Creazione contemporanea - Fondazione Adriano Olivetti

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Creazione contemporanea - Fondazione Adriano Olivetti
Creazione contemporanea,
intrecciando prospettive teoriche
ed esperienze pratiche, indaga i legami
tra arte e società e presenta la prima
ricognizione di un ambito di produzione
culturale e progettualità territoriale
di grande vivacità.
Creazione contemporanea
offre riferimenti teorici e strumenti
concreti, chiavi interpretative e analisi
di politiche culturali dall’Unione Europea
al consorzio di piccoli comuni.
Una mappa di riferimento delle nuove
terre tra arte e comunità.
ISBN 88-87995-66-4
9 788887 995664
20,00 euro
Martina De Luca Flaminia Gennari Santori
Bartolomeo Pietromarchi Michele Trimarchi
Creazione contemporanea
L’arte allarga il proprio sguardo creativo
e organizzativo grazie a una rinnovata
attenzione verso le tematiche della
convivenza sociale. La produzione
artistica, le politiche culturali e le
strategie private determinano nuovi
territori di complicità e confronto critico.
luca
sossella
editore
Creazione contemporanea
Arte, società e territorio tra pubblico e privato
a cura di
Martina De Luca, Flaminia Gennari Santori,
Bartolomeo Pietromarchi, Michele Trimarchi
Comunità
2
©2004 luca sossella editore srl
via Zanardelli 34
00186 Roma
[email protected]
www.lucasossellaeditore.it
finito di stampare
nel mese di febbraio 2004
da Arti Grafiche La Moderna
Art director
Alessandra Maiarelli
progetto grafico
Lev laboratorio di comunicazione
ISBN 88-87995-66-4
MARTINA DE LUCA, FLAMINIA GENNARI SANTORI,
BARTOLOMEO PIETROMARCHI, MICHELE TRIMARCHI
A CURA DI
Creazione contemporanea
Arte, società e territorio tra pubblico e privato
Indice
7
Terreni di incontro: arte e società in Italia
Flaminia Gennari Santori, Bartolomeo Pietromarchi
15
Il sistema della creazione contemporanea: una prospettiva molteplice
Martina De Luca, Michele Trimarchi
L’orizzonte economico
23
I mercati dell’arte contemporanea: preferenze individuali,
azione pubblica e strategie private
Michele Trimarchi
41
La creatività come bene economico: specificità e dinamiche nell’arte
visiva e nel settore della moda
Walter Santagata
55
La giovane arte italiana nel contesto internazionale: opportunità,
vincoli e incentivi
Pier Luigi Sacco
73
Diritto d’autore, diritto di seguito nell’arte contemporanea
e nel mercato globale
Silvia Stabile, Guido Guerzoni
Il territorio creativo
89
Dal monumento allo spazio delle relazioni: riflessioni intorno
al tema arte e città
Martina De Luca
105 Artisti e sfera pubblica
Anna Detheridge
121 Arte e società: contesto storico e prospettive attuali
Bartolomeo Pietromarchi
127 Il plusvalore immaginario dell’arte
Marco Senaldi
La politica delle istituzioni
141 Programmi, progetti, milieu: problemi aperti nel sostegno
della creazione contemporanea in Europa
Luca Dal Pozzolo
147 Le istituzioni pubbliche e l’arte contemporanea in Italia
Pio Baldi
153 Politiche della contemporaneità: due progetti della Regione Toscana
Lanfranco Binni
159 La periferia romana e nuovi scenari d’arte
Mirella Di Giovine
165 Politiche pubbliche e processi artistici: il caso Zingonia
Antonella Annecchiarico
L’esperienza produttiva
175 Il sistema dell’arte contemporanea: il caso Torino
Elena del Drago
183 Ars Aevi: un nuovo concetto di museo
Chiara Bertola
191 Arte e territorio nei progetti dell’Associazione Fiumara d’Arte
Enrica Carnazza
197 xing: un laboratorio progettuale tra realtà creative e produttive
Giovanna Amadasi per xing
205 Formazione per ambiti contemporanei: Interaction Design Institute Ivrea
Gillian Crampton Smith
213 Impresa e cultura: una relazione strategica
Michela Bondardo
219 Verso lo sviluppo sostenibile: il caso della Fondazione Teseco per l’Arte
Maria Paoletti Masini
227 Ricerca, mediazione e co-produzione per lo spazio pubblico:
i progetti Cultura e Società della Fondazione Adriano Olivetti
Flaminia Gennari Santori
239 Gli autori
243 Bibliografia
Creazione contemporanea
Terreni di incontro: arte e società in Italia
Flaminia Gennari Santori, Bartolomeo Pietromarchi
Creazione contemporanea delinea un campo dai contorni ancora fluttuanti ma dalle connotazioni precise: il terreno di incontro tra la
ricerca artistica e la società nella sua accezione piú ampia. È un
incontro innescato da una domanda diffusa proveniente dai contesti
piú disparati: come affrontare le trasformazioni e le contraddizioni
che siamo chiamati a gestire ogni giorno, sia individualmente che
collettivamente? La nostra riflessione è partita da un convegno organizzato dalla Fondazione Adriano Olivetti e da Eccom nel novembre
del 2002, al quale abbiamo invitato, assieme a economisti e teorici
della cultura, alcuni promotori di iniziative che integrano la creazione artistica nella politica territoriale o sviluppano forme innovative di
produzione, gestione e promozione dell’arte contemporanea.
Questo libro amplia e approfondisce i temi affrontati in quella
occasione, individuando metodi e obiettivi della progettualità culturale rivolta allo spazio pubblico condotta in Italia alle soglie del millennio da una pluralità di attori, sia pubblici sia privati. Spazio pubblico inteso soprattutto come teatro di negoziazioni soggettive, di intrecci tra dimensioni fisiche e culturali, immaginarie e sociali. Creazione
contemporanea non traccia confini ma sottolinea piuttosto sovrapposizioni e convergenze di pratiche, poetiche e questioni teoriche che
condividono una medesima prospettiva. Ovvero che la ricerca e la
produzione artistica non sono separate dalle questioni centrali della
società, dall’economia, dalla gestione del territorio e dei suoi conflitti, dalla vita delle comunità e dall’individuazione di forme sostenibili
di innovazione produttiva.
La nostra ricognizione evidenzia due elementi importanti che contribuiscono a localizzare ulteriormente il nostro campo in un tempo e
in un luogo preciso. In primo luogo, sia le esperienze che le riflessioni
raccolte nel volume indicano con chiarezza, seppur da punti di vista
estremamente diversi, una discontinuità rispetto alle cosiddette politiche culturali, pubbliche o private, locali o nazionali, che avevano
caratterizzato la fine del XX secolo. In secondo luogo, in questo contesto di “azione pubblica” la dimensione e la densità locale e la prospettiva europea si intrecciano a ogni livello. Una prospettiva quest’ultima che prende forma in maniera fortemente empirica e tutt’altro
che identitaria, ovvero attraverso una rapida assimilazione di pratiche
progettuali, di approcci metodologici e di lessico specifico.
Abbiamo suddiviso i contributi in quattro sezioni, dedicate rispettivamente all’orizzonte economico, alle radici storiche e alle prospettive teoriche delle pratiche creative in questione, alla progettualità
degli attori pubblici e infine, ad alcune iniziative di istituzioni o gruppi privati. Qual è dunque il contesto economico, reale e possibile,
della creazione contemporanea? Un orizzonte auspicabile per il mer-
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cato dell’arte, a fronte anche delle direzioni della ricerca contemporanea, può svilupparsi lungo inedite relazioni tra l’evoluzione di
nuovi fenomeni artistici e l’elaborazione di piú efficaci strategie private e pubbliche (Trimarchi), anche alla luce della specificità territoriale e della ciclicità dei percorsi creativi (Santagata). L’analisi delle
dinamiche del mercato dell’arte contemporanea di Pierluigi Sacco
evidenzia, tuttavia, come il sistema tradizionale delle gallerie private
non sia in grado di garantire spazi di innovazione per i giovani artisti.
Sia l’analisi di Sacco sia quella di Stabile e Guerzoni, relativa alla
recente introduzione del diritto di seguito nella normativa europea,
indicano l’obsolescenza tanto del mercato quanto dell’istituto giuridico rispetto alle dinamiche della produzione creativa. Un’obsolescenza che appare particolarmente problematica a fronte della riconosciuta interazione tra creatività e innovazione economica.
Le attuali pratiche artistiche di critica, disseminazione e compenetrazione con le dinamiche sociali piú ampie, sono il risultato di un
complesso percorso storico, illustrato, per quanto riguarda il contesto italiano, da Martina De Luca e per quanto riguarda quello internazionale da Anna Detheridge. Ma se la storia è ben presente e viva
nella creazione attuale, altrettanto evidenti sono gli elementi di
discontinuità e di rottura che inducono molti artisti a scegliere
forme di ricerca e di azione che li portano fuori dai tradizionali contesti del mondo dell’arte. Nelle diverse prospettive di Pietromarchi e
Senaldi, le pratiche di sovrapposizione tra arte e vita appaiono quali
aspetti di una ampia, seppur talvolta inconsapevole, strategia di
sopravvivenza. Profonde urgenze di trasformazione sembrano investire l’arte e le sue istituzioni, slittamenti e ripensamenti necessari a
garantire la specificità della creazione artistica e la sua incisività nella
contemporaneità, ovvero nell’era del “capitalismo immaginario,
regime economico in cui il plusvalore è generato anche da percezioni, fenomeni e sensibilità di tipo estetico e artistico”, secondo le
parole di Senaldi. L’esperienza della frammentazione del mondo e
l’esplorazione della dimensione comunicativa diventano dunque
reazioni possibili alle dinamiche dominanti della realtà contemporanea, attraverso le quali una parte della ricerca artistica delinea uno
spazio dal quale affrontare criticamente, senza tuttavia esserne integrata, la dimensione socio-politica.
Le riflessioni teoriche di economisti, giuristi e critici d’arte
mostrano come alcuni meccanismi tradizionali di scambio, alcune
norme giuridiche e persino certe dinamiche del mondo dell’arte cosí
come hanno preso forma nella postmodernità, siano ormai ampiamente superate. D’altro canto, le stesse riflessioni mettono in luce
come la ricerca artistica abbia individuato in anticipo campi semantici e modalità di azione e comunicazione che fanno ormai parte del
lessico condiviso della sfera pubblica: processualità e partecipazione
in primo luogo. La recettività di quanti restano all’esterno rispetto
alle pratiche artistiche attuali – processuali, relazionali, comunicative,
Terreni di incontro: arte e società in Italia
critiche, ludiche e cosí via – è un fenomeno di un certo rilievo che i
saggi di questo libro contribuiscono a illustrare e interpretare. La
produzione artistica contemporanea, tanto nella sua specificità di
campo quanto nelle sempre maggiori interazioni con i nodi critici
della sfera pubblica, pone dunque nuove domande a una varietà di
discipline, dalla teoria dell’arte, all’economia, alla sociologia.
Se le “istituzioni” non rispondono, il territorio è estremamente
ricettivo. Forse perché la dimensione locale e l’urgenza diffusa di
individuare modi attuali per comprendere e proteggere genii loci in
trasformazione ma non deperiti, è il filo conduttore di tutte le riflessioni ed esperienze raccolte in Creazione contemporanea. Abbiamo dunque condotto una ricognizione intorno a pratiche culturali che prendono forma in scale diverse, pur consapevoli dell’esistenza in Italia di
altre realtà significative che hanno contribuito a precisare la prospettiva. In primo luogo, l’associazione Zerynthia, l’associazione Arte
all’Arte, la Fondazione Pistoletto, la Fondazione Ratti e il premio
Furla che da anni stanno conducendo un’opera di promozione e
sostegno dell’arte contemporanea di grande rilevanza.
Le attuali procedure di progettazione culturale nella sfera pubblica
hanno ricevuto, come si diceva, grande impulso dai programmi europei. Ma su scala continentale altri attori, ovvero le fondazioni private,
stanno diventando promotori sempre piú incisivi di programmi pilota
multidisciplinari e programmaticamente radicati nelle contraddizioni
dei territori (Dal Pozzolo). Pluralità di attori e inedite forme di azione
pubblica appaiono a ogni scala elementi propulsivi. Ne è un esempio
il progetto Ars Aevi per la creazione di un museo d’arte contemporanea a Sarajevo, frutto della collaborazione di numerose città e musei
europei e delle donazioni di opere da parte di molti artisti internazionali (Bertola). Un altro esempio è Torino, la città italiana che piú di
altre ha sviluppato una pratica consapevole di intervento pubblico
rispetto all’arte contemporanea il cui elemento catalizzatore è stata la
presenza di attori diversi, pubblici e privati (del Drago). Nel caso di
Torino, le scelte operate rivelano inoltre una diffusa consapevolezza
nell’affrontare l’impatto della deindustrializzazione, mettendo la contemporaneità e l’arte al centro delle politica urbana.
D’altro canto, l’affermarsi di una progettualità pubblica rispetto al
contemporaneo è stata in Italia particolarmente faticosa, soprattutto a
partire dal dopoguerra. Pio Baldi, Direttore Generale per l’arte contemporanea e l’architettura del Ministero dei beni culturali, illustra le
attuali e piú consapevoli direzioni di intervento dello Stato. Ma, in un
contesto in cui i rapporti tra arte e territorio diventano cruciali è
senz’altro la dimensione locale quella che presenta la maggiore creatività e innovazione. Per illustrarla abbiamo scelto esempi rappresentativi di contesti diversi: una regione, la Toscana, un piccolo comune,
Ciserano in provincia di Bergamo e l’Assessorato alle Periferie del
comune di Roma. Gli autori dei saggi, che sono anche i coordinatori
dei vari progetti, illustrano delle “poetiche pubbliche” (Binni), sottoli-
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Creazione contemporanea
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neano il ruolo di “regista e catalizzatore di risorse” che dovrebbe svolgere l’amministrazione (Annecchiarico) e individuano convergenze
metodologiche e operative tra politiche pubbliche e ricerca artistica
che, proprio in virtú delle sue pratiche di infiltrazione, comunicazione e analisi complessa dei territori, può fornire delle indicazioni di
metodo e talvolta di poetica per la gestione dei territori stessi. La multidisciplinarietà emerge come prospettiva elettiva di tutti i progetti
illustrati, in particolare nel caso della regione Toscana, che ha scelto
un analogo approccio al territorio sia per i programmi di arte contemporanea sia per quelli dedicati alla società multiculturale. Inoltre,
sia nel caso della Toscana sia in quello di Roma, l’assunzione consapevole della contemporaneità viene riconosciuta come il modo piú
accurato per garantire tanto la sopravvivenza del patrimonio culturale
quanto l’equilibrio del territorio.
Una diversa articolazione dell’azione statale appare ad alcuni
come uno dei fattori che contribuiscono alla vitalità della dimensione locale, poiché apre nuovi spazi di azione pubblica per gli attori
territoriali, sia pubblici che privati (Bondardo). Attore privato sul
territorio è la Fondazione Teseco per l’arte contemporanea che con
l’obiettivo di sollecitare nel territorio pisano una riflessione articolata sulla contemporaneità (Paoletti Masini) promuove programmi di
committenza e acquisizione di opere, e uno spazio di incontro tra
ricerca artistica e mondo del lavoro. Un approccio multidisciplinare
– che coniuga prospettive umanistiche e progettuali, scientifiche e
antropologiche – è alla base anche della concezione dell’Interactive
Design Institute di Ivrea, luogo di formazione per la progettazione
di strumenti contemporanei (Crampton Smith). La Fondazione
Adriano Olivetti a sua volta assume la posizione di mediatore tra
pratiche e contesti discorsivi e disciplinari diversi, focalizzando le
sue attività di ricerca e promozione della produzione artistica sulle
relazioni tra l’arte e le dinamiche complesse della società (Gennari
Santori). La multidisciplinarietà, approccio programmatico per
molti dei progetti illustrati in questo libro, risponde dunque alla
condizione storica contemporanea, alle forme espressive attuali e a
schemi produttivi in trasformazione.
La promozione e la tutela di un contesto che garantisca il dispiegarsi della creatività e il suo riconoscimento da parte della collettività è percepito non soltanto come un valore sociale, ma anche economico. Sia gli amministratori pubblici, sia gli attori privati individuano nella creatività, intesa nel senso piú ampio del termine, una
forza in grado di innescare dinamiche di sviluppo a cascata in campi
diversi. Al contempo, nessuno degli autori dei saggi presenti in Creazione contemporanea, pur realizzando progetti relativi all’arte e alla
committenza culturale, confonde la promozione della attuale scena
creativa con le tradizionali politiche di investimento culturale, siano
esse sponsorizzazioni da parte degli attori privati o promozione di
eventi destinati al consumo da parte delle istituzioni pubbliche. Al
Terreni di incontro: arte e società in Italia
contrario, per molti autori l’obiettivo è la creazione di un patrimonio collettivo attraverso la produzione o la committenza di opere
d’arte. Una volontà che non è affatto in contraddizione con la promozione di progetti basati sulla processualità ma risponde a una
domanda diffusa di creazione artistica in chiave tuttavia non monumentale né celebrativa né tanto meno occasionale. Crediamo che
questa propensione alla produzione risponda anche a una necessità
largamente percepita: l’individuazione di pratiche economiche che
oltrepassino la dinamica dell’offerta per promuoverne una della
domanda, avvertita come piú sostenibile.
Tra retrocessioni e avanzamenti di istituzioni e attori vecchi e
nuovi, permangono spazi non ancora colonizzati. Uno di questi, nel
quale si muove xing, network di produzione culturale, si situa tra la
scena creativa e il mondo delle aziende. Anche Ars Aevi è una risposta
attuale all’urgenza di individuare una nuova concezione di museo
che superi la localizzazione geografica e culturale pur rimanendo
legato al territorio in cui si inscrive. Pur rappresentando l’uno una
risposta produttiva e l’altro una istituzionale, sia xing che Ars Aevi, si
muovono in quello spazio in perpetua trasformazione tra pubblico e
privato. Uno spazio nel quale la Fondazione Adriano Olivetti si è programmaticamente collocata fin dal 1962 e che ha contribuito a delineare attraverso le sue ricerche e attività.
Creazione contemporanea suggerisce dunque le direzioni di una economia della cultura attuale, pertinente a quella zona tra scena creativa e sistema economico che abbiamo intercettato, nella quale attori
di natura diversa stanno elaborando forme di produzione e sostegno
della creazione contemporanea destinate alla collettività e informate
a un approccio multidisciplinare. Come emerge dalle pagine successive, le implicazioni per la teoria e la pratica economica, e piú in generale per la teoria della cosa pubblica, aprono un ventaglio di questioni di grande attualità, pertinenti a diverse discipline.
L’autonomia e la specificità locale delle iniziative presentate in
questo volume costituisce la ricchezza principale del campo che
abbiamo delineato. Tuttavia è necessario sottolineare che le esperienze territoriali non hanno a disposizione in Italia strumenti di valorizzazione di respiro nazionale. Una delle tante conseguenze di questa
carenza è che le dinamiche di legittimazione di queste pratiche
appaiono oggi troppo interne e funzionali al campo di azione dei
progetti stessi: ci troviamo di fronte a una costellazione di iniziative
eccellenti che fanno fatica, e non per loro responsabilità, a essere
riconosciute e valorizzate come “buone pratiche”. Il paradosso, in
questo come in altri campi, è che il riconoscimento internazionale, e
di conseguenza l’accesso a un contesto dove i meccanismi di valutazione e valorizzazione sembrano piú lineari, si ottiene con maggiore
facilità di quello nazionale. Ci auguriamo con questo volume di fornire non soltanto un panorama di iniziative e progetti, ma anche alcuni
elementi per la loro interpretazione, analisi e futuro sviluppo.
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Il sistema della creazione contemporanea: una prospettiva molteplice
Martina De Luca, Michele Trimarchi
La creazione contemporanea è stata spesso analizzata in una prospettiva isolata, nella quale l’attività creativa dell’artista viene presentata come visionaria e anticipatrice di una temperie tutta da immaginare; l’opera d’arte viene realizzata – in questa lettura – nonostante
un reticolo istituzionale, sociale ed economico se non ostile quanto
meno indifferente. Questa interpretazione, estremamente riduttiva
ma accreditata, ha finito per mettere a fuoco la componente individualistica dell’arte, generando un’oleografia nella quale l’artista è il
profeta inascoltato, che soltanto la sensibilità personale del mecenate illuminato riesce a comprendere in anticipo; e se le istituzioni
pubbliche intendono sostenere la creatività, devono farlo in modo
acritico, generale e privo di progettualità e di incentivi. L’arte contemporanea appare cosí autoreferenziale, lontana dalla società,
incompresa e incomprensibile.
L’opportunità di un’analisi multidisciplinare è piuttosto inedita
per il mercato dell’arte; nel passato anche recente, i mercati dell’arte non sono stati mai analizzati dai propri contemporanei, con il
risultato bizzarro che l’economia, la sociologia, in parte la stessa storia dell’arte rivolgono la proporzione piú elevata della propria
riflessione a mercati del passato, evincendo dai nobili resti trasmessi
alle generazioni di oggi una ricostruzione dei meccanismi di funzionamento che appare quanto meno incompleta. L’artista povero (se
si vuole l’artista in quanto povero), cosí come l’artista libero da
influenze e condizionamenti di ogni tipo sono immagini dure a
morire, nonostante la storia dell’arte e le stesse semplici biografie
di molti creatori del passato ci mostrino con evidenza figure che
oggi definiremmo “artista di regime”. In questo senso, cogliere la
possibilità di un’analisi “in tempo reale” dei mercati dell’arte non è
soltanto necessario per comprendere i meccanismi, gli indirizzi e le
prospettive dell’arte qui e oggi, ma anche ai fini di una piú completa interpretazione dei fenomeni artistici del passato nel loro contesto sociale e istituzionale.
La prospettiva multidisciplinare appare ancor piú ineludibile in
questa fase complessa, nella quale si registra una vitalità crescente
nelle modalità creative, produttive e di scambio dell’arte contemporanea, che abbandona progressivamente i paradigmi dominanti (e
ormai in parte cristallizzati) per sperimentare nuove forme d’azione.
Scompostezza e fertilità caratterizzano questa stagione appena cominciata, in cui gli artisti sperimentano nuove vie creative che si mostrino
capaci di connettere incisivamente i contenuti e le modalità, traendo
nuove e piú forti giustificazioni dall’inserimento organico dell’artista
e della sua opera nella temperie sociale. Il profeta cede il passo all’interprete critico: l’artista contemporaneo, non piú alieno e contrappo-
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Creazione contemporanea
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sto rispetto a una società parruccona e in definitiva tetragona alle sollecitazioni cognitive, declina con efficacia i bisogni emergenti della
comunità, e inserisce la propria opera in un contesto organico, non
piú autoreferenziale ma capace di innescare una fertilizzazione reciproca continua con le istanze che scaturiscono dalle aggregazioni
sociali, con le nuove consapevolezze degli individui e delle comunità,
con la ricerca di senso e di qualità nella vita quotidiana all’interno
del palinsesto urbano e territoriale. L’arte diventa un sistema che
rafforza le opportunità di benessere.
In un contesto cosí disegnato dalla capacità di intervento dell’artista contemporaneo (e dalla conseguente capacità di mobilitazione
dei mercati dell’arte), non meraviglia che una dose crescente di
attivismo provenga dalle istituzioni pubbliche locali. Lo Stato centrale, tradizionalmente piú impegnato nell’azione di conservazione
del patrimonio del passato ha avviato la ricerca di nuovi meccanismi
di sostegno dell’arte in relazione alle molteplici forme di creazione
artistica che richiedono sempre di meno un flusso compiacente di
denaro, e sempre di piú un’ossatura infrastrutturale e istituzionale
capace di moltiplicarne l’impatto sul territorio. In questo contesto
gli enti locali piú capaci di visioni anticipatrici occupano morbidamente, assecondando una lettura della realtà nella quale il segno
dell’arte contemporanea abbandoni la sua valenza di feticcio iniziatico per espandersi tra i segni del quotidiano, naturalizzando la propria presenza tra percorsi urbani, spazi funzionali, orizzonti
ambientali. Il fiorire di iniziative sempre piú coraggiose si deve ai
comuni di Torino, Bolzano, Trento, alla regione Campania, a realtà
territoriali di diverse dimensioni ma accomunate dalla corretta lettura del rapporto potenziale tra creazione contemporanea e benessere materiale e immateriale delle proprie comunità. Allo stesso
tempo, e per gli stessi motivi, sono gli enti locali – anche grazie alla
minor presenza di vincoli legislativi e regolamentari – a sperimentare forme di gestione nelle quali il contributo rispettivo delle istituzioni pubbliche e private riesca a indurre una moltiplicazione virtuosa delle capacità gestionali.
Il riferimento attivo a contesti territoriali specifici enfatizza il
ruolo sociale dell’arte; dagli anni Cinquanta in poi, e sulla scia delle
avanguardie, l’oggetto artistico si dematerializza progressivamente,
abbandonando i codici tradizionali e guidando l’esodo dell’opera
d’arte contemporanea dalle griglie museali; questo passaggio nasce
dall’esigenza di indurre e produrre cambiamenti sostanziali nella
temperie sociale. La progettazione e la creazione dell’opera d’arte
al di fuori degli spazi istituzionali rafforzano le nuove funzioni dell’arte, che sperimenta una gamma variegata di protocolli produttivi,
attivando la reazione critica di un bacino territoriale sempre piú
consapevole; l’arte diventa ufficialmente “pubblica”, con un’etichetta che comprende comodamente una serie eterogenea di interventi
nei quali il denominatore comune è dato dall’insoddisfazione per le
Il sistema della creazione contemporanea
forme convenzionali di creazione e realizzazione, e dalla necessità
di una presenza attiva dell’interlocutore primario dell’arte contemporanea, la società.
I legami tra arte contemporanea e territorio, pertanto, si specificano e si rafforzano, almeno in quattro possibili direzioni:
- la creazione artistica contemporanea genera un paradigma di
produzione, scambio e distribuzione che presenta notevoli peculiarità sociali, economiche e finanziarie, mostrandosi come un possibile riferimento non soltanto per il settore artistico e culturale, ma
per tutti quei comparti economici a forte intensità di informazione
per i quali le tradizionali forme di interazione appaiono decisamente obsolete;
- l’opera d’arte si mostra capace di generare un impatto variegato
ed esteso sul versante economico, contribuendo ad accrescere il
benessere degli individui e della comunità attraverso l’instaurazione
di un nuovo rapporto tra spazi del quotidiano e qualità della vita, la
creazione di una gamma di benefici immateriali, il rafforzamento dell’identità di luoghi capaci di attrarre attività economiche e di soddisfare bisogni individuali;
- le modalità creative e produttive dell’arte contemporanea evidenziano un inedito paradigma relazionale tra gli attori del campo
artistico e la società nel suo complesso, proponendo lucidamente un
radicale ridisegno della gerarchia dei valori, a tutto vantaggio della
creatività e dei beni immateriali; in questo modo ne risulta influenzata in misura consistente l’intera mappa dei bisogni e dei valori, con
una posizione sanamente dominante per la creatività;
- la stratificazione dei mercati dell’arte contemporanea fa emergere con forza un piú ampio e complesso fabbisogno di sostegno, di
progettualità e di azione da parte delle istituzioni pubbliche, superando la visione moraleggiante del mero appoggio finanziario ex ante, e
incoraggiando nuove capacità di sintonizzare strumenti e meccanismi
dell’azione pubblica al bisogno di perfezionamento e di fertilizzazione del quadro di riferimento.
Queste trasformazioni accreditano un ruolo ben piú complesso
per l’artista creativo e per la sua opera. Rimangono salve, e tali devono rimanere, le vie imperscrutabili che l’artista segue nel processo di
concezione e creazione della propria opera; questa, però, entra in un
ciclo vitale che appare sempre piú permeato di lucidità, di consapevolezza e di razionalità, finendo per far prevalere – virtuosamente – il
suo ruolo sociale su quello individuale. La visione creativa solitaria
che caratterizza molte interpretazioni delle attività artistiche viene
progressivamente limitata a favore di una valenza dialogica e interattiva del lavoro dell’artista; la realizzazione di manufatti aventi valore
artistico lascia il punto focale dell’analisi, a vantaggio di un’attenzione multidimensionale nei confronti dei processi creativi; il destinatario ideale dell’opera d’arte diventa un destinatario concreto, identifi-
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Creazione contemporanea
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cabile nel territorio, riconoscibile nel ventaglio dei propri bisogni.
Il pubblico cambia aspetto. I fruitori dell’arte contemporanea
non sono piú sottoposti alla selezione naturale generata dall’esigenza
di frequentare musei e gallerie per poter accedere sensorialmente e
cognitivamente all’opera d’arte contemporanea; essi si trovano, indistintamente, dappertutto; e coprono una gamma di caratteristiche
talmente dispersa ed eterogenea da non autorizzare piú una lettura
compatta del “pubblico” come insieme specifico di fruitori mossi da
bisogni comuni e da un medesimo paradigma interpretativo ed edonistico. Le esigenze dei fruitori contemporanei scaturiscono da
un’urgenza di qualità e di dignità cui l’arte contemporanea può fornire risposte infungibili e dirimenti.
Ai mutamenti nel ruolo dell’artista e nei tratti identitari del pubblico corrispondono altri radicali smottamenti – per il momento in
atto ma già ben visibili – nella griglia di relazioni e di significati che
governa i movimenti degli altri attori del sistema: il settore privato,
intanto, con la sua fioritura di contenitori istituzionali, che abbandona le vesti strette e passive del sostenitore entusiastico, acritico e
occasionale, per trasformarsi in co-progettista e maieuta consapevole; il settore pubblico, che non può limitare la propria azione al
sostegno finanziario generalista, ma si avvia verso un ruolo piú
costruttivo (e con un impatto verificabile lungo un orizzonte temporale ben piú esteso), indirizzato verso la dotazione di infrastrutture
tecnologiche, la predisposizione di incentivi, l’ampliamento delle
opportunità, in modo da riflettere l’impatto della propria azione sia
sull’attività degli artisti creativi sia sulla società “destinataria” della
loro opera; le comunità residenti nel territorio, che attraverso lo sviluppo di forme pertinenti di committenza pubblica superano il
modello del museo o dello spazio espositivo paracadutato in un contesto predefinito e spesso alieno, per dedicarsi alla promozione di
interventi organicamente riferiti al proprio contesto di riferimento e
capaci di articolare il benessere locale in una relazione continua con
le altre attività del territorio.
All’urgenza di un ridisegno dei mercati dell’arte contemporanea fa da contrappunto, sul piano analitico, lo sforzo multidisciplinare che caratterizza questo volume. L’intento è costruire a piú
mani e da diversi punti d’osservazione critica, una fotografia dinamica e lucida degli sviluppi recenti dell’arte contemporanea e dei
fenomeni loro connessi. Scomposta e fertile fenomenologia, come
si diceva in apertura di questa nota e come si ricava dall’esposizione critica di esperienze varie e talvolta ancora embrionali, ma che
testimoniano dell’esigenza crescente di un nuovo e piú articolato
paradigma istituzionale, produttivo e di scambio. L’analisi ne
coglie il fermento e segue il sistematizzarsi di una visione prospettica che parte da iniziative isolate, occasionali e perfettibili per coagularsi, nel corso del tempo, in una griglia di riferimento concettuale sempre piú ricorrente.
Il sistema della creazione contemporanea
Il volume evidenzia le questioni aperte, riscontrabili nei punti di
debolezza cosí come nei vuoti da colmare. Il sistema dell’arte appare
fortemente sui generis, soprattutto nella realtà italiana, terreno vergine d’eccellenza per un mercato finora piuttosto ignorato a livello
istituzionale. Questa relativa freschezza del campo artistico contemporaneo ha dato vita a una sorta di moltiplicazione degli attori coinvolti nei processi creativi, inducendoli a elaborare una varietà notevole di soluzioni organizzative, gestionali e distributive. Coglierne il
fermento caotico e incisivo arricchisce le ragioni di un’analisi che
sperimenta la sua fase iniziale e che necessita senza dubbio di ulteriori approfondimenti critici.
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L’ORIZZONTE ECONOMICO
I mercati dell’arte contemporanea: preferenze individuali,
azione pubblica e strategie private
Michele Trimarchi
“Suona il violino?”
“No. La mia passione è l’arte. Sono un vero esperto di pittori di serie
B. Lo sa che cosa differenzia assai spesso un pittore di serie B da uno
di serie A?”
“No.”
“Nulla. Assolutamente nulla. La storia dell’arte, e penso anche quella
della letteratura, è piena di amare ingiustizie. Un periodo consacra i suoi
valori e li trasmette in blocco a quello seguente. Non si controlla mai se il
primo giudizio fu veritiero. Nella bottega di Velásquez ci furono non
meno di due allievi che dipingevano bene quanto lui. Pensi un po’”.
Manuel Vásquez Montalbán, La solitudine del manager, 1977
I mercati dell’arte contemporanea
L’analisi economica dei mercati dell’arte
Ambigui e proteiformi, i termini “arte” e “cultura” indicano una
molteplicità eterogenea di fenomeni. L’analisi economica conduce
da quasi quarant’anni un sistematico tentativo di indagine e interpretazione dei meccanismi che ne regolano i mercati, concentrando prevalentemente la propria attenzione sul passato. Ora, per quanto pervasi da elementi soggettivi e da profili metaeconomici, i mercati della
cultura tradizionale risultano piuttosto semplici da analizzare, a causa
della loro piú contenuta dinamica.1
Molto piú complesso è condurre un’indagine economica sui mercati dell’arte contemporanea, il cui spettro analitico si estende al processo di creazione e produzione dei beni artistici e culturali, osservabile “in corso d’opera”, e ad alcuni fenomeni – quali per esempio i
rapporti tra artista e committente, o tra artista e istituzioni pubbliche
– che sono di norma trascurati, quando non fuorviati, se l’indagine
riguarda il passato.
Cosí, per esempio, l’analisi economica tende a generalizzare sul
grado di libertà degli artisti del passato, o sulla loro capacità imprenditoriale, accreditando una visione piuttosto idilliaca dei rapporti tra
l’artista e la società, cosa che è smentita dalla storia dell’arte ma che
complica non poco la vita all’economista che ha bisogno di evidente
razionalità e pertanto di una certa standardizzazione nelle relazioni
messe a fuoco.2
Anche per questi motivi appare indispensabile elaborare una compiuta analisi dei mercati dell’arte contemporanea, il cui andamento
complesso e farraginoso, la cui evoluzione in corso mentre l’analisi
viene svolta, le cui “anomalie” economiche permettono un grado di
approfondimento e un’esigenza di interpretazione ben piú delicati.
In questo senso, comprendere i meccanismi dei mercati dell’arte
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Creazione contemporanea
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contemporanea diventa un’efficace via per riscrivere l’interpretazione economica dei mercati dell’arte del passato.
Infatti, ciò che appare sostanzialmente diverso tra questi mercati e
quelli operanti nel presente è la presenza dell’economista. I mercati
della produzione e del consumo di arte e cultura nei secoli passati
sono stati descritti criticamente da storici, storici dell’arte, umanisti e
cronisti; i loro meccanismi non sono stati mai esaminati nella prospettiva dell’economista, ossia in termini di obiettivi individuali e
finalità collettive, di impiego delle risorse e loro finalizzazione, di rilevanza dell’informazione e meccanismi di selezione, di strumenti
incentivanti e distribuzione del rischio.
Analizzare i mercati dell’arte contemporanea è dunque utile per
chiarire processi e meccanismi di creazione, produzione, scambio e
promozione dell’attività degli artisti e delle loro opere in presenza di
un reticolo di individui e istituzioni, portatori di interessi specifici e
spesso confliggenti reciprocamente; si tratta di mercati in evoluzione: i
loro meccanismi andranno presumibilmente a semplificarsi nel corso
del tempo; tuttavia la loro attuale vitalità scomposta appare un campo
d’indagine di grande interesse, potendo fornire all’economista stimoli
analitici indispensabili per studiarne compiutamente l’andamento,
molto utili per completare l’analisi dei mercati dell’arte del passato, e
comunque rilevanti per mettere a fuoco aspetti apparentemente anomali nel funzionamento dei mercati dei prodotti manifatturieri o dei
servizi, sempre piú pervasi da valori ed elementi immateriali.
Il paradigma economico: indirizzi e limiti
La difficoltà maggiore che emerge nell’analisi dei mercati dell’arte contemporanea consiste nel loro confronto con gli altri mercati,
che l’economia si ostina a considerare omogenei, e ricadenti in un
unico, generale paradigma di funzionamento. Definire in modo pertinente i mercati dell’arte rispetto agli altri mercati appare un’esigenza preliminare, allo scopo di impedire il sorgere di equivoci e luoghi
comuni che ne spingerebbero l’analisi verso una ricostruzione oleografica e poco corrispondente alla realtà.
Il dilemma appare abbastanza rilevante: da una parte, non è possibile ipotizzare che i mercati dell’arte manifestino la stessa fenomenologia di un mercato manifatturiero seriale; si può osservare che nessun mercato è una replica perfetta del suo modello economico di
riferimento, tuttavia è corretto affermare che le similitudini superano
di gran lunga le difformità, e che il modello da laboratorio che i
manuali di economia propongono torna comunque utile a investigare sui mercati concreti; i mercati dell’arte, però, presentano caratteristiche che sarebbe riduttivo classificare come eccezioni occasionali,
dal momento che in molti casi ne risultano aspetti specifici e determinanti (vedi paragrafo successivo).
Dall’altra parte, la resistenza dei mercati dell’arte a rientrare nel
paradigma economico convenzionale non deve indurre all’abbando-
I mercati dell’arte contemporanea
no di qualsiasi possibile categorizzazione, cercando di dimostrare
che tali mercati non possono essere fatti oggetto d’indagine economica, e che la loro asserita specialità li rende meritevoli di una posizione sui generis nella quale i concetti economici non possano svolgere alcun utile ufficio. La soluzione corretta è pertanto un’analisi che
riconosca e prenda in esame le caratteristiche specifiche dei mercati
dell’arte, accettando che nel loro funzionamento esercitino un’influenza non trascurabile valori e criteri peculiari ma non irrazionali,
elementi di giudizio soggettivi ma non arbitrari, dinamiche irregolari ma non incomprensibili.
Questa necessità, di analizzare i mercati dell’arte elaborandone
una lettura critica fondata sulle loro specificità, revoca in dubbio la
pertinenza di concetti economici come l’efficienza, la concorrenza o
il benessere; assimilare pedissequamente la griglia di riferimento dei
mercati dell’arte a quella usuale dell’economia manifatturiera nel
suo complesso rischia di imporre concetti tipici della produzione
standardizzata; produrre lungo la curva dei costi minimi è certamente ottimale dal punto di vista dell’imprenditore manifatturiero, che
organizza i fattori produttivi in un processo produttivo tipizzato, nel
quale l’assorbimento di un’innovazione tecnologica o semplicemente
una diversa combinazione dei fattori stessi accrescono l’efficienza
attraverso una riduzione dei costi di produzione; ma è irrilevante (in
quanto non misurabile) per l’artista creativo cosí come per il curatore di una mostra o di una collezione.
Il prodotto artistico, e i suoi mercati di sbocco, è caratterizzato da
una forte e imprescindibile multidimensionalità. Esso può essere
valutato sotto molteplici profili, dal soddisfacimento di un bisogno
immateriale edonistico manifestato dal singolo consumatore alla
capacità di generare valore monetario con il passare del tempo e con
l’intensificarsi degli scambi; una descrizione compiuta dei suoi profili
economici deve tenere conto di questa varietà di funzioni-obiettivo
che si incrociano (o si scontrano, nel caso frequente di interessi confliggenti, o di obiettivi reciprocamente incompatibili) intorno al prodotto artistico stesso.
Si tratta di un prodotto dalla predominante valenza
informativa,3 del tutto privo di capacità funzionali (il che ne impedisce una valutazione “oggettiva” in termini tecnici), che viene
fatto oggetto di valutazioni soggettive caratterizzate da una notevole componente emotiva nonostante la consapevolezza del suo valore commerciale attuale e del suo rendimento finanziario nel corso
del tempo. È dunque un prodotto dalla natura ambigua e ibrida, la
cui valutazione può risultare anche molto difforme secondo il
ruolo istituzionale o la competenza estetica di chi la effettua: un
artista, un critico, un curatore, un mercante, un gallerista e un
consumatore individuale formulano giudizi e valutazioni da prospettive, con obiettivi economici e con uno stock informativo di partenza del tutto diversi.
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Creazione contemporanea
Una mappa critica dei mercati dell’arte contemporanea
La specificità dei mercati dell’arte contemporanea risulta con
chiarezza facendo riferimento alle loro caratteristiche fondamentali.
Si deve sottolineare, secondo quanto osservato sopra, che la descrizione di questi aspetti potrebbe attagliarsi in gran parte ai mercati
dell’arte di ogni periodo storico; la menzione esplicita che si tratta di
arte contemporanea vale piú a indicare l’oggetto empirico dell’analisi che non a enfatizzare presunte e non dimostrate peculiarità di tale
mercato rispetto a quelli dell’arte del passato quando essa era contemporanea; e in ogni caso se ne possono ricavare interessanti stimoli
da finalizzare allo studio dei mercati della cultura, luoghi dello scambio presente di prodotti realizzati in passato.
Le caratteristiche descritte di seguito non devono, inoltre, considerarsi particolarmente rilevanti in un determinato momento storico. Piuttosto, esse si possono riscontrare come elementi dinamici
nella fenomenologia strutturale dei mercati dell’arte; in alcuni periodi si mostreranno piú accentuati, in altri di meno, ma si deve ritenere
che essi costituiscano una forte traccia di riconoscibilità per i mercati
dell’arte, a causa della loro natura multidimensionale, dell’importanza che vi assume l’informazione, dell’influenza che esercitano sulle
scelte e sulle strategie argomenti metaeconomici.
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a. espansione; i mercati dell’arte sono caratterizzati da confini incerti
e in continua evoluzione, a causa della flessibilità crescente dei concetti stessi di arte e di cultura. Al di qua di una certa generosità semantica
del termine “arte”, con il quale si possono indicare una varietà enorme
di fenomeni, si deve registrare un crescente riconoscimento convenzionale (dunque maggioritario) della qualifica, che va espandendosi in
campi precedentemente esclusi dal novero delle attività considerate
“artistiche”. Ora, è vero che è del tutto corretto parlare di “arte culinaria”, ma è altrettanto vero che negli ultimi anni si sente sempre piú
spesso declinare l’attività del cuoco come arte creativa, il che è sostanzialmente diverso. Anche limitando la nostra analisi, dovremo prendere atto che vi sono forme d’espressione prima ritenute eccessivamente
“popolari” o, al contrario, ermetiche, e da un certo punto in poi accettate convenzionalmente tra le forme d’arte: si pensi ai graffiti, ai murales, a molti interventi sul paesaggio urbano, alle performances, che fino a
qualche decennio fa nessuno avrebbe definito alla stregua delle attività
artistiche ritenute convenzionalmente “elevate”.
b. stratificazione; i prodotti dell’arte contemporanea sono negoziati
e scambiati in una molteplicità di mercati. Tali mercati risultano collegati in vario modo, dotati di un diverso grado di visibilità e ufficialità, non soltanto a causa dei mercati clandestini e illegali, pur rilevanti in piú d’un caso, ma anche per la presenza tutt’altro che trascurabile di vendite private e scambi informali. La stratificazione risulta
dalla collocazione reciproca dei mercati dell’arte contemporanea,
I mercati dell’arte contemporanea
che in alcuni casi appaiono posti in sequenza logica e cronologica (il
mercato delle gallerie private e quello degli acquirenti individuali),
in altri casi possono trovarsi in una posizione di reciproca esclusione
(il mercato delle gallerie private e quello dei musei istituzionali); si
consideri inoltre che queste posizioni rispettive non sono rigide, e
possono assumere assetti cangianti secondo i casi (il museo può
acquistare dalla galleria, entrando in sequenza con un mercato di
norma alternativo). La stratificazione è molto importante se si vuole
analizzare il processo di formazione del valore, l’orizzonte di vita dell’opera e dell’artista, la contestuale erogazione di benefici privati e
pubblici da parte dell’opera o delle collezioni in cui essa è inserita. In
questo modo è possibile anche identificare il ruolo svolto da attori
istituzionali (come per esempio i critici) nell’esercitare un’influenza
ai fini della determinazione del valore dell’opera.
c. imprecisione; la molteplicità dei mercati e la varia combinazione
delle loro posizioni reciproche genera un elevato grado di imprecisione nell’identificazione e definizione dei loro confini, delle loro
caratteristiche strutturali e dei loro sbocchi finali. Ciò implica che un
artista o un singolo prodotto può muoversi di norma a cavallo tra piú
mercati, generando una forte e continua imprecisione nella determinazione del valore economico e finanziario. La rilevanza dell’informazione e la sua distribuzione asimmetrica tra gli operatori dei mercati accentua il grado di imprecisione, rendendo parzialmente incontrollabili le fonti dell’offerta e i flussi in uscita.
d. democratizzazione; il prodotto artistico, in una misura notevole
in confronto alla generalità dei prodotti, è caratterizzato dalla presenza di due aspetti fondamentali, che seguendo Lancaster possono
definirsi asset e decoration. 4 La possibile combinazione tra questi
aspetti, ossia il ruolo prevalente di oggetto da ammirare oppure di
investimento finanziario, dipende dall’evolvere delle convenzioni
sociali, e dunque dal livello di benessere materiale e immateriale,
dal grado di alfabetizzazione culturale e artistica, dall’estensione e
dalla fluidità delle comunicazioni. Ora, si può osservare una contenuta crescita della funzione decoration sulla funzione asset, sia per la
crescita del benessere economico che per la diffusione di grandi
mostre e altri eventi (come le discusse televendite) che richiamano
l’attenzione generale sul valore estetico delle opere d’arte. Si
potrebbe ritenere che una crescita sostenuta del reddito cui corrisponda una crescita, sia pure piú lenta, dell’alfabetizzazione culturale tenda a diffondere l’aspetto della fruizione individuale per
motivi di ammirazione e di soddisfacimento di un bisogno percettivo e cognitivo rispetto alla funzione di investimento, tipica di una
società piú stratificata. Comunque si valuti il fenomeno, può certo
essere considerato un caso di democratizzazione del mercato dell’arte contemporanea.5
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Creazione contemporanea
Preferenze, valori, transazioni
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L’analisi economica della domanda
La domanda di prodotti dell’arte contemporanea presenta una
serie di caratteristiche specifiche che la rendono piú complessa e articolata rispetto alla domanda di merci dell’industria manifatturiera.
Pur non discostandosi, negli aspetti fondamentali, da questa, la
domanda di prodotti artistici appare in effetti notevolmente influenzata da mutamenti nelle preferenze individuali,6 generati dalla combinazione di una progressiva accumulazione dell’esposizione ai prodotti artistici e delle conseguenti oscillazioni del gusto individuale, e
di una rilevanza estremamente variabile di componenti emotive e
affettive ai fini dell’adozione di una strategia di consumo.
Un aspetto particolarmente delicato riguarda, inoltre, le relazioni
intercorrenti tra domanda e offerta. Si potrebbe affermare che, per
molti versi, la domanda di prodotti dell’arte contemporanea è direttamente indotta dall’offerta, considerata sia in termini grossolanamente dimensionali sia piú specificamente, con riferimento alla sua
concreta composizione in un determinato periodo di tempo. La questione è piuttosto complessa, se si considera che anche la presenza di
una domanda vivace, al di là dell’andamento della committenza ad
hoc, può indurre artisti affermati a incrementare quantitativamente
la propria produzione, allo scopo di soddisfare un numero crescente
di potenziali acquirenti (salva l’attenzione verso il rischio di una
caduta delle proprie quotazioni di mercato).
L’offerta è sicuramente un vincolo per la domanda, qualunque
risposta si voglia dare alla questione del rapporto causale che lega i
due versanti del mercato dell’arte contemporanea. Ciò va interpretato in termini di conoscenza diretta e indiretta, di opportunità di
accesso, di qualità della fruizione. Le preferenze individuali, come si
è detto, rispondono alla formazione del gusto individuale derivante
dall’accumulazione di uno stock di esperienze.
Da ciò si comprende facilmente come l’effettiva possibilità, per il
consumatore, di accedere al prodotto artistico e di fruirne con modalità capaci di arricchire il suo stock di esperienze risulta cruciale nell’influenzarne la domanda futura. Si comprende anche per quale
motivo il caso italiano presenta un notevole ritardo nella diffusione e
nell’accettazione popolare dell’arte contemporanea, dal momento
che la presenza capillare di una variegata offerta culturale riferita al
passato ha agito per molti versi da ostacolo rispetto all’avvio del processo di apprendimento cognitivo che accresce progressivamente
l’apprezzamento del consumatore individuale.
Il processo di formazione dei giudizi estetici “si manifesta con un
infittirsi progressivo della rete dei giudizi, accanto a rovesciamenti delle
valutazioni comparative dovuti al superamento di precedenti immaturi
canoni estetici”.7 Ciò implica che le scelte di consumo effettuate dall’individuo da una parte sono il frutto dei giudizi precedentemente ela-
I mercati dell’arte contemporanea
borati, e dall’altra concorrono a modificare questi stessi giudizi, in un
percorso cognitivo che si autoalimenta indefinitamente, mostrando di
basarsi su un ventaglio di giudizi estetici per definizione incompleti e
continuamente passibili di ulteriori aggiunte e articolazioni.
La rilevanza delle preferenze appare ancora piú complessa se,
invece di quelle individuali, si prendono in considerazione quelle
sociali. In questo caso non si tratta di una mera somma aritmetica di
quelle individuali, la cui aggregazione – proibita dalla teoria economica – risulterebbe utopistica anche soltanto in termini sommari. A
indirizzare le preferenze sociali, la cui manifestazione si può cogliere
indirettamente, attraverso il loro impatto su determinate scelte e strategie, contribuiscono attori del mercato dell’arte contemporanea
caratterizzati da una diversa capacità di influenza, anche a causa
dell’eterogenea dotazione di informazioni rilevanti, della piú o meno
cruciale posizione di snodo tra diversi mercati occupata da alcuni di
essi, dal diverso grado di monopolio goduto da ciascuno di essi in
merito sia alla produzione e allo scambio dei prodotti artistici, sia
all’elaborazione e diffusione dell’informazione.
La misurazione delle preferenze: evidenza empirica
Le analisi economiche svolte finora sulla domanda di prodotti dell’arte contemporanea si sono prevalentemente concentrate sull’andamento dei valori finanziari delle opere d’arte, cosí come rilevabili
attraverso i prezzi di vendita riferiti alle aste oppure alle vendite tra
galleristi e collezionisti. L’analisi delle variazioni dei prezzi ha spinto
gli economisti a ipotizzare un andamento parallelo tra il mercato dei
prodotti dell’arte contemporanea e il mercato borsistico, anche nel
tentativo di valutare e misurare il grado di fungibilità tra investimento
in opere d’arte e investimento in titoli azionari.
Il quadro che ne risulta è abbastanza preciso. Il mercato delle
opere d’arte appare molto vivace, e presenta una serie di andamenti
non del tutto prevedibili, in quanto spesso soggetti a oscillazioni irregolari generate dall’influenza di variabili soggettive e irreplicabili. È
un mercato che sembra oscillare continuamente tra le tentazioni
commerciali e un bisogno visibile di protezione pubblica. Tuttavia,
nonostante la vivacità e alcuni fenomeni (come le bolle speculative)
del tutto simili a quanto avviene nel mercato borsistico, non si può
concludere che offra una credibile fungibilità rispetto all’investimento finanziario tout court.
Sebbene l’arte contemporanea possa certamente rappresentare
una forma di investimento, nessuna sistematica correlazione appare
nelle analisi che prendono in esame l’andamento dei prezzi nel mercato delle opere d’arte e in quello dei titoli azionari, nonostante ci si
possa attendere – sul piano teorico – una qualche relazione quanto
meno nel lungo periodo.8 In ogni caso, si può registrare un sostanziale consenso sui livelli tendenzialmente piú bassi dei rendimenti
sulle opere d’arte rispetto a quelli registrati nel mercato azionario.
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Creazione contemporanea
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In effetti, “un rendimento relativamente piú basso dell’arte si spiega in effetti con l’esistenza di un dividendo estetico e, possibilmente,
con l’effetto derivante dall’appropriabilità. Questo confronto può
essere fuorviante, a causa della diversa natura dei beni scambiati in
questi mercati: l’effetto legato al dividendo estetico è strettamente
legato all’eterogeneità degli oggetti scambiati e con il basso grado di
liquidità del mercato dell’arte, caratteristiche che rendono il mercato
dell’arte piú simile al mercato immobiliare”.9
I risultati delle indagini empiriche mostrano un mercato interessante, e capace di sorprendere, come mostra l’analisi di Ginsburgh e Penders del tasso di rendimento annuo di alcune correnti artistiche cosí
come risulta da 2000 osservazioni su valori battuti in aste pubbliche
europee e statunitensi dal 1972 al 1991.10 Avvertendo che l’andamento
dei valori risultante dalle aste fornisce una fotografia soltanto parziale
dell’intero mercato delle opere d’arte, riportano un incremento nell’indice dei prezzi ben piú elevato per l’arte minimalista (23,8%), per
la Land art (20,0%) e per l’arte concettuale (18,9%), rispetto ai grandi
maestri europei (15,8%) e agli artisti americani (15,5%).
Sul piano opposto, Pommerehne e Feld confermano, con una
diversa indagine empirica, la rilevanza delle certificazioni pubbliche.11 Il mercato appare influenzato da una varietà di soggetti che
ricoprono ruoli piú o meno istituzionali, ma che ugualmente contribuiscono a indirizzare le scelte dei consumatori finali (i.e., in questo
caso, degli acquirenti delle opere d’arte). Nonostante la natura essenzialmente privatistica del mercato delle opere d’arte, una forte rilevanza è attribuita nella formazione del loro valore alla valutazione
che ne fanno i musei pubblici: mentre la generalità delle vendite nel
periodo 1820-1970 mostra un incremento del valore reale pari a
1,1%, le opere vendute a musei pubblici registrano nello stesso periodo un incremento del valore reale pari a 4,1%.12
In ogni caso, il mercato delle aste appare influenzato da una molteplicità di fattori, tra i quali giocano un ruolo essenziale l’assetto
delle interazioni sociali e delle convenzioni estetiche,13 e la diversa
influenza – o la possibile assenza, nel caso di collezionisti “puri” –
dello scopo di lucro, cosí come la difformità tra la funzione-obiettivo
individuale dei dirigenti nel caso di collezionismo aziendale, e dei
funzionari pubblici nel caso di acquisti istituzionali.14 Gli esiti e gli
andamenti, in questo senso, appaiono largamente incontrollabili.
Gli scambi nei mercati dell’arte contemporanea
La pluralità dei mercati dell’arte contemporanea si può analizzare
facendo riferimento alle transazioni che in questi mercati vengono
effettuate, da una molteplicità di soggetti (sia individuali che istituzionali, sia pubblici che privati), per una varietà di motivazioni (dal semplice e diretto appagamento di un’esigenza contemplativa all’investimento finanziario), e con un ventaglio eterogeneo di vincoli e condizioni. Un prodotto artistico può attraversare piú volte i confini che
I mercati dell’arte contemporanea
separano questi diversi mercati, spostandosi dal collezionismo privato
all’inclusione nel patrimonio pubblico o nello stock di un gallerista, e
inoltre può generare mercati secondari di tutto interesse, dall’uso
commerciale delle sue riproduzioni al “prestito” dei propri tratti per
il design,15 la moda, e altre creazioni non strettamente ed esclusivamente artistiche. Ne risulta un complesso reticolo di relazioni principale-agente,16 in cui la distribuzione dell’informazione, dei poteri
contrattuali e la difformità tra gli obiettivi strategici risulta determinante nell’influenzare gli esiti delle singole transazioni e l’andamento complessivo dei mercati.
Gli scambi effettuati nei mercati dell’arte contemporanea sono
caratterizzati dalla presenza di elevati costi di transazione, dovuti alla
necessità di acquisire una varietà di informazioni per poter adottare
un’efficace strategia; quanto piú occasionale la presenza nei mercati
dell’arte, tanto maggiore la rilevanza dei costi di transazione, che si
potranno superare soltanto grazie alla mediazione informativa di
attori sistematicamente presenti nei mercati stessi: il profano che
intende acquistare un’opera d’arte, ma anche il Comune che vuole
commissionare un prodotto artistico per uno spazio pubblico, incontrano notevoli strettoie informative, e sono costretti a fare riferimento a valutazioni e giudizi convenzionali, cosí come riportati da esperti, critici, altri operatori dei mercati dell’arte.
La maggiore o minore rilevanza e influenza dei costi di transazione caratterizza ciascuno snodo che collega un attore (o un gruppo di
attori) con un altro, aiutando a identificare in questo modo l’effettiva
distribuzione del potere negoziale e di conseguenza l’effettiva capacità di indirizzare le scelte e le strategie generali che contraddistinguono il campo dell’arte contemporanea. L’affermarsi di un artista, il
sorgere e lo sviluppo di una corrente, lo stesso andamento delle quotazioni di mercato di un artista o di uno specifico prodotto, sono tutti
elementi sui quali chi possiede lo stock di informazioni piú consistente può influire in notevole misura.17
I mercati dell’arte contemporanea appaiono dunque sensibilmente lontani dalla possibilità di un equilibrio ottimale, dal momento che
la stessa distribuzione dell’informazione, e l’influenza che questa
esercita sul loro assetto complessivo, li configura come una cascata di
transazioni con elevato grado di monopolio o di monopsonio: sia chi
vende sia chi acquista spesso detiene un elevato potere di mercato, e
in alcuni casi può rappresentare l’unico soggetto o istituzione credibile in un determinato territorio (si pensi al gallerista o alla casa d’aste che opera in un bacino territoriale limitato). Né le cose mutano
se si fa riferimento alle transazioni di dimensioni maggiori, in quanto
l’estrema rilevanza e delicatezza dello scambio finisce per attribuire
credibilità soltanto a un numero estremamente contenuto di attori,
sia sul versante dell’offerta sia su quello della domanda.
L’impossibilità di raggiungere un equilibrio ottimale è data dall’identità tra attori che effettuano le scelte relative alle transazioni e
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Creazione contemporanea
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attori che producono l’informazione rilevante sull’oggetto delle transazioni stesse. L’incompletezza e l’asimmetria informative appaiono
una condizione piuttosto normale nel definire l’assetto strategico di
qualsiasi mercato. Il produttore e il venditore di una merce erogano
una serie di informazioni tecniche sulle caratteristiche rilevanti di
quella merce, distorcendo potenzialmente il processo di scelta dell’acquirente. Nei mercati dell’arte questa condizione, già di per sé
capace di generare equilibri subottimali, è resa piú complessa da
almeno due aspetti specifici.
Infatti, nei mercati dell’arte l’informazione è prodotta ed erogata
da una molteplicità di soggetti, che partecipano a vario titolo ai processi di scambio (e che in qualche caso – si pensi ai critici – non vi
partecipano affatto); ciò genera un grappolo di informazioni che si
autoalimenta lungo il processo dello scambio, rendendo piú complessa l’acquisizione delle informazioni stesse, e pertanto elevando
in buona misura i costi di transazione. Inoltre, una proporzione rilevante delle informazioni necessarie consiste in valutazioni, giudizi e
altre proposizioni soggettive e potenzialmente controverse, che rendono complicato per chi opera uno scambio effettuare una selezione affidabile; anche per questa via i costi di transazione si mostrano
molto elevati e pervasivi, certamente in misura maggiore che nella
generalità degli altri mercati.
Ora, nei mercati delle merci l’informazione può esercitare un’influenza di breve periodo, subendo alla lunga il controllo effettuato
dagli stessi consumatori o dalle loro organizzazioni: si pensi alle
caratteristiche tecniche di un prodotto, che possono certamente
essere magnificate, ma nel lungo periodo i consumatori hanno
modo di verificare il grado di veridicità delle affermazioni dei venditori. Al contrario, nei mercati dell’arte l’informazione prodotta
lungo le diverse fasi dello scambio (dal critico, dal gallerista, dal
mercante, dall’esperto)18 non può essere – per la sua stessa natura –
sottoposta ad alcuna verifica, ma soltanto all’occorrenza messa in
discussione da produttori di informazione dotati di pari potere contrattuale (ossia, in questo caso, di pari credibilità convenzionale),
con l’effetto di produrre indirizzi e distorsioni dell’andamento del
mercato che si rivelano efficaci anche nel lungo periodo, generando
una cascata indefinita di effetti (si pensi al peso relativo di due diverse correnti artistiche, una delle quali sia spinta con molta piú forza
dai produttori dell’informazione rilevante) e in definitiva determinando la tendenza generale dei mercati dell’arte contemporanea.
Nuove forme di produzione e organizzazione
L’arte contemporanea e il suo contesto
I meccanismi di apprendimento e apprezzamento, e la capacità di
indirizzo esercitata dai produttori dell’informazione concorrono a
rendere i mercati dell’arte contemporanea particolarmente dinamici
I mercati dell’arte contemporanea
sotto due profili complementari: da una parte, le tendenze e gli indirizzi relativi al contenuto artistico dei prodotti, in una parola il susseguirsi e sovrapporsi degli stili, delle scuole e delle correnti, la possibilità di emersione e consolidamento di talenti isolati non riconducibili
a gruppi convenzionalmente definiti, il mutamento anche repentino
degli andamenti e delle tendenze; dall’altra, la stessa struttura organizzativa dei mercati, che tende a rinnovarsi continuamente nella
consapevolezza che il prodotto artistico assume una piú articolata
valenza semantica e simbolica se le modalità con cui esso viene reso
disponibile all’esposizione e allo scambio si mostrano flessibili e capaci di esaltarne i molteplici possibili significati.
I mercati dell’arte contemporanea godono dunque di una duplice
vivacità, tanto sul piano dei contenuti quanto su quello delle modalità organizzative; queste caratteristiche si rafforzano a vicenda, in
una sorta di trascinamento reciproco. Una tendenza opposta si registra relativamente ai mercati dell’arte del passato, in cui le forme
organizzative (la produzione di esposizioni museali, l’erogazione di
servizi informativi, la comunicazione ecc.) risultano chiaramente
zavorrate dalla esplicita mancanza di volontà con riguardo a possibili
innovazioni metodologiche. Ciò priva di alcune importanti capacità
linguistiche l’arte del passato, costretta in questo modo a dialogare
con i propri fruitori in modo statico e incurante delle evoluzioni
nelle percezioni, nei gusti e nella gerarchia dei valori.
Quale che sia il destino dell’arte del passato sotto questo profilo, si
può osservare che la corrispondenza tra le dinamiche estetiche e quelle organizzative appare un elemento di indubbio vantaggio per l’arte
contemporanea, nei cui mercati l’introduzione di forme innovative di
produzione, diffusione e promozione del prodotto artistico genera
una riduzione progressiva del costo-opportunità. Ciò avviene sia rispetto a forme alternative di produzione artistica, sia con riferimento ad
altre scelte legate ai consumi dell’economia immateriale.
In sintesi, lo sforzo percettivo del consumatore (individuale e collettivo) si riduce progressivamente – e con esso i costi di transazione
che governano la scelta di consumare e la selezione delle opportunità
di consumo – grazie alla coerenza metodologica tra prodotto e modalità produttive. L’offerta artistica, in questo senso, si mostra capace di
generare flussi continui di adeguamento alle esigenze emotive e
cognitive dei fruitori. Tali flussi risultano naturalmente eterogenei, e
dotati di diversa efficacia; ma il fatto stesso che le modalità dell’offerta tendano a sintonizzarsi con un contesto percettivo e cognitivo in
evoluzione mostra la diversa potenziale efficacia dei mercati dell’arte
contemporanea rispetto a mercati analoghi.
Questa caratteristica specifica dei mercati dell’arte contemporanea
spiega in buona parte l’espansione di forme di committenza e di produzione originate dalle comunità e dai gruppi sociali in modo sostanzialmente spontaneo e in assenza di un iniziale indirizzo pubblico (e
indifferentemente rispetto alle ragioni della fruizione individuale).
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Creazione contemporanea
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L’arte contemporanea si trasforma e si arricchisce, uscendo dal ruolo
limitante di decorazione incisiva ma cristallizzata, per fondersi osmoticamente con il proprio contesto di riferimento e di rappresentazione.
La potenza espressiva del prodotto artistico appare dunque inseparabile dal contesto, che ne costituisce un tratto determinante anche sul
piano linguistico; in questo modo l’arte contemporanea riesce a massimizzare la propria ricaduta informativa,19 ricontestualizzandosi in
modo fertile rispetto alla sua musealizzazione, sia pubblica che privata.
Le piú estese opportunità che i mercati dell’arte contemporanea
riescono a sfruttare attraverso modalità organizzative innovative e in
sintonia potenziale con le aspettative percettive degli individui e della
società nel suo complesso vanno comunque valutate in termini di
costi e benefici differenziali, generati in confronto a modalità piú
consuete quale la semplice musealizzazione del prodotto artistico. L’identificazione dei benefici appare piuttosto semplice, se si tratta di
individuare il piú elevato ed esteso vantaggio che deriva ai fruitori
effettivi e potenziali dalla presenza di prodotti artistici in contesti spaziali e territoriali con essi coerenti; tuttavia, la misurazione di tali
benefici risulta inevitabilmente complessa e potenzialmente contraddittoria, nel caso in cui si voglia valutare la preferibilità dell’investimento in un progetto d’arte contemporanea rispetto a progetti alternativi aventi per oggetto la fruibilità degli spazi urbani o piú in generale la qualità della vita delle comunità residenziali.
Sul piano dei costi, inquadrare la creazione artistica nel proprio
contesto materiale e territoriale comporta un processo decisionale
notevolmente piú complesso; è facile esempio citare la “legge del
2%”20 per verificare quanto l’intenzione di contestualizzare prodotti
artistici nel paesaggio quotidiano della comunità sia stata facilmente
tradita dall’assenza di credibili meccanismi di identificazione e di un
sistema di monitoraggio e sanzione che impedisse la deriva poi verificatasi. La contestualizzazione del prodotto artistico implica inoltre
l’insorgere di una serie di problemi di manutenzione e sicurezza che
certamente superano gli omologhi costi sopportati nel caso della
semplice musealizzazione.
Inoltre, appare abbastanza importante stabilire con un grado elevato di attendibilità in che modo e da parte di chi saranno sostenuti
i costi futuri: una cosa è commissionare un’opera d’arte, cosa per la
quale la disponibilità a pagare degli individui e dei gruppi può efficacemente sostituire il settore pubblico ai diversi livelli di governo;
un’altra cosa è saper identificare e misurare i flussi di costo che si
renderanno necessari nei periodi successivi, allo scopo di conservare, mantenere e rendere fruibile il prodotto artistico in questione,
concordando negozialmente fin dal periodo iniziale la distribuzione
di tali costi futuri su soggetti e istituzioni che dovranno farsene carico. A questo proposito, può contribuire non poco a generare incertezza – vanificando sostanzialmente il progetto – la controversa identificazione dei destinatari futuri del prodotto artistico.
I mercati dell’arte contemporanea
L’elemento dirimente, in questo senso, è dato dalle preferenze
collettive, cosí come espresse in termini di aggregazione delle preferenze individuali nonché in termini di preferenze manifestate da istituzioni elettive a livello tanto centrale quanto locale. Al di là delle
possibili implicazioni teoriche che la manifestazione di tali preferenze può comportare (si pensi, per tutti, alla possibilità di rent-seeking
per gli amministratori pubblici o per i mediatori dello scambio, e allo
stesso modo per le possibili deformazioni del processo di scelta dovute, per esempio, alla valutazione dei diversi valori immobiliari generati dalla realizzazione del progetto artistico), va osservato sul piano
empirico che l’esperienza recente mostra con tutta evidenza una crescente percezione dei benefici netti che, a livello tanto individuale
quanto sociale, forme innovative di organizzazione dei mercati dell’arte contemporanea sono capaci di generare, in un sostanziale
accordo tra istituzioni pubbliche, imprese private, consumatori e
gruppi sociali piú o meno precisamente identificabili.
Nuovi ruoli per il settore pubblico
Sulla necessità e sulla coerenza dell’azione pubblica nel settore
artistico gli economisti hanno discusso a lungo. Per quanto la loro
cassetta degli attrezzi preveda una serie di ragionamenti che finiscono per giustificare teoricamente l’intervento pubblico a sostegno dell’arte, la discussione è tutt’altro che incontroversa, e le sue oscillazioni finiscono per dare linfa a visioni politiche contrapposte. Non sembra il caso di addentrarci, in questa sede, in un dibattito economico
che ha già abbondantemente superato la soglia del bizantinismo; ci
limiteremo a prendere atto della semplice realtà: in tutti i Paesi le
amministrazioni centrali e locali sostengono in qualche modo la produzione di arte e cultura, realizzandola direttamente, agevolandone
la realizzazione con strumenti finanziari, incidendo sulla dotazione di
infrastrutture e di tecnologia, promuovendo lo sviluppo di settori
contigui quale il turismo.
Ora, il sostegno pubblico delle attività artistiche e culturali attraversa in questo periodo una fase di notevole incertezza, essenzialmente a
causa di due flussi di trasformazioni che la politica culturale italiana
ha voluto avviare già da quasi un decennio e che, sia pure con le comprensibili – e non sempre condivisibili – oscillazioni che gli avvicendamenti politici finiscono per generare, stanno modificando in modo
rilevante la mappa dell’offerta culturale nel nostro Paese: l’ingresso di
società private for-profit nella fornitura di servizi culturali e nella stessa
gestione di istituzioni culturali da una parte, la devoluzione di una
quota consistente delle responsabilità amministrative e finanziarie in
materia di arte e cultura dal governo centrale agli enti locali.
Si tratta di trasformazioni complesse e delicate,21 che si caratterizzano per un aspetto peculiare: sono state elaborate e introdotte per via
istituzionale, quasi sempre senza alcun indirizzo proveniente dal settore culturale, anzi molto spesso temute e avversate dagli operatori cultu-
35
Creazione contemporanea
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rali, che in molte di queste trasformazioni hanno intravisto una minaccia alla stabilità affidabile derivante dalla costanza del finanziamento
pubblico, sia in termini dimensionali sia in termini istituzionali. Queste
reazioni mostrano con chiarezza la forte resistenza che gli operatori del
settore artistico e culturale manifestano nei confronti delle innovazioni
organizzative. Il fenomeno è comprensibile se si considera la filosofia
di fondo della produzione di cultura in Italia, influenzata in modo
determinante dalla preponderanza dell’arte del passato.
Altrettanto comprensibilmente, i mercati dell’arte contemporanea si muovono su un terreno del tutto diverso. Certo, si deve sottolineare preliminarmente che il rapporto con le istituzioni pubbliche
assume tratti inevitabilmente diversi da quelli in uso per musei, siti
archeologici e spettacoli dal vivo; l’arte contemporanea non è oggetto di un’ecumenica azione di sostegno finanziario a pioggia da parte
del governo centrale, e anche la sua promozione da parte dei governi
locali appare tuttora eterogenea e occasionale, per quanto in alcuni
casi piuttosto rilevante. Non ha pertanto un “passato ingombrante”
dal quale potrebbe scostarsi soltanto con evidente difficoltà.
In ogni caso, i mercati dell’arte contemporanea mostrano una crescente capacità di identificare la dimensione ottimale e il quadro istituzionale all’interno del quale i propri progetti riescono a conseguire l’obiettivo prefissato con il massimo grado di efficacia. Cosí, mentre i produttori artistici e culturali che operano nei settori “tradizionali” attribuiscono al sostegno accordato dal governo centrale una valenza simbolica, ossia una sorta di certificazione istituzionale di qualità, gli operatori dei mercati dell’arte contemporanea (dagli artisti creativi ai mercanti, dai galleristi ai committenti) identificano nel governo locale, nel
suo territorio e nella sua comunità il bacino di riferimento ottimale; le
ragioni di questa diversa percezione possono essere svariate, ma si deve
ritenere che esse siano variamente riconducibili alla maggiore capacità
che ciascun governo locale ha per sua stessa natura di promuovere e
realizzare negoziati tailor-made nei confronti di progetti e iniziative che
difficilmente possono farsi rientrare in un paradigma omogeneo: ai
progetti dell’arte contemporanea le maglie inevitabilmente generali
della normativa e dell’amministrazione centrale starebbero strette.
Nei mercati dell’arte contemporanea, le forme consolidate e tradizionali dell’azione pubblica diventano obsolete e per molti versi
inutili. Tra i possibili obiettivi dell’intervento pubblico, si deve ritenere che il piú urgente – ai fini di un funzionamento efficiente dei mercati stessi – sia la riduzione sostanziale dei costi di transazione (vedi
sopra, paragrafo Gli scambi nel mercato dell’arte contemporanea), che
appaiono il piú importante fattore di attrito nell’effettuazione degli
scambi, e pertanto nell’elaborazione delle strategie e in definitiva
nella determinazione degli andamenti complessivi dei mercati. Perde
significato, almeno in linea di principio, la mera assegnazione di contributi finanziari per sostenere le entrate degli operatori selezionati;
al contrario, acquista valore una politica fondata su forme d’incenti-
I mercati dell’arte contemporanea
vazione in-kind,22 come la predisposizione di infrastrutture immateriali (informazione, comunicazione, analisi), la fornitura di tecnologie
innovative, la realizzazione di progetti formativi, la promozione degli
scambi internazionali.23
Per gli stessi motivi, perdono significato i criteri di norma adottati
per valutare i progetti artistici e culturali. Ancora nel 1990 il National
Endowment for the Arts, l’agenzia pubblica statunitense che valuta i
progetti artistici e ne determina il sostegno finanziario, richiedeva
che i progetti assicurassero uno standard generale di “decenza”, e che
garantissero il rispetto per i diversi valori del pubblico americano.
Questa può considerarsi una forma palese di paternalismo selettivo,
che per molti versi prolunga – sotto mentite spoglie – la concezione
dell’arte come espressione istituzionale e non come fermento liberamente e scompostamente prodotto dalla società nelle sue diverse, eterogenee articolazioni. Il pluralismo dell’arte si può percepire soltanto
considerando il settore artistico nel suo complesso, non già pretendendo che ciascun progetto ne incarni il paradigma esemplare.
La necessità di ridisegnare costruttivamente la concezione e la
struttura del sostegno pubblico dell’arte contemporanea spinge a
riconsiderare anche le relazioni che intercorrono tra governo centrale e amministrazioni locali; al di qua delle attuali modifiche istituzionali, delle quali al presente non è dato intravedere gli esiti né gli
effetti, certamente i mercati dell’arte contemporanea possono trarre
un notevole beneficio da un’incisiva interazione strategica tra governi
di diverso livello. In questo senso, un passo importante può essere
rappresentato dal Patto per l’Arte Contemporanea che nella primavera del 2003 il Ministero per i Beni e le Attività Culturali ha stipulato
con le istituzioni collegiali che rappresentano le Regioni e gli Enti
Locali; il Patto è un’opportunità per interrogarsi sui ruoli reciproci
delle istituzioni pubbliche del nostro Paese in merito alla promozione dell’arte contemporanea, attribuendo a ciascuna di esse responsabilità e compiti capaci di contribuire nella misura piú efficace – moltiplicandosi a vicenda – al risultato complessivo (l’efficienza dei mercati dell’arte contemporanea, insieme al loro pluralismo culturale).
Il settore privato: imprese, comunità, idee
La vitalità dei mercati dell’arte contemporanea è la risposta piú
razionale a una trasformazione radicale della società e della sua
gerarchia di valori. In misura diversa, questa sorta di adeguamento
in corso d’opera dei protocolli di produzione artistica a un mutamento degli indirizzi sociali tocca Paesi di diversi continenti, mettendo in discussione le consuete divisioni del mondo in parti caratterizzate da un diverso grado di sviluppo economico. Anche l’Italia,
memoria storica di un coagulo eterogeneo di civilizzazioni e pertanto di segni creativi e culturali, comincia ad assorbire le istanze avanzate di una temperie emergente, nella quale i ruoli dell’artista, delle
istituzioni pubbliche e degli attori privati si ricompongono in combi-
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Creazione contemporanea
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nazioni inedite e per questo dotate di una forte capacità d’impatto.
Cambia la destinazione del prodotto artistico, ormai alieno in
spazi canonici e sempre piú a suo agio tra le coordinate della vita
quotidiana degli individui e delle comunità; cambia il ruolo degli
operatori dei mercati dell’arte, cui si chiede un sempre piú intenso
coinvolgimento nella capacità dialogica multidimensionale delle
opere realizzate; cambiano i compiti delle istituzioni pubbliche, utili
a poco come finanziatori ma indispensabili come fornitori di infrastrutture; allo stesso modo, muta vistosamente la partecipazione ai
mercati dell’arte contemporanea delle imprese, delle organizzazioni
private, dei gruppi sociali piú o meno formalmente identificabili,
della collettività nel suo complesso. L’arte contemporanea è uscita
dalla lussuosa gabbia in cui la richiudeva la smania iniziatica di pochi
fruitori “in esclusiva”. Il suo campo d’azione è il paesaggio urbano, lo
spazio di tutti in cui i segni della creatività si pongono come simboli
di una domanda di benessere immateriale, se si vuole di bellezza
della vita quotidiana, formulata dalla generalità degli individui.
La produzione artistica contemporanea ha identificato con acutezza questi spazi finora ignorati; e, con la scompostezza che segna le
trasformazioni profonde, ha cominciato a occuparne le propaggini
seguendo almeno due indirizzi fondamentali, riconducibili a due
diverse – ma non reciprocamente incompatibili – concezioni del
ruolo dell’arte nella società:
a. ha individuato una serie di insufficienze e lacune nell’azione
pubblica ai fini del raggiungimento del benessere individuale e collettivo. L’idea di fondo è che la fruizione artistica, per molti versi
anche la stessa produzione artistica, acquisti significato in una
società che si senta accomunata da una koiné che rifletta una capacità
uniforme di realizzare i propri bisogni essenziali, la propria dignità,
le proprie aspirazioni. La ritirata dello Stato, tuttora in corso, dall’impalcatura del welfare in nome di fumose aspirazioni meta-aziendalistiche apre una falla nel punto focale dei bisogni, e l’arte contemporanea prova a ricostruirne le fondamenta anche soltanto per
potersi esprimere. L’emersione di un bisogno e la capacità di affrontarne il manifestarsi e l’evolversi diventa dunque progetto artistico, e
la stessa etichetta – “arte sociale” – pone in contraddizione sostantivo
e aggettivo, suggerendo che non può esserci arte se non c’è una
società uniformemente pronta a recepirne le creazioni.
b. ha percepito che il benessere che l’arte può generare finisce per
risultare monco se il prodotto artistico occupa un’enclave concettuale
e materiale, ponendosi come pausa catartica in un mondo i cui segni
vanno in direzione opposta. L’arte contemporanea descrive con crudezza il mondo nel quale viene creata e realizzata, ma non può piú
farlo fuori dal contesto. Musealizzarla significa smentirne per molti
versi la capacità dialogica a tutto campo. La risposta – concepita da
I mercati dell’arte contemporanea
artisti e committenti, da imprese private con qualche diottria in piú e
da diversi gruppi sociali – è la progettazione dell’arte contemporanea
nel territorio, in modo da moltiplicare il potenziale benessere che il
prodotto artistico può erogare, rafforzando per questa via il senso di
appartenenza e di identità delle comunità locali, sintonizzando il rapporto causale tra contribuenti e beneficiari, disegnando gli spazi urbani e ambientali con forme che rispondono alle aspettative percettive e
cognitive della società contemporanea.
È da qui che deve partire il lavoro dell’analista. Cogliere e interpretare gli indirizzi innovativi che connotano i mercati dell’arte contemporanea, comprendere i bisogni che ne emergono sul piano istituzionale e organizzativo, indicare le possibili vie attraverso le quali
estendere l’accesso effettivo e consapevole, e agevolare la reazione
cognitiva dei fruitori, questa appare l’agenda degli economisti dell’arte. Con l’avvertenza dirimente che l’analisi dei mercati dell’arte
contemporanea può risultare significativa e utile se realizzata attraverso un’ibridazione disciplinare che sappia cogliere le molteplici
dimensioni del fenomeno artistico e culturale, superando con umiltà
i fossati che hanno finora separato i diversi possibili approcci ai mercati delle attività creative.
39
*
1
L’autore è grato a Martina De Luca per i continui
stimoli di discussione e interpretazione dei mercati
dell’arte contemporanea, senza i quali molte delle
analisi qui presentate non avrebbero potuto essere
elaborate, o comunque avrebbero sofferto della
visione limitata che soltanto un acuto confronto
multidisciplinare può superare. Eventuali errori e
imprecisioni sono ascrivibili esclusivamente all’autore.
La definizione di arte e cultura appare inestricabilmente complicata, cosí come l’identificazione –
all’interno del campo culturale – di settori che presentino una qualche omogeneità. Gli economisti
hanno spesso cercato, per chiarezza espositiva, di
traguardare l’oggetto delle proprie indagini, specificandone il contenuto attraverso la mera elencazione dei settori analizzati (musei, gallerie, siti archeologici; oppure lirica, prosa, danza e concertistica, o
aggregazioni varie di questi settori); in altri casi
hanno operato una sorta di selezione gerarchica,
definendo il campo della propria indagine “tradizionale” o “alto” per contrasto nei confronti della cultura innovativa o popolare; per una discussione sui problemi legati alla definizione del campo culturale in
prospettiva economica, vedi Trimarchi, Michele,
Nomina Sunt Consequentia Rerum. Economic Definitions of Culture, presentato alla XII Conferenza Biennale dell’Association for Cultural Economics International, Rotterdam, 12-15 giugno 2002, mimeo; Id.,
Dentro lo specchio. Economia e politica della
2
3
4
5
domanda di cultura, in “Economia della Cultura”,
2002, 12, n. 2, pp. 157-170.
Vedi Rushton, Michael, Artistic Freedom, in Towse,
Ruth (a cura di), A Handbook of Cultural Economics, pp. 64-68.
Santagata, Walter, Simbolo e merce. Una introduzione ai mercati dei giovani artisti e alle istituzioni
dell’arte visiva contemporanea, Il Mulino, Bologna 1998.
Lancaster, Kelvin J., A New Approach to Consumer
Theory, in “Journal of Political Economy”, 1966 74,
n. 1, pp. 132-157.
Il termine “democratizzazione” è usato di norma,
con riferimento al settore culturale e artistico, per
indicare una diffusione ampia della partecipazione individuale a spettacoli, mostre, musei etc.;
l’accezione adottata qui si riferisce invece alla
semplice presenza di un numero piú ampio di
individui – o all’estensione dello spettro sociale di
coloro che partecipano – nel reticolo di transazioni che avvengono nei mercati dell’arte contemporanea. Anche il semplice acquisto di un’opera di
scarso valore in un’asta locale o televisiva implica
un’estensione della partecipazione. Naturalmente
altra questione è valutare in che misura questa
forma di democratizzazione giovi allo sviluppo
sostenibile dei mercati dell’arte contemporanea, o
viceversa contribuisca a drogarne temporaneamente i valori, e a spostarne il fulcro a vantaggio
Creazione contemporanea
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di prodotti con un grado minore di innovatività. È
una questione rilevante, sul cui contenuto tuttavia l’economista non può formulare giudizi critici,
limitandosi a registrarne l’andamento possibile.
Il problema che gli economisti si pongono è se nel
corso del tempo (ossia con la progressiva accumulazione di esperienze artistiche e culturali) mutino
le preferenze o soltanto il modo di esprimerle in
concreto da parte del consumatore; cfr. sul punto
McCain, Roger A., Cultivation of Taste and Bounded Rationality: Some Computer Simulations, in
“Journal of Cultural Economics”, 1995, 19, n. 1, pp.
1-15. Quale che sia la soluzione che appare piú
coerente sul piano filosofico, si deve prendere atto
che il comportamento del consumatore risulta fortemente influenzato da fattori instabili e da componenti emotive, considerate dalla scienza economica delle anomalie rispetto al comportamento
razionale che ci si aspetta dall’individuo. Queste
anomalie appaiono ancora piú rilevanti nell’influenzare le scelte dell’individuo se si considera,
anziché il mero acquisto dei biglietti d’ingresso di
una galleria, l’acquisto di un’opera d’arte a un’asta: cfr. per tutti Pesando, James E. e Shum, Pauline M., Price Anomalies at Auction: Evidence from
the Market for Modern Prints, in Ginsburgh, Victor
e Menger, Pierre-Michel (a cura di), Economics of
the Arts. Selected Essays, pp. 113-134.
Gay, Antonio, Selezione e affollamento, in Santagata, Walter (a cura di), Economia dell’arte. Istituzioni e mercati dell’arte e della cultura pp. 76-120.
L’evidenza empirica sembra rigettare questa ipotesi.
Candela, Guido e Scorcu, Antonello (A Price Index
for Art Market Auctions. An Application to the Italian Market of Modern and Contemporary Oil Paintings, in “Journal of Cultural Economics”, 1997, 21,
n. 3, pp. 175-196) argomentano in proposito,
notando che tutte le indagini empiriche sull’argomento tendono, sia pure con cautela, a escludere
una relazione di lungo periodo tra i due mercati.
ibid.
Ginsburgh, Victor e Penders, Anne F., Land Artists
and Art Markets, in “Journal of Cultural Economics”, 1997, 21, n. 3, pp. 197-218.
Pommerehne, Werner W. e Feld, Lars P., The
Impact of Museum Purchase on the Auction Prices
of Paintings, in “Journal of Cultural Economics”,
1997, 21, n. 3, pp. 229-247.
L’esclusione del periodo successivo agli anni Settanta è “basata sulla considerazione che possibili
deformazioni dell’andamento potessero essere
causate dall’ingresso dei collezionisti societari e
delle fondazioni private (come la Getty Foundation), che si sviluppò dopo il 1970” (ibid.).
Beltratti, Andrea e Siniscalco, Domenico, Collezionisti, investitori, speculatori: la determinazione dei
prezzi sul mercato dell’arte, in “Giornale degli
Economisti e Annali di Economia”, 1991, 50, pp.
51-69; Chanel, Olivier, Is Art Market Behaviour
Predictable?, in “European Economic Review”,
1995, 39, pp. 519-517; Sagot-Duvauroux, Dominique, Incertitude qualitative et fonctionnement
des marchés artistiques, mimeo, 1995. in Benhamou, Françoise, Farchy, Joëlle e Sagot-Duvauroux,
Dominique (a cura di), Approches comparatives en
économie de la culture.
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23
Frey, Bruno S. ed Eichenberger, Reiner, On the Rate
of Return in the Art Market: Survey and Evaluation,
in “European Economic Review”, 1995, 39, pp.
528-537.
Si pensi, per tutti i possibili esempi, alle serie di tazzine da caffè prodotte da Rosenthal per Illy e decorate anno dopo anno da artisti contemporanei di
riconosciuta importanza.
Trimarchi, Michele, Principal-Agent Analysis, in
Towse, Ruth (a cura di), A Handbook of Cultural
Economics, pp. 373-378.
Sacco, Pier Luigi, La selezione dei giovani artisti nei
mercati delle arti visive, in Santagata, Walter (a cura
di), Economia dell’arte. Istituzioni e mercati dell’arte
e della cultura, Torino, Utet, 1998, pp. 43-75.
Singer, Leslie P. e Lynch, Gary, (Public Choice in
the Tertiary Art Market, in “Journal of Cultural
Economics”, 1994, 18, n. 3, pp. 199-216) distinguono tra fonti d’informazione endogene (mercanti, esperti, storici) ed esogene (riusltati delle
aste effettuate, acquisti dei musei, stampa specializzata, annunci dei mercanti).
L’impatto informativo dell’arte (e della cultura in
generale) mostra di coprire una gamma continua
di reazioni cognitive del consumatore, che vanno
dall’estremo istintivo dell’emozione all’estremo
cerebrale dell’appagamento intellettuale. Si consideri che muovendosi lungo questo arco reattivo
il consumatore mostra un atteggiamento additivo,
dal momento che il capo dell’emozione – da dove
di norma comincia il percorso di accumulazione
del proprio stock di conoscenze – non viene mai
abbandonato: la reazione del consumatore, pertanto, si espande sempre di piú, tendendo e avvicinandosi progressivamente all’estremo dell’appagamento intellettuale. Si deve inoltre osservare
che questo estremo non viene mai raggiunto, a
causa della capacità indefinita del prodotto artistico di generare reazioni cognitive sia rispetto
alla propria dotazione di informazioni, sia in confronto con gli altri consumi artistici e culturali
effettuati da ciascun individuo.
Per una descrizione del provvedimento normativo
etichettato dal dibattito come “legge del 2%” cfr.
il saggio di Martina De Luca, piú avanti in questo
volume.
Un’analisi critica di queste trasformazioni è sviluppata da Trimarchi, Michele, Le politiche per l’arte e
la cultura tra decentramento e privatizzazione in
Bernardi, Luigi (a cura di), La finanza pubblica italiana. Rapporto 1999 - La finanza pubblica tra
riforme e pareggio del bilancio, pp. 343-364.
Sulla superiorità delle forme di sostegno in natura
in mercati caratterizzati dalla preponderanza dell’informazione cfr. Trimarchi, Michele, Incentive
Failure and the Market for Information Goods, in
Marrelli, Massimo e Pignataro, Giacomo (a cura
di), Public Decision-Making Processes and Asymmetry of Information, pp. 189-202.
La rilevanza della promozione dell’arte nazionale
in un contesto internazionale, e la posizione relativa dell’Italia nei piú importanti mercati stranieri
dell’arte contemporanea è illustrata criticamente
da Sacco, Pier Luigi, Santagata, Walter e Trimarchi, Michele, Indagine sull’arte contemporanea
italiana nel mondo, Torino, Ebla Centre, 2003.
La creatività come bene economico: specificità e dinamiche
nell’arte visiva e nel settore della moda
Walter Santagata
L’obiettivo di questa riflessione sul mondo dell’arte contemporanea e della moda è mostrarne alcune caratteristiche peculiari in presenza di beni ad alto tasso di creatività. I beni fondati sulla creatività,
come un’opera d’arte o un abito di alta moda, sono tra i beni piú specifici e idiosincratici che si conoscano. La creatività, come la cultura,
ha, infatti, due profonde radici: il tempo e lo spazio. La cultura della
creatività è, cioè, indissolubilmente legata a un luogo o in un senso
piú sociale a una comunità e alla sua storia.
Nel caso dei beni della creatività, lo spazio e il tempo hanno un
significato analitico ancora piú profondo perché piú un bene è definito in relazione al tempo e al suo territorio spaziale, meno il mercato è capace di regolarne la produzione e il consumo in modo efficiente. Piú un bene è specifico, meno il sistema dei prezzi offre
informazioni ottimali e meno il regime di concorrenza ottiene i
risultati attesi.
Lo sfondo del ragionamento sarà il confronto tra il mercato dell’arte e quello della moda, che per la loro diversità rappresentano
due esempi emblematici e contrapposti. Lo studio comparato di questi mercati è un sentiero di ricerca scientificamente interessante perché costituisce un’area privilegiata di analisi del ruolo dei diritti della
proprietà intellettuale, della reputazione e della loro trasmissibilità
alle generazioni future.
Lo scopo del presente intervento è, però, un po’ piú ambizioso,
perché prima di trattare il tema dei property rights e della successione
generazionale dei creativity and culture based goods è necessaria una
premessa definitoria sul concetto economico di creatività. Nella
prima parte, infatti, si cercherà di tracciare in estrema sintesi l’evoluzione del concetto di creatività dalle sue origini letterarie alla moderna scienza neurologica. La seconda parte fisserà alcuni elementi di
una possibile definizione economica del concetto di creatività. La
terza parte, infine, metterà in luce alcune differenze significative tra
il mercato dell’arte contemporanea e quello dell’alta moda.
L’opera creativa di Mario Merz è, dunque, significativamente
diversa da quella di Giorgio Armani? Perché gli artisti sopravvivono a
sé stessi, ma solo nel mercato antiquario e nei musei, mentre le grandi case di moda nate dal genio di uno stilista continuano nel sentiero
della produzione creativa? Il sistema moda e il sistema arte corrispondono a due formule organizzative analoghe oppure uno è piú evoluto dell’altro nell’uso dei diritti di protezione delle idee e nell’impiego dei segni distintivi e dei marchi? Quali sono i principali effetti di
queste differenze? Le domande cui rispondere sono molte e impegnative e le pagine che seguono disegnano semplicemente la traccia
di una ricerca in corso piú ampia e articolata.1
41
Creazione contemporanea
La creatività dalle interpretazioni letterarie a un processo
controllabile
La creatività è concetto qualitativo dinamico e di difficile definizione. La ricerca di una definizione esaustiva o assoluta è un tentativo
vano e non realizzabile allo stato attuale delle conoscenze scientifiche.
Tuttavia si può rintracciare nella metamorfosi del concetto una tendenza chiara a considerare la creatività come una risorsa fondamentale di una società postmoderna. Si possono distinguere tre modelli di
creatività che scandiscono le teorie tra il XIX e XX secolo.
42
Il genio creativo
Il modello classico si fonda sull’idea romantica che la creatività sia
il segno del genio, una “... attitudine superiore dello spirito umano
che rende capaci di creazioni e di innovazioni che appaiono essere
straordinarie”.2
Secondo questa immagine, il genio creatore è essenzialmente una
persona ispirata, “... uno strumento attraverso il quale il Reale o il Bello,
la Natura o lo Spirito si manifestano all’uomo”.3 È la rappresentazione
della creatività come epifania, come un dono ricevuto grazie all’ispirazione, cioè come “... ricevere una istanza misteriosa, dotata di tutta l’opacità caratteristica dell’atto creativo, il segreto di una scoperta”.4
Il modello è soprattutto rivolto alla descrizione dei caratteri intellettuali e psicoanalitici del genio. Per Kris e Kurz le biografie degli artisti nascondono episodi psicoanalitici, a partire dai quali si ricostruisce
un legame tra la leggenda degli artisti e certi tratti della psiche
umana.5 La creatività sembra essere piú intensa quando l’individuo è
colpito da sindrome maniaco-depressiva.6 In effetti per la cultura postmoderna e per l’arte contemporanea, l’artista geniale che crea per
opposizione agli stili e ai movimenti artistici precedenti non è solo
incentivato da ragioni socioeconomiche, ma anche da ragioni psicoanalitiche. All’origine di ogni produzione d’arte ci sarebbe sempre una
visione allucinata e delirante.
Questo modello esplora anche l’intero insieme di condizioni che
rendono possibile liberare la creatività come proprietà potenziale
della mente. Si cercano allora le correlazioni tra la creatività e un
certo numero di condizioni umane: il senso di colpa, la follia, il bisogno di autonomia, l’attitudine verso il rischio, il sesso, l’età, il grado
di intelligenza, il denaro, l’anticonformismo. Questo primo modello
offre dunque una descrizione letteraria del genio che ha il dono
della visione e la forza interna di creare idee.
La creatività come processo
Si è detto che la creatività è un modo di funzionamento della
mente “... il processo attraverso cui la mente trasforma le informazioni in combinazioni di concetti e produce nuove idee”.7 Si può aggiungere che la creatività è un atto del cervello umano che prende la
La creatività come bene economico
forma di un processo che ci aiuta a pensare e a risolvere i problemi in
un modo che può essere considerato creativo.
La tesi-definizione di Herbert Simon è che la creatività consiste
nella capacità di risolvere i problemi (good problem-solving): “Le azioni
sono considerate creative quando producono qualcosa che sia originale, interessante o abbia valore sociale. Un elemento originale che
sia interessante e di valore sociale rappresenta il fondamento della
creatività”.8
Il processo che porta alla creatività si fonda per Simon su tre condizioni generali:
Essere preparati. “La fortuna come disse Pasteur, favorisce le menti
preparate”. Una scoperta accidentale per sé non esiste. “È la sorpresa,
la conseguenza inattesa, che crea un favorevole accidente; ma non ci
sono sorprese senza aspettative, non ci sono aspettative senza conoscenza”.9
Essere esperti. Nessuno – creatore di moda, giocatore di scacchi,
pittore, compositore musicale – può raggiungere un livello di eccellenza senza “… forte sforzo per acquisire conoscenza e competenza
in un determinato campo”.10
Rischiare. Spesso la scienza richiede di accettare scommesse calcolate. “Le informazioni hanno valore solo se gli altri non le condividono o non le considereno cosí rilevanti da usarle. (...) La Scienza è un
lavoro da giocatori.” Si deve rischiare perché per esplorare in maniera creativa nuovi campi l’informazione generica non presenta vantaggi differenziali: “... gli scienziati hanno bisogno di una vena ‘contraria’ che dia loro fiducia quando contrastano con la loro conoscenza e
discernimento la saggezza comune consolidata dei loro colleghi”.11
I due modelli esaminati rappresentano nella loro sequenza un
indubbio avanzamento di conoscenza, ma continuano a essere solo
la produzione di immagini intorno a un concetto. Non ci rivelano
le fonti biologiche e fisiche della creatività, come il cervello umano
produca creatività. Quando tutti i segreti della produzione delle
idee, delle emozioni e dei sentimenti saranno noti, sarà anche possibile definire compiutamente la creatività, proprio come oggigiorno si conoscono meglio i limiti della razionalità pura a seguito
delle scoperte sulla relazione mente-cervello-emozioni-comportamento.12 È il momento di analizzare il Descartes’s Error e la teoria
neurologica della creazione delle emozioni, secondo lo straordinario lavoro di Antonio Damasio.
La mente e il cervello, il corpo e le emozioni
Il corpo conta, il cervello conta. Il messaggio di Damasio dice che
per ragionare abbiamo bisogno del nostro corpo, “... che il corpo è il
riferimento di base di ogni processo mentale”. Il corpo e il cervello
giocano un ruolo fondamentale nella facoltà intellettuale, in particolare nel processo decisionale, nel problem-solving e nella creatività: essi
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Creazione contemporanea
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La creatività come bene economico
hanno il compito di trattare le emozioni che il mondo esterno produce e ci invia a ogni istante. Il corpo e il cervello, come un unico organismo presiedono all’interazione tra l’uomo e l’ambiente, che è in
parte il prodotto esso stesso dell’attività dell’organismo umano.
concetto di creatività si sviluppa a due livelli: quello soggettivo della
produzione artistica ed estetica e quello collettivo dell’organizzazione
economica e del management creativo.
Le emozioni contano. Esse sono definite come “… una serie di
cambiamenti che avvengono nel corpo e nel cervello, in genere come
reazione ad un particolare contenuto o stimolo mentale”.13 Una delle
piú straordinarie scoperte della neurobiologia moderna è di aver
localizzato nella geografia del cervello la regione deputata a produrre nel corpo umano uno stato emotivo. Si è compreso che la corteccia prefrontale del cervello è il centro di riconoscimento delle emozioni e, al contrario, che in sua assenza il corpo è in condizione di
avere “conoscenza senza emozioni”. Damasio constata che il ragionamento degli individui senza emozioni si sviluppa come una sequenza
infinita di confronti tra costi e benefici delle azioni alternative senza
mai giungere a una decisione finale. La razionalità senza emozioni si
rivela essere un processo senza fine. La razionalità pura è il fallimento di ogni processo decisionale.
Le caratteristiche della creatività e dei beni fondati sulla creatività
L’ambiente conta. Ci si rende dunque conto che la creatività
come attività di problem solving dipende dalla capacità di interagire
con un flusso continuo di emozioni. Ma le buone emozioni ci
influenzano positivamente se viviamo in un ambiente che ne sia
ricco: un ambiente ove non vi siano vincoli intellettuali, dove gli stimoli e le idee circolino liberamente senza costo di apprendimento,
dove la libertà di associare le idee e di sperimentare raggiunga il suo
massimo. La teoria delle emozioni spiega perché è necessario ridisegnare l’ambiente organizzativo e mentale, se si può dire cosí, anche
delle imprese, per aumentarne il tasso di creatività.
Il corpo e il cervello interagiscono con la natura, sono sommersi
in un universo di relazioni, emozioni e rapporti. Si può ben dire che
senza relazioni sociali e le emozioni relative, non si può essere razionali nella capacità di risolvere un problema o di essere creativi. Detto
differentemente, modificare l’ambiente produttivo o di ricerca in
modo che esprima emozioni creative diventa il fattore chiave che
rende possibile produrre, aumentare e trasmettere la creatività.
L’errore di Descartes è stato di sottostimare il valore del corpo
rispetto alla mente, la res extensa rispetto alla res cogitans. La moderna
neurologia della corteccia prefrontale del cer vello afferma che
innanzitutto siamo e quindi ragioniamo.
Le metamorfosi della creatività mostrano una tendenza verso un
approccio procedurale. La creatività è considerata come un processo
caratterizzato da una doppia natura: socio-estetica e organizzativa.
Questo processo fa riferimento a ogni campo dell’attività umana e in
particolare alla produzione artistica e a quella industriale. Il nuovo
Una definizione economica minimale
La creatività può essere considerata come un bene economico
prodotto della mente umana. In sé rappresenta l’azione che dà vita a
qualcosa o a un’idea che viene dal nulla, originale, nuova e unica.
Quest’azione può prendere diverse forme: invenzione, scoperta,
manifestazione o epifania. La creatività è la rivelazione del nuovo.
Un primo elenco di caratteristiche economiche riguarderà la
natura particolare del bene, di cui si delineano gli elementi di una
definizione economica minimale.
Il carattere anti-utilitarista e non cumulativo della creatività
Innanzitutto, per quanto concerne la retorica del linguaggio economico, la creatività può essere per convenzione opposta al concetto
di innovazione. Mentre creare significa dare vita a qualche cosa dal
nulla, innovare significa introdurre del nuovo in un qualche ambito,
ordine o processo.
Piú precisamente se si considera che la creatività è una componente essenziale della vita umana, contribuendo a sviluppare le capacità intrinseche della personalità, si può aggiungere che la creatività è
classificabile come un atto anti-utilitarista, e opporla al concetto di
innovazione, che al contrario, si iscrive nel sistema di comportamento utilitarista. La creatività è uno slancio senza fine, è un bene antiutilitario. Funziona come un fattore di auto-realizzazione, è piena di
soddisfazione intrinseca. L’ipotesi secondo la quale il tempo di lavoro
non è che un costo è sempre meno valida piú ci si avvicina alla
dimensione della produzione creativa.14
Il secondo aspetto economico della creatività è che si tratta di un
bene non cumulativo. La creatività è rottura, mentre l’innovazione normale à la Kuhn si situa nel quadro di un paradigma scientifico dato.15
Essa è di fatto un processo cumulativo e incrementale.16 Questo carattere ci aiuta a definire in modo piú preciso l’ipotesi del comportamento anti-utilitarista: il creatore offre il suo tempo di lavoro perché ne
trae piacere. La qualità della sua vita non dipende soltanto dal consumo, ma anche dall’opportunità di scegliere un lavoro creativo: “... la
ricerca della creatività è una delle piú importanti motivazioni dell’uomo, ed in particolare nella nostra era post-industriale”.17 Questa interpretazione aderisce al principio de l’art pour l’art. Al contrario l’innovazione è diretta verso la messa in opera del cambiamento (estetico,
tecnologico, funzionale). L’innovazione è un atto utilitarista, incrementale e cumulativo. Riguarda il consumo, l’utilità oggettiva di un
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Creazione contemporanea
prodotto o servizio. Il lavoro applicato al processo innovatore è un
sacrificio, costa, fa riferimento a un rendimento esterno, monetario.
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Altri attributi essenziali: intangibilità, natura di bene pubblico
Quanto agli altri attributi essenziali della creatività bisogna
innanzitutto notare che il suo carattere immateriale e intangibile
implica che occorre osservarla in un supporto materiale, il quale la
contiene e la rivela. Può trattarsi semplicemente di un pezzo di
carta su cui fermare idee, disegni e forme; può trattarsi di un
oggetto piú complesso che presenta una funzione creativa. Ora,
mentre il supporto è di norma un bene privato, la creatività per sé
e la creatività incorporata in un oggetto sono beni pubblici, caratterizzati da non rivalità nel consumo e bassi costi di esclusione.
Quindi, come un’idea, la creatività deve essere protetta sul mercato
soprattutto attraverso le istituzioni della proprietà intellettuale.
Com’è ben noto dalla letteratura sulla contraffazione, la protezione della proprietà intellettuale non è un compito facile. 18 L’applicazione della legge è spesso inefficace e i produttori illegali e criminali possono copiare a costo zero ogni segno della creatività
visto, percepito o scoperto in un oggetto. Piú la creatività e la componente intellettuale di un oggetto hanno valore economico, piú
elevati sono gli incentivi alla copia.
Infine la creatività è un bene non esauribile e non saturabile. Il
supporto immateriale della creatività è l’idea. Un’idea esprime,
descrive e storicizza un atto creativo. Contrariamente alle risorse
naturali, le idee che risultano dalla creatività umana sono pienamente sfruttabili, ma non esauribili. La creatività dei beni della moda è
connessa all’evoluzione della società, ed è quindi in continuo rinnovamento e movimento. Il design è collegato al suo tempo, perciò è
sempre differente. L’industria trova in questo caso una fonte inesauribile di risorse intellettuali che costituisce un nuovo terreno di confronto e di concorrenza tra le imprese. Tuttavia l’evoluzione della
creatività non è lineare: periodi di grande creatività e fasi di stagnazione hanno caratterizzato tutti i settori artistici, compresa la moda e
l’arte contemporanea.
Un confronto tra il mercato dell’arte contemporanea e il mercato
della moda
Dopo aver sottolineato il carattere processuale e trasmissibile
della creatività e alcune sue caratteristiche economiche, vorrei dedicare la seconda parte di questo intervento al concetto di creatività
come bene generazionale e a un confronto tra due mercati dell’arte:
il design di moda e la pittura contemporanea. Si tratta di un buon
esercizio per sottolineare le specificità del secondo, mostrando una
certa superiorità del primo.
La creatività come bene economico
Tuttavia sullo sfondo della distinzione è utile riprendere alcuni
concetti relativi alla definizione sociologica di campo artistico. Serviranno come introduzione al fenomeno della successione generazionale di produttori di beni creativi e idiosincratici.
La natura del campo artistico
Il campo di forze è una nozione sociologica che spiega bene la dinamica spesso conflittuale e competitiva nel campo dell’arte e dei beni
culturali.19 Come tutti i capi di produzione culturale, il campo di
forza è un terreno di lotta “… con i suoi rapporti di forza fisica, economica e soprattutto simbolica (legati per esempio al volume e alla
struttura dei capitali in possesso dei differenti attori) e le sue lotte
per la conservazione e la trasformazione di tali rapporti di forza”.20
Nel campo è compreso tutto l’universo del mondo dell’arte, composto di simboli, oggetti, sistemi di allocazione, agenti, istituzioni e
organizzazioni economiche.
Il campo è costituito da istituzioni, organizzazioni e agenti. Non
c’è campo senza organizzazioni, come gli atelier, le gallerie d’arte o i
musei. Non c’è campo senza istituzioni, come i diritti di proprietà
intellettuale, le convenzioni e le regole formali. Non c’è campo infine senza gli agenti che alla ricerca di autonomia occupano una posizione nella sua struttura, “… cioè nella sfera distributiva del capitale
simbolico specifico, istituzionalizzato o meno (riconoscimento interno o notorietà esterna)”. In relazione ai tratti costitutivi identitari
degli attori, il campo “... li induce a conservare o a trasformare la
struttura di tale distribuzione, quindi a reiterare le regole del gioco o
a sovvertirle”.21 Il campo è allora lo spazio in cui si costruisce la funzione sociale dell’artista.
I contesti di coordinamento delle pratiche e delle poste in gioco
formano la trama di fondo di una rete di conflitti e di simpatie, ereditate da lotte precedenti e relative a tutte le generazioni, sia quelle
emergenti, che cercano di farsi spazio in opposizione agli artisti affermati, sia quelle già in posizione dominante, che egemonizzano le
istanze ufficiali della produzione e controllano il processo di valorizzazione delle opere.
In un tale contesto affinché il nuovo possa emergere bisogna che
il campo modifichi la sua struttura e che a seguito della pressione
esercitata si crei un nuovo polo in un processo di differenziazione
complesso, dominato spesso dall’assenza di un principio estetico
unico che permetta di classificare gli artisti in una gerarchia universale dei valori. La dinamica del campo è senza fine, implica revisioni,
aggiustamenti e ridefinizioni continue, che si riproducono all’ingresso di ogni nuova generazione.
Un recente studio sul campo dei giovani artisti a Torino alla fine
del XX secolo ha messo in luce un asse strategico – i cui estremi
sono le regole dello Stato e del mercato – che esprime la natura dei
conflitti interni al campo secondo la dinamica della successione
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Creazione contemporanea
generazionale.22 Il primo estremo individua un polo di artisti che
interpretano l’arte come una forma di critica sociale e diventano
abbastanza organici al mondo della politica di cui si fanno implicitamente interpreti. All’altro estremo ritroviamo un polo di artisti piú
orientati al privato e al mercato. Non sono protetti da apparati politici e lavorano con i galleristi condividendo i rischi della loro attività.
Come vedremo, Stato e mercato definiscono anche la dinamica del
confronto tra moda e arte.
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La successione generazionale e la natura idiosincratica della creatività
Il ritmo del cambiamento nel campo artistico è segnato dalla successione delle generazioni dei creatori. Le ragioni di questo fenomeno trovano la loro origine nella definizione dei beni d’arte come beni
di tipo idiosincratico, che si rivelano nel tempo e nello spazio. Per
esempio nella moda le condizioni stocastiche che sono alla base del
successo dei grandi couturier trovano in un luogo (Parigi) e in un
periodo (gli anni Cinquanta) il terreno della loro realizzazione. L’insieme tempo-spazio è una forza formidabile che identifica una generazione con una immagine simbolica nella sua capacità di seduzione,
e concreta nelle sue realizzazioni.
L’evoluzione per generazioni dei piú importanti couturier parigini
è nota. Si possono notare periodi di concentrazione significativi: all’inizio del XX secolo; durante gli anni Dieci; i gloriosi anni Trenta; il
dopo guerra; gli anni Sessanta e Settanta, e la fase contemporanea. In
particolare è particolarmente significativa l’ondata creativa francese
degli anni Cinquanta e Sessanta, vague formata da stilisti come Christian Dior, Hubert de Givenchy, Pierre Cardin, Pierre Balmain, Yves
Saint Laurent e Karl Lagerfeld.
Analogamente la storia dell’arte racconta di ondate generazionali
di pittori, che lavorano in luoghi storici: Firenze, Roma, Venezia, Parigi, Berlino, New York, e in botteghe o scuole altrettanto famose,
come quella del Verrocchio o quella dei fratelli Della Robbia. La
creatività si nutre di effetti di sistema e di sinergia; inoltre la creatività
negli oggetti e quella nelle organizzazioni si stimolano reciprocamente. Un ambiente creativo si auto-alimenta e la storia sembra indicare
che allorquando si raggiunge una massa critica sufficiente, si produce
un’ondata di lunga durata che accompagna l’arco di vita di una generazione intera. Certo, l’emergere di talenti è un processo in sé aleatorio, discontinuo nel tempo, ma l’alea o l’ambiente sociale possono
generare condizioni straordinarie che forniscono la massa critica di
creatività necessaria e producono concentrazioni di talenti, localizzati
nello spazio e nel tempo. Ora, una delle caratteristiche della creatività è la difficoltà di riprodursi da una generazione all’altra con la
stessa qualità. La natura distribuisce doni e talenti in maniera casuale,
secondo traiettorie non lineari. La Berlino degli anni Cinquanta o
del dopo 1989 non è piú quella della Repubblica di Weimar. Le idee
invecchiano, i costumi cambiano, le attitudini verso le grandi questio-
La creatività come bene economico
ni sociali passano da uno stato all’altro, gli stili evolvono. Il risultato è
che ogni generazione possiede la propria identità, il suo andamento
distintivo senza che vi sia in quest’evoluzione alcuna progressione virtuosa. Le istituzioni pubbliche e l’industria della moda, coscienti di
questa realtà, cercano tuttavia di rendere il rinnovamento generazionale della creatività il piú normale possibile, cioè il meno costoso e il
piú vantaggioso in un contesto spazio-temporale dato.
Generazioni e creatività nell’arte contemporanea e nella moda
Il contrappunto tra arte e moda si può articolare su almeno quattro punti. Nell’insieme descrivono due diversi scenari di allocazione e
di successione generazionale dei beni fondati sulla creatività.
1. Le ragioni economiche della trasmissione della creatività alle generazioni future e la debolezza del sistema arte
a. Moda
Quando il creatore e fondatore di una Casa di Moda muore o si ritira, un giovane creatore ne prende il posto nel sistema moda. La successione generazionale è necessaria e fondamentale per tre ragioni.
La prima ragione riguarda la natura di fondo del fenomeno. La
continuità nella successione garantisce la possibilità di tutelare il valore del marchio. La reputazione della Casa di Moda verrebbe annullata, senza successione, con conseguente grande perdita economica.
Ciò accadeva regolarmente all’inizio del XX secolo. Al contrario, le
case che hanno superato la soglia della Seconda guerra mondiale
mostrano maggiori possibilità di sopravvivenza rispetto ai loro fondatori. È come se il valore del marchio fosse diventato piú grande e
autonomo rispetto al valore della creatività del couturier. In effetti
l’aumento della dimensione dei mercati, del numero dei clienti, e
soprattutto la nuova produzione di accessori e di beni di lusso, che
hanno contribuito ad accrescere la rinomanza delle Case di Moda,
hanno permesso l’autonomizzazione del marchio. I profumi, in particolare, hanno trasmesso al marchio un valore crescente, e Chanel,
per esempio, è una delle prime case di moda a sopravvivere alla propria creatrice. La reputazione diventa allora un capitale sul quale
continuare a investire. A partire da questo momento le ondate generazionali di creatività, in sé stesse imprevedibili e aleatorie, non scompaiono piú con la morte o la cessazione di attività del creatore. In tal
modo si pone il problema della successione.
La seconda ragione concerne la modifica della struttura di capitale
di controllo dell’impresa di moda, che all’origine è di tipo familiare e
diventa poi di tipo finanziario e internazionale. Vi è stato, soprattutto
in Francia, un cambiamento netto della struttura della proprietà delle
Case di Moda. Non piú controllate da un capitalismo familiare, ma
oggetto finanziario disperso tra molteplici azionisti. In tale contesto è
piú facile pensare alla successione e trovare un buon successore. Le
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Creazione contemporanea
imprese italiane invece sono ancora in parte controllate dalle famiglie
dei fondatori. Ciò renderà in Italia la successione piú dolorosa, nella
misura in cui è piú facile sostituire una quota azionaria a un’altra piuttosto che una personalità creatrice dominante a un’altra.
La terza ragione si basa sull’internazionalizzazione dei talenti, resa
possibile dall’accoglienza e dall’integrazione nei costumi e nelle abitudini di vita locali. Gioca qui il suo ruolo decisivo lo spirito cosmopolita
che contraddistingue il mondo della moda. Nella sostituzione di un
grande e affermato pioniere con un giovane, spesso straniero e sconosciuto talento, contano meno le nazionalità, gli steccati e le barriere.
Parigi, in effetti, mostra ancora oggi una capacità di accogliere i
migliori creatori al di là del loro nome, origine sociale o nazionalità.
La moda parigina beneficia di una tradizione di cosmopolitismo, che
assicura uno scambio intergenerazionale senza scandali né ripensamenti. Numerosi creatori erano stranieri, i meno conosciuti dal grande pubblico (l’armeno Georges Vaskène, Pierre d’Alby, il polacco
Zyga Pianko, Chloé, l’egiziana Gaby Aghion), come i piú celebri
(Charles Frédéric Worth, Cristobal Balenciaga, Elsa Schiaparelli, Nina
Ricci, Pierre Cardin, Emanuel Ungaro, Karl Lagerfeld). In Italia, invece, i consumatori e la stessa struttura organizzativa aziendale sono
strettamente legati alla figura del capo fondatore.
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b. Arte
Quando il maestro scompare, nessuno ne prende il posto. Solo qualche epigono continua in maniera ripetitiva a riproporre il suo insegnamento. Non c’è impresa, non c’è marca, non capitale di reputazione
valorizzabile. Non c’è mai la “Scuola Schifano” o la “Scuola Manzoni”
che sopravviva alla morte dell’artista. L’arte contemporanea è fondamentalmente un fenomeno individualista, senza relazione con il mercato della produzione di serie o con la democratizzazione del consumo.
Unica novità nel campo dell’arte contemporanea è la scelta di
alcuni artisti (tra gli ultimi Michelangelo Pistoletto e Mario Merz) di
costituire una Fondazione d’arte che porta il loro nome. Questa scelta è tuttavia piú un atto di consacrazione del lavoro di un artista, che
la base per una qualche forma di continuità del suo lavoro. Un caso
speciale è Cittadellarte, un programma della Fondazione Michelangelo Pistoletto. Qui la trasmissione delle idee e del savoir faire del
Maestro, trova nell’istituto giuridico della fondazione e nei suoi programmi l’espressione di un gesto artistico. Al punto che l’arte di
Pistoletto potrebbe continuare a vivere nei progetti della Fondazione,
in tal caso valorizzandone il marchio. Ma è il solo caso noto.
2. Apprendimento e creatività: la superiorità delle scuole di design sulle
Accademie di Belle Arti
a. Moda
La formazione pubblica e privata al design di moda e l’aiuto alla
La creatività come bene economico
creazione prefigurano le condizioni positive per un passaggio generazionale.23 Si afferma nei programmi delle scuole e del mecenatismo il
senso e la necessità del principio di sostituzione. Senza trascurare la
creatività soggettiva, le organizzazioni produttive o gli atelier costituiscono il luogo ideale per la sostituzione dei vecchi maestri con i giovani.
La formazione scolastica si prolunga nel lavoro dell’atelier. Il migliore
allievo sostituirà lo stilista fondatore. In generale la qualità delle scuole di formazione al design e alla moda è molto apprezzata. Molte di
esse sono importanti trampolini verso il successo internazionale.
b. Arte
La formazione all’arte basata normalmente sulle scuole e sulle
Accademie delle Belle Arti non crea reputazione particolare, né si
prolunga in esperienze presso gli studi degli artisti affermati. Soprattutto in Italia il sistema formativo pubblico è conservatore nelle strutture dei programmi di attività e raramente capace di ricreare l’ambiente adatto alla produzione di creatività. Questo è un grave punto
di debolezza del campo dell’arte contemporanea, perché le sottrae
quei sistemi di stimoli e incentivi educativi necessari allo sviluppo
della creatività.
3. Mercato e produzione: la spinta continua verso la creatività nella moda
vs la rigidità di offerta dell’arte contemporanea
a. Moda
Il ritmo delle stagioni di moda obbliga a continuare incessantemente la produzione. Il bisogno di rinnovare la creatività è essenziale
pena la scomparsa della maison alla stagione successiva. Ogni anno
occorre preparare almeno una collezione invernale e una estiva. Il
mercato e le sue regole impongono la garanzia di un tasso costante di
creatività.
b. Arte
Anche dopo la sua scomparsa il maestro può continuare a occupare quote di mercato importanti. La presenza sul mercato si storicizza;
la mancata sostituzione o l’assenza dal mercato di nuovi talenti non è
una catastrofe commerciale. Anzi, in certi casi, inizia da questo
momento la fase di rigidità dell’offerta che consente a chi ha accumulato opere di alta qualità del maestro scomparso di accedere a
forti guadagni di capitale lavorando all’approfondimento dell’esperienza artistica e innovativa del maestro.
4. Il vantaggio competitivo come stimolo alla trasmissione della creatività
a. Moda
Quando si ha una successione nel campo della moda, la nuova generazione non parte da zero, essa sfrutta reputazione e strutture organiz-
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Creazione contemporanea
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zative della precedente. Anzi, la competizione internazionale è in qualche modo distorta dalla dinamica delle ondate generazionali di creatività e dalla logica del vantaggio di quelli che sono “arrivati per primi”.24
I primi arrivati sono stati i francesi negli anni Cinquanta-Sessanta
con l’invenzione della coppia haute couture-prêt-à-porter moderne, poi
vennero gli italiani che coniugarono abilmente la flessibilità organizzativa dei distretti industriali con la creatività dei nuovi maestri Armani, Versace, Valentino ecc., poi arrivarono gli americani con l’invenzione del casual, dello sportswear e della grande distribuzione. Lo spazio di una generazione è breve e la Francia è stata la prima nazione a
doversi misurare con il salto generazionale. Lo ha fatto con grande
acume inventando il nuovo mondo dei beni di lusso. Negli anni 19902000 il rinnovamento è stato vasto e radicale: Tarlazzi per Guy Laroche, Ferré per Dior, Montana per Lanvin, Lagerfeld per Chanel, e
ancora Galliano, Ford, Lacroix…
Dal punto di vista del vantaggio francese nella competizione economica internazionale ciò che si rileva è che la nuova ondata francese della moda dei beni di lusso prende vigore nello stesso momento
in cui si intravede una certa fatica e l’inizio del declino della vague
creativa italiana. In qualche modo ciò vale anche per il caso americano. La concorrenza internazionale nel mondo della moda è, dunque,
distorta da un fattore di ondate creative generazionali che premiano
chi è arrivato per primo.
b. Arte
Nel campo dell’arte ogni nuova generazione ricomincia da zero.
Non solo, ma sono sempre presenti forti barriere all’entrata per i giovani artisti. Prevale la logica della non cumulatività e i costi relazionali e di transazione sono crescenti. Paradossalmente se la nuova generazione riprende la convenzione arte che ha portato al successo la
generazione dei maestri, viene considerata come una schiera di epigoni che ripetono stancamente idee non piú originali. In questo
senso l’essere “arrivati per primi” in campo artistico non paga in termini di generazioni e di capitale culturale accumulato. In sostanza
non è possibile una trasmissione intergenerazionale della creatività
secondo logiche sequenziali.
Sul piano della competizione internazionale vi è una ulteriore differenza tra arte contemporanea e moda. Come è ben noto, il giudizio
sull’arte contemporanea non dispone di un metro di misura universale, né di un criterio di valutazione assoluto. Successo, consacrazione,
critica, esaltazione, stroncatura sono storicamente determinati. Il giudizio artistico si sviluppa, cioè, in base allo stabilirsi di convenzioni
sociali sul bello, sulla natura, sulla civiltà, sulla condizione umana di
donne e uomini. La convenzione arte contemporanea è, quindi, il
codice di lettura delle opere d’arte. È il canone vigente in un dato
momento storico e in un dato luogo. Ci dice come dobbiamo guardare un’opera d’arte e ci consente di giudicarla in termini differenziali
La creatività come bene economico
rispetto al canone stabilito. È un accordo condiviso sui tipi di contenuti qualitativi che un’opera d’arte deve possedere.
Ora, va sottolineato che la dimensione nazionale pesa sempre
meno nel caso dell’arte contemporanea. Si va affermando, infatti,
una convenzione arte contemporanea che si fonda su uno stile internazionale e sul multiculturalismo. È sempre piú difficile affermarsi in
quanto artista italiano o appartenente a un dato movimento storico.
Secondo la convenzione arte emergente, sembra che le culture nazionali debbano entrare in sintonia con un mondo multiculturale, in cui
la nazionalità di un artista non conta, conta la qualità del suo lavoro
in relazione agli standard internazionali.
Conclusione
Questo primo tentativo di analisi della creatività e dei beni fondati
sulla creatività ha messo in rilievo, contro la tradizione di un’impostazione letteraria e non falsificabile, il carattere processuale e trasmissibile dei fenomeni creativi.
Per quanto le origini del sistema moda siano assolutamente piú
recenti rispetto al sistema arte, sembra importante che il mondo dell’arte assomigli di piú al mondo della moda, soprattutto per le maggiori opportunità che quest’ultimo sa creare e cogliere in tema di
economia della reputazione e di applicazione dei diritti della proprietà intellettuale.
Nel confronto tra arte e moda emergono differenze significative.
In primo luogo, le imprese o le organizzazioni della moda sono naturalmente portate al tema della successione generazionale e della continuità produttiva. Chiedono al sistema formativo di essere di gran
qualità e quindi di fornire criteri e standard per la sostituzione dei giovani ai vecchi creatori. In secondo luogo, le Scuole, le Accademie di
Belle Arti o gli atelier d’arte contemporanea non sembrano naturalmente interessate alla successione generazionale. La formazione
accademica è marginale, il mercato politico può essere parte del processo di consacrazione di un artista. L’arte contemporanea appare
come un sistema che evolve troppo lentamente rispetto ad altri meccanismi sociali di produzione di senso.
La componente idiosincratica, fortemente radicata nel mondo
della produzione dei beni fondati sulla cultura, come la moda, presenta caratteri diversi per l’arte contemporanea. L’evoluzione di
quest’ultima sembra indicare due processi contrastanti. Da un lato
l’internazionalizzazione e il multiculturalismo indeboliscono le
radici storico-geografiche degli artisti in via di consacrazione nei
mercati e nelle istituzioni mondiali. Se negli anni sessanta Michelangelo Pistoletto poteva dire con orgoglio di fronte al dilagare
della cultura americana: “Ho voluto restare un artista europeo”,
oggi un giovane artista che sottolineasse con troppa enfasi le pro-
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La giovane arte italiana nel contesto internazionale:
opportunità, vincoli e incentivi
Pier Lugi Sacco
Creazione contemporanea
prie origini geografiche sarebbe considerato ipso facto di minor pregio. Dall’altro lato, anche l’arte contemporanea, come la moda,
diventa sempre piú un lavoro da professionisti. E il buon professionismo richiede buoni processi formativi, i quali a loro volta sono
fortemente idiosincratici e traggono capacità di insegnare la creatività e le regole del mestiere dal capitale culturale localizzato e dall’accumulazione di esperienze e conoscenza sviluppatesi in un
luogo e in una determinata fase storica. Le Accademie d’Arte sono
in ritardo su questo punto, rispetto alla moda ma, in Italia almeno,
possono avvalersi con successo di un capitale umano, storico e culturale di eccellente qualità.
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pp. 49-126. Id., Raisons Pratiques, Seuil, Paris
1994.
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Bourdieu, Raisons cit., p. 71.
Santagata, Walter, Simbolo e merce. I mercati dei
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Barrère, Christian e Santagata, Walter, Une économie de la créativité: la Mode, Rapport pour le
Ministère de la Culture, Délégation aux Arts Plastiques, mimeo, Paris 2003.
Santagata, Fashion, Market Behavior cit.
Le asimmetrie informative e le loro trappole
Da quando la teoria economica ha iniziato a prendere sul serio il
problema dell’uso razionale delle informazioni nelle decisioni, sono
venuti alla luce una quantità di fenomeni molto interessanti che
dimostrano l’esistenza di un abisso profondo tra le decisioni prese in
un mondo in cui l’incertezza non esiste, e che ha cittadinanza solo
sui libri, piuttosto che in un mondo, come è il nostro, in cui non soltanto l’incertezza esiste ed è pervasivamente diffusa, ma addirittura
non è completamente rimuovibile neanche quando le decisioni
sono state prese e gli eventi incerti si sono effettivamente verificati.
Un esempio: sono per strada con la mia automobile, che va in
panne. Nei paraggi ci sono varie officine per le riparazioni automobilistiche, e non conosco nessuna di esse. Ne scelgo una, sulla base
di qualche considerazione (che tra poco approfondiremo), la macchina viene riparata, riparto. Dopo qualche centinaio di chilometri,
la macchina si guasta di nuovo. È la mia auto che non va o è il meccanico che ha fatto un cattivo lavoro? Se dovessi avere di nuovo bisogno di un meccanico in quei paraggi, andrei da lui oppure sceglierei
un altro tra quelli disponibili?
Esistono ovviamente varie tecniche per trarre conclusioni e prendere decisioni alla luce di esperienze come quella appena raccontata, ma le indicazioni che emergono non sono mai, se non in casi
molto particolari, univoche: al massimo, posso ricostruire un quadro
piú o meno verosimile della situazione. La migliore prova per stabilire
se una torta è buona è mangiarla, ci viene detto; eppure, anche
dopo aver provato i servizi del meccanico potrei non avere una chiara idea della sua competenza e della sua affidabilità, e anzi le mie
conclusioni potrebbero essere facilmente falsate da aspetti della
situazione che di fatto sono irrilevanti ma che per me, in assenza di
altri segnali interpretabili, potrebbero acquistare un peso notevole:
per esempio, il meccanico potrebbe essere disonesto, ma molto gentile, e io potrei scambiare la sua affabilità (artefatta e strumentale,
nel nostro caso) per un segnale di affidabilità e professionalità
facendomi trarre in inganno. Viceversa, il meccanico potrebbe essere onesto e competente ma scontroso, e una volta che la mia macchina finisse in panne di nuovo per motivi che niente hanno a che fare
con quelli del primo guasto, potrei ripensare con risentimento al
meccanico scorbutico attribuendo con certezza a lui un guasto di cui
oggettivamente non è responsabile.
Ma questa è soltanto una delle distorsioni di giudizio a cui potrei
andare incontro. Se per esempio io fossi una persona che detesta
ammettere di avere sbagliato, potrei ostinarmi a negare l’esistenza di
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Creazione contemporanea
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un qualunque rapporto tra il nuovo guasto dell’auto e il precedente
intervento del meccanico, anche quando tale rapporto apparisse
alquanto verosimile alla luce dei fatti, appellandomi proprio all’impossibilità di stabilire con certezza come siano andate veramente le
cose. Oppure potrei associare i due guasti della mia auto a una coincidenza ricorrente con un fenomeno esterno e verosimilmente irrilevante (per esempio, il fatto che in ambedue i casi poco prima del
guasto ho notato un gatto nero sul ciglio della strada) ma che però
nella mia ricostruzione dei fatti acquista un peso causale preponderante, divenendo “la vera ragione” che spiega i due guasti, a prescindere da ogni intervento del meccanico.
Imparare dall’esperienza è dunque in concreto piú difficile a
volte di quanto possa sembrare a prima vista. Ma se questo vale dal
punto di vista della valutazione delle conseguenze delle nostre decisioni ai fini delle decisioni successive, vale a maggior ragione al
momento di prendere la prima decisione. Torniamo allora alla
nostra situazione ipotetica nella quale la macchina si è appena guastata per la prima volta e mi trovo a osservare con perplessità le
varie officine per decidere quella a cui rivolgersi. Come scegliere?
Visto che non conosco nessuno dei meccanici, il criterio piú gettonato è solitamente il seguente: quale officina ha piú macchine
ferme nel proprio garage? Maggiore il numero delle macchine, e
quindi dei clienti, piú abile sarà probabilmente il meccanico: in
questo caso, faccio implicitamente affidamento sull’informazione
rivelatami dalle scelte compiute da altri prima di me, e probabilmente da altri che possiedono piú informazioni di quelle a me
accessibili circa le effettive capacità dei vari meccanici. In altre parole, l’osservazione delle scelte altrui mi trasmette delle informazioni
che, per quanto non direttamente accessibili (non so per quale
reale ragione il proprietario di questa Fiat si è rivolto all’officina
Rossi), possono essere da me utilizzate nella misura in cui, appunto,
credo che esse siano state considerate ai fini della decisione. Un
discorso analogo vale per molte altre situazioni, per esempio per la
scelta di un ristorante: se devo pranzare in una città che non conosco, meglio scegliere, a parità di condizioni, un ristorante pieno
piuttosto che uno desolatamente vuoto. Chi ha scelto prima di me
l’uno invece dell’altro saprà bene il perché.
Tutto ciò sembra molto logico e molto intuitivo. Eppure consideriamo il seguente scenario ipotetico. È mattina presto e tutte le officine del quartiere hanno i garage vuoti. Nella notte, un pesante
camion produce una buca nell’asfalto che può con alta probabilità
danneggiare la coppa dell’olio delle automobili che hanno la sfortuna di incocciarvi. Passa una prima automobile, incappa nella buca,
finisce in panne nei pressi delle officine, ne sceglie una a caso
(magari l’unica aperta a quell’ora antelucana). Passa una seconda
auto, incontra lo stesso problema. Ormai tutte le officine sono aperte, ma a questo punto l’automobilista applica il criterio “logico” e si
La giovane arte italiana nel contesto internazionale
rivolge all’unica che ha già un cliente. È facile allora capire come,
verso la fine della giornata, l’officina che con tutta probabilità avrà il
maggior numero di clienti (anche se presumibilmente non la totalità) sarà quella che, casualmente, si trovava aperta nel momento in
cui la prima automobile andava in panne: un dato che non ha evidentemente nulla a che fare con l’effettiva onestà e capacità del meccanico. Ciò che ha reso possibile questo effetto paradossale è il fatto
che tutti gli automobilisti in panne hanno erroneamente assegnato
un contenuto di informazione di fatto inesistente alle scelte dei loro
sfortunati predecessori, dando origine a quella che gli economisti
chiamano una cascata informativa.1 Un effetto del tutto simile può
naturalmente prodursi nel caso del ristorante: il primo cliente che va
a pranzare molto presto sceglie un ristorante a caso, attirando cosí il
secondo, e via via gli altri, mentre il ristorante concorrente resta
vuoto: magari, il primo cliente ha scelto il primo ristorante semplicemente perché attirato dal colore delle tovaglie…
Questo lungo preambolo, che magari sta facendo spazientire il lettore che vorrebbe sentire parlare dei giovani artisti, ha in realtà uno
scopo: quello di farci riflettere, focalizzando in un primo momento
l’attenzione su esempi astratti e un po’ didascalici, sul rapporto che
esiste tra il panorama di opportunità che definisce il contesto di selezione dei giovani artisti e il contenuto di informazione delle scelte
che premiano e promuovono un artista piuttosto che un altro. Si
discute spesso dell’effettiva capacità di discriminazione da parte del
sistema,2 nel senso economico di corretto riconoscimento di caratteristiche non direttamente osservabili, in questo caso l’effettivo valore
di un artista, o forse sarebbe meglio dire, come vedremo in seguito, il
suo potenziale valore. Se sono gli artisti o piú in generale le “parti in
causa” a parlare, in genere si assiste all’ennesima variante di una scenetta familiare: se chi parla è un artista che è stato premiato dalle circostanze, sarà pronto a giurare sulla bontà e sull’obiettività del meccanismo di selezione, mentre se questi ha avuto poche soddisfazioni
recriminerà con rabbia sull’arbitrarietà, l’inaffidabilità, il nepotismo
ecc. delle scelte espresse dagli operatori del sistema.
Le cose sono piú complicate di cosí: in realtà, come ci dimostra la
letteratura economica che ha studiato il fenomeno delle cascate
informative con molta attenzione, è probabile che prima o poi la
“cascata” si interrompa,3 ovvero che gli individui si rendano conto
che l’opzione apparentemente migliore non è effettivamente tale ma
è stata ritenuta migliore soltanto per una combinazione particolarmente favorevole di circostanze, e l’interruzione della cascata avverrà
con tanta maggiore probabilità quanto piú arbitrario e immotivato
era stato il flusso iniziale di scelte a essa favorevoli. Per esempio, nel
giorno di chiusura del primo ristorante gli avventori si dirigono in
quello solitamente deserto e scoprono che è molto piú buono del fortunato concorrente. Ma d’altra parte, perché questo accada, può
occorrere del tempo: e magari, lo sfortunato proprietario del risto-
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Creazione contemporanea
rante migliore ma vuoto potrebbe chiudere bottega prima che i clienti si accorgano dell’errore. Né il successo né l’insuccesso sono prove
definitive in un mondo con informazione asimmetrica, anche se maggiore è il tempo intercorso dalla prima scelta, maggiore la probabilità
che la gerarchia dei valori determinata dalle scelte abbia un qualche
riscontro oggettivo. Nel caso dell’arte, dunque, non è detto che il
sistema abbia sempre ragione, ma è altrettanto immotivato ritenere
che chiunque non abbia avuto riscontro sia per ciò stesso vittima di
una sfortunata concatenazione di circostanze.
Il problema che stiamo qui cercando di affrontare è tutt’altro che
banale: al contrario, è ricco di sottigliezze concettuali che possono
produrre notevoli conseguenze pratiche. Ed è un problema che
caratterizza tutti i contesti locali (per esempio, nazionali) di selezione
dei giovani artisti. Ma, per motivi che spero diventeranno chiari nelle
pagine che seguono, riguarda con particolare serietà il sistema italiano, e può spiegare alcune sgradevoli anomalie che ne hanno segnato
le vicende recenti: in primo luogo, e in particolare, la “maledizione
di invisibilità” che sembra perseguitare, a detta di molti, la giovane
arte italiana nel contesto internazionale. Una sfortunata combinazione di circostanze o il riflesso di un limite reale? Cerchiamo di dare
una risposta a questa domanda.
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È bravo perché è qui, è qui perché è bravo: il sistema dell’arte
secondo il dottor Pangloss (che probabilmente era italiano)
Per un giovane artista agli inizi della propria carriera, pochi eventi sono importanti quanto l’essere selezionato per una mostra prestigiosa. Nel momento in cui un curatore importante invita l’artista a
partecipare alla mostra, questi ha non soltanto la possibilità di far
conoscere il proprio lavoro in un contesto altamente visibile e favorevole ad altri curatori o a galleristi che possono proporgli nuove
mostre, ma vede innanzitutto certificata la qualità del proprio lavoro
dal curatore che l’ha scelto tra tanti, e che con questa scelta si è in
qualche modo esposto favorevolmente nei suoi confronti. Alla luce
delle considerazioni della sezione precedente, dobbiamo allora chiederci: quanta informazione è contenuta in questa scelta, e quanta
gliene viene attribuita dagli altri curatori, dai galleristi, dai collezionisti, dai direttori di museo ecc.? Alla prima mostra ne seguono
altre, magari arriva l’invito a una biennale, mentre altri giovani artisti restano piú o meno al palo. Il nostro fortunato artista è bravo perché è qui, o è qui perché è bravo?
L’arte è fortemente sensibile alle mode, e questo è un dato di
fatto. Se un artista ha la sfortuna di dipingere in un momento in cui
la pittura è out, o se fa installazioni eleganti e fredde in un momento
in cui i must sono, poniamo, l’arte relazionale poco attenta alle qualità formali e la scatologia autobiografica, dovrà stringere i denti e
La giovane arte italiana nel contesto internazionale
soffrire per un po’. Ma le mode, per loro natura, sono fatte per passare, e prima o poi il vento cambia. È comunque un dato di fatto che il
nostro artista inizialmente fuori moda può trovare il suo momento
magico in età relativamente avanzata, e questo non è lo stesso che
ottenere il successo poco dopo aver mosso i primi passi: pensiamo
per esempio a un’artista come Marjetca Potrc, che prima di vincere a
sorpresa, da vera outsider, il premio Hugo Boss a un’età non piú verdissima era praticamente una quasi sconosciuta. Questo tardivo riconoscimento le ha giovato o nuociuto?
La risposta è: le ha giovato, visto che è stata in grado di resistere
per tempi cosí lunghi all’assenza di riconoscimenti. Spieghiamoci
meglio. In alcuni lavori precedenti ho mostrato come la scelta strategica fondamentale che deve affrontare un giovane artista in un contesto di selezione è quella tra un alto investimento specifico (ovvero
non recuperabile se non parzialmente nel caso in cui si dedichi ad
altre attività) nello sviluppo e nella maturazione concettuale del proprio lavoro, e una strategia a basso investimento specifico rivolta
essenzialmente alla coltivazione e alla valorizzazione di legami relazionali.4 La prima è una strategia altamente rischiosa, che ha un’attrattiva soltanto per quegli artisti che vedono il senso del proprio
lavoro soprattutto nella ricerca incessante della sua necessità, per salvaguardare la quale sono pronti a scelte anche dolorose e apparentemente controproducenti dal punto di vista dello sviluppo della carriera a breve/medio termine. La seconda è una strategia che può anche
essere attraente per personalità che non hanno necessariamente una
motivazione artistica forte ma possiedono una buona capacità di
autorappresentazione e di persuasione, decidendo strategicamente di
dedicare una quantità sostanziale di tempo ed energie alle inaugurazioni, alle cene con galleristi e collezionisti e piú in generale alla coltivazione della propria “presenza” oltre che allo studio e al lavoro nel
proprio atelier. È senz’altro una strategia meno rischiosa della prima
(permette cioè di avere accesso ad alcune “vie di uscita” convenienti
nel caso di scarso riscontro o di obsolescenza irrimediabile del proprio progetto artistico) e assicura con una certa probabilità un maggiore successo professionale immediato: chi conosce il mondo dell’arte sa che in molti casi essere nel posto giusto al momento giusto e
avere in tale situazione la giusta capacità di presenza può essere la
strada migliore per accedere a opportunità di lavoro prestigiose.5
Bisogna fare attenzione a non confondere gli artisti che si caratterizzano per una strategia a basso investimento specifico – e che in
genere hanno una carriera nella quale il periodo di riconoscimento è
relativamente breve, per essere seguito da una sanzione di “inattualità” che è la conseguenza naturale dell’incapacità di pensare il proprio sviluppo al di fuori di un ripiegamento acritico sul gusto corrente – dagli artisti che perseguono una strategia ad alto investimento
specifico ma che perseguono coscientemente una politica di visibilità
e di occupazione dei canali mediatici e comunicativi. Consapevoli del
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Creazione contemporanea
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fatto che si tratta di tipi ideali weberiani piú che di reali figure di artista, ma che proprio per questo sono utili ai fini di un’analisi astratta e
generale del fenomeno, chiamiamo queste due tipologie di artisti A e
B, rispettivamente. Si tratta come si è detto di due varianti dell’artista
ad alto investimento specifico ma caratterizzate da un atteggiamento
molto diverso nei confronti del proprio lavoro.
Per l’artista di tipo A, la possibilità di sviluppare coerentemente il
proprio progetto di senso (ovvero, come si diceva, la sua “necessità”)
è un obiettivo prioritario rispetto al riscontro esterno; viceversa, l’artista di tipo B finalizza a quest’ultimo il suo percorso artistico e al limite la logica della sua stessa produzione. È necessario chiarire subito
che quella che qui proponiamo non è una riedizione della contrapposizione romantica tra l’artista puro e incontaminato, e quindi
buono e autentico, e quello “venduto” ai lenocini del mercato e quindi cattivo e falso: possono esserci, e ci sono, mediocri artisti di tipo A
ed eccellenti artisti di tipo B. L’esplorazione della propria necessità
(che non ha in sé nulla a che fare, naturalmente, con l’esplorazione
del proprio mondo interiore e altre simili amenità) può ridursi a un
gioco autoreferenziale e narcisistico di scarsa rilevanza per un interlocutore esterno, mentre l’interazione programmatica con i meccanismi della legittimazione artistica può dare luogo a una complessa
operazione di disvelamento o di rispecchiamento ironico. Il punto è
piuttosto un altro: mentre per l’artista di tipo A l’obiettivo è la sopravvivenza nel sistema, l’artista di tipo B deve essere legittimato dal successo, pena la completa vanificazione del suo progetto artistico.
Se l’artista di tipo A nasce nel momento sbagliato, non ha dunque altra scelta che quella di cercare di resistere, aspettando pazientemente che il suo momento arrivi. Per l’artista di tipo B, invece,
non esistono momenti sbagliati in cui nascere, ma solo opportunità
di legittimazione: si tratterà di andare a caccia di quelle che sono
disponibili nel momento in cui entra nell’arena. L’artista A che sa
resistere alla mancanza iniziale di riscontro ne esce in genere notevolmente rafforzato, anche perché ha il tempo di sviluppare la sua
poetica in un contesto relativamente povero di interferenze, che in
genere lo condizionano negativamente e al limite ne bloccano il percorso creativo. Se invece questa mancanza di riscontro lo demotiva,
essa costituisce una sorta di prova indiretta della scarsa necessità del
suo progetto: non a caso, nelle lezioni tenute all’Accademia di Brera
nel 1999, Luciano Fabro argomenta che la principale dote che un
artista deve possedere non è il talento ma l’ostinazione. Per l’artista
di tipo B il vero test è invece quello di non lasciarsi svuotare dall’eventuale successo ottenuto, trasformando la ricerca di riscontro in
ricerca del consenso a tutti i costi.6
Anche se brevi, queste considerazioni mostrano come non esista
un modo univoco di valutare il potenziale di un artista; bisogna poi
tenere presente che gli artisti in carne e ossa, fatte salve le inevitabili
eccezioni, sono in realtà piú vicini a delle medie ponderate (con pesi
La giovane arte italiana nel contesto internazionale
diversi e specifici) dei due tipi ideali, vivendo cosí in una tensione
contraddittoria tra desiderio di riconoscimento e bisogno di integrità. Questo complica naturalmente in modo ulteriore il problema
delle asimmetrie informative: come si distingue un artista tendenzialmente di tipo A e di grande spessore da un aspirante tipo A mediocre
o da un artista a basso investimento specifico che gioca a fare il tipo A
per perseguire una propria strategia di immagine? Come si distingue
un tipo B di grande spessore da un artista a basso investimento specifico che ama i giochi di società? La risposta sembrerebbe scontata: è
la qualità del lavoro a parlare. Ma il punto è che la qualità del lavoro
non parla subito, e in genere questo è vero quanto piú il lavoro è
innovativo ed entra in conflitto con il canone dominante; ed è fin
troppo facile che un lavoro profondo e importante venga in una
prima fase, valutandolo sulla base dei parametri correnti, ritenuto
sciocco o incomprensibile. È solo col tempo, quando le categorie di
significato che ne sono una premessa indispensabile di lettura divengono patrimonio comune, che il valore del lavoro si rivela. Come è
allora possibile distinguere un lavoro interessante ma controverso da
un’autentica patacca priva di valore e di significato?
Il sistema dell’arte è lí per questo: è lí per distribuire riconoscimenti e per precluderli. Ma come può il sistema difendersi dai pericoli
connessi alle cascate informative, alla possibilità di dare inizialmente
credito e visibilità ad artisti a basso investimento specifico abili e spregiudicati piuttosto che ad artisti dotati di una reale capacità di visione
e di un progetto di senso ricco e generativo di significati? La risposta è
che il sistema tende a difendersi con grande difficoltà e anzi, a dare
luogo con alta probabilità a cascate informative di notevole entità.
Nella valutazione di un artista non esistono parametri di riferimento
precostituiti, e anzi il lavoro dell’artista interessante si propone in
genere di destabilizzare, spesso con successo, questi parametri di riferimento cosí come si erano strutturati in precedenza alla sua comparsa. Gli incentivi di natura economica, che caratterizzano gli operatori
del sistema, portano con facilità alla produzione di cascate informative: il giovane artista vagamente promettente viene subito lanciato sul
mercato con una personale impegnativa dal gallerista che crea il trend,
il quale lo trasforma nel giro di pochi mesi da semisconosciuto studente dell’ultimo anno di accademia in probabile candidato a diventare
the next big thing. Arrivano gli articoli sulle riviste specializzate e gli inviti alle mostre che fanno tendenza e che danno visibilità. I collezionisti
mostrano interesse e comprano anche se i prezzi salgono rapidamente, e anzi proprio per questo, i critici scrivono, i curatori invitano. L’artista si trova in breve tempo al centro di un rutilante carosello in cui
viaggia come un pacco postale da un posto all’altro e ha a malapena il
tempo di preparare i lavori per le mostre a cui è invitato, e finisce
spesso per riciclare, quando non per pescare piú o meno inconsapevolmente nella memoria imitando il lavoro altrui, pur di tenere il
passo delle scadenze e delle richieste.7 Magari si trattava di un artista
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Creazione contemporanea
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promettente che aveva idee interessanti, ma dopo qualche anno di
questo trattamento è facile che ci si trovi di fronte a un artista svuotato, disabituato ormai a porsi qualunque tipo di problema connesso
allo sviluppo sostanziale del proprio lavoro, e quindi caratterizzato da
un basso investimento specifico che lo riporterà piú o meno rapidamente nell’anonimato. È dunque proprio il meccanismo di selezione
del sistema con il suo modus operandi a creare spesso le condizioni per
la produzione di cascate informative, ovvero per l’immotivata concentrazione delle risorse su un artista che, a causa della sua scarsa capacità o volontà di controllo sul progetto a lungo termine che definisce
la sua ricerca, può essere facilmente strumentalizzato e che proprio
per questo crea le premesse per la sua espulsione finale dal sistema
(non prima di aver assicurato al gallerista interessanti realizzi e a qualche collezionista un’amara disillusione).
Naturalmente è tutt’altro che inevitabile che il sistema operi con
queste modalità. Esistono galleristi, critici, curatori, collezionisti che si
sforzano di mantenere una visione e degli obiettivi di lungo termine,
pur nella consapevolezza che questo comporta la rinuncia a facili occasioni di gratificazione economica nel medio-breve termine. L’accreditamento che queste strategie producono all’interno del sistema dà quindi i suoi frutti nel tempo, con una crescita lenta e costante piuttosto
che con le esplosioni repentine che caratterizzano i trend del momento,
e che si auto-alimentano secondo i meccanismi sopra descritti. La
risposta alla domanda che apriva questa sezione può quindi essere data
in questi termini: nel breve periodo, gli artisti sono bravi perché sono
qui (nella mostra/nel museo/nella collezione che contano); ma nel
medio-lungo periodo, se sono ancora lí, è perché sono bravi.
La biodiversità dei sistemi dell’arte
Già: come ci si difende allora dalle cascate informative, come si fa
a creare le condizioni che premiano gli operatori orientati al lungo
termine piuttosto che al breve? La risposta è tutto sommato semplice: attraverso un sistema fortemente pluralistico. Spieghiamoci
meglio. È evidente che in ogni momento storico ci sono operatori
dotati di una deep pocket, ovvero di una notevole disponibilità finanziaria che, unita a una dose sufficiente di intelligenza e di spregiudicatezza, permette per un po’ di “fare” il mercato (come insegna
Maurice Saatchi). Il punto è che in genere questa capacità di “fare”
il mercato non dura a lungo. Il grande gallerista deve cedere il passo
a una nuova generazione che ha una tasca abbastanza profonda per
competere seriamente e togliergli spazio: ogni gallerista per quanto
abile sa infatti generalmente tastare il polso della propria generazione, ma di fronte ai nuovi arrivi tende a prendere degli abbagli fatali.
Accanto ai galleristi che fanno il mercato nei vari contesti (globale,
continentale, nazionale), e alla selva dei galleristi minori, operano
La giovane arte italiana nel contesto internazionale
tuttavia in molti casi spazi generalmente definiti indipendenti, che
non appartengono se non in misura marginale al circuito relazionale e di legittimazione del grande giro e che costituiscono il terreno
di coltura naturale del contro-canone, ovvero degli artisti che sviluppano propri progetti di senso antitetici a quelli correntemente riconosciuti e istituzionalizzati. Un determinato sistema a una data scala
territoriale è tanto piú vitale quanto piú ricco e sviluppato (non solo
quantitativamente ma anche qualitativamente) è questo tessuto di
realtà indipendenti, orientate alla ricerca e alla sperimentazione,
consapevoli dell’attualità dell’arte ma ciononostante in grado di dialogare con essa anche criticamente e in modo iconoclasta senza per
questo scadere nel velleitarismo antagonista. Senza entrare quindi in
contrapposizione con il sistema delle gallerie piú potenti e accreditate, il circuito degli spazi indipendenti elabora delle linee di ricerca
alternative che in genere costituiscono il terreno di coltura per la
selezione dei futuri galleristi di successo. Per un lungo periodo i
musei d’arte contemporanea, anche quelli piú istituzionali, hanno
mostrato maggiori complementarità con il sistema degli spazi indipendenti piuttosto che con quello delle gallerie, oggi in buona parte
tendono invece a integrarsi a quest’ultimo, salvo poi recepire, quando ormai la transizione è compiuta, la nuova generazione di artisti.
Come le gallerie, i musei di maggiore tendenza tendono oggi a organizzare mostre personali di artisti in fasi relativamente precoci della
loro carriera, spesso parallelamente alle prime personali di lancio
nelle gallerie di tendenza, dando naturalmente una forte spinta alla
formazione della cascata informativa. È per questo motivo che il pluralismo di orientamenti e di mondi di riferimento è particolarmente
importante perché un sistema possa assicurarsi quella vitalità che
garantisce un ricambio di qualità e la possibilità di emersione a
lungo termine per quegli artisti ad alto potenziale che non possono
o non vogliono conformarsi agli imperativi dell’attualità.
È possibile effettuare un’analisi comparata dei vari sistemi nazionali che ci mostri in che misura il livello di “biodiversità” che lo caratterizza? Per rispondere a questa domanda, abbiamo immaginato un
semplice test analizzando le biografie, e in particolare l’elenco delle
mostre significative, di un campione di artisti dalla reputazione internazionale consolidata che non fosse troppo recente, in modo da poter
tenere conto dell’effetto di decadimento a medio-lungo termine che
elimina gli artisti piú trend-oriented. Abbiamo cosí scelto il Dictionary of
International Contemporary Artists di Flash Art Books, pubblicato nel
1995. Sono stati considerati soltanto gli artisti nati dopo il 1930 che
hanno raggiunto traguardi professionali di eccellenza, ovvero quantomeno l’invito a una Documenta o a una biennale di rilevanza internazionale. Per ciascun artista sono state prese in considerazione le prime
quattro personali in ordine cronologico riportate nella biografia. Ci
siamo limitati a considerare artisti appartenenti a sei aree geografiche,
tra le piú rappresentative del sistema internazionale dell’arte: l’area
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Creazione contemporanea
64
La giovane arte italiana nel contesto internazionale
anglofona americana (Usa e Canada, che come sappiamo comprende
anche una regione francofona, il Quebec), l’area anglofona europea
(Regno Unito e Irlanda), l’area europea di lingua tedesca (Germania,
Austria e Svizzera, quest’ultima ancora una volta comprendente una
regione francofona e una di lingua italiana), l’area nordeuropea Belgio-Olanda, la Francia e naturalmente l’Italia.
Per ciascuno degli artisti considerati, le quattro mostre sono state
classificate in base alla loro localizzazione, in quattro categorie:
mostre tenute presso uno spazio for profit dell’area di provenienza dell’artista (for profit-home), mostre tenute presso uno spazio non profit
dell’area di provenienza dell’artista (non profit-home), mostre tenute
presso uno spazio for profit esterno all’area di provenienza (for profitabroad), mostre tenute presso uno spazio non profit esterno all’area di
provenienza (non profit-abroad). Questa classificazione, che copre a
grandi linee la fase decisiva di lancio e accreditamento dell’artista (le
prime mostre personali citate nel curriculum non sono necessariamente le prime quattro, ma sono quelle ritenute a posteriori piú rappresentative nella prima fase della carriera) ci permette di capire
quanto tale fase sia stata “intermediata” dal sistema di appartenenza
dell’artista e quanto dai suoi contatti e dalle sue esperienze negli altri
sistemi. Inoltre, all’interno di questa prima macro-classificazione,
vediamo quanto siano stati importanti gli spazi for profit, come le gallerie, piuttosto che quelli non profit, come i musei e gli spazi indipendenti. Questi dati sono allora uno specchio della “biodiversità” dei
vari sistemi locali cosí come definita nella nostra precedente discussione. Piú distribuito tende a essere l’apporto delle due componenti
nazionali – quella non profit e quella for profit – piú equilibrato, e quindi potenzialmente piú robusto, è il rispettivo processo di selezione. In
tale configurazione infatti, il processo di selezione lascia spazio ai
controcanoni destinati ad avvicendare quello corrente e alla sperimentazione grazie all’apporto della componente non profit, garantendo allo stesso tempo una capacità di promozione e di realizzo economico attraverso la componente for profit.
Procediamo allora a esaminare i dati delle singole aree, partendo
dall’area Usa-Canada:
For profit-home
Non profit-home
For profit-abroad
Non profit-abroad
58,3%
17,4%
20%
4,3%
È interessante notare come all’interno del 17,4% delle mostre
tenute in spazi non profit nazionali, il 13,8% è dato da musei e spazi
alternativi mentre il 3,6% da musei universitari. I grandi musei come
il MoMa o il Whitney pesano soltanto per l’1,7%, un dato che probabilmente per le generazioni successive sarebbe maggiore. Il dato che
piú distingue l’area Usa-Canada, al di là del prevedibile grande peso
delle gallerie, dove il primato americano e in particolare newyorchese
è ancora incontrastato su scala globale, è il peso relativo decisamente
notevole del non profit e in particolare dei musei e degli spazi indipendenti, nel quale giocano un ruolo tutt’altro che trascurabile i
musei universitari, una realtà quasi sconosciuta nel nostro paese e
generalmente poco diffusa in Europa. Il peso del museo è particolarmente forte, come era lecito aspettarsi, nel caso del Canada. Tra gli
spazi indipendenti, un grande ruolo è sostenuto dagli spazi newyorchesi di ricerca come White Columns o Artists’ Space o Art In General. Notevole è anche il ruolo delle gallerie straniere, che rivelano una
forte capacità di penetrazione degli artisti americani anche negli altri
sistemi nazionali, mentre piú limitato, almeno per le generazioni sotto
esame, è il ruolo degli spazi non profit stranieri. Anche questo dato
sarebbe forse piú consistente se riferito alle generazioni piú recenti.
Il confronto con la realtà Regno Unito-Irlanda offre già notevoli
elementi di interesse:
For profit-home
Non profit-home
For profit-abroad
Non profit-abroad
29,2%
12,5%
46,9%
11,4%
65
A differenza di quanto accadeva per gli artisti americani, nell’area britannica-irlandese l’elemento trainante del processo di selezione sono le gallerie straniere, e in particolare quelle americane,
nei confronti delle quali gli artisti anglofoni europei hanno un
canale di accesso privilegiato rispetto ad artisti di altre aree. Le gallerie nazionali hanno comunque un peso rilevante (che tra l’altro si
è presumibilmente accresciuto negli ultimi anni, che come ricordato non sono coperti da questi dati e che richiederebbero di considerare, come vedremo piú avanti, un numero notevole di nuovi artisti
in genere piú giovani di quelli qui esaminati). A differenza di quanto accadeva nella regione Usa-Canada, nella quale sul versante non
profit il notevole sviluppo degli spazi nazionali creava agli artisti
dell’area pochi stimoli a lavorare con spazi non profit stranieri, qui
il peso relativo degli spazi nazionali e di quelli stranieri è quasi equivalente e in ogni caso abbastanza rilevante, sebbene inferiore a
quello dell’area nordamericana. Di particolare rilievo all’interno
del campione appare il ruolo dell’Ica di Londra, che si rivela uno
snodo fondamentale per l’accreditamento degli artisti inglesi ai
livelli piú alti del sistema.
Veniamo ora all’area di lingua tedesca, Germania-Austria-Svizzera:
For profit-home
Non profit-home
For profit-abroad
Non profit-abroad
57%
22,1%
14,5%
6,4%
Creazione contemporanea
La giovane arte italiana nel contesto internazionale
Per quest’area si configura decisamente un modello autoctono: a
fronte di un peso delle gallerie paragonabile a quello nordamericano
(e in effetti tanto in Germania che in Svizzera e in parte in Austria si
ritrovano la maggior parte delle piú importanti gallerie dell’Europa
continentale), colpisce soprattutto il ruolo degli spazi non profit nazionali, che supera abbondantemente il 20%, con una presenza preponderante del sistema delle Kunsthalle e un ruolo significativo dei Kunstverein, mentre del tutto assenti come già anticipato sono le realtà
universitarie. Gli artisti di lingua tedesca trovano quindi un ampio e
diversificato sostegno all’interno del proprio sistema, che offre loro
tutte le opportunità per superare con successo la fase di lancio e di
accreditamento e proiettarsi nel sistema globale. Le Kunsthalle, capillarmente distribuite sul territorio, offrono spazi di sperimentazione e
ricerca e allo stesso tempo si propongono come acquirenti dei piú
promettenti artisti locali, anche se spesso i loro progetti collezionistici
hanno ambizioni decisamente internazionali.
Una realtà per certi versi affine a quella di lingua tedesca è quella
belga olandese, come del resto mostrano i dati:
66
For profit-home
Non profit-home
For profit-abroad
Non profit-abroad
54,2%
18,8%
25%
2%
Pur manifestando una maggiore propensione al rapporto con gli
altri sistemi rispetto ai paesi di lingua tedesca, un dato di fatto del
resto inevitabile a causa delle dimensioni ridotte della regione,
soprattutto per quello che riguarda il ruolo delle gallerie straniere,
appare comunque chiaro il ruolo trainante delle gallerie nazionali e
allo stesso tempo degli spazi non profit, la cui incidenza percentuale
è anche qui superiore a quella americana. Un ruolo di particolare
rilievo è sostenuto dallo Smak di Gent, che come l’Ica londinese si
rivela un punto nodale del sistema e un’opportunità spesso determinante ai fini della selezione; a questa realtà di eccellenza si accompagna comunque una certa quantità di realtà museali e di spazi alternativi abbastanza distribuiti sul territorio che configurano quindi un
modello autarchico abbastanza simile a quello tedesco.
Veniamo ora alla Francia, che dà delle risultanze per certi versi
abbastanza sorprendenti:
For profit-home
Non profit-home
For profit-abroad
Non profit-abroad
38,5%
17,3%
36,5%
7,7%
A differenza di quanto si potrebbe intuitivamente immaginare, il
sistema francese si rivela notevolmente meno autarchico di quello
tedesco, e anzi fortemente sbilanciato verso l’estero, con un peso
delle gallerie straniere pressoché pari a quello delle gallerie nazionali, e un ruolo degli spazi non profit nazionali che, per quanto rilevante, appare clamorosamente modesto rispetto alle aspettative che il
sistema francese, tradizionalmente orientato all’intervento pubblico
e al dirigismo tecnocratico, aveva riposto nel sistema dei Frac. La
capacità di intermediazione dei Frac rispetto alle Kunsthalle di lingua
tedesca appare sostanzialmente inferiore; il punto di riferimento
degli artisti francesi è rappresentato dalle gallerie straniere, soprattutto quelle americane e inglesi, ma anche in minor misura tedesche.
Ancora una volta, il dato può essere probabilmente modificato negli
ultimi anni per la notevole rinascita di Parigi come centro nodale del
sistema internazionale dell’arte contemporanea, e per il grande sviluppo quantitativo e qualitativo delle gallerie che ciò ha comportato.
Oltre ai Frac, negli spazi nazionali non profit giocano un ruolo rilevante alcuni musei cittadini e regionali: il dato aggregato quindi è soltanto in parte espressione degli spazi pubblici regionali per l’arte, a ulteriore conferma della loro controversa capacità di intercettare le proposte artistiche nazionali di qualità.
E veniamo infine all’Italia, che fornisce forse i dati piú sconcertanti in assoluto:
67
For profit-home
Non profit-home
For profit-abroad
Non profit-abroad
75,8%
2,3%
18,9%
3%
Se questi dati vengono mostrati a prima vista a un interlocutore
ignaro della realtà italiana, non si potrebbe che dedurne che in Italia
il sistema delle gallerie è fortissimo, tanto da superare di gran lunga
per incidenza percentuale tanto quella delle gallerie nordamericane
che di quelle tedesche. Se ne dedurrebbe anche che il sistema italiano è autarchico quanto quello tedesco, se non di piú, se si considera
che per gli artisti italiani esistono soltanto le gallerie: il ruolo degli
spazi non profit, tanto nazionali che stranieri, è pressoché inesistente.
Sull’autarchia non si può che convenire: ma a differenza del caso
tedesco, nel quale questa autarchia è dovuta essenzialmente a una
notevole concentrazione locale di risorse che disincentiva gli artisti a
cercare altrove, nel caso italiano essa è una scelta residuale: si cerca
in Italia perché si hanno pochissime opportunità di proiezione estera. Mentre per esempio i francesi hanno accesso con relativa facilità a
opportunità importanti altrove, gli italiani non riescono a uscire dal
loro bozzolo nazionale e quindi si riversano in massa sulle gallerie
nazionali, che al contrario di quanto può apparire dal dato aggregato
sono, come è noto, realtà economicamente deboli e spesso poco e
male inserite nel circuito internazionale, nel quale ricoprono nei
migliori dei casi il ruolo di vassalli di lusso, che ospitano volentieri e
Creazione contemporanea
68
spesso con successo i grandi nomi stranieri ma hanno pochissima
capacità di esportare in contesti prestigiosi i loro artisti nazionali.
Nella realtà italiana le gallerie giocano dunque un ruolo residuale,
assorbono tutti gli squilibri di un sistema fortemente distorto nel
quale la biodiversità è quasi assente: hanno un peso relativo che non
ha uguali in qualunque altro sistema ma sono pressoché marginali
fuori dal contesto locale. D’altro canto, gli spazi nonprofit sono quasi
inesistenti e gli stessi artisti, poco abituati a frequentarli in patria, non
sanno o non vogliono accedervi altrove, tendendo a focalizzare pressoché esclusivamente la propria attività nelle gallerie. Ancora una
volta la situazione sta cambiando negli ultimi anni, con l’apertura di
qualche spazio indipendente o il consolidamento dei pochissimi
spazi storici come Viafarini e Careof a Milano, con il lancio dei nuovi
musei per il contemporaneo e con la crescente apertura dei pochi
grandi musei come il Pecci o Rivoli o le Gam di Bologna e Torino, un
tempo quasi impermeabili ai giovani artisti ma oggi sempre piú interessate nei loro confronti. Ciò malgrado, l’entità dello squilibrio è
tale che ben difficilmente queste nuove situazioni possono aver modificato il quadro in modo sostanziale.
Le conseguenze di ciò sono abbastanza evidenti: il giovane artista
italiano, e questo vale ancora oggi, se vuole operare e accreditarsi
all’interno del sistema nazionale deve necessariamente passare per le
gallerie, che lo lega a sé già nelle primissime fasi della carriera. È
tutt’altro che infrequente riscontrare nel curriculum degli artisti
emergenti italiani di maggior successo una concentrazione pressoché
esclusiva delle prime personali nella galleria di riferimento, senza
alcuna proiezione esterna. In questo modo l’artista viene di necessità
fortemente condizionato nello sviluppo del suo percorso; la debolezza
economica delle gallerie spinge d’altra parte i galleristi a un’ottica di
realizzo il piú immediato possibile, con la conseguente strategia di
aumentare quanto piú velocemente possibile la quotazione dell’artista. La notevole autarchia del sistema porta però al paradosso secondo
cui le importanti quotazioni spuntate in patria dall’artista emergente
diventano assolutamente insostenibili non appena questo si proietta in
una dimensione estera, nei confronti della quale il curriculum che
questo o questa può vantare appare spesso modesto in quanto troppo
concentrato sulle esperienze italiane. Alla notevole attenzione che
negli ultimi anni è stata riservata alla giovane arte italiana in sede
nazionale, con l’istituzione di prestigiosi premi e borse di studio
anche per l’estero, e che in linea di principio dovrebbe contrastare
questa tendenza all’autarchia, è corrisposto invece un paradossale inasprimento della stessa, in quanto ciò che accade è che gli artisti giovani legati alle principali gallerie del panorama nazionale fanno incetta
di riconoscimenti, dei quali sono i destinatari quasi esclusivi, il che da
un lato dà luogo a una situazione simile a quella tedesca nella quale
l’abbondanza di opportunità crea pochi incentivi all’apertura verso
l’estero, con la differenza che nel caso italiano tale abbondanza si con-
La giovane arte italiana nel contesto internazionale
centra su una rosa ristrettissima di nomi il cui accesso è regolato abbastanza rigidamente da un numero molto limitato di operatori, mentre
dall’altro preclude alla maggioranza degli artisti ogni opportunità di
proiezione internazionale se non in modo assolutamente autonomo e
in totale assenza di mezzi che non siano propri o auto-procurati.
Che fare?
In estrema sintesi, nel caso italiano, a differenza di quanto accade
in altri sistemi piú equilibrati in termini di biodiversità e che pure
sono tutt’altro che immuni da queste problematiche, esistono condizioni quasi ideali per la produzione di cascate informative: spazi quasi
inesistenti per la sperimentazione, un sistema debole e marginale a
livello internazionale, una cultura autarchica e poco sensibile ai circuiti alternativi internazionali, un peso preponderante di gallerie dai
mezzi economici limitati che hanno necessità di realizzi frequenti. Si
tratta di tutte le condizioni che occorrono per far sí che si crei una
concentrazione irrazionale su un numero limitato di nomi le cui quotazioni crescono rapidamente senza che a questo corrisponda una
contemporanea crescita della personalità artistica e dell’accreditamento internazionale.
Da un esame anche solo fuggevole dei curricula degli artisti emergenti italiani, anche quelli che magari hanno avuto opportunità
importanti come il passaggio in una biennale o in una evento espositivo di pari importanza, si deve spesso constatare che buona parte
delle opportunità internazionali di visibilità del loro lavoro sono in
ogni caso legate a canali relazionali che in ultima istanza fanno capo
al sistema italiano. Se il sostegno nazionale venisse meno, la loro
capacità di proiezione oltre i confini del belpaese sarebbe spesso
ridotta quasi a zero. L’invisibilità e la marginalità dell’arte italiana, la
difficoltà dei nostri artisti a varcare i confini nazionali sono, quindi,
un prodotto collaterale abbastanza chiaro ed evidente di un sistema
fortemente squilibrato e incline a forti distorsioni informative che
penalizzano artisti e collezionisti e in ultima analisi gli stessi galleristi.
D’altra parte, la gestione particolaristica delle poche opportunità
disponibili crea una notevolissima conflittualità e diffusi sentimenti
di rabbia e di frustrazione che rendono pressoché impraticabile qualunque progetto di cooperazione tra gli operatori del sistema; e
anche questo non aiuta a migliorare la nostra visibilità e la nostra
capacità di penetrazione a livello internazionale. La quasi totale
assenza di spazi non profit rende poi difficile la sperimentazione e finisce per bloccare le possibilità di ricambio generazionale.8 Gli artisti
giovani, costretti a passare troppo giovani e troppo immaturi da un
sistema di legittimazione fatto di forche caudine molto stretti, finiscono per sviluppare una poetica che o attinge a un narcisismo autoreferenziale del tutto irrilevante per un interlocutore esterno al nostro
69
Creazione contemporanea
70
sistema e ai suoi codici di senso, oppure produce un epigonismo
dell’international style già ampiamente sperimentato altrove.
Il punto dolente del sistema è quindi in primo luogo la mancanza
di spazi di sperimentazione e di ricerca e la mancanza di risorse che
non siano intermediate dal sistema delle gallerie (le quali, e non a
caso, quando devono fare una scommessa imprenditoriale veramente
importante scelgono il piú delle volte un artista emergente straniero,
magari giovane ma già dotato di un solido curriculum internazionale). Gli artisti italiani che provano a muovere qualche timido passo
fuori dai confini rimangono spesso stupiti di quanto abbondanti e
variegate siano le opportunità disponibili in altri paesi e di quanto
scarsi siano i filtri formali/relazionali (non certo quelli qualitativi)
per accedervi: scoprono che esistono spazi museali anche importanti
che per determinati progetti selezionano gli artisti tramite open call a
cui tutti possono partecipare, che esistono spazi non profit di rilievo
che valutano con attenzione tutti i portfolio che vengono loro sottoposti, che esistono borse di studio e opportunità di residenza che
selezionano gli artisti sulla base di criteri equi e soprattutto trasparenti. E se un tempo l’appartenenza nazionale poteva essere una scusante, in un mondo della comunicazione globalizzata quale è quello in
cui viviamo, gli artisti che lamentano una marginalità geografica e
culturale possono prendersela soltanto con sé stessi. Né c’è da sorprendersi se, nei casi in cui si ha accesso a condizioni di selezione
eque, gli artisti italiani che vengono reclutati per progetti internazionali non legati a circuiti relazionali che fanno riferimento al sistema
italiano non coincidono granché con quelli su cui si concentra tutta
la potenza di fuoco di quest’ultimo…
Come si è detto, i dati che qui abbiamo esposto e commentato
non sono relativi al periodo attuale; se volessimo esaminare da vicino
quel che sta succedendo oggi dovremmo procedere ad analizzare (ed
è quello che faremo in una ricerca futura) i curricula degli artisti
inclusi nei nuovi repertori internazionali come i vari Cream 1, 2, 3,
Blink o Art at the Turn of the Millennium.9 La sensazione epidermica
che deriva da un primo test sui dati, al di là della sporadicità delle
presenze italiane in questi repertori (che diventa la quasi inesistenza
se si escludono le segnalazioni di artisti italiani operate da critici italiani), è che l’impressione di autarchia e di squilibrio rilevata potrebbe anche ingigantirsi, se non in termini assoluti quantomeno in termini comparativi, alla luce della varietà di esperienze e mobilità che
contraddistingue i curricula della maggior parte degli artisti internazionali di oggi i quali, contrariamente a quanto si ritiene nel nostro
sistema dove sembra che comunque l’arte abbia ragione di essere soltanto a New York, Londra, Parigi, Berlino e poco piú, non disdegnano la frequentazione assidua di realtà apparentemente marginali ma
in realtà dotate di grande energia creativa e di grande capacità di
innovazione, dal Sudamerica (Messico, Brasile, Argentina) ai Paesi
dell’Est europeo, dall’Australia all’Estremo oriente, fino alle aree
La giovane arte italiana nel contesto internazionale
centrali del Nordamerica che un tempo erano provincia desolata ma
che oggi si rilevano spesso incubatori di straordinario interesse. Ci
accorgeremo prima o poi che qualcosa là fuori sta succedendo?
Che fare, dunque? Da un lato, la risposta è semplice: favorire la
nascita di nuove realtà non profit, favorire lo sviluppo di progetti cooperativi tra gli operatori del sistema, favorire una maggiore trasparenza e apertura (nel rispetto della qualità) nella creazione di opportunità per i giovani artisti, ma anche facilitare la conoscenza diretta
della realtà italiana da parte dei curatori stranieri sovvenzionandone
le visite di studio e di ricerca in Italia. Tanto per limitarci a pochi
esempi. Tutti questi sono antidoti utili alla formazione delle cascate
informative, che nel breve periodo possono dare vantaggi temporanei a chi ne beneficia, ma nel lungo periodo distruggono opportunità per gli artisti, demotivano i collezionisti, bruciano i critici e i
curatori, appannano la reputazione dei galleristi. Lamentiamoci un
po’ meno, e rimbocchiamoci le maniche.
71
1
2
3
4
Cfr. Bikhchandani, Sushil, Hirschleifer, David, Welch,
Ivo, A theory of Fads, Fashion, Custom and Cultural
Change as Informational Cascades, in “Journal of
Political Economy”, 1992, 100, n. 5, pp. 992-1026.
Cfr. Trimarchi, Michele, Snodi informativi, costi di
transazione e processi di selezione nel mercato
dell’arte, in Candela, Guido e Benini, Monica (a
cura di), La produzione e la circolazione delle
informazioni nel mercato dell’arte, pp. 129-144.
Cfr. per esempio Lee, In Ho, On the convergence of
informational cascades, in “Journal of Economic
Theory”, 1993, 61, n. 2, pp. 395-411.
Sacco, Pier Luigi, Arte come “gioco”: selezione
competitiva e formazione delle convenzioni, in
“Economia Pubblica”, 1997, 27, n. 5, pp. 25-52 e
Id., La selezione dei giovani artisti nei mercati
delle arti visive, in Santagata, Walter (a cura di),
Economia dell’arte. Istituzioni e mercati dell’arte e
della cultura, pp. 43-75.
5
6
7
8
9
Per un’analisi sistematica delle strategie di affermazione nel sistema dell’arte si veda Vettese, Angela,
Artisti si diventa, Carocci, Roma 1998.
Fabro, Luciano, Arte torna arte. Lezioni e conferenze
1981-1997, Einaudi, Torino 1999.
Senaldi, Marco, Niente di personale, in “Flash Art”,
2001.
Cfr. per esempio Santagata, Walter, Simbolo e
merce. I mercati dei giovani artisti e le istituzioni
dell’arte contemporanea, Il Mulino, Bologna 1998.
Cream: Contemporary Art in Culture. 10 curators, 10
writers, 100 artists, Phaidon, London 1998; Dictionary of International Contemporary Artists, Flash
Art Books, Milano 1995. Fresh Cream. Contemporary Art in Culture, Phaidon, London 2000; Blink.
100 photographers, 10 curators, 10 writers,
Phaidon, London 2002; Cream 3. 10 curators, 100
contemporary artists, 10 source artists, Phaidon,
London 2003.
Diritto d’autore, diritto di seguito nell’arte contemporanea
e nel mercato globale
Silvia Stabile, Guido Guerzoni
Il droit de suite dalle origini alla sua piú recente evoluzione
Con il termine francofono droit de suite (diritto di seguito) ci si
riferisce a quel particolare diritto, proprio dell’autore di un’opera
d’arte contemporanea, sulle successive vendite dell’esemplare (leggasi “originale”) di un’opera protetta dal diritto d’autore.
Il tema è di interesse per i lettori di questo volume per due ordini
di ragioni: una di ordine politico-normativo, legata alla recente emanazione della Direttiva 2001/84/CE del Parlamento europeo e del
Consiglio datata 27 settembre 2001 (non ancora attuata), la quale ha
proprio lo scopo di tutelare detto droit de suite, garantendo agli artisti
contemporanei europei una tutela “economica” di livello adeguato e
uniforme, eliminando, al tempo stesso, le distorsioni di concorrenza
attualmente esistenti nel mercato (europeo) dell’arte contemporanea
a causa del differente regime applicato all’interno degli Stati dell’Unione europea; la seconda di natura economica-sociale, legata alla
evoluzione del mercato dell’arte contemporanea con riferimento
all’introduzione delle nuove tecnologie digitali e di Internet, come
strumento di creazione delle opere dell’ingegno, comprese quelle dell’arte (si pensi alla digital o virtual art) e di distribuzione delle stesse
(si pensi alle banche di dati on-line o alle aste condotte via Internet).
Sebbene la Convenzione di Berna del 1948 per la protezione delle
opere letterarie e artistiche abbia previsto un siffatto diritto, il suo
riconoscimento non ha mai rappresentato un obbligo per gli Stati
aderenti il trattato internazionale. Il risultato è rappresentato dal
fatto che alcuni Stati dell’Unione europea (vedi, per esempio, il
Regno Unito) non hanno disposizioni che assicurino tale diritto agli
autori stabiliti nel loro territorio. Tra l’altro il diritto di seguito non è
nemmeno un diritto “globalmente” riconosciuto, nel senso che nei
Paesi in cui la produzione artistica contemporanea e il mercato dell’arte sono piú attivi rispetto ad altri, come per esempio gli Stati Uniti
d’America, all’autore è riconosciuto solo il compenso per la prima
vendita del supporto che incorpora l’opera d’arte (come, per esempio, un quadro o una scultura).
Esistono quindi ostacoli nel mercato interno (e nel mercato “globale”) dell’arte contemporanea che creano distorsioni della concorrenza (il mercato delle case d’asta è fiorente nel Regno Unito e
“bloccato” in Francia), mancando una protezione uniforme per gli
autori di opere d’arte originali. La Direttiva citata si propone dunque di armonizzare le normative nazionali dei paesi dell’Unione
europea introducendo, a vantaggio all’autore, un diritto sostanziale
e concreto sulle vendite successive dell’originale di un’opera d’arte.
Richiamando le parole contenute nel testo della Direttiva, per “dirit-
73
Creazione contemporanea
74
to sulle vendite successive” si intende un diritto non cedibile per contratto, né in altro modo irrinunciabile, a percepire una percentuale del
prezzo per ogni successiva rivendita di un’opera d’arte (in unico esemplare, originale) quando la rivendita è effettuata da professionisti del
mercato dell’arte, quali case d’asta, gallerie e mercanti d’arte. Il diritto
a percepire tale corrispettivo (calcolato in misura percentuale) è a carico del venditore professionista e si applica alle opere delle arti figurative come quadri, collage, dipinti, disegni, incisioni, stampe, litografie,
sculture, arazzi, ceramiche, opere in vetro e fotografie (escludendo
dunque una larga fetta della produzione artistica contemporanea) purché si tratti di creazioni interamente eseguite dall’artista stesso o di
esemplari considerati come opere d’arte “originali” secondo il mercato
dell’arte e la specifica tipologia di opera (per esempio, una produzione
limitata o le opere firmate), con esclusione invece di manoscritti originali degli scrittori e dei compositori. Nel caso di artisti non piú in vita, il
diritto di seguito è trasmesso dall’autore ai suoi eredi (si tratta sempre
di opere d’arte, protette dal diritto primario d’autore, dato che il diritto
sulle vendite successive è garantito per tutta la vita dell’artista e per settanta anni dopo la sua morte). L’importo del compenso (il cosiddetto
“plusvalore”) non può superare i 12.500 euro per ciascuna rivendita.
L’esercizio di tale diritto, in particolare per quanto riguarda le modalità
di raccolta e di gestione, è affidato agli enti collettivi (per esempio, in
Italia, alla Siae). La nuova normativa, una volta introdotta anche in Italia, garantirà regole atte a consentire il controllo delle transazioni e il
riconoscimento ai beneficiari del diritto di esigere da qualsiasi professionista del mercato dell’arte tutte le informazioni necessarie ad assicurare il pagamento dei compensi relativi al diritto sulle rivendite delle
proprie opere d’arte, sebbene, come si vedrà, con effetti limitati e circoscritti a particolari tipologie di opere e di mercati.
Il mercato internazionale dell’arte contemporanea e il diritto
di seguito
La maggior parte delle transazioni del mercato dell’arte contemporanea si svolgono a Londra e ammontano, nel loro complesso, al
52% pari a 3.925 miliardi di sterline l’anno del totale del mercato dell’arte europeo. Piú del 90% del mercato europeo dell’arte, condotto
tramite aste, è gestito da Sotheby’s e Christie’s a Londra.
Sebbene l’istituto del diritto di seguito sia stato introdotto per la
prima volta nel 1920 dalla legge francese sul diritto d’autore1 e, successivamente, sia stato incluso nella Convenzione di Berna del 1948,
fino a oggi, gli artisti contemporanei non hanno beneficiato del diritto di percepire compensi legati alle successive vendite di un’opera
d’arte per il semplice fatto che la normativa in materia non è armonizzata e, in particolare, perché la legge o il diritto del Regno Unito
non prevede, né disciplina il droit de suite.2
Diritto d’autore, diritto di seguito nell’arte contemporanea
Con la Direttiva 2001/84/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 settembre 2001 relativa al diritto dell’autore di un’opera
d’arte sulle successive vendite dell’originale, è stata introdotta una
normativa specifica che disciplina il noto istituto del droit de suite
armonizzando la legislazione in materia all’interno degli Stati membri, compreso il Regno Unito e modificando, di fatto, il regime a oggi
applicato nel mercato dell’arte contemporanea.
Il diritto di seguito è stato, come detto, incluso nella Convenzione
di Berna, benché avesse carattere facoltativo per gli Stati che vi aderivano: detti Stati non erano, infatti, obbligati a introdurre il droit de
suite all’interno degli ordinamenti nazionali, per ragioni principalmente di ordine economico.
Le conseguenze di questa disparità di trattamento, in Europa, sono
sempre state risolte sulla base della applicazione del cosiddetto principio di “reciprocità materiale”. In base a tale principio, quando il diritto di seguito è introdotto e riconosciuto in uno degli Stati aderenti
alla Convenzione di Berna, l’artista di un altro Stato è legittimato a
invocare la protezione nella misura consentita dalla legislazione nazionale dello Stato dove essa è richiesta e a condizione che il diritto di
seguito sia riconosciuto nello Stato dell’autore unionista. La Convenzione di Berna stabilisce poi un ulteriore principio di “salvaguardia”
economica: la trasmissibilità di tale diritto dall’autore agli eredi e definisce il droit de suite come “un diritto inalienabile alla cointeressenza in
qualsiasi operazione di vendita di cui l’opera sia oggetto dopo la
prima cessione effettuata dall’autore”.3
Il diritto di seguito è stato introdotto in undici dei quindici Paesi
membri dell’Unione europea, sebbene sia effettivamente esercitato
solo in otto di questi.4 Il diritto di seguito è invece escluso dalle legislazioni di alcuni Stati membri come il Regno Unito, l’Irlanda, i Paesi
Bassi e l’Austria.5 In Italia il diritto di seguito è disciplinato dagli artt.
144 e ss. della sezione VI del capo II della Legge 22 aprile 1941 n. 633
(legge sul diritto d’autore). Gli autori delle opere delle arti figurative,
realizzate a mezzo della pittura, della scultura, del disegno e della
stampa, e gli autori di manoscritti originali, hanno diritto a una percentuale sul prezzo della prima vendita “pubblica” degli esemplari
originali delle opere e dei manoscritti quale presunto maggiore valore conseguito dall’esemplare rispetto al suo prezzo originario di vendita. La giustificazione del riconoscimento di tale diritto consiste nel
fatto che l’aumento del valore commerciale di un’opera in unico
esemplare, nel tempo, è proporzionale alla crescita della notorietà
dell’artista nel pubblico, che, all’inizio della propria carriera, salvo
casi eccezionali, è invece costretto a vendere le proprie opere a prezzi
notevolmente inferiori a quelli successivamente determinati dal mercato dell’arte. Gli autori hanno, inoltre, il diritto di percepire una
percentuale sul maggior valore che gli esemplari originali delle proprie opere abbiano ulteriormente conseguito nelle successive vendite
“pubbliche”, ragguagliata alla differenza tra i prezzi dell’ultima vendi-
75
Creazione contemporanea
Diritto d’autore, diritto di seguito nell’arte contemporanea
ta pubblica e di quella immediatamente precedente.6 La seguente
tabella evidenzia lo stato attuale del riconoscimento del diritto di
seguito nei Paesi dell’Unione europea.
Tab. 1 - Il Diritto di seguito nell’Unione europea
76
Stato
Percentuale
Base di
di calcolo
Valore
Gestione
collettiva
Tipo di
transazione
Austria
–
–
–
–
–
Belgio
4%
prezzo
di vendita
prezzo
di vendita
prezzo
di vendita
prezzo
di vendita
prezzo
di vendita
prezzo
di vendita
>50,000 BFr
Sí
Solo aste
Danimarca
5%
>2,000 DKr
Sí
>1,500 Fim
Sí
>100 FFr
Sí
Aste e
intermediari
Aste e
intermediari
Solo aste
Finlandia
5%
Francia
3%
Germania
5%
>100 DM
Sí
Grecia
5%
>100 DM
No
Irlanda
–
–
Italia
1-10%
margine
Lussemburgo
3%
prezzo
di vendita
Paesi
Bassi
Portogallo
–
–
–
6%
prezzo
di vendita
Non applicato
No
Aste e
intermediari
–
Aste e
intermediari
Aste e
intermediari
–
–
Variabile
No
Non applicato
No
Non raccolto
in pratica
Non raccolto
in pratica
–
–
Regno
Unito
Spagna
–
–
–
–
–
3%
>300,000 Pts
No
Svezia
5%
prezzo
di vendita
prezzo
>1,800 CS
Sí
Aste e
intermediari
Aste e
intermediari
Fonte: Christie’s 1998/MTIC 2000 (citato in C. McAndrew, L. Dallas-Conte, Implementing Droit de Suite (artists’ resale right) in England,
The Arts Council of England, in www.artscouncil.org.uk).
L’istituto del diritto di seguito non è però estraneo all’esperienza
extraeuropea, come, per esempio, agli Stati Uniti d’America. Gli Stati
Uniti, aderendo alla Convenzione di Berna ed emanando il Visual
Artists’ Rights Act (“VARA”), hanno previsto l’armonizzazione del diritto d’autore con riferimento a istituti tipici della legislazione europea
(di civil law), prevedendo, per esempio, un istituto sconosciuto nei
paesi anglosassoni come quello del diritto morale d’autore. Tuttavia
l’introduzione del diritto di seguito (resale profit-sharing right) non ha
trovato applicazione all’interno della legge federale, nonostante alcune legislazioni statali lo contemplino, come, per esempio, la legge
dello Stato della California.7 Questa situazione ha comportato una
notevole differenza di trattamento nel mercato dell’arte contemporanea tra artisti europei e artisti di altri Stati con riguardo alle vendite
effettuate da case d’asta residenti negli Stati Uniti (New York), nel
Regno Unito (Londra) e in Giappone (Tokio) e fino a poco tempo fa
anche in Svizzera (Ginevra).8
Il diritto di seguito in Europa
Il diritto di seguito, di cui gode l’autore di un’opera d’arte figurativa con riferimento a una “cointeressenza” economica sulle vendite successive dell’originale è, per definizione, incedibile e inalienabile, nonostante abbia un contenuto di carattere patrimoniale.9 Il
diritto sulle successive vendite è infatti un diritto frugifero, che consente all’autore di percepire un compenso ogniqualvolta l’opera sia
alienata. L’oggetto del diritto è costituito dall’opera materiale, ossia
dal supporto in cui è incorporata l’opera protetta e mira ad assicurare agli autori d’opere d’arte la partecipazione economica al loro
successo nel mercato dell’arte contemporanea. Un siffatto diritto
tende a ristabilire l’equilibrio tra la situazione economica degli
autori d’opere d’arte e quella degli altri creatori che traggono profitti economici elevati con riguardo alle successive utilizzazioni delle
loro opere e agli sfruttamenti economici ulteriori dei loro diritti di
privativa intellettuale.10
Il diritto sulle successive vendite è parte integrante del diritto
d’autore e costituisce una prerogativa essenziale degli autori. La sua
imposizione in tutti gli Stati dell’Unione europea risponde alla necessità di garantire agli artisti un livello di tutela uniforme; cosa che,
fino a oggi, non è stata possibile, come si è detto, se non attraverso il
meccanismo del riconoscimento reciproco dettato dalla Convenzione
di Berna. La Convenzione di Berna, infatti, stabilisce che il diritto
sulle successive vendite si applica solo ove la legislazione nazionale
del paese dell’autore lo ammetta. Il diritto di seguito è stato dunque
regolato dalla discrezionale volontà dei legislatori nazionali e soggetto alla clausola della cosidetta “reciprocità materiale”. Sulla base della
giurisprudenza della Corte di Giustizia delle Comunità europee sul-
77
Creazione contemporanea
78
l’applicazione del principio di non discriminazione di cui all’articolo
12 del Trattato CE,11 è risultato che non si possono invocare le clausole di reciprocità, contenute in certe disposizioni nazionali, per rifiutare agli artisti di altri Stati membri i diritti conferiti agli autori che
operano in altro Stato dell’Unione europea. L’applicazione di tali
clausole, nel contesto comunitario, è apparsa, infatti, contraria al
principio della parità di trattamento, insito nel divieto di ogni discriminazione basata sulla nazionalità.
Alla luce del processo di globalizzazione del mercato dell’arte
contemporanea, cui stanno imprimendo un’accelerazione gli effetti
dell’introduzione delle nuove tecnologie e di Internet, in un contesto
normativo in cui pochi paesi, al di fuori dell’Unione europea, riconoscono il diritto sulle successive vendite di opere d’arte, è parso essenziale avviare, in sede comunitaria e a livello internazionale, negoziati
per sancire l’obbligatorietà dell’articolo 14-ter della Convenzione di
Berna, sebbene con scarsi risultati.12
L’esistenza stessa del mercato internazionale, unita al fatto che in
vari Stati membri il diritto sulle successive vendite di opere d’arte
non esistesse e che i regimi nazionali non fossero uniformi, ha imposto di fissare disposizioni “transitorie”, tanto in relazione all’entrata in
vigore di tale diritto quanto alla sua disciplina sostanziale; disposizioni per lo piú atte a salvaguardare la competitività del mercato europeo, con un occhio di riguardo verso il Regno Unito, ove il diritto di
seguito non è riconosciuto e dove sono concluse le maggiori transazioni del mercato dell’arte contemporanea.
Il diritto sulle successive vendite di opere d’arte è, tuttavia,
attualmente previsto dal diritto della maggior parte degli Stati
membri. Quando esistono norme in questo settore, le stesse presentano caratteristiche diverse; e ciò per quanto riguarda le opere alle
quali si applica il diritto di seguito, i suoi beneficiari, le percentuali
applicate, le operazioni soggette, nonché la base per il calcolo del
compenso dovuto agli artisti. L’applicazione o la non applicazione
di questo diritto incide poi in misura significativa sulle condizioni di
concorrenza nel mercato interno, in quanto l’esistenza o l’inesistenza dell’obbligo di versamento di un corrispettivo per il diritto di
seguito comporta notevoli disparità di trattamento, falsando la concorrenza e creando fenomeni di “de-localizzazione” delle vendite
all’interno della Comunità, principalmente verso il mercato della
grande piazza del Regno Unito, cioè Londra.13 Dette disparità possono comportare disparità di trattamento tra gli artisti (e non solo
tra gli operatori del mercato) a seconda del luogo in cui sono vendute le loro opere; ma ciò è stato sempre posto in secondo piano
rispetto alle ingerenti logiche dei mercati. Per il solo fatto che queste disparità hanno effetti negativi sul buon funzionamento del
mercato interno delle opere d’arte, è inter venuta la Comunità
europea, attraverso i suoi organi legislativi, la Commissione e il Parlamento europeo e il Consiglio, rafforzando i legami fra gli Stati
Diritto d’autore, diritto di seguito nell’arte contemporanea
appartenenti alla Comunità europea e il loro progresso economico
e sociale, mediante un’azione “normativa” comune, destinata a eliminare le barriere che dividono il mercato europeo.
A tal fine, è richiamato proprio lo spirito del Trattato CE che,
attraverso i suoi strumenti, dirige l’affermazione di un mercato interno armonizzato, eliminando gli ostacoli alla libera circolazione delle
merci, favorendo la libera prestazione dei servizi e la libertà di stabilimento, nonché istituendo un regime inteso a garantire che la concorrenza, tra soggetti operanti in questo mercato non risulti falsata. Alla
realizzazione di tutti questi obiettivi dovrebbe contribuire dunque la
Direttiva sul diritto di seguito.14
La direttiva comunitaria sul diritto di seguito
Per i motivi descritti nel precedente paragrafo, è stata emanata
una specifica direttiva (Direttiva 2001/84/CE sul diritto di seguito)
che si applica alla vendita di tutte le opere d’arte che, alla data del 1
gennaio 2006, sono ancora protette dalla legislazione di uno degli
Stati appartenenti all’Unione europea, in materia di diritto d’autore
o che soddisfino i criteri di protezione, ai sensi della stessa Direttiva.15
Secondo la direttiva 93/98/CEE del Consiglio del 29 ottobre
1993, concernente l’armonizzazione della durata di protezione del
diritto d’autore e di alcuni diritti connessi,16 il diritto d’autore ha
una durata di settant’anni dopo la morte dell’autore. Il diritto sulle
successive vendite di opere d’arte ha la stessa durata. Pertanto, solo
gli originali possono rientrare nel campo d’applicazione della Direttiva sul diritto di seguito.
L’applicazione del diritto sulle successive vendite di opere d’arte
si applica a tutte le operazioni di vendita, fatta eccezione di quelle
vendite effettuate direttamente tra persone che agiscono a titolo privato senza la partecipazione di un professionista del mercato dell’arte
(intermediario o casa d’asta). Tale diritto non è dunque esteso alle
vendite effettuate da persone che agiscono a titolo privato e ai musei
senza scopo di lucro e aperti al pubblico.
Per quanto riguarda la particolare situazione delle gallerie d’arte
che acquistano le opere direttamente dagli autori, è lasciata agli Stati
membri la facoltà di escludere, dal diritto sulle successive vendite di
opere d’arte originali, le vendite delle opere effettuate entro tre
anni dalla loro acquisizione.17 L’armonizzazione, introdotta dalla
Direttiva 2001/84/CE, non si applica ai manoscritti originali di scrittori e compositori, ai quali le singole legislazioni nazionali possono,
tuttavia, introdurre eccezioni.
L’esperienza già acquisita sul piano nazionale in materia è stata
presa in considerazione dalla Commissione al fine di istituire un regime efficace in materia, unitamente all’opportunità di imporre il diritto sulle successive vendite di opere d’arte originali sulla base di una
79
Creazione contemporanea
80
percentuale riscossa sul prezzo di vendita e non sul plusvalore delle
opere il cui valore originario risulti aumentato.
Le percentuali fissate da ciascuno Stato, ai fini dell’applicazione
del diritto sulle successive vendite di opere d’arte, differiscono in
misura considerevole. Il funzionamento efficace del mercato interno
delle opere d’arte contemporanea ha imposto la determinazione di
percentuali, quanto piú possibile, uniformi, fissando un sistema di
calcolo decrescente e per fasce di prezzo, al fine di contemperare i
vari interessi in gioco all’interno del mercato dell’arte.18
Il compenso dovuto a fronte del diritto sulle successive vendite
di opere d’arte è dovuto, in linea di principio, dal venditore (mercante d’arte).19 Agli Stati membri, la Direttiva concede tuttavia la
facoltà di accordare deroghe a tale principio in relazione all’obbligo di pagamento del compenso da parte del venditore all’artista.
Allo scopo di prevedere un adeguamento periodico della soglia e
delle percentuali, è apparso opportuno incaricare la Commissione
di predisporre relazioni periodiche sull’effettiva applicazione del
diritto sulle successive vendite di opere d’arte negli Stati membri
nonché sulle sue conseguenze sul mercato dell’arte nella Comunità
europea e di formulare eventualmente proposte per la modificazione della stessa Direttiva.20
La Direttiva determina anche i beneficiari del diritto sulle successive vendite di opere d’arte nel rispetto del principio di sussidiarietà,
pur non intervenendo sul regime di successione degli Stati membri.
Tuttavia, la Commissione ha tenuto conto del fatto che gli aventi
causa dell’autore (eredi) devono poter beneficiare pienamente del
diritto sulle successive vendite di opere d’arte dopo la morte dell’artista, almeno dopo la scadenza del periodo transitorio di entrata in
vigore della stessa normativa comunitaria.
Spetterà a ciascuno Stato disciplinare l’esercizio del diritto sulle
successive vendite di opere d’arte e in particolare le relative modalità di gestione. Sotto questo profilo, la gestione da parte di una
società di gestione collettiva (come per esempio, in Italia, la Siae)21
rappresenta una possibilità fra le altre. Si dovrebbe prevedere che la
società di gestione collettiva designata operi in maniera trasparente
ed efficiente e che la riscossione e la distribuzione delle somme raccolte, a vantaggio degli autori cittadini di altri Stati membri, sia riconosciuta in modo uniforme.
Il godimento del diritto sulle successive vendite di opere d’arte è
limitato ai cittadini della Comunità europea nonché agli autori stranieri i cui paesi accordano analoga protezione agli autori cittadini
europei, secondo il meccanismo tipico della reciprocità. Per questo
motivo è garantito ed esteso il godimento del diritto di seguito agli
autori stranieri che sono residenti abituali in uno Stato membro.
Per controllare le vendite in modo da garantire che gli Stati
membri applichino effettivamente il diritto sulle successive vendite
delle opere d’arte, la Commissione auspica che siano istituite
Diritto d’autore, diritto di seguito nell’arte contemporanea
opportune procedure. Ciò comporta il diritto, per l’autore o per il
suo mandatario, di ottenere le informazioni necessarie presso il soggetto obbligato al pagamento dei compensi. Laddove sia prevista la
gestione collettiva del diritto sulle successive vendite di opere d’arte
è possibile anche prevedere che gli organismi responsabili di tale
gestione collettiva (come la Siae) siano i soli autorizzati a ottenere
queste informazioni.
L’articolo 1 della Direttiva 2001/84/CE delimita l’ambito di applicazione della nuova normativa comunitaria stabilendo che, per l’oggetto del diritto sulle successive vendite di opere d’arte, sia previsto, a
favore dell’artista, un diritto a percepire un compenso sul prezzo
ottenuto per ogni vendita successiva alla prima cessione, da parte dell’autore, del supporto che incorpora l’opera d’arte.
I compensi dovuti all’artista sono a carico del venditore. Gli Stati
membri hanno tuttavia la facoltà di disporre che acquirenti e intermediari, professionisti del mercato dell’arte e qualsiasi altro commerciante di opere d’arte, diversi dal venditore, siano obbligati in via
esclusiva o solidale con il venditore al pagamento dei compensi dovuti all’artista o ai suoi aventi causa.
Le opere d’arte cui si applica il diritto sulle successive vendite
sono costituite dagli originali delle opere delle arti figurative (come i
quadri, i collages, i dipinti, i disegni, le incisioni, le stampe, le litografie, le sculture, gli arazzi, le ceramiche, le opere in vetro e le fotografie), purché si tratti di creazioni eseguite dall’artista stesso o di esemplari considerati come opere d’arte e originali. Le copie di opere
d’arte, prodotte in numero limitato dall’artista stesso o sotto la sua
autorità, sono considerate come “originali” purché abitualmente
numerate, firmate o altrimenti debitamente autorizzate dall’artista,
limitando, in questo modo, la portata della norma a creazioni della
produzione artistica contemporanea per cosí dire piú “tradizionali”.
Sono considerati beneficiari ai compensi spettanti all’autore dell’opera, non piú in vita, gli aventi causa, fatto salvo l’obbligo per gli
Stati membri che, alla data di entrata in vigore della Direttiva
2001/84/CE, non applicano il diritto sulle successive vendite di
opere d’arte, ad applicare il diritto a favore degli aventi causa dell’artista dopo la sua morte per un periodo che termina non oltre il 1
gennaio 2010, come nel Regno Unito.
Quanto ai beneficiari dei paesi terzi, gli Stati membri devono
provvedere affinché gli autori cittadini di paesi terzi (e i loro aventi
causa) beneficino del diritto sulle successive vendite di opere d’arte
conformemente alle disposizioni della Direttiva 2001/84/CE, solo
dove la legislazione del paese dell’autore (o dell’avente causa) consenta la protezione del droit de suite a condizioni di reciprocità (e a
esclusione di talune eccezioni per quegli Stati, come il Regno Unito,
che non garantiscono il diritto di seguito).
81
Creazione contemporanea
Cosa cambierà in Italia e in Europa
82
In Italia, il diritto di seguito è stato introdotto, come si è detto,
con la legge sul diritto d’autore, fin dagli anni Quaranta.22 La legge
sul diritto d’autore, all’art. 144 (“Diritti dell’autore sull’aumento di
valore delle opere delle arti figurative”) ha disposto, per il riconoscimento in capo all’autore delle opere delle arti figurative, realizzate
con qualsiasi mezzo, quali le opere della pittura, della scultura, del
disegno e della stampa, e in capo agli autori di manoscritti originali
in unico esemplare, il diritto a percepire una percentuale sul prezzo
della prima vendita pubblica degli esemplari originali delle opere e
dei manoscritti, quale presunto maggior valore (“plusvalore”) conseguito dall’esemplare rispetto al suo prezzo originario di vendita (percentuale calcolata sull’intero prezzo della prima vendita pubblica dell’esemplare) e ciò a favore della promozione della cultura attraverso i
canali distributivi, attuali a quell’epoca, come sistema d’incentivo di
artisti promossi da quel regime.
L’art. 145 della medesima legge sul diritto d’autore ha poi riconosciuto agli autori delle opere suindicate un diritto a percepire una
percentuale sul maggior valore che gli esemplari originali delle proprie opere avessero ulteriormente conseguito rispetto alle successive
vendite al pubblico ragguagliata alla differenza tra i prezzi dell’ultima
vendita pubblica e di quella immediatamente precedente (percentuale calcolata sulla differenza di prezzo fra le vendite pubbliche successive alla prima) per le medesime finalità di cui all’art. 144.
Com’è stato osservato il riconoscimento del diritto di seguito va
ravvisato nell’aumento di valore commerciale che le opere d’arte in
unico esemplare acquisiscono, nel tempo; aumento di valore che
dipende, in larga misura, dalla crescita di notorietà dell’autore, all’interno del mercato dell’arte e presso il pubblico. A giustificazione di
ciò si sostiene che il valore di un’opera d’arte, all’inizio della carriera
artistica di un autore, risulta piuttosto esiguo rispetto al valore economico attribuito all’opera medesima, in tempi successivi (o almeno
questo è quello che accadeva alla data di emanazione della nostra
legge sul diritto d’autore nel mercato dell’arte).
Sulla base della legge sul diritto d’autore il diritto di seguito è
riconosciuto con riguardo alle opere d’arte “originali”, fatta eccezione dei negativi originali delle opere d’arte fotografica e cinematografica e le fotografie in positivo (anche se ritoccate, modificate ed elaborate dall’autore e da questo firmate) che possono costituire unici
esemplari e non riproduzioni, sebbene l’art. 148 legge autore equipari alle opere d’arte “originali” quelle replicate dall’autore e, per le
stampe, quelle tratte dall’incisione originaria e firmate dall’autore.
La disparità del trattamento, che ha origini storiche ed economiche, dipende dalla differente protezione accordata alle fotografie e
alle opere cinematografiche rispetto alle opere d’arte in unico
esemplare e dal valore economico di mercato delle prime due
Diritto d’autore, diritto di seguito nell’arte contemporanea
rispetto alle seconde. La mancata tutela è ora invece parzialmente
colmata dall’art. 2 della Direttiva sul diritto di seguito che comprende tra le opere in relazione alle quali è applicato il “plusvalore”
anche le fotografie (purché si tratti di creazioni eseguite dall’artista
stesso) o agli esemplari considerati come opere d’arte e originali
(come le copie di opere d’arte prodotte in numero limitato dall’artista stesso o sotto la sua autorità, quando numerate, firmate o altrimenti debitamente autorizzate dall’artista).
L’ampliamento della categoria di opere con riguardo alle quali è
riconosciuto il diritto dell’autore all’aumento di valore che risponde
a un mercato dell’arte falsato (e tipico degli anni Ottanta) non tiene
conto dell’evoluzione delle forme espressive artistiche e dell’attuale
mercato dell’arte (si pensi, per esempio, a tutte le forme artistiche
dell’arte contemporanea, introdotte o nate, a decorrere dagli anni
Settanta, quali il video o, piú di recente, l’arte digitale), le quali,
ancora, non trovano riscontro nell’attuale testo di Direttiva, come,
piú in generale in molteplici normative sul diritto d’autore.
In questo scenario, oggi, piú di allora, la distinzione tra “originale” e “copia” tra supporto “materiale” e “immateriale” è destinata ad
affievolirsi rendendo difficile l’applicazione di una disciplina (come
quella sul diritto di seguito) che ha come presupposto quello della
identificazione dell’esemplare “originale” e dell’incorporazione dell’opera d’arte all’interno di un supporto “materiale”; a maggior
ragione se si ha riguardo a opere che sono create mediante l’uso di
tecniche innovative quali gli strumenti informatici e la tecnica digitale, che consentono la riproduzione di copie identiche all’originale e
sprovviste di supporto materiale.23
Ciò detto, occorre rilevare che il riconoscimento del diritto di
seguito all’autore dell’opera originaria non può prescindere dall’ambiente digitale (nel senso di opera immateriale “originale”). La stessa
Commissione intergovernativa dell’Unesco sul diritto d’autore si è
espressa a favore dell’inclusione tra le opere, in relazione alle quali è
esercitatile il diritto di seguito, quelle create in ambiente digitale.24
Deve infatti tenersi conto, in una prospettiva di rivisitazione del
diritto di seguito, che questo diritto concerne non solo gli originali
delle opere della pittura e della scultura e di tutte le altre forme dell’arte figurativa, ma anche le opere create attraverso le tecniche di
riproduzione piú attuali, comprese quelle appartenenti al genere dell’arte applicata al digitale come computer graphic art, virtual e multimedia digital art.
La questione è attuale anche in Italia con riguardo al problema
del riconoscimento del diritto d’autore in ambiente telematico e virtuale e con riferimento a generi espressivi, oggi, non ancora tutelati
dalla legge sul diritto d’autore (si pensi solo alle opere multimediali);
ma la piú significativa trasformazione avverrà (ed esistono già testimonianze in questo senso) con riguardo al mercato dell’arte vero e
proprio: il mercato all’interno del quale si concludono le maggiori
83
Creazione contemporanea
84
Diritto d’autore, diritto di seguito nell’arte contemporanea
transazioni internazionali legate alla vendita di opere d’arte contemporanea, com’è, in Europa, esemplare quello londinese.
Ed è solo il caso qui di ricordare l’accesso dibattito che ha accompagnato, in Europa, l’emanazione della Direttiva sul diritto di seguito, capeggiato da Anthony Browne, presidente della British Art
Market Foundation e da Michael Tollemache, presidente della
Society of London Art Dealer.25 Certamente la Direttiva costituisce un
compromesso tra quella che è stata l’affermazione di un diritto di origine “sentimentale”, allorché il legislatore ha introdotto in Francia
un sistema di sostentamento e di aiuto concreto agli artisti sopravvissuti nel corso della Prima guerra mondiale, e la posizione del contemporaneo mercato dell’arte, soprattutto quello di oltremanica; ma
occorre rammentare che la sfida va oltre il confine europeo (e va al
di là della Direttiva) e il rischio è quello che il diritto di seguito (ora
scritto nei testi di legge e “armonizzato”) sia di fatto vanificato non in
virtú della futura piú frequente e piú proficua organizzazione di aste
a New York e a Tokio (anziché a Londra o, ancor meno, a Parigi) che
assecondino logiche di de-localizzazione delle aste, ma anche in
ragione del piú frequente consolidarsi di un mercato dell’arte sempre piú globale (proprio quello di cui la Direttiva non tiene conto).
L’affermarsi delle nuove tecnologie (propulsive del mercato globale) e la creazione di joint venture tra piattaforme digitali e case d’asta primarie (come quella tra eBay e Sotheby’s) dimostrano, da
tempo, la possibilità di vendere opere d’arte contemporanea tramite
aste on-line, scavalcando facilmente i confini nazionali e la normativa
europea in materia di diritto di seguito e accompagnando invece
quella che è l’evoluzione del mercato dell’arte globale.26
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La legge francese sul diritto d’autore del 1920
riconosce per la prima volta agli autori delle opera
d’arte figurative il cosiddetto “droit del suite” consistente nel diritto a partecipare alle fortune economiche delle loro opere nel momento in cui le
stesse sono immesse sul mercato e vendute. Per
una ricostruzione storica del diritto di seguito, cfr.
De Sanctis, Vittorio M., La protezione delle opere
dell’ingegno, Giuffré, Milano 1999, pp. 156 e ss.
Stern, Selma, Droit de Suite - the Artist’s Resale
Right, in“E-zine”, marzo 2002, 16, n. 3.
Art. 14-ter della Convenzione di Berna.
La Spagna, per esempio, ha attraversato un’esperienza piuttosto difficile in relazione alle informazioni che dovrebbero essere rilasciate dalle
case d’asta in merito alle vendite delle opere
d’arte effettuate per calcolare i relativi compensi
5
spettanti agli artisti. In Svezia, invece, il diritto di
seguito è stato inizialmente amministrato da un
consorzio di case d’asta e gallerie; a causa della
cattiva gestione di tale diritto, la funzione è ora
passata al BUS, la Collecting society svedese per
l’amministrazione dei diritti degli artisti delle
opere d’arte figurativa. L’Italia prevede, all’interno della legge sul diritto d’autore (Legge 22 aprile 1941 n. 633), una specifica disciplina per la
gestione collettiva del diritto di seguito affidata
alla Siae. Tuttavia, di fatto, non è mai stato raccolto alcun compenso da parte dell’ente collettivo a favore degli artisti, non essendo mai stato
emanato da parte del Governo, come spesso
accade in materia di diritto d’autore, il relativo
decreto di attuazione.
Seville, Catherine, Current Developments: Euro-
11
12
13
14
15
16
17
pean Community Law. IV. Intellectual Property, in
“International and Comparative Law Quarterly”,
2001, 50, pag. 714 e ss; C. McAndrew, L. DallasConte, Implementing Droit de Suite (artists’ resale
right) in England, The Arts Council of England, in
www.artscouncil.org.uk.
Per vendite pubbliche si intendono le vendite
effettuate nelle mostre ed esposizioni autorizzate,
le vendite giudiziarie, le vendite effettuate con il
sistema dei pubblici incanti (aste), le vendite delle
opere, comprese nelle offerte al pubblico per l’incanto, ma sottratte alla gara mediante preventiva
trattativa privata, le vendite effettuate in occasione di mostre personali, organizzate ed effettuate da terzi.
Wu, Jeffrey C., Art Resale Rights and the Art Resale
Market: a Follow-up Study, in “Journal of the Copyright Society of the USA”, 1999, 46, p. 531; Carleton, William A., Copyright Royalties for Visual Artists: A Display-based Alternative to the Droit de
Suite, in “Cornell Law Review”, 76, p. 510; Alderman, Elliott C., Resale Royalties in the United States
for Fine Visual Artists: An Alien Concept, in “Journal
of the Copyright Society of the USA”, 1993, 40, p.
265; Reddy, Michael B., The Droit de Suite: Why
American Fine Artistis Should Have The Right to a
Resale Royalty, in “Loy L. A. Entertainment Law
Journal”, 15, p. 509; Berger, Bernhard, Why Resale
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in Art Law, in www.law.harvard.edu
Karlen, Peter H., The California Droit de Suite
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Shapreau, Carla, The Statute with teeth like a
Gummy Bear: Droit de Suite in the US, in “Art Newspaper”, april 1998, 80.
Fabiani, Mario, L’armonizzazione in Europa del
diritto di seguito sulle opere dell’arte figurativa,
Studi in onore del Professor Adriano Vanzetti, “Il
Diritto d’Autore”, anno LXXIII, ottobre-dicembre
2002, n. 4, pp. 363-371.
Per un’attuale ricostruzione del concetto dilatato
di “diritti di proprietà intellettuale”, Mansani,
Luigi, L’inarrestabile estensione dei diritti di proprietà intellettuale, in Formenti, Carlo, Not Economy. Economia digitale e paradossi della proprietà intellettuale, Etas, Milano 2003, p. 155.
Come precisato nella sentenza del 20 ottobre
1993, cause riunite C 92/92 e C-326/92, Phil
Collins e altri, vedi Considerando (6) della Direttiva 2001/84/CE; Racc. 1993, I-5145.
Considerando (7) della Direttiva 2001/84/CE.
Considerando (9) della Direttiva 2001/84/CE.
Considerando (10) e (11) della Direttiva
2001/84/CE.
Gli Stati membri devono attuare la Direttiva,
all’interno degli ordinamenti nazionali, prima del 1
gennaio 2006, informando la Commissione.
GU L 290 del 24 novembre 1993, pag. 9.
Occorre tener conto anche degli interessi dell’artista limitando tale esclusione alle vendite il cui
prezzo non superi i diecimila euro (Considerando
18
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20
21
(18) della Direttiva 2001/84/CE).
La non applicazione del diritto sulle successive
vendite di opere d’arte al di sotto della soglia
minima può concorrere a evitare spese di riscossione e di gestione sproporzionate rispetto al
beneficio ottenuto dall’artista. Conformemente
al principio di sussidiarietà, è stato, tuttavia,
opportuno riconoscere agli Stati membri la
facoltà di stabilire soglie nazionali, inferiori a
quella comunitaria, per la promozione degli interessi dei giovani artisti (data l’esiguità degli
importi, infatti, tale deroga non è in grado di
produrre effetti significativi sul corretto funzionamento del mercato interno).
Il venditore è la persona fisica o giuridica per
conto della quale è conclusa la vendita.
L’articolo 11 della Direttiva 2001/84/CE prevede
una clausola di revisione, in base alla quale, la
Commissione sottopone al Parlamento europeo,
al Consiglio e al Comitato economico e sociale,
entro il 1 gennaio 2009 e successivamente ogni
quattro anni, una relazione sull’applicazione e
sugli effetti della Direttiva, prestando particolare
attenzione alla competitività del mercato dell’arte moderna e contemporanea nella Comunità, in
particolare per quanto riguarda la posizione della
Comunità in relazione a mercati rilevanti che
non applicano il diritto sulle successive vendite
di opere d’arte e alla promozione della creazione
artistica, nonché le modalità di gestione vigenti
negli Stati membri. La relazione passa in rassegna, in particolare, le conseguenze della Direttiva
sul mercato interno e gli effetti dell’introduzione
del diritto negli Stati membri la cui legislazione
nazionale non lo prevedeva fino all’entrata in
vigore della Direttiva. Se del caso, la Commissione presenta proposte per adeguare la soglia e le
percentuali relative al diritto sulle successive
vendite di opere d’arte all’evoluzione della situazione nel settore, proposte relative all’importo
massimo di 12.500 euro previsto come importo
massimo e totale dei diritti percepiti dall’artista,
nonché qualsiasi altra proposta da essa ritenuta
necessaria per accrescere l’efficacia della Direttiva. È altresí istituito un comitato di contatto,
composto di rappresentanti delle autorità competenti degli Stati membri e presieduto da un
rappresentante della Commissione. Esso si riunisce su iniziativa del Presidente o su richiesta
della delegazione di uno Stato membro. I compiti
del comitato sono organizzare le consultazioni su
tutte le questioni derivanti dall’applicazione
della presente Direttiva e agevolare lo scambio di
informazioni tra la Commissione e gli Stati membri sui pertinenti sviluppi del mercato dell’arte
nella Comunità.
In Italia, la legge sul diritto d’autore prevede che
chi legalmente presiede alla vendita pubblica di
opere delle arti figurative ha l’obbligo di prelevare
dal prezzo di vendita degli esemplari originali le
percentuali dovute agi autori ai sensi degli artt.
144 e 145 della legge sul diritto d’autore, e di
versarne il relativo importo alla Siae. Sino al
momento in cui il versamento alla Siae non è
stato effettuato, chi presiede la vendita è costituito per legge depositario delle somme prelevate.
85
Creazione contemporanea
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23
86
In Francia, per esempio, le “collecting agencies”
applicano una commissione del 20% per il diritto
sulle successive vendite di opere d’arte. In Germania, per esempio, il diritto dell’autore di un’opera
d’arte sulle successive vendite dell’originale è
disciplinato dall’art. 26 della legge tedesca sul
diritto d’autore. L’artista ha diritto a ottenere il
5% del prezzo di rivendita dell’opera per tutta la
durata del diritto di seguito. Il costo della rivendita non deve eccedere i 100 marchi e il diritto
si applica solo alle vendite gestite per conto dell’artista da un mercante d’arte o da una casa
d’aste. In Germania, il diritto di seguito, dopo la
morte dell’autore, è trasmesso agli eredi.
Legge 22 aprile 1941 n. 633.
Romano, Rosaria, L’opera e l’esemplare nel diritto
24
25
26
della proprietà intellettuale, Cedam, Padova 2001, p.
86. In nota ampi richiami a Pice e Lévy con riguardo
all’evoluzione tecnica e alle politiche di diritto ed
economiche ancora di matrice tayloristica.
Intergovernmental Copyright Committee, Practical Aspects of the Exercise of the Droit de Suite
Including the Digital Environment, and Its Effects
on Developments in the International Art Market
and on the Improvement of the Protection of
Visual Artists, IGC (1971)/XII/6, Paris, 27 marzo
2001.
Labi, Aisha, The Art of the Deal, in “Time Europe”,
3 aprile 2000, 155, n. 13.
Smedley, Bunny, How the EU will destroy Britain’s
art market, in “European Journal”, June 2001, 8,
n.6, pp. 22-23, www.europeanfoundation.org.
IL TERRITORIO CREATIVO
Dal monumento allo spazio delle relazioni:
riflessioni intorno al tema arte e città
Martina De Luca
Nel corso dei secoli il sodalizio tra arte è città è stato caratterizzato
dalla committenza di monumenti – chiese, palazzi, statue equestri –
quali segni tangibili della presenza di un principe, di un mecenate,
del moderno stato laico, oppure come elementi di attrazione per chi
– viandante, pellegrino o turista – si accostasse alle città.
Negli ultimi anni il tema della relazione tra opera d’arte e spazio
urbano è tornato al centro della riflessione artistica: i mutamenti insiti nel cosiddetto “sistema dell’arte contemporanea”, la ricerca di un
nuovo equilibrio tra pubblico e privato, tra istituzioni e mercato, il
rapporto tra artisti e architetti, il problema della riqualificazione
urbana sono solo alcuni degli aspetti entro cui si muove la ricerca
contemporanea espressamente indirizzata agli spazi pubblici.
Escludendo un discorso specifico sull’architettura, la riflessione
che si intende proporre riguarda soprattutto la valenza assunta dal
significato attribuito al concetto di spazio pubblico nella sua entità
fisica e metaforica nell’ambito delle ricerche artistiche piú recenti
con particolare riferimento al contesto italiano.
89
Monumenti e decorazione nello spazio urbano
Il monumento celebrativo
Si può affermare che, a partire dal XIX secolo, il rapporto artecittà si esplica sostanzialmente in due direzioni: la decorazione e il
monumento. Quest’ultimo è concepito e realizzato nell’ambito di una
precisa cornice di valori utili a costruire e definire la storia e l’identità
nazionale e a rendere visibile e trasmettere l’ideologia dominante.
Non è un caso che, all’indomani dell’Unità d’Italia vengano commissionate e realizzate numerose opere da collocare nelle città con il preciso scopo di illustrare ed esaltare il senso e il valore della nazione. La
necessità di “fare gli italiani” passa anche attraverso la celebrazione
nelle strade e nelle piazze della storia della nuova patria con l’apposizione di statue e monumenti dedicate ai suoi eroi – Cavour, Mazzini,
Garibaldi, Vittorio Emanuele – e al racconto politicamente sincretico
della storia recente. Si mettono scena, cosí, i primi attributi del nuovo
Stato, tanto che gli storici hanno individuato nei pellegrinaggi che
seguono la morte dei padri della patria ai monumenti considerati simbolici “le prime immagini forti della nazione”;1 l’inaugurazione, nel
1912, del monumento a Vittorio Emanuele, chiamato anche “Altare
della Patria” segna il culmine di questa parabola.2
Presenze ormai familiari nelle città, i monumenti ottocenteschi
con il loro impianto narrativo chiaro e leggibile si iscrivono nell’itinerario urbano come presenze, talvolta ingombranti, come per esempio
Creazione contemporanea
90
quelli – forse i piú famosi – di Torino che hanno nutrito l’immaginario di De Chirico. Ancora oggi si prestano a una percezione distratta
anche perché il rapporto dell’artefatto con l’ambiente circostante è
segnato dalla sostanziale autonomia dell’uno rispetto all’altro; d’altro
canto il monumento non nasce con l’intento di modificare lo spazio
entro cui è collocato. In molti casi infatti viene concepito a posteriori
come arredo di una piazza o di una strada preesistente.
La scelta di utilizzare materiali durevoli, eterni, la forma eminentemente narrativa tradisce, piuttosto, l’esigenza di edificare opere
finalizzate alla trasmissione di valori certi instaurando una particolare
forma di rapporto con il tempo e con la storia. Le sculture monumentali raffigurano infatti il passato per impressionare il presente,
mentre i materiali con cui sono realizzate – marmo e bronzo – sembrano alludere alla costanza della storia rispetto alla mutevolezza
della vita. In Europa come in Italia si afferma una tipologia di statuaria politica dove il personaggio è raffigurato secondo forme realiste
in cima a un basamento che nel tempo si arricchisce di complesse
decorazioni allegoriche. Quest’ultime hanno lo scopo di illustrare
concetti astratti come, per esempio, quello di “patria” e, allo stesso
tempo, conferiscono al personaggio una dimensione celebrativa che
lo allontana dal presente e impedisce possibili discussioni interpretative sulla scelta e il significato degli episodi storici raffigurati.
Dalle avanguardie al monumentalismo
Contro questa concezione e uso della scultura si scagliano i protagonisti delle avanguardie storiche.
La scultura, nei monumenti e nelle esposizioni di tutte le città
d’Europa offre uno spettacolo cosí compassionevole di barbarie,
di goffaggine e di monotona imitazione, che il mio occhio futurista se ne ritrae con profondo disgusto!
Nella scultura d’ogni paese domina l’imitazione cieca e balorda
delle formule ereditate dal passato, imitazione che viene facilitata
dalla doppia vigliaccheria della tradizione e della facilità (…).3
Oggi la scultura è capace di tutto. Dalle figure colossali passa ai
portafiammiferi, ai motivi di oreficeria. Del resto non bisogna credere che queste siano le sue peggiori degradazioni. Vi è la scultura dei monumenti celebrativi, sulle piazze delle città e dei cimiteri,
vera e propria industria dei cadaveri: un’idea grottesca che ha fiorito sul terreno putrido della fatuità moderna ed ha troppo spesso
dispensato chi la pratica d’ogni responsabilità verso l’arte.4
Questi scritti volutamente polemici testimoniano dell’atteggiamento di rifiuto totale della tradizione accademica in favore di una
concezione dell’arte libera dalle necessità di celebrazioni simboliche
e allegoriche dei valori storici dominanti e in grado di utilizzare un
Dal monumento allo spazio delle relazioni
linguaggio plastico totalmente nuovo e scevro dalla funzione monumentale. Sono i primi passi di quel percorso di progressiva de–monumentalizzazione che caratterizza molta della scultura del XX secolo.
Non che per questo cessi la committenza e l’edificazione di
monumenti, sculture da collocare nelle strade e nelle piazze delle
nostre città rispettando i caratteri e criteri tradizionali, ma anche
tentando forme plastiche piú aggiornate. La prima occasione è data
dalla I guerra mondiale; il suo lascito di morti e imprese eroiche
trova forma negli innumerevoli monumenti ai caduti che ogni centro – piccolo o grande – dedica ai “suoi morti” e che raggiunge il
suo apice nella solenne cerimonia che accompagna il 4 novembre
1921 la sepoltura del milite ignoto presso – ancora una volta – l’Altare della Patria.
La vasta gamma di modelli e forme dalla semplice stele al vero e
proprio sacrario testimoniano, tra l’altro, dell’estrema varietà della
committenza: governativa, municipale, ma anche molto spesso scaturita da iniziative private di associazioni di combattenti o di comitati
appositamente costituiti che favorisce la proliferazione di opere di
scarsa qualità estetica che dilagano negli spazi urbani in assenza di un
disegno progettuale complessivo. Tant’è che Benedetto Croce, in
qualità di Ministro della Pubblica Istruzione emana, nel 1920, una
circolare tesa a disciplinare le forme e i modi della erezione di nuovi
monumenti e impone alle autorità comunali di consentire la realizzazione di opere solo dietro il parere favorevole delle competenti
Soprintendenze ai Monumenti.
Ma i tempi stanno cambiando; con l’avvento del fascismo le intenzioni celebrative sembrano indirizzarsi non piú su di un singolo
monumento, ma verso una dimensione piú ampia che arriva a comprendere l’intero spazio urbano. La grandiosità delle nuove architetture, la fondazione di nuove città (Pomezia, Latina, Sabaudia), l’assetto scenografico delle sistemazioni archeologiche, l’importanza
accordata a manifestazioni effimere che stravolgono i connotati delle
strade e degli edifici diventano gli strumenti piú in uso per celebrare
le glorie del Regime presente in accordo e continuità con il glorioso
passato dell’Italia. La loro esecuzione, come dimostrano le vicende
che accompagnano la costruzione dell’E42 a Roma, segue precise
regolamentazioni dettate dallo Stato,5 ma in molti casi il procedimento che si adotta è quello della sovrapposizione dei segni: monumenti,
affreschi e decorazioni plastiche non riescono infatti, come dimostrano le stranianti piazze metafisiche degli anni Trenta, a restituire un
dialogo reale con la città.
E i primi a rendersene conto sono proprio gli artisti: Arturo Martini pubblica nel 1945 Scultura lingua morta, le sue riflessioni scaturiscono dall’insoddisfazione nei riguardi delle sue esperienze monumentali: Martini non vuole rinunciare alla scultura, la lingua morta è
piuttosto il monumento con il suo corollario di messaggi retorici,
politici, poetici.
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Creazione contemporanea
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La legge del 2%
È però nel solco del dibattito che attraversa gli anni Trenta che
matura la legge del 2%6 che, ancora oggi operante, ha rappresentato
la prima forma di normativa che regola gli interventi artistici nelle
costruzioni pubbliche. Com’è noto la legge riguarda esclusivamente
le opere da collocare in edifici pubblici e pertanto non vi si trovano
accenni sulle modalità di inserimento di opere plastiche in spazi
aperti. Tuttavia sia la normativa sia, soprattutto, il ricco articolato
dibattito che ne accompagna l’emanazione e la messa in pratica toccano due aspetti fondamentali relativi alla scultura urbana: il rapporto arte – architettura e le modalità di selezione degli artisti da parte
della committenza pubblica.
Nonostante l’iter legislativo sia iniziato all’indomani della realizzazione delle maggiori esperienze di “muralismo” in cui artisti di notevole levatura e architetti innovatori avevano lavorato in piena sintonia
di intenti, nei suoi esiti finali la legge del 2% sembra piuttosto avallare l’idea per cui l’intervento decorativo (plastico o pittorico che sia)
segue la progettazione dell’edificio senza essere sin dall’inizio concepito all’interno del progetto stesso.
Dalle circolari ministeriali che si susseguono a partire dal 1935, si
evince chiaramente che, poiché la consuetudine di promuovere
opere di “abbellimento” negli edifici pubblici era in uso già dalla
fine degli anni Venti, la necessità di emanare una apposita legge
nasce piuttosto dalla volontà del Sindacato di Belle Arti di creare un
forte strumento di tutela della corporazione degli artisti nei confronti degli architetti che si vogliono escludere da qualsiasi decisione in
merito ai luoghi dove inserire le opere, le tecniche da adoperare, la
scelta stessa degli artisti. Queste rivendicazioni – nonostante le
numerose e autorevoli voci contrarie che si levano in campo – vengono sostanzialmente accolte nella stesura definitiva del testo di
legge.7 Nella pratica, come si era già visto con le vicende legate alla
realizzazione dell’E42, la norma consente agli artisti di lavorare su
larga scala al servizio dello Stato sotto la protezione del governo e
del Sindacato, ma finisce per premiare non certo le innovazioni e le
capacità espressive, quanto la attitudine ad adeguarsi supinamente
alle volontà della committenza e, alla fin fine, anche alle esigenze
progettuali degli architetti.
Nonostante la legge sia stata riscritta nel 1949 e in seguito ulteriormente modificata8 i nodi fondamentali della questione restano
ancora aperti. Ritoccata la composizione della commissione, la procedura concorsuale è ancora oggi troppo farraginosa e burocratica,
ma soprattutto l’intero complesso normativo non favorisce la promozione dell’intervento artistico in accordo e consonanza con la progettazione architettonica sin dalle sue prime formulazioni. Al di là
dunque di risultati mediocri dovuti a forme di selezione non sempre
trasparenti, le opere plastiche realizzate in base a questa legge sono
opere che, ideate a posteriori rispetto al progetto architettonico
Dal monumento allo spazio delle relazioni
complessivo, difficilmente riescono a essere qualcosa di altro che
non elementi decorativi applicati all’edificio.
Verso l’antimonumento
Ancora dunque all’inizio del secondo dopoguerra l’intervento
degli artisti nelle città oscilla tra decorazione e monumento. La Resistenza con il suo bagaglio di miti ed eroi alimenta la committenza di
nuovi complessi plastici che utilizzano, nella maggior parte dei casi,
un linguaggio figurativo retorico e di grande impatto visivo decisamente legato alla tradizione dell’impegno sociale e politico del realismo italiano di quegli anni, anche se, alle volte, si aprono verso l’adozione di forme astratte.
Ma le innovazioni formali non scalfiscono e non modificano nella
sostanza il modo in cui questi artefatti della memoria si collocano
nello spazio urbano e si offrono alla fruizione dei passanti e, soprattutto, suggeriscono una lettura univoca e incontrastata della storia
collettiva. Con questa serie di opere sembra chiudersi definitivamente la lunga stagione dei monumenti commemorativi costruiti secondo
i canoni tipici della tradizione ottocentesca.
D’altro canto la sociologia dell’arte ha dimostrato che la commemorazione implica una valutazione e una definizione sociale di un
evento, ma piú il passato da ricordare è scomodo, piú le forme del
suo ricordo in un’immagine collettiva saranno ambivalenti. Ed è questo il caso della storia italiana piú recente, basta osservare come si è
cercato di rappresentare la memoria delle stragi del terrorismo che è
ancora oggi uno dei periodi piú controversi del nostro recente passato, un passato ancora non sedimentato nella memoria collettiva e
neanche pienamente concluso dal punto di vista giudiziario.
Alla stazione di Bologna la strage del 1980 è ricordata tramite tre
elementi: lo squarcio nel muro della sala d’aspetto, simbolo della ferita inferta dalla strage nella società civile, la lapide con i nomi delle vittime e sulla parete esterna un’altra lapide con un’iscrizione del pontefice in occasione di una cerimonia di commemorazione della strage.
Ma in questo caso, la stessa collocazione in un “non luogo” secondo i
termini della surmodernità di Marc Augé, la condizione stessa dei
potenziali fruitori colti in una dimensione temporale – quella del viaggio – in cui si è affrancati dalla propria identità e condizione quotidiana impediscono la lettura intermittente e distratta che solitamente si
riserva alle statue collocate nelle piazze e nelle strade. Lo squarcio si
presenta alla vista del viaggiatore senza possibilità di mediazioni, senza
permettere una contemplazione distaccata, si può evitare di guardarlo, ma una volta entrato nel campo visivo non ammette distrazioni.9
Se dunque appare tramontata l’epoca del monumento secondo
l’accezione etimologica del termine, non si interrompe la tradizione
di inserire opere d’arte nello spazio urbano in una direzione che è
piú prossima all’arredo urbano: molto spesso si tratta di manufatti
semplicemente prelevati dallo studio e riportati in scala monumenta-
93
Creazione contemporanea
94
le nelle piazze e nelle strade, alle volte con criticabili soluzioni dal
punto di vista dell’inserimento ambientale e, a questo punto, privi di
qualsiasi significato simbolico.
Ma accanto a questa pratica non mancano forme nuove di sperimentazioni sul campo che proprio negli ultimi anni hanno conosciuto una brusca accelerazione. È un percorso tutt’altro che lineare e
che appare strettamente legato alle forme e ai modi con cui il sistema
dell’arte contemporanea ha cercato di scrollarsi la sua connaturata
autoreferenzialità, generando nuove modalità di intervento sia da
parte dell’artista sia relativamente alla committenza.
Si possono distinguere sostanzialmente due filoni di ricerca. Il
primo è rappresentato da quella vasta gamma di esperienze e realizzazioni in cui gli artisti hanno cercato di creare opere appositamente
dedicate agli spazi pubblici, sia rurali che urbani, in un contesto diverso e differente dall’opera da museo e/o galleria, codificando via via
nuovi linguaggi espressivi e nuove modalità di rapporto con l’ambiente, gli architetti, la committenza e il pubblico. Dall’altra sin da alcune
precoci esperienze degli anni Cinquanta si manifesta un interesse piú
spiccato per interventi nel territorio in chiave decisamente sociale e
politica con un marcato accento sulle possibilità relazionali tra operaartista e pubblico. Ovviamente si tratta di percorsi che spesso si intersecano e che partecipano vicendevolmente dell’allargamento dei confini
dell’esperienza artistica e di quella crisi del linguaggio dell’arte intesa
come attività conoscitiva e che si manifesta, in prima istanza con il progressivo abbandono dei materiali, delle tecniche e dei codici tradizionali in favore di altre tecniche con un carattere di trasmutazione strutturale che conseguentemente modifica l’oggetto artistico.
Arte nella città
In questo contesto artisti e architetti continuano a lavorare per e
dentro le città: la pluralità dei messaggi del linguaggio contemporaneo determinano la coesistenza di stili diversi e la contemporanea
citazione di modelli storicistici.
Nell’immediato dopoguerra, pur nel segno di rinnegamento del
ventennio e all’insegna di aperture verso la tradizione dell’avanguardia internazionale, non sembrano mutare nella sostanza le forme con
cui gli artisti sono ingaggiati da una committenza spesso pigra e distratta a intervenire negli spazi urbani. Ma a partire dalla fine degli anni
Sessanta, in consonanza con quello che andava succedendo anche nel
resto d’Europa e in America, si moltiplicano i progetti in cui gli artisti
sono coinvolti direttamente a lavorare sul territorio abbandonando le
finalità semplicemente decorative o di segno celebrativo.
Le opere realizzate testimoniano dei nuovi modi con cui viene
impostato il rapporto tra scultura e spazio architettonico, tema che
già Adolf Von Hildebrand indicava come fondante per la scultura
Dal monumento allo spazio delle relazioni
contemporanea. E, in Italia, fioriscono una pluralità di esperienze:
dalle sperimentazioni condotte sulla scia delle esperienze minimaliste
americane, alle ricerche condotte sul filo del dialogo tra costruttivismo e decostruttivismo, che nelle loro molteplici declinazioni testimoniano dei differenti modi con cui la spazialità da motivo interno
all’opera si fa relazione con l’ambiente esterno.
I parchi scultura e le mostre all’aperto
Un capitolo interessante di questa vicenda in Italia è raccontato
dalla proliferazione dei cosiddetti “parchi scultura”, veri e propri
musei all’aperto collocati indifferentemente negli spazi urbani o rurali. Una vicenda che ha inizio alla metà degli anni cinquanta con il concorso per il parco Collodi e che ancora oggi perdura.10 Al di là degli
esiti delle singole realizzazioni, quello che piú interessa sottolineare è
l’eterogeneità dei progetti e la notevole diversificazione della committenza. Infatti accanto a operazioni condotte in prima persona dagli
artisti (Daniel Spoerri a Seggiano, Niki de Saint Phalle in Maremma)
si affiancano interventi progettati direttamente dalle amministrazioni
locali (da San Gimignano, a Peccioli, a Nuoro a Roma solo per ricordare alcuni esempi) nonché da associazioni (Fiumara d’arte) e privati.
Tra questi ultimi un’esperienza di grande importanza è la realizzazione di installazioni ambientali permanenti avviata da Giuliano Gori
nella Fattoria di Celle.11 Ancora molto differenti tra loro sono le finalità con cui ogni singolo museo all’aperto è pensato e progettato, da
motivo di richiamo turistico, a riqualificazione di un ambiente degradato, a strumento per valorizzare e promuovere la tradizione plastica,
fino alla necessità di fornire agli abitanti del luogo nuovi spazi per
l’uso comune (dal parco pubblico al parco giochi).
Pur nelle differenti declinazioni di ogni singolo progetto, emergono alcune problematiche comuni legate sia al rapporto con le istituzioni sia con i destinatari delle opere stesse,12 sia allo specifico modo
con cui l’artista si confronta con uno spazio preesistente come nel
caso di interventi nei centri storici già fortemente connotati da un
punto di vista artistico-architettonico, oppure debba tener conto dell’estrema mutevolezza del paesaggio – condizionato, per esempio,
dalle stagioni – quando lavora in spazi aperti.
È una situazione che rispecchia perfettamente le difformità e le
varietà che si nascondo dietro l’ambiguo termine di “arte ambientale” e che riecheggia anche in una serie ormai cospicua di manifestazioni temporanee espressamente dedicate all’esplorazione delle
nuove possibilità di dialogo tra arte, architettura e paesaggio.
All’antesignana “Arte all’Arte”, che dal 1996 ogni anno invita
alcuni artisti di differenti nazionalità a soggiornare per un certo
periodo nei comuni coinvolti nell’iniziativa al fine di realizzare
interventi artistici espressamente ideati per gli spazi pubblici di questi luoghi,13 o alla coeva “Tuscia Electa”,14 ne sono seguite altre in
differenti regioni italiane fino a “Initinere” promosso nella scorsa
95
Creazione contemporanea
96
estate nel Salento15 e alla recentissima proposta avviata nel Sannio.16
Queste modalità di inter vento negli spazi aperti e pubblici si
erano affermate sin dalla metà degli anni Ottanta in Europa e sono
documentate da una serie di esposizioni allestite al di fuori dei canonici spazi tradizionali (Parco Lullin, Ginevra “Promenade” 1985;
Arnheim, “Sonsbecek, 1986”, 1986; Munster, “Skulpturprojekte” dal
1985). Sono rassegne che si svolgono nei parchi cittadini o nelle città
e sono indice della necessità di spingere l’opera fuori dal contesto
museale per portarla in luoghi di vita pubblici caratterizzati da assetti
culturali consolidati. In linea di massima questo tipo di interventi
appaiono piú contraddistinti dalla volontà di realizzare opere in
grado di fornire identità e unicità a un luogo, in senso quasi promozionale e in questo non si coglie una reale differenza con l’apposizione di sculture secondo i modelli piú tradizionali. L’intenzione di calare l’opera e il processo artistico negli spazi fisici concreti della quotidianità si avverte con maggiore chiarezza nella mostra “Chambres
d’amis” realizzata a Gand nel 1986 e curata da Jan Hoet.17 Per tre
mesi circa cinquanta abitanti di Gand hanno messo le loro case a
disposizione di altrettanti artisti affinché questi ne trasformassero
artisticamente gli ambienti. Gli interventi promossi da Hoet implicano una nuova e piú complessa riflessione sulle relazioni tra l’artista e
lo spazio della vita tanto da costituire un punto di riferimento fondamentale per il dibattito successivo.
Piú o meno negli stessi anni, in alcune città, si è andata affermando l’usanza di invitare gli artisti a creare opere da collocare nei punti
nevralgici delle città per un determinato periodo di tempo con interventi eterogenei per processualità e progettualità. Nelle iniziative piú
recenti si avverte sempre piú chiaramente l’esigenza di andare oltre
l’idea di un manufatto artistico esteticamente impeccabile posto a
segno e identificazione del luogo in qualità della sua forte identità
formale ed evocativa.
A Trento, nell’estate 2003, è stata per esempio promossa dalla
locale Galleria Civica d’Arte Moderna una manifestazione dal significativo titolo “Prove d’ascolto. Attacchi Urbani per una civile convivenza”. Cinque artisti (Katarzyna Kozyra, Mario Merz, Nicola De Maria,
Kendel Geers, Sislej Xhafa) sono stati invitati a realizzare altrettante
opere da collocare in diversi siti della città che prendessero spunto
dal tema dei conflitti e della convivenza.18
Ancora recentemente in altre città da Bolzano a Reggio Emilia le
amministrazioni pubbliche hanno richiesto l’intervento degli artisti
per la realizzazione di opere site specific.
È anche interessante notare come questa e altre simili iniziative
rientrino spesso nella programmazione ordinaria di un museo di
arte contemporanea che, in questo modo, intende stabilire nuove
modalità di relazione con la città e la regione in cui si colloca
accentuando soprattutto la funzione di stimolo e di sfida nei confronti della società.19
Dal monumento allo spazio delle relazioni
Arte e riqualificazione urbana
Ma accanto ai parchi museo, alle mostre ambientali e alle installazioni temporanee si sono sviluppati progetti di interventi artistici permanenti collocati soprattutto in contesti urbani. In questo ambito la
prospettiva sociale del progetto e la sua dimensione per certi aspetti
piú concreta hanno determinato l’accentuazione sulle questioni
poste sul ruolo e sulla funzione dell’opera d’arte sia in rapporto
all’architettura sia ai bisogni specifici delle comunità cui è destinata.
Emblematica è l’esperienza di Gibellina, la città distrutta dal terremoto del 1968 che è stata interamente ricostruita a una ventina di
chilometri dal sito originario. Architetti e artisti di notevole levatura
concorrono alla edificazione di una nuova città che oggi soffre di
uno sconsolato abbandono. Al di là dei problemi burocratici, amministrativi e politici, è evidente che l’utopia di poter costruire una
nuova città bella, moderna funzionale si sia infranta con la difficoltà
da parte dei suoi abitanti a riconoscersi in quelle forme innovative e,
ai loro occhi, incomprensibili. In questo senso Gibellina rappresenta
la punta di un iceberg di un fenomeno in cui rientrano tutta una
lunga serie di progetti dedicati alla costruzione di nuovi quartieri o
alla riqualificazione delle periferie.
Una decisa inversione di rotta nelle modalità con cui viene oggi
affrontato il problema del rapporto con le comunità è dato da alcune
importanti esperienze che si stanno attuando grazie anche ai cambiamenti sostanziali delle modalità d’intervento pubblico e alla partecipazione attiva di nuovi attori.20
Il mutato assetto delle nostre città, le urgenze sociali determinate
dall’allargarsi dei confini urbani, il sorgere di nuove esigenze in una
società in continuo e accelerato cambiamento sono la cornice entro
cui si iscrive un dibattito vivace e una ricerca che ha coinvolto via via
non solo artisti, architetti e urbanisti, ma anche amministratori pubblici, istituzioni e altri nuovi soggetti.
Cosa si chiede all’arte oggi quando con un artefatto si colloca in
uno spazio pubblico?
Ancora alcune recenti esperienze dimostrano la difficoltà ad
attribuire un ruolo che non sia di semplice decorazione o come si
dice oggi “qualificazione” di un luogo. Solo pochi anni fa, per esempio, a Torino allo Studio Gregotti e associati è stato affidato l’incarico di progettare la rifunzionalizzazione della fascia ricavata dalla
copertura del tratto urbano della linea Milano-Torino; in fase progettuale sono state individuate le aree per l’inserimento di dieci
interventi di artisti e le tipologie di questi interventi (una fontana,
un giardino ecc.); solo in un secondo momento sono stati chiamati
gli artisti operando una selezione in base alla loro poetica. Secondo
gli amministratori questi avrebbero permesso “un’addizione ulteriore di qualità”. La procedura seguita e, in particolare, il mancato
coinvolgimento degli artisti in fase progettuale, rispecchia ancora
una volta la scarsa chiarezza con cui si intende il valore del manufat-
97
Creazione contemporanea
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to artistico in un progetto complessivo di edificazione e/o riqualificazione di un ambiente urbano.
D’altro canto negli ultimi decenni sembra che per quanto pertiene l’architettura si sia rovesciato il rapporto arte – città : spesso è l’architetto a rivendicare una assoluta libertà creativa, ed è lui a voler edificare la città in quanto artista, lo dimostrano gli edifici in cui i confini specifici dell’architettura sono stati superati per creare vere e proprie opere d’arte urbana nel segno della contaminazione tra pittura
scultura e installazione.
Tuttavia il rinnovato interesse da parte delle amministrazioni a
rileggere e ricostruire il territorio urbano – non necessariamente periferico – tramite la promozione del contemporaneo e il maturare di un
interesse specifico di parte di artisti, architetti a progettare interventi
integrati, hanno reso possibili esperienze come quella della costruzione delle nuove stazioni per la metropolitana di Napoli. In questo caso
la necessità di provvedere al prolungamento della Linea 1 della metropolitana è stata l’occasione per affidare ad alcuni importanti architetti
di progettarne le nuove stazioni includendo sin dall’inizio opere d’arte contemporanea.21 Lo scopo era di trasformare gli abituali luoghi di
transito in luoghi di incontro tra i cittadini, L’iniziativa si inserisce in
un programma piú ampio di sviluppo del territorio campano che, per
espressa volontà dei suoi amministratori, intende servirsi dell’arte e
della creatività contemporanea quali strumenti in grado di riqualificare un territorio non soltanto a livello estetico, ma incidendo piú
profondamente nel suo tessuto sociale ed economico.
È evidente la valenza etica di questa tipologia di intereventi per
cui ben si adatta la definizione di arte pubblica secondo quanto piú
volte ribadito da Vito Acconci.22 Una forma di produzione artistica
che rifiuta la tradizione autoaffermativa del monumento e l’assetto
decorativo dell’arredo urbano per privilegiare una dimensione progettuale di ampio respiro in cui la volontà politica di una amministrazione pubblica si coniuga con un processo creativo finalizzato alla
realizzazione di strutture che, interagendo con il preesistente, si
offrono allo sguardo di un pubblico quantomai indefinito e vario e
sono in grado di suggerire nuove modalità di rapporto tra estetica e
funzionalità pubblica.
L’arte nello spazio della vita
Soprattutto negli interventi degli ultimi anni, si avverte sempre di
piú la consapevolezza e la necessità di operare all’interno del processo vitale quotidiano in diretto confronto con il mondo reale e nella
consapevolezza che l’arte possa contribuire a modificare assetti e relazioni nell’ambito delle comunità cui si rivolge.
Il tema non è nuovo; dopo le proposizioni delle avanguardie, ha
trovato nuove declinazioni nelle esperienze maturate già a partire
Dal monumento allo spazio delle relazioni
dagli anni Cinquanta. È in quel periodo infatti che si collocano le sperimentazioni proposte dall’Internazionale Situazionista che, fondata
nominalmente in Italia nel 1957, partecipa della crisi sociale e politica
di quegli anni e, nel suo periodo migliore, si propone di coniugare
insieme arte e politica.23 Il complesso ordito delle iniziative – scritti,
azioni, manifesti – condotte dal gruppo (Guy Debord, Asger Jorn,
Pinot Gallizio, Constant) propongono un violento attacco alla cultura
della città industriale e ne teorizzano le possibili alternative tramite il
“superamento dell’arte” e l’“Urbanisme Unitarie”. Quest’ultimo è
definito dagli stessi situazionisti non una dottrina dell’urbanistica, ma
una critica all’urbanistica basata su criteri di interazione tra architettura e comportamento, mediante la modificabilità e mobilità dei complessi architettonici e il nomadismo degli abitanti. Si propone un uso
ludico e dinamico della città tramite la dèrive,24 e la psicogeografia e al
contempo si intende promuovere una progettazione nello spazio
urbano di strutture mobili e trasformabili per cui gli abitanti non
avranno piú una luogo fisso, ma vivranno in una sorta di continuo
nomadismo.25 Come ha notato Perniola,26 tramite l’“Urbanisme Unitarie”, l’artista cessa di essere l’artefice di forme inutili e inefficaci per
diventare il costruttore di ambienti e di nuovi modi di vivere, trasformando non solo la struttura urbana, ma anche il comportamento
degli abitanti, tramite il gioco, il nomadismo e l’avventura.
Questi assunti trovano eco nella lunga serie degli happening, delle
performance, che avviati da Allan Kaprow e John Cage in America si
diffondono rapidamente anche in Europa. Alcuni di questi eventi
determinano particolari connotazioni di coinvolgimento dello spazio
urbano e architettonico sia per i cambiamenti introdotti nel luogo fisico per effetto della collocazione degli oggetti, sia per l’attenzione
posta sulla percezione del luogo da parte dello spettatore – attore. La
possibilità di spettacolarizzazione in senso provocatorio e spesso nichilista della dimensione quotidiana caratterizzano anche la neovanguardia metropolitana Fluxus; in questo caso la città, il gesto quotidiano,
gli oggetti vengono elevati a scena teatrale e dunque – in quanto rappresentazione – manifestano l’attitudine a negare le caratteristiche di
un luogo e di uno spazio piuttosto che promuoverne la sua scoperta.
In questa prospettiva si inseriscono nuove modalità con cui tra gli
anni Sessanta e il decennio successivo si configura l’opera d’arte. La
volontà di definirla a partire dallo spazio reale della vita si traduce
nel tentativo di porre l’opera in contesto di scambio e relazione
sociale. L’artefatto assume l’aspetto di evento che accade sotto gli
occhi dello spettatore, il suo farsi si costituisce a partire dal suo rapporto con il contesto vitale e il momento in cui si forma, al di fuori
dallo spazio rassicurante di musei e gallerie e determina una nuova
modalità di fruizione da parte dello spettatore poiché viene meno il
tradizionale rapporto contemplativo proprio dell’isolamento spaziale
del museo e della galleria. Ed è infatti sempre in questi anni che si
moltiplicano i luoghi in cui l’opera d’arte “accade” nella sfera vitale e
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Creazione contemporanea
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in continuità con essa: dalle dimesse strutture industriali ai siti storici
che ancora mantengono l’immagine e la memoria della loro destinazione e funzione originaria.
A ridosso del 1968 si accentuano le forme di teatralizzazione sia
nell’ambito di manifestazioni concepite all’interno delle gallerie sia
su scala urbana,27 come per esempio la rassegna Campo Urbano realizzata a Como nel 1969.28 La manifestazione, come si legge nel comunicato stampa dell’epoca, nasceva dall’“esigenza di portare l’artista a
diretto contatto con la collettività di un centro urbano”; artisti diversi
per poetica ed età erano invitati a sollecitare una lettura dell’ambiente della città anche con finalità sociali ed esistenziali. Nonostante la
grande varietà di interventi lo stesso Caramel, promotore dell’iniziativa notava che: “(…) D’altra parte va constatato che questi artisti …
hanno scartato o ritenuto irrealizzabile l’opportunità (pure prevista)
di promuovere interventi non circoscritti al momento contingente e
che tenessero conto delle possibilità di agire, oltre che in rapporto
con la collettività, in rapporto con le strutture urbane in cui la collettività vive. La città è stata vista unicamente come una dimensione in
cui instaurare un dialogo con la popolazione (…) con una sostanziale
rinuncia alla possibilità di intervenire realmente su di essa, modificandola o almeno proponendo di modificarla. Non di rado si è avuta
la sensazione che la città divenisse unicamente uno sfondo solo piú
grande di quello offerto dalle gallerie e dai teatri”.29
In concomitanza con i rivolgimenti sociali che attraversano l’Italia
dopo il 1968, si accentua il filone della ricerca che partendo da precisi assunti ideologici intende l’arte e l’agire artistico in stretto rapporto con la dimensione sociale e politica. Il testo di Enrico Crispolti, dal
significativo titolo Arte e partecipazione sociale, pubblicato nel 197730
può essere considerato una sorta di “manifesto” generoso e appassionato sull’argomento. Il racconto di alcune delle manifestazioni condotte in quegli anni, la continua reiterazione di concetti come “territorio”, “aggregazione sociale”, “partecipazione”, “operatore culturale”, “gestione sociale della cultura”, riconducono al clima del periodo. Le manifestazioni ricordate da Crispolti si svolgono sotto il segno
della volontà di abbandonare i luoghi deputati all’arte per avviare
nuovi modi di produzione artistica verso forme di socializzazione e
partecipazione in un ottica di rivolgimento del ruolo tradizionale dell’artista e di costruzione di rapporto strutturati con gli istituti della
partecipazione politica. Non a caso il critico nella prefazione dedica
ampio spazio alla descrizione delle mutate condizioni della situazione
politica italiana e saluta con grande entusiasmo l’istituzione delle
Regioni come simboli di inizio di una nuova era in cui l’amministrazione pubblica da centro lontano e impositivo si trasformi in soggetto
in grado di ascoltare e recepire le istanze della collettività.
In questo contesto emerge con chiarezza la preferenza accordata
alle manifestazioni collettive e l’attenzione verso forme di espressioni
“alternative” come le scritte murali, l’interesse per indicare i modi in
Dal monumento allo spazio delle relazioni
cui artisti, critici e amministratori possono concorrere per favorire processi tramite i quali l’arte può riuscire realmente a interagire costruttivamente con quello che, all’epoca, si definiva il territorio sociale.
Vale la pena però di ricordare che in occasione di una di queste
iniziative, “Volterra ’73”, le installazioni e gli eventi progettati comprendevano anche due mostre retrospettive dedicate rispettivamente
a Lucio Fontana e a Mino Rosso. Il richiamo a Fontana scomparso
pochi anni prima potrebbe non sembrare casuale, nonostante certo
la sua ricerca sia esente da implicazioni di carattere ideologico-politico. È però vero che a lui si devono le prime importanti e fondamentali intuizioni relative al problema del rapporto arte- ambiente. L’ambiente a luce nera di Wood realizzato per la Galleria del Naviglio a
Milano nel 1949 resta un caposaldo nella storia dell’arte ambientale;
inoltre nella ricerca di Fontana emergono alcuni leit motive come
appunto il tentativo di coinvolgimento gli spettatori nelle sue opere
ambientali, l’enfasi posta sul dato gestuale e processuale del fare artistico che, come è stato recentemente sottolineato, presagiscono alcuni aspetti dell’arte relazionale.31
Negli anni Settanta l’attenzione degli artisti nei confronti del
“sociale” si è configurata per il tramite di una visone ideologica spesso accompagnata da un diretto coinvolgimento nell’attività politica;
la generazione che si affaccia oggi sulla scena artistica sembra piuttosto orientata a ricercare forme e modalità di intervento in grado di
agire al livello dei rapporti umani in una chiave decisamente piú esistenziale. Questo comporta un sostanziale mutamento di senso e di
segno dell’azione artistica ed è infatti a partire da questi ultimi anni
che si sono moltiplicati gli interventi e le iniziative di gruppi, piú che
di singoli artisti che, attraverso la pratica quotidiana del confronto e
della multidisciplinarietà, propongono un’analisi e una lettura di uno
spazio sfumato e complesso che non è descrivibile attraverso mappe e
disegni, ma è lo spazio carico di valori e di associazioni costruite giorno per giorno dai suoi abitanti.
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Tra i numerosi studi dedicati all’argomento si
ricordano qui B. Tobia, Una patria per gli italiani,
Roma-Bari, 1991; U. Levra, Fare gli italiani.
Memorie e celebrazioni del Risorgimento, Comitato di Torino per la Storia del Risorgimento Italiano, Torino, 1992.
L’uso del monumento quale strumento per esaltare i valori legati alla patria e all’identità nazionale
torna oggi di estrema attualità se si considera, per
esempio in che modo proprio l’“Altare della
Patria” sia stato utilizzato quale fondale per le
manifestazioni di dolore e di orgoglio degli italiani
a seguito dell’attentato di Nassirya in Iraq. Ed è
cosí che quello che per decenni era stato additato
quale simbolo del brutto, dello sgraziato (una
“dentiera”, una “macchina da scrivere”, una “torta
nuziale”) e di cui generazioni di architetti, intellettuali e urbanisti avevano richiesto a gran voce
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Creazione contemporanea
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l’abbattimento, torna, nelle cronache televisive,
nei giornali, a diventare luogo vissuto in cui celebrare le glorie e il dolore collettivo.
U. Boccioni, Manifesto tecnico della scultura futurista, Milano, 11 aprile 1911.
C. Carrà, L’arte decorativa contemporanea, Milano
1923, p. 119.
M. Calvesi, E. Guidoni, S. Lux (a cura di), E42 Utopia e scenario del Regime, catalogo mostra, Roma,
Palazzo degli Archivi, Marsilio, Venezia 1987.
La prima emanazione della legge risale al 1942:
Legge n. 839 “Legge per l’arte negli edifici pubblici”, 11 maggio 1942. Sulla legge del 2% e la sua
attuale operatività cfr. in questo stesso libro A.
Annechiarico, La collaborazione tra artisti e amministrazione pubblica: il caso Zingonia.
Le vicende che accompagnano la stesura della
legge sono accuratamente descritte da M. Margozzi, L’arte negli edifici pubblici e la legge del 2%
in V. Cazzato (a cura di), Istituzioni e politiche culturali negli anni Trenta, Ministero per i beni e le
attività culturali – Ufficio studi, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma 2001, tomo I, pp.
123-135.
L’art 2 della Legge infatti prevedeva “La scelta
degli artisti per l’esecuzione delle opere d’arte
figurative (…) sarà fatta dalle Amministrazioni sul
cui bilancio grava la spesa in base a un elenco di
nomi di artisti iscritti al Sindacato proposto dalla
Confederazione fascista dei professionisti e degli
artisti”.
Il 29 luglio 1949 viene emanata la legge n. 717,
“Norme per l’arte negli edifici pubblici” che sostituisce il provvedimento fascista e che è stata
ulteriormente modificata con la legge del 3 marzo
1960 n. 237. Infine negli ultimi anni è cambiata la
composizione della commissione incaricata di
selezionare gli artisti.
A.L. Tota, Sociologia dell’arte. Dal museo tradizionale all’arte multimediale, Carocci, Roma 1999.
Per una ricognizione puntuale dei parchi museo di
scultura in Italia, cfr. Paesaggi contemporanei (a
cura di A. Polveroni), catalogo mostra, Università
degli studi di Firenze, Facoltà di Architettura 9
febbraio–9 marzo 2001.
Nel 1982 vengono inaugurati i primi lavori realizzati appositamente da nove artisti nell’ambito di
un progetto complessivo per il quale Gori chiama
a collaborare Ammon Barzel, Renato Barilli, Francesco Guerrieri, Knud Jensen, Manfred Schneckenburger; negli anni successivi vengono commissionate nuove installazioni sia nel parco che
all’interno degli edifici. Cfr. AA.VV., Arte ambientale. La collezione Gori, Allemandi, Torino 1993.
Soprattutto quando si è intervenuti nei centri storici in piú di un’occasione questi interventi sono
stati, almeno inizialmente, osteggiati e contestati
dalla popolazione locale.
È una rassegna a cadenza annuale: per ogni edizione due critici invitano alcuni artisti a progettare un’opera in relazione a un luogo ponendo particolare attenzione al contesto. Le opere sono
concepite come temporanee, ma in alcuni casi
sono diventate permanenti. Per un resoconto delle
attività passate e in corso promosse Associazione
Continua di San Gimignano nell’ambito del pro-
Dal monumento allo spazio delle relazioni
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getto “Arte all’Arte”. Cfr. www.arteallarte.org.
“Tuscia Electa” è una manifestazione biennale
avviata nel 1996 nella regione del Chianti e che,
tramite l’inserimento di opere d’arte contemporanee nel territorio, intende proporre una riflessione
su un possibile modello di ridefinizione del paesaggio e del tessuto urbano. Cfr. www.tusciaelecta.it.
La rassegna ha avuto luogo in diverse località del
Salento tra il luglio e il settembre 2003. La prima
sezione “(Poly)morphosis” si componeva di sei
installazioni in diversi luoghi della regione. Curata
da Gabi Scardi, Manfred Heilmann, Evi Polmeri si
poneva come obiettivo la creazione di opere aderenti al contesto per il quale sono concepite, contesto determinato non soltanto in senso geografico e fisico, ma soprattutto culturale e sociale.
L’artefatto, secondo gli intendimenti dei curatori,
deve essere in grado di cogliere e far emergere e
riattivare il carattere le storie, le memorie del territorio. La seconda, “Acqua&sale”, consisteva in
una mostra dislocata tra Ugento e Casarano cui
hanno partecipato giovani artisti italiani, greci e
tedeschi.
“La natura dell’arte”, questo è il titolo dell’iniziativa (ottobre 2003-gennaio 2004) che sul modello
di “Arte all’Arte” e “Tuscia Electa” propone un itinerario tra diversi comuni del Sannio. I curatori
Giacinto di Pietrantonio e Marco Izzolino hanno
selezionato cinque artisti (Sislej Xhafa, John
Amleder, Michelangelo Pistoletto, Enzo Cucchi,
Ettore Spalletti) cui hanno affidato la realizzazione di opere da inserire in cinque differenti comuni
della regione, chiamandoli cosí a confrontarsi con
un territorio tradizionalmente estraneo ai linguaggi dell’arte contemporanea.
Chambres d’amis (a cura di J. Hoet), catalogo
mostra, Gent giugno-settembre 1986.
“Prove d’ascolto. Attacchi urbani per una civile
convivenza” curata da Fabio Cavallucci si è svolta
Trento dal giugno al novembre del 2003. Alle
installazioni in città si è accompagnata la trasformazione dello spazio della Galleria dove Rirkrit
Tiravania ha creato un luogo che durante il giorno
funzionava come punto di incontro dove poter
svolgere prove musicali, di danza e di teatro e la
sera diventava “The Pub at Prince Albert’s Bob”, con
musica e interventi su tematiche sociali attuali.
In questa direzione si muovono anche altre istituzioni italiane dedicate al contemporaneo, come
per esempio la Fondazione Trussardi che ha
cominciato a proporre iniziative che si svolgono o
sono espressamente concepite in relazione alla
città di Milano.
A questo proposito cfr. in questo stesso volume i
contributi di Antonella Annechiarico e Flaminia
Gennari Santori.
Dietro indicazione del Comune di Napoli è stato
affidato a un team di architetti (Gae Aulenti,
Alessandro Mendini e Domenico Orlacchio) l’incarico di progettare cinque nuove stazioni. Questi
hanno richiesto la collaborazione degli artisti e
cosí, per la cura di Achille Bonito Oliva, sono stati
selezionati cinquantacinque artisti italiani e stranieri che hanno realizzato in un clima di dialogo e
collaborazione con architetti e committenti una
serie diversificata di opere che sono parte inte-
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grante delle nuove cinque stazioni. Recentemente
è stata annunciata la volontà di proseguire con
questo tipo di intervento anche per le prossime
stazioni previste dall’ampliamento della linea
della metropolitana. Cfr AA.VV., La metropolitana
di Napoli, Napoli 2000.
V. Acconci, Andare all’esterno. Note sulla public
art (novembre 1987) in Vito Acconci, catalogo
mostra Prato, Centro per le Arti Contemporanee, a
cura di A. Barzel, gennaio–marzo 1992.
Sulle vicende dell’Internazionale Situazionista,
cfr. M. Bandini, L’estetico e il politico da Cobra
all’internazionale situazionista, Ancona-Milano,
1999 II ed. (I edizione Roma 1977) o il piú
recente saggio di G. Bertolino, I situazionisti, in
F. Poli (a cura di) Arte contemporanea. Le ricerche internazionali dalla fine degli anni ’50 a oggi,
Milano 2003.
La dèrive è una sorta di passeggiata urbana senza
un itinerario fisso teorizzata da Débord nel 1956.
Consiste in un attraversamento di una determinata zona (una città, un quartiere, un isolato) condotta sia grazie ai rilievi psicogeografici realizzati
da una équipe appositamente predisposta, sia tramite tecniche di disorientamento, come nel caso
del “possibile appuntamento” scatenando una
serie di effetti psicologici e ludici connessi a una
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osservazione analitica dell’ambiente urbano nella
sua complessità morfologica economica e sociale.
Nel 1956 Pinot Gallizio propone a Constant la
progettazione di un edificio sulle rive del Tanaro
in un terreno di sua proprietà per alloggiare gli
zingari che erano soliti accamparsi in quella zona.
M. Perniola, I Situazionisti, Roma 1999 (II ed).
Cfr. per esempio, il “Teatro delle mostre” promosso
da Plinio de Martiis alla Galleria “La Tartaruga” di
Roma o l’evento curato da G. Celant ad Amalfi
nell’ottobre del 1968 “Arte povera-Azioni povere”.
L. Caramel (a cura di), Campo urbano-interventi
estetici nella dimensione collettiva urbana-Como
21 settembre 1969, Como 1970. Numerosi gli artisti
che hanno partecipato all’iniziativa, tra questi:
Enrico Baj, Davide Boriani, Gianni Colombo, Dadamaino, Luciano Fabro, Ugo La Pietra, Bruno Munari,
Giulio Paolini, Francesco Somaini, Grazia Varisco.
L’iniziativa suscitò non poche polemiche sia con le
numerose istituzioni pubbliche che almeno inizialmente la sostenevano, sia con altri critici come
Germano Celant (cfr. “Casabella”, n. 342, 1969).
L. Caramel, Campo urbano cit.
E. Crispolti, Arte e partecipazione sociale, De
Donato, Bari 1977.
A. Vettese, Dal corpo chiuso al corpo diffuso, in
Arte contemporanea cit., pp. 217-219.
103
Artisti e sfera pubblica
Anna Detheridge
Artisti oltre l’Arte
Secondo l’illustre parere di Sir Ernst H. Gombrich (Vienna 1909 –
Londra 2001), direttore del Warburg Institute di Londra dal 1959
fino alla sua scomparsa, all’età di novantadue anni, l’Arte in quanto
tale non esiste. Esistono soltanto gli artisti. Esimio studioso, conservatore ed erudito, Gombrich non può certo essere sospettato di fughe
in avanti. Questa convinzione, espressa in apertura della sua Storia
dell’arte, scritta nel 1950 per i giovani, è fondata su una considerazione ponderata delle trasformazioni che l’arte ha subito nei secoli, dai
primi disegni dell’uomo nelle grotte di Lascaux fino alla nostra
epoca. La sua affermazione rimane vera anche per gli artisti delle
generazioni piú recenti che, trovandosi a operare in un mondo affollato di immagini, ripetute all’infinito come nel famoso corridoio
degli specchi di Orson Welles, giungono a rifiutare la dimensione
stessa della visione, pur continuando a chiamarsi artisti.
Per meglio capire il “lavoro” degli artisti contemporanei, dunque, è necessario situarlo non solo nella storia dell’arte, ma, soprattutto, dentro l’alveo della storia delle civiltà in divenire, come fa
Gombrich. Cogliendo dallo studioso viennese ciò che di meglio ha
espresso, e cioè il suo metodo popperiano, prima ancora delle sue
convinzioni di storico dell’arte, lasciamoci guidare, in definitiva,
dagli stessi artisti.
Il contesto contemporaneo
Nella società disarmonica della tarda modernità, ogni artista è
solo con la propria visione del mondo. Riconosciuto soltanto dal rapporto che stabilisce (o no) con ciò che normalmente viene definito il
sistema dell’arte, le gallerie, i giornali specializzati e il museo, ha la
sensazione che la libertà assoluta di cui gode nell’elaborazione della
propria poetica assomigli sempre di piú a una esclusione o estromissione dal corpo sociale, e che la sua posizione rasenti l’isolamento. La
sua attività soffre inevitabilmente di un mancato suffragio, e conseguentemente di consistenza. Épater le bourgeois, il committente collezionista non ha piú alcun senso.
Le rapide trasformazioni in atto, che portano le persone a godere di una socialità vissuta fuori dall’ambito domestico, in situazioni e
luoghi che non hanno piú le logiche di condivisione di un tempo,
ma sono piuttosto di “attraversamento distratto” (dalle vie commerciali delle città, alle tangenziali, alla metropolitana, all’aeroporto,
all’ospedale, agli uffici pubblici, ai luoghi di lavoro), riposizionano il
105
Creazione contemporanea
senso del fare artistico. Nasce l’esigenza sentita da molti di ritrovare
un dialogo con un committente diverso, di esplorare una realtà che
ponga finalmente dei vincoli: quelli dell’ascolto e delle richieste provenienti non piú dal collezionista, ma da una committenza che prospetti interventi creativi per la collettività.
“Attitudes as Form”: la fine di una visione modernista
106
Viviamo in un mondo urbanizzato dove ogni angolo di campagna è
ormai parte di un piú vasto “campo” urbano, segnato da un’economia
che potremmo chiamare, per semplificare, di “servizi” e non piú di
“prodotti”. I grandi squarci lasciati dentro le città europee dalla deindustrializzazione testimoniano la perdita di centralità della produzione. Le aree dismesse delle grandi fabbriche dell’Ottocento, ferite aperte nei centri cittadini, svuotati drammaticamente di ogni attività nel
giro di pochi anni, sono sostituite da industrie pulite, l’elettronica e le
telecomunicazioni hanno trasformato vecchie città industriali in metropoli fatte di uffici e showroom, abitate da fruitori sempre piú mobili.
Sono in atto processi massicci di rigenerazione urbana che, mentre rinnovano, cancellano le tracce della nostra storia recente. Molte città
europee sono a un bivio: come rilanciarsi, quali criteri guida adottare?
Poca meraviglia, dunque, se oggi molti artisti si dedicano all’elaborazione di pratiche d’intervento piuttosto che alla costruzione di
sculture e di monumenti che andrebbero ad aggiungersi al mondo
affollato di oggetti che ci sta intorno. “Less is more” diceva il primo
ispiratore del minimalismo, l’architetto Mies van der Rohe, la cui
estetica si rifaceva all’elegante ripetitività dei prefabbricati per l’edilizia. Mies aborriva il suppellettile, reliquia di un’epoca preindustriale,
segno inequivocabile del superfluo.
Alla fine degli anni Sessanta anche l’oggetto industriale è diventato ridondante, come ricordano eloquentemente gli Oggetti in Meno di
Michelangelo Pistoletto che stanno a significare la saturazione. Da
allora sono molti gli artisti che si dedicano a “processi” che non producono nulla di tangibile se non “le relazioni” stesse tra le persone.
La mostra epocale, curata da Harald Szeemann a Berna nel 1969,
When Attitudes Become Form fu una pietra miliare in questa direzione. Il
sottotitolo Live in your head, è una definizione implicita dell’arte concettuale. Le categorie sembrano anticipare le parole chiave dell’arte
degli anni a venire: works, concepts, processes, situations, information. Nel
catalogo fatto di fogli ciclostilati, Scott Burton dichiara “Form proves
capable of apparently infinite extension”.
Diversi anni prima, l’artista americano Robert Rauschenberg aveva
parlato pubblicamente di voler lavorare “nello scarto tra arte e vita”.
“L’arte – diceva – è stata invasa dalla vita, diventa impossibile distinguere il contesto dell’arte e il mondo delle idee”. Con le prime performance di Alan Kaprow e Claes Oldenburg si assiste a un continuo dilatarsi
Artisti e sfera pubblica
dei confini dell’arte. E Marcel Duchamp incalza con la sua domanda
paradossale: “Si possono fare delle opere d’arte che non siano arte?”.
Tra gli artisti presenti a quella storica mostra curata da Szeemann nel
1969 vi furono alcuni minimalisti americani, quali Carl André, Sol
Lewitt, concettuali tedeschi della prima ora come Hanne Darboven,
Eva Hesse, Hans Haacke e alcuni artisti dell’Arte Povera in Italia.
Il movimento Fluxus e il Situazionismo, due fenomeni degli anni
Sessanta, sono stati il terreno di coltura di un’estetica sociale. Nonostante il pessimismo profetico del leggendario Guy Debord nel suo
Societé du spectacle,1 le idee affermate allora di intervento radicale
nella città sono sopravvissute. Oggi, l’umanesimo radicale dei situazionisti, che rifiuta la tabula rasa del modernismo, l’importanza da
loro attribuita al recupero della dimensione della memoria dei luoghi, la loro tattica da guerriglia urbana tesa ad attirare l’attenzione
sono alla base di molti modi di operare di artisti e architetti che si
occupano della città e dell’arte pubblica.
Altra figura che continua ad avere una forte presenza carismatica in quanto maitre à penser, e iniziatore di una nuova estetica sociale, è Joseph Beuys, il quale riconosceva la creatività di ognuno.
Oggi molti artisti si riconoscono nel lavoro di Beuys, di Alan
Kaprow che, per primo, ha dato inizio a pratiche ed eventi collettivi, e di Joseph Kosuth, che ha utilizzato l’arte come pratica analitica. Il terreno dell’arte viene riconosciuto come “spazio di libertà”
tra le discipline, una zona franca dove evidenziare aporie e punti
ciechi, rivelando e reinventando aspetti della vita trascurati, significati potenziali non colti.
Il lavoro degli artisti che oggi si dedicano a forme d’intervento sul
territorio, nella comunità, tra comunità diverse, viene sostenuto
soprattutto negli Stati Uniti da studiose passate attraverso il femminismo, quali Lucy Lippard (che negli anni Sessanta teorizzava la smaterializzazione dell’oggetto d’arte), Suzi Gablik e Mary Ann Jacob,
mosse da un senso del limite e dell’urgenza rispetto a tematiche che
riguardano l’ambiente e i conflitti tra le culture.
Una parte dell’arte sociale di oggi discende dall’arte ambientale
di decenni orsono e si occupa di migliorare le condizioni delle
inner cities, delle periferie e delle nuove lottizzazioni. Tra questi, lo
Artist Placement Group (APG), fondato tra gli altri da John Latham
e Barbara Stevini nel 1966 a Londra. Il gruppo invece di organizzare mostre, allestiva Placements ossia “localizzazioni” in luoghi non
artistici, in viaggio, in navigazione, su rotaia, in autobus o negli uffici della burocrazia. La massima dell’APG era “il contesto è la metà
del lavoro”. Oggi Latham può essere considerato un pioniere per la
sua intuizione di un futuro ruolo per la creatività degli artisti applicata alla progettualità e ai processi decisionali. Il lavoro di Latham
ha dato luogo alla formazione di associazioni che si affiancano ai
governi, al settore privato, persino alle organizzazioni e alle istituzioni internazionali o accademiche.
107
Creazione contemporanea
Gli attrezzi del mestiere degli artisti del sociale non sono certo
costituiti dalla classica tavolozza dei colori, ma piuttosto dall’acquisizione di nuove capabilities. Di cruciale importanza, infatti, per la riuscita delle opere relazionali, rivolte ad ambiti diversi, sono per esempio: l’apprendimento dei linguaggi delle amministrazioni per poter
dialogare con la burocrazia; comprendere i bisogni di una determinata comunità per poter affrontare il dialogo con il sociale; sapere le
regole di funzionamento di un’istituzione pubblica, saper dialogare
con il mondo degli affari.
Artisti e sfera pubblica
che un arricchimento, un impoverimento, una sorta di nuovo gotico
internazionale limitato a pochi stereotipi. Il rischio è dell’ibridità
come sterilità latente. Il significato delle cose non è mai un readymade,
ma si modifica in continuazione, fuori dal nostro controllo. Puntare
l’attenzione sulla dimensione dell’intraducibile non vuol dire chiudersi, ma riconoscere i limiti della traducibilità, accettare il fatto che
alcuni aspetti delle culture sono specifici e hanno valore per ciò che
sono nella loro individualità, singolarità e unicità. L’ibridità non è
dunque un punto d’arrivo, talvolta è creativa, talaltra è inevitabile,
ma può anche rappresentare soltanto le scorie vuote di tematiche o
3
riti, una volta vivi, che si sono esauriti nello sforzo della traduzione.
L’evoluzione della società interculturale e l’intraducibilità delle
culture
Lo spazio ambiguo della “comunità” nel mondo contemporaneo
108
Nel 1993 il Whitney Museum di New York ha organizzato una
Biennale che ha rappresentato uno spartiacque, la prima mostra politically correct che ha coniugato politica e multiculturalismo, dando
voce alle minoranze razziali ed etniche, le quali hanno avuto la possibilità di sfidare i vecchi paradigmi culturali facendo sentire il loro dissenso. L’evento, curato da Elizabeth Sussman e voluto dal direttore di
allora David Ross, fu a dir poco caotico, criticato da piú parti. Da allora nulla fu piú lo stesso.
In quell’occasione un coro di voci emergenti venute dal nulla ha
avuto l’opportunità storica di sfidare l’establishment culturale dall’interno; e chi ha avuto l’ingenuità di pensare che avrebbero avuto la
buona creanza di ringraziare, s’ingannava.
Dopo quell’esperienza, come ha affermato il critico Mary Jane
Jacob nell’intervista con Suzi Gablik nel suo libro Conversations Before
the End of Time 2 diventa evidente che “il luogo dell’esperienza estetica
per eccellenza si sta spostando fuori dall’orbita autoreferenziale dei
musei e delle gallerie”. Emerge lentamente una concezione diversa
dell’attività dell’artista come ideatore e animatore, integrato nella
società, nelle comunità, nelle istituzioni.
Durante l’edizione del 2002 di Documenta 11 a Kassel, curata da
Okwui Enwezor, e negli eventi a essa legati – le famose “piattaforme” –
è tornata alla ribalta, nella discussione sulla globalizzazione, una questione mai risolta, affrontata in questa occasione da Sarat Maharaj.
Maharaj, mediando tra Occidente e Oriente, rivendica una prassi
che va oltre la dimensione “retinale”, ponendo al centro della riflessione una pratica dell’arte in continuo contatto con la vita. Ispirandosi alla filosofia di Francisco Varela, egli pone il fare artistico con i suoi
aspetti teorici ed estetici dentro il flusso integrato del divenire.
Ma è soprattutto nel considerare lo spazio internazionale come
“luogo delle traduzioni” che il pensiero di Maharaj è fecondo e
necessario. Partendo dall’opacità delle culture che non possono essere “tradotte”, ma necessitano un apporto creativo per capirsi, lo studioso si chiede se il mondo ibrido in cui viviamo non rappresenti, piú
Occorre interrogarsi sulla natura dell’incontro auspicato tra ipotetiche comunità di diversi. Il termine “caldo” di comunità (Zygmunt
Bauman) inteso come luogo dove si forma l’identità non può essere
ritenuta un’appartenenza né esclusiva, né permanente. Si appartiene tutti a molte “comunità” diverse, senza che queste siano necessariamente in contrasto, e viviamo in un mondo sufficientemente
dinamico e aperto per permetterci di cambiare identità e come
comunità meglio ci piace.
Oggi lo spazio pubblico è interessante in quanto “sfera delle relazioni” tra soggetti e collettivi diversi perché è su questo fronte che si
gioca la partita tra le comunità, tra le classi, tra le nazioni, ma anche
al loro interno. È in fondo come indica l’economista indiano
Amartya Sen, “Il nostro modo di pensare è soggetto a diverse influenze e non dobbiamo perdere la facoltà di pensare in modo differente
solo perché apparteniamo a una comunità e a una cultura”.
“Un incremento della possibilità di fare questo genere di scelte
liberamente – continua Sen – può essere considerato parte integrante del fenomeno che chiamiamo “sviluppo”. Ciò richiama alla necessità di cambiamenti sociali, politici ed economici, dall’espansione
delle opportunità di istruzione alla promozione di dibattiti pubblici e
alla rimozione delle deprivazioni causate da una povertà schiacciante.
Tra le altre cose, tutto questo richiede la possibilità di venire a contatto con società e culture diverse e, allo stesso tempo, adeguate opportunità – politiche, sociali ed economiche – per comprendere in modo
corretto il proprio retroterra (senza essere sopraffatti da un massiccio
bombardamento commerciale globale dall’estero)”.4
Identikit dell’artista al servizio della comunità
Dagli anni Novanta in poi, negli Stati Uniti come in Europa, gli
artisti cominciano a lavorare in gruppo, utilizzando per la propria
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Creazione contemporanea
110
organizzazione nuove forme di imprenditoria associata o strutture
non profit, presentandosi direttamente nel sociale come partner, professionisti, consulenti delle istituzioni per innescare meccanismi di
consapevolezza, stimolando un dibattito pubblico laddove le amministrazioni si ripiegano su sé stesse, lavorando insieme ad architetti e
urbanisti, anch’essi organizzati in modo analogo, uniti da una
volontà di ricostruire i rapporti tra i cittadini dall’interno di una
società, che spesso appare disarcionata e incapace di reagire.
Tutti gli artisti impegnati nell’ambito sociale o in seno alla comunità, hanno la particolarità di operare nello specifico, usando spesso
un nome di gruppo, badando meno a preoccupazioni di autorialità e
di visibilità, focalizzando la loro attenzione in primis sulla sperimentazione di modelli di intervento e di comunicazione in grado di raggiungere pubblici diversi.
Da almeno dieci anni, infatti, si moltiplicano le iniziative fuori dal
circuito delle gallerie e che hanno poco a che fare con la produzione
di opere nel senso piú convenzionale. Nell’aprile del 2000, alla Royal
College of Art di Londra, si è tenuta una mostra intitolata Democracy!,
in cui si è tentata una prima ricognizione internazionale di quelle
pratiche artistiche e curatoriali che non sono intese come prodotto,
ma come processo, mettendo in mostra ciò che non è destinato in
prima istanza all’esposizione. Il titolo Democracy! è un punto di partenza per esaminare da vicino il senso del rapporto tra artista, spettatore e committente. Si riesamina lo status sociale dell’arte, i suoi
significati reconditi, le sue ambizioni, i suoi pubblici.5
Tale orientamento, fuori dai canali precostituiti del mercato,
preconizza un inserimento dell’artista nella società radicalmente
diverso. Si prefigura un rapporto contrattuale, di consulenza con il
committente, in cui si chiede all’amministrazione stessa non di
applicare norme e programmi, ma di governare processi in divenire, senza aver ben chiaro quale risultato finale avranno. Questa rivoluzione silenziosa, soprattutto per l’amministrazione pubblica italiana, è un risultato che diventerà apprezzabile soltanto nel tempo e
con alcune auspicate formulazioni in via di studio, per esempio la
presenza dell’artista nella realizzazione di progetti di riqualificazione urbana, oppure la figura di un consulente alla “qualità” nel territorio. La previsione di un ruolo e di un curriculum dell’artista che
intraprende questa strada, come anche l’identikit della figura del
mediatore, è tra i nodi piú complessi tuttora da valutare in termini
etici e professionali.
Il rapporto con le istituzioni contrattato direttamente, conferisce
all’artista un ruolo piú trasparente di quanto non abbia sul mercato
dell’arte, dove il prezzo pattuito, quello effettivamente pagato, quello
denunciato al fisco (se mai dichiarato), sono sempre coperti da un
velo di “discrezione” che raramente favorisce l’artista stesso.
Artisti e sfera pubblica
L’artista e il sociale in Europa: lo sviluppo dell’arte relazionale
Alcuni artisti trovano le radici della loro prassi artistica nell’attivismo degli anni Sessanta e Settanta, ma la maggior parte esprime una
consapevolezza diversa, un bagaglio culturale e sentimentale apolitico e tutt’altro che militante. Si è alzata la posta in gioco e, se negli
anni Settanta il radicalismo si esprimeva in un progetto politico fuori
dalle istituzioni, oggi il processo di maturazione è proprio questo: la
necessità riconosciuta da tutti gli operatori di lavorare con o dentro
le istituzioni. Non si tratta dunque di un progetto utopico, anche se
impropriamente di utopia si è molto discusso, ma piuttosto di un
nuovo realismo, intento a rilevare realtà quotidiane celate sotto l’immensa coltre della comunicazione commerciale. Le finalità dell’arte
relazionale nella sfera pubblica non sono propriamente politiche, ma
piú semplicemente “demofone”, mirate cioè a fornire un terreno
neutro d’incontro e a dar voce e visibilità a chi ne è sprovvisto.
Littoral, network internazionale di artisti, il cui nome deriva da
un’idea di confine (litorale o riva), teorizza l’intervento sul territorio
promuovendo idee di social accountability, progetti sostenibili che si
affiancano a progetti ambientali, di educazione interculturale nel
Nord ovest dell’Inghilterra e altrove. L’organizzazione impiega strategie curatoriali diverse, compresa l’organizzazione di conferenze, ricerche sociali e programmi artistici. La finalità è quella di portare creatività alle metodologie utilizzate per affrontare la complessità dei problemi sul territorio e per combattere gli effetti dell’esclusione sociale.
Nell’Europa del Nord, dall’Olanda alla Danimarca, alla Germania,
all’Inghilterra, si moltiplicano i gruppi e i collettivi che lavorano sul
territorio e dentro la società utilizzando spazi, interstizi fisici e virtuali
per innescare processi di relazione tra le persone. Non mirano in
prima istanza al riconoscimento, né all’autorialità, ma piuttosto a
entrare nel tessuto urbano, spesso con caratteristiche post-situazioniste, simulando e trasformando i linguaggi dall’interno. Il gruppo olandese Atelier van Lieshout, per esempio, occupa letteralmente e simbolicamente dei terreni in qualsiasi parte del globo con lo scopo di metterli a disposizione, reinventando valori e regole d’uso per quei luoghi.
Le strutture pubbliche della Francia sono state rapide a comprendere le nuove esigenze urbane, e un’istituzione come la Fondation de
France ha elaborato una politica forte, finanziata dalle istituzioni
pubbliche per commissionare opere di arte pubblica esclusivamente
su richiesta di una comunità o un gruppo di cittadini. Tale modalità,
che pone al centro la comunità destinataria dell’opera, è la modalità
principale con la quale la Fondation opera. Tra i progetti piú importanti realizzati da questa istituzione si contano due capolavori di artisti italiani: la Salle des départs dell’ospedale di Garches, luogo di consolazione di rara poesia di Ettore Spalletti, del 1996, e un luogo di raccoglimento laico realizzato al Centro Tumori Paoli-Calmettes di Marsiglia da Michelangelo Pistoletto.
111
Creazione contemporanea
112
Tali iniziative hanno nulla a spartire con l’orientamento critico
espresso dal critico francese Nicolas Bourriaud, autore del testo/
manifesto L’art relationelle, direttore del Palais de Tokyo e teorico del
momento. La debolezza dell’estetica relazionale enunciata da Bourriaud sta proprio nel suo essere estetica poiché, in quanto estetica,
non possiede come principio del proprio agire l’esigenza del confronto reale tra le parti, e finisce per acquisire un’accezione puramente “ludica”, tutta interna al mercato dell’arte.
I network e i collettivi degli artisti anglo americani hanno alle
spalle tutt’altre esperienze (compresa la Land Art), soprattutto per
quanto riguarda il rapporto con il territorio. La varietà delle loro
strategie, le forze che sono in grado di mettere in campo hanno
ben altra portata. E anche rispetto ai fronti davvero sperimentali
degli artisti del Nord Europa, l’art relationelle appare notevolmente
timida e addomesticata. L’esperienza della Fondation de France,
invece, ha ispirato direttamente un modello d’intervento messo a
punto dalla Fondazione Adriano Olivetti, adattata alla realtà italiana
attraverso il progetto Nuovi Committenti, di cui si dà ampiamente
conto in questo stesso volume.
L’Italia contemporanea, infatti, rappresenta oggi un laboratorio
ricco di esperimenti, al quale da il suo contributo anche un maestro come Michelangelo Pistoletto con la sua Fondazione e con l’Università delle Idee, collocate in una ex fabbrica tessile di Biella.
Cittadellarte è, infatti, un luogo di elaborazione di pensiero a 360
gradi, con la finalità di infondere creatività e “pensiero laterale” in
tutte le attività sociali, secondo una sensibilità che ha accompagnato dagli albori il lavoro del suo fondatore. La recente mostra Arte
Pubblica in Italia: lo spazio delle relazioni,6 allestita negli spazi della
Fondazione, ha compiuto una prima ricognizione su un’area di
produzione ai margini del sistema dell’arte in Italia, dando conto
del lavoro di gruppi e collettivi di artisti, di associazioni, di un
gruppo curatoriale, di committenti pubblici e di artisti singoli, che
operano in un sistema di mediazione “etica”, nella sfera pubblica a
contatto con il sociale.
Da Artway of Thinking, associazione di artiste attiva sul territorio
del Veneto, in grado di svolgere e gestire progetti come quello dei
Colli Berici che ha riunito sedici comuni della zona, a Multiplicity,
agenzia di ricerca, ai collettivi di architetti quali Stalker e il Gruppo
A12, ad a.titolo, gruppo di curatrici, al progettozingonia, laboratorio
di interculturalità, a xing, rete interdisciplinare di professionisti
della cultura, a singoli artisti quali Massimo Bartolini, Emilio Fantin,
Alberto Garutti, Luca Vitone, Cesare Pietroiusti, gli italiani rivelano
capacità progettuali e imprenditoriali di grande potenzialità. Anticipatori e originali nel loro modo di rispondere alle carenze delle istituzioni, inventano modalità nuove per rapportarsi al territorio, alle
comunità immigrate, ai residenti locali e alle esigenze di aggregazione sociale nelle varie zone d’Italia.
Artisti e sfera pubblica
artway of thinking, Porto una nuova città, Venezia-Mestre, 2002
L’arte come zona franca
Nella ricerca di una nuova funzione oltre alla produzione di
oggetti estetici, l’arte diventa una sorta di spazio di libertà tra le
discipline, oggi caratterizzate da una specializzazione che mortifica
ogni ricerca creativa. Tale spazio neutro tra le culture apre un varco,
un luogo di condivisione oltre la necessità di traduzione e di confronto immediato, attira professionalità diverse come nella città antica. Artisti e architetti si ritrovano sullo stesso terreno, di nuovo
affiancati. Di questa nuova identificazione dà conto in Italia un
gruppo come Multiplicity che, al pari degli artisti concettuali, analizza il territorio e i linguaggi che lo rappresentano. Attraverso un censimento del territorio europeo che si basa sul rilevamento di segni di
trasformazione silenziosa e di fenomeni normalmente invisibili,
mappa il terreno in maniera diversa, identificando luoghi di produzione spontanea di senso, novità fuori dai canoni autoriferiti della
programmazione urbanistica. Nel lavoro Uncertain States of Europe 7 il
gruppo, che comprende architetti, fotografi e urbanisti, identifica
forme diverse di occupazione e utilizzo del territorio. Tra le tante,
un esempio documentato attraverso le fotografie di Francesco Jodice, raffigura una comunità di diciottomila cinesi nel centro di Parigi,
sviluppatasi in verticale nelle torri di abitazioni pensate originariamente per il ceto medio francese.
113
Creazione contemporanea
114
Artisti e sfera pubblica
Il contesto internazionale: le politiche delle istituzioni dalle Nazioni Unite all’Unione europea
Politiche culturali mirate alla risoluzione dei conflitti e alla coesione
sociale
L’impostazione teorica di Multiplicity, come di molti altri gruppi
di artisti, architetti, urbanisti, fotografi, si forma in un contesto di rinnovato interesse per la programmazione partecipata e di una crescente sensibilità da parte delle grandi istituzioni politiche per lo sviluppo
economico e le forme di aggregazione sociale, spesso difficili da comprendere e da prevedere nei diversi luoghi del mondo.
Dal 1986 al 1993 la collaborazione tra i due studiosi Martha Nussbaum, filosofo e critico letterario, conosciuta per la sua rivendicazione del ruolo cognitivo delle emozioni, e Amartya Sen, Premio Nobel
per l’economia, in qualità di condirettori del World Institute for Development Economics Research di Helsinki, un’istituzione collegata con le
Nazioni Unite, ha avuto come obiettivo quello di trovare modelli di
valutazione della qualità della vita nei Paesi in via di sviluppo. Come
ha rilevato Marianella Sclavi, studiosa di etnografia urbana, nel suo
recente libro dedicato all’attività del gruppo di urbanisti italiani
“Avventure urbane” di Torino,8 il lavoro dei due filosofi ha avuto una
rilevanza enorme, aprendo il mondo dell’economia all’immaginazione, con conseguenze particolarmente significative per ogni operazione creativa di partecipazione sociale.
Nussbaum e Sen hanno usato come testo ispiratore per il loro
lavoro un’opera letteraria, Tempi Difficili di Charles Dickens. Scrive la
Nussbaum “La capacità di immaginare i modi concreti in cui persone
diverse da noi lottano contro condizioni sfavorevoli ci sembrò di
grande valore pratico e pubblico. Dimostrammo come una scienza
economica compiuta abbia bisogno di operare con una concezione
ampia della qualità della vita perché le sue indispensabili indagini
tecniche abbiano pieno successo”.
Come osserva la Sclavi, le Nazioni Unite hanno accolto tali critiche e i nuovi criteri proposti, centrati sul concetto di capabilities, cioè
le capacità effettive di singoli individui di apprendere e adattarsi alle
situazioni, porta a un cambiamento importante nelle politiche verso
questi Paesi. Tali considerazioni hanno spostato l’attenzione da astrazioni economiche e concetti semplicistici a considerazioni che possano ampliare le possibilità e capacità di scelta di specifiche popolazioni. Il testo della Sclavi dedicato all’esperienza di Avventure Urbane,
un gruppo interdisciplinare di operatori, e il caso esemplare di governance e di rinnovamento urbano messo in atto con un gruppo di residenti di Torino, è illuminante per l’enfasi dedicata a criteri quali l’ascolto, la fiducia, la creatività delle soluzioni nella progettazione partecipata degli spazi pubblici.
Negli ultimi anni gli studi sulle modalità d’intervento sul territorio
si sono moltiplicate, soprattutto in Gran Bretagna, dove esiste una tradizione collaudata di ricerche sulla good practice. Piú che evidenziare i
problemi, sembra urgente stabilire modelli operativi che abbiano un
qualche successo, quando applicati dentro la società, nella risoluzione
dei conflitti e nell’innescare processi di crescita collettiva.
Già negli anni Sessanta il Consiglio d’Europa tentava di rimediare
alla noia mortale delle British New Towns, delle nuove periferie e delle
città satellitari, ponendosi il problema della ricreazione e del tempo
libero. Nel 1979 Il Ministero della cultura olandese pubblicò un libro
bianco sulla Città ricreazionale, mentre gli anni Ottanta hanno visto
nascere politiche di animazione dello spazio urbano in diversi Paesi
europei. Edgar Faure, ministro della cultura francese negli anni Sessanta, viene tuttora ricordato per la frase che decretò la necessità di
“creare un bisogno di cultura”.
Se i grandi investimenti economici nella rigenerazione urbana
sono soprattutto privati, le linee guida degli interventi finanziati nell’ambito di progetti regionali e internazionali (come per esempio
quello dei paesi baltici o del mediterraneo) sono stabilite dall’Unione europea. La fonte dei finanziamenti pubblici è quasi sempre l’Unione europea, e il programma europeo di “Unione nella differenza”, elaborato con la finalità di conservare i contesti di appartenenza,
radicati geograficamente, politicamente e storicamente nel vecchio
continente, voluto fin dagli anni Settanta come risulta dai primi
discorsi di Jacques Delors, tra i padri fondatori dell’Europa, non
sempre è stata compreso a pieno.
Cos’è oggi uno spazio pubblico
Prima di cantare i meriti o demeriti del pubblico, dello spazio
pubblico e dell’intervento pubblico nella società contemporanea
sarebbe necessario definire meglio che cosa s’intende con questo termine, spesso usato per indicare un’esperienza dei luoghi come qualcosa di condiviso, di un bene comune. Lo spazio pubblico ha ancora
tali caratteristiche, corrisponde a tali aspettative di condivisione,
oppure stiamo applicando concetti ottocenteschi alla risoluzione di
problemi del terzo millennio?
Le piazze dei centri storici d’Italia, i grandi monumenti d’Europa,
i luoghi ameni dalle Ramblas di Barcellona, alla passeggiata Unter der
Linden di Berlino: sono questi gli spazi che identifichiamo idealmente
e banalmente con lo spazio pubblico? In Italia è soprattutto il centro
storico, lo spazio tra municipio, chiesa e mercato che viene tradizionalmente identificato come luogo d’incontro e di scambio della
115
Creazione contemporanea
116
comunità. Si tende a eliminare le auto dal centro, gli spazi tornano ai
pedoni ecc. Ma tali spazi, per quanto piacevoli, sono oggi davvero luoghi d’incontro? Tendiamo a dare per scontato che una bella piazza e
spazi decorosi favoriscano la coesione sociale. È proprio cosí?
Non è forse vero che la natura di questi spazi, come anche di altre
sfere che normalmente riteniamo “pubbliche” (quali i media e gli spazi
dell’informazione), diventa sempre piú enigmatica e ambigua nei suoi
significati piú profondi? Il ridisegno dello spazio pubblico vede riuniti,
intorno a un unico obiettivo, amministratori pubblici e investitori privati, tutti d’accordo nel voler migliorare l’aspetto e la gradevolezza dei
luoghi che abitiamo. Le tesi ottimiste di molti economisti, le buone
intenzioni del Ministero dei beni culturali sulla “qualità urbana” si fondano sull’effetto traino che ha il restauro di un monumento, la costruzione di un nuovo museo, il miglioramento della pavimentazione, l’aggiunta di una panchina per la rigenerazione di una zona.
I criteri applicati alla bonifica delle aree sono quindi sempre gli
stessi: 1) la ripulitura e il riordino di un’area; 2) l’arredo urbano
degli spazi; 3) la predilezione per il design e per il marketing urbano.
La formula rimane nella sostanza “estetizzante”. Tuttavia, se per spazio pubblico si intende non soltanto i luoghi deputati, ossia il centro
urbano distaccato dal resto in quanto vetrina della città, emergono
problematiche ben piú complesse e articolate.
La compartimentalizzazione dello spazio urbano e degli edifici
Tra i molti cambiamenti silenziosi della città citiamo soltanto uno
dei piú macroscopici: le recenti onde migratorie causate dalla globalizzazione dei mercati e gli attacchi terroristici in diverse parti del
mondo stanno avviando una trasformazione surrettizia dello spazio
pubblico, cioè la compartimentalizzazione degli spazi. Ogni nuovo
edificio pubblico, compreso per esempio il Beaubourg in occasione
del suo recente restauro, viene drammaticamente limitato e contingentato dalle esigenze della sicurezza e del controllo delle masse. I
luoghi di assembramento appaiono sempre piú fragili e potenzialmente pericolosi, mentre la paura della violenza diventa uno dei
principali criteri nel ridisegno delle città. In alcune capitali, per
esempio, i monitor a circuito chiuso sono già attivi nel sorvegliare, 24
ore su 24, il territorio. Costosi quanto illusori strumenti di tranquillità per le popolazioni, tali mezzi accarezzano le fantasie piú aleatorie
dell’ignoto, ma con quali conseguenze per la libertà di ognuno?
Oggi gli spazi che portano le grandi masse di persone a incontrarsi sono disegnati coscientemente come zone a zero friction, per evitare
cioè ogni possibile tensione. Un esempio chiaro è l’aeroporto,
costruito in modo da funzionare esclusivamente come macchina per
il trasferimento, e lo stesso è vero delle nuove generazioni di shopping
malls e stazioni ferroviarie. Tristemente, come commentano Hajer e
Artisti e sfera pubblica
Reijndorp, la tendenza a “pilotare” masse di visitatori si estende come
filosofia al museo e al parco giochi.
In pratica gli spazi di dominio pubblico possono essere costruiti
ovunque, e i controlli e i metal detectors non rappresentano necessariamente esclusione, ma sicurezza. Tuttavia di fronte a tale esigenza
sarà sempre piú importante tener presente l’importanza dell’incontro
tra diversi, conservando la possibilità di frequentazione e non soltanto
di “attraversamento”: il senso di una coesistenza tra diversi, che mantenga vivi i diritti di tutti contro la funzionalizzazione e l’esclusione.
Gli spazi non sono mai “non luoghi”
Agli spazi “di qualità” di cui sopra si contrappongono, nella concezione comune dei pianificatori, i “non luoghi”, definizione fornita
dall’archeologo del contemporaneo piú alla moda, Marc Augé. Questa fortunata definizione accomuna indiscriminatamente autostrade,
rimesse, spazi di transizione, aeroporti, stazioni, grandi centri commerciali. Il “non luogo” viene rappresentato come luogo della
modernità per antonomasia, condizione di solitudine e di alienazione che ha l’inevitabilità della catastrofe. Le due definizioni, da un
lato gli spazi di qualità da abbellire e dall’altro i non luoghi da
dimenticare, fanno parte di una visione unica, sempre e comunque
funzionale allo status quo.
Come osservano gli autori del saggio In search of a New Public
Domain Maarten Hajer e Arnold Reijndorp,9 l’enfasi posta sul benessere di chi frequenta gli spazi belli, sul centro storico come vetrina e
luogo dove la città, o persino il Paese intero, gioca la sua immagine,
s’accompagna alla crescente marginalizzazione delle zone e dei ceti
che quegli spazi non li usa. I progettisti, focalizzati su pochi luoghi
privatizzati e omologati per turisti e ceto medio, non colgono – perché non li cercano – gli sviluppi spontanei, imprevisti e totalmente
incontrollati di altri luoghi della metropoli.
Cosa dire della silenziosa occupazione di interi territori, dal quartiere cinese di Milano alle lottizzazioni di villette volute dai cittadini
nelle ex campagne toscane, o meglio nelle nuove periferie, costruite
con materiali di finta pietra, attorniati di praticelli verdi, lampioncini
e ogni sorta di urbanizzazione selvaggia? È piú vitale il centro storico
di una cittadina tirato a lucido a beneficio dei turisti, pascolo del terziario, colonizzato dalle boutique monomarca, oppure le zone industriali e postindustriali, attivissime, popolate da impiegati, rappresentanti, trasportatori, oppure i centri commerciali, luogo di aggregazione di extracomunitari, deserti, dopo l’orario di chiusura, quanto i centri storici, oppure attraversati da tutt’altre frequentazioni notturne.
Che cos’è dunque un buon spazio pubblico? Come definire il coacervo di bisogni e di paure che attraversa il territorio e lo trasforma
in maniere cosí imprevedibili? Come meglio esaminare e formulare
117
Creazione contemporanea
gli argomenti che ruotano intorno a temi di “autenticità” dello spazio, di autorialità, di continuità storica, di rilevanza sociale?
L’importanza del luogo pubblico come luogo di scambio, di conoscenza e d’incontro con l’altro, è oggetto di grande dibattito nell’opera
di filosofi quali Hannah Arendt, con il suo concetto di agorà, e piú
recentemente di Jürgen Habermas, che ritiene la sfera pubblica il luogo
per eccellenza della democrazia. Secondo questi autori lo spazio pubblico è il luogo in cui formiamo le nostre opinioni sull’altro, ambiti entro i
quali siamo esposti alla conoscenza del diverso, alle esperienze della
vita. Ma la sfera del pubblico, che comprende anche il luogo virtuale
dei media, appare sempre piú povero di stimoli e di informazioni utili
alla condivisione e sempre di piú una conferma autoriferita, per tranquillizzare e rassicurare sulla neutralità e la neutralizzazione dell’altro.
Una nuova geografia della cultura
118
In un momento di rimescolamento sociale tra l’emergere della
nuova classless society e la progressiva perdita di competitività delle
economie occidentali, non deve meravigliare il fatto che ceti in
rapida crescita oppure in pericolo di perdere i propri privilegi
acquisiti, abbiano poca disponibilità verso temi di solidarietà. L’incontro con il diverso infatti non ha potere di seduzione a meno
che non faccia parte di un progetto individuale di pianificazione
del proprio futuro.
La caratteristica dominante attuale delle società occidentali pare,
infatti, l’evoluzione di una società di enclaves, di comunità barricate
identificabili per passatempi e per stili di vita. Forse il ritratto piú
autentico della società contemporanea è quella di una geografia
sovrapposta di arcipelaghi o network, ognuno ignaro dell’esistenza
dell’altro. La mobilità sul territorio sembrerebbe connettere una
dispersione delle attività, una conglomerazione di funzioni. Ognuno
si costruisce la propria società, un po’ come profetizzavano i percorsi
ingenui di Ugo la Pietra negli anni Settanta.
Interessante osservare che la geografia culturale che emerge da una
tale analisi non dipende tanto da caratteristiche economiche e tipologie tradizionali. Il “campo di relazioni” che le persone si creano intorno è anche in funzione di paure, ansie, ambizioni e sogni che riguardano una propria mitologia personale. In questo senso siamo tutti consumatori delle nostre stesse vite. E in quanto consumatori, consumiamo
contemporaneamente cose diverse, a volte anche contraddittorie.
Artisti e sfera pubblica
rale, a volte servendosi anche degli stessi artisti come animatori. Di
conseguenza la vitalità della città rigenerata deve fare i conti con i
grandi investimenti, e potrà essere gestita con le amministrazioni
interagendo con le parti in causa. Come, dunque, disegnare e ripensare quelle zone fondamentali di interfaccia tra le diverse comunità e
le diverse funzioni degli ambienti urbani e territoriali?
Saper riconoscere la qualità degli spazi e le opportunità dei luoghi
ben oltre il logoro dettato del site specific, è forse tra le principali qualità
degli artisti che lavorano dentro la città. Doreen Massey, studiosa e geografa della Open University in Inghilterra, nel suo saggio The Spaces of
Community10 afferma che “si pensa che le comunità siano legate alla
geografia dei luoghi, ma in realtà sono le comunità che creano il loro
spazio di relazione”. Lo spazio sociale, dunque, è qualcosa che si crea,
non qualcosa di dato, e si mantiene vivo grazie alla frequentazione e
alla continuità. E prosegue: “È l’interazione che produce l’esistenza e i
sistemi piú aperti e interattivi sono quelli che durano di piú”.
Nel contesto pubblico, l’intervento degli artisti funziona quando
essi sono in grado di interpretare i luoghi, innescare un rapporto con
la storia, con la geografia, con il sociale, accendere connessioni con il
presente e con i partecipanti, ricostruendo un rapporto tra le persone e un luogo. Nel considerare il lavoro degli artisti che operano nel
sociale, piú che giudicarne il valore estetico secondo canoni già vecchi, pare oggi piú rilevante capire perché a loro sembra cosí urgente
porre in evidenza l’esperienza delle persone normali, la gente comune, senza voce né visibilità.
E ancora chiediamoci perché è proprio sul tema dell’esclusione
che verte il senso profondo dei loro interventi. Interventi che non
contemplano di rappresentare le persone, ma di relazionarsi con essi,
misurandosi con una progettualità e con dei linguaggi che li porta
diritti alla sfera pubblica, quella del confronto con l’altro.
1
2
3
4
Il ruolo degli artisti nella sfera pubblica
5
Gli attori commerciali si sono rivelati particolarmente abili nella
costituzione di nuova audience per i nuovi templi del consumo cultu-
6
Debord, Guy, La societé du spectacle, Gallimard
Editions, Paris 1967-1970.
Gablik, Suzi, Conversations Beyond the End of
Time, Thames Hudson Inc, New York 1995.
Maharaj, Sarat, Perfidious Fidelit: the Untranslatability of the Other, in Jean Fischer, Global
Vision. Towards a new Internationalism in the
visual art, pp.
Sen, Amartya, Globalizzazione e libertà, Arnoldo
Mondadori, Milano 2002.
Democracy!, Royal College of Art and Pale Green
Press, London 2000.
Arte pubblica in Italia: lo spazio delle relazioni, a
cura di Anna Detheridge e Connecting Cultures,
7
8
9
10
in collaborazione con Cittadellarte-Fondazione
Pistoletto, 6 giugno-2 novembre 2003, Cittadellarte, Biella.
Multiplicity, USE, Uncertain States of Europe,
Skira, Milano 2003.
Sclavi, Marianella, Avventure urbane: progettare
la città con gli abitanti, Elèuthera, Milano 2002.
Hajer, Maarten, Arnold Reijndorp, In search of
New Public Domain, Nai Publishers, Rotterdam
2001.
Massey, Doreen, The Spaces of Community, in
Papastergiadis, Nikos (a cura di), Annotations 1:
Mixed Belongings and Unspecified Destinations,
pp. 30-37.
119
Arte e società: contesto storico e prospettive attuali
Bartolomeo Pietromarchi
Per comprendere che cosa costituisca l’avanguardia oggi,
bisogna prendere le mosse non dal campo dell’arte contemporanea
ma da quello della cultura e della politica, cosí come da quello
economico che governa tutte le relazioni che sono sottoposte
all’egemonia assoluta del capitale.
Se le avanguardie del passato (futurismo, dada e surrealismo,
per esempio) hanno anticipato un ordine in via di trasformazione,
quello di oggi è fondato sulla precarietà,(…) incertezza, instabilità,
ed insicurezza.1
La citazione, dal testo introduttivo di Okwui Enwezor al catalogo
di Documenta XI, ci cala immediatamente nel cuore della discussione: perché l’arte contemporanea è oggi ossessionata dal reale, perché
la maggior parte delle ricerche degli artisti contemporanei non può
fare a meno di riferirsi alle dinamiche politiche, sociali, economiche
e culturali del complesso mondo contemporaneo, cosí come ben evidenziato dalle oltre trenta pagine di fotografie di cronaca che aprono
lo stesso catalogo e come risulta evidente percorrendo le tante manifestazioni internazionali d’arte di tutto il mondo da Johannesburg a
San Paolo, da Venezia a Seoul, da Ljubljana a Kassel.
Viviamo in un periodo storico di profondi cambiamenti, generati
da una globale messa in discussione di tutti i parametri acquisiti a
livello politico, sociale, economico e culturale. Spettatori e partecipi
di una accelerazione della storia che ha fatto deflagrare ogni confine,
categoria, classificazione, valore, lasciandoci nella precarietà, nell’insicurezza, nell’instabilità e nell’incertezza. Questo incessante movimento, determinato dalle dinamiche economiche mondiali, ha scardinato le certezze entro cui si muoveva sino a ieri l’orizzonte conoscitivo dell’uomo contemporaneo, mettendolo di fronte a un contesto
sconosciuto e in continua trasformazione, costringendolo a ripensare
la sua stessa identità caratterizzata oggi dalla mutazione. La fine dello
stato nazione e dei suoi relativi confini, i flussi di migrazione di
massa, l’urbanizzazione esponenziale del territorio mondiale, l’ibridazione multiculturale, la radicalizzazione dei conflitti, le emergenze
ecologiche, lo sviluppo tecnologico determinano il contesto del
perenne stato di emergenza della società globale.
Di fronte a tale contesto l’arte è costretta a ridefinire i suoi obiettivi, gli strumenti con cui operare e le strategie di sopravvivenza.
Costretta da un lato da una realtà le cui dinamiche sociali, politiche,
economiche e culturali sono divenute imprescindibili per ogni riflessione sull’identità e dall’altro da una dimensione del reale che fa
della rappresentazione visiva e spettacolare il solo strumento di esperienza e conoscenza del mondo.
121
Creazione contemporanea
122
Se le dinamiche del reale sono sempre piú il contesto entro il
quale si muove la creazione contemporanea, qual è il rapporto dell’arte con la realtà nella sua concretezza? Esiste una volontà dell’artista di calare la dimensione artistica nella vita pratica? Questo ritorno
del realismo comporta anche il ritorno a una riflessione sulla distanza
tra arte e vita, e, di conseguenza, anche sul ruolo e l’impegno sociale
dell’arte e dell’artista?
Consapevole dell’esperienza storica riguardo a tali questioni,
abbandonata ogni utopia rivoluzionaria, disilluso riguardo a ogni
possibilità di un’arte in grado di modificare la realtà, attraverso ciò
che Achille Bonito Oliva in un suo testo del 1972 definiva “il superamento della separatezza tra l’immaginazione ed il reale (…) per un
intervento eversivo sul mondo”,2 l’artista di oggi è cosciente di essere
per sua natura un a-sociale, sa che i processi della creazione sono
strettamente legati alla sua dimensione individuale, e che le finalità
dell’opera hanno come proprio orizzonte esclusivamente sé stesse.
Ciò non significa che l’opera non possa prendere in considerazione
come materia di indagine la dimensione socio-politica dell’esistente.
Tuttavia significa che non ha nessuna pretesa di modificazione della
realtà, non ha come priorità l’annullamento della distanza tra arte e
vita e non ha nessun progetto politico alternativo. Punto di partenza
dell’indagine artistica è in primo luogo la riflessione sul sé, la dimensione strettamente privata del proprio essere che indaga i termini dell’identità e della diversità, della memoria, della integrazione e dell’alienazione. In un processo in cui si compenetrano sfera pubblica e
privata, questi sono gli stessi termini e le stesse emergenze attorno ai
quali ruota il dibattito della società contemporanea. L’artista indaga
l’identità attraverso le nozioni della molteplicità e dell’integrazione,
della collettività e dell’indeterminatezza, dell’apertura e dell’ascolto.
Oggetto della sua indagine è un essere individuale che è anche essere
collettivo, un essere senza identità, spogliato di tutte le sue proprietà;
ciò che Jean-Luc Nancy definisce “l’essere abbandonato”.
In breve l’arte definisce, citando ancora Enwezor, uno spazio autonomo che “attraverso la specificità delle sue istituzioni e procedure,
costituisce per sé uno spazio dal quale affrontare criticamente, e
senza esserne integrata, tutta la dimensione socio-politica”.3 Alla stessa conclusione giunge Peter Burger in Teoria dell’avanguardia quando,
dopo aver analizzato il fallimento delle avanguardie storiche nel
superare del concetto di autonomia dell’arte dalla vita si chiede “se
sia veramente auspicabile il superamento dello status di autonomia o
se piuttosto la distanza dell’arte dalla vita concreta non garantisca un
libero spazio di manovra all’interno del quale è possibile pensare le
alternative allo stato esistente”.4
In questa prospettiva, il progetto estetico attuale non è intervenire
sul mondo con il fine di modificarlo, ma è annullarsi in esso, farne
esperienza e proporne una prospettiva critica attraverso inediti percorsi. Paradigmatiche sono in questo senso le parole dell’artista Santiago
Arte e società
Sierra, il cui lavoro è caratterizzato principalmente dalla serie di “azioni remunerate” dove l’artista paga persone che appartengono per lo
piú a categorie sociali emarginate (prostitute, clandestini, minoranze
etniche, disoccupati ecc.) per realizzare performance artistiche:5
Non posso cambiare nulla. Non c’è nessuna possibilità che il
nostro lavoro artistico possa modificare qualche cosa. Facciamo il
nostro lavoro perché facciamo arte, e perché crediamo che l’arte
debba essere qualche cosa, qualcosa che si riferisca al reale. Ma
non credo nelle possibilità del cambiamento. Né nell’ambito del
reale né nel contesto artistico.6
Il reale diviene la materia dalla quale attingere per sperimentare
una nuova esperienza estetica che ripensa l’essere individuale nella
sua dimensione collettiva.
Superata ogni idea di specificità del proprio essere artista e del
linguaggio dell’arte, l’artista si appropria della dimensione linguistica
del reale nella sua totalità, e ne utilizza indifferentemente tutti gli
strumenti. Attraverso un atteggiamento che fa della clandestinità, dell’infiltrazione, del parassitismo e della negazione strumenti in grado
di annullare ogni classificazione, l’artista fa esperienza del mondo e
della sua frammentazione inventandone percorsi trasversali, attraversamenti di senso, sconfinamenti e scarti linguistici. Questo gli permette di ripensare l’identità dell’essere nella sua dimensione linguistica, un essere che si forma e si trasforma, si disfa e si ricompone in
un incessante esperimento tra forme, culture e generi differenti.
In questa prospettiva l’artista adotta diverse strategie comunicative, reinventa gli strumenti con cui comunicare, si appropria di quelli
già sperimentati o sconfina in altri campi disciplinari. Operando in
un contesto complesso in continua trasformazione anche gli strumenti linguistici devono adeguarsi alla materia di cui trattano. È in
questi termini che l’opera d’arte oggi può adottare tutte le forme
comunicative esistenti senza temere la perdita della sua specificità:
l’artista diviene un nomade del linguaggio che attraversa senza sosta i
territori linguistici di tutte le discipline e di tutte le culture.
L’esplorazione dell’identità, un’identità dell’essere che sfugge a
ogni determinazione, è indagata dall’artista nella sua dimensione linguistica in uno spazio autonomo, quello dell’arte, che gli permette
una libertà d’azione totale. Ma tale dimensione linguistica è allo stesso tempo quella della realtà nella sua forma spettacolare e di comunicazione. Se, come diceva Debord, il reale viene limitato a ciò che è
comunicabile in forma spettacolare, e si costituisce in una sfera autonoma che ha come riferimento solo sé stesso, l’unica prospettiva è
tentare ciò che Agamben definisce un experimentum linguae, ovvero un
ripensamento dell’identità che passi necessariamente attraverso un’esperienza del linguaggio che prescinde dalla forma o dal contenuto
ma si cala nell’essenza stessa della comunicabilità.7
123
Creazione contemporanea
124
L’esplorazione della dimensione comunicativa diviene dunque lo
strumento attraverso il quale l’artista indaga la realtà nella sua complessità. Abbandonato il suo essere individuale, l’artista si “annulla
nel linguaggio”, trasforma il sé da unico a moltitudine e trasforma
l’opera in pura comunicazione. Liberatasi dalle strettoie dell’aspetto
formale, l’opera oggi può assumere qualsiasi forma e veicolare qualsiasi contenuto. Fa dell’indeterminatezza la sua caratteristica e delle
dinamiche comunicative il suo contenuto. Ciò comporta che diviene
sempre piú difficile riconoscere la specificità formale dell’opera d’arte attraverso gli strumenti tradizionali.
In questa prospettiva si inserisce il lavoro di artisti e gruppi interdisciplinari quali Stalker – Osservatorio nomade, Multiplicity, Oda
Projesi, Citymind, Campement Urbain, Raqs Media Collective, solo
per citarne alcuni, che utilizzano pratiche che potrebbero essere definite di disseminazione, intervento e percezione creativa del territorio.
Dopo un periodo decennale di incubazione e sperimentazione, tali
pratiche sono giunte oggi a proporre reali modelli alternativi di intervento e produzione creativa. Sono il piú delle volte condotte da gruppi multidisciplinari, a geometria variabile, che si dilatano o si restringono nei loro componenti a seconda delle necessità, estremamente
permeabili rispetto all’esterno nel quale ricercano forme di partecipazione, collaborazione e coinvolgimento. Strettamente legati all’esperienza spaziale del territorio ma di un territorio non localizzato, non
circoscritto, a-topico che ne determina la loro natura migratoria,
nomade o trasportabile. Tali strutture si muovono entro un ambito
che può essere indifferentemente pubblico o privato, riuscendo in
alcuni casi a creare un modello di economia alternativa al sistema dell’arte tradizionale che si basa sulla co-produzione o il finanziamento
attraverso canali alternativi che, anche in questo caso, si possono muovere indifferentemente tra la sfera pubblica e quella privata. Privi di
una qualsivoglia ideologia, di intenti programmatici o rivoluzionari, la
loro pratica si basa sul principio dell’efficacia e dell’immaginazione,
stimolata il piú delle volte da contesti a elevata conflittualità o disagio
sociale di cui ridefiniscono il valore dello spazio, della convivenza e
del vivere collettivo in una esperienza estetica del territorio.
Appare del tutto inappropriata la definizione di “arte pubblica” o
dei suoi derivati community art, scultura sociale ecc., utilizzati per definire il fenomeno. Tali definizioni si riferiscono infatti a un’idea dell’arte ancora legata a categorie disciplinari e spaziali determinate,
legittimata da un sistema che categorizza e distingue tra modi di produzione e di fruizione.
Le pratiche di disseminazione, intervento e percezione creativa
del territorio non propongono dei modelli codificati e riproducibili.
Al contrario, gli interventi che propongono nella società sono ogni
volta diversi come differenti sono le problematiche, il contesto e gli
attori che li rendono possibili, si adeguano cioè al grado di complessità della società contemporanea. Individuato un campo, il territorio
Arte e società
critico dove l’esperienza estetica si cala nella dimensione concreta,
viene proposto un gioco sociale, al quale ognuno è libero di partecipare o meno. Intervenendo in un contesto in continua trasformazione tali procedure fanno del principio di incertezza una regola, la
regola del gioco. La forza di tale atteggiamento sta nel fatto che non
presupponendo norme determinate e imposte da una autorità, non
può esistere trasgressione. Se il giocatore non accetta la regola, non
esiste neanche il gioco. Il gioco è un principio duale, si basa sulla
relazione e la partecipazione. Nella dimensione concreta dell’opera e
dei processi di creazione ciò comporta la nozione di co-produzione e
di condivisione. La Co-produzione non è da intendersi in modo
restrittivo, ovvero nel processo di realizzazione materiale dell’opera,
ma può assumere diverse forme a livelli differenti: l’opera o il processo creativo è determinato dall’artista, dal contesto, dal mediatore e
dal partecipante/fruitore. La responsabilità sociale diviene collettiva.
In questo modo si rende possibile quell’esperimento sull’identità
che da una dimensione puramente linguistica e artistica si cala nella
realtà per verificare la possibilità di creare nuove forme di comunità
basate sull’apertura e la non appartenenza, la predisposizione all’ascolto, e alla continua trasformazione.
125
1
2
3
4
5
Enwezor, Okwui, The Black Box in, Documenta XI
Platform 5: Exhibition, Ostfildern-Ruit, Germay, p.
45.
Bonito Oliva, Achille, Il territorio magico, Centro
Di, Firenze, 1972, p. 9.
Enwezor, The Black Box, cit. p. 54.
Burger, Peter, Teoria dell’avanguardia, trad. it.
Torino, 1990, p. 64.
Le azioni sono caratterizzate dalla loro inutilità
che ha però un valore simbolico come far tenere a
cinque persone pagate un muro inclinato all’interno di una galleria per un certo periodo di tempo
(Muro de una galeria arrancado, inclinado a sesen-
6
7
ta grados del suelo y sostenido por cicnco personas, 2000) o per stare seduti e bloccare l’accesso
al museo (Personas remuneradas para permanecer
bloqueando el acceso a un museo, 2000) o ancora
tatuare una linea dritta sulla schiena di sei disoccupati (Linea de 250 cm. tatuada sobre seis personas remuneradas, 1999).
García-Antòn, Katya (a cura di), Buying Time, in
Santiago Sierra. Works 2002 – 1990, Ikon Gallery,
Birmingham 2002, p. 15.
Per il concetto di Experimentum linguae, cfr.
Agamben, Giorgio,\ La comunità che viene, Torino,
2001, pag. 63-66.
Il plusvalore immaginario dell’arte
Marco Senaldi
In ciò che appare sotto forma di lotta contro se stesso,
[la coscienza non sa] riconoscere momenti reciprocamente necessari
Hegel
Tutto è dimostrabile,
soprattutto il contrario,
con un’abile
manipolazione dello scenario
Battisti-Panella
What Do YOU Represent?
In altre parole, che cosa mi rappresenti? Questa domanda, un po’
da commedia all’italiana, quando il fidanzato gelosone si confronta
con l’“amico” della fidanzata in carica, è la stessa che potremmo rivolgere all’arte contemporanea. Solo però per sentirci rivolgere, a sua
volta, da essa, una domanda inversa ma analoga: “e tu, che cosa credi
di rappresentare?”. Come è noto, la fama di un artista come Ad
Reinhardt (1913-1967) è legata al fatto di avere dipinto nell’ultima
parte della sua vita l’“ultimo quadro che fosse possibile dipingere” –
un quadro completamente e perfettamente nero; ed è perciò tanto
piú sintomatico il fatto che proprio un “nichilista pittorico” come lui
sia l’autore di una vignetta satirica. In essa si vede un fruitore-tipo che
prende in giro il classico quadro (espressionista) astratto indirizzandogli la facezia: “Ah ah, che cosa rappresenta?”. Ma il quadro, invece di
incassare in silenzio, gli rilancia severamente la domanda: “Forse io
non rappresento niente, ma tu, che ti credi di rappresentare?”.1
Ad Reinhardt, cartoon, 1945
Con una battuta che vale
un
saggio
critico,
Reinhardt non solo ci fa
capire che l’insignificanza, la deficienza di senso,
è divenuta una costante
che accomuna l’uomo ai
suoi artefatti, ma, ben di
piú, che questi ultimi
mostrano di avere un’autocoscienza e di essere in
grado di porre interrogativi a cui l’uomo non sa
rispondere. Qui occorre
fare attenzione alla situa-
127
Creazione contemporanea
zione comica inventata da Reinhardt: la cosa interessante non è che
un oggetto inanimato prenda la parola – nella tradizione mitologica
e nella storiografia artistica sono miriadi le statue che si animano,
gli animali parlanti, i ritratti che paiono vivi ecc. – no: l’interessante
è che a prendere la parola non sia questo o quell’oggetto della rappresentazione, per esempio un personaggio raffigurano nel quadro,
ma proprio il quadro in-sé, il quadro astratto che non rappresenta
nulla, in altri termini l’Arte stessa in prima persona. È come se l’Arte come forma storico-culturale iniziasse a parlare, ma, per farlo,
dovesse rinunciare a se stessa, dovesse perdere il proprio linguaggio
(rappresentativo), facendosi opposta a sé stessa e diventando da
rappresentativa astratta, da silente parlante, da Oggetto Soggetto,
da Arte-arte, arte-Non-arte.
Ancor meglio che nei “quadri neri” con cui l’artista americano
sperava di dire una parola ultimativa sull’arte, è proprio in vignette
come questa che emerge tutto il dramma di una società in cui l’identità dell’uomo e dei suoi prodotti è divenuta, da certa, problematica
e interrogante.
Il plusvalore immaginario dell’arte
come Henry Flynt per “Demolire la Cultura” di fronte a un tempio
dell’Arte come il MoMA di New York (1963), per quanto improbabili
nel loro stesso misero assetto – hanno invece avuto un impatto imprevisto persino per i loro piú accaniti fautori.
Art-Free
128
129
Che cos’è la non-arte? Per Croce, erano tutti quei momenti in cui
i grandi poeti teorizzavano, o moraleggiavano, o disquisivano di
scienza o filosofia e perdevano l’intuizione, sola e vera forma dell’arte, producendo qualcosa di lontano dall’arte, anche se di non completamente antiestetico, la non-arte o non-poesia.
Anche Duchamp diceva di non essere un anti-artista, come i vecchi dadaisti, ma un non-artista, perché l’anti-artista è come l’ateo che
nega dio perché sotto sotto ci crede ancora anche se a rovescio, mentre il non-artista non crede in niente – cioè non crede piú nell’Arte
con l’A maiuscola.2
Oggi tale Arte non esiste veramente piú e lo sviluppo dell’arte
contemporanea va di pari passo con la sua estraneazione nel mondo
reale. È arte pubblica, impegnata, realista, appropriazionista, televisiva ecc. Ma proprio quest’arte “negata”, resta ancora misteriosamente
arte. Perché?
Perché, come molte altre forme spirituali, anche l’arte è passata
dall’occupare un luogo simbolico, di legittimazione dei suoi prodotti
e dei suoi adepti, a un luogo immaginario, di rovesciamento e di
inversione del proprio fare. Se prima l’arte legittimava chi la faceva
come “artista” e ciò che veniva fatto come “arte” (di cui l’anti-arte era
la nemica, e la non-poesia in senso crociano la scoria), oggi non è piú
cosí. La lunghissima lotta intrapresa dalle avanguardie storiche prima
e poi da tutti i movimenti del dopoguerra, nessuno escluso, per cambiare la natura, l’essenza e il senso dell’arte, ha avuto finalmente successo. Le manifestazioni al limite del ridicolo di un artista fluxus
Henry Flynt, dimostrazione, MoMa, 1963
Le cose sono andate un po’ come per la Coca Cola: dopo tanti
anni di esaltazione pop, e dopo tante lotte per distruggerla, ossia
dopo la lotta fra la Coca Cola come simbolo del consumismo e l’antiCoca Cola (il rifiuto della bevanda per motivi ecologici, dietetici, o
ideologici), oggi abbiamo la non-Coca Cola, la Diet Coke, che è Coke
free, ossia abbiamo la parvenza pura senza l’essenza, abbiamo l’essenza nel suo stadio rovesciato, che appare come il contrario di sé stessa, e nondimeno resta se stessa nel proprio negarsi. Anzi, per precisare le cose, possiamo dire che, se all’inizio la Coca Cola era rappresentata in maniera simbolica proprio dalla sua caratteristica bottiglietta sinuosa, che era già una notevole estetizzazione della normale
bottiglia, oggi di quel contenitore non rimane che il puro calco
immaginario, dato che l’inconfondibile forma sinuosa è rimasta, ma
il vetro è stato sostituito dal piú ecologico – ma ahimè definitivamente “fasullo” – contenitore in polietilene. Un caso ancora piú recente
sarebbe poi l’iniziativa di un magnate arabo che ha deciso di immet-
Creazione contemporanea
130
tere sul mercato una Islam Cola, per combattere la bevanda prodotta
dal Grande Satana americano. Non è forse proprio questo il caso
che dimostra meglio la tesi? Lungi dall’abbattere la forza simbolica
della Coca Cola, la si accetta, la si “tiene” proprio nella sua stessa
negazione, e non è forse questo un evidente caso di Aufhebung (toglimento/mantenimento) dialettica?
Lo stesso esempio si può applicare all’arte, di cui quella contemporanea non rappresenta banalmente il pezzo storicamente “piú
recente”, ma la scrupolosa quanto totale ri-flessione dell’arte e della
sua storia su sé stessa. In sostanza, tutta la foga distruttiva nei confronti dell’arte esercitata precisamente da artisti e in definitiva dall’arte stessa, non significava veramente lo sbarazzarsi dell’ingombrante fardello di un’arte vecchia a favore di un’arte nuova, ma piuttosto ha avuto lo scopo di operare una transustanziazione del corpo
mistico dell’arte stessa, trasformandolo in essenza inversa di se
medesima. Un po’ come nel caso della Coca Cola islamica, la nonarte “tiene” l’essenza della cosa che intende sovvertire (l’Arte) proprio nel processo stesso del sovvertimento. Cosí come la Coca Cola, un
tempo chiaramente riconoscibile per logo, forma e contenuto, è
diventata disidentica da sé stessa (Diet Coke, Islam Cola) anche l’arte si è progressivamente disidentificata da sé stessa, è divenuta artfree, ma in piú ha fatto coincidere questo processo di disidentificazione con “l’ultima opera d’arte possibile”.
La non-arte che è derivata da questo processo storico non è dunque il frutto bastardo di un incrocio fra il mondo aulico dell’Arte e
quello spurio del mondo “là fuori”, ma è il distillato purissimo della
piú alta riflessione dell’arte su sé stessa. Va sottolineato che, a fronte
di tutti quelli che sostengono che l’oggetto dell’arte attuale è la confusione tra alto e basso, colto e popolare ecc., al contrario bisogna
riconoscere che la non-arte contemporanea non è semplicemente
un’opera di commistione fra generi diversi, ma uno sforzo immane e
reiterato di negarsi per comprendersi – sforzo compiuto alienandosi
da sé, utilizzando qualunque frammento di “mondo” (da uno scolabottiglie a una bottiglia, appunto, di Coca Cola) e dando come risultato una nuova, strana, contraddittoria sintesi.
Uno degli argomenti piú citati a questo proposito è, naturalmente,
preso dalle Lezioni di Estetica tenute da Hegel tra il 1817 e il 1829. Il
fatto è che, dice Hegel, “il pensiero e la riflessione hanno ormai sorpassato l’arte bella. Sono passati i bei giorni dell’arte greca”, perché la
nostra è una “cultura riflessiva” che “non è favorevole all’arte”. Di qui,
la famosa tesi hegeliana della “morte dell’arte”, nel senso di un tramonto inevitabile di una cosa che ha perduto “genuina verità e validità”. Ma, come sempre nella dialettica, la morte di una cosa significa,
insieme, nascita di qualcos’altro: “È per questo che nella nostra epoca
il bisogno della scienza dell’arte risulta superiore che nelle epoche in
cui l’arte garantiva già di per sé, come arte, un soddisfacimento pieno.
Il plusvalore immaginario dell’arte
L’arte ci invita a considerarla con il pensiero, e precisamente non al fine di
resuscitarla, ma di conoscerla scientificamente” (corsivo mio).3
Il punto di vista hegeliano è qui della massima importanza: non è
che l’arte scompaia e basta, essa piuttosto si tramuta in una riflessione
su sé stessa. Per capirla, dobbiamo rinunciare a qualsiasi approccio
ingenuo all’“opera” come tale; abbiamo invece la necessità di rielaborare teoreticamente l’arte, che altrimenti sarebbe indigeribile. Il fatto
che l’arte finisca col coincidere con la scienza dell’arte (beninteso,
“scienza” in senso hegeliano significa autocoscienza storico-filosofica)
apre le porte a una considerazione sub specie theoretica del fare arte, che
è sorprendentemente affine alla nozione di arte concettuale secondo
cui “l’arte è la definizione dell’arte” (questa la tesi di Joseph Kosuth
elaborata alla fine degli anni Sessanta).4 In altre parole, è proprio
Hegel il vero mandante di sicari come Flynt e Kosuth...5
Poiché come attività di produzione simbolica l’arte è terminata (o
sopravvive solo come arte naif), essa è costretta a divorare la propria
essenza. Nel momento in cui, con Duchamp, o forse molto prima, essa
ha coinciso con un atto intellettuale, ha firmato il proprio testamento,
ma si è anche rigenerata in questa strana cosa (il termine è chiaramente assunto dalla fantascienza) con cui oggi abbiamo a che fare.
Un esempio tratto dall’arte contemporanea piú recente chiarisce
le cose: in una sua celebre installazione Maurizio Cattelan ha esposto
un mimo travestito da Picasso (1997). Qui abbiamo tutti i termini
del problema esposti in modo paradigmatico: l’installazione è avvenuta davanti al MoMA, proprio come la protesta dei fluxus anni Sessanta, solo che, a differenza di quella, era commissionata esattamente
dal Museo! Il che dimostra come l’originario impeto negativo è divenuto l’essenza stessa del fare arte. In secondo luogo, qui abbiamo una
forma di “scienza dell’arte” in quanto arte, una riflessione dell’arte
sulla sua storia (Cattelan non fa altro che rifare non tanto l’opera,
quanto la figura storica di Picasso). Infine, questo rifacimento nega
nuovamente sé stesso, in quanto si tratta di una parodia: il mimo che
impersona Picasso indossa una testa gigantesca e sproporzionata,
che richiama apertamente le teste dei personaggi come Minnie o
Topolino che accolgono i visitatori a Disneyland (l’arte si serve del
non artistico al solo fine di riflettersi in sé).
Il risultato, diremmo con Hegel, lungi dall’essere quello di “resuscitare” l’arte, è qualcosa di diverso e di “peggio”, siamo cioè di fronte
non a un resuscitato ma a un morto vivente... Non è forse il caso qui
di parlare di una disidentificazione dell’arte da sé stessa, un processo
estremamente serio, che sarebbe sbagliato ridurre a una semplice
parodia? Il fatto che Cattelan abbia preso in considerazione proprio
Picasso non è un caso: Picasso è stato l’ultimo “artista” vero e proprio,
dopo di lui gli artisti provengono da ambiti diversi come la pubblicità
(Warhol), o la finanza (Jeff Koons), oppure fanno mestieri un tempo
incompatibili come il modello o il testimonial pubblicitario (Kosuth,
Cucchi), il regista di video (Damien Hirst) o di cinema (Julian Schna-
131
Creazione contemporanea
bel, David Salle). Tuttavia, il mito di Picasso va ben oltre la realtà storico-biografica del personaggio: il suo nome è un richiamo di sicuro
successo per mostre e aste, la sua firma è divenuta un vero e proprio
logo, sulle sue vicende di vita hanno fatto fortuna decine di biografi,
su di lui sono stati addirittura girati diversi film (come per esempio
quello di James Ivory del 1998). Insomma Picasso è un vero fenomeno
mediale che va anche oltre Picasso; Picasso è, ormai, insieme piú e
meno di sé stesso... Anche il museo di fronte a cui avviene l’evento è sí
un luogo sacro che dovrebbe consacrare gli artisti, invece di dissacrarli, ma occorre ricordare che anche i musei stanno subendo un analogo processo di disidentificazione, dato che smentiscono la loro sacralità e aprono le porte anche ai profani, e a non-artisti come per esempio importanti stilisti (si pensi alla grande retrospettiva dedicata a
Giorgio Armani dal Guggenheim di New York nel 2001).
R.S.I.
132
Davanti a una crisi di identità di simili proporzioni, è il caso di mettere l’arte sul lettino della psicoanalisi per capirne le ragioni, e impiegare gli assi di Reale, Simbolico e Immaginario inventati da uno psicoanalista “hegeliano” come Jacques Lacan, per definirne le pretese.
Secondo il celebre schema lacaniano le cose vanno in modo tale
che, quando il livello simbolico risulta minacciato nella sua autorità –
di cui esso è, per inciso, la sola fonte – gli altri due assi, il Reale e
l’Immaginario si contendono antagonisticamente il campo.
Il Reale sembrerebbe una bella cosa, una solida certezza, e invece
ha il difetto di essere privo di senso, di mancare, per cosí dire, a sé
stesso. Se un blocco di marmo aveva la possibilità di guadagnarsi il
suo statuto simbolico nel momento in cui la mano dell’artista (e dunque il sistema simbolico dell’Arte) ne redimeva la naturale difformità
in un’architettura di forme, oggi i barattoli del supermercato, i sassi
del fiume disposti in bell’ordine in galleria o le gigantesche lastre di
acciaio collocate nel museo, costituirebbero il Reale dell’arte, ma,
proprio in quanto tali risultano privi del minimo senso. Ne risultano
privi, almeno fino a che un’altra energia spirituale non si incarichi di
redimerne il non-senso.
Tale energia è precisamente l’Immaginario, la cui operazione è
però di natura assai piú ambigua di quella simbolica, perché, mentre quest’ultima risolveva la bruta materia, l’insignificanza e il concreto in una forma, in un significato, e in un ideale, la trasformazione immaginaria consiste in un esercizio riflessivo di legittimazione
contraddittoria.
La redenzione simbolica offriva un senso e un’identità all’opera e
a chi la faceva. L’energia vulcanica prendeva le forme di un dio che a
sua volta si incarnava in un rozzo fabbro; l’enigma della seduzione
prendeva le forme di Venere, che a sua volta si materializzava in una
Il plusvalore immaginario dell’arte
figura femminea armoniosa, plastica, chiaramente identificabile. La
trasformazione immaginaria invece lascia affiorare il Reale in tutto il
suo nonsenso, che si riflette contro di noi come il quadro di
Reinhardt nella sua vignetta. La non-arte non è il mondo della vita, o
la lotta contro il potere tradotto in belle immagini per le riviste tipo
“Artforum”. È e rimane arte, ma in modo doppiamente rovesciato:
identità di una forma spirituale guadagnata a forza di negazioni, intese insieme come momento dialettico di definizione reciproca. Definire ciò che è o ciò che non è arte, è non solo il compito, ma l’essenza
stessa dell’arte contemporanea in quanto arte-non-arte dei nostri
tempi, in quanto essenza due volte rovesciata – e pertanto vera.
Per tornare all’esempio del lavoro di Cattelan, è chiaro che la sua
performance non mira solo a demistificare il personaggio di Picasso,
ma costituisce una messa in questione dell’intero sistema dell’arte
come tale, dei suoi valori e dei suoi miti. Cattelan ci fa riflettere non
solo sull’esagerata deferenza verso Picasso come archetipo dell’artista
“totale”, ma anche sulla sua autentica identità. Picasso è una testa di
turco, è un fantoccio, Picasso è il nome di un’automobile della
Citroen, e via dicendo; Picasso non è meno disidentico da sé di quanto non lo sia Cattelan stesso, un artista che prima di diventare tale ha
esercitato ogni sorta di mestiere. Riflettere su questa disidentità è il
solo modo di fare arte oggi. Ma è anche chiaro che questo implica
che dalla certezza di creare un’opera simbolicamente efficiente si
passa a un registro di ambiguità immaginaria (e non a caso Cattelan
cita Disney, artefice esemplare dell’immaginario dispiegato).
Questo sussistere della contraddizione entro la cosa, e il suo reiterarsi senza risolversi, è ciò che si può definire il livello immaginario
dell’arte, o anche il suo statuto di doppia inversione, ossia di obversione
– non privo peraltro di un suo versante decisamente umoristico, come
dimostra una vignetta apparsa negli anni Novanta e che stigmatizza
assai bene in che cosa consiste, oggi, la sostanza negativa dell’arte…
Tale obversione dell’arte non è affatto casuale, ma va a inserirsi
nel progressivo divenir-obverso di tutte le forme spirituali della
società.
Biff, I want to be an artist!, “The Guardian”, 1997
133
Creazione contemporanea
Plusvalore e plusgodere
134
Se questa è la condizione attuale dell’arte, o meglio, dell’arte nonartistica, è lecito chiedersi quali siano le ricadute di questo stato di
cose in termini di valore, storico, culturale, ma anche mercantile,
delle opere che cosí vengono a prodursi.
Certamente questo problema era già ben chiaro a quegli artisti
che, primi fra tutti, si erano confrontati a fondo con il rovesciamento
dell’arte tradizionale come Duchamp, il quale, ben sapendo che le
proprie opere/operazioni erano di difficile valutazione (e quindi di
difficile commercializzazione), sosteneva di essere sopravvissuto economicamente vendendo le opere dell’amico scultore Brancusi.6
Infatti, se i ready made di Duchamp, e piú ancora le sue complesse
operazioni, come la fondazione della Société Anonyme (con Man
Ray e Katherine Dreier) sono a tutt’oggi soggette a valutazioni contrastanti, a chi verrebbe in mente di mettere in dubbio il valore artistico di un’opera come Uccello nello spazio del grande Constantin Brancusi? Eppure, in occasione di una mostra che Brancusi doveva tenere
a New York nell’ottobre 1926, gli ispettori della dogana americana
non riuscirono a “vedere il valore artistico di quella roba”, costringendo lo scultore a pagare il dazio del 40% come previsto per gli “oggetti
di uso commerciale” – il che diede poi origine a un processo intentato da “Brancusi contro gli Stati Uniti” al fine di dimostrare l’artisticità
delle proprie opere...7 Questa vicenda è particolarmente interessante
perché dimostra che lo statuto immaginario dell’arte è un fatto cosí
pervasivo da non risparmiare nemmeno gli artisti in apparenza piú
“tradizionali”, come appunto Brancusi.
Nel contesto di un’arte immaginaria è divenuto molto difficile stabilire il valore “reale” delle opere d’arte; nel contesto di una società
immaginaria è dunque diventato parallelamente molto difficile stabilire il valore “reale” delle cose. Questo a causa del fatto che il valore
non è mai banalmente “reale”, ma è simbolico. Ad avere veramente
valore infatti sono le cose – o le persone – predisposte a occupare un
ruolo simbolico, ossia strutturato all’interno di una Istituzione o un
Potere. Il valore puramente commerciale, o valore di scambio, deriva
dal valore simbolico. Anche l’oggetto piú brutalmente commerciale
del mondo, un grammo d’oro o un diamante, ha un valore economico infimo se non è inserito nella sua corretta collocazione simbolica,
come ben sanno i minatori zairesi o i garimpeiros sudamericani, che
estraggono queste materie preziose per pochi centesimi di dollaro.
Materie che possono viceversa diventare un bene valutatissimo se
entrano nel circuito del potere mercantile, come sanno altrettanto
bene i commercianti di materie preziose e i gioiellieri.
Già il regime economico del capitalismo classico è governato da
enti ben poco “reali”, o addirittura spettrali, che sono da un lato la
merce, che Marx chiama “arcano”, dall’altro il denaro, l’equivalente
generale che inverte tutto ciò che tocca, cioè l’elemento che, come
Il plusvalore immaginario dell’arte
spiega sempre Marx nei Manoscritti economico-filosofici del 1844, rende
“bello il brutto”, forte il debole, e via dicendo. Questo è il motivo che
spinge Marx a sostituire la nozione ingenua di valore con la nozione
riflessiva di plusvalore. Il senso della definizione marxiana di plusvalore nasce dal fatto che si passa dal valore d’uso (ciò a cui una cosa
serve, il suo uso sociale, quindi simbolico) al valore di scambio, disancorato da ogni riferimento all’aspetto concreto della cosa considerata. Il plusvalore evidenzia dunque l’intimo carattere immaginario del
capitalismo; tale carattere è però divenuto recentemente assai piú
visibile nel momento in cui si è transitati dal capitalismo delle merci a
quello che Jeremy Rifkin definisce “capitalismo culturale”.8
Ora, il capitalismo culturale non significa semplicemente che agli
antichi beni di consumo materiale si sono aggiunti dei beni di consumo immateriale (mobilità, sicurezza, intrattenimento ecc.); in effetti,
il capitalismo culturale è un regime economico in cui il plusvalore è
generato anche da percezioni, fenomeni, sensibilità di tipo estetico e
artistico. Ma, come abbiamo dimostrato sopra, l’arte è divenuta una
forma culturale immaginaria, dunque contraddittoria, che genera
plusvalori contraddittori... Non ci spinge tutto ciò a pensare che il
capitalismo culturale è un regime economico contraddittorio in-sé, il
momento di compiuta disidentificazione del capitalismo con sé stesso? Non è il capitalismo culturale un non-capitalismo, che resta sé
stesso tramite la propria negazione? Il secolo XX, che ha visto il crollo del valore simbolico dell’Arte, ha appunto visto anche scendere in
campo una nuova economia che si è incaricata di distruggere il valore mitologico del rassicurante fantasma paterno del Mercato. Basterebbe pensare alla recente parabola della new economy, che ha visto
valori economici di oggetti immateriali raggiungere vette di prezzo
straordinarie, e poi le ha viste decrescere di decine di volte nell’arco
di mesi, se non di giorni o di ore, per rendersi conto di cosa stiamo
dicendo (anche se in fondo un fenomeno analogo era già successo
guarda caso all’inizio del “secolo breve” con la crisi del ’29).
Tutte queste realtà sono, da questo punto di vista, da psicoanalizzare nel momento in cui hanno cominciato a comportarsi patologicamente contro sé stesse. A questo proposito può essere utile rileggere
la nozione marxista di plusvalore in associazione al concetto lacaniano di plus-godere (plus de jouir), ossia il paradossale godere di nulla
sotto le sembianze di qualcosa.
Il plusgodere, segnalerebbe cioè, non soltanto il passaggio dal valore d’uso al valore di scambio (anche libidinale), ma il passaggio dal
valore come fatto simbolico, ben fondato su un parametro di riferimento (in economia il Mercato, nella libido il Superego) al plusvalore
come fatto immaginario, fondato sulla propria costante inversione. In
tal senso la distanza tra valore e plusvalore è simile a quella tra il piacere e
il godimento: quest’ultimo, implica che anche cose spiacevoli o dolorose
provochino godimento, o viceversa che cose piacevoli si rivelino invece
tutt’altro che “godibili”. Nel campo del piacere, come si sa, ognuno è
135
Creazione contemporanea
136
padrone: ciò che a me piace può non piacere a un altro; nel caso del
godimento, ciò che non piace a me, è anche, contemporaneamente ciò
che mi piace; a me medesimo, la medesima cosa, piace e insieme non
piace. Cosí, se possiamo dire che il piacere è simbolico (come il Valore) perché distintivo, dobbiamo aggiungere che il (plus)godimento
(come il plusvalore) è immaginario, perché paradossale.
Lo stesso ragionamento va applicato alla non-arte: essa, essendo
un approfondimento e una espressione della propria essenza rovesciata, una inversione perenne della propria identità, è ormai un
fenomeno che pertiene all’immaginario ed è quindi fonte non di
valori, ma di plusvalori, e non di piacere, ma di plusgodere.
Sono anzi proprio le stesse forme di arte basate sull’annientamento
o il dispendio, come l’arte concettuale o la body art, a rivelare la strutturazione immaginaria della società in cui si trovano a esistere. Non
solo l’arte del corpo si rivela sempre di piú un’arte del corpo “ripreso”, ossia una video-arte del corpo, mediatizzato e trasferito in fiction di
sé stesso – come testimonia il fatto che nella prima edizione (2000) del
piú seguito programma televisivo, Grande Fratello, i componenti della
“casa”, ripresi 24 ore su 24, si siano lanciati in un sorprendente
remake delle celebri Anthropométrie di Yves Klein – ma anche l’arte del
concetto si presta a trasformare l’idea immateriale in oggetto-concetto, come prova il fatto che uno dei grandi protagonisti del Concettuale come Joseph Kosuth abbia firmato per un’azienda come Illy Caffè
una serie di tazzine ispirate al suo tema del Modus Operandi.
Il prodotto televisivo reality show, le tazzine d’artista Illy, le azioni
di società che producono beni immateriali, la Diet Coke, sono
altrettanti casi di una merce paradossale, il cui valore non è dato
certo dall’uso, ma nemmeno dallo scambio, quanto dal loro contraddittorio statuto estetico.9
È ridicolo dire che il valore dell’arte non esista piú tout-court,
perché insieme a essa sono caduti
i valori che ne sostenevano l’esistenza, ma d’altra parte è anche
patetico sostenere che tali valori
siano ora sostituiti dal “mercato”
– perché questo modo di pensare
tradisce una fiducia inconscia nel
fatto che, da qualche parte, quei
valori esistano ancora, e quel
“mercato” ancora ci sia – come se
non fosse già assai chiaro che l’unico parametro è il successo
mediale (ossia immaginario) e
d’altra parte come se non si
sapesse che il “mercato” è già esso
stesso un fatto mediale (ossia
Kosuth testimonial della campagna Illy caffè, 1999
Il plusvalore immaginario dell’arte
immaginario), e specialmente quello dell’arte contemporanea, dove
anche i valori d’asta sono spesso motivati da reazioni emotive o dalla
visibilità di questo o quell’artista, ed è quindi strettamente interdipendente dalla pubblicità delle gallerie e dai budget museali dedicati agli
“uffici stampa” e alle “comunicazioni”. Ancora una volta, dunque, è
assai coerente con questo contesto il comportamento di un artista
come il già citato Cattelan che, invitato per la prima volta nella sua
carriera alla Biennale di Venezia, vendette letteralmente lo spazio assegnatogli dal curatore a una agenzia pubblicitaria, intitolando l’opera
Lavorare è un brutto mestiere (1993).
Senza attribuire alcun intento polemico, e nemmeno ironico, a
queste osservazioni, occorre tuttavia notare come anche tutti questi
piccoli sintomi stiano a indicare non tanto una progressiva “mercificazione” dell’arte, quanto il suo slittare all’interno di una piú grande
strutturazione immaginaria che impregna di sé lo stesso ambito un
tempo rigidamente “commerciale”. In altre parole, le tazzine di
Kosuth non sono esattamente un’opera d’arte, e nemmeno un’operazione di puro business, ma sono una terza cosa ancora – sono cioè già
pronte per invadere i gift shop dei grandi musei, ossia i luoghi dove
vengono vendute e acquistate le tipiche “merci” del capitalismo culturale; pezzi di immaginario concretizzato, come il Picasso disneyano di
Cattelan e la sua opera d’arte-pubblicità.
Ma non era poi questo il destino che alcuni artisti si erano già sforzati di indicare? Non era il troppo citato Warhol a dire che “art is business”? E che cosa intendeva dire se non che reciprocamente, “business
is art”, ossia che il fare affari, in una società mediale, è veramente un’arte allargata, una nuova definizione di arte? E non è forse in questo
perenne allargamento-inversione della definizione di una cosa (l’“arte”)
che noi cerchiamo e troviamo il nostro plusgodere immaginario?
1
2
3
4
5
La vignetta è riprodotta e commentata in Godfrey,
Tony, Conceptual Art, Phaidon, London 1998.
Gough-Cooper, Jennifer e Caumont, Jacques (a
cura di), Effemeridi su e intorno a Marcel Duchamp
e Rrose Sélavy, (catalogo della mostra, Venezia,
Palazzo Grassi) Fabbri-Bompiani, Milano 1993.
Hegel, George W.F., Estetica, trad. it. a cura di
Nicolao Merker, Einaudi, Torino 1976, 2 voll., vol.
I, p. 64.
Cfr. Kosuth, Joseph, L’arte dopo la filosofia,
Costa&Nolan, Genova 1987; la dichiarazione di
Kosuth è del 1969.
Sul rapporto Hegel-Duchamp-arte concettuale cfr.
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8
9
le straordinarie intuizioni di Migliorini, Ermanno,
La rosa di Kant, Aesthetica, Palermo 1992.
“... nessuno sa come vivessi. Potrei dirvi che ho
venduto dei Brancusi…”; cit. in Partouche, Marc,
Marcel Duchamp, Images en Manoeuvres Editions,
Marseille 1991, p. 80.
La vicenda è raccontata in Hulten, Pontus, Dumitrescu, Natalia, e Istrati, Alexandre, Brancusi,
Mondadori, Milano 1986.
Rifkin, Jeremy, L’era dell’accesso, Mondadori,
Milano 2000.
Cfr. Senaldi, Marco, Enjoy! Il godimento estetico,
Meltemi, Roma 2003, parte IV.
137
LA POLITICA DELLE ISTITUZIONI
Programmi, progetti, milieu: problemi aperti nel sostegno
della creazione contemporanea in Europa
Luca Dal Pozzolo
Il tema del finanziamento e del sostegno alla cultura e alla creazione contemporanea è ampiamente dibattuto ed è al centro delle problematiche connesse al disegno delle politiche culturali o, ancora, della
ricerca d’interazioni tra attività artistica e dinamiche sociali e territoriali. Tuttavia l’impatto territoriale, e non solo economico di tali azioni,
l’intreccio tra arte, cultura, creazione contemporanea e sviluppo locale
merita un’attenzione particolare per almeno due ordini di motivi:
i temi dello sviluppo locale vengono sempre piú considerati come
centrali per l’azione politica e amministrativa delle comunità locali: si
fa strada il concetto di una domanda locale che agisce come leva in
un processo bottom-up verso scenari d’azione condivisi dalla collettività. In questo quadro, il ruolo della cultura nel “tenere insieme”, nel
produrre visioni partecipate, diviene una risorsa importante, capace
di connettere differenti settori e attori economici e sociali attorno a
valori condivisibili;
mentre le risorse destinate al settore culturale vivono nella maggior parte dei contesti europei una fase di stagnazione se non di
recessione, le risorse destinate a programmi di sviluppo si situano su
soglie dimensionali assai piú elevate, tali da interessare attraverso
azioni intersettoriali anche la cultura: l’aggancio delle politiche culturali con le politiche di sviluppo economico e sociale rappresenta
un’importante opportunità per il settore culturale.
Diviene quindi interessante esaminare le azioni e le politiche culturali messe in campo per analizzare il rapporto con la dimensione
territoriale, gli effetti riscontrabili in una geografia locale, i possibili
contributi di cultura e creazione contemporanea alle dinamiche di
sviluppo sociale ed economico.
In Europa l’insieme dei programmi e delle azioni ai differenti livelli istituzionali – comunitario, nazionale, regionale, locale – compone
un ventaglio di strumentazioni assai vasto e articolato. In estrema sintesi è possibile individuare almeno cinque diverse “famiglie” di programmi o azioni di sostegno alla cultura e alla creazione artistica.
Famiglia n. 1: sostegno diretto agli artisti
Gli artisti vengono finanziati per periodi piú o meno lunghi – in
alcuni casi agli esordi, in altri alla fine della carriera, o sostenuti
all’interno di specifici progetti o programmi: il finanziamento consente a un certo numero di artisti di esercitare la propria attività e
di incrementare il reddito complessivo a livelli comparabili ai compensi ottenuti esercitando altre attività professionali. Questo tipo di
azioni può allargarsi al sostegno pensionistico e all’ottenimento di
garanzie sociali.
141
Creazione contemporanea
Famiglia n. 2: azioni di regolazione-sostegno del mercato e della domanda
Rientrano qui molteplici azioni volte a regolamentare e/o ad
allargare la domanda di arte e cultura. Dalle politiche di tutela dei
diritti d’autore, all’incentivazione della domanda attraverso politiche
di informazione/formazione, alle commesse pubbliche; queste ultime, specialmente in presenza di processi di rigenerazione urbana,
rappresentano un mercato consistente per l’azione di particolari
categorie di artisti.
Altre azioni, inoltre, si situano in un territorio molto prossimo alla
famiglia precedente, quali per esempio le politiche di concorsi e
premi, che possono essere lette anche come diretto sostegno all’artista e alla creazione culturale. Anche i programmi di ospitalità degli
artisti in apposite residenze e di mobilità intervengono con un duplice effetto, di incentivazione della domanda e di sostegno diretto
all’attività del singolo artista.
142
Famiglia n. 3: finanziamento e sostegno di istituzioni culturali
L’intervento pubblico e/o privato sostiene l’attività corrente di istituzioni culturali che non potrebbero reperire fondi sufficienti attraverso l’attività commerciale: dallo spettacolo dal vivo ai musei si tratta
di una delle forme piú diffuse di sostegno della cultura e della creazione artistica. Si traduce, di fatto, in un intervento volto a contenere il
prezzo al pubblico delle attività entro margini accettabili, o perlomeno ad aumentare l’accessibilità economica alle attività culturali.
Famiglia n. 4: finanziamento di progetti singoli
Siano essi proposti da un solo soggetto o da una rete di operatori
e di istituzioni – come prevede per esempio il programma europeo
Cultura 2000 – il centro d’interesse è un progetto singolo dalle
dimensioni e dalla durata determinata: viene di norma valutato in
base a criteri di coerenza interna, in funzione dell’affidabilità dei soggetti proponenti nonché a considerazioni piú o meno cogenti sul
rapporto costi/benefici.
Famiglia n. 5: finanziamento delle infrastrutture culturali
Gli edifici, le infrastrutture culturali sono al centro dell’attenzione, dal livello macro di rilevanza urbana e territoriale (spazi d’incontro, sedi museali, teatri in connessione con i tessuti edilizi urbani), al
livello micro, focalizzato su interventi circoscritti come le case per
artisti, singoli spazi espositivi. In alcuni casi l’infrastruttura culturale
è una delle destinazioni previste in un determinato contesto, all’interno di un piú complessivo progetto di trasformazione/rigenerazione urbana che rappresenta il motore dell’intera operazione. Il
restauro-riuso di edifici e contenitori per destinazioni culturali in
alcuni casi è finanziato attraverso i Fondi Strutturali dell’Unione
europea: l’obiettivo in questo caso è rappresentato dall’impatto economico e occupazionale del progetto realizzato.
Programmi, progetti, milieu
Dall’analisi per queste cinque famiglie del rapporto con le politiche di sviluppo territoriale (anche se questo schema opera drastiche
riduzioni e non rappresenta una catalogazione esaustiva) emerge
come le prime due – sostegno diretto agli artisti e azioni di regolazione/sostegno del mercato e della domanda – rappresentino classici
strumenti d’azione settoriale, debolmente connessi a fattori territorialmente determinati. Il primo caso, tipico dei Paesi Nordici, mira alla
tutela dell’artista singolo come risorsa da sostenere per opera della
collettività, in modo indipendente dal contesto: eventuali effetti territoriali non rientrano nell’impianto strutturale di tali politiche. Nel
secondo caso invece, implicazioni territoriali emergono prevalentemente nelle scelte delle committenze pubbliche, nelle politiche di formazione/informazione, anche se in alcuni casi appare dominante l’interesse settoriale, il sostegno alla produzione culturale come attività da
incentivare, al di là dei suoi impatti. L’attenzione e la relazione al territorio come stimolo alla produzione, come soggetto di possibile elaborazione artistica, si evidenzia invece nei programmi di mobilità e
residenzialità degli artisti che coinvolgono in non pochi casi ambiti e
territori extra-urbani.
Anche il terzo caso, ovvero il finanziamento e il sostegno di istituzioni culturali, si riferisce a una politica di allocazione di risorse propria del settore culturale. In diversi contesti, tuttavia, emergono connessioni forti con politiche di marketing territoriale, intersezioni con
il turismo o con politiche di rigenerazione urbana. La spinta a creare
sistemi di beni culturali e musei, cosí come il tentativo di legare contesti territoriali e festival, per citare due esempi, vanno nella direzione
di inserire nella negoziazione delle risorse destinate alle attività culturali l’attenzione per l’emergenza di effetti sistema a livello territoriale.
In altri termini, alle istituzioni culturali viene chiesto di rappresentare
il territorio sui cui insistono, di cooperare per un’attrattività complessiva nella quale emergano le peculiarità dei sistemi culturali come elemento di connotazione forte del sistema-città o sistema-territorio.
Nel quarto caso, ovvero finanziamento di progetti singoli, la
dimensione sociale e territoriale viene spesso implicata dall’insieme
dei risultati attesi sui quali esercitare la valutazione ex post. In questi
ultimi anni l’indirizzo verso forme di co-finanziamento da parte di
piú attori sia pubblici che privati, promosso in primo luogo dai programmi europei, ma comune a tutti i livelli istituzionali, ha spinto
verso una convergenza dei criteri di valutazione, presi in gran parte a
prestito da altri settori economici e dall’economia privata. Efficacia,
efficienza, impatto economico, costi-benefici, divengono concetti
chiave anche per i progetti culturali, come effetto di una latent policy,
di spostamento di paradigmi verso una valutazione economica propria di altri contesti produttivi.
La misurazione degli impatti porta in evidenza la dimensione
sociale e territoriale, come sfondo su cui riscontrare i risultati ottenuti. Ciò comporta tuttavia un duplice rischio:
143
Creazione contemporanea
una sovra-valutazione delle attese, con una conseguente difficoltà
di misurazione a consuntivo degli impatti: è noto come spesso le attività culturali abbiano impatti economici modesti in rapporto ad altri
settori di attività;
una finalizzazione e/o una valutazione del progetto culturale
solo in base a criteri altri rispetto ai suoi contenuti, con la conseguente deformazione dell’ottica valutativa, quando non dello stesso
progetto: tutto ciò comporta l’emergere di critiche dall’interno del
settore sull’uso strumentale delle attività culturali per fini lontani
dalla sfera artistica.
144
Ciò non significa l’assenza di progetti che mettano al centro dell’attenzione la produzione culturale artistica in rapporto alle dinamiche territoriali e sociali specifiche, ma solo che in un rilevante
numero di casi l’ambito territoriale e sociale gioca, piú o meno strumentalmente, il ruolo di un liquido di contrasto per consentire una
valutazione ex post.
È comunque nel quinto caso, finanziamento delle infrastrutture
culturali, che la dimensione territoriale emerge con forza, a volte
con elementi di gigantismo propri dei grandi eventi – è il caso di
Barcellona in cui i cantieri per il Forum 2004 completano il ridisegno urbano iniziato per le Olimpiadi – ma anche di altre realtà, fatte
le debite proporzioni: si pensi al caso degli investimenti in strutture
per la cultura di Newcastle-Gateshead, alle politiche dei restauri in
Piemonte con l’utilizzo dei Fondi Strutturali per la Reggia della
Venaria, agli investimenti che affrontano le città “capitali della cultura”. Elementi di gigantismo trovano, peraltro, spazi simmetrici anche
nel settore privato e dell’arte contemporanea, come ben testimonia
il caso del circuito Guggenheim.
Policy di scala diversa possono infine mettere a disposizione sedi
adeguate per l’attività artistica a costi contenuti – è stato il caso di
Rotterdam nel recupero delle zone portuali dimesse, o delle strutture
nate per ospitare l’attività di gruppi di artisti come la Cable Factory a
Helsinki e le case degli artisti nate negli ultimi anni.
Non v’è dubbio che vi sia, in questi casi, un’attenzione alla costruzione di un’infrastruttura culturale che contribuisca a un piú generale sviluppo economico e sociale del territorio. Emergono, non di
rado in questi casi, problematiche relative alla sostenibilità degli investimenti: finito lo sforzo eccezionale della costruzione, il mantenimento ordinario delle strutture e dei loro costi di gestione rischia di
essere spesso surdimensionato rispetto alla componente economica
delle attività culturali e creative.
Si evidenzia infine un rischio legato a un’eccessiva “istituzionalizzazione” delle sedi costruite ad hoc dall’Ente pubblico, che può tradursi in un ostacolo all’appropriazione e all’uso da parte di alcune
comunità di artisti, che preferiscono l’occupazione di altri spazi
non “offerti” all’amministrazione pubblica.
Programmi, progetti, milieu
All’interno di questa veloce disamina sintetica dei diversi “tipi”
d’intervento a favore della cultura e della creazione artistica si evidenziano due interessanti problematiche di fondo:
nella maggior parte dei casi la presenza dell’ente pubblico, anche
se spesso accompagnato da altri attori, imprime ai processi una
cadenza e un’articolazione temporale propria dei tempi della politica, laddove per loro natura gli investimenti culturali sono lenti nell’evidenziare effetti e ritorni. Ciò si traduce in una difficoltà di valutazione sul breve periodo e in una disattenzione per la valutazione
degli effetti sul lungo periodo;
la gran parte delle azioni e degli strumenti si applica efficacemente laddove esista un milieu culturale attivo, capace di cogliere le
opportunità messe a disposizione attraverso le differenti policy. Per
contro, pochi strumenti appaiono efficaci nel contribuire a formare
il milieu culturale, a incentivare in un processo bottom-up la creazione
di risorse culturali.
La prima problematica apre a un’esigenza di continuità nel sostegno alla cultura, ben al di là degli orizzonti temporali della politica e
dei singoli progetti, congruente con le reali necessità di sostenere
processi culturali di lungo respiro. In questo quadro, il terzo settore e
le Fondazioni in particolare, attraverso i propri programmi d’azione,
potrebbero giocare un ruolo di grande importanza nello smarcarsi
dal calendario cogente della politica e della valutazione singola, progetto per progetto.
La seconda questione pone invece il problema di come s’intervenga per sviluppare e mantenere un milieu culturale. È un problema
essenziale, soprattutto dal punto di vista dello sviluppo locale, laddove nei territori caratterizzati da fenomeni di degrado economico e
sociale è spesso problematico reperire risorse culturali, operatori di
riferimento, attività da sviluppare.
In questa direzione si vanno sviluppando soprattutto per opera di
alcune Fondazioni programmi destinati a riannodare il filo tra comunità locali, produzione artistica, identità dei luoghi che fanno intravedere un approccio piú complesso e processuale allo sviluppo alla crescita e al mantenimento delle risorse culturali: Nouveax Commanditaires concepito e promosso in Francia da Fondation de France e adottato per l’Italia dalla Fondazione Adriano Olivetti, che pone al centro
dell’attenzione l’assunzione di responsabilità di una comunità locale
nel divenire committente di opere d’arte; Art for Social Change promosso dall’European Cultural Foundation in collaborazione con le
Fondazioni Soros dei diversi Paesi Baltici e dell’Est che sostiene progetti innovativi di artisti impegnati a un lavoro di creazione partecipata in aree con forti problematiche sociali. TRANS:it Moving Culture
through Europe promosso dalla Fondazione Adriano Olivetti, European Cultural Foundation, Evens Foundation, Fondation de France,
SMART Project Space, che favorisce l’interscambio e il confronto tra
145
Creazione contemporanea
gruppi di artisti impegnati in territori e ambienti sociali caratterizzati
da fenomeni di marginalità e interessati a uno sviluppo di progetti
multi e interculturali.
Si tratta di una nuova generazione di programmi, che pone tra
l’altro il problema di una valutazione complessa dei risultati e delle
dinamiche innescate, che può contribuire a illuminare uno dei nodi
di piú difficile intervento, ovvero l’individuazione di politiche e azioni atte a generare e rigenerare in specifici territori un capitale culturale e umano capace di tradursi in milieu creativo, tessuto di produzione e ri-produzione delle creatività artistica.
146
Le istituzioni pubbliche e l’arte contemporanea in Italia
Pio Baldi
In considerazione del riconosciuto significato del patrimonio storico artistico del nostro Paese, la politica di tutela dei beni culturali, fin
dalla fine dell’Ottocento ha intrapreso uno sviluppo costante verso
un’azione di protezione e conservazione. Dagli iniziali concetti di “bellezza naturale” della legge 1089 del 1939 alle dinamiche vigenti di tutela e promozione, articolate secondo competenze differenziate tra
Stato, nella cura dell’interesse nazionale e di Regioni, Province ed Enti
autonomi, per la salvaguardia degli interessi locali, è stato possibile
garantire all’illustre storia del nostro Paese un apparato tecnico amministrativo istituzionale adeguato. Ma la storia non si ferma e se l’Italia
dei secoli passati fu culla di raffinate civilizzazioni, parte indispensabile
dello sviluppo della cultura artistica e scientifica del pensiero occidentale, oggi, è con grande consapevolezza che va analizzata e curata l’espressione della creatività del presente. Il peso di un celebre passato
non può essere un ostacolo al presente, piuttosto una garanzia, una
vocazione a rappresentarne la continuità e la giusta prosecuzione.
Il Testo Unico del 1999 riunisce, riordina e rinnova tutta la giurisdizione vigente in merito ai beni culturali ma già nel 1998 la legge
368 di riforma del Ministero per i beni e le attività culturali contiene la previsione di istituire una nuova Direzione generale che dia
voce all’architettura e all’arte contemporanea. Con il decreto di istituzione della stessa, nel maggio del 2001, il Dicastero ha allargato le
proprie competenze e ridisegnato i ruoli istituzionali rispetto a
nuove importanti consapevolezze accertate. Sono proprio le opere
di autori viventi o eseguite da meno di cinquant’anni, oggetto di
competenza residuale secondo la legge del 1939, a divenire ora
“beni” centrali rispetto alla nuova normativa che istituisce questa
Direzione e la corrispondente missione, conferendo al contemporaneo pari dignità rispetto alla grande tradizione del passato. Si tratta
inoltre di inserire l’architettura contemporanea tra le arti e i prodotti piú significativi della cultura del nostro Paese, costruendo possibilità teoriche e che siano presupposto alla qualità dell’invenzione
architettonica, anche e soprattutto in rapporto all’importanza del
patrimonio storico esistente.
Occuparsi del presente implica e comporta la imprescindibile difficoltà di affrontare il tema del giudizio di valore di un’opera d’arte,
prima ancora che la patina brandiana del tempo e la storia stessa
depositino il valore di testimonianza su di essa. Il giudizio di valore
sul contemporaneo certamente è piú complessa riflessione d’equilibrio tra istanza estetica e istanza storica. La ricerca, l’analisi e la valutazione del contemporaneo deve portare in sé la consapevolezza di
lavorare con delle opere vive, ancora aperte, poiché strettamente
legate all’autorità dell’“artista-autore” che può decidere dei propri
147
Creazione contemporanea
148
lavori fino al momento della loro concreta cessione al sistema dell’arte, o piú specificamente all’inserimento dell’oggetto d’arte nel mercato che ne fissa effettivamente in qualche modo l’immagine.
Il ruolo che ci si prefigge e che spetta alla Direzione non è, e non
vuole essere, quello di capacità assoluta di indirizzo e controllo, piuttosto, di stimolo e attivazione dei processi che conducono alla produzione di qualità. Partendo proprio dalla principale caratteristica delle
arti contemporanee come ambito aperto: la forma di promozione e
incremento non può che riguardare la commissione stessa di nuove
opere. Solo attraverso procedimenti di selezione di artisti e progetti,
tale produzione appare stimolata e orientata non secondo un modello dato ma con spirito democratico in senso lato. Attivare i processi di
produzione significa, infatti, inserirsi nel sistema che coinvolge attori
multipli e complessi quali committenti, artisti e critici per quanto
riguarda il circuito dell’arte e ancora committenti, progettisti e l’industria di realizzazione e finitura vera e propria per l’architettura. Lo
stimolo al confronto, il dibattito, la ricerca e la sperimentazione misurano l’indice della qualità auspicabile.
È possibile cosí individuare degli ambiti attraverso i quali, le azioni di tutela, promozione e valorizzazione delle arti contemporanee
prendono forma, ambiti di collaborazione e comune impegno con le
soprintendenze e gli istituti centrali.
Il Centro per la documentazione e valorizzazione delle Arti Contemporanee, oggi MAXXI – Museo nazionale delle Arti del XXI secolo – istituito con la legge 237/99, con la specifica missione di promuovere l’arte e l’architettura del XXI secolo, si costituisce come
nuova importante realtà operante sul territorio nazionale. La nascita
e lo sviluppo di questa istituzione si intreccia con la realizzazione del
proprio patrimonio soprattutto attraverso un ruolo attivo nelle creazione, nella ricerca e nello studio. La costituzione del patrimonio di
una collezione è certamente la conditio sine qua non della strutturazione di un Museo, ma in questo caso specifico esprime anche la possibilità di avere un ruolo attivo nella creazione, nella ricerca e nello studio dell’oggetto contemporaneo, di inserirsi e giocare un ruolo attivo
nel complesso sistema del contemporaneo.
Non escludendo le tradizionali possibilità di ottenere donazioni e
depositi a lungo termine, basandosi su modalità ordinarie di incremento del patrimonio pubblico, quali una osservata politica di acquisizioni, la collezione del MAXXI si svilupperà anche attraverso ciò che
produce, poiché è impossibile promuovere la qualità del contemporaneo senza attivarne la produzione. Qualità ricercata con specifica
attenzione al rapporto con il territorio nel quale il Museo nasce e si
sviluppa, all’importante tradizione della cultura del nostro Paese,
anche e soprattutto nei confronti di un’apertura al confronto fertile
verso le diverse espressioni artistiche, all’interno del dibattito contemporaneo internazionale. È da considerarsi un’occasione inestimabile
per restituire una forte connotazione culturale, derivante proprio
Le istituzioni pubbliche e l’arte contemporanea in Italia
dalla presenza del MAXXI in Italia, rispetto a temi di serrata attualità.
La Galleria Nazionale d’Arte Moderna, unica Soprintendenza
competente sul contemporaneo sino all’istituzione di questa Direzione, ha svolto e svolge un ruolo attivo nel progetto per la nascita e lo
sviluppo del MAXXI. Come già molti esempi di musei storici europei,
la Galleria ha previsto un ampliamento fisico dei propri spazi progettato dallo Studio Diener & Diener, una firma importante dell’architettura di questo secolo, ribadendo il tema dell’incontro tra arte e
architettura contemporanea. Ma ancora piú importante è l’impegno
coordinato con la Darc per la concretizzazione di una ripresa attività
di acquisizioni, ferma dagli anni Settanta, fatta eccezione per le
opere della Transavanguardia.
In tal senso la definizione dei confini tra le due Istituzioni, seppure
in una prospettiva di reciproco scambio e integrazione, ha determinato la definizione stessa delle linee guida per i rispettivi progetti di
incremento del patrimonio pubblico: le collezioni della Galleria tendono a chiudersi con la scadenza del XX secolo, proprio dove il
MAXXI ha già intrapreso la sua attività di collezione attraverso l’acquisizione, ma soprattutto la promozione, la produzione e la conservazione dell’azione artistica del XXI secolo.
Nell’avvio di questa attività Il Premio della Giovane Arte Italiana,
giunto alla sua seconda edizione, pronto a rinnovarsi nel biennio
2004/2005, partecipa in maniera rilevante alla costituzione della collezione del MAXXI. In occasione del concorso, solo considerandone
l’ultima edizione, sono state esaminate piú di quattrocento opere di
giovani artisti, rappresentativi del tessuto artistico italiano. I quattro
finalisti, hanno esposto le loro opere presso il Padiglione Venezia in
occasione della 50a Biennale Internazionale d’Arte di Venezia. Vetrina di grande prestigio, che ha designato l’artista vincitore, secondo il
giudizio della giuria tecnica e che ha dato voce al pubblico visitante
attraverso un’ulteriore possibilità di votazione.
Sono piú di venti le opere dei finalisti di entrambe le edizioni del
Premio, che, progettate appositamente per il futuro Museo, significano proprio la produzione dei primi quattro anni del XXI secolo.
Secondo medesimi principi, altri concorsi hanno contribuito alla
costituzione del patrimonio dell’attività degli architetti italiani di questo secolo, che hanno delineato le linee di sviluppo dell’architettura
moderna nel nostro Paese e in Europa, garantendone la conservazione e la divulgazione. Piú di cinquecento fotografie di autori italiani
che hanno riflettuto sul tema del paesaggio e del territorio sono cosí
entrate in collezione a seguito del concorso Atlante italiano 003, ritratto dell’Italia che cambia. Si tratta di immagini in grado di fissare lo
sguardo dei trenta artisti coinvolti, sulla realtà hic et nunc. Per il
MAXXI architettura, inoltre, la DARC ha acquisito tre archivi storici
di architetti del Novecento di fama internazionale: Carlo Scarpa,
Aldo Rossi ed Enrico Del Debbio. Materiali cospicui, di varia natura:
dai bozzetti alle foto ai plastici di studio, da catalogare, conservare e
149
Creazione contemporanea
150
rendere fruibili secondo criteri museografici per questa specifica
occasione, approfonditi e sperimentati.
Le risorse utilizzabili per provvedere agli adempimenti fin qui illustrati sono messe a disposizione, in primis, dal Piano per l’arte contemporanea, istituito con la legge n. 29 del 3 febbraio 2001, adottato già nel
2002, in prima applicazione con carattere sperimentale e attualmente
vigente, per il secondo anno, con il decreto ministeriale di adozione
del 29 maggio 2003. Tale strumento, elaborato e gestito dalla DARC,
consente il perseguimento degli specifici obiettivi illustrati, attraverso
quote di finanziamento stabilite rispetto ad assi d’intervento quali
l’acquisizione, la committenza, i concorsi e i premi di promozione
che prevedano l’acquisizione delle opere vincitrici e tutte le attività
propedeutiche e di gestione del piano stesso. Nel rispetto del principio di trasparenza, sono enunciati i criteri secondo i quali le proposte
avanzate, in riferimento all’incremento del patrimonio pubblico, ma
anche alle attività di promozione ipotizzate secondo le formule del
concorso e della committenza, saranno valutate. Un Comitato tecnico-scientifico, di prossimo insediamento, sulla base di tali criteri, congiuntamente al rispetto delle priorità annuali del Piano stesso, formulerà i pareri sulle opportunità delle proposte, fissandone anche le
priorità. Secondo una disposizione transitoria, fino all’atto della concreta costituzione del Comitato tecnico-scientifico, a farne le veci è la
Commissione nominata dallo scrivente.
La gestione del Piano ha garantito un notevole sviluppo delle politiche di settore, ribadendone il ruolo cruciale nei confronti della
nostra cultura. Tra i primi istituti periferici ad avvalersi della possibilità di avviare procedure di acquisizioni, oltre al MAXXI e alla Galleria nazionale d’Arte moderna, si distinguono l’Istituto nazionale per
la Grafica, la Soprintendenza per i beni storico-artistici e demoetnoantropologici di Bologna e il Polo museale napoletano. Inoltre,
per la Pinacoteca di Brera lo strumento dell’acquisizione ha consentito di recuperare un soffitto di Lucio Fontana realizzato per un hotel
dell’isola d’Elba, che diventerà parte integrante della struttura espositiva di Palazzo Citterio.
Il carattere sperimentale dell’applicazione del primo anno del
Piano prevedeva la maturazione delle condizioni che consentissero
l’attuazione di una strategia concordata con i livelli gestionali locali.
Il Patto per l’Arte Contemporanea è lo strumento per questa promozione delle politiche concordate tra Stato, Regioni, Province ed Enti
locali al fine di facilitare la crescita integrata di un sistema nazionale
della contemporaneità. All’interno stesso del Piano del 2003, il Patto
concretizza la volontà delle amministrazioni pubbliche di tutti i
diversi livelli gestionali di promuovere, nello specifico campo della
cultura artistica di questo secolo, politiche preventivamente concordate. Lo sviluppo del sistema, di una rete che coniughi i musei statali
con le istituzioni già operanti da anni e quelle piú recenti, espressioni anche di realtà decentrate, nella “illuminata” consapevolezza della
Le istituzioni pubbliche e l’arte contemporanea in Italia
necessaria programmatica integrazione. Gli strumenti di pianificazione saranno portatori di obiettivi e azioni integrate secondo le
medesime priorità. In questo senso, come espressione dell’indagine
aperta sul campo rispetto a tutte le realtà del territorio, si colloca lo
studio di ricerca per I luoghi del contemporaneo, la presentazione della
prima tappa di questo lavoro è stata perciò legata proprio all’atto di
presentazione ufficiale del Patto, alla presenza del Ministro. Questa
pubblicazione, nella sua prima uscita, che si replicherà con scadenze
annuali, non ha la pretesa di considerarsi un regesto esaustivo, piuttosto ne va considerata la forza di impegno coordinato per la formazione del “sistema” del contemporaneo, già esplicitamente delineato. Sono le peculiarità stesse del tema affrontato a dettare le condizioni di studio. Rispetto alle tradizionali competenze di tutela e conservazione, i luoghi deputati a ospitare e ancor prima a promuovere
la creatività di oggi si scoprono in una vastità di possibili combinazioni e nel coinvolgimento di una pluralità di soggetti e istituzioni. Dai
musei intesi nel senso piú tradizionale sino alle associazioni, le fondazioni e le imprese, rappresentanti di un variegato settore privato
che partecipa con forza e capacità al sostegno del contemporaneo.
Senza dimenticare l’interessante e quanto mai fertile connubio tra
importanti spazi storici, testimonianza e contenitori essi stessi del
patrimonio storico culturale nazionale e la piú stringente produzione delle arti del presente.
151
Politiche della contemporaneità: due progetti della Regione Toscana
Lanfranco Binni
Poiché la “cultura” è un diritto di cittadinanza ed è compito di un
governo regionale garantire questo diritto a tutte e a tutti indipendentemente dal sesso, dall’età e dalla provenienza, dal 1999 la Regione Toscana sta intervenendo attraverso un progetto “interculturale” –
Porto Franco. Toscana, terra dei popoli e delle culture – dal cui processo si è
sviluppata nel 2002, tra l’altro, una radicale reimpostazione degli
interventi regionali sul terreno dell’“arte contemporanea”.
Porto Franco. Toscana, terra dei popoli e delle culture
Perché nel 1999 abbiamo nominato la Toscana “porto franco di
popoli e culture”? Perché, forte della sua grande tradizione storica e
culturale di continue interazioni con culture “altre”, dall’antichità
classica al Medioevo, dal Rinascimento all’Età Moderna, la Toscana ha
scelto di confrontarsi consapevolmente e attivamente con la complessità dell’attuale fase della “globalizzazione” economica e dei fenomeni
migratori che ne sono in gran parte conseguenza. A una globalizzazione esclusivamente finanziaria e devastante per il Sud del mondo opponiamo un’altra globalizzazione, fondata sullo sviluppo delle potenzialità della specie umana. E sul terreno complesso del multiculturalismo
intendiamo sviluppare processi attivi di valorizzazione delle differenze, perché anche la diversità è un diritto di cittadinanza.
Attraverso il progetto di iniziativa regionale Porto Franco abbiamo
avviato un ampio processo di trasformazione culturale e politica della
società toscana, trasversale alla pubblica amministrazione e alla
“società civile”. Abbiamo iniziato, nel 1999, con una narrazione, un
manifesto, nel quale abbiamo proposto l’universo di discorso dell’idea
progettuale: lessico, concetti, campi semantici. Nel manifesto di Porto
Franco (25 aprile 1999) abbiamo rappresentato una Toscana a misura
di diritti di cittadinanza, da costruire attraverso lo sviluppo di pratiche
interculturali consapevoli e quotidiane. Il campo semantico dell’“intercultura” è stato individuato in tre assi tematici centrali: il confronto di
genere tra donne e uomini in una società maschile, con l’obiettivo di
incidere sulla “microfisica del potere” nelle relazioni interpersonali e
sul generale assetto dei poteri nella società toscana; l’incontro e il confronto tra “generazioni”, tra giovani e anziani, per ricostruire un tessuto sociale lacerato; l’incontro e il confronto tra “nativi” e “migranti”,
per opporre attivamente nuove relazioni sociali, in sviluppo, ai veleni
della xenofobia, del razzismo e della chiusura identitaria.
Come trasformare l’idea progettuale in processo reale? Innanzitutto riconoscendo e rafforzando le esperienze interculturali che nei
diversi ambiti della società toscana si stavano sviluppando da alcuni
153
Creazione contemporanea
154
decenni, soprattutto nella scuola per iniziativa delle/degli insegnanti,
nel mondo dell’associazionismo culturale e sociale, nelle politiche
culturali e sociali di molti Comuni. Abbiamo iniziato a costruire un
programma integrato di iniziative di ogni genere, dallo spettacolo
alla didattica interculturale, presentato attraverso un calendario 1999
di oltre settecento iniziative sull’intero territorio regionale. Contemporaneamente abbiamo avviato la costruzione di una rete di “centri
interculturali” (ventinove nel 1999, dopo una fase di sperimentazione
in dieci situazioni, una per Provincia), nominando “centri” quelle
situazioni (generalmente associazioni) che sviluppavano attività rilevanti nei loro territori o su scala regionale. E abbiamo stabilito relazioni di stretta collaborazione fra i centri e i rispettivi Comuni, sulla
base di protocolli di intesa. Nel marzo 2000 una legge regionale,
“Interventi finalizzati allo sviluppo di strategie interculturali in Toscana”, ha definito l’architettura istituzionale della rete di Porto Franco.
Sulla base della nuova legge, il finanziamento regionale del progetto, che nel 1999 era stato di 129 mila Euro ovvero 250 milioni di lire, nel
2000 saliva a 929 mila Euro pari a 1.800 milioni di lire, testimoniando il
rapido sviluppo del processo in corso. Sul tessuto di base dell’intensa
attività dei primi centri interculturali, nell’estate del 2000 la Regione ha
organizzato e guidato un primo momento di produzione teorica a sviluppo delle tematiche generali del progetto: cinque “campus” internazionali, con la partecipazione di circa centocinquanta esperte ed esperti
da tutto il mondo, hanno attraversato per circa un mese il territorio
toscano, lavorando all’interno del campus e incontrandosi con situazioni territoriali (associazioni, comuni ecc.) nel corso del viaggio. I cinque
campus, dedicati tematicamente alle culture della parola e della scrittura, alle culture della storia e della memoria, alle culture delle donne,
alle culture dell’abitare, alle culture delle religioni, hanno prodotto
materiali di elaborazione teorica di grande rilevanza. Per fare un solo
esempio, il campus sulle culture dell’abitare ha prodotto una Carta della
progettazione interculturale che è poi diventata uno strumento di orientamento della pubblica amministrazione per le politiche del territorio.
Nel 2001, lo sviluppo del processo ha seguito due percorsi principali: il consolidamento e il rafforzamento della rete dei centri interculturali attraverso coordinamenti territoriali di area gestiti da Comuni capofila e sulla base di programmi integrati di attività (che abbiamo definito
“cantieri aperti” e hanno realizzato piú di mille iniziative nel corso dell’anno); la produzione di strumenti di informazione e formazione per
la rete, su iniziativa della segreteria regionale del progetto (un sito web,
il potenziamento della collana editoriale “Quaderni di Porto Franco”,
del “Giornale di Porto Franco”, dei “Video di Porto Franco”).
Nel 2002 la rete degli ormai quasi cento centri interculturali ha
cominciato a essere coordinata in ogni territorio provinciale dalle
dieci Province (Assessorati alla cultura, generalmente in collaborazione con gli Assessorati all’istruzione e alle politiche sociali). Con questo passaggio, l’architettura istituzionale del progetto ha trovato la
Politiche della contemporaneità: due progetti della Regione Toscana
sua forma attuale: in ogni Provincia, i tavoli di coordinamento provinciali – dei quali fanno parte i centri interculturali e i Comuni nel
cui territorio si svolgono le loro attività – iniziano a svolgere funzioni
di programmazione, perseguendo l’obiettivo di rendere stabili, quotidiane e trasversali le pratiche interculturali. Perché l’“intercultura” è
un approccio culturale complessivo e trasversale a ogni aspetto della
società, dalle relazioni interpersonali agli assetti di potere. Su questo
tessuto di attività territoriali ordinarie, riconosciute nella loro centralità e sostenute dal governo regionale e dai diversi livelli della pubblica amministrazione toscana, attraverso piani finanziari che vedono
quote crescenti di cofinanziamento da parte delle Province e dei
Comuni, la Regione inserisce programmi speciali di rilevanza nazionale e internazionale, che naturalmente prevedono una loro interazione con le attività territoriali.
Nel marzo 2002, a Firenze, Porto Franco ha organizzato un incontro tra rappresentanti politici palestinesi e israeliani che ha prodotto
una Carta di Firenze per la pace tra Israele e la Palestina. Costruisci la pace!
Ferma la violenza! Basta con l’occupazione!, a sostegno del processo di
pace; sulla base dei contenuti di quella Carta nel 2003 Porto Franco
ha coprodotto con la Biennale di Venezia il progetto artistico SN Stateless Nation di Sandi Hilal e Alessandro Petti, trasferito poi a Prato
nel mese di novembre all’interno del programma Palestinesi. Senza
Stato una Nazione, un mese di iniziative (cinema, arti visive, presentazioni di libri, incontri) promosso da Porto Franco in città e nello spazio dei Cantieri Culturali ex-Macelli. In generale, le iniziative promosse direttamente dalla Regione innescano processi a sviluppo
internazionale (collegamenti, relazioni, scambi) e territoriale (qualificazione delle iniziative). Contemporaneamente, infatti, le iniziative
dedicate al processo di pace in Palestina rientrano nella strategia di
costruzione di un “Istituto regionale Toscana/Orienti”, fortemente
centrato sulla contemporaneità delle relazioni tra la Toscana e “gli
Orienti”, progettato e organizzato da Porto Franco.
A quattro anni dalla proposta dell’idea progettuale della Toscana
“porto franco di popoli e culture”, il processo che si è sviluppato attraverso l’intensa partecipazione delle istituzioni e della “società civile” ci
permette di compiere un’ulteriore evoluzione. Poiché le tematiche
generali del confronto interculturale e il riconoscimento del valore
della differenza sono entrati a far parte di una cultura condivisa (un
dato sociologico eloquente: a fronte di un incremento sensibile della
popolazione immigrata, negli ultimi tre anni non si sono verificati in
Toscana episodi consistenti di razzismo e xenofobia), è oggi possibile
sviluppare il progetto in direzione della moltiplicazione di situazioni
esperienziali in cui la relazione “interculturale” si risolva in pratiche
concrete di sviluppo delle potenzialità umane; insomma, passare dalle
macro-tematiche del confronto interculturale alle esperienze concrete
di trasformazione delle relazioni interpersonali, “faccia a faccia”, all’interno della popolazione che vive in Toscana. Questo significa, per
155
Creazione contemporanea
esempio, coinvolgere nelle esperienze di confronto di genere, patrimonio esperienziale e teorico del femminismo e del post-femminismo,
anche settori di popolazione maschile, con l’obiettivo di individuare
strategie per incidere realmente sugli assetti di potere nella società.
TRA ART: rete regionale per l’arte contemporanea
156
Nel corso del 2002, dalla progettualità di Porto Franco si è sviluppata – tra l’altro – la reimpostazione dell’intervento della Regione
Toscana sul terreno dell’arte contemporanea, dopo anni di generico
avvicinamento alle specificità del “fare arte contemporanea”. I linguaggi dell’arte contemporanea infatti, anche in Toscana, trovano
oggi un loro naturale retroterra in una concezione della cultura
come campo dinamico, in continua trasformazione, di un pensiero
critico mobile, nomade, multidimensionale, aperto ai movimenti
della contemporaneità. Anche in questo caso abbiamo sviluppato un
processo sulla base di una narrazione, una sorta di manifesto concettuale che ci permettesse di avviare relazioni di confronto e complicità
con le situazioni piú attive in Toscana sul terreno del “fare arte contemporanea”, per affiancare all’attuale sistema privato dell’arte un
forte intervento pubblico capace di garantire al territorio toscano
strutture, esperienze e strumenti per costruire una rete policentrica
centrata sugli artisti di ogni generazione e sostenuta dalla pubblica
amministrazione; perché, lo diciamo in maniera provocatoria per
farci capire piú velocemente, anche l’arte contemporanea è un diritto di cittadinanza ed è compito del governo regionale garantire a
ogni territorio opportunità per “fare arte”.
In questo primo anno del progetto abbiamo cominciato a costruire le prime condizioni per una “rete regionale per l’arte contemporanea”: l’idea progettuale della rete (a superamento di una precedente impostazione che privilegiava in maniera quasi esclusiva alcuni “poli di eccellenza” dell’area metropolitana Firenze-Prato-Pistoia)
è stata ampiamente discussa con i diversi attori del sistema dell’arte,
esistente e potenziale; con alcune situazioni progettualmente complici abbiamo iniziato a sperimentare “cantieri d’arte” centrati sulla
poetica di uno o piú artisti (Remo Salvadori a San Quirico d’Orcia,
Marco Bagnoli a Empoli, Alberto Moretti a Carmignano) e “spazi”
interdisciplinari aperti soprattutto ai giovani artisti (che stiamo individuando in collaborazione con i Comuni e le Province; alcuni esempi tra i molti, i Cantieri Culturali ex-Macelli a Prato, la galleria Kore
a Vicchio, Fuori Centro a Livorno). Contemporaneamente abbiamo
sostenuto e potenziato quegli “eventi” territoriali che coinvolgono
direttamente aree vaste (da Ar te all’Ar te nel Chianti senese a
Networking che si sta espandendo su scala regionale).
Con le Province abbiamo avviato la costruzione di un sistema
informativo regionale sull’arte contemporanea che confluisce in un
Politiche della contemporaneità: due progetti della Regione Toscana
portale interattivo on-line (www.cultura.toscana.it.artecontemporanea), strumento di informazione e promozione delle esperienze in
corso. Direttamente, la Regione gestisce la collana editoriale “TRA
ART strumenti”, iniziative di formazione (seminari, incontri sulle
diverse tematiche dell’arte contemporanea), e interviene per inserire la rete regionale toscana nelle reti nazionali e internazionale.
Nella rete regionale vengono infine a svolgere un ruolo importante i
tre centri maggiori per l’arte contemporanea, il Museo Pecci di
Prato, il Palazzo delle Papesse a Siena, Palazzo Fabroni a Pistoia, con
i quali la Regione stabilisce e stabilirà accordi di collaborazione funzionali allo sviluppo della rete regionale.
In conclusione, la scelta della contemporaneità, rielaborando continuamente le esperienze del passato sul piano della ricerca, della conoscenza e della produzione culturale, sta orientando – ormai senza
incertezze – la politica culturale della Regione Toscana. Decostruendo
lo stereotipo insostenibile del presunto conservatorismo di una società
toscana prigioniera delle sue grandi tradizioni, la tendenza generale in
ogni ambito della cultura toscana è a un confronto alto e diffuso con le
grandi sfide del nostro tempo: la globalizzazione, la costruzione di
un’Europa dei diritti e delle culture, lo sviluppo delle potenzialità
umane. Sulla base di questa scelta radicale di contemporaneità è possibile sviluppare “poetiche” pubbliche capaci di comprendere la multidimensionalità dei territori, della storia e delle culture, e capaci soprattutto di vivere le trasformazioni dall’interno della loro complessità.
TRA ART, progetto grafico C.D.&V. Firenze
art director: Marco Capaccioli
PORTO FRANCO, progetto grafico C.D.&V. Firenze
art director: Marco Capaccioli
157
La periferia romana e nuovi scenari d’arte
Mirella Di Giovine
Dal 2001 Roma, per la prima volta nella sua storia amministrativa
e politica, ha una postazione fissa dedicata alle periferie. Il Comune
di Roma ha creato infatti un Assessorato e un Dipartimento dedicato
specificamente al recupero e allo sviluppo delle periferie. È stata una
scelta determinata dall’esigenza di cambiare rotta, di restituire centralità ai quartieri piú lontani, di rifondare nell’immaginario collettivo il rapporto centro-periferie da molti ritenuto compromesso, di
superare la contrapposizione dentro – fuori, per parlare della città
nel suo insieme.
Per questo, nell’ambito del Convegno internazionale Al centro le
periferie tenutosi nel quartiere periferico di Corviale nell’aprile 2002,
abbiamo proposto una nuovo percorso per affrontare le problematiche delle periferie romane, che si pone l’obiettivo di superare la città
intesa solo come il luogo fisico centrale, ma che vede nelle aree piú
esterne e marginali il vero futuro, le energie della città, intesa come
luogo di relazioni e di identità.
Per sottolineare questa lettura abbiamo organizzato, in occasione
di tale convegno, anche una mostra fotografica di Tano D’Amico
sulle periferie romane. E non a caso questa mostra si è tenuta ai Mercati di Traiano, nel cuore dell’antica Roma. Storia, archeologia, paesaggio dell’agro, cultura, umanità, movimenti erano lí a raccontare le
nostre periferie, situazioni fra loro profondamente differenti e che
rappresentano una sorprendente contaminazione sociale e culturale
di cui le fotografie di Tano D’Amico sono testimonianza inequivoca-
anno?
Il teatro all’aperto di Corviale, foto di Tano D’Amico
159
Creazione contemporanea
bile. Una periferia senza volti, senza persone, senza proteste, non
risponderebbe a ciò che noi intendiamo per periferia. Non restituirebbe la carica vitale, l’immagine vera dei nostri quartieri. E chi
meglio di Tano D’Amico poteva essere fedele interprete di una visione umano-centrica delle nostre periferie. Ogni politica, di riqualificazione o di recupero ci sembra richieda che si parta dalle persone,
dalla loro vita, dai loro bisogni e dai loro diritti.
Arte e architettura nei programmi per le trasformazioni urbane
160
Il progetto dell’Amministrazione per le periferie romane non si
limita a intervenire per riqualificare bensí a intervenire per valorizzare
e recuperare restituendo dignità, memoria, spazio creativo a luoghi e
persone. Il lavoro sviluppato dal Dipartimento per il Recupero e lo Sviluppo delle Periferie, per affrontare problematiche e disagi della periferia, affronta la ricerca di sinergie possibili fra arte e architettura, tra
linguaggio creativo e organizzazione fisica dello spazio urbano e del
paesaggio ponendo i cittadini – “gli attori sociali” della città – quali soggetti determinanti di questo percorso. Il nostro obiettivo è che i nostri
programmi e progetti siano partecipati ai cittadini in tutte le loro fasi.
In tal senso l’Atlante delle Periferie, documento di lavoro che
individua su immagini da satellite le azioni e gli interventi del Comune di Roma nelle aree periferiche della città, rappresenta uno degli
strumenti finalizzati al conseguimento di questo obiettivo.
Riteniamo che occorra impegnarsi su questo fronte sviluppando
alcuni progetti sperimentali per affrontare percorsi di recupero e
riqualificazione che considerino la città, e non solo i luoghi centrali,
come luogo del pensiero creativo. Nel processo di trasformazione urbana
non si può escludere l’arte, la creatività, la cultura. Cultura e arte
fatte non solo di eventi, ma soprattutto di progetti strutturati e permanenti nel tempo. La gente ha voglia di partecipare, non di essere
soggetto passivo di grandi eventi culturali.
Uno dei tanti sintomi di questo processo è rappresentato, per esempio, dal successo delle manifestazioni che abbiamo organizzato in periferia nelle estati 2001 e 2002: Cinema di Raccordo e Di scena la periferia. Si
è trattato di vere e proprie carovane di cinema, musica e teatro itineranti con spettacoli gratuiti che hanno invaso le principali piazze, parchi e spazi delle periferie romane con sistemi di coinvolgimento dei cittadini nei luoghi che a essi appartengono. La cultura con l’arte devono
spostarsi dai luoghi centrali verso le periferie, luoghi di inaspettate
risorse e creatività per verificarne potenzialità e processi di identità.
È importante affidare anche all’arte il processo di riqualificazione
urbana che si sta attuando in periferia in quanto si avverte un malessere urbano che sembra derivare da un progressiva perdita dell’identità
storica e ambientale dei luoghi, da uno squilibrato rapporto dei cittadini con la natura, da un’accelerazione fortissima dei processi di tra-
La periferia romana e nuovi scenari d’arte
sformazione urbana, da un’incapacità al riconoscimento e valorizzazione delle nuove identità e delle nuove espressioni di aggregazione culturale e urbana che determina confusione e difficoltà per i cittadini.
Il rapporto tra la città e i cittadini che la vivono nelle aree piú
marginali deve farsi piú vasto e creativo, utilizzare nuovi scenari,
nuove potenzialità. È quello che abbiamo sperimentato per esempio
con la realizzazione del progetto Sonicity: architetti del suono compositori del luogo realizzato dall’associazione moorroom a Corviale nell’ottobre 2002. Tema di questa sperimentazione era proprio quello di
sviluppare tutte le relazioni esistenti tra suono, arte visiva e architettura all’interno di uno specifico contesto urbano. Un workshop con
gli studenti del Centro di Formazione Professionale di Corviale che
si è concluso con la realizzazione di un documentario, e il coinvolgimento degli abitanti del quartiere, sono stati premessa indispensabile dell’evento finale che ha fornito l’occasione per riflettere sul
luogo Corviale. L’allestimento delle opere all’interno dell’edificio,
frutto di varie sperimentazioni visuali (fotografie e video) e musica
elettronica ha dato modo ai suoi abitanti e a coloro che a Corviale si
recavano appositamente per questa iniziativa, di rileggere in maniera diversa uno dei luoghi “simbolo” della periferia romana caratterizzato da problematiche condizioni abitative e sociali.
Con l’attivazione di iniziative per l’occupazione (l’Incubatore di
Impresa), interventi di trasformazione di alcuni edifici, nuove funzioni sociali e culturali (le attività della biblioteca) e iniziative culturali,
Corviale inizia oggi a rappresentare una inversione di tendenza nel
rapporto tra città e periferia.
Ma la vera inversione di segno parte in primo luogo dalla rilettura
delle radici della storia del territorio, del suo modo di essere oggi e di
essere stato per innescare un riordino urbano in grado di recuperare
e mantenere quelle peculiarità che caratterizzano l’effetto città come
luogo delle comunità. Parte anche certamente dalla comprensione di
nuove realtà culturali e aggregazioni sociali, delle nuove energie che
si esprimono e che oggi sono presenti nei contesti urbani delle agglomerazioni della periferia (culture diverse, problemi di lavoro e rapporti interpersonali, problemi di esclusione sociale).
Natura e storia: il paesaggio urbano
Natura e storia costituiscono valori forti e omogenei nella città di
Roma, anche nel territorio piú esterno della periferia e consentono
di individuare un obiettivo generale: misurare qualitativamente e
quantitativamente lo sviluppo e le trasformazioni urbane sull’integrità fisica e la salvaguardia dell’integrità culturale del territorio.
In base alla nostra conoscenza sembra necessario, per riqualificare
la periferia, superare la logica della città come contrapposizione tra
centro e periferia, lavorare sul dialogo fra storia e natura della città
161
Creazione contemporanea
nel suo complesso, sul paesaggio in continuo cambiamento, sui rapporti fra i cittadini e i luoghi, sui processi di identità urbana. Si tratta
di tracciare un percorso di interventi che intende valorizzare lo stretto intreccio fra la storia della città e la natura, i lembi residui cosí
significativi della campagna romana e la storia di relazioni sociali oggi
presente in quelle aree marginali: valorizzare il paesaggio urbano che
questi aspetti determinano e renderlo percepibile come risorsa.
In questo contesto si pone il nostro programma: Paesaggi della periferia teso a valorizzare aree archeologiche e naturalistiche in periferia
oggi scarsamente conosciute e fruite. Intervenire in queste aree che
sono al confine fra costruito e aree agricole costituisce un punto di
partenza per lavorare sull’equilibrio fra città e ambiente naturale. I
paesaggi romani piú significativi, testimonianza di beni archeologici
del “suburbio di Roma Antica”, le presenze naturali condizioni in
buone o degradate, i luoghi dove la natura si associa a preesistenze
storico ambientali, possono diventare il fulcro di un nuovo processo
di trasformazione e di rigenerazione del territorio, a garanzia dei
flussi biologici delle città e di qualità della vita.
La città come luogo del pensiero creativo
162
Stiamo tentando di individuare in aree semi-centrali e periferiche
un insieme di luoghi che attraverso l’arte possono essere valorizzati
e/o trasformati in veri e propri “centri” di identità non soltanto in
senso geografico, ma soprattutto in quanto luoghi urbani la cui riqualificazione può innescare processi di rivitalizzazione sociale e culturale. Si tratta di comprendere e sviluppare la memoria dei luoghi, la
loro identità storica e sociale anche attraverso l’espressione della carica sociale, delle potenzialità che essi esprimono e l’uso di linguaggi
creativi. Segno e luogo dovranno interagire per riqualificare, per leggere identità e potenzialità.
Per considerare la città nel suo insieme come luogo del pensiero creativo dell’arte, è necessario un approccio nuovo: l’arte esce dai musei
per cimentarsi in opere di trasformazione pubbliche, ma soprattutto
tiene conto di nuova realtà, di nuovi attori sociali, dei luoghi dell’ordinario dove si svolge la vita di tanti di noi. In questo percorso l’arte
costituisce uno dei linguaggi indispensabili per la definizione di nuovi
scenari urbani. Con questa convinzione, infatti, i nostri programmi
prevedono per molti interventi di riqualificazione iniziative che utilizzano linguaggi artistici differenti, che lavorano sul paesaggio urbano.
Ci siamo ispirati, per questo, anche all’esperienza realizzata in questi ultimi anni in Olanda, illustrata in una mostra tenutasi a Roma nel
gennaio 2002 (presso la sala San Giovanni e con un convegno all’ex
Mattatoio), che si è proposta di esplorare il rapporto tra architettura e
arte attraverso il paesaggio olandese contemporaneo, documentando
questo nuovo “secolo d’oro” dei Paesi Bassi dell’arte diffusa nel conte-
La periferia romana e nuovi scenari d’arte
sto urbano. Nell’attivare un dialogo misto tra architetti, teorici dell’architettura e artisti, l’iniziativa ha messo a confronto gruppi di teorici
d’architettura, gli studi di architetti come Monolab Architects e West 8
e gli artisti Jeroen Kooijmans/Roy Cerpac, Rob Johannesma ed Edwin
Zwakman, creando intrecci espressivi fra discipline.
Progetti d’arte per ambiti da trasformare
In questa direzione si muovono interessanti iniziative come quelle sperimentate a Torino dalla Fondazione Adriano Olivetti, avviate
proprio in quartieri periferici e impostate su percorsi partecipativi
con il coinvolgimento diretto dei cittadini e un completo ribaltamento dei soggetti della committenza. Il modello Nuovi Committenti,
introdotto in Italia proprio dalla Fondazione Adriano Olivetti, finalizzato alla creazione di opere d’arte commissionate dai cittadini o
associazioni nei luoghi di vita e di lavoro dei committenti stessi, è
un modello innovativo per la produzione di arte pubblica che offre
un fertile terreno di lavoro, a cui stiamo guardando con grande
interesse. La Fondazione Adriano Olivetti sta costruendo a Roma
con questa filosofia, con il nostro Dipartimento, un progetto sperimentale che riguarda le trasformazioni previste nel quartiere di
Corviale con il Programma di Recupero Urbano e che costituirà un
laboratorio d’arte permanente basato sulla committenza e il coinvolgimento dei cittadini, collegato al Laboratorio territoriale attivato dal Dipartimento.
In questo scenario, che tende a scavalcare le divisioni tra le diverse
discipline creative e concentrarsi sul paesaggio urbano, sulla città
Acquedotto Felice, foto di Tano D’Amico, 1969
163
Creazione contemporanea
come luogo creativo, si pone la decisione di attivare un progetto d’arte da integrare con la sistemazione architettonica di un luogo simbolico, chiamato “Collina della Pace”. L’area è situata nella Borgata
Finocchio, nell’area di abusivismo edilizio (VIII Municipio) lungo
l’asse della Via Casilina, patrimonio confiscato alla mafia e riconsegnato all’uso pubblico per finalità sociali. Tale progetto, che si intende realizzare con artisti di fama, dovrà integrarsi strettamente con le
scelte architettoniche e sarà definito attraverso una stretta collaborazione tra cittadini e gli artisti coinvolti.
Inoltre, nell’ambito dei progetti di riqualificazione di vari luoghi
pubblici, in particolare piazze e parchi, stiamo prevedendo l’attivazione di concorsi di idee per artisti in cui l’obiettivo del progetto d’arte
è la caratterizzazione e la definizione della identità dell’area nel
rispetto dei valori, delle dinamiche sociali e delle peculiarità del
luogo. Il bando previsto dispone, nella sua prima fase, una selezione
delle idee migliori proposte da artisti, provenienti da tutti i Paesi
della Comunità Europea. Inoltre, attraverso un percorso partecipativo dei cittadini, specificamente individuato nel bando, il concorso stabilisce una stretta integrazione tra cittadini, architetti e artisti impegnati nella trasformazione urbana dell’area.
164
Politiche pubbliche e processi artistici: il caso Zingonia
Antonella Annecchiarico
Esiste in Italia una committenza fuori dei mercati dell’arte? In
quale misura il settore pubblico può definirsi promotore di operazioni artistiche e culturali? Quali sono attualmente gli strumenti normativi che possono favorire il consolidarsi di processi culturali in ambito
pubblico? Sulla base dell’esperienza del Progetto Zingonia e dell’osservazione di alcuni progetti simili, questo saggio si prefigge di offrire
un primo approccio alle tematiche collegate all’utilizzo di risorse culturali nell’ambito di programmi della pubblica amministrazione.
Non abbiamo modo di analizzare adeguatamente gli ampi strumenti normativi, frutto di stratificazione fra disciplina comunitaria,
nazionale, regionale e prassi. Quello che ci appare piú urgente è definire un clima, un ambito di indagine, dei segnali interpretativi delle
nuove architetture istituzionali.
Processi culturali in ambito pubblico
La riflessione sul sistema pubblico in Italia si può arricchire del
contributo che sta apportando un settore della ricerca artistica contemporanea. Un contributo spesso silenzioso, sotterraneo, non ancora pienamente riconosciuto, ma sempre piú produttore di valore e di
senso. Non sembra che al momento il pubblico abbia piena consapevolezza del dibattito in corso e dell’opportunità che una rinnovata
attenzione verso l’esperienza amministrativa potrebbe apportare alla
costruzione di un nuovo sistema di governance, anche alla luce del
dibattito in corso sulle architetture istituzionali. Questa mancanza di
consapevolezza e di progettazione da parte delle amministrazioni, a
fronte di un dinamismo evidente nella ricerca artistica, costituisce
una peculiarità della situazione italiana.
Generalmente sono le politiche culturali che determinano, o
quanto meno, contribuiscono alla nascita e al consolidarsi dei fenomeni artistici e culturali. Nello specifico italiano, pratiche e progetti,
sviluppati in situazioni diverse da artisti e piú spesso da gruppi multidisciplinari, talvolta in collaborazione con enti locali o nell’ambito di
programmi comunitari, hanno richiamato l’attenzione di alcuni studiosi contribuendo a definire e a fare emergere un settore della ricerca che si riferisce sempre piú alla sfera pubblica.
L’analisi delle esperienze in corso e la riflessione sui possibili sviluppi di una nuova forma di ricerca piú attenta ai contesti e ai territori, parte da una premessa fondamentale: lo sguardo pubblico (sia in
ambito amministrativo, sia specificamente in quello culturale) nasce
in maniera autonoma, laterale, al di fuori dei due grandi sistemi,
quello del mercato dell’arte e quello delle politiche culturali.
165
Creazione contemporanea
166
Un campo di autonomia foriero di energie, di sfide, di input, di
esperienze pilota, che spesso nascono e si alimentano in contesti
decentrati, in microcosmi rappresentativi nei territori attuali,1 dove l’occhio dell’artista si confronta con i mutamenti di territori sempre piú
osmotici e complessi. Spesso entra in contatto con gli amministratori
locali e in generale con un composito sistema decentrato, sempre piú
responsabile e interprete in prima istanza delle domande della collettività e responsabile dello sviluppo sociale ed economico.
L’esperienza artistica si caratterizza per la sperimentazione di
forme di ricerca legate all’uso di approcci interdisciplinari rivolti a
indagare le dimensioni territoriali, sociali e relazionali. Se negli ultimi decenni si è assistito a una chiusura del mondo della cultura nell’ambito del proprio sistema e delle proprie regole, ultimamente vi è
una rinnovata attenzione verso meccanismi che regolano il composito corpo sociale. Ciò costituisce un elemento di novità e una chance
per il sistema istituzionale italiano: l’impegno sociale non si definisce
come rottura, ma come decodificazione e proposta, anche attraverso
una chiara richiesta di collaborazione.
L’interesse per le operazioni artistiche in ambito pubblico si è
concentrata, dunque, sull’aspetto relazionale, dal dialogo interculturale (Progetto Zingonia), alle indagini indiziarie nell’ambito dell’urbanità contemporanea (Multiplicity),2 ai processi collettivi (Artway of
thinking)3 piuttosto che sull’elemento statico dell’opus o del monumento nel territorio.
Non a caso. Il monumento viene ancora oggi finanziato dalla legge
717/49 che riserva una percentuale pari almeno al 2% del valore di
un’opera pubblica alla realizzazione di un’opera d’arte. 4 La legge,
che in alcune regioni è stata oggetto di una sua specifica disciplina,5
non ha trovato un campo di applicazione significativo, probabilmente perché legata a un approccio decorativo dell’opera e a una eccessiva burocratizzazione nella composizione delle commissioni. La normativa in oggetto stabilisce che la scelta degli artisti è effettuata, con
procedura concorsuale, da una commissione composta dal rappresentante della stazione appaltante, dal progettista della costruzione,
dal soprintendente per i beni storici e artistici competente e da artisti
di “chiara fama” nominati dall’amministrazione. La composizione
delle commissioni ci fa capire il destino che è stato riservato all’applicazione della normativa. Restano inoltre esclusi dall’ambito di applicazione della legge “gli alloggi popolari”, di conseguenza tutti gli
interventi in aree degradate che, come vedremo, hanno interessato i
progetti artistici piú interessanti negli ultimi anni.
Ci sono tuttavia delle eccezioni significative, come il caso degli
interventi sulle metropolitane di Napoli, dove è stato realizzato un
connubio fra arte e architettura, con interventi che hanno anche
interessato zone problematiche della città.
Dalla metà degli anni Novanta, la legislazione ha subito forti cambiamenti, grazie soprattutto all’introduzione di pratiche e istituti di
Politiche pubbliche e processi artistici: il caso Zingonia
ispirazione europea, anche se gli strumenti attuativi tardano ad applicarsi. Indagare questa dimensione è necessario per stabilire l’humus
che sta favorendo il consolidarsi di processi culturali in ambito pubblico e che potrebbe diventare il terreno di coltura di nuove esperienze.
Nel pensiero comunitario si può rintracciare la consapevolezza
che la sfida della nuova Europa dei diritti e delle cittadinanze non
può essere vinta senza l’apporto delle risorse culturali. Sebbene la
tematica non sia al centro del dibattito sulla nuova Costituzione come
aveva auspicato il Deutscher Kulturrat, e da questo punto di vista ci
sarebbe bisogno di un’azione piú incisiva, la lettura combinata della
Carta dei diritti fondamentali del 2000, di trattati, decisioni e risoluzioni costituiscono un’importante indice degli orientamenti comunitari in campo culturale. Di particolare interesse il ruolo trasversale
che le politiche culturali assumono nella impostazione europea.
Il trattato di Maastricht (art. 151) non si limita a fare della cultura
un settore specifico dell’azione europea: introduce l’obbligo per l’Unione di prendere in considerazione gli aspetti culturali all’interno
delle sue politiche, non solo attraverso programmi specifici, ma
anche nell’ambito dei fondi strutturali. La Risoluzione dell’Europarlamento sulla cooperazione culturale (2000/2323 INI) e la Risoluzione del Consiglio del 25 giugno 2000 sottolineano che la cultura è un
elemento fondamentale dell’identità dell’Unione e che tale identità,
nel rispetto delle diversità, costituisce “la base minima necessaria per
il consolidamento del sentimento di cittadinanza europea e per la
futura elaborazione della Costituzione”.6
La decisione n. 508/2000 istitutiva del programma Cultura 2000
enuncia un principio ispiratore fondamentale lungo questa direzione: “la cultura è al tempo stesso fattore economico, di integrazione
sociale e di cittadinanza”. I risvolti culturali diventano decisivi nella
impostazione delle varie politiche comunitarie e assumono un ruolo
di centralità. Gli attuali strumenti legislativi di ispirazione europea
(Programma di Riqualificazione Urbana, ovvero Pru, Programma di
Riqualificazione Urbana e Sviluppo Sostenibile, ovvero Prust, Patti
territoriali7 e i programmi europei Equal, Urban, Socrates, Interreg
III) incentrano sempre piú l’attenzione sulla negoziazione dei processi, determinando una rivoluzione copernicana: non piú la centralità dell’opera rispetto al contesto, ma la centralità del contesto
rispetto all’opera, superando altresí il limite funzionale.
Programmazione, negoziazione, strumenti pattizi, progettazione
partecipata, sviluppo integrato, intercultura, interdisciplinarietà,
partnership pubblico/privato, costituiscono la nuova terminologia
del vocabolario amministrativo sostituendosi a concessione, autorizzazione, atto unilaterale. Questo cambiamento terminologico è sintomo di nuove strategie che investono il sistema pubblico: la sfida della
modernità non può essere affrontata secondo modelli definiti e statici, che assecondano approcci settoriali, ma attraverso modelli complessi e negoziati, in grado di dare risposte adeguate a una società in
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Creazione contemporanea
168
continuo mutamento. Al pubblico è richiesto un ruolo di regista e di
catalizzatore di risorse che presuppone una profonda conoscenza dei
meccanismi sociali, economici, culturali e una capacità di rimettersi
continuamente in gioco.
Non a caso si parla di pianificazione strategica, anche come terreno
di appartenenza di processi culturali. La pianificazione strategica rappresenta la sintesi di un nuovo modo di progettazione territoriale e
di identificazione della mission di un luogo: questa impostazione permette di selezionare obiettivi di governo, mobilitare attori sociali,
terzo settore, investitori economici, in una visione integrata e intersettoriale di sviluppo.
A partire da Torino, numerose città italiane stanno sperimentando simili programmi, pur seguendo approcci metodologici diversi.
Anche realtà urbane e periurbane di dimensioni ridotte aggregandosi si propongono di raggiungere una soglia territoriale minima che
permette di configurare problematiche d’area intersettoriale. La
sfida è di creare nuove sinergie, un dialogo trasversale fra l’esperienza locale e quella globale: per quanto i processi di globalizzazione
assecondino il riprodursi dei fenomeni in ambienti differenti, ridisegnando la geografia fisica e mentale dei luoghi, ogni ambito geografico e politico ha una sua peculiarità evolutiva da cui è impossibile prescindere. Lo spazio della complessità diventa la nuova sfida delle politiche pubbliche di ispirazione europea.
Un panorama piú composito può attrarre energie nuove, anche
di natura culturale. In questo clima s’inseriscono in Italia alcuni
progetti artistici attuali, che colgono immediatamente un cambiamento in corso, anticipandolo nell’attitudine metodologica e nella
sperimentazione. Potenzialmente qualsiasi programma che ha per
oggetto il territorio e le dimensioni sociali e collettive a esso riferite
potrebbe finanziare progetti di natura culturale. Nel momento in
cui la dimensione culturale diviene parte dei processi interni allo
sviluppo di un territorio o di un’area, gli scenari si allargano. La
committenza pubblica non finanzia solo una mostra o un’opera, ma
interagisce con professionisti provenienti dal mondo della cultura
in processi che abbracciano a 360 gradi la dimensione amministrativa. Il campo dei possibili interlocutori e finanziatori dei progetti
culturali si amplia.
Ciò comporta anche una maggiore responsabilizzazione da parte
dell’amministrazione: identificazione di obiettivi, azioni, finalità,
tempi, strumenti di controllo. Su questa dimensione, piú strettamente
progettuale e di programmazione, si giocherà, probabilmente, il
primo livello di scambio fra l’artista e la committenza. Un livello molto
complesso, poiché le distanze fra dimensione politica, basata sul consenso, dimensione amministrativa, ancora troppo burocratica, e
dimensione culturale, che lavora su soluzioni aperte, sono molto forti.
Quando i fattori del consenso e della burocrazia diventano estremamente complicati è indispensabile la mediazione di istituzioni cul-
Politiche pubbliche e processi artistici: il caso Zingonia
turali indipendenti, altrimenti, investito di variabili che non appartengono in alcun modo alla dimensione culturale, il lavoro dell’artista, rischierebbe di trasformarsi in altro.
Non a caso i progetti che si sono sviluppati in collaborazione con
amministrazioni o investono una dimensione territoriale ridotta e
lavorano sul rapporto diretto fra artisti e amministratori, come è accaduto per il Progetto Zingonia, per l’esperienza di Artway of thinking,
ove c’è una forte conoscenza delle regole di funzionamento delle istituzioni pubbliche, oppure hanno richiesto mediazioni, come nel caso
di Urban Torino, Pru Corviale, programmi ai quali la Fondazione
Adriano Olivetti partecipa, attraverso l’applicazione del programma
Nuovi Committenti.
Progetto Zingonia. Arte Integrazione Multiculture
Un esempio di processo culturale realizzato in sinergia con l’ambito pubblico, in un’area interessata da forti trasformazioni è Progetto
Zingonia. Arte Integrazione Multiculture, cui ho partecipato personalmente come direttore generale del comune di Ciserano.
La gestione di un processo culturale, per l’intera area di Zingonia,
ha rappresentato una grande opportunità che ha contribuito a definire l’identità del territorio e le relazioni fra le comunità. Si cercherà
in questo paragrafo di ricostruirne le tappe, dal suo prototipo Osservatorio sul contemporaneo, le relazioni che ha aperto, il contesto in cui
si è inserito e che hanno stimolato questa riflessione.
Nel 1998, Gennaro Castellano, in collaborazione con un gruppo
d’architetti, propone all’Accademia Carrara di belle arti di Bergamo,
diretta da Mario Cresci, il progetto Osservatorio sul Contemporaneo. Un
progetto che “intende favorire una collaborazione interdisciplinare
che integri la ricerca di vari gruppi professionali, individuando un
piano programmatico di iniziative culturali atte a sviluppare in breve
tempo sensibilità e interesse per le diverse espressioni del contemporaneo. L’intento è quello di considerare l’area dei comuni partecipanti al progetto come un unico territorio collegato idealmente attraverso percorsi culturali, artistici ed ambientali”.8
Osservatorio sul Contemporaneo è disciplinato da un protocollo d’intesa fra i Comuni di Ciserano, capofila, Verdello, Verdellino, Fornovo
San Giovanni e l’Accademia Carrara di Bergamo, settore progetti speciali. Nel mese di maggio del 1999 Gennaro Castellano, Edward
Rozzo, Cristina Omenetto sono invitati a gestire ciascuno un laboratorio presso i comuni interessati dal progetto, coadiuvati da ex allievi
dell’accademia Carrara di Belle Arti di Bergamo.
L’osservazione del territorio di Zingonia come microcosmo rappresentativo di una periferia industriale che concentra elementi di
una realtà diffusa sul territorio italiano – sviluppo industriale, assenza di pianificazione, immigrazione – spinge Castellano a presentare
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Creazione contemporanea
170
al Comune di Ciserano un progetto sulla società interculturale, da
svilupparsi direttamente sul territorio e in stretta collaborazione con
le amministrazioni locali.
La sfida è chiara negli obiettivi del progetto: sperimentare il coinvolgimento di artisti in relazione diretta con il tessuto urbano e le
comunità, con una forte attenzione all’elemento interculturale che
caratterizza fortemente il territorio di Zingonia.
Si prende spunto dall’immigrazione, considerata come risorsa,
per raggiungere piú obiettivi: indagare sulle trasformazioni della
società e del territorio alla luce dell’innesto di nuove culture; elaborare idee e proposte partendo dalle esigenze della comunità tutta;
lavorare sul sistema delle relazioni interne ed esterne; rendere il pubblico committente di operazioni artistiche nate da una reale relazione
con il territorio; sensibilizzare i media sulle tematiche inerenti l’intercultura e lo sviluppo sostenibile del territorio.
Il progetto interessa l’amministrazione di Ciserano e in particolare il sindaco Natale Zucchetti, propenso a scandagliare nuovi percorsi
che aprono spazi di relazione tra abitanti italiani e stranieri e tra
diverse amministrazioni. Si sperimenta una nuova forma di finanziamento, quello di cui alla legge regionale 40/98, programma regionale per le politiche d’integrazione concernente l’immigrazione. L’esistenza di un precedente accordo di programma fra piú amministrazioni, l’innovatività del progetto in termini di operatività di ambienti
culturali direttamente sul territorio e in collaborazione con le amministrazioni locali, la volontà del Comune di Ciserano di sperimentare
nuove strade su una tema caldo come l’immigrazione, inducono la
regione Lombardia a finanziare il progetto attraverso un’erogazione
di 25.822 euro pari a 50 milioni di lire. Il restante 50% è finanziato
dal comune di Ciserano in collaborazione con alcuni partner privati.
Costruita l’architettura generale del progetto, che prevede l’attivazione di quattro laboratori gestiti direttamente da artisti sul territorio
e la produzione di opere d’arte, la partecipazione dell’Accademia
Carrara di belle arti di Bergamo, la creazione di uno sportello immigrazione, sono invitati gli artisti Gennaro Castellano, Stefano Arienti,
Liliana Moro, Luca Vitone. Un capannone industriale, messo a disposizione dall’amministrazione, diviene il luogo fisico di condivisione
del percorso, luogo di incontro, di scambi, di lavoro, dove “mettere
in pratica una forma spontanea di multiculturalità”.
La pluralità di obiettivi ha costituito un punto di forza, facendo
sí che l’esperienza rispondesse a piú domande, e che si amplificasse
la sfera dei possibili interlocutori. Il nucleo iniziale del progetto si è
sviluppato come una ragnatela, con molta attenzione di tutte le
parti coinvolte verso i processi innescati e la possibilità di implementarli, monitorando di volta in volta i risultati, confrontandosi
sia con le comunità presenti sul territorio e le loro rappresentanze
politiche e religiose, sia coinvolgendo altri settori della cultura e
dell’urbanistica contemporanea.
Politiche pubbliche e processi artistici: il caso Zingonia
In questo contesto gli artisti si sono mossi senza vincoli, ciascuno
con le proprie metodologie. Le opere realizzate sono la sintesi di
un percorso condiviso negli obiettivi generali, ma libero nelle
modalità di approccio e di relazione. L’opera diventa risultato di un
processo e si costruisce sullo scambio diretto fra l’artista, le comunità coinvolte e lo spazio fisico.
Come ha scritto Emanuela de Cecco in Zingonia. Arte Integrazione Multiculture, il libro che documenta il progetto, la dimensione
del tempo:
gioca in tutto il percorso svolto e ha una rispondenza precisa
anche nei quattro laboratori. Il tempo è infatti l’elemento da cui
prende il via il lavoro di Castellano, la voce narrante recita infatti
un passaggio dalla storia di Tom Sawyer dove il protagonista riesce,
giocando sulla comunicazione a coinvolgere gli amici a trascorrere
del tempo libero con lui e dargli una mano a finire un lavoro. L’opera prende forma in un autoritratto collettivo dei partecipanti
con un ulteriore attenzione all’identità dei presenti. Luca Vitone
offre uno sguardo complessivo sul territorio. Il progetto si pone
come un segno nel contesto urbano, una forma possibile di accoglienza che propone una potenziale forma di relazione con l’altro.
Arienti raccoglie l’elenco dei nomi degli abitanti di Ciserano, poi
mette in moto un meccanismo destinato a crescere nel tempo e a
modificare l’assetto di partenza su tre livelli: i nomi destinati a
scomparire e aumentare, i cuscini e tappeti suggeriscono una praticabilità del lavoro che prevede la possibilità che esso diventi anche
un luogo dove trascorrere del tempo. Liliana Moro ha condotto il
suo laboratorio in collaborazione con i bambini e li ha invitati a
trasformare delle casette di cartone nelle loro case. Il procedimento proposto si è concentrato sul far scegliere ai partecipanti tra un
campionario di oggetti, l’attenzione era rivolta all’atto della scelta
e al condizionamento dell’ambiente esterno.9
Elemento essenziale affinché l’esperienza uscisse dalla dimensione territoriale in cui il progetto si è sviluppato, per entrare in contatto con altre realtà culturali che stanno lavorando lungo questo percorso è stato l’incontro con Anna Detheridge e l’associazione Connecting Cultures, che sta lavorando da alcuni anni a un’opera di contestualizzazione del complesso panorama in cui si inseriscono queste
esperienze. La mostra Arte pubblica in Italia: lo spazio delle relazioni curata da Connecting Cultures nel 2003 per Cittadellarte Fondazione
Pistoletto, istituzione attenta ai progetti artistici rivolti a una trasformazione sociale responsabile, rappresenta la prima, strutturata riflessione su questo segmento della ricerca artistica. Ciò ha permesso un
dialogo e un confronto fra esperienze diverse, rette da un comune
denominatore e la possibilità di iniziare a interloquire in maniera piú
stabile con il mondo delle istituzioni pubbliche.
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Creazione contemporanea
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3
4
5
172
Gennaro Castellano, in de Cecco, Emanuela (a
cura di), Zingonia Arte Integrazione multiculture,
Milano 2001, p. 6, www.progettozingonia.it.
Stalker manifesto: www.stalkerlab.it.
www.multiplicity.it.
www.zonanomala.org.
G.U. 14.10.1949. n. 237. Le amministrazioni dello
Stato, nonché le regioni, le provincie, i comuni e
tutti gli altri enti pubblici, che provvedono all’esecuzione di nuove costruzioni di edifici pubblici o
alla ricostruzione di edifici pubblici distrutti per
cause di guerra, devono destinare all’abbellimento
di essi mediante opere d’arte una quota non inferiore al 2% della spesa prevista nel progetto.
Regione Valle d’Aosta L.R. n.37/99 G.U.
21.12.1999 n. 56; Regione Tentino Alto Adige
6
7
8
9
D.P.G.P: 1.8.1996, n. 11-40 pubblicato nel B.U.
Trentino 25.11.1996 n. 53.
Risoluzione del Consiglio su un nuovo piano di
lavoro concernente la cooperazione europea
nell’ambito della cultura; in G.U. C 32 del
5.02.2000, p. 2.
I programmi complessi compaiono per la prima
volta nell’ordianamento italiano con la l. 172/92
e con il D.L. 398/93 convertito con modificazione dalla legge 493/93. Vari Decreti Ministeriali
hanno disciplinato i bandi.
Atti del progetto Osservatorio sul contemporaneo recepiti in D.G.C., Ciserano del 17/12/1998.
de Cecco, Emanuela (a cura di), Zingonia Arte
Integrazione Multiculture, a+m bookstore, Milano 2001 p. 20-21.
L’ESPERIENZA PRODUTTIVA
Il sistema dell’arte contemporanea: il caso Torino
Elena del Drago
Lo stretto legame tra la creazione artistica e Torino ha inizio negli
anni Cinquanta1 e prosegue a intermittenza fino a oggi. A straordinari
momenti di energia, infatti, si alternano fasi in cui la città sembra
amministrare con distrazione il capitale di energie e idee accumulato
precedentemente. Rispetto alle realtà passate, quella odierna si distingue però nettamente: laddove erano soprattutto attori privati a creare
un contesto artistico vivace che solo successivamente le istituzioni pubbliche mostravano di apprezzare, oggi uno degli aspetti distintivi della
scena torinese è proprio il lavoro sinergico di pubblico e privato che
ha creato un network efficiente di supporto all’arte contemporanea:
con la Regione Piemonte e il Comune di Torino lavorano non soltanto le principali istituzioni finanziarie della città (Fondazione CRT,
Compagnia di San Paolo, Istituto Bancario San Paolo e Camera di
Commercio), ma anche collezionisti decisi a intervenire direttamente.
Senza dubbio la progressiva affermazione di Rivoli, uno dei musei
d’arte contemporanea oggi maggiormente considerati nel panorama
internazionale, nonostante la posizione geografica piú che difficoltosa, ha contribuito in modo determinante a indirizzare i finanziamenti
regionali, pubblici e privati, verso la creazione contemporanea, tanto
che oggi l’immagine della città sembra stabilmente legata al sostegno
e alla promozione della produzione artistica, utilizzata, come vedremo, anche come strumento nelle politiche sociali sul territorio.
Probabilmente la lontananza dal potere politico, ma non da quello
industriale ed economico, l’assenza di forti elementi di richiamo per il
turismo, una dimensione cittadina abbastanza ridotta da consentire il
giusto risalto a ogni impresa e una specifica esperienza passata sono
tra gli elementi che hanno portato collezionisti, enti pubblici e fondazioni private a collaborare in questa direzione in modo innovativo.
Nella seconda metà degli anni Sessanta, invece, quando Torino si
affermò come la capitale italiana della creazione artistica contemporanea, fu esclusivamente la lungimiranza visionaria di un gruppo di artisti, critici e galleristi, allora neppure trentenni, a preparare il terreno: il
lavoro collettivo di Germano Celant, Gian Enzo Sperone, Luciano
Pistoi, Christian Stein, di Michelangelo Pistoletto prima, eppoi di Piero
Gilardi, Gianni Piacentino e Aldo Mondino, portò alla formazione e al
consolidamento di uno dei movimenti artistici piú importanti del
secondo Novecento, l’unico italiano a essere riconosciuto, insieme alla
Transavanguardia, a livello internazionale. Allora, infatti, le mostre
degli artisti poi ribattezzati da Celant con una formula vincente “poveristi”, ma anche degli americani pop e newdada, avvenivano spesso come
prime europee nella galleria di Sperone e soltanto in seconda battuta
venivano accolte nelle sale della Galleria civica d’Arte moderna.2
Sempre su iniziativa privata venne aperto anche quel Deposito d’Ar-
175
Creazione contemporanea
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te Presente, che tra il 1968 e il 1969 fu luogo autenticamente innovativo, svincolato da qualsiasi logica di mercato: come associazione di
industriali, collezionisti, galleristi e appassionati d’arte, il Deposito
riuscí a sostenere la nascita di eterogenei e straordinari esperimenti
artistici.3 La tipologia del luogo, scevro di qualsiasi decoro e sacralità
museale, ma anche la formula associativa, avveniva con netto anticipo
rispetto alla generalizzata “sconsacrazione” dei luoghi d’arte deputati,
che da lí a poco sarebbe avvenuta.4 Un momento dunque di forte
sperimentazione che sembrò perdersi nel decennio successivo quando il clima di contestazione politica, particolarmente dirompente
nella città della “monocultura industriale”,5 non favorí il proseguimento delle iniziative intraprese, ma anzi ne causò momentaneamente la dispersione, tanto che soltanto dieci anni piú tardi possiamo
registrare l’altro avvenimento di rilievo nella formazione dell’attuale
rete di sostegno all’arte contemporanea torinese.
È nel 1984, infatti, che viene inaugurato il Castello di Rivoli come
museo d’arte contemporanea, anche se già nel 1978, il crollo di una
volta in uno dei saloni, spinse la Regione Piemonte a incaricare l’architetto Andrea Bruno del restauro, e a pensare una nuova destinazione per quello che fino a quel momento non era stato altro che uno
dei tanti monumenti nazionali in attesa di un futuro migliore. Fu dunque la Regione e in particolare Giovanni Ferrero, allora assessore ai
Beni culturali e Alberto Vanelli, che dirigeva il settore Beni culturali, a
decidere di farne un museo che, come recita lo statuto, sarebbe stato
“dedicato alla sola arte del Dopoguerra”.6
I progressivi aggiustamenti gestionali che hanno permesso al Castello di diventare il piú importante museo di arte contemporanea in Italia
sono particolarmente interessanti. Inizialmente, infatti, era la stessa
Regione Piemonte a sostenere finanziariamente le attività del Castello
per intero: dopo due anni l’impresa si rivelò impossibile e fu necessario
coinvolgere altre realtà, private, cosicché si andò delineando la prima
gestione pubblico-privato in Italia. La Regione venne affiancata dalla
Fiat, dalla Cassa di Risparmio di Torino e dal Gruppo Finanziario Tessile e fu inventato un meccanismo legale che permette tuttora al museo
di godere dei privilegi del pubblico e del privato, senza dover pagare le
lentezze burocratiche dell’uno e le incertezze dell’altro.
Se da un lato, infatti, la forte presenza della Regione ha permesso
il perseguimento di finalità educative, ha tutelato rispetto a obiettivi
commerciali e, soprattutto, ha comportato l’inserimento delle attività
museali in un contesto territoriale, sociale e produttivo piú ampio,
dall’altro il contributo dei privati ha consentito alcune “leggerezze”
impensabili in una gestione pubblica. Se, infatti, per quello che
riguarda il patrimonio culturale nazionale, sembra rendersi necessario uno sforzo centrale e statale in virtú di quelle caratteristiche di
“contiguità e continuità” che lo caratterizzano,7 per il contemporaneo solo l’intervento diretto dei privati sembra consentire la creazione di un capitale artistico attualmente inesistente.
Il sistema dell’arte contemporanea: il caso Torino
Nel caso di Rivoli, la gestione dipende da un consiglio di amministrazione e ogni socio che ne fa parte è tenuto a versare una quota o un
multiplo di essa. L’improvvisa uscita del Gruppo Finanziario Tessile ha
però comportato una crisi e una successiva modifica rispetto al modello
iniziale. Oggi sono piú sponsor privati a sostenere parte delle spese di
Rivoli: mentre la Regione Piemonte copre la gestione ordinaria con un
contributo che supera il 50% (gestione dell’edificio, stipendi dei dipendenti, parte delle mostre), il restante è pagato dagli sponsor privati
(dalla CRT alla Camera di Commercio). In questo modo sebbene i costi
piú forti siano sostenuti per l’amministrazione dell’edificio (inclusi gli
stipendi dei dipendenti), il museo riesce ad avere un budget di circa
500.000 euro per le mostre piú importanti: poca cosa rispetto agli standard, per esempio, dei musei francesi (recentemente al Centre Pompidou si calcolava come low-budget un’esposizione che prevedeva spese di
allestimento pari a 60.000 euro), ma decisamente una buona somma se
comparata con quelle a disposizione delle altre realtà nazionali.
Prima della trasformazione del Castello di Rivoli in museo d’arte
contemporanea, l’unica realtà museale di rilievo dedicata alla modernità a Torino era la Galleria d’Arte moderna, che nacque, prima in
Italia, come parte del Museo Civico nel 1863.
La collezione, quindicimila opere tra dipinti, sculture, installazioni e fotografie, dopo diverse vicissitudini (venne inizialmente custodita in un edificio presso la Mole Antonelliana, quindi nel 1895
venne spostata in un padiglione che occupava esattamente il sito
attuale, ma che fu distrutto durante la Seconda guerra mondiale)
viene conservata presso l’edificio costruito da Carlo Bassi e Goffredo
Boschetti, inaugurato una prima volta nel 1959 e una seconda, dopo
profondi restauri, nel 1993. Ma soltanto nel 1999 è avvenuta, sotto la
direzione di Pier Giovanni Castagnoli, la ristrutturazione piú importante e definitiva che ha permesso alla Gam, a questo punto dotata
di bookshop e videoteca, di porsi come laboratorio culturale di rilievo nel panorama italiano sostanzialmente attraverso due importanti
novità. Innanzitutto una piú puntuale programmazione dedicata
all’arte contemporanea: con il ciclo intitolato Avvistamenti, per esempio, mostre monografiche dedicate ad artisti contemporanei, la Gam
spesso ha ospitato le prime apparizioni italiane di artisti già noti
internazionalmente.
Quindi, ed è questo l’elemento piú interessante, è stata avviata
una collaborazione piú stretta con Rivoli grazie al ruolo svolto da una
fondazione privata che, prevedendo tanto la gestione comune di specifici nuclei di opere, quanto l’organizzazione di mostre contigue, ha
dato risultati eccellenti.
La Fondazione CRT, infatti, supportata dall’esperienza positiva del
collezionismo privato cittadino e in collaborazione con le realtà pubbliche già esistenti, dal 1999 ha sviluppato un programma di sostegno
al moderno e contemporaneo unico in Italia acquisendo, tra l’altro,
opere di movimenti e artisti italiani per permettere ai due musei tori-
177
Creazione contemporanea
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nesi, la Galleria d’Arte Moderna e Rivoli, di gestire insieme un corpus
rilevante di arte del Dopoguerra. A questo fine è stato istituito un
comitato di cui fanno parte oltre ai direttori dei suddetti musei, (Pier
Giovanni Castagnoli e Ida Gianelli), anche Rudi Fuchs (già direttore
del Castello di Rivoli e dello Stedelijk Museum di Amsterdam), Nicholas Serota, potentissimo direttore della Tate Modern di Londra e
David Ross del San Francisco Museum of Modern Art. Un comitato,
non a caso, con una forte presenza internazionale: l’intenzione è quella di individuare acquisizioni ed eventi da realizzare, ma anche di stabilire delle relazioni di scambio con i principali musei esteri che consentano alle realtà museali torinesi un accrescimento di prestigio e di
peso. La presenza, dunque, di una Fondazione rilevante a livello cittadino, ha in qualche modo costretto alla collaborazione i due musei in
questione che sono co-proprietari di una collezione sempre piú
ampia: il primo atto del comitato infatti, è stato quello di acquistare
un nucleo di opere dalla collezione torinese di Margherita Stein.8
La CRT è stata coinvolta, in maniera minore, anche nell’apertura
del piú recente centro d’arte contemporanea della città, nato grazie
all’iniziativa di una collezionista tra le piú attive nel panorama nazionale, Patrizia Sandretto Re Rebaudengo. Già otto anni fa, nel 1995,
fu costituita la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, con sede a
Guarene d’Alba (in provincia di Cuneo), in un palazzo settecentesco
trasformato in spazio espositivo per l’arte contemporanea. Forti
dunque di un’esperienza pluriennale nel mondo dell’arte, di una
stretta collaborazione con Francesco Bonami, curatore con molti
legami internazionali, e dell’appoggio deciso delle autorità cittadine, i fondatori decidono di aprire uno spazio piú ambizioso a Torino.9 L’inaugurazione al pubblico avviene nel settembre del 2002, ma
già nel 1996 inizia ufficialmente il percorso che porterà alla realizzazione del centro di arte contemporanea: in collaborazione con la
Finpiemonte, la Fondazione accede nel 1998 ai fondi europei per
co-finanziare il progetto e indice una gara internazionale per la progettazione architettonica, vinto poi dal progetto di SB Tiez & Partners firmato da Claudio Silvestrin. Oggi questo centro, che con i
suoi 3500 mq divisi tra spazi espositivi, bookshop, auditorium, sala
didattica, caffetteria e ristorante, vuole per statuto rivestire quel
ruolo che in Germania hanno le Kunsthallen e in Francia i Centre
d’Art Contemporain, per la gestione annuale riceve finanziamenti
da sponsor privati e contributi da parte di istituzioni pubbliche come
il Comune di Torino, la Regione Piemonte e la Camera di Commercio, bancarie come la già citata Fondazione CRT e la Compagnia di
San Paolo, oltre che, naturalmente, dai fondatori.
La CRT, in questo lavoro di finanziamento cittadino è affiancata da
un’altra fondazione estremamente attiva, la Compagnia di San Paolo.
Fondata quattro secoli fa, e precisamente nel 1563, la Compagnia
è andata delineando nel tempo le sue modalità di intervento che
adesso risultano piuttosto innovative: adottato un proprio Statuto nel
Il sistema dell’arte contemporanea: il caso Torino
marzo del 2000, la Compagnia attualmente non è né una banca, né
una pubblica amministrazione, ma piuttosto un “soggetto senza fini
di lucro che, pur essendo privato, persegue finalità di interesse pubblico e di utilità sociale”.
Proprio l’interesse sociale, fondante e primario, sta caratterizzando, soprattutto in questi ultimi anni, l’azione della San Paolo, che
opera in due modi distinti: attraverso erogazioni a soggetti che propongono dei progetti coerenti con il proprio programma e attraverso
i suoi enti strumentali, che operano direttamente nei vari settori di
intervento, dalla ricerca scientifica all’arte.
Nel settore artistico la Compagnia di San Paolo ha scelto di operare
in quattro distinte aree progettuali (la conservazione patrimoniale, il
finanziamento di mostre ed eventi, la sponsorizzazione della ricerca e
della formazione e un programma di Musei) in stretta collaborazione
con le istituzioni, e questa cooperazione se da una parte ha permesso
alla fondazione di comprendere meglio le reali esigenze della società
civile, dall’altra ha influenzato profondamente le scelte e le soluzioni
adottate dagli enti pubblici in questione, a partire dal Comune.
L’altro elemento distintivo nell’attuale sistema dell’arte a Torino,
infatti, è l’utilizzo sistematico del linguaggio artistico come strumento
di sviluppo sociale e urbano. La natura polisemica della produzione
artistica agevola infatti la comunicazione tra i diversi interlocutori:
strumento elastico per antonomasia, essa svolge un ruolo positivo
tanto per la comunità destinataria del progetto, quanto per gli organismi competenti (amministratori pubblici, urbanisti, progettisti
ecc.), fornendo una grammatica comune nella lettura di un luogo e
nella definizione della conseguente progettazione o rigenerazione.
Cosí la collaborazione pubblico/privato, sperimentata con successo
nelle gestioni museali cittadine, è stata applicata anche in diversi progetti innovativi per la riqualificazione di aree cittadine difficili.
Il Progetto denominato Porta Palazzo è piuttosto indicativo sotto
diversi aspetti. Si tratta di un progetto del Comune, che fa parte del
Progetto Pilota Urbano, iniziato nel 1998 in collaborazione con il Fondo
Europeo per lo Sviluppo Regionale, ma anche con l’apporto delle
principali istituzioni finanziarie della città: oltre alla solita Fondazione CRT, anche la Compagnia di San Paolo, l’Istituto Bancario San
Paolo e la Camera di Commercio hanno partecipato convinti dell’alta
potenzialità espressa da questa azione di riqualificazione di un’area,
quella appunto di Porta Palazzo, che ha progressivamente perso in
un crescente degrado, ogni possibilità di vita sociale comunitaria.10
In questo caso le delibere comunali esistenti, che prevedevano
diversi programmi di riorganizzazione urbana, sono stati supportati e
integrati da un Community Planning sull’area in discussione, per riuscire a coinvolgere attivamente la comunità residente con incontri e
workshop che sapessero innanzitutto individuare i problemi quotidiani da affrontare, ma anche garantire la piú ampia partecipazione
pubblica possibile. Il metodo, già sperimentato altrove, ma fortemen-
179
Creazione contemporanea
180
te avanzato per il contesto italiano, consiste infatti nell’attivare un
processo di identificazione comunitaria e dunque di valorizzazione
del territorio in oggetto anche attraverso interventi site specific di artisti particolarmente sensibili a tematiche d’interesse pubblico.
Nell’ambito del Progetto Speciale Periferie (PSP),11 per esempio,
l’utilizzo del linguaggio artistico come strumento di aggregazione
sociale si è concretizzato in piú direzioni: mentre dal luglio 2000
sono state destinate con un Contratto di quartiere diverse superfici
murarie degradate della città agli interventi diretti di giovani artisti,12
il collettivo a.titolo ha curato i lavori di Annamaria Ferrero e Massimo di Nonno in un asilo materno e nelle vicine case popolari di via
Sospello (Passati di qui e Per filo e per segno).
E proprio il lavoro del gruppo a.titolo, formato da Giorgina Bertolino, Francesca Comisso, Nicoletta Leonardi, Lisa Parola e Luisa
Perlo, è particolarmente indicativo della situazione torinese: nato nel
1997 con l’intenzione di ovviare al protagonismo che caratterizza il
ruolo del critico nel sistema dell’arte attuale, e di basare piuttosto
l’attività su un metodo fatto di confronto e collaborazione, questo
collettivo ha potuto sviluppare il suo progetto di lavoro, indubbiamente innovativo, anche grazie alla collaborazione intrattenuta con
le istituzioni della città. L’associazione ha risposto infatti a committenze collaborando con enti e istituzioni (dalla Regione Piemonte
all’Ufficio Stranieri della Città di Torino, al Programma di Iniziativa
Comunitaria Urban 2), a particolari progetti di arte pubblica. All’attività d’indagine teorica attorno al rapporto dell’arte con la comunità
e il territorio (per conto dell’Assessorato alla Cultura della Regione
Piemonte, a.titolo ha ideato e curato a Torino il progetto LabOratorio:
strutturato in tre sezioni, un workshop, una serie di conferenze multidisciplinari aperte al pubblico e una mostra nel 2001), viene affiancata una serie di interventi diretti: nell’ambito del programma Nuovi
Committenti, per esempio, a.titolo sta curando quattro progetti di arte
pubblica nell’ex quartiere operaio di Mirafiori Nord.
Accanto a questi interventi di arte pubblica decisamente innovativi, il Comune di Torino sta sviluppando anche un progetto dalle
modalità piú tradizionali, legato alla costruzione del Passante ferroviario, che una volta ultimato, rivoluzionerà completamente la viabilità cittadina. Sono state infatti commissionate undici opere ad altrettanti artisti, non solo italiani, che saranno installate per un tragitto di
tre chilometri lungo le trincee ferroviarie e lungo il viale detto della
“Spina Centrale”, in corso di realizzazione.
Quindi Luci d’Artista, la manifestazione curata dall’Assessorato alla
Cultura, che ogni Natale dal 1999 coinvolge diversi artisti per l’ideazione di un’illuminazione particolare e che ancora una volta riesce a
utilizzare l’arte contemporanea per cambiare l’immagine della città,
sebbene in maniera meno profonda e strutturale rispetto a interventi
come quelli sviluppati nell’ambito del Progetto Speciale Periferie. In
questo caso, senza fare distinzioni di sorta tra centro e periferia, gli
Il sistema dell’arte contemporanea: il caso Torino
artisti selezionati sono chiamati a reinventare le classiche luminarie
natalizie in una chiara volontà di avvicinamento dell’arte alla realtà
quotidiana. L’ultima edizione sempre ideata dalla Città di Torino,
curata da Ida Gianelli e da Pier Giovanni Castagnoli, proponeva un
percorso espositivo con le opere di quattordici artisti come Rebecca
Horn, Emanuele Luzzati, Mario Merz, Domenico Luca Pannoli, Giulio Paolini e Gilberto Zorio, insieme a due inedite installazioni di
Mario Airò e Jan Vercruysse. Analoghe intenzionalità sorreggono
anche ManifesTO, che esiste da due anni e prevede una produzione
specifica di manifesti di grande formato (3x6 metri) commissionati
ad artisti molto eterogenei, dalla coppia torinese formata da Botto &
Bruno all’artista norvegese Per Barclay, da Stefano Arienti a Costa
Vece, e poi esposti in luoghi diversamente significativi delle dieci circoscrizioni cittadine: le facciate di alcuni palazzi del centro, ma anche
la sede Rai, l’Ufficio d’igiene o il Teatro di Torino. L’aspetto piú interessante di questa ulteriore iniziativa è la stretta collaborazione sviluppata dall’assessorato con attori privati come le gallerie; gli artisti infatti sono indicati da un gruppo di curatori e di galleristi torinesi, che,
caso raro in Italia, sono cosí chiamati a produrre congiuntamente
lavori voluti dalla pubblica amministrazione.
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3
4
5
Celant, Germano, Fossati, Paolo e Gianelli, Ida (a
cura di), Un’avventura internazionale. Torino e le
arti 1950-1970, Castello di Rivoli, 5 febbraio-25
aprile 1993.
Nel giugno del 1964, per esempio, la Galleria Sperone inaugurava una mostra di Robert Rauschenberg, pochi giorni prima che l’artista statunitense
vincesse il Gran Premio Internazionale per la pittura alla Biennale di Venezia, ma ben cinque anni
prima che il museo cittadino ospitasse la rassegna, comunque fortemente all’avanguardia nel
panorama nazionale, intitolata New Dada e Pop
Art Newyorkesi.
Sotto la guida di Marcello Levi e la presidenza onoraria di Luigi Carluccio, i 450 metri quadrati in via
San Fermo 3, già autorimessa, ospitarono prime
teatrali come Orgia di Pier Paolo Pasolini (con struttura scenica di Mario Ceroli), ma anche spettacoli
basati sulla partecipazione diretta degli spettatori e
sull’improvvisazione come Zoo, oltre a ospitare permanentemente interi cicli di opere di artisti come
Anselmo, Boetti, Calzolari, Pistoletto, Prini, Zorio.
Mundici, Maria Cristina, Gian Enzo Sperone, Torino
Roma NewYork, hopefulmonster, Torino 2000, p. 26.
Bandini, Mirella, 1972 Arte Povera a Torino,
Umberto Allemandi & co, Torino 2002, p. 112.
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10
11
12
del Drago, Elena, Il Castello di Rivoli, Arte Educazione convivenza, luca sossella editore, Roma 2002.
Settis, Salvatore, Italia S.p.A., Einaudi, Torino 2002.
Gianelli, Ida (a cura di), Arte Povera in Collezione,
Castello di Rivoli, 6 dicembre 2000-25 marzo
2001, Charta, Milano 2000.
Nel 1999 la Fondazione acquisisce in diritto di
superficie dal Comune di Torino una parte dell’area Ex Fergat, occupata in precedenza da impianti
industriali in disuso, nel quartiere di San Paolo.
Cfr. Progetto Porta Palazzo, Community Planning,
Ex-Cimitero San Pietro in Vincoli, Torino 12-16
giugno 1998.
Il Progetto Speciale Periferie, è stato costituito nel
dicembre 1997, nell’ambito dell’Assessorato al
Decentramento e all’Integrazione Urbana e si
occupa “delle politiche di rigenerazione urbana,
come contrasto al rischio di degrado ambientale e
come promozione delle vocazioni e delle risorse
delle periferie”.
D’intesa con l’amministrazione comunale, in seguito
a sopralluoghi e indagini fotografiche sono state
individuate le superfici, quindi in base a un graduatoria di iscrizione sono stati contattati gli artisti.
Finora sono stati coinvolti trentasei ragazzi per un
totale di tre muri.
Ars Aevi: un nuovo concetto di museo
Chiara Bertola
L’arte supera il male e la distruzione.
L’investimento nella cultura è un risparmio strategico.
La cultura accelera lo sviluppo economico e sociale.
Il linguaggio universale dell’arte unisce.
dal Manifesto Ars Aevi
Prima di illustrare il progetto Ars Aevi, vorrei ritornare a Sarajevo nei momenti precedenti l’assedio del 1992. A Sarajevo culture
dell’Est e culture dell’Ovest si sono incontrate e hanno sempre
pacificamente convissuto; nel suo cuore le moschee, le chiese cattoliche, ortodosse e la sinagoga nel corso dei secoli sono state edificate l’una accanto all’altra. Una città come esempio concreto di
luogo d’incontro e di pacifica convivenza di uomini di diversa
estrazione etnica, cultura, fede religiosa; una comunità felicemente
composita che dai contributi piú vari ha saputo trarre motivo e
forza per arricchire la propria storia e proporsi per il futuro. Un
futuro, non dobbiamo dimenticare, in cui siamo già tutti coinvolti
e impegnati in uno scenario di sempre piú massicce migrazioni da
un paese o da un continente all’altro. Un futuro in cui siamo chiamati ad affrontare problemi di ordine sociale, politico, economico
e culturale che inevitabilmente implicano un rapporto con l’altro a
cui noi siamo poco preparati.
Sarajevo no, non ha alcun timore di affrontare il futuro. A Sarajevo le differenze si amano sulla base della tolleranza e del rispetto,
patrimonio prezioso e talmente radicato nella sua gente, da continuare a vivere e a rigenerarsi anche durante e dopo i terribili anni della
guerra e della sua ricostruzione, mettendo sempre al primo posto i
valori della cultura e della creatività come imprescindibili per la vita
della sua comunità e dell’uomo. Come ha detto piú volte il direttore
del progetto Ars Aevi, Enver Hadziomerspahic: “Se Sarajevo non avesse avuto questo capitale culturale nella sua storia, sicuramente non
avrebbe potuto pensare questo progetto”.1
Non è un caso quindi che proprio qui, nel luglio del 1992, soltanto
tre mesi dopo l’inizio dell’assedio, sia nato il progetto Ars Aevi durante
un forum di artisti e intellettuali. Un fatto coraggioso e importante,
come scrive Massimo Cacciari, perché “nel momento stesso in cui, a
decine ogni giorno, le persone erano bersaglio dei tiri dei cecchini o
restavano vittime dello scoppio di granate e gli edifici, anche i piú notevoli per architettura o funzione, venivano centrati dai mortai, si riuscí a
trovare il coraggio e l’intelligenza per pensare già al dopoguerra, alla
ricostruzione che doveva seguire e rimediare alla tragedia in corso”.2
È nata cosí la proposta di creare un museo di arte contemporanea
a Sarajevo, il cui patrimonio si sarebbe formato attraverso donazioni
183
Creazione contemporanea
184
di opere da parte di artisti internazionalmente riconosciuti. Ancora
una volta il linguaggio dell’arte, inteso da tutti, ha aiutato a superare
le contrapposizioni di morte, facendosi portatore di un messaggio di
pace, unendo uomini di culture diverse sotto un unico progetto per
l’arte. Sotto – verrebbe da scrivere – un’unica “fede”.
Quando nel 1996 incontrai per la prima volta Enver Hadziomerspahic, direttore ancora oggi del progetto Ars Aevi, non nego che
scambiai questo gentile e appassionato signore per un visionario. Mi
presentò il progetto e la struttura del futuro museo, con i nuclei
delle collezioni che man mano le diverse città europee avrebbero o
avevano già donato: la collezione di Milano, di Lubiana, di Vienna,
di Prato, e poi di Venezia... Un impianto architettonico inusuale per
un museo, formato da diversi ‘padiglioni’ che dovevano essere progettati da importanti architetti internazionali: un museo dell’architettura contemporanea che conteneva un museo di arte contemporanea. Certamente un’idea che usciva dai normali canoni, aprendo
e spingendo oltre il concetto di Museo per una sola città, e formandosi invece attraverso una complessa e articolata rete di relazioni
internazionali. Un museo che portava dentro un mondo geografico
molto piú esteso, formato dalle diverse nazioni, dalla città, dagli
enti sostenitori e promotori, e da persone, artisti e intellettuali coinvolti nella sua creazione.
Questo modo di “progettare per l’arte” mi ha confermato che, per
essere realizzata, un’idea ha prima di tutto bisogno di un efficace
sistema di relazioni umane. Nessuna idea può essere realizzata se non
si sviluppa all’interno di una rete di persone con gli stessi fini che si
mettono in movimento per raggiungerli.
Ma tutto questo l’ho visto e inteso piú avanti, lungo la decennale
collaborazione e amicizia che mi lega a Enver e a Sarajevo. Allo stesso
modo, nei primi nostri incontri, non avevo capito fino in fondo che
cosa volesse dire costruire un museo per una città; non avevo capito il
senso etico delle parole “costruire per l’arte” e che il termine “costruire” presuppone delle specificità e coinvolge l’uomo nella sua totalità:
l’uomo lascia memoria di sé anche attraverso questi segni.
Ho accettato l’invito di essere curatrice del nucleo della collezione
di Venezia insieme alla Fondazione Bevilacqua La Masa e alla Fondazione Querini Stampalia e nel 1996 abbiamo inaugurato la mostra
Artisti per Sarajevo con le opere di Alighiero Boetti, Nan Goldin, Ilya
Kabakov, Joseph Kosuth, Julian Opie, Mimmo Paladino, Remo Salvadori, Cindy Sherman, Rosmarie Trockel, tutte donate poi al futuro
museo di Sarajevo.
A questo punto, per capire meglio la vastità, la complessità e il
valore del progetto Ars Aevi, è necessario sinteticamente descrivere
le linee strategiche, l’architettura, la rete dei promotori, i programmi culturali di questo straordinario “museo”.
“Ars Aevi è un progetto di sviluppo di massimo interesse per la
città e il cantone di Sarajevo, per la Federazione della Bosnia Erze-
Ars Aevi: un nuovo concetto di museo
govina e per lo Stato della Bosnia Erzegovina”: cosí recita la prima
pagina del progetto.3
Subito dopo sono citati i soggetti coinvolti, che sono veramente
tanti. È da ricordare inoltre che dal 1998 la realizzazione degli obiettivi del progetto Ars Aevi si svolge sotto il patrocinio dell’Unesco, dal
1999 di quello del Consiglio d’Europa e, infine, dal 2000 anche della
Commissione Europea.
Nel corso del 2001 la Regione Toscana e le città italiane di Venezia, Roma e Firenze e nel 2002 la città di Milano, hanno deciso di
assumere il ruolo di promotori della Campagna Internazionale Ars Aevi
il cui obiettivo è di trovare i fondi per edificare il Museo d’Arte Contemporanea di Sarajevo. L’iniziativa è stata accolta dai rappresentanti
delle amministrazioni della Città e del cantone di Sarajevo, della
Federazione della Bosnia Erzegovina, cosí come dello Stato della
Bosnia Erzegovina.
Il complesso architettonico Ars Aevi
Come si diceva, il progetto architettonico del museo è piuttosto
complesso ma estremamente interessante. Si tratta di singoli edifici
(padiglioni) ognuno affidato alla progettazione di un architetto
internazionale che si snoderanno, in ordine sparso, nello spazio urbano che collega il centro storico della città (del periodo ottomano e
austro-ungarico) con i quartieri nuovi. Ogni “modulo”, rappresentato
da edifici di 4000-6000 metri quadri, ospiterà una collezione e rappresenterà il Paese che ha contribuito alla sua formazione e alla sua
realizzazione. All’interno lo spazio sarà suddiviso tra le funzioni espositive e quelle commerciali per finanziare le attività.
L’idea alla base del progetto architettonico prevede di costruire
l’intero complesso gradatamente nel tempo, attraverso tappe che
vedano anche il coinvolgimento delle singole nazioni nella gestione diretta del proprio “padiglione”. Un’idea ambiziosa, ma che
certamente potrebbe costituire una straordinaria concentrazione
d’idee realizzate sull’architettura del museo in relazione all’arte
contemporanea.
Nell’estate del 2000, durante la Conferenza internazionale dei
fondatori e sostenitori del Progetto, Renzo Piano, il primo degli
architetti a offrire la propria collaborazione, ha presentato il progetto preliminare del primo modulo di Ars Aevi. Un passaggio
importante che ha visto finalmente delinearsi un’azione concreta,
dopo anni di lavoro di relazioni e di coinvolgimento dei soggetti
politici. In quell’occasione il terreno destinato alla futura costruzione era stato segnato con vere e proprie bandiere di Ars Aevi. L’anno
successivo Renzo Piano ha posato le prime colonne delle fondamenta e ha inaugurato uno degli elementi architettonici piú importanti del suo progetto: il ponte pedonale sul fiume Milijaka, che col-
185
Creazione contemporanea
lega le due sponde del fiume, teatro di orribili scontri tra i cecchini
delle due parti, e dal quale si accederà all’edificio.
La Collezione Ars Aevi
Ero deciso a dedicare tutte le mie forze e le mie capacità per creare una stretta collaborazione con musei di arte contemporanea di
prestigio internazionale e i loro direttori artistici, le città amiche e
i loro sindaci, i paesi confinanti, i loro governi, gli organismi internazionali e i loro dirigenti, volendo fortemente che il progetto
per il futuro museo di Sarajevo diventasse un progetto internazionale creato da una volontà collettiva degli artisti, degli intellettuali, delle istituzioni pubbliche e private che avrebbero aderito alla
nostra rete, un nuovo incrocio di energie e pensieri positivi.4
186
Queste parole di Enver ci portano immediatamente al cuore del
progetto e dello spirito che lo sostiene: l’utopia e la storia sostenute dalla stessa energia. Nel gennaio 1995, in occasione del millesimo giorno dell’assedio, si è tenuta a Sarajevo una conferenza internazionale di sindaci delle città amiche che hanno avuto il coraggio
di arrivare nella città ancora assediata. Dalla collaborazione immediata tra i responsabili di Sarajevo e i centri di arte contemporanea
di quelle città, prese le mosse il processo di formazione di Ars Aevi.
Dopo poche settimane, a marzo, già era stato sottoscritto un protocollo di adesione della città di Prato. In giugno la città di Venezia
aveva confermato la sua adesione, a settembre Ljubljana entrava
nel progetto.
Successivamente molte altre città hanno partecipato, invitando
ognuna artisti internazionali a donare un’opera per la collezione, e
nel 1999 si è inaugurata a Sarajevo la prima mostra della collezione
Ars Aevi: con la donazione di opere significative, centocinque artisti
hanno costituito in questo modo la prima vera collezione del museo
di Sarajevo.
Tra il 1994 e il 2000, al processo di formazione dei nuclei della
collezione Ars Aevi e all’organizzazione delle mostre di promozione
hanno partecipato i musei e i centri d’arte contemporanea di Milano (Centro arte contemporanea Spazio Umano, a cura di Enrico
Comi), Prato (Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci, a cura
di Bruno Corà), Ljubljana (Moderna Galerija, a cura di Zdenka
Badovinac), Venezia (Fondazione Bevilacqua La Masa e Fondazione Querini Stampalia, a cura di Chiara Bertola), Vienna (Museum
Kunst Stiftung Ludwig, a cura di Lorand Hegyi) e Sarajevo (Galerija Obala Art Centra, a cura di Izeta Gradevic). Nel prossimo futuro nuovi nuclei della collezione Ars Aevi saranno formati da altri
musei e curatori: Jan Hoet direttore del Museo di arte contemporanea di Gent, Sania Papa direttrice del centro di arte contempora-
Ars Aevi: un nuovo concetto di museo
nea di Salonicco, Beral Madra, critico d’arte di Istanbul. Zvonko
Makovic, critico d’arte, sarà il curatore della collezione Ars Aevi in
collaborazione con il Museo di Arte contemporanea di Zagabria,
Harald Szeemann presenterà la sua collezione per Ars Aevi al
museo di Rovereto, Dieter Ronte formerà un nucleo della collezione al Kunstmuseum di Bonn.
Attività culturale 1999-2003
Il museo come noi lo intendiamo è in realtà ancora del tutto
virtuale, bisogna immaginarselo, in quanto la collezione di Ars Aevi
è stata collocata temporaneamente nel “cubo” dell’ex museo storico della città, messo a disposizione dal Cantone di Sarajevo e dalla
federazione della Bosnia Erzegovina. Qui le opere sono allestite
insieme alle proprie casse da imballaggio, che fanno da momentanee basi o da improbabili muri divisori. Ricordo l’emozione e l’energia straordinaria che si respirava dentro quel museo-deposito.
Nello spazio dell’Auditorium si sono poi organizzate le attività teoriche dell’Università Internazionale Aperta di Ars Aevi, un’idea nata
insieme a Michelangelo Pistoletto che prese l’avvio proprio nel
2001, quando s’inaugurò la sua mostra personale La porta dello specchio a Sarajevo al Museo d’Arte moderna. L’obiettivo fondamentale
dell’Università Internazionale Aperta era quello di offrire corsi di formazione, scambi, opinioni, idee e discorsi su di un tema unico:
Arte, Artista e Museo. Seguendo questa indicazione, dal gennaio
2001, ogni due mesi, si sono realizzati incontri fra esperti, intellettuali e artisti di Sarajevo e delle diverse aree culturali d’oriente e
d’occidente; molti curatori e direttori artistici hanno dialogato e
portato sul tavolo interessanti discussioni che puntualmente sono
state riportate nel catalogo della mostra personale dell’artista invitato quell’anno.5 L’attività espositiva del futuro museo di Sarajevo è
tutt’altro che virtuale. Dopo la grande mostra di presentazione
della collezione alla città e alla comunità internazionale dell’arte,
nel 1999, il programma espositivo ha visto realizzarsi da una parte
mostre personali di artisti della collezione (Michelangelo Pistoletto, Richard Nonas, Ir win, Daniel Buren, Joseph Kosuth, Joseph
Beuys) e ospitate ogni volta negli spazi istituzionali in città; e dall’altra, mostre dedicate ad artisti emergenti internazionali e di
Sarajevo: le mostre “Rendez-vous” curate ogni volta da curatori
internazionali.
Le attività Ars Aevi nel 2001 sono state realizzate in collaborazione con i sostenitori del Progetto: Ministero degli Affari Esteri italiano, Ambasciata italiana a Sarajevo, Unesco, Ministero della Scienza,
Educazione, Cultura e Sport della Federazione di Bosnia Erzegovina,
Ministero della Cultura e dello Sport del Cantone di Sarajevo, Città
di Sarajevo.
187
Creazione contemporanea
Ars Aevi proprietà di tutto il mondo. La campagna per raccogliere
i fondi.
A Sarajevo nel giugno del 2002 durante il Forum annuale – occasione per riunire i fondatori, gli amici, i sostenitori, i patrocinanti e
tutti i protagonisti della storia del Progetto Ars Aevi – è stata presentata la Campagna Mondiale Ars Aevi nella quale si è dichiarato che il
complesso museale di Sarajevo diventerà proprietà di tutti attraverso
una campagna di acquisto di azioni o di donazioni.
Come reperire i fondi altissimi necessari alla realizzazione di questo progetto? L’interessante soluzione è quella della parcellizzazione
del budget in tantissime unità: è l’idea delle azioni e dei certificati di
sottoscrizione. Ogni persona, ente, istituzione, città, secondo le proprie possibilità, potrà acquistare azioni o anche solo un certificato
entrando a far parte del gruppo che permetterà la costruzione del
museo. Queste le parole del Documento d’intenti:
188
Saranno invitati numerosi soggetti, d’Europa e del mondo, pubblici e privati, del campo della cultura, della politica e dell’economa, a inviare a Sarajevo i fondi per la costruzione delle strutture architettoniche del futuro complesso Ars Aevi. I fondi possono essere stanziati sotto forma di donazione o per l’acquisto
delle azioni Ars Aevi.
I fondi sotto forma di donazione saranno espressi come l’equivalente di un certo numero di azioni Ars Aevi ed i donatori eserciteranno
i loro diritti in conformità allo statuto della Fondazione Ars Aevi.
I finanziatori che forniranno i fondi per la costruzione come
acquisizione di azioni, eserciteranno i loro diritti in conformità
allo statuto della Fondazione Ars Aevi. Il diritto di proprietà sarà
illimitato nel tempo e non trasferibile ad altre persone o soggetti.
Il processo di costituzione della Fondazione Ars Aevi è in corso.
Il fondatore della Fondazione è la Città di Sarajevo e i co-fondatori saranno il Cantone di Sarajevo e la Federazione di Bosnia
Erzegovina. Co-fondatori della Fondazione Ars Aevi potranno
essere anche altri partner che nel processo della promozione e
dell’attuazione della Campagna mondiale Ars Aevi avranno un
importante ruolo attivo.
Del complessivo valore di una azione (1000 $ - 1000 Euro), il 70%
sarà destinato alla costruzione delle strutture del futuro complesso architettonico del Museo/Centro d’arte contemporanea Ars
Aevi di Sarajevo, e il 30% per le spese funzionali. Sulla pagina Web
della Campagna mondiale Ars Aevi, i conti di Ars Aevi saranno trasparenti, pubblici ed accessibili a tutti, con informazioni complete
sulle somme che i donatori o acquirenti di azioni avranno inviato
alla Fondazione Ars Aevi.
Ars Aevi: un nuovo concetto di museo
Durante il Forum di quest’anno, sono stati presentati i certificati di
sottoscrizione delle azioni con lo schizzo di Renzo Piano del Museo,
per un valore che potrà variare secondo il tipo di 100, 1.000, 10.000,
100.000 e 1.000.000 Euro. Quello che si vorrebbe attivare è una larga
e condivisa azione collettiva a livello internazionale.6
Dall’utopia formulata nel 1992, Ars Aevi è dunque cresciuto, fino a
diventare nel 2003 un progetto che ha riscosso sempre piú il coinvolgimento del mondo internazionale dell’arte contemporanea.
La collaborazione dei musei e delle città del mondo con Sarajevo per il progetto Ars Aevi è ormai decennale: le relazioni si sono
infoltite e una rete forte di contatti internazionali coinvolti si è
consolidata.
Per concludere questo racconto di un’esperienza che spero possa
continuare, vorrei evidenziare però uno dei problemi di questo progetto, un problema che potrebbe costituire un ostacolo difficile da
superare. Durante il seminario che ho curato a Sarajevo e che ha
visto riuniti a discutere un gruppo di curatori, direttori, artisti sia
della città che internazionali, il tema piú ricorrente e urgente era
quello di come si sarebbe potuto e dovuto sviluppare il progetto Ars
Aevi per diventare qualcosa di diverso dalle esperienze occidentali e
dal sistema dell’arte. Insieme a me e con energia, una parte sosteneva
l’importanza che dall’esperienza e dalla cultura di Sarajevo, noi operatori culturali occidentali avremmo potuto trarre, inventandoci
insieme un modello diverso di museo e di lavoro sull’arte contemporanea a partire proprio dalla differenza; un’altra parte sosteneva invece che il collegamento con il sistema dell’arte piú internazionale e
riconosciuto fosse fondamentale per appianare il possibile isolamento di Sarajevo. È chiaro che ambedue le istanze dovevano e devono
essere tenute insieme, cosí com’è vero che per realizzare un progetto
cosí complesso e ambizioso vanno perseguite certe strategie politiche
e relazionali di costruzione di una rete per il reperimento fondi,
senza i quali nessun progetto può avere corso. Sottolineo però il
rischio di sterili atteggiamenti colonizzatori da parte dell’occidente,
sempre in difficoltà a porsi nelle vesti di chi dovrebbe imparare accogliendo un’esperienza culturale diversa.
Il futuro Museo d’arte contemporanea di Sarajevo – città “specchio” in cui tutte le diversità d’Europa e del mondo s’intrecciano e si
riflettono – potrebbe avere un significato reale nel dare impulso alla
globalità dei processi d’integrazione di tutto il continente europeo,
evitando di restare solo un elemento simbolico.
Le attività del centro-museo Ars Aevi, nel contesto di programmi
internazionali, potrebbero essere un permanente e visibile segno di
speranza che le diversità non dividono, ma sono piuttosto uno stimolo per scoprire nuovi significati alla parola “bellezza”.
189
Arte e territorio nei progetti dell’Associazione Fiumara d’Arte
Enrica Carnazza
Creazione contemporanea
1
2
3
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5
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Il testo non è mai stato pubblicato. Le parole nel
testo sono desunte da un dialogo registrato tra
Chiara Bertola ed Enver Hadziomerspahic.
Cacciari, Massimo, in Bertola, Chiara (a cura di),
Artisti per Sarajevo , International Project Ars
Aevi, Venezia 1996, p. 11.
International Cultural Project Ars Aevi Informator,
Ars Aevi Report, Sarajevo 2003, p. 22.
Hadziomerspahic, Enver, Amare le differenze, in Ars
Aevi Collection 1992-2002, International Project
Ars Aevi, Firenze 2002, p. 21.
Ogni anno si sono svolte attività seminariali, che
hanno visto coinvolti artisti, direttori di museo
curatori internazionali. Qui di seguito, il programma specifico degli incontri che hanno avuto luogo
a Sarajevo: Seminario 1, gennaio 2001: Enrico R.
Comi (Milano), Michelangelo Pistoletto (Biella),
Nedžad Kurto (Sarajevo), Henry Meyric Hughes
(Londra), Ješa Denegri (Belgrado), Meliha
Husedžinović (Sarajevo), Angela Vettese (Milano),
Zvonko Maković (Zagabria). Seminario 2, aprile
2001: Lorand Hegyi (Vienna), Richard Nonas (New
York), Braco Dimitrijević (Parigi), Nena Dimitrijević
(Parigi), Edin Numankadić (Sarajevo), Ann Demeester (Gent), Jelena Gajević (Sarajevo), Sulejman
Bosto (Sarajevo), Fuad Hadžihalilović (Sarajevo).
Seminario 3, maggio 2001: Zdenka Badovinac
(Lubijana), Borut Vogelnik, IRWIN (Lubijana), Anda
Rotenberg (Varsavia), Katalin Néray (Budapest),
Dunja Blažević (Sarajevo), Ibrahim Krzović (Sarajevo), Stjepan Roš (Sarajevo). Seminario 4, luglio.
2001: Bruno Corà (Prato), Daniel Buren (Parigi),
Marino Cortese (Venezia), Kim Levin (New York),
Beral Madra (Istanbul), Ilija Šimić (Sarajevo), Igor
Zabel (Lubijana), Aleksandar Adamović (Tuzla), Vit-
6
torio Messina (Roma); Seminario 5, ottobre 2001:
Chiara Bertola (Venezia), Joseph Kosuth (New
York), Marta Kuzma (Londra), Aleksandar Bassin
(Lubijana), Thierry Ollat (Marsiglia), Dean
Jokanović - Toumin (Zagabria), Giacinto Di Pietrantonio (Milano), Ivana Udovičić (Sarajevo), Eda
?ufer (Ljubijana). Seminario 6, 26 novembre 2001:
Lucrezia De Domizio (Milano), Harald Szeemann
(Ticino), Alfred Pacquement (Parigi), Magnus af
Petersens (Stoccolma), Christian Chambert (Upsala), Asja Mandić (Sarajevo), Marco Bagnoli (Milano).
Le persone o le istituzioni che acquisteranno i
certificati di donazione diventeranno “costruttori”
loro stessi del complesso Ars Aevi. I “costruttori”
Ars Aevi potranno acquistare titoli di diverso valore: Costruttori Ars Aevi di primo grado
1.000.000/9.000.000; Costruttori Ars Aevi di
secondo grado 100.000/900.000; Costruttori Ars
Aevi di terzo grado 10.000/90.000: Costruttori Ars
Aevi di quarto grado 1.000/9.000; Costruttori Ars
Aevi di quinto grado 100/900.
Per informazioni sul museo Ars Aevi:
Ars Aevi General Directorate Sarajevo , Headquarters Centar Skenderija
Dom Mladih Terezije - bb, 71000 Sarajevo, Bosnia
and Herzegovina
t. 3873321216934 - f. 38733201208
e-mail: [email protected]
Ars Aevi General Directorate, Italian Headquarters
via del Capaccio 1 - 50123 Firenze
t. 0552657725 - f. 055287156
e-mail: [email protected]
Arte pubblica e iniziativa privata
Creatura di Antonio Presti, l’Associazione Fiumara d’Arte è un
esempio di progettualità multiforme concepita e cresciuta tra diffidenze e ostacoli grazie a un’iniziativa esclusivamente individuale e
“privata”, un’organizzazione flessibile e veloce nelle scelte strategiche
quanto capace di lasciare tracce permanenti nel tessuto territoriale e
sociale siciliano.
In diciassette anni le attività realizzate hanno coinvolto un numero notevole di artisti, intellettuali, operatori culturali, scuole, università, poeti, scrittori, esperti e semplici cittadini che attraverso un ventaglio di iniziative tutt’altro che canoniche sono riuscite a raggiungere tutto il tessuto sociale, fino alle frange piú emarginate.
Il progetto su Librino (Catania 2002-2003) è l’ultimo esempio di
questa fertilità creativa, dopo il Museo all’aperto (Tusa, ME 1986),
l’Atelier sul mare (Castel di Tusa, ME 1988), il Chilometro di Tela
(Pettineo, ME; Castiglione di Sicilia, CT dal 1991), la Devozione alla
bellezza per sant’Agata (Catania 1998), la Chiusura della Barca d’Oro
(Castel di Tusa, ME 2000), la Rinascita dell’arte (Catania), l’Offerta
della parola (Catania 2001), la Casa-Museo Stesicorea (Catania 2002);
tutte iniziative in cui l’arte contemporanea si coniuga con la poesia,
la festa, il folklore, il rito.
La denuncia sociale e la necessità di soddisfare i bisogni non
materiali delle persone, enfatizzata anche dalla scelta di titoli “romantici”, sono alla base di un progetto contraddistinto da un indirizzo
etico della produzione e della diffusione dell’arte.
Antonio Presti è stato spesso definito dalla stampa un mecenate,
ignorando la valenza ben piú forte della capacità progettuale e l’alimentarsi reciproco di temi artistici e valori sociali. La sua attività nel
campo della promozione artistica comincia nel 1986 nella cittadina
tirrenica di Tusa, dove il greto di un torrente (una fiumara nel lessico
locale) ospitò un’opera di calcestruzzo dalle proporzioni esagerate,
La materia poteva non esserci di Pietro Consagra. L’idea nasce nel 1983
quando, a seguito della morte del padre, Antonio Presti è costretto a
interrompere gli studi di ingegneria e assumere la direzione del
cementificio paterno. Presti, che già aveva iniziato a collezionare arte
contemporanea, decide di dedicare un monumento alla memoria del
padre immaginando, però, sin d’allora, di non farne un fatto privato,
ma di donare l’opera alla collettività e di collocarla alla foce della fiumara un luogo legato al vissuto della sua famiglia.1
191
Creazione contemporanea
La Fiumara d’Arte e le altre esperienze tirreniche
192
Nasce in questo modo quasi occasionale la Fiumara d’Arte, una
“sfida” alle convenzioni della Sicilia degli anni Ottanta; l’iniziativa
diventa subito un caso giudiziario, a causa della collocazione dell’opera in un terreno demaniale e soprattutto a causa delle reazioni
delle istituzioni locali,per un verso entusiaste, per un altro spaventate
da un progetto che appare da subito incontrollabile secondo i consueti canoni.
La storia è nota: il 12 ottobre 1986 viene inaugurata la scultura
di Consagra e contemporaneamente Presti annuncia la fondazione
di un museo di sculture all’aperto; le autorità locali sembrano
plaudire all’iniziativa anche se il sindaco di Tusa – su indicazione
della locale Soprintendenza – invia un’ordinanza di sospensione
dei lavori. Nonostante ciò nuove sculture vengono commissionate
e poste in loco e in pochi anni sono state realizzate Una curva gettata alle spalle del tempo di Paolo Schiavocampo, Energia Mediterranea di
Antonio Di Palma e l’esoterica Stanza della barca d’oro di Hidetoshi
Nagasawa; e ancora Arethusa di Pietro Dorazio e Graziano Marini,
Labirinto di Arianna di Italo Lanfredini, Monumento per un poeta
morto di Tano Festa.
Nel momento in cui il progetto di Presti si stava realizzando, sorgono degli impedimenti. Durante l’inaugurazione de La stanza della
barca d’oro, un’opera concepita per essere chiusa e interrata, 2 è
intervenuta l’autorità giudiziaria che ne ha disposto il sequestro
dichiarandola costruzione abusiva e il giorno dopo viene notificato
anche un provvedimento contro la Finestra sul mare per occupazione
di demanio marittimo e abusivismo edilizio. Ha inizio cosí una intricata vicenda giudiziaria conclusasi solo nel 1994 con una sentenza
della Corte di Cassazione che, attraverso l’annullamento dei provvedimenti precedentiha stabilito che le opere della Fiumara potevano
restare in loco.3
Cresce cosí notevolmente l’interesse dei media nazionali e internazionali e degli operatori del settore per questo insolito museo
all’aperto, il piú grande d’Europa; Presti diventa un interessante
punto di riferimento per molti artisti, affermati e non, promuovendo inedite forme di committenza. Nel 1988 rileva un albergo a
Castel di Tusa e invita numerosi artisti e intellettuali a progettarne le
stanze; l’albergo diventa l’Atelier sul mare, primo esempio di creatività applicata all’arte dell’ospitalità, e ai clienti vengono assegnate le
stanze secondo una sorta di percorso iniziatico che si completa ripetendo piú volte il soggiorno.
Le stanze dell’Atelier sul mare costituiscono un vero e proprio
museo d’arte contemporanea; gli artisti e gli intellettuali coinvolti
sono Mario Ceroli, Hidetoshi Nagasawa, Paolo Icaro, Maurizio
Mochetti, Fabrizo Plessi, Michele Canzonieri, Mauro Staccioli,
Maria Lai, Raoul Ruiz, Renato Curcio e Agostino Ferrari, Dario Bel-
Arte e territorio nei progetti dell’Associazione “Fiumara d’Arte”
lezza, Adele Cambria e lo stesso Presti, Luigi Mainolfi, Piero Dorazio e Graziano Marini.
Si sviluppa, con questa esperienza, una filosofia progettuale che
spinge Presti a non consolidare la propria attività in un solo posto,
ma a spostarsi in continuazione, cercando ulteriori stimoli; notevole,
in questo senso, l’iniziativa denominata Un chilometro di tela (1991)
con l’invasione di un paese di mezza costa, Pettineo, da parte di artisti affermati e dilettanti per decorare, appunto, un chilometro di
tela steso per le strade cittadine; le opere sono state poi donate ai
residenti, ciascuno dei quali aveva l’obbligo di aprire la propria casa
in certe ore del giorno per consentire la visita all’opera custodita,
dando vita cosí a una sorta di “museo domestico”. Oltre al valore
estetico, secondo lo stesso Presti, Pettineo “è un esempio di come
l’arte possa effettivamente riqualificare una città, in questo caso, un
piccolo borgo perché chiunque bussa alla porta di una casa che ospita una tela ha il via libera per entrarvi. E ciò significa che in nome
dell’arte un piccolo paese siciliano esce dal clima di chiusura che
generalmente contraddistingue i nostri centri e si apre allo ‘straniero’, allo ‘sconosciuto’”.4 L’iniziativa si è ripetuta negli anni successivi,
per poi essere replicata qualche anno piú tardi a Castiglione di Sicilia, un paese della provincia catanese.
193
Catania: la festa popolare, il centro, la periferia, il viaggio
Dopo un periodo di tentativi non attecchiti a Gela e Caltanissetta,
Presti si sposta a Catania dove realizza una manifestazione nell’ambito della tradizionale festa della Patrona, sant’Agata. Il contesto piú
ricettivo permette un nuovo lancio: Catania ha da tempo coniugato
la produzione artistica con le istanze sociali, mostrandosi attenta alle
avanguardie artistiche locali in campi come la danza, il teatro di ricerca, la musica, e agevolando l’aggregazione giovanile e sociale nel piú
vasto complesso di fermenti innovativi che caratterizzano la Sicilia
orientale. Ma la tradizionale festa di sant’Agata non era stata fino a
quel momento toccata da forme creative contemporanee: Presti
coniuga l’occasione religiosa e popolare con la ricerca e la sperimentazione, invitando gruppi rock a reinterpretare la storia della santa, e
le vicende del suo percorso mistico, con le piazze cittadine gremite di
fedeli che ascoltano nuove note intrise di devozione, e assistono alla
proiezione di frasi religiose tradotte in molte lingue. Anche piazza
Bellini diventa palcoscenico, dai balconi del teatro s’intonano canti
corali dedicati alla santa, un tributo ad Agata santificata, ma soprattutto un’inedita esperienza di socializzazione tra devoti, appassionati
d’arte e di musica e intellettuali.
È in questa occasione che lo scultore Arnaldo Pomodoro ha sperimentato una megastruttura in ferro a pianta quadrata, rivestita da
pannelli in cera, richiamando in tal modo le gigantesche candele
Creazione contemporanea
194
che costituiscono il simbolo della tradizionale devozione per la
Santa. La folla è intervenuta all’accensione del grande cero, una
torre d’avorio di stile orientale, mentre la musica di sottofondo crea
un’atmosfera surreale e l’opera che si trasforma in un grande falò.
L’esperienza catanese di Presti prosegue nella realizzazione della
“Casa-Museo Stesicorea”, dal nome della piazza sulla quale si affacciano i suoi balconi, piazza Stesicoro. Si tratta di un appartamento d’epoca interamente trasformato da giovani artisti locali (Calí, Corona,
Di Bella, Erwin, Furnari, La Rosa e Leonardi, Longo, Minaldi, Rizzo,
Sciuto, Sturiale, Catena Vaccaro), ciascuno dei quali realizza una
stanza; le opere rimangono per alcuni mesi per poi essere sostituite
da progetti di altri artisti (Anastasio, Bramante, Buglisi, Carlisi, Di
Natale e Montaudo, Lo Verso, Rizzo, Rovella, Salemi, Tuccio, Attanasio, Molino, La Rosa), in una rotazione continua.
Nel frattempo Presti, che come si è detto è stato definitivamente
prosciolto dalle accuse di abusivismo edilizio, decide di procedere
alla chiusura de La stanza della barca d’oro presso la Fiumara d’Arte,
il 16 giugno 2000, segnando anche il trasferimento delle attività e
delle nuove iniziative a Catania. Qui, Nagasawa, il giorno dopo aver
chiuso l’opera di Castel di Tusa, realizza una nuova installazione. In
un laghetto artificiale, sito nei pressi dei “Magazzini generali” – un
locale diventato un punto di riferimento per i giovani artisti catanesi – galleggiano, questa volta visibili a tutti, quarantanove piccole
imbarcazioni a testimonianza concreta della continuità del percorso
creativo.5
La casa di piazza Stesicoro, nel frattempo, diventa anche la vetrina del prossimo progetto, ambientato in uno dei quartieri piú
popolosi e difficili di Catania, Librino, una zona periferica progettata da Kenzo Tange che doveva essere l’espressione della Catania
moderna ma che in realtà è diventata presto il sinonimo di periferia
degradata e attraversata dall’emarginazione e dai conflitti sociali.
Dai balconi delle case cominciano a comparire delle sagome a grandezza naturale con la scritta “Io amo Librino” tradotta in varie lingue, rimandando cosí al progetto Terz’Occhio Meridiani di Luce, che
prevede una serie di interventi estetici su alcuni palazzi individuati
in base alle loro caratteristiche architettoniche e alla loro dislocazione nel quartiere. In questo progetto sono stati attivamente coinvolti sia l’Istituto autonomo delle case popolari, sia i condomini privati delle cooperative. Le opere sono state esposte per un biennio
per andare poi a costituire il museo permanente Meridiani di Luce.
Partendo dal presupposto che l’antinomia centro/periferia non è
legata a un problema di distanza, ma a condizioni culturali diverse,
l’associazione Fiumara d’Arte intende fornire con questo progetto
un percorso per cui attraverso la “devozione alla bellezza” si favoriscono processi di integrazione sociale. Obiettivo del progetto è
infatti suscitare il bisogno di bellezza negli abitanti di Librino che
sono i veri protagonisti di questa iniziativa e che per questo sono
Arte e territorio nei progetti dell’Associazione “Fiumara d’Arte”
coinvolti direttamente in tutte le fasi del progetto. Per Librino, Presti chiede e ottiene alcune importanti collaborazioni istituzionali,
come per esempio quella del Ministero di grazia e giustizia per il
reinserimento degli ex-detenuti in una cooperativa impegnata nella
promozione dell’iniziativa.
La necessità di un impegno etico ed estetico rivolto a suggerire
inedite forme di sollecitazione culturale del territorio, ha spinto Presti verso la realizzazione di un progetto di poesia itinerante, L’offerta
della parola. L’iniziativa, curata da Maria Attanasio, si è svolta tra il
marzo e l’aprile del 2001. È il treno (le linee che da Catania vanno a
Palermo, Messina, Siracusa, Caltagirone, Gela, Santo Stefano di
Camastra) a fare per due mesi da teatro a questo progetto che ha
visto alcuni tra i maggiori poeti contemporanei (tra cui Edoardo
Sanguineti, Elio Pagliarini, Nico Orengo, Mario Luzi, Maria Attanasio, Maria Luisa Spaziani) offrire le loro opere ai viaggiatori, pendolari e turisti, intrattenendosi con loro a discutere in un salotto mobile per un viaggio insolito e stimolante. Gli obiettivi sono stati sottolineare il valore del viaggio in treno come occasione di scambio e di
incontro, nonché offrire ai viaggiatori la possibilità di incontrare e
parlare con i poeti, restituendo a questi ultimi una funzione comunicativa piú immediata e meno letteraria. Per questo le tratte e gli
orari dei treni sono state scelte in base alle tipologie di viaggiatori
che le frequentano abitualmente (studenti, lavoratori, pensionati,
pendolari, turisti ecc.); prima della partenza, la presenza del poeta
sul treno è stata segnalata dall’altoparlante in modo da lasciare al
viaggiatore la libertà di scegliere se viaggiare o meno con il poeta.
Questi ha potuto ovviamente decidere forme e modi di comunicazione per l’insolito pubblico: l’idea è stata non tanto quella di proporre
letture di opere, quanto di dialogare con i viaggiatori e non necessariamente o esclusivamente di poesia.
È dello scorso anno, infine, ExtraOrdinario il valore dell’essere, ultima
iniziativa realizzata da Presti e curata da Teresa Macrí e da Paolo Nicita6 nella Casa-Museo Stesicorea, con interventi delle comunità latinoamericane, africane, europee e asiatiche, e di artisti come Stalker,
Sislej Xhafa, Marco Samorè, Agnese Purgatorio, Guido Schlinker,
Andrea Di Marco, Daniele Pario Perra, Loredana Longo, Massimo
Siracusa.
195
xing: un laboratorio progettuale tra realtà creative e produttive
Giovanna Amadasi per xing
Creazione contemporanea
1
2
196
Cfr. Eva Di Stefano, la barca dell’invisibile, ed.
Ariete, Palermo 1997.
La stanza era stata progettata come un ipogeo
chiuso, all’interno l’ambiente era stato rivestito
con alcune lastre di acciaio scuro e, al centro,
una barca dorata rovesciata era appesa al soffitto. Secondo il progetto dell’artista la stanza
doveva essere sigillata subito dopo la sua inaugurazione e il muro di contenimento, nonché la
porta di accesso dovevano essere ricoperte dalla
terra. In questo modo l’opera sarebbe stata sottratta alla vista e restituita alla natura come
atto di donazione totale. Ma la stanza non è
stata chiusa a causa dell’intervento della
Soprintendenza di Messina che denuncia la Fiumara d’Arte per abuso edilizio, occupazione del
suolo demaniale, violazione della Legge Galasso
sulla protezione ambientale. La manifestazione
è stata dunque interrotta poiché, come si legge
nelle cronache giudiziarie, essa avrebbe com-
3
4
5
6
portato “l’occultamento del corpo del reato”.
Una ricostruzione puntuale delle vicende giudiziarie e della mobilitazione di politici e intellettuali
per salvare il complesso delle opere è riportata nel
citato testo di Eva Di Stefano.
A. Presti, In nome della bellezza in “Arte e critica”,
a V, ottobre-dicembre 1999, p. 9.
In contemporanea, la provincia di Catania con il
sostegno di altre istituzioni, organizzano una Fiera
sull’ambiente presso le Ciminiere, ex fabbrica dello
zolfo; in questa occasione una sezione è specificatamente dedicata alla presentazione di opere realizzate da giovani artisti con materiale di scarto.
All’interno delle Ciminiere, inoltre, verrà realizzato
un centro culturale denominato ZO che, presentato in occasione di BIG2000 a Torino, è un esempio
di riutilizzo di edifici industriali dimessi sostenuto
con fondi destinati all’imprenditoria giovanile.
Su questo progetto cfr T. Macri, Extra-ordinario e
P. Nicita, Linea di confine, www.librino.org.
Le origini
Tracciare una breve storia delle origini di xing può essere utile a
definire un progetto che si determina – fin dall’inizio – attraverso le
proprie scelte e modalità operative piuttosto che grazie a uno statuto
o a una struttura definite rigidamente. xing nasce nel dicembre del
2000 dall’incontro di professionisti della cultura e della comunicazione provenienti da ambiti diversi e da percorsi individuali eterogenei
intorno a un progetto comune: l’ideazione, la realizzazione e la promozione di eventi e produzioni contraddistinti da uno sguardo interdisciplinare sulla cultura contemporanea.
Dal punto di vista generazionale i soci di xing costituiscono un
gruppo abbastanza omogeneo, intorno ai trent’anni, con uno scarto
di cinque/sei anni, accomunato dal trovarsi in una fase del proprio
percorso professionale ancora aperta ma già fortemente connotata
da scelte di gusto e di stile, oltre che da aspettative piuttosto precise
rispetto a un progetto culturale e professionale. Si tratta, piú che di
un’unica visione o mission, di un insieme di punti di vista e di fattori
che, nel loro insieme, costituiscono un sistema complesso, il territorio dove xing progetta, opera e si evolve.
Bologna-Milano-Parigi
Il progetto nasce dall’iniziativa di un gruppo di organizzatori/operatori culturali con alle spalle l’esperienza di fondazione e di gestione
quasi decennale del Link di Bologna, un caso piuttosto raro, se non
unico in Italia, di centro indipendente che unisce un’attività di programmazione artistica multidisciplinare a quella di centro di produzione e distribuzione di prodotti audiovisivi, di graphic design e web
design. Un luogo che nel giro di pochi anni diventa un punto di riferimento a livello nazionale per una generazione di creativi (e non solo,
soprattutto per un pubblico potenziale che non trovava un referente
alle proprie passioni e/o interessi fra le arti), ponendo al centro del
proprio operare la promozione di una scena musicale, teatrale e artistica italiana e internazionale in modo alternativo, ma non necessariamente conflittuale rispetto alla scena istituzionale.
A questo nucleo bolognese si associano diverse persone che vivono
e lavorano a Milano, provenienti da percorsi individuali differenti che
riflettono la diversa identità di Milano rispetto a Bologna: una città
dove il ruolo dell’innovazione e della progettazione culturale – data
un’assenza quasi totale delle istituzioni – è assunto da un arcipelago di
iniziative autonome strutturate secondo parametri imprenditoriali
(centri culturali indipendenti finanziati da privati, case editrici, centri
di produzione audiovisiva, agenzie per l’organizzazione di eventi).
197
Creazione contemporanea
Una terza “anima” del network è situata in Francia, a Parigi: un
legame non secondario, dato che proprio in Francia si possono rintracciare approcci multidisciplinari alle arti molto prima che altrove
in Europa, con istituzioni come la Fondation Cartier, il Centre Pompidou e ora il Palais de Tokyo che ospitano sullo stesso piano arti visive ed eventi performativi, cinema e musica elettronica.
Il laboratorio xing
198
xing nasce fin dall’inizio con una natura ibrida: né progetto puramente culturale né società con scopi esclusivamente imprenditoriali.
L’obiettivo è creare le premesse e le possibilità concrete per lo sviluppo di progetti culturali, produttivi e di comunicazione che vadano
oltre le possibilità offerte dal panorama istituzionale da un lato, dalle
realtà aziendali o dalle strutture indipendenti underground dall’altro.
Si può dire dunque che, in un certo senso, xing nasce all’interno di
un vuoto: quello tra il pubblico e il privato, tra la scena creativa e il
sistema economico/produttivo, che se in altri contesti europei è
almeno in parte colmato da interventi e investimenti pubblici o dalle
politiche lungimiranti di qualche imprenditore o azienda, in Italia è
un territorio pressoché inesplorato.
Workteam
Naturale premessa della nascita e del funzionamento di xing è la
scelta di strutturarsi e operare come un team, un gruppo di lavoro in
cui i ruoli ideativo/progettuali e quelli esecutivo/organizzativi sono
intercambiabili e dove per scelta manca una struttura gerarchica tradizionale. Grazie a questa struttura è possibile mantenere un contatto continuativo, una frequentazione professionale e progettuale non
episodica con ambiti diversi e a volte lontani, creando i presupposti
per la realizzazione di progetti che abbiano una reale incidenza culturale, e che siano al limite in grado di creare le reali condizioni per
modalità di produzione, di finanziamento e di fruizione nuove.
Multidisciplinarietà
Nell’operare di xing è centrale la vocazione alla multidisciplinarietà, nel tentativo costante di uscire dai sistemi delle diverse discipline (l’arte contemporanea, il teatro, la musica, la produzione audiovisiva, la comunicazione visiva e cosí via) e dei relativi microcosmi per
cercare nuovi flussi, nuovi scenari, con la possibilità di aprirsi a pubblici piú ampi e diversificati.
Non si tratta di un fenomeno di tendenza o di un’affermazione di
principio, ma di una scelta che riflette il movimento inarrestabile
della scena creativa in una direzione, oltre che di crescente “mix” tra
le forme espressive e i linguaggi, anche di rottura degli schemi produttivi, di circuitazione e distribuzione, di finanziamento tradizionali.
xing: un laboratorio progettuale tra realtà creative e produttive
La scena creativa
La scena creativa a cui xing fa riferimento è un arcipelago poco
codificato in cui alle figure degli artisti e agli autori si sostituiscono
sempre piú spesso gruppi o team multicompetenti e flessibili, dotati
di identità creative ma anche tecnico/produttive nei quali le autorialità singole si sovrappongono o addirittura si annullano. Accanto ad
ambiti piú “tradizionali” come quelli dell’arte contemporanea, del
teatro, della danza, la scena a cui xing si relaziona comprende infatti
mondi come quello della musica elettronica, della performance, del
web e graphic design, della produzione audiovisiva, della comunicazione, dell’editoria, realtà in cui è determinante la capacità di muoversi continuamente tra invenzione e applicazione, sperimentazione
e gestione di progetti su commissione, libertà espressiva e capacità di
adattamento a esigenze esterne.
Gli aspetti produttivi
È appunto in questo snodo culturale/economico che si gioca in
modo particolarmente significativo il ruolo di xing: quello di individuare nuove modalità di interazione tra il sistema dell’economia e
quello della sperimentazione artistica e creativa. Il tentativo è quello di lavorare in modo attivo e continuativo sul sistema di scambi –
per usare un’espressione anglosassone – tra la creative scene intesa
come sistema autosufficiente di creazione artistica e culturale e la
creative industry intesa come sistema della produzione e della comunicazione (sia essa di contenuti, di prodotti, di proposte di intrattenimento o di cultura).
Attraverso commissioni, produzioni ed eventi xing si propone di
attivare nuovi flussi di contenuti e di comunicazione in grado di
influenzare da un lato le modalità di finanziamento e di produzione
creativa, dall’altro le dinamiche di comunicazione e di intervento culturale delle aziende o delle istituzioni pubbliche, oltre le forme tradizionali del semplice flusso di denaro nelle forme della sponsorizzazione o della commissione commerciale.
Partner
Quello dei partner produttivi è un elemento-chiave del sistema
creazione > produzione > comunicazione al centro dell’attività di
xing. È qui che si gioca la possibilità reale di cambiare le modalità di
relazione tra committente e creativo, modalità che partono dalla
strutturazione stessa del contenuto per influenzare la produzione
del progetto in tutte le sue fasi, fino all’output di comunicazione e
di relazione con il pubblico. È importante sottolineare infatti che
nel processo di realizzazione di un progetto, di un evento, di una
produzione, elementi quali l’ideazione del contenuto, le modalità di
realizzazione e di produzione, quelle di comunicazione e di finanziamento non solo non sono rigidamente scindibili, ma funzionano
quanto piú stretta e strutturale è la relazione tra di essi.
199
Creazione contemporanea
Gli interlocutori che entrano in gioco nella produzione dei progetti si possono individuare in:
partner creativo/autoriali: artisti, graphic designer, team autoriali,
gruppi teatrali, curatori;
partner tecnico/produttivi: allestitori, progettisti, tecnici;
partner finanziatori privati: aziende sponsor, aziende partner,
aziende committenti, editori;
partner finanziatori pubblici: istituti di cultura, finanziamenti pubblici, musei pubblici;
partner media: magazine, siti web, network radiofonici o televisivi
via satellite, giornalisti;
pubblico/fruitori: pubblico pagante, target di progetti su commissione, mailing list, acquirenti di pubblicazioni.
200
Nuovi formati/nuovi pubblici
Che si tratti degli spettatori di un evento estemporaneo, del target per un progetto di comunicazione o di un pubblico di riferimento costruito continuativamente nel tempo, il pubblico rimane
un fattore primario di qualsiasi progettualità. Nella relazione con il
pubblico xing tende a muoversi in modo esplorativo, cercando di
proporre modalità di fruizione nuove rispetto a quelle tradizionali.
È un obiettivo che si ottiene mettendo i gioco diversi fattori: i luoghi, i formati, i tempi, i linguaggi della comunicazione. I principali
progetti di xing (Netmage, il Festival Internazionale sullo spettacolo contemporaneo, Italian Landscapes) hanno infatti come caratteristica
quella di proporsi con formati nuovi, in luoghi non convenzionali,
rivolgendosi a pubblici eterogenei e trasversali. Nell’immediato il
risultato è piuttosto imprevedibile – proprio per la scarsa riconoscibilità rispetto a forme e modalità già note. Ma a lungo termine questo insieme di esperimenti ha dato un risultato tangibile: il formarsi
di un nuovo “pubblico di riferimento” (supportato anche da una
maggior apertura di alcuni media) magari di nicchia ma in grado a
sua volta di muovere fasce piú ampie.
Progetti
Concludendo, ecco alcuni dei principali progetti di xing. Si tratta
di progetti aperti, in progress, ognuno dei quali rappresenta un esperimento produttivo differente, cosí come diversi sono i contenuti, le
economie di scala, il pubblico e i contesti. Dopo due anni e mezzo di
lavoro, possiamo dire di avere realizzato una prima mappatura di possibilità, di esperienze che non si sono esaurite nello spazio di un singolo episodio ma che hanno lasciato dietro di sé tracce concrete e
che sono, speriamo, fertili di nuove aperture. Ci sembra questa la
premessa piú importante per poter continuare a lavorare rimanendo
sempre in contatto con le realtà della creazione piú attuale e vitale, le
xing: un laboratorio progettuale tra realtà creative e produttive
cui dinamiche difficilmente si possono congelare in strutture e modalità costanti e stabilite una volta per tutte.
Netmage
Creative and innovative images on media, arts, communication
2000/2004
Partner: Diesel, Tdk, Comune di Bologna, Cineteca di Bologna,
The British Council, Afaa Association Française d’Action Artistique,
Arte Fiera, Zeroedizioni, Blow up, Label, Rai radio 2 - Weekendance,
Skug, H-amb, Epson, Gianni grassili sound service.
Netmage è un festival internazionale, giunto alla sua quarta edizione, dedicato ai live media e all’innovazione nel vasto ambito della
produzione visiva contemporanea, fra musica elettronica, arti visive,
performing arts.
Il festival si articola in un vj e live media contest che assegna un consistente premio di produzione ai due vincitori; una sezione di guests,
artisti internazionali, cui Netmage di anno in anno commissiona progetti speciali o che invita a esibirsi in live media, concerti o installazioni multimedia; una sezione performing arts dedicata a opere provenienti dall’ambito del teatro o la danza di ricerca.
Aspetti produttivi: il festival è concepito a moduli ognuno dei
quali è realizzato in collaborazione con un partner. Ogni partner è
cosí legato a un evento, a un’area, a un modulo del festival. Sono previste inoltre forme di vera e propria co-produzione, come nel caso del
Netmage Diesel Award, in cui il partner segue direttamente attraverso il proprio team creativo lo svolgimento dell’Award, una sorta di
brand che contraddistingue la realizzazione da parte dei vincitori di
un live o di un altro prodotto che viene poi circuitato o all’interno
del sito istituzionale dell’azienda, nei negozi, in occasione di altri
eventi. Il gruppo vincitore inoltre riceve l’incarico di realizzare l’immagine coordinata del Festival successivo. Il Festival commissiona e
finanzia inoltre uno o piú progetti in esclusiva a gruppi e artisti della
scena italiana e internazionale.
Vodafone Media Lab
2001/2003
Committente: Vodafone Omnitel
Un’installazione/laboratorio su commissione di Vodafone Omnitel di cui xing ha curato il concept e le attività, la realizzazione dei contenuti, la comunicazione visiva e la progettazione del sito. Il progetto,
rivolto al pubblico allargato e alle scuole, è concepito come luogo itinerante di sperimentazione delle piattaforme digitali e di formazione
sull’immaginario tecnologico.
Aspetti produttivi: si tratta di un incarico professionale in cui xing
opera come agenzia creativa e fornitore di contenuti; il progetto,
oltre che come strumento di comunicazione istituzionale di Vodafone Omnitel, è stato anche l’occasione per individuare e formare una
201
Creazione contemporanea
generazione di giovani creativi i quali hanno costituito lo staff del lab
e hanno realizzato in collaborazione col pubblico e con le scuole
alcune decine di prodotti audiovisivi digitali che costituiscono un
archivio. I workshow, incontri con le punte emergenti della creatività
digitale italiana, hanno contribuito a monitorare la scena nelle diverse tappe del lab (Milano, Bologna, Napoli, Roma).
202
Italian landscapes Lounge Theatre & libro
2000/2002
Partner/committenti: Festival Romaeuropa 2000; Tttv
festival/performing arts on screen 2002; luca sossella editore.
Si tratta di una produzione affidata di volta in volta a team o autori significativi nel panorama creativo italiano, a cui viene chiesto di
realizzare un progetto ad hoc di immagini e suoni sulla propria percezione e visione del paesaggio italiano. L’opera finale è un live media
per tre schermi affiancati della durata di 30’ con suoni e immagini
mixati dal vivo. Nell’ottobre 2001 luca sossella editore ha pubblicato
il libro Italiand Ladscapes, con interventi commissionati a ventidue
autori sul tema del paesaggio italiano.
Aspetti produttivi: ogni “versione” di Italian Landscapes Lounge
Theatre viene commissionata da un ente o da un’istituzione a xing,
che a sua volta commissiona a tre gruppi o autori la realizzazione di
un format nuovo, che si colloca tra l’installazione e il live media. xing
funziona cosí da curatore e referente produttivo. Le installazioni realizzate vengono perfomate dal vivo dagli autori stessi e fatte circuitare
in musei, festival, istituzioni contribuendo a coprire i costi di gestione
e i fee dei gruppi coinvolti. Il libro ha utilizzato lo stesso meccanismo
di commissione ad hoc su un formato, quello della pagina stampata,
inusuale per molti degli autori, provenienti da ambiti creativi come il
teatro o le arti digitali.
Festival internazionale sullo spettacolo contemporaneo
2000/2003
Partner principali: Regione Emilia-Romagna, Provincia di Bologna, Comune di Bologna, quartiere Navile, Afaa Association Française d’Action Artistique, Pro Helvetia, The British Council, Galleria
d’Arte moderna di Bologna, Fabrica Features, ttv festival.
Festival a cadenza annuale della durata di un mese che si svolge in
diverse sedi, dedicato alle forme piú attuali della scena performativa
contemporanea, che comprende opere e formati di varia natura visti
da diverse prospettive disciplinari. Il festival cambia titolo di anno in
anno per esplorare secondo un orizzonte tematico i motivi che attraversano lo spettacolo contemporaneo, restituendo una chiave interpretativa possibile degli sviluppi delle performing arts.
Aspetti produttivi: si tratta di un evento a carattere internazionale
finanziato principalmente da Istituzioni locali e dagli Istituti di Cultura di diversi paesi che contribuiscono a coprire le spese di partecipa-
xing: un laboratorio progettuale tra realtà creative e produttive
zione degli ospiti stranieri. L’evento prevede l’utilizzo di spazi e di
formati non tradizionali come lo spazio ex Bologna Motori o lo spazio Fabrica Features, con cui è stata avviata una collaborazione ormai
da alcuni anni.
Lima e Raum: due spazi a Milano e Bologna
All’inizio del 2003, xing ha inaugurato due spazi a Milano e Bologna che costituiscono, oltre che le sedi operative e di lavoro, altrettanti laboratori progettuali con una programmazione sperimentale e
continuativa e un pubblico di riferimento di alcune centinaia di persone. In questo caso gli aspetti gestionali e produttivi vengono affrontati in collaborazione con altre realtà.
Lima - Milano. In collaborazione con: Studioper, studio di architettura e design
È un progetto di spazio indipendente dedicato ai temi della cultura contemporanea, con una programmazione incentrata sull’arte visiva attraverso eventi di natura interdisciplinare. studioper, studio di
architettura e design ha messo a disposizione i suoi spazi appositamente riallestiti, per condividerli con xing a Milano. Dal punto di
vista produttivo, gli eventi si finanziano grazie all’utilizzo commerciale dello spazio in alcune momenti dell’anno. Nel progetto è previsto
il coinvolgimento di altri partner strutturali.
Raum - Bologna. In collaborazione con: A lato, Pierrot Lunaire e
H-amb
Raum è uno spazio di xing in condivisione con altre realtà produttive. Oltre a essere la sede operativa a Bologna, prevede la realizzazione di un nuovo progetto culturale dedicato alla ricerca nei settori
multimedia, visivo, performativo e musicale. Le attività sono finanziate grazie a un’attività di tesseramento e di contributi del pubblico.
203
Formazione per ambiti contemporanei:
Interaction Design Institute Ivrea
Gillian Crampton Smith
L’Interaction Design Institute Ivrea, anche detto ”InteractionIvrea”, sviluppa nuovi concetti per telecomunicazioni, reti e information technology, focalizzandosi su prodotti e servizi volti a migliorare la
vita quotidiana e il suo contesto culturale.
Fondato da Olivetti e Telecom Italia per incrementare la formazione nel campo dell’ITC (Information and Comunication Technologies),
l’Istituto – nato da un’idea del suo presidente, il Senatore Franco
Debenedetti e oggi centro culturale parte del Progetto Italia di Telecom Italia – propone un programma di “concetti futuri” per far crescere e diffondere attraverso progetti innovativi la cultura del design
interattivo, oltre a gestire un master internazionale in interaction design, argomento di questo saggio.
Nell’ottobre del 2001, l’Interaction-Ivrea ha aperto le sue porte a
trentacinque studenti e docenti provenienti da tutto il mondo. Attratti da un’ampia scelta di insegnamenti di design, informatica e discipline umanistiche, gli allievi imparano ad applicare la conoscenza e
le tecniche delle discipline tradizionali inerenti al design – architettura, disegno industriale e grafica – alla progettazione di nuovi servizi e
prodotti interattivi resi possibili dal computer e dalla tecnologia delle
telecomunicazioni.
Cos’è l’interaction design?
Vent’anni fa i computer erano costosi strumenti per professionisti
o sofisticati giocattoli per appassionati. Oggi sono presenti in ogni
aspetto della nostra vita quotidiana, dai telefoni cellulari ai forni a
microonde, dalle cyclette alle macchine da cucire (oggi nel mondo,
per ogni uomo, donna e bambino, ci sono 12 chips).
Quando le macchine erano analogiche, l’interazione era diretta e
avveniva tramite un contatto fisico. Si caricava l’orologio e si girava una
rotellina per regolare l’ora; si premeva un pulsante per selezionare la
velocità di un frullatore; si spostava una leva per cucire in senso inverso,
ed era possibile visualizzare i meccanismi che consentivano tutto ciò.
Una macchina controllata da un computer è tutt’altra cosa: presuppone la padronanza di competenze tecniche e risponde spesso a
impulsi indipendenti da noi, in maniera complessa, meno immediata
e a volte del tutto misteriosa. L’uso di queste apparecchiature è in
continua crescita, sebbene la nostra interazione con esse sia spesso
goffa, incerta e poco gradevole.
L’interaction design combatte questa tendenza. Mentre il disegno
industriale tradizionale è incentrato sulla funzionalità del prodotto e
sul suo aspetto, l’interaction design pone l’accento su un presupposto
205
Creazione contemporanea
206
differente. Un dispositivo computerizzato non deve soltanto funzionare ed essere bello in sé: deve essere progettato in modo tale che la
nostra interazione, la comunicazione e lo scambio delle informazioni
con esso siano chiare ed efficienti e rispondano ai nostri desideri. E
ancora, può e deve essere un’esperienza piacevole che migliori la
qualità della vita quotidiana.
L’interaction design non riguarda soltanto dispositivi fisici ma anche
servizi. La nostra vita è sempre piú connessa tramite reti di telecomunicazioni e pervasa da elementi immateriali come la musica, i film, la
tv e altre fonti di informazione. Questi servizi, forniti da aziende e istituzioni pubbliche, sono importanti tanto quanto gli strumenti tramite
cui vi accediamo: il telefono, la segreteria telefonica, il computer palmare. La nostra esperienza dipende sia dall’architettura del servizio
stesso, sia da come interagiamo con lo strumento. L’interaction design
sviluppa quindi tanto il design di oggetti materiali, quanto il design
dell’immateriale: i servizi e il software tanto quanto l’hardware.
Le tecnologie interattive richiedono un nuovo intervento progettuale, nato da una fusione di suono, grafica, design del prodotto e
sequenze narrative su base temporale. Sviluppare questo nuovo tipo
di progettazione porta a una nuova estetica: dell’uso e dell’esperienza quanto della forma, dove funzionalità, informazione (e forse divertimento) convergono.
Per rispondere a queste necessità, Olivetti e Telecom Italia hanno
fondato l’Interaction-Ivrea, una società no profit indipendente che
opera come centro culturale per promuovere e diffondere le conoscenze e le competenze tecniche dell’interaction design. L’Istituto mira
a dunque sviluppare la cultura dell’interaction design, originaria della
Silicon Valley, in un contesto europeo, collegandosi alla tradizione italiana, alle tendenze attuali del design, dell’innovazione e dello stile di
vita. Nel fare ciò, approderà a una fusione del tutto europea di tecnologia e design per prodotti e servizi. Al centro di questo impegno è il
master di due anni dell’Interaction-Ivrea in Interaction design.
Educazione al design: dal modello Beaux Arts al Bauhaus a Ivrea
Le radici dell’insegnamento dell’Interaction-Ivrea sono riconducibili a diverse tradizioni pedagogiche. L’interaction design è una disciplina recente, ma le sue origini si ritrovano nell’insegnamento dell’industrial design e della cinematografia – in particolare della seconda
metà del XX secolo; nell’insegnamento dei mestieri artigianali e
delle cosiddette arti applicate (tipografia, lavorazione dei metalli,
ceramica), a partire dal IXX secolo; nell’insegnamento della pittura e
dell’architettura come si è configurato nel XVII e XVIII secolo.
In architettura, quello che comunemente viene chiamato design,
era un’attività tradizionalmente svolta da due generi di persone, spesso in collaborazione: carpentieri e operai, che imparavano il mestiere
Formazione per ambiti contemporanei: Interaction Design Institute Ivrea
attraverso un apprendistato pratico, ed eruditi amateurs, che grazie
alla loro istruzione elevata facevano conoscere ai muratori i testi classici e talvolta li introducevano allo studio diretto dell’architettura
antica. Nel Seicento, Luigi XIV fondò, tra le altre accademie nazionali, quelle per pittori e per architetti, che includevano entrambe una
scuola. Le accademie tornarono in vita dopo la Rivoluzione, ma agli
inizi dell’Ottocento in Francia, lo studio dell’architettura venne diviso in due rami: uno dedicato all’ingegneria civile e militare, e l’altro
all’architettura intesa come una disciplina delle “Belle Arti”.
La tradizione educativa alle Beaux Arts ebbe nei secoli seguenti
uno sviluppo complesso, ma due caratteristiche restarono costanti: la
nozione di “composizione” ovvero l’idea che il design (per come
veniva inteso nell’accezione classica) potesse essere sistematizzato in
un processo dall’alto verso il basso: da principi generici e linee geometriche fino al dettaglio di una particolare applicazione. Questa
idea si diffuse largamente nell’Europa continentale (i corsi italiani di
progettazione architettonica si chiamano ancora di composizione).
La seconda caratteristica riguarda la progettazione: agli studenti veniva posto un problema progettuale e chiesto loro di risolverlo in un
limitato periodo di tempo, attraverso soluzioni generali alternative,
cui seguivano gli interventi critici dei professori, a determinati stadi
(quasi teatralmente formalizzati), per procedere infine all’elaborazione di un complesso progetto finale.
Per i professionisti nel mondo anglosassone, tuttavia, una tale
istruzione formale era inconcepibile; l’apprendistato era l’unica formazione possibile. A partire dal 1830 circa, in Inghilterra furono istituiti dei corsi, dapprima in quello che oggi è l’University College di
Londra e in seguito all’Architectural Association e alla Royal Academy. Per assistere all’emergere in Inghilterra di qualcosa di simile al
moderno insegnamento di architettura e design, si dovette attendere
fino alla fine del XIX secolo e l’inizio del XX. Quando questo avvenne, furono adottati i metodi educativi alle Beaux Arts (l’elaborazione
teorica di un progetto e la sua valutazione pubblica), benché la filosofia del design fosse fortemente influenzata dal movimento Arts and
Crafts. Per i fondatori di questo movimento, William Morris e John
Ruskin, il design non aveva soltanto una valenza pratica o estetica, ma
soprattutto morale, inscindibilmente legata al benessere fisico e al
potenziale creativo del produttore, dell’operaio, e alla salute mentale
non solo del consumatore ma della società intera. Da socialista
(anche se in maniera del tutto personale), Morris denunciava come
la produzione di massa impoverisse la qualità della vita dei produttori
e dei loro prodotti (Adriano Olivetti era similmente coinvolto nel far
emergere il potenziale di tutti i suoi dipendenti e nel migliorare le
loro vite e quelle degli utenti dei suoi prodotti).
Il metodo educativo del movimento Arts and Crafts si opponeva
all’ordine delle Beaux Arts. Minimizzava la distinzione tra arti pure
e arti applicate, compresa l’architettura, e dunque la gerarchia
207
Creazione contemporanea
208
sociale che distingueva chi progettava e insegnava da chi produceva ed eseguiva, oltre ad accentuare nel design di un prodotto l’importanza degli aspetti costruttivi.
Era un metodo che tendeva a essere induttivo piuttosto che deduttivo, procedendo dal basso verso l’alto, ovvero dal particolare empirico al progetto complessivo, ma era anche un approccio romantico,
che dava importanza all’invenzione personale dell’artista-artigiano.
Tutto ciò spiega sia l’enfasi fortemente sociale, pratica e individualista dell’educazione inglese, sia i suoi sviluppi, al Royal College of Art
e al London County Council successivamente trasformato nella Central School of Arts and Crafts.
L’educazione all’arte e al design sviluppata nell’Ottocento in Germania riprese alcuni degli aspetti romantici, ispirati al gothic revival,
del movimento Arts and Crafts, anche per mutuare modelli di insegnamento dalla Gran Bretagna, suo rivale economico. Mentre il
movimento Arts and Crafts era specificamente anti-industriale, la combinazione di tale ideologia con l’importanza attribuita alle scienze
applicate dalle università tecniche tedesche portò a un nuovo modello di insegnamento del design che agli inizi del Novecento diede
forma al Bauhaus. Il metodo del Bauhaus era del tutto innovativo,
soprattutto nell’impostazione dei primi livelli di formazione dello studente, incentrati su piccoli esercizi astratti piú che su progetti complessivi volti a stimolare sensibilità e capacità tecniche particolari,
prima di passare a stadi progettuali successivi. La filosofia del
Bauhaus conservò gli aspetti sociali, pratici e individualistici dell’Arts
and Crafts, ma in seguito accolse con grande entusiasmo la realtà
della produzione di massa e l’estetica modernista della macchina.
Il modello del Bauhaus fu estremamente influente, soprattutto –
ma non soltanto – nel mondo anglosassone, in seguito all’emigrazione
di molti docenti, iniziata alla fine degli anni Trenta negli Stati Uniti.
Diventò un modello importante per il Royal College of Art, dove
gli studenti di arte e design, già laureati seguivano un master di due
anni. Gli studenti del RCA sono divisi in piccoli gruppi all’interno di
un contesto multidisciplinare, e devono preparare un portfolio di
progetti, presentati sotto forma di prototipi o modelli in scala. Ho
fondato il dipartimento di Interaction Design del RCA (in origine
Computer Related Design) e ho sviluppato molti dei precetti e delle
metodologie all’interno dell’Interaction-Ivrea, per trarre vantaggio
dalla tradizione italiana e, in particolare, dalla straordinaria eredità
architettonica, progettuale e intellettuale dell’Olivetti.
L’insegnamento all’Interaction-Ivrea
Interaction-Ivrea è l’unica istituzione in Italia interamente dedicata al design nelle sue relazioni con le nuove tecnologie dell’informatica e delle telecomunicazioni. Rappresenta la risposta di Olivetti e
Formazione per ambiti contemporanei: Interaction Design Institute Ivrea
Telecom Italia al bisogno di nuove tecnologie progettate secondo i
desideri e le esigenze delle persone. Con sede a Ivrea, nel famoso
Centro Studi (Bluhaus) progettato per la Olivetti da Eduardo Vittoria
e ora ristrutturato dallo studio Sottsass Associati, l’Interaction-Ivrea si
ispira programmaticamente alla tradizione dell’Olivetti: design pionieristico e innovazione tecnologica uniti a una forte visione sociale e
culturale. La questione oggi, come al tempo di Adriano Olivetti, è
come essere in prima linea nel design e nell’innovazione, e come fondere tecnologia e cultura.
Proprio come Adriano Olivetti costruí una comunità internazionale di artisti, designer, ingegneri, sociologi, filosofi e poeti, l’Interaction-Ivrea sta sviluppando una comunità internazionale di professionisti del design e di studenti. In effetti, mentre l’Italia lamenta la fuga
dei suoi cervelli, l’Interaction-Ivrea registra un’inversione di tendenza: tutti gli italiani componenti il corpo docente sono rientrati dopo
aver studiato o lavorato all’estero.
Ogni anno l’Interaction-Ivrea accetta al master biennale trenta
studenti, provenienti da un vasto raggio di discipline e da differenti
Paesi: attualmente circa il 20% sono italiani e gli altri provengono da
diciotto Paesi diversi dell’Europa, dell’America e dell’Asia. Vengono
selezionati sulla base del loro portfolio (o su un lavoro scritto, quando non sono designers) e generalmente supportati da borse di studio: l’Interaction-Ivrea cerca gli studenti piú dotati nel mondo e non
li esclude se hanno problemi economici. L’età media è ventinove
anni e la maggior parte di loro ha già avuto considerevoli esperienze
professionali nel design, information technology o scienze sociali. Tutti
quanti vivono nell’edificio circolare Unità-Residenziale-Ovest (“Talponia”), costruito su una collina e progettato per l’Olivetti da Roberto Gabetti e Aimaro Isola.
Centrali al metodo di insegnamento sono il progetto e la critica
pubblica (desunti dal modello Beaux-Arts), l’“imparare facendo” (ispirato alla tradizione Arts and Crafts) e nel primo anno, un’intensa specializzazione su progetti brevi (mutuata anch’essa dal Bauhaus). Fondamentale per la prospettiva etica dell’Istituto è l’attenzione sociale e
comunitaria di Ruskin, Morris e Olivetti: la tecnologia al servizio
della vita di ogni giorno e della cultura.
Il primo anno
Gli studenti iniziano con un corso di orientamento di due settimane che aiuta loro a conoscersi e ad ambientarsi a Ivrea. Frequentano
corsi intensivi di italiano o di inglese, se necessario sistemano i loro
documenti in questura, vengono inviati nelle città vicine con i trasporti pubblici per assicurarsi che siano in grado muoversi da soli, e quando gli studenti del secondo anno rientrano a Ivrea, preparano un
breve progetto insieme: in questa sessione (2002-2003) gruppi di quat-
209
Creazione contemporanea
210
tro o cinque studenti, del primo e del secondo anno, hanno dovuto
ideare duecento proposte di postazioni informatiche “ubiquitarie” e
installarle in modo ubiquitario in diversi punti all’interno di Bluhaus.
Il primo anno è una sequenza strutturata di esercizi, progetti
brevi, laboratori e seminari sul processo, le applicazioni e le tecniche
dell’interaction design che offre esperienza pratica in tutte le fasi del
design, Gli studenti generano concetti, elaborano prototipi, progettano nel dettaglio l’esperienza degli utenti, fino a un test finale con gli
utenti stessi. Tutto ciò implica come il design di prodotti e servizi
interattivi debba essere tecnologicamente possibile, economicamente
sostenibile, culturalmente e socialmente desiderabile.
Nel primo semestre (autunnale), gli studenti si esercitano sugli
elementi base dell’interaction design: comunicazione grafica, composizione in 3-D, calcolo e programmazione ed elettronica. Si concentrano su materie che ancora non conoscono in modo che tutti, a prescindere dalla loro preparazione precedente, possano condividere un
linguaggio di lavoro comune: il fine non è di trasformare i graphic
designers in ingegneri, o viceversa, ma di assicurare che tutti colgano
le caratteristiche e i limiti dell’operare con altre discipline.
Nel secondo semestre (primaverile) gli studenti elaborano una
sequenza di progetti a scadenza mensile, il primo dei quali (in un contesto pubblico di Ivrea, come per esempio l’ospedale) si concentra su
come comprendere i bisogni dell’utente, utilizzando tecniche come la
fotografia e il video, per registrare, analizzare e comunicare i risultati.
Ogni progetto è coordinato da una delle aree di ricerca dell’Interaction-Ivrea. In questa sessione il gruppo Tecnologie Personali ha seguito un progetto di computer da indossare e uno sul design di interfacce fisiche come il telecomando; quelli dell’area Comunità Connesse
erano progetti di “Tools for Thought”, ovvero come scambiare le
conoscenze tra l’Interaction-Ivrea e i suoi piú stretti collaboratori) e
“Building as Interaface”; infine i progetti dell’area Servizi del Domani
erano “Slow Technology for Fas Cities” (servizi su richiesta) e “Service
Envy” (servizi desiderabili quanto i prodotti fisici). Gli studenti possono scegliere tre tra i sei progetti proposti e nel contempo iniziano a
elaborare il progetto per la tesi del secondo anno.
Sono inoltre previsti viaggi di studio e corsi teorici. In questa sessione il viaggio di studio autunnale è stato ad Amsterdam per la conferenza Doors of Perceptions; la sessione precedente a Tokyo, per presentare il lavoro dell’Interaction-Ivrea a colleghi e università giapponesi. Il corso teorico autunnale tenuto dal professor Ortoleva dell’Università di Torino, era incentrato sulla storia e sulla teoria dell’evoluzione tecnologica, dal primo utilizzo degli strumenti, attraverso l’invenzione della stampa, fino alle odierne telecomunicazioni. Il corso
teorico primaverile, sui concetti del business, era focalizzato sul
modello italiano di distretto industriale. Piccoli gruppi di studenti
hanno visitato piccole e medie imprese a Bologna (Ducati), a Prato
(industrie tessili), Rimini (società dell’intrattenimento), Trieste
Formazione per ambiti contemporanei: Interaction Design Institute Ivrea
(Illy), e Udine (Fantoni e MDF) per preparare uno studio specifico
di studio e considerare il ruolo che informazione e tecnologie della
comunicazione dovrebbero svolgere in questi settori.
A fine giornata si tengono le cosiddette “catalyst”, conferenze
aperte al pubblico di membri dell’Advisory Board dell’InteractionIvrea (il cosiddetto “Explorers Club”) e di famosi designer italiani o
stranieri, che di solito discutono individualmente i lavori degli studenti del secondo anno e tengono workshop per piccoli gruppi. Una
serie di conversazioni teoriche ha esplorato come il dibattito filosofico possa arricchire l’interaction design: il professor Vercellone dell’Università di Udine ha trattato la filosofia estetica del movimento Arts
and Crafts, il professor Marconi dell’Università di Torino la filosofia
del linguaggio. L’intero anno è inoltre scandito da settimane di riflessione, momenti in cui gli studenti devono prendere in considerazione e valutare tutto quello che hanno fatto fino a quel momento.
Il secondo anno
Nell’estate tra i due anni, gli studenti sono spinti a fare degli internati presso aziende o studi di design, quali per esempio Ideo (Londra), Metadesign (Berlino), Motorola Advanced Concept Design
(Milano), Telecom Italia Mobile (Roma), Whirlpool (Varese), o in
organizzazioni no profit come la Scuola Sant’Anna (Pisa), dove gli
studenti hanno operato su applicazioni per strumenti tattili sensibili
o all’Università di Halmstad (Svezia), dove hanno lavorato su giocattoli digitali per bambini disabili. Gli studenti devono inoltre completare la preparazione teorica per la tesi e iniziare la fase di progettazione della sessione autunnale con una serie di esperimenti e prototipi.
Nella sessione primaverile una dettagliata indagine progettuale è
testata con gli utenti e nella sessione estiva si prepara la mostra finale.
Contemporaneamente all’elaborazione della tesi, gli studenti del
secondo anno lavorano con un docente in un workshop “Applied
Dream”: un laboratorio di due settimane, in collaborazione con un’azienda, su concetti futuri di prodotti e servizi, utilizzando le tecnologie attuali o quelle dell’immediato futuro. Alcune società inviano i
propri giovani designers perché lavorino con gli studenti e vi sia uno
scambio di esperienze sui processi dell’interaction design. Nell’ultima
sessione, i collaboratori sono stati Hitachi, Sony e Telecom Italia; Fiat,
Motorola e Nokia hanno mostrato interesse a collaborare nella prossima sessione.
La sessione si conclude con una valutazione dei progetti di tesi
effettuata da accademici e industriali italiani e stranieri, e con la
mostra dei progetti della sessione – a cui i lettori di questo articolo
sono caldamente invitati.
211
Impresa e cultura: una relazione strategica
Michela Bondardo
Che cosa compriamo quando decidiamo di acquistare un prodotto? La domanda può sembrare paradossale, ma spesso dietro comportamenti apparentemente banali si nasconde un mondo di senso del
tutto inaspettato.
Per secoli l’uomo ha dedicato tutte le sue energie a soddisfare
bisogni primari: cibo, indumenti, riparo dalle intemperie, igiene,
cure mediche, educazione. Oggi, con la vittoria definitiva nella lotta
per la sopravvivenza (quantomeno nello sviluppato “primo mondo”
delle democrazie di mercato), ciò che un tempo era scarso – ovvero
le risorse – è diventato abbondante; ciò che un tempo era scontato –
ovvero la ragione per cui si lottava per avere piú risorse – è divenuto
problematico. L’impegno delle imprese è quindi concentrato nel
convincere le persone a desiderare e consumare prodotti che vanno
al di là dei beni primari perché in realtà vanno a soddisfare il bisogno
di identità del consumatore. Prodotti che si caricano di valori simbolici culturalmente caratterizzati.
Secondo parametri tradizionali di misurazione, il benessere delle
persone è valutato in termini di reddito nazionale pro capite, ovvero
in base a quanto spetterebbe a ciascun individuo della quota dell’ammontare totale di beni e servizi prodotti da un Paese. È tuttavia
evidente che questo metodo di misurazione ha sempre meno a che
fare con la qualità della vita delle persone. Anzi la contraddizione
che affligge le società avanzate – evidenziata anche da una ricerca
condotta recentemente dal premio Nobel per l’economia Daniel
Kahneman – 1 sta proprio nel fatto che l’aumento del benessere
materiale non va di pari passo con quella della piena realizzazione
delle persone. Non sempre infatti a un piú alto livello di consumo
corrisponde un incremento della felicità individuale. Siamo abituati
a pensare che il consumo è “buono” perché soddisfa i nostri bisogni,
ma se la conquista dei beni materiali non è piú centrale nella nostra
vita, perché il consumo dovrebbe continuare a essere un obiettivo da
perseguire, soprattutto quando l’assicurarsi un elevato livello di consumi implica notevoli sacrifici in termini di stress psicologico, relazioni umane e a volte persino salute? La giustificazione del consumo
deve quindi essere da un’altra parte.
In realtà ciò che oggi guida e motiva il consumo è il bisogno di
espressione individuale, di credibile rappresentazione di sé. La causa
di questo cambiamento è di carattere sociologico: in una società preindustriale e industriale, i ruoli e i modelli di identità sono parte della
struttura naturale del mondo e non vengono minimamente messi in
discussione. Il figlio di un contadino sarà un contadino, parlerà in un
certo modo, mangerà certe cose, sposerà un certo tipo di donna, e
cosí via. Il figlio di un contadino avrà ben poca probabilità di diventa-
213
Creazione contemporanea
214
re medico o avvocato, e viceversa. Negli anni recenti insieme allo sviluppo economico anche le rigidità sociali hanno cominciato ad
ammorbidirsi fino a scomparire. Oggi non soltanto il figlio di un contadino può diventare un avvocato o un medico di successo, ma essere
un avvocato di successo non è piú un limite in termini di comportamenti e ruoli sociali come per esempio quali vestiti indossare, cosa
fare nel tempo libero, chi sposare, e cosí via. In altri termini la tendenza dominante è sempre piú quella di permettere a ciascuno di perseguire liberamente il proprio progetto di identità con il livello minimo
di pressione sociale compatibile con una vita sociale ordinata.
In breve, quello che era un tempo il grande interrogativo, ossia
come ottenere abbastanza risorse per sopravvivere, è ora del tutto
superato, mentre al contrario la questione per la quale esisteva un
tempo una risposta scontata, ossia chi si è e cosa fare della propria
vita, è ora aperta e inquietante. Avendo perso la sua funzione naturale nella lotta per la sopravvivenza, il consumo è cosí diventato lo strumento principe per affrontare la nuova grande questione: costruire
la propria identità. Il tipo di orologio che si indossa e il tipo di automobile che si guida finiscono oggi per dirci di piú sul loro possessore
di quanto ci direbbe sapere dove è nato o chi sono i suoi genitori. Il
fulcro della nostra vita quotidiana è cosí divenuto la costruzione di
una narrazione individuale che abbia un qualche senso per noi e per
le persone alle quali teniamo. Ma ciò implica a sua volta che la cultura, che un tempo era riservata a pochi eletti raggruppati in circoli
chiusi ed esclusivi, si trasformi in un vero e proprio strumento di
“sopravvivenza” quotidiana nella nuova arena della competizione
identitaria. Forse non tutti sono consapevoli di questa profonda trasformazione, ma i pubblicitari e gli uomini di marketing stanno
imparando la lezione molto velocemente. Per secoli la cultura si è
nutrita di ciò che rimaneva al termine del ciclo produttivo e rappresentava il punto finale del processo di creazione del valore economico. Un modo di impiegare parte del surplus di profitto dell’impresa
per aumentarne lo status sociale e il prestigio. Oggi la cultura costituisce la materia prima della creazione del valore economico. In altre
parole è ciò su cui facciamo leva quando dobbiamo fornire a noi stessi una buona ragione per comprare un nuovo, costoso ma desideratissimo paio di scarpe.
In questo mutato scenario investire in cultura diventa davvero per
le imprese una mossa vincente. A patto però che nasca da una visione
a lungo termine supportata da un piano strategico e coerente. Infatti
di fronte a segmenti di mercato che sfumano e si confondono, per
rivolgersi con efficacia a differenti categorie di interlocutori, è necessario che le imprese costruiscano un marchio con forti valori distintivi e che strutturino modalità di comunicazione differenzianti e orientate alla relazione. Le imprese piú competitive si rendono conto di
dover instaurare con il mondo esterno e anche interno un rapporto
basato su regole non scritte, consce che il valore della loro identità e
Impresa e cultura: una relazione strategica
della loro storia può avere un’influenza diretta su quello dei loro prodotti o servizi. Si tratta dunque di dare il “la” a un’“orchestra comunicativa” che con diversi strumenti in armonia con gli obiettivi aziendali, riesca a raggiungere target specifici con messaggi mirati.
Di conseguenza, condizione indispensabile per un efficace investimento in campo culturale è l’integrazione del progetto con la filosofia aziendale e la sua continuità nel tempo. Il che significa che l’impresa deve svolgere un ruolo meno contingente ed effimero rispetto
a quello di semplice erogatore di risorse economiche per generici
fini di immagine e diventare invece un interlocutore consapevole del
suo ruolo e delle sue finalità.
In sostanza la cultura può rappresentare una buona scelta per
creare vantaggio competitivo sul mercato illuminando di luce nuova
e offrendo al personale interno nuove occasioni di stimolo intellettuale e di confronto con la complessa realtà contemporanea. Non
solo, la cultura aiuta anche a sviluppare un nuovo stile di relazione
con il variegato arcipelago degli stakeholders che contribuiscono alla
vita e allo sviluppo dell’impresa stessa.
Queste considerazioni sono state confermate dall’indagine su un
campione di consumatori italiani realizzata per Bondardo Comunicazione2 da Astra e Demoskopea. I risultati pubblicati nel volume Porta
lontano investire in cultura (Il Sole 24 Ore, Milano 2001), rivelano che
ben il 52% dei consumatori intervistati, a parità di prezzo e qualità, è
piú propenso ad acquistare prodotti di imprese che investono in cultura. Allo stesso tempo quasi l’80% ritiene che le imprese che investono
in cultura danno un contributo prezioso alla difesa e alla crescita del
nostro patrimonio artistico e culturale; il 70% afferma che le imprese
non solo devono “fare” ma anche “farlo sapere” attraverso la pubblicità e altri mezzi di comunicazione; infine l’83% ritiene che lo Stato
deve dare consistenti vantaggi fiscali a chi investe in cultura.
In questi ultimi quindici anni ci siamo impegnati a costruire uno
spazio d’incontro tra impresa e cultura, dove confrontarsi per trovare
insieme soluzioni capaci di intensificare il rapporto tra queste due
componenti vitali della nostra società. E proprio questa esperienza ha
sollecitato la nascita del Sistema Impresa e Cultura, uno strumento al
servizio delle imprese per aumentare in loro la consapevolezza di
come la cultura sia un’effettiva risorsa di sviluppo per il sistema economico e sociale del nostro Paese.
Il Sistema è un’associazione no profit sostenuta da un gruppo di
partner leader nel panorama dell’economia e della cultura italiana,
aziende e istituzioni che hanno in comune la volontà di captare i
segnali di cambiamento e di investire in fattori competitivi emergenti.
La sua missione è attivare un circolo virtuoso basato su tre assi
portanti: Premio, Osservatorio, Forum. Le voci delle imprese registrate
dal Premio funzionano da bussola per orientare la direzione dell’Osservatorio dove conoscenze teoriche e operative vengono elaborate per
essere poi divulgate e dibattute in occasione dei Forum. Infatti attra-
215
Creazione contemporanea
216
verso le azioni messe in atto dal Sistema, il mondo della cultura e
quello dell’impresa si incontrano e stabiliscono un dialogo progettuale via via piú intenso, acquisiscono indicazioni e linee guida utili
prima per capire e poi per agire, conquistano notorietà e autorevolezza presso pubblici sempre piú ampi e diversificati. Ciascun anello
della catena potenzia gli altri: i modelli piú originali ed efficaci si
diffondono sul territorio, vengono sperimentati e validati, attirano
l’interesse delle istituzioni e della società civile assicurando alle
imprese e agli operatori culturali una capacità sempre maggiore di
comunicare e di tradurre in concrete opportunità di business la propria strategia di investimento.
Ma vediamo nel dettaglio quali sono gli elementi che danno
forma a questo circolo virtuoso. Innanzitutto il Premio, che ogni anno
punta i riflettori su nuove “imprese eccellenti”, dalla grande fino alla
piccolissima impresa, e permette di valutare le modalità e la velocità
di diffusione dell’investimento culturale all’interno del tessuto produttivo del nostro Paese. È attraverso la lente del Premio che in sei
anni abbiamo potuto renderci conto della continua crescita del rapporto tra il mondo imprenditoriale e quello culturale. Il Premio è dunque il momento della visibilità, ma anche della scoperta: un viaggio
all’interno delle perle nascoste del sistema Italia che spesso rivela
tesori di intelligenza, creatività, sensibilità coniugati con la capacità di
rispondere alle sfide e agli imperativi del mercato.
L’Osservatorio è invece la fase della ricerca e della riflessione. L’innovazione richiede conoscenza. Ma la conoscenza si produce soltanto
attraverso la capacità di navigare con sapienza nell’oceano dei dati e
delle informazioni. Lo scopo dell’Osservatorio è proprio quello di
individuare tra i mille dati disponibili quelli veramente funzionali e
di immediato valore applicativo. Il nostro schema operativo consiste
nel registrare attraverso il Premio le voci delle imprese, trarne spunti
per andare alla ricerca delle esperienze piú interessanti ed evolute
della scena internazionale, verificarne la fattibilità adattandole al
sistema italiano e diffondere poi nuovi modelli nei diversi momenti
di incontro promossi dal Forum su tutto il territorio nazionale.
Il primo progetto firmato dall’Osservatorio è stato una pubblicazione sulla defiscalizzazione dell’investimento culturale in Italia messa a
confronto con il panorama internazionale. Uno strumento agile e di
facile consultazione per fare luce su un argomento poco noto ma
vitale per la crescita del rapporto tra impresa e cultura. Questo studio
ha messo in evidenza opportunità spesso sconosciute agli stessi addetti ai lavori, tanto sul versante dell’impresa che su quello della cultura.
La sua finalità è stata quella di stimolare un uso piú dinamico e intenso delle notevoli possibilità che l’attuale legislazione italiana già
rende disponibili e che nella sostanza sono molto superiori a quelle
della maggior parte degli altri paesi industrializzati.
Una risorsa unica dell’Osservatorio è costituita dalla banca dati
delle imprese italiane che investono in cultura. Un patrimonio inizia-
Impresa e cultura: una relazione strategica
le di oltre cinquecento case history di aziende che ci consente di tracciare la fisionomia di questo fenomeno colmando una lacuna fortemente sentita dagli addetti ai lavori: quali sono le imprese, perché,
come, quanto investono e con quali risultati. Sulla base di un format
studiato ad hoc, flessibile e incrementabile nel tempo, i dati raccolti
in questi anni attraverso il Premio vengono integrati con altri resi
disponibili da istituti di ricerca e realtà istituzionali italiane ed estere.
L’attività dell’Osservatorio è guidata da un Comitato Scientifico composto da autorevoli esperti a livello internazionale.
E infine il terzo elemento: i Forum, che nel corso dell’anno, in luoghi scelti in base alle necessità dei partner o alle richieste provenienti
dalle aziende, danno la possibilità di incontrare i protagonisti, ascoltare le analisi e le opinioni dei piú accreditati esperti del settore,
avere informazioni di prima mano sulle piú avanzate esperienze
internazionali. Il momento in cui capire quel che succede ma soprattutto quello che succederà in un ambito nel quale le novità e le esperienze di successo si moltiplicano di anno in anno.
Questo rapporto esclusivo con le imprese italiane ci rende sempre
piú consapevoli di come l’arte e la cultura siano dei veri alleati delle
aziende per raggiungere risultati tangibili e non piú magnifico lusso
di pochi eletti. Rubando le parole a Sandro Chia, che ha interpretato
lo spirito del Premio 2002 con un’opera realizzata ad hoc, l’artista e
l’imprenditore sono due figure piú simili di quanto si creda. Entrambe rischiano in proprio e creano dal niente qualcosa che prima non
c’era. Ed è proprio la creatività d’impresa l’arena in cui si giocano le
nuove sfide del mercato post-industriale.
Un ultimo aspetto. Di fronte a mercati che si modificano rapidamente e che impongono capacità di reazione sempre piú accelerate,
si fa sempre piú sentita la necessità di aggregazione tra imprese sul
territorio. Infatti, secondo un processo che può sembrare sotto certi
profili paradossale, parallelamente all’estendersi del fenomeno della
globalizzazione, è visibile a livello locale il catalizzarsi di nuove energie e opportunità inaspettate.
Ciò è avvenuto da una parte per l’indebolirsi del ruolo dello
Stato come motore di politiche economiche, dall’altro per l’apertura di spazi di competitività in aree prima fortemente condizionate.
In questo senso ogni territorio ha espresso una propria vocazione
allo sviluppo attivando non solo le risorse materiali di cui dispone
ma anche quelle sociali e culturali. Un cambiamento che sta
influenzando le dinamiche di sviluppo locale nel nostro Paese: non
piú un atteggiamento passivo, di attesa rispetto al realizzarsi di ipotesi piú o meno realistiche e concrete, bensí creazione attiva di
quelle condizioni senza le quali è illusorio aspirare a un piú ampio
e diffuso benessere socioeconomico.
È in questo ambiente che la cultura può conquistare piú peso e
spazio come materia prima di una nuova progettualità. Di fatto la cultura – intesa come patrimonio di opere e monumenti ma anche
217
Verso uno sviluppo sostenibile: il caso
della Fondazione Teseco per l’Arte
Maria Paoletti Masini
Creazione contemporanea
218
come capacità creativa e competenze artistiche presenti sul territorio
o che il territorio sa richiamare su di sé – rappresenta ormai una
componente essenziale per qualsiasi modello di sviluppo compatibile
con lo scenario postindustriale.
Non solo. È opportuno anche considerare che l’ubicazione geografica di un’impresa non è un fattore marginale, né per le scelte che
questa deve compiere, né per i risultati economici che ne derivano.
Investire in un certo tessuto territoriale significa dunque creare
implicitamente valore anche per le imprese che vi appartengono. È
un notevole cambiamento rispetto alle tradizionali modalità di interazione dell’impresa con il mondo esterno. Fino a qualche anno fa le
aziende vivevano in un mercato nel quale il prodotto parlava per
loro: il prodotto rappresentava quasi totalmente l’azienda agli occhi
dei suoi stakeholders e non si avvertiva il bisogno di instaurare livelli di
relazione diversi con i propri interlocutori. Nello scenario attuale
questa modalità di relazione non è piú sufficiente. Le imprese piú
competitive si rendono conto di dover instaurare con la realtà esterna (ma anche con quella interna) un rapporto piú complesso e articolato, consapevoli che il valore della loro identità e della loro storia
ha un peso pari a quello dei loro prodotti e servizi. Cultura dunque
per intervenire con successo nella qualificazione delle relazioni con il
territorio e l’ambiente sociale nel quale l’azienda è inserita, per stringere legami piú solidi con le istituzioni locali, le pubbliche amministrazioni e gli stessi cittadini.
Vorrei concludere con una citazione. Credo infatti che, in tempi
burrascosi e caotici come i nostri dove sono venuti a mancare tutti i
punti di riferimento, non si debba dimenticare ciò che diceva Lord
Brougham: “la cultura rende un popolo facile da guidare ma difficile da trascinare; facile da governare ma impossibile da ridurre in
schiavitú”.3
1
2
Cfr. Kahneman, Daniel, discorso introduttivo al
Convegno I paradossi della felicità in economia,
Università degli Studi di Milano – Bicocca, dipartimento di Economia, Milano, 21-23 marzo 2003,
di prossima pubblicazione.
Bondardo Comunicazione lavora dal 1987 per
ideare e gestire progetti di marketing e comunicazione culturale con l’obiettivo di valorizzare le
3
relazioni tra il mondo dell’impresa e quello della
cultura. Il suo impegno è rivolto a sviluppare un
trasferimento di competenze e un linguaggio
comune che favoriscano il dialogo tra realtà
aziendale e culturale producendo vantaggi per
entrambe.
Lord Henry Peter Brougham (1778–1868), Colonial Policy of European Powers, Londra 1803.
La Fondazione Teseco per l’Arte è stata costituita nel 1998 al fine
di indirizzare e organizzare, su un piano organico, le numerose attività culturali realizzate o sostenute dal Gruppo Teseco. Nasce per
proseguire, anche in ambito culturale, gli obiettivi di protezione dell’ambiente, di sperimentazione d’avanguardia e di ricerca verso soluzioni di sviluppo sostenibile, presenti nella mission del Gruppo, nell’ottica di una compenetrazione costante tra Impresa e Cultura e di
una necessaria convergenza tra le rispettive linee d’azione.
Il Gruppo Teseco è da tempo impegnato ad approfondire il tema
dello sviluppo sostenibile e responsabile, sostenibilità non solo in
senso naturale e ambientale, legata quindi al core business dell’azienda, ma in senso piú ampio, che ne abbracci anche la dimensione
sociale e culturale.
Il processo di globalizzazione in atto rende necessario accrescere
il senso di identità e di consapevolezza, per creare una reale sostenibilità. È sembrato doveroso, dunque, approfondire la riflessione sul
ruolo che cultura e impresa sono chiamate a svolgere, per uno sviluppo equilibrato del pianeta e dell’umanità, tenendo fermo lo sguardo,
come punto di partenza, sull’arte contemporanea.
Le società occidentali e capitalistiche vivono un periodo di profonda trasformazione, che investe le abitudini dei consumatori e le logiche di mercato. Uno degli aspetti piú salienti di tale cambiamento è il
passaggio da una società di prodotto a una società di servizi.
Quello che conta è la qualità della vita. Le persone cercano il soddisfacimento di bisogni sempre piú raffinati e complessi; non si
acquistano piú beni e servizi per soddisfare bisogni primari, ma piuttosto per crearsi un’identità: il contenuto identitario di un prodotto o
di un servizio è un contenuto culturale.
Da qui la necessità per le aziende di realizzare un progetto culturale, strategico al raggiungimento degli obbiettivi primari: la cultura
è un bene immateriale, che costituisce investimento sul capitale
umano e alla fine si trasforma, da bene personale e individuale, in
know how aziendale.
Un’ulteriore considerazione: nelle aziende si afferma un modello
di realtà spersonalizzante, dove ogni soggetto, nodo di molteplici reti
di comunicazione, rischia di ridurre la propria identità all’interno
della comunità aziendale. Ma rimane ferma la sua aspirazione a essere individuo.
Lasciato il lavoro, la persona cerca luoghi per sostare, luoghi connotati per non smarrirsi, ritmi rapidi, ma non angoscianti.
Sopraffatti dal proliferare dei “luoghi non luoghi” (ghetti industriali,
metropolitane, autogrill, alberghi plastificati), che fanno al contempo
rinascere il bisogno di ritornare ai luoghi fortemente caratterizzati e
219
Creazione contemporanea
220
presenti con una loro individualità, capaci di parlare di e con chi li vive,
si ricerca sempre di piú un luogo identitario, relazionale e storico, un
luogo in senso antropologico, che divenga un luogo di memoria.
Teseco ha individuato nella cultura, e soprattutto nella cultura visiva, uno strumento capace di creare identità, di connotare un luogo,
fornendolo di memorie personali, che vengono messe a disposizione
di molti, divenendo patrimonio comune. La Fondazione ha tra i suoi
fini, innanzitutto, quello di avvicinare la cultura e la vita, cioè portare
opere d’arte e altre testimonianze del pensiero, all’interno dei luoghi
di lavoro, integrando il momento della riflessione con quello della
produzione. La cultura viene, quindi, intesa non come spettacolo o
diversivo, ma come modo per comprendere piú a fondo il presente e
per diminuire i fattori alienanti della vita contemporanea.
L’impegno culturale è anche il mezzo, scelto da Teseco, per assolvere a quel ruolo di responsabilità sociale che l’impresa deve assumersi, per contribuire allo sviluppo sostenibile, del quale tutti parlano senza tuttavia definirne i contenuti.
Il concetto di sviluppo sostenibile è stato elaborato, durante la conferenza mondiale sull’ambiente di Rio nel 1992, con riferimento all’ambiente naturale, per porre rimedio al degrado e all’inquinamento sempre piú minacciosi per la sopravvivenza dell’uomo. Intorno all’ambiente si è concentrata l’attenzione dei paesi ricchi, e la parola ecologia si è
diffusa, progressivamente, anche tra i non addetti ai lavori.
Si è, nel frattempo, sviluppata un’attività imprenditoriale di aziende, tra le quali Teseco, che operano nel settore ambientale: bonifiche, depurazioni, trattamenti rifiuti con recupero energetico. Tuttavia, come ha sottolineato il Premio Nobel per l’Economia 1998
Amartya Sen, in occasione della Conferenza Onu sull’ambiente, a
Johannesburg, nell’agosto 2002, se sviluppo sostenibile significa usare
le risorse naturali disponibili, in modo da non compromettere le possibilità, delle future generazioni, di avere il medesimo tenore di vita
che oggi abbiamo, non è difficile rendersi conto che tale prospettiva
non interessa le centinaia di milioni di persone che oggi vivono nella
miseria, assediati da fame, carestie, epidemie. Sviluppo sostenibile è
una definizione che deve coniugare sostenibilità sociale, cultura ed
equilibrio economico. E di ecologia dobbiamo parlare non solo in
senso naturalistico, ma anche sociale, culturale, spirituale.
Nella società odierna la cultura è anch’essa una merce e come tale
a essa vengono estesi i meccanismi e le regole di mercato: invece la
cultura, citando Adriano Olivetti, deve essere ricerca disinteressata di
verità e bellezza, intesa in senso etico (armonia, equilibrio, giustizia),
cultura è un fattore di equilibrio, che contribuisce a realizzare una
società a misura d’uomo.
Il processo di sviluppo in atto ha accresciuto la differenza tra paesi
ricchi e paesi poveri, fra chi gestisce e chi subisce il cambiamento, ha
accresciuto le diseguaglianze e la povertà, le difficoltà di accesso alla
cultura, diminuito il diritto alla salute e all’ambiente.
Verso uno sviluppo sostenibile: il caso della Fondazione Teseco per l’Arte
La cultura può aiutare a superare queste diseguaglianze?
Per Teseco sviluppo sostenibile significa: sostenibilità ambientale, sostenibilità sociale, sostenibilità culturale, sostenibilità dell’informazione. Teseco ha cioè individuato nella cultura, dalla ricerca di nuove tecnologie alla sperimentazione artistica, la leva per contribuire a una crescita sociale equilibrata. Che, nel nostro logo si riassume in “impresa, cultura, ambiente”.
Non solo sapere scientifico e tecnologico, ma anche umanistico,
artistico, musicale, diventano stimoli per un dibattito e un confronto
fra le persone che lavorano nell’azienda. Un progetto culturale fatto
da varie esperienze e del quale la collezione di arte contemporanea
costituisce un aspetto saliente.
Decouvrir Differentes Directions, frase scritta sulla palazzina uffici
della Teseco, è l’installazione di un artista italiano, Maurizio Nannucci, che pratica l’arte come percorso di conoscenza, piú che di ricerca
estetica e formale. Abbiamo scelto questa opera come brand line
aziendale, perché bene suggerisce la molteplice realtà in cui l’azienda intende muoversi.
Teseco, attraverso la Fondazione Teseco per l’arte, si muove su piú
piani: promuove incontri con filosofi, artisti, critici d’arte; organizza
laboratori con artisti al proprio interno, ma aperti anche a persone
esterne; allestisce mostre temporanee; acquista opere di arte contemporanea, che vanno ad arricchire la collezione installata all’interno
della Palazzina direzionale dello stabilimento; commissiona opere site
specific, pensate per i propri spazi.
Tutte queste iniziative sono rivolte allo stesso fine: sollecitare una
riflessione sulla contemporaneità, sul mondo che ci circonda e nel
quale nascono le contraddizioni, che lo dilaniano e ci dilaniano, per
cercare insieme una strada verso lo sviluppo sostenibile.
La collezione – curata da Gail Cochrane – è in continuo aggiornamento; le opere sono installate all’interno dei locali di lavoro
del Gruppo Teseco. L’allestimento ruota periodicamente ed è
volto a portare la cultura visiva del presente a contatto con il personale dell’azienda. Gli uffici sono aperti anche al pubblico, ogni
primo e terzo martedí del mese. Le opere d’arte sono esposte negli
uffici delle sedi di Pisa, Milano, Torino, e hanno la funzione di
aprire tante finestre sul mondo in cui viviamo, vissuto e metabolizzato dagli artisti, che possiamo definire, in ogni tempo, fra i soggetti piú sensibili a recepire e comunicare i cambiamenti in atto. Servono, al contempo, a suggerire spunti per una riflessione personale
e collettiva su tematiche di natura generale o piú intima.
Le opere degli artisti vengono fatte ruotare, sia perché non vengano percepite come oggetti di arredo, sia per far conoscere quello che
avviene e cambia nell’arte, rimettendo sempre in discussione ogni
certezza raggiunta. In quest’ottica si può comprendere come le opere
d’arte non vengano acquistate, da Teseco, come forma di investimento materiale, ma come mezzo per arricchire la cultura e la consapevo-
221
Creazione contemporanea
222
lezza del personale che lavora in azienda, trasformandosi cosí da
capitale fisico a capitale umano.
Per questo motivo il progetto culturale di Teseco, realizzato attraverso la Fondazione, non si esaurisce nella collezione, ma si concretizza anche in incontri e dibattiti con artisti, sociologi, critici d’arte,
politologi, in mostre temporanee, workshop, lavori site specific, concerti, azioni teatrali. Da quest’anno, inoltre, Teseco ha dato vita a una
collezione nuova, Collezione d’Impresa: una raccolta di libri, Cd, film,
scelti dal personale dell’azienda, perché possano essere a disposizione di tutti e per creare, nell’arco di dieci anni, una piccola storia del
gusto dell’azienda e rendere tutti piú partecipi e in modi diversi al
progetto culturale. Quindi l’arte all’interno dell’azienda è concepita
non come fatto estrinseco, pura esposizione, ma con una precisa funzione: creare un momento di relazione fra il luogo e la persona, tra le
persone, per cercare di rallentare il dilagare di una società individualistica e polverizzata (la società delle reti) opponendo un modello
diverso, piú umano e solidarista.
Nel nostro progetto l’impresa vuole, anche, stimolare la riflessione sullo sviluppo della città, e assumere, al contempo, un ruolo di
cerniera tra centro urbano e periferie industriali, proponendo
modelli culturali alternativi, nuovi spazi per il dibattito e la ricerca. In
sintesi, l’impresa deve avere un ruolo propositivo per la costruzione
di identità sia individuale che urbana, con partner istituzionali quali
Comune, Provincia, Regione, Teatri, Università, Scuola Normale
Superiore e Soprintendenza.
Nel nostro caso specifico Pisa è una città conosciuta per i suoi
monumenti e per il suo patrimonio culturale. La piazza del Duomo, i
Lungarni, i palazzi e le chiese costituiscono un valido motivo di visita
per turisti di tutto il mondo e che, forse, partendo, la conoscono soltanto in superficie. Come molte città, con una tradizione ricca e interessante, con una storia importante alle spalle, si occupa per vocazione del suo passato, spesso tralasciando il presente.
Pisa ha un’università e due scuole di eccellenza rinomate sia sul
versante scientifico che quello letterario e umanistico, la popolazione
quasi raddoppia se si considerano gli studenti che vivono la città.
Riteniamo molto importante la collaborazione con Istituzioni culturali (associazioni, Fondazioni, quali la Fondazione Adriano Olivetti), che si occupano, anche in altri contesti e con altre problematiche, del contemporaneo, perché fondamentale e benefico risulta
essere lo scambio di esperienze, il dibattito e una riflessione molteplice, anche partendo da esperienze differenti; in questo caso non
solo è interessante ma fondante pensare a progetti condivisi.
In questa ottica i principali destinatari del progetto non sono gli
addetti ai lavori del mondo dell’arte, ma in primo luogo le persone
che frequentano l’azienda quotidianamente: i dipendenti, i consulenti, i fornitori, e anche i cittadini. Chiunque, insomma, sia interessato
al vivere contemporaneo e voglia trovare non risposte, ma sollecita-
Verso uno sviluppo sostenibile: il caso della Fondazione Teseco per l’Arte
zioni, nella frequentazione di un luogo di lavoro aperto allo scambio
di esperienze e al confronto, ricevendo stimoli e spunti di riflessione
dalle opere, dagli artisti, dai dibattiti.
Lo spazio destinato alle attività temporanee è il “Laboratorio per
l’Arte Contemporanea”, attiguo ai luoghi di lavoro aziendali e concepito come luogo di esposizione e di incontro tra tecniche e modalità
espressive differenti, quali video, computer art, teatro e danza.
Con il progetto biennale M2 (2000-2001), che vedeva artisti impegnati sulla riflessione sullo spazio industriale, periferico e sul modo di
vivere dell’uomo in ambienti urbani degradati o problematici, si è
dato il via a una serie di mostre temporanee che, nel tempo, hanno
ri-configurato la nostra idea di operare.
Il progetto, ideato da Luca Cerizza ha coinvolto artisti provenienti
da molti paesi; due le sezioni del 2000, una curata da Sergio Risaliti,
dal titolo Finsternis/Finisterre, a cui hanno partecipato Douglas Gordon, Pierre Huyghe, Jordi Colomer, Fiona Tan. L’altra, curata da
Luca Cerizza, dal titolo Insensatezza, che presentava opere di Emmanuelle Antille, Rosa Barba & Ulrike Molsen, Simone Berti, Davide
Bertocchi, David Michael Clarke, Marcello Maloberti, Metaxu,
NOTO, Honoré d’O, Riccardo Previdi, Tejo Remy-Rene Veenhuizen,
Bojan Čarcevic, Sinergie, Italo Zuffi.
La mostra del 2001, dal titolo Strategies Aganist Architecture, ha visto
la partecipazione di A12, Sergia Avveduti, Massimo Bartolini, Martin
Boyce/Simon Starling, Elmgreen & Dragset, Jeppe Hein, Stefania
Galegati, Liam Gillick, Luo Yongjin, Luisa Lambri, Guillaume
Leblon, Mathieu Mercier, Manfred Pernice, Sean Snyder, Italo Zuffi.
La cosa per noi interessante era verificare la possibilità di creare
di una piazza alternativa, oltreché fisica, intesa come luogo simbolico
di dibattito, di discussione e d’incontro, su alcuni temi che ci stavano
e ci stanno particolarmente a cuore: l’idea del rapporto centro/periferia e uomo/contesto urbano. Ci piaceva, inoltre, che artisti giovani
e di cultura eterogenea si confrontassero gli uni con gli altri, e dessero la loro disponibilità per instaurare un dialogo con i dipendenti
dell’azienda, persone di passaggio, studenti, curiosi o appassionati.
Lo stesso vale, del resto, per la mostra My opinion curata da Francesca Pasini e organizzata a Palazzo Lanfranchi, nel centro storico di
Pisa, con opere di undici artisti: Mario Airò, Giovanna Di Costa, Fausto Gilberti, Yumi Karasumaru, Marcello Maloberti, Eva Marisaldi,
Laura Matei, Sabrina Mezzaqui, Ottonella Mocellin, Sabrina Torelli,
Cesare Viel, i quali hanno creato per l’occasione installazioni, foto,
video, performance dove, attraverso la percezione creatrice, il sentimento politico “tradizionale” dilaga nella vicenda soggettiva, nel dialogo con le culture altrui, nella storia, negli eventi personali, nella lettura di saperi diversi, nella memoria privata.
Nel corso del 2002, il Gruppo Teseco, attraverso la Fondazione, ha
aperto un dibattito e una riflessione sul tema Impresa e cultura verso
uno sviluppo sostenibile, dando avvio a un nuovo indirizzo nella strate-
223
Creazione contemporanea
224
gia aziendale per la cultura. Dall’inizio dell’anno, nella sede di Teseco si sono svolti incontri con filosofi, economisti, imprenditori ed
esperti di comunicazione quali Remo Bodei, Maurizio Cassano, Pier
Luigi Sacco, Michela Bondardo, Giacomo Marramao, Rosi Fontana,
rivolti ai dirigenti e ai collaboratori dell’azienda e aperti al pubblico.
In questa dimensione il Gruppo Teseco ha ritenuto significativo
commissionare a Sislej Xhafa un’opera che nascesse non solo dalle
sue opinioni, ma anche dal suo background di artista, che invitasse a
riflettere sul tema indicato e che esprimesse il punto di vista di un
artista in merito a globalizzazione e sviluppo responsabile. L’opera
site specific Ali Hamadou, a cura di Gail Cochrane, è attualmente collocata nel Laboratorio per l’Arte contemporanea presso lo Stabilimento Teseco e visibile al pubblico, una scultura in vetroresina alta
circa quattro metri e mezzo, materializzazione “di un sogno a occhi
aperti”: Ali Hamadou è il primo imprenditore senegalese in Italia, il
primo che, dismessi i suoi panni di venditore ambulante, indossa la
“divisa” del manager (abito e cravatta, valigetta da lavoro in mano),
e si avvia, gigantesca icona, nero nel buio che ci rende tutti uguali
cancellando i colori della nostra pelle, dei capelli, di vestiti, verso
una realtà aziendale che vive e partecipa di nuovi modelli sociali e
comportamentali.
Il nostro scopo primario è cercare linguaggi sempre piú aderenti
alla realtà sociale, dove i fruitori siano i piú vari possibili, non il
mondo e sistema dell’arte, e dove gli artisti si confrontino, sempre di
piú, con problemi concreti, immediati e richieste molteplici. Dove
l’operazione artistica abbia sempre di piú una connotazione etica e
sociale. Per questo la nostra politica culturale prevede un sempre
maggiore coinvolgimento degli artisti che vengono invitati a riflettere
su temi e realtà aziendali. I loro progetti site specific hanno il compito
di abitare gli spazi della nostra realtà: spazi non solo fisici ma concettuali, legati fortemente alla complessa e articolata mission aziendale
che ci contraddistingue.
Qualche tempo fa circa venti navi romane, collocabili cronologicamente tra il V secolo a.C. e il V d.C. (circa), furono individuate
durante i lavori di ampliamento di una stazione ferroviaria ai margini
della nostra città. Lo spazio che il lungo e complicato restauro richiede è grande, e Teseco ha messo a disposizione della Soprintendenza
ai Beni archeologici della Toscana un fabbricato, all’interno del complesso aziendale, dove il restauro avrà luogo.
A segnare una continuità del nostro interesse per la storia, per la
vita dello spirito, per l’anima della ricerca, abbiamo chiesto a Loris
Cecchini un’opera site specific sulle navi, sul ritrovamento, sul tema
del reperto. Ne è nato un lavoro sulla scoperta, sulla memoria personale, sul senso di appartenenza a una vicenda antica vista con gli
occhi, i sentimenti e il bagaglio culturale contemporaneo. L’opera,
dal titolo Terraforming, è esposta all’interno della Palazzina Uffici
dello Stabilimento.
Verso uno sviluppo sostenibile: il caso della Fondazione Teseco per l’Arte
Sempre in vista di un maggiore coinvolgimento del pubblico e di
un avvicinamento, tramite le arti visive, ad alcuni problemi del vivere
contemporaneo, grande attenzione è dedicata a progetti che mettano
in contatto i giovani con il lavoro degli artisti. In quest’ottica la Fondazione ha organizzato workshop e ha inteso articolare in corsi di
aggiornamento per gli insegnanti un ciclo di lezioni sull’arte degli
ultimi vent’anni.
Per promuovere le attività culturali ad ampio raggio, il Gruppo
Teseco e la Fondazione organizzano, anche insieme ad altri Enti, concerti ed eventi musicali e teatrali. Grandi personalità del jazz e giovani artisti sono stati invitati da Teseco, tra i quali, recentemente,
Wayne Docker y, Bobby Durham, Red Holloway, Massimo Faraò,
Archie Shepp.
225
Ricerca, mediazione e co-produzione per lo spazio pubblico:
i progetti Cultura e Società della Fondazione Adriano Olivetti
Flaminia Gennari Santori
La Fondazione Adriano Olivetti è una operating foundation creata nel
1962 con lo scopo di “provvedere alla prosecuzione dell’opera di studio e di sperimentazione, teorica e pratica suscitata da Adriano Olivetti”.1 La sua attività di ricerca, progetti e pubblicazioni si suddivide in
quattro ambiti di intervento, caratterizzati da un approccio interdisciplinare: Istituzioni e Società; Economia e Società; Cultura e Società;
Arte, Architettura e Urbanistica. Tali ambiti riflettono la prospettiva olivettiana, ovvero affrontare l’organizzazione e la trasformazione del territorio, della società e delle sue dinamiche economiche e produttive,
armonizzando prospettive teoriche e ambiti disciplinari apparentemente inconciliabili, come la pianificazione territoriale, la ricerca sociale, la
prospettiva storica e l’approccio estetico all’urbanistica e alla valorizzazione del vivere comunitario. In questo senso Marcello Fabbri ha sottolineato come l’urbanistica olivettiana si fondasse su “una concezione di
una società decentrata e capace di auto-organizzarsi” e, concretamente,
su “un percorso di azioni progettuali in cui l’operare tecnico è legato a
un’interazione/integrazione non solo con le scienze umane, ma con
una intrinseca capacità di ‘saper vedere’, interpretare l’interdipendenza estetica percepibile in tutte le opere dell’uomo”.2
In un mutato contesto storico e con altri obiettivi operativi, la Fondazione Adriano Olivetti opera in un simile orizzonte teorico e “poetico”. La ricerca di strumenti interpretativi inconsueti per affrontare
l’analisi dei territori – fisici, sociali e culturali – la verifica teorica dell’agire pratico, la promozione di nuove forme di agire comunitario,
l’identificazione di strumenti per una economia dell’arte pertinente
alle trasformazioni della società contemporanea, sono alcune delle
questioni alla base del lavoro della Fondazione. In particolare, i progetti dell’ambito Cultura e Società partono dalla convinzione che
l’approccio estetico, artistico e creativo, offra un metodo di interpretazione e di trasformazione del reale affilato e duttile, del quale si
intravede una domanda diffusa proveniente dai contesti piú disparati. Attore agile della società civile, la Fondazione cerca oggi di intercettare questa domanda di senso attraverso tre progetti che sono al
tempo stesso strumenti di indagine e proposte di metodo: Immaginare
Corviale, Nuovi Committenti e Trans:it.
Immaginare Corviale
“La dimensione pubblica è una costruzione psicologica (...) un
coinvolgimento con questioni pubbliche nel quale si intrecciano interessi personali e valori collettivi”.3 La natura proiettiva e immaginaria
dello spazio pubblico è alla base del progetto in corso Immaginare Cor-
227
Creazione contemporanea
228
viale, commissionato dall’Assessorato alle Politiche per le Periferie del
Comune di Roma, curato dalla Fondazione e realizzato dal gruppo
interdisciplinare Osservatorio Nomade. Obiettivo del progetto è l’individuazione di una nuova immagine condivisa per Corviale, alla cui definizione partecipino gli abitanti, attraverso la decostruzione degli stereotipi che sono stati costruiti nel tempo attorno all’edificio e l’esplorazione della quotidianità fuori scala del Serpentone. L’individuazione di
alcune domande della cittadinanza relative allo spazio pubblico che
possano fornire indicazioni progettuali per l’area interessata da un
Programma di Recupero Urbano, è un ulteriore obiettivo del progetto.
Immaginare Corviale mette dunque in relazione l’immaginario del
luogo, ovvero desideri e proiezioni degli abitanti, con le ipotesi per la
sua trasformazione, configurandosi come una pratica di produzione
artistica e culturale che diventa strumento di conoscenza del territorio
e di elaborazione di strategie condivise di riqualificazione. A questo
fine, il confronto continuo di obiettivi e strategie con il Laboratorio
Territoriale dell’Assessorato che opera nel quartiere, costituisce l’approccio metodologico per una procedura specifica di arte pubblica
volta a promuovere l’inserimento dell’immaginario e delle sue contraddizioni nell’ambito delle politiche di riqualificazione territoriale.
Corviale, un edificio lungo 958 metri e abitato da circa seimila persone, si trova alla periferia sud ovest di Roma su un crinale lungo la via
Portuense circondato per tre lati da una campagna intatta. Di proprietà dell’Istituto autonomo per le case popolari, fu progettato da
Mario Fiorentino nel 1972 e terminato dieci anni piú tardi. Monumento maestoso e fatiscente di una concezione dell’abitare, della città
e delle sue dinamiche sociali che ha avuto grande impatto sulla storia
del nostro paese, Corviale è un luogo emblematico per architetti e
urbanisti, per quanti lo vogliono demolire sostituendolo con un villaggio neomedievale cinto da mura, e per quelli che lo abitano e, pur
non volendolo demolire, certamente lo subiscono.4 Oggi, nonostante
la presenza di un vivacissimo centro anziani, palestre, una biblioteca,
centri di formazione professionale, orti, qualche giardino pensile, una
trattoria, pecore che pascolano liberamente nei campi attorno all’edificio, cooperative di teatro e un centro di igiene mentale molto attento alle dinamiche del territorio, Corviale continua a rappresentare su
scala nazionale lo stereotipo della periferia alienata e irrecuperabile.
Obiettivo di Immaginare Corviale è partire da questo stereotipo per
scardinarlo, non perdendo mai di vista la dimensione del confronto
individuale degli abitanti con l’edificio; confronto fisico, biografico e
soggettivo. Attraverso laboratori tenuti da artisti attorno alla memoria e
allo spazio pubblico, la produzione, assieme ai cittadini, di due eventi
collettivi, metafore dei miti del quartiere, che mettano in luce usi possibili dell’edificio e la documentazione dell’intero progetto in un film,
Immaginare Corviale indaga, anche attraverso strumenti ludici, la dimensione fisica e simbolica dell’edificio, rivelandone elementi inaspettati,
tanto di criticità quanto di ricchezza. Destinatari dell’operazione sono
Ricerca, mediazione e co-produzione per lo spazio pubblico
in primo luogo gli abitanti, invitati e coinvolti a condividere le loro idee
ed expertise rispetto all’edificio, in secondo luogo la città intera. Campo
di azione del progetto è dunque il mediascape, ovvero il paesaggio immaginario nel quale si svolge la nostra esistenza e nel quale Corviale rappresenta il fuori scala fisico, storico, sociale e simbolico, per eccellenza.5
Concepito in relazione al mediascape, il film ricompone i diversi
piani del progetto attraverso un registro narrativo non riconducibile
né al video d’arte né al documentario, pur comprendendo entrambe
le prospettive. Quella della narrazione è una scelta programmatica di
Immaginare Corviale, ovvero individuare un registro comunicativo che
sia accessibile e non banalizzante, calibrato tanto sul territorio che
racconta quanto sulle procedure artistiche che documenta. Dell’Osservatorio Nomade fanno parte in questo momento Mario Ciccioli,
Matteo Fraterno, Armin Linke, Stalker, Cesare Pietroiusti; al progetto
partecipa anche moorroom, un gruppo che realizza produzioni artistiche e musicali espressamente concepite per spazi urbani.
Nuovi Committenti. Un programma per la produzione di opere
per lo spazio pubblico
“Il cittadino, che agisce da solo o in gruppo, diviene committente
quando riconosce in sé stesso ciò che per l’artista contemporaneo è
alla base della creazione. Un medesimo desiderio di esprimersi liberamente, una stessa volontà di resistenza contro la normalizzazione, un
analogo bisogno di immaginarsi diversamente e di inventare nuovi
percorsi”.6 Il programma Nouveaux Commanditaires è stato concepito
nel 1991 da un artista, Francois Hers, il quale ha messo in campo una
procedura che ha come scopo la creazione di opere d’arte e del loro
contesto produttivo e ricettivo. È una démarche innescata da diversi
attori e articolata in fasi precise che sottrae la produzione artistica allo
scambio anonimo tra artista e pubblico, restituendo valore d’uso
all’arte contemporanea. Declinato oggi in vari idiomi e contesti europei, Nouveaux Commanditaires è una dinamica sociale attraverso la
quale singoli individui possono scegliere di rappresentarsi come
comunità attraverso l’assunzione di rischio e di responsabilità di una
committenza d’arte. “L’opera diventa emblematica di una comunità
che si crea. Una comunità provvisoria o stabilita, composta di persone
singole che si trovano a delineare un luogo e un tempo nel quale la
comunità si riveli a sé stessa e prenda lentamente corpo”.7
La Fondation de France è l’istituzione indipendente che ha accolto e sostenuto la proposta di Hers e contribuito a realizzare dal 1991
circa un centinaio di opere in Francia secondo la procedura Nouveaux Commanditaires. Per quanto complesse, le finalità di Nouveaux
Commanditaires rientravano nelle vocazioni originali della Fondation
de France, ovvero rispondere a bisogni disattesi della società; in questo caso, stabilire un legame piú accessibile e profondo tra artisti e cit-
229
Creazione contemporanea
230
tadini e tra creazione e società. Nel 2000 la Fondazione Adriano Olivetti ha scelto di adottare il programma poiché rispondeva ad alcune
delle linee guida essenziali del suo progetto: il vivere comunitario e la
promozione di forme di riqualificazione degli spazi sociali condivise e
di alta qualità estetica. Nuovi Committenti ha tuttavia assunto in Italia
declinazioni diverse da quelle francesi. Se per evidenti ragioni culturali la Fondation de France assume un ruolo fortemente accentratore, la Fondazione Adriano Olivetti ha scelto di operare come catalizzatore di istanze differenti. La densità e specificità locale dei contesti
italiani e la consapevolezza progettuale degli interlocutori interessati
all’applicazione di Nuovi Committenti presuppongono infatti l’adattamento del programma a pratiche associative, di progettazione partecipata e di volontarismo della società civile che hanno in Italia radici
antiche e connaturate al territorio. Nuovi Committenti si innesca sempre su un dialogo, in Italia prende la forma di animate conversazioni
a piú voci. Attualmente il programma è in corso a Torino e in Abruzzo, dunque in un contesto urbano post-industriale e in uno rurale.
Ma come vedremo, alcune questioni fondamentali della società italiana sono alla base di entrambe le committenze.
Finalità di Nuovi Committenti è attivare e recepire una domanda
d’arte e di qualità della vita rendendo possibile una partecipazione
diretta dei cittadini/committenti alla concezione dell’intervento artistico; il programma è finalizzato alla creazione di opere d’arte innescate da una domanda concreta di singoli cittadini o associazioni da
realizzare non in spazi espositivi, ma nei luoghi di vita o di lavoro dei
committenti stessi. Nuovi Committenti permette a chiunque di diventare committente d’arte, grazie alla congiunzione di tre attori, il cittadino-committente, il mediatore culturale che individua e interpreta l’esigenza della committenza e l’artista chiamato dal mediatore a realizzare l’opera che risponde a tale esigenza. Il mediatore – individuato,
delegato e sostenuto dalla Fondazione – è la figura cardine del programma. È necessariamente un esperto di arte contemporanea ma il
suo expertise è soprattutto un saper fare. Il suo ruolo, che diventa a
poco a poco mestiere, è quello di creare dei legami tra le parti coinvolte e negoziare conflitti, laddove necessario.
In pratica, il mediatore individua i committenti, li aiuta a esprimere la loro domanda in termini di committenza artistica, redige
con loro un documento di intenti che definisce la natura dell’opera, individua un artista al quale commissiona un progetto, presenta
l’artista alla committenza, negozia la reciproca accettazione dell’opera da realizzare, e infine segue la realizzazione dell’opera. Nel
caso i committenti non accettino il progetto presentato dall’artista,
il mediatore individua un altro artista, ma la sua abilità sta nel compiere la scelta pertinente, frutto di una accurata e creativa interpretazione dei desideri della committenza. Il mediatore segue inoltre i
rapporti tra tutte le parti in causa, incluse le amministrazioni pubbliche che eventualmente finanziano le opere, e laddove necessario,
Ricerca, mediazione e co-produzione per lo spazio pubblico
coadiuva i committenti nella ricerca di fondi per la realizzazione
dell’opera. Nuovi Committenti si basa dunque su una dinamica fiduciaria tra committente, mediatore e artista, su una negoziazione di
desideri, visioni e limitazioni pratiche. L’applicazione del programma crea un contesto di produzione e ricezione artistica e culturale
nel quale la distribuzione squilibrata del capitale culturale diventa
finalmente irrilevante.
La Fondazione a sua volta, oltre a promuovere e diffondere il programma in Italia, forma i mediatori e li coadiuva in tutte le fasi di
applicazione. Individua con loro la rilevanza sociale e culturale delle
committenze, e mette a disposizione delle parti in causa – mediatori,
committenti, artisti e finanziatori pubblici o privati – le norme contrattuali che tutelano gli interessi di ognuno. La Fondazione dunque facilita l’assunzione di un rischio, sia da parte di singoli che di collettività.
La sensibilizzazione delle amministrazioni e la costruzione con esse di
una progettualità comune è ulteriore compito della Fondazione.
La procedura Nuovi Committenti risponde ad alcune esigenze al
centro degli obiettivi di governance delle piú avvedute amministrazioni
locali, in particolare l’individuazione da un lato di interventi necessari, e dunque sostenibili, mirati alla federazione della cittadinanza,
dall’altro di processi di riqualificazione degli spazi pubblici che partano dal basso e che tuttavia non si fermino alla soluzione dei problemi
pratici ma abbiano l’ambizione di innestare nella quotidianità una
dimensione estetica. Non è un caso che sia in Italia che in Francia
Nuovi Committenti riesca a mobilitare risorse economiche che non
hanno per oggetto la cultura tradizionalmente intesa, e che la sua
procedura rientri in molti dei parametri dei progetti strutturali europei o nei criteri della programmazione strategica. Tuttavia, Nuovi
Committenti non è tanto un dispositivo che mette in atto auspicabili
processi sociali, quanto una procedura presupposta alla creazione di
opere d’arte che hanno ambizione di permanenza.
Veniamo dunque alle opere, e ai processi, in corso di realizzazione
in Italia.
La prima applicazione italiana di Nuovi Committenti avviene a Torino, nell’ambito di Urban 2 - Mirafiori Nord sostenuto dall’Unione europea nel quadro del programma di iniziativa comunitaria Urban 2
(2000-2006) promosso dalla Commissione Europea (Direzione Generale Politiche Regionali) e dal Ministero dei Lavori Pubblici. Il programma Urban sostiene progetti di riqualificazione urbana che attraverso la
progettazione partecipata operano sia sulla pianificazione del territorio
che sulla promozione di politiche sociali. La Fondazione partecipa
come partner esterno, coordinando e sostenendo l’avviamento di
Nuovi Committenti nell’area. La Compagnia di San Paolo, partner finanziario anche per altre iniziative Urban 2 - Mirafiori Nord e la Fondazione
CRT forniscono un importante sostegno economico all’avviamento di
Nuovi Committenti, mentre il Comitato Urban finanzia la realizzazione
delle opere. La Fondazione ha delegato come mediatori sul territorio
231
Creazione contemporanea
232
l’associazione culturale a.titolo, équipe di ricerca, cura e produzione di
progetti d’arte composta da Giorgina Bertolino, Francesca Comisso,
Nicoletta Leonardi, Lisa Parola e Luisa Perlo, con una pluriennale
esperienza, sia teorica che pratica, in progetti di arte pubblica che presuppongono il coinvolgimento della cittadinanza.
Urban 2 - Mirafiori Nord interessa un quartiere di circa 25.000 abitanti cresciuto in funzione dello stabilimento Fiat. Caso esemplare
delle periferie post-industriali europee, la criticità di Mirafiori Nord è
legata soprattutto alla disoccupazione giovanile e di lunga durata,
all’invecchiamento della popolazione e a una scarsa coesione sociale.
Obiettivo di Urban 2 è favorire un processo di trasformazione sociale,
fisica ed economica del quartiere attraverso un’ampia partecipazione
degli attori sociali. Nuovi Committenti è stato adottato come azione
prioritaria tra quelle di promozione delle attività culturali e si inserisce nell’asse del progetto Integrazione sociale e lotta all’esclusione al fine
di promuovere la riappropriazione degli spazi urbani da parte degli
abitanti e il rafforzamento dell’identità dei luoghi. Sono previste
quattro opere da realizzarsi entro il 2006 per un investimento complessivo di 961.000 euro che comprende sia l’avviamento delle committenze che la realizzazione delle opere.8
Mirafiori è un quartiere segnato dal vuoto fisico e simbolico dell’enorme stabilimento Fiat; l’area interessata dall’intervento Urban 2
è inoltre molto vasta e socialmente disomogenea: i mediatori dovevano dunque individuare committenze incisive per il quartiere ma che
avessero rilevanza simbolica e artistica per l’intera città. Dopo una
lunga analisi del territorio, sono stati individuati una cappella settecentesca, unica memoria superstite del passato agricolo del quartiere,
corso Tazzoli, viale ormai fuori scala che costeggia lo stabilimento
Fiat, destinato in parte a diventare un parco per adolescenti, e alcuni
edifici di edilizia popolare oggi particolarmente problematici. Dunque un passato remoto da reinserire nel paesaggio sociale, un passato
prossimo da elaborare e un presente da non rimuovere. I mediatori
hanno condotto una capillare ricognizione del quartiere partecipando attivamente agli incontri dei cosiddetti “tavoli sociali” coinvolti
nella progettazione dell’intervento Urban. L’esplorazione è avvenuta
tuttavia anche con altri metodi: un progetto fotografico di Paola di
Bello, Cosa si vede a Mirafiori/Cosa vede Mirafiori, nel quale l’artista
attraversa il quartiere riorganizzandolo per categorie, punti di vista,
percorsi; una serie di interviste realizzate dai mediatori raccolte nel
video Cosa non c’è piú qui? Cosa non c’è ancora qui? nel quale committenti e abitanti raccontano i luoghi e la temporalità del quartiere.
Ancora una volta, come nel caso di Immaginare Corviale, la ricognizione del territorio è stata condotta attraverso una consapevole e programmatica compenetrazione di metodi, discipline e punti di vista.9
La prima committenza di cui è già stato presentato lo studio di
progetto di Massimo Bartolini, è volta alla realizzazione di un “Laboratorio di Storia e Storie del quartiere”, che dia vita a un archivio
Ricerca, mediazione e co-produzione per lo spazio pubblico
attivo della memoria. Il sito è la cappella Anselmetti in via Gaidano,
riconducibile allo stile progettuale di Bernardo Vittone. Annessa a
una cascina distrutta, il piccolo edificio ha grande valore storicoaffettivo per gli abitanti del quartiere. Lo stanziamento economico
previsto per Nuovi Committenti ha reso possibile il restauro dell’edificio e la sua restituzione al quartiere, un restauro conservativo ma
che prevede una integrazione profonda tra forme e usi contemporanei e persistenza storica. Il gruppo dei committenti, costituito da
alcuni docenti di scuole materne, elementari e medie e dalla Città di
Torino ha chiesto il recupero del sito attraverso una riqualificazione
in chiave contemporanea della cappella e la creazione negli ambienti retrostanti di laboratori sperimentali destinati soprattutto ai bambini e ai ragazzi delle scuole. Massimo Bartolini ha progettato i due
ambienti per i laboratori e un intervento nella cappella, “in un percorso graduale dalla riflessione (la cappella) alla elaborazione (gli
ambienti per i laboratori)”.10
a.titolo sta seguendo, con la mediazione di Francesca Comisso e
Lisa Parola, un ulteriore intervento in un contesto diametralmente
diverso: il valico del Piccolo San Bernardo tra la Francia e l’Italia.
Alla sommità del valico si trova un ostello fondato da San Bernardo
nel XI secolo, oggi di proprietà italiana ma su territorio francese. Il
progetto per l’ostello è sostenuto dalla Fondation de France e dalla
Fondazione Adriano Olivetti, ed è la prima iniziativa Nuovi Committenti franco-italiana. Mediatore francese è Xavier Douroux direttore
del centro d’arte Le Consortium di Digione che ha condotto già
moltissime committenze in Francia. La committenza, ovvero l’Association du Petit Saint Bernard che ha recentemente reperito i fondi
per il restauro del complesso, ha chiesto un’opera che interpretasse
in forme contemporanee la natura di luogo di accoglienza e di raccoglimento spirituale dell’ostello. I mediatori hanno individuato
l’artista coreana Sooja Kim la cui ricerca è caratterizzata da una
estrema economia di mezzi e rigore formale e da un approccio alla
realtà meditativo e fisico al tempo stesso. Il suo progetto, approvato
dalla committenza, si sviluppa sia all’interno che all’esterno dell’edificio stabilendo, attraverso la programmazione di luci e la realizzazione di piccoli interventi sullo spazio, un legame profondo con il
paesaggio e le sue trasformazioni.
Altro progetto in corso in Italia è un belvedere da realizzare
nella Valle Roveto, situata tra il Parco Nazionale d’Abruzzo e i
monti Simbruini. I committenti sono la Comunità Montana che raccoglie i comuni della vallata e gli abitanti di Canistro, il comune
dove verrà realizzata l’opera. La Comunità Montana aveva da tempo
in progetto la valorizzazione culturale e turistica del territorio attraverso la realizzazione di alcune opere di arte contemporanea disseminate nella vallata. Nuovi Committenti gli ha offerto un metodo per
realizzare opere che oltre a essere segni nel paesaggio abbiano
anche una funzione – punti di sosta, luoghi di osservazione del pae-
233
Creazione contemporanea
234
saggio, ambienti all’aperto, percorsi, belvedere – radicando l’operazione nel tessuto sociale, naturale e storico della valle. Il sito della
prima opera da realizzare è una radura situata lungo un sentiero
che scende su un versante della vallata, collegando due contrade
del paese. La radura è situata in un punto di snodo di antichi sentieri ed è per gli abitanti il luogo simbolico di ricongiungimento
delle due contrade del paese travolte da un terremoto all’inizio del
secolo scorso. Il mediatore, Luca Piccirillo per l’Atelier Ambulant
d’Architecture – la sezione italiana di un gruppo internazionale che
si occupa di autocostruzione e progettazione partecipata e che lavora da tempo nella valle – ha collaborato con i cittadini e le associazioni di Canistro alla formulazione della domanda per l’opera: un
punto di sosta e di osservazione dal quale osservare il panorama
della valle e la sistemazione del sentiero che collega il sito al paese.
L’artista individuato è Mario Airò, poiché sa evocare memorie, narrazioni e atmosfere che intensificano l’esperienza percettiva di chi
abita le sue opere. La committenza della Comunità Montana della
Valle Roveto sottolinea come la valorizzazione del patrimonio naturale e culturale di un territorio possa essere condotta attraverso pratiche di mediazione e partecipative e prendere forma in opere contemporanee altamente condivise.
Le iniziative in corso in Italia mettono in luce come Nuovi Committenti sia immediatamente percepito e, dunque, accolto anche come
uno strumento per elaborare gli ultimi cinquant’anni di storia italiana: lo sviluppo vorticoso, la trasformazione del territorio, la repentina e spiazzante decadenza, le profonde trasformazioni sociali e
demografiche. Ma con Nuovi Committenti si elabora dal basso, attraverso azioni apparentemente piccole, come immaginare diversamente
un posto che si conosce da sempre e fare in modo che l’immaginazione prenda una forma, magari inattesa. Il programma solleva questioni a nostro avviso cruciali: l’immaginarsi di una comunità, la creazione di un’estetica del quotidiano che guardi lontano; l’uso del patrimonio al di là del tempo libero e del narcisismo collettivo del consumo culturale; la costruzione di un patrimonio dell’oggi, fondato su
un dialogo pertinente, mai occasionale e se necessario polemico tra
contemporaneità e vissuto.
Trans:it. Moving Culture through Europe
“Il mondo dell’arte può essere un luogo di sperimentazione per
esplorare le pressioni, per esempio tra comunità o diversi gruppi
etnici, le relazioni tra queste persone e come queste influenzano la
struttura politica dell’intera società. L’arte è un luogo dove questi
cambiamenti si possono rappresentare e comprendere. Il mondo dell’arte dovrebbe sviluppare la sua autonomia politica, piuttosto che
un’autonomia formale o linguistica, e diventare un luogo dove tutti i
Ricerca, mediazione e co-produzione per lo spazio pubblico
generi di progetti sociali possano essere sperimentati”.11
Il progetto in corso Trans:it fornisce il quadro teorico e metodologico per le pratiche della Fondazione rispetto allo spazio pubblico. Come gli altri progetti, anche Trans:it è uno strumento, in questo caso di analisi e confronto di alcune pratiche culturali per noi
significative messe in atto nello spazio pubblico europeo. È un progetto itinerante, nel tempo e nello spazio, focalizzato sulla cultura e
la creatività quali dinamiche collegate ai loro contesti di origine,
che sviluppa una prospettiva multidisciplinare sulle trasformazioni
dei territori europei, in termini sia estetici che sociali. È dunque un
osservatorio della produzione culturale europea e un laboratorio
per le persone coinvolte che prende forma attraverso due strumenti, una serie di documentari e un sito web. Come negli altri progetti,
si parte dal terreno per giungere alla individuazione di strumenti
interpretativi e alla condivisione di “buone pratiche”. Nella fase preliminare sono stati selezionati e analizzati progetti in corso di realizzazione di istituzioni e gruppi di artisti che investigano il dialogo
multiculturale o la politica delle aree urbane, o producono visioni,
ipotesi e critiche relative alla trasformazione dei differenti ambiti
del dominio pubblico.
Trans:it è tuttavia un’analisi anche intuitiva ed empatica dello
spazio pubblico europeo, che prende la forma di un film. Il primo,
The Invisible Object: Art in Social Change, racconta un viaggio attraverso pratiche artistiche nello spazio pubblico in Italia, Francia e Olanda. Si attraversano contesti, progetti e obiettivi estremamente diversi, collegati tuttavia da una visione comune: prendere posizione
esteticamente e criticamente rispetto alla sfera pubblica non rinunciando alle collaborazioni e al confronto con le amministrazioni
locali o con i policy makers. Utopia e coesistenza, impegno attivo e
trasformazione dello spazio pubblico, la ricerca di una nuova estetica del quotidiano e il coinvolgimento (o talvolta la provocazione)
dei cittadini nell’invenzione di idee attuali di comunità, sono alcuni
dei temi chiave che attraversano i progetti raccontati in The Invisible
Object. Art in Social Change.
Il sito www.transiteurope.org restituisce la composizione in fieri di
Trans:it. Il sito disegna una rete di scambio tra centri d’arte, musei e
fondazioni europee, artisti, gruppi interdisciplinari, ricercatori, operatori ed esperti di politica culturale impegnati in vario modo nello
spazio pubblico. www.transiteurope.org attraversa tre livelli di analisi
delle pratiche culturali: in primo luogo, la diffusione di progetti realizzati per differenti contesti pubblici europei; in secondo luogo, il
confronto delle pratiche al fine di individuare delle best practices; in
terzo luogo, l’analisi e la discussione delle questioni etiche ed estetiche sollevate dai singoli progetti e delle politiche culturali che essi
rappresentano o mettono in discussione.
Nei suoi progetti la Fondazione assume sempre il ruolo di mediatore-produttore tra campi, priorità, urgenze e domande diverse,
235
Gli autori
Creazione contemporanea
come sono quelle degli artisti, dei cittadini committenti o destinatari, degli amministratori, delle istituzioni artistiche e delle fondazioni.
Crediamo infatti che il senso e la validità di molte pratiche attuali si
trovino nell’arte della mediazione, ovvero nell’individuare spazi di
dialogo e di sovrapposizione per paradigmi disciplinari e attitudini
disomogenee.
ANTONELLA ANNECCHIARICO, dirigente pubblico, è Segretario-Direttore
Generale presso il Comune di Ciserano (Bergamo) e collabora con
associazioni e centri di formazione per gli enti locali quali Sspal e
Ancitel Lombardia. È promotore, insieme a Gennaro Castellano, di
Progettozingonia e collaboratore di Connecting Cultures, associazione
presieduta da Anna Detheridge.
PIO BALDI, architetto, è Direttore Generale per l’architettura e l’arte
contemporanee presso il Ministero per i Beni e le Attività Culturali,
dopo essere stato Direttore Generale per i Beni Paesaggistici, Soprintendente del Lazio, Soprintendente di Siena. È stato inoltre Direttore
Vicario dell’Istituto Centrale del Restauro di Roma e membro del
Consiglio Nazionale per i Beni Culturali e Ambientali. È autore di
numerose pubblicazioni specialistiche sui beni culturali, e ha curato
importanti interventi di restauro di monumenti in Italia e all’estero.
CHIARA BERTOLA, critica d’arte e curatrice, è responsabile del Museo
della Fondazione Querini Stampalia di Venezia. Ideatrice e curatrice
del Premio Querini Stampalia - Furla per l’arte oggi alla sua quarta edizione, dal 1996 fa parte del gruppo di curatori internazionali che partecipano al progetto Arsaevi per la creazione del nuovo museo d’arte
contemporanea di Sarajevo. Ha curato numerose mostre di artisti
nazionali e internazionali tra cui Kosuth, Pistoletto, Paolini, I. e E.
Kabakov, Mikhailov, Baumgarten.
236
*
Vorrei ringraziare Maria Alicata, Antonella Annecchiarico, Giorgina Bertolino, Francesca Comisso,
Francois Hers, Lisa Parola, Luisa Perlo, Bartolomeo
Pietromarchi, Luca Piccirillo.
5
6
7
1
2
3
4
Statuto della Fondazione Adriano Olivetti.
Fabbri, Marcello, La continuità progettuale, in
Olmo, Carlo (a cura di), Costruire la città dell’uomo. Adriano Olivetti e l’urbanistica, Torino, 2001,
p. 35 e p. 28. Per la specificità dell’urbanistica olivettiana nell’ambito della teoria urbanistica italiana del dopoguerra, cfr. Durbiano, Giovanni e
Robiglio, Matteo, Paesaggio e architettura nell’Italia contemporanea, Donzelli, Roma 2003.
Phillips, Patricia, Out of Order: The Public Art
Machine, in “Artforum”, dicembre 1988, pp. 93-96.
Rosponi, Cristiano, Demolire la periferia modernista,
costruire la città nuova, in Coccia, Francesco e
Costanzo, Maria Cristina (a cura di), Recuperare
Corviale, pp. 113-120.
8
9
10
11
Per la nozione di mediascape, cfr. Appadurai,
Arjun Modernity at Large. Cultural Dimensions of
Globalisation, Minneapolis, London 1996.
Hers, François, Le Protocole, Dijon 2002, p. 112.
Hers, François, L’invention des nouveaux commanditaires, in www.nouveauxcommanditaires.org
a.titolo, Cronaca di una committenza. Una
mediazione culturale a Mirafiori Nord, in a.titolo
(a cura di), Nuovi Committenti. Un programma
per la produzione di opere d’arte per lo spazio
pubblico. Mirafiori Nord.
La campagna fotografica di Paola di Bello è parzialmente pubblicata in a.titolo (a cura di),
Nuovi Committenti cit.
a.titolo, Cronaca di una committenza cit.
Hou Hanru, intervista in The Invisible Object: Art in
the Social Change, di Bartolomeo Pietromarchi,
2003, documentario prodotto dalla Fondazione
Adriano Olivetti nell’ambito di Trans:it. Moving
Culture Through Europe.
LANFRANCO BINNI, esperto in progettazione territoriale, è dirigente
dell’Assessorato alla Cultura della Regione Toscana; coordina i progetti Porto Franco, Toscana terra dei popoli e delle culture e TRA ART rete
regionale per l’arte contemporanea. È autore di studi sul movimento surrealista, traduttore e curatore di classici della letteratura francese; ha
inoltre pubblicato libri di testo per la scuola e strumenti di studio sul
teatro politico e sul patrimonio artistico e culturale.
MICHELA BONDARDO, esperta in comunicazione d’impresa, nel 1987
ha fondato Bondardo Comunicazione, agenzia specializzata in comunicazione culturale, con l’obiettivo di fare della cultura uno strumento
di crescita e di innovazione per le imprese e le istituzioni. In quest’ottica ha ideato Intrapresæ Collezione Guggenheim (che nel 1997 ha dato
origine al Premio Guggenheim Impresa & Cultura) e nel 2003 ha
fondato il Sistema Impresa e Cultura (Premio, Osservatorio e Forum).
ENRICA CARNAZZA, scenografa e promotrice di giovani artisti, ha organizzato laboratori di teatro per le scuole e ha realizzato scenografie
237
Creazione contemporanea
ed elaborazioni grafiche per il teatro, la danza e l’editoria. Dal 1995 si
occupa di promozione culturale giovanile a livello nazionale e internazionale per il Comune di Messina e insegna Pedagogia e Didattica
dell’Arte presso l’Accademia di Belle Arti di Messina.
GILLIAN CRAMPTON SMITH, storica dell’arte, ha lavorato come graphic
designer per l’editoria e per il “Sunday Times” di Londra. Nel 1984
ha istituito un corso di perfezionamento in Digital design per graphic
designers professionisti alla St Martins’s School of Art; cinque anni
dopo è passata al Royal College of Art, dove ha fondato il primo
corso post-laurea di Interaction Design. Dal 2001 è direttrice dell’Interaction Design Institute di Ivrea.
LUCA DAL POZZOLO, architetto, è vicepresidente e responsabile dell’attività di ricerca della Fondazione Fitzcarraldo di Torino e direttore
dell’Osservatorio Culturale del Piemonte. È docente presso il Politecnico di Torino, II Facoltà di Architettura, all’interno del corso di Laurea in Storia e conservazione dei beni Architettonici e Ambientali. È
autore di numerose pubblicazioni.
238
ELENA DEL DRAGO, giornalista e critica d’arte, collabora abitualmente
con Radio Rai, “Il Manifesto”, “Alias” e diverse testate specializzate. È
autrice del volume Il Castello di Rivoli. Arte Educazione e Convivenza,
pubblicato nel 2002 per i tipi di luca sossella editore.
MARTINA DE LUCA, storica dell’arte, è Presidente dell’Associazione
Eccom-Centro Europeo per l’Organizzazione e il Management Culturale. Insegna Economia dei Beni e delle Attività Culturali presso l’Università della Tuscia a Viterbo. Ha collaborato alla realizzazione di
mostre e cataloghi e ha pubblicato su temi dell’arte italiana tra Ottocento e Novecento.
ANNA DETHERIDGE, teorica delle arti visive, insegna Grammatica delle
Arti Visive presso l’Università “Luigi Bocconi”, e Arte e Design presso
il Politecnico di Milano. Ha curato le pagine di arte e cultura del
domenicale de “Il Sole 24-Ore”, con il quale tuttora collabora; presiede l’Associazione Connecting Cultures ed è direttore artistico della Fondazione Italiana per la Fotografia di Torino. Ha curato numerose
mostre in Italia e all’estero. È coautrice (con A. Vettese) del volume
Guardare l’arte (Il Sole 24 Ore, Milano 1999).
MIRELLA DI GIOVINE, architetto, dirige da due anni il Dipartimento
per lo Sviluppo e il Recupero delle Periferie del Comune di Roma,
dopo averne diretto il Dipartimento Ambiente. In qualità di architetto paesaggista ha realizzato numerosi piani e progetti di riqualificazione ambientale per l’Amministrazione pubblica, ed è autrice di
numerose pubblicazioni specialistiche.
Gli autori
FLAMINIA GENNARI SANTORI, storica dell’arte, coordina le ricerche
della Fondazione Adriano Olivetti. Dottore di ricerca in Storia Culturale all’Istituto Universitario Europeo e Fulbright Scholar alla University of Chicago, ha pubblicato The Melancholy of Masterpieces. Old
Master Paintings in America 1900-1914. Insegna Storia dell’Arte alla
New Hampshire University. Con Annie Claustres e Anne Pontegnie
cura per la Fondation de France la ricerca Une nouvelle scene de l’art.
GUIDO GUERZONI, storico economico, insegna Economia dei Beni e
delle Istituzioni Artistiche e Culturali e Progettazione e Gestione di
Archivi Digitali presso l’Università “Luigi Bocconi” di Milano. Autore
di numerosi saggi e articoli in tema di rights management in campo culturale. Per conto del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e
della Fondazione Corriere della Sera coordina dal 2001 il primo
Museum Copyright Group italiano per la redazione del “libro bianco”
dei diritti dei musei.
MARIA PAOLETTI MASINI, avvocato civilista, è Presidente della Fondazione Teseco per l’Arte contemporanea e si dedica da alcuni anni ai problemi della cultura contemporanea con particolare attenzione alle
arti visive, per sperimentare il rapporto tra cultura e impresa, società,
comunicazione, globalizzazione e trasformazione. La Fondazione
Teseco, costituita e finanziata dal Gruppo Teseco, ha vinto nel 2000 il
Premio Guggenheim Impresa e Cultura.
BARTOLOMEO PIETROMARCHI, critico e curatore d’arte, è Segretario
Generale della Fondazione Adriano Olivetti. Ha curato diverse
mostre e cataloghi, tra cui Xenobia (con L. Romito), Roma 1999-2000;
Gravità zero (con M.G. Tolomeo), Roma 2001; SubReal, Reality Survival
Strategies, Smart Project Space, Amsterdam 2003; Prototipi.01-Prototipi.02Prototipi.03 (con S. Chiodi), Roma 2001-2003. È autore del volume
Mario Merz. Igloo, Testo e Immagine (Testo & Immagine, Torino 2001) e
del documentario The Invisibile Object. Art in Social Change (2003).
WALTER SANTAGATA, economista, insegna Economia dei Beni e delle
Attività Culturali all’Università di Torino. È Direttore del Dipartimento di Economia “S. Cognetti de Martiis” e di Ebla Center. È autore di
Une Economie de la Créativité et du Patrimoine: la Mode (Paris 2004; con
C. Barrère); Produrre Cultura II (Celid, Torino 2002); Simbolo e Merce
(Il Mulino, Bologna 1998); Economia, Elezioni, Interessi (Il Mulino,
Bologna 1995); Rapporto sull’economia delle arti e dello spettacolo in Italia
(Edizioni della Fondazione Giovanni Agnelli, Torino 1992; con G.
Brosio). Ha curato il volume Economia dell’Arte (Utet, Torino 1998).
PIER LUIGI SACCO, economista, insegna Economia delle Arti Visive ed è
Pro-rettore con delega alla Comunicazione presso l’Università IUAV a
Venezia. Insegna inoltre presso la Facoltà di Economia dell’Università
239
Creazione contemporanea
di Bologna, la Facoltà di Scienze Manageriali dell’Università di ChietiPescara e la Trento School of Management dell’Università di Trento.
È direttore scientifico dell’Osservatorio Impresa e Cultura. Collabora
alle edizioni quotidiane e al domenicale de “Il Sole 24 Ore”.
MARCO SENALDI, critico d’arte, insegna Cinema e Arti Visive all’Università Statale di Milano Bicocca. Nel 2003 ha curato la mostra Cover
Theory. L’arte contemporanea come reinterpretazione (catalogo Scheiwiller)
e ha pubblicato il saggio Enjoy! Il godimento estetico (Meltemi, Roma
2003). Collabora con “Flash Art” e “Il Manifesto”. Ha ideato e dirige
(con S. Pedrazzini) il periodico “Impackt”.
SILVIA STABILE, avvocato, ha pubblicato numerosi saggi e articoli in
materia di diritto d’autore e nuove tecnologie. Dottore di ricerca in
Sociologia del Diritto presso l’Università degli Studi di Milano, collabora con Guido Guerzoni nell’ambito di un programma di iniziative
per la protezione dei diritti di proprietà intellettuale di enti culturali
e di musei nazionali. Si occupa inoltre di protezione del diritto d’autore legato alle opere d’arte contemporanea e agli archivi museali.
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MICHELE TRIMARCHI, economista, insegna Scienza delle Finanze presso l’Università di Catanzaro, Economia della Cultura ed Economia
dello Spettacolo presso l’Università IULM di Milano. D.Phil. in Economics all’Università di Buckingham, ha pubblicato estesamente su
temi di economia dell’arte e della cultura. È Vicepresidente di
Eccom-Centro Europeo per l’Organizzazione e il Management Culturale e fa parte dell’Executive Board dell’Association for Cultural Economics International.
è un team di operatori della cultura e della comunicazione formatosi nel novembre del 2000 e attivo tra Bologna, Milano, Roma e
Parigi, e focalizzato sull’interesse per la ricerca di nuovi linguaggi
espressivi legati alla contemporaneità e l’attraversamento tra le diverse discipline dell’arte e della comunicazione.
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