LA COMUNITÀ DI SETTIMO

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LA COMUNITÀ DI SETTIMO
LA COMUNITÀ DI SETTIMO
STORIA E MEMORIA
COMUNE DI CINTO CAOMAGGIORE
…la considerazione della gente verso una
persona non era legata alla sua situazione finanziaria perché per tutti il nemico comune
era la povertà. Godeva di considerazione il
saper far bene un certo lavoro, o gioco. C’era
chi emergeva nel taglio del fieno, chi nel sistemarlo sul carro, chi catturava più passere con
il diavolon, o rane con la fiocina, o anguille
e pesci “seccando” i fossi, chi si arrampicava
meglio sul palo della cuccagna o sugli alberi,
chi attraversava più volte le cave grandi, chi
si tuffava da una maggiore altezza dal pioppo
nelle cave, chi lanciava più lontano il cibè.
Questi erano gli eroi e di loro si parlava molto;
erano rispettati e citati come esempio. Oggi
lo status sociale dipende dalla cilindrata della
propria automobile, dal vestito firmato; dipende dall’apparire e non dall’essere.
Come è cambiato il mondo in 50 anni! Ma,
per fortuna, Settimo è sempre Settimo e spero
che continui a rimanere così.
GRAZIE SETTIMO
Il Sindaco
Luigi Bagnariol
LA COMUNITÀ DI SETTIMO
STORIA E MEMORIA
Luigi Bagnariol
•
Giorgio Fratte
•
Gian Piero Del Gallo
•
Marcello De Vecchi
•
Livio Marcorin
•
Mario Miorin
•
Adriano Pescarollo
•
Franco Rossi
•
Luigi Zanin
COMUNE DI CINTO CAOMAGGIORE
Iniziativa realizzata
con il contributo della Regione del Veneto
e della Fondazione Santo Stefano
Coordinamento e ideazione grafica:
Marcello De Vecchi
Impaginazione e fotolito:
Studio 7 srl - Fiume Veneto (PN)
Stampa:
Grafiche Risma srl - Roveredo (PN)
Si ringraziano quanti hanno reso possibile la stesura di quest’opera mettendo a disposizione ricordi
e documenti fotografici, fra i quali: Annamaria Paissan, la famiglia del maestro Trevisan, Adriano Daneluzzi,
Paolo Simonato, Luciano Arreghini, Sergio Basso, Claudio Giubilato, Agostino Nogarotto, Oscar Liut,
Loredana Toffolon, Daniela Calgaro, Alida Sonza, Renato Querini e tanti altri. Un particolare ringraziamento
ad Ornella Boattin della Biblioteca comunale per il contributo dato alla realizzazione dell’opera.
© Comune di Cinto Caomaggiore - 2006
In prima copertina “Il martirio di San Sebastiano” affresco della chiesa San Giovanni Battista attribuito a Gianfrancesco da Tolmezzo.
In ultima di copertina la chiesa di Settimo nei primi anni del Novecento.
In prima pagina elaborazione da scritture e disegni di Pre Paulo de Filiberti, cappellano di Settimo nei primi decenni del Cinquecento.
In ultima pagina elaborazione da testi e schizzi di Angelo Cesselon.
Le foto inserite nel testo appartengono all’Archivio della Memoria, alla Parrocchia di Settimo e a quanti hanno collaborato a questo libro.
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INDICE
Presentazione del sindaco Luigi Bagnariol ....................................................................... pag. 7
Introduzione di Franco Rossi direttore dell’Archivio di Stato di Treviso .................................. 11
Reperti Archeologici trovati a Settimo di Livio Marcorin ....................................................... 15
La Villa di Settimo nella strategia di popolamento dei Gastaldi di San Vito
di Luigi Zanin............................................................................................................................... 29
Un Veloce sguardo ai secoli X e XI ed una congettura sulla nascita di Settimo .................. 29
Il popolamento della foresta di Settimo ................................................................................ 33
Alcune osservazioni generali sui rapporti tra Settimo e i gastaldi di San Vito ..................... 38
La Cappellania di Settimo. Fondazione, giuspatronato e funzioni religiose
di Marcello De Vecchi .................................................................................................................. 43
La Comunità di Settimo durante la giurisdizione patriarcale
di Marcello De Vecchi .................................................................................................................. 59
Il Capitanato di San Vito e l’amministrazione della giustizia............................................... 60
La comunità di Settimo e gli homeni de Comun................................................................... 63
Le Vicinie di Settimo ............................................................................................................ 65
Gli ultimi boschi ................................................................................................................... 67
Il Palù di Settimo .................................................................................................................. 68
Jacomo e Jacometo Ragazzoni ............................................................................................. 70
I Sagredo a Settimo ............................................................................................................... 75
La sagra di San Giovanni Battista (nei primi anni del Seicento) .......................................... 76
La questione fra Zamaria Muto e Tonio Zanoto ................................................................... 79
Sposarsi a Settimo................................................................................................................. 82
Alcune note sul secolo XIX .................................................................................................. 86
Archivio dei ricordi. Settimo tra “prai, ciasa, cesa e curtivo”
di Gian Piero Del Gallo ............................................................................................................... 95
Il calendario del contadin ..................................................................................................... 96
El magnar de na volta......................................................................................................... 113
La compagnia teatrale ......................................................................................................... 116
Nascere a Settimo e murir xè l’ultima capea che fa l’omo................................................. 117
Ricordi di Maria figlia di Basso Giacomo detto Bullo ....................................................... 126
Ostarie, ombre e qualcos’altro ........................................................................................... 128
Streghe, maghi ed eretici .................................................................................................... 130
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Memorie di Luigi Bagnariol e Giorgio Fratte .................................................................. pag. 133
Il ’900 a Settimo di Mario Miorin ............................................................................................ 145
Settimo: un secolo di vita paesana ...................................................................................... 145
La latteria di Settimo .......................................................................................................... 154
La parrocchia S. Giovanni Battista di don Adriano Pescarollo ............................................. 157
Unione Sportiva Settimo. Un sogno diventato realtà di Gian Piero Del Gallo .................... 163
Indice delle tavole a colori
tav.
Gli affreschi della chiesa di Settimo foto Claudio Mansuti ....................................................I/XVI
Pietra di confine del 1606 foto Livio Marcorin .......................................................................XVII
L’incrocio del cesiol, elaborazione da mappa del 1682 ........................................................ XVIII
Boschetta di Settimo, elaborazione da mappa del 1682........................................................... XIX
Mappa del Palù di Settimo ......................................................................................................... XX
Documento del 1926 per la bonifica del Palù ........................................................................... XXI
Immagini del Palù di Sergio Basso e altri ....................................................................XXII/XXXI
Immagini del Melon di Sergio Basso ....................................................................................XXXII
Artisti di Settimo: Antonio Paissan ..................................................................................... XXXIII
Artisti di Settimo: Angelo Cesselon..................................................................... XXXIV/XXXVII
Artisti di Settimo: Luciano Cesco .............................................................................. XXXVIII/XL
Vedute di Settimo: Gioia Boccardi - Venezia ............................................................................ XLI
Vedute di Settimo: Marcello De Vecchi - Cinto Caomaggiore ................................................ XLII
Vedute di Settimo: Lenci Sartorelli - Portogruaro ..................................................................XLIII
Vedute di Settimo: Eddy Nociforo - Padova ...........................................................................XLIV
Vedute di Settimo: Julia Populin- Udine ................................................................................. XLV
Vedute di Settimo: Rita Albertario - Portogruaro ................................................................ XLIVI
Vedute di Settimo: Francesco Marcorin Bogdanovich - Cinto Caomaggiore .......................XLVII
Vedute di Settimo: Orietta Celant - Settimo ........................................................................ XLVIII
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PRESENTAZIONE
Quando nel 1997 mi è stato chiesto di impegnarmi a Cinto quale Presidente della Pro
Loco, dopo 20 anni di attività politica svolta fuori dal Comune sia nel Veneto orientale
che in Provincia di Venezia, ho accettato di buon grado, perché il mio istinto ha avuto
sempre la meglio sul raziocinio e la passione ha sempre vinto sul calcolo.
I primi problemi che abbiamo affrontato come Pro Loco sono stati l’ambiente, la
storia del paese, le memorie del paese e le tradizioni; in quest’ottica abbiamo organizzato
dal ’97 la Festa dello Sport, nel tentativo di valorizzare l’attività ed i i risultati degli atleti
cintesi, premiando i più meritevoli.
Nel ’99, eletto Sindaco, ho continuato ad impegnarmi sui temi della cultura locale
e, grazie all’impegno di Marcello De Vecchi, è sorto l’Archivio della Memoria, un’istituzione culturale molto vivace ed attiva attorno alla quale si sono uniti ricercatori locali
e appassionati che, con il loro lavoro, hanno permesso la pubblicazione di varie opere
su Cinto.
I primi volumi editi sono stati gli Annali e la Storia di Cinto, due volumi raccolti in
un cofanetto che hanno ottenuto il finanziamento dalla Comunità Europea. In quella occasione ho avuto modo di affermare che questo lavoro doveva essere un punto di partenza
e non uno studio finale come spesso accade in quelle amministrazioni che intendono la
cultura come momento di bilancio del proprio operato.
Così è stato e, vedendo la piccola pila di opere che in questi anni l’amministrazione
ha patrocinato e contribuito a finanziare, posso dirmi soddisfatto dei risultati raggiunti.
Si tratta di:
• Cinto Caomaggiore. Annali
• Cinto Caomaggiore e la sua storia
• Siepi e Dintorni
• San Gaetano
• La neve e il Sahara
• Scarpe Gialle
• Nelle terre degli Abati
• Flora e Fauna nel Comune di Cinto Caomaggiore
• Cronache di vita agreste
• Gli anabattisti di Cinto. Esodo e vicissitudini
• Il centesimo di Napoleone
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Cinto Caomaggiore 1946-2004. Tutti gli Amministratori del Comune
La Fraterna del Miglior Viver
Cinto Contadina
Calendario degli anni 2000, 2001, 2002, 2003, 2004, 2005, 2006 e 2007
Con piacere presento ora il volume dedicato alla storia di Settimo, opera che mi sta
particolarmente a cuore perché in questa località sono nato e, salvo un periodo vissuto
all’estero e poi a Pordenone, vi ho sempre abitato e lì ho i ricordi della mia vita e specialmente della mia infanzia.
I miei ricordi incominciano con la 2a Guerra mondiale, le incursioni di Pippo (così
venivano chiamati i bombardamenti notturni fatti dagli alleati) i partigiani, i fascisti, le
“SS”, un periodo di molte paure ed insicurezze, ma anche di tradizioni vive come quella
del porsel de S.Antonio e di ricordi indimenticabili come la figura di Don Ernesto Linguanotto.
Ricordo le scuole nell’attuale oratorio, e quando, dopo la fine delle lezioni, si giocava sulla strada (non essendoci le automobili) con il cibè, le balute, busa, riga, el mucio,
botoni, ect.
In maggio, dopo il rosario, si andava tutti in piazza a giocare alla cavaletta, a scondi
cuc, ed in inverno con la slitta o i socui con le broche sotto a scivolare sul ghiaccio lungo
i fossi. D’estate ci trovavamo invece tutti a nuotare sulle cave e sul canal (Caomaggiore),
mentre i bambini più piccoli giocavano nelle cave piccole e nel canalut. Alla domenica
eravamo anche più di 50.
I più grandi seccavano i fossi che una volta erano pieni di acqua e di pesci, i più piccoli
andavano a nidi e in giro nei campi a giocare agli indiani: insomma, tutta un’altra vita.
Alla domenica, prima di Vespero, ci trovavamo tutti nel brolo del Prete a giocare a
calcio ma, di fatto, solo i più grandi giocavano mentre i più piccoli facevano i raccattapalle e solo se si dimostravano impegnati nel ruolo, in premio potevano ottenere di entrare in
campo per qualche minuto di gioco.
I bambini, ma soprattutto le bambine, dovevano andare a “passon” con le mucche,
le oche, le anatre e anche controllare le galline e i pulcini che potevano perdersi o essere
divorati dalle puiane. Ricordo le scorribande dei giovani e dei meno giovani a cogliere
frutta, ciliegie, mele, angurie e uva, tutto per divertimento, e poi tutti nei punti di ritrovo
di ogni borgata, la Via Marignana, la Bassa, L’Alta, il Melon, la Boschetta...
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Ho accoratamente voluto, sollecitando autori e ricercatori nella sua stesura, quest’opera che ora accolgo con favore. Oltre alle ricostruzioni storiche e studi specialistici,
in queste pagine sono raccolte memorie e testimonianze di usi e costumi di un tempo che
si sono tramandati immutati fino a metà del ’900, per essere completamente stravolti e
dimenticati in questi ultimi 50 anni.
Noi dobbiamo confrontarci con la vita di adesso, con i suoi ritmi, le sue regole e i
suoi stress, la conoscenza del nostro passato dovrà servire ad aiutarci ad affrontare meglio
il presente. Un grazie a Ornella Boattin bibliotecaria, a Marcello De Vecchi, fondatore e
coordinatore dell’Archivio della Memoria, per il costante impegno. Desidero poi ringraziare Luigi Zanin, Gian Piero Del Gallo, Mario Miorin, Franco Rossi, Livio Marcorin, Giorgio Fratte e Don Adriano Pescarollo per aver contribuito alla realizzazione di questa opera
che costudisce le nostre memorie e spero servirà ad avvicinarci e rendere più unito il paese
affinché tutti assieme possiamo migliorare la qualità della vita della nostra comunità.
IL SINDACO
Luigi Bagnariol
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INTRODUZIONE
La bibliografia relativa all’agro cintese, che oramai vanta una non disprezzabile consistenza, si arricchisce di un nuovo contributo, sempre grazie alle fatiche di Marcello De
Vecchi, capace ancora una volta di unire, fondere e plasmare in armonico accordo le energie sfuggenti di un coro altrimenti a rischio di stridenti dissonanze e virtuosistici ma sterili
refrains.
Nell’occasione l’attenzione di Marcello De Vecchi e degli autori che lo hanno affiancato nell’impresa – Gian Piero Del Gallo, Giorgio Frate, Livio Marcorin, Mario Miorin,
Adriano Pescarolo e Luigi Zanin – si è appuntata sulla frazione di Settimo, oggi imprescindibile appendice del capoluogo comunale, ma un tempo borgata del tutto disgiunta dal centro maggiore, terra separata per giurisdizione dal restante contesto territoriale e per questo
appartata e lontana nei suoi risvolti istituzionali, amministrativi, giudiziaria, e più ancora
nell’epopea degli uomini che ne hanno intessuto e resa tenace e consistente la trama lungo
il fluire incessante degli anni.
Non si aspetti il lettore un disegno storico perseguito con scolastica diligenza assecondando la stringente falsariga del dipanarsi cronologico degli avvenimenti. Non vi sarebbe
stata certo materia in quantità per lo meno sufficiente. Non vi sarebbero state testimonianze
documentarie in grado di supportare uno sforzo che alla resa dei conti avrebbe potuto rivelarsi affatto sproporzionato ai risultati conseguibili. Questo purtroppo è il limite penalizzante delle microstorie, o delle storie di paese, come meglio si dovrebbe dire. Microstorie
la cui somma assai raramente riesce a tradursi in un ordito storico sistematico e coeso. Ma
non per questo si tratta di storie da abbandonare all’oblio dei secoli come altrettante croci
di un negletto cimitero di periferia. Quello che è difficile è proprio l’attribuzione del giusto
peso, dell’esatto valore, del reale significato, a queste storie, a queste vicende, a questi fatti,
a questi episodi.
E questo è invece quanto sono riusciti a mettere assieme Marcello De Vecchi e compagni d’avventura, capaci, ognuno nel settore di specifica competenza, di superare di slancio
i limiti del bozzetto e dell’episodio chiuso in se stesso, e di proporre alla resa dei conti un
mosaico, che visto dalla giusta distanza e nella corretta angolatura, tessera dopo tessera,
riesce ad esprimere un filo conduttore – il mitico filo rosso, tanto per intenderci – affatto
sorprendente e persuasivo, al di là della differente profondità d’indagine che anima nello
specifico ogni singolo contributo, al di là del rigore metodico non sempre omogeneo che
anima le storie, le vicende, i fatti, gli episodi ricostruiti e proposti all’attenzione del lettore.
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Che poi sono storie, vicende, fatti, episodi di uomini e donne, spesso più intrisi di sofferenze e di dolori quotidiani, grandi e piccini, che di gioie, più ricchi di ombre e di chiaroscuri, quando non anche di tenebre, che di luce. Storie, vicende, fatti, episodi di uomini e donne
che di generazione in generazione hanno seppur involontariamente trasmesso la loro eredità
spirituale e materiale, costantemente irrobustita e impreziosita di nuovi apporti, attraverso
una ininterrotta sequenza di testimoni fedeli e docili fino ai nostri giorni.
Del resto la grande storia, la storia che sovente si compiace, si inorgoglisce, si inebria
di uomini eccezionali, di nobili imprese, di eventi eclatanti, di fatti clamorosi, di battaglie
epiche, di trattati immemorabili, che puntualmente ritornano travisati e incompresi nel loro
portato più profondo in tutti i manuali scolastici, non ha mai avuto troppa simpatia per queste contrade. Piuttosto le ha sfiorate da molto lontano, le ha lasciate vivere nella loro lenta,
dimessa e sonnacchiosa tranquillità, le ha del tutto trascurate con ostentata superbia.
Eppure anche una comunità, modesta e umbratile come quella di Settimo, borgo strettamente apparentato per toponimo ed etimo agli esempi finitimi di Sesto, di Cinto, di Annone,
e quindi legato, per quanto è dato di cogliere nelle esili e frammentarie testimonianze che
i secoli trascorsi ci hanno consegnato, all’innegabile romanità del vicino contesto concordiese, poteva reclamare con giustificato fondamento il suo buon diritto a vedersi descritta,
raffigurata, celebrata e quindi di fatto nobilitata nella pagina scritta.
I testi che seguono vengono allora a colmare, legittimamente, una lacuna alla quale era
più che doveroso porre sollecito rimedio, sviluppando e assecondando più che degnamente
una robusta architettura strutturale che dalle fondamenta del substrato archeologico, attraverso gli infidi guadi dell’età di mezzo, così carica di leggende e di mistificazioni costruite
ad arte, e dell’evo moderno, segnato da queste parti più dalle ombre che dalle luci, giunge
fin quasi a sfiorare più da presso ai nostri giorni le note della cronaca coeva.
Un percorso, occorre aggiungere, non sempre agevole, lungo il quale era sin troppo facile trovare innumerevoli occasioni per abbandonare la strada maestra e sviare nella comoda e
attraente scorciatoia del bozzetto o dell’episodio fine a se stesso, pericolo sempre in agguato
soprattutto in un lavoro miscellaneo e a più voci, con il rischio di perdere di vista il traguardo
prefissato. Traguardo che è stato invece raggiunto e felicemente tagliato soprattutto grazie
all’apprezzabile ricorso al supporto documentario, per quanto consentito dalla documentazione supersite, sopravissuta agli insulti dei tempi e all’incuria degli uomini. Ancora una
volta, infatti, la ricerca archivistica, paziente e metodica, è riuscita a far maturare i suoi frutti
migliori, a dare solido appoggio alle vicende narrate, ai protagonisti evocati sulla scena.
Per questo, credo, che Settimo possa finalmente vantare con giustificato orgoglio una
propria storia scritta, e non solo tramandata e raccontata di generazione in generazione. Una
storia che costituisce ad un tempo innegabile momento d’arrivo e solida base per ulteriori e
parimenti approfondite ricerche.
Franco Rossi
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Interno della chiesa San Giovanni Battista negli anni ’30.
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REPERTI ARCHEOLOGICI TROVATI A SETTIMO
Livio Marcorin
Nei primi secoli dell’era cristiana Settimo, insieme a Cinto, faceva parte dell’agro
concordiese; lo si può affermare con sicurezza perché nel corso degli ultimi vent’anni,
grazie alle ricerche finalizzate alla stesura della Mappa Archeologica del Veneto Orientale,
sono stati individuati diversi siti che hanno restituito reperti di epoca romana. Per quanto
riguarda i millenni precedenti, mentre per Cinto non esiste documentazione, da Settimo
provengono tre reperti che testimoniano come in questo territorio ci fossero insediamenti
antropici già quaranta o cinquanta secoli prima della colonizzazione romana; si tratta di
due asce in pietra verde e di un bulino in selce risalenti alla metà del quinto millennio
avanti Cristo. Per dare un termine di paragone, Oetzi, l’uomo di Similaun, la mummia ritrovata in un ghiacciaio nel 1991 al confine italo austriaco nel massiccio dell’Otztal, è più
“giovane” di 1300 anni.
La prima ascia, rinvenuta dallo scrivente in località Boschette nel 1989 nel sito di
un insediamento di epoca romana, è lunga circa 10 centimetri; la seconda, ritrovata tre o
quattro anni fa da Nicola Morettin a circa un chilometro in linea d’aria verso nord, è leggermente più piccola. Entrambe hanno la parte tagliente ottenuta levigando la superficie
precedentemente sbozzata con un utensile appuntito.
Il terzo reperto, proveniente anche questo dal sito di Boschette e ritrovato da Francesco Marcorin, è una selce di qualche centimetro, appuntita ed affilata sui due lati, definita
un bulino, ossia un utensile che, fissato su un corno di cervo o su un pezzo di ramo, sarebbe
servito per praticare piccoli fori o incisioni (foto 1).
Gli studiosi affermano che la pietra verde da cui si sono state ricavate queste asce
proviene dalle Alpi occidentali, segno che già allora esisteva una forma di commercio
o di baratto con aree anche lontane grazie ad una rete di sentieri che percorrevano l’alta
pianura, sentieri a cui in un secondo tempo si sono sovrapposte le strade romane. Nel libro
Cinto Caomaggiore e la sua storia l’archeologo dottor Vincenzo Gobbo così si esprime nei
confronti del sito di ritrovamento dell’ascia più grande:
“[…] il sito d’età neolitica di Boschette si configura come una delle aree archeologiche più interessanti del Veneto orientale […]”.
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Reperti archeologici trovati a Settimo
Il Neolitico è un periodo della Preistoria, per l’esattezza l’ultimo dei tre che costituiscono l’Età della Pietra (assieme al Paleolitico, diviso in inferiore, medio e superiore, e al
Mesolitico). Inizia verso il 9000 a.C. e si protrae circa fino al II millennio a.C.; l’approssimazione è dovuta al fatto che la specie umana non si è sviluppata in modo uniforme: in
alcuni luoghi l’uomo era già padrone delle tecniche di lavorazione che contraddistinguono
il Neolitico, mentre altrove l’evoluzione era ferma al Mesolitico; analogamente la fine del
Neolitico si sovrappone a quella che per alcune popolazioni era già l’Età dei metalli, in
particolare del rame. Etimologicamente il termine “Neolitico” è formato dalle due parole
greche “neo”= nuova e “litos”= pietra.
Il periodo fu contraddistinto da notevoli innovazioni nella tecnica della lavorazione
della pietra, soprattutto la levigatura degli strumenti litici, e dalla nascita dell’agricoltura
e dell’allevamento nella cosiddetta Mezzaluna fertile, l’odierno Medio Oriente. Sempre a
questo periodo è fatta risalire la scoperta dell’argilla e, di conseguenza, della ceramica.
In base ai reperti venuti alla luce, si può affermare che il territorio di Settimo era già
abitato nel quinto millennio avanti Cristo. Successivamente si registra un vuoto cronologico fino a circa il V secolo a. C., tarda Età del Ferro, a cui risalgono alcuni frammenti di
ceramica grigia grossolana; i reperti sicuramente databili all’età romana infine ci documentano la presenza antropica dal I al III secolo d. C.
Varie sono le testimonianze di epoca romana e qui di seguito sono riportate quelle più
interessanti.
Anfore
Va chiarito subito che nessuna anfora è arrivata fino a noi integra o in parti di una certa
consistenza, né tantomeno sono state ritrovate le pignate piene de schei, rinvenute invece
a Cinto. Sono però emersi dalla campagna molti frammenti: pareti, manici, puntali, frammenti di fondo e qualche bordo. In particolare sono stati catalogati due pezzi di manico di
anfora definita di tipo Rodio, usata come contenitore per il vino, manici di anfora Dressel
2-4, anch’essa usata per il vino, e alcune parti (frammenti di manico e del bordo e la punta)
di un’anfora Dressel 6, anfora diffusa nella Venetia e nell’Istria ed usata per il trasporto di
vino o di olio.
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Reperti archeologici trovati a Settimo
Foto 1
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Reperti archeologici trovati a Settimo
Foto 2
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Reperti archeologici trovati a Settimo
Lucerne
Le lucerne servivano per l’illuminazione; fabbricate in terracotta e lunghe una decina
di centimetri, erano costituite da un serbatoio rotondo contenente il combustibile (olio) e
dal canale di alimentazione alla cui estremità c’era il foro da cui usciva la fiamma. Spesso
erano decorate sulla parte superiore con figure in rilievo.
Nel sito di Boschette sono state trovate alcune parti di lucerna: un pezzo del canale di
alimentazione e tre frammenti del serbatoio dell’olio.
Metalli
Oltre ad alcuni chiodi con sezione quadrata ci sono stati alcuni ritrovamenti interessanti: una chiave in ferro, una stanghetta di serratura in bronzo ed un oggetto di un paio
di centimetri a forma di gabbia esagonale, sempre in bronzo, che si presume essere un
pendente, forse un orecchino o parte di collana (foto 2).
Monete
Nel sito di Boschette è stata ritrovata anche una moneta di bronzo, di diametro variabile tra 30 e 32 millimetri e molto rovinata, tanto da risultare quasi illeggibile. Al diritto
sembra di riconoscere – ma resta solo un’ipotesi – il ritratto dell’imperatore Alessandro
Severo, Marcus Aurelius Severus Alexander (vedasi confronto nella foto 2), che ha governato l’impero dal 222 al 238; il rovescio della moneta è invece più leggibile e riporta la
raffigurazione di Nettuno (anche qui si rimanda alla foto 2).
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Reperti archeologici trovati a Settimo
Vetri
Sono emersi alcuni frammenti di vetro azzurro ed uno di vetro blu decorati con bacellature (costole in rilievo) disposte obliquamente, probabilmente parti di coppa; altro reperto è un fondo di balsamario, la tipica ampollina destinata a contenere unguenti o profumi,
generalmente alta tra i dieci e i quindici centimetri e larga tra i due e i tre.
b
a
c
a - Balsamario (frammento del fondo e ricostruzione)
b - Coppa in vetro azzurro (frammento e ricostruzione di parte della decorazione)
c - Coppa in vetro blu (frammento e ricostruzione di parte della decorazione).
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Reperti archeologici trovati a Settimo
Laterizi con bollo
Sono state ritrovate alcune parti di tegulae recanti il bollo impresso nella fornace:
EVARISTI, ..PRIS…, …RENTI (L. TERENTI ossia Luci Terenzi), …COELI (T.COELI
ossia Titi Coeli), TER FVS (ossia Terenzi Fusci).
Le tegulae erano dei laterizi rettangolari usati per la copertura dei tetti. Di grandi
dimensioni, circa 40 x 60 centimetri con spessore di 3, avevano un bordo rialzato sui due
lati lunghi; la fessura che rimaneva tra le tegulae affiancate veniva coperta da una fila di
coppi.
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Reperti archeologici trovati a Settimo
Terra sigillata
Si definisce terra sigillata una particolare ceramica rossa che reca delle decorazioni in
rilievo eseguite a stampo (sigillum). Dal sito di Boschette provengono due frammenti di
particolare interesse: in uno si può riconoscere la figura di un cervo che volge indietro la testa mentre corre, nell’altro è appena leggibile la coda di un pesce. La terra sigillata era usata
per decorare bordi di piatti e pareti di coppe e quindi denota vasellame di un certo pregio.
Pesi da telaio
Interessante è una serie di pesi da telaio di forma troncopiramidale, con profili abbastanza simili tra loro, ma misure diverse. Due sono del tipo più comune: la base misura
cm 9 x 4,5, l’altezza 15 e il piano superiore è di cm. 5,5 x 4. La faccia trapezoidale di uno
dei pesi è decorata con una A formata da due linee tratteggiate che partono dagli angoli
della base e all’intersezione della linea di sinistra con il tratto orizzontale c’è impresso un
cerchio con quattro raggi. Un frammento della parte superiore di un peso simile a questo
reca impresso un cerchio che però ha otto raggi. Un altro esemplare ha egualmente forma
di piramide tronca con base rettangolare, ma ha misure inusuali: la base è leggermente più
lunga, 10,5 centimetri, mentre l’altezza è inferiore di un centimetro rispetto agli altri pesi.
Infine è stata rinvenuta la parte superiore di un peso che ha l’estremità arrotondata anziché
piatta. Una delle due facce è decorata con tre linee tratteggiate che si incrociano e che
sono state forse ottenute, vista la loro regolarità, con l’ausilio di una rotella dentata sottile.
Tutti i pesi hanno un foro passante di circa un centimetro di diametro, posto nella parte più
stretta, che serviva per appenderli ai fili del telaio.
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Reperti archeologici trovati a Settimo
Tessere di mosaico
Provengono dai pavimenti dei locali dell’ abitazione.
Sono stati rinvenuti diversi tipi di tessere di mosaico: le più semplici sono piccoli elementi in cotto in forma di parallelepipedo o, più raramente, di cuneo; altre, sempre in cotto, sono vere e proprie mattonelle e hanno forma esagonale. Di queste ultime sono emersi
due esemplari diversi fra loro: una mattonella semplice ed una con un foro centrale in cui
era quasi certamente incastonata una piccola tessera in marmo.
Sono state ritrovate infine tessere del tipo più noto (confrontabili, per fare un esempio, con quelle dei mosaici concordiesi) in marmo bianco o nero, di circa un centimetro
di lato e due di altezza. Si ipotizza che gli edifici da cui provengono fossero fattorie con
alcune stanze adibite ad abitazione (e quindi in parte decorate) ed altre ad uso magazzino
o laboratorio.
a
b
d
c
e
a - Mattonella esagonale in cotto
b - Mattonella esagonale in cotto con foro per tessera in marmo
c - Ttessera cuneiforme in cotto
d - Tessere semplici in cotto
e - Tessere in marmo (bianco e nero)
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Reperti archeologici trovati a Settimo
Elementi di pozzo
Nel sito noto come K10 è stato ritrovato un elemento di pozzo, conservato ora al Museo Nazionale Concordiese di Portogruaro. E’ fatto di argilla come i normali mattoni, ma
ha la forma di un segmento di corona circolare. Grazie alla integrità del reperto si sono
potute stabilire le seguenti misure, espresse in centimetri: diametro interno del pozzo 82,
diametro esterno 114, spessore della parete 16 centimetri ed altezza di ciascun giro di mattoni 9,5. Avendo ogni elemento l’arco maggiore di 71 centimetri, ne occorrevano cinque
per completare un giro.
Non disponendo della riproduzione di tale reperto, nel disegno che segue è stato ricostruito un giro di mattoni del pozzo inserendo un elemento frammentario di uguali dimensioni, ma proveniente da un sito di Villotta.
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Reperti archeologici trovati a Settimo
La centuriazione
Settimo faceva parte della centuriazione di Concordia. La centuriazione è la suddivisione del territorio in appezzamenti secondo uno schema che seguiva il metodo ben
codificato dell’edificazione delle nuove colonie, che a sua volta riproponeva l’impianto
dell’accampamento militare.
La città era divisa in quattro quadrati dai due assi viari principali, il cardo massimo
con direzione sud-nord, e il decumano massimo con direzione ovest-est; questi settori a
loro volta erano suddivisi in piccoli isolati quadrati o rettangolari da cardi e decumani
paralleli ai due principali.
Per la suddivisione del territorio i magistrati agrimensori tracciavano per primo il cardo massimo, con andamento rettilineo generalmente da sud verso nord, ma che poteva anche essere leggermente inclinato verso ovest o verso est per adattarsi ad eventuali ostacoli
naturali come fiumi, zone paludose od altro; successivamente veniva tracciato il decumano
massimo e quindi gli altri cardi e decumani. In questo modo si creavano due sistemi di
strade parallele, ortogonali fra loro, che formavano quadrati di 710 metri di lato, le centurie, che a loro volta erano suddivise in quattro parti di 50 iugeri ciascuna. La centuria al
suo interno era attraversata da un reticolo di sentieri e canali di drenaggio che rispettavano
l’orientamento di cardi e decumani.
Una centuria aveva la superficie di circa 50 ettari, lo iugero misurava circa 2500 metri
quadrati ed era l’estensione di terreno che una coppia di buoi (jugum) riusciva ad arare in
una giornata di lavoro.
Gli storici sono concordi nel ritenere che la fondazione della colonia di Iulia Concordia sia nata dalla necessità di ricompensare con l’assegnazione di lotti di terreno i veterani
delle guerre civili che avevano terminato il servizio militare.
Il Bosio, nello studio La centuriazione dell’agro di Iulia Concordia, identifica il cardo
massimo della centuriazione dell’Agro concordiese con il rettilineo della ex statale 251
tra Portogruaro e Cinto Caomaggiore, dando quindi al sistema un’inclinazione di circa 39
gradi verso ovest; P. Baggio, in Interazione tra uomo e territorio antico: l’esempio di Iulia
Concordia, Veneto Orientale, interpretando foto satellitari, corregge questa inclinazione
portandola a circa 29 gradi.
Prima di decidere a quale delle due teorie dare la preferenza, è stato fatto un passo indietro nella storia: era consuetudine in periodo romano erigere capitelli votivi agli incroci di
cardi e decumani; è noto anche che a volte con l’avvento della cristianità tali simboli pagani
sono stati sostituiti da simboli cristiani dando così continuità alla sacralità del luogo. Come
passo successivo si è immaginato che la chiesetta dell’Immacolata Concezione fosse stata
edificata su di un precedente luogo di culto a sua volta sorto al posto di un capitello pagano.
Su una cartina, ponendo in quel punto un incrocio del reticolo, si è provato ad orientare la
nostra ipotetica centuriazione secondo le due diverse inclinazioni proposte dagli studiosi.
25
Reperti archeologici trovati a Settimo
Accettando la tesi proposta dal Bosio si possono individuare a Settimo alcune strade
che ricalcano le vecchie suddivisioni della centuriazione. Via Melon e la parte nord di via
Basedat distano 710 metri e il rettangolo formato da via Melon, via Adige, via Basedat e la
ex statale 251 corrisponde esattamente a mezza centuria, che oltretutto è divisa a sua volta
in due parti uguali da una strada campestre. Anche la disposizione interna degli appezzamenti segue l’orientamento delle strade principali.
Nella mappa del barone von Zach, la Kriegskarte del 1804 conservata a Vienna, la
zona è tuttavia indicata come paludosa ed incolta, e quindi l’attuale orientamento di campi
e strade è recente. Per riavvalorare la vecchia teoria bisogna ipotizzare che traccia dell’antica suddivisione fosse rimasta riconoscibile nonostante il degrado ambientale sopravvenuto. In caso contrario si tratterebbe solo di una strana, ma casuale, coincidenza. Nella
stessa mappa però l’area compresa tra i paesi di Cinto, Pramaggiore, Salvarolo, Chions,
Basedo, Villotta, Banduzzo, Marignana e Settimo è delimitata e suddivisa da una serie di
strade, carrarecce e fossati tutti orientati secondo un asse con inclinazione 39 gradi verso
ovest. Fa eccezione una limitata superficie compresa tra via Treviso, la ex statale 251 e via
Friuli in cui le delimitazioni degli appezzamenti hanno l’ inclinazione di 29 gradi ovest.
A questo punto forse non è azzardato ipotizzare che ci sia stata una prima centuriazione con inclinazione di 29 gradi, ormai identificabile quasi esclusivamente dalle foto satellitari, a cui si sarebbe sovrapposta in epoca più tarda una successiva centuriazione avente
una maggiore inclinazione, di cui sarebbero rimaste tracce fino al diciannovesimo secolo
e, in rarissimi casi, fino ai giorni nostri.
In conclusione, per quanto riguarda gli oggetti sopra descritti, va detto che le asce sono
conservate presso il Museo Nazionale Concordiese di Portogruaro, così come i reperti provenienti dal sito K10 (coordinate UL 2720-7930): tegola con bollo TER- FVS, l’elemento
di pozzo, ceramiche varie. Tutti gli altri reperti nominati in questo lavoro provengono dal
sito di Boschette (coordinate UL 2730- 7790), sono conservati presso la Biblioteca Comunale di Cinto Caomaggiore e sono visibili al pubblico. Per uno studio più approfondito della storia antica del territorio comunale, si rimanda all’opera di AAVV. Cinto Caomaggiore
e la sua storia, edita dalla Pro Loco di Cinto Caomaggiore nell’anno 2000.
L’elaborazione delle foto e i disegni sono di Francesco Marcorin.
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Reperti archeologici trovati a Settimo
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Reperti archeologici trovati a Settimo
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LA VILLA DI SETTIMO
nella strategia di popolamento dei Gastaldi di San Vito
Luigi Zanin
Premessa
A ormai cinque anni passati dal lavoro sui due volumi dedicati alla storia e agli annali
di Cinto Caomaggiore può avere qualche utilità tornare ancora una volta sul breve profilo
storico che venne dedicato in quel lavoro a Settimo per mettere qualche ulteriore tassello,
alla luce di una più recente bibliografia e di un nuovo spoglio archivistico, su quel primo ed
incompleto quadro d’insieme. In quella sede il discorso su Settimo medievale veniva affrontato legando tra loro quegli scarni documenti di età patriarchina concernenti l’attribuzione
di benefici e rendite fondiarie ad alcuni esponenti di una famiglia locale, che individuammo
come i ministeriali “di Settimo”. Pur considerando, anche per la natura tutto sommato abbastanza nota del genere di documentazione, ancora valida quella impostazione, riteniamo
ora di soffermarci su alcuni nuovi aspetti attraverso congetture e ragionamenti che a nostro
avviso potranno completare quel quadro a cui siamo tuttavia costretti a frequenti rimandi e
ragionamenti.
Un veloce sguardo ai secoli X e XI ed una congettura sulla nascita di Settimo
Per capire più chiaramente il contesto dei ragionamenti, occorre volgere uno sguardo
al passato per breve premessa sulla condizione del territorio di Settimo, Basedo, Cinto e
Sesto nell’altomedievo, precisamente nei secoli a cavallo del Mille. Diciamo subito che
non avrebbe senso per noi andare ancor oltre a questo termine temporale, perché tra il X ed
il XI secolo gran parte della situazione politica del territorio è in fase di stabilizzazione, e
questo per il nostro contesto locale conta, come vedremo, molto. La prima cosa a pesare è
l’orientamento dell’impero nell’Italia nord orientale. Immaginiamoci questa zona come un
bosco sconfinato che ha come limiti la Livenza e l’Isonzo, una grande macchia indistinta,
impenetrabile, a tratti paludosa, ed interrotta solo da alcuni piccoli villaggi (villae) e da
centri monastici come Sesto in silvys (l’abbazia tra i boschi) e Summaga (l’abbazia sopra
il fiume, nella fattispecie la Reghena). Su questo grande valdo regna sovrana la volontà
dell’imperatore, che a partire da Carlomagno è, quasi sempre, nello stesso tempo anche re
d’Italia e patrizio romano. Tanto importante era il controllo di questa immensa selva che
perfino imperatori come il friulano Berengario, che pure regnò a lungo, preferirono non intaccarne il reddito complessivo, pure indugiando in una politica caratterizzata da svariante
concessioni a privati, chierici e monasteri, che per la sua apparente disorganizzazione venne
29
La villa di Settimo
definita frammentazione dell’impero. Berengario basa proprio in Friuli ed in Veneto il fulcro del suo potere, ed imposta qua e là una larga politica di concessioni. Oltre alle conferme
dei possedimenti ai monasteri che rientrano nel solco dei suoi aurei predecessori, sempre
interessati per molti motivi a mantenere vive queste isole di immunità religiosa, ci sono
privilegi concessi a privati come la conferma di alcune aziende agricole al cognato Unroch
(890), quella di un manso al diacono Vitaliano nel comitato di Cividale (902) e soprattutto
consistenti addendi ai diritti dei vescovi di Ceneda, Belluno, e al patriarca di Aquileia. Nell’ambito della cospicua attività diplomatica di Berengario non abbiamo dunque prove che
la grande foresta della pianura veneto friulana venisse seriamente intaccata da politiche di
alienazione. Gli stessi organici possedimenti dei monaci di Sesto si situano in modo eccentrico rispetto ad essa: si noti infatti come la parte sostanziale delle massericiae dei benedettini è posta al suo esterno (Lorenzaga, le corti sulle prealpi etc…) mentre San Quirino è
una villa collocata sopra la Stradalta che i diplomi successivi indicano chiaramente come
confine settentrionale della selva patriarcale, ma su questo torneremo fra poco.
C’è un altro aspetto importante cui occorre tener presente, le scorribande ungariche. Per
quanto si possa revisionarne l’entità, è indubbio che questo territorio venne periodicamente
sconvolto da questi razziatori provenienti dai confini slavi. Se ad Aldo A. Settia spetta il
merito di aver precisato che non tutti i castelli dell’Italia nord orientale furono edificati in
chiave anti-ungarica a partire da questi secoli, bisogna continuare a guardare alle pagine di
Carlo Guido Mor per farsi un’idea di quanto peso ebbero queste scorribande nello sviluppo
successivo di queste regioni. Si tratta di un vero e proprio stillicidio di ondate organizzate
che dilagavano attraverso la pianura dall’Isonzo al Piave per poi giungere a razziare tutti i
fiorenti territori delle città padane, come Verona, Brescia e la capitale Pavese, giungendo
fino a distruggere importanti patrimoni come l’abbazia di Nonantola disperdendone in seguito il suo ricchissimo archivio. Gli ungari sono un pericolo condizionante che si riproduce
nel territorio per decenni e spesso più volte nel corso dello stesso anno. A poco valgono
politiche di difesa organizzata, perché in questi anni lo stato semplicemente sembra non
riuscire ad avere una politica unitaria. Nell’899 e nel 900 si susseguono in particolare alcune
cruente scorribande che toccano il medio Friuli e si esauriscono nell’Italia padana e nelle
Venezie, dove dopo un primo successo sul Brenta, la cavalleria pesante italica viene sbaragliata cedendo il passo per un secolo abbondante ai saccheggi e alle stragi di quei barbari.
Gli ungari giungono in Italia con la loro caratteristica cavalleria leggera, atta, come per tutte
le popolazioni nomadi eurasiatiche, agli spostamenti di massa con estrema velocità di manovra anche grazie all’utilizzo delle staffe che consentono una maggiore solidarietà tra cavaliere e cavallo. I caratteri delle incursioni/invasioni ungariche non rivestono tuttavia una
importanza comune a tutta l’area interessata, ma appaiono, se seguiamo le fonti diplomatiche, fortemente legate alla presenza delle strade. È proprio attraverso le arterie ancora esistenti che le ondate si spostano su un asse preferenziale partendo dalla Slovenia ed attraver30
La villa di Settimo
sando velocemente tutta l’alta pianura padana friulana e veneta giungendo poi alle città padane. La loro strategia di rapina e razzia non consente forme di insediamento stanziale, se
non mediante accampamenti e acquartieramenti isolati, documentati nell’area toponomastica friulana e lombardo veneta. Nella marca friulana, entro cui c’è Settimo, il loro è un passaggio veloce, anche se non privo di tragiche conseguenze. Si snoda attraverso la Stradalta
(o Callalta, o Strada Ungaresca Strata Ungarorum) che a dispetto delle mille collocazioni
delle toponomastica sappiamo fosse orientata nella direzione Motta – Aquileia ma si svolgeva più a settentrione del supposto sviluppo della strada consolare Postumia tracciato dal
Bosio1. Se insomma l’archeologia riuscisse a mettere la parola fine all’annosa querelle sul
tracciato della Postumia, che di tanto in tanto torna fuori, stabilendone l’ultima parte del suo
tracciato con tappa ad Annone, allora la Strada Ungaresca si staccherebbe indicativamente
dal tracciato della consolare nei pressi della Livenza e salendo vigorosamente a Nord, formerebbe un alto raggio attraverso l’alta pianura fino a toccare Codroipo (Quadrivium). Questa considerazione sembra essere confermata dalle carte altomedievali, in cui sia il discorso
della selva di appartenenza demaniale, che l’esistenza della strada degli ungari viene messa
sovente in relazione. Il 29 aprile 967, Ottone I di Sassonia, l’imperatore che dopo decenni di
anarchia riesce a mettere a freno le esuberanze degli italici, concede una fondamentale donazione al patriarca di Aquileia comprendente il castello di Farra d’Isonzo, alcuni beni nella
pianura, il diritto di spolio dei morti senza eredi (che significava reclamarne i beni, un diritto regale) e finalmente il possesso di tutta la grande selva che va dalla Livenza e le Due Sorelle (una località sita nei pressi di San Giorgio di Nogaro), e che ha come limiti a nord la via
pubblica della strada degli Ungari e a sud il mare2. La foresta che costituiva il più importante patrimonio della marca friulana integrata nel Regnum italiae, diviene con questo importante conferimento un bene del patriarca, fedele vassallo imperiale, ma anche il centro del
suo futuro comitato. D’altra parte una concessione così larga al presule di Aquileia si spiega
con diversi motivi. Politicamente il Friuli in questi anni si trova inglobato nel grande ducato
bavarese, sotto il controllo dell’influente e ambizioso Enrico (il Leone) fratello di Ottone.
Senza l’appoggio del fratello, Ottone non avrebbe potuto coronare il suo sogno imperiale,
ma d’altra parte le concessioni ad Enrico erano state di tale entità da mettere in crisi le stesse basi del potere imperiale scontentandone perfino il figlio pretendente alla successione.
1
L. BOSIO, Le strade romane della Venetia e dell’Histria, Padova 1997 (rist.). Il tracciato della Postumia collega
invece Oderzo e Concordia passando per Annone Veneto; da Concordia la strada procede per Aquileia. Recentemente è stata proposta una alternativa del tracciato più a nord, passando per Pasiano di Pordenone e Zoppola;
questa seconda ipotesi è suggestivamente collegata alla relazione di un proto archeologo del XIX secolo, un conte
Panciera di Zoppola. L’interesse di questa seconda tesi, a mio avviso, sta nel fatto che vi sono alcune possibili
assimilazioni del tracciato con la Via Ungaresca, ma è una questione ancora sostanzialmente aperta su cui occorrerà ragionare con ben altri strumenti! Su questa seconda ipotesi, M. BUORA – L. PLESNICAR GEC, Aquileia
– Emona, Udine 1989.
2
MGH, Dipl. reg. Imp. Germ, I, Conradi I, Heinrici I et Ottonis I Diplomata, Hannoverae 1879-1884, doc. 431.
31
La villa di Settimo
Dopo il matrimonio tra Ottone e la moglie dell’ex re d’Italia, Adelaide, Enrico ottiene
l’espansione del suo ducato sin al Trentino, Friuli, e all’intera marca Veronese diventando il
più importante suddito dell’impero. Altro fronte aperto era quello veneziano, dove sotto il
doge Pietro IV Candiano la città è interessata ad un momento di grande sviluppo commerciale in Adriatico, rintuzzata in questo da Bisanzio che alimenta non pochi problemi di sicurezza e di stabilità nei rapporti, imponendo anche una difficoltosa politica di dazi. Ottone da
parte sua riesce dove i suoi predecessori ed i suoi successori non sarebbero più riusciti: impone un trattato con Venezia in cui per la prima volta le condizioni della città sono di chiaro
vassallaggio rispetto al Tedesco. Si paga un tributo in moneta imperiale (e non più veneziana), si riconosce poi l’influenza dell’impero, vale a dire dei vescovi di Treviso, Ceneda e
Belluno, sui corsi d’acqua nella bassa, da sempre sotto l’influenza dei veneziani. Di fronte al
rafforzamento di poteri regionali con queste caratteristiche, destinati a crescere e ad rafforzarsi, Ottone investe su una politica alternativa destinando la maggior parte della sua attività
al rafforzamento del patriarcato e dei vescovi che da sempre erano i più fedeli alleati dell’imperatore nella politica italiana. Il disegno non è facile, anche perché l’istituzione comitale è
tutt’altro che scomparsa in questi territori, ma Ottone lo persegue con costanza e senza esitazioni mettendo le basi alla costruzione dello Stato Patriarcale (conclusa da Enrico IV nel
1077). L’avvio del processo di formazione regionale dello Stato patriarcale vede dunque
Settimo all’interno della più corposa donazione. Tra i motivi per cui si giunge a questa decisione, c’è ancora il ristoro per i danni subiti dalle incursioni ungare. I documenti parlano
chiaro: le donazioni sono concesse per risarcire danni e, in una nuova ottica di popolamento
e sfruttamento economico, si concede per la prima volta al patriarca quelle ville che erano
state fondate a seguito delle incursioni degli Ungari. C’è chi ha visto tra queste Codroipo,
sita probabilmente a ridosso della via Ungaresca3, ma proprio la posizione a diretto contatto
con la strada che continuerà ancora per secoli ad essere percorsa da popolazioni dell’Europa
orientale sembra sconsigliare una ipotesi del genere, almeno in questo periodo così arroventato per la storia del Friuli centrale. Ci pare più probabile l’ipotesi che ad essere fondati o
rifondati siano piuttosto ville e villaggi posizionati in zone più inesplorate della grande selva
patriarcale. Si trattava magari di zone in cui la popolazione si era ritirata durante il duro periodo delle invasioni Ungare; in effetti l’assenza di punti di difesa organizzata, come cente e
castelli documentati in periodo altomedievale comporterebbe proprio la ricerca di rifugio
delle popolazioni nei boschi, e ricordiamo, per uscire dall’indeterminatezza delle ipotesi e
fornire un esempio concreto, che non erano passati molti secoli da quando gli abitanti del
litorale, minacciati dalle orde Unne e Gote, avevano preferito dar vita alle fiorenti città insulari di Torcello, Grado, Rialto e Caorle lasciando la comoda via Annia e gli altri percorsi di
penetrazione della pianura in mano ai pericolosi invasori. Siamo dunque del parere che Set3
Cfr. W. PAGNUCCO, Note su Codroipo medievale, in Ce fastu?, LXXXII (2006) I, p.44 con riferimento ad una
testi del Menis.
32
La villa di Settimo
timo, al di là di quello che ci può essere stato nell’antichità e di cui comunque bisognerà
tener senz’altro presente, si sia formato in questo contesto di isolatezza che caratterizza anche le altre ville del territorio. A parte Sesto, dove sappiamo i particolari della fondazione
longobarda, il territorio è caratterizzato chiaramente da una frammentarietà di piccoli centri
che, documentati nella maggior parte dei casi tra i secoli X e XI, ci parlano col nome della
loro origine silvestre: Fagnigola, Salvarolo, Teglio, Gruaro, i vari Giai e via discorrendo, con
vari riferimenti all’incolto e al boschivo. Se seguiamo questo ragionamento comprendiamo
bene anche perché è proprio a partire dal secolo XI che incontriamo più frequentemente nei
documenti le loro menzioni. Non si tratta di comparse senza senso, nel giro di qualche decennio si precisa sempre più la coscienza dell’appartenenza di questi territori nel contesto di
uno stato sovrano dotato di effettivi poteri, evolvendo dalla situazione precedente in cui forse non c’era nemmeno una chiara coscienza di appartenenza. Non sarà un caso quindi che
gli stessi diplomi rispetto alle conferme dei secoli precedenti diventino sempre più precisi
nella descrizione del territorio, delle sue pertinenze e delle giurisdizioni. Tale evoluzione si
perfeziona nel caso di San Vito in modo abbastanza lento, mentre ad esempio la foresta patriarcale di Cinto viene gestita direttamente dal patriarca attraverso i gastaldi ed i saltarii o
forestarii che da semplici ministeriali della Chiesa Aquileiese diventano spesso figure socialmente eminenti nel territorio in virtù del ruolo di delega del potere centrale. In questa prospettiva anche la bolla del 996 a Benzone andrà collocata in modo più opportuno. Le donazioni riguardano infatti non tutta la selva tra Livenza e Tagliamento ma alcune sue frazioni,
in particolare quelle comprese tra Meduna e Fiume e tra il Loncon ed il Lemene. Si tratta
senza dubbio di parti importanti, anzi, fasce centrali, ma certamente non come possono sembrare oggi. È indubbio infatti che Settimo non rientra nel territorio dei vescovi, come sappiamo dai documenti; in effetti lo stesso fiume Loncon è definibile solo nel suo tratto terminale, dall’odierno comune di Pramaggiore in giù verso il mare. E lo stesso si dica del Lemene. Ecco pertanto che, a dispetto delle idee del Degani sull’argomento, le “isole” vescovili nella selva patriarcale sono senz’altro da ridimensionare. Ed in questo la storiografia
locale sembra concorde.
Il popolamento della foresta di Settimo
Per comprendere fino in fondo fino a che punto possa dirsi inospitale una foresta, basterebbe aver sott’occhio qualche foto delle operazioni di disboscamento che vennero approntate con una certa sistematicità qualche anno prima della Grande Guerra, e nel decennio
immediatamente a seguire, sotto le varie Opere per gli ex combattenti. Nel medioevo la
foresta era uno spazio intercluso alla vita normale, non solo per la presenza di uomini che
vivevano ai margini della società (banditi, lebbrosi o i porcari, allevatori di maiali associati
dalla communis opinio agli stessi suini) ma soprattutto perché al suo interno pullulavano
33
La villa di Settimo
paurose presenze capaci di minacciare la stessa sopravvivenza dei villaggi che sorgevano ai
margini4. I lupi sono forse l’aspetto più eclatante della pericolosità della foresta: e sappiamo
anche da testimonianze della zona come non fossero infrequenti episodi di attacco delle case
isolate da parte dei branchi affamati; gli statuti comunali non raramente istituivano l’uccisione dei cuccioli. Meno si sa sui serpenti, eppure chi ha avuto modo di vedere queste terribili
creature ne rilascia testimonianze turbate ed impressionanti. Sono animali di una grandezza
incomparabile con i serpenti autoctoni, dalle nere sembianze, che si muovono vorticosamente non strisciando sulla terra, ma caricando tra gli alberi quasi fossero una ruota; il loro nome
comune è carbonazzi, a causa del loro colore bruno. Il dissodamento dei residui delle antiche
foreste avveniva nei primi anni del Novecento con strumenti se non all’avanguardia quanto
meno adeguati al lavoro. Nel medioevo non c’erano nemmeno quelli, almeno da quanto ne
sappiamo dagli studi sulla cultura materiale e dall’iconografia, miniature in particolare. E al
contrario di quanto era accaduto durante l’impero romano quando lo Stato disponeva di una
accurata organizzazione e di un piano preciso di centuriazione, le strategie organizzative del
territorio sotto i patriarchi risultavano di ben più difficile realizzo.
Pare in prima analisi che Aquileia non intendesse intaccare le caratteristiche di foresta
signorile, ma preferisse gestirla in modo unitario attraverso i propri funzionari. Un’analisi
delle giurisdizioni sorte nel territorio durante il XII ed il XIII secolo sembra confermare
questa impostazione di ricerca5, perché le nuove signorie locali, animate dapprima da piccole concessioni e poi via via riconosciute nella loro nuova importanza, seguono gli stessi
confini ad ovest ed a nord della foresta. Il gastaldo patriarcale di Cinto, nel 1218, diventa
signore di alcuni terreni nella paludosa Panigai e lì fonda le basi per il suo potere; un secolo
prima i Frattina ottengono una concessione importante sempre fuori dalla foresta presso i
confini occidentali della Patria. Sempre rimanendo nel territorio verifichiamo come fossero
nettamente estranee a questo ambito le giurisdizioni purliesi e pratesi (del resto con tutta
probabilità coeve a quelle patriarcali), mentre gli stessi Sbrojavacca intersecano la selva su
investitura dell’abate di Sesto, ma la loro futura giurisdizione è un territorio che sfiora l’alta
pianura e quindi la selva. Il nuovo assetto territoriale ha invece inizio con lo scadere del XII
secolo, dopo oltre un secolo dalla formale creazione del comitato/stato patriarcale (1077).
Furono diversi i metodi utilizzati dai patriarchi per mettere a regime dal punto di vista
4
Il riferimento è alla ricca bibliografia di V. FUMAGALLI, Terra e società nell’Italia padana. I secoli IX e X,
Torino, 1976; ID. Uomini e paesaggi medievali, Bologna, Bologna, 1989; ID. L’uomo e l’ambiente nel Medioevo, Bari, 1992; ID. Società e ambiente nella Pianura Padana durante il Medioevo, in Per Aldo Gorfer: studi,
contributi artistici, profili e bibliografia in occasione del settantesimo compleanno, Trento, 1992, p. 475-484;
ID. Paesaggi della paura. Vita e natura nel Medioevo, Bologna, 1994; ID. Ambiente naturale, uomini e organizzazioni sociali nell’Italia padana dell’alto Medioevo, in Pievi della pianura novarese (Atti del Convegno di
Borgolavezzaro, settembre 1995), a cura di G. Andenna, Novara, pp. 25-36.
5
E’ una considerazione su cui bisogna comunque ancora verificare molti aspetti seguendo un piano di comparazione con altri casi di gestione di patrimoni ecclesiastici in area tedesca.
34
La villa di Settimo
economico quest’area, primo fra tutti il ricorso a forme di trasferimento della popolazione
da altre aree, prima fra tutte da quella slava. Ci sono ancora toponimi che documentano
questa stagione che portò all’inserimento nel territorio di nuove popolazioni estranee all’ambito locale6. Loncon, ad esempio, è un nome di origine slava legato proprio alla grande
stagione di apertura verso quel mondo operato dai patriarchi per consentire un maggiore
popolamento dell’area occidentale della Patria del Friuli ed avvallare il dissodamento dei
territori meridionali. La toponomastica slava è molto presente in zona, e Loncon, voce che
compare nel documento più antico a partire dal 996, ne è una chiara testimonianza. Loncon,
Loncone (996) (sl. LO[N]KA «palude, prato paludoso») si colloca infatti in un’area molto
distante da quella caratterizzata dalla Strada degli Ungari, e per questo c’è da credere che
la voce toponimica sia da relazionarsi ad una vera e propria sedimentazione del toponimo
conseguente allo stanziamento, già in epoche assai antiche, di popolazioni slave nell’area.
Ma in generale troppo poco sappiamo dell’inserimento di questi nuovi ceppi di popolazione
nel territorio. Probabilmente la strategia si limitava ad interessare aree di recente conquista
che i friulani non riuscivano a controllare saldamente, come i territori della “bassa” stretti
tra la Piave e la Livenza e da secoli oggetto dello scontro con i veneziani che abusivamente
se ne servivano per la caccia ed altre attività, compresa la tratta degli schiavi proibita dagli accordi internazionali con l’Impero. Conosciamo un diploma dell’imperatore Corrado
(1034) che strappando ai veneti le ingerenze sul territorio lo riafferma stabilmente nelle
mani del patriarca Popone, consentendogli lo sfruttamento economico di campi, selve e
quant’altro fosse utilizzabile, ed aprendo in questo modo il patriarca al suo rafforzamento
nel territorio cenedese che lo porterà ben presto alla fortificazione di Cessalto e Motta7. In
questo territorio, come in quello sempre litoraneo di affaccio alla laguna di Grado, o a quella di Caorle, gli inserimenti di queste nuove presenze sono giustificabili, e non solo dalla
toponomastica, data la possibilità di ricostruire i contorni di origine di alcuni protagonisti.
Ma il popolamento della grande selva venne perseguito non solo con il ricorso ed elementi estranei al territorio, ma anche con il puntuale stanziamento di personaggi fidati, come
si è già visto affrontando nel concreto il caso dei ministeriali della foresta di Cinto. A Settimo
compaiono in un contratto feudale del 1214 ben cinque funzionari patriarcali differenziati
dagli altri abitatori e dagli stessi nobili grazie al titolo di forestarii. Oltre a Patessio, figlio di
Woldarico di Settimo, ci sono infatti Warnerio di Annone, Marcabruno di San Vito, Dusio
di Rivignano e Fencio di Marignana8, tutti servi de ministerio e quindi non collocabili con
precisione in contesti dinastici, ma piuttosto legati ad accurate consegne territoriali. In pa6
Sull’argomento, confrontando pure la bibliografia, M. PUNTIN, A proposito dall’assimilazione delle colonie
slave medievali nel Friuli centrale: il caso di Turrida di Sedegliano, in Sot la Nape, I-II, 2006, pp. 37-42.
7
MGH, Die Urkunden Konrad II mit nach tragen zu den Urkunden Enrichs II, Hannover und Seipzig, 1909, n. 205.
8
L. ZANIN, Cinto e Settimo nella storia medievale, in AA. VV., Caomaggiore e la sua storia, Spoleto 2000, pp.
75 e ss.
35
La villa di Settimo
role povere questi funzionari del patriarca risiedono stabilmente nel territorio stabilito dal
loro predicato dove si occupano di curare gli interessi del rispettivo dominus. In apparenza
il loro è un lavoro isolato da qualsiasi contesto sociale, tant’è che menzioni alla villa di appartenenza non ce ne sono. Eppure, già nel primo documento9, compaiono altre tracce che
fanno presagire una variegata presa di possesso del territorio, si parla infatti di terreni del
vescovo di Concordia su una signoria territoriale del patriarca, di benefici agli Sbrojavacca
già tenuti dai di Fossalta e poi trasferiti ai Degnano: tutti indizi di un controllo accurato dei
redditi locali. Quindi una situazione tutt’altro che isolata su cui però il patriarca esercita uno
strettissimo riscontro: come leggere infatti la presenza dei suoi fidati funzionari alla stesura
di un atto tutto sommato privato – quello del 1214 – che si svolge a Settimo?
I patriarchi iniziano proprio dai primi decenni del XIII secolo ad avere sempre più chiara la mappa dei loro possessi. Nelle Rendite della Camera Patriarcale stese ad Aquileia nella primavera del 1211 si intravede un primo esempio per quanto riguarda la gestione diretta,
e si assiste ad una minuta tassazione in natura per ogni singola concessione di diritti e di
terreni. L’ambito di prelievo indicato da questo antico, e ancora molto rozzo documento fiscale, è ancora molto prossimo ad Aquileia, certamente Settimo è parte estranea al prelievo
organizzato. Anzi, c’è da credere (come attestano una serie di documenti locali del biennio
1218-1220) che non ci fosse ancora una chiara definizione degli ambiti di influenza. Ecco
perché nella gestione dei suoi interessi tra Tagliamento e Livenza il presule sceglie di affidarsi a servi de ministerio come Patessio di Settimo, servi che si limitano in questa fase alla
tutela dei suoi diritti di natura demaniale ottenendo in cambio alcuni mansi di terreno.
Abbiamo già parlato dell’investitura che Patessio ottiene dall’eutourage sanvitese del
patriarca, e del fatto che essa avvenga nella sua domus, una abitazione che certamente si
distingueva dalle altre della villa di Settimo10; quelle che occorre focalizzare sono, a questo punto, le sembianze dei rapporti tra Settimo e San Vito nel XIII secolo, e in che modo
questo villaggio si relazioni alla sua amministrazione. Iniziamo col dire che la crescente
importanza della cittadina friulana nel contesto locale si percepisce nei documenti a partire
dalla seconda metà del Duecento, in un periodo in cui la selva è oramai ben controllata dal
patriarca e dagli altri grandi signori della zona. Contestualmente al miglior sfruttamento
delle sue risorse si aprono nel territorio nuove strade per lo sviluppo commerciale, settore
in cui San Vito diventa sempre più un riferimento regionale come si evince da una memoria
del 1291 in cui la cittadina è richiamata come tappa fissa dei traffici tra Caorle, Concordia
e Portogruaro verso Venzone, ed è proprio in questo contesto che vengono emanate norme
di sgravio dai dazi per le merci che circolano in direzione di Tolmezzo, verso l’area carinziana (attraverso passo Monte Croce Carnico), o verso Pontebba/Tarvisio via Moggio.
9
G. BIANCHI, Documenti per la storia del Friuli, Udine 1877; i manoscritti (in BCU) sono ora pubblicati in cd
rom; cfr. alla data 1214.
10
ZANIN, cit.
36
La villa di Settimo
San Vito diventa un passaggio obbligato dei traffici provenienti da Portogruaro in virtù di
un collegamento diretto tra le due città che sappiamo attivo nel basso medioevo11, e questa
condizione favorevole è la chiave del suo sviluppo commerciale. I mercati, prima stagionali
ed episodici, si trasformano in permanenti anteriormente al 1325, quando sono sempre più
documentati i flussi di derrate verso la città, tant’è vero che qualche decennio più tardi, nel
1380, San Vito assieme a Meduna e Portogruaro è una delle città autorizzate ad importare
grano nei difficili frangenti della guerra di Chioggia. In seguito all’acquisita ricchezza arriva naturalmente anche il riconoscimento politico che si concretizza, nel XIV secolo, con
l’inclusione della città tra le voci del parlamento della Patria del Friuli, ovvero con l’assunzione di un ruolo che, come ha evidenziato Donata Degrassi, indica principalmente il valore
giuridico in rapporto agli obblighi di natura fiscale e militare cui le comunità erano chiamate a contribuire12. Ciò comportava la costruzione di una sempre più precisa burocrazia
nei rapporti interni tra San Vito e le ville sottoposte, in una prospettiva di sempre maggiore
controllo del territorio stabilito dai patriarchi, che verso la fine del Trecento facevano poggiare proprio su San Vito, San Daniele ed Aquileia la base più importante dei loro redditi. E
a Settimo le cose iniziano a cambiare, come si vede anche dal controllo amministrativo che
i Sanvitesi fanno pesare in modo sempre più ricorrente anche nell’espletamento degli atti
meno importanti. Muta perciò anche il rapporto col territorio. Nel 1230 da un atto di confinazione13 apprendiamo che tra i beni dei saltarii (cioè sorveglianti del bosco) di Settimo e
quelli dell’abate di Sesto c’è una proprietà dove i figli di Coneppo (?) stanno disboscando,
chiara menzione all’attività di dissodamento che era stata avviata a partire dal XIII secolo
e che fa progressivamente diminuire l’importanza della foresta patriarcale a beneficio delle
aree messe a coltivo. Lo stesso documento è in realtà l’appendice di una lite tra l’abate ed i
saltarii patriarcali che avevano occupato i boschi della chiesa di Sesto e che poi il patriarca,
dietro pagamento di 150 lire di denari veronesi, finirà con l’assegnare allo stesso abate.
Ed è interessante vedere a questo punto da chi sia composta la camera arbitrale che stabilisce i confini all’interno della selva. Si tratta dei massimi esperti locali del settore foreste
(diremmo noi mutuando i termini della moderna burocrazia), quelli che nel Seicento si
sarebbero appellati pubblici periti, ma che nella prima metà del Duecento sono gli uomini
di fiducia del Patriarca nel territorio, e che si avviano rapidamente verso il consolidamento
della rispettiva posizione sociale. I nomi sono sempre gli stessi, già visti nei documenti
cintesi del 1218: il gastaldo di Cinto Varnerio, il forestario Curto, Falcomario di Panigai ed
Arpone di San Vito. Nell’ordine però più importanti di tutti sono Falcomario ed Arpone che
rappresentano in questo documento gli interessi del patriarca. Arpone è anche presente tra
11
D. DEGRASSI, L’economia del tardo medievo, in P. CAMMAROSANO (a cura di), Il medioevo. Storia della
società friulana, Tavagnacco 1988, p. 324.
12
Ibidem, p. 356.
13
Archivio Parrocchiale di Settimo, carte non numerate, doc. e trascrizione alla data 1230.
37
La villa di Settimo
i testi, insieme a Luopoldo di Gruaro e Ulvino di Sbrojavacca, che probabilmente in questa
vertenza “tengono” per Sesto, mentre tra gli incaricati alla puntualizzazione dei confini
ipotizziamo che Curto “tenga” per l’abate. Nella successiva confinazione troviamo invece
sostituito Arpone con il ministeriale Patessio di Settimo e con Stefano, giurato di Settimo,
che rappresenta la comunità.
Alcune osservazioni generali sui rapporti tra Settimo
e i gastaldi di San Vito
Il 10 giugno 1330 nel castello di San Vito, alla presenza del suo gastaldo Giovanni di
Cusano, il patriarca di Aquileia, intendendo migliorare le condizioni generali delle sue terre
e, quindi della sua chiesa, assegna il terreno nella Tavella denominato Pratum Gaianum a
Zanino figlio di Patessio di Settimo. Si tratta di una porzione di terreno posta tra i Comunali
di Basedo e le terre di Sesto, e la durata del contratto è fissata per quindici anni. Più che
l’investitura particolare, ci interessano stavolta le motivazioni che spingono il patriarca alla
determinazione, e che appaiono molto chiaramente dal breve atto.
Il patriarca infatti viene informato dal suo gastaldo che in quegli anni il territorio di
Settimo non era adeguatamente coltivato, o quantomeno non garantiva le rese che il solerte
gastaldo si aspettava: quindi era necessario metterlo in produzione. Nello stesso tempo
Giovanni di Cusano sembra cosciente che la resa di quel terreno sarebbe stata dura da consolidarsi, oppure che le spese per il disboscamento ed il dissodamento che Zanino avrebbe
dovuto affrontare erano molto consistenti. In effetti già il padre ed il nonno di Zanino avevano avuto in concessione feudale dei terreni a Settimo, ma nel complesso le cose non dovevano andare particolarmente bene. E fu così che il gastaldo di San Vito prepara al patriarca
Pagano della Torre un dispositivo che consente, oltre all’investitura, anche la concessione
di una sorta di sgravio fiscale per i primi cinque anni (come si vede le moderne politiche di
sostegno economico non sono poi così distanti da quelle attuate in quello che si continua a
chiamare il “buio medioevo”)14.
Da questo documento apprendiamo due cose. La prima è che l’istituto del feudo di abitanza, di cui per Settimo si è già parlato a sufficienza15, non era limitato a forme di custodia
di un territorio per sole ragioni militari, ma era anche un procedimento attraverso il quale i
patriarchi promuovevano lo sviluppo agricolo del territorio. La seconda è che le attenzioni
del patriarca mediante il gastaldo di San Vito continuano a concentrarsi su Settimo per fare
in modo che la località “fruttasse” il più possibile. In entrambi i casi sono le concessioni del
patriarca ad essere lo stimolo necessario alla crescita economica del territorio, e non è esclu14
BIANCHI, Documenti, cit., alla data 1330.
ZANIN cit., con riferimento però a quanto aveva già scritto CG. MOR, I feudi di abitanza in Friuli, in Studi in
onore di Manlio Udina, II, Udine s.d., p. 1675.
15
38
La villa di Settimo
so che proprio il vincolo alla dimora prolungato per quindici anni fosse una risposta all’attrazione esercitata in questi decenni dai centri economici più importanti quali Portogruaro ed
appunto San Vito. Il documento si colloca in un periodo, grossomodo tra il 1320 ed il 1335,
in cui il territorio friulano godeva finalmente di un periodo di pace, mercè soprattutto la
politica espansionistica degli Scaligeri che costringeva il nemico trevisano a pensare ai fatti
di casa propria. In quegli stessi anni anche il conte di Gorizia, altra storica spina nel fianco
patriarcale, era impegnato sul fronte veneto essendo alleato degli Scaligeri, e di conseguenza
il patriarca della Torre, da poco reduce dalla sistemazione delle sue faccende milanesi, poteva finalmente riprendere il lungo lavoro di definizione territoriale iniziato più di un secolo
prima dal suo predecessore Bertoldo di Andechs – Merania. Abbiamo due indizi indiretti
della riorganizzazione del territorio di Settimo che avviene nei primi decenni del Trecento.
Si tratta della “messa in possesso” di un maso detto “braida” (campo chiuso) a Giacomo
della Frattina che avviene formalmente ad opera di Viberto di Candido di Summaga, il quale
agisce a sua volta su delega del decano di San Vito Giovanni, di ser Matteo fu Otussio di San
Vito e di ser Viberto di Sacile che abita a Summaga16. Il secondo documento evidenzia poi
la presenza dei di Ragogna in virtù di un lascito del 1390 da Odorico alla nipote Simonatta
di Ragogna concernente alcuni terreni in Settimo17. Ma un elenco dei possidenti locali lo si
ottiene pure da un lungo documento del 1384: Giovanni detto Rosso di Azzano, Zanino del
fu Pietro di Cinto, il figlio del fu Giovanni di Sbrojavacca, Odorico di Latisana, Giovanni
del quondam Rodolfo: tutti presenti ad una vendita di beni di Aganeta figlia del fu Bortolissino detto Tis di Settimo. L’antico bosco iniziava insomma a pullulare di un numero sempre
maggiore di proprietari, con una fetta di terreno messo a coltura crescente, in cui vantavano
diritti nobili, preti e possidenti locali. Sappiamo comunque che il disboscamento era già in
atto da tempo, come ci indica pure un bel documento datato 14 gennaio 132818 con cui il
patriarca concede a Bortolo di Sbrojavacca il diritto di godimento, che ne prevede il taglio,
di alcuni boschi nel territorio di San Vito e più propriamente di Banno (superiore e inferiore)
sito per l’appunto a Cinto sotto la gastaldia della Meduna.
Mentre i possidenti organizzavano i loro interessi nelle modalità descritte, alla comunità rimaneva l’uso dei cosiddetti beni comunali, su cui era possibile effettuare le operazioni
di sfalcio periodico o il pascolo degli animali di allevamento. Al riguardo, come è stato a
suo tempo rilevato19, si giunse ad un importante accordo tra le comunità di Cinto (distretto
di Meduna) e Settimo (distretto di San Vito) nel 1447 sullo sfruttamento del paludo del
16
BCU, TEA alla data 1309.
Ibidem.
18
BIANCHI, Documenti, cit., n. 483 alla data 14 gennaio 1328.
19
Riferimento ancora a AA. VV., Caomaggiore e la sua storia, Spoleto 2000; sull’argomento dei boschi pure M.
DE VECCHI, Cronache di vita agreste. Vicende cintesi dal XV al XVIII secolo, Cinto C., 2005 e alla bibliografia
correlata dello stesso autore.
17
39
La villa di Settimo
Planchio tra Cinto e Summaga, dove la gente di Settimo ottiene di pascolare i buoi per tredici giorni consecutivi prima della festa di San Giorgio (23 aprile) e di raccogliere strame e
patusso ogni anno dopo la festa agostana di Santo Stefano. In definitiva quindi era sui beni
comuni che doveva sostenersi l’economia della maggior parte dei villici non possidenti,
oltre naturalmente che sui fitti stipulati con i proprietari diversi. Anche il bosco continuava
ad essere la naturale riserva di caccia, su cui però si estendeva il severo controllo dei forestali patriarcali. Dal punto di vista amministrativo Settimo, assieme ad Azzano, Basendo,
Bannia, Villutta, Tajedo e Villa Franca, erano sottoposte alle norme degli statuti di San Vito.
Non si sa molto del lungo periodo di gestazione di questa normativa; probabilmente gli
statuti sanvitesi cominciarono a strutturarsi nel corso del Cinquecento, mentre prima erano
vigenti norme a se stante raccolte in modo disordinato dopo l’emanazione della comunità.
Quel che è certo, è che la prima formulazione organica ed ufficiale avviene sotto i rettori
della gastaldia solo a partire dal Settecento, seguendo anche modelli ufficiali più autorevoli.
Tra le legislazioni sicuramente preesistenti c’era quella sulla difesa dei boschi, perennemente minacciati dalla popolazione locale.
Sin da antichissime consuetudini era attivo il placito del gastaldo che avveniva anche
in modo itinerante, mentre sono abbastanza definiti nei rotoli della contabilità patriarcale
gli obblighi che i popolani avevano nei confronti della gastaldia. Si tratta di tasse vere e
proprie (dette angarie) e di corvèes. Tra queste ultime si trova ad esempio l’obbligo – esteso all’intera comunità – di trasportare foraggi da Portogruaro al palazzo patriarcale di San
Vito, obbligo bandito ufficialmente dal gastaldo con l’indicazione dell’ora e del giorno in
cui svolgere l’attività. Doveva trattarsi di obblighi onerosi ed umilianti, il cui peso diventava sempre più insopportabile giustificando forme di protesta. Uno dei principali centri
per la gestione della gastaldia era il “barco” di Azzano, un magazzino del patriarca dove si
concentrava gran parte dei raccolti afferenti la sua giurisdizione. Qui gli uomini di Settimo
dovevano ad esempio recarsi su istanza del Conduttor del barco patriarcale d’Azzano sotto
pena, nel 1681, del pagamento di 25 ducati, con i cariaggi adeguati per trasportare foraggi
ed altri prodotti agricoli, oppure ammassare i prodotti per il pagamento delle imposte richieste dalla Dominante. Altre forme di servigio richieste dal gastaldo patriarcale riguardavano il serviggio della stalla di San Vito, per cui era prevista una somma annua ripartita
grossomodo con le seguenti proporzioni tra la villa di Azzano (45 per cento), Bannia (15
per cento) Villutta, Tajedo e Villa Franca (15 per cento), Settimo (15 per cento) e Basendo
per la parte rimanente. Altre forme di corvèes erano poi il servizio da effettuare nella stalla
di San Vito, servizio che prevedeva anche il reperimento ed il trasporto di strame e paglia
tanto quanto occorre20. A questo si dovevano sommare ancora gli oneri per la conduzione
dell’orto patriarcale di San Vito per il quale si pagavano in totale ancora nel 1668 168 lire,
20
Archivio Parrocchiale di Settimo, carte non numerate, copia del rotolo patriarcale.
40
La villa di Settimo
da versarsi in tre rate: la prima alla Madonna di marzo, la seconda al San Giacomo di
luglio, la terza al San Michele di novembre, e quelli per la manutenzione dei canali e delle
fosse del palazzo patriarcale.
A chiosa delle notizie frammentarie riportate e dei ragionamenti esposti, è senz’altro
necessario segnalare che per giungere ad una valutazione complessiva sulle condizioni della vita della gente di Settimo sotto i patriarchi occorrerebbe un’analisi molto più approfondita e metodica della documentazione esistente21. Quello che si è voluto dare, nell’ultimo
paragrafo è solo un esempio delle condizioni cui i villici erano sottoposti dall’arbitrio di
una amministrazione che nel corso dell’età moderna era molto meno sollecita alla realtà dei
bisogni della popolazione e alle stesse rese del suo patrimonio rispetto a quanto lo fossero
gli antichi amministratori patriarcali. Sembra un paradosso, ma pur nella povertà della documentazione, il raffronto fra le strategie di popolamento e la gestione del territorio di cui
abbiamo labile memoria fino al XIV secolo e l’ampia documentazione sulla gestione dei
gastaldi patriarcali dal XVI secolo in poi evidenzia una proliferazione di obblighi, tassazioni ed arbitrarie angherie che hanno come unico risultato quello di impoverire la situazione
dei contadini e tutto sommato di non arricchire molto quella dei loro padroni. Il fardello
della burocrazia, base dello Stato moderno, affatica le classi più povere e stronca sul nascere quella sorta di sviluppo economico ed agricolo che si vede in controluce attrraverso
alcuni documenti del Trecento. Certo non era una situazione generale: la crisi ad esempio
dell’abbazia di Sesto e delle grandi strutture signorili è ben documentata a livello regionale
ad esempio dai rapporti degli ambasciatori veneziani, ma ci sono zone in cui le cose vanno
ancora bene, e questi sono i momenti in cui fruttano i commerci e si formano le basi per le
future strutture patrimoniali che sotto Venezia risentiranno dei nuovi gravami fiscali. È stato
scritto che lo splendore di Venezia è il prodotto delle depredazioni di Bisanzio e della fame
patita nei territori delle sue periferie. Se dovessimo giudicare questa frase dal punto di vista
di Settimo, sarebbe difficile dimostrare il contrario.
21
Aspetti che per il Friuli si vedono in F. BIANCO, Contadini e popolo tra conservazione e rivolta ai confini
orientali della Repubblica di Venezia tra ’400 e ’800. Saggi di storia sociale, 2002, e nella ricca bibliografica
sull’argomento dello stesso autore.
41
La villa di Settimo
42
LA CAPPELLANIA DI SETTIMO
Fondazione, giuspatronato e funzioni religiose
Marcello De Vecchi
1458: l’atto di fondazione della chiesa
Nell’estate del 1458, nel palazzo vescovile di Cordovado, allora residenza estiva del
vescovo di Concordia, davanti al prelato reverendo Antonio Feletto, si presenta Daniel
quondam Toffoli abitante di Settimo, che a nome suo e della comunità, “avendo molto a
cuore la salute dell’anima”, inoltrò la richiesta di poter edificare una chiesa, come testimonia un documento del notaio Guilielmus Laurenti datato 6 luglio. Da questa scrittura
si capisce che l’incontro fra il Toffoli ed il Vescovo non è casuale ma è solo punto d’arrivo
di una lunga serie di rapporti e contatti precedenti.
Settimo, in quegli anni, viveva una situazione politica e religiosa particolarmente
complessa, dovendo far riferimento a più autorità, spesso in conflitto fra loro, per non
essere ancora ben definiti i limiti delle loro competenze.
Pur essendo passati oramai quasi quarant’anni (1420) dalla conquista della Patria del
Friuli da parte di Venezia, Settimo come le altre comunità della Giurisdizione di S. Vito,
aveva trovato solo da qualche anno una collocazione amministrativa più definita. Mentre
Ludovico di Teck, il Patriarca del Friuli che aveva dovuto subire l’invasione veneziana, si
era rifiutato di venire a patti con la Serenissima Signoria e aveva cercato con ogni mezzo
di ritornare in possesso della sua autorità temporale, dopo la sua morte (1439) fra la santa
sede e Venezia fu aperta una concreta trattativa. Con l’ausilio di un papa veneziano1 e
grazie ai negoziati di Lodovico Trevisan, arcivescovo di Firenze, anche lui veneziano, si
arrivò nel 1445 ad un accordo.
Venezia, in cambio del riconoscimento della sua autorità politica, concedeva al patriarca la piena giurisdizione ecclesiastica, permettendo il libero godimento dei beni posseduti e impegnandosi altresì di pagare annualmente 5000 scudi d’oro dai redditi ottenuti
nella Patria del Friuli. Di quest’ultimi, circa 2000 scudi erano calcolati quale rendita
diretta di tre Terre della Patria, che con questo accordo venivano assegnate al governo
temporale del patriarca: la città d’Aquileia e i Capitanati di San Vito e S. Daniele. L’intesa, proprio a causa di discordanti opinioni sul modo di computare le entrate in questi tre
territori, entrò in vigore solamente nel 1451.
D’altro canto, l’accordo fra Venezia e il Patriarca del Friuli non risolse del tutto le
contese, ma diede vita negli anni successivi da incessanti dispute e controversie, fornendo
1
Papa Eugenio IV al secolo Gabriele Condulmer (Venezia nel 1383 - Roma nel 1447).
43
La cappellania di Settimo
linfa vitale ai solicitator di cause, agli avocati, ai periti pertigatori, ai procurtori, ai nodari e a tutta quella genia industriosa che si affaccendava intorno ai tribunali.
Giovanni Battista Bianchini
Settimo ora, aveva bisogno di una persona che mettesse a disposizione del progetto
la sua autorevolezza, facilitando i contati con i canonici del capitolo di Concordia, agevolando la risoluzione delle questioni che potevano sorgere con il parroco di Cinto, e anche
abbastanza facoltosa da poter appianare possibili interferenze che avrebbero potuto sorgere con il ripristinato governo temporale del Patriarca.
Questo compito fu svolto da Johanne Baptista quondam Biachiani, possidente di San
Vito, che offrì alla comunità la possibilità di disporre di un sedime, cioè di quel pezzo di
terra in prossimità dell’abitato, dove sarebbe stata eretta la chiesa richiesta. Il suo ruolo
attivo di promotore oltre che di donatore, emerge anche dalla decisione della comunità di
dedicare la chiesa a honore di S. Johannis Baptiste.
Daniel Toffoli e la costruzione della chiesa
A margine delle immagini di santi che sono rappresentati nei bei affreschi rinascimentali che contornano l’abside della chiesa di Settimo, è inserito in un piccolo tondo, il profilo
di un volto chiamato comunemente “Ritratto di dignitario”. Si tratta forse di una persona
vissuta a Settimo che ebbe a che fare con l’edificazione e la decorazione della chiesa.
Pur non avendo certezze, possiamo ritenere che il ritratto rappresenti Daniel Toffoli
abitante di Settimo, che più di altri contribuì alla costruzione della chiesa, mettendo a disposizione un campo attiguo a quello del Bianchini, e di un podere in modo da contribuire
con stara cinque di frumento et orne cinque di vino al sostentamento del sacerdote officiante. Inoltre nello stesso documento il Toffoli prometteva di devolvere alla chiesa altre
sostanze dopo la sua morte, a condizione che la comunità di Settimo si fosse sollecitamente impegnata alla costruzione della chiesa ed al mantenimento del prete. Ottenne per
se e i suoi eredi la facoltà (Jus Patronato) di scegliere il nome del sacerdote officiante.
La comunità di Settimo, presente all’incontro di Cordovado con tre membri, (il podestà di allora Francesco de Lamigo e due giurati de comun: Bartholussinus de Lamigo et Gasparinus Benvenisti) si fece garante della supplica del Toffoli e si impegnò ad
adempiere alle condizioni proposte. Ottenuto l’assenso del pievano di Cinto Giovanni di
Marostica, il vescovo accordò il suo benestare con l’obbligo che questa nuova chiesa non
andasse in alcun modo a pregiudicare i diritti e le entrate della pieve e plebani de Cintho.
Fu istituita una Capellania perpetua provvista di dote per il mantenimento in loco del
sacerdote.
44
La cappellania di Settimo
Nel 1460, su iniziativa del Comune di Settimo, incominciarono i
lavori di costruzione della chiesa e
Daniel Toffoli, visti i buoni propositi del comune e considerato che
Pasca, sua prima moglie non haveva figlioli maschi, lasciò per testamento lo Juspatronato al Comun,
et huomini di Settimo, i quali havevano principiata la Chiesa. Nello
stesso atto donava il resto di tutta
la sua robba alla fabbrica di detta
Chiesa2.
La costruzione della chiesa
non fu nè facile nè breve, furono
necessari dieci anni perché potesse
adempiere alla sua funzione. Non si
trattava di un fabbricato molto imponente, la struttura a quel tempo
non doveva essere molto più grande
dell’attuale abside, ma dovendo dotare la costruzione di altari e di incoraggiare la devozione dei credenti con qualche affresco sulle pareti,
la costruzione comportò molto più
tempo del previsto.
“Ritratto di dignitario”.
Affresco della chiesa San Giovanni Battista.
Padre Bortolomio della Guardia
Ultimata la chiesa, un nuovo documento venne redatto nel bel mezzo dell’estate
1468, precisamente il 4 agosto, nel quale viene fatto un aggiustamento fra il Comune e il
Toffolo riguardo le entrate annuali assegnate al cappellano: la consistenza fu computata
in frumento stara 13, vino orne 15, meglio stara 2, sorgo stara 2. Ammontavano dunque
a 32 misure, di cui 22 a carico del Toffolo e 10 a carico del Comune.
2
ACAU b. 1089. Da questa riga alla fine del testo le parti in corsivo senza nota fanno riferimento a documenti
contenuti in questa busta.
45
La cappellania di Settimo
In quello stesso giorno le due parti, congiuntamente, all’interno della nuova chiesa
S. Giovanni Battista, presentarono a Settimo come primo Cappellano, padre Bortolomio
della Guardia di Napoli. L’investitura fu approvata dal vescovo Antonio Feletto il 6 agosto
1468 nel palazzo vescovile di Portogruaro, con il consenso di Giovanni di Marostica, pievano di Cinto. Padre Bortolomio della Guardia non ebbe molta fortuna, il suo apostolato
a Settimo si concluse nel breve spazio di un anno: nell’autunno del 1469 dovette subire
l’imponderabile e fatale destino di ogni vita.
Pre Giacomo de Stefano e Pre Gio Batta da Cinto
Il 4 novembre 1469, essendo mancato di vita detto primo Capellano fu eletto da Daniel Toffolo quale nuovo officiante della chiesa di Settimo Pre Giacomo de Steffano di S.
Giovanni di Casarsa. Il secondo cappellano svolse a Settimo il suo incarico per sette anni,
e poi, anche lui, dovette fare i conti con l’imponderabile. Alla sua morte Daniel Toffolo si
assunse l’incarico di presentare un terzo sacerdote, Pre Gio Batta di Cinto, che con l’assenso del vescovo fu investito della cappellania il 6 ottobre 1476.
Pre Gio Batta fu l’ultimo cappellano eletto da Daniel Toffolo, magnanimo fondatore
della chiesa di Settimo, che venne a morte nel corso del 1481. Durante la sua vita mai
naquero contese riguardo le sue prerogative di Jus Patronato e tutti i sacerdoti da lui eletti
trovarono consenso e appoggio da parte della popolazione e della Vicinia.
Le ultime volontà di Daniel Toffolo
Il Toffolo, negli anni antecedenti alla sua dipartita, essendo già defonta Pasca sua
prima moglie, aveva sposato in seconde nozze una vedova di nome Tosca, che aveva avuto un figlio di nome Jampiero dal suo primo marito, un certo Zovato. Questo Jampiero
haveva due figlioli, alli quali s’era posto industriosamente il nome all’uno Daniel, et
all’altro Toffolo con l’intento di accattivarsi la benevolenza del Padrigno. Sembra che in
questo progetto di accaparrarsi le sostanze del Toffolo fu abilmente aiutato dalla madre
Tosca, la quale intorbidò le cose, et rivolse con l’aiuto di frati compiacenti la mente di
detto Toffoli.
Il 30 giugno del 1481, prima di morire, Daniel Toffolo faceva redigere un nuovo testamento, dove, oltre a chiedere di venire sepolto nella chiesa di Settimo e confermare il beneficio per il cappellano, designava Toffolo e Daniel3, nipoti e figlioli del suo figliastro, eredi
di tutti i suoi beni. Scompaiono dal testamento ogni riferimento al Juspatronato e a ciò che
avrebbe dovuto lasciar per fabricar la Chiesa, disattendendo le aspettative del comune.
3
Secondo un documento del Comune di Settimo. Altra fonte notarile riporta invece il nome Giovanni Battista.
46
La cappellania di Settimo
Pre Paulo de Filiberti
Non ci sono notizie certe sui sacerdoti che si succedettero nei decenni successivi.
Così, non è dato sapere per quanto tempo Pre Gio Batta da Cinto abbia adempiuto al suo
apostolato e se dopo di lui la cappellania sia stata retta da qualche altro sacerdote. Si sa
solo che durante i primi decenni del Cinquecento, a svolgere le funzioni di cappellano
troviamo Pre Paulo de Filiberti, che oltre che adoperarsi nelle funzioni di religioso era
attivo anche come nodaro.
Il Filiberti era un prete sposato, come succedeva allora a diversi religiosi, nonostante fin dall’epoca della riforma gregoriana le norme ecclesiastiche vietavano ai religiosi
questa condizione. Il matrimonio e il concubinato del clero erano abbastanza radicati nel
costume del clero di dell’epoca, e in parte tollerato dalle gerarchie, che si limitavano a
lievi sanzioni di carattere morale.
Pre Filiberti fu intestatario della cappellania fino al 6 settembre del 1539, giorno in
cui la rinuncia viene accettata e laudata da Giovanni Battista Zovato4. Fu cappellano a
Settimo negli anni in cui la Riforma, dopo essersi propagata in Germania, cominciava
trovare consensi in altre parti d’Europa, grazie al diffondersi della stampa, ai predicatori
itineranti e ai viaggi dei mercanti. I principi della Riforma, nelle sue varie espressioni, trovano consensi anche in una parte del clero italiano che comincia a divulgarli direttamente,
usando a questo scopo i pulpiti delle chiese. L’esistenza di una consistente comunità anabattista5 a Cinto, fa ritenere che Pre Paulo fosse uno di questi sacerdoti.
Qualcuno doveva aver preparato il terreno ai predicatori anabattisti Francesco della
Sega di Rovigo e Giulio Gherlandi di Treviso. Ciò poteva essere successo grazie all’apporto critico di qualche autorità del posto. E quale autorità ha in campo religioso maggior
seguito di quella di un prete? Pre Paulo6, può essere stata la persona che ha preparato il
campo all’eresia. C’è un ulteriore indizio che ce lo fa credere:
il 3 marzo 1562 nell’ufficio dell’Inquisizione di Venezia si presenta un huomo vestito
alla forestiera di alta statura, et magro nel volto et con poca barba di età d’anni 40; abitante allora a Venezia nelle case del magnifico messer Zuan Moresinj in corte de ca’ Gradenigo e che di mestiere fa solicitador de cause in palazzo, il quale dichiara di aver nome
Camillo de Filimbertj nato appresso Portogruer a Cinto, et mio padre hebbe nome Paulo.
Si tratta del figlio di Pre Paulo, presente nell’ufficio dell’inquisizione per essere sentito
in qualità di testimone essendo stato trovato il suo nome fra le carte di Giulio Gherlandi,
arrestato perché ministro anabattista. Camillo dichiara di non conoscere il Gherlandi e
4
Cfr. nota precedente.
AA. VV., “La fraterna del miglior vivere”. Comune di Cinto Caomaggiore 2005.
6
Abitava a Cinto e aveva svolto funzioni religiose anche nella chiesa di Pramaggiore. Nella chiesa di Cinto, dopo
la rinuncia alla cappellania di Settimo, ebbe l’incarico di sostituto pievano.
5
47
La cappellania di Settimo
nega ogni coinvolgimento nell’attività della setta eretica, dichiarando che in casa alloza
forestieri di tutti i tipi per il solo scopo di guadagno.
L’interrogatorio non avrà nessun seguito. Ci sono però due circostanze che possono
far dubitare della dichiarazione di estraneità di Camillo: la prima in riferimento al paese
di origine, Cinto, villaggio dove l’eresia anabattista era piuttosto radicata fra la popolazione; la seconda è che anche Giulio Gherlandi era figlio di prete. Perciò è possibile
che Camillo, rimasto sempre in buoni rapporti con il padre Paulo, facesse parte di quella
nutrita schiera di eretici chiamati nicodemisti perché professavano le loro idee religiose
di nascosto.
Canto liturgico del ’500. Manoscritto di Pre Paulo de Filiberti.
48
Gli affreschi della chiesa San Giovanni Battista
I
Gli affreschi della chiesa San Giovanni Battista
L’antica chiesa di Settimo, eretta nel corso del XV secolo, era di dimensioni più contenute rispetto all’attuale. L’ampliamento avvenuto all’inizio del
secolo scorso non ha però intaccato l’antico presbiterio e la zona absidale,
anzi sembra che proprio grazie a questi lavori d’ampliamento si è potuto
scoprire i dipinti che oggi adornano la chiesa. Nel corso degli anni settanta
e ottanta del secolo scorso, sotto la direzione della Sovrintendenza alle
Belle Arti e con l’intervento di tecnici esperti, sono stati completati i restauri. Possiamo così apprezzare compiutamente alcune opere significative di
maestri dell’arte friulana e veneta.
A Gianfrancesco del Zotto da Tolmezzo (1450-1510) e ai suoi discepoli
sono stati attribuiti gli affreschi più antichi dell’arco absidale e delle pareti
del presbiterio, che raffigurano S. Antonio Abate con un santo vescovo, il
Martirio di San Sebastiano, l’Adorazione dei Magi, l’Annunciazione, il Sacrificio di Caino e Abele e frammenti di S. Martino.
La Madonna del latte con i due donatori inginocchiati è invece attribuita a
Giovanni Maria Zaffoni detto il Calderari (1500-1563), artista pordenonese
allievo di Giovanni Antonio de’ Sacchis detto il Pordenone.
Nell’abside sono invece presenti alcuni affreschi di Cristoforo Diana (15531636), artista di S. Vito al Tagliamento, allievo di Pomponio Amalteo. Sul
soffito voltato a crocera sono affrescati gli Evangelisti e Padri della Chiesa,
sulla parete di sinistra erano illustrati alcuni episodi della vita di S. Giovanni
Battista, sono rimaste visibili solo due brani: la nascita e la predicazione del
santo. Sulla parete destra è visibile l’affresco Il Profeta, la scena di Abacuc e
Daniele nella fossa dei leoni. Da segnalare che dopo la realizzazione degli
affreschi ci furono delle controversie fra il pittore Diana e il cammeraro
della chiesa di Settimo sull’entità del compenso, con strascichi giudiziari
davanti al Capitano di San Vito (13 novembre 1587, atti notaio Annoniani
Giacomo di San Vito).
Particolare menzione merita infine la pala posta al centro dell’abside e raffigurante Vergine con bambino e santi Battista e Marco, opera di Alessandro
Varotari detto il Padovanino (1588-1648).
II
Santo vescovo e S. Antonio Abate
Gianfrancesco da Tolmezzo e discepoli
III
San Martino
Gianfrancesco da Tolmezzo e discepoli
IV
Martirio di San Sebastiano
Gianfrancesco da Tolmezzo e discepoli
V
Annunciazione (particolare)
Gianfrancesco da Tolmezzo e discepoli
VI
Annunciazione (particolare)
Gianfrancesco da Tolmezzo e discepoli
VII
Sacrificio di Caino e Abele
VIII
Gianfrancesco da Tolmezzo e discepoli
IX
Adorazione dei Magi
Gianfrancesco da Tolmezzo e discepoli
X
Madonna del latte
Giovanni Maria Zaffoni detto il Calderari
XI
Il Profeta Abacuc e Daniele nella fossa dei leoni
Cristoforo Diana
XII
Santi Evangelisti e Padri della Chiesa
Cristoforo Diana
XIII
Nascita di San Giovanni Battista
Cristoforo Diana
XIV
Predicazione di San Giovanni Battista
Cristoforo Diana
XV
Vergine con bambino e santi Battista e Marco
XVI
A. Varotari (Il Padovanino)
La cappellania di Settimo
Don Pietro Albinoni di Trecio e Pre Girolamo Ronconi
Successe nell’anno 1539, in vacanza del Beneficio, il Commun in ordine all’Instrumento di fondatione 1468 presentò per Capellano il Reverendo Gerolamo Ronconi, che fu
investito dall’eminentissimo cardinale Grimani patriarcha, ma insorgendo i descendenti di
questa Tosca, di quel Jampiero figliastro, pretendendo il detto Juspatronato si fecero chiamar Toffoli, se ben son li Zovati, et presentando un tal Pre Piero Trezzo, questo fu instituido
dal Nonzio Aphostolico Voralli, che diede occasione ad una lite ardua, et longa anco fra
detti due prelati.
Nell’anno 1539, fra il Comune di Settimo e la famiglia Zovato detta Toffolo nascono i
primi contrasti. Giovanni Battista Zovato quondam Pietro de Daniel Toffolo dopo aver laudata e confirmata in data 6 settembre la renuncia di Pre Paulo de Filiberti, decise di investire
quale nuovo cappellano Pre Pietro Albinioni di Trecio habitante in Venetia con il consenso
del nonzio aphostolico Voralli. La Vicinia di Settima, facendosi forza di una interpretazione
favorevole dell’atto di fondazione della chiesa, il 17 ottobre presentaron anch’essi un prete,
Girolamo Ronconi, con l’appoggio e l’investitura di Monsignor Grimani, patriarca d’Aquileia. Così per la stessa cappellania ci si trova ad avere due sacerdoti. La contesa verteva da un
lato sull’applicazione del Juspatronato cioè su chi aveva la facoltà di scegliere il cappellano,
dall’altro, sull’ente religioso che aveva l’autorità di convalidare questa scelta.
Chiesa di Settimo negli anni ’30.
49
La cappellania di Settimo
Quando Pre Pietro Albinioni si presentò nella chiesa di Settimo per prendere possesso
della cappellania, dovette fronteggiare una vera e propria sollevazione popolare. Seppure
non ci sono pervenuti particolari della sommossa, dato il periodo storico e la particolare
condizione economica del villaggio, si può immaginare che i partecipanti al tumulto non
fossero scesi in piazza tenendo in mano mazzi di fiori. Pre Pietro fu scacciato da Settimo
in malo modo dalli communi suditi del cardinale, appoggiati dal Patriarca del Friuli.
La questione si presentava molto ingarbugliata, sia per l’autorevolezza degli enti religiosi implicati (l’Albiniani che fu investito dal Nontio, era protetto dal medesimo, e il
Ronconi che fu investito da Monsignor Patriarca era protetto dal medesimo) che per l’ingerenza concreta della comunità che si opponeva apertamente ad una nomina e contraponeva a questa un suo candidato. Al di la di ogni cavillo giuridico la volontà degli abitanti
doveva essere tenuta in debito conto pena il rischio di mettere in discussione i presupposti
economici che avrebbero garantito il sostentamento del cappellano.
Fu dunque deciso di portare la vertenza nel tribunale di più alto grado nelle materie
religiose: la Sacra Rota di Roma.
La contesa dimorò in Roma circa sei anni ove naquero ben tre sentenze favorevoli
alle ragioni presentate dai legali della famiglia Zovato, in vigor delle quali il Pre Pietro
Albiniani fu restituito nel suo possesso della cappellania e fu condannato Pre Girolamo
Ronconi alla restituzione del spoglio con li frutti7. Ma la questione non si concluse con la
sentenza della Sacra Rota di Roma, mentre si contendeva a Venetia in Nonciatura, sopra
li frutti, il Ronconi e il Commun di Settimo non si diedero per vinti, e, dopo l’improvvisa
morte di Gio Batta e Hieronimo Zovati, presentarono istanza all’Avogadria di Venezia con
nova cavillatione. L’esito fu favorevole e, in data 3 marzo 1548, Pre Pietro Albiniani Trecio
fu invitato a rinunciare all’investitura della Capella di S. Gio Batta della Villa di Settimo.
La sentenza Avogaresca, confirmata in seconda istanza dall’Avogador Barbo (3 Maggio
1551), fu definitivamente tagliata dal Consiglio dei Quaranta il 5 novembre 1551.
Dopo circa dodici anni d’istanze giudiziarie, di memoriali e cavilli legali, il reverendo
Pre Piero Albinioni deTrecio fu definitivamente riposto in possesso della sua Capellania
di Settimo e da allora officiò nella chiesa S. Giovanni Battista tutto il tempo di sua vita
come dalle carte appar, fin che poi morì nell’anno 1599 (il costo degli atti giudiziari a
carico del Ronconi e del Commun di Settimo fu stimato in 114 ducati)8.
7
...così parla la prima sentenza dell’Auditor Paolo Tolomeo .... S’apellò Ronconi, ma fu però laudata detta
sententiadal secondo Auditore che fu Jacomo Pozzi, come si legge dalla lettera della Curia Romana ... 1546, 26
febbraio ... Appellò Ronconi e poi conscio del torto si rimosse dall’appellatione, con patto gli fossero rimessi li
frutti e spese in fine lite...
8
...come ciò risulta dalle lettere compressorie Pappali dirette alla Serenità del Principe Veneto dell’anno 1546
li 26 febraro...
50
La cappellania di Settimo
Pre Gio Batta Venetiani e il reverendo Bernardino Mandola
Il conflitto rimase assopito per quasi mezzo secolo, riprendendo vigore solo nel 1599,
quando, dopo la morte di Don Piero Albinioni, si dovette proporre un nuovo titolare della
cappelania In questo caso il primo a muoversi fu il Commune di Settimo che, persistendo
nella sua ostinazione, il 28 settembre 1599, presentò Pre Gio Batta Venetiani di Settimo9
alla sede episcopale di Concordia, al che gli heredi Toffoli detti Zovati con qualche giorno
di ritardo ma non impreparati, presentarono a loro volta il Reverendo Bernardino Mandola di S. Vito (3 ottobre 1599).
Così si principiò nova lite e, per evitare le costose lungaggini della contesa precedente,
il Monsignor Vicario Generale convinse le due parti ad un compromesso. In cambio della
rinuncia da parte del Commun alla nomina di Gio Batta Venetiani, sarebbe stata intrapresa
una verifica dei titoli di Juspadronato pretesi dalla famiglia Zovato. Li Zovati avrebbero
dovuto giustificar d’esser heredi della famiglia del Toffoli davanti allo stesso Vicario.
Il 5 novembre 1599 la famiglia Zovato presentò nella curia vescovile di Concordia
vari instrumenti et capitolia e due testimonianze dal cui esame si provò che Toffoli e Zovati è una casa istessa. Il Vicario, esaminate le carte le ritenne valide: confirmò et laudò
la presentazione del cappellano fatta dalla famiglia Zovato et detto reverendo Pre Bernardino Mandola officiò detta capella sino al 23 aprile dell’anno 1640.
Pre Horatio Bella e Pre Pietro Meneguzzi
La contesa si ripresentò nel 1640, quando Don Bernardino Mandola rinunciò al beneficio. Il Commun di Settimo prese nuovamente l’iniziativa e presentò Pre Horatio Bella
di Meduna, anticipando la nomina di Pre Pietro Meneguzzi candidato dei Zovato.
Mentre la causa s’incamminava negli uffici competenti, Pre Horatio Bella si traferì a
Settimo e, alloggiato dal podestà Menego Tidolo, officiò nella chiesa San Giovanni Battista per un anno e mezzo, ottenendo successivamente dal Commun di Settimo 27 ducati
quale compenso.
Il 10 gennaio 1642 una sentenza del reverendo vicario di Concordia revocò l’elettione
et presentazione fatta dal Commune e fu laudata la presentazione de Toffoli detti Zovatti,
così Pre Pietro Meneguzzi poté a sua volta insediarsi nella cappellania di Settimo.
9
Pre Giovanni Battista Venezian di Settimo, dopo aver dovuto rinunciare forzatamente alla cappellania di Settimo, fu nei primi anni del Seicento rettore della chiesa di Taiedo e successivamente (22 aprile 1617) nominato
pievano della Chiesa S. Andrea di Cordovado, dove vi officio per 25 anni fino al giorno della sua morte.. Morì
l’11 maggio del 1642, e fu sepolto in un sepolcro scavato nella chiesa parrocchiale l’anno precedente e destinato
ai sacerdoti di Cordovado. La lapide ancora oggi visibile riporta il suo nome: IOANNE BAPTISTA . / DE . VENETIANIS . / VICARIO . CURATO.
51
La cappellania di Settimo
Il Commun non si diede per vinto e, per iniziativa del nuovo podestà Domenico Franzon detto Zotto, convocò il giorno 15 gennaio una Vicinia strardinaria10 per far causa
presso la magistratura veneziana contra Giacomo Zovatto et consorti rispetto al Ius patronatus. La nuova istanza, non portò a nessun cambiamento, eccetto l’ulteriore alleggerimento delle tasche degli homeni de commun di Settimo.
Pre Girolamo Zovato di Settimo
Nel 1655, per la prima volta un prete nato e cresciuto a Settimo, Pre Girolamo Zovato,
fu eletto a reggere la cappellania. Curiosamente il primo prete di Settimo eletto a Settimo
era figlio del titolare del Juspatronato ossia di Giacomo Zovato, che lo aveva nominato e
così la scelta del cappellano si trasformò in questo caso in un affare di famiglia. Alla morte del padre si verificò che lo stesso sacerdote era depositario del diritto di elezione alla
cappellania, avverandosi la situazione un po’ paradossale di essere tutore di una prerogativa che non aveva nessun interesse di mettere in pratica. Dal suo testamento risulta che
non ne fece mai una questione personale, ma solo di casata, e solo che mancasse la dessendenza della linea Zovata mascolina avrebbe lasciato tale facoltà alli podestà comun et
huomini dilla villa di Settimo di
modo che possino loro eleggersi
in capellano chi a loro parerà e
piacerà.
Non ci sono notizie di contese fra la famiglia Zovato e la comunità di Settimo sull’elezione
e sull’ufficio di Pre Girolamo.
Aveva 27 anni quando diventò
cappellano e vi rimase fino alla
morte 32 anni più tardi. Dai registri della parrocchia di Cinto:
Ex casa Zovatto situata oggi in via Udine.
10
“...Costituiti personalmente serDomenego Franzon detto Zotto Podestà della villa di Settimo, ser Christin Burlutto, ser Zan Batta Sottino, ser Zan Maria Franzon, ser Domenego Tidulo, ser Andrea Dreotto, Domenego Sottil,
Batista Baldassino, Zuane Bortolusso, Antonio Sottano, Settemin Pavan, Batista Temporino, et Antonio Fiorino,
tutti vicini et huomini del Comun della villa di Settimo, et la maggior parte d detti vicini appresentando anco tutti
li altri … absenti … hanno fatto … procuratore generale illust.mo sigr Paolo Colpi solicitador di Palazzo nell’inclita Città di Venetia …in tutte, et cadaune loro cause … specialmente … contra Giacomo Zovatto et consorti
della medesima Villa di Settimo per causa, et occasione del ius patronabus di rapresentar il Capellano della Venda
Chiesa di S. Gio Batta di essa Villa.” AS Pn , Ar. Not. b. n° 1072, reg 7469, not Zanino, S. Vito.
52
La cappellania di Settimo
Adì 10 Marzo 1687. Il reverendo Pre Gerolamo Zovato Cappellano in Settimo
in età d’ani 59 passò hieri all’altra vita doppo undeci giorni di febre maligna
munito prima delli santissimi sacramenti, confessione, communione et oglio
santo; il suo cadavere fu sepellito nella chiesa di Settimo entro l’arca de sacerdoti, hoggi11.
La contesa fra Gio Batta Zibioli e Pre Antonio Schinella
Dopo la morte di Pre Girolamo Zovato si riprese a litigare per eleggere il prossimo
sacerdote. Il 20 marzo gli eredi Zovati presentarono Pre Zuane del Ben12 di Chios che non
raccolse il consenso del Commun e dalla popolazione. Successero disordini per impedire a Pre Zuan d’insediarsi. Lo Zuan alcuni giorni rinunciò alla nomina a causa delle
gran turbolenze successe a Settimo13. In quei
giorni la popolazione non solo si oppose solo
a Pre del Ben, ma anche al Reverendo economo mandato dal Vescovo di Concordia come
sostituto per le funzioni religiose14.
La famiglia Zovato dopo la rinuncia di
del Ben designa il chierico Giovanni Battista
Zibioli di professione notaio15, mentre il comune propone Antonio Schinella da S. Vito.
Inizialmente le parti si accordano di portare
la questione davanti al Vescovo di Concor- Sigillo notarile di Gio Batta Zibioli.
dia, quale materia ecclesiastica.
11
Arch. Parrocchiale Cinto, Reg. canonico dei Morti, 1674/1703. M. De Vecchi, Cronache di vita agreste, Ed.
Comune di Cinto Caomaggiore 2003.
12
AS Tv, Arc. Not. I s., b. 2016, minutario 1687/89.
13
“A messer Domenego Marzenotto, Settimo. Messer Domenego carissimo per le gran turbolenze di Setimo risolvo non voler più venire (...) et ringrazio tutti gli amici imparticolar li Zovatti, et ancor lei perché vedo le cose
confuse...” AS Tv, Arc. Not. I s., b. 2016, minutario 1687/89.
14
Ci fu un proclama del capitano di San Vito: “...si comette al Commun, et huomini della detta Villa di Settimo,
che in penna di ducati 100, bando, prigione, gallera, che a vista del presente debbano permetter il detto Reverendo Economo possi che vogli ad ogni suo piacere cellebrar la Santa Messa nella Chiesa, per il cui effetto sotto
detta penna li doverà dal Podestà Commun et Huomini sudetti darli immediate le chiavi e della Sacrestia e della
Casa Presbiterale ad ogni sua richiesta, acciò possi valersi per suoi bisogni et esercitar l’offitio suo ...” As Tv,
Ar not. I. s, b. 2009
15
Era nato a Sesto ma sua madre era di Settimo, Cecilia Venezian, e aveva abitato per un certo periodo a Settimo
svolgendo la professione di avvocato e di notaio. Frequentava sovente la casa Pre Girolamo Zovato e fu lo stesso
Zibioli redigere il testamento del prete.
53
La cappellania di Settimo
Il notaro Zibioli riesce in questa sede a spuntarla ed ottenne l’approvazione del vicario episcopale in data 20 giugno. L’elezione fu comunicata immediatamente al podestà e
a tutti i capi di famiglia.
Tutto ciò fu inutile, e, come ricorda il pievano di Cinto16, in una lettera del 21 luglio17,
nessuno a Settimo intendeva accettare il nodaro come cappellano: assolutamente gli huomini di Settimo ne’ vecchi, ne’ giovini, nè piccioli nè grandi non lo vogliono, perché per
la sua professione, era impicciato nelle liti e senthenze e per essere stato in combutta con
la famiglia Zovato.
La comunità di Settimo non si arrese e ritenendo la questione di materia laicale
decise di rivolgere una supplica al Pien Colleggio di Venezia18. La supplica ottenne la citazione in giudizio degli eredi Zovati ma creò qualche imbarazzo presso la giurisdizione
patriarcale. Le regole pattuite fra il Patriarca del Friuli e lo stato veneziano stabilivano che
le comunità sottoposte alla giurisdizione patriarcale avrebbero dovuto far riferimento in
controversie di materia laicale solo alle magistrature patriarcali. I Zovati fecero intervenire il Patriarca del Friuli che, in una lettera diretta al Serenissimo Principe, ritenne tale
condotta in contrasto con la pratica di più secoli e dunque di infinito pregiudicio per i capitoli della transazione concordati fra la Serenissima Signoria e il Patriarcato del Friuli.
...Settimo è villa Patriarcale membro della Giurisditione di S. Vido consignata
alli Patriarchi e contenuta sempre intatta, con distinta indipendenza, alla quale
sono così il Commun attual come li Zovati suoi sottoposti in tutte le sentenze
Laicali; qualità, che si ci fosse stata nella supplica espressa mi persuado non sarebbe stata ricevuta... La causa è stata ventilata di comun delle parti al foro ecclesiastico di Concordia [in quanto] la villa di Settimo è soggetta a quella Diocesi,
ma riducendosi la cognitione al foro Laico il Giudice proprio è il Patriarca...19
16
Pre Pascasio Pasconi.
Acau b. 1089, c. 454
18
“Serenissimo Principe. La fondazione e dotazione fatta dal Commune di Settimo sotto San Vido della sua chiesa sotto il titolo di S. Gio Batta hanno stabilite nello stesso Commun le raggioni di elleger il suo Parocco.
Hanno preteso alcuni signori Zovati per le asserite rappresentanze di un tal Daniel qm Toffol di escluder il Commun da detto Jus, e con lite contestata nell’eclesiastico contro le leggi, li pubblici instituti si è preteso questo Jus
patronato laicale farlo decider da Giudice non suo. La qualità della materia, le persone contendenti rappresentanti il predetto Commun da motivo cagionato allo stesso di capitar a’ piedi di Vostra Serenità, perché abilitato
alla presentatione della presente nella Cancelleria, habbi ad esser da questo Serenissimo Consesso deciso, e stabilito questo Jus patronato al medesimo Commun esser dovuto, ne poter li predetti Zovati sotto veruno pretesto
intorbidare il Dominio, e sua ragione. Grazie. 13 luglio1687...” AS Ve, Colleggio VI, b. 671
19
Acau, Atti Civili, b. 1064, p. 453
20
“Eminentissimo ....... Son stato a parlar con il messer Piovano di Cinto in conformità de comandi de Vostra
Eminenza, prima de mostrarli la littera li ho discorso sopra l’interesse del Commun di Settimo, sul principio lo
17
54
La cappellania di Settimo
Per aggiustare la cosa, il patriarca delegò il conte Carlo Altan, Capitano di San Vito,
a trattare con il pievano di Cinto Pascasio Pasconi20, che difendeva le ragioni del Commun
di Settimo.
La questione, dopo essersi trascinata con alterne vicende per parecchi mesi fu risolta
grazie alla rinuncia di Gio Batta Zibioli21 e all’intervento diretto del Patriarca. Pre Antonio Schinella fu presentato a Settimo come cappellano il 31 ottobre 1687 con l’approvazione d’entrambe le parti. Fu redatto un documento in cui si stabilì una volta per tutte che
l’elezione del cappellano, d’ora in poi, sarebbe dovuta avvenire con il consenso delle due
parti o, mancando questo, per sorteggio.
Le funzioni religiose a Settimo
Nell’atto di fondazione della chiesa di Settimo era stabilita l’intangibilità degli interessi e delle facoltà del pievano di Cinto. Il cappellano di Settimo aveva il compito di
celebrar messa in tutte le feste di precetto senza ingerire in alcuna cosa pertinente al
governo delle anime. Né poteva farsi sostituire senza il permesso del pievano al quale
continuavano ad andare i proventi delle messe dei legati e delle confraternite.
Negli anni in cui la cappellania fu affidata a Pre Girolamo Zovato, ci furono pressanti
richieste per poter officiare altre funzioni religiose. Pre Giorolamo giunse a celebrarle di
sua iniziativa, non senza l’appoggio della popolazione, anche se privo di mandato ufficiale, incorrendo nella diffida del vicario episcopale. Fu minacciato di sospensione a divinis
nel caso avesse perseverato a cantar solenemente le messe, consacrare le ceneri, le palme
trovato un poco interesato per la parte di detto Commun, alla fine poi li ho letto la littera di V. Em. mi ha scrito,
et anco lui la litta più d’una volta, è restato molto confuso, et mi ha pregato voglia scusarlo appresso L’Em.za V.
che lui non li ha consegliati di andar in Eccmo Colleggio, ma che li Procuratori dil Commun sono andati a Venetia a consegliar con l’Avocato Albrici, et che questo li ha fatto la scrittura di comparsa nell’Ecc.mo Coleggio,
et ha promesso per l’avenire di non intricarsi in alcuna cosa, et di voler viver humilissimo servitore dell’Em.za
Vostra. Me discorse poi che sarebbe bene per tutto il Commun, che li Zoatti facessero un compromesso in Vostra
Eminenza, acciò giudicasse questa causa, et che fosse mai più che dire tra loro, io li risposi che non so se Vostra
Eminenzaza havesse voluto acettare, per che questa causa va distintamente al suo foro, che essa pol giudicare
senza compromesso et far che le parti stijno al prudentissimo suo giuditio, senza mai più renovare litijci fra loro,
con tanti dispendij, et rovina del Commun, a questi ultimi discorsi fu presente un Procuratore del Commun, cioè
quel Gastaldo dell’ecc.ma Casa Sagredo et questo pareva molto contrario ma voleva proseguire la causa a Coleggio, li rapresentai che mai haverbbero visto il fine, et sarebbe stato l’esterminio del Comune, si aquato, et non
disse altro. In questo punto che scrivo a V. Em.za capita il Zibiolo per darmi una lettera del Vicario di Concordia,
acciò le relassasse mandato al Comun de Settimo, lo detto che sospenda il tutto, per veder se si potesse agiustar,
et che venissero avanti vostra Eminenza per terminare il tutto, senza havere altre litte. ...
San Vido 27 luglio 1687, Carlo Altan.
21
Gio Batta Zibioli negli anni successivi riuscirà ad ottenere un beneficio e diventare curato della chiesa di San
Cristoforo di Portogruaro.
55
La cappellania di Settimo
e le candelle, a benedir le case, le done dopo il parto e l’acqua nel giorno dell’epifania.
Inoltre gli fu proibito di usar la stola giudicionale, di cellebrar gli diversi offici della settimana santa e anche di far procession.
Il 2 giugno 1665 il pievano di Cinto e la comunità di Settimo stesero un documento22
nel quale erano concordate alcune regole.
Si ribadiva di rispettare gli impegni presi dal Comun di Settimo duecento anni prima
all’atto della fondazione della chiesa S. Giovanni Battista, gli abitanti e il cappellano andar il giorno del Santissimo Corpo in Chiesa con le croci alla Pieve di Cinto ad accompagnar il Santissimo in processione e, analogamente, ripetere la processione alla pieve
il venerdì santo di sera. La prima domenica d’ottobre erano tenuti ad accompagnare
devotamente in processione l’immagine della Beata Vergine del Rosario, allora situata
presso l’altare maggiore della chiesa di Cinto. Il 25 aprile, giorno di San Marco, dovevano, con le croci in mano, portarsi alla pieve di Cinto ed insieme ai fedeli cintesi recarsi in
processione alla chiesa di Pramaggiore per visitar il Glorioso S. Marco, protettore della
Serenissima Signoria, pregando quel glorioso santo d’ intercer appresso all’Altissimo per
la gloria del doge e dello stato veneziano.
Il Cappellano di Settimo doveva essere presente nella chiesa di Cinto durante la festività di San Biasio, il sabato santo e la seconda domenica di Giugno, a quel tempo giorno
della sagra del paese.
A fronte di questi obblighi era concesso al cappellano di Settimo di cantar messa nei
giorni solenni e nelle festività di San Giovanni Battista, di Sant’Antonio e di San Rocco.
Era permesso anche di cantar li vesperi nei giorni festivi e di far le procession di S. Rocco
e di S. Antonio da Padova, doi volte al mese, una per ogni santo di cui la chiesa disponeva
un altare. Infine il pievano dava licenza al cappellano di Settimo di benedir le ceneri le
candelle le palme e l’acqua il giorno dell’Epifania; cellebrar gli offici il mercordi, il giovedì et venerdì santi. L’accordo avrebbe dovuto essere rinnovato ogni cinque anni.
Diciassette anni più tardi, il 1 aprile del 1682, Pascasio Pasconi nuovo pievano di
Cinto, alla presenza di Don Girolamo Zovato e di due rappresentanti del Commun di
Settimo23, fa redigere un nuovo testo che in più punti modifica il documento precedente.
Il pievano concede per mera cortesia che il cappellano possa il sabato far processione da
una croce all’altra24 sino al Glesiuto, senza stola, permettendo di recitare l’oratione in
22
AS Tv, Ar Not I. s,. B. 2011. Il documento fu redatto dal notaio Gio Batta Zibioli, allora abitante a Settimo, alla
presenza del pievano Ciro Varotari, del podestà di Settimo Zuan Bortolusso e dei seguenti huomini di Comun: Jacomo Zovato, Menego Tidulo, Gerolamo Brain, Zamaria Zovato, Girolamo Borluto, Antonio Franzon, Francesco
Borluto, Iseppo Sotil, Daniel Franzon detto Zotto.
23
Antonio Pedrinelli e Domenego Marzinotto
24
Si intende il periodo che andava dal 3 Maggio, giorno detto della “Croce”, sino al 14 Settembre, giorno dell’esaltazione della croce e vigilia della Madonna addolorata.
56
La cappellania di Settimo
cimitero, ad eccezione della settimana della commemoratione di tutti i morti, in quanto
ché il pievano in quel periodo riservava a se stesso la funzione e i relativi emolumenti.
Inoltre poteva benedire l’acqua nelle pittelle della chiesa usando la stola, benedire e
scongiurare i cattivi tempi in occasione de nembi o pericolo di tempesta, ma non doveva
benedire l’acqua durante l’Epifania perché i fedeli di Settimo, per averla, erano obbligati
recarsi nella chiesa parrocchiale. Il cappellano aveva la facoltà di accompagnare senza
stola la gente di Settimo durante la processione delle Rogazioni, di leggere anco gl’evangeli alle crocette, ma senza ricever l’emolumenti delli pollastrelli, riservati al pievano, a
conto della benedizione, ed evangeli.
Infine, a proposito della benedizione degl’ovi e altre cose comestibili nel giorno di
Pasqua se per qualche cattivo tempo fosse stato disagevole portarli nella chiesa di Cinto,
il pievano concedeva volentieri la licenza per benedirli in quella Settimo.
Con questo nuovo accordo, la comunità di Settimo dovette accettare qualche restrizione rispetto agli accordi stabiliti con il pievano precedente, ma ciò che era ritenuto maggiormente discutibile era la proibizione di cantar vespari et compieta25. Durante l’estate
di quell’anno si diffuse fra la gente di Settimo una generale disapprovazione a tale veto e
il Commun fu costretto a convocare sull’argomento una riunione straordinaria della Vicinia. L’8 ottobre 1682, adunati al loco solito sotto il tiglio, gli huomini dilla villa di Settimo
decisero di eleggere due procuratori da mandare in delegazione al pievano di Cinto per
supplicarlo volessi far la grazia di lasciarli cantar anco Vesperi et Compieta26, che ottennero una revisione dell’accordo.
Il pievano concedeva licenza al cappellano di Settimo di far cantar per sua devozione
nella chiesa di Settimo il Vespero et Compieta tutte le domeniche e nelle feste di precetto,
mentre al sabato poteva intonare la Compieta e recitare le litanie della santissima Beata
Vergine, però, con espressa condizione che sia sonato il terzo ed ultimo segno, sibi boto
della campana dopo il segno del mezo giorno della parrocchiale e con l’obbligo che detti
Vesperi et Compieta venissero effettuati almeno un hora avanti si principij il vespero,
Compieta, et altri fontioni nilla Parochiale, in modo che anco a quelli di Settimo fosse
data la possibilità di poter venir alle fontioni della chiesa parocchiale di Cinto.
25
L’ultima ora di preghiera dell’ufficio divino con la quale si conclude la giornata liturgica.
As Tv, Ar not I s., b.2015, f. 1682/83. Alla riunione erano presenti: il podestà messer Valentin Zotto, Pietro
Grando et Osgualdo Gobatto, Iseppo Zotto, Valentin Zovato, Menego Marzinoto, Menego Bascherato, Cornelio
Pelizzari, Francesco Francescon, Pietro Simeon, Batta Mutto, signor Antonio Pidrinelli, Armilio Borluto, Valentin Bidon, Sgualdo Franzon et messer Pietro Dario. Con l’approvazione di Pre Girolamo Zovato furono eletti
come procuratori Antonio Pedrinelli e Pietro Dario.
26
57
La cappellania di Settimo
Anche, con l’insediamento del nuovo pievano di Cinto, Pre Sebastiano Pristia, nel
1692, fu seguita nei confronti del cappellano di Settimo27 la solita prassi e gli fu proibito
di cantar messa e compieta non solo con la stolla ma anco senza stolla, di poter vegliare
sopra il cimiterio, far processioni per la villa, attorno al cimiterio, cantar litanie il sabbato, cantar passij da una croce all’altra.
Anche in questo caso si arrivò nuovamente a ridisegnare le nuove norme alle quali
avrebbe dovuto attenersi il cappellano di Settimo. Si acconsentiva che possa liberamente
celebrar in cadaunn giorno la santa messa a hora competente e secondo le specificate
ordinationi dei defunti, veniva poi concesso agli abitanti di Settimo di continuare una loro
particolare consuetudine devozionale, principiata sino ai secoli passati e non mai interotta, ossia di leggere prima della Santa Messa il Passio di nostro signore Iddio, a partire
dalla domenica della Santa Croce di maggio sino a quella di settembre.
Il pievano permetteva anche la celebrazione di un’altra pratica religiosa tradizionale
a Settimo: il sabato, dopo aver recitato la Compieta, il portarsi alli due capitelli in capo
alla villa, cioè all’inizio del paese, da un lato e dall’altro della strada maestra. I fedeli, in
processione, si recavano a settimane alterne ora all’uno e ora all’altro, recitando il rosario e le litanie, e dicendo l’evangelio, scongiurando e benedicendo il tempo avanti detti
capitelli. Queste cerimonie avevano lo scopo di propiziarsi gli eventi atmosferici e tener
lontane le malattie e le pestilenze.
Si permetteva anche al cappellano in conformità ai lasciti e alle volontà espresse
dai defunti, di recitare ogni domenica orationi per i morti sopra il Cimiterio che allora
si trovava intorno alla chiesa di Settimo. Per le Rogationi si dava facoltà agli abitanti di
Settimo e al loro cappellano di continuar nell’antica consuetudine di far la processione
nella lor campagna ma solo il terzo giorno, dovendo li due primi giorni delle Rogationi
gli stessi abitanti partecipare alle processioni guidate dal Piovano de Cinto, il quale nel
primo giorno andava con la sua processione fino a Sumaga28.
27
Pre Antonio Schinella eletto cappellano di Settimo nell’anno 1687, dopo la morte di Pre Girolamo Zovato.
Si intende probabilmente il confine con Summaga. Gli anziani di Cinto ricordano che nei tre giorni delle
Rogazioni che si tenevano a Cinto fino ai primi anni del 1960, continuava l’antica consuetudine di dedicare la
processione del primo giorno al percorso che andava a S. Biagio fino ai confini con Summaga. Nel secondo
giorno invece la processione arrivava fino alla chiesetta della Concezione, dove si cellebrava la messa. Nel terzo
giorno la processione si dirigeva in Persiana e la messa si cellebrava nella chiesa dell’Annunziata, che un tempo
era adiacente al Palazzo della Persiana.
28
58
LA COMUNITÀ DI SETTIMO
durante la giurisdizione patriarcale
Marcello De Vecchi
Ormai da più di duecento anni Cinto e Settimo sono un’unica entità politica, ma,
nonostante ciò, permangono all’interno delle due comunità alcuni aspetti che le differenziano, seppure oggi in modo sempre meno marcato.
A volte si ha la sensazione che la linea di confine fra Friuli e Veneto, tracciata per
esigenze amministrative da burocrati napoleonici, sia diversa da quella attuale e passi
piuttosto lungo i confini del palù e della boschetta che lungo il Reghena e il Melon. Questa diversità si nota soprattutto nel “far comunità”, in un maggior legame e compattezza
sociale rispetto alla realtà più frammentata di Cinto. Settimo dimostra maggiore adesione
e partecipazione alle tradizioni e a tutte le manifestazioni che ribadiscono l’identità del
paese. L’orgoglio delle proprie origini crea fra la gente una rete di “complicità” che permette di sostenere e dare maggior impulso alle iniziative in campo sociale e religioso.
Le ragioni che hanno concorso a creare questa diversità sono molteplici ma in questo
capitolo saranno prese in esame solo quelle antiche che si possono trovare indagando un
periodo di tempo in cui la comunità di Settimo fu distinta da quella di Cinto perché sottoposta a giurisdizione patriarcale.
Quando le armate veneziane nell’anno 1420, approfittando di alcune congiunture favorevoli, decisero di invadere la Patria del Friuli, Settimo era l’ultima propaggine meridionale del Capitanato di San Vito, che allora comprendeva anche i villaggi di Azzano,
Bannia, Taiedo, Villutta, Villafranca e Basedo.
La Serenissima, dopo trattative protrattesi per venticinque anni, concesse il Capitanato di San Vito e quello di S. Daniele al Patriarca di Aquileia, così Settimo si trovò sotto la
giurisdizione patriarcale29.
29
Una sintesi dell’accordo la possiamo trovare nel seguente documento. “Nell’anno 1445, 16 Giugno si stipulò
con esso una solenne transazione, e si capitulò nella seguente maniera. Che tutta la Giurisdizione Episcopale,
ed Ecclesiastica ed ogni superiorità nel spirituale fosse delli Patriarchi. Che la Città d’ Aquileja, e li Castelli di
S. Daniele, e di S. Vito con ducati 5 d’entrata, computato in essi li Feudi d’esse terre con tutte le sue pertinenze,
e territorj insieme con l’onnimoda Giurisdizione, mero, e misto Impero, ed ogni dominio Temporale fossero del
Patriarca, e che in essi per alcuna maniera non potesse ingerirsi la Serenissima Repubblica, ma che il total
dominio, amministrazione, governo, e tutto l’Iperio restasse appresso esso Patriarca, eccettuate però le cose
infrascritte. Primo li Feudi (...). Secondo, che tutti quelli che sono tenuti, o personalmente, o con cavalli servire
ala custodia della Patria, siano d’ogni Luoco, ed ancorché abitassero nella detta città, e Castelli, sempre quando porterà il bisogno, e parerà al Serenissimo Dominio, a quello ubbidiscano, et alli suoi offizi. Terzo, che non
59
La comunità di Settimo
Questa nuova condizione avrebbe comportato differenze sia giuridiche che politiche
rispetto ai villaggi limitrofi appartenenti ad altre giurisdizioni, Cinto in primis. Il territorio
governato dal Patriarca aveva una sua autonomia amministrativa, i dazi e le tasse facevano
parte delle rendite accordate dalla Repubblica di Venezia ai Patriarchi, mentre il resto del
territorio friulano pagava le imposte al Luogotenente di Udine. Se questo stato comportava alcune facilitazioni e qualche beneficio in fatto di tasse da pagare, c’era la contropartita
di fornire alcune servitù in favore del Patriarca.
Le comunità che facevano capo a San Vito dovevano foraggiare la stalla patriarcale
con diciotto carri di fieno complessivi e strame e paglia secondo le necessità, c’era il dovere di coltivare anche all’orto patriarcale di San Vito inviando manodopera o pagando
una sovvenzione annuale. Gli abitanti delle ville dovevano esser disponibili anche per incombenze straordinarie: scavare fosse intorno al palazzo patriarcale e trasportare legname e fassine dai boschi alle rive d’imbarco. A carico delle comunità era anche il trasporto
delle robbe e dei bagagli privati del patriarca durante i suoi viaggi in queste terre.
Tale situazione comportava delle differenze anche in campo giuridico, nell’amministrazione della giustizia il patriarca era esente dal rendere conto al Luogotenente di Udine
ma si rapportava direttamente al Doge, al Senato e al Consiglio dei Dieci. Il giudizio di
prima istanza aspettava alle comunità giurisdizionali che per Settimo era il Capitanato di
San Vito, mentre la seconda istanza era prerogativa del Luogotenente di Udine, tranne
nelle giurisdizioni patriarcali dove questo compito spettava allo stesso prelato.
Il Capitanato di San Vito e l’amministrazione della giustizia
Le origini del Capitanato di San Vito si perdono nei meandri della storia, i documenti
rimasti sono rari e perciò è difficile stabilire date e illustrare eventi con attendibile certezza. Si ritiene essere stato fondato durante il periodo Patriarcale30 forse nato dalla divisione
del territorio anticamente sottoposto al castello di Meduna.
A confortare questa ipotesi vi è un documento dell’anno 136431, redatto sotto la loggia
di Settimo, nel luogo ove si soleva anticamente tenere il placito di giustizia, alla presenza
dalle massime autorità della zona. Si tratta di una delibera sui diritti degli abitanti della
giurisdizione di Meduna e di quella di San Vito di comugnare, pascolare, segare, falciare
permetta il Patriarca, ne possa in quei Luoghi esser usato sale d’altra natura, che quelle delle Camere pubbliche
che saranno nella Patria deputate. Quarto che nei medesimi non possano esser ricevuti contrabandi, ribelli, nè
banditi, ma in caso siano consegnati. Quinto, che in quelle Terre abbino ad esser mantenute, e diffese dalle armi
pubbliche contro li suoi inimici (...).” Acau, Giurisdizione Criminale e Roveri, b. 1089.
30
Qualcuno ipotizza che sia stato fondato dal patriarca Raimondo della Torre, a cui si deve l’edificazione delle
torri Raimonda e Scaramuccia, nella seconda metà del secolo XIII.
31
AA VV, Borghi Feudi Comunità, Chons 1985, pp. 67, 68.
60
La comunità di Settimo
assieme nei e sui pascoli delle comugne e dei boschi di dette gastaldie. Gli intervenuti
dichiararono che ai tempi antichi, le gastaldie della Meduna e di San Vito erano un solo
dominio ed un solo garrito e che secondo gli anziani il Capitanato di San Vito proveniva
dalla gastaldia della Meduna.
Il Capitano della giurisdizione di San Vito era eletto dal patriarca e lo rappresentava
nel governo della giurisdizione, con i compiti di tutelare la sicurezza, i diritti patriarcali e
le possessioni della Chiesa, di esigere affitti e livelli delle terre, pubbliche gravezze.
Altra funzione del Capitano era amministrare la giustizia al civile e al criminale minore, coadiuvato di tre32 astanti detti anche circostanti, perché gli sedevano a fianco e da
due giudici eletti dalla Comunità di San Vito. Le udienze e le sentenze erano registrate da
un cancelliere, di norma lo stesso che annotava le deliberazioni della comunità, mentre
per stridar le contumacie era addetto un bidello o fante anche questo stipendiato dalla
comunità. Fuori della porta della cancelleria, durante le udienze, vigilava uno sbirro33
attento all’andirivieni delle persone e pronto a ricevere le disposizioni del Capitanio.
Ecco dunque tratteggiata una delle tante cancellerie che pullulavano nella Patria del
Friuli di quell’epoca, istituite durante il Patriarcato e mantenute tali e quali dalla Repubblica di Venezia. Considerando che le giurisdizioni erano settanta, e più il luogotenente
veneziano Antonio Grimani scriveva in una lettera che ogni due miglia si muta signore34.
A fronte di una popolazione di contadini poveri che per lo più attendono governar le viti
et il sorgo su terreni sterili, che vivono in abitazioni fatiscenti fatte solo di sassi e paglia,
più di duemila fra cancellieri e giurisdicenti rendevano ragione in nome del patriarca e del
serenissimo doge, lucrando l’inverosimile.
Nonostante le povertà ma non mancavano le contese anche fra i contadini, il Grimani
li rappresenta sempre dediti alle liti, a controversie, lì uni contra gli altri: non si giunge
in un luoco, che non si veda li contadini al tribunale arrabiati, come le vespe. Su di loro
guadagnavano i cancellieri soldi 4 per lira, il datio degli instrumenti, e s’inventavano
mille altri incovenienti per angustiarli: succedeva che in causa di tre ducati ne facevano
spender vinti in termini, et scritture, mercedi estorte da cancellieri et fanti.
32
Provenivano da famiglie nobili e godevano di quell’ufficio per investitura feudale, da tre furono ridotti a
due nel corso del XVIII secolo. G. Rezasco. “Dizionario del Linguaggio italiano storico ed amministrativo”.
Firenze 1881.
33
La Terra di San Vito disponeva allora di due sbirri, uno stipendiato dalla comunità ed uno pagato dal Patriarca,
che avevano il compito di contrastare i crimini, intervenendo con prontezza nei casi gravi e tentando l’arresto dei
ladri che si trovassero con il corpo del delitto, e così di quelli che con armi gravemente offendessero, e molto più
che ucidessero le Persone. Fra gli alri loro compiti c’era anche quello di portare all’incanto i beni requisiti e far
recapitare in cancelleria le denunzie dei casi criminosi leggeri.
34
AS Ve, Senato Dispacci Rettori, Udine, b. 10.
61
La comunità di Settimo
Guardando i registri del tribunal di San Vito spesso troviamo coinvolti in litigi anche
gli abitanti di Settimo. A volte per questioni di confine, come il cappellano di Settimo in
disputa con il fabbro Francesco Venetiano per avergli disfatto la palada che faceva da
confine. Il fabbro fu condannato a dover rifare la palada et stroppar il cortivo del reverendo35.
Un’altra istanza chiedeva la restituzione di un attrezzo vitale come la caldiera della
polenta, sequestrata dal cappellano a Antonio Satiro per i debiti che aveva accumulato con
la chiesa di Settimo36. Il Satiro doveva essere una persona molta vivace a cui piacevano
le burle e gli sberleffi ma che fatti in certi ambiti potevano esser offensivi e di cattivo gusto. Zuan Maria Gobbato era diventato il bersaglio preferito e per difendersi si rivolse ai
giudici. La sentenza impose ad Antonio Satiro di contenersi: non doveva più offenderlo,
ne farlo offender in fatti, né in parole in casa né fuori in campagna in alcun loco, ma
lasciarlo liberamente far lì fatti suoi, tagliar le sue herbe, biade, et governar le sue terre
senza impedirlo o molestarlo. In caso contrario poteva incorrere in una pena di 100 lire e
rischiare il bando37.
Qualcuno dalle offese passava alle insolenze, minacciando anco di voler dar il fuoco
alle case e allora si faceva intervenire il tribunale anche se il reo, Zuane Corazza, non
era persona assennata ma voltato di cervello. I giudici imposero a due fratelli di Zuane di
aver miglior custodia del reo e di impedirgli che facesse altre insolenze nel villaggio di
Settimo38.
In alcuni casi le contese riguardavano danni inferti a viti o ad animali, ne è un esempio il contenzioso fra Iseppo Franzon detto Zotto e Pietro Grandi. Tra i due confinanti non
scorreva buon sangue, in particolare Iseppo provava molto risentimento nei confronti del
giovane Francesco, famiglio e pastore del Grandi, per aver questi approfittato nottetempo
delle delizie di un suo ceresero. Avendolo notato mentre attendeva gl’ animali in prossimità delle sue terre, il Zotto si mise a correre dietro a Francesco per darli una lezione,
ma il pastore, più giovane ed agile, riuscì a fuggire. Però gli animali, rimasti incustoditi,
decisero di propria iniziativa di attraversare il fatidico confine e di saggiare le qualità alimentari delle viti. Il Zotto ritornato nella sua terra senza aver potuto togliersi il prurito alle
mani, si trovò in aggiunta le viti danneggiate, così decise di far ricorso al tribunale39.
35
10 febraro 1642. ASC S.Vito, b.25. Rip MDV, Cronache di vita agreste, Cinto 2003 p. 148.
2 maggio 1642. ASC S.Vito, b.26. Rip. MDV, Cronache di vita agreste, Cinto 2003 p. 149.
37
14 luglio 1645, ASC S. Vito, b. 27 Rip. MDV, Cronache di vita agreste, Cinto 2003 p. 153.
38
22 maggio 1663, ASC S.Vito, b.34. Rip. MDV, Cronache di vita agreste, Cinto 2003 p. 153.
39
Dopo qualche udienza per evitare ulteriori spese i due contendenti decisero di trovare un’accordo amichevole.
Luglio 1685, ASC S.Vito, b. 44. Rip. MDV, Cronache di vita agreste, Cinto 2003 p. 154.
36
62
La comunità di Settimo
I casi citati sono solo i più curiosi, per lo più si registra una aperta conflittualità fra
possidente e massaro sia mezzadro che fittavolo. Così si sfrattava una famiglia o si proibiva di lavorare certe terre, si chiedeva il sequestro di beni per il pagamento di debiti e si formulavano istanze intimidatorie che i gastaldi o i fattori utilizzavano per ricattare i villici.
La comunità di Settimo e gli homeni de Comun
Quale sia stata la sua iniziale configurazione, com’è sia nato e si sia sviluppato l’agglomerato di case che ha dato vita al villaggio di Settimo, non è dato sapere. Si possono
fare solo congetture basandosi sui rari documenti disponibili, che testimoniano un forte
legame con la Terra de San Vido e con il Pariarca del Friuli. Il popolamento della comunità di Settimo fu favorito dalla politica del patriarca del Friuli che intendeva rendere
coltivabili vaste zone incolte e boschive.
Nel corso del XIII e XIV secolo Settimo è già una realtà ben definita, gli abitanti si
riconoscono in comunità e, pur non disponendo di una chiesa, sono dotati di una loggia
dove si riunisce la Vicinia e dove tenevano placido di giustizia i funzionari della giurisdizione di San Vito.
La Vicinia, adunanza dei vicini di casa, era l’assemblea elettiva degli homeni de comun, il consiglio comunale di quel tempo. A Settimo si radunava ogni anno il 25 aprile
per votare l’elezione di un podestà, di tre giurati, di un cammeraro e di sette consiglieri.
Anticamente l’elezione del podestà di Settimo avveniva per sorteggio e fu solo nel
corso del Settecento, con decreto del cardinale Dolfin, che si fece a rotolo cioè a rotazione
tra le famiglie della comunità. L’elezione era suggellata con la consegna della frasca ai
nuovi eletti, i quali accettandola davano pubblicamente la loro approvazione. Non tutte
le famiglie partecipavano alla votazione, solitamente potevano intervenire in Vicinia con
un proprio rappresentante solo quelle che avevano di proprio o che lavoravano come
mezzadri o fittavoli di una possessione con non meno di dodici campi, disponendo anche
di un carro e di animali da poter impiegare per li Pioveghi (manutenzione delle strade).
Dunque la Vicinia era formata da soli masieri e signori ma era esclusa ai sottani, cioè le
famiglie senza terra o che lavoravano meno di dodici campi, e non disponevano di carri
e di animali. Quelle famiglie che lavoravano più possessioni avevano diritto a più voti e
partecipavano alla Vicinia con più rappresentanti. Nel 1741 la comunità di Settimo dichiarava la presenza di 22 masserie più qualche casone di sotani, mentre la popolazione
ammontava a 295 persone40.
40
ASC S. Vito b. 67.
63
La comunità di Settimo
Il podestà di Settimo aveva diversi compiti da svolgere in collaborazione con gli homeni del comun eletti con lui: coordinare la raccolta delle tasse e pagare puntualmente
le gravezze pubbliche, far pervenire alla cancelleria di San Vito le denoncie di latrocinij,
e dei fatti di sangue, indire le riunioni straordinarie della Vicinia ogni qual volta fosse
necessario e, insieme al degano della Villa far applicare i sequestri di beni sentenziati
dalle magistrature. Doveva inizialmente giurare fedeltà davanti al Capitano di San Vito
e alla fine del suo mandato documentare con ricevute il dinaro entrato, ed uscito. Come
compenso godeva una codetta di ben prativo, su cui può fare un piè di fieno, ed una porzione di Palludo, da cui raccoglieva un carro di strame circa. In caso di qualche viaggio
il comune rimborsava al podestà le spese del vitto.
Senza godere beneficio alcuno collaboravano con il podestà tre giurati due grandi e
uno piccolo. I primi erano addetti a riscuotere le tanse ed affitti del Comune; a portare gli
inviti per le riunioni ordinarie e straordinarie delle Vicinie e a stimare i danni provocati ai
beni comunali. Il giurato piccolo era invece il corriere del comune ed aveva anche l’obbligo di far da guida ai soldati che dovevano attraversare il territorio Settimo.
Il cameraro doveva amministrare le rendite della chiesa S. Giovanni Battista, spesso
al centro di dispute, ed esercitava sotto la direzione di un procuratore. Infine, i sette consiglieri avevano un compito più che altro di controllo e in particolare dovevano tenere in
soggezione il podestà ammonendolo quando non teneva fede ai suoi impegni.
Altra figura importante era il degano col compito di coadiuvare il podestà nelle denuncie di fatti criminosi e di praticando il sequestro di beni ordinate dai tribunali. Il degano non era eletto ma aveva un’investitura di tipo feudale, che a Settimo veniva conferita
dal Patriarca. In realtà chi avesse voluto svolgere questa funzione doveva avere delle proprietà, dei magazzini spaziosi dove tenere i beni sequestrati e perciò disporre di una casa
dominicale. A Settimo la degania era stata conferita ai Sagredo, che la facevano esercitare
dai loro gastaldi.
64
Pietra di confine tra Settimo e Marignana posta nel 1606 dalla Repubblica di Venezia.
Nelle pagine successive due mappe elaborate da una pianta del 1682:
tav. XVIII, l’incrocio del Cesiol e tav. XIX, la boschetta di Settimo.
XVII
XVIII
XIX
Il Palù di Settimo
con l’antica suddivisione in
prese per lo sfalcio dello strame.
XX
1926: l’ufficiale sanitario del comune di Cinto chiede la bonifica del Palù
XXI
Paesaggio estivo del Palù
Foto Sergio Basso
XXII
Paesaggi estivi del Palù
Foto Sergio Basso
XXIII
Il Caomaggiore nei pressi della ponta del Palù
Foto Sergio Basso
XXIV
I laghi di Cinto visti dal Palù
Foto Sergio Basso
XXV
Il Caomaggiore nel 1962
Foto Luigi Bagnariol
XXVI
Tramonto sul Palù
Foto Adriano Daneluzzi
Palù allagato nel 1968
Foto Luciano Arreghini
XXVII
La quercia del Palù
Foto Sergio Basso
XXVIII
Prati stabili e canneti del Palù
Foto Sergio Basso
XXIX
Sentiero del Palù in autunno
Foto Sergio Basso
XXX
Alberi del Palù in autunno
Foto Sergio Basso
XXXI
Flora e Fauna sul Melon
Foto Sergio Basso
XXXII
La comunità di Settimo
Le Vicinie di Settimo
Oltre al tempo prefisso del dì 25 Aprile si fa la Vicinia in ogni altro, che portasse il bisogno, o per conciliar disparità, o per metter tanse, o per pagar macina,
e dazij, o per deliberar intorno agli affari della Chiesa, o per incantar gli affitti,
ed in somma nel modo, che stilla ogni altro ben regolato Comune41.
Solo la Vicinia del 25 aprile in cui si eleggeva il nuovo podestà era prestabilita le altre
riunioni erano indette a seconda delle urgenze e delle necessità. Dai documenti più antichi
risulta che la comunità disponeva inizialmente di una loggia dove i capifamiglia potevano
sostare in piedi e al riparo di un tetto per tutta l’adunanza, ma negli ultimi tempi della giurisdizione patriarcale ad accogliere i rappresentanti delle famiglie sono solo le sole fronde
di un tiglio, ambiente più bucolico per ripararsi dal sole o dall’intemperie.
A titolo di esempio si riportano in calce la documentazione di tre Vicinie rispettivamente tenute a circa un secolo di distanza una dall’altra, al fine di illustrare la diversità
delle questioni discusse e i cambiamenti e le continuità delle famiglie partecipanti.
La prima Vicinia è datata 17 agosto 1517 ed indetta su questioni religiose in Septimo
sub platea comunis ossia nella loggia comunale su questioni ordinarie. Vi partecipano i
seguenti capifamiglia:
...ser Domenicus de la Macha potestatis dicti comunis, Daniel illor de Lamigo, Dominicus de la Mantrona Jurati Comunis predicti, Mateus de Lamico,
Angelus de Campagna, Evangelista de Campagna, Leonardus de Campagna,
Daniel Salvatoris de Campagna, Jacobus Joannes illor Coradinj, Dominicus
Bartolomeus illor Coradinj, Baptista illor de la Mantrona, Silvester quondam
Zanetj Vicentinj, Dominicus Zovat, Marcuncius quondam Colaj Trivisinj, Baptista quondam Antonij Mianj, Baptista Rubens, Mateus illor Clementis, Joannes Fortunasij, Jacob Asquim, ser Antonius Venetus, Jeronimus illor Joannis
Bertolusij, Leonardus quondam Stefani illor de Lamigo, Angelus illor de Lamigo, Sebastianus illor de Lamigo, Marchionus quondam Blasij de la Macha,
Isach de la Macha, Baptista illor de la Forbula. (...)42.
Il 25 maggio 1626, oltre cento anni più tardi, ci troviamo di fronte ad un’altra vicinia, questa volta indetta in fretta e furia per far fronte alle minacce del bandito Jacometo
Regazzoni, che spalleggiato da una buona scorta di bravi chiedeva la restituzione di 150
ducati, a saldo di un prestito a livello accordato al comune dai suoi avi43.
41
Esposizione del Podestà del Comune di Settimo Florido Muto al Luogotenente della Patria del Friuli, 14 Maggio 1762. AS Ve, Rev. pubbliche entrate in zecca, n. 951.
42
AS Tv, Ar. Not. Io s., b. 387.
43
Episodio inserito nel capitolo Jacomo e Jacometo Regazzoni di questo stesso libro.
65
La comunità di Settimo
... in villa Septimi domo messer Claudio Favorlino [...]. Dove personalmente
costituidi domine Agnolo Forbolato, podestà procuratore della villa di Settimo
(con messer Anastasio Favorlino procuratore di esso comune) et Zuan Maria
Sutile, Francesco Franzon di Menego detto Zotto, mastro Iseppo Fabro, Iseppo
Venetian quondam Gabriel, Thonut Clement, Zan Domenego dell’Amigo, Menego Brain, Francesco Bidon, Cristian Burlut, Zuan Maria Battistel, Menego
Scuffon, Menego Coradin, Toni Satiro, Menego Mestrual, Oliviero Zovat, Daniel Zovat, Piero Bidon, Marcuzo Pavan, Jacomo Zovat, Hieronimo Venetian
quondam Menego, Francesco Trivisan et Zan Maria Franzon et altri absenti
delli quali esso Podestà disse haver la comissione[...] hanno dato, venduto, alienato [...] al magnifico sigr Gasparo Pedrinelli ivi presente per nome suo, et delli
magnifici signori Anzolo, et Antonio suoi fratelli [...] una responsion livellaria
di capitale de ducati 160 da lire 6 soldi 4 a ragion di ducati 7 per cento giusto
le parti del Serenissimo Dominio Veneto, da esser pagato ogn’anno per detto
Comune alla Madonna d’agosto, sino alla francatione, in et sopra il paludo [...]
confina a sol levado un prado dell’ eccelentissimo Regazzoni, a mezo dì l’acqua
detta Cao maior, a sol a monte la Roiuzza, parte il eccelentissimo sig.r Marco Antonio Tiepolo et fratelli, et parte li signori Pedrinelli, et alli monti pradi
di più particulari de Villa [...]detti Podestà, Commun, et Huomini si obligano
francarsi, et liberarli tal livello [...] nelli anni cinque prossimi, pagando la rata
del livello [...] promettono mantinir et osservar sotto obligation generalmente di
tutti li loro beni Communali [...]. Presenti il magnifico sig.r Agustin Ludovicis
et Marco Molinaro di Cinto testij44.
Non c’è più la loggia comunale ad accogliere i capifamiglia ma ci sì da appuntamento presso l’abitazione di Andrea Favorlini, incaricato della degania di Settimo, il quale
presumibilmente svolse il ruolo di mediazione fra le pretese del bandito e le offerte del
podestà di Settimo. Centocinquanta ducati erano una somma piuttosto consistente per
l’economia dell’epoca, mettere insieme tanto denaro non era facile in un villaggio come
Settimo, nemmeno se si fosse sequestrata la totalità delle monete esistenti. La comunità
di fronte alle minacce e alle violenze del bandito decise di rivolgersi ai Pedrinelli, mercanti veneziani che possedevano molti terreni fra Cinto e Settimo. I Pedrinelli detti anche
casaroli per un negozio di formaggi che possedevano a Rialto, a quel tempo si occupavano della distribuzione del sale in Friuli con magazzini a Pordenone e Udine. Secondo la
memoria di Francesco Bortolusso di Settimo, che a quel tempo era fattore della famiglia
Pedrinelli, dopo molte insistenze Anzolo Pedrinelli abitante a Settimo acconsentì al prestito mandando un corriere a prendere tale somma da Armenio Michelini che vendeva il
sale a Pordenone.
44
AS Pn, Ar. Not., b. 1070.
66
La comunità di Settimo
La comunità di Settimo e di San Vito rimasero sotto la giurisdizione patriarcale fino al
13 marzo 1762, giorno della morte di Daniel Dolfin ultimo patriarca della Patria del Friuli
per passare poi soto il governo del luogotenente di Udine. Nel 1779 una Vicinia di Settimo fu convocata per deliberare su un pubblico proclama del luogotenente di Udine che
proponeva la fondazione di un consorzio per limitare i danni dovuti dalle piene del Tagliamento. Le famiglie rappresentate erano ventinove e non si mostrarono particolarmente
interessate alla proposta poiché il comune non aveva subito danni e comunque, a dimostrazione del credito che godevano le magistrature veneziane, si ritenne che un istituto del
genere fosse più terribile e micidiale della stessa suposta irruzione del Tagliamento.
Adì 9 Xbre 1779, Settimo. Convocata la Vicinia locco, et in ore solito, nella
quale intervenero:
Giacomo Mistron Podestà, Francesco Zovato, Pietro Roncheto, Giacomo Gobatto, Giacomo Zovatto, Sigr Marco Cremon, Osgualdo Battiston, Sigr Giacomo Pedrineli, Sigr Gasparo Pedrineli, Battista Bidon, Otavio Mistron, Pietro del
Zan, Francesco Burtulusso, Fiorito Mutto, Osgualdo Franzon, Osgualdo Zuculin, Pelegrin Marzinoto, Osgualdo Zotto, Pietro Lusandro, Bortolo Bravo, Pietro Franzon, Francesco Franzon, Andrea Mistron, Giacomo Marzinoto, Antonio
Marzinoto, Francesco Gobatto, Antonio Carodia, Antonio Candusin, Giacomo
Venezian tutti in n° 29. Et ivi detto Podestà rese noto à tutto il Comun il rispettabile pubblico proclama à stampa primo 7bre 1779 dell’ecc.mo sig. Locotenente
Generale della Patria del Friuli (...) col quale si diffonde un circondario di luoghi
e ville come pretesi soggeti à danni del Tagliamento nel qual circondario è compreso anche questo villaggio. Riuscito di sorpresa tale venerato proclama allo
stesso podestà il qual riflettendo che in verun tempo da questo comune fu umiliata alcuna suplica per union di Consorzio, (...) presa ancora informazione della
preliminare difesa che stano per usare gli altri comuni in esso compresi (...) siano
umiliati al eccelentissimo magistrato (...) li motivi, che si credono valevoli à sospendere la massima di tale consorzio e con seguente riparo (...) e che anzi nelle
sue conseguenze sarebbe più terribile, e micidiale della stessa suposta irruzione
del Tagliamento. (...). Qual parte ballottata riportò voti n° 29 (...). Io Domenico
Mistron scrivano del sudetto Comune45.
Gli ultimi boschi
Dell’antica zona boschiva che ricopriva interamente Settimo nel primo millennio ben
poche e limitate zone erano rimaste nel XVI secolo, dopo che i patriarchi nel XII e XIII
secolo si erano prodigati a favorire il disboscamento e rendere la terra coltivabile attraverso la divisione in masi e la concessione feudale per lo sfruttamento agricolo. A tale
politica patriarcale si devono probabilmente i primi insediamenti a Settimo.
45
AS Pn, Ar. Not., b. 1111.
67
La comunità di Settimo
Nel corso del secolo XVII fra i pochi boschi ancora rimasti a Settimo tre erano situati
ai confini fra Cinto e Basedo: i boschi Lecata, Pradusetti e Persiana. Erano comugne ossia
terreni collettivamente usufruiti per il pascolo e per far legna dagli abitanti dei due villaggi.
Questi boschi avevano perso il loro aspetto di un tempo e apparivano ridotti piuttosto male
ai censori rurali46. Il Capitano di San Vito emanò un proclama per fermare i danni e le
devastazioni e denunciare l’incuria e l’abbandono. Gli abitanti dei due villaggi con carri,
versori e animali li avevano resi infruttiferi, tracciando perfino delle strade all’interno per
tagliare più comodamente il legname. Il proclama minacciava la pena di ducati 100 per
chiunque avesse causato nuovi danni e proibiva il pascolo all’interno dei boschi.
Si era convocata a Settimo una Vicinia47 per eleggere due guardiani a difesa dei boschi,. A quel tempo c’era una un particolar controllo anche per andare a far fassine di
rami e sterpi secchi: era consentito solo in certi periodi dell’anno limitatamente a persone
bisognose. I guardiani dovevano invigilare e impedire l’abuso delle fassine, si doveva tollerarne qualcuna solo per miserabili persone, che raccolgono una fassina di seccumi per
iscaldarsi, durante l’inverno, dovendo sempre impedire alle persone oziose, ai sottani che
hanno campi, e più alli masieri di poter raccoglierle. Le fassine dovevano essere proibite
anche ai miserabili se si rileva che le vendono, o che vadino più d’una volta al giorno, e
se i miserabili frequentano detto uso anche nei mesi d’Aprile, maggio, Giugno, Luglio,
Agosto, e Settembre, nei quali doveva cessare ogni raccolta.
Il comune utilizzo di questi boschi da parte degli abitanti Settimo e di Basedo faceva
sì che gli uni denunciavano gli altri per i danni inferti e viceversa, dando vita a lunghe
schermaglie processuali davanti alla corte giurisdizionale di S. Vito, con sperpero di risorse in avvocati e periti di parte, e di queste cose sono pieni i registri giudiziari dell’epoca.
Il Palù di Settimo
La pianura friulana era in epoche arcaiche soggette a devastanti allagamenti. In periodi di piena, fiumi a carattere torrentizio dilagavano nella pianura travolgendo ogni cosa e
rendendo i terreni acquitrinosi per diversi mesi dell’anno. Dopo aver operato una capillare
opera di disboscamento gli abitanti dei primi insediamenti agricoli si trovarono di fronte
alla necessità di proteggere la terra roncata dalle acque stagnanti.
I fiumi erano importanti nell’economia contadina, approvvigionavano il paese d’acqua potabile, consentivano d’irrigare le terre e fornivano la forza motrice per i mulini. Ma
le acque dovevano essere vive e correnti, per evitare la formazione d’acque morte, perciò
era necessario scavare canali per convogliare rapidamente le acque nei fiumi.
46
Responsabili giurisdizionali dei boschi e delle comugne.
Furono eletti Gasparo Pedrinelli e Gio Batta Mutto: quale compenso per il loro compito ricevevano mezza
presa di strame da tagliar. As Tv, Ar not, b. 2015.
47
68
La comunità di Settimo
Questo lento e paziente lavoro protrattosi per diversi secoli sta alla base anche della
formazione del Palù di Settimo, che inizialmente era parte di zona più vasta comprendente il Bandoscudelle48, confine fra cinque diverse comunità: Settimo, Cinto; Sesto, Marignana, e Giai. A partire dal XVI secolo, con la bonifica attuata dai patrizi Tiepolo rimase
l’unica zona a mantenere inalterate le caratteristiche della palude49.
Il Palù di Settimo, durante la giurisdizione patriarcale, era un bene comunale, il più importante che poteva disporre la comunità di Settimo, forniva una volta all’anno un discreto
raccolto di piante palustri utilizzate come strame per il bestiame. Al momento dello sfalcio
veniva diviso in portioni o prese ma non tutte le famiglie di Settimo potevano usufruirne ma
solo quelle dei massari, i più poveri detti sottani ne rimanevano esclusi. Tali divisioni provocavano spesso malumori e litigi con strascichi davanti al tribunale di San Vito.
Nel luglio del 168550, in una di queste liti, si trovarono contrapposti Iseppo Franzon
detto Zotto e Valentin Zovato allora podestà di Settimo. Il comune si rifiutava di riconoscere
Iseppo quale massaro o masiero ribadendo non poter un semplice sottano aver la pretesa
d’haver la portion di palludo. Iseppo dal canto suo affermava che il cortivo per il quale
chiedeva una debita presa di strame aveva tutti i requisiti per ospitare un colono con animali
per lavorare li campi con titolo di masiero e non come sottano e se momentaneamente mancava del colono ne aveva comunque diritto disponendo del carro e degli animali, poiché il
comune aveva così praticato anco con gl’altri. A questo punto il Zotto rincarava la dose denunciando il comune d’illeciti favoritismi. La denuncia non doveva essere del tutto campata
in aria se il capitano di San Vito diede ragione alle istanze di Iseppo e costrinse il comune
ad assegnargli pertiche quindici de palludo, e da considerarlo come gl’altri masieri.
Secondo una memoria del 1741 e riguardante un processo sull’uso promiscuo dei
beni comuni fra Settimo e Basedo, si depone che il Palù veniva annualmente diviso in
ventidue parti e che ogni parte poteva dare circa quattro carri di strame. Di solito il comune tendeva a favorire i piccoli proprietari rispetto ai coloni dei possidenti e spesso subiva
intimazioni da parte del tribunale di San Vito su richiesta dei nobili Tiepolo e Sagredo51.
Il Palù come bene comunale poteva essere usato quale garanzia per poter ottenere un prestito in caso di necessità52.
48
L’attuale zona dei Laghi di Cinto.
La palude è un paesaggio umido, caratterizzato da risorgive, esondazioni, impaludamenti. Fungevano da luoghi
di mantenimento dell’umidità e contribuivano a prevenire l’inaridimento delle falde acquifere. I “palù” erano
contraddistinti da culture prative, circondate da siepi ed arbusti, da macchie saltuarie di bosco. È solitamente un
ambiente di confine fra due o più comunità, un luogo disabitato ma percorso, frequentato e sfruttato. Le zone
paludose offrivano utili risorse alle deboli economie delle popolazioni contadine di un tempo quali il legname, il
pascolo, il foraggio e lo “strame”.
50
29 Luglio 1685, ASC S.Vito, b.44.
51
19 Agosto 1642. ASC S.Vito, b.26.
52
La Vicinia del 1626, riportata precedentemente, si ipoteca il Palù per poter assolvere alle richieste del Regazzoni.
49
69
La comunità di Settimo
Jacomo e Jacometto Regazzoni
Nella seconda metà del Cinquecento e nei primi decenni del Seicento il villaggio di
Settimo fu coinvolto nelle vicende della nobile famiglia veneziana dei Regazzoni.
Era questa una famiglia di mercanti che nel corso del Cinquecento aveva accresciuto
in maniera considerevole il proprio patrimonio grazie ai traffici e alle capacità diplomatiche di Jacomo, primogenito di Benedetto e Isabella Ricci, nato a Venezia nel 1528.
Secondo il suo biografo53, Jacomo cominciò a commerciare appena uscito alla puerizia et
entrato nell’adolescentia, che fu l’anno 14 compito, quando fu inviato con una nave carica di mercantie nell’Inghilterra.
In terra foresta si dimostrò subito
molto abile nelle contrattazioni e nella
compravendita delle mercanzie acquisendo rispetto e considerazione anche
fra i mercanti veneziani più esperti;
con uno di questi, il nobile Jacomo
Foscarini che aveva negozio a Londra,
entrò in familiarità e fondò a Londra
un’importante società mercantile. Jacomo rimase a Londra per sedici anni
ottenendo appoggio e considerazione
anche dalle più alte cariche, parteci- Jacomo Regazzoni con Enrico VIII.
Da affresco di Palazzo Flangini di Sacile.
pando alla vita di corte di Enrico VIII
e di Odorico VI. Ebbe in quest’ambito un ruolo importante nelle trattative intercorse fra
l’Inghilterra e la Spagna per il matrimonio di Maria la cattolica con Filippo II.
Ritornò a Venezia, nel 1558, lasciando a Londra a gestire gli affari di famiglia il fratello Placido. I Regazzono disponevano di una loro flotta che nel 1563 fu ampliata con il
varo di tre grandi vascelli. Stando alle stime del biografo la sua società mercantile occupava allora ben duemilacinquecento persone.
Nel 1571 Jacopo fu inviato a Costantinopoli per saggiare la disponibilità dei turchi a
trattare la pace. La missione non fu portata a termine a causa dei diversi orientamenti esistenti all’interno dello schieramento cristiano. Jacomo ritornò a Venezia con un viaggio
avventuroso mentre era in fase di allestimento la flotta della lega cristiana che avrebbe
sconfitto i turchi nelle acque di Lepanto. Il Regazzoni contribuì alla lega offrendo a proprie spese una nave da guerra con cento armigeri e, in cambio, suo fratello Placido ebbe
l’incarico di provvedere in Sicilia al vettovagliamento della flotta.
53
Giuseppe Gallucci, La vita del Clarissimo sig. Jacomo Ragazzoni conte di S. Odorico, Venetia MDCX.
70
La comunità di Settimo
Come molti altri mercanti veneziani a quell’epoca, i Regazzoni investirono gran parte
dei proventi acquistando terreni agricoli nelle zone di Sacile, Noventa e Settimo. Il doge
li investì54 del feudo di Sant’Odorico, situato nei pressi di Sacile, dove già possedevano
fondi e palazzi55. Anche nelle ville di Settimo et Basedo sotto San Vido i Regazzoni acquistarono 238 campi con tutte sue fabbriche e con una casa dominicale situata a Settimo.
Dopo la morte del fratello Placido, Jacomo, ormai giunto in veneranda età, decise di
ritirarsi dai traffici mercantili e di vivere quietamente i suoi ultimi anni, dedicandosi ai
beni e alle dimore che possedeva in campagna. Il biografo lo presenta così nei suoi ultimi
anni di vita:
Il Jacomo corse tutte le età dell’uomo era pervenuto alla decrepita (benché ne
gli altri noiosa e difficile) con lui però era piacevole, e grata quando che si sentiva con la solita robustezza degli anni a dietro, con il medesimo gusto nel mangiare, e con l’istessa dispotezza della vita a caminare, che per ciò non lasciava
di attendere al governo delle cose di casa ristretteze nelle entrate de beni stabili,
e de alcune poche faccende le quali per fuggir l’otio si haveva serbate dopo
l’estinzione de traffichi generali: passava le stagioni calde a Noenta, a Settimo,
a Sacile e S. Odorico, luoghi di sua tenuta in Padoana e nel Friuli...56
In tarda età si dedicò scrupolosamente al governo delle cose di casa, spinto anche
dal rispetto et amore che provava al loco et alle persone che vi abitavano. Nonostante le
ristretteze nelle entrate che si avevano nei fondi agricoli in confronto ai profitti mercantili,
Jacomo non tralasciò mai d’investire in bellezza e comodità57, restaurando e ricostruendo
i rovinosi fabbricati dei suoi coloni e facendo decorare riccamente le dimore padronali.
Gli affreschi scoperti recentemente nella casa “Chiaradia” di Settimo, si devono presumibilmente all’attività e alla sensibilità di Jacomo Regazzoni, che dopo una vita rilevante ed avventurosa trovò sollievo e compiacenza nel frequentare periodicamente la casa
dominicale nel villaggio di Settimo.
Jacomo si era sposato a Venezia nel 1561 ed aveva avuto 15 figli dalla moglie Isabella
Pagliarini: tre maschi e dodici femmine. Morì a 82 anni ed ebbe la sorte di sopravvivere a
suo figlio Benedetto, unico maschio coniugato. I beni dei Regazzoni furono ereditati da Jacometto, orfano minorenne di Benedetto, con la clausola di dover sottostare inizialmente alla
tutela dello zio Monsignore Vettor, fratello di Benedetto, a quel tempo vescovo di Zara.
54
Nell’anno 1577. Giorgio Zoccoletto, “Il feudo di Sant’Odorico presso Sacile”, Città di Sacile 2000.
Fra i quali l’attuale palazzo Flangini-Belia.
56
Giuseppe Gallucci, La vita del Clarissimo sig. Jacomo Ragazzoni conte di S. Odorico, Venetia MDCX.
57
Giuseppe Marchesini, “Annali per la storia di Sacile”, Sacile 1957.
55
71
La comunità di Settimo
Jacometo, forse per non aver avuto un’educazione adeguata o per ragioni che ci sfuggono, fin da giovane mostrò irrequietezza e poca considerazione verso le regole sociali:
preferiva la bella vita che conduceva con persone rissose e di facili costumi. Alla morte
dello zio vescovo, potendo disporre completamente dell’eredità, mise tutte le sostanze a
disposizione delle sue bravate.
Doveva essere un personaggio simile al “Don Rodrigo” descritto dal Manzoni nel libro “I promessi sposi”, circondato da un nugolo di bravi sempre pronti alle minacce, alle
molestie e alle ruberie. Per organizzare le sue feste necessitava sempre di nuovi introiti
che otteneva vessando e minacciando i propri coloni. Le dimore di campagna che avevano
accolto le oculate meditazioni di Jacomo furono in quegli anni occupate da turbe concitate ed irascibili che banchettavano e si dedicavano a pratiche licenziose. Jacometo fu visto
bravare e a far baccani nella casa dominicale di Settimo: anche in quelle sale affrescate
si diffondeva un “frastuono confuso di coltelli , di bicchieri, di piatti, e sopra tutto di voci
discordi, che cercavano a vicenda di soverchiarsi”: [Jacometo stava] “in capo di tavola
circondato d’amici e di compagni di libertinaggio e di soverchieria”.58
Una condotta di vita un po’ sopra le righe può prima o dopo comportare qualche incidente di percorso, soprattutto quando ci si trova a dover far fronte a persone dello stesso
ceto. Tale evento capitò nell’anno 1623 a causa di una sanguinosa lite che coinvolse il
conte Nicolo Florido di Prata quale antagonista di Jacometo. Il Consiglio dei Dieci dovette in questo caso intervenire e decretare tre anni di confino da scontare a Zara, come
pena. Ma il Regazzoni da sempre abituato a comportarsi con arroganza, si guardò bene dal
rispettare la sentenza e il Consiglio dei Dieci in data 10 maggio 1624 rincarò la dose con
il raddoppio della pena: Jacometo fu condannato a 6 anni di confino da scontare a Corfù.
Jacometo abbandonò Corfù e come se niente fosse riprese i suoi traffici in terra veneziana, spalleggiato da un buon numero di bravi. Il consiglio dei Dieci il 17 ottobre 1625
emanò una terza sentenza, questa volta drastica ed esemplare: tutti i suoi beni furono sequestrati e Jacometo fu bandito in perpetuo dal territorio veneziano, con taglia de ducati
3000 de suoi beni per la cattura o l’uccisione in caso di mancato rispetto del bando.
Questa volta Jacometo decise di usare più prudenza e di mettersi sotto la protezione
imperiale, prese alloggio nella villa di Gradiscutta nei pressi di Codroipo, che allora aveva
giurisdizione imperiale e, pur essendo circondata da terre veneziane, la Serenissima non
poteva far valere nessuna autorità. Ovviamente non era da solo ma insieme alla solita teppaglia armata di coltelli ed archibugi, più che una residenza era un covo che attirava altri
banditi, gente tarchiata et arcigna avvezza alle armi e alle scorrerie.
Jacometo soffriva di nostalgia nei confronti delle sue terre e delle sue rendite e, per
alleviare questo suo patimento, organizzò nei primi mesi del 1626 alcune scorribande a
58
Alessandro Manzoni, “I promessi sposi”, Roma 1999.
72
La comunità di Settimo
Settimo. In due memorie più tarde59, si afferma di averlo visto e sentito in quell’anno diverse volte nel paese a bravar in Commun per ottenere la restituzione di un debito di 150
ducati, concessi a livello da suo nonno Jacomo. Jacometo minacciò in caso contrario a
far levar dai suoi bravi tutto l’armento della villa di Settimo. Legalmente doveva ritenersi
un bene requisito dal Consiglio dei Dieci e quindi la richiesta doveva essere considerata
illegittima ma considerato la reputazione di Jacometo si decise di non tergiversare e grazie ad un prestito accordatogli dalla famiglia Pedrinelli, si affrancò prontamente il debito.
Jacometo dopo aver incassato i 150 ducati promise che sarebbe tornato per levar il formento delle sue terre e minacciò gli abitanti di Settimo che avrebbero pagato con la vita
qualsiasi tentativo di resistenza.
Di fronte alle scorribande e alle minacce del Regazzoni, il Senato veneziano decise
di mobilitare una compagnia di Capelleti guidata dal capitano Marco Suliman, che fu
disposta parte a Belgrado e parte a Settimo per opporsi alle sue infiltrazioni con l’intento
di prenderlo vivo o morto. La compagnia prese posizione nel giugno 1626 e vi rimase fino
a metà luglio, quando furono richiamati a Udine per la periodica ispezione da parte del
luogotenente. Fu solo questione di qualche giorno, ma sufficiente a permettere a quattro
bravi di ritornare a Settimo. Una lettera del Luogotenente di Udine illustra dettagliatamente come si erano svolti i fatti.
Io ho procurato... di venir in cognizione de quei quattro satteliti del Ragazzoni
bandito che si lasciarono vedere nel luogo di Settimo, mentre li capelletti erano
venuti in questa città per la resegna, nè si è potuto ritrovare altro, se non che uno
si chiami il Caporalino, e un’altro l’Alfiero, perchè essendo forastieri non sono
conosciuti. Erano a cavallo armati d’archibusi lunghi, e corti, andarono alla casa
di Anastasio Favorlin già affittuale del Ragazzoni, si fecero dar la merenda, rinfrescando anco i cavalli, e poi partirono, venendo deto, che siano banditi. Furono
anco da Francesco Bidon, dove si faceva festa con occasione de una novizza, tre
smontarono da cavallo ballando alcune danze e poi licenziandosi. Menego Brain,
che lavora una possessione dei beni del sig. Ragazzoni in essa villa, afferma, che
fussero anco à dimandarlo alla sua casa, e che non lo havendo ritrovato, lo incontrassero poi per la strada, e che il caporalino lo ricercasse se havesse ancora battuto et havendoli risposto di no, seguitassero il loro viaggio. Si sa anco che fossero
da Oliviero Zovato al quale il Ragazzoni l’aprile passato fece condur via un paro
de manzi, perchè li andasse debitore ma che non lo trovarono, onde spaventatosi
per dubbio, che fussero venuti à qualche altro mal fine, ricorse a dolersi dal clarissimo sig. Marc’Antonio Tiepolo suo padrone, che allora si trovava in villa...
Di Udene àdi 8 di Agosto 1626
Geronimo Ciurà luogotenente
59
3 Giugno 1641, testimonianze di Francesco Bortolusso e Antonio Sottano, ambedue di Settimo. ASC S. Vito,
b. 25,
73
La comunità di Settimo
Dunque, quattro forestieri minacciosi, montati a cavallo armati di tutto punto, si misero tranquillamente a sfilare per le strade di Settimo passando in rassegna le case dei coloni
di Jacometo. Approfittarono per far merenda e per rinfrescare i cavalli, non senza disdegnare di partecipare ad una festa di fidanzamento in casa di Francesco Bidon, esibendosi
anche nelle danze rituali.
Dopo questa sortita Jacometo non si diede per vinto e dal suo rifugio di Gradiscutta
continuò a minacciare ed infierire nelle terre della Serenissima, depredando le biave nei
paesi vicini, commettendo ogni giorno novi delitti, insolenze, sbari d’archibugiate, e’ tentativi di amazzar nelle proprie case con tirraniche pretentioni.
Anche l’anno seguente il Senato prorogò la mobilitazione di una compagnia di Capelleti di Palmanova contro il Regazzoni con l’intento di perseguitarlo con tutti i suoi
seguaci, eccitando anco i communi, ma senza nessun risultato. In compenso arrivarono le
lamentele della popolazione per il comportamento dei soldati che non era poi tanto differente da quello dei banditi, dai quali avrebbero dovuto difenderli.
La questione si risolse per via diplomatica grazie ad un accordo con il Capitano di
Gorizia60: Jacometo fu considerato anche dagli imperiali persona indesiderata. Si rifugiò
a Mantova, forse con l’intenzione di arruolarsi nelle milizie mercenarie che si davano
battaglia nella seconda guerra di successione e in questa città morì poco eroicamente nel
settembre 1628, a causa di una banale rissa scoppiata in un’osteria.
Nel frattempo i suoi beni erano già stati venduti all’incanto e le proprietà di Settimo
furono acquistate dal patrizio veneziano Zaccaria Sagredo.
Palazzo Regazzoni Sagredo in via Udine.
60
Ci fu una compensazione reciproca attraverso uno scambio di favori riguardo banditi dell’una e dell’altra parte
rifugiatosi nei territori confinanti.
74
La comunità di Settimo
I Sagredo a Settimo
Giorgio Zoccoletto nel libro dedicato al feudo di Sant’Odorico di Sacile61 descrive
dettagliatamente le vicissitudini che subirono i beni del bandito Jacometo Regazzoni, dopo
essere stati sequestrati e venduti all’incanto. Fra i tanti creditori di Jacometo c’erano anche
Domenico Tiepolo e Zaccaria Sagredo e i due non essendo ai primi posti della lunga lista,
decisero di mettersi in società e di usare qualche stratagemma per spingere le offerte al
rialzo, unica maniera per poter riavere il loro credito. Per ciò usarono tal Giacomo Caldoni
che, alla terza chiamata d’asta, giunse ad offrire cinquantamila cinquecento ducati, al che
non essendoci alcun rilancio, il Caldoni fu costretto ad aggiudicarsi le intere sostanze dei
Regazzoni. Quando l’offerta fu accolta, l’acquirente dichiarò di essere prestanome dei due
patrizi, cosi essi si ritrovarono, senza volerlo, proprietari dell’ingente patrimonio.
Fra i beni acquisiti dal Regazzoni c’erano anche 238 campi posti nelle ville di Settimo, et Basedo sotto S. Vido tenuti alla parte da diversi coloni, con tutte sue fabbriche62 e
la casa dominicale.
Con l’acquisto il Tiepolo e il Sagredo non poterono rientrare in possesso dei loro crediti e per quel che riguardava ile proprietà acquisite affermavano in una supplica dell’ottobre 1628 che era notoria la mala qualità et sterilità dei Beni del Friuli ma a causa della
pessima tutela del Jacometo Regazzoni molti di quei fondi erano diventati inculti, o come
si dice in Friuli pustoti. A tale desolatione si aggiungevano le tempeste dell’anno 1627 e
le acque straripate. I gravi danni ai raccolti costrinsero così i nuovi proprietari a ulteriori
spese per le semine e il mantenimento dei coloni63. Oltre a tutto questo non andarono a
buon fine le iniziative per ottenere il feudo di San Odorico, allora i due compratori cercarono di liberarsi dei fondi acquistati, anche se il cavaliere e procuratore Zaccaria Sagredo
decise di mantenere il possesso dei beni di Settimo e Basedo.
Nel 1633 Zaccaria estese i suoi possedimenti a Settimo acquistando altri 55 campi da
Claudio da Cordovado64 e varie altre terre verranno negli anni successivi, diventando il
possidente più facoltoso di Settimo. Dopo la morte di Zaccaria, i suoi figli continuarono
l’opera del padre acquistando nuove terre65. L’ex casa dominicale dei Regazzoni venne
ampliata e trasformata in Ca Sagredo, per circa un secolo e mezzo centro vitale dell’economia di Settimo. È documentata in quegli anni la presenza a Settimo del patrizio Marco
Sagredo e i buoni rapporti che s’istituirono fra la comunità di Settimo e monsignor Luigi
Sagredo, a quel tempo patriarca di Venetia.
61
G. ZOCCOLETTO, Il feudo di Sant’Odorico presso Sacile, Città di Sacile 2000.
AS Ve, Avogadria di Comun Civile b. n° 142 c 27.
63
AS Ve, Provveditori sopra Feudi b. 375.
64
AS Pn, Arch. Not. b. n° 1071 reg 7462.
65
Il Procurator Nicolò Sagredo con gli altri figli di Zaccaria acquistano altri fondi da Francesco Roncali nel 1666
- AS Tv, Ar Not I. s, b. 2011.
62
75
La comunità di Settimo
Nonostante le diverse generazioni che subentrarono nei decenni successivi, le possessioni con fabbriche rusticali, e dominicali in villa di Settimo e Basedo rimasero legati alla
famiglia Sagredo quali beni di primogenitura e dunque ritenuti come indispensabili per
una corretta tutela delle proprie sostanze. Nella seconda metà del Settecento la famiglia
Sagredo abbandonò l’amministrazione diretta ai fondi e l’affidandola ad un conduttore
in cambio un affitto annuo. Negli anni ultimi decenni del XVIII secolo troviamo ad amministrare le possessioni Pietro Sartori da Sacile, al quale in seguito succederà il figlio
Giovanni Battista.
La sagra di San Giovanni Battista (nei primi anni del Seicento)
La parola sagra deriva da latino sacrum e fa generalmente riferimento al patrono
della chiesa principale del paese. Era consuetudine per le comunità durante la ricorrenza
del santo, dopo le rituali funzioni devozionali, festeggiare con adeguati riti profani, a cui
erano invitati partecipare anche gli abitanti dei paese vicini. La sagra rappresentava un
avvenimento molto importante per le piccole comunità, modo per distinguersi e ribadire
la propria identità, per i meno abbienti il simbolo del santo patrono assumeva lo stesso
valore del blasone di famiglia per i nobili.
Anche Settimo dopo aver costruito la chiesa dedicata a S. Giovanni Battista, poteva
dunque organizzare la sagra. Alcuni documenti seicenteschi danno un’idea della consistenza della festa, attraverso la descrizione di alcuni episodi.
La festa era richiamo per moltitudini di persone che, eccitata dai balli e dal vino, erano
facili alle liti con pessime conseguenze per l’ordine pubblico. Per contrastare e prevenire
questi eventi giungevano a Settimo le massime autorità giurisdizionali, che vigilavano e
facevano in modo che tutto si svolgesse rispettando le norme della convivenza sociale.
Durante la sagra di San Giovanni Battista del 1602, il Capitano di San Vito, avendo a
disposizione la carrozza patriarcale, invitò alcuni gentiluomi del loco ad accompagnarlo e
se n’ando con quella compagnia in carozza a Settimo, usando per il traino i cavalli della
scuderia patriarcale. In quell’anno durante la sagra non ci furono particolari inconvenienti
e anche il Capitano e la sua compagnia poterono godere delle gaie opportunità che offriva
Settimo in quel giorno.
Tornarono a casa allegri e giocosi, cantando e suonando com’era consuetudine in
quell’epoca, ma questo loro rilassamento fu contagioso anche per il vetturino, che sicuramente aveva dato il suo contributo al buon esito della festa, e così, forse a causa dell’eccessiva velocità o per l’imperizia della guida, quando arrivarono nel porton del castello
di San Vito i cavalli andarono giù del ponte e fecero rivoltare la carozza nella fossa delle
mura, con tutte le persone dentro.
76
La comunità di Settimo
Date le autorità coinvolte fu subito mandato a chiamare il medico chirurgico di Udene
ma la mano del signore fu benevola con i malcapitati e così gli effetti dell’incidente si
rivelarono meno gravi di quanto temuto, non restando offeso ne homini ne cavalli, tranne
qualche contusione. L’unico ad aver subito qualche danno fu un certo dottor Marostica
che fu colpito sulla fronte e ricevette una forte percossa nella spalla destra che non si
poteva mover dal letto. Ben maggiore patimento soffrì il Capitano di San Vito nel dover
rendere conto al Renverendissimo Monsignore dell’incidente accorso con i cavalli delle
corte patriarcale. Perciò chiese l’intervento di un suo zio, alto prelato che conosceva bene
l’arte diplomatica, e che scrisse al Patriarca una lettera accorata e ossequiosa dove si
giustificava la licenza presa illegittimamente da suo nipote con l’intendimento di far cosa
utile, avendo quei cavalli bisogno di un poco d’esercizio66...
Un altro piccolo evento successo durante la sagra di Settimo del 1607 ci è pervenuto
grazie ad una supplica di Marchiora della Mota67, donna a quel tempo forse di non integerrimi costumi, che visse per certo tempo a San Vito sottoposta all’arbitrio di un’amico
con la speranza che egli potesse diventar un giorno suo marito. Ma altra fu, a quanto
scrive Marchiora, la dispositione di Dio: fece levar questo dal mondo e la lasciò a dover
provvedere da sola ad una puttina. Dove il signore prima ferisse poi sana, così pensava
Marchiora, perchè morto il primo trovò consolazione in un secondo. Mastro Pietro Fabro
della villa di Chions l’accolse come sua legittima sposa. Ma quando le sue tribolazioni
sembrarono essere finalmente terminate, il suo legitimo marito venne bandito a causa di
un litigio durante la sagra di Settimo, dovette dunque fuggir contumace.
Durante le tradizionali danze, mastro Piero venne con un compagno di ballo a parole
di tono e contenuto poco edificante, si accese una contesa piuttosto concitata e Piero si
trovò a far fronte da solo ad un gruppo di persone con un fare minaccioso. Per fuggir il
pericolo della vita fu costretto a metter mani alle armi e a dar cipiglio ad un’archibugio
che aveva con se, essendo in quell’anno soldato, arruolato nella compagnia delli cavalli
leggieri. Sembra che mastro Piero si limitasse ad usare l’archibugio solo per intimidazione senza sparare nessun colpo: la situazione dopo qualche momento di tensione si distese
senza che seguisse mal alcuno ne all’una, ne all’altra parte e tutto si ridusse a poco strepito di parole.
Se le liti nelle sagre erano allora abbastanza comuni era invece tassativamente proibito e duramente represso l’utilizzo di armi. Donna Marchiora nella sua supplica, afferma
che dopo l’alterco seguì subito la pace, et furono come prima buoni amici. convinta che
66
67
Acau, Filza n. 318.
ASC S. Vito, Acta Patriarcalia b. 3 c. 965.
77
La comunità di Settimo
un fatto del genere non possa aver determinato la condanna ma che il marito fu denunciato solo per l’astio del Decano di Settimo.
Dopo tre anni decorsi nell’obedienza del bando di mastro Piero, erano ora tre le persone sconsolate e supplicanti ai piedi del Patriarca per chiedere il condono del resto della
pena: la puttina nata dal morto padre e la misera moglie pregnante con la non ancor nata
creatura. Per onor del vero si deve precisare che la supplica ebbe esito favorevole...
Un altro episodio simile accade quattro anni dopo, sempre nel giorno di S. Giovanni
Battista. Questa volta ad esserne protagonista è un nobile, il conte Ottavio Altano del
castello di Salvarolo. In una sua supplica68 fatta pervenire al Patriarca per chiedere la
liberazione dal bando contro di lui proclamato, illustra la sua versione dei fatti successi a
Settimo nel 1611.
Si trovava quel giorno a Settimo per godere delle opportunità di quella sagra, come era
consuetudine fare ogni anno, quando ebbe modo d’incontrarsi con Domenico Cordovanaro
da Sacile, persona astiosa e poco raccomandabile che era stata già stata bandita dalla sua
terra per delitto di archibuggiata seguita nella chiesa della Santissima Trinità di Polcenigo
e che poco dopo fu anco bandito da tutte le terre, et lochi del Serenissimo Dominio.
Fra l’Altan e il Domenico esisteva qualche attrito per enteresse d’honore che, nel
linguaggio più attuale e prosaico, è una questione di donne. Il conte Ottavio che a Settimo
disponeva di maggiore credito rispetto al rivale, sfruttò l’occasione della sagra per fare un
poco di resentimento contra Domenico Cordovanaro. L’esplicitazione concreta del resentimento non viene specificata, è dato solo sapere che l’Altan fu agevolato nella sua azione
da un archibugio che seppe mettere bene in mostra nel momento opportuno.
L’ostentazione di armi quali l’archibugio durante una sagra poteva essere motivo sufficiente per essere bandito e così il conte Ottavio fu proclamato dal Capitanio di San
Vito e poi bandito quale contumace da tutte le Terre Venete. I Nobili friulani messi al
bando, fuggivano generalmente verso l’Ungheria, dove trovarono rifugio nei reggimenti
mercenari. Questo fu anche il destino del conte Ottavio che però, dopo tre anni di questa
vita, decise di tornare a casa libero dal bando, chiedendo il condono della pena affinché
potesse vivere quietamente il resto della vita.
Oltre questi piccoli episodi che in qualche modo fanno rivivere frammenti della vita
di quattrocento anni fa, al centro rimane la sagra di San Giovanni Battista, invasa da un
gran numero di persone dei paesi vicini, gente di ogni ceto sociale ma per la maggior
parte contadini. Potevano dedicarsi finalmente alle danze e magari fare qualche piacevole
conoscenza, il ballo era anche allora un modo per favorire l’incontro fra i giovani e avviarli sulla strada del matrimonio. Ma anche il piacere di riempire la pancia trovava molti
68
ASC S. Vito, b. 3.
78
La comunità di Settimo
consensi e molti si dedicavano al limite delle proprie possibilità alle libagioni. Altra attrazione erano le mercanzie dagli ambulanti: il vestiario, le pentole, le stoviglie domestiche,
le stampe miniate dei santi e tante altre cose curiose che fuoriuscivano dalle carrette. Tutto
destava l’interesse della gente, dagli spettacoli dei saltimbanchi agli imbrogli venduti
dalla miriade di ciarlatani che queste feste attiravano.
La sagra non era certo il paese della cuccagna tanto agognato dove dagli alberi pendevano i salami e dalle fontane sgorgava il vino, ma permetteva alla gente di poter prendere
visione di un universo che a loro sembrava molto simile al proverbiale bengodi. Insomma
i contadini avevano modo di vivere per un giorno un piccolo rovesciamento della loro
vita dove potevano vedere il mondo dalla parte di chi consuma e non solo da quella chi
produce, come succedeva per tutti gli altri giorni dell’anno.
La questione fra Zamaria Muto e Tonio Zanoto
Un tempo per i figli dei braccianti e dei senza terra, l’unica maniera di poter integrare
dei genitori era quello di andare a fare il famiglio presso qualche proprietario terriero. Il
famiglio non era solo fare il servo di casa ma veniva impiegato in una miriade di lavori,
dal follar i vini in cantina alla cura delle granaglie nei solai, dal governar le bestie da cortile a seguire al pascolo le pecore e tante altre piccole mansioni a seconda delle stagioni
e delle necessità. All’inizio, questi ragazzi guadagnavano ben poco oltre il mero sostentamento, anche questo non sempre sufficiente, ma, dopo qualche anno, se imparavano e
se si adattavano avevano la possibilità di guadagnarsi qualche cosa diventando bovari o
svolgendo altri compiti ritenuti più qualificanti.
Questa condizione di vita era molto dura e poco redditizia, gli inconvenienti come
malattie ed incidenti erano all’ordine del giorno, solo chi fosse stato di costituzione robusta e d’animo paziente avrebbe potuto mettere da parte qualche soldo da impiegare per il
matrimonio, quando l’età l’avrebbe consentito.
Le cose erano ancora più complicate se tra il datore del lavoro e il famiglio c’era un
grado di parentela, perché allora diventava molto più difficile poter valutare adeguatamente il prezzo del proprio lavoro.
Una disputa del genere successe a Settimo verso la metà del XVII secolo, quando
sorse una questione fra Tonio Zanoto e Zamaria Muto, rispettivamente quali nonno e nipote. Zamaria Muto, giunto all’età di 22 anni chiese di avere un venale riconoscimento
del suo contributo lavorativo ma il nonno non apprezzò con il dovuto affetto la richiesta
del nipote. Sussistendo diversissime difficoltà et prettese uno dall’altro decisero di far
compromesso e trattare la questione secondo antiche regole comunitarie che delegavano
la questione a due persone autorevoli con autorità et facoltà di poter deffinire terminare
sentenziare sul loro contenzioso.
79
La comunità di Settimo
I contendenti presentarono delle scritture nelle quali ciascuno illustrava il proprio punto di vista. Zamaria pretendeva di esser pagato per famiglio dal nonno Tonio e dagli zii
per tutto il tempo che era stato con loro; lui dichiarava allora anni vintidoi e, tolti i primi
quiattro nei quali era stato nutrito dalla madre, conteggiava ben diciotto anni da remunerare d’anno in anno secondo la valutazione di un huomo compito. Chiedeva inoltre che gli
fossero restituiti alcuni danari che la madre aveva dato al nonno per comprar una manza69
come pure la sua parte di profitti per i vitelli nati da questa. Infine chiedeva la restituzione
di una caldiera e sosteneva di aver ancora qualche diritto sulla dote della madre.
Di fronte a tali pretese Tonio replicò70 di aver già sostenuto molteplici spese avendolo
tolto in casa at anni doi in circa insieme con sua madre senza portare con se cosa alcuna
oltre ad una caldiera di tenuta di un sechio et vechia. Anche il nonno pretendeva di essere
risarcito per avere vestito da novo dal capo ai piedi sia sua madre che il putto Zamaria.
A quel tempo sua madre gera patrona resolutta e non vi era altre donne presenti in casa,
perchè la sua consorte gera morta. Lei si mostrava molto abile nel far la patrona e governava li suoi figli a modo suo, mentre Tonio le comprava pan et altro che fava bisogno et
non gli importava altro. Sua madre quale patrona resolutta che dominava il tutto rimase
nella sua casa per quattro anni e se n’andò solo dopo essersi nuovamente maritata.
Zamaria invece restò nella casa del nonno e vi rimase fino all’anno 1656, per circa sedici anni. In tutto questo tempo fu d’aiuto per sei anni nel condurre i bovi e solo per un anno si
rese disponibile a lavorar. Secondo Tonio il nipote faceva quello che voleva e mai in alcun
tempo ha voluto andar a far una criuola di erba per li animali ed era sempre inobediente e
faceva di testa sua, sel voleva lavorar el lavorava et se non voleva non ocoreva dirli altro.
Tonio si rimetteva del tutto e per tutto alla coscienza de doi homini preposti al giudizio avendo vestito et calzato et haverli usato tutto quel governo come se fusse stato suo
figlio. Precisava che la dote della madre gli era già stata consegnata e che non intendevano
dargli altro, mentre si dichiarava pronto a restituire £ 22 ricevute dalla figlia ma negava di
aver con queste comprato animali per suo conto. Infine Tonio sollevava una questione riguardante un fratello di Zamaria di nome Fiorito, fino a quel momento mai citato ma che
aveva anche lui usufruito dell’ospitalità del nonno. Questo Fiorito aveva avuto bisogno
dell’intervento del medico e tutte le spese erano state sostenute dai Zanoti, perciò Tonio
ne chiedeva il rimborso a Zamaria e al fratello.
69
“... la qm mia madre li diede al sudetto Antonio alcuni danari per comprar una manza, et fu comprata et data
alla parte da Batta Bigatto di Pramazore et essendoli venutto un puocho di male la tornò alla casa di detto mio
nono, et guarita et esso la tenuta per spatio di anni 10 dico diece... pretendo la mia parte tanto alla detta manza
come dei vedeli che di detta soceda sono nasutti di anno in anno” AS Tv, Ar Not I s., b. 2009.
70
“Laus deo 1656 adi 15 9bre. Pretese fatte da me Tonio Zanotto et figli con ser Zamaria figliolo del quondam
Batta Mut come qui segue et prima. Pretendemo di esser pagatti per averlo tolto in casa anni doi in circa insieme
con sua madre et non portorno seco cosa alcuna in casa nostra solo che una caldiera di tenuta di un sechio in
80
La comunità di Settimo
In una nota allegata sono scrupolosamente indicate le spese sostenute con il medico
cerusico Nicolò Ralli per l’ammontare di £ 213 e soldi 10, somma non fu pagata in denaro
ma con parte del raccolto71. Inoltre andavano aggiunte £ 22.12 per l’acquisto di medicine
nella farmacia Bonaldi di Portogruaro e in quella di Carlo Panigai di San Vito.
In un’altro allegato era elencato il vestiario che aveva con se Zuan Maria al momento
che abbandonò la casa del nonno: doi camise sotili lavorate era usade, et doi altre camise
di giorno di lavoro, quatro para de braghesse di più sorte, cioe un paro de frostagno foderate et con passamani turchisi, con li scarselli suso, un paro de mezo raso et doi para
di tela uno sotile et l’altro grossa. Tre para di calze [mutandoni], uno rosse di stameto,
uno di raso bianco, l’altro di tela di lino. Una besantina [giacca?] usada con Passamani.
Inoltre una camisiola rossa nova, un paro de scarpe de marochino, un vestido usado vecchio, una camisiola di meza lana vechia e un capello fornito. Era tuta roba fatta in casa
del Zanoto che di valore ammontava a £ 87 e il nonno dunque ne richiedeva la restituzione
oppure di esser bonificate.
Lette queste scritture e visto le pretese di Zamaria fiol de Battista Muto et da Tonio
Zanoto suo nono et avendoli scoltati in vose, Antonio Franzon e Anzolo Sovina quali
homeni conpiti e de coscenza giudicarono che Tonio doveva pagar Zamaria come famegio per anni sete con una somma di ducati diese, di lire sei e soldi quattro per ducato. Il
nonno doveva anche restituire la caldiera al nipote e remunerarlo con altri dieci ducati
per l’armenta acquistata con i soldi della madre. In compenso Zamaria doveva bonificar
tuto quelo che aveva ricevuto di vestiario neli sudeti anni ecetuato quelo che sia sta fato
con la dote di sua madre e rimborsare insieme al fratello, delle spese sostenute da Tonio
per medico e medicine.
circa et vechia et subito aver vestito detta sua madre insieme con il detto putto da novo dal capo ai piedi et esta
gera Patrona resolutta che non ve era altre donne di presente in casa per esser abile di far la Pattrona, et che
mia consorte gera morta, dove governava li suoi figli a modo suo io li comprava Pan et altro che fava bisogno
et non mi impurtava altro, in casa alcuna dona che gera. Patrona resolutta et dominava il tutto, et questo fu in
circa di anni quattro et poi se maritò et il detto Zamaria resto in casa, et vi è stato sino il presente anno 1656 che
sono anni sedici in circa dopo che detta sua madre si maridò, et quando la si maridò, aveva anni 6: il detto putto,
et in questi anni sedici non è stato altro che anni sie a menar li buò, et un anno a lavorar in circa, ma el faceva
quello al voleva che in alcun tempo non à mai voluto andar a far una criola di erba per li animali et esser stato
sempre inobediente al possibile sel voleva lavorar el lavorava et se non voleva non ocoreva dirli altro dove del
tutto e per tutto remetemo in coscienza di doi homini, et averlo sempre sfamato vestito et calzato et haverli usato
tutto quel governo come se fusse stato mio figliolo. Proprio dove che esso pretende esser pagatto per famiglio
si remetemo, ma intendemo ne sia bonificato tutto quello avemo speso per lui si del vestirlo come del spesarlo
intanto che non è stato buono da niente et anco dopo bon da qual che cosa, ne sia pagato tuto quello si à speso
in vestirlo....” AS Tv, Ar Not I s, b. 2009.
71
Così quantificato: vin orne 7 val £ 119.10, frumento stara 2 val £ 35, sorgo turco stara 2 val £ 20, sorgo rosso
stara 4 val £ 22, segala stara 1 val £ 11 e £ 6 di avena per aver usato sei giorni il loro cavallo. AS Tv, Ar Not I
s., b. 2009.
81
La comunità di Settimo
Fatti i debiti conti Zamaria poteva inizialmente contare su un introito di lire 124, ma
dovendo bonificar il vestiario e contribuire alle spese mediche ben poco gli rimaneva,
anzi si ritrovava ad essere debitore di suo nonno. Alla fine Zamaria abbandonando la casa
di suo nonno, dove aveva vissuto e lavorato per 22 anni, si trovò a possedere solo una
caldiera, vecchia e trista...
Sposarsi a Settimo
Il primo matrimonio celebrato a Settimo di cui si dispone di documentazione risale
a cinquecento anni fa e riguarda due famiglie di Settimo che in modo o nell’altro hanno
attraversato tutta la storia della comunità, giungendo fino ai nostri giorni. Lo sposo è
Battista Zovato detto Toffolo figlio di Zuan Pietro Zovato e nipote di Daniel Toffolo fondatore della chiesa di S. Giovanni Battista. La sposa è Venera, figlia di Antonio Vinitian
(Venezian), altra famiglia rimasta attaccata alla terra di Settimo per più di mezzo millennio. A quel tempo erano due famiglie di piccoli proprietari terrieri con poderi e fabbricati
che permettevano loro di avere introiti discreti se equiparati a quelli di altri proprietari e
massari. Era un matrimonio fra famiglie che a Settimo contavano qualcosa. Questo fatto
è confermato dalla presenza di un intermediario, detto anche missete, che svolgeva questo
ruolo per mestiere, al quale ci si rivolgeva solo quando nei matrimoni le questioni patrimoniali erano predominanti rispetto agli affetti personali.
Il documento pervenutoci è comune nei matrimoni di un tempo, si tratta dell’inventario del corredo della sposa, parte importante della dote, la quale doveva rimanere distinta
dai beni dello sposo e poteva essere assegnata in eredità solo ai figli. Nel caso di morte
prematura della sposa in mancanza di eredi la dote ritornava al padre. Perciò nel momento
del matrimonio si redigeva un inventario minuzioso del corredo che veniva consegnato
dal padre della sposa al futuro genero. Questa lista, compilata da persone competenti nella
stima dei beni, era registrata da un notaio.
Il documento, datato 20 novembre 1504, inizia così: sia noto chomo ser Antonio Vinitian fa notar tuto quello lui da per nome de dote a so fiola, Venera la qual da per mojer
a Batista fiol de Zuan Piero de Daniel de Tofol72. Sta a significare che il padre della sposa
rende pubblicamente noto che ha fatto annotare la lista del vestiario dato in dote alla figlia, da lui stesso concessa in moglie a Battista Zovato detto Toffolo. A questo preambolo
segue la lista:
72
AS. Tv, Ar. Not. Io s., b. 387.
82
La comunità di Settimo
et prima un per de lenzuoli estimadi ................................................... £ .12 s 10
item 2 per de lenzuoli de braza 25 de tela el par est ........................... £ ........ 25
item 2 varnazi de lo raso di pianula est............................................... £ .......... 9
item 1 varnaza negra stimata. ............................................................. £ .......... 3
item un chamexot negro ....................................................................... £ ........ 10
item un chamexot biancho ................................................................... £ .......... 2
item un chamexot biancho ................................................................... £ .......... 2
item un pignulado stimado .................................................................. £ ........ 15
item una traversa stimada ................................................................... £ .......... 5
item una varnaza de stopa frusta......................................................... £ .......... 2
item 2 par de tovarteli stimadi ............................................................. £ .......... 5
item 2 chamexi de lin stimadi .............................................................. £ .......... 5
item 10 chamexi de stopa stimadi ........................................................ £ ........ 18
item 2 chamexi frusti stimadi ............................................................... £ .......... 2
item 3 para de manigi, uno de garza biancha, l’altro de piagnuola,
la terza de brun .................................................................................... £ .......... 6
item 5 lenzoleti de lin e de bombaso estimadi ..................................... £ .......... 7
item 1 lenzolet de lin estimato ............................................................. £ .......... 1
item 5 fazuoli de lin estimadi ............................................................... £ ..... 2.10
item 2 fustagani estimadi ..................................................................... £ ..... 0.14
item 8 fazuoleti de lin estimati ............................................................. £ .......... 2
item 3 tovaioli lavoradi........................................................................ £ ..... 1.10
item un par de manigi col busto .......................................................... £ ..... 0.15
item 9 fazuoleti .................................................................................... £ ....... 2.1
item 9 fazuoleti .................................................................................... £ .......... 1
item 3 fazuoleti de bombaxo ................................................................ £ ....... 2.1
item 2 di stopa stimadi ......................................................................... £ .......... 4
Annotando i quattro responsabili delle stime, due di fiducia per ognuna delle parti
(Zanet Vixentin da Septimo e Antonio de Menego da Sesto per Baptista e mastro Natale
Sartor e Zuan di Bortolus da Setimo per Antonio Vinizian), alla fine dell’atto si precisa
che ser Antonio Vinizian se obliga a dare a Venera so fiola un leto colla coltra chavazal
et un par de cusini (era consuetudine il letto fosse fornito dal padre della sposa), una gonela furnida e un vistido de bisso. Il documento terminava indicando i tre testimoni che
abitavano a Settimo (Jacubus Machor de la macha et Isach de la Macha e Lenardo de
Chimenti) e Agnolo de Minighin da Cinto l’intermediario del matrimonio.
83
La comunità di Settimo
Nel corso del Seicento altri documenti simili a questo, che riguardano gli abitanti di
Settimo, si possono trovare negli atti dei notai, ad esempio quelli che riguardano le sorelle
Paula e Justina Bravin73, ma non sono molto diversi da quello riportato sopra.
Più singolare è il contratto di matrimonio redatto il 17 gennaro 170574 fra il padre di
Lugrezia Mutto di Settimo e Ottavio Amadio di Cinto. Nel testo si mette in rilievo che
bramando l’Amadio congiungersi in matrimonio con donna Lugrezia chiede al padre
dell’amata che voglia compiacersi di dar sua figlia per legittima sua sposa e Gio Batta
Mutto volendo compiacere alle richieste e brame di Ottavio, fa solenne promessa di dar
per sua legittima sposa la figlia Lugrezia con impegno di far seguir li sponsali secondo
quanto è prescritto dalla Santa Chiesa. Per la dote, il padre della sposa mette le mani
avanti, dichiarando che sarà confacente congrua e sufficiente rispetto alle sue forze et
al suo stato e che lo sposo dovrà contentarsi e non pretendere altro oltre a quello che lui
potrà offrire. Il Muto esige che comunque dopo il matrimonio sia mantenuta essa dote
giusto al prescritto della legge della Patria e che debba essergli ritornata se Lugrezia
morirà senza aver avuto figli.
Dall’impostazione del documento viene da pensare che Lugrezia era una gran bella donna oppure disponeva di altre particolari virtù, per permettere a suo padre, piccolo e “meschino” contadino, di ostentare un atteggiamento così deciso e distaccato nei confronti di Ottavio
Amadio, persona di un certo rango nella gerarchia sociale della Cinto di quel tempo. Ottavio
era figlio di Gian Francesco Amadio, discendente di una famiglia di mercanti veneziani, e di
Nida Altan figlia di Ottavio conte di Salvarolo. L’Amadio, a quell’epoca quarantacinquenne,
viveva con il fratello Alvise e nipoti, nella casa dominicale situata nel Bosco del Forestier75.
Lo sposo per dare prova del suo affetto sottoscrive una dichiarazione singolare:
E perchè detta sposa maggiormente conosca l’affetto che li porta [Ottavio] promette e s’obliga inanzi di sposarla e anco inanzi di darli la mano di licentiar
et a’ mandar fuori di casa donna Venere Brini che hora s’atrova in sua casa, et
abbandonar assolutamente la pratica di quella con absentarla lontana dogni so-
73
I due inventari sono stati pubblicati nel libro: M. De Vecchi,“Cronache di vita agreste”, Comune di Cinto C.
2003, pag. 13.
74
AS. Tv, Ar. Not. Io s., b. 2927.
75
Nella dichiarazione dei redditi ai Savi delle Decime di Venezia nel 1661 Gian Francesco Amadio, che si presenta come cittadino di Venezia abitante a Cinto, afferma possedere Campi cinquanta in circa parte A. P. V. et
parte prativi con casa domenicale, cortivo, horto e brolo il tutto nel Comun del Bosco del Forestier, quali quali
come lui disse fa lavorar in casa. (As Ve, Savi alle Decime, r 462, Catastico Friuli) Inoltre affittavano terreni
di altri possidenti quali i Tiepolo che facevano lavorare e altre rendite pervenivano da alcuni alcuni negozi che
avevano a Venezia.
84
La comunità di Settimo
spetto perchè più sempre resti confermata cintata et eletta la fede matrimoniale
a consolatione d’essa sposa, delli parenti della stessa, et a gloria del signore,
seguendo in questo i precetti di Santa Madre Chiesa.
Se era comune nelle famiglie altolocate avere una convivenza prematrimoniale con
qualcuna delle donne di servizio era meno usuale che un fatto come questo venisse rimarcato ed abiurato in un contratto di matrimonio. In questo caso il documento fa riferimento
ad una donna ben conosciuta anche fuori dalle mura di casa. Situazione non facilmente
accettabile per chi è in procinto di diventare sposa e nemmeno per la famiglia, che, seppur
di modeste condizioni, era di buoni principi morali. Perciò lo sposo fu costretto a promettere solennemente che d’ora in poi sarebbe stata sua cura evitare qualsiasi licenzioso
connubio.
Tale dichiarazione, di così rilevante ossequio nei confronti di Lucretia e dei precetti di
Santa Madre Chiesa, non è sufficiente per ottenere il consenso di Gio Batta Mutto, il padre della sposa desidera anche un particolare impegno di Ottavio verso la famiglia Amadio, presumibilmente non molto favorevole al matrimonio con Lugrezia. Dovrà lo sposo
inanzi che resti celebrato matrimonio fare in modo che resti quetato l’anemo da tutti li
sua di casa, cioè dal signor suo fratello nepotti et altri parenti acciò che sempre abbino
tutti a trattar con buona corrispondenza da veri parenti. In breve, la famiglia Mutto non
voleva subire torti ed umiliazioni ma essere trattata con le giusta considerazione come è
consuetudine fra congiunti.
Fa piacere vedere che un piccolo contadino di Settimo, attraverso un comune contratto di matrimonio, possa imporre con perentorietà precise regole di comportamento e di
rispetto ad una famiglia di origine veneziana, imparentata con gli Altan, e “di casa” con
gli Sbrojavacca e i Tiepolo. Questo documento dimostra che nemmeno a quel tempo il
potere dei soldi poteva sempre aver ragione della dignità delle persone: chi disponeva di
buoni principi e di qualche “grazia” poteva tener testa anche ai “siori”.
85
La comunità di Settimo
Alcune note sul secolo XIX
Dopo la morte dell’ultimo patriarca del Friuli, nel 1762, il territorio giurisdizionale
di San Vito in generale, ma più particolarmente Settimo, subirono inevitabili modifiche
amministrative. Già prima dell’invasione napoleonica era in atto negli enti preposti dalla
Serenissima una nuova organizzazione amministrativa, in cui Settimo si trovava inserita
nella Comunità-Mandamento76 di Cinto.
Nel 1797, durante la prima occupazione da parte delle armate napoleoniche77, il villaggio di Settimo ebbe l’avventura, per la prima volta nella sua storia, di venire accorpato
alla Municipalità di Sesto.
L’esperienza durò solo pochi mesi e quale unico segno tangibile di quel periodo rimase la costruzione della strada postale che da Latisana portava a Motta, passando per Sesto
e Marignana, e Settimo, dove, svoltando a destra, si inoltrava verso il Melon78.
La Postale fu costruita in regime militare, senza tener conto delle terre confinanti,
sifurono tagliati tutti gli alberi antistanti le rive, gelsi inclusi, si rovinarono gli argini dei
campi attigui, giungendo a demolire parte delle case adiecenti. La costruzione della strada
divenne l’emblema di quei fatidici mesi di sconvolgimento e di soppraffazione militare,
esperienza che non permise agli abitanti di apprezzare le qualità della democrazia.
Settimo, dopo questa esperienza, si troverà definitivamente unito a Cinto. Un ultimo
sussulto d’autonomia si ebbe dal 1806 al 1808, quando, con la nuova occupazione delle
armate napoleoniche e la costituzione del Regno d’Italia, gli abitanti di Settimo poterono
nuovamente dichiararsi una comunità a se stante. Per la prima volta fu aperto un ufficio
anagrafe dove l’ufficiale di Stato civile (Antonio Battiston che non sa scrivere) con l’aiuto
di un segretario (Eugenio Pedrinelli) redasse 31 atti di nascita, 11 atti di morte e 9 atti di
matrimonio con relative pubblicazioni79.
Nel 1810 il territorio di Settimo assieme a quello di Cinto fu per la prima volta cattasticato nel senso che fu redatta una mappa topografica. Il territorio era suddiviso in
piccolissime frazioni, numerate progressivamente nel Sommarione (libro censuario), ogni
76
Così si legge in un censimento promosso dalla Serenissima Signoria nel 1790 in cui si contava1010 abitanti:
Comunità della Contadinanza e Patria del Friuli di là del Tagliamento. Comunità - Mandamento Cinto, Settimo,
Bando Scudelle, Bosco di San Biagio, Bosco del Forastier, Ronche con Jesuati (...). AS Ve, Deputati Aggiunti
b. 210.
77
Già da me ampiamente trattato nel capitolo Libertà ed egualianza nel libro Il Centesimo di Napoleone, Comune e Pro loco di Cinto Caomaggiore, Spoleto 2005.
78
Da un censimento delle strade di Cinto del 1809: la strada Postale parte da Marignana e conduce a Basedo, la
sua lunghezza è di 1160 piedi e larga circa 18. Era già allora in stato mediocre. AS Tv, Preffettura I°s., b. 867.
79
As Ve, Stato Civile della Provincia di Venezia Registro n. 688. Tali atti sono stati da me sinteticamente pubblicati nel fascicolo Alle origini della Municipalità di Cinto, Archivio della Memoria Cintese 2004. Nel 1809 invece
l’ufficio anagrafe fu centralizzato a Cinto.
86
La comunità di Settimo
numero era seguito il nome del possessore, da indicazioni sulla qualità e l’estensione dei
terreni misurata in pertiche censuarie (1/10 di ettaro).
Questo documento è fondamentale per chi oggi vuole oggi avere un quadro esatto
degli insediamenti e delle proprietà di quell’epoca, però allora non fu redatto con questo
intento ma per poter aumentare le entrate erariali.
La nuova politica tributaria, che non rispettava più i privilegi dei nobili, spinse i Sagredo a vendere le proprietà che detenevano a Settimo. Ne approfittò il conduttore Giovanni
Battista Sartori di Sacile per acquistare i fondi ad un prezzo vantaggioso. D’altro canto
i Sartori, avendo aderito ai nuovi ideali democratici (assunse l’incarico di podestà di Sacile), sapeva come mettere a buon frutto anche in tempi di subbuglio i suoi interessi. Da
allora un ramo della famiglia Sartori si trasferì a Settimo e ne divenne residente stabile.
Dal 1871 al 1979, dopo l’unificazione nazionale, troviamo quale sindaco di Cinto
Giuseppe Sartori, primo sindaco del paese residente a Settimo.
Durante il suo mandato, la sede del Comune fu spostata provvisoriamente a Settimo,
dove venne ripristinato l’ufficio di stato civile: il primo documento registrato in comune è
datato 7 settembre 1871 e riguarda un atto di nascita (Luigi Bagnariol di Settimo).
Allora, il consiglio comunale era formato da 15 consiglieri, eletti solo da quella piccola parte di popolazione maschile che aveva diritto di voto in base all’entità dei contributi
corrisposti all’erario. A Cinto, alle elezioni del 1875, che confermarono sindaco Giuseppe
Sartori, gli iscritti erano 110 ma esercitarono il voto solo 68 di loro.
È un periodo molto importante per il comune di Cinto, da un lato si registra un notevole incremento della popolazione (in soli undici anni la popolazione del paese aumenterà
di quasi 300 abitanti, passando in undici anni da 1619 (anno 1868) a 1907 (anno 1879);
dall’altro una complessa fase economica favorirà un fenomeno positivo d’emigrazioneimmigrazione che interesserà una parte considerevole della popolazione (si contarono
622 emigranti a fronte di 687 immigrati).
C’è infine da segnalare, nei primi anni del ’900, la costituzione a Settimo di una
Societa Operaia Cattolica dedicata a S. Antonio Abate, che nel corso del 1913 contava
più di settanta soci, in gran parte giovani ed emigranti80. Disponeva di un vessillo e ogni
anno i soci si riunivano il giorno del santo per dibattere e festeggiare. Si tratta della prima
associazione di mutuo soccorso presente nel nostro paese.
80
Periodico diocesano La Concordia del 26/1/1913.
87
La comunità di Settimo
88
La comunità di Settimo
Settimo: incrocio del Cesiol e Borgo S. Giovanni
I possidenti secondo il Sommarione Napoleonico del 1810
Superficie
in pertiche Possidenti
censuarie
Numero
Toponimo
catastale
Qualita dei terreni
o tipo di fabbricato
15
25
26
27
28
29
30
31
33
34
35
38
60
Alla chiesa
Casale
Casale
Casale
Casale
Casale
Casale
Casale
Casale
Casale
Casale
Casale
Casale
Casa di legno da Massaro
Prato
Aratorio
Aratorio vitato
Casa da massaro con corte
Orto
Casa da massaro con corte
Orto
Casa dirocata
Casa da massaro con corte
aratorio vitato
Prato
Aratorio
0.03
2.74
2.94
3.48
1.76
0.10
0.64
0.59
0.12
0.80
3.50
0.50
2.07
63
65
67
68
71
73
74
75
82
83
84
85
86
88
191
192
Casale
Casale
Casale
Pragrasso
Casale
Casale
Casale
Casale
Pra grasso
Casale
Casale
Casale
Casale
Centolini
Comugna
Comugna
Casa da massaro e corte
Casa con corte di propria abitazione
Orto
Casa da massaro con corte
Casa con corte di pr.a abitazione
Pascolo con moroni
Aratorio vitato con moroni
Aratorio con moroni
Orto
Orto
Casa di propria abitazione con corte
Orto
Casa con corte da massaro
Aratorio vitato
Pascolo
Pascolo
0.04
0.31
0.80
1.87
0.45
0.04
0.61
0.77
1.29
0.58
0.22
0.51
0.78
25.45
1.79
11.58
89
Cappellania di S.Giobatta in Settimo
Zorzi Giovanni fu Pietro
Zorzi Giovanni fu Pietro
Marassi Antonia vedova Piceni
Chiesa S.Giobatta in Settimo
Chiesa S.Giobatta in Settimo
Chiesa S.Giobatta in Settimo
Chiesa S.Giobatta in Settimo
Zorzi Giovanni fu Pietro
Zorzi Giovanni fu Pietro
Zorzi Giovanni fu Pietro
Linzini Luigi fu Giacomo
Marzinotto Francesca fu Antonio
ved. Salvador
Marzinotto Osvaldo fu Pellegrino
Venezian Osvaldo fuAntonio
Sartori Giobatta fu Pietro
Sartori Giobatta fu Pietro
Venezian Daniele fu Giuseppe
Venezian Domenico fu Antonio
Venezian Domenico fu Antonio
Venezian Daniele fu Giuseppe
Sartori Giobatta fu Pietro
Favela Francesco
Favela Francesco
Chiesa S.Giobatta in Settimo
Chiesa S.Giobatta in Settimo
Marassi Antonia vedova Piceni
Comune di Settimo aggregato a Cinto
Comune di Settimo aggregato a Cinto
La comunità di Settimo
90
La comunità di Settimo
Centro Settimo
I possidenti secondo il Sommarione Napoleonico del 1810
Superficie
in pertiche Possidenti
censuarie
Numero
Toponimo
catastale
Qualita dei terreni
o tipo di fabbricato
3
4
5
6
7
8
12
14
Casale
Casale
Casale
Casale
Casale
Casale
Casale
Casale
Prato
Aratorio vitato con moroni
Casa diroccata
Pascolo con moroni
Casa da massaro con corte
Aratorio vitato con moroni
Orto
Casa con corte di propria abitazione
0.51
24.65
0.05
0:31
0.88
2.80
0.25
1.16
16
AB
17
18
19
21
32
46
47
48
49
50
53
60
61
63
339
340
341
342
344
345
Piazzetta
Casale
Casale
Casale
Casale
Casale
Casale
Casale
Casale
Casale
Casale
Prato
Casale
Casale
Casale
Alla chiesa di Settimo
Alla chiesa di Settimo
Alla chiesa di Settimo
Alla chiesa di Settimo
Alla chiesa di Settimo
Alla chiesa di Set.
Pascolo con moroni
Chiesa S.Giobatta e Cimiterio
Casa da massaro con corte
Casa da massaro con corte
Zerbo
Pascolo con piante dolci
Casa da massaro di legno
Pascolo con moroni
Orto
Casa di propria abitazione
Casa con corte ad uso di osteria
Casa da massaro con corte
Aratorio con moroni
Aratorio
Casa da massaro
Corte ad uso promiscuo
Orto
Orto
Casa da massaro con corte
Zerbo
Casa di proprio uso
Casa da massaro con corte
0.96
0.61
0.40
1.29
0.05
0.81
0.10
0.66
0.55
0.07
0.44
0.57
5.76
2.07
0.04
0.53
0.85
0.24
1.24
0.56
0.04
0.68
347
348
349
350
351
352
353
354
Alla chiesa
Alla chiesa
Alla chiesa
Alla chiesa
Alla chiesa
Alla chiesa
Alla chiesa
Alla chiesa
0.16
1.26
0.68
0.05
0.31
0.37
0.03
0.05
355
358
359
360
382
Alla chiesa
Alla chiesa
Zoccolata
Zoccolata
Centolina
Ripa boscata dolce
Pascolo con moroni
Andito ad uso promiscuo
Casa da massaro
Orto
Orto
Casa ad uso di stalla
Porzione di casa a pian terreno
di propria abitazione
Casa di propria abitazione
Aratorio
Casa da massaro con corte
Orto
Aratorio vitato
0.48
1.21
1.39
0.44
I0.26
383
384
Armentaressa
Casale
Aratorio con moroni
Orto
2.02
0.60
91
Cremon Luigi fu Pietro
Cremon Luigi fu Pietro
Battiston Pasquale fu Osvaldo
Battiston Pasquale fu Osvaldo
Sartori Giobatta fu Pietro
Sartori Giobatta fu Pietro
Cappellania di S.Giobatta in Settimo
Cappellania di S.Giobatta in Settimo
Goduto da Gio Batta Dini prete
Sartori Giobatta fu Pietro
Chiesa S.Giobatta in Settimo
Linzini Luigi fu Giacomo
Linzini Luigi fu Giacomo
Linzini Luigi fu Giacomo
Zorzi Giovanni fu Pietro
Marzinotto Francesca fu Antonio ved. Salvador
Marzinotto Angelo fu Andrea
Marzinotto Francesca fu Antonio ved. Salvador
Sgardua Francesco fu Antonio
Cremon Alvise fu Pietro
Sartori Giobatta fu Pietro
Marzinotto Francesca fu Antonio ved. Salvador
Marzinotto Osvaldo fu Pellegrino
Marzinotto e Francesco e Giovanni
Cremon Luigi fu Pietro
Salvador Domenico fu Giacomo
Cremon Luigi fu Pietro
Pinali Giovanni fu Antonio
Chiesa S.Giobatta in Settimo
Salvador Domenico fu Giacomo
Livellario Chiesa S. Gio Batta di Settimo
Pedrinelli Gasparo fu Francesco
Pedrinelli Gasparo fu Francesco
Cestari Sebastiano e Pedrinelli Francesco
Cestari Sebastiano
Cestari Sebastiano
Pedrinelli Francesco fu Giacomo
Pedrinelli Francesco fu Giacomo
Pedrinelli Francesco fu Giacomo
Pedrinelli Gasparo fu Francesco
Pinali Giovanni fu Antonio
Pinali Giovanni fu Antonio
Pinali Giovanni fu Antonio
Pedrinelli Gasparo fu Francesco
Livellario dell’Ospitale di Pordenone
Moretti Girolamo
Sartori Giobatta fu Pietro
La comunità di Settimo
92
La comunità di Settimo
Settimo: Viale e “Castello”
I possidenti secondo il Sommarione Napoleonico del 1810
Superficie
in pertiche Possidenti
censuarie
Numero
Toponimo
catastale
Qualita dei terreni
o tipo di fabbricato
375
376
377
378
388
389
391
392
395
396
397
405
428
430
432
433
434
435
440
441
442
443
444
445
446
447
448
453
454
455
486
Orto
Casa di propria abitazione
Casa da massaro
Casa con corte da massaro
Aratorio con moroni
Orto
Casa di villeggiatura con corte
Casa da massaro
Pascolo
Aratorio vitato
Pascolo boscato forte
Aratorio vitato
Casa con corte da massaro
Casa di legno da massaro
Casa di propria abitazione
Casa di propria abitazione
Casa di propria abitazione
Casa di propria abitazione
Aratorio
Aratorio
Aratorio
Aratorio
Corte ad uso promiscuo
Casa ad uso di stalla
Casa ad uso di stalla
Casa ad uso di stalla
Aratorio
Aratorio vitato
Aratorio vitato con frutti
Aratorio vitato
Aratorio vitato con frutti
Casale
Casale
Casale
Casale
Viale
Viale
Viale
Viale
Viale
Viale
File
Campagnolo
Di sopra
Di sopra
Di sopra
Di sopra
Di sopra
Di sopra
Di sopra
Di sopra
Di sopra
Di sopra
Roscaledo
Di sopra
Di sopra
Di sopra
Olmera
Roscaledo
Di sopra
Olmera
Roscaledo
93
0.88
0.02
0.05
0.29
5.24
1.56
3.43
0.24
4.45
10.21
6.71
27.43
1.21
0.29
0.08
0.03
0.04
0.04
0.42
0.40
0.39
0.43
3.47
0.04
0.04
0.08
2.49
9.17
0.97
1.58
1.06
Zovatto Giobatta fu Giacomo
Zovatto Giobatta fu Giacomo
Pedrinelli Veronica di Gaspardo ved. Zovatto
Galegana Maria fu Antonio ved. Zovato
Sartori Giobatta fu Pietro
Sartori Giobatta fu Pietro
Sartori Giobatta fu Pietro
Sartori Giobatta fu Pietro
Sartori Giobatta fu Pietro
Sartori Giobatta fu Pietro
Sartori Giobatta fu Pietro
Sartori Giobatta fu Pietro
Sartori Giobatta fu Pietro
Sartori Giobatta fu Pietro
Cremon Antonio fu Marco
Cremon Vincenzo fu Marco
Cremon Giuseppe fu Marco
Cremon Marc’Antonio fu Marco
Cremon Giuseppe fu Marco
Cremon Marc’Antonio fu Marco
Cremon Vincenzo fu Marco
Cremon Antonio fu Marco
Cremon
Cremon Marc’Antonio fu Marco
Cremon Giuseppe fu Marco
Cremon Vincenzo fu Marco
Cremon Marc’Antonio fu Marco
Riva Angelo fu Giovanni
Riva Angelo fu Giovanni
Cremon Antonio fu Marco
Marassi Antonia vedova Piceni
La comunità di Settimo
94
ARCHIVIO DEI RICORDI
Settimo tra “prai, ciasa, cesa e curtivo”
Gian Piero Del Gallo
Questi ricordi della sapienza contadina, sono il frutto di racconti e testimonianze di
gente di Settimo, di quanti in gioventù sono stati protagonisti di uno spaccato storico che
ha contrassegnato un lungo periodo della vita del paese con le tradizioni dell’epoca personalmente vissute o apprese dai loro genitori che gliele hanno tramandate oralmente.
Leggere e scrivere infatti, erano doti in possesso esclusivo del pievano, dei grandi
proprietari terrieri, dei loro contabili, ed in minima parte del “paron de casa”, una figura
che si imponeva sugli altri componenti della famiglia come un secondo padrone.
Usi e costumi che hanno costituito un vero e proprio codice comportamentale delle
famiglie dell’epoca interessata da questi ricordi. Regole non scritte ma rispettate da tutti,
anche se a Settimo, a differenza di Cinto, erano quasi tutti proprietari o fittavoli, pochi i
mezzadri, i Toffolon, i Fantin, i Gumiero nel dopoguerra.
La continua evoluzione, le scoperte, i cambiamenti e le riforme fatte sullo stesso
calendario, l’ultima lo scorso secolo negli anni ’70/’80, che ha trasformato in giornate
qualsiasi, festività religiose, veri capisaldi di riferimento, hanno influito sulla progressiva
scomparsa del sistema interpretativo delle feste dei Santi, dei segni meteorologici, delle
consuetudini e usanze anche folcloriche, dei modi di dire e di fare.
Sono stati tolti riferimenti importanti per capire come comportarsi, oggi pochi sanno
interpretare le varie fasi della luna, la sua influenza su qualsiasi lavoro, dalla potatura della
vite, al taglio della legna, alla semina dei campi che doveva essere effettuata prima dei Santi. Ora non ci sono più regole, la storia scorre inarrestabile cambiano i tempi con una tale
velocità che non si fa nemmeno in tempo a capire qualcosa che è già cambiato tutto; “se
fosse qua me pare” hanno ripetuto più volte gli stessi anziani ai quali va il mio grazie per la
loro disponibilità, girerebbe subito le spalle ad un mondo agricolo che non è più tale.
Con questi ricordi a più voci, abbiamo tentato di far rivivere almeno sulla carta, alcuni
importanti momenti della vita contadina. Ne è nato un romanzo di vita, i cui ingredienti
principali sono stati l’affetto, la solidarietà che non era un’optional come oggi, ma un
vero stile di vita ed il rimpianto per un passato irripetibile fatto di miseria comune a tutti
e come tale, era un mezzo gaudio.
“Se godevimo co gnente, ricordano Maria Basso, Bepi Fantin e conferma Mario
Celant, in cuo gavemo tuto ma ne manca quel gnente de na volta”.
95
Archivio dei ricordi
Quel “gnente” era l’insieme dei valori che comprendevano amicizia, rispetto, onestà,
serietà, quando la parola data era più di una firma apposta in calce ad un documento.
Questa raccolta di ricordi di vita vissuta è stata possibile per la freschezza mentale e
squisita disponibilità di Maria Basso, di Giuseppe Fantin “Bepi” e de so mujer “Bepa”
Giuseppina De Gasperi, di Ugo Valvasori “Gial”, di Mario “Ciccetta” Celant e de so
mujer “Gigetta de Seno” Luigia Battiston, ai quali si è aggiunta la collaborazione di
Danilo Zorzi, Jolanda Nogarotto, Arnaldo Valvasori, Dorino Toffolon e famiglia, Romeo
Battiston, Daniel Missana, Giuseppe Gumiero, Antonietta Furlan, Ada Sartori.
Il caldenario del Contadin
11 Novembre. San Martin, ogni mosto l’è diventà vin
Il calendario agricolo non concedeva alternative: terminava il 10 novembre ed iniziava l’undici, il giorno di San Martino, scadenza tradizionale dei contratti e questi ricordi
partono proprio da quel giorno, da sempre croce per quelle povere famiglie che venivano
cacciate dalla terra, speranza di sopravvivenza invece per chi sarebbe rimasto.
Fare San Martin in quei periodi, assumeva una drammaticità autentica, palpabile.
Per tutto l’anno era una spada di Damocle sospesa sulla testa del colono come un incubo
ed il “varda de far pulito” era il comandamento quotidiano che gli uomini di fiducia del
“paron”impartivano al contadino. Bastava un niente, perché un’intera famiglia si fosse
ritrovata sulla strada, scacciata da un padrone servito per anni con fedeltà e dedizione.
Tenere conigli a sua insaputa, procedere al taglio di qualche albero anche piccolo,
magari necessario per scaldare la casa, erano considerati un grave affronto punibile con
la disdetta e c’è ancora qualche anziano che ricorda i carri dei contadini, carichi di misere
cose, che si fermavano lungo la strada del cimitero per riposarsi.
Per quelle famiglie che rimanevano invece, fare San Martin era un giorno di festa con
il vino nuovo e le castagne portate nelle case dalle “furlane” che le barattavano con il
granoturco. “Tanciu per tanciu”, tanti chili di “biava” per altrettanti di castagne.
Ma era anche il giorno in cui si facevano i conti con il padrone, gli si portavano le
“onoranse”; “dindiati”, capponi, “rasse” e “vovi”; gli uomini dovevano andare da lui per
spaccare la legna, le donne per fare le grandi pulizie e lavare i vetri. Poi c’erano le regalie al
dottor, a la comare, al piovan. Si saldavano i debiti col “muliner” con il “casolin”, e con il
“bechér”, (la prima macelleria è stata aperta da Vincenzo Bigattin nella stalla del Mulino a
Cinto nel 1935) praticamente tutta l’economia paesana dipendeva da quel giorno. La vigilia
di San Martin a mezzogiorno, il nuovo boer (responsabile delle bestie), prendeva possesso
della stalla e la sera era a cena con il padrone per mangiare il galletto di San Martin.
Passato il periodo critico, gli animi si predisponevano alle ricorrenze soprattutto
religiose in quanto erano l’unica occasione per riunirsi, conoscersi e celebrare matrimo96
Archivio dei ricordi
ni che per ragioni di tranquillità
di lavoro, nei campi ormai gli
impegni erano stati soddisfatti,
si tenevano in questo periodo in
quanto a San Martin se marida
la fia del contadin, sempre con
il permesso del padrone in quanto non si andava “fora de casa”
senza il suo assenso perché ne
avrebbe sofferto la forza lavorativa, cioè il numero di braccia
Giuseppe Gumiero davanti casa.
che erano state garantite. “Noi
giovani ci recavamo alla festa della Madonna della Salute a Basedo, racconta Danilo
Zorzi, per incontrare le ragazze che partecipavano numerose alla processione”. Il gruppo
era composto da lui, da Enzo Liut, Benito Valvasori, Giovanni Rigo Ninuti, Amleto Gobat,
Cesare Zorzi Ninetto; i sei inseparabili compagni di giochi ma anche di scherzi memorabili che illustreremo strada facendo.
“La mia famiglia coltivava 60 ettari ed eravamo fittavoli di Osvaldo Mian da Fanna,
più fortunati quindi dei mezzadri, ricorda Maria Basso, ed a San Martin, a volte anche
dopo a seconda de come andava il tempo, ci recavamo a Fanna in bicicletta per portarghe
le onoranse, rasse, capponi, la brisiola ed ogni ben di Dio e lui ci riempiva un piccolo
canestro di pomùs come fossero reliquie e ce ne tornavano a Settimo con tante grazie, ma
tutto sommato era un bravo cristian”.
30 Novembre. Festa di Sant’Andrea
A Settimo è sopravvissuta fino agli anni ’60, negli ultimi anni di don Duilio Rambaldini, l’antica usanza del porsel” di Sant’Antonio o porsel de le anime. Una volta era il
parroco che provvedeva a farlo “copar”proprio in questo giorno o subito dopo, a seconda
del tempo; fatti gli insaccati di rito, ma della bestia non si buttava nulla nemmeno il pel, una
parte del suo grasso veniva conservata e dopo una benedizione particolare, serviva per la
cura del “fogo di Sant’Antonio”. Dal dopoguerra invece il porsel costituiva il primo premio
di una lotteria il cui ricavato andava per le opere parrocchiali, a discrezione del parroco.
Da alcuni ricordi fu proprio don Duilio che, benedetto il maialino, lo liberò per la
strada in gennaio, il giorno di Sant’Antonio. La bestiola girava casa per casa, da qui è nato
il detto “te son come el porsel de Sant’Antonio” riferito a chi va sempre in giro, e la gente aveva l’obbligo di nutrirlo senza disturbarlo. Per una strana conoscenza geografica, il
maialino non usciva mai dai confini stabiliti dai due capitelli: quello di San Floriano, (una
97
Archivio dei ricordi
volta San Michele) posto all’ingresso di via Udine all’incrocio con viale Pordenone e quello dedicato alla Madonna del Rosario situato all’uscita del paese nella terra dei Celant.
Entrambi i capitelli sono stati abbattuti nel 1953 per l’ampliamento della strada. In
cambio, la Parrocchia di San Giovanni Battista ebbe, dall’allora sindaco Angelo Furlan,
il fabbricato delle vecchie scuole, l’attuale oratorio, che venne restaurato da Giuseppe
Fantin, Augusto Celant, Abele Liut, Piero Infanti, Enrico Vidal, Umberto Furlan “Pin”
ed altri di cui non sono stati trovati i nomi, mentre i serramenti, pagati dal comune, furono
opera di Enrico Morettin.
Ma a Sant’Andrea si uccidevano più “rasse” che oche, queste ultime dopo averle
“imbocconae” con grani di biava messi a mollo nell’acqua perché potessero scivolare
meglio nel “cantarel”. L’anatra era un altro animale da cortile destinato più alle onoranze padronali che alla sopravvivenza invernale della famiglia che poteva contare solo sul
maiale per sfamare l’esercito dei “fioi”. Quando le cose cambiarono, ed anche il contadino riuscì ad alzare la testa, qualche oca rimaneva nella dispensa di famiglia e dopo averla
uccisa e sezionata, le carni venivano cotte e conservate sotto il loro stesso grasso.
Ma questo era soprattutto il periodo del “pursiter”, che giustificava l’assenza da
scuola per quel giorno, dello “stamp de i salami”; ciò consisteva nel mandare il più
ingenuo a casa di un vicino in precedenza avvisato, per prelevare l’arnese e il povero
si ritrovava a portare quattro pesanti mattoni chiusi in un sacco, suscitando l’ilarità dei
presenti: “Svejabaucchi”gli dicevano. All’epoca era norcino Ugelmo Fantin che passò il
testimone a Giovanni Sartori per anni rimasto il “Pursiter” per eccellenza, richiesto da
tutte le famiglie di Settimo. Il suo impegno iniziava poco dopo San Martin e si concludeva
nei giorni che precedevano la Settimana Santa. Anche Giuseppe Anese “Bepi” ha avuto
un ruolo importante nella norcineria settimina, ricercato per quel suo saper fare simpatico
e comunicativo, molto spesso sanguigno, una dote che l’ha portato a confrontarsi senza timore in indimenticabili scontri con i blasonati “capoccioni”di palazzo, ricoprendo inoltre
la carica di presidente della latteria che ha saputo rivestire con capacità e maestria.
2 Dicembre. Santa Bibiana
Giorno indicatore per eccellenza della meteorologia contadina perché “se piove a
Santa Bibiana piove quaranta dì ed una settimana”, viceversa se fa bel tempo.
Inizia la famosa “quarantìa” (40 giorni) di Santa Bibiana che termina il 12 gennaio,
ma può durare anche fino al 20. Festeggiata la Madonna Immacolata dell’8 dicembre,
ecco al 13 Santa Lucia, protettrice della vista. Insieme a San Nicola in alcune famiglie,
era affidato ai due Santi il compito di portare qualche regalo ai bambini che dovevano
però andare a letto presto e dormire per non rischiare di ricevere la sabbia negli occhi. La
mattina dopo ai più bravi, un’arancia, qualche mandarino, “carobole e stracaganase”.
98
Archivio dei ricordi
24 Dicembre. La Vigilia, se magna de magro (come sempre)
Per eccellenza il giorno più importante per la religiosità della gente cattolica in generale, ma particolarmente più sentita da quella semplice dei campi che aveva l’usanza di
procurarsi un grosso ceppo detto appunto “nadalin”, preparato per tempo, che una volta
messo sul focolare doveva ardere dalla sera della vigilia fino a tutto il giorno di Natale.
Nella famiglia Toffolon è ancora viva l’usanza di riservare una parte del ceppo con le
cui “bronse” accendere la Casera del 5 gennaio. Sulla tavola della vigilia, rigorosamente
rispettata da tutti, “bigui co ’e sardee”, fagioli con aglio e prezzemolo, polenta tanta e
baccalà poco, e si aspettava la mezzanotte bevendo vin brulè, giocando a carte nella stalla,
l’unico locale riscaldato a dovere, da dove poi si partiva in gruppo per andare alla Santa
Messa durante la quale si consolidava sempre più l’attaccamento alla religione ed alle tradizioni e tutto veniva fatto in funzione di Qualcuno o qualcosa che, al di sopra di tutti, avrebbe
potuto dare quella protezione e quell’aiuto che in terra al “poro can” nessuno avrebbe dato
anzi “chi che nasse desgrasià, ghe pioverà sempre sul cul anca a star sentà”. Si cantavano
le nenie natalizie davanti al Presepe o all’albero di Natale, imbastito alla meglio su un
“canton” della cucina, e si guardava al domani con maggior fiducia.
“Era molto più freddo di oggi, l’unica fonte di calore proveniva dalla stalla e dal fogher quando c’era legna da ardere, ricorda Bepi Fantin, non c’era abbondanza di nulla anzi
tutt’altro, ma la vita a quei tempi era contrassegnata da momenti così intensi di significato
che, per chi come me li ha vissuti, la trasformazione non è riuscita a cancellare. Oggi non
manca nulla, ma le parole sono superflue, non c’è più dialogo se non attraverso le macchine, i computer, i giovani corrono, i vecchi ansimano, le nonne non possono più raccontare
le favole, sono tramontate anche loro, sostituite da un pulsante su un computer. L’anziano
oggi è un peso, una volta era lo scrigno del sapere, della conoscenza, di vita vissuta”.
25 Dicembre. Natale
Una giornata che si trascorreva in casa, ognuno con la propria famiglia con il detto
“Natale con i tuoi Pasqua con chi vuoi”. Le visite ad amici e parenti erano rimandate al
giorno dopo, quello di Santo Stefano. I più piccoli si alzavano presto perché la nascita di
Gesù Bambino significava qualche piccola strenna, sempre poche cose, ma in una miseria
stabile anche la possibilità di sbucciare e mangiare un mandarino poteva significare un
momento di particolare gioia. “Ci accontentavamo di poco, ricorda Maria Basso, anche
perché era poco per tutti”.
Ultimo e primo giorno dell’anno. Notte di San Silvestro
Solo i grandi rimanevano alzati almeno fino a mezzanotte, si ritrovavano nelle stalle
più spaziose, giocavano alle carte, a tombola, bevevano vino e mangiavano qualche frutta
99
Archivio dei ricordi
secca in attesa dell’arrivo dell’anno nuovo. I piccoli a letto presto perché sarebbe passato
“l’oselut” dispensatore di regali che, anche se sempre magri oltre che uguali, avevano il
sapore di un premio per i più bravi: i soliti bagigi, stracaganasse, carobole, fichi secchi,
e soprattutto mandarini, perché essendo più piccoli delle arance si accontentavano più
bambini. La mattina del primo gennaio, di solito un freddo terribile, si andava per le case
ad augurar buon anno. I più ardimentosi lo cantavano: “Sen vignui agurar bon anno, mile
anni de felicità, prima al capo dea fameja e po’ a tutta la società”. Una fortuna ricevere
qualche centesimo, il più delle volte le solite stracaganasse, carobole, qualche fetta di un
dolce povero fatto in casa, cucinato sotto le “bronse” del fogher o nel forno dello “spoler”; la stufa economica che rivoluzionò il “riscaldamento” della cucina, non era ancora
giunta a Settimo, vi arriverà dopo gli anni trenta. Era considerato un anno sfortunato se i
primi auguri era una donna a porgerli, ecco perchè evitavano di uscire di casa.
Le “calendre” di gennaio, è il periodo compreso dall’1 al 24 ed i giorni venivano
detti “endegari” indicatori del tempo per tutto l’anno. La prima fase “calante”termina il
12 con la quarantìa di Santa Bibiana ( 2 dicembre) ed il 13 inizia il periodo “crescente”.
E qui servirebbe un altro libro per spiegare le interpretazioni della meteorologia contadina, con San Paolo dei segni e con Sant’Antonio che insieme a San Biagio e San Valentin,
sono chiamati i Santi Forti, capaci di portare grandi nevicate e freddo intenso.
5 Gennaio. La Casera e Pasqua Epifania che tutte le feste se porta via
Si raccoglievano sterpi, legna scarta, guai toccare la buona, rovi, canne di granoturco
e si faceva una catasta ammucchiando il tutto intorno ad un “pal de cassia” o di qualsiasi
altro legno, (un riferimento all’antica sacra quercia che usavano i Celti, così come celtica
è l’usanza della notte del 30 aprile), con una croce in cima o un fantoccio ad impersonare
la “vecia”, quella miseria che le fiamme dovevano distruggere. Nel pomeriggio in chiesa
il parroco procedeva alla benedizione dell’acqua, del sale e delle mele il cui consumo
seguiva un rituale ben preciso: la stessa sera si usava il sale nel mangiare degli uomini
ed una “presina de sal” anche in quello delle bestie in stalla. Le mele invece dovevano
essere conservate fino al 3 febbraio, giorno di San Biagio, protettore dei mali della gola
e mangiate la mattina a digiuno. Se rimaneva il torsolo, non si doveva gettare per nessun
motivo, ma darlo agli animali o gettarlo nel fuoco, come d’altronde si usava fare, ma lo si
fa tuttora, con le immagini dei Santi.
L’acqua invece veniva messa nelle “pinele”, ai lati del letto, per segnarsi la mattina
e la sera quando ci si coricava, recitando il Pater Noster picinin” seguito da l’Ave Maria
che a Settimo, ma c’era qualche variante, recitava così. “Pater Noster picinin, su l’altar
xè l’oselin, l’oselin el gera verto e San Piero discoverto. Varda in qua varda in là, varda
quela finestrella, ghe xè ‘na colomba bianca e bela. Cosa la gà in beco: ‘na bronsa de
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fogo benedetto. Ne casca ’na giossa su quela piera rossa, piera rossa s’ciopetava, tuto il
mondo illuminava. Illuminava Santa Maria, co’ tre angeli in compagnia, un Batista ed un
Lorenzo, ch’el portava bon incenso. Aqua de mar, pomolo de l’altar, beata quell’anema
che la pol imparar”.
Seguiva l’Ave Maria: “Ave Maria picinina, ricordeve a la matina, ricordeve de ben
far, ricordeve el digiunar, e d’andar a la pileta per tor l’aqua benedetta, per bagnar le
man e il viso, per andar in Paradiso. Paradiso è bela cosa, chi ghe va sempre riposa, a
l’inferno è mala gente, chi ghe va, ghe va per sempre”.
Appena calato il sole si dava fuoco alla casera ed anche in questa occasione il rituale
era un connubio tra sacro e profano; un rituale comunque che ha resistito nel tempo e
viene ancor oggi seguito e rispettato quasi integralmente dalla Famiglia Toffolon Dorino,
e dal fratello Felice quando era ancora in vita, autentici Templari di questa tradizione.
Il più anziano aspergeva di acqua benedetta il cumulo di legna, mentre il più giovane
provvedeva ad appiccare il fuoco, prelevato dal “nadalin” il ceppo conservato in parte
a la “mare del fogo” e mentre le fiamme si levavano alte, i presenti usavano emettere le
“ucciade”, grida che avrebbero avuto il potere, secondo la credenza, di scacciare tutti quei
problemi che avevano resistito ai “botti col carburo” dell’ultimo dell’anno. Da una parte
le donne recitavano preghiere e litanie, mentre gli uomini davanti al fuoco lanciavano in
aria con la forca le canne ridotte ormai a “bronse” “sigando”: “tanta ua, tanti fasioi,
tanto frumento, tanta polenta tanta galeta e pan e vin, tanti morosi per ed aggiungevano
il nome della bella di turno”. I più anziani osservavano la direzione che prendeva il fumo
ed emettevano con aria solenne le loro previsioni: “se il fum el va in marina t’impinisse
el graner de farina, ma se va al Garbin…” qui si fermavano sospirando ed aggiungendo
sottovoce, “tempesta sicura”.
Le donne della famiglia Toffolon, riportavano una parte delle “bronse dea Casera sul
fogher” perché avrebbero portato fortuna per le prime covate delle “coche”. Si mangiava pinsa, il dolce povero per eccellenza, fatto con la farina della polenta e qualche “figo
e gran de ua” che i “scrunciava” sotto i denti, si beveva vin brulè e qualche “bicer de
graspa de fosso”. La mattina presto gli anziani giravano nei campi e usavano benedire le
capezzagne con un “scovet” bagnato con l’acqua benedetta il giorno prima, recitando una
breve preghiera che avrebbe favorito il raccolto, in quanto sotto la coltre di neve, a quei
tempi “nevegava ben” ricorda Maria Basso, riposava il frumento ed il granoturco.
17 Gennaio. Sant’Antonio del porsel e de la barba bianca se no nevega poco ghe manca
“Festa granda, ricorda Danilo Zorzi, se non c’era brutto tempo, noi che se abitava
vicino alla chiesa, se portava fora le bestie per la benedizione, e chi abitea lontan da la
ciesa, portava “na branca de fien” che poi dea da magnar a la bovaria in stala”. Il parro101
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co impartiva la benedizione anche al maialino che veniva poi liberato per le strade, come
abbiamo già ricordato il 30 novembre, giorno di Sant’Andrea. Nel suo girovagare, aveva
però uno o due luoghi dove trascorrere la notte. Uno viene ricordato da Bepi Fantin, tra il
muretto e la siepe della famiglia Sartori, a pochi metri dalla chiesa.
21 Gennaio. Sant’Agnese de le putele
Era la festa delle giovani ragazze che in questo giorno si ritrovavano in chiesa per
chiedere alla Santa protezione ed aiuto nel trovare un buon partito. A Settimo era una
giornata di festa particolarmente rispettata e non era difficile avere una bella giornata tanto che insieme a San Sebastiano il 20 e Sant’Agnese il 21, si diceva “la piccola estate dei
Santi freddi”, per ritornare subito il giorno dopo con San Vincenzo della gran freddura.
25 Gennaio. San Paolo dei segni, San Pauli scur, pan e vin sigur
Questo giorno era particolarmente tenuto in considerazione in quanto il tempo di
San Paolo chiamato appunto de i segni, delle previsioni, dava le indicazioni per tutto
l’anno agricolo. Ci sono solo lontani ricordi dell’antica usanza di mettere a terra dodici
cipolle, una per ogni mese dell’anno, con qualche “gran de sal grosso de sora”; se si
squagliava sarebbe stato un mese di pioggia, se invece il sale rimaneva asciutto un periodo di bel tempo.
29/30/31 Gennaio. I giorni de la merla
“I merli i xè nel camin e i ghe resterà par un tochetin” a significare che questi erano i
giorni “de la mèrla”, di gran freddo, e nelle serate di filò nella stalla le nonne raccontavano
ai piccoli la leggenda a tante versioni dei merli che da bianchi diventarono neri perché
per tre giorni, tanto tempo fa, non furono nemmeno in grado di volare per il gran freddo.
Rimasero al riparo di un camino dal quale usciva il fumo che annerì le loro piume e da
quel giorno diventarono neri.
2 Febbraio. La Madonna Candelora la zeriola
Candelora, candelora de l’inverno semo fora, ma se piove e tira vento de l’inverno
semo dentro, ma se’l sol scalda le prese ghe n’avemo par un mese, però se tira un fià de
bora, co’ tre salti ’ndemo fora”. Ci si recava in chiesa a prendere la candele benedette che
venivano appese ai lati del letto, sopra le “pinele”per scacciare le malattie e favorire una
morte dolce. Venivano accese in occasione dei brutti temporali estivi di una volta per esor102
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cizzarli, ed in quelli più forti si bruciava con
la fiamma della “zeriola” le foglie dell’ulivo, affinchè non cadesse la grandine.
3 Febbraio. San Biagio.
Ultimo barbon mercante di neve
Cave del Palù ghiacciate (si pattina).
La mattina a digiuno, a protezione della
gola di cui San Biagio è protettore, dopo la
preghiera di ringraziamento per aver superato la notte, si baciava la mela benedetta
la vigilia dell’Epifania, se la mangiava con
devozione, ma lo si fa ancora oggi, ed in
caso, peraltro molto raro, che non venisse
mangiata tutta, la si portava da mangiare ai
conigli o se la gettava tra le fiamme del “fogher”, mai gettata via. Nell’ora della messa
ci si recava in chiesa dove il parroco, impartiva la benedizione della gola con le candele incrociate appoggiate sul collo, una volta
erano quelle della Candelora, oggi con due
grossi ceri.
11 Febbraio. Festa de la Madonna di Lourdes, Ritorno e festa degli emigranti
Settimo è stato un paese che, come tanti altri, ha conosciuto una forte emigrazione
anche oltre oceano a metà del 1800; Brasile, Argentina, Venezuela, Canadà e solo nel
dopoguerra Belgio, Svizzera, Francia. Nei paesi europei la maggior parte degli emigranti
di Settimo erano quasi tutti stagionali, impiegati cioè nel ramo dell’edilizia e quindi con
contratto a termine che scadeva ogni anno ai primi freddi, quando il cantiere edile veniva
chiuso perché era impossibile lavorare e rinnovato poi per l’anno successivo.
Fino al 1966, la parrocchia ha organizzato la loro festa in questa ricorrenza della
Madonna di Lourdes, poi in considerazione che molti stavano rientrando per sempre in
paese, che l’economia era in continua crescita, che posti di lavoro se ne trovavano anche
qua, la festa dell’emigrante è stata spostata in occasione dei Festeggiamenti di San Giovanni Battista a giugno.
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14 Febbraio. San Valentin metà caneva e metà fienil
Protettore del mal caduto o epilessia. Degli innamorati lo hanno fatto i commercianti
In questo giorno, per invocare la protezione del Santo su questo tipo di malattia all’epoca
abbastanza comune, le donne di casa facevano il pane ed un panetto lo portavano a benedire in chiesa, convinte che in caso di necessità avrebbe aiutato il malcapitato colpito a
superare le difficoltà. Si usava dire “San Valentin sghirlando, quaranta dì al so comando,
se no venta chel dì, quaranta dì de pì”.
Carneval. Ogni scherzo val. A frisse col stec
C’era l’usanza di mascherarsi senza grandi pretese, un po’ di fuliggine, un vecchio
vestito e l’atmosfera trasgressiva e magica era subito creata. I più anziani non hanno
ricordi di grandi mascherate, erano gli anni della miseria e non c’era grande libertà nemmeno tra i grandi preoccupati più per procurare il mangiare per il giorno dopo che per il
divertimento. A Settimo c’erano loro, gli inseparabili compagni di scherzi e burle: Luciano Cesco, Danilo Zorzi, Giovanni Rigo “Ninuti”, Amleto Gobat, Benito Valvasori, Enzo
Liut, Cesare Zorzi “Nineto”, Antonio Berlato. Era sempre Luciano Cesco ad organizzare
e condurre il carro trainato da cavalli, ricorda Danilo Zorzi, noi ci vestivano “co quattro
strasse”e si andava in giro per le case cantando e suonando la fisarmonica. A fine della
mascherata avevamo raccolto un paio di damigiane di vino che poi se lo beveva tutti insieme in varie occasioni. Il giovedì grasso in casa si mangiava la gallina perché si diceva
che: Se no te magna la gialina a carnaval, te la magnerà par mal.
Quaresima. Le Ceneri
Di regola digiuno e astinenza, dopo “l’abbondanza” del carnevale. Fatta la pulizia
della camera con le “scoasse” portate fuori dal “confin” perché non venissero i pidocchi,
si andava in chiesa per l’imposizione delle Ceneri. La scarsità di cibo si accentuava in
questo periodo, chiamando a giustificazione le regole religiose che imponevano il digiuno; l’obesità dei bambini era inesistente. Solo le preghiere erano abbondanti.
Marzo. Cul al sol
Avere la pelle abbronzata era sinonimo di gente di campagna, obbligata a lavorare la
terra sotto il sole, per questo le giovani donne delle famiglie contadine avevano l’usanza
di chiudersi in camera, aprire la finestra e mostrare il “cul” al sole nascente di Marzo recitando: Mars si, mars no, vardame el cul ma il mustas no, a significare che il sol avrebbe
potuto abbronzare quella parte anatomica del corpo ma non il viso. “Mia zia Veronica,
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ricorda Bepi Fantin, celebrava questo vecchio rituale girando intorno all’orto di casa”.
Al 19 ricorreva San Giuseppe, padre putativo del Signore, festa grande con Santa Messa
cantata perché protettore per la buona morte, chi non ricorda la giaculatoria prima di coricarsi: “Gesù, Giuseppe e Maria ve raccomando il cuore e l’anima mia”. In questo giorno
la “sisila la passa il tet” mentre al 21, giorno di San Benedetto (il nuovo calendario lo
festeggia però all’11 di luglio e forse per questo che le sisile no se ritrova) la rondine è
già sotto il tetto per iniziare la ristrutturazione del vecchio nido e ricominciare il ciclo
inarrestabile della prosecuzione della specie.
Ed iniziavano anche i lavori nella campagna, si piantavano le patate, le bietole e se il
tempo lo consentiva s’iniziava con lo zappino per smuovere la terra..
Aprile. Ad april fiorisse anca el manego del badil
In questo mese la campagna era in fermento ed i lavori in grande ripresa, dimenticate
le sere d’inverno trascorse a far filò nella stalla.
Non viene persa di vista la quaresima con relativa astinenza sempre troppo lunga, che
faceva invocare l’arrivo delle feste pasquali più per colmare quel vuoto che premeva sullo
stomaco che per il desiderio di riposo vero e proprio anche perché, le vacche le faceva
latte anche il giorno di Pasqua quindi era necessario mungerle e governarle.
Prima della settimana Santa, iniziavano le grandi pulizie di primavera: si faceva la
lissia, si lavavano a fondo i pavimenti, mobili e quant’altro. “Se lustravano le cadene del
fogher, ricorda Danilo Zorzi, ma anche i pie perché se le strascinava su par la gera e no
se podeva rovinar scarpe o socui per quel lavoro. Diese centesimi a cadena, venti per il
capezal del fogher, oppure vovi colorai”.
Con la domenica delle Palme, inizia ancora oggi, la Settimana Santa; ci si recava in chiesa per l’ulivo benedetto che veniva appeso sopra l’ingresso principale della
casa, ed un altro rametto, sopra l’entrata posteriore o una finestra perché non entrassero
disgrazie. Più di qualche famiglia però, usava appenderlo sulla crocetta dell’olmo per
proteggere il raccolto dalla grandine. Il lunedì iniziavano le quarant’ore di preghiera e di
adorazione fino al Gloria del Giovedì Santo, quando venivano “legate” le campane che
avrebbero fatto risentire il loro suono gioioso solo il Sabato Santo, giorno della Resurrezione di Cristo. Durante le prime tre sere della Settimana Santa, si recitava il mattutino
del giorno successivo, composto da nove salmi e tre letture.
Il Venerdì Santo, dalle 15 pomeridiane, che ricordavano la morte di Gesù Cristo, ci
si recava a baciare la croce deposta ai piedi dell’altare, e la sera, nel corso della Via Crucis, non c’era famiglia che non avesse provveduto ad illuminare finestre e balconi, con
vasetti di creta contenenti olio e stoppino, sostituiti poi con lumini e candele, lungo tutto
il tragitto coperto dalla processione. Durante la funzione religiosa in chiesa, al termine di
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ogni salmo, veniva spenta una candela ed alla conclusione della celebrazione, tutte le luci.
A questo punto iniziava il concerto delle “crassole”, ma guai a cominciarlo prima che l’ultima candela non fosse spenta.
E qui Danilo ed i suoi compagni, mettevano in atto i dispetti. “Ci portavamo chiodi
e martello e durante la confusione che noi aiutavamo a far aumentare, battendo anche gli
zoccoli conto i banchi in legno, inchiodavamo i “tabari” dei più anziani e qualche volta
siamo riusciti anche con gli zoccoli, quelli più consumati. Uno spasso per noi ragazzini,
ma guai a farsi scoprire, erano dolori”. Il giorno dopo, Sabato Santo, il parroco benediva
il fuoco e l’acqua, poi sciolte le campane al Gloria, ci si bagnava gli occhi con l’acqua
benedetta a protezione della vista. “Il giorno di Pasqua, focacce e uova colorate e dopo
il pranzo più ricco del solito con gallina in brodo o pollo in tecia, ricorda Danilo Zorzi, i
giovani sullo spiazzo erboso del Palù,si divertivano a lanciare le uova lesse in aria, chiamando chi avrebbe dovuto prenderle al volo”.
E si giunge al 25 Aprile, San Marco giorno in cui si usava fare la prima delle quattro
rogazioni, le altre tre nei giorni precedenti l’Ascensione). Ci si recava poi sugli argini del
canal, mai sui prati per non rovinare il taglio dell’erba. Frittata con il salame, oltre a formaggio e vino ed alla prima insalatina dell’orto. Ma nei campi, al detto che ogni erba che
“varda in su la g’ha la so’ virtù”, le donne raccoglievano bruscandoi, rece de lievro, radicele; lessate e passate in “farsora” erano una valida alternativa ed in più facevano bene
alla salute, soprattutto al “figà” ha sentenziato Bepi Fantin, perché lo depurava, anche se
a - quei tempi non era proprio tanto “ingolfà”.
30 Aprile - 1 Maggio. La notte di Walpurga
I maghi burloni di Settimo hanno mantenuto viva questa tradizione fino a pochi anni
fa ed era, insieme a Sarone di Caneva, l’unico paese veneto dove si celebrava questo rito,
considerato fastidioso dalle persone colpite per questo ancor più temuto. Anticamente questa era la notte, insieme a quella del 2 febbraio e del primo agosto, in cui si teneva il sabba e
le streghe banchettavano in piazza con il diavolo, tra urla e grida di terrore delle vittime.
Chiaramente con il tempo gli ingredienti sono cambiati e le vittime sacrificali sono
tutta una serie di attrezzature, fioraie, cancelli e porte, sottratti nottetempo a quelle persone che non rientravano nelle simpatie dei maghi.
Era un’organizzazione complessa, in quanto per far colpo e far credere che in qualche
modo qualcosa di magico fosse realmente accaduto, quanto veniva sottratto era sempre
qualcosa di grosso, voluminoso, pesante che veniva poi appeso a qualche albero, soprattutto al grosso “morer” di via Treviso, e l’operazione richiedeva l’uso di sollevatori,
magari sottratti anche quelli. A proprie spese i legittimi proprietari avrebbero potuto riprendersi il maltolto, il giorno dopo 1° maggio, con relative benedizioni nei confronti de106
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gli ignoti autori. Questa festa dei
burloni, era contemplata negli
antichi riti con cui i Celti festeggiavano, nella notte dei tempi, il
risveglio della primavera. Come
sia giunta a Settimo è un mistero
che non si è riusciti mai a chiarire. Ma questa era anche la notte
dei simboli correlati a particolari
“riconoscimenti”: davanti alla
porta di una ragazza chiacchierona una foglia di aro o “lengua
I maghi burloni, in basso: Cesare e Danilo Zorzi, Enzo Liut.
In alto: Benito Valvassori, Giovanni Rigo e Amleto Gobat.
de vaca”; per le fanciulle facili,
una “forcada de fien o erba medica”; per quelle smorfiose “grassa” (letame); a quelle
famiglie che tenevano le ragazze rinchiuse in casa spariva “el portel de l’orto”.
Purtroppo anche le tradizioni finiscono per essere stravolte, qualche mago ha deviato
dalle regole canoniche ed a causa di questi comportamenti è sfumato lo spirito celtico della
notte di Walpurga, una notte da sogno, inserita del Faust di Goethe e da qualche anno a
Settimo non viene più celebrata. Santa Walpurga era una monaca anglosassone, Badessa
del monastero di Heidenheim da dove nell’871 le sue reliquie furono traslate ad Eichstadt,
sede di un’abbazia a lei dedicata. In epoca cristiana, si cominciò a dedicare la notte del sortilegio a riti propiziatori, elevando la Santa Walpurga a protettrice contro le arti magiche.
Maggio. Se piove su la Crose, (la vigilia dell’Ascensione) bon el gran trista la nose,
ma se lo fa su la Sensa, tanta paia e poca semensa
In questo periodo inizia il tempo dei “cavalieri” i bachi da seta. Se ne acquistavano le
uova perché costavano meno, e le donne più “fornite”, per facilitarne la schiusa, le tenevano al caldo nel petto, avvolte in un piccolo telo bianco. A Settimo una donna è riuscita a
“covare” tre uova che l’oca aveva abbandonato un paio di giorni prima della schiusa. Si è
messa in letto tenendoli al caldo, riuscendo a far nascere i tre “ochi”, suscitando l’ilarità
per la trovata, ma l’ammirazione per la riuscita.
La maggior parte delle famiglie che facevano questa coltura dei bachi da seta, si riforniva presso la Cooperativa Agricola di Villotta, mentre i mezzadri dovevano recarsi invece dal “paron” che provvedeva a consegnarli loro in soccida, cioè lui metteva i bachi e
la foglia, il mezzadro il lavoro, garantendosi metà del ricavato netto. La raccolta della foglia avveniva almeno due volte al giorno, anche per prevenire giorni di maltempo; infatti
se conservata in luoghi freschi e non ventilati, resisteva almeno tre giorni. Si tagliavano i
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rami raccogliendoli in fascine che si caricavano sul carro trainato dai buoi e chi non aveva
gelsi di proprietà, doveva comperare la foglia anche fuori paese, visto che ogni famiglia
a quei tempi, aveva di queste colture. Per far capire l’importanza dei gelsi, basti pensare
che un campo con “moreri” valeva il doppio di uno senza, considerando poi il fatto che
servivano come sostegno alla vite.
L’oncia, circa trenta grammi, era l’unità di misura dei bachi ed ogni famiglia ne
acquistava in proporzione alle braccia disponibili per preparare la foglia che, per i primi
giorni veniva tagliata con la “britola” come il “patuss pa’i ochi” e somministrata ogni
tre ore, dalle cinque della mattina, alle dieci della sera. Più dura per i mezzadri che avevano invece l’obbligo di procedere ininterrottamente all’alimentazione dei bachi, giorno
e notte, per facilitarne una maturazione anticipata e quindi ogni momento della giornata
era dedicato a questa attività.
Dopo la prima “durmia”, si provvedeva alla loro divisione, si aumentava il numero
delle “grisiole”, e si nutrivano i bachi con una foglia tagliata più grossolanamente col
“tasson”. Avanti così fino alla quarta ed ultima “muda”, quando le “grisiole”, ad impalcature di cinque o sei, avevano invaso ormai ogni spazio libero della casa. Iniziavano
i giorni della frenesia alimentare e sui graticci venivano distribuiti quintali di foglia che
coprivano l’intera colonia dei bachi, ma, data la loro rumorosa voracità, il tutto spariva in
poco tempo. Diventavano sempre più grossi e lucidi, e quando erano ormai prossimi alla
filatura, si mettevano ricci di paglia o frasche di salice secche che, essendo più ramificate,
consentivano ai bachi una migliore distribuzione per costruirsi il bozzolo. Quando anche
gli ultimi avevano fatto il bozzolo, si toglievano dalle frasche uno alla volta e si passavano
nello “spelagnador”, un attrezzo che girato a mano li ripuliva delle impurità, la “spelagna” appunto che comunque veniva conservata.
Si riempivano sacchi da 25 chili che erano consegnati alla stessa cooperativa e da qui,
dopo il passaggio all’essiccatoio, prendevano la via della filanda. Per ogni oncia di uova
si consegnavano 85/90 chili di bozzoli. L’importante per questa coltura era la temperatura
costante che doveva mantenersi sempre sopra i venti gradi, per il corretto sviluppo del
baco. Molto temute erano le formiche ed i topi, ma soprattutto le variazioni climatiche
di questo periodo che passava come “l’inverno dei cavalieri”, un calo della temperatura
avrebbe potuto rovinare l’intera coltura.
Le donne della famiglia contadina, visto che proprio su di esse gravava l’onere maggiore della coltivazione, fantasticavano su quello che avrebbero potuto fare con i proventi
del raccolto dei bozzoli, prima ed unica fonte di denaro liquido che entrava nelle loro
famiglie. Gli scarti non commerciabili, come le “falope”, i doppioni, le “bavele” e la
“spelagna”, venivano fatti bollire, ed eliminata la crisalide, si mettevano ad asciugare per
essere poi dipanati ed i batuffoli ottenuti filati con il fuso o la “gorleta”. Si facevano calze
e maglie, poi fatte bollire in una capiente “caldiera” dove in precedenza era stata sciolta
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la tinta desiderata che non offriva molte scelte: rosso bordeaux o bleu scuro. “Mi ricordo
di averne fatti molti sia per i miei fratelli che per Aldo, ricorda la Maria Basso, e quando
gli ho regalato un paio di calzettoni ho tenuto a precisare che erano stati fatti con le mie
mani. Benedetta gioventù, ci accontentavamo di poco, ma pieno di significato”.
Ma Maggio è uno dei mesi in cui si aveva una ricca liturgia interamente dedicata
alla Madonna; nelle famiglie contadine, dopo la frugale cena serale, si usava girare la
sedia per inginocchiarsi e recitare il fioretto che altro non era che il Rosario con le litanie
Lauretane. I bambini dovevano fare la loro buona azione quotidiana: ubbidire agli ordini,
aiutare i grandi, rinunciare a qualche piccolo desiderio. “Pensa che de zioba vien sempre
la Sensa”, si mangiava “el lingual co’i primi bisi” e nei tre giorni che la precedevano si
facevano le rogazioni, processioni penitenziali di propiziazione per l’agricoltura.
Subito dopo il suono dell’Ave Maria, i fedeli si ritrovavano davanti la chiesa di San
Giovanni Battista, oppure ai due capitelli quello di San Floriano o l’altro della Madonna,
da dove poi partiva la processione che, cercando di estendere la benedizione ovunque,
effettuava degli ampi giri verso il Palù, il Melon e la Boschetta. Durante la processione
si usava piantare, parroco don Ernesto Linguanotto, una piccola croce sull’olmo di ogni
“stradon grando” per implorare protezione contro le disgrazie del tempo; fermata ad
ogni incrocio, benedicendo ed implorando grazie, mentre i fedeli cantavano le litanie dei
Santi, concludendo la preghiera con “a fulmine et tempestate libera nos Domine”.
Giugno. La falce in pugno, ma mai scuminziar de venere
Passata la festa del Corpus Domini con la “procession granda” con la strada coperta
di petali di fiori, con un salto si è San Giovanni Battista, patrono del paese. Una volta in
questa ricorrenza si teneva una grande sagra con giostre, bancarelle ed altre attrazioni poi
quasi scomparsa del tutto fino a quando nel 1978 ritornò alla grande grazie all’Unione
Sportiva di cui parleremo con un capitolo a parte.
La vigilia di San Giovanni le donne raccoglievano non solo erbe odorose che lasciate
alla rugiada contribuivano a mantenere la pelle giovane, ma la mattina dopo, anche le erbe
officinali, prime fra tutte la camomilla, pianta considerata la panacea di tutti i mali, che
cresceva rigogliosa nei prati stabili e le noci per il nocino; la trasgressione alcolica con la
“graspa”. Più di qualche famiglia usava esporre le coperte di lana per farle bagnare dalla rugiada contro le tarme, così come per l’aglio e le cipolle che sarebbero durate più a lungo.
Ma la Chiesa di San Giovanni detiene un primato: da tempo immemorabile si celebra ancora oggi una messa in onore di Santa Eurosia, protettrice dei frutti della terra. È
l’unica celebrazione che si tiene in tutta la Diocesi di Concordia Pordenone.
Questo era il periodo buono per gli appassionati di pesca; i primi temporali che portavano le “bisate” a muoversi e finire nei “bertoveli”, la scuola era ormai terminata ed i
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più scaltri si cimentavano nella loro cattura.
“Il Palù era la nostra zona di caccia e pesca,
ricorda Daniel Missana, ma pochi battevano me e l’amico Enzo Valvassori, all’epoca
avevamo dodici anni, eravamo dei fuìns.
Per una sigaretta a testa, ci arrampicavamo
sul grande albero alto almeno dodici metri,
ci tuffavamo in acqua e dal Canalut, al confine con Marignana, si arrivava a nuoto fino
alle bove del Mulin de Zadro, nudi come
vermi. Certi giorni eravamo un esercito de
fioi e quelli che non sapevano nuotare, venivano obbligati dai più grandi, ad imparare
in poche ore. Poi si giocava a cavalletta, a
sc’iavi, a crosago, tutti giochi che nessuno
fa più perché richiedono una certa prestanBenito Valvassori “coe bisate”.
za fisica”.
In questo mese nel mondo agricolo era anche il periodo dei grandi cambiamenti: si
prendeva possesso della “bovaria” e del foraggio per le bestie, correva l’obbligo di dare
il solfato al vigneto senza però vendemmiare, ma solo per garantirsi il raccolto successivo; in pratica si gettavano le basi per far sì che a San Martino, al momento di prendere
possesso della terra e della casa, tutto sarebbe stato già concordato.
La mietitura del grano, seppur iniziata in questo mese, dopo Sant’Antonio, si prolungava fino alla prima decade di luglio, quando si procedeva alla trebbiatura dei covoni
del grano accatastati sulla corte. Prima dell’arrivo della falciatrice meccanica trainata dai
buoi, la mietitura veniva fatta a mano, iniziando alle prime luci dell’alba per terminare
al tramonto. Normalmente si rispettava una pausa alle otto per la colazione ed a mezzogiorno per il pranzo portato sul campo dalle donne di casa. Con il suo arrivo le cose cambiarono, ma si doveva preparare la strada ai “bò”, per poi seguire la macchina e legare i
“mannolini” che venivano accatastati in croce con le spighe rivolte verso l’interno. Alla
trebbiatura grande festa, “se disnizava l’osacol” debitamente conservato per questa occasione e “se copava i poastri”.
Al 29 l’è San Pietro e Paolo, periodo di tempo incerto, di grandi temporali, di grandinate causate dalla “Mare de San Piero” che la “vigniva fora de casa” facendo un gran
clamore. I vecchi usavano prendere una caraffa con dentro l’acqua che era stata fuori
nella notte di San Giovanni e vi mettevano un uovo “sensa scorsa”; prima di mezzanotte
posavano la caraffa sull’erba e se al mattino dopo la chiara dell’uovo faceva le vele ed il
rosso prendeva la forma di una barca, sarebbe stato un anno buono.
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Archivio dei ricordi
Luglio. San Giacomo busiero, San Martin veritiero
Non c’erano grandi ricorrenze durante la stagione estiva, perciò tutto l’impegno era
per i raccolti, ma a San Giacomo (25 luglio), giusto a metà dell’anno produttivo, scadeva
la prima rata del canone o della mezzadria,si presentava la lista delle “onoranse” che,
anche se abolite nel 1947 con il Lodo De Gasperi, in questa zona hanno resistito fino a
non molti decenni fa e comprendevano: “caponi a Nadal, la brisiola co se copea el porsel
co’i figadei, vovi ogni mese ed a Pasqua se raddoppiava, galletti a San Piero, le rasse
per i Santi Morti ed in più spacar legne e netar vieri”. Non era facile mettersi d’accordo
sia per la valutazione dell’affitto della terra che sui criteri delle prestazioni gratuite come
quella appunto “de netar i vieri” e “spacar legne”.
Agosto. A la festa de sera, se ’ndava a la melonera
In questo mese si aprivano le prime “melonere”, angurie e meloni accompagnavano
un periodo particolarmente caldo che come il freddo oggi non è più quello di una volta.
A Settimo c’era quella di Giuseppe Doro, l’altra di Bepi Anese in via Basedat, un’altra
ancora molto frequentata era la “melonera” dei Basso in via Boschetta, dove si levavano
cori passati alla storia, in quanto quasi tutti i Basso erano e sono, la Maria ne è la conferma, degli ottimi cantori.
A fianco scorreva sempre un corso d’acqua che serviva per tenere le angurie ed i
meloni al fresco, tenuti sempre sotto controllo dal proprietario che a volte dormiva tra le
quattro “tole” e la panca del “cason”; il furto di angurie peraltro già raccolte erano una
tentazione. Una notte toccò proprio al cason dei Basso: fu dato alle fiamme da sconosciuti,
che rubarono anche le angurie ed i meloni. A quei tempi c’erano grandi mangiatori di angurie, ma pochi battevano Paolo Zorzi, mediatore, che ne aveva sempre una corposa scorta
in camera. Una volta, ricorda il nipote Danilo, ne mangiò 17 chili alla sagra di Villotta.
Era anche il tempo dei filò estivi, perciò la sera tutti fuori sotto il portego, seduti su
lunghe panche, i grandi a “contarsela”, i “putei” a “zogar”. Dopo l’Assunta, ci si preparava per i grandi raccolti di Settembre.
Settembre. L’ua è fatta ed il figo pende
Dopo l’ultimo sfalcio si raccoglievano le bietole, si preparavano i terreni per la semina, si cominciava la vendemmia che coinvolgeva tutta la famiglia ed anche i vicini. Una
volta si pigiava l’uva con i piedi nelle grandi “brente” sotto il portico, tra canti e suoni,
una poesia che oggi non si recita più, è tutto meccanizzato.
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Archivio dei ricordi
Ottobre. Cavessa curta guida anca ’na bovaria longa disea “Bullo” Basso
Con questo mese, dopo la Madonna del Rosario, si dà l’ultimo colpo alla vendemmia
del raboso, si comincia la raccolta del granoturco e si semina il frumento che come regola
recitava “per i Morti Santi il formento nei campi”. Ci si predisponeva per la ricorrenza dei
Santi e dei Morti, ma per quelle famiglie che avevano ricevuto la disdetta dalla campagna,
erano giorni di grave disagio perché si preparavano le misere cose da caricare sul carro ed
a lasciare la casa in ordine per far posto alla famiglia subentrante.
Novembre. Ai Santi i corvi lassa i monti e i vien sui campi
Il primo novembre era il capodanno agricolo per quelle famiglie che rimanevano sulla
campagna, i lavori nei campi erano terminati con la semina del frumento. Ma è anche la
ricorrenza più sentita durante la quale il mondo dei morti si mescola con quello dei vivi,
sia dal punto di vista religioso che sociale.
Le tombe dei propri defunti venivano, ma lo
sono ancora oggi, ripulite ed abbellite con fiori
e luminarie; nelle case si recitava il rosario, e la
tavola imbandita per la cena rimaneva apparecchiata senza togliere nulla, anzi in casa dei Basso e dei Fantin si aggiungevano anche quei cibi
che in vita erano stati particolarmente graditi dai
defunti di famiglia. “Non se scovava la cucina,
precisa la Bepa De Gasperi, mujer de Bepi Fantin, perché si sarebbero cacciate fuori le anime
dei morti. Non si toccava nulla, i piatti venivano
tolti e lavati il giorno dopo la ricorrenza”.
Il cibo di questa giornata era la minestra in
brodo, se “copava” la gallina.
La mattina in chiesa per le Sante Messe, mentre la processione del pomeriggio era per i morti ai quali ci si rivolgeva con affetto e rimpianto:
“Pare e mare giutéme”, una richiesta ritenuta
importante, dopo quella fatta ai Santi, per assicurarsi dei buoni raccolti. In questo giorno, oltre a Natale Brun.
lasciare la tavola apparecchiata, non “se distirava
la roba lavada”. Anche quella volta il tempo scorreva inesorabile, il 10 novembre era
la fine dell’anno agricolo ed era alle porte per chi doveva fare San Martin, a volte senza
sapere nemmeno la futura destinazione.
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Archivio dei ricordi
Un trasloco “da pori cani, un San Martin de strasse”, un giorno destinato a lasciare
un segno indimenticabile nelle famiglie di allora che potevano confidare solo sull’aiuto
del Santo che proprio in quei giorni concedeva qualche giorno di bel tempo, infatti “l’istadea de San Martin, la dura tre giorni e un tochetin”, giusto il tempo per sistemarsi.
Le famiglie che avevano avuto il rinnovo si predisponevano a brindare con castagne e
vin novo per ringraziare i Santi protettori, e predisponevano anima e corpo all’inizio delle
loro fatiche, comunque garanti di una sopravvivenza per un altro anno almeno.
El magnar de na volta, poc, come sempre
Una volta non c’era bisogno di tanta fantasia, gli ingredienti per le ricette erano sempre
quelli e quindi non c’era tanta differenza tra il pasto del mezzogiorno e quello della sera.
Tante uova, radicchio, erbe selvatiche, e maiale così ben ripartito al risparmio che la
fame restava sempre insoddisfatta, perché “el porsel” doveva durare un anno intero, da
un San Martin all’altro.
Una donna quindi doveva sapersi arrangiare con qualche soffritto per dare un po’ più
gusto alle minestre ed alle erbe, “’na frissa de lardo” una povera cosa, ma che aiutava a
mandar giù un piatto sempre misero e sempre
uguale, comunque da “companasar” perché
dice la Maria Basso, “la boca l’è un forno” e si
poteva rischiare di rimanere senza lardo, o polenta, ecco perché la donna di casa doveva saper
misurare ogni cosa per evitare che poi la famiglia avesse a soffrire.
Cose passate, difficili anche da credere, i
nipoti non immaginano nemmeno lontanamente
una realtà di vita come l’hanno vissuta i nonni,
quando alcune famiglie che vivevano in condizioni disagiate si facevano il caffè con quel che
restava dei grani dell’uva, seccati al sole e abbrustoliti velocemente, macinati e ridotti in polvere
da mettere nel “caldierin” dove bolliva l’acqua,
lasciando poi che si depositassero. “Andava meglio con il frumento tostato, ricorda Mario Celant, ma questo è stato possibile quando non avevamo più da contare i grani perché le cose stavano cambiando, allora aggiungevamo anche un
po’ di cicoria ed era una bevanda coi fiocchi”.
Giuseppe Anese “pursiter”.
Foto Giubilato
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Archivio dei ricordi
Era necessario saper amministrare la dispensa, il maiale a volte non rendeva tanto da
garantire il raggiungimento del prossimo, ed allora la donna di casa doveva ingegnarsi
con cipolle, aglio, verdura cotta, uova e tanta polenta dura come un sasso che era sempre
più abbondante del companatico che altro non era che il “tocio” che rimaneva nella “farsora”, perché la fetta del salame che aveva invaso tutta la cucina con il suo profumo, era
destinata agli uomini che dovevano lavorare; per le donne ed i bambini quel che restava,
polenta e profumo, perciò le “farsore le vigniva talmente lustre che non serviva lavarle,
anzi le restava impregnae de odor che vigniva bon per la volta dopo”.
Tante frittate con la cipolla e polenta, ma anche cipolla cruda “tociada” nell’aceto e
polenta “giassa”, oppure “brustolada su la gradea cusì la ciapava manco condimento”.
Polenta sempre e comunque; si andava avanti così fino al giorno in cui si ammazzava il
maiale, ma trascorsi i giorni in cui c’era abbondanza tra sangue, fegato e qualche “frissa”
messa tra due fette di polenta, tutto ritornava nella ferrea regola del “mai abbastanza”.
Il maiale era il salvavita, la garanzia di sopravvivenza della famiglia e dopo averne
insaccato le carni, arrivava il momento più delicato quello dell’asciugatura che veniva
fatta in cucina, dopo aver costruito una sorta di impalcatura per appiccare salami e cotechini che dovevano asciugare senza fretta ma con la temperatura costante ecco perché in
quelle sere, la donna non andava nemmeno in stalla a filò e rimaneva accanto al “fogher”
per tenere il fuoco sotto controllo ed evitare che il “budel se scartossasse” rischiando di
buttar via tutto ed allora sarebbe stato un dramma lungo un intero anno.
Tutto seguiva un rituale tramandato da madre in figlia, e dopo la preparazione la carne
del maiale, tagliata in pezzi uguali, veniva messa nelle pignatte di terracotta e coperta con
il grasso dello stesso maiale che aveva provveduto a sciogliere.
Si lasciava fuori un po’ di lardo, qualche cotechino compreso il “lingual per la Sensa”; tutto il resto veniva portato nella camera dei “veci” o in quella della “parona de casa”
dove nessuno osava mettere piede, insieme ai fagioli, alla frutta per la maggior parte mele,
fichi secchi cui i bambini davano una caccia spietata, senza mai riuscire, salvo qualche
raro caso, a prenderne “’na pasciuda”.
Tutto era rigorosamente calcolato e da quel momento si mangiava guardando il calendario, contando i giorni per arrivare a questa o quella ricorrenza religiosa che avrebbe
permesso alla famiglia “de disnisar” qualche capo grosso “picà” o qualche altro “toco
de carne”che veniva prelevato dalla pignatta dopo averlo ripulito del grasso che lo aveva
conservato, sempre e comunque tanta polenta.
D’inverno la “brovada”, pur essendo un “magnar furlan” era spesso presente sulle
nostre tavole insieme a qualche “muset”. Qualche “fameja” se la faceva in casa mettendo
le rape bianche in un “mastel de legno” per due mesi, coperte con acqua, aceto e con pesi
sopra perché si macerassero pressate. A dicembre erano pronte per essere sbucciate e tagliate a “listarelle”. Si usava, ma lo si fa ancora oggi, cucinarle per poi mangiarle insieme
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Archivio dei ricordi
al cotechino, anche se l’accoppiata “fasioi e muset” era senza dubbio la più popolare. Ogni
fine settimana, quasi mai durante, se “copava” un capo che poteva essere pollo o gallina.
La donna di casa però recuperava il sangue, il fegato, il cuore ed anche le interiora
che provvedeva a pulire e lavare facendole passare tra due stecchi di “sales” per togliere
qualsiasi impurità. Poi le tagliava a piccoli pezzettini mischiandole alle altre frattaglie
ed al grasso del pollo, per preparare al sabato sera il “minusan” con abbondante “tocio”
quindi tanta polenta per “tociar”. Il pollo, con i bocconi migliori, era riservato per il
giorno dopo domenica. Con le prime “scaldinele de primavera radicele, bruscandui,
pavariel e s’ciopetini” erbe di campo lessate e passate poi in “tecia” con una “frissa de
lardo”. In qualche famiglia c’era chi andava a rane con la “spunciariola” o a bisati ed
allora, era festa in “fameja” come quando Benito Valvasori si presentò in cucina con due
anguille da capogiro.
Ma per “magnar de magro”
non c’erano problemi, la “renga”
o “bigui in salsa” oggi paragonabili a grossi spaghetti una volta un
impasto di acqua e farina arrotolati a mano sulla tavola di legno e
conditi con cipolla e “sardee soto
sal cunsae co’ na giossa de oio”.
Pur avendo grande disponibilità di uova, queste venivano
usate con parsimonia in quanto
erano moneta sonante per fare la
spesa in bottega “do vovi de oio,
un de farina”.
Ad aprile invece, quando le
galline le “pondeva”, e quelle
sterili finivano in pignatta, l’uovo
diventava un pasto da re, in frittate con cipolle, con il salame,
con le patate insomma in svariati
modi sempre nei limiti in quanto,
come dice la Bepa, l’abbondanza
può causare la miseria. In estate, quando il caldo “imatuniva”
togliendo l’appetito, la donna di
Far San Marco negli anni ’50. Si notano Angelo Cesselon,
casa faceva ricorso ai prodotti
Dionisia Ceccon, Luciano Cesco e altri.
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Archivio dei ricordi
freschi dell’orto, pomodori, “tegoline”, melanzane, zucchine, fatte in “tecia con zegoa e
lardo”, patate, tante insalate e spesso al posto della minestra pan e anguria. “Che bona che
la giera, era il mio mangiare preferito, ricorda con nostalgia Maria Basso, facevo a gara
con mio fratello a chi terminava prima”. Con l’autunno verze, zucche, “capussi”, cicoria
che davano minestre saporite ma anche prodotti dolci come i “pastarei” con la zucca, farina e latte, da mangiare con una bella scodella di latte freddo o caldo a seconda dei gusti.
Le verze se le faceva in “tecia” quando c’erano da mangiare gli ossi del “porsel”.
Questi ricordi sono stati una veloce trasvolata sul “magnar de una volta”, ma tutto
lascia prevedere che questo breve racconto sia l’antipasto di una più approfondita raccolta
di ricette, peraltro in buona parte già acquisite, scritte con la collaborazione della Maria
Basso, della Bepa Fantin e della Gigetta de Seno.
La Compagnia teatrale
Un capitolo a parte merita la Compagnia Teatrale, nata poco dopo gli anni venti del
secolo scorso ad opera di alcuni giovani di allora che, disdegnando le osterie, preferivano
ritrovarsi nella grande baracca di legno, che si trovava a fianco della canonica. Era stata
costruita dai militari italiani che l’avevano lasciata durante la guerra del 15/18 ed il parroco di allora don Ernesto Linguanotto, insieme agli uomini dell’Azione Cattolica, aveva
provveduto a riscattare.
Dopo qualche tentativo erano riusciti a dar vita ad una compagnia teatrale con tanto
di regista, nella persona di Sante Liut. Gli attori erano Cornelio Battiston, Piero Vaccher,
Valentino Grotto, Angelo Furlan, Antonio Paissan, Piero Infanti, Antonio Zorzi e Mario
Celant. Supervisore di ogni rappresentazione era chiaramente il parroco che concedeva il
permesso alla recita dopo la sua personale censura.
Tanto che non erano ammesse donne nella compagnia e quando Piero Vaccher, per
necessità assoluta di copione ha dovuto effettuare un ballo in coppia con una donna, perché
così recitava la trama della rappresentazione, Ciccetta, al secolo Mario Celant, fu costretto
a farsi crescere il seno inserendo due sciarpe nel petto, prestate dalla Ada Marson.
Solo che durante il ballo, i movimenti hanno fatto scendere le “tette” verso il basso tra l’ilarità del pubblico che accorreva sempre numeroso alle loro recite. Ma cara,
come ti senti? Gli chiese Piero Vaccher. “Prima ero da latte ora invece son da vovi”,
rispose Ciccetta; chiaro il riferimento alle parti anatomiche che causò l’ira di don
Ernesto in quanto si era parlato di sesso in pubblico, mentre per la battuta tutta la gente rise a crepapelle. Da allora Mario Celant, ultra novantenne, unico sopravvissuto di
tutta la compagnia, è passato alla storia come Ciccetta. Lui era quello portato alle
farse tanto che, dopo il successo arriso con quella trovata, recitò “Il Frollocone” e
“Ciccetta va soldato”, due trionfi che contribuirono ad accrescere la sua popolarità
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Archivio dei ricordi
che esplose con la farsa di “Meni de la quaia” di cui parla anche Antonio Paissan in una
lettera ad Angelo Cesselon.
Ma la compagnia teatrale, con la regia di Sante Liut si cimentò in commedie di tutto
rispetto: “San Francesco d’Assisi” con Angelo Furlan come attore principale; “Le Piastrine” con Valentino Grotto ed “Un grido nella notte” con Cornelio Battiston.
Gli effetti sonori si producevano nel sottopalco: un colpo di tamburo per imitare quello del cannone, una stecca tra i raggi della ruota di una bicicletta per la mitragliatrice, accendere e spegnere le luci per simulare i lampi del temporale mentre per il tuono facevano
correre delle pesanti bocce sul pavimento di legno del sottopalco. La compagnia rimase
in vita per oltre dieci anni e si sciolse quando i giovani non erano più tali perché ormai
in età da soldato, ma la fama di quegli attori è rimasta indelebile tanto che i più anziani
ricordano con rimpianto quelle serate e Ciccetta è la conferma vivente, tanto che basta
questo soprannome perché anche i più giovani lo riconoscano.
Nascere a Settimo e “murir xè l’ultima capea che fa l’omo”
La nascita
Si dice ancor oggi che una donna a modo la “tien” su, tre cantoni di una casa, immaginarsi quindi l’importanza, nel mondo contadino dello scorso secolo, della presenza
femminile che è sempre stata determinante per tutta la famiglia: nel lavoro dei campi, nel
governo degli animali da cortile, del maiale, autentica “musigna”, nelle fatture domestiche e soprattutto per la prosecuzione della specie umana, anche se spesso, non si riteneva
che il mondo contadino vi appartenesse, tante erano le privazioni e le umiliazioni cui
erano sottoposti i suoi appartenenti.
Non esistevano contraccettivi come non c’erano tante alternative, sotto le coperte non
c’era miseria e qualche gravidanza era più subita che voluta, comunque accettata sempre
dalla coppia in quanto dove mangiavano in cinque potevano farlo anche sei. Solo che le
famiglie erano composte da un minimo di venti persone, ma ce n’erano di molto più numerose: i Celant superavano le quaranta persone, 30 i Fantin ed i Toffolon in Boschetta,
26 i Basso, molto numerose anche le famiglie Miorin, Muccignat.
Quando la donna rimaneva incinta per la prima volta, (primariola) quelle più anziane
erano dispensatrici di consigli e suggerimenti: assaggiare sempre tutti i piatti e le pietanze,
dicevano, per evitare che al piccolo nascituro potesse comparire la “voia” in quella parte
del corpo in cui la donna si era toccata. Per questo la futura mamma si toccava sempre in
posti nascosti. Il bello è che si sono verificati disegni (angiomi) degni di un bravo pittore
che avrebbe fatto fatica a fare altrettanto: fragole, grappoli d’uva oppure una goccia di
caffè e latte. Guai se la donna in attesa si metteva del filo o dello spago intorno al collo, le
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Archivio dei ricordi
comari la redarguivano perché il cordone ombelicale avrebbe potuto attorcigliarsi intorno
a quello del piccolo.
La donna proseguiva nel suo impegno quotidiano, e quando stava per partorire, non
godeva come oggi di mesi di riposo, ma era costretta per esigenza di famiglia, a lavorare
fino al giorno prima dell’evento e più di qualche bambino, ricorda Bepi Fantin, ha visto
la luce nei campi al riparo di qualche cespuglio dove si era sdraiata la madre per poterlo
partorire, aiutata dalle altre donne che componevano la famiglia. Era allora un correre
disperato alla ricerca della comare Emma Fassina, che abitava in via Treviso; si andava
a prelevarla con cavallo e calesse per poterle permettere di raggiungere la puerpera sul
campo prima possibile.
Casi come questo erano fortunatamente rari, ma quando tutto aveva seguito le regole,
il momento del parto era condiviso da tutte le donne della famiglia. Acqua calda a volontà
e lini candidi in attesa dell’arrivo della comare Fassina prima e Maria Martin poi, che
prendeva in mano la situazione e guidava le operazioni da eseguire secondo i suoi comandi: guai a sbagliare, non c’era ancora l’incubatrice o la rianimazione.
Nato il bambino per la puerpera iniziava la quarantena da “paiolana”e quindi qualche ora di riposo in più durante la giornata. Per 40 giorni infatti la donna che aveva partorito non poteva uscire di casa per nessuna ragione, né lavare o mettere comunque le
mani in acqua per evitare che potesse contrarre dolori reumatici, considerati di difficile
guarigione. In questo periodo le attenzioni erano tutte per lei ed il bambino che sembrava
una piccola mummia tanto era fasciato stretto perché c’era la credenza che così sarebbe
cresciuto bello diritto. Fino a quando anche le braccia rimasero fasciate, le unghie venivano tagliate molto di rado, poi, quando negli anni 40, la regola è cambiata e le braccia
sono state lasciate libere, le manicure sono diventate necessarie in quanto il bambino con
le unghie lunghe, si procurava graffi al viso.
Con la nascita di un bimbo si addolciva anche il “paron de casa”che si toglieva le
chiavi che portava sempre con sè ed apriva la dispensa: caffè, zucchero, biscotti, marsala,
pane bianco tutta merce sconosciuta per il resto dell’anno; si ammazzava la gallina per
fare il brodo con il riso, e la classica “panada” che costituivano per i primi giorni il pasto
della puerpera. Ma già dopo gli otto, dieci giorni, la considerazione cominciava a scemare, ed iniziavano le preoccupazioni, non solo per il battesimo, ma anche per il temuto
malocchio nei confronti dei bambini non ancora battezzati e quindi il piccolo indossava,
quale atto scaramantico, qualche pannolino a rovescio e gli stessi non venivano mai lasciati ad asciugare di notte all’aperto.
“Io ero la più piccola di dodici fratelli e custodivo i miei nipotini, spiega Maria Basso,
soprattutto l’ultimo nato e quando piangeva perché aveva fame, andavo a chiamare mia sorella che veniva a casa dai campi vicini.
Dopo la poppata lo riportavo nella culla, mentre mia sorella poteva ritornare al lavoro.
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Archivio dei ricordi
E toccava sempre a me portare la colazione ai miei, quando erano sui campi della
Pavanella, drio i Toffolon, o sul Suiedo visin de Morettin, oppure sulla Coda visin dei
Gumiero, ed anche quando andavano a segar sul Palù, sulla terra della Giovannella Battistona; un mangiare povero: polenta e frittata col salame; sempre a piedi, carica come
un muss, ma ero contenta, cantavo all’andata ed anche al ritorno, i Basso sono sempre
stati ottimi cantori e musicisti”.
Il Battesimo
La cerimonia avveniva quasi sempre entro i quaranta giorni e di norma le mamme
non potevano presenziare al battesimo del proprio figlio in quanto la religione cattolica a
quell’epoca prevedeva che la donna che aveva partorito, oltre a non poter mai restare sola
in camera, avrebbe dovuto sottoporsi ad una cerimonia di purificazione che consisteva nel
recarsi in chiesa, la vigilia o comunque prima del battesimo, accompagnata dalla donna
più anziana della famiglia, con una candela accesa, quella della Madonna Candelora,
tenuta nella mano destra, mentre il parroco le imponeva sulle spalle una stola bianca accompagnandola all’altare della Madonna.
La recita di alcune preghiere cui seguiva la benedizione dell’officiante, don Ernesto
Linguanotto, le avrebbero consentito il giorno dopo di assistere al battesimo del figlio.
Ma non poteva essere lei comunque a tenerlo in braccio per portarlo al Fonte Battesimale, ecco perchè le mamme preferivano aspettare in casa. Il compito era affidato ad una
ragazza della famiglia in abito bianco, istruita in precedenza sulle regole non scritte ma
rispettate da tutti e cioè: “Non girare la testa né a destra né a sinistra, ma guardare sempre dritto in avanti per evitare che il piccolo crescesse curioso, ma soprattutto, e questo
riguardava più i padrini, imparare il Credo e recitarlo senza errori o interruzioni per
scongiurare una futura balbuzie del piccolo”.
Sul pane che veniva portato dalla “santola”, ma molto più spesso dalla levatrice per
maggiori possibilità, affinchè il piccolo crescesse generoso, ci sono più versioni: fino agli
anni trenta veniva regalato dalla stessa alla prima persona che incontrava all’uscita della
propria abitazione, a Settimo invece, dopo la cerimonia, rimaneva al parroco, all’epoca
don Ernesto Linguanotto, che provvedeva a distribuirlo magari tra i chierichetti che date
le possibilità dell’epoca, mangiavano molto più polenta che altro.
I due padrini di battesimo, che il più delle volte erano gli stessi del matrimonio, godevano di una certa considerazione ed il legame con i genitori del piccolo e con lo stesso
battezzato cresceva insieme al bambino fino a ricoprire quasi il ruolo di secondi genitori,
sempre presenti in qualsiasi occasione e ricorrenza, lieta o funesta che fosse.
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Archivio dei ricordi
Comunione e Cresima
La Prima Comunione si faceva intorno ai nove dieci anni, dopo ben due anni di catechismo ed era il parroco che lo teneva in canonica e guai a chi mancava anche una sola
volta, erano dolori con don Ernesto, ma anche con il suo successore don Duilio Rambaldini. Eri giustificato solo in caso di malattia ed a quei tempi d’inverno, quando sotto
la porta della cucina passava il gatto, non era difficile beccarsi qualche malanno. “Le
“putele” tutte di bianco, e molto spesso l’abito era in prestito, spiega Bepi Fantin, mentre
noi maschi avevamo più libertà, chi braghe curte chi lunghe, chi con quel che poteva,
l’importante per don Ernesto era la preparazione religiosa”. Ma la comunione rimaneva
un momento poco sentito dai ragazzi perché era quasi sempre il padre per i maschi e la
madre per le femmine che ricoprivano il ruolo di padrino e madrina, quindi “te sa che
pì de cusì no se pol” e la festa della prima comunione si concludeva come tutti gli altri
giorni, senza una particolare diversità.
Cosa che invece emergeva alla grande nella Cresima o Confermazione che si faceva
dopo i 14 anni ed era una parentesi molto più gradita dai ragazzi. “Il mio padrino fu Sante
Daneluzzi, che era poi il “santolo” del battesimo, l’invitato d’onore al pranzo che era più
ricco del solito e dopo l’acquisto del “bussolà grando” dalle bancarelle che occupavano
il piazzale della Chiesa, ricorda Bepi Fantin, mi regalò una colombina di mancia (5 lire),
ma non erano molti che potevano permetterselo”.
Prima Comunione a Settimo nell’anno 1940.
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Archivio dei ricordi
Prima Comunione a Settimo nel 1941.
Prima Comunione a Settimo nei primi anni ’60.
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Il Fidanzamento ed il matrimonio di Bepi e Bepa; al secolo Giuseppe Fantin oggi
87 anni e di sua moglie Giuseppina De Gasperi di 83
Eravamo nel novembre del 1937. Io e mia moglie ci siamo conosciuti che lei aveva
14 anni ed io 17. Le proposi di vederci, ma solo per poterle scrivere, ho dovuto chiedere
il permesso a sua madre Teresa. Presero tempo, in quanto i genitori dovevano informarsi
sul futuro genero, ma appena concessa l’autorizzazione, pochi giorni dopo lei è partita per
Palma Campana a servizio come si usava fare in quelle famiglie dove c’era necessità di aiuti
finanziari da parte di tutti i componenti, anche se qualche ragazza di allora andava a servire
per farsi la dote. Io fui chiamato alla leva militare, la guerra in Albania, la Croce di Guerra,
poi finalmente a casa; ma erano trascorsi otto anni, gli anni più belli della nostra gioventù.
Comunque le regole non erano cambiate, mai fuori insieme, lei in quanto fidanzata,
conduceva una vita riservata e per vederla dovevo recarmi a casa sua, ma c’era sempre la
guardia in parte che si allontanava di rado, giusto il tempo per un veloce “struccon”. Decidemmo di sposarci e fissammo la data per il 24 novembre del 1945. Noi abbiamo seguito
le regole che erano in voga a quegli anni, quando erano i genitori dello sposo a recarsi dai
consuoceri per stabilire la dote, e toccava poi al padre dello sposo recarsi di sera a ritirarla,
con un carro tirato da due mucche da latte, mai i buoi, perchè non avrebbero portato fortuna alla futura coppia. Si fermava a cena a casa della futura nuora la quale, prima che il
carro si rimettesse sulla via del ritorno, tracciava con una bacchetta di sandina, un segno
di croce davanti alle due mucche dicendo “andate in pace”.
La dote veniva scaricata e portata nella camera matrimoniale ma solo una donna delegata dalla “novissa” aveva il diritto di sistemare la biancheria nei cassettoni. Una volta
terminata l’operazione, la notte della vigilia dello sposalizio, dopo aver partecipato alla
cena, il futuro sposo insieme al compare d’anello dovevano riposare nel letto matrimoniale. Quella volta le malelingue avevano insinuato che la Bepa fosse incinta e quindi il
matrimonio avrebbe dovuto celebrarsi la mattina presto, prima dell’Ave Maria. Ricordo
che don Ernesto mi chiamò al confessionale e mi fece giurare sul Vangelo che non era
stato consumato nulla ed altrettanto dovette fare lei; solo così ci permise di sposarci alle
11 di mattina. Il corteo della sposa, la cerimonia nuziale con le varie raccomandazioni di
don Ernesto, poi tutti a casa dello sposo per il pranzo che aveva provveduto a cucinare la
Teresa Badanai, aiutata da altre donne della famiglia.
Anche allora erano in voga i dispetti per la prima notte: mio cognato Rino introdusse
un uccello nella camera, divertendosi poi ad accendere e spegnere la luce. Noi avevamo
trovato due reti, ma normalmente il letto era composto da due cavalletti con alcune tavole
sulle quali era disteso il “paion”, realizzato con le foglie che proteggevano la pannocchia
del granoturco e che rumoreggiava ad ogni più piccolo movimento.
La mattina dopo, primo giorno di nozze, io sono stato costretto ad alzarmi per mungere le vacche e portare poi il latte in latteria dove Valentino Grotto mi ha dovuto aspettare
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Archivio dei ricordi
Gli sposi Giuseppe Tedesco e Anastasia Romanin, ritratti da Angelo Cesselon.
Matrimonio di Enzo Furlan e Genoveffa Cusin nel 1935. Foto di gruppo di fronte all’antica casa Pedrinelli.
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Archivio dei ricordi
fino oltre le dieci, cosa mai avvenuta. Il “paron de casa” non era riuscito a lasciarmi tranquillo nemmeno in quel giorno. E lo stesso trattamento lo ha subito la Bepa, mia moglie,
anche lei in piedi presto per pulire la cucina. Per noi non c’è stata la licenza matrimoniale,
subito a lavorare sia in casa che sul campo.
Il viaggio di nozze lo abbiamo fatto qualche tempo dopo, in bicicletta ci siamo recati
a visitare i parenti a Mogliano Veneto, Stra, Dolo e Paluello.
Funerale. La conclusione, il tramonto della vita
Nella filosofia contadina la morte faceva parte della vita stessa; era un ciclo dell’esistenza che si chiudeva ma il trapasso, quando avveniva per raggiunti limiti di età, si concludeva sotto lo sguardo affettuoso dell’intera famiglia.
Si nasceva e si moriva in casa, e quando era giunta l’ora, tutta la parentela si stringeva
intorno ai famigliari più vicini, anche il “paron” si degnava di fare una visita, arrivava il
parroco che ungeva il morituro con l’olio santo impartendo l’estrema unzione, lasciando
un’ampolla di acqua benedetta. Avvenuto il decesso, il morto veniva lavato, sbarbato e
vestito con l’abito scuro o comunque in base alle sue disposizioni date quando era ancora
in vita, magari anni prima: “Co moro, voio un funeral co la banda e te me metterà su sto
vestito qua”.
9 Aprile 1947: funerale di Marcello Battiston.
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Archivio dei ricordi
Oggi il tutto è delegato all’impresa funebre, ma una volta erano gli stessi famigliari
a compiere il pietoso rituale della vestizione
del papà o della madre morta. Era un atto
d’amore, di dolcezza e rispetto, “fa pian che
te ghe fa mal”, convinti che potesse ancora
sentire. Lo si lasciava nel suo letto fino all’arrivo della cassa, si accendevano quattro ceri e
iniziava la recita del rosario cui partecipavano parenti ed amici.
La veglia funebre era riservata agli uomini tra i quali era sempre presente uno dei figli
del morto, durante la notte qualche bicchiere
di vino mentre si rievocavano i momenti in
cui la persona deceduta aveva ricoperto un
ruolo che meritava essere citato e per questo
rimpianto. Non c’erano automobili per il servizio funebre, o per meglio dire non c’erano
Marcello Battiston. Ritratto di Angelo Cesselon.
per chi non poteva permettersele ed erano i
più, quindi il feretro veniva portato a spalla dai parenti che si alternavano nel sostenere il
peso della bara ai cui lati camminavano gli amici con candele accese.
Il nome del morto, quando si trattava del nonno, quale segno di rispettoso ricordo,
veniva sempre imposto al primo bambino, o bambina nel caso che fosse morta la nonna,
che sarebbe nato in famiglia. Si usava portare il lutto: per l’uomo una fascia nera sulla
manica sinistra della giacca od all’occhiello della stessa, mentre la donna vestiva completamente di nero almeno per sei mesi o per un anno.
Quando l’evento era traumatico ed a perdere la vita era un giovane, come nel caso di
Marcello Battiston, allora la partecipazione era corale, si mobilitava l’intero paese. Lui
prestava servizio militare all’aeroporto di Milano come marconista, insieme a Giovanni
Labonia ed Iginio Nonis e dopo l’8 settembre 1943, abbandonata la divisa, dopo una lunga marcia insieme a Giovanni Labonia percorrendo a piedi la strada da Orvieto, ritornò
a casa dopo aver superato ostacoli e pericoli facilmente immaginabili per quei momenti
storici. Nel giugno del 1944, nacque, durante la trebbiatura del grano sul “Puntin” di
Furlan, il movimento partigiano sollecitato da Matteotti da Villotta, Nin Pradal “Primo”
ed insieme a Giovanni Labonia “Fulmine”, anche Marcello Battiston entrò nelle file
partigiane. Durante un’operazione a Pravisdomini, rimase ferito al braccio sinistro da un
colpo di mitra, e fu accompagnato con il carretto trainato dalla cavallina condotta da un
ragazzo della Stradatta all’ospedale di Motta.
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Archivio dei ricordi
Calmati gli animi e ritornata la pace, Marcello, essendo un appassionato nonché
esperto di meccanica, si stava costruendo da solo una moto, impartiva lezioni ai ragazzi
in canonica, con grande soddisfazione di don Ernesto Linguanotto che, nonostante sia
passato alla storia come un prete burbero e severo, era riuscito a far studiare molti giovani
e portarli all’autosufficienza. Non sono stati pochi infatti quelli che proprio grazie all’impegno del parroco e dei volontari, come Marcello Battiston, più istruiti, hanno imparato a
leggere e scrivere. Marcello aveva 23 anni, e seppur giovane, era benvoluto e stimato da
tutti. Quel lunedì di Pasqua del 9 aprile 1947, c’erano molti giovani in piazza ad ammirare la moto una Bsa del fruttivendolo Imo Contatto. Lui se ne stava costruendo una uguale,
con i pezzi di ricambio comperati a Codroipo, gli mancavano solo le gomme. “Marcello
montò in sella per andare a prendere un litro di benzina, ricorda Giovanni Labonia che
era presente nella piazza, ma con lui volle salire un altro giovane,Lello Anese,in due su
un solo sellino, un vero rischio non essendo la moto fornita di un secondo posto”. Sulla
strada del ritorno, alla prima curva di fronte a casa Toffolon, persero l’equilibrio, Marcello
non riuscì a mantenere la moto in strada e finirono contro un salice; lui morì sul colpo, a
poca distanza dalla sua casa, il suo amico invece si salvò. Ai solenni funerali con la banda,
officiati da don Ernesto, partecipò l’intero paese e molti furono quelli venuti da fuori e
nella foto sono visibili i comandanti partigiani di allora giunti da ogni dove.
Ricordi di Maria figlia di Basso Giacomo detto “Bullo”
La famiglia è originaria di Grumolo delle Badesse da dove è arrivata a Settimo nel
1911, portandosi dietro la “bovaria” composta da 25 bestie tra “bo e vache”, e prendendo in affitto 60 ettari che costituivano la campagna di Osvaldo Mian da Fanna.
La casa colonica, cui si accedeva percorrendo un lungo stradone, era in Boschetta.
Una grande cucina con “fogher, sfondro e seccer”, a fianco
la stalla con le bestie, ed una cavallina con puledro, de “sora”
le camere, sopra a tutto il “graner”. La donna in cucina, l’uomo in stalla e sui campi, ma per
le grandi opere anche le donne
dovevano dare una mano, anzi
due perché poi avevano da fare
anche i lavori di casa. Alle prime
luci dell’alba gli uomini andavano nei campi senza “merendar”, Casa di Mario “Cicetta” Celant.
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Archivio dei ricordi
intanto le donne preparavano polenta e latte per i
“fioi” e la colazione per chi era a “segar” a base
di frittata con il salame, polenta ed un bottiglione
di vino. Pasti frugali, portati dalla Maria, mangiati in premura all’ombra di un olmo.
Il lavoro andava da un sole all’altro, ed a
mezzogiorno preciso, l’orologio era l’ombra
proiettata a terra, tutta la famiglia intorno al
tavolo per il pranzo: a base di pollame solo al
giovedì e la domenica, negli altri giorni “fasioi
e muset”, “radicio e fasioi”, “formajo”, “vin
bacò”, “renga” e tanta polenta. “Me pare Giacomo andava anche a lavorare la terra per terzi, con la “bovaria longa”, due “bo e quatro
vache”, con “do fioi”, ma non mancava mai ai
mercati, guai se non c’era “Bullo” Basso, non
sarebbe “sta un mercà”, e quando ritornava con
la “baracchina” e la cavalla, i miei fratelli faceva a gara per “stacarla” e riportarla in stalla
Aldo Anese con Carmine Sessa “el barbier”.
dopo aver asciugato il sudore”. “Al pomeriggio
del sabato era festa, non si lavorava sui campi, ricorda con struggente nostalgia la Maria
Basso, si mollava il puledro con la cavallina, si cantava e si suonava, in quanto tra noi,
oltre a saper cantare, c’erano anche ottimi suonatori di chitarra e tromba”. La sera però,
c’era la stalla con le vacche da “governar”, quindi bisognava “starnirle”, “sbuiassarle”, “monzerle”, anche se latte ne “faseva poc” perché le lavorava, ma abbastanza per
farse il “butirro” e portare la quota per il “formajo” in “lateria”,da Valentino Grotto.
Ogni quindici giorni riuscivamo a fare il pane in casa che andavamo a cuocere al
forno di Dalla Pozza in via Treviso. “Si lavorava tanto, ma eravamo felici, soprattutto noi
“fioi”, anche se più di qualche volta con quel fa qui fa lì, “i me faceva vignir su ’l fum”.
Ogni tanto arrivava in casa Carmine, il barbiere che come il sarto girava tutte le famiglie per prestare la sua opera, con il taglio “all’Umberto”. In piazza c’era la barberia di
“Checchi Fantin”, a cui ricorrevano persone anche dai paesi vicini. I sarti di allora erano
“Gigi Bel” o Giuseppe Artico, nonno di “Giuti” oppure Giovanni Andriol con il figlio
Giacinto e con il “saraban” tirato dal “muss” Giorgio.
Con la macchina da cucire giravano le case per confezionare vestiti, fermandosi
anche a dormire fino a quando non era terminato il lavoro. I capi d’abbigliamento erano
sempre abbondanti, primo perché “il fiol l’a da creser ancora” e poi perché costituivano
l’eredità per i fratelli più piccoli.
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Archivio dei ricordi
La Lisciva. Ricordi di Gigetta “Seno” Battiston muier de Mario Celant,
so mare de la Fedora
Il bucato “grando” se lo faceva ad ogni cambio di lenzuola, poche volte d’inverno,
più spesso durante i mesi caldi. Per prima cosa si lavavano con la soda Solway le lenzuola
“de canego”, le federe, gli asciugamani ed altri indumenti di colore bianco, ai colorati non
si faceva la “liscia”. Se li lavava con il sapone anche quello fatto in casa con il latte degli
otto giorni dopo “che la vaca la gaveva partorìo” mescolato a freddo con la soda caustica,
poi, una volta indurito si rovesciava su un piano e se lo tagliava a tocchi. I panni se li risciacquava bene a fondo. Intanto si accendeva il fuoco sotto una grossa “caldiera” per scaldare
l’acqua e vicino si metteva un grosso “mastel” chiuso sul fondo con un tappo.
“Se meteva dentro i panni ben impachetai, de sora il mastel se meteva il colador”
colmo di cenere, una sorta di filtro costituito da un panno particolare che non lasciava passare la cenere nel bucato e si versava acqua bollente fino a che il recipiente non era pieno.
Perché la lisciva riuscisse bene doveva rimanere almeno un’intera notte a mollo.
Poi il giorno dopo si svuotava il “mastel”, mettendo sul “buso” la “gramola” mandibola del “porsel” conservata apposta affinché i capi non ostruissero il foro di uscita.
Si mettevano lenzuola e tutto il resto in un altro tinozza ed insieme ad altre donne,
mai meno di una decina, ci ritrovavamo al “Lavador” che si trovava sul “Trattor” vicino
la latteria e l’acqua era sempre bella pulita, in quanto gli scarichi della latteria facevano un
giro molto lungo e prima di ritornare sul Trattor, l’acqua si depurava. Di fronte al Lavador
l’acqua aveva una bella profondità, non meno di tre metri.
Tra una risciacquata ed una sbattuta sulla tavola, si chiacchierava del più e del meno,
ed il bucato, steso ad asciugare al sole d’estate o sul solaio d’inverno, emanava un profumo inebriante di pulito.
Ostarie, ombre e qualcos’altro
Le ostarie, ribattezzate poi bar perché sonava “mejo e più fin”, hanno rivestito un
ruolo primario nella vita del paese di Settimo; luoghi di socializzazione, “de ciacoe” ma
anche di grandi baruffe, tanto che non era considerata festa se non succedeva qualche bella lite. A favorire l’alterco era quasi sempre la “morra”, più di qualsiasi altro gioco, tanto
che fu proibita dalle autorità nazionali per evitare liti che qualche volta finivano, quando
andava bene, con nasi e denti rotti. Ma era anche il luogo dove si facevano gli affari, si
concludeva una vendita, si trovava rifugio dalle fatiche del giorno, davanti ad un “ombra
de quel bon” che poi si moltiplicava ed era sempre “l’ultimo bicer quel che te ciavava”.
Per tirar a la morra, singola od a coppie, nelle osterie di Settimo arrivavano anche dai
paesi vicini per confrontarsi con i campioni locali più rinomati; in palio sempre abbondanti portate di vino, grappa anche per il segnapunti che doveva stare molto attento ad
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Archivio dei ricordi
assegnarlo se non voleva incorrere nelle ire dei contendenti. Ed il conto andava su fino a
raggiungere cifre consistenti per l’epoca perché, oltre all’ombra, tra una partita di morra e
l’altra, “se magnava ’na feta de muset ” o “’na sardea soto sal” che invogliava a bere ancora. Alla fine il conto ai perdenti e “chi perde paga e non cojona”, ma loro rispondevano
“una volta core el can, un’altra el lievro”, a significare che la prossima volta sarebbe
andata diversamente. “In scarsela”però, non c’era sempre, il denaro per onorare il conto,
ed allora si ricorreva al credito di fiducia che l’oste segnava sul famoso libro e provvedeva
a “disnotar” quando lo si saldava. Memorabile il debito di un uomo, del quale per ovvie
ragioni si omettono le generalità, sotto il cui nome il buon Pedrinelli scrisse “debito saldato in Purgatorio”. L’uomo in questione infatti era deceduto senza pagare il conto.
Oltre alla morra, sui tavoli di legno si giocava a carte: tressette, briscola, bestia e
scarabocio mentre dal Giandro su un “canton ardea un scaras longo, mezo infilà nella
boca de la stua de teracota, l’altro mezo pusà a na carega e se lo sburtava drento man
man chel brusava”. Neanche un pel di fumo perché sotto la porta entrava la “giata che
l’ha magnà el pes”. Ecco lo gavemo ciamà, l’è rivà Bino Suja, tirava sassi come missili
e la “britola” sempre pronta a colpire. Poco più lontan Piero Moretton “Palanca” “chel
sigava” sempre viva l’Austria, non aveva fatto il militare ma portava sempre un “capel
da alpin de la Giulia”.
Altri tempi scanditi proprio dalla presenza di personaggi rimasti nell’archivio delle
menti. Una “strombetada” avvisava dell’arrivo di Ceci del gelato, “do balute par un
vovo” immaginarsi quanti furti nelle cove delle galline.
“Le femene de fameia, co le volea magnar de magro, ricorda la Maria, le faceva la
spesa da la Cia del pes o dae so’ sorelle che le vigniva da Concordia e soto el portego del
bar se dividevano il pes da vendar. Tante sardee, le costava poc e le rendea tant”.
Di tutte le osterie ne sono rimaste solo due, il bar di Aldo Anese oggi trasformato in ristorante “Morris”, e l’Osteria Alla Scala che non ha subito variazioni ed il figlio Tiziano
ha proseguito nell’opera del padre “Giandro” Giovanni Battiston e prima ancora dal sior
Antonio, le altre hanno chiuso o sono state demolite; quella di Filiberto Gobat, l’altra di
Giovanni Sigalot, l’altra ancora dei fratelli Battiston in piazza, e quella della “Richetta”
in parte alla sala da ballo.
Tutte le osterie avevano i campi di bocce, anche se quello che andava per la maggiore
era il bar di Maria e Aldo Anese su la strada alta, viale Pordenone. Qui, oltre alle bocce,
regnava il “cavabaìn” che consisteva nel colpire con un tiro al volo il pallino mezzo
coperto da una boccia. Ed erano veri e propri incontri con tanto di tifosi per i più bravi
del paese che si confrontavano con qualcuno “de Cinto o de Pramaior”che si azzardava a
mettere in dubbio la superiorità locale.
“Per zogar a le bale più di qualcuno arrivava appena magnà per ciaparse el posto”
ricorda la Maria Basso. Ma Aldo Anese era rinomato non solo per la diligenza che aveva
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Archivio dei ricordi
nel mantenere i campi di bocce che “tirava a fin” ma anche per la “Sagra delle Rose” di
fine maggio, con un “casin de gente che la vigniva da fora”.
“S’andava a Porto a comperare alcuni blocchi di ghiaccio, ricorda la Maria, li mettevamo nel “mastel” per tenere le bibite in fresca. Canti e suoni che rendevano meno grama
la vita, ci stavamo avviando a quella fase di evoluzione che consentiva qualche lira in
tasca, avevamo appena superato gli anni cinquanta”.
Erano arrivati gli anni della grande emigrazione che spopolò Settimo, da dove partirono principalmente verso la Svizzera, la Francia, la Germania ed il Belgio, ma anche
oltre oceano, centinaia di persone, intere famiglie. Dei 1305 abitanti del 1947, si passò nel
1969 a 905; l’intero comune soffrì e dai 3804 abitanti del 1947, Cinto insieme a Settimo
sempre nel 1969, raggiunse appena le 2708 unità.
“Tanta gente all’estero che si
teneva in contatto con i loro cari
con il telefono, richiama alla memoria la Maria, chiamavano prima per lasciarci il tempo di avvisare la madre o la moglie. Scene
a volte commoventi e sono stata
felice per loro quando, nel 1955,
siamo riusciti ad avere la cabina
telefonica che lasciava più intimità. Mi ricordo che si commosse anche don Duilio quando ven- 1955. Benedizione della prima cabina telefonica nel bar
ne in bar per la benedizione”.
di Aldo Anese.
Streghe, Maghi ed eretici
Settimo non è stato secondo a nessuno in fatto di streghe e maghi, anche se per essere considerati tali nel 1600 bastava ben poco. Fu lo stesso parroco di allora don Antonio
Schinella che il mercoledì 8 settembre1694, denunciò, al Vescovo Paolo Vallaresso in
visita pastorale nella chiesa di San Giovanni Battista, la presenza di tale “Lugretia Ettore, che andava in giro segnando catari, benché più volte sia stata ammonita, ancora
continua a segnare”. Ed aggiunse: “Tutti o la miglior parte degli uomini, nel tempo della
messa stanno fuori dalla Chiesa sul Cimitero a ridere e far delle irriverenze e le donne
parlano altamente in Chiesa in tempo di messa”.
Ma altre, quasi sempre donne, sono state indicate come fattucchiere più che streghe,
e questo fino ai nostri giorni. Risalgono infatti a pochi anni fa, ma forse proseguono ancor
oggi, i viaggi che più di qualcuno faceva verso Coltura, Valvasone, Gleris per consultare
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Archivio dei ricordi
il mago stregone o la fattucchiera per avere consigli o per togliere la fattura o il malocchio, lanciato da qualche maledizione.
Se per il mondo popolare contadino di allora, l’origine di una malattia era da ricercarsi nell’imponderabile, non ci si può sorprendere se le terapie facevano poi ricorso alla
magia oltre che alla forza delle tradizioni. Per prima cosa la fattucchiera doveva interpretare le forme assunte da alcune gocce d’olio versate in una scodella contenente acqua
di pozzo o di canale, in base alla quale si accorgeva se c’era o meno la fattura. Appurato
questo si passava alla terapia che consisteva nel leggere alcune frasi di cui solo lei sapeva
il significato, poi dopo aver toccato la “paziente” con una stella di lana rossa, sostituita in
base alla forza della fattura con aglio, sale, chiave maschio, ferro di cavallo rotto con nastro rosso, la fusaiola, consegnava un limone ed un uovo sodo. Il primo da gettare alle sue
spalle, senza girarsi, nel primo corso d’acqua che avrebbe trovato appena fuori di casa,
recitando alcune frasi scritte, poi, giunta ad un quadrivio, lanciare in aria l’uovo sodo,
ripetendo le frasi dette in precedenza.
La testimonianza di un accompagnatore parla di un suo intervento su richiesta dello
stregone perché “la paziente avrebbe potuto strapparsi i capelli dalla testa”. Giunta a
casa, si purificava l’aria con l’incenso e la sera si toglieva i vestiti depositandoli a rovescio
fuori dell’ingresso di casa, per indossarli il giorno dopo per il verso giusto. Un vecchio
adagio recita ancora che: “’Na maledision, la salta de qua, la salta de là, finché la torna
in cul de chi che la ga dà”.
Questi di seguito sono due fatti ai quali nessuno della fabbriceria di Settimo, riuscì allora a dare una spiegazione logica; due eventi che sono da collocare in un preciso spaccato
religioso ed anche esorcistico, cui in molti ricorrevano quando si trovavano in presenza di
fenomeni inspiegabili.
Verso la fine dell’800, dopo che erano state proibite le sepolture dei morti nel cimitero
intorno alla chiesa, la fabbriceria di Cinto che aveva giurisdizione anche sulla chiesa di
Settimo, decise di vendere le pietre che componevano sia il muro di cinta dei due cimiteri
che qualche tomba in muratura. Le comperò una famiglia di cui per ovvie ragioni non si
fa il nome,che le usò per costruirsi la casa. Durante i lavori di costruzione, un muratore
rinvenne tra le pietre alcune ossa umane; invece di portarle nel nuovo cimitero, le sotterrò in un angolo delle fondamenta della casa. Mai avrebbe pensato che quell’atto di per
sé insignificante anche se criticabile, fosse stato in grado di generare questa situazione.
Dalla stessa sera in cui vi andarono ad abitare, i componenti di questa famiglia sentirono
dei lamenti continui, imploranti come quelli di un condannato, provenire dal muro. Della
cosa venne informato il parroco che si recò in questa nuova casa per una benedizione,
convinto che l’acqua benedetta avrebbe risolto questo strano caso.
Ma non fu così; i lamenti proseguirono al punto che venne coinvolto il capo della
fabbriceria di Portogruaro che effettuò un’indagine. Dopo aver appurato che i lamenti
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Archivio dei ricordi
si sentivano veramente, convocò i muratori che avevano proceduto alla costruzione della
casa e si fece raccontare per filo e per segno come avevano eseguito i lavori e che cosa
fosse accaduto durante gli stessi. Venne fuori la storia dei resti umani.
Insieme al parroco si recò dall’esorcista della Diocesi che, autorizzato dal Vescovo,
consigliò di procedere ad una benedizione delle fondamenta della casa come se fossero
quelle di una tomba.
Ritornato a Settimo, il parroco fece come gli era stato consigliato; indossò i paramenti
rituali e benedisse le fondamenta come recitava la liturgia funebre di allora.
Ebbene, da quella sera nessuno intese più nulla, i lamenti cessarono e finalmente la
pace e la tranquillità regnarono anche in quella casa.
Siamo ancora a Settimo, parroco don Ernesto Linguanotto.
Una famiglia di via Udine si recò da lui perché ogni sera, non appena si predisponevano per andare a dormire, sentivano dei colpi.
Un toc, toc, continuo e ritmato che non consentiva loro di dormire, anzi causava una
stato di agitazione indescrivibile.
Sul da farsi, il parroco si consigliò con la fabbriceria che, dopo aver esaminato le varie proposte, decise di verificare di persona il fatto ritenuto alquanto strano.
Ogni sera due uomini della fabbriceria dovevano recarsi in quella casa e rimanervi
fino a che anche loro furono testimoni dell’evento.
La questione sembrava non avere una facile soluzione, anche perchè erano sorte due
scuole di pensiero: la prima dava la colpa alle galline o ad altri animali domestici che dormendo in qualche parte della casa avrebbero potuto essere la causa di quei colpi, quando
spostavano il loro peso da una zampa all’altra.
La seconda invece, dopo aver controllato che tale disturbo non poteva provenire da
quegli animali, indicò nelle anime in cerca di pace e preghiere, la causa del trambusto.
Poco tempo prima infatti, a breve distanza l’uno dall’altra,erano morti i genitori del marito, suoceri della donna che aveva denunciato il fatto.
Don Ernesto si recò in questa casa chiedendo se, dopo la loro morte, qualcuno della
famiglia avesse frequentato la chiesa o avesse pregato per i loro morti, accostandosi poi
ai sacramenti.
Avuto una risposta negativa, dopo aver redarguito con la sua proverbiale veemenza
tutta la famiglia, indossò la stola ed impartì la Santa Benedizione speciale, dando appuntamento a tutti in chiesa per la celebrazione di una Messa che avrebbe concluso il rituale
religioso.
Dalla sera stessa in cui fu celebrata la messa in suffragio dei suoceri nessuno venne
più disturbato da quei colpi, come appurò la fabbriceria che per oltre una settimana proseguì nel controllo serale.
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MEMORIE
La Scuola
Nel secolo scorso i centri istituzionali erano la chiesa, imperio indiscusso di don
Ernesto, e la scuola, istituto ancora alla ricerca di una propria precisa configurazione ed
identità. A Settimo la scuola elementare è attiva a partire da fine ’800 inizialmente nella
sede individuata nello stabile vicino alla chiesa dove oggi ha sede l’oratorio. All’inizio
del novecento non tutti frequentavano la scuola in quanto i maschi cominciavano molto
presto, a 8 o 10 anni, a lavorare nei campi e per le ragazze lo studiare era ritenuto un
investimento inutile. Inizialmente questo primo edificio scolastico si componeva di sole
due aule riscaldate da una stuffetta in terracotta alimentata dalla legna portata dagli stessi
alunni, a tal fine spronati dagli insegnanti. Allora era un lusso poter frequentare fino alla
terza elementare e, fino al 1948, solo queste tre classi erano attive a Settimo; coloro che
avevano la possibilità di frequentare la quarta e la quinta dovevano recarsi a Cinto. Dal
’48 al 1957 fu possibile completare a Settimo l’intero ciclo elementare, dalla prima alla
quinta classe. Avendo a disposizione però sempre solo due aule per cinque gruppi si dovettero creare le pluriclassi o i doppi turni mattina e pomeriggio.
Nell’ottobre del 1957 venne inaugurata la nuova sede scolastica dall’allora sindaco
Furlan Angelo, denominata Scuola Elementare “Guglielmo Marconi”, sita in via Udine,
48, ora sede del centro culturale “G. Stefanuto”. La scuola è rimasta attiva esattamente
per trent’anni e vi insegnarono, con passione, maestri rimasti vivi nella memoria degli
abitanti di Settimo dopo la seconda guerra mondiale quali Traverso, Elda Lazzarini,
Maria Dalla Pozza, Lisetta Lazzarini, Silvia Andreon, Cornelia Marinato, Giovanni Trevisan, Nori Collovini, Angelo Furlan, Jole Zamberlan… Un solo insegnante aveva fino
a 50 alunni e risultava molto difficile controllarli malgrado la severità di quei tempi e
i metodi educativi che contemplavano bacchettate sulle mani, schiaffoni, punizioni in
ginocchio sui sassolini dietro la lavagna, ecc.: sistemi che purtroppo si dimostravano
relativamente efficaci.
Mentre negli anni ’40 in una classe si contavano anche 40 alunni, nel 1980 a Settimo
sono nati solo 4 bambini; questo decremento demografico è continuato per anni fino a
portare alla chiusura del plesso scolastico.
Gli orari e le presenze erano molto elastici e legati alla stagione e al tempo atmosferico: molti si assentavano per aiutare a casa nel periodo della vendemmia, della raccolta
del mais e della fienagione; quelli che abitavano più lontano spesso mancavano per l’im133
Memorie
praticabilità delle strade dovuta al cattivo tempo. Le strade comunali dell’epoca potevano
essere in terra battuta, d’estate ricoperte da centimetri di polvere che quando pioveva si
trasformavano in scie fangose e disseminate di pozzanghere; oppure sentieri campestri
difficilmente percorribili col cattivo tempo. L’orario d’inizio coincideva con l’arrivo del
maestro e della maggioranza dei ragazzi; la ricreazione poteva durare anche un’ora (con
il tacito assenso dell’insegnante) perché giocando il tempo volava.
Gruppi di ragazzi, denominati dal parroco di Cinto don Tarcisio “I selvaggi di Settimo, nel mese di maggio sparivano da scuola per giorni per andare a nidi: erano evidentemente più interessati e attratti dal risveglio della natura che dalle attività della scuola.
Durante le lezioni era attivo un frenetico traffico di figurine, palline, bottoni, pennini,
panini e quant’altro il povero mercato poteva offrire: nessuno aveva soldi e gli scambi
avvenivano attraverso il baratto.
L’unico in famiglia che aveva la cassa era “el paron de casa” che faceva gli affari,
andava al mercato, dava gli ordini, ecc.. Tutti gli altri componenti della famiglia dovevano
arrangiarsi con mille espedienti per poter soddisfare ogni bisogno o vizio; il sistema più in
voga consisteva nel tallonare le galline per recuperare le uova, riconosciute in ogni bottega come moneta sonante. Era un’attività non facile considerata l’agguerrita concorrenza
presente in famiglia: i bambini le usavano per procurarsi figurine, palline e altri piccoli
giochi; i più grandi le usavano per procurarsi sigarette (le più popolari ed economiche
erano le Alfa senza filtro), che si potevano acquistare anche sciolte, o tabacco da naso;
per le donne di casa erano una risorsa per l’acquisto di filo e stoffa per cucire i pochi
abiti indispensabili che poi ci si passava da un fratello all’altro. Le difficoltà contingenti
portavano a comportamenti poco ortodossi: ci si appropriava con facilità di quanto poteva
essere a portata di mano e ci si abituava presto ad avere mille occhi ed attenzioni. Tutti
cercavano di arrangiarsi; ricordo un giorno all’uscita di scuola lo scompiglio di un gruppo
di ragazzi più fortunati che nell’indossare la loro mantella, tipo “gaban” , si accorsero che
erano completamente prive di bottoni: un compagno aveva trovato il modo di procurarsi
il materiale indispensabile per partecipare al gioco e agli scambi.
Alcuni ricordano con allegria un episodio accaduto in una classe con un maestro particolarmente severo. Accade che questo insegnante tardò e i suoi trenta discoli, tutti riuniti
in aula, più passava il tempo più si scatenarono in un frastuono assordante. Tanto piaceva
quell’atmosfera di libertà e sfrenatezza che uno dei più svegli pensò di allungare quel tempo
chiudendo non la porta dell’aula bensì quella della scuola prima di dedicarsi con totale passione alle urla, alle risa e agli scherzi senza limite. Il maestro quando giunse bussò, picchiò
sulla porta con un bastone, urlò ma all’epoca bidelli non c’erano ed il baccano all’interno
era tale che nessuno lo udì. Quando, dopo oltre un’ora, riuscì a farsi sentire e aprire, entrò
adirato, fece mettere in fila i trenta sudatissimi e scompigliati discoli e li prese a calci finché
non sbollì l’ira. Quel giorno non si fece lezione, il clima era irrimediabilmente rovinato!
134
Memorie
Due volte all’anno il Direttore Didattico giungeva in bicicletta da S.Stino in visita
alla scuola: noi eravamo adeguatamente preparati dal maestro al suo arrivo, tutti in ordine, schierati e soprattutto buoni perché il maestro ci avrebbe fatto pagare molto caro un
comportamento poco educato.
Ragazzi e ragazze non giocavano mai insieme, sarebbe stato sconveniente in quanto
qualche “tortorella” (informatore) lo avrebbe certamente riferito a don Ernesto il quale,
con dovizia di particolari, avrebbe reso pubblico l’evento nel corso delle sue famose prediche domenicali.
All’epoca tutti andavamo a scuola a piedi perché c’erano pochissime biciclette che
dovevano venir lasciate a disposizione degli adulti e poi sarebbe stato troppo rischioso
lasciarla incustodita per ore.
Luigi Bagnariol
Il maestro Trevisan
L’insegnante maestro Trevisan era senza dubbio una personalità di spicco, godeva di
tutti gli attributi propri di un insegnante nostrano, cioè del paese dove abita ed insegna:
conosceva tutto di tutti, perché gran parte dei paesani erano stati educati da lui; era sempre
disposto ad aiutare con consigli e spiegazioni; ma qualche volta però quando per qualche
motivo certe persone lo facevano arrabbiare non esitava a farsi valere alzando il tono della
voce e parlando in lingua italiana pura, senza concessioni al dialetto.
Non è mai stato il nostro insegnante di classe anche se spesso capitava che sostituiva
la nostra maestra assente o in ritardo. Ricordo che durante una di queste supplenze, verso
il periodo pasquale, ci radunò tutti nella sua classe e ci spiegò molto bene il significato
della Pasqua e poi, siccome la maestra non arrivò, decise di illustrarci i luoghi d’Israele
dove Gesù trascorse la fine della sua vita e specialmente il luogo della crocifissione: il
monte Golgotha. Per farcelo capire meglio fece un bel disegno sulla lavagna, a colori! In
primo piano il Crocifisso, sulla cima del monte, con cipressi, olivi e soldati romani. Devo
dire che il maestro sapeva disegnare molto bene ed io ero stupito sia del disegno che della
storia anche se la conoscevo già bene perché il prete ce l’aveva spiegata durante la lezione
di catechismo. Quando il maestro finì il suo bel disegno ci chiese se ci piacesse e che ora
toccava a noi; dovevamo tirar fuori il nostro quaderno, i pastelli e copiare il suo disegno
dalla lavagna. Io ho cercato di fare il meglio ma purtroppo non riuscivo a disegnare bene
i piedi di Gesù. Ho chiesto allora l’aiuto del maestro! Venne giù dalla cattedra, osservò il
mio disegno, prese la matita, fece i piedi di Gesú e stava per ritornare in direzione della
cattedra quando improvvisamente si fermò, riguardò il mio disegno e disse a voce alta:
– Giorgio, ma tu hai fatto un prato pieno di fiori al posto del monte, come se Gesú fosse
in mezzo al Palú – Io candidamente risposi: – Scusi Signor maestro, ma ho sentito che
135
Memorie
Gesú è morto per tutti, anche per noi a Settimo –. – Bene bambino, bravo, si può pensare
anche così –, e con un sorriso tornò a sedersi sulla sua sedia, che a me sembrava un trono
dietro la cattedra.
Gita scolastica
Era da sempre un rituale in primavera, il recarsi tutti insieme, guidati dalla maestra, al
Palù: un paradiso di prati in fiore, di acque limpide e sane, di odore di primavera dove chi
ama la natura sente respirare l’anima. La merendina, se non era già stata divorata prima,
qui ci sembrava più del solito. Le bambine ed i bambini camminavano tranquilli, in fila,
due per due, parlavano sotto voce per non disturbare la natura ed il loro mormorio faceva
bene agli alberi, alle erbe alte, accarezzate dal vento, alle acque tranquille che scorrevano
nel canale dirette verso il mare. Naturalmente era proibito avvicinarsi troppo alla sponda,
o lo si poteva fare solo in presenza della maestra, che, dopo averci spiegato la differenza
tra viole mammole e violette, ci diede un’oretta di tempo libero per fare ognuno ciò che
più lo interessava. C’era chi raccoglieva fiori, chi disegnava, chi chiacchierava, chi si
sdraiava sull’erba per godersi i primi raggi caldi di un sole che anticipava l’estate. Poi
tutti contenti e anche un po’ stanchi abbiamo fatto ritorno in classe, puntuali all’orario di
fine lezione per far ritorno alle nostre case e raccontare a casa quanto era meravigliosa la
zona del Palù.
I primi giorni di scuola
Il primo di ottobre del 1950 cominciò per me un bel periodo durante il quale mi sentivo in mani sicure, quelle della gentile maestra da Venezia, ed in buona compagnia dei
compagni/e di classe. Con un grembiulino nero ed una striscia rossa verticale attaccata al
petto sulla sinistra del grembiule iniziò quella grande avventura chiamata “scuola”.
Il dolce far niente dalla mattina alla sera finì! Ma non era proprio così! In quel tempo
si lavorava già in casa e si avevano dei compiti ben precisi: di mattina presto, con una bicicletta da uomo adulto, che potevo usare solo infilandomi nel triangolo del telaio, dovevo
andare a portare il latte in latteria a Settimo dal casaro, el Signor Valentin, che pesava il
latte, scriveva il peso nel libretto personale della nonna, il Nr. 11, e ci salutava, spesso
anche in lingua francese: bon jour! Poi dovevo preparare la legna per la stufa, accudire
i fratelli più piccoli, ecc.. Devo ammettere che la scuola ha portato per me un notevole
sollievo e la trovavo più interessante del lavoro suddetto. Ero molto curioso di poter saper
scrivere e leggere…forse già a Natale! Non vedevo l’ora di cominciare a fare le “aste” su
quel quadernino a quadretti con la matita ben appuntita.
La prima “ricreazione”, verso le ore 10 e mezza, rimane per me indimenticabile!
136
Memorie
Infatti a quell’ora fecero il loro ingresso nel corridoio d’entrata dell’edificio due donne
con un grande paniere pieno di panini freschi, profumati, imbottiti di formaggio fresco,
profumatissimo, quello che appunto passava dalle sante mani del casaro Valentin. Mi
mesi in fila ma purtroppo senza successo!!! Quei panini erano preparati solo per i ragazzi
più poveri, cioè quelli che in casa non possedevano la vacca. Noi invece, cioè la nonna, ce
l’aveva e quindi niente panino. Devo ammettere però che qualche volta, quando mancava
qualche povero, bastava andare su e giù per il corridoio con occhioni grandi e l’espressione affamata e le buone donne mi accontentavano almeno con la metà di un gustoso
panino. E quel sapore, quell’odore lo sento ancora oggi, quando ho fame.
Il presepio
Da poco superati i primi esercizi con aste, cerchi e quadrati, che ci fecero conoscere
le vocali e, i, u, o, a , e le consonanti, che arrivò il periodo dell’Avvento, cioè il tempo di
preparazione alle Feste del Santo Natale. Mentre le bambine dovevano preoccuparsi delle
statuette ricavandole da disegnini, i ragazzi erano incaricati di cercare muschio, procurare
pezzi di legna, radici d’alberi e quant’altro poteva essere adatto per costruire un presepio,
piccolo ma bello, che diveniva il punto più bello ed attraente della classe fino al sei gennaio del 1951.
L’idea di portare anche della creta in classe per formare così una grotta si rivelò
purtroppo molto svantaggiosa perché, per mancanza d’esperienza con la lavorazione di
quel materiale, né uscì un gran pasticcio che solo la maestra, con grande comprensione e
buona volontà, riuscì a risolvere.
Gli ultimi giorni prima di Natale erano dedicati alle prove scritte, con il poco di scrittura che eravamo riusciti ad imparare, di una letterina al papà che poi si usava mettere
sotto il piatto al pranzo di Natale.
La tartaruga
La nostra famiglia abitava nella zona della cosiddetta strada alta, oggi Viale Pordenone, e per andare a scuola a Settimo usavo di solito andare fino al Cisiol per poi girare
a sinistra fino alla scuola. Quando però faceva bel tempo ed i campi erano asciutti preferivo fare una scorciatoia: dal retro della nostra casa seguivo la stradela fino alla fine del
nostro campo, saltavo poi il ruscello, el trator, che portava sempre acqua alta da trenta
a cinquanta centimetri; prima buttavo la cartella e poi con una rincorsa saltavo dall’altro
lato della riva, per continuare su un sentiero dei campi della famiglia Fantin. Una mattina, dopo aver osservato con cura la riva prima di saltare vidi una tartaruga tra l’erba che
sembrava mi guardasse muovendo la testolina come in cenno di saluto. Decisi di metterla
137
Memorie
in cartella e portarla a scuola. Senz’altro ho incrociato il piano di lezione della maestra
per quel giorno. Ma invece lei ci spiegò sul tema tartarughe molte cose utili a sapere e noi
tutti, zitti ed attenti abbiamo ascoltato ed imparato. Al termine della lezione ho dovuto
promettere di riportare la tartaruga dove l’avevo trovata e lasciarla libera al suo destino. E
così feci; di tanto in tanto, anche dopo anni, mi reco volentieri in quel luogo! Purtroppo
la tartaruga non c’è più.
Giorgio Fratte
Famiglia e lavoro
Le gerarchie sociali erano chiare: come in famiglia comandava e disponeva “el paron
de casa” tra noi ragazzi i più grandi potevano prendere possesso della piazza e i più piccoli dovevano cercarsi spazi appartati attorno alla chiesa per poter giocare in pace.
Le funzioni religiose, a dispetto di don Ernesto e delle sue ”tortorelle”, specialmente i
vesperi serali e i rosari di maggio, erano occasione di incontri con le ragazze che potevano
ottenere il permesso di uscire solo in quelle circostanze a differenza dei maschii che erano
più liberi di muoversi.
Le importanti occasioni in cui tutto il paese di riuniva erano le tradizionali funzioni
religiose (rosari, processioni, feste del patrono); alcuni lavori nei campi quali la raccolta
e la trebbiatura del frumento, la vendemmia, il taglio del fieno, la raccolta del mais, il rito
dell’ uccisione del maiale, la nascita dei vitelli. Le famiglie allora si univano e aiutavano
vicendevolmente in quanto non c’erano macchine e occorreva molta manodopera.
Altro momento di socializzazione era il ritrovo nel periodo invernale nelle stalle più
capienti delle famiglie più numerose. Tutto questo univa il paese e creava fratellanza e solidarietà ma era anche un modo per trasmettere i valori e le tradizioni che caratterizzavano
e sostenevano quella società. Per esempio il taglio del fieno, apparentemente un’attività
ripetitiva e insignificante, era invece un rito. Il taglio veniva preparato in maniera accurata
perché i tempi dovevano essere i più brevi possibili. All’alba i gruppi di uomini più bravi,
affiatati e ricercati, partivano col falsin, la piera e il fiasc de vin, perché il fieno umido
di brina è più tenero e si taglia più facilmente. Iniziava la gara al più veloce. Ogni paese
aveva i suoi campioni. Verso mezzogiorno i falciatori rientravano a casa, mangiavano ed
andavano riposare mentre le donne, dopo aver sistemato tutto e tutti partivano per i campi
a rastrellare ed ammucchiare il fieno, tenendo d’occhio il cielo e sidando le nuvole. A
questo punto tornavano in scena i professionisti che caricavano il fieno sui carri e lo trasportavano in tieda o sulla meda. Queste operazioni erano molte delicate perché il carro
aveva le ruote in legno, era costruito alla buona e quindi poco stabile, inoltre era trainato
da mucche o buoi che facevano spesso le bizze e dovevano percorrere strade che erano un
disastro, piene di buche e corriade. I percorsi tra il campo e l’abitazione alle volte erano
138
Memorie
lunghi e quindi saper caricare bene un carro faceva risparmiare tempo perché occorrevano
meno viaggi e rischi di ribaltamenti lungo il tragitto che avrebbero fatto perdere molto
tempo. Ogni paese aveva i suoi campioni, sempre molto ricercati, nel sistemare il fieno
sul carro.
A quei tempi la considerazione della gente verso una persona non era legata alla sua
situazione finanziaria perché per tutti il nemico comune era la povertà. Godeva di considerazione il saper far bene un certo lavoro, o gioco. C’era chi emergeva nel taglio del
fieno, chi nel sistemarlo sul carro, chi catturava più passere con il diavolon, o rane con
la fiocina, o anguille e pesci “seccando” i fossi, chi si arrampicava meglio sul palo della
cuccagna o sugli alberi, chi attraversava più volte le cave grandi, chi si tuffava da una
maggiore altezza dal pioppo nelle cave , chi lanciava più lontano il cibè. Questi erano
gli eroi e di loro si parlava molto; erano rispettati e citati come esempio. Oggi lo status
sociale dipende dalla cilindrata della propria automobile, dal vestito firmato; dipende
dall’apparire e non dall’essere.
Luigi Bagnariol
Chicche di vita quotidiana
Erano ancora tempi duri, qualche anno dopo la seconda grande guerra! E per mancanza di risorse noi bambini portavamo i pantaloncini corti anche d’inverno! Per i più freddolosi c’era la possibilità di portare le calze come le donne; c’era invece qualche bambino
che non le voleva indossare, preferiva piuttosto patire il freddo e mettere calzettoni di lana
che arrivavano al ginocchio, nella maggior parte dei casi, fatti a mano dalla nonna. Anch’io ero uno di questi. E così, molto spesso si correva a scuola perché nessuno sentisse il
battere dei denti. Una bella mattina, fredda ma serena, mentre mi recavo a scuola, decisi
di fare una slittatina sul ghiaccio nel fosso davanti la casa di Arnaldo. Con gli zoccoli di
legno neri, con le “brocche” sotto la suola perché lo spessore di questa non si consumasse
troppo in fretta, si slittava da “Dio”. Per due o tre volte andò anche bene! Ma ad un certo
punto il ghiaccio non resse e sono piombato nell’acqua gelida fino al ginocchio…
Pian piano sono riuscito a riconquistare la riva e portarmi sul ciglio della strada. - E
adesso che faccio? – Mi sono chiesto. Andare a casa, no, sarebbero state botte sicure!
Meglio andare a scuola: mi piaceva di più ed era anche divertente. Arrivato in classe, con
qualche minuto di ritardo, i compagni si misero a gridare: - Maestra! Guardi Giorgio,
sembra che abbia due “baccala” alle gambe! Infatti con il freddo che faceva i calzettoni
erano bianchi e ghiacciati. La maestra mi aiutò subito a togliere prima gli zoccoli, che
mise vicino alla stufa, poi mandò un ragazzino a prendere della legna per incrementare la
fiamma che avrebbero dovuto asciugare me, gli zoccoli ed i calzettoni che, dopo avermeli
tolti con grande attenzione, mise ad asciugare sopra la stufa. Nel frattempo i compagni
139
Memorie
mi offrirono chi il cappottino, chi la sciarpa e tutti fecero del loro meglio per soccorrermi; dei veri amici! La maestra aveva previsto per quel giorno un dettato, che cominciò
subito dopo avermi soccorso e non appena in classe era calato quel silenzio da tomba che
precedeva ed accompagnava i dettati, dall’inizio fino alla fine. Ma quel giorno no, non fu
così!
Ad un certo punto qualcuno improvvisamente gridò: c’è odore di carne bruciata!
Maestra, i calzettoni di Giorgio arrostiscono!… E così fu, quel giorno ritornai a casa con
i calzettoni arrostiti.
Giorgio Fratte
Emigrazione
Settimo è sempre stata terra di emigrazione, il tessuto sociale era composto da operai
edili, carpentieri,donne di servizio, contadini piccoli proprietari e da famiglie di mezzadri
molto numerose.
Le famiglie per vivere hanno sempre avuto bisogno delle risorse provenienti dalle
rimesse degli emigranti in quanto le fonti di guadagno, in paese, non erano sufficienti al
sostentamento di tutto il nucleo famigliare e derivavano quasi esclusivamente dalla stalla
composta anche da un’unica mucca e dal allevamento del baco da seta, spesso fatta anche
nelle camere da letto.
L’emigrazione avveniva a cicli e a flussi, si scriveva a conoscenti, parenti che lavoravano fuori per chiedere lavoro; il tam-tam funzionava e infatti i paesani di Settimo si
ritrovavano nelle stesse zone. Un ruolo importante per i contatti era rivestito dal parroco.
Negli anni 50, Settimo si era completamente svuotata: erano rimaste poche centinaia
di persone quasi tutti vecchi e bambini, molti avevano trovato lavoro in zone d’Italia più
ricche, quali la Lombardia, il Piemonte o all’estero, in Francia, nell’edilizia e nell’agricoltura, in Belgio nelle miniere di carbone, in Germania come camerieri gelatai o nelle
fabbriche. Nelle Americhe, in particolare Canada e Argentina, questi emigranti si sono
trasferiti per lo più stabilmente e i rapporti con il paese si sono piano piano sempre più
indeboliti.
Altro fenomeno rilevante è stata l’emigrazione stagionale in Svizzera: il governo
Svizzero stipulava solo contratti di lavoro annuali onde evitare che si potesse richiedere
la cittadinanza o il ricongiungimento famigliare e così i nostri lavoratori erano costretti
a rientrare nel periodo invernale, di solito verso Natale, rinvigorendo il paese e portando
qualche regalo a chi era rimasto. Gli emigranti di Settimo in Italia o nel resto dell’Europa
rientravano ad Agosto, quando si fermava per ferie l’attività lavorativa.
Questi ritorni erano sia un modo per poter ricongiungersi con i propri familiari sia
un modo di fare le ferie molto economico, avendo o la casa propria o ancora indivisa con
140
Memorie
parenti dai quali venivano ospitati. Di conseguenza anche in agosto Settimo si ripopolava
e si creavano rapporti e amicizie che rivivevano ogni anno. Con il passare del tempo il
dialogo diventava meno nostrano perché gli esterni assorbivano sempre di più il modo di
vivere delle città in cui vivevano e c’erano sempre meno affinità con i locali che quindi,
un po’ alla leggera, affermavano che i romani fossero (a torto?) sbruffoni, i milanesi sapientelli, ecc...
Negli anni ’60 questo finì perché gli svizzeri sono quasi tutti rientrati, trovando lavoro
in Italia dove iniziava il boom economico, e gli altri lentamente avevano perso i contatti
con il paese d’origine.
Molti emigranti di Settimo o loro discendenti si sono fatti onore all’estero; alcuni
hanno fatto fortuna come maestri d’arte: Angelo Cesselon, pittore di cinema, a cui è stata
dedicata una via e Luciano Cesco importante artista di Locarno. Altri si sono distinti in
varie attività – cito per tutti Bortolusso sindaco di S. Paolo del Brasile –. A Patrick Battiston, grande calciatore capitano della squadra nazionale francese, e Jean-Marc Furlan,
calciatore di première division nazionale francese, è stata conferita nel giugno 2005 la
cittadinanza onoraria di Cinto Caomaggiore anche per sottolineare le origini cintesi dei
loro genitori (foto in basso). Altri di Settimo si sono distinti all’estero: cito ad esempio
Giorgio Frate che è stato capo del personale della Volkswagen e attuale presidente della
Fondazione Dante Alighieri a Monaco.
Luigi Bagnariol
141
Memorie
Foto di gruppo di con maestro Giovanni Trevisan. Anni ’40.
Foto di gruppo di con la maestra Lisetta Lazzarini. Anni ’40.
142
Memorie
Ottobre 1957: inaugurazione della scuola elementare G. Marconi di Settimo.
Recita natalizia nella scuola elementare di Settimo. Anni ’60.
143
Memorie
Scuola di cucito in casa Paola negli anni ’50. Da sinistra: Elia Vidotto, Anna Maria Daneluzzi, la
maestra Maria Schiavo, Flavia Travain e Virgilia Vidotto.
144
ARTISTI DI SETTIMO
Antonio Paissan
Nato a Settimo il 12.5.1913, legato da una profonda amicizia a Angelo Cessalon, frequenta per corrispondenza l’Accademia Beato Angelico di Torino
e l’artista Callisto Bornancin a Fossalta di Piave. Studia decorazione con
Michelin di Portogruaro, allievo del Donadon di Pordenone (autore degli
affreschi di Villa Bornancin). Dopo la grande guerra parte per la Svizzera
dove esegue molti ritratti e paesaggi su commissione. Partecipa a varie mostre fra cui una organizzata dalla ditta G. Fischer a Sciaffusa. Rientra in Italia
nel 1972, si dedica ancora per qualche anno all’arte. Problemi di vista non
gli permisero di completare come avrebbe voluto il dipinto di S. Giovanni e
la Madonna (foto in basso) che don Danilo Favro volle comunque esporre
presso la chiesetta della Concezione. Muore a Cinto nel 1985.
XXXIII
Ritratto di Antonio Paissan
Angelo Cesselon
XXXIV
ARTISTI DI SETTIMO
Angelo Cesselon
Angelo Cesselon è nato a Settimo di Cinto Caomaggiore il 17 Febbraio
1922. Il suo primo maestro fu l’artista cintese Toni Paissan con cui rimase in
grande amicizia per tutta la vita. A quindici anni si trasferì con tutta la famiglia a Roma dove cominciò a frequentare alcuni studi artistici, pubblicitari e
cinematografici. Di estrema importanza per la sua formazione fu la pluriennale collaborazione nello studio di cartellonistica di Ercole Brini. Alla fine
degli anni ‘40 apre uno studio personale e diventa in pochi anni uno dei
più noti pittori di cinema. Ha lavorato per tutte le grandi case di produzione
e distribuzione: Metro Goldwin Mayer, Twenty Century Fox, Enic, Minerva, Titanus, Paramount, Columbia, Rko, Fida, Cineriz. Realizza migliaia di
manifesti, compresi quelli di alcuni film celeberrimi come “Grand Hotel”,
“Don Camillo”, “Marcellino pane e vino”, “Totò sulla luna”, “ Notorius”,
“Io ti salverò”, “La donna più bella del mondo”, “Soldato blu”. Memorabili
furono i suoi ritratti di Marilyn Monroe, di Ingrid Bergman, di Ava Gardner, di Paul Newman, di Gina Lolobrigida e di molti altri protagonisti del
cinema internazionale. Nel 1955 consegue il premio Spina-Gambellotti
come miglior pittore cinematografico italiano, ottenendo sucessivamente
riconoscimenti in tutto il mondo. Nel 1958 viene indicato come miglior
ritrattista internazionale e invitato
a realizzare i ritratti di uomini politici, come l’allora Presidente della
Repubblica Giovanni Gronchi e di
Papa Giovanni XXIII. Negli anni ‘60
comincia a dedicarsi sempre più
intensamente all’arte sacra e all’illustrazione di libri. Di particolare
importanza è la realizzazione del
manifesto per l’VIII Centenario della
nascita di San Francesco. Nel campo dell’illustrazione del libro c’è
da segnalare l’esecuzione di trenta
tavole per la “Divina Commedia” e
l’illustrazione del libro “Cuore” nel
1977. L’artista è scomparso a Velle- Angelo Cesselon davanti a un dipinto
tri nel Settembre 1992.
di Antonio Paissan
XXXV
Bozzetti cinematografici di Angelo Cesselon. In alto a sinistra “Dinastia indomabile” (1951), a destra
“Il bacio di Venere” (1965), sopra “Io ti salverò” di A. Hitchcock (1959)
XXXVI
Bozzetto per “Don Camillo” di Duvivier (1962)
Angelo Cesselon
XXXVII
ARTISTI DI SETTIMO
Luciano Cesco
Luciano Cesco è nato a Cinto Caomaggjore
(VE). Ha studiato mosaico, pittura e scultura. Sin da giovane emigra in Svizzera stabilendosi a Locarno dove vive e opera da 50
anni. A 25 anni esordisce nel mondo delle
arti figurative impegnandosi costantemente nella ricerca di nuove soluzioni soprattutto nel settore del restauro conservativo
e in questo è l’artefice unico e riconosciuto di un sistema radicalmente nuovo che
permette di staccare e riportare (su tela)
ogni genere di affresco e dipinto, compresi
quelli “magri”, ovvero sottilissimi, di tele
vecchie e precarie. È presidente dell’Associazione internazionale dei maestri restauratori (“Ver Ars”), le cui sedute si tengono
in Vaticano. Dell’associazione fanno parte
cinquanta artisti di tutto il mondo. È inoltre
presidente dei Maestri restauratori, associazione che ha sede a Locarno e
che fa parte del “pool” di analoghe associazioni attive a Roma, Firenze,
Sondrio, S. Maria Maggiore (Valle Vigezzo). Il decreto legislativo n. 203 del
13.3.1952 gli ha attribuito la nomina a docente straordinario nel ruolo di
“primo” per l’insegnamento delle applicazioni artistiche teorico pratiche. Ha
ricevuto numerosi
riconoscimenti e
ha partecipato su
invito, a esposizioni e concorsi a livello internazionale. È stato invitato
al “Triangolo d’arte
figurativa
europea”, esposizione
itinerante dal 2004
al 2006 a Londra,
Berlino e Mosca,
ristretta a soli cinquanta artisti.
XXXVIII
Via Crucis: prima caduta
Luciano Cesco
XXXIX
Volatili
Luciano Cesco
XL
Casa in via Udine
Gioia Boccardi
XLI
Palazzo Regazzoni Sagredo
Marcello De Vecchi
XLII
La quercia del Palù
Lenci Sartorelli
XLIII
Borgo San Giovanni: casa Bernava
Eddy Nociforo
XLIV
La chiesa di Settimo vista dal Palù
Julia Populin
XLV
Casa Zoratto
Rita Albertario
XLVI
Casa in Boschetta (incisione)
Francesco Marcorin Bogdanovich
XLVII
L’angelo dell’Annunciazione (da affresco di G. da Tolmezzo)
XLVIII
Orietta Celant
IL ’900 A SETTIMO
Mario Miorin
Premessa
Il tema che mi è stato assegnato per questa pubblicazione, in sé affascinante, intimorisce non poco. Infatti, cent’anni racchiudono un lasso di tempo che a volte si stenta a
comprendere fino in fondo anche se questi anni si riferiscono ad una piccola realtà che,
come nel nostro caso, è quella del paese di Settimo.
Il contributo che cercherò di dare in queste righe, sarà costituito pertanto da uno
sguardo “veloce” sull’ultimo secolo di vita di Settimo, meritando il tema ben altro investimento sia in termini di tempo sia in termini di spazio.
È superfluo, date le considerazioni, che richiami in questo lavoro notizie ben note o
elenchi in ordine cronologico una serie di date; solo di alcune mi approprierò, quando
eventi di carattere nazionale ed internazionale abbiano inciso fortemente nella vita e nel
pensiero della gente del nostro paese.
Due guerre mondiali coinvolgono, con tutta la loro drammaticità, gli abitanti di Settimo ed il suo territorio. Dirò subito che ne parleremo, senza per questo farci coinvolgere
in posizioni (il più delle volte di profilo) demagogiche o di parte. Cercherò, invece, di
associarmi al pensiero più illuminato secondo il quale tutti i morti meritano rispetto a
prescindere dal colore della divisa o dalle idee per le quali combatterono e persero la
vita, tenendo bene in mente le cause assai diverse che hanno provocato le morti. Questo
vale in particolare per il secondo conflitto mondiale del secolo scorso e per quanti hanno
sacrificato la loro vita dopo l’8 settembre 1943.
21 ottobre 2006 giorno di S. Orsola
Settimo: un secolo di vita paesana
Come sempre accade quando un secolo finisce si è presi dall’ansia di sapere come
sarà il secolo che verrà. “Mille e non più mille” sta scritto nella Sacra Bibbia; ciò non ci
aiuta a stare un poco più tranquilli con noi stessi, per quella fiducia nel domani che sempre ci manca e ci rende il futuro ancora più incerto e cupo, prendendo in parte proprio
dall’enunciato biblico il suo significato più enigmatico e, se si vuole, anche più umano.
Sul finire dell’Ottocento anche a Settimo arrivano le prime innovazioni, portando
un miglioramento delle condizioni di vita della gente della campagna. Ci vorranno però
molti decenni per debellare fino in fondo il sottosviluppo, la precarietà sociale e culturale
145
Il ’900 a Settimo
dei mezzadri e di quanti si dedicano unicamente al lavoro della terra per il loro sostentamento. Un’epidemia di febbre tifica fa si che anche in paese a Settimo si perforino i primi
pozzi artesiani che andranno via via a sostituire i pozzi tradizionali assai meno igienici e
funzionali.
Intanto l’Ottocento finisce, presentandoci un ’900 con tutte le sue contraddizioni ed
eventi tragici. Per tutti i primi cinquant’anni del secolo passato la nostra gente vivrà situazioni drammatiche. Le disgrazie si annunciano presto e non si fanno attendere.
“La Patria del Friuli ”,una pubblicazione che si stampa a Udine all’inizio del secolo,
fa memoria di Settimo. È il 22 gennaio 1904, il foglio riporta con ampi dettagli di cronaca
un incidente mortale di caccia, avvenuto, in quella data, proprio in via Basedat. Cita il fatto anche Gian Piero del Gallo nei suoi Annali di Cinto alla pagina 160, per le edizioni del
Comune di Cinto Caomaggiore. L’incidente è forse un presagio, per quanto sta accadendo
tra Austria e Serbia che sfocerà in quell’immane tragedia che fu la prima grande Guerra
Mondiale. Il 24 maggio 1915 l’Italia entra in guerra. Settimo contribuirà, come il resto
della nazione, all’invio dei suoi figli a combattere gli eserciti Austro-Ungarici. Bernava Antonio, Campaner Vittorio, Candoni Biagio, Cesco Giuseppe, Drigo Davide, Furlan
Umberto, Giusti Arturo, Marson Luigi, Paissan Giovanni, Ros Antonio, Scremin Antonio, Vecchiato Primo, Zaghis Evaristo, Campagnolo Gio Maria, Campanerutto Oreste,
Cecconi Luigi, Chiaradia Antonio, Fantin Giovanni, Gasparotto Giovanni, Liut Angelo,
Marzinotto Giuseppe, Pinos Enrico, Savian
Mario, Sigalotti Antonio, Visentin Luigi, Zanet Pietro. Questi i loro nomi ricordati ai piedi del monumento ai caduti in guerra, posto
davanti alla chiesa di Settimo. “Morirono in
guerra, vivono nella gloria” recita la lapide
voluta dalla nostra gente.
Si arriva all’autunno del 1917. Il 5 novembre, Settimo si è trovato, stretto come
d’altronde anche Cinto, tra l’esercito austriaco e quello italiano. Alla fame e alla carestia
si aggiungono i saccheggi, le predazioni e le
sottrazioni imposte dai due eserciti belligeranti. Al dramma si aggiunge il dramma. La
ritirata austriaca, dopo la disfatta del Piave
del 15 e del 16 giugno 1918, fa subire alla
gente di Settimo altri patimenti forse superiori alla prima ondata di invasione.
146
La chiesa di Settimo negli anni ’40.
Il ’900 a Settimo
Passano alcuni giorni. Il 28 dello stesso mese di giugno del 1918, nelle vicinanze
di Parigi, viene firmato il trattato di pace con la Germania, noto come: “Il trattato di
Versailles”.
Una lenta ripresa aspetta gli abitanti del nostro paese, i sacrifici non si contano, come
non si contano i paesani che ostinatamente cercano di affrancarsi dalle dure condizioni
della mezzadria e dall’unico reddito agricolo. La tenacia della nostra gente è premiata.
Molti sono gli abitanti che ricoprono ruoli importanti nell’area portogruarese. L’arrivo
del sacerdote don Ernesto Linguanotto, nel febbraio del 1919, porta un contributo forse
determinante alla formazione delle coscienze delle donne e degli uomini di Settimo.
Le attività messe in cantiere da questo severo uomo di chiesa sono ancora nella memoria di molti paesani, di lui molto si è scritto. Un esauriente profilo su Linguanotto lo
si può trovare anche in “Curato prete e arciprete”, una breve biografia che io stesso ho
inserito nel libro “La neve e il Sahara”, per le edizioni della Pro Loco di Cinto Caomaggiore del 1998. Una lunga fila di nomi, alcuni di grande profilo, sono usciti dalla scuola
di pensiero di don Linguanotto, ne ricordiamo alcuni come Angelo Furlan poi Sindaco a
Cinto, Angelo Cessellon, insigne pittore a Roma, e altri ancora: Giuseppe Fantin, Pietro
Infanti, Egidio Miorin, Mario Celant, Renato Celant, l’elenco sarebbe lunghissimo e io
mi assolvo dal continuarlo.
La prima Grande Guerra si è faticosamente dimenticata, il desiderio di riscatto dei
nostri paesani si fa pressante, ed ecco allora che si apre la via dell’emigrazione verso i
paesi europei ed americani. Roma, nei primi anni venti, vede una vera e propria colonia
di settimini, impegnati in svariati settori lavorativi; i nostri paesani sanno dire la loro con
apprezzamenti ancora oggi riscontrabili.
Piace anche qui ricordare Luigi Vaccher “Gigi” che a Roma prestò la sua cazzuola a
molte opere architettoniche di rilievo. Anche di lui si trova un profilo nel libro “Scarpe
gialle e altre tracce” da me pubblicato nel 1996.
A ben indagare, anche nella piccola realtà di Settimo, pare, in buona sostanza, che sia
proprio il tema dell’emigrazione il fatto economico e sociale più importante e ricorrente
di tutto il secolo ventesimo o, almeno, in gran parte di esso, così come lo è stato per Cinto
Caomaggiore, per il resto dei comuni veneti e per gran parte dell’Italia.
Il fenomeno migratorio, tanto sentito anche ai giorni nostri per l’afflusso quotidiano di
extracomunitari verso le nostre coste e quelle europee, altro non fa che riconfermare ancora una volta, la ciclica necessità delle genti di cercare di migliorare le proprie condizioni di
vita spingendosi là dove le condizioni economiche e sociali appaiono più favorevoli.
I nostri paesani sono emigrati per tentare di liberarsi dal sottosviluppo, dal duro, unico e poco redditizio lavoro agrario, dalle condizioni familiari gravate da numerosi figli,
come emigrano tante altre persone provenienti da aree poverissime, gli immigrati dei
giorni nostri.
147
Il ’900 a Settimo
L’andare per il mondo in cerca di lavoro, – lo dico per esperienza personale, ma
ognuno dei miei paesani potrebbe farlo assai meglio di me; – associa l’individuo a due
condizioni: lasciare parte dei propri affetti e parte di se stessi a casa e l’incertezza nel
proprio futuro. A ciò vanno aggiunti la convinzione e il timore di recarsi in un paese con
lingua, costumi e tradizioni diverse dalle proprie. Tutto questo si potrebbe riassumere in
una parola sola: “lo stato d’animo dell’emigrante”. Una condizione, un patimento, ma
forse la parola giusta è “struggimento”, la nostalgia che si paga con una pietra sul cuore,
– Mi rivolgo soprattutto ai giovani, convinto che questo sia stato un tema ricorrente anche
in ognuna delle loro famiglie –.
Questo aspetto sociale dell’emigrazione è stato più volte citato nei nostri scritti e nelle pubblicazioni curate sia dal nostro Comune, sia in quelle portate in stampa dalla nostra
Pro Loco che agli emigranti di Cinto Caomaggiore ha dedicato il calendario del 2006. Il
tema, tuttavia, meriterebbe da solo uno studio approfondito. In attesa che questo lavoro
venga svolto, cercherò qui, anche se frammentariamente, di colmare questa mancanza.
A controbilanciare il peso ed il costo di quanto sopra annunciato, va comunque detto
che molte persone di Settimo, e di Cinto Caomaggiore, hanno trovato proprio nei paesi di accoglienza il luogo dove realizzare fino in fondo le loro aspettative, i loro sogni:
sogni di emigranti, che, come tutti i sogni, “muoiono all’alba”. Qualcuno ce l’ha fatta,
raggiungendo il proprio obiettivo, qualcun altro no. I ricordi di famiglia mi aiutano nel
citare l’amaro caso di una sorella di mio nonno paterno Giuseppe, la cara Rosa, sempre
ricordata nelle preghiere della sera dei defunti. Rosa partì da Genova i primi giorni del
1901 con la propria famiglia con un piroscafo a vapore diretto in Brasile; di lei si persero
le tracce e non si seppe più niente. A nulla valsero le ripetute ricerche fatte in ogni sede
per oltre un cinquantennio.
Una canzonetta dei primi anni del secolo ci pare emblematica, eccone un verso: “Andremo in Merica/ In tel bel Brasil/ E qua i nostri siori/ I lavorarà la tera col badil!!!”. Salvo
poi riconoscere l’inganno. “Se no se more dal bisso, se more dai paroni”. Scriveva, in quei
giorni un emigrato sandonatese, aggiungendovi anche nella sua lettera, il lavoro mal retribuito, la carestia e, persino, la morte sempre incombente e ancora scriveva dei documenti
di espatrio che, una volta arrivati in suolo brasiliano, “sparivano”, impedendo così ogni via
di ritorno in patria. È triste constatare come la storia si ripeta anche ai giorni nostri.
Sorte meno amara hanno quelli che in quel periodo, si dirigono verso i paesi europei.
Austria e Germania le prime mete, seguono via via un po’ tutti gli altri paesi; fin quando,
le restrizioni del regime mussoliniano mettono di fatto un freno all’espatrio dei nostri
concittadini. Questo però, occorre notare, è solo il risultato finale e, forse, anche il più
“accettabile” prodotto dal ventennio fascista.
Come sempre accade agli uomini, la pace ha i giorni brevi, lo sanno bene i nostri
paesani di Settimo, sia quelli che vedono nel regime fascista la casa delle proprie idee, sia
148
Il ’900 a Settimo
quelli che guardano verso Mosca e anche chi
non sa decidersi o sta più semplicemente alla
“finestra”. Il 10 giugno 1940, alle ore 18.oo,
dal balcone di Piazza Venezia a Roma, Benito
Mussolini toglie a tutti il tempo di riflettere,
annunciando: “le dichiarazioni di guerra sono
state già consegnate agli ambasciatori di Gran
Bretagna e di Francia”.
Al dramma si aggiunge il dramma. Ed è
palpabile lo sconforto della nostra gente che
ancora non ha dimenticato le ferite prodotte dal
primo conflitto. Una serie di nomi, di località
alquanto desueti e dalla difficile pronuncia incomincia a diventare tristemente nota alla gente di Settimo. Nikolajewka,Smejka, Giambul,
Cefalonia Sidi el Barrani, El Alamein e, molti
altri sinistri luoghi di combattimenti corrono
di bocca in bocca, quando, l’8 settembre 1943,
il Re Vittorio Emanuele III comunica alla nazione italiana, attraverso la radio, la firma del1942: cerimonia patriotica davanti al monumento. l’armistizio con gli eserciti alleati. In guerra i
drammi non finiscono mai. “La guerra continua”, aggiunge il Re. Mai frase è stata più
indagata dagli storici, restando ancora oggi incomprensibile.
Purtroppo, invece, si conoscono bene i nomi dei nostri paesani che caddero combattendo in quei luoghi ameni, bene impressi ai piedi del soldato che s’innalza fiero sopra
il monumento ai caduti che a Settimo li ricorda: Andreuzza Silvio, Baldo Marino, Battistella Catrino, Bernava Ferrucio, Moro Egidio, Sut Giovanni, Valvassori Rino, Zocarato
Giorgio.
Non passa neanche il mese di settembre quando il 23 dello stesso mese, i tedesco liberano Mussolini dalla sua prigionia sul Gran Sasso. A Settimo ci sono alcuni che esultarono, altri invece presagiscono subito le tenebre che avrebbero avvolto le coscienze umane.
Infatti il giorno 12 del mese seguente, Benito Mussolini in persona, affiancato dal fedele
Graziani, ministro della difesa della Repubblica Sociale Italiana, proclama la Repubblica
di Salò. Al conflitto sui Fronti, si aggiunge la guerra civile: a devastazione si aggiunge
devastazione. L’abbrutimento umano – come non dirlo – mette radici anche a Settimo.
Non ci sarà pace per tutto il 1944 e gran parte del 1945. Squadre di fascisti e drappelli
di partigiani si annidano nel territorio del paese, gli uni contro gli altri; alcuni prendono
quartiere nel Melon, altri trovano rifugio nella Boschetta. le notti, invece, sono tormentate
149
Il ’900 a Settimo
dal passaggio dei ricognitori americani che mitragliano alla sola vista di una candela accesa. Solo per puro caso non ci furono morti ad opera di “Pippo” ma lo furono nei paesi
vicini come purtroppo accadde a Giai di Gruaro.
È nel 1946 che gli abitanti di Settimo vedono finalmente alle porte la fine delle loro
sofferenze e le 1.350 anime del paese guardano con entusiasmo alle prime elezioni politiche e alla elezione a Sindaco del medico cintese Umberto Grandis.
Alla popolazione attiva di Settimo, in attesa di uno sviluppo economico più incisivo
non resta che la via dell’emigrazione. Una piaga sociale che durerà per alcuni decenni.
Negli anni ’50, ’60 e ’70 il paese si spopola: una diaspora. I nostri paesani sono sparsi
in giro per il mondo, dove la manodopera è richiesta. Lo abbiamo già accennato, ma
pare bene qui approfondire il ragionamento almeno sulle mete scelte dalla forza lavoro
eccedente, che non trova sbocco alcuno nel nostro territorio circostante. Si sceglie Roma
innanzitutto dove, Giovanni Salvador, tra i primi fa da testa di ponte richiamando nella
capitale molti lavoratori di Settimo; come lui molti altri mettono la “buona parola”. Tutti
meriterebbero di essere ricordati in questa pubblicazione, un nome fa giustizia per tutti,
ed è quello di Giuseppe Odorico che a Roma fa il capo cantiere e istituisce, una sorta di
ufficio di collocamento per i nostri concittadini; famiglie intere beneficiano delle conoscenze romane di Giuseppe.
Nota è la famiglia Cessellon con Olindo, che si impiega al Comune di Roma, diventando Vigile Urbano e con il notissimo Angelo conosciuto per la sua arte pittorica. Olivo
Furlan, autodidatta, parla alcune lingue straniere e per questo venne assunto alla Banca
d’Italia ed assegnato proprio al centralino telefonico per i collegamenti con l’estero. Di
Olivo Furlan piace ricordare la sua passione per i detti popolari, durante la sua vita ne
aveva raccolti un numero infinito, avrebbe tanto voluto vederli rilegati in una pubblicazione. Olivo provava un forte attaccamento al suo paese, dove quasi ogni anno vi faceva
volentieri ritorno, per passare un periodo di riposo. Dopo la morte, avvenuta alcuni anni
fa, Olivo ha voluto essere sepolto
nel nostro cimitero. “Vicino agli
altri” mi aveva detto in occasione di una delle ultime sue visite
attorno al ’96.
A Roma, tutti i nostri paesani di Settimo trovano un primo
alloggio al “Canevon” del marchigiano, una sorta di trattoria
con alloggio assai popolare. Un
accordo stipulato con il propriePatrick Battiston bambino con Adamo Battiston detto
tario da Marco Chiaradia che, per “Nino” e altri.
150
Il ’900 a Settimo
le Vie della Città Eterna, sa come “muoversi”; un accordo quello stipulato da Marco, che
vale “uno per tutti” e, se non c’è posto, poco male: quelli di Settimo sanno stare stretti.
“Chi non gira l’Italia, gira il mondo”. Una frase che si poteva sentire in bocca ad un
emigrato rientrato da poco in paese. Un modo, forse, per esorcizzare le fatiche o meglio
la sofferenza dovuta alla lontananza.
“Chi non gira l’Italia, gira il mondo”. Può essere la frase giusta per quanti hanno
scelto una destinazione estera. La Svizzera, tra tutte le destinazioni, resta la nazione che
ha visto più emigranti di Settimo. Non vi è, forse a ragione, un solo capoluogo di Cantone
elvetico dove quelli di Settimo non vi abbiano lavorato, tra tutti, quello di Sciafusa resta
sicuramente il luogo dove la nostra gente si è sentita un poco come a “casa propria” tanti
erano i compaesani che proprio lì a Sciafusa hanno lavorato e soggiornato, impegnati nell’edilizia o nell’industria. A buon giudizio, credo che si possano contare nelle dita di una
sola mano le famiglie di Settimo che non abbiano avuto un familiare o addirittura più di
uno impiegato proprio in questa città elvetica.
Nella presentazione di questo lavoro ho accennato ai tanti drammi che hanno coinvolto la comunità di Settimo nell’arco di tutto il Ventesimo Secolo. Alcuni di questi drammi
colpirono, purtroppo, anche il mondo dell’emigrazione. È l’11 di maggio del 1955 a Metz
in Francia, Dino Bagnariol, sta lavorando sopra un’impalcatura alla costruzione di un palazzo, quando, la rottura delle tavole di sostegno lo fa precipitare al suolo. Non ci fu scampo per il povero Dino. Passano due anni, la mala sorte ancora si accanisce sulla famiglia
Bagnariol. È il 20 agosto 1957, a Ginevra in Svizzera, il fratello di Dino, Giuseppe, con
i cintesi Renato e Giuseppe Coccolo, Carlo Lino Bon e Denis Morassut di Bagnara sono
intenti al rivestimento di una facciata di un palazzo. Ad un tratto, la rottura di una catena
del ponte mobile che li sostiene, fa precipitare tutti a terra. Giuseppe e Denis muoiono all’istante, gli altri, fortuna volle di aver salva la vita ma, riportano tutti serie conseguenze.
Dino aveva da poco compiuto 23 anni.
Un’emigrazione che solo apparentemente appare al maschile, infatti, le donne di Settimo hanno lasciato il paese ancora prima degli uomini; alcune dirette a Roma ancor giovinette. Anche qui l’elenco sarebbe molto lungo, ne citiamo solo alcune, intendendo però
di includerle tutte: Delfina, Bruna e Chiara Badanai, Clara, Rachele e Ninetta Valvassori.
Rosalia Miorin, Anna Gurizzan, prestano “servizio”, come si diceva allora nelle famiglie
benestanti di Roma, contribuendo con il loro sacrificio e il loro lavoro ai miseri bilanci
delle proprie famiglie in paese.
Più tardi, la forza lavoro femminile di Settimo, – siamo negli anni sessanta – s’indirizza verso mete europee per prestare la loro opera, molte nostre paesane si incontrano
a Sciafusa. Eccone alcuni nomi: Wanda Missana, Marina Miorin, Franca Zanon, Elda e
Bruna Valvassori, Alida e Lucia Calgaro, Elsa Sforzin, Wilma ed Elda Cantoni: per Elda
Cantoni è questo, per così dire, un viaggio a ritroso, infatti, il nonno materno era proprio
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Il ’900 a Settimo
di origine svizzera. Carlo Magno Cantoni, ticinese dipendente di una ditta milanese venne
inviato per alcuni lavori alla Savio di Pordenone, qui conobbe la nostra Elisabetta Pedrinelli. Dopo il matrimonio si stabilì in paese, dando origine ai Cantoni di Settimo, che gli
attribuì il soprannome di “svizzero”.
La nostra gente però non guarda solo all’Europa, molti nostri paesani si sono recati
per lavoro in Australia, Nuova Caledonia, Sud Africa. Ricordo alcuni dei loro nomi: per
la Caledonia Gianni Campanerut dove ancora risiede, Renzo e Cesare Miorin emigrati
in Australia, i fratelli Sartori in Sud Africa. Eugenio Valvassori andò in Panama, al suo
rientro divenne più noto con il soprannome de “l’American”.
Erminio Celant, andò in Argentina assieme ad Antonio Ciut, Giuseppe Rossit e, tanti
altri ancora; Nori Giuseppe Campaner, Giuseppe Moro, si recò in Venezuela con tanti
altri di Settimo e di Cinto. I Vortali che emigrarono in Canda ed in Venezuela. Enrico Valvassori, con il figlio Dante e con il resto della famiglia si recarono in Belgio. Anche qui
l’elenco sarebbe assai lungo da continuare, vien quasi da pensare che sia più facile dire
dove non siano stati i lavoratori di Settimo che, elencare tutti i luoghi dove hanno dato il
loro contributo allo sviluppo delle nazioni ospitanti.
Non mancarono i nostri paesani di farsi apprezzare per le qualità lavorative e creative.
Le rimesse da essi effettuate stanno alla base dell’attuale assetto dell’intero paese, senza
contare il contributo da loro dato alle nuove generazioni, che, potendo usufruire dei proventi del lavoro lontano, si sono affermati nel campo dello studio e del progresso sociale.
Con la seconda tornata elettorale del 10 di giugno del 1951 e l’elezione a Sindaco
di Angelo Furlan, che per lunghi anni ebbe casa proprio a Settimo; il paese entra nella
seconda metà del secolo con aspettative davvero concrete per la rinascita sociale, economica e politica dei suoi abitanti e del suo territorio.
Nel 1946, Furlan era stato il primo segretario della neo costituita sezione cintese della
Democrazia Cristiana. A parer mio, è ad Angelo Furlan che il paese di Settimo deve molte
delle sue realizzazioni ancor oggi determinanti nell’assetto sociale e civile del paese, e
così come dell’intero territorio del comune di Cinto Caomaggiore.
Durante la sua amministrazione, Angelo Furlan dà inizio alla costruzione delle nuove
scuole elementari del paese di Settimo. Un plesso scolastico che nel 1956 era all’avanguardia rispetto a tutte le altre scuole del territorio portogruarese, basti dire che era dotato
perfino di un prestigioso gabinetto dentistico per le necessità dell’intera popolazione scolastica del paese, naturalmente senza esborso alcuno da parte delle famiglie degli scolari.
Ad Angelo Furlan, si deve anche l’illuminazione stradale dell’intero comune di Cinto
Caomaggiore e la costruzione delle nuove scuole elementari del capoluogo nonché delle
medie.
La gente di Settimo e di Cinto gratificò Furlan eleggendolo Sindaco per ben tre mandati amministrativi continui.
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Il ’900 a Settimo
Angelo Furlan con la moglie Elda Zorzi e figlio. Dipinto di Angelo Cesselon.
Ad Angelo Furlan, seguirono in qualità di sindaci: Antonio De Vecchi, Giuseppe
Campagnolo, Giovanni Trevisan e Claudio Amadio, tutti cintesi. che, oltre alla normale
amministrazione, pare in concreto non abbiano portato miglioramenti tangibili in strutture pubbliche per il paese di Settimo. Bisognerà attendere il 28 di giugno del 1999 per
vedere eletto un cittadino di Settimo, Luigi Bagnariol, alla carica di Sindaco.
Un Sindaco, Luigi Bagnariol, che si potrebbe definire di “stile Furlan”. A questa figura di pubblico amministratore è dovuto l’aspetto attuale del nostro paese di Settimo.
Settimo, però, non va visto solo ed unicamente per l’ordine e la cura delle sue case,
per i viali e i marciapiedi, la piazza nuova e le piste ciclabili di fresco realizzo, Settimo è
Settimo soprattutto per la sua gente: la gente di Settimo
L’anima di un paese con la sua parlata vera e locale, che scaturisce spontanea come
espressione di un gruppo di appartenenza, con la sua disponibilità paesana all’incontro
che ti invita dentro le pareti domestiche, nella vita di ogni giorno, senza quella fredda ufficialità che incontri altrove, con le sue molteplici iniziative rivolte agli altri e per gli altri,
orgogliosa di sentirsi utile e di essere di Settimo.
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Il ’900 a Settimo
La latteria di Settimo
Il concorso d’idee per dar vita alla latteria di Settimo risale all’ormai lontano 1922.
In quell’anno, i nostri mezzadri, i piccoli coltivatori diretti del paese e le altre famiglie di
Settimo che avessero avuto almeno una vacca nella stalla si riunirono attorno alla necessità di dotarsi di un caseificio per la lavorazione del proprio latte.
La prima Guerra Mondiale era ormai alle spalle, le mutate condizioni della gente
dei campi, la presa di coscienza delle problematiche igieniche e la voglia di togliere alle
donne quell’aggravio in più di lavoro causato dall’incombenza quotidiana di farsi il formaggio in casa, fecero da molla. I tempi erano ormai maturi affinché Settimo si dotasse
di una propria latteria.
L’aggregazione attorno al da farsi per mettere in cantiere l’iniziativa trovò terra fertile
attorno alla sacrestia di don Linguanotto e proseguì stalla per stalla in tutte le borgate di
Settimo per tutto l’inverno del ’22. Questo, permise alla gente del nostro paese di riunirsi
in “Cooperativa”. Il 2 di aprile 1923 si tenne l’assemblea costitutiva della nostra Latteria
Sociale. Il presidente “pro tempore” Giuseppe Chiaradia, espletate tutte le formalità di
“legge”, pose subito ai voti l’ubicazione della sede. Dei 65 soci fondatori ne risultarono
votanti 39; due erano i siti offerti alla neo latteria, il primo situato in centro al paese, di
proprietà del signor Giovanni Battiston, ed il secondo situato nell’allora Via Marignana in
corrispondenza all’attuale civico numero 83 di via Udine. L’allora proprietario Antonio
Martignol chiese un affitto concorrenziale e si aggiudicò l’offerta. A Martignol andarono
24 voti, mentre a Battiston i restanti 15. L’accordo prevedeva la corresponsione di un
affitto annuo di 500 Lire per la durata contrattuale di cinque anni. In Via Marignana, la
nostra latteria rimase per ben undici anni e ancora negli anni settanta del secolo scorso
sulla facciata di casa Martignol si poteva leggere la scritta “Latteria Sociale di Settimo”.
Nel 1933, l’assemblea dei soci, deliberò sull’opportunità di dotarsi di una propria
struttura più adeguata alle funzioni produttive, economiche e commerciali. Si diede allora
incarico al cintese Enrico Pellegrini, capo cantiere, il quale eseguì il progetto ed edifico
la nuova latteria in borgo S. Giovanni, oggi Via Udine n. 27. Nel frattempo, si era anche
provveduto a cambiare lo statuto societario, la nostra latteria assunse la denominazione
di: “Latteria Sociale Turnaria di Settimo”.
L’iniziativa incontrò fin dal suo nascere i favori di tutta la popolazione del paese,
chi non portava il latte poteva acquistarlo per i bisogni quotidiani della propria famiglia
direttamente in latteria, un servizio in più per chi non aveva “stalla”. Occorre anche dire
che l’operato del primo casaro tale Pupa Virgilio provocò una seria riflessione sulla sua
onestà. Venne subito sostituito con delibera assembleare che nominò il nuovo casaro nella
persona di Ostilio Grotto. Ostilio, operò in questa funzione fino al 1929 quando fu sostituito per raggiunti limiti di età dal cugino Valentino. Grotto, una delle figure di riferimento
per tutto Settimo, ricopri questo incarico fino al 1963. È proprio con questo casaro che la
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Il ’900 a Settimo
La latteria di Settimo.
nostra latteria assunse quella funzione economica e sociale, che i nostri paesani le hanno
così ben attribuito, per tantissimi anni. A Valentino Grotto, subentrerà Pietro Chiarot, che
esercitò l’arte di casaro nella nostra latteria fino al 1968.
Pare giusto chiedersi ora quale formaggio si producesse nella nostra latteria, tanto da
incontrare i favori della gente del luogo e quella dei paesi limitrofi, una fama però, che si
estendeva ben oltre i limiti comprensoriali, tanto che il nostro caseificio annoverava acquirenti pordenonesi e sandonatesi. Ebbene, fin dalla sua fondazione, nella nostra latteria
si è sempre fatto un formaggio “locale” che oggi si può ben identificare con il Montasio.
Pari fama la ebbe anche il burro che si produceva a Settimo, una fama che seguiva passo
passo quella del casaro Valentino Grotto, al quale gli era stato “affibbiato” bonariamente
il soprannome di “butiro”. Il burro, raramente entrava nelle case dei soci, andava invece
venduto per i fabbisogni economici del caseificio.
Detto dei casari, vediamo di seguito gli uomini di Settimo che negli anni hanno retto
le sorti della nostra latteria. Nel 1929 e fino al 1946 esercitò le funzioni di presidente Giovanni Sigalotti, Dal 1946 al 1955 Angelo Furlan, gli subentrerà Vittorio Gobatto. Tornerà
ancora Angelo Furlan nel ’57 e nel ’61 di nuovo Vittorio Gobatto e nel 1966 di nuovo
Angelo Furlan. Nel 1967 è presidente Pietro Infanti, nel 1970 troviamo invece, Giuseppe
Anese. L’ultimo residente è stato Giuseppe Gumiero, rimasto in carica fino alla liquidazione della latteria.
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Il ’900 a Settimo
Nel corso del suo esercizio il nostro caseificio ha visto quali segretari i signori: Sante
Liut fino al 1929, dal 1929 al 1937, Angelo Furlan che, come abbiamo visto, ricoprì per
molti anni anche la carica di presidente. Nel 1937, troviamo segretario Antonio Pedrinelli
e nel 1966 Giuseppe Battiston che resterà in carica fino alla fine operativa del caseificio.
Pare significativo dare anche alcuni dati produttivi riscontrabili dai registri contabili
della Latteria Sociale Turnaria di Settimo. Nel 1930 si raccolsero 133.000 Kg di latte,
nel 1960, i Kg furono 450.000. L’ultimo dato riscontrabile risale al 1993, i Kg furono
200.000, mancando il casaro, tutto il latte raccolto veniva ceduto per la trasformazione
al consorzio di raccolta, mandamentale. Dal 1993, fino al 1997, ultimo anno operativo,
l’attività del nostro caseificio proseguì con la sola raccolta del latte, tutto ceduto al citato
consorzio; gli 85 soci del 1929/1930 si erano ridotti a soli 5. Ecco di seguito i loro nomi:
Giuseppe Gumiero, Danilo Zorzi, Francesco Andreuzza, Agostino Nogarotto e Antonio
Trevisan.
La “Latteria Sociale Turnaria” di Settimo, che aveva attraversato indenne quasi tutto
il Ventesimo Secolo, meritandosi la fama di “Premiato Caseificio” soccombeva alle mutate condizioni sociali ed economiche del paese. A ciò, vanno aggiunte le mutate condizioni di gestione delle campagne, da tempo soggette allo spopolamento e ai nuovi criteri
di meccanizzazione del lavoro agricolo, la scarsa redditività delle nostre stalle, le colture
sempre più intensive, le politiche agrarie nazionali ed europee con l’introduzione delle
quote latte, hanno messo la parola fine alla prima “industria” del paese di Settimo.
Dopo alcuni anni di abbandono dello stabile, con il conseguente degrado dell’intera
struttura i soci rimasti riuniti in assemblea decisero di liquidare la società. Seguirono alcune riunioni per meglio capire il percorso necessario, intervennero anche alcune incomprensioni sul modo di operare. Tante discussioni avevano visto nascere la nostra latteria,
altrettante furono necessarie per vederla chiudere. Un primo incarico assegnato ai soci
Olindo Dalle Carbonare e Giuseppe Gumiero nominati “liquidatori”, non portò frutti apprezzabili. Altre riunioni furono necessarie, in fine, il 20 Luglio ed il 20 di Agosto 1997,
con l’incarico di liquidatore assegnato a Luigi Bagnariol, si trovò la via giusta per riunire
tutti i soci attorno ad un percorso praticabile. Lo stabile della “Latteria Sociale Turnaria”
di Settimo, andò venduto, ad un costruttore del paese che ne ricavò alcuni appartamenti
ai piani superiori dello stabile, il piano terra, invece, venne in parte assegnato gratuitamente all’Unione Sportiva di Settimo, che ne ha ricavato una sala riunioni per le proprie
esigenze e per quelle della comunità di Settimo. È stato inoltre individuato un locale per
l’ambulatorio del medico di base che rischiava di doversi trasferire a Cinto. In questo
luogo è anche consultabile l’intero archivio della nostra latteria.
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LA PARROCCHIA S. GIOVANNI BATTISTA
Don Adriano Pescarollo
Il registro più datato che troviamo nell’Archivio Parrocchiale a Settimo è quello dei
Battesimi che inizia dal 1875. All’epoca Settimo era “curazia” di Cinto, quindi Cresima,
Matrimoni e Funerali si registravano a Cinto, e questo continuò fino al 1919.
Dal 1875 al 1884 fu curato a Settimo un certo Don Osvaldo Pascoli del quale non ci
sono state tramandate memorie.
Dal 1885 al 1887 fu “economo spirituale” un certo don Benedetto Garavaso. Personaggio discusso che fuggì in Brasile dove, dopo aver svolto per qualche anno, sotto falso
nome, l’attività di impresario edile, morì ammazzato.
Dal 1887 al 1919 fu curato a Settimo Don Sante De Luca, ricordato come buon sacerdote che ha amministrato la parrocchia fino alla fine della grande guerra, per ben 33 anni
ed è morto a Roveredo in Piano all’età di 80 anni.
Dal Febbraio del 1919 al 28 Luglio 1954 fu curato Don Ernesto Linguanotto (dal 1942
parroco).Visse a Settimo per ben 35 anni lasciando innumerevoli ricordi nei nostri anziani.
Trovò la parrocchia semi abbandonata a causa della guerra. Allora Settimo contava 1500
persone. Seppe riorganizzare dalle basi la parrocchia e curare amorevolmente la comunità
dimostrando una particolare predilezione per i giovani che oggi, adulti ed anziani, lo ricordano per la ferma severità. Tra le prime iniziative di don Ernesto si ricorda l’organizzazione
della Scuola serale per tutti i giovani: suo obiettivo era far ottenere a tutti almeno la licenza
elementare. Altra sua iniziativa consistette nel dar vita e promuovere un gruppo teatrale
rimasto celebre, sia per i talenti locali che seppe individuare e formare, sia per i successi di
pubblico che gli spettacoli messi in scena seppero raggiungere. La famosa “baracca” posta
accanto alla canonica (un residuato della Prima Guerra che don Ernesto fece mandare a
prendere lungo il Piave) venne adibita a teatro, dove i giovani, dopo il duro lavoro sui campi, si ritrovavano per imparare a memoria trame e mettere in scena memorabili spettacoli.
Altro suo merito fu l’eccellente organizzazione del gruppo di “Azione Cattolica” che
nel 1932-33 vinse in diocesi il primo premio nella gara di cultura religiosa della “Gioventù Maschile”, conquistando il gagliardetto.
Durante il governo di Mussolini cominciarono le emigrazioni verso Roma, dove molti giovani provenienti da Settimo seppero distinguersi come bravi e affidabili lavoratori e
seppero inserirsi nelle varie parrocchie della capitale con impegno.
Don Ernesto è ricordato per aver fatto tanto del bene alla comunità di Settimo. Nonostante ciò aveva in paese degli accaniti oppositori. Uno degli argomenti, oggetto di accesi
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La Parrocchia S. Giovanni Battista
1925: Gruppo Scout di Settimo con don Ernesto Linguanotto.
1937: Gruppo di Azione Cattolica di Settimo con il gagliardetto.
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La Parrocchia S. Giovanni Battista
1951: cerimonia religiosa della Madonna Pellegrina.
Gruppo Cattolico femminile nel 1937.
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La Parrocchia S. Giovanni Battista
dissensi, fu la costruzione del monumento ai caduti posto nel piazzale antistante la chiesa
parrocchiale, e il problema di reperire i fondi necessari. Fu una lotta epica che perse: il
monumento è ancora lì come testimonianza del gusto del tempo.
All’epoca in paese la povertà dilagava e don Ernesto era generoso nella carità verso
le famiglie bisognose, che spesso sosteneva anche nel dare i terreni della parrocchia a
mezzadria.
Durante la guerra aiutava i giovani parrocchiani sotto le armi tenendo con loro una
fitta corrispondenza e prestandosi a scrivere e leggere le lettere che, dal fronte, si scambiavano con le loro famiglie. Era molto richiesto per le confessioni anche da gente fuori
parrocchia. Ogni settimana si recava a Sesto al Reghena per confessare e dirigere le suore
di clausura che lì risiedevano.
Restaurò la chiesa e le pitture come era possibile per quei tempi, portando l’altare
più vicino alla gente. Comprò la bellissima statua della Vergine e di altri santi. Anche la
canonica venne restaurata ed ampliata.
Insomma un buon prete, intelligente, caritatevole e saggio, morto santamente a Settimo il 28 Luglio 1954. Riposa nel cimitero di Cinto.
Don Duilio Rambaldini iniziò il suo apostolato nell’Agosto 1954. Lavorò bene con
l’Azione Cattolica svolgendo un apostolato accogliente ed attento. Dedicò particolare
passione alla cura della gioventù. Fu un sacerdote benvoluto da tutti anche se dopo dieci
anni dal suo ingresso in parrocchia iniziò a dare segni di squilibrio (demenza senile o tumore al cervello?) che lo portò alla tomba 5 anni dopo l’abbandono della parrocchia nel
’68. L’ultimo quinquennio si dedicò alle opere pratiche: adattò lo stabile (prima sede delle
scuole) ad oratorio, rinnovò la chiesa (riscaldamento, pavimenti, campane…). Seguiva
personalmente tutti i lavori e, con la sua Vespa, si recava per le case sia a prendere gli operai che a distribuire aiuti. Quando le sue condizioni di salute peggiorarono il vescovo fu
costretto a sostituirlo. Prima fu ricoverato nella casa di riposo a San Vito e, all’aggravarsi
delle sue condizioni, fu trasferito a Brescia dove, dopo 4 anni, morì all’età di 59 anni.
Anche lui è sepolto in cimitero a Cinto.
Dopo una breve presenza di Don Arturo Antoniutti, rimasto alla guida della parrocchia per poco più di un anno, nel 1969 fece il suo ingresso don Adriano Pescarollo, tutt’ora parroco della parrocchia di S. Giovanni Battista di Settimo.
L’accoglienza fu buona e piena di curiosità. La prima cosa che assorbì la sua attenzione e passione fu il far funzionare l’oratorio per attirare la gioventù, cosa che gli riuscì
abbastanza bene: ping-pong, tavoli per giochi, gite di fine catechismo, pallacanestro, feste, tornei di calcio ecc... Provò anche a fondare un “circolo culturale” per adulti che però
non funzionò a lungo. Tra le altre iniziative pastorali avviate ricordiamo la nascita del
Consiglio Pastorale, del gruppo del Bollettino, del gruppo per sposi, del gruppo giovani
del sabato, del gruppo canto e altri ancora.
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La Parrocchia S. Giovanni Battista
Nel 1975 i giovani vinsero il 1° premio diocesano per il presepe.
In questo lungo periodo vengono realizzati diversi lavori:
- il tetto della chiesa,
- le nuove “Vie Crucis”,
- il marmo all’interno della chiesa per proteggerla dall’umidità,
- il palcoscenico e la cucina a lato dell’ oratorio,
- gli altoparlanti nuovi in chiesa,
- l’impianto luce centralizzato in chiesa,
- la pittura della chiesa, ecc.
Nel ’76 il terremoto portò tanta paura, ma per fortuna pochi danni. Nel 1977 nasce
l’Unione Sportiva Settimo, che avrà tanta importanza nella vita di Settimo.
Nel 1978 il Consiglio Pastorale programma una festa religiosa ogni 2 mesi: del Ringraziamento, della coppia, del vangelo, dell’anziano, della mamma, di S. Giovanni, ecc.
Alcune sono tutt’ora attive.
Nel 1982 è stato costituito il Gruppo Scout sotto la guida di Lino Frate, tutt’oggi attivo e vivace. Nello stesso anno il gruppo ping pong, sotto la guida di Giancarlo Mucignat,
prende il volo. Ogni anno alcuni ragazzi sono chiamati alle finali del C.S.I. a Roma. Da
ricordare la medaglia d’oro di Cristina Vortali.
In quel periodo si decide di affidare i lavori per rifare il tetto della canonica alla ditta
Toffolon.
Inizia anche la felice tradizione dei concerti in chiesa.
Nel 1985 si svolse una memorabile veglia di Natale con il tennis-tavolo (ping pong)
e gli scouts, con vin brulé offerto dall’U.S. Settimo.
Nel 1986 la festa dello sport organizzata in Settembre diventa sempre più partecipata
da tutti i ragazzi della parrocchia. Gran parte del mese di Settembre è interessato dalla
festa: i primi 15 giorni per la preparazione e gli altri 8 per le gare dove si alternano il gioco del calcio, con i ragazzi divisi in 4 squadre da 20, l’hokey con la scopa, per le ragazze
divise in quattro squadre da 15, ed altri giochi popolari. Negli anni seguenti tutte le gare
si svolsero in notturna, grazie alla nuova illuminazione del campo, con la partecipazione
di un numero notevole di genitori. Il gran finale era previsto per la domenica: prima la
S. Messa, poi, nel pomeriggio, la premiazione da parte del Sindaco ed infine il rinfresco
finale.
Nel 1987 viene fatto l’impianto di riscaldamento dell’oratorio e nel 1988 la chiesa
si impreziosisce con la collocazione dell’organo elettronico, che allora costò 18.000.000
di lire.
La natalità è in forte calo, ora la media di ogni classe passa da 20 a 5 e le scuole sono
portate a Cinto.
In quest’anno viene invitato il Vescovo per la conclusione dei restauri della chiesa.
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La Parrocchia S. Giovanni Battista
Nel 1992 il tetto dell’oratorio viene rimesso a nuovo. Gli iscritti al ping pong raggiungono quota 60, il più alto della regione.
Nel 1993 c’è l’abbellimento della chiesa con l’altare in legno dorato e una nuova
artistica porticina del tabernacolo, i cuscinetti in cuoio per i banchi.
La comunità missionaria di Villaregia comincia ad essere vicina alla nostra parrocchia; la gente vede volentieri questi giovani missionari pieni di entusiasmo ee li segue con
piacere dando e ricevendo tanta spiritualità.
I Rovers sono stati prima in campeggio in Calabria poi in Slovenia per “servizio”.
Nel 1994 viene inaugurato il Palazzetto dello Sport.
Nel 1995, anche se il parroco si ammala con una convalescenza molto lunga, le attività dei vari gruppi continuano. In questo periodo muore Giuseppe Doro, organista presso
la nostra chiesa: sono pronti altri quattro giovani a dargli il cambio.
Nel 2001, dopo che tre fulmini in cinque anni si erano scaricati all’interno della
chiesa facendo danni notevoli, è stato dato incarico ad una ditta di Treviso di ingabbiare
la chiesa, dal campanile fino all’entrata del contatore, con tondini di rame di 8 mm. fino
a tre metri sotto terra. Una settimana di lavoro con 2 operai. Da allora non c’è stato più
alcun danno.
Nell’ottobre del 2004 un gravissimo incidente ha sconvolto la nostra parrocchia. Una
bambina di 10 anni che usciva dalla chiesa dopo essersi confessata, Valentina, attraversando la strada in bicicletta è stata investita da una macchina che correva a moderata velocità.
La bambina, prontamente soccorsa, è stata trasportata subito in elicottero a Mestre dove,
dopo 10 giorni di coma profondo, si è miracolosamente ripresa. Il parroco, dopo essersi
consultato con il Consiglio Pastorale, ha indetto una sottoscrizione rivolta al Sindaco
per abbattere la casa piantata sulla strada che impediva da sempre ogni visibilità. Era in
degrado, con il tetto sfondato e disabitata da più di 15 anni. Sono state raccolte più di
560 firme e presentate al Sindaco. Dopo 2 mesi la casa veniva abbattuta su ordinanza del
Sindaco.
Nel 2004 viene acquistato il generatore di riscaldamento nuovo per la chiesa. Nasce
il gruppo di preghiera di San Pio da Pietralcina.
Il resto è storia d’oggi. Sono ancora attivi l’Unione Sportiva Settimo, il Gruppo di
12 catechiste, il coro guidato da Alessandra Bagnariol, il Gruppo Chierichetti, il Gruppo
Scout, il Gruppo Donne della cucina, sempre disponibili, il Gruppo Tennis Tavolo che
quest’anno ha raggiunto l’apice dei risultati con due Campioni d’Italia nella 4a categoria,
nel singolo e nel doppio. Merita, infine, particolare risalto il Consiglio Pastorale rinnovatosi continuamente e sempre capace di offrire nuovi stimoli alla vita parrocchiale, nonostante tutte le difficoltà, e la nascita di 22 Messaggeri che ogni mese portano in ogni
famiglia il foglietto “Messaggio al popolo di Dio” con la speranza di una parrocchia
sempre più giovane e in continuo rinnovamento.
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UNIONE SPORTIVA SETTIMO
Un sogno diventato realtà
Gian Piero Del Gallo
Sembra ieri, ma sono già trascorsi trent’anni da quella lontana sera del 27 luglio 1977,
quando si riunirono nella saletta del Bar di Carlo Sartorio, convinto sostenitore dell’idea,
i padri fondatori e diedero vita al Comitato degli Sportivi che avrebbe poi organizzato la
prima festa dello sport il 27 ed il 28 agosto.
Erano presenti l’indimenticabile Dino Calgaro (la cui eredità è stata raccolta dalla figlia Daniela), Federico Chiarot, Piero Zorzi, Luigi Bagnariol, Gino Carniel, Livio Zorzi,
Mario Perissinot, Fulvio Bagnariol, Giuseppe Moro, il sottoscritto Gian Piero del Gallo e
Lino Gobatto che ebbe l’incarico di presidente.
Numerose persone avevano comunque dato la disponibilità, dal grande re della griglia,
il compianto “Gigi”Luigi Battistella, allo stesso don Adriano Pescarollo la cui presenza,
nel corso degli anni, si è sempre rivelata preziosa come quella insostituibile di Giancarlo
Muccignat, un vero pilastro che riuscì a far decollare sia l’esperienza Scout che il Tennis
Tavolo.
Fu una data storica perché quel 27 di luglio, nacque quella grande cosa che si è trasformata nel corso di questi trent’anni in un sodalizio unico, invidiato da tutti i paesi che si sono
cimentati nell’organizzazione di feste paesane che nel nostro caso, definirla sagra sarebbe
alquanto riduttivo e suonerebbe come un’offesa per la grande mole di lavoro e di iniziative
che gli organizzatori, ieri come oggi, mettono a disposizione dei visitatori suscitando ammirazione e consenso.
Per i non addetti ai lavori, tutto appare facile e godereccio, ma solo chi ha fatto parte
per anni dell’Unione Sportiva, sa quanto lavoro ci sia dietro le quinte, quante ore rubate al
sonno ed alla famiglia, la cui comprensione, delle mogli soprattutto, ha consentito a questa
associazione di diventare grande.
Il segreto forse stava e sta nella convinzione che quando a lavorare è un gruppo così
numeroso di giovani che si affiancano agli anziani per poi subentrare nel ruolo, vuol dire che
è stato indovinato il giusto propellente per il futuro di un’associazione e, se dopo trent’anni,
impera ancora l’entusiasmo del fare, l’unica spiegazione arriva dalla componente umana,
sempre pronta e disponibile, soprattutto perché è coinvolta in prima persona nelle decisioni.
Un ruolo importante lo hanno ricoperto le donne dell’Unione Sportiva di allora: Egidia
Moro, ottima cassiera e puntigliosa segretaria, come lo è stata poi Loredana Rossit, Nadia
Montagner, Liviana Bagnariol, Sira Puntel Chiarot, quest’ultima ha anche ricoperto la carica di presidente.
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Unione Sportiva Settimo
La nascita del Comitato, diventato poi Unione Sportiva Settimo il 25 novembre dello
stesso anno, non era stata vista con simpatia dal Palazzo tanto che l’aveva bollata come iniziativa politica, un giudizio avventato sul quale si è poi dovuto ricredere, quando l’Unione
Sportiva ha dimostrato di saper rimanere al di sopra delle parti, lavorando ed organizzando
manifestazioni per tutto il comune.
I Lavori per la Pista
L’idea l’ebbero Dino Calgaro e Gino Carniel: costruire una piattaforma per consentire
il ballo ed altre iniziative necessarie per avere fondi a disposizione per la sistemazione degli
spogliatoi del campo sportivo per i ragazzi del calcio.
Detto la sera dell’11 agosto e fatto subito dopo.
Don Adriano sacrificò la vigna che venne estirpata con una “crociata antialcolica”,
così scrisse Federico Chiarot su un pannello a giustificazione dei lavori e furono gli stessi
ideatori Dino e Gino a procurare i numerosi camion di ghiaia necessari e la mattina del
19 agosto alle 7, venne gettata la pista che fu levigata con l’elicottero da Italo Daneluzzi e
sull’angolo d’entrata, Giorgio Vortali scrisse in mosaico “Benvenuti a Settimo 1977” scritta
che è tutt’ora ben visibile.
Quale risarcimento per la mancata produzione di vino, Giovanni Labonia, Fulvio Bagnariol, Giuseppe Moro,Federico Chiarot e Lino Gobatto, portarono una damigiana di vino
da 50 litri ognuno a don Adriano.
La prima festa dello Sport del 27 e 28 agosto del 1977
Non andò secondo le previsioni, il brutto tempo ci mise lo zampino e l’incasso servì
appena per pagare le spese quindi venne ripetuta le settimana successiva con l’orchestra
“Gli Amici”, con il tiro alla fune che vide vincitrice la squadra del Bar Pordenone di Aldo
Anese, mentre nel tiro con la fionda, disertato dal favorito Vittorio Gobat “Ciutti”, trionfò
Giovanni Battiston ,il Giandro dell’Osteria Alla Scala davanti a Luciano Toffolon e Giovan
Battista Tedesco “Iglesio”.
Visto il risultato positivo, erano stati incassati 2.984.000 lire, c’erano i fondi per sistemare gli spogliatoi perciò Ennio Bortolussi, Aldo Anese, Mario Brun, Mario Perissinot,
Gianni Gurizzan proposero l’inizio dei lavori che vennero poi realizzati, seppur a rilento,
dallo stesso comitato. Nella riunione del 10 settembre si parlò di riportare l’antica Sagra di
San Giovanni Battista agli antichi splendori ed a gennaio del 1978 Giancarlo Muccignat
ottenne il primo contributo per l’acquisto di un tavolo da ping pong per allenare i giovani
partecipanti ai Giochi della Gioventù.
Chi avrebbe mai immaginato quali traguardi sarebbero stati in grado di superare i ragazzi di allora, in questa disciplina sportiva, diventata ormai il simbolo di un paese.
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Unione Sportiva Settimo
La prima Sagra di San Giovanni Battista del 16 giugno 1978
Dopo ampia discussione con Franco Tedesco, rappresentante della A.P.Vigor, organizzatrice della Sagra di San Pietro a Cinto, che evidenziò i problemi di una festa a due nel giro
di pochi giorni, venne deciso che, vista la disponibilità di Don Adriano ad anticipare la festa
del patrono di una settimana, quella di San Giovanni si dovesse tenere dal 16 al 18 giugno.
Vennero ripartiti gli impegni: Livio Zorzi responsabile per la Cuccagna, ed i fiori per
le Miss; Ennio Bortolussi per le recinzioni a protezione del ballo; Gianni Gurizzan per il
vino; Arnaldo Valvassori per l’acquisto del maiale per la lotteria; Fulvio Bagnariol e Siro
Candoni per l’impianto elettrico; Lino Gobatto per il palco ed il contratto Enel; Gian Piero
Del Gallo per manifesti e Siae.
C’era in tutti una certa apprensione, gli impegni erano aumentati, l’associazione stava
crescendo giorno dopo giorno. Fu quindi con un sospiro di sollievo ma anche di grande soddisfazione quando a conclusione della Sagra il netto di cassa segnò un attivo di 1.500.000
lire, per quei tempi una grossa cifra, che dava tranquillità all’Unione Sportiva ed avrebbe
permesso di lì a poco il raddoppio della pista in cemento.
Fu l’inizio di un successo che, salvo qualche sporadica avversità, ha sempre arriso a
Settimo. Ma è con l’edizione del 1980 che la Sagra ha spiccato il volo, elevandosi su tutte
le altre dei paesi vicini, grazie alla Mostra dei serpenti visitata da migliaia di appassionati
che avevano l’occasione di ammirare questi animali dal vivo.
Seguì quella dei rapaci in collaborazione con la Lipu, delle bambole, degli animali
imbalsamati, delle farfalle, dei ricordi storici di guerra, insomma una serie infinita di appuntamenti che ha caratterizzato l’organizzazione facendole raccogliere consensi giunti da
ogni parte consentendole di effettuare lavori che hanno trasformato l’area parrocchiale e
non solo: costruzione della cucina, nuovi servizi igienici, messa a norma di tutti gli impianti
elettrici ed idrici, raddoppio della pista da ballo e di altre attrezzature, insomma la Sagra di
San Giovanni vola ormai alto e continuerà a farlo fino a che verrà rispettata la parola chiave
del successo: l’Unione di un paese.
La serie dei suoi presidenti: dal 1977/1983 Enrico Lino Gobatto, 1983 Sira Puntel
Chiarot, 1984/1995 Renato Querini, 1996/1999 Fabrizio Chiarot, 1999/2005 Renato Querini, dal 2005 Oscar Liut.
Tennis Tavolo. Campioni d’Italia
L’attività pongistica a Settimo inizia nel lontano 1976, raccogliendo intorno all’Oratorio, ragazzi e ragazze di diverse età, tutti con la voglia di divertirsi praticando uno sport
nuovo e simpatico.
La ricetta è di quelle giuste: utilizzare la pratica sportiva per crescere e maturare giovani che in futuro avrebbero avuto un ruolo nel nostro territorio.
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Unione Sportiva Settimo
I primi anni questo gruppo ha partecipato a varie edizioni dei Giochi della Gioventù,
ottenendo numerosi successi sia alle fasi regionali che nazionali.
Nel 1989 la conquista della medaglia d’oro di una nostra atleta nel doppio misto e l’anno successivo a Cecina, due medaglie d’argento nel singolo maschile categoria ragazzi ed
in quello femminile nelle allieve, solo per citarne qualcuno.
Tappa fondamentale per l’Unione Sportiva è stato l’anno di affiliazione alla Federazione Italiana Tennistavolo avvenuta nel 1991: si era entrati nel mondo agonistico.
Si ricordano i primi due campionati a livello regionale, serie D1 maschile e C2 femminile, le prime promozioni ai campionati nazionali, realizzate nel 1994 per la squadra
femminile e nel 1996 per quella maschile.
L’Unione Sportiva ha inoltre avuto due atleti nella nazionale italiana in ben due edizioni del Campionato Europeo FICEP.
L’impegno costante verso i più piccoli è stato premiato con la loro partecipazione ai
Campionati Italiani Giovanili con ottimi risultati. Nell’annata sportiva 2003/2004 la squadra maschile è stata promossa in B2 e ci vede come la squadra più forte della Provincia.
L’ultimo anno agonistico appena trascorso è stato ricco di successi con tre titoli regionali cui sono seguite le affermazioni nazionali di Dario Muccignat e Stefano Bagnariol che
hanno portato a casa il titolo italiano di singolo e di doppio.
Oggi l’US conta 50 atleti, diversi tecnici con diploma federale ed un tessuto organizzativo pluricollaudato.
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