo la parentesi della prima
guerra mondiale si stabilí a Parigi (1919), inviato del «Corriere della Sera». La sua pittura si riallaccia al movimento
Novecento attraverso il recupero di culture figurative primitive e la ricerca di un plasticismo stilizzato e possente, mediati anche dalla poetica purista parigina dell’Esprit Nouveau e dalle posizioni, a Roma, di Valori Plastici. A partire
dal 1928, C sviluppò tali ricerche creando un’iconografia che
restò pressoché invariata successivamente, derivata – in seguito ad appassionate visite al Louvre – dalla ritrattistica
egizio-ellenistica, dalle Korai greche e dall’arte etrusca conosciuta al museo di Villa Giulia in Roma nel 1928. Trasformando il modello illustre, attraverso una graduale sem-
Storia dell’arte Einaudi
plificazione formale, in motivo ludico e ironico, le sue figure femminili (danzatrici, giocatrici di diabolo) divengono una
cifra personale e stereotipata, ricreando un mondo arcaico
e favoloso con ricercata ingenuità, valendosi di mezzi espressivi propri alle pitture primitive: la frontalità, la ripetizione
dell’immagine, l’uso di una pittura che ha la chiarezza calcinosa del frammento d’affresco. Le opere piú recenti nascono da una formulazione ritmica piú scopertamente decorativa: le figure, pausate e ripetute su uno spazio a due dimensioni, suggeriscono un particolare di una vasta decorazione murale. Dopo il primo soggiorno a Parigi (1919-39),
dove ebbe modo di accorgersi dell’arte di Seurat, nonché di
Léger e di Picasso e del manifesto Après le cubisme di Ozenfant e Jeanneret, C lavorò quasi esclusivamente in Francia;
ma nel 1923 espose nella romana Gall. Bragaglia, e nel 1926
si legò con De Chirico, De Pisis, Paresce, Savinio, Severini
e Tozzi nel gruppo dei Sette italiani di Parigi. Espose alla
prima e alla seconda mostra del Novecento italiano (1926 e
1929) a Milano, dove nel 1931 tenne la sua prima personale italiana (Gall. del Milione). A partire dal 1928 partecipò
regolarmente alla Biennale di Venezia e alle piú importanti
manifestazioni internazionali. A Parigi nel 1929 aveva allestito un’importante personale alla Gall. Jeanne-Bucher, recensita, tra gli altri, da Waldemar George.
Vaste retrospettive della sua opera sono state recentemente
organizzate al Palazzo reale di Milano (1967) e al Palazzo
dei Diamanti di Ferrara (1979). Le sue opere si trovano nei
piú importanti musei d’arte moderna (Roma, Milano, Parigi, Zurigo, Mosca, Stoccolma, Amsterdam). Eseguí numerosi affreschi e decorazioni: alla Triennale di Milano (1933)
con Sironi, Funi, De Chirico; all’università di Padova (1940,
nell’atrio del Liviano); al Palazzo della Società delle Nazioni a Ginevra (1937: I costruttori); al Palazzo di Giustizia di
Milano (1938: Non uccidere). (lm+sr).
Campin, Robert
(Valenciennes 1378 o 1379 - Tournai 1444). Citato a Tournai a partire dal 1406, ebbe ruolo essenziale nella vita della
città. Come pittore svolse intensa attività, eseguendo lavori vari, dall’affresco ai cartoni per arazzi, oltre a numerosissimi incarichi minori. Nella sua bottega vennero a formarsi
numerosi apprendisti, in testa ai quali vanno citati Jacques
Storia dell’arte Einaudi
Daret e Rogier van der Weyden. Come uomo politico, C
partecipò assai attivamente alla gestione municipale nel periodo 1423-28, durante il quale il governo del comune era
assicurato essenzialmente dalle ghilde degli artigiani; ma nel
1428 incorse in una condanna, che gli vietò di aspirare a
qualsiasi incarico pubblico, per aver rifiutato di testimoniare contro un borghese accusato di intenti sediziosi. Qualche
anno dopo la dissolutezza della sua vita privata gli valse una
seconda condanna, condonata in seguito all’intervento della duchessa di Hainaut. Nessun’opera sua ha potuto venir
confermata con sufficiente certezza da dati d’archivio. La
sua identificazione col Maestro di Flémalle suscitò una disputa appassionata, che superò i limiti della storia dell’arte,
contrapponendo Valloni e Fiamminghi. Tale identificazione appare peraltro ormai, se non acquisita, quanto meno assai verosimile. (ach).
campitura
Risultato dei «campire», ossia del dipingere il fondo di un
quadro con un colore sostanzialmente uniforme; ma su tale
fondo – o «campo» – le figure dipinte risultano poi rilevate
e poste in particolare evidenza perché «campite» o «campeggiate»; già Cennino Cennini (nel Libro dell’arte, fine sec.
xiv) parla di «colori da campeggiare il vestire, digradanti,
piú chiaro l’uno che l’altro», cioè di colori che fanno risaltare le vesti delle figure dal fondo. Giorgio Vasari (Le Vite,
1568) sembra invece dare all’operazione del «campire» il significato dello stendere un colore di base, affidando l’effetto del rilievo ad altri colori: «La predella a grottesche piccole... le quali son campite prima di rosso e nero mescolato
insieme, e sopra rilevato di vari colori». Giovan Pietro Bellori (nel Libro dell’arte, 1672), a proposito di Carlo Maratta, parla di «putti che campeggiano in campo chiaro turchino». Di particolare importanza, perché testimonianza
dell’uso presso gli artisti nel sec. xvii, è quanto scrive Filippo Baldinucci nel suo Vocabolario (1681) alla voce «Campo»: «È parte di giudizioso artefice il campire con tal colore, che aiuti a rilevare assai la sua pittura». Mentre dunque
in «campitura» sembra prevalente il senso della stesura di
un colore di fondo, con «campire» e «campeggiare» si vuole invece per lo piú porre in evidenza il fenomeno del rilevare delle figure dal fondo opportunamente «campito», o
Storia dell’arte Einaudi
anche in rapporto a un particolare trattamento pittorico delle stesse. (mp).
campo
In un dipinto è lo spazio nel quale sono distribuite le figure; spesso è sinonimo di «fondo» o «sfondo». Per Giorgio
Vasari (Le Vite, 1568) la stessa pittura è «un piano coperto
di campi di colore, in superficie o di tavola o di muro o di
tela, intorno a’ lineamenti». Di particolare importanza per
l’intuizione dei valori squisitamente relativi del colore l’attenzione portata ai «campi» da Leonardo da Vinci, quale risulta in particolare dalla seguente osservazione nel Trattato
della pittura: «Delle cose d’egual chiarezza, quella si dimostrerà di minor chiarezza, la quale sarà veduta in campo di
maggior bianchezza; e quella parrà piú bianca, che campeggerà in spazio piú oscuro; e l’incarnata parrà pallida in campo rosso, e la pallida parrà rosseggiante essendo veduta in
campo giallo». Di ordine piú pratico la definizione data da
Filippo Baldinucci nel suo Vocabolario (1681): «Dicesi da’
Pittori quello spazio, che circoscrive tutte l’estremità della
cosa dipinta». L’uso della voce nel senso indicato è ampiamente testimoniato nella letteratura artistica tra i secc. xv
e xviii. La seguente notazione di Giovan Pietro Bellori (Le
Vite, 1672) a proposito di Innocenzo Tacconi conferma come il termine sia stato prevalentemente inteso nel senso di
«fondo»: «Nella Chiesa di San Sebastiano fuori la città nella via Appia... colorí a fresco il Crocifisso con la Vergine e
San Giovanni a’ piedi la Croce; ma queste figure si perdono nel campo, e non hanno armonia di colorito».
Il termine ha poi avuto nel sec. xx una notevole circolazione nel settore degli studi e degli interventi critici in rapporto con la psicologia della forma, i problemi della «percezione» e più in genere dell’«educazione alla visione» (R.
Arnheim). (mp).
Camprobin, Pedro de
(Almagro (Mancia) 1605 - Siviglia, dopo il 1674). Si formò
nel gruppo toledano che prolungò l’influsso di El Greco per
qualche anno dopo la morte del maestro. Apprendista di Luis
Tristán nel 1619, si recò poi a Siviglia, dove nel 1630 superò l’esame di pittore; era allora senza dubbio allievo di
Zurbarán. Lo si trova nel 1660 tra i fondatori dell’accade-
Storia dell’arte Einaudi
mia sivigliana di pittura. Viveva ancora nel 1674. Fu assai
stimato come pittore di fiori e nature morte, e le collezioni
dell’aristocrazia madrilena e sivigliana conservarono un certo numero di sue tele, talvolta firmate, rivelate nel 1934 dalla grande triostra Floreros y Bodegones a Madrid. I domenicani di San Pablo gli avevano persino commissionato dodici quadri di fiori per decorare una cappella della loro chiesa. Le sue composizioni, sobrie e simmetriche, rammentano
le nature morte di Zurbarán, che talvolta sono state confuse con esse. Ma le sue pere e le sue uve presentano mezzitoni piú vellutati e linee piú sinuose. C appare uno degli artisti più delicati e sensibili che abbiano operato in questo genere, caro alla Spagna del xvii sec. (pg).
Camuccini, Vincenzo
(Roma 1771 - 1844). Allievo a Roma di Domenico Corvi dal
1787, nel vivo della temperie culturale neoclassica, si esercitò inizialmente in studi sull’antico (dalla Colonna traiana,
dalle statue vaticane), su Raffaello, Michelangelo e Poussin
ma anche – e diversamente da altri artisti contemporanei –
su Pordenone, Caravaggio e Subleyras, come documenta il
ricco fondo di disegni tuttora presso i suoi discendenti (Cantalupo Sabino, coll. Camuccini).
Del 1796 è uno dei suoi primi dipinti, il Paride bambino con
i pastori nella volta della stanza di Paride ed Elena a Villa
Borghese, in sostituzione di un precedente affresco di Gavin Hamilton (cui si deve la decorazione, circa un decennio
prima, di tutto l’ambiente). Lo studio costante e «archeologico» dei costumi greci e romani, della prospettiva e delle
architetture, la lettura dei testi di Plinio e Plutarco (su suggerimento dell’erudito Ennio Quirino Visconti) ne fecero il
principale – e anche il piú originale – rappresentante del neoclassicismo romano. Predilesse, rispetto alle tematiche mitologiche, quelle storiche, anche se non vi raggiunse mai la
tensione morale delle opere di David (con il quale fu tuttavia in rapporti e cui sottopose vari bozzetti delle sue opere).
Strinse amicizia con personaggi quali Bossi, Benvenuti, Sabatelli e – oltre a David – Girodet, Gérard e Gros; fu principe dell’Accademia di San Luca e ispettore delle pitture
pubbliche. Nel 1793, quando C aveva appena ventidue anni, August Hervey, conte di Bristol, gli commissionò due dipinti per il suo palazzo di Ickworth, la Morte di Cesare (1798)
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e la Morte di Virginia (1804); a causa della morte del committente (1803) le due tele furono poi acquistate da G. Murat (Napoli, Capodimonte). La loro lunga e complessa elaborazione, documentata da studi, disegni e cartoni, testimonia anche dell’incessante ricerca dell’artista, che considerò sia i testi proto-neoclassici di Hamilton, Mengs e Corvi, sia la pittura visionaria di Abilgaard e degli artisti nordici presenti a Roma sullo scorcio del secolo: oltre, naturalmente, l’ambiente dei pensionnaires di Villa Medici. Al momento della piú stretta vicinanza con David (presso il quale
soggiornò nel 1810) risalgono la Continenza di Scipione (ubicazione attuale sconosciuta), commissionato nel 1808 dal generale russo Balck, e Cornelia, eseguito nel 1808 per Maria
Luisa di Borbone (oggi Lucca, Palazzo ducale).
Prese parte alla decorazione di palazzo Torlonia a piazza Venezia, ora demolito (Convito degli dèi, 1810-16), e praticò
anche la pittura religiosa (modello per il mosaico dell’Incredulitá di san Tommaso nella basilica di San Pietro, 1805; Presentazione al tempio: Piacenza, San Giovanni, 1803-1806),
rappresentata forse al meglio delle sue capacità dalla Conversione di san Paolo (terminata nel 1835) per la ricostruita
basilica ostiense. Quest’opera in particolare, densa di riferimenti alla pittura seicentesca, suscitò l’opposizione della
fazione purista allora rappresentata da F. Agricola, il quale
ottenne infatti la commissione per un’Assunta già precedentemente assegnata al C. Anche la Deposizione richiesta
nel 1835 per la cattedrale di Terracina fu aspramente criticata dai «puristelli» (come li definiva dispregiativamente
l’anziano e ormai isolato pittore), appoggiati da Overbeck,
tanto che l’opera rimase incompiuta ed è ora presso gli eredi del C a Cantalupo Sabino. Tra i suoi numerosi ritratti si
ricordano quelli di Pio VII (1815: Vienna, km), del Card. Benedetto Naro Patrizi (Roma, Gall. Spada) e di Lucia Migliaccio (1819: Napoli, Museo Duca di Martina). (sr).
Canada
xvii e xviii secolo Sin dagl’inizi della Nuova Francia, nel
corso della prima metà del xvii sec., a Québec si pratica l’arte del ritratto, il cui uso si generalizza poco dopo il trattato
di Parigi. L’illustrano due artisti professionisti, nativi del C
ma di formazione europea. Il primo è François Baillairgé,
che esprime un realismo contadino e una sincerità ingenua
Storia dell’arte Einaudi
di cui si hanno pochi esempi in Europa. Il secondo è François
Beaucourt, meglio confrontabile con i pittori francesi del
Settecento: la sua opera ricorda per certi rispetti La Tour,
Chardin e Fragonard. Sono pure ritrattisti Louis Dulongpré, William Berczy e Jean-Baptiste Roy-Audy.
xix secolo Questa forte tradizione prosegue durante il xix
sec., con Antoine Plamondon e il suo allievo Théophile Hamel, che ne rappresentano, nel basso C, l’età d’oro; mentre
George Theodore Berthon a Toronto e William Sawyer a
Kingston illustrano tale genere nel C inglese. Presso i canadesi francesi è in auge il ritratto, presso quelli inglesi il paesaggio; fa eccezione Joseph Legaré. Thomas Davies, George Heriot e James Pattison Cockburn, formatisi nella scuola militare inglese di Woolwick, durante il loro soggiorno in
C inaugurano la pittura di paesaggio. Cornelius Krieghoff
adatta alle esigenze della sua clientela lo stile dei maestri minori olandesi. Il suo contemporaneo Paul Kane, di piú franco romanticismo, s’interessa della vita degli Indiani delle
pianure dell’Ovest. Frederick Verner prosegue con modi
propri l’opera di Kane. Lucius O’Brien s’interessa della luce, come i pittori americani G. C. Bingham e J. F. Kensett.
Napoléon Bourassa, allievo di T. Hamel, porta dall’Italia e
dalla Francia qualche influsso nazareno. Alla fine dell’Ottocento e fino all’inizio del secondo quarto del nostro secolo la pittura canadese è fortemente influenzata dall’Europa,
benché serbi una certa parentela con la scuola statunitense.
Molti artisti cercano la propria strada rasentando l’eclettismo o il regionalismo. Tra i seguaci della pittura accademica, Robert Harris si accosta all’americano Thomas Eakins
per la tonalità bruna dei suoi dipinti e la scelta dei soggetti.
Homer Watson, per un istante vicino agli artisti della Hudson River School, si ispira poi a Constable e a Théodore
Rousseau. Horatio Walker sfocia esplicitamente nella maniera di Jean-François Millet. Ozias Leduc e James Wilson
Morrice riescono meglio a liberare la propria personalità da
tutti gli influssi subiti. Leduc inaugura la propria carriera
con dipinti in trompe-l’œil. Dopo un soggiorno a Parigi nel
1897, abbandona i colori cupi e il realismo sentimentale per
una pittura di sogno. Il suo lavoro rammenta qui Jules Lefebvre, Fantin-Latour, René Ménard o Le Sidaner, quantunque le sue tele religiose abbiano una risonanza che proviene probabilmente dal simbolismo di Maurice Denis.
Storia dell’arte Einaudi
xx secolo Senza subire l’influenza dei pittori accademici,
ispirandosi di volta in volta a Whistler, Harpignies e Renoir,
James Wilson Morrice inventa uno stile personale il cui contenuto non è poi troppo lontano dall’opera di Leduc; quest’arte di contemplazione e di sogno si apparenta, per il colore e la luce, a quella dei Nabis, poi dei fauves. Artisti piú
giovani sono attratti nettamente dall’impressionismo: in particolare Maurice Cullen o Suzor-Coté. Emily Carr a Vancouver, con stile dinamico, Marc-Aurèle Fortin a Montreal,
con modi piú ingenui e affascinanti, s’ispirano piuttosto
all’Art Nouveau e al fauvisme. Clarence Gagnon dà il meglio di sé nell’illustrazione. Tutti questi artisti cercavano, in
un modo o nell’altro, di adattare stili europei a valori nazionali o regionali. A partire dal 1910 un gruppo di artisti
di Toronto concepisce una nuova poetica fondata sul carattere del paesaggio canadese delle regioni settentrionali
dell’Ontario e del Québec. Servono come punti di partenza
l’Art Nouveau e l’arte scandinava intorno al 1900. L’idea
direttrice consiste nell’esaltare, in composizioni vigorosamente stilizzate, chiare e brillanti, i caratteri specifici del
paese. Tom Thomson, J. E. H. MacDonald, Lawren Harris
e A. Y. Jackson sono i primi a seguire questa via; presto si
aggiungono loro Arthu⁄ Lismer e Frederick Varley, e in seguito altri ancora. Tre anni dopo la morte di Thomson il
gruppo esporrà in collettiva col nome di Gruppo dei Sette.
Altri artisti vi si ricollegano, pur senza ricercare a tutti i costi un’identificazione col paesaggio. Vanno citati Lionel Le
Moine Fitzgerald, David Milne, John Lyman e Goodridge
Roberts: gli ultimi tre si rifanno al fauvisme. La poetica del
Gruppo dei Sette declina a partire dal 1930, e taluni artisti
come John Lyman, Lawren Harris e J. W. G. MacDonald
riprendono le esperienze dei pittori europei, soprattutto
quelli della scuola di Parigi. A Montreal, fattore decisivo è
il ritorno di Alfred Pellan nel 1940. La maggior parte delle
sue opere, eseguite durante un soggiorno parigino durato
quattordici anni, si ricollega sia a Matisse, sia a Picasso. Questo aspetto della sua personalità incoraggia numerosi pittori, tra i quali Jacques de Tonnancour, a seguire tendenze analoghe a quelle, in Francia, di Forces nouvelles. Pellan si
orienta in seguito verso una forma di surrealismo che oggi
appare vicino a Cobra. Due suoi allievi, Albert Dumouchel
e Léon Bellefleur, evolvono anch’essi in tal senso e, preso
Storia dell’arte Einaudi
esempio da Borduas, scoprono un nuovo lirismo. Edmund
Alleyn cerca la propria strada attingendo anch’egli a Borduas, nonché a Pellan. Paul-Emile Borduas aderisce al surrealismo astratto in seguito al ritorno di Pellan, ma soprattutto dopo aver letto gli scritti di André Breton. Mette a
punto una tecnica automatica che in seguito si rivela vicina
alle ricerche di Pollock negli Stati Uniti. Uno tra i numerosi allievi di Borduas, Riopelle, ebbe a Parigi vivo successo,
poco dopo la sua mostra presso la Gall. du Luxembourg nel
1947. Il termine ‘automatismo’, impiegato dalla critica per
descriverne l’opera, divenne popolare in C. mentre in Europa s’impiegò presto l’espressione «peinture tachiste».
L’Automatismo fece scuola a Montreal per oltre quindici anni, dal 1946 al 1960, e fu alla base dell’espressione lirica di
numerosi artisti. Tuttavia a partire dal 1956 pittori piú giovani, come Guido Molinari, intravvidero nuovi sviluppi nella poetica di Mondrian. Un antico seguace del gruppo automatista, Fernand Leduc, espone nel 1957 tele concepite nello spirito dell’arte concreta. Jean-Philippe Dallaire, antico
allievo di Lurgat, illustra il surrealismo figurativo. Non lontano da questa tendenza vanno collocate le immagini-choc
di Jean-Paul Lemieux, di Québec, e il realismo magico del
pittore delle province marittime, Alex Colville. Senza raggiungere l’intensità della vita artistica di Montreal dopo il
1940, Vancouver e poi Toronto divengono rapidamente importanti centri di attività. A partire dal 1948, B. C. Binning
e Jack Shadbolt illustrano tendenze astrattizzanti di cui s’indovinano facilmente le origini britanniche. Nel 1954 i pittori di Toronto riprendono l’iniziativa con la formazione del
Gruppo degli Undici (Painters Eleven); diretto da J. W. G.
MacDonald, esso partecipa ad alcune mostre, una delle quali a New York nel 1956, come invitato particolare dell’American Abstract Association. Vi figurano come espressionisti
astratti MacDonald, Harold Town e William Ronald. Jack
Bush, dissidente dal 1958, mira a una fattura piú netta e
prende esempio dagli statunitensi Olitski e Noland. Presto
si generalizza l’esigenza di un’organizzazione piú razionale
del quadro, spesso accompagnata dalla ricerca di effetti ottici vibranti, come attestano, a Montreal, Jean McEwen,
Yves Gaucher, Claude Tousignant e Jacques Hurtubise. Dal
canto loro Jack Chambers e Greg Curnoe, ambedue di London nell’Ontario, manifestano un rinnovato interesse per la
Storia dell’arte Einaudi
figura umana. Robin Page dà prova di uno humor distruttivo, che lo conduce a costanti di assurdo, care al movimento
Fluxus. (jro).
Canaletto
(Antonio Canal, detto il) (Venezia 1697-1768). Figlio di Bernardo, pittore di teatro, iniziò come scenografo; ma il suo
temperamento lo spinse abbastanza presto ad allontanarsi
sia pure per gradi da un genere esclusivamente decorativo,
probabilmente per volgersi a dipingere «capricci» con rovine classiche alla maniera di Carlevarijs e Marco Ricci. Tuttavia, quando nel 1719 e nel 1720 si recò a Roma, dipinse
scene per le opere dello Scarlatti. A Roma però dovette venire a contatto del Vanvitelli e degli altri olandesi, pittori
di vedute e bamboccianti, gli uni e gli altri osservatori attenti della realtà: ne riportò una precisa coscienza prospettica e il gusto della macchietta e della vita popolare, per cui
«scomunicò il teatro... e si diede a far vedute naturali» (Zanetti, 1733). Nel 1720 nuovamente a Venezia (il suo nome
compare nella Fraglia dei pittori), sovrappose all’esperienza
della veduta romana la già acquisita conoscenza di Marco
Ricci e di Luca Carlevarijs. La piú antica veduta canalettiana, Piazza San Marco (1723: Lugano, coll. Thyssen), mostra
sí un legame col Carlevarijs nelle macchiette, ma la sensibilità che alterna tagli d’ombra alle luci vibranti sui mattoni
rossi del campanile e sul bianco-azzurro delle tende delle
Procuratie è lontana dalle levigate stesure del Carlevarijs e
più prossima se mai agli effetti compositivi del rovinismo
riccesco. Anche le quattro vedute della coll. Pillow di Montreal, eseguite fra il 1725 e il 1726, sono dipinte con un interesse profondamente chiaroscurale nella prospettiva tagliata in modo che la luce venga a cadere con una ricchezza
d’effetti pittoreschi sulle superfici screpolate degli intonaci
o sulle crepe rosa dei mattoni. Del 1726 sono alcune composizioni allegoriche per un impresario teatrale, Owen MacSwiny, il primo dei committenti inglesi, così numerosi e importanti nella vita del C. La luce, seppure schiarita, è ancora calda, suscitatrice di toni cupi, nelle sei grandi Vedute della Piazza San Marco (Windsor Castle), databili fra il 1726-27,
mentre il gusto prospettico piú esperto suggerisce nuove
aperture d’orizzonti. Tale ampiezza panoramica insieme a
una luce che brucia gli impasti grassi fanno della Chiesa del-
Storia dell’arte Einaudi
la Carità vista dal laboratorio dei marmi di San Vitale (Londra, ng) la voce piú alta di questo momento del linguaggio
canalettiano. Dalla fine del terzo decennio le vedute ideate
e gli effetti chiaroscurali cedono il passo a un repertorio di
vedute reali, veneziane o lagunari, e a una luminosità distesa e chiara, che ci avvia verso la piú alta ed esclusiva conquista canalettiana, la luce fenomenica, la piú adatta alla resa precisa di una realtà non mitizzata. Da vero «illuminista», partecipe di una cultura e di una morale che gli danno
una dimensione europea, il C rifugge da una forma di rappresentazione che non possa essere ridotta a regola scientifica. L’uso della camera ottica era dovuto proprio a questa
volontà puntigliosa di cogliere la verità dallo spazio e di ritrarla il piú razionalmente e obiettivamente possibile: i campi, i campielli, i canali, i moli, tutta la città viene frugata e
scavata dalla luce tersa, che scivola rapida sugli oggetti in
primo piano, che s’insinua a scoprire le minuzie lontane, che
cristallizza in una goccia di cromo trasparente l’umanità formicolante di Venezia. Pure, contro ogni presupposto romantico, proprio da tale rigorosa esigenza di verità rappresentativa nasce la poetica del C: dipinge la storia di Venezia, città lieta e solare, ricca e signora, ignara del prossimo
disfacimento. Confermano l’avvenuto mutamento di stile le
due grandi scene della coll. Crespi di Milano, il Ricevimento dell’ambasciatore Bolagno a Palazzo Ducale e la Partenza
del Bucintoro per lo sposalizio del mare: alla pennellata grassa del periodo chiaroscurale se ne è sostituita una sciolta e
strisciante che dà alla scena una pulizia da «dopo la pioggia». Poco dopo il ’30 C dipinse una serie di ventiquattro
vedute veneziane per il duca di Bedford (Woburn Abbey):
anche in queste vedute la città è serenamente contemplata,
mai trasfigurata, sempre resa nell’impaginazione dei monumenti e nel colore dell’atmosfera. Nel Corteo dogale in campo San Rocco (Londra, ng) la gioiosa confusione della folla
in festa è tutta nei ritmi serpentinati, nella violenza dei tocchi curvilinei, nel nervosismo delle macchie di colore, dal
quale sprizza e vibra una luce gemmea. Verso la fine del
quinto decennio il C tende a diminuire le dimensioni degli
edifici e delle macchiette e ad ingrandire invece smisuratamente lo spazio; ne è un esempio il Bacino di San Marco conservato a Boston: l’orizzonte fa da cerniera a due grandi archi, il campo del cielo, graduato dai banchi di nubi, e lo spec-
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chio delle acque, i cui paesaggi sono segnati dal disporsi delle imbarcazioni su vari piani. Già da parecchi anni il C era
in rapporto con l’inglese John Smith, che divenne suo mecenate-mercante e intermediario con i clienti inglesi. L’album delle incisioni del C è dedicato proprio allo Smith, quale console di Sua Maestà Britannica presso la Repubblica di
San Marco, carica concessagli nel 1744; le trentuno acqueforti però furono eseguite nel giro di qualche anno: esse
sono in parte prese dal vero e illustrano la laguna e i paesaggi dell’entroterra, in parte ideate; anche senza colore, solo approfondendo e immergendo ora piú ora meno il segno,
il pittore ottiene i puri valori dell’atmosfera. È probabile
che nel 1742-43 il C abbia intrapreso un secondo viaggio a
Roma: lo confermerebbero alcune sovraporte per lo Smith
(Windsor Castle) di un gusto fantasioso e di una bizzarria
inventiva che richiamano i capricci del Pannini. L’Inghilterra è l’altro dei poli entro i quali si muove il C; non c’è da
stupirsi che le vedute canalettiane piacessero tanto agli inglesi, e non solo ai turisti del grand tour, ma anche a quelli
che in patria trovavano congeniale quella razionale semplicità. Nei due soggiorni londinesi fra il 1746 e il 1756, voluti certamente dallo Smith e interrotti da due brevi ritorni
veneziani nel ’50 e nel ’53, la luminosità tersa e fredda del
cielo inglese unita al raggiunto distacco contemplativo ispira al pittore una realtà lirica e immutabile. Le vedute del Tamigi sono frequenti: quelle Dalla terrazza di Casa Richmond
(1746: Londra, coll. duca di Richmond e Gordon) ha un taglio prospettico grandioso, impostato sull’ampia curvatura
dell’ansa del fiume e la diagonale della terrazza, e la solarità
meridionale della luce fa risaltare le virgole rococò delle macchiette rosa e azzurre. La prospettiva si dilata inverosimilmente lungo il gran viale centrale della Casa della vecchia
guardia di St. James Park (1749: Basingstoke, coll. conte di
Malmesbury); mentre l’incanto della campagna inglese, molle e silenziosa, domina la veduta del Castello di Warwick
(Warwick, coll. conte di Warwick).
Rientrato nel 1755 a Venezia, il C trovò un ambiente mutato, sia nel mercato sia nel gusto (è indicativo il fatto che
l’Accademia attese sino al 1763 per accoglierlo). Di questi
ultimi anni sono il Portico di palazzo (Venezia, Accademia)
e l’Interno di San Marco (Windsor Castle), una novità nel pittore della luce solare, che, ormai al termine della vicenda
Storia dell’arte Einaudi
umana, suscita con vorticosi segni misteriosi fantasmi
nell’ombra della Basilica. Quando lasciò la scena terrena C
aveva certamente aperto la strada che porta, attraverso i paesaggisti inglesi del Settecento e Constable, all’Ottocento e
al sorvegliato romanticismo di Corot. (mcv).
Canavesio, Giovanni
(seconda metà del xv sec.). Sacerdote, originario di Pinerolo dove è documentato come pittore dal 1450, operò nella
contea di Nizza. Nel 1472 è presente ad Albenga, dove esegue una Crocefissione sulla facciata del palazzo comunale.
Firma nel 1482 gli affreschi della cappella di San Bernardo
a Pigna; in collaborazione con Baleison, quelli della cappella di San Sebastiano in Saint-Etienne-de-Tinée e, nel 1492,
quelli della navata della cappella di Nostra Signora del Fontano a Briga. Fu pure autore di numerosi polittici ornati da
figure piú pacate, trasposizioni rustiche della maniera di
Foppa (Madonna e santi, 1491: Torino, Gall. Sabauda). Come frescante subí certo agli inizi l’influsso di Jacquerio; ma,
nell’intento di accattivarsi una clientela popolare, ricercò facili effetti narrativi. La sua maniera stilistica molto espressiva, legata ai modi della cultura fiamminga e provenzale, rivela anche quanto la pittura delle Alpi meridionali debba alle fonti germaniche nell’ultimo quarto del xv sec. (jth+sr).
Candamo
La grotta della Peña de C nelle Asturie venne studiata nel
1914 dall’archeologo spagnolo Eduardo Hernandez Pacheco. Nella sala principale la parete ovest reca un pannello composto da numerose figure accavallate, ove compaiono incisioni e dipinti. Il complesso è dominato da un grande bovide inciso, di cui mancano la parte posteriore e le zampe; gli
è in parte sovrapposta una figura antropomorfa dipinta in
nero. Un cervide a contorni incisi, rilevato a tratti neri, e
soprattutto un grande cervo, con la testa voltata e il corpo
trapassato da sei giavellotti, sono trattati con abilità. I dettagli del pelame e zone di raschiatura si ritrovano in alcuni
dipinti neri di cavalli. Il tema principale cavallo-bue viene
ripreso in una nicchia ove un cavallo, a contorni neri, ricorda quello di Niaux per la sensibilità e il movimento. La maggior parte dei dipinti appartengono allo stile III secondo Le-
Storia dell’arte Einaudi
roi-Gourhan; ma alcuni, piú recenti, potrebbero classificarsi nello stile IV antico. (yt).
Candido, Pietro
(Pieter de Witte, detto) (Bruges 1548 ca. - Monaco 1628).
Figlio dello scultore Elie Candid, lo seguí a Firenze nel 1570.
Doveva restare in Italia fino al 1586, lavorando in un primo tempo, come i suoi compatrioti F. Sustris e Stradano,
nella bottega di Vasari. Cosí cooperò ai lavori di quest’ultimo nella Sala Regia in Vaticano e nella cupola del duomo di
Firenze. Nel 1586, chiamato al servizio del duca Guglielmo
V, si recò a Monaco, divenendovi uno dei principali artefici dell’espansione del manierismo nei paesi nordici. Fu senza dubbio il piú italianizzato degli artisti fiamminghi. I suoi
ritratti (la Duchessa Maddalena di Baviera: Monaco, ap) e
composizioni come l’Annunciazione nella chiesa del Carmine a Brescia, risalgono al suo periodo fiorentino; la Sacra
Conversazione (Parigi, Louvre) e la Deposizione dalla croce
(Volterra, Palazzo dei Priori) perdono tutte le loro caratteristiche settentrionali a favore della poetica di Michelangelo e del secondo manierismo fiorentino illustrato da Vasari
e Salviati. C eseguí numerosi cartoni per arazzi per la manifattura bavarese. Il suo nome è inoltre legato alla costruzione del palazzo ducale e all’erezione del mausoleo dell’imperatore Luigi IV, nella cattedrale di Monaco. (php).
Canella, Giuseppe
(Verona 1788 - Firenze 1847). Cominciò come scenografo e
frescante decorando teatri e palazzi di Verona. Quindi, studiati gli ultimi vedutisti veneti canalettiani e guardeschi, si
dedicò esclusivamente all’olio e alla tempera privilegiando
paesaggi e marine. Viaggiò in tutta Europa e dal 1823 si trattenne a Parigi per un decennio. È apprezzato soprattutto come autore, dal 1826 in poi, di paesaggi parigini, di stile amabile e netto, che per la loro esattezza hanno acquistato grande interesse storico. È rappresentato a Parigi (La Senna davanti al pont de la Concorde: Museo Carnavalet), e a Nantes.
Lavorò dal 1832 a Milano, ove un certo numero di sue opere è conservato a Brera (Veduta di villaggio al chiaro di luna;
un album di Vedute di Parigi). Insegnò all’accademia di belle arti di Venezia. (sr).
Storia dell’arte Einaudi
Canini, Giovanni Angelo
(Roma 1617 ca. - 1666). Compí il suo alunnato pittorico nella cerchia di Domenichino con Antonio Alberti (il Barbalonga), ed entrò ben presto in rapporti con G. P. Bellori. Fu
pittore ed incisore assai apprezzato; rimase sostanzialmente fedele, in tutto il suo percorso, alla sua originaria cultura
bolognese. Tra le sue opere hanno particolare rilievo La Trinità e i SS. Bartolomeo e Nicola (1644) e Il compianto sul corpo di santo Stefano (1645-46), entrambe in San Martino ai
Monti a Roma, che insieme agli affreschi eseguiti in Santa
Francesca Romana e nella galleria di Alessandro VII al Quirinale (Sacrificio di Isacco) ne mostrano l’affiatamento anche
con Pietro Testa e Giovambattista Mola; e varie incisioni
per frontespizi (Historia di Terni, di Francesco Angeloni,
1646; Vite del Vasari, 1647; Obeliscus Pamphilius, 1650 ca.,
di A. Kircher e altre). (lba).
Cano, Alonso
(Granada 1601-67). Ebbe vita agitata e inquieta; fu tra le
personalità piú interessanti del xvii sec. spagnolo. Figlio dello scultore di polittici Miguel Cano, si recò presto a Siviglia,
ove nel 1616 entrò nella bottega di Pacheco. Qui fu condiscepolo di Velázquez. Sembra abbia lavorato nello stesso
tempo nella bottega di scultura di Montañes. Fu accolto tra
i maestri nel 1626, e cominciò a scolpire opere importanti.
Nel 1638 passò al servizio del conte-duca d’Olivares a Madrid inaugurando cosí il suo periodo madrileno, durante il
quale si dedicò soprattutto alla pittura. Si conservano alcune composizioni di questo periodo, che ben chiariscono il
trapasso dalla tecnica ancora tenebrista, dai cupi modellati,
del periodo sivigliano (San Francesco Borgia, 1624: Siviglia,
mba) a una maniera piú leggera, dai colori chiari e dal tocco
piú delicato (Cristo in croce, 1643: Madrid, coll. priv.). Nel
1644 sua moglie fu assassinata. Implicato nel processo, sembra venisse scagionato, poiché, dopo un breve soggiorno a
Valencia, riprese il lavoro a corte (i Re goti: Madrid, Prado;
polittico della chiesa di Getafe presso Madrid, 1645). Durante questi anni il suo stile si alleggerisce orientandosi verso una ricerca di bellezza ideale e un colore caldo e raffinato di origine veneziana, che resta però sensibile a quello di
Velázquez (Miracolo del pozzo di sant’Isidoro: Madrid, Pra-
Storia dell’arte Einaudi
do; l’Immacolata: oggi a Vitoria nel Paese basco). Nel 1652,
promettendo di prendere gli ordini, sollecita la carica di canonico economo della cattedrale. La ottiene e torna nella
città natale, ove inizia un grande ciclo di sette tele della Vita della Vergine per decorare il coro della cattedrale. Il suo
stile acquista allora una certa enfasi barocca e una relativa
magniloquenza. Continui processi col capitolo, che protestava perché non aveva preso gli ordini e che finí per espellerlo dalla cattedrale, lo costrinsero a tornare nel 1657 a Madrid, ove lavorò di nuovo per alcune chiese (il Cristo alla colonna: Carmelitani di Avila). Nel 1658 il processo terminò
con la sua ordinazione sacerdotale; tornò a Granada, rientrò in possesso della sua carica e realizzò le ultime opere (la
Vergine del rosario: Málaga, Cattedrale).
Tra le sue opere conservate fuori di Spagna si possono citare la Via dolorosa di Worcester, la Visione di san Giovanni
evangelista di Londra (Wallace Coll.), San Giovanni evangelista e San Giacomo Maggiore di Parigi (Louvre), e il Cristo al
limbo di Los Angeles (am). Citato piú spesso come scultore,
raggiunge peraltro la qualità dei massimi pittori spagnoli, ed
è forse l’unico che, ispirandosi direttamente al Rinascimento, concepisce un’arte molto lontana dal naturalismo e tutta intrisa di un impegno lirico di bellezza ideale. Fu pure disegnatore molto fecondo; il suo influsso improntò ampiamente la scuola di Granada. (aeps).
Canogar, Rafael
(Toledo 1935). Allievo di Vazquez Diaz dal 1948 al 1953,
si orientò poi verso le tecniche astratte, e in particolare verso gli effetti materici. Fu membro del gruppo El Paso sin
dalla sua creazione nel 1957; la sua pittura acquistò a quella data i suoi caratteri principali: qualità untuosa della materia, tracciati ad arabesco, forza espressiva. Vi si scorge l’influsso dell’Action Painting americana; l’esecuzione si vale
non solo della potenza, ma anche del ritmo e della misura. I
problemi dello spazio, dell’ambiente, del movimento in seguito prevarranno, delineando verso il 1963 un ritorno progressivo alla realtà e una figurazione complessa, sempre piú
narrativa. Tale evoluzione, simile a quella della Nuova Figurazione, deve molto al linguaggio oggettivo della Pop’Art;
recentemente, C ha eseguito rilievi e assemblaggi freddamente concertati.
Storia dell’arte Einaudi
È rappresentato nel musei d’arte moderna di Cuenca, Madrid, Barcellona, Torino, Roma, Caracas e Pittsburgh (Carnegie Inst.). (abc).
Canon
(Hans Johann Baptist von Straschiripka, detto) (Vienna
1829-85). Di carattere indipendente, fu successivamente litografo e corazziere, prima di dedicarsi all’acquerello. Dovette lasciare Vienna per motivi politici, in seguito alla pubblicazione di una serie di caricature; risiedette a Londra, poi
dal 1863 al 1869 a Karlsruhe, dove venne nominato docente presso la scuola di belle arti. Tra i suoi allievi furono Hans
Thoma e Wilhelm Trübner. Tornò a Vienna nel 1873, sollecitato dal conte Hans Wilczek, mecenate e collezionista,
e dal principe ereditario Rodolfo, di cui fece il ritratto. Il
suo capolavoro, il Ciclo della vita (1884-85), immensa tela
allegorica, decora il soffitto dello scalone monumentale del
Museo di storia naturale di Vienna. Oggi si apprezza meglio
l’arte potente e tanto personale di quest’artista, nella cui
composizione si scorge l’influsso di Rubens. La sua maniera barocca è diametralmente opposta allo stile rigido delle
opere monumentali di Rahl. Continuatore dei grandi maestri barocchi – d’altronde discendeva da Martino Altomonte – C si distinse pure come ritrattista, capace di caratterizzare i modelli pur rispettando la rassomiglianza: il Pittore J.
W. Schirmer (1862: Karlsruhe, kh), il Maresciallo Franz von
Hauslab (1875: Vienna, ög). Un buon numero di sue opere
è conservato a Karlsruhe e a Vienna. (gvk).
canone
Regola fondata su un’osservazione razionale della natura,
ma riveduta secondo un sistema astratto di rapporti e di numeri (dipendente talvolta da speculazioni filosofiche), che
consente di fissare le proporzioni e le forme di un tipo umano ideale.
Egitto L’unità di misura del corpo umano, nell’antico Egitto, era forse il dito medio, che in posizione distesa è la diciannovesima parte dell’altezza in alcune rappresentazioni
del corpo umano maschile o femminile. Ma questa divisione
in 19 parti non è l’unica che s’incontra sui monumenti egizi
(Diodoro Siculo parla di 21 parti e un quarto). Sono state notate su numerose pitture e sculture egizie non soltanto linee
Storia dell’arte Einaudi
orizzontali e verticali che si tagliano ad angolo retto e formano un quadrilatero, indicando che si conosceva il procedimento di squadratura, ma anche un sistema di divisione in
16 parti soltanto: risalirebbe ai primi re della XIII dinastia.
Il che tenderebbe a mostrare che si sono avuti piú c successivi. Se il c si è evoluto nel corso delle civiltà, certe caratteristiche della rappresentazione del corpo umano hanno risposto a convenzioni particolari: ieratismo, gambe unite,
braccia attaccate al corpo (si deve notare che né la larghezza, né lo spessore, erano codificati nel sistema egizio).
Grecia e Roma A differenza dal c egizio, che ci è in parte
ignoto o che per lo meno è difficile precisare con esattezza,
non vi è dubbio circa l’esistenza di un c greco. Policleto lo
fissò col suo Doriforo (prima di lui Fidia aveva effettuato un
tentativo, verso il 450 a. C., creando la Lemnia), con cui determinò il modello dei tipi futuri. Il Doriforo, che i Greci denominavano «Canone», rappresentava un giovane atleta argivo, di proporzioni piuttosto tozze e larghe (secondo Quintiliano). Il modulo di base non è metrologico, ma reale; è fornito dalla larghezza di un dito. Moltiplicando tale larghezza, o dattilo, per 4, si aveva il palmo. A partire da tali forme, tutte le dimensioni venivano calcolate secondo sapienti rapporti, verificati in natura: si potevano determinare le
dimensioni del tutto da quelle di una parte, e viceversa. Come presso gli Egizi, il c greco non è rimasto immutabile: si
è modificato nel corso del tempo, e nello stesso senso degli
ordini architettonici: passando da forme robuste a forme
slanciate. Le proporzioni del corpo si assottigliano, la statura si eleva, decresce il volume del capo: questo il nuovo c
proposto da Lisippo. D’altronde il capo è stato scelto come
unità di misura proporzionale. Esso è compreso circa 8 volte nell’altezza del corpo (c dell’Apoxyomenos, copia al Vaticano, dell’Apollo del Belvedere e dell’Agias). L’influenza del
c di Lisippo e delle nuove proporzioni si è estesa oltre la sua
epoca. Esso fu adottato dai Romani, e Vitruvio fissò, come
unità di misura proporzionale, il volto, compreso 8 volte
nell’altezza del corpo.
Rinascimento Le invasioni barbariche cancellarono per anni e anni ogni traccia del c di Lisippo: i personaggi dei timpani romanici misurano talvolta 12 o 15 teste. Nel Rinascimento risorsero le norme proporzionali dovute a Vitruvio
(secondo il quale la forma della colonna e del tempio anda-
Storia dell’arte Einaudi
va dedotta da quella del corpo umano). Il primo che cercò
di ritornare a tali regole fu Leon Battista Alberti (De re aedificatoria, 1485, e Della statua). Per Alberti, la lunghezza
del piede è la sesta parte del corpo umano. Leonardo da Vinci e Albrecht Dürer mostrarono che esistevano non una, ma
più regole possibili (per Dürer, nell’altezza del corpo potevano stare 7, 8 o 9 teste). L’idea della bellezza fondata sulle proporzioni del corpo umano si complica per i teorici e i
pittori neoplatonici: a loro avviso non è possibile cogliere
proporzioni del corpo umano se non possedendone un’immagine interiore: l’ordine naturale, la misura e l’idea s’illuminano reciprocamente. «Sono chiamate arti le scienze che
ricorrono alle mani; devono anzitutto la loro acutezza e perfezione alla potenza matematica, vale a dire alla facoltà di
contare, misurare e pesare, che ha origine piú di tutte le altre da Mercurio e dalla Ragione; senza di essa tutte queste
arti esitano, alla mercè dell’illusione» (Marsilio Ficino,
1492). In breve, il c deriva nel contempo da una subordinazione dello spirito alle matematiche e da un’esperienza
dell’armonia del mondo. Dio, la natura e le misure naturali
dell’uomo concorrono ad imporne l’esigenza. In epoca manierista, il Lomazzo raccomanda un’estetica della grazia che
ha come conseguenza un allungamento della figura umana:
le forme s’incurvano e diventano flessibili. «Non è sempre
necessario sottomettersi alla proporzione naturale, bensí alla grazia della figura. La proporzione piú bella, ecco quella
da seguire» (Lomazzo, Trattato, 1538). Anche l’allungamento dei corpi è uno dei modi di esprimersi favoriti dai pittori manieristi, e consente loro effetti raffinati o volutamente sorprendenti: le opere del Pontormo o del Parmigianino, dei pittori di Fontainebleau, di Spranger o del Greco
ne sono sufficiente testimonianza.
A partire dal Rinascimento Il riferimento ai canoni antichi
sarà la norma dell’insegnamento accademico dal xviii al xix
sec.; il numero delle teste comprese nell’altezza del corpo
varierà da 7 a 8 a seconda dei pittori. In epoca neoclassica,
si raccomanda piú che mai la stretta conformità ai modelli
greco-romani; tuttavia alcuni pittori francesi (Guérin, Girodet) ricercano effetti rari e preziosi con figure lunghe dalle piccole teste che risentono dell’influenza stilistica di Füssli. Ingres, dal canto suo, persegue la qualità della linea scon-
Storia dell’arte Einaudi
volgendo tutti i canoni tradizionali (Grande Odalisque, 1814;
Bagno turco, 1862). (bb).
Canova, Antonio
(Possagno 1757 - Venezia 1822). Di scarsa entità rispetto alla grandissima importanza della sua scultura, l’attività pittorica di C si raggruppa negli anni tra il suo primo arrivo a
Venezia e la fine del secolo. Nei quadri di soggetto mitologico, blande interpretazioni «moderne», secondo il linguaggio divulgato dal Batoni e dal Mengs – non senza echi
da Gavin Hamilton, Cavallucci e Cades –, del classicismo
cinquecentesco, si ritrovano spesso prime meditazioni di motivi piú tardi sviluppati in sculture (Venere e Satiro, 1785-90:
Possagno, Gipsoteca; in rapporto con la Venere vincitrice,
ecc.). Della Gipsoteca di Possagno si ricordano anche: Ninfa con amorino, La sorpresa; Ercole saetta i figli (Bassano, mc)
accompagna i bozzetti plastici per il bassorilievo in gesso a
Possagno. Di maggior validità sono considerati i ritratti
(Amedeo Svaier, 1777-79 ca.: Venezia, Museo Correr; Autoritratto, 1790: Firenze, Uffizi; Ritratto della Giuli,
1798-99: Possagno) nei quali l’ascendenza culturale veneta
prevale spesso sul gusto dell’ambiente romano. (amm).
Cantarini, Simone
(Pesaro 1612 - Verona 1648). Secondo le fonti fu allievo nella città natale di Giacomo Pandolfi, artista di cultura zuccaresca successivamente orientato verso un cauto naturalismo
di radice romano-bolognese. Per la formazione del C non furono inoltre senza significato la locale cultura tardo-cinquecentesca (Viviani, Lilio, Boscoli) e la presenza nelle Marche
di opere di Gentileschi, Domenichino e Ludovico Carracci.
L’arrivo nella regione di importanti pale reniane (Consegna
delle chiavi e Annunciazione per San Pietro in Valle a Fano,
commissionate nel 1621 ma inviate piú tardi e in tempi differenti) e un breve tirocinio presso il veronese Claudio Ridolfi furono determinanti per le sue definitive scelte culturali. Fin dalle prime opere (Santa Rita: Pesaro, Sant’Agostino; Madonna della cintola: Fano) il C si rivelò interessato a
una rappresentazione del naturale, sia pur scelto nei suoi
aspetti piú garbati e ingentilito con i toni argentei del lume,
che penetrava al di là della bellezza, puntando ai sentimenti
riposti di una umanità appassionata e dolente. Verso il 1634
Storia dell’arte Einaudi
si trasferí presso Guido Reni a Bologna, dove rimase fino al
1637 circa. Il Santo Stefano della parrocchiale di Bazzano
(1637) e Loth e le figlie (coll. priv.) segnano il momento di piú
profonda adesione allo stile reniano, mentre il Cristo risorto
(1638-39 ca.: Boston, coll. E. Seibel) costituisce una rimeditazione del soggetto religioso sullo stimolo della grande pittura carraccesca. Nel 1639 egli era di nuovo a Pesaro, rivelando piú scopertamente, in opere quali il San Giacomo conservato a Rimini, la vena naturalistica della propria ispirazione. Fu anche a Roma, dove esperimentò la nuova tendenza
neoveneziana rappresentata da Sacchi e Testa – documentata dal Sant’Antonio e san Francesco di Sales (Bologna, pn) –
anche nell’intensa attività incisoria. Nel 1642 era di nuovo
a Bologna. Non riscosse mai un vero successo, nonostante
oggi lo si riconosca, per la forza poetica della sua pittura, uno
dei maggiori artisti italiani del tempo. Suoi allievi furono Flaminio Torri e Lorenzo Pasinelli. (eb+sr).
Canterbury
Nell’viii sec., quando declinano i laboratori d’Irlanda e
dell’Inghilterra settentrionale, nei manoscritti di C (Kent)
compare una decorazione originale. Nel manoscritto piú antico decorato in questo centro, un salterio (Londra, bm), è
tuttora avvertibile l’influsso dell’arte iberno-northumbrica;
ma tutta diversa è l’ispirazione rivelata dai due ritratti di
evangelisti che ornano il Codex Aureus (Stoccolma, nm), ove
l’artista, parzialmente spezzando una tradizione ornamentale delle isole britanniche, si ricollega a un certo naturalismo, che appare specialmente nel modellato del volto dei
due apostoli. È probabile che manoscritti di origine romana, come il famoso Vangelo del Corpus Christi College di
Cambridge, importato alla fine del vi sec. in occasione della venuta di sant’Agostino, evangelizzatore dell’Inghilterra,
svolgessero un ruolo molto importante nella conservazione
della tradizione umanista mediterranea a C.
Dopo un’eclissi di oltre un secolo dovuta alle invasioni scandinave, la vita artistica si riorganizzò alla fine del x sec., intorno alle due grandi abbazie della Christ Church e di
Sant’Agostino. La decorazione dei manoscritti che escono
da tali scriptoria reca il segno nettissimo dello stile carolingio di Reims, il che spiega la presenza a C del famoso Salterio di Utrecht. L’opera piú importante di questo periodo è
Storia dell’arte Einaudi
precisamente una copia di tale salterio (Londra, bm, ms Harley), ove, malgrado una evidente fedeltà allo stile del modello, gli artisti seppero creare delle innovazioni mediante
l’impiego di inchiostri rossi, verdi e azzurri nell’illustrazione del manoscritto. Esso fu persino all’origine di due altre
copie, grazie alle quali si può seguire la comparsa a C, in seguito alla conquista normanna, dello stile romanico (1066),
che senza rompere brutalmente l’evoluzione della miniatura, contribuí però a rinnovare il repertorio artistico dei miniatori, in particolare nel campo della lettera ornata. Simultaneamente si modificano lo stile e l’iconografia delle pitture a tutta pagina. Esse tradiscono un netto influsso bizantino, proveniente senza dubbio dalla Sicilia, anche nell’illustrazione delle Bibbie (Bibbia di Lambeth Palace: Londra,
Lambeth Palace Library; Bibbia di Douvres). Tale tendenza
trionfa alla fine del xii sec. nella terza copia del Salterio di
Utrecht (Parigi, bn). (fa).
Canton
La scuola di pittura di C (detta in cinese Lingnan p’ai) venne fondata nel 1912 da Gao Lun (alias Gao Jian-fu), artista
e rivoluzionario cantonese, allo scopo di rinnovare la pittura tradizionale mediante l’uso delle tecniche occidentali della prospettiva, dell’ombreggiatura e del chiaroscuro, che egli
aveva appreso presso l’accademia di belle arti di Tokyo. I risultati dell’insegnamento che egli dispensò con l’aiuto del
fratello minore Gao Qifeng e di Chen Shuren furono mediocri, poiché la sua scuola, influenzata dal realismo decorativo giapponese contemporaneo, mirò piú a definire teorie e tecniche che ad elaborare una visione nuova del mondo moderno. Dopo aver svolto un ruolo notevole tra le due
guerre presso gli artisti della Cina meridionale, come Huang
Junbi o Guan Shanyue, la scuola di C fu riportata in auge
dopo il 1949 dalla nuova Cina, che ne apprezzava il realismo applicato alla rappresentazione di soggetti moderni (aerei, ferrovie, soldati al lavoro), trattati all’occidentale con i
mezzi tradizionali: pennello, inchiostro, carta. (ol).
Canuti, Domenico Maria
(Bologna 1626-84). Formatosi nella tradizione di Ludovico
Carracci, assimilò – in particolare studiando gli affreschi di
Pietro da Cortona e di Lanfranco durante un soggiorno ro-
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mano anteriormente al 1647 e poi nel 1651 – le novità della pittura barocca. Soggiornò successivamente a Mantova e
Padova, entrando in contatto con la pittura di Rubens e dei
veneti. Ebbe grande successo a Bologna, dove la sua decorazione a fresco dello scalone (1665) e del soffitto di palazzo Pepoli (1669) e quella della biblioteca e della cupola di
San Michele in Bosco (1677 e 1682-84) contano tra le opere essenziali del barocco bolognese. Nel 1672 era tornato a
Roma, dove dipinse – tra l’altro – la volta della chiesa dei
Santi Domenico e Sisto (1674-75, con E. Haffner), ove
adottò soluzioni decorative assai audaci, che fanno dell’opera uno dei soffitti piú spettacolari dell’epoca. (eb+sr).
Cao Zhibo
(1272-1355). Intimo amico di Huang Gongwang, di cui condivideva le idee taoiste, C abbandonò prestissimo gli incarichi ufficiali per ritirarsi in eremitaggio. Si specializzò nella pittura di rocce e vecchi alberi nodosi sulla riva del fiume, isolati o in primo piano in paesaggi la cui tranquilla atmosfera nebbiosa raddolcisce la forza convulsa di Guo Xi,
cui egli direttamente si ispirò (Pechino, mn; Formosa, Gugong; museo di Princeton; Parigi, Museo Guimet). (ol).
Capanna, Puccio
(Assisi, attivo nel secondo quarto del sec. xiv). Fu allievo e
collaboratore di Giotto; Vasari lo dice fiorentino e gli riferisce un eterogeneo catalogo di tavole e affreschi in varie località (Rimini, Bologna, Pistoia, Firenze, Assisi). La sua personalità pittorica è stata ricostruita sulla base della frammentaria Madonna col Bambino (Assisi, pc) proveniente dalla porta di San Rufino, per la cui decorazione C e Cecce di
Saraceno avevano ottenuto l’incarico nel 1341. Intorno a
quest’opera, danneggiata ma leggibile, è stato riunito un catalogo in parte coincidente con quello da Longhi assegnato
a Stefano Fiorentino in base alla celebre definizione che Vasari diede della «maniera dolcissima e tanto unita» del pittore. Si tratta di vari affreschi assisiati e degli elementi di
un piccolo polittico databili tutti tra il quarto e il quinto decennio del secolo: L’incoronazione della Vergine e due Storie
di san Stanislao nella cantoria della basilica inferiore di San
Francesco, la Crocifissione e santi nella sala capitolare del Sacro convento, l’Annunciazione e la Crocifissione nel mona-
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stero di San Giuseppe, una Crocifissione (da San Rufinuccio) nel museo di San Rufino. C fu attivo a Firenze e forse
anche in Lombardia; l’ultimo documento che lo riguarda è
un atto di vendita del 1347. Il suo stile pittorico appare effettivamente affiatato con quello delle opere oggi riconosciute a Stefano Fiorentino, identificato da Volpe con il Parente di Giotto cui Previtali assegna gran parte della decorazione del transetto destro della basilica inferiore di San
Francesco ad Assisi. (sr).
Ωapek, Josef
(Hronov nad Metují 1887 - Buchenwald 1945). Si formò alla scuola di arti e mestieri di Praga e a Parigi. Nel 1911-12 fu
redattore del mensile «Umûlecký Mûsí™nìk», rivista d’arte in
cui si esprimeva la giovane generazione. Partecipò alla fondazione del gruppo dei Plastici (1911), poi a quella del gruppo degli Ostinati (1918). Riprese dal cubismo francese alcuni procedimenti che seppe fondere con la sua visione lirica,
d’altra parte quanto mai cèca, del semplice mondo della vita
quotidiana. Ω venne attratto dalle possibilità di metafore plastiche offerte dal cubismo, che egli sfruttò nelle analogie tra
il corpo umano e la macchina. Nei primi quadri si scorge talvolta una nota di esotismo (Marinaio, 1913: conservato a Praga). Più tardi rivolge la sua attenzione alla vita nelle periferie
miserabili (l’Uomo col sacco, 1926: ivi). Fratello dello scrittore Karel Ωapek (1890-1938), lasciò numerosi scritti e critiche d’arte. Gli si devono molte scenografie teatrali. Verso la
fine degli anni ’30 dipinse i cicli dei Fuochi (1938) e delle Aspirazioni (1939), entrambi a Praga, diretti contro il fascismo. E
tra gli artisti cèchi moderni che, sensibili e attenti agli impulsi
provenienti dal resto dell’Europa, cercarono di tradurre la
specificità del loro ambito culturale. (ivi).
Capogrossi, Giuseppe
(Roma 1900-72). «Improvvisamente, senza alcun segno premonitore, abbandonò il figurativo per l’astratto, il mestiere
per la fantasia, il certo per l’incerto. Il tema da lui scoperto
– questo artiglio, questa mano, questo tridente, questa forca – è già uno stile. Egli lo piega ai suoi umori, gli imprime
le sue fantasie, lo calma e lo esaspera, lo scatena, l’addormenta, lo perseguita, l’asseconda. Dopo Mondrian non ho
mai visto una unione cosí intima e tenace di uno stile per-
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sonale e di un tema». Sebbene C sostenga «di non aver sostanzialmente cambiato la sua pittura ma di averla soltanto
chiarita», Michel Seuphor riconosce, nel testo che accompagna la prima monografia sull’artista del ’54, il carattere
dirompente della svolta del 1949. Aveva esordito nel 1927,
all’Hotel Dinesen di Roma con Emanuele Cavalli. Autoritratto e Lungotevere recano ancora, nelle tinte «agre e opache», nel colore pastoso e nel disegno sfocato, il segno
dell’apprendistato presso lo studio di Felice Carena. Nel
1932, nel ben piú importante appuntamento alla Galleria di
Roma di P. M. Bardi, i due artisti, cui si aggiunge Corrado
Cagli, si confrontano con i milanesi Birolli, Soldati, Sassu e
Ghiringhelli. «Un compromesso tra l’Italia e la Francia», C.
E. Oppo definisce Nudo con corazza, Ritratto muliebre e Arlecchino: l’Italia è però quella di De Chirico mentre la Francia cui l’artista guarda sin dal ’27 è quella di Cézanne, di Picasso e di Matisse. È ancora Bardi a presentare come «chiari, corposi, murali, dal colore contenuto e dall’essenzialità
disegnativa» gli attoniti personaggi del Nuotatore e di Sul
Tevere alla Gall. Il Milione a Milano nel 1933 e ad introdurre quello stesso anno C, Cagli e Cavalli a Waldemar
George. Propugnatore sin dal ’30 della necessità «di ritrovare lo smarrito sentimento dello spirito italico», il critico
francese invita i tre artisti ad esporre alla Gall. Bonjean di
Parigi; conia per essi l’appellativo di Ecole de Rome e nomina C, presente con Il poeta del Tevere, Il Vestibolo e Il Temporale, «figlio spirituale degli scultori di rilievi e di affreschi
antichi». L’allucinante fissità delle forme, i loro atteggiamenti statici, i loro sguardi assenti, situano la sua opera al
limite tra fisico e metafisico che è il dominio riservato dei
Romani. Non c’è però nessuna retorica in quei personaggi
terrei appena abbozzati che si distaccano solo per contrasto
tonale dal fondo grigio azzurro, ospitati da quinte architettoniche che organizzano la superficie senza inglobare spazio. Si conclude con la mostra parigina il sodalizio con Cagli, che rifiuta di firmare insieme a C e Melli il Manifesto
del primordialismo plastico del quale fu comunque l’animatore concettuale. «Tra gli apporti piú importanti e che esulano dal fatto puramente tecnico, è la costruzione tonale e
questa trova nel mio attuale indirizzo estetico il suo giusto
valore», asserisce l’artista nell’autopresentazione per la seconda Quadriennale del ’35. Lo conferma Palma Bucarelli
Storia dell’arte Einaudi
quando, nel presentare l’antologica dell’artista alla Galleria
d’arte moderna di Roma nel ’74, individua nell’abolizione
della dicotomia tra figure e fondo propria della ricerca tonale il presupposto degli sviluppi successivi. Nei Canottieri
e in Piena sul Tevere e Ballo sul fiume, le figure stupite che
non comunicano e le architetture impraticabili vivono lo
stesso spazio «scomposto nella forma e ricomposto nel colore», secondo l’analisi di Argan nella monografia del ’67.
Se Oggetti rustici, Contadina e Baraccone da fiera, esposti nella Quadriennale del ’39, costituiscono una virata tematica
nella scelta di soggetti umili, le Ballerine presentate per la
prima volta nella Quadriennale del ’43 segnano una svolta
cromatica verso le gamme infuocate dei rossi, viola e arancio. Nella Biennale di Venezia del ’48, infine, l’artista presenta sintomaticamente l’abbrivio del rapido sondaggio cubista in Le due chitarre e il suo avvenuto superamento in Ricerca n. 1 e Ricerca n. 2. A 48 anni dunque C è un artista stimato e riconosciuto; avrebbe potuto, come tanti fecero,
amministrare prudentemente una ricerca senza scosse, attardandosi magari nell’indagine postcubista prima di abbracciare la poetica informale. Sceglie invece, come negli
stessi anni e per altre vie fanno Burri e Fontana, di rivoluzionare il lessico pittorico affidando a un unico segno la sfida di riprodursi all’infinito con l’insospettabile mutevolezza, eleggendolo a mezzo di aggregazione spaziale e a metro
di scansione temporale. Il 1949, come tutti gli anni cruciali, offre esiti poliedrici: nella Superficie o2 le sagome di ipotetiche figure, attraversate e squarciate da linee di forza, sono ormai irriconoscibili. La Superficie o3 costituisce un passo ulteriore, scandita da piani geometrici e traiettorie che ricordano nel loro lirismo matematico le prove di Jacques Villon. Nei molteplici testi coevi l’artista allarga il repertorio
dei segni, non piú solo tasselli colorati e direttrici ma lettere, zig-zag, tratteggi e sinusoidi; li libera da qualsiasi struttura di sostegno rendendo l’opera il risultato del loro processo aggregativo. Nell’elenco che definisce la Superficie 021,
infine, appare nero e marcato già, quello che l’artista nominerà come esclusiva matrice spaziale e compositiva. (az).
Caporali, Bartolomeo
(Perugia 1420 ca. - prima dell’ottobre 1505). Nonostante
l’abbondanza di notizie e di documenti sull’attività svolta
Storia dell’arte Einaudi
dal C nell’amministrazione della città di Perugia e nella corporazione dei pittori dove ricoprí numerosi incarichi, ne sono ignote la data di nascita e la formazione. La prima opera
documentata, l’Annunciazione nel trittico di Bonfigli per San
Domenico (1467-68: oggi Perugia, gnu), lo rivela influenzato dall’Angelico – del quale intorno al 1450 era giunto a
Perugia un famoso polittico per la medesima chiesa di San
Domenico –, e soprattutto da Benozzo Gozzoli, a lungo operante in Umbria intorno alla metà del secolo. Tali influssi
sono tuttavia ben visibili già in opere non datate ma sicuramente anteriori, come la Madonna col Bambino (Firenze, Uffizi), il San Gerolamo (Napoli, Capodimonte), Madonna e Angeli (Perugia, gnu), due scomparti di predella (Leningrado,
Ermitage) e il notevole Crocefisso (Isola Maggiore presso Perugia). La sua attività piú tarda – gli Angeli con strumenti della Passione (1477: Perugia, gnu); la Madonna di Misericordia,
San Francesco, San Bernardino e I quattro Evangelisti in
Sant’Antonio a Deruta; la smembrata Pala dei Cacciatori
per Castiglione del Lago, 1487; la Pietà del duomo di Perugia, 1486; l’affresco con I SS. Antonio e Francesco a Montone, 1491 ca. – si lega alle forme di Fiorenzo di Lorenzo, del
giovane Perugino e del Pinturicchio. I numerosi documenti
che si riferiscono alla sua attività artistica parlano spesso di
impegni minori come lavori di restauro, dorature, stemmi,
allestimenti di cerimonie e feste, pittura di stendardi: un’attività artigianale che si traduce spesso, nella sua opera, in
quel gusto d’ornare molto accentuato e nella predilezione
per l’oro decorato a punzone. (mb+sr).
Cappadocia
Comunità monastiche si stabilirono assai presto in questa
regione montagnosa a sud-est dell’Asia Minore, ma nessuno
di questi antichi insediamenti è stato ancora scoperto. Per
il periodo, invece, che si estende dalla metà del ix sec. (epoca della riconquista bizantina di queste regioni, occupate dagli Arabi) fino all’avvento dei Turchi selgiuchidi nel corso
della seconda metà dell’xi sec., sono note numerose chiese
scavate nella roccia, le cui volte e pareti sono coperte di dipinti. Una certa attività artistica dovette proseguire anche
dopo l’occupazione selgiuchide: infatti una chiesa, quella di
San Giorgio, risale agli anni 1283-93. Queste chiese rupe-
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stri ci consentono di conoscere uno degli aspetti dell’arte
provinciale e monastica.
Lo stile antico popolare (iix secolo) Tra i dipinti che decorano le chiese a pianta basilicale si distingue un gruppo «arcaico». In alcune di esse (chiesa di San Basilio presso Sinasos) le croci e le iscrizioni di preghiere, che predominano,
fanno pensare a una decorazione in epoca iconoclastica; ma
i due santi raffigurati sui piedritti dell’abside dimostrano
che i dipinti sono successivi all’843. Numerosi elementi del
programma di tali cappelle arcaiche attestano la sopravvivenza di tradizioni piú antiche: in particolare la presenza di
una visione teofanica, il cui esempio meglio conservato si
trova nella chiesa delle Tre Croci, presso Göreme. Nella zona superiore dell’abside, a forma di cupola ribassata, Cristo
circondato dai simboli dei quattro evangelisti è in trono entro un’aureola; al di sopra di quest’ultima compare la mano
di Dio tra i busti del Sole e della Luna. Piú in basso, su un
lato e sull’altro dell’aureola, sono rappresentate ruote fiammeggianti, tetramorfi dalle ali coperte d’occhi, cherubini e
due serafini, uno dei quali accosta un carbone ardente alle
labbra di Isaia e l’altro dà ad Ezechiele il libro da mangiare.
Tale composizione, che combina le visioni di Isaia di Ezechiele e dell’Apocalisse, perpetua uno dei temi principali dell’arte cristiana primitiva. I dipinti che si ammassano sulle
pareti e sulla volta rappresentano, in una serie d’immagini
non separate tra loro, alcune scene della vita della Vergine,
e soprattutto quelle dell’infanzia di Cristo e della Passione.
Si trovano pure in tali cappelle numerose rappresentazioni
di santi, raffigurati in piedi, oppure a busto entro medaglioni. Le due cappelle arcaiche di Göreme, la vecchia chiesa di Tokalı, le cappelle di Sant’Eustachio e di el-Nazar nella stessa regione sono tra gli esempi piú caratteristici. Gli
episodi apocrifi sono particolarmente numerosi nella cappella di Gioacchino ed Anna a Kizil Çukur, e la scena della
Concezione di Maria da parte di Anna è composizione assai
originale. Le chiese della valle di Peristrema, pur riallacciandosi nel complesso a quelle della regione di Göreme, presentano particolarità interessanti; alcune composizioni, come la Visione dei Re magi a Egri Tas, Kilisesi, trovano spiegazione nel libro armeno dell’infanzia di Cristo. Tra altre
composizioni di carattere particolare segnaliamo la rappresentazione del Giudizio universale a Yilanli Kilise, nella qua-
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le i ventiquattro vecchi dell’Apocalisse e i quaranta martiri
di Sebaste si allineano a fianco del Cristo giudice. Tutti questi dipinti sono contraddistinti dal carattere popolare, dallo
stile schematico e dall’assenza di qualsiasi indicazione di paesaggio. Nelle composizioni dense, ove le figure si serrano le
une contro le altre, gli atteggiamenti sono rigidi, ma i volti
dai grandi occhi e dai tratti marcati sono spesso espressivi.
x-x
xi secolo) L’influsso dell’arte coLo stile metropolitano (x
stantinopolitana compare nelle chiese della fine del x e
dell’inizio dell’xi sec., che pur continuando ad essere scavate nella roccia di solito adottano la pianta a croce inscritta in un quadrato (Kiliclar Kilise, Karanlık Kilise, Elmalı Kilise, Çarikli Kilise, Direkli Kilise). Questo influsso della capitale si manifesta nella scelta e nell’ordinamento dei soggetti. Gli episodi apocrifi tendono a scomparire; allo stile
narrativo continuo si sostituiscono gli eventi maggiori della
vita di Cristo, rappresentati in quadri distinti. Alcuni particolarismi differenziano però la decorazione cappadocica da
quella delle chiese delle grandi città dell’impero bizantino.
Cosí nel catino dell’abside anziché la Vergine si scorge di solito la deisis (Cristo con ai lati la Vergine e san Giovanni Battista). Anche lo stile si affina; le proporzioni sono piú slanciate, il drappeggio è modellato in modo da denunciare le
forme e le scene sono composte piú armoniosamente. La deisis continua ad ornare l’abside della chiesa di San Giorgio,
ultima cronologicamente (1283-93): al centro della parete
ovest la donatrice, la dama Thamar, presenta il modello della chiesa al santo patrono; sull’altro lato di san Giorgio si
trova Basilio, vestito in costume orientale e acconciato con
un turbante. (sdn).
Cappelen, August
(Skien 1827 - Düsseldorf 1852). Allievo di Hans Gude
(1845), studiò poi presso J. W. Schirmer a Düsseldorf
(1846-50). Durante gli ultimi anni della sua vita eseguí gran
numero di studi di foreste, ispirati dalla regione del Telemark, e animati da un sentimento romantico assai personale. Nel suo studio di Düsseldorf realizzò, partendo da tali
studi, alcuni grandi dipinti nei quali impera un forte senso
di patetica solitudine: Cascata a Telemark (1852: Oslo, ng),
e la Foresta morente (ivi). (l°).
Storia dell’arte Einaudi
Cappelle, Jan van de
(Amsterdam 1626-79). Di professione tintore, apprese a dipingere e praticò poi quest’arte come dilettante. Nel 1653
acquistò la cittadinanza di Amsterdam e, dopo il 1663, non
se ne conosce piú alcuna opera datata. Ciò ha fatto supporre che, come tanti altri artisti olandesi (Hobbema, Van der
Neer), egli si sia da allora dedicato soprattutto alla propria
azienda.
Ricco, legato a Rembrandt che lo ritrasse, come pure fecero Hals ed Eeckhout, C lasciava alla sua morte un’immensa
raccolta, contenente tra l’altro cinquecento incisioni di Rembrandt, novecento disegni di Avercamp, sedici quadri di Porcellis, dieci dipinti e oltre quattrocento disegni di Van
Goeyn, altri dipinti e disegni di E. van de Velde, P. Molyn,
H. Seghers, un notevole complesso di S. de Vlieger (novanta dipinti e milletrecento disegni di Vlieger stesso o copiati
da C); raccolta che non mancò di esercitare la massima influenza sugli esordi dell’artista. È essenzialmente pittore di
marine «calme», prima ispirate da quelle di Vlieger e caratterizzate dall’armonia dei grigi argentati, poi sempre piú personali. C sa meglio di ogni altro rievocare il fondersi tra l’aria
e l’acqua, la trasparenza di questa sotto l’incertezza e la mobilità dei grandi cieli nuvolosi e leggerissimi, in un’armonia
ricca e calda di toni grigio-bruni e biondi. Si ammira in particolare lo studio dei riflessi delle vele e degli scafi sull’acqua tranquilla. Di tutti i «marinisti» olandesi, C è certo uno
dei piú poetici – i suoi mari «calmi» hanno un mistero che
raggiunge, benché con mezzi diversi e piú naturali, la poesia di un Lorrain – ma anche uno dei piú innovativi: preannuncia Willem van de Velde il Giovane.
Dipinse pure alcuni paesaggi invernali (buoni esempi datati
1653 al Mauritshuis all’Aja e all’Istituto olandese di Parigi),
ben paragonabili a quelli di Jacob van Ruisdael. Lo si può
studiare soprattutto a Londra (ng), ove è rappresentato da
almeno otto marine. Altre sue opere – esse sono relativamente poche – sono conservate in musei di Amsterdam, Rotterdam, L’Aja, Colonia, Chicago, Toledo. (jf).
Caprarola
Località dell’antico Stato della Chiesa (oggi prov. di Viterbo), ove Alessandro Farnese eresse sul disegno del Vignola
Storia dell’arte Einaudi
il suo palazzo, che si sovrappose ad una fortezza già in parte innalzata per opera di Antonio da Sangallo il Giovane.
Nel 1560 circa, sulla base di un programma iconografico elaborato da Annibal Caro, Onofrio Panvinio e Fulvio Orsini,
ha inizio la decorazione pittorica, guidata da Taddeo Zuccari e, dopo la sua morte (1566), dal fratello Federico. Alla
partenza di questi (1569) l’impresa è affidata a Jacopo Bertoia, Giovanni de Vecchi e Raffaellino da Reggio. Lo splendido e complesso edificio si sviluppa grandiosamente nelle
sale distribuite attorno al cortile circolare a due ordini di arcate. La decorazione pittorica, nel suo insieme, con i grandi riquadri di soggetto storico della Sala dei Fasti Farnesiani e dell’Anticamera del Concilio, giunge a uno stile piuttosto rigido e compassato, una specie di estrema e sapiente revisione delle stravaganze manieristiche; nello stesso tempo
essa offre uno dei migliori esempi della fortuna delle grottesche, nata nella cerchia di Raffaello (affreschi della Cappella e della Scala regia). C, con la varia e quasi sterminata
vastità dei suoi cicli e dei suoi ornati, divenne ben presto il
principale punto di riferimento per i pittori italiani e stranieri che andavano formandosi, a partire dagli anni ’70,
nell’ambito di gusto della tarda maniera. Da questo punto
di vista, stimoli vitali, invenzioni e nuovi spunti vennero dai
maestri già ricordati e insieme da altre presenze, come quelle di Antonio Tempesti e di Bartolomeo Spranger, anch’essi artefici della celebrata «cultura di C». Gli affreschi e gli
stucchi di C costituirono il modello, che rimane insuperato,
della decorazione cinquecentesca di palazzo, intesa come
espressione del prestigio neofeudale delle grandi casate, in
cui nel variare delle intonazioni, dal lirico al fantastico al didascalico, convivono il gusto di abbellire la severa dimora e
l’intento di affidare alla pittura un convincente messaggio
celebrativo. (fv+sr).
Caracciolo, Giovanni Battista, detto Battistello
(Napoli 1578-1637). È il piú antico e prestigioso dei maestri
della gran fioritura seicentesca a Napoli. Dopo una prima fase di copiosa attività pittorica a fianco del tardomanierista
Belisario Corenzio, è con la fase matura del C che si afferma, con caratteri di svolta, il corso moderno dell’arte napoletana, troncandosi il moltiplicarsi delle esperienze ancora
di carattere manieristico – di derivazione romano-fiorenti-
Storia dell’arte Einaudi
na e veneta – che apparivano prevalenti al sorgere del secolo (dal già citato Corenzio a Fabrizio Santafede, al Curia,
all’Imparato, al Forlì). Ad un certo momento, Battistello si
collega invece direttamente agli esemplari del Caravaggio e
non soltanto a quelli lasciati nelle chiese napoletane, nel corso dei due soggiorni del 1607 e del 1610, ma anche a quelli
di Roma, conosciuti probabilmente già prima del 1607. È a
partire da questa congiuntura che Battistello s’impone quale rapido assertore di un luminismo costruttivo che si rivela
tra i piú impegnati anche rispetto all’ambiente romano; l’indagine naturalistica invece appare in lui, già in questa prima fase, molto stemperata, e ben lontana da quella che ci si
sarebbe potuto attendere nell’interpretazione di un pittore
cosí direttamente legato all’insegnamento del Merisi.
Il suo primo dipinto documentato e di accertabile caravaggismo è l’Immacolata e due Santi di Santa Maria della Stella
a Napoli (pagamenti nel 1607). Fu a Roma nel 1614, poi, nel
1617, arrivò fino a Genova fermandosi nuovamente a Roma e a Firenze. Sono questi gli anni in cui la lezione caravaggesca si dispiega pienamente nella sua opera: da dipinti
di minor formato fino alla Liberazione di san Pietro (eseguito nel 1615 per quella chiesa delle Sette Opere di Misericordia dove pochi anni prima Caravaggio aveva collocato il
sensazionale telone, cosí affollato di figure «vere»); e ancora in tutto un gruppo di opere, conservate in diverse chiese
napoletane (Pietà dei Turchini con la Trinitas terrestris del
1617, San Giorgio dei Genovesi con il Miracolo di sant’Antonio, Santa Maria della Stella con l’Immacolata). Battistello rimase fedele a queste possibilità di valorizzare i volumi
della composizione attraverso l’incidenza luminosa anche
quando, in seguito alle nuove esperienze culturali avviate dal
1614 al 1617 a Roma (dove fu nuovamente nel 1618-19) e
a Firenze, rinunciò progressivamente ad affrontare una circostanziata ripresa dal vero in favore di un’aulica e solenne
convenzione formale, al cui risultato facevano da stimolo il
successo generale riscosso da Annibale Carracci alla Galleria Farnese, l’impressione suscitata dall’incontro diretto con
i modelli della grande civiltà fiorentina del Cinquecento,
nonché gli esempi piú recenti di Gentileschi, Domenichino
e Lanfranco. Si spiega cosí quel curioso accento quasi di ripresa protomanieristica, sebbene in termini di linguaggio affatto moderno, che sembra contraddistinguere la posizione
Storia dell’arte Einaudi
assolutamente singolare di Battistello nel corso della pittura napoletana del Seicento: un iniziatore, un tramite, e tuttavia un isolato. La sua caratteristica scansione luministica
che rivela ed esalta le superfici si andò però attenuando a favore di una tavolozza sempre piú schiarita: con il risultato
di trasferire il gusto per la esaltata volumetria in una nuova
sensibilità cromatica, come in un incastro di materia preziosa dai colori vari e ricercati, di una purezza quasi minerale. Battistello svolse anche una vasta opera di frescante,
lasciando in molte chiese napoletane le sue visioni monumentali e severe in un’inattesa gamma di colori chiari e luminosi, nei quali ancora piú fedelmente sembrano rivelarsi
quelle sue mai sopite nostalgie per antiche cadenze formali,
ancora di timbro cinquecentesco: intimo dissidio che mirabilmente si compone per forza d’intuito. Molto ampia questa sua attività ad affresco: nella chiesa di Santa Teresa agli
studi (dopo il 1616), nelle cappelle di San Gennaro (1631-33
ca.) e dell’Assunta (1623-26) della Certosa di San Martino,
in Santa Maria la Nova (1623), nell’Oratorio dei Nobili al
Gesti Nuovo (dove la sua opera viene completata da Lanfranco) ed infine nella cappella dell’Assunta in San Diego
all’Ospedaletto. Particolarmente notevoli, in quest’ultimo
ciclo, la serie di lunette d’impostazione paesistica, che lo rivelano in un aspetto inedito, anche se di chiara derivazione
degli esemplari carracceschi. La Madonna di Ognissanti (1619
ca.: Stilo, Cattedrale), la Madonna con i SS. Francesco e Chiara (1620-25: Nola, Santa Chiara), l’Assunzione (1631: ora a
Napoli, Capodimonte) ne illustrano la finale evoluzione in
senso prebarocco. (rc+sr).
Caraffe, Armand
(Parigi 1762 - ? 1818 o 1822). Allievo di Louis Lagrenée,
non venne ammesso al prix de Rome e soggiornò a Roma a
sue spese; succedette in seguito a J.-G. Drouais, deceduto,
come pensionante dell’Accadernia di Francia (1788); viaggiò nell’Italia meridionale e in Grecia. La maggior parte dei
suoi dipinti, di solito a soggetto allegorico, è scomparsa. Soggiornò una decina d’anni in Russia (1802-12 ca.), dove si
conservano oggi due sue tele: Metello che ferma i suoi soldati (1791: Leningrado, Ermitage) e un sorprendente Giuramento degli Orazi (castello di Archangel´kskoe) dal disegno
Storia dell’arte Einaudi
volutamente secco e metallico, che rifiuta il modellato davidiano, e dal colore brillantemente contrastato. (sr).
Caraglio, Gian Giacomo
(Parma o Verona 1500 ca. - Parma, dopo il 1558). Di origine e formazione incerte, è attestato da documenti a Roma
nel 1526, nella cerchia di Marcantonio Raimondi. Di fatto
s’individua l’influsso di quest’ultimo nella serie di scene mitologiche incisa in quest’epoca dall’artista (Favole degli dèi,
Amori degli dèi, Fatiche d’Ercole), da disegni di Rosso e di
Perin del Vaga. La sua opera, ove si manifesta un forte gusto degli effetti pittorici ottenuti grazie a un chiaroscuro
molto sfumato (Diogene, dal Parmigianino; Ratto delle Sabine, da Rosso), è caratterizzata peraltro da un’estrema libertà
rispetto al modello, il che indusse l’Aretino a considerarlo
superiore allo stesso Raimondi. Chiamato da re Sigismondo
I, risiedette in Polonia dal 1539 al 1550, colmato di onori e
di ricompense. Abbandonò allora l’incisione di riproduzione per dedicarsi all’incisione su cammei e pietre dure, tecnica con cui eseguí un ritratto di Bona Sforza. (grc+cpe).
Caravaggio
(Michelangelo Merisi, detto il) (Milano 1571 - Porto Ercole
1610). La vita avventurosa, i litigi, le violenze, i processi, le
fughe, la morte solitaria sulla spiaggia della Feniglia quando, prigioniero, tornava a Roma da Napoli; questi e altri dati biografici hanno contribuito a colorire di tinte romanzesche la figura di C. Intrecciando all’analisi dell’artista quella dell’uomo, la critica ha contribuito, fino almeno ai primi
del Novecento, a dar vita all’immagine di C pittore ribelle,
artista maledetto ed emarginato; il carattere rivoluzionario
della sua arte, e polemico rispetto alla tradizione stilistica
precedente, ha offerto il supporto a questa visione romanzata ed ha altresí provocato il silenzio o lo sfavore della critica classicista di Sei e Settecento. Ancora tra i suoi contemporanei l’artista godette di fama, e quando ancora il fenomeno C non poteva essere ignorato ma semmai criticato
o minimizzato, troviamo le biografie estremamente accurate, quanto per lo piú tendenziose, di Baglione, Mancini e
Bellori. Queste sono per noi la massima fonte di notizie
sull’artista, ma anch’esse hanno contribuito a un’interpretazione scorretta della sua arte. Segue, nel xvii e xviii sec.,
Storia dell’arte Einaudi
un ostinato silenzio; bisognerà attendere il 1951 perché l’attenzione di critica e pubblico si rivolga nuovamente all’artista: è questo l’anno della mostra dedicata a C e ai suoi seguaci, organizzata da R. Longhi, e al critico spetta il merito
di aver nuovamente riaperto il capitolo sull’artista in termini nuovi, analizzando con passione e attenzione il problema
del suo catalogo, della sua vicenda biografica, della sua formazione artistica, individuando e raggruppando tutta una
serie di opere e copie fino ad allora sconosciute. Da quella
data ad oggi le ricerche sono state proseguite con fervore e
numerosi contributi critici hanno concorso a delimitare con
sempre maggior nettezza sia il catalogo delle opere dell’artista sia la loro interpretazione.
La formazione Michelangelo Merisi nasce nel 1571 (e non
nel 1573 come finora si era creduto) con probabilità a Milano (Cinotti) e non a Caravaggio dove si trasferí con la famiglia nel 1578. Nel 1584 entra come apprendista, a Milano, nella bottega di Simone Peterzano che si impegna a tenerlo presso di sé per quattro anni. Nel maggio del 1592 il
Merisi (allora ventenne) risulta ancora a Caravaggio e dunque la sua partenza per Roma (di cui riferisce il Mancini) dovette avvenire non prima della fine del ’92. In questi primi
anni di apprendistato è probabile che il giovane C non si limitasse a seguire il Peterzano, ma girasse anche per i territori lombardi spingendosi fino in Veneto e osservasse le opere di Lotto, i bresciani Moretto e Romanino, Pordenone; e
forse già a questi anni risalgono i primi contatti con gli ambienti religiosi riformati lombardi.
Il primo periodo romano I primi anni a Roma (1593-95) vedono C alle prese con un difficile inserimento nell’ambiente artistico e delle committenze della città. I biografi parlano di un periodo di miseria in cui l’artista si prova a risiedere dapprima presso monsignor Pandolfo Puci di Recanati, per il quale eseguí alcune «copie di devozione»; quindi
passò a bottega di un capocciante, Lorenzo Siciliano, facendovi «teste per un grosso l’una», mentre, una volta trasferitosi presso Antiveduto Grammatica, si mise a dipingere «mezze figure»; ancora un cambio di residenza, questa
volta presso il piú noto Cavalier d’Arpino, da cui «fu applicato a dipinger fiori e frutti». Dopo un altro breve spostamento in casa di monsignor Fantin Petrignani, finalmente,
nel 1595, incontra il pittore Prospero Orsi che lo introdurrà
Storia dell’arte Einaudi
presso il cardinal Del Monte, suo primo importante committente. Dietro al quadro cosí desolante tramandato dai
biografi e al poco conto che questi sembrano attribuire alle
prime prove romane del Merisi, si cela in realtà una certa reticenza a considerare quadri che, per soggetto e stile, dovevano già apparire come fortemente innovativi, soprattutto
se si tiene presente il carattere decorativo, celebrativo e accademico dell’arte ufficiale romana del tempo. Poche sono
le opere rimasteci di questo periodo e la maggior parte di esse pone problemi di critica: ormai comunemente accettate
come autografe il Giovane con canestra di frutta (Roma, Gall.
Borghese; datata, in base all’inventario dei dipinti sequestrati al Cavalier d’Arpino, al periodo di permanenza del
Merisi nella bottega del pittore) e il Bacchino malato (Roma,
Gall. Borghese; restituito a C dal Longhi e identificato come possibile autoritratto del pittore dopo la degenza presso
l’ospedale della Consolazione), piú problematiche risultano
il Fanciullo che monda la pera (di cui si conoscono diverse copie di un originale oggi perduto), il Fanciullo morso da un ramarro (anch’esso noto attraverso copie) e il Giovane con i fiori (risultante nell’inventario Borghese del 1693, oggi perduto). In queste prime opere C, pur poggiando saldamente sulla sua formazione lombarda, procede a uno stravolgimento
delle ormai canoniche classificazioni accademiche in merito
ai temi e al modo di trattarli, per concentrarsi, con un’energia del tutto nuova, su pochi elementi tratti dalla realtà. Nasce cosí la metafora dello specchio, di una pittura cioè «come specchio della realtà o, per converso, la realtà vista allo
specchio da un occhio che sa inclinarlo quanto occorra al sentimento dell’ora» (Longhi), ovvero di una realtà che il pittore non si limita a copiare ma in cui esso stesso si specchia
caricandola, pur nel fermo proposito di rimanere fedele al
vero, di valenze simboliche e riferimenti culturali. E che dietro all’attenzione quasi allucinata che il pittore dedica anche ai piú piccoli particolari di quella verità, debbano esservi un movente ideologico e una volontà morale, è idea su cui
la critica recente è piú volte tornata, sfatando il presunto carattere popolare e ingenuo di questa prima produzione.
Cosí, in opere come il Bambino malato e il Fanciullo morso
da un ramarro, sono stati messi in evidenza i riferimenti alla statuaria classica o alla teoria degli affetti particolarmente diffusa al Nord. Piú in generale tutta la prima produzio-
Storia dell’arte Einaudi
ne è stata letta in chiave simbolica: come allegoria dei sensi
(Spear), come riflessione morale (Salerno), come allegoria
cristologica e dell’amore divino in riferimento al Cantico dei
Cantici (Calvesi); o infine vi si è visto il preciso intento, da
parte del Merisi, di riportare ad un tono medio soggetti solitamente trattati in toni sublimi e idealizzati (Gregori). Nel
1595-96 si colloca una svolta importante per la vita e l’arte
del C: a questa data il pittore viene infatti introdotto, tramite l’amico Prospero Orsi, presso Francesco Maria del
Monte, nel palazzo del quale si trasferirà, abitandovi per alcuni anni. Nel cardinale egli trovò un protettore di profonda cultura, un uomo influente e ben inserito negli ambienti
politici e religiosi del tempo, capace di introdurlo in una cerchia di committenti e protettori che rimarrà di fondamentale importanza per lo sviluppo culturale e artistico del pittore. Ma soprattutto nel Del Monte C trovò un appassionato intenditore d’arte e un importante collezionista. In base
all’inventario della sua collezione pubblicato dal Frommell,
conosciamo con esattezza le opere del Merisi da questi possedute: otto, di cui cinque certamente eseguite nel periodo
giovanile: il Concerto di giovani (New York, mma), il Suonatore di liuto (Leningrado, Ermitage), San Francesco che riceve le stimmate (Hartford, Wadsworth Atheneum), i Bari
(Forthworth Tex., Kimbell Art Museum) e la Buona ventura (due versioni di cui una a Roma, Pinacoteca Capitolina,
e l’altra, forse di poco successiva, a Parigi, Louvre). Le opere di questo periodo rivelano un progressivo sviluppo dell’arte di C che, sotto gli stimoli culturali del suo committente,
tende progressivamente ad una maggior complessità di temi
e ad uno stile piú idealizzante. Su una matrice ancora fortemente lombarda (Moretto, Savoldo e Peterzano) si inseriscono spunti classicheggianti, come l’indugiare sui panneggi, l’inserimento di figure piú astratte (l’angelo del San Francesco che riceve le stimmate o l’Eros del Concerto di giovani)
di una bellezza efebica (Suonatore di liuto). Parallelamente
vengono proposte tematiche piú elaborate: soggetti espressamente allegorici (il Concerto di giovani che, con l’introduzione di Eros, si lega al binomio amore-musica di ascendenza veneta), la tematica musicale (ancora il Concerto di giovani e il Suonatore di liuto) e, per la prima volta, un soggetto
religioso (San Francesco che riceve le stimmate; infine, nella
Buona ventura e nei Bari, l’artista affronta scene piú com-
Storia dell’arte Einaudi
plesse in cui alla tranche de vie si accompagna un più sottile
studio psicologico. Ancora per il Del Monte dipinse, secondo la testimonianza del Bellori, il soffitto del Casino nel
Giardino Ludovisi, utilizzato dal cardinale per esperimenti
scientifici e alchemici. Il dipinto (ad olio su muro), rappresentante Giove, Nettuno e Plutone, per il cattivo stato di conservazione ha posto problemi alla critica che non è unanime
nel riconoscervi l’autografia caravaggesca; propendono per
un’attribuzione al C: M. Calvesi che, in relazione alla funzione del Casino e agli interessi scientifici del cardinale, ne
dà una lettura in chiave alchemica; M. Gregori, che vi riconosce l’influsso della formazione lombarda; Spezzaferro, che
lo pone in relazione agli studi prospettici coltivati dal Del
Monte e dal fratello Guidobaldo; Salerno. Capolavoro del
periodo giovanile è il Bacco (Firenze, Uffizi); il quadro venne riscoperto dal Longhi che lo datò tra le prime opere del
C, mentre il Mahon lo considerò opera che apre la fase matura del pittore (1595-96 o ’96-97); quest’ultima datazione
è per lo piú seguita dalla critica odierna (Frommell suppone
che il quadro provenisse originariamente dalla collezione Del
Monte). Come nelle opere precedenti, C parte da un’osservazione realistica del suo modello, dalle guance paonazze e
dalle unghie sporche, indugia sulla natura morta in primo
piano descrivendo con minuzia le diverse qualità della frutta, le mele bacate, le foglie secche; ma accanto a questa fedeltà al vero emerge una spinta idealizzante che si risolve attraverso il riferimento alla statuaria classica; cosicché le fattezze molli ed efebiche del giovane Dioniso, piú che da intendersi come allusioni a messaggi omoerotici, possono essere paragonate a rappresentazioni del dio di età tardoantica. La tensione idealizzante si accompagna a una carica simbolica riassunta in quel gesto di offrire il calice che ha fatto
supporre un riferimento al sincretismo paleocristiano tra iconografia dionisiaca e quella del Cristo redentore (Calvesi,
1971). Ancora chiaramente decifrabile, in quest’opera, è
l’influenza della formazione bresciana, soprattutto nella resa plastica ottenuta con il ricorso a forti contrasti di colore
e nella luce morbida che avvolge i corpi e le cose e li modella: caratteristica, questa, propria di tutte le opere giovanili
del Merisi.
«Da cui [il d’Arpino] fu applicato a dipinger fiori e frutti sì
bene contraffatti, che da lui vennero a frequentarsi à quel-
Storia dell’arte Einaudi
la maggior vaghezza, che tanto oggi diletta». Di questa produzione giovanile di nature morte non ci resta nulla se si eccettuano i tre quadri (due a Roma, Gall. Borghese, e uno a
Hartford, Wadsworth Atheneum) raggruppati da F. Zeri in
base all’inventario dei dipinti sequestrati al d’Arpino e sui
quali tuttavia la critica è divisa (alcuni studiosi propendono
per un’attribuzione all’Accademia dei Crescenzi; le tre Nature morte sono state esposte nel 1985, con incerta attribuzione al C, nella mostra The Age of Caravaggio: New York,
mma). Documento certo e straordinario di questa attività
dell’artista è la Canestra di frutta (Milano, Ambrosiana), opera appartenuta a F. Borromeo (menzionata nel codicillo testamentario del 1607 e descritta nell’atto di donazione della raccolta all’Ambrosiana) che probabilmente la acquistò direttamente dal C e non, come prima si credeva, tramite il
Del Monte (la lettera comprovante il dono da parte dei Del
Monte si riferiva in realtà ad orologi; d’altra parte il Borromeo era presente a Roma fino al 1601 (Calvesi, 1973)). Il
genere della natura morta, di origine nordico-fiamminga, si
andava diffondendo in Italia (particolarmente al Nord), trovando proprio nel Borromeo e Del Monte due appassionati
sostenitori. Tuttavia, rispetto ai prototipi nordici, la Canestra di C possiede una prodigiosa sinteticità di visione, lo stile e la composizione ne fanno un «ritratto» di pari dignità
con rappresentazioni di personaggi («e il C disse che tanta
manifattura gli era fare un quadro buono di fiori come di figure», scrive il Bellori). La visione lenticolare dei particolari non diviene mai descrizione grazie a una studiatissima
composizione che si fonda su contrapposizioni di colori; la
natura, colta nella sua flagrante realtà, rivela se stessa e il significato simbolico di cui è investita. Tra il 1598 e il 1599
C vede allargarsi notevolmente il giro delle sue committenze, è in questi anni che riceve i primi incarichi importanti e
la sua fama comincia a circolare tra gli ambienti romani. Le
opere di questo periodo non rivelano un percorso coerente
ma sperimentazioni diverse in concomitanza con prove che
vedono l’artista impegnato in composizioni piú complesse.
Accanto a quadri ancora di soggetto mitologico (la Medusa
(Firenze, Uffizi), opera appartenuta al Del Monte che ne fece dono al granduca di Toscana, e Narciso (Roma, gnaa),
opera ignorata dalle fonti e restituita al C dal Longhi ma di
discussa attribuzione) il pittore affrontò la sacra rappresen-
Storia dell’arte Einaudi
tazione (Riposo dalla fuga in Egitto: Roma, Gall. Doria) e il
quadro d’azione (Giuditta che decapita Oloferne (Roma,
gnaa), da identificarsi con un quadro eseguito per O. Costa). In quadri come il Riposo dalla fuga in Egitto (in cui piú
volte è stata sottolineata l’ascendenza lombarda e lottesca e
sono stati individuati rapporti con opere di Annibale Carracci e J. Caraglio), la Maddalena penitente (Roma, Gall. Doria) e Narciso prevale l’intonazione malinconica e meditativa, sottolineata dalle figure rinchiuse in un circolo, come assorte in un dialogo silenzioso con se stesse e dalla luce che
le illumina fino a raggiungerle nello spirito. Nella Medusa e
nella Giuditta, invece, il dramma esplode in una mimica
espressiva, nell’azione violenta, colta al suo culmine, e annuncia quella tematica «dell’urlo» che troverà sviluppo nelle opere seguenti. Opera ancora tra il sacro e il profano è il
San Giovanni Battista (Roma, Pinacoteca Capitolina; eseguito
per Ciriaco Mattei), dove il soggetto religioso viene trattato con estrema sinteticità di simboli (tanto che alcuni critici hanno voluto addirittura mettere in dubbio che si tratti
di un soggetto sacro), mentre su tutto prevale un senso di letizia fisica e spirituale. Tenendo presenti alcune peculiarità
stilistiche, come la presenza di moduli manieristici (il ricordo degli ignudi michelangioleschi) e l’ispessirsi della zona
d’ombra (quell’ingagliardirsi degli scuri, come lo definí il
Bellori), l’opera è solitamente datata al 1599-1600, in prossimità dei laterali di San Luigi dei Francesi.
Le grandi commissioni sacre Nel luglio del 1599, probabilmente per intercessione del suo potente protettore, C riceve la commissione dei due quadri laterali per la Cappella
Contarelli in San Luigi dei Francesi; nel dicembre 1600 le
due grandi tele, rappresentanti la Vocazione di san Matteo (a
destra) e il Martirio di san Matteo (a sinistra), erano già collocate sul posto. Nella Vocazione C mette in scena, quasi tra
quinte di teatro, alcuni gabellieri intenti a contare il denaro, mentre sulla destra, accompagnato da un forte fascio di
luce – luce di grazia e salvazione – fa ingresso il Cristo e al
suo seguito san Pietro che ne ripete il gesto solenne di chiamata (esami radiografici hanno dimostrato che la figura del
santo, simbolo della Chiesa portatrice della parola di Cristo
e della grazia divina, fu aggiunta dall’artista in un secondo
momento). Il Martirio ebbe, come testimoniano gli esami radiografici, un’esecuzione piú elaborata in successive reda-
Storia dell’arte Einaudi
zioni fino a quella finale in cui l’artista riuscì a comporre mirabilmente la concitazione dei fedeli radunati nella chiesa,
con il dramma in fieri dell’uccisione del santo. Gli astanti si
ritraggono ai lati del quadro mentre la scena di martirio è
collocata al centro e illuminata da una luce intensa che colpisce san Matteo e si riflette sul corpo del suo carnefice. Servendosi di numerosi suggerimenti tratti da quadri di Tintoretto, Annibale Carracci, Raffaello e Michelangelo, il pittore dà vita ad una composizione macchinosa in cui vengono
rielaborati e assimiliati moduli manieristici. Piú complessa
la vicenda della pala d’altare della Cappella, con San Matteo
e l’angelo, di cui C eseguì due differenti versioni (la prima
acquistata dal marchese Giustiniani, già a Berlino, è andata
distrutta). I documenti infatti non parlano delle due diverse versioni, ma semplicemente riferiscono della decisione
presa dagli esecutori testamentari del Contarelli di sostituire la statua del San Matteo di J. Colabaert con un dipinto
del C (febbraio 1602) e del saldo al pittore avvenuto nel settembre 1602. In base a questi dati la critica non è concorde
nella datazione del primo San Matteo (il Longhi lo datava agli
anni giovanili, 1602 per la Cinotti, 1600-1601 per Calvesi,
1599 per Spezzaferro), mentre certamente il secondo fu eseguito nel 1602. La vicenda della prima versione è riferita dal
Bellori, che la pone a capo di tutta una serie di opere rifiutare al pittore a causa della loro presunta indecorosità; nel
San Matteo, in particolare, avevano offeso i tratti rudi e contadineschi della figura «che non haveva aspetto di santo».
Rispetto alla seconda versione il quadro di Berlino pone l’accento sull’origine umile dell’Evangelista analfabeta che guarda con meraviglia la sua mano, materialmente guidata
dall’angelo, scrivere i versi ebraici del Vangelo. Nella redazione definitiva, invece, viene piuttosto sottolineata – mediante il computo digitale dell’angelo – la priorità del vangelo di Matteo rispetto a quelli successivi; allo stile plastico
ed energico della prima invenzione succedono un’intonazione piú classicista, uno stile piú composto e ufficiale ma
anche piú freddo. Appena terminati i laterali di San Luigi,
nel settembre 1600, il Merisi riceve un secondo incarico importante: i due dipinti (Crocefissione di san Pietro e Caduta
di Saulo) per la Cappella Cerasi in Santa Maria del Popolo.
La commissione riguardava due tavole mentre i due quadri,
consegnati già nel novembre 1601, sono eseguiti su tela.
Storia dell’arte Einaudi
Nell’arco di un anno C eseguì quindi due versioni dello stesso soggetto (le prime, su tavola, vennero rifiutate – secondo Mancini – e ritirate dal cardinal Sannesio). La prima redazione della Caduta di Saulo (coll. Odescalchi-Balbi; attribuita a C da Argan e in cui alcuni critici hanno visto un’opera giovanile indipendente dai laterali della Cappella Cerasi)
fu rifiutata forse per quel precipitarsi troppo ardito del Cristo in carne ed ossa sul corpo del Santo; essa presenta, soprattutto se confrontata con quella definitiva, uno stile ancora legato alle esperienze giovanili (nel suo carattere marcatamente lombardo) e, allo stesso tempo, il ricorso a moduli manieristici che l’avvicinano al Martirio di san Matteo. I
due quadri oggi nella cappella segnano un ulteriore sviluppo
nel percorso artistico del C, pienamente risolta vi appare la
tematica luministica avviata nei quadri precedenti, di una
luce simbolica e rivelatrice. La composizione, rigidamente
impostata su diagonali, blocca il dramma colto nel suo momento culminante. Intorno a questi due altissimi capolavori la critica ha radunato una serie di opere in cui si riflette
ili segno della maturità stilistica dell’artista: al periodo della Cappella Contarelli (per analogie con il primo San Matteo) se non prima, al 1600 è datata la Cena in Emmaus (Londra, ng) nella quale il Cristo risorto appare nell’inconsueta
iconografia, di ascendenza lombarda, di giovane imberbe,
con probabile allusione alla vita eterna di cui è promessa. Al
1603 ca., in base a documenti, risalirebbe invece il Sacrificio di Isacco (Firenze, Uffizi) mentre certamente tra il 1602
e il 1603 si colloca l’Amore vittorioso (Berlino, Staatliches
Museum, eseguito per il marchese Giustiniani). Si tratta ancora di un’immagine di letizia, come già nel San Giovannino, di una letizia pagana questa volta (tanto da essere stato
per questo variamente interpretato come «amore profano»
o «amore virtuoso»). Ormai la fama di C è al suo culmine e
un nuovo contributo ad essa è dato dalla Deposizione
(1602-1604: Roma, pv) che l’artista eseguì per la chiesa degli oratoriani di Santa Maria in Vallicella, su commissione
di Pietro Vittrice. Nell’opera sono riassunte e massimamente
espresse le caratteristiche dello stile maturo del C (avviatosi nei laterali di San Luigi ma ancor piú in quelli della Cappella Cerasi): vi si ritrova il movimento bloccato dagli assi
della composizione in scorci arditi, l’evidenza plastica dei
corpi e delle cose che emergono dal buio in toni accesi di co-
Storia dell’arte Einaudi
lore, l’invenzione infine di un nuovo classicismo fatto di essenzialità e di una solennità che nasce dalla realtà stessa, nel
momento in cui questa viene rivelata dalla luce (l’armonia
di quest’opera strappò parole di lode persino all’intransigente Bellori). E ancora una volta si tratta di una realtà fatta di sentimenti e affetti studiatissimi e di significati non allusi o sottintesi ma semplicemente riassunti nel pietrone su
cui poggia l’intero gruppo – la pietra su cui nascerà la Chiesa – e che la mano di Cristo sembra indicare. Tra il 1603 e
1605 si distribuiscono una serie di opere di difficile ricostruzione critica: al 1603 è solitamente datato il San Francesco in meditazione (in relazione al prestito di un saio fatto al
pittore dal Gentileschi; la critica è tuttavia divisa nell’attribuire l’autografia all’esemplare di Roma – Santa Maria della Concezione – o a quello di Carpineto Romano). Il motivo della malinconica meditazione sul tema del memento mori viene riaffrontato anche nel San Gerolamo penitente (Barcellona, Museo di Monserrat; di attribuzione non concordemente accettata, datato al 1605-1606 ca.) e nel San Gerolamo scrivente (Roma, Gall. Borghese; di uguale datazione).
Lo stesso sentimento prevale anche nel San Giovanni Battista (1603 ca.: Roma, gnaa), mentre si fa drammatico, per il
violento contrasto chiaroscurale, nel San Giovanni Battista
di Kansas City (am). Intorno al 1604-1605 (come risulta da
documenti recentemente rinvenuti da R. Barbiellini Amidei) C eseguí per il monsignor Massimi un’Incoronazione di
spine (identificata da M. Gregori con il quadro oggi a Prato,
Cassa di Risparmio e Depositi) e un Ecce Homo (con probabilità si tratta del dipinto reso noto dal Longhi; Genova,
Galleria comunale di palazzo Rosso; due versioni di un diverso Ecce Homo in collezioni romane sono forse derivate
da una successiva versione eseguita sempre per il Massimi
(Calvesi)).
L’ultima fase romana e la fuga Seguono, improvvisi, anni
difficili per il pittore che vede le sue opere criticate e rifiutate; viene coinvolto in un’aggressione; e, infine, l’uccisione di un avversario al gioco gli procura la condanna capitale e lo costringe a una precipitosa fuga da Roma (29 maggio
1606). Entro il marzo 1606 C aveva eseguito la Madonna di
Loreto (iniziata forse già nel 1604 quando il pittore è documentato nelle Marche, a Tolentino) per la Cappella Cavalletti in Sant’Agostino. La Madonna, di una bellezza statua-
Storia dell’arte Einaudi
ria, appare sulla soglia della sua casa offrendo se stessa e il
Bambino all’adorazione dei due umili pellegrini; la sua figura che emerge dall’ombra sembra quasi quella di «un’antica statua che, al calore di quell’umile devozione, si stia rincarnando e facendosi viva» (Longhi). La scelta tematica doveva risultare ardita: il pittore sembra infatti invitarci ad osservare l’evento sacro con gli occhi un po’ stupiti dei fedeli
piú poveri, a sentire la sua religiosità attraverso e in comunione con quei due pellegrini dai piedi sporchi. E le critiche
questa volta non furono risparmiate; puntualmente registrate dal Bellori esse si appuntavano sui piedi fangosi dei
due devoti, sui loro abiti sdruciti: «e per queste leggerezze
in riguardo delle parti che una gran pittura aver dee, dè popolani ne fu fatto estremo schiamazzo». Ma la pala piacque
ai committenti che nel marzo del 1606 la collocarono sull’altare della cappella. Diversa fu la vicenda delle due opere seguenti: la Madonna dei palafrenieri e la Morte della Madonna.
La prima, eseguita per l’altare di Sant’Anna dei Palafrenieri in San Pietro (1605-1606; oggi a Roma, Gall. Borghese),
rimase nella basilica per soli due giorni, dopo i quali venne
ritirata per passare ben presto nella collezione del cardinal
Borghese. La Morte della Madonna (Parigi, Louvre), eseguita per la Cappella Cherubini in Santa Maria della Scala poco prima della fuga da Roma, inaugura una nuova fase della pittura di C destinata e svilupparsi nelle opere successive
del periodo napoletano. Il corpo della Vergine, disteso su
una semplice tavola, è attorniato dagli apostoli e dalla Maddalena, ritratti in diverse espressioni di dolore (in cui è ancora uno studio sulla resa degli affetti); il grande spazio lasciato vuoto, nella parte superiore del quadro, e il rosso fiammeggiante del drappo, amplificano l’effetto corale della scena. La pala fu immediatamente respinta dal clero perché
«aveva fatto con poco decoro la Madonna gonfia e con gambe scoperte» (Baglione) o per «havervi troppo imitato una
Donna morta gonfia» (come riferisce ancora una volta il Bellori). I due rifiuti, a parte la pretesa mancanza di decoro addotta dai biografi, sono indice di un clima fattosi ostile intorno al pittore (probabilmente anche in seguito all’elezione del nuovo papa Paolo V, di orientamenti religiosi ostili
nei confronti delle correnti riformistiche e pauperistiche a
cui C era invece legato) e che, a seguito dell’omicidio di cui
questi si rese colpevole, divenne in breve insopportabile, tan-
Storia dell’arte Einaudi
to da costringerlo a riparare nei feudi Colonna a Zagarolo.
A poco prima della fuga o subito dopo (poiché le fonti la dicono inviata da Zagarolo al marchese Patrizi) risale la Cena
in Emmaus (Milano, Brera) in cui viene ripreso lo schema
compositivo di quella giovanile di Londra, ma con differenze stilistiche che la datano a questi ultimi momenti romani.
Certamente al periodo del soggiorno presso i Colonna è databile la Maddalena in estasi (citata dalle fonti e di cui si conoscono numerose copie di un originale perduto).
Il primo soggiorno napoletano A fine 1606 C prende la via
di Napoli; appena giunto nella città, già nel settembre 1606
l’artista pone mano alla grande pala delle Sette opere di Misericordia (Napoli, Pio Monte della Misericordia) portandola a compimento in breve tempo (gennaio 1607). Il tema vi
viene affrontato seguendo un’iconografia laica, di origine
medievale (di piú larga diffusione al Nord) in cui le sette opere vengono riunite in un’unica scena. Il complesso problema iconografico e compositivo, che richiedeva il rispetto delle tre unità di luogo tempo e azione, viene risolto dall’artista riunendo in un vicolo buio di Napoli un’umanità tutta
intenta a sostenersi pietosamente e rivelandola con la violenta illuminazione della luce divina. In alto, separata dagli
uomini ma partecipe delle loro vicende, la divinità si fa presente con l’apparizione della Madonna (aggiunta in un secondo tempo), accompagnata dal vorticoso volteggiare e dallo sbatter d’ali degli angeli. Su tutto prevale un profondo
senso di compassione umana e religiosa, su cui si proietta
probabilmente la stessa vicenda biografica dell’artista desideroso di redimersi dal suo peccato attraverso le buone opere, secondo l’insegnamento della Chiesa. Poco documentata è invece un’altra grande pala del periodo napoletano (ma
secondo alcuni iniziata già negli ultimi anni romani (Hinks,
1953); o a Zagarolo (Hess, 1954). Friedländer e Hinks supponevano che l’opera rimanesse incompiuta e venisse terminata da altri con l’aggiunta del ritratto del donatore): la
Madonna del Rosario. Destinata ad una chiesa dell’ordine domenicano (vista la presenza dei santi Domenico e Pietro
Martire; probabilmente per San Domenico Maggiore a Napoli dove i Carafa-Colonna, protettori del C, avevano una
loro cappella (Calvesi, 1985, l’opera venne in seguito acquistata per la chiesa di San Paolo ad Anversa, su iniziativa di
un gruppo di pittori tra i quali Rubens. Come nella Madon-
Storia dell’arte Einaudi
na di Loreto la Vergine appare ritratta con le fattezze di un
simulacro, ma tra di essa e la folla di fedeli (per i quali C ricordò l’Elemosina di sant’Antonio del Lotto) si interpongono i due santi domenicani, rappresentanti della Chiesa mediatrice della grazia. Ancora al primo periodo napoletano risalgono: la Flagellazione (Napoli, Capodimonte) eseguita nel
1607 per San Domenico Maggiore, e per la quale il pittore
si ispirò a modelli romani (Sebastiano del Piombo in San Pietro in Montorio e Peterzano in Santa Prassede); il David di
Vienna (km, di discussa attribuzione e datazione) e la Salomè di Londra (ng).
Malta A fine 1607 C lascia Napoli per Malta: nell’isola cercava un rifugio alla persecuzione della legge e sperava in riconoscimenti ufficiali. Con questa speranza in animo il pittore si mise a dipingere il Ritratto di Adolf de Wignacourt,
gran maestro dell’ordine dei Cavalieri di Malta, opera che
gli valse il conferimento del cavalierato (cfr. Baglione e Bellori, che parla di due ritratti). Uno dei due ritratti è stato
identificato con quello oggi a Parigi, Louvre (Dobson e
Friedländer). Il carattere rigido della composizione e l’anacronismo dell’armatura di foggia superata (risalente agli anni 1570-80) ha tuttavia indotto alcuni critici a contestarne
l’attribuzione, mentre altri lo riconducono al carattere celebrativo e ufficiale del dipinto, forse destinato a commemorare una vittoria militare. Per il secondo ritratto citato dal
Bellori è stata proposta invece l’identificazione con quello
conservato a Firenze (Pitti; cfr. Gregori). I tratti somatici
del gran maestro si ritrovano anche nel San Gerolamo della
Valletta (Cattedrale), sintetica e drammaticissima immagine del santo scrivente, illuminato da una luce che piú che
modellare sembra quasi mangiarne la figura. Con la Decollazione del Battista (eseguita per la Compagnia della Misericordia di San Giovanni; oggi alla Valletta, Cattedrale) C tocca l’apice di questa drammaticità; il tragico evento si svolge
in uno spazio chiuso e immoto, portato a compimento dai
gesti meccanici e come bloccati degli esecutori. Esso è presentato dall’artista in tutta la sua brutalità, senza alcuna risonanza emotiva; cosicché la firma del pittore, ottenuta con
il fiotto di sangue sgorgante dal capo del Battista, assume il
ruolo sinistro di commento e manifesta la piena identificazione del Merisi che nel quadro rispecchia la sua personale
vicenda. Ad analogo clima emotivo si ricollega l’Amorino
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dormiente (Firenze, Pitti) in cui il soggetto pagano è volto in
cupo e serio memento mori (Cinotti). Ma anche a Malta la
fortuna del C cessa bruscamente a causa di problemi con la
giustizia (un diverbio con un «cavaliere di giustizia» secondo i biografi, ma forse l’arrivo, nell’isola, della notizia del
bando capitale al quale era condannato). Incarcerato nello
stesso anno in cui aveva ricevuto le piú alte onorificenze, il
pittore fugge alla volta della Sicilia.
In Sicilia Il periodo siciliano (1608-1609) è caratterizzato
da continui spostamenti di città in città durante i quali riesce ad eseguire quattro pale: il Seppellimento di santa Lucia
(Siracusa, Santa Lucia), la Resurrezione di Lazzaro (per la
chiesa dei crociferi di Messina; oggi a Messina, mn), l’Adorazione dei pastori (ivi; per la chiesa dei cappuccini di Messina) e la Natività. Nel Seppellimento di santa Lucia e nella Resurrezione di Lazzaro (oggi molto rovinati) viene portato fino alle estreme conseguenze lo stile già messo alla prova nella Decollazione del Battista di Malta: una fattura rapida, a
tocchi e sbavature e una luce corrosiva che rileva, strappandoli al buio, solo pochissimi particolari essenziali; mentre
l’accento torna, ossessivo, sull’irreversibilità della morte. Ancora due opere di ardua ricostruzione critica, e variamente
riferite al periodo siciliano o già a quello maltese, sono l’Annunciazione (Nancy, mba) e il Cavadenti (Firenze, Gall. e deposito di Palazzo di Montecitorio; di discussa attribuzione,
l’autografia è sostenuta decisamente dalla Gregori).
Il secondo soggiorno napoletano «Ma per esser perseguitato dal suo nemico, convenegli tornare alla città di Napoli, e
quivi ultimamente essendo da colui giunto, fu nel viso cosí
fattamente ferito, che per li colpi quasi non si riconosceva»
(Baglione). Alla fine dell’estate del 1609 C riprende dunque
la via di Napoli con lo stato d’animo del fuggiasco braccato;
ma qui non tardano a raggiungerlo i sicari che lo feriscono
gravemente (questi sono stati identificati dai biografi antichi negli emissari dell’ordine maltese; di recente è stata fatta l’ipotesi che il Merisi fosse stato raggiunto e fatto prigioniero dagli Spagnoli; con un’imbarcazione spagnola – una
feluca –, infatti, egli venne portato a Porto Ercole poco prima di morire (Calvesi, 1985)). Le notizie biografiche e i documenti sulle opere di questo periodo si fanno sempre piú
confusi: la «mezza figura di Erodiade con la testa di Battista» citata dal Bellori (che la dice eseguita per il gran mae-
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stro di Malta, forse per sollecitarne il perdono) è stata identificata con la Salomè di Madrid (Palazzo reale); certamente al secondo periodo napoletano appartiene il David (Roma, Gall. Borghese), quadro in cui si specchia, in toni cupi
e allucinati, il dramma personale dell’artista (che si ritrasse
nelle sembianze di Golia) e in cui si riconosce il caratteristico stile dell’ultimo C. Al maggio 1606 è documentato il
Martirio di sant’Orsola (Napoli, Banca Commerciale); infine,
il San Giovanni Battista che C portò con sé nel suo viaggio di
ritorno verso Roma, e che il vicerè di Napoli rivendicò dopo la morte del pittore, è solitamente identificato, per ragioni stilistiche, con il San Giovanni Battista della Gall. Borghese. Opera di discussa datazione è invece la Crocifissione
di sant’Andrea (Cleveland, am; datata da alcuni al primo, da
altri al secondo periodo napoletano). Cupe e drammatiche,
caratterizzate tutte da una meditazione disperata sulla morte, queste ultime opere sembrano accompagnare i tormenti
esistenziali dell’artista e preannunciarne il triste destino: nel
luglio 1610, mentre tornava a Roma sperando nella grazia
(possibile per l’intercessione del cardinale F. Gonzaga), durante una sosta a Porto Ercole, C muore; la grazia arriverà,
ma troppo tardi. (cvo).
Caravaque, Louis
(Marsiglia?, fine del xvii sec. - San Pietroburgo 1754). Chiamato in Russia da Pietro il Grande, vi soggiornò dal 1716 alla morte. Se ne citano soffitti per i palazzi imperiali, una Battaglia di Poltava (1718) per Peterhof , cartoni per arazzi, schizzi di archi di trionfo, scenografie e costumi teatrali; ma restano soltanto i ritratti della famiglia imperiale, da Pietro il
Grande a Elisabetta (Principesse Anna ed Elisabetta, 1717: Leningrado, Museo russo; Principessa Anna Petrovna, 1725: Mosca, Gall. Tre-t´ja-kov). Era fautore della fondazione di un’accademia d’arte, che prese corpo solo sotto Elisabetta. (bl).
Carbone, Giovanni Bernardo
(Albaro 1616 - Genova 1683). Allievo di Giovanni Andrea
De Ferrari, negli anni ’50 fu a Venezia. Nonostante la sua
considerevole produzione di tele chiesastiche, è soprattutto
noto per i ritratti, inquietanti e «romantici» (Genova, gallerie di palazzo Rosso e di palazzo Bianco, Albergo dei Poveri; Torino, Gall. Sabauda; Nîmes, mba). In essi C prose-
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gue la tradizione del ritratto aulico introdotta da Van Dyck
durante il suo soggiorno a Genova, rimasta interrotta con la
sua partenza nel 1627. La cronologia dei ritratti di C è controversa, a causa della scarsità di riferimenti sicuri; impaginati spesso in modi anticonvenzionali anche se sempre attenti al rispetto del «decoro» del personaggio rappresentato, sono pienamente barocchi nell’impiego di elementi scenografici di grande effetto, che tuttavia non prevaricano la
penetrante indagine psicologica dei volti, resi spesso con impietosa veridicità. L’opera di C ebbe una certa influenza anche sull’attività ritrattistica del Gaulli. (pr+sr).
Carcano, Filippo
(Milano 1840-1914). Entrato a Brera nel 1857, fu allievo di
Hayez e di Bertini. Nel 1862 esordí con un quadro di soggetto storico, Federico Barbarossa e il duca Enrico il Leone a
Chiavenna (Milano, Brera), che fu ben accolto dalla critica.
C si distaccò ben presto dal mondo accademico e al suo isolamento dal mercato italiano corrispose un certo successo in
quello anglosassone. L’attenzione al vero e lo studio degli
effetti della luce indussero C ad approdare a un puntinismo
che poco si discosta da quello dei contemporanei divisionisti francesi. Il quadro Una partita a Bigliardo (1867: Milano,
Brera), esposto a Brera nel 1872, suscitò la reazione della
critica, che accolse con durezza il realismo del soggetto, la
minuziosità della resa dei dettagli e la chiarezza luministica
del quadro ottenuta appunto con mezzi paradivisionisti. In
questi anni C dipinse scene di genere e anche quadri di tema piú tradizionale: Idillio, Passeggiata Amorosa, Buon cuore infantile (1876: Milano, Brera). Dal 1880 si dedicò quasi
esclusivamente alla pittura di paesaggio, raggiungendo apprezzabili risultati. Tra i suoi migliori paesaggi ricordiamo:
Marina (1888: Roma, gnam), Pecore al pascolo (Torino, mc),
Estate in alta montagna (Venezia, gam). (cmc).
Carderera, Valentin
(Huesca 1796 - Madrid 1880). Aragonese, fu tra le figure
piú interessanti del xix sec. in Spagna per la curiosità intellettuale, l’apertura internazionale e la sicurezza di gusto.
Studiò a Madrid e fu allievo del pittore accademico Maella;
ottenne poi una pensione per Roma nel 1822. Come pittore fu soprattutto buon ritrattista, ancora molto classico,
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dall’eleganza un po’ compassata: il Principe d’Anglona (Madrid, Museo Romántico). Per converso il vasto eclettismo
dei suoi gusti, l’interesse per il passato nazionale, e piú particolarmente per l’architettura e la pittura del medioevo, le
amicizie letterarie e la collaborazione alle riviste nuove come «El artista» lo riallacciano al romanticismo militante. Oltre ai lavori eruditi, di cui il piú notevole è la monumentale
Iconografia española (2 voll., 1855-64), pubblicò numerosi
studi sui pittori spagnoli, specialmente su Goya. Ammiratore e amico del suo grande compatriota aragonese, ne fu
uno dei primi, e piú sicuri, biografi, dall’articolo su «El artista» (1835) a quello sulla «Gazette des beaux-arts» (1860).
Collezionista instancabile quanto esperto, fu spesso fornitore e benefattore dei musei. Cosí, donò al museo di Huesca, quando venne fondato nel 1873, una preziosa serie di
primitivi. Allo stesso modo la Biblioteca nacional e l’Academia de San Fernando di Madrid devono a lui alcune centinaia di disegni di alta qualità. (pg).
Cardi, Ludovico → Cigoli
Cardiff
National Museum of Wales Fondato nel 1912, il museo del
Galles dedica un posto notevole agli artisti che illustrano il
paesaggio e i costumi gallesi, e ai ritratti dei gallesi celebri;
la raccolta dei dipinti di Richard Wilson (Roma e il Ponte
Molle, Castello di Caernarvon) è la piú importante e rappresentativa. La sezione di belle arti è stata trasformata nel
1952 in seguito al lascito di Gwendolen Davies, comprendente soprattutto dipinti francesi del xix sec., tra cui alcuni Monet e la Parigina di Renoir; tale lascito è stato completato nel 1963 da quello di Margaret Davies, sorella di
Gwendolen, che ha arricchito il museo con quadri francesi
del xix sec. e opere di artisti inglesi moderni. (jh).
Cardisco, Marco
(documentato dal 1520 al 1541). Di origine calabrese, il Vasari lo dice attivo dal 1508 al 1542. Alla sua prima fase appartiene l’Adorazione dei Magi (1516-18 ca.: Napoli, Museo
di San Martino), originale mescolanza di conoscenze ricavate da Leonardo, Girolamo Genga e Raffaello, impreziosite da un decorativismo ancora ispano-fiammingo. Di un piú
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vivo interessamento (1524-27 ca.) alla maniera intensamente espressiva di Polidoro da Caravaggio, probabilmente in
coincidenza con il primo soggiorno napoletano di questi, è
invece traccia in grandiose pale d’altare con la Madonna col
Bambino e santi eseguite per alcune chiese della capitale (Santa Maria delle Grazie a Caponapoli, Santa Maria del Popolo agli Incurabili, San Giorgio Maggiore). In questi dipinti,
infatti, le consuete tipologie raffaellesche alla Andrea Sabatini vengono complicate da movenze contorte e da scorci
prospettici estremamente sintetici. L’ulteriore sterzata in direzione manieristica dell’ultima fase del C (1528-41 ca.) è
invece ben rappresentata dalla Disputa di sant’Agostino (Napoli, Capodimonte), ormai del tutto aggiornata sullo stile
messinese di Polidoro. (rn).
Cardon, Charles-Léon
(Bruxelles 1850-1920). Fu intimamente legato alla vita dei
musei belgi, prima come allievo e collaboratore di Alphonse Balat, architetto del museo di belle arti di Bruxelles
(1875-85), poi come presidente della commissione direttiva
del museo stesso e vicepresidente della commissione reale
dei monumenti e dei luoghi storici. Da vivo fece numerose
donazioni ai musei di Anversa e Bruxelles (Madonne italiane, opere di Baschenis e di Siberechts). La collezione andò
dispersa in due vendite all’asta nel 1921; l’attribuzione di
taluni quadri venne allora discussa. In quell’occasione i mrba di Bruxelles videro arricchirsi le loro collezioni di un Maestro di Sant’Egidio, di un Maestro della Visione di santa Gudula e di un Ritratto presunto di Isabella d’Austria di Gossaert. (prj).
Carducho, Bartolomé (Bartolomeo Carducci)
(Firenze 1554 ca. - Madrid 1608). Il ruolo storico del fiorentino Carducci, ribattezzato dagli spagnoli Bartolomé Carducho, supera l’importanza della sua opera: nel gruppo di
pittori chiamati da Filippo II per completare la decorazione
dell’Escorial, fu l’unico artista importante che rimanesse in
Spagna e che, fattosi madrileno, vi lasciasse una traccia durevole. Prima scultore e architetto, lavorò per il granduca a
Firenze sotto la direzione di Ammannati; in seguito studiò
pittura a Roma con Federico Zuccaro; lo seguí in Spagna nel
1585, conducendo con sé il fratello minore Vincenzo. Par-
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tecipò anzitutto alla decorazione della biblioteca dell’Escorial, dove eseguí affreschi (Scuola d’Atene, Sacerdoti egiziani, Concilio di Cordova) che completavano le allegorie delle
Scienze di Tibaldi e, piú tardi (1598), la Vita di san Lorenzo
in uno dei chiostri. Si stabilí a Madrid nel 1595, e vi si sposò. Filippo III gli dimostrò lo stesso favore del padre, impiegandolo a Valladolid quando la corte vi risiedeva, poi nel
palazzo del Pardo. Morendo C lasciò numerosi discepoli,
conquistati dalle sue qualità morali, il disinteresse e la ricerca di perfezione. Esponente di un «manierismo riformato» ben calibrato e di tavolozza chiara (Deposizione dalla croce del 1595, Cena del 1605: Madrid, Prado), dà prova piú di
scienza e di ricerca di stile che di personalità. A contatto con
l’ambiente madrileno C sembra comunque capace di evolversi, come dimostrano opere quali la Morte di san Francesco
(Lisbona, maa), di un realismo familiare, vigoroso e grave,
per certi versi inatteso e in anticipo sul Seicento piú castigato. (pg).
Carducho, Vicente
(Firenze 1576 ca. - Madrid 1638). Si stabilí in Spagna, dove giunse a nove anni col fratello Bartolomeo, pittore
all’Escorial, e si formò sotto la sua guida. Fu la figura piú
influente del mondo artistico madrileno prima dell’arrivo di
Velázquez. Pittore del re dal 1609, molto in favore sotto Filippo III, fu soppiantato da Velázquez presso il nuovo re.
Visse da allora un poco in disparte, dedicandosi al grande
complesso che doveva decorare i chiostri della certosa del
Paular (1626-32): scene di storia dell’ordine, visioni, miracoli, dalla fondazione da parte di san Brunone fino alle persecuzioni subite durante le guerre religiose del xvi sec. Il suo
stile, vicino a quello degli artisti toscani della sua generazione (Cigoli), unisce la tradizione accademica e gli esordi
del naturalismo a un impegno nel colore ereditato dai veneziani. Le cinquantasei tele che costituiscono la sua opera
principale sono state purtroppo suddivise in una ventina di
musei ed edifici pubblici.
C è, prima di Zurbarán, il grande fornitore degli ordini religiosi, francescani, trinitari, monaci della Misericordia. La
sua arte proba e sapiente è spesso un poco fredda; nondimeno la sincerità del sentimento, la qualità dei bianchi, il
senso del paesaggio, addirittura il timido impiego di proce-
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dimenti tenebristi (malgrado la sua diffidenza verso Caravaggio) continuano a rendere molto interessante la sua copiosa opera. Nell’ultima fase della sua vita scrisse un’opera
teorica, Diálogos de la pintura (Madrid 1633), che malgrado
il relativo arcaismo dei principi è la piú importante dell’epoca in Spagna. (aeps+pg).
Carelia
Le icone della C sono caratteristiche dell’arte della Russia
settentrionale. In questo paese di foreste, le chiese sono tutte in legno e di piccole dimensioni: si spiega cosí l’assenza
di affreschi, la molteplicità delle icone e le misure ridotte
dei pannelli. Malgrado l’influsso della scuola di Novgorod
nel xv sec., i pittori della C hanno conservato abitudini proprie della regione, in particolare l’impiego di colori dai toni
spenti che essi fabbricano da sé. La composizione non riprende i canoni rigorosi che guidavano la pittura di Novgorod. Gli artisti locali ne hanno interpretato i temi (Intercessione della Vergine, xv sec.: ivi, proveniente da Ki∆i) e, a partire dal xvii sec., vi hanno introdotto elementi della propria
vita quotidiana (Scene della vita di san Pietro e san Paolo, xii
sec.: chiesa di Ly™ny Ostrov; Santa Trinità, xviii sec.: chiesa di Vogoruksa), oppure hanno tratto dai tipi locali i volti
dei propri personaggi (Scene della vita di san Nicola, xviii sec.:
chiesa di Novinka). Infine le grandi scene evangeliche, trattate col minimo di dettagli, colpiscono per il carattere statico, evocativo del mistero, e per la laconicità del racconto,
accentuata dalle tonalità spente. (bdm).
Carella
Domenico (Martina Franca 1723-1813), Francesco e Ludovico (ivi, seconda metà del xviii - prima metà del xix sec.).
Formatisi in ambito locale, ripropongono fino alle soglie
dell’Ottocento formule pittoriche di facile effetto legate al
diffondersi in Puglia della maniera rococò in una delle sue
manifestazioni piú originali e vivaci, il giaquintismo. A Domenico, il piú dotato, si devono gli affreschi del piano nobile del Palazzo ducale di Martina Franca (1771-76) con fantasiose scene mitologiche e di vita di corte. Negli innumerevoli dipinti di soggetto religioso (Conversano, Monopoli,
Rutigliano, Martina Franca, Francavilla, Massafra) emer-
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gono non di rado componenti classicheggianti di chiara derivazione solimenesca. (ils).
Carena, Felice
(Torino 1879 - Venezia 1966). Studiò all’Accademia Albertina dove fu allievo di Grosso. Nelle prime opere già dimostra una tensione psicologica e una tecnica che reagisce al dilatato verismo ottocentesco. Nel 1906 vinse il pensionato di
Roma. La sua pittura rievoca il luminismo seicentista filtrato alla luce delle esperienze del francese Carrière. Nel ’12
partecipò alla Biennale. Dopo la pausa della grande guerra
riprese a lavorare ottenendo un notevole successo. Tornò ad
Anticoli Corrado a dipingere contadini, ragazze, cavalli e altro. Tra il 1920 e il 1936 realizzò le sue opere migliori, in
cui mette in evidenza il suo grande talento. Un percorso solitario nella cultura artistica italiana che lo condusse ad una
pittura dal forte accento realistico ma con la forza commovente del romanticismo. (rlm).
Cariani, Giovanni
(Giovanni Busi, detto) (San Giovanni Bianco (Bergamo)
1480-85 - Venezia dopo il 1547). Discendente da una buona famiglia di Fuipiano (Bergamo), trascorse quasi tutta la
vita a Venezia, eccetto un viaggio a Bergamo (ca. 1518 - ca.
1524) e forse un secondo (ca. 1527 - ca. 1532). Verso il
1512-13, quando era già a Venezia da alcuni anni (documentato nel 1509), C si avvicina alla poetica giorgionesca,
senza mai cedervi del tutto però, perché alla fluidità del tonalismo oppone le resistenze tipiche della natura lombarda,
come testimoniano il Suonatore di liuto e il Concerto (New
York, coll. priv.). Sono costanti del C un colore carico, steso a pennellate decise e uniformi, giocato con audaci contrasti, e un intenso psicologismo. Nel gruppo di sette ritratti della famiglia Albani, 1519 (Bergamo, coll. Roncalli), il
colore schiarito e semplificato permette una straordinaria dilatazione formale. A Bergamo C conobbe il Lotto e si confermò nel suo antitonalismo: un incontro vivificante, al quale dobbiamo opere freschissime, come la Pala di san Gottardo e la Madonna e santi (Milano, Brera). L’esempio di Palma
il Vecchio, che costituisce una componente importante della formazione del C, si avverte ancora in un gruppo di opere scaglionate nel terzo decennio (Donna distesa in un pae-
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saggio: Berlino-Dahlem; Adorazione dei pastori: Berlino, Bode Museum; Visitazione: Vienna, km). Come ritrattista C
non smentisce la sua natura incline al dato concreto e quindi alla puntuale caratterizzazione del personaggio (Ritratto
di Giovanni Benedetto Caravaggi e Ritratto di uomo con cappello: entrambi a Bergamo, Carrara). (mcv+sr).
caricatura
Il termine, generalmente connesso alla nozione di comico,
deriva da caricare. In senso stretto significa, nel campo del
ritratto, l’accentuazione o la deformazione di determinati
tratti fisionomici e, nel campo della rappresentazione di un
evento o di una scena, l’evidenziazione di un certo elemento o l’esasperazione di un altro, il che consente al caricaturista di esprimere un giudizio. Al senso etimologico, relativamente semplice, di «carica», o accusa, vengono ad aggiungersi nozioni divergenti quanto quelle di capriccio, grottesco, disparato, pamphlet, o non-senso. La c, intesa in senso lato, attinge i propri argomenti dovunque e si diversifica
senza posa, pur facendo appello a tipi o a simboli convenzionali. Il suo campo d’azione si è diversificato; partendo
dalla deformazione fisionomica dell’individuo, ha rivolto la
propria attenzione a tutti gli atti e a tutti i rapporti umani
e, dalla rappresentazione di costume alla satira politica e a
quella delle arti stesse, alla sua maniera essa rende conto,
mediante la semplificazione o l’esagerazione, l’invenzione o
la parodia, delle epoche che descrive. Pertanto la c non solo riflette lo spirito del tempo, ma è pure testimonianza delle sue passioni e quando la sua azione sia concertata, può
persino influire sugli eventi. La c diviene genere specifico
solo a partire dal xvii sec. La diffusione dei giornali – e dei
giornali satirici illustrati, in particolare (attorno al 1830
ca.) – le procurò un vasto pubblico e non poche censure politiche.
L’antichità Se esempi di deformazione, di caratterizzazione, di animalizzazione e di parodia sono riscontrabili fin dalla piú remota antichità, particolarmente nell’arte egizia; e se
Aristofane e Aristotele menzionano un certo Pausone come
«pittore maligno», occorre senza dubbio ricercare nella ceramica greca i primi tratti caricaturali all’interno di temi orgiastici o mitologici, o a momenti della vita quotidiana. L’influsso del teatro, della commedia o della farsa è qui eviden-
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te tanto per la riproduzione di scene propriamente dette che
per la ripresa di personaggi o di maschere. Il periodo ellenistico perpetua tali appropriazioni, sotto forma di statuette
di bronzo o d’argilla, oltre ad amplificare l’effetto comico
che deriva dall’accostamento tra l’uomo e l’animale o dalla
combinazione delle forme dell’uno e dell’altro secondo un
genere di cui l’iniziatore sembra essere stato il pittore Antifilo. A Roma non si arricchí il vocabolario esistente di alcun apporto originale, limitandosi il piú delle volte a svilupparlo e ad adattarlo. Se alcuni aspetti della pittura sono
testimonianza di ricerche naturalistiche, il suo spirito si volse piú, in questo caso, verso l’erotismo e l’oscenità. D’altra
parte i graffiti offrono spesso documenti preziosi di espressione caricaturale, sotto forma popolare e spontanea.
Il medioevo Le drôleries gotiche tendono ad unire il fantasioso al fantastico e all’immaginario, pur denunciando la
realtà mediante episodi strambi, detti popolari o parodie animali che il Roman de Renart incarna perfettamente in letteratura. La satira medievale affrontava piú la condizione umana che le fisionomie individuali.
Il Rinascimento Leonardo da Vinci ha disegnato una serie
di volti dai tratti deformati, per i quali un certo numero di
studiosi preferisce il termine ‘capriccio’ a c, perché vi mancherebbe qualsiasi intento di canzonatura. Parimenti, presso Hieronymus Bosch, le teste ripugnanti o crudeli che circondano il Cristo, ad esempio nella Via Crucis (conservata a
Gand), non sono state concepite allo scopo di far ridere, dato il carattere religioso del soggetto, ma non è per questo
meno evidente la volontà di «accusa» che in esse si esprime.
D’altra parte, le deformazioni fisionomiche, presso Leonardo come presso Bosch, superano sensibilmente quelle che si
notano in P. Bruegel, pur soprannominato «le Drôle». Grande fortuna ebbero le figure grottesche in C. Jamnitzer, nelle teste composite di Arcimboldo, nei paesaggi antropomorfici attribuiti a J. de Momper e negli assemblaggi di G.
B. Bracelli. In questo periodo la stampa ha contribuito a
diffondere l’immagine satirica.
Il xvii secolo Si è d’accordo nel riconoscere che la nozione
di c propriamente detta, seguendo l’etimologia italiana, ebbe origine nel cerchio bolognese dei Carracci. Ne fu iniziatore Annibale, seguito dal fratello Agostino, dal Guercino,
dal Domenichino, dal Maratta e da altri. Bernini arrivò al
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ritratto-denuncia. Nel xvii sec. l’Italia ebbe il primato
nell’arte della c e ne forní fin dal 1646, col Mosini, la definizione; nel 1681 il Baldinucci la precisò ulteriormente.
Il xviii secolo Il genere proseguí con successo grazie soprattutto all’attività di P. L. Ghezzi, di G. B. Tiepolo e del
figlio Domenico. Vanno ricordati, in Francia, due nomi:
quello di J. Callot, di Nancy, e quello del tolosano Raymond
La Fage. In Olanda, Dusart praticò insieme la satira di costume e la c contro Luigi XIV; va ricordato anche Romeyn
de Hooghe. In Inghilterra, a partire dal 1743, l’incisore
Arthur Pond pubblicò una raccolta di c straniere, testimoniando cosí dell’interesse diffuso per questo genere; W. Hogarth fece della satira e della caricatura non solo strumento
di intervento ideologico e politico ma anche il soggetto preferito dalla sua attività di pittore. Moralista, attento alla vita sociale, stigmatizzò l’ingiustizia o l’avvilimento con accuse violente, in una serie di stampe e dipinti sequenziali
che sviluppavano le tappe del racconto; tra i maggiori successi: il Matrimonio alla moda, la Carriera di un libertino, la
Carriera di una prostituta, la Via del gin.
Il xix secolo In Inghilterra vennero pubblicate nel 1788 le
Rules for Drawing Caricatures di Francis Grose, di cui comparve un’edizione francese fin dai primi anni del secolo successivo. Non va dimenticato Goya, le cui incisioni per i Capricci (1796-98) rappresentano un momento altissimo nella
storia della satira sociale e di costume. A partire dal regno
di Luigi Filippo, in seguito alla fortuna delle scene di costume di Debucourt, di Carle Vernet, e delle grimaces di Boilly (una sorta di illustrazioni della Fisiognomica di Lavater),
in Francia si scatenò l’entusiasmo per il disegno satirico, con
Charles Philipon, inventore della «pera», di cui sottolinea
l’analogia col volto regale, e creatore dei giornale satirico illustrato. Generazioni di caricaturisti professionisti si succedettero durante tutto il secolo, con interventi in ogni campo: politica, costume, ritratti-accusa, arti figurative, fatti diversi, storie per immagini. La figura di Daumier domina il
panorama francese dell’Ottocento. Egli trasformò la litografia in mezzo d’espressione straordinario; la sua satira politica è accompagnata da una elaborazione raffinatissima del
mezzo tecnico e del segno. Accanto a lui H. Monnier,
Grandville, P. Gavarni, G. Doré, ciascuno con la propria
personalità; succederanno loro, A. Gill, A. Grévin, A. Ro-
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bida, poi J.-L. Forain, A. Willette e Caran d’Ache. Il realismo si alternava alla fantasia e all’immaginazione, il sogno
al naturalismo. Ma la c non è opera dei soli specialisti; pittori tra loro diversi come Delacroix, Monet o Puvis de Chavannes la praticavano per divertimento, lo stesso fecero scrittori quali Victor Hugo, Baudelaire e Verlaine. I giornali specializzati furono numerosissimi; tra i piú importanti «La Caricature» (1830), «Le Charivari» (1832) e il «Journal pour
rire» (1848), tutti creati da Philipon; «La Vie parisienne»
(1863), che riflette il secondo Impero, mentre «La Lune»
(1865) e «L’Eclipse» (1868) riallacciano i rapporti con la politica; «Le Chat-Noir» (1882) fu l’organo della satira di
Montmartre, «Le Courrier français» (1884), «Le Rire»
(1894) e «L’Assiette au beurre» (1901) caratterizzarono la
svolta del secolo, mescolarono i generi, fecero appello a tutte le forme possibili dell’umorismo o della satira, pubblicarono interventi di Steinlen, Hermann-Paul, Poulbot, Sem e
Cappiello, oltre a Toulouse-Lautrec, Vallotton, Beardsley,
Villon, Gris o Kupka. In Inghilterra ebbe particolare rilievo il giornale «Punch» (1840), animato da J. Leech e R. Doyle, mentre in Germania – dove W. Busch disegnava cronache umoristiche infantili e mordenti – furono importanti i
«Fliegende Blätter» (1844), e «Simplicissimus» (1896), a cui
collaborò E. Barlach. Ogni paese meriterebbe attenzione,
dalla Svizzera, con P. Töpffer, al Belgio, con F. Rops; la
Russia, l’Italia e la Scandinavia come la Grecia ebbero giornali satirici.
Il xx secolo Riviste e caricaturisti professionisti sono rimasti attivi e efficaci; in Francia, Dubout rivitalizzò l’arguzia dello spirito francese, Jean Effel ricorreva a una sua falsa innocenza; in Inghilterra Ronald Searle dedicava i suoi
disegni a crudeli studentesse di college e Low portava avanti la cronaca politica. Spesso ricorrono l’insolito, il gratuito,
l’erotismo, l’umor nero, l’assurdo. Importante è stato l’influsso statunitense. Nel 1925, la rivista «New Yorker» crea,
mediante i suoi cartoons, i fumetti, uno stile nuovo, insieme
gelido e sofisticato, cui la collaborazione di Saul Steinberg
apporterà, fin dal 1941, un contributo determinante. Steinberg, grazie al suo linguaggio grafico, metteva in scena la vita moderna, per sottolineare una debolezza o, semplicemente
per sognare; va oltre le apparenze del quotidiano, toccando
spesso le motivazioni essenziali del comportamento umano.
Storia dell’arte Einaudi
Molti sono stati i buoni disegnatori che percorrono strade
parallele, (Bosch, Sempé o Chaval); alcuni ricorrono a un
linguaggio ispirato al surrealismo e al dadaismo; moltissimi
si lasciano prendere da tentazioni manieristiche. La vena
caricaturale è esplicita nel xx sec. nella satira sociale di un
Grosz; piú velata in O. Dix o in Rouault; è spesso presente
con naturalezza in Picasso, e non può essere cancellata dall’opera di numerosi artisti per i quali l’opera d’arte è spesso un
mezzo di contestazione (si vedano il messicano J. Orozco e
l’americano J. Levine). Non è estranea alla C del xx secolo
una vocazione all’irrazionale che libera i contenuti dell’inconscio attraverso la giustapposizione insolita, i giochi di parole, di oggetti o di forme, che portano al riso. (prj+sr).
Dopo gli anni ’60 si sono raggruppati intorno alle pubblicazioni dello «Square» (Harakiri e Charlie-Hebdo) disegnatori particolarmente corrosivi, il cui umorismo efficace è sorretto da notevoli qualità grafiche: Reiser, Gébé, Willem e
Wolinski. (sr).
Carignano, Vittorio Amedeo di
(Torino 1690 - Parigi 1741). Primo principe di Sardegna,
luogotenente generale degli eserciti di Francia e di Savoia,
appassionato d’arte, raccolse nel suo palazzo di Soissons a
Parigi una collezione di dipinti dei migliori maestri italiani,
fiamminghi e olandesi. Nel 1740 il principe vendette al re
di Francia alcuni dei suoi quadri piú belli attraverso Noël
Araignon, scudiero della regina. La maggior parte di tali opere si trova ancora a Parigi, al Louvre, in particolare la Vergine dal diadema azzurro di Raffaello, la Vergine dal cuscino
verde di Solario, la Cacciata dei mercanti dal Tempio di Castiglione, lavori di Pietro da Cortona, Reni, Mola, nonché
dipinti olandesi e fiamminghi, tra cui Tobia e l’Angelo di
Rembrandt e la Fuga di Lot di Rubens. Vi si trovano pure
due Paesaggi di Claude Lorrain. Dopo la morte del principe,
il resto della collezione andò disperso nell’asta pubblica del
30 luglio 1742. (gb).
Carlevarijs, Luca
(Udine 1663 - Venezia 1730). Friulano di nascita, nel 1679
si trasferisce a Venezia, dove risiederà stabilmente e dove
operavano anche il paesaggista olandese Hans de Jode (dal
1653) e, tra il 1685 e il 1700, Johann Anton Eismann, con
Storia dell’arte Einaudi
il quale C collaborò almeno in un’occasione (in un Porto di
mare per il maresciallo Schulenburg di Salisburgo). Da Venezia C si allontanò solo per brevi viaggi: il piú importante,
quello romano, è da ritenersi avvenuto nel 1685-90. A Roma conobbe Van Wittel e l’opera dei bamboccianti (da Van
Laer a Cerquozzi) e di Salvator Rosa; durante il viaggio di
ritorno sostò probabilmente a Firenze e a Bologna, arricchendo ulteriormente la gamma dei suoi riferimenti culturali. La prima opera nota è data dalla serie di 104 acqueforti, pubblicata nel 1703 con il titolo Le Fabbriche e Vedute di
Venetia, che costituisce il primo documento del vedutismo
nell’accezione illustrata poi, ad altissimo livello, da Canaletto e Bellotto. La successiva produzione pittorica è assai
ricca e ben documentata: alle esatte vedute – La riva degli
Schiavoni verso la Piazzetta (coll. priv.), – rese con ampia prospettiva e cromatismo chiaro e luminoso, spesso animate dalla rappresentazione di eventi storici contemporanei (Ingresso del conte di Manchester, ambasciatore britannico, in Palazzo Ducale, 1707: Birmingham, City Museum; Entrata del
conte di Colloredo in Palazzo Ducale, 1726: Dresda, gg), affianca composizioni ideali (Porto di mare e città murata: coll.
priv.) e di fantasia sul genere del «capriccio», che non saranno senza importanza per la successiva produzione di Marco Ricci e, piú tardi, di Marieschi e Guardi. Fu assai richiesto dai collezionisti (nel 1707 Christopher Crowe, console
inglese a Genova, acquistò da lui quattro vedute di Venezia). Tra gli altri suoi dipinti ricordiamo la Veduta di Piazza
San Marco, soggetto piú volte replicato (New York, coll. Lehman; Sarasota, Ringling Museum). Nelle tele dell’ultimo decennio, il gusto per la descrizione dei personaggi e per le diverse tonalità di colore si accentua fino a divenirne l’elemento caratterizzante. (sr).
Carlier, Jean-Guillaume
(Liegi 1638-75). Allievo di Berthollet Flémalle, lo accompagnò certamente a Parigi nel 1670. Fu influenzato da Rubens
(Crocifissione: ora a Verviers), ma due versioni ridotte, conservate in musei di Bruxelles e di Liegi, di un quadro distrutto nel 1794 (il Martirio di san Dionigi, eseguito per la
collegiata di Saint-Denis a Liegi) attestano un’arte piú semplice e piú tendente al naturalismo. (jl).
Storia dell’arte Einaudi
Carlisle
(Frederick Howard, quinto conte di) (? 1748 - Castle
Howard (Yorkshire) 1825). Comperò presso il mercante
Bryan, nel 1798, un ottavo dei dipinti italiani della collezione d’Orléans; raccolse a Castle Howard un notevole complesso di tele del xvii sec., tra cui le Tre Marie e due paesaggi di Annibale Carracci, e quadri di Ludovico Carracci, Domenichino, Gentileschi e Guercino. Inoltre vi figuravano,
di Rubens, Erodiade e Salomè, Paesaggio con un pastore e il
Ritratto di Arundel; il Ritratto di Snyders di Van Dyck (New
York, Frick Coll.); due ritratti di Rembrandt; una serie di
Cuyp, in particolare il Fiume (ivi); opere di Ruisdael,
Wouwerman, Poussin (il Trionfo di Bacco: Kansas City, Nelson Gall.); un Claude Lorrain e tre Gaspard Dughet. Spiccavano poi: la grande Adorazione dei magi di Gossaert, la Circoncisione di Bellini, Penelope e Ulisse del Primaticcio, Due
principi inginocchiati di Mazzola Bedoli; due bei Pannini e
un importante insieme di Canaletto; il sorprendente ritratto in piedi di Lord Carlisle di Reynolds, nonché, dello stesso pittore, il ritratto di Omai; la Cameriera, la Fanciulla con
porci e la Famiglia Wheatley nel parco della Fenice a Dublino,
dipinto nel 1781, di Gainsborough. La ng di Londra ricevette in dono nel 1895 il Bellini e comperò nel 1911 il Gossaert per 40 000 sterline; Lady Carlisle donò il Paesaggio e il
Ritratto di Arundel di Rubens e la Cameriera di Gainsborough (Tate Gall.) nel 1913-14, unitamente ad altre tele; alcune opere, comprendenti tre Zoffany, vennero vendute presso Sotheby nel maggio del 1922. Il resto della collezione si
trova tuttora a Castle Howard. (jh).
Carlo da Camerino
(documentato nel 1396). Firma e data, nel 1396, la Croce di
Macerata Feltria (chiesa di San Michele arcangelo). La sua
cultura denota una base di ascendenza bolognese, come è
noto reperibile nel corso del Trecento lungo la costa marchigiana, sulla quale s’innesta la conoscenza dei testi assisiati di Giotto, di Simone e dei Lorenzetti, soprattutto di
Pietro. Il pittore, registrando nelle sue opere il paesaggio da
un gusto ancora trecentesco a una sensibilità ormai vicina al
gotico cortese (come nell’Annunciazione di Urbino (gn), anch’essa da Macerata Feltria), costituisce un precedente fon-
Storia dell’arte Einaudi
damentale per il fiorire della pittura marchigiana del Quattrocento. (mrv).
Carlo il Calvo, imperatore
(Francoforte sul Meno 823 - Avrieux (Alpes) 877). Sostenne lo sviluppo della pittura carolingia come il suo predecessore Carlomagno. Le opere della sua scuola di palazzo, erede insieme degli scriptoria di Reims e di Tours, sono quelle
che meglio sembrano realizzare il programma cui miravano
i pittori della prima scuola palatina alla fine dell’viii sec.: riesumare in manoscritti d’ineguagliabile sontuosità l’illusionismo antico, e ricreare un’arte ufficiale, che recuperasse anche l’elemento autocelebrativo della ritrattistica imperiale
romana. Questa tendenza è evidente già nel primo manoscritto dipinto per C, la Bibbia di Vivien, composta a Tours
nell’845-46 (Parigi, bn, lat. 1). Nella tradizione delle Bibbie
di Tours, se ne distingue per un netto sviluppo delle «scene
di storia», e la sua pagina dedicatoria, opera d’un pittore
formatosi a Reims, mostra C in mezzo alla sua corte, che riceve la Bibbia dalle mani di Vivien e dei suoi monaci. Nella Bibbia di San Paolo fuori le Mura a Roma, fatta probabilmente per le nozze di C e Richilde nell’870, il sovrano, protetto dalle Virtú, viene rappresentato accanto alla giovane
sposa. Ogni manoscritto uscito da questa scuola palatina, il
Libro d’ore, il Salterio (Parigi, bn, lat. 1152) e il Codex aureus di Saint-Emmeram di Ratisbona (Monaco, sb, CLI 400),
contiene anche un ritratto del re: nel Salterio egli reca le insegne del potere, è assiso sotto la mano di Dio e messo in
posizione parallela a san Gerolamo; nel Codex aureus, angeli si chinano verso il suo trono e la mano di Dio lo protegge.
Si ha l’impressione che C abbia deliberatamente orientato i
suoi pittori verso un’arte ufficiale, e che li abbia incaricati
di tradurre in immagini l’idea del sovrano carolingio che
Hincmar sosteneva. Il manoscritto piú sorprendente di questo gruppo, il Sacramentale detto di Metz, illustra bene questa tesi. È incompiuto, con solo sei dipinti; uno di essi rappresenta un giovane principe incoronato dalla mano di Dio,
con accanto due ecclesiastici. Si è voluto riconoscere Clovis
tra san Remigio e sant’Arnolfo, o Pipino o Carlomagno tra
san Gregorio e il pittore Gelasio. In ogni caso l’intento politico è certo, e senza dubbio vi si deve scorgere un’allusione all’incoronazione di C come re della Lotaringia. La col-
Storia dell’arte Einaudi
locazione della scuola di palazzo di C resta indeterminata
(Saint-Denis?), e non è stato possibile identificare i pittori
che l’animarono. Uno di essi potrebbe essere lo scriba
Liuthard. La seconda Bibbia di Carlo il Calvo (Parigi, bn, lat.
2) rompe completamente con quest’arte ufficiale, senza che
sia dato sapere se effettivamente rifletta un subitaneo mutamento di gusto del sovrano catolingio. (dg+sr).
Carlo il Temerario, duca di Borgogna
(Digione 1433 - Nancy 1477). Succedette al padre, Filippo
il Buono, nel 1467; ma il suo troppo breve regno non gli lasciò tempo per opere di mecenatismo. L’interesse per la pittura non sembra fosse in lui troppo sviluppato; non assegnò
alcun incarico ai migliori artisti del tempo (Bouts, Christus,
Memling, Van der Goes). Suoi pittori sono Pierre Coustain
e Jean Hennecart, cui ordinò la decorazione di stendardi. È
invece importante la sua librairie; ed egli s’interessò assai
presto a Philippe de Mazerolles, Lievin van Lathem e ai migliori miniatori dell’epoca. (ach).
Carlo I, re d’Inghilterra
(Dunfermline (Scozia) 1600 - Londra 1649). Grande appassionato d’arte, ereditò la collezione che il fratello maggiore,
principe Enrico, aveva costituito a partire dal 1611 in base
ai consigli di Inigo Jones e di Arundel. Dal 1623 (data in cui
fu straordinariamente colpito dalle tele di Tiziano, che vide
durante un viaggio in Spagna) fino alla guerra civile, egli costituí una tra le piú grandiose collezioni di pittura mai formate, facendo battere l’intera Europa alla ricerca di opere
d’arte, che si accumularono nei suoi palazzi. Acquisí in blocco (1627-28), con la mediazione di Daniel Nys, la splendida
coll. Gonzaga di Mantova, cui si aggiunse nel 1629 la serie
dei cartoni dei Trionfi di Cesare di Mantegna (oggi a Hampton Court). Nel 1630 la collezione si arricchí dei Cartoni di
Raffaello (oggi nelle raccolte reali britanniche: in deposito a
Londra, vam), comperati grazie all’intervento di Rubens.
Il re prediligeva la pittura veneziana, e la sua collezione di
quadri di Tiziano era incomparabile; Filippo IV gliene aveva donati tre, fra i quali, nel 1623, la Venere del Pardo (Parigi, Louvre). Possedeva inoltre i Dodici imperatori (oggi distrutto), la Cena ad Emmaus, la Deposizione, l’Uomo con
guanto (tutti e tre a Parigi, Louvre) e Venere con un suona-
Storia dell’arte Einaudi
tore d’organo (Madrid, Prado); tra gli altri veneziani figuravano pure Giorgione (Concerto campestre: Parigi, Louvre; e
Pastore col flauto: Hampton Court), Tintoretto (le Nove Muse ed Ester e Assuero: ivi); infine, Veronese e Bassano. Aveva altre tele italiane celebri, come la Perla di Raffaello (Madrid, Prado) e, di Correggio, l’Educazione di Cupido (Londra, ng), Giove e Antiope, nonché le due Allegorie provenienti da Mantova (Parigi, Louvre), la Morte della Vergine di
Caravaggio (ivi), e infine dipinti degli antichi Paesi Bassi e
opere tedesche (Dürer e Holbein). Protesse pure i grandi artisti dell’epoca: Gentileschi venne da lui invitato, nel 1626
ca., a decorare la casa della regina a Greenwich; Rubens, di
cui il re possedeva Daniele nella fossa dei leoni (Washington,
ng), soggiornò a Londra nel 1629-30 ed eseguí La Guerra e
la Pace (Londra, ng); decorò il soffitto della Banqueting Hall
a Whitehall. Jordaens eseguí otto dipinti per la casa della regina (1639-40); Van Dyck, pittore ufficiale di corte
(1632-41), creò l’immagine, giunta fino ai giorni, nostri, della società di Carlo I, dipingendo numerosi ritratti del sovrano e della sua famiglia.
Dopo l’esecuzione del re nel 1649, la collezione venne posta sotto sequestro; alcuni dipinti, tra cui i Trionfi di Mantegna e i Cartoni di Raffaello, furono conservati da
Cromwell, altri vennero dati in pagamento a creditori, ma
la maggior parte fu venduta passando nelle mani del re di
Spagna (oggi a Madrid, Prado), dell’arciduca Leopoldo Guglielmo (oggi a Vienna) e soprattutto del cardinal Mazzarino e del banchiere Jabach (oggi a Parigi, Louvre). Numerosi dipinti, peraltro i meno importanti, vennero recuperati da
Carlo II; durante vendite effettuate dal Commonwealth (governo stabilito nel 1649 dagli eserciti vittoriosi), un gruppo
di tele comperato da Van Reynst di Amsterdam e recuperato dal capitano generale venne offerto al re; le opere che non
scomparvero nell’incendio del palazzo di Whitehall nel 1698
fanno tuttora parte della collezione reale. (jh).
Carlo IV di Lussemburgo, imperatore
(Praga 1316-78). Venne allevato dal 1323 al 1331 alla corte
di Francia, sotto la direzione di Pierre Roger (futuro papa
Clemente VI). Le sue opere letterarie (Autobiografia latina,
Leggenda di san Venceslao, Cronaca cèca, Ordine dell’incoronazione ceca) dànno qualche notizia su una corte attratta
Storia dell’arte Einaudi
dall’umanesimo (Petrarca visitò Praga nel 1356), pur restando profondamente religiosa, come attesta la passione del
re per le reliquie. C fece della propria capitale un focolaio
intellettuale e artistico nel quale la pittura, sintesi tra l’arte
franco-fiamminga e l’influsso italiano, rappresenta una fase
del tardo gotico europeo, il cui carattere internazionale evolvette nella direzione di un’espressione piú specificamente
locale. Le qualità dei pittori chiamati alla corte di Praga rivelano il gusto, molto sicuro, di C: si tratta del Maestro della Genealogia dei Lussemburgo, di Nicolas Wurmser di Strasburgo, di Maestro Teodorico. La notevole opera miniata
del Liber viaticus di Jean de Noviforensis si colloca nell’ambiente della corte, e si ritiene che Tommaso da Modena, opere del quale si trovano nel castello di Karl∫tejn, abbia effettivamente potuto lavorare a Praga. Tre grandi edifici sono
stati decorati dai pittori di C: il castello di Karl∫tejn, quello
di Praga con la cattedrale di San Guido, che ne dipende, e
il chiostro del monastero di Emmaus. Gli anni 1356-1365
videro l’apogeo di quest’arte, il cui esempio si trasmise alla
generazione successiva e particolarmente al Maestro di
T≈eboÀ. (jho).
Carlo V, re di Francia
(Vincennes 1338 - Nogent-sur-Marne 1380). Soprannominato «il re saggio» dai contemporanei, costituisce quasi un
caso unico nella storia della monarchia francese. Suo merito essenziale, nel campo letterario, è di aver concepito un
programma di traduzioni francesi di opere riguardanti per
la maggior parte la filosofia politica, realizzato dagli uomini
piú colti del tempo, tra cui Nicola Oresme.
Studioso e bibliofilo, suddivise i suoi libri tra le due residenze favorite. Al Louvre di Parigi fece impiantare sin dal
1368 la sua biblioteca di lavoro, di cui affidò la custodia a
Gilles Malet; nel torrione di Vincennes erano conservati i
libri piú preziosi – essenzialmente manoscritti liturgici – che
possedeva per eredità o per dono: tra essi il Salterio d’Ingeburge e il Salterio di san Luigi, nonché numerosi manoscritti
di Jean Pucelle o della sua bottega (Libro d’ore e Breviario di
Jeanne d’Evreux, Breviario di Belleville). Il mecenatismo dei
re nel campo dell’arte del libro è immagine della duplicità
della sua collezione: per illustrare le opere scientifiche che
faceva redigere o tradurre in francese, si rivolse a un grup-
Storia dell’arte Einaudi
po di miniatori fino a poco tempo fa collettivamente designati col nome di Maestro dei boschetti, appellativo che copre almeno quattro o cinque diversi personaggi. Caratteristica comune di tutti questi artisti è uno stile dedito al naturalismo, che rompe con la raffinatezza delle opere di Pucelle. La comparsa di tale stile è stata attribuita a pittori
fiamminghi giunti a quel tempo nell’ambiente parigino, come Jean Bondol, autore d’un ritratto di C di notevole veridicità psicologica, dipinto in testa alla Bibbia di Jean de Vaudetar (conservata all’Aja). Tra le opere migliori di questo
gruppo vanno citati la Bibbia di Jean de Sy (Parigi, bn), intrapresa all’epoca di Giovanni il Buono, il Tito Livio della
biblioteca di Sainte-Geneviève, il Sogno nel frutteto (Londra,
bm), le traduzioni della Città di Dio (Parigi, bn), dell’Etica e
della Politica di Aristotele (Bruxelles, Bibl. reale), nonché le
Grandi Cronache di Francia (Parigi, bn). Per i suoi manoscritti
piú preziosi il re invece ricorse a un notevole miniatore, di
cui si è potuto dire che era una vera e propria reincarnazione di Pucelle: questi dipinse per il sovrano il Breviario di Carlo V (Parigi, bn), nonché una grisaille dall’insolito programma iconografico, in testa a una Bibbia della Biblioteca
dell’Arsenale. I due manoscritti rivelano in C un bibliofilo
sagace e raffinato quanto in seguito suo fratello, Jean de
Berry. (fa).
Carlo XV, re di Svezia
(Stoccolma 1826 - Malmö 1872). Prese parte attiva alla vita artistica svedese, lasciando paesaggi romantici alla maniera della scuola di Düsseldorf. Il sovrano praticò un generoso mecenatismo e raccolse una vasta collezione di dipinti
scandinavi contemporanei, che alla sua morte passarono allo Stato svedese e costituiscono oggi il fondo dell’arte
dell’Ottocento nel nm di Stoccolma. (tp).
Carlomagno, imperatore
(?742 - Aquisgrana 814). Il ruolo personalmente svolto da
C nella rinascita della pittura carolingia fu determinante; raccogliendo alla sua corte dotti e letterati originari di tutte le
contrade del suo impero, dando loro la possibilità di studiarvi
i manoscritti antichi e bizantini che aveva potuto raccogliere, seppe creare un clima favorevole alla fioritura della scuola palatina. È evidente che l’influsso della pittura lombarda,
Storia dell’arte Einaudi
che caratterizza sin dalle sue prime realizzazioni questo laboratorio, è conseguenza diretta delle campagne di C
nell’Italia settentrionale e dell’ammirazione che egli manifestò per le opere che vi scoprí; cosí pure, la sua volontà di
uguagliare il fasto degli imperatori del basso impero spiega
la confezione di codici di gran lusso, sontuosamente decorati e vergati. Tre manoscritti si riferiscono direttamente a
C: uno è l’Evangeliario che egli ordinò allo scriba Godescalc;
l’altro il Libro dei Vangeli di Soissons (Parigi, bn, lat. 8850),
che gli sarebbe appartenuto e che Ludovico il Pio donò,
nell’817, a Saint-Médard; il terzo, i Vangeli di Saint-Riquier
(Abbeville, Bibl.), che Angilbert cita tra le donazioni fatte
alla sua abbazia, sarebbe un dono di C al genero. Volendo
credere alla leggenda, bisognerebbe inoltre legare al nome di
C i Vangeli dell’Incoronazione di Vienna (Vienna, Schatzkammer), che Ottone III avrebbe trovati sulle ginocchia dell’imperatore quando ne aveva fatto aprire la tomba. Il loro stile, assai diverso da quello della scuola del Palazzo, trionfò
alla corte imperiale negli ultimi anni del regno di C o nei primi anni di quello di Ludovico il Pio. (dg).
Carlone, Giovanni
(Genova 1584 - Milano, dopo il 1631). Figlio di Taddeo,
scultore e architetto originario di Rovio presso Mendrisio,
è il primo di un’importante dinastia pittorica. Fu allievo del
seriese Pietro Sorri, documentato a Genova tra il 1595 e il
1597: in seguito fu a Roma e a Firenze. Controversa è la datazione di alcune sue opere capitali, come gli affreschi del
Gesú di Genova (1620 o 1625-28), già informati di fatti romani e ai quali collaborò il fratello Giovanni Battista. Perdute alcune tra le opere piú antiche, che avrebbero consentito di chiarirne la formazione, ne resta comunque la cospicua attività di frescante, condotta spesso con il fratello: la
decorazione dell’Annunziata di Genova, di palazzo Pallavicini presso San Pancrazio e di villa Spinola di San Pietro a
Sampierdarena (dove affrescò le Imprese di Mengallo Lercari). Suoi anche sono gli affreschi della villa di Antonio Maria Soprani (padre del biografo Raffaello). Il suo capolavoro è costituito dalle storie bibliche (Giudizio di Salomone,
Susanna e i vecchioni, Morte di Assalonne) nel palazzo oggi
del Banco di Chiavari. La sua cultura essenzialmente toscana si manifesta anche nelle pale d’altare, sia in quelle della
Storia dell’arte Einaudi
certosa di Rivarolo sia in quelle della cattedrale di Ventimiglia (Assunzione). Gli affreschi della chiesa di Sant’Antonio
Abate a Milano (1631-32) vennero compiuti dopo la sua
morte dal fratello Giovanni Battista. (sr).
Carlone, Giovanni Andrea
(Genova 1627-97). Figlio di Giovanni Battista e suo allievo,
si trasferí in seguito a Roma, alla scuola di Carlo Maratta. Alla data di nascita comunemente accettata del 1639 va preferita quella del 1627 indicata da L. Pascoli, in quanto già nel
1656 ne è documentata l’attività come frescante nel Gesú di
Perugia. Nella città umbra fu attivo a piú riprese (del 1668-69
sono gli affreschi della Chiesa Nuova, del 1672 quelli – perduti – di Palazzo pubblico, del 1680 quelli di Sant’Ercolano),
alternandovi opere per Assisi (affreschi e tele per la cappella
del Sacramento nel duomo, 1672) e Foligno (Allegorie e storie mitologiche in villa Clio-Carpello, 1670 ca.). Dopo una serie di dipinti per Roma (Storie di san Francesco Saverio,
1673-78, nella cappella Negroni al Gesti, fregio 1674-77, nella Sala verde di palazzo Altieri; Sibilla Eritrea, 1674, nella
cappella di San Giuseppe al Pantheon, per incarico di Cristina di Svezia) tornò a Genova (del 1678 sono i quadri della cappella Gentile all’Annunziata, del 1688 il San Filippo Neri della parrocchiale di Spotorno) ma, secondo i biografi,
compí vari viaggi non meglio documentati a Napoli, Messina, Palermo e Venezia. Le ultime opere genovesi sono costituite dagli affreschi in palazzo Brignole (1691-92) e dalla galleria della cappella di palazzo Durazzo (1694-96), eseguite
forse con la collaborazione del fratello Nicolò (morto nel
1714). La cultura di C, nonostante gli inizi genovesi, è essenzialmente romana: i suoi riferimenti sono costituiti da Maratta e Gaulli ma anche, in parte, da Lanfranco. Resta difficile stabilire se i suoi ripetuti soggiorni perugini abbiano svolto un qualche ruolo nella sua personalità pittorica, che si rivela essenzialmente quella di un abile decoratore barocco. (sr).
Carlone, Giovanni Battista
(Genova 1603 - Torino? 1677 o 1680). Figlio di Taddeo e
fratello minore di Giovanni, si forma a Roma e a Firenze,
ma è attivo principalmente a Genova e nei centri vicini, tranne che per una breve parentesi lombarda (a Milano completa la decorazione ad affresco di Sant’Antonio Abate, e alla
Storia dell’arte Einaudi
Certosa di Pavia affresca, in tempi diversi, le cappelle del
Battista e di Santa Caterina). Nonostante la sua prima attività si svolga nell’orbita del fratello e quindi in un clima di
«accademia toscana», C si mamfesta assai presto, sia nelle
tele (San Giacomo apre le porte di Coimbra, 1632: Genova,
Oratorio di San Giacomo della Marca; Il Battista di fronte a
Erode, Danza di Salomè, 1644: Chiavari, San Giovanni Battista; Caduta di Simon Mago: Genova, gn; Conversione di Saulo, Seminario; Marte e Venere son presi da Vulcano, Bacco e
Arianna: Savona, Pinacoteca) sia negli affreschi, come la personalità maggiormente innovativa del barocco genovese. Le
contemporanee esperienze tosco-romane (Baglione, Orbetto, Passignano) vi appaiono rimediate alla luce della lezione
delle piú avanzate personalità dell’ambito genovese del primo Seicento (Gioacchino Assereto e Giovanni Andrea De
Ferrari). Nelle numerose decorazioni di palazzi e chiese (cupola di San Siro, 1650-70 ca.; cappella di palazzo Ducale,
1655; cappella Spinola Luccoli al Gesú, 1667) si caratterizza per foga compositiva, accensione di colore e piacevolezza e facilità di tocco. Il ciclo dell’Annunziata del Vastato,
condotto in piú fasi, ne stabilisce una sorta di percorso pittorico (Miracolo di sant’Andrea da Spello, 1662-68; Presentazione al Tempio e Gesú fra i dottori, 1670; Storie di san Clemente, 1672 ca.). La piú significativa tra le imprese di soggetto profano è la decorazione della galleria di palazzo Negroni a Genova (Storie degli Dèi). La sua attività ebbe indubbia importanza nella formazione del Gaulli, anche se non
ne resta del tutto chiarito il percorso, soprattutto in relazione ai suoi soggiorni romani. La sua cospicua produzione
da cavalletto, arricchita recentemente da numerose attribuzioni, manca ancora di un esame complessivo. (sr).
Carloni, Carlo Innocenzo
(Scaria (Val d’Intelvi, presso Como) 1686-1775). Apparteneva al ramo dei Carloni di Scaria, architetti e stuccatori operanti da generazioni nei paesi germanici. Si formò a Venezia
presso il concittadino Giulio Quaglio, lavorando al suo fianco nel cantiere di Ljubjana (1703-1706: Cattedrale) ove fece
esperienza della decorazione illusionista nella linea di Andrea
Pozzo; si recò poi a Roma, presso Trevisani (1706-10). Ritenuto a lungo un epigono di Tiepolo, si riallaccia invece maggiormente alla corrente decorativa romano-genovese, che
Storia dell’arte Einaudi
evolveva dal barocco al rococò alleggerendo la composizione
e usando con grande maestria il connubio tra stucco e affresco. Attratto dall’esistenza di cantieri di ampiezza ignota in
Italia, e rispondendo all’appello di principi desiderosi di celebrare la propria magnificenza, trascorse gli anni migliori della sua carriera in Austria (1712-1725) e in Germania
(1727-37). La nascita d’una scuola pittorica tedesca e il mutamento del gusto nella seconda metà del secolo lo spinsero a
tornare in Lombardia, dove rimase e operò per il resto della
sua vita. Celebre a Vienna per la sua decorazione del Belvedere (Belvedere inferiore, 1716; Belvedere superiore,
1721-23) e di palazzo Daun (1715-16), fu il pittore preferito
dalla monarchia, maestro in allegorie apologetiche. Successivamente fu attivo a Linz (Landhaus, 1717), a Paura presso
Lambach (cappella della Trinità, 1721), a Ludwigsburg nel
Württemberg (cappella, 1720), a Breslavia (cattedrale, 1721),
poi in una seconda fase a Gross-Siegharts presso Vienna (cattedrale, 1727), a Schlosshof (Marchfeld) e in palazzo Gallas
a Praga (1727-29, dove si conclude l’attività di C al servizio
della monarchia austriaca). Fu poi al servizio dei principi tedeschi, a Ludwigsburg (1733: affreschi del soffitto della galleria degli Avi), ad Ansbach e a Stoccarda. Dal 1737, tranne
che per la decorazione del castello di Augustusburg a Brühl
(1750-52), fu attivo esclusivamente in Italia: a Scaria, sua
città natale (chiesa di Santa Maria), a Lodi (Estasi di san Filippo, 1750-52 ca.: San Filippo), ma soprattutto nella regione di Brescia (palazzo Lechi a Montirone, 1745-46; villa Moroni a Stezzano; villa Il Gromo a Mapello; palazzo Gaifani e
Santa Maria degli Angeli a Brescia) e infine nel duomo di Asti
(1773). E questo il periodo in cui egli si accosta maggiormente
alla pittura veneziana, soprattutto di Pittoni, donde trasse la
composizione delle sue pale. Presto dimenticato sia in Germania sia in Italia, lasciò solo qualche allievo a Brescia (Scalvini, Savanni, Cattaneo) e nella Germania settentrionale
(Troger). Oltre che nelle virtuosistiche soluzioni dei grandi
affreschi celebrativi, le sue notevoli capacità pittoriche si apprezzano in numerosi disegni e bozzetti preparatori. (sde).
Carlos, fra
(attivo dal 1517 al 1540). Portoghese di origme fiamminga,
detto per questo O Flamengo, lavorò fino al 1540 nel convento geronimita di Espinheiro presso Èvora, dove aveva
Storia dell’arte Einaudi
preso i voti nel 1517. Si ignorano le fasi della sua formazione; ma la sua opera è legata all’ambiente artistico di Èvora,
ampiamente aperto agli influssi settentrionali. Antichi documenti attestano che ricevette da re Manuel l’incarico del
polittico principale e degli altari laterali della cappella della
Madonna di Espinheiro, donde provengono, senza che se ne
possa precisare la disposizione originaria, la maggior parte
dei dipinti a lui attribuiti (oggi a Lisbona, maa). Lavorò anche per altri monasteri del suo ordine (Belem, Santa Marinha da Costa). Intorno alla sua opera principale sono stati raggruppati, per parentele stilistiche, alcuni pannelli contestati. C sembra essersi ispirato alla tecnica fiamminga, alla maniera di Memling e di Gérard David: il Buon Pastore,
Cristo benedicente, sul rovescio della Vergine con Cristo bambino e due angeli (Lisbona, maa). La recente scoperta del Trittico Vilhena, dal disegno piú mosso (il Calvario, San Giovanni
Battista e San Girolamo, 1520: Lisbona, coll. priv.) conferma le attribuzioni già a lui fatte della Resurrezione, dell’Assunzione, dell’Ascensione (Lisbona, maa) e della Natività
(Èvora), eseguite forse prima del 1529. Estranea all’influsso delle scuole italiane, l’opera arcaicizzante di C rappresenta in Portogallo le tradizioni della pittura fiamminga del
xv sec. A tale ciclo sono stati ricollegati alcuni quadri assegnati al Maestro di Lourinha (San Giovanni Evangelista: Lourinha, Convento della Miscricordia). (mtmf).
Carlsund, Otto Gustav
(San Pietroburgo 1897 - Stoccolma 1948). Lascia la Svezia
per studiare all’accademia di Dresda (1921-22) e poi a Oslo
(1922-23). Si reca a Parigi all’inizio del 1924 e s’iscrive
all’accademia moderna, ove segue l’insegnamento di Ozenfant e di Léger, divenendone presto uno degli assistenti. Nel
1925-26 si dedica a due grandi progetti di pittura monumentale che non giungono a compimento: la biblioteca della torre dell’osservatorio di Einstein a Potsdam e il foyer di
un cinema che Le Corbusier doveva costruire a Parigi. Nei
suoi schizzi passa dall’estetica macchinista cara a Léger
all’astrattismo geometrico. La Sedia (1926: Stoccolma, mm)
fa emergere da un fondo oscuro quest’oggetto quotidiano,
il cui cromatismo sottolinea la rigorosa composizione. Quando venne creato Cercle et carré, si produsse una scissione
nel gruppo dei neoplastici, che contrappose Mondrian a Van
Storia dell’arte Einaudi
Doesburg sul problema della costruzione assoluta in superficie. C seguí Van Doesburg, che creò il movimento dell’Arte concreta, di cui redasse il manifesto. Nel 1930 intraprese la realizzazione di un’importante mostra internazionale
di arte post-cubista a Stoccolma. Totalmente incompresa,
essa finí in un disastro finanziario e C cadde in un profondo smarrimento psichico. Non tornò piú a Parigi e si abbandonò a una pittura confusa, tinta di surrealismo. (jhm).
Carmignani, Guido
(Parma 1838-1909). Nel panorama dell’Ottocento parmense, abbastanza ricco e vivace, ma per molti aspetti provinciale, l’opera del C si distingue per qualità e per la particolare moderna lettura del reale. Già dal 1854 al 1857 la sua
attività fu molto intensa; si dedicò, soprattutto, alla pittura
di paesaggio, che interpretò in molte contraddittorie versioni derivanti dai suoi studi e incontri degli anni parigini,
dopo i suoi giovanilissimi esordi parmensi. Amava dipingere luoghi nascosti, popolari, caratteristici della città, le vedute fluviali e montane, i mutamenti di luce.
Insegnò pittura di paesaggio all’accademia di Parma e non
mancò di inviare i suoi dipinti alle promotrici di Torino, Firenze e alle varie mostre di Roma, Milano, Bologna, Trieste: lavorò intensamente per oltre un cinquantennio, eseguendo anche numerose repliche dei suoi quadri. (lfs).
Carmontelle
(Louis Carrogis, detto) (Parigi 1717-1806). Lettore di Filippo d’Orléans duca di Chartres, poi organizzatore delle sue
feste, realizzò a Parigi i giardini del parco Monceau (1773)
e scrisse, per divertire la corte del principe, la maggior parte dei suoi «proverbi», genere di commedie leggere di cui è
considerato inventore e in cui eccellette. Possedeva inoltre
un piacevole talento di disegnatore a penna e di acquerellista. I suoi ritratti (tra i quali quelli di Philidor, Boufflers,
Mozart, Grimm, Mme du Deffand, della marchesa di Ségur,
della contessa di Ségur e del suo nipotino), vivaci e spiritosi, col modello sistematicamente presentato di profilo, si trovano nel Museo Condé di Chantilly, a Parigi (Louvre, enba, Biblioteca; Museo Carnavalet), a Epinal e a Versailles.
Gli si deve l’invenzione dei «trasparenti», che precedettero i «panorami». (sr).
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Carneiro, Antonio
(Amarante 1872 - Porto 1930). Formatosi a Porto, seguí a
Parigi le lezioni di B. Constant e di J.-P. Laurens. Autore di
poesie, fu pittore di ispirazione letteraria, segnato dal simbolismo: Trittico della vita (Lisbona, coll. M. Brito), Camoens
(San Paolo, Museo dello stato). Si può inoltre ricollegarne
l’opera a talune ricerche di Munch nel campo del paesaggio
espressionista dai colori simbolici (Lisbona, coll. J. Brito). I
ritratti a carboncino, ove si scopre l’influsso di Carrière, furono assai apprezzati. Verso la fine degli anni ’20 operò pure con successo in Brasile. Un certo numero di suoi acquerelli è conservato in coll. priv. brasiliane e portoghesi. A Porto, un laboratorio-museo conserva gran parte della sua opera, rivalorizzata da una grande retrospettiva tenuta nel 1972
a Lisbona (Fond. Gulbenkian). (jaf).
Carneo, Antonio
(Concordia (Udine) 1637 - Portogruaro 1692). Esercitò l’attività nel Friuli, in particolare a Portogruaro, ove fu per una
ventina d’anni ospite del conte Caiselli. Di complessa formazione culturale, guardò insieme e successivamente i grandi veneziani del secondo Cinquecento, Pietro Vecchia e il
Keil, il Giordano e lo Strozzi, il Fetti e il Liss, il Maffei, il
Langetti e lo Zanchi. È il rappresentante di un particolare
naturalismo, che trasfigura – talora con esiti fantastici e pittoricamente esasperati – lo stile poetico dei «tenebrosi» veneziani perseguendo una spiccata vena popolaresca; lo dimostrano i soggetti stessi delle opere (il Vagabondo, la Meditazione: conservati a Udine). Il colore è sensuale e ricco di
fantasia, in un ductus concitato e spavaldo. Tele sue sono
conservate soprattutto a Udine, nel Museo civico, nelle chiese (San Tommaso distribuisce pane ai poveri: Besnate, chiesa
parrocchiale; Martirio di san Bartolomeo: Udine, basilica delle Grazie), e in alcune coll. priv.: La prova del veleno (Terzo
di Aquileia, già coll. Calligaris). (fd’a+sr).
Carnevale, fra → Maestro delle tavole Barberini
Carnicero, Antonio
(Salamanca 1748 - Madrid 1814). Figlio di uno scultore di
Valladolid chiamato a Madrid per la decorazione del nuovo
Storia dell’arte Einaudi
palazzo reale, studiò, come i tre fratelli, le arti del disegno.
La sua carriera ufficiale fu regolare e brillante: premio
dell’accademia nel 1769, accademico nel 1788, «pitor de Cámara» nel 1796, maestro di disegno degli Infanti nel 1806,
fu inoltre l’artista preferito del favorito della regina, Godoy,
di cui fece parecchi buoni ritratti, in particolare quello
all’Accademia di San Fernando; la sua ultima opera sarà il
Ritratto di Ferdinando VII, dipinto al suo ritorno in Spagna
(1814). Altri ritratti, meno compassati, rappresentano i conoscenti dell’artista: l’attore Vicente Garcia (1802), la vigorosa Doña Tomasa de Aliaga, al Prado di Madrid. Ma una
parte altrettanto importante dell’opera di C è dedicata alla
vita popolare del tempo, trattata in modo gradevole e vivente, sia con la pittura (l’Ascensione della mongolfiera: Madrid, Prado; Toreros; Majas), sia con l’incisione. In questo
campo sono particolarmente significative due serie: prima
in ordine di tempo è la Coleccion de las principales suertes de
una corrida de toros (1790), un genere che Goya doveva illustrare; le imitazioni furono numerose. La seconda, il Real
Picadero, presenta scene di equitazione i cui attori sono grandi personaggi: Carlo IV, Godoy. (pg).
Carnovali, Giovanni, detto il Piccio
(Montegrino Valtravaglia 1804 - annegato nel Po e sepolto
a Cremona, 1873). Studiò dal 1815 all’Accademia Carrara
di Bergamo sotto la direzione del pittore neoclassico Giuseppe Diotti, superando brillantemente il tirocinio e le prove accademiche. Aveva, da solo, guardato ai dipinti lasciati
a Bergamo da Lotto e Moroni, nonché alla grande pittura
veneziana, completando cosí liberamente la propria educazione artistica tra luminismo lombardo e colorismo veneto.
S’impose all’attenzione dei contemporanei con la giovanile
(1820 ca.) e ancora accademica pala della parrocchiale di Almenno (Educazione della Vergine). Di ritorno dal suo primo
viaggio a Roma (1831), durante il quale eseguí numerosi disegni di paesaggio, si fermò a Parma studiandovi Correggio
e Parmigianino. Sostò quindi a Cremona e, dalla metà degli
anni ’30, a Milano, guadagnando soprattutto con un’intensa attività di ritrattista; mentre per pochi committenti amici eseguiva soggetti storici e mitologici, oltre che paesaggi,
tutti di pittura molto libera e rapida, di stesura cromatica
vibrante, intensamente evocativa e non descrittiva. Eccen-
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trico e anticonformista, nel 1835 si recò con l’amico Trécourt a Parigi, ammirandovi Delacroix e i paesisti di Barbizon. A Roma tornò nel 1855, accompagnato dal giovane Faruffini allievo del Trécourt.
Il suo linguaggio maturo è caratterizzato da una fattura vellutata, d’impasti, di tocchi e di velature che dissolvono i contorni, e da toni ricchi e vibranti. Conferisce particolare fluidità ai paesaggi (Lungo l’Adda, 1859: Bergamo, coll. priv.;
Paesaggio con grandi alberi, 1850 ca.: Milano, gam; Mattino
sulle prealpi, 1862-63: Brescia, coll. priv.) e ai suoi dipinti
mitologici (Salmace ed Ermafrodito, 1856: Crema, coll. priv.;
Giudizio di Paride, 1861: Milano, coll. priv.) o biblici (Susanna e i vecchioni, 1856-60), in parte connessi, questi ultimi, alla ventennale elaborazione della pala rappresentante
Agar nel deserto (terminata nel 1862, rifiutata dalla chiesa
committente – la parrocchia di Alzano – e difesa dall’amico
Trécourt). Isolata in seno alla corrente romantica italiana
– come già prima in quella neoclassica, – la sua opera si segnala anche per la folta produzione ritrattistica che annovera alcuni dei piú intensi e sottili risultati di tutta la pittura dell’Ottocento (Benedetto Tasca, 1850 ca.: Bergamo, coll.
priv.; Gina Caccia, 1862: Milano, coll. priv.; Il veterinario:
Roma, gnam; e diversi, notevolissimi Autoritratti di varia
gamma espressiva). Il P ebbe influsso determinante su pittori come Faruffini, Cremona e Ranzoni. (sr).
Carolus-Duran
(Charles Durand, detto) (Lilla 1837 - Parigi 1917). Dipinse
dapprima tele realistiche (l’Uomo addormentato, 1861: Lilla, mba), la cui solida composizione e il cui ricco impasto
s’ispirano a Courbet e alla pittura spagnola (l’Assassinato,
1866: ivi). La sua Dama con guanto (1869: Parigi, Louvre)
fu giustamente celebre per le qualità di fattura e di colore,
vicine a Van Dyck e a Velázquez: gli procurò un tale successo a Parigi che fu oberato d’incarichi e divenne, suo malgrado, il piú adulato tra i ritrattisti virtuosi (Ritratto di Mlle de Lancey, 1876: Parigi, Petit-Palais; La contessa Berta
Vandal, 1878: Firenze, Uffizi; Mme Georges Feydeau con i
figli, 1897: Tokyo, Museo d’arte occidentale). Scivolando a
poco a poco nella facilità d’un realismo borghese (Signora con
cane, 1870: Lilla, mba), dà qui però ancor prova di talento
e di eccellente mestiere; che non si ritrova invece nelle gran-
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di decorazioni, alquanto mediocri (Trionfo di Maria de’ Medici, 1878: Parigi, Louvre). Artista elegante e mondano, fu
insignito di tutti gli onori ufficiali; nel 1905 diresse la scuola francese di Roma. (tb).
Caron, Antoine
(Beauvais 1521 ca. - Parigi 1599). Dopo esordi discreti a
Beauvais (cartoni per vetrate), tra il 1540 e il 1550 è menzionato a Fontainebleau, agli ordini del Primaticcio, nel
gruppo di Nicolò dell’Abate. Nel 1561 veniva incaricato di
collaborare agli apparati per l’entrata di Carlo IX, che venne rinviata al 1571 e si svolse allora senza il concorso dell’artista. Stabilitosi a Parigi vi si sposò nel 1568; le sue tre figlie sposarono rispettivamente il ritrattista Pierre Gourdelle e gli incisori Thomas de Leu e Léonard Gaultier. «Pittore, disegnatore, miniatore del re» (1572), partecipò nel 1573,
col poeta Dorat e Germain Pilon, all’Entrata del duca d’Angiò, eletto re di Polonia, il futuro Enrico III. Nel 1575 fu
eletto giurato della corporazione dei pittori e scultori. Nel
1581 organizzò le feste per le Nozze del duca de Joyeuse. Lodato da Dorat e da Luigi d’Orléans, «poeta della Lega», venne iscritto dal genero Gaultier nell’elenco degli «uomini illustri fioriti in Francia dopo il 1500 con Clouet e Pilon». Al
termine della sua vita lavorò per gli incisori (Mathonnière).
Un unico suo quadro, le Stragi del Triumvirato (Parigi, Louvre), è firmato e datato (1566). Il suo nome compare inoltre
su otto incisioni, dovute ai suoi generi, per il Filostrato di
Blaise de Vigenère (1614; disegni 1594 ca.), nonché sul disegno di Enrico IV inciso da Voenius (1600) e sulla Flagellazione (Parigi, Louvre). Notizie antiche gli assegnano, con Lerambert, la responsabilità dei cartoni degli arazzi della Storia di Artemisia di N. Houel (Parigi, Mobilier national); gli
si attribuiscono alcuni tra i progetti di tale famosa serie (disegni a Parigi, Louvre e bn), e, per confronto, la Storia dei re
di Francia e gli Arazzi dei Valois (Firenze, Uffizi), realizzati
su cartoni di L. de Heere. Per analogia gli si possono attribuire alcuni dipinti: la Sibilla di Tivoli (1585: Parigi, Louvre), gli Astronomi che studiano un’eclissi (1572 ca.: Londra,
coll. priv.), Abramo e Melchisedec (1594: Parigi, coll. priv.),
la Resurrezione di Cristo (1593: Beauvais), e le Stagioni (Parigi, New York, coll. priv.); con la collaborazione della sua
bottega, la Donna adultera (Nantes, mba).
Storia dell’arte Einaudi
Alcuni dipinti sono inoltre stati accostati a serie disegnate
come la Consegna del libro e della spada (Beauvais) e la Resa
di Milano (Ottawa, ng). Vanno restituiti ad artisti della sua
cerchia il Supplizio di Tommaso Moro (Blois), la Donna di Sestos e il Carosello con elefante (Parigi, coll. priv.).
Pittore di corte, rivale degli italiani, cui molto deve (soprattutto a Nicolò dell’Abate), C esercitò una sicura influenza; è tuttora difficile distinguere tra le opere sue e quelle dei collaboratori (Delaune, Jean Cousin figlio, Pellerin) e
degli imitatori. (sb).
Caroselli, Angelo
(Roma 1585-1662). Secondo Baldinucci fu autodidatta; soggiornò a Firenze (1605-1608) e a Napoli. Dal 1608 al 1636
il suo nome compare nei registri dell’Accademia di San Luca. Autore di poche composizioni religiose (San Venceslao,
1630, per San Pietro (disperso, noto solo da un modelletto
nel Museo di Roma); Messa di san Gregorio, 1631: Santa
Francesca Romana, cui però partecipò largamente, secondo
le fonti, il cognato Francesco Lauri), fu celebre ai suoi tempi soprattutto per la sua abilità di copista e di falsario di dipinti antichi. La sua produzione pittorica piú significativa,
che ha attirato su di lui l’attenzione della critica recente, è
costituita invece da tele «da stanza» di soggetto allegorico,
talvolta misterioso (Vanità: Firenze, coll. Longhi; Giovane
in meditazione: Avignone, Museo Calvet; Le Stagioni: Ajaccio, Museo Fesch; La Mansuetudine: Firenze, Pitti). Stilisticamente partecipi del naturalismo franco-fiammingo di
ascendenza caravaggesca, sono caratterizzate da una notevole forza espressiva, perseguita talvolta fino alla sgradevolezza. Dal 1637 visse e collaborò con Agostino Tassi; suo allievo fu il lucchese Pietro Paolini, che ne ripeté spesso il repertorio, assimilandone i modi eccentrici e trasgressivi. (sr).
Caroto, Giovan Francesco
(Verona 1480 ca. - 1555). Fratello maggiore di Giovanni e
allievo di Liberale da Verona, si mostrò ben presto aperto a
influssi di varia origine. Al suo esordio (Madonna cucitrice,
1501: Modena, Gall. Estense) è nell’orbita di Liberale e del
Mantegna; piú tardi, nell’Annunciazione del 1508 (Verona,
Oratorio di San Girolamo) e in opere eseguite a Mantova
(L’Arcangelo san Michele e santi: Santa Maria della Carità;
Storia dell’arte Einaudi
San Paolo fra i SS. Sebastiano e Giacomo: Palazzo ducale; Cristo con la croce fra due Santi: chiesa di Redondesco), mostra
di essersi avvicinato all’arte del Costa e del Francia. Vedovo nel 1507, lasciò Verona per Milano, operando per Anton
Maria Visconti, poi per il marchese Guglielmo di Monferrato a Casale, dove soggiornò in modo intermittente fino al
1523; ma serbò contatti con la Lombardia anche molto dopo questa data. Durante il soggiorno a Milano aveva assimilato sia modi bramantineschi (già presenti nel Trittico di
San Giorgio in Braida a Verona), sia caratteri dell’ambiente leonardesco, da Andrea Solario a Bernardino Luini (Pietà,
1515: già Torino, coll. Fontana; San Sebastiano: Casale Monferrato, Santo Stefano). La recente scoperta della sua firma
nel nitido Ritratto femminile del Louvre di Parigi, già attribuito a Boltraffio, offre nuovi elementi per un’adeguata valutazione del C e nello stesso tempo conferma la testimonianza vasariana sulla sua fama di ritrattista.
Un accrescimento ancora piú rilevante, in senso «moderno»,
della cultura di C si registra a partire dallo scorcio degli anni ’20 in un gruppo di opere di vario impegno che rivelano la
conoscenza di fatti ferraresi (Dosso, Garofalo) ma anche letture dirette da Raffaello, da Giulio Romano e da Correggio
(Madonna, Sant’Anna e Santi, 1528: Verona, San Fermo; San
Giovanni Evangelista: Praga, ng; Sacra Famiglia, 1531: Verona, mc; Storie bibliche, affreschi: Verona, Santa Maria in Organo; Fanciullo con disegno infantile: Verona, mc).
Nell’insieme, C manifesta con la prontezza e anche con
gl’impacci del suo sincretismo il passaggio dai modi quattrocenteschi all’arte rinnovata del Cinquecento cosí come
poteva essere vissuto da un esponente molto dotato di una
cultura non metropolitana.
Il fratello Giovanni (Verona 1488 ca. - 1563-66) si dedicò
anche a studi archeologici, disegnando le antichità di Verona per un trattato di Torello Saraina (De origine et amplitudine civitatis Veronae, Verona 1540). La sua arte, uscita dalla fase mantegnesca e ormai accordata alle grandi novità del
primo Cinquecento veneziano, dipende meno dal fratello
che da F. Morone e Girolamo dei Libri, come dimostra la
Madonna con Bambino e i SS. Pietro e Paolo (1516: Verona,
San Paolo di Campomarzio); suo capolavoro è il quadro d’altare di San Giovanni in Fonte a Verona, Madonna col Bambino e i SS. Martino e Stefano e il donatore (1515), caratteriz-
Storia dell’arte Einaudi
zato dall’ambientazione in un classico paesaggio con albero
di limoni e soprattutto da effetti di luce argentata sulle stoffe brillanti e come gualcite che si ritrovano nell’Annunciazione (Verona, San Giorgio in Braida). Fra le sue opere, piuttosto scarse di numero, possono citarsi i due Oranti superstiti della pala per Santa Maria in Organo, 1520 ca. (Verona, Castelvecchio), la Madonna che appare a San Lorenzo e
San Gerolamo (ivi), la Madonna che appare a san Pietro e a san
Paolo (Verona, Santo Stefano). (sde+sr).
Carozzi, Lorenzo → Lendinara
Carpaccio, Vittore
(Venezia 1460-65 - 1525-26). Nato a Venezia, come accertarono gli studi dei Ludwig e Molmenti, da Piero Scarpazza, un mercante di pelli e, secondo una attendibile proposta
piú recente (Pignatti, 1958), verso il 1465, Vittore (che preferí mutare il suo cognome nella derivazione umanistica di
Carpaccio) detiene una posizione eminente e originale nella
storia della pittura veneziana quattrocentesca. Ancora controversa in campo critico è la puntualizzazione di un bagaglio culturale che, necessario movente formativo, viene a
qualificare l’apertura del suo mondo poetico e a nutrire gli
accenti del suo linguaggio espressivo. Se, giustamente scartata l’ipotesi di un alunnato presso Lazzaro Bastiani, si considerano alcune generiche suggestioni belliniane (particolarmente di Gentile) e, piú determinanti, quelle antonellesche
nella mediazione di Alvise Vivarini e di Bartolomeo Montagna, non mancano, a giustificare motivazioni stilistiche e
di gusto, tutte proprio del C ma inconsuete al costume pittorico lagunare, valutazioni di apporti fiamminghi e tentativi di accostamento ad aree artistiche extravenete (ferrarese, marchigiana, umbro-romana, toscana) che implicherebbero vari spostamenti invero non provati, dell’artista. Altrettanto problematica la possibilità di un viaggio in Oriente, suggerita dall’insistenza su predilezioni arieggianti il
mondo orientale (Fiocco) che, tuttavia, possono trovare una
spiegazione nella fonte iconografica delle xilografie del
Reeuwich, o nell’osservazione di un particolare carattere della vita veneziana del tempo, ma che, comunque, rispondono alla singolare mobilità della fantasia inventiva carpaccesca (Pallucchini). Si collocano negli esordi del pittore il Sal-
Storia dell’arte Einaudi
vator Mundi, che risente le volumetrie di Antonello da Messina (firmato; già Firenze, coll. Contini Bonacossi; ora New
York, coll. priv.), la montagnesca paletta del museo di Vicenza (Longhi), l’ancora acerbo polittico della cattedrale di
Zara (ultimo decennio del Quattrocento), ma è col cielo delle Storie di sant’Orsola, dipinto tra il ’90 e il ’96 circa per la
Scuola omonima (questa, come si è recentemente appurato,
sorgeva accanto alle absidi della Basilica dei SS. Giovanni e
Paolo), che la personalità del C si presenta rinnovata, già
evoluta e costituita nella sua piú genuina caratterizzazione.
Negli otto «teleri» con la vicenda della santa (oggi Venezia,
Accademia) – dove il C non seguí un ordine di lavorazione
corrispondente allo svolgimento storico dei vari episodi, ispirati alla Leggenda aurea di Jacopo da Varagine: L’arrivo degli ambasciatori inglesi presso il re di Bretagna, Il commiato degli ambasciatori, Il rimpatrio degli ambasciatori, L’incontro dei
fidanzati e la partenza in pellegrinaggio (1495), L’incontro dei
pellegrini col Papa, Il sogno della Santa (1495), L’arrivo a Colonia (1490), Il martirio dei pellegrini e i funerali della Santa
(1493) – si evolvono in poco più di un lustro (il ciclo si può
ritenere terminato nel ’96, mentre incerta è la cronologia
della pala con la Gloria della Santa, forse posteriore alla data 1491 con cui è contrassegnata) le sue capacità di narratore vivacissimo che, curioso di ogni parvenza reale, di ogni
accidentalità episodica, traspone l’evento sacro, dimensionato in vicenda umana stupendamente viva, in una gaia, esuberante sfera fantastica. Ma considerare la personalità del
C esclusivamente in base a tali meriti, invero eccelsi, di «illustratore», equivale fraintendere – come si limitava la storiografia precedente gli studi fondamentali del Fiocco – il significato nuovo della sua pittura. Che consiste piuttosto nella qualificazione del mezzo espressivo, esperito nell’analisi
limpida della forma e nella sicura coscienza prospettico-spaziale, affinate in un cromatismo ricco, luminoso, con presentimenti tonali. Una vera compenetrazione della cultura
umanistica del tempo, tanto fervida nel territorio veneto,
sostiene inoltre, anche sul piano della piú seria informazione culturale, gli interessi figurativi del C e il livello del suo
mondo poetico, evidente nel paragone della piú fredda ed
esteriore narrativa dei «teleri» di Gentile Bellini, col quale
si misura partecipando al ciclo delle Storie della Croce per la
Scuola di San Giovanni Evangelista, con l’eccezionale resa
Storia dell’arte Einaudi
pittorica del Miracolo della reliquia della Croce (1494: Venezia, Accademia), inscenato presso il ponte di Rialto, documento prezioso di Venezia e della sua vita alla fine del secolo xv. Intervallata ad altri singoli raggiungimenti (Sangue
di Cristo, 1496: Udine; Sacra Conversazione: Caen, mba), e
all’opera in Palazzo Ducale (1501 e 1507) perduta nell’incendio del 1577, si svolge, fertilissima, tale attività per le
scuole minori veneziane. Nei «teleri» della Scuola di San
Giorgio degli Schiavoni (1502-1507), tuttora in loco, con le
Storie di san Girolamo (San Girolamo e il leone nel convento,
I funerali di san Girolamo, Sant’Agostino dello studio), di San
Trifone e di San Giorgio (San Giorgio in lotta col drago, Trionfo
di san Giorgio, Il Battesimo di Selene) la vena narrativa, sempre vivificata nella congiuntura del reale col favoloso, si accresce di cadenze piú dinamiche, di una partecipazione piú
convinta del sentire umano; una regia piú complessa si adopera in inscenature prospettizzate con largo respiro e con interventi architettonici di sapore lombardesco, ma evocanti
il mondo orientale; la visione lenticolare tocca con uguale
divertita curiosità icastiche annotazioni ambientali e funebri fantasie. Tale gusto del macabro si ritrova nei due capolavori dei musei di New York e di Berlino con il Compianto
sul Cristo morto ma si esaurisce in osservazioni particolaristiche, senza incrinare la serenità ridente del paese e dei cieli, degli animali agili e variopinti: gli stessi che allietano gli
ozi veneziani delle due Cortigiane (tanto ammirate dal Ruskin) del veneziano Museo Correr; gli stessi che sommuovono l’aria limpida, gli erbari fragili, cornice favolosa e preziosissima alla figura guerriera del Cavaliere, 1510: Lugano,
coll. Thyssen-Bornemisza). A questo vertice di genuina e libera inventiva, il C affianca un operare piú meditato, particolarmente cosciente, senza scadere in passività imitative,
di soluzioni belliniane, nella monumentale Presentazione al
Tempio, dipinta per la chiesa di San Giobbe (1510: Venezia, Accademia). Fedele alle conquiste e ai limiti della visione quattrocentesca, la creatività del maestro sembra smorzarsi, nel secondo decennio del secolo, quasi sopraffatta dalla «modernità» della sorgente piú gloriosa della pittura del
Cinquecento veneziano, e appesantita dall’intervento sempre piú frequente della bottega, già percettibile nel ciclo con
le Storie di Maria per la Scuola degli Albanesi (ora divise tra
la Carrara a Bergamo, la pinacoteca di Brera a Milano, il Mu-
Storia dell’arte Einaudi
seo Correr e la Ca’ d’Oro a Venezia). Le Storie di santo Stefano della Scuola omonima (1511-20) conservano tuttavia,
specie in alcuni episodi (La disputa, 1514: Milano, Brera),
un cromatismo luminoso, una spazialità concreta, una pulizia formale, e quella tersa aerazione che confanno ancora al
migliore C, al portavoce altissimo della Rinascenza veneta.
Ma nella tarda attività, riservata in parte alla provincia e
condivisa con i figli Benedetto e Piero, la parabola carpaccesca declina ormai in stanche involuzioni e in inerzie accademizzanti (opere nel duomo e a Capodistria). (fzb).
Carpeaux, Jean-Baptiste
(Valenciennes 1827 - Courbevoie 1875). Giunse a Parigi nel
1842 con l’intento di seguire la carriera dello scultore, ammesso all’Ecole des beaux-arts nel 1844, fu allievo di Rude
e poi di Duret, vinse il prix de Rome nel 1855 e fu sostenuto da Napoleone III. Incompreso dai contemporanei, deluso negli affetti, minato dalla malattia, conobbe molto scoraggiamento. Assai presto copiò Rubens, Géricault, Delacroix. Ospite borsista di villa Medici, ammirò molto gli affreschi della Sistina. Nei dipinti C frustava la tela di strisce
scure e di colore, conferendogli con queste accentuazioni
esasperate un aspetto patetico: caratteristica che ben si adatta a taluni soggetti (l’Attentato di Berezowski, 1867: Parigi,
mo), ma che si ritrova anche nelle rappresentazioni di feste
(Ballo in costume alle Tuileries, 1867: ivi).
Fu il pittore visionario dei tumulti e delle folle vibranti, ed
anche ritrattista penetrante, che lasciò dei propri familiari
e di se stesso immagini tenere o crudeli, sempre intense (la
Marchesa di Cadore, 1862: Valenciennes, mba), caratterizzate dalla rapidità della visione e del disegno. Continuamente prendeva note, tanto per la strada quanto nelle riunioni di corte; i dipinti derivanti da tali schizzi hanno voluta apparenza di abbozzi fatti di getto.
Il mba di Valenciennes, il castello di Compiègne e il Petit-Palais di Parigi conservano belle serie di suoi dipinti. (ht).
Carpi, Aldo
(Milano 1886-1973). Si forma a Brera con S. Bersani e C.
Tallone, a contatto con l’ambiente divisionista e futurista e
con gli artisti che aderiranno a Novecento (a Brera è compagno di corso di Carrà) ma la sua poetica figurativa è, fin
Storia dell’arte Einaudi
dalle prime opere, non riconducibile ad alcun movimento.
Se nei primi dipinti ripropone il gusto per il predominio della linea della pittura di area simbolista (La sera, 1913: Milano, coll. priv.), il Dopo cena (Firenze, gam), premiato alla
Biennale di Venezia del 1914, attesta di una ricerca autonoma. Nel 1913 affronta per la prima volta il tema della maschera che, a partire dal 1919 (Arlecchino e Pucinella), sarà
uno dei motivi prediletti da C per rappresentare i conflitti
politici dell’Italia sotto il fascismo (Sono innocente, 1931; Il
prigioniero, 1936). Volontario nella prima guerra mondiale,
C assiste alla ritirata dell’esercito serbo, che descriverà in
una serie di disegni di intenso realismo (Roma, Museo del
Risorgimento). Nel 1928 dipinge, a Milano, vetrate per la
chiesa di San Simpliciano e, tra il 1934 e il 1947, per il Duomo. Nel 1930 gli viene affidata la cattedra di pittura a Brera; nel 1944 viene denunciato per antifascismo e deportato
nel lager di Mauthausen e poi in quello di Gusen, di cui ha
fatto una serie di disegni e dove ha tenuto, di nascosto, un
diario, pubblicato nel 1971. Negli anni successivi, ripreso
l’insegnamento all’Accademia, C torna a trattare le scene in
costume (Duello tra nero e rosa, 1949) e i soggetti a lui cari
di maschere, acrobati e clown (Clowns in conversazione,
1962): gli elementi del suo linguaggio figurativo sobrio e essenziale, di quella che è stata definita una consapevole, mirata «poetica della spontaneità» (De Micheli, 1963). (sg).
Carpioni, Giulio
(Venezia 1613 - Vicenza 1679). Si orientò prestissimo, senza dubbio dopo un viaggio a Roma (dove avrebbe conosciuto
Poussin), verso una posizione classicista, che ne fece una
personalità spiccata della pittura veneziana del xvii sec. Fu
soprattutto attento al disegno, in una ricerca formale sempre piú elaborata, accompagnata tuttavia da un colore prezioso con toni freddi e acri. Dal 1638, centro della sua attività è Vicenza. Qui egli esegue i dipinti commemorativi
dei podestà, tra i quali, nel 1651, il Ritratto allegorico di F.
Grimani a Monte Berico, enorme tela di struttura classica.
Un senso della bellezza ideale, non privo di un sottile fascino malinconico, si fa luce in alcuni sorprendenti ritratti (Autoritratto: Milano, Brera; Musicista: conservato a Vicenza),
ove la precisione grafica si accompagna a un gioco di timbri
asprigni. Tra le sue decorazioni a fresco, la piú significati-
Storia dell’arte Einaudi
va, per la naturalezza del tratto e la limpidezza del paesaggio, è quella di villa Pagello a Caldogno (Vicenza). Soggiornò
anche a Verona, dove tenne una scuola di pittura e lasciò
numerose pale d’altare, solo in parte sopravvissute. La sua
produzione piú nota è data peraltro dai quadri mitologici (il
Regno di Hypnos: Vienna, km; Trionfo di Sileno: Venezia,
Accademia; Morte di Adone: Digione, Museo Magnin), ove
il suo classicismo trova la sua piú naturale manifestazione,
benché talvolta un certo espressionismo piú spiccato possa
conferir loro, in modo inatteso, un convincente accento
drammatico. (fd’a).
Carrà, Carlo
(Quargnento (Alessandria) 1881 - Milano 1966). Si forma
a Milano, poi con soggiorni saltuari connessi all’attività di
decoratore, a Parigi, dov’è nel 1900 per l’esposizione universale, e a Londra: momenti importanti per la voracità di
informazioni culturali, politiche ed artistiche del giovane.
Muove dal paesismo naturalistico tipico dell’avvio di secolo, ma lo affina ed elabora rapidamente con Cesare Tallone (1852-1918), dal solido cromatismo, di cui è allievo quando riesce ad iscriversi, 1906, all’Accademia di Brera. Soprattutto gli valgono i contatti e gli scambi con i giovani piú
avvertiti che si aprono al divisionismo e ad un clima simbolista. Testimonianza del precisarsi dei suoi interessi è il
passaggio da tele come Paesaggio (meriggio) (1909: Biella,
mc) a tematiche urbane piú definite e sicure: Piazza del Duomo (1909: coll. priv.) o Stazione di Milano (1910: Milano,
Brera). Nel febbraio 1910 firma il Manifesto dei pittori futuristi e da ora al 1914-15 sarà in prima fila nel movimento
marinettiano con scritti, interventi ed opere. È questo un
momento importante per C, alle prese con una accelerata
ma attenta maturazione dei propri casi di artista e delle motivazioni di pittore, col risultato di uno stacco sempre piú
convinto da taluni presupposti futuristi, il dinamismo,
l’apertura attivistica, come adesioni a leggi contingenti di
sviluppo sociale e culturale. Presa d’atto di una simile personale rielaborazione è già Donna al balcone (1912: coll.
priv.), in cui sono evidenti un solido sintetismo, ottenuto
anche grazie ad un’accorta effusione del colore luce, e una
forte caratterizzazione che stacca le frantumazioni dei piani e la dilatazione ambientale privilegiando l’unità della fi-
Storia dell’arte Einaudi
gura. Qui, come ancora gli accadrà, è evidente la meditazione di C sulla scultura e sulla sua resistenza allo spazio,
nel nostro caso influenzata dal coevo lavoro di Boccioni.
Ormai il piano di ricerca di C è definito: mira a semplificare il racconto visivo, a concentrarsi sulla forza costruttiva degli elementi plastici adottati, in modo che rapporti e
tensioni abbiano un ritmo che caratterizza, fino alla deformazione delle parti, l’intera tela; privilegia l’uso del colore
come elemento unificante ed atmosfera diffusa. L’incontro
scontro con De Chirico e Savinio dal 1917 a Ferrara, in un
ambiente lontano dal fronte ma saturo di suggestioni letterarie (si ricordino il poeta Govoni e il giovane De Pisis in
veste di letterato), conferma a C questa via, dapprima, con
la cosiddetta «pittura metafisica», con una decisa intenzionalità che ha caratteri di intellettualismo, poi misurando sempre piú distesamente le questioni di impianto costruttivo con una lettura dell’ambito naturale, paesaggio e
figure, che renderanno piú raddolcita e lievitante la sua pittura, senza perdere il carattere di serietà di ricerca ed analisi pittorica. Merito non piccolo di C è quello di elaborare
la propria ricerca muovendosi insieme su una intelligenza
non provinciale dei moderni (via Soffici, saranno i casi di
Cézanne, Picasso, Derain) e su interessi per la pittura trequattrocentesca.
Di notevole importanza, al limite fra distacco dai modi del
futurismo e attenzioni nuove, sta il fascicolo Guerrapittura
(1915), con pagine critiche, testi lirici e collages, in cui è ridisegnata una intenzionalità di mondo artistico largamente
aperto a tensioni mentali e psichiche, come mai piú accadrà
al pittore, segnale di inversione di marcia rispetto ad un’immediata percezione e reazione vitalistica. Alcune tele di intonazione primitivistica segnano il passaggio, come La carrozzella (1916: coll. priv.), o la piú sciolta disposizione del
Gentiluomo ubriaco (1916), accanto ad articoli (programmatici fin dai titoli) che pubblica, sempre nel ’16, sulla «Voce», Parlata su Giotto e poi Paolo Uccello costruttore, in cui
sono rivendicati continuità della tradizione italiana, linguaggio decisamente volumetrico e plastico, intensità emotiva di oggetti e ritmi. Tutte idee che passano in una successiva raccolta di poetica personale, in diretta polemica con
il piú intellettuale e scarsamente formalizzato De Chirico
(Pittura Metafisica, 1919). Opere significative del momento
Storia dell’arte Einaudi
L’idolo ermafrodito (1916: Milano, coll. priv.), La camera incantata (1917: Milano, Brera), L’ovale delle apparizioni
(1919: ivi), questo di particolare interesse se è vero che fin
dal titolo enuncia uno stretto rapporto tra forma del quadro,
ovale appunto, e le sue presenze.
Un breve periodo di astinenza pittorica (con compensazioni di grafica e di teorizzazioni) dopo un momento di ricerche di stilizzazione e di racconti allegorici (Le figlie di Lot,
1919: coll. priv.) conduce a quello che sarà l’assestamento
definitivo di C, col Pino sul mare (1921: coll. priv.), di pronto e largo successo. Lo stesso C, che svolge intensa attività
di scrittore d’arte e di critico, definisce questi suoi modi di
«realtà naturale» (la realtà è l’esito pittorico e la sua potenza emotiva), e di «rappresentazione mitica della natura».
D’ora in poi è la stagione piena, e ricca di riconoscimenti e
di attività pubbliche, oltre che di intenso lavoro: dal 1922
al 1939 è critico dell’«Ambrosiano», con notevole peso nei
casi artistici del periodo; nel 1941 è docente, per chiara fama, a Brera; né si contano premi, mostre e rappresentatività
ufficiale. Alcuni «murali» e plastiche lo vedono all’opera in
seno alla committenza statale e alle discussioni che questa
solleva. Intensissima l’attività di grafico, disegno ed incisione, spesso come commento ad opere letterarie. L’ordine
natura-composizione che C identifica anche scrivendo di
Giotto (la monografia, importante, è del 1924), come di riletture del paesismo (tra gli altri scritti, Fontanesi, 1924, e i
Pittori romantici lombardi 1932), dà esiti felici in opere come Il festival (1924: coll. priv.), La segheria dei marmi (1928:
Milano, Brera), Estate (1930: Milano, gam); fino a composizioni estremamente articolate e ricche come Nuotatori
(1932: coll. priv.), che ha fatto proporre a Longhi il nome
di Seurat e il rinvio a La grande Jatte. In effetti il risultato è
grandioso e lo spazio solenne, con una severità di scansione
dei corpi e di poche indicazioni di ambiente che porta ad
evocare ancora il nome di Cézanne.
Di C vanno rammentati vari volumi in cui sono raccolti taluni dei molti interventi del critico e dello scrittore d’arte,
spettatore non passivo di avvenimenti e tendenze: almeno
Il rinnovamento delle arti in Italia, 1945, da accompagnare ad
Artisti moderni, all’autobiografia La mia vita (1943), e a Segreto professionale (1962). (pfo).
Storia dell’arte Einaudi
Carracci, Agostino
(Bologna 1557 - Parma 1602). Accanto al fratello Annibale
e al cugino Ludovico si educò nell’ambiente manieristico bolognese vicino a Prospero Fontana, in particolare presso l’architetto e intagliatore Domenico Tibaldi. Ma viaggi di studio a Venezia (1582 e 1587-89) e a Parma (1586-87) gli fruttarono esperienze piú importanti. Le sue prime opere furono incisioni, datate a partire dal 1574, tratte da dipinti di
altri artisti: Barocci, Tintoretto, Veronese, Antonio Campi,
Correggio. Oltre che collaboratore con Ludovico e Annibale ai cicli di affreschi in palazzo Fava (entro il 1584) e in palazzo Magnani (1590-92), eseguí in proprio notevoli dipinti
tra cui la grande pala con l’Assunta (Bologna, pn) e la piú famosa Comunione di san Gerolamo (1592 ca.), anch’essa oggi in pinacoteca, considerata opera esemplare dei principi
dell’Accademia degli Incamminati. Da ricordare, inoltre, la
piccola pala con Madonna con Bambino e Santi (Parma, gn),
datata 1586 – quindi il primo dipinto datato di Agostino, di
composizione cinquecentesca veneta e influenzato dal naturalismo correggesco di Annibale –, il Ritratto femminile in
veste di Giuditta, recente aggiunta al catalogo dell’artista, e
il singolare Triplo ritratto di Arrigo peloso, Pietro matto e
Amon nano (Napoli, Capodimonte), databile al 1598-1600,
anni del soggiorno romano al servizio del cardinale Odoardo Farnese. Raggiungendo Annibale, infatti, Agostino si trasferí a Roma nel 1598, ove collaborò – in posizione sostanzialmente marginale – alla decorazione della Galleria in palazzo Farnese. Nel 1600 passò a Parma al servizio di Ranuccio Farnese, per il quale affrescò una volta nel Palazzo
del Giardino, lasciandola incompiuta per il sopraggiungere
della morte. Uomo colto e sapiente incisore, egli fu artista
di modi riflessi e mediati, non sempre capace di rianimare
con genio veramente innovatore gli esemplari della grande
pittura veneta e del classicismo raffaellesco che l’Accademia
indicava come modelli. (eb+sr).
Carracci, Annibide
(Bologna 1560 - Roma 1609). La sua attitudine alla pittura
poté agevolmente dispiegarsi grazie alla presenza nella cerchia familiare di due pittori, entrambi piú anziani di qualche anno: il cugino Ludovico e il fratello Agostino. Come
Storia dell’arte Einaudi
quest’ultimo, esordiva nell’arte incisoria, di cui dava i primi saggi originali nel 1581; ma nel frattempo, presso il manierista Prospero Fontana, e forse presso Bartolomeo Passarotti, aveva anche imparato a dipingere. Nel 1583 firmava e datava la sua prima pala d’altare, la Crocifissione in San
Niccolò, precedendo nell’affermazione pubblica sia il fratello sia il cugino. Concluso il periodo di discipulato, incominciò a cercare insegnamenti fuori di Bologna, rivolgendosi anzitutto al Barocci, la cui influenza è sensibile nel Battesimo di Cristo in San Gregorio, del 1585. All’incirca verso
questo anno Annibale prese a viaggiare nell’Italia settentrionale, assimilando nuove esperienze pittoriche cinquecentesche, soprattutto veneziane e correggesche. Nel contempo studiò anche i Campi e i Bassano, interessato a una
osservazione diretta di certi aspetti non eroici della realtà.
Provandosi in tutti i generi della pittura, tra cui il ritratto,
la pittura di genere (La bottega del macellaio, 1582-83 ca.:
Oxford, Christ Church; Il mangiafagioli, 1583-84: Roma,
Gall. Colonna) e il paesaggio, esperimentò anche la decorazione murale, collaborando con Ludovico e Agostino al ciclo di affreschi con Storie di Giasone in palazzo Fava (entro
il 1584), dove eseguí anche da solo, in un’altra stanza, le Storie di Europa. Molte imponenti pale d’altare, eseguite per
Bologna, Parma e Reggio, costituirono le tappe di un percorso trionfale sulla via indicata dall’Accademia degli Incamminati di cui Annibale stesso, insieme al fratello e al cugino, aveva posto, nei primi anni ’80 le ideali fondamenta.
Le Storie di Romolo dipinte a fresco in un salone di palazzo
Magnani tra il 1590 e il 1592, in una comunanza d’intenti
che rende non agevole la distinzione delle mani, costituirono per così dire il manifesto artistico dei tre Carracci, concordemente intesi, in reazione al manierismo, a rinnovare la
pittura sulla base della tradizione dei grandi maestri del Cinquecento, Correggio, Tiziano, Paolo Veronese, la cui pittura, per quanto idealizzante, aveva sempre rispettato le forme del naturale. Nei pochi anni che ancora trascorse in patria Annibale dipinse anche molti ritratti vivacemente naturalistici (Autoritratto e altre figure: Milano, Brera; Ritratto
di Claudio Merulo?: Napoli, Capodimonte) ma il genere in
cui eccelse fu la pittura di paesaggio, che egli rinnovò con
una interpretazione romantica, ma non evasiva dalla realtà.
Il mondo che appare nei suoi paesaggi è la vita delle colline
Storia dell’arte Einaudi
bolognesi, con i pescatori, i barcaioli nei fiumi, i viandanti
e i cacciatori tra gli alberi dai caldi colori autunnali (La caccia e La pesca: Parigi, Louvre). Solo piú tardi, a Roma, la sua
visione si farà piú severa e solenne, implicando un concetto
della natura conforme alla teoria del Bello Ideale, come teatro eroico di grandi eventi umani e divini. Nel 1595, quando accolse l’invito del cardinale Odoardo Farnese a recarsi
a Roma, Annibale era intento ad un’opera che indica un mutamento nel suo indirizzo stilistico, l’Elemosina di san Rocco, oggi a Dresda, costruita secondo la norma classicista: una
composizione complessa e bilanciata, cadenze ritmiche e solenni, gesti lenti e maestosi nelle figure concepite come statue. Ma le precedenti esperienze naturalistiche confluirono
nella nuova visione come insopprimibile sensibilità agli effetti del lume naturale sulla pelle viva delle cose, una sensibilità che non venne meno neanche quando il pittore, a Roma voltosi definitivamente ad una pittura illustre, rinunziò
alla rappresentazione diretta della realtà. La sua prima opera romana fu la decorazione a fresco di un camerino in palazzo Farnese con Storie di Ercole e di Ulisse ed altre mitologie, tra preziose grisaglie frutto di un approfondito studio
dell’antichità classica (1595-97). Due anni dopo all’incirca
(1597) dava inizio alla decorazione sempre a fresco della Galleria di quel palazzo, coadiuvato dapprima dal fratello Agostino, poi da diversi allievi, tra cui Domenichino, Albani e
Lanfranco: una impresa grandiosa, la cui esecuzione durò alcuni anni (1597-1603-1604 ca.), e nella quale il genio di Annibale si dispiegò totalmente. Il tema era l’esaltazione
dell’antichità classica, rappresentata simbolicamente dagli
Amori degli Dèi. Annibale lo trattò entro una complessa architettura d’immagini viste con intenzioni illusive, quali come di carne vivente, quali come di bronzo o di marmo; e su
tutto fece piovere dagli angoli della volta finti aperti sul cielo vero, una luce dorata e mobile, di vivido effetto atmosferico. Con la Galleria Farnese si affermava un modo nuovo di concepire la pittura decorativa, che sarà tipico della visione barocca. Nel frattempo Annibale accettava commissioni per pale d’altare (Santa Margherita, 1597-99: Roma,
Santa Caterina dei Funari; Assunzione, 1600-1601 ca.: Roma, Santa Maria del Popolo), per quadri profani, per paesaggi. Tra il 1602 e il 1604 ricevette la commissione per la
decorazione a fresco della Cappella Herrera in San Giaco-
Storia dell’arte Einaudi
mo degli Spagnoli (oggi distaccata e smembrata tra musei
spagnoli) che sarebbe stata compiuta da suoi scolari nel 1607.
Tra il 1603 e il 1604 ricevette l’incarico dal cardinale Pietro Aldobrandini della decorazione di una cappella di palazzo, con lunette rappresentanti Storie della Vergine su fondo di paesaggio; quelle che egli eseguí di sua mano nel 1604
ca., La Fuga in Egitto e il Seppellimento di Cristo (con tutto il
gruppo oggi nella Galleria Doria a Roma), inaugurarono il
genere eroico della pittura di paesaggio secentesca e furono
prese a modello da artisti come Domenichino e Claude Lorrain. Negli ultimi anni della sua vita Annibale accusò qualche stanchezza. Nel 1605 lo colse un male incurabile, a cagione del quale egli dovette quasi totalmente rinunciare a dipingere, seguitando tuttavia a disegnare e a dirigere i lavori
eseguiti dai suoi allievi. Venne a morte nell’estate del 1609,
universalmente compianto. Solo un secolo e mezzo dopo si
sarebbe incominciato a mettere in dubbio la sua grandezza,
da parte del Winckelmann e degli archeologi neoclassici, che
lo accusarono di essere stato un imitatore di altrui maniere,
un eclettico; ma di tale erronea interpretazione ha fatto giustizia la critica del nostro tempo, a cominciare da Roberto
Longhi. (eb).
Carracci, Ludovico
(Bologna 1555-1619). Studiò pittura presso Prospero Fontana, ma assai presto allargò il proprio orizzonte culturale
con viaggi a Firenze, Parma, Mantova, Venezia. Testimonianze affascinanti della sua complessa formazione sono il
piccolo Sposalizio mistico di santa Caterina (coll. priv.) e le
due tele con San Vincenzo in adorazione della Vergine e del
Bambino (Bologna, Credito Romagnolo) e con San Francesco in adorazione del crocifisso (Roma, Pinacoteca Capitolina): tre opere fondatamente attribuitegli, risalenti probabilmente al tempo dell’inizio del fregio affrescato in palazzo Fava insieme ad Annibale e ad Agostino, cioè prima del
1584, e testimonianti un particolare interesse per la pittura parmense parmigianinesca. In patria agí su di lui in un
primo tempo anche Bartolomeo Cesi, determinando l’impianto semplice e severo delle opere giovanili, tra cui particolarmente significative l’Annunciazione (1585 ca.: Bologna, pn) e la Visione di san Francesco (Amsterdam, Rijksmuseum), caratterizzata, tra l’altro, da una sottile medita-
Storia dell’arte Einaudi
zione di fonti baroccesche. Nel risveglio di interessi naturalistici che caratterizzava quel momento, non solo a Bologna, Ludovico scelse una pittura fortemente contrastata di
lumi ed ombre, cosí rinnovando gli schemi disegnativi che
strutturavano la sua visione; ne sono esempio, in un crescendo di tensione sentimentale, la Caduta di san Paolo,
(1587), la cosiddetta Madonna dei Bargellini, sua prima opera datata (1588), la Madonna degli Scalzi, tutte nella pinacoteca di Bologna; e la Madonna con i SS. Francesco e Giuseppe (1591: Cento), il suo capolavoro per la foga pittorica
in cui si scioglie la retorica dei sentimenti. Appassionato e
cordiale, ardente d’immaginazione, dipingeva senza porsi
altro fine che l’effusione pittorica sui temi religiosi che prediligeva, rivelandosi tuttavia artista completo e «sperimentale» ma alieno da atteggiamenti intellettualistici. Attaccatissimo alla città natale, non volle quasi mai allontanarsene, salvo per brevissimi periodi; fu per esempio a Piacenza nel 1607 e 1608 per eseguirvi affreschi nel coro del
duomo, ma le tele che dipinse per Piacenza stessa e altre
città dell’Emilia e della Lombardia le inviò sempre da Bologna. Non si preoccupò di aggiornare la propria cultura in
senso classicista e pertanto apparve presto invecchiato rispetto alle nuove tendenze dell’arte contemporanea, rappresentate in Bologna da Guido Reni e dall’Albani, a Roma da Domenichino e da Lanfranco. Praticamente la sua
ultima opera di rilievo monumentale fu la serie di affreschi,
condotti nel 1604-1605 in collaborazione con gli allievi (Reni, Massari, Cavedone, Tiarini, Garbieri) nel chiostro di
San Michele in Bosco, di cui malauguratamente si può giudicare solo attraverso le stampe, essendo tali affreschi oggi
assai deperiti. Ma non mancano, tra la fine degli anni ’80 e
i primi tre lustri del nuovo secolo, opere di grande impegno
espressivo e d’intensa originalità; si ricordino, tra altre,
l’Assunzione (1588 ca.: Raleigh N.C., am), con pungenti anticipazioni su Lanfranco e su Schedoni, la Trasfigurazione
(coll. priv.) press’a poco coeva e anch’essa ricca di precorrimentí, la Flagellazione di Cristo (Douai, Museo della Certosa), del tempo del fregio di palazzo Magnani (1590-92),
il Cristo servito dagli Angeli (Berlino, gg), del primo decennio del Seicento, il San Sebastiano gettato nella cloaca massima (Malibu, J. P. Getty Museum), di un naturalismo non
privo di consapevolezze caravaggesche, commissionato nel
Storia dell’arte Einaudi
1612 da Maffeo Barberini per la cappella gentilizia in
Sant’Andrea della Valle a Roma, fino alla Crocifissione
(1614) in Santa Francesca Romana a Ferrara. Tuttavia, a
paragone di quella di Annibale, la sua fortuna fu limitata,
e il suo influsso, benché fondamentale per artisti come il
Guercino e Giuseppe Maria Crespi, si mantenne nell’ambito locale. (eb+sr).
Carrand, Louis
(Lione 1827 - Firenze 1888). Il vero creatore della coll. Carrand, lasciata da C nel 1888 alla città di Firenze, ove è oggi
esposta al Bargello, non è l’autore del lascito ma suo padre,
Jean-Baptiste (morto nel 1871). Questi, con modesti mezzi
finanziari ma valendosi della perspicacia e dell’erudizione,
intraprese la raccolta di una collezione notevole, che il figlio
proseguí dopo la sua morte. Essa conteneva soprattutto oggetti d’arte (non meno di tremila, dal v al xvi sec.) di grandissima qualità. Stampe, miniature, dipinti superavano appena i duecento pezzi, ma contenevano un complesso notevole di primitivi. I Carrand appartengono infatti al gruppo
di appassionati lionesi che precocemente apprezzarono i pittori del xiv e del xv sec. La collezione contiene i due famosi Dittici del Bargello: il primo, detto il «piccolo», attribuito alla scuola di Parigi della fine del xiv sec.; l’altro, il «grande», alla scuola della bassa Renania; l’Incoronazione della
Vergine e il Noli me tangere del Maestro del Codice di
Saint-Georges; il trittico di Giovanni di Francesco (un tempo denominato, in base a quest’opera, Maestro del Trittico
Carrand). Citiamo pure una serie di dipinti fiamminghi e
germanici. L’influsso dei due Carrand oltrepassò assai presto l’ambito della città d’origine. Il loro parere era costantemente richiesto da appassionati celebri (come Soltylcoff),
e molte opere passarono per le loro mani prima di figurare
nelle grandi raccolte. D’altro canto C lasciò Lione nel 1880
per stabilirsi a Nizza e poi in Italia, a Pisa e infine (1886) a
Firenze. Per odio e disprezzo contro «i repubblicani e i rivoluzionari» del suo «sventurato paese» (sono parole sue),
questo scapolo misantropo lasciò le sue collezioni (tranne le
armi, già vendute al celebre Spitzer) alla città di Firenze, che
ebbe istruzione di conservare la collezione nella sua integrità. (ad).
Storia dell’arte Einaudi
Carrari, Baldassarre
(Forlí, attivo dal 1489-1516). L’attività del C si distribuí tra
la città natale, Forlì, e la vicina Ravenna. Le poche date che
si conoscono rendono difficile una sistemazione del suo percorso stilistico. C’è invece, fortunatamente, qualche firma
che può testimoniare i mutamenti, a volte inattesi, dei suoi
modi pittorici. C’è un aspetto piú geometrizzante, astratto
e simbolico, a cui si collegano la Sacra Famiglia di Baltimora e anche la lunetta raffigurante la Pietà del Duomo di Ravenna, che pare ricollegarsi a un momento iniziale. Poi la
frequentazione piú continuativa di Ravenna (1502-10) lo avvicina al dolce classicismo veneteggiante del Rondinelli (significativa è la Madonna in trono tra i SS. Giacomo e Lorenzo, oggi a Milano (Brera), ma dipinta per Sant’Apollinare
Nuovo di Ravenna e firmata dall’artista). Ma il pittore forlivese conserva sempre, a confronto del ravennate, una predilezione per forme e panneggi piú rigidi, segno di una vicinanza anche a Marco Palmezzano. La bella Incoronazione
della Vergine con quattro Santi (Forlí, pc: già altar maggiore
di San Mercuriale) è datata 1512 e rappresenta, insieme con
i SS. Apollinare, Rocco e Sebastiano della parrocchiale di Longana (Ravenna), databile al 1515, l’ultima fase stilistica del
pittore. (acf).
Carré (Gall. Louis-Carré)
Galleria d’arte parigina che reca il nome del suo fondatore,
Louis Carré (Vitré (Ille-et-Vilaine) 1897 - Parigi 1977). Seguí studi di diritto nell’università di Rennes e divenne esperto in oreficeria antica, pubblicando in proposito lavori importanti. Nel 1933 estese il proprio campo di ricerca organizzando a Parigi la mostra delle sculture arcaiche del museo dell’Acropoli, molto apprezzata per la qualità dell’allestimento e l’originalità del principio museografico: ogni opera era valorizzata da uno sfondo e da un effetto di luce diverso. Il successo della manifestazione lo stimolò a ripetere
l’esperienza con mostre dedicate all’arte primitiva, ai bronzi del Benin, ai dipinti allora misconosciuti di Georges de
La Tour e dei fratelli Le Nain (1936-37) e a Toulouse-Lautrec (1937). Nel 1937 si stabilí in avenue de Messine, dove
fondò (in collaborazione con Roland Balay) una galleria che
nel 1938 esponeva opere di Juan Gris, Paul Klee, Le Cor-
Storia dell’arte Einaudi
busier. Dal 1941 diresse la galleria da solo; durante la guerra sostenne attivamente Maillol, Vuillard, Matisse, Rouault,
Laurens, Picasso, legandosi di amicizia a Bonnard, Léger,
Gromaire, Villon e Dufy. Si appassionava anche per opere
poco note, che difendeva con ardore. Cosí fu tra quelli che
piú s’impegnarono per valorizzare Robert Delaunay (1947),
Kupka (1951) e Jacques Villon, che grazie a lui, benché tardivamente, vide giustamente consacrato il proprio talento.
Nel 1949 fondò una succursale a New York, ove vennero
presentati artisti piú giovani, come N. de Staël (1964), Bazaine, Estève, Lapicque, Borès, Lanskoy, Glarner, Soulages
e Hartung. L’attenta cura che C aveva posto nella presentazione delle opere d’arte antica si serbava nelle manifestazioni organizzate nella sua galleria; erano accompagnate da
pubblicazioni, come un album di disegni inediti di Dufy
(1944), le prime opere di Jacques Villon con scritti inediti
di Paul Eluard (1948), o anche raccolte di dichiarazioni di
artisti (Léger o Gromaire). (jjl).
Carree, Michiel
(L’Aja 1657 - Alkmaar 1727). Figlio di Franciscus (Anversa 1630 - Leeuwarden 1669) e fratello di Henrick (Amsterdarn 1656 - L’Aja, dopo il 1721), fu allievo del padre,
poi di Berchem. Dal 1692 al 1695 si recò in Inghilterra, lavorando poi ad Amsterdam, ove è citato nel 1713, e infine
ad Alkmaar. Dipinse soprattutto Paesaggi (1685: Rotterdam, bvb), alla maniera di Berchem; fu maestro di Jan de
Visscher. (jv).
Carreño de Miranda, Juan
(Aviles 1614 - Madrid 1685). Di nobile famiglia asturiana,
si recò a Madrid a undici anni, entrando nella bottega di Pedro de las Cuevas; lavorò poi con Bartolomé Roman, imitatore di Rubens, ma allievo di Velázquez. Le prime opere lo
rivelano interamente legato allo stile e alla tecnica dei fiamminghi, e denotano già un senso della composizione classica raro nei maestri spagnoli. Nella Predica di san Francesco
ai pesci (1646: Villanueva y Geltrú, Museo Balaguer) e soprattutto nell’Annunciazione (1653: Madrid, Ospedale de la
Orden Tercera) compaiono evidenti riprese da Rubens.
L’ampiezza delle forme, la scioltezza del disegno, lo splendore dei colori, la luce dorata nulla debbono ai suoi compa-
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trioti. Sembra che la sua produzione si accrescesse notevolmente tra il 1650 e il 1660, periodo in cui compaiono numerose tele religiose firmate e datate. C, che rivestiva una
carica ufficiale alla corte di re Filippo IV, visitava spesso
Velázquez; quest’ultimo, probabilmente tra il 1655 e il 1659,
secondo Palomino, gli propose di aiutarlo per la decorazione del salone degli specchi all’Alcázar di Madrid. C, molto
abile nella tecnica dell’affresco, intraprese due composizioni (scomparse nell’incendio dell’Alcázar del 1734). La cupola di San Antonio de los Portugueses, eseguita su progetto di Colonna e fortemente ritoccata da Giordano, non consente di valutare con precisione la capacità dell’artista in
questo campo, e cosí pure una cupola della cattedrale di Toledo, interamente ridipinta da Maella nel xviii sec. Nel 1657
il maestro asturiano rappresentava il Sogno di papa Onorio
nella chiesa del collegio di San Tommaso di Madrid; tale
composizione, oggi scomparsa, avrebbe suscitato l’ammirazione del decoratore italiano Michele Colonna; questi avrebbe dichiarato che C era il miglior pittore della corte di Spagna. La stretta e permanente collaborazione con Velázquez
può considerarsi la svolta fondamentale della sua evoluzione; è questo il momento in cui il pittore, senza rinunciare al
linguaggio fiammingo, vi infonde sentimenti di gravità e di
passione, che conferiscono al suo lavoro un’impronta autenticamente spagnola. Unico vero discepolo di Velázquez,
C risolse, grazie a lui, i problemi di luce, di atmosfera e di
spazio in modo del tutto innovatore. Tale trasformazione,
già avvertibile nel San Domenico (1661: ora a Budapest) diviene evidente nel capolavoro di C, la Messa di fondazione
dell’ordine dei Trinitari (1666: Parigi, Louvre), tela eseguita
per i monaci trinitari di Pamplona. In uno spazio chiaro e
luminoso, definito seguendo le concezioni di Velázquez, sono armoniosamente raggruppati i personaggi; il raccoglimento, l’espressione estatica dei volti sorprendono per la loro intensità; i colori sono vivi e ricchi – azzurro, rosso, ori
bruni – applicati con vigore. C realizza in altre tele dello stesso periodo un felice compromesso tra l’esempio di Velázquez, il ricordo di Tiziano e lo stile nordico cui rimane legato: Sant’Anna (1669: Madrid, Prado), l’Immacolata Concezione (1670: New York, Hispanic Society), l’Assunzione
(Poznaƒ). Nel 1669 venne nominato pittore del re, nel 1671
«pintor de Cámara»; si affermò da allora come ritrattista.
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Oltre a numerosi ritratti di Carlo II bambino (Berlino-Dahlem; Vienna, coll. Harrach; Madrid, Prado), ove davvero
colpisce l’immagine da lui lasciata del piccolo principe, C ha
rappresentato a piú riprese la Regina Marianna in costume di
vedova (Madrid, Prado; Vienna, km). Ha pure lasciato prestigiose effigi di alti personaggi di corte, come il Marchese di
Santa Cruz (Madrid, coll. priv.) e l’Ambasciatore russo
Potëmkin (Madrid, Prado). (jb).
Carriera, Rosalba
(Venezia 1675-1757). Esordí come miniaturista e non abbandonò mai quest’attività nella quale ottenne risultati prestigiosi. Dedicatasi quindi alla pittura, anche sotto la guida
di Antonio Balestra, adottò in modo esclusivo la tecnica del
pastello che conferí al suo stile un tono sostanzialmente costante, leggiadro e vaporoso. I signori veneziani, spensierati e galanti, gli aristocratici forestieri, che di quell’ambiente volevano conservare il ricordo, divennero presto suoi affezionati clienti, anche per il sostegno offertole dal grande
collezionista Joseph Smith, console britannico a Venezia.
Certamente la C risentí della vicinanza del cognato Gian Antonio Pellegrini, esponente insieme al Ricci e all’Amigoni
del rococò veneziano; appartengono a tale gusto i colori chiari e ariosi, le forme sfumate e sfrangiate, la sensibilità mondana e sorridente, ma cordialissima e umana, la grazia incipriata delle sue dame e dei suoi cavalieri. Da non trascurare, in alcuni pastelli di C, il richiamo puntuale a modi correggeschi e barocceschi. Ebbe commissioni dal duca del Meclemburgo (1700), da Massimiliano II di Baviera (1704), da
Federico IV di Danimarca (1709), dall’Elettore di Sassonia
(1717). Già nel 1703 fu accolta nell’Accademia di San Luca a Rorna, riconoscimento eccezionale per una donna. Nel
1720 si recò a Parigi, ospite del noto banchiere Pierre Crozat, dove riscosse uno straordinario successo presso la corte
e l’alta società: se da una parte il Ritratto di fanciulla (Parigi, Louvre) denota nella particolare freschezza delle notazioni psicologiche l’accostamento di Rosalba al gusto francese, è altrettanto vero che i ritrattisti francesi (Quentin de
la Tour, Perroneau) e, piú indirettamente, anche il grande
svizzero Liotard, non si sottrassero all’influenza della pittrice veneziana. Eletta nell’Accademia di pittura parigina,
tornò a Venezia nel 1721 ricca di fama e di onori. Nel 1723
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fu alla corte degli Estensi a Modena, nel 1730 a Vienna, dove fu incaricata di insegnare pittura all’imperatrice ed esegui alcuni celebri ritratti (L’imperatore Carlo VI, Metastasio).
Stabilitasi definitivamente a Venezia, lavorò intensamente
ancora per alcuni anni e nel 1739 vi fu visitata dal Principe
Elettore di Sassonia che per il padre Augusto II ottenne da
lei ben quaranta pastelli (ora in parte nella pinacoteca di Dresda). La sua vecchiaia fu triste, perché si ammalò agli occhi
e dal 1746 non si poté piú dedicare alla pittura. Tra i ritratti maschili ricordiamo quello del Conte Nils Bielke (1729:
Stoccolma, nm), un gentiluomo dall’atteggiamento sprezzante, impostato, pur nella vaporosità tipica della C, secondo i modi ben strutturati di fra Galgario, o quello di Gentiluomo (Londra, ng), molto raffinato nella dissolvenza dei
morbidi piani; fra quelli femminili, la Caterina Barbarigo
(Dresda, gg), una florida, avvenente immagine di garbata civetteria, e la Faustina Bordoni (Venezia, Ca’ Rezzonico e Accademia), limpida e franca «istantanea» della celebre cantante. La ritrattistica di C, apparentemente piacevole e compiacente, possiede in realtà una penetrante sensibilità interpretativa dei singoli personaggi: cosí la pittrice veneziana «seppe esprimere con forza impareggiabile la svaporata
delicatezza dell’epoca» (Longhi). (mcv+sr).
Carrière, Eugène
(Gournay (Seine-Saint-Denis) 1849 - Parigi 1906). Ancora
bambino venne collocato come apprendista litografo a Strasburgo (1864-67), poi a Saint-Quentin (1868). Particolarmente colpito dai pastelli di La Tour, poi dai Rubens del
Louvre (1869), frequentò il corso di Cabanel all’Ecole des
beaux-arts di Parigi. Prigioniero a Dresda nel 1870, dal 1871
affermò il proprio socialismo umanitario in una litografia che
deplorava l’annientamento della Comune (i Diritti dell’uomo). Nel 1872 e nel 1873 lavorò per Chéret, poi, sposatosi,
si stabilí a Londra (1877-78), dove scoprí Turner. Era sostenuto dagli ambienti socialisti e simbolisti (ritratti litografati di J. Dolent e di Verlaine). Fondò con Rodin e Puvis
de Chavannes la Société nationale des beaux-arts (1890; introdusse con una prefazione, nel 1896, il salon dell’Art Nouveau. La sua opera si sviluppa quasi esclusivamente dal 1879
(Maternità: ora ad Avignone) in scene intime (le Aspatrici,
1887: Londra, Tate Gall.; la Grande Sorella: Parigi, Louvre,
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mam) e in ritratti circondati da nebbie brunastre, dalle sinuosità sempre piú improntate dal Modern Style (Ritratto di
M. Devillez, 1887: ivi; Ritratto di E. de Goncourt, 1892 ca.:
oggi a Pontoise; Meditazione, 1900 ca.: oggi a Strasburgo).
Gli si devono pure variazioni sul tema del Crocifisso, preziose Nature morte, Paesaggi e qualche Nudo (Parigi, Louvre).
Lo studio libero che aprí dal 1898 al 1903 accolse Matisse,
Derain, Puy, Laprade. Nel 1904 fu il primo presidente del
Salon d’automne. Il Louvre conserva un bel complesso di dipinti dell’artista, che è pure ben rappresentato a Strasburgo. (gv).
Carstens, Asmus Jakob
(Sankt Jürgen (Schleswig) 1754 - Roma 1798). Nel 1778 prosegue gli studi presso l’accademia di Copenhagen; lavora poi
a Lubecca fino al 1788 e, dal 1788 al 1792, a Berlino. Con
lo scopo di rinnovare l’arte attraverso un ritorno all’antico,
s’interessa unicamente della figura umana, orientandosi verso una monumentalità della forma che molto deve a Michelangelo. Nel 1792 si reca a Roma, ove le sue idee, spesso imperfettamente formulate, influenzano Wächter, Koch, poi
Genelli. C, la cui cultura letteraria era vastissima, ha lasciato soprattutto disegni e cartoni, su temi in gran parte desunti dalla letteratura greca (La Notte e i suoi figli: Weimar).
È rappresentato a Copenhagen (smfk), Berlino-Dahlem,
Hannover e Weimar. (hbs).
carta
Foglio sottile realizzato con diverse sostanze vegetali e minerali ridotte in pasta. Impiegata come supporto di opere dipinte o disegnate, presenta una struttura diversa a seconda
dei materiali di base che la costituiscono e conferisce alle
opere un aspetto netto o impreciso a seconda della finitura
superficiale. La c Whatman, di stracci a grana grossa, è impiegata dagli acquerellisti. La c a struttura regolare, liscia,
viene scelta preferibilmente dai disegnatori che impiegano
la grafite. A seconda che sia trattata o meno, la c ha un diverso grado di assorbimento; per evitare che i colori si spandano quando li si applica, la c da disegno è resa meno assorbente mediante colla. Le carte migliori sono fabbricate
con cenci e tele di cotone.
L’industria della c è giunta a noi dalla Cina, attraverso gli
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Arabi. Secondo le fonti letterarie, la c di stracci sarebbe stata inventata in Cina come sostituto a buon mercato della seta nel 105 a. C., ma la c piú antica, conosciuta dagli scavi
nell’Asia centrale, sarebbe datata all’anno 98; altre carte sono state scoperte in una tomba del ii sec., nello Shen-si. Fatte a mano, sono carte lisciate. Fin dagli inizi della dinastia
Tang, nel vii sec., si cominciano ad utilizzate esclusivamente piante, ramia o gelso (ritrovamenti nel Tuen-huang e nel
Kanson).
Di composizione varia a seconda delle province (canapa ad
ovest, bambù a sud, ramia, gelso e vimini a nord, riso e miglio nel centro del paese) le carte cinesi variavano pure di
qualità a seconda dell’uso, e alcune valevano il loro peso in
oro. Di regola, la c preferita dai pittori letterati fu quella
non trattata, a causa della rapidità e della franchezza delle
sue reazioni sotto il pennello, mentre alcuni professionisti,
particolarmente in Giappone, hanno talvolta impiegato una
c spolverata d’oro o d’argento.
La c si è diffusa nell’Asia centrale e in Persia: le prime fabbriche sono state edificate nel 751 a Samarcanda da prigionieri cinesi. Nel 794 venne fondata una fabbrica a BaghdÇd,
poi un’altra a Damasco.
La c subiva una speciale preparazione per facilitare lo scivolamento del calamo. La si poneva su una tavoletta di legno liscio e la si soffregava con un uovo di cristallo del peso
di circa mezza libbra, aggiungendovi talvolta sapone, fino a
che non diveniva lucida e pulita. Esistevano carte di vari colori: bianche, porpora, azzurre (colore del lutto), rosse (colore della festa), gialle, ottenute a partire dallo zafferano,
molto pregiato e riservato per la copia dei Corani di lusso e
di altri documenti importanti.
Gli Arabi diffusero l’impiego della c nell’Africa settentrionale e in Spagna. Da qui essa si diffuse in Italia e in Francia.
Fin dall’xi sec. l’Italia a Fabriano e la Spagna a Xantia ebbero le due prime cartiere d’Europa. Altre vennero installate successivamente in varie città d’Italia (Padova, Treviso,
Venezia, Milano): fornirono c alla Germania meridionale fino al xiii sec., epoca nella quale vennero fondate le prime
fabbriche. In Francia, una delle prime conosciute venne costruita in Linguadoca sull’Hérault, alla fine del xii sec. Da
là, l’industria si espanse nella valle del Rodano, in Borgogna
e nello Champagne. Nel xv sec. aveva conquistato l’intera
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Francia: le cartiere di Troyes, Essonnes e Ambert erano assai stimate, e quella di Viladon, nel Vivarese, divenne manifattura reale. Le cartiere si svilupparono nel xiv e xv sec.
in tutt’Europa: vennero fondate fabbriche nelle Fiandre, a
Liegi e a Bruges, e in Germania, a Magonza e a Norimberga, nel 1390. Basilea ebbe una fabbrica nel 1440 e l’Inghilterra nel 1495 (cartiera di John Tate). La fabbricazione della c fu introdotta in America nel xvii sec.: la prima cartiera
americana data al 1690 (cartiera di German Town, alla periferia di Filadelfia). L’industria della c prese considerevole
impulso in Europa dopo il 1798, grazie alla macchina di
Louis Robert. Fabbricata con lino e canapa di trama grossolana e spessa, la c, nel Trecento, era inoltre collata assai imperfettamente con colla di farina, il che la rendeva molto assorbente e di difficile uso per i pittori. Dal xv sec., la tecnica di collatura migliorò e la c, benché spessa e granulosa, divenne un supporto pittorico migliore. Era coperto da quattro o cinque strati di una pasta a base di polvere d’osso stemperata in acqua gommata, il che la rendeva impermeabile.
Era possibile tracciarvi facilmente tratti di penna o lavorarvi a matita o ad acquerello. La grana della c favoriva certi effetti di luce e ombra, ed era apprezzata da numerosi pittori.
La carta colorata È comparsa verso la fine del xv sec., per
rispondere alle esigenze dei pittori. La colorazione, praticata nella massa dell’impasto, non era molto varia: la c blu
(carta turchina, o azurea) venne assai apprezzata da Gaudenzio Ferrari, Sebastiano del Piombo, Jacopo Bassano nel
xvi sec., e dal Domenichino, da Ottavio Leoni e dal Guercino nel xvii sec.; la c grigia, piú tarda, conobbe pure un
certo successo, particolarmente presso Tiziano. In Francia,
nel xvii sec., Claude Lorrain e Rigaud si servirono di carte
azzurre di provenienza italiana; nel xviii sec. se ne servirono pure Oudry, La Tour e Prud’hon. Anche le scuole del
Nord, a partire dal Quattrocento, preferirono la c azzurra.
Il colore meno diffuso è stato quello camoscio: Eustache Le
Sueur, Watteau e Boucher se ne sono però serviti. Le carte colorate si sono moltiplicate a partire dal xix sec. (crema, verde, rosso).
Il papier tablette viene preparato con gesso leggermente tinteggiato in grigio blu o in avorio, e accuratamente levigato.
È stato impiegato da Desfriches nel paesaggio, e utilizzato
a partire dal xviii sec. come supporto per piccoli ritratti.
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La carta oleata è intrisa d’olio di lino, e serve da c da ricalco o da riporto. È stata impiegata fin dal medioevo per riprodurre schizzi, o come supporto, particolarmente dalla
scuola veneziana.
Carta applicata La c è incollata su supporto rigido (legno,
pietra) o deformabile (tela), e serve a trasformare la natura
del fondo che riceve la pittura. Di fatto, la c è un buon isolante.
La buona conservazione della c esige un’atmosfera a temperatura e umidità controllate: l’eccesso di umidità provoca
la proliferazione dei microorganismi in sospensione nell’aria.
La c può essere inoltre attaccata da insetti (tarli). Fattori
inorganici intervengono anch’essi nella sua alterazione: ossidazione in presenza di luce (ingiallimento), ossidazione del
ferro contenuto (fioriture), brunitura dell’inchiostro ferro-gallico. Infine, la c si lacera molto facilmente.
Contro le reazioni chimiche, occorre un minimo di collatura superficiale e una grande delicatezza tecnica (se non si
tratta di tecnica a olio). L’applicazione si effettua con l’ausilio di una colla a base d’acqua. In alcuni casi, la c può impiegarsi come elemento di preparazione, formando parte integrante di quest’ultima.
Alterazioni della carta La c è un supporto fragile: la sua alterazione può essere provocata da fattori organici: microorganismi come funghi (sono state osservate 55 specie diverse) o batteri. I filamenti criptogarnici, o tarli, penetrano nelle fibre della c, che si decompone e poi si putrefà (putrefazione azzurra, verde, nera, bianca o gialla). I batteri e le spore vengono uccisi mediante raggi ultravioletti. (mtb+ol).
Carta, Natale
(Messina 1800 - Montagnano (Arezzo) 1888). Si formò a Palermo con Giuseppe Velasco, iniziatore in Sicilia della pittura neoclassica. Ancora giovanissimo si trasferí a Roma, dove continuò a studiare con il Camuccini, sotto la direzione
del quale parteciperà poi alla decorazione della chiesa di San
Francesco di Paola a Napoli con due tele: Estasi del Beato
Nicola da Tolentino e San Francesco di Paola. Altre sue opere, sempre di ispirazione neoclassica, si trovano ancora a Napoli (Morte di Atala e Interramento di Atala, 1830: Capodimonte) e a Roma (San Paolo resuscita un giovane, San Paolo
si dichiara cittadino romano, dopo il 1832: basilica di San Pao-
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lo fuori le mura; l’Immacolata: chiesa di Sant’Andrea delle
Fratte). Della sua apprezzata attività di ritrattista si segnalano il Ritratto di Michele Landicina (Trapani, Museo Pepoli) e alcuni ritratti di uomini illustri nella Biblioteca comunale di Palermo. (lh).
carta da parati
Rivestimento murale la cui decorazione è stampata su carta
mediante lastra piana o cilindro. Fin dalla seconda metà del
xiv sec. ci si serve di legni incisi per ornare stoffe utilizzate
a mo’ di tappezzeria murale. Non si tratta ancora di carta.
La piccola dimensione dei fogli, la fragilità dei materiali
– carta e colore – rispetto alle condizioni delle pareti rendono impossibile tale fabbricazione. Il fregio di carta ritrovato in situ nel Christ’s College di Cambridge, che risale
all’inizio del xvi sec., non è neppur esso una vera e propria
tappezzeria. Le carte stampate mediante tavola lignea con
piccoli motivi neri spesso campiti in colore a stampino o a
pennello servivano in quell’epoca a proteggere e ornare i cassetti dei mobili o i fondi dei cofani. Alle pareti erano appese immagini, i dominos incisi nelle botteghe ove si fabbricavano carte da gioco e si lavoravano la carta e il cartone. I
primi reali tentativi d’impiegare la carta a mo’ di tappezzeria murale datano alla fine del xvi sec., quando i fabbricanti di cuoio stampato (con il quale pure si coprivano le pareti) cercarono d’imitare gli arazzi col procedimento del floccaggio, consistente nel deporre sulla carta, mediante legni
incisi, non piú inchiostro da stampa, ma un adesivo che veniva poi spolverato con fibre corte o altri materiali. Per ottenere sulla parete una decorazione continua, i legni vennero incisi in modo da raccordarsi gli uni agli altri. L’impresa,
tentata nei Paesi Bassi, in Inghilterra e in Francia, nel 1620
ca., restò effimera, poiché il floccaggio non resiste all’umidità e al calore.
La carta svolge la funzione di tappezzeria murale, alla fine
del xvii sec., grazie a nuove tecniche; Jean-Michel Papillon
in Francia e Jackson in Inghilterra impiegarono la tavola di
legno per stampare non soltanto il disegno ma anche i colori, a olio e non piú ad acqua. Il repertorio ornamentale si arricchí, grazie all’importazione delle tele «indiane», tessuti
di cotone delle Indie, imitati in Francia sino alla proibizione sancita da Louvois nel 1686 e nel 1688. Papillon e i suoi
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seguaci copiarono i disegni delle stoffe indiane, damasco,
velluto, mentre Jackson si ispirò alla pittura e alle composizioni architettoniche. La c d p prodotta in Europa era destinata ad alloggi modesti; la clientela agiata preferiva le carte cinesi d’importazione, spesso dipinte a mano, che in Germania, in Inghilterra, nei Paesi Bassi vennero imitate, sostituendo al pennello la matrice da stampa. A loro volta, i
cinesi s’ispirarono alla tecnica europea, ma con colori a tempera, vale a dire stemperati con acqua e colla, senza sostanze grasse, su un fondo unito steso a pennello. I colori erano
piú cangianti, ma meno solidi dell’olio, e si scrostavano.
Verso il 1750, in Francia si cominciarono a fabbricare i flock
papers, nuove carte vellutate stampate da principio in Inghilterra, piú solide e durevoli di quelle tentate nel xvi sec.,
e che il progresso nella tecnica dell’incoflatura consentí di
utilizzare senza rischi. La clientela agiata non esitò, allora,
a farle entrare nelle stanze di rappresentanza, fino ad allora
decorate con stoffe o coperte di pannelli lignei. Disprezzata da Diderot, che non pubblicò nell’Encyclopédie i disegni
di Jean-Michel Papillon, la «carta da tappezzeria» acquistò
presto originalità grazie a Jean-Baptiste Réveillon. Sull’esempio inglese, vennero usati colori a tempera, con disegni su un fondo steso a pennello su fogli non piú isolati, ma
accoppiati in precedenza lungo i margini, cosí da costituire
un rotolo. La stampa era realizzata alla maniera dei produttori di stoffe indiane: tavola su carta, disegni stampati percuotendo con mazzuolo di legno, legni «di ribattuta» per i
colori. Réveillon creò una vera e propria industria, fabbricando lui stesso il velino sul quale imprimere i «pannelli ad
arabeschi» imitati dalle pitture dei pannelli lignei. Réveillon si rivolse agli stessi artisti che fornivano ai Gobelins i
cartoni per arazzi: Prieur, Cietti, Fay, Lavallée-Poussin,
Huet, Boucher figlio. È difficile fissare la cronologia del suo
lavoro. Egli è celebre per i pannelli ad arabeschi su fondo
bianco o color giunchiglia, verde d’acqua, azzurro, rosa, negli anni ’80 del Settecento; ma anche le sue carte, ispirate
alle tele di Jouy, dell’India, delle seterie di Lione con decorazione a nastri, ricami, fiori, uccelli, cineserie nello stile di
Pillement, sono di qualità eccezionale. La fabbrica parigina
di Réveillon alla Folie Titon, nel faubourg Saint-Antoine,
era una manifattura reale. Gli emuli e successori di Réveillon, Arthur, Grenard, Robert, Pierre Jacquemart, produs-
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sero le carte allegoriche con le simbologie care alla Rivoluzione, per tornare in seguito ai motivi decorativi nello stile
di Réveillon.
All’inizio dell’Ottocento andarono di moda composizioni
all’antica, in grisaille, in color bronzo dalla patina verde, o
colori dorati, ispirate, nei soggetti, a David, Prud’hon, Percier e Fontaine. Erano ormai decorazioni complete, destinate a rivestire le stanze di rappresentanza e le anticamere.
Un genere nuovo ebbe grande successo sin dai primi anni
del secolo: la carta panoramica. Erano grandi quadri in grisaille, poi a colori, spesso vivaci, che illustravano la letteratura, la storia, l’esotismo, l’attualità, una specie di fumetti
ante litteram, che potevano srotolarsi senza fine sulle pareti
degli appartamenti, oppure restare isolati con scene separate da gruppetti d’alberi. Nel 1906 i due fabbricanti specializzati nella stampa di carte panoramiche, Jean Zuber a
Rixheim presso Mulhouse e Joseph Dufour a Mâcon e poi a
Parigi, esponevano i loro «quadri-tappezzeria» nelle esposizioni dei prodotti dell’industria francese.
Le possibilità tecniche di imitare perfettamente i tessuti, gli
arazzi, i cuoi, di ottenere anche rilievi su supporti spessi, fecero della c d p un surrogato a buon mercato della stoffa.
Verso la metà dell’Ottocento l’industria consentí una produzione rapida ed economica, ma la decorazione si banalizzò
molto in schemi ripetitivi. Le grandi decorazioni non vennero peraltro abbandonate; Jules Desfossé impiegò pittori
di talento, come Muller, Dumont, Wagner. A lui dobbiamo,
tra il 1852 e il 1870, i successi maggiori dell’arte della c d p:
il Giardino d’inverno, la Galleria di Flora, il Giardino di Armida, l’Eden. Il rinnovamento del genere maturò in Inghilterra, con William Morris, intorno al 1861. Le c d p eseguite
dalla sua ditta e da Jeffrey and Co. imposero sul mercato modelli completamente nuovi e di gran qualità. Con lui lavorarono Walter Crane, Mackmurdo, Charles Voysey.
Dopo il 1945, le innovazioni tecniche non hanno fatto uscire l’insieme della produzione industriale da una grande mediocrità: impiego del cilindro in plastica, del rotocalco, invenzione della decorazione senza raccordo, e della carta autoadesiva. Le nuove tendenze provengono dagli Stati Uniti, ove dal 1965 si fabbricano rivestimenti murali a decorazione geometrica ispirati dall’Op’Art, stampati a mano su
vinile. I colori sono vivaci o scuri – bruno, nero –, impiega-
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no l’argento e giocano su alternanze di brillantezza e opacità. (yb).
carta da ricalco
Carta coperta da uno strato di colla mescolata a un pigmento bianco, opaca o trasparente, che tende ad imitare la superficie di una pietra calcarea litografica. Impiegata per motivi di comodità, consente agli artisti di eseguire un disegno
che verrà in seguito riprodotto col procedimento litografico, evitandone gli inconvenienti (peso e ingombro della pietra). L’artista traccia il suo disegno, con matita grassa o inchiostro litografico, sullo strato superficiale di colla, che lo
isola dalla carta. Essendo esso solubile nell’acqua, basta poggiare la c (dal lato del disegno) sulla pietra litografica, perché il tracciato grasso vi si depositi; si inumidisce poi il verso. La colla si scioglie e il grasso dell’inchiostro aderisce al
calcare. Corot impiegò assai spesso questo mezzo, che gli
consentiva di lavorare«sul motivo». (cpe).
carta di Francia
Particolare tipo di carta da parato stampata con disegni non
ripetitivi per ricoprire l’intera superficie delle pareti e raffigurante vedute panoramiche o anche scene di genere. Le prime carte da parato di questo tipo (carta da parato scenica o
panoramica) furono le Vues de Suisse di J. Zuber (1804) e la
produzione migliore è quella francese (la posizione di guida
nel disegno della carta da parato era passata dall’Inghilterra alla Francia nel 1770-80, soprattutto con la produzione
di Réveillon seguito dalla fabbrica di Jacquemart e Bernard),
delle case di Zuber e di J. Dufour che trovarono un loro mercato anche in Inghilterra e negli Stati Uniti. La moda di questo tipo di carta rimase sino alla metà del xix sec. (svr).
Cartagine
In questa città antica dell’Africa settentrionale, non lontana dall’attuale Tunisi, sono stati ritrovati numerosi mosaici
romani (ii-vi sec. d. C.). Vanno in particolare citati: della fine del ii sec., una composizione di frasche popolata di uccelli e piccoli animali, che adornava il peristilio della Casa
della voliera (Tunisi, Museo del Bardo); del iv sec., il Mosaico del signore Giulio, nel quale sono rappresentate, in modo naïf , le occupazioni stagionali di una grande villa (ivi);
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la Caccia al cinghiale (ivi), l’Offerta della gru (ivi); del v sec.,
un busto femminile la cui espressione ieratica rievoca
l’Oriente greco (Cartagine, Antiquarium); del vi sec., il mosaico dei Due leoni (Tunisi, Museo del Bardo). (cp).
Cartailhac, Emile
(Marsiglia 1845 - Ginevra 1921). Originario di una famiglia
protestante dell’Aveyron, seguí studi di diritto e di lettere
a Tolosa, dove sin dal 1865 partecipò attivamente, con
Filhol, alla creazione del Museo di storia naturale. Effettuò
numerosi scavi di dolmen nell’Aveyron; con molta fatica riuscí ad esporre una parte del materiale raccolto all’esposizione universale di Parigi nel 1867. Nel 1869 assunse la direzione della migliore pubblicazione francese di preistoria ed
etnologia dell’epoca, «Matériaux pour l’histoire naturelle et
primitive de l’homme», fondata da G. de Mortillet.
Dopo la scoperta di Altamira in Spagna, dove C mandò un
osservatore, Harlé, altre grotte decorate vennero alla luce:
Pair-non-Pair nel 1881, La Mouthe e Marsoulas nel 1897, e
infine Les Combarelles e Font-de-Gaume, le cui scoperte
vennero annunciate nel 1901, a pochi giorni d’intervallo
l’una dall’altra. Poiché la sua mentalità scientifica non rinveniva sufficienti prove di autenticità nei resoconti dei vari scavatori, C si recò sul posto per giudicare coi propri occhi, a Pair-non-Pair e a La Mouthe, accertandone l’autenticità. In seguito scrisse un’autocritica sulle sue titubanze iniziali: Les Cavernes ornées de dessins: la Grotte d’Altamira,
Espagne. Mea culpa d’un sceptique (1902).
C e l’abate Breuil lavorarono insieme ad Altamira, di cui
l’abate Breuil tracciò il rilievo, e a Marsoulas, ove C ebbe
l’idea di una cronologia approssimata, ottenuta in base allo
studio dello stile e delle sovrapposizioni. Professore di preistoria nell’università di Tolosa dal 1882, C pubblicò numerose opere che trattano diversi problemi di preistoria, e un
lavoro di sintesi, La France préhistorique d’après les sépultures et les monuments (1889). Partecipò con l’abate Breuil alla pubblicazione, con il sostegno del principe di Monaco,
delle Caverne d’Altamira e di Grimaldi. (yt).
cartiglio
Particolare tipologia di targa dipinta o scolpita utilizzata con
funzione decorativa o esplicativa in pittura, scultura e ar-
Storia dell’arte Einaudi
chitettura; può trattarsi di un elemento inserito integralmente nell’opera, omogeneo per materiali e tecnica, oppure
di un elemento applicato e spesso distinto da essa (è questo,
in prevalenza, il caso dei c con la scritta inri posto al sommo dei montante della croce). Il termine è spesso impiegato
come sinonimo di ‘cartella’ e ‘cartoccio’ anche se, nel primo
caso, si tende a definire un elemento di forma quadrangolare e, nell’altro, un motivo piú elaborato, tipicamente barocco. Il c ha foggia di rotolo cartaceo, dispiegato in lunghezza
o in larghezza, con i lembi arrotolati e in genere percorso da
una scritta in riferimento al personaggio che lo regge (il Redentore, santi, profeti), alla scena illustrata (si vedano il c
dell’Angelo nell’Annuncio ai pastori nel mosaico di P. Cavallini di Santa Maria in Trastevere a Roma, o quelli dispiegati nell’Allegoria del Buon e Cattivo Governo di A. Lorenzetti nel Palazzo Pubblico di Siena) o alla datazione
dell’opera (targa sottostante all’affresco del Guidoriccio da
Fogliano di S. Martini); quale elemento di pura decorazione, il c può comunque essere anche a campo bianco: si veda
quello nella Visione di sant’Eustachio del Pisanello (Londra,
ng). Dalle forme quasi esclusivamente geometriche della cartella classica, da cui è desunta quella rinascimentale, il e nel
Seicento assume forme più complesse negli avvolgimenti e
ripiegamenti e fu spesso usato in araldica come supporto del
motto oppure in architettura quale elemento di coronamento o di chiusura laterale. Per estensione, il termine ‘cartoccio’ (o cartocci) identifica anche il motivo ornamentale composto da rotoli intrecciati di cui uno dei primi esempi si ha
nel fregio in stucco per la galleria di Francesco I a Fontainebleau disegnato da Rosso Fiorentino (1533-35) e che fu
sviluppato nella pittura manieristica, nord-europea soprattutto olandese. (svr).
cartone
Disegno preparatorio realizzato su carta pesante che presenta le medesime dimensioni dell’opera da eseguire. Per
lavori di piccolo formato veniva realizzato un disegno su
carta di uso comune (c di Raffaello per l’Annunciazione della predella nell’Incoronazione della Vergine al Vaticano: Parigi, Louvre, Gabinetto dei disegni), mentre per le superfici piú ampie si adoperava una carta pesante, generalmente
di colore beige o bruno; in mancanza di fogli di grande for-
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mato, essi venivano incollati l’uno accanto all’altro sino ad
ottenere la grandezza stabilita (i fogli per il c della Battaglia
di Cascina di Michelangelo a Palazzo Vecchio raggiungevano i quindici metri quadrati di superficie). Tali c di notevoli dimensioni potevano essere rinforzati ai bordi da un
tessuto e, in casi eccezionali, doppiati in tela. Su questo supporto il disegno era eseguito con un colore scuro, spesso rialzato di gesso bianco per le lumeggiature e talora con rapide indicazioni colorate a sanguigna o a pastello. Solo i c progettati per tappezzerie e per vetri furono realizzati con altra tecnica e dipinti ad acquerello, guazzo o olio. Con i maestri del Rinascimento italiano, allorché il c entrò largamente nell’uso comune, esso ebbe grande rilievo nella fase di
progettazione definitiva e, ad eccezione dei pittori veneti
che non sempre l’adottarono, il disegno su c era considerato alla stessa stregua dell’opera d’arte e sovente esposto alla pubblica ammirazione e al confronto tra piú artisti. I trattatisti dell’epoca (Vasari, Armenini, Borghini) si soffermano sulla descrizione delle tecniche relative al procedimento della realizzazione e del trasporto del c; tecniche, comunque, definite tra il xiii e il xv secolo. Secondo il Vasari il c costituirebbe il terzo-quarto stadio della fase preparatoria, dopo lo schizzo, il disegno vero e proprio su piú fogli e la composizione nel formato pari a quello del dipinto
futuro effettuata con tecniche miste ed eseguita su «fogli
tinti». Nel passaggio dal disegno in piccolo a quello su c,
molto spesso veniva utilizzata una quadrettatura (la «rete»
ricordata dal Vasari), per facilitarne l’ingrandimento, specie nella rappresentazione delle inquadrature prospettico-architettoniche. Circa il metodo del trasporto dell’immagine sul supporto prescelto, l’impronta veniva trasferita
solitamente a spolvero, cioè attraverso una serie di fori praticati con un grosso ago lungo i contorni della composizione su cui era passato un tampone imbevuto di colore o di
polvere di carbone; nell’affresco, un’altra tecnica di riporto consisteva nel ricalcare il disegno con uno stiletto d’avorio o di legno duro o con un ferro acuminato. Per la pittura ad affresco o su muro, il c, date le dimensioni dell’opera
definitiva, veniva ritagliato e apposto sull’intonaco fresco
e pulito o sulla superficie muraria, in riferimento alla zona
che si prevedeva di portare a compimento nella «giornata
di lavoro»; per le tavole e le tele, la delineazione dei con-
Storia dell’arte Einaudi
torni era eseguita con il c intero. In alcuni casi si usava anche una carta di trasporto intermedia al fine di salvaguardare in parte il c originale che, in tale modo, non veniva apposto direttamente sull’intonaco né sottoposto allo spolvero. Qualunque fosse comunque la tecnica e anche con i particolari accorgimenti, il c rischiava di restare gravemente
danneggiato e dopo l’uso ne risultava difficile la stessa conservazione; talora i c erano incollati su un fondo o anche intelati ma spesso semplicemente arrotolati o addirittura distrutti: da ciò l’esiguo numero di pezzi pervenutici. Dalla
trattatistica cinquecentesca l’iter operativo rimase pressoché invariato sino al sec. xix. (svr).
Carucci, Jacopo → Pontormo
Carus, Carl Gustav
(Lipsia 1789 - Dresda 1869). Medico, botanico, teorico
dell’arte e pittore autodidatta, intimamente legato a C. D.
Friedrich, dal 1818 ne subí profondamente l’influsso distaccandosene piú tardi. Viaggiò in Italia (1821 e 1828),
Francia (1835) e Inghilterra (1844); dal 1827 fu medico della casa reale di Sassonia. È considerato tra gli artisti piú rappresentativi del romanticismo tedesco e il principale teorico della pittura di paesaggio: Nove lettere sulla pittura di paesaggio (1831) e Dodici lettere sulla vita della terra (1841). Legato a Goethe, di cui ammirava l’universalità, scambiò corrispondenza con lui a partire dal 1818 e ne fu il biografo
(Goethe, 1843). È rappresentato in musei di Düsseldorf
(Paesaggio alpino, 1822; Passeggiata in barca sull’Elba, 1827),
Dresda (nove paesaggi, tra i quali Querce in riva al mare),
Karlsruhe (Studio del pittore al chiaro di luna, 1826), Lipsia
(il Cimitero di Oybin 1828), Amburgo (Tomba di Goethe,
1832). (hbs).
Carvajal, Luis de
(Toledo 1534 - El Pardo 1607). Di famiglia toledana, fratellastro dello scultore Monegro, fu scelto da Filippo II ed
ebbe un ruolo importante nella decorazione dell’Escorial a
partire dal 1570. Vi dipinse diversi quadri (Maddalena, Natività), nonché tre polittici sulla vita di Cristo per il chiostro
grande. Avendo la morte di Navarrete interrotto l’esecuzione delle grandi coppie di santi previste per gli altari del-
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la chiesa, egli svolse una parte predominante nel gruppo che
completò la decorazione: i sette dipinti da lui eseguiti tra il
1580 e il 1582 superano quelli dei colleghi (Sánchez Coello,
Diego de Urbina) per la gravità virile e la semplice grandiosità delle figure processionali, molto spagnole. C dipinse in
seguito altri polittici per chiese e conventi della Castiglia
centrale (Madrigal, Toledo, Ocaña), morendo poi al Pardo,
ove Filippo II lo aveva chiamato per partecipare alla decorazione del palazzo. (pg).
Casanova, Francesco Giuseppe
(Londra 1727 - Brühl (Vienna) 1802). Nato a Londra da genitori veneziani, fratello di Gian Giacomo Casanova autore delle celebri Memorie, C fu allievo di Giannantonio Guardi a Venezia, dove copiò anche le opere del battaglista toscano Francesco Simonini; soggiornò a Dresda (1753-61), a
Parigi (1761-83), ove espose assiduamente al salon e fu accolto nell’accademia nel 1763, a Vienna (1783-1802), dove
lavorò sia per la corte austriaca sia per Caterina II. I suoi disegni, di grande libertà (Parigi, Louvre), i paesaggi, le scene
pastorali e soprattutto le battaglie sono un pastiche brillante dei Parrocel, Courtois e Wouwerman, e sono trattati con
un brio che suggerisce nel contempo l’influsso dei grandi veneziani (ad esempio Marco Ricci) e quello di Fragonard. Malgrado la mancanza d’originalità delle sue composizioni, fu
celebre in tutta Europa, ed ebbe incarichi anche dal principe di Condé (Battaglia di Rocroi, 1768-75: Lione, Ecole de
médicine militaire), da Kaunitz, da Mme du Barry (quattro
pannelli, la Tempesta, l’Uragano, Attacco di briganti, Crollo
di un ponte, provenienti dal suo padiglione di Louveciennes
e conservati a Rennes). (cc+sr).
Casares, Los
Grotta spagnola (provincia di Guadalajara) con incisioni
preistoriche studiata nel 1933 dall’archeologo spagnolo Juan
Cabre Aguilo. È notevole per le rappresentazioni di figure
umane, dai volti a becco di tartaruga, associate a pesci, tra
le quali un uomo, con la testa volta verso il basso, sembra
tuffarsi. Cavalli, cervi, stambecchi, che sembra appartengano a due diversi periodi, indicano un sito di transizione tra
la zona mediterranea e quella pirenaica. (yt).
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Casas, Ramón
(Barcellona 1866-1932). Allievo del pittore Juan Vicens, nel
1882 partí per Parigi, ove fu allievo di Carolus-Duran. Dopo aver soggiornato a Madrid, Granada e Barcellona, tornò
a Parigi nel 1885, frequentò l’Académie Gervex e si legò ad
altri spagnoli di Parigi, il basco Zuloaga, i catalani Rusiñol
e Utrillo, in compagnia dei quali visse a Montmartre fino al
1894. In questo periodo dipinse con abilità e sensibilità numerose scene di vita parigina. Tornato a Barcellona vi arrecò un po’ dell’atmosfera di Montmartre, fondando ad imitazione dello Chat-Noir il cabaret dei Quatre Gats, di cui
l’omonima rivista (cui successe nel 1899 «Pel i ploma») fu,
per gli articoli e le illustrazioni, un centro elettivo del modernismo catalano. C, in seguito, svolse soprattutto opera di
ritrattista. Disegnatore ampio ed incisivo, influenzò certamente il giovane Picasso; la collezione di grandi carboncini
entrata al mam di Barcellona costituisce nel contempo un’eccellente galleria di ritratti e un documento storico, nel quale rivive tutta l’intelligencija catalana del primo decennio del
secolo. C ha lasciato, nel medesimo periodo, un interessante gruppo di manifesti. (pg).
Cascella, Michele
(Ortona a Mare (Chieti) 1892). Alla prima formazione presso il padre Basilio, dannunziano e influenzato nella sua pittura dalla fotografia, seguono alcuni importanti soggiorni a
Milano (1900, 1912, 1920) dove entra in contatto con l’ambiente letterario, conosce Sibilla Aleramo e collabora con alcuni disegni, assieme al fratello Tommaso, alla «Grande Illustrazione» di Gozzano e M. Moretti. Per tutto il corso della sua vita raffigurò soprattutto paesaggi, con tecniche diverse, molti pastelli, in particolare in età giovanile (Betulla,
Pescara, 1907; Spiaggia presso Pescara, 1908) e oli (Natura
morta essenziale, 1945) ma anche acquerelli, chine, litografie. Dipinse anche figure, ma certo fu sempre piú interessato ai luoghi e alle atmosfere: anche in alcune composizioni
popolate di personaggi (la Canonizzazione di Andrea Uberto
Fournet in San Pietro e Roma, esultanza sportiva, entrambi del
1933) le folle di persone sono dipinte – come spiegò lui stesso – come campi di fiori, con un medesimo sguardo che isola nell’insierne dei particolari un’immagine essenzialmente
Storia dell’arte Einaudi
cromatica della moltitudine. Nei suoi paesaggi, dipinti o disegnati dal vero fino a tarda età, le montagne e i paesi
dell’Abruzzo si alternano ai luoghi visitati in Italia e negli
Stati Uniti. (sr).
Caselli, Cristoforo, detto dei Temperelli
(Parma 1460 ca. - 1521). La tradizione fissa il suo iniziale
apprendistato presso Jacopo Loschi, ma la sua prima attività
è documentata a Venezia a partire dal 1488. Nel 1489 inizia la sua collaborazione con Giovanni Bellini, Alvise Vivarini e Lattanzio da Rimini per la decorazione delle sale del
Maggior Consiglio nel Palazzo ducale, andate distrutte
nell’incendio del 1577. Nel 1495 firma e data il trittico di
San Cipriano a Murano, torna poi a Parma dove riceverà importanti commissioni dal Consorzio dei Vivi e dei Morti
(1499) e dalla chiesa di San Giovanni Evangelista. È stato
invece smembrato il polittico della parrocchiale di Almenno
San Bartolomeo (Bergamo), i cui pezzi sono oggi suddivisi
fra Detroit e l’Accademia Carrara di Bergamo. La sua attività, caratterizzata da altre interessanti tavole, rappresenta
il passaggio di interesse dai moduli lombardi, che avevano,
finora, attirato gli artisti parmensi, a quelli veneti, cui s’ispira negli effetti cromatici, nelle scelte compositive e nelle soluzioni narrative. (lfs).
Casolani, Alessandro
(Mensano di Siena 1552 o 1553 - Siena 1607). Si forma con
Arcangelo Salimbeni e stringe amicizia con C. Roncalli e con
lo scultore Prospero da Brescia, tutti attratti dal viaggio romano che compiranno verso il 1578. Non trovando sbocco
a Roma, al contrario degli amici, C torna a Siena, dove svolgerà per intero la sua attività. Su un sedimento senese, prevalentemente beccafumiano, la sua maniera si evolve grazie
a una puntuale attenzione per l’arte, piú ricca e articolata
anche in senso romano, di V. Salimbeni e di F. Vanni (La
consegna delle chiavi di Castel Sant’Angelo a Urbano VI,
1582-83: Siena, Oratorio di Santa Caterina; Adorazione dei
pastori: Siena, Santa Maria dei Servi; Natività di Maria, 158485: Siena, San Domenico). Negli ultimi anni, forse anche attraverso i contatti con P. Serri, con il quale tra l’altro collabora nel 1600 ca. agli affreschi della sacrestia nuova della
Certosa di Pavia, assume tratti di naturalismo riformato che
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rimandano agli esempi dei fiorentini contemporanei (Sansone e Dalila: Siena, coll. priv.). (sr).
Casorati, Felice
(Novara 1883 - Torino 1963). Unico figlio maschio di una
famiglia di origine pavese, nota per matematici, giureconsulti e medici, segue gli spostamenti del padre, militare di
carriera e pittore dilettante, manifestando un precoce interesse per la musica. A Padova nell’adolescenza un esaurimento nervoso lo costringe ad abbandonare lo studio del pianoforte: convalescente si avvicina alla pittura che, dopo gli
studi classici e la laurea in legge, diventerà la sua principale
occupazione. Allievo del veneto G. Vianello si segnala nel
1907 alla Biennale di Venezia con un aristocratico profilo
della sorella Elvira (Ritratto di Signora, 1907: Torino, coll.
priv.), abilmente condotto secondo la moda internazionale,
cosí come risente della pittura folclorica di Zuloaga Le vecchie (1909: Roma, gnam), dipinto a Napoli, dove nel frattempo s’era trasferita la famiglia. Nel 1911 il trasloco a Verona lo porta in un ambiente artistico piú consono e meno
accademico, non tanto nei due quadri che a Venezia conoscono la fortuna di un acquisto ufficiale (Le Signorine, 1912:
Venezia, gam; Bambina, 1912: Gand, mba), quanto
nell’omaggio a Klimt del Sogno del melograno (Torino, coll.
Lattes), esposto nel 1913 alla Secessione romana. L’occasione della prima personale, organizzata da Nino Barbantini a Ca’ Pesaro, mette in contatto C con Gino Rossi e Arturo Martini, indirizzandolo verso un sintetismo decorativo, ancora di matrice secessionista ma di piú decisa stilizzazione simbolica, evidente in particolare nella grafica, ad
esempio nelle illustrazioni per la rivista giovaride «La via
Lattea», edita a Verona nel 1914, e nelle xilografie per la
spezzina «L’Eroica». La sala personale di C alla terza Secessione romana nel 1915 propone, accanto a terrecotte colorate, tele di assoluta semplificazione bidimensionale come
Scherzo: Uova (o Le uova sul tappeto verde, 1914: Torino, coll.
Carluccio), dove i gusci ovali si staccano senza ombre su una
fuga prospettica di tondi in un gioco ottico vertiginoso.
La lunga parentesi bellica porta C al fronte e s’interrompe
brutalmente nel settembre 1917 per il suicidio del padre: come conseguenza dello scandalo il pittore, divenuto capofamiglia, trasferisce la madre e le sorelle a Torino, dove dal
Storia dell’arte Einaudi
1918 abiterà la casa-studio di via Mazzini 52. La crisi familiare coincide con un piú maturo e convinto ripensamento
pittorico: in interni prospetticamente impaginati nature
morte o persone in silenziosa solitudine stanno come sospese fuori dal tempo in una sorta di vuoto esistenziale, sottolineato da Gobetti, autore della prima monografia sull’artista, nel commento a Maria Anna De Lisi (1919: Torino, coll.
priv.). La conoscenza delle opere di Cézanne conferma la rigorosa analisi volumetrica (Le uova sul cassettone, 1920: Torino, coll. priv.) che via via, sia per l’uso della tempera, sia
per la ripresa di modelli di aulica serenità rinascimentale (come la citazione pierfrancescana di Silvana Cenni, 1922: Torino, coll. priv.), sarà portata da C verso una chiarezza compositiva e una raffinatezza di esecuzione assolute. Lionello
Venturi parlerà di «stile» e di «volontà di forma» presentando la sala di C alla Biennale di Venezia del 1924, dove
sette ritratti testimoniavano la fortuna del pittore presso
l’élite torinese (Riccardo Gualino, Cesarina Gualino Gurgo
Salice, 1922: Firenze, coll. priv.; Gino Beria, 1924: Torino,
coll. priv.; Hena Rigotti, 1924: Torino, gam); i quadri piú
ambiziosi di questo periodo (Ritratto della sorella, Lo studio)
andranno purtroppo perduti nell’incendio del Glaspalast a
Monaco nel 1931. Mentre il successo espositivo di C diventa
internazionale e la critica comincia a rimproverargli una sorta di freddezza neoclassica, a fronte delle ricerche tonali dei
più giovani pittori radunati da Venturi nel Gruppo dei Sei,
C assume a Torino un ruolo di organizzatore culturale, fondando la società artistica «A. Fontanesi» e provandosi come arredatore d’interni per il teatrino privato di Gualino
(1925, in collaborazione con l’architetto Sartoris) e per la
Macelleria nella via dei negozi all’esposizione di Monza
(1927, con lo stesso Sartoris). Nel 1928 assume l’insegnamento di arredamento e decorazione interna presso l’Accademia Albertina.
Frattanto nella produzione pittorica, esposta regolarmente
nelle maggiori rassegne, dalla mostra del Novecento alle
biennali e alle quadriennali, comincia a serpeggiare un’inquietudine che da Conversazione platonica (1926: Firenze.
coll. priv.), punto d’arrivo del coinvolgimento erotico, qui
raggelato e sospeso, della prediletta tematica del nudo femminile, porta agli acerbi cromatismi di Aprile (1930: Milano, gam), Lo straniero (1930: Firenze, gam) o ai temi fami-
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liari ambientati nella cornice delle colline di Pavarolo come
il ritratto della moglie Daphne (1934: Torino, gam). Se continua la presenza come espositore e giurato (ad esempio a
Pittsburgh), a confermare la fama di maestro giunge nel 1938
il gran premio della Biennale di Venezia e nel 1941 la cattedra di pittura all’Albertina di Torino, che terrà sino alla
nomina a direttore nel 1952.
Mantiene però un interesse non conformista e una sorta di
tutorato verso le esperienze della pittura contemporanea, organizzando mostre come quella degli astratti nel 1935, appoggiando gallerie (La Zecca, La libreria del Bosco), sino alla fondazione, nel primo dopoguerra, dell’Unione Culturale. Va ricordata anche l’intensa attività di scenografo teatrale, iniziata al Maggio musicale fiorentino grazie all’amicizia con A. Casella, suo collezionista, e con G. M. Gatti
(per opere inconsuete come La Vestale di Spontini, 1933;
Norma di Bellini, 1935; Didone e Enea di Purcell, 1940; Elettra di Strauss, 1950). Nel secondo dopoguerra riprende in
modi piú asciutti i temi dei nudi e delle nature morte, riconoscibili nella sigla delle uova e delle scodelle, ma definisce
le campiture di colore in una trama di contorni spessi e filanti, simili a quanto sperimenta nella grafica (disegni, incisioni e litografie) a cui si dedica con esclusiva passione negli
ultimi anni, costretto all’immobilità dall’amputazione di una
gamba. (mml).
Cassandre
(Adolphe-Jean-Marie Mouron, detto) (Char´kov (Ucraina)
1901 - Parigi 1968). Dopo soggiorni alternati in Francia e
in Russia, nel 1915 si stabilì a Parigi studiando pittura presso L. Simon, poi all’Académie Julian. Inaugurò la sua opera
di cartellonista nel 1923 col Bûcheron; nel 1925 vinse il gran
premio del manifesto e vide la sua opera diffusa con grande
successo in tutta Europa. Co-fondatore nel 1930 dell’Alliance graphique, vi editò Pathé, Pernod, Wagons-Lits Cook;
eseguí lavori tipografici e scenografie teatrali (Anfitrione 38
di Giraudoux, 1934). Collaborò allo «Harper’s Bazaar» di
New York nel 1936; dal 1938 abbandonò i manifesti per la
pittura e la scenografia (i Miraggi: Opéra, 1947; Don Giovanni: Aix-en-Provence, 1949). (sr).
Storia dell’arte Einaudi
Cassas, Louis François
(Azay-le-Ferron (Turenna) 1756 - Versailles 1827). Allievo
di Vien e di Lagrenée il Giovane, dai suoi viaggi riportò disegni che poi incise (Olanda, 1776). Collaborò ai Voyages
pittoresques dell’abate di Saint-Non (Sicilia) e di Choiseul-Gouffier (Siria, 1784-87), e soggiornò in Italia
(1779-84; Roma, 1787-92). Rapido nel riprendere il paesaggio (acquerelli, 1792: Orléans, mba), studiò pure con precisione, ma senza rigidezza, dettagli architettonici (Fronte e
fregio del Partenone), contribuendo cosí, dal suo ritorno in
Francia nel 1792, a diffondere l’amore per l’antichità e
l’Oriente mediterraneo. (cc).
Cassatt, Mary
(Pittsburgh 1844 - Mesnil-Théribus (Oise) 1926). Strettamente legata alla storia del movimento impressionista, la carriera della C si svolse per la maggior parte in Francia, sua
patria d’elezione. Formatasi presso la Pennsylvania Academy
of Fine Arts di Filadelfia, venne in Europa per visitare i musei e copiare i maestri. Frequentò a Parigi lo studio di Chaplin, ma Degas, che aveva notato i suoi invii al salon (1872,
1873, 1874 e 1876) ne divenne il consigliere e la invitò ad
unirsi agl’impressionisti (1877). Da allora ella partecipò alle loro mostre e si rivelò la miglior rappresentante femminile del movimento.
Serbò tuttavia, in seno al gruppo, una marcata personalità.
Si occupò esclusivamente di figura umana, in particolare del
tema della madre col bambino, che illustrò per tutta la vita.
Riprendendo da Renoir lo splendore luminoso delle carni e
delle stoffe (il Palco, 1878-79: Filadelfia, am), non trascura
il disegno, rendendolo il piú possibile autentico e anche poco convenzionale. Come Degas, coglie la verità del gesto,
spogliando di ogni artificio le immagini della vita quotidiana: Madre e bambino (Parigi, mo). L’influsso di Degas è particolarmente avvertibile nei pastelli, nei disegni e nelle incisioni, che aumentano alla fine della sua vita. La mostra di
stampe giapponesi, che aveva visitato in compagnia del pittore nel 1890, le ispirò una serie di stampe a colori, notevole
per la precisione del tratto e il valore espressivo del disegno.
Dedicò gli ultimi anni a far conoscere negli Stati Uniti la pittura impressionista. Possedeva di persona una notevole col-
Storia dell’arte Einaudi
lezione, e consigliò molti amatori: è in parte grazie ai suoi
sforzi che i musei americani possiedono oggi magnifici complessi di questa scuola. Si può condividere il giudizio che nei
suoi riguardi formulò Gauguin, confrontandone gl’invii con
quelli di Berthe Morisot: «Miss Cassatt possiede lo stesso
fascino, ma piú forza».
È rappresentata a Parigi (mo e Petit-Palais) e soprattutto in
musei americani: la Signora col tavolino da tè, 1883 -85: New
York, mma; Passeggiata in barca, 1893: Washington, ng;
Donna e bambino che guidano una carrozza, 1880 ca.: Filadelfia, am; Alexander J. Cassatt e suo figlio, 1885; il Bagno,
1891-92: Chicago, Art Inst.; Al teatro dell’opera, 1880 ca.:
Boston, mfa; la Tazza di tè: ivi; Dopo il bagno, 1901 ca.: Cleveland, am. (sc).
Cassée, Dick
(Bloemendaal 1931). Fino al 1963 la sua opera consiste soprattutto di disegni, che tradiscono l’influsso di Klee. In seguito ha messo a punto una tecnica di acquafortista, di sobrietà tutta personale. I suoi motivi sono stati tratti sulle
prime dall’astrattismo geometrico: gli elementi distinti venivano impressi a rilievo su carta e infine si sono evoluti verso forme orizzontali di paesaggi o di architetture trattate a
puntasecca. Oltre alle incisioni, C ha eseguito oggetti geometrici in plexiglas e acquerelli di paesaggi provenzali. E rappresentato in numerosi musei olandesi. (lbc).
Cassinari, Bruno
(Piacenza 1912). Formatosi a Milano a contatto col movimento corrente (1938-41 ca.), le sue opere derivano dalla comune componente picassiana, ma allora svilupparono particolarmente spunti espressionistici, anche di matrice vangoghiana, entro cui in seguito un grafismo di derivazione modiglianesca, a volte un po’ facile e decorativo, si inserí su un
colore smaltato e denso, ereditato in parte dalla sua prima
attività come orafo. La sua prima mostra a Milano (1940,
Gall. di Corrente) fu presentata dallo scrittore Vittorini. Nel
1946 partecipò alla formazione della Nuova Secessione Artistica, ritirandosi quando si costituí nel Fronte Nuovo delle Arti. Dopo un soggiorno a Parigi (1947) e ad Antibes, che
rafforzò la sua ammirazione per Picasso, vive e lavora a Milano. Presente alle piú importanti mostre internazionali,
Storia dell’arte Einaudi
espose piú volte alla Biennale di Venezia: nel 1952 gli venne consacrata una personale e vinse ex aequo il gran premio
per la pittura italiana; nel 1956 quello della Quadriennale
romana. Eseguí un gran pannello per la Quadriennale di Milano (1951). La sua meditazione pittorica s’incentra sulla
dialettica tra colore intenso, luminoso, liricamente evocativo, e struttura formale articolata in una spazialità frammentata di radice cubista; e tra memoria di natura e autonomia formale, talvolta quasi astratta, del dipinto. Nell’ultimo periodo il colore dilaga con violenza al di là del sottile
controllo che caratterizzava la sua precedente produzione.
Ampie mostre retrospettive di C si sono tenute nel 1983 a
Piacenza (palazzo Farnese) e nel 1986 a Milano (Palazzo reale). (lm+sr).
Cassioli, Amos
(Asciano (Siena) 1832 - Firenze 1891). Nel 1850 entrò
all’Accademia di belle arti di Siena, diretta dal 1851 da Luigi Mussini che ebbe un ruolo determinante nelle sue scelte
artistiche. Il soggiorno romano – dal ’56 al ’60 – fu particolarmente importante per C, che frequentò, tra gli altri, gli
artisti dell’Accademia di Francia, in particolare Degas e
Henner. A questo periodo risalgono molti ritratti la cui lontana matrice è senza dubbio Ingres. L’artista s’indirizzò poi
verso la pittura accademica sotto l’influsso del purismo toscano. Del 1864 è un importante saggio di adesione a questa poetica: Cino da Pistoia e Selvaggia (Siena, Pie Disposizioni). La sua produzione volse sempre più verso opere di
gusto storico o letterario: Galeazzo Sforza e Lorenzo de’ Medici (Siena, coll. Saracini). Nel 1886 eseguí, con P. Aldi e C.
Maccari, la decorazione ad affresco della sala monumentale
del Palazzo Pubblico di Siena in onore di Vittorio Emanuele II con La Battaglia di San Martino e La battaglia di Palestro,
aiutato dal figlio Giuseppe (Firenze 1865-1942). Negli ultimi anni della sua vita eseguí affreschi per monumenti funebri come la cappella Franci nel cimitero della Misericordia
di Siena (1887) e la cappella Guerrazzi nel cimitero di Livorno. (mvc).
Cassirer, Paul
(Görlitz 1871 - Berlino 1926). Dopo studi di storia dell’arte
a Monaco, ove frequentò numerosi artisti, fondò nel 1898 a
Storia dell’arte Einaudi
Berlino, unitamente al cugino Bruno, la Kunst- und Verlagsbuchhandlung Bruno und Paul Cassirer. I due soci si separarono nel 1901, e Paul cominciò allora la sua attività di mercante di quadri. Amicissimo di Durand-Ruel, svolse un ruolo di primo piano nella conoscenza e diffusione della pittura
impressionista in Germania; nel periodo antecedente la prima guerra mondiale, vendette ai musei tedeschi capolavori
come l’Après-midi des enfants à Wargemont di Renoir o la Casa di campagna a Rueil di Manet (Berlino Ovest, ng). Fu tra
i primi mercanti a scoprire Van Gogh, di cui realizzò la prima mostra in Germania e di cui doveva vendere numerose
tele a collezionisti tedeschi. S’interessò pure di pittori impressionisti tedeschi come Liebermann, Slevogt, Corinth e,
dopo la guerra, di espressionisti come Kokoschka. (sr).
cassone
I c erano, in Italia, mobili di solito destinati a contenere il
corredo, le stoffe e la biancheria che le donne portavano in
dote per le nozze (c di nozze). Decorati dapprima a pastiglia
o a stucco, rivestiti di velluto o tessuto damascato, dal xvi
sec. in poi vennero frequentemente ornati di una sontuosa
decorazione scolpita. In Toscana, dai primi anni del xv sec.,
si usava decorarli a pannelli dipinti con scene tratte dalla mitologia o dalla storia antica o recente. Col medesimo nome
si è presa l’abitudine, nel linguaggio della storia dell’arte, di
designare tanto il mobile decorato che i dipinti che lo adornano; impropriamente, il termine viene inoltre esteso a taluni pannelli decorativi, usati nell’arredo fiorentino dalla fine del xv all’inizio dei xvi sec., che venivano disposti a fregio continuo lungo le pareti dei saloni o delle camere nuziali («spalliere»).
Gli autori dei c sono quasi tutti anonimi, e si distinguono
mediante soprannomi che ricordano l’opera realizzata o il
suo soggetto principale (Maestro dei Cassoni, Maestro del
Cassone degli Adimari, Maestro di Didone, Maestro di Anghiari, Maestro di Virgilio). Ma artisti fiorentini noti, come
Giovanni dal Ponte (Arti liberali: Madrid, Prado), il Maestro del Bambino Vispo (Battaglia: Altenburg, sm), Pesellino (Trionfi: Boston, Gardner Museum; Storia di Davide:
Wantage, coll. Lloyd), nonché alcuni pittori senesi decorarono anch’essi c. Legati generalmente alla cultura tardo-gotica, subirono ugualmente l’influsso di Paolo Uccello e Do-
Storia dell’arte Einaudi
menico Veneziano, autore egli stesso di un c, oggi perduto,
dipinto nel 1447 per le nozze Parenti-Strozzi. Artisti di grande fama eseguirono invece «spalliere» (pannelli per camere
da letto) con episodi mitologici, antichi o biblici, oppure con
racconti medievali. Si devono cosí a Botticelli le Storie di Lucrezia (Boston, Gardner Museum) e di Virgilio (Bergamo,
Carrara), nonché quelle di San Zanobi (Londra, ng) e di
Esther (Chantilly, Museo Condé; Ottawa, ng; Parigi, Louvre). Le «spalliere» della casa di Francesco del Pugliese, oggi identificate con quelle decorate dagli Episodi dell’umanità
primitiva (Oxford, Ashmolean Museum; New York, mma),
nonché delle Storie di Sileno (Cambridge, Fitzwilliam Museum; e Worcester) per i Vespucci, o quelle di Prometeo (conservate a Strasburgo e a Monaco, ap) sono opera di Piero di
Cosimo. All’inizio del xvi sec. risale la decorazione della camera di Pierfrancesco Borgherini con Scene della storia di
Giuseppe, serie oggi dispersa (Londra, ng); Firenze, Pitti; Inghilterra, coll. Salmond), eseguita da Andrea del Sarto, Bacchiacca, Pontormo e Granacci, nonché quella del saloncino
dei Benintendi, opera di Franciabigio, Bacchiacca e Pontormo. Altri c o «spalliere» furono dipinti da Bartolomeo di
Giovanni (Nozze di Teti e Peleo: Parigi, Louvre), Biagio
d’Antonio (Giasone e Medea: Parigi, mad), dal Maestro di
Griselda (Londra, ng e dall’autore anonimo delle Storie di
Perseo (oggi a Firenze, Palazzo Davanzati).
Tra i c dipinti a Siena, possono citarsi quelli di Liberale da
Verona (Ratto di Elena: Avignone, Petit-Palais), Francesco
di Giorgio, Neroccio de’ Landi (Soggetti romani: Raleigh
N.C., am), Cozzarelli (Ulisse: Parigi, Museo di Cluny), dal
Maestro di Stratonice (San Marino Cal., Huntington Art
Gallery) e B. Fungai (a Houston Tex.). (sr).
Castagnary, Jules-Antoine
(Saintes 1830 - Parigi 1888). Amico di Courbet, che ne dipinse il ritratto (Parigi, Louvre), sostenne il realismo, Corot, Jongkind, e negli anni intorno al 1865 fu fervido difensore degli impressionisti. Dal 1857 in poi scrisse resoconti dei salons, pubblicati sui giornali dell’epoca («Le Présent», l’«Audience», «Le Monde illustré»), che vennero successivamente editi (Les Artistes du xixe siècle: Salon de 1861,
Paris 1881; Salons, 1857-1870, Paris 1892). Suoi articoli furono pure raccolti in volume col titolo di Libre Propos (Pa-
Storia dell’arte Einaudi
ris 1864). Tra le altre opere da lui firmate, citiamo Grand
Album des expositions de peinture et de sculpture (Paris 1863),
Le bilan de l’année 1868 (Paris 1869), Gustave Courbet et la
colonne Vendôme (Paris 1883). L’avvento del regime repubblicano gli consentí d’intraprendere una carriera politica, che si concluse con la nomina a direttore dell’Ecole des
beaux-arts nel 1887. (sr) .
Castel, Moshe Elazar
(Gerusalemme 1909). Di famiglia ebraica stabilitasi in Palestina da cinque secoli, studiò in Israele e soggiornò a Parigi dal 1927 al 1940, esponendovi frequentemente, in particolare al Salon des Indépendents (dal 1928) e al Salon d’automne; tra il 1951 e il 1953 ha soggiornato negli Stati Uniti. Il suo stile e la sua maniera si sono molto evoluti. Neoromantico agl’inizi, dipinse sul tema di Safed interni e composizioni dai vivi colori, in atmosfera mistica. Piú tardi subí
fortemente l’influsso delle miniature persiane, di Manessier,
poi di Fautrier. Successivamente C segue uno stile personale, molto decorativo, ove lettere e segni apparentati agli alfabeti ebraico e arabo si mescolano ad arabeschi astratti o
suggeriscono associazioni svariate con cortei, danzatrici, cipressi. È pure autore di grandi decorazioni murali, in Israele e all’estero (uffici della compagnia aerea israeliana El-Al,
1955: Rockefeller Center, New York; albergo Accadia,
1955: Israele; Scuola politecnica, 1958: Haifa). Le sue opere si trovano in numerosi musei degli Stati Uniti e a San Paolo (mac). (mt).
Castellani, Enrico
(Castelmassa (Rovigo) 1930). Si stabilisce a Milano nel 1957
dopo aver studiato arte ed architettura a Bruxelles. Già nei
Senza titolo del 1958-59 abbandona le prudenti prove informali del biennio precedente e, meditando la lezione di Fontana, crea una dialettica chiaroscurale sulla superficie bianca animandola con piegature e rigonfiamenti. La Superficie
nera a rilievo del 1959 annuncia l’invenzione di un codice
originale: aggetti e rientranze, disseminati irregolarmente,
sondano il limite di massima tensione della tela. Nella Superficie bianca a rilievo dello stesso anno, una sorta di manifesto programmatico, i rilievi e gli avvallamenti generati dalle coppie di chiodi si uniformano in binomi di forze uguali
Storia dell’arte Einaudi
e contrarie che trovano in semplici progressioni numeriche
la legge ritmica di scansione temporale. Fedele ai presupposti di Azimuth (espone nella mostra Monochrome Malerei del
1960 a Leverkusen), C azzera composizione e policromia limitandosi a sensibilizzare la superficie con interventi discreti, reversibili e iterabili. Con l’eccezione della sperimentazione sulla sagomatura dei telai nel corso degli anni
’60 (Superficie rossa del 19630 Trittico argento esposto alla
Biennale di Venezia del 1966), l’artista rimane ancorato alla bidimensionalità della superficie sulla quale diversifica
all’infinito i percorsi ritmici: ortogonali o sghembi, regolarmente distribuiti, affollati o rarefatti, differenziati negli intervalli e nelle altezze dei rilievi. Erroneamente associata a
quella dei gruppi di arte programmata e cinetica (è presente
nelle mostre Nuove Tendenze del 1961-63 a Zagabria e in
Responsive Eye del 1965 a New York), la sua ricerca si distingue per lo scarto tra chiarezza metodologica e costruttiva ed imponderabilità della luce. Quest’ultima contraddice
o asseconda orditi e simmetrie in una imprevedibile dinamicità percettiva esaltata dalla riduzione della gamma eromatica al bianco e alluminio. Per la mostra Lo spazio dell’immagine del 1967 a Foligno e per Vitalità del negativo del 1970
a Roma, l’artista concepisce L’Ambiente bianco. In uno spazio precario e dilatato dall’incertezza dimensionale delle superfici involucranti, la martellante scansione dei tracciati
puntiformi si coniuga alla continuità del circuito spaziale.
La ricerca attuale di C, pur nella continua sorpresa degli esiti, si mantiene coerente ai presupposti iniziali. (az).
Castellapiano
(inizi sec. xii). Nella cappella del castello, dedicata a Santa
Maddalena, si conserva un ciclo di affreschi, risalente alla
prima decade del sec. xiii, che va considerato il maggiore tra
quanti discendono dalla scuola venostana. Per quanto concerne i soggetti troviamo rappresentati: all’interno, sulla parete orientale, Cristo in trono e gli Apostoli; nell’abside centrale la Vergine in trono tra due Angeli; e nelle laterali, a sinistra i SS. Giovanni Battista ed Evangelista adoranti l’Agnello e a destra Cristo che consegna la Legge ai SS. Pietro e Paolo. Le rimanenti decorazioni parietali si svolgono su due registri e raffigurano episodi evangelici che partono dall’Annunciazione per culminare nella Sepoltura di Cristo. All’ester-
Storia dell’arte Einaudi
no della cappella, sulla parete settentrionale, sono dipinti
una Crocifissione e un Cavaliere che caccia il cervo. Il ciclo
non è dovuto a un unico artista, essendovi riconoscibili diverse mani, la cui identificazione risulta peraltro alquanto
difficile. Stilisticamente vi si notano parecchie derivazioni
bizantine (evidenti soprattutto nella ieraticità delle figure
allungate, nel modo di rendere i panneggi e nell’uso insistito delle lumeggiature), come pure notevoli assonanze con la
maniera del Maestro della Cripta di Monte Maria. (pa).
Castelli, Leo
(Trieste 1907 - New York 1999). Il suo nome è legato al successo della Pop Art. Giunto da Parigi nel 1941, aveva scarso
successo negli affari quando nel 1957 aprí a New York (n. 4
East, 77th Street) una galleria, insieme alla moglie Ileana Sonnabend. Espose agli inizi pittori europei accanto ai quali figuravano De Kooning, Pollock e David Smith; dal 1958 assunse veste di gallerista d’avanguardia presentando Marisol,
F. Dzubas e soprattutto Johns e Rauschenberg. Il successo di
questi due pittori attirò altri artisti: nel 1962 Lichtenstein;
nel 1964 Warhol; nel 1965 Rosenquist, nonché Bontecou,
Chamberlain, Tworkov, Twombly, Peter Young e Frank Stella. La galleria C svolse pure un importante ruolo a favore della Minimal Art (Larry Poons, Don Judd, Dan Flavin, Robert
Morris). Vi hanno trovato posto anche Joseph Kosuth, Bruce Naurnann, Keith Sonnier, Richard Serra. (jhr+jpm).
Castello, Bernardo
(Genova 1557-1629). È stato talvolta ritenuto solo un continuatore, senza grande personalità, di Luca Cambiaso; fu
tuttavia fecondo decoratore, e utilizzò spesso la consulenza
dei maggiori letterati del tempo. Lasciò numerose opere a
Torino, a Piacenza e soprattutto a Genova (Ascensione in
Santa Caterina; affreschi con storie della Gerusalemme liberata in palazzo De Franchi; e le ville Centurione a Sampierdarena e Saluzzo ad Albaro). La sua amicizia col Tasso, che
aveva incontrato a Ferrara nel 1575, lo indusse ad illustrare, per primo, la Gerusalemme liberata (1581).
Non poté esercitare alcun influsso sul figlio Valerio (Genova 1624-59), che fu allievo di Domenico Fiasella e di G. A.
De Ferrari. Fortemente colpito dalle tele lasciate a Genova
da G. C. Procaccini, tra il 1640 e il 1645 Valerio si recò a
Storia dell’arte Einaudi
Milano per meglio studiare quest’artista e gli altri pittori
lombardi, poi a Parma, ove le opere del Correggio e del Parmigianino furono per lui una rivelazione. La diversità di tali influssi, cui vanno aggiunti quelli di Rubens e di Van Dyck,
non doveva minimamente soffocarne la personalità, tra le
piú originali della pittura genovese della prima metà del xvii
sec. Il tocco scintillante e fluido, sciolto e fremente (che compare, particolarmente, negli schizzi e nei bozzetti, come le
Nozze della Vergine (Genova, palazzo Spinola) e la Caduta di
Simon Mago: Caen, mba), preannuncia quello di un Magnasco, mentre il gusto del movimento e d’un evanescente chiaroscuro, e la sua poetica, ne fanno un convinto rappresentante del barocco. Tra le opere, piuttosto numerose, che di
lui si conservano a Genova, vanno almeno segnalati gli affreschi in palazzo Balbi-Senarega e in palazzo Reale-Durazzo (soffitto della Fama), e alcuni quadri: Battesimo di san Giacomo, 1645-47: Oratorio di San Giacomo della Marina; Sacra Famiglia e Cena nella casa di Simone: Palazzo Rosso. Fuori di Genova, il Ratto delle Sabine (Firenze, Uffizi), l’Adorazione dei magi (Roma, Gall. Pallavicini) e Mosè che colpisce la roccia (Parigi, Louvre). (pr).
Castello, Giovanni Battista
(Gandino (Bergamo), fine del xv sec. - Madrid 1569). Fin
dalle prime opere note, gli affreschi con Storie di Ulisse (oggi a Bergamo, Prefettura) e il Cristo portacroce (Bergamo,
Carrara), collocabili fra 1540 e 1550, si rivela un esponente
della «maniera» di radice raffaellesca. Giunto probabilmente
a Genova all’inizio degli anni ’40, divenne gradatamente il
pittore dell’aristocrazia, a capo di una vera e propria impresa, tra i cui collaboratori fu il giovane Luca Cambiaso. I
riferimenti a Polidoro di Caravaggio e agli affreschi di Raffaello alla Farnesina, la vocazione a risolvere i problemi strutturali in chiave decorativa caratterizzano la sua opera, dal
ciclo di affreschi con Storie di San Matteo, (1557-61: Genova, San Matteo), dove eseguí il solo tondo centrale, alle Storie mitologiche, anch’esse a fresco (1560 ca.: Genova, Villa
Pallavicini delle Peschiere), all’Assunzione della Vergine e patriarchi, affrescata nella Cattedrale di San Lorenzo dopo il
1564. Meno agevole appare la definizione della sua attività
di architetto, esplicata anche a Madrid, dove si trasferí dopo il 1565. (agc).
Storia dell’arte Einaudi
Castelseprio
Antica piazzaforte distrutta dai Milanesi nel 1287, a cinque
chilometri da Castiglione Olona in provincia di Varese. Serba una chiesa dell’viii sec., Santa Maria fuori porta, decorata con affreschi bizantini che rappresentano le scene della vita della Vergine e dell’infanzia di Cristo. Annunciazione, Visitazione, Prova dell’acqua, Sogno di Giuseppe, Viaggio a Betlemme, Natività, Adorazione dei magi, Presentazione di Cristo, interrotti dal busto di Cristo in un medaglione, si dispiegano su due registri, in sequenza continua, sulla parete
interna del muro che separa l’abside dalla navata. Al di sopra dell’arco due angeli con in mano il globo e lo scettro si
accostano, volando, al trono dell’Etimasia, sul quale sono posati il velo, una corona e la croce. La spigliatezza delle pose,
la libertà del movimento, l’armonia cromatica e compositiva, il paesaggio e le architetture che adornano gli sfondi, il
senso dello spazio e i toni chiari recano tutti la forte impronta
della tradizione classica. Le date proposte per questi notevoli dipinti variano dal vii al x sec. Da essi si sprigiona un’impressione di serena bellezza; per la loro qualità, essi superano tutto ciò che ci è rimasto di quest’epoca, il che ne rende
ardua la precisa datazione. Resta evidente che sono opera di
artisti provenienti da Costantinopoli e che ci offrono un
esempio di prim’ordine della pittura bizantina. (sdn).
Castiglione, Giovanni Benedetto, detto il Grechetto
(Genova 16o9 - Mantova 1665). Cosiddetto probabilmente perché nacque in una parrocchia di Genova nella quale
risiedevano molti immigrati greco-bizantini, svolse l’apprendistato presso G. B. Paggi, nella cui bottega è registrato nel 1626-27. Secondo i biografi, sarebbe stato allievo anche di G. A. De Ferrari e di Sinibaldo Scorza. Le analogie
esistenti tra una parte della produzione del C e i dipinti «animalistici» dello Scorza hanno indotto A. Percy (1971) a proporre che avesse perfezionato la formazione nella bottega
di quest’ultimo, dal ritorno del piú anziano maestro a Genova nel 1627 fino alla sua morte nel 1631. Non minore importanza dovette rivestire, secondo la medesima studiosa,
la conoscenza delle composizioni biblico-pastorali dei Bassano, presenti in collezioni genovesi, e della pittura fiamminga di Jan Roos, presente a Genova negli anni ’30 del xvii
Storia dell’arte Einaudi
sec. e dei fratelli De Wael. Il fatto che si conosca molto poco dell’attività del C prima del 1633, non agevola la comprensione delle componenti che influirono sulla formazione
del suo linguaggio. Le due composizioni che raffigurano
l’Entrata nell’Arca (Genova, Accademia ligustica di belle arti e coll. priv.), databili al biennio 1628-30, testimoniano
tanto il legame con lo Scorza, quanto quello con l’ambiente fiammingo.
All’inizio degli anni ’30 il pittore si trasferí a Roma, dove
risulta negli stati d’anime della parrocchia di Sant’Andrea
delle Fratte nel 1632. Due anni dopo è membro dell’Accademia di San Luca. Tra i contatti stabiliti in quella città, il
primo in ordine d’importanza fu quello con Agostino Tassi
e la sua cerchia, testimoniati da una deposizione in tribunale di C a favore di G. B. Greppi, pittore anch’egli genovese, nel marzo 1635. La molteplicità dei suoi rapporti romani compare evidente in un dipinto firmato e datato 1633, il
Viaggio di Giacobbe (New York, coll. priv.), del quale esistono numerose versioni. La maniera del Tassi e del giovane Claude Lorrain, che gravitò nell’area del Tassi, vi si unisce ad una luminosità affine a quella di Poussin, che fu molto importante per la pittura di C sul finire del decennio
1630-40. Il Sacrificio di Noè (Genova, palazzo Bianco), databile intorno alla metà del decennio, il Viaggio d’Isacco (Monaco, ap), che si può collocare verso la fine, disegni come il
Salvataggio del piccolo Pirro, Pan e un Satiro (entrambi a
Windsor Castle, Royal Library), rivelano lo studio delle opere di Poussin.
Nel primo bimestre del 1635, C partí alla volta di Napoli,
per un soggiorno, che fu probabilmente di non lunga durata, ma ricco di conseguenze, poiché la sua pittura venne ammirata ed imitata da seguaci di Aniello Falcone, come Andrea de Leone e Nicolò de Simone. Nuovamente a Roma fra
il 1636 e il 1638, il pittore risulta a Genova nel febbraio
1639, quando è presente alla lettura del testamento del fratello. Il fatto che una delle prime opere che si possano riferire a questo periodo, l’Allegoria dell’Abbondanza (Genova,
palazzo Doria), abbia rivelato una collaborazione del fiammingo Jan Roos nella natura morta, potrebbe anticipare la
presenza del C a Genova, dal momento che il Roos morí nel
1638.
Fra questa data e il 1647 poche sono le opere che sia possi-
Storia dell’arte Einaudi
bile datare con precisione: la Natività (Genova, San Luca),
firmata e datata 1645, il San Bernardo di Chiaravalle che riceve il sangue di Cristo (Genova, Santa Maria della Cella), il
San Giacomo scaccia i Mori dalla Spagna (Genova, San Giacomo della Marina), il Baccanale di fronte ad un altare del dio
Termine (Torino, Gall. Sabauda), che possono essere collocati nel medesimo tomo di tempo, richiamano, oltre alle
esperienze romane, anche la riflessione su artisti fiamminghi che avevano lavorato a Genova, come Rubens e Van
Dyck. Allo stesso periodo appartengono altre opere, di soggetto mitologico: Giunone e Vulcano (Genova, palazzo Doria), il Sacrificio di Pan e la Nutrizione di Ciro (Genova, palazzo Durazzo Pallavicini), il Viaggio di Giacobbe (Bologna,
coll. priv.), datato 1646, l’Abramo e Melchisedek (Parigi,
Louvre). In questi anni egli eseguí anche un buon numero
di incisioni. Tra queste, il ritratto di Agostino Mascardi (Pavia, mc) e quello di Anton Giulio Brignole Sale (Vienna, Albertina), entrambi letterati di fama. La contemporanea ricerca sul chiaroscuro rembrandtiano, svolta dall’artista in
questo periodo, è testimoniata da altre due incisioni, Temporalis Aeternitas, firmata e datata 1645 e la coeva Teseo trova le armi del padre (entrambe a Bologna, pn), nelle quali compare il tema della vanità delle cose, ripreso in dipinti ed incisioni successive.
Tornato a Roma ad una data non identificabile con sicurezza, ma anteriore al 1647, anno in cui risulta negli stati d’anime della parrocchia di San Nicola in Arcione, il C appare
impegnato nel 1649 nell’esecuzione del dipinto raffigurante l’Immacolata Concezione adorata dai SS. Francesco e Antonio da Padova (ora Minneapolis, Inst. of Arts), destinato alla chiesa dei Cappuccini di Osimo, nelle Marche. Affidata
in un primo momento a Pietro da Cortona, la pala segna
l’adesione del C al pieno barocco romano, una riflessione sul
linguaggio dello stesso Cortona e del Bernini, fusa con le caratteristiche del pittore, ad ottenere un risultato autonomo.
Fra i tardi anni ’40 e il 1650 si collocano una serie di altre
opere, dall’Entrata degli animali nell’Arca (coll. priv.), al Paesaggio Pastorale (coll. priv.), all’Orfeo che incanta gli animali
e all’altra Entrata degli Animali nell’Arca (entrambe a Roma,
coll. Pallavicini). Intorno al 1650 si possono datare l’Offerta a Pan (Ottawa, ng), il Viaggio di Rebecca (coll. priv.), la
Pastorale (Genova, Accademia ligustica di belle arti), la Cir-
Storia dell’arte Einaudi
ce (coll. priv.). Il medesimo periodo vede anche l’affermazione del C come incisore, la pubblicazione di otto stampe
e l’esecuzione negli anni 1647-48 della Melancholia, di Diogene cerca l’uomo (ambedue a Bologna, pn) e del Genio del
Castiglione (Londra, bm). Il tema della stampa raffigurante
Diogene venne ripreso dal pittore in un dipinto ad olio (Madrid, Prado). Fra il 1651 e il 1659, anno in cui risulta a Genova, egli si recò probabilmente a Venezia, non trascurando di lavorare anche nella città natale. Numerose opere datate e firmate consentono, d’altra parte, di seguirne il percorso: pagato nel 1652 per sei dipinti eseguiti per il nobile
genovese Ansaldo Pallavicini, dei quali esistono tuttora il
Viaggio d’Abramo e la Circe (entrambi a Genova, palazzo
Spinola), firma e data 1653 un’altra Circe (già Genova, coll.
Sanguinetti) e, nello stesso anno, il Sacrificio di Noè (Chiavari, palazzo Torriglia). Firmato e datato 1655 è il dipinto
raffigurante Deucalione e Pirra (Berlino) e 1659 un altro Sacrificio di Noè (coll. priv.). A partire dal 1659 esistono numerosi documenti che testimoniano sui rapporti con la corte dei Gonzaga a Mantova, anche se non è mai stata ritrovata la lettera patente, con la quale veniva confermato pittore di corte. Per i Gonzaga dipinse l’Allegoria del Duca di
Mantova (già Milano, coll. priv.) e nella città lombarda dovette soggiornare, con frequenti spostamenti a Parma e a
Genova. Le ultime opere datate sono la Visione di San Domenico in Soriano (Genova, Santa Maria di Castello), il San
Francesco in estasi che adora la Croce (coll. priv.), firmata e
con la data 1662, gli Angeli che appaiono ai pastori del 1663
(Napoli, Capodimonte), tutte opere ricche d’intensità e venate da una profonda malinconia. Personaggio singolare, il
C sviluppò un proprio discorso anche a livello di contenuto:
alla comprensione del significato di molte sue opere mature, dalle Pastorali, ai Viaggi dei Patriarchi, alle Allegorie ha
offerto un decisivo contributo B. Suida Manning (1984), che
ha sottolineato e rivelato il senso del fluire dei tempo, della
dissoluzione e della vanità delle esperienze terrene, cui neppure le Arti possono porre rimedio, sotteso a molte sue composizioni criptiche. (agc).
Castiglione, Giuseppe
(Milano 1688 - Pechino 1786). Missionario gesuita giunto a
Pechino nel 1715, già in possesso di un mestiere che seppe
Storia dell’arte Einaudi
adattare alle tecniche pittoriche cinesi, venne vivamente apprezzato dagli imperatori Kangxi e Qianlong. Pittore di palazzo, eseguí col nome di Lang Shining e per incarico imperiale numerosi dipinti di fiori e di animali (in particolare cavalli), e ritratti realistici. Il suo stile, che pervenne ad un curioso sincretismo cino-occidentale, ebbe un’effimera influenza soltanto sui pittori di corte, che d’altra parte ne criticavano la debolezza di pennellata, pur ammirandone il disegno realistico e la scienza delle ombre e della prospettiva.
È rappresentato a Parigi (Museo Guimet). (ol).
Castillo, Antonio del
(Cordova 1616-68). Figlio di un mediocre pittore, Agustin,
e nipote del sivigliano Juan del Castillo, è la figura principale del xvii sec. a Cordova, centro artistico di notevole indipendenza. Orfano a dieci anni, portò a termine gli studi
di pittura verso il 1635 a Siviglia, ove fu senza dubbio allievo di Zurbarán, prima di tornare a Cordova nel 1645 (data del grande Martirio di san Pelagio nella cattedrale). Ha lasciato nelle chiese di Cordova un gran numero di vigorose
tele, una parte delle quali raccolte nel Museo di belle arti. Il
suo stile riflette in parte il realismo severo di Zurbarán (Calvario: Cordova, mba), con maggiore enfasi e brutalità (San
Paolo: ivi; San Bonaventura: Bilbao, mba), ma anche talvolta con un senso narrativo vivace e nervoso di cui i suoi maestri erano privi, e che egli raggiunse attraverso l’intelligente assimilazione di stampe fiamminghe, che spesso utilizzava (Battesimo di san Francesco: Cordova, mba; Storie di Giuseppe: Madrid, Prado). La sua opera grafica ne fa il disegnatore piú fecondo della scuola spagnola (Madrid, bn; Parigi, Louvre; Cordova, mba). (aeps).
Castillo, José del
(Madrid 1737-93). Fu a Roma, allievo di C. Giaquinto. Diplomato nel 1756 all’accademia di belle arti, dipinse sotto
la guida di Mengs numerosi cartoni di arazzi per la manifattura reale, affreschi allegorici e quadri di chiesa. Riesce
particolarmente nella pittura di genere; alcuni suoi cartoni
sono paragonabili a quelli di Goya. Nelle scene di vita madrilena – il Giardino del Buen Retiro (Madrid, Museo municipale), la Fioraia della Puerta del Sol (Londra, ambasciata di Spagna) – si riflettono i costumi di una società frivo-
Storia dell’arte Einaudi
la. Cronista fedele e abile decoratore, spiacque ai contemporanei per la scarsa armonia dei colori e l’assenza di prospettiva. (acl).
Castillo, Juan del
(Siviglia 1584 - Cadice 1640). Artista mediocre, di stile talvolta arcaico e assai eclettico, tentò timidamente la via del naturalismo (Ascensione della Vergine: conservata a Siviglia). È
noto soprattutto per essere stato il maestro di Murillo. (aeps).
Castillo, Monte,
La grotta spagnola (provincia di Santander) del C si compone di una vasta sala ingombra di blocchi enormi; due stretti passaggi li cingono riunendosi poi a formare la galleria terminale. La cronologia della loro decorazione è di difficile determinazione, poiché nel corso della loro lunga frequentazione del sito i paleolitici aggiunsero numerose pitture e incisioni, talvolta sovrapponendole alle precedenti. Studi
dell’abate Breuil (1903) e di Leroi-Gourhan mostrano che
due santuari vennero creati successivamente in luoghi diversi della grotta. Una cinquantina di impronte di mani, poste nella sala, a destra dell’ingresso, fanno certamente parte del primo santuario. Tali mani, forse femminili, sono contornate a ocra, e si trovano presso tratti paralleli e grossi punti rossi che le accompagnano fino al fondo della galleria terminale, ove una stalagmite adorna di punti indica la fine del
santuario. Animali, che i contorni lineari rossi e le forme
convenzionali consentono di ricollegare allo stile III, si organizzano a partire dal tema bisonte-cavallo e cerva. Un cavallo dalla testa china, tracciato in rosso, reca sul fianco tre
segni a forma di ferita. In una rientranza, segni quadrangolari vari sono accoppiati a linee punteggiate. Il complesso,
che si ripete nella galleria terminale, potrebbe appartenere
alla fine del Solutreano e all’inizio del Magdaleniano.
Nel periodo successivo i paleolitici, come di norma, hanno
rimodernato il vecchio santuario incorporandovi figure piú
modellate, e hanno disposto i propri gruppi nel passaggio che
gira in fondo alla sala. Qui si scoprono, dietro i blocchi di
roccia, bisonti, cavalli, stambecchi e cervi, tracciati a larghi
contorni neri con pieni e vuoti. Bisonti policromi, rossi, bruni e neri, sono sovrapposti alle mani dell’epoca precedente.
Per il disegno e l’espressione del movimento, appartengono
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alla stessa scuola cui si debbono i bisonti del soffitto di Altamira. Numerosissime incisioni sono intercalate alle pitture, in particolare belle teste di cerve dal lungo muso. La grotta del C è stata decorata fino al fondo sin dalla fine del Solutreano, e lo stile III vi domina ampiamente; ma l’influsso
di Altamira si fa sentire nelle figure di stile IV antico. (yt).
Castoria
I dipinti delle chiese di C (città della Grecia nella Macedonia occidentale) si distribuiscono nel complesso fra il xiii e
il xvii sec., tranne alcune figure isolate o rare composizioni
che possono risalire al x e all’xi sec.
Chiesa dei Santi Cosma e Damiano Nel catino dell’abside,
la Vergine col Bambino è seduta tra due angeli; sopra di lei,
sulla volta, il Cristo Emanuele, raffigurato a mezzo busto,
viene adorato da altri due angeli; quattro vescovi di profilo,
con in mano rotoli sui quali sono scritte le parole liturgiche,
ornano la parete dell’emiciclo; altri vescovi recanti libri sono in piedi, di fronte, sulle pareti laterali. Sulla faccia del pilastro di destra, Cristo incorona i santi patroni Cosma e Damiano. Numerosi altri santi sono raffigurati sui pilastri e nella zona inferiore delle pareti; sopra di loro si sviluppano le
scene della vita di Cristo. Lo stile manieristico di questi dipinti, assai vicino a quello di Kurbinovo, datato 1191, consente di attribuire la decorazione dei Santi Cosma e Damiano agli ultimi anni del xiii sec. Gli angeli ai lati della Vergine hanno le medesime proporzioni estremamente allungate; i drappeggi dalle pieghe sinuose e rigonfie sono stilizzati nello stesso modo. Pure assai marcata è la parentela iconografica tra le composizioni delle due chiese, particolarmente nella Deposizione nel sepolcro. Anche nella scena della Crocifissione si manifesta un sentimento patetico; altrove,
come nella raffigurazione di Anna che porta in braccio Maria bambina, il pittore ha saputo esprimere una delicata tenerezza. Nella scena della Visitazione, la Vergine bacia Elisabetta con slancio giovanile. Al ciclo delle grandi feste sono stati aggiunti alcuni miracoli; e oltre a ritratti di santi in
piedi o a mezzo busto in riquadri rettangolari, una grande
composizione rappresenta San Giorgio che uccide il drago,
mentre il re e la regina, accompagnati dal seguito, contemplano la scena dalla sommità delle mura della città. Alcuni
dipinti sono stati aggiunti nel xiv sec.; tra gli altri la rap-
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presentazione di Teodoro Limniota nell’atto di offrire il modello della chiesa alla Vergine in piedi col Bambino in braccio. Di fronte a lui è sua moglie, in ricche vesti, e al suo fianco il figlio.
Chiesa di San Nicola Kasnitsi Questi dipinti possono anch’essi attribuirsi allo scorcio del xii sec., ma lo stile manieristico è in essi attenuato. Nel catino dell’abside, la Vergine
orante viene adorata da due angeli che s’inchinano profondamente dinanzi a lei; le proporzioni sono leggermente meno allungate, e soprattutto le pieghe dei drappeggi hanno un
tracciato piú semplice. Tale semplicità si scorge pure nelle
scene della vita di Cristo e nella Dormizione, dipinte sul sagrato sopra la serie di santi. Gli episodi della vita del santo
eponimo si sviluppano in diverse scene, anch’esse di carattere sobrio; due ritratti rappresentano il fondatore Nicola
Kasnitsi, che ha in mano il modello della chiesa, e sua moglie Anna, vestita di un ricco mantello.
Chiesa della Panagia Mavriotissa (1200 ca.) Si osserva il
medesimo ritorno a uno stile piú sobrio. Nell’abside, la Vergine col Bambino è in trono tra due arcangeli in costume imperiale, e il fondatore, il monaco Manuele, è prosternato ai
suoi piedi. Gli evangelisti, seduti a due a due gli uni di fronte agli altri, sono rappresentati nella zona intermedia tra
l’immagine della Vergine e la serie di vescovi inchinati, con
in mano rotoli aperti. Alcune delle composizioni dipinte sulle pareti, rappresentanti gli eventi principali della vita di Cristo, hanno carattere piú popolare. Nella Crocifissione il dolore della Vergine, dal corpo inclinato in avanti, è espresso
in modo alquanto maldestro, mentre il portaspugna e il portalancia sono figure grottesche. Nel nartece è raffigurata una
grande composizione del Giudizio universale. Conformemente al consueto tipo iconografico, gli apostoli seggono ai
due lati del gruppo centrale della deisis, e dietro di loro si
trovano arcangeli. Nella seconda zona, una grande croce si
leva al di sopra del libro e della colomba, immagine della Trinità che sostituisce quella del trono dell’Etimasia; due angeli incensieri stanno ai lati della croce, e Adamo ed Eva sono prosternati piú in basso. A sinistra avanzano i cori degli
eletti; a destra, i dannati vengono precipitati nelle fiamme
dell’inferno, e i loro tormenti sono rappresentati in comparti
distinti. Si vede pure in questa chiesa una bella composizione dell’Albero di Jesse.
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Chiesa di Santo Stefano Le pitture risalgono in gran parte
al xiii e xiv sec., ma uno strato piú antico compare a tratti,
in particolare una composizione molto semplificata del Giudizio universale. Le scene della vita di Cristo sono trattate in
stile sobrio. Su una delle volte, tre medaglioni racchiudono
i busti del Cristo Emanuele, del Cristo Antico dei Giorni, e
del Cristo Pantocrator. Il ritratto di un donatore, Giorgio, è
accompagnato da un’iscrizione datata 1138.
Chiesa della Panagia Kumbelidiki Anch’essa è stata decorata in date diverse. I dipinti piú antichi, probabilmente del
xiv sec., si trovano nella parte orientale, ove due scene apocrife della vita della Vergine – l’Acqua della prova e lo Sposalizio della Vergine – sono raffigurate sulle pareti laterali
dell’abside. La Dormizione della Vergine occupa la parete
ovest; Cristo, in un’aureola portata da due angeli e con l’anima della Vergine tra le braccia, viene rappresentato al di sopra dello strato verso il quale s’inchinano gli apostoli; mentre, nella volta, si vedono gli angeli che conducono gli apostoli a Gerusalemme attraverso l’aria. L’Ascensione è stata
per la maggior parte ridipinta nel xvi sec.; la Natività risale
alla fine dello stesso secolo.
Chiesa dei Taxiarchi La maggior parte della decorazione risale al 1356. Nell’abside, la figura maestosa della Vergine
orante è adorata da due angeli; sull’arco trionfale il Santo
Volto è rappresentato tra l’angelo e la Vergine dell’Annunciazione. Sulla parete dell’emiciclo, angeli con in mano il ventaglio liturgico sono in piedi dietro i vescovi inchinati ai due
lati dell’altare, ove è steso sulla patena il Bambino Gesú. In
questi dipinti, di carattere popolare e di fattura secca, il patetismo viene sovente espresso in modo ingenuo, ad esempio nella Crocifissione, ove la Vergine si afferra i capelli con
le due mani per esprimere il proprio dolore. Ritratti di donatori, per la maggior parte del xv sec., in piedi dinanzi alla Vergine e al Bambino, ornano le pareti esterne delle facciate sud e ovest.
Chiesa di San Nicola (decorata nel 1385). Le scene evangeliche disegnate sulle pareti sono separate mediante una serie di medaglioni dalla zona inferiore con i santi in piedi; i
medaglioni racchiudono i busti di altri santi e di personaggi
biblici. In alcune composizioni predomina il carattere episodico, come nella Negazione di Pietro, che raggruppa i momenti successivi del racconto. I santi in piedi portano ricche
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vesti; la tunica di san Giorgio è ornata con l’aquila bicipite
dei Paleologhi, e numerosi altri santi sono dotati, come lui,
del cappello che portavano in quell’epoca i funzionari
dell’impero bizantino. Il carattere popolare dell’arte provinciale di C è ancor piú marcato nei dipinti del xv, xvi e
xvii sec. Le scene si distribuiscono talvolta su piú registri, e
i cicli si sviluppano aggiungendovi miracoli di Cristo, rappresentazioni di martiri o santi, e l’illustrazione dell’inno
acatisto. (sdn).
Castres
Musée Goya Il museo occupa l’antico vescovado di C, eretto nel 1665 su progetto di J. Hardouin-Mansart, con un giardino antistante disegnato da Le Nôtre nel 1682. L’edificio
venne acquistato dalla città nel 1794 per collocarvi il municipio. Nel 1840 alcuni dipinti costituirono il primo fulcro
del museo, che si andava lentamente accrescendo quando,
nel 1893, la modesta collezione si arricchí all’improvviso:
Pierre Briguiboul, mancato prematuramente, lasciava alla
città le opere d’arte ereditate dal padre, il pittore Marcel
Briguiboul, che aveva fatto i suoi studi artistici in Spagna.
Fra tali opere figuravano le tre tele di Goya che dànno oggi
fama al museo di C: la Giunta dei Filippini, eccezionale
nell’opera del maestro per le sue dimensioni; l’Autotitratto
e il Ritratto di F. del Mazo. A questi si aggiunge un interessante complesso di opere spagnole che comprende alcuni primitivi (Luis Borrassá, Flagellazione; A. Fernández, Adorazione dei magi), opere del xvii sec. (Arellano, Fascio di fiori;
dipinti della scuola di Velázquez, Zurbarán, Ribera), del xix
sec. (Lucas y Padilla), nonché dipinti contemporanei (Zuloaga, un disegno di Picasso). (gb).
Castres, Edouard
(Ginevra 1838 - Etrembières 1902). Allievo di Barthélemy
Menn alla scuola di belle arti di Ginevra, eseguí lavori di ceramica e smalto, poi si volse alla pittura, recandosi a Parigi.
La guerra del 1870 ne fece un pittore di storia (l’Entrata in
Svizzera dell’esercito del generale Bourbaki, 1871: Lucerna,
Fond. G. Keller). La sua pittura di suggestioni, che conserva ancora la struttura delle forme, preannuncia l’impressionismo. (bz).
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Castro, Lourdes
(Funchal (Madera) 1930). Diplomata in pittura alla scuola
di belle arti di Lisbona, nel 1957 partì per Monaco e l’anno
seguente si stabilí a Parigi col marito, il pittore R. Bertholo. Dopo aver praticato l’astrattismo lirico, espose a Parigi
nel 1961 collages di oggetti dipinti a tinte argentate. Dotata di notevole capacità inventiva, creò libri dai collages pieni di humor, in esemplare unico; le sue Silhouettes dipinte su
plexiglas, tagliate o ricamate su lenzuola, presentate per la
prima volta nel 1963, introdussero nella Pop’Art una nuova dimensione, per una sorta di dialettica di «presenza-assenza» dell’immagine (Ombre coricate, 1972, lenzuolo ricamato a mano: coll. R. Topor). Nel 1974 ha presentato lo
spettacolo Le ombre ad Anversa, Amsterdam, Aquisgrana,
Hannover e Parigi (mamv). Ha esposto alla prima biennale
di Parigi nel 1959 e al mamv nel 1975. Ha inoltre approntato progetti per la fondazione Woolmark nel 1973. (jaf).
catacombe
I cimiteri cristiani, scavati sin dalla fine del ii sec., ricevettero fino all’inizio del medioevo una ricca decorazione parietale. Erano sepolture collettive, situate presso le grandi
strade, alla periferia di Roma; sviluppavano una rete di gallerie nelle quali si aprivano spesso camere funerarie. I loculi che ospitavano i corpi si disponevano dal basso in alto lungo le pareti di tufo; in tal caso non rimaneva posto per l’opera del pittore. Ma talvolta si approntava per la tomba una
sistemazione piú lussuosa, l’arcosolium: veniva scavata una
nicchia costituita nella parte superiore da una volta spesso
decorata; nella parte inferiore riposavano i corpi, protetti da
una vasca, essa stessa scavata nella roccia, o da un sarcofago. Tra la sepoltura e la volta, restava uno spazio semicircolare che poteva venir decorato pittoricamente. Nelle camere funerarie che si aprivano sulle gallerie, le volte e le pareti, quando non erano occupate da loculi, lasciavano agli artisti il posto per composizioni piú ricche e complesse. Quando, all’epoca della pace della Chiesa (in particolare sotto papa Damaso, 366-84), si organizzò la devozione dei fedeli verso i martiri, le c vennero sistemate in modo da ricevere la
visita dei pellegrini, Questi luoghi santi, visitati ancora in
un’epoca in cui le c non servivano piú per la sepoltura dei
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cristiani, vennero decorati dai pittori all’inizio del medioevo (c di Ponziano, di Commodilla, di Callisto).
A partire dal iv sec. la Chiesa romana aveva acquisito la proprietà di molte di tali c e, nel caso di Callisto, ancor prima
della pace: gli artisti non potevano esercitare liberamente la
propria fantasia; pur senza essere imposto dalla gerarchia, il
programma iconografico si atteneva necessariamente a temi
accettati dalla comunità dei fedeli o ad immagini neutre.
Non è questo il caso per gli ipogei privati (viale Manzoni,
Vibia, via Latina, Trebius Justus), ove si esprimono senza
remore credenze pagane o eterodosse. I dipinti della Roma
sotterranea sono stati fortemente danneggiati dalle distruzioni dei barbari e dai tentativi compiuti in epoca moderna
per distaccare gli affreschi. Ma sin dal Rinascimento, le c romane hanno attirato visitatori: un domenicano spagnolo,
Ciacconio (1540-1599), ne fece eseguire rilievi; Antonio Bosio (1575-1629), che pubblicò una Roma subterranea, impiegò un disegnatore. Dal 1864 al 1877 la Roma sotterranea
di G. B. Rossi, il padre dell’archeologia cristiana, riprodusse i dipinti con maggiore scientificità. L’autore del primo
corpus, G. Wilpert (1857-1944), con le Pitture delle catacombe romane (Roma 1903) ricorse all’acquerello per illustrare la propria opera. L’impiego della fotografia ha consentito all’Istituto pontificio di archeologia cristiana di costituire una ricchissima fototeca. (chp).
Catalano, Antonio, detto l’Antico
(Messina 1560 - 1605). Secondo la testimonianza di Francesco Susinno (1724), fu allievo a Messina di Deodato Guinaccia, artista tra i piú rappresentativi della corrente polidoresca. Ciò troverebbe anche conferma in opere del C derivanti da Polidoro e dal Guinaccia come l’Adorazione dei
pastori (1600: Gesso, chiesa dei Cappuccini) e la Trasfigurazione (1602: Messina, Museo regionale), dove però l’espressionismo drammatico polidoresco è fortemente attenuato da
un disegno piú addolcito e da una morbida e cangiante gamma cromatica. Conseguenza di questi mutamenti stilistici
del pittore fu l’acquisizione della lezione baroccesca, avvenuta a Roma tra la fine dell’ottavo e il nono decennio del
sec. xvi, verosimilmente sotto l’influenza dei senesi Lilio e
Salimbeni. Tra le sue opere superstiti si segnalano: l’Annunciazione (chiesa madre di Sant’Alessio d’Aspromonte),
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lo Sposalizio mistico di Santa Caterina (1600: La Valletta (Malta), chiesa di Santa Maria di Gesú), la Vergine dei Rosario
(1600: Acireale, Duomo), la Vergine degli Angeli (1604: Messina, Museo regionale). (lh).
Catalano, Giandomenico
(Gallipoli, attivo tra la fine del xvi e l’inizio del xvii sec.).
Le notizie relative alla biografia dell’artista sono assai scarse. Si conoscono, oltre l’anno del battesimo del figlio (1599),
solo le date di due dipinti: il Martirio di sant’Andrea di Presicce (1604) e la Madonna dei martiri di Squinzano (1614),
entrambi anche firmati. Gli si possono tuttavia attribuire un
gran numero di opere sparse tra Gallipoli (Annunciazione,
Madonna in gloria e santi, Natività) e altri centri salentini, che
attestano una formazione napoletana nell’orbita dei maggiori rappresentanti del tardo manierismo. Forme lievi e sinuose e delicate atmosfere sentimentali vivificano iconografie care alla devozione popolare con largo seguito presso
una miriade di imitatori locali. (ils).
Çatal Hüyük
A sud dell’Anatolia, nella pianura di Konya, scavi archeologici iniziati nel 1960 hanno rapidamente rivelato uno dei
piú importanti siti neolitici anteriori all’uso della ceramica
del Medio Oriente. Dieci città sovrapposte, delle quali già
la piú antica mostra un’elaborata organizzazione urbana, sono venute in luce durante successive campagne di scavo. Le
città, costruite addirittura secondo un piano regolatore, contengono gran numero di templi, nella proporzione di uno
ogni quattro o cinque abitazioni. La maestosa ornamentazione dei santuari, senza dubbio votati al culto del toro, indica una ricerca di effetto decorativo e di solennità. Le pitture murali, di ricca policromia, esistono a tutti i livelli. Hanno la particolarità di essere state ricoperte, a piú riprese, da
un sottile strato di gesso, e quindi ridipinte o modificate con
intento rituale. Al VII livello, il Grande Tempio presenta su
due pareti la pianta della città. Un altro santuario è ornato
da un fregio di mani rosse e nere, che inquadrano disegni
geometrici malva, bianchi e neri. Quest’insieme è sovrapposto a una composizione di stilizzato realismo, ove sette
avvoltoi rossi attaccano sei uomini senza testa. Le colonne
sono dipinte a motivi geometrici, intricati e spesso policro-
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mi, che rammentano quelli del tessuto. Al livello IV, pitture decorative di uomini e di donne, vestiti di pelli di leopardo, annunciano i pannelli murali del livello III, ove scene di caccia al daino, monocrome (in rosso), di un naturalismo appena stilizzato, attestano un’evoluzione che si dispiega poi nella scena dei danzatori dello stesso tempio. Il
metodo del carbonio 14 ha consentito di datare l’importante complesso al 6835 a. C. per il livello X e al 5797 a. C. per
il livello II. Si tratta dunque di una delle piú antiche città
del mondo. (yt).
Catalogna
In epoca romanica fu un avamposto del mondo cristiano, la
Marca ispanica del regno di Francia, che si estendeva dal
Rossiglione a Barcellona, raggiungendo l’Ebro nel corso del
xii sec. Le memorie visigote e gl’influssi musulmani, avvertibili nell’architettura e nella scultura mozarabica del x sec.,
vengono sommersi dall’xi sec. dall’azione dell’arte francese
e dell’arte italiana. Il loro influsso si esercita sia al tempo
della «prima arte romanica mediterranea» che piú tardi.
Malgrado l’adozione della volta a crociera, lo stile gotico non
elimina completamente il romanico fino alla fine del xiii sec.
Per il loro isolamento in regioni remote e oggi povere, numerose chiese hanno conservato affreschi e pezzi di mobilio
dipinto: tali opere si trovano per la maggior parte nei musei
di Barcellona (mac), di Vich, di Salsona e di Gerona, nonché
in numerose coll. priv. Sono state attribuite ad epoca preromanica alcune opere assai rustiche, come le scomparse pitture di Campdavenol e lo strato piú antico di Pedret (x sec.).
La data degli affreschi di San Miguel e di Santa Maria de
Tarrasa, che presentano affinità con opere carolinge e orientali, è incerta; sono stati proposti ora il ix sec., ora il x.
I complessi romanici sono assai piú numerosi. Si tratta per la
maggior parte di decorazioni absidali, che sviluppano il tema
della majestas Domini o della majestas Mariae sul catino. Un
apostolado oppure un gruppo di scene varie ornano le pareti
delle absidi. Gli archi trionfali, le pareti laterali, la parete
ovest sono pure stati spesso coperti da pitture. La tecnica impiegata è l’affresco o, piú spesso, la tempera su preparazione
bianca di calce, con ritocchi a secco, dunque fragili.
Se la ricchezza di pitture romaniche in C è notevole, non va
dimenticato che quasi tutte le opere maggiori – quelle di Bar-
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cellona, di Vich, di Ripoll, di Gerona – sono totalmente
scomparse. Tuttavia, conosciamo la produzione di maestri
importanti: quello che operò a San Pedro de la Seo d’Urgel,
quello di San Clemente di Tahull (che lavorò nella cattedrale
di Roda de Isabeña in Aragona), quello di Pedret, traccia del
quale è stata ritrovata nella cattedrale di Saint-Lizier
nell’Ariège. Inoltre, molti affreschi sono dovuti ad artigiani locali che hanno utilizzato piú o meno felicemente le formule apprese da qualche artista di maggiore esperienza.
Lo studio dell’origine e dell’evoluzione stilistica non è facile. Le cronologie poggiano su basi precarie, fondate spesso
sulla consacrazione di chiese: solo quelle di San Clemente e
di Santa Marìa di Tahull (1123) sembrano fornire una indicazione per lungo tempo accettata, ma oggi rimessa in discussione. Alcune caratteristiche (mancanza di rilievo, semplificazione dei profili) indicherebbero il persistere di tradizioni mozarabiche che d’altronde conosciamo, in pratica,
solo dalla miniatura, poiché nessun affresco ha potuto venir
datato ai due primi terzi dell’xi sec. Può darsi che si fossero stretti rapporti con la Francia (Bohí e Vic, il Maestro di
Osormort e Saint-Savin) o con l’Italia (Tahull e Revello).
Ciò si spiega con la mobilità dei pittori; ma se i rapporti sono certi, non è possibile determinare una vera e propria filiazione, a causa della scomparsa della grandissima maggioranza dei complessi pittorici romanici nel paese.
Le conclusioni della critica restano pertanto soggette a revisione. Cosí si sono datate alla fine dell’xi sec. le pitture di
Bohí e quelle del Maestro di Osormort (Beficaire, El Brull).
Nella prima metà del xii sec. si collocano le opere principali. I maestri di Tahull, quello di San Clemente e quello detto «di Maderuelo» creano complessi grandiosi, nei quali un
linguaggio che giunge fino a una rigidezza quasi metallica
viene applicato a figure ereditate dall’arte lombarda e romana: il loro influsso si esercitò soprattutto nella regione pirenaica del Pallars, nel Nord-Ovest della C. Il Maestro di
Pedret, piú intriso di tradizioni di origine ellenistica, si spostò attraverso l’intera regione montagnosa centrale, fino al
versante nord (Saint-Lizier). La sua eredità fu raccolta da
numerosi artigiani della provincia di Barcellona, della diocesi di Urgel, della zona di Foix e persino del Pallars. Nella
stessa Urgel, un affrescatore realizzò per la chiesa di San Pedro forme potenti, geometrizzate e riccamente colorate. A
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est, a Poliña, a Barbara, si serba un’altra tradizione pittorica, che risale forse all’xi sec.
L’impronta delle convenzioni stilistiche romaniche si allentò
durante la seconda metà del xii sec. Tale abbandono dell’antica ieraticità si avverte ad esempio nell’opera del Maestro
di Espinelvas a Santa María de Tarrasa: il Martirio di san
Thomas Becket, successivo alla sua canonizzazione nel 1173.
Altre tendenze si esprimono dopo questa «distensione» verso la fine del secolo e per buona parte del xiii. Si tratta d’una
corrente «neobizantina», la cui zona di scambio fu l’Italia,
in particolare la Toscana. Essa compare particolarmente negli affreschi della chiesa di Andorra La Vella o nella Vita di
santa Caterina alla Seo de Urgel. Nel contempo, la pittura
murale subisce l’influsso della decorazione aneddotica dei
polittici, la cui crescente importanza fa a poco a poco passare in secondo piano le produzioni degli affrescatori.
Pittura romanica su tavola Numerosi pezzi di arredo romanici – altari con i loro pannelli laterali e la faccia anteriore,
detta «frontale» o «antependio», baldacchini, croci, scrigni
e, piú raramente, polittici – provengono da vecchie chiese
catalane. Tali pezzi riproducono «a buon mercato» le lussuose opere in metallo riservate ai grandi santuari. La composizione degli antependi rassomiglia pertanto a quella della lamina d’argento lavorata a sbalzo che protegge l’Arca santa di Oviedo (1075): al centro, in una mandorla, una majestas Domini, una majestas Mariae o, talvolta, la figura di un
santo; su ciascun lato una serie, di solito doppia, di arcate o
di quadretti rettangolari contenenti scene tratte dalla Bibbia o dalla vita dei santi. Alcuni frontali sono cosí intagliati in legno o decorati con rilievi a stucco. Solitamente erano
soltanto dipinti: i colori, preparati all’uovo, erano posati su
uno strato di gesso accuratamente levigato che copriva la tavola, i cui giunti e le cui screpolature venivano otturati con
cenci o pergamena. L’evoluzione stilistica rammenta quella
della pittura murale. Tuttavia, almeno nel xii sec., i rapporti
tra gli affrescatori nomadi e i decoratori di arredo, raggruppati in botteghe stabili dalle forti tradizioni, sono poco precisi. Cook e Gudiol Ricart hanno perciò tentato di localizzare i principali presso i grandi centri religiosi di Vich, Ripoll e Urgel, e piú tardi di Barcellona e Lérida, e di caratterizzarli. Esistono inoltre, come nel campo dell’affresco, opere rustiche difficili da classificare.
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Alcune di queste ultime, di aspetto primitivo, sono state talvolta datate all’xi sec.: tale datazione, rifiutata per il frontale di Montgrony, è stata attribuita a quello di Durro da J.
Ainaud. Ai complessi murali piú tardi di Tahull, di Pedret
o di Urgel corrispondono pezzi di arredo concepiti nel medesimo spirito di grandiosità e di nobiltà. Come nelle absidi, infatti, è il Pantocrator, circondato dal Tetramorfo e dagli apostoli, a costituire l’elemento essenziale di quelle opere fondamentali che sono i baldacchini di Ribas e di Tost,
gli antependi di Urgel e di Hix (questi ultimi della stessa mano degli affreschi di San Pedro de la Seo). I giochi di linee
che derivano dalla stilizzazione romanica delle pieghe si complicano ulteriormente nel Frontale di Santa Margherita di Torello (conservato a Vich). Un’agitazione piú o meno felicemente espressa regna nel frontale di Sagars e in quello di
Espinelvas, che l’autore del Martirio di san Thomas Becket a
Tarrasa dipinse verso la fine del xii sec.
In questo momento s’introduce, come nelle altre arti pittoriche, l’influsso italiano, e, per suo mezzo, quello della Bisanzio contemporanea. Suo grande capolavoro è l’Antependio di Valltarga, che è stato accostato a un crocifisso della
cattedrale di Spoleto datato 1187. Piuttosto diverse sono le
produzioni dei maestri detti «di Llussanes» e «di Avia» che
attestano soprattutto una «distensione» delle forme romaniche. Nel frontale di Soriguerola, alla fine del xiii sec., si
manifesta infine pienamente l’azione del gotico francese.
Tuttavia, l’intento d’imitare i mobili liturgici preziosi impegna gli artisti a moltiplicare gli sfondi in rilievo bulinati o
quadrettati, le pastigliature a somiglianza delle borchie, realizzate in gesso, e anche ad inserire lamine d’argento o di
stagno. Tali affinamenti tecnici contrassegnano pure la fine
dello sviluppo della grande tradizione romanica nelle botteghe catalane di pittura su tavola.
Miniatura romanica I grandi scriptoria della C medievale furono anzitutto quelli del Nord, delle cattedrali di Gerona e
di Vich, delle abbazie di Cuxa e soprattutto di Ripoll. Principalmente in quest’ultimo monastero ebbero luogo, nel x e
xi sec., i primi contatti del pensiero e della scienza arabi col
mondo cristiano latino. Duecentotrentatre volumi, usciti da
questo solo laboratorio, sono cosí giunti sino a noi.
Nell’arte degli illustratori si possono individuare, accanto a
importanti apporti carolingi, ottoniani e romanici, elemen-
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ti mozarabici. Essi appaiono nettamente nelle miniature
dell’Evangeliario di Gerona (1000 ca.) e del Beatus di uguale
provenienza conservato a Torino (1100 ca.): le ampie zone
di colore piatto e le vedute sezionate degli interni, ad esempio, sono qui le stesse della miniatura del Leon del x sec. Piú
tardi i canoni coronati da archi a ferro di cavallo della Bibbia di Cuxa (Perpignano) e le composizioni circolari del Liber feudorum major (miniato tra il 1162 e il 1196 sotto Alfonso I) attestano ulteriormente quest’ispanismo conservatore.
Esso, tuttavia, non si manifesta nei due capolavori dello
scriptorium di Ripoll nell’xi sec., le Bibbie dette «di Roda»
(Parigi, bn) e «di Ripoll» (Roma, bv). Le illustrazioni sono
qui numerose e notevoli per il modellato piuttosto naturalista, l’eleganza del drappeggio, la disposizione dei personaggi su piú piani rappresentati su tutta l’altezza della composizione. I cicli iconografici della Bibbia di Ripoll sono stati
la fonte del programma sviluppato dagli scultori del portale
dell’abbaziale. La grafia del disegno romanico, di cui si seppe trarre partito con molta libertà, si ritrova nelle miniature dell’xi e xii sec. provenienti da Vich, da San Cugat del
Vallés e da alcuni miniatori di Ripoll. Il Liber feudorum major
e il Liber feudorum Ceritanie sono stati decorati con scene di
omaggio, le une di composizione semplice, le altre, piú recenti, abbondantemente policrome e dorate. Sono opera
senza dubbio di una bottega barcellonese.
Si nota alla fine del xii e nel xiii sec. la penetrazione di piú
netti influssi provenzali, in particolare a Tortosa. Lo stile
della pittura di arredo tarda, quello degli antependi di Avia
e di Llusa, si riallaccia a quello di una miniatura posta a
frontespizio di un atto di Saint-Martin-du-Canicou, datato
1195. (jg).
Pittura e miniatura, xiv-xvi secolo Alle grandi superfici immaginate dall’arte romanica successe in C uno stile pittorico di diversa espressione. La pittura murale progressivamente scomparve a vantaggio del polittico, che presto costituí la manifestazione essenziale del gotico catalano. Composto di solito da pannelli multipli, contiene al centro la figura grande del titolare; in alto, quasi sempre una Crocifissione; i pannelli laterali rappresentano ciascuno sia un episodio della vita del santo, sia scene del Vecchio e del Nuovo Testamento. Sulla predella. s’incontrano spesso santi trattati isolatamente o scene della vita di Cristo, tra cui la De-
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posizione. La tecnica minuziosa richiama quella della miniatura, e i fondi d’oro, stampati, goffrati, cesellati, bulinati,
vengono serbati tradizionalmente per tutto questo periodo,
a spese dei paesaggi naturali.
Sin dalla fine del xiii sec. il carattere ieratico dei dipinti romanici si è umanizzato; per influsso del gotico francese, si
annuncia un mutamento stilislico presso il Maestro di Espinelvas e il Maestro di Soriguerola (pannelli di Sant’Eugenia:
Parigi, mad). Gli affreschi del refettorio dei pellegrini nella
cattedrale di Lérida, la decorazione della sala detta «del Tinell» nel palazzo reale di Barcellona, i dipinti della chiesa di
San Domenico di Puigcerdá (Gerona, ma) appartengono a
questo gotico lineare d’ispirazione francese.
Ferrer Bassa, pittore e miniaturista della casa reale, rivela
tutt’altro orientamento negli affreschi che decorano la cappella di San Michele del monastero di Pedralbes a Barcellona. Quadri della Passione e scene della vita della Vergine sono ispirati dalla scuola senese e da Giotto; a questo stile italo-gotico appartengono le opere fondamentali del xiv sec.:
Polittico di san Marco di Arnau Bassa, Polittico di sant’Anna
di Destorrents, Polittico della Vergine di Jaime Serra, Polittico dello Spirito Santo di Pedro Serra. Barcellona è il centro
di questa pittura religiosa e attira gli incarichi di una clientela che cresce incessantemente; gli artisti catalani vi si stabiliscono o vi soggiornano a lungo. Borrassá, originario di
Gerona, non vi rimane a lungo, malgrado i contatti, alla corte del futuro Giovanni I d’Aragona, con gli stili francese e
fiammingo. Giunto a Barcellona verso il 1383, vi introduce
lo spirito realista, il dinamismo del gotico internazionale,
che verrà adottato e arricchito dal suo allievo Bernardo Martorell (Polittico di san Pietro di Pubol, Polittico della Trasfigurazione), la cui personalità si afferma malgrado le esigenze di una pittura legata alla tradizione.
All’esecuzione dei polittici, le botteghe dei maestri aggiungono la miniatura di numerosi manoscritti. Sono stati attribuiti a Ramón Destorrents due volumi di Decretali (Londra,
bm), un salterio conservato a Parigi (bn) e il Llibre verd di
Barcellona (Archivo histórico); suo figlio Rafael miniò il celebre Messale di sant’Eulalia (Barcellona, Cattedrale). A Martorell sarebbe dovuto un libro d’ore (prima del 1444: Barcellona, Archivo histórico), le cui miniature (Annunciazio-
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ne, Calvario, Davide mentre suona la cetra) si avvicinano allo
stile dell’artista.
Intorno ai capofila gravitano numerosi pittori secondari, in
genere collaboratori dei primi e raramente indipendenti:
Francisco Serra II (metá del xiv sec.), Juan Mates, Jaime Cabrera, Gueran Gener, Pedro Arcayna, Ramón de Mur, Jaime Cicera, Pedro Garcia, Miguel Nadal, incaricato nel 1452
di portare a termine le opere incompiute di Martorell, Luis
Dalmau, che introdusse in C lo stile fiammingo (Vergine dei
consiglieri, 1445: Barcellona, mac). Molti altri pittori sono
tuttora anonimi: Maestro di Rublo, Maestro di Cardona,
Maestro di Rusiñol. Jaime Fluguet riassume tutte le ricerche precedenti, che trasforma col suo talento personale, il
cui intenso lirismo, l’istintiva nobiltà, la malinconia velata
non escludono una grande sontuosità decorativa. Le sue opere piú celebri – polittici di San Vincenzo di Sarria, di Sant’Antonio abate, dei Rigattieri, dei Santi Abdon e Senen, del Connestabile, di San Bernardino, di Sant’Agostino – segnano il
culmine, ma anche il termine dell’arte gotica catalana, i cui
ultimi rappresentanti non sono, nel xvi sec., che i pallidi riflessi del maestro. (mbe).
Catania
Museo belliniano Sistemato nella casa natale di Vincenzo
Bellini, fu inaugurato nel 1930. In esso sono raccolti vari cimeli belliniani: partiture autografe, lettere, stampe, strumenti musicali. Si segnalano: la maschera mortuaria del maestro di J.-P. Dantan (1835) e il ritratto eseguito da M. Malibran.
Museo civico di Castello Ursino Il museo, inaugurato nel
1934 dopo i lavori di restauro del castello, è formato dalle
collezioni provenienti dalla raccolta di archeologia, di numismatica, di armi, di opere di arte medievali, rinascimentali e
secentesche del mecenate catanese Ignazio Paternò Castelo
principe di Biscari (1719-86). Un’altra parte cospicua del patrimonio artistico del museo è costituita dalla notevole raccolta di opere d’arte formata dai benedettini nel loro convento di San Nicolò all’Arena, comprendenti molti dei quadri custoditi nella pinacoteca, alla quale si erano aggiunte poi
le collezioni dell’antico Museo civico. Tra le opere piú significative si segnalano: Testa di Kouros di epoca attica, grandioso cratere attico con Perseo che decapita la Gorgone, Tor-
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so di imperatore di epoca romana, Madonna col Bambino di
Antonello de Saliba, Epifania di Simone de Wobrek, Ultima
cena di Luis de Morales, Tobiolo risana il padre cieco, Morte
di Catone di Mattia Stomer, San Luca pittore di Mattia Preti. Nel museo si conservano anche collezioni di stoffe (sec.
xv-xvii), quindici carte da tarocchi (sec. xv), scarpe (sec.
xv-xviii), mobili (sec. xvii-xviii), avori (sec. xv-xix). (lh).
Catargi, Henri
(Bucarest 1894-1976). Si formò a Parigi, all’Académie Julian e all’Académie Ranson, poi, dal 1921 al 1939, intraprese
viaggi di studio in Francia, Italia, Spagna, Grecia, Paesi Bassi. La sua prima personale ebbe luogo a Bucarest nel 1925.
Nella sua pittura, la nostalgia classica trova espressione moderna. L’immagine è fusa in una tonalità generale, come in
un velo trasparente. La gamma dei suoi colori in sordina
– grigio, verde, bruno, ocra giallo, azzurro – ha una discreta risonanza musicale. I suoi accordi sono chiari e sottili; la
loro finezza si unisce al rigore compositivo. Eccellente paesaggista e pittore di nature morte, C rievoca la dimensione
poetica della realtà con grande sobrietà e senso profondo dei
valori pittorici. Le sue opere si trovano a Bucarest (am), in
tutti i musei rumeni e in coll. priv. rumene, francesi e spagnole. (ij).
Catarino di Marco (Catarino Veneziano)
(Venezia, documentato nel 1362-90). Firma, insieme al pittore Donato (che collaborerà con lui in altre occasioni) l’Incoronazione della Vergine (1372) della Galleria Querini Stampalia (Venezia). Quest’opera, di condotta elegantissima e
sensibile, in tutto dipendente dalla fase tarda di Paolo Veneziano, è profondamente diversa da altre tavole firmate da
lui: una seconda Incoronazione (1475: Venezia, Accademia)
ancora con Donato, la Madonna dell’Umiltà (Worcester, am)
e un polittico (Baltimora, wag), nelle quali si mostra debitore dei modi di Lorenzo Veneziano e Giovanni da Bologna.
Sono andati perduti altri dipinti documentati (un’ancona per
la chiesa di San Giorgio a Venezia, 1374, e una croce e due
pale per Zara, 1382). (sr).
Catel, Franz
(Berlino 1778 - Roma 1856). Prima di darsi alla pittura, che
Storia dell’arte Einaudi
studiò a Parigi dal 1807 al 1811, era con Ramberg il piú apprezzato illustratore di almanacchi. Fu il primo ad illustrare Ermanno e Dorotea di Goethe (1799: Brunswick, Herzog-Anton-Ulrich-Museum), che in lui scorgeva un grande
talento minacciato dalle distrazioni mondane (lettera a W.
von Humboldt, 1801). C infatti amava la vita di società e i
viaggi (visitò Pompei nel 1813 in compagnia di Millin, nel
1818 la Sicilia con Schinkel e nel 1824 il golfo di Napoli).
Stabilitosi a Roma dal 1811, dipinse soprattutto paesaggi e
scene folkloristiche. Gli si devono pure alcuni ritratti (Roma, Pio Istituto Catel) e un polittico della Resurrezione (Berlino-Charlottenburg, Luisenkirche, distrutto nel 1944). Incontrò Koch e i Nazareni, dipinse i sopraporta di casa
Bartholdy, al cui influsso restò però insensibile. Risuscitò
l’arte delle «vedute» fissando sulla tela paesaggi italiani (Roma, Golfo di Napoli), immersi in una luce sottile. Li arricchirà in seguito con scene di vita popolare trattate a grandi
piani realisti. La fattura spoglia, ove il modello si assoggetta alla luce, si avvicina anche al realismo del periodo Biedermeier. Un imponente quadro di genere, La Società degli
artisti tedeschi e il principe ereditario Luigi di Baviera nel cabaret spagnolo di Ripa Grande (1824: Monaco, np) costituisce la sua opera maggiore. C, che vendeva le proprie Vedute al viaggiatori illustri che percorrevano l’Italia, e che possedeva un certo patrimonio, incoraggiò gli artisti tedeschi
organizzandone mostre e fondò a Roma il Pio Istituto Catel
ancor oggi esistente. (hm).
Catellanos, Frangos
(seconda metà del xvi sec.). Originario di Tebe in Beozia,
fu il piú dotato tra gli allievi dei pittori cretesi. Nel 1560 decorò la cappella di San Nicola, nella Grande Lavra del monte Athos, e nel 1565 completò col fratello Giorgio la decorazione del nartece del monastero di Barlaam alle Meteore.
Artista ardito e focoso, venne fortemente influenzato dalla
pittura veneziana; tale influenza appare nell’iconografia (tipo della Vergine inginocchiata nella Natività) e nello stile piú
libero, e dalle tonalità piú chiare rispetto alle opere cretesi
contemporanee. (sdn).
Catena, Giovanni
(Spoleto 1797- 1877). Allievo a Roma del Minardi, è espo-
Storia dell’arte Einaudi
nente di rilievo della pittura di gusto purista in Umbria. Autore di gradevoli ritratti fra romanticismo e Biedermeier (Autoritratto, Ritratto di fanciulla: Spoleto, pc; Ritratto di A. Pimpinelli: Spoleto, Convento di San Domenico), nei dipinti di
soggetto sacro sembra ispirarsi, fra i modelli della pittura umbra del Rinascimento, anche alla Spagna, «purista» avantla-lettre, che proprio a Spoleto aveva dipinto alcune tra le sue
opere migliori. La pittura di C si evolve attorno alla metà del
secolo in sintonia con gli sviluppi naturalistici del purismo
(pale d’altare ad Azzano e Bazzano di Spoleto). (gsa).
Catena, Vincenzo
(Venezia 1480 ca. - 1531). L’iconografia belliniana, il colore smaltato e l’impaginazione geometrica delle forme tipici
della cultura quattrocentesca sono nelle numerose Sacre conversazioni (Baltimora, wag; Liverpool, wag). Dal 1510 in
avanti il suo fare si ammorbidisce in un colorismo piú fuso,
dovuto alla conoscenza del clima artistico instaurato da Giorgione e da Tiziano. Dopo il 1520 tale «giorgionismo» si fa
piú accentuato come testimonia la Pala di Santa Cristina (Venezia, Santa Maria Mater Domini), il miglior documento del
suo stile piú tardo. Gli appartengono alcuni notevoli ritratti (Andrea Gritti: New York, mma; Ritratto virile: Parigi Louvre; Ritratto femminile: Washington, ng). (mcv).
Caterina de’ Medici
(Firenze 1519 - Parigi 1589). Figlia di Lorenzo de’ Medici,
duca di Urbino, e di Madeleine de La Tour, nipote del papa Clemente VII, sposò il duca d’Orléans (1533), futuro Enrico II; regina di Francia (1544), reggente (1552), madre dei
re Francesco II, Carlo IX, Enrico III, incoraggiò le arti. Alla morte lasciava 129 arazzi (fiamminghi, italiani, francesi),
174 medaglioni smaltati (ritratti, allegorie, vite dei santi),
476 dipinti, di cui i tre quarti erano ritratti (attribuiti a
Clouet o a Corneille di Lione). Il suo gusto, molto diverso
da quello di Francesco I, la orientò essenzialmente verso il
ritratto e la miniatura. (sb).
Caterina II, imperatrice di Russia
(Stettino 1729 - San Pietroburgo 1796). L’arte occidentale
venne introdotta in Russia da Pietro il Grande, ma C conferí alle attività artistiche del suo paese un impulso prodi-
Storia dell’arte Einaudi
gioso, e decise di costituire una raccolta di pittura degna delle piú illustri gallerie principesche del suo tempo. Nel prolungamento del Palazzo d’Inverno, sua residenza a San Pietroburgo, si fece costruire nel 1765 un’ala che, secondo la
moda dell’epoca, chiamò «Ermitage» (eremo). Il suo progetto, che perseguí con una passione da lei stessa definita
«vorace», venne favorito in particolare dai suoi amici parigini: Diderot, Grimm, lo scultore Falconet, Raphael Mengs,
i suoi ambasciatori all’estero. Sua prima acquisizione fu, nel
1763, la collezione Gotskowski, composta soprattutto di
quadri nordici, in un primo tempo destinata a Federico II e
comprendente, con altri dipinti, tre Rembrandt (tra i quali
Giuseppe e la moglie di Putifarre, oggi a Washington, ng). Nel
1769 acquistava a Dresda la raccolta del conte Brühl, che
comprendeva ritratti di Rembrandt, paesaggi di Ruisdael,
una serie di Wouwerman, opere di Téniers, di Van Ostade,
di Paul de Vos, cinque mirabili Rubens, alcuni quadri italiani (Guido Reni, Albani, Crespi) e francesi (Valentin, Poussin, Watteau). Nel 1772, grazie alla mediazione di Diderot,
entrava in possesso di uno dei piú celebri gabinetti d’Europa, quello di Crozat, comprendente quattrocento dipinti, tra
cui opere prestigiose: Raffaello (San Giorgio), Giorgione
(Giuditta), le due Danae di Tiziano e di Rembrandt, capolavori del Veronese, di Tintoretto, dei Carracci, del Guercino, di Rubens, di Van Dyck, di Poussin, Le Nain, Claude
Lorrain, Watteau.
Nel 1779 acquistava a Londra la non meno celebre collezione Walpole, che le portava 79 dipinti italiani, 75 fiamminghi, tra cui gli schizzi eseguiti da Rubens del 1635 in occasione dell’entrata in Anversa del Cardinal-Infante, e dodici Van Dyck (la Vergine delle pernici), opere francesi (Bourdon, Dughet, Claude Lorrain, Poussin) e spagnole (l’Assunzione di Murillo). Nel 1781 le sue collezioni si arricchirono
di 119 quadri olandesi e fiamminghi della galleria del conte
Baudouin, con, in particolare, una serie di Rembrandt. A tali apporti massicci vanno aggiunte le acquisizioni piú frammentarie in occasione delle vendite Gaignat, Choiseul, Randon de Boisset, l’acquisto della coll. Tronchin e gli incarichi
ad artisti contemporanei (Van Loo, Casanova, Reynolds).
Alla fine del suo regno, C lasciava una delle piú belle gallerie d’Europa, che costituisce oggi il fondo essenziale dell’Ermitage di Leningrado. (gb).
Storia dell’arte Einaudi
Catlin, George
(Wilkes-Barre Penn. 1796 - Jersey City N.J. 1872). Costretto dalla famiglia a seguire studi di diritto, non ricevette alcuna educazione artistica; ma a forza di lavoro riuscí ad
essere eletto nel 1824 membro della Pennsylvania Academy
of Fine Arts. Cominciò la sua carriera di pittore eseguendo
ritratti della borghesia di Filadelfia, ma rapidamente si rese
conto che la sua vocazione lo chiamava altrove. Consapevole dei rapidi progressi della civiltà industriale e della scomparsa progressiva delle popolazioni indiane e dei loro costumi, si pose per obiettivo quello di rappresentarle, per sottrarle all’oblio. Dal 1830 organizzò numerose spedizioni nel
West, accumulando ritratti, acquerelli e note, che presentò
al pubblico dal 1833. Nel 1839 s’imbarcò per l’Europa con
la sua collezione. La presentò in Inghilterra, Belgio e Francia; venne esposta nel 1845 a Parigi al Louvre, ove Luigi Filippo l’ammirò. Beaudelaire gli dedicò alcune pagine entusiaste nel suo Salon de 1846. Malgrado ciò, C negli Stati Uniti venne riconosciuto solo dopo la sua morte. Morì dimenticato nel 1872, ma circa 450 dipinti della sua Galleria indiana sono oggi conservati a Washington (Smithsonian Institution), dove tuttora costituiscono, in ragione della loro
esattezza, un’inesauribile fonte di notizie per etnologi e storici. (sc+jpm).
Catton, Charles il Vecchio
(Norwich 1729-98). Formatosi a Londra presso un pittore
di carrozze e all’accademia di Saint Martin’s Lane, ebbe
grande successo anch’egli come decoratore di carrozze e fu
assegnato al servizio di Giorgio III. Espose alla Society of
Artists dal 1760 e partecipò alla fondazione della Royal Academy, che ne espose molti quadri dal 1769 alla sua morte.
Fu soprattutto pittore di paesaggi e di animali, ma eseguí
pure scene mitologiche, allegoriche e religiose, nonché ritratti. Il suo quadro d’altare intitolato Liberazione di san Pietro è conservato nella chiesa di Saint Peter Mancroft a
Norwich. (jns).
Caula, Sigismondo
(Modena 1637-1724). Ancora giovanissimo collabora, sotto
la guida di Jan Boulanger, alla decorazione del Palazzo du-
Storia dell’arte Einaudi
cale di Sassuolo. Pochi anni dopo affianca lo Stringa e il
Dauphin nella decorazione del soffitto di Sant’Agostino in
Modena. Un successivo viaggio a Venezia (1667-70 ca.) offre all’artista l’occasione di studiare le impaginazioni architettoniche del Veronese che vengono adottate nella grande
tela per la chiesa di San Carlo in Modena. Da questo momento l’intera produzione del pittore sarà caratterizzata dal
gusto neoveneto, con esiti di particolare eleganza nello Sposalizio della Vergine (oggi a Finale Emilia, Duomo), dove le
figure allungate risentono del Tintoretto e le ombre, fonde e
trattate velocemente, dei veneti contemporanei (Maffei, Zanchi e Fumiani). Per oltre trent’anni l’artista ricoprirà il ruolo di pittore della corte estense, partecipando come figurista
ad alcune importanti imprese decorative in San Vincenzo,
nel convento della Visitazione, nel santuario di Fiorano
(1681-82) e nella chiesa di San Barnaba (entro il 1710). (ff).
Caulery, Louis de
(Caulery (Cambrai) ?, 1580 ca. - Anversa 1621-22). Menzionato ad Anversa nel 1593-1594, pervenne al grado di maestro nel 1602-1603. Ha lasciato due dipinti firmati, in stile
manierista: una Festa in un interno o i Cinque Sensi (1620: oggi a Cambrai) e il Carnevale (Amburgo, kh). Per analogia gli
sono stati attribuiti numerosi quadri di allegorie o di genere; se ne possono vedere a Copenhagen (smfk), Angers, Anversa e Rennes, nonché a Madrid (coll. priv.). (jl).
Caulfield, Patrick
(Londra 1936). Si è formato a Londra presso la Chelsea
School of Art e il Royal College of Art. Nel 1964 ha partecipato alla mostra The New Generation alla Whitechapel Art
Gallery di Londra, che rivelò la giovane pittura inglese; nel
1965 è stato selezionato per la quarta biennale di Parigi. I
suoi dipinti, i cui motivi sono tracciati, come diagrammi tecnici, su fondi neutri, rappresentano immagini archetipiche
del mondo moderno (i Camini, 1964: Londra, coll. priv.; Divisori da camera, 1971: ivi). Le composizioni sintetiche si accostano piú alla Nuova Figurazione che alla Pop’Art, cui C
viene spesso assimilato. Egli pratica pure uno stile piú ornato, che rammenta le stilizzazioni dell’Art Nouveau. È rappresentato alla Tate Gall, di Londra (Stoviglie, 1969). (abo).
Storia dell’arte Einaudi
Cavael, Rolf
(Königsberg 1898). Fin da bambino era stato affascinato dal
mondo delle forme che il microscopio gli rivelava. Nel 1924
seguí i corsi di disegno industriale dello Städelsches Kunstinstitut di Francoforte. L’insegnante berlinese di musica
H. Jacobi, per il quale la musica significava la liberazione
delle forze creative, e Kandinsky, che poté incontrare, esercitarono su di lui una decisiva influenza. Dal 1926 C si accostò al linguaggio dei Bauhaus (Albers, Kandinsky).
Sotto il nazismo la sua pittura venne vietata; cosí ha lasciato soltanto alcuni esercizi lineari astratti in disegni di piccolo formato. Dopo la guerra fondò con Winter e Geiger il
gruppo astratto Zen e si stabilí a Monaco nel 1954. I suoi
dipinti, senza titolo, sono numerati in ordine cronologico.
Su un fondo di colore dolce e diffuso si disegnano prima forme grafiche che sembrano galleggiare in una luce indecisa.
A partire dal 1955 le forme, fino ad allora serrate, vengono
sostituite da una scrittura lineare nera e vibrante, tracciato
immediato di processi elementari. Mentre le opere eseguite
verso la fine degli anni ’50 sono caratterizzate da fasci di linee il cui orientamento genera zone di tensione, i dipinti
successivi si contraddistinguono per un dinamismo grafico
che si esprime in tutta la superficie, su uno sfondo di fluide
macchie colorate.
C è rappresentato nelle collezioni pubbliche di Monaco, Basilea e Amburgo. (hm).
Cavaglieri, Mario Oddone
(Rovigo 1887 - Pavie-sur-Gers 1969). Frequenta la scuola di
Ca’ Pesaro dal 1909 al 1913. Il soggiorno a Parigi nell’11
converte la sua produzione di marca impressionista, a piatte stesure di colore, e, soprattutto nella tematica degli interni, si ispira alla cultura simbolista. Dopo un relativo successo (’12-24 Biennale di Venezia; ’13 Monaco; ’15, ’18 Secessione romana) con l’ascesa del fascismo si trasferisce in
Francia (salons ’29-30). Nel dopoguerra importante retrospettiva alla Stozzina di Firenze nel ’53 e, allestita dopo la
sua morte, alla X Quadriennale romana. (ddd).
Cavagna, Giovanni Paolo
(Bergamo 1556-1627). Dopo una prima formazione presso
Storia dell’arte Einaudi
Cristoforo Baschenis e un soggiorno a Venezia nel 1576, compare a Bergamo come allievo diretto di G. B. Moroni, del
quale C proseguí l’arte ritrattistica (Ritratto di donna: Bergamo, Carrara). Molto fecondo, estese la sua attività a tutto il
bergamasco, decorando tanto i palazzi (Fregi e Scene bibliche
della casa Furietti a Presezzo; Storie di Davide e di Giuseppe
nella casa Albani a Bergamo) che le chiese (Bergamo, Santa
Maria Maggiore, Assunzione, 1593; Cremona, Bibl. degli
Agostiniani; Treviglio, affreschi e pala di San Martino,
1597). Molto moroniano nei primi lavori, evidenzia una netta evoluzione per influsso dell’arte del Veronese e dei Bassano, eccellendo nelle prospettive e negli scorci arditi. (sde).
Cavalcaselle, Giovanni Battista
(Legnago (Verona) 1819 - Roma 1897). Formatosi come pittore e dotato di scarsa cultura letteraria, scrisse tutte le sue
opere principali in collaborazione col giornalista inglese John
Archer Crowe che provvedeva principalmente alla loro stesura sulla base degli appunti del C. Di formazione accademica e partito dall’idea di aggiornare le Vite del Vasari, il C
non si distacca dalle preferenze correnti nella cultura italiana del suo tempo; egli era però dotato di grandi capacità analitiche (testimoniate anche dai suoi disegni da opere d’arte)
e di conoscitore. Le sue opere sulla pittura italiana dal Duecento al Cinquecento restano perciò un fondamentale punto di riferimento anche per lo studioso attuale.
Opere: Notices of the Lives and Works of the Early Flemish
Painters (London 1857, trad. franc. Bruxelles 1862-65, 2a ed.
ingl. 1872, trad. ted. 1875, trad. it. Firenze 1899). Sulla conservazione dei monumenti e oggetti di belle arti e sulla riforma
dell’insegnamento accademico (Torino 1863). A New History
of Painting in Italy from the Second to the Sixteenth Century
(London 1864; ed. it. Firenze 1886-1908). A History of Painting in North Italy, Venice, Padua, Vicenza, Verona, Ferrara,
Milan, Friuli, Brescia, from the Fourteenth to the Sixteenth Century (London 1871; ed. ted. insieme alla History of Painting
in Italy, a cura di Max Jordan, Leipzig 1869-76). Titian, his
Life and Times (London 1877; trad. it. Firenze 1877-78).
Raphael, his Life and Times (London 1882-85; ed. it. Firenze
1884-91). Tutte le successive edizioni e traduzioni pubblicate in vita del C sono importanti perché da lui continuamente riviste, aggiornate e corrette. (gp).
Storia dell’arte Einaudi
Cavalier d’Arpino → Cesari, Giuseppe
cavalli
La particolare predilezione dell’epoca Tang (vii-ix sec.) per
questo tema della pittura cinese si spiega con la vera e propria passione degli imperatori Tang per i corsieri che annualmente ricevevano come tributo, attraverso l’Asia centrale, dai loro lontani vassalli del FerghÇna, e che costituivano il nerbo dei loro eserciti conquistatori. Cosí, l’imperatore Tang Tai Zong ordinò a Yan Liben di rappresentare sei
delle sue cavalcature favorite con i loro palafrenieri, e che
questi dipinti venissero trasposti in bassorilievo per ornare il
suo mausoleo funerario. Maestro incontestato del genere, dopo Cao Ba, del quale sfortunatamente non rimane nulla, fu
Han Gan, di cui esiste ancora il ritratto di uno dei cavalli preferiti dall’imperatore Tang Xuan Zong (che si dice ne avesse oltre 40 000 nelle sue scuderie), chiamato Biancore della
notte chiara (Londra, coll. del fu Sir Percival e Lady David).
Nei secoli successivi il tema dei c divenne meno importante, ma continuò ad essere praticato, soprattutto all’epoca degli Yuan mongoli, essi stessi provetti cavalieri. Cosí il vam
di Londra conserva un rotolo di Ren Renfa, dal raffinato stile, intitolato Cavalli al pascolo; ma il pittore piú importante
dell’epoca resta Zhao Mengfu. A partire dagli Yuan si fissa
una simbologia legata alla rappresentazione dei c, che incarnano, quando sono sellati, la nobiltà e la dignità dell’atteggiamento umano; quando sono al pascolo, la noncuranza
e la libertà del funzionario-letterato in vacanza. La presenza in Cina degli occidentali e dei loro ippodromi ha comportato nel secolo scorso la proliferazione di dipinti di c falsamente attribuiti a Zhao Mengfu, spacciato come creatore
del genere, ed eseguiti di solito nello stile di Castiglione. (ol).
Cavallini, Pietro
(seconda metà del xiii sec., prima metà del xiv). È possibile dedurre dai documenti ch’egli nacque verso il 1250 e che
morí quasi centenario, dopo una lunga e fortunata operosità
svolta nelle maggiori chiese romane e napoletane per committenti di alto rango, come Pietro di Bartolo Stefaneschi,
Carlo e Roberto d’Angiò. La sua opera piú antica fra quelle superstiti è la decorazione a mosaico nell’abside di Santa
Storia dell’arte Einaudi
Maria in Trastevere (1291: tale data, ricostruita in base a
testimonianze antiche, è oggi sottoposta a discussione) recante il nome dell’artista, che vi rappresentò sei episodi della Vita della Vergine e la figura del donatore Stefaneschi presentato alla Vergine da san Pietro. Soltanto qualche anno
dopo, il C eseguí gli affreschi della chiesa di Santa Cecilia
in Trastevere dei quali si è conservata parzialmente la grande scena del Giudizio riscoperta nel 1901 dietro gli stalli del
coro monastico, certamente la sua opera piú matura e importante. Nel 1308 è documentata la sua presenza a Napoli, dove lavora per gli Angiò, ma la partecipazione di collaboratori e soprattutto le distruzioni e le gravi alterazioni successive permettono di riconoscere con difficoltà la sua mano in un affresco del duomo (Alberto di Jesse) e in talune parti degli affreschi nella chiesa di Santa Maria Donnaregina
(Giudizio finale, Apostoli e profeti). Quasi completamente
perduto è il mosaico ch’egli eseguí per la facciata della basilica di San Paolo a Roma circa nel 1321 e sono perdute molte fra le opere romane ricordate dal Ghiberti e dal Vasari
(decorazione ad affresco della navata di San Paolo, del 1270
ca., e della controfacciata di San Pietro; e cicli in San Francesco a Ripa e San Crisogono). Al C spetta un posto di primo piano nella pittura del tardo xiii sec. e del principio del
xiv, accanto a Cimabue, a Giotto, a Duccio. Per un pittore
della sua generazione era naturale un’educazione ancora fondata sui modelli bizantini; ma il suo atteggiamento nei confronti della tradizione non fu di passiva assimilazione dei
piú fortunati manierismi bizantini ma di libera e grandiosa
rievocazione delle forme piú alte e anche piú antiche di
quell’arte. In questo senso, il C percorse l’unica vera grande strada della pittura romana tardomedievale, avendo alle
spalle l’analoga esperienza del Terzo Maestro di Anagni. Su
questo tronco maggiore dell’arte romana egli ebbe il genio
d’innestare le esperienze piú ardite del suo tempo: prima
quella dell’arte di Cimabue (che nel 1272 era a Roma), poi
quella dell’assisiate Maestro di Isacco e di Giotto. La tesi
che i rapporti fra il C e l’arte giottesca debbano intendersi
in questo senso appare piú convincente dell’altra che tende
a considerarlo il «maestro romano di Giotto». Ma, in ogni
caso, la grandezza del pittore romano si rivela proprio nell’incontro con l’opera di Giotto. È vero che l’ampiezza e la solidità formale delle figure affrescate a Santa Cecilia costi-
Storia dell’arte Einaudi
tuiscono rispetto ai mosaici di Santa Maria in Trastevere un
balzo in avanti che può spiegarsi solo con l’influenza giottesca; ma il ruolo tutto particolare assegnato al colore, che
costruisce in modo autonomo la forma, la predilezione per
ombre intense e soffuse, che lasciano emergere con placida
solennità la figura, infine la creazione di una realtà fisionomica che sa esprimere nello stesso tempo eletta sacralità e
umano appagamento sono caratteri inconfondibili della personalità del pittore romano, cui conferiscono altezza poetica e potente individualità di accento. La pittura del tardo
medioevo nell’ambiente romano e napoletano e la pittura
umbra del xiv sec. dimostrano di avere largamente profittato della conoscenza dell’arte cavalliniana. (bt).
Tra le altre opere romane di C, o riferibili comunque alla sua
cerchia, vanno ricordate ancora la decorazione del catino absidale di San Giorgio al Velabro (ultimo lustro del xiii sec.),
la lunetta con La Madonna tra i SS. Francesco e Tommaso
d’Aquino sulla tomba di Matteo d’Acquasparta e – con maggior sicurezza d’autografia – i resti della decorazione della
Cappella Savelli in Santa Maria Aracoeli. Recentemente
(1976) F. Zeri ha riferito al C un Redentore frammentario,
su tavola (Roma, camposanto teutonico), opera sulla quale
è tutt’ora aperta la discussione. Anche la cronologia e i documenti collegati al C sono stati fortemente revocati in dubbio da L. Bellosi (1985) il quale non ne accetta la tradizionale identificazione con il «Petrus dictus Caballinus de Cerronibus» di un atto del 1273, né la data di nascita, fissata
tra il 1240 e il 1250. Lo studioso propone una diversa cronologia, piú tarda di quella comunemente accolta, riaprendo la questione – già lungamente dibattuta – dei suoi rapporti con la cultura bizantina e dell’apporto giottesco al rinnovamento dell’ambiente pittorico romano, di cui C fu in
ogni caso l’indiscutibile protagonista. (sr).
Cavallino, Bernardo
(Napoli 1616-56). Il piú lirico e sensibile dei maestri napoletani del Seicento, in un breve giro di attività raggiunse risultati notevolissimi e tali da influenzare un folto gruppo di
pittori del tempo. Nei dipinti riferibili alla sua prima attività (1635-40 ca.) – l’Incontro di Anna e Gioacchino (Budapest, attribuito impropriamente allo Stanzione, o il Martirio
di san Bartolomeo (Napoli, Capodimonte) – si può cogliere
Storia dell’arte Einaudi
un’intensa suggestione dell’anonimo Maestro degli Annunci. Contemporaneamente, sono evidenti i contatti con i modi della nuova ondata caravaggesca, determinata a Napoli
dal passaggio di Velázquez; e dalla diffusione della cultura
romana dei bamboccianti (in particolare Michiel Sweerts),
dei quali Aniello Falcone si era fatto banditore: ridurre,
quindi, le scene nel piccolo formato, caro appunto a questo
singolare manipolo di tardi caravaggisti, restando fedele, almeno all’inizio, alla tematica cara agli stanzioneschi: scene
testamentarie – come Abigail e Davide (Milano, Castello) o
la Morte della Vergine (Varsavia) – o anche scene mitologiche, come il Ratto d’Europa (Liverpool, wag). Antologie di
citazioni caravaggesche, soprattutto nelle prime opere, in
una riduzione che implica anche un addolcimento pittoricizzante della scansione luministica, e una presentazione in
chiave teatrale, che esclude ogni accentazione naturalistica.
Verso il ’35-40 tutto l’ambiente napoletano avverte l’influenza del vandyckismo che aveva trovato a Genova, in Sicilia (e anche in Spagna) terreno fertile di diffusione, e la cui
azione a Napoli poteva essere affidata alla conoscenza diretta di qualche suo dipinto oltre che alla presenza d’un seguace abbastanza rigoroso, quale si rivelava Pietro Novelli detto il Monrealese; certamente C, con rapido sviluppo, va sostituendo alla violenta contrapposizione luce-ombra delle opere piú antiche un tessuto sempre piú prezioso, eleganze cromatiche, raffinatezze di penombre, accordi insueti e suggestivi: l’unica opera datata, la Santa Cecilia (1645: già in
Sant’Antonio delle Monache, poi nella coll. Wermer, e ora
a Roma, Ufficio Recuperi), può indicarsi come momento di
svolta di questo processo che ormai si farà sempre piú marcato, la tavolozza schiarita, chiari su chiari, il disegno che trasfigura le immagini ai limiti di una grazia estenuata, di un
languore che ha già le note di una grazia presettecentesca. È
questa la maniera di reagire al nuovo gusto per una pittura
piú propriamente barocca, e che tra il quarto e il quinto decennio si fa prevalente a Napoli: unica concessione un piú
marcato indugio su figure isolate, ritratti caratteristici, nuova realtà della vita quotidiana isolata nel suo significato di
attualità che non ne impedisce la decantazione lirica (la Cantatrice (Napoli, Capodimonte), o la Santa Cecilia (Boston,
mfa), o infine quell’assoluto capolavoro della maturità che è
rappresentato dalla Giuditta (Stoccolma, nm). Da non di-
Storia dell’arte Einaudi
menticare, nel nuovo atteggiarsi del gusto del C, dagli inizi
degli anni ’40 e soprattutto nei dipinti di medio formato, l’interesse parallelo per le soluzioni offerte da Massimo Stanzione, Artemisia Gentileschi e, verosimilmente, anche per il
Vouet «napoletano». Quindi, ai legami con le esperienze dei
bamboccianti, segue, nelle composizioni di formato ridotto,
una crescente attenzione per i modi del genovese Giovanni
Benedetto Castiglione detto il Grechetto. In questo stesso
piano d’indagine, ormai quasi scene di genere, o piuttosto aulico raffinatissimo anticipo d’Arcadia, stanno le composizioni a molte figure: le due Scene della Gerusalemme (Monaco,
ap), il Ritrovamento di Mosè e l’Abigail (Braunschweig). La
pittura napoletana ha trovato qui, poco prima della grande
peste del ’56, la pagina piú liricamente esaltata, piú vibrante ed intensa di tutto il suo corso tra luministico e naturalisfico. Ma a questo momento la posizione di C è del tutto isolata: al confronto con la fortuna del neovenetismo e del barocco romano apparirono in qualche modo «arcaiche» le ricerche intime, le risonanze misteriose, le estenuate note di
grazia che fanno personalissima e unica la pittura di C; il quale, nel suo ultimo periodo, acquista una pulita compattezza
di forme che è da ritenere ispirata all’esempio di quei pittori francesi (Poussin, Mellin, Bourdon, Tassel ed altri) che già
avevano composto l’iniziale neovenetismo con nuove esigenze di orientamento classicista. (rc+sr).
Cavallucci, Antonio
(Sermoneta 1751 - Roma 1795). Protetto della famiglia Caetani di Sermoneta, si trasferí a Roma nel 1765 per studiare
con Stefano Pozzi e poi con Gaetano Lapis, e dove divenne
uno dei pittori maggiormente apprezzati nell’ambiente papale. Esponente del classicismo di ascendenza secentesca,
derivò dal Lapis influenze di scuola napoletana (Sebastiano
Conca) e carraccesca. Autore di soggetti prevalentemente
religiosi (Vestizione di S. Bona: Pisa, Duomo; Presentazione
di Maria al Tempio: Spoleto, Duomo; Storie dei SS. Pietro e
Paolo: Roma, San Pietro, sagrestia, quattro sovrapporte; San
Benedetto Giuseppe Labre: Boston, mfa), tuttavia la sua opera di maggiore impegno fu la decorazione dei soffitti di cinque stanze di palazzo Caetani a Roma (1776-87), di soggetto mitologico. In essi la sua vena classicheggiante, che riscopre Raffaello e le grottesche, si unisce ad una vivace sen-
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sualità e ad una felice concisione costruttiva della scena. Il
colore smaltato e tecnicamente perfetto, legato ad una dolcezza che a volte si tramuta in sentimentalità, gli viene probabilmente, oltre che dal Lapis, dalla sua attività di miniatore. Nonostante giungesse a notevole maestria nella ritrattistica (Francesco Caetani, 1777: Roma, coll. Caetani; Teresa Corsini, 1777: ivi), in questa attività non si riconobbe mai
pienamente. (fir).
Cavalori, Mirabello
(Firenze 1535-72). Allievo di Michele di Ridolfo del Ghirlandaio, membro dell’Accademia del disegno dal 1563, partecipò l’anno seguente agli apparati per le esequie di Michelangelo. La prima opera nota nel suo scarno corpus (I confratelli attorno a san Tommaso, 1568: Firenze, Oratorio di
San Tommaso d’Aquino), di spiccato carattere iconografico
e devozionale, non fa certo presagire l’exploit dei due pannelli (Sacrificio di Lavinia e Lanificio) che costituiscono il suo
distinto contributo alla decorazione del famoso studiolo di
Francesco I (1571). In essi C si rivela, a fianco di Santi di
Tito, pienamente partecipe delle nuove tendenze di riforma
del manierismo fiorentino in direzione di uno stile piú controllato e naturale. (sr).
Cavaro, Pietro
(Cagliari, documentato dal 1508 al 1538). Probabilmente
imparentato con Lorenzo – pittore di livello poco piú che
artigianale cui faceva capo un’attiva, bottega, autore (1501)
del polittico della parrocchiale di Gonnostramatza (secondo alcuni sarebbe da riconoscersi in lui il cosiddetto Maestro di Olzai) – C fu la personalità di maggiore spicco nel
Cinquecento cagliaritano. La sua formazione avviene in ambito catalano (nel 1508 risulta iscritto all’associazione dei
pittori di Barcellona). Caratteri ispano-napoletani – con sensibili tangenze con i modi dello pseudo-Bramantino, alias
Pietro Frangione, con il quale in passato è stato confuso –
sono infatti evidenti, ad esempio, nel polittico della Crocefissione (1518: Villamar, parrocchiale) e in quello, smembrato, della Madonna dei sette dolori (Cagliari, convento di
Santa Rosalia e pn).
Il figlio Michele (documentato dal 1538 al 1584) esordisce
come collaboratore di Pietro nel polittico di San Francesco
Storia dell’arte Einaudi
nell’omonima chiesa di Oristano (resta tuttora aperto il problema della distinzione delle due mani). Le sue opere documentate, il polittico di Nostra Signora della Neve (Cagliari,
pn) e quello della parrocchiale di Maracalagonis, presentano
un ampio intervento di bottega e risultano quindi di poca
utilità nella definizione della sua personalità pittorica, ricostruita essenzialmente per via attributiva. Le opere che
gli sono concordemente riconosciute, quali Il Crocifisso,
sant’Agostino e la Vergine (Cagliari, pn), il polittico di Bonaria (suddiviso tra il santuario e la pinacoteca cagliaritana)
e il Matrimonio mistico di santa Caterina (Pirri, Parrocchiale), sono affiatate con la cultura napoletana dell’ambito di
Andrea da Salerno. (sr).
Cavarozzi, Bartolomeo
(Viterbo, 1590 ca. - Roma 1625). Dopo un iniziale alunnato a Roma presso il concittadino Tarquinio Ligustri, pittore di quadrature e paesaggi, fu introdotto presso i marchesi
Crescenzi, dei quali divenne un protetto, frequentando l’accademia che Giovambattista aveva istituito nel palazzo di
famiglia e derivandone il soprannome di «Bartolomeo dei
Crescenzi». Le notizie date dalle fonti circa una sua iniziale dipendenza stilistica dal Roncalli, anch’egli legato alla nobile famiglia romana, sono confermate dai caratteri del quadro rappresentante Sant’Orsola e le compagne (1608: ora nella sagrestia di San Marco). Dopo un perduto San Carlo Borromeo (1614: già in Sant’Andrea della Valle), secondo il Baglione C «cangiò gusto» e si diede a «ritrarre del naturale».
Nel 1617 accompagnò il marchese Giovambattista in Spagna, dove rimase forse fino al 1619: a quel momento si dovrebbero datare varie opere attualmente ancora in raccolte
spagnole (Sposalizio di santa Caterina: Madrid, Prado; altre
in coll. priv.). Del 1622 è la Visitazione (Viterbo, Palazzo comunale), coeva probabilmente al Martirio di santo Stefano di
Monterotondo (già nell’omonima chiesa e ora in duomo).
Sono questi i soli punti fermi di una cronologia incerta e controversa, al cui interno vanno scalati un ristretto numero di
dipinti sicuri (San Gerolamo scrivente: Firenze, Pitti; Sacra
Famiglia: Torino, Pinacoteca Albertina; Vergine col Bambino: Roma, Gall. Spada; e pochi altri). Ne emerge la fisionomia di un pittore di cultura naturalistica (stringenti appaiono i rapporti con Orazio Gentileschi) ma anche toccato dal
Storia dell’arte Einaudi
classicismo reniano, e partecipe di quel clima assai composito determinatosi nell’ambito dei «caravaggeschi» francesi. In particolare, il nitido luminismo – affine a quello espresso anche dal genovese Fiasella, che forse C conobbe – ha determinato in passato lo scambio di diverse attribuzioni tra
C e il cosiddetto Cecco del Caravaggio, pittore di origine
probabilmente francese ma attivo a Roma e anche in o per
la Spagna.
Recentemente è stato proposto di risolvere con un’attribuzione al viterbese l’intricato quesito della paternità del San
Pietro Nolasco trasportato dagli angeli già in Sant’Adriano a
Roma e ora nella chiesa dei Mercedari a Torre Gaja; notevole e tuttora misterioso quadro di committenza spagnola,
alla cui attribuzione a C osta però l’anno di canonizzazione
del Nolasco (1628), posteriore alla data di morte del pittore. Ugualmente aperte restano le questioni relative ad altri
controversi dipinti, tra cui il San Giovannino della cattedrale di Toledo, per il quale è stata ipotizzata la collaborazione
tra C e Giovanibattista Crescenzi. (lba).
Cavazzola
(Paolo Morando, detto il) (Verona 1486-88 ca. - 1522). Allievo di Francesco Morone, esordisce con opere in cui echi
mantegneschi coesistono con il recupero di moduli belliniani, e una già viva attenzione per la pittura lombarda. Giunto a maturità (Madonna col Bambino, 1509: La Gazzada,
Fond. Cagnona), dà prova di uno stile piú aspro, caratterizzato da un forte chiaroscuro e un persistente gusto plastico
derivato da Mantegna. Del 1510-11 è un affresco nella chiesa dei Santi Nazaro e Celso a Verona (Annunciazione con san
Biagio e san Benedetto); ma consegue raggiungimenti stilisticamente coerenti e maturi solo con la serie delle cinque Scene della Passione per la cappella della compagnia della passione in San Bernardino, terminata nel 1517 con la Deposizione di Cristo, suo capolavoro (oggi a Verona, Castelvecchio). Nelle opere del 1518 (San Rocco: Londra, ng; Madonna, già a Milano, coll. Frizzoni) si può riscontrare un diverso orientamento: colori vivaci e ai riflessi metallici C preferisce ormai un’armonia a base di grigio corrispondente alla gravità delle rappresentazioni, che, nella loro eleganza,
sembrano riflettere qualcosa della cultura romana, quasi un
precoce contatto con l’esperienza raffaellesca. Si può citare,
Storia dell’arte Einaudi
di questi anni, la Madonna dello ski di Francoforte (1519).
L’ultima sua opera, secondo Vasari eseguita in collaborazione con Francesco Morone, è a quadro d’altare per la famiglia Sacchi e destinato a San Bernardino: Vergine in gloria con sei santi e la donatrice Caterina Sacchi (oggi a Verona,
Castelvecchio). C fu pure buon ritrattista, come dimostra il
mirabile Ritratto di Giovanni Emilio de’ Megli (o Emilei), (firmato e datato 1518: Dresda, gg). (sde).
Cavedone, Giacomo
(Sassuolo 1577-1660). Fu tipico allievo dei Carracci, dapprima di Annibale, poi – dopo la partenza di questi per Roma (1595) – principale aiuto di Ludoico, alla cui morte
(1619) ereditò il titolo di «caposindaco» dell’Accademia degli Incamminati. Orientato sulla linea della grande pittura
veneta cinquecentesca, esercitò la sua attività in Bologna,
concentrandola nel periodo tra il 1600 e il 1624, anno in cui
in seguito a una caduta che lo rese inabile, dovette rinunciare a dipingere. La sua maggior impresa fu la decorazione
della Cappella Arrigoni in San Paolo maggiore, del biennio
1611-13, con tre affreschi nella volta e due tele laterali (Adorazione dei pastori, Adorazione dei magi) di vibrante materia
pittorica. Un culmine eccezionale, non solo nel suo percorso ma nella pittura bolognese di quegli anni, lo raggiunse nella grande pala con La Vergine e i santi Alò e Petronio (Bologna, pn), datata 1614, dove il ricordo di Paolo Veronese e
di Tiziano mirabilmente si sposa a un’impressione da Caravaggio, la cui opera il C certo aveva visto nel soggiorno romano dell’autunno del 1609 come aiuto del Reni. Un breve
ma importante viaggio a Venezia, l’artista l’aveva compiuto nel 1612-13. (eb).
Caxés (Cajés), Eugenio
(Madrid 1575-76 - 1634). Figlio di un italiano venuto
all’Escorial e formatosi in uno stile tradizionale e accademico, rappresenta, come Vicente Carducho, suo amico, l’epoca di transizione dal manierismo al naturalismo barocco.
Malgrado evidenti reminiscenze di Correggio, raggiunge un
espressione intensa molto personale (Cristo sul Calvario,
1613: Madrid, convento della Misericordia). Collaborò piú
volte con Carducho nell’esecuzione di affreschi, polittici e
cicli (cattedrale di Toledo, Cappella del santuario). (aeps).
Storia dell’arte Einaudi
Caylus
(Anne-Claude-Philippe de Tubières, conte di) (Parigi 16921765). Archeologo, incisore e scrittore francese. Era pronipote di Mme de Maintenon da parte di madre, la contessa
di Caylus, autrice di spiritosi Souvenirs. Anch’egli, avvertendo profonda avversione per la carriera militare, non trascurò di scrivere romanzi licenziosi, nel gusto libertino
dell’epoca. Ma dedicò soprattutto la vita all’incisione e all’archeologia. Sembra si legasse giovanissimo a Watteau, sin
dall’ammissione di questi all’accademia nel 1712. Nel 1714
intraprese il tradizionale viaggio in Italia; Poërson, direttore dell’Accademia di Francia a Roma, ne segnalò allora lo
zelo per il disegno dal modello. Tornato a Parigi lavorò con
Watteau presso Crozat. Un secondo viaggio nel 1716-17,
durante il quale, accompagnando il marchese de Bonac nella sua ambasceria a Costantinopoli, visitò Smirne ed Efeso,
determinò la sua passione archeologica. Fu collezionista infaticabile; pubblicò un Recueil d’antiquités in 7 voll. (Paris
1752-67) e fu in corrispondenza con i dotti dell’epoca. Amico di Mariette e di Ch.-A. Coypel, di cui incise qualche pezzo, venne chiamato da quest’ultimo all’accademia di pittura, a titolo di amatore onorario (1731). Qui esercitò un efficace mecenatismo, creando un premio per l’espressione,
soccorrendo generosamente Vien, Trémollières, Vassé, Lagrenée, e tentando, dal 1747, di ripristinare l’attività storiografica redigendo egli stesso le vite di Watteau e J.-F. de
Troy. Ma un infelice trattato sulla Peinture à l’encaustique
et à la cire, nonché l’ostentata pubblicazione dei Quadri tratti dall’Iliade, dall’Odissea e dall’Eneide seguiti dai Nuovi soggetti di pittura e scultura, gli valsero, oltre alla fama esagerata di proselita del ritorno all’antico, l’inimicizia di Cochin
figlio, di Marmontel e di Grimm, che in lui vedeva «il protettore delle arti e il flagello degli artisti», e di Diderot, che
lo chiamava «brocca etrusca». Di fatto i discorsi sull’Harmonie et la couleur; la Manière et le moyens de l’éviter e i Salons dei 1751 e del 1753, pubblicati nel «Mercure de France», rivelano un uomo liberale, soprattutto amante della naturalezza e della bellezza, nella linea di un Roger de Piles,
di cui fece l’elogio all’accademia. Membro anche dell’accademia delle iscrizioni, nel suo discorso migliore, che riguarda L’Amateur, ci ha lasciato il modello di un gusto informato
Storia dell’arte Einaudi
e intelligente, tradotto con quell’aristocratica padronanza
stilistica, ora sostenuta, ora disincantata, che caratterizza il
gran signore del secolo dei lumi. (pb).
Cazes, Pierre-Jacques
(Parigi 1676-1754). Allievo di R.-A. Houasse e di Bon Boullogne, venne accolto nell’accademia nel 1703, conducendovi una carriera ufficiale; fu nominato direttore nel 1743 e
cancelliere nel 1746. Partecipò a Parigi al concorso per la galleria di Apollo del Louvre nel 1727, eseguí grandi incarichi
religiosi per varie chiese di Parigi e di Versailles (San Pietro
che risuscita Tabita: Parigi, chiesa di Saint-Germain-des-Prés;
schizzo al Louvre) e quadri di storia che sono buoni esempi
della tradizione accademica derivante da Le Brun e La Fosse. Lo stile risolutamente classico, le cui ombre nere, però,
fanno pensare a Solimena (Gesú e i dottori, 1725: Rouen,
mba), si contrappone all’eleganza amabile delle composizioni mitologiche (Toeletta di Venere, Giudizio di Paride: Potsdam, Sans-Souci; schizzi a Auxerre) e delle scene di genere
(l’Altalena e Ballo di contadini, 1732: Parigi, Louvre). (sr).
Cazin, Jean-Charles
(Samer (Pas-de-Calais) 1841 - Le Lavandou 1901). Allievo
preferito di Lecocq de Boisbaudran, s’interessò sia di architettura e di ceramica sia di pittura, della quale cercò di riesumare gli antichi metodi a cera. Viaggiò in Inghilterra e in
Olanda e si specializzò in paesaggi di lande e di dune, spesso animati da scene tratte dai due Testamenti (Agar e Ismaele, 1880: Tours, mba), che ebbero grande popolarità. Terminò al Panthéon di Parigi i dipinti che Puvis de Chavannes aveva lasciati incompiuti alla sua morte nel 1898. È ben
rappresentato in musei di Tours, Bormes-les-Mimosas e Boulogne. (ht).
Ceán Bermúdez, Juan Agustìn
(Gijón 1749 - Madrid 1829).Originario delle Asturie, come
tanti dotti e riformatori del xviii sec., ebbe doppia formazione, di giurista e di pittore. Studiò per qualche tempo a
Roma con Raphael Mengs, ma restò pittore dilettante. Invece, avvocato e funzionario di Stato, dedicò tutto il suo
tempo libero a redigere la storia dei pittori spagnoli. Il celebre scrittore e statista Jovellanos, come lui asturiano, lo pro-
Storia dell’arte Einaudi
tesse e lo incoraggiò costantemente nell’impresa. Un soggiorno di dieci anni a Siviglia, ove catalogò i manoscritti della cattedrale, gli consentí di raccogliere gran numero di notizie di prima mano. Nel 1800 l’Academia de San Fernando di Madrid pubblicava i sei volumi del suo Diccionario histórico de las bellas artes en España (che tratta sia degli scultori sia dei pittori), opera esemplare e insostituibile per l’abbondanza delle informazioni raccolte appena prima del turbine dell’epoca napoleonica, per la chiarezza della presentazione (cataloghi delle opere di ciascun artista, elenchi cronologici e geografici), per il senso critico e l’equità dei giudizi, ove il classicismo dottrinario non soffoca la sensibilità
(persino nei riguardi di un «pittore maledetto» come El Greco). Per modestia, Ceán aveva approntato un dizionario anziché una storia: redasse quest’ultima durante la sua lunga
vecchiaia (unitamente a numerosi lavori archeologici). Gli
undici volumi manoscritti di questa Historia general de la pintura, per la maggior parte inediti, sono conservati presso
l’Academia de San Fernando. (pg).
Ceccarelli, Naddo
(Siena, attivo alla metà del xiv sec.). Il pittore è noto da due
tavole firmate, valve di un unico dittico smembrato (Madonna: già Richmond, ex coll. Cook; Cristo in Pietà: Vaduz,
coll. Liechtenstein), di cui la prima è datata 1347. Attorno
ad esse la critica ha raggruppato un certo numero di dipinti
– Madonne, conservate a Budapest, Baltimora (wag), Siena
(chiesa di San Martino) – oltre al polittico della pn di Siena
e vari altri. Conferendo alle figure un’eleganza un po’ rigida, egli dà prova di una raffinatezza tecnica e talvolta d’una
sensibilità che ne fanno un buon seguace di Simone Martini – con il quale fu forse ad Avignone –, in analogia con Lippo Memmi. (sr).
Ceccarini, Sebastiano
(Fano 1703-83). Allievo di Francesco Mancini a Foligno e,
al suo seguito, a Perugia e Roma. Dal 1755 in poi al soggiorno romano alternò lunghi periodi trascorsi a Fano. Nelle sue opere sono presenti elementi desunti dal maestro, dal
Reni, dal Maratta: Madonna ed i santi protettoti della città di
Fano (1724-26) e Vergine e san Rocco (1732) (ambedue a Fano, pc), Miracolo di santa Francesca Romana, 1748-49 (Ro-
Storia dell’arte Einaudi
ma, gnaa), San Michele Arcangelo, San Rocco e Sant’Antonio, 1748-49 (Monastero delle Oblate di Tor de’ Specchi,
già nella distrutta chiesa di Santa Maria Liberatrice al Foro). L’intenso studio e la perizia tecnica non consentono tuttavia a C di acquistare una particolare originalità, soprattutto nelle pale d’altare, mentre egli rivela abilità e buon gusto nei ritratti (Abate Francesco Zaghis, 1739: Venezia, Pinacoteca Manfrediniana; Cardinale di York, intorno al 1750:
Hartford Conn., Wadsworth Athenaeum; Cardinale Fabrizio Spada, 1754: Roma, Gall. Spada). (amr).
Cecchino da Verona
(documentato tra il quarto e il settimo decennio del sec. xv).
L’unica opera certa dell’artista è la tavola firmata, un finto
trittico, raffigurante La Madonna col Bambino tra i SS. Virgilio e Sisinio (Trento, Museo diocesano), di cultura dichiaratamente toscana tanto che, anche in base a documenti dai
quali il pittore risulta attivo a Siena nel 1432, gli veniva ipoteticamente riferito da Longhi il Giudizio di Paride del Museo del Bargello a Firenze. Altre opere attribuite sono tuttora discusse. (sr).
Cecco Bravo
(Francesco Montelatici, detto) (Firenze 1607 - Innsbruck
1661). Allievo del Bilivert, si distinse tra i pittori fiorentini del suo tempo per lo stretto legame con la tradizione manieristica cinquecentesca, di cui ripropose, in modi estrosi
ed eleganti e con tratto dinamico, le soluzioni piú vivaci e
antiaccademiche, immergendole in lume naturalistico. Fu vicino a Giovanni da San Giovanni, di cui seguitò l’opera a
fresco nella sala degli Argenti in palazzo Pitti (1638-39), risentendo qui anche dei modi del Furini e delle novità cortonesche. Concluse la propria attività alla corte tirolese di
Anna de’ Medici. La fortuna critica di C fu limitata, anche
perché scarse sono le sue opere certe, ed esigua fu la sua produzione di tele di destinazione chiesastica (un raro esemplare ne è la pala con San Michele e angeli, eseguita per le Benedettine di San Silvestro a Firenze verso il 1630-35, ora
nella pieve dell’Antella). Recentemente gli è stato restituito un gruppo di dipinti prima attribuiti a Sebastiano Mazzoni. (eb).
Storia dell’arte Einaudi
Cecco del (da) Caravaggio
(primo terzo del xvii sec.). Il punto di partenza per ricostituire l’opera di quest’artista (uno dei più originali tra quelli piú vicini a Caravaggio) della cui vita nulla si sa e di cui è
ignota l’esatta identità, è il Cristo che scaccia i mercanti dal
Tempio (Berlino Est, Bode Museum), citato fin dal 1673 come di «Checcus a Caravagio». Intorno a questa tela si può
raggruppare una serie di composizioni (Resurrezione: Chicago, Art Inst.; Amore alla fontana: Roma, coll. priv.; Suonatore di flauto: Oxford, Ashmolean Museum; Musico: due versioni di cui una al Wellington Museum di Londra, l’altra alla pinacoteca di Atene; San Lorenzo: Roma, Chiesa Nuova)
dal violento luminismo, quasi surrealista, ove il pittore coglie, come bloccandole, le espressioni irrequiete dei volti; generalmente tali opere vengono datate al 1610-20 ca. Menzionato in una testimonianza processuale dal pittore Agostino Tassi come operante con lui e un gruppo di francesi
nella decorazione del casino del cardinal Montalto a Bagnaia
nel 1613, citato da Mancini nel 1620 ca. come «Francesco,
detto Cecco del Caravaggio» tra i principali allievi di Caravaggio, C, la cui opera dimostra rapporti incontestabili coi
quadri di Finson o Douffet oppure con quelli di Cavarozzi
o Mayno, resta tra le piú enigmatiche e affascinanti figure
del vorticoso ambiente della pittura romana dei primi decenni del xvii sec. (sr).
Cecioni, Adriano
(Fontebuoni 1836 - Firenze 1886). Fu, con T. Signorini,
l’animatore e il teorico dei macchiaioli del Caffè Michelangelo a Firenze. Momento saliente della sua attività di pittore (secondaria nei confronti della scultura) fu, durante il soggiorno a Napoli negli anni 1863-67, la fondazione di una
scuola di paesaggio detta Scuola di Resina, affine a quella
dei macchiaioli, della quale fecero parte, con il giovane De
Nittis, F. Rossano e M. De Gregorio. Nel 1870 fu a Parigi;
nel 1872 si recò a Londra, lavorandovi come illustratore (caricature sul «Vanity Fair»). Nelle sue note critiche (edite postume a Firenze nel 1905 con il titolo di Scritti e ricordi), vivacemente polemiche e non immuni dalle contraddizioni di
un verismo di estrazione romantica, difese la libertà dell’arte intesa come «sorpresa alla natura» nell’ambito di una co-
Storia dell’arte Einaudi
pia dal vero individualmente sentito. Il suo giudizio sull’arte francese contemporanea fu decisamente negativo, se si eccettua l’ammirazione per Courbet; tra i macchiaioli trascurò
stranamente gli artisti maggiori, come Fattori, Lega, Sernesi, Abbati, prediligendo Signorini, Cabianca, Banti. Preferí
nei piccoli quadri, attentissimi allo studio dei rapporti luminosi e tonali, soggetti aneddotici presi dall’immediato
quotidiano e familiare, trattati in uno stile nitido e pacato,
di sapore quasi purista (La zia Erminia: Arezzo, Museo medievale e moderno; Ritratto della moglie: Firenze, gam), con
risultati, a volte, tra il naïf ed una sorta di curioso, surreale
iperrealismo (Il gioco interrotto: Roma, gnam; Ragazzi che lavorano l’alabastro: Milano, coll. priv.). (amm+sr).
Cecoslovacchia
All’inizio del xx sec. (per le epoche precedenti, → Boemia),
la pittura cèca conobbe una nuova fioritura grazie a giovani
pittori d’avanguardia, influenzati dalle nuove correnti straniere quali il fauvisme, l’espressionismo, il cubismo. Si tratta anzitutto del gruppo degli Otto (Osma), le cui due mostre in successione (1907, 1908) sono le prime, nel contesto
locale, a mettere in causa la fedeltà dei pittori al «modello
esteriore». Questo gruppo, evolvendo dall’espressionismo
verso il cubismo, conta particolarmente tra i suoi membri
Emil Filla, Antonìn Procházka, il paesaggista Otakar Kubín,
che, col nome di Coubine, trascorrerà in Francia la maggior
parte della sua vita, e soprattutto Bohumil Kubi∫ta, la cui
opera, nel contempo rigorosa e colma di tensione interiore,
malgrado la sua caratteristica d’incompiutezza rivestirà per
numerosi artisti successivi il valore di un esempio morale.
Dopo la fondazione nel 1918 della repubblica cecoslovacca,
un altro gruppo assume l’eredità degli Otto: gli Ostinati
(Tvrdo∫ìjnì), che essenzialmente cercano di tradurre le conquiste delle avanguardie monadiali in un’espressione plastica tipicamente cèca. Alcuni, come Václav √pála e Josef
Ωapek (fratello del celebre scrittore), sfociano in una sintesi personale tra cubismo ed arte popolare; altri, come Rudolf Kremli™ka, e Jan Zrzavý, evolveranno verso una forma
di neoclassicismo, il primo con un’opera robusta e sensuale,
il secondo creando un fragile universo poetico nel quale una
fantasia tormentata, di un simbolismo tardivo risulta equilibrata da un senso pressoché ascetico della costruzione.
Storia dell’arte Einaudi
Negli anni ’20 si vede apparire tutta una nuova generazione di pittori le cui attività s’iscrivono in un ampio movimento, posto sotto il doppio segno della rivoluzione sociale
e di un radicale rinnovamento delle «maniere di vivere e di
sentire». Gravitando per la maggior parte attorno all’associazione Devûtsil, animata dal teorico Karel Teige, questa
nuova avanguardia, dopo aver cercato una «nuova arte proletaria» in una variante «operaia» dell’arte naïve (P. Kotìk,
K. Holan, ecc.), concordemente esplora il campo della lirica immaginativa, in uno spirito piú o meno vicino al «poetismo» di cui Teige definisce il programma. L’iniziativa
principale va riconosciuta, in tale contesto, a Jind≈ich √tyrský ed alla Toyen (Maria Ωermínová), due pittori che, nel
1927, lanciano col nome di «artificialismo» una poetica pittorica originale, a mezza via tra una specie di astrattismo lirico ante litteram e il surrealismo, che rappresenta pure il miglior equivalente plastico del programma «poetista». In seguito √tyrský e la Toyen divengono i protagonisti del gruppo surrealista di Praga, di cui nel 1934 sono i fondatori insieme al poeta Nezval e che, negli anni ’30, svolge nell’arte
cèca un ruolo prossimo a quello che Devûtsil aveva svolto
negli anni ’20. Sia per l’originalità che per la potenza della
loro visione, i due pittori contano pure, d’altronde, tra i principali rappresentanti del surrealismo internazionale, del quale la Toyen raggiungerà, nel 1947, la «centrale», stabilendosi a Parigi, ove parteciperà alle attività del gruppo di Breton. Questi «recupererà» nel contempo Jind≈ich Heisler,
poeta i cui interventi nei settori del collage, dell’oggetto e
della fotografia costituiscono altrettante iniziative autenticamente innovative.
Ancora a Parigi si sviluppa, essenzialmente, l’opera di Josef
√ìma, altro grande pittore della generazione di Devûtsil; dopo aver partecipato alle attività parasurrealiste del gruppo
del Gran Gioco, √íma trovò la propria strada in una sorta di
pittura contemplativa, non figurativa ma neanche puramente
plastica, imperniata anzitutto sul tema della luce. Al surrealismo si accostano pure, nella medesima generazione,
Franti∫ek Janou∫ek, Alois Wachsmann, l’iconoclastico
Zdenûk Rykr e lo ieratico Franti∫ek Muzika; il quale è pure, con Franti∫ek Foltýn, uno dei rari pittori cèchi tra le due
guerre che si avventuri sul terreno dell’astrattismo. L’ispirazione «poetista» trova prolungamenti nel naïf Grigorij
Storia dell’arte Einaudi
Musatov, nel pittore e incisore Frantisûk Tichý e in Adolf
Hoffmeister, noto soprattutto come caricaturista e giornalista.
Questa corrente eclettica – che presenta opere dai soggetti
piú tradizionali (natura morta, paesaggio, ritratto) – è quella che, almeno esteriormente, rappresenta la continuità della pittura cèca, attraversando senza danni l’occupazione
(1939-45), per ricomparire intatta, dopo il 1948, nelle gallerie e nei musei della C stalinizzata; per lungo tempo, accanto al realismo socialista (qui legato particolarmente al nome di Jan Ωumpelík), essa è l’unica arte ufficialmente ammessa. Tra i pittori di tale corrente, i piú spesso citati sono
Otakar Nejedlý, Václav Rabas, Vojtûch Sedlá™ek, Vlastimil
Rada e Josef Lada, considerati quelli la cui opera – per la
maggior parte paesaggi – presenta un tocco «specificamente cèco». Sulla medesima linea possono collocarsi Karel Svolinský, Vlastimil Zábranský e soprattutto Ji≈í Trnka, noto
in tutto il mondo per i suoi cartoni animati. Jan Bauch, pittore di una Praga nel contempo espressionista e barocca, come Richard Wiesner, Vladimír Sychra e, nella generazione
successiva, Josef Liesler ed Arno∫t Paderlìk, rappresentano
un versante piú «esclusivista» di tale corrente pittorica principale, quella in cui si possono individuare influssi piú diretti dell’arte contemporanea.
Le tendenze piú innovatrici, invece, non sono affatto favorite dall’instabile storia del paese; ove, a partire dal 1939,
esse possono venire in luce solo ad intermittenza, in occasione di brevi periodi di disgelo ideologico e culturale. All’indomani della seconda guerra mondiale esse ricompaiono particolarmente nell’attività dei gruppi Ra e Quarantadue, posti ambedue nella scia del surrealismo, cui peraltro il solo Ra
si rifà apertamente. Pretendendo di illustrare una nuova mitologia urbana, il gruppo Quarantadue (Lhoták, Sou™ek,
Kolá≈, Gross, J. Kotìk) dovrà paradossalmente le sue migliori
realizzazioni plastiche a Kamil Lhoták, affascinato dalla passata epoca fin-de-siècle e da quella delle prime conquiste tecniche; un altro membro del gruppo, il poeta Ji≈í Kolá≈, agli
inizi degli anni ’60 diverrà celebre come autore di oggetti e
collages «additivi». Il gruppo Ra conta tra i suoi membri tre
pittori importanti: Bohdan Lacina, i cui dipinti cristallini,
che appartengono nello stesso tempo all’astrattismo e alla visione interiore, si bagnano nel silenzio di un universo «ar-
Storia dell’arte Einaudi
che-tipico»; Josef Istler, parimenti partecipe dell’astrattismo
e dell’«irrazionalità concreta»; e Václav Tikal, «romantico
dimenticato». Questi ultimi due autori, tuttavia, realizzano
l’essenziale della propria opera solo negli anni ’50 e ’60,
quando, essendo ormai il gruppo Ra null’altro che un riferimento storico, partecipano alle attività di un gruppo semiclandestino, il futuro gruppo Uds, che gradualmente darà vita ad una versione interamente rinnovata del programma
surrealista. Accanto ad Istler e Tikal, la cui opera sbocca in
una fantasticheria mezzo nostalgica e mezzo ironica sul tema della macchina, questo gruppo conta nelle proprie file
particolarmente Mikulá∫ Medek, con le sue enigmatiche
«strutture», ove una fantasia sarcastica si aggancia direttamente ai tormenti corporei. All’ombra dell’arte ufficiale si
sviluppa inoltre, fino all’inizio degli anni ’60, l’opera di alcuni solitari come Zdenûk Sklená≈, pittore «fantastico» vicino nel contempo all’arte cinese e – attraverso R. Oelze –
al romanticismo tedesco; Ladislav Novák (1925), presso il
quale, particolarmente nelle sue «alchimisterie», un senso
innato del gioco concilia sia ironia e magia, sia vari procedimenti tecnici; e il curioso Vladimír Budnìk, che in pieno
stalinismo non esita a scendere per la strada ad insegnare ai
passanti una personale versione dell’espressionismo astratto. L’anatema che pesa allora sull’arte indipendente verrà,
è vero, spezzato dai fautori di un modernismo piú eclettico
(e piú moderato); a partire dal 1956 essi si presentano al pubblico in collettive, la prima delle quali è cronologicamente
quella del gruppo Maggio (Máj); l’ex surrealista Libor Fára
e lo spiritualista Robert Piesen, unitamente al discepolo di
Tàpies Ωestmír Kafka, sono tra gli autori piú ispirati.
La Slovacchia, paese di ricca tradizione folkloristica, offre
in confronto alle zone cèche solo un numero ridotto di personalità artistiche nel senso moderno del termine. Tra i primi pittori che, negli anni ’20 e ’30, rompono l’isolamento
culturale del paese integrandone l’eredità folkloristica in una
piú ampia prospettiva, i piú importanti sono Martin Benka,
visionario «monumentalista» del mondo rurale, M. A. Bazovsý, per il quale le innovazioni dell’arte moderna sono un
diretto prolungamento dell’arte popolare, Janko Alexy,
Mikulá∫ Galanda e Ludovít Fulla. Anton Jassuch è il primo
pittore slovacco astratto, Iniro Weiner-Kral´ il primo che si
accosti al surrealismo. Un’importante corrente di pittura e
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incisione «sociale», sorta negli anni ’20 nella Slovacchia
orientale, troverà la sua piú compiuta espressione, intorno
al 1930, nell’opera incisa di Koloman Sokol.
Cyprian Majernìk ed Endre (Andrej) Neme∫ (trasferitosi in
Svezia), creatori di personali universi rispettivamente vicini al simbolismo e alla «pittura metafisica» di De Chirico,
sono le maggiori personalità di una generazione di pittori,
detta «del 1909», che si manifesta alla vigilia della seconda
guerra mondiale; Ján æelibský, Ján Mudroch, Bedrich Hoffstädter, Eugen Nevan e due surrealisti, Jakub Bauerfreund
e il poeta-collagista Rudolf Fabry compaiono circa nello stesso tempo. Il dopoguerra rivela in particolare Ladislav Guderna e Vincent Hlo∆nìk, applicando alcune conquiste
dell’arte d’avanguardia alla concezione ufficiale dell’«arte
impegnata»; negli anni ’50, numerosi pittori nati intorno al
1930 si volgono verso concezioni piú autonome, come Marián Ωunderlík, Andrej Bar™ìk, Milan Laluha, ammiratore
di Léger, Michal Jakab™ic, che viene accostato alla Nuova
Figurazione, Milan Pa∫téka, Rudolf Fila o, infine, Rudolf
Krivo∫, la cui visione del mondo ha potuto venir qualificata come «esistenzialista».
Gli anni ’60 stanno in C sotto il segno della Nuova Figurazione. Essa si esprime principalmente, nel 1965 ca., nell’opera del pittore-incisore Ji≈í Balcar, cui l’universo di Kafka conferisce un carattere autenticamente cèco. L’uomo scorticato, spogliato della propria pelle oltre che del proprio viso, è
quello che Adriena Simotova presenta nei suoi quadri, composti da strati di tela cerata tagliata e incollata, oppure tela
di lino grezza cucita e spillata, che suggerisce una pelle strappata fuoruscente dai limiti della cornice, oppure anche un
oggetto di vita quotidiana. La figurazione di Ji≈ì Naceradsky assume i temi dell’angoscia contemporanea e mette in
scena uomini che corrono nel vuoto, oppure uomini-macchine.
Fuori del tempo, la pittura di Stanislav Podhrazsky propone incessantemente il medesimo volto di una donna dal corpo snello, posta in un universo la cui qualità onirica scaturisce dalla piú semplice realtà. Cosí concepita, l’immagine trova la sua fonte nel manierismo che Kulhanek introduce anch’egli nelle sue incisioni; la tecnica all’antica viene a mascherare soggetti, invece, di perfetta attualità. I medesimi
influssi, rafforzati dal clima surrealista, si ritrovano nel la-
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voro del gruppo Smidrove. L’accumularsi esuberante degli
oggetti in rilievo mescolati alla pittura o chiusi nelle scatole
di plexiglas compone, nell’opera di Dlouhy, un universo immaginario pittosto vicino a quello di Vozniak. Per meglio intrappolare l’insolito, Beran racchiude i suoi disegni e incisioni in bauli decorati all’interno e all’esterno con una pittura di carattere fortemente espressionista. Milan Grygar,
nella sua ricerca quanto mai sperimentale, si sforza di registrare graficamente i rumori; le sue «partiture musicali»,
concepite a partire dai «gesti dell’artista», serbano impronte di strumenti o di dita cui si aggiungono poi linee tracciate sulla tavola di sonoro legno compensato. A Brno un gruppo di artisti, tra i quali Ji≈í Valoch, si esprime mediante la
poesia visiva. L’espressione contemplativa di Ji≈í John rievoca nei quadri e nelle incisioni stratificazioni sotterranee,
sedi di germinazioni misteriose che una specie di strana luce dall’interno viene a rischiarare.
La pittura astratta interiorizzata di Václav Bo∫tìk fa vibrare nella trasparenza dei colori la superficie della tela. La corrente astratta geometrica o cinetica che s’ispira alle ricerche
costruttiviste appare nella pittura di Zdenek Sykora, che per
realizzarla fa appello alla ricerca programmata e al calcolatore. La generazione nata dopo la guerra è fortemente attratta dalle correnti scaturite dalle ricerche di Marcel Duchamp e dello happening quale è stato praticato negli anni
’60 in C da Knizak e Brixius. Si esprime volentieri attraverso la Body Art, il comportamento, la Land Art, l’arte concettuale.
In Slovacchia troviamo la corrente surrealista in Korol Baron, la poesia visiva e il collage in Albert Navencik. Il problema dell’ambiente è stato sviluppato da Alex Mlynarcik e
Stano Filko. Nel campo dell’incisione, la tendenza manierista resta assai forte nelle opere di Brunovsky, Gazovic e Vyletal. (jac).
Celentano, Bernardo
(Napoli 1835 - Roma 1863). Vivace e promettente rappresentante del genere storico, scomparso prematuramente, senza aver potuto assegnare alla sua opera un posto ben determinato nell’ambito della pittura italiana di quel magico «momento unitario». Studiò all’istituto di belle arti di Napoli
sotto la guida di G. Mancinelli che lo indirizzò verso i gran-
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di maestri del Cinquecento. Prima di stabilirsi definitivamente, nel 1857, a Roma, compí alcuni viaggi di formazione che lo portarono a Venezia, a Milano e a Firenze, città
dove frequentò con gli amici D. Morelli e F. S. Altamura
l’ambiente artistico-letterario del caffè Michelangiolo. Alcuni quadri importanti di questo periodo sono Benvenuto
Cellini a Castel Sant’Angelo, 1856-57 (Roma, gnam), e Autoritratto sotto l’Arco di Tito, 1857 (coll. priv.). Nel 1861, alla I Esposizione italiana, tenutasi a Firenze, espose il Consiglio dei Dieci (Roma, gnam), il suo dipinto piú noto, studiato meticolosamente in tutti i dettagli. Fu eseguito, secondo lo stesso artista, «all’aria aperta e nel sole» e rappresenta un interessante tentativo di unire la pittura dal vero
con il soggetto storico. (cfs).
Celesti, Andrea
(Venezia 1637 - Toscolano (Brescia) 1712 ca.). Allievo del
Ponzone e poi, con maggiori conseguenze, di Sebastiano
Mazzoni, elaborò, nella ripresa veronesiana dopo la fase patetica dei «tenebrosi», una pittura schiarita, tenera, di pennellate nervose che quasi dissolvono le forme nella luce, anticipando soluzioni settecentesche. Fu particolarmente attivo nella zona del Garda (duomo di Desenzano, 1695; Salò,
Toscolano), a Linz (convento di San Floriano, 1697-99) e
nel Trevigiano (duomo di Treviso, dal 1696). (fzb+sr).
åeliç, Stojan
(Bosanski Novi 1925). Dopo aver preso parte attiva alla
guerra di liberazione, ha studiato all’accademia di belle arti
di Belgrado. Nell’arte astratta jugoslava è tra gli artisti piú
importanti della generazione del dopoguerra. Ha esposto dal
1952 e ha partecipato a manifestazioni internazionali (Venezia 1964, Tokyo 1965, San Paolo 1968). È rappresentato a Belgrado (mam) e a New York (moma). (ka).
Celio, Gaspare
(Roma 1571 - 1640). Visse e lavorò a Roma, tranne un breve soggiorno a Parma, al servizio di Ranuccio Farnese. C manifesta apertamente i suoi gusti e le sue preferenze in fatto
d’arte nell’unica opera letteraria a noi pervenuta e intitolata Memoria delli nomi dell’artefici delle pitture, che sono in alcune chiese, facciate e palazzi di Roma. Redatta entro il 1620,
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ma pubblicata solo nel 1638 a Napoli dallo stampatore Scipione Bonino che ne affidò l’aggiornamento all’erudito medico romano S. Vannini, l’opera di C anticipa nel taglio la
prima vera guida di Roma compilata dal Titi nel 1674. Peraltro, il libretto si configura come un semplice repertorio
di dipinti e in parte sculture, valido e significativo per le opere e gli artisti di fede manierista a partire dalla generazione
del Salviati e di Daniele da Volterra; mentre tutto ciò che
esula da questo indirizzo artistico, sia nel passato sia nel presente, viene trattato in forma sommaria o totalmente taciuto. Le informazioni piú attendibili e circostanziate riguardano comunque le opere e gli artisti della sua generazione.
La Memoria di C, pregevole sotto un profilo storico-culturale, fornisce anche una preziosa documentazione sulla perduta decorazione al «graffito» delle facciate dei palazzi romani. (mo). Come per Scipione Pulzone, l’attività pittorica
di C si svolse per un certo tempo in stretto contatto con il
gesuita Giuseppe Valeriano, sotto la cui direzione decorò
(1596 ca.) la Cappella della Passione del Gesti di Roma. La
cappella, oltre a costituire uno degli esempi maggiormente
rappresentativi del rapporto tra pittura e controriforma, documenta al meglio anche il singolare aspetto «visionario»
che contraddistingue molta pittura di C, in particolare
nell’affresco della volticella, notevolissimo «sfondato» in cui
l’effetto illusionistico è conseguito, invece che con il ricorso ai correnti sistemi di quadrature, tramite lo scorcio delle
figure immerse in un’atmosfera di vibrante luminosità. Tra
gli altri pochi dipinti di C ancora esistenti si segnalano: la
Madonna col Bambino già in Santa Maria del Carmine e ora
in un oratorio adiacente, il Passaggio del Mar Rosso (1607) e
la Caduta dei Giganti in palazzo Mattei; fuori Roma, la Pietà
e Santi (1613: Norcia, San Giovanni). (lba).
Cellini, Giuseppe
(Roma 1855-1940). Tra il ’78 e l’80, dopo l’accademia di
belle arti, frequenta il Museo artistico industriale. Nino Costa lo aggiorna sui preraffaelliti e sulla Kelmscott Press che
ispirano la sua molteplice attività di decoratore. Collabora
infatti all’illustrazione di numerose riviste e di alcuni testi
dannunziani; tra i dipinti murali di maggior rilievo, quella
del palazzo e della galleria Sciarra a Roma. Dal 1886 al 1901
espone con il gruppo In Arte Libertas. (ddd).
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Cenni di Francesco di ser Cenni
(noto dal 1395 al 1415). Immatricolatosi nell’arte dei medici e speziali nel 1369, attivo a Firenze, in Valdelsa, a Volterra fino al primo decennio del Quattrocento, ha lasciato
una nutrita produzione sia su tavola che in affresco. Il suo
stile, prossimo inizialmente ai modi del Maestro della Misericordia e di Giovanni del Biondo, ma anche a Giovanni
da Milano, come testimoniano il trittico di San Cristoforo a
Perticaia del 1370 e la Madonna della Galleria di Lawrence
(Kansas), evolve in modo piacevolmente narrativo, in parallelo ad Agnolo Gaddi, sí da presentarsi come uno degli
esponenti piú significativi del tardogotico toscano, negli affreschi della cappella dell’ex monastero di Sant’Apollonia a
Firenze e soprattutto nel cielo con storie della croce in San
Francesco a Volterra, ormai del 1410. (en).
Cennini, Cennino di Drea
Pittore tardogotico toscano, allievo di Agnolo Gaddi nato a
Colle Val d’Elsa, nel 1398 è ricordato a Padova al servizio
di Francesco da Carrara. Non è stato possibile identificare
il suo stile pittorico, ma egli è celebre per il suo Libro dell’arte, la cui piú antica copia, probabilmente non autografa, fu
finita di scrivere nel 1437. Il Libro dell’arte è un prezioso
trattato di tecnica artistica che giunge in tempo a far tesoro
della tradizione gotica fiorentina da Giotto («il gran maestro») in poi. Il volumetto è fitto di precetti pratici per tutte le numerose operazioni che si svolgevano nel Trecento
nella bottega del pittore, dalla preparazione dei colori a quella dei pennelli a quella delle colle, al modo di preparare le
tavole, di dare l’oro, di far rilevare diademi ed ornamenti
con il gesso sulla tavola e con la calce sul muro, al modo, infine, di dipingere nelle varie tecniche allora in uso, a tempera, ad olio, a fresco, a secco. Secondo la tradizione toscana il C considera però la pittura ad affresco sul muro «’l piú
dolce e ’l piú vago lavorare che sia», e le sue spiegazioni in
merito hanno servito di guida sicura a tutti gli studiosi di
questa tecnica, fino ai moderni. L’opera del C è scritta in un
italiano didatticamente limpido ed ancor oggi facilmente
comprensibile, e riflette una tappa già evoluta nella formazione di quel linguaggio delle botteghe che sta a fondamento della moderna critica d’arte. Nel Libro dell’arte troviamo
Storia dell’arte Einaudi
infatti già usati molti termini divenuti poi indispensabili, da
«disegno» a «maniera» a «naturale» a «moderno», da «colorire» a «sfumare», ecc. (gp).
Centino → Nagli
Ceracchini, Gisberto
(Fioano della Chiana, 1889 - Petrignano del Lago, 1982).
Autodidatta giunge a Roma nel 1915; nel 1921 espone alla
I Biennale romana e di seguito a numerose importanti manifestazioni (biennali di Venezia, quadriennali di Roma, mostre del Novecento, ecc.). Soprattutto nel dopoguerra si dedica all’arte sacra ed esegue pale d’altare e affreschi per molte chiese. I soggetti delle raffigurazioni di C sono spesso scene di vita campestre (Riposo, 1930: Roma, gnam) dove le
immagini appaiono bloccate e i richiami primitiveggianti
s’intrecciano alla sintesi plastica per giungere ad una neoarcaica semplificazione della forma. (mdl).
ceramica, pittura su
Antichità La decorazione dipinta su vasi di uso comune di
terra rossa e di forma ovoidale, e sui «canopi», vasi funerari che compaiono fin dal Regno Antico (dal 4000 al 3000 a.
C.), è praticata in Egitto da epoca preistorica. La massa d’argilla bianca è ricoperta da uno smalto blu turchese sul quale sono dipinte in nero le decorazioni simboliche ed epigrafiche, in accordo con la loro funzione rituale. S’incontra la
decorazione dipinta fin dal iv millennio a. C. a Susa, a nord
del Golfo Persico, su bei vasi di terra fine e sottile, bicchieri, ciotole, crateri: essa è applicata a pennello, talora direttamente sull’argilla giallastra senza ingobbio, in nero-bruno
o nero-violetto. Stesa in fasce e scomparti, che si adattano
perfettamente alla forma, la decorazione è geometrica, e assoggetta a tale stile gli esseri animati e gli elementi naturalistici. I fregi che ornano le pareti in cotto dei palazzi achemenidi sono forse i primi tentativi di decorazioni smaltate
a base di stagno. La pittura compare nel vasellame egeo, successivamente a motivi incisi, a Santorino, e in seguito soprattutto nei vasi venuti alla luce dagli scavi nei palazzi di
Festo e Cnosso a Creta. La decorazione in nero su fondo
bianco, o viceversa, del vasellame primitivo si arricchisce negli stili detti «minoico medio» e «minoico recente»: risal-
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tando in bruno o in rosso su fondo nero o bianco, s’ispira alla flora e alla fauna marine, in uno stile naturalistico nel quale predominano le curve. Rappresenta uno degli adattamenti
piú perfetti di una decorazione dipinta alla forma del vaso
cui è destinata. Questo stile giunge, dal mondo egeo, a Micene nell’Argolide, a Cipro, a Rodi, fino alla fine dell’Età
del bronzo. Con l’Età del ferro e l’invasione dorica proveniente da nord, la Grecia conosce uno stile primitivo «geometrico», che s’impone dal x all’viii sec. a. C. L’Attica ne è
il centro principale, con i bei vasi funerari provenienti dal
cimitero di Dipylon ad Atene: la decorazione è tracciata a
vernice nera brillante direttamente sull’argilla rossa, con successione e ripetizione di piccoli motivi lineari che si dispongono in zone orizzontali dalla base alla bocca del vaso. Tali
motivi sono qualche volta interrotti da scene di funerali o di
navigazione, elaborate secondo uno stile geometrico che
rammenta quello dei vasi di Susa. Elemento di novità è il
predominio della figura umana in tali rappresentazioni. L’influsso orientale domina ancora il vasellame greco del vii-vi
sec., sulla costa ionica e nella Grecia stessa, a Corinto, Sparta e Atene. Sui vasi da vino di Rodi le figure, ambulanti, disposte in registri – mostri di origine orientale – sono profilate in vernice nera, risaltante in porpora su un ingobbio
bianco o giallo chiaro. Generalmente, solo il corpo è campito in nero. A Corinto si fabbricavano vasi da profumi per
l’esportazione, nei quali la decorazione ad elementi geometrici, fioroni, palmette o animali, era dipinta in nero con risalti di rosso porpora su fondo bianco, e i dettagli erano indicati mediante segni finemente incisi. Con la ceramica attica del vi-iv sec. a. C., fa il suo ingresso nella decorazione
dei vasi la vera pittura. I temi trattati sul quadro che orna
un tempio sono i medesimi di quelli del vaso dal quale si verserà il vino; il modo è però diverso, poiché la dimensione dei
vasi obbliga a tagliare le composizioni, a prendersi certe libertà col tema tradizionale, eliminando o aggiungendo a seconda delle necessità. Gli abbondanti giacimenti di argilla
presso Atene – una terra leggermente ferruginosa che alla
cottura diventa rossa – vi favoriscono lo sviluppo della ceramica. I vasai usano per la decorazione questa caratteristica della terra e il suo colore: dipingono in nero sul fondo oppure, all’opposto, distaccano in rosso su fondo nero. Nei vasi a figure nere (650-480 ca.) i contorni del disegno sono trac-
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ciati sulla terra cruda, poi colmati mediante una vernice nera lucidata della quale è andato perduto il segreto di fabbricazione. I dettagli – tratti del viso, muscoli, ornamenti delle vesti – sono incisi a punta per ritrovare il fondo rosso, e
sono messi talvolta in risalto da tocchi porpora o bianchi:
per esempio, i corpi di donna. La decorazione, priva di modellato e di prospettiva, presenta grande sicurezza: progressivamente abbandona la disposizione a registri per quella «a
metope». I temi sono d’ispirazione mitologica. Sono noti
dalla firma i nomi di alcuni pittori: Clizia (autore del vaso
François), Amasi, Exechia e soprattutto Nicostene, che potrebbe essere l’inventore, alla fine del vi sec., della decorazione a figure rosse che progressivamente soppianta quella
a figure nere. I vasi a figure nere corrispondono all’apogeo
del tecnicismo nei laboratori attici. Il modo di eseguire la
decorazione non muta, ma il disegno è leggermente inciso
per tenere il colore fuori dalle figure delineate sulla terra rossa. I fondi sono colmati con vernice nera, i dettagli tracciati con un’unica setola di porco in nero spesso, il che determina un leggero rilievo. L’evoluzione della decorazione nella ceramica segue quella della pittura. Lo stile si addolcisce,
l’uomo è l’unico soggetto che s’inscrive sul corpo dei vasi,
nella molteplicità delle sue occupazioni quotidiane ed epiche. E un’arte sapiente nella quale eccellono Eufronio, Gerone, Duride, Brigo. Verso il 460 la decorazione ceramica si
arricchisce per l’influsso del pittore Polignoto e di Fidia. È
il «bello stile», che impiega la policromia in scene sempre
piú magistrali, prima di cadere nella leziosaggine dello «stile fiorito» (425-400 ca.). I vasai attici hanno pure conosciuto la pratica dell’ingobbio bianco a base di latte di calce, sul
quale la decorazione policroma viene eseguita alla maniera
dell’affresco, contando sulla qualità assorbente del supporto. È questa la tecnica di numerosi leciti funerari del v sec.
L’America precolombiana I vasi precolombiani dei Mochica, sulla costa settentrionale del Perú (ca. 100 a. C. - 700 d.
C.), sono ceramiche rituali deposte accanto ai morti nelle
tombe peruviane; utilizzano la tecnica degli ingobbi – dal
color camoscio al rosso profondo – su argilla rossa; e i dettagli vi s’inscrivono a pittura nera, probabilmente applicata
dopo la cottura. I Mochica hanno ignorato gli smalti e le vetrificazioni: l’aspetto brillante si ottiene unicamente mediante lucidatura delle argille setacciate e tritate. La deco-
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razione dipinta, d’ispirazione essenzialmente religiosa, è talvolta associata al modellato. Parimenti religiosi i motivi del
vasellame nazca, sulla costa meridionale (400-700); essi impiegano una vasta gamma di colori a base d’ingobbi e di pigmenti: numerosi toni di rosso, giallo, bruno, nero, bianco,
grigio, verde, violetto.
L’Islam I paesi raggiunti dalla religione musulmana hanno
prodotto una ceramica di grande qualità tecnica e decorativa, nella quale l’ornato ha un ruolo privilegiato. Lo si trova
sul fondo di piatti e coppe, sui fianchi di bottiglie e acquamanili, ma anche, e forse ancor piú, sulle piastrelle di rivestimento delle pareti esterne ed interne degli edifici religiosi e civili. Se la decorazione attinge al magazzino dei temi
locali dei paesi ove l’Islam si è radicato, e sa conservarne la
diversità, impone però nell’insieme dei paesi islamici alcuni
tratti caratteristici: l’adattamento perfetto dei motivi alla
forma che devono coprire, impiegando persino deformazioni per meglio utilizzare lo spazio; il senso della simmetria
(che non è però, almeno agli inizi, rigidezza), nonché dell’iterazione e del ritmo. Infine, e soprattutto, si destina ampio
spazio alle iscrizioni coraniche e all’espressione del testo in
scrittura cufica quadrata o in scrittura corsiva. Si aggiungano ancora una qualità estetica e un valore decorativo reale.
Le tecniche della decorazione dipinta della ceramica islamica sono assai varie. Nell’epoca abbaside (a partire dal 750),
da SÇmarrÇ e da ar-Raqqa in Mesopotamia, da Susa e da
ar-Rayy in Persia, da Fus<Ç< in Egitto provengono pezzi a
ornamentazione stampata su ingobbio e sotto copertura bruna, verde o gialla, animata da zone di ossidi metallici, con
decorazione dipinta – in blu soprattutto, e in verde – su
smalto; e decorazione lucida a riflessi metallici, che va dal
giallo dorato al rosso scuro. Il lucido metallico è ottenuto
mediante applicazione di sali ossidanti durante la cottura
– ossidi d’argento e di rame – e il suo uso si è diffuso nel
complesso del mondo musulmano, fino alla Spagna. Trionfa in Mesopotamia e soprattutto in Persia, ad ar-Rayy, a
Sul<ÇnÇbÇd e a KÇshÇn – centro di fabbricazione delle piastrelle di rivestimento – dal xii al xiv sec. Nel ix sec., in un
territorio indipendente del califfato di BaghdÇd, con capitale Samarcanda, si trova una ceramica di grande qualità la
cui fine terra rossa o rosa è coperta da una decorazione a base di pigmenti mescolati a ingobbi su fondo d’ingobbio bian-
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co, in casi eccezionali rosso pomodoro o porpora, sotto una
vetrificazione piombifera. Il xii sec. segna una svolta nella
storia della ceramica islamica, con il dominio dei Turchi Selgiuchidi in Persia e l’importazione di porcellane cinesi
dell’epoca Song (960-1279), su una terra bianca che cerca
d’imitare il caolino e che si accosta alla «pasta tenera», con
la tecnica dei cloisonné, detta «lakabi», a colori intensi – blu,
giallo, porpora, verde – perfettamente separati gli uni dagli
altri mediante tratti incisi. Il centro di fabbricazione sarebbe stato KÇshÇn. Da ar-Rayy sarebbero provenuti i pezzi a
decorazione nera o salvati sotto una vetrificazione alcalina
turchese. La doppia cottura impiegata dai vasai musulmani
dopo il ix sec. per il lucido metallico consente loro di estendere la tavolozza nella serie detta «minai», i cui temi e il cui
trattamento si ispirano alle miniature. I vasi, le ciotole e le
mattonelle di rivestimento dipinti in rosso, bianco, nero e
oro su uno strato vetrato turchese o blu recano il nome di
«lajvardina». Le tecniche decorative si evolvono rapidamente in Persia alla fine del xii sec. Al lucido metallico e al
«minai» si aggiunge una versione nuova di decorazione sotto strato vetrato alcalino: è nera sotto strato vetrato turchese, ma anche policroma – nera, blu, bruno-rossa o nera
e blu – sotto strato vetrato incolore. Dalla regione di Sultanabad provengono pezzi la cui decorazione ad animali o uccelli in mezzo a fogliame o arabeschi è dipinta in verde, blu
e manganese, sotto uno strato vetrificato incolore. Nel xv
sec. gli scambi tra Persia e Cina favoriscono l’affermarsi della decorazione «blu e bianco» della porcellana cinese, che i
vasai musulmani cercano di imitare senza comprenderne
sempre bene il senso. Le prime imitazioni vengono dalla Siria, poi dall’Egitto, infine dalla Persia, e gli artigiani s’impegnano tanto nel riprodurre la decorazione quanto nell’accostarsi alla durezza della porcellana, di cui non hanno il caolino. Si hanno alcuni bei successi entro una produzione che
si fa sempre piú mediocre, come quella del Nord-Ovest
dell’Iran, detta di Kuba∫a, che, nel xvii sec., adotta una gamma a base di ossidi metallici – blu, verdi, neri – cui si aggiungono un rosso e un giallo d’ingobbio sotto strato vetrato silico-alcalino. La ceramica di rivestimento a decorazione dipinta occupa un posto importante negli edifici persiani delle epoche timuride e safavide. Lo stesso accade in Turchia, ove le moschee e i palazzi sono coperti di piastrelle a
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decorazione
policroma sotto strato vetrato fabbricate in gran
°
parte a Iznik fin dalla fine del xv sec. La tavolozza è notevole per il famoso «rosso pomodoro» d’ingobbio, che fa difetto ai pezzi precedenti, provenienti senza dubbio da Damasco. Nel xv sec. provengono da Kütahya ceramiche che
uniscono la qualità della decorazione dipinta in blu e bianco alla perfezione tecnica. In occasione dell’invasione musulmana della Spagna, l’arte della ceramica s’impianta, con
le tecniche e i temi dell’Islam, a Málaga, a Valencia, poi a
Paterna e a Manisés nel xv-xiv sec. Questa ceramica, incerta tra le decorazioni islamiche e quelle locali, si specializzò
soprattutto nell’imitazione del lucido metallico unito a motivi blu o manganese.
Italia L’apporto musulmano è parimenti all’origine della storia della ceramica italiana nella produzione dei laboratori installati a Orvieto, a Firenze, a Faenza, a Siena sin dal medioevo: la decorazione dipinta in verde e manganese richiama la fabbricazione di Paterna. Al xv sec. data anche una
decorazione in «graffito» i cui motivi, nettamente separati
gli uni rispetto agli altri da linee in cavo, incise nella terra,
sono ricettacolo di ossidi metallici bruni, verdi, gialli, ricoperti poi da uno strato vetrificato piombifero. Questa tecnica sussiste nell’Italia settentrionale fino al xvii sec. Ma il
campo nel quale eccelle la maiolica italiana è quello della
faenza a decorazione dipinta su smalto stannifero. La decorazione viene eseguita «a fuoco alto», vale a dire sullo smalto non cotto, pulverolento: immediatamente assorbito, il colore non si può piú ritoccare. Gli ossidi metallici che, applicati con l’aiuto di lunghi pennelli, sopportano l’alta temperatura necessaria per l’indurimento dello smalto, sono in numero limitato: manganese (violetto, bruno, nero), rame (verde), antimonio (giallo), cobalto (blu). Da questa gamma è assente il rosso. Uno strato vetroso, la «coperta», rifinisce il
pezzo. Il grande periodo della faenza italiana copre il xv e il
xvi sec. Gli operatori si ispirano alle incisioni della fine del
Quattrocento e della scuola di Raffaello, nonché alla grande pittura di Firenze, Faenza, Urbino. A Deruta e a Gubbio la decorazione è messa in risalto da un lucido a riflessi
metallici oro e «rosso tubino». A Castel Durante la decorazione «bianco sopra bianco», segnalata da Piccolpasso, è costituita da fini arabeschi e pasta bianca su fondo bianco. Se
alcune composizioni rispettano la forma del supporto e la
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giustificano, quelle che copiano la grande pittura non se ne
curano, negando in qualche modo la presenza della faenza.
Francia Influenzata dall’Islam e dalla Spagna, l’Italia a sua
volta trapianta nel xvi sec. in Francia la tecnica della faenza. Qui si praticava fin da epoca carolingia la fattura di vasi in terra verniciata (mattonelle da pavimento, oggetti
d’uso) e la ceramica a decorazione incrostata sotto vernice
piombifera; e Bernard Palissy cuoceva nel suo forno installato alle Tuileries le celebri rustiques figulines in altorilievo,
ricoperte da smalti marezzati. Quando gli operatori italiani
della faenza si stabiliscono a Lione, la tecnica del «fuoco alto» si diffonde nel xvi sec. a Nîmes, a Rouen, dove Masséot
Abaquesne esegue le pavimentazioni a grottesche di Ecouen
(1542) e di La Bâtie d’Urfé (1557), e a Nevers, ove i Conrade introducono le decorazioni di Urbino e di Faenza. Nel
xvii sec., Nevers si affranca da quest’influsso e inventa la
«decorazione persiana» su fondo blu o giallo. È difficile riassumere brevemente l’evoluzione delle decorazioni nei diversi
centri dediti alla faenza nel xvii e nel xviii sec. In linea generale si constata che ciascuno di essi conosce un periodo
«blu e bianco» all’inizio del xviii sec.: decorazione raggiante a Rouen, imitata in seguito a Saint-Cloud, decorazione
«Bérain» a Moustiers, decorazione «a panneggi» a Strasburgo. La policromia vi si aggiunge progressivamente, mentre interviene un apporto le cui conseguenze tecniche rivoluzionano la decorazione: si tratta della voga, già da tempo
iniziata, delle porcellane cinesi, di cui, in mancanza di meglio, si imita l’ornato. Questo influsso tocca la Francia direttamente, attraverso le porcellane cinesi importate dalle
compagnie delle Indie, e indirettamente, attraverso le faenze di Delft. Paul Hannong per primo, nel 1760 a Strasburgo, adatta alla faenza un procedimento utilizzato dai porcellanisti tedeschi, consentendo di accrescere la gamma dei
colori e soprattutto è d’introdurre il rosso. Segue la decorazione applicata sullo smalto, grazie a un fondente incolore
mescolato ai colori e fissato sullo smalto a bassa temperatura in un forno fornito di riverberi, o «muffole». È il «fuoco di muffola» o «fuoco basso», che incontra un fulmineo
successo presso tutti i produttori francesi di faenze, in quanto consente di realizzare vera e propria pittura in ceramica:
mazzi di fiori, paesaggi che fanno la celebrità della vedova
Perrin a Marsiglia, di Joseph Hannong a Strasburgo e della
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manifattura di Sceaux. Se la faenza ha conosciuto grande
successo grazie alla fusione di piatti in oro e in argento alla
fine del xvii sec. e alla scoperta del «fuoco basso» alla metà
del xviii, essa viene presto soppiantata dalla materia che in
tutta Europa tutti cercano in segreto di imitare dai Cinesi,
la porcellana. Inventata senza dubbio in Cina, la porcellana
si contraddistingue per la sua pasta a base di caolino, argilla bianca assai plastica, e di petunzé, varietà di feldspato che
le conferisce la trasparenza. Vetrificata dal fuoco, sonora,
dura, non intaccabile dall’acciaio, offre una superficie liscia
ideale per l’esecuzione di pitture. Durante la sua storia la
Cina ha scoperto e utilizzato le tecniche piú disparate. La
decorazione dipinta rimonta all’epoca neolitica, su terracotta. Nell’epoca Han (i-ii sec. d. C.) la si incontra su vasi in terracotta e grès, altra varietà di ceramica la cui pasta, fatta d’argilla e sabbia, viene cotta ad alta temperatura (1280 °C), il
che le fa subire un inizio di vetrificazione. Fino all’epoca
Song (960-1279), la Cina si specializza in pezzi coperti da
sontuose vetrificazioni colorate e da decorazioni incise sotto lo strato vetroso trasparente. Tra esse, i «verdi pallidi»
(xi sec.) e i pezzi «screpolati», che tanto impressionarono il
Medio Oriente e l’Europa. La voga della decorazione dipinta
corrisponde all’età d’oro della porcellana in epoca Ming
(1368-1644). Il primo colore sotto la «coperta» è il blu del
«blu e bianco» del xv e xvi sec. Esso è seguito dai «tre colori», poi dai «cinque colori», applicati a fuoco basso. L’impiego del rosso di ferro fa nascere la «famiglia rossa», verso
la fine dell’epoca Ming. A partire dall’epoca K’angh-hi
(1662-1722), la porcellana cinese utilizza tutte le possibilità
della decorazione dipinta, a fuoco alto e a fuoco basso, dai
«blu e bianco» ai colori teneri della «famiglia rosa», fatta risaltare in oro come i verdi dominanti della «famiglia verde».
Scoprire il segreto della porcellana cinese è la grande impresa
di Frédéric Böttger, chimico e alchimista al servizio
dell’Elettore di Sassonia: egli vi riesce nel 1710 ed impianta la prima fabbrica di porcellana dura d’Europa, a Meissen.
Dopo le copie delle decorazioni giapponesi e cinesi, egli lancia lo stile Meissen, a sua volta imitato: uccelli, animali, rami fioriti, poi veri e propri quadri su porcellana, in cornici
a sbalzo in oro, e infine i fondi colorati di cui Vincennes-Sèvres farà la sua specialità. Se l’influsso dello stile Meissen è
grande in Germania, non lo è di meno in tutte le manifat-
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ture europee: nelle fabbriche di faenza che disperano di raggiunger mai la raffinatezza della decorazione su porcellana,
nelle fabbriche di porcellana tenera, questo «surrogato» che
Saint-Cloud, Chantilly e Menneey in Francia riescono a mettere a punto malgrado le difficoltà tecniche e che la manifattura reale di Vincennes, trasferita a Sèvres nel 1756, parimenti adotta prima di divenire il primo centro della fabbricazione della porcellana dura, dopo la scoperta dei giacimenti di caolino a Saint-Yrieix presso Limoges nel 1769. Secondo l’origine delle terre che servono di base alla «pasta tenera», il cui colore dopo la cottura non è mai un bianco assolutamente puro, la si può tranquillamente colorare: è il caso della terra di Chantilly, talvolta ricoperta di uno smalto
stannifero opaco. Di solito il biscuit di porcellana tenera viene ricoperto da una vernice al piombo che gli conferisce un
aspetto cremoso a differenza della porcellana dura, dal caratteristico biancore traslucido. Pittura vera e propria e arte decorativa sono strettamente legate nel xviii sec. È naturale che la decorazione su ceramica si adegui. Tale tendenza si accentua nell’Ottocento sotto l’impero napoleonico, quando i colori pesanti e l’oro coprono completamente
la materia al punto da renderla difficilmente riconoscibile,
e fino al regno di Napoleone III, quando si copiano su porcellana i quadri del Louvre. Alla fine del secolo, sotto l’influsso di Théodore Deck, si sperimentano tecniche decorative nuove, come le «coperte» cristalline scelte da Hector
Guimard per i pochi vasi da lui disegnati nel 1900 ca. per la
manifattura di Sèvres. Preparando l’esposizione del 1925, il
direttore, Lechevallier-Chevignard, crea un laboratorio di
faenza ove operano artisti come Rapin, Ruhlmann, Lalique,
Dufy, i fratelli Martel. Recentemente, Sèvres ha fatto appello a pittori contemporanei – Georges Mathieu, Mario
Prassinos – per rinnovare la decorazione su porcellana. Ma
il rinnovamento della ceramica e della sua decorazione non
riguarda gli ambienti ufficiali. È il risultato di ricerche e di
lavori di artisti isolati che, a partire dalla metà dell’Ottocento, al margine della produzione industriale (che si esaurisce nel tecnicismo e nei pastiches), si rifanno alla tradizione artigianale della grande ceramica dell’Estremo Oriente e
del mondo musulmano: sono, in Francia, Chaplet, Delaherche, Carriès, Emile Lenoble, Emile Decœur, René Buthaud,
Jean Mayodon. Si tratta di una ceramica – principalmente
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in grès – che deve la sua decorazione alla qualità perfetta degli smalti, a tinta unita, fiammeggianti, incisi, piú raramente con motivi dipinti. Il rinnovamento della decorazione dipinta compare presso Haviland, porcellanista di Auteuil, che
per il negozio Bing fornisce servizi dipinti da Edward Colonna e Georges de Feure; presso Haviland a Limoges, che
si rivolge nel 1925 a Suzanne Lalique e a Jean Dufy; presso
Jean Luce, che esegue le proprie decorazioni, molto ispirate
al cubismo; infine, presso il fabbricante di faenze André
Methey, che inaugura la serie di ceramiche di pittori chiedendo fin dal 1908 a Maurice Denis, Matisse, Bonnard,
Roussel, Vuillard, Rouault, Vlaminck, Derain decorazioni
per scodelle e vasi di faenza. (yb).
Cerano
(Giovambattista Crespi, detto) (Cerano? (Novara) 1575 ca.
- Milano 1632). Le opere iniziali (Ultima Cena: Cerano, parrocchiale; Madonna del Gonfalone: Trecate, Oratorio) testimoniano una cultura provinciale lombardo-piemontese fra
Gaudenzio Ferrari Lanino e Moncalvo, e la scuola bresciana e bergamasca. Un presumibile viaggio a Roma con Federico Borromeo nel 1596 rivela al C l’estrema cultura manieristica, tosco-romana e nordica (dallo Spranger al Bloemart,
del resto passati per Milano), e soprattutto baroccesca (Barocci stesso e i senesi operosi a Roma), che dà frutto
nell’Adorazione dei Magi (Torino, Gall. Sabauda; da Mortara), nel San Michele (Milano, Castello), nello Sposalizio di santa Caterina (1600 ca.: Firenze, coll. priv.). Nel primo decennio del Seicento, il C domina a Milano sotto la protezione del cardinale Federico Borromeo, di cui interpreta i
dettami controriformistici, spettacolari e propagandistici,
nelle colossali tele della Vita (1602-1603) e dei Miracoli di
san Carlo (1610) nel duomo di Milano: macchine di scatenata fantasia cromatica e compositiva su un tragico fondo di
cronaca realistica. Le coeve pale d’altare, ancor piene di echi
manieristici, culminano nel 1610 nella Pietà (Novara) e nella Crocifissione (Mortara, San Lorenzo), ricca quest’ultima
di precocissimi echi rubensiani, forse frutto di un secondo
viaggio romano. Nel 1610 il C presiede agli apparati decorativi (gonfaloni; parati da messa) per la canonizzazione di
san Carlo Borromeo, di cui dipinge qualche anno dopo la
stupenda immagine iconica in San Gottardo a Milano (San
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Carlo in gloria, 1615 ca.). Le pale della Madonna e Santi del
secondo decennio (Milano, Brera; Pavia, Certosa; Torino,
Gall. Sabauda; Pavia, Duomo) segnano un accostamento alla severità barocca di Ludovico Carracci e dei suoi seguaci
bolognesi, mentre a cavallo fra secondo e terzo decennio la
Messa di san Gregorio (Varese, San Vittore), il Battesimo di
sant’Agostino (firmato e datato 1618: Milano, San Marco),
la Disubbidienza di Gionata (Milano, San Raffaele), la Madonna e Santi (1625-26: Meda, San Vittore) costituiscono
una svolta neoveneziana, soprattutto tintorettesca, basata
sul contrasto fra una ricca cromia e ombre fonde e drammatiche. Gli ultimi capolavori (Pala di san Pietro dei Pellegrini di Vienna; Pietà: Milano, Monte di Pietà; Crocifissione, 1628, per San Protaso; ora nel seminario di Venegono)
tornano a cupe e severe forme controriformistiche, di gusto
bolognese ludovichiano e spagnolo. (mr).
Cercle et carré
Il nome di questo movimento artistico parigino fu originato dall’incontro tra il critico Michel Seuphor e il pittore uruguayano Torrès-Garcia nel gennaio 1929. Loro scopo era
raggruppare, a livello internazionale, pittori, scultori, architetti di spirito costruttivista, per contrapporsi al surrealismo. Le riunioni dei simpatizzanti avevano luogo al caffè
Voltaire di Parigi, in place de l’Odéon; poi alla birreria Lipp.
Il numero dei membri crebbe, e presto si poté pubblicare
una rivista e organizzare una mostra internazionale. Della
rivista «Cercle et carré» uscirono tre numeri, che contengono soprattutto articoli teorici, come In difesa dell’architettura di Michel Seuphor, o estratti di saggi di Mondrian.
Accanto a questi testi figuravano riproduzioni di opere tipicamente costruttiviste. La mostra organizzata da Seuphor,
che tenne un recital di «musica verbale» (poesia fonetica)
con accompagnamento di musica di rumori di Russolo, vecchio futurista, raggruppava la maggior parte dei simpatizzanti, come Mondrian, Kandinsky, Léger, Baumeister, Arp,
Werkman, Vantongerloo, Le Corbusier, Pevsner, √ar∫un,
Gorin, Torrès-Garcia, Prampolini, Vordemberge-Gildewart,
Marcelle Cahn, Kurt Schwitters, Ozenfant, Sophie Taeuber. Guidato da principi idealistici, il movimento non doveva peraltro durare oltre gli inizi di una grave malattia che
colpí Michel Seuphor, suo animatore; ma un anno dopo, ri-
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prendendo le idee da questi approfondite, Torrès-Garcia raccolse le forze vive di C et c in un nuovo movimento, Abstraction-Création. (jjl).
Ceresa, Carlo
(San Giovanni Bianco 1609 - Bergamo 1679). La sua prima
attività ne documenta la formazione autodidatta, avvenuta
su incisioni tardomanieristiche da Golzius a Sadeler e Thomassin, e sui veneti dei secondo Cinquecento (Pietà: Dalmine, coll. priv.; I SS. Sebastiano, Rocco e Bartolomeo, 1630:
Pianca, Sant’Antonio). Si afferma presto anche come efficace ritrattista (Giovanni Antonio Bonometti, 1633; e Ritratto di frate, 1633-35: Bergamo, Carrara; Ragazzo col cappello in mano, 1633: Milano, Castello), dimostrandosi partecipe a pieno titolo di quella «pittura della realtà» che caratterizza la cultura lombarda del secolo. La successiva produzione di pale d’altare ne documenta l’arricchimento di
esperienze: dall’attento studio dell’opera di Tanzio, di Daniele Crespi e del Morazzone, ai contemporanei toscani e
bolognesi (Crocifissione, 1641: San Michele a Malpello; Battesimo di Cristo, 1641: Terno d’Isola, casa parrocchiale; Sacra Famiglia e Santi, 1643: San Giovanni Bianco presso Bergamo). L’accento di verità naturale che informa i dipinti della maturità di C raggiunge apici d’intensità ed efficacia nel
bellissimo Sant’Antonio di Padova (1655) della chiesa di San
Pancrazio a Gorlago, nella Sacra Famiglia con san Lorenzo e
il committente (1656 ca.: già coll. Contini Bonacossi) e in una
ricca serie di ritratti, quasi tutti in coll. priv. Ugualmente in
coll. priv. sono le due Nature morte esposte a Bergamo nella prima mostra monografica dedicata al pittore (1983). (sr).
Céret
Cittadina sul Tech, presso Perpignan, fu per qualche anno
luogo di vacanze di numerosi artisti e scrittori, in particolare di cubisti di Montmartre, attirativi dallo scultore Manolo. Picasso vi soggiornò durante l’estate del 1911 con la sua
prima compagna, Fernande Olivier; vennero poi a raggiungerli Braque e Max Jacob. Picasso, che al contrario degli altri amava molto il paesaggio di C che gli rammentava la Spagna, tornò a passarvi un mese l’anno seguente con Eva (Marcelle Humbert) e Braque, prima di recarsi a Sorgues; e due
mesi nel 1913, durante i quali vi ritrovò Max Jacob e Juan
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Gris. I tre pittori lavorarono molto a C, e Gris vi tenne lunghe discussioni sul cubismo con Manolo, cui Picasso assisteva senza troppo partecipare. Tra gli altri personaggi che
vi soggiornarono varino citati, oltre Gris che vi tornò nel
1921 e nel 1922, i pittori Kisling (1912), Auguste Herbin
(1913, 1918 e 1919), André Masson (1918) e, dopo la guerra, Soutine (1919), Chagall (1925), Dufy (1940), Marquet
(1940), lo scultore Gargallo (1929), il ceramista Artigas (dal
1939 al 1941), il musicista Déodat de Séverac e il collezionista Franck Haviland, che vi possedevano case. La città ha
oggi un piccolo museo d’arte moderna, inaugurato nel 1950,
che conserva un complesso di disegni, acquerelli, sculture,
ceramiche degli ospiti di C, e in particolare di Picasso. (gh).
Cerezo, Mateo
(Burgos 1626 - Madrid 1666). Allievo di Carreño de Miranda, fu uno dei maestri piú dotati e piú abili della scuola
madrilena. Morbida e raffinata, la sua tecnica riesce a fondere la lezione veneziana (Tiziano), che si coglie nel colore
ricco e sensuale, e l’influsso fiammingo ereditato da Van
Dyck. La sua opera nota, poco abbondante (San Giovanni
Battista: Kassel, sks; Matrimonio mistico di santa Caterina,
1660: Madrid, Prado; Maddalena: Amsterdam, Rijksmuseum), è spesso di eccezionale qualità. (aeps).
Ωermák, Jaroslav
(Praga 1830 - Parigi 1878). Dopo due anni di studio all’accademia di pittura di Praga, completò la sua formazione presso l’accademia di Anversa e nello studio Gallait a Bruxelles.
Stabilitosi a Parigi nel 1852, soggiornò per lunghi periodi
nel Montenegro, ritraendo la vita degli abitanti e le lotte
contro i Turchi in tele che gli diedero la fama (Nozze in Dalmazia, Prigionieri montenegrini (1870), Montenegrino ferito
(1874): tutti a Praga). Questi dipinti, dai colori vivi, sono
ancora concepiti in uno spirito d’idealizzazione romantica;
ma quelli eseguiti dall’artista negli anni ’70 del secolo a Roscoff in Bretagna s’impegnano di piú nell’individuare la
realtà e nel rendere il carattere delle cose (Costa a Roscoff
(1870), Natura morta con pesci (1870): entrambi a Praga). C
è stato pure buon ritrattista (J.-E. Purkyne, 1856: Praga; Madre slovacca col suo bambino, 1859: Amsterdam, Museo Fodor). (ok).
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Cerquozzi, Michelangelo
(Roma 1602-60). Frequentò dapprima l’atelier del Cavalier
d’Arpino e in seguito quello di Vincent Leckerbetien e del
battaglista Jacob de Haase, entrambi fiamminghi; e la battaglia fu il genere in cui C eccelse, tanto da derivarne il soprannome di «Michelangelo delle battaglie». Ma fu soprattutto la bambocciata, ossia la pittura di genere di tema popolare, che egli praticò dai primi anni ’30 in seguito all’incontro determinante con Jan Miel e Pieter van Laer (il
«Bamboccio»). Nelle sue descrizioni della vita quotidiana
del ceto minuto egli evitò sempre quel tanto di pittoresco
che caratterizza i dipinti analoghi anche dei piú alti tra i nordici, come Van Lear e Lingelbach. Sono poche le sue opere
documentate (Il saccheggio di un villaggio, 1630 ca.: Napoli,
Museo della Certosa di San Martino; un Doppio ritratto, firmato: Roma, coll. priv.; e la Rivolta di Masaniello, doc.
1647-48: Roma, Gall. Spada). Tuttavia il suo catalogo è assai ampio e comprende, oltre ad importanti nature morte,
alcuni capolavori della bambocciata, quali La morte del somaro (ivi) e L’abbeveratorio (Roma, gnaa). Per il cardinale
Flavio Chigi eseguí, in collaborazione con il paesista Angeluccio, una Scena campestre e Il viale (ivi), e per il marchese
Filippo Corsini, ancora in collaborazione con Angeluccio, la
Festa campestre, i Gitanti presso un fiume, la Caccia e la Pesca
(Roma, Gall. Corsini). In altri due dipinti per Flavio Chigi,
il Bagno e l’Arrivo in Villa e in quello straordinario unicum
costituito dalla citata Rivolta di Masaniello, le parti architettoniche sono dovute a Viviano Codazzi. In quest’ultimo
dipinto, il solo attualmente noto in cui C rappresenti un fatto storico, sono felicemente fusi il suo talento di battaglista
– nella raffigurazione del tumulto – e la sua vena di descrittore delle attività quotidiane e dei tipi popolari. (sr).
Cerrini, Giandomenico
(Perugia 1609 - Roma 1681). Documentato a Roma dal 1639
(Estasi di santa Maria Maddalena de’ Pazzi in Santa Maria Traspontina), fu, nell’epoca dell’egemonia barocca, una singolare figura di artista indipendente, affine, nell’interpretazione classicheggiante e controllata del cortonismo, a G. F.
Romanelli, come documentano efficacemente le due pale
eseguite rispettivamente nel 1642 e nel 1643 per San Carlo
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alle Quattro fontane (Sant’Orsola e La Sacra Famiglia con le
SS. Agnese e Caterina, ora nel convento dei Trinitari). I dipinti posteriori alla metà del secolo – le due versioni di San
Sebastiano curato da Irene (Roma, Gall. Colonna; Ginevra,
am), quelli eseguiti per i Medici (1657-61), il Mosè e Aronne (1660 ca.: Arezzo, Accademia Petrarca) – si caratterizzano per un’intonazione sacchiana che s’innesta su un impianto classicista di matrice fondamentalmente reniana. Nelle opere tarde (Venere e Anchise: Berlino, Bode Museum;
Cristo e la Samaritana: Roma, gnaa; Il tempo aggredisce la bellezza: Madrid, Prado) il pittore ricorre a una sigla talvolta
ripetitiva, riscattata tuttavia da un’impeccabile stesura e da
una limpida cromia. Entro il 1663 eseguí la sua opera di maggiore impegno, la decorazione della cupola di Santa Maria
della Vittoria a Roma. (lba).
Ceruti, Giacomo, detto il Pitocchetto
(Milano 1698-1767). Dimorò a Brescia circa quindici anni;
da lí, nel 1734, si trasferí a Venezia. Si formò sulla cultura
cinquecentesca (Moroni, Cavagna) e guardò anche alla tematica popolare della pittura tedesca di genere (Keil, Cipper), e forse anche agli spagnoli Velázquez e Murillo; inoltre, tramite il vecchio pittore bresciano Antonio Cifrondi,
si può ipotizzare una sua conoscenza della tradizione francese dei fratelli Le Nain. È riconosciuto oggi come uno dei
piú grandi pittori del Settecento italiano. La maggior parte
e la piú nota della sua produzione consiste in ritratti di uno
scarno realismo e di grande intensità psicologica (Corneto,
coll. Fenaroli; Roma, gnaa; Bergamo, Carrara; Milano, mpp;
Seattle, am; ecc.) e in dipinti di genere in cui sono rappresentate, per lo piú a grandezza naturale (è questa una differenza sostanziale rispetto ai bamboccianti del Seicento), scene di vita popolare (Brescia, Pinacoteca Tosio-Martinengo;
Padernello, coll. Salvadego-Molin; ecc.) o anche mendicanti («pitocchi», donde il soprannome del pittore) isolati (Bergamo, coll. R. Bassi Rathgeb; Brescia, coll. Nobili Seccamani; Padernello, coll. Salvadego-Molin; ecc.) o a gruppi di
due o piú (Brescia, Pinacoteca Tosio-Martinengo; Padernello, coll. Salvadego-Mohn; ecc.); inoltre tali dipinti, destinati alle sale di palazzi patrizi, erano spesso riuniti in serie, di cui è conservata integra quella, splendida, dei conti
Salvadego-Molin a Padernello (Brescia). A differenza di
Storia dell’arte Einaudi
quanto avviene di sovente nella «pittura di genere», esula
dall’arte del C ogni gusto divertito per l’episodico e il pittoresco, ogni atteggiamento di superiorità di classe rispetto
alla realtà popolare rappresentata; la sua osservazione della
vita dei poveri è sempre di una assoluta serietà e l’esecuzione pittorica di un realismo scabro ed attento ma non volgare, né pedante. Nell’epoca del rococò tale atteggiamento non
poteva non mettere il C in contrasto con il gusto dominante e questo serve forse a spiegare la scarsezza delle notizie
tramandateci sul suo conto (la riscoperta delle sue opere è
un fatto tutto moderno, e di questo secolo; mentre solo recentemente è stato possibile ricostruire la vicenda cronologica della sua vita). Nel rovescio del Ritratto del conte Giovanni Maria Fenaroli (Corneto, coll. Fenaroli) è la scritta
«Gio. Maria Fenaroli q. Lelio, d’anni 84, 7 luglio 1724. G°
Ceruti F.», che è la piú antica attestazione dell’attività
dell’artista. Nel 1729 il C deve essere già ben affermato nella sua città perché il podestà Andrea Memmo gli commissiona quindici «ritratti simbolici» di patrizi veneti per il Broletto, di cui resta forse unica testimonianza un Ritratto equestre di comandante (Firenze, coll. Acton). Del 1732 è un inedito Ritratto del parroco di Breno. Nel 1734 firma il contratto per le pale d’altare di Gandino (Natività e Transito della
Vergine); nello stesso anno dipinge la Madonna del Rosario
per la chiesa di Artogne presso Brescia; nel 1736 è attivo a
Venezia (affreschi in palazzo Grassi); nel 1737 firma e data
«Giacomo Ceruti F. 1737» il Mendicante della raccolta R.
Bassi Rathgeb; nel 1738 firma il contratto per le due pale
della chiesa di Sant’Antonio a Padova (Battesimo di santa
Giustina). Nel 1739 lo troviamo nella lista degli abitanti di
Padova. Nello stesso anno firma due grandi ovali con Ritratti di gentiluomo e di gentildonna (Brescia, coll. priv.). Del
1743 è il Ritratto di condottiero, eseguito a Piacenza. Nel
1745 è a Milano e poco dopo esegue un importante ciclo a
Tortona per palazzo Brosetti. Nel 1757 riceve dall’Ospedale Maggiore di Milano – città dove probabilmente si fermò
a lungo – pagamento per il Ritratto del Nobile Attilio Lampugnani Visconti. Bisogna aggiungere che è possibile che i
quadri a soggetto sacro di Gandino, di scarsissima qualità e
privi di rapporti stilistici con le pitture «di genere» del C,
siano stati in realtà da lui sub-allogati a qualche altro pittore. Il C è conosciuto anche come autore di alcune notevoli
Storia dell’arte Einaudi
nature morte (Milano, Brera); e, nell’ultimo tempo milanese, di grandi dipinti mitologici (Diana e le ninfe, Diana e Atteone) che per certi aspetti sembrano anticipare la pittura romantica francese dell’Ottocento, Géricault per esempio.
Quanto alla cronologia delle sue grandi tele di soggetto popolare, prima collocate dalla critica attorno o dopo il 1750,
sembra ora piú attendibile una datazione che le situi, in prevalenza, ancora negli anni del soggiorno bresciano. (gp+sr).
Cerveteri
Località del Lazio (antica Caere), che ebbe stretti rapporti
commerciali e artistici col mondo greco-orientale. Dovette
essere uno dei centri fondamentali della pittura etrusca nel
vi e v sec. a. C. Ma poche sono le tracce rimaste: alcuni affreschi rovinati nelle tombe e soprattutto placche dipinte in
terracotta (serie Boccanera: Londra, bm; Campana: Parigi,
Louvre). Nelle rappresentazioni figurate su queste placchette, spesso d’incerta interpretazione (sfilate di figure maschili e femminili, scene di sacrificio, sfinge accosciata), di
un rigore formale piuttosto freddo, compaiono vari influssi
greci, senza però che li si possa definire con precisione (influsso attico, corinzio, orientaleggiante). (mfb).
Sul sito di Caere sono state trovate una trentina di idrie (vasi per acqua a tre anse), dipinte senza dubbio da un artista
locale anonimo nella seconda metà del vi sec. a. C. (Parigi,
Louvre; Roma, Villa Giulia; Vaticano). Quest’artista, certamente di formazione ionica, dà prova di uno stile assai personale nei suoi profili espressivi, talvolta caricaturali, che
spiccano sul fondo chiaro del vaso, nel gusto accentuato per
le vaste zone ravvivate in bianco e rosso e in particolare nelle scene mitologiche pittoresche (Ercole che massacra i servitori del re d’Egitto Busiride: Vienna, km), tra motivi decorativi ampiamente disegnati. (cr).
Cesare da Sesto
(Sesto Calende 1477 - Milano 1523). Fu tra i piú noti allievi di Leonardo. Vasari riferisce di una sua attività iniziale
con il Peruzzi alla rocca di Ostia antica: notizia confermata
dal recente ritrovamento di affreschi monocromi (ma nel palazzo episcopale) parzialmente derivanti dalla Colonna traiana, databili al 1511-12. Sarebbero quindi posteriori all’altra
opera romana attribuita al pittore, la lunetta (Madonna col
Storia dell’arte Einaudi
Bambino tra due angeli) nel chiostro di Sant’Onofrio, da altri riferita al Boltraffio. Fu certamente con Leonardo nel suo
secondo periodo milanese, interpretandone i modelli con pesante plasticismo e denso chiaroscuro (Madonna: Milano,
Brera). Dal 1514 fu a Messina, dove dipinse l’Adorazione
dei Magi (Napoli, Capodimonte), ambientando forme leonardesche in un ricco scenario di derivazione raffaellesca.
Nel 1523 gli fu commessa la grandiosa Pala di san Rocco, lasciata incompiuta (parti superstiti a Milano, Castello), dove
la sua cultura fra Leonardo e Roma già assume toni manieristici nel lustro scultoreo delle forme. A quest’ultimo periodo (secondo altri, al decennio precedente) dovrebbe risalire il grande Battesimo di Cristo (Milano, coll. Gallarati Scotti), con fondo del fiammingo-lombardo Bernazzano. Gli appartengono inoltre la Vergine col Bambino (San Francisco,
De Young Memorial Museum) e, forse, la Madonna delle bilance (Parigi, Louvre). (mr+sr).
Cesari, Giuseppe, detto il Cavalier d’Arpino
(Arpino o Roma 1568 - Roma 1640). Giunto a Roma nel
1582, si impiega come macinatore di colori nella decorazione del terzo piano delle Logge vaticane, sotto la direzione
di N. Circignani. Poco dopo viene promosso alla decorazione delle Logge, diretta allora da Pomarancio e da E. Danti. Questi primi contatti non mancano di influenzare il suo
stile e riferimenti al Circignani, ma ancor piú al Pomarancio e a Raffaellino da Reggio, si riscontrano ancora nella decorazione del chiostro di Trinità dei Monti (affresco con la
Canonizzazione di san Francesco di Paola, 1585 ca.). Presto
C divenne un pittore di fama, come dimostrano l’ammissione alla Congregazione dei Virtuosi del Pantheon (1586)
e il succedersi di due importanti committenze: i lavori per
Sant’Atanasio dei Greci (1585-91) e quelli commisionatigli
dal cardinal Farnese per San Lorenzo in Damaso (1588: affreschi oggi perduti ma molto lodati dai suoi contemporanei). Nel 1589 si reca a Napoli per affrescare il coro della
certosa di San Martino (dove tornerà nel 1593 per eseguire
gli affreschi della volta della Sacrestia); al ritorno a Roma
lavora nella Cappella Olgiati in Santa Prassede (1587-1595)
e nella Cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi (commissionata nel 1591). Il manierismo garbato e aggiornato secondo le moderne tendenze naturalistiche del C ben si adat-
Storia dell’arte Einaudi
tava al gusto ufficiale diffusosi a Roma a fine Cinquecento,
tanto che l’artista divenne uno dei favoriti di Clemente VIII
e si vide affidare dal papa numerose imprese decorative: gli
affreschi del Palazzo dei Conservatori (il Ritrovamento della lupa, 1596; la Battaglia tra i Romani e i Veneti, 1597; il
Combattimento tra gli Orazi e i Curiazi, 1612), la decorazione del transetto di San Giovanni in Laterano (Ascensione,
1600) e la direzione dei lavori di decorazione musiva della
cupola di San Pietro. Tra le altre imprese decorative lavorò
ancora agli affreschi della villa Aldobrandini a Frascati e a
quelli della Cappella Paolina in Santa Maria Maggiore
(1605-12). Dal 1635 riprende ancora la decorazione del Palazzo dei conservatori eseguendovi il Ratto delle Sabine,
l’Istituzione della Religione e la Fondazione di Roma
(1635-40). (sr).
Cesetti, Giuseppe
(Tuscania (Viterbo) 1902). Studia inizialmente la pittura dei
primitivi senesi, di Paolo Uccello e Piero della Francesca;
trasferitosi a Roma dalla Maremma, frequenta l’ambiente
artistico e letterario; collabora alla rivista «Solaria» e
dall’inizio degli anni ’30 espone a quadriennali e biennali.
Dopo un viaggio a Parigi tra il 1936 e il 1937, torna in Italia, dove insegna pittura all’accademia di belle arti. Nel corso della sua opera C passa da un’appassionata rivisitazione
dell’arte etrusca a un vivace cromatismo in cui appaiono piú
evidenti le influenze della pittura francese da Utrillo a Rosseau. (mdl).
Cesi, Bartolomeo
(Bologna 1556-1629). Nell’arte del C rigore classico e spunti naturalistici concorrono a creare una pittura che si distacca
polemicamente dal tardo-manierismo bolognese e trova, come andavano facendo contemporaneamente i Carracci,
nell’equilibrio tra «idea» e «natura» la risposta piú adeguata ai nuovi dettami controriformistici, emblematicamente
sostenuti e codificati, in ambito emiliano-bolognese, dalla
trattatistica del Paleotti (Discorso intorno alle immagini sacre
e profane, Bologna 1582).
C si forma, secondo la testimonianza di Malvasia, con il Nosadella. La sua prima opera nota, la decorazione della cappella Vezza in Santo Stefano a Bologna (1574), lo mostra an-
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cora legato al linguaggio tardomanieristico bolognese arricchito da inflessioni zuccaresche. Nella seconda opera documentata, il Crocifisso e Santi di San Martino a Bologna
(1584-85), C aderisce già decisamente all’interpretazione
riformata della pittura sacra (il Discorso del Paleotti viene
edito nel 1582) rielaborando modelli romani (soprattutto
Muziano e Venusti) e accostandosi all’arte dei Carracci nel
senso della semplificazione compositiva e del naturalismo.
Tale naturalismo si accentua sempre piú e si lega al motivo
controriformistico della «verità» ed evidenza delle storie sacre, nei due dipinti successivi: San Benedetto ascolta la celeste armonia (Bologna, San Proclo) e la Vergine in gloria e santi (Bologna, pn) proveniente dal convento di Sant’Omobono. In quest’ultima opera la netta suddivisione tra la parte
inferiore, terrena, ove sono i santi e la parte superiore, in
cui è la visione celeste, è sottolineata sia compositivamente
che mediante il ricorso a un’opposizione calcolata di naturalismo e astrazione. Nel 1591 C è documentato a Roma
(manoscritto B16 dell’Archiginnasio della Felsina Pittrice).
Al suo ritorno esegue gli affreschi della cappella di Santa
Maria dei Bulgari (1594) nell’Archiginnasio bolognese dove
il naturalismo cede il passo, a motivo delle intenzioni ad un
tempo dimostrative e illustrative, da una parte all’intellettualismo delle Virtú cristiane della volta, dall’altra al tono
piano e narrativo delle Storie della Vergine. Il momento piú
alto dell’arte del C si colloca tra il 1594 e il 1595; a questo
periodo risalgono la decorazione della Certosa di Maggiano
(Trinità circondata da angeli musicanti della cupola e l’Assunzione della Vergine, oggi nel duomo di Siena) e la Vergine in
gloria e i santi Benedetto, Giovanni Battista e Francesco (Bologna, San Giacomo Maggiore), pala di datazione dibattuta
ma recentemente riferita dalla Fortunati Pierantonio (1986)
agli anni ’94-95. In esse i principali modelli figurativi del C
– la pittura di Correggio, fra Bartolomeo e soprattutto dei
Carracci – vengono meditati e assimilati, riediti in chiave di
composta e solenne, profonda religiosità, in un difficile equilibrio tra «natura» e «idea». A partire dal 1595 l’arte del C
propende sempre piú decisamente verso un’interpretazione
rigidamente controriformistica delle immagini sacre; il tono
si fa ascetico e irreale; tale percorso è illustrato dal trittico
di San Domenico (Adorazione dei Magi, San Domenico, San
Nicolò) e ancor piú chiaramente nella decorazione del coro
Storia dell’arte Einaudi
di San Gerolamo alla Certosa (tre pale con l’Orazione
nell’Orto, Crocifissione, Deposizione dalla Croce); per finire
in un ripiegamento in cui stilemi già sperimentati vengono
stancamente ripetuti (cappella Guidotti in San Domenico a
Bologna: Misteri del Rosario, 1601 ca.). Accanto alle pitture
di soggetto religioso C eseguí anche alcune opere a soggetto
profano in cui il bisogno riformistico di codificare i modi
della comunicazione per immagini si evidenzia nel ricorso
da parte dell’artista a manuali iconografici quali le Immagini degli Dèi del Cartari (Allegoria dell’Amor virtuoso, Allegoria della fedeltà e del silenzio, 1590: Bologna, palazzo Magnani). Gli affreschi di palazzo Fava, con Storie dell’Eneide,
partecipano dell’involuzione della vena creativa del C che
tuttavia rimase attivo fino alla morte (1629). (cvo).
Ωe∫ljar, Iliç Theodor
(Sirig en Banat 1746 - Ba™ko Petrovo Selo 1793). Allievo
dell’accademia di Vienna, visse a Novi Sad. I suoi ritratti e
le sue iconostasi per chiese ortodosse (Mokrin 1789, Velika
Kikinda 1790, Stara Kanji∆a 1791, Ba™ko Petrovo Selo
1792-93) gli valsero grande notorietà. Disegnatore eccellente, è autore di composizioni piene d’invenzione, dal cromatismo raffinato, le cui velature attestano una parentela
con la pittura francese del xviii sec. Le icone eseguite per la
chiesa di Sremski Karlovci, alcuni ritratti (Pavle Avakumovi™, il Prete: in museo a Belgrado) e composizioni murali per
la chiesa di Velika Kikinda, di concezione quasi veneziana,
sono i capolavori della pittura barocca in Serbia, di cui C è
tra gli esponenti migliori. (ka).
Céspedes, Pabio de
(Cordova 1538-1608). È il rappresentante principale della
scuola di Cordova durante l’ultimo terzo del xvi sec. Umanista e teologo, soggiornò una quindicina d’anni a Roma. I
contemporanei lodarono nella sua pittura il colore, che lo
apparenta a Correggio, ma le opere giunte sino a noi sono
piú vicine a Michelangelo che al maestro parmense (Episodi
del Vecchio Testamento: Roma, chiesa di Trinità dei Monti). Il polittico dei Cenacolo (Cordova, Cattedrale), dipinto
nel 1595, molti anni dopo il suo ritorno in Spagna, ha accenti piú personali: illuminazione generale, pesanti drappeggi, natura morta in primo piano annunciano la scuola an-
Storia dell’arte Einaudi
dalusa dell’inizio del xvii sec. C deve la celebrità agli scritti teorici, i principali dei quali sono il Discorso sul confronto
tra arte antica e moderna (1604) e il Poema della pittura, pubblicato da Francisco Pacheco nella sua Arte della pittura, comparsa nel 1649. Tali opere, che attestano l’erudizione
dell’autore, fecero conoscere in Spagna i pittori italiani contemporanei. (acl).
Cestaro, Jacopo
(Bagnoli Irpino 1718 - Napoli 1778). Allievo del Solimena,
alla cui impostazione formale è strettamente legato fin dalle opere della sua prima maturità (Cleopatra: Roma, già coll.
Sestrieri; e Lucrezia: Napoli, coll. Solima), C è documentato dal 1757 per il complesso di tele e affreschi nella chiesa
napoletana dei SS. Filippo e Giacomo, in cui la forte impronta solimenesca viene temperata da uno schiarimento della tavolozza secondo i modi demuriani. Nei vari cicli decorativi nel territorio napoletano e non (dipinti per gli Scolopi a Genova, per l’Assunta di Bagnoli Irpino nel 1762; nel
1764 per l’Annunziata di Angri, nel 1770 per San Giorgio
dei Genovesi a Napoli, affreschi in villa Campolieto a Ercolano nel 1769-71, affreschi, distrutti, nel Palazzo reale di
Napoli del 1775-1776), C dispiega le sue qualità di decoratore in un linguaggio complesso di matrice solimenesca-demuriana formulato attraverso la riflessione sul classicismo
emiliano, in particolare sulle opere del Lanfranco a Napoli.
Questo indirizzo s’inseriva nel programma di rinnovamento artistico propugnato da Luigi Vanvitelli che propose il C
tra i decoratori della reggia di Caserta e lo segnalò nel 1772
con i maggiori artisti del regno per il progetto di riforma
dell’Accademia napoletana del disegno, di cui il C fu maestro. Dai documenti d’archivio risulta morto prima dell’inizio del 1779.(anc).
Cesura, Pompeo
(L’Aquila? - Roma 1571). Non si conosce la data di nascita
e sono andati perduti i dipinti giovanili. È incerta l’origine
aquilana, ma sicuramente si stabilì nel capoluogo abruzzese
dal 1540 al 1565. Le opere che ci sono pervenute risentono
dei modi di Perin del Vaga. È verosimile perciò che C abbia
compiuto la sua formazione presso quel pittore e nello stesso ambiente romano abbia conosciuto le opere di Francesco
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Salviati e soprattutto di Daniele da Volterra, di cui si rintracciano gli echi specialmente nelle due grandi tele per la
chiesa aquilana di San Bernardino con l’Adorazione dei pastori e il Miracolo di sant’Antonio. Allo stesso tempo la sua
pittura viene toccata dalle «piú felici trasformazioni manieristiche degli spagnoli» Pedro Machuca e Pedro de Rubiales
(Bologna). Oltre che pittore fu disegnatore e forse anche
scultore e alla sua scuola si formò Giuseppe Valeriani, divenuto famoso nell’ambito della pittura romana della Controtiforma. Dopo il 1565 alternò frequenti soggiorni a Roma e
nel 1571 vi dipinse la Deposizione di Santo Spirito in Sassia. (rt).
Ceylon
Il regno di C, isola dell’India meridionale (oggi Âr¥ La™kÇ)
venne fondato nel v sec. a. C., e due secoli piú tardi si convertí al buddismo, del quale divenne uno dei centri piú attivi. In costante rapporto con l’India, C ha saputo però serbare la propria indipendenza e originalità.
Sigir¥ya Il complesso piú antico e piú importante della pittura murale di C è costituito dai dipinti che decorano la parete ovest del picco roccioso di Sigir¥ya, residenza alla fine
del v sec. del re Kassapa I. Protette da un anfratto della roccia e dipinte su tre strati di preparazione, l’ultimo dei quali
costituito da una leggera mano di calce, diciassette figurine
femminili quasi a grandezza naturale, vestite di stoffe trasparenti, compaiono a mezzo busto al di sopra delle nuvole.
Tengono fiori con la punta delle dita, oppure li portano su
vassoi. I contorni indecisi tradiscono numerosi pentimenti,
che conferiscono loro un aspetto morbido e vivo. Il disegno
insiste volentieri su taluni dettagli naturalistici, come il rigonfiamento del ventre, l’elegante curvatura delle dita, la
pesantezza dei gioielli o la complessità delle acconciature; il
manierismo di tali dettagli risulta compensato dalla posa ieratica e dalla solidità dei volumi, suggerita da una digradazione molto delicata del colore. Tale modellato è accentuato da tratteggi che bordano le spalle e le braccia, mentre cerchi concentrici indicano la rotondità dei seni. L’incarnato
dei personaggi, che va dal giallo oro al verde oliva, il verde
molto vivo dei capelli, le varie sfumature di rosso delle vesti e il candore delle nuvole conferiscono a queste figure un
sorprendente valore decorativo. L’espressione di sogno in-
Storia dell’arte Einaudi
teriore e malinconico di questi volti ha spesso colpito i visitatori, che nel corso dei secoli hanno dedicato a queste donne moltissime poesie, in forma di graffiti tracciati sulle pareti. È stato proposto di identificarle con le «damigelle delle nuvole» in volo sul palazzo mitico dello Yak#a Kubera.
Hindagala A qualche chilometro da Kandy, la grotta di Hindagala, antico monastero buddista del vii sec., possiede un
frammento di pittura che rappresenta il Buddha circondato
da oratori; una figura bellissima, identificata con Indra, spicca per la vivacità dello sguardo e il disegno nervoso e stilizzato delle fattezze, ma l’insieme è troppo rovinato per poterlo studiare nei dettagli; lo stesso vale per le pitture dello
stpa di Mahiyangana, nella provincia di Uva, nelle quali il
Buddha, dopo la sua vittoria su MÇra, viene adorato dagli
dèi; lo stile si riallaccia ancora a quello di Sigr¥ya, ma con
una piú spiccata tendenza manieristica.
PolonnÇruvÇ Illustrazioni di jÇtaka (incarnazioni precedenti del Buddha), dipinte nel xii sec., decorano il santuario Tiva≤ka a PolonnÇruvÇ, capitale di C all’inizio dell’xi sec. Tali dipinti, disposti a fregi, sono di fattura maldestra e ingenua, che ricorda solo molto da lontano le creazioni piú antiche, un’eco delle quali tuttavia si ritrova, nello stesso santuario, nella morbida figura di un grande Bodhisattva dal
volto dolce e meditabondo.
Successivamente, solo nel xvii sec. compare un’attività pittorica interessante, incentrata a Kandy, capitale dell’ultima
dinastia di C. Numerosi monasteri buddisti, come Dambulla, Degalboruva o Telvatta, sono ornati da affreschi che presentano un’arte rigida e priva di rilievo, i cui personaggi talvolta rammentano i dipinti di Lepaksh¥, nel regno di Vijayanagar, ma si caratterizzano soprattutto per l’estrema violenza del colore; la ricchezza decorativa è la qualità essenziale di quest’arte che fa largo impiego dello spolvero. Il medesimo stile «kandyano» si ritrova in un insieme di manoscritti del xvii e del xviii sec., decorati con scene della vita
del Buddha, conservati nelle biblioteche dei monasteri buddisti di C. (jfj).
Cézanne, Paul
(Aix-en-Provence 1839-1906). Il padre, originario di Aix e
del Delfinato, dapprima operaio poi cappellaio, nel 1847 divenne banchiere, assicurando al figlio un avvenire privo di
Storia dell’arte Einaudi
preoccupazioni finanziarie. Dal 1852 al 1858 C ricevette una
solida formazione umanistica al collegio Bourbon di Aix, dove divenne amico di Zola. Presa la maturità nel 1858, C entrò nella facoltà di diritto, ma le lettere che si scambiava con
Zola lo indussero presto a rivendicare la propria indipendenza, in nome di una vocazione pittorica che in quel momento sembrava coincidere soprattutto col miraggio intellettuale della capitale. Le Quattro stagioni (1860: Parigi, Petit-Palais), di cui decorò il Jas de Boulfan, casa di campagna
che il padre aveva appena acquistato, dimostrano soprattutto
goffaggine giovanile. A Parigi, nel 1861, frequentò l’Académie Suisse e approfittò dei consigli del suo conterraneo Villevieille; si scoraggiò della propria inesperienza, e tornò per
breve tempo alla banca paterna, ma la vocazione pittorica si
era instaurata definitivamente. Dal 1862 al 1869, tra Parigi ed Aix, C (che conosceva soltanto i caravaggeschi delle
chiese di Aix e le collezioni importanti, ma poco attuali, del
Museo Granet), fu testimone del conflitto che contrapponeva l’eclettismo colto e insulso degli ambienti ufficiali al
realismo rivoluzionario di Courbet, di Manet e dei refusés
del 1863. L’opera di Delacroix, conciliazione anacronistica
dell’arte dei musei e del modernismo, apparve a C, alla retrospettiva tenutasi nel 1864, un vocabolario estremo ove
attingere le proprie giustificazioni. Sensibile a questi diversi influssi, C partecipò alle riunioni del caffè Guerbois e fu
abbagliato dal lirismo di Géricault o Daurnier.
La fase barocca Le sue esuberanze e le sue angosce C le tradusse in quella che definí poi la sua maniera couillarde. Con
un impasto squillante e fangoso, greve di neri spessi, brutalmente tessuti, rievocava le scene di genere, erotiche e macabre, ispirategli dai barocchi italiani e spagnoli e da qualcuno dei loro imitatori, come Ribot (l’Orgia, 1864-68: coll.
Lecomte; la Maddalena, 1869: Parigi, mo; l’Autopsia, 186769: coll. Lecomte). Piú sobri i ritratti e le nature morte, che
in questo periodo attestano sorprendente forza e intensità
(il Negro Scipione, 1865: San Paolo; Ritratto di Emperaire,
1866: Parigi, mo; la Pendola di marmo nero, 1869-71: Parigi, coll. priv.). Trovandosi all’Estaque (1870) nel momento
in cui scoppiò la guerra tra Francia e Germania e la Comune di Parigi, C ignorò il conflitto fino alla fine delle ostilità.
Dipingeva dal vero numerosi paesaggi di spiagge colorate,
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audacemente composti (Neve che si scioglie all’Estaque, 1870:
Zurigo, coll. Bührle).
Contatti con l’impressionismo Pronto ad assimilare le ricerche degli impressionisti, nel 1872-73 C si stabilí presso
Pissarro ad Auvers-sur-Oise, subendone l’influsso. Piú sereno accanto alla sua compagna, Hortense Fiquet, che gli
aveva appena dato un figlio, e ai suoi amici Guillaumin, Van
Gogh e soprattutto il dottor Gachet, C sostituiva, a piccoli
tocchi burrosi, «il tono al modellato», definendo in paesaggi come la Casa dell’impiccato (1873: Parigi, mo) o in nature morte come il Buffet conservato a Budapest (1873-77) un
universo personale fortemente animato, ma sempre assoggettato alle esigenze dei quadro. Riservando l’analisi psicologica agli autoritratti, pieni di diffidenza e di passione (coll.
Lecomte, 1873-76 ca.; Washington, coll. Phillips, 1877 ca.),
C studia semplicemente la cadenza dei volumi e dei toni nello spazio pittorico. L’impianto geometrico di Madame Cézanne con la poltrona rossa (1877: Boston, mfa), il dialogo
sereno della Natura morta con vaso e frutta (1877 ca.: New
York, mma), l’ordinamento degli alberi del Clos des Mathurins (1877 ca.: Mosca, Museo Pu∫kin) dimostrano le stesse
problematiche, che il pittore da allora s’impegnerà a risolvere. Pretesti per variazioni ritmiche, i corpi risolutamente
deformati della Lotta d’amore (1875-76: Washington, coll.
priv.) rammentano Rubens e Tiziano, come i Bagnanti e le
Bagnanti che C da allora comincia a dipingere. Nel 1874 aveva partecipato alla prima mostra degli impressionisti, presso Nadar; nel 1877 presentava sedici tele ed acquerelli alla
mostra impressionista in rue Pelletier. Ferito dallo scherno
della stampa e del pubblico, da allora si astenne dall’esporre con i suoi amici.
La maturità Irrequieto, l’artista passò a Parigi; presente talvolta al caffè della Nouvelle-Athènes, piú spesso preferiva
la provincia: presso Zola a Médan nel 1880 (il padre, ostile
alla sua vita familiare, gli aveva tagliato i viveri); presso Pissarro, a Pontoise, nel 1881; con Renoir a La Roche-Guyon,
poi a Marsiglia, ove incontrò Monticelli, nel 1883; con Monet e Renoir all’Estaque nel 1884; presso Chocquet a Hatteriville nel 1886. Fu un periodo di feconda maturità, durante il quale C, discostandosi dagli impressionisti, padrone
ormai del tocco, riprese incessantemente i medesimi motivi. Nell’intento di «fare del Poussin sulla natura» trattando
Storia dell’arte Einaudi
la natura «attraverso il cilindro e la sfera», dispone intorno
al cristallo azzurrastro della Montagna Sainte-Victoire
(1885-87: Londra, ng; New York, mma) la cadenza e l’ondeggiare ocra e verde di terreni e di pini, fraziona ed equilibra le sfaccettature dei muri di Gardanne (1886: Merion,
Fond. Barnes) e delle rocce di Aix (1887: Londra, Tate
Gall.), anima con reticoli lineari lo spazio opaco del mare
a L’Estaque (1882-85: New York, mma; e Parigi, mo; 188690: Chicago, Art Inst.), issa nell’atmosfera vibrante l’astrattismo del Grande bagnante (1885-87: New York, moma).
L’armonia leggera del Vaso azzurro (1883-87: Parigi, Louvre) sembra serbare la miracolosa attenzione degli acquerelli, dove C indica il ritmo sobrio con un fine tracciato sostenuto da un fragile tocco. Numerosissimi (Venturi ne segnala oltre quattrocento), ma conosciuti soltanto da una cerchia
ristretta di collezionisti come Chocquet, Pellerin, Renoir,
Degas o il conte Camondo, questi acquerelli non vennero
quasi notati prima della mostra che venne loro dedicata da
Vollard nel 1905. Citiamo solo qualche esempio rilevante:
la Strada (1883-87: Chicago, Art Inst.), il Lago di Annecy
(1896: Saint Louis, City Art Gall.), i Tre crani (1900-1906:
Chicago, Art Inst.), il Ponte dei Trois-Sautes (1906: Cincinnati).
Diffusione dell’opera di Cézanne Irritabile e diffidente,
molto isolato dopo il 1886, anno della morte del padre e della definitiva rottura con Zola (il cui romanzo Œuvre, che in
parte lo prendeva a modello, l’aveva ferito), C era noto soltanto ai rari iniziati che entravano, dal 1887 al 1893, da Tanguy o che leggevano i testi confidenziali di Huysmans («La
Cravache», 4 agosto 1888) e di E. Bernard (Hommes d’aujourd’hui, 1892). Benché misterioso, C godeva peraltro
d’una certa notorietà: portativi da Gauguin, E. Bernard e
P. Sérusier, Maurice Denis e i Nabis ne subirono profondamente sin da allora l’influsso; poté esporre una tela all’esposizione universale del 1889, venne invitato presso i XX di
Bruxelles nel 1890. Le cento tele presentate nel 1895 da Vollard attirarono fortemente l’attenzione, provocando un rialzo dei prezzi, sensibile dal 1894 (vendite Druet e Tanguy)
al 1899 (vendita Chocquet). Nel 1900 all’esposizione universale figurano tre sue opere, mentre acquista una tela il
museo di Berlino.
L’ultimo periodo Con una sensibilità meno contratta, C ese-
Storia dell’arte Einaudi
guí allora un complesso di opere fondamentali che contrappongono al brillante effimero impressionista «qualcosa di solido come l’arte dei musei». Dall’immutabile ampiezza della Donna con la caffettiera (1890 ca.: Parigi, mo) al gioco dinamico e padroneggiato di composizioni complesse come il
Martedì grasso (1888: Mosca, Museo Pu∫kin) o l’importante
serie dei Giocatoti di carte, ispirata senza dubbio al Le Nain
del museo di Aix (1890-95: Merion, Fond. Bames; New
York, mma; Londra, Courtauld Inst.; Parigi, mo), egli si afferma pittore al di là del quotidiano. Analisi spesso caricata
di emozioni, che annega tra penombre malva e marrone il
fascino pensato del Ragazzo dal panciotto rosso (1890-95: Zurigo, coll. Bührle), la gravità inquieta del Fumatore appoggiato ai gomiti (1890: Mannheim), la presenza di Vollard
(1899: Parigi, Petit-Palais), l’aria pregna di armonie azzurre del Lago di Annecy (1896: Londra, Courtauld Inst.). Sensibile al fervore dei giovani pittori (vengono a trovarlo E.
Bernard e Ch. Camoin; M. Denis espone agli Indépendants
del 1901 il proprio Omaggio a Cézanne), riconosciuto infine
al Salon d’automne del 1903, dove espone trentatré tele, C
si accanisce a «realizzare come i veneziani», con un lirismo
piú esaltato, i temi che lo ossessionano, riprendendo senza
posa i Bagnanti (1900-1905: Merion, Fond. Barnes; Londra,
ng), riassunti nell’ampia architettura del suo capolavoro, le
Grandi bagnanti (1898-1905: Filadelfia, am). Al ritmo allusivo e nervoso del pennello, l’allucinante vibrazione del Castello nero (1904-1906, Washington, ng), l’angoscia del Ritratto di Vallier (1906: Chicago, coll. Block), le ultime Sainte-Victoire (1904-1906: Mosca, Museo Pu∫kin; Filadelfia,
am; Zurigo, coll. Bührle) ne precedono di poco la morte, sopravvenuta il 22 ottobre 1906.
La visione di C, rivelata una volta di piú al Salon d’automne del 1907 (57 tele), assunta e trasformata dai cubisti, adottata dai fauves, diffusa all’estero (in Inghilterra dalle mostre
postimpressioniste organizzate nel 1912 e 1913 da R. Fry;
in Germania dalla mostra del Sonderbund a Colonia nel
1912; in Italia nell’esposizione romana Secessione del 1913;
negli Stati Uniti dall’Armory Show a New York nel 1913),
apparve da allora, e per lungo tempo, il fondamento essenziale di qualsiasi analisi pittorica. L’artista, il cui catalogo
elenca circa novecento dipinti e quattrocento acquerelli, è
rappresentato nella maggior parte dei grandi musei di tutto
Storia dell’arte Einaudi
il mondo, in particolare a Merion Penn. (Fond. Barnes),
New York (mma e moma), Parigi (Orangerie, Donation
Walter Guillaume, Jeu de paume, mo). (gv).
Chabaud, Auguste
(Nîmes 1882 - Graveson (Bouches-du-Rhône) 1955). Allievo delle scuole di belle arti di Avignone e di Parigi, incontrò Matisse e Derain all’Académie Carrière, orientandosi
prestissimo verso le audacie del fauvisme. Dal 1907 al 1914
effettuò lunghi soggiorni a Parigi, dove dipinse paesaggi notturni, scene di music hall, di caffè, di case chiuse, e nudi: il
Moutin de la Galette (Parigi, mnam), Nudo rosso (Saint-Etienne). Nel contempo eseguiva in Provenza grandi composizioni
statiche e monumentali. Le sue ricerche lo portarono al cubismo nel 1911; poi dipinse nature morte, ritratti, paesaggi
d’un equilibrio scultoreo e denso. Dopo la prima guerra mondiale si stabilí presso Avignone. Tutte le sue tele celebrarono da allora la Provenza, in tonalità ora squillanti ora cupe,
con una gravità e una grandiosità d’ispirazione che gli sono
proprie. (rch).
Chabot
Piccola caverna in riva all’Ardèche, nei dintorni di Aiguèze
(Gard), illuminata dalla luce del giorno; fu la prima grotta
la cui decorazione venisse attribuita ai paleolitici da L. Chiron nel 1878. La parete di destra presenta un complesso d’incisioni dal disegno rigido e arcaico sul tema bue-cavallo e
cervidi accompagnati da numerosi mammut. Il soffitto e la
parete sinistra presentano intrecci di linee confuse, ove tracciati incompiuti di mammut sono trattati con lo stesso linguaggio convenzionale che si trova nella vicina grotta del Figuier. Il complesso potrebbe datarsi al Solutreano. (yt).
Chabot, Hendrik
(Sprang (Brabante del Nord) 1894 - Rotterdam 1949). La
sua famiglia si stabilí a Rotterdam nel 1906, e qui egli esordí
come decoratore, pur seguendo i corsi serali all’accademia.
Dal 1915 fu restauratore di quadri; nel 1921-22 viaggiò in
Germania e a Vienna. Nel 1922 cominciò a scolpire e divenne membro del gruppo De Branding di Rotterdam. Cercò
a lungo la sua strada, passando da un tardo simbolismo
espressivo a una stilizzazione astratta ispirata da Van der
Storia dell’arte Einaudi
Leck. L’esempio degli espressionisti fiamminghi (Cantré,
Permeke) lo attirò di piú, consentendogli di affermare la sua
personalità, soprattutto a partire dal 1933, durante un soggiorno nell’isola di Walcheren. L’influsso di Permeke (di cui
Ch aveva visitato la retrospettiva nel 1930 a Bruxelles), avvertibile sulle prime sia nella tematica sia nella tecnica (Madre e bambino, 1931: Rotterdam, coll. priv.), verso il 1935
si va attenuando. Un disegno di qualità assai plastica, una
gamma cromatica ove predominano gli ocra, i gialli e i verdi in un impasto denso e saldo, restituiscono l’immagine di
una campagna aspra, con figure, scene rustiche, paesaggi
(Garzone di stalla, 1936: Rotterdam, bvb; il Falciatore, 1936:
ivi). La guerra lo colpí profondamente. L’incendio di Rotterdam (maggio 1940) gli ispirò un bel quadro, sobriamente
evocativo (L’Aia, gm). Le opere degli anni di occupazione
presentano deportati, partigiani, ebrei braccati, mentre i
paesaggi tardi, dalle calde tonalità, arancio, rosso e giallo,
mostrano maggior lirismo. Nella sua opera disegnata, numerosi studi a carboncino, a gessetto nero e ad inchiostro di
china consentono di apprezzare un talento capace di evidenziare il carattere dei suoi soggetti. (mas).
Chacón y Rincón, Francisco
(fine del xv sec.). Fu castigliano, ma non si sa molto di piú
di lui. Presenta un duplice interesse: da un lato, in un documento del 1480, appare come «pintor mayor» dei re cattolici, incaricato di una specie d’ispezione delle pitture del regno, molto significativa degli interessi della regina Isabella;
d’altro canto, una Pietà da lui firmata (Granada, Escuelas
Pias) rivela un felicissimo adattamento, in uno stile piú disteso, delle composizioni di Van der Weyden (e forse anche
della Pietà di Bermejo nella cattedrale di Barcellona). (pg).
Chacumultun
Antica città maya nello Yucatán, sugli ultimi contrafforti
della cordigliera del Petén, situata sulle sponde di un burrone che la divide in due parti. Vi si trovano due gruppi di
costruzioni, rispettivamente composti da tre edifici e da due
corpi piú piccoli. Uno degli edifici conserva resti di pitture. Le piú importanti sono collocate in una delle camere del
lato nord, ove la parete è ripartita in tre fasce orizzontali,
decorate da varie scene dipinte. I personaggi, disegnati con
Storia dell’arte Einaudi
abilità, sono riccamente vestiti e recano acconciature con
penne d’uccello sormontate da teste di animali; tengono in
mano una lancia, uno scudo o una tromba. I fondi sono dipinti in blu, i personaggi in rosso, mentre il verde e il bianco sono riservati alle vesti e ai vari accessori. In una delle
due costruzioni poste sull’altra sponda del burrone restano
frammenti di fregi che rappresentano stilizzazioni di serpenti. Frantumi di gesso con tracce policrome hanno rivelato la probabile esistenza di affreschi. Pur non potendo datare con precisione le pitture di Ch, è lecito nondimeno asserire che sono anteriori all’invasione tolteca dell’inizio del
x sec. (sls).
Chagall, Marc
(Vitebsk 1887 - Saint-Paul-de-Vence 1985).
Gli esordi a Vitebsk Di famiglia modesta, mostrò presto disposizione per il disegno ed esordí presso un pittore locale,
Jehuda Penn. Nel 1907 si recò a San Pietroburgo frequentandovi, oltre alla scuola imperiale di belle arti, i corsi d’arte moderna appena aperti da Bakst, che gli rivelarono alcuni aspetti della pittura francese. Da allora si sentí attratto
da Parigi; e quando un deputato, Vinaver, si offrí di aiutarlo con un piccola sovvenzione, lasciandogli la scelta tra un
soggiorno a Roma o a Parigi, Ch decise per quest’ultima. Nei
dipinti di questa prima fase si fa luce un talento già personalizzato. La vita quotidiana di Vitebsk, e lo spirito e i riti
della dottrina hassidica gli ispirano scene il cui colore discreto e la cui impaginazione ricordano talora i Nabis, ma il
cui carattere fondamentale, tipico di tutta l’opera di Ch, è
la spontanea irrealtà.
1910-14) Giunto a Parigi nell’agoPrimo periodo parigino (1
sto 1910, Ch occupò sulle prime uno studio in un vicolo (impasse du Maine); poi si stabilí, nel 1912, a La Ruche. Entrò
rapidamente nell’ambiente artistico parigino, conobbe Delaunay e frequentò i venerdí di Canudo, direttore della rivista «Montjoie», incontrandovi La Fresnaye, Gleizes, Metzinger, Marcoussis, Lhote, Le Fauconnier (che ne seguí poi
il lavoro all’Académie de la Palette). Si legò pure a Cendrars
e Apollinaire; i due poeti si entusiasmarono per la sua pittura. Sulle prime Ch cercò presso Van Gogh e i fauves una
lezione di colore, per lui elemento essenziale (l’Atelier, 1910;
il Padre, 1910-11: coll. priv.); tuttavia trasse dal cubismo e
Storia dell’arte Einaudi
dalla concezione luminista di Delaunay una maniera nuova
di evidenziare i rapporti formali. La composizione ne guadagnò in chiarezza e dinamismo, il disegno in saldezza: Io e
il villaggio (1911: New York, moma) è la prima sintesi, su
un tema frequentemente trattato, del folklore poetico di Ch
e dei principi allora in vigore a Parigi; Alla mia fidanzata
(1911: Berna, km) è ricco di un simbolismo erotico assai raro allora nell’ambiente parigino. Altri quadri importanti indicano poco dopo uno sfruttamento piú concertato del cubismo, ma sempre a fini e con mezzi originali – tinte sature
trattate con digradazione dei valori cromatici, motivi assai
solidamente costruiti (Alla Russia, agli asini e agli altri, 191112: Parigi, mnam; Il soldato beve, 1912-13: New York, Guggenheim Museum). Attraverso l’intervento di Apollinaire,
Ch incontrò Walden a Parigi nel 1912, poi espose a Berlino
e al primo salone d’autunno tedesco (1913), nonché a Der
Sturm. (giugno-luglio 1914).
1914-22) Allo scoppio della guerra
Secondo periodo russo (1
era a Vitebsk; eseguí nel 1914-15 numerosi studi di tipi israeliti a dominante colorata, quadri di grande espressività
(l’Ebreo in rosa, 1914: Leningrado, Museo russo). Nel 1917,
sostenuto all’inizio dal governo rivoluzionario grazie a Luna™arskij, commissario del popolo per l’istruzione pubblica,
che aveva conosciuto a Parigi, venne nominato commissario
per le belle arti della sua provincia; e nel 1918 gli fu dedicata una prima monografia. Ma l’orientamento della politica artistica lo deluse; si oppose a Malevi™; diede le dimissioni (1920) e lasciò Vitebsk per Mosca, dove collaborò al
teatro ebraico realizzando scenografie e costumi per tre lavori di Scholom Aleichem (1921). I quadri di questo secondo periodo russo non differiscono sensibilmente dai precedenti; comprendono una serie di vedute di Vitebsk o vaste
composizioni ispirate dal suo matrimonio con Bella (Autoritratto con bicchier di vino, 1917: Parigi, mnam); alcune però
attestano una breve e singolare ripresa del cubismo, con
un’inattesa fedeltà al suo spirito (Paesaggio cubista, 1919:
Berna, coll. priv.), o la sperimentazione del lavoro a pieno
impasto (il Padre, 1921). Ch lasciò la Russia nel 1922.
Il ritorno in Francia (1923-41) Si fermò a Berlino (192223), dove incontrò Grosz, Hofer, Meidner, Archipenko, iniziandosi ai vari procedimenti dell’incisione. Incise allora per
Paul Cassirer le illustrazioni della sua autobiografia, Mein
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Leben (ventisei acqueforti e puntesecche edite senza testo a
Berlino nel 1923). Questa prima esperienza dell’incisione
prelude ai grandi incarichi datigli da Vollard sin dal ritorno
di Ch a Parigi, nel settembre 1923: illustrazioni per le Anime morte di Gogol´ (118 acqueforti, 1924-25), per le Favole
di La Fontaine (cento acqueforti, 1926-31), per la Bibbia
(centocinque acqueforti, 1931-39, di cui trentanove tavole
verranno riprese e terminate tra il 1952 e il 1956); in occasione di quest’ultima impresa, Ch effettuò un viaggio in Palestina (1931) e andò a studiare le incisioni di Rembrandt ad
Amsterdam (1932). Tali opere fondamentali, tutte e tre pubblicate da Tériade dopo la seconda guerra mondiale, rivelano una comprensione di testi assai diversi. L’artista sfuma
sottilmente i propri mezzi espressivi: brio strampalato per le
Anime morte, monumentalità attenuata dal chiaroscuro per
i protagonisti delle Favole, stilizzazione piú libera, mobile,
per rievocare i grandi episodi biblici. Ch fu per breve tempo sollecitato dai surrealisti, poiché Breton stimava molto i
suoi dipinti di prima della guerra, modelli di «esplosione lirica totale», e fu visitato da Ernst e da Eluard; ma l’incontro non ebbe seguito. La sua evoluzione aveva luogo ormai
senza la tensione conflittuale caratteristica degli esordi, seguendo una modalità identica dal punto di vista sia grafico
che pittorico: l’eliminazione della grafia cubista sfociò nella
fusione tra neri e bianchi da un lato, e nell’interpenetrazione dei toni dall’altro. Nel frattempo Ch visitò piú a fondo la
Francia (soggiorni in Bretagna, in Alvernia, in Provenza e in
Savoia); il bestiario familiare di Vitebsk si arricchì della presenza sempre piú frequente del pesce e del gallo, che rappresentano una tematica con implicazioni simboliche complesse (Il tempo non ha sponde, 1939-41: New York, moma).
Il mazzo di fiori assume anch’esso crescente importanza, raramente come puro pretesto per giochi di colore, piú spesso
come motivo privilegiato d’una visione felice del mondo (gli
Sposi della torre Eiffel, 1928: Parigi, coll. priv.). Il clima politico sempre piú tempestoso gli ispirò nel 1937 la Rivoluzione (che distrusse); nello stesso anno ottenne la nazionalità francese. L’anno seguente la Crocifissione bianca (Chicago, Art Inst.) inaugurava una serie piú simbolica, che riguarda di piú le sofferenze del popolo ebreo. Ch visse negli
Stati Uniti dal 1940 al 1948; questo lungo e doloroso esilio
(la moglie Bella morí nel 1944) fu caratterizzato soprattutto
Storia dell’arte Einaudi
dalle scenografie e costumi che eseguí per Aléko (1942) e per
l’Uccello di fuoco (1945), nonché dalle tredici litografie a colori dell’album Four Tales from the Arabian Nights.
Vence (1950-56) - Saint-Paul (1966) Tornato in Francia,
Ch si stabilí a Vence nel 1950; nuove tecniche lo sollecitavano (ceramica e scultura) e Parigi gli ispirò una serie di dipinti (1953-56), sogni poetici d’un colore diffuso e incenerito (i Ponti della Senna, 1953: New York, coll. priv.). Ebbe
numerosi incarichi: ceramiche e vetrate per il battistero di
Assy (1957), scene e costumi per Dafni e Cloe (1958; la serie litografica apparve nel 1961), vetrate per la cattedrale di
Metz (1960-68) e per la sinagoga dell’ospedale di Gerusalemme (1960-62), decorazione del soffitto dell’Opéra di Parigi (1963-65), mosaici per l’università di Nizza (Storia di
Ulisse, 1968) e per una piazza di Chicago (le Quattro stagioni, 1974), vetrate per la chiesa di Fraumünster a Zurigo, vetrate per la cattedrale di Reims (1974). Importanti le realizzazioni grafiche: litografie a colori e in nero per Circo
(1967), litografie a colori per Sur la terre des dieux (1967), varie acqueforti e acquetinte, ventiquattro legni a colori per
Poesie (Ginevra 1968), monotipi a partire dal 1961. Nel luglio 1973 è stato inaugurato a Nizza un Museo Chagall, dedicato al Messaggio biblico, con i diciassette dipinti e i loro
schizzi preparatori, eseguiti dal 1954 al 1967, i trentanove
guazzi ispirati dalla Bibbia nel 1931, le centocinque lastre
della Bibbia incisa (con i rami originali) e settantacinque litografie. L’arte di Ch integra agevolmente la mobilità affettiva del suo fondo slavo e giudaico con lo spirito razionale dell’Occidente; egli offre in ultima analisi, con i suoi
cesti di fiori, i suoi amanti rannicchiati nel buio azzurro o
nella penombra all’insegna di un gallo o di una capra, l’immagine d’una realtà riconciliata con la fiaba. L’artista è rappresentato nella maggior parte dei grandi musei, in particolare a Parigi (mnam), a New York (moma e Guggenheim
Museum), a Filadelfia (am), a Londra (Tate Gall.), ad Amsterdam (sm). Ha esposto due volte, ancora vivente, al Louvre di Parigi: nel 1967 (il Messaggio biblico) e nel 1977 (sessantadue quadri dal 1967 al 1977). (mas).
Chaissac, Gaston
(Avallon 1910 - La Roche-sur-Yon 1964). Calzolaio a Parigi nel 1934, nel 1937 si stabilí presso il fratello nello stabi-
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le in cui abitavano Otto Freundlich con la moglie Jeanne Kosnik Kloss, che gli insegnarono a disegnare e gli trasmisero
l’interesse per la pittura astratta. Ammalato tra il 1937 e il
1938, in sanatorio si rimise a disegnare; Bestia, uccelli e serpenti (1938, guazzo) è tra i primi esempi di elementi intrecciati di cui fece in seguito tanto largamente uso. Dal 1939
fece i primi disegni a inchiostro di china (Forma dai quattro
volti, 1939; Bestia che si leva in volo, 1940), ove il motivo
viene trattato come un puzzle ricoperto da tratteggi paralleli. A Saint-Rémy-de-Provence, nel 1942, si legò a Gleizes,
Lhote, A. Bloc, e allo scrittore Ch. Mauron. Eseguí nel
1942-43 disegni su fondo marmorizzato o punteggiato e nel
1944 affrontò la pittura a olio. Al Salon des Surindépendants del 1945 Queneau, Paulhan e Dubuffet notarono il lavoro da lui inviato; egli restò poi in relazione epistolare con
loro. Dubuffet introdusse nel 1947 la sua mostra alla Gall.
Arc-en-ciel. Dal 1943 al 1948 visse a Boulogne in Vandea,
dove sua moglie faceva l’istitutrice, poi a Sainte-Florencede-l’Oie (1948-60), dove Dubuffet e Benjamin Péret gli fecero visita, e infine a Vix. I suoi personaggi degli anni ’40
attestano un impegno di caratterizzazione espressiva (Personaggio dai grandi Occhi, 1946; Testa verde con dita pungenti, 1948-49 ca.), che si depurò dopo l’esperienza di composizioni astratte (1950-51; serie di guazzi, 1959) in un segno
semplificato di maschera (Personaggio, 1961-62, guazzo e collage di carta da parati: Parigi, mnam). Oggetti, totem e tele dipinte comparvero dal 1953 (le Sorelle siamesi, 1960, olio
su frammenti di ceppo assemblati), accanto ai piú tardi acquerelli che associava a carte dipinte (Personaggio con cappello viola su fondo nero, 1963-64). È rappresentato a Parigi (mnam), a Nantes , all’abbazia della Sainte-Croix, alle Sables-d’Olonne. (hn+sr).
Chalandon, Emmanuel
Appassionato lionese amante, come Carrand o Aynard, dei
«primitivi» e degli oggetti d’arte del medioevo e del Rinascimento, fu l’iniziatore della collezione Ch. Egli acquistò
le sei famose Scene della vita di san Francesco del polittico di
Borgo San Sepolcro di Sassetta (che nel 1925 vennero comperate da Duveen ed entrarono piú tardi nella ng di Londra). Il figlio Georges (1851 - Saint-Pierre-de-Chabreuil
(Drôme) 1925) proseguí sulla stessa strada, assecondato dal
Storia dell’arte Einaudi
nipote Ferdinand (1922), archivista paleografo. La collezione acquisí in tal modo un notevole complesso di primitivi
italiani, fiamminghi e francesi, una parte del quale è tuttora conservata dalla famiglia nel castello di Parcieux presso
Lione. Tra le opere entrate invece nei musei si possono citare il Calvario con Certosino di Jean de Beaumets (Parigi,
Louvre , un Polittico del senese Ugolino (Williamstown,
Clark Art Inst.), l’Annunciazione attribuita a Jacques Iverni (Dublino, ng), la Fedeltà di Francesco di Giorgio (Pasadena, Fond. Norton Simon), le Scene della vita di san Tommaso d’Aquino di B. degli Erri (San Francisco, De Young
Memorial Museum). (sr).
Chalette, Jean
(Troyes 1581 - Tolosa 1644). Operò in gioventú a Genova,
Milano, Torino e Mantova, ove poté incontrare Frans II
Pourbus. Dopo essersi brevemente trattenuto ad Aix-enProvence, dove disegnò per Peiresc gli Astra Medicea (1611:
Carpentras, Bibl. Inguimbertine), si stabilí a Tolosa (1612),
sposando Françoise, figlia di Josué Parier, pittore di Puy.
Eseguí i ritratti dei capitouls (magistrati tolosani) dal
1610-11 fino al 1641-42; si conservano quelli del 1622-23,
dipinti ai piedi del Crocifisso (Tolosa, Musée des Augustins)
e, su pergamena, undici ritratti collettivi di piccolo formato (Tolosa, ivi e Archivi municipali; Troyes, mba). Dipinse
la Sacra Famiglia, la Madonna dei prigionieri, i ritratti di un
Sovrintendente ai giochi floreali in veste di Apollo (1635: Tolosa, Musée des Augustins), di Pierre Godolin (accademia
dei giochi floreali), di François Sanchez, inciso da Michel
Lasne (1636). Dei suoi progetti di decorazioni sussistono
soltanto due disegni al Museo Paul-Dupuy: per il grande
concistoro, con i Capitouls de 1629-30, e per la casa navale
di Anna d’Austria (1632). Il suo linguaggio ha potuto essere paragonato a quello di taluni pittori che operarono in
Spagna: Orazio Borgianni, Antonio Moro, Mateo Cerezo o
Juan de Zariñena. (rm).
Challe, Charles-Michel-Ange
(Parigi 1718-78). Allievo di Boucher, vincitore del grand
prix nel 1741, per sette anni fu pensionante dell’Accademia
di Francia a Roma, dove eseguì progetti per apparati festivi. Accademico (Unione tra pittura e scultura, 1751: Fontai-
Storia dell’arte Einaudi
nebleau), si specializzò in quadri d’architettura; poi, succedendo nel 1764 a Slodtz come disegnatore del gabinetto del
re, disegnò numerose scenografie e progetti per apparati festivi o catafalchi, in uno stile visionario che attesta l’influsso di Piranesi, di cui era stato amico a Roma, di cui tradusse le opere in francese, e che contribuì a far conoscere in
Francia. Il suo linguaggio pittorico si evolve in seguito verso il neoclassicismo (Allegoria della religione: Parigi, chiesa
di Saint-Médard). (cc).
Champaigne, Jean-Baptiste de
(Bruxelles 1631 - Parigi 1681). Nipote di Philippe de Champaigne, che lo chiamò a Parigi nel 1643, ne fu allievo e collaboratore, assumendone la successione alla sua morte, nel
1674, alla testa della bottega di famiglia. Venne accolto
nell’accademia nel 1663; qui in seguito commentò, sull’esempio dello zio, diverse opere di Poussin. È autore, insieme a
Nicolas de Plattemontagne, di un notevole doppio ritratto
che li rappresenta ambedue (1654: Rotterdam, bvb). (pr).
Chompaigne (Champagne), Philippe de
(Bruxelles 1602 - Parigi 1674). Allievo a Bruxelles di Jean
Bouillon dal 1614 al 1618, lavorò nel 1618 nella bottega del
miniatore Michel de Bourdeaux e nel 1619 in quella di uno
sconosciuto pittore a Mons; seguí poi a Bruxelles, nel 1620,
l’insegnamento del paesaggista Fouquières. Nel 1621 rifiutò
di entrare nella bottega di Rubens, preferendo recarsi in Italia per completarvi la sua formazione; a tal fine non scelse
la via della Germania, di solito seguita dai pittori fiamminghi, ma quella di Parigi, dove giunse nel 1621.
Entrò nella bottega parigina di Lallemand, in base ai cui disegni dipinse nel 1625 una Santa Genoveffa implorata dal
Corps de Ville destinata alla chiesa di Sainte-Geneviève-duMont a Parigi (oggi nella chiesa di Montigny-Lemcoup, Seine-et-Marne). Alloggiato nel collegio di Laon (dove abitava
anche Poussin, cui egli donò un paesaggio di sua mano), contribuí, sempre con paesaggi e sotto la direzione di Nicolas
Duchesne, alla decorazione del palazzo parigino del Lussemburgo (1622-26). Nel 1627 tornò a Bruxelles, e vi sarebbe forse rimasto se Claude Maugis, intendente di Maria
de’ Medici, non gli avesse offerto di succedere a Duchesne
col titolo di pittore ordinario della regina madre e di vallet-
Storia dell’arte Einaudi
to di camera del re, con una pensione annua di 1200 lire e
un alloggio al Lussemburgo. Attirato da questo lavoro e dalla sua remuneratività, Ch tornò il 10 gennaio 1628 a Parigi,
dove il 30 novembre sposò la figlia di Duchesne.
Benché non fosse propriamente fiammingo, la sua prima formazione si accostava a quella dei pittori fiamminghi. Alcuni dei suoi dipinti piú antichi, le Tre età del 1627 (Parigi,
coll. Landry) e la Fanciulla col falcone del 1628 (Parigi, Louvre) lo mostrano vicino a Cornelis de Vos. Si pensa agli studi di teste di Jordaens vedendo quello che di lui si conserva
a Digione (mba). Senza dubbio questo sfondo fiammigo divenne, nel corso degli anni, sempre meno evidente, ma non
per questo egli lo rinnegò; come paesaggista non dimenticò
mai la lezione di Fouquières, come ritrattista eccellette nella resa delle carnagioni e delle stoffe come Van Dyck, come
pittore religioso e decoratore non disdegnò una certa opulenza; e dovunque amò il bello stile sensuale che è proprio
dei pittori dei Paesi Bassi meridionali. Tuttavia, il suo passaggio per la bottega di Lallemand lo tinse di manierismo e
gli fece sviluppare un gusto, molto francese, dell’ordine e
dello stile, nonché l’amore della riflessione e di una disciplina sviluppate forse dal contatto con Poussin. Ne risulta
un’arte se non deliberatamente eclettica quanto meno composita, tanto piú che, pur non essendo sceso in Italia, Ch
non ignora però né il caravaggismo né il classicismo accademizzante dei Carracci, né il neo-venezianismo, né le ricerche barocche, tendenze tutte di cui si ritrovano tracce nei
dipinti che Maria de’ Medici fece eseguire a lui e alla sua
bottega nel 1628-29, per il faubourg Saint-Jacques di Parigi: la Natività (Lione, mba), la Presentazione al Tempio (Digione, mba), la Resurrezione di Lazzaro (Grenoble, mba),
l’Assunzione (Gréoux-les-Bains, cappella de Rousset) e la
Pentecoste (chiesa di Libourne).
Fu apprezzato dalla regina madre e da Luigi XIII, che gli ordinò nel 1634 un Accoglimento del duca di Longueville nell’ordine dello Spirito Santo (conservato a Tolosa). Sembra fosse
pure il pittore favorito di Richelieu, che lo incaricò di decorare nel 1630 ca., nel palazzo del Cardinale, la galleria degli oggetti d’arte e quella degli uomini illustri, compito che
Ch condivise con Vouet. Del suo contributo sono giunte sino a noi tre opere sole: il Gaston de Foix di Versailles, il Mon-
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luc della collezione del duca di Montesquiou-Fezensac: e il
Luigi XIII, detto Alla Vittoria, del Louvre di Parigi.
Benché rifiutasse nel 1635 di andare a dirigere i lavori di decorazione del castello di Richelieu, il cardinale non gli tolse
mai il suo favore, consentendo a Lemercier di passargli l’incarico, nel 1641, delle decorazioni della chiesa della Sorbona e posando per lui a piú riprese (Parigi, Louvre; Chantilly; Varsavia; Londra).
Fu pittore ufficiale di corte (il re lo incaricò nel 1637 di dipingere il Voto di Luigi XIII: Caen, mba), ma anche assai apprezzato dalla chiesa. Cosí nel 1631-32 decorò con dipinti
murali il convento delle Figlie del Calvario, vicino al Lussemburgo, e il carmelo della rue Chapon, per il quale dipinse pure un’Ascensione e una Pentecoste; nel 1636 ca. eseguí
un’Annunciazione (Caen, mba) per la cappella de Masle in
Notre-Dame a Parigi; e nel 1638 ca. decorò il polittico di
Saint-Germain-l’Auxerrois con un’Assunzione (Grenoble,
mba) e con due mirabili figure di San Germano e di San Vincenzo (Bruxelles, mrba).
Le morti di Richelieu (1642) e di Luigi XIII (1643) non compromisero il successo di Ch, consacrato dalla partecipazione
nel 1645 alla fondazione dell’accademia reale di pittura e
scultura. Ritrasse (o «tirò», come allora si diceva) a piú riprese Luigi XIV (disegno a Parigi, Louvre), e lavorò per Anna d’Austria: sia, nel 1645, nel convento del Val-de-Grâce,
per il quale in particolare dipinse quattro paesaggi illustrati
con scene tratte dai Padri nel deserto, tradotti da Arnauld
d’Andilly (Parigi, Louvre; Tours; e Magonza, Mittelrheinisches Landesmuseum), sia, nel 1646, nel Palazzo reale, ove
decorò l’oratorio della regina con Nozze della Vergine (Londra, Wallace Coll.) e un’Annunciazione (ivi). Godeva pure
del favore dei «clienti» della reggente e del primo ministro:
Jacques Tubeuf, che gli fece eseguire dipinti destinati alla
sua cappella nella chiesa dell’Oratorio, e Colbert, di cui dipinse nel 1655 un mirabile ritratto (New York, mma). Ma
non lavorava soltanto per loro, bensí anche per i loro avversari: per esempio per il Corps de Ville parigino, che gli
ordinò nel 1648, 1654, 1657 l’effige collettiva del prevosto,
dei mercanti e dei quattro scabini accompagnati dal procuratore del re e dal cancelliere, nonché il ritratto individuale
di ciascuno di tali personaggi. Il ritratto collettivo del 1648
è conservato a Parigi (Louvre).
Storia dell’arte Einaudi
Dipinse nel 1648 la Presentazione al Tempio per la collegiata di Saint-Honoré (Bruxelles, mrba) e nel 1657 tre scene
della leggenda di san Gervasio e di san Protais (Lione, mba;
Parigi, Louvre). La sua reputazione giungeva persino in provincia: nel 1644 eseguí una Natività per la cattedrale di
Rouen (una delle sue rare opere tuttora in luogo) e, poco dopo, una Visione di san Brunone per la certosa di Gaillon, di
cui si conosce soltanto il disegno preparatorio (Parigi, Petit-Palais). Si può vedere in quest’opera una delle prime manifestazioni dell’amicizia, particolarmente stretta, che da allora legò Ch all’ordine dei certosini, per il quale lavorò a piú
riprese, eseguendo ad esempio per la certosa di Villeneuvelès-Avignon una Visitazione (oggi nella chiesa di questa città),
per la grande certosa un Cristo in croce (Grenoble, mba), e
un Bambino Gesú ritrovato al Tempio (Angers, mba) per la
certosa di Vauvert a Parigi, cui lasciò in testamento un Cristo in Croce (Parigi, Louvre).
Benché un considerevole numero di suoi ritratti sia andato
perduto, sappiamo dalle incisioni e dalle effigi giunte fino a
noi che tutta l’alta società francese posò per lui tra il 1642
e il 1660: prelati come il cardinal di Retz, il vescovo di
Orléans Netz, il vescovo di Comminges Choiseul, il vescovo del Mans Lavardin, il Vescovo di Belley Camus (conservato a Gand); gran signori come il duca di Longueville, il
conte d’Harcourt, il duca d’Angoulême; ministri e segretari di Stato come Chavigny, Guénégaud, Le Tellier; parlamentari come il Presidente de Mesmes (Parigi, Louvre), Omer
Talon (Washington, ng), Pomponne de Bellièvres (Aix-en-Provence, Museo Granet). Poche le donne in questa galleria e
pochi i bambini, tranne Mme Bouthillier (Parigi, Louvre) e i
Bambini Montmort (Reims, mba); presenti, invece, artisti e
«intellettuali» come il poeta Voiture e l’architetto Jacques
Lemercier (Versailles). Così Ch si affermò come uno dei massimi e piú originali ritrattisti del secolo. Non praticò mai il
ritratto equestre caro a Van Dyck e Velázquez, e interiorizzò il ritratto di rappresentanza, intendendo tradurre, sulla tela, piú che l’aspetto fisico dei modelli, la loro personalità.
I rapporti con l’ambiente di Port-Royal s’instaurarono, verosimilmente, tramite Arnauld d’Andilly nel 1646 ca., data
in cui Ch dipinse il ritratto di Martin de Barcos (Gran Bretagna, coll. priv.) e quello, postumo, di Saint-Cyran (nume-
Storia dell’arte Einaudi
rosi esemplari, il migliore dei quali è conservato a Grenoble). Da questo momento tra il pittore e Port-Royal le relazioni divengono strette: nel 1648 dipinge per Port-Royal di
Parigi una Cena (Parigi, Louvre) di cui eseguirà nel 1652 una
replica per Port-Royal-des-Champs; un San Bernardo e un
San Benedetto (perduti) per la stessa sede; un Cristo morto
(Parigi, Louvre) e poi un Buon Pastore (oggi a Granges) e un
Ecce Homo (ivi); mentre una Samaritana (Caen, mba), una
Maddalena (Rennes, mba un San Giovanni Battista (Grenoble, mba) dovevano raggiungere la versione della Cena del
1648 a Port-Royal di Parigi. Disegnando diversi frontespizi per libri di penna giansenista, rappresentò inoltre i personaggi di Port-Royal, spesso in base alle maschere tunerarie, talvolta ad vivum.
Se tra il 1643 e il 1662 gli capita di seguire il movimento generale della Parigi di quell’epoca – l’epoca di La Hyre e di
Le Sueur – verso un gusto piú depurato, un ordine piú spoglio, un classicismo piú severo, gli accade pure di rendere ancora omaggio (per esempio nelle scene della Leggenda di san
Gervasio e di san Protais) a quel barocco temperato che ne
aveva definito la produzione attorno al 1629-30. Il culmine
della sua pittura sacra è forse quel Cristo morto disteso sul sudario (Parigi, Louvre) di cui è istruttivo paragonare la nobiltà, il riserbo e l’interiorità con l’espressionismo di quello
tanto famoso di Holbein; e nessuno dubita che i punti piú
alti della sua produzione di ritrattista siano quelle effigi delle religiose e dei direttori di Port-Royal; l’Ex-Voto del 1662
si trova alla confluenza di questi due filoni privilegiati e occupa pertanto nella sua arte il posto supremo. Dal 1662 sembra che la fecondità di quell’arte s’inaridisca. Certo Luigi
XIV gli ordina un Accoglimento del duca d’Angiò nell’ordine dello Spirito Santo (noto dalla replica che ne fece Carle van
Loo, conservata a Grenoble) e lo incarica nel 1666, insieme
al nipote, di decorare l’appartamento del Gran Delfino alle
Tuileries. Il gusto della giovane corte sembra peraltro ugualmente distogliersi da lui, come dal «vecchione» Corneille;
sintomi significativi ne sono le conferenze all’Accademia
sull’Eliazaro e Rebecca di Poussin (1666) e sulla Vergine col
coniglio di Tiziano (1671), che gli procurano una polemica
con Le Brun e i suoi fedeli. (bd).
Storia dell’arte Einaudi
Champfleury
(Jules Husson, detto Fleury) (Laon (Aisne) 1821 - Sèvres
(Hauts-de-Seine) 1889). Commesso di libreria a Parigi nel
1838, ebbe come collega Chintreuil. Debuttò come critico
su «L’Artiste» (1844). Si legò nel 1846 ca. a Baudelaire e
Bonvin, poi a Courbet e Daumier nel 1847. Membro del cenacolo della libreria Andler, centro dei sostenitori del realismo, ne divenne il primo capofila letterario e ne redasse il
manifesto nel 1857: Le Réalisme. Nel 1847 pubblicò il
Chien-Caillou, romanzo il cui eroe ha come modello l’incisore Bresdin. Durante la rivoluzione del 1848 fondò con
Baudelaire e Courbet l’effimero «Salut public». Ideologicamente piú vicino a Proudhon che a Fourier, che giudicava
troppo moralista, difese Courbet e Daumier, che poneva nella scia di Ingres, Delacroix e Corot («Revue des arts et des
ateliers», 1848). Sin dal 1850 comparve l’Essai sur la vie et
l’œuvre des Le Nain (originari come lui di Laon); seguirono
due altre pubblicazioni nel 1862 e nel 1865, riscoperta fondamentale dei pittori del Terrore, poi studi su Quentin de
La Tour (1886) e su Chintreuil (1874), in collaborazione con
La Fizelière e Henriet. Il suo ruolo fu piú sfumato verso il
1860, quando in ambito letterario s’imponeva Flaubert e il
realismo del ’48 perdette la sua combattività, all’apogeo del
secondo impero. Già reticente davanti alle Demoiselles des
bords de la Seine di Courbet, il ritratto postumo di Proudhon
e la sua famiglia (1865) guastò temporaneamente i suoi rapporti col pittore. Nel 1866 pubblicò la Storia della caricatura antica, seguita dalla Storia della caricatura nel medioevo e
nel Rinascimento (1866-71) e dalla Storia della caricatura moderna; Henri Monnier, che molto apprezzava, gli serví di modello per i suoi studi di costume e fu oggetto di una monografia: Henri Monnier, sa vie, son œuvre (1889). Infine, conservatore del museo della ceramica di Sèvres (1872), pubblicò nel 1878 un piccolo catalogo dell’opera incisa e litografata di Daumier, e nel 1881 una Bibliographie céramique.
Il suo ritratto, di mano di Courbet (1855), è conservato a
Parigi (Louvre); egli figura, nell’Atelier (Parigi, mo), tra gli
«eletti» amici del pittore. (mas).
chan
La setta cinese del ch (traduzione del sanscrito dhyÇna ‘me-
Storia dell’arte Einaudi
ditazione’, pronunciato in giapponese «zen») sarebbe stata
fondata nel Regno di Mezzo dal leggendario Bodhidharma,
che l’avrebbe recata dall’India nel vi sec. della nostra èra;
ma solo a partire dall’viii sec. assunse reale importanza. Essa insegnava che solo l’apprendimento immediato della verità, l’illuminazione, poteva condurre alla salvezza. Lontano da libri sacri, pratiche onerose, discorsi tediosi, l’adepto
ch perseguiva la spontaneità, sia nella vita che nell’arte. Per
questo motivo ogni arte spontanea, ogni grafismo libero viene di fatto posto sotto l’etichetta del «chanismo». Gli artisti che, fin dall’viii sec., operarono «senza costrizioni» (yi
pin), rifiutando le regole seguite dai pittori ortodossi o accademici, vennero spesso assimilati ai monachi ch, di cui
adottarono lo stile brutale, dalla pennellata rapida, che graffiava la carta e vi lasciava tracce come artigliate: come vediamo ad esempio nell’opera dei Maestri di Shu. Per accentuare l’effetto di spontaneità, essi non esitarono ad utilizzare pennelli consunti, spazzole di paglia o bambú affilati;
talvolta lavorarono persino volgendo le spalle all’opera, seguendo unicamente il movimento del corpo.
I letterati del xii sec., desiderosi, con Su Shi, di spezzare le
tradizioni di somiglianza al modello, s’ispirarono a questi
procedimenti eterodossi che, nella loro sobrietà, consentivano di esprimere meglio gli stati d’animo. Il ch infatti, piú
che una scuola, fu una corrente anarchica che si sviluppò parallelamente all’evoluzione della pittura cinese. È vero peraltro che, intorno a certi centri religiosi, monaci o fedeli del
ch elaborarono opere che meritano piú specificatamente la
qualifica di «pittura ch»: cosí, tra le altre, quelle dei celebri
Mu Qi e Liang Kai, maestri la cui opera doveva in particolare ispirare e influenzare lo zen giapponese. (ve).
Chancay
La valle di Ch, nei dintorni di Lima, fu sede di una civiltà
precolombiana (ca. iv-xi sec. d. C.); qui è stata scoperta una
ceramica la cui decorazione bianca su fondo rosso caratterizza lo stile della costa centrale peruviana per un periodo di
tempo che dovette essere contemporaneo alla civiltà mochica (300-1000 ca.). I pochi edifici in rovina tratti in luce sembrano privi di pitture murali; ma erano stati dipinti su tela
guerrieri schematizzati, con grandi acconciature di piume.
Le piume delle acconciature sono bianche e rosse su fondo
Storia dell’arte Einaudi
color ocra scuro; le fasce circolari del medesimo colore che
coprono il petto dei personaggi sembrano, verosimilmente,
collane. Ancora il bianco e il rosso si ritrovano nella rappresentazione del sole con volto umano – cinto da un serpente bicefalo – dipinta su stoffa. Compare in seguito una
ceramica di forme diverse, la cui decorazione, costituita da
linee, fasce e punti, nonché figurazioni di piccoli animali, è
dipinta in bruno o in nero su fondo bianco. (sls).
Chandos
(James Brydges, primo duca di) (Dewsall 1673 - Canons
(Middlesex) 1744). Tesoriere generale durante le guerre di
Marlborough, accumulò una grandissima fortuna; dal 1705
al 1723, consigliato dagli agenti che aveva all’estero, raccolse
una collezione composta soprattutto di opere del xvi e xvii
sec. italiano, nonché del xvii sec. olandese, contenente in
particolare tele assegnate a Tiziano, Veronese, Bassano, Pordenone, Pietro da Cortona, Guercino, Luca Giordano, Guido Reni, Salvator Rosa e Schedone, numerose scene di genere di Gérard Dou e opere di Backhuyzen, Poelenburgh e
Rottenhammer. Possedeva inoltre tele di altre scuole: Ercole tra il Vizio e la Virtú di Poussin (Stourhead, National Trust), la Carità di Van Dyck, svariati Rubens; e protesse Sebastiano Ricci, cui dovette una serie di schizzi. Si fece costruire una dimora, Canons, presso Edgware nel Middlesex
(1713-25), decorata da Bellucci, riedificando inoltre la chiesa parrocchiale, ornata da Laguerre. La casa, detta da Defoe
«la piú sontuosa d’Inghilterra», venne demolita poco dopo
il 1747, ma la chiesa rimane. La collezione venne venduta
presso Cock nel maggio 1747. (jh).
Changenet, Jean
(originario della Borgogna, noto ad Avignone dal 1485 al
1493). I documenti lo indicano come pittore di primo piano. Ch. Sterling gli attribuisce ipoteticamente un San Pietro
(New York, coll. priv.) e Tre profeti (Parigi, Louvre), il cui
stile grandioso unisce elementi borgognoni e provenzali. (nr).
Chantilly
Musée Condé Sul basamento della fortezza eretta nel xiv
sec. da Pierre d’Orgemont, cancelliere di Francia, il connestabile Anne de Montmorency (che l’ereditò nel 1522) co-
Storia dell’arte Einaudi
struí il castello grande di Ch; fece inoltre edificare da Jean
Bullant il castello piccolo, unico rimasto intatto sino ad oggi. Dal 1643, data della battaglia di Rocroi, Ch divenne residenza del Gran Condé, che fece modificare la proprietà e
decorare e abbellire i castelli. I suoi successori ne proseguirono l’opera, costruendo nuovi edifici, e Ch fu una delle dimore piú fastose d’Europa. La proprietà fu messa a sacco
durante la Rivoluzione, dispersi i tesori d’arte che conteneva, raso al suolo il castello grande; venne resa al principe di
Condè al suo ritorno dall’emigrazione post-rivoluzionaria;
egli ottenne la restituzione di un centinaio di dipinti appartenuti alla sua famiglia, e tali opere costituirono il primo fondo del museo attuale. Il figlio, duca di Borbone, lasciò Ch al
pronipote e figlioccio Henri d’Orléans, duca d’Aumale
(1822-97), figlio di Luigi Filippo, il quale, esiliato in Inghilterra dalla rivoluzione del 1848, si rivelò appassionato collezionista. Quando poté tornare in Francia, dopo ventidue
anni di assenza tutti consacrati alla ricerca di opere d’arte,
il principe, riprendendo possesso di Ch, fece costruire nel
1875 dall’architetto Daumet, sull’area del castello grande
distrutto, l’edificio che doveva servire ad ospitare le sue collezioni.
Con atto del 26 ottobre 1886, il duca d’Aumale faceva dono all’Institut de France dell’intera proprietà di Ch e delle
opere d’arte che conteneva. Secondo il desiderio del principe, l’allestimento del museo, che assumeva il nome di Musée Condé, non poteva essere modificato. Le collezioni presentano carattere enciclopedico, poiché il duca d’Aumale
s’era interessato di tutte le forme d’arte, senza alcuna preoccupazione di scuola. Al di fuori delle opere ereditate dai
Condé: (ritratti del xvii e del xviii sec., numerosi ritratti del
Gran Condé, (Stella), undici pannelli di Sauveur le Conte,
collaboratore di Van der Meulen, che celebrano le vittorie
del Gran Condé), tutte le collezioni provengono da acquisti
personali del duca d’Aumale, sempre all’erta nelle vendite
in Inghilterra, Francia e Italia, e che spesso acquistò collezioni al completo. Quella del principe di Salerno, suo suocero, venduta nel 1852, gli portò soprattutto dipinti italiani del xvi sec. da Vergine di Loreto di Raffaello) e del xvii
sec. (in particolare nove Carracci e dodici Salvator Rosa).
Della collezione del duca di Sutherland, formata dai dipinti raccolti da Alexandre Lenoir (fondatore, durante la Ri-
Storia dell’arte Einaudi
voluzione, del Museo dei monumenti francesi, che ospitò
tante opere salvate dalla distruzione) proviene (1876) la maggior parte dei ritratti dipinti del xvi sec., di Corneille de
Lyon, di Clouet e della sua bottega (principi della casa di
Francia, grandi personaggi dell’epoca), del xvii e del xviii
sec. (Ritratto di Madre Angélique di Philippe de Champaigne), cui vanno aggiunti alcuni ritratti fiamminghi. Questa
galleria di ritratti, arricchita da qualche acquisto frammentario (Ritratto di Odet de Coligny) e di opere provenienti dalle collezioni di famiglia, venne ammirevolmente completata dai ritratti disegnati, noti col nome generale di Clouet,
benché non tutti siano di mano dell’artista, che costituivano la collezione privata di Caterina de’ Medici. Venduto a
Firenze nel xviii sec. a Henri Howard duca di Carlisle, comperato dai suoi discendenti dal duca d’Aumale nel 1890, questo complesso rievoca in modo suggestivo la corte dei Valois. I due acquisti successivi delle opere raccolte con grandissimo gusto da Frédéric Reiset arricchirono ulteriormente le collezioni del principe: nel 1861, di 381 disegni di tutte le scuole, e nel 1879 di quadri di alta qualità: primitivi
italiani e francesi – Maso, Sassetta (San Fraccesco), Piero di
Cosimo (Simonetta Vespucci) – Enguerrand Quarton (Vergine della Misericordia), cinque tele di Poussin delle sette che
Ch possiede (Strage degli innocenti). Tra i dipinti piú preziosi vanno ancora citati due piccoli pannelli di Raffaello: Madonna col Bambino, già appartenuto alla casa d’Orléans, e le
Tre Grazie. La collezione contiene inoltre numerose tele
«moderne» (Ingres, Delacroix, Decamps, Delaroche). Al di
fuori dei Clouet e di opere di varie scuole, il gabinetto dei
disegni, uno dei piú ricchi di Francia dopo quello del Louvre, serba due altri complessi: 484 pezzi di Carmontelle e
600 disegni di Raffet. Infine, fra i tesori di Chantilly si ammirano i manoscritti dipinti, due dei quali contribuiscono in
modo del tutto particolare alla celebrità del Museo Condé:
le Très riches Heures du duc de Berry dei Limbourg e i quaranta fogli staccati del Libro d’ore di Etienne Chevalier di Jean
Fouquet. (gb).
Chaperon, Nicolas
(Cháteaudun 1612 - Roma? 1656). Noto soprattutto per le
incisioni dalle Logge di Raffaello (1649), nei dipinti (Presentazione al Tempio: Compiègne, cappella di Saint-Nicolas;
Storia dell’arte Einaudi
schizzo a New York, coll. priv.) imita lo stile ampio di Simon Vouet, mentre i disegni lo pongono al livello dei piú
abili elaboratori di pastiches da Poussin. (pr).
Chardin, Jean-Baptiste-Siméon
(Parigi 1699-1779). La sua carriera si svolse interamente a
Parigi, tra rue de Seine, ove nacque, rue Princesse e rue du
Four, ove occupò numerosi alloggi, e il Louvre, che abitò dal
1757 alla sua morte. Allievo di Pierre-Jacques Cazes, entrò
poi nella bottega di Noël-Nicolas Coypel. Nel 1724 venne
accolto come maestro pittore nell’Accademia di San Luca.
Quattro anni dopo espose in place Dauphine numerose nature morte, tra cui la Razza (Parigi, Louvre) e venne accolto nell’Académie. Ricevuto e accettato nel medesimo giorno, offrì all’Académie la Razza e il Buffet (Parigi, Louvre);
da allora ne seguí fedelmente le sedute. Nel 1731 sposò Marguerita Saintard, con cui era fidanzato dal 1720. Nello stesso anno nacque un figlio, Pierre-Jean, di cui il padre volle,
ma vanamente, fare un pittore di storia. Malgrado i primi
successi, Ch fu obbligato ad accettare compiti «poco soddisfacenti». Cosí, Jean-Baptiste van Loo lo impiegò al suo fianco per il restauro della galleria Francesco I a Fontainebleau.
Durante questo stesso periodo Ch si volse al quadro di figure e alla scena di genere alla maniera degli olandesi: Dama che sigilla una lettera (1733: Berlino, Charlottenburg).
Nel 1735 perdette la moglie: l’inventario dopo tale decesso
rivela un certo agio economico. Nel 1737 il salon, che con
l’eccezione del 1725 non aveva piú avuto luogo dal 1704,
presentò otto suoi quadri.
Risalgono al 1738 ca. alcune delle sue piú affascinanti rappresentazioni dell’infanzia: il Giovinetto col violino, il Bambino con la trottola (ambedue a Parigi, Louvre). Venne presentato a Luigi XV nel 1740 e donò al re la Madre laboriosa
e il Benedicite (oggi ambedue a Parigi, Louvre). Nel 1744
sposò in seconde nozze Marguerite Pouget, che doveva immortalare nel pastello del Louvre, fatto trent’anni dopo.
Questi anni segnano il culmine della sua fama. Luigi XV
pagò 1500 lire l’Organetto (New York, coll. Frick), unico
quadro dell’artista comprato dal re. I colleghi dell’Académie, in segno di fiducia, lo incaricarono ufficiosamente
(1755) e poi ufficialmente (1761) dell’«aggancio», cioè
dell’allestimento, dei quadri del salon. Questa missione, che
Storia dell’arte Einaudi
svolse con umorismo, gli consentí di valorizzare le opere che
amava e di entrare in contatto con Diderot.
Fino al 1770 la reputazione di Ch nei generi in cui si era specializzato era grande. Ma in quella data J.-B.-M. Pierre divenne l’onnipotente direttore dell’Académie, battendo i protettori di Ch, e gli ultimi anni del pittore furono difficili.
Diede le dimissioni dalle varie cariche all’Académie; gli si
abbassò la vista, obbligandolo a volgersi al ritratto a pastello (quattro a Parigi, Louvre); morì tra l’indifferenza quasi
generale, che doveva durare oltre un secolo.
«... Un giorno, un artista magnificava grandemente i mezzi
da lui usati per purificare e perfezionare i colori. M. Ch, seccato da quelle chiacchiere da parte d’un uomo cui non riconosceva altro talento se non un’esecuzione fredda e accurata, gli disse: – Ma chi vi ha detto che si dipinge coi colori?
– E con che altro allora? – rispose l’altro, molto stupito. –
Ci si serve dei colori, – riprese M. Ch, – ma si dipinge col
sentimento». Cosí Cochin parlava del suo amico in una lettera che inviava, l’indomani della sua morte, a Haillet de
Couronne, che doveva pronunciare l’elogio funebre del pittore davanti all’accademia di Rouen, di cui era stato membro. In effetti è il sentimento che differenzia l’arte di Ch da
quella dei suoi numerosi contemporanei, come lui specializzati nei generi – allora considerati minori – della natura morta e della scena di genere. Di fatto Ch ha due registri che
pratica alternativamente. E se, nella scena di genere, si volse di preferenza agli esempi olandesi, interpretandoli alla sua
maniera (a scala diversa e senza, per esempio, cercar di rendere minuziosamente le sfumature del raso), nelle nature
morte (va conferito un posto a parte all’unico Mazzo di fiori della ng di Edimburgo) sembra seguire l’esempio di Fyt e
dei suoi emuli francesizzati come Pieter Boel, o di Largillière, che pare ne guidasse i primi passi. Tuttavia, il problema dell’evoluzione sembra, per quanto attiene a Ch, di secondaria importanza. Le nature morte prima del 1730 (bel
complesso a Karlsruhe) si riconoscono per una fattura particolarmente grassa, un’impaginazione meno equilibrata, una
costruzione meno ritmica, e le figure di genere degli anni ’40
(la Fornitrice, 1739: Parigi, Louvre; la Governante, id.: Ottawa, ng) sono particolarmente sapienti nella giustapposizione dei piani ed evitano il dettaglio aneddotico. Ma l’essenziale è altrove: Ch è pittore della vita borghese, soprat-
Storia dell’arte Einaudi
tutto della «vita silenziosa», degli oggetti piú familiari e di
chi li usa. Mai l’artista tuttavia sarà piú grande che prima
della morte, e l’emozione che si sprigiona da tele come il Coniglio morto (Amiens, mba) o la Lepre nel paiolo (Stoccolma,
nm) viene ottenuta senza alcuna concessione alla facilità
dell’aneddoto o all’effetto. Un quadro come l’Organetto
(1752: New York, coll. Frick) è un capolavoro d’intimismo
«olandese» elegante e borghese, tradotto alla francese, e il
Vaso di Olive (1760: Parigi, Louvre), come la Brioche (1763:
ivi) sono capolavori d’illusione e di verismo che Diderot
ammirava: «Ed eccovi di nuovo, grande mago, con le vostre
composizioni mute... come circola l’aria intorno a questi oggetti... È un vigore di colore incredibile, un’armonia generale, un effetto pungente e veritiero, belle masse, una magia da far disperare, un distillato pur nell’assortimento e nella composizione; ci si allontana, ci si avvicina, stessa illusione, niente confusione, niente simmetria neppure, perché
c’è calma e riposo». Nel 1765 ricevette dal marchese di Marigny l’incarico di tre sopraporta (due dei quali – Attributi
della Musica, Attributi delle Arti – a Parigi, Louvre). Infine
i pastelli (Autoritratti del Louvre del 1771 e del 1775, e uno
non datato, e il Ritratto della moglie del 1775, ivi) concludono questa carriera con una nota di analisi psicologica sino ad allora assente.
Si valuta a piú di mille il numero delle tele eseguite da Ch
nella sua lunga carriera, il che è sorprendente in un pittore
che i contemporanei accusano spesso di «pigrizia». Con oltre trenta quadri provenienti per la maggior parte dalla coll.
Lacaze, il Louvre di Parigi è il museo piú ricco di sue opere,
ma musei di Stoccolma, Karlsruhe, Glasgow, il Jacquemart-André di Parigi e, di recente, il museo della caccia a
Parigi possiedono anch’essi bei complessi di opere dell’artista. (pr).
«Charivari, Le»
Giornale satirico illustrato, fondato a Parigi da Ch. Philipon
il 1° dicembre 1832. Volto in particolare contro Luigi Filippo, tra i suoi collaboratori contava Altaroche, T. Delord, C.
Caraguel, e per le caricature Daumier, Grandville, Gavarni,
Cham, Philipon. Nel settembre 1835 dovette abbandonare
la caricatura politica per la satira sociale (Robert Macaire, Costumi coniugali). Dopo un ritorno alla politica dal 1848 al
Storia dell’arte Einaudi
1851, modificò di nuovo la propria tattica. Dal 1858 assunse una fisionomia pressoché definitiva, che non mutò piú fino alla sua scomparsa nel 1893. Le caricature sono soprattutto dedicate a scene di costume; tra i redattori erano H.
Rochefort, P. Véron, A. Huard, A. Wolff. Sotto la terza repubblica perse molta della virulenza degli esordi. La collezione dello Ch costituisce un documento essenziale per la storia della caricatura francese dal 1830 alla fine del xix sec. (sr).
Charlet, Nicolas-Toussaint
(Parigi 1792-1845). Fu allievo di Gros, ma piú che ai dipinti, peraltro ammirati da Delacroix (Episodio della ritirata di
Russia: Lione, mba), deve la propria fama ai disegni e alle
stampe. Fu Géricault ad insegnargli l’uso d’una litografia
forte e colorata. Fu acceso bonapartista, come mostrano le
caricature dalle incisive didascalie, le scene militari, e il tipo dei grognards (soldati della vecchia guardia napoleonica)
da lui creato. (ht).
Charpentier, Constance
(nata Blondelu: Parigi 1767-1849). Fu allieva di David, poi
di Gérard. Un certo numero di suoi ritratti comparve al salon dal 1795 al 1919. Se Charles Sterling non le avesse restituito nel 1951 quello di Mademoiselle du Val d’Ognes, per
lungo tempo attribuito a David (salon del 1801: New York,
mma), sarebbero oggi tutti perduti. La medesima grazia e il
medesimo luminismo compaiono nell’unico quadro documentato: la Malinconia (1801: Amiens, Museo di Piccardia).
(fm).
Charpentier, Georges
(Parigi 1846-1905). Figlio di Gervais Charpentier (1805-71)
il celebre editore di scrittori romantici, si occupò di giornalismo, d’arte e di letteratura; nel 1871 succedette al padre.
Pubblicò opere di A. Daudet e Zola, e fece parte del gruppo di Médan. Sua moglie, protettrice dei pittori impressionisti, li riceveva nel suo salotto in rue de Grenelle, dove incontravano Gambetta, Jules Ferry, Zola, Flaubert, A. Daudet, E. de Goncourt, Huysmans.
Ch fu tra i primi ad acquistare quadri impressionisti. Sin dal
1875 comperava tele di Monet. L’anno successivo incontrò
Renoir e gli ordinò il Ritratto di Mme Georges Charpentier,
Storia dell’arte Einaudi
uno dei capolavori del pittore, lasciato in eredità poi al museo del Lussemburgo (1877: Parigi, Louvre, Jeu de paume).
Il celebre gruppo rappresentante Madame Georges Charpentier e i suoi due figli (1878: New York, mma) rivelò il pittore al salon del 1879.
La sede della rivista artistica «La Vie moderne», fondata da
Ch nel 1879, ospitò mostre personali dedicate alle opere di
Renoir (giugno 1879), Manet (aprile 1880), Monet (giugno
1880), Sisley (1881). Queste mostre erano organizzate da
Edmond Renoir, fratello del pittore e collaboratore della rivista.
La collezione Ch andò dispersa a Parigi l’11 aprile 1907. Il
catalogo mette in evidenza numerosi artisti contemporanei
(C. Nanteuil; E. Boudin; J.-J. Henner, F. Rops, H. FantinLatour, Forain, Puvis de Chavannes, Gleizes), nonché opere dovute a Cézanne, Degas, Pissarro, Sisley, Monet e soprattutto Renoir. Il Ritratto di Mme Charpentier e dei suoi figli, pezzo forte dell’asta, venne acquistato dal Metropolitan
Museum di New York per l’esorbitante prezzo di 92 000
franchi. (mtmf).
Chase, William Merritt
(Williamsburg Ind. 1849 - New York 1916). Studiò dapprima con Benjamin Hayes a Indianapolis e J. O. Eaton a New
York, poi si recò in Germania nel 1872, ove, benché allievo di Karl von Piloty e di Alexander Wagner alla Münchner Akademie, subí soprattutto l’influsso di Wilhelm Diez.
Tornò a New York nel 1878, dedicando poi gran parte della sua vita all’insegnamento, prima presso l’Art Students’
League, poi alla Chase School of Art, che fondò nel 1896
(nota pure col nome di New York School of Art), e infine
alla Summer School che fondò a Carmel in California nel
1914. Tra i suoi allievi furono Charles Sheeler e Morton
Schamberg. Le sue attività di docente non gl’impedirono di
lasciare una notevole produzione (oltre duemila opere), che
attesta grande saldezza di stile. Dipinse nature morte e ritratti, oltre a scene d’interno e paesaggi. L’influsso degli antichi maestri da lui ammirati – Hals, Velázquez, Tintoretto – legato alla pratica fatta alla scuola di Monaco, si riscontra in una tela come An English Cod (1904: Washington, Corcoran Gall.), dipinta con vigore e vivacità. I suoi
paesaggi (Near the Beach, 1895: oggi a Toledo) rivelano l’in-
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flusso dell’impressionismo (Ch incoraggiava i suoi studenti
a dipingere all’aperto), ma non ne accettano tutti i principî.
Fu celebre e onorato in vita e la sua opera è ben rappresentata nei musei americani. Una sua tela (Fanciulla in bianco)
si trova a Parigi (Louvre). (jpm).
Cha Shibiao
(1615-98). Fu il piú letterato dei Quattro Maestri dello
Anhui. Di famiglia agiata, si dedicò alla letteratura e alla pittura dopo la caduta dei Ming (1644). Fu talento sensibile,
amabile e delicato; eccelleva nei paesaggi di piccolo formato ispirati ai disegni nebbiosi di Mi Fei e alle composizioni
di Ni Zan (Londra, bm); Parigi, Museo Guimet; Cambridge, coll. Zheng Dekun. (ol).
Chassériau, Théodore
(Sainte-Barbe-de-Samana (San Domingo) 1819 - Parigi
1856). Il padre, inviato di Francia a San Domingo, temendo per la moglie e il figlio a causa delle rivolte negre, li sistemò a Parigi nel 1822, affidandoli al figlio maggiore. Questo fratello, di diciott’anni piú anziano del piccolo Théodore, ne incoraggiò la vocazione artistica straordinariamente
precoce; piú tardi, come influente funzionario, gli assicurò
il suo appoggio. Nel 1831 Ch entrò nello studio di Ingres,
che sin dalla prima ora comprese i doni eccezionali dell’adolescente, e avrebbe voluto condurlo a Roma quando fu nominato direttore dell’Accademia di Francia nel 1834; ma le
ristrettezze finanziarie obbligarono il giovane allievo a rimandare il viaggio. Fu allora lasciato a se stesso; ma a quindici anni era già in possesso del suo mestiere e legato ad artisti e scrittori tra i piú in vista. Il salon del 1836 ne accoglieva sei dipinti: quattro di essi (ritratti) si trovano oggi al
Louvre: la Madre dell’artista, Adèle Chassériau, Ernest Chassériau, il Pittore Marilhat. Il successo al salon del 1839 (Venere marina e Susanna al bagno: Parigi, Louvre) gli valse un
incarico i cui proventi gli consentirono di partire per l’Italia. Soggiornò sei mesi a Roma e a Napoli. Risale a questo
periodo il prodigioso Ritratto di Lacordaire (1840: Parigi,
Louvre). La morbidezza, il fascino ambiguo, il fremito colorato delle figure di Ch, caratteri dovuti senza dubbio alle
sue origini creole, apparvero al maestro, autoritario e parziale, altrettanti segni di ribellione al suo insegnamento. Tut-
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tavia, sia che la sua formazione iniziale l’avesse segnato indelebilmente, sia che rispondesse a un atteggiamento innato, per tutta la sua vita Ch attestò il suo debito verso Ingres.
La Toeletta di Ester (1841: Parigi, Louvre), le Due sorelle
(1843: ivi), Mlle Cabarrus (1848: oggi a Quimper), il Tepidarium (1853: Parigi, mo) presentano una sinuosità lineare
che si unisce ad una staticità all’antica, nello spirito di Ingres.
Nondimeno, dal 1842, nuove tendenze si affermano nell’arte di Ch, un crescente amore per il colore, per forme piú mobili, per soggetti ripresi da autori amati dai romantici, come
Shakespeare (dipinti e litografie ispirate dall’Otello, 1844).
Un viaggio in Algeria, nel 1846, determinò lo shock che confermò tali inclinazioni. Il suo contatto con l’Oriente rivelò
un’intesa sincera con la luce e il movimento (Cavalieri arabi
che portano via i loro morti, 1850: coll. priv.). La critica volle vedere in quest’espressione nuova un’imitazione di Delacroix, il cui influsso innegabile venne elaborato da Ch in maniera originale. La sua complessa formazione emerge nei
grandi dipinti murali, parte essenziale della sua produzione.
A Parigi decorò una cappella a Saint-Merri (Storia di santa
Maria Egiziaca, 1844), il fonte battesimale di Saint-Roch (San
Filippo battezza l’eunuco della regina d’Etiopia, San Francesco Saverio apostolo delle Indie e del Giappone, 1853), l’emiciclo di Saint-Philippe-du-Roule (Deposizione dalla croce,
1855) e la scala della Corte dei conti (1844-48), il suo esempio piú prestigioso, incendiato durante la Comune (importanti resti, rovinati dal fuoco, ne sussistono al Louvre: la Pace, la Guerra, il Commercio). Emana dall’arte di Ch una sorta di fascino misterioso, suscitato in gran parte dal tipo femminile suggeritogli da donne ammirate o appassionatamente amate, la sorella Adèle, Alice Ozy (la Ninfa addormentata
conservata ad Avignone), la principessa Cantacuzène, tra
tante altre. Quest’arte, insieme nobile e voluttuosa, fu la
fonte dell’ispirazione di due grandi artisti della seconda metà
del secolo: Puvis de Chavannes e Gustave Moreau. Grazie
soprattutto alle donazioni di un nipote dell’artista, il barone Arthur Chassériau, il Louvre di Parigi ne conserva un
complesso considerevole di tele finite, schizzi dipinti e disegni. (ht).
Storia dell’arte Einaudi
Chastel, André
(Parigi 1912). Formatosi sull’insegnamento di Renaudet e
di Focillon, fece del Rinascimento italiano il proprio campo
di ricerca: Art et humanisme à Florence au temps de Laurent
le Magnifique (Paris 1959, tesi di laurea), Léonard de Vinci,
Traité de la peinture (Paris 1960), Léonard de Vinci par lui-même (Paris 1952), L’Europe de la Renaissance, l’áge de l’humanisme (Paris 1963, in collaborazione con Robert Klein),
Italie 1460-1500 (t. I, Le Grand Atelier d’Italie, Paris 1965;
t. II, Renaissance méridionale, Paris 1966), Il Mito del Rinascimento 1420-1520 (Genève 1969), e La Crise de la Renaissance 1520-1600 (Genève 1968), nonché una storia dell’Arte Italiana (Paris 1956, 2 voll.). Docente all’Ecole pratique
des hautes études, poi alla Sorbona, contribuí a rilanciare gli
studi di storia dell’arte in tutti i campi (Colloque international Nicolas Poussin, Paris 1960; fondazione della rivista «Art
de France», 1961-64, poi della «Revue de l’art», che appare dal 1968) e a formare gruppi di giovani ricercatori (fondazione del Centro di ricerche sull’architettura moderna,
1959). Ottenne da André Malraux la creazione dell’Inventaire général des monuments historiques et des richesses artistiques de la France (1964). Dal 1946 tiene la rubrica di critica
d’arte del giornale «Le Monde». Dà l’esempio di una storia
dell’arte che cerca nel contempo di studiare la vita delle forme e di analizzare l’articolazione e la psicologia dei grandi
momenti storici. Ma, di mentalità liberale, si è sempre rifiutato d’imporre un sistema o un metodo e ha improntato
la scuola francese di storia dell’arte col suo rifiuto della specializzazione erudita e il suo impegno di riflessione umanistica. Nel 1970 ha lasciato la Sorbona per occupare una cattedra al Collège de France. È membro dell’Institut de France (1976, Accademia delle iscrizioni e belle lettere). In Fables, Formes, Figures (Paris 1978) ha raccolto 64 suoi articoli, scritti in epoca diversa. (tb).
Chastel, Roger
(Parigi 1897). Allievo a Parigi di Cormon all’Enba, frequentò pure l’Académie Julian e l’Académie Ranson. Mobilitato dal 1916 al 1919, dopo la guerra disegnò per svariati
giornali e riviste. Dal 1925 si dedicò esclusivamente alla pittura. Nel 1930 tenne la prima personale presso Jeanne Ca-
Storia dell’arte Einaudi
stel; poi espose nel 1932 presso Paul Guillaume. Dopo un
passeggero influsso del cubismo, tornò a un’arte realista,
eclettica e dinamica (i Figli del panettiere, 1931: Parigi,
mnam; dipinti murali del padiglione del turismo all’esposizione internazionale di Parigi nel 1937, e del palazzo della
Società delle nazioni a Ginevra nel 1938). Dopo la Liberazione, ha partecipato regolarmente al Salon de mai e a quello delle Réalités nouvelles. Molto colto, si è progressivamente accostato all’espressione astratta senza mai rompere
con la tradizione né abbandonare l’esperienza della natura.
Opera in generale per serie su uno stesso tema: 14 luglio a
Tolone (1955: Parigi, mnam), il Castello di carte (1957-58),
il Pianoforte VII (1959, di proprietà dell’artista), Circo con
trapezista (1965-66). La sua opera comprende inoltre arazzi
eseguiti presso i Gobelins, scenografie e illustrazioni di libri. Nel 1967 la Gall. Villand et Galanis di Parigi ha presentato una retrospettiva della sua opera in tre mostre consecutive. (rvg).
Chatelet, Claude
(Parigi 1753-95). Forní disegni per il Voyage pittoresque de
Naples et de Sicile dell’abate di Saint-Non (1784). I suoi paesaggi di rovine hanno accento preromantico (tele, disegni a
penna, spesso rilevati ad acquerello; musei di Fontainebleau
e di Orléans). (cc).
Chat-Noir
Nel 1881 il polemista Rodolphe Salis fondò, al n. 84 del boulevard Rochechouart a Parigi, il cabaret dello Ch-N. Qui lo
raggiunsero Emile Goudeau e i suoi amici del Club des Hydropathes. Intorno a loro si raccolsero presto poeti (Jean
Moréas, Maurice Rollinat, Albert Samain e Jean Richepin),
giornalisti (Léon Bloy), umoristi (Alphonse Allais) e chansonnier (Aristide Bruant e Jules Jouy). Tutti collaboravano
allo spettacolo del cabaret e alla redazione dello «ChatNoir», settimanale fondato nel 1882. Numerosi pittori e disegnatori si aggregarono a loro. La decorazione del cabaret
venne realizzata da Willette (Parce Domine, populo tuo: Parigi, Museo dell’antica Montmartre) e Steinlen (l’Apoteosi
dei gatti). Questi eseguí un bellissimo manifesto stilizzato
(Tournée du Chat-Noir avec Rodolphe Salis, 1896). Eugène
Storia dell’arte Einaudi
Grasset creò l’arredo. Forain, Gill, G. Auriol disegnarono
anch’essi per la rivista schizzi parigini o battute politiche.
Il cabaret si spostò, con gran pompa, nel 1885, per stabilirsi al n. 12 di rue de Laval (oggi rue Victor-Massé), nella foresteria di monsignor Chat-Noir. In questa nuova cornice
Henri Rivière creò il suo piccolo teatro di ombre cinesi. Il
successo fu grandissimo. I testi erano redatti da Maurice
Donnai (Phrynè) o Fragerolle (L’Enfant prodigue). Le
silhouette di zinco ritagliato, fatte da Caran d’Ache (La
Grande Epopée) e Robida (La Nuit des temps) si animavano
davanti a scenografie dipinte su vetro come i paesaggi poetici di Henri Rivière (i Chiari di luna). Dopo la morte di Salis nel 1897 lo Ch-N cadde in decadenza, poi scomparve. Come cabaret artistico aveva fortemente influenzato i suoi numerosi clienti del venerdí, poeti e pittori, ed era stato luogo d’incontro di artisti (da Villiers de l’Isle-Adam a Mistral,
da Félicien Rops a Léon Gérôme), intellettuali e politici. (tb).
Chatou
Comune degli Yvelines dove gli impressionisti andarono
spesso a dipingere en plein air. Monet e Renoir, che vivevano non lontano, dipinsero alla Grenouillère (Monet, la Grenouillère, 1869: New York, mma; Renoir, la Grenouillère,
1869: Stoccolma, nm) e al ristorante Fournaise (Renoir, Colazione dei canottieri, 1881: Washington, Phillips Coll.). Nel
1900 Derain, nativo di Ch, vi affittò uno studio in comune
col suo amico Vlaminck, creando cosí uno dei primi focolai
del fauvisme. Nei loro dipinti, come nella realtà, le chiatte
hanno ormai sostituito i rematori, e le fabbriche le feste popolari. A Ch e dintorni – Nanterre, Marly, Le Pecq – risalgono forse la parte piú originale della produzione di Vlaminck e le prime e brillanti prove fauves di Derain. (fc).
Chatsworth
Castello nel Derbyshire (Gran Bretagna), costruito tra il
1687 e il 1706; presenta decorazioni dipinte, in particolare
di James Tornhill (Caduta di Fetonte, Ratto delle Sabine).
Ospita la celebre collezione dei duchi del Devonshire, composta soprattutto di opere classiche raccolte dal terzo duca
e dal terzo conte di Burlington nella prima metà del xviii
sec. Tali opere, sparse tra Devonshire House a Londra e Chiswick House, vennero nella loro maggioranza raccolte a Ch
Storia dell’arte Einaudi
dal sesto duca dopo il 1835. Il nucleo della collezione è essenzialmente dedicato al xvii sec. Comprende Et in Arcadia
ego e la Sacra Famiglia di Poussin, Mercurio e Bacco di Claude Lorrain, una Sacra Famiglia di Rubens (Liverpool, wag),
bei ritratti di Rembrandt, Van Dyck e Jordaens, un notevole paesaggio di Berchem, nonché tele veneziane, tra cui il
Sansone e Dalila di Tintoretto e un’Adorazione dei magi di
Veronese. La collezione (una delle piú belle collezioni private) possiede pure numerosissimi disegni di antichi maestri, raccolti dal secondo duca, che nel 1723 aveva acquistato la coll. Flinck (coi suoi numerosi paesaggi di Rembrandt) e il Liber veritatis di Claude Lorrain; il terzo duca
mise inoltre insieme notevoli disegni fiorentini, veneziani e
tedeschi, il libro di schizzi di Van Dyck e quello di Rembrandt, serie di Raffaello, Barocci, Rembrandt, Rubens,
Claude Lorrain, Poussin, Inigo Jones (i cui disegni di architettura sono in prestito perpetuo al Royal Institute of British Architects); 24 dipinti, tra cui Susanna e i vecchioni di
Giordano, la Morte di Cleopatra di La Hyre e un paesaggio
di Salvator Rosa, vennero venduti presso Christie nel giugno 1958; il Trittico Donne di Memling, il Ritratto di vecchio
di Rembrandt, il Doppio ritratto di Jordaens e il Liber veritatis di Claude Lorrain entrarono nel 1957 nella ng e nel bm
di Londra, a saldo di tasse di successione. (jh).
Chaucer, manoscritti di
Quando si esaminano le molteplici miniature profane del
continente, si è sorpresi nel constatare che non esistono illustrazioni generali dei manoscritti del poeta inglese Chaucer (1340-1400); e tra essi pochi sono quelli che contengano anche solo qualche immagine. Il piú noto è il manoscritto Ellesmere dei Racconti di Canterbury (San Marino Cal.,
Bibl. Huntington), contenente i ritratti di pellegrini e quello dello stesso Chaucer, tutti rappresentati a cavallo nel margine della pagina corrispondente all’inizio del racconto. I
personaggi sono raffigurati seguendo la descrizione che ne
dà il poeta nel prologo. Due altri manoscritti (Cambridge,
Bibl. universitaria, ms G.g. 4.27; e Oxford, Bodleian Library, ms Bodl. 686) contengono anch’essi i ritratti dei pellegrini, ma secondo una diversa tradizione iconografica, poiché non corrispondono alle descrizioni del testo. Il manoscritto di Troilo e Cressida di Cambridge (Corpus Christi Col-
Storia dell’arte Einaudi
lege, ms 61) contiene una miniatura a piena pagina di Chaucer che legge a un uditorio di cortigiani elegantemente vestiti; e il suo ritratto si trova in un margine del De regimine
principum di Hoccleve, di fronte ad alcune righe che ne fanno l’elogio (Londra, bm, ms Harley 4866, fol. 88). (mast).
Chauvin, Pierre-Athanase
(Parigi 1774 - Roma 1832). Allievo di Valenciennes, si stabilí a Roma nel 1804; trascorse in Italia quasi tutta la sua vita e si rese celebre in Francia e soprattutto all’estero (Inghilterra, Germania, Russia) con vedute della campagna napoletana o romana, di esatta fattura, notevoli per la qualità
degli effetti di luce contrastati. Dipinse per Talleyrand, che
gli concesse una pensione (1806), e per Metternich (1819).
Divenne nel 1813 membro dell’Accademia di San Luca. Si
possono vedere alcuni suoi paesaggi a Copenhagen (Museo
Thorvaldsen), a Oslo (ng) e in musei di Montpellier, Moulins, Nantes, Parigi (mad). (sr).
Chavín
Civiltà che deve il nome al sito di Chavín de Huántar in
Perú, sede di una civiltà precolombiana (ca. 1200-200 a. C.)
a nord delle Ande peruviane; ha dominato gran parte dei territori peruviani dal 1200 a. C. in poi; l’apogeo è tra l’viii e
il iv sec. a. C. Ch fu, verosimilmente, un centro religioso.
Gli edifici principali, dalla massa muraria impressionante, si
rivelano disposti secondo un piano rigoroso. La decorazione delle superfici piane, essenzialmente lineare, riguarda piú
l’incisione e la grafica che la scultura. Cosí, in ciascuna delle due colonne cilindriche che fiancheggiano il portale del
tempio è incisa una grande figura con un rilievo appiattito,
mentre la cornice che le sormonta è ornata da un fregio di
uccelli. Tali figure sono composte di elementi curvilinei e
rettilinei estremamente complessi, ove si hanno zampe e musi di felini, artigli e becchi di rapaci. La «Grande Immagine», scultura monolitica collocata all’interno del tempio, reca l’incisione di un muso felino, composto di motivi serpentiformi.
La pittura murale, se mai ve ne fu, è totalmente scomparsa;
ma l’arte di Ch è essenzialmente grafica. L’ornamentazione
è caratterizzata dalla ripetizione sistematica e simmetrica di
figure ridotte a pure combinazioni di linee rette e curve. Si
Storia dell’arte Einaudi
aggiunge ai motivi di felini e rapaci, che ne costituiscono la
parte essenziale, un piccolo numero di elementi geometrici
ed astratti, che daterebbero alla fase tarda della civiltà
chavín. Tali forme curvilinee si ritrovano sui gioielli, sugli
oggetti in pietra, e nei vari stili del vasellame. Nella fase antica (1200-800 a. C.), la ceramica lucida era ornata semplicemente con pochi colori (rosso, bruno, nero) separati da linee incise. A partire dall’800 a. C. si sviluppano e si diffondono i motivi curvilinei. Sui vasi con ansa a staffa, forma
caratteristica del vasellame chavín, le linee incise sono talvolta di grande complessità. Il rosso, il marrone, il crema e
il nero sono stesi tra le zone incise. Le prime rappresentazioni naturalistiche compaiono parallelamente ai motivi felini e serpentiformi, forse a partire dal v sec. a. C. Il naturalismo si diffonde dopo il iv sec.; esso compare particolarmente nella ceramica di Gallinazo, cultura tuttora mal conosciuta, che sembra però intermedia tra le civiltà chavín e
mochica. I caratteri stilistici della civiltà chavín scompaiono gradatamente nello scompiglio determinato dall’avvento
dell’èra cristiana. Le raccolte piú importanti di ceramiche
chavín si trovano a Lima (ma) e New York (American Museum of Natural History). (sls).
Chełnoƒski, Józef
(Boczki (Łowicz) 1849 - Kuklówka (Grodzisk) 1914). Si
formò tra il 1867 e il 1871 presso W. Gerson a Varsavia;
poi, dal 1871 al 1874, a Monaco. Dopo un soggiorno a Varsavia si stabilí a Parigi (1875-87) e dovette la sua reputazione ai mercanti d’arte inglesi e americani. Tornato in Polonia si isolò nella sua proprietà di Kuklówka, in Masovia. Per
tutta la vita sviluppò una feconda attività, partendo da elementi realisti. La sua spontaneità ne fece l’interprete per eccellenza della terra polacca, dei suoi costumi, dei suoi contadini e dei suoi animali (Gru, 1870; Pernice sulla neve, 1891;
Cicogne, 1906). Agl’inizi eseguí soprattutto scene di genere
piene di vivacità e di movimento, con impaginazione aerea
e tocco ampio (Questione davanti al sindaco del villaggio,
1873: conservato a Varsavia; Troika, 1881: a Cracovia). I
paesaggi della Masovia, che egli seppe rendere con veridicità e sensibilità, ne ispirano le ultime opere. Ch è rappresentato in musei di Cracovia e di Varsavia. (sk).
Storia dell’arte Einaudi
Chenavard, Paul
(Lione 1807 - Parigi 1895). Giunto a Parigi nel 1825, lavorò
con Ingres, poi con Delacroix di cui rimase intimo amico. A
Roma conobbe i pittori tedeschi Cornelius e Overbeck restando colpito dalle loro teorie. Il governo francese del 1848
gli affidò la decorazione del Panthéon di Parigi, ove l’artista pensava di rappresentare a grisaille la storia dell’umanità
(Palingenesi universale); la restituzione del monumento al culto nel 1851 annullò l’incarico. Scoraggiato, Ch produsse poi
un’unica opera importante, di un simbolismo religioso complesso: l’immensa Divina Tragedia (1869: Parigi, Louvre) e
si dedicò alla filosofia e all’estetica, facendosi interprete di
un’arte moralistica, priva di effetti di colore. Il suo pensiero influenzò alcuni artisti (Eugène Carrière) e la critica del
tempo. La sua opera, costituita soprattutto da disegni, si trova per la maggior parte a Lione. (ht).
Chen Hongshu
(1599-1652). Funzionario al servizio dei Ming al momento
della presa di Nanchino da parte dei Manciú, Ch venne risparmiato dai vincitori e terminò i suoi giorni nel nativo
Zhejiang. Era stato il massimo pittore di figure della fine dei
Ming, ma aveva rifiutato il titolo di pittore ufficiale. Le Illustrazioni della poesia «Il Ritorno» di Tao Yuanming (rotolo
in lunghezza a inchiostro e colori leggeri su seta, conservato a Honolulu) sono particolarmente caratteristiche del suo
stile arcaicizzante, ripreso dagli antichi pittori, che aveva
studiato molto da vicino. I vari episodi sono separati dal testo incolonnato, secondo l’uso di Gu Kaizhi, maestro cui egli
deve il trattamento degli abiti in lunghe curve continue,
mentre i contorni netti delle rocce provengono direttamente dallo stile «blu e verde» dei Tang. L’originalità di Ch si
riconosce nell’ossessione dei ritmi lineari ripetuti e nell’aria
caricaturale dei personaggi, frutto di una goffaggine voluta
ma portata all’eccesso (Formosa, Gu-Gong; Stoccolma, nm;
Parigi, Museo Guimet; Londra, coll. Ling Suhua). (ol).
Chennevières-Pointel, Charles-Philippe, marchese di
(Falaise 1829 - Parigi 1899). Studiò in Provenza e in seguito viaggiò lungamente in Italia e nelle Fiandre. Entrato
nell’amministrazione dei musei (1846), frequentò F. Reiset
Storia dell’arte Einaudi
e il conte di Nieuwerkerque. Organizzatore, ogni anno, del
salon (1852-69), amico dei Goncourt, assai presto fu introdotto negli ambienti artistici della capitale; accompagnò
Charles Blanc e il pittore Fromentin in Egitto (1869). Scrisse numerosi studi sull’arte francese, in particolare un’opera
fondamentale per la conoscenza della pittura francese nel
xvii e xviii sec. (Recherches sur la vie et les ouvrages de quelques peintres provinciaux de l’ancienne France, 4 voll.,
1847-62). È all’origine della pubblicazione delle «Archives
de l’art français» (1851). Direttore dell’Ecole des beaux-arts
nel 1873, in sostituzione di Charles Blanc, si occupò della
decorazione del Panthéon e sostenne Puvis de Chavannes;
fu lui, inoltre, a intraprendere l’Inventaire général des richesses d’art de la France. Alla fine della sua vita, redasse le proprie memorie (comparse su «L’Artiste», 1883-89) e descrisse la sua collezione di disegni (ivi, 1884-97). Fin dalla giovinezza era stato collezionista, e la sua collezione era infatti prodigiosa; si era impegnato, come nei suoi lavori, a riconsiderare gli artisti francesi dimenticati o poco noti, spesso di provincia; «la sua brutta accozzaglia di croste», come
la chiamava, fu di fatto la piú importante raccolta documentaria sul disegno francese del xvii e del xviii sec. che fosse mai esistita; alla fine della sua vita conteneva quattromila disegni, dispersi nel 1882, 1898 e 1900. (jpc).
Chen Shun
(1483-1544). Piú noto talvolta col nome di Chen Daofu, Ch
fu celebre soprattutto per i dipinti colorati di fiori (Lugano,
coll. Dubosc; Colonia, Museum für Ostasiatische Kunst).
Benché tradizionalmente sia ricollegato alla scuola di Wu
Zhengming nella scia del suo maestro Wen, se ne distacca
per lo stile dei suoi paesaggi impressionisti alla maniera di
Mi Fei (Montagne nebbiose, rotolo in lunghezza a inchiostro
e colori leggeri, datato 1535: Washington, Freer Gall.; un
altro identico a Kansas City, Nelson Gall.). (ol).
Chéramy, P.-Alfred
(Mouliherne (Maine-et-Loire) 1840 - Parigi 1912). Si diceva di quest’avvocato parigino che aveva «la mania dei quadri e dei disegni». Appassionato amatore, privo di spirito sistematico, acquistò sia opere italiane e spagnole (El Greco)
sia inglesi, cui fu tra i primi, con Camille Groult, ad inte-
Storia dell’arte Einaudi
ressarsi. In particolare possedeva numerose opere di Constable e diversi Bonington. Ma ancor piú lo attirò la scuola
francese del xix sec. La collezione (venduta, lui ancora vivente, a Parigi, il 5-7 maggio 1908) comprendeva quadri di
David (la Marchesa di Pastoret: Chicago, Art Inst.), opere di
Prud’hon (Trionfo di Bonaparte: Lione, mba), Géricault, Corot, Millet, Courbet, Degas, e soprattutto un complesso di
Delacroix. Una seconda vendita, meno importante, ebbe
luogo dopo la sua morte, il 14 e 16 aprile 1913. (gb).
Cherchell
Città dell’Algeria (antica Iol Caesarea), sulle pendici del massiccio di Miliana. Ha restituito bei mosaici conservati nel
museo locale. Il pavimento dei Lavori campestri (iii sec. a.
C.), per il vigore del disegno, la magistrale gradazione dei
colori e la composizione decorativa d’insieme è uno dei capolavori del mosaico romano in Africa. (cp).
Chéret, Jules
(Parigi 1836 - Nizza 1932). Litografo poverissimo, emigrò
a Londra (1856-66), ottenne l’appoggio del profumiere Rimmel e montò a Parigi un laboratorio ove sviluppò il nuovo
processo della litografia policroma. Per lo splendore della
grafica e dei colori, per l’eleganza e la gaiezza, i manifesti di
cui coprí Parigi dal 1866 al 1900 (Loïe Fuller, 1893; la
Saxoléine, 1894; i Pattinatori, Palazzo del ghiaccio, 1896; la
Loïe Fuller alle Folies-Bergère; Bal au Moulin-Rouge) influenzarono i suoi contemporanei, come Seurat, Lautrec, i
Nabis, e contribuirono allo sviluppo del Modern Style (le
Pantomime luminose, 1892). Appassionato dall’arte di Tiepolo (venne chiamato il «Tiepolo dei crocicchi»), di Watteau e di Turner, decorò alcuni edifici (villa del barone Vitta a Evian; Museo Grévin a Parigi, 1894), e realizzò cartoni di arazzi per i Gobelins (le Quattro stagioni, 1900-10). Si
diede pure, con minore invenzione, al pastello e alla pittura. Il museo di Nizza che ne porta il nome ospita duecento
suoi dipinti, pastelli e bozzetti. (gv).
Chéron, Louis
(Parigi 1660 - Londra 1725). Era figlio di un incisore e pittore di smalti; fece in Francia il suo tirocinio. Vincitore del
prix de Rome nel 1676 e nel 1678, si recò a Roma, dove di-
Storia dell’arte Einaudi
segnò da Raffaello. Nel 1687 e nel 1690 dipinse due «quadri di maggio» per Notre-Dame. Era protestante, e tra il
1690 e il 1700 si stabilí in Inghilterra, accettando l’invito
del duca di Montagu. Per quest’ultimo eseguí a Boughton
House nel Northamptonshire opere decorative nello stile di
Maratta. Fondò nel 1720, con John Vanderbank, l’accademia di Saint Martin’s Lane a Londra, la seconda del genere
in Inghilterra. (mk).
Chesneau, Ernest
(Rouen 1833 - Parigi 1890). Collaborò a numerose riviste e
pubblicò molte opere sui pittori contemporanei francesi e
inglesi: Les Chefs d’école (1861), L’Art et les artistes modernes (1863-64), e monografie su Carpeaux (1879), Delacroix
(1885), Reynolds (1887). Estremamente colto, amico di Ruskin, può considerarsi un «modernista» moderato; per lui il
movimento realista scaturiva dalle tendenze piú profonde
della pittura francese. (sr).
Chessa, Luigi
(Torino 1898-1935). Studia all’Accademia albertina (191418), lavora poi con Carena ad Anticoli (1920-21) e s’interessa all’opera di Casorati e Cézanne. Architetto e decoratore si occupa anche di scenografia (Teatro Torino, 1925-26;
Teatro Gualino, 1926; e mma di New York, 1927). Partecipa alle mostre del Novecento italiano, e fa parte del Gruppo dei Sei di cui è uno degli esponenti maggiori. Nella sua
pittura il raffinato colorismo di tradizione impressionista
tende allo sfaldamento dei volumi in atmosfere luminose che
riecheggiano la pittura di Fattori e Spadini. (mdl).
Chester Beatty, Affred
(New York 1875 - Montecarlo 1968). Ingegnere minerario,
acquisí una grossa fortuna; i viaggi di lavoro gli consentirono di coltivare l’interesse per i manoscritti miniati. Dal 1913
cominciò a raccoglierne (Medio Oriente, Estremo Oriente
e qualcuno di origine occidentale), insieme a libri, quadri,
incisioni, oggetti d’arte. La raccolta è ospitata dalla Chester
Beatty Library, inaugurata a Dublino nel 1953 e piú tardi
lasciata in eredità alla nazione irlandese. Nel luglio 1950 Ch
B donò inoltre una collezione di quadri del xix sec. francese (Daubigny, Couture, Meissonier, Harpignies, Boudin).
Storia dell’arte Einaudi
Aveva lasciato l’America nel 1911; divenne cittadino britannico nel 1933 e venne fatto cavaliere nel 1954. Nel 1950,
mal sopportando le restrizioni imposte dal governo inglese
al trasferimento delle opere d’arte, si stabilí in Irlanda, di
cui divenne cittadino onorario nel 1957, e trascorse da allora il suo tempo tra l’Irlanda e le coste del Mediterraneo.
Due elementi della collezione erano di speciale interesse: la
serie dei manoscritti orientali, e i manoscritti dipinti medievali di origine occidentale. Le due serie sono ricordate in
due ammirevoli cataloghi: il primo, dovuto a Sirarpie der
Nersessian, descrive i manoscritti armeni raccolti da Ch B
(Dublino 1958); il secondo, riguardante i manoscritti «occidentali», è stato redatto da Eric G. Millar (Oxford 1930).
Gli 81 manoscritti che quest’ultimo studioso descrive rappresentano solo una parte della collezione, che continuò ad
arricchirsi dopo la comparsa del catalogo.
L’essenziale della raccolta è andato disperso, una prima volta nel 1932 presso Sotheby, poi dopo la morte di Ch B in
due aste successive, anch’esse presso Sotheby (1968 e 1969),
di cui serbano il ricordo due bei cataloghi. Le due aste riguardarono in totale circa settanta manoscritti, tutti di
prim’ordine, alcuni dei quali erano stati acquistati da Ch B
presso un altro celebre collezionista inglese, Henry Yates
Thompson. La collezione conteneva notevoli manoscritti
francesi, in particolare un manoscritto di san Gregorio di
origine limosina, che è stato accostato al Sacramentario di
santo Stefano di Limoges (xi-xii sec.), uno Specchio della storia (Miroir historial) di Vincenzo di Beauvais, eseguito per
Carlo V (oggi a Parigi, bn), e numerosi libri d’ore. (fa).
Cheval-Bertrand
(Jean-Paul Bourg, detto) (Parigi 1932-66). Precoce e assai dotato, sin dai quattordici anni si dedicò sia alla poesia sia alla pittura. Scelse infine quest’ultima nel 1950 ca.; e tenne
la prima personale nel 1954. Introdusse nel cromatismo solare delle sue prime effusioni liriche un’espressione descrittiva e articolata che lo accosta alla Nuova Figurazione, detta «narrativa». Continuò ad operare in solitudine; e scomparve prematuramente a trentaquattro anni, lasciando
un’opera già sicura, come ha dimostrato la retrospettiva dedicatagli a Parigi (mamv) nel 1967. (rvg).
Storia dell’arte Einaudi
Chevalier, Etienne
(Melun 1410 - ? 1474). Fu segretario dei re e tesoriere di
Francia sotto Carlo VII, poi sotto Luigi XI. Ordinò nel
1455-60 ca. a Fouquet, di cui fu tra i principali clienti, un
Libro d’ore, capolavoro del pittore (oggi disperso; quaranta
fogli al Museo Condé di Chantilly); e, per la chiesa della sua
città natale, il Dittico di Melun, recante il suo ritratto come
donatore insieme a Santo Stefano (Berlino-Dalhem), dinanzi alla Vergine col Bambino con i tratti della sua protettrice, Agnès Sorel (1455 ca.: conservato ad Anversa). (nr).
Chevreul, Michel-Eugène
(Angers 1786 - Parigi 1889). Studiò alla scuola centrale di
Angers; dopo aver lavorato in vari laboratori parigini fu nominato professore nella manifattura dei Gobelins, quindi
(1824) direttore delle tintorie. Le sue ricerche sul colore sfociarono nel 1839 nell’opera De la loi du contraste simultané
des couleurs et de l’assortiment des objets colorés considéré
d’après cette loi dans ses rapports avec la peinture. Nel 1864,
nominato direttore del museo, pubblicò, a completamento
del primo lavoro, Des couleurs et de leurs applications aux arts
industriels à l’aide des cercles chromatiques. In questi due studi Ch sviluppa una teoria dei rapporti tra i colori, enunciando cosí la legge del contrasto simultaneo: «Quando l’occhio vede contemporaneamente due colori contigui, li vede
i piú dissimili possibile, sia nella composizione ottica sia
nell’altezza della tonalità». Due altri tipi di contrasto completano il primo: il contrasto successivo (se l’occhio, dopo
aver percepito una figura nera su fondo bianco, passa a un
fondo nero, percepirà quella figura in bianco), e il contrasto
misto (modificazione di un colore con il complementare d’un
altro colore osservato prima).
Le teorie di Ch, con quelle di Rood e Helmholtz, esercitarono un influsso decisivo sul neoimpressionismo: da esse deriva il divisionismo di Seurat, cui presto s’aggiunsero Pissarro e Signac; il «tocco diviso», scriveva quest’ultimo, consente che «il miscuglio ottico dei colori dissociati avvenga
con facilità e ricostituisca la tinta». Viene così respinto il
miscuglio dei pigmenti a favore dei colori puri. Infine (191213 ca.) le concezioni di Ch segnarono l’inizio dell’astrattismo attraverso i Dischi simultanei di Delaunay, che ebbe
Storia dell’arte Einaudi
«l’idea d’una pittura fatta tecnicamente solo di colore, di
contrasti tra colori, ma che si sviluppa nel tempo e si percepisce simultaneamente». (em).
Chialli, Vincenzo
(Città di Castello 1787 - Cortona 1840). Esponente della
pittura di gusto purista in Umbria, la cui diffusione fu stimolata anche dall’insegnamento di T. Minardi nell’accademia di belle arti di Perugia. Allievo a Roma di V. Camuccini e di T. Minardi, al quale furono legati anche i fratelli Fortunato pittore e Giuseppe scultore, C svolse una intensa attività, oltre che in patria, a Roma, Pesaro, Urbino, sia come
pittore di ritratti anche in miniatura, sia di soggetti religiosi (Madonna con il Bambino dormiente: Città di Castello, pc;
Incredulità di san Tommaso: Marsciano, San Giovanni Battista), sia di scene di genere, in cui predilesse, sulla scia del
successo di F.-M. Granet, temi di vita monastica. (gsa).
Chiaravalle
Abbazia cistercense presso Milano consacrata verso il 1221.
I notevoli affreschi del tiburio della chiesa rappresentano
Scene della vita della Vergine (Incoronazione, Annunciazione,
Morte, Esequie) e sono unanimamente datati 1350 ca. Dopo
che R. Longhi ebbe stabilito la relazione con l’affresco
dell’Incoronazione della Vergine del Campo Santo di Pisa, distrutto durante l’ultima guerra, se ne è riconosciuta l’appartenenza alla corrente giottesca, di cui Maso e «Stefano»
sono i rappresentanti migliori. Rispetto alla tesi di Longhi,
che vi scorge un’opera direttamente fiorentina, altri storici
hanno pensato a un maestro lombardo, improntato non soltanto dal giottismo toscano, ma anche dall’«espressionismo»
pisano-bolognese. (mr).
Chiari, Giuseppe Bartolomeo
(Roma o Lucca 1654 - Roma 1727). Allievo di Carlo Maratta a Roma, ne fu anche il seguace piú diretto e fedele. La
sua cultura pittorica appare tuttavia non solo radicata nel
deciso classicismo del maestro, ma arricchita dall’attenta riconsiderazione sia della poetica di Sacchi, che delle opere
romane dei bolognesi (da Reni e Domenichino a Guercino
e Lanfranco), e dal barocco «temperato» delle ultime prove
di Baciccio. Una delle sue prime opere pubbliche di rilievo,
Storia dell’arte Einaudi
il Carro di Apollo affrescato in palazzo Barberini, fu eseguita secondo le direttive di P. Bellori. Ma è soprattutto con il
grandioso afffresco (1700) dell’Apoteosi di Marcantonio II in
palazzo Colonna che C fornisce la prima, meditata sintesi
delle tendenze espresse nell’ultimo quarto del Seicento nel
campo della pittura decorativa ufficiale. Nonostante i suoi
dipinti risultino sempre esenti da magniloquenza e addolciti rispetto al rigore marattesco, C non può essere considerato tra i protagonisti del clima rococò che all’inizio del Settecento tocca anche Roma. Le composizioni da cavalletto o
di soggetto profano, come le quattro Metamorfosi (1708 ca.)
eseguite per il cardinale Spada Veralli (Roma, Gall. Spada);
il Ritorno di Giuditta (1712: Museo di Roma); il Riposo in
Egitto (Greenville, Bob Jones University), e la misurata e
«corretta» tela con Cerere e Bacco per un ambiente di palazzo De Carolis (oggi del Banco di Roma) lo mostrano piuttosto partecipe del clima arcadico della cerchia del cardinale Pietro Ottoboni.
Nel 1714 affrescò la Gloria di san Clemente nella volta della
basilica omonima, in un ciclo cui presero parte Odazzi, Conca, Pierleone Ghezzi, Pietro de’ Pietri, Giandomenico Piastrini e Giacomo Triga, che ebbe particolare importanza per
le successive vicende della decorazione chiesastica, e nel
1718 eseguí uno dei profeti (Abdia) per San Giovanni in Laterano. Opere tarde quali l’Estasi di san Francesco (1726 ca.)
per la basilica dei Santi Apostoli, e le Storie di san Francesco
di Paola (1726-27) per la chiesa omonima, di intonazione piú
patetica e sentimentale, indicano un contatto con i modi di
Conca, Trevisani e Luti. Influenzò sensibilmente gli esordi
di Placido Costanzi, e, per qualche aspetto, anche Mengs.
Il fratello Tommaso (Roma 1665-1733) è noto per poche
opere, tra cui un affresco in San Clemente e alcuni dipinti
nella cappella Rospigliosi in San Francesco a Ripa, condotti in stretta contiguità con Giuseppe di cui riprese riduttivamente la maniera. (sr).
chiarismo
Attraverso questa definizione si identifica la tendenza di un
gruppo di artisti milanesi, riuniti intorno a Edoardo Persico tra il 1925 e il 1927 a «dipinger chiaro» in opposizione
allo stile dominante in Novecento. Cristoforo De Amicis
(1902), Angelo Del Bon (1898-1952), Francesco De Rocchi
Storia dell’arte Einaudi
(1902-78), Umberto Lilloni (1898-1980), Adriano di Spilimbergo (1908-1975), compagni all’Accademia di Brera,
non formano un vero e proprio nucleo artistico come i contemporanei Sei di Torino, ma hanno in comune con essi l’avversione per il futurismo e per il «ritorno all’ordine» della
poetica di Novecento. Prediligono la tradizione dell’impressionismo lombardo e guardano soprattutto alla pittura
di Cézanne e Van Gogh, in opposizione alle forme plastiche
e chiaroscurali della pittura ufficiale di quegli anni. Un colore lirico e una materia sfatta caratterizzano le loro opere:
A. Del Bon, Bimbo con balocchi, 1929: Milano, coll. Mutti; U. Lilloni, Eva, 1927: Milano, coll. Lilloni; F. De Rocchi, Autoritratto, 1933: Milano, coll. dell’autore. (bdr).
Chicago
Art Institute Fondato nel 1879 da un gruppo di ricchi cittadini col nome di Academy of Fine Arts, il museo di Ch divenne tre anni dopo l’Art Institute. La costruzione, sulla riva del lago Michigan, presto non fu piú sufficiente a contenere le opere: nel 1893 il museo occupò un ambiente lasciato vuoto dalla Colombian Exposition. Assunse grande slancio nel 1890, quando vennero acquistati in Italia numerosi
dipinti di maestri olandesi e fiamminghi della coll. Demidov,
comprendente opere di Rembrandt (Fanciulla alla finestra),
Rubens, Hals (Ritratto di un artista), Holbein, Van Dyck. Da
allora, grazie alla generosità di mecenati, banchieri o industriali, come Martiri A. Ryerson, Charles Deering, Potter
Palmer, Frederic Bartlett, e grazie a una saggia politica di acquisti, l’Art Institute è divenuto uno dei cinque o sei piú ricchi musei degli Stati Uniti. Possiede cosí una delle maggiori
raccolte esistenti al mondo della scuola francese del xix sec.;
i maestri dell’inizio del secolo sono ben rappresentati (David, Ingres, Courbet, Corot, Delacroix), ma si ha soprattutto un prestigioso complesso di opere impressioniste, su cui
Mary Cassatt aveva attirato l’attenzione degli appassionati
dal 1889. Un’intera sala è dedicata a Renoir (la Colazione dei
canottieri, Sulla terrazza); si hanno poi opere di Sisley, Pissarro, Manet (il Filosofo), Degas (Natura morta con carpa),
molti Monet, il capolavoro di Seurat (Una domenica pomeriggio all’isola della Grande Jatte), quadri celebri di Cézanne,
Van Gogh (la Berceuse), Gauguin (il Jour du dieu), Toulouse-Lautrec (Al Moulin-Rouge), Picasso (il Vecchio chitarrista,
Storia dell’arte Einaudi
Famiglia di saltimbanchi), Juan Gris (Ritratto di Picasso), Delaunay (Campo di Marte, la Torre rossa). La coll. Chester Dale vi fece entrare inoltre sette tele di Picasso e cinque ritratti di Modigliani. I contemporanei sono rappresentati da Picabia, Kandinsky, Klee, Tanguy, Matta, Dalí, Miró (Donna
con uccelli di fronte al sole), Mondrian, Dubuffet, Gottlieb,
Gorky, Bacon, Pollock (Arcobaleno grigio).
La pittura antica non è stata, peraltro, trascurata. La scuola italiana è rappresentata sin dalle origini (Vergine col Bambino, opera toscana del xiii sec.), con dipinti fiorentini, senesi (Giovanni di Paolo, Scene della vita di san Giovanni Battista) e veneziani del xv, xvi e xviii sec. (Tintoretto, Venere, Marte e le tre Grazie; Tiepolo, quattro Scene della Storia di
Rinaldo e Armida). Alcuni pezzi eccezionali illustrano la
scuola tedesca (Cranach, Crocifissione), olandese (Rembrandt) e spagnola (Martorell, San Giorgio e il drago; El Greco, Assunzione; Goya: sei pannelli della Storia del bandito Maragato). Le collezioni di disegni e di stampe sono ricchissime: Maestro E. S., Van Dyck, Goya, Redon, Vuillard, Bonnard, Matisse, Rouault, disegni francesi da Ingres a Picasso, espressionisti tedeschi. (gb).
Chichén Itzá
Antica città precolombiana, maya (530-668 ca.), poi mayatolteca (964-1448), nello stato messicano dello Yucatán. Fu
tra le piú importanti città maya per il numero e la scala delle sue costruzioni. Le rovine dell’antica Ch I hanno conservato solo pochi frammenti di decorazione pittorica, poiché
il notevole sviluppo della città risale al periodo di dominazione dei Toltechi: ma anche la città nuova ci ha lasciato resti di pitture. La decorazione pittorica era strettamente legata all’architettura. I colori venivano scelti e impiegati in
funzione simbolica. Le colonne, i montanti delle porte, le
pareti interne di taluni edifici erano coperti di rilievi colorati, rappresentanti personaggi ed eventi importanti, ma anche numerose camere erano interamente dipinte con affreschi che serbavano il ricordo di scene storiche.
Il primo di tali edifici è il Tempio dei giaguari, cosí denominato perché è ornato, all’esterno, da un fregio in bassorilievo che rappresenta giaguari rampanti, dipinti in rosso. Altri fregi erano decorati da numerosi glifi, scene cerimoniali
e battaglie. Il tempio contiene, nella sua parte superiore, una
Storia dell’arte Einaudi
camera con pitture ancora ben conservate. Ciascuno dei lati lunghi di questa stanza è ripartito in tre pannelli da una
fascia azzurra ornata da piante e figure mitologiche. Tali
pannelli sono dipinti con paesaggi nei quali si aggirano guerrieri in armi, con villaggi e accampamenti. La pittura piú notevole del Tempio dei Giaguari è quella raffigurante il sacrificio di un uomo cui il sacerdote strappa il cuore, mentre
i suoi assistenti lo tengono fermo sulla pietra sacrificale. Un
serpente piumato, che impersona il dio Quetzalcóatl cui il
sacrificio è offerto, compare dietro la pietra. Tutte queste
pitture sono state realizzate a fresco; le figure sono accuratamente disegnate a tratto rosso, e taluni dettagli sono aggiunti a secco. I colori erano costituiti da due rossi (uno dei
quali per il corpo umano), due azzurri (per l’acqua, il cielo e
i fondi), quattro verdi (per il fogliame, alcuni animali e i
gioielli); il giallo era impiegato per il suolo e talvolta per certe parti del corpo, mentre il nero, il bianco e il porpora servivano a completare o a far risaltare taluni dettagli. Quantunque non esistano ombre, il contrasto tra i toni è tale da
determinare un potente effetto di rilievo.
Il Tempio dei guerrieri è forse il piú maestoso e il piú imponente degli edifici di Ch I. Dedicato alle classi militari
dell’«ordine dell’Aquila e del Giaguaro», serví come luogo
di riunione per i guerrieri della tribú degli Itzá. La decorazione murale della piramide del tempio è una combinazione
di maschere del dio Chac e di rappresentazioni stilizzate di
Quetzalcóatl. La presenza del dio serpente piumato rivela
un influsso tolteco. Le scale dell’ingresso principale conducono a una sorta di vasta anticamera, il cui tetto, oggi scomparso, era sostenuto da trecento pilastri quadrati, ciascuna
delle facce dei quali è ornata da una scultura in leggero rilievo policromo, che rappresenta un guerriero riccamente vestito, armato di lancia. Il personaggio, dipinto in rosso su
fondo ocra, porta abiti e ornamenti verdi, gialli, azzurri.
All’estremità di questa anticamera sono stati trovati una pietra sacrificale ed i resti di un altare costituito da una lastra
decorata da serpenti verdi o blu su fondo marrone, sostenuta da piccoli atlanti dal corpo ocra o marrone, e dalle vesti azzurre e bianche. Ai piedi della scala che conduce al tempio, i due primi pilastri poggiano ciascuno su un podio i cui
tre lati sono decorati con un fregio di guerrieri armati e gallonati, dalle acconciature ornate di serpenti piumati. I colo-
Storia dell’arte Einaudi
ri sono i medesimi di quelli dei pilastri. La cornice che sovrasta questi podi è adorna con motivi serpentiformi azzurri e verdi su fondo ocra. All’interno del tempio, un plinto di
colore uniforme copre la base della pareti. Al di sopra, si
hanno scene dipinte. Nella parte inferiore di una delle pareti, una processione di guerrieri armati conduce i prigionieri; ciascun guerriero procede dietro il suo prigioniero, che
è completamente nudo, con le mani legate dietro la schiena.
Il corpo dei guerrieri è grigio, le loro vesti e i loro ornamenti
sono bianchi e gialli; anche per i corpi dei prigionieri è usato il bianco; e l’insieme è dipinto su fondo ocra rosso. La
parte superiore di questa parete contiene due diverse composizioni. La prima rappresenta l’attacco a un villaggio da
parte di guerrieri simili a quelli della parte inferiore; l’altra
composizione rappresenta un villaggio in riva all’acqua. Su
un’altra parete è raffigurato un villaggio costruito sulla riva
del mare, ove guizzano tre barche circondate da numerosi
pesci e crostacei. Tutte queste pitture sono spesso state ritrovate in condizioni frammentarie. In numerosi casi è stato necessario tentare ricostituzioni per recuperare il complesso delle scene e il loro significato; ma ciò non sempre è
stato possibile.
Gli scavi hanno riportato in luce, sotto la piramide del Tempio dei guerrieri, le strutture di un tempio piú antico, dedicato a Chac-Mool, dio della Pioggia. Tali resti sono stati ritrovati in notevole stato di conservazione. Due massicce colonne serpentiformi, dipinte in rosso, verde, azzurro e giallo, determinavano le tre aperture del portale d’ingresso. Una
sala con numerosi pilastri quadrati, decorati con guerrieri (di
cui si ha l’equivalente nell’anticamera del Tempio dei guerrieri), precedeva due stanze in fila. In ciascuna di esse, la parte inferiore delle pareti si componeva di quattro fasce colorate (nero, rosso, giallo e azzurro), sormontate da un serpente che corte lungo i muri in curve sinuose riccamente colorate in verde, azzurro, giallo. Nella camera interna, costituente il santuario propriamente detto, dinanzi al muro di fondo
si trovava un altare dipinto. Contro le pareti laterali poggiavano sedili. Da un lato erano i sacerdoti e dignitari in abito
da cerimonia, con in mano uno scettro e offerte; dall’altro,
guerrieri armati seduti su seggi a forma di giaguaro. Ciascun
personaggio è diverso dall’altro. Potrebbe trattarsi di ritratti di importanti personalità cui verrebbe in tal modo asse-
Storia dell’arte Einaudi
gnato il posto entro il recinto del santuario. Il Tempio di
Chac-Mool può datarsi all’inizio del periodo maya-tolteco,
vale a dire nella seconda metà del x sec.; il Tempio dei guerrieri risalirebbe invece al periodo, insieme fiorente e conturbato, che caratterizza la fine dell’xi e l’inizio del xii sec.
L’Akab-Dzib, che in maya significa «scritti neri», contiene
diciotto stanze, tenute nella piú completa oscurità, le cui pareti sono coperte di glifi. In talune di esse restano tracce di
mani dipinte in rosso, che potrebbero essere state lasciate
da prigionieri condannati a morte. (sis).
Chierici, Gaetano
(1838-1920). Studia a Reggio, a Modena, con piú continuità
all’accademia di Firenze (dal 1858), brevemente a Bologna
(nel ’60). Il lungo soggiorno fiorentino, seguito al tirocinio
accademico, non sembra implicare concordanze significative coi macchiaioli, se non forse all’inizio, quando C dichiara
un certo parallelismo con Banti e Borrani. Il rientro a Reggio (dal 1875), dove ricopre a lungo l’incarico di direttore
della regia scuola di disegno per gli operai, lo conferma in
una posizione di artista isolato, benché forte di un successo di dimensioni europee. Versato prevalentemente nelle
scene di vita contadina, con precedenza per le rappresentazioni di un’infanzia diseredata ma non emarginata, la pittura di C si caratterizza per l’implacabile, raffinato rigore
della restituzione e la lucidità della perlustrazione sociologica. (rg).
Chiesa, Achille
Aveva fatto fortuna nel commercio d’importazione-esportazione a Milano e costituí nel xix sec. la collezione Chiesa,
arricchita poi dal figlio, Achillito (Rosario (Argentina) 1881
- Milano 1951). Comprendeva quadri di diverse scuole europee e soprattutto italiani dal xiv al xviii sec. La maggior
parte venne inviata a New York per esservi venduta all’asta
presso l’American Art Association nel 1925, 1926, 1927 e
1930. La famiglia C donò alla pinacoteca milanese di Brera
una grande tela di G. B. Tiepolo (Madonna del Carmelo e le
anime del purgatorio). Oltre venti dipinti della collezione,
passati nella Kress Coll., sono oggi suddivisi tra vari musei
americani. Una Scena della vita di san Pietro di Antonio Vivarini, un Ritratto di donna con cane di Ceruti e la Sacra Fa-
Storia dell’arte Einaudi
miglia con donatore di un seguace di Van der Weyden si trovano cosí a New York, mma. (eg).
Chiesa, Silvestro
(Genova 1623? - 1657). Svolse parte del suo apprendistato
presso Luciano Borzone, ma la sua breve attività è poco nota, poiché tra le opere menzionate dalle fonti, la tela con il
Miracolo del beato Piccolomini e quella compagna raffigurante il Beato Pellegrino Lazioni, il dipinto che rappresentava il beato Calasanzio, si conserva soltanto la prima (oggi a
Genova, palazzo Bianco). La tela, improntata a un attento
realismo, rivela l’insegnamento del Borzone nella struttura
spaziale e nella gamma cromatica. Il C era particolarmente
apprezzato dai contemporanei per i ritratti, ma delle sue capacità non si possiedono testimonianze: il Ritratto di un ecclesiastico (Genova, palazzo Rosso, depositi) è troppo distante dall’unica opera nota, per potergli essere riferito con
sicurezza. (agc).
Chighine, Alfredo
(Milano 1914 - Pisa 1974). Dopo aver frequentato i corsi
d’arte decorativa e scultura a Monza e a Milano, partecipa
nel 1948, nel 1958 e poi nel 1960 alla Biennale di Venezia.
Da un postcubismo con richiami al colore espressionista di
Nolde, arriva negli anni ’50 ad elaborare un linguaggio informale che nel corso degli anni ’60 e ’70 si mostra assai prossimo agli incastri cromatici di De Staël e Poliakoff (Composizione, 1954: Milano, gam). Ha partecipato inoltre alle
triennali di Milano e alle quadriennali di Roma (1959 e
1965). (im).
Chigi, Agostino, detto il Magnifico
(Siena 1465 - Roma 1520). Venuto da Siena a Roma nel
1485, acquistò immense ricchezze con lo sfruttamento
dell’allume di Tolfa e gestendo le finanze pontifice, e meritò il titolo di «gran mercante della cristianità». Praticò un
fastoso mecenatismo e fece costruire nel 1509 da Baldassarre
Peruzzi la villa della Farnesina (che porta il nome del suo secondo proprietario, il cardinal Farnese), la cui decorazione
affidò ai massimi artisti del suo tempo, Giulio Romano, Sebastiano del Piombo, Daniele da Volterra, Peruzzi e soprattutto Raffaello, che vi dipinse il Trionfo di Galatea
Storia dell’arte Einaudi
(1511) e il ciclo di Amore e Psiche (1517, in collaborazione
con allievi: galleria del piano terreno), e il Sodoma, cui si
debbono le Nozze di Alessandro e Rossana. Fu uno dei grandi patroni di Raffaello, dopo Giulio II e Leone X: gli commissionò infatti gli affreschi della chiesa di Santa Maria della Pace (Sibille e Profeti), e gli affidò l’intera ideazione, tanto architettonica che decorativa, della cappella funeraria in
Santa Maria del Popolo.
Nel 1655 il cardinal Fabio (Siena 1599 - Roma 1667) divenne papa col nome di Alessandro VII; colto, letterato, appassionato d’arte e grande costruttore, fu protettore di Pietro da Cortona e, soprattutto, di Bernini, che sotto il suo
pontificato produsse le proprie opere piú importanti: il colonnato di San Pietro, la Scala Regia, la cattedra di San Pietro, la chiesa di Ariccia ed infine la tomba del pontefice nella basilica vaticana. Egli aveva riunito in palazzo Chigi in
piazza Colonna a Roma (acquistato dagli Aldobrandini da
Mario e Agostino Chigi, rispettivamente fratello e nipote
del pontefice, ingrandito ad opera di Felice della Greca, oggi sede della presidenza del Consiglio) le sue raccolte di pittura, in parte passate dal 1918 alla gnaa di Roma, e comprendenti quadri di Garofalo, Guercino, Caravaggio, Mazzolino, Dosso Dossi, Sodoma; nonché il suo famoso gabinetto di disegni e la preziosa biblioteca (oggi in Vaticano).
Il nipote di Alessandro, il cardinal Flavio (Siena 1631-93)
fece costruire (in parte da Bernini) il palazzo di piazza Santi Apostoli (oggi palazzo Odescalchi), che acquistò, con tutto quanto conteneva, dalla famiglia Colonna. (sr).
Chigi Saracini della Rovere, Guido
(Siena 1880-1965). Nel suo palazzo, costruito per i Marescotti nel 1260, poi acquisito dai Piccolomini, poi ancora dai
Saracini, il conte Guido, discendente dalle piú illustri famiglie di Siena, fondò un’accademia di musica nel 1932. Il palazzo Chigi-Saracini raccoglie un’importante collezione di
pittura, iniziata da Galgano Saracini (1752-1824), comprendente soprattutto opere senesi dal xiv al xvi sec., tra
cui pezzi magistrali del Sassetta (l’Adorazione dei magi, San
Martino, la Vergine e san Giovanni), di Neroccio (Madonna e
due santi) e di Beccafumi (Matrimonio mistico di santa Caterina). Dopo la morte del proprietario, la collezione è amministrata dal Monte dei Paschi di Siena. (gb).
Storia dell’arte Einaudi
Chikuden, Tanomura
(1777-1835). Figlio di un medico, e studioso confuciano al
servizio del signore di Oka, ebbe fama negli ambienti letterati di Osaka e di Kyoto. Benché allievo di Bunchÿ, si riallaccia al nanga per i suoi soggetti di paesaggi e di fiori e uccelli, che ne rivelano la natura mistica e idealistica attraverso le alternanze di ombre e di luci. È rappresentato in coll.
priv. giapponesi di Kyoto e Tokyo. (ol).
Chikutÿ, Nakabayashi
(1776-1853). Figlio di un medico di Nagoya, amico di Baiitsu ed erudito confuciano della cerchia del grande letterato
Sanyÿ, Ch è noto tanto per i suoi paesaggi dal tocco leggero quanto per i suoi scritti sulla pittura, che ne fanno un teorico del nanga (Kyoto, tempio Zakka). (ol).
Chilkat
Le donne di questa etnia della costa canadese sul Pacifico utilizzavano lunghe radici di abete, intrecciate con peli di capra,
per fabbricare cappe, dette impropriamente «coperte», che
erano emblemi delle famiglie aristocratiche. Un modello del
disegno veniva approntato da un uomo, poiché le donne non
avevano il diritto di disegnare forme viventi. La decorazione
rappresenta animali stilizzati visti di fronte o di profilo, accompagnati da maschere o da motivi ornamentali. I colori, a
parte il bianco e il nero, sono il giallo-verde e il grigio-azzurro (New York, American Museum of Natural History). (jgc).
Chimeneas, Las
Grotta spagnola sul Monte Castillo (provincia di Santander)
scoperta nel 1953 dall’ingegner Garcia Lorenza. Il piano inferiore, a forma di corridoio, è ornato da una serie di animali distribuiti secondo una convenzione che si riscontra, a
parere di Leroi-Gourhan, nella maggior parte dei santuari.
All’ingresso, due cervi e una cerva preannunciano il pannello
centrale, che compare in piani successivi su scarpate di roccia. Tracciati a contorni lineari neri, parti anteriori di bovidi e teste di stambecchi sono accompagnati da cerve. Di
fronte, un insieme di segni quadrangolari e di bastoncini
doppi s’intercala ai cervi, che concludono la composizione.
Il raggruppamento degli animali, l’elevato numero di cervi
Storia dell’arte Einaudi
e lo stile III, molto omogeneo, avvicina la grotta a quella di
Lascaux; come quest’ultima, essa può datarsi al Solutreano
finale e al Magdaleniano antico. (yt).
Chimenti, Jacopo → Empoli
Chimú
La civiltà precolombiana dei Ch, popolazione della costa peruviana (ca. 1200-1438 d. C.), riprese e perfezionò gli apporti dei Mochica, che furono i costruttori delle prime grandi città peruviane. Le piogge hanno determinato gravi danni a Chancán, loro capitale; ma essa conserva ancora tracce
di pitture murali, nicchie decorate, arabeschi in rilievo dipinto. I disegni rappresentano uccelli, pesci, piccoli personaggi e figure geometriche riprese dalla decorazione delle
stoffe. I tessuti scoperti nelle tombe sono bordati da fasce
ornate con disegni nei quali predominano gli uccelli e i pesci. La ricchezza e lo splendore delle vesti sono dovuti alla
varietà dei colori impiegati: rosso, giallo e azzurro sono armoniosamente congiunti al bianco e al nero. Numerose le
ceramiche, per la maggior parte monocrome e nere, piú raramente rosse; non esiste decorazione dipinta. Come molti
popoli delle Ande centrali, i Ch vennero sottomessi dagli Inca a metà del xv sec. ca. Tessuti chimú figurano nelle raccolte del ma di Lima, dell’American Museum of Natural History di New York, e del Musée de l’Homme di Parigi. (sls).
Chini, Galileo
(Firenze 1873-1956). Apprendista decoratore a Firenze, frequenta saltuariamente i corsi dell’accademia e dal 1897 si dedica alla ceramica. Dall’inizio del secolo si susseguono i cicli
decorativi per palazzi e ville che culminano negli affreschi
per la cupola della Biennale di Venezia (1909). Chiamato dal
re del Siam, decora il Palazzo del Trono a Bangkok (1911-14).
Notevole la sua attività di scenografo e cartellonista dove introduce i caratteri stilistici del liberty. Nei suoi quadri il divisionismo si tramuta in atmosfere dense di lirismo evocativo in cui riaffiorano i temi simbolisti delle prime opere. (mdl).
Chintreuil, Antoine
(Pont-de-Vaux (Ain) 1814 - Septeuil (Yvelines) 1873). Esordì al salon del 1847 come paesaggista. Nel 1850 andò ad abi-
Storia dell’arte Einaudi
tare ad Igny (valle della Bièvre); qualche anno dopo si stabilì a Septeuil presso Mantes. Consigliato agl’inizi da Corot, ne dimostra l’influsso nei primi studi; ma presto si volse a una tecnica diversa, sforzandosi, per sincerità e rispetto della natura, di annullarsi di fronte ad essa. All’opposto
dei paesaggisti del suo tempo evitò di personalizzare la propria opera mediante il «tocco». Spesso procedette per zone
piatte, dal che deriva una certa monotonia che può apparire, all’opposto del sentimento che lo animava, mancanza di
emozione. I suoi studi dal vero, di cui il museo di Pont-deVaux espone un certo numero, piacciono di piú, per la loro
spontaneità, delle opere da salon, piú ambiziose (lo Spazio,
1869: Parigi, Louvre). Il centenario dell’artista è stato commemorato da una retrospettiva al museo di Bourg-en-Bresse nel 1973. (ht).
chinzÿ
(ritratto di maestro). Importante categoria della pittura zen
giapponese. Dopo gli anni di noviziato, i monaci zen ricevevano, a mo’ di diploma, un ritratto del loro maestro, che
ne simboleggiava la filiazione dottrinale. I migliori, come
quelli di Minchÿ o di Shui (alias Mutÿ, autore del Ritratto
di Musÿ Kokushi, kakemono a colori su seta al Nyÿchin di
Kyoto), risalgono al sec. xiv. Esprimendo la concentrazione
spirituale del viso con linee sottili e morbide, in contrasto
con la fermezza delle linee accentuate delle vesti dai colori
sobri, essi ben corrispondono alle tendenze realistiche
dell’epoca di Kamakura, ma hanno origine nei ritratti cinesi dell’epoca dei Song. (ol).
Chio
La ceramica greca Dopo un’ipotesi incentrata su Naucrati,
filiale greca nel delta del Nilo ove ne vennero scoperti i primi esemplari, viene oggi attribuita all’isola di C, ad est
dell’Egeo, una serie di vasi che si riallacciano allo stile ionico orientaleggiante. In un primo tempo si hanno vasi ornati nello stile del wild goat (capro selvatico), del quale si ha
una diversa forma a Rodi; poi, dopo una fase d’influenza corinzia, si sviluppa uno stile piú originale nella prima metà
del vi sec., soprattutto su calici; questi recano sovente, su
ciascuna faccia, un animale isolato, disegnato parzialmente
al tratto, senza tratti incisi; e talvolta scene mitologiche. Un
Storia dell’arte Einaudi
ingobbio bianchissimo, un disegno piú mutevole che minuzioso e, sugli esemplari migliori, la policromia contraddistinguono questi vasi da altri gruppi rodo-ionici. (cr).
La decorazione bizantina La chiesa bizantina della Nea Moni (Nuovo Monastero), a qualche chilometro da C, sarebbe
stata decorata secondo la tradizione, da mosaicisti inviati da
Costantinopoli dall’imperatore Costantino IX Monomaco
(1042-54). La Vergine orante, in piedi, occupa il catino
dell’abside, e gli arcangeli Michele e Gabriele quelli delle absidi laterali. Il Cristo circondato da angeli della cupola è andato distrutto, e cosí pure la Natività nella nicchia orientale
al di sopra della cupola. Nelle altre tre nicchie e nei pennacchi a tromba della cupola sono rappresentati l’Annunciazione, la Presentazione, il Battesimo, la Trasfigurazione, la
Crocifissione, la Deposizione dalla croce e la Discesa al limbo:
sei altre scene della vita di Cristo ornano le volte e le pareti del nartece, e nella cupola del transetto centrale otto santi guerrieri circondano il medaglione della Vergine orante.
Ancora nel nartece sono raffigurati i ritratti, poco numerosi, di altri santi. Tutti questi mosaici si distinguono per il
ricco cromatismo, per il modellato vigoroso dei volti e per il
carattere monumentale delle composizioni. (sdn).
Chittussi, Antonín
(Ronov nad Doubravkou 1847 - Praga 1891). Formatosi a
Praga, a Monaco e a Vienna, dipinge agli esordi quadri di
genere e paesaggi della Boemia, dell’Ungheria (1872-73) e
della Bosnia, ove era stato inviato come militare (1878). Deluso dalla mediocrità della vita artistica di Praga, si reca a
Parigi (1879), ove trascorre sei anni. I primi dipinti realizzati in Francia rivelano l’influsso di Daubigny e di Rousseau.
Espone ai salons parigini motivi della foresta di Fontainebleau o delle rive della Senna, nonché paesaggi boemi (Primavera a Fontainebleau, 1886; la Senna a Suresnes, 1885 ca.;
Paesaggio delle montagne cèco-morave, 1882: tutti e tre a Praga). Durante il suo soggiorno parigino, torna di tanto in tanto in Boemia per dipingere ed esporre. Malgrado l’accoglienza favorevole resta però isolato, incompreso. Eppure
egli ha liberato definitivamente il paesaggio cèco dagli schemi romantici e ha introdotto nel suo paese la pittura all’aperto. L’esempio di Ch esercitò un’influsso potente sui paesaggisti cèchi degli anni ’90. (ivj).
Storia dell’arte Einaudi
chiudenda
(dal lat. claudenda ‘sportello di chiusura’, propriamente lo
sportello del forno). Si tratta di un’anta, mobile per incernieramento, che consente una maggiore protezione dei trittici dipinti e in genere di particolari immagini o arredi legati al culto e che può avere con essi una relazione iconografica ma anche presentare generici motivi decorativi, spesso
monocromi. (svr).
Chiusi
Cittadina toscana in provincia di Siena; sembra fosse partecipe continuativamente dello sviluppo della pittura etrusca, come testimoniano una ventina di tombe ornate di pitture ritrovate nel suo territorio, per la maggior parte però oggi distrutte o perdute. Le meglio conservate risalgono al v sec.
(Tomba della scimmia, Colle Casuccini) e sono senza dubbio
dovute ad artisti locali la cui produzione appare piú monotona che a Tarquinia. Nella Tomba della scimmia, un piccolo
fregio istoriato nella parte superiore delle pareti della camera
centrale rappresenta, in forma un poco provinciale ma piena
di spontaneità, scene di giochi atletici e di spettacoli diversi
(giocolieri e buffoni), i cui personaggi sono colti dal vero. (mfb).
Chocquet, Victor
(Lilla 1821 - Parigi 1898 ca.). Era impiegato al ministero delle Finanze, dopo un inizio a Dunkerque (1842) nell’amministrazione delle dogane. Collezionò prima opere di Delacroix;
in seguito divenne amico di Renoir, poi di Cézanne, e fu tra
i primi protettori dei pittori impressionisti, che scoprì nella
vendita del 24 marzo 1875. Tra il 1874 e il 1880 si costituí
cosí una collezione, dispersa nel luglio 1899 presso la Gall.
Georges-Petit, di trentadue Cézanne (tra cui la Casa dell’impiccato: oggi a Parigi, mo), cinque Manet, undici Monet, undici Renoir, un Pissarro, un Sisley. Ispirò a Emilio Zola, in
L’Œuvre, il personaggio di Monsieur Hue. Ne fecero a piú
riprese il ritratto Renoir (Cambridge Mass., Fogg Museum)
e Cézanne (Columbus Gallery of Fine Arts). (sr).
Chodowiecki, Daniel Nikolaus
(Danzica 1726 - Berlino 1801). Stabilitosi a Berlino dal
1743, si dedicò alla miniatura, sia ad acquerello sia a smal-
Storia dell’arte Einaudi
to, per la decorazione delle tabacchiere. Apprese poi la tecnica dell’olio e nel 1764 divenne membro dell’accademia.
La sua produzione dipinta, di scarsa importanza, cedette
sempre piú il passo all’attività d’incisore. La mimica sentimentale e melodrammatica alla maniera di Greuze nuoce agli
Addii di Calas (1765: Berlino-Dalhem), incisi nel 1768, e Ch
è piú a suo agio nel genere di Watteau: Incontro galante al
Tiergarten di Berlino (oggi a Lipsia). Infine, quando combina quest’amabilità con un semplicissimo intimismo, come
nella Camera della partoriente (Berlino-Dahlem), dà prova di
sincera freschezza e di penetrante spirito d’osservazione.
Queste stesse qualità si riscontrano in tutta l’opera incisa,
che ci restituisce l’ambiente familiare e sociale di quest’artista borghese (Lo studio del pittore, 1771). Le circa duemila incisioni, di piccolo formato, che eseguí ad acquaforte,
con una tecnica minuziosa al tratto e a puntinato, erano destinate ad illustrare almanacchi e libri. I disegni preparatori per le incisioni (Viaggio da Berlino a Danzica, 1773; il Vicario di Wakefield di Goldsmith) sono precisi e un po’ rigidi, ma alcuni (Fanciulla seduta: Berlino) dànno prova di sicurezza nel tratto e nella distribuzione degli effetti. Ch fu
nominato direttore dell’accademia reale di pittura di Berlino nel 1797. (jhm).
Choffard, Pierre-Philippe
(Parigi 1730-1809). Noto per i cartigli e le incorniciature,
realizzò anche alcune lastre incise per opere letterarie (edizione dei Contes di La Fontaine detta «dei Fermiers généraux», 1762). Pubblicò una Notice historique sur l’art de la
gravure (1804). (cc).
Choiseul, Etienne-François, conte di Stainville e duca di
(Nancy 1719 - Parigi 1785). Fu ambasciatore a Roma, poi a
Vienna, e ministro degli Esteri dal 1758 al 1770. Già al tempo del suo fastoso soggiorno a Roma s’interessava agli artisti, che venivano ricevuti all’ambasciata; e quando partí nel
1754 condusse con sé Hubert Robert. Per tutta la vita protesse Greuze e Boucher, cui commissionò opere per il suo
castello di Chanteloup in Turenna (tre di tali quadri sono
ora a Tours, mba).
Nel 1750 aveva sposato Louise-Honorine du Châtel, pronipote di Pierre Crozat, che ereditò il palazzo in rue de Ri-
Storia dell’arte Einaudi
chelieu a Parigi e una piccola parte dei quadri dell’illustre
collezionista. Tali dipinti, probabilmente italiani, costituivano il fulcro della sua collezione. Tornato in Francia, Ch
cominciò ad arricchire questo primo fondo con acquisti considerevoli. I suoi agenti seguivano le vendite importanti
dell’epoca; preferiva soprattutto opere olandesi e fiamminghe, allora molto in voga. In particolare effettuò acquisti alle vendite Jullienne (Rembrandt, Wouwerman, 1767) e Gaignat (Teniers, 1769).
Caduto in disgrazia nel 1770, la sua situazione finanziaria
peggiorò tanto da costringerlo a rinunciare ad una parte della collezione, la cui vendita, il 6 aprile 1772, suscitò enorme
interesse e fu un successo economico. Tuttavia non bastò a
pagare i debiti di Ch; infatti, un anno dopo la sua morte, nel
1786, la sua vedova vendette il resto, comprendente numerosi quadri francesi, tra cui le Quattro stagioni di Watteau,
dipinte per la sala da pranzo di Pierre Crozat. Quadri appartenuti a Ch si trovano nelle grandi gallerie del mondo: in
particolare al Louvre di Parigi (la Forgia di Le Nain; due
Rembrandt, il Filosofo e Rembrandt con la toga; Castel
Sant’Angelo e il Ponte Rotto di Joseph Vernet), all’Ermitage di Leningrado (otto dipinti), alla ng di Londra (sette dipinti). (gb).
chōjūgiga
Rappresentazioni satiriche di animali nella pittura giapponese. Dei quattro rotoli in lunghezza a inchiostro su carta
che recano questo nome (due a Tokyo, gli altri nel tempio
del Kÿzanji, presso Kyoto), solo i primi due sembrano datare al secondo quarto del xii sec. e sarebbero pertanto attribuiti al monaco Kakuy, piú noto col nome di Toba Sÿjÿ;
gli altri due devono datare alla fine del xii e all’inizio del xiii
sec. Tutti inscenano animali (scimmie, lepri, rane e volpi),
rappresentati in atteggiamenti umani, sia di gioco (tiro con
l’arco, nuoto, lotta), ove i deboli prevalgono sempre sui forti, sia di cerimonie religiose, nelle quali una scimmia vestita da prete adora un buddha in forma di rana. Le pennellate vive ed aguzze a inchiostro di china hanno valore piú descrittivo che calligrafico, e sembrano cosí rivelare una mano
puramente giapponese. Malgrado la totale assenza di testo,
la malizia e l’umorismo dei rotoli del Kÿzanji consentono di
Storia dell’arte Einaudi
scorgervi una satira sociale dell’aristocrazia in declino, mescolata a una critica dei costumi dei monaci buddisti. (ol).
Cholula (de Rivadavia)
La città di Ch, nello stato messicano di Puebla, sede di culture precolombiane e principalmente della scultura mizteca
(ii-xvi sec.), è contemporanea all’apogeo di Teotihuacán: l’influsso di tale civiltà si avverte nella decorazione, dipinta in
nero, rosso e giallo. La città venne occupata verso l’800 d.
C. da popolazioni mizteche, che ne influenzarono profondamente l’arte. Molto abbondante la ceramica, anteriore alle prime costruzioni. A una fase arcaica, caratterizzata da
scodelle d’argilla dipinte in bianco e decorate in rosso, succede un periodo soggetto all’influsso di Teotihuacán, nel corso del quale compaiono piatti dipinti a linee curve e complicate e scodelle emisferiche decorate con una frangia rossa e
nera su fondo giallo. La ceramica raggiunge però il massimo
grado di splendore durante il periodo mizteco. Le forme dei
vasi sono, pressappoco, quelle di altre regioni soggette al dominio mizteco: scodelle, coppe, vasi a tripode, vasi cilindrici a piedi svasati, decorati in nero, bianco e rosso-bruno su
fondo arancio. L’interno dei piatti è ornato a motivi geometrici policromi, composti di cerchi e linee curve o diritte,
parallele o incrociate; taluni motivi sono stilizzazioni di farfalle e serpenti. Qualche forma geometrica decora pure recipienti di aspetto opaco a piedi conici, ma tutte le composizioni variano da un vaso all’altro. La decorazione dipinta
è particolarmente ricca e varia tra xi e il xiii sec., periodo nel
quale compare una pittura detta «laccata», ottenuta mediante sovrapposizione di vari strati di pittura stesi sul fondo di un vaso precedentemente cotto; una seconda cottura
fissava i colori definitivamente. Le tradizioni mizteche si
conservarono a Ch fino alla conquista spagnola, malgrado il
dominio azteco. La piú importante raccolta di ceramiche di
Ch si trova a Città di Messico (ma). (sls).
Chong-son
(1676 - 1759). Letterato, benché membro del burocratico
ufficio delle arti, Ch applicò le lezioni della scuola cinese di
Wou alla rappresentazione dei paesaggi caratteristici del suo
paese. Le Montagne di diamante, rotolo verticale a inchiostro
e a colori leggeri su carta, datato 1734 (Seul, coll. Sôn
Storia dell’arte Einaudi
Jai-hyung), raffigurano questo sito della Corea del Nord (celebre per le sue montagne acute e dentellate, e sede di numerosi templi buddisti), con straordinario vigore e con un
realismo insolito, che fanno di Ch il piú originale tra i pittori coreani di paesaggi. (ol).
Chÿshun Myagawa
(1673-1753). Pittore di ukiyoe. In un periodo in cui la stampa non era ancora policroma, ma colorata a mano (urushie),
Ch e la sua bottega non ricorsero mai al torchio, ma alla pittura per eseguire le loro figure femminili, i cui colori soddisfacevano il gusto del pubblico. (ol).
Christie, Manson & Woods Ltd
Casa inglese di vendite pubbliche, fondata nel 1766 da James Christie (1730-1803) e da artisti come Gainsborough.
Posta dal 1768 al 1823 in Pall Mall a Londra, occupò in seguito gli attuali locali al n. 8-9 di King Street, progressivamente ingranditi a partire dal 1864; la facciata venne rifatta nel 1893. La prima asta ebbe luogo nel marzo 1797; la stima dei quadri di Houghton venduti a Caterina di Russia nel
1781 fu uno dei grossi affari di Ch. La casa venne successivamente diretta da James Christie il giovane nel 1803; da
William Manson, figlio di un libraio, nel 1831; da Edward
Manson, suo fratello, dal 1852 al 1884: questi si associò nel
1859 a Thomas H. Woods, che divenne il piú celebre estimatore dei suoi tempi e si ritirò nel 1903; e da Alec Martin,
socio dal 1897 e direttore dal 1940 al 1958. La maggior parte delle aste importanti ha avuto luogo presso Ch, il cui monopolio di fatto si è esercitato fino al 1939; le piú famose furono quelle delle opere di palazzo Hamilton nel 1882, di
Blenheim nel 1886, della collezione Holford nel 1927-28;
dopo la fine del xix sec. erano pressoché quotidiane. Ch, la
cui attività è tuttora notevole, vende quadri, disegni, incisioni, mobili, oggetti d’arte, libri e manoscritti. Nel 1977 ne
è stata aperta una succursale a New York. (jh).
Christus, Petrus
(citato a Bruges dal 1444 - Baerle (Brabante) 1473). Circa la
sua vita si possiedono solo i seguenti elementi: citato a Bruges dal 1444, esegue nel 1454 tre copie della Vergine miracolosa di Cambrai; s’iscrive nel 1462 nella confraternita
Storia dell’arte Einaudi
dell’Albero secco, con la moglie. Nel 1463 e nel 1467 decora uno stendardo per la processione del Sacro Sangue e, nel
1472, è giurato dei pittori. L’origine del suo stile è problema tuttora irrisolto. Si ammetteva un tempo che potesse
spiegarlo unicamente una strettissima collaborazione con Jan
van Eyck; e pertanto lo s’immaginava volentieri come capo
bottega divenuto indipendente solo dopo la morte del suo
padrone, di cui sarebbe stato incaricato di condurre a termine le opere incompiute. Tale ipotesi è stata ripresa recentemente in relazione a documenti che sembrano riguardare la Vergine del certosino di Jan van Eyck (New York,
Frick Coll.) e la replica che Ch ne fece (Berlino-Dahlem).
Tuttavia, il problema sembra piú complesso. Ch, se copia
spesso composizioni di Van Eyck o della sua cerchia, impiega
però una tecnica meno sapiente e ottiene effetti meno preziosi del piú anziano pittore, il che pare escludere una formazione nella vera e propria bottega di quest’ultimo. La sua
opera è costellata di alcuni dipinti datati, che consentono di
seguire una fase della sua evoluzione. Il Ritratto di monaco
(1446: New York, mma) è notevole per l’effetto illusionistico: sul parapetto che, sull’esempio di Van Eyck, chiude
la composizione in primo piano, il pittore ha collocato una
mosca. Il Ritratto di Edward Grymestone (Londra, ng), datato allo stesso anno, fa meglio scorgere gli orientamenti
dell’artista: il suo gusto per la luce netta, che smorza i modellati nei piani illuminati contrapponendoli con linee secche alle zone d’ombra. Tale tendenza viene evidenziata da
una predilezione per le architetture semplici, quasi geometriche. Al 1449 risale l’importante Sant’Eligio (New York,
mma, coll. Lehman): col pretesto di rappresentare il patrono degli orafi, il pittore descrive una vera e propria scena di
genere, con una giovane coppia che acquista un anello nella
bottega del santo. I ricordi di Van Eyck sono sensibili, in
particolare nel gioco dei riflessi, e inducono persino a non
escludere l’esistenza di un prototipo del maestro fiammingo. Tuttavia, sono qui associati a una ricerca di volumi semplici e di gesti rigidi che costituisce un elemento essenziale
dello stile di Ch. Essi si riscontrano pure nella Natività (Washington, ng, Coll. Mellon), che riprende da Rogier van der
Weyden il tema dell’arco «diaframma», motivo architettonico che sottolinea, al livello del pannello, un’apertura entro la scena rappresentata. Tali elementi si ritrovano pure
Storia dell’arte Einaudi
nella Deposizione dalla croce (Bruxelles, mrba), della quale
esiste peraltro una versione piccola (New York, mma) in cui
essi sono meno marcati. Ch tradisce in queste due opere la
sua totale incomprensione dell’arte di Rogier van der Weyden: ne riprende, è vero, alcuni gesti, come quello della
Maddalena desolata, ma lo spirito è interamente scomparso; il senso del patetico, assente, è sostituito da una meditazione fissa e solenne. Nel 1452 Ch firma due ante (Berlino-Dahlem), una delle quali riproduce abbastanza fedelmente la Crocifissione attribuita a Van Eyck (New York,
mma): tuttavia non ne serba né la finezza né la qualità di luce, e sottolinea gli elementi aneddotici della composizione.
Un piccolo pannello (la Vergine col Bambino assistita da san
Girolamo e san Francesco: Francoforte, ski) reca una data un
tempo letta 1417 (il che diede luogo ad ipotesi svariate sulla carriera del pittore), ma che meglio va letta 1457. Una
Vergine con Bambino seduta in una stanza (oggi a Kansas City)
riprende molto fedelmente la cornice immaginata da Van
Eyck per la Nascita di san Giovanni Battista (Libro d’ore di
Milano-Torino), ma conferendo all’architettura, mediante
una luce piú dura, un aspetto quasi meridionale. L’opera piú
popolare del pittore non è datata: è il Ritratto di giovane donna (Berlino-Dalhem); il volto, di un bell’ovale, dagli occhi
leggermente a mandorla, trattato a volumi semplici, ha un
carattere misterioso di particolare fascino. È messo in valore dalla linea netta di uno stretto cappello, trattenuto sotto
il mento da una fascia di velluto, e si distacca su un fondo
marrone chiaro. La Pietà (Parigi, Louvre) presenta spirito
assai diverso da quella di Bruxelles; riprende la composizione di una miniatura del Libro d’ore di Milano-Torino. Si attribuisce pure a Ch una Morte della Vergine (San Diego,
Timken Art Gall.), la cui arte sorprendente fa pensare
all’Italia; spesso si è ritenuto probabile un viaggio di Ch al
di là delle Alpi. (ach).
«Chroniques de l’art vivant»
Rivista francese d’arte contemporanea, che ebbe redattore
capo Jean Clair. Venne fondata nel 1968 da Aimé Maeght.
Malgrado la sua qualità e il suo pubblico internazionale, cessò le pubblicazioni nel 1975. Dedicava regolarmente articoli agli artisti della Gall. Maeght, ma soprattutto, sin dagl’inizi, apri le sue colonne agli artisti di provincia e stranieri. Da-
Storia dell’arte Einaudi
va un’informazione assai ampia sull’avanguardia in Francia
e all’estero, riservando inoltre molte pagine alle altre espressioni artistiche, come la danza, il teatro, il cinema underground, l’attualità letteraria. E stata tra le pochissime riviste che abbiano pubblicato un indice, in particolare dei propri articoli apparsi tra il 1968 e il 1973. (ep).
Church, Frederick Edwin
(Hartford Conn. 1826 - New York 1900). Ultimo allievo di
Thomas Cole, ampliò la cornice geografica della Hudson River School alle dimensioni del mondo conosciuto. Autore di
paesaggi panoramici giganteschi, dall’esecuzione minuziosa,
viaggiò in America del Sud, alle Antille, nel Labrador, poi
visitò l’Etna, il Partenone, Gerusalemme e Baalbek. Influenzato dal Cosmo di Humboldt (1847), considerò la pittura uno strumento scientifico di esplorazione del mondo e
insieme un mezzo didattico per un simbolismo teologico.
Riuní spesso sulle sue tele vari punti di vista su un medesimo luogo. E suo successo fu immenso a partire da Niagara
(1857: Washington, Corcoran Gallery of Art); il Crepuscolo nella natura selvaggia (1860: oggi a Cleveland) rappresenta al meglio la sua concezione della natura, riflesso della presenza divina. (sc).
churinga
Oggetti sacri dell’Australia centrale. Si tratta di placche di
legno o di pietra, a forma ovale, che possono misurare da tre
cm a piú di un metro. Spesso vi sono incisi, sulle due facce,
motivi geometrici (cerchi concentrici, linee parallele). Un
motivo può assumere significati diversi su uno stesso ch, poiché si tratta di veri e propri contrassegni mnemotecnici, che
vengono commentati in occasione delle cerimonie d’iniziazione. I ch sono conservati in luoghi segreti, che talvolta
coincidono con la presenza di petroglifi. Da tali luoghi vengono regolarmente ripresi, soffregandoli poi con ocra rossa
e grasso animale. Ne conservano alcuni esemplari la ng di
Melbourne e il Museo etnografico di Ginevra. (jgc).
Ciampelli, Agostino
(Firenze 1565 - Roma 1630). La sua formazione avviene
nell’ambiente mediceo con un abile maestro come il Ligozzi,
di cui si avverte l’influenza nelle prime opere (Vocazione di
Storia dell’arte Einaudi
sant’Andrea: Pescia, Duomo). Piú tardi, come molti altri pittori della sua generazione, è anch’egli coinvolto nella «riforma» di Santi di Tito (Natività della Vergine, 1593: Firenze,
San Michele Visdomini). In questo periodo era protetto da
Alessandro dei Medici arcivescovo di Firenze che, eletto cardinale, lo chiama nel ’94 a Roma per decorare Santa Prassede, chiesa del suo titolo. È nella città papale che la maniera
del C evolve nella direzione di quella narrazione figurata non
priva di grandiosità e bene accetta per la sua comunicativa
devozionale che caratterizza in modo particolare gli anni del
pontificato di Clemente VIII. Per queste sue qualità C si aggiudica importanti commissioni in vista del giubileo del 1600
(affreschi in una cappella del Battistero lateranense; affreschi
con Storie di san Clemente nella Sacrestia dei Canonici della
Basilica lateranense) e attira l’interesse dei gesuiti che gli affidano compiti di rilievo nelle chiese dell’Ordine (San Vitale, affreschi della tribuna, con A. Commodi; Gesù, affreschi
nella cappella di sant’Andrea e nella volta della sacrestia).
Non cosí proiettata verso il «moderno» come l’arte dei suoi
compatrioti fattisi romani, Cigoli e Passignano, la pittura di
C sembra piuttosto in questi anni attratta nell’orbita della
tarda maniera zuccaresca. Egli non fu tuttavia alieno da un
moderato aggiornamento, come si avverte in opere eseguite
quando, dopo la morte del Cigoli, si registra una ripresa della sua fortuna romana, legata probabilmente a una certa adesione al «naturale» cigolesco (Distruzione degli idoli: Borgo
Sansepolcro, pc, dipinta a Roma per Firenze nel 1618), all’incontro con la smagliante narrativa di Giovanni da San Giovanni e perfino con il Domenichino e la sua arte di rivivere
l’antico (Santa Bibiana, affreschi). Il percorso finale del C
trova nuovo impulso nella protezione dei Sacchetti e dei Barberini, tanto che nel 1629 è nominato insieme al Bernini sovrastante della Fabbrica di San Pietro. (sr).
Ciardi, Guglielmo
(Venezia 1842 - 1917). Frequentò i corsi di paesaggio di Domenico Bresolin all’accademia di Venezia. Nel 1868, durante
un viaggio a Firenze, entrò in rapporto con i macchiaioli; fu
a Roma, dove conobbe Nino Costa, e a Napoli. Risalgono a
questo momento alcune vedute che documentano le sue giovanili esperienze della pittura italiana moderna (Il Tevere
all’acqua acetosa: Venezia, gam; Scogliera a Capri e Capri:
Storia dell’arte Einaudi
Roma, gnam). Nel 1869 tornò a Venezia, dove praticò sia
la veduta (Laguna: Milano, gam; Mattino di maggio, 1869, e
Il canale della Giudecca: entrambi a Venezia, gam, e tra i
suoi capolavori) sia la pittura di tono verista (Contadino,
1872, e Buoi al carro, 1871-74: entrambi a Venezia, gam;
Messidoro, 1883: Roma, gnam). (sr).
Ciarpi, Baccio
(Barga 1574 - Roma 1654). Dopo un passaggio da Firenze,
a contatto con l’ambiente di Santi di Tito, il C si stabilí molto presto a Roma, dove intrattenne, col fiorentino A. Commodi stretti rapporti che si riflettono nelle sue prime opere:
la Morte di san Benedetto (prima del 1610: Roma, convento
dei benedettini sublacensi) e le sette tele per il convento romano di Santa Lucia in Selci (1614-15). Particolarmente attivo all’Aquila (Battesimo di Costantino, 1614: San Silvestro;
Martirio di santa Giusta e Martirio di san Giacomo, 1631: Santa Giusta) il C, nel corso degli anni ’30 e ’40, lavorò ripetutamente per la Garfagnana, anche se non gli mancarono importanti commissioni romane, come l’Orazione nell’orto
(1632) per la chiesa della Concezione di patronato Barberini. Il suo contemporaneo interesse per la tradizione riformata (F. Zuccari) e le novità pittoriche di matrice venera
(Rubens) contribuirono sensibilmente alla formazione del
suo allievo Pietro da Cortona. (cpi).
Ciceri, Eugène
(Parigi 1813-90). Figlio e allievo dello scenografo di teatro
lirico Charles Ciceri (1782-1868), si dedicò al paesaggio (Rive della Marna, 1869: conservato a Chalon-sur-Saône); si riallaccia alla scuola di Barbizon, dove soggiornò spesso, essendo amico dei pittori che vi si trovavano. Come loro, ha lasciato litografie. (ht).
Cicladi
Arcipelago dell’Egeo, parecchie isole del quale hanno posseduto laboratori di ceramica dipinta attivi dall’viii alla metà
del vi sec. a. C.; ma gli scavi sono troppo parziali per consentire una ripartizione e una datazione sicure. I ritrovamenti piú numerosi sono quelli della «fossa della Purificazione» a Renea, ove erano state trasferite le tombe di Delo.
La ceramica geometrica delle C è influenzata dai vasi attici,
Storia dell’arte Einaudi
poi corinzi; i semicerchi concentrici sono invece loro peculiari. Il laboratorio piú conosciuto di quest’epoca è quello di
Thera (oggi Santorino). Gli stili orientaleggianti del vii e del
vi sec. sono numerosi e di difficile classificazione. Si distinguono uno «stile lineare», un «gruppo AD» ancora subgeometrico, un «gruppo araldico», che colloca, affrontati, due
leoni o due sfingi, un «gruppo a protomi». Un laboratorio a
Nasso e uno a Paro sono ben attestati nel vii sec.; utilizzavano la policromia e il disegno al tratto. Poco si dubita oggi che appunto a Paro, e alla sua colonia di Taso, vadano attribuiti i vasi detti «melici», in uno stile composito che accetta alcune grandi scene religiose («anfora di Apollo» ad
Atene) e numerose rappresentazioni animali in mezzo a motivi geometrici, in particolare certe disposizioni caratteristiche di spirali. Non si sa a quale laboratorio attribuire alcuni piatti votivi policromi (Bellerofonte e la Chimera: conservato a Taso), che sono tra le opere piú affascinanti della
ceramica greca del vii sec. (cr).
Cicognara, Francesco Leopoldo
(Ferrara, 1767 - Venezia, 1834). Poco prima di essere nominato presidente dell’accademia di belle arti di Venezia
(1808), iniziandovi un’intensa attività di riformatore, di amministratore e di mecenate, il conte C dette alle stampe il
Del Bello Ragionamento (Firenze 1808). Lo scritto rendeva
bene la sensibilità tardo illuminista, permeata di concetti
kantiani e della cultura sensista del suo autore. C distingueva il bello relativo, soggetto a variazioni di gusto, dal bello
assoluto e dal bello ideale «unione di tutte le perfezioni»; la
grazia non andava sistematicamente disgiunta dalla bellezza e il sublime assumeva piú valenze. I tre tomi della Storia
della scultura in Italia pubblicati dal 1813 al 1818 ponevano
C nel novero dei grandi storiografi della fine del Settecento, quali L. Lanzi e Séroux d’Agincourt. La Storia della scultura, divisa in cinque grandi periodi, non trascurava tecniche considerate minori e curava l’inserimento dell’artista nel
suo contesto storico culturale. C non fu esente da incomprensioni o da giudizi limitanti ma le sue capacità di conoscitore gli permisero di superare il gusto neoclassico a cui era
legato, apprezzando e collocando nella giusta prospettiva storica molte opere medievali. L’apertura mentale illuminista
e i contatti internazionali di C gli assicurarono un ruolo-gui-
Storia dell’arte Einaudi
da nella vita culturale veneziana. Con l’aiuto dei professori
dell’accademia curò l’edizione delle Fabbriche piú cospicue
di Venezia (1815-20), che rimane un testo di grandissima
qualità scientifica. (sag).
Cifrondi, Antonio
(Clusone (Bergamo) 1657 - Brescia 1730). Allievo a Bologna
del Franceschini, viaggiò a lungo in Europa, trattenendosi
alcuni anni a Parigi. Dal 1689 lavora in Lombardia, particolarmente a Bergamo (Martirio di sant’Alessandro: Sant’Alessandro della Croce) e a Brescia dal 1722. Noto, piú che per
le opere pubbliche, soprattutto di destinazione sacra, di scarso livello qualitativo, per i numerosi dipinti a carattere popolaresco e per alcuni efficaci ritratti. Fu incluso, nel 1953,
nella mostra milanese dedicata ai Pittori della realtà in Lombardia. (gp).
Cignani, Carlo
(Bologna 1628-1719). Allineatosi ai suoi esordi con il vecchio Albani, suo maestro, coltivò fino all’estremo le possibilità espressive del classicismo alla bolognese, addolcendo
con inflessioni sentimentali la insistente rotondità in cui egli
identificava la perfezione formale. Assai piú vivacemente
che nelle opere da cavalletto (Il ritrovamento di Mosè, 1670
ca.: coll. priv.; L’infanzia di Giove, 1702-14, per l’Elettore
Palatino, ora a Monaco), che d’altronde gli procurarono
grande fama anche all’estero per l’amabilità e la raffinatezza letteraria dei soggetti, egli operò negli affreschi, specie
quelli in San Michele in Bosco, dove seppe far rinascere in
floride forme lo spirito illusionistico di Annibale Carracci.
A Bologna in particolare, il C godeva, tra tutti gli artisti,
della piú alta considerazione; e nel 1709, alla fondazione
dell’Accademia Clementina, fu nominato principe perpetuo.
Lo si ritenne, per delicatezza di modellato e di colorito, e
per naturalezza di resa, quasi un Correggio reincarnato. Tra
le sue imprese decorative si ricordano anche il dipinto da
soffitto (Aurora) in palazzo Albicini a Forlí e il ciclo di mitologie nel palazzo del giardino dei Farnese a Parma
(1678-80): uno dei piú alti esiti del classicismo bolognese tra
le decorazioni parietali della seconda metà del sec. xvii. Furono suoi allievi M. Franceschini e G. M. Crespi, e, tra i fo-
Storia dell’arte Einaudi
restieri, Sagrestani, Bencovich, Mancini. A Roma (1662-65)
eseguí due affreschi in Sant’Andrea della Valle. (eb+sr).
Cignaroli, Giambettino
(Salò 1706 - Verona 1770). Allievo a Verona di Santo Prunati, entrò poi in contatto con il piú anziano Antonio Balestra e con il francese – residente a Verona – Louis Dorigny.
Soggiornò a Venezia (1735-38), ove eseguí affreschi in palazzo Labia accanto a Tiepolo, e nel 1737 il Martirio di san
Felice e di san Fortunato per il duomo di Chioggia, che gli
diede la celebrità. Dall’ambiente veneziano gli derivarono
soprattutto il cromatismo nei modi di Sebastiano Ricci e le
composizioni fortemente chiaroscurate di Mazzetta. Tornò
a Verona nel 1739, dove si affermò come la personalità di
maggiore prestigio dopo la morte di Balestra (1740). Negli
affreschi (Apollo e Marsia, 1739, e il Sacrificio di Ifigenia,
1741, per villa Pompei a Illasi; l’Aurora in casa Fattori nel
1748), e nelle numerose tele (Morte di san Giuseppe, 1740:
Mantova, Duomo; Sant’Elena, 1741: Verona, Castel Vecchio; Fuga in Egitto, 1742: Bergamo, Santa Maria Maggiore; San Procolo che visita san Fermo e san Rustico: Bergamo,
Duomo; e la Vergine col Bambino tra san Gerolamo e
sant’Alessandro: Bergamo, chiesa dell’Ospedale) consegnò
un nuovo classicismo consapevole e colto, che ne fece, nella storiografia artistica locale, un parallelo veronese di Carlo Maratta, ammirato da Giuseppe II in occasione della sua
visita a Verona nel 1769, in reazione al rococò austriaco.
Nell’ultimo decennio della sua vita questo carattere si manifesterà piú evidente in dipinti partecipi della nuova pittura «di storia» (Morte di Rachele: Venezia, Accademia). Professore e poi direttore dell’accademia di Verona, fu chiamato
nel 1766 a Torino per riorganizzarvi l’accademia della città.
Scrisse una Lettera sul colorire che illustra chiaramente il suo
orientamento in pittura. (sde+sr).
Cignaroli, Vittorio Amedeo Gaetano
(Torino 1730 ca. - 1800). Furono quattordici gli artisti della famiglia Cignaroli, della quale si conoscono due rami, entrambi originari di Verona alla metà del xvi sec. Raggiunsero la massima importanza tra il 1749, anno di nascita di Martino, e il 1841-42, anno di morte di Angelo Antonio. Il numero di pittori, considerevolmente piú alto rispetto ad ar-
Storia dell’arte Einaudi
chitetti, scultori e musicisti della medesima famiglia, ha contribuito a generare una serie di equivoci attributivi e cronologici che è stato districato solo grazie alle riceche documentarie del Vesme (schede Vesme).
L’artista piú conosciuto è senza dubbio C, che per lungo tempo fu sdoppiato in Vittorio Amedeo e Gaetano. Figlio di Scipione, nacque a Torino verso il 1730. Secondo una consolidata tradizione familiare fu il padre il suo primo maestro.
Apprese da lui, oltre alla cultura veneta, quella abilità di mestiere che ne fece il beniamino della corte sabauda e dell’aristocrazia piemontese nonostante i suoi modi piuttosto scontati e talvolta stucchevoli. La sua attività è documentata dal
1749 al 1794, ma presenta difficoltà la distinzione della produzione autografa: è infatti con Vittorio Amedeo che la bottega del C si allargò considerevolmente, offrendo quasi una
produzione di serie. Del 1785 ca. è una serie di 38 vedute,
eseguite col figlio Angelo e oggi divisa tra il castello di Agliè
e palazzo Chiablese a Torino. (ada).
Cigoli
(Ludovico Cardi, detto il) (Cigoli 1559 - Roma 1613). Allievo a Firenze di A. Allori e di Buontalenti, lavorò come architetto e organizzatore di feste alla corte medicea (1589).
Sin dagli esordi (Martirio di san Lorenzo, 1590: Cenacolo di
San Salvi) si riallaccia alle ricerche luministiche del Correggio e del Barocci, in particolare nei suoi disegni dalle linee
fluide, ombreggiati con larghezza (studi per il grande Martirio di santo Stefano, 1597 ca.: Firenze, Pitti). Avversario di
Caravaggio nel concorso bandito a Roma da monsignor Massimi (Ecce Homo, 1604-1606: ivi), si stabilí poi definifivamente nella città nel 1604, operandovi per papa Paolo V
nonché per il cardinale Scipione Borghese (Storia di Psiche,
1610-13: affreschi oggi conservati nel Museo di Roma). Tra
le sue opere si possono ancora citare il Martirio di san Pietro
martire (Firenze, Convento di Santa Maria Novella), San
Francesco (Firenze, Pitti), Sant’Antonio e il miracolo della
mula (1597: Cortona, San Francesco); San Gerolamo (1599:
Roma, San Giovanni dei Fiorentini), Natività (1602: Pisa,
mn), la Fuga in Egitto (conservata a Chartres), il Sacrificio
d’Isacco e la Deposizione dalla croce (Firenze, Pitti), Giuseppe e la moglie di Putifarre (1610: Roma, Gall. Borghese), oltre a qualche ritratto (Autoritratto: Firenze, Uffizi). A lun-
Storia dell’arte Einaudi
go ammirata, poi negletta o discussa, l’arte di C come pittore, disegnatore e architetto è attualmente (almeno dal
1959, quando gli venne dedicata una grande mostra) oggetto di nuovi studi; e appare ormai chiaro come sotto certi
aspetti egli preannunci le ricerche barocche. Partito, attraverso l’insegnamento di A. Allori dal disegno bronzinesco,
si allineò per qualche tempo, con l’Empoli, il Pagani e altri,
alla «riforma» di Santi di Tito. Ma la passione per il modello
chiaroscurale correggesco, la conoscenza dei grandi veneziani e soprattutto le esperienze maturate durante il soggiorno a Roma, in anni di cruciale importanza per i grandi
cambiamenti in atto, condussero il C ad esiti ormai lontani
dalle origini fiorentine e, per certi versi, coincidenti con i risultati dei protagonisti del rinnovamento all’aprirsi del secolo. Da questo punto di vista, non è certo privo di significato che il C ottenesse nel 1604 la commissione di una delle pale della Basilica vaticana (San Pietro risana lo storpio),
cioè uno degli incarichi piú ambiti per un artista del suo tempo. (fv+sr).
Cile
xvi e xvii secolo Ad eccezione di alcune opere anonime (altari policromi, quadri religiosi e ritratti, come quello di Inez
de Suarez ai piedi della Vergine), l’apporto principale della pittura cilena proviene dall’esterno, da Lima, da Cuzco e persino da Siviglia, donde il vescovo Villaroel fece venire quadri per l’Iglesia Mayor di Santiago. Dopo il terremoto che
distrusse Santiago nel 1647, il peruviano Juan Zapaca Inga,
pittore della scuola di Cuzco, coprí il patio del convento di
san Francesco con 42 dipinti che illustravano la vita del santo. Il gesuita bavarese Karl Kaymhausen, accompagnato da
quaranta artigiani tedeschi, fondò la scuola Calera de Tango, centro di attività industriali ed artistiche presso Santiago. Essi dipinsero alcune pale e quadri religiosi in stile barocco per la cattedrale: l’Ultima cena (1652) nella sacrestia
e le Litanie della Vergine, opera del gesuita svizzero Georges
Ambrosi.
xviii secolo Quantunque i gesuiti venissero espulsi nel
1773, l’arte e la religione rimasero ancora strettamente legate: José Mena decorò la chiesa del Carmen a San Rafael;
Ignacio Andia y Varela, ordinato sacerdote in età matura,
Storia dell’arte Einaudi
fece il ritratto del teologo Lacunza e disegnò il Parlamento
di Negrete.
xix secolo La personalità di spicco del periodo fu José Gil
de Castro detto el Mulato, di Lima. Attivo in C dal 1812 al
1820, fu il pittore ufficiale della società di Santiago, ritrattista dei primi fondatori della nazione: ritratti del generale
Bernardo O’Higgins (conservato a Santiago), di San Martin,
di Bolìvar. Tre artisti europei dominano la generazione successiva: Rugendas, Wood e Monvoisin. Johann Moritz Rugendas, di una famiglia d’incisori di Augsburg, fu autore di
litografie che hanno per soggetto scene familiari e pittoresche (El Huaso y la Lavandera). Charles Wood, di Liverpool,
si stabilí in C nel 1824 in qualità d’ingegnere e professore
di disegno; i suoi acquerelli e i suoi oli descrivono episodi
della lotta per l’indipendenza. Il francese Raymond Monvoisin, discepolo di Guérin, prix de Rome nel 1822, fu anch’egli pittore di quadri di storia. Espose nel 1842 a Santiago i suoi ritratti dell’alta società cilena, eseguiti con abilità e sicurezza di colore; avrà per allievi i ritrattisti Vicente Perez Rosales e Francisco Javier Mandiola. L’accademia
di belle arti venne creata nel 1849 con la direzione del napoletano Alessandro Ciccarelli, cui si deve l’organizzazione
dei primi salons artistici, ma il cui insegnamento (copie di
gessi, modelli dal vero) fu piuttosto accademico. Antonio
Smith se ne distaccò presto, volgendosi al paesaggio;
all’esposizione del 1872 presentò un Chiaro di luna in un sottobosco intriso di malinconia e tinto da un sentimento panteistico romantico. Manuel Antonio Caro adottò uno stile
piú popolare; s’interessò ai costumi, alle scene colte dal vero: El cucurucho, La zamacueca, di cui resta lo schizzo al museo di Santiago. I paesaggi cileni furono fedelmente tradotti da Onofre Jarpa e Alfredo Helshy. Molto visibile in Jarpa, l’influsso di Antonio Smith è pure riscontrabile nelle opere che Pedro Lira presenta all’esposizione nazionale del 1872
(Rìo Clara). Tornato da un soggiorno d’una decina d’anni in
Europa, organizzò l’esposizione del 1883 insieme a Ramon
Subercasseaux e riprese l’idea di un salone annuale (concepita dallo scultore José Miguel Blanco), in sostituzione del
sistema di esposizioni irregolari del 1858, del 1872 e del
1875. Nel 1892 venne nominato direttore della scuola di belle arti; i suoi immensi dipinti (paesaggi, ritratti, composizioni storiche: Morte di Cristoforo Colombo) riflettono un na-
Storia dell’arte Einaudi
turalismo privo di calore. Citiamo tra i suoi allievi Alberto
Valenzuela Llanos, che si liberò della sua tutela grazie a un
viaggio in Francia: Lo Contador, L’Algarrobo sono paesaggi
influenzati dall’impressionismo. Juan Francisco Gonzalez,
anch’egli in reazione all’accademismo della pittura cilena,
pose invece l’accento sul colore – assai ricco nelle sue nature morte di fiori e di frutta – giocando con gli effetti di luminosità nei suoi paesaggi di albe e crepuscoli. Dopo un soggiorno a Parigi ove incontrò Benjamin Constant, Alfredo
Valensuela Puelma affrontò i salons ufficiali. Durante il suo
secondo soggiorno parigino ottenne un premio per la Ninfa
con ciliege. Morí a Parigi nel corso di un terzo soggiorno. Alcune sue opere sono tinte d’impressionismo, ma le sue composizioni di nudi si ispirano ad Ingres.
xx secolo Precursore della giovane pittura cilena fu Pablo
Burchard, i cui primi paesaggi sono pieni di poesia (El Bebedero, Calle de Quintero). Direttore della scuola di belle arti dal 1932 al 1935, ottiene un primo premio al salone interamericano per il quarto centenario di Santiago nel 1941. Le
sue opere, che prendono le mosse dall’impressionismo,
preannunciano l’astrattismo. Le ricerche di Carlos Isamitt
sui nuovi metodi d’insegnamento delle belle arti in Europa
sono state fondamentali per la pittura cilena. Direttore generale dell’insegnamento artistico nel 1927, nel 1928 inviò
trenta giovani artisti in Europa e principalmente a Parigi.
Nel 1930 venne creata in seno all’università una facoltà di
belle arti, i cui docenti erano costituiti da alcuni pittori ritornati dall’Europa, che diffusero le nuove idee. Tuttavia il
risultato restò un’arte di compromesso, ancora legata al passato e che raramente andò al di là del realismo, sia nei ritratti di Roberto Humeres, di Isaias Cabezon o di Hector
Caceres, sia nei paesaggi di Jorge Caballero, Sergio Sotomayor o Israel Roa, sia nelle pitture murali di Laureano Guevara, sia nelle scene di genere di Arturo Valenzuela; il solo
Camilo Mori impiegò le tecniche piú aggiornate. La maggior
parte di questi pittori partecipò a mostre internazionali come la Carnegie International Exhibition di Pittsburgh e la
Pan-American Exposition di Los Angeles del 1935, o quelle del Riverside Museum di New York del 1939, di Buenos
Aires e di San Francisco nel 1940, senza dimenticare il Salon d’automne e il Salon des Indépendents di Parigi. Tra il
1950 e il 1960 l’influenza di Roberto Matta ha dominato la
Storia dell’arte Einaudi
nuova generazione, che ha portato il suo contributo
all’astrattismo contemporaneo con José Balmes, Fedirico Assler, Carlos Donaire, Ida Gonzales, Ricardo Irarrazaval,
Guilhermo Nunez, Rodolfo Opazo, Carlos Ortuzar e Iván
Vial; e, nel campo dell’incisione, con Eduardo Bonati, Bernal Ponce, Francisco Copello e Mario Toral, quest’ultimo illustrò nel 1963 la raccolta di poesie di Pablo Neruda intitolata Machu-Picchu. (mte).
Cimabue
(Cenni di Pepi, detto) (1240 ca. - dopo il 1302). Dante lo cita come il maggior pittore della generazione antecedente a
quella di Giotto, in parallelo con il poeta Guido Guinizelli
e il miniatore Oderisi da Gubbio. Nella tradizione storiografica fiorentina (Ghiberti, Libro di Antonio Billi) egli è
menzionato come il maestro e scopritore di Giotto. La critica degli inizi di questo secolo è giunta perfino a mettere in
dubbio la stessa esistenza storica di C (Wichkoff, Langton-Douglas). Cenni (= Bencivenni, Benvenuto) di Pepi detto C è tuttavia documentato a Roma nel 1272 e nel 1301 a
Pisa, in relazione con il mosaico absidale del duomo; nel
1302, sempre a Pisa, è ricordato come membro della Compagnia dei Piovuti. La figura di San Giovanni Battista da lui
eseguita nel mosaico di Pisa ci è pervenuta, ed è servita di
base alla critica moderna per la ricostruzione del probabile
catalogo dell’artista.
Del gruppo di opere stilisticamente connesse che gli vengono riferite con maggiori probabilità la piú antica è certamente il Crocifisso della chiesa di San Domenico di Arezzo,
a lui restituito da Pietro Toesca; lo si può datare in epoca
anteriore al Crocifisso di Pistoia dipinto da Coppo di Marcovaldo insieme al figlio Salerno (1274) ed è possibile che
risalga al primo periodo di attività di C, prima ancora del
viaggio romano del 1272; la superficie smaltata ed i panneggi
sottilmente trapunti d’oro mostrano ancora dei legami con
il bizantinismo «aulico» del concittadino Coppo di Marcovaldo, mentre l’inarcarsi patetico del corpo del Cristo rimanda a colui che era allora il piú influente pittore della Toscana, il pisano Giunta.
In opere che la critica piú avvertita colloca in epoca immediatamente posteriore, come il Crocifisso, oggi semidistrutto, della chiesa fiorentina di Santa Croce (anteriore almeno
Storia dell’arte Einaudi
al Crocifisso del 1288 di Deodato Orlandi, ma probabilmente
anche a quello di Salerno e Coppo a Pistoia, 1274) e la grande Maestà del Louvre a Parigi (proveniente dalla chiesa di
San Francesco a Pisa) C si presenta profondamente rinnovato sugli esempi di quanto poteva aver visto a Roma, e soprattutto a Pisa, nelle opere di Nicola de Apulia (cittadino
pisano dal 1258); è evidente la tendenza a distaccarsi dalle
tendenze bizantine ortodosse, o «costantinopolitane», per
sperimentare, sotto lo stimolo delle piú vive correnti «gotiche», il recupero di una tradizione di «impressionismo» tardo antico che in Occidente non era mai venuta meno del tutto. Viene abbandonata la corazza cheratinosa dei bizantini
per una trattazione piú morbida, a tratteggio sottile, estremamente sensibile, delle carni, i panneggi ad agemina bizantina sono sostituiti da un fitto piegheggiare a sottosquadri profondi imitati dalla scultura. Rispetto all’inattaccabile plasticismo dei bizantini, il tremolio di tante pieghe finisce con l’intaccare la solidità della forma, per ottenere un effetto di fluttuante imprecisione ottica cui contribuivano (in
origine certo piú che oggi) i colori delicati: celesti, rosa, malva e giallino. Su questa strada è possibile che C fosse incoraggiato dall’esempio di un grande contemporaneo di Nicola Pisano, il cosiddetto Maestro del San Martino. Un aspetto piú scuro, fosco e corrucciato hanno oggi, soprattutto per
il loro disastroso stato di conservazione e l’alterazione dei
colori, gli affreschi che decorano l’abside della chiesa superiore di San Francesco ad Assisi (Evangelisti, Storie della Vergine, due Crocifissioni). Benché la loro datazione sia controversa, negli ultimi tempi gli studiosi paiono inclini ad accordarsi per una esecuzione negli anni 1278-79. Tra il settembre 1278 e l’agosto 1280, infatti, papa Niccolò III Orsini assunse personalmente anche la carica di Senatore di Roma, ed a questo evento C fece forse allusione rappresentando nella vela con l’Evangelista Marco una veduta di Roma
con il Campidoglio e, sul Campidoglio, quattro stemmi della famiglia Orsini.
Dopo gli affreschi di Assisi C si presentava ormai come il
maggior pittore di Firenze, e la sua influenza diveniva determinante per gli sviluppi della pittura toscana. Strettamente cimabuesco era, nel 1285, il principale pittore senese, Duccio di Buoninsegna nella tavola della Madonna Rucellai, cimabuesco (negli affreschi di Genova, Accademia Li-
Storia dell’arte Einaudi
gustica del 1292) il pistoiese Manfredino, cimabuesco infine, negli affreschi di Montelupo, quel Corso di Buono che
è documentato nel 1295 come capo della Confraternita dei
pittori. All’opera di quest’ultimo artista è particolarmente
vicina la celebre Maestà di Santa Trinità (Firenze, Uffizi),
che presenta, rispetto alla Maestà di Pisa (Parigi, Louvre) un
impianto piú espanso, una stesura pittorica piú lenta, quasi
smagliata. Influenzate ormai dal giovane Duccio, e poi perfino da Giotto, sono le altre opere riferibili a C o alla sua
bottega: ricordiamo l’affresco nel San Francesco inferiore
ad Assisi (Maestà con san Francesco) e la Madonna in trono
con i santi Francesco e Domenico (già Firenze, coll. Contini
Bonacossi; ora a palazzo Pitti).
Va infine ricordato che C fu l’artista del suo tempo che maggiormente collaborò al famoso ciclo musivo del Battistero di
Firenze, e benché la traduzione in altra tecnica, ed i danni
subiti col tempo, rendano spesso problematica la lettura stilistica, possiamo presumere che egli abbia prolungato la propria collaborazione per un arco di tempo abbastanza esteso,
proseguendo l’opera dal punto in cui l’aveva abbandonata
Coppo di Marcovaldo (o altro artista della sua generazione)
per condurla, solo o con aiuti a lui simili, fin verso le ultime
storie, dove appaiono due diversi maestri di cultura piú moderna: il supposto Gaddo Gaddi e il protogiottesco Ultimo
maestro del Battistero. (gp).
Cima da Conegliano, Giovanni Battista
(Conegliano 1459-60 - 1517-18). La prima opera firmata,
Madonna in trono col Bambino fra i SS. Giacomo e Girolamo
(1489: Vicenza, mc), mostra nel rigore volumetrico e nella
gamma calda dei colori un gusto assai vicino a quello di Bartolomeo Montagna. Tuttavia già in questa prima opera e pur
nell’ímpianto di chiara derivazione montagnesca, C pone le
premesse di uno stile cui resterà fedele: la luce chiara scioglie l’asprezza spigolosa delle vesti e la durezza dei volti montagneschi, mentre l’invenzione del «pergolato» ci prepara
alle fresche immagini dei suoi paesaggi. L’esperienza montagnesca si conclude quando – certamente prima del 1492,
data in cui la presenza di C a Venezia è documentata – il pittore provinciale, venuto a contatto con la cultura artistica
lagunare, incontrò Alvise Vivarini e Giovanni Bellini, subí
la suggestione della pala antonellesca di San Cassiano. Se-
Storia dell’arte Einaudi
condo il Pallucchini (1962) il polittico di Olera (parrocchiale, 1486-88) è il primo frutto dell’attività veneziana di C,
che va sempre piú precisandosi nelle opere seguenti, la Sacra conversazione (Milano, Brera) e la Madonna e Santi (1493:
Conegliano, Duomo), strutturate sugli esempi di San Cassiano e di San Giobbe, nell’organismo architettonico cosí
complesso, nel trono alto contro lo sfondo aperto, nello sforzo di disporre le consistenti figure secondo un ritmo e un ordine, che permettano il dialogo. Ma C trova la sua poetica
quando può collocare Madonne e Santi nel paesaggio delle
dolci colline di Conegliano, cosí vere e cosí sognate insieme;
la luce scalda e leviga in questo amoroso rapporto fra creatura e natura i personaggi del Battesimo di Cristo (1494: Venezia, San Giovanni in Bragora), sereni e attoniti nell’atmosfera nitida di un ambiente cui torna sempre la nostalgia
dell’artista, che fa scorrere il Giordano fra le colline trevigiane. La minuzia dei particolari, la limpidezza della luce, la
classica bellezza delle figure, che corrispondono a una tipologia costante nella produzione cimesca, tornano nella Madonna dell’arancio (1495 ca.: Venezia, Accademia), che contiene uno dei brani paesaggistici piú alti, quello caldo e dolcissimo con il castello di San Salvatore di Collalto. All’invenzione belliniana di tali conversazioni all’aria aperta corrisponde l’influsso carpaccesco nelle architetture policrome
di alcune scene di piccolo formato quali L’ambasceria del sultano (Zurigo) o il Miracolo di san Marco (Berlino-Dalhem). Il
temperamento riflessivo, piú portato alla rielaborazione degli stessi temi che all’invenzione di nuovi, spinse l’artista alle molte redazioni della Madonna col Bambino, delle quali
forse la piú felice è quella della Chiesa di Santa Maria della
Consolazione di Este (Padova), firmata e datata 1504: la rustica sanità di Maria esplode nei timbri violenti dei rossi, dei
blu e dei gialli, nella coscienza volumetrica dell’immagine
monumentale, che stacca con forza sorprendente dal paesaggio dello sfondo. Sempre nella metà del primo decennio
si colloca la pala con San Pietro Martire e i SS. Niccolò e Agostino (Milano, Brera), dalle pure architetture; leggermente
posteriore (1506-1508) è la Madonna tra san Michele e
sant’Andrea (Parma, gn), ove fra la luce assolata del meriggio e le ombrose rovine stanno malinconici e meditabondi
personaggi dai quali si stacca in assorto atteggiamento la sagoma elegante dell’arcangelo Michele. La luce zenitale che
Storia dell’arte Einaudi
blocca contro il cielo le tre figure dell’Incredulità di san Tommaso (Venezia, Accademia), contenute nell’ampia cornice di
un arcone in primo piano, scioglie nell’orizzonte bassissimo
del secondo piano le figurette gustose che si muovono in un
favoloso viaggio fra il villaggio inerpicato sul colle e il sottobosco molle di cespugli e di fronde. È già l’idillio giorgionesco; ma a proposito del rapporto fra C e Giorgione val forse la pena di pensare che il senso georgico della natura e il
muto colloquio fra trasognati personaggi trovino proprio in
C i precorrimenti alle piú alte visioni giorgionesche (Pallucchini, 1692). Le proporzioni mutate delle figure rimpicciolite e la grande quinta ombrosa della Natività del Carmine a
Venezia confermano l’ispirazione al mondo giorgionesco; come la conferma la scelta di nuovi soggetti umanistico-mitologici, Endimione dormiente e il Giudizio di Mida (1505-10:
Parma, gn), il Duello in riva al mare (Berlino, gg) e Bacco e
Arianna (Milano, mpp), risolti con sensibilità cromatica affine a quella tonale. Il linguaggio di C però, sia pure appoggiandosi e ispirandosi talvolta alle soluzioni dei contemporanei piú geniali, non si sovverte e trova in se stesso la possibilità di risultati sempre nuovi: lo dimostra il San Pietro in
cattedra (1516: Milano, Brera) ove, dimentico della pittura
tonale e delle novità cinquecentesche, ritorna all’impaginazione quattrocentesca e alle immote immagini di antica bellezza. (mcv).
«Cimaise»
Rivista francese d’arte, fondata nel 1953 da Jean-Robert Arnaud, che la diresse, e da Roger van Gindertael, che ne fu il
redattore capo fino al 1955. Sin dal primo numero essi raccolsero intorno a sé, per formare il comitato di redazione, Julien Alvard, Michel Ragon, Claude-Hélène Sibert e Herta
Wescher. Il giovane pittore americano John Franklin Koenig ne fu segretario generale fino al 1959; gli succedette René
Barzilay. La rivista ha sostenuto le tendenze piú recenti
dell’astrattismo, espresse pure dalle mostre della Gall. Arnaud, che si assumeva le spese di pubblicazione e diffusione,
ma lasciava ai redattori piena libertà d’opinione. La redazione venne assunta da Herta Wescher dal 1955 al 1957, poi
da Jean-Robert Arnaud. Il comitato di redazione fu soppresso dal 1963. Agl’inizi C ebbe un’efficace azione militante;
ma quando la situazione si fu evoluta a favore delle forme
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d’arte che patrocinava, una parte maggiore di essa fu riservata a una documentazione antologica sull’arte contemporanea nei vari settori (per esempio L’arte russa degli anni ’20),
che incluse persino per qualche tempo una rubrica d’architettura curata dall’architetto Wogensky e da Michel Ragon.
La rivista, prima mensile, divenne poi trimestrale. Il numero dei collaboratori si è moltiplicato; vanno ancora citati Pierre Restany, Georges Boudaille, Gérald Gassiot-Talabot,
Jean-Jacques Lévêque e Marc Albert-Levin. (rvg).
cimasa
Modanatura che delimita e orna la parte piú alta di un mobile o di un elemento architettonico; si dice c anche una cornice applicata a un muro per appendervi i quadri da esporre nei musei o nelle gallerie. Nella Parigi del xix sec. si diceva che un pittore che esponeva al salon con un quadro ben
in vista, aveva ottenuto gli «onori della cimasa». (sr).
Cimone
(fine del vi sec. a. C.). Nato a Cleone presso Corinto, C sembra sia stato il vero iniziatore della pittura greca e il precursore di Polignoto di Taso. Secondo Plinio il Vecchio inventò
i katagrapha, termine il cui senso («scorcio» o «visione multipla» delle figure) è tuttora discusso. La sua opera originale
è scomparsa; non ne abbiamo altri echi se non nelle pitture
dei vasi greci della fine del vi sec. (Olto, Eufronio). (mfb).
Cina
Tra tutte le arti praticate in C, e in Estremo Oriente, la pittura è quella che meglio ne caratterizza lo spirito. Come la
calligrafia, cui resta intimamente legata, la pittura cinese ha
una profonda originalità che consiste tanto nella particolare tecnica del pennello, quanto nel contenuto filosofico ad
essa sotteso, poiché il pensiero cinese considera il simbolo
grafico l’unico possibile legame tra l’idea e l’immagine, tra
il pensiero e la parola. Pertanto, disegni e caratteri avranno
la medesima funzione espressiva: vogliono essere visti, essere colti dall’occhio; e non venir compitati, o afferrati dall’orecchio. Unicamente la schematizzazione lineare distingue un carattere da un dipinto: perciò, alla base di quest’arte sta il tratto, la linea. La sua forma dipenderà dai diversi
modi di utilizzare il pennello, strumento che serve tanto a
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dipingere quanto a scrivere, e di caricarlo d’inchiostro per
lasciare una traccia sulla carta o sulla seta, unici supporti di
solito utilizzati. La varietà stessa delle posizioni del pennello esige una tecnica che è estremamente difficile padroneggiare e il cui apprendistato non ha mai fine. All’originalità
di rappresentazione si aggiunge quella di esecuzione; infatti la stessa positura dell’artista è particolare. Seduto o inginocchiato senza muoversi dinanzi a un basso tavolino su cui
è stesa piatta la seta o la carta (materiali che non consentono alcun pentimento e sui quali lo schizzo è definitivo), il
pittore dell’Estremo Oriente tiene il pennello, con mano ferma, in posizione verticale, e disegna con un movimento del
gomito e della spalla assai piú che del pugno o delle dita, che
restano pressoché immobili. Non si può arretrare rispetto
all’opera; non si vedrà mai il pittore prendere spazio e socchiudere un occhio per meglio giudicare la propria composizione. Egli non ricerca del resto una visione complessiva,
globale; la sua concezione della prospettiva si fonda sul movimento della vita, è esplosiva e multipla e non incentrata
su un immaginario punto di fuga in dipendenza da un’unica linea d’orizzonte. Ci si aggira entro un dipinto come si
leggono i caratteri di uno scritto, disposti in colonna. Occorre infine ricordare che quando lo spettatore, seduto o inginocchiato anch’egli dinanzi a un basso tavolino, contempla con rispetto il dipinto, si trova con l’oggetto nella stessa relazione dell’autore, di cui può meglio cogliere il procedimento. I teorici e critici d’arte cinesi distinguono quattro
grandi famiglie di dipinti, a seconda del soggetto (la pittura
religiosa, taoista o buddista, costituisce poi un blocco a sé
stante, Xuanhe huapu) e in ordine crescente d’interesse: le
«piante e insetti» (ivi compresi i pesci), i «fiori e uccelli»
(genere preferito dai pittori a tendenza decorativa, che apprezzavano la molteplicità delle linee e dei colori), gli «uomini e oggetti» (considerati a sé in quanto «prodotti», a differenza di quelli naturali), e infine, ma superiore a ogni altro soggetto, la natura stessa. Il paesaggio costituisce la prima grande categoria della pittura cinese, che cornina tutte
le altre, che non manca di mescolarsi a riferimenti filosofici
o metafisici, enunciati da pensatori che sono stati, quasi tutti, essi stessi pittori. Tutti si collocano in relazione alle teorie cosmogoniche, secondo le quali il mondo si basa su un
ordine universale, inanimato secondo gli uni (i confuciani)
Storia dell’arte Einaudi
e animato secondo gli altri (i taoisti), nel quale il Cielo, la
Terra e l’uomo sono intimamente connessi. In quest’ordine
naturale l’uomo occupa semplicemente il suo giusto posto,
infinitamente modesto: e la pittura cinese sarà contrassegnata dalla ricerca dell’armonia cosmica e del ritmo vitale.
Era dunque ovvio che essa si evolvesse di concerto con le
idee, tanto che la si può studiare seguendo la storia cronologica del Regno di Mezzo, specialmente nell’ambito delle
grandi epoche, che sono in primo luogo l’epoca degli Han,
poi quelle dei Tang e dei Song, e infine l’epoca contemporanea. Si potrebbe ritrovare entro tali fasi lo schema classico occidentale di fioritura-espansione-decadenza, quantunque occorra qui badare a una differenza fondamentale tra la
pittura cinese e quelle occidentali: si ha sempre filiazione e
transizione diretta tra un’epoca e un’altra. Mai si pretenderà di far tabula rasa del passato e di ricostruire partendo
da dati interamente nuovi. Le grandi correnti della pittura
cinese esistono tuttora, al contrario che in Occidente, evoluzione e fissità coesistono a causa dei riferimenti al passato. Le varie correnti possono naturalmente fondersi o mescolarsí: ma le si potrà sempre individuare, e per questa ragione accade che un’opera cinese venga apprezzata in base
alla sua genealogia almeno quanto per il suo merito intrinseco. Si riconoscerà, ad esempio, che un determinato dipinto fonde gli stili di due maestri, i quali a loro volta si rifacevano a maestri diversi, a suo tempo i primi in una determinata fattura, ereditata da una determinata tradizione. Quest’eclettismo, che fatalmente sfocerà in un certo preziosismo
in epoca contemporanea, rende arduo per il profano l’apprezzamento della pittura cinese.
xiv-iiii secoLe prime dinastie storiche: gli Shang e i Zhou (x
lo a. C.) Dopo le ampie decorazioni geometriche del vasellame neolitico, la cui sicurezza di tracciato rivela una mano
già esercitata, le testimonianze piú antiche di attività pittorica sono i sarcofaghi scolpiti e dipinti in rosso, di cui sono
stati trovati frammenti nelle grandi sepolture di Anyang, capitale shang nel xiv sec. a. C. La dinastia Shang (xvi-xi sec.
a. C.) è ancor piú celebre per i suoi bronzi; la loro decorazione geometrica e zoomorfa, perfettamente equilibrata, dimostra l’esistenza di un’arte raffinata che non poteva ignorare la pittura. Fino ai Zhou (x-iii sec. a. C.) assistiamo a
una trasformazione della visione artistica e a un ampliamento
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della rosa dei soggetti. Partendo dalla rappresentazione di
un bestiario favoloso, l’arte cinese tende sempre piú a raffigurare personaggi: all’inizio sono scene di caccia o di vita
quotidiana incise nel bronzo, indicative dell’interesse nutrito dall’artista cinese per gli eventi di cui era testimone.
L’idea di tracciare immagini su una superficie piana è dunque esistita sin dalle origini, ma una fattura propriamente
pittorica comparve soltanto verso la metà del i millennio nella decorazione degli oggetti laccati, che esige l’uso del pennello per posare la lacca a tratti rapidi, piú o meno carichi
di materia. La pittura cinese ha praticato sin dagl’inizi due
stili diversi: l’uno, «classico», era quello dei maestri sperimentati, che ricorrevano a un tratto fine e preciso, derivante
dall’antica incisione su osso o su bronzo; l’altro, «libero»,
fu opera degli artigiani, che avendo a che fare con la lacca,
materiale restio, utilizzarono un tracciato piú spesso e suscettibile di variazioni. Per questo motivo riteniamo che gli
incisori e i laccatori abbiano aperto la strada alle principali
tendenze della pittura cinese almeno quanto i calligrafi, benché tradizionalmente si attribuiscano a questi ultimi i primi
progressi nella pittura. Il primo dipinto cinese noto è un
frammento di seta proveniente da una tomba di Changsha
(Hunan), datato intorno al iii sec. a. C. Personaggi, demoni, animali o piante sono delimitati da contorni netti che cingono le superfici colorate a tinte piatte. Tali raffigurazioni
sono assai prossime ai primi pittogrammi e si strutturano
l’un l’altra come i caratteri in un testo, per costituire una
scena entro uno spazio privo di decorazione.
La dinastia degli Han (iiii sec. a. C. - iii sec. d. C.) Le rare testimonianze della pittura degli Han sono laterizi dipinti, vestigia della decorazione delle dimore funerarie. Essi tradiscono una netta evoluzione nel tracciato dei contorni: il
tratto non è piú uniforme, segue curve che lo ispessiscono o
rette che lo affinano; è un tratto vivente e conferisce al disegno un carattere e un ritmo che sono gli stessi della calligrafia. Tuttavia i grandi temi non vengono ancora affrontati; si tratta soltanto, sia per il pittore sia per lo scrittore, di
rievocare situazioni. La scrittura espone prescrizioni amministrative, regole di lavoro e di svago, mentre la pittura illustra tali principi e copre le pareti dei palazzi di scene edificanti. Da questo momento compaiono alcune caratteristiche della pittura cinese, e in primo luogo la sua predilezio-
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ne per la linea. È l’avventura di essa che appassiona il pittore: per lui i colori non saranno mai altro che tinte di sostegno, dopo essere stati stesure senza modulazione; le ombre, talvolta, sottolineeranno un contorno, senza cercare di
rendere un volume; la luce sarà soltanto una ricerca di ambientazione generale, che non isola alcun soggetto determinato. Tutto ciò che è alla base della ricerca pittorica in Occidente qui si smorza dinanzi al primato del tratto, dovuto
forse al predominio dei calligrafi, anche se si potrebbe sostenere che questi ultimi venivano apprezzati appunto per
la padronanza del tratto.
Le Sei Dinastie (iiii -vi secolo) Sotto le Sei Dinastie, l’arte
degli Han subí il contraccolpo delle invasioni barbariche e
della diffusione del buddismo. L’occupazione straniera con
il suo strascico di sciagure generò una classe di oppositori
che respinse l’ordine nuovo e si rifugiò in speculazioni extramondane: intellettuali, esteti, filosofi, artisti, poeti, calligrafi, amatori e conoscitori in ogni campo. Sino ad allora i
pittori erano stati artigiani, disegnatori e coloristi; con l’occupazione barbarica si produsse un fenomeno fondamentale per l’avvenire della pittura: i letterati, funzionari per vocazione, essendo esclusi dal potere cercarono rifugio
nell’esercizio delle arti e delle lettere. Questi personaggi, uomini di pennello, erano sia poeti sia calligrafi o pittori, e di
solito tutte e tre le cose. Nel fulcro di questo movimento figura Xie He, le cui Sei Regole, redatte nel corso del vi sec.,
riassumono la sostanza dei principî fondamentali. La prima
e la piú importante di tali regole ricorda la necessità di liberare il ritmo vitale (qi yun): come, ad esempio, quando diciamo che un ritratto è «parlante». Per la verità Xie He scriveva pensando soprattutto alla pittura di personaggi di scene edificanti, ma le sue formule, dettate in funzione dei principi tradizionali dell’ordine universale, della via del Tao e
dell’armonia del Li, vennero in seguito applicate per riprodurre tanto l’espressione di un volto quanto l’emozione provocata da un paesaggio, tanto la vitalità degli animali quanto lo splendore di un piumaggio o di un fiore. Si affermava
simultaneamente la supremazia assoluta della natura sull’uomo, l’armonia tra le rassomiglianze fisiche e morali e l’equilibrio della cornposizione, che doveva rispettare le dimensioni degli oggetti in relazione alla loro distanza, senza peraltro piegarsi a strette regole di prospettiva geometrica. Co-
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nosciamo i nomi di alcuni pittori di questa scuola, che fiorí
tra la metà del iii e la fine del v sec., come Cao Buxing, Wei
Xie, Xun Xu o Lu Tanwei; il piú noto resta Gu Kaizhi, il
cui celebre rotolo del British Museum di Londra mostra i
progressi effettuati in materia di composizione. Nella stessa epoca si diffondono le immagini religiose buddiste provenienti dalle regioni indocuropee della Serindia, e si fondano santuari ricchi di tesori d’arte, come Dunhuang. Cosí
i pittori cinesi si familiarizzarono con le ombre, care alla pittura occidentale e importate nell’Asia orientale dall’arte irano-buddista; se essi non le utilizzarono su larga scala nella
scia di Zhang Sengyou, è perché non sembravano loro indispensabili. Parallelamente agli influssi buddisti, il rinascente taoismo rafforzò l’amore per la natura, le visioni sovrannaturali, i viaggi fantastici, tanto che il paesaggio stesso venne man mano affermandosi come genere autonomo.
vii-iix secolo) Gli artisti tang, e piú
La dinastia dei Tang (v
particolarmente i pittori di corte, non mancarono di ispirarsi
alle prescrizioni di Xie He e spinsero la cura della somiglianza fino ai minimi dettagli. Ritrattisti e pittori di animali rivaleggiarono in veridicità. Tra i primi spicca la figura di Yan Liben, la cui galleria di imperatori del passato mirava ad immortalare ciascuno dei tipi dipinti; tra i secondi,
un posto particolare va riservato a Han Gan, il cui superbo
rotolo nel Museo Cernuschi a Parigi resta un modello di questo specifico genere. Sappiamo che un terzo artista tolse la
palma a tutti i contemporanei: Wu Daozi, principe dei pittori, del quale sappiamo che fu ispirato dal buddismo, ma di
cui non ci resta, sfortunatamente, alcuna opera. La rappresentazione di scene edificanti aveva consentito la fioritura
di pittori di ritratti e di animali, ma l’avvento dei paesaggi
fu dovuto a un’altra fonte, tanto buddista che taoista.
Nell’viii sec., il paesaggio non costituisce piú una decorazione primitiva dagli elementi disparati, ma diventa evocazione ambientale, le sue forme compiute sono distribuite armoniosamente, mentre un contorno netto e preciso circonda tinte piatte ove predominano i toni verdi e azzurri. Tale
maniera, attribuita a Li Sixun e destinata a fare scuola, era
quella dello stile classico dei Tang quale lo praticavano i pittori di corte. A uno dei principi di Xie He sulla somiglianza doveva conferire interpretazione particolare l’arte di
Wang Wei, pittore letterario per il quale l’idea era essen-
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ziale; egli divenne il capofila d’una scuola di simbolismo pittorico contrapposta alla scuola classica. La libertà esecutiva
che egli rivendicava si uní alle concezioni sviluppate dai suoi
colleghi buddisti, per i quali fondamentale era l’ispirazione,
allo stesso modo in cui l’illuminazione rischiarava i pensatori del chan. In questi ambienti senza dubbio nacque la
scuola detta «degli Indipendenti», che praticava una fattura libera applicata anzitutto alla calligrafia. Il fatto di conoscere a memoria i testi sacri, che erano in grado di citare,
consentiva loro infatti di ricorrere a forme di scrittura quasi illeggibili, destinate a colpire l’immaginazione e a scatenare lo choc dell’illuminazione. Operando inoltre «senza costrizione», i pittori di quest’ultimo gruppo diedero libero
corso alle loro potenzialità calligrafiche, giungendo sino a dipingere con l’unghia o con la lingua e a realizzare, a mo’ di
tachistes o puntillisti, «opere bizzarre» (yi pin), come quelle
del celebre Wang Xia. Quantunque, sfortunatamente, troppo rari siano i lavori giunti sino a noi per poter cogliere le
basi delle distinzioni teoriche, è peraltro possibile dire che
la scuola di Li Sixun puntava sui colori, sulla loro purezza e
intensità, mentre quella di Wang Wei perseguiva le sfumature dei mezzi toni e una sobrietà che catturava l’occhio e,
con la sua dolcezza, lo guidava nel sogno. La ricerca dei valori tonali intrapresa da Wang Wei lo condurrà alla pittura
monocroma, a quell’inchiostro di china che fu la gloria della pittura dei secoli successivi.
x secolo) Alle due tendenze stilistiche
Le Cinque Dinastie (x
iniziali vennero ad aggiungersi sotto i Tang due diverse tendenze interpretative del soggetto. Durante le Cinque Dinastie i principi si cristallizzano. Benché divisa e benché i legami tra le province e la capitale si siano allentati, la C del
ix e x sec. serba una potente struttura politica; l’amministrazione creata dai Tang possedeva una stabilità che fece di
questo breve periodo un’era di progresso economico e culturale. I letterati, sparsi nelle varie regioni della C, apprendono a guardar meglio il paesaggio, e avvertono con maggior
forza che mai l’unione tra uomo e natura; questo secolo tormentato fu caratterizzato da una riflessione intimista, mentre recavano frutto sia il miglioramento della qualità degli
inchiostri e delle carte, sia l’educazione approfondita dei calligrafi. Jing Hao sostituí al principio della somiglianza quello di un’idea direttrice che esprimesse la sublimazione di uno
Storia dell’arte Einaudi
stato d’animo, divenendo il teorico dell’«essenziale». Nelle
regioni umide del Sud compaiono tecniche nuove, ove i contorni netti scompaiono a profitto delle zone di colore e delle tinte piatte. Dong Yuan e Ju Ran, suo discepolo, si illustrano particolarmente in questa nuova maniera: le loro opere resteranno il modello perfetto dell’espressione delle emozioni risvegliate dalla contemplazione della natura. Li Cheng
e Fan Kuan disciplinano le creazioni fatate dei Tang; conferiscono alla composizione uno stile monumentale e ordinato, ponendo l’accento sulla struttura delle montagne e la
tessitura del terreno. Ad essi viene applicata la qualifica di
«realisti», mentre a Dong Yuan si dà l’epiteto di «idealista»;
egli è seguito nell’xi sec. da Mi Fei, che sottolineerà l’importanza dell’equilibrio tra le zone di colore mediante un
puntillismo delicato; queste due tendenze, cui in seguito si
conferiranno le denominazioni di «scuola del Nord» e di
«scuola del Sud», domineranno tutta la successiva evoluzione del paesaggio cinese.
La dinastia dei Song
 I Song del Nord (xi-xii secolo) L’intrusione dei letterati nel
mondo dei pittori comporta un profondo mutamento nell’atteggiamento degli artisti. A partire dal vii sec. l’attenzione
rivolta alla calligrafia, che era materia di esami ufficiali, aveva concorso a dar lustro al livello dei letterati propagatori
della pittura calligrafica e monocroma inaugurata da Wang
Wei. Il ricostituirsi del potere centrale nel x sec. determinò
un accrescimento del personale amministrativo e dell’importanza dei letterati-funzionari: da allora i «mandarini» furono qualcosa di piú di un’intelligencija illuminata, divennero l’ossatura stessa del paese. Nell’xi sec. le rendite dei
Song raggiungevano il decuplo di quelle dei Tang, e la prosperità dilagava nelle città: nelle quali la volgarizzazione delle conoscenze, facilitata dallo sviluppo della stampa e garantita dalle molteplici scuole e dalle diverse accademie, provocò
una fioritura di talenti letterari e artistici. Il letterato diviene un tipo umano specifico della C, diverso dall’umanista occidentale per la sua fondamentale tendenza a coltivarsi attraverso l’esperienza piú che attraverso la conoscenza.
 Il rifiuto della somiglianza Fu allora che il massimo tra loro, Su Shi, dichiarò che non si trattava piú di percepire le
realtà apparenti o nascoste sino ad allora ricercate dagli artisti, bensí di tradurre in un’opera lo stato d’animo del suo
Storia dell’arte Einaudi
creatore. Egli non esita a proclamare che chiunque parli di
somiglianza in materia di pittura va rispedito tra i fanciulli.
Questo atteggiamento influenzò i pittori della tradizione realistica, impegnati a tradurre un sentimento cosmico della natura; è gioia umana quella che permea le opere di Xu Daoning o di Guo Xi, presso i quali, accanto all’espressíone diriamica del mondo in movimento, compare un certo intimismo, che conferisce una nota lirica alla rappresentazione
dell’uomo e della natura. Questa tendenza lirica trova compiutezza nell’opera di Li Tang, che ricorre ad artifici compositivi per sottolineare meglio la pregnante grandiosità dei
paesaggi.
 Accentuazione del lirismo e del sogno pancosmico. I Song del
Sud (xii-xiii secolo) Alla metà del xii sec., avendo i barbari
occupato la C settentrionale, la capitale dei Song viene trasferita a sud, a Hangzhou. Nella nuova cornice, ove la natura è piú ricca e piú dolce, i pittori accentuano la combinazione tra elementi lirici e intimi. Mentre artisti come Zhao
Boju perpetuano le tradizioni tang di finezza del tratto e di
soggetto edificante o descrittivo, i migliori sviluppano lo stile di Li Tang: Ma Yuan e Xia Gui fondano cosí la scuola detta «Ma Xia», che sarà il modello dei paesaggisti professionisti, unendo le qualità accademiche del disegno a una certa sensibilità sentimentale. Tutti i pittori di corte si fecero
conquistare da questo lirismo permeato di tenerezza (e lo
stesso imperatore Hui Zong, che aveva raccolto nella sua accademia i migliori artisti di sua scelta, si dedicava personalmente alla pittura di uccelli). Questa sollecitudine per la natura e i suoi soggetti comportò lo sviluppo di un genere nuovo, quello dei «fiori e insetti». Ogni pianta, ogni creatura,
in quanto parte del Tutto, diviene espressiva del Tutto stesso; ed è questo il momento in cui compaiono temi come gli
uccelli e i rapaci, i conigli e i gatti, i susini e i gelsomini, le
cavallette e gli scarabei, le peonie e i crisantemi. Le pitture
di genere tradiscono inoltre un nuovo interesse per i fatti e
i gesti della gente comune, quali compaiono nei rotoli descrittivi dello stile del «Qing mung he tu shang». I sostenitori del disegno di tradizione accademica si pongono nella
scia di Li Gonglin, il cui tratto tagliente deriva dal bai miao
di Wu Daozi. Alcuni, come Li Song, prescelgono le virtú del
disegno contornato (jiehua) e descrivono minuziosamente i
personaggi e gli oggetti; altri, isolati ma sempre nell’ambito
Storia dell’arte Einaudi
della tradizione dei letterati, come Liang Kai o Mu Qi, si distaccano dal rigore del tracciato e spennellano i dipinti a
grandi tratti o a grandi chiazze (pomo).
xiv secolo) L’avvento dei MongoLe dinastie degli Yuan (x
li in C comportò un’eclissi dell’accademia imperiale di pittura. I nuovi signori infatti preferivano i colori cangianti e
gli effetti multipli delle arti minori; uno degli ultimi rappresentanti della tradizione accademica fu Qian Xuan, che
riesumò lo stile animato dei Song del Nord. Il rinnovamento della pittura tradizionale doveva essere opera di Zhao
Mengfu, che riprese il disegno bai miao nello stile di Li Gonglin, dai contorni vigorosi e dalle forti colorazioni. Tra i paesaggisti alcuni, come Sun Junze, proseguirono la tradizione
della scuola Ma Xia dei Song del Sud; ma per la maggior parte essi ripresero sia la fattura realistica dei Song del Nord
(Li Cheng e Guo Xi), sia lo stile idealista delle Cinque Dinastie (Dong Yuan). Furono questi ultimi a fare la gloria della pittura yuan, in particolare i «Quattro Grandi Maestri»,
il piú importante dei quali fu forse Ni Zan, che spinse
all’estremo l’intento di esprimere la formula umana anziché
il sentimento della natura. L’ideale del letterato paesaggista
yuan è di conferire all’opera le sue proprie personali qualità
di rigore e di austerità; perciò, un certo isolotto irto di pini
ci dirà di piú sulle virtú del pittore che sull’emozione provocata dalla sua vista. All’idealismo cosmico dei Song successe cosí l’idealismo umanistico degli Yuan, che doveva contrassegnare la scuola dei letterati sino ai giorni nostri. Tra
gli indipendenti, sempre legati al ricordo di Mi Fei, artisti
come Gao Kegong e Fang Zongyi garantiscono il collegamento tra lo stile «senza costrizioni» dei Tang, i reclusi Song
e i monaci Ming e Qing.
xiv-xvii secolo) I Ming riaprirono l’acLa dinastia Ming (x
cademia di pittura, i cui membri, poco inclini ad innovazioni, non seppero liberarsi da un conformismo che prevalse fino al xv sec. Se la pittura accademica serba ancora qualche
fama durante il xv sec. (grazie ad artisti come Bian Wenjin
o Liu Ji), le opere piú belle dell’epoca sono dovute però ai
pittori non professionisti. I letterati salvarono l’onore rifiutando il disegno a inchiostro dalle larghe chiazze o i disegni
a tratto fine per volgersi alle opere piú semplici e meno elaborate dei Quattro Grandi Maestri Yuan. Tale reazione al
formalismo si accompagnò a un pronunciato gusto per la rap-
Storia dell’arte Einaudi
presentazione della vita quotidiana, a un ritorno alla natura
non allo scopo di evocare le grandi forze dell’Universo, come facevano i Song, né per celebrare le grandi virtú umane
favorite dagli Yuan, bensí per valorizzare le grazie rustiche
della vita degli umili. È quanto caratterizza ad esempio il
gruppo di Zhe, fondato da Dai Jin ispirandosi alle realizzazioni liriche della scuola Ma Xia. La solida fattura del suo
stile, dai tratti franchi e dalle forme brutali, poggiava troppo sulla tecnica per non sfociare in un virtuosismo accademico. Un altro gruppo, che mirava all’eclettismo ed attingeva le proprie fonti all’arte dei Song del Sud, è chiamato
«neoaccademico». I suoi rappresentanti erano pittori professionisti, molti dei quali inclinarono a un arcaismo obbligato richiamandosi alla scuola del Nord. La nettezza delle
linee, il contrasto dei toni, l’ampiezza delle composizioni, il
carattere epico dell’ispirazione fanno di questo gruppo (nel
quale spiccano le figure di Zhou Chen e dei suoi seguaci),
quasi un’eco delle grandi opere antiche dello stile di Li Tang.
Il gruppo della scuola di Wu si riallaccia per suo conto alla
tradizione della scuola del Sud e allo stile dei letterati (stile
creato dagli idealisti delle Cinque Dinastie e riformato dai
letterati yuan). Alle composizioni «in angolo» e liriche della scuola Ma Xia i pittori della scuola di Wu preferiscono le
grandi composizioni equilibrate dei maestri del x sec., ove i
contorni sono definiti da tratti multipli e ritoccati, all’opposto del tratto continuo dei loro predecessori. Soprattutto
Shen Zhou e il suo allievo Wen Zhengming illustrarono lo
stile di questa scuola, nella quale si ritrovano il turbinio e la
spontaneità di maestri yuan come Huang Gongwang, unitamente a una precisione di tratto e a una rigorosità che traducono l’influsso dei neoaccademici. Nondimeno il loro talento fu tale che si può dire che tutte le scuole del xvi sec.
derivano dalla scuola di Wu.
 La pittura letteraria È questo il caso dei Nove Amici (il piú
celebre dei quali fu il critico d’arte, teorico e pittore Dong
Qichang), dei Quattro Wang, Wu e Yuh, e degli intimisti
di Jiading. Tale gruppo di pittori ortodossi, che in questo
periodo ha il monopolio della pittura, era composto da letterati sostenitori dell’unità: poesia, calligrafia e pittura costituivano un’unica arte: si tiene piú che mai alle classificazioni genealogiche; autenticazioni fondate sui sigilli sempre
piú numerosi e cominentati in lunghi colophon sovraccari-
Storia dell’arte Einaudi
cano i rotoli, al punto che essi non sono piú opera di pittura, ma di grafica, riflettendo l’arte composita dei letterati.
Reagendo a tali tendenze, che a poco a poco sclerotizzavano la pittura dei letterati, comparvero gli «individualisti» e
i «Monaci». È vero che i due gruppi appartengono già
all’epoca Qing, ma il loro piú antico rappresentante, Zhang
Ruitu, è ancora un pittore ming, e a lui spetta il merito di
essersi opposto per primo agli ortodossi, unitamente ad eremiti come Chen Shun o ad eccentrici come Xu Wei. I grandi maestri qing si richiameranno a loro, quando la pittura
dei letterati, malgrado un’abbondantissima produzione, deperirà in uno sterile formalismo.
 Primi influssi occidentali Gli influssi europei, introdotti dai
primi missionari gesuiti come Matteo Ricci, cominciano a
farsi avvertire alla fine dei Ming. Non ebbero diffusione,
non piú di quanta ne avrà Castiglione nel secolo seguente.
Tuttavia un Zeng Qing, aderente ai metodi occidentali, si
guadagnerà la reputazione di un maestro i cui ritratti erano
«come l’immagine di uno specchio», e un Siao Bingzhen applicherà all’illustrazione dei Quadri di agricoltura e di tessitura (Geng zhi tu, 1696), ripresi in incisioni, le tecniche straniere dell’ombreggiatura e della prospettiva, che il suo allievo Leng Mei riutilizzerà nella pittura di figure umane. Si
dovrà attendere il xx sec. perché le tecniche europee esercitino un vero influsso sulla pittura cinese.
xvii-xx secolo) I pittori di corte dei priLa dinastia Qing (x
mi Manciú, professionisti accademici o letterati (la distinzione si fa sempre piú difficile), si assoggettano al cattivo gusto dei nuovi ricchi. Totalmente sclerotizzata, la tradizione
accademica sopravvive con Shen Quan, mentre la pittura
dei letterati, che progressivamente divengono professionisti, a sua volta si degrada, perdendo ogni originalità nel seguire i precetti enuticiati da Dong Qichang. Domina l’eclettismo, e mentre i Quattro Wang, Wu e Yun serbano qualche valore, nel complesso i pittori qing vegetano in un virtuosismo mediocre. È l’epoca della comparsa di manuali di
pittura, di raccolte di ricette come quella del Giardino grande quanto un grano di senape. Le migliori personalità dell’epoca si trovano entro gruppi provinciali, come quelli dell’Anhui
o di Nanchino, che a poco a poco si affrancano dall’influsso della scuola di Wu per tentare di giungere alla ricerca di
un’espressione personale, benché priva spesso di sponta-
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neità. L’onore della pittura qing doveva salvarsi solo per merito di alcuni artisti raggruppati sotto la denominazione di
«individualisti» o di «Quattro Monaci», tra i quali figurano al primo posto le personalità eccezionali di Shi Tao e di
Bada Shanren. Rifiutando di ricorrere alle ricette sperimentate, questi letterati si rifanno alla tradizione dei taoisti erranti, viaggiando attraverso la C per reimmergersi nella natura. Il loro esempio venne seguito nel xviii sec. dagli
«Eccentrici» come Gao Qipei o da quelli del gruppo di
Yangzhou.
Il xx secolo Gli ultimi imperatori manciú furono ben lontani dal manifestare per le arti l’interesse di un Kangxi o di
un Qianlong, e si dovettero attendere i primi insediamenti
occidentali in C perché i pittori, rinunciando a raggiungere
la capitale, si andassero a stabilire a Shanghai, in stretto contatto con influssi stranieri. Ren Yi, alias Ren Bonian, vi rianimerà nel xix sec. la corrente della pittura letterata «senza
ossa» (mogu hua) ed eserciterà il massimo influsso sui suoi
contemporanei e sui suoi successori. Altri, come Wu Changshi, proseguiranno la tradizione eclettica aggiungendovi per
soprammercato elementi del realismo occidentale, in uno spirito che ha ripreso ai nostri giorni Zhang Dagian. La pittura cinese contemporanea può dividersi in due correnti, quella di tradizione nazionale e quella occidentale. Sin dalla fine del xix sec. alcuni pittori, tra i quali Qi Baishi e Zhang
Dagian, cercarono di liberarsi del rigore del conformismo
manciú. La rivoluzione del 1911 fece precipitare quello sconvolgimento dei valori tradizionali che esigevano scrittori come Hu Shi e Lu Xun (quest’ultimo darà origine a una rinascenza della pittura su legno). Si dovevano ormai trattare in
modo realistico soggetti concernenti la vita del popolo. Nel
1912 la scuola di Canton inaugura ricerche sistematiche per
conciliare l’insegnamento tradizionale con le tendenze moderne. A Pechino maestri «all’antica» come Pu Ru e Pu Jin
proseguivano la tradizione intimista dei «fiori e rocce»,
quando, nel 1920, Cai Yuanpei vi fondò l’accademia d’arte
di Beiping, e l’antica città proibita divenne museo nazionale (gugong). Gli artisti poterono cosí contemporaneamente
ispirarsi alle opere antiche e apprendere le tecniche straniere, il che condusse a una scelta tra due atteggiamenti fondamentali per il rinnovamento della pittura. Alcuni, come
Jupéon, Fu Baoshi e Qi Baishi, cercarono di conciliare le re-
Storia dell’arte Einaudi
gole tradizionali con l’adozione di elementi occidentali: è la
scuola della «nuova pittura nazionale». Altri, come Wu Zuoren e i suoi colleghi della scuola di Parigi, cercheranno di
praticare direttamente la pittura a olio. Ma la demarcazione non sarà sempre cosí netta: assai spesso i pittori a olio
torneranno ai supporti cinesi; altri, come Lin Fengmian,
stanno a mezza strada, trasponendo le lezioni del fauvisme
nelle loro opere d’inchiostro su carta. Numerosi furono i pittori che andarono a lavorare negli studi di Roma, Londra,
Bruxelles e soprattutto Parigi. Alcuni vi rimasero; altri tornarono in C per insegnare. Oggi le tecniche occidentali sembrano ancora poco assimilate, tranne in personalità come
Zao Wuji o la signora Zeng Yuhe (ambedue stabilitisi in Occidente), che hanno progressivamente trasformato la loro
maniera, evolvendo verso l’astrattismo. (ve+ol).
Con la fondazione della Repubblica popolare (1949) la pittura cinese viene posta al servizio della propaganda rivoluzionaria: tuttavia, l’applicazione cieca dei moduli stilistici del
realismo socialista di tipo sovietico non avviene senza difficoltà, a causa della ricca eredità originale accumulatasi in C
da secoli. Dopo la rottura con l’Unione sovietica e soprattutto all’inizio della rivoluzione culturale (1960), compare
una nuova interpretazione dell’arte; si tratta dell’introduzione del realismo rivoluzionario e romantico, le cui principali premesse teoriche sono state elaborate dallo stesso Mao:
«Unità di politica e arte, unità di contenuto e forma, unità
di contenuto politico rivoluzionario e di forma artistica la piú
perfetta possibile». Cosí il Grande Timoniere diviene, dal
1960, uno dei soggetti principali della pittura, ove compare
spesso, nel quadro delle lotte interne, ora come grande filosofo, teorico e stratega (Gao Hong e Beng Bin: Si deve marciare allo stesso passo per assicurare la vittoria, 1966), ora come
capo dello stato e del partito, implacabile verso i nemici, ma
sempre sollecito della felicità delle masse (Shen Yanyi: Mao
visita un villaggio del distretto di Gwandong, 1967; Hu Yiming:
La grande rivoluzione dev’esser condotta fino alla fine, 1967).
Il ruolo svolto dall’esercito nella rivoluzione culturale gli consente di acquisire un ruolo considerevole tra i soggetti dominanti della pittura di quest’epoca. L’esaltazione del passato eroico militare (Lin Yong: Il nostro esercito passa il Grande Fiume, 1967) e la militarizzazione della società (Shen
Bang: Milizia popolare, 1968; Yanggang: Di ritorno dall’eser-
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citazione di tiro, 1969) – essendo parola d’ordine della dottrina maoista lo sviluppo dell’economia nazionale – si rifletterono anch’esse nelle opere; l’immagine del lavoro assume
in generale un aspetto radioso e ottimistico (Liu Binglang: Al
lavoro!, 1968; Sun Guoji, Venite, onde d’argento!, 1969).
Questa pittura di propaganda rivoluzionaria, quantunque sia
assai diversificata, generalmente ricorre ai colori puri e senza sfumature, il che spiega una certa utilizzazione della pittura a olio, considerata invenzione cinese, imposta all’epoca
della stretta cooperazione con l’Unione sovietica. In questo
modo le tecniche tradizionali vengono riabilitate, e possono
diffondersi nella nuova scuola del paesaggio, i cui maestri sono Dian Shiguang, Wang Jinghuai e Guan Shanyue. Convivono due tipi di pittura: il primo si riferisce alla concezione
dello spazio secondo la tradizione cinese; il secondo è ricalcato sull’impiego della prospettiva, proprio del realismo occidentale del xix sec. Il prodigioso sviluppo dell’incisione e
della stampa avviene grazie alla scuola pechinese di Rong Bao
Zhai. L’arte del manifesto e quella del fumetto, divenuti strumenti potentissimi di propaganda e d’informazione, cercano
di mantenere un livello pari a quello della pittura. Gli sforzi
prodigati dalle autorità per incoraggiare la pittura dilettantistica cominciano anch’essi a dar frutto, soprattutto presso alcuni pittori contadini che hanno saputo conferire ai soggetti politici e didattici una visione di schietta naïveté (esposizione dei Dipinti dei contadini dei distretto di Huxian, presentata al Museo Galliéra di Parigi nel 1975). (sz).
cinabro
Solfuro rosso naturale del mercurio. Il c degli antichi, o vermiglio naturale, si trova ancora in certe cave italiane.
Antico nome del minio, ossia dell’ossido rosso di piombo.
Secondo il Cennini, questo colore si otteneva macinando
bianco di San Giovanni (una parte) e sinopia, ossia ossido
di ferro (due parti), e veniva impiegato principalmente
nell’affresco. (mtb).
Cincani, Bartolomeo → Montagna
Cincinnati
The Art Museum Fondato nel 1881, aperto nel 1886, poi
piú volte ampliato, il museo di C si sviluppò soprattutto dal
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1930. Come tutti i musei americani, si arricchi grazie all’aiuto di ricchi mecenati e a donazioni particolari (coll. Hanna;
coll. J. Emery). Presenta oggi un bel complesso di dipinti italiani dal xiv sec. a Tiepolo, poco numerosi ma di qualità
(Mantegna, Ester e Mardocheo; Botticelli; Tiziano, Ritratto
di Filippo II; Tiepolo, San Carlo Borromeo); dipinti olandesi
e fiamminghi (Joos van Cleve, Ritratto di Francesco I; Rembrandt; Van Dyck; Pieter de Hooch, il Gioco dei birilli); spagnoli (Murillo, Zurbarán); inglesi, con ritratti e paesaggi di
Gainsborough, Raeburn, Constable. Un panorama piuttosto completo della pittura francese dal xvii sec. è costituito
da tele di Lorrain, Boucher, Fragonard, Delacroix, Ingres
(Ritratto di Cherubini), Courbet, Corot, alcuni impressionisti, due Cézanne e alcuni altri pittorimoderni: Vuillard, Derain, Picasso. Infine un posto importante è riservato alla pittura americana (Mary Cassatt, Gilbert Stuart), in particolare con un gruppo di artisti contemporanei (Oldenburg, Rosenquist, Rauschenberg). Il museo conserva pure importanti miniature persiane e indiane, nonché dipinti cinesi. (gb).
cinema e pittura
L’avanguardia tedesca e francese sin dal 1915 Marinetti,
che in Italia aveva appena lanciato i manifesti del futurismo,
considerava il cinema un nuovo mezzo espressivo. Ma la
maggior parte degli artisti e degli intellettuali restava diffidente. Alcuni anni dopo, in una soffitta della Chausséed’Antin a Parigi, nasceva sotto l’egida di Ricciotto Canudo
il Club degli amici della settima arte, raccogliendo personaggi notevoli come i pittori Picasso, Léger, La Fresnaye,
musicisti come Strawinski e Ravel, scrittori come Cendrars
e Apollinaire. Sull’immagine di questo primo circolo altri se
ne formano in Europa. Alcuni pittori appartenenti al movimento dada o a quello surrealista saranno inclini ad interessarsi dell’immagine cinematografica, che si apre sul campo
inesplorato dell’astrattismo dinamico o del sogno singolare.
Le prime manifestazioni hanno luogo in Germania, dove il
pittore di origine svedese Viking Eggeling, che aveva frequentato Arp, Friesz, Kisling, Derain, e aveva partecipato
con entusiasmo al dadaismo, cerca di risolvere alcuni problemi di ritmo nella pittura. Nel 1918, grazie a Tzara, incontra a Zurigo un altro pittore dadaista, Hans Richter. Ambedue daranno origine all’avanguardia cinematografica te-
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desca. Eggeling gira successivamente Vertikal-Horizontal
Mass (1919), pittura astratta animata costituita da spirali e
da denti di pettine, poi Vertikal-Horizontal Symponie (1920)
e Diagonale Symphonie (1920). Richter, in Rythm 21 (1921)
organizza un vero e proprio balletto di quadrati e rettangoli e approfondisce il suo lavoro in Rythm 23 e Rythm 25. Una
ventina d’anni piú tardi Richter, in Dreams that money can
buy si assicurerà la collaborazione di Fernand Léger, Max
Ernst, Marcel Duchamp, Man Ray e Calder, realizzando un
film tra i piú curiosi, il cui obiettivo era di «liberare l’uomo
attingendo una surrealtà irriducibile al mondo della logica e
della chiara coscienza, che nascerebbe da un impiego delle
possibilità cinematografiche strettamente lirico, e capace di
creare l’insolito». Oltre ad Eggeling e Richter, nello stesso
periodo un altro pittore, Walter Ruttmann, s’interessa di ricerche visive e ritmiche prima di cambiare rotta verso il documentario, fortemente influenzato dalle teorie sul cinemaocchio del sovietico Dziga Vertov. Da Opus I a Opus IV
(1923-25), Ruttmann anima segni geometrici che rammentano la fotografia a raggi X e intercala nei Nibelungen (1924)
di Fritz Lang un episodio sperimentale (il Sogno dei falconi): una danza muta di immagini astratte. Oskar Fischinger,
discepolo di Ruttmann, studia i rapporti tra l’immagine, la
musica e il colore (da Studie 1 a Studie 12, 1928-32; Komposition in Blau, 1933). In Motion Painting n° 1 (1949) inventa una «specie di arazzo a vari colori composto da motivi plastici molto piccoli; i nuovi venivano a coprire i precedenti lasciandoli sussistere come ricordi piú o meno visibili, ma in ogni caso presenti sotto l’accumularsi di motivi nuovi». Rispetto alle severe ricerche della scuola tedesca, l’avanguardia francese si colloca sotto il segno dell’ironia, sia che
i film siano dovuti al talento del pittore Fernand Léger (Le
Ballet mécanique, 1924), a quello del fotografo Man Ray
(Emak Bakia, 1927; la Stella di mare, 1928) o a quello dei
giovani cineasti René Clair (Entr’acte, 1924, realizzato su
un soggetto di Picabia) e Germaine Dulac (La Coquille et le
clergyman, 1928). Sostituendosi al dadaismo il surrealismo
influenza i registi avidi di novità. Luis Buñuel, con Un chien
andalou (1928) e L’Age d’or (1930), i cui soggetti sono stati scritti in collaborazione con Salvador Dalí, firma due opere che non incontrarono immediatamente unanime approvazione pubblica – sono noti gli scontri e gli scandali pro-
Storia dell’arte Einaudi
vocati dal passaggio di questi film nelle sale ove vennero programmati – ma che restano nella storia del cinema come gli
esempi migliori di un surrealismo totalmente libero da qualsiasi costrizione, una sorta di cocktail esplosivo ove l’onirico, la psicoanalisi e l’anarchia si mescolano allo spontaneo
fiorire di una poesia singolare.
Il cartone animato I progressi compiuti dal cartone animato consentirono a taluni artisti, pittori, disegnatori, caricaturisti, soprattutto dopo il 1940, di dare la piena misura del
proprio talento. Già Emile Cohl, J. S. Blackton e Winsor
McCay, i pionieri dell’animazione, erano stati anzitutto disegnatori. La lotta di un Walt Disney contro l’accademismo
fu di grande stimolo per la grafica tanto negli Stati Uniti
quanto in vari paesi d’Europa (in particolare in Cecoslovacchia, Polonia a Jugoslavia). L’influsso della pittura moderna
(Klee, Mirò, Kandinsky), il tratto di penna di disegnatori
come Steinberg o Thurber conducono alcuni animatori raccolti intorno a Stephen Bosustow ad inventare un universo
nuovo in cui la semplicità della forma, il trionfo dell’angoloso sullo sferico, il predominio dell’1 sullo 0, l’aspro trattamento del colore, sostituiscono con vantaggio il realismo
antropomorfico che aveva sino ad allora predominato costantemente nell’animazione in tutto il mondo. Tra tutti i
ricercatori, va conferito un posto a parte al canadese Norman McLaren, che a poco a poco s’impone come il massimo
tra i maghi dell’animazione, sperimentando e inventando
tecniche nuove: pastello animato (Lassú sulle montagne,
1946), disegno direttamente sulla pellicola (Blinkity Biank,
1954), film a rilievo stereoscopico (Now is the Time, Around
is around, 1951), animazione immagine per immagine di personaggi umani (I vicini, 1953), oggetti (Storia di una sedia,
1957), cifre (Rythmetic, 1956), astrazioni geometriche (Mosaici, 1965), acquerelli stilizzati (Il merlo, 1958). Secondo
McLaren, «l’animazione non consiste nel mettere in movimento i disegni, bensí in movimenti disegnati. Quello che
accade tra due immagini è piú importante di qualsiasi immagine. L’animazione è l’arte di saper trattare gli intervalli invisibili che esistono tra le immagini». In seguito alle ricerche della scuola astratta tedesca e di McLaren, numerosi artisti, come Mary Ellen Bute, John e James Whitney, il
pittore astratto Robert Breer, Carmen d’Avino, Teru Murakami, Andy Warhol, e i cineasti sperimentali underground
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americani, si sono orientati verso esperienze diverse, tracciando la strada di un’arte cinetica sempre piú elaborata. In
Francia un pittore come Robert Lapoujade non si accontenta
della pura animazione, ma l’inserisce nelle peripezie di un
film d’invenzione (Le Socrate, 1968), giocando col colore naturale degli oggetti, che egli rafforza o attenua con l’aiuto di
polveri speciali; il pittore si serve cosí della pellicola esattamente come di una tela dalle mille sfacettature caleidoscopiche, che modifica a suo piacimento.
Gli scenografi La preparazione delle scenografie ha consentito, per alcuni film, una vera collaborazione tra il pittore – o l’architetto – ed il regista. Talvolta, persino, la scenografia assume importanza fondamentale nell’elaborazione di un film; è questo, in particolare, il caso di certe opere
che si riallacciano alla corrente espressionista tedesca degli
anni ’20. L’espressionismo cinematografico è stato influenzato fortemente dall’espressionismo pittorico (Kokoschka,
Klein, Kubin, Nolde), e non ci si deve stupire trovando, tra
i grandi arredatori dell’epoca, in maggioranza pittori. Il simbolismo delle forme doveva esprimersi negli stati d’animo
dei personaggi e restituirne tutti i drammi. A poco a poco,
le quinte di tela dipinta (Il gabinetto del dottor Caligari) lasciarono il posto a scenografie meno stilizzate, piú realistiche, ove nondimeno il gioco d’ombra e di luce serbava un
ruolo privilegiato. L’influsso espressionista, ben lungi
dall’esaurirsi in un breve periodo, ha contrassegnato profondamente cineasti come Josef von Sternberg, Orson Welles,
Marcel Carné. I grandi scenografi espressionisti furono Hans
Poelzig, Rochus Gliese, Hermann Warm, Walter Röhrig,
Walter Reimann, Kurt Richter, Robert Herlth, Erich Kettelhut, Otto Hunte, Karl Vollbrecht. In Francia Marcel
L’Herbier, nell’Inhumaine (1924), fa appello ad Alberto Cavalcanti, Claude Autant-Lara all’architetto Robert Mallet-Stevens e al pittore Fernand Léger. Lazare Meerson, utilizzando il vetro, il ferro, il cemento, rivoluziona interamente le tradizioni. Tra gli altri grandi nomi di scenografi
del cinema internazionale, vanno citati Georges Wakhevitch, Alexandre Trauner, Hiroshi Mizutani, Cedric Gibbons,
Ievgueni Ienei, Seguei Kozlovski, Eugène Lourié, Erik Aaes,
André Barsacq, Andrei Andreiev, Max Douy, Hans Dreier,
Jean d’Eaubonne, Mario Garbuglia, Piero Gherardi, Tony
Storia dell’arte Einaudi
Masters, Danilo Donati, Bernard Evein, Roman Mann, Jacques Saulnier.
I film sull’arte Per lungo tempo i documentari dedicati
all’arte hanno sofferto di un preconcetto ingenuo e spesso
pomposo di pedagogia elementare. Questi «film sull’arte»
intendevano essere soprattutto esplicativi, e spesso riuscivano soltanto a generare noia e diffidenza in un pubblico
talvolta poco esperto, che veniva respinto anziché coinvolto. E cineasta si accontentava infatti di descrivere l’opera
d’arte (architettura, scultura, pittura, incisione, disegno) anziché farla rivivere grazie alle infinite risorse del «linguaggio» cinematografico. Movimenti della macchina da presa,
scienza del montaggio, precisione del commento hanno importanza tutta particolare in un genere che cerca di ricreare
mediante l’immagine, la musica e il testo l’«atmosfera» propria dell’opera evocata. Si tratta talvolta di una «ri-creazione» artistica, come nel Van Gogh (1948) di Alain Resnais,
che utilizza tecniche sofisticate per coinvolgere lo spettatore nell’universo del pittore, non esitando – grazie alle carrellate, ai campi lunghi, ai controcampi esatti – a suggerire
l’illusione che l’occhio della macchina da presa e quello del
pittore siano tutt’uno e che si partecipi «in diretta» al lavoro creativo dell’artista. Alcuni cineasti si sono nascosti – con
molto talento – dietro l’artista che intendevano ritrarre, e
hanno saputo far rivivere un’opera pittorica grazie all’efficace e sottile aiuto dell’inquadratura cinematografica e dei
movimenti di macchina, di volta in volta privilegiando un
insieme o valorizzando un dettaglio. Tra i casi di massima
riuscita nel genere, vanno citati L’idea (1934) di Berthold
Bartosch (da Frans Masereel), Sguardi sull’antico Belgio
(1936) di Henri Storck, Matisse (1945) di F. Campaux, Il
dramma di Cristo (Giotto; 1946) di Luciano Emmer ed Enrico Gras, La scuola di Barbizon (1947) di Max de Gastyne,
Rubens (1947) di Paul Haesaerts, Hieronimus Bosch (1949)
di G. Betti, Da Renoir a Picasso (1949) di Paul Haesaerts,
Piero della Francesca (1949) di Luciano Emmer, Henri Rousseau il Doganiere (1950) di Lo Duca, Le Feste Galanti (195o)
di Jean Aurel, Toulouse-Lautrec (1950) di R. Hessens, Gauguin (1950) di Alain Resnais, Les charmes de l’existence di
Pierre Kast e Jean Grémillon, Goya di Luciano Emmer, Mare Chagall (1951) di R. Hessens, Guernica (1951) di Alain
Resnais, Brueghel il Vecchio (1953) di Arcady, Il mistero di
Storia dell’arte Einaudi
Picasso (1955) di H.-G.Clouzot, André Masson e i quattro elementi (1958) di Jean Grémillon, L’universo di Paul Delvaux
(1960) di P. Haesaerts, Georges Braque (1964) di J. Simonnet. I documentari dedicati ai grandi pittori si sono moltiplicati nel corso degli anni ’60-70 (Picasso, un ritratto, 1971,
di Edouard Quinn), perpetuando rapporti di deferenza un
poco fredda, o di ridondante ammirazione, che tanto spesso legano il cineasta e l’artista. Nel 1976 tuttavia André Delvaux, nel suo Avec Dieric Bouts, rinnova il genere del film
d’arte ripensando in termini cinematografici l’opera del pittore fiammingo. Mentre Herbert Kline porta la sua macchina da presa nei musei e negli studi dei pittori contemporanei (La sfida della grandezza, 1974), Emile de Antonio
schizza un panorama notevole della pittura americana (Painters Painting, 1976). Il cinema d’invenzione s’è anch’esso impegnato a render vivo l’universo di un pittore, compito tra
tutti delicatissimo. Quanti Goya, quanti El Greco sono stati massacrati da sceneggiatori e registi privi di sensibilità e
di genio, quanti sono divenuti semplice pretesto di fotoromanzi filmati: Moulin-Rouge di John Huston nel 1953, o
L’appassionata vita di Vincent Van Gogh di Vincent Minnelli del 1956. Di gran lunga superiore l’eccellente Danza della
vita di Peter Watkins (1975), dedicato al pittore norvegese
Edvard Munch, che sino ad oggi resta il piú bel tentativo di
ricostruzione di un universo sociopittorico. (jlp).
Film di artisti contemporanei Molti artisti, provenienti sia
dalla pittura di cavalletto, sia dalla scultura o da vari tipi di
attività oggi praticate (happenings, body art, arte concettuale), negli anni ’60 hanno dedicato al cinema una parte piú o
meno importante del loro lavoro. Questo recupero dell’interesse per l’immagine filmica assume una tale importanza
che dà luogo all’ambigua denominazione di «film d’artista».
Essi possono raggrupparsi in tre tendenze: la tendenza narrativa, la ricerca sull’immagine propriamente filmica, e il film
in tempo reale. Cosí Boltanski, dopo aver praticato la pittura, si occupa di fotografia e poi realizza una dozzina di cortometraggi. Ciascuno dei film riproduce l’azione particolare
di un personaggio e limita ad essa sola il suo campo d’investigazione: Uomo che tossisce (1969), Uomo che lecca (1969).
L’Appartamento di rue de Vaugirard (1974) è vuoto, ma, enumerando con voce monocorde gli oggetti assenti, Boltanski
restituisce la memoria del luogo. In Saggio dei quarantacin-
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que giorni che precedettero la morte di Françoise Guignou
(1971) egli mescola la banalità alla tragedia, partendo da una
notizia di cronaca che racconta con voce «fuori campo». Entro lo stesso genere di ricerca sull’assenza e la memoria si colloca il film di Jean Le Gac Segnale (1970), nel quale un fazzoletto sospeso su un filo teso tra due rocce scompare a poco a poco per effetto di una proiezione di pittura sulla pellicola, che finisce per invadere l’intero schermo. Gina Pane
interpreta la memoria nel suo contesto di angoscia e di nevrosi; Solitrac (1968) mostra quindici minuti della vita di una
donna sola in una camera, dinanzi alla finestra aperta, da cui,
con un grido stridente, si ritrae scomparendo cosí dallo schermo. Otto Muehl e la scuola di Vienna impiegano la macchina da presa come il mezzo piú adatto a serbare testimonianza delle manifestazioni e degli happenings che realizzano. La
macchina da presa diviene testimone dell’evento che riprende. Quando Ben filma Svolgere uno spago o Sbattermi la
testa al muro, trasforma un evento puntuale in un’azione ininterrotta. Per l’assurdità della ripetizione, il gesto banale sbocca sull’infinito. Bruce Nauman, in Art Make-up, riprende il
simbolismo dell’attore che si prepara ad entrare in scena. Riferendosi a un ben preciso rituale, filma le varie tappe della
truccatura di un personaggio; in Pulling Mouth (1969) lo
schermo è interamente occupato da un volto la cui bocca assume ogni sorta di forme, rese imprevedibili dalla distorsione. Un’altra corrente – illustrata da Lemaître, Raysse, Sonnier, Bury – cerca nelle tecniche proprie del cinema un linguaggio nuovo. Il film è già cominciato di Maurice Lemaître
è l’applicazione immediata del procedimento di sovrimpressione delle immagini e di graffiatura della pellicola. La banda sonora è prodotta da perforazioni della pista ottica. Martial Raysse utilizza di frequente il negativo colore e gli effetti di persistenza dell’immagine; Pol Bury filma la torre
Eiffel con l’aiuto di uno specchio deformante collocato davanti all’obiettivo e di una pellicola ad alto contrasto, vale a
dire senza digradazione dei grigi, per semplice giustapposizione di bianco e di nero; in Positivo Negativo (1970) Keith
Sonnier mostra le opposizioni luce-ombra entro una struttura di collage filmico. Scultori come Morris e Serra trasmettono esperienze precise sullo spazio e la sua percezione
da parte del corpo, talvolta attraverso gesti sistematici e ripetitivi. Quanto a Peter Foldès, egli tenterà di utilizzare il
Storia dell’arte Einaudi
calcolatore per ricostituire l’immagine. Questi tentativi verranno proseguiti e amplificati da E. Emshwiller nel campo
televisivo. Tutte le possibilità verranno affrontate, e la maggior parte di questi film ritroverà l’immagine fissa del quadro, coi suoi bianchi e i suoi silenzi. La corrente non narrativa è rappresentata essenzialmente da Andy Warhol e da
Michael Snow, che impiegano il cinema in tempo reale. Il
primo, tra i principali protagonisti dell’esplosione del pop
americano, distrugge il tempo filmico rispettando scrupolosamente il tempo reale: Eat (45 min.), Haircut (33 min.), Sleep
(6 ore e mezzo), Empire (8 ore); disattiva cosí la carica emozionale dell’evento, ricorrendo alla medesima inquadratura
fissa per tutta la durata del film. Cosí, annullando il tempo
fittizio e il movimento nello spazio suscitati dal muoversi
della macchina da presa, crea un cinema non direttivo. La
regione centrale (1970-71) di Michael Snow parte dal campo
visivo piú stretto possibile, amplificando cosí la nozione del
tempo e dello spazio, e sfocia in una fascinazione dell’immobilità e del silenzio. Mediante rallentamenti e accelerazioni della macchina da presa, nonché panoramiche ripetute ed evoluzioni da sinistra a destra e dall’alto in basso, Snow
spezza ogni possibile analogia con una narrativa tradizionale. David Lamelas, dopo numerosi saggi con macchina da
presa fissa, impiega alcuni schemi del cinema narrativo per
circoscrivere un oggetto che non si raggiunge mai, serbando
la propria dimensione rnitica. I numerosi studi intrapresi da
questi realizzatori sulla natura dell’immagine filmica hanno
ormai provocato altre ricerche, e in particolare hanno aperto la strada all’avvento dell’immagine video. Grazie alla sua
maneggevolezza e al suo costo relativamente basso, la video-ripresa conosce un grande successo presso una nuova generazione di artisti, che talvolta si specializzano nell’impiego di questo mezzo. Negli ambienti creati da questi artisti,
Vito Acconci rivela momenti di grande intensità psichica,
Dan Graham conduce lo spettatore ad interrogarsi sulla percezione che ha del proprio corpo in rapporto allo spazio che
lo circonda, e Nam June Paik gioca con umorismo e poesia
sull’illusione dell’immagine televisiva. (gbr).
cineserie
Il termine indica quella produzione artistica ispirata alle forme e motivi decorativi delle lacche e delle pitture cinesi. La
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presenza, in Europa, di oggetti asiatici (e soprattutto cinesi) risale al xiii sec. I rapporti commerciali tra Oriente e Occidente a quel tempo erano facili e costanti e contribuirono
a far maturare l’idea che il Catai (la Cina) fosse una sorta di
strano paradiso, una terra di magia. I racconti di Marco Polo erano riportati, in bella calligrafia, su manoscritti le cui
miniature, opera di artisti che non avevano mai lasciato l’Europa, passano, proprio a causa del loro carattere interamente fantastico, per le prime «cineserie» dipinte.
Tartari e cinesi estremamente veridici già figurano, nel xiv
e nel xv sec., negli affreschi di Ambrogio Lorenzetti, Andrea da Firenze, Gozzoli, dipinti evidentemente dal vero in
Italia. Le sete cinesi affluirono in Europa alla fine del medioevo, ispirando i tessitori lucchesi. Tramite i mercanti portoghesi del xv e del xvi sec., con i quali rivaleggeranno, nel
corso del xvii sec., le compagnie delle Indie, olandese e inglese, lacche e porcellane invasero i mercati di Lisbona, Venezia, Anversa e Amsterdam. Maria de’ Medici fece decorare «alla maniera cinese», per mano di Etienne Sage, gabinetti, scatole, pannelli, decorazioni sacre. Sotto il regno di
K’ang-hi, i gesuiti erano assai ben visti a Pechino. Inviarono in Europa numerosi disegni di costumi e vesti cinesi, e
copie di pitture. Uno di loro, nel 1697, donò a Luigi XIV
49 volumi. Padre Castiglione insegnava a Pechino le regole
della prospettiva europea, e dipingeva scene cinesi su rotoli alla maniera cinese. Già alla fine del xvii sec. gli oggetti
cinesi, o le imitazioni di questi, comparivano in ogni raccolta
importante e in molti arredi. L. Le Vau costruí per Luigi
XIV il Trianon di porcellana, «lavorato alla maniera delle
opere che provengono dalla Cina» (Félibien); l’incisore Jean
Bérain introdusse nelle sue grottesche motivi cinesi (uccelli, mandarini, pagode).
L’età d’oro della c fu il xviii sec., Watteau può essere considerato il principale promotore di questo nuovo gusto. Boucher si documentò prima di rappresentare i costumi delle deliziose Scene cinesi di Besançon (mba), dipinte per servir di
modello a cartoni da arazzo. Come Watteau, Huquier, Peyrotte, Le Prince e Pillement, Boucher produsse numerose incisioni che serviranno da modelli da un capo all’altro d’Europa. Altrettanto fecero Decker in Germania, Vivarés in Inghilterra.
La maggior parte di questi artisti, però, non si dava pena di
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curare la verosimiglianza. Per loro la Cina è un mondo irreale, «deliziosamente assurdo, senza peso e senza volume».
Christophe Huet mescolò cinesi e scimmie nelle famose Singeries di Chantilly (1735 ca.), di Champs (1755 ca.) e dell’Hôtel di Rohan-Strasbourg (1749-52) a Parigi.
A sua volta Maria Leszczyƒska, assoggettandosi alla moda
del tempo, dipinse, aiutata da Oudry, edificanti prediche di
missionari ai Cinesi, in un gabinetto del suo appartamento
di Versailles. Quanto a Pillement, coprí di figure e fiori «cinesi» pannelli e sopraporta in Francia, in Inghilterra, in Portogallo, e i suoi taccuini di incisioni servirono da modello un
po’ dovunque.
Solo in Olanda non si trovano pitture di questo genere; ve
ne sono alcune in Belgio (castello di Heks). Dalla Germania,
la moda conquistò l’Austria, la Russia, la Polonia, la Scandinavia. Molte di queste decorazioni sono perdute insieme
ai leggeri padiglioni che esse ornavano. A Brühl esiste ancora un gabinetto i cui pannelli lignei con fondo crema sono dipinti con scene cinesi, in rosso e blu. Nel parco di
Nymphenburg, il padiglione dell’Amalienburg conserva due
piccole stanze dipinte con c blu su fondo bianco dall’italiano Pascalin-Moretti. Voltaire, che a Cirey come a Ferney
apprezzava tali decorazioni, ne trasmise il gusto a Federico
II, il quale fece costruire a Potsdam una casa da tè, la cui cupola venne dipinta all’interno (1755 ca.), con personaggi e
vasi cinesi. Sopravvive a Ludwigsburg una sala decorata con
scene cinesi da Jacob Saenger.
La maggior parte delle sale cinesi dei paesi germanici è decorata con pannelli di lacca e porcellane. A Oranienbaum,
Caterina II fece costruire un palazzo «cinese» ove si possono ancora vedere soffitti dipinti uno dei quali, dovuto ai fratelli Barozzi di Bologna, rappresenta le Nozze cinesi.
In Svezia, a Drottningholm, la casa cinese costruita per la regina Luisa-Ulrica contiene una grande sala ornata da pannelli
dipinti con personaggi cinesi in verde ed oro, secondo i inodelli di Boucher, probabilmente per mano di Johann Pasch.
In Inghilterra il gusto delle c si diffuse rapidamente soprattutto sotto forma di carta da parati. Al vam di Londra, è
conservata una serie di pannelli con figure cinesi, vivacemente colorate su fondo verde.
In Italia il piú antico esempio di C è conservato in Piemonte: il soffitto della Villa della Regina, dipinta nel 1720 con
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arabeschi alla Bérain frammezzati a figure cinesi di Filippo
Minei. Ma la sala cinese della Foresteria di villa Valmarana,
presso Vicenza, ne costituisce senza dubbio l’esempio piú
brillante. Gian Domenico Tiepolo vi dipinse nel 1757 scene con grandi personaggi ispirati dalle incisioni di Pillement.
Nel 1747 una camera della villa papale di Castelgandolfo
venne decorata da c dipinte. Nella villa Grimani, presso Padova, una delle pitture murali rappresenta la Giustizia del
mandarino, il ritorno all’antichità non interrompe in alcun
luogo il gusto per l’esotismo. Fregi dipinti nel 1790 nel castello di Rivoli presentano scene cinesi ma in stile neoclassico. Lo stesso vale per i gruppi, in abiti sontuosi, che decorano una sala della «palazzina» della villa La Favorita a
Palermo, costruita dai Borboni nel 1799. Le pitture di palazzo Braschi a Roma possono essere qualificate come «pompeiano-cinesi».
Si deve ritornare all’Inghilterra per trovare, nel 1821 ca.,
un fantastico edificio cinese, il padiglione reale di Brighton,
ideato per Giorgio IV da Nash. Le pitture e le vetrate del
salone dei banchetti raffigurano personaggi cinesi, piú alti
del naturale. Era inglese l’unico artista europeo che vivesse
in Cina, George Chinnery, che abitò a Macao e a Pechino
per tutta la prima metà del xix sec., dipingendo numerosi
ritratti a olio dei mercanti cinesi ed europei, e una quantità
di tele e di acquerelli con scene di vita popolare.
In Spagna le c ebbero una qualche fortuna solo all’inizio del
xx sec., quando José-Maria Sert, ispirandosi a Tiepolo, abbozza immense decorazioni turco-cinesi, in bistro su fondo
d’oro, per il salone da ballo di un palazzo di Florida, e altre
per il castello di Laversine. (jw+sr).
Cingria, Alexandre
(Ginevra 1879 - Losanna 1944). Frequentò simultaneamente l’università e la scuola di belle arti di Ginevra; fece frequenti viaggi, recandosi a piú riprese a completare la sua formazione a Firenze. Parallelamente alla carriera artistica, si
dedicò alla letteratura: nel 1904 fondò la rivista «La Voile
latine» e nel 1916 la Société de Saint-Luc e de Saint-Maurice, che doveva fungere da intermediaria tra il clero, gli artisti e i fedeli. In questo periodo intraprese un rinnovamento deTarte sacra; dal 1919 collaborò con Maurice Denis alla decorazione di San Pietro a Ginevra. Dal 1920 continue
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avversità finanziarie ne fecero un artista «ambulante», che
si spostava a seconda degli incarichi, conciliando nella sua
potente personalità molteplici influssi (Gauguin, Rouault, il
Giappone e l’arte bizantina); accanto alla pittura da cavalletto (Intimità, 1923: Ginevra, Università) e in un linguaggio «barocco» esuberante di sensualità e d’intensa ebbrezza del colore, condusse attività di scenograto (innunieri scenografie teatrali. Charles le Téméraire di René Morax, 1944)
e realizzò cartoni per mosaici, affreschi, vetrate (Rennes,
chiesa di Sainte-Marie-Madeleine, 1928). (bz).
Cini, Vittorio
(Ferrara 1885 - Venezia 1977). Tra 1910 e il 1915 cominciò
a raccogliere nella sua residenza di Ferrara opere di artisti
locali del xvi sec. Da allora la sua collezione non ha cessato
di arricchirsi; è rimasta puramente italiana, ma il suo ambito d’interessi si è esteso a tutte le scuole; costituiva una delle piú importanti coll. priv. di ‘primitivi’ italiani. Le opere
sono esposte negli ambienti residenziali al castello di Monsalica e in palazzo Loredan a Venezia. Vi si notano tavole
del xiii e del xiv sec. (Maestà del Maestro della Badia, Guariento, maestri umbri e riminesi), un importante complesso
di opere ferraresi (Tura, San Giorgio; Ercole de’ Roberti,
Costa, Dosso Dossi, Ortolano), pittori toscani (Sassetta, Piero di Cosimo, Piero della Francesca (Madonna Villamarina,
un tempo atribuita a questo maestro), Pontormo), del xv e
del xvi sec., o marchigiani (Bartolomeo di Tommaso, Arcangelo di Cola, Boccati, Girolamo di Giovanni da Camerino). La pittura veneziana del xv e del xvi sec. è assai ben
rappresentata: Crivelli, Montagna, Cima da Conegliano,
Lotto, Cariani, Tiziano (San Giorgio), e quella del xviii sec.
figura nei suoi aspetti piú affascinanti (Tiepolo, Longhi,
Guardi). La Fondazione Cini, con sede negli edifici del convento di San Giorgio a Venezia, è centro attivissimo di studi di storia dell’arte, e organizza mostre e conferenze. (gb).
Cinque dinastie
Periodo della storia della Cina (907-60) nel quale lo sminuzzamento territoriale conseguente alla caduta dei Tang
favorí la dispersione dei talenti: cinque dinastie effimere, il
cui dominio regale andava riducendosi, si successero nel
Nord, mentre il Sud si suddivideva in piccoli regni. Nel Si-
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chuan, i Maestri di Shu s’ispirano al buddismo mistico chan
producendo potenti «ritratti» di santi buddisti, e Huang
Quan si distingue nel genere dei fiori e uccelli, destinato
presso i Song a un grande avvenire. Alla corte di Nanchino
si sviluppa la pittura di personaggi nello stile leggermente
sdolcinato che verrà ripreso dai pittori Ming; esso contrasta col vigore dei cavalli di Hu Gui, tartaro vissuto in Cina
erede di Han Gan. Nel Nord, la tradizione di pittura di animali dei Tang è avvertibile nei due rotoli verticali a inchiostro e colori leggeri su seta dei Cervo e cerbiatte sotto gli aceri rossi d’autunno (Formosa, Gugong), ma tanto il raddolcirsi dei colori quanto il trattamento delle rocce sono già significativi di ricerche piú raffinate. Il suo autore, anonimo,
appartenne certamente alla corte barbara in via di cinesizzazione dei Liao (907-1125), cui si riallacciano le pitture murali delle tombe della Manciuria e della Mongolia, manifestazioni di arte provinciale di esecuzione assai grezza nei
paesaggi, negli animali o nei ritratti. Il vero titolo di gloria
del x sec. cinese resta l’elaborazione del paesaggio monocromo. (ol).
Cipro
Due chiese bizantine serbano in parte i propri mosaici absidali del vi-vii sec. Nella Panagia Kanakaria di Lythrankomi,
la Vergine col Bambino in grembo, seduta entro un’aureola, è assistita da due arcangeli in piedi. Nella Panagia Angeloktistos di Kiti, la Vergine in piedi sorregge il Bambino sul
braccio sinistro ed è scortata da due arcangeli che tengono
il globo. L’attività artistica, interrotta dall’occupazione araba (vii-x sec.), riprende all’inizio dell’xi sec., e la qualità delle pittura di numerose chiese suggerisce stretti rapporti con
Costantinopoli. La chiesa di San Nicola del Tetto (presso
Kakopetria) ha conservato solo una parte della decorazione
dell’xi sec., eseguita in stile severo, nella parte occidentale;
i dipinti della zona sud-ovest e il frammento di Giudizio universale nel nartece sono del xii sec. La chiesa a navata unica
della Panagia Phorbiotissa di Asinu è stata fondata dal magistro Niceforo nel 1105-1106, e una parte dei dipinti del
santuario (Comunione degli apostoli, Vescovi), quelli della
campata est (Annunciazione, Natività, Presentazione della Vergine, Ascensione, Santi) e quelli della campata ovest (Pentecoste, Lavanda dei piedi, Resurrezione di Lazzaro, Entrata a
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Gerusalemme, Cena, Dormizione, Quaranta martiti di Sebaste, Santi) risalgono a quest’epoca. Tali composizioni, sobrie
e armoniose, restano nella grande tradizione bizantina dell’xi
sec.: i gesti sono misurati, gli atteggiamenti pacati, le forme
accuratamente modellate. I dipinti della campata centrale,
probabilmente copie di quelli del xii sec., vennero eseguiti
nel xiv-xv sec. Il Giudizio universale è stato rappresentato
nel xiv sec. nel nartece. La chiesa degli Apostoli di Perachorio ha conservato la maggior parte della sua decorazione: il Pantocrator circondato dagli angeli nella cupola; la Vergine orante tra san Pietro e san Paolo nel catino dell’abside;
sotto, la Comunione dei vescovi e i ritratti di vescovi; numerose scene della vita di Cristo, nonché parecchie figure di
santi sulle volte e sulle pareti. Le proporzioni piú snelle dei
personaggi in confronto a quelli della Panagia Phorbiotissa,
i movimenti piú concitati, i drappeggi dalle pieghe sinuose
consentono di attribuire questi dipinti al terzo quarto del xii
sec. Nel monastero rupestre di San Neofita (distretto di
Pafo), la decorazione del santuario della chiesa e il secondo
strato di dipinti della cella del santo anacoreta risalgono al
1183 e sono probabilmente opera di un certo Teodoro
Apseudes, di cui si può leggere il nome. Le tendenze stilistiche notate nella chiesa degli Apostoli sono un po’ piú accentuate in questi dipinti, dalle tonalità chiare. Tra le rappresentazioni della cella si ha una composizione unica nel
suo genere, due angeli che tengono san Neofita per le spalle. Le Scene della vita di Cristo dipinte nella navata della chiesa dopo il 1197, quando C era sotto il dominio latino, attestano una regressione verso lo stile provinciale. Nella chiesa della Panagia Araku di Lagudera (1192) lo stile manieristico è denunciato in numerose figure, ove le pieghe dei drappeggi disegnano curve e controcurve, e le proporzioni sono
molto allungate. I volti, in particolare quello del Pantocrator
sulla cupola, hanno un’espressione di malinconica dolcezza.
Nei dipinti del xiv e del xv sec. (chiesa di Santa Croce di
Palendri) non si riscontra alcuna eco della rinascenza dei Paleologhi; appare piuttosto, nelle opere piú tarde, l’influsso
dell’arte italiana, a San Giovanni Lampadistis di Kalopanayotis (fine del xv sec.) e nella Panagia Podithu di Galata
(1502). (sdn).
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Circignani, Antonio
(Città della Pieve, 1568 ca. - Roma 1629). Figlio e allievo di
Niccolò, e per questo come lui detto il Pomarancio, dopo
un’iniziale formazione al seguito del padre si afferma a Roma in occasione dell’anno santo 1600 (Sant’Agata in Santa
Cecilia in Trastevere, cappella dei vignaioli in Santa Maria
della Consolazione, sala di Giuseppe ebreo in palazzo Mattei di Giove), probabilmente tramite l’appoggio di Cristoforo Roncalli, il cui influsso si avverte lungo l’intero percorso
stilistico del C. La sua attività per l’Umbria tra il 1603 e il
1606 (una cappella in Santa Maria degli Angeli, affreschi in
palazzo Giacobetti ad Assisi, Storie di santa Margherita
nell’omonima chiesa di Narni, e vari dipinti per Città della
Pieve) ne fa uno dei tramiti per la divulgazione in quei luoghi del «naturalismo» romano, espresso tuttavia con forti inflessioni fiorentine e ancora innestato sulla cultura zuccaresca. Le sue opere sono connotate da un pungente «espressionismo» unito ad un vivace, gustoso colorismo (Madonna e
Santi in Sant’Agostino ad Amelia; affreschi nel portico di
Santa Maria Nuova a Firenze, 1613). Le realizzazioni piú note e qualitativamente piú sostenute sono le cappelle di
Sant’Aniceto in palazzo Altemps e di Sant’Alberto in Santa
Maria Traspontina a Roma (1614-16). Le opere tarde (Crocifissione, 1620-21: Modena Gall. Estense; Pietà e Santi,
1625: Mondaino) ne documentano la vigorosa vena naturalistica, benché «riformata» secondo i canoni dell’ancora vigente pittura di controriforma. Nella sua bottega si formò
Bartolomeo Barbiani da Montepulciano (noto 1613-42), che
fu assai operoso nell’Umbria meridionale. (lba).
Circignani, Niccolò → Pomarancio
Circle: International Survey of Constructive Art
Raccolta di saggi pubblicata a Londra nel 1937. In essa erano studiati i rapporti tra la tipografia, l’architettura, la tecnologia, la scienza, la filosofia, e un’arte di totale rigore
astratto. Edita dallo scultore Naum Gabo, dal pittore Ben
Nicholson e dall’architetto Leslie Martin, ebbe come principali collaboratori Mondrian, Moore, Hepworth, Gropius,
Le Corbusier, Lewis Muniford; esercitò in Inghilterra un influsso profondo. (abo).
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Ciseri, Antonio
(Ronco (Canton Ticino) 1821 - Firenze 1891). Figlio di un
artigiano decoratore di stanze, a tredici anni è ammesso
all’accademia di belle arti di Firenze, dove inizia gli studi
sotto la direzione di Nicola Benvenuti. Nel 1845 vince il
concorso triennale con un San Giovanni che rimprovera Erode e Erodiade (ubicazione ignota). Giovanissimo comincia a
dipingere ritratti (Giovanni Dupré, Giovanni Bianchi), genere questo che praticherà tutta la vita. Ne eseguí un numero imprecisabile, ma certamente intorno ai 300-350. Gli
esordi sono caratterizzati da una cultura pittorica orientata
nei temi e nello stile verso il Bezzuoli, rappresentante principale a Firenze della tendenza «realistica». L’iniziale formazione bezzuoliana è superata anche grazie alla meditazione dello stile di Ingres, molto diffuso in Toscana in quegli anni. L’opera piú importante di questo periodo è la pala
d’altare per la chiesa fiorentina di Santa Felicita con il Martirio dei Maccabei, la cui elaborazione lo impegna dal 1852
al 1863, e la cui lontana matrice è da ricercare in Domenichino e in Guido Reni. Altre opere note dell’epoca sono Date a Cesare quel che è di Cesare (1860-62), Giacobbe riconosce le vesti insanguinate. L’ultimo ventennio di attività dell’artista, ricco ormai di riconoscimenti e d’incarichi ufficiali, è
caratterizzato dalla lunga elaborazione dell’Ecce Homo (Firenze: Pitti, gam) commissionatogli dal governo fin dal 1870
e terminato poco prima della morte nel 1891. Tra i suoi primi scolari va ricordato Silvestro Lega, alla sua scuola dal
1849 al 1854. (mvc).
Cîteaux
Durante una fase breve ma brillante, nella prima metà del
xii sec., l’abbazia di C in Borgogna, fondata nel 1098 da Robert de Molesmes, produsse per la propria biblioteca una serie di manoscritti (bibl. municipale di Digione), che per la
loro decorazione si pongono tra i capolavori della miniatura
romanica. Si possono distinguere due stili, dovuti a due gruppi diversi di artisti, che senza dubbio si succedettero rapidamente. Il piú antico, che va posto in relazione con la personalità del secondo abate di C, l’inglese Etienne Harding,
originario di Sherborne, è caratterizzato da un acuto senso
dell’osservazione, unito ad una grande fantasia decorativa.
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Tali qualità si manifestano in particolare nella Bibbia eseguita per l’abbazia al tempo di Harding, e in un manoscritto dei Moralia in job di san Gregorio. Molto diverse, contrassegnate da un bizantinismo la cui origine è difficile determinare, sono le opere del secondo gruppo, rappresentato
tra l’altro dalle pitture dei due Commentari di san Gerolamo
sui profeti. Tale tradizione pittorica si concluse bruscamente alla metà del xii sec., e costituisce un’esperienza unica nella storia artistica dell’ordine cistercense. (fa).
Città di Messico
La storia pittorica di C d M si confonde in pratica con quella della scuola messicana, di cui essa, dalla fine del xvi sec.,
è rimasta capitale indiscussa, malgrado la concorrenza di
Puebla nel xvii e nel xviii sec., e malgrado la presenza, nel
xix sec., di alcuni interessanti artisti di provincia.
Le chiese e i conventi riflettono ancor oggi la copiosità di
una produzione spesso «di serie» e necessariamente ineguale, ma che conta anche opere importanti dei migliori pittori messicani; cosí, a San Miguel si trova il grande Cristo servito dagli angeli nel deserto, di Pedro Ramirez; a La Profesa,
la Vergine, San Giuseppe e santa Teresa di Villalpando. La cattedrale soprattutto è un vero e proprio museo di pittura.
Vanno in particolare citati il San Sebastiano di F. de Zumaya
e, di Pereyns, introduttore del manierismo in Messico, la
Vergine del perdono e il grande San Cristoforo (1588). Di un
secolo dopo sono la Vergine dell’Apocalisse di Correa e le opere del focoso barocco Villalpando, il San Giovanni a Patmos
e la grande composizione rubensiana del Trionfo della Chiesa militante; infine, sullo scorcio del Settecento, la decorazione della cupola (Assunzione) di un brillante affrescatore
proveniente da Valencia, Jimeno.
I musei offrono un’impressione piú completa e piú selettiva
dell’antica pittura a C d M. Un felice riordinamento ha riservato le sale della venerabile e antica Accademia di San
Carlos alla pittura europea, che vi è rappresentata con opere di grande interesse, per la maggior parte spagnole: buoni
Zurbarán (Discepoli di Emmaus, San Giovanni di Dio), la Vergine di Morales, la Comunione della Vergine di A. Cano, il
Bodegon di Cerezo. Ma anche le pitture fiamminghe ed italiane, abbastanza numerose e per lungo tempo trascurate,
tra le quali predominano i lavori di bottega (particolarmen-
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te di Bosch e Rubens). Quanto alla pittura messicana, mentre quadri religiosi secondari si andavano concentrando
nell’antico noviziato dei Gesuiti di Tepototzlan (a 45 km da
C d M), restaurato nel 1964, nell’antico convento di San
Diego trovava asilo un museo antologico, che assumeva il
nome di Pinacoteca Virreinal. Una selezione eccellente e
un’ariosa esposizione offrono il panorama migliore della
scuola messicana nelle sue generazioni successive: il manierismo della fine del xvi sec. con Pereyns, il primo terzo del
xvii sec. con i grandi quadri di tipo sivigliano di Echave il
Vecchio (Martirio di sant’Apronio, la Porziuncola), e le opere piú intime, di Luis Juarez (Sant’Anna, la Vergine e il Bambino Gesú). Si raggiunge la piena maturità con le opere fondamentali degli zurbaraniani Arteaga (Incredulità di san Tommaso) e José Juarez (Adorazione dei magi, Martirio dei santi
Just e Pasteur). Alla fine del secolo, si può scorgere il contrasto tra il tormentato barocco di Villalpando (Storia della
Vergine) e di Hipolito de Rioja (Santa Caterina dinanzi ai dottori), da un lato, e dall’altro il barocco piú tranquillamente
murilliano di un Antonio Rodriguez (San Tommaso di Villeneuve mentre fa l’elemosina) o di un Nicolas Rodriguez Juarez (San Giovanni di Dio): contrasto analogo a quello sivigliano tra Valdés Leal e Murillo. Infine è molto ben rappresentato il xviii sec., sia per quel che riguarda la pittura religiosa, con le opere di Cabrera (Vergine dell’Apocalisse) o di
Ibarra e con l’immenso dipinto che decorava l’antica università (il Trionfo dell’Immacolata di Vallejo); sia per i primi
esempi di una pittura civile, fino a quel momento praticamente inesistente: ad eccellenti ritratti (Autoritratto e Ritratto del marchese di Santa Cruz di Juan Rodriguez Juarez,
Ritratto dell’architetto Tolsa di Ximeno) si aggiungono alcuni paesaggi e nature morte (Alacena).
Il Museo nazionale di storia a Chapultepec completa sotto
piú di un aspetto la pinacoteca con numerosi ritratti (serie
importante dei vicerè del xviii sec., ritratto celebre di Sor
Juana Inés de la Cruz, mistica e poetessa, di Cabrera), ma anche con vedute di città, tipi e costumi popolari del xviii sec.
e della prima metà del xix sec., spesso di qualità eccellente.
La rinascenza della pittura messicana contemporanea si riflette in numerosi musei (mnam, Galleria del palazzo delle
belle arti, Museo Orozco, Museo Frida Kahlo, che ha sede
Storia dell’arte Einaudi
nella casa ove la moglie di Diego Rivera, anch’ella pittrice,
visse con suo marito).
Per apprezzare pienamente artisti che si espressero anzitutto nell’arte murale, occorre integrare ai musei gli edifici pubblici, in generale facilmente accessibili, ove essi hanno eseguito le loro decorazioni. Questi edifici sono innumerevoli
a C d M come nelle città di provincia, e troppo numerosi per
essere citati qui. Tra i piú ricchi, consacrati sempre alle tappe della storia del popolo messicano e alle conquiste della
sua rivoluzione, ricorderemo il Ministero della pubblica
istruzione (1600 metri quadrati di pitture di Rivera, Orozco, Siqueiros, Tamayo), il Palazzo nazionale (scala monumentale e corridoi di Rivera, 1930-35), la Scuola nazionale
di agricoltura di Chapingo (affreschi di Rivera L’uomo domina gli elementi, 1927-29), il Museo nazionale di storia,
l’ospedale di Gesú Nazareno. Uno tra gli insiemi che piú colpiscono per il miscuglio di violenza e di humor è la sala
dell’albergo del Prado con il suo affresco, di Rivera, che è
una sintesi della storia messicana e che il pittore intitolò Sogno di un pomeriggio d’estate sull’Alameda.
La città universitaria, ricca di pitture murali, sorprende soprattutto con la splendente decorazione dei mosaici di
O’Gorman (sul tema dell’Energia), che riveste all’esterno la
torre della biblioteca (1950-55). (pg).
Cittadini, Pier Francesco
(Milano 1613-16 - Bologna 1681). L’artista si educò a Milano, sua città natale, nella bottega di Daniele Crespi. Verso la metà del quarto decennio risulta trasferito a Bologna,
e anche ben informato sia della pittura di Guido Reni (del
quale frequentò anche la scuola), sia di altre tendenze piú
tenebrose e spettacolari della pittura bolognese di quegli anni (si veda la Caduta di san Paolo in San Paolo a Bologna).
Nel 1650 è documentata la sua attività nel palazzo ducale di
Sassuolo, al servizio della corte estense di Modena. Qui esegue bellissime ghirlande di fiori e di frutti intorno alle storie affrescate dal francese Jean Boulanger, dimostrando una
conoscenza di ciò che avveniva allora in ambito romano. Subito dopo, a Bologna egli diventa il piú noto ed affermato
specialista nella pittura di genere: ritratti, nature morte e
paesaggi. Almeno quattro dei suoi numerosissimi figli furono pittori, oltre al fratello Carlo Antonio. Ma è impossibile
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trovare opere che si associno con sicurezza ai loro nomi. Caso mai si spiegano per questa via una certa discontinuità di
livello nell’abbondante produzione della sua bottega e la lunga persistenza a Bologna di un filone di nature morte ispirate al suo gusto. Si ricorda come serie particolarmente rappresentativa quella delle Stagioni, dipinta per i Legnani (divisa oggi tra le Collezioni Comunale d’arte di Bologna e la
Gall. Estense di Modena). (acf).
Ciucourenco, Alexandru
(Tulcea 1903 - Bucarest 1977). Studiò alla scuola di belle arti di Bucarest, poi nello studio di André Lhote a Parigi
(1931). Partecipò alla Biennale di Venezia nel 1954 e nel
1956, e a partire dal 1948 fu professore presso la scuola di
belle arti di Bucarest. Le tele di C si segnalano per lo splendore dei colori. La luce fluida e il clima poetico dei primi lavori cedono in seguito il passo a una fattura piú salda e ad
una struttura piú chiara. Alla fine della vita la sua tavolozza si placò e i suoi colori si pacificarono; questo nuovo raccoglimento si esprime nella modulazione dei toni chiari e trasparenti. Divenne il maestro spirituale di tutta una generazione di pittori. È rappresentato a Bucarest (am) e in musei
rumeni, a Dresda (gg) e in numerose coll. priv. (ij).
Civate
Secondo gli studi piú recenti, la chiesa di San Pietro al Monte a C (Como) e il vicino Oratorio di san Benedetto furono
decorati a fresco da una stessa équipe di pittori, che operarono nel terzo quarto dell’xi sec. continuando la tradizione
lombarda degli affreschi di Galliano (1007 ca.) ma unendovi, con singolare accordo, reminiscenze della pittura bizantina preiconoclastica. (bt).
Civerchio, Vincenzo
(Crema 1470-1544 ca.). Lavorò soprattutto a Crema e a Brescia, ed è in effetti ritenuto rappresentante della scuola bresciana, e anello di congiunzione fra la generazione del Foppa e quella del Moretto. La sua pittura, di mediocre qualità,
è caratterizzata anche da asprezze grafiche fra nordiche e
ferraresi, mediate attraverso Butinone e Zenale. Un gruppo
di opere del suo vecchio e tradizionale catalogo, ricche di
elementi soprattutto bramantineschi, è stato riferito al co-
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siddetto Pseudo-Civerchio e recentemente, ma con dubbi risultati, alla fase piú tarda dello Zenale. Fra le opere certe:
Polittico (1495: Brescia, Pinacoteca Tosio-Martinengo), Deposizione (1504: Brescia, Sant’Alessandro), Polittico (1519:
Crema, Duomo), Battesimo di Gesú (1539: Lovere, Accademia Tadini). (mr).
Claeissens, Pieter I il Vecchio
(Bruges 1499-1500 - 1576). Fu allievo di Adriaen Becaert
nel 1516, libero maestro a Bruges nel 1530, decano della
ghilda dei pittori di Bruges nel 1576. Se ne può citare, nella stessa città, la Resurrezione (chiesa del Salvatore) e un
dittico con Sant’Antonio e l’abate Antoine Wydoot (155758 ca.: Bruges, mba): l’artista vi si rivela un tipico «ritardatario» di Bruges, nella scia di Gérard David, Benson,
Provost.
Il figlio Pieter II il Giovane (? - 1623), libero maestro nel
1570, fu piú volte decano della ghilda dei pittori di Bruges.
Successe nel 1581 al fratello Antoon come pittore ufficiale
della città e serbò la carica fino al 1621. Pittore fecondo,
dallo stile arcaico e rigido, plagia spesso altri artisti, per
esempio Floris nella Pace di Tournai (1584: Bruges, mba), o
Metsys nella Vergine del Louvre di Parigi.
Antoon (1536 ca. - 1613), terzo figlio di Pieter I e anch’egli
pittore ufficiale di Bruges, afferma un arcaismo non meno
ostentato. Fu libero maestro nel 1570 e pittore ufficiale della città dal 1570 al 1581. Come il fratello Pieter, cui e vicino, si rivela artista limitato: Festino (1574: Bruges, mba),
Marte che sconfigge l’ignoranza (1605: ivi). (sr).
Claesz, Allaert (Aert), detto anche Aertgen van Leyden
(Leida 1498-1564). Formatosi nello studio di Engebrechtsz, e sottoposto ad influssi assai contraddittori, in particolare di Luca di Leida e di Van Scorel, ebbe uno stile molto
personale, caratterizzato dalla giustapposizione di tonalità
policrome, dalla composizione tridimensionale e dall’impiego di effetti di prospettiva e di chiaroscuro. L’opera di C,
considerata fondamentale da Van Mander, è difficile oggi
da giudicare a causa della sua estrema rarità; il suo carattere manierista e ornamentale si manifesta nella Resurrezione
di Lazzaro (Amsterdam, Rijksmuseum) e nella celebre Natività, spesso copiata, di cui Rubens possedeva un esemplare
Storia dell’arte Einaudi
e versioni della quale sono conservate a Colonia, Anversa
(Rubenshuis), Leningrado (Ermitage) e Parigi (Louvre). (jv).
Claesz, Pieter
(Burgsteinfurt (Vestfalia) 1597-98 - Haarlem 1661). Stabilitosi prima del 1617 a Haarlem, dove lavorò fino alla morte, C, che assunse talvolta il soprannome di Berchem, fu padre del pittore Nicolaes Pietersz Berchem, nato nel 1620.
Con Heda è il maestro della scuola di natura morta di Haarlem, a tendenza «monocromista». Dipinse alcune Vanità,
ma soprattutto Colazioni e Banchetti. Le sue opere giovanili, eseguite tra il 1621 e il 1630 ca. (Natura morta, 1624: Amsterdam, Rijksmuseum; Vanità, 1624: Dresda, gg; Natura
morta con strumenti musicali, 1625: Parigi, Louvre) sono assai vicine a Floris van Dyck e Nicolaes Gillis; la visione
dall’alto in basso è in esse accentuata, e il colore piuttosto
sostenuto. Il suo periodo autenticamente «monocromo» va
dal 1630 al 1640 ca.: uno tra gli esempi migliori ne è la Natura morta del 1636 (Rotterdam, bvb), piú concentrata e coerente, ove gli oggetti sono piú legati e la tonalità generale si
organizza in base a una gamma di grigio-bruni. Dal 1640 ca.
alla morte il suo stile si evolve, per influsso di J. D. de Heem,
in senso piú decorativo e monumentale, come mostrano le
Nature morte (1643: Bruxelles, mrba; Strasburgo; 1644:
Nantes; 1644: L’Aja, Mauritshuis; 1649: Londra, ng). Per
la raffinatezza e l’intimità delle sue composizioni, C aperse
la strada, come Heda, a una nuova concezione della natura
morta. (jv).
Claeuw, Jacob de
(Dordrecht 1620 ca. - ivi?, dopo il 1676). Genero di Jan van
Goyen e cognato di Jan Steen, è citato nel 1642 a Dordrecht, nel 1646 all’Aja, ove e membro della Confreria Pictura, e dal 1651 al 1665 a Leida. Dipinse soltanto nature morte, sulle prime influenzate da Frans Ryckhals; poi il suo stile, dai colori ricchi e caldi, si orientò verso una descrizione
esatta di oggetti rari e preziosi, il che lo apparenta a David
Bailly; citiamo la Natura morta con frutta (Haarlem, Museo
Frans Hals) e le Vanità (Leida, sm; Amsterdam, Rijksmuseum; Karlsruhe, kh, 1676). La sua arte ebbe grande influsso
sulla formazione di Van Beyeren. (jv).
Storia dell’arte Einaudi
Clairin, Georges
(Parigi 1843 - Belle-Ile-en-Mer (Morbihan) 1919). Allievo
di Picot e di Pils, entrò all’Ecole des beaux-arts nel 1861 ed
espose dal 1866. Fu ritrattista virtuosistico (Mademoiselle de
Villeneuve, 1875: Parigi, mad), intimo di Sarah Bernhardt
(Ritratto di Sarah Bernhardt, 1876: Parigi, Petit-Palais), mediocre pittore di storia (Mosè sul mar Rosso, 1884: Nevers),
ma abile orientalista (Dopo la vittoria, o i Mori vincitori in
Spagna, 1885: Agen, Municipio). Grande viaggiatore, realizzò numerose decorazioni, in particolare per l’Opéra di Parigi, ove Charles Garnier gli affidò l’esecuzione di tre soffitti (1874), per la Sorbona e per i teatri di Cherbourg e di
Tours. (tb).
Clark, Kenneth, Lord
(Londra 1903-1983). Studiò a Winchester e al Trinity College di Oxford, e pubblicò nel 1929 Gothic Revival. Operò
per due anni presso Berenson a Firenze; venne poi nominato conservatore presso l’Ashmolean Museum di Oxford nel
1931. Dal 1934 al 1945 fu direttore della National Gallery
di Londra e sovrintendente ai quadri della collezione reale.
Nel 1946 divenne Slade Professor a Oxford; dal 1953 al
1960 fu presidente dell’Arts Council della Gran Bretagna.
Pubblicò nel 1935 il catalogo dei disegni di Leonardo conservati al castello di Windsor, e nel 1939 Leonardo da Vinci: an Account of his Development as an Artist, considerato
giustamente ancor oggi l’introduzione migliore all’opera del
maestro. Nel 1951 apparve la sua monografia su Piero della
Francesca, e nel 1966 Rembrandt and the Italian Renaissance.
Queste diverse opere sono assai stimate per l’erudizione e
la pertinenza critica, e rivelano il gusto affinato del «conoscitore». C ha affrontato pure lo studio dei grandi temi; fanno testo i suoi libri sull’evoluzione del paesaggio (Landscape
into Art, 1949) e sul nudo (The Nude, 1955). Ha molto contribuito alla diffusione della conoscenza dell’arte, in particolare attraverso una serie di film sulla Civiltà presentati nel
1969-70 alla televisione inglese e poi in diversi paesi. (jns).
Claudot, Jean-Baptiste-Charles
(Badonviller (Meurthe-et-Moselle) 1733 - Nancy 1805). Eseguí decorazioni ed ebbe incarichi religiosi a Nancy (quadri
Storia dell’arte Einaudi
nella cattedrale). Malgrado una tonalità rosa molto peculiare, le sue opere piú note (paesaggi con rovine, scene contadine, o anche di pescatori) ricordano che fu a Parigi allievo
di Joseph Vernet dal 1763 al 1765. A Nancy sono conservati un bel complesso di tali paesaggi al nma e le Vedute di
Nancy (1801) al Museo lorenese. (cc).
Claus, Emlie
(Vyve-Saint-Eloi 1849 - Astene 1924). Seguí dal 1870 al
1874 i corsi dell’accademia di Anversa; espose per la prima
volta a Bruxelles nel 1875. Fino al 1888 restò fedele a un
realismo sentimentale o a tendenza sociale: lo rese celebre il
Combattimento di galli nelle Fiandre, esposto a Parigi nel 1882
(Waregem, coll. priv.). Nel 1888 si stabilí nella valle della
Lys, ad Astene; poco dopo si recò a Parigi ove fu colpito
dall’impressionismo, di cui divenne fervido propagatore in
Belgio. Produsse peraltro ancora quadri a soggetto narrativo (Raccolta delle barbabietole, 1890: Deinze; Levata delle
nasse, 1893: Ixelles), poi si dedicò esclusivamente al paesaggio, soprattutto delle rive della Lys. Aveva grande ammirazione per Monet. Durante la guerra visse a Londra, assumendo allora come tema favorito il Tamigi (Londra, mezzogiorno a novembre, 1916: Bruxelles, mrba). (sr).
Clazomene
A C (città della Ionia presso Smirne), o nei pressi di essa, sono stati prodotti verso il terzo quarto del vi sec. a. C. vasi a
figure nere che mescolano un forte influsso attico con tratti ionici (anfore allungate, idrie); ne possediamo esemplari
intatti (Londra, bm). I terni sono monotoni (processioni femminili, cavalieri e, nelle zone secondarie, file di animali); il
disegno, i risalti bianchi e rossi rivelano scarsa accuratezza.
Nella stessa regione, dal 530 al 470 ca., sono stati fabbricati sarcofaghi in terracotta muniti di un ampio bordo decorato a figure nere con scene di combattimento, carri e animali, in un ciclo stereotipo che prolunga lo stile wild goat ionico; l’incisione, generalizzata in Grecia nella seconda metà
del vi sec., qui non viene impiegata. (cr).
Clément, Charles
(Rouen 1821 - Parigi 1887). Studiò a Ginevra e in Germania; entrò a Parigi, nel 1853, nella «Revue des Deux-Mon-
Storia dell’arte Einaudi
des», poi collaborò al «Journal des débats» (1864), effettuando ogni anno la critica del salon. Amministratore del
Musée Napoléon III (o Museo Campana), redasse il catalogo della raccolta di gioielleria (1862). Fu autore di parecchie
opere a carattere generale (De la peinture réligieuse en Italie,
1857; Michel-Ange, Léonard de Vinci, Raphaël, 1861; Etudes sur les Beaux-Arts en France, 1865); ma resta soprattutto
noto per il monumentale lavoro su Géricault (1868-69), ancor oggi utile opera di riferimento; gli si debbono inoltre
studi su Prud’hon (1872), Léopold Robert (1875), Gleyre
(1877). (sr).
Clément de Ris
(Athanase-Louis Torterat, conte) (Parigi 1820 - Versailles
1882). Figlio adottivo di un senatore dell’impero e pari di
Francia, poi vittima d’un ratto da parte degli chouans, fece
buoni studi a Tours, orientandosi verso la letteratura e l’arte. Oltre a diversi libri di poesie gli si debbono serie notizie
sui Musées de province, raccolte in due volumi nel 1859; nello stesso anno pubblicò uno studio sul Musée royal de Madrid. Nominato conservatore del Musée des Souverains, fece uscire nel 1862 Critiques d’art et de littérature, seguite l’anno successivo da un’opera sulla Curiosità, tema allora nuovo. I Portraits à la plume del 1853 riguardavano essenzialmente scrittori e poeti suoi contemporanei. (gj).
Clemente VII, papa
(Giulio de’ Medici) (Firenze 1478 - Roma 1534). Figlio di
Giuliano de’ Medici e nipote di Lorenzo il Magnifico, fu nominato cardinale nel 1513 ed eletto papa nel 1523. Da allora, prima del sacco di Roma per mano delle truppe imperiali (1527), affidò a Giulio Romano, assistito da F. Penni, il
completamento della decorazione delle Stanze e quella della
Sala di Costantino in Vaticano (1517-25). Sembra intendesse, inoltre, associare il Parmigianino, che chiamò a Roma nel 1524 ca., alle sue iniziative in Vaticano. Da studiosi dell’arte del Rinascimento (J. Shearman, A. Chastel) è usata la definizione «stile clementino» per designare la situazione, caratteristica degli anni ’20 a Roma, immediatamente prima del sacco, in cui emergono Perino, Polidoro, Rosso e Parmigianino, in un arduo equilibrio tra eredità raffaellesca e prima maniera, che produsse risultati di grande
Storia dell’arte Einaudi
altezza formale. A papa C spetta anche il merito di aver affidato a Michelangelo l’incarico di dipingere nella Cappella
Sistina la caduta degli angeli ribelli e il Giudizio, quest’ultimo realizzato, com’è noto, sotto il suo successore Paolo III.
Il suo ritratto, di Sebastiano del Piombo, è conservato a Napoli (Capodimonte). (fv+sr).
Clemer, Hans
(documentato tra xv e xvi sec.). Attivo in Piemonte e Francia meridionale tra xv e xvi sec. Già detto Maestro d’Elva
per la sua attività in questo centro, si riconosce ora in C,
«abitante di Saluzzo», che lavora nel 1508 ad Aix. Le date
certe per la sua attività presso la corte di Ludovico II di Saluzzo sono: 1496, polittico della parrocchiale di Celle Macra; e 1503, polittico della collegiata di Revello. Tra il ’96 e
la fine del primo decennio del 1500 vanno scalate tutta la
sua produzione saluzzese e la Madonna del Coniglio (Firenze, Museo Bardini) già attribuita a Zenale, a cui compete
una data parallela al polittico di Revello. Del 1503 è anche
il ciclo di affreschi della parrocchiale di Elva; del 1513 il polittico della collegiata di Santa Marta a Tarascona (Bouches-du-Rhône). Cresciuto all’interno della cultura mediterranea, e in particolare sensibile alla sua declinazione provenzale, durante il suo soggiorno piemontese si aggiorna su
modelli lombardi; questo adeguamento è particolarmente
evidente in due cicli profani, dipinti a grisaille, in due palazzi saluzzesi. (erb).
Cleofonte, Pittore di
(terzo quarto del vi sec. a. C.). Pittore di vasi attici a figure rosse; gli si devono decorazioni di vasi i cui personaggi
presentano drappeggi in stile «fidiaco» e volti meditabondi
e malinconici. pelike con Ritorno di Efesto all’Olimpo, ca.
430 a. C., e stamnos a Monaco (sa) e Leningrado (Ermitage). (sr).
Cleofrade, Pittore di
(primo quarto del v sec. a. C.). Si continua a denominare cosí il pittore che ha decorato un centinaio di vasi attici, quasi tutti a figure rosse, molti dei quali sono firmati dal vasaio
C; si chiamava, in realtà, Epitteto (da non confondere con
un pittore di coppe del medesimo nome, appartenente alla
Storia dell’arte Einaudi
generazione precedente). Col Pittore di Berlino, suo contemporaneo, è il miglior pittore di grandi vasi (anfore, idrie,
crateri) di questo periodo. Nelle prime opere si avvicina allo stile di Eutimide (scene atletiche); pratica in seguito un
disegno morbido e assai espressivo, che traduce sentimenti
profondi: estasi religiosa (Corteo dionisiaco dell’anfora di
Monaco (sa), 500-490 ca.), lamentazioni funebri (lutroforo,
480 ca.: Parigi, Louvre), oppure atteggiamenti movimentati di una scena come il Massacro dell’ultima notte di Troia
(idria, 480 ca.: Napoli, Museo di San Martino). Le convenzioni arcaiche, utilizzate all’inizio con molta abilità, cedono
il posto, in particolare sull’idria di Napoli, a sapienti ricerche di tre quarti o di scorci. (cr).
Clerck, Hendrick de
(Bruxelles 1570 ca. - 1630). Figlio di Hendrick il Vecchio,
autore di blasoni, fu allievo ad Anversa di Maerten de Vos
ed eseguí numerose composizioni religiose per le chiese di
Bruxelles: Trittico con la Sacra Famiglia e la genealogia di
sant’Anna (Bruxelles, mrba). Entrò nel 1606 al servizio degli arciduchi Alberto e Isabella, governatori dei Paesi Bassi,
e dipinse nel 1608 Cefalo e Procri (Vienna, km) in uno stile
vicino a quello di Bruegel de Velours. Collaborò con Denys
van Alsloot, che dipingeva i paesaggi mentre a C toccavano
le figure per quadri spesso a soggetto mitologico: il Paradiso
(Monaco, castello di Schleissheim), Diana e Callisto (Parigi,
Louvre), vicini a opere di Johann Rottenhammer e di Van
Balen. Il suo stile non è privo di finezza, in particolare nelle pieghe minuziose dei drappeggi e nel modellato lucente
delle carni. (jv).
Clerici, Fabrizio
(Milano 1913). Terminati gli studi artistici all’Accademia di
Brera, si stabilisce a Roma nel ’32 dove si laurea in architettura. Nel ’36 si lega a Savinio, nel ’38 conosce De Chirico che lo incoraggia nella pratica del disegno. Del ’43 sono
le sue prime mostre personali di disegni e incisioni, nati soprattutto come illustrazioni di Bestiari. Nel ’47 inizia l’attività di scenografo che si concluderà nel ’73. Dopo due anni
comincia a dedicarsi alla pittura, elaborando un linguaggio
visionario d’ascendenza metafisica i cui temi, venati di sentimento archeologico, attraversano memorie epocali diver-
Storia dell’arte Einaudi
se (Sonno romano, 1955). Dai viaggi in Medio Oriente del
’53 trae ispirazione per un ciclo di dipinti in cui ricorrono
divinità egizie. È presente alle biennali di Venezia dei ’54 e
del ’56 e a quella dell’incisione del ’57. Dal ’74 elabora delle variazioni sul tema dell’Isola dei morti di Böcklin, coniugando esattezza del segno e senso di vuoto prospettico con
invenzione fantastica. Espone a numerose quadriennali di
Roma (1951, 1959, 1986). (im).
Clérisseau, Charles-Louis
(Parigi 1721-1820). Vincitore del prix de Rome in architettura nel 1746, fu pensionante dell’Accademia di Francia a
Roma nel 1749 e rimase in Italia quasi vent’anni. Frequentò
i viaggiatori inglesi e in particolare i fratelli Adam, di cui divenne socio; in loro compagnia viaggiò, dal 1757, in Dalmazia e a Venezia. Tornato a Roma nel 1762 si dedicò allo
studio dei monumenti antichi, dipingendo, soprattutto per
i turisti stranieri, gran numero di quadri e guazzi di soggetto architettonico. Il cardinal Albani, cui Winckelmann l’aveva raccomandato, gli affidò la decorazione di una sala della
sua villa (1764). Lasciò Roma nel 1767, tornando a Parigi.
Durante il viaggio disegnò i monumenti antichi della Provenza. L’accademia lo accolse, nel 1769, come «pittore d’architettura». Chiamato a Londra da Robert Adam nel 1771,
vi restò parecchi anni, esponendo alla Royal Academy. Era
di nuovo a Parigi nel 1775; qui ebbe diversi incarichi per decorazioni di interni; nel 1778 ne apparve la raccolta d’incisioni delle Antichità della Francia. Caterina II lo chiamò allora a San Pietroburgo, dove C eseguí per lei vari progetti
di decorazione, divenendone il primo architetto. Di nuovo
a Parigi nel 1782, durante la Rivoluzione si tenne in disparte.
Piú tardi, nel 1806, apparve la seconda edizione, accresciuta, delle Antichità della Francia.
Come pittore resta celebre per le vedute a guazzo di monumenti antichi, spesso «capricci» architettonici, ove, all’inizio della sua carriera, spesso le figure umane sono di mano
di A. Zucchi. Guazzi e disegni di C si trovano al Louvre di
Parigi e in musei di Orléans e di Rouen; ve ne sono molti a
Leningrado (Ermitage: oltre 1100 disegni acquistati da Caterina II) e in Inghilterra: a Londra (bm, Soane Museum,
vam), nonché al Fitzwilliam Museum di Cambridge. (jpc).
Storia dell’arte Einaudi
Cleve, Hendrik III van
(Anversa 1525 - ? 1589). Gli si attribuiscono con certezza
disegni acquerellati (Gabinetti dei disegni di Berlino, Darmstadt, Parigi (Louvre), Roma e Vienna), nonché alcuni dipinti di Vedute di Roma (1550: Londra, coll. priv.; 1589:
Bruxelles, mrba). La sua opera, con rappresentazioni di rovine o di città, è stata incisa da Philipp Galle. (jl).
Cleve, Joos van
(Clèves? 1484 ca. - Anversa 1540). È stato identificato col
Maestro della Morte di Maria, cosí denominato a causa di
due polittici (opere giovanili) rappresentanti tale soggetto e
conservari a Monaco (ap) e a Colonia (wrm). Fu libero maestro ad Anversa nel 1511 e decano della ghilda di San Luca
nel 1519 e nel 1525. Avrebbe abitato a Bruges prima di trasferirsi ad Anversa; in ogni caso subí l’influsso di Memling
(la Vergine e il Bambino adorati da san Bernardo: Parigi, Louvre) e di Gérard David (il Riposo durante la fuga in Egitto:
Bruxelles, mrba; la Morte della Vergine: Monaco, ap). Non
è certo che abbia soggiornato in Italia, dove peraltro si trovano parecchie sue opere (in particolare, chiese e galleria di
palazzo Spinola a Genova). Del resto alcuni suoi dipinti rivelano un influsso italiano molto netto. Cosí, il Polittico di
san Francesco (Parigi, Louvre), eseguito nel 1530-35 ca., rievoca nel contempo l’arte di Leonardo e quella di Gaudenzio
Ferrari. È noto che venne chiamato alla corte di Francia nel
1530 ca. per eseguire ritratti di Francesco I (Filadelfia, am,
coll. Johnson) e della sua seconda moglie Eleonora di Francia; e che a Londra fece, nel 1536, il Ritratto di Enrico VIII
(Hampton Court). E tra i migliori ritrattisti dell’epoca, e la
naturalezza piena di distinzione dei suoi personaggi (Autoritratto: Lugano, coll. Thysseri; Donna col rosario: Firenze,
Uffizi) lo porta talvolta al livello di Holbein. Gli si devono
pure gran numero di dipinti religiosi, polittici o pannelli isolati (oggi in musei di Berlino (Dahlem), Bruxelles, Detroit,
Dresda, Filadelfia, Monaco, New York (mma), Praga, Vienna). Fu molto copiato, particolarmente dagli allievi della sua
bottega ad Anversa.
Il figlio Cornelis (Anversa 1520-67) viveva agiatamente
quando partí per Londra nel 1554 per presentare alcune sue
opere a Filippo II di Spagna, che vi si era sposato con Ma-
Storia dell’arte Einaudi
ria Tudor. Antonio Moro, pittore ufficiale del re, s’incaricò
di raccomandare l’artista al sovrano, ma non riuscí a farlo
accettare. C, ritenendosi bassamente ingannato dal suo protettore, concepí un vivo sentimento d’odio nei suoi riguardi. Rovinato e senza speranza, perdette la ragione a trentasei anni. Verrà soprannominato «Sotte Cleef» (Cleve il pazzo), Lo si ritrova in patria nel 1560. Spetta a Friedländer il
merito di averlo potuto identificare con lo Pseudo-Lombard.
Le opere piú importanti dell’artista si trovano nella gg di
Dresda (Adorazione dei pastori), ad Anversa (Adorazione dei
magi), a Leningrado (Adorazione dei magi), a Colonia (Ritratto di donna) e a Londra a Buckingham Palace (Adorazione dei pastori). Dipinse numerose composizioni con la Vergine e il Bambino (oggi in musei di Bruges, Berlino, Monaco, Filadelfia; chiesa di San Giacomo ad Anversa). Il suo stile s’iscrive nella tradizione fiamminga, ma, ispirato
dall’esempio del padre, di P. Coecke, di F. Floris e di A.
Moro, C si lasciò influenzare da Raffaello, Leonardo e Andrea del Sarto. (jl).
Cleveland
Museum of Art Nel 1892 J. H. Wade jr donò il terreno che
ancora possedeva nel parco donato alla città di C da suo nonno, affinché vi si costruisse una galleria d’arte. La costruzione e l’arredo dell’edificio, l’acquisizione delle opere d’arte, l’arricchimento delle collezioni furono interamente dovuti all’iniziativa privata. Il museo, aperto al pubblico nel
1916, godette di fondazioni e donazioni notevoli, in particolare di E. E. e L. E. Holden, J. H. Wade, L. C. Hanna e
J. L. Severance. Come la maggior parte dei musei americani, volle essere universale e didattico. La scuola italiana è
particolarmente ricca: primitivi, opere del xiv sec. (Lippo
Memmi) e del xv sec. (Sassetta, Filippino Lippi), dipinti veneziani (Ritratto di gentiluomo di Lorenzo Lotto, opere di
Tiziano, Veronese, Jacopo Bassano (Lazzaro), Tintoretto
(Battesimo di Cristo), Savoldo, Caravaggio (Crocifissione di
sant’Andrea), L. Giordano, Guardi, Tiepolo (Storia di Orazio Coclite); la scuola spagnola comprende alcuni primitivi,
El Greco, Cristo e la Vergine di Zurbarán e il Buffone Calabazas di Velázquez; si hanno poi primitivi fiamminghi e opere del xvii sec. olandese, tra le quali ritratti di Rembrandt.
La scuola inglese contiene ritratti di qualità del xviii sec.
Storia dell’arte Einaudi
(Reynolds), opere di Turner e di Constable. La scuola francese è ben rappresentata da primitivi (Annunciazione della
scuola di Parigi), Georges de la Tour (San Pietro), Lorrain,
Nattier, Watteau (Danza in un padiglione). Ma si ha soprattutto un panorama molto completo di dipinti del xix sec.:
David (Amore e Psiche), Corot, Degas (Ballerine in riposo),
Lautrec (M. Boileau), Cézanne, Redon, Manet, Gauguin
(l’Appel, Bonnard, H. Rousseau, Vuillard, Matisse, Rouault,
Picasso (la Vita). Si deve pure notare un raro complesso di
dipinti germanici (Maestro di Heiligenkreuz, Morte della Vergine). Si nota inoltre che, per tutte le scuole (Italia, Spagna,
Germania, Paesi Bassi) i primitivi, e in particolare quelli appartenenti al gotico internazionale, sono rappresentati da
opere raffinate. Si dà infine ampio spazio agli artisti americani (Copley, Eakins, Bellows, De Kooning, Rothko, Lindner). Il museo conserva inoltre un gruppo di manoscritti miniati medievali (Messale di Gotha attribuito a Jean Bondol,
Annunciazione di Belbello da Pavia, Libro d’ore di Ferdinando V ed Isabella), disegni e incisioni di tutte le scuole, nonché dipinti dell’Estremo Oriente. (gb).
Clizia
(vi sec. a. C.). Firmò, col vasaio Ergotimo, cinque vasi, il
piú celebre dei quali è un cratere a volute e a figure nere trovato a Chiusi in Etruria, il «vaso François» (570 a. C. ca.:
Firenze, ma). Il vaso contiene sei zone figurate, che sono un
autentico repertorio di scene mitologiche, piú tardi riprese
dai pittori di vasi del vi sec.; i nomi iscritti dei personaggi
consentono identificazioni sicure. Il disegno minuzioso, reso esatto da un abilissimo impiego del tratto inciso, si unisce a un senso del movimento di grande sicurezza e a una
notevole inventività negli atteggiamenti. Dopo la generazione del Pittore della Gorgone e di Sofilo (che nel repertorio figurativo, nella tecnica e persino nella composizione delle scene subiscono ancora l’influsso della contemporanea ceramica corinzia), il vaso François segna l’inizio del grande
periodo della figura nera attica, ormai in possesso di tutte le
risorse del disegno e di un senso della composizione narrativa; è pure questo il momento in cui ha inizio l’esportazione massiccia verso l’Italia dei vasi attici. (cr).
Storia dell’arte Einaudi
cloisonnisme
Termine francese, ideato e introdotto dal critico Edouard
Dujardin in un articolo sulla «Revue indépendante» del 19
maggio 1888. Con esso Dujardin salutava la nascita di un’arte nuova, che a lui pareva annunciata dalle tele appena esposte dal pittore Louis Anquetin alla mostra dei Venti a Bruxelles. Delusi dal neoimpressionismo, che per breve tempo li
aveva tentati, Anquetin ed Emile Bernard si erano allontanati dalle ricerche divisioniste, semplificando e ricomponendo l’immagine percepita in forme elementari di colore
piatto, bordate da un contorno, «qualcosa come una pittura per compartimenti, analoga al cloisonné», ove «il disegno
afferma il colore e il colore afferma il disegno», secondo E.
Dujardin. Il procedimento era ripreso dalle stampe giapponesi, dalle vetrate, dalle xilografie popolari e medievali; piacque molto a Gauguin, che Bernard aveva ritrovato a
Pont-Aven all’inizio di agosto del 1888, e costituí una delle basi del sintetismo, elaborato dal gruppo di Pont-Aven;
Gauguin e numerosi artisti del gruppo, come Sérusier o Filigier, poi alcuni Nabis catechizzati da Sérusier, lo utilizzarono spesso. Sollecitato da influssi contraddittori, Bernard
doveva abbandonarlo a partire dal 1892. (gv).
Close, Charles
(Monroe Wash. 1940). Si è formato presso la Washington
University, l’università di Yale e l’accademia di belle arti di
Vienna. La sua prima personale ha avuto luogo nel 1967
all’Art Gallery di Amherst Mass. Reagendo all’insegnamento, molto completo, che aveva ricevuto, divenne presto
uno dei capofila della corrente realista americana, che si affermò alla fine degli anni ’60; ma prese le distanze sia dalla
Pop’Art – il suo tema favorito, il ritratto, è quanto mai lontano dalle concezioni e realizzazioni, poniamo, di un Andy
Warhol – che dall’iperrealismo (non partecipa alla mostra
Sharp Focus Realism, organizzata dalla Sidney Janis Gallery
nel 1972 a New York). I suoi ritratti, dipinti e incisioni vengono eseguiti partendo da fotografie, ma C pone l’accento
su questo spunto, senza dissimularlo nella realizzazione finale come fanno altri artisti. Nonsoltanto si tratta di «primi piani» rigorosamente inquadrati, ma il lavoro di dettaglio in un campo prospettico ristretto sembra esacerbare le
Storia dell’arte Einaudi
componenti fisiognomiche del modello e farle paradossalmente galleggiare nel vuoto (Ritratto di Keith, 1972; Leslie,
1973). Una simile poetica caratterizza bene l’ambiguità che
può aversi oggi nella rappresentazione del volto umano. (sr).
Closterman, John
(Osnabrück 1660 - Londra 1713). Dopo due anni di studi a
Parigi, ove fu allievo di François de Troy, si stabilí a Londra nel 1681 ca. lavorando con John Riley. Si recò a Madrid
nel 1698, poi a Roma nel 1699. Ritrattista della generazione di Kneller, suo capolavoro è l’Onorevole Alexander Stanhope (1698: coll. priv.), che rivela l’influsso di Velázquez. È
rappresentato a Londra (npg): la Regina Anna, Samuel Pepys,
Henry Purcell. (jns).
Clouet, François, detto Janet
(Tours 1505-10 ca. - Parigi 1572). Figlio di Jean Clouet, gli
successe come pittore del re nel 1541. Celebre sotto quattro re, fu nominato nel 1551 commissario dello Châtelet,
dopo aver ricevuto in tale data le lettere di naturalizzazione. Fece carriera di ritrattista, ma svolse anche compiti di
pittore di corte; nel 1547 e nel 1559, in occasione di esequie
reali, eseguí le maschere mortuarie di Francesco I, del Delfino e di Enrico II. Si associò con Marc Béchot, scultore, e
cinque altri pittori per i funerali, occasioni sacre, incoronazioni, con «mascherate, pompe, tornei ed altre cose che a
ciò servono». La sua attività è scandita da rare notizie: nel
1552 decorò con «lacci cifre e falci di luna» un cofanetto
eseguito da Scibec di Carpi; nel 1568 era al servizio di Claude Gouffier e di sua moglie Claude de Beaune. Al 1570-72
risalgono pagamenti per due stendardi di trombettieri del re
e un’armatura. Nel 1572 eseguí per la regina di Spagna una
miniatura della regina (senza dubbio Elisabetta d’Austria).
L’ultima menzione dimostra che veniva consultato a proposito delle monete. Fu assai apprezzato dalla regina Caterina
de’ Medici, che ne collezionò con predilezione i disegni e ne
donò 551 alla nipotina Chrétienne de Lorraine (oggi in parte a Chantilly, Museo Condé). Venne lodato dai poeti, in
particolare da Ronsard, che descrive un’opera perduta rappresentante l’amante nuda del pittore; tale preziosa notizia
consente di sostenere l’attribuzione di dipinti di genere sul
tipo di quello di Washington (la Dama al bagno). C è stato
Storia dell’arte Einaudi
per lungo tempo confuso col padre; all’errore ha certo contribuito il soprannome «Janet», che portavano ambedue.
Se ne conoscono due soli quadri firmati: il ritratto del farmacista Pierre Quthe, suo amico e vicino (1562: Parigi, Louvre) e la Dama al bagno (Washington, ng). Un disegno di Carlo IX che reca la data del 1566 (Leningrado, Ermitage) è servito di base per attribuirgli il ritratto dipinto di Carlo IX a
Vienna (km) e una serie di disegni (per la maggior parte a
Chantilly Museo Condé, e a Parigi, bn). Pochi quadri possono essere accostati a queste opere certe, come Enrico II in
piedi (Firenze, Uffizi; ed eccellenti repliche di bottega). Secondo gli autori antichi, fu pure notevole miniaturista: gli si
è attribuito il Francesco I a cavallo (Parigi, Louvre) e l’Enrico II a cavallo (Firenze, Uffizi); ma tali ritratti equestri sono pure stati assegnati talvolta a Jean Clouet.
Come dimostrano numerose citazioni e la Dama al bagno di
Washington, C, a differenza dal padre, non fu soltanto ritrattista; suo è probabilmente il Bagno di Diana (Rouen,
mba), la cui importanza e il cui successo sono attestati da
numerose repliche. Fu forse inventore di talune scene di genere, come la Scena di commedia (detta Il malato immaginario) o i Bambini che si lamentano di Amore, incise col suo nome Ganet o Genet) ed edite da Le Blon. A tale gruppo di
opere a soggetto profano si ricollegano pure composizioni
come La Bella e il biglietto, nota in numerosi esemplari (Francia, coll. priv.; Lugano, coll. Thyssen). Il suo influsso è visibile su un certo numero di opere rimaste anonime, di cui
le piú celebri sono la Sabina Poppea (Ginevra, Museo Rath)
e le Donne al bagno del Louvre.
Formato dal padre, C collaborò senza dubbio con lui all’inizio: Ch. Sterling ha creduto di scoprirne traccia nel Francesco I del Louvre, tradizionalmente attribuito a Jean, le cui
mani sarebbero invece state dipinte da François. Quest’ultimo evolvette poi rapidamente verso un’arte piú sapiente e
complessa di quella del padre, dimostrando influssi diversi,
italiani, olandesi e tedeschi. I suoi ritratti dipinti, di estrema finezza e grande distinzione, non privi di freddezza, sono esempi mirabili dell’arte di corte in Francia nel xvi sec.
e della sua raffinata società (Elisabetta d’Austria: Parigi, Louvre). I suoi disegni non presentano piú la semplicità di quelli del padre, né la stessa economia di mezzi: egli si serve d’un
mestiere piú ricco, di una tecnica piú complessa per la de-
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scrizione minuziosa dei modelli, senza mai peraltro distrarre l’attenzione dal carattere delle fisionomie (Margherita di
Francia bambina: Chantilly, Museo Condé). Il suo influsso
fu enorme in Francia e persino all’estero, nel campo del ritratto e in quello della scena di genere. Diresse una bottega
ove operarono artisti oggi assai poco noti (Jacques Patin, figlio di Jean, che fu collaboratore di Jean Clouet, e Simon Le
Roy). (sb).
Clouet, Jean (Janet, Jamet, Jeannet, Jehannet, Jehamet)
(1485-90 ca., probabilmente 1541). Pittore di origine verosimilmente fiamminga, comunque proveniente senza dubbio – come il fratello Pollet, pittore alla corte di Navarra –
dai Paesi Bassi. Fu probabilmente al servizio di Luigi XII;
è citato per la prima volta nel 1516 come pittore di Francesco I (con un compenso annuo di 180 livres, pari a quello di
Perréal, Bourdichon, Nicolas Belin e Barthélemy Guéty).
Stabilitosi in un primo tempo, tra il 1521 e il 1525, a Tours,
dove sposò la figlia di un orafo, il 10 maggio 1522 s’impegnò, su richiesta dello zio della moglie, a dipingere un San
Girolamo per la chiesa di Saint-Pierre-du-Boile a Tours. Nel
1523 consegnò il bozzetto dei Quattro evangelisti d’oro a un
ricamatore di Parigi, dove si stabilí verosimilmente nel
1525-27 ca. Nel 1529 successe a Bourdichon divenendo pari di Perréal. Nel 1533 è pittore e valletto di camera del re:
i conti lo menzionano più volte (nel 1529, nel 1537); secondo un documento del novembre 1541, a questa data è già
morto. Fu ricco e celebre: nel 1539 Clément Marot lo proclama pari a Michelangelo. Nella sua bottega operarono in
particolare Petit-Jean Champion (che ne fu l’aiuto dal 1525
e divenne valletto di guardaroba del re) e il figlio François,
probabilmente, all’inizio, suo collaboratore.
Non si conosce di lui alcuna opera firmata: si ammette che
un certo numero di disegni a matite colorate (ca. 130, principalmente nel Museo Condé di Chantilly), rappresentanti
personaggi di corte tra il 1536 e il 1540 (data del periodo
documentato della sua carriera), possano essergli attribuiti
e siano preparazioni per quadri. Tra essi figura un disegno
a matita rappresentante Guillaume Budé (e questo attesta
che C ne fece il ritratto nel 1536 ca.); corrisponde al pannello oggi al Metropolitan Museum di New York: cosí risulta fondata per analogia l’attribuzione a C di tutto un grup-
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po di disegni di Chantilly e di rari dipinti. L. Dimier ne ammette sei: il Delfino Francesco (Anversa), Carlotta di Francia
(Chicago, coll. Epstein); Francesco I (Parigi, Louvre), Claudio di Lorena, duca di Guisa (Firenze, Pitti), Louis de Cléves,
conte di Nevers (Bergamo, Carrara), l’Uomo con Petrarca
(Hampton Court). Questa breve lista è accettata da Ch. Sterling, che, come A. Blunt, critica peraltro l’attribuzione del
Francesco I del Louvre (nel quale individua la partecipazione di François Clouet), e aggiunge alla lista due dipinti: Maria d’Assigny e Mme de Canaples (Edimburgo, ng), e l’Uomo
dalle monete d’oro (Saint Louis Mo, am). Vi si aggiungono
il ritratto (perduto) di Maddalena di Francia (già coll. E. de
Rothschild, Parigi) e un altro ritratto di Carlotta di Francia
(Minneapolis, Inst. of Arts). Un’incisione di Thévet (Uomini illustri) ci serba il ritratto perduto di Oronce Finé. Va
pure citata l’attribuzione al pittore di miniature, di cui sono preparazioni alcuni disegni di Chantilly (Charles de Cossé, conte di Brissac: New York, mma), ritratti, entro medaglioni circolari, dei Prodi, eroi della battaglia di Marignan
(Commentaires de la guerre gallique: Parigi, bn), che sono stati pur attribuiti a Perréal. Si è discusso se il ritratto equestre
di Francesco I (Parigi, Louvre) sia di Jean o di François
Clouet. L’opera dipinta di C, oggi tanto ridotta, dovette un
tempo essere molto piú cospicua. Consiste esclusivamente
di ritratti, genere nel quale l’artista sembra si specializzasse
sin dal suo arrivo a Parigi, e che ne assicurò il successo. Generalmente dipinti su pannelli di piccolo formato, i suoi modelli sono presentati a mezza figura, secondo una formula
tuttora arcaica, con i volti illuminati da una luce uguale, le
mani posate, in modo alquanto goffo, in primo piano. Senza mai rinunciare alla sua formazione fiamminga, che si avverte soprattutto agl’inizi, l’arte di C, per influsso dei contatti francesi (Fouquet, il Maestro di Moulins, Perréal) e italiani (Solario, Leonardo), si evolve verso una maggiore ampiezza, solidità, verità e semplicità. I disegni a sanguigna e
a pietra nera, di estrema sobrietà di mezzi, trascurano ogni
elemento accessorio per concentrarsi sullo studio delle fisionomie, e sono strettamente legati ai dipinti. Si tratta spesso di studi per i ritratti; ma vennero presto apprezzati di per
se stessi. C contribuí a creare il gusto per il genere delle «matite», il cui successo perdurava in Francia nella prima metà
del xvii sec. (sb).
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Clovio, Giulio
(Gra∆ne (Croazia) 1498 - Roma 1578). Giunse a Roma a diciott’anni per studiarvi la pittura e il disegno, cominciò a copiare le opere dei maestri, e fu da allora sotto la protezione
dei Grimani. Soggiornò in Ungheria; nel 1526 tornò a Roma, che di nuovo lasciò all’epoca del Sacco rifugiandosi a
Mantova con Giulio Romano; soggiornò a Venezia, ove continuò a svolgere la sua attività di miniatore. Nel 1531 o 1532
venne chiamato presso il cardinal Marino Grimani, legato
pontificio in Umbria, e soggiornò a Perugia dove eseguì alcune delle sue opere piú famose. L’inventario delle sue proprietà elenca i disegni che egli eseguí da opere di Bellini, Michelangelo, Parmigianino, Tiziano. Illustrò con miniature il
Commentario all’Epistola ai Romani redatto dal cardinale
(Londra, Soane Museum). Entrò poi al servizio del cardinal
Alessandro Farnese a Roma, in palazzo Riario, ove incontrò
Vasari; e allora (1545-54) eseguí le ventisei miniature del Libro d’Ore di Notre-Dame, a lungo descritte da Vasari (New
York, pml). All’avvento di Giulio III si recò a Firenze, dove fu per breve tempo attirato da Cosimo I de’ Medici; raggiunse poi il cardinal Farnese a Roma, dove incontrò Pieter
Bruegel (1553), di cui divenne amico e col quale, come talvolta si suppone, avrebbe collaborato. Nel 1556 troviamo C
a Parma, sempre al seguito del cardinal Grimani. Nel 1560
era a Roma, ove restò fino alla morte, svolgendo talvolta il
ruolo di consigliere nella formazione delle collezioni del cardinale: nel 1570 gli raccomandò El Greco, di passaggio a Roma, che in quell’occasione eseguí il suo ritratto (Napoli, Capodimonte). Nel 1577 redasse un inventario dei propri beni, destinati in gran parte al suo protettore. La sua opera di
miniatore è dispersa in numerosi musei (Parigi, Louvre;
Vienna, Albertina). Un dipinto si trova a Torino (il Santo
Sudario); quattro disegni sono conservati nel castello di
Windsor. All’alta considerazione in cui fu tenuto dal suo
contemporaneo Vasari, che giudicò le miniature di C alla pari con la pittura «grande», non è corrisposta nei secoli successivi una valutazione adeguata. Ne furono invece perfettamente consapevoli gli artisti, da El Greco che gli dedicò
uno dei suoi piú intensi ritratti a Spranger che C introdusse presso i Farnese e, più in generale, ai pittori e ai numatori, sia italiani sia nordici, dello scorcio del secolo e della
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prima metà del Seicento, che videro in C il Penetrante rievocatore delle grandi fonti dell’arte del Cinquecento di Italia centrale e settentrionale, ma anche dei piú alti modelli
del Nord. (fv+sr).
Cnosso
Posta sulla costa settentrionale di Creta, cinque chilometri
a est di Herakleion, C è la piú celebre delle città cretesi durante l’Età del bronzo. Qui si sono trovati i resti piú numerosi e vari della pittura egea. Infatti gli scavi di Evans e dei
suoi successori hanno tratto in luce dal 1900 il palazzo dei
principi che, a partire piú o meno dal xviii sec. a. C., ebbero per lungo tempo il predominio nell’isola e annodarono
rapporti con l’Asia Minore, l’Egitto, la Grecia e le Cicladi.
Questo palazzo, il piú bell’esempio di residenza reale cretese, venne costruito nel 2000 ca., all’inizio del Minoico medio, piú volte rimaneggiato in conseguenza, sembra, di terremoti, e distrutto unitamente alla città attorno al 1400 a.
C. (Minoico recente). Si può seguirvi una certa evoluzione
dell’arte pittorica minoica, poiché il vasto edificio, accuratamente realizzato, composto di un complesso di numerosissimi ambienti disposti attorno a un cortile centrale e provvisto di parecchi piani, era ampiamente decorato con pitture, molti frammenti delle quali sono stati ritrovati (citiamo,
a titolo di esempio, la Parigina, l’Uccello azzurro). Alcune dimore patrizie scoperte presso il palazzo erano anch’esse decorate con affreschi (il Piccolo palazzo, il Caravanserraglio, la
Casa degli affreschi). I piú antichi fra questi dipinti datano al
Minoico medio III (xviii sec. a. C.); i piú recenti al Minoico recente II (Affresco dei grifoni nella sala del trono). Lo stato frammentario in cui ci sono pervenuti impedisce di giudicare se i pittori di C abbiano lavorato in altre regioni
dell’isola. (mfb).
cobalto
Metallo bianco vicino al ferro e al nickel; designa in generale il colore blu. Dal c si traggono i seguenti pigmenti: blu
di c (alluminio e c), assai solido alla luce e resistente agli alcali e agli acidi; blu ceruleo (stannato di c); violetto, rosso,
giallo (o aurocolina), verde e turchese di c. Numerosi sali di
c sono impiegati come essiccanti per le pitture. (mtb).
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Cobo y Guzmán, José
(Jaén (Andalusia) 1666 - Cordova 1746). Fu a Jaén allievo
di Sebastián Martinez, poi si stabilí a Cordova, dove visse
fino alla morte. Stimato dai contemporanei, lodato da Ceán
Bermúdez, ma negletto dagli storici moderni, fu artista provinciale che un solo complesso importante consente di valutare: la Vita di san Pietro Nolasco, suddivisa tra l’ospedale
de la Merced di Cordova e il museo della città. Per la semplice solidità della composizione, la gradevolezza del colore
e il senso narrativo, il pittore continua la migliore tradizione del xvii sec. (come nello stesso periodo faceva Viladomat
in Catalogna) di fronte al rococò «ufficiale» importato dai
pittori dei Borboni. (pg).
Cobra
Nome di un movimento artistico internazionale che si manifestò tra il novembre 1948 e il novembre 1951; è costituito dalle prime lettere di Copenhagen, Bruxelles e Amsterdam, capitali dei paesi donde provenivano gli artisti principali. C venne fondato a Parigi, l’8 novembre 1948, «nel
caffè sul retro dell’Hôtel Notre-Dame», dagli scrittori belgi Christian Dotremont (inventore del nome) e Joseph Noiret dal danese Asger Jorn, dagli olandesi Karel Appel, Constant e Corneille, cui si uní nel marzo 1949 il belga Pierre
Alechinsky. Nella sua triplice origine, C si caratterizza per
una volontà deliberatamente anticonformista: Dotremont e
Noiret rappresentavano nel Belgio il Centro surrealista rivoluzionario, Jorn il Gruppo sperimentale danese, Constant,
Appel e Corneille il Gruppo sperimentale olandese fondato
all’inizio del 1948, di cui era portavoce la rivista «Reflex».
Un certo spirito surrealista quanto mai vivo (gusto dell’elaborazione collettiva e della spontaneità) corrispondeva all’atteggiamento sperimentale che, subito dopo la guerra, artisti
giovani sentivano la necessità di adottare contro i dogmatismi dell’astrattismo geometrico e del realismo socialista.
C’erano stati precedenti contatti: a Parigi, nel 1946, Constant incontrava Jorn, che garantiva il legame tra Amsterdam e Copenhagen. I tre olandesi vi esposero insieme ai danesi, notevolmente piú anziani dei loro compagni. Jorn, Carl
Henning Pedersen, Else Alfelt, Ejler Bille, Erik Ortvad, gli
scultori Henry Heerup ed Erik Thommesen, cui si aggiun-
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sero, in occasione di manifestazioni di C, Egill Jacobsen,
Mogens Balle, Svavar Gudnason. Jorn, Jacobsen e soprattutto Pedersen (Uccello giallo, 1946: conservato a Aalborg)
apportarono a C gran parte della sua tematica e della sua libertà d’interpretazione poetica, nella quale gli esempi di
Kandinsky, Klee, Miró contano certo molto, ma risultano
raddolciti e assimilati dalla tradizione vivace dell’arte popolare scandinava, il cui senso del meraviglioso non è senza
affinità col surrealismo di Miró: il sole, la luna, la donna e
l’uccello, e piú in generale un bestiario semifantastico, sono
i motivi privilegiati di C.
L’esperienza surrealista di Dotremont e di Noiret giustifica
d’altro canto la fusione tra l’espressione letteraria e l’espressione artistica in Jorn, Corneille, Constant, Alechinsky e Pedersen (il quale aveva pubblicato nel 1945 le sue Droemmedigte (poesie-sogni), accompagnate da litografie, nonché la
creazione di opere a partecipazione collettiva: la Capigliatura delle cose (1948-53), «quadro-parole» di Jorn e Dotremont; Cobra modification (1949: coll. priv.), quadro cui
hanno posto mano Jorn, Constant, Appel, Corneille. C pubblicò una rivista (dieci numeri), opuscoli (Le Petit Cobra),
volantini (Le Tout Petit Cobra), rivendicando all’atto del dipingere la sua autenticità (Soggetto pittoresco o soggetto pittorico?, per Signac), e quindici piccole monografie in danese e in francese (Copenhagen 1950). I promotori di C desideravano che esso restasse aperto ai tentativi che presentassero qualche analogia con il loro sforzo, rispettando cosí
il doppio carattere internazionale e sperimentale che aveva
presieduto alla fondazione del movimento: gli olandesi del
gruppo Reflex (Rooskens, Brands, Wolvecamp), seguiti da
Lucebert, ne vennero a ingrossare le fila, e cosí pure l’islandese Gudnason, l’inglese Stephen Gilbert, il tedesco Karl
Otto Götz, lo scultore americano Tajiri, lo svedese Österlin, i francesi Doucet e Atlan, i belgi Jan Cox, Ubac, Pol
Bury, Hugo Claus. Sin dal mese di marzo del 1949 ebbe luogo una prima mostra presso il seminario di belle arti di
Bruxelles (Il fine e i mezzi), seguita nel novembre dello stesso anno da quella dello Stedelijk Museum di Amsterdam e
nell’ottobre-novembre 1951 da quella del Palazzo delle belle arti di Liegi, col concorso di Miró, Bazaine, Lam, e degli
scultori Giacometti e Lardera. In occasione della mostra si
tenne un piccolo Festival del film sperimentale ed astratto:
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questa fu l’ultima manifestazione del gruppo, dopo la quale
C si dissolse. Malgrado il numero degli espositori e la varietà
delle tendenze (presenti tutte le sfumature, dall’astrattismo
lirico alla figurazione poetica, tinta di surrealismo nella tradizione di Klee e di Miró), i partecipanti furono, essenzialmente, gli artisti di C. Ma per i danesi (in particolare jacobsen e Pedersen) C fu soltanto una fase di un’evoluzione
iniziata parecchi anni prima, e che confermava la maturità
della loro arte. Jorn, di sensibilità piú mobile ed inquieta,
attraversò molte fasi: il disegno serrato delle composizioni
del 1947 e del 1948, nel cui cromatismo predominano gli azzurri e i verdi (i Malcontenti, 1948: coll. priv.), cede il passo verso il 1950 a una fattura piú ampia, mentre la tavolozza s’incupisce (La luna e gli animali, 1950: Parigi, coll. priv.).
Per gli olandesi e Alechinsky, C era un punto di partenza;
benché le loro realizzazioni siano spesso assai vicine le une
alle altre, alcune presentano un diverso orientamento e mostrano itinerari personali. Corneille e Constant dànno prova di felicissima inventività. Il primo, molto attratto dalla
poesia surrealista e lettore di Bachelard, orna le sue pitture,
guazzi, acquerelli e incisioni con prose leggere (Vele dappertutto, occhi d’oro, 1949: coll. priv.); benché come i suoi amici tragga ispirazione dalla natura, lo affascinano però la città
e i suoi volti, quelli dell’Amsterdam del tempo (la Città-souvenir di Amsterdam, 1950: Haarlem, Museo Frans Hals). Nel
1950 e nel 1951 i disegni dell’Imagination effrayante e alcuni guazzi mostrano l’essere umano in preda ai suoi mostri,
o perseguitato dalla malignità del destino d’Incendio, 1950:
coll. priv.). Dotato di robusto talento, Appel è il meno influenzato dalla letteratura; scultore e pittore, fa risaltare mediante tinte pure i suoi rilievi di legno sommariamente intagliati, presentando nei quadri una figuratività veemente,
al tempo stesso espressiva e semplificatrice nel disegno e nel
colore (Grido di libertà, 1948: coll. priv.). Nel corso dell’evoluzione di C la sua tavolozza rimane altrettanto vivace, ma
la sua composizione si fa piú elegante, nell’equilibrio delle
linee e delle superfici (Madre, bambino e grande uccello, 1951,
guazzo: Haarlem, Museo Frans Hals). Alechinsky, beniamino del gruppo, è interessato soprattutto dalle ricerche grafiche, interesse poi confermato dall’evoluzione della sua carriera. Accanto ad acqueforti il cui insolito umorismo ricorda Klee (i Mestieri, 1948), una litografia come Bianco calce
Storia dell’arte Einaudi
(1950) si accosta alla scrittura spontanea dell’Estremo
Oriente. C fu il piú importante movimento europeo del dopoguerra, nel quale si fusero tutte le tendenze moderne
(astrattismo, surrealismo, espressionismo), in quanto ciascuna di esse conteneva di essenzialmente dinamico; spesso
seguendo un espressionismo la cui poetica virulenta, ma anche sognante, si distingue da tutto ciò che l’aveva preceduto. D’altra parte C, associazione di artisti e poeti dell’Europa del Nord che si contrappone all’estetica in auge a Parigi, sceglie tuttavia questa capitale come uno dei suoi luoghi fondamentali e il francese come sua lingua elettiva, e fornisce cosí l’esempio di una simbiosi culturale senza equivalenti nel xx sec. Gli artisti di C sono ben rappresentati a Aalborg, Haarlem (Museo Frans Hals), Amsterdam (sm) e
Schiedam. (mas).
Coccapani, Sigismondo
(Firenze 1583-1643). Allievo del Cigoli, di cui fu il principale aiuto a Roma negli affreschi della Cappella Paolina in
Santa Maria Maggiore (1610-12), nel 1613 eseguiva a Firenze una lunetta a fresco nel chiostro di san Marco e poco
dopo una tela (Michelangelo coronato dalle Arti, 1615-17) nel
ciclo dedicato a Michelangelo in casa Buonarroti. In questa
fase il C segue il gusto fiorito delle ultime opere del suo maestro, in parallelo con i giovani Bilivert e Fetti, altri allievi
del Cigoli. Ma le sue doti migliori, di florido e vivace colorista, emersero in dipinti di destinazione privata, come il
Concerto zingaresco della Galleria Corsini a Firenze, in cui
l’artista raggiunge risultati non dissimili da quelli di un Fetti, con il quale è stato talora confuso. Dal terzo decennio del
secolo si avvertono nell’opera del C suggestioni dal Vouet e
dal Lanfranco. La sua ultima impresa nota (1642) è la decorazione – tele e affreschi – della Cappella Martelli nella chiesa dei Santi Michele e Gaetano a Firenze. (eb+sr).
Coccetti, Liborio
(Foligno 1739 - Roma 1816). Trascorse la prima parte della
sua vita in Umbria dove dipinse opere sia a carattere religioso che profano a Giano nell’Umbria (Storie di san Felice:
abbazia di San Felice, affreschi del chiostro), a Terni (decorazione di palazzo Gazzoli e di palazzo Fabrizi), a Spoleto (palazzo Benedetti di Montevecchio: Cappella del Sacro
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Chiodo in San Domenico; palazzo Leti), a Foligno (affreschi
nella chiesa di Sant’Agostino, databili anteriormente al
1775; palazzo Marchetti). In questa fase manifesta modi decorativi rococò di straordinaria finezza legati a Sebastiano
Conca e ai Nasini, nonché ad echi della decorazione alla
Watteau. Trasferitosi a Roma, divenne il decoratore preferito di papa Pio VI Braschi (Subiaco, Rocca abbaziale, appartamento papale; Palazzo della missione (1777-81); Roma, palazzo Braschi; sagrestia della basilica di San Pietro
(1784); decorazione della volta della chiesa di Santa Maria
della Concezione) non tralasciando altre committenze (Roma, appartamentino in palazzo Barberini; Ariccia, palazzo
Chigi; Roma, palazzo Chigi; Roma, palazzo della Consulta,
1789) spesso in collaborazione con Felice Giani, rivelando
l’evoluzione del suo stile verso un neoclassicismo piú evidente e maturo, anche nei temi, che manifesta la perfetta assimilazione delle nuove tendenze nella decorazione d’interni derivate dalla conoscenza delle grottesche romane venute alla luce proprio in quegli anni. (fir).
Coccorante, Leonardo
(Napoli 1680-1750). Tradizionalmente considerato uno dei
piú geniali autori di «capricci», rovine archeologiche sullo
sfondo di romantici paesaggi in cui spesso è protagonista il
mare, memori delle lezioni di S. Rosa. Di recente la critica
ha meglio definito la sua opera come momento intermedio
tra la «veduta ideata» seicentesca, e quella puntuale e documentaria del primo Settecento. La sua specializzazione nel
genere della veduta risale secondo le fonti al suo alunnato
presso il siciliano Angelo Maria Costa specialista di rovine
e poi presso Nicola Casissa, pittore di fiori. Una possibile
cronologia delle opere del pittore è affidata ai dati stilistici,
in quanto rarissimi sono i dipinti databili (1737: Ritrovamento della tomba di Astianatte e Achille da parte di Alessandro Magno; 1739: Palazzo dei Regi studi e Veduta del golfo di
Napoli dal Calascione); risultano inoltre disperse le sue composizioni per alcuni ambienti del Palazzo reale di Napoli documentate nel 1741 che il C aveva eseguito in occasione delle nozze di Carlo di Borbone e Maria Amalia. I suoi loggiati di fantasia e le sue vedute di città sono spesso popolate di
figurine dovute, secondo la testimonianza del biografo De
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Dominici, alla mano di Giacomo del Po, Giuseppe Tornaioli,
Giuseppe Marziale. (anc).
Cochercau, Léon-Mathieu
(Montigny-le-Gannelon (Eure-et-Loir) 1793 - mare Ionio
1817). Si fece notare al salon del 1814 con una veduta dello Studio di David (suo maestro) comperata da Luigi XVIII
(Parigi, Louvre). Abile nel trattamento della prospettiva e
della luce, persistette nella pittura di genere col Boulevard
des Capucines (1814: conservato a Chartres) e il Pittore Prévost mentre spiega il principio del panorama (1816: ivi). Durante un viaggio, nel corso del quale avrebbe dovuto aiutare lo zio Pierre Prévost, pittore di paesaggi, a rilevare panorami, morí, probabilmente nel mare Ionio, e non al largo
di Biserta, come sostenuto. (fm).
Cochin
Alcuni pittori d’interesse locale rispondevano già a tale nome a Troyes durante il xvi sec. All’inizio del xvii sec. compare Noël (?), discendente probabile dei precedenti, maestro pittore nella stessa città verso il 1606. Dal suo primo
matrimonio nacque Nicolas e dal secondo Noël, ambedue
incisori ad acquaforte; ma l’identità delle iniziali ha determinato spesso la confusione tra le rispettive opere. Queste
costituiscono un complesso piuttosto notevole, composto di
soggetti religiosi, copie e contraffazioni da Callot, paesaggi,
scene di caccia, vignette e tavole di storia.
Nicolas (Troyes 1610 - Parigi 1686?) è segnalato a Parigi nel
1644 come pittore-incisore. Vi si trova ancora nel 1649, ma
di lui si ignora in seguito la carriera, e anche la data della
morte. Gli si attribuiscono con certezza riproduzioni di temi religiosi e l’incisione delle lastre della Raccolta di vari ritratti delle principali dame della porta del Gran Turco (Parigi,
1648), nonché mutazioni di Jacques Callot (Predicazione di
san Giovanni Battista: Parigi, bn).
Noël (Troyes 1622 - ?) lavorò anch’egli a Parigi, ma nulla si
conosce con certezza sull’evoluzione della sua carriera e sulla fine della sua vita. Ha firmato col suo nome di battesimo
la partecipazione alla raccolta di S. von Pufendorf, Storia del
regno di Carlo Gustavo di Svezia (Norimberga 1697), e alcune lastre delle Gloriose conquiste di Luigi il Grande del cavalier de Beaulieu. Il complesso del volume, che narra le cam-
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pagne di Luigi XIV dal 1630 al 1676, e che viene anche chiamato Grand Beaulieu, è stato realizzato dai Cochin e dai Pérelle. Contiene numerose stampe firmate solo con una N.
che precede il cognome Cochin e che, di conseguenza, vengono attribuite ai due fratelli, ma che si ritiene siano di mano di Noël. Questi non va confuso col pittore paesaggista
Noël-Robert (?), che viveva a Venezia verso la metà del xvii
sec., e il cui figlio e omonimo Noël-Robert (?), incisore, collaborò alla raccolta Tabellae selectae ac explicatae di Caroline-Catherine Patin, pubblicata a Padova nel 1691.
S’ignora tutto del pittore Charles (?), i cui generi Nicolas
Tardieu e A.-S. Belle, nonché il figlio Charles-Nicolas, svolsero un ruolo importante nell’ambiente artistico parigino
della prima metà del xviii sec.
Charles-Nicolas, detto il Padre (Parigi 1688-1754) cominciò
ad incidere verso i ventidue anni, dopo una formazione di
pittore nella bottega di famiglia. Venne accolto nell’accademia nel 1731, su presentazione dei ritratti di Eustache Le
Sueur e di Charles Sarrasin. Considerato uno dei migliori e
piú completi incisori di riproduzione dei suoi tempi, ha lasciato un’opera considerevole sia per numero (oltre trecento pezzi) sia per qualità. Le sue stampe ad acquaforte ripresa a bulino sono modelli di incisione libera che attestano inoltre un raro impegno nell’adattarsi ai pittori interpretati, tra
cui figurano principalmente Lajoue, Lancret, de Troy (il Gioco della zampa di bue, 1735), Watteau (la Sposa paesana,
1729; l’Amore al teatro italiano, 1734) e soprattutto Chardin (la Lavandaia, 1739; il Ragazzo di bottega, 1740). Collaboratore del figlio, Charles-Nicolas riprodusse le feste di corte: la Festa da ballo (1746); il Ballo in maschera (id.); il Gioco del re (1747). Partecipò pure alla realizzazione di grandi
imprese d’incisione: la serie di Don Chisciotte da Ch.-A. Coypel (1724), il Gabinetto Crozat (1729), la Storia del palazzo
reale degli Invalides (1736).
Il figlio e allievo Charles-Nicolas, detto il Giovane (Parigi
1715-90), frequentò le botteghe di Restout e di Le Bas, che
gli insegnò la tecnica dell’acquaforte. Esordí brillantemente come disegnatore e incisore dei Menus-Plaisirs nel 1739:
esattezza, gentilezza, levità e un’immaginazione piú vivace
di quella del padre gli consentirono qui di far rivivere le cerimonie di corte, ove trionfano le scenografie dei fratelli
Slodtz. Disegnò ed incise lui stesso la Pompa funebre della
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regina di Sardegna (1743), la Cerimonia delle nozze di Luigi
Delfino di Francia con Maria Teresa Infanta di Spagna (1746).
La festa da ballo nella piccola scuderia, il Ballo in maschera
nella galleria degli specchi, la Decorazione della sala di spettacolo, realizzati in occasione delle medesime nozze e di cui il
Louvre di Parigi conserva i disegni, vennero incisi dal padre
(1746). Tale serie, la piú brillante dell’opera di Cochin il
Giovane, si conclude con la Pompa funebre della Delfina in
Notre-Dame e con la sua Sepoltura in Saint-Denis (1748). Un
viaggio in Italia (1749-51) in compagnia del marchese di
Vandières, di Soufflot e dell’abate Leblanc conclude questo
periodo: al suo ritorno Cochin viene accolto nell’accademia
(Licurgo ferito, 1751: Parigi, Louvre, Gabinetto dei disegni)
e, protetto da Mme de Pompadour, di cui è maestro di disegno, diviene custode dei disegni del re (1752). Realizza allora illustrazioni meno spontanee, dirige alcuni grandi lavori d’incisione (le Conquiste dell’imperatore della Cina dai disegni di Attiret, 1767-73), ma praticamente non incide piú,
tranne, in collaborazione con Le Bas, la serie dei Porti di
Francia dagli originali di J. Vernet (Parigi, Louvre), commissionatagli dal marchese di Marigny, la cui pubblicazione
va dal 1761 al 1778.
Ormai il suo ruolo è tutt’altro: nel 1755 viene nominato segretario dell’accademia e inizia una carriera di teorico e critico d’arte. Il cronista delle feste, il disegnatore di tanti dettagli graziosi si trasforma in censore della Rocaille in molti
opuscoli, che verranno raccolti nelle Œuvres diverses (3 voll.,
1771). Fautore moderato del ritorno all’antico (Observations
sur les fouilles d’Herculanum, 1754), sfrutta in pieno la lezione del suo viaggio in Italia nel Recueil de notes sur les ouvrages de peinture et de sculpture qu’on voit dans les principales villes italiennes (3 voll., 1758). Le sue opinioni sulla pittura – essenzialmente una difesa della «grande arte» – verranno ulteriormente sviluppate nelle Lettres à un jeune artiste peintre (1774 ca.). All’influsso del critico si aggiunse quello del consigliere artistico, cui il marchese di Marigny, divenutogli amico, affida i minuti dettagli dell’amministrazione dell’Ecole des beaux-arts: in tale campo la sua influenza fu notevole. Egli usò volentieri il suo credito per far
valere le proprie idee e i propri gusti (Diderot lo consultava
prima di redigere i suoi Salons). In margine alle sue attività,
non cessò, per tutta la carriera, di operare per l’illustrazio-
Storia dell’arte Einaudi
ne di libri. Il suo nome stesso era divenuto sinonimo di «vignetta». Citiamo, tra gli innumeri lavori cui partecipò, le
Opere di Virgilio (1743, incise dal padre), le Favole di La Fontaine (ed. detta «di Oudry», 4 vol., 1755-59), la Storia del
regno di Luigi XV (1753-70). L’opera di disegnatore, su cui
si basa la sua fama, non deve far dimenticare la sua arte d’incisore (si conta oltre un migliaio di pezzi di sua mano). I suoi
medaglioni, ritratti disegnati dei piú celebri contemporanei,
vennero incisi da lui (il Conte de Caylus, 1750; Monsieur de
Vandières, 1752; J. Restout, 1753; il Duca de La Vallière,
1757), prima di essere riprodotti dai colleghi. Una raccolta
completa della sua opera incisa, proveniente dalla biblioteca del re e probabilmente costituita dall’artista stesso, è conservata a Parigi (bn, Gabinetto delle stampe). (cc+mtmf).
Cock, Jan Wellens de
(Leida?, 1480 ca. - Anversa 1526 ca.). Viene identificato
con Jan van Leyden, che divenne maestro della ghilda di San
Luca ad Anversa nel 1503. Accettava apprendisti nel 1506
e nel 1516; con Joos van Cleve fu decano della ghilda nel
1520. Cercando di ricostituirne l’opera, M. J. Friedländer
ha raggruppato una serie di dipinti, soprattutto notevoli paesaggi a carattere fantastico, attorno a un pannello rappresentante San Cristoforo. Quest’opera della coll. Bissing di
Monaco venne incisa nel 1550 con la didascalia «Pictum J.
Cock»; ciò costituì, per Friedländer, il punto di partenza di
un’ipotesi presto contestata. In effetti l’influsso caratteristico della scuola di Leida, manifesto in tutti questi dipinti
risalenti al 1520 ca. e attribuiti da Friedländer a Jan Wellens, sembra singolare nell’opera di un pittore che aveva lasciato la città già nel 1503. Pertanto non sorprende che l’idea
di Friedländer sia stata respinta prima da Beets, poi da Hoogewerff, i quali, peraltro a torto, hanno attribuito questa serie di dipinti ai figli di Cornelis Engebrechtsz, Lucas e Cornelis Cornelisz Kunst. Cosí, secondo Beets e Hoogewerff ,
l’opera di Jan Wellens resta tuttora ignota. Essi la credono
presente nel complesso della produzione anonima dei manieristi di Anversa, operanti nello stile di Hieronymus Bosch. Tuttavia, Friedländer non accettò mai questa puntualizzazione degli storici dell’arte olandesi. Le caratteristiche
del San Cristoforo della coll. Bissing riflettono dunque, a suo
avviso, quelle dell’opera di Jan Wellens. Quest’artista di-
Storia dell’arte Einaudi
pinge di preferenza paesaggi fantastici, ove l’uomo si inserisce entro una natura ora lussureggiante ora spoglia, ma
sempre minacciosa. In numerosi piccoli paesaggi, come quello di Loth e le sue figlie (Detroit, Inst. of Arts), egli richiama forse Patinir, benché se ne distingua per il dinamismo e
il senso del tragico. D’altro canto, l’accostamento all’opera
di Bosch diviene evidente quando egli fa comparire demoni
e mostri, concepiti con molto impegno e fantasia, allo scopo evidente di stupire e ingannare i contemporanei.
Il figlio Matthijs (Anversa 1509 ca. - 1548 ca.) era già nel
1540 maestro della ghilda di San Luca; infatti, in quell’anno, accolse come allievo Willem van Santvoort, Acquistò
grande fama come paesaggista, ed è menzionato sia da Vasari sia da Van Mander. Nulla, tuttavia, resta con certezza
della sua opera. Il fratello Hieronymus ha inciso nel 1558,
da opere sue, una serie di paesaggi a soggetto religioso. Una
Torre di Babele, in un primo tempo attribuita a lui (Vienna,
km), sembra invece piú recente. Hoogewerff, dopo aver confrontato il paesaggio dello sfondo del ritratto di Matthijs,
pubblicato dal fratello Hieronymus nella serie dei Pictorum
aliquot celebrium effigies (1572), con un disegno del Louvre,
ha cercato di definirne lo stile. In seguito gli ha attribuito il
Paesaggio con la predicazione di san Giovanni Battista (Bruxelles, mrba) e il Paesaggio col mercante e le scimmie (Dresda,
gg). Questi due dipinti, un tempo considerati opera di Herri Met de Bles, hanno carattere fantastico, ma in realtà presentano un’esecuzione piú ampia e una visione insieme piú
precisa e più naturale rispetto a quella di Bles.
Hieronymus (Anversa 1507-10 - 1570), fratello di Matthijs,
fu editore di stampe. Divenne libero maestro nel 1546, anno in cui probabilmente iniziò il suo viaggio in Italia, conclusosi nel 1548. Come incisore sembra praticasse soltanto
l’acquaforte; ma ebbe una bottega importante e assai produttiva, donde uscirono stampe sia nella tradizione fiamminga sia in quella italiana. La sua casa editrice, «In de vier
Winden» (Ai quattro venti), era universalmente nota. A causa del suo eclettismo, immenso fu l’influsso da lui esercitato alla fine del xvi sec. Incise e pubblicò una serie di rovine
romane e numerosi paesaggi a soggetto religioso, da lavori
di Matthijs. Gli si attribuiscono incisioni da H. Bosch e una
serie di paesaggi alpini da P. Bruegel il Vecchio. (wl).
Storia dell’arte Einaudi
Cock, Xavier de
(Gand 1818 - Deurle 1896). Paesaggista e pittore di animali, si formò nell’accademia di Anversa e si recò a Parigi nel
1852, ove ebbe successo e frequentò il gruppo dei pittori di
Barbizon. Il loro influsso si mescola nella sua opera a quello dei maestri del xvii sec., cui piú lo avvicinava la sua sensibilità. Sue opere figurano in musei belgi (Gand, Courtrai,
Liegi, Bruxelles, Deinze (Mucche mentre traversano la Lys)).
Il fratello César (Gand 1823-1904), allievo dell’accademia
di Gand, soggiornò piú volte in Francia, dove si legò a Corot e ai pittori di Barbizon (Diaz, Daubigny), condividendone la concezione del paesaggio ed esprimendola mediante un piú minuzioso mestiere. Si stabilí a Gand nel 1880. È
rappresentato ad Anversa (Veduta della foresta, Saint-Germain-en-Laye), Gand, Liegi (Interno del bosco). (mas).
Cocteau, Jean
(Maisons-Laffitte 1889 - Milly-la-Forêt 1963). A somiglianza di Apollinaire, di lui piú anziano, C ha sempre manifestato grandissimo interesse per la pittura del suo tempo, con
un gusto acuto e sicuro, sotto il segno della modernità. Predilesse dapprima gli artisti mondani e alcuni caricaturisti
dell’inizio del secolo (Boldini, Blanche, Seni, Cappiello) alle grazie del declinante simbolismo e agli scenografi dei primi Balletti russi. Poi, non senza ritardo, si volse ai pionieri
della scuola di Parigi, soprattutto Picasso, di cui fu instancabile sostenitore e che contribuí a spingere verso una fase
meno austera, provocando soprattutto la sua fondamentale
collaborazione al balletto Parade (1917). Negli anni ’20 il suo
collaboratore scenografico piú fedele fu Jean Hugo, seguito
nel 1930 da Christian Bérard. Agli stessi anni risale inoltre
la passione di C per i quadri di De Chirico, allora respinti
dai surrealisti, che gli ispirarono l’Essai de critique indirecte
(1928-32). Egli stesso disegnò abbondantemente, eseguendo dapprima, per influsso di Lautrec, Sem, Grosz e specialmente Jean Hugo, schizzi incisivi (in parte raccolti in Disegni, 1924). Subí in seguito gli influssi piú diversi, particolarmente di Picasso e Bérard. Dal 1950 si diede alla pittura
a olio, all’arazzo, al pastello, all’incisione, alla ceramica e
all’affresco (cappelle di Villefranche-sur-Mer e di Milly-
Storia dell’arte Einaudi
la-Forêt, comune di Mentone), perdendo in vivacità quanto acquistava in ambiziosa autorità. (sr).
Coda, Benedetto
(? - Rimini tra 1533 e 1544). Si ignora la città d’origine di
questo artista; comunque egli si firma «ariminensis» essendosi stabilito nella città adriatica. La sua pittura, diffusa nella fascia costiera della Romagna, in Marche e sporadicamente presente anche nel Ferrarese, risente in qualche modo del primo classicismo fra Bologna e Ferrara, incrociandosi qualche volta con le morfologie del Marchesi da Cotignola, come nella Madonna in trono (1513) e nello Sposalizio
della Vergine (1515) della pc di Rimini. Negli ultimi anni la
sua bottega viene gestita in collaborazione col figlio Bartolomeo. (acf).
Codazzi, Viviano
(Bergamo 1604 ca. - Roma 1670). Confuso per lungo tempo col bresciano Ottaviano Viviani, C è stato recentemente
rimesso in luce come inventore della veduta «secondo verità». E documentato a Napoli dal 1634, ma soggiornò prima probabilmente a Roma dal 1620, restandovi forse una
decina d’anni. Poterono allora influenzarlo, oltre che Agostino Tassi, Van Swanevelt, Poelenburgh e Breenbergh. Sin
dalle prime opere (la Passeggiata: Roma, palazzo Rospigliosi; Villa romana: Roma, Gall. Pallavicini), C mostra una sicura scienza prospettica e un colore vibrante. Per eseguire
le figure, assume collaboratori come Micco Spadaro e Falcone a Napoli, François Perrier e Cerquozzi a Roma, e utilizza la proiezione delle ombre per ritmare le composizioni,
rivelandosi adepto convinto del naturalismo, al punto da essere definito da R. Longhi il «piccolo Caravaggio». Dal 1634
al 1647 risiedette a Napoli; in parallelo con la sua produzione consueta (Veduta di palazzo Gravina a Napoli, coll.
priv.; Villa napoletana, 1641: conservata a Besançon), si avventura nella grande pittura murale creando le cornici architettoniche per le composizioni di pittori come Lanfranco o Stanzione, nei Santi Apostoli, in San Paolo Maggiore,
in San Martino. Tornato nel 1647 a Roma, dove restò poi
fino alla morte, collaborò di frequente soprattutto con Cerquozzi: cosí nella Rivolta di Masaniello (1648: Roma, Gall.
Spada), nelle due Architetture (Firenze, Pitti), nel Bagno (Ro-
Storia dell’arte Einaudi
ma, coll. Incisa della Rocchetta). Suo capolavoro è in questo periodo la Visita alle rovine della campagna romana (Arpino, coll. Quadrini) e anche il Porto di Civitavecchia (Roma, coll. priv.). Nel suo secolo influenzò pittori napoletani
(Ascanio Luciani, Ciccio Cicalese, Francesco Caselli) e il
francese Jacques Rousseau; ma fu soprattutto l’iniziatore
d’una corrente di vivace vedutismo impostato, anche negli
episodi di invenzione, su canoni obbiettivi e in contrapposizione alla tendenza piú «romantica» scaturita da Claude
Lorrain e poi illustrata da Joseph Vernet. (sde+sr).
Codde, Pieter Jacobsz
(Amsterdam 1599-1600 - 1678). Sarebbe stato allievo di
Hals; lavorò a Haarlem, a Leida e soprattutto ad Amsterdam, e dipinse praticamente soltanto riunioni mondane, scene d’interno e ritratti. La sua produzione nota va dal 1625
al 1646. Citiamo la Danza (1627: Parigi, Louvre), Giocatori di tric-trac (1628: L’Aja, Mauritshuis), Soldati nel corpo di
guardia (1628: Dresda, gg), il Balcone (1635: L’Aja, Mauritshuis) e infine un quadro al mba di Lilla, Contentarsi di poco, detto la Prima pipa (1635 ca.). Nel 1637 terminò la Compagnia degli archibugieri del capitano Reynier Rael, lasciata incompiuta da Hals (Amsterdam, Rijksmuseum).
Maestro di Willem Duyster, C, per la raffinatezza dello stile e l’aristocratica, se non manierata, scioltezza delle sue rappresentazioni, fu con Dirck Hals, Jan Molenaer, Jacob Duck,
Buytewech e Palamedes, uno dei «pittori di conversazioni»
piú caratteristici della corrente «monocromista» della prima metà del secolo d’oro. In lui è particolarmente notevole
l’impiego dei fondi gialli chiari e del nero satinato per gli
abiti. (jv).
codice
Il termine latino codex designava presso i Romani tavolette
in legno coperte di cera e rilegate a mo’ di libro. Per estensione esso viene applicato a un libro costituito da fogli di
pergamena. Il c ha sostituito il volumen (rotolo) a partire dal
iv sec. d. C., ma alcuni frammenti del ii sec. dimostrano che
a quella data era già conosciuto. Il formato dei manoscritti
piú antichi si approssima al quadrato, con testo scritto su
quattro colonne. Il formato rettangolare, con testo su una o
due colonne, sarà d’impiego corrente piú tardi. Le miniatu-
Storia dell’arte Einaudi
re occupano l’intera pagina, oppure sono intercalate nel testo, oppure sono collocate, a mo’ di fregio, a capo o a pie’
di pagina, oppure nei margini. (sdn).
codici precolombiani
Denominazione conferita a manoscritti pittografici eseguiti
su una carta ricavata dalla scorza interna di un fico indigeno (maguey) o su pelli di cervo o di giaguaro. Ciascun c è costituito da un lungo foglio di carta o di pergamena piegato
a fisarmonica e rilegato mediante una placchetta sottile di
legno o di pelle. Le due facce del c erano illustrate con figure, prima abbozzate a semplice contorno in nero, poi colorate. Le pagine erano talvolta divise in varie zone mediante
linee rosse o nere. I colori e le tinture, di origine vegetale,
animale o minerale (rosso scuro o chiaro, arancio, ocra, giallo, verde, blu e nero), erano applicate su fondo crema oppure ocra pallido. La maggior parte dei c si legge dall’alto in
basso e da sinistra a destra; ma altri si leggono in diagonale,
e anche in cerchio. Le varie figurazioni hanno un senso logico che si sostituisce al significato delle parole costituite
dalla nostra scrittura alfabetica: tanto che, malgrado i numerosi studi e analisi, il contenuto non è ancora del tutto
chiaro. È possibile tuttavia classificarli in funzione dei vari
temi raffigurati, pur rammentando che molti tra i tipi piú
sotto menzionati possono trovarsi riuniti in un solo e unico
c. Si parlerà cosí dei c seguenti: rituali (che trattano delle divinità indigene e descrivono le cerimonie ad esse dedicate);
calendari (che indicano la divisione del tempo e raffigurano
le divinità protettrici dei giorni); storici (che registrano eventi importanti: morte di un capo illustre, battaglia, catastrofe naturale, migrazione di una tribú); genealogici (che contengono la storia di una famiglia o del signore della città);
cronologici (analoghi ai c storici, ma piú esatti circa l’ordine, la data e la durata degli eventi); geografici (specie di rudimentali carte geografiche); topografici (che precisano la
collocazione dei templi, delle abitazioni, dei canali, con note circa le diverse regioni); fiscali (nei quali sono registrati i
tributi e le pubbliche spese). I c, piú ancora delle pitture murali, sono opera di parecchie civiltà messicane. Quelli che
descriveremo rappresentano purtroppo solo una minima parte dei c esistenti all’epoca della conquista spagnola nel xvi
sec., che comportò numerosissime distruzioni, spesso vo-
Storia dell’arte Einaudi
lontarie e sistematiche. Dopo numerose vicissitudini, i c superstiti si sono suddivisi tra vari musei e biblioteche d’Europa e d’America. Sono classificati in quattro gruppi: azteco, mizteco, Borgia e maya.
I codici aztechi Solo quattro c aztechi hanno potuto salvarsi
dalle distruzioni dell’epoca coloniale. Dal punto di vista artistico, sono inferiori ai c miztechi e del gruppo Borgia, di
cui non possiedono né la precisione di disegno né la vivacità
cromatica. Il Codex Borbonicus (Parigi, palazzo Borbone, biblioteca), portato dalla Spagna da Napoleone, è dipinto su
trentasei foglietti in fibra di maguey. Si tratta di un calendario religioso, chiamato in termini indigeni Tonalamatl o
Tonalpohualli, e comprende, secondo la tradizione azteca,
260 giorni. Era utilizzato per predire il destino delle persone in base al giorno della nascita. L’ultima parte è consacrata
alla descrizione di alcune cerimonie, tra cui l’importante festa ciclica del nuovo fuoco. Il Codex Tonalamatl de Aubin
(Parigi, bn) , dal nome del suo primo proprietario, è simile
al Codex Borbonicus. L’importanza del Registro dei tributi è,
sul piano artistico, secondaria, ma è grandissima per la conoscenza dei popoli tributari degli Aztechi. Lo stesso vale
per il c detto «Nastro delle peregrinazioni» (conservato a
Città di Messico), che rievoca le migrazioni del popolo azteco dal momento in cui abbandonò la mitica città di Aztlán
fino al suo ingresso nella Valle di Messico. Di linee agili e
salde, è il piú espressivo dei quattro manoscritti, ai quali viene talvolta aggiunto il Codice di Humboldt: questo contiene
il rendiconto dei tributi pagati agli Aztechi dal signore di
una città vassalla tlapaneca dal 1487 al 1521.
I codici miztechi Un gruppo di sette manoscritti riguarda la
civiltà mizteca. Il Codice Nuttall (Londra, bm), cosí chiamato dal nome del suo editore messicano nel 1902, è dipinto su
una striscia di pelle di cervo piegata in modo da costituire 44
pagine, decorate su ambo le facce. È tra gli esempi migliori
dell’arte e della maestria dei Miztechi. Contiene la narrazione delle imprese del re di Teozacualco; ogni scena manifesta
grande vivacità di movimento e apprezzabile ricchezza cromatica. Il Codex Vindobonensis (Vienna, bn) è anch’esso dipinto su pelle di cervo, e anch’esso presenta grande vivacità
cromatica e notevole finezza di disegno. Il Codex Colombinus (conservato a Città di Messico) e il Manoscritto dei cacicchi (Vienna, Museo di storia naturale) costituirebbero le due
Storia dell’arte Einaudi
parti di un’opera unica, smembrata per motivi sconosciuti.
L’interpretazione è difficile: alcuni pensano si tratti di un calendario mitologico e astrologico; altri vi scorgono narrazioni storiche. Come che sia, il loro valore artistico è inferiore
a quello dei c prima citati. Il Codex Boldeanus e il Codex Seldeanus (Oxford, Bibl. dell’università) sono il primo monotono e confuso, l’altro libero e animato, nella descrizione
dell’origine e del valore di una dinastia mizteca.
I codici del gruppo Borgia Tre manoscritti costituiscono un
complesso di grande unità stilistica. Taluni li ricollegano alla civiltà mizteca, altri li attribuiscono agli abitanti della città
di Cholula. Il Codex Borgia (Roma, bv), dipinto su una striscia di pelle di cervo costituita da 14 pezzi piegati in 39 pagine, è un calendario astronomico e divinatorio, ed è considerato uno degli esempi piú belli della pittura precolombiana. Le figure si distinguono per finezza di esecuzione e bellezza di effetti cromatici. Il Codex Vaticanus B (ivi) è un calendario divinatorio e mitologico cui si aggiunge un calendario religioso (Tonalamatl). Vi si scorgono scene di lotta e
di animali: giaguari, aquile, serpenti. Anche qui le armonie
cromatiche sono assai ricche. Il Codex Cospianus (ivi), composto da cinque pelli di cervo incollate a capo a capo e piegate in 20 pagine, è simile ai precedenti.
I codici maya I tre c maya differiscono leggermente dagli
altri gruppi per l’impiego di colori piú cupi, meno brillanti,
ma non meno variati. Il Codex Dresdensis (Dresda, Bibl.) è
considerato un trattato di astronomia; contiene inoltre numerosi oroscopi, note rituali e mitologiche, nonché una scena che rappresenta la fine del mondo nel corso di un diluvio
di aspetto lugubre e macabro. Per la delicatezza del tratto,
la finezza del tocco e la cura posta nella stesura dei colori, è
il piú bello dei manoscritti maya. Il Codex Tro-Cortesianus
(Madrid, ma) è un manuale che contiene oroscopi e consigli
ai sacerdoti per l’assolvimento dei riti di divinazione. Il Codex Peresianus (Parigi, bn) si compone anch’esso di oroscopi, ma contiene soprattutto le date delle feste annuali con la
rappresentazione della divinità che presiede a ciascuna di esse, nonché della cerimonia che l’accompagna. (sls).
Coebergher (Koeberger), Wenceslas
(Anversa 1561 - Bruxelles 1634). Allievo di Maerten de Vos
nel 1573, soggiornò a Parigi nel 1583, studiò in seguito a
Storia dell’arte Einaudi
Roma nel 1598 pittura, architettura e archeologia, poi dipinse a Napoli. Tornato ad Anversa nel 1601, menzionato
nuovamente a Roma nel 1603, venne ammesso tra i maestri
ad Anversa nel 1604. Protetto dagli arciduchi Alberto ed
Isabella, fu nominato nel 1605 pittore, architetto e ingegnere della loro corte arciducale di Bruxelles. La sua attività
di architetto fu considerevole. Come pittore di soggetti religiosi, partecipò a Roma sin dal 1598 alla decorazione della chiesa di Santa Maria in Vallicella, e dipinse a Napoli una
Nascita di Cristo nella chiesa di San Sebastiano. Cooperò allora con J. Francken e Smet, detto Ferrarus. Fu notevole
rappresentante del manierismo italianeggiante. La Deposizione (1605: Bruxelles , mrba) e il San Sebastiano (dipinto
per i balestrieri di Anversa, oggi a Nancy, mba) si collocano
nello spirito di Maerten de Vos; e cosí pure la Pietà di Anversa (chiesa di Sant’Andrea) e l’Imperatore Costantino mentre adora la vera Croce (chiesa di San Giacomo). (php).
Coecke van Aelst, Pieter
(Aelst 1502 - Bruxelles 1550). Secondo Van Mander, sarebbe stato allievo a Bruxelles di Barend van Orley. Visitò
in giovinezza l’Italia, stabilendosi poi ad Anversa, dove venne ammesso tra i maestri nel 1527. Qui sposò la figlia del
Pittore Jan van Dornicke e lavorò sulle prime nella bottega
del suocero; dopo la sua morte ne assunse la direzione. Dato che i dipinti di questa prima parte della sua carriera riprendono, in forma modernizzata, le composizioni di un pittore anonimo designato col nome di Maestro di Anversa del
1518, si è costretti ad ammettere che costui altri non sia che
Jan van Dornicke.
C non ha firmato nessuno dei suoi quadri. Questi gli sono
stati attribuiti per confronto stilistico con alcuni disegni firmati o recanti il suo nome (uno dei quali a Rotterdam, bvb),
col trittico della Deposizione dalla croce di Lisbona (maa),
autenticato da un documento, e con la serie d’incisioni nota col nome di Usi e costumi dei Turchi, che venne edita in
base a disegni riportati da C dopo un lungo soggiorno in Turchia nel 1533. I dipinti piú antichi, tra cui numerose Adorazioni dei magi (Madrid, Prado; Bruxelles, mrba; Genova,
Gall. di palazzo Bianco), numerose Sacre Famiglie (in musei
di Lovanio e di Tours) e un Cenacolo noto in parecchi esem-
Storia dell’arte Einaudi
plari, raccordano l’influsso di Van Orley col manierismo di
Anversa del Maestro del 1518, alias Jan van Dornicke.
Tornato da Costantinopoli, l’artista adotta lo stile del Rinascimento e si fonda sulle opere tarde di Raffaello e dei suoi
discepoli. E suo disegno si fa movimentato a somiglianza di
quello di Giulio Romano; i personaggi sono intrisi di manierata eleganza. Tra i dipinti notevoli di questo periodo
(1533-40) citiamo la Salita al Calvario di Basilea, il Giudizio
universale dell’Escorial, l’Addio di Cristo alla madre di Glasgow, due ante con ritratti e santi del Prado di Madrid, il
Cristo nell’orto degli Ulivi dell’Ermitage di Leningrado, il
trittico della Resurrezione di Karlsruhe, San Luca mentre dipinge la Vergine di Nîmes.
Gli arazzi di cui disegnò i cartoni sono tra i piú notevoli del
Rinascimento fiammingo. Ne sono note tre serie: quella della Vita di san Paolo, quella della Storia di Giosuè (Vienna, km),
e quella dei Peccati capitali; la prima e la terza hanno dato
luogo a piú di una replica. C disegnò pure progetti di vetrate; e le sue versioni, in fiammingo e in francese, di cinque dei
Libri dell’architettura di Serlio, che egli stesso pubblicò ad
Anversa a partire dal 1539, ebbero enorme risonanza. Aveva sposato in seconde nozze Mayken Verhulst, pittrice di talento; la loro figlia sposerà Pieter Bruegel il Vecchio.
Nel campo propriamente pittorico, C figura come capo di
bottega, con l’aiuto di numerosi assistenti; donde l’ineguale valore delle opere a lui attribuite. L’aspetto artigianale
della pittura lo interessa meno dell’invenzione. Vuol essere
in primo luogo «artista». A questo titolo lo si può considerare il capofila del Rinascimento nei Paesi Bassi meridionali. Assicurò il trapasso dal manierismo pre-rinascimentale,
detto «manierismo di Anversa», al romanismo della seconda metà del secolo. (gma).
Coelho da Silveira, Benito
(? 1628 ca. - ? 1708). Citato per la prima volta nel 1648,
soggiornò forse in Spagna e dal 1678 succedette a Domingos Vieira nella carica di pittore reale. La Deposizione dalla
croce (1656: Lisbona, coll. del visconte de Sacavem) sembra
influenzata dall’opera di Josefa d’Obidos. Fu disegnatore rapido e fecondo; la sua personalità artistica è paragonabile a
quella del contemporaneo spagnolo Matias Arteaga, discepolo di Valdés Leal. Pur trascurando i particolari dell’ese-
Storia dell’arte Einaudi
cuzione, i suoi dipinti religiosi, dai colori brillanti che spiccano su fondo scuro, non mancano d’ispirazione e d’intensità (Apparizione di Cristo alla Vergine, Ascensione: Lisbona,
chiesa di San Rocco; Cenacolo, 1705 ca.: Èvora, chiesa di
Sant’Antonio). (mtmf).
Coello, Claudio
(Madrid 1642-93). Esordí nella bottega di F. Rizi, poi andò
a Roma, come attesta la firma di un disegno. Tornato in patria, divenne uno dei pittori piú importanti della scuola madrilena. Amico di Carreño, che gli agevolò l’accesso alle collezioni reali, vi studiò i maestri veneziani e fiamminghi, che
influenzarono decisivamente le sue prime serie di grandi quadri d’altare e lo assorbirono fino al suo ingresso a corte (Annunciazione, 1668: Madrid, convento di San Placido). Decoratore a tempera e affrescatore, lavorò molto in collaborazione con Jimenez Donoso (sacrestia della cattedrale di Toledo, 1671). Nel 1680 decorò gli archi eretti in onore dell’entrata della regina Maria Luisa d’Orléans e, nel 1683, venne
nominato pittore del re. Nel 1684 eseguí le decorazioni murali della chiesa della Mantería a Saragozza e, al suo ritorno, le scene mitologiche della galleria della regina all’Alcázar (oggi perdute). Alla morte di Francisco Rizi (1685) s’incaricò del grande quadro che questi preparava per l’Escorial, e che è il suo capolavoro (firmato nel 1690 col titolo di
pintor de Càmara): la Sagrada Forma, che mostra la reliquia
della santa ostia di Gorrum presentata a Carlo II. Nell’anno della sua morte eseguí il grande Martirio di santo Stefano
per la chiesa di San Esteban di Salamanca.
Ultima figura incisiva del barocco spagnolo, fu artista di
complessa formazione. Grande colorista, preferisce i toni
caldi e raffinati dei veneziani. Possiede un senso dinamico
della composizione del tutto barocco e, nel contempo, una
concezione equilibrata della realtà che, conferendo serietà e
verità ai suoi personaggi, ne fanno un ritrattista eccellente.
Come decoratore (dipinti murali della Mantería a Saragozza) è erede della tradizione italiana; e nella Sagrada Forma
dell’Escorial il suo impegno nello spazio, nella prospettiva e
nell’atmosfera si accosta a quello di Velázquez. Le sue realizzazioni migliori, dai tocchi fluidi, leggeri e misurati, derivano anch’esse dalla lezione di quest’ultimo: Vergine col
Bambino adorati da san Luigi (Madrid, Prado).
Storia dell’arte Einaudi
Tra le altre sue opere possono ancora citarsi il Trionfo di
sant’Agostino (1664: Madrid, Prado), il Polittico di santa Gertrude e quello dei Santi Benedetto e Scolastica (Madrid, convento di San Placido), il Martirio di san Giovanni Evangelista
(chiesa di Torrejon de Ardoz presso Madrid), l’Apparizione
della Vergine a san Domenico (Madrid, Academia de San Fernando), il Miracolo di san Pietro d’Alcantara (Monaco, ap),
la Sacra Famiglia (Budapest). (aeps).
Coffermans, Marcellus
(Anversa, ? - ? 1575 ca.). Si ignora pressoché tutto di questo pittore di Anversa iscritto come maestro nel 1549. La
Madonna in trono (Anversa, mmb), il Battesimo di Cristo (Anversa), la Crocifissione (Roma, palazzo Odescalchi) attestano, come il resto della sua opera, uno stile arcaico che spesso lo ha fatto confondere con un primitivo fiammingo influenzato da Van der Weyden, da Memling o da Van der
Goes. C ebbe una figlia pittrice, Isabella, della quale si sa
pochissimo. (jl).
Coghetti, Francesco
(Bergamo 1801 - Roma 1875). Fu allievo di G. Diotti all’Accademia Carrara di Bergamo, dove si legò d’amicizia con il
Carnovali (il Piccio). Nel 1821 si trasferí a Roma, ed entrò
nello studio del Camuccini. Con altri seguaci del Camuccini e del Minardi partecipò alla decorazione delle dimore dei
Torlonia (la villa sulla Nomentana, il demolito palazzo a piazza Venezia, quello di don Marino in via Bocca di Leone e il
teatro Apollo a Tor di Nona, distrutto). Contemporaneamente soddisfece numerose richieste provenienti dalla sua
città natale (Ritratto del cardinal Nembrini, oggi nel municipio di Bergamo, 1831; Assunta per la parrocchiale di Calcinate, 1829-31, e tra il 1851 e il 1853 la Gloria di sant’Alessandro nella cupola del duomo di Bergamo). Nella sua produzione per varie chiese romane (Santi Apostoli, San Carlo
ai Catinari, Sant’Andrea al Laterano) e in quella, ugualmente
cospicua, come pittore di storia, esibisce una cultura figurativa eclettica, nella quale accanto alla lezione neoclassica del
Camuccini coesiste un neoraffaellismo di stampo purista,
commisto a colorismi di carattere neoveneto. (lba).
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Cognacq, Gabriel
(Parigi 1878-1951). Nipote ed erede di Ernest Cognacq
(1839-1928), fondatore dei grandi magazzini della Samaritaine, oltre ad esercitarne la gestione fu grande appassionato d’arte. Costituí una collezione comprendente in particolare alcune opere del xvii sec. (Antoine Le Nain: i Piccoli
danzatori), dipinti, guazzi, acquerelli, disegni del xviii sec.
(Fragonard: Fanciulla col cane) e un notevole complesso di
opere del xix sec. (Corot, Daumier, Jongkind, Boudin, Lépine, Renoir, Sisley, Cézanne). Possedeva inoltre ricche serie di stampe francesi e straniere dal xv al xix sec., tra cui
tutta l’opera di Daumier. Fu presidente della fondazione Cognacq-Jay a Parigi, del consiglio tecnico del Musées nationaux e del Museo Rodin. Le sue raccolte andarono disperse
dopo la sua morte in successive aste, la prima delle quali ebbe luogo il 14 maggio 1952. (gb).
Cogniet, Léon
(Parigi 1794-1880). Allievo di Guérin, prix de Rome nel
1817, fu, agli esordi, classico; poi si convertí al romanticismo, piú nella scelta dei soggetti (Tintoretto mentre dipinge
la moglie morta, 1845: Bordeaux) che nella fattura. Lavorò
per le sale del museo storico di Versailles e formò numerosi
pittori, tra i quali Bonnat e Dehodencq. (ht).
Cogul
Rifugio rupestre spagnolo (provincia di Lérida) che presenta due complessi preistorici stilisticamente molto diversi. La
Caccia ai cervi è una composizione schematica nella quale
l’abate Breuil vedeva due cervi che affrontano un cacciatore e un uomo che colpisce un bisonte, composizione ove gli
animali sono rappresentati da tratti rossi spessi; la testa dei
personaggi è suggerita da una semplice linea orizzontale. Le
altre figure di animali, invece, sono trattate in modo realista e dinamico; cervi, cerve, stambecchi sono dipinti in rosso e talvolta ridipinti in nero; due uomini di alta statura, vestiti in lunghe vesti, sembra sacrifichino tori. Il celebre gruppo delle Danzatrici, ove nove donne dai voluminosi seni e
con gonne a campana danzano intorno a un omino stilizzato, è caratteristico dell’arte del Levante spagnolo. L’abate
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Breuil vi individuava una cerimonia d’iniziazione con qualche rapporto con l’arte africana. (yt).
Coimbra
Museu nacional de Machado de Castro Museo portoghese
fondato nel 1911; conserva un interessante complesso di pittura antica, proveniente dalle chiese e dai conventi della
città. La serie portoghese si apre col Trittico di santa Chiara
(fine del xv sec.), attribuito al presunto maestro Hilario.
Vengono poi le opere della bottega del Maestro di Sardoal,
appartenente ai primi decenni del xvi sec. (Assunzione della
Vergine, polittico del monastero di Celas). Sono esposti due
pannelli dell’antico polittico della chiesa di Santa Cruz; (Invenzione della Croce, 1530 ca.) di Cristovão de Figueiredo.
Garcia Fernandes è rappresentato da varie opere, tra cui il
trittico dell’Apparizione di Cristo alla Vergine (1531). Citiamo pure un polittico dell’inizio del xvii sec., opera di Simon
Rodrigues e di Domingos Vieira Serrão (bottega rappresentata a C nella chiesa del Carmo e nella cappella dell’università), e dipinti di Josefa d’Obidos (Santa Maria Maddalena).
Nella sezione di pittura fiamminga del xvi sec. spiccano il
trittico della Passione di Quentin Metsys (1517 ca.) e la Vergine col Bambino di Ysenbrant.
Sacrestia dell’abbazia di Santa Cruz Conserva gli elementi
migliori dell’antico polittico della sua chiesa, eseguito da Cristovão de Figueiredo, nonché la celebre Pentecoste di Vasco Fernandes, detto Grão Vasco (1535 ca.), e alcuni pannelli attribuiti a Garcia Fernandes. (fg).
Cola dell’Amatrice
(Nicola Filotesio, detto) (Amatrice (Rieti) 1470-75 - Ascoli
Piceno? dopo il 1547). Proveniva da un ambiente culturale
complesso come quello della pittura romana dei primi anni
del xvi sec.; cercò sulle prime di conciliare i propri naturali
ascendenti (Melozzo e Antoniazzo) con Signorelli e con i
grandi modelli raffaelleschi, che egli però traduce, specialmente nelle opere del secondo e terzo decennio (Madonna
con Bambino e quattro Santi, 1514: Ascoli Piceno, Museo
diocesano; Trittico dell’Assunzione, 1515: Roma, pv; Quattro Profeti: Lawrence Kans., am), in sagome fortemente chiaroscurate ed enfaticamente caratterizzate, dunque con esiti
singolari che hanno anche indotto a un parallelo di C con
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aspetti eccentrici della pittura di primo Cinquecento sia del
centro sia del settentrione d’Italia, da Aspertini allo Pseudo-Bramantino (P. Fernandez) a Pietro Grammorseo. Stabilitosi definitivamente ad Ascoli Piceno nel 1518, si lasciò
conquistare da un eclettismo frequente in quel periodo negli ambienti di provincia e diffuso anche nella sua regione
(vedi, ad esempio, il fregio del salone del palazzo Vitelli alla Cannoniera, ca. 1543). (grc+sr).
Colantonio
(Napoli, attivo tra il 1440 e il 1470). Sperimentatore d’ingegno piú che fervida personalità creatrice, C rappresenta
tuttavia la figura di maggior rilievo della pittura napoletana
del Quattrocento e quella che meglio rivela le caratteristiche culturali dell’ambiente. Rispetto alle conoscenze comuni, il suo merito maggiore consiste nell’essere stato maestro
e guida del giovanissimo Antonello da Messina, prima del
’60, ma il suo significato effettivo è nel tentativo di coordinare e rendere unitarie le diverse esperienze mediterranee
– iberiche, fiamminghe e provenzali – che variamente s’incrociavano a Napoli, disincagliando la cultura locale dalle
secche delle precedenti esperienze, di limitato respiro provinciale. L’opera piú antica che finora di lui si conosce è la
grande Ancona dei Rocco (1444-45 ca.) per la chiesa napoletana di San Lorenzo (ora la parte superiore con San Francesco dà la regola ai due ordini francescani è a Napoli, Capodimonte, come il San Girolamo nello studio proveniente dal
medesimo polittico, mentre i Beati francescani laterali – che
recentemente (Sricchia) si è proposto di assegnare al giovane Antonello – sono dispersi tra diverse collezioni private).
La monumentale immagine del San Gerolamo rivela una conoscenza, probabilmente diretta, delle opere del Maestro
dell’Annunciazione di Aix (oggi identificato in Barthélemy
d’Eyck), cosí come l’immagine di San Francesco che consegna
la regola sembra esemplata su testi di Jean Fouquet (che, a
Roma nel 1444, si spinse forse anche a Napoli). Successivo,
e ben altrimenti maturo, il secondo polittico di C, fortunatamente conservatosi integro, fino ad oggi nella chiesa di origine: il Polittico di San Vincenzo Ferrer, per la chiesa di San
Pietro Martire. Opera che si può datare, per precisi riferimenti documentari, tra il 1456 e il 1465: qui, pur persistendo ricordi di Spagna alla Jacomart Baço (che era stato a
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Napoli tra il ’44 e il ’51) e fiamminghi – molto marcati soprattutto nella cura dell’ambientazione e nella resa del paesaggio – si avverte un nuovo senso di monumentalità della
forma, soprattutto nella ieratica e solenne impostazione della figura del santo, uno spirito nuovo al quale non deve essere estraneo un primo ed antico risentimento delle novità
pierfrancescane. Tra questi due polittici sono da inserire le
altre opere note, la piccola Crocifissione già Henschel (New
York; oggi a Lugano, coll. Thyssen), attribuita anche ad Antonello, e la grande tavola della Deposizione nella chiesa napoletana di San Domenico Maggiore, dove si possono ravvisare citazioni da Petrus Christus. Dalla matrice di Colantonio riceve grande impulso tutta la pittura dell’Italia meridionale nel secondo Quattrocento e non tanto Antonello da
Messina, destinato a volare alto prestissimo e in maniera affatto indipendente, e il napoletano Maestro di San Severino e Sossio, anch’egli di tempra maggiore e presto affrancatosi, quanto alcune personalità ampiamente attive a Napoli, tra le quali si distinguono Angiolillo Arcuccio e il cosiddetto monogrammista R. T., il cui ricordo si affida soprattutto alla grande Ancona della Crocifissione, nella Congrega
Napoletana della Disciplina della Croce, chiaramente desunta dai modi di Colantonio. (rc+sr).
Colbert, Jean-Baptiste
(Reims 1619 - Parigi 1683). L’arte francese, e la pittura in
particolare, deve al ministro di Luigi XIV, nominato nel
1664 «surintendant des Bâtiments», il rafforzamento o la
creazione di istituzioni che ne domineranno la storia fino alla Rivoluzione: 1663, nuovi statuti dell’accademia; 1666,
fondazione dell’Accademia. di Francia a Roma; 1667, riorganizzazione della manifattura dei Gobelins. Consigliato dal
poeta Chapelain, C fu ben consapevole dell’importanza
dell’arte per la gloria della monarchia. A tal fine si valse di
Le Brun sin dal 1661. La stretta collaborazione tra i due uomini, che dispiegarono un’attività immensa a Saint-Germain-en-Laye, a Parigi (Tuileries e Louvre) e soprattutto a
Versailles, durò fino alla morte di C. (as).
Coldstream, William
(Belford (Northumberland) 1908). Si formò presso la Slade
School di Londra, di cui fu direttore dal 1949. Autore di nu-
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merosi film documentari dal 1934 al 1937, poi fondatore
della Euston Road School, C è soprattutto pittore di ritratti, paesaggi e nature morte eseguiti con minuzia talora ossessiva. Fa parte degli amministratori della National Gallery
e della Tate Gallery; è stato nominato cavaliere nel 1956.
Una retrospettiva della sua opera ha avuto luogo a Camberwell nel 1962. La Tate Gallery conserva il suo ritratto di
Mrs Winifred Burger. (abo).
Cole, George Vicat
(Portsmouth 1833 - Londra 1893). Figlio maggiore del pittore George Cole, lavorò anzitutto nello studio paterno; cominciò ad esporre nel 1852. Fu accolto tra i membri della
Royal Academy nel 1880. Le sue opere sono riproduzioni
assai minuziose, quasi fotografiche, di paesaggi rappresentanti soprattutto scene di raccolto (il Raccolto, 1860: Bristol, ag) o vedute della valle del Tamigi. (mri).
Cole, Thomas
(Bolton-le-Moor (Lancashire) 1801 - Catskill N.Y. 1848).
La sua famiglia. emigrò dall’Inghilterra nel 1819, prima a
Filadelfia, poi a Steubenville nell’Ohio. C lavorò prima presso un incisore su legno di Filadelfia; raggiunta la famiglia,
apprese in seguito i rudimenti della pittura presso un ritrattista tedesco di nome Stein. Eseguí ritratti senza grande successo, verso il 1822, e lavorò ad alcuni dipinti religiosi. L’anno successivo, di nuovo a Filadelfia, frequentò la Pennsylvania Academy of Fine Arts e in quel periodo venne senza
dubbio a conoscenza di paesaggi di Doughty e di Thomas
Birch. Si stabilí poco dopo a New York e, dopo aver compiuto un viaggio sulle rive del Hudson, espose alcuni dipinti che gli diedero rapidamente la fama: Trumbull ne acquistò uno e avvertí della sua scoperta William Dunlap e Asher
B. Durand. A quest’epoca risale l’Ultimo dei Mohicani (1827:
due versioni, una a Hartford, Wadsworth Atheneum, e l’altra a Cooperstown, New York State Historical Association),
ispirato dal romanzo di Fenimore Cooper, appena pubblicato. Nel 1829 C s’imbarcò per l’Europa, dove restò due anni. Espose senza successo a Londra (Royal Academy e British Institution), visitò Parigi e l’Italia, soggiornando a lungo a Firenze. Tale viaggio ebbe grande importanza per la sua
carriera. Lo studio diretto degli antichi maestri gli consentì
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di migliorare la sua tavolozza; e l’iconografia dei suoi quadri si trasformò. Oltre a grandi paesaggi panoramici, nei quali intende emulare Lorrain o Turner (The Oxbow, 1836: New
York mma; il Sogno dell’Arcadia, 1838: Saint Louis: Mo.,
am), eseguì opere a soggetto fantastico (la Coppa di Titano,
1833: New York, mma) e filosofico-storici (il Corso dell’Impero, cinque dipinti, 1836: New York, Historical Society; il
Viaggio della vita, quattro dipinti: Washington, ng; il Sogno
dell’architetto, 1840: Toledo O., am). Deluso dalla scarsa attenzione che il suo lavoro destava, tornò in Europa nel
1841-42 viaggiando in Francia, Grecia, Svizzera e Italia. Ne
ritornò ancor piú desideroso di creare quadri religiosi, si convertí e visse nell’isolamento dei Catskill fino al termine dei
suoi giorni. Vi realizzò tele come la Veduta di un lago americano (1844: Detroit, Inst. of Arts), la Croce nel deserto (1845:
Parigi, Louvre), la Visione (1848: New York, Brooklyn Museum.). Questi ultimi lavori, che corrispondono a una riscoperta del paesaggio americano, illustrano le teorie da lui
espresse nel 1841 in uno scritto polemico, Lecture on American Scenery. È il principale rappresentante del romanticismo americano, e insieme il fondatore della Hudson River
School. È rappresentato principalmente nei musei americanil a New York (mma e Historical Society), nonché a Washington, Baltimora, Chicago, Detroit, Hartford, Cleveland,
Providence. (sc+jpm).
Coli, Giovanni
(San Quirico (Lucca) 1636 - Lucca 1681). Noto pittore-decoratore, operò esclusivamente con il conterraneo Filippo
Gherardi (1643-1704); non esistono infatti opere autonome
dell’uno e dell’altro, cosí che è impossibile distinguere le singole personalità. Entrambi allievi del lucchese Pietro Paolini, si trasferirono successivamente a Roma nella bottega di
Pietro da Cortona e, dal 1662 ca., a Venezia, dove ottennero la prima commissione pubblica di rilievo, le cinque
grandi tele per il soffitto di San Gregorio Maggiore (166465) sul tema della Divina Sapienza, condotte in un linguaggio pienamente barocco con forti componenti venete (dai
classici Tiziano, Tintoretto e Veronese fino alla pittura veneziana contemporanea): linguaggio che rimarrà costante e
caratteristico di tutta la loro produzione. Nel 1669 furono
chiamati a Roma, dove affrescarono (1670-72) la cupola di
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San Nicola da Tolentino (Gloria di san Nicola da Tolentino),
ispirata a quella del Berrettini alla Vallicella. Tra il 1675 e
il 1678 realizzarono la loro impresa piú celebre, La battaglia
di Lepanto nella galleria di palazzo Colonna a Roma: affresco stilisticamente assai complesso, dove si manifesta accanto a modi cortoneschi e neoveneti, una ripresa di motivi tardomanieristici. (sr).
Colin, Paul
(Nancy 1892). Formatosi alla scuola di belle arti di Nancy,
dove studiò architettura e poi arte applicata nei corsi di
Eugène Valin (sostenitore dell’Art Nouveau) e di Prouvé, C
proseguí gli studi all’Ecole des beaux-arts di Parigi. Dopo la
guerra, in cui aveva combattuto, incontrò Rolf de Maré, che
gli commissionò manifesti per il Théâtre des Champs-Elysées. Risalgono pure a questo periodo i suoi primi allestimenti (Scultura negra, Donogoo, Dante n’avait rien vu, Rugby,
Jazz) e soprattutto manifesti, che da allora costituirono la
parte essenziale della sua produzione. Tra essi si hanno pubblicità commerciali (Lotteria nazionale, Félix Potin, Vichy);
locandine di spettacoli, che egli sintetizza in immagini sorprendenti (Revue nègre, Siegfried, Pelléas); altri che fissano
la silhouette memorabile di una vedette (Line Viala, Loïe
Fuller); altri riguardano opere di beneficenza. Il tratto
espressivo e sintetico ora appartiene, nella scia di Lautrec e
di Cappiello, all’arte del ritratto, ora dà prova di un allettante umorismo (cosí la folla composta di cifre del Grand Prix
de Paris, 1936); o ancora di una pateticità ove qualche elemento significativo, preferito a simboli confusi, sollecita l’attenzione e la riflessione del passante e si fissa nella sua memoria (Sinistrati del Madagascar). Con Cassandre, C ha grandemente contribuito a dotare il proprio tempo di uno stile
di manifesto ad esso appropriato. (sr).
Collaert, Adriaen
(Anversa 1560 ca. - 1618). Genero di Philipp Galle, incise
da Hans Bol, Goltzius, Adans van Oert, Jan van der Straten. Fu forse il primo a pubblicare prima del 1611 (1600
ca.?) un Florilegio, o Libro dei fiori, di cui sussistono esemplari a Bruxelles (Bibl. reale) e ad Amsterdam (Rijksmuseum). Ogni pagina, priva di testo, è dedicata alla fedele riproduzione di uno o piú fiori, presentati in modo assai de-
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corativo. E lo stile dei Florilegi della prima metà del xvi sec.:
di Emmanuel Sweerts, di Jean-Théodore de Bry o di
Matthäus Merian. Dové avere come allievi il figlio Jan, Elias
van den Bos, Jaeck de Bie, Kerstyaen Cnyff, Abraham van
Merle, Adriaen Boon, Jan Lemmens. (jl).
collage
Procedimento consistente nell’incollare e comporre su un
supporto frammenti di materiali eterogenei, e in particolare ritagli di carta (in questo caso, si parla piuttosto di papiers
collés). Questi diversi materiali possono o meno accostarsi,
all’interno di una composizione, a materia pittorica. I giapponesi eseguivano c già nel x sec., ma il procedimento è soprattutto un mezzo espressivo del xx sec., a partire dal cubismo: Braque, Picasso, Juan Gris elaborarono prima del
1914 opere fatte con ritagli di carta incollati, solo con qualche campitura a guazzo o a olio (Picasso, Fumando la pipa,
1913-14: Parigi, coll. priv.; Braque, Aria di Bach, 1914). Nella scia del cubismo, la maggior parte degli artisti dell’avanguardia europea e americana, da Malevi™ a Severini e Dove,
hanno utilizzato il c, la cui novità stimolava l’invenzione
creativa in un momento in cui la tecnica tradizionale dell’olio
risultava troppo costrittiva. Il Dada e il surrealismo, meno
interessati dei movimenti precedenti alla costruzione plastica, dopo il 1914 se ne servirono per ottenere effetti poetici
inediti (Picabia, Donna con fiammiferi, 1920: coll. priv.);
Kurt Schwitters utilizzò i materiali piú inattesi (biglietti di
metropolitana, detriti vari), e Max Ernst incisioni e foto ritagliate (Una settimana di bontà, 1934). Sfruttato a titolo sperimentale soprattutto tra le due guerre (carte lacerate di Arp,
1932), a partire dal 1960 ca. il c è divenuto una tecnica assai consueta, anche per l’influsso dei grandi guazzi ritagliati e incollati su tela eseguiti da Matisse alla fine della sua carriera (esposti già nel 1953, poi nel 1961 al mad di Parigi), e
come reazione a una sorta di saturazione determinata dall’eccessiva produzione di quadri di cavalletto negli anni ’50. I
manifesti lacerati e incollati di Rotella, realizzati sotto l’egida dei Nuovo Realismo (1960), sono c a scala monumentale. Molti artisti contemporanei, sedotti dall’intervento della tecnica e da quello, complementare, della manipolazione
dei materiali, hanno utilizzato il c. La costruzione di oggetti piú o meno complessi a tre dimensioni è una derivazione
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dal c che si sviluppò molto presto (Picasso, Bicchiere di assenzio, 1914). (sr).
Collantes, Francisco
(Madrid 1599 ca. - 1656). Allievo di Vicente Carducho, fortemente influenzato dalla pittura fiamminga e italiana, è il
miglior rappresentante in Spagna di un genere di paesaggio
gremito di origine fiamminga, articolato in numerosi piani
luminosi e popolato da piccoli personaggi d’ispirazione veneziana o napoletana (il Roveto ardente: Parigi, Louvre; Agar
e Ismaele: Providence R.I.; la Visione di Ezechiele, 1630: Madrid, Prado). I suoi dipinti religiosi, ove si trovano figure
grandi, si apparentano strettamente a quelli di Ribera
(Sant’Onofrio: Madrid, Prado). Molto apprezzato ai suoi
tempi, eseguí verso il 1635 per il palazzo del Buen Retito
una serie di dipinti oggi dispersi, dai motivi biblici e mitologici (la Caduta di Troia: Madrid, Prado), che lo accostano
alla scuola napoletana contemporanea. (aeps).
Collin de Vermont, Hyacinthe
(Versailles 1693 - Parigi 1761). Formato da Rigaud e da Jouvenet, soggiornò all’Accademia di Francia a Roma (1716-20)
e venne accolto nell’accademia nel 1725 (Bacco affidato alle
ninfe: Tours, mba). Come Bertin, riprende le solide composizioni di Jouvenet, trattandole però con un mestiere piú trasandato (Annunciazione, disegno a Parigi, Louvre; Pietà,
1740: Parigi, chiesa di Saint-Merri); e conferisce volentieri
un’aria mondana alle sue scene di storia (Pirro bambino,
1747: Besançon, mba). (cc).
Collins, William
(Londra 1788-1847). Nominato associato nel 1814 e membro della Royal Academy nel 1820, si familiarizzò con l’opera di Morland dipingendo scene rustiche e sentimentali, tra
cui la Difficile partenza (1815: Birmingham, City Museum)
e Felice come un re (1836: Melbourne, ng; schizzo a Londra,
vam) sono gli esempi migliori. Usò pure l’acquerello, in particolare durante i suoi viaggi in Francia (Pescatrice presso Boulogne, Veduta di Eu: Londra, vam) e in Italia (Una via di Napoli, Villa d’Este a Tivoli, Veduta della costa presso Sorrento:
ivi) e si specializzò in marine e scene della vita dei pescatori: Costa irlandese (Dublino, ng), Seaford, costa del Sussex
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(Londra, vam), Giovani pescatori (Cambridge, Fitzwilliam
Museum). (wv).
Collioure
Andando a lavorare in questo piccolo porto del Rossiglione
(Pyrénées-Orientales, circondario di Céret) nell’estate del
1905, Matisse doveva renderlo celebre nella storia dell’arte
moderna. Appunto sotto quella luce «bionda, dorata, che
sopprime le ombre» (come scriveva Derain, che lo aveva raggiunto), maturò il linguaggio destinato a scandalizzare nella
«gabbia dei fauves» del Salon d’automne seguente, e si operò
nell’arte di Matisse il passaggio dal neoimpressionismo a uno
stile personale definitivo. I due pittori, insieme a Maillol,
incontrarono a C Monfreid, che fece loro conoscere le ultime opere di Gauguin da lui possedute, che li impressionarono vivamente. In particolare, Matisse dipinse a C la Gioia
di vivere (Merion Penn., Barnes Found.) e, in occasione di
un altro soggiorno, il Lusso I (1907: Parigi, mnam); Derain
vi produsse paesaggi di stile allegro e allusivo, che sono i piú
caratteristici del suo fauvisme. (fc).
Colmar
Terza città dell’Alsazia per antichità, restò città libera
dell’impero fino alla riannessione al regno di Francia nel
1673. Preservata piú di Strasburgo dagli effetti delle guerre e delle lotte sociali, come Strasburgo fu centro assai attivo della mistica dell’alta Renania. Quest’intensa vita religiosa (in particolare le visioni delle monache di Unterlinden)
nutrí profondamente l’ispirazione artistica di C, ulteriormente rafforzata dalla vicinanza di Issenheim. Qui Caspar
Isenmann acquistò nel 1496 diritto di cittadinanza, e nacque ed operò Martin Schongauer. Ha conservato resti molto importanti di complessi eseguiti da tali artisti per la collegiata di Saint-Martin e per la chiesa dei domenicani, oggi
tutti depositati al Museo di Unterlinden, tranne la Vergine
dal cespuglio di rose (1473), l’opera piú significativa di Schongauer, conservata nella chiesa di Saint-Martin.
Gli edifici di C presentano ancora qualche testimonianza
dell’antica magnificenza. Il chiostro del convento dei domenicani serba pitture murali della Passione di Urbain Hüter (1490 ca.), e la cappella del convento di Unterlinden soggetti del xv sec. L’arte profana appare nella decorazione di
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alcune facciate di case, mentre la casa Pfister, costruita nel
1537, unisce nella sua ornamentazione scene bibliche e figure allegoriche della fine del secolo.
L’attività artistica della C moderna è illustrata da una serie
di pittori e di incisori, tra i quali possono citarsi: nel xvii
sec. l’incisore François Ertinger, morto a Parigi nel 1700;
nel xviii sec. i fratelli Hohr, miniaturisti di talento; nel xix
sec. il miniaturista Jean-Jacques Karpff, detto Casimir, allievo di David, Jean-Georges Hirn, originario di Mulhouse,
pittore di nature morte, Pierre Meister, pittore di fiori e di
scene di genere, Henri Lebert, pittore di fiori e paesaggista,
David Ortlieb, paesaggista che rievocò l’antica C, Jacques
Rothmuller, disegnatore prezioso di paesaggi alsaziani, Michel Hertrich, miniaturista e paesaggista, Gustave Saltzmann, Camille Bernier, Martin Riester, P. Dauzas (vetrate), Xavier Bronner, allievo di Millet a Barbizon, Alfred
Pabst, de Hütteren, pittore di genere e di folklore, Victor
Huen, pittore delle guerre napoleoniche, Bartholdi, disegnatore e scultore di ceppo alsaziano, Jean-Jacques Waltz,
detto Hansi, il caricaturista e umorista satirico degli anni
dell’annessione alla Germania dopo il 1870.
Musée d’Unterlinden È collocato nell’antico convento dei
domenicani, costruito tra il 1252 e il 1289. I corpi dell’edifficio, tra cui la cappella consacrata da Alberto il Grande nel
1269, sono raggruppati attorno a un ampio chiostro. Il 20
giugno 1849 la Société Schongauer fu autorizzata ad accogliervi le collezioni della città. Il museo conserva il piú vasto insieme esistente di primitivi alsaziani, completato da alcune opere dal Rinascimento al xviii sec. e da una serie di
quadri del xix e xx sec. di artisti alsaziani e francesi: J.-J.
Henner, F. B Schuler, Lebert, H. Martin, G. Des G.
Rouault (il Cristo tra i dottori). I primitivi alsaziani sono rappresentati da un pannello della Crocifissione, della fine del
xiv sec., l’opera piú antica della collezione; probabilmente
di origine alsaziana, è una perfetta testimonianza della comunanza di stile e di ispirazione dei grandi centri artistici
europei, dove s’incontrano, intorno al 1400, le influenze
francesi, italiane, renane e boeme. Seguono dei piccoli dipinti a fondo oro e a pittura nera, di fattura vicina all’oreficeria e all’incisione. Con Caspar Isenmann si apre la serie
dei pannelli di polittici che costituiscono il fondo essenzia-
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le della collezione. La Passione, soggetto dell’altar maggiore
della collegiale di San Martino di C, comprendeva sedici pannelli, di cui soltanto nove sono stati conservati. Martin
Schongauer figura con il suo polittico dei domenicani di C.
Esso presenta, aperto, i sedici riquadri della Passione e, chiuso, gli otto riquadri della Vita della Vergine, opera in parte
del maestro e in parte della sua bottega. L’arte di Schongauer è illustrata nel museo anche da due piccoli polittici del
donatore Jean d’Orliac, precettore degli Antoniti, e della famiglia Stauffenberg. Ma l’opera piú notevole del museo è
senza dubbio la pala d’altare del convento degli antoniti di
Issenheim, commissionata, nel 1493, dal precettore Guido
Guersi a Mathias Gotthart Nithart, detto Grünewald, e
compiuta nel 1516. Secondo i tempi dell’anno ecclesiastico
e il calendario delle feste dell’ordine degli antoniti, il polittico dalle numerose ante mostrava la Crocifissione, tra
Sant’Antonio e San Sebastiano (con la Deposizione, sulla predella), il ciclo dell’Annunciazione, del Concerto degli Angeli
e della Resurrezione, dal simbolismo molto elaborato, e infine la Tentazione di Sant’Antonio e l’Incontro degli eremiti
Sant’Antonio e San Paolo. Tra i pittori del xvi sec. rappresentati al museo, per la maggior parte anonimi, segnaliamo
ancora i nomi di Hans Herbster e di Urbain Hüter. (vb).
Colnaghi (P. and D.) and Co. Ltd
Galleria d’arte britannica, fondata nel 1760 a Parigi da Giovanni Battista Torre (morto nel 1780); fu prima un negozio
di libri e di strumenti di precisione. Anthony, figlio di Torre, creò nel 1767 una filiale a Londra nel quartiere di Pall
Mall, e cominciò a pubblicare stampe, in particolare di Bartolozzi, dal 1776. Nel 1785 si associò a Paul Colnaghi
(1751-1833), che prese la direzione della ditta nel 1788 e la
fece prosperare. Pubblicò le Grida di Londra di Wheatley
(1792-97) e fu il mercante ufficiale di stampe di Giorgio IV;
il negozio divenne luogo di appuntamenti alla moda. Nel
1824 C si stabilí nei nuovi locali del n. 14 di Pall Mall East, col figlio Dominic (1790-1879), dopo aver abbandonato
il figlio maggiore, Martiri, che l’aveva praticamente rovinato con le sue stravaganze e che rimase nei vecchi locali. Le
attività della galleria si estesero, verso il 1890, alla pittura,
sotto la direzione di Otto Gutekunst, il quale, in particolare, vendette quadri importanti a Mrs Isabella Stewart Gard-
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ner. Il noto specialista di stampe Gustave Mayer entrò nel
1911 nella ditta contribuendo all’incontestata fama di C in
questo campo, fama che perdurò con H. J. L. Wright. Il negozio venne trasferito nel 1912 al 144-146 di New Bond
Street, e nel 1942 all’attuale indirizzo: 14, Old Bond Street.
C è specializzato nella pittura del xvii e xviii sec., nelle stampe, nei disegni antichi e nei disegni e acquerelli della scuola
inglese. (jh).
Colombe, Jean
(Bourges 1440 ca. - 1493?). Tutta la sua carriera si svolse a
Bourges; dal 1467 fu protetto dalla regina Carlotta di Savoia, poi ottenne il favore dei grandi signori del centro della Francia; dal 1482 al 1486 fu miniatore del duca Carlo I
di Savoia, che gli fece condurre a termine due celebri manoscritti incompiuti, l’Apocalisse dell’Escorial e le Très riches
heures du duc de Berry (Chantilly, Museo Condé). Sembra dirigesse una bottega sovraccarica di lavoro; donde l’abbondanza e l’ineguaglianza dei manoscritti appartenenti al suo
stile. Le prime opere note (Vita Christi, Libro d’ore di Louis
de Laval, 1480,1485: Paris, bn) risentono dell’influsso di
Fouquet: influsso soprattutto formale, nella tecnica, nella
composizione, in taluni tipi di personaggi. Il suo temperamento personale, tutto fantasia e trasporto, lo allontanò sempre piú dall’equilibrio classico di Fouquet (Romuléon, 1490
ca.. Parigi, bn), e la sua bottega, dove lavorava il figlio
François (morto nel 1512), che ne proseguí l’opera dopo la
sua morte, accentuò ulteriormente questi elementi (Distruzione di Troia, 1500 ca.: ivi). È una pittura poetica e movimentata, poco accurata, ove tutto è spinto all’estremo: effetti di luce, prospettive ardite, composizioni ingombre di
personaggi, decorazioni sovraccariche d’ornarnenti e d’oro.
All’alba del xvi sec., C resta artista fondamentalmente conservatore, la cui ispirazione profonda si avvicina allo spirito del gotico fiammeggiante, piú che annunciare il manierismo rinascimentale. (nr).
Colombel, Nicolas
(Sotteville-lès-Rouen 1644 - Parigi 1717). Si reca ancor giovane a Roma per «studiare Raffaello e Poussin». Sarà accolto nel 1686 nell’Accademia di San Luca a Roma, e nell’accademia di Parigi nel 1694; ma sin dal 1682 invia da Roma
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a Parigi quattro quadri, molto caratteristici del suo stile,
identificati da A. Blunt: Cristo guarisce i ciechi e Cristo scaccia i mercanti dal Tempio (oggi a Saint Louis Mo.), Maddalena dinanzi a Cristo (oggi a Baroda in India), e la Donna adultera, già sul mercato a Berlino. Altre sue opere (Marte e Rea
Silvia, 1694: Parigi, Louvre, enba; Gesú e la Samaritana: Salisburgo, residenza; Agar: oggi a Budapest; San Giacinto che
salva la statua della Vergine dai nemici del nome cristiano: Parigi, Louvre) rivelano un artista dal temperamento classico
e dal colore freddo, che prolunga, all’epoca di Watteau, lo
stile ampio e maestoso di Philippe de Champaigne. (pr).
Colombia
Nell’epoca «coloniale» si è colpiti, in C, da due aspetti in
contrasto: da un lato la precocità di una pittura decorativa
rinascimentale, importata dall’Europa, che compare sin dalla fine del xvi sec. nelle dimore aristocratiche (Casa de Vargas a Tunja, 1590 ca., ove compaiono gli dèi greci tra «uomini selvaggi», grottesche, rinoceronti ed elefanti imitati da
incisioni fiamminghe, e di cui non si conoscono equivalenti
in America); dall’altro, l’amabile monotonia di una pittura
religiosa la cui produzione si concentra a Bogotá dall’inizio
del xvii sec. e che si sviluppa in un clima «moderato», con
piú soavità che energia, piú minuzia che spontaneità.
Dopo i pittori provenienti dalla Spagna, dei quali si conoscono i nomi ma non le opere (Miguel de la Barreda, castigliano, nel 1559; Alonso de Narvaez, andaluso, morto nel
1583), il ciclo colombiano si apre con il religioso ecuadoriano F. Pedro Bedón e con l’italiano Angelino de Medoro, che
giunge da Roma a Bogotá nel 1587 e si reca due anni piú tardi in Perti. I principali esponenti ne saranno Antonio Acero de la Cruz (tra il 1663 e il 1667), non del tutto affrancato ancora dal manierismo, con la vivacità dei suoi colori e
l’arcaicità dei drappeggi, e i Figueroa: Gaspar (tra il 1637 e
il 1658), col notevole ritratto dell’arcivescovo F. Cristobal
de Torres (Bogotá, Collegio del Rosario) e suo figlio Baltazar de Vargas Figueroa (tra il 1658 e il 1667), piú realistico
e piú sensibile al chiaroscuro. Il suo allievo Gregorio Vázquez de Ceballos segna l’apogeo della scuola: si presenta quale un Murillo colombiano per la gradevolezza del colore e la
maestria nella distribuzione della luce. Si segnala, inoltre,
per il suo culto di una bellezza femminile un poco languida,
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nuda o seminuda (Susanna al bagno, Betsabea, Maddalena), e
per un senso del paesaggio (Allegorie delle Stagioni) che è eccezionale nella pittura ispano-americana. Nel xviii sec. la vita della pittura religiosa si prolunga senza alcun rinnovamento: tra il 1700 e il 1730, Mejia o Camargo sono soltanto piacevoli imitatori di Vázquez. Per converso prende un
certo sviluppo la pittura profana. Alcuni buoni pittori (parecchi dei quali collaboreranno con la famosa missione botanica organizzata dallo spagnolo Mutis nel 1782), come Joaquín Gutierrez o Pablo Antonio Garcia, fissano non senza
grazia l’immagine degli alti funzionari e dell’aristocrazia coloniale. (pg).
Colombo, Gianni
(Milano 1937). Studia all’Accademia di Brera e fin dal ’54
realizza opere polimateriche non figurative. Nel ’59 espone
rilievi monocromi alla galleria Azimuth e avvia le ricerche
cinetiche: fonda il Gruppo T. Inizialmente ottiene il movimento utilizzando piani elettromagnetici, poi, dal ’61, si serve della proiezione di luce artificiale su materiali di vario tipo (plexiglass, specchi). I lavori vengono prodotti in serie e
prevedono la partecipazione attiva del pubblico. Dalla metà
degli anni ’60 si dedica alla creazione di ambienti; tra i piú
famosi Lo spazio elastico con cui vince il primo premio alla
Biennale di Venezia del ’68. L’utilizzazione delle tecnologie avanzate e la produzione seriale di alcuni lavori prevedono uno stretto rapporto con l’industria che lo vede impegnato anche nel settore del design. (ddd).
Colonia
Wallraf-Richartz Museum Il fondo della collezione è costituito dalla pittura religiosa di C nel medioevo, epoca in cui
vi fu intensa l’attività artistica. Nel 1794, in seguito all’invasione delle truppe francesi, un certo numero di chiese e
conventi venne secolarizzato o distrutto, e il loro contenuto
rischiava di andare disperso: alcuni collezionisti, appassionati del passato della loro città (Franz Wallraf, 1748- 1824;
i fratelli Boisserée; il grande commerciante Lyversberg), si
diedero a salvare dalla distruzione opere che avevano fatto
la gloria di C. Nel 1824 Franz Wallraf lasciò C erede delle
sue collezioni, contenenti 309 dipinti di scuola locale e alcune opere del xv sec. di scuola fiamminga e tedesca; il com-
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merciante Johann Heinrich Richartz finanziò la costruzione
del museo municipale, aperto nel 1861 (distrutto durante
l’ultima guerra, fu ricostruito nello stesso luogo). La fisionomia originale del museo è data dagli antichi maestri di C,
di solito anonimi, indicati in base alla loro opera principale:
il Maestro di Santa Veronica, il Maestro della Passione di
Lyversberg, il Maestro del polittico di San Bartolomeo, il
Maestro del polittico di Sant’Orsola, e anche Stephan Lochner (Vergine dal cespo di rose). Il museo, grazie ad acquisizioni o donazioni, ha continuato ad arricchirsi fino ai nostri
giorni di opere importanti, in particolare di Rubens (Sacra
Famiglia) e di Dürer (Suonatori di piffero e tamburo).
Il museo ha acquisito nel 1911 un importante gruppo di opere del pittore di C Leibl (una trentina di dipinti), e nel 1912
la Coppia Sisley di Renoir. Nel 1936 la collezione di un amatore contemporaneo, Van Castanjen, vi fece entrare dipinti
tedeschi (Burgkmair), nonché due paesaggi di Caspar David
Friedrich (Croce in riva al mare, Alberi nel crepuscolo), e opere di maestri olandesi e fiamminghi, fra le quali tre Rembrandt (Ritratto di dotto, Cristo alla colonna, Autotitratto del
pittore vecchio che ride), Ter Brugghen, Ter Borch e tele di
scuola francese (Lorrain, Paesaggio con Amore e Psiche; Le
Nain, il Giardiniere; Courbet, la Dama di Francoforte, Colazione a caccia) e di scuola spagnola (Ribera, Murillo).
Tra le acquisizioni di dipinti italiani, citiamo Betsabea di Bordone e Idillio sulla spiaggia di Piazzetta. Nel 1946 la collezione dell’avv. Haubrich arricchí il Wallraf-Richartz di quadri di Van Gogh, Gauguin, Picasso, Derain e di espressionisti tedeschi: Nolde, Kirchner, Kokoschka, Munch, nonché Macke, Mueller e Marc; la collezione fu pure ampliata
con opere francesi piú recenti (Atlan, Chagall, Mathieu), acquistate grazie ai mezzi finanziari messi a disposizione dallo Haubrich. Nel 1958 la donazione Strecker (pittore vissuto a Parigi nel 1924 e nominato, nel 1946, docente presso la
scuola superiore di belle arti di Berlino) vi fece entrare pittori importanti della scuola francese del xix e del xx sec.:
Modigliani (Almaïsa, 1917), Picasso (Fanciulla in verde,
1922; Natura morta con mandolino), Matisse (Fanciulla seduta), Braque, Derain, Dufy. Dal 1961 il museo ha acquistato due Cézanne (Natura morta con pere; la Piana di Bellevue), un Monet (Mare a Etretat) e, nel 1970, l’Appuntamento degli amici di Max Ernst.
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