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GLI INTONACI A MARMORINO
Mario Piana
(Versione italiana del testo pubblicato in inglese in:
Mario Piana, Marmorino plasters in Venice between the XVI and XVIII Centuries, in
Scientific Research and Safeguarding of Venice. Research Programme 2004-2006, IV,
2005 results (a cura di P. Campostrini), Venezia 2006, pp. 71-90).
Razionalizzazione, semplificazione, unificazione dei procedimenti costruttivi e dei
materiali d’impiego: questa risulta essere la principale tendenza evolutiva del fabbricare in
Laguna a partire dal tardo Quattrocento.
Analizzando l’intero complesso delle fabbriche sorte tra il XVI e il XVIII secolo in area
lagunare la continuità nelle tecniche e nel sistema costruttivo sembra prevalere sugli
elementi di novità. Solo subordinatamente si può cogliere una lenta evoluzione, una
prudente modifica dei procedimenti edificatori, in risposta alle esigenze del nuovo
linguaggio architettonico. Un cauto adeguamento si manifesta soprattutto attraverso la
razionalizzazione degli schemi statici e la normalizzazione dei materiali da costruzione.
Le ragioni di tale straordinaria continuità d’impiego di materiali, tecniche e sistemi statici
nell’edilizia cittadina, vanno sopratutto ricercate nei formidabili ostacoli posti al costruire
dal sito lagunare e nelle conseguenti avvertenze ed espedienti costruttivi, tanto efficaci
quanto singolari, individuati ed applicati dalle maestranze fin dai primi secoli della
Venezia muraria. I problemi di equilibrio derivanti dall’inevitabile necessità di fondare le
fabbriche su terreni paludosi incapaci di sostenere carichi significativi non potevano essere
fronteggiati e risolti se non con procedimenti lungamente sperimentati.
Alcune tecniche, fino a quell’epoca sconosciute, vengono pur tuttavia introdotte e si
utilizza anche qualche nuovo materiale; tra questi forse il più interessante è rappresentato
dallo stucco, definito anche terrazzo o terrazzetto - oggi chiamato intonaco a marmorino in quanto più di ogni altro intimamente legato all’affermazione della nuova architettura.
Il termine terrazzo, accompagnato dal verbo terrazzar, si rinviene già nella seconda metà
del XV secolo. La sua apparizione più remota a noi conosciuta risale al 1473, contenuta in
un contratto delle monache di Santa Chiara di Murano relativo alla costruzione della
chiesa, che prevede che i “ditj murj tutj belizar smaltar e terazar si dentro come de fuora”1.
Costantemente impiegato nelle carte di fabbrica dei secoli XVI e XVII2, il termine rimane
in uso fino al Settecento: si cita a titolo d’esempio il “terrazzo da Rovigno fregato in buona
forma”3 che nel 1734 venne applicato sul prospetto della Scuola della Carità, interessante
1
P. PAOLETTI, L’architettura e la scultura del Rinascimento in Venezia: Ricerche storicoartistiche. Parte I, Venezia 1893, p. 92.
2
La prima apparizione cinquecentesca nota del termine risale al 1534: il proto Antonio
Scarpagnino, illustrando il progetto per la costruzione di un complesso di case a Santa Maria
Zobenigo prescrive che: “tute ditte muragie de bone piere ben cotte de bona tera padovane overo
trevixane, con bone calzine bene lavorade et smaltade e biancizado de dentro via et di fuora ben
interazado per modo che tuti stiano bene”. (ASVe, Scuola Grande di S. Rocco, II consegna, b. 46,
c. 27, 14 gennaio 1534. Pubblicato da G. GIANIGHIAN, Appunti per una storia del cantiere a
Venezia (secoli XVI-XVIII), in G. CANIATO, M. DAL BORGO, Le arti edili a Venezia, Roma
1990, pp. 244-45).
3
Citato da P. MODESTI, Le trasformazioni storico-costruttive del complesso della Carità, in
Progettare un museo. Le nuove gallerie dell’Accademia a Venezia, Milano 2005, p. 23.
anche per il riferimento alla città istriana, luogo di provenienza principale della pietra
d’Istria.
I marmorini appaiono in città a cavallo tra Quattro e Cinquecento, in parallelo al
diffondersi del nuovo linguaggio architettonico. Nei secoli del classicismo il marmo era
inteso quale materia nobile, tra tutte preferibile nella costituzione dell’edificio4. In Laguna
la Pietra d’Istria, per le doti di compattezza e resistenza da essa possedute, ma anche per le
sue qualità estetiche offerte dalla sua grana minuta e dal suo marcato candore, venne
considerata quale litotipo principe, paragonabile ai più fini marmi. Nella Venetia, città
nobilissima e singolare, ad esempio, si ricorda come “bella et mirabil cosa è la materia
delle pietre vive, che sono condotte da Rovigno et da Brioni, castella della Dalmatia, sono
di color bianco et simili al marmo: ma salde et forti di una maniera che durano per
lunghissimo tempo a i ghiacci et al Sole: onde se ne fanno statue: le quali polite col feltro a
guisa del marmo, poi che sono pomiciate, hanno sembianza di marmo”5.
A Venezia, nei decenni di passaggio tra medioevo ed età moderna, il calcare istriano
divenne l’unico, o il pressoché unico, materiale lapideo impiegato negli elementi strutturali
e di telaio architettonico delle fabbriche6; a partire dall’inizio del sedicesimo secolo,
4
Marcantonio Sabellico, ad esempio, alla fine del quindicesimo secolo, riferendosi alla chiesa
allora appena completata di San Fantin, la descrive “frons aedis nitida, candidoque saxo nuper
instaurata” (Citato in G. VIO, I “mistri” della chiesa di S. Fantin in Venezia, in “Arte Veneta”, 31,
1977, p. 225).
5
F. SANSOVINO, Venetia, città nobilissima e singolare, Venezia 1581, pp.140-41. Questa non è
né la prima né l’unica testimonianza dell’apprezzamento di tale materiale; va ricordato quanto
scrive Pietro Coppo nel 1540: “La Isola di Breoni e quasi davanti el Porto de Pola (...) boni
taiapiera si attrovano qui per esser Isola copiosa de bella sorte de piera bianca: manco dura che
quella de Rovigno. (...) In questi doi lochi si attrova gran rompitori di grosse & ponderose piere
bianche. de qual se fano belli lavori da gran edifitii et sumptuose fabriche per Venetia & altre Citta
opulente” (P. COPPO, Del sito de listria, Venezia 1540, p. 17). Giorgio Vasari, nel capitolo primo
delle Vite, ne sottolinea i pregi: “Cavasi ancora in Istria una pietra bianca livida, la quale molto
agevolmente si schianta; e di questa sopra di ogni altra si serve non solamente la città di Vinegia,
ma tutta la Romagna ancora, facendone tutti i loro lavori e di quadro e d’intaglio (...) e porte,
finestre, cappelle et altri ornamenti che lor vien comodo di fare, non ostante che da Verona per il
fiume dello Adige abbiano comodità di condurvi i mischi et altra sorte di pietre, delle quali poche
cose si veggono, per aver più in uso questa” (G. VASARI, Le Vite, cap. I “Dell’Architettura”.
Edizione moderna a cura di C. RAGGHIANTI, Milano 1971, pp. 122-123). Nel primo Seicento
Vincenzo Scamozzi ricorda “le cave vecchie [che] si veggono alla marina sotto Orsera (…) vero è,
che la maggior quantità, e bonta di essa [pietra d’Istria] si ritrova nelle cave di Leme, e Mondelago:
perche e l’une, e l’altre sono molto bianche, e fine, e sonore, salde, e dure” (V. SCAMOZZI,
L’Idea dell’Architettura Universale, Venezia 1615, p. 198).
6
Poche sono le fabbriche che non obbediranno al nuovo gusto, evitando l’uniformazione; tra
queste spicca, quale eccezione più unica che rara, il Peristilio palladiano del complesso della
Carità, sorto poco dopo la metà del Cinquecento: “Questo edifizio è tutto fatto di pietre cotte, cioè
mattoni, salvo le base delle colonne, i capitegli, l’imposte degl’archi, le scale, le superficie delle
cornici e le finestre tutte e le porte”6, segnalava già il Vasari, che aveva probabilmente visitato il
cantiere nel corso del suo breve soggiorno veneziano del maggio 1566. L’annotazione, del tutto
pertinente, coglie nel ruolo dominante svolto dal laterizio il principale carattere costruttivo
dell’edificio. L’argilla appare non solo come materiale costitutivo delle varie muraglie e
membrature della fabbrica, com’era d’uso comune a Venezia, ma è anche impiegata, quale sostituto
della pietra, per formare buona parte degli stessi elementi dell’ordine. Fusti di colonne, architravi,
fregi, cornici, fasce modanate sono realizzati in laterizio, modellato con ammirevole precisione e
rifinito con un sottilissimo strato di cromia rossa.
inoltre, e nel breve trascorrere di qualche decennio, la pietra d’Istria soppiantò
completamente, nei rivestimenti delle facciate, i rossi di Verona, i marmi greci e carraresi,
le brecce, i porfidi rossi e verdi, tanto frequenti nell’architettura medievale e del primo
rinascimento7.
Rare, tuttavia, sono le fabbriche di età moderna erette con i piedritti interamente lapidei: i
casi della Zecca e dell’edificio delle Prigioni Nuove rappresentano eccezioni tanto
significative quanto isolate. Altrettanto rari appaiono i manufatti con membrature primarie
realizzate in pietra (la grande arcata del Ponte di Rialto, ad esempio) o le architetture dotate
di blocchi strutturali di paramento associati alle masse laterizie retrostanti (si rammentano i
casi del campanile codussiano di San Pietro di Castello e della chiesa di San Fantin). A
giustificazione di ciò va considerato che il dilagare del nuovo linguaggio architettonico,
ispirato alla classicità romana, non poteva incidere in misura significativa sugli abiti
mentali e sulle consuetudini di una cultura edificatoria, come quella lagunare, obbligata
alla costante ricerca della massima leggerezza nel costruire: in città l’erezione della
stragrande maggioranza delle fabbriche continuò imperterrita a fondarsi sull’impiego del
laterizio.
Le membrature degli edifici, se di costituzione lapidea, dato il maggior peso specifico della
pietra rispetto al laterizio, avrebbero innanzitutto richiesto maggiori sforzi realizzativi, a
partire dalla formazione delle palificate e dei massi di fondazione, con conseguenti
gravami di spesa. Avrebbero inoltre drasticamente ridotto una qualità fondamentale offerta
dalle murature laterizie: la capacità di adattarsi plasticamente agli inevitabili cedimenti
relativi, sempre di notevole entità assoluta, sofferti dagli edifici lagunari, contenendo lo
sviluppo dei quadri fessurativi, che le membrature in pietra avrebbero, al contrario,
esaltato. Isolati appaiono anche i casi di edifici di costituzione laterizia completamente
placcati con sottili lastre di pietra, dati gli altissimi costi che un tempo era necessario
affrontare per tale operazione. Escludendo, va da sé, le facciate di molti edifici
ecclesiastici, di alcuni edifici pubblici e di qualche palazzo, ove la pietra appare nei soli
prospetti principali, peraltro sempre come rivestimento di una retrostante membratura in
cotto, la chiesa di Santa Maria dei Miracoli e il Palazzo dei Camerlenghi sono i soli edifici
con gli interi prospetti esterni rivestiti di tavole marmoree.
A superamento di tali limiti e impedimenti costruttivi, sollecitata dalle nuove esigenze del
linguaggio “all’antica”, la cultura edificatoria locale offrì una risposta con la messa a punto
di un nuovo rivestimento ad intonaco che consentì alle murature di assumere un’apparenza
di muraglia petrinee. Si può ben affermare che i marmorini, aggirando una difficoltà affatto
secondaria, vale a dire permettendo di continuare a murare setti in laterizio, ben più leggeri
della pietra, ma dall’aspetto lapideo, eliminarono uno degli ostacoli tecnici che in Laguna
avrebbero potuto ostacolare il libero diffondersi della nuova architettura.
Qualità e vantaggi espressi a chiare lettere da Alvise Cornaro, intorno al 1560, che, nella
sua visionaria proposta relativa alla costruzione di un teatro nell’area del bacino marciano
propone un “Theatro in pietra grande, ma non di pietra da scalpello ma di cotta, che non
costerà la metà e sarà opera durabile come di pietra da scalpello, perché la cotta hora che si
ha trovato il stucco se istuccherà e, come si vede, tal stucco si converte in sasso perché è
fatto di sasso”8.
7
Negli stessi decenni si estingue anche la pratica di dipingere e dorare, con scopi estetici e
protettivi, le pietre strutturali e di rivestimento, pratica ben viva ancora alla fine del XV secolo,
tutt’oggi osservabile -sia pure in tracce- su molti edifici, confermata da un’abbondante iconografia,
testimoniata da qualche superstite documento di fabbrica.
8
A. CORNARO, Scritti sull’architettura, (a cura di) P. CARPEGGIANI, Padova 1980.
La ragione della rapida affermazione e immensa fortuna che i marmorini conosceranno a
partire dal Cinquecento, dapprima a Venezia, poi in tutta la terraferma veneta, va dunque
individuata nella loro capacità di evocare in modo efficace, e talvolta di imitare
pedissequamente, l’aspetto e la consistenza del materiale lapideo9. Se, infatti, di norma è la
sola l’apparenza petrinea che i marmorini tendono a riecheggiare, talvolta, in qualche
fascia marcapiano, marcafinestra o finto bugnato angolare, appare evidente l’intento di
ricalcare con fedeltà anche la tipica lavorazione dei conci lapidei, riproducendo sia la grana
impressa dalla lavorazione alla martellina, sia la cordellina perimetrale, la piccola fascetta
levigata con cui i lapicidi rifinivano le linee di spigolo dei conci10 (figura …). Non
mancano i casi di interi prospetti realizzati in tal maniera, ad esempio nell’intonaco che
ancora si conserva sui fianchi della chiesa dei Gesuati alle Zattere (figura …), ove le intere
specchiature, le fasce, le bande, le modanature a toro, mostrano una marcata varietà di
gradi di battitura e levigatura.
Una parte di tali intonaci, tuttavia, come i bianchi ugualmente lavorati fino ad ottenere una
perfetta levigatura e anch’essi sottoposti a trattamento finale a base di olii o cere, appare
realizzata con l’uso di una carica costituita non da frammenti lapidei, ma da coccio pesto,
anche spesso una frazione di rade scagliette in pietra d’Istria concorre a completarne
l’impasto. Per quanto meno frequenti dei bianchi, tali terrazzi, dalla pelle rossastra talvolta
anche intensamente colorata, vanno probabilmente intesi come un omaggio alla tradizione,
derivando dalla volontà di riprodurre il colore dominante fino al tardo secolo XV in città,
dovuto alla presenza quasi totalizzante dei regalzieri, intonaci dipinti a fresco che
riproducono colore ed aspetto di una cortina muraria11.
L’intensità della colorazione dei marmorini di coccio pesto è dovuta all’applicazione, nelle
fasi finali della lavorazione, di strati pittorici a base di ocra rossa. Colorazioni stese a
fresco o più facilmente fissate mediante leganti oleoresinosi, come si può desumere da una
tavola contenuta nel trattato di Giovanni Antonio Rusconi12 (Figura ...), più che dal brano
che l’accompagna, reticente giusto nella descrizione della tecnica: “la seguente figura (...)
ci mostra il modo del dare il minio sottilmente alle pareti con la vernice, come s’usa
spetialmente in Venetia, la qual cosa essendo comunissima, et chiara nel dissegno, non
9
M. PIANA, Tecniche edificatorie cinquecentesche: tradizione e novità in Laguna, in “D’une ville
à l’autre: structures matérielles et organisation de l’espace dans les villes européennes (XIII-XVI
siécle)”, atti del convegno Ecole Française de Rome, Roma 1989, p. 639. Per ulteriori informazioni
sui materiali e le tecniche esecutive dei marmorini e sulle loro proprietà chimico– fisiche si
rimanda a: G. BISCONTIN – M. PIANA – G. RIVA, Research on Limes and Intonacoes of the
historical Venetian Architecture, in “Mortars, Cements and Grouts used in the Conservation of
Historic Buildings”, atti del Symposium ICCROM, Roma 1982, pp.359–371; G. BISCONTIN, M.
PIANA, G. RIVA, Aspetti e durabilità degli intonaci “marmorino” veneziani, in “Restauro e
Città”, n° 3/4, 1986, pp. 117–126.
10
Qualche documento di costruzione richiama esplicitamente tale intento imitativo: Si veda ad
esempio il seicentesco capitolato d’appalto della Scuola di San Giorgio dei Greci per far di diverse
case, su progetto di Baldassarre Longhena: “Far tutti li soffitti di dette scale et patti questi
inerazzatti di terazo roso et poi slissati di biancho con le sue fase atorno, cioè de arte suo et questi li
sarà misuratti et ridotti a passo quadro (...) stabelliti il tutto ponto et fase finte di piettra viva”10.
(Archivio dell’Istituto ellenico di studi bizantini e postbizantini, Venezia, reg. 55, cc. 101-2, 1658,
13 luglio (Pubblicato da G. CRISTINELLI, Baldassarre Longhena architetto del ‘600 a Venezia,
Venezia 1978, p.169).
11
Fondamenta dei Frari, S. Polo 2557-2560.
12
G. A. RUSCONI, Della Architettura, Venezia 1590, VII, p. 111.
ricerca maggior dichiaratione”13. Dei tre maestri operanti sull’impalcatura, raffigurati nella
xilografia, il primo è intento ad applicare il colore a pennello, prelevato da un recipiente
posto su un braciere, il secondo è intento a strofinare la superficie del paramento con uno
straccio, il terzo sostiene una lampada, pare posta a contatto col paramento intonacato,
forse per scaldarne la superficie. L’immagine, va ricordato, doveva illustrare un’edizione
del trattato vitruviano, ed in particolare un passo del nono capitolo del Libro settimo14, ma,
essendo stata concepita sulla base della cultura tecnica nella quale di Rusconi era immerso,
con ogni probabilità riproduce una prassi nota a Venezia nella seconda metà del XVI
secolo. È proprio il riscaldamento della materia colorante che induce a ipotizzare l’impiego
di una sostanza oleoresinosa quale legante del pigmento: l’elevata temperatura di
applicazione, inutile ed anzi dannosa nel caso di pitture all’acqua, aumenta la fluidità degli
olii e delle resine, favorendone la penetrazione. Al minio (una sostanza colorante prodotta
artificialmente a partire dal piombo) si riferisce l’ignoto commentatore delle tavole del
Rusconi, anche se è molto più probabile che tale termine si riferisca all’ocra rossa,
ragionevolmente l’unico pigmento che si poteva utilizzare nelle coloriture di ampie
superfici, dato il suo costo contenuto15. I documenti di fabbrica che si riferiscono alla
variante rossa dei marmorini risalgono ad un’età relativamente tarda; un contratto della
fine del XVI secolo, ad esempio, stipulato tra le monache dei santi Cosma e Damiano alla
Giudecca e maestro Andrea murer da Camposampiero per la costruzione di quattro case da
statio in contrà de san Anzolo, prescrive che “Le fazzade siano terrazade de terrazzo rosso,
overo bianco, come alli procuratori sopradetti parerà, che sii ben fregado et lissado con il
suo oglio de lin de sopra”16.
13
G. A. RUSCONI, Della Architettura, Venezia 1590, VII, p. 110.
“At si qui subtilior fuerit et voluerit expolitionem miniaceam suum colorem retinere, cum paries
expolitus et aridus fuerit, ceram punicam igni liquefactam paulo oleo temperatam saeta inducat,
deinde postea carbonibus in ferreo vase compositis eam ceram a proximo cum pariete calfaciundo
sudare cogat, itaque ut peraequetur, deinde tunc candela linteisque puris subigat, uti signa
marmorea nuda curantur. Haec autem γανωσις graece dicitur. Ita obstans cerae punicae lorica non
patitur nec lunae splendorem nec solis radios lambendo eripere ex his politionibus colorem”. (“Ma
chi fosse più accurato e volesse una decorazione col cinabro che conservi il colore originario, dovrà
applicare con un pennello, dopo che la parete sarà stata dipinta e sarà asciutta, della cera punica
liquefatta al fuoco e stemperata con un po’ d’olio. Poi, continuando, servendosi di carboni messi
dentro un recipiente di ferro, porterà questa cera a trasudare assieme alla parete, riscaldandola da
vicino, in modo da uguagliarne la superficie, infine la strofinerà con una candela e con panni di lino
puliti, nello stesso modo in cui vengono trattate le statue nude di marmo. Questo procedimento si
chiama in greco gánōsis. In questo modo il rivestimento protettivo di cera punica, facendo da
ostacolo, impedisce tanto allo splendore della luna quanto ai raggi del sole di portar via a queste
decorazioni, sfiorandole, il colore”). M. VITRUVIO, De Architectura, VII, 9, 3-4. Le traduzioni
sono tratte dall’edizione critica curata da Pierre GROS, Torino 1997.
15
. La voce minum viene impiegata da Vitruvio (VII, 8, 1) per definire il cinabro (ossido di
mercurio), mentre per l’ocra rossa viene impiegata al parola sil: “Colores vero aliii sunt qui per se
certis locis procreantur et inde fonditur, nonnulli ex aliis rebus tractationibus aut mixtionibus
temperaturis compositi perficiuntur, uti praestent eandem in operibus utilitatem. Primum autem
exponemus quae per se nascentia fodiuntur, uti sil quod graece ωχρα dicitur” M. VITRUVIO, De
architectura, VII, 7, 1 “Quanto ai colori (...) tratterò innanzitutto di quelli che si estraggono allo
strato naturale, come il sil, detto in greco őchra”.
16
ASVe, Monastero di santi Cosma e Damiano, b. 6, fasc. 506, 1585, 5 dicembre, contratto tra le
monache dei santi Cosma e Damiano alla Giudecca e maestro Andrea murer da Camposampiero
per la costruzione di quattro case da statio in contrà de san Anzolo. Pubblicato da G.
14
L’impiego dei marmorini a base rossastra è tuttavia rilevabile su qualche fabbrica, a partire
dal medio Cinquecento, anche di straordinaria importanza, quali, ad esempio, il Refettorio
e la chiesa palladiana di San Giorgio Maggiore, dove sul suo fianco destro, risparmiato dai
rifacimenti novecenteschi, i paramenti in terrazzo rosso sono cadenzati dai fusti delle
lesene e da fasce in terrazzo bianco, oltre che da un colore rosso intenso applicato sui
mattoni levigati dell’architrave. Anche in molte fabbriche posteriori il terrazzo in coccio
pesto spesso è associato con fasce e parti biancastre, quest’ultime tese a suggerire una
parziale costituzione lapidea degli elementi architettonici (Figura … Campanile di San Zan
Degolà). Molto più rari i marmorini esterni colorati, di solito con l’aggiunta di nero
vegetale e limitatamente alle fasce marcapiano o di contorno, come quelle, risalenti ad un
rifacimento settecentesco, presenti nelle tre specchiature sinistre del Campiello di San
Giovanni Evangelista, realizzate ad evidente imitazione delle lastre in bardiglio grigioceruleo presenti nel setto marmoreo centrale (figura …), mentre appaiono più frequenti le
variazioni, tono su tono, del bianco, anch’esse quasi sempre ottenute per evidenziare fasce
marcapiano, conci di angolate o contorni di aperture (figura … S. Giovanni Evangelista).
I marmorini, dalla loro apparizione ai primi decenni del Seicento, sono invariabilmente
realizzati ad unico strato, applicato direttamente sul paramento laterizio. A partire dal
XVII secolo, al contrario, il terrazzo viene preceduto da uno strato preparatorio in coccio
pesto: una costante, che si riprodurrà fino ai nostri giorni.
Il primo documento a noi noto, relativo al doppio strato, risale al 1658, ove si prevede di
“Far tutti li soffitti di dette scale et patti questi inerazzatti di terazo roso et poi slissati di
biancho con le sue fase atorno, cioè de arte suo (...) stabelliti il tutto ponto et fase finte di
piettra viva”17. La ragione di tale evoluzione tecnica va quasi certamente ricercata nel calo
complessivo della qualità nella murazione che le fabbriche lagunari hanno conosciuto dopo
il sedicesimo secolo. Il marmorino, più di ogni altro intonaco, dev’essere steso in spessore
costante, altrimenti l’operazione di levigatura può essere ostacolata, fino all’impedimento.
Nel caso di variabilità di spessore, infatti, la velocità della presa della malta, direttamente
proporzionale alla consistenza dello strato, condurrebbe nel corso della lavorazione
all’alternarsi di aree d’intonaco disomogenee nella consistenza, alcune già addensate, altre
ancora in fase plastica, che intralcerebbero il regolare scorrimento del ferro, vanificando
l’azione di compattamento. Fino a quando le superfici murarie si mostrarono marcatamente
complanari, tessute con laterizi disposti alla perfezione negli allineamenti e nelle
sovrapposizioni delle assise, i marmorini furono stesi e lavorati in unico strato; in presenza
di superfici laterizie più incerte nell’esecuzione, il compito di pareggiare le irregolarità del
paramento venne affidato al sottofondo di coccio pesto, che poteva così accogliere lo
spessore costante della successiva finitura.
Tre sono i principali fattori che caratterizzano i marmorini: l’uso di cariche prodotte
artificialmente, l’estrema accuratezza e lunghezza di esecuzione, i trattamenti finali a base
di di olio di lino o sapone e cera.
A differenza di ogni altro intonaco presente in laguna, l’inerte dei marmorini che entra in
composizione con la calce è costituito non da sabbie, ma da frammenti di materiale lapideo
(o di cotto, nel caso dei marmorini rossi) frantumati a mortaio e vagliati. È possibile che le
GIANIGHIAN, Appunti per una storia del cantiere a Venezia (secoli XVI-XVIII), in G. CANIATO,
M. DAL BORGO, Le arti edili a Venezia, Roma 1990, pp. 249-50.
17
Archivio dell’Istituto ellenico di studi bizantini e postbizantini, Venezia, reg. 55, cc. 101-2,
Capitolato d’appalto della Scuola di San Giorgio dei Greci per far di diverse case, su progetto di
Baldassarre Longhena, 1658, 13 luglio. Pubblicato da G. CRISTINELLI, Baldassarre Longhena
architetto del ‘600 a Venezia, Venezia 1978, p.169.
ignote maestranze venete che per prime hanno utilizzato inerti artificalmente prodotti siano
state - mediatamente, anche se non direttamente - influenzate dal testo vitruviano, che
prescrive l’uso delle polveri di marmo negli strati finali degli intonaci: “Il marmo non si
trova dappertutto delle stessa qualità: in alcune zone ne esistono blocchi che contengono
blocchi che pestati e macinati si rivelano utili nelle lavorazioni. Ma dove non si trovano
questi blocchi si pestano e si macinano i rottami di marmo o, come vengono chiamate, le
schegge che i marmisti lasciano cadere durante il loro lavoro, e dopo averle passate al
setaccio si adoperano nei lavori a stucco”18. I considerevoli scarti prodotti nella lavorazione
del calcare istriano venivano dunque raccolti e riciclati per la produzione dei marmorini,
oltre che per le pavimentazioni a terrazzo: l’identità del materiale garantiva la buona
riproduzione dell’aspetto della pietra. Non mancano i casi, rari in città, di inerti diversi
dall’imperante pietra d’Istria. Sul fianco destro di Ca’ Vendramin Calergi, ad esempio
(figura …), si conservano ancora due vaste aree di intonaco primitivo realizzato con
cariche ricche di clasti di marmo macrocristallino: lo stesso litotipo, lo statuario di Carrara,
presente nell’incrostazione del prospetto sul Canal Grande19. I marmorini realizzati nella
terraferma, poi, offrono all’osservazione cariche ottenute dalla frammentazione delle pietre
locali, utilizzate nella costruzione: il Nanto in area padovana, la pietra bianca a Vicenza, il
biancone nel veronese, ecc. Qualche fonte segnala anche altre sostanze che potevano
entrare nell’impasto dei marmorini. Nel capitolo “Della prattica delle malte”, del suo
trattato d’architettura il padovano Gioseffe Viola Zannini rammenta le “smaltature di
calcina bianca di lucido splendore, dentro alla quale in cambio di arena si pone granzolo di
vetro, qual si compra a murano, et in altri luoghi dove è la maccina da farlo”20, o “la
scolatura del ferro, che sono goccie, che cascano nel fuoco a modo di liquida cera, mentre
il ferro bolle, le quali ammassate insieme si convertono in pietra, che marogna si chiama;
et questa minutamente pesta a modo di terazzo, et mescolata con la calce fa la smaltatura
molto forte, et dura”21. Frammenti vetrosi (il granzolo di vetro) che dovrebbero aumentare
la resistenza dello strato e cariche silicatiche (la marogna) che, combinandosi con la calce,
sono in grado di imprimere al legante una certa idraulicità. Materiali che, per quanto si
conosce, non sembrano peraltro mai essere stati impiegati in Laguna. A tal proposito va
sottolineato come a Venezia non risultano siano mai state utilizzate calci idrauliche o
semiidrauliche, quantomeno nei marmorini esterni, nonostante fin dal secondo
Quattrocento fosse disponibile un nuovo legante, blandamente idraulico, la cosiddetta
calce padovana, altrimenti nota come calce negra o brovada, ottenuta dalla cottura di
pietre marnose cavate dai colli Euganei, utilizzato in città solo nelle operazioni di
murazione22.
18
“Marmor non eodem genere omnibus regionibus procreatur, sed quibusdam locis glaebae ut salis
micas perlucidas habentes nascuntur, quae contusae et molitae praestant operibus deiciunt,
contunduntur et moluntur, et cum est subcretum in operibus utuntur”. M. VITRUVIO, De
Architectura, VII, 6, 1. Le traduzioni sono tratte dall’edizione critica curata da Pierre GROS,
Torino 1997.
19
G. BISCONTIN, M. PIANA, G. RIVA, Research on Limes and Intonacoes of the historical
Venetian architecture: Characterization on some Marmorino intonacoes from the 16th to the 17th
century, in Mortars, Cements and Grouts used in the Conservation of Historic Buildings, atti del
symposium ICCROM, Roma 1982, pp. 359–371.
20
G. VIOLA ZANNINI, Della Architettura, libri due, Padova 1629, I, VXI, p. 94.
21
Idem, p. 96.
22
Relativamente all’uso, che peraltro appare sporadico, della calce padovana nella costituzione dei
sottofondi degli intonaci interni ci è noto un solo caso: “Far tutte le smaltadure di drento via in
Quantomai lunghe e defatiganti, poi, risultano essere le procedure realizzative di tali
intonaci. La lunghissima lavorazione dell’impasto imprimeva qualità decisive allo strato di
marmorino. L’applicazione era preceduta da un’abbondante bagnatura dei paramenti,
effettuata per rallentare al massimo la presa del legante: l’imbibizione a rifiuto dei laterizi
impediva che l’aridità delle murature sottraesse l’acqua presente nell’impasto, prolungando
la lavorabilità dell’intonaco. Il continuo ripasso della malta comportava un assestamento
dei clasti, variabilissimi nelle dimensioni (da qualche decimo di millimetro a parecchi
millimetri), che si avvicinavano gradualmente gli uni agli altri, conducendo ad un
compattamento ottimale dello strato. Accompagnando la riduzione della massa della malta
dovuta all’evaporazione dell’acqua, la lunga lavorazione riduceva significativamente la
formazione delle cavillature da ritiro, aumentando la resistenza dell’intonaco
all’aggressione dell’ambiente. Inoltre l’assestamento dei granuli della carica, ottenuto con
il ripetuto ripasso col ferro, un cazzuolino dalla suola spessa e leggermente convessa,
obbligava l’acqua dell’impasto (la cosiddetta pacciarina) a migrare verso l’esterno, Il
liquido, trasportando in soluzione la calce idrata, arricchiva di legante la superficie
dell’intonaco, che, carbonatando, rendeva la sua ‘pelle’ maggiormente resistente
all’aggressione ambientale. Va poi considerato che una frazione dell’inerte, nel caso
dell’uso di cariche ottenute dalla pietra d’Istria, era costituito da scagliette, di minimo
spessore, ma di ampiezza che poteva anche avvicinarsi al centimetro23. Grazie all’azione di
compattamento operata col ferro, tali scagliette, dapprima casualmente disposte,
assumevano un orientamento pressoché parallelo alla superficie muraria, sovrapponendosi
le une alle altre e irrobustendo significativamente lo strato. Le scagliette, sempre presenti
nei marmorini di fattura più remota, tendono a scomparire nel XVIII secolo. In linea
generale, col passare del tempo la dimensione dei clasti della carica diminuisce
costantemente, giungendo nell’Ottocento a realizzazioni ottenute con inerti dalla
granulometria sottile e di classazione uniforme.
I trattamenti che tali intonaci subivano nelle ultime fasi di lavorazione costituiscono
un’ulteriore caratteristica, che contraddistingue i marmorini. Due erano le finiture
applicate, a base di olio di lino o di sapone e cera. Le finalità del trattamento erano
molteplici. Alle applicazioni finali era affidato un fondamentale compito di natura estetica:
con tali trattamenti le superfici intonacate, altrimenti gessose, sorde ed opache, in virtù
della diversa rifrazione assumevano un aspetto ‘bagnato’, in parte traslucido e quasi
corneo, avvicinandsi meglio alla consistenza e alla sembianza propria della pietra d’Istria.
Inoltre le sostanze immesse, con l’ostacolare l’assorbimento delle acque piovane senza
ridurre significativamente la permeabilità dell’intonaco, sviluppavano un’indubbia azione
protettiva, rendendolo atto a meglio resistere agli insulti di un ambiente, com’è quello
lagunare, particolarmente aggressivo. Non va trascurato, poi, l’aumento della
tutte le stanze talgiando le sue malte alle piettre vive, come si fava ancho nelle sopradette
terazadure et queste smaltadure bugando benissimo li muri et poi smaltatte di dui mano di malta
una di sotto negra et poi di sopra slisatta di calcina biancha et dandoli sopra di penello et questa
benissimo avalitta” (Archivio dell’Istituto ellenico di studi bizantini e postbizantini, Venezia,
reg.55, cc. 101-2, Capitolato d’appalto della Scuola di san Giorgio dei Greci per far di diverse
case, su progetto di Baldassarre Longhena, 1658, 13 luglio. Pubblicato da G. CRISTINELLI,
Baldassarre Longhena architetto del ‘600 a Venezia, Venezia 1978, p.169.
23
È caratteristico della pietra d’Istria frantumarsi anche in scagliette, se sottoposta a percussione;
gli altri materiali litici impiegati in area veneta si disgregano producendo dei clasti sferoidali, con
facce più o meno spigolose. Questi ultimi, dunque, nell’azione di compattamento dello strato
d’intonaco, possono avvicinarsi tra di loro, ma non sovrapporsi.
cementazione dello strato indotto da tali sostanze organiche. Gli olii, in particolare,
possono interagire chimicamente con il legante, favorendone la trasformazione, lenta ma
sicura, in ossalati, le forme cristalline più stabili e resistenti che il calcio possa assumere24.
Infine va rammentato, sempre nel caso dell’applicazione di olio di lino cotto, l’effetto di
maggiore penetrabilità offerto dalla frazione di glicerina in esso contenuta, presente quale
prodotto secondario del processo di trasformazione dell’olio di lino da crudo a cotto:
essendo tra le poche sostanze che entra indifferentemente in soluzione sia con l’acqua che
con gli olii, la glicerina migliorava la capacità di assorbimento da parte del marmorino, che
al momento dell’applicazione del trattamento conservava ancora una buona dose di
umidità. L’imbibizione delle superfici con olio ricavato dai semi di lino è una pratica
oramai estinta, ignota agli ultimi marmorinisti che ancora operano in città25, ma il
trattamento è testimoniato da alcuni atti di fabbrica cinque-settecenteschi. Alla fine del
1585, ad esempio, un contratto tra le monache dei santi Cosma e Damiano alla Giudecca e
maestro Andrea murer da Camposampiero, steso per la costruzione di quattro “case da
statio in contrà de san Anzolo”, prescrive che il terrazzo “sii ben fregado st lissado con il
suo oglio de lin de sopra”26. Alla metà del Seicento il capitolato d’appalto della Scuola di
San Giorgio dei Greci per “far di diverse case” su progetto di Baldassarre Longhena,
prevede di “far tutte terazadure di fora via di detta fabrica (…) et dandoli poi il suo oglio
de lino. (…) Far li camini dalli copi in suso (...) et questi smaltatti cioè interazatti (…)
dandoli il suo olgio de lino stabelliti di tutto ponto”27. Ancora nella prima metà del XVIII
secolo tale pratica appare ancora viva: nel 1734 la facciata della Scuola della Carità venne
rivestita con un “terrazzo da Rovigno fregato in buona forma (…) con anco il suo oglio di
lino per difenderla dalla tramontana”28. L’applicazione doveva avvenire una volta
completata la levigatura e lasciato presumibilmente trascorrere un certo lasso di tempo dal
compimento dello strato, in quanto la presenza nell’intonaco ancora fresco di considerevoli
quantità d’acqua ostacolava la penetrazione della sostanza oleosa. È anche possibile che
l’olio di lino venisse diluito, con rasa (trementina), al fine di renderlo più fluido e con ciò
favorire un migliore assorbimento; è altrettanto verosimile che le superfici, qualche ora
dopo l’applicazione, venissero ‘forbite’ con stracci, per ridistribuire l’olio e asportarlo
dalle aree di accumulo, onde evitare la formazione di pellicole indesiderate, in analogia
con le medesime procedure usate per i pavimenti in terrazzo.
24
Le due possibili forme assumibili dall’ossalato di calcio sono la Wewellite e la Wedellite,
rispettivamente monoidrato o biidrato di calcio.
25
In realtà il trattamento a base di olio di lino è stato riproposto, con successo, da qualche decennio
in alcuni rifacimenti di marmorini, a partire dalle integrazioni realizzate nella seconda metà degli
anni ‘80 del Novecento in Palazzo grimani a Santa Maria Formosa.
26
ASVe, Monastero di santi Cosma e Damiano, b. 6, fasc. 506, 1585, 5 dicembre, contratto tra le
monache dei santi Cosma e Damiano alla Giudecca e maestro Andrea murer da Camposampiero
per la costruzione di quattro case da statio in contrà de san Anzolo. Pubblicato da G.
GIANIGHIAN, Appunti per una storia del cantiere a Venezia (secoli XVI-XVIII), in G. CANIATO,
M.DAL BORGO, Le arti edili a Venezia, Roma 1990, pp. 249-50.
27
Archivio dell’Istituto ellenico di studi bizantini e postbizantini, Venezia, reg. 55, cc. 101-2, 1658,
13 luglio. Pubblicato da G. CRISTINELLI, Baldassarre Longhena architetto del ‘600 a Venezia,
Venezia 1978, p.169.
28
Citato da P. MODESTI, Le trasformazioni storico-costruttive del complesso della Carità, in
Progettare un museo. Le nuove gallerie dell’Accademia a Venezia, Milano 2005 (pp. 20-69) p. 23.
Alternativo alla pratica viva a Venezia nel XVI e XVII secolo, che prevedeva in fase finale
l’applicazione di olio di lino cotto29, il trattamento dei marmorini, con sapone
‘damaschino’ (a noi più familiarmente noto con l’attributo di Marsiglia) e cera d’api, è ben
descritto nel primo Seicento dal padovano Gioseffo Viola Zannini: “et detta smaltatura
deve esser benissimo lisciata con la cazzola, fino à tanto che s’indurisca poi si piglia sapon
da maschino, et distemperasi nell’acqua à modo di liquido bianco; per imbiancare i muri, et
con quello si vadi con il pennello spianzando la smaltadura: un poco per volta, et così
spianzata di fresco si vadi con la cazzola lisciando con diligentia; et quando tutta sarà
lisciata la si lasci impassire, et poi piglisi un panno di lino, et freghesi benissimo, poi
piglisi cera di formelle, et con quella in cambio di cazzola si vadi benissimo con diligentia
per tutto lisciando, et poi freghisi un’altra volta con panno di lino”30. Operazione anch’essa
finalizzata ad ottenere una superficie perfettamente polita, “la qual nelle colonne le fa
come di marmo, maggiormente se venate con colori, l’esempio delle quali ho veduto nelle
colonne della rotonda appresso Vicenza, che da molti sono tenute per marmo”31.
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M. PIANA, Una esperienza di restauro sugli intonaci veneziani, in: “Bollettino d’Arte”,
Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, 6, 1984, pp. 103-106.
29
Non si conoscono atti o carte di fabbrica cinque-seicentesche relative a fabbriche lagunari che
prescrivano il trattamento con sapone e cera.
30
Viola Zanini, Della Architettura, libri due, Padova 1629, I, XVI, p. 94.
31
Ibidem.
E. ARMANI - M. PIANA, Le superfici esterne dell’architettura veneziana, in Facciate
dipinte, conservazione e restauro (a cura di G. ROTONDI TERMINIELLO) atti del
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