poeti italiani - Raffaele Pisani
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poeti italiani - Raffaele Pisani
Raffaele PisaNi POETI ITALIANI (con un’eccezione) da san francesco d’assisi, a federico ii, a Dante, Petrarca, sannazaro, leopardi, Pascoli, De amicis, D’annunzio, Quasimodo, Penna, Pier Paolo Pasolini… interpretati in napoletano secoNDa eDizioNe RiveDuta e coRRetta Napoli, 2012 Raffaele Pisani [email protected] www.raffaelepisani.it 2 iNDice . . . . . . . . . . . . . . . . 9 san francesco d’assisi Il cantico delle creature . . . . . . . . . . . . . . . 11 federico ii . . . . Oi lasso, non pensai . . . . . . . . . . . . . . . 17 Jacopo da lentini . . . . . . . Io m’agio posto in core a Dio servire . . . . . . . . . . 22 chiaro Davanzati . . . . . . La splendiente luce, quando apare . . . . . . . . . . 25 Guido Guinizelli . . . . . . . Voglio del ver la mea donna laudare . . . . . . . . . . 28 iacopone da todi . O corpo enfracedafo . . . . . . . . . . . 31 Guido cavalcanti . . . . . . . Tu m’hai sì piena di dolor la mente . . . . . . . . . . 37 lapo Gianni . . . Questa rosa novella Premessa. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 40 cecco angiolieri . . . . . S’i’ fosse foco, arderei ’l mondo . . . . . . . . . . . . 45 . . . 3 cino da Pistoia . . . . . . . . . . Ciò ch’i’ veggio di qua m’è mortal duolo . . . . . . 48 Dante alighieri . . . . . . . . . . . . La Divina Commedia - Inferno - Canto primo . . . . . . 51 francesco Petrarca . . . . . . . . S’al principio risponde il fine e ’l mezzo . . . . . . . . . . 65 Giovanni Boccaccio . . . . . . . . Quand’io riguardo me vie più che ’l vetro . . . . . . . . 68 Marteo Maria Boiardo . . . . . Datime a piena mano e rose e zigli . . . . . . . . . 71 lorenzo de’ Medici . . . . . . . . Chi tempo aspetta, assai tempo si strugge . . . . . . . . 74 Jacopo sannazaro . . . . . Cari scogli, dilette e fide arene . . . . . . . . . . . . . 77 Niccolò Machiavelli . . . . . . Io spero e lo sperar cresce ’l tormento . . . . . . . . . . 80 ludovico ariosto . . . . . . . . Dopo mio lungo amor, mia lunga fede . . . . . . . . . 83 Michelangelo Buonarroti O notte, o dolce tempo . . . . . . . . . . . . . . 88 torquato tasso . . . Ecco mormorar l’onde . . . . . . . . . . . . . . 91 . . 4 Giovanbattista Marino . Primavera . . . . . . . . . . . . . . 94 Pietro Metastasio La libertà . . . . . . . . . . . . . . . 99 Jacopo andrea vittorelli Guarda che bianca luna . . . . . . . . . . . . . . 108 vittorio alfieri . . . . . . . . . Malinconia, perché un tuo solo seggio . . . . . . . . . 111 vincenzo Monti . . . . . . . . . Per il giorno onomastico della sua donna . . . . . . . . 114 ugo foscolo Alla sera . . . . . . . . . . . . . . . . . . 121 alessandro Manzoni . Autoritratto . . . . . . . . . . . . . . . 124 Giacomo leopardi. La sera del dì di festa . . . . . . . . . . . . . . . . 127 Niccolò tommaseo Caronte . . . . . . . . . . . . . . . . 132 Giosuè carducci Passa la nave mia . . . . . . . . . . . . . . . . 136 edmondo De amicis. Mia madre . . . . . . . . . . . . . . . 139 . . . . 5 Giovanni Pascoli Il sole e la lucerna . . . . . . . . . . . . . . . . 142 Gabriele D’annunzio O giovinezza . . . . . . . . . . . . . . . 145 umberto saba Da un colle . . . . . . . . . . . . . . . . 148 Guido Gozzano . . . La morte del cardellino . . . . . . . . . . . . . . . 151 sergio corazzini. . . . . . . . . . Desolazione del povero poeta sentimentale . . . . . . . . 154 vincenzo cardarelli Ottobre . . . . . . . . . . . . . . . . 161 Giuseppe ungaretti La madre . . . . . . . . . . . . . . . . 164 umberto Galeota Ecco il Vesuvio . . . . . . . . . . . . . . . . 167 salvatore Quasimodo Alle fronde dei salici . . . . . . . . . . . . . . . 170 sandro Penna. . . . . Ride su me la primavera . . . . . . . . . . . . . . 173 cesare Pavese . . . . Tu sei come una terra . . . . . . . . . . . . . . 176 . . . . . 6 alfonso Gatto Il pupo . . . . . . . . . . . . . . . 179 vittorio Bodini . . . . Conosco appena le mani . . . . . . . . . . . . . . 182 Pier Paolo Pasolini. Il centro del mondo . . . . . . . . . . . . . . . . 185 Riccardo Bacchelli . Lettera . . . . . . . . . . . . . . . . 192 eugenio Montale Maestrale . . . . . . . . . . . . . . . . 197 Giuseppe Porcaro . . . Come una foglia tremante . . . . . . . . . . . . . . 200 antonio Gallo Al Crocifisso . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 203 luigi compagnone L’autunno . . . . . . . . . . . . . . . . 206 alberto Mario Moriconi . . La ringhiera e il marciapiede . . . . . . . . . . . . 211 Domenico Rea Nube . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 214 lanfranco orsini Altruismo . . . . . . . . . . . . . . . . . 217 7 Rosario De crescenzo C’era l’orma del lupo . . . . . . . . . . . . . . . 220 serafina Bissanti. . Il freno di provincia . . . . . . . . . . . . . . . . 223 ettore capuano . Non ho serenità . . . . . . . . . . . . . . . . . 228 Pasquale Maffeo Orfeo . . . . . . . . . . . . . . . . . 231 aldo onorati . . . . Toccata di primavera . . . . . . . . . . . . . . . 236 vincenzo landolfi . Presentimento . . . . . . . . . . . . . . . 241 vittorio De asmundis . Lettera a Gesù, da Napoli . . . . . . . . . . . . . . 244 stefania Buccini Davvero Karol Wojtyla Lo schizotimico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 247 . . . . . . . . . . . . . . . . . 250 . . . . . . 254 . . . . . . 262 Bibliografia della critica Note critiche . . . . . . . . . 8 . . . . . . . . . . in una cittadina della provincia modenese, convenuto come altri, in occasione del premio «Guido Modena» per la poesia dialettale (organizzato dalla Banca Popolare di san felice e dall’accademia della carriola), mi ritrovavo tra idiomi ed interpretazioni ricchi di espressioni e di profondi contenuti. Dall’estensione, dalla musicalità delle parole ottenute dalle diverse forme dialettali riaffiorava, ancora una volta, la matrice di ciascuna di esse e la musicalità da vera poesia. sì che le parole dall’apostrofo mozzate od iniziate confermavano che la nostra realtà linguistica ritrova sempre nel dialetto la sua origine storica e che la continuità di essa è viva, al di là di ogni tentativo di contraffazione, nelle diverse tonalità ed inclinazioni, così la città di san felice sul Panaro mi ha suggerito l’idea di ritentare la congiunzione della lingua italiana con la lingua napoletana in una ricerca letteraria un po’ insolita. Quanti altri centri di cultura potrebbero offrire spunti ed occasioni per un ripensamento di ciò che siamo dal punto di vista etnico culturale, per rendere accessibile ad una parte del popolo quella poesia che rischia ancora di rimanere nota soltanto a gruppi di pochi. traduzione non per riduzione, ma per interpretazione che stimoli la conoscenza. Questa la chiave di lettura che offro, nella mia semplicità tutta napoletana, alla città di san felice ed a tutti coloro che vorranno curiosare tra queste pagine. 9 Maestri, le vostre voci cantano nel tempo intatte e pure. L’omaggio di questa mia interpretazione in lingua napoletana, cui ho messo mano in assoluta umiltà, muove da amore: per la poesia e per chi, pagando in proprio, la vive e la crea. Mi perdoni la vostra grandezza. R.P. 10 san francesco d’assisi - assisi 1181 c.-Porziuncola 1226 Tra le figure più importanti e più alte della spiritualità religiosa del secolo XIII, Figlio di Pietro Bernardone agiato mercante, aiutò il padre nella mercatura, partecipando alla vita mondana del tempo, finché, caduto prigioniero dei Perugini nel 1204, subì una crisi religiosa, per la quale si distaccò dal padre, e, accusato da questo di prodigalità, rinunciò davanti al vescovo di Assisi a tutti i suoi beni. Dopo qualche anno di vita solitaria e operosa, cominciò ad accogliere intorno a sé, nel 1209, i primi discepoli, iniziando un fervido apostolato. Nel 1210 compose una prima regola, poi perduta, per la quale ottenne l’approvazione di Innocenzo III. Nel 1219 partì per l’Oriente, a convertire gl’infedeli, ma l’anno seguente tornò in Italia, dove rivide e definì la regola. Dopo il ’23 si abbandonò alla solitudine e alla preghiera. L’importanza di San Francesco e del suo ordine fu immensa, specie per il secolo XIII, quale elemento non tanto e non solo di diffusione e rinnovamento del fervore religioso, quanto soprattutto di una interpretazione nuova e popolare della fede: l’interiorità del sentimento religioso del santo, il carattere evangelico della sua predicazione, il suo rivolgersi agli umili, il suo disprezzo dei beni e degli onori terreni, vennero incontro ai fermenti di religiosità democratica che già da tempo erano vivi nella società italiana e che già si venivano esprimendo in numerosi moti di tipo ereticale. Per queste ragioni, mentre le plebi accettarono largamente la parola di San Francesco, la Chiesa ufficiale si sforzò presto di incanalare il movimento nell’alveo della sua politica, e tutto il Duecento e parte del Trecento furono corsi da polemiche aspre, talvolta cruente, fra coloro che intendevano restare fedeli allo spirito e alla lettera della regola del fondatore, e coloro che tendevano a mitigarne l’asprezza per adattarla ai bisogni della Chiesa. Il notevolissimo fascino dell’uomo – canonizzato due anni dopo la morte –, l’incontro tra lo spirito di quella 11 predicazione e esigenze vive della società comunale italiana, quelle stesse polemiche, fecero di San Francesco una figura centrale e quasi mitica della spiritualità e della letteratura, per almeno due secoli. Si ebbe perciò tutta una corrente di letteratura francescana, nei moduli tipici dell’agiografia cristiana, o che delineasse una leggenda francescana, o che narrasse, in forme più o meno fantasiose e popolari, la vita edificante ed esemplare del santo, o che combattesse le battaglie interne all’ordine e le altre con ordini rivali, soprattutto con i domenicani, e, più tardi, con Bonifacio VIII. Di tutta questa letteratura i monumenti più significativi, anche se assai diversi tra loro, sono i fioretti di s. francesco e il canto XI del Paradiso di Dante. Di san Francesco restano alcuni brevi scritti latini, tra cui la Prima regola, la seconda regola, il testamento, ecc. L’opera sua più importante è il cosiddetto cantico delle creature, che è tra i monumenti più antichi della letteratura italiana in volgare. 12 caNtico Delle cReatuRe altissimu, onnipotente, bon signore, tue so le laude, la gloria e l’honore et onne benedictione. ad te solo, altissimo, se konfano et nullo homo ene dignu te mentovare. laudato si’, mi signore, cum tucte le tue creature, spezialmente messor lo frate sole lo quale jorna et allumini noi per loi; et ellu è bellu e radiante cum grande splendore, da te, altissimo, porta significazione. laudato si’, mi signore, per sora luna e le stelle; in celu l’ài formate clarite et pretiose et belle. laudato si’, mi signore, per frate vento et per aere et Nubilo et sereno et onne tempo, per lo quale a le tue creature dai sustentamento. laudato si’, mi signore, per sor’acqua la quale è multo utile et humile et pretiosa et casta. laudato si’, mi signore, per frate focu per lo quale ennallumini la nocte, et ello è bellu, et jocundo et robustoso et forte. laudato si’, mi signore, per sora nostra matre terra, la quale ne sustenta et governa, et produce diversi fructi, con coloriti fiori et herba. laudato, si’, mi signore, per quilli ke perdonano per lo tuo [amore et sustengo infirmitate et tribulatione. 13 Beati quilli ke sosterranno in pace, ka da tè, altissimo, siràno incoronati. laudato si’, mi signore, per sora nostra Morte corporale, da la quale nullu homo vivente po skappare. Guai a quilli, ke morrano ne le peccata mortali. Beati quilli ke se trovarà ne le tue sanctissime voluntati ka la morte secunda nol farrà male. laudate et benedicete lu signore e rengratiate e serviteli cum grande humilitate. 14 il caNtico Delle cReatuRe Dio, signore d’ ’o munno, patrone d’ ’o bene, surgente d’ammore, onnipotente, tutto nasce pe’ te e l’ommo nun è degno manco ’e t’annummenà. Beneditto, signore mio, cu tutte ’e ccose ca tu hê vuluto, primmo fra tutte quante ’o sole d’oro ca ce dà luce e gioia, ca è testimmonio d’ ’a grandezza toia. Beneditto p’ ’a luna e p’ ’e stelle ca ’n cielo he’ criato chiare, lucente e belle. Beneditto p’ ’o viento, p’ ’e nnuvule, pe’ l’aria doce e cujeta, p’ ’a tempesta; cu ’a staggiona, ’a vernata, l’autunno, ’a primmavera, tu daie ’o ppane a ttutte ’e figlie tuoie. Beneditto pe’ l’acqua chiara, fresca, prezïosa, nicessaria. 15 Beneditto p’ ’o ffuoco ca fa luce quann’è notte, p’ ’o ffuoco bello e allero, ardente e forte. Beneditto p’ ’e ccampagne ca ce danno grano e ffrutte ’e tutte ’e specie, Beneditto pe’ ’sta terra ca dà sciure ’e ogni culore. Beneditto pe’ tutte ll’uommene ca pe’ l’ammore tuio perdonano ogni tuorto, ca supportano angarìe e afflezzïone: biata ’a gente ca fa d’’a pace ’o ppane ’e tutte ’e juorne: iarrà sicuramente ’n Paraviso: Beneditto p’ ’a morte ca cunzuma sultanto ’e ccarne noste, p’ ’a morte ca è sicura pe’ tuttuquante. Guaie pe’ chilli llà ca murarranno dint’ ’o peccato; biate a cchille ca se truvarranno dint’ ’a santissima vuluntà toia. uommene, frate mieie, benedicitelo, stimatelo, servitelo ’o signore, mettite ’a faccia ’n terra e ringraziatelo cu tutt’ ’o core. 16 federico ii, imperatore - iesi 1194-castello di fiorentino (Puglia) 1250 Figlio di Enrico VI imperatore e di Costanza d’Altavilla, nipote di Federico I Barbarossa, è tra le figure più complesse e più interessanti del Duecento. La sua prodigiosa attività non si limita alla politica, ma si estende alla cultura e alla scienza. Allevato in Sicilia, dove il mondo latino veniva a contatto con quello greco e arabo, accolse in sé esperienze e influssi diversi. Uomo di larghi interessi culturali e scientifici, dotato di una versatilità prodigiosa, si circondò dei dotti più famosi del tempo e tenne relazioni con numerosi altri dotti di ogni parte d’Europa. Fondamentale la sua attività nell’istruzione con il riordinamento della Scuola di Salerno e la fondazione dell’Università di Napoli. Raccolse intorno a sé la scuola poetica siciliana, favorendo la formazione di una lingua letteraria e di una poesia meditata e elaborata, e il costituirsi di un gusto concorde e ben definito. Poeta egli stesso, i manoscritti hanno tramandato di lui quattro componimenti, che per altro non si distinguono per originalità, ma sono legati ai modi e alle forme della scuola. 17 oi lasso, NoN PeNsai oi lasso non pensai sì forte mi parisse lo dipartire da madonna mia! Da poi ch’io m’alontai ben paria ch’io morisse, membrando di sua dolce compagnia: e giamai tanta pena non durai, se non quanto a la nave adimorai: ed ora mi credo morir certamente, se da lei non ritorno prestamente. tutto quanto eo via sì forte mi dispiace, che non mi lascia in posa in nessun loco; sì mi stringe e desia che non posso aver pace, e fami reo parere riso e gioco: membrandomi suo’ dolze segnamente tutti diporti m’escono di mente; e non mi vanto ch’a disdotto sia, se non là ov’è la dolce donna mia. o Deo! come fui matto, quando mi dipartive là ov’era stato in tanta degnitate! ed or caro l’accatto, e scioglie come nive, pensando ch’altri l’àia in potestate. ed e’ mi pare mille anni la dia ched eo ritorni a voi, madonna mia. 18 lo reo pensero sì forte m’atassa, che rider né giocare non mi lassa. canzonetta gioiosa va a la fior di soria, a quella che in prigione ha lo mio core. Di’ a la più amorosa, cà per sua cortesia si rimembri del suo servidore, quelli che per suo amore – va penando, mentre mi faccio tutto al suo comando. e priègalami, per la sua bontade, che la mi degia tenere lealtade. 19 oi lasso, NoN PeNsai ahimmé, nun ce penzaie ch’era triste accussì quanno lassaie ’a nnammurata mia: comme m’alluntanaie io stevo pe’ murì: quant’era bella e chiena ’e simpatia. ah, che tristezza! e chi ’o ccredeva maie: cunfromme me ne iette l’appuraie. ’a nustalgia me spezza ’o core ’n pietto e nnotte e ghiuorno nu me dà arricietto. chesta malincunia m’abbrucia dint’ ’e vvene e nun me fa truvà n’àttemo ’e abbiento; me struio ’e pucundria, nun pozzo truvà bene, nun saccio che vo’ di’ cchiù l’alleria. ’a penzo sempe, appassiunatamente, essa è ’a patrona ’e tutte ’e sentimente; chella nnammuratella aggrazzïata è ’a sola gioia ’e ’st’anema malata. che pazzo songo stato! Dio, quanto me ne pento! s’io fosse muorto, meglio mo sarria. i’ proprio tale e quale comme se scioglie ’a neva me stongo cunzumanno ’e gelusia. Pare n’eternità ca sto’ luntano: me vòlle ’o sango comm’a nu vurcano; 20 ’a gelusia se fa sempe cchiù forte, cchiù penetrante, amara cchiù d’ ’a morte. canzuncella gentile, vola addu chillu sciore signora ’e chistu core nnammurato, dille ch’ ’a penzo sempe, essa è ’a riggina mia e i’ tutta ’a ténnerezza l’aggio dato; dille ch’è ’a primmavera ’e chistu core, puortele ’o chianto ardente ’e chist’ammore, dille ch’ ’a voglio sempe tantu bene, ch’essa sultanto po’ sanà sti ppene. 21 Jacopo da lentini (Giacomo da lentini) Pochi i dati biografici sicuri su questo che è considerato il più antico rimatore della scuola poetica siciliana. Nato a Lentini, forse alla fine del secolo XII, e vissuto nella prima metà di quello seguente, fu contemporaneo di Federico II, presso il quale esercitò la funzione di notaio, tanto da diventare il «Notaro» per antonomasia. Grande fu la sua fama presso i contemporanei e i poeti della generazione seguente, che lo riconobbero come maestro. Dante lo proclama caposcuola della lirica siciliana. Poesia difficile, la sua, e più ardua a comprendersi di quella di quei poeti siciliani che variano la cultura della scuola con l’immissione, nei loro componimenti, di elementi realistici, ma più coerente nel suo sviluppo e più importante storicamente nei riguardi dell’evoluzione della lirica aulica. 22 io M’aGio Posto iN coRe a Dio seRviRe io m’agio posto in core a Dio servire com’io potesse gire in Paradiso, al santo loco, ch’agio audito dire, o’ si mantien sollazo, gioco e riso. sanza mia donna non vi voria gire, quello c’ha blonda testa e claro viso, ché sanza lei non poteria gaudire, istando da la mia donna diviso. Ma non lo dico a tale intendimento perch’io peccato ci volesse fare; se non veder lo suo bel portamento, e lo bel viso e ’l morbido sguardare: ché ’l mi terria in gran consolamento veggendo la mia donna in gloria stare. 23 io M’aGio Posto iN coRe a Dio seRviRe fino a cche moro a Dio voglio servì ca ’n Paraviso vaco una vutata, pecché llà ncoppa, aggio sentuto ’e dì, è allero ogni minuto d’ ’a iurnata. Però cu ’ammore mio ce aggia trasì, cu ’ammore mio ca è bella e delicata si sto luntano è peggio d’ ’o mmurì, manco ce traso senza chella fata. Ma i’ nun vogl’î, v’ ’o giuro, ’n Paraviso cu ’ammore mio pe’ fa’ na malacosa: voglio vedé sultanto ’o pizzo a rriso ch’essa me fa guardannome, sultanto chesto: sunnà chella vucchella ’e rosa: cchiù ’a guardo, cchiù m’attacco, cchiù me ncanto. 24 chiaro Davanzati Non si ha quasi alcuna notizia sulla sua vita: visse senza dubbio nel secolo XIII, e probabilmente va identificato con un fiorentino del popolo di S. Maria sopra Arno. Dai suoi componimenti sappiamo che partecipò attivamente alle vicende politiche della sua città e fu fra l’altro con i fiorentini nella battaglia di Montaperti nel 1260. Il suo canzoniere comprende circa duecento componimenti di varia natura: politici, morali, didascalici, amorosi. Questa varietà di temi mette in luce la molteplicità degli interessi del Davanzati e si spiega assai bene con l’ambiente culturale della Toscana del tempo, aperto a tutti gli influssi e in evoluzione continua. Anche l’evoluzione letteraria del Davanzati passa attraverso varie fasi, dall’imitazione dei provenzali a quella di Guittone, fino alla formulazione di una poesia amorosa che anticipa quella dello stilnovo. 25 la sPleNDÏeNte luce, QuaNDo aPaRe la splendïente luce quando apare, in ogni oscura parte dà chiarore; cotanto ha di virtude il suo guardare, ché sovra tutti gli altri è il suo splendore. così madonna mia face allegrare, mirando lei, chi avesse alcun dolore; adesso lo fa in gioia ritornare, tanto sormonta e passa il suo valore. e l’altre donne fan di lei bandiera, imperadrice d’ogni costumanza, perché di tutte quante la lumiera. e li pintor la miran per usanza, per trarre assempro di sì bella cera, poi farne all’altre genti dimostranza. 26 la sPleNDÏeNte luce, QuaNDo aPaRe Quanno p’ ’o cielo ’o sole se trattene a ttutte ’e ccose attuorno dà chiarore; pittata ’a stessa luce ’nfaccia tene ’a nnammurata mia: chillu sbrennore a ognuno porta pace e porta bene. Guardatela e se sana ogni dulore, e ride ’o core e n’armunia ve vene tant’essa è bella, bella cchiù ’e nu sciore. P’esempio raro ’a porta ogni figliola: signora nata, tutta passïone, gioia ca ’ntennerisce e te cunzola; ’a guardano ll’artiste a cciente a cciente: ce trova ognuno l’ispirazïone e ognuno parla d’essa a ll’ata gente. 27 Guido Guinizelli - Bologna 1230-40-Monselice 1276 c. Assai scarse e modeste le notizie che si hanno sulla sua vita. Figlio di Guinicello di Magnano e di Guglielmina di Ugolino Ghisilieri, seguì come il padre gli studi giuridici, addottorandosi a Bologna e quivi esercitando la professione di giudice e di consultore legale fin dal 1268; precedentemente si era sposato, ancor giovane, con Beatrice della Fratta, da cui ebbe il figlio Guiduccio. Come tutta la famiglia, partecipò attivamente alla vita politica della sua città, schierandosi per la fazione ghibellina dei Lambertazzi contro quella guelfa dei Geremei; intorno al ’70 fu podestà a Castelfranco, nel ’74, in conseguenza del trionfo dei Geremei, fu bandito da Bologna insieme alla moglie, il figlio e i fratelli. Stabilitosi a Monselice, vi morì poco dopo, certamente non oltre il 1276. 28 voGlio Del veR la Mea DoNNa lauDaRe voglio del ver la mea donna laudare, e assembrarli la rosa e lo giglio: como la stella Diana splende e pare, e ciò ch’è lassù bello a lei somiglio. verde rivèra a lei rassembro e l’âre, tutti colori e fior, giallo e vermiglio, oro ed argento e ricche gioi’ preclare; medesmo amor per lei raffina miglio. Passa per via adorna e sì gentile ch’abassa orgoglio a cui dona salute, e fal di nostra fe’ se non la crede. e non si può appressar omo ch’è vile: ancor ve dico c’ha maggior vertute: null’om può mal pensar fin che la vede. 29 voGlio Del veR la Mia DoNNa lauDaRe ve voglio dì quant’è affatata e bella ’a nnammurata mia: pare na rosa; luceno ll’uocchie suoie comm’a na stella; ’n terra, c’ ’arrassumiglia, nun c’è cosa. cchiù chiara ’e l’acqua; ’e zuccaro e cannella so’ ffatte ’e ccarne; addora ’e malvarosa; tene ’e capille d’oro anella anella e cchiù ’e nu dïamante è prezïosa. se ncanta ’ammore, tanta è doce e cara; e si chi ’a ncontra, proprio fino a ttanno nun ’a creduto a Dio, doppo ce crede. tanta bellezza tene e è tanta rara ca femmene accussì nun ce ne stanno, e l’ommo penza ’o bene quanno ’a vede. 30 iacopone da todi - todi 1236(?)-collazzone 1306 Iacopo de’ Benedetti, di nobile famiglia tudertina, dopo aver studiato diritto, sembra a Bologna, esercitò la professione di procuratore legale nella sua città; sposò una Vanna di Bernardino di Guidone dei conti di Coldimezzo, conducendo nel contempo vita gaudente e libertina, per altro poi accentuata nelle biografie antiche, indotte da intenti agiografici a sottolineare il contrasto fra la vita licenziosa precedente la conversione, e la seguente tutta dedita a pratiche di pietà e di penitenza. Intorno alle cause che determinarono la sua conversione non si hanno notizie sicure: secondo la leggenda, la morte tragica della moglie per il crollo di un pavimento durante una festa da ballo, e la scoperta sul corpo di lei di un cilicio, lo indussero a fare un riesame spietato di tutta la propria vita precedente e a maturare il proposito di ritirarsi dal mondo. La tradizione ci ha trasmesso, come opere di Iacopone, un certo numero di laude in volgare, religiose in gran parte, ma alcune satiriche, un breve trattato ascetico e una raccolta di Detti, pure in volgare; alcuni componimenti in latino, tra cui lo stabat Mater. 31 o coRPo eNfRaceDato – o corpo enfracedato, eo so’ l’alma dolente; lévate amantenente, ca si’ meco dannato. l’agnelo sta a trombare voce de gran paura: opo n’è appresentare senza nulla demura. stàvime a predecare che no avesse paura: male te crese allura, quanno fice ’l peccato! – o’ eri tu, alma mia cortese e conoscente? Puoi che t’andasti via, retornai a niente. famme tal compagnia ch’eo non sia sì dolente: veio terribel gente con volto esvaliato. – Quiste so le demonia, con chi t’è opo avetare; non t’è opo far istoria: che te oporà portare, non me trovo en memoria de poterlo narrare: si ententa fosse el mare, non ne sería pontato. – Non ce posso venire, ché so’ en tanta affrantura, che sto su nel morire, sento la morte dura. sí facisti al partire: rompeste onne iontura; recata hai tal fortuna, che onne osso m’ha spezato. – como da tene a mene fo appicciato amure, simo rerunti en pene con etterno sciamure; l’ossa centra le vene, nervi centra ionture, sciordenati onne umure de lo primero stato. – unquanco Galieno, avicenna, ipocrate non sàpper lo conveno de mei enfermetate; tutte enseme iongono e sómmese adirate: sento tal tempestate, che non vorria esser nato. – lévate, maledetto, ca non pòi piú morare; ne la fronte n’è scritto tutto el nostro peccare: quel che nascusi a letto volevamo operare, oporasse mustrare, vegente onne omo nato. 32 – chi è questo gran sire, rege de granne altura? sotterra vorria gire, tal me mette paura. ove porria fugire da la sua faccia dura? terra, fa’ copretura! ch’eo nol veia adirato. – Quisto sì è iesú cristo, lo figliolo de Dio: vedenno el volto tristo, spiacegli el fatto mio. Potemmo fare acquisto d’aver lo renno sio: malvascio corpo e rio, or che avem guadagnato! 33 o coRPo eNfRaceDato (L’anema) «tu, cuorpo nfracetato, io, anema perduta; iammo, fa’ ampressa, aizete, nzieme simmo dannate. l’angelo sta chiammanno, ’a voce fa paura: pe’ forza nuie ce avimma llà nnanze appresentà. tu me dicive sempe: nun hê ’a tené timore. che male ca facette quanno te dette audienzia». (’O cuorpo) «tu si’ l’anema mia, curtese e assaie gentile: comme t’alluntanaste pòvere addeventaie. torna, cumpagna mia, lèvame ’a dint’ ’e ppene: veco facce terribbele attuorno attuorno a mme». (L’anema) «chiste songo ’e demmonie, hê ’a sta’ nzieme cu lloro, nun ’e ppuò cchiù scanzà e ’o mmale ch’hê ’a patì io nun t’ ’o ssaccio dì: 34 si ’o mare fosse ’e gnosta io manco putria scrivere chello ch’hê ’a suppurtà». (’O cuorpo) «venì, no, no, nun pozzo ca è tanta ’a pena mia mo ca murenno stongo: ’a morte è brutta overo. Quanno t’alluntanaste fuste accussì manesca ca me spezzaste ll’osse». (L’anema) «comme l’ammore, primma, vicino ce teneva, accussì l’odio, mo, ce tenarrà attaccate; ll’osse schiattano ’e vvene, so’ ’nfracetate ’e ccarne, niente è cchiù tale e quale comm’a quann’ire vivo». (’O cuorpo) «Manco Galeno e manco ipocrate, avicenna sapettero quant’erano tutte sti male mieie: se songo scatenate nzieme, ’a ntrasatta, tutte; tant’è ’o dulore ch’io maie vularria, crideme, ca fosse nato, maie». 35 (L’anema) «Îzete, maleditto, nun ce sta niente ’a fa’. ’N fronte tu puorte scritto tutte ’e peccate fatte: chello ch’annascunnuto vulévemo tené, a ttuttaquanta ’a gente l’avimma fa’ vedé». (’O cuorpo) «e chi è mo stu signore bello comm’a nu rre? tant’è ’a suggezzïone ch’io sprufunnà vurria; me guarda, io p’ ’a paura mmo mmo me ne fuiesse; aràpete, tu, terra, e famme zeffunnà». (L’anema) «chistu signore è cristo, è cristo, ’o figlio ’e Dio: è addeventato triste vedenno ’e ppene mie. Putévemo felice campà int’ ’o Regno suio. ah, cuorpo maleditto, che bene avimmo perzo! 36 Guido cavalcanti - firenze 1255 c.-1300 Il maggior poeta dello stilnovo; riconosciuto da Dante come il suo migliore amico e maestro, ricordato nelle loro cronache da D. Compagni e G. Villani, protagonista di una famosa novella del Decameron e di un’altra di F. Sacchetti. Figlio di Cavalcante, appartenne per tradizione familiare al partito guelfo, sebbene avesse sposato Beatrice, figlia del ghibellino Farinata degli Uberti, per suggellare la pace tra le fazioni avverse. Scarse notizie sicure si hanno anche dei suoi studi come relativamente poco si sa della sua vita. Le liriche del Cavalcanti sono circa una cinquantina: ballate, sonetti, canzoni di argomento quasi sempre amoroso. 37 tu M’Hai sÌ PieNa Di DoloR la MeNte tu m’hai sí piena di dolor la mente che l’anima si briga di partire, e li sospir che manda il cor dolente mostrano a li occhi che non pòn soffrire. amor, che lo tu’ grande valor sente, dice: – Mi duol che ti convien morire per questa fera donna, che neente par che pietade di te voglia udire –. io vo come colui ch’è fuor di vita, che pare, a chi lo guarda, ched el sia fatto di rame o di pietra o di legno, che sé conduca sol per maestria, e porti ne lo core una ferita che sia, com’egli è morto, aperto segno. 38 tu M’Hai sÌ PieNa Di DoloR la MeNte tant’è ’o dulore ca m’hê miso ’n pietto e tanta pene tu me faie suffrì ca me se spezza ’o core pe’ st’apprietto: comm’io nun moro nun t’ ’o ssaccio dì. ’ammore s’è piazzato derimpetto e dice: – Ma che razza ’e scemo si': pe’ chella ’ngrata tu nun haie ricietto mentr’essa gode a tte vedé murì. – e i’ cchiù m’attacco, pare nu mbriaco; l’anemia mia sulo chill’uocchie sape: le dongo giuventù, suspire, vita; ’a veco sempe, sempe, pe’ ddo’ vaco, e ogni àttemo ca passa cchiù s’arape e cchiù me straccia ’o core ’sta ferita. 39 lapo Gianni Rimatore duecentesco per molto tempo identificato con il notaio Lapo Gianni Ricevuti da Firenze, che esercitò la sua attività fra il 1298 e il 1328. Questa identificazione è stata peraltro messa in dubbio e niente di certo si può affermare sulla sua vita, se si eccettuano le notizie che si possono ricavare dai componimenti suoi e da quelli dei poeti suoi amici. Come appare da un sonetto dantesco (Guido, i’ vorrei che tu e lapo…), amò una donna Lagia, e fu molto amico di Guido Cavalcanti (che lo nomina in un suo sonetto) e di Dante, che lo ricorda anche nel De vulgari eloquentia fra gli eccellenti poeti toscani in volgare. 40 Questa Rosa Novella Questa rosa novella che fa piacer sua gaia giovanezza, mostra che gentilezza, amor, sia nata per vertù di quella. s’i’ fossi sufficiente di raccontar sua maraviglia nova, dirìa come natura l’ha ’dornata; ma io non son possente di saver allegar verace prova: dillo tu, amor, ché serà me’ laudata. Ben dico: una fiata, levando li occhi per mirarla fiso, presemi ’l dolce riso e li occhi suoi lucenti come stella. allor bassai li miei per lo tuo raggio che mi giunse al core entro ’n quel punto ch’io la riguardai. tu dicesti: «costei mi piace signoreggi ’l tuo valore, e servo a la tua vita le sarai». ond’io ringrazio assai, dolce signor, la tua somma grandezza, ch’i’ vivo in allegrezza pensando cui mia alma hai fatt’ancella. 41 Ballata giovenzella, girai a quella ch’à la bionda trezza; ch’amor, per la su’ altezza, m’à comandato i’ sia servente d’ella. 42 Questa Rosa Novella comm’a na rosa è bella, e tant’è cara e chiena ’e giuventù ca i’ dico: ’a gentilezza è nata quann’è nata ’sta figliola. e s’io fosse capace ’e ve cuntà quanta bellizze tene, ve diciarria comme ’a Natura ’ha fatta; ma i’ nun ne so’ capace, e nnè saccio purtà nisciuna prova: ammore, parla tu, dì quant’è bella. Na vota, me ricordo, guardanno int’a chill’uocchie suoie lucente, vedette duie brillante … e mme ’ncantaie … e accussì forte ’o core me sbatteva ca quase se spezzava. ammore, parla tu, tu ca diciste: chesta figliola sarrà ’a riggina, e tu, pe’ tutta ’a vita, ’o schiavo suio. e i’ te ringrazio, ammore, pe’ stu destino doce, pe’ ’sta gioia ca me mantene notte e ghiuorno allero e ca m’ha fatto schiavo ’e ’sta riggina. 43 canzona piccerella, curre a vvasà chilli capille d’oro, puòrtele tutto ’o bene ’e chistu core, dille ca i’ so’ felice d’ ’a servì. 44 cecco angiolieri - siena 1260 c.-1311-13 Di famiglia benestante, di parte guelfa, nacque intorno al 1260, come si può desumere da un documento in cui figura quale semplice soldato all’assedio che i guelfi senesi posero nel 1281 ai ghibellini di Turri di Maremma. Ebbe moglie e almeno sei figli, ma non condusse una vita dedita alle cure familiari; dal tono generale del suo canzoniere e dagli scarsi documenti che lo riguardano si trae l’impressione che fosse uomo superficiale e dissipatore, amante della vita godereccia, privo di qualsiasi preoccupazione etica e religiosa. 45 s’i’ fosse foco, aRDeRei ’l MoNDo s’i’ fosse foco, arderei ’l mondo; s’i’ fosse vento, lo tempesterei; s’i’ fosse acqua, i’ l’annegherei; s’i’ fosse Dio, mandereil’ en profondo; s’i’ fosse papa, sare’ allor giocondo, ché tutt’i cristiani imbrigherei; s’i’ fosse ’mperator, sa’ che farei? a tutti mozzerei lo capo a tondo. s’i’ fosse morte, andarei da mio padre; s’i’ fosse vita, fuggirei da lui: similmente farìa da mi’ madre. s’i’ fosse cecco, com’i’ sono e fui, torrei le donne giovani e leggiadre, e vecchie e laide lasserei altrui. 46 s’i’ fosse foco, aRDeRei ’l MoNDo s’io fosse fuoco, ’appicciarria stu munno; s’io fosse viento, tutto ’o schiantarria; ’mparanza, s’io foss’acqua, ’affunnarria; s’io fosse Dio ’o mannarria a zzeffunno; s’io fosse papa, quant’è largo e tunno d’affanne e ppene amare ’o iencarria; s’io fosse nu rignante, ammuzzarria a ogn’ommo ’a capa e po’ ’e ghiettasse ’nfunno. fosse ’a morte? e addu pàtemo iarria; s’io fosse vita nun ce rummanesse: e ’o stesso faciarria cu mamma mia. s’io putarria fa’ tutte sti sbafate, femmene belle e scicche io me tenesse: ’e zzoppe e ’e vvecchie ’e llassarria a ll’ate. 47 cino da Pistoia - Pistoia 1265-70-Napoli 1336-37 Poeta e studioso di leggi, appartenne alla scuola del dolce stil novo. Insegnò in varie università italiane: a Siena, Perugia, Napoli. Ricoprì anche cariche politiche in patria: fu gonfaloniere e membro del Consiglio del popolo. Fu amico e corrispondente di Dante e di Petrarca, che lo pianse in un famoso sonetto (Piangete, donne). Restano di Cino da Pistola 165 componimenti in massima parte amorosi, per una donna che chiama Selvaggia, tra i quali sono intercalate rime politiche, morali, di corrispondenza. I modi della sua poesia sono essenzialmente quelli del dolce stil novo; ma Cino vi introduce di suo una concezione appassionata e drammatica dell’amore, un’attenzione più precisa ai moti della passione, una maggiore ricchezza di determinazioni psicologiche e realistiche, per cui sembra dare inizio a quell’umanizzazione del sentimento amoroso che culminerà poi nel Petrarca. 48 ciÒ cH’i’ veGGio Di Qua M’e’ MoRtal Duolo ciò ch’i’ veggio di qua m’è mortal duolo, perch’i’ son lunge e fra selvaggia gente, la quale i’ fuggo, e sto celatamente, perché mi trovi amor col penser solo: ch’allor passo li monti, e ratto volo al loco ove ritrova ’l cor la mente, e, imaginando intelligibilmente, mi conforta il penser, che testé involo. così non morragg’io, se fie tostano lo mio reddire a star sì ched io miri la bella gioia da cui son lontano: quella ch’io chiamo basso ne’ sospiri, perché udito non sia da cor villano, d’amor nemico e de li suoi desiri. 49 ciÒ cH’i’ veGGio Di Qua M’e’ MoRtal Duolo stu cielo, sti mmuntagne, chistu mare niente a stu core diceno; sti gente ch’io veco attuorno songo ’nfame, amare: e i’ fuje, fuje, voglio sulamente restà nzieme ’e penziere amate e care ch’io porto strinte int’a stu core ardente, ch’io dedico a cchill’uocchie doce e chiare d’ ’a nnammurata mia, bella e ’nnucente. sulo! fin’ ’o mumento, nun luntano, ca torno n’ata vota a mm’ ’abbraccià. l’ammore vene e sulo ha dda truvà stu core mio ch’ ’a chiamma chianu chiano, ca le suspira chello ch’isso tene: ’e sentimente, ’a passïona, ’o bene. 50 Dante alighieri - firenze 1265-Ravenna 1321 Poeta. Nato da famiglia guelfa di piccola nobiltà, allievo di Brunetto Latini, si dedicò presto alla poesia, stringendo amicizia con i poeti stilnovisti Guido Cavalcanti, Lapo Gianni e Cino da Pistoia e dedicando rime d’amore, poi raccolte nella vita Nuova, a Beatrice Portinari, che, morta nel 1290, fu dal poeta trasfigurata in simbolo. Le altre poesie giovanili, d’imitazione siculo-toscana, sono raccolte nelle Rime, insieme alle «petrose» (ispirate dalla passione violenta per una donna Pietra) e a composizioni allegoriche e dottrinali. Sposatosi con Gemma Donati, ebbe da lei tre figli: Jacopo, Pietro e Antonia. Prendeva intanto parte attiva alla vita politica: dopo aver combattuto a Campaldino contro i ghibellini d’Arezzo, iscrittosi all’arte dei medici e speziali, fu tra i priori di Firenze. Guelfo bianco, mentre era ambasciatore presso il papa Bonifacio VIII, i Neri, prevalsi a Firenze con l’aiuto di Carlo di Valois, lo bandirono dalla città, condannandolo in contumacia, sotto l’accusa di baratteria, a una multa e poi al rogo. Isolatosi dai compagni d’esilio, andò pellegrinando, tra il 1304 e il 1310, per varie città e corti. Dopo l’ultima condanna a morte, dimorò a Verona e infine a Ravenna, presso Guido Novello da Polenta: qui morì il 13 settembre 1321 e fu sepolto nella tomba che tuttora ne conserva le ceneri. L’esilio, esperienza centrale della vita di Dante, fu anche il più notevole elemento ispiratore delle opere della maturità: mentre il poeta affida al Convivio le sue residue speranze di tornare a Firenze grazie ai meriti della sua dottrina, rivendica, nel De vulgari eloquentia, la funzione insostituibile dello scrittore nella formazione del linguaggio di un popolo e, nel De Monarchia, l’autonomia dell’Impero rispetto alla Chiesa, come garanzia per l’attuazione della felicità temporale; nella Divina commedia, infine, si sente investito di una missione provvidenziale che prepari l’imminente riforma; ma il poema trascende ogni motivo occasionale ed è capolavoro di universale bellezza per la 51 ricchezza dei sentimenti umani che vi trovano espressione ed insieme per la vigorosa ed armonica struttura dottrinale, sintesi della civiltà che conclude il Medioevo e prepara il Rinascimento. 52 la DiviNa coMMeDia inferno (Canto Primo) Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura, ché la diritta via era smarrita. ahi quanto a dir qual era è cosa dura esta selva selvaggia e aspra e forte che nel pensier rinova la paura! tant’ è amara che poco e più morte; ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai, dirò de l’altre cose ch’i’ v’ho scorte. io non so ben ridir com’ i’ v’intrai, tant’ era pien di sonno a quel punto che la verace via abbandonai. Ma poi ch’i’ fui al piè d’un colle giunto, là dove terminava quella valle che m’avea di paura il cor compunto, guardai in alto e vidi le sue spalle vestite già de’ raggi del pianeta che mena dritto altrui per ogne calle. allor fu la paura un poco queta, che nel lago del cor m’era durata la notte ch’i’ passai con tanta pieta. e come quei che con lena affannata, uscito fuor del pelago a la riva, si volge a l’acqua perigliosa e guata, 53 così l’animo mio, ch’ancor fuggiva, si volse a retro a rimirar lo passo che non lasciò già mai persona viva. Poi ch’èi posato un poco il corpo lasso, ripresi via per la piaggia diserta, sì che ’l piè fermo sempre era ’l più basso. ed ecco, quasi al cominciar de l’erta, una lonza leggiera e presta molto, che di pel macolato era coverta; e non mi si partia dinanzi al volto, anzi ’mpediva tanto il mio cammino, ch’i’ fui per ritornar più volte vólto. temp’ era dal principio del mattino, e ’l sol montava ’n sù con quelle stelle ch’eran con lui quando l’amor divino mosse di prima quelle cose belle; sì ch’a bene sperar m’era cagione di quella fiera a la gaetta pelle l’ora del tempo e la dolce stagione; ma non sì che paura non mi desse la vista che m’apparve d’un leone. Questi parea che contra me venisse con la test’ alta e con rabbiosa fame, sì che parea che l’aere ne tremesse. ed una lupa, che di tutte brame sembiava carca ne la sua magrezza, e molte genti fé già viver grame, 54 questa mi porse tanto di gravezza con la paura ch’uscia di sua vista, ch’io perdei la speranza de l’altezza. e qual è quei che volontieri acquista, e giugne ’l tempo che perder lo face, che ’n tutti suoi pensier piange e s’attrista; tal mi fece la bestia senza pace, che, venendomi ’ncontro, a poco a poco mi riponeva là dove ’l sol tace. Mentre ch’i’ rovinava in basso loco, dinanzi a li occhi mi si fu offerto chi per lungo silenzio parca fioco. Quando vidi costui nel gran diserto, «Miserere di me», gridai a lui, «qual che tu sii, od ombra od omo certo!». Rispuosemi: «Non omo, omo già fui, e li parenti miei furon lombardi, mantoani per patria ambedui. Nacqui sub Iulio, ancor che fosse tardi, e vissi a Roma sotto ’l buono augusto nel tempo de li dèi falsi e bugiardi. Poera fui, e cantai di quel giusto figliuol d’anchise che venne di troia, poi che ’l superbo ilïón fu combusto. Ma tu perché ritorni a tanta noia? perché non sali il dilettoso monte ch’è principio e cagion di tutta gioia?». 55 «or se’ tu quel virgilio e quella fonte che spandi di parlar sì largo fiume?», rispuos’ io lui con vergognosa fronte. «o de li altri poeti onore e lume, vagliami ’l lungo studio e ’l grande amore che m’ha fatto cercar lo tuo volume. tu se’ lo mio maestro e ’l mio autore, tu se’ solo colui da cu’ io tolsi lo bello stilo che m’ha fatto onore. vedi la bestia per cu’ io mi volsi; aiutami da lei, famoso saggio, ch’ella mi fa tremar le vene e i polsi». «a te convien tenere altro viaggio», rispuose, poi che lagrimar mi vide, «se vuo’ campar d’esto loco selvaggio; ché questa bestia, per la qual tu gride, non lascia altrui passar per la sua via, ma tanto lo ’mpedisce che l’uccide; e ha natura sì malvagia e ria, che mai non empie la bramosa voglia, e dopo ’l pasto ha più fame che pria. Molti son li animali a cui s’ammoglia, e più saranno ancora, infin che ’l veltro verrà, che la farà morir con doglia. Questi non ciberà terra ne peltro, ma sapienza, amore e virtute, e sua nazion sarà tra feltro e feltro. 56 Di quella umile italia fia salute per cui morì la vergine cammilla, eurialo e turno e Niso di ferute. Questi la caccerà per ogne villa, fin che l’avrà rimessa ne lo ’nferno, là onde ’nvidia prima dipartilla. ond’ io per lo tuo me’ penso e discerno che tu mi segui, e io sarò tua guida, e trarrotti di qui per loco etterno; ove udirai le disperate strida, vedrai li antichi spiriti dolenti, ch’a la seconda morte ciascun grida; e vederai color che son contenti nel foco, perché speran di venire quando che sia a le beate genti. a le quai poi se tu vorrai salire, anima fia a ciò più di me degna; con lei ti lascerò nel mio partire; ché quello imperador che là sù regna, perch’ i’ fu’ ribellante a la sua legge, non vuol che ’n sua città per me si vegna. in tutte parti impera e quivi regge; quivi è la sua città e l’alto seggio: oh felice colui cu’ ivi elegge!». e io a lui: «Poeta, io ti richeggio per quello Dio che tu non conoscesti, a ciò ch’io fugga questo male e peggio, 57 che tu mi meni là dov’ or dicesti, sì ch’io veggia la porta di san Pietro e color cui tu fai cotanto mesti». allor si mosse, e io li tenni dietro. 58 la DiviNa coMMeDia inferno (Canto Primo) trentacinch’anne, l’età mia chest’era quanno dint’a nu vuosco me perdette: m’ardeva ’o core comm’a na vrasera, tenevo ’e ccarne carreche ’e sanguette. avevo abbandunato ’a bona via, campavo p’ ’e burdelle e cu ’e carnette. comm’era triste ’o vuosco! ’N fantasia, si ’o veco ancora, ancora mo m’agghiaccio: a ffronte a isso ’a morte è n’alleria. io comme ce trasette nun ’o ssaccio, e restarrà pe’ sempe nu mistero: nun ero cchiù crestiano, ero nu straccio. c’ ’a tremmarella ch’era forte overo, io me truvaie a ’e piere ’e na cullina addò ferneva ’a sérva. allero allero spanneva ’o sole ’a luce soia cchiù fina e cummigliava ’o monte sano sano. Quanno vedette ’o cchiaro d’ ’a marina, m’assicuraie nu poco e cu na mano ’o pietto me tuccaie: assaie cchiù lento ’o core me sbatteva, assaie cchiù chiano. e comme a cchillo ca, pe’ bia ca ’o viento ’a varca ’n miez’ ’o mare l’ha affunnato, ha dda natà cu tutto ’o sentimento 59 pe’ se salvà, e po’ quanno, spurmunato, arriva ’n terr’ ’arena e guarda ’e guaie e ’o càncaro ’e periculo scampato, a guardà arreto io pure m’avutaie: che cosa triste, cupa, abbelenata: nisciuno ’a llà era asciuto vivo, maie! Po’ chianu chiano, m’avviaie p’ ’a strata ca ncopp’a ’sta cullina me purtava; ma tècchete na belva nfurïata me trovo ’e faccia … e comme me fissava: era nu lïopardo: ’o farabbutto cu ’e diente ’a fore già m’assapurava. io me sentevo scunucchià, distrutto, guardanno ’e ddoie mascelle marïole; fuie nu mumento overamente brutto. Ma po’, me repigliaie, vedenno ’o sole ca, cchiù lucente ’e ll’oro, ’a miez’ ’o cielo, pareva me parlasse cu parole gentile e chiare: ’o vide chistu velo? i’ ’o calo ncopp’a ttutta ’sta tristezza, e faccio addeventà calore ’o gelo. Redeva quase st’anema ’e priezza, quanno po’ nu lïone accumparette: teneva ’o ffele ’n mocca e na sveldezza ca ’e me n’avarria fatto doie purpette si ’e pressa ’e pressa ’a llà nun me scanzava, e, quanno ’e sta’ sicuro me parette, 60 ’e faccia n’ata bestia s’aparava e me puntava comm’ ’o cane ’a quaglia: era na lupa, ’a vocca chiena ’e bava aperta tale e quale a na tenaglia, ’e diente comm’ ’e spate, ll’uocchie ’e fuoco … ’o core me diceva: priesto! squaglia! si no ’sta lupa, chiena ’e famme e ’e sfoco, ’e te ne fa uno muorzo … e bonanotte. e ’a chella overamente fuie pe’ poco ch’io me salvaie, e pe’ scanzà sti botte, stevo pe’ turnà propio ’a do’ ero asciuto, da ’o vuosco niro cchiù d’ ’a malanotte, e mme sentevo già bell’e perduto quanno vedette n’ombra, l’ombra ’e n’ommo ca proprio nnanze m’era accumparuto, e ca nun se trattava ’e nu malommo io subbeto ’appuraie. isso teneva signate ’n faccia ’e tratte ’e galantommo. – Pietà! – sultanto ’sta parola asceva da ’a vocia mia, spaventata assaie. sultanto aiuto ’o core mio vuleva. Po’ me facette forza e le spiaie: – Ma tu, dimme, chi si’? Dimme, ’a do’ viene? – a ’sti pparole l’ombra suspiraie: – io vengo ’a Roma, na città ca tene iurnate ’e storia scritte p’ogni preta; d’ ’a gloria soia ’e ccronache so’ chiene. 61 campavo llà cuntento, ero pueta o tiempo d’ ’e ddie fauze e pagane. l’opera mia cchiù bella, ’a cchiù cumpleta, è ’a storia ’e enea, d’ ’e tiempe suoie luntane. Ma tu – rispunne a mme – ccà, che nce faie, dint’a stu sito triste e fore mane? Pecché nun saglie ’o monte e te ne vaie addò ce sta allerezza e ce sta pace? – io rispunnette: – chi ’o ccredeva maie: ma allora si’ virgilio, ’o cchiù capace ’e tutte ’alletterate: ncopp’a Dio te giuro ca cchiù ’e tutte tu me piace. tu si’ o’ cchiù bravo; tu si’ ’o masto mio; i’ ncopp’ ’e libbre tuoie me so’ mparato; ogni cumpunimento è n’arrecrio. Mo vuo’ sapé pecché songo scappato? Pe’ chella brutta bestia ca sta llà. e tu, ca si’ ’o cchiù saggio d’ ’o ppassato, ’a chelli granfe vieneme a salvà. – virgilio rispunnette: – figlio bello, propio pe’ n’ata parte hê ’a cammenà, ca st’animale è ’o peggio mustriciello, p’ ’a strata soia nisciuno s’ ’a fa fora: se magna n’ommo comm’a nu paniello. Ma priesto venarrà ’a Giustizia, e allora ’sta lupa int’a l’inferno iettarrà, e ogni peccato fatto ’a ’sta mmalora 62 overo caro assaie farrà pavà. sarranno vendicate tutte ’e tuorte, tutte ll’aggràvie e ogni marvaggità, sarranno vendicate tutte ’e muorte: ’a vergine camilla, eurialo, Niso … e ’a lupa murarrà senza cunfuorte. e mmo, mio caro Dante, aggio deciso: stu viaggo t’ ’o farraie nzieme cu mme. fa’ chello ca dich’io, tutto preciso, e io te porto subbeto a vvedé dint’a l’inferno ’a gente comme chiagne, patisce e se dispera comm’a cché; che strille sentarraie, e allucche e llagne! Po, doppo, ’n Purgatorio venarraie; llà ’o ffuoco ardente scenne da ’e mmuntagne; gente ca soffre ’e meno vedarraie: ognuno spera ampressa ’e scuntà ’a pena pe’ se levà pe’ sempe ’a miez’ ’e guaie. si po’ te sentarrie ’e bona lena, tu ’n Paraviso pure può arrivà: na femmena cchiù bella ’e na sirena p’ ’o cielo azzurro t’accumpagnarrà. io nun t’ ’o pozzo fa’ passà ’o gulio, nun songo degno ’e chillu posto llà, pecché me ribbellaie a’ legge ’e Dio. – – chello ca dice assaie me dà dammaggio – io rispunnette – chiagne ’o core mio. – 63 e po’ cuntinuaie: – Pueta, ’o viaggio ’o voglio fa’ cu te sempe vicino, pecché ’a sapienza toia me dà curaggio. – e nzieme ce mettetemo ’n cammino. 64 francesco Petrarca - incisa (arezzo) 1304-arquà 1374 Gli studi del Petrarca cominciarono a Carprentas, e nel ’17 intraprese quelli di legge all’università di Montpellier. Francesco preferiva però le letture dei poeti classici, tanto da suscitare le ire del padre, che gli bruciò i libri di letteratura. Lasciati gli studi di diritto, fu poi costretto dalle necessità economiche a entrare nella corte di Giacomo Colonna, creato allora vescovo di Lombez. L’amicizia del vescovo e la fama conseguita con i primi scritti gli valsero l’invito a entrare al servizio del cardinale Giovanni Colonna. Il venerdì santo del 1327 Petrarca incontrò Laura che tanta importanza doveva avere nella sua vita. Nel 1341 fu incoronato poeta in Campidoglio. Famoso in tutta Europa, viaggiò moltissimo, svolgendo anche varie missioni diplomatiche. Dal 1353 visse in Italia, a Milano, a Venezia e infine ad Arquà, sui colli Euganei, dove morì. Petrarca è il primo grande lirico moderno; enorme è stata la sua influenza su tutta la letteratura europea. Le sue liriche in volgare furono da lui raccolte nel canzoniere e divise dalla tradizione in rime in vita e in morte di madonna Laura; in italiano scrisse anche i trionfi. La fama del Petrarca è oggi raccomandata prevalentemente alle poesie in volgare, ma ai suoi tempi egli fu celebre soprattutto per le sue opere in lingua latina. 65 s’al PRiNciPio RisPoNDe il fiNe e ’l Mezzo s’al principio risponde il fine ’l mezzo del quartodecim’anno ch’io sospiro, più non mi può scampar Paura ne ’l rezzo; sì crescer sento ’l mio ardente desiro. amor, con cu’ i pensier mai non han mezzo, sotto ’l cui giogo giammai non respiro, tal mi governa, ch’ i’ non son già mezzo, per gli occhi, ch al mio mal sì spesso giro. così mancando vo di giorno in giorno sì chiusamente, ch’io sol me n’accorgo, e quella che, guardando, il cor mi strugge. appena infin a qui l’anima scorgo; né so quanto fia meco il suo soggiorno; ché la morte s’appressa, e ’l viver fugge. 66 s’al PRiNciPio RisPoNDe il fiNe e ’l Mezzo Quattuordice anne so’, laura mia, quattuordice anne ca te voglio bene: niente me po’ acquità ’sta frennesia, st’arzura ca m’abbrucia dint’ ’e vvene. fisso è ’o penziero e maie nun cagna via: st’ammore priggiuniero me mantene! i’ me cunzumo p’ ’a malincunia e tu manco t’adduone ’e chesti ppene. songo pe’ ll’uocchie tuoie nu scanusciuto, e tu pe’ mme si’ vita, grazia, ammore: quanto ’sta passïona è traditora! e i’ nun capisco comme aggio pututo campà cu chesta spina dint’ ’o core, né saccio quanto pozzo campà ancora. 67 Giovanni Boccaccio - Parigi o certaldo 1313-certaldo 1375 Avviato dal padre alla mercatura in Napoli, si diede alle lettere e frequentò la corte di Roberto d’Angiò, la cui figlia naturale, Maria d’Aquino, fu da lui amata e poeticamente ricordata col nome di Fiammetta. Richiamato a Firenze per il dissesto economico del padre (1340), ebbe incarichi diplomatici ad Avignone e a Roma. Conobbe il Petrarca e, influenzato da lui, si diede con fervore agli studi umanistici. Fondatore della prosa d’arte italiana, è il più grande narratore del Trecento. Nella sua opera dominano un poetico realismo ed un gusto tutto terreno dell’intelligenza nella rappresentazione dell’umana società. 68 QuaND’io RiGuaRDo Me vie PiÙ cHe ’l vetRo Quand’io riguardo me vie piú che ’l vetro fragile, e gli anni fuggir com’il vento, sí pietoso di me meco divento, che dir nol porra lingua, non che metro; piangendo il tempo, ch’ho lasciat’arietro mal operato e prendendo spavento de’ casi, i quai talora a cento a cento posson del viver tórmi il cammin tetro. Né mi può doglia, per ciò, né paura la vaga donna trarre della mente, dov’amor disegnò la sua figura. Per che, s’io non m’inganno, certamente la fine a quest’amor la sepoltura darà, ed altro no, ultimamente. 69 QuaND’io RiGuaRDo Me vie PiÙ cHe ’l vetRo io, quanno penzo a cchesta vita mia, a ’o tiempo ch’è vulato comm’ ’o viento, me vene tanta na malincunia ca nun so’ cchiù capace ’e truvà abbiento; penzo a sti ccose e chiagno ’e nustalgia: io tutto aggio sbagliato, e me turmento! Po’, all’intrasatta, a farme cumpagnia ’a morte vene, e sana ogni lamiento. essa sultanto putarrà levà chi voglio bene ’a dint’a sti penziere; ’a morte venarrà, piglia, m’afferra e tutte chesti ppene accuietarrà: sulo accussì se stutarrà ’o vrasiere ca m’arde ’n pietto, sulo sottaterra. 70 Matteo Maria Boiardo - scandiano 1441-Reggio emilia 1494 Poeta. Al servizio degli Estensi, dettò in latino i canti in loro lode. In volgare compose un canzoniere petrarchesco in onore di Antonia Caprara. Nel suo capolavoro, orlando innamorato confluiscono il ciclo bretone e il ciclo carolingio in un canto energico e primitivo di forti generose passioni. 71 DatiMe a PieNa MaNo e Rose e ziGli Datime a piena mano e rose e zigli, spargete intorno a me viole e fiori; ciascun che meco pianse e mei dolori, di mia leticia meco il frutto pigli. Datime e fiori e candidi e vermigli: confano a questo giorno e bei colori; spargete intorno d’amorosi odori, ché il loco a la mia voglia se assomigli. Perdon m’ha dato ed hami dato pace la dolce mia nemica, e vuoi ch’io campi lei che sol di pietà si pregia e vanta. Non vi maravigliate per ch’io avampi, che maraviglia è più che non se sface il cor in tutto d’allegrezza tanta. 72 DatiMe a PieNa MaNo e Rose e ziGli Dateme giglie e rose ’n quantità; spannesse ognuno attuorno a mme vïole; chi nzieme a mme chiagnette, trezzïole cu mme sparasse p’ ’a felicità. Menate giesummine ’a ccà e ’a llà: oggi ’sta casa e’ chiena chiena ’e sole; cuntento io so’ e nun bastano parole pe’ ve di’ ’n pietto ’o ffuoco ca ce sta: avimmo fatto pace io e chillu sciore: cchiù ’e primma me vo’ bene e arde ’e gulio; cchiù ’e primma ’a voglio bene e ardo ’e priezza. Nun ve maravigliate ’e tant’ammore, s’ha dda maraviglià stu core mio ca sbatte comm'a ll’onne, e nun se spezza. 73 lorenzo de’ Medici - firenze 1449-careggi 1492 Letterato, uomo politico, tipico rappresentante dell’uomo del Rinascimento, detto il Magnifico; pur restando privato cittadino, esercitò di fatto il potere nello stato di Firenze, sviluppò una politica di alleanze con tutti gli altri stati italiani mirando a consolidare una situazione di equilibrio (per cui fu detto l’ago della bilancia d’italia). Si circondò di artisti, scrittori e studiosi, ed egli stesso compose opere letterarie, che testimoniano una partecipazione viva all’umanesimo rinascimentale. 74 cHi teMPo asPetta, assai teMPo si stRuGGe chi tempo aspetta, assai tempo si strugge; e ’l tempo non aspetta, ma via fugge. la bella gioventù giamai non torna, ne ’l tempo perso giamai riede indrieto; però chi ha ’l bel tempo e pur soggiorna, non arà mai al mondo tempo lieto; ma l’animo gentile e ben discreto dispensa il tempo, mentre che via fugge. oh quante cose in gioventù si prezza! Quanto son belli i fiori in primavera! Ma, quando vien la disutil vecchiezza e che altro che mal più non si spera, conosce il perso dì quando è già sera quel che ’l tempo aspettando pur si strugge. io credo che non sia maggior dolore che del tempo perduro a sua cagione: questo è quel mal che affligge e passa il core, questo è quel mal che si piange a ragione; questo a ciascun debbe essere uno sprone di usare il tempo ben, che vola e fugge. Però, donne gentil, giovani adorni, che vi state a cantare in questo loco, spendete lietamente i vostri giorni, ché giovinezza passa a poco a poco: io ve ne priego per quel dolce foco che ciascun cor gentile incende e strugge. 75 cHi teMPo asPetta, assai teMPo si stRuGGe si troppo tiempo aspiette, po’ ch’acchiappe? ’o tiempo vola e llassa sulo ’e rrappe! N’attemo, ’a giuventù, n’attemo dura: ’o tiempo perzo cchiù nun turnarrà; chi nun ce penza e stu parlà trascura mai saparrà che d’è ’a felicità; sti ccose l’ommo furbo ’e ssape bone, tene judizio e nun se fa mbruglià. e’ bella ’a giuventù pe’ chi l’apprezza! so’ belle ’e sciure dint’ ’a primmavera! Quanno vene ’a vicchiaia e mena ’a rezza l’ommo s’addona ch’è arrivata ’a sera: chi a ttiempo nun gudette ’a giuventù, mo ’a va cercanno e nun ’a trova cchiù! Niente, cred’io, ca da’ cchiù dulore d’ ’o tiempo cunzumato inutilmente; chest’è ’afflizione ca te straccia ’o core; chist’è ’o cchiù brutto e amaro d’ ’e turmiente; ognuno a sti pparole stesse attiento: ’o tiempo vola comma vola ’o viento! Pirciò, vuie, giuvinotte e figliulelle, guditavelle sti ghiurnate belle; campate sti poch’anne cu accurtezza ca ’a giuventù se struie a ppoco a ppoco: e stateme a sentì pe’ chill’ammore ca ’mpiett’ a vvuie v’abbrucia comm’ ’o ffuoco. 76 Jacopo sannazzaro - Napoli 1456-1530 Poeta. Vissuto alla corte di Federico d’Aragona, lo seguì nell’esilio in Francia. Scrisse in latino: elegie, epigrammi, il poema il parto della vergine e le ecloghe Piscatorie; in italiano: Rime e l’arcadia, romanzo pastorale ove idealizza, con raffinata eleganza, la sua predilezione per il genere bucolico, e che costituì a lungo il modello della favola pastorale. 77 caRi scoGli, Dilette e fiDe aReNe cari scogli, dilette e fide arene, che i miei duri lamenti udir solete, antri che notte e dì mi rispondete, quando dell’arder mio pietà vi viene, folti boschetti, dolci valli amene, fresche erbe, lieti fiori, ombre segrete, strade sol per mio ben risposte e quete, d’amorosi sospir già calde e piene, o solitarii colli, o verde riva, stanchi pur di veder gli affanni miei, quando fia mai che riposato io viva, o per tal grazia un dì veggia colei, di cui vuol sempr’amor ch’io parli e scriva, fermarsi al pianger mio quant’io vorrei? 78 caRi scoGli, Dilette e fiDe aReNe scugliere e spiagge, care e appassiunate, ca chiagnere vuie sempe me sentite; grotte e caverne ca me rispunnite e a cchistu core mio pietà purtate; vuosche ’nzeppate d’albere, vallate, erbe, sciure, ombre ca ve ntennerite; strade ca pe’ sti ppene v’abbelite, strade ca nuie facevemo abbracciate; culline sulitarie, arena bella, quanno se stracquarrà tanto dulore? Quanno avarrà stu core n’arrecrio? Quanno sarrà ca chella figliulella – unica gioia, unico e sulo ammore – se fermarrà a sentì stu chianto mio? 79 Niccolò Machiavelli - firenze 1469-1527 Scrittore, poeta e uomo politico. Segretario della seconda cancelleria della repubblica, fu incaricato di missioni diplomatiche presso Cesare Borgia, l’imperatore Massimiliano e il Re di Francia e di organizzare la milizia cittadina da lui stesso propugnata. Dopo il ritorno dei Medici fu privato dell’ufficio e confinato nella solitudine di San Casciano, ove maturò il suo pensiero politico. Dopo un effimero ritorno alla vita politica, restaurata la repubblica, fu messo in disparte e mori in povertà. 80 io sPeRo e lo sPeRaR cResce ’l toRMeNto io spero e lo sperar cresce ’l tormento, io piango e il pianger ciba il lasso core, io rido e il rider mio non passa drento, io ardo e l’arsion non par di fore, io temo ciò che io veggo e ciò che io sento, ogni cosa mi dà nuovo dolore: così sperando, piango, rido e ardo, e paura ho di ciò che io odo e guardo. Nasconde quel con che nuoce ogni fera: celasi adunque sotto l’erbe il drago, porta la pecchia in bocca mèle e cera e dentro al piccol sen nasconde l’ago, cuopre l’orrido volto la pantera e ’l dosso mostra dilettoso e vago: tu mostri il volto tuo di pietà pieno, poi celi un cor crudel dentro al tuo seno. 81 io sPeRo e lo sPeRaR cResce ’l toRMeNto spero e speranno cresce stu turmiento, chiagno e stu core mangia chianto amaro; io rido, ma nun è ca stongo allero; ardo, ma chesta freva nun se vede; tengo paura ’e tutte 'e ccose attuorno, me da ogni cosa nu dulore nuovo: speranno chiagno, rido e sto’ int’ ’o ffuoco; chello ca sento o veco, m’atterrisce. ogni animale s’annasconne ’e ggranfe: nun mmosta ’o dente avvelenato ’a serpe; ’a vèspera ’o spumone l’accamuffa dint’ ’a vucchella chiena ’e céra e ’e mèle; cummoglia ’a faccia ’e tuosseco ’a pantera e fa vedé ’a pelliccia aggrazzïata: tu tiene ’n faccia ’o pizzo a rriso ’e n’angelo; ’n pietto, annascunne ’o core ’o cchiù crudele. 82 ludovico ariosto - Reggio emilia 1474-ferrara 1533 Poeta. Visse alla corte di Ferrara, al servizio del cardinale Ippolito d’Este e poi del duca Alfonso, che gli affidò il governo della Garfagnana, infestata dai banditi. Sposò nel ’27 Alessandra Benucci e visse gli ultimi anni in contrada Mirasole, attendendo alla paziente rielaborazione del suo poema. Scrisse i carmina in latino, alcune liriche in volgare e le satire in terza rima, sul modello dei sermoni oraziani, trasfigurazione ironica e bonaria della propria personalità. Il capolavoro è l’orlando furioso poema in ottava rima, massima espressione poetica del Rinascimento. 83 DoPo Mio luNGo aMoR, Mia luNGa feDe Dopo mio lungo amor, mia lunga fede e lacrime e suspiri ed ore tetre, deh! sarà mai che da Madonna impetre al mio leal servir qualche mercede? ella vede ch’io moro, e che nol vede finge, come disposta alla mia morte. ahi dolorosa sorte, che di sua perfezion cosa sì bella manchi, per esser dì pietà ribella! lasso! ch’io sento ben che in que’ dolci ami, ove all’esca fui preso, o mia nimica, è l’amaro mio fin. Né perché ’l dica mi giova, perché amor vuol pur ch’io v’ami, e ch’io tema e ch’io speri e ’l mio mal brami, e ch’io corra al bel lampo che mi strugge, e segua chi mi fugge libera e sciolta e d’ogni noia scarca, con esta vita stanca e di guai carca. Né mi pento d’amar, né pentir posso, quantunque vada la mia carne in polve, sì dolce è quel velen nel qual m’involve amor, che dentro ho già da ciascun osso, e d’ogni mio valor così mi ha scosso che tutto in preda son del gran disio che nacque il giorno ch’io mirai l’alta beltà, ch’a poco a poco m’ha consumato in amoroso foco. 84 se mai fu, canzon mia, donna crudele al suo servo fedele, tu puoi dir che l’è quella, e non t’inganni che vive, acciò ch’io mora de’ miei anni. 85 DoPo Mio luNGo aMoR, Mia luNGa feDe Doppo tutto l’ammore, ’a passïona, ’e llacreme, ’angarìe e sti turmiente, essa me dignarrà ’e quacche suspiro o sarrà fredda e ngrata eternamente? io moro, ’o vvede, e ffa l’indifferente; chiagno e ’e stu chianto mio nun se ne ’mporta. ah, maledetta sciorta, essa pe’ quant’è nfama tant’è bella, e tu m’hê fatto schiavo ’e chella stella! ahimmé! Buono sacc’io ca stu dulore me purtarrà deritto a ’o campusanto. ’o ssaccio buono e nun ce sta remmedio: cchiù guardo chella vocca e cchiù me ’ncanto. ’a cerco ogni minuto, ogni mumento; ’o core mio ’a stu ffuoco nun se scanza, more, ma cchiù se lanza, cchiù soffre e se turmema int’a sti ppene, cchiù se ’ncatena dint’a sti ccatene. Ma i’ nun me pento ’e te vulé stu bene, crideme: pe’ tte moro e so’ cuntento: è doce stu veleno ca me daie e ogni attemo ca passa cchiù addevento pazzo pe’ tte, cchiù cresce ’o desiderio, l’ardore, ’a passïona pe’ st’ammore nato dint’a stu core quanno guardaie chill’uocchie belle, e ’a tanno pe’ st’uocchie tuoie me stongo cunzumanno. 86 si maie c’è stata femmena crudele cu nu schiavo fedele, chella si’ stata tu: te voglio bene, appassiunatamente; moro, tu ’o vvide, e rieste ’ndifferente. 87 Michelangelo Buonarroti - caprese 1475-Roma 1564 Scultore, pittore, architetto. Giovinetto, visse alla corte di Lorenzo il Magnifico, a Firenze, ove tornò dopo aver soggiornato a Venezia, a Bologna, a Roma. Chiamato dal papa Giulio II, fu poi al servizio di Leone X e di Clemente VII. Cacciati i Medici da Firenze, fu al servizio della repubblica per fortificare la città. Dal 1534 si stabilì definitivamente a Roma. Formatosi sullo studio delle opere di Donatello e di Jacopo della Quercia per la scultura, e di Giotto e Masaccio per la pittura, sintetizzò nella sua arte tutti i valori del Rinascimento, preannunciando e preparando per molti versi l’esplosione del barocco. Nella scultura, che predilesse fra tutte le arti, espresse con estremo vigore la sua visione plastica tormentata e drammatica, la stessa che domina nelle sue opere di pittura in cui disegno e volume sopraffanno il colore. Fu anche poeta, e i suoi versi ispirati dall’amicizia per Vittoria Colonna sono un interessantissimo documento della sua tormentata vita interiore. 88 o Notte, o Dolce teMPo o notte, o dolce tempo, benché nero, con pace ogn’opra sempr’al fin assalta. Ben vede e ben intende chi ti esalta, e chi t’onor’ha l’intellett’intero. tu mozzi e tronchi ogni stanco pensiero, che l’umid’ombra et ogni quiet’appalta; e dall’infima parte alla più alta in sogno spesso porti ov’ire spero. o ombra del morir, per cui si ferma ogni miseria a l’alma, al cor nemica, l’ultimo delli afflitti e buon rimedio, tu rendi sana nostra carn’inferma, rasciugh’i pianti e posi ogni fatica e furi a chi ben vive ogn’ir’e tedio. 89 o Notte, o Dolce teMPo Notte ca viene, cu st’oscurità, a ttuttuquanto ’o munno puorte pace, e int’a nu lietto còmmodo, ’e vammace, faie ll’uommene, cuntente, arrepusà. tu adduorme ogni penziero, ogni anzietà; si’ ’a meglia mmericina, ’a cchiù capace; notte, sapisse quanto me pïace sunnà sti suonne ca me faie sunnà. tu, comm’ ’a morte, ogni dulore ammanche e a ogni miseria bàrzamo saie dà; d’ ’o munno afflitto tu si’ ’o vero bene. forza tu daie a cchesti ccarne stanche; asciutte ’o chianto, ’e stiente faie stracquà, e all’uommene tu sane affanne e ppene. 90 torquato tasso - sorrento 1544-Roma 1595 Poeta. Giovinetto, seguì il padre Bernardo in varie città italiane. Nel 1562 pubblicò il Rinaldo, poema cavalleresco. Nel 1565 entrò alla corte del duca di Ferrara, Alfonso II. Qui compose il dramma pastorale in versi aminta e condusse a termine il suo capolavoro, la Gerusalemme liberata, poema in ottave, in venti canti: ispirato alle vicende conclusive della prima crociata, si rispecchia in esso l’età della Controriforma e si preannuncia il secentismo, ma si avvertono soprattutto notevoli anticipazioni della sensibilità romantica. Il Tasso cominciò quindi a dare segni di squilibrio mentale e fu chiuso per sette anni nell’ospedale di Sant’Anna a Ferrara. Liberato visse anni infelicissimi, peregrinando per tutta l’Italia. Morì a Roma dove si era recato per essere incoronato poeta. 91 ecco MoRMoRaR l’oNDe ecco mormorar l’onde e tremolar le fronde a l’aura mattutina e gli arboscelli, e sovra i verdi rami i vaghi augelli cantar soavemente e rider l’orïente: ecco già l’alba appare e si specchia nel mare, e rasserena il cielo, e le campagne imperla il dolce gelo, e gli alti monti indora. o bella e vaga aurora, Paura è tua messaggera, e tu de l’aura ch’ogni arso cor restaura. 92 ecco MoRMoRaR l’oNDe e murmureano ll’onne, e pampaneano ’e ffronne, e ll’albere vasate ’a ll’aria fresca d’ ’a matina; pe’ ncopp’ ’e rame verde ll’aucelluzze cantano doce doce; sponta cuntento ’o sole: ’a primma luce ’e l’alba se specchia ’n miez’ ’o mare e abbraccia ’o cielo attuorno, ride ’a rusata p’ ’e ccampagne ’n fiore e d’oro fa ’e mmuntagne. aurora, chiara e bella, a laura arrassumiglie, a laura mia, sullievo d’ogni core arzo d’ammore. 93 Giovambattista Marino - Napoli 1569-1625 Poeta. Il più rappresentativo di quella corrente letteraria barocca che da lui prese nome di marinismo. Ebbe vita avventurosa e sregolata: a Torino, ove fu insignito da Carlo Emanuele I dell’ordine mauriziano, ebbe una contesa con il rivale Murtola che per poco non gli costò la vita. Recatosi in Francia, vi ottenne fama e onori. Virtuoso della parola, la sua poesia, viziata dall’uso eccessivo della metafora, è tuttavia pregevole per la sua vena musicale e sensuale. 94 PRiMaveRa fuggon per l’erba liberi i ruscelli poiché ’l sol torna a delivrare il gelo. van tra i folti querceti i vaghi augelli disputando d’amor di stelo in stelo. treman l’ombre leggiere ai venticelli, ch’empion d’odori il disvelato cielo, e scotendo e ’ncrespando i rami e l’onde si trastullan con l’acque e con le fronde. Di naturali arazzi intappezzato, riveste ogni giardin spoglie superbe, né d’un sol verde si colora il prato, ma diverso così come son l’erbe. a bei fiorami il verde ricamato lava e polisce le sue gemme acerbe, ch’a la brina ed al sol formano apunto quasi di lidia un serico trapunto. apre le sbarre, e ’l caro armento mena il bifolco a tosar l’erba novella. scinta e scalza cantando a suon d’avena sta con l’oche a filar la villanella. scherzando col torel per l’ombra amena va la giovenca, e col monton l’agnella. su per lo pian, che flora ingemma e smalta, con la damma fugace il daino salta. 95 langue anch’egli d’amor l’angue feroce, e deposta tra’ fior la scorza antica, dov’amor più ’l sol lo scalda e coce, ondeggia e guizza per la piaggia aprica. 96 PRiMaveRa se squaglia ’a neve sot’ ’o sole d’oro; corrono a mmare ’e sciumme alleramente; cantano ’aucielle, tutte quante a ccoro; suspira ’ammore, appassiunatamente. se sceta ’o viento, lieggio e ’nnammurato, e s’accarezza ’e rame chine ’e fronne, porta n’addore ’e sciure p’ogni lato, mena ricame ’e perle ’n miez’a ll’onne. Mille culure vestono ’e ciardine; scorre p’ ’e vvene sango cchiù carnale; ’o pprato è verde; verde so’ ’e cculline; s’affaccia ’o iuorno cchiù sentimentale. cammina ’o campagnuolo p’ ’a scampia e vva taglianno ll’èvera nuvella; scàveza e allera, for’ ’a massaria, fatica e canta na cuntadenella. Pazzeano sott’a ll’ombra d’ ’a pagliara na vaccarella cu nu vaccariello; dint’ ’a ducezza ’e ’sta matina chiara ogni bucciuolo pare nu giuiello. Rideno ’e core chine ’e sentimento; ride ’a natura; l’aria è fina e cujeta; gocce ’e rusata, tutte d’oro e argiento, vesteno ’a terra cu nu manto e seta. 97 oggi pure ’animale cchiù feroce se sente cchiù appaciato. cchiù sincera è l’anema d’ognuno. Bella e doce trase, nzieme ’e vvïole, ’a primmavera. 98 Pietro Metastasio - Roma 1698-vienna 1782 Poeta. Discepolo del Gravina, fu amato e protetto dalla cantante Marianna Benti Bulgarelli, interprete di molti suoi melodrammi. Raggiunta la fama, fu poeta cesareo alla corte di Vienna. Tra i maggiori esponenti della poesia arcadica, il Metastasio è soprattutto noto come autore di melodrammi nei quali sulla materia eroica prevale un’ispirazione patetica, d’una languida musicalità, compiuta espressione della società galante e raffinata del ’700. 99 la liBeRtÀ Grazie agl’inganni tuoi, alfin respiro, o Nice; alfin d’un infelice ebber gli dei pietà: sento da’ lacci suoi, sento che l’alma è sciolta; non sogno questa volta, non sogno libertà. Mancò l’antico ardore, e son tranquillo a segno che in me non trova sdegno per mascherarsi amor. Non cangio più colore, quando il tuo nome ascolto: quando ti miro in volto, più non mi batte il cor. sogno, ma te non miro sempre ne’ sogni miei: mi desto, e tu non sei il primo mio pensier. lungi da te m’aggiro senza bramarti mai: son teco, e non mi fai né pena né piacer. 100 Di tua beltà ragiono, né intenerir mi sento; i torti miei rammento, e non mi so sdegnar. confuso più non sono quando mi vieni appresso: col mio rivale istesso posso di te parlar. volgimi il guardo altero, parlami in volto umano, il tuo disprezzo è vano, è vano il tuo favor; ché più l’usato impero quei labbri in me non hanno, quegli occhi più non sanno la via di questo cor. Quel che or m’alletta o spiace, se lieto o mesto or sono, già non è più tuo dono, già colpa tua non è; ché senza te mi piace la selva, il colle, il prato, ogni soggiorno ingrato m’annoia ancor con tè. odi s’io son sincero: ancor mi sembri bella, ma non mi sembri quella che paragon non ha: 101 e (non t’offenda il vero) nel tuo leggiadro aspetto or vedo alcun difetto, che mi parea beltà. Quando lo stral spezzai (confesso il mio rossore), spezzar m’intesi il core, mi parve di morir. Ma, per uscir di guai, per non vedersi oppresso, per riacquistar se stesso, tutto si può soffrir. Nel visco, in cui s’avvenne quell’augellin talora, lascia le penne ancora, ma torna in libertà; poi le perdute penne in pochi dì rinnova, cauto divien per prova, né più tradir si fa. so che non credi estinto in me l’incendio antico, perché sì spesso il dico, perché tacer non so: quel naturale istinto, Nice, a parlar mi sprona, per cui ciascun ragiona de’ rischi che passò. 102 Dopo il crudel cimento narra i passati sdegni, di sue ferite i segni mostra il guerrier così. Mostra così contento schiavo, che uscì di pena, la barbara catena, che trascinava un dì. Parlo, ma sol parlando me soddisfar procuro: parlo, ma nulla io curo che tu mi presti fè; parlo, ma non dimando se approvi i detti miei, né se tranquilla sei nel ragionar di me. io lascio un’incostante, tu perdi un cor sincero: non so di noi primiero chi s’abbia a consolar. so che un sì fido amante non troverà più Nice; che un’altra ingannatrice è facile trovar. 103 la liBeRtÀ tiempo ce n’è vuluto ma ’e stu dulore mio se n’è addunato Dio, ha avuto ’e me pietà. s’è rotta ogni catena, sanato ogni malanno; ’sta vota nun me nganno: è vera libbertà. ’o ffuoco s’è stutato, muorto è l’antico ammore; fernuto ogni dulore ca me puteva dà. si sento ’o nomme tuio, nun tremmo int’ ’e ddenocchie; guardannote int’a ll’uocchie cchiù nun me faie ’ncanta. sonno, ma dint’ ’e suonne mieie cchiù nun ce staie; ’e st’anema, oramaie, padrona cchiù nun si’. vaco luntano? e resto – t’ ’o giuro – ’ndifferente; te sto’ vicino? niente, niente pe’ tte sent’ i’. 104 si’ bella, ma a stu core nun faie cchiù tennerezza; cchiù ’o pietto nun se spezza ’e gelusia pe’ tte. Né càvero e né friddo si staie cu n’ato io sento; fernuto è ’o sentimento, niente ’o farrà turnà. Me guarde cu superbia? Me parle cu crianza? io nun ce do’ ’mpurtanza, nun me faie specie cchiù. ’sta vocca toia, chist’uocchie, mo songo rrobba ’e poco: nun teneno cchiù fuoco, nun sanno cchiù appiccià. si ’e vvote sto’ arraggiato, si canto e rido ’e gioia, nun è pe’ mmezza toia, cchiù forza toia nun è. sienteme: so’ sincero: si’ ancora aggrazziatella, però nun si’ ’a cchiù bella ca ncopp’ ’a terra sta; guardannote io ce trovo pure quacche difetto, nun è pe’ nu dispietto ca i’ mo te voglio fa’, 105 pecché te dico pure ca quanno ’sta catena spezzaie, fuie tanta ’a pena ca i’ stevo pe’ murì, ma, pe’ levarme ’a pietto na spina accussì forte, amara cchiù d’ ’a morte, tutto se po’ suffrì. N’auciello, priggiuniero d’ ’e spine, nun s’arrenne; ce lassa tutte ’e ppenne ma torna a llibertà; ’e ppenne n’ata vota, cresceno, e belle assaie, e l’aucelluzzo, maie, maie cchiù ce ’ncapparrà. ’o ssaccio, nun ce cride ca ’o ffuoco s’è stutato; io parlo troppo? è stato pe’ dirte ’a verità: è ’a troppa sufferenza, è ’a spina tradetora ca me turmenta ancora e ca me fa parlà. io lasso ’a cchiù nfamona; tu pierde ’o cchiù sincero; fra nuie, chisà, ’o cchiù allero, chisà chi maie sarrà. 106 aneme comm’ ’a mia, Dio una n’ha criata; chi è comm’a tte, ’na ’ngrata, ne truove ’n quantità. 107 Jacopo andrea vittorelli - Bassano 1749-1835 Poeta. Epigono dell’Arcadia, imitò il Chiabrera nelle anacreontiche a irene e a Dori, notevoli per il linguaggio raffinato e la melodiosità popolaresca. 108 GuaRDa cHe BiaNca luNa! Guarda che bianca luna! guarda che notte azzurra! un’aura non sussurra, non tremola uno stel. l’usignoletto solo va dalla siepe all’orno, e sospirando intorno chiama la sua fedel. ella, che il sente appena, già vien di fronda in fronda, e par che gli risponda: «Non piangere, son qui». che dolci affetti, o irene, che gemiti son questi! ah! mai tu non sapesti rispondermi così. 109 GuaRDa cHe BiaNca luNa! Guarda che luna ianca! Guarda che notte bella! Nun tremma na frunnella, ’o viento fermo sta. sulo nu russignuolo, cu voce appassiunata, da ’a cumpagnella amata cerca ’e se fa sentì. essa, ca ’o sente appena, vola pe’ mmiez’ ’e ffronne e pare ca risponne: – Nun chiagnere, sto’ ccà. – iré, tu tant’ammore pe’ mme maie l’hê sentuto! ahimmé! maie tu hê saputo risponnerme accussì. 110 vittorio alfieri - asti 1749-firenze 1803 Poeta e drammaturgo. Anticipatore del Romanticismo. Di carattere inquieto e ribelle, viaggiò per l’Europa finché non scoprì la sua vocazione di poeta, sulla quale influì anche la passione per la contessa d’Albany. L’odio al tiranno e l’amore per la libertà informano i trattati: Della tirannide (1777) e Del principe e delle lettere (1786) sono i temi delle sue 19 tragedie. Inoltre Rime di imitazione petrarchesca; vita dove si riflette la sua personalità; commedie, epigrammi e il Misogallo, satira della Francia rivoluzionaria. 111 MaliNcoNia, PeRcHÉ uN tuo solo seGGio Malinconia, perché un tuo solo seggio questo mio core misero ti fai? supplichevol, tremante ancor tel chieggio; deh! quando tregua al mio pianger darai? l’atra pompa del tuo feral corteggio ben tutta in me tu dispiegasti omai: infra larve di morte, or di’, mi deggio viver morendo ognor, né morir mai? Malinconia, che vuoi? ch’io ponga fine a questa lunga insopportabil noia, pria che il dolor giunga a imbiancarmi il crine? Dunque ogni speme di futura gioia, che amor mi mostra in due luci divine, caccia; e fa’ ch’una intera volta io muoia. 112 MaliNcoNia, PeRcHÉ uN tuo solo seGGio Malincunia, na casa int’a stu core tu te si’ fatta; e ccà te piace ’e sta’. Ma, dimme: chesti ppene, stu dulore, ce sta ’a lusinga ca m’ ’e ffaie sanà? tutte ll’affanne tuoie, tutto ’o scurore, comme te si’ spassata a mm’ ’e rrialà. so’ n’ommo ca nun campa e ca nun more; quant’anne stu turmiento durarrà? Malincunia, che vvuò? ch’io accorcio ’e tiempe? m’accido e metto fine a stu destino? si tu vuo’ chesto, l’urdema speranza ca i’ tengo ’e sta’ cu ’ammore mio vicino levame ’a pietto, famme ’sta crianza: sulo accussì pozzo murì pe’ sempe. 113 vincenzo Monti - alfonsine (Ravenna) 1754-Milano 1828 Poeta e letterato neoclassico. A Roma, godendo del mecenatismo di don Luigi Braschi, nipote di Pio VI, scrisse l’ode al signor di Montgolfier, il poemetto la bellezza dell’universo e iniziò la feroniade; compose inoltre le tragedie aristodemo e Galeotto Manfredi e un poemetto contro la Rivoluzione francese: la Basvilliana. Trasferitosi a Milano, orientò in senso democratico-rivoluzionario e anticattolico la sua poesia; esule a Parigi, si fece interprete della stanchezza dell’opinione pubblica per gli eccessi rivoluzionari nel poema Mascheroniana e fu poi esaltatore di Napoleone. Compose intanto la sua migliore tragedia, il caio Gracco, e tradusse la Pucelle d’orléans di Voltaire e l’ iliade di Omero (1810, il suo capolavoro). 114 PeR il GioRNo oNoMastico Della sua DoNNa Donna, dell’alma mia parte più cara, perché muta in pensoso, atto mi guati, e di segrete stille rugiadose si fan le tue pupille? Di quel silenzio, di quel pianto intendo, o mia diletta, la cagion. l’eccesso de’ miei mali ti toglie la favella, e discioglie in lagrime furtive il tuo dolore. Ma datti pace, e il core ad un pensier solleva di me più degno e della forte insieme anima tua. la stella del viver mio s’appressa al suo tramonto; ma sperar ti giovi che tutto io non morrò: pensa che un nome non oscuro io ti lascio, e tal che un giorno fra le italiche donne ti fia bel vanto il dire: «io fui l’amore del cantor di Bassville, del cantor che di care itale note vestì l’ira d’achille». soave rimembranza ancor ti fia, che ogni spirto gentile a’ miei casi compianse: e fra gl’insùbri quale è lo spirto che gentil non sia? Ma con ciò tutto nella mente poni 115 che cerca un lungo sofferir chi cerca lungo corso di vita. oh mia teresa, e tu del pari sventurata e cara mia figlia, oh voi che sole d’alcun dolce temprate il molto amaro di mia triste esistenza, egli andrà poco che nell’eterno sonno lagrimando gli occhi miei chiuderete! Ma sia breve per mia cagion il lagrimar: ché nulla, fuor che il vostro dolor, fia che mi gravi nel partirmi da questo troppo ai buoni funesto mortal soggiorno, in cui così forte le gioie e così lunghe vivon le pene; ove per dura prova già non è bello il rimaner, ma bello l’uscirne e far presto tragitto a quello de’ ben vissuti, a cui sospiro. e quivi di te memore, e fatto cigno immortal (che de’ poeti in cielo l’arte è pregio e non colpa), il tuo fedele, adorata mia donna, t’aspetterà cantando, finché tu giunga, le tue lodi; e molto de’ tuoi cari costumi parlerò co’ celesti, e dirò quanta fu verso il miserando tuo consorte la tua pietade: e l’anime beate, di tua virtude innamorate, a Dio pregheranno, che lieti e ognor sereni sieno i tuoi giorni e quelli dei dolci amici che ne fan corona: principalmente i tuoi, mio generoso 116 ospite amato, che verace fede ne fai del detto antico, che ritrova un tesoro chi ritrova un amico. 117 PeR il GioRNo oNoMastico Della sua DoNNa teré, core ’e stu core, anema mia, pecché me guarde e nun me dice niente? Pecché st’uocchie tuoie belle se nfonneno ’e sti llacreme lucente? ’e stu silenzio, ’e chistu chianto, io saccio qual’è ’a raggiona: te turmiente assaie pe’ mme ca moro, e, annascunnuta, chiagne p’ ’a malatia ca me sta cunzumanno. Ma datte forza e ’o core nun fa’ penà; ’o pueta nun more maie; pure si è vicino l’àttemo d’ ’a partenza, nu t’ammalincunì; si ’a lampa ’e chesta vita mia se stuta, nun t’abbelì: ’o nomme ch’io te lasso, stu nomme mio, maie putarrà murì, e tu, fra tutte ’e ffemmene, te può avantà e può dicere: io so’ stata l’unica passïona ’e nu pueta ca me rialaie vita e penziere. e sarrà doce assaie pure ’o ricordo ’e tutte chill’amice ca m’hanno amato, e ne so’ state tante, 118 sincere e affezziunate tuttuquante. Nun chiagnere s’io moro: cchiù se campa, cchiù ’a vita è longa, cchiù s’ha dda patì. teresa, ammore doce, e tu, figlia mia bella, figlia cara, cu ’a tennerezza vosta, cu stu bene, ’a sufferenza amara ’e chesta malatia vuie l’addurmite; io me ne moro, e quanno st’uocchie mieie venite a mme nzerrà. ve prego, prumettiteme ca poco, poco pe’ mme chiagnite, sulo accussì me pozzo alluntanà cuntento ’a chesta terra tanta triste, addò nun dura niente na gioia, mentre durano assaie tiempo affanne e ppene; addò nun è aggrazziato restà, mentre è assaie bello lassarla ampressa e ghî p’ ’e vie d’ ’o cielo ’n miez’a ll’aneme bone. llà, a ’e puete, ognuno lle vo’ bene. llà nun è comme a ccà addò l’arta nosta, pe’ ll’uommene gnurante e mmediuse, nun è cunziderata, e i’ llà, ’n cielo, t’aspetto, tutte ’e vvirtù e ’a buntà toia cantanno, dicenno a ttutte ll’angele quanto fuie cara e tènnera ’a pietà toia pe’ mme, e lloro, ’nnammurate ’e tanta gentilezza, 119 Dio priarranno ca, serenamente, hê a sta’ tu, fino a ll’urdemo, nzieme ’e pperzone ca te vonno bene: e tu , pe’ primma, amico bello e caro, ca dint’ ’a casa toia cu tte me tiene e spieche comm’è giusto ’o ditto antico ca dice: overo trova nu tesoro chi ncopp’ ’a strata soia trova n’amico. 120 ugo foscolo - zante 1778-turnham Green (londra) 1827 Poeta. Trascorsa l’adolescenza a Venezia, aderì con entusiasmo alla Rivoluzione francese, partecipando a diversi fatti d’arme; si susseguivano intanto i suoi amori travolgenti e incostanti. Chiamato alla cattedra d’eloquenza nello Studio di Pavia poté appena tenervi una celebre prolusione. Caduto il Regno Italico, preferì l’esilio alle offerte allettanti fattegli dagli Austriaci. Rifugiatosi in Svizzera e poi in Inghilterra, si dedicò prevalentemente alla critica letteraria. Temperamento per eccellenza romantico, lottò tenacemente per placare il suo tumulto interiore e assoggettarlo ad una misura di armonia classica. La sua arte, dopo lo sfogo autobiografico dell’ortis e dei sonetti e l’ispirazione neoclassica delle odi, assurge alla lirica meditazione nei sepolcri e nelle Grazie. Grande è anche l’importanza del Foscolo critico per il suo gusto dell’individualità creatrice e il senso vivo della storia. 121 alla seRa forse perché della fatal quïete tu sei l’immago, a me sì cara vieni, o sera! e quando ti corteggian liete le nubi estive e i zeffiri sereni, e quando dal nevoso aere inquïete tenebre e lunghe all’universo meni, sempre scendi invocata, e le secrete vie del mio cor soavemente tieni. vagar mi fai co’ miei pensier sull’orme che vanno al Nulla eterno; e intanto fugge questo reo tempo, e van con lui le torme delle cure onde meco egli si strugge; e mentre io guardo la tua pace, dorme quello spirto guerrier ch’entro mi rugge. 122 alla seRa forze pecché a’ cuietùtene d’ ’a morte tu arrassumiglie, me si’ tanta cara sera ca viene. e quanno allera scinne e puorte ’o viento doce d’ ’a staggiona; e quanno, int’ ’a vernata, ’e gelo, d’acqua e d’aria amara e cupa ’a terra astrigne, io sempe tè desidero, t’aspetto, e dint’ ’e braccia toie trovo arreparo. Me puorte cu ’e penziere miee p’ ’e strade ca m’avvicinano all’eternità; e ’o tiempo vola, e pare ca se stracquano ’e ppene ca turmentano stu core, e appena t’appresiente, sera amata tutte ll’affanne ’e ’st’anema s’addormeno. 123 alessandro Manzoni - Milano 1785-1873 Scrittore, poeta. Nella sua biografia spiccano il soggiorno parigino (1805-10), che lo mise in contatto con l’ambiente degli ideologi francesi e col Fauriel, e la conversione al cattolicesimo (1810). Testimonianza più diretta della conversione sono gli inni sacri e le osservazioni sulla morale cattolica, mentre la meditata adesione al Romanticismo portava a maturazione la poetica manzoniana, incentrata sul concetto del «vero» poetico; all’evoluzione di tale poetica si accompagnavano le meditazioni sulla questione della lingua polarizzate intorno alla necessità di abolire il secolare diaframma tra la lingua dei letterati e quella viva del popolo attraverso l’adozione del fiorentino parlato dagli uomini colti. Ma la più alta meditazione del Manzoni si svolge intorno alla storia, direttamente studiata sotto il profilo morale di alcuni saggi (Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in italia, storia della colonna infame, la rivoluzione francese del 1789 e la rivoluzione italiana del 1859), ma soprattutto poeticamente interpretata nelle odi Marzo 1821 e cinque Maggio, nelle tragedie il conte di carmagnola e adelchi e infine nei Promessi sposi ove il Manzoni, dalla pessimistica considerazione della presenza del male nel mondo, dominante nelle opere precedenti, si eleva ad una concezione più ampia e più serena, per cui la sofferenza degli umili si inserisce in un disegno provvidenziale e il contrasto fra il bene e il male si ricompone in una dialettica unità. 124 autoRitRatto capel bruno: alta fronte: occhio loquace: Naso non grande e non soverchio umile: tonda la gota e di color vivace stretto labbro e vermiglio: e bocca esile: lingua or spedita or tarda, e non mai vile, che il ver favella apertamente, o tace. Giovin d’anni e di senno; non audace; Duro di modi, ma di cor gentile. la gloria amo e le selve e il biondo iddio; spregio, non odio mai: m’attristo spesso: Buono al buon, buono al tristo, a me sol rio. a l’ira presto, e più presto al perdono: Poco noto ad altrui, poco a me stesso: Gli uomini e gli anni mi diran chi sono. 125 autoRitRatto capille nire; ll’uocchie ardite; ’o fronte àuto; ’o naso nun è gruosso assaie né piccerillo; ’a faccia tonna e chiara; labbra suttile; ’a vocca delicata; ’a lengua ’e vvote lesta, ’e vvote moscia: parla sincera opùro se sta zitta. Giòvene d’anne e giòvene ’e iudicio; aspro ’e maniere ma gentile ’e core. ’a grolia, ’a sulitudine, ’a poesia io voglio bene; so’ sincero sempe; spisso ’n malincunia; buono cu tutte; cu mme ngrugnato; facile a ’o perdono; poco me sanno; io poco m’accanosco: chi songo ’o ddiciarranno ’a gente e ’o tiempo. 126 Giacomo leopardi - Recanati 1798-Napoli 1837 Poeta. Di ingegno precocissimo, incompreso dai familiari, si acquistò una prodigiosa cultura con studi intensissimi che gli rovinarono la salute. Lasciata Recanati nel 1822, fu a Milano e Bologna e, nel 1827-28, a Firenze, ove entrò in contatto con il circolo culturale dell’Antologia, e a Pisa; ritornato a Recanati nel 1828, visse il periodo più tormentoso della sua esistenza, scrivendo i suoi più grandi idilli; lasciato per sempre il «natio borgo selvaggio», assunse un atteggiamento più combattivo di fronte alla vita e più solidale nei confronti della società (amore per Fanny Targioni Tozzetti, sodalizio con Antonio Ranieri, contatti con i circoli politici napoletani). La poesia leopardiana, dal pessimismo individuale dei primi idilli, attraverso la meditazione delle operette morali, che attribuisce a quel pessimismo portata cosmica, raggiunge la sua più pura e musicale espressione nei grandi idilli, per concludersi nel titanismo eroico dell’ultimo periodo. I canti (41 poesie) furono pubblicati nel 1831; di grande importanza l’epistolario. 127 la seRa Del DÌ Di festa Dolce e chiara è la notte e senza vento, e queta sovra i tetti e in mezzo agli orti posa la luna, e di lontan rivela serena ogni montagna. o donna mia, già tace ogni sentiero, e pei balconi rara traluce la notturna lampa: tu dormi, che t’accolse agevol sonno nelle tue chete stanze; e non ti morde cura nessuna; e già non sai né pensi quanta piaga m’apristi in mezzo al petto. tu dormi: io questo ciel, che sì benigno appare in vista, a salutar m’affaccio, e l’antica natura onnipossente, che mi fece all’affanno – a te la speme nego, mi disse, anche la speme; e d’altro non brillin gli occhi tuoi se non di pianto –. Questo dì fu solenne; or da’ trastulli prendi riposo; e forse ti rimembra in sogno a quanti oggi piacesti, e quanti piacquero a te: non io, non già ch’io speri, al pensier ti ricorro. intanto io chieggo quanto a viver mi resti, e qui per terra mi getto, e grido, e fremo. o giorni orrendi in così verde etate! ahi, per la via odo non lunge il solitario canto dell’artigian, che riede a tarda notte, dopo i sollazzi, al suo povero ostello; e fieramente mi si stringe il core, a pensar come tutto il mondo passa, e quasi orma non lascia. ecco è fuggito 128 il dì festivo, ed al festivo il giorno volgar succede, e se ne porta il tempo ogni umano accidente. or dov’è il suono di que’ popoli antichi? or dov’è il grido de’ nostri avi famosi, e il grande impero di quella Roma, e l’armi, e il fragorio che n’andò per la terra e l’oceàno? tutto è pace e silenzio, e tutto posa il mondo, e più di lor non si ragiona. Nella mia prima età, quando s’aspetta bramosamente il dì festivo, or poscia ch’egli era spento, io doloroso, in veglia, premea le piume; ed alla tarda notte un canto che s’udia per li sentieri lontanando morire a poco a poco, già similmente mi stringeva il core. 129 la seRa Del DÌ Di festa ’a notte è doce e chiara, senza viento, e cujeta ncopp’ ’e titte e int’ ’e ciardine se posa ’a luna, e attuorno attuorno pare serena ogni muntagna. ammore mio, sulagne songo ’e strale e dint’ ’e ccase rare songo ’e llanterne e ’a luce è poca: tu duorme ’n bracci’ ’o suonno ca gentile trasette dint’ ’a stanza; tu nun suoffre nisciuno affanno; né tu saie, né pienze; quanta turmiente me mettiste ’n pietto. tu duorme: io chistu cielo, ca stanotte è accussi bello, e chesta terra antica, ca me rialaie na vita tanta nfama, a salutà m’affaccio: – «a tte ’a speranza te nego – me dicette – ogni speranza; e ll’uocchie tuoie sultanto ’e chianto amaro p’ ’a vita sana sana luciarranno» –. fuie festa aiere; tu t’arrecriaste, mo t’arrepuose; forse dint’ ’e suonne te suonne tu a quant’uommene piaciste e quante ’e chilli llà te ne piacettero: io no, dint’a sti suonne nun ce stongo, ’o ssaccio buono, e po’ manco ce spero. e pe’ ttramente io m’addimanno quanto, quant’ato tiempo aggia campà e suffrì, dint’ ’a disperazione m’abbandono. Quanta tristezza int’a ’sta giuventù. 130 Nu lavurante torna a ttarda notte – doppo ca s’è spassato – a’ casa soia e canta; io sento ’a voce sulitaria e all’intrasatta me s’astregne ’o core penzanno comme tutto cose passa, comme tutto se scorda. ’o iuorno ’e festa passato è già, dimane se fatica: passano, nzieme ’o tiempo, tutte ’e ccose succiese aiere: mo addò stanno ’e vvoce d’ ’e ggente antiche, mo addò sta ’a presenza d’ ’e genie nuoste, ’e Roma, ’e chill’impero ca ’a destinaie patrona ’e terre e ’e mare? tutt’è silenzio e pace, ’o munno dorme, d’aiere quase nun se parla cchiù. Quann’ero guagliunciello, ’o iuorno ’e festa cu tanto desiderio io l’aspettavo, e tanno, tanno, proprio comm’a mmo, ’o canto sulitario ca ’a luntano saglieva ’a miez’ ’a strata int’ ’a nuttata e doppo, malinconico, mureva a ppoco a ppoco, m’astrigneva ’o core. 131 Niccolò tommaseo - sebenico 1802-firenze 1874 Scrittore, poeta e patriota; membro del Governo provvisorio di Venezia subì carcere ed esilio. Ebbe cultura multiforme e ingegno versatile; scrisse moltissimo, sui più svariati argomenti; è famoso soprattutto come lessicografo. La sua narrativa, dominata dal contrasto fra misticismo e sensualità, apre la strada al romanzo psicologico. opere: Dizionario dei sinonimi; Fede e bellezza (romanzo); Canti popolari toscani, corsi, greci, illirici; Poesie; Dizionario della lingua italiana; Diario intimo. 132 caRoNte Perché neri son eglino i monti, e stanno squallidi? o il vento li combatte? o li batte la pioggia? Né il vento li combatte né li batte la pioggia; ma li passa caronte co’ morti. trae i giovani innanzi, i vecchi dietro, e i teneri bambinelli in sulla sella in fila. Pregano i vecchi, e i giovani supplicano: «caronte caro, posa in una terra, posa ad una fresca fonte, che beano acqua i vecchi, e i giovani facciano al disco, e i piccoli bambinelli colgano fiorellini». «Né in paese poso io, né a fresca fonte. vengon le mamme per acqua, e conoscono i lor figliuoli. si conoscono i consorti, e non si dividono più». 133 caRoNte oggi, pecché ’e mmuntagne so’ nere e addulurate? P’ ’o viento ntussecuso? pe’ l’acqua ca ’e tturmenta? Nun è p’ ’o viento e manco pe’ l’acqua d’ ’a tempesta: passa caronte e porta a ccentenare ’e muorte. annanze ’e giuvinotte, arreto viecchie e vvecchie, e ’n quantità ’e nennille, felere senza fine. Pregano ’e viecchie; ’e giuvene scungiurano; è una voce: – «férmate a nu paese, vicino a na surgente: ’e viecchie vonno vévere, ’e giuvene pazzià, ’e ccriaturelle cogliere sciure pe’ mmiez’ ’o pprato» –. – «Né dint’a nu paese, né affianco a na surgente me pozzo io maie fermà. io, si v’accuntentasse, cchiù ’o schianto assummarria: venessero a’ surgente pe’ piglià l’acqua ’e mmamme: vedessero ’e nennille, 134 tutte ’e nennille lloro ’a pochi iuorne muorte, e ’a pena cchiù criscesse pecché ogni mamma ’o figlio suio vularria abbraccià, e nun lassarlo cchiù» –. 135 Giosuè carducci - valdicastello 1835-Bologna 1907 Poeta e critico. Antiromantico, fondò in gioventù il gruppo degli «Amici pedanti», col proposito di reagire al romanticismo languido e sentimentale. In realtà, pervenuto, dopo la polemica giacobina e repubblicana, alla più serena poesia della natura e della storia, fu il continuatore del romanticismo nella sua tendenza realistica, offrendo lo spunto, coi suoi motivi naturalistici e panici, alla poesia successiva di Pascoli e D’Annunzio. Come critico, animò il metodo storico-positivistico col senso vivo dell’arte; e, come docente di letteratura italiana all’Università di Bologna, esercitò un vasto impulso sulle giovani generazioni. Nel 1906, ricevette, primo fra gli scrittori italiani, il premio Nobel. 136 Passa la Nave Mia Passa la nave mia, sola, tra il pianto de gli alcïon, per l’acqua procellosa; e la involge e la batte, e mai non posa, de l’onde il tuon, de i folgori lo schianto. volgono al lido, omai perduto, in tanto le memorie la faccia lacrimosa; e vinte le speranze in faticosa vista s’abbatton sovra il remo infranto. Ma dritto su la poppa il genio mio guarda il cielo ed il mare, e canta forte de’ venti e de le antenne al cigolio: – voghiam, voghiamo, o disperate scorte, al nubiloso porto de l’oblio, a la scogliera bianca de la morte. 137 Passa la Nave Mia Passa ’sta varca mia ’n miez’ ’a tempesta, ’o chianto d’ ’e gguaguine l’accumpagna. ll’onne mpazzute ’a schiantano; ’e ssaette stracciano ’e vvele e nun le danno cujete. Guardano ’arena ll’uocchie mieie chiagnenno: penzano ’e iuorne belle ca so’ muorte, e morta è ogni speranza, ogni ricordo, nzieme a ’sta varca ca nun trova abbiento. Ma ’o core mio resiste a ppoppa, guarda ’o cielo chino d’acqua, ’o mare scuro, e canta, senza l’ombra d’ ’a paura: vucate nzieme a mme, ricorde antiche, vicino è ’o scoglio ca ce sana ’e ppene, vicino è ’o puorto addò truvammo pace. 138 edmondo De amicis - oneglia 1846-Bordighera 1908 Scrittore, poeta, fu per lunghi anni ammirato come la voce più espressiva dell’Italia post-risorgimentale, tipico rappresentante letterario dell’età umbertina, contro cui si scagliava Giosuè Carducci, dei cui strali polemici anche il De Amicis fu bersaglio, in maniera clamorosa. Ufficiale, combattè nel ’66 e assistì poi i colerosi, inviato a Firenze fu chiamato a collaborare alla rivista «Italia militare», per la quale scrisse articoli e bozzetti che piacquero e furono poi riuniti nel volume la vita militare (Milano, 1868). A questo primo volume seguirono le Novelle (Firenze, 1872) e i Ricordi del 187071 (ivi, 1872). Dedicatosi completamente alla letteratura, incoraggiato dal successo di pubblico che non gli venne mai meno, seguitò a pubblicare con ritmo assai serrato opere varie, ma che rientrano tutte in uno stesso genere, moralistico, educativo, didascalico, dal tono briosamente bonario. Questo carattere istruttivo hanno anche i libri di viaggi (spagna, Firenze, 1872; olanda, ivi, 1874; Ricordi di londra, Milano, 1874; Marocco, ivi, 1876; costantinopoli, ivi, 1879; Ricordi di Parigi, ivi 1879), che hanno però tutti una forma aneddotica, non pesantemente didascalica. Fortuna enorme ebbe cuore, libro per i giovani, cui il De Amicis si rivolgeva come a pubblico ideale per le sue finalità pedagogiche. La facile emotività dello scrittore, la sua bontà troppo spesso ingenua, il blando impegno morale fecero di questo libro la lettura ideale di varie generazioni di ragazzi. 139 Mia MaDRe Non sempre il tempo la beltà cancella, o la sfioran le lacrime e gli affanni: mia madre ha sessant’anni, e più la guardo e più mi sembra bella. Non ha un detto od un guardo, un riso, un atto che non mi tocchi dolcemente il core… ah, se fossi pittore! farei tutta la vita il suo ritratto. vorrei ritrarla quando china il viso perché le baci la sua treccia bianca, o quando inferma e stanca nasconde il suo dolor dietro un sorriso. Pur se fosse il mio priego in cielo accolto, non chiederei del gran pittor d’urbino il pennello divino per coronar di gloria il suo bel volto… vorrei poter cangiar vita con vita, darle tutto il vigor degli anni miei, veder me vecchio e lei dal sacrificio mio ringiovanita. 140 Mia MaDRe Niente ha sciupato ’o tiempo, oj vicchiarella, nienie t’hanno lévato chianto e affanne: mo tiene sissant’anne e i’ cchiù te guardo e cchiù me pare bella. songo chist’uocchie tuoie na calamita; tu parle? e ride ’e gioia chistu core. ah, s’io fosse pittore, te faciarria ritratte tutta ’a vita! te pittarria quanno vicina viene e io te vaso chella trezza janca, o quanno triste e stanca c’ ’o pizzo a rriso m’annascunne ’e ppene. Ma si cercà putesse a Dio na cosa nun le cercasse ’e addeventà Raffaello p’arritrattà a ciammiello ’sta faccia toia gentile cchiù ’e na rosa. le cercarria ’e cagnà cu na parola vita cu vita e darte ’a giuventù, vederme io vecchio e tu p’ ’o sacrificio mio turnà figliola. 141 Giovanni Pascoli - san Mauro di Romagna 1855-castelvecchio 1912 Poeta. L’uccisione del padre e gli altri lutti familiari incisero dolorosamente sulla sua vita. Nel 1905 successe al Carducci nella cattedra di letteratura italiana a Bologna. Nella prima raccolta di liriche, Myricae già si rivela chiara la sua ispirazione poetica, frammentaria, musicale, volta alle sensazioni suggestive, impregnata del senso di smarrimento che dà al poeta il mistero inesplorabile della vita. Le altre raccolte sono: Primi poemetti; canti di castelvecchio; Nuovi Poemetti; Poemi conviviali; odi e inni in cui il Pascoli si stacca dall’ispirazione individuale per cantare la patria e tentare un’epica italiana. La stessa ispirazione è nei Poemi del Risorgimento, Poemi italici e canzoni di re enzio. Nei carmina, in latino, celebra gli aspetti più intimi e pensosi della romanità. 142 il sole e la luceRNa i in mezzo ad uno scampanare fioco sorse e batté su taciturne case il sole, e trasse d’ogni vetro il fuoco. c’era ad un vetro tuttavia, rossastro un lumicino. ed ecco il sol lo invase, lo travolse in un gran folgorìo d’astro. e disse, il sole: – atomo fumido! io guardo, e tu fosti. – a lui l’umile fiamma: – Ma questa notte tu non c’eri, o dio; e un malatino vide la sua mamma alla mia luce, fin che tu sei sorto. oh! grande sei, ma non ti vede: e morto! – ii e poi, guizzando appena: – chiedeva te! che tosse! voleva te! che pena! tu ricordavi al cuore suo le farfalle rosse su le ginestre in fiore! io stavo lì da parte…, gli rammentavo sere lunghe di veglia e carte piene di righe nere! stavo velata e trista, per fargli il ben non vista. – 143 il sole e la luceRNa luntano e lento ’o suono d’ ’e ccampane accumpagnava ’o sole ca nasceva: p’ ’e ccase se stutava ogn’ata luce. sultanto ’a luce ’e na lanterna ancora arreto ’e llastre ’e na fenesta steva. ’o sole ’arravugliaie dint’ ’o chiarore e le dicette: – «stùtete, si’ niente!» – a sti pparole ’a povera lanterna scurnosa rispunnette; – «Nu nennillo buono malato, cu ’sta luce mia, stanotte ha visto ’a mamma. tu si’ grande, ma nun te vede; stu nennillo è muorto» –. e po’ cuntinuaie: – «cercava a tte! che tosse! vuleva a tte! che pena! penzannote vedeva vulà pe’ ncopp’ ’e sciure palomme culurate. io stevo ccà, a’ spartata … e ’a ccà l’arricurdavo serate longhe annanze ô libbro, a nu quaterno; a ffarle tantu bene io stevo ccà, a’ spartata, scurnosa, triste, pàllida … e manco me vedeva. 144 Gabriele D’annunzio - Pescara 1863-Gardone 1938 Poeta e scrittore. Condusse vita fastosa e brillante nei salotti romani e nella villa della Capponcina presso Settignano. Partecipò alla vita politica, schierandosi nel 1915 con gli interventisti e prendendo parte alla guerra, poi, anche con imprese audaci e clamorose come la beffa di Buccari e il volo su Vienna; nel 1919 marciò con i legionari su Ronchi e occupò Fiume, restando a capo per un anno della Reggenza italiana del Carnaro. Concepì la vita come attuazione di forza e di bellezza, rappresentando, con il suo estetismo, l’espressione più significativa del decadentismo italiano con larga influenza anche sul costume del tempo. Chiuse la sua vita in una villa presso Gardone trasformata in Vittoriale degli italiani, pieno di cimeli della sua «vita inimitabile». Fu poeta di estrema raffinatezza formale. 145 o GioviNezza o Giovinezza, ahi me, la tua corona su la mia fronte già quasi è sfiorita. Premere sento il peso de la vita, che fu sì lieve, su la fronte prona. Ma l’anima nel cor si fa più buona, come il frutto maturo. umile e ardita, sa piegarsi e resistere; ferita, non geme; assai comprende, assai perdona. Dileguan le tue brevi ultime aurore, o Giovinezza; tacciono le rive poi che il tonante vortice dispare. odo altro suono, vedo altro bagliore. vedo in occhi fraterni ardere vive lacrime, odo fraterni petti ansare. 146 o GioviNezza Muorte so’ tutte ’e suonne ’e chistu core ’nzieme a ’sta giuventù ca se n’è ghiuta; ’sta vita ch’era bella cchiù ’e nu sciore comm’è cagnata, comme s’è ’ngialluta. l’anema mia però tene cchiù ammore; scurnosa ’e vvote, ’e vvote sustenuta; se chiéja ma resiste; p’ ’o dulore nun chiagne; ’ntenne assaie, assaie aiuta. speranze e ssuonne tutte so’ fernute, e io m’accquieto tale e quale a ’o mare quanno ’a tempesta forza cchiù nun tene. iuorne ’e na vita nova so’ venute: chiammo ’e pperzone frate, amice care; sento pe’ lloro cchiù pietà, cchiù bene. 147 umberto saba - trieste 1883-Gorizia 1957 Nato da padre ariano e madre ebrea, ebbe un’adolescenza malinconica. Lasciati presto gli studi, fu alcun tempo mozzo su un bastimento. Più tardi si arruolò volontario in un reggimento italiano di fanteria. Tornato a Trieste, si dedicò al commercio dei libri, aprendo un negozio d’antiquariato librario, che divenne presto luogo di incontro di scrittori triestini e italiani. Dopo la promulgazione delle leggi razziali, visse alcun tempo a Parigi; stette poi nascosto a Roma per tornare a Trieste dopo la Liberazione. Nel 1946 ha avuto il premio Viareggio, nel ’51 quello dell’accademia dei Lincei, nel ’53 la laurea honoris causa dell’Università di Trieste, nel ’57 il premio Marzotto. 148 Da uN colle era d’ottobre; l’ora mattutina di pace empiva di dolcezza il cuore. con me l’aspro sentier della collina saliva, dietro ai buoi, l’agricoltore. Giunto alla vetta, scorsi in un fulgore trieste con le chiese e la marina; e in un boschetto, rossa come un fiore, tra cupe frondi, l’amata casina. Delle squille veniva a me il richiamo. e come all’orizzonte il sol levato faceva i vetri delle case ardenti, d’un pino al tronco m’appressai beato, ne svelsi, come a festa, un verde ramo, e, sospirando, dissi un nome ai vènti. 149 Da uN colle era d’uttombre; l’alba aggraziata enchieva chistu core d’armunia. cu’ mme, p’ ’a stratulella d’ ’a cullina, saglieva, arreto ’e voie, ’o campagnuolo. ’N cimma i’ vedette, int’a na luce ’e fata trieste cu ’a marina e cu ’e cchiesielle; e ’n miez’ ’o vverde, comm’a nu papagno lucente ’e fuoco, ’a casarella mia. M’affatturava ’o suono d’ ’e ccampane. e quanno ’o sole, vivo e allero, ascette facenno d’oro ’e llastre ’e tutte ’e ccase, m’abbicinaie a n’albero, ’ncantato, accarezzaie ’e ffronne delicate e, suspiranno, murmuliaie nu nomme. 150 Guido Gozzano - agliè canavese 1883-1916 Di salute assai cagionevole, riuscì appena a terminare gli studi universitari, laureandosi in giurisprudenza, ma non esercitò mai la professione. Fino dagli anni giovanili, invece, si dedicò con passione alle lettere e alla poesia. Temperamento malinconico e riservato, non si ambientò mai completamente nei circoli culturali e mondani, dove pure riscosse un successo pronto e vivace; ma, preferendo rinchiudersi in se stesso e tornare alle immagini di un mondo più sincero e pulito, anche se più rozzo e limitato, cominciò a mitizzare figure, situazioni e ambienti del suo Canavese piccolo-borghese, e nello stesso tempo a operare una specie di cammino all’indietro verso periodi storici il cui costume fosse più consono ai suoi gusti decisamente intimistici e decadenti: la Torino albertina, il Piemonte solido e vecchiotto dell’Ottocento, magari i fantastici tropici del Paolo e virginia di Bernardin de Saint-Pierre. Questa inclinazione verso le piccole cose di un piccolo mondo borghese, privo di slanci di ideali, di passioni, non è, del resto, che il contrappeso di una reale impossibilità d’amare e di sentirsi vivo, simile agli altri: chiuso in una incomunicabilità, che le numerose esperienze d’amore non faranno che rendere sempre più evidente agli occhi del poeta stesso, egli non sa trovare scampo che in quest’angolo di nostalgia malinconica e di rimpianto sottile. 151 la MoRte Del caRDelliNo chi pur ieri cantava, tutto spocchia, e saltellava, caro a tita, è morto. tita singhiozza forte in mezzo all’orto e gli risponde il grillo e la ranocchia. la nonna s’alza e lascia la conocchia per consolare il nipotino smorto: invano! tita, che non sa conforto, guarda la salma sulle sue ginocchia. Poi, con le mani, nella zolla rossa scava il sepolcro piccolo, tra un nimbo d’asfodeli di menta e lupinella. Ben io vorrei sentire sulla fossa della mia pace il pianto di quel bimbo. Piccolo morto, la tua morte è bella! 152 la MoRte Del caRDelliNo chillu cardillo che cantava aiere, e zumpettiava alleramente, è muorto. chiagne nu piccerillo dint’a ll’uorto lacreme chiene ’e lutto e ’e despiacere. ’a nonna, cu ’e ccarezze soie sincere, curaggio dà a ’o nennillo, ’o dà cunforto, ma ’o nepusciello, pallido ’e scunforto, chiagne ’o cumpagno d’ ’e mumente allere. Doppo, cu ’e mmane, ’n miez’ ’a terra rossa tutta fiurita, scava cu attenzione e atterra l’aucelluzzo cu ’a manella. comme senti’ vurrïa ncopp’ ’a fossa d’ ’a pace mia ’o chianto ’e stu guaglione. cardillo mio, ’a morte toia è bella. 153 sergio corazzini - Roma 1887-1907 Poeta. Fra il 1905 e il 1906 pubblicò con alcuni amici (F. M. Martini, C. Covoni, Vannicola, ecc.) la rivista «Cronache latine», fra le prime espressioni di quello stato d’animo che fu definito in seguito «crepuscolare». Le sue poesie, pubblicate originariamente in opuscoli, furono raccolte dopo la morte in un volume curato dagli amici e poi ristampato più volte. È visibile in esse l’influenza di Giovanni Pascoli e Gabriele D’Annunzio, ma soprattutto quella del decadentismo francese e belga. Il tema elegiaco del «piccolo fanciullo che piange», del «dolce fanciullo dimenticato da tutti gli umani», costituisce il nucleo della poesia del Corazzini, che possiede una sua gracile eppure affascinante personalità. 154 DesolazioNe Del PoveRo Poeta seNtiMeNtale i Perché tu mi dici: poeta? io non sono un poeta. io non sono che un piccolo fanciullo che piange. vedi: non ho che le lagrime da offrire al silenzio. Perché tu mi dici: Poeta? ii le mie tristezze sono povere tristezze comuni. le mie gioie furono semplici, semplici, così che se io dovessi confessarle a te arrossirei. oggi io penso a morire. iii io voglio morire, solamente perché sono stanco; solamente perché i grandi angioli su le vetrate delle cattedrali mi fanno tremare d’amore e di angoscia; solamente perché io sono, oramai, rassegnato come uno specchio, come un povero specchio [melanconico. vedi che io non sono un poeta: sono un fanciullo triste che ha voglia di morire. iv oh, non maravigliarti della mia tristezza. e non domandarmi; 155 io non saprei dirti che parole così vane, Dio mio, così vane, che mi verrebbe di piangere come se fossi per morire. le mie lagrime avrebbero l’aria di sgranare un rosario di tristezza davanti alla mia anima sette volte dolente, ma io non sarei un poeta; sarei, semplicemente, un dolce e pensoso fanciullo cui avvenisse di pregare, così, come canta e come dorme. v io mi comunico del silenzio, cotidianamente come di Gesù. e i sacerdoti del silenzio sono i romori, poi che senza di essi io non avrei cercato e trovato il Dio. vi Questa notte ha dormito con le mani in croce. Mi sembrò di essere un piccolo e dolce fanciullo dimenticato da tutti gli umani, povera tenera preda del primo venuto; e desiderai di essere venduto, di essere battuto, di essere costretto a digiunare per potermi mettere a piangere tutto solo, disperatamente triste, in un angolo oscuro. vii io amo la vita semplice delle cose. Quante passioni vidi sfogliarsi, a poco a poco, per ogni cosa che se ne andava! 156 Ma tu non mi comprendi e sorridi, e pensi che io sia malato. viii oh, io sono, veramente malato! e muoio, un poco, ogni giorno. vedi: come le cose. Non sono, dunque, un poeta; io so che per esser detto poeta, conviene viver ben altra vita! io non so, Dio mio, che morire. amen. 157 DesolazioNe Del PoveRo Poeta seNtiMeNtale i Pecché tu me chiamme: pueta? io nun so’ nu pueta. so’ sultanto nu povero nennillo che chiagne. Guarda: sultanto lacreme io rialo a ’o silenzio. Pecché tu me chiamme: Pueta? ii tutte ’e ttristezze mie so’ tale e quale a ll’ate. ’e gioie mie so’ state poca cosa, tanto ca nun ce tengo nemmeno a t’ ’e cuntà. oggi io penzo sulo a’ morte. iii voglio murì, sulo pecché so’ stanco, stanco assaie; sultanto pecché ll’angele ca stanno arritrattate ncopp’ ’e llastre d’ ’e cchiesie belle me fanno tremmà d’ammore, ’e paura; sulamente pecché oramaie io songo rassignato 158 comm’a nu specchio, comm’a nu poveru specchio malinconico. ’o vvi’ ca io nun songo nu pueta: so’ nu nennillo triste ca ve’ murì. iv No, ’e ’sta’afflezíone mia, nun te maraviglià. e nun spiarme niente; io te dicesse sulo cose sceme, ah, Dio! accussì sceme ca me mettesse a chiagnere quase come si stesse pe’ murì. sti llacreme dicessero tutte ’e turmiente mie a st’anema già tanto afflitta e cupa, ma i’ nun sarria nu pueta; sarria sultanto nu nennillo buono e appecundruso ch’abbiasse a prià, accussì, sinceramente comme sinceramente canta e dorme. v campo ’e silenzio, sempe; e stu silenzio è ’a cummuníone mia ’e tutte ’e mmatine. e ’e ccose belle d’ ’o silenzio songo ’e vvoce, ’e suone, ’e palpite d’ ’a vita: io senza ’e lloro nun avarria cercato, nun avarria truvato a Dio. 159 vi stanotte aggio durmuto cu ’e mmane ’n croce. Parevo un nennillo delicato, scurdato ’a tutte lluommene, pronto p’addeventà l’urdemo schiavo d’ ’o primmo ca veneva; che desiderio d’essere vennuto, maletrattato, custretto a sta’ diuno, e chiagnere, chino ’e tristezza, chino ’e disperazione, sulo, int’a nu pizzo scuro. vii io voglio bene sulo ’e ccose semplice. Murì aggio visto tanta desiderie, a ppoco a ppoco, pe’ bbia d’ogni cosa ca mureva! Ma tu, tu nun me ’ntienne, e ride, e pienze ch’io so’ nu malato. viii i’ songo, ahimmé, malato overamente! iuorno pe’ ghiurno, a ppoco a ppoco, io moro. Guarda: comm’ogni cosa more. Pe’ chesto io no, nun songo nu pueta; io saccio ca ’o pueta ’a vita ’a vo’ campà! Mentr’io nun cerco ca nu suonno ’e morte. accusì sia. 160 vincenzo cardarelli - corneto tarquinia (viterbo) 1887Roma 1959 Nato in terra etrusca, Cardarelli amerà sottolineare più volte nella sua opera questa origine e i caratteri che, secondo lui, glie ne sarebbero derivati: purezza, dignità, sensibilità, gusto, macerati e assimilati attraverso il tempo nello spirito di un popolo civile e forte; e paesaggi, figure, personaggi della terra natale torneranno assai frequentemente nelle sue opere. Modello ideale del Cardarelli fu il Leopardi, che tuttavia egli ammirò e seguì soprattutto come maestro di stile e di eloquenza, svuotandolo quindi della sua carica di pensiero e di ideologia. Dietro questa esigenza classicistica – che non era del resto priva di buone ragioni se si pensi a certi sviluppi assurdamente involutivi della letteratura italiana nel primo quindicennio del secolo – si nascondeva però una concezione della letteratura e del letterato pericolosamente schiva e tradizionalista. 161 ottoBRe un tempo, era d’estate, era a quel fuoco, a quegli ardori, che si destava la mia fantasia. inclino adesso all’autunno dal colore che inebria, amo la stanca stagione che ha già vendemmiato. Niente più mi somiglia, nulla più mi consola, di quest’aria che odora di mosto e di vino, di questo vecchio sole ottobrino che splende sulle vigne saccheggiate. sole d’autunno inatteso, che splendi come in un di là, con tenera perdizione e vagabonda felicità, tu ci trovi fiaccati; vòlti al peggio e la morte nell’anima. ecco perché ci piaci, vago sole superstite che non sai dirci addio, tornando ogni mattina come un nuovo miracolo, tanto più bello quanto più t’inoltri e sei lì per spirare. e di queste incredibili giornate vai componendo la tua stagione ch’è tutta una dolcissima agonia. 162 ottoBRe Na vota, era d’està era vecin’ ’e llengue ’e chellu ffuoco ca se scetava chesta fantasia. Mo me ne vaco verzo l’autunno e me mbriaco dint’a sti culure, voglio bene a ’sta vecchia staggiona ca già ha vennegnato. Niente cchiù m’arrassumiglia, niente cchiù me cunzola, ’e chest’aria ch’addora ’e vino nuovo ’e chist’antico sole d’uttombre ca luce ncopp’ ’e vvigne sacchïate. sole d’autunno asciuto all’intrasatta, ca luce quase comme nun fusse ’e chistu munno, stanche ce truove cu na felicità ca nun se ferma, cu ’a morte dint’a ll’anema. Pe’ chesto tu ce piace, sole liggiero ca nun saie dirce addio, turnanno ogni matina comm’a nu miràculo nuovo, tanto cchiù bello quanno cchiù t’abbicin’ ’o tramonto. e ’e sti jurnate chiene ’e maraviglia inche ’a staggiona toia ca è tutta na ducezza malinconica. 163 Giuseppe ungaretti - alessandria d’egitto 1888-Milano 1970 Poeta ermetico. Movendo dal simbolismo francese, la sua poesia esprime inizialmente la pena derivante da una solitudine senza rimedio in versi di scabra e rarefatta liricità (il porto sepolto, 1916; allegria di naufragi, 1919). Attraverso lo studio di Petrarca e Leopardi e le traduzioni da poeti stranieri, il linguaggio di Ungaretti si fa quindi più disteso e meditativo (sentimento del tempo, 1933) per ripiegarsi ulteriormente su motivi autobiografici ( il dolore, 1947; un grido e paesaggi, 1952) e approdare a una più pacata e mitica poesia della memoria (la terra promessa, 1950; il taccuino del vecchio, 1960). 164 la MaDRe e il cuore quando d’un ultimo battito avrà fatto cadere il muro d’ombra, per condurmi, Madre, sino al signore, come una volta mi darai la mano. in ginocchio, decisa sarai una statua davanti all’eterno, come già ti vedeva quando eri ancora in vita. alzerai tremante le vecchie braccia, come quando spirasti dicendo: – Mio Dio, eccomi. e solo quando m’avrà perdonato, ti verrà desiderio di guardarmi. Ricorderai di avermi atteso tanto, e avrai negli occhi un rapido sospiro. 165 la MaDRe Quanno l’urdemo pàlpito ’e stu core farrà cadé chella muntagna d’ombra pe’ me purtà nnanz’ ’o signore, mamma, comm’a na vota me darraie ’a mano. addenucchiata, sicura ’e tè, na statua sarraie nnanz’a Dio, proprio comm’io te vedevo allora quann’ire ancora viva. aizarraie tremmanno ’e bbraccia stanche, comme quanno muriste dicenno: – Dio, sto’ ccà –. e sulo quanno me perdunarrà ’e me guardà te venarrà ’o gulio. Ricurdarraie d’avé aspettato tanto stu mumento, e ll’uocchie tuoie luciarranno ’e gioia. 166 umberto Galeota - Napoli 1892-1975 Umberto Galeota – scriveva Vincenzo Perna su la «Palestra» (n. 2 - 1967) – è uno degli artisti napoletani che per tutta una vita è stato (e lo è ancora validamente) sulla breccia, lavorando intensamente a cose di prosa o di poesia e a studi critici con una onestà e una chiarezza rare. Un uomo che è stato sempre in prima linea e, quando è capitato, ha pagato di persona, senza peraltro lasciarsi corrompere da vantaggiosi compromessi o dall’astio, ma rispondendo alle ingiurie con l’aiutare i giovani scrittori e poeti partenopei, i quali tutti – prima o dopo – sono passati per la sua casa all’Arenella. Quindi, a ragione, lo si può considerare il decano, se non il maestro degli scrittori napoletani, io che ho avuto più di un’occasione di incontrarlo e di conversare con lui, posso dire che Galeota è fra gli uomini più interessanti della cultura napoletana: e non solo perché è uno dei superstiti della grande stagione napoletana del primo Novecento, ma anche perché dimostra una straordinaria vitalità nel seguire e verificare le situazioni artistiche più recenti. E d’altronde, chiunque lo ha ascoltato, non potrà non ricordare il suo pungente humour di verace napoletano e di intelligente uomo di cultura; come non potrà non riconoscergli, chiunque lo abbia appena frequentato, una suprema bontà e comprensione verso i giovani, e apprezzare i suoi giudizi netti e caustici sul presente o il vivace ricordare del passato. Pubblicazioni: Il Poema della Terza Armata, 1928; Inno a Napoli, 1932; La sete, 1933; Colloqui con mia madre, 1936; Preghiera per Giacomo Leopardi, 1937; I Canti della Vittoria, 1938; Il Poema di Lerò, 1952; Poesia del Porto di Napoli, 1958; Poesia dell’Italia Unita, 1961; La Processione del SS. Sacramento, 1964; Poesie, 1966; L’Angelo del Silenzio, 1970. 167 ecco il vesuvio ecco il vesuvio: ardente blocco bronzeo che in sé cova la forza del tuo fuoco, o terra Madre! e innalza sopra il verde dei tuoi giardini garruli di nidi e sul tuo mare carico di vele il segno della sua vana minaccia. ed or l’ammanta nuvola cinerea ed ora l’alba gli tesse il suo velo di rose e d’oro ed or l’irraggia sfolgorante il sole. Ma bello è più quando a corona stanno sul suo respiro gli astri immacolati, e profumano i pini le sue balze e tra le forre si lamenta il chiù. se da lungi lo miro, in tutte l’ore, Napoli, questo tuo custode ignito, che pulsa negli ascosi vortici azzurri delle fiamme arcane, penso al vano girare dei millennii, ed al cinereo ingombro, anch’esso vano, delle, sue lave immobili di pietra, mentre mi ride in cuore la festa dei villaggi incoronati di viti che ne cerchiano la balza, e par che il segno delle sue rovine dica alla Morte d’essere immortale in tanta eccelsa volontà di vita. 168 ecco il vesuvio ’o î ccà ’o vesuvio: ’sta muntagna ’e brunzo ca dinto tene tutt’ ’o ffuoco tuio, terra napulitana! e aiza ’ncopp’ ’o vverde d’ ’e ciardine càrreche ’e nide e ’ncopp’ ’o mare arricamato ’e vele tutta l’arraggia soia ca maie te farrà male. e mmo ’arravoglia ’a nuvola cchiù nera e mmo ’accarezza l’alba cu nu velo ’e rose e d’oro e mmo s’ ’o vasa ’o sole ’o cchiù lucente. Però quant’è cchiù bello quanno ’e stelle le fanno na curona attuorno ’o sciato, quanno ll’albere ’e pigne prufumano ’e ccampagne e ’a miez’ ’e ffronne fa sentì ’o lamiento nu paparascianne. Napule, quann’io guardo ’a luntano chistu gigante ardente ca palpita int’a cciento lengue ’e fuoco penzo tutte ’e mistere d’ ’e sècule, d’ ’a vita, pe’ ttramente dint’a stu core me ride ’a festa d’ ’e paisielle attuorno e pare ch’ogni cosa è vera, è viva e allucca ’nifacci’ ’a morte: io maie nun moro. 169 salvatore Quasimodo - Modica (Ragusa) 1901-Napoli 1968 La sua prima produzione, nel quadro dell’ermetismo, fu caratterizzata dalla sensuale evocazione d’una Sicilia mitica e primordiale, sfondo di una esistenza già vissuta come stato perfetto e ricuperata nella memoria (acque e terre, 1930; oboe sommesso, 1932; erato e apollion, 1936; Poesie, 1938; ed è subito sera, 1942). Dagli anni della Seconda guerra mondiale e della Resistenza, la poesia di Quasimodo ha subito una lenta ma costante evoluzione verso una ricerca di valori storico-sociali come risposta alle angosce e alle speranze del tempo (Giorno dopo giorno, 1947; la vita non è sogno, 1949; il falso e vero verde, 1953). A tale poesia dell’«ingegno» è subentrata nella produzione più recente (la terra impareggiabile, 1958; Dare e avere, 1966) una nuova ricerca d’interiorità come reazione alle delusioni della storia. Quasimodo ha svolto un’opera notevole di traduttore di poeti greci (lirici greci, 1940) e latini e dall’inglese (Shakespeare). Nel 1959 Quasimodo fu Premo Nobel. 170 alle fRoNDe Dei salici e come potevamo noi cantare con il piede straniero sopra il cuore, fra i morti abbandonati nelle piazze sull’erba dura di ghiaccio, al lamento d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero della madre che andava incontro al figlio crocifisso sul palo del telegrafo? alle fronde dei sàlici, per vóto, anche le nostre cetre erano appese, oscillavano lievi al triste vento. 171 alle fRoNDe Dei salici e comme nuie putevemo cantà cu ’o père d’ ’o straniero ncopp’ ’o core, fra ’e muorte abbandunate ’n miez’ ’e strade ’ncopp’a ll’èvera ’e gelo, c’ ’o lamiento nnucente d’ ’e nennille, c’ ’o turmiento d’ ’a mamma ca curreva verz’ ’o figlio ’nchiuvato ’n croce a ’o palo d’ ’o telegrafo? Ncopp’ ’e rame d’ ’e sàlice, pe’ llutto, steveno appese pure ’e vvoce noste, ’o viento, triste, chiano ’e cunnuliava. 172 sandro Penna - Perugia 1906-Roma 1976 Poeta. Dopo aver trascorso la giovinezza a Milano, si trasferì a Roma. Estraneo alle correnti e ai circoli letterari e libero da qualsiasi vincolo professionale. La sua poesia è stata avvicinata da alcuni critici ai frammenti degli antichi lirici greci. Penna è riuscito a ricreare con i suoi versi una delle condizioni fondamentali della «classicità»: l’assoluta, infallibile naturalezza del ritmo e dell’immagine. Ma dietro tanta perfezione e trasparenza non è difficile indovinare una parte, dolorosa e insondabile, di mistero, il racconto di un’esperienza umana segnata da una struggente vocazione alll’estraneità e tuttavia resa luminosa da una quasi mistica capacità di letizia. Nel 1957 ha vinto il premio Viareggio. Il suo primo libro di versi è del 1939. La raccolta completa di tutte le poesie è stata pubblicata da Garzanti nel 1970, mentre le sue prose sono uscite, sempre presso Garzanti, nel 1973 con il titolo un po’ di febbre. 173 RiDe su Me la PRiMaveRa. toRNaNo Ride su me la primavera. tornano le rondini, si sa. volano via via le parole degli amici stolti. Ritornano, per me, ora le antiche parole dell’amore. in te, fanciullo, splendono. Giuocano nei tuoi passi incerti. Ma certa in me cammina solitaria e tranquilla la felicità. 174 RiDe su Me la PRiMaveRa. toRNaNo spanne surrise attuorno ’a primmavera. ’e rrundinelle tornano, se sape. a ppoco a’ vota volano luntano tutte ’e pparole d’ ’e cumpagne nzìpete. e tornano pe’ mme ’e pparole antiche d’ammore. Dint’a ll’uocchie tuoie, guaglione, lùceno. Dint’ ’e passe tuoie mbriache pazzeano. Ma sicura cammina nzieme a mme ’a felicità sulagna e cujeta. 175 cesare Pavese - santo stefano Belbo (cuneo) 1908-torino 1950 Narratore, saggista, poeta. Nel 1936 pubblicò lavorare stanca, in cui, in polemica con l’ermetismo, tentò di realizzare una forma nuova di poesia-racconto. Nel 1935 fu arrestato per antifascismo, e l’esperienza di un anno di confino si rispecchiò nel racconto il carcere. Nel primo romanzo. Paesi tuoi (1941), per la prima volta Pavese presentò, sia pure in termini ancora grezzi, la trasposizione a un paesaggio italiano della tecnica narrativa americana, che egli contribuì, anche con la sua opera di traduttore, a far meglio conoscere in Italia. Durante la guerra Pavese scrisse il racconto, fra i migliori, la casa in collina, in cui trovò voce un momento di crisi e di solitudine, superato alla fine del conflitto mondiale, quando una rinnovata spinta sociale lo portò a iscriversi al partito comunista, a collaborare a vari giornali, a scrivere saggi. Nel 1946 pubblicò feria d’agosto; nel 1947 il compagno e i Dialoghi con leucò, rielaborazione problematica di miti classici; nel 1949 la bella estate. L’ultimo romanzo. la luna e i falò (1950), imperniato sul dissidio tra l’amara esperienza cittadina e la nostalgia struggente della campagna, è considerato il suo capolavoro; ad esso seguì, postuma, la raccolta di racconti Notte di festa (1953). Morì suicida. Nella raccolta di liriche verrà la morte e avrà i tuoi occhi, nel diario il mestiere di vivere e nelle lettere 1945-1950 (1966) restano i segni evidenti della sua fermentata vicenda di uomo e di scrittore: una delle figure chiave della letteratura italiana del dopoguerra. 176 tu sei coMe uNa teRRa tu sei come una terra che nessuno ha mai detto. tu non attendi nulla se non la parola che sgorgherà dal fondo come un frutto tra i rami. c’è un vento che ti giunge. cose secche e rimorte t’ingombrano e vanno nel vento. Membra e parole antiche. tu tremi nell’estate. 177 tu sei coMe uNa teRRa tu si’ comm’a na terra ca maie nisciuno ha annummenato. tu nun aspiette niente ’a for’ ’e sentimente ca schiupparranno ’a dint’ ’o ffuto ’e ll’ànema comm’a nu frutto ’n miez’ ’e ffronne ’e ll’albere. ce sta nu viento lieggio ca le parla. Penziere senza vita te scócciano e camminano int’ ’o viento. carne e penziere stanche. tu triemme int’a ll’està. 178 alfonso Gatto - salerno 1909-capalbio (orbetello) 1976 Nato da una famiglia di marinai e armatori, si iscrisse all’università nel 1926, ma non portò a termine gli studi. Fece diversi mestieri, indirizzandosi poi decisamente verso il giornalismo. Fu collaboratore dell’«Ambrosiano», poi, dopo la Resistenza cui partecipò attivamente, direttore di «Settimana», condirettore di «Milano-sera», inviato speciale dell’«Unità». Un’esperienza per lui molto importante fu quella di «Campo di Marte», il periodico letterario e culturale fiorentino, che egli diresse fra il 1938 e il 1939 insieme con V. Pratolini. I suoi interessi particolari convergevano sulla poesia. Formatosi in un ambiente decisamente ermetico, Gatto ha portato fin dall’inizio della sua opera un atteggiamento d’inquietudine e di ricerca, che è forse il segno più evidente della sua personalità. Il proposito di aderire in forme immediate e drammatiche ai problemi umani della realtà contemporanea è sempre presente in lui, e raggiunge il suo culmine proprio nei versi dedicati ai dolori e ai drammi della Resistenza nella raccolta la storia delle vittime, per cui ottenne il Premio Viareggio 1966. Ha pubblicato: Isola, 1932; Morto ai paesi, 1937; Poesie, 2939; La sposa bambina, 1943; Il duello, 1944; Amore della vita, 1944; La spiaggia dei poveri, 1944; Il sigaro di fuoco, 1945; Il capo sulla neve, 1949; La coda di paglia, 1949; Nuove Poesie, 1950; La forza degli occhi, 1954; La madre e la morte, 1959; Poesie 192941, 1961; Osteria flegrea, 1962; Il vaporetto, 1963; Rime di viaggio per la terra dipinta, 1969; Poesie d’amore, 1973. 179 il PuPo sul declivio del prato una fanciulla soffia sui pappi d’aria e del suo gioco triste è delusa come di un contento svanito in nulla. tutto il cielo è in cammino, fila un vento silenzioso di nuvole, un trasloco di spazi sembra, dalla luce a un cupo smeraldo di maremma. tu rimani così al tuo dilemma «m’ama-non m’ama-m’ama», col bottone che gira tra le dita: gli occhi fissi sul giallo di quel pupo improvvisato reciti la vita, di spalle come a dartene ragione. 180 il PuPo Ncopp’ ’o vverde d’ ’o pprato na figliola sfronna c’ ’o sciato ’e sciure e ’e chistu iuoco triste è scuntenta comme ’e n’allerezza ca s’è perduta. cammina ’o cielo tuttuquanto, scioscia nu viento muto ’e nuvole, me pare nu quatto ’e maggio, da ’o chiarore ’nfi’ a nu scurore futo. Rieste accussì spianno «me penza-nun me penza», e avuote ’o sciore sfrunnato ’n miez’ ’e ddeta: tenenno mente chillu pupo nato all’intrasatta tu cumbine ’a recita, annascunnuta quase pe’ te da’ ’e chesta vita toia na raggiona. 181 vittorio Bodini - Bari 1914-Roma 1970 Le sue prime poesie sono state pubblicate dalla rivista «Letteratura». Ha cambiato paesi e mestieri. Dal 1946 al 1950 ha fatto prima il lettore poi l’antiquario a Madrid ed è stato poi insegnante di letteratura spagnola all’Università di Bari fino alla morte. Del 1952 è il suo primo libretto, la luna dei Borboni. Dal 1954 al 1956 ha diretto «L’Esperienza poetica», rivista che fece il punto sulla situazione della poesia e della critica del dopoguerra. Nel 1956, con Dopo la luna, ha vinto il premio Carducci. Vittorio Bodini è stato uno dei più apprezzati interpreti della letteratura ispanica nel nostro paese: ha tradotto, tra l’altro, il teatro di Garcia Lorca, il Don chisciotte, i poeti surrealisti spagnoli, le poesie di Pedro Salinas e quelle di Rafael Alberti. Poesie (1972) edito da Mondadori nella collezione lo specchio può essere considerato la summa del lavoro poetico di Vittorio Bodini, e racchiude un’opera che va dal 1959 al 1970. 182 coNosco aPPeNa le MaNi conosco appena le mani, le scarpe che metto ai piedi. conosco il giorno e la notte e i terrori del vento. Ma gli anni? Dove son gli anni, e tutti i libri che ho letto? i volti amati si sfrondano delle loro vicende, non restano che i nomi. tutto nella memoria cade a pezzi, sprofonda senza rumore nelle botole dei morti. ah, dove son le acute presenze del passato, le sue calde forme, la cera su cui incidevano i miei sentimenti? Dove si nasconde il senso delle cose che ho vissuto, e i brividi lucenti e i cieli dell’avventura? 183 coNosco aPPeNa le MaNi canosco a stiento ’e mmane, ’e scarpe ca me metto a ’e piere. canosco ’o iuorno e ’a notte e ’o schianto d’ ’o viento. Ma ll’anne? addò stanno ll’anne, e ttutte ’e libbre ch’aggio liggiuto? ’e ffacce ch’aggio vuluto bene se sfrónnano ’e tutto ’o ppassato lloro, rummàneno sulo ’e nomme. tutto dint’ ’e ricorde se sfrantumma, sprufonna senz’ammuina dint’ ’e ffosse d’ ’e muorte. ahimmé, addò stanno tutte ’e ccose vive d’ ’o ppassato, tutto ’o calore suio, ’a speranza addò se cunnuliavano ’e sentimente mieie? addò s’annasconne ’a raggione d’ ’e ccose ca i’ aggio campato, e ’e pàlpite smaniuse e ’e ccarezze d’ ’e suonne? 184 Pier Paolo Pasolini - Bologna 1922-Roma 1976 Nella sua intensa vita intelletuale, Pasolini si è sperimentato in diverse direzioni: la letteratura, gli studi critici e filologici, la regia cinematografica, il giornalismo, l’analisi sociologica, conservando sempre una grande coerenza di impegno sociale e civile. Nelle sue opere si riconoscono spesso due luoghi: Casarsa, in Friuli, la terra di sua madre e della sua infanzia e adolescenza, e Roma, la città adottata per il lavoro. Al primo, sono legati i ricordi contadini e le poesie in friulano, e le ricerche che lo hanno portato a scoprire in quel dialetto dignità di lingua; al secondo, il periodo più intenso delle sue esperienze di poeta, di saggista, di regista, di sociologo. È da questo momento che egli rivolge il suo interesse al sottoproletariato urbano nei confronti del quale egli si è posto in modo contraddittorio in un rapporto di amore-odio, ora esaltandone la spontaneità espressiva e la vitalità, ora finendo col denunciarne il conformismo consumistico che lo ha reso ottuso e brutale. Nell’ambito di questa sfera di interessi, in sintonia con le sue scelte politiche, si può collocare anche la vasta ed acuta opera di ricerca svolta sulla poesia popolare. Nelle opere poetiche come in quelle cinematografiche, Pasolini ha dimostrato un rigore di impegno critico che si accompagna ad un singolare talento creativo e ad una complessa problematica. 185 il ceNtRo Del MoNDo Povero come un gatto del colosseo, vivevo in una borgata tutta calce e polverone, lontano dalla città e dalla campagna stretto ogni giorno in un autobus rantolante: e ogni andata, ogni ritorno, era un calvario di sudore e di ansie. lunghe camminate in una calda caligine, lunghi crepuscoli davanti alle carte ammucchiate sul tavolo, tra strade di fango, muriccioli, casette bagnate di calce e senza infissi, con tende per porte … Passavano l’olivaio, lo straccivendolo, venendo da qualche altra borgata, con l’impolverata merce che pareva frutto di furto, e una faccia crudele di giovani invecchiati tra i vizi di chi ha una madre dura e affamata … un’anima in me, che non era solo mia, una piccola anima in quel mondo sconfinato, cresceva, nutrita dall’allegria di chi amava, anche se non riamato. e tutto si illuminava, a questo amore forse ancora di ragazzo, eroicamente, 186 e però maturato dall’esperienza che nasceva ai piedi della storia. ero al centro del mondo, in quel mondo di borgate tristi, beduine, di gialle praterie sfregate da un vento sempre senza pace, venisse dal caldo mare di fiumicino, o dall’agro, dove si perdeva la città fra i tuguri; in quel mondo che poteva soltanto dominare, quadrato spettro giallognolo nella giallognola foschia, bucato da mille file uguali di finestre sbarrate, il Penitenziario tra vecchi campi – sopiti casali. le cartacce e la polvere che cieco il venticello trascinava qua e là, le povere voci senza eco di donnette venute dai monti sabini, dall’adriatico, e qua accampate, ormai con torme di deperiti e duri ragazzini, stridenti nelle canottiere a pezzi, nei grigi, bruciati calzoncini, i soli africani, le piogge agitate che rendevano torrenti di fango le strade, gli autobus ai capolinea 187 affondati nel loro angolo tra un’ultima striscia d’erba bianca e qualche acido, ardente immondezzaio … era il centro del mondo, com’era al centro della storia il mio amore per esso: e in questa maturità che per essere nascente era ancora amore, tutto era per divenire chiaro – era, chiaro! Quel borgo nudo al vento, non romano, non meridionale, non operaio, era la vita nella sua luce più attuale: vita, e luce della vita, piena nel caos non ancora proletario … 188 il ceNtRo Del MoNDo Povero comm’a nu muscillo abbandunato campavo dint’a na barracca sfravecata luntano d’ ’a città e d’ ’a campagna, stritto ogni ghiuorno dint’a n’autobbusse scancariato: e ogni ghiuta, ogni benuta, era nu turmiento ’e surore, n’apprietto ’e core. cammenate longhe scamazzato d’ ’o calore, iurnate sane nnanz’ ’e ccarte ammuntunate ncopp’a na tàvula ’n miez’ ’e strate ’e lota, casarelle ’nfose ’e càuce e senza porte, cu na tenna pe’ porta … Passava ’o verdummaro, ’o sapunaro, venenno ’a ati barracche, cu ’a mercanzia tutta chiena ’e pòvere ca pareva rrobba arrubbata, e na faccia ncarugnuta d’ ’e guagliune viecchie p’ ’e vizie ’e chi tene na mamma senza maniere e morta ’e famme … N’anema dint’a mme, ca nun era sulo ’a mia, n’anema piccerella dint’a cchillu munno senza fine, crisceva mangianno l’allerezza ’e chi vuleva bene pure si nun era vuluto bene. e tutto luceva nnanz’a st’ammore forse ancora ’e guaglione, chino ’e curaggio, 189 e tutto s’ammaturava p’ ’a canuscenza ca nasceva a ’e piede d’ ’a storia. io stevo ’n miez’ ’o munno, chillu munno ’e barracche triste, senza speranze, ’e campagne fatte ’e streppune e sfruculiate ’a nu viento sempe senza pace, ’a quala parte veneva, o da ’o mare o da ’a terra addò se perdeva ’a città fra ’e ccasùppule; ’n miez’a cchillu munno ca puteva sultanto cummannà, fantasma sculurito int’a na neglia ’ngialluta, spertusato ’a mille felere eguale ’e feneste spaparanzate, ’o carcere fra campagne spugliate – casarelle addurmute. ’e ccarte vecchie e ’a pòvere ca ’o viento cecato strascenava ’a ccà e ’a llà, ’e vvoce abbrucate e senza risposta d’ ’e ffemmene venute da ’e cculline attuorno, accampate ccà oramaie cu na carretta ’e figlie malaticce e mmalandrine ch’alluccaveno int’ ’e ccammeselle stracciate, dint’ ’e cazuncielle spuorche, abbruciate, ’o sole ca stupetiava, ’o cchiovere a llavarone ca criava sciumme ’e lota p’ ’e strade, ll’autobbusse a ’o stazziunamento 190 affunnate fra n’urdema striscia d’èvera ianca e mmuntagne ’e munnezza ’nfracetata … era ’o centro d’ ’o munno, comme steva a ’o centro d’ ’a storia l’ammore mio pe’ stu munno: e int’a cchesta ’sperienza piccerenella ma chiena d’ammore, tutto steva p’addeventà chiaro – era, chiaro! chelli barracche annure ’n miez’ ’o viento, ca nun erano né ’e Roma, né ’e Napule, né ’e lavurante, erano ’a vita dint’ ’a luce soia cchiù overa d’ogge: vita e luce d’ ’a vita, chiena int’ ’ammuina ca nun era ancora pezzentella. 191 Riccarbo Bacchelli - Bologna 1891-Monza 1985 Studiò a Bologna dove frequentò, senza terminare gli studi, i corsi di lettere dell’Università. Iniziò giovanissimo la sua attività di scrittore; collaborò per qualche tempo a «La Voce» e, dopo la Prima guerra mondiale, nella quale combattè come volontario, partecipò alla fondazione de «La Ronda» di cui fu uno dei più attivi ed eminenti collaboratori. Poeta di genuina vocazione; narratore di vena inesausta e di doviziosa fantasia, ha scritto novelle e romanzi tra i più felici e tradotti del nostro tempo, in molti dei quali si mostrano i suoi interessi e i suoi impegni storici e sociali; scrittore di teatro di autentica disposizione drammatica; biografo musicale di squisita sensibilità; giornalista sostanzioso e nutrito; storico e critico tra i più acuti e addottrinati; autore di saggi di penetrante ingegno e di finissimo gusto su molti scrittori italiani e stranieri; traduttore egregio di autori stranieri e illuminato commentatore di classici italiani; fu chiamato a far parte dell’Accademia d’Italia, ma si dimise nel gennaio ’44; oltreché membro onorario di vari corpi accademici, socio dell’Accademia dei Lincei, dell’Accademia della Crusca e dell’Istituto Lombardo di Scienze e Lettere, e doctor honoris causa in lettere e filosofia delle Università di Bologna e di Milano. 192 letteRa ti scrivo questa lettera per dirti che quando incontrai te in questo mondo nuovo d’antiche cose da quel giorno, da tempo già credevo che l’amore fosse inganno da fare o da patire. amore che rechi tu negli occhi, vincitrice del triste tempo e della accidia astiosa, sol che mi guardi tu, che mi rischiari il tuo sorriso serio e la sua luce d’affetto ed il suo lume d’intelletto. ti scrivo questa lettera per dirti, sol che mi guardi, e tu restituisci vigor d’amare all’animo; e morremo! se tu amorosamente mi guardi, l’istante compie il tempo e vi si colma l’amore. ti scrivo questa lettera per dirti che nel tempo di prima il malcontento era di non conoscerti; la noia, di non saperti al mondo, ignota ancora e già da sempre attesa; ravvisata in un lampo di memore speranza. Promesse, speranze che tu dai, tu le coroni di giorno in giorno, come con la sera di notte in notte tornano le stelle. 193 credevo che amore e che poesia non fosser d’altro naturate che d’un inesauribile, perché inesaudibil, desiderio, d’un fatale soffrire d’impossibile; ma scrivo questa lettera per dirti che tu m’hai persuaso ad una gioia più forte della pena, più intensa del desiderio, e più forte e più vera della disperazione più convinta. ti scrivo questa lettera per dirti, quel che morto credei riebbe vita da te, quel che falso, riebbe verità da te: per te all’amor rinacque e alla poesia quel per cui ti ringrazia questa lettera. 194 letteRa ’sta lettera te scrivo pe’ te di’ ca quanno te ncuntraie ncopp’a stu munno ’e cose antiche – nuovo ’a chillu iuorno – ’a tiempo io me credevo ca l’ammore era na nfamità ’a fa’ o patì. ammore ca dint’a ll’uocchie puorte tu, me leva ’a pucundria ca me destina ’o tiempo; abbasta ca me guarde e ’a primmavera me porta ’o pizzo a rriso tuio nnucente e tennerezza e pace a sti penziere. ’sta lettera te scrivo pe’ te di’ ca ll’uocchie tuoie rialano cchiù forza ’e vulé bene: îmma murì! Ma si tu appassiunata me tiene mente l’ammore vence ’o tiempo e vence ’a morte. ’sta lettera te scrivo pe’ te di’ ca stevo malinconico pecché io nun te canuscevo; sfastediuso ’e nun te sape’ ancora ncopp’a ’sta terra, ancora scanusciuta però aspettata ’a sempe; suspirata int’a nu suonno, n’attimo ’e speranza. Prumesse, speranze ca tu daie, ca ’e mmantiene iuorno pe’ ghiuorno, tale e quale comme notte pe’ nnotte ’e stelle ’n cielo tornano. 195 io me credevo ca ’ammore e ’a poesia ato nun erano ca suonne ’e fantasia, desiderio ’e nu destino nato pe’ suffrì e senza cchiù speranza ’e se salvà; ma chesta lettera te scrivo pe’ te dì ca tu m’hê fatto nascere na gioia cchiù forte ’e tutte ’e ppene, cchiù putente e assaie cchiù viva e vera d’ ’a disperazione cchiù afflettiva. ’sta lettera te scrivo pe’ te di’ ca tutto chello ch’era muorto, vita ha avuto ’a te, ca ’e ccose fàuze tu l’hê fatte overe: all’ammore e a’ poesia pe’ tte io so’ turnato a nnascere pe’ chesto te ringrazio cu ’sta lettera. 196 eugenio Montale - Genova 1896-Milano 1981 Dopo aver studiato lettere a Genova, fu ufficiale nella Prima guerra mondiale. Nel primo dopoguerra si dedicò allo studio del canto lirico; nel 1922 fondò la rivista «Primo tempo». La sua prima raccolta di poesie, ossi di seppia, venne pubblicata nel 1925. Nelle liriche degli ossi è già presente il nucleo caratteristico della poesia montaliana: un senso di stanchezza e di solitudine, una sfiducia angosciata nella vita, la coscienza che dietro le apparenze si nasconde il vuoto, affetti connessi, però, a una pietà acuta per gli altri. Tali temi e atteggiamenti, in stretto legame con la tradizione poetica del Novecento italiano, da Pascoli ai crepuscolari, esercitarono subito un notevole fascino per la caratteristica antiletterarietà del discorso del Montale, che rifiuta programmaticamente ogni forma di eloquenza, e per la ricerca di una essenzialità scabra e nuda, che i fatti modesti della vita quotidiana tramuta in simboli emblematici del «male di vivere». L’opera poetica di Eugenio Montale, per la sua evoluzione in armonia con il corso della storia fra la Prima guerra mondiale e il secondo dopoguerra; per i suoi legami scoperti o sotterranei con tutta la cultura decadente europea; per l’originalità delle sue soluzioni poetiche; per la dignità che la caratterizza, appare pertanto la voce più alta di quella parte della letteratura italiana che, nella coscienza della crisi del nostro tempo, si è sforzata di dire, con dignitoso pudore, la propria protesta. 197 MaestRale s’è rifatta la calma nell’aria: tra gli scogli parlotta la maretta. sulla costa quietata, nei broli, qualche palma a pena svetta. una carezza disfiora la linea del mare e la scompiglia un attimo, soffio lieve che s’infrange e ancora il cammino ripiglia. lameggia nella chiarìa la vasta distesa, s’increspa, indi si spiana beata e specchia nel suo cuore vasto codesta povera mia vita turbata. o mio tronco che additi, in questa ebrietudine tarda, ogni rinato aspetto co’ tuoi raccolti diti protesi in alto, guarda: sotto l’azzurro fitto del cielo qualche uccello di mare se ne va; né sosta mai: ché su tutte le cose pare sia scritto: «più in là». 198 MaestRale e’ turnata int’a ll’aria ’a cujete: ’n miez’ ’e scoglie ’o mare chiacchiareia. Ncopp’a ll’arena calma, int’ ’e ciardine quacch’albero se move appena. chiano na rèfola ’e viento s’accarezza pe’ n’àttemo ’o mare, sciuscio lieggio ca se perde int’a ll’acqua e ancora ’a smove. Pare na lama ’acciaro ’o mare senza fine, se ’ncrespa, po’ se schiana biato e specchia dint’ ’o core suio chesta povera turmentata vita mia. albero, tu ca stienne, int’a st’àttemo ’e pace, ’e rame chine ’e fronne, chine ’e vita verz’ ’o sole, guarda: sotto all’azzurro càrreco d’ ’o cielo quacche auciello ’e mare se ne va; né se ferma maie: pecché ’ncopp’a ttutte ’e ccose pare ca vede scritto: «cchiù ’nnanze». 199 Giuseppe Porcaro - Bayonne (usa) 1911- (?). Scrittore, storico, saggista, poeta. Laureato in Giurisprudenza. Socio della Società Napoletana di Storia Patria. Socio dell’Accademia Pontaniana. Ha pubblicato: La Marina Mercantile Napoletana dal XVI e XIX secolo; Piedigrotta: leggenda-storia-folclore; Una pagina inedita di storia napoletana; Napoli, il suo mare e il porto visti da viaggiatori illustri; Il vento nel roseto (poesie); Ricordi storici a Napoli dopo la battaglia di Lepanto; Lo stendardo di Lepanto; Elogio di Mergellina; Francesco Caracciolo; Apocalisse su Napoli; Le Porte di Napoli; Taverne e Locande della vecchia Napoli; La Real Cappella della Sommaria in Castelcapuano; Napoli Gran Teatro; Chiesa e Stato a Napoli dopo l’Unità; Processo a un anarchico (Giovanni Passannante); La festa borbonica dell’Immacolata Concezione; Duelli famosi nella Napoli dell’Ottocento; Te voglio bene assale (storia di un poeta e di una canzone); Gaeta con Formia, Sperlonga, Fondi e Terracina dalle incursioni barbaresche a dopo la battaglia di Lepanto. 200 coMe uNa foGlia tReMaNte la sera è tra le braccia del silenzio. insonne, un passero pispiglia tra le rame della quercia antica. e’ insonne come me, il passero. sfinito, stordito come me dalla follia canicolare del lungo giorno estivo, che andare mi vide affannoso per rupi scoscese per aspri sentieri per rive di mare per strade nemiche dietro un sogno smarrito, svanito. sulla quercia antica, stremata, dove il sole ha dissolto il suo ultimo oro, s’è addormentato il passero dopo un ultimo palpito d’ali. come foglia tremante l’anima mia s’inchina alla Notte che scende coi suoi brividi a catturare il mondo. 201 coMe uNa foGlia tReMaNte ’a sera sta int’ ’e braccia d’ ’o silenzio. Nu pàssero piuléa ’a miez’ ’e ffronne d’ ’a cèrqua antica, e sta scetato tale e quale a mme. stracquato, stunato comm’a mme d’ ’a pazzaria d’ ’o càvero ’e ’sta iurnata longa d’ ’a staggiona, ca me vedette cammenà abbascuso pe’ derrupe sulagne, pe’ buscaglie pruibbite, ncopp’ ’arena d’ ’o mare, ’n miez’ ’e strate nemiche ienno appriesso a nu suonno perduto, squagliato. Ncopp’ ’a cèrqua antica, stracquata, addò ’o sole ha lassato gocce d’oro, s’è addubbechiato ’o pàssero doppo n’ùrdemo triemmolo ’e scelle. tale e quale a na fronna ca tremma l’anema mia saluta ’a Notte ca s’affaccia e cu ’e paure soje s’arrobba ’o munno. 202 antonio Gallo - torre annunziata 1914-Napoli 1987 Chiamato alla vita religiosa, per «ansia di bellezzenuove », indossa il saio di san Francesco. Negli anni di noviziato con studi severi si prepara ad interpretare il francescanesimo nel suo genuino pensiero: povertà, nascondimento, silenzio, preghiera, studio. Nel 1937 gli viene conferita l’ordinazione sacerdotale che gli apre la via ad un grande apostolato. S’impegna in attività culturali e religiose. È alla direzione della rivista «Luce Serafica», fonda la «Cattedra francescana» a Napoli Vomero. Il vasto e profondo possesso di cultura umanistica, di letteratura moderna, di storia agiografica gli permette di cimentarsi sempre brillantemente su argomenti diversi, rivelandosi forte e ricercato prosatore, agile e fine poeta. i numerosi scritti, tra i quali: L’Assunta, 1951; Il martire dell’obbedienza, 1957; Momenti (poesie), 1958; Francescanesimo ed altri pretesti, 1959; La castità, 1960; Alla conquista di due corone, 1961; Io non credo (poesie); Luce sul mondo: l’immacolata; Epistolario della gioia; Donna sempre; Teresa Musco, attestano una non comune versatilità di quest’umile francescano napoletano. 203 al cRocifisso io ti farò compagno delle notti che la tenebra appiatta ed il silenzio fascia di mistero, mio tormentato amore, e nella veglia lunga e senza pace a te, che sei dentro di me più di me stesso, dirò quel che tu sai di me ch’io stesso ignoro o non so dire o temo. alle tue mani ruvide e chiodate salderò queste mie smaniose, alla fronte tua spinosa dove son rovi i grumi del peccato appoggerò la mia febbricitante, le labbra screpolate dall’arsura sulle tue livide labbra e nel costato aperto travaserò quest’anima inquieta sospirosa di te. 204 al cRocifisso cumpagno tu sarraie d’ ’e nnuttate ca ’o scurore annasconne e ca ’o silenzio enchie ’e mistero. ammore mio angariato, e dint’ ’a veglia longa e senza pace a te, ca int’a stu core mio si’ cchiù ’e me stesso, io diciarraggio chello ca tu saie ’e me ca io nun aggio maie capito o nun ’o ssaccio di’ o me fa paura. vicino ’e mmane toie chiene ’e rappe, nchiuvate, ce mettarraggio ’e mmie smaniose, ncopp’a ’sta fronte ’e spine ce appuiarraggio ’a mia chiena ’e freva, ’e llabbra ntesetate ’a tant’arzura ncopp’ ’e ttoie e dint’ ’o pietto male straziato devacarraggio st’anema scuieta guliosa ’e te. 205 luigi compagnone - Napoli 1915-1998 Scrittore. Laureato in lettere. Giornalista professionista, da moltissimi anni nella redazione napoletana del «Giornale Radio». Nella sua opera, ironia, grottesco, umana pietà si intrecciano strettamente, in una deformazione della realta, che pur mira a coglierla, così stravolta, nel suo intimo senso. Ha pubblicato: La festa, ed. sud, Napoli 1946; La vacanza delle donne, longanesi, Milano 1954 (Premio Margotto); La chitarra del pìcaro, est, Napoli 1956; I santi dietro le porte, sciasela, caltanissetta 1957; L’onorata morte, vallecchi, firenze 1960 (Premio Napoli); L’amara scienza, vallecchi, firenze 1965 (Premio chianciano); Commento alla vita di Pinocchio, Marotta, Napoli 1966; Capriccio con rovine, vallecchi, firenze 1968 (Premio selezione campiello); Lunario del viaggiatore, sciasela, caltanissetta 1968; Le notti di Glasgow, vallecchi, firenze 1970; La vita nova di Pinocchio, vallecchi, firenze 1971 (Premio villa s. Giovanni 1972); L’onorata morte (ristampa accresciuta), vallecchi, firenze 1972; Città di mare con abitanti, Rusconi, Milano 1973 (Premio Napoli 1973); Epigrammi e nonsense, scheiwiller, Milano 1973; Ballata e morte di un Capitano del Popolo, Rusconi, Milano 1974 (Premio Basilicata 1974); I Pulcinella di Corrado Cagli, Marotta, Napoli 1974; Dentro la Stella, Rusconi, Milano 1977; L’allegria dell’orco, Rusconi, Milano 1979. 206 l’autuNNo i settembre mi porta le lumache ottobre le castagne e il vino novembre i morti e il fuoco della legna e la faccia cristiana dei gufi. ii la prima pioggia sulla chitarra mi danza e sul petto. addio addio lucenti foglie dal colore del vino, fra poco mi balleranno sul ventre e nella barba gli umidi elfi del bosco. iii s’incappucciano sotto le foglie che la pioggia tintinna, i pavidi ragni. ora il ladro di trecce si scalda ai fuochi delle castagne. iv le belle trecce che rubavo a luglio nella pietà degli occhi mi danzano. stagione di lumache e di fuochi come l’uva vendemmi la speranza. v il lungo suono d’un corno, ed ecco i giorni come ulivi: fugge la rossa volpe fra i cespugli e la tagliola 207 risplende e il vino sveglia l’estate di san Martino. Ma il mare è già un lamento di chitarra ai villaggo ove i pìcari portavano vergini come la primavera porta foglie. ora queste rovine affollano le pernici che volano lungamente al tramonto. vi la vigilia dei morti è un allegro pensiero che dilaga da boschi a fontane fino a un’alta collina dove sventola superba la loro bandiera: mi son messo il mantello della festa all’acqua del mio fiume ho bagnato le mani come un monaco mi sono incamminato … 208 l’autuNNo i settembre me porta ’e mmaruzze uttombre ’e ccastagne e ’o vino nuvembre ’e muorte e ’o ffuoco d’ ’o llignammo e ’a faccia crestiana d’ ’e paparascianne. ii ’a primm’acqua ncopp’ ’a chitarra abballa e ncopp’ ’o core. addio addio fronne lucente pittate ’e vino, n’atu ppoco e ’nzino e dint’ ’a barba m’abballarranno ’e diavulille d’ ’o vuosco. iii s’annasconneno sott’ ’e ffronne ca l’acqua martella ’e pappamosche pauruse. Mo ’o mariuolo d’ ’e ttrezze se scarfa vicino ’o ffuoco d’ ’e ccastagne. iv ’e ttrezze belle ch’arrubbavo a luglio int’ ’a pietà ’e chist’uocchie mo m’abballano. tiempo ’e maruzze e ’e fuoche ’a speranza venigne comm’a ll’uva. v ’o suono luongo ’e nu cuorno, e ’e bbi’ ccà ’e iuorne comme aulive: fùje ’a vorpe 209 rossa pe’ mmiez’ ’e ccéppe e ’a tagliola luce e ’o vino sceta l’estate ’e san Martino. Ma ’o mare è già nu lamiento ’e chitarra p’ ’e paisielle addò ’e brigante purtavano figliulelle comme ’a primmavera porta fronne. Mo pe’ sti mmure sgarrupate ’aucielle se vanno a ammasunà. vi ’a vigilia d’ ’e muorte è nu penziero allero ca se stenne da ’e vuosche a ’e ffuntane fino a ’ncimma a ttutto a na cullina addò pazzea c’ ’o viento bella ’a bannera lloro: me so’ mmiso ’o mantiello d’ ’a festa dint’a l’acqua d’ ’o sciummo mio aggio nfuso ’e mmane comme a nu monaco me so’ mmiso ’n cammino … 210 alberto Mario Moriconi - terni 1920-Napoli 2010 Penalista, professore di storia del teatro, collaboratore letterario di quotidiani e riviste, titolare – anche sotto lo pseudonimo di Morik – di una rubrica settimanale sulla terza pagina de «Il Mattino». Ha pubblicato le opere di poesia: Vortici rupi mammole, 1952; Trittico fraterno, 1955, ceschina; Anno Mille, 1958, Rebellato; Le torri mobili, 1963, Guanda; La ballata del guano, 1966, ediz. uomini e idee, Dibattito su amore, 1969, laterza; Un carico di mercurio, 1975, laterza. Ha vinto i premi di poesia: «Zancleo», «Ridotto», «Marvasi», «Firenze», «Tirreno», «Villaroel», «Calabria», «David», «Piacenza», un premio «Brandy» di giornalismo, e, fuori concorso, per il complesso della sua opera di poeta, ha ricevuto i premi «Pisa», «Enna», «Terni», «Sybaris Magna Graecia» e, con Rafael Alberti, Betocchi, Fratini e Penna, il «San Valentino d’oro» per la poesia. È incluso in un gran numero di antologie e sue poesie sono state tradotte in più lingue. 211 la RiNGHieRa e il MaRciaPieDe (la meretrice) «io non uscivo, non uscivo mai sola. e sono scivolata, appena…». la nonna e la sua vecchia bàlia. e quando le morì la nonna, uscì per allattar la vecchia bàlia. Non trasferibile alla nipote nubile la pensione avita, «anita», così l’ava, «si chiude una porta, si apre un portone. occhieggiano il balcone, sei carina, istruitina» (affacciata fra la bàlia e l’ava). la bara, dal portone, e la pensione e anita; che incespicava. 212 la RiNGHieRa e il MaRciaPieDe (la meretrice) «i’ nun ascevo, nu ascevo maie sola. e so’ sciuliata, appena…». ’a nonna e ’a vecchia nutriccia soia. e quanno le murette ’a nonna, ascette p’allattà ’a vecchia nutriccia. ’a penziona d’ ’a nonna nun ’a po’ ave ’a nepota signurina. «anita», diceva ’a nonna, «se nzerra na porta, s’arape nu purtone. ’o vvi’ comme guardano ’o balcone, si’ bellella, pure nu pucurillo struita» (affacciata ’n miez’ ’a nutriccia e ’a nonna). ’o tavuto, da ’o purtone, e ’a penziona e anita; ca nciampecava. 213 Domenico Rea - Napoli 1921-1994 Scrittore, saggista, novelliere, articolista, collaboratore fisso del «Corriere della Sera». Ha pubblicato: Spaccanapoli; Le formicole rosse; Ritratto di maggio (considerato un classico e inserito da «la ligue française de l’enseignement» in una collana in cui figurano opere di Kipling, twain, Maka-renko, ecc.); Gesù, fate luce! ; Quel che vide Cummeo; Una vampata di rossore; Il rè e il lustrascarpe; I racconti; L’altra faccia; Questi tredici; Pulcinella; La signora è una vagabonda; Diario napoletano; Il regno perduto; Fate bene alle anime del Purgatorio; Nubi (poesie); Tentazione. Ha vinto i premi: «Viareggio» 1951; «Salento» 1955; «Napoli» 1959; «Mestre-Settembrini» 1965; «Ceppo» 1976. Le sue opere hanno avuto traduzioni in francese, inglese, americano, svedese, danese, russo, lettone, estone, polacco, bulgaro, ungherese, iugoslavo, argentino. Sul suo lavoro gravita una imponente bibliografia critica: da Flora a Cecchi, da Russo a De Robertis, da Bo a Pampaloni, a Baldacci, a Dallamano, a Bàrheri-Squarotti, a Barilli. 214 NuBe o nube casalinga che mi porti i messaggi dei prati di altri mondi, fermati ai margini della mia riviera. Dimmi di un universo senza guerra, pien di triboli, sì, ma di una specie forse più audace e di soccorso a noi, girini intrappolati in uno speco con poche mutazioni di rilievo. Nube filante, lieve, con la prua sulla rotta di oceani e di Misteri, bagnami il viso di rugiada e manna, cibo dell’anima, ostia saporita e ridammi dei giorni il segno ardito. 215 NuBe Nuvola ianca e cujeta ca me puorte mmasciate d’ati tterre, d’ati munne, férmate ncoppa a ’sta riviera mia e pàrleme ’e nu munno senza guerra, chino ’e turmiente, sì, però cu gente forse cchiù ardita, ca ce desse aiuto, a nnuie priggiuniere int’a na rótta senza speranza quase d’ascì fore. Nuvola chiara, lèggia, che cammine strade d’ ’e Mare e strade d’ ’e Mistere, nfùnneme ’a faccia ’e bàrzamo e rusata, pane pe’ st’anema, ostia sapurita, e rïaleme ancora ’na speranza. 216 lanfranco orsini - Napoli 1926-1981 Scrittore, saggista, poeta. Ha pubblicato: Confessione agli specchi (racconti, 1956); Elegia sul monte Faito (poesie, 1958); L’eclisse (romanzo, 1962); Il silenzio e la voce (poesie, 1965); Le anestesie (racconti, 1970); La cantina di Auerbach (saggi, 1971); L’animale malato (epigrammi, 1974); In pubblico e in privato (poesie, 1977); Taccuino dell’anno mille (prose, 1977). Sue poesie sono accolte nella maggiore antologia francese della poesia italiana contemporanea «Italie poétique contemporaine», di G. Burckhardt (Paris, 1968). Ha curato insieme ad Elena Croce per la collana «I Meridiani» di Mondadori la nuova edizione (1977) delle opere di Salvatore Di Giacomo. Collabora alle più importanti riviste di letteratura, ai programmi culturali Rai e ad alcuni quotidiani di diffusione nazionale. Per la sua opera di scrittore ha vinto diversi premi, tra i quali il «Settembrini-Mestre» per le anestesie, precedentemente finalista al «Campiello». 217 altRuisMo Quando sarò tutto vuoto anche del dolore, senza idee nella testa senza voglie in quello che chiamano cuore, forse mi colmerà per la prima volta l’amore – gli altri dentro di me diventati cuore. 218 altRuisMo Quanno sarraggio tutto sbacantato pure d’ ’o dulore, senza penziere nuove dint’ ’a capa senza desiderie int’a chillo ca chiammano core, forze me enchiarrà p’ ’a primma vota l’ammore – tuttuquanne ll’ate ’n piett’a mme so’ addeventate core. 219 Rosario de crescenzo - Napoli 1927 Ha pubblicato tre raccolte di poesie, frutto di premi conseguiti: Rivoglio la speranza, ed. Presenza; Stagioni addormentate, ed. Grafedit; Imperfetti per favole, ed. terza Pagina. Hanno espresso giudizi critici sulla sua opera, tra gli altri, Piero Bargellini, Carlo Bo, Giorgio Bàrberi Squarotti, Margherita Guidacci, Mario Sansone, Eraldo Miscia, Mario Pomilio, Bruno Lucrezi, Antonio Caggiano, Emilio Milan, Giuseppe Porto. 220 c’eRa l’oRMa Del luPo c’era l’orma del lupo sulla neve. Gli avanzi della pecora sgozzata non erano lontani. i pastori si armarono; la caccia non aveva problemi. Già altre volte era accaduto che l’atroce fame l’avesse spinto fino ai casolari nelle tenebre, a notte. la tormenta ovattava gli ululati e i passi disperati erano sfida alle stelle nascoste. Rosso il sangue e caldo della preda; la morte per la vita, senza scampo. lo stanarono a monte; la sua corsa fu vigore fu rabbia fu speranza ma durò poco; cadde ruzzolando per l’erta senza un grido insieme all’eco asciutta degli spari. lo portarono a valle; con le donne lo videro i bambini, lo toccarono; era bello disteso nella neve. e un bimbo chiese: perché l’avete ucciso? 221 c’eRa l’oRMa Del luPo ce steva ’a pedata d’ ’o lupo ncopp’ ’a neve. ’a remmasuglia d’ ’a pecura scannata pe’ llà ttuorno. s’armaieno ’e pecurare; ’a caccïata nun deva apprenzïone. Già ati vvote era succieso ca p’ ’a famme acuta – int’ ’a nuttata – era arrivato fino a nnanz’ ’e ccase. ’o viento forte cummigliava ’allucche; erano ’e passe nu dichiaramento a ’e stelle annascunnute. Russo ’o sango e càvero d’ ’a pecura; na morte pe ’na vita, senza scampo. a ’e piede d’ ’a muntagna fuie ncucciato; ’a corza soia fuie forza fuie arraggia fuie speranza ’e n’àttemo; cadette ruciulianno senza nu lamiento ’nzieme a ll’eco d’ ’e scuppettate. ’o purtaieno int’ ’o paese; cu ’e ffemmene ’o vedettero ’e guagliune, ’o maniaieno; comm’era bello stiso ncopp’ ’a neve. Nu nennillo spiaie: pecché l’avite acciso? 222 serafina Bissanti - Manfredonia 1928-Rapallo 2011 Scrittrice. Psicologa. Sociologa. Interessata ai problemi napoletani osservati da diverse angolature (dal teatro, alla fabbrica, ai manicomi, al carcere) ha partecipato a riviste e giornali con studi e ricerche di carattere vario. Ha pubblicato: Ai contadini della mia terra; La ballata dello schizofrenico; Il treno di provincia; Carcere e territorio. 223 il tReNo Di PRoviNcia Hai mai incontrato il dolore vestito a festa tra la gente indifferente? Hai mai udito un uomo gridare la sua solitudine ridendo degli altri? Hai mai raggiunto lo sguardo nel vuoto di chi non conta più i giorni più le ore tanto gli sono uguali tanta è l’uggia della sua esistenza aderita alla sua pelle che gli fa schifo? Hai mai sentito parlare una prostituta ubriaca? Hai mai raccolto il commento di un mendicante alla tua persona? ti ha mai colpito uno sguardo allucinato 224 che cerca invano qualcuno o il canto esasperato di un bimbo minorato? Hai mai inseguito gli ossessivi pensieri erotici di un frate questuante? ti ha mai rivolto la parola un trafficante di compromessi? ti ha mai invaso l’alito di una bettola dalla bocca sbavata di un vecchio? Hai mai avvertito la tua miseria nell’ambito dei tuoi limiti… no? Hai perso il treno della provincia: un contatto con l’umanità. 225 il tReNo Di PRoviNcia l’hê visto maie vestuto a ffesta ’o chianto ’n miez’ ’a gente ’ndifferente? Hê maie sentuto n’ommo alluccà tutta ’a paura soia redenno ’e ll’ate? Hê maie guardato cu ll’uocchie tuoie dint’a ll’uocchie ’e chi sperduto int’ ’o bacante nun conta ne cchiù ore ne cchiù juorne tant’é ’a malincunia d’ ’a vita soia tant’é ’o sfastidio ca s’azzecca ’ncuollo e le fa schifo? Hê maie ’ntiso na bagascia mbriaca chiacchiarià? Hê maie penzato chello ca nu pezzente penza ’e te? t’ha ’ntenneruto maie chi spierto va cercanno quaccuno ca nun trova o ’a voce strazzïata ’e nu nennillo scemo? te si’ sunnato maie malepenziere e spàseme d’ ’o monaco cercante? 226 Hê chiacchiariato maie c’ ’o vennetore d’ ’e ffauzarie? t’ha maie ’nfuscato ’o sciato ’e na cantina da ’a vocca nera e fràceta ’e nu viecchio? Hê maie capito quant’e piccereniello ’o munno tuio… no? Hê perzo l’unico treno ca porta dint’ ’o core ’e ll’uommene. 227 ettore capuano - Napoli 1931 Presidente delle Edizioni Letteratura Internazionale (NapoliBucaresti-Yokohama); presiede il Gruppo Realtà Umana, il premio internazionale di Poesia Napoli Ospite ed il premio Targa d’Oro Mergellina. Ha curato le antologie di letteratura: la maternità e la natività nella poesia (poesia dal 2000 a.C. ad oggi), ed. Ombre e Luci 1965, ed. Breve 1971; ii tempo e la voce, ed. Napoli 1967; Panorama di poesia napoletana, ed. Breve 1968; «Targa d’oro Mergellina 1968», ed. Breve 1968; «Targa d’oro Mergellina 1969», ed. Breve 1969; «letteratura a Napoli», Graus ed. 2007. Ha pubblicato volumi di versi: E resta solo Viride, ed. verso il sublime 1964; Poema d’amore, ed, leti. ini. 1970; I codia, ed. leti. int. 1979. Ha pubblicato racconti: Le mani, ed. verso il sublime 1966 e 1967, atheneu ed. Bucaresti 1969; Bacau ed. Bucuresti 1970. Ha tradotto dal romeno: Mariana Costescu «Dopo l’esplosione», ed. lett. ini. 1969; dal latino: P. Virgilio Marono «Egloghe», ed. verso il sublime 1966 e 1967; dal greco: saffo «Liriche e frammenti», 1966 e 1967. Ha pubblicato saggi su Mario Stefanile, Michele Prisco, Alberto Moravia, Giuseppe Ungaretti, Salvatore Quasimodo, Italo Maione, Bruno Lucrezi, Gino Grassi, Alberto M. Moriconi, Francesco Galante, Vincenzo Gemito. Ha fondato e dirige la rivista di cultura lettere ed arti «Breve» dal 1967 (tredici annate) riportando ogni anno il premio come rivista di elevalo valore culturale. Socio della società di Storia Patria Napoletana. 228 NoN Ho seReNitÀ le parole del bene le ho scritte soltanto sull’onda del mare; ma dal mio cuore esse sono scomparse. volevo donare al mio cuore la gioia di beni infiniti; ma la mia carne ha vinto per sempre la lotta. Povero sciocco tu che credevi di poter portare in alto le colonne appoggiate alla sabbia. Povero cuore mio, il forte vento ti ha spazzato via ogni serenità. 229 NoN Ho seReNitÀ ’e pparole d’ ’o bene io ll’aggio scritte sulo ’ncopp’a ll’onne, ma ’a dint’ ’o core mio se ne so’ asciute. vulevo dà a stu core gioie ’e rricchezze senza fine, eterne, e m’ha vinciuto na carnalità, trìbbule e ssufferenza. ah, scemo, scemo e che credive ’e fa’? vulive purtà ’n cielo ’e cculonne appuiate ncopp’ ’arena? Povero core mio, ’o viento apprettatore t’ha schiantato tutta ’a serenità. 230 Pasquale Maffeo - capaccio (Paestum) 1933 Poeta, saggista e traduttore di rara duttilità, ha maturato, sia pure in un arco di disparati interessi, una pienezza inventiva e stilistica non catalogabile, né a prima vista né dopo meditata lettura, tra le correnti o le avanguardie della più recente letteratura. Ha pubblicato: «Poesia»: Acque chiare, intelisano, Milano 1955; Paese innocente, caM, Napoli 1960; Il sogno di Lincoln, silarus, salerno 1966; La melagana aperta, le Petit Moineau, Roma 1970; Uccello di passo, selenia, Roma 1974; il sonno sulla pietra, Russo, caserta 1977; Straniero alla finestra, città armoniosa, Reggio emilia, 1978. «Prosa»: I poeti del Cilento, acc. salernitana, salerno 1964; Dentro il meriggio, Di Mambro, latina 1975; Salvator Rosa com’era, fiorentino, Napoli 1975; L’angelo bizantino, città armoniosa, Reggio emilia 1978. «traduzioni»: Isabella, di J. Keats, ceschina, Milano 1963; Iperione e altro, di J. Keats, Rizzoli, Milano 1968; Odi, di W. collins, ceschina, Milano 1969; Visioni d’Italia, di c. Dickens, ceschina Milano 1971; Cielo e inferno, di W. Blake, fiorentino, Napoli 1977. Rientra nel quadro della sua attività la collaborazione a quotidiani e riviste con interventi di critica d’arte e letteraria: «Corriere di Napoli», L’«Osservatore Romano», «Vita». Negli ultimi anni ha scritto cinque opere di teatro, di cui due rappresentate: «Il giro della ruota» nel 1976 e «Laude del testimone» nel 1977. 231 oRfeo Non chiedete al poeta da quale salga antica ombra il fiore a illuminarsi. il poeta cammina vie profonde. compagno, uomo di lotte che ami la birra e a proletarie porpore un pugno alzi di rabbia il primo maggio, non sputare sul libro dei versi. solo il poeta ti darà giustizia. Madre, donna che grida sperdi a un’impietosa solitudine di giorni dove aspro si fa il gesto e vanno i figli a notte, porta nel grembo il libro dei versi. solo il poeta ti darà l’amore. Giovani, fresco battere di sogni violenti, bocche schiuse in tremori di corolle, ogni petalo un bacio 232 nella rossa primavera, non gettate il libro dei versi. solo il poeta vi darà l’aroma. torna come dei fiumi dentro l’eguale riva del tempo la voce inviolata, ancora è l’alba. l’aquila ha cuore per ceruli abissi. 233 oRfeo Nun spiate a ’o pueta ’a qual’ombra antica ’o sciore saglie a piglià luce. ’o pueta cammina vie fute. cumpagno, ommo ’e cumbattimento ca t’abbuffe ’e birra e ’o primmo ’e maggio mane nzerrate ’e collera aize nnanz’a bannere rosse, nun sputà ncopp’ ’o libbro d’ ’e vierze. sulo ’o pueta te darrà giustizia, e tu femmena e mmamma ca manne allucche ’e dulore a ghiurnate sulagne ’e pietà addò spuntuto se fa ’o singo e vanno ’e figlie int’a ll’oscurità, l’hê a purtà dint’o core ’o libbro d’ ’e vierze. sulo ’o pueta te darrà l’ammore. Giuvinuttielle, palpite nuove ’e suonne furiuse, vocche ca s’arapeno int’ ’o triemmolo d’ ’e sciure, ogni sciore nu vaso 234 dint’ ’a primmavera, nun ’o iettate ’o libbro d’ ’e vierze. sulo ’o pueta ve darrà ’o prufumo. torna tale e quale a cchella d’ ’e sciumme dint’ ’a strata d’ ’o tiempo ’a voce sincera, è ancora l’alba. l’aquila tene core pe’ ciele azzurre senza fine. 235 aldo onorati - albano di Roma 1939 Laureato in lettere. Collabora ai quotidiani L’«Osservatore Romano», «Avvenire», «Il popolo» ecc. È redattore capo della rivista pedagogica del CIAS-UNESCO «Amici della scuola», è vice direttore del mensile dello Snais «Punto interrogativo» e direttore della rivista di attualità e cultura «Quadrifogli». Dirige una radio libera (Albaradio) regionale nel Lazio e una (Voce Libera) nella Sicilia. Scrive su diversi organi di stampa specializzati. Tiene incontri culturali periodici in varie parti d’Italia (da ricordare le diverse conferenze in occasione del VII centenario della nascita di Dante, e gli interventi anche in Francia, nella Akademie Duncan, sulla letteratura contemporanea). fra le varie opere, in versi: uomo + Uomo e arriveremo a Dio (Marietti 1964); Le speranze illecite (con introduzione critica di G. Bàrberi squarotti, ed. Marzano, Roma 1974); di narrativa: Gli ultimi sono gli ultimi (armando, Roma 1966, ii ed. 1977); Nel frammento la vita (armando, Roma, 1970, ii ed. 1977, ristampa per le scuole 1978); La sagra degli ominidi (s.a.i.R., Roma 1972, X migliaio 1978); Università undicesima bolgia (armando, 1973: oggetto di una tesi di laurea da parte del dott. Giuseppe tosoni); Casualmente… (ed. albaradio, 1978); studi critici: Spunti critici («Quaderni di filologia e critica», Roma 1971); Il crepuscolo del Novecento (ed. setiM, Modica, 1976); La crisi culturale del Novecento, ecc. Numerose volte premio della Presidenza del Consiglio dei Ministri per la cultura, premio «San Francesco d’Assisi» per la poesia e «Cimento d’Oro» per la letteratura ecc. È fondatore del Premio nazionale di Narrativa «Città di Scala». Dirige alcune collane di impegnate case editrici. Ha insegnato Stona della Letteratura Italiana Moderna e Contemporanea. 236 toccata Di PRiMaveRa cantate lungo i viali che domani le viole fiancheggeranno. all’alito mite del marzo il mandorlo è divenuto bianco insieme al mio cuore sepolto nelle cantine. Riluttante fanciulla, non disprezzare i baci, più teneri ora che il gregge già cerca l’ombra, ora che sulle tue guance errompe il sangue dell’adolescenza. Dalle viti rigonfie, dai belati d’agnello, sboccia l’aprile. l’uomo nacque tra i pescheti fioriti mentre il placido armento risuonava nelle tumide valli. tua sorella, o inibita, o crudele, prima ancora dell’alba assaporò gli amplessi di giovani che dipanarono la rosa anticipando l’abbraccio del sole… Quei giovinastri assetati di baci, come le api dai fiori più dolci hanno preso il velluto dei suoi quindici anni… 237 Busserai alla mia porta, in autunno, i denti guasti, il mento peluginoso… aprirò a tua sorella – resa umana da un passato d’amore – ma a te, muffa di desideri repressi, a te non aprirò. Da dietro ai vetri ti indicherò la valle delle nebbie… ma neppure quegli umidi fantasmi accoglieranno il tuo grido pentito dell’estremo autunno… in autunno, fanciulla, piangerai per aver indugiato in un aprile creduto eterno. 238 toccata Di PRiMaveRa cantate p’ ’e strate ca dimane se enchiarranno ’e viole. all’aria doce ’e marzo l’albero ’e ammennule è addeventato ianco nzieme a stu core mio annascunnuto dint’ ’e ccantine. figliola cuntignosa nun m’ ’e nnegà sti vase, cchiù tiennere e gentile mo ca sti core già cercano l’ombra, mo ch’ ’a faccella toia se tegne ’e scuorno. Da ’e vvigne chiene, da ’e picce delicate d’ ’e ppecurelle, schioppa abbrile. l’ommo nascette ’n miezo a ll’albere fiurite nfromme cujete pascevano ’animale p’ ’e vvallate. sòreta, o paurosa, o malamente, ancora primma ca nasceva l’alba assapuraie carezze appassiunate ’e giuvinotte ce se scialaieno 239 cu chella rosa ancora primma ch’ ’a vasava ’o sole… chilli scapricciate arrapate ’e vase, comme ’e vvèspere s’hanno zucato da ’e sciure chiù gentile ’a primmavera d’ ’e quinnice anne suoie… tuzzuliarraie a’ porta mia quanno l’autunno venarrà, ’e diente fracete, ’a vàvera appassuliata… araparraggio a’ sora toia – fatta carnale e femmena ’a na ventata ’e ammore – ma a tte, perimma ’e desiderie accise, io nun t’araparraggio. ’a reto ’e llastre te mmustarraggio ’a vallata d’ ’a neglia… ma llà nemmeno ll’ombre d’ ’o ppassato vularranno sentì ’o lamiemo tuio ’e l’autunno cchiù futo… figliola, int’all’autunno chiagnarraie pe’ nun avé’ vuluto bene dint’a n’abbrile ca tu penzave eterno. 240 vincenzo landolfi - Napoli 1940 Ha vissuto varie esperienze e mestieri, non ha fatto parte di nessun clan letterario. Sin da ragazzo ha cominciato ad approfondire gli studi sulla letteratura francese ed inglese, in special modo, interessandosi particolarmente di poesia. Ha pubblicato saggi su artisti e letterati del nostro Novecento su vari giornali, settimanali e riviste. Contemporaneamente si volgeva alla pittura, riuscendo anche in questo settore a farsi notare dai critici, e a diplomarsi maestro d’arte. Suoi racconti e poesie, inoltre, sono stati pubblicati da importami periodici. Una nota biografica sull’autore è molto chiara nel suo romanzo la forza dei sogni ove la disperata lotta per sopravvivere alla miseria, dà la misura di un’atmosfera d’angoscia di fronte ai problemi creati dall’epoca attuale. Pubblicazioni: Trilogia lirica, 1960; Il grido del gabbiano, 1962; La forza dei sogni, 1963; La terra arida, 1973; Insonnia Mediterranea, 1975; Una corazza di ghiaccio, 1977. 241 PReseNtiMeNto Quando tutti questi mandolini sul golfo taceranno, la luna svanirà tra i sogni di una favola marinaresca. sono solo, io e il mare… e i miei pensieri turbolenti. Nessuno vede quest’ombra che scivola nella notte. tra poco lo stridio dei bianchi gabbiani dirà del futuro: la vita sarà sempre inquieta. e l’amore giungerà solo come una favola marinaresca. 242 PReseNtiMeNto Quanno sti manduline, tuttuquante, p’ ’o golfo nun se sentarranno cchiù ’a luna sarrà morta nzieme ’e suonne ’e nu cunto ’e marenare. sto’ sulo, io e ’o mare… e sti penziere mieie ca nun me danno abbiento. Nisciuno vede st’ombra ca sciulia int’ ’a nuttata. N’atu ppoco e doppo ’e strille d’ ’e guaguine ianche diciarranno qual è ’o destino: sempe senza cuietutene sarrà ’sta vita. e ’ammore venarrà sulo tale e quale a nu cunto ’e marenare. 243 vittorio De asmundis - vietri sul Mare 1941 Vive da sempre a Napoli dove insegna. Collabora alla terza pagina de «Il Mattino», a «Critica Meridionale», a «Dove», e a numerose riviste letterarie. Ha pubblicato: La morte è qui, Rebellato editore, Padova 1972; Resistenza sempre (poesie), edizione Premio la Madia d’oro, l’aquila 1975; Al compagno di fabbrica (poesie), edizione Premio carlo Goldoni, venezia, 1975; Poesie selvagge, edizione forum Premio asprea, Milano, 1976; Lettera a Gesù (poesie), edizione terza Pagina Premio Rotunda Maris, Matera, 1976. 244 letteRa a GesÙ, Da NaPoli tu non sai la fatica di stare come un palo, in piazza, a braccio teso, a vendere sigarette col filtro, contrabbando, tre-pacchetti-pagatemille lire. forse non ti sono simpatico, (mai una volta sei venuto a trovarmi) È vero, non ti prego, qualche volta ti ho odiato (così grande e potente) ma, se è proprio come dicono che hai sorrisi per tutti, perché non mi sorridi? io ne ho bisogno. Mi trovi sempre qui, in piazza, come un palo, a braccio teso, vendo sigarette col filtro. 245 letteRa a GesÙ, Da NaPoli tu nun saie ’a fatica ’e sta’ mpalato, ’n miez’ ’a strata, c’ ’o vraccio stiso, a vénnere sicarrette c’ ’o filtro, cuntrabbanno, tre-pacchette-pavatemille-lire. forze nun te vaco a genio, (maie na vota si’ venuto a mme truvà) e’ overo, nun te dico urazione, quacche vvota t’aggio iastemmato (accussì gruosso e putente) ma, si è propio comme diceno ch’aiute a tuttuquante, pecché nun me riale nu surriso? io n’aggio tanto abbesuogno. Me truove sempe ccà, ’n miez’ ’a strata, mpalato, c’ ’o vraccio stiso, a vénnere siccarette c’ ’o filtro. 246 stefania Buccini - Napoli 1959 È una delle voci più interessanti della nuova poesia italiana. È stata premiata in vari importanti concorsi nazionali. Ha pubblicato: Ritratto d’anima, 1975; Poesie di un giorno, 1977, Russo editore. 247 DavveRo Davvero può il mare calmare l’impeto dei suoi flutti dileguandoli in un tramonto… davvero può la brezza al crepuscolo alleviare il canto di un grillo nascosto musicando l’intera natura… davvero può un sorriso specchiarsi di un altro sorriso quando un uomo sa di non esser più solo… davvero… … ma se davvero tutto nel creato è un arcano prodigio, se tutto è celato in una cometa terrena, anche tu puoi amarmi, e se mi amerai null’altro sarà che mistero in un travolgente uragano. 248 DavveRo ovèro ’o mare po’ accuietà ’a forza ’e ll’onne soie facennole addurmì int’a nu tramonto… ovèro nu ventariello lieggio po’ dà sullievo a ’e palpite ’e n’arillo annascunnuto enchienno ’e museca tutta ’a natura… ovèro nu pizzo a rriso se po’ mmirà int’a n’ato pizzo a rriso appena n’ommo ’ntenne ca sulo cchiù nun sta… ovèro… si allora è ovèro ca tutto ’e chistu munno è nu miràculo, si tutto sta ’nzerrato annuscunnuto dint’a na cumeta, tu pure me può vulé nu bene senza fine, e si me vularraie ovèro bene, sarrà nient’ato ca mistero, dinto a na tempesta ’e vase e passïone. 249 l’eccezioNe Perché una poesia di Karol Wojtyla? Ti ho cercato anche nei Tuoi scritti, Padre, ed in essi ho trovato l’Uomo ed il Tuo sublime modo di essere fra gli esseri. Non saprò interpretarTi totalmente: la Tua grande globalità mi rende ancor più piccolo e povero, ma mi arricchisco di Te attraverso la coerenza della Tua parola, la forza del Tuo spirito, il Tuo credo nell’umanità. È un atto di amore che compendia il mio sentimento e quello del mio popolo per Te. Karol Wojtyla (Papa Giovanni Paolo II) - Wadovice (Polonia) 1920-città del vaticano 2005) Primo papa polacco nella storia della Chiesa. Filosofo, teologo, poeta, attore, sportivo. Durante l’ultima guerra collaborò con la Resistenza polacca. Cominciò a pensare di diventare prete a 22 anni, mentre lavorava come operaio in una miniera. Apparteneva a una famiglia povera, ma molto unita. Il padre era un sottufficiale di carriera dell’esercito. Dal 1927 al 1931, Karol frequentò le scuole elementari della cittadina natale. Fu durante questo periodo che conobbe il primo grande dolore della sua vita. Nel 1929 morì improvvisamente la madre, a cui era affezionatissimo. Nel 1938, Karol si trasferì a Cracovia e si iscrisse alla facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università Jagellonica. Poté continuare gli studi solo per un anno e mezzo. I nazisti, quando invasero la Polonia nel 1939, chiusero tutte le scuole, e Karol, per non essere depor250 tato, andò a lavorare: prima come minatore a Zakrzowek, e poi negli stabilimenti chimici «Solvey» di Falecki. In quel periodo fu colpito da altre due tremende sciagure: morirono suo fratello maggiore, già laureato in medicina, e suo padre. In quel periodo tanto doloroso sfogava la sua tristezza scrivendo poesie e dedicandosi allo studio della letteratura. Fece amicizia con l’attore Mieczyslaw Kotlarczyk e con lui fondò un teatro d’avanguardia, clandestino, chiamato «Teatro rapsodico». L’incontro che cambiò la vita di Wojtyla avvenne all’inizio del 1942, nella miniera di Zakrzowek. Tra i suoi compagni di lavoro, Karol fece amicizia con un certo Janem Tyranowskim, 40 anni, di professione sarto, col quale trascorreva molto tempo a parlare dei problemi fondamentali del mondo e della vita. Karol era sempre stato religioso, ma non aveva mai pensato, fino a quel momento, di dedicare la sua vita a Dio. Fu Janem a prospettargli questa possibilità, e in poche settimane Karol vide chiaramente che quella era la sua strada. Il primo novembre del ’46 fu ordinato sacerdote. Il 13 gennaio 1964, Paolo VI lo nominò arcivescovo di Cracovia e tre anni dopo lo fece cardinale. Il 16 ottobre 1978 è stato eletto Papa. 251 lo scHizotiMico vi sono momenti sordi, momenti disperati – sarò ancora capace di emettere un pensiero, di trarre calore [dal cuore? Non rompere con me, non preoccuparti della mia rabbia. Non è rabbia, no – è solo un litorale deserto. Ma allora mi pesa tanto anche il fardello più lieve. cammino, ma sono immobile, non sento alcun movimento. Ricòrdati – non sei fermo, ma nel silenzio si tendono le forze che troveranno la loro strada, forze che esploderanno. e anche allora – non d’improvviso, non con tutto te stesso [in una volta sola. suddividi i momenti del cuore, suddividi la pressione [della volontà. Non bruci in un attimo nel chiarore febbrile delle pupille ciò che cresce nei periodi di calma. 252 lo scHizotiMico ce stanno mumente cupe, mumente ’e disperazione – sarraggio capace ancora ’e fa’ nascere nu penziero, ’e fa’ ascì nu poco ’e calore ’a stu core? Nun t’ appiccecà cu mme, nun t’apprennetì d’ ’arraggia mia. Nun è arraggia, no – è sulamente na spiaggia sulagna. Ma allora me pesa assaie pure ’o piso cchiù lieggio. cammino, ma nun me movo, nun cagno posto. Ricuordete – nun staie nchiummato, ma int’ ’o silenzio s’attesano ’e fforze ca truvarranno ’a strata lloro, forze ca scuppiarranno. e pure allora – no all’intrasatta, nemmeno cu tutto te stesso int’a na vota sola. spàrtele ’e mumente d’ ’o core, spàrtela ’a ncasata d’ ’a vuluntà. Dint’ ’o chiarore ’e ll’uocchie nun s’ha dda fa’ cennere int’a n’attemo tutto chello ca nasce int’ ’e ghiurnate ’e pace. 253 BiBlioGRafia Della cRitica e.a. Mario, «Piedigrotta 1960», ed. e.a. Mario. Giovanni De caro, Prefazione a L’Amico, 1960. Piero Girace, Rai, 2° programma, 17 febbraio1961. ottavio Nicolardi, Prefazione a ’A mamma d’ ’o surdato, 1961. Rai, 2° programma, 6 febbraio1962. Marco Ramperti, Prefazione a Vint’anne, 1961. Pitigrilli, «la tribuna illustrata», 22 luglio 1962. umberto Galeota, Prefazione a Notte ’e settembre, 1964. franco scozio, «il Risorgimento Nocerino», 4 dicembre 1964. 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Mario. si tratta di un vero poeta. la sua rettitudine si sposa egregiamente con la sua ispirazione. sull’una e sull’altra, brilla un lume di dolce malinconia, però serenamente consolata, come la bruma del mattino che vela, senza pur offuscarla, la luce del suo golfo. Ne deriva lo splendore incerto, e pure così attraente di versi come quelli del Tramonto, di Notte ’e settembre, di Vint’anne. Ma in Palomma il canto torna libero, lieve e felice qual è il volo della farfalla descritta. (Marco Ramperti, Prefazione a Vint’anne, 1961). il linguaggio poetico di Pisani è quanto di più suadente, lieve e musicale ci porga la tradizione. Meraviglia la maturità dialettica del giovane, e meraviglia l’equilibrio espressivo suo. (Paolo Perrone, «la voce di Napoli», 8 febbraio 1965). Poesie di limpida ispirazione, sempre interessanti. una voce nuova che fa tanto bene ascoltare tra lo schiamazzo di troppi versificatori. (ettore De Mura, «Ribalta artistica», 1966). ciò che di nuovo, di veramente nuovo, ci sembra di cogliere nelle poesie di Raffaele Pisani è la sorprendente capacità dell’autore di tradurre in versi, in lirica, in poesia sentimenti e stati d’animo profondamente vivi, attuali, «moderni» nel senso più vero della parola, universali in quanto riscatto della privata vicenda del compositore nella più generale condizione dell’uomo di oggi nel mondo di oggi. (andrea Geremicca, «la voce di Napoli», 20 maggio 1967). la particolarità di Raffaele Pisani è che riesce sempre a dire ciò che gli canta nel cuore senza tuttavia andare in prestito da nessuno per idee, sentimenti e modo di esprimersi. la sua vena è genuina, il suo stile è facile ma mai banale, il verso musicalissimo, i metri spesse volte quasi preziosi. Poesia vera, dunque, la sua e sorretta sempre da una esemplare sincerità d’ispirazione oltre che da una esuberante ma sorvegliata sensibilità espressiva. con i tempi che corrono sono, queste, qualità non da poco e su di esse si può fare pieno affidamento. (Giovanni sarno, «un secolo d’oro», ed. Bideri, 1968). 262 È una voce possente contro l’indifferenza del mondo il lavoro di Pisani attraverso poesia scorrevole e semplice eppure rigoristica. (Guido della Martora, «Roma sera», 2 maggio 1973). l’interpretazione in poesia napoletana dei «Promessi sposi» è ricca di pregi, e la prova da lui affrontata è superata brillantemente, sia per la fluidità del verso, che con costante naturalezza (quella naturalezza di così difficile realizzazione) esprime con nitida essenzialità gli stati d’animo e le reazioni psicologiche dei personaggi delle diverse categorie sociali, di cui è folto il romanzo, di fronte alle più diverse situazioni; sia per il palpito di schietta umanità che tutta la pervade; sia per il tono di liricità, che nei momenti culminanti arricchisce il racconto. (sebastiano Di Massa, Prefazione a I Promessi Sposi in poesia napoletana, 1974). Pisani è tra i pochi a coltivare ancora la poesia dialettale napoletana; e vi si applica con amore umile e appassionato e con risultati spesso felici. le intenzioni del giovane poeta riescono quasi sempre a venir fuori, con una loro accattivante e disarmante freschezza. (Michele Prisco, «il Mattino», 15 gennaio 1975). amore e poesia fanno tutt’uno; il bel sole del golfo e la chiara luna di Posillipo hanno la loro parte, ma la loro parte l’hanno, soprattutto, la freschezza e la perfetta arte del verso. Raro poeta, il Pisani, in questi nostri giorni che hanno dimenticato i temi popolari ed esigono forme di poesia cerebrale, per trascinarla nei contrasti civili, cruda e aspra e povera di armonia e di canto. (carlo Ravasio, «la Notte», Milano, 5 maggio 1976). Raffaele Pisani è un poeta che spesso merita l’aggettivo «delicato»: però ha il merito di sapere che Napoli è un giardino dove tra i molti fiori si nascondono spine. e lui, fra fiori e spine, non ha paura di pungersi. (Giuseppe Di Bianco, «Roma», 2 febbraio 1977). Raffaele Pisani, valido combattente per la rinascita della poesia napoletana. (settimia cicinnati, «Roma», 24 marzo 1978). con Raffaele Pisani la poesia napoletana smette marsine logore, abbandona gli antri bui e piagnucolosi di Boheme in piazza, si fa istrione, sale sugli autobus della metropoli, si avvinghia ai muri di cemento macchiati dai segni di cuori solitari, di repressi politici e repressi comuni. chi ha il coraggio di scrivere: «Dio aveva criato Napule tale e quale a ’o Paraviso: l’avimmo nchiavecata e ognuno ’e nuie ce ha miso ’o ssuio»? 263 chi ha l’ardire di scrivere e per giunta su un muro di cemento: «Nun aspettammo ca ce scenne sempe tutto ’a cielo… Mparammoce ca malasciorta e bonasciorta c’ ’e ffacimmo cu ’e mmane noste». e lui, Raffaele Pisani, che a dieci anni leggeva viviani, a 15 conobbe e.a. Mario, a 19 pubblicò il suo primo libro, a 40 predilige i muri per dipingere poesia. (luciano Giannini, «Paese sera», 10 ottobre 1980). Raffaele Pisani, napoletano e poeta, e per questo doppiamente genuino. (Mattias Mainiero, «il Giornale d’italia», 16 luglio 1981). Raffaele Pisani, poeta di Napoli che da più di vent’anni si dedica con accanita passione alla «riabilitazione letteraria» del dialetto partenopeo. (Pietro treccagnoli, «il Mattino», 30 luglio 1983). Raffaele Pisani tra i più fervidi e fecondi poeti della nuova generazione, d’ispirazione schietta… sempre spontaneo e appassionato. (Giovanni artieri, «Napoli scontraffatta», a. Mondadori, 1984). coscienza critica, adulta sensibilità, questo testimoniano i versi di Pisani. (Pasquale Maffeo, «il campano», 15 marzo 1986). il Pisani è la migliore dimostrazione che si può fare poesia, e vera poesia, su Napoli. (vincenzo fuso, «Ribalta», 1986). Pisani, un poeta napoletano contemporaneo che da anni si stacca dalla pletora degli improvvisatori per serietà di studi. (Gianni infusino, «il Mattino», 19 gennaio 1988). Pisani si muove su una linea di estrema sincerità espressiva, in una tessitura linguistica raggiungibile e fruibile da ogni lettore. (aldo onorati, «il Domani», 30 maggio 1989). il poeta visivo Pisani si esalta nella immediatezza dei sentimenti semplici e mostra, in più casi, di essere riuscito a conseguire una felice osmosi tra parola scritta ed elaborazione grafica. (Gino Grassi, «Giornale di Napoli», 9 dicembre 1989). i sentimenti di Pisani sono scoperti, finanche spudorati, senza ritegno. e pudore e ritegno sono stati da sempre le sue caratteristiche che pure non gli hanno impedito di lanciare invettive (ricordiamone una per tutte: «vestimmoce ’e serietà»). (Mario forgione, «Napoli oggi», 30 maggio 1991). 264 l’ispirazione e i germi dei buoni sentimenti, di cui ogni lirica di Raffaele Pisani è pregnante, contagiano anche chi è distratto o chi non ha una frequentazione assidua con la poesia. (Nello Pappalardo, «Giornale di sicilia», 21 dicembre 1991). Pisani è un poeta verace, serio, coerente e comunicativo al massimo. (ines lupone, incontro culturale, settembre 1992). Pisani, pioniere e maestro del «Graffiti metropolitani», vincitore di premi nazionali per intensità e qualità della produzione, servendosi del dialetto napoletano (in realtà acquisito a linguaggio universale) come mezzo anche di comunicazione immediata, ha proseguito in quell’attività nella quale crede come in una missione, così come da sempre fa professione d’amore e di speranza per una Napoli che egli mai dimentica. (enzo Perez, «il Mattino», 31 ottobre 1992). Pisani si è sempre distinto per il suo convinto impegno in favore di Napoli e della sua cultura. Per stimolare i suoi concittadini, li ha punzecchiati, persino offesi: «Non dovete essere lampadine fulminate», «vestitevi di serietà!». (vincenzo fasciglione, «Ribalta», ottobre 1992). Pisani si distingue per schiettezza di ispirazione e per impegno civile cogliendo riconoscimenti critici di rilievo ed entrando anche nelle antologie scolastiche. il suo canto corrisponde perfettamente a quell’ansia di rinnovamento e di ricostruzione che oggi viviamo. il poeta torna ad essere quello che era una volta l’interprete della coscienza del popolo, lo sprona per fare prevalere i valori positivi, per «riaccendere» quelle «lampadine» che ancora spesso sono spente. (sergio sciacca, «espresso sera», 8 maggio 1993). Raffaele Pisani è oggi una delle voci più limpide della tradizione dialettale napoletana. (salvatore Di Marco, «Giornale di Poesia siciliana», maggio 1993). Pisani rappresenta l’autentica e schietta voce di Napoli, e con i suoi versi semplici ed efficaci spinge quella città a ribellarsi contro l’ingiustizia ed il degrado morale. (Maurizio Giordano, «Giornale di sicilia», 17 luglio 1993). la poesia di Pisani, con solennità, parla alle «lampadine fulminate», agli uomini della sua terra che egli avrebbe voluto più fattivi, più coscienti, costruttivi, fuoco vivo, acqua sorgiva, stelle lucenti d’esempio di vita. il 265 dolore dell’uomo di fronte al proliferare delle lampadine fulminate si stempera nella natura che ancora fa bella Napoli. il poeta parla di sé, parla d’amore, poi, torna severo, accusa, mette a nudo piaghe antiche e recenti per gridare forte: «frate mieie napulitane, / v’avarria vuluto stelle, / comme ’e stelle ’e cchiù allummate, / tutte luce d’oro e no / lampadine fulminate! ecco il monito della poesia di Pisani: si vesta di serietà la città che si è fatta punto di riferimento del degrado. (angelo calabrese, «il Domani», Napoli, 5 luglio 1994). una vita dedicata alla poesia dialettale, erede del bagaglio culturale e della tradizione vernacolare napoletana di e.a. Mario, ed ecco presentato Raffaele Pisani, con una sintesi estrema imposta dallo spazio ma non da ciò che realmente si potrebbe dire di questo napoletano illustre, in modo semplice e schivo, che ai versi ha davvero dedicato la vita. con amore, perché la poesia è amore, malinconia perché la poesia è malinconia e una fervidissima immaginazione, perché la poesia è anche questo. fantasia che viene in soccorso della Realtà a spiegare i sentimenti attraverso le immagini lì dove anche la parola ha bisogno di un supporto visivo per dare maggiore vigore al suo significato. Pisani non è nuovo a questo gioco avendo già dato vita nel 1989 a «Poesigrafie», in cui segno grafico e verso venivano uniti in un tutt’uno perfetto e armonioso dove poesia e immagine che la raffigura e richiama si riflettono l’una nell’altra dandosi sempre maggiore vigore per elevarsi nel loro più alto significato. avviene così anche per «stelletelle», la più recente raccolta di versi di Pisani, circa 130 poesie, delle quali ventitré entrano a far parte di questa singolare esposizione grafica. (costanza falanga, dalla presentazione di «Ritagli da stelletelle», Galleria d’arte «il Diagramma 32», Napoli, 29 ottobre 1994). ebbene, lo confesso, mi è piaciuta davvero questa poesia (’o sole) di Raffaele Pisani. tutto concorre a farla bella: gli elementi cromatici forti, vividi, che l’autore getta sulla carta a pennellate energiche e precise. il poeta ricrea la vita, come il suo adorabile «guagliunciello» sul quaderno di scuola. Grazie Raffaele. anche se spesso, per il mondo editoriale, dialettale vuol dire marginale, la tua poesia non lo è. (ippolita avalli, «Pratica», novembre 1994). Pisani si fa voce e interprete del popolo napoletano condannando lo stato dei fatti e delle cose in cui versa la città; egli implora il suo prossimo (dello stesso retaggio di sangue) perché insorga ideologicamente contro le 266 ingiustizie messe in atto da persone senza scrupoli e perciò chiede, anzi rivendica un riscatto perché Napoli si ritrovi ancora in una condizione il cui privilegio le spetta per diritto e per censo. (enzo Manzoni, «ii Giornale di Napoli», 19 gennaio 1997). Raffaele Pisani è una voce importante della poesia napoletana contemporanea. (salvatore Palomba, Napoli, parole e poesie, Napoli, liguori, 1998). Pisani scrive poesie capaci di generare nel lettore grandi emozioni e intense vibrazioni armoniche. i suoi versi si tingono di una napoletanità dalle tinte forti, dalla sinfonia dolce che chiunque, napoletano e non, può sentire facendosi trasportare da note sincere e ispirate. (Daria Raiti, «la sicilia», 23 maggio 2000). Nell’arco di un quarantennio la selezione dei temi ha reso originale e inconfondibile la poesia di Raffaele Pisani nel panorama della recente poesia dialettale. tre sono i nuclei tematici prevalenti: la ricerca religiosa, l’impegno sociale e civile, l’amore. Queste diverse direzioni tematiche sono tenute insieme da una intrinseca qualità delle poesie di Pisani o, per meglio, da una disposizione mentale e caratteriale del poeta, che si configura in effetti come una precisa scelta di poetica. Pisani infatti non è un poeta concentrato su se stesso, non limita a se stesso il proprio orizzonte d’osservazione, ma è sempre proiettato verso l’altro. Nelle poesie d’amore al centro dell’attenzione non è il proprio sentimento, ma è la donna con la quale l’amore si realizza. lo si vede molto bene nelle poesie che fanno da sottofondo a un saldo e delicato sentimento che lega l’autore a francesca. […] la propensione verso l’esterno, verso gli altri, della poesia di Pisani è ancora più evidente nei tanti versi dedicati a Napoli, città amata – questa volta con sofferenza – e continuamente presente nelle diverse raccolte. come l’amore, anche Napoli è un argomento che ritorna spesso nella poesia in dialetto, ma anche in questo caso l’angolazione scelta da Pisani si allontana dalla prospettiva più prevedibile. […] se la visione dei problemi non conduce mai il poeta al cupo pessimismo o alla desolazione è anche perché i versi di Pisani sono animati e sorretti da una fede profonda che impedisce all’autore di perdere fiducia nell’uomo. anche in questo senso la sua poesia è aperta all’esterno: le intense e delicate preghiere di Llà, cu ’a speranza (1988) nascono da un dialogo con il signore che raggiunge momenti di una freschezza quasi francescana. […] 267 in particolare per questo suo impegno cristiano la poesia di Pisani acquista una sua collocazione originale nella poesia italiana contemporanea; ma, d’altra parte, nel suo insieme essa merita di essere letta con attenzione e considerata non solo in rapporto alla poesia napoletana, ma nel quadro ricco e movimentato di tutta la poesia in dialetto dell’ultimo cinquantennio. (Nicola De Blasi, dalla Prefazione a Pisani, un poeta per compagno di francesca Musumeci, c.u.e.c.M., catania, 2005). Raffaele Pisani è un napoletano doc, un gentiluomo autentico, di quelli che Napoli non sforna più. Dalla figura fine, signorile, elegante. Dalla parlata accattivante. Pisani pensa e scrive in dialetto. Più che un poeta di salotto, Pisani è un poeta di strada, poeta dell’amore… ma la sua poesia si fa ardita, cambia registro, quando in opposizione alle moderne correnti e alla noia del quotidiano, confeziona versi fulminanti per una Napoli che non piace, che non va. (umberto franzese, «albatros», Napoli, maggio 2006). la produzione poetica di Raffaele Pisani è di una vastità sorprendente: oltre ai volumi di versi propri egli ha arricchito di esperienze singolari la letteratura di Napoli. Geniale, infatti, fu la sua idea di realizzare sulle pareti della collina di Posillipo Un muro di poesie. Questa ci pare un’iniziativa che andrebbe sostenuta e sviluppata. […] la tecnica del verso di Pisani respira i tempi nuovi e segue nel canto fatto di perizia ed intelligenza una vena genuina e personale vibrante di musica e di armonie. (ettore capuano, «letteratura a Napoli», Graus/editore, 2007). Nel panorama della poesia dialettale napoletana Pisani ricopre un posto di primo piano e tutti dobbiamo essere grati al Poeta per quanto fa da oltre un cinquantennio per tenere vivo un dialetto che da molti, a giusto motivo, viene considerato una vera e propria lingua. (Nicola squitieri, «avanti», 30 luglio 2009). «Mettiteve scuorno», sfogo sacrosanto di un poeta ferito nell’animo dal degrado della sua terra dove affaristi e speculatori agiscono indisturbati nel più assoluto disprezzo delle leggi. Questa volta il poeta mette da parte la sua tradizionale vena idilliaca, il suo linguaggio aulico per tuonare con decisione contro i «nuovi barbari». (santo Privitera, «la sicilia», 3 agosto 2009). «Mettiteve scuomo» è un grido di dolore che dà voce all’indignazione di tutti i napoletani, un’intensa invocazione di giustizia, una richiesta di 268 aiuto a Dio, che non si ferma di fronte a tutto il marcio che ha fatto scempio di una terra meravigliosa. un’intera vita, quella di Pisani, dedicata alla poesia di Napoli. (alfredo tommaselli, «Roma», 7 agosto 2009). Raffaele Pisani da anni con le sue poesie canta il suo amore per la città, portando avanti la sua resistenza contro le ingiustizie sociali. Mettiteve scuomo esprime la volontà di risvegliare le coscienze dall’indifferenza rispetto ai problemi che affliggono la città. il Poeta lancia invettive e invita i napoletani ad assumersi le proprie responsabilità e a ribellarsi a tanto degrado. (elda oreto, «la Repubblica», 29 agosto 2009). Raffaele Pisani vive quotidianamente di pane e Napoli. un poeta di cui si vengono riconoscendo nei nostri giorni qualità e aspetti finora non rilevati. autore di esperimenti letterari di non piccolo impegno. cantore musicale e tenero della bellezza di Napoli, ma anche pronto, con energici scatti di passione ed efficace espressione, a buttar via come zavorra tanti luoghi comuni su questa città, nella prospettiva di un suo riscatto. (ugo Piscopo, «corriere del Mezzogiorno», 1 novembre 2009). la poesia di Pisani ci invita ad una presa di coscienza per farci riflettere su ciò che abbiamo combinato e darci un appiglio cui aggrapparci per uscire dalla lota in cui ci siamo pericolosamente immersi. (luigi antonio Gambuti, «dodici pagine», afragola, 5 dicembre 2009). Raffaele Pisani, una vita tutta dedicata alla poesia napoletana per un solo sogno: vedere Napoli riconquistare il ruolo di città di arte, cultura e bellezza, il ruolo di «capitale d’europa» amata e rispettata in tutto il mondo. («Quotidiano di sicilia», 17 dicembre 2009). Questo libretto di Pisani (Mettiteve scuorno) bisognerebbe farlo studiare a scuola, bisognerebbe recitarne qualche brano nelle assise nazionali dove si radunano gli egregi che si sentono eterni ma che – è una legge di natura – finiranno pure loro. (sergio sciacca, «la sicilia», 15 agosto 2009). Metti una sera a cena tra poesia e buffet condominiale. Non è una boutade o una chimera, ma l’originale formula conviviale ideata e messa in pratica in queste serate estive da Raffaele Pisani, napoletano verace e amante della poesia, ormai catanese d’adozione. Pisani ha infatti deciso di sperimentare questa pratica di possibile armonia condominiale in un palazzotto di via Plebiscito, a ridosso di san Domenico, a catania. Ha fatto 269 circolare inviti ai condomini, a qualche parente e amico et voilà: ecco servita una sorprendente serata nel cortile condominiale a base di recital letterari e pietanze cucinate in casa da ciascuno dei convitati. e tra versi della Centona di Martoglio, poesie d’autore e sceneggiature teatrali fatte in casa e recitate dall’intera famiglia, in un groviglio di dialetti tra il siciliano, il pugliese e il napoletano, un intero condominio ha scoperto il piacere di trascorrere un momento di spensieratezza tra cultura e gastronomia (e anche qui c’è da fare le lodi ai presenti!). (Gianluca Reale, «vivere - la sicilia» 2 settembre 2010). leggendo i versi di Pisani si scopre la musicalità del napoletano, la duttile freschezza riscontrata con Di Giacomo di cui si sente allievo, benché fra i temi si scoprano interpretazioni personali di altri versanti letterari e pure rifacimenti biblici con richiami alla religione, agli affetti familiari e all’amore che pongono il poeta napoletano fra i più apprezzati. (Pasquale almirante, «la sicilia», 18 dicembre 2010). ci sono da operare due preliminari considerazioni per comprendere e giustificare il coraggio di quelli che come quest’abile cantore di Napoli, “fanno” poesia. la prima cosa da dire, è che la capacità di vincere le resistenze poste da un’idea malintesa di modernità (purtroppo tragicamente e nervosamente trionfante) è oramai una cosa rara, quindi solo l’amore vero e la passione sfrenata verso la poesia, possono affrontare il silenzio che spesso circonda le parole dei poeti e trarre nonostante ciò, la forza necessaria per continuare a percorrere la strada povera ed in salita della poesia nell’epoca attuale. la seconda cosa da dire, è che sembra impresa donchisciottesca, “fare”, in questo spazio ed in questo tempo, non solo poesia, ma poesia in dialetto. Poesia in dialetto, in un mondo che nell’inseguire la globalizzazione, sembra quasi voler perdere le differenze, che spesso sono le caratteristiche ontologiche del sentire di un popolo, soprattutto, quando si tratta di quelle linguistiche, per arrivare ad un lingua unica ed universale e senza dubbio più povera. (fabrizio Grasso, «i vespri», catania, 31 dicembre 2010). Questa città, si racconta nel componimento che apre «coMMe Nascette NaPule» (ed. c.u.e.c.M. catania, 2011), è stata creata per essere donata a Maria, indice di grandezza e “nu paese accussì bello / c’ha dda essere p’’a gente / un autentico giuiello!”, un pezzo di Paradiso scelto da Dio per essere portato sulla terra. un frammento perfetto di un mondo immacolato portato qui, nel nostro mondo, una responsabilità data a chi ancora non riesce a conservare la bellezza di questa città; i napoletani ven- 270 gono ritratti come “lampadine fulminate” di questo cielo blu perché rimangono immobili davanti ai cambiamenti di questa città eterna che piano piano sta cadendo. Pisani, inoltre, dedica a tutti gli innamorati e al suo amore uno spazio di poesie d’amore come “l’albero tuio” dove si concede un po’ d’ombra e di riposo al proprio amante e scene di vita quotidiana insieme come in “Nnanz’ ’o ffuoco”. un poeta e uno scrittore sincero che attraverso l’accostamento di parole e versi si fa voce dei pensieri altrui; di un uomo che vuole spogliarsi del completo grigio da ufficio e tornare nella sua terra di colori, di sole e di amore. evadere da un mondo triste, innamorarsi, avere fede e combattere, questi sono gli elementi che fanno della poesia di Pisani un’opera nuova, semplice, diretta. (Naomi Mangiapia, «RoMa», 1 novembre 2011). figura amabile da signore di altri tempi, Raffaele Pisani, nato nel 1940, è autore di una trentina di raccolte di poesie in dialetto napoletano. Pubblica adesso fRaNce’, con la c.u.e.c.M. editrice catanese di Magistero, storica e benemerita casa editrice nata dall’intelligenza di un altro gentiluomo, Nicola torre, troppo precocemente scomparso. l’amore non soltanto giustifica la vita, ma la origina, la attraversa, la illumina, la redime, è questo il filo discorsivo sotteso al libro. un amore che è comune a luoghi anche distanti, apparentemente diversissimi. “l’amore si fa insomma esperienza totale, attraverso cui viene filtrato ogni altro aspetto della realtà, e diviene condizione esistenziale che dispone a un amore più grande” annota Nicola De Blasi nella prefazione. Pisani è un poeta fondamentalmente lirico, che nei suoi versi raccoglie e traspone emozioni, colori dell’anima, che esprime un sentire complesso, ma tutto sommato positivo, della realtà e del nostro destino. (Marco scalabrino, «osservatorio della poesia in dialetto», scordia, ct, 2011). 271