CONVEGNO “LA MALAOMBRA”

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CONVEGNO “LA MALAOMBRA”
LA MALAOMBRA
Il perturbante caso dei suicidi
in una vallata alpina
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INDICE DEL DOSSIER
I PARTE
Editoriale di Aldo Bonomi
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II PARTE - LA RICERCA
La malaombra. Il perturbante caso dei suicidi in una vallata
alpina
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III PARTE - CONVEGNO
“LA MALAOMBRA”
Policampus di Sondrio 17 settembre 2009
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I PARTE
EDITORIALE
Aldo Bonomi
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1. RESTA SEMPRE LASSÙ IL PAESE
Ho sempre pensato che la sociologia fosse più una pratica del racconto che una
scienza fredda basata sull’interpretazione dei numeri. Più che i numeri delle
statistiche, che servono per capire, per continuare a cercare e capire valgono le
parole degli uomini. Che producono, più che saggi, letteratura. Più che ricerca,
ricercaazione.
Che significa aver sempre presente che si analizza un fenomeno per cambiare
nell’eterno gioco del riconoscersi e riconoscere.
Anche questo lavoro sul perturbante caso dei suicidi in una vallata alpina, che
l’Aaster ha realizzato in empatia con la Caritas della valle, segue questa
metodologia.
Continuare a cercare per continuare a capire cosa fare per cambiare lo stato
presente delle cose: la dittatura del presentismo. Le ricerche di mercato e i
sondaggi hanno il tempo presente come unica cifra del tempo.La ricerca sociale,
ancor più quella di comunità locale, ha come spazio del tempo le lunghe derive
della storia sedimentate nei soggetti sociali, da usare per mangiare futuro.
A maggior ragione per una fenomenologia perturbante come il suicidio. Ancor di
più per me che di questa valle sono figlio.
Riconoscendomi in quello spaesante adagio da sradicato che prendo in prestito
da Pavese che, inurbato nella Torino fordista, era solito ricordare che “resta
sempre lassù il paese”. Di mio ci aggiungo che non solo “resta lassù il paese”,
ma anche qualcuno a cui dire ciò che resta, nell’andar per il mondo, della
comunità originaria. Quando l’andare è reso più amaro nel sentirsi addosso un
essere condannato all’altrove. Essendoci stato un tempo in cui tu, con la valle,
con la comunità originaria, non avevi parole.
Per questo allego a questa mia introduzione al lavoro di ricerca per Communitas,
tre scritti. Il primo, che racconta il mio sentirmi dentro, nel tornare al paese, il
caso di un giovane che si era suicidato. Da qui il mio parlarne, il mio prendere
parola con don Augusto. Dal parlarne assieme e grazie agli operatori della
Caritas questa ricerca azione è stata possibile. Il secondo, un mio Microcosmo su
Il Sole 24 ore che racconta di Quadrivio che altro non è che Tresivio, il mio
paese. Così tanto cambiato e luogo emblematico come vedremo nella disamina
della ricerca di quei luoghi sospesi tra “non più” e “non ancora”, ove l’essere si
perde nel suo essere incapace a fare sincretismo tra ciò che lascia, la comunità
originaria, e ciò che non è ancora, la comunità che viene. Un terzo, un segno di
speranza, di comunità che viene, il racconto di Mauro Parolini, poeta
schizofrenico di Lanzada. Che ce l’ha fatta. Lui con il linguaggio della poesia per
riprendere parola con il mondo, noi, che abbiamo parlato con lui, con la comunità
locale, la comunità di cura. Rompendo la “malaombra”.
Microcosmi che ricordano, a chi volesse liquidare il perturbante caso della
Valtellina come puro residuo e detrito di una mutazione non ancora arrivata nel
presentismo metropolitano o nel tempo delle megalopoli globali, che “resta lassù
il paese” non riguarda solo i valtellinesi che si vergognano e nascondono sotto il
tappeto la tristezza dei numeri che ci indicano come la provincia italiana con il
più alto numero di suicidi in rapporto con la popolazione.
Non siamo che poco più di 180mila abitanti, uno spicchio infinitesimale delle città
infinite che fanno tendenza.
Ma da Casarsa veniva Pasolini, da Urbino Volponi con il suo viaggio per Roma,
dalle terre “della malora”, Pavese. Sino al moderno Niffoi che con la sua
letteratura del profondo scava con ogni romanzo in un microcosmo della sua
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Sardegna. Abacrasta “il paese delle cinghie” ove si snoda la leggenda di Redenta
Tiria: «A Abacrasta, di vecchiaia non muore mai nessuno, l’agonia non ha fottuto
mai un cristiano. Tutti gli uomini, arrivati a una certa età, fiutando la fine
imminente, si slegano i calzoni come per andare a fare i bisogni, si slacciano la
cinghia e se la legano al collo. Le donne usano la fune.
Qualcuno si spara, si svena, si annega, ma pochi, molto pochi rispetto agli
impiccati. Nelle tanche di Abacastra non c’è albero che non sia diventato una
croce».
2. LA VALTELLINA COME ABACRASTA
La provocazione di questa ricerca sta tutta in questa durezza mutuata dalla
letteratura. Che diventa dolcezza da comunità di cura se ci diciamo da subito che
finalità del lavoro di inchiesta, come ci siamo detti e ridetti nel gruppo di lavoro,
non era e non è il voler spiegare “il perché”.
Troppo rispetto è dovuto all’estremo gesto. Ma è il volersi interrogare
collettivamente sul perché lo si relega, definendolo “l’insano gesto”, solo nella
sfera dell’io e non anche in quella del noi. Interrogare la società valtellinese ci è
parsa cosa utile. Da qui i mille questionari paese per paese e le cento interviste
in profondità.Tutte che iniziavano con, “ma perché lo chiedete a me?”, che poi
finivano spesso in un racconto di prossimità. Il 63,4% degli abitanti della valle è
stato coinvolto, nelle reti di relazioni personali, in un caso di suicidio. La maggior
parte erano “solo conoscenti”, ma per il 25% erano “amici” e quasi per il 17% un
familiare. Se non è il NOI questo, vorrei tanto capire cos’è.La freddezza dei
numeri ci dice che il fenomeno ci riguarda, ci è prossimo.
Come entrarci dentro con quali saperi, con quali pratiche, con quali fini? È
l’interrogativo che resta una volta che si rende visibile l’invisibile. Che si dice il
non detto. È il difficile passaggio dal racconto all’interpretazione, l’ambiguo
crinale che contraddistingue questa rivista, non nuova a passaggi delicati da
L’apocalisse della mente (n. 12) alle sofferenze de La città fragile (n. 25), sino al
presente caso perturbante di una comunità alpina. Qui, come mi succede spesso
mi rifugio, e che rifugio, più nella letteratura che nella mia disciplina. Altro non è
la sociologia del racconto che viaggia e si alimenta delle interviste in profondità.
Che poi a ben vedere è il primo passaggio che anche lo psichiatra fa, con chi gli
si presenta con il suo disagio.Come ci ricorda Tom Burns nel suo Psichiatria, o il
prete con chi si avvicina alla confessione. A proposito di saperi e pratiche che si
confrontano partendo dai risultati della ricerca sono da leggersi i testi di Borgna,
Ballantini, Baruffini, del vescovo Coletti a commento del lavoro che qui
pubblichiamo.
Non scarto di lato per ignavia o per evitare temi grandi come le radici sociali o le
radici psico(pato)logiche del suicidio, o parole come anima, fede, sino alla “libera
morte” evocata radicalmente dall’amico Bifo. Riconoscersi e riconoscere un
fenomeno studiato e raccontato significa anche prendere partito interpretativo.
Dico solo, che rispetto alla contrapposizione secca tra coloro che curano il disagio
dell’individuo e quelli che si occupano delle passioni tristi della moltitudine, il
letterato, lo scrittore, è figura mediana. Una persona, un singolo, che parla a
nome di molti. Interpretando e raccontando il suo disagio che si fa parola dei
tanti che vivono un'epoca.
Che altro è la Madame Bovary di Flaubert e il suo suicidio? O Lei dunque capirà
di Magris che ci insegna ad elaborare il lutto per la perdita di chi ci è stato da
sempre prossimo? O il drammatico testo L’infelicità senza desideri di Peter
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Handke che apprende del suicidio della madre, riletto a commento della ricerca
da Marco Dotti. Non sarà un caso, per riprecipitare in Valtellina, se qui, a
differenza della confinante Svizzera o dell’Austria dell’Europa di mezzo, c’è poca
letteratura, poco racconto di sé: poca rappresentazione e molto silenzio. Come ci
dice Rampello nella sua intervista, la rappresentazione è fondamentale per avere
coscienza di sé. Che a ben vedere, è il velo che la ricerca squarcia dicendo:
parliamone. Parliamo della “malaombra”, parola presa in prestito da Fogazzaro e
dal suo Piccolo mondo antico così simile alla Valtellina. Interrogandoci sul
perturbante caso come ci invita a fare Thomas Bernhard con il suo
Perturbamento, la sua gelida scrittura che è un urlo contro i suoi valligiani della
vicina e tranquilla e indifferente Innsbruck.Che a noi che vorremmo essere un
po’ simil-Bolzano ci piace tanto.
Senza voler pretendere troppo, mi accorgo che la letteratura mi prende la mano,
se da questa ricerca restasse una voglia di parola che aumentasse il capitale
sociale del territorio a fronte del perturbante caso dei suicidi sarebbe già molto.
Continuando per scuole, pub, discoteche, biblioteche comunali, parrocchie, a
parlarne. Con quel tono dolce che aveva Robert Walser nelle sue passeggiate
fuori dalla clinica parlando della “malaombra” che l’opprimeva e della sua
Svizzera. Capendo che anche qui, come nella vicina Davos della Montagna
incantata, nella nostra montagna disincantata dell’oggi è in atto quel duello,
quello scontro, raccontato da Thomas Mann tra il gesuita Naphta e l’illuminista
Settembrini intorno al tema del moderno e della sua interpretazione.
Insomma, dobbiamo discutere su come affrontare l’ipermodernità che avanza, il
nostro rapporto con la città infinita di cui siamo margine e contemporaneamente
centro per le questioni ambientali, per l’intrattenimento e per l’energia. La
ricerca-azione è invito a prendere parola sociale, senza aver presunzione di dare
la linea o di avere il verbo o il sapere che tutto cura, ma imparando dalle parole
già dette come archeologia del sapere da usare nel presente per immaginare e
mangiare il futuro. E rispetto a questo tema che rimanda a La Storia della follia
di Michel Foucault, mi pare utile ripetere la citazione di Dostoevskij (dal Diario di
uno scrittore) da lui messa in testa alla Prefazione: “Non è rinchiudendo il vicino
che ci si convince del proprio buon senso”.
3. NUDA VITA: LA MACCHINA DESIDERANTE. VITA NUDA: LA MACCHINA
VIVENTE
Citazione, quella di Dostoevskij, che, banalizzata per il lavoro di ricerca, dice alla
società valtellinese e ciò che resta della comunità locale, che il problema non può
essere solo risolto da chi esercita il sapere. Dal potere della “Cà rossa”, così mi
ricordo da bambino veniva denominato il manicomio di Sondrio. In termini alti
rimanda allo scavare nella foucaultiana Storia della follia, appunto. In una
lezione al Collège de France 78-79, Foucault con umiltà e apparente distacco
butta lì uno schema interpretativo che ci può essere utile oggi, dopo aver
ricercato, a muoverci in quel passaggio stretto tra Io e Noi, tra problemi sociali e
problemi del soggetto.Tra passioni tristi di un area triste, e triste malattia di un
soggetto triste che nega se stesso.
Lo schema foucaultiano riguarda due grandi derive. La prima nasce all’epoca
dell’editto di Costantino, l’impero, o ciò che ne restava, per la prima volta nella
storia del mediterraneo e nell’incipit del pensiero giudaico-cristiano si attribuisce
e formalizza il compito di prendersi cura delle anime. È la teocrazia che arriva
sino al moderno.
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Il suicida, il giuda, non ha diritto di asilo negando con il suo gesto la primazia
dell’anima sulle sofferenze del corpo. Fase finita per noi valligiani nel sacro
macello della Valtellina nell’Europa della guerra dei trent’anni. Interessante
notare nell’ipermodernità il riapparire di teocrazie che rivalutano il suicidio come
martirio. Ma questo discorso ci porterebbe lontano, alla tragedia delle Torri
gemelle, all’Iraq, all’Afghanistan…
È banale ma indicativo osservare che per il 95,7% del campione della nostra
ricerca i suicidi hanno diritto al funerale cattolico. Poco resta per fortuna di quel
drammatico e arcaico metodo di ricerca sociale praticata barrando con una croce
le case degli ugonotti.
Anche se la tragedia della ex-Jugoslavia è lì a ricordarci che le derive storiche
sono sempre carsiche.
Credo invece che sia ben più radicata la seconda fase storica che, sempre
Foucault rileva, è giunta dalla Rivoluzione francese alla rivoluzione induastriale
sino al Novecento. La fase della “somatocrazia”, il potere e la microfisica dei
poteri non si preoccupa più solo dell’anima, ma del corpo.Viviamo “in un regime
per il quale una delle finalità dell’intervento statale è la cura del corpo, la salute
fisica, la relazione tra la malattia e la salute”. Con il suo impianto istituzionale
chiamato welfare. Che inizia quando Philippe Pinel, dopo la presa della Bastiglia,
apre l’Ospedale dove erano rinchiusi gli oziosi, gli amorali e anche gli illegali,
lasciandoci i folli. E arriva sino alla rivoluzione basagliana e all’antipsichiatria
dell’apertura dei manicomi.
Lunga deriva che oscilla attraverso i campi del potere, del sapere e della società.
Sino all’apoteosi della statualità, con le sue varianti interpretative degli hegeliani
di destra (il nazismo) e gli hegeliani di sinistra (lo stalinismo) che si scontrano
nella piana di Stalingrado a metà del secolo breve, o lungo, e tragico che è stato
il Novecento.
Andando oltre, entrambi (nazismo e stalinismo) al modello della clinica, dei
manicomi, del carcere, arrivando sino al campo di concentramento e al gulag.
Anche questo, come il riferimento alle Torri gemelle, è un riferimento aspro che
ci porta lontano. Ma val la pena
Perché, come ci rammenta Foucault, il “razzismo di stato” sussume nel concetto
di nazione, etnie, religioni, ideologie.Andando oltre e superando la teocrazia, così
come il fordismo, come modello economico che ha nella fabbrica il suo epicentro,
è l’altra faccia della “somatocrazia”: il corpo sano messo al lavoro con lo Stato
provvidenza che accompagna dalla culla alla tomba.
Ma oggi, la fase del nuovo secolo, quella della globalizzazione dispiegata, della
retorica liberatoria dell’individualismo compiuto e dell’individualismo proprietario,
apre nuovi scenari. A cavallo del passaggio di secolo, agonia della modernità o
ipermodernità che viene, si dispiegano i vent’anni del mercato oltre lo Stato. Di
cui l’ultima crisi è la rappresentazione emblematica di una cultura economicista e
consumi stica dei desideri illimitati in uno scenario di opportunità di tempo,
spazio, mezzi apparentemente senza limiti. Qui, ciò che è messo al lavoro è la
nostra capacità psichica di pensare, sentire, comunicare,ricordare, desiderare. È
l’epoca delle passioni tristi, altre dalle forti e ideologiche del Novecento. Tristi
perchè come ci ricordano i due psicoanalisti francesi, Miguel Benasayag e Gérard
Schmit, autori del libro così titolato che hanno lavorato con le giovani
generazioni delle banlieue, il futuro si presenta denso di opportunità ma si
rovescia nel suo opposto: denso di incertezza, paura, minaccia, ansia. Da qui il
luddismo moderno che partendo dalle banlieue non distrugge la fabbrica ma vuol
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bruciare quella Parigi tanto desiderata e mai posseduta. La somatocrazia si
spezza così come la biopolitica.Non più concentrate, l’una nel corpo e l’altra nel
welfare, inseguono i mille rivoli della mente, della crisi del soggetto, delle forme
di convivenza e della crisi della politica.
Alla lotta di classe si sostituisce l’invidia sociale, ai conflitti la guerra civile
molecolare, alle dinamiche del sociale l’implosione della famiglia e delle forme di
convivenza del soggetto. Il razzismo di stato scoperchiato come un vaso di
pandora dalla globalizzazione, libera i miasmi del razzismo differenzialista che
partendo dalle etnie ritiene inconciliabile l’incontro tra culture e stili di vita. Sino
a teorizzare ronde di vicinato e guerre per esportare la democrazie. E a questo
punto c’è poco da dividerci tra sociologi e psichiatri, tra malattia della società e
psicopatologia del soggetto. Entrambi, seguendo i rivoli della crisi sociale del
soggetto, siamo arrivati alle biografie fantasmatiche dei desideranti senza
felicità, alla fine delle utopie e al ripartire dalle eterotopie. Di quelli che vivono di
nostalgia dell’epoca della somatocrazia e del welfare, di quelli che hanno sognato
l’assalto al cielo nel punto più alto della modernità e sono precipitati sulla terra,
alla generazione dei senza libro, senza romanzo di formazione, che “hanno
imparato più parole dalla macchina digitale e dalla televisione che dalla
mamma”. Nel tempo in cui più che la prossimità conta la simultaneità.
Più che alla letteratura sin qui citata, per capire occorre forse attingere alla
psicoletterature de Il Condominio e di Gioco da bambini di James Graham
Ballard. Anima, corpo, mente, tre grandi cicli che si sono dispiegati con forme di
potere, sapere, governo, economia, spazio, tempo. Dovremmo, quindi, definire
l’oggi il tempo della psicotizzazione, della mente messa al lavoro. Che altro è la
new economy se non mettere al lavoro il nostro desiderio, il nostro pensare,
comunicare e sentire? Il nostro corpo, la somatocrazia, è spezzata
schizofrenicamente in due. Da una parte la nuda vita (pensare, sentire,
comunicare e lavoro intellettuale nella rete del general intellect), dall’altro la vita
nuda (il corpo che mangia, si copre, ha fame e freddo e lavora nell’economia
della sopravvivenza).
Ricomporre, nel sincretismo sociale, le differenze di censo e di opportunità, si
sarebbe detto di classe, tra un primo mondo in cui si sente e desidera tutto
senza mai riuscire ad ottenerlo, e un altro mondo ove il problema è
sopravvivere, è questione grande. La stessa che ogni essere deve ricomporre
dentro di sé raggiungendo quell’equilibrio interiore tra nuda vita desiderante e
pensante e vita nuda biologica. Che si può raggiungere solo con l’esercizio della
critica, una coscienza di sé che significa capire come lo spirito critico “è il non
essere eccessivamente governati” (Foucault), nel proprio essere macchina
desiderante e macchina vivente. Nell’esercizio della critica da parte di entrambi,
chi cura la società e chi cura il soggetto, si ricompone il quesito irrisolto di questa
ricerca di quanto sia il suicidio questione sociale o psicopatologica (Borgna).
4. L’INFELICITÀ SENZA DESIDERI E L’INFELICITÀ DESIDERANTE
Avendo ben chiaro che qualsiasi esercizio della critica da parte di chi, come noi,
commenta questa ricerca nello spazio dell’interpretazione, non può prescindere
dai saperi minori, dai sussurri, dalla microfisica dei saperi e dei poteri. A questo
serve la ricerca-azione.
E la prova provata della crisi dei nostri saperi, dei pulpiti, delle cattedre, delle
cliniche, degli ordini professionali, della famiglia, la si trova scavando nelle
interviste in profondità agli attori sociali. Laddove si capisce che, chi più capisce
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le passioni tristi, l’infelicità desiderante, sono i gestori di quel circuito del
distretto del piacere fatto di pub, discoteche, ove si esaurisce l’utopia di un altro
mondo possibile, luoghi eterotopici dove si parla con il gestore per paura di
smarrire la propria ombra.Loro diventano interlocutori a cui si parla, come Jones
alcolista e suonatore della Spoon River di De André che chiede al negoziante di
liquori “Tu che lo vendi cosa ti compri di migliore?”.Se all’alto la società dei
desideri produce business community e i cognitari del lavoro intellettuale, al
basso, sul territorio, la rete che si fa, anche nelle vallate alpine, circuito dei
camosci che dai comuni polvere scendono nel fondovalle, è fatta dal circuito
dell’intrattenimento. Che per essere chiari è uguale, nelle sue tendenze, alla
“Moia” di Albosaggia, al “Continental” di Colico e al lungo “Bund” di Shanghai.
Per i camosci valtellinesi, che nel circuito desiderante non si fermano a valle ma
peripatetici arrivano a Milano, Bergamo, Brescia, e per i giovani cinesi, immersi
nella modernizzazione forzata, il motto è lo stesso che ho visto in un locale di
fronte ai grattacieli simil-New York di Shanghai: “Liberté, égalité, sensualité”. Il
codice del sentire dei corpi desideranti, sostituisce la parola antica della
fratellanza. Ed infatti, il sapere sociale accumulato dai gestori dei locali, ove si è
soli essendo in molti, o in gruppo o in branco (sempre moltitudine), ci dice che
nel loro lavoro di “psichiatri della moltitudine” quando i giovani si avvicinano al
bancone, che sostituisce il lettino, vomitano storie di desolante solitudine. Di un
vorrei ma non posso voltato contro tutto e tutti, e contro di sé.
Il vero antropologo di questa “apocalisse culturale” che prende una vallata
alpino-lombarda, ma, lo ribadisco, uguale nella megalopoli di 20 milioni di
abitanti, è chi con loro vive e con loro usa il linguaggio della musica, Davide Van
de Sfroos.Nel dialogo che ho avuto con lui a commento della ricerca si rivela
come il vero “sciamano” di questa tribù dell’infelicità desiderante che lascia lassù
il paese per andare giù come un “cau boi” nella valle dei semafori dove crescono
i telefoni per poi tornare a lavori che mai permetteranno di reggere e prendere il
molteplice visto e annusato. Ed allora altro non resta che comprare un Gratta e
vinci e sperare, o altrimenti per alcuni, purtroppo molti, “rinnegare sé”, il
suicidio.
Come se non bastassero i tanti che nel loro peregrinare per luoghi della
rappresentazione dei desideri si schiantano nella velocità di un andare che non
presuppone mai un altrove. Problema nazionale che produce norme per il codice
della strada e si vuol risolvere con il proibizionismo alcolico.
Nella nostra ricerca di comunità, il circuito dell’infelicità desiderante dei giovani
che si suicidano, rovesciando l’adagio della madre di Peter Handke che lo fa per
una “infelicità senza desideri”, già ci mostra due polarità sociali dove agisce
l’apocalisse culturale. In chi dovrebbe mangiare futuro l’apocalisse prende
quando non ci si riconosce più come soggetto del possibile, nella realizzazione di
sé, nel dilagare delle opportunità inafferrabili. I giovani sotto i trent’anni, nella
nostra ricerca, sono quelli che denotano la minor fiducia nelle persone. Nell’altra,
quando non riconoscendosi più in ciò che ci era abituale, l’elaborazione del lutto
non produce nostalgia consapevole ma depressione disperante.
A chi cura i meandri della mente addentrarsi nel micro degli effetti devastanti
che, nel macro, abbiamo evidenziato tra i giovani e gli anziani. Senza iniziare
quello scaricabarile da sindacalismo tra soggetti della cura, che le interviste in
profondità hanno evidenziato: la famiglia implosa (su cui torneremo) da luogo di
cura e accompagnamento a terreno di guerra civile molecolare che se la prende
con la scuola. Gli insegnanti e i presidi con i genitori. Assieme evidenziano che la
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Chiesa e i valori non tengono più. Che le strutture sanitarie ci sono, presidiano il
territorio, ma non bastano. E gli addetti ai lavori con esperienza come
Capobianco (vedi intervista), giustamente dicono che famiglia, scuola e preti
preferiscono non parlarne, come se fosse problema il solo dirlo. Da qui l’amara
constatazione da cui siamo partiti che quelli con cui si parla, e se ne parla, sono i
“mercanti di liquori”. Appare, se ci si aggiunge, eccetto rare eccezioni,
l’impotenza di sindaci e assessori, un quadro in cui si passa l’un l’altro il cerino
con la benzina sotto i piedi. Ne parleremo in sede di conclusioni dell’urgenza di
una coalizione sociale diffusa per la “malaombra”, per intervenire sul territorio.
E qui la ricerca ci aiuta con indicazioni precise, qualitative e quantitative. Più che
i comuni polvere ove resistono tracce della comunità originaria, quelle per
intenderci da cui si fa esodo per scendere a valle, per lasciare retoriche agrosilvo-pastorali e memorie della famiglia patriarcale, più che i centri “urbani”come
i quattro capi di mandamento terziarizzati in cui si è divisa la valle e sostanziati
da una composizione sociale altra ormai dentro i flussi della ipermodernità, è nei
comuni intermedi, quelli in transizione tra comunità originaria e ipermodernità,
che cova sotto la cenere di un benessere diffuso il fuoco del disagio giovanile,
della depressione degli anziani e di un difficile depositarsi delle forme di
convivenza.
Comunità di paese che oscillano dai 2mila ai 5mila residenti, che non sono più
paese e nemmeno città. Qui prende lo spaesamento, il sentirsi letteralmente
senza paese. Qui scava quel malessere da “non più” e “non ancora” che rende
deboli, sradicati. Che, come diceva Simon Weil, induce quel rancore che sradica
l’altro da sé e che se non trova il nemico, vero o inventato, si rivolge contro di
sé. Non è più il piccolo mondo antico, non è ancora l’ipermodernità desiderante.
In questo indistinto dovrebbero operare famiglia, scuola, parrocchie e servizi
sociali per un accompagnamento verso l’altrove. Di cui, come appare dalla
ricerca, non è che vi sia tanta certezza.
Il passaggio accelerato, nel fine secolo, da una società con mezzi scarsi ma con
fini certi, ad una con mezzi iper abbodanti ma con fini totalmente incerti, qui ha
scavato in profondità. Quei fini che per gli anziani erano certi, magari nella loro
banalità di una vita operosa e di fatica, per lasciare la scarsità ed agguantare il
benessere di una casa di proprietà, della scuola e dell’università per i figli, di una
famiglia contenitore di sentimenti ed economie ed anche di tanti non detti,
rimandava ad un ordine sociale ove il sindaco, la maestra, il parroco, il
maresciallo dei carabinieri, il farmacista, facevano gerarchia. Valori ed ordine
sociale che non sono più dati come certi. La società dell’incertezza anche qui si
confronta con i flussi che mutano i luoghi e l’antropologia. Flussi finanziari, non
dimentichiamo che giustamente l’economista Quadrio Curzio ha definito questa
valle con le sue due banche popolari un distretto bancario. Di grandi gruppi
dell’energia come A2A ed Enel, della risalita a salmone delle imprese piccole e
micro sino alla turistizzazione e alla sua parchizzazione.
Processi che fanno di questo territorio sempre raccontato come un margine, un
centro dove si incontrano soft economy e hard economy,mutandone appunto
l’antropologia rimasta nel suo racconto alla rappresentazione antica della terra,
dell’aria e dell’acqua buona, e dei prodotti tipici celebrati con riti inventati nelle
ricorrenti sagre di paese. I mezzi appunto sono abbondanti: denaro, energia,
ambiente; tre parole chiave del moderno. Il racconto, la coscienza di luogo, di sé
e dei temi sociali e individuali totalmente incerta. Lo si deduce dalle interviste
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agli universitari che fanno da pendolo tra questa valle e la città infinita e che
dicono che la società locale è afflitta da anomia nel metabolizzare il nuovo.
Ebbi a dire che la mia valle era una valle triste per questo. In questa tristezza e
incertezza occorre scavare. Socialmente mettendosi in mezzo tra i luoghi e i
flussi, tra la Valtellina e la città infinita. Nella desolazione dell’io triste che non
assume parola del proprio disagio scavi l’intervista dello psichiatra o il colloquio
dello psicologo. Dal lavoro di ricerca questa terra di mezzo tra il “non più” e il
“non ancora”, sia per l’Io che per il Noi, risulta essere il territorio dello spazio
sociale e della mente da percorrere.Ne è sintomo evidente, qui come altrove, la
dissolvenza e la crisi della famiglia.
5. FAMIGLIA E GUERRA CIVILE MOLECOLARE
All’epoca della psicotizzazione la famiglia è diventata il luogo emblematico ove
“osservare” e “curare” la crisi delle forme di convivenza, la guerra civile
molecolare, l’insorgere delle psicopatologie, l’anomia e l’afasia di un’epoca in cui
si educa spesso ad ottenere tutto ciò che appare e si infrange il mito, per chi
può, di madri “fate turchine” e di padri “maghi merlino”. Tant’è che sempre più
ciò che resta della statualità e della comunità che era, prova a regolamentare e
normare la famiglia dividendosi, le forze politiche, sui temi che vanno dal
divorzio, alle famiglie di fatto, alla fecondazione assistita.
Qui la nuda vita del sentire, pensare e desiderare è messa alla prova, come è
messa alla prova l’essenza del dna della vita nuda. Si sperimenta e viene messo
al lavoro nella ipermodernità che avanza come fosse quel modello elementare
della convivenza e della riproduzione il laboratorio che ha preso il posto, per
alcuni versi, della fabbrica. I tre lunghi cicli foucaultiani, l’archeologia dei saperi e
dei poteri, della teocrazia, somatocrazia, psicotizzazione, che hanno come lunghe
derive della storia la Guerra dei trent’anni, l’Inquisizione, il razzismo di Stato, la
ex-Jugolavia, le Torri gemelle… e come deriva della civiltà materiale
dell’economia, la servitù della gleba, con le sue anime morte, la fabbrica con le
masse al lavoro, sino alla new economy con la rete e le sue community
desideranti. Lunghe derive con i loro luoghi eterotopici: conventi, chiese,
ospedali, manicomi, carceri, sino agli estremi, da mai dimenticare, dei lager e del
gulag e le comunità virtuali dell’oggi e che ci portano a questo luogo
emblematico ove studiare e capire la microfisica dei saperi e dei poteri minori: la
famiglia.
Luogo sociale su cui tutti gli attori intervistati si sono soffermati come luogo
eterotopico in crisi, come luogo per antonomasia perno della comunità locale in
dissolvenza. In questo la ricerca nel ridotto alpino ci è utile. Essendo che, qui più
che altrove (penso alle metropoli), insistono ancora tutte e tre i modelli di
microfisica della famiglia sedimentati nelle lunghe derive della storia. La famiglia
patriarcale-comunitaria con le sue retoriche solidaristiche e le sue patologie da
maso chiuso incentrata sull’economia agricola tendenzialmente prosumerista
nella scarsità che si è riciclata in impresine edili a conduzione familiare. Che
hanno seguito il boom abitativo e ove hanno convissuto generazioni e diversi
nuclei familiari sino a formare reti di clan parentali non estranei alle elezioni nei
comuni polvere di assessori e sindaci. Una forma di ruralità-modernizzante. Che
insiste nei comuni del “non più” e conserva deboli tracce di sé in quella terra di
mezzo nei comuni in transizione. È interessante notare che dove ancora esistono
tracce di famiglia partriarcal-comunitaria si insediano nuclei di famiglie migranti
con tracce forti di quella patriarcalità autoritaria dei costumi. Qui, come
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nell’Appennino emiliano-romagnolo, si dice solo per il costo delle case, ma credo
anche che vi siano motivazioni antropologiche. Basta ave visitato alcune aree
interne del Maghreb ai bordi dell’Atlante, quanto simile è il “non più” che loro
hanno lasciato per migrare e noi per esodo nella modernizzazione.
Similitudini spiegate anche da quel fenomeno poco studiato ma indicativo dei
tanti figli, soprattutto maschi della cultura patriarcal-comunitaria, che intimiditi
dalla donna giustamente emancipata e libera, intrecciano matrimoni e relazioni
lungo la via globale della ruralità, magari attraverso internet o agenzie
matrimoniali, con donne messicane, polacche, ucraine. Microfenomeno già visto
e studiato da noi dal grande antropologo Nuto Revelli nei suoi libri inchiesta di
quando nelle Langhe, terre della malora, i figli del mondo dei vinti si sposavano,
per mediazione, con le calabresi.
Mondo dei vinti, appunto, con i suoi sussulti di resistenza, ma dove la famiglia,
come nucleo di identità relazionale e cura, ha ormai poco da dire. Che fa dire a
mia madre, nella sua sociologia spicciola, che se si mettono in fila le case lungo
la via del mio paese, dove lei è nata più di ottant’anni fa, non c’è famiglia senza
un divorzio o senza conflitti e drammi da microcosmo che non tiene più.
Perché oltre al modello patriarcal-comunitario non regge più nemmeno il modello
di famiglia che si è imposto nella seconda metà del secolo: la famiglia
mononucleare fordista. Arrivate in valle ai tempi delle dighe idroelettriche che
sono state il nostro fordismo. Con l’AEM, la Falk e l’Enel, le nostre fabbriche a
cielo aperto di energia.
Famiglie dove insistono le politiche del welfare, della somatocrazia, che ha nel
maschio, lavoratore, adulto e bianco, il tondino di ferro.
Sono quelle famiglie che, lasciato il modello patriarcal-comunitario, se nella città
infinita lecchese-brianzola hanno prodotto quel modello operoso del capannone
con villetta, giardino con nanetti e BMW in garage, sul versante retico e orobico
della valle hanno ristrutturato le proprietà patriarcali, spesso con liti ereditarie
infinite, e disegnato un benessere fatto di orizzontalità diffusa per cui la famiglia
tipo valtellinese cerca un posto fisso per il capofamiglia e si disperde in rivoli di
manutenzione e cura del patrimonio di un tempo. Più che al metal-mezzadro del
modello dell’appennino marchigiano che Giorgio Fuà aveva studiato a Fabriano,
qui l’epoca mononucleare fordista ha come figura ideal-tipica l’ellettromezzadro.Circondato da un’orizzontalità fatta di posti di lavoro in banca, negli
ospedali, all’Enel, nella vicina Svizzera, nel turismo che fa della valle una delle
province italiane in cima nella classifica dei redditi e prima assoluta in quella del
risparmio.
Un piccolo forziere di benessere che a quanto pare non basta a dare
maieuticamente fiducia agli infelici a cui sembra di essere stati più felici ai tempi
della famiglia perimetrante. I pochi patriarchi e l’ellettromezzadro vedono venire
avanti nella dissolvenza del loro ruolo la famiglia al tempo della moltitudine.
Sostanziata dal mutamento del ruolo della donna in famiglia e sul lavoro, da
modelli familiari mono-genitoriali, modelli, nella ruralità modernizzante, di
famiglie tecnicamente e religiosamente diversificate o multirazziali.
La famiglia diventa non più una comunità di un codice normativo naturale o di un
codice economico, ma un artificio prodotto da un arte del saper vivere nei
meandri delle opportunità date dal mutamento degli usi e dei costumi. Massimo
di opportunità anche nell’artificio del vivere, sfamigliamento che si somma allo
spaesamento e che produce anche nelle forme di convivenza una sensazione
diffusa di infelicità desiderante.
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Certamente delle due figure dominanti del secolo passato, il deus ex machina
della famiglia patriarcale e l’ellettro-mezzadro sono ormai figure depotenziate e il
ruolo emergente della donna non si trasferisce automaticamente in quella della
madre. Altra figura in crisi di autorevolezza. Siamo a rischio di un nucleo che
galleggia senza padri e senza madri.
Dalla ricerca emerge chiaramente che se vi è un luogo che esplica la
psicotizzazione dell’epoca questa è la famiglia non più in grado di reggere il suo
artificio e le artificialità da cui è circondata.
6. NON PIÙ E NON ANCORA: IL TORCICOLLO DELL’ESISTENZA
Dal lavoro di inchiesta tra coloro che non volevano parlare della “malaombra” e
dai saperi minori che hanno preso parola, tre indicazioni di lavoro, di cura e di
intervento sociale, culturale e psicosociale sono chiari: lo spazio della mente e lo
spazio sociale tra “non più” e “non ancora”; i territori, i paesi, i comuni della
transizione; la famiglia come spazio clinico e critico di conflitti molecolari di e tra
generazioni conviventi.Con un dato in più che mostra uno spazio da percorrere,
un terreno di lavoro possibile: il 77,6% dei valtellinesi (poco più di tre persone
su quattro) considera il tema dei suicidi in provincia una questione molto
importante, con in più le tre cluster che, dall’elaborazione dei questionari
,indicano a chi vorrà curare e parlare le tre culture, i giudizi e i pregiudizi che
attraversano la società locale.
Tradizionalisti – sincretici - secolarizzati, cosi li abbiamo denominati. Che
rimandano allo spazio interpretativo del “non più”, i tradizionalisti, di quelli che
vivono il “non ancora” dell’individualismo compiuto e della terziarizzazione, i
secolarizzati, e di quelli che stanno in mezzo, i sincretici, nell’esercizio di una
difficile sintesi.
Banalizzando, se l’Angelo della storia di Benjamin attraversasse la valle, si
potrebbe dire che tre sono gli approcci individuati: quelli che camminano con la
testa rivolta all’indietro, quelli che guardano avanti e non sanno dove andare,
quelli con il torcicollo per il continuo agitare il capo per cercare di capire e voler
capire.
Quelli che vivono guardando indietro malati di nostalgia, di spaesamento, di
infelicità senza desideri, pensano esista uno stretto legame tra suicidio e forza
del legame sociale dissolto nella crisi dei valori che aasicuravano la comunità
originaria della famiglia patriarcal-comunitaria.
Quelli che guardano avanti, nella presunzione di essere arrivati altrove, che altro
non è – come abbiamo visto – che lo spazio dell’infelicità desiderante,
sostengono, all’opposto, che sempre alla comunità occorre guardare ma che
proprio nella sua chiusura sta il malessere, nel suo essere una valle chiusa, poco
aperta e poco attraversata dal moderno, sta la malattia. Illusi anche loro, perché
basta oltrepassare la valle per andare, come dice Van de Sfroos, nella valle dei
semafori e dove crescono i telefoni, per capire che non si arriva mai in un altrove
ove soddisfare l’infelicità desiderante. Per la loro presunzione vale il proverbio
locale che ripete spesso mia madre: “anche a Milano non ci sono i cani legati con
le salsicce”, o tornare al nostro cantastorie, a Van de Sfroos, che in una sua
canzone su Milano racconta le storie di vita di tre laghée che scendono nei
meandri della metropoli e che si perdono chi per radicalità politica, chi per droga
e facendo il gigolò, chi per aggressività e rabbia da tamarro.
Quelli che hanno il torcicollo, i sincretici, per intenderci, sostengono invece che
non è un problema di comunità che non c’è più o di comunità chiusa da cui
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fuggire, ma di vivere il tempo presente per cambiare, essendoci, per loro, un
legame stretto tra suicidio e qualità del legame sociale. Sui “sincretici” punta il
sociologo, che nella loro voglia di comunità, constatando ciò che non c’è più e
che naturalmente non è ricostruibile partendo dal nucleo originario della famiglia,
per uscire da loro disagio siano gli artefici di una comunità artificiale adeguata ai
tempi, di una ipermodernità che ridisegna le forme della convivenza ma che, nel
contempo se vissuta esercitando l’arte della critica e dell’illusione fredda, è densa
di opportunità.
Tant’è che applicando lo schema interpretativo dell’azione sociale di Hirschman
basato su exit/loyalty/voice, alla nostra comunità locale, avremo che i “lealisti”
sono coloro che hanno nostalgia della lealtà della comunità organica di un
tempo.Quelli che applicano lo schema dell’uscita sono coloro che ritengono la
comunità non più in grado di garantire senso di appartenenza e preferiscono
rischiare strategie di uscita individuali. Sono i “secolarizzati”, gli illusi del “non
ancora” e di un altrove possibile. Disponibili a prendere voce, nel nostro caso
anche a prendere in mano il testimone del lavoro di ricerca-azione e proseguire
nel collaborare con chi cura l’apocalisse della mente e della comunità, sono quelli
con il torcicollo, quelli che stanno in mezzo sincreticamente interrogandosi su
quali basi ricostruire artificialmente la comunità locale attraversata dai flussi del
moderno.
È andata un po’ così anche per i nostri commentatori, interpreti di questo caso
perturbante che il lettore troverà, se non desiste dopo questa lunga introduzione,
nelle pagine che seguono. Val la pena di leggere il dialogo con il poeta Franco Loi
denso di nostalgia di quando nella Milano di Ungaretti si parlava del disagio e
l’Angel discuteva del suicidio. Le pagine dell’antropologo Salsa, nonché
presidente del Cai, che scava nella specificità alpina che nel suo rapporto
uomocomunità-natura può essere una specificità perturbante di una vallata.
Riprendendo quel teorema geografico tra le “terre del burro” che stanno a Nord,
dove si nega più il vivere, e le “terre dell’olio” dove si sopravvive ma si vive. Le
impegnative pagine del vescovo di Como a cui appartiene la comunità di valle,
che senza rimpianti per quella teocrazia di cui abbiamo scritto, mette la Chiesa
dentro lo spaesamento della comunità, e non poteva essere altrimenti essendo
oggi il fare chiesa anche e soprattutto caritas. E ridar senso a quella parola
chiave del moderno che è la fratellanza, sostituita nell’apocalisse dei desideri e
delle opportunità da quel sentire, sensualité, che può smarrire l’ombra
dell’essere. Se i primi due testi stavano nella nostalgia, il vescovo apre la schiera
dei sincretici, di quelli che partendo dalla psichiatria come Borgna, Ballantini e
Baruffini, si confrontano con l’abisso della mente e le passioni tristi della
moltitudine.
Con loro mi sono confrontato come “rappresentante” e portavoce del sociale.
Giungendo alla conclusione, che spero condividano, che pur partendo da saperi
diversi, da interviste diverse, da metodi diversi, i meandri della mente e i sentieri
sociali arrivano tutti allo stesso Holzwege, per dirla con Heidegger. Ovvero, al
tortuoso tornante di quella strada di montagna, metafora che ben si adatta alla
nostra ricerca di comunità, ove il ghiaccio che prende la dimensione collettiva e
individuale dell’essere rischia di mandarci fuori strada.
Leggendo e rileggendo le loro interpretazioni ho come l’impressione che siamo
un po’ tutti come dei grilli parlanti a rischio, di fronte al gesto estremo, di essere
schiacciati dal martello di Pinocchio, dell’essere o del sociale muto e incazzato
pieno di rabbia e disincanto per il fuori e dentro di sé. E ci rimane l’interrogativo
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sul come e sul quanto esercitare la critica dell’autonomia del soggetto sociale,
affinché,mutando il fuori e il dentro di noi, nessuno debba spingersi sino alle
conclusioni estreme dell’amico Bifo (che come me ha sognato tanto e il tonfo
amaro della ricaduta si vede e si sente dentro), del suicidio come scelta per
“liberarsi di un futuro orribile che sembra essere l’unico possibile”, con la sua
logica di compatibilità estensiva del suicidio come libera morte.
Se gli psichiatri, i sociologi, i vescovi, gli antropologi e i poeti non hanno visione
sufficiente, non la si può certo chiedere a chi come Cecco Bellosi (Comunità il
Gabbiano), Enrico del Barba (Associazione La Navicella), Johnny Dotti (Consorzio
cooperative CGM) e a don Virginio Colmegna (Casa della Carità) che operano
sulla frontiera dei borderline, con chi si è perso e si rischia di perdersi, di farsi
carico da soli dei problemi grandi che emergono dal loro racconto di un’attività
territoriale, altra dall’agire istituzionale di chiese, cattedre e ospedali.
Altro non resta, dopo aver tutti esercitato critiche e dubbi nell’interpretare il
racconto della ricerca-azione, che, almeno noi, ci esercitiamo “all’amicizia e al
parlar franco”. Parole chiave degli ultimi testi foucaultiani che invitano, in un
contesto ipermoderno di dissolvenza della comunità, a costruire legame sociale e
capitale sociale, capire il valore dei legami deboli che rimandano ai saperi minori
che una comunità in dissolvenza deve ricostruire per una coscienza di luogo in
grado di affrontare i flussi globali che vengono avanti. A scomporre e ricomporre
parole e suoni dentro “il rumore che non significa nulla”, come scrive Peter
Handke di fronte al gesto estremo della madre che lascia un discorso interrotto
che lui riprende facendone un racconto. Così come Van de Sfroos canta e fa da
specchio a quelli persi nel circuito dei camosci o, come dice lui, nella “ruota del
criceto”.
Ricostruendo attraverso l’amicizia e il parlar franco un circuito che superi gli
Holzwege, tenga assieme la nuova composizione sociale della valle dei suicidi,
fatta da montanari per nascita che non si riconoscono più in ciò che gli era
abituale, e montanari per scelta, risaliti per fare esodo dal tessuto metropolitano
o migrati per necessità.
Quei migranti che qui sono arrivati lasciando la linea geo-filosofica dell’olio per
arrivare in quella del burro.
Non sono pochi, mi si racconta, quelli che fatto esodo alla ricerca della terra del
latte e del miele, arrivati nella città fragile perdono il senso di sé.A Milano come
in Valtellina, il disagio psichico e sociale di chi non regge il sincretismo di ciò che
si è lasciato o dell’essere seconda generazione produce e riproduce anche in
quelli che vengono dalle terre dell’olio lo stesso malessere di noi che “friggiamo”
nel burro della nostra ipermodernità.Anche in questo, più che differenti siamo
uguali.
7. AMICIZIA, PARLAR FRANCO, COMUNITÀ DI CURA
Ci vuole amicizia e parlar franco a fronte di un tema aspro e lacerante da quasi
tutti riconosciuto, ma non rappresentato, da affrontare facendo coalizione
sociale. Costruendo e rafforzando l’artificio della comunità di cura. Parola
ambigua, categoria filosofica, medica, psicologica, pragmatica, che rimanda alla
separatezza della clinica dell’archeologia dei saperi, della somatocrazia e della
psicotizzazione e dei saperi minori, essendo intimamente legata all’esperienza
quotidiana. A ciò che facciamo ogni giorno, la cura del nostro corpo, la cura dei
bimbi o degli anziani non autosufficienti. Insomma, una pratica con i suoi luoghi
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ben precisi. La casa, che sarà bene ricordarlo rimanda all’abitare, prima ancora
degli ospedali e della clinica come luogo di cura delle malattie.
Tema, parola, che rimanda a un soggetto: quello femminile. Il cui pensiero, nel
fine secolo, ci ha insegnato a considerare la cura come aspetto fondamentale
dell’esperienza umana e non come angolo vuoto ove nascondere sofferenze e
malattie. Come scrive Gisella Bassanini nel suo Per amore della città. Donne,
partecipazione, progetto, casa, vita quotidiana, pratiche di cura, appartengono,
nell’esistenza reale e nell’immaginario collettivo, alle donne.
Sono considerate “cose del privato”, un sapere e un saper fare minore in
contrapposizione con le “cose pubbliche”. La cosa pubblica, pressuppone un
sapere ed un saper fare, che, nell’ordine del moderno, sta sul palcoscenico, fa
società dello spettacolo rispetto alla società dei sussurri e del quotidiano. Sfere
che si sono andate via via separando attribuendo la sfera pubblica al maschile e
quella privata al femminile. Della categoria e della parola chiave moltitudine, da
molti usata come categoria politica, come soggetto del conflitto ai tempi della
globalizzazione imperiale, nel mio Il trionfo della moltitudine, ho fatto una
curvatura sociologica definendola, la moltitudine, la dimensione della massa
privata dalla categoria ordinatoria delle classi ai tempi dell’individualismo
compiuto. Non me ne vorranno le radicali interpreti della cura come separatezza
di genere, se ultimamente provo a curvare questo simbolo delle differenze di
genere, la cura, a categoria di interpretazione del formarsi di deboli tracce del
fare società.
Ritengo, infatti, che ai tempi della moltitudine, cifra sociale dell’individualismo
compiuto, si possano rintracciare segnali deboli, saperi minori che si coagulano
nel disegnare come assenza, come mancanza, tracce di comunità che viene: la
comunità di cura, la comunità operosa, la comunità del rancore. Sottratta
all’esclusiva categoria della differenza di genere, senza ovviamente mai
scordarsene, la comunità di cura apparirà, oltre che sostanziata dall’esercito del
quotidiano che la applica nelle case e nell’abitare, da quei tanti che per
professione e ruolo ai tempi del welfare e della statualità provvidente avevano
come compito il curare, il mettersi in mezzo tra statualità e società. Penso agli
insegnati, ai medici, agli psichiatri, agli avvocati, ai sociologi…Ognuno con la sua
corporazione da professione liberale produttrice di una sapere dall’alto che si va
sfarinado nella pratica di massa di un sapere-potere non più aristocratico ma da
società dei servizi assediata da molteplici nuove professioni che vengono dal
mutar dei tempi, dalle badanti alla nebulosa di quelli che “lavorano
comunicando”, cercando le prime di sopravvivere e i secondi di fare casta da
nuova professione. Le professioni della cura, eredità del welfare e della
somatocrazia, sono un patrimonio collettivo e sociale di cui aver cura. Sommati e
messi assieme all’esercito invisibile reso visibile e con coscienza di sé dal
pensare femminile, e “all’esercito dei buoni” sostanziato dall’esplosione del
fenomeno, anche questo recente, del volontariato, dell’associazionismo e
dell’impresa sociale, fanno uno zoccolo duro con le sue ambiguità e i suoi scazzi
ideologici interni che altro non sono che emergenze della crisi di transizione in
cui sono inseriti.
Uno zoccolo duro da cui partire per praticare amicizia e parlar franco. Non sarà
un caso se in tempi di razzismo differenzialista, chi si è opposto alle classi
separate nelle scuole sono stati gli insegnati, chi si è rifiutato di essere
“medicopoliziotto” dei clandestini sono stati i medici, se sono gli psichiatri di
strada che nella città flipper dialogano con gli homeless senza casa e senza
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mente, o che in mezzo tra i fuochi della comunità rancorosa e i rom si sono
messi quelli della Casa della Carità. Perché, all’opposto della comunità di cura, ai
tempi della moltitudine e del populismo che innerva la massa senza classi, cresce
anche la comunità del rancore. Che, come ho già scritto, nella tragedia della exJugoslavia ha avuto la sua rappresentazione tragicamente geopolitica, con il
dispiegarsi della comunità maledetta alimentata da sangue, suolo, religioni e
razzismi.
Ci ho scritto un libro con questo titolo Comunità maledetta ed un altro, che
riguarda l’Italia, che più tenuemente ho titolato Il rancore, appunto. Che prende
quando la comunità come assenza, come spazio vuoto, viene riempita non dalle
dinamiche quotidiane, professionali e volontarie della cura e dell’attenzione
all’altro da sé, ma dal suo opposto.
Alimentato da quel motto “chi è sradicato sradica” che perimetra spazi di
posizione, dalla casa, al quartiere, al paese al territorio in quel gioco perverso
dell’ipermodernità in cui ogni nord cerca e si inventa un suo sud. Per cui la
comunità rinasce perimetrando con il fuoco il proprio territorio attorno ad un
campo Rom, come è successo a Opera, o attraverso le ronde che controllano e
delimitano il proprio territorio. Con riti e miti di rappresentazioni che partendo
dal motto difensivo “ognuno è padrone a casa sua”, si fanno vulgata populistica
quotata al mercato della politica e sostanziata da un razzismo differenzialista che
si da comunità di dialetti, lingue, usi e costumi, rancorosi verso l’altro da sé.
Anche qui precipita la società dell’incertezza. Fosse stato 30-40 anni fa, il
pensare queste due polarità sociali mi avrebbe visto tra i sostenitori di un
conflitto tra cura e rancore per il prevalere dei primi nella costruzione di
un’utopia possibile. Sarà il passare degli anni che rende più “riformisti”, o più
orientati al maieutico buon senso, ai sussurri più che alle grida, ai saperi minori
più che all’ideologie, oggi non credo che la soluzione sia quella di uno scontro tra
desideri e voglie di comunità opposte. Guardo con interesse ad un possibile
saldarsi tra la comunità di cura con la terza polarità dove ci sono tracce di una
comunità operosa che prendano per mano, con amicizia e parlar franco, gli
spaesati e gli sradicati del rancore. Perché anche loro sono privi di un
altrove.L’altrove, i luoghi eterotopici dell’inclusione, del confronto delle diversità
sono la luna. Cura, rancore ed operosità altro non sono che il dito che li indica.
La comunità operosa è formata dai tanti che mettono il loro pensare, sentire,
comunicare nel ciclo dell’individualità messa al lavoro nella forma del capitalismo
personale nell’epoca dell’artigianìa della mente. Noi sociologi li definiamo figli
della terziarizzazione, classe creativa, cognitari che hanno sostituito spesso, nella
loro precarietà e flessibilità, i proletari. In alto fanno business community e
tracce di neo borghesia, in basso tanti cognitari, appunto. Ma non sono le
dinamiche interne a questa nuova composizioni sociale che qui ci interessano.
Nel loro essere operosi, hanno come loro mezzi di produzione di reddito e senso
gli spazi-mente, la loro conoscenza che deve essere sempre in rete e sempre
alimentata pena l’uscita dal ciclo.
Ciò li rende, a differenza della comunità del rancore rinchiusa e rinserrata,
facitori di una comunità operosa aperta al mondo ove navigano e si spostano
peripatetici attraversando usi e costumi, lingue e opportunità. Sono condannati
al sincretismo ed è questo che li rende simili, nel loro lavoro, a quelli che nella
comunità di cura praticano l’inclusione e l’apertura ai mondi.Non è raro trovare
storie di vita di creativi, cacciatori di tendenza, pubblicitari, geniali informatici,
comunicatori che fanno volontariato o impresa sociale. Così come quelle
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professioni della cura, dagli insegnanti agli psichiatri sino agli avvocati e ai
medici che vogliono “far bene” il proprio lavoro devono essere a loro volta un po’
tanto operosi.
Da questo intricato labirinto sociale rintraccio deboli segnali di contaminazione
tra mondi vitali che possono mettersi in mezzo e attraversare il rancore delle
guerre civili molecolari che intaccano le forme di convivenza. Mi si dirà cosa
c’entra questa lunga disamina della weltanshaung del Bonomi con il perturbante
caso dei suicidi in una vallata alpina? C’entra, c’entra. Vi ricordate quelle tre
tipologie dei tradizionalisti, dei sincretici e dei secolarizzati con le loro valutazioni
e il loro applicare lo schema di Hirschman, exit/loyalty/voice, dalla comunità
locale? Insomma, la loro voglia, la loro angoscia di comunità come assenza in
una comunità interrogata dal gesto estremo.
Se la ricerca-azione ci ha permesso di capire, di rendere visibile ciò che era
nascosto sotto il tappeto, con il Convegno finale e con questo numero di
Communitas, ci accingiamo a dire che è possibile fare coalizione sociale per
curare individualmente e farsi carico collettivamente del problema.
Questo sarà possibile solo mobilitando la comunità di cura valtellinese composta
dagli psichiatri agli psicologi, dagli insegnanti ai medici di base, agli assistenti
sociali e agli infermieri preposti istituzionalmente alla cura, e dalle cooperative
sociali, l’associazionismo, il volontariato, la rete dei centri di ascolto Caritas che
abbiamo denominato i sincretici che assumono voce e azione rispetto al tema dei
suicidi in valle. Sarebbe una buona pratica se ad esempio il progetto “Tempo
zero”, sperimentato in valle, che si propone istituzionalmente di comunicare,
dentro l’anomia della famiglia, con i giovani che parlano solo con “i mercanti di
liquori”, si mettesse nella rete della cura con associazioni, scuole, operatori del
margine e operatori della Caritas che su questo tema hanno ricercato e lavorato.
Un primo passo locale per mettere assieme il sapere della “Cà rossa” con i
sussurri dei saperi minori e del saper fare inclusione sociale.
Coinvolgendo, perché no? Interrogando il ridotto del benessere, dalle banche alle
fondazioni ex bancarie, alle imprese, sino ai “secolarizzati” della terziarizzazione,
delle nuove professioni, che disincantati praticano la secessione dei benestanti.
Li abbiamo intervistati, interrogati rispetto al tema, coinvolgiamoli nell’intreccio
tra cura ed operosità. Solo così sarà possibile abbassare il rancore che produce i
tradizionalisti nostalgici del “non più”, i sincretici che stanno in mezzo con disagio
al “non ancora”, e i secolarizzati che pensano basti il loro individualismo
compiuto.
Rancore verso l’altro da sé che in questa valle è diffuso, e che nell’anomia e
nell’afasia di una valle triste, con poca amicizia e parlar franco, spesso, troppo
spesso, si rivolge contro di sé negandosi di continuare a vivere. Occorre
un’eterotopia sostanziata da voglia di comunità e dalla voglia di mangiare ancora
futuro.
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II PARTE
LA RICERCA
La malaombra.
Il perturbante caso dei suicidi in una vallata alpina
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Il presente rapporto è stato redatto da una equipe diretta da Aldo Bonomi e
costituita da Albino Gusmeroli e Claudio Donegà
Il gruppo di lavoro territoriale dei volontari Caritas è stato guidato dal direttore
di Caritas Sondrio Don Augusto Bormolini ed è costituito da:
Area Bormio: Germana Boni Zucchi, Lucia Capelli, Gianni Confortola, Flavia De
Monti, Ezio Dei Cas, Guy Gurini, Lucia Magatelli, Bianca Maria Magenta, Lella
Mauri Schiantarelli, Nicoletta Romani, Elisabetta Taufer, Armida Zuccoti Nava;
Area Tirano: Serena Baroni, Francesca Chieco, Roberta Colzani, Giovanni
Marchesi, Lia Negrini, Daniela Pianta, Giuliana Pini, Lucia Scalco, Annamaria
Tenni, Ettore Testi, Silvia Vegro;
Area Sondrio: Giulia Bonfadini, Sonia Bongetta, Renata Bangio, Lorenza
Conforti, Monia Copes, Katia Dell’Agostino, Mariella Della Patrona, Severino
Diamanti, Stefano Flematti, Sarà Gianoncelli, Francesca Gusmeroli, Debora Pajé,
Novella Parolini, Paolo Redaelli, Anna Rodigari, Elena Simonini, Stefania Meschini
Area Morbegno: Franca Bagassi, Serena Baroni, Cecco Bellosi, Sonia
Bongetta, Renata Bongio, Chiara Bottà, Cristina Brisa, Roberta Colzani, Enrico
Del Barba (Associazione La Navicella), Giuliana Girardi, Sofia Muccio, Alessandra
Pedraglio, Mariella Piccapietra, Florinda Pozzi, Laura Spini, Sonia Zucchi
Area Chiavenna: Pietro Biavaschi, Franco Bregoli, Nicola Cavatorta, Paolo
Ciapusci, Vita Garcia De Leon, Juri Minotti, Katia Nicolò, Clementina Nonini
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Premessa
Tra ottobre 2008 e aprile 2009 un gruppo di volontari della Caritas della
Provincia di Sondrio si è impegnato, sotto la guida scientifica del Consorzio
AASTER, a somministrare un questionario strutturato ad un campione
rappresentativo della popolazione della provincia e a svolgere una serie di
interviste in profondità ad un panel di attori locali.
Il lavoro territoriale ha ottenuto i seguenti risultati:
Questionari raccolti: 872, di cui: 56 nel mandamento di Bormio, 136 a
Tirano, 290 a Sondrio, 250 a Morbegno (con l’aggiunta di Colico), 138 a
Chiavenna.
La rilevazione è stata compiuta con una stratificazione campionaria rigorosa,
essendo stati rispettati i criteri di territorializzazione comunale, genere, età,
titolo di studio dei rispondenti dell’universo di riferimento (la popolazione della
Provincia di Sondrio), con parziale esclusione del mandamento di Bormio1.
Interviste: 100 sono le interviste in profondità effettuate dal gruppo di
lavoro Caritas nei diversi mandamenti della provincia. Dal punto di vista
qualitativo si tratta generalmente di interviste di buona qualità, sia per come
sono state condotte, sia per gli interlocutori prescelti: sindaci, parroci,
responsabili di associazioni di rappresentanza degli interessi e di volontariato,
sindacalisti, insegnanti, responsabili del sistema della giustizia e dei servizi
sociali territoriali, rappresentanti dei media locali, medici e psichiatri, gestori di
pub e discoteche.
Il rapporto si compone di due parti. La prima sezione è dedicata all’analisi e
interpretazione dei dati raccolti tramite la somministrazione del questionario
strutturato. La seconda sezione è dedicata all’analisi dei testi deregistrati delle
interviste in profondità.
In allegato alcuni dati di fonte ISTAT in materia di statistiche sociali, utili per
inquadrare le trasformazioni in atto sul territorio, e una panoramica comparata
dei dati sul suicidio in Provincia di Sondrio, Italia e Europa.
1
Dal punto di vista territoriale i criteri di campionamento sono stati soddisfatti al 100% nei mandamenti
di Chiavenna e Morbegno, al 91% nel mandamento di Sondrio, al 84,5% nel mandamento di Tirano, al
41,5% nel mandamento di Bormio.
21
Introduzione
I dati relativi ai suicidi
Secondo l’Azienda Ospedaliera della Valtellina e della Valchiavenna tra il 1989
e il 2007 in Provincia di Sondrio si sono tolte la vita 485 persone. Il tasso medio
annuale nel periodo è stato del 15,04 2 per 100.000 abitanti, oltre il doppio
rispetto a quello italiano, attestato nel medesimo periodo, a 7,2 casi ogni
100.000 abitanti.
370 di questi 485 suicidi erano uomini (76,3%), 115 donne (23,7%).
Nel corso degli ultimi tre decenni il tasso medio è comunque leggermente
calato, passando dal 16,9 degli anni ’80 al 14,6 degli anni ’90, sino al 13,9 del
periodo 2001-2007.
I dati acquisiti dalla AOVV (e da ISTAT per il periodo 1984-1989) evidenziano
un andamento tendenziale di medio periodo del tasso di suicidi provinciale al
ribasso.
Andamento del tasso di suicidio in Provincia di Sondrio, casi ogni 100.000 abitanti
(anni 1984-2007, dati ISTAT e AOVV)3
45
40
38,12
35
30
28
26,61
25
19,24
20
15
10
14,29
14,3
12,34
8,69
5
0
totale
maschi
femmine
Lineare (totale)
Nonostante le ampie oscillazioni, comunque sempre ben al di sopra del dato
nazionale e regionale4, il tasso di suicidi tende a contrarsi soprattutto per la parte
maschile della popolazione, mentre quella femminile si attesta su valori
storicamente più contenuti e quindi meno comprimibili rispetto ad un teorico
2
Si tratta di un dato molto simile a quello fatto registrare in Ticino, cioè nel Cantone svizzero con il
più basso tasso di suicidi della Confederazione, al di sotto di quello del confinante Cantone dei
Grigioni, dove la media degli ultimi vent’anni oltrepassa stabilmente i 20-22 casi ogni 100.000.
3
Da notare che il tasso di suicidi più basso del periodo (8,5) è quello relativo al 1988, ovvero all’anno
successivo alla grande alluvione del 1987.
4
Ricordiamo che nel decennio 1990-2000 in Provincia di Sondrio sono stati registrati 472 morti per
incidente stradale, 281 per suicidio, circa 70 sul lavoro, 20 per omicidio.
22
tasso fisiologico5. A questo andamento corrisponde per altro una crescita dei
tentativi di suicidio, almeno per i dati disponibili nell’ultimo decennio. Si tratta di
un dato in contro tendenza rispetto a quello regionale e nazionale.
Come noto non è la spiegazione del tasso di suicidi l’obiettivo della ricerca,
tuttavia la tendenza alla decrescita del dato relativo al suicidio non è da
sottovalutare poiché ci dice, di fatto, che oggi la situazione sembra migliorare
lentamente, per quanto la percezione pubblica, come vedremo, non sia tale.
L’approccio della ricerca al tema del suicidio non è orientata a ricostruire il
quadro delle intenzioni e dei significati attribuiti dal suicida al proprio gesto.
Se è vero che il classico approccio durkheimiano 6, ovvero quello che riconduce
la variazione dei tassi di suicidio a due grandi cause: integrazione e
regolamentazione sociale, mostra alcuni limiti proprio perché attribuisce scarsa
importanza alle motivazioni degli individui e ai fattori culturali che influenzano la
rappresentazione del suicidio, nel nostro caso resta invece uno schema
significativo, proprio perché noi siamo interessati a comprendere se e come una
collettività ritenga vi sia un legame tra integrazione sociale e suicidio 7.
Dal punto di vista territoriale, fatto salvo lo squilibrio del campione, è
possibile delineare alcune considerazioni che derivano dall’analisi dei dati
demografici, delle risposte al questionario e dalle interviste in profondità.
I dati demografici di lungo periodo relativi alla distribuzione della popolazione
provinciale hanno registrato una sostanziale stabilità dei centri maggiori
(capoluoghi di mandamento)8, a fronte di una crescita dei centri intermedi
(3.000-5.000 abitanti) e ad una sostanziale stabilità dei piccoli e piccolissimi
centri. Sono quindi i comuni intermedi che hanno sperimentato una crescita della
popolazione significativa, secondo uno stile di urbanizzazione che ricalca il
cambiamento famigliare, caratterizzato dal tramonto della famiglia estesa e dalla
riduzione del tasso di natalità. I paesi intermedi sono quindi cresciuti secondo il
modello della villa e villetta a schiera monofamigliare, magari costruite su terreni
ereditati dai nonni contadini e resi progressivamente edificabili. Questa forma di
urbanizzazione, cui corrisponde l’abbandono dei centri storici con le sue strette
relazioni di vicinato, sembra riflettersi sulle risposte fornite nei questionari nella
parte “socialità e fiducia”. Nei centri medi si registra una minore fiducia nella
capacità di risolvere i problemi locali, una ancor minore fiducia nella possibilità di
influenzare le decisioni su ciò che accade in paese, una sensazione di minor
condivisione dei valori di vicinato. In queste aree si registra maggiore
soddisfazione per l’abitazione nella quale si vive, ma una minore soddisfazione
per la propria vita in generale, per la qualità del tempo libero e per il paese nel
quale si abita. Minore è anche la fiducia negli amici, nei parenti e nei colleghi di
lavoro, tanto più per gli stranieri che vivono sul territorio. Netta è anche la
differenza tra chi risiede nei centri-capoluogo e i comuni medi a forte dinamica
demografica e urbana sul piano della percezione della fiducia sociale. Questi
5
Le statistiche disponibili a partire dal 1500 in tutta Europa hanno sempre evidenziano un tasso di
suicidi dei maschi doppio o triplo rispetto a quello femminile.
6
Fu il sociologo francese Emile Durkheim a condurre nel 1897 il primo studio sistematico sul
rapporto tra suicidio e sue cause sociali.
7
D’altro canto i materiali raccolti ci permettono di compiere anche qualche considerazione sui fini che
il suicida si propone con il proprio atto: ci si uccide solamente per se stessi o anche per gli altri, ci si
uccide per qualcuno o contro qualcuno.
8
Ad esclusione di Morbegno che invece è cresciuta ben sopra la media provinciale
23
ultimi affermano molto più frequentemente che con la gente non si è mai
abbastanza prudenti e che vedono nell’altro qualcuno pronto ad approfittarsi
della buona fede altrui.
Nei confronti del suicidio i residenti in quelle che assomigliano più a piccole
enclave suburbane che al classico piccolo paese nutrono sentimenti meno
improntati alla pietà e più alla rabbia alla disperazione. Tendono a ritenere il
suicidio un atto incomprensibile, qualcosa che non ci insegna nulla o ancora un
atto di follia. Non è inoltre un caso se proprio in questo segmento di popolazione
vi è una tendenza più diffusa a ritenere il suicidio come sintomo di disagio
comunitario e senza dubbio un fenomeno di cui è difficile comprendere i motivi,
anche perché essi cambiano nel tempo. Quando invitati ad esprimersi sui motivi
secondo i quali in provincia si registrano tassi di suicidio così elevati, è sempre
questo segmento di popolazione a evidenziare il peso delle variabili relazionali:
crescita del disagio sociale, di quello famigliare, scarsità di persone di riferimento
nella comunità, scarsità di servizi sociali di prevenzione.
Non è quindi tanto la distinzione tra i mandamenti ad essere significativa, ma
piuttosto la dimensione del comune e il suo dinamismo demografico. In sostanza
più che le differenze tra il mandamento di Tirano e quello di Chiavenna, contano
le differenze tra Tirano e Villa di Tirano, tra Sondrio e Albosaggia, quelle tra
Chiavenna e Samolaco. In questi comuni risiedono in genere due tipologie di
popolazione: quella storicamente insediata nei piccoli centri storici o nelle aree
rurali sopravvissute all’urbanizzazione del fondovalle e quella recentemente
affluita da centri più piccoli o da quelli più grandi in declino demografico (Sondrio
e Chiavenna in particolare). Si tratta per lo più di famiglie con figli di ceto
impiegatizio o operaio in cui è ancora diffuso il monoreddito (almeno
ufficialmente). Nei capoluoghi, sempre restando al nostro campione, sono invece
più diffusi i ceti intellettuali (professionisti, insegnanti, etc.) e i pensionati,
mentre tra gli strati impiegatizi e di lavoratori autonomi sono più diffuse le
famiglie senza figli.
Dal punto di vista anagrafico appare qui degno di nota evidenziare alcuni
aspetti emersi dalla rilevazione quantitativa sulla questione della fiducia sociale.
I giovani, intesi come under 30 anni, denotano una generale minore fiducia nelle
persone, ad esclusione della cerchia amicale e di quella famigliare, rispetto ai più
adulti. In particolare denotano minore fiducia nei vicini di casa, minore fiducia
nei concittadini, negli abitanti della provincia, della regione e negli italiani. Non
va meglio con la fiducia negli stranieri che vivono sul territorio, il cui dato supera
comunque di poco quello relativo agli italiani (15,7%), mentre hanno più fiducia
degli adulti negli insegnanti. Per i più giovani, più ancora che per gli adulti, il
mondo è fatto di persone pronte ad approfittarsi della propria buona fede, nei
confronti dei quali non si è mai abbastanza prudenti.
In rapporto ai sentimenti nei confronti del suicidio non si rileva una grande
differenza generazionale, se non per quanto riguarda la pietà e la tristezza,
nettamente più diffusa tra gli over 50 anni. In sostanza i sentimenti verso il
suicidio sembrano non mutare nel tempo, se non nell’età più matura nel senso
della pietas. Per altro è proprio tra costoro che il suicidio è considerato più
frequentemente un atto incomprensibile o di follia che non insegna nulla.
Viceversa tra i più giovani le risposte sono molto concentrate sull’idea che il
suicidio sia un atto di resa alle forze della vita, connotato da egoismo e non certo
un segno di libertà.
24
Non mancano differenze apprezzabili nella sfera delle risposte relative al
rapporto tra suicidio e ambiente (territoriale, sociale ed economico). La classe di
età intermedia (30-50 anni) sottolinea i rischi connessi alla solitudine, la
connessione con la salute della comunità locale e il cambiamento dei motivi per
cui le persone compiono questo atto. I più giovani risultano invece
particolarmente sensibili al legame tra suicidio e luogo nel quale si vive e al fatto
che rappresenti una questione privata che non bisogna giudicare.
Nello specifico delle motivazioni che hanno a che fare con il dato relativo alla
Provincia di Sondrio la classe di età più giovane attribuisce minore importanza
alla crisi dei valori di un tempo rispetto agli over 30 anni, così come attribuisce
minore importanza alla mancanza di persone di riferimento nella comunità.
D’altra segnala la crescita del disagio sociale e la crescente chiusura culturale. E’
invece la classe di età intermedia (30-50 anni) a sottolineare in modo particolare
il peso attribuibile alla crisi del disagio famigliare, alla difficoltà di adattamento ai
cambiamenti della propria vita e alla crisi dei rapporti tra le generazioni come
insieme di motivi che possono favorire atti suicidi. Infine la classe di età degli
over 50, oltre a segnalare più frequentemente la questione della crisi dei valori,
è l’unica a considerare scarsa l’offerta e l’efficacia dei servizi sociali.
In relazione al fatto che il suicidio possa essere considerato un allarme sociale
vi è un sostanziale accordo generazionale, sebbene con due varianti relative alla
consapevolezza del problema. Sotto i 50 anni si ritiene che non vi sia sufficiente
consapevolezza del problema, sopra i 50 si ritiene che la gente sia consapevole
ma non sa cosa fare.
Ponendo a confronto le risposte del gruppo di intervistati che hanno avuto
un suicida in famiglia o nella sfera degli amici (16,7%) con il resto del
campione emerge quanto segue.
a) la scala dei sentimenti rimane invariata, in cima tristezza e pietà in
coda colpa e indifferenza, tuttavia i valori medi relativi al gruppo di
“intimi” si alzano, in particolare il disorientamento, la rabbia e la
frustrazione.
b) Il gruppo degli “intimi” è poco propenso a considerare il suicidio un
peccato grave, tanto meno un fatto che non insegni nulla. E’ questo il
gruppo che ritiene che siano cambiati i motivi per i quali ci si uccide e
che raramente ciò abbia a che fare con questioni materiali.
c) Il gruppo degli intimi è nettamente più propenso a ricondurre le
peculiarità dell’alto tasso di suicidi provinciale alla crisi dei valori di un
tempo, alla scarsità di persone di riferimento nella comunità, alla crisi
dei rapporti tra le generazioni e alla crescente chiusura culturale.
25
Parte relativa all’analisi dei questionari
Caratteristiche anagrafiche del campione
Nel corso della rilevazione a mezzo di questionario strutturato i volontari della
Caritas hanno raccolto 872 questionari suddivisi secondo i criteri di
campionamento stratificato assegnati nella fase di preparazione della ricerca. In
particolare è stata rispettata la quota per genere, le quote per classi di età sono
leggermente sovra-rappresentate nelle coorti 21-60 anni, mentre sono
leggermente sottorappresentate nelle classi di età più avanzate (over 60 anni).
Dal punto di vista territoriale il campione è ben rappresentato nei mandamenti di
Chiavenna, Morbegno9, Sondrio e Tirano, mentre Bormio appare nettamente
sottorappresentata..
Grafico 1. Suddivisione del campione e della popolazione della provincia per
genere
100%
90%
80%
70%
50,6
51,4
49,4
48,6
campione
popolazione
60%
50%
40%
30%
20%
10%
0%
maschio
femmina
Come vedremo, lo sbilanciamento del campione non compromette di per sé i
risultati dell’indagine, rende semmai molto rischioso un raffronto territoriale tra i
dati raccolti nei diversi mandamenti, o meglio esclude dalla comparazione il
mandamento di Bormio. Un altro aspetto del quale tenere conto attiene ad un
leggero sbilanciamento dei dati in favore dei centri non capoluogo di
mandamento, dove, a fronte di una raccolta di questionari pari al 71,2%, la
popolazione costituisce il 69,8%.
Grafico 2. Suddivisione del campione e della popolazione della provincia per
classi di età
9
Il campione prevedeva l’inclusione di Colico, che pure è collocato in Provincia di Lecco.
26
11,1
15,2
13,5
13,3
13,7
15
12,8
41-50
16
20
15,2
20,3
18,6
31-40
19,1
18,1
25
6,8
6,3
10
5
0
15-20
21-30
campione
50-60
61-70
>70
popolazione
Dal punto di vista della composizione del campione titolo di studio il 35,3%
non ha oltrepassato i diversi gradi della scuola dell’obbligo (licenza elementare,
avviamento professionale, licenza media), il 48,3% ha ottenuto un diploma
professionale o un diploma di maturità, mentre il 16,7% ha ottenuto un diploma
di laurea. Dato il leggero sbilanciamento del campione verso le classi di età più
giovani è ragionevole pensare che la composizione per grado di istruzione non
rifletta pienamente il dato della popolazione, dove il dato relativo ai titoli di
studio più bassi è nella realtà sicuramente più alto, così come la percentuale di
laureati è sensibilmente inferiore.
Per quanto attiene alla suddivisione per condizione professionale i dati raccolti
evidenziano il peso di due categorie principali: impiegati (26,4%) e pensionati
(23,8%), seguiti dal cluster dei lavoratori autonomi (artigiani, commercianti,
agricoltori, liberi professionisti e imprenditori) che si attesta al 16,1%, e da
quello degli operai, pari al 10,5%. Le casalinghe rappresentano il 9,8% del
campione, mentre il gruppo degli studenti costituisce il 9,2%%.
Tabella sinottica
Valori %
Genere
Maschi
Femmine
49,4
50,6
Classi di età
15-30 anni
31-50 anni
>50 anni
20,0
39,4
40,6
27
Grado di istruzione10
basso
medio
alto
35,3
48,3
16,7
Condizione professionale 11
Lavoratori autonomi e professionisti
Impiegati
Operai
Casalinghe
Pensionati
Studenti
Disoccupati
Altro
16,1
26,4
10,5
9,8
23,8
9,2
0,6
3,9
Condizione abitativa
Da soli (con o senza figli)
Coniugati (con e senza figli)
Conviventi (con o senza figli)
Con genitori (con o senza fratelli e sorelle)
Con famiglia e altre persone (non figli o
genitori)
13,9
56,7
4,9
20,8
3,8
Dal punto di vista della condizione famigliare il 56,7% del campione è
rappresentato da soggetti coniugati, di cui circa due su tre con figli. Vi è poi un
20,8% di rispondenti che abitano con la famiglia di origine, un 4,9% di
conviventi, un 3,4% di persone sole con figli a carico, un 3,8% di soggetti che
vivono con la famiglia ed altre persone esterne al nucleo famigliare in senso
stretto, infine un 10,5% di persone che vivono sole.
Dal punto di vista dell’analisi territoriale abbiamo cercato di evidenziare
atteggiamenti e opinioni dei rispondenti non solo sulla base della dimensione del
comune e della sua collocazione mandamentale ma soprattutto in base al dato
dinamico relativo all’andamento della popolazione tra il 1993 e il 2008. Abbiamo
così individuato tre gruppi di comuni: quelli che soffrono di disagio demografico
(oltre –5% nel periodo), composte prevalentemente dal terzile di comuni più
piccoli, le aree di transizione demografica che nel periodo preso in esame hanno
registrato una dinamica demografica debole (fosse essa negativa o positiva), le
aree a forte dinamismo demografico, cioè con una crescita della popolazione
superiore al 5% nel corso del quindicennio considerato.
10
Basso comprende: “nessun titolo”, “licenza elementare”, “avviamento professionale”, “licenza
media”; Medio comprende: “diploma professionale”, “diploma superiore”; Alto comprende: “diploma
di laurea”, “titolo post-laurea”
11
Lavoratori autonomi e professionisti comprende: “artigiano”, “libero professionista”,
“imprenditore”, “commerciante”, “agricoltore”; Impiegati comprende: “impiegato”, “insegnante”,
“dirigente”; Operi comprende: “operaio comune”, “operaio specializzato”, “lavorante a domicilio per
conto terzi”.
28
Tabella 1. Suddivisione dei comuni per dimensione e dinamica demografica
-Aree di
disagio
demografico
(20 comuni)
-Aree di
transizione
demografica
(30 comuni)
-Aree di
dinamismo
demografico
(29 comuni)
Comuni polvere
Comuni intermedi
Centri maggiori
Albaredo, Bema,
Pedesina, Spriana,
Tartano, Gerola,
Vervio, Rasura,
S.Giacomo, Faedo,
Madesimo, Castello
dell’Acqua, Forcola
Torre S. Maria, Villa di
C., Bianzone, Lanzada,
Verceia
Sondalo, Teglio
Menarola, Cedrasco,
Sernio, Fusine,
Lovero, Mantello
Valmasino, Mello,
Campodolcino,
Colorina, Castione,
Caspoggio, Grosotto,
Tresivio, Buglio in
Monte, Ponte in V.,
Piateda, Aprica,
Valfurva
Chiuro, Chiesa in V.,
Villa di T.,
Montagna,
Albosaggia, Bormio,
Berbenno, Grosio,
Chiavenna, Tirano,
Sondrio
Caiolo, Mezzo, Civo,
Piantedo, Mese, Novate
M., Gordona,
Poggiridenti, Piuro
Traona, Prata C.,
Samolaco, Delebio,
Ardenno, Dubino,
Valdisotto,
Valdidentro,
Talamona, Cosio V.,
Livigno, Morbegno,
Colico
Cino, Cercino,
Dazio, Rogolo,
Andalo, Tovo,
Postalesio
Suddivisione su base comunale del territorio provinciale
sulla base della dimensione comunale e la dinamica demografica
29
La suddivisione del campione in base al dinamismo demografico individua un
piccolo gruppo di soggetti localizzati nelle aree a disagio (8,7%), un gruppo
maggioritario (50,1%) di persone che risiedono in aree a debole dinamica
demografica, un gruppo altrettanto corposo di persone che risiedono in aree
dinamiche (41,3%).
La qualità delle relazioni di vicinato nella percezione degli intervistati
La dimensione di paese
Le opinioni espresse dagli intervistati finalizzate a ricostruire il quadro della
qualità delle relazioni di vicinato evidenziano un quadro per alcuni aspetti molto
chiaro con opinioni plebiscitarie, per altri più problematico. Non c’è dubbio,
stando ai dati, che la stragrande maggioranza della popolazione ritenga che il
proprio paese sia un buon posto nel quale vivere. Si tratta di un’opinione
condivisa da oltre il 95% dei rispondenti, siano essi donne o uomini, giovani o
anziani, titolari di licenza elementare o laurea, residenti in piccoli centri o nei
capoluoghi. L’unica, parzialissima, eccezione in negativo è costituita dal
segmento dei lavoratori autonomi che si colloca all’88,4%. D’altra parte
casalinghe e pensionati sfiorano il 100% di risposte positive.
Ma gli intervistati non si limitano a dire che il proprio paese sia un buon posto
nel quale vivere, è qualcosa di più: un luogo nel quale essi si sentono a casa. E’
così per la stragrande parte dei rispondenti, anche in questo caso con la piccola
eccezione dei lavoratori autonomi (che include professionisti e imprenditori).
30
Per quanto attiene alla dimensione della conoscenza delle persone che
costituiscono l’intorno sociale del paese il dato raccolto evidenzia una forte
percezione di trovarsi a vivere in un ambiente sociale famigliare. Il dato è tanto
più evidente per chi abita nei piccoli comuni, per chi ha un titolo di studio più
basso e si qualifica come operaio o si trova in pensione.
La gran parte degli intervistati si aspetta di continuare a vivere nel luogo di
residenza attuale, con una forte differenza sul piano anagrafico. Una differenza
chiaramente giustificabile per i più anziani (più stanziali), tuttavia rilevante in
relazione alle aspettative dei più giovani che, in almeno un caso su tre (35%)
dichiara di non aspettarsi di vivere a lungo nel luogo di origine. Quota che sale al
46,5% per gli studenti e al 57,5% quando questi studenti abitano nei capoluoghi
di mandamento. Degno di nota anche il dato relativo ai lavoratori autonomi che,
almeno per il segmento dei professionisti, vede scendere al 75% la quota di
coloro che si aspettano di vivere nel luogo di abitazione attuale. E’ inoltre
evidente che la spinta al trasferimento risulti più accentuata nei comuni già
colpiti da disagio demografico, mentre chi vive nelle aree a maggiore dinamismo
si aspetta più frequentemente di vivere in quel medesimo luogo.
Almeno due persone su tre non solo si aspettano di vivere in loco ma
ritengono particolarmente importante vivere in quel determinato ambito
territoriale, tanto più se vivono nei capoluoghi di mandamento. Un’attribuzione di
valore per altro molto sbilanciata anagraficamente. Gli over 50 anni sono infatti
nettamente più numerosi, il 79% di questa classe lo ritiene un aspetto molto
importante, rispetto alle classi di età inferiori, che registrano un dato intorno al
55%. Rilevanti le differenze anche sotto il profilo del titolo di studio: solo il 53%
dei laureati attribuisce particolare valore al luogo nel quale vivono, a fronte del
75% dei titolari di licenza media o avviamento. Questa dinamica trova
rispondenza anche sul piano della collocazione professionale, dal momento che
sono pensionati, casalinghe e operai a mostrare particolare attaccamento al
Paese nel quale vivono.
Grafico 3.Per ciascuna delle seguenti affermazioni indicare se la ritiene vera o falsa
31
100%
90%
34,3
80%
16,5
12,6
83,5
87,4
8,1
4,7
91,9
95,3
33,3
50,5
70%
60%
83,8
83,1
75,7
67,3
50%
40%
30%
65,7
66,7
è molt o
se c' è un
49,5
20%
10%
16,2
16,9
24,3
32,7
0%
molt o pochi
mi
la gent e di
la gent e del
non ho
dei miei
preoccupo
quest o
mio paese
alcuna
vicini mi
di ciò che i
paese non si
non
inf luenza sul
per me
conoscono
miei vicini
f requent a
condivide i
mio paese
mi aspet t o di
conosco
mi sent o a
penso che il
vivere qui
molt i di
casa in
mio paese
quest o
per molt o
quelli che
quest o post o sia un buon
t empo
impor t ant e problema in
vivere in
paese la
vivono nel
post o dove
pensano di
miei st essi
quest o
gent e può
mio
vivere
quello che
valori
part icolare
ot t erne la
quar t ier e
paese
soluzione
f accio
VERO
FALSO
Per quanto attiene alla distribuzione dei valori relativi alla percezione da parte
degli abitanti di vivere in un luogo nel quale sia possibile ottenere la soluzione
dei problemi che attengano in qualche modo alla sfera pubblica siamo di fronte
ad un dato apparentemente chiaro, dal momento che circa due rispondenti su tre
si dichiara ottimista in questo senso. Tuttavia si tratta di una possibilità
sensibilmente più diffusa tra i meno giovani, tra le casalinghe e i pensionati.
Mentre tra i più giovani questa possibilità è limitata ai titolari di laurea , specie
quando vivono nei centri maggiori.
Se è vero che la maggioranza dei rispondenti ritiene possibile praticare
soluzioni ai problemi è anche vero che il dato scende al 50% in relazione alla
percezione soggettiva di essere in grado di influenzare in qualche modo le
decisioni che attengono al proprio paese. In questo ambito la distinzione di
genere è notevole: le donne sono nettamente più numerose degli uomini nel
ritenersi ininfluenti, tanto più se casalinghe. Notevole anche la differenza sul
piano della variabile grado di istruzione. I laureati si ritengono più influenti,
specie quando svolgono funzioni impiegatizie nei centri maggiori.
Per almeno due intervistati su tre i compaesani condividono sostanzialmente
gli stessi valori dell’intervistato, siano essi residenti in aree demograficamente
dinamiche o in via di spopolamento. Una convinzione che risulta leggermente
meno solida tra gli over 50 anni pensionati, specie quando titolari di licenza
elementare o media. Oltre a condividere gli stessi valori gli intervistati segnalano
che le persone del paese si frequentano assiduamente, aspetto anche questo
meno condiviso dagli over 50 anni, se pensionati, e dai titolari di diploma
superiore o laureati, se lavoratori autonomi o professionisti. Pochi sono inoltre gli
intervistati che si dichiarano preoccupati del giudizio dei vicini, tanto meno se si
32
tratta di persone che vivono nei piccoli demograficamente più dinamici, ancor
meno sono coloro i quali dichiarano di non essere conosciuti dai vicini, con
parziale esclusione degli studenti e dei lavoratori autonomi o professionisti.
In definitiva questa prima domanda restituisce un quadro che evidenzia
sostanzialmente una buona percezione delle relazioni sociali, un forte
attaccamento al luogo nel quale si vive, una discreta fiducia nella possibilità di
risolvere i problemi collettivi locali, seppure corredata da una appena sufficiente
possibilità di influenzare le decisioni che riguardano la dimensione del paese. Un
dato, quest’ultimo, che non sembra però inficiare un giudizio complessivamente
positivo in rapporto alla propria collocazione all’interno delle reti corte di paese.
La soddisfazione per le relazioni sociali e le condizioni di vita
Coerentemente con il quadro delineato sopra, i giudizi relativi al grado di
soddisfazione in merito alle relazioni sociali personali e alla propria condizione di
vita evidenziano un quadro di compatta soddisfazione. Possiamo considerare, ad
esempio, molto alto (intorno all’8,55) il voto medio relativo al rapporto con i
famigliari e quello relativo alla propria abitazione (8,47). In questi ambiti solo il
7% del campione ha espresso un voto al di sotto della sufficienza
(complessivamente solo 16 maschi e 24 femmine, prevalentemente in età
giovanile, occupati e residenti in piccoli centri, non sono soddisfatti delle relazioni
famigliari). La media ottenuta dal voto sulla propria vita in genere si colloca ben
al di sopra dell’8. Anche in questo caso gli insoddisfatti si aggirano intorno al 6%
e, per quanto riguarda il profilo sociale, siamo di fronte ad un soggetto simile a
quello delineato sopra.
La situazione non cambia anche in relazione al giudizio espresso nei confronti del
rapporto con gli amici, particolarmente positivo per i giovani, al giudizio sulla
propria tranquillità psicologica, leggermente meno soddisfacente per le donne, e
a quello relativo alla propria capacità di prendere decisioni, leggermente meno
soddisfacente per gli under 30 anni. Tempo libero e paese nel quale si vive sono
le uniche due modalità che registrano una quota di insoddisfatti superiore al
10%. Su entrambi questi versanti sensibilmente meno soddisfatti appaiono, in
particolare, i diplomati e i laureati con meno di 30 anni residenti nei piccoli
comuni (parliamo comunque sempre di un voto medio superiore al 7).
Grafico 4. In generale quanto è soddisfatto: (esprimere un voto da 1 a 10)
33
8,09
della sua tranquillità psicologica
del rapporto con gli amici
del suo tenore di vita
8,19
8,2
della sua vita in generale
8,08
del suo stato di salute
7,93
8,01
della sua capacità di prendere
decisioni
8,47
8,55
7,72
del rapporto con i famigliari
dell'abitazione in cui vive
del suo tempo libero
7,3
del paese dove vive
8,8
8,6
8,4
8,2
8
7,8
7,6
7,4
7,2
7
6,8
6,6
Da notare che gli abitanti delle zone demograficamente più dinamiche registrano
valori relativi alle relazioni sociali e alle condizioni di vita costantemente superiori
ai residenti nella aree a stagnazione demografica o in via di spopolamento. In
particolare essi risultano ancor più soddisfatti della propria capacità di prendere
decisione, hanno una migliore percezione della propria vita in generale e in
particolare del proprio tenore di vita e dell’abitazione nella quale vivono.
La fiducia sociale
Interrogati sulla fiducia che valtellinesi e valchiavennaschi attribuiscono alla
“gran parte delle persone in genere”, il 60,9% dichiara di averne poca e, in
qualche caso, nulla. L’età dei rispondenti sembra la variabile in grado di
discriminare maggiormente le opinioni: tra i giovani sotto i 30 anni la sfiducia
sale al 74,3% rispetto al 52,1% degli over 50 anni. Del resto sono gli studenti,
affiancati dagli strati operai più giovani, a dimostrarsi meno fiduciosi, mentre
anche la variabile associata ai titoli di studio è piuttosto rilevante, dal momento
che la fiducia nelle persone in genere si accresce (senza comunque mai
oltrepassare il 50%) proporzionalmente al grado di istruzione, così come si
accresce nei residenti delle aree demograficamente più attive.
Come rilevabile dai dati presentati il perno della fiducia sociale ruota intorno alla
famiglia che, considerata da qualsiasi punto di vista (genere, età, titolo di studio,
localizzazione territoriale, etc.), raccoglie la quasi assoluta fiducia degli
intervistati.
Grafico 5. In generale quanta fiducia prova nei confronti di ciascuno dei seguenti
soggetti?
34
100%
0,9
90%
19,4
1
28,6
80%
1,5
29,3
0,7
1,3
1,2
1,7
4,2
4
12,8
30,2
37,8
39,2
47,7
70%
48,1
57
49,1
60%
50%
12
60,2
67,7
58,2
58,5
40%
54,8
59,2
55,1
30%
51,9
42,5
39,6
39,8
39,4
20%
10%
0%
26,1
21,5
12
14,4
9,9
5,8
nessuna
7,6
8
poca
molta
8,1
7,1
1,7
18,1
1,4
3,5
0,1
moltissima
Molto rilevante è anche la fiducia espressa nei confronti degli amici verso i quali
poco oltre l’80% del campione nutre molta o moltissima fiducia. Si tratta di un
aspetto particolarmente rilevante per gli under 30 anni (87%) e per la
componente femminile (83,2% rispetto al 74,1% degli uomini), così come lo è
più per i laureati (92,3%) rispetto ai titoli di studio più bassi (entrambi 77%). Il
profilo di coloro i quali invece dichiarano di non avere grande fiducia negli amici
non è univoco. Da una parte abbiamo un nucleo di casalinghe localizzate nei
piccoli comuni con un’età compresa tra 41 e 50 anni. Dall’altra un gruppo più
numeroso di uomini operai o pensionati con titoli di studio basso e di età
piuttosto avanzata.
La cerchia dei parenti viene considerata degna di fiducia da poco più del 72%
degli intervistati. Si tratta di un valore influenzato dall’altissimo tasso di fiducia
attribuito dai laureati (82,3% rispetto al 65% dei titolari di diploma superiore o
licenza media) specie quando residenti nei capoluoghi di mandamento. Il profilo
di quel 30% che dichiara di avere poca o nulla fiducia nel parentado è costituito
prevalentemente da soggetti con età compresa tra 20 e 40 anni, titolo di studio
basso che svolgono attività autonoma (artigiano o commerciante) o operaia. Da
notare che vi è un 21,2% del campione che dichiara di avere poca o nulla fiducia
sia negli amici, sia nei parenti. Anche in questo caso il profilo sociale evidenzia
un forte componente maschile con età compresa tra 41-50 anni,
35
tendenzialmente residente in un centro non mandamentale che svolge attività
operaia.
Gli insegnanti raccolgono la fiducia di poco di metà del campione (52,3%). Si
tratta di un ceto professionale che gode di maggiore stima da parte delle donne
(in particolare delle mamme) rispetto a quella degli uomini, più degli studenti e
dei pensionati rispetto a chi è inserito attivamente nel mondo del lavoro e
nettamente più dai laureati che dai titolari di studio più basso.
I colleghi di lavoro riscuotono la fiducia di oltre metà del campione (53,1%). Si
tratta di una fiducia leggermente meno diffusa nella componente maschile,
specie nelle fila dei lavoratori autonomi e dello strato impiegatizio, mentre
appare meno accentuata tra gli operai. In sostanza impiegati e autonomi
attribuiscono maggiore fiducia a parenti ed amici rispetto agli operai, che invece
registrano un maggior tasso di fiducia nei colleghi di lavoro. Da notare che nelle
aree a maggiore dinamismo demografico la sfiducia verso i colleghi, come pure
quella verso gli amici, appare sensibilmente più diffusa.
I vicini di casa riscuotono la fiducia di metà degli intervistati (49,4%). In
particolare; ne ricevono poca dagli studenti e dagli operai, dai più giovani in
generale, ma soprattutto dagli intervistati che risiedono nelle zone più dinamiche
dal punto vista demografico. Facendo tesoro delle risposte fornite alla domanda
sulla percezione del vicinato la parte del campione che dichiara di non avere
fiducia nei vicini pone in relazione tale mancanza con la diversità dei valori
praticati (tra loro e i vicini) e non tanto con il fatto che non vi sia conoscenza
reciproca. Inoltre questa parte del campione tende a mostrarsi meno attaccata
affettivamente al luogo nel quale vive, oltre ad essere più portata a non credere
nella capacità della comunità di paese di individuare soluzioni ai problemi della
gente che vi abita.
Man mano che ci allontaniamo dalle cerchie sociali più vicine all’intervistato, che
corrispondono anche a categorie relativamente più astratte, il tasso di fiducia
crolla al di sotto del 40% nei confronti dei concittadini, al di sotto del 30% nei
confronti degli abitanti della provincia, della regione e degli italiani, intorno al
20% nei confronti degli stranieri che vivono sul territorio.
36
Grafico 6. Indicare quanto Lei è d’accordo con le seguenti affermazioni.
100%
5,5
3,5
90%
80%
70%
1,2
19,6
36,1
1
12,7
33,4
60%
52,8
50%
40%
30%
70
44,8
49,9
20%
10%
0%
8,5
18,2
26,5
16,3
generalmente ci si può fidare di gli altri, se si presentasse non si è mai abbastanza prudenti generalmente le persone sono
gran parte delle persone
l'occasione, approfitterebbero
con la gente
corrette nei miei confronti
della mia buona fede
molto
a bbastanza
La fiducia nei concittadini risulta particolarmente contenuta tra gli under 30 anni
(25,7%, rispetto al 48,9% degli over 50 anni), soprattutto se studenti (18,3%),
mentre tra i lavoratori sono sempre gli operai a dimostrarsi meno fiduciosi, così
come sono sempre gli abitanti delle aree più dinamiche dal punto di vista
demografico a dimostrarsi più diffidenti nei confronti dei concittadini. Questo
schema tende a riprodursi nei confronti degli abitanti della provincia, della
regione e degli italiani. Sono sempre i più giovani ad attribuire scarsa fiducia, in
particolare nei confronti degli italiani che riscuotono la fiducia del solo 15,4%
degli under 30 anni.
Come già detto gli stranieri che vivono sul territorio sono i soggetti che catturano
la minor quota di fiducia 12, anche in questo caso soprattutto tra i giovani e tra gli
abitanti dei comuni demograficamente più attivi, che spesso corrispondono
anche alle aree maggiormente investite dal fenomeno migratorio.
Nonostante la fiducia non sia moneta corrente oltre la sfera famigliare e amicale,
gran parte degli intervistati ritengono che le persone siano corrette nei loro
confronti (86,3%) e che meritino fiducia per almeno due intervistati su tre. Solo
il 13,7% dei rispondenti non si sente trattata adeguatamente. In questo gruppo
sono relativamente più numerosi operai e studenti, in generale i soggetti con
grado di istruzione medio-basso. Pur essendo ritenute corrette secondo gli
intervistati occorre tuttavia essere prudenti con le persone, anzi, per il 79,3%
non si è mai abbastanza prudenti. E’ una prudenza ancor più spiccata tra le
donne, specie se lavorano e abitano nei centri maggiori, e tra i pensionati dei
comuni in forte crescita demografica. La convinzione che gli altri, se si
presentasse l’occasione, approfitterebbero della buona fede dell’intervistato è
condivisa dal 63% del campione e riguarda soprattutto le due classi di età
12
Da notare che i giovani under 30 anni attribuiscono, seppur di poco, più fiducia agli stranieri sul territorio che agli
italiani.
37
estreme: gli under 30 anni e gli over 60 anni, cioè sempre il binomio giovani
operai e pensionati.
Il 55,7% degli intervistati si ritiene molto o abbastanza d’accordo con le
affermazioni “non si è mai abbastanza prudenti con la gente” e “gli altri, se si
presentasse l’occasione, approfitterebbero della mia buona fede”, valore che sale
al 62,8% per i titoli di studio più bassi, al 65,3% tra le casalinghe e al 67,7% tra
gli operai.
Vi è inoltre un gruppo relativamente minore (11,9% del campione) che si ritiene
poco o nulla d’accordo con le affermazioni “generalmente ci si può fidare di gran
parte delle persone” e “generalmente le persone sono corrette nei miei
confronti”, percentuale che sale al 19,5% tra i più giovani.
Percezione e valutazioni sul suicidio in Provincia di Sondrio
Esperienze, sentimenti, orientamenti culturali, valori
Secondo quanto affermato dagli intervistati il 63,4% del campione è stato
coinvolto, nell’ambito delle conoscenze personali, in almeno un caso di suicidio.
Nella buona parte dei casi l’ambito era quello dei conoscenti (69,5%), ma
rilevante è anche la quota di chi ha sperimentato casi di suicidio nella sfera
amicale (25,1%) o famigliare (16,5%). Ovviamente sul dato pesa la componente
anagrafica dal momento che i più anziani sono stati interessati da questo evento
più frequentemente. E ciò risulta tanto più vero quando i casi di suicidio
avvengono nella sfera degli amici o dei parenti.
Complessivamente il profilo più “tipico” del soggetto che ha sperimentato casi di
suicidi nella sfera degli affetti più ristretti è quello dell’operaio/a o della casalinga
con grado di istruzione basso residente nelle aree a maggior dinamismo
demografico. Per altro sembra proprio quest’ultimo fattore territoriale, almeno
tra quelli considerati, ad apparire più incisivo. Sicuramente è più incisivo rispetto
alla dimensione del comune o al mandamento di localizzazione.
La rassegna dei sentimenti ispirati negli intervistati quando vengono a
conoscenza di un caso di suicidio nella propria comunità pone al centro due stati
d’animo: tristezza e pietà. Sono questi gli unici sentimenti che raccolgono un
voto medio superiore alla sufficienza.
La tristezza, con la quale si identifica poco meno dell’80% degli intervistati (cioè
hanno attribuito almeno un punteggio di sei punti), coglie con particolare
intensità la componente femminile e tende a crescere con l’età degli intervistati.
Non vi è invece differenza sul piano del grado di istruzione o della condizione
professionale, mentre su quello territoriale le aree demograficamente più
dinamiche risultano essere “un po’ più tristi” così come, vedremo, depositarie di
un sentimento di pietà più diffuso per il gesto. Questo sentimento, in effetti,
determina differenziali maggiori della tristezza. Da una parte coglie allo stesso
modo maschi e femmine, dall’altra è nettamente più diffuso tra gli over 50 anni
(voto medio 7,9), mentre non giunge alla sufficienza tra i giovani sotto i 30 anni
(voto medio 5,62). Il 31,5% del campione dichiara di non provare grande pietà
38
per i suicidi. Si tratta, come detto, di giovani lavoratori autonomi o operai
specializzati, residenti prevalentemente nei centri medio-piccoli. Viceversa sono
sostanzialmente i pensionati a rappresentare il segmento di coloro ai quali il
suicidio ispira grande pietà (con voto di almeno 8 punti).
Grafico 7. Quando viene a conoscenza di casi di suicidio nella sua comunità, qual è il
sentimento che più si avvicina al suo stato d’animo? (dare un voto da 1 a 10, in grafico
la media dei voti)
7,52
8
6,58
5,18
5,31
disorientamento
4,3
rassegnazione
2,56
4,16
paura
3
2,81
4,08
solitudine
4
3,91
indignazione
5
5,07
frustrazione
6
rabbia
7
3,22
2
tristezza
pietà
disperazione
colpa
0
indifferenza
1
Il sentimento di disorientamento è il primo dei sentimenti che incontriamo sotto
la soglia della sufficienza. In realtà il 53,4% dei rispondenti attribuisce un voto
superiore o uguale a 6, tuttavia la media è, come da grafico, di 5,31. Tra le
donne questo sentimento è più forte, oltrepassando la media della sufficienza
(6,04), così come tra i più giovani e tra i laureati. Dal punto di vista territoriale
sono i rispondenti delle aree a maggior dinamismo demografico a denotare più
disorientamento, specie nella fascia dimensionale 3.000-5.000 abitanti.
Poco meno del 50% del campione dichiara di sentirsi frustrato di fronte a notizie
di suicidio nella propria comunità, anche se la media del punteggio è di 5,18. Si
tratta di un sentimento particolarmente diffuso nella popolazione più anziana,
specie se con titolo di studio basso e residente nei centri maggiori.
Il 46,5% del campione attribuisce alla rabbia un voto pari o superiore a 6 punti.
Essendo tuttavia un sentimento che polarizza molto le risposte, la media
complessiva è di 5,07. E’ un sentimento che prende maggiormente le donne di
età intermedia (30-50 anni) casalinghe, ma anche la fascia maschile dei
lavoratori autonomi o professionisti della medesima fascia anagrafica. In
entrambi i casi si tratta di persone che vivono nei centri maggiori ad elevata
dinamica demografica.
39
Il 35,9% del campione attribuisce alla rassegnazione un voto pari o superiore a 6
punti (la media è di 4,3). E’ un sentimento sensibilmente più diffuso tra i maschi
della fascia di età più bassa che svolgono prevalentemente mansioni operaie o
sono studenti, comunque residenti nelle aree demograficamente più attive, siano
essi piccoli, medi o grandi comuni.
Il 35,5% del campione attribuisce alla paura un voto pari o superiore a 6, con un
voto medio di 4,16. E’ un sentimento fortemente connotato nelle giovani
studentesse e ancor più nelle giovani casalinghe (meno tra le donne che
lavorano), a prescindere dalla collocazione territoriale.
Il 33,6% del campione attribuisce alla solitudine un voto pari o superiore a 6,
con un voto medio pari a 4,08. Come già per la paura si tratta di un sentimento
molto più diffuso tra le donne di giovane età, studentesse o casalinghe.
Il 32% del campione attribuisce all’indignazione un voto pari o superiore a 6, con
un voto medio pari a 3,91. Differentemente di sentimenti di paura e di
solitudine, l’indignazione associata all’annuncio di un suicidio nella propria
comunità è tipicamente maschile e associata alla fascia di età intermedia (30-50
anni). Riguarda in modo più rilevante la componente operaia e territorialmente
collocata nei comuni medio piccoli, poco dinamici sotto il profilo demografico.
Il 24,2% del campione attribuisce alla disperazione un voto pari o superiore a 6,
con un voto medio pari a 3,22. Si tratta di un altro sentimento tipicamente
associato alla componente femminile più giovane del campione. Tuttavia, in
questo
caso,
maggiormente
associato
alla
componente
lavorativa
territorialmente collocata nei comuni medio piccoli poco dinamici sotto il profilo
demografico, più che alle studentesse o alle casalinghe.
Il 15,6% del campione attribuisce al senso di colpa un voto pari o superiore a 6,
con un voto medio di 2,81. Anche in questo caso prevale la componente
femminile, ma non quella della fascia di età più bassa, bensì quella delle fasce
superiori che svolgono mansioni impiegatizie o sono pensionate.
L’11,7% del campione attribuisce al sentimento di indifferenza un voto pari o
superiore a 6, con un voto medio di 2,56. Il profilo prevalente dell’indifferente è
simile a quello dell’indignato: maschio, di età intermedia con mansioni operaie e
residente in comuni intermedi a forte dinamica demografica.
Tabella 2. profili dei sentimenti suscitati da casi di suicidio nella propria comunità
Tristezza
Pietà
Disorientamento
Frustrazione
Genere
Fascia di
età
Collocazione
professional
e
Titolo
di
studio
Territorio
F
Intermedia
-Alta
NR
MedioAlto
NR
Entramb
i
Alta
Pensionati
NR
Centri
maggiori
dinamici
F
Bassa
NR
MedioAlto
Centri
intermedi
dinamici
Entramb
i
Alta
Pensionati e
lavoratori
autonomi
NR
Centri
maggiori
in
40
transizion
e
Rabbia
Entramb
i
Intermedia
Pensionati (F),
lavoratori
autonomi (M)
Basso
Centri
dinamici
Rassegnazione
M
Bassa
Operai,
studenti
Basso
Centri
dinamici
Paura
F
Bassa
Studentesse,
casalinghe
Basso
NR
Solitudine
F
Bassa
Studentesse,
casalinghe
Basso
NR
Indignazione
M
Intermedia
Operai
Basso
Centri
medio
piccoli
Disperazione
F
Bassa
Impiegate
NR
Centri
medio
piccoli in
transizion
e
Colpa
F
Intermedia
-Alta
Impiegate,
pensionate
NR
NR
Indifferenza
M
Intermedia
Operai
basso
Centri
medi
dinamici
Se da una parte i sentimenti associati all’annuncio di un caso di suicidio nella
propria comunità sono prevalentemente connotati da tristezza e pietà, gran
parte degli intervistati collegano tali sentimenti alla percezione che l’atto sia in
qualche modo collegato ad una qualche forma di solitudine del suicida. Secondo
la buona parte degli intervistati quando si verifica un suicidio la comunità locale
tende a stringersi intorno a famigliari e amici (è un’opinione sulla quale
concordano anche gli intervistati che hanno vissuto casi di suicidio in famiglia o
nella cerchia degli amici), sebbene sul piano di principio l’atto in sé sia qualcosa
che rimandi alla sfera privata e quindi a qualcosa che nessuno dovrebbe
permettersi di giudicare. E’ pur vero che se il suicidio sia dettato anche da una
condizione di solitudine la maggioranza degli intervistati ritiene che oggi sia
particolarmente difficile comprendere le motivazioni che portano al suicidio per
quanto non si percepiscano variazioni significative del fenomeno nel tempo.
In effetti in relazione al tema delle motivazioni due sono i gruppi principali di
opinioni:
-il 41,3% ritiene che i motivi che portano al suicidio oggi siano cambiati e siano
più difficili da cogliere. Tale gruppo è leggermente più rappresentato dai
pensionati con titolo di studio basso e da coloro che risiedono nei comuni
intermedi più dinamici sotto il profilo demografico.
-il 24,5% ritiene invece che i motivi che portano al suicidio siano sempre stati gli
stessi e quindi non vi sia differenza tra il presente e il passato, né sotto il profilo
quantitativo, né dal punto di vista delle motivazioni. Tale gruppo è leggermente
più sbilanciato verso la componente femminile e quella più giovanile (under 30
anni). Sono studenti ed insegnanti a connotare questo gruppo dal punto di vista
41
professionale, mentre dal punto di vista territoriale sono i residenti nei comuni
polvere in contrazione demografica ad essere sensibilmente più numerosi.
A ritenere che il luogo in cui si vive possa influenzare i comportamenti suicidi
sono, in particolare, i residenti nei comuni intermedi, siano essi dinamici o meno
dal punto di vista demografico, specie quando si tratta di giovani studenti.
Due sono invece gli elementi che segmentano il campione in parti
quantitativamente simili: il legame tra il suicidio e la condizione materiale delle
persone che lo commettono, il legame tra il suicidio e qualità delle relazioni di
comunità. Da una parte poco più della metà del campione si ritiene d’accordo
con l’opinione secondo la quale il suicidio raramente abbia a che fare con la
condizione materiale delle persone, dall’altra poco più della metà del campione
condivide l’idea che il suicidio esprime anche il disagio di una comunità. Da
notare che sono le classi di età più giovani a ritenere più frequentemente
l’esistenza di un legame tra suicidio e condizione materiale. Così come, oltre agli
studenti, sono più i laureati in condizione impiegatizia dei titolari di studio basso.
L’esistenza di un rapporto tra qualità del legame sociale e suicidio appare invece
leggermente più diffusa nei comuni a forte dinamica demografica di dimensione
intermedia, mentre il profilo sociale non appare significativamente connotato né
per genere, né per classe di età, mentre lo è sensibilmente in relazione al titolo
di studio (minore il grado di istruzione, maggiore il legame tra comunità e
suicidio).
Grafico 8. Quanto è d’accordo con le seguenti affermazioni?
42
100%
90%
13,8
11,4
9,1
10,8
18
20,2
80%
70%
4
8,2
12
34
33,6
22,6
29,4
33,2
60%
32,8
41,5
50%
40%
35,6
35,2
44,4
41,2
39,9
30%
20%
10%
38,8
16,7
19,7
21
20,3
16,1
36,4
0%
il suicidio è un atto di oggi è più difficile di un il suicidio raramente ha a oggi ci si suicida quanto il luogo in cui si vive può il suicidio è un atto che quando si verifica un
una persona che tempo capire i motivi che
che fare con la
una volta, sono però
influenzare i
attiene esclusivamente suicidio la comunità nella
esprime il disagio di una portano al suicidio
condizione materiale
cambiati i motivi che comportamenti suicidi al privato delle persone, quale vivo si stringe
comunità
delle persone
portano al suicidio
nessuno dovrebbe
intorno a famigliari e
giudicare
amici
molto d'accordo
abbastanza d'accordo
poco d'accordo
per nulla d'accordo
Ponendo in relazione sentimenti indotti dall’evento di un suicidio nella comunità e
alcuni aspetti relativi alle opinioni sul suicidio è possibile evidenziare quanto
segue:
Molto d’accordo con:
Più difficile comprendere i motivi rispetto a un
tempo
I motivi sono cambiati
Sentimenti prevalenti
Pietà, frustrazione, senso di solitudine
Tristezza, rabbia
Più una persona si sente sola, più è esposta al
rischio
Disorientamento, senso di solitudine
Il suicidio come atto privato da non giudicare
Rassegnazione, tristezza
Quanto riportato nel grafico 7 pone in luce quattro caratteristiche associate al
suicidio da almeno metà del campione e quattro che invece non sono condivise
da oltre la metà del campione. Tra le prime quattro quella che raccoglie maggiori
consensi rimanda ad una visione del suicidio come atto di resa alle forze della
vita, seguita da quella che considera la vita come dono indisponibile anche a se
stessi.
Va precisato che ponendo in relazione queste due risposte otteniamo due gruppi
principali:
-il 56,4% dei rispondenti è molto o abbastanza d’accordo nel considerare il
suicidio un atto di resa alle forze della vita, sebbene questa in linea di principio
sia un dono indisponibile;
43
-il 22,2% dei rispondenti è molto o abbastanza d’accordo nel considerare sì il
suicidio un atto di resa alla vita, ma non a considerare quest’ultima un dono
intangibile.
Il primo gruppo riproduce sostanzialmente le caratteristiche del campione, con
un leggerissimo prevalere della componente femminile (casalinghe e
pensionate).
Il secondo gruppo ha invece caratteristiche anagrafiche sensibilmente diverse.
Intanto è maggiormente rappresentata la componente giovanile sino a quella dei
quarantenni. Anche in questo caso prevale la componente femminile, ma non
quella delle casalinghe e delle pensionate, bensì quella delle lavoratrici impiegate
nel terziario, diplomate o laureate. Dal punto di vista territoriale questo gruppo è
sensibilmente più diffuso nei centri urbani intermedi o maggiori, purché con forte
dinamica demografica.
Sebbene i dati raccolti evidenzino che la maggioranza dei rispondenti siano molto
o abbastanza d’accordo nel ritenere il suicidio un atto di follia e un atto
incomprensibile, ponendo in relazione queste due modalità di risposta si
ottengono, anche in questo caso, due gruppi principali:
-il 43,2% degli intervistati ritiene il suicidio un atto di follia e, quindi,
incomprensibile;
-il 22,2% degli intervistati non ritiene che il suicidio sia un atto di follia e ciò lo
rende in qualche modo anche comprensibile.
Il primo gruppo è fortemente connotato da una popolazione più anziana della
media (spesso pensionati), da soggetti con grado di istruzione basso e residenti
nella fascia di comuni più piccoli.
Il secondo gruppo ha invece una connotazione anagrafica più giovane. Si tratta
di soggetti tendenzialmente con titolo di studio medio-alti, localizzati nei centri
maggiori che svolgono attiviate impiegatizie o terziarie professionali.
Il 45,6% del campione è molto o abbastanza d’accordo nel considerare il suicidio
un peccato grave. Questa tendenza è relativamente più diffusa tra gli over 50
anni, specie se residenti nei piccoli comuni in crisi demografica, ma anche nelle
casalinghe (con basso grado di istruzione) e negli studenti. Viceversa la tendenza
a non considerare il suicidio un peccato grave appare più diffusa nella classe di
età centrale (30-50) con un lieve sbilanciamento verso il genere femminile, ed in
ogni caso in soggetti con occupazione impiegatizia nei centri maggiori. Per altro
sono proprio costoro a dimostrarsi meno d’accordo con l’idea che il suicidio non
insegni nulla, mentre chi lo ritiene un peccato grave ritiene più spesso che si
tratta di un atto da cui non si possa trarre alcun insegnamento.
L’analisi statistica dei cluster applicata a questa domanda origina tre gruppi di
intervistati (tabella 3).
Il primo gruppo è costituito dai tradizionalisti (32,8%) e si caratterizza per un
valutazione del suicidio molto negativa sotto il profilo religioso e morale: si tratta
di un peccato grave, di un atto di egoismo che non insegna nulla; qualcosa che
può essere giustificabile solo come atto di follia.
Il secondo gruppo è rappresentato dai sincretici (42,9%) in rapporto ad una
tradizione religiosa e morale che storicamente ha fortemente orientato la
valutazione del suicidio e che oggi appare depotenziata ma non per questo
44
isterilita. Questo gruppo presenta una visione del suicidio problematicodisorientata, ritiene che la vita sia un dono indisponibile ma anche che il suicidio
non possa essere considerato un peccato grave. Si tratta di un atto che contiene
elementi di follia e di imponderabilità ma non di egoismo; non può essere
considerato un atto di libertà ma non si può dire che non insegni nulla.
Grafico 9. Quanto è d’accordo con le seguenti affermazioni?
100%
90%
80%
70%
60%
50%
40%
30%
20%
10%
0%
27,4
30,2
48,9
31,8
30,5
27,7
13
15,3
il suicidio è un
atto di libertà
il suicidio non ci
insegna nulla
molto d'accordo
24,9
il suicidio è un
atto di egosimo
abbastanza d'accordo
26,3
25,3
25,6
30,8
33
30
7,3
14,8
15,5
17,9
25,7
40,1
41,7
37,1
20,7
17,6
8,2
14
22,3
23,2
26,3
15
32,1
il suicidio è un
peccato grave
poco d'accordo
il suicidio è un
atto di follia
per nulla d'accordo
il suicidio è un la vita è un dono, il suicidio è un
atto
nessuno ha il atto di resa alle
incomprensibile diritto di disporne, forze della vita
neanche della
propria
Il terzo gruppo è costituito dai secolarizzati (24,3%) in rapporto alla
percezione che essi hanno del suicidio. Esso non è un peccato grave, anche
perché, fondamentalmente, ognuno dispone della propria vita come vuole.
D’altra parte si tratta di un atto comprensibile da non ricondurre
necessariamente a condizioni di follia, pur non rappresentando nel contempo un
atto di libertà. Per questo si tratta di qualcosa che contiene sempre elementi che
possono insegnare qualcosa sulla vita.
Tabella 3. Tipologie valutazioni associate al suicidio
Valutazione del suicidio
Tradizionalist
a
Sincretic
a
32,8%
42,9%
Sì
Sì
No
-peccato grave
Sì
No
No
-atto incomprensibile
Sì
Sì
No
-atto di egoismo
Sì
No
No
-atto di follia
Sì
Sì
No
-atto che non insegna
nulla
Sì
No
No
-atto di libertà
No
No
No
-la vita è un dono
Secolarizzata
24,3%
Suicidio come:
45
Il quadro anagrafico dei tre gruppi individuati in base al complesso delle
valutazioni espresse nei confronti del suicidio è riassunto nella tabella
sottostante. Ovviamente non si tratta di differenziazioni nette, né dal punto di
vista anagrafico, né da quello territoriale. Tuttavia le differenze sono apprezzabili
e meritano quindi di essere poste in evidenza. I maschi, notoriamente soggetti
più a rischio di suicidio delle femmine, appaiono sensibilmente più tradizionalisti
nelle loro valutazioni, le femmine più sincretiche. Gli intervistati sotto i 50 anni
tendono ad avere opinioni più secolarizzate, mentre gli over 50 anni sono più
problematici; i titolari di grado di istruzione basso tendono ad esprimere
valutazioni più tradizionali, così come operai e casalinghe. I pensionati oscillano
tra posizioni tradizionali e situazioni più problematiche, mentre gli studenti
oscillano tra tradizione e secolarizzazione dei giudizi sul suicidio. Gli impiegati
tendono ad assumere concezioni problematiche o secolarizzate, mentre gli
autonomi spiccano in quest’ultima categoria interpretativa.
Tabella 4. Caratteristiche anagrafiche delle tipologie
Valutazione del
suicidio
Tradizionalista
Sincretica
Secolarizzata
32,8%
42,9%
24,3%
Maschile
Femminile
Entrambi
Tutte le classi
>50 anni
<50 anni
Basso
Medio-Alto
Medio-Alto
-Dimensione
comune
<3000 ab.
Nessuna
>5000 ab.
-dinamica
demografica
Negativa
Transizione
Transizione
Mandamenti
Morbegno
Chiavenna,
Tirano, Morbegno
Sondrio, Morbegno
Condizione
professionale
Operai, Casalinghe,
Pensionati, Studenti
Impiegati,
Pensionati
Autonomi e
professionisti,
Caratteristica prevalente
Genere
Età
Titolo di studio
Tipologia territoriale
Impiegati, Studenti
Ponendo in relazione queste tre tipologie con le variabili relative alla fiducia e
alla percezione della qualità del proprio grado di integrazione nel tessuto sociale
otteniamo quanto segue:
Tabella 5. Relazioni tra valutazioni sul suicidio e giudizi sulla qualità del legame sociale
Tradizionalista
Sincretica
Secolarizzata
46
42,9%
32,8%
24,3%
FIDUCIA
FIDUCIA
FIDUCIA
Non si è mai abbastanza
prudenti con la gente, che,
se ne avesse l’occasione, è
pronta ad approfittare della
mia buona fede. Famiglia e
parenti, meno gli amici e i
colleghi, sono degni della
mia fiducia. In generale
occorre comunque diffidare
della gente, specie degli
stranieri, anche se residenti
sul territorio, tuttavia i
concittadini e gli abitanti
della provincia suscitano in
me maggiore fiducia di
quella riposta negli italiani in
genere.
Generalmente le persone
sono degne di fiducia e
corrette nei miei confronti.
Occorre evitare che la
prudenza si trasformi in
diffidenza. Ho fiducia sia
nella famiglia, che negli
amici e nei colleghi di lavoro.
Credo che anche i
concittadini sia in qualche
modo degni di fiducia, così
come gli italiani e gli
stranieri che vivono sul
territorio.
La gran parte della gente
non è degna di fiducia. A
parte i famigliari, e in
qualche misura gli amici, ho
poca fiducia nei vicini di
casa, nei concittadini più in
generale, come pure degli
abitanti della provincia e
degli italiani in generale.
PERCEZIONE DELLA
PROPRIA INTEGRAZIONE
PERCEZIONE DELLA
PROPRIA INTEGRAZIONE
PERCEZIONE DELLA
PROPRIA INTEGRAZIONE
Credo che il mio paese sia
un buon posto nel quale
vivere, conosco gran parte
della gente del mio paese
con la quale condivido gli
stessi valori e con la quale ci
si frequenta regolarmente.
Mi sento a casa in questo
posto, credo che se c’è un
problema in questo paese
sia possibile ottenere la
soluzione anche se
personalmente non ho un
grande influenza sulle
decisioni. Mi aspetto di
vivere qui per lungo tempo
Credo che il mio paese sia
un buon posto nel quale
vivere, conosco gran parte
della gente anche se non
tutti condividono i miei
stessi valori. Mi sento a casa
in questo posto, credo che
se c’è un problema in questo
paese sia possibile ottenere
la soluzione. Credo di avere
la possibilità di influire sulle
decisioni che riguardano il
paese. Mi aspetto di vivere
qui per lungo tempo
Credo che il mio paese sia
un buon posto nel quale
vivere, conosco molti dei
compaesani anche se non
condividiamo gli stessi
valori. Ho poca influenza sul
paese e comunque se c’è un
problema la gente non riesce
ad ottenere la soluzione.
Non è detto che vivrò
sempre qui. In effetti non è
poi così importante per me
vivere in questo particolare
paese.
-Le valutazioni e le
concezioni del suicidio sono
strettamente legate alla
valutazione sulla qualità del
legame sociale.
-Le valutazioni e le
concezioni del suicidio sono
utili per valutare la qualità
del legame sociale.
-Le valutazioni e le
concezioni del suicidio sono
poco utili a valutare la
qualità del legame sociale.
-Il suicidio è sintomo della
trasformazione della
comunità
-Il suicidio non ha evidenti
rapporti con le
trasformazioni della
comunità
-Il suicidio è un sintomo di
disagio della comunità
Comunità organica con
concezione tradizionale
dei rapporti sociali
Comunità in
trasformazione verso
nuovi assetti di
produzione di relazioni
sociali a partire dalla
tradizione
Post-comunità,
sfiducia/rifiuto nella
possibilità di rinnovare i
rapporti di solidarietà
tradizionali
Nel gruppo che valuta il suicidio in senso tradizionalista permane un’idea di
legame sociale che si snoda dalla famiglia verso cerchi concentrici sempre più
47
ampi che determinano tassi di fiducia decrescente. Questa immagine porta con
sé la percezione di un ambiente sociale di prossimità connotato da prevedibilità e
staticità, seppure non privo di minacce provenienti per lo più dall’esterno. Per
questo segmento del campione il suicidio rappresenta un fenomeno che ha un
forte legame con la crisi dei valori che permeano la comunità e i suoi soggetti
integrativi: famiglia in primis, ma anche parrocchia, scuola e figure sociali di
riferimento.
Il gruppo dei sincretici percepisce la crisi dei fattori che storicamente hanno
assicurato integrazione sociale, ma non per questo occorre essere così pessimisti
per il futuro. La fiducia e il legame sociale possono essere ricostituiti su nuove
basi, senza necessariamente liquidare l’eredità della tradizione. Si percepiscono
quindi le trasformazioni della comunità e i suoi possibili esiti negativi, tuttavia
permane una discreta fiducia nella possibilità di operare positivamente per porre
gettare le basi per creare nuovi dispositivi per creare capitale sociale, a partire
dai soggetti tradizionali: famiglia, amicizie e luoghi di lavoro. Il fenomeno del
suicidio rappresenta una spia delle trasformazione in atto, non solo della
comunità ma anche della progressiva individualizzazione di questo atto.
Il gruppo dei secolarizzati è connotato da maggiore sfiducia verso le cerchie
sociali esterne alla famiglia e agli amici, pur denotando una sostanziale
soddisfazione per il luogo nel quale vive. Un luogo che però non è considerato né
ambito di elezione insostituibile, né ambito di sociale connotato da valori
omogenei. E’ questo quindi il gruppo più assimilabile ad una visione dei legami
sociali di tipo metropolitano: più deboli, maggiormente imperniati sulla
convergenza di interessi e dettati dalla massimizzazione delle opportunità. Per
questo gruppo la valutazione del suicidio perde la tradizionale relazione con la
qualità del legame sociale per assumerne una che attribuisce maggiore
importanza agli eterogenei significati culturali attribuiti al gesto dai singoli
individui.
Come rilevabile dal grafico 8 il suicidio viene considerato l’atto più grave sul
piano dei valori per il 6,6% del campione, molto alle spalle della pedofilia e
dell’omicidio, poco dietro la pena di morte e l’aborto. Solo lo stupro, che però
viene posto molto spesso al secondo posto in termini di gravità, e l’eutanasia
sono considerati meno gravi del suicidio.
Grafico 10. In astratto, quali sono i due atti più gravi sul piano dei valori?
48
100%
90%
26,7
39
80%
70%
20,9
60%
50%
28,1
11,4
30%
10,7
8,2
5,1
20%
9,3
6,3
4,7
1,9
24,6
primo
secondo
40%
10%
0%
eutanasia
3,1
stupro
suicidio
pena di morte
aborto
omicidio
pedofilia
Tabella 8. Graduatoria gravità per tipologie di valutazione del suicidio
Graduatori
a
Tradizionalist
i
Sincretici
Secolarizzati
1
Pedofilia
Pedofilia
Pedofilia
2
Omicidio
Omicidio
Omicidio
3
Suicidio
Pena di
morte
Pena di morte
4
Aborto
Aborto
Stupro
5
Pena di morte
Suicidio
Aborto
6
Stupro
Stupro
Suicidio
7
Eutanasia
Eutanasia
Eutanasia
Tra gli under 30 anni il suicidio scende all’ultimo posto della graduatoria per
ordine di gravità (solo il 2,4% lo pone al primo posto), mentre in questa classe
l’omicidio è ritenuto l’atto peggiore per il 34,4%, rispetto al 15,8% degli over 50
anni. In sostanza al crescere dell’età cresce la condanna per il suicidio e
decresce quella per l’omicidio. Così come al crescere del grado di istruzione
cresce la condanna per l’omicidio e decresce quella per il suicidio. Le donne si
caratterizzano per una forte attenzione al tema della pedofilia, ma non
presentano differenze significative rispetto ai maschi sulla valutazione dello
stupro.
Prendendo in esame le graduatorie per tipologia di valutazione del suicidio si
evince una progressiva discesa in ordine di gravità: dal terzo posto dei
tradizionalisti al quinto dei sincretici sino al sesto per i secolarizzati.
49
La quasi totalità degli intervistati ritiene giusto che i suicidi abbiano diritto al
funerale cattolico. La percentuale di coloro che negherebbero questo diritto non
supera mai l’8%, qualsiasi variabile venga presa in esame: la tipologia che
abbiamo denominato tradizionalista si attesta al 7,8%, così come la quota dei
residenti nei comuni polvere in via di spopolamento si attesta al 7,9%.
Grafico 11. In generale, secondo lei è giusto che i suicidi abbiano diritto al funerale
cattolico?
no
4,3%
sì
95,7%
La percezione del fenomeno in Provincia di Sondrio
In quest’ultima sezione di analisi dei dati quantitativi raccolti attraverso il
questionario l’attenzione è rivolta a ricostruire il quadro di quelli che gli
intervistati percepiscono essere gli elementi di origine sociale che hanno
influenza sul fenomeno del suicidio e sul tasso così elevato che caratterizza la
Provincia di Sondrio. Abbiamo quindi cercato di rilevare se gli intervistati
considerino il suicidio un allarme sociale e se eventualmente la popolazione ne
sia consapevole. Infine abbiamo chiesto di esprimere un parere sulle azioni da
intraprendere per contribuire ad affrontare il problema.
Per quanto riguarda il primo aspetto, ovvero le motivazioni sociali che
influenzano il fenomeno suicidario, è possibile isolare quattro aspetti che
raccolgono il consenso di almeno tre intervistati su quattro. Due di questi aspetti
rimandano a fenomeni di disagio che interessano la società nel suo complesso e
la famiglia in particolare, il terzo attiene alla sfera dei valori condivisi, in questo
caso il diminuito valore dato alla vita, infine il quarto rimanda alle difficoltà
incontrate dagli individui quando si verificano cambiamenti nella loro vita. In
rapporto a questi quattro aspetti assistiamo ad una sostanziale uniformità di
giudizi degli appartenenti alle tre tipologie individuate, ad esclusione della
dimensione valoriale attribuita alla vita. Di questo presunto peggioramento i
secolarizzati risultano infatti assai meno convinti degli altri due gruppi, in
particolare dei tradizionalisti.
50
Il disagio famigliare come fattore di influenza sull’andamento del suicidio è
condiviso in percentuali molto alte a prescindere dal titolo di studio e dal genere
del rispondente o dalla sua attività professionale, mentre dal punto di vista della
classe di età è proprio quella per lo più composta da genitori (31-50 anni) a
ritenere importante questo fattore di influenza, specie quando essi risiedono in
un contesto territoriale dinamico di medio-piccole dimensioni.
Per quanto riguarda il grado di accordo sull’opinione secondo la quale la
dimensione del disagio sociale rappresenti terreno fertile per i fenomeni di
suicidio è evidente una diversa valutazione in base al titolo di studio dei
rispondenti: al crescere del grado di istruzione, cresce la percezione
dell’importanza di questo aspetto; ma è soprattutto la localizzazione dei
rispondenti a fare la differenza: chi risiede in un contesto dinamico di medie
dimensioni (3000-5000 abitanti) ritiene il disagio sociale un fattore
sensibilmente più importante degli altri.
Il diminuito valore dato alla vita costituisce un aspetto di connessione con il
suicidio che risente piuttosto nettamente del grado di istruzione dei rispondenti:
maggiore il grado di istruzione, minore il valore associato a questa variabile, e
della fascia di età dei rispondenti: al crescere dell’età aumenta il valore associato
a questo aspetto.
La difficoltà ad adattarsi ai cambiamenti della vita è un aspetto correlato
positivamente con il grado di istruzione e con l’età, ma soprattutto con il tipo di
attività professionale svolta: autonomi (prevalentemente maschi) e impiegati
(prevalentemente femmine), infatti, ritengono questo aspetto particolarmente
rilevante.
Come rilevabile dal grafico 12 poco più del 70% degli intervistati ritiene che uno
dei motivi per i quali la Provincia di Sondrio è interessata in modo così
significativo dal suicidio rimanda alla crisi dei valori di un tempo. Si tratta di una
convinzione condivisa sia dal gruppo dei tradizionalisti che da quello dei
problematici e che invece interessa in misura molto inferiore i secolarizzati. Il
valore percentuale associato all’item crisi dei valori cresce con l’età e con il titolo
di studio, è più diffuso nella parte femminile, sia è rappresentata da casalinghe,
impiegate o pensionate.
Solo la metà degli under 30 anni ritiene che la crisi dei valori abbia a che fare
con il suicidio, valore che scende sotto il 45% per gli studenti. Profilo piuttosto
simile emerge anche dall’analisi della variabile relativa alla mancanza di
riferimenti nella comunità, il cui valore cresce con l’ètà, il grado di istruzione, ma
anche in base al luogo. La percezione dell’influenza della mancanza di riferimenti
comunitari, infatti, appare ancora una volta più diffusa nelle aree demografiche
medio-piccole a forte crescita dinamica positiva.
Grafico 12. In Provincia di Sondrio si registra ormai da anni un tasso di suicidi molto
rilevante. Secondo lei quali sono i motivi che hanno a che fare con questo tragico
51
fenomeno?
100%
11,5
90%
27,6
12
12,1
11,8
8,1
8,3
23,7
4,3
7,1
19,3
15,6
3,2
3,7
17,9
15,1
20,2
80%
30,4
70%
40,2
60%
50%
37
38,5
37,2
36,8
36,3
38,6
41,4
49
55,6
54,5
42,2
40%
34,6
30%
33,7
38,4
33,6
28,4
20%
40,4
25,4
33,2
10%
11,7
0%
13,7
15,8
12,5
17,5
27,4
23,4
19,1
26,7
5,6
mol t o d'accor do
abbastanza d'accor do
poco d'accor do
per nul l a d'accor do
Anche in questo caso, come già in relazione alla distribuzione dei valori relativi
alla crisi dei valori, è sempre il gruppo dei secolarizzati a ritenere meno
importante l’influenza delle figure di riferimento in rapporto alla diffusione del
suicidio. Viceversa è proprio questo gruppo a la crescente chiusura culturale
come fattore piuttosto importante in rapporto all’andamento del fenomeno del
suicidio in Provincia. Il profilo anagrafico di coloro i quali ritengono questo
aspetto particolarmente importante vede una prevalenza relativa di femmine
sotto i 30 anni o sopra i 50 anni, di diplomati o laureati, di lavoratori autonomi e
impiegati, di rispondenti che risiedono nelle zone più dinamiche della provincia
sotto il profilo demografico.
Tabella 9. % di molto+abbastanza d’accordo
Tradizionalist
i
Sincretic
i
Secolarizzat
i
Total
e
La crescita del disagio sociale
80,9
79,7
80,5
81,8
La crescita del disagio
famigliare
79,9
79,2
81,0
79,2
Il diminuito valore dato alla
vita
88,7
75,2
60,0
77,2
La difficoltà ad adattarsi ai
cambiamenti della propria
vita
77,5
74,9
73,5
76,5
52
La crisi dei valori di un tempo
75,9
71,4
59,7
71,7
La scarsità di persone di
riferimento nella comunità
65,8
65,1
53,0
61,0
La crescente chiusura
culturale
48,1
51,1
63,7
52,1
La crisi dei rapporti tra le
generazioni
58,1
51,3
41,9
51,4
L’eccesso di benessere
economico
59,3
44,4
41,6
49,8
La scarsità dei servizi sociali
di prevenzione
50,8
52,1
47,8
49,0
L’isolamento geografico
34,1
36,6
50,0
40,1
Lo spirito imitativo
34,6
29,7
25,7
31,0
L’analisi fattoriale evidenzia in sostanza tre modalità di porre in relazione l’alto
tasso di suicidio in Provincia di Sondrio con i fattori sociali che ne influenzano
l’andamento.
a)
lo spaesamento, come prodotto dalla crisi dei valori di un tempo, che
avrebbe favorito, tra l’altro, un impoverimento del valore dato alla vita.
L’eccesso di benessere economico avrebbe inoltre indotto una certa difficoltà ad
affrontare i cambiamenti nella vita delle persone.
b)
la crisi sociale, come prodotto della crisi dell’unità famigliare e della
coesione sociale. Fenomeno ben riconoscibile nella mancanza di soggetti sociali
di riferimento, nella crisi dei rapporti tra le generazioni e, nell’ambito delle
strutture di welfare, nella debolezza dell’azione dei servizi sociali.
c)
l’isolamento, come prodotto di una struttura sociale storicamente chiusa,
sia sotto il profilo geografico, sia sotto il profilo culturale. Talmente chiusa da
determinare un esplosione dei fenomeni di suicidio anche su base imitativa.
Queste tre famiglie di significati sono in qualche modo riconducibili alla
suddivisione del campione per tipologia di valutazioni sul suicidio:
-chi ha una lettura tradizionalista del fenomeno del suicidio tende a dare
importanza allo spaesamento e all’anomia quali fattori sociali che giustificano
l’alto tasso di suicidio in Provincia di Sondrio
-chi ha una lettura sincretica del fenomeno del suicidio tende a dare invece
maggiore importanza alla crisi sociale della famiglia e dei rapporti
intergenerazionali, alla mancanza di soggetti di riferimento e alla crescita del
disagio sociale
-chi infine ha una lettura secolarizzata del fenomeno del suicidio tende a
sottolineare l’importanza di elementi sociali quali l’isolamento geografico e la
chiusura culturale. Resta invece più problematica l’attribuzione a questa tipologia
del credo “imitativo”.
Quanto riportato nel grafico 13 evidenzia che per la stragrande maggioranza
degli intervistati quello del suicidio merita di essere considerato un allarme in
Provincia di Sondrio. Solo il 6,8% dei rispondenti ritiene che vi siano allarmi più
53
importanti, mentre per un altro 7,3% il fenomeno esiste ma appare molto
amplificato dai media. Se sommiamo a questo 14,1% un ulteriore 8,3% di
soggetti che ritengono di non sapere se il suicidio possa essere considerato un
allarme sociale arriviamo al 22,4%. Il restante 77,6% (poco più di tre persone su
quattro) considera in un modo o nell’altro il suicidio in Provincia una questione
molto importante. Due sono le modalità attraverso le quali vengono articolate le
argomentazioni relative alla difficoltà ad affrontare questo allarme sociale:
l’incapacità, da parte delle persone, ad elaborare una strategia di intervento
preventivo e la mancanza di consapevolezza del problema stesso. Molto
contenuta è invece la quota di intervistati persuasa del fatto che la gente sia
consapevole del problema e cerchi di porvi rimedio, mentre solo una quota
marginale ritiene che la gente sia assuefatta al fenomeno.
Grafico 13. Secondo lei il suicidio può essere considerato un allarme sociale nella nostra
Provincia?
40
35,2
32,3
35
30
25
20
15
10
5
6,8
6,9
7,3
8,3
3,2
0
Grafico 14. Secondo lei il suicidio può essere considerato un allarme sociale nella nostra
Provincia? Suddivisione per tipologie di valutazione del suicidio
54
45
34,2
40
35
25,9
30
38,9
31,7
35,8
45,5
50
25
20
4,5
10,3
8,3
4,5
9,2
9,2
7
7,5
5,2
5
2,7
3,8
0,7
10
5,9
5,4
3,7
15
0
sì, ma la gent e si è
sì, la gent e ne è
no, ci sono allarmi
no, il f enomeno
sì, ma non vi è
sì, la gent e ne è
abit uat a a quest a
consapevole e
sociali più
esist e ma è molt o
suf f icient e
consapevole ma
sit uazione
cerca di por re
import ant i
amplif icat o dai
consapevolezza
non sa cosa f are
media
del problema
rimedio al
non so
problema
tradizionalista
sincretica
secolarizzata
Grafico 15. A prescindere dal fatto che lei ritenga o meno che si tratti di una allarme
sociale, quali azioni potrebbero risultare più efficaci per affrontare il problema?
(possibili più risposte)
56,8
60
50
44,9
40
29,7
30
20
10
14,7
5,4
7,3
altro
coinvolgere
personaggi
pubblici sul
tema
16,8
0
stimolare il
dibattito
pubblico
tramite i
media locali
dare più
ruolo agli
insegnanti
promuovere
dare più
potenziare i
campagne
ruolo alle servizi sociali
informative associazioni
di
di
prevenzione
volontariato
La distribuzione dei valori per tipologia di valutazioni del suicidio pone in risalto
differenze apprezzabili. Quelli che abbiamo chiamato tradizionalisti tendono ad
esaltare la difficoltà, da parte della gente, ad affrontare il problema in chiave
preventiva, i secolarizzati, viceversa, tendono a sottolineare la mancanza di
consapevolezza del problema, mentre i sincretici risultano meno polarizzati in
relazione alle due modalità principali di risposta. Se sommiamo le risposte
55
negative (il suicidio non è un allarme sociale) tradizionalisti e sincretici si
attestano intorno al 16,5%, rispetto al 9,7% dei secolarizzati. Se poi a questi
aggiungiamo gli indecisi i primi due gruppi oltrepassano il 25% mentre i
secolarizzati rimangono al di sotto del 15%.
I profili anagrafici sottostanti alle due principali modalità di risposta evidenziano:
-maggiore peso del “c’è consapevolezza ma non si sa che fare” tra le donne (se
casalinghe) e i pensionati, tra gli over 50 anni e coloro i quali hanno perseguito
un titolo di studio basso;
-maggiore peso della componente “manca consapevolezza del problema” tra
impiegati e studenti, tra diplomati e laureati, in generale nelle persone comprese
nella fascia 30-50 anni.
A prescindere che gli intervistati ritengano che il suicidio costituisca un allarme
sociale in Provincia di Sondrio le azioni ritenute più efficaci in chiave preventiva
sono quelle portate avanti dai servizi sociali, che però dovrebbero essere
potenziati. Anche l’associazionismo volontario dovrebbe essere maggiormente
valorizzato, così come una certa importanza rivestono eventuali campagne
informative. Il ruolo degli insegnanti non appare così importante, così come la
promozione di iniziative di dibattito pubblico attraverso i media locali. Del tutto
marginale appare il contributo preventivo legato al coinvolgimento di personaggi
pubblici.
32,6
56,1
48,6
33 ,3
31 ,1
17,6
17,4
16,9
13,7
7,6
6
10
5 ,5
20
13,1
30
17 ,4
40
25,3
50
45,5
60
55,7
70
62 ,2
Grafico 16. A prescindere dal fatto che lei ritenga o meno che si tratti di una allarme
sociale, quali azioni potrebbero risultare più efficaci per affrontare il problema?
(possibili più risposte) Suddivisione per tipologie di valutazione del suicidio
0
coinvolgere
personaggi
pubblici sul
tema
stimolare il
dare più ruolo
dibattito
agli insegnanti
pubblico
tramite i media
locali
tradizionalista
promuovere
campagne
informative
sincretica
dare più ruolo
potenziare i
alle
servizi sociali di
associazioni di prevenzione
volontariato
secolarizzata
Ancora una volta la disaggregazione dei dati in base alla tipologia valutativa del
suicidio evidenzia sensibilità differenti. Da una parte i tradizionalisti appaiono più
56
propensi degli altri due gruppi a valorizzare il volontariato e meno i servizi social
(il differenziale percentuale a favore di questi ultimi si assottiglia a 7,1 punti
rispetto ai 15,2 del campione nel suo complesso. All’opposto i secolarizzati
credono poco all’efficacia dell’azione volontaria, meno ancora di quanto possa
esserlo una campagna preventiva, mentre ritengono importante potenziare i
servizi (il differenziale a favore di questi ultimi sull’azione volontaria è di 23,5
punti percentuali).
Infine il gruppo dei sincretici si caratterizza per un’opzione a favore dei servizi
sociali particolarmente pronunciata, cui si accompagna un’attribuzione di fiducia
significativa anche all’azione del volontariato.
Nota sui mandamenti
Come già anticipato le differenze territoriali non risultano particolarmente
significative se considerate sui singoli item che compongono le domande del
questionario, tuttavia possiamo ipotizzare che tanti indizi, cioè tante piccole
differenze percentuali, costituiscano in qualche modo una prova. O quanto meno
permettono di formulare alcuni profili territoriali. Nella tabella 13 vengono
riportate le caratteristiche locali sulla base di un confronto tra le risposte raccolte
nei diversi mandamenti in merito ai due macro temi del questionario: socialità e
fiducia, percezione del suicidio.
Tabella 3. sinottico mandamentale
Mandament
o
13
Chiavenna:
Morbegno:
Sondrio:
Tirano:
Tratto
distintivo
La crisi dei
valori
Il
cambiamento
sociale
L’urbanizzazione
e la
secolarizzazione
La tenuta
sociale e
l’isolamento
Socialità e
fiducia
Il paese -Come
per i residenti
negli altri
mandamenti, il
paese di
riferimento
viene ritenuto
un buon posto
in cui vivere, di
cui si
conoscono
gran parte
degli abitanti,
sebbene sia più
evidente che
altrove una
percezione
della diversità
dei valori da
essi praticati,
ma anche la
percezione che
Il paese -Il
paese è
sicuramente un
buono posto in
cui vivere,
anche se i suoi
abitanti non
ritengono di
poter esercitare
grande influenza
su corso degli
eventi che lo
investono. La
gente non si
frequenta
molto, ma resta
importante
vivere in quel
particolare
paese.
Il paese -Il paese
è sicuramente un
buono posto in cui
vivere, anche se i
suoi abitanti non
ritengono di poter
esercitare grande
influenza sul corso
degli eventi che lo
investono. La
gente non si
frequenta
granché, spesso
non si conoscono
nemmeno i vicini.
Vi è fiducia nella
capacità di
risolvere i
problemi che
investono il
paese.
Il paese -Il
paese è
sicuramente un
buono posto in
cui vivere. Ci si
sente un po’
meno a casa
rispetto ad altre
realtà anche
perché è più
diffusa
l’aspettativa di
doversi
trasferire
altrove.
La fiducia Alcune risposte
si
caratterizzano
in positivo:
maggiore
Resta escluso il mandamento di Bormio per mancanza di rappresentatività dei questionari raccolti
57
sia possibile
risolvere i
problemi
sociali. Nel
paese ci si
sente a casa,
ed è molto
importante
poter pensare
di continuare a
viverci. Gli
intervistati si
aspettano di
vivere qui a
lungo.
La fiducia Alcune risposte
si caratterizzano
in negativo:
minore fiducia
nei parenti
rispetto agli altri
mandamenti,
così come
minore è la
fiducia negli
amici, nei
colleghi, nei
vicini di casa e
nei concittadini.
La fiducia - Alcune
risposte si
caratterizzano in
positivo:
maggiore fiducia
negli amici, negli
abitanti della
provincia e in
quelli della
regione. Minore
fiducia nella gente
“in senso
generale”, della
quale occorre
essere
prudentemente
diffidenti perché
pronta ad
approfittare della
buona fede.
fiducia negli
amici, così
come nei
confronti dei
concittadini e
degli italiani.
Minore fiducia
nei confronti
degli stranieri
che vivono sul
territorio.
Generalmente
ci si può fidare
della gente, che
nei confronti
dell’intervistato
viene ritenuta
per lo più
corretta.
Sentimenti - più
forti rispetto ad
altri territori
frustrazione,
paura,
disorientamento
.
Sentimenti - più
forti rispetto ad
altri territori:
rabbia
disperazione,
colpa.
Sentimenti - più
forti rispetto ad
altri territori:
nessuno in
particolare.
La fiducia Oltre alla
fiducia nei
famigliari in
questi territori
si delinea una
maggiore
fiducia nei
colleghi di
lavoro.
Viceversa
risulta minore
la fiducia nei
concittadini,
così come negli
abitanti della
provincia, della
regione e negli
italiani. Più
spiccata invece
la fiducia negli
stranieri che
vivono sul
territorio
Percezione
del suicidio
Sentimenti più forti
rispetto ad altri
territori pietà e
senso di
solitudine.
Valutazioni – Il
suicidio è un
peccato grave
perché la vita è
un dono di cui
non si può
disporre. Il
suicidio è un
atto di resa alle
forze della vita
giustificabile
solo come atto
di follia.
Rispetto ad un
tempo è più
difficile
Valutazioni – Il
suicidio è un
atto di resa alle
forze della vita
che non insegna
nulla, anche se
può essere
considerato un
sintomo di
disagio della
comunità.
Rispetto ad un
tempo è più
difficile
comprendere i
Valutazioni –
Sebbene la vita
sia un dono il
suicidio può anche
essere un atto di
libertà, e
comunque è un
atto che non
dovrebbe essere
mai giudicato che
non ha a che fare
con il disagio della
comunità.
-In Provincia di
Sondrio. Non sono
Valutazioni – Il
suicidio è un
peccato grave,
è non di rado
un atto di
egoismo che
poco ha a che
fare con la
follia. E’ un atto
non poi così
incomprensibile
, anche perché i
motivi che ne
stanno alla base
non sono
cambiati nel
corso del tempo
58
comprendere i
motivi che
portano al
suicidio,
sebbene si
tratti spesso di
una scelta
influenzata dal
senso di
solitudine.
-In Provincia di
Sondrio. Vi è
una crisi dei
valori di un
tempo,
soprattutto
nelle famiglie.
L’isolamento
geografico, al
contrario della
chiusura
culturale, non
è un fattore di
influenza
particolarment
e rilevante,
così come
l’eccesso di
benessere
economico.
motivi che
portano al
suicidio,
sebbene si tratti
spesso di una
scelta
influenzata dal
senso di
solitudine.
-In Provincia di
Sondrio. C’è una
crisi della
famiglia specie
sul versante dei
rapporti tra le
generazioni.
Nella comunità
mancano
persone di
riferimento
significative e
l’eccesso di
benessere
economico
toglie senso ai
valori di un
tempo.
particolarmente
rilevanti né
l’isolamento
geografico, né il
disagio sociale, né
la chiusura
culturale. Il
problema del
suicidio è da porre
essenzialmente in
relazione ai
cambiamenti della
propria vita, che
purtroppo oggi ha
perso il valore di
un tempo.
-In Provincia di
Sondrio. Tra
questi il luogo
in cui si vive e
l’isolamento
geografico.
Considerazioni finali
Nel suo testo Congedarsi dal mondo14 il sociologo Marzio Barbagli evidenzia le tre
fonti grandi fonti del giudizio sociale sul suicidio. Il primo rimanda alla tradizione
cristiana, di origine agostiniana, di suprema condanna di questo atto in quanto
contrario al principio “amerai il prossimo tuo come te stesso”. Più tardi Tommaso
d’Aquino riprende e articola le tesi di Sant’Agostino affermando che la vita è un
dono di Dio di cui non si può disporre, essendo questa sottratta al libero arbitrio
degli uomini che può essere esercitato solo per le cose della vita terrena. Questa
visione, qui richiamata in estrema sintesi, costituirà l’unica vera base del giudizio
sociale sul suicidio sino alla metà del ‘700, quando processi di natura economica,
politica, sociale e culturale determinano un mutamento dell’etica del suicidio, che
inizia ad essere considerato un diritto dell’individuo, un’espressione
dell’autonomia e della libertà dell’individuo. A partire dalla fine del ‘700 il suicidio
viene depenalizzato di diritto sia in Francia 15 che negli Stati Uniti, dopo che anche
all’interno del pensiero cristiano (sia cattolico che protestante) si era verificata
una sostanziale depenalizzazione di fatto di quest’atto, considerato non più
“rivolta contro Dio”, bensì “malattia dell’anima”. Questo passaggio evidenzia una
trasformazione dell’etica cristiana sul suicidio, non più ricondotto a cause
sovrannaturali, ma piuttosto a patologie naturali degne di compassione.
14
Marzio Barbagli (2009) Congedarsi dal mondo, Il Mulino, Bologna
L’articolo 6 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1793 riconosce “il diritto di vita o do morte su
se stesso”
15
59
Nel corso del ‘900 si assiste ad una crescente medicalizzazione del suicidio, o
meglio, alla medicalizzazione dei sintomi. Il suicidio, in questo ambito, non viene
considerato né un peccato, né un diritto, ma piuttosto una drammatica
conseguenza di patologie psicologiche più o meno conclamate. Il trattamento
della follia viene sussunto dentro i codici della medicina, della psichiatria e della
psicoterapia e organizzato prevalentemente all’interno del sistema dei servizi di
welfare pubblici.
Questa premessa appare necessaria poiché ci pare che anche i risultati della
ricerca restituiscano un quadro interpretativo riconducibile a queste tre modalità
di considerare il suicidio. Come abbiamo visto le tre tipologie di giudizio
individuate nel corso della ricerca tendono a richiamarsi con intensità diversa a
queste famiglie interpretative. Quelli che abbiamo chiamato tradizionalisti sono
soggetti che tendono, più di altri, a valutare il suicidio secondo l’etica cristiana
agostiniana; il gruppo dei sincretici, pur condividendo con i tradizionalisti una
matrice etica cristiana appaiono più disposti a considerare il suicidio come l’esito
di eventi umani drammatici verso i quali occorre disporsi con pietà e
compatimento e verso i quali occorre mobilitare l’intelligenza specialistica della
medicina preventiva. Infine il gruppo dei secolarizzati sembra avere in qualche
modo abbandonato l’alveo etico cristiano per assumere una visione del suicidio
come atto individuale, spesso determinato dalla follia e quindi da trattare
soprattutto attraverso l’apparato dei servizi e della medicina psichiatrica.
Da queste concezioni del suicidio si diramano tre visioni del legame tra suicidio e
comunità.
Secondo i tradizionalisti esiste uno stretto legame tra suicidio e forza del legame
sociale. Il suicidio è (prevalentemente) il prodotto della crisi dei valori che
assicuravano coesione alla comunità originaria, connotata da legami organici e di
solidarietà diffusa, ma anche da conformismo e scarsa propensione al conflitto e
quindi più debole di fronte ai processi di mutamento culturale di origine esogena.
In effetti questo gruppo appare più spaventato dalla modernità, ne pone al
centro le istanze disgregative con toni allarmati ed evoca un’improbabile ritorno
ad un passato per altro molto idealizzato.
Secondo i sincretici esiste un legame tra suicidio e qualità del legame sociale.
Non c’è dubbio che sia in atto una crisi di valori condivisi che incide anche
sull’andamento del fenomeno del suicidio, tuttavia la società locale coltiva risorse
sociali e culturali che lasciano intravedere le vestigia di una comunità adeguata
ai tempi. Si tratta di una sfida che passa dal confronto con una modernità che
porta con sé rischi disgregativi (spesso riflessi nei giovani) ma anche opportunità
di realizzazione per coloro che desiderano mettersi in gioco.
Secondo i secolarizzati il suicidio ha a che fare con la comunità, non nel senso
che la comunità preserva dal suicidio ma piuttosto che lo favorisce. La comunità,
in questa fattispecie, viene assimilata negativamente all’egemonia di rapporti
sociali chiusi, endogamici, permeati da paura del diverso da sé. La comunità
come retaggio culturale da liquidare e vincolo dal quale fuggire (anche se non si
sa bene dove). Il suicidio tende a diventare questione individuale, nel senso
settecentesco del “diritto di disporre della propria vita” quando non ve ne siano
più le condizioni che la rendano “appetibile” dal punto di vista personale.
60
A ben vedere queste diversi atteggiamenti verso la comunità, che qui si fanno
discendere dalla concezione prevalente del suicidio negli intervistati, possono
acquisire ulteriore chiarezza se applichiamo il classico schema di Hirschman
exit/loyalty/voice. Secondo l’economista americano nel corso del tempo qualsiasi
organizzazione
(imprese, burocrazie, comunità,
etc.)
sperimenta
un
deterioramento dei propri prodotti (supponiamo nel caso della comunità che il
prodotto sia il legame sociale), inducendo gli individui ad assumere tre possibili
strategie sulla base degli strumenti culturali disponibili. La prima, quella di
loyalty (lealtà), prevede che l’individuo continui a mantenersi leale a
quell’organizzazione (comunità) per come l’ha conosciuta nel momento in cui
essa era in grado di produrre senso di appartenenza e forme di solidarietà. I
“lealisti”, nel nostro caso, assomigliano molto ai portatori di una visione
tradizionalista del suicidio e di attaccamento all’idea di comunità organica di un
tempo. La strategia di exit (uscita), prevede che l’individuo non ritenga più
quell’organizzazione (la comunità) capace di fornire senso di appartenenza,
spingendolo per ciò ad uscire dall’alveo organizzativo (comunitario) attraverso
l’assunzione di strategie individualistiche. Nel nostro caso ad adottare questo
punto di vista sono soprattutto i secolarizzati che, di fronte ad una comunità che
ritengono isterilita, proprio perché chiusa e incapace di confrontarsi con l’esterno
(anche in senso culturale), tendono ad ricercare forme di appartenenza più
deboli e destrutturate.
Infine la strategia di voice (voce), che prevede da parte degli individui l’adozione
di un punto di vista finalizzato a ricostruire su nuove basi di appartenenza l’idea
di comunità, ci pare meglio rappresentata dai sincretici. In questo alveo, infatti,
si muovono coloro i quali hanno dimostrato, con le loro risposte al questionario,
fiducia nel futuro nonostante la dolorosa constatazione della crisi della comunità
originaria e delle due fonti di solidarietà.
La vera scommessa dei sincretici è quella di riuscire ad immaginare una nuova
comunità e ad intraprendere quella strada stretta che si snoda sul crinale che
divide sin troppo facili nostalgie per il passato e una visione secolarizzata frutto
di una reazione repentina ad un contesto sociale che ha cercato di rimanere
legato a tutti i costi ad una visione ormai esausta delle relazioni sociali.
Il rischio, come spesso accade da queste parti, è la mancanza per i sincretici di
una tradizione di confronto pubblico (la voice) sulla quale innestare una sana
dialettica delle idee e delle pratiche, necessaria per non essere risucchiati dentro
i due poli della tradizione, che porta con sé un’idea regressiva di comunità, e
della secolarizzazione, che porta con sé la liquidazione in toto dell’idea di
comunità. Con ciò non si intende suggerire che occorra abbracciare una cultura
del conflitto fine a se stessa, ma piuttosto che occorra predisporsi al confronto su
valori e visioni del futuro della comunità come assenza.
61
Parte dedicata alle interviste in profondità: Una comunità incompiuta
Premessa
Numerosi sono stati i cambiamenti che in questi anni hanno interessato la
provincia di Sondrio, cambiamenti che hanno posto all’ordine del giorno il
problema di definire o meno questo territorio come comunità. Non è solo una
questione di denominazione, la comunità è infatti il concetto che normalmente
viene usato in contrapposizione con quello di società per indicare una maggiore
attrattività, confidenza e fiducia da parte degli abitanti, un superiore
protagonismo dei cittadini nel ridisegno dei destini di quell’aggregato sociale in
cui sono inseriti. In sostanza, la comunità piace di più della società e nessuna
pratica consuetudinaria di linguaggio potrà mai estinguere questa differenza. Lo
abbiamo verificato anche in questa ricerca, in cui certamente gli intervistati
hanno spesso utilizzato i due termini indifferentemente come uno sinonimo
dell’altro, ma in cui frequentemente sono stati anteposti i significati di
avvicinamento tra le persone che la comunità trapela, i significati più attrattivi e,
perché no, affascinanti.
Naturalmente, qui non intendiamo riprodurre scolasticamente i significati di un
concetto ormai accreditato nelle scienze sociali, né per contrapposizione
intendiamo riportare il significato di società. Ci basta riprodurre gli aspetti che in
positivo o in negativo incidono sulle relazioni interpersonali dei valtellinesi,
concludere che si tratti di una comunità o di una società è per noi secondario,
anche se, come mostra il titolo di questo capitolo, nient’affatto irrilevante: la
comunità valtellinese infatti c’è, ma come dimostreranno le considerazioni che
seguono, è una comunità incompiuta, cioè del tutto in corso d’opera. Le
premesse ci sono tutte, ma i risultati conclusivi sono ancora in elaborazione;
riuscire ad addivenire finalmente a una comunità è più che altro un progetto che
gli intervistati si sono dati.
Del resto, il progetto di costruzione di una comunità è coerente anche con gli
scopi di questa ricerca: indagare il fenomeno dei suicidi in Valtellina e,
naturalmente, cercare di porvi rimedio attraverso il potenziamento degli aspetti
comunitari. La comunità c’entra anche con i comportamenti suicidiari,
comportamenti che però verranno indagati nel capitolo successivo, lasciando a
questo capitolo il compito di descrivere le premesse in sede comunitaria.
Comunque, per la precisione, oggetto dell’indagine non è soltanto la Valtellina,
essendo anche la Valchiavenna parte della provincia di Sondrio. Nel prosieguo,
non distingueremo tra le due valli se non marginalmente e la connotazione di
Valtellina formulata almeno fino a questo momento è da intendere come
territorio dell’intera provincia di Sondrio.
Il cambiamento economico
In ogni caso, riprendendo le parole da cui siamo partiti, numerosi sono stati i
cambiamenti in provincia di Sondrio, ma il principale è sicuramente stato il
miglioramento della condizione economica delle famiglie susseguente a una fase
62
di sviluppo economico. Chi lo afferma, tra gli altri, è A. Molteni, Sindaco di
Sondrio, il quale non si limita a considerare il più alto grado di sviluppo, ma
considera anche un indicatore di miglioramento della qualità della vita: l’indice
molto elevato, in provincia di Sondrio, di anziani. Si tratta, evidentemente, di un
indice sicuramente rivelatore dei connotati economici, ma al contempo rivelatore
della maggiore assistenza medica, delle minori fatiche lavorative e della
maggiore possibilità di accedere ad una serie di terapie.
“Noi siamo come provincia nella Regione Lombardia quella che ha un indice
molto alto di anziani e questo evidentemente è legato ad una serie di fattori
certamente economici ma anche legati al miglioramento della qualità della vita,
nel senso di assistenza medica, possibilità di accedere ad una serie di terapie, di
minori fatiche che hanno migliorato la qualità” (A. Molteni, Sindaco di Sondrio).
Dunque miglioramento della qualità della vita come indicatore del più alto
benessere economico. Il cambiamento economico, però, non è semplicemente
una storia dei giorni nostri, è invece un cambiamento di lungo periodo, tanto che
ormai ha sedimentato un cambiamento anche culturale: come afferma don A.
Pegorari, si è passati da una cultura eminentemente contadina a una cultura
turistico-industriale. Certamente, questo cambiamento riguarda principalmente
la Valchiavenna (don Pegorari è parroco in un comune della Valchiavenna), ma
abbiamo ragione di credere che riguardi anche la Valtellina. In ogni caso,
l’importanza di queste dichiarazioni risiede proprio nel carattere particolare della
Valchiavenna e quindi a questa valle ci atteniamo. Ebbene, questo carattere
particolare consiste nel fatto che l’economia della Valchiavenna gravita
principalmente sulla vicina Svizzera; era così anche un tempo, ma soprattutto
oggi la Svizzera è l’economia che ancora salva la Valchiavenna.
Un altro sacerdote della Valchiavenna, don G. Pini, è della stessa opinione: la
Svizzera ha sempre assicurato una garanzia lavorativa soprattutto per i
lavoratori frontalieri, ma anche per alcune aziende che, credendo nel territorio
chiavennasco, consentono di garantire un buon tenore di vita.
“Siamo abituati dal punto di vista economico ad avere la garanzia lavorativa
nella vicina Svizzera, con buoni benefici per quanto riguarda il cambio della
moneta, cosa che oggi si è un po’ ridotta, ma che comunque continua un po’ a
salvare la Valchiavenna, con grandi sacrifici per i frontalieri, ma che in ogni caso
anche con alcune realtà industriali della zona, le quali hanno creduto nel
territorio valchiavennasco permettono di garantire un buon tenore di vita” (Don
G. Pini, Tremenda XXL).
Ma a soffermarsi sugli aspetti economici vi è anche un gestore di pub, una
struttura cioè deputata alla socializzazione e alla gestione del tempo libero. Si
tratta di D. Battistessa, ex Presidente di Comunità montana e ora gestore del
pub “La Boggia” di Gordona in Valchiavenna.
Negli ultimi anni questo comune ha registrato un allargamento degli
insediamenti produttivi e di altre strutture tradizionalmente localizzate nella
ristretta zona; ne è derivata una dispersione del concetto di “paese originario”,
soprattutto per l’abbandono dei vecchi nuclei dove gli abitanti vivevano più a
stretto contatto fra loro. In sostanza, si sono allargati oltre misura i confini nei
quali prima aveva senso parlare di comunità (altro modo di definire il cosiddetto
63
paese originario). Al contempo, però, la presenza a Gordona di strutture a
valenza di valle come l’area industriale, hanno portato ad uno sviluppo non
prevedibile fino a pochi anni fa.
Ma nelle dichiarazioni di Battistessa, il cambiamento economico principale
della comunità originaria viene visto nel mutamento della popolazione femminile.
Un tempo le ragazze si occupavano principalmente dell’attività rurale o delle
attività domestiche; con l’avvento di attività come quelle del pollificio Vallespluga
si sono invece create nuove risorse in termini di autonomia e indipendenza. Il
cambiamento, tuttavia, non è stato a senso unico: interrogate in una ricerca di
quegli anni, le ragazze hanno evidenziato una chiara tendenza al consumismo,
alle “cose frivole” piuttosto che alla formazione professionale, piuttosto che al
lavoro come valore pienamente considerato. Ne è derivata l’impressione che il
lavoro fosse interpretato soltanto in termini strumentali, un risorsa cioè utile per
soddisfare scopi effimeri, non finalizzata quindi al risparmio o alla formazione di
una nuova famiglia.
Dunque un processo comunque positivo di nuova occupazione femminile e di
formazione di risorse umane autonome e indipendenti dalla famiglia originaria, si
è presto rivelato un fenomeno del tutto privo dei caratteri evolutivi che
avrebbero dovuto sottostare a una maturazione della comunità tradizionale.
“Mentre quando ero ragazzo o giovane io, le ragazze essenzialmente
seguivano l’attività rurale o l’attività domestica, con l’avvento di attività tipo il
pollificio Vallespluga che ha assunto nella stragrande maggioranza dei casi delle
ragazze, queste nuove risorse che sono entrate in casa anche per alcuni aspetti
inattese, rispetto alla società prevalente, hanno dato autonomia e vita in positivo
a quanti lavoravano direttamente (…). Ricordo un’intervista fatta durante la crisi
del galletto “amburghese”, poi “Vallespluga”, in cui c’era il pericolo che molte di
queste ragazze perdessero il posto di lavoro, intervistate per capire dove
avrebbero gradito di collocarsi in cooperative di solidarietà sociale od altro, si
notava molto una tendenza al consumismo, alle cose frivole piuttosto che alla
formazione professionale, piuttosto che alla considerazione del lavoro (…); il
lavoro interpretato solo a livello strumentale per conseguire degli scopi effimeri e
non del risparmio, non della formazione di una famiglia” (D. Battistessa, gestore
del Pub ‘La Boggia’ di Gordona).
Ne è emersa quindi un’immagine, valida tutt’oggi, di una comunità “sfuocata”,
di un territorio cioè i cui confini culturali sono del tutto indefiniti e comunque
ancora da precisare. Confini culturali, beninteso, non geografici, essendo questi
ultimi sufficientemente chiari e definiti; i confini culturali, invece, risentono
dell’influenza della cultura di massa imperante in pianura e nei grandi centri
urbani.
La cultura locale della Valchiavenna, quindi, è costantemente squilibrata nel
difficile rapporto con la cultura dominante dei centri più popolati e influenti,
senza venir meno del tutto ai propri presupposti, ma al contempo tributando a
quella cultura residui di dipendenza da cui ancora devono essere pienamente
reperiti i margini di emancipazione.
Per la verità, questi margini esisterebbero già oggi, e consisterebbero
principalmente nella pratica degli enti locali; il punto però è che comuni,
comunità montane e Provincia non dispongono di un proprio modello di sviluppo,
ma si limitano ad arrancare dietro a problematiche economiche che presto
64
potrebbero diventare drammatiche. La contingenza della situazione economica
aggrava quindi la fatica degli enti locali a governare i cambiamenti del tessuto
economico. Chi propone queste considerazioni è M. De Pedrini, medico già
Assessore ai servizi sociali del comune di Chiavenna e membro della sezione
locale di CAI e di AVIS.
Dunque, una comunità sfuocata, ma a cui non mancano punti di eccellenza
connessi a intuizioni individuali di pieno pregio. Intuizioni individuali che fanno
capo prevalentemente ad associazioni del terzo settore, alla Chiesa e alla stessa
scuola; in generale, si può ben dire che il parentado e i rapporti di tipo familistico
tengano ancora, nulla è definitivamente compromesso. Il punto però è che,
appunto, le intuizioni “salvifiche” sono principalmente individuali, non coordinate
tra loro e soprattutto non coerenti con una compiuta pratica dei presupposti
sociali dello sviluppo economico.
Infatti uno sviluppo economico dovrebbe comunque avere come propria
premessa il concorso di associazioni e organizzazioni della società, il contributo
cioè di soggetti non dichiaratamente deputati a scopi economici: in pratica, tutta
la società è coinvolta e può contribuire ai progetti di sviluppo economico. Questo
ha infatti le proprie radici nella compiuta sedimentazione di relazioni fiduciarie
tra organizzazioni sociali, istituzioni e imprese del territorio; un processo, quindi,
che travalica i semplici rendimenti economici e i soli indicatori statistici di
sviluppo.
Beninteso, anche in Valchiavenna questi soggetti esistono, ma il problema è
che operano in senso individuale e al di fuori di un disegno coordinato e di
sistema. Vedremo nei paragrafi successivi il ruolo di questi soggetti, qui è
sufficiente rilevare il carattere per così dire “extrasistemico” dei loro interventi, il
loro connotato principalmente individualistico e povero di relazioni.
Si potrà anche osservare che queste considerazioni siano a loro volta soltanto
il frutto di riflessioni individuali, ma certo è che ormai una larga parte di
popolazione locale condivide quell’immagine di sfuocamento che si è detto:
percepire un’immagine è altrettanto importante di qualsiasi concorso alla
modifica della realtà; se poi l’immagine percepita non è del tutto positiva ed è
condivisa anche dagli stessi attori che dovrebbero distanziarsene, la realtà
relativamente negativa è destinata a riprodursi, la percezione negativa diventa
realtà essa stessa.
Dopo alcuni interlocutori della Valchiavenna torniamo ora alla Valtellina con il
Sindaco di Delebio L. Bonacina. Anche qui ci sono problemi per la comunità, ma
di
segno
diverso,
problemi
prevalentemente
legati
all’immigrazione
extracomunitaria.
Per la verità, almeno fino ad ora questa immigrazione non ha comportato seri
problemi, tanto che Delebio viene definita “il paese alle porte della Valtellina”,
proprio per indicare il significato di primo recettore di persone con usi e culture
diverse. Semmai i problemi si manifesteranno in futuro, quando, almeno così
teme il sindaco di Delebio Bonacina, potrebbero venir meno le condizioni di
accoglienza che la popolazione italiana ha sempre riservato a quella
extracomunitaria.
In effetti, Delebio negli ultimi 15 anni ha registrato uno sviluppo industriale
con una grande affluenza di manodopera soprattutto extracomunitaria,
complessivamente ben accettata, ma i cui problemi sono legati al suo carattere
fondamentalmente dequalificato. Bene, questa manodopera è stata finora ben
accettata, gli episodi di intolleranza si sono ridotti a una ristretta minoranza,
65
tuttavia questa manodopera straniera porta gradatamente a cambiamenti a
livello delle istituzioni, in particolare della scuola, proprio perché occorre capire
anche le esigenze delle minoranze etniche. Se poi si considera che questi
immigrati sono in gran parte indigenti e vivono per lo più in case sovraffollate e
anche piuttosto fatiscenti, si ha chiaro l’emergere di una domanda pletorica per
le istituzioni, per il comune in particolare. Ora, si potrà anche dire, come fa la
Bonacina, che “non sempre si può far fronte a tutto”, ma a lungo andare una
domanda debordante potrebbe anche creare nuove difficoltà alle istituzioni e
magari una riduzione del livello di accoglienza da parte della comunità.
“Il comune di Delebio sicuramente in questi ultimi 15 anni ha avuto uno
sviluppo dal punto di vista soprattutto tecnico industriale delle ditte qui attorno
con una grande affluenza di manodopera (…) non qualificata perché sono arrivati
tanti operai extracomunitari (…). Al di là di questo la gente non manifesta e
spero che non manifesti neanche mai intolleranza, anzi ci deve essere proprio il
massimo della condivisione e il massimo del rispetto delle leggi (…). Essendo poi
persone molto indigenti vengono molto a chiedere alle istituzioni e non sempre
si può far fronte a tutto” (L. Bonacina, Sindaco di Delebio).
Dunque, sviluppo industriale e ingresso di nuove popolazioni, la comunità si è
sviluppata dal punto di vista economico ed è cresciuta anche dimensionalmente
senza grandi ripercussioni sul piano della buona convivenza; il punto è riuscire
ad accettare la sfida che tutto questo comporta per il futuro.
Quindi in questo paragrafo sul cambiamento economico in provincia di
Sondrio, abbiamo mostrato come la comunità locale sia intrisa di potenzialità
fondate sul diffuso benessere economico e su un articolato tessuto di attività. Al
contempo, però, abbiamo anche mostrato come questa comunità sia
attraversata da problemi che ne compromettono almeno in parte la consistenza:
una popolazione femminile più legata al consumismo e a valori acquisitivi che al
lavoro e al risparmio, un’immigrazione extracomunitaria certamente ben accolta
dalle popolazioni locali, ma anche portatrice di una domanda talora eccedente le
capacità di risposta delle istituzioni.
Naturalmente non è nostro compito tentare un bilancio tra aspetti positivi e
aspetti negativi, a ben vedere non è neanche un’operazione legittima, né tanto
meno corretta. Poi l’analisi economica di un’intera provincia non era tra gli
obiettivi della ricerca (sarebbe servita un’altra ricerca appositamente dedicata).
A noi basta soltanto aver individuato le principali posizioni emerse dalle interviste
agli operatori locali. Troppo poco? Forse no, se si considera quanto dichiarato
nelle prime battute, cioè che questa è una comunità incompiuta, una comunità in
gran parte ancora da realizzare, di cui comunque non si conoscono gli esiti finali,
cioè se si realizzerà effettivamente una comunità effettiva. D’altra parte, la sola
considerazione degli aspetti economici non poteva rispondere a questo
interrogativo: una comunità locale non può sussistere esclusivamente sulla base
di un soddisfacente livello di reddito o di una buona qualità della vita. Altri
indicatori sono almeno altrettanto importanti, e forse proprio su questo “altro”
vale la pena ora puntare l’attenzione.
Intanto definire la provincia di Sondrio una comunità incompiuta ci sembra un
soddisfacente risultato di ricerca, un risultato certamente confinato agli aspetti
economici, ma a cui si aggiunge ora un paragrafo sui cambiamenti sociali che
sembrano confermare questa ipotesi.
66
I cambiamenti sociali della comunità locale
Tra i cambiamenti sociali che intervengono in provincia di Sondrio, verranno
considerati in questo paragrafo soprattutto: il cambiamento dei valori etici, le
figure di riferimento o trainanti, il disagio sociale emergente e il concetto di
controllo sociale.
Il principale tra questi cambiamenti è l’attenuazione, se non la perdita, di
alcuni valori tradizionali. Ad esempio, oggi c’è sicuramente un più basso livello di
solidarietà, il tramonto di quella che un tempo era l’attenzione verso l’altro, la
correttezza e l’onestà, la soddisfazione per un lavoro ben fatto e di conseguenza
la gratificazione che derivava dall’aver compiuto il proprio dovere. Al contempo,
si sono persi i valori di una religione un tempo vissuta con intensità e oggi invece
interpretata principalmente solo come frequentazione dei momenti religiosi.
In sostanza, si sono persi i valori tradizionali di una comunità tipicamente
montana, a cui si è sostituito un avvicinamento a modelli urbani come la ricerca
di soddisfazione nei consumi. Questo cambiamento l’abbiamo già visto nel
paragrafo precedente, ma qui lo riprendiamo per sottolineare una conseguenza
che il Presidente della Provincia Provera rileva: la crescente insoddisfazione del
cittadino che, perdendo la memoria dei valori tradizionali, vive una sorta di
conflitto interiore che potrebbe essere correlato anche con i comportamenti
deteriori di suicidio esaminati da questa ricerca. Del resto il mutamento rispetto
alla comunità di un tempo non è affatto marginale: l’attenzione verso l’altro si
reggeva anche sui piccoli comportamenti quotidiani, il sorriso e il saluto, la
disponibilità ad aiutare l’altro anche nelle più minute occasioni di bisogno, la
consuetudine a non chiudere a chiave anche le porte esterne dell’abitazione.
Tutti comportamenti che ponevano alla radice il valore dell’onestà e comunque la
rappresentazione che eventuali comportamenti illegali o criminosi fossero eventi
del tutto marginali, eccezioni che non avrebbero potuto compromettere la
coesione e la qualità della vita comunitaria.
Oggi ognuno tende a chiudersi in se stesso o nella propria famiglia, vissuta
come uno spazio franco, una sorta di “nido” al riparo dagli eventi che inquinano
quotidianamente la società. Il risultato è che è tramontato il desiderio di stare
assieme che c’era un tempo: oggi le persone sono più individualiste e la
comunità ha perso in gran parte uno dei suoi caratteri principali, cioè la
comunanza delle istanze individuali e la proiezione verso intendimenti comuni.
Detto in altre parole, un tempo c’era maggior controllo sociale, cioè una
maggiore attenzione verso l’aiuto all’altro. La possibilità di esercitare un controllo
sociale a livello di comunità locale è infatti la condizione indispensabile per
qualsiasi progetto di costruzione e sviluppo di una comunità. Controllo sociale
significa che, vivendo o lavorando assieme, i membri definiscono i problemi,
decidono quali azioni adottare, trovano le fonti di finanziamento per sostenerle e
si assicurano che tali soluzioni siano applicate correttamente. Controllo sociale
significa inoltre che la comunità è comunque sempre titolare delle decisioni che
riguardano gli obiettivi e la strategia dei progetti, anche se particolari problemi
richiedono competenze specialistiche che la comunità non necessariamente
possiede.
Tutto questo oggi sembra venir meno, o per lo meno, non è più evidente
come prima; inutile dire che questa comunità incompiuta deve in gran parte
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ancora operare perché il controllo sociale sviluppi effettivamente le sue
potenzialità.
“Le trasformazioni più importanti temo che siano dovute alla perdita o
all’attenuazione di certi valori tradizionali (…), una minore solidarietà ed un
passaggio sempre più rapido soprattutto negli ultimi tempi da un sistema di
caloriche caratterizzavano una società di tipo montano ad una società che si
avvicina sempre piùa dei modelli di tipo urbano, con una connotazione di scarsa
attenzione verso l’altro, di maggiore ricerca di soddisfazione nei consumi (…).
Alcuni anni fa c’era un maggior controllo sociale (…) nell’attenzione verso l’altro e
nell’aiuto. Adesso mi sembra che non sia più così (…): non c’è più questa
apertura, questa comunicazione, questa cortesia nei confronti dell’altro che
ricordo bene come uno dei tratti salienti del passato” (F.Provera, Presidente della
Provincia di Sondrio).
Quanto alle figure che fungono da riferimento per la comunità, forse soltanto
il parroco ha mantenuto il suo appeal, la altre figure non essendo più le stesse. Il
medico, prima visto alla stregua di amico di famiglia, ora arriva in tutta fretta e
senza dedicare tutto il tempo che sarebbe necessario. Così il farmacista,
diventato un semplice distributore di medicinali senza alcuna funzione di
consulenza per la scelta dei prodotti farmaceutici migliori.
Comunque resta il fatto che una comunità è la risultante dei comportamenti
individuali di tutti. E se viene a mancare il senso religioso e i valori etici
tradizionali, vince l’individualismo, quindi l’egoismo e la filosofia del consumo,
vincono cioè i fattori che negano il tipo di vita che esisteva un tempo.
Ora, questo scenario non deriva dall’arricchimento materiale che pure c’è
stato, semmai dipende da un arricchimento materiale che non è stato
accompagnato da un parallelo arricchimento culturale, da un affinamento dei
valori etici che dovrebbe supportare lo sviluppo di una comunità.
Del resto l’attuale Papa ha indicato una formula illuminante per descrivere
questa situazione: “umanità gaudente e disperata”, quindi un’umanità che pensa
solo a godere dei beni materiali, ma che al contempo è disperata per l’assenza di
valori degni di essere vissuti. Proprio la situazione a cui si sta avviando la
provincia di Sondrio, almeno la situazione che abbiamo tentato di descrivere.
Chiaro che sia una situazione in cui è presente anche il disagio, un sentimento
plurimo la cui componente principale è la solitudine. Soprattutto gli anziani sono
le persone maggiormente vittime di questo disagio, anziani che un tempo non
erano emarginati e vivevano anzi appieno un contesto fatto di famiglie, gruppi
sociali, quartieri, in cui si condividevano da subito gli aspetti più elementari
dell’esistenza. La solitudine, insomma, è la mancanza di quella solidarietà che
prima si alimentava anche di piccoli atti concreti: il soccorso all’ammalato, l’aiuto
ai bambini per l’assenza di almeno un genitore disposto a occuparsene, e
quant’altro si possa configurare in termini di solidarietà o di aiuto.
Per decenni ha imperato una politica di dissacrazione di tutti i valori fondanti
della comunità, col risultato che nulla è rimasto se non il valore del denaro. Ma
che cosa si può pretendere da una comunità che adora questo solo Dio?
Il Sindaco di Sondrio Molteni non si discosta da questa linea interpretativa,
anzi la incentiva parlando apertamente di perdita del senso di appartenenza alla
comunità. Prima era più facile il coinvolgimento delle persone alla vita
comunitaria, era più facile partecipare per il bene comune e quindi più forte era
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anche il senso di partecipazione. Ora c’è a tutti gli effetti un allontanamento da
parte dei cittadini dalla volontà di partecipazione al miglioramento della qualità
della vita della comunità, c’è insomma una perdita del senso di appartenenza alla
comunità.
Ma tra i cittadini più esposti al disagio che provoca questa situazione, i giovani
sono quelli che ne soffrono di più. Infatti nel disagio c’è perfino la sofferenza, la
sofferenza anche di aver ormai perso il senso di appartenenza a una comunità.
In genere i giovani non sembrano granché reagire a questa sofferenza, i
sentimenti dominanti essendo più che altro la disattenzione e il menefreghismo.
Occorrerebbe invece avere una passione, qualcosa cioè che aiuti a vincere un
avversario: infatti disporre di passioni è la condizione per avere ragione di
qualcosa che oggi tra i giovani è un avversario molto forte, la noia. Il non essere
appassionati a niente, non poter disporre di alcuna passione e di conseguenza
non fare niente, è la condizione giovanile più preoccupante.
“Qualche anno fa il coinvolgimento dei giovani alla vita comunitaria era più
facile; la possibilità che la città fosse più pulita e ordinata era sicuramente
facilitata dal fatto che ciascun cittadino desse un senso di partecipazione più
forte alla vita comunitaria (…); se la città è sporca, se c’è una disaffezione
marcata all’impegno civico (…) è certamente dovuto al fatto che si è perso un po’
di senso di appartenenza (…). Avere un po’ di passioni, secondo me, fa crescere
il giovane che ha un avversario, un nemico forte, la noia, il non essere
appassionato a niente” (A. Molteni, Sindaco di Sondrio).
Quindi la noia come assenza di passioni, come assenza di qualcosa che,
appassionando i giovani, consenta loro di trovare nuove ragioni alla propria
esistenza, un significato più compiuto della propria vita.
Infatti la noia, secondo le parole di Charles Baudelaire, è “il frutto della triste
indifferenza”, di quel menefreghismo senza passioni che depriva i giovani delle
armi più indicate per fronteggiare appunto la noia, l’avversario principale.
Si potrà anche “eccedere”, come verrà detto fra poco, nell’uso di alcool e della
velocità con l’auto personale, ma la noia rimane pur sempre il principale nemico
della nuova generazione, la noia come esito della mancanza di qualsiasi passione
e di una indifferenza che lascia solo spazio agli sbadigli annoiati.
Certamente, le istituzioni e le associazioni con finalità educative ci sono e
operano bene, però è necessario che i giovani si prendano in mano il loro
presente e futuro, si facciano protagonisti della loro vita. Del resto hanno
disponibilità economiche che li portano a rifiutare lavori a loro giudizio non
sufficientemente pagati. Ma il punto è riuscire a convincerli che quel poco che
serve, bisogna guadagnarselo giorno per giorno e che comunque occorre
superare il senso di disonore che potrebbe derivare da compensi giudicati
eccessivamente contenuti.
Che non si tratti di un compito agevole è del resto documentato da interviste
condotte ai responsabili dei luoghi di socializzazione, come pub e discoteche.
In questi casi, la trasformazione principale è consistita nell’approfondimento
della funzione di socializzazione, di una funzione cioè che si è andata articolando
in un’azione di vero e proprio supporto psicologico agli utenti. Certo, questa
funzione di socializzazione è sempre esistita, ma un tempo gli utenti o clienti non
parlavano esplicitamente dei loro problemi personali, mentre ora utilizzano
questi locali per parlare in maniera aperta proprio dei loro problemi personali.
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Un’evoluzione della funzione socializzatrice che interessa soprattutto i giovani,
ma che, in particolari condizioni di conoscenza personale, riguarda anche i clienti
in età matura. In ogni caso, si tratti della clientela giovane o di quella più
matura, il risultato è il passaggio di questi luoghi di socializzazione ad una sorta
di “confessionali” in cui la principale risorsa scambiata sono le parole. Le parole
sì, nulla di più, perché si socializza soprattutto mediante parole intese a
comunicare i propri casi personali, e acquistare un vestito o soltanto prendere un
caffè sono atti di consumo condotti principalmente per comunicare e socializzare
la propria condizione.
Non importa se questi atti siano esclusivamente di poco conto e del tutto
superficiali, la funzione socializzatrice superficiale non è, come dimostra del resto
il fatto che quando i clienti se ne vanno dal locale, appaiono come sollevati dai
loro problemi, alleggeriti dal peso di una condizione personale che fino a quel
momento gravava su di loro in maniera pesante.
Ma a sostenere queste posizioni ci sono anche responsabili di locali ubicati al
di fuori della provincia di Sondrio, ma che nella provincia hanno gran parte della
loro clientela; il caso della signora Colli, gestrice di Continental, pub localizzato a
Colico in provincia di Lecco, è uno di questi locali.
Quindi la funzione socializzatrice svolge compiti che in gran parte non sono
facilmente sostituibili, ma a questi compiti facilmente si sostituisce negli ultimi
tempi una riduzione della clientela in alcuni di questi locali, una riduzione che
magari non è da ricondurre a una sottovalutazione della funzione socializzatrice,
ma che certamente è da ricondurre all’eccesso di consumi tecnologici che ormai
interessa pressoché tutti i giovani: internet, youtube, sky. Dunque i consumi
tecnologici sono cresciuti, ma hanno comportato uno scarso stimolo a impegnare
le sere in visite ai luoghi di socializzazione, una riduzione del tempo libero a
disposizione, insomma: avere tutti i servizi disponibili nella propria abitazione è
la situazione attuale che spiega una frequentazione dei locali non più affollata
come prima.
D’altra parte, questa riduzione del tempo libero con funzioni socializzanti si è
estesa anche ad altri luoghi. I giornalai ne sono un esempio, giornalai che un
tempo erano coloro che conoscevano tutto di tutti e soprattutto erano luoghi
utilizzati per scambiare quattro chiacchiere la domenica mattina quando si
acquistava il quotidiano. Ora anche questo è finito e con esso anche le
chiacchiere.
Resta il fatto che oggi i giovani hanno disponibilità economiche che un tempo
non avevano, i genitori danno loro “troppi soldi” e quindi si sono estesi anche i
consumi, come dimostra del resto l’abbigliamento dei giovani che frequentano
questi luoghi; per la verità non si tratta di un abbigliamento particolarmente
ricercato, anzi, si tratta piuttosto di un abbigliamento “bizzarro” e senza grandi
problemi di adattamento alle diverse occasioni di ritrovo. Le ragazzine, in
particolare, si presentano “conciate da buttar via”, abbigliate, quindi, in maniera
eccentrica, ma comunque in modo economicamente oneroso, in un modo che in
ogni caso avvalora l’idea che le famiglie contribuiscano eccessivamente alle
spese da loro sostenute.
“Forse perché trovano in noi, cioè dall’altra parte del banco, persone che ti
ascoltano perché tanti da un po’ di tempo a questa parte, mi sono accorta che
vengono come se fossimo diventati dei confessori (…). Siamo diventati dei
confessionali, tante volte per prenderti il vestito o per venire a bere il caffè (…)
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però vedi che quando vanno via sono come sollevati anche se per dire non gli hai
fatto niente (…). Tanta gente non ha più lo stimolo di uscire perché ha tutto
comunque a casa (…). La settimana prima di Natale sono andata alla cena per i
commercianti di Lecco e mi trovo in un tavolo col presidente dei giornalai e dice
‘Una volta, noi giornalai eravamo quelli che sapevamo vita morte e miracoli di
tutti perché c’era il punto di riferimento che la domenica mattina andavamo a
prendere il giornale’ e a cascià bal adesso non c’è più niente non c’è più quel
ciciarare quel caccià bal” (Colli, Gestrice di Continental, Colico).
Dunque, facilità nell’accesso ai consumi, preponderanza dei consumi più
sfrenati e senza particolari controlli. Una situazione che riguarda anche la
provincia di Sondrio, essendo quella di Lecco soltanto il punto di provenienza di
gran parte dei clienti dei locali di ritrovo.
Tuttavia, a fronte di questa facilità di accesso ai consumi non è difficile
incontrare, proprio in provincia di Sondrio, una componente di residenti
disorientata dal punto di vista affettivo. In effetti, gli affetti non sono più al
primo posto nella scala dei valori, come invece accadeva una volta. Affetti che
interessavano certamente i membri della famiglia, ma anche la comunità locale,
le figure più rappresentative e gli stessi valori di cui stiamo parlando. Gli affetti,
in sostanza, oggi sono precipitati ad un livello inferiore nella scala dei valori e a
poco potranno servire i luoghi di socializzazione che abbiamo appena visto.
Evidente che questo ribaltamento nella scala dei valori non può provenire
dalle singole rappresentazioni personali, semmai fa capo a un indebolimento
delle figure più rappresentative della comunità: sacerdoti e sindaci di comune
non sono più così “guida” come lo erano un tempo, si sono indebolite e talora
non sono più nemmeno incentivate a riprodurre la propria posizione di guida; in
sostanza, è venuto meno quello “spirito di unione” che c’era prima, uno spirito
che alla lunga andava a beneficio anche dello spirito di comunità.
Approfondiremo nel paragrafo successivo il significato di questo
indebolimento; qui è sufficiente richiamare le posizioni espresse da un giovane
studente universitario a proposito dell’ambivalenza di valori vissuta nella fase
attuale. Questa ambivalenza risale esplicitamente a quelle nuove tecnologie che
già sono state citate, e che a tutti gli effetti riconducono a tematizzare il concetto
di “globalizzazione”. Infatti, sì, la globalizzazione comincia a essere avvertita
anche in Valtellina, non solo con la maggiore frequenza di viaggi all’estero che
vengono praticati dagli abitanti, ma anche con la diffusione di nuove tecnologie
che contribuiscono a stabilire relazioni amicali e di conoscenza mai sperimentate
un tempo. L’ambivalenza viene riassunta in alcuni esempi positivi e in alcuni
esempi che invece sono un po’ più problematici.
Tra gli esempi positivi, figura il progetto Morbegno 2020, un progetto che
questo comune ha organizzato in diretto riferimento agli studenti delle scuole
medie superiori sulla sostenibilità ambientale. Il forte taglio partecipativo del
progetto ha consentito una consistente partecipazione di giovani, magari non
tutta connessa direttamente all’uso di nuove tecnologie, ma che comunque da
queste nuove tecnologie è stata facilitata. Una partecipazione che inoltre è stata
in qualche modo connaturata alla globalizzazione di conoscenze ed esperienze.
Più problematici sono invece altri casi, il principale dei quali è quello connesso
a un ambiente scolastico nel quale i giovani si mostrano frequentemente
disinteressati ad apprendere nuove proposte, disinteressati a praticare nuove
esperienze. La ragione è semplice: l’atteggiamento remissivo degli studenti a
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scuola si spiega anzitutto con il loro mero interesse al voto sulla pagella, in ogni
caso, con il solo interesse al giudizio da parte del corpo insegnante in sede di
valutazione.
In ogni caso, si parli di esempi positivi o di esempi problematici, il risultato
ormai è sufficientemente chiaro: la maggior parte dei giovani valtellinesi tende a
vivere nel proprio piccolo, nel proprio personale mondo. In una sorta di
“appiattimento” intriso di problemi, tra cui vivere di fatto una situazione limitata
e senza ulteriori margini di evoluzione. In pratica, non si fanno nuove esperienze
perché si ha paura del nuovo e questa situazione “di limite”, soprattutto quando
inquinata da quella cultura dell’eccesso che vedremo fra poco, inibisce ogni
possibilità di sperimentazione ed esplorazione del non conosciuto.
“Al giorno d’oggi, rispetto anche solo a una decina d’anni fa, c’è la possibilità
anche solo di viaggiare, vivere esperienze in posti nuovi, cose che prima erano
assolutamente impensabili e che adesso possono coinvolgere gente anche qui
(…). Dico un esempio positivo e uno critico. Un’esperienza che mi ha coinvolto
ultimamente è stata quella di Morbegno 2020, progetto al quale ha aderito il
Comune sulla sostenibili8tà ambientale con un taglio molto partecipativo (…). Un
esempio un po’ negativo è la scuola (…); i miei compagni non erano per niente
interessati a cose nuove, a nuove proposte, se non proprio a studiar4e per il
voto (…) Secondo me, si ha un po’ paura di parlarci, di andare a chiedere, di
andare a informarsi e si tende a stare un po’ nel proprio mondo, nel proprio
ambito (…). Ci si tende ad appiattire, si vive nel proprio piccolo (…), non si fanno
nuove esperienze, si ha paura e si è nel proprio mondo” (Giovane studente
universitario).
Non è che per questo vengano abbandonati per forza i tentativi di costruzione
di una comunità, semmai la comunità oggi si forma sul “cosa si fa” piuttosto che
sul “dove si vive”. In pratica, non è più il luogo l’entità nella quale si
sedimentano le istanze comunitarie, ma le attività che vengono organizzate
scientemente per conseguire degli obiettivi.
Naturalmente, si tratta di un altro cambiamento rispetto al passato. Un tempo
i giovani tendevano a frequentare soprattutto i coetanei conosciuti in oratorio, i
ragazzi del proprio paese o del vicinato; ci si conosceva un po’ tutti, ci si aiutava
e ci si fidava l’uno dell’altro. Ora, ci sono invece molte persone che nemmeno si
conoscono, tanto che non è azzardato sostenere che ormai si sia estinto il valore
della comunità. Tuttavia, anche tramite l’utilizzo del computer, si può concordare
l’utilizzo del tempo libero e di vacanza e di “fare” qualcosa assieme (la comunità
del “cosa si fa”, appunto).
Un altro cambiamento però è da rilevare, questa volta sul piano
eminentemente istituzionale: una riduzione della capacità di copertura dei
bisogni da parte dei servizi socio-assistenziali cui le figure più rappresentative
della comunità sono normalmente preposte.
Sono servizi che almeno per un certo periodo sono stati sicuramente efficienti,
ma che oggi sono stati burocratizzati, cioè affidati a funzionari invece che gestiti
direttamente dagli amministratori pubblici. Un’azione di delega che rivela
soprattutto il fatto che oggi gli amministratori locali non dispongano di un quadro
attendibile della situazione e preferiscano delegare a funzionari operazioni che
invece dovrebbero gestire in prima persona.
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Questa dinamica non riguarda solo i servizi socio-assistenziali, riguarda anche
la scuola e in generale i servizi sanitari, comunque una dinamica che interessa
anche i giovani impiegati o che dovrebbero essere impiegati in nuovi posti di
lavoro. Anche senza richiamare quanto già detto nel paragrafo precedente, è
sufficiente qui rilevare che nel settore pubblico e parapubblico si è affermato un
fenomeno di “meridionalizzazione”, tale per cui quello che concretamente si
faceva nel lavoro ha ceduto il primato dell’importanza al “posto” che si occupa:
in sostanza, occupare il posto è più importante di quello che si fa. Col risultato
che oggi molti giovani hanno una scarsa professionalità e una debole capacità di
impegnarsi in un’attività lavorativa, a ben vedere in qualsiasi attività lavorativa.
Con un altro risultato, però, quello della crescita dei comportamenti sociali
devianti, come l’accesso alla tossicodipendenza, l’abuso del fumo e l’abuso di
alcool.
Indicativo, ci sembra, è che a dichiarare queste cose non sia una figura leader
della comunità, o una figura idealmente di riferimento, ma un gestore di pub, D.
Battistessa, gestore del pub “La Boggia” di Gordona, una persona già citata nel
paragrafo precedente. Ma che ora ci serve citare perché una delle più attente al
cambiamento dei valori tra le giovani generazioni.
“E’ certo che rispetto al passato queste figure guida sono andate via via
indebolendo per questioni culturali generali e se si vuole, purtroppo, sempre a
mio avviso anche minor impegno, minor voglia di essere guida (…). Non c’è
quello spirito d’unione che c’era prima (…); dagli anni novanta venendo a noi la
situazione, sempre dal mio punto di vista, è andata grado grado scemando (…).
Noi abbiamo avuto
nel settore pubblico o parapubblico un fenomeno di
“meridionalizzazione”, nel senso che era importante il posto e non quello che si
faceva (…); oggi abbiamo anche tanti giovani che a trenta o trentacinque anni
hanno scarsa professionalità e non vogliono impegnarsi in nessun lavoro (…);
anche da noi stanno entrando pesantemente fenomeni che fino a poco tempo fa
erano pericoli solo di cittadine o agglomerati molto consistenti; sembravamo
indenni o quasi, oggi questi fenomeni di droga e di vandalismi sono diffusi anche
da noi” (D. Battistessa, gestore del Pub “La Boggia).
Esattamente questi comportamenti sono ormai all’ordine del giorno nella scala
di priorità dei giovani chiavennaschi e valtellinesi: anche i vandalismi che un
tempo interessavano questa provincia solo marginalmente e che oggi invece
sono pressochè pratica consuetudinaria.
In pratica, vandalismi, spinelli e alcool, sono tutti comportamenti socialmente
devianti che rivelano come si sia perso tra i giovani il “senso della misura”, quel
senso cioè abilitato a considerare i limiti cui devono attenersi tutti i
comportamenti delle persone. E’ intervenuta insomma una sorta di “cultura
dell’eccesso” che, diluendo il senso della misura, porta oggi molti giovani a
eccedere nell’uso di alcool e a pigiare l’acceleratore dell’auto oltre il lecito. A
questo proposito, non sembra fuori luogo considerare molti morti lungo le strade
alla stregua di suicidi. Certamente si tratta di suicidi molto particolari, perché
non voluti e soltanto accidentali, ma la cultura dell’eccesso porta anche a questi
risultati, piaccia o meno.
Infatti l’eccesso è qualcosa di più del mancato rispetto della normalità, è
qualcosa che abbraccia definitivamente il campo del non dovuto, del proibito e in
definitiva della permissività di tutti i comportamenti. Si potrà anche dire che
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questa cultura dell’eccesso attraversa l’intera attuale società, che non riguarda la
sola provincia di Sondrio e che comunque è un atteggiamento al quale una sola
provincia non può porre rimedio; tutto vero, però la provincia di Sondrio è il
territorio che stiamo osservando, la cultura dell’eccesso c’è anche qui e, quali
che siano le origini, ai tentativi di porvi rimedio, per quanto parziali e cangianti
nel tempo, dobbiamo attenerci.
Tra i tentativi di porre rimedio a questa degradata cultura, purtroppo, non
sono presenti i compiti delle famiglie, non perché sia estranea al loro ruolo, ma
solo perché di fatto le famiglie sono diventate complici di questo desiderio di
eccesso, di questa volontà di condurre una vita al di sopra delle proprie
possibilità. In pratica, le famiglie, pur di lasciare le cose tranquille, sono
trascinate in un vortice di consumo che le svincola dai loro compiti naturali di
educazione e socializzazione ai valori della comunità.
Ma tra gli attori che dovrebbero porre rimedio alla cultura dell’eccesso ci sono
naturalmente anche le figure leader, coloro cioè che sono riconosciute dalla
comunità e che dovrebbero portare un apporto di continuità, di riconoscimento
delle persone più umili e più giovani, di ripetizione anche delle iniziative
tradizionali. Ebbene, come si è accennato, anche queste figure di primo piano
stanno venendo meno al proprio ruolo, col risultato che si va avanti solo per
inerzia, lasciando aperto il campo solo all’aggressività tra piccoli gruppi e al
pettegolezzo.
Lasciando però il campo aperto anche a un individualismo che ormai è
diventato il bacino di coltura per progetti di natura privata sostanzialmente
estranei al bene pubblico. Dunque, un individualismo infine che ha finito per
oscurare la pericolosa china che stanno percorrendo numerose amministrazioni
comunali e che comunque ha finito per oscurare i guasti della cultura
dell’eccesso. Tra questi guasti non può essere ignorata la perdita del senso di
colpa verso azioni negative del tipo di quelle che sono state prima richiamate. I
giovani naturalmente sono i primi ad essere interessati da questo processo: il
senso di colpa, in effetti, è un sentimento che dovrebbe aiutare a prendere atto
dell’inaccettabilità di certi comportamenti e la sua estinzione lascia solo spazio
all’apparire piuttosto che all’essere. Infatti l’apparenza è il tratto di carattere
prevalente tra i giovani, il tratto che ha finito per sostituire l’essere, diventando
la motivazione principale delle azioni condotte dai giovani, si tratti di azioni
socialmente condivise o meno. Non sembra importare molto che queste azioni
siano o meno condivise, la mancanza di un chiaro senso di colpa, e in generale
l’individualismo imperante, risolvono eventuali crisi di coscienza.
Questo individualismo è naturalmente da ricondurre al benessere diffuso di cui
si è parlato al paragrafo precedente, ma che qui è da richiamare in quanto causa
prima di un valore di autosufficienza e di disinteresse per gli altri, di un valore di
individualismo che ormai sembra interessare la gran parte dei giovani
valtellinesi. “Che si occupino gli altri e che non sia io a muovermi”, questo
l’atteggiamento individualista prevalente. Un atteggiamento che ha a che fare
con la perdita dei principali punti di riferimento della comunità, tra cui le stesse
famiglie, i cui genitori prima fungevano da educatori e da consolatori, gli enti
pubblici, le parrocchie ai cui responsabili ci si rivolgeva nei momenti difficili della
vita. Tutte figure che magari, anzi certamente, ci sono ancora, ma non più in
maniera così evidente, efficace e convincente. Figure insomma di cui abbiamo
già accennato all’indebolimento, ma che in ogni caso configurano, con il loro
indebolimento, l’attuale mancanza di punti di riferimento per la comunità.
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Per la verità, un punto di riferimento potrebbe essere la famiglia, ma questa
oggi è troppo occupata da problemi di carriera professionale dei figli, quindi
meno attenta ai problemi quotidiani di disagio, in generale meno attenta ai
problemi ordinari interni alle mura domestiche. Ne deriva una sostanziale
“assenza della famiglia” come problema principale, che magari non implica il suo
carattere comunque stabile e “fisso”, ma che comunque comporta un inevitabile
indebolimento anche dei capisaldi educativi dei giovani.
Uno di questi capisaldi indeboliti è sicuramente lo spirito di sacrificio, uno
stato d’animo che prima poteva avvalorare le scelte di lungo periodo che erano
state intraprese, ma che ora, venendo meno o indebolendosi, lascia spazio solo
alla voglia di ottenere i risultati immediatamente e senza fatica.
Un esempio lampante di questa riduzione dello spirito di sacrificio è dato da
attività sportive nelle quali la scelta fatta all’inizio dell’anno sportivo facilmente
può essere lasciata cadere dopo la prima delusione. Una situazione che alla
seconda delusione porta anche all’abbandono dell’attività sportiva, in una sorta
di costrizione al successo ravvicinato e senza sacrifici ulteriori.
Insomma, nella riduzione dello spirito di sacrificio sembra profilarsi una
diffusa reversibilità delle scelte, un diffuso atteggiamento a non compiere scelte
che impegnino sul lungo periodo, anzi a cambiare scelte continuamente e a
cambiarle in corso d’opera, in attesa della definitiva presa d’atto che l’ultima
scelta fatta è quella “giusta”.
Chiaro che questa reversibilità delle scelte non sempre è facile, qualche volta
comporta anzi difficoltà nei rapporti interni alla famiglia, a parte naturalmente le
difficoltà di fare la scelta giusta. La famiglia, quindi, sarà anche praticamente
assente, ma in ogni caso è teatro di difficoltà, talora di conflitti, che comportano
il tramonto di valori che un tempo erano i cardini della buona convivenza
familiare.
Il principale di questi valori era sicuramente il rispetto dovuto ai genitori, un
rispetto basato sulla considerazione della loro autorità e della loro esperienza;
oggi non sembra più così: sembrano piuttosto valere consuetudini secondo cui il
giovane comanda e i genitori si adeguano. In sostanza, sembra ormai essersi
imposto uno stile di rapporti in cui il ragazzo è colui che impone le proprie scelte
mentre i genitori sono soltanto coloro che si adattano alle decisioni conseguenti.
Si potrà anche dire che questo corrisponda al naturale distacco dai genitori
che un ragazzo prima o poi matura, ma non può al contempo essere sottaciuto il
bisogno da parte di quel ragazzo che vi sia qualcuno che lo corregga, che lo guidi
sui problemi più acuti della crescita.
“La cosa principale, secondo me, è la mancanza di punti di riferimento. Ormai
la famiglia è troppo presa anche a carriere professionali (…), è meno legata ai
propri valori interni della casa e quindi probabilmente un po’ meno attenta alle
situazioni di disagio del ragazzo (…). è diminuita tantissimo la voglia di sacrificio,
lo spirito di sacrificio; si ottiene tutto abbastanza facilmente quindi anche
nell’attività sportiva se ricevo delle delusioni se non alla prima, alla seconda
delusione abbandono (…), perché si sentono adulti ma alla fine sono ancora
ragazzini e hanno ancora bisogno di chi li corregge. di chi gli dà istruzioni di
come continuare un certo percorso (…), per il semplice fatto che un impegno va
onorato fino in fondo con le sue difficoltà” (P. Gusmeroli, allenatore e
insegnante).
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Le ultime parole di questa citazione sembrano definitivamente risolvere
l’incertezza che comporta la reversibilità delle scelte: quali che siano le difficoltà,
un impegno va onorato fino in fondo.
Quello che però la citazione non risolve – né potrebbe farlo, del resto – è il
problema della sostanziale mancanza di integrazione fra le strutture del
territorio. In particolare le strutture con finalità educative che sono disponibili al
giovane. Ebbene, queste strutture sono: ovviamente la famiglia, il catechismo
mediato dall’oratorio, la scuola e l’attività ricreativo-sportiva o culturale.
Dunque diverse sono le istituzioni tra le quali l’adolescente può avvantaggiarsi
dal punto di vista educativo; il punto però è che solo l’attività sportiva o culturale
è una scelta volontaria, essendo la famiglia in qualche modo data, così come il
catechismo e la scuola, soprattutto nelle prime classi quando è obbligatoria.
Quindi fare questa scelta culturale invece che quest’altra, fare questa attività
sportiva invece che quest’altra, sono scelte che in gran parte dipendono dalla
volontà del giovane; scelte, di conseguenza, soprattutto di carattere volontario.
Tutto bene, salvo il fatto che solo queste attività, essendo di carattere
volontario, comunicano tra loro in maniera più o meno costante; tutte le altre
attività, invece, vivono in una costante separazione, in uno “scoordinamento”
che le richiude di fatto nel proprio ristretto recinto di competenza. La mancanza
di un accettabile grado di coordinamento sembra dunque la caratteristica
principale delle istituzioni con finalità educative, cosa che potrebbe anche non
essere considerata problematica se questo scoordinamento riguardasse solo
questo tipo di istituzioni. Ma abbiamo buone ragioni di credere che altre
istituzioni si trovano nella stessa condizione, e quindi che la mancanza di
coordinamento costituisca un’altra ragione che ci abilita a parlare di comunità
incompiuta. Ciascuna istituzione, in pratica, tende a fare da sé, non si coordina
in maniera continuativa con altre realtà organizzate e il principale risultato,
purtroppo, è la dispersione di energie, la dispersione di tutte le volontà
indirizzate alla costruzione di un aggregato organizzato ed efficiente.
Ma questo scoordinamento non si limita a riguardare istituzioni, associazioni e
comunque entità collettive. Se infatti si considerano le singole persone, ci si
accorge che questa dinamica interessa anche i casi individuali; solo in
un’accezione a loro specifica, non propriamente adattabile a istituzioni,
associazioni e strutture organizzate: la solitudine.
In effetti, in provincia di Sondrio sembra emergere una solitudine che affligge
tanta parte della popolazione. Una solitudine che negli ultimi anni è stata oggetto
di studi e riflessioni, ma esclusivamente per ricondurla alla condizione degli
anziani.
Ora, certamente questa fascia di popolazione è tra quelle che più
drammaticamente vive la solitudine, ma la solitudine più preoccupante è quella
che vivono i giovani. I quali, infatti, spesso si trovano in discoteca e corrono sulle
strade senza limiti di velocità, ma sostanzialmente sono anche soli. L’amicizia
non sembra più avere l’importanza di un tempo, non si fanno più amici, tutt’al
più si fanno solo compagni con cui passare la serata, quindi occasionali e senza
particolari impegni di scambio. L’anziano magari è solo, ma non disperato, i
giovani, invece, sono in qualche modo soli e disperati. La spiegazione è presto
detta: nelle amicizie “a serata” ci si diseduca, viene fuori il peggio di sé, si perde
il senso autentico dell’amicizia, quello dell’autoeducazione e dell’interscambio di
valori e di esperienze.
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Chiaro che in questo decadimento nella solitudine si perdono i valori di prima,
si finisce in uno spaesamento che non lascia spazio all’affermazione di sé e che
invece dà esclusivo valore all’omologazione: in pratica, si subisce soltanto, senza
dare opportuna rilevanza all’iniziativa personale.e al libero arbitrio delle persone.
Un esempio evidente di questo decadimento è quello, terribile, dell’omicidio
nel 2000 di suor Maria Laura in Valchiavenna. Un omicidio il cui carattere
terribile fu dovuto al vuoto interiore di alcune adolescenti, alla noia assoluta
vissuta da ragazze comunque del posto e quindi anche conosciute. Il comune di
Chiavenna si limitò a invitare una suora giornalista per una conferenza presso la
banca e a organizzare un concerto di musica leggera in piazza Castello, niente
altro. Quella semmai era un’occasione per chiamare la cittadinanza a raccolta e
rendersi conto di quello che effettivamente era successo.
“Viviamo ancora in situazioni di benessere e questo ci rende ancora
individualisti, ci dà un senso di autosufficienza o comunque di disinteresse per gli
altri (…). Il parroco era la persona alla quale ci si riferiva soprattutto nei
momenti difficili della vita, anche quando non si era frequentatori assidui della
parrocchia, della chiesa (…). Si è accennato tra i disagi la solitudine degli
anziani, dei vecchi; è più preoccupante la solitudine dei giovani perché i giovani
fanno chiasso, fanno bordello, si trovano in discoteca, corrono sulle strade ma
sono dei soli (…). I giovani invece forse non lo avvertono, ma noi che guardiamo
dall’esterno penso proprio di dire, in senso generale, una cosa vera: sono soli e
disperati (…). Anche qui voglio ricordare un fatto terribile, l’omicidio di suor
Maria Laura del 6 giugno 2000 (…). Quella era un’occasione - per un ente - per
chiamare la cittadinanza a raccolta e dire: “rendiamoci conto in che situazione
siamo dentro e cosa è successo”. Si è cercato di nuovo il chiasso, lo stordimento
per fare movimenti, fondazioni, ecc.; cose importanti, però a monte non c’è
stato quasi niente” (A. Braga, Presidente Casa Riposo ‘Città di Chiavenna’).
Chiavenna però non è stata solo teatro di eventi terribili come l’omicidio (ci
mancherebbe), è anche la sede di un coro di canti sacri, Coro Nivalis, nato tra
alcuni amici e tuttora basato sui valori dell’amicizia, della condivisione dell’età,
degli interessi e dei progetti che da tutto questo nascono. Per la verità, non è
chiaro se tutto questo ci sia ancora, almeno era così quando il coro è nato.
In ogni caso, il Coro Nivalis è una di quelle iniziative che in Valchiavenna si
sono proposte di fronteggiare il disagio, un sentimento da cui nasce il timore
continuamente a cavallo tra rassegnazione e impotenza: rassegnazione perché
“non c’è più niente da fare” e impotenza perché famiglie e educatori vivono la
preoccupazione di essere costretti ad aspettare tempi migliori.
Difficile pensare che tra rassegnazione e impotenza possa svilupparsi un
grande afflato di vitalità e voglia di vivere, ma almeno la sfida è questa e
comunque con questa sfida bisogna oggi fare i conti.
Il modo principale per far fronte a questa sfida deriva dalla capacità di vincere
la solitudine inevitabilmente connessa all’uso delle nuove tecnologie: computer
e internet sono sicuramente strumenti preziosissimi, ma essere costretti a
passare intere ore al computer condanna chi lo usa alla solitudine, l’interlocutore
è una macchina. Invece bisognerebbe avere la capacità di incontrare fisicamente
l’uomo, guardarlo in faccia, capire e far capire ai figli che il valore più grande non
sta nella macchina ma, appunto, nell’uomo. Diversamente si incorrerebbe
77
inevitabilmente nella solitudine, in quella condizione che difficilmente conduce a
buoni esiti.
Ma a proposito di disagio, occorre anche dire che attualmente i giovani
tendono a sottrarsi alla possibilità di essere aiutati e assistiti, in una sorta di
ritrosia che non lascia grande spazio alla comunicazione intergenerazionale. Una
ritrosia che in gran parte riproduce l’arretratezza di questa comunità, il suo
carattere del tutto incompiuto.
Un tempo i giovani erano obbligati a pensarla in una sola maniera, cosa che
rendeva più facile l’interconnessione con le persone di altra generazione, ora vi
sono molte idee e quindi molte possibilità di pensare in modo diverso tra le
generazioni. Il punto, però, è che questa maggiore libertà è per lo più solo
apparente, perché, anche senza accondiscendere alle letture catastrofiste oggi in
voga, questa libertà apparente conduce in sostanza ad avere una sola idea, un
solo modo di comportarsi e un solo modo di vedere le cose.
Forse abbiamo troppo ecceduto nell’accondiscendere all’ideologia del
“pensiero unico”, ma questo era quanto contenuto nelle interviste, in particolare
nell’intervista a don A. Pegorari (già citato a proposito della situazione economica
della provincia).
Ora, disporre di una pluralità di idee e di rappresentazioni della realtà è
sicuramente un valore del nostro tempo, ma quella visione che ci suggerisce che
in realtà si tratta di una libertà solo apparente, ci obbliga a considerare l’assenza
di un senso critico. La mancanza cioè di un senso capace di vagliare le idee e
scegliere tra queste quelle più appropriate per addivenire alla visione
complessiva che consideriamo più pertinente
In questa situazione troviamo comodo lasciarci guidare, piuttosto che
sviluppare un difficile senso critico, i cui risultati non sono mai certi, mentre
sicuramente certo è il disagio di una pluralità di idee tra cui scegliere quelle a noi
più consone.
In questa pluralità di idee dovrebbe esserci anche un’idea di futuro, un futuro
che riguardi la società oltre che la propria personale esistenza. Invece così non
è, almeno per ciò che riguarda la società. Infatti le persone continuano soltanto a
vivere la propria condizione personale e i problemi della famiglia, tutt’al più sono
disponibili ad aiutare il vicino quando ne ha bisogno, ma il futuro della società è
un problema che nemmeno si pongono.
Evidente che si tratti di una notevole trasformazione rispetto agli anni ’70,
quando il futuro era, per così dire, all’ordine del giorno della situazione presente.
Quest’ultima considerazione potrebbe sembrare eccentrica alla provincia di
Sondrio ma, a parte il fatto che ce l’hanno esposta in sede di intervista, è
comunque testimonianza che gran parte delle dichiarazioni raccolte esula dal
ristretto consesso della provincia e si estendono invece a considerare la provincia
come parte organica della società complessiva. Del resto fa parte di questa
estensione anche la considerazione secondo la quale in situazioni di benessere
(come la provincia di Sondrio) si tende ad abbandonare i valori per abbracciare
soltanto il tempo presente.
Questo non significa che il benessere sia un male, ma soltanto che dovrebbe
essere uno stimolo per edificare un benessere più solido e duraturo, qualcosa
insomma fondata su un progetto.
All’edificazione di un progetto siamo coinvolti tutti e la società della provincia
di Sondrio mostra di avere le carte in regola per diventare definitivamente una
comunità: vi sono gruppi sportivi che danno stimoli alla gioventù, oratori che
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funzionano bene, una scuola che magari sta attraversando una fase di crisi, ma
che comunque deve essere considerata come il luogo nel quale si compie
l’apprendimento da parte dei ragazzi delle nozioni educative, ma anche di quei
valori di cui oggi si lamenta l’indebolimento, se non l’estinzione.
Insomma, la comunità sarà anche incompiuta, ma le premesse perché
compiuta lo diventi effettivamente ci sono tutte (beninteso, ci sono tutte solo in
potenza).
Comunque, il principale fattore di disagio è non riuscire a vedere
compiutamente il futuro, e ciascuno è portato a vedere solo i propri interessi, in
subordine all’attuale cultura imperante incentrata sull’egoismo e la cura di sé. E
a proposito di futuro sostanzialmente ignorato o non visto, occorre dire che il
tempo è principalmente dedicato a se stessi, lasciando ben poco tempo a tutto il
resto, un tempo, quindi, esclusivamente ricalcato sul presente, il futuro
richiedendo una proiezione che solo un progetto potrebbe rispettare. In
sostanza, tempo futuro non compiutamente visto ed egoismo sono uno la faccia
dell’altro, praticamente non si può considerare l’uno senza anche considerare
l’altro.
Chiaro che questa posizione riflette soltanto la principale cultura di questa
società, mentre invece il discorso dovrebbe essere ribaltato rovesciando le
posizioni di presente e futuro e recuperando quindi il valore della solidarietà: in
pratica destinare anche al presente tutta la progettualità che oggi solo il futuro,
tramite progetto, conserva.
Naturalmente solo un altro religioso, don G. Pini, poteva avanzare queste
osservazioni, troppe essendo le implicazioni di carattere morale e, perché no,
spirituale, che vi sono contenute.
“Il disagio sociale è il non riuscire a vedere chiaramente il futuro (…), facendo
ognuno i propri interessi, portando avanti le proprie battaglie (…), dovuto alla
mancanza di punti di riferimento, di una cultura imperante che ha portato allo
svuotamento di valori veri, incentrata sull’egoismo (…). Questo è un discorso che
andrebbe ribaltato, ma non ne abbiamo il coraggio, trovandoci nella cultura del
relativismo, dell’egocentrismo, del menefreghismo, del tanto non serve a niente,
dell’indifferenza, fattori che portano ad avere risultati problematici come la
tossicodipendenza e i suicidi” (Don G. Pini, Tremenda XXL).
Dunque un futuro non totalmente chiaro, una vita, quindi, esclusivamente
vissuta sul tempo presente. L’ovvia conseguenza è che ci si adagia sull’emozione
del momento senza un sentimento di effettiva partecipazione alle iniziative che
vengono organizzate. Le forme in cui si sviluppa la partecipazione saranno prese
in esame nel prossimo paragrafo, ma qui è importante richiamare questo aspetto
per completare il discorso sulla preminenza del presente nella maggior parte dei
comportamenti. Un presente, quindi, esaltato dalle nozioni di “emozione” e di
“momento”, due concetti che certamente fanno riferimento al tempo presente,
ma al contempo lo approfondiscono nell’enfasi dedicata a momenti
specificamente “emozionali”, a momenti cioè in cui la razionalità strumentale è
soltanto un addentellato, soltanto un residuo e complemento marginale
dei comportamenti.
Naturalmente questo tipo di comportamenti è diffuso soprattutto tra i giovani,
ma anche le generazioni più mature, come le persone impegnate in politica, sono
79
facilmente preda di comportamenti esclusivamente dedicati all’emozione del
momento.
In fondo – altra considerazione che vale in generale per l’attuale intera società
– la politica è oggi ricalcata soltanto sugli “schieramenti di parte”, su
appartenenze che inevitabilmente sono portate a contrapporsi allo schieramento
avversario, quindi a fermare le cose in un gioco malato di continua
contrapposizione. Sarà anche un discorso generale, ma sicuramente ha anche
importanti implicazioni nella provincia di Sondrio. Come, ad esempio, una scarsa
voglia di confrontarsi tra posizioni differenti e una chiusura nella propria
appartenenza. Cosa c’entra questo con l’esaltazione del momento presente?
Piuttosto semplice ed evidente: l’insufficiente apertura alle posizioni dell’altro
marginalizza qualsiasi progetto ambizioso, esclude la fatica e la pazienza di
impegnarsi su idee e scadenze di lungo periodo, quindi su un futuro che richiede
energie e capacità che il solo momento presente non potrebbe mai assicurare.
Ma per dedicarsi compiutamente al futuro servirebbe anche un “senso etico”
che soprattutto i giovani sembrano mostrare di non avere più, se mai l’hanno
avuto. Per la verità, un senso etico i giovani ce l’hanno, ma solo “su misura”,
cioè ricalcato solo su se stessi, su quello che va bene a loro. In pratica, si
ripropone il concetto di misura che abbiamo visto a proposito della cultura
dell’eccesso, ma mentre lì era stato enunciato per dichiarare la sua perdita a
vantaggio di comportamenti che eccedevano ogni limite, qui la misura è
utilizzata per sottolineare l’esclusivo riferimento a se stessi, alle proprie
aspettative e volontà. Anche qui certamente c’entra l’etica, ma solo per esaltare
quell’individualismo che abbiamo visto essere una delle principali prerogative dei
giovani valtellinesi.
Una povera etica, si dirà, noi diciamo addirittura “fine dell’etica”, almeno di
quell’etica che una volta era alla base dei comportamenti intersoggettivi e che
serviva a governare la convivenza. Ma con l’etica se ne sono andati anche il
concetto di “regola generale”, i valori condivisi, lo scambio tra le persone, se ne
è andata anche la comunità, almeno la comunità di un tempo. Questa visione un
po’ nichilista è stata espressa da F. Svanella, Sindaco del Comune di Cosio, ma
anche altri intervistati sono sulla stessa lunghezza d’onda.
Insomma, un senso etico individualista e una misura altrettanto centrata sui
propri interessi, poco o nulla che viene praticato per la convivenza e per il bene
comune. Del resto, ne sono testimonianza le numerose iniziative pubbliche che
anche quando organizzate su temi strategici, vanno deserte.
La partecipazione è quindi uno dei principali problemi che si sono andati
manifestando in questa comunità incompiuta; e a questo problema dedicheremo
ora il nuovo paragrafo.
Partecipazione e attività di aggregazione
Il presente paragrafo si diversifica da quello precedente soprattutto per gli
aspetti comportamentali e di soggettività pratica; mentre nel precedente
paragrafo la componente principale era costituita dagli elementi ideali e culturali,
in questo saranno soprattutto gli elementi di comportamento, organizzati o
meno, a rivestire la principale importanza.
Saranno in particolare presi in considerazione: le manifestazioni popolari della
provincia, i punti di ritrovo principali dei giovani valtellinesi, gli esiti delle forme
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partecipative tradizionali, quindi la partecipazione, senza dimenticare le
particolari funzioni del linguaggio.
Ora, certamente di tutti questi elementi almeno in parte abbiamo già parlato,
comunque sono già stati dati elementi per comprenderne addentellati e
implicazioni. Vedremo di non ripeterci e di attenerci al profilo comportamentaleorganizzativo che si è detto. In ogni caso, il presente paragrafo è da concepire
alla stregua di conclusioni di questo capitolo, conclusioni che del resto sono
richieste dalla necessità di dire qualcosa in più sul concetto di comunità, in
particolare su una comunità che è diventata uno dei più rilevanti teatri di
suicidio.
E sulle comunità occorre anzitutto precisare il cambiamento cui è stato
interessato il concetto negli ultimi tempi. Si tratta, beninteso, di un cambiamento
che riguarda la Valtellina solo indirettamente, essendo un cambiamento più
generale intervenuto nelle scienze sociali, ma naturalmente anche trattando
della sola Valtellina, non si può prescindere da una evoluzione della terminologia
che non ha mancato di riservare una certa innovazione nell’uso dei termini. Qui
però dobbiamo anche tenere fede a quella discrezione dichiarata all’inizio
secondo cui non è nostra intenzione riprodurre scolasticamente i significati di
questo concetto, richiamando eventualmente solo i significati che sono stati
espressi dagli intervistati. Significati che tuttavia non ci esenteranno dal compito
di riportare qualche considerazione teorica più generale.
Ebbene, l’evoluzione più significativa del concetto di comunità consiste in un
vero e proprio cambiamento di prospettiva, un cambiamento che può essere
sintetizzato in un radicale ribaltamento dei significati: il passaggio da un modello
centrato sulla “deficienza” – il bisogno da soddisfare – che fa risaltare il ruolo di
utente e definisce la comunità soprattutto come bacino di utenza, a un modello
centrato sulla “competenza”, che esalta le capacità, le risorse di cui dispone la
comunità e che possono essere impiegate per la soluzione dei problemi sociali e
per la soddisfazione dei bisogni dei cittadini.
Quindi, la comunità è anzitutto un’entità che possiede un sapere e un saper
fare, che sono e possono utilmente essere impiegati per risolvere i problemi della
quotidianità del vivere. La comunità è “competente”, in una certa misura si
prende cura dei propri membri e in qualche modo sa far fronte e cambiare le
forse esterne che influiscono sulla sua vita; tali saperi devono essere recuperati,
ancor prima che migliorati. Ma la comunità è anche un soggetto che apprende,
che può migliorare le proprie competenze, le proprie conoscenze e il proprio
bagaglio strumentale.
La riscoperta delle competenze della comunità rende possibile la realizzazione
di progetti che prevedono la messa in campo di tali competenze per affrontare
numerosi problemi. Riconoscere le proprie necessità e i propri bisogni è il primo
atto di competenza. Segue poi la capacità di fare qualcosa per soddisfarli. Se da
un lato il riconoscimento della competenza riduce la dipendenza della comunità
dal sistema formale dei servizi, poiché permette alla comunità stessa di
prendersi in carico problemi un tempo delegati al sistema formale, dall’altro apre
questioni rispetto ai processi di definizione dei problemi e dei bisogni.
Ma inevitabilmente apre anche ai problemi della partecipazione. La
partecipazione, infatti, si attiva solo intorno ai problemi sentiti da parte di coloro
che devono partecipare, in particolare intorno a problemi specifici. Tanto più
convinta ed efficace sarà questa partecipazione se i problemi saranno anche
condivisi da altri. Inoltre, essendo basata sulle probabilità di successo, la
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partecipazione è basata sulla effettiva competenza di sentirsi capaci di operare
sui diversi specifici problemi. Infine, per partecipare occorre una chiara
consapevolezza di poter effettivamente influire sui processi di cambiamento.
Evidente che questi elementi della comunità, e della partecipazione, riflettono
più considerazioni teoriche generali che l’effettiva realtà della provincia di
Sondrio, ma le posizioni espresse dagli intervistati non si distanziano in grande
misura. In particolare, la partecipazione c’è anche qui, così come anche qui non
è affatto fuori luogo parlare di comunità (seppure incompiuta).
“Noi qui ad esempio abbiamo gruppo di catechisti, un gruppo di persone che
collaborano per la liturgia in Chiesa, l’organista, il direttore del coro, tutte figure
che non sono deputate a compiti particolarissimi però riescono ad essere
trainanti e punti di riferimento. C’è una certa organizzazione che addirittura non
c’era nel passato (…). Naturalmente tanti auspicano che aumenti sempre di più.
Ritorno a dire che secondo me c’è di più che nel passato. Nel passato c’era ad
esempio l’aiuto del padrino che interveniva dando uno scappellotto al bambino,
però l’aiuto un po’ organizzato lo vedo di più oggi” (Don A. Pegorari, parroco di
Prata C.).
Aiuto organizzato, dunque. L’organizzazione di comunità è quindi quel
processo che può ridurre l’alienazione degli individui e condurli a una piena
partecipazione. Le organizzazioni di comunità, intese come gruppi organizzati,
possono contribuire alla rimozione di barriere sociali, ridurre i processi di
emarginazione verso i soggetti deboli e, nello stesso tempo, permettere alle
persone di superare i confini del ruolo di utenti/consumatori per divenire essi
stessi progettatori, gestori ed erogatori di servizi. Inoltre permettono agli
individui di superare il senso di impotenza, di acquisire fiducia nell’azione
collettiva e di sentirsi più capaci e più competenti, attraverso la constatazione dei
risultati delle azioni intraprese.
Aiutare le persone, soprattutto quando è fatto in maniera organizzata, è
insomma un altro obiettivo dell’organizzazione di comunità. Le persone possono
infatti imparare ad affrontare collettivamente i problemi che hanno di fronte e in
questo modo superare la convinzione che nessun cambiamento sia possibile. La
mancanza di conoscenze, di strumenti e il senso di impotenza sono proprio gli
aspetti che l’organizzazione di comunità intende modificare, risolvendo in modo
collettivo i problemi. Gli sforzi e gli apporti individuali vengono inseriti nell’azione
di un’organizzazione che ha più conoscenze e più potere degli individui presi
singolarmente e quindi vengono massimizzati.
Questa organizzazione di comunità è presente anche in provincia di Sondrio, e
si compone di numerosi attori sociali: l’operazione Mato Grosso, alcune
cooperative sociali, alcuni oratori veri, gruppi sportivi e teatrali, corali e bande.
Ma anche strutture psichiatriche diffuse capillarmente in ogni distretto sanitario e
che si affiancano a consultori che trattano le problematiche a livello familiare,
quindi a livello giovanile e adolescenziale. A quest’ultimo proposito va poi
segnalato il ruolo incompiuto della famiglia, a cui di fatto vengono demandati
questi servizi, ma che spesso è vittima di una rimozione del problema a causa
della vergogna provocata dall’onere del farsene carico.
Inoltre è stato appena varato un organismo di coordinamento per la salute
mentale dell’età evolutiva che raggruppa tutte le forze che si occupano
dell’infanzia e dell’adolescenza. Quindi: la neuropsichiatria dell’ospedale civile,
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l’ASL con tutte le sue componenti, l’ufficio disabili e il consultorio familiare, gli
uffici di piano, tutte le cooperative sociali e il volontariato, la scuola e gli uffici
per le tossicodipendenze.
E’ probabile che questo sia il modo migliore per fare prevenzione, tanto più
che quando emerge un problema, questo organismo di coordinamento si incarica
di assegnarlo alla struttura deputata a trattarlo. Il punto però è riuscire a
sensibilizzare e coinvolgere le famiglie come unico attore deputato ad attivare
questo organismo, ma soprattutto come attore che deve riuscire a vincere
l’atavica chiusura che gli impedisce di chiedere aiuto e di aprirsi alle opportunità
del territorio.
In fondo si tratta di una chiusura che interessa anche i gruppi organizzati che
sono stati indicati, una chiusura corredata da un’autentica mancanza di voglia di
confrontarsi e di “essere meno gelosi e invidiosi”. Parole che, di nuovo, sono di
don G. Pini, ma che potrebbero anche essere di qualsiasi altro nostro
intervistato.
In effetti, la mancanza o insufficienza di apertura è una posizione espressa da
più di un intervistato ed è il risultato di una incompiuta acquisizione di potere,
cioè della capacità degli individui di prendere le decisioni che riguardano la loro
vita.
Ora, affinché le persone possano prendere decisioni è necessario anzitutto che
imparino che ne hanno diritto, che non sono impotenti e che non dipendono
totalmente da coloro che governano la politica e l’economia. Il termine che
meglio sintetizza queste caratteristiche è quello di empowerment, che, tradotto,
significa infatti “acquisizione di maggiore potere”.
Quando le persone sentono di avere più potere si attivano assieme per
assumere il controllo e la responsabilità della loro vita, per risolvere i problemi e
per influenzare il sistema politico ed economico. L’organizzazione di comunità
comincia proprio cercando di dimostrare che è possibile acquisire più potere. In
sostanza, empowerment significa accrescere la propria possibilità di prender
parte attiva nel processo decisionale, accrescere la capacità di assumersi
responsabilità. E l’organizzazione di comunità mobilita le risorse attraverso:
l’incoraggiamento della partecipazione; l’eventuale raccolta di fondi dai membri;
la creazione di nuove relazioni con i mezzi di comunicazione; il reperimento di
nuovi alleati con altre organizzazioni; il rafforzamento negli individui dell’idea che
tutto questo si possa fare.
Per la verità, la comunità della provincia di Sondrio deve ancora in gran parte
comprendere che tutto questo si possa fare, la sua incompiutezza lo impedisce in
gran parte, nonostante le molte iniziative che sul territorio vengono attivate. La
partecipazione non è più quella di un tempo, si sono per così dire “svuotate” le
forme partecipative tradizionali, essendo ormai venute meno le figure locali più
rappresentative, le figure leader. Forme partecipative come la parrocchia, le
associazioni di categoria, perfino il partito, sono andate col tempo a perdere le
ragioni di una partecipazione elevata.
Nondimeno, in alcune aree della provincia, specie in quelle più piccole, vi sono
ancora manifestazioni popolari – civili o religiose – che raccolgono un consistente
afflusso di popolazione; manifestazioni come la festa della focaccia, processioni
religiose alla vita di associazioni come quelle degli alpini e comunque occasioni di
partecipazione per l’aiuto alle persone più deboli e marginali, continuano a
rappresentare momenti di aggregazione aperti a tutta la popolazione.
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Un panorama, quindi, variegato dal punto di vista della partecipazione e che
in ogni caso non può che essere altrettanto variegato per ciò che riguarda i
giovani. I punti di ritrovo per questa fascia di popolazione, infatti, non sembrano
più l’oratorio o il bar di paese, ma luoghi di socializzazione localizzati
prevalentemente al di fuori della provincia di Sondrio, in particolare sul lago di
Como, a Lecco e in provincia di Bergamo, come le discoteche in cui trascorrere la
notte.
I principali luoghi di ritrovo per i giovani devono quindi per lo più rispettare
una geografia sovraprovinciale, non più attenersi soltanto a una localizzazione in
sede locale. E in ogni caso configurano una partecipazione all’insegna di
quell’individualismo che abbiamo già visto parlando di atteggiamenti della
cittadinanza. Individualismo che comunque costituisce il principale problema per
i soggetti organizzati della comunità: famiglie, associazioni e istituzioni locali,
individualismo che infatti costituisce problema proprio perché le iniziative
intraprese per fronteggiarlo si sono quasi sempre mostrate inadeguate e prive di
risposte.
In realtà una risposta c’è, in particolare in alcuni comuni minori come ad
esempio Gordona: la risposta del tutto informale basata sul linguaggio, sulla
comunicazione intersoggettiva di persone che si intendono direttamente nel
linguaggio ordinario. Infatti, la provincia di Sondrio non è caratterizzata da un
unico linguaggio, vi sono invece dialetti locali che spesso prendono il
sopravvento sul comune linguaggio valtellinese e che per lo più rappresentano
l’autentico canale comunicativo dei cittadini.
“Lo dico con un po’ di enfasi; a me piace vivere in questo paese, perché
ritengo a differenza di altri paesi vicini ma anche di altre zone, sono un po’ le
cose che ci salvano perché nelle occasioni di manifestazioni popolari, religiose,
civili e via dicendo, c’è ancora una grossa partecipazione (…). Un altro fenomeno
di cambiamento specialmente per i ragazzi, i punti di ritrovo non sono più il bar
o l’oratorio almeno dopo una certa età, ma spesso sono punti di ritrovo che
vanno al di sopra della dimensione paese e addirittura punti di ritrovo,
specialmente per i ragazzi che non sopportano il localismo, fuori provincia. A me
consta di ragazzi giovani che vanno in Valtellina, sul lago di Como, a Lecco a
Como o addirittura si trasferiscono nottetempo in discoteche che stanno in
territorio bergamasco o bresciano (…). Io personalmente credo che uno degli
antidoti anche proprio ad una degenerazione di rapporti e tante cose, sia
costituito proprio dal linguaggio locale, il nostro linguaggio, semplicemente
dialetto gordonese” (D. Battistessa, gestore del Pub “La Boggia”).
Il linguaggio di intesa, quindi, sarà anche locale, sarà anche articolato in tanti
dialetti, ma in ogni caso costituisce un vero e proprio antidoto all’individualismo
imperante. La sua principale funzione, soprattutto quando (cioè sempre)
declinato in dialetto locale, è quella di stemperare l’ansia, di agevolare la
comunicazione tra soggetti che magari prima non si conoscevano neanche. Il
linguaggio locale produce insomma una sorta di complicità tra gli interlocutori,
un’aggiunta di simpatia e cordialità alla comunicazione formalizzata in stereotipi
istituzionali o comunque consuetudinari.
Quindi, questo linguaggio non ha nulla a che fare con la retorica attualmente
diffusa del “politicamente corretto”, nulla a che fare con l’imperativo di essere
comunque accettabile dall’opinione comune. Molto più importante è capire e farsi
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capire con le persone con cui si entra normalmente in rapporto, cioè con persone
che magari non si conoscono, ma che comunque vivono e frequentano lo stesso
comune o la stessa zona.
Per questa via sembra farsi strada una nozione di linguaggio pienamente
accettata da linguisti e glottologi qualificati: il linguaggio non è la semplice
riproduzione in chiave descrittiva della realtà sociale; è invece realtà sociale esso
stesso, componente ineliminabile del mondo al quale si appartiene.
Ora, questo mondo potrà anche essere una comunità incompiuta, ma il
linguaggio conserva il suo carattere sostantivo, “costitutivo”, anche in questa
provincia. Se poi configura le vesti di antidoto all’individualismo preponderante,
tanto meglio: la comunità non potrà che trarne beneficio, anche per diventare
definitivamente compiuta.
Le tre varianti culturali del rapporto tra comunità e suicidio
Il fenomeno del suicidio è particolarmente complesso, avendo implicazioni di
diversa natura (psicologica, sociale, culturale, economica, etc.). Il punto di vista
qui adottato intende indagare, in particolare, il rapporto tra suicidio e
integrazione sociale, intesa come capacità/volontà della comunità locale di
percepire ed elaborare il fenomeno, nonché di intervenire sul corso degli eventi
in forma preventiva.
Il background sociale e culturale che secondo gran parte degli intervistati
avrebbe a che fare con i fenomeni di suicidio rimandano molto spesso alla
difficoltà con la quale la società locale affronta, o meglio forse non affronta, i
cambiamenti che la investono ormai da qualche decennio su diversi fronti.
Secondo alcuni intervistati “le motivazioni che portavano al suicidio erano
molto più morali”, mentre oggi “avrebbero più a che fare con fenomeni di disagio
psicologico e di disordine psichico”, oppure “Pensando ai suicidi mi pare di
ravvisare che se oggi il suicidio è più per depressione, un tempo era più per
disperazione”. Con ciò non riferendosi tanto alle eredità di lungo termine della
consanguineità o come effetto di tare derivanti da patologie sociali come
l’alcolismo, quanto per una difficoltà che attengono alla sfera delle relazioni
sociali (a partire da quelle famigliari).
Come testimoniato dalla letteratura sui processi culturali i significati collettivi
attribuiti a temi quali il suicidio o gli schemi cognitivi applicati alla sua
interpretazione, tendono a mutare nel tempo molto lentamente. Per questi
nell’ambito della presente ricerca abbiamo cercato di adottare una prospettiva di
lunga durata che permettesse di evidenziare la stratificazione dei significati
attribuiti al fenomeno del suicidio in rapporto alla sua origine sociale. Ciò non
significa in alcun modo suggerire che il suicidio sia un fenomeno di esclusiva
origine sociale. Vi sono altrettante cause biologiche o psicologiche, ma in questo
contesto ciò su cui si intende porre l’attenzione sono le modalità sociali
attraverso viene percepito ed elaborato il suicidio. Da questo punto di vista è
importante comprendere, ad esempio, se esista per gli intervistati un quadro
interpretativo del fenomeno condiviso e ciò non solo per un puro interesse
antropologico ma soprattutto perché siamo interessati a comprendere se per i
nostri interlocutori di con-ricerca vi sia un rapporto, ed eventualmente di quale
natura, tra suicidio e qualità del legame sociale. Ciò ovviamente nell’ipotesi che
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uno degli ingredienti che qualificano il valore di legame sia la presenza di schemi
culturali di interpretazione del fenomeno condivisi. Tale condivisione di significati
funge da collante culturale di ciò che siamo soliti chiamare comunità, qui
considerata come ambito relazionale delimitato territorialmente connotato da
intimità, profondità emotiva, impegno morale e attenzione alla persona nel suo
complesso, piuttosto che ai suoi ruoli sociali (padre, madre, lavoratore, membro
di associazione, sindaco, insegnante, etc.).
La condivisione di significati attribuiti al suicidio è in genere il prodotto di una
qualche autorità morale riconosciuta dai membri di una determinata comunità.
Per questo, e lo si vede nelle interviste, è anzitutto sull’analisi di quelle fonti di
autorità che molto spesso si intrattiene l’attenzione degli interlocutori territoriali.
“Non esistono quei gruppi, quel contesto generale dove si condividevano modi
di pensare e che avevano valori simili nell’educazione; oggi questo substrato si è
disgregato si è suddiviso in molti rivoli (dal punto di vista mentale ed educativo),
è venuta meno la società in quanto tale e il suo aspetto di controllo sociale”.
(Don A. Balatti, Parroco di Chiavenna)
In effetti se c’è un aspetto sul quale tutti gli intervistati concordano questo è
rappresentato dalla crisi drammatica di quel corpus di significati, cui
evidentemente sottostanno dei valori (a questo proposito un intervistato parla di
“patrimonio prezioso violentato dalla modernità”), che davano forma e sostanza
ai rapporti sociali. A ben vedere è possibile individuare tre varianti nel modo di
considerare questa crisi e, conseguentemente, di immaginare prospettive per il
futuro delle forme di convivenza.
La prima variante, piuttosto significativa dal punto di vista della capacità di
rappresentare un sentimento diffuso, delinea un lunga fase storica nella quale è
prevalsa un’uniformità di significati culturali e di schemi cognitivi così stringente
da apparire irrealistica.
“E’ una società che cerca di trovare gloria nel passato, si cammina in avanti
ma ci si guarda indietro per recuperare un passato che è stato glorioso da tanti
punti di vista (artistico, storico, professionale..) e allora si cerca di recuperare,
restaurare, ricordare, ripristinare. Oggi forse c’è poco di cui gloriarsi e si
rimpiangono alcuni personaggi del passato e si vive cercando indietro dei
conforti o delle glorie e il problema forse è quello di dire, ma cosa lasceremo noi
oggi di valido perché gli altri si ricordino di noi nel futuro? […] Abbiamo fenomeni
legati a forme politiche localiste, di recupero dell’identità, che vorrebbero
salvaguardare il passato a cui guardano con nostalgia, e nel tentativo di
difendere le cose proprie e guai a chi me le tocca, poi però rischiamo di perderle
per conto nostro prima che ce le rubino gli altri”. (Don A. Balatti, Parroco di
Chiavenna)
Vi è qui un’idealizzazione del passato così statica e talmente risolta da indurre
l’idea che si tratti dell’espressione di una selezione compiuta da una memoria
collettiva che risente di un giudizio sul presente molto negativo. Un presente
connotato da smarrimento e da paura, da fatalismo e senso di solitudine che
induce nostalgia per “ciò che non è più”. Tra costoro prevale una lettura sociale
del suicidio quasi sempre riconducibile alla categoria del suicidio egoistico di
Durkheim. Il suicidio egoistico sarebbe il prodotto di un eccesso di
86
individualismo: la persona si sente estranea al proprio gruppo, e il dislivello fra i
propri desideri e la loro possibilità di realizzazione nell’ambito della società
diventa a poco a poco incolmabile; gli unici obiettivi non vanno al di fuori di noi
stessi. L’io prevale sulla vita collettiva, vi è uno smisurato sviluppo dell’ego, il
legame che unisce l’uomo alla vita si allenta proprio perché il legame che lo
unisce alla società si è a sua volta allentato.
La seconda variante, meno diffusa ma affluente, si caratterizza per una
visione tesa a sottolineare come il quadro dei significati che un tempo
accomunava tutti i membri della comunità locale, compresa l’interpretazione del
suicidio, più che essere connotato da uniformità si caratterizzava per una forte
spinta alla conformità, anzi al conformismo come vera e propria determinante
ideologica del legame sociale. Sarebbero stati questi eccessi conformisti ad
indebolire le capacità plastiche della cultura locale e a renderla incapace di
adattarsi alla modernità con la sua cultura contrattualista della cittadinanza e
l’enfasi posta sull’individuo come soggetto di diritti e di doveri. Lo spiazzamento
vissuto da questo segmento di intervistati risiede però nella constatazione che
all’auspicabile depotenziamento del codice comunitario non si è accompagnato
quel processo di emancipazione degli individui che avrebbe dovuto renderli, in
prospettiva, cittadini del mondo. Alla profonda crisi del corpus dei valori
comunitari e della loro capacità di uniformare i punti di vista su eventi
drammatici come il suicidio, è semplicemente subentrato un culto dell’individuo
(individualismo) e una riduzione della persona a consumatore. In questa visione
il suicidio subisce un passaggio interpretativo. Da una parte viene considerato di
natura altruistico/fatalista perché espressione di un eccesso di coesione sociale
dove l’io è completamente annullato, ma non in senso repressivo, l’individuo non
ha scelta, è soggiogato alla sua società che lo tiene troppo legato a sé, e preme
per condurlo a distruggersi quando egli sente di non essere all’altezza delle
aspettative sociali. Oggi diviene invece suicidio anomico, come espressione di
una mancanza di regole sociali e schemi culturali condivisi che abbiano l’autorità
per guidare e disciplinare l’individuo.
“Un immagine che riprendo dal mondo agricolo: una specie di stalla, dalla
quale stanno scappando un po’ di buoi e si è li alla porta a tentare di tenerli
chiusi, alcuni stanno dentro non vogliono uscire, altri vogliono scappar via non
vogliono più rientrarci. Quelli che stanno dentro amano alla follia la stalla dove
stanno e quelli che escono spesso gli dà fastidio la puzza di quella stalla”. (Don
N. Pedrana, Parroco di Grosio)
La terza variante in gioco nell’interpretazione del rapporto tra suicidio e
significati sociali ad esso attribuiti rimanda ad una visione del passato piuttosto
simile a quella di coloro vi guardano con ammirazione e nostalgia. Qui però più
appare più vivo un atteggiamento critico verso il passato, o meglio vi è una
consapevolezza sofferta dei limiti di una cultura che ha saputo, da una parte,
assicurare coesione e integrazione sociale, dall’altra ne ha progressivamente
sacrificato le istanze di partecipazione, specie quelle non conforme al codice
morale egemone. Tra costoro si è fatta strada la consapevolezza che le strutture
di significato condivise non sono date una volta per tutte, in altre parole non
sono eterne, ma possono e devono essere alimentate dal confronto, talvolta
anche dal conflitto, con il diverso, con l’altro da sé. Il che sembra prefigurare una
diversa concezione del rapporto tra socialità e suicidio in ragione di una diversa
87
modalità di immaginarsi il futuro dei legami sociali. Non il ritorno all’uniformità
culturale di un tempo, ottenibile solo con la chiusura 16 della comunità ed una
visione regressiva dei valori ad essa associati, ma piuttosto scommettendo sulla
possibilità di ridare nuova linfa alla persistente “voglia di comunità”.
“Si arriva sempre un po’ dopo, si ha da una parte paura di interrogarsi, quindi
questa cosa crea freddezza e indifferenza, e dall’altra parte un legame a dei
valori che sono troppo radicati e che in un contesto come oggi di globalizzazione,
fanno fatica a stare in piedi, si va indietro e si sta male e non si reagisce, perché
non è che una realtà come questa debba diventare per forza metropolitana,
perché non saremo mai Milano, però c’è anche un’opportunità, portare la
globalizzazione qui con tutti i pregi e i difetti che ha, vuol dire costruire dei
modelli di convivenza sociale che possono stare in piedi prendendo un po’ dal
fuori, un po’ da quello che c’è qui, perché comunque tante risorse, anche quelle
ambientali, climatiche piuttosto che naturalistiche, piuttosto che alcuni aspetti
tipo il risparmio, il fatto di essere dei lavoratori, sono elementi che fanno parte di
questo territorio, che non vanno assolutamente tolti, però credo che manchi quel
qualcosa che faccia sì che questi aspetti caratteristici della vita qui si possano
rinnovare un po’ sulla base di quello che avviene nel mondo, fuori da questa
catena di montagne.” (M.Bevilacqua, direttore Coop Insieme)
Da questo punto di vista una delle componenti più rilevanti di questa
scommessa passa dal delicato equilibrio tra significati condivisi collettivamente e
significati attribuiti dai singoli individui. E questo, come vedremo, vale anche per
il suicidio. E’ infatti impensabile ristabilire un’autorità morale secondo i vecchi
criteri della comunità primaria (anche di quella ecclesiastica) che definisca
significati condivisi, senza lasciare quegli spazi di definizione indispensabili ad
attivare la partecipazione degli individui. In relazione alla questione del suicidio,
ad esempio, la concezione secondo cui la radice sociale di questo fenomeno sia
da individuare nell’anomia, che nella accezione classica fa risalire alla mancanza
di un autorità morale fonte di significato per gli individui la causa principale del
suicidio, non appare sufficiente. O meglio deve essere adeguata a tempi in cui i
processi di individualizzazione sono in qualche modo irreversibili. In sostanza la
radice sociale del suicidio mantiene la sua matrice relazionale, cioè il suicidio è
prodotto da un deficit relazionale, ma non è quasi più, o non solo, un problema
che attenga alla mancanza di una definizione sociale condivisa, ma piuttosto
all’effettiva consapevolezza che si tratti un tema che ha nel campo delle relazioni
sociali variamente intese una chiave fondamentale per affrontare il problema e le
iniziative di prevenzione.
La rappresentazione sociale del suicidio
Solitudine e isolamento
16
Max Weber: “Un rapporto sociale, a prescindere dal suo carattere comunitario o associativo, verrà definito come
“aperto” ad elementi esterni se, e nei limiti in cui, la partecipazione all’azione sociale, nel suo significativo
soggettivo, non è, secondo il suo ordinamento, negata a nessuno che desideri parteciparvi e sia effettivamente in
condizione di farlo. Al contrario un rapporto sarà definito “chiuso” ad elementi esterni nei limiti in cui, conformemente
al suo significato soggettivo e alle regole imperative del suo ordinamento, la partecipazione di certe persone venga
esclusa, limitata o sottoposta a condizioni”. M. Weber “Economia e società”, Edizioni di Comunità
88
Come sottolineato da più parti se vi è un elemento comune alla base di un
così rilevante tasso di suicidi in provincia questo è la solitudine, condizione
esistenziale che evidentemente non è precipua dei valtellinesi, ma che qui
sembra trovare terreno particolarmente fertile. Una solitudine che, secondo gli
intervistati, ha origini lontane, nell’intreccio tra un ambiente geografico che
tende ad ostacolare le comunicazioni ed una dimensione antropologica che ha
introiettato, nel corso dei secoli, una forte propensione all’autosufficienza,
accompagnata da paura del confronto con i limiti, quelli dati dalla natura ma
anche quelli personali.
Così, secondo alcuni intervistati, uno dei caratteri storici del valtellinese “è il
suo essere uomo in fuga”, alludendo con ciò proprio alle difficoltà incontrate dalle
persone nel confronto con ciò che sta oltre i confini mentali consuetudinari, alla
diffidenza nei confronti delle cerchie sociali che si allargano dal nucleo famigliare,
alla forte propensione alla delega nella sfera del dibattito pubblico che ne
determina una scarsa partecipazione.
“Io penso che una persona dia sempre segnali e, con il senno di poi,
pensandoci bene, di segnali ne aveva anche dati, soltanto che non si colgono
perché purtroppo siamo tropo chiusi in noi stessi; è una vita troppo
individualistica la nostra; soprattutto, secondo me, manca completamente il
senso della responsabilità nei confronti degli altri cioè noi riteniamo che ognuno
è responsabile al limite per la propria famiglia, per i figli, per i propri amici, ma
non oltre”. (C.Dell’Oca, Avvocato)
Il tutto a segnalare una fragilità sociale che si riflette anche nell’attualità, oggi
che il paesaggio culturale è pur molto cambiato e che l’isolamento fisico non può
più essere realisticamente additato a fattore di disagio che favorisca gesti come il
suicidio, seppur qua e là questa opinione non è del tutto tramontata:
“Allora, la causa, secondo me prima e assoluta, è quella dell’isolamento. Io
credo che qui c’è questa sofferenza, può darsi che sia anche un fatto genetico,
però c’è questa lontananza dal resto del mondo che è una delle componenti più
importanti”.(G. Gandola, direttore “La Provincia”)
“Per quanto vissuto il suicidio è un atto estremo non improvvisato ma
in molti casi lucidamente pensato, però dettato da stati forti di
depressione, da uno che vive una profonda solitudine che non trova
nessuno a cui riferire. La solitudine credo che la si viva anche in
situazione anche di isolamento territoriale nella nostra zona, la
provincia di Sondrio ai margini, tra le montagne”. (C.Toini, Assessore
Comune di Grosio)
89
Una fragilità che oggi si sostanza in una sorta di mancanza di esercizio
assimilativo, un po’ come se il corpo sociale non avesse sviluppato a sufficienza
quegli enzimi necessari a metabolizzare i cibi di una dieta culturalmente variata,
scatenando nei suoi soggetti più fragili fenomeni di rigetto, di smarrimento che
diventa disordine mentale, sino a diventare stigma e marginalizzazione:
“Disordine mentale non nel senso psichiatrico ma piuttosto nell’organizzare le
priorità della propria vita. Quando queste cose fanno corto circuito, esplode la
solitudine la disperazione, la follia, il suicidio”. (D. Battistessa, gestore del Pub
“La Boggia”).
“Viviamo in un ambiente chiuso, con poco sole, questo porta alla chiusura
anche nelle persone, a volte non hanno interessi per qualunque cosa oppure
sono ossessionate dalle cose più banali, mancano di adeguatezza alla vita
quotidiana, a volte vivono problemi legati alla psiche o alla dipendenza da
farmaci. Una persona che ha tentato il suicidio, poi, non si integrerà più, perché
sarà visto sempre con occhi diversi dagli altri”. (A.Vairetti , farmacista Tirano)
“Ci sono legami ristretti che però non tengono più di fronte alla complessità,
alla modernità, per cui uno avverte anche un senso di solitudine nel dover
portare questa confusione, è facile che uno si sente molto solo, per cui anche la
cosa più drammatica non riesce a comunicarla, perciò minimamente a
condividerla”. (Don B.Galli, Vicario Episcopale)
“È un atteggiamento tipico anche di altre valli, in Trentino piuttosto che…il
fatto che essendo una realtà piccola…a Milano che ne so uno fa una cavolata va
da un’altra parte e ricomincia da capo, qui invece sei segnato, magari hai fatto
una sciocchezza, ti sei fatto conoscere, hai fatto conoscere un aspetto negativo
della tua persona sei segnato, tu non hai più speranze, allora ti chiudi. Vedo che
tante volte alcuni si chiudono per questo percui fanno fatica a parlare, il
Valtellinese prima di farlo parlare…” (Don L. De Petri, Parroco di Poggiridenti)
La sostanza di ciò che viene genericamente chiamato disagio sociale, come
segnalato da più di un intervistato, si compone di una solitudine figlia della
mancanza di quelle forme di protezione sociale un tempo incarnate da persone
che rappresentavano soggetti sociali ben precisi.
“Il disagio sociale è composto da più fattori, ma l’elemento prevalente è la
solitudine. Infatti, se un tempo si cresceva e viveva all’interno dello stesso
gruppo di persone e luoghi e quindi si era diciamo un po’ protetti da tutto
questo, potendo anche rivolgersi in caso di problemi ad alcune persone e figure,
come i parenti, un confidente, il prete, la suora, il maestro, l’ostetrica, etc.
invece oggi, malgrado, le possibilità di cambiare ambiente, conoscenze, si
accresce appunto il fenomeno della solitudine e di tutti gli altri elementi che
caratterizzano questo fenomeno”. (S.Scuffi, insegnante in pensione Samolaco)
Come fa notare l’intervistato sembrerebbe che l’accresciuta libertà di poter
“cambiare ambiente” non venga percepita come un’opportunità di poter ricercare
attivamente esperienze più consone alle proprie aspirazioni e ai propri desideri,
ma piuttosto diventa anticamera di sentimenti di abbandono, caduta
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dell’autostima, senso di inadeguatezza, etc. Un segnale di questa difficoltà
nell’uso della libertà è rinvenibile anche tra coloro che pure una scelta l’hanno
compiuta:
“Ma io vedo anche solo adesso in università, penso ai giovani della Valtellina
che la maggior parte si deve trasferire a Milano o a Pavia per studiare e possono
rischiare di essere un po’ soli: vanno all’ università a lezione, poi tornano a casa,
si gira con la stessa gente con la quale si girava prima, non ci si apre tanto…non
vivono molto l’Università e quindi è ancora un’occasione di solitudine”. (M.Folini,
Studente universitario)
“La Valtellina è una culla che accoglie e vizia un pochino i suoi abitanti, sei in
un ambito conosciuto che ti avvolge e ti da un forte senso di appartenenza.
Questo però è anche un limite perché se tu cerchi di fare qualcosa che esca dalle
principali attività non sei più omologato e vieni visto come una persona che non
sta alle regole, se vai fuori ti senti perso. Tanti ragazzi non riescono ad andare a
studiare fuori perché hanno questa culla che li accoglie, poi si sentono
completamente spersi, è una cosa normale, quindi penso che ci siano tanti fattori
che portano in certe situazioni ad avere un senso di solitudine. Se un ragazzo ha
delle problematiche che in un altro ambito potrebbe sviluppare, qui appunto
perché è in un ambiente protetto non riesce ad esternarle, a trovare sfogo a
queste cose perché troppo controllato anche di quello che è l’ ambiente, non
riesce ad esprimersi come vuole. Anche un adulto che magari ha dei problemi ha
lo stesso tipo di disagi, uscire è difficile. Vedo anche per me frequentare i corsi di
aggiornamento devo uscire, andare oltre quelle che sono queste barriere naturali
che ti proteggono e delle volte ci si fa prendere dalla pigrizia nel muoversi, però
spesso questo ti limita e ti taglia le gambe a livello inconscio perché hai delle
necessità che non riesci a sviluppare. Quello che dico anche ai ragazzi e alle
persone è che bisogna uscire dalla Valtellina e scegliere di tornare, perché vedi
com’è il mondo fuori e capisci che qui sì che ci sono tante cose positive, ma non
dire qui è il centro del mondo senza conoscerlo. Questo secondo me è un limite”.
(E.Mazzoni, Sor Optimist)
Legato a questo aspetto vi è anche quello che un intervistato ha chiamato un
problema che attiene alla cultura delle emozioni come, da etimologia,
coltivazione della facoltà di esprimere, letteralmente portare fuori, ciò che
sentiamo all’interno.
“L’individuo vuol farcela da solo e non vuol farsi aiutare, ha difficoltà, pur
conoscendo l’esistenza di strutture, a chiedere aiuto, si ritiene abbastanza forte
per affrontare il problema che lo assilla inoltre ha un senso di vergogna a
condividerlo con altri”. (P.Capobianco, psichiatra Sondrio)
“C’è da dire, però, che il territorio valtellinese è caratterizzato da una scarsa
capacità di relazione umana e di espressione delle emozioni. Qui le persone
tendono a vivere le emozioni (dolorose, tristi, di preoccupazione, di depressione)
nel proprio intimo e a non comunicarle neppure, talvolta, alle persona che hanno
vicino. Questo è anche un fenomeno prettamente culturale, che spinge all’
individualismo. “Ognuno si arrangi, ognuno cerchi di risolvere i propri problemi”.
Questo modo di pensare sembra dare dignità alla persona: “sei un vero uomo se
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sai arrangiarti e se trovi una soluzione ai tuoi problemi”.Questo è un gravissimo
stereotipo culturale laddove, invece, la forza dell’uomo sta nella sua capacità – a
volte nell’umiltà - di condividere e di chiedere aiuto. […] E’ come se il dialogo
fosse meno rilevante, forse meno utile, meno edificante dell’ azione, dell’ agire
continuo”. (C.Dettin, psicologa CPS Bormio)
“Io mi ricordo di una persona che abitava di fianco a casa mia che si è tolta la
vita, la conoscevo di vista. La mia reazione è stata quella di non pensarci, di far
finta che non fosse esistita questa cosa, però poi anche da artista l’unico modo
per uscire da questa cosa è stato per me scrivere, facendo un lavoro di
rielaborazione emotiva di quello che è successo a questa persona. Una realtà
come la nostra non è educata a una cultura delle emozioni, cioè non ha una
cultura della rielaborazione emotiva di quello che succede, perché si è molto
mentali, molto lavoratori, molto costruttori di case, si è molto mentali, molto
fisici, ma si è molto poco emotivi. Questo ping pong tra il mentale e il fisico che
non lascia spazio all’emotivo, secondo me la cosa che affossa”. (M.Bevilacqua,
direttore Coop Insieme)
Del resto se è vero che emozioni come tristezza, rabbia o paura sono
sentimenti universali è anche vero che la cultura ne condiziona la produzione e
l’espressione. A suscitare in noi tristezza o gioia sono i significati che noi
attribuiamo ad un evento. La condivisione di tali significati è sintomo di una
cultura condivisa. Il punto è che, ancora una volta, sembra essersi
silenziosamente compiuto un passaggio da una cultura delle emozioni represse,
o quanto meno iper-regolate socialmente, ad una cultura delle emozioni effimere
e fortemente individualizzate e quindi svincolate dai valori che le
accompagnavano oppure prive di nuovi valori subentrati a quelli tradizionali.
“Il tutto diventa a seconda di ‘se mi interessa’, che è giusto ma non fino in
fondo, cioè il dubbio diventa: ci sono perché ci credo, o ci sono perché
l’emozione mi porta ad esserci in quel momento?” (Don G. Pini, Tremenda XXL)
A proposito di questa “involuzione silenziosa” non pochi intervistati, siano essi
sindaci, parroci o insegnanti, riconoscono in modo più o meno esplicito l’indubbio
spiazzamento indotto dalla modernità, sia che si parli di coesione sociale (per i
sindaci), sia che si parli di valori (per i parroci), sia che si parli di missione
educativa (insegnanti).
Da questo punto di vista non c’è dubbio che l’ambito nel quale è più evidente
il disagio di fronte alle questioni del moderno dove libertà e complessità vanno di
pari passo e il confine tra solitudine e iperstimolazione è molto sottile è il mondo
giovanile.
“Io credo che una persona non arrivi al suicidio per un motivo, quando sento
una ragazza che si è suicidata perché è stata lasciata dal fidanzato, il ragazzino
che si è suicidato perché ha preso un brutto voto a scuola, fatico a pensare che
una persona arrivi ad uccidersi per un motivo, sicuramente è frutto di un disagio
che deriva da più situazioni, in cui incide tantissimo il senso di solitudine, dico il
senso di solitudine perché poi arrivano a fare questi gesti persone che in realtà
non sono sole, però hanno la percezione della solitudine”. (M.Nava, giornalista
Tirano)
92
Certo si tratta di una popolazione iperstimolata, almeno se guardata da un
occhio adulto, e quindi sempre alla ricerca di dispositivi simbolici atti a ridurre,
sin troppo drasticamente, la complessità dell’ambiente nel quale sono immersi.
Gli aspetti positivi del potere di immaginare, della capacità di veder molte cose e
di avere molte opportunità, trovano nell’ansia dell’incertezza una contropartita, il
cui prezzo a volte è molto alto. Vivere in un sistema complesso significa da parte
dell’attore poter dilatare la dimensione dei possibili. Si è di fronte ad una
possibilità che può presentarsi sproporzionata alle dimensioni reali
dell’esperienza. Conseguenza di questa eccedenza è la presenza costante del
problema della “scelta”. Essa costituisce un modo per semplificare l’incertezza
che pervade la vita quotidiana. Incertezza significa moltiplicazione delle
possibilità culturali percepite dai soggetti, alle quali non corrispondono effettive
possibilità di realizzazione. Sul piano dell’immaginario l’individuo può essere
protagonista di diverse biografie ma il surplus di possibilità virtuali non sempre si
traduce in realtà. Venendo dunque a mancare le possibilità di progettare se
stessi all’interno di ruoli predefiniti, si fa di necessità virtù: il rifiuto del progetto,
o la sua sospensione, lo scansamento delle scelte che possono precluderne altre,
la rivalutazione del presente come tempo per la sperimentazione di identità
possibili, come tempo per le prove di una rappresentazione, o meglio di una
trama, sono tutti comportamenti riferibili alla necessità di tenere aperto
l’orizzonte delle opportunità e di poter negare le scelte già compiute, delegando
al tempo il compito di eliminare definitivamente parte delle possibilità.
Considerato dal punto di vista del legame sociale ciò significa avere di fronte
individui che ondeggiano continuamente tra un universo di legami deboli, di
reversibilità delle scelte, e non di rado di difficoltà ad assumersi responsabilità e
un universo di legami forti, di carattere tribale, con forte adesione ai codici
interni e rituali di accesso primitivi.
“Purtroppo devo dire P. ha avuto casi di suicidi, proprio anche in età giovanile
e anche negli ultimi anni. La cosa triste è che sembra che questi giovani
appartenessero comunque a famiglie che non mostravano un disagio evidente,
famiglie che sembravano attrezzate per una capacità di ascolto di un
adolescente. Evidentemente, non è proprio così. Io credo anche, e questa è la
mia percezione, forse sbagliata, che la maggior parte delle famiglie, abbia in
casa degli extraterrestri, cioè i giovani davvero non li si conosce più”.
(M.Simonini, Sindaco di Piateda)
“Io personalmente penso che sia un atto di puro egoismo, chi fa una cosa del
genere non pensa al male che fa alle persone che gli vogliono bene, proprio non
li sfiora. Però la società, non so, forse ripeto non ha tempo, si apprende la
notizia e se ne parla ma il giorno dopo cambia già tutto… Secondo me il territorio
e le strutture non c’ entrano niente; è un po’ tutta la società nel suo insieme:
ripeto la gente si sente sola, non c’è nessuno che le dà retta, che l’ ascolta, tutti
di corsa, magari una persona vorrebbe confidarsi ma non lo fa. La gente viene a
confidarsi con me, non è logico che soprattutto un ragazzo venga a confidarsi
con una barista che non conosce quasi nemmeno all’infuori del saluto; c’è molto
distacco in particolar modo nei ragazzi. Rimango del parere che quando una
persona ha dei problemi la famiglia, gli amici se ne accorgono”. (S.Corradini,
barista Piateda)
93
Di fronte a questo smarrimento il mondo adulto cerca di interrogarsi e darsi
qualche risposta. Da una parte si cerca fatalmente di tornare ai vecchi codici
culturali dentro i quali ritrovarsi e riconoscersi, dall’altra vi è una crescente
consapevolezza che le persone non sono forse più disposte a tornare indietro,
che nel loro peregrinare cercano di individuare nuove strade e nuove forme
espressive che possono essere considerate pericolose, “al limite della creatività”,
ma che testimoniano di una ricerca di senso e di fiducia nelle proprie possibilità
di lasciare la propria impronta nel mondo.
“Dal mio punto di vista mi viene da pensare che qui da noi c’è un intelligenza
molto acuta, viva, che però è al limite della creatività e posso quasi dire della
pazzia. Trovo che qui c’è una vivacità di intelligenza superiore che altrove, ma
col rischio che travalichi, per cui puoi diventare una persona veramente capace,
ma è subito fatto a pendere dall’altra parte e a perdere il controllo, perché
intelligenze molto capaci, molto creative, molto inventive. Questo aspetto
potrebbe essere una caratteristica: dove c’è questa vivacità c’è più il rischio di
cadere in una forma di irragionevolezza. Questo l’ho pensato ogni tanto: a C. c’è
certamente un tasso di creatività superiore rispetto agli altri paesi dove sono
passato, che c’era più una monotonia, più una normalità di vita, senza picchi
particolari. Qui c’è una tendenza artistica molto più marcata che altrove, per cui
c’è una voglia di stupire, di cercare di esprimerti: l’ho trovato più qui questo
aspetto particolare; che è forse data anche dalla curiosità, dal non accontentarsi
di quello che la vita ordinaria, l’ambiente ti offre, il volere andare oltre; questo ti
porta ad esagerare magari ad eccedere. Ti rende anche più fragile, perché se
devi provare, sperimentare così, non cogli il pericolo, quindi una certa fragilità.
Uno che in fondo ha paura di sbagliare si accontenta di quello che è, non diventa
il genio ma non diventa neanche quello che si butta via, è un po’ più monotono è
un po’ più frenato. Quando invece uno è più coraggioso osa di più, può buttarsi
dalla parte giusta ma può buttarsi anche dalla parte sbagliata. Cioè trovo un po’
questo come caratteristica, di gente estrosa, di gente anche vivace ma che a
volte non coglie il pericolo, il limite, per cui dopo ti trovi dentro situazioni da cui
non è facile tornare indietro, ti disperi” (Don A. Balatti, Parroco di Chiavenna )
Certo la successione creatività=follia=rischio di suicidio appare forse un po’
obsoleta di fronte ad un mondo in cui di creatività è infarcito qualsiasi messaggio
culturale con il quale abbiamo a che fare (specie i giovani “extraterrestri” di cui
sopra), in cui la creatività diventa sempre più risorsa identitaria e professionale
diffusa e non più limitata all’empireo dell’arte o della kultur. Infatti non si tratta
di una questione di cultura con la C maiuscola ma piuttosto di ragionare intorno
ad una visione della creatività come uno strumento di civilizzazione e non come
fattore di ulteriore confusione culturale:
“L’isolamento geografico lo intendo come chiusura mentale. Tutti gli altri
fattori sui quali si discute come il benessere, la mancanza di figure di
riferimento, problemi all’interno della famiglia, la scarsità dei servizi sociali di
prevenzione rappresentano sicuramente motivi che possono indurre una
persona a compiere un gesto come il suicidio, ma il motivo principale resta
per me la mancanza di proposte culturali diverse. Una società che non offre
94
opportunità sociali è
(D.Benedetti, regista)
una
società
chiusa
e
favorisce
l’isolamento”.
Non stiamo parlando quindi di creatività come puro intrattenimento per gli
individui, né, tanto meno, di espressione artistica ma piuttosto di un approccio
mentale ad una realtà complessa proattivo, orientato alla sperimentazione
sociale, culturale, istituzionale in vista dell’abilitazione delle persone a
considerare il moderno come un’opportunità di mangiare futuro e non solo come
qualcosa da temere. La creatività non vuole quindi qui avere a che fare con la
genialità o con l'intensità della vita affettiva profonda, ma con la capacità di
collegare gruppi diversi di informazioni per arrivare a formulare o a risolvere un
problema (problem solving/problem making). Mentre la tradizione tende a
sottolineare la coincidenza tra genio e creatività, tra esperienza eccezionale e
momento creativo, qui si intende orientare la riflessione su dimensioni
quotidiane, che tendono a indicare come l'attività creativa sia parte dei processi
cognitivi ordinari e sia influenzata dal contesto relazionale.
La sfida della complessità, che si prefigura difficile e dall’esito tutt’altro che
scontato, può essere vinta solo grazie ai nuovi contenuti cognitivi che
caratterizzano l’identità delle società complesse. Un’identità rigida, precostituita,
ascritta come eredità dell’ordine sociale esistente e accettata dall’individuo, non
potrebbe reggere il confronto con la complessità variabile dei mondi sociali. Solo
un’identità mediata cognitivamente dal singolo, risultato di un complesso
costrutto di relazioni sociali, riconoscimenti e coinvolgimenti, può essere in grado
di rispondere alle sollecitazioni delle molteplici vicende dell’io senza perire e
disintegrarsi, può dare significato ad un progetto di vita i cui orizzonti si dilatano
e si ridisegnano giorno dopo giorno. Si realizza così quella mappa dell’esistenza
che consente all’individuo di collegare ogni punto del proprio progetto passato,
presente e futuro all’insieme dei suoi significati sociali. L’identità che si prefigura
in questo complicato processo forma l’esperienza reale del sé, il disegno
dell’esistenza dell’uno nella pluralità dei mondi della vita sociale.
Excursus sulle trasformazioni familiari
Quale che sia l’interpretazione dei processi sociali e culturali che
determinerebbero l’aumento del rischio di trovarsi soli e smarriti di fronte alle
forze della vita, vi sono dei luoghi sociali sui quali il discorso degli intervistati
ritorna in modo insistito. Il luogo sociale per antonomasia, da questo punto di
vista, è la famiglia, che della comunità è di solito il perno. Al di là dell’aspetto
che attiene alla crisi e trasformazione dei valori familiari interessa qui soffermarci
su quel processo di nuclearizzazione che ne ha mutato rapidamente i connotati:
“vediamo nascere ville una più bella dell'altra come funghi e però tra le
persone manca la compartecipazione. Siamo passati da una famiglia patriarcale
a una famiglia mono-nucleare, ma in modo troppo repentino. La famiglia
nucleare si è trovata sola e si trova da sola anche ad affrontare i problemi che
nascono in una società che corre così veloce. Quando succedono grandi disgrazie
c'è una partecipazione emotiva molto forte ma ci si prende il tempo per
elaborarla e un altro evento repentinamente prende il posto di quello
precedente. Non facciamo memoria di quello che ci capita”. (Suor Gaudia,
Ricovero di Mese)
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“Io vedo che le nuove generazioni sono molto fragili, perché i ragazzi sono
anche pochi, pochi e cresciuti spesso o figli unici o in pochi fratelli e i ragazzi
spesso vedo che sono cresciuti con papà, mamma, zii magari non sposati, nonni
alcuni anche bis-nonni, loro non se ne accorgono ma un ragazzo ha intorno 8
persone e questo porta a un fatto che sono anche un po’ coccolati, un po’ viziati.
Non è una colpa loro, loro non se ne accorgono però vedo a volte ragazzi che
hanno un papà e una mamma, 4 nonni, 3 bis-nonni e tutti vivono per loro cioè
questo li rende incapaci ad affrontare le difficoltà perché c’è sempre qualcuno
che risolve i problemi per loro. (Don L. De Petri, Parroco di Poggireidenti)
Tre sono i grandi modelli famigliari che si sono succeduti e stratificati nel
corso del tempo.
La famiglia patriarcale-comunitaria. Per un lunghissimo periodo storico la
famiglia è stata un’unità di produzione e consumo incentrata
sull’economia agricola, tendenzialmente autosufficiente, nella quale
convivenza diverse generazioni e diversi nuclei famigliari. Per un lungo
periodo l’economia corrispondeva all’economia domestica. Questa
organizzazione autarchica si fondava sul potere morale del padre. Nel
corso dei secoli, specie nei centri maggiori della provincia, si assiste ad
una prima differenziazione tra famiglia contadina (del contado) e famiglia
mercantile (del borgo) che corrisponde alla differenziazione tra città e
campagna. I “borghesi”, per lo più commercianti o artigiani, tendono ad
assumere una struttura famigliare ridotta (nucleare), mentre la forza
della famiglia contadina resta fortemente legata al numero dei suoi
componenti.
La famiglia mononucleare-fordista. Il processo di nuclearizzazione della
famiglia e le trasformazioni in essa avvenute sono da considerarsi spiegabili
attraverso due differenti linee: l’una collega la nuclearizzazione alla società
mercantile, l’altra ad un più recente processo di urbanizzazione e di
migrazione lungo le direzioni campagna-città. Sono due tendenze che
confluiscono nel lento processo di affermazione del modello urbanoindustriale anche nelle aree alpine, nel corso del quale la famiglia diventa
unità di consumo, o meglio luogo in cui i beni che in astratto la società mi
mette a disposizione diventano ciò che mi permettono di essere vivo e
delega al settore pubblico funzioni un tempo interne alla famiglia patriarcale:
istruzione, cura della salute, assistenza ai bambini e agli anziani, avviamento
al lavoro, etc. In questa fase la famiglia diventa la molecola sociale sulla
quale insistono le politiche di welfare. Nucleo di questa molecola diventa il
lavoratore maschio, adulto, bianco.
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La famiglia ai tempi delle moltitudini. A partire dagli anni ’80 il modello
famigliare mononucleare è andato incontro ad una serie di processi di
destrutturazione che ne hanno pluralizzato, in tempi molto rapidi, le
forme, i ruoli, le culture. Tra i fenomeni principali: il mutamento del ruolo
della donna sia all’interno della famiglia che nel mondo del lavoro,
l’affermarsi di modelli familiari mongenitoriali (dopo il riconoscimento del
divorzio), la progressiva denatalità, il contestuale invecchiamento della
popolazione, l’avvento di modelli famigliari etnicamente e religiosamente
diversificati o multirazziali (processi di migrazioni), nuovi modelli
famigliari (convivenze, coppie di fatto, coppie omosessuali, etc.). Tutti
fenomeni che contribuiscono a destrutturate il modello famigliare
ereditato dalle generazioni precedenti, secondo un processo di
pluralizzazione delle identità. Tale processo determina un panorama assai
stratificato di esperienze di vita, molte delle quali accomunate dall’idea
della famiglia come “scelta” e non più come elemento sociale “originario”.
Il che introduce un elemento di artificialità nella costruzione famigliare.
Famiglia come artificio, cioè prodotto della padronanza di un’arte e non
più come prodotto di un codice normativo naturale.
Su quest’ultimo punto, evidentemente, le posizioni degli intervistati sono
piuttosto articolate, anche se prevale la percezione di una progressiva decadenza
delle capacità integrative di una famiglia che, in modo un po’ schizofrenico, da
una parte sembra sovraccaricata di compiti e aspettative, dall’altra viene ritenuta
sempre più fragile e incapace di trasmettere valori alle nuove generazioni.
“L’immagine può essere quella di una società che non vuole maturare, si dice
spesso il problema giovanile ma gli adulti non sono migliori. Ormai anche gli
adulti sono eterni bambini, sono rimasti bambini, mi sembra di vedere tanti
coetanei che giocano ancora a fare i giovincelli, nella difficoltà di assumersi una
responsabilità, la difficoltà di prendere una strada in modo determinato, deciso
perché siamo in un periodo in cui uno prova tutto, continua a provare continua a
passare da una cosa all’altra, da una persona all’altra, da un rapporto all’altro”.
(Don L. De Petri, Parroco di Poggiridenti)
“Certo pensando ai giovani a cui vengono meno alcuni valori
fondamentali quali: la condivisione, l’impegno nella scuola, del
rispetto
degli
altri,
del
rispetto
delle
istituzioni,
venuta
meno
l’importanza del senso civico e quindi dell’attenzione per la cosa
pubblica che è di tutti è chiaro che se ci sono meno valori vengono
meno anche gli obiettivi per un’esistenza dignitosa e quindi è chiaro
che questo accentua quello stato di solitudine come malessere e
quindi rischio di emarginazione”. (C.Toini, Assessore Comune di
Grosio)
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Di fronte a questa difficoltà di rintracciare qualcosa di positivo nel moderno
ecco rispuntare costantemente la plastica ricostruzione di un tempo andato in cui
la comunità organica faceva sentire i suoi membri meno soli e una
contemporaneità frenetica e disgregante.
“Forse manca quella cultura un po’ contadina, sicuramente contadina ma
molto sociale quel tessuto sociale che c’era negli anni ’50, ‘60 e anche un
pochino negli anni ‘70 quando i ragazzi se non trovavano il confronto con i
genitori perché erano impegnati con il lavoro c’era sempre nel cortile, nel
vicinato il vicino la nonna che faceva la nonna un po’ di tutti e quindi questi
ragazzi potevano magari rivolgersi anche a queste persone…perché c’era la
persona che dava il consiglio a tutti non solo ai propri nipoti o ai propri figli, ma
li poteva dare tranquillamente agli altri; questo è venuto a mancare..
decisamente non esiste più. Allora forse tutto questo ha portato i ragazzi ad
essere più isolati, le famiglie sono sempre più di corsa perché i genitori sono
sempre al lavoro hanno sempre meno tempo da dedicare ad ascoltare questi
ragazzi perché non bisogna ascoltarli quando hanno 15 anni bisogna ascoltarli
quando hanno 15 giorni io ho sempre detto questo e quindi probabilmente anche
questo tessuto sociale così disgregato influisce”. (L.Bonacina, Sindaco di
Delebio)
Da una parte, ecco il sovraccarico cui si faceva riferimento, si compie una
ferrea equivalenza concettuale tra disgregazione sociale e disgregazione
familiare, quasi che quest’ultima esaurisca anche il portato della prima, dall’altra
si riconosce che “il soggetto che riceve l'intervento educativo è disorientato, ma
lo è anche l'educatore stesso” (Suor Gaudia).
Ma, ancor prima che trasmettere valori, la famiglia sembra essere in crisi nella
sua capacità di ascolto, nella sua dimensione affettiva, nel suo essere ambito in
cui è possibile cogliere i segnali deboli del disagio nel quale possono incorrere i
suoi membri, adulti o giovani che siano. Ecco allora la particolare insistenza degli
intervistati sui giovani, sui pericoli e sulle inquietudini nascoste dietro loro
apparente indecifrabilità. Non è forse un caso che molti degli intervistati
sottolineino con un certo imbarazzo che la percezione personale e collettiva del
suicidio sia diversa a seconda che si tratti di un giovane o di un adulto. Il suicidio
dell’adulto e dell’anziano appaiono in qualche modo più comprensibili, talora
anche più giustificabili, il suicidio dei giovani assume invece toni drammatici, non
solo per lo shock emotivo che provoca nei familiari e negli amici, ma anche
perché interroga drammaticamente la dimensione del futuro. Il giovane quindi
come specchio di trasformazioni culturali e sociali angosciosamente
imponderabili, il giovane suicida come segnale tragico di un fallimento che
interroga la possibilità di immaginare il futuro.
“Secondo me il suicidio è un fenomeno totalmente sociale, assolutamente
sociale perché il suicida, a mio parere, ha un qualche cosa da dire… lo dice con
un atto estremo ma è una comunicazione… è sempre contro qualcosa, contro
qualcuno, a mio parere, e quindi è una comunicazione. Però penso che
attualmente sia sempre più vissuto come un gesto assolutamente individuale
tanto è vero che addirittura si arriva a legittimare la tutela della volontà del
suicida, quindi sembra quasi che si tratti di un fatto privato che attiene soltanto
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alla sfera individuale, pertanto se uno vuole suicidarsi che lo faccia; questo
secondo me è esattamente l’opposto è un controsenso rispetto a quello che è il
grido di disperazione che lancia il suicida quando commette l’atto estremo”.
(P.Dell’Oca, Avvocato Delebio)
L’anima intimamente sociale del suicidio risiede quindi nella sua natura
paradossale di atto di comunicazione. Al di là di tutte le possibili cause
psicologiche, culturali o sociali, il suicidio è accomunato dall’essere un atto
definitivo con il quale una persona intende comunicare uno stato di estremo
isolamento e solitudine che egli ritiene, per ragioni più o meno patologiche (ciò in
definitiva conta poco), insormontabile. Vi è quindi nell’atto una dimensione
sociale collettiva che il soggetto ritiene di avere perduto.
Crisi del valore di legame
Una delle rappresentazioni sociali emerse dal lavoro è la seguente: nel corso
dei secoli le norme sociali e religiose che sanzionavano il suicidio si sono
indebolite, così come si è indebolito il sistema di valori della comunità originaria
alpina, ciò avrebbe determinato la perdita di una sua identità peculiare in favore
di una omologazione culturale di matrice mass-mediatica e metropolitana.
“Quell’immagine di sfuocato che definivo prima ha proprio una valenza legata
non tanto ai confini geografici del territorio quanto all’aspetto culturale, nel senso
che sempre di più c’è questa tendenza ad omogeneizzare la cultura di città, di
massa, con quella che è la nostra cultura, che secondo me avrebbe ancora delle
sue peculiarità particolari, ma che in realtà sta sempre più diventando una
fotocopia, peraltro mal riuscita, di quella che è la pressione culturale di massa
dei grandi agglomerati urbani; tradotte in moneta della televisione. Quella
proposta culturale ormai sta talmente passando e omogeneizzando su tutti gli
ambiti umani che anche zone come le nostre, che avrebbero delle loro
caratteristiche particolari, si stanno lentamente omogeneizzando a questo
modello. Chi non riesce a stare al passo di tutto ciò che viene proposto con
velocità si sente sempre più emarginato e, o trova in sé delle risorse, o le trova
nella rete vicina. Se non riesce a trovare sbocchi individuali o quantomeno
comunitari, poi rischia di andare alla deriva”. (M.De Pedrini, medico Chiavenna)
“Secondo me il disagio più diffuso è la confusione, il fatto che la cultura, la
mentalità diffusa di oggi con i mezzi di informazione che ci sono, con la mobilità
della gente, con la caduta dei riferimenti fondamentali di cui abbiamo accennato,
la gente è come persa, è persa e di conseguenza uno dei rischi più grandi è che
da un lato ci si massifica, si pensa tutti alla stessa maniera ma senza sicurezze,
senza certezze semplicemente perché tutti pensano così, in più però questo fatto
determina la caduta, l’indebolimento di chi è fragile. Cioè un clima di confusione,
di incertezza rende sempre più debole il debole cioè chi non ha la capacità
personale, per mille ragioni, di elaborare una riflessione, di difendersi, di
confrontarsi di distinguere, di muoversi con una certa autonomia, rende sempre
più debole il debole, questo per me è il rischio più grande oggi”. (Don B. Galli,
Vicario Episcopale)
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A fronte di questa tendenza gli atteggiamenti prevalenti sono sostanzialmente
due: uno minoritario, l’altro nettamente prevalente.
Il primo è un atteggiamento che potremmo definire di smarrimento: i positivi
processi di secolarizzazione, di laicizzazione, di emancipazione della donna, di
accrescimento delle libertà individuali, hanno portato con sé anche
atomizzazione, anomia, individualismo e crescita del tasso di suicidi. Da qui lo
smarrimento di fronte ad una serie di contraddizioni irrisolvibili con il semplice
schema del welfare novecentesco. Cioè il suicidio, come tante altre forme di
disagio, non può essere affrontato esclusivamente con gli strumenti dello stato
sociale, occorre rivalutare il tema del legame sociale su basi solidaristiche in
aggiunta a quelle universalistiche.
Dall’altra un atteggiamento che considera un alto tasso di suicidi come un
sintomo della necessità di recuperare i solidi valori della comunità originaria, un
prodotto collaterale del relativismo dei valori imperante e di una disgregazione
sociale senza freni.
“L’aumento del fenomeno è senz’altro determinato dal passaggio dalla cultura
dei valori, molti dei quali tradizionali/trasmissibili, alla cultura dei disvalori diffusi
e promossi fino all’inverosimile (politica, mass-media…)”. (D.Pedroncelli, Sindaco
di Verceia)
“questo soggettivismo, su questo relativismo, sulla caduta dei punti di
riferimento stabili che secondo me poi giocano nel fenomeno anche del suicidio
perché vedi la gente che perdendo di vista il punto di riferimento si smarrisce,
rimane delusa, non riesce a raggiungere ciò che avrebbe voluto raggiungere e
quindi in un momento fugge, fugge purtroppo in queste situazioni”. (Don L. De
Petri, Parroco di Poggiridenti)
“Fatto che è vero rientra un po’ nei comandamenti fondamentali, che
essenzialmente dicono ama te stesso, secondo l’ordine Dio, il prossimo e te
stesso, arrivando però a ribaltarne l’ordine in ama io, il prossimo e Dio e quindi
facendo entrare nel discorso del tempo questa cosa siamo passati a dedicarne
parecchio per amare noi stessi e di conseguenza ne rimane ben poco per tutto il
resto, andando a sfociare nell’egoismo e nell’egocentrismo sfrenato”. (Don G.
Pini, Tremenda XXL)
Si tratta di atteggiamenti che lasciano sullo sfondo una diversa concezione
della comunità e del legame sociale, ma che condividono una sostanziale
difficoltà di rapporto con la società nel suo complesso. Cioè entrambe non sono
socialmente condivise. Per entrambe il sociale è un magma incontenibile di
materia bollente, informe, travolgente, ma anche uno spettacolo pirotecnico di
decadenza dei costumi.
Le figure di riferimento tradizionale non solo sono delegittimate, ma non di
rado rappresentano soggetti da evitare in quanto identificati con la norma e la
prescrizione in sé, a prescindere dal suo contenuto.E’ un sociale sempre più
indomabile, indocile, dominato da bassi istinti e incomunicabilità, almeno per
come se lo rappresentano gli intervistati. Ma è anche un sociale fragile, che, di
fronte alla caduta individuale, non possiede strumenti culturali offerti da un
quadro comune di riferimento che aiuti la persona reagire o adattarsi.
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“E’ la fragilità di un tessuto sociale, che non sa tenere assieme e dar risposte
a questa persona, che alla fine era disperata, nessuno ha dato risposte a quella
che era la sua disperazione” (A.Curtoni, Sindaco di Colico)
Certo, trattando di un tema drammatico con il suicidio, la connessione con lo
stato di salute della società è inevitabilmente piegata ad evidenziarne i suoi
malesseri piuttosto che le sue istanze integrative, che pur non mancano. E se si
rileva un sostanziale accordo sullo stato di anomia della società locale, intesa
come tensione e smarrimento che affligge un individuo inserito in un contesto
sociale debole, ossia incapace di proporre norme e valori sociali condivisi e
riconosciuti che lo lasciano in balia di aspettative e desideri che alimentano
angoscia e frustrazione, è anche vero che si prospettano due vie di uscita che
discendono dalla medesima dicotomia delineata sopra. Nel primo caso si tende
ad accettare un certo tasso (ma quale?) stato di anomia cronica per non
sacrificare le conquiste del Novecento, dall’altra si propone un ritorno ai
fondamenti come strumenti culturale (e politico) di riduzione di una complessità
fuori controllo. Il paradosso, nel caso del suicidio, è che questi ultimi sono in
genere anche gli stessi che giustificano l’alto tasso di suicidi locali con le lunghe
derive dell’endogamia comunitaria quali, ad esempio, le conseguenze della
consanguineità da isolamento geografico, il permanere di credenze come il “mal
della corda del montanaro”, piuttosto che ricorrendo a figure mitiche come
l’homo selvadego, archetipo del solitario irriducibile alla civilizzazione.
Il profilo sociale del suicida o del candidato suicida non esiste, sebbene spesso
si tratti di soggetti affetti da una qualche forma depressiva conseguente
all’incapacità di affrontare quelle difficoltà che un tempo la povertà metteva di
fronte quotidianamente.
“Il fenomeno dei suicidi è sicuramente rilevante nel nostro tessuto sociale e
come tale è vissuto. Tuttavia, in primo luogo, anche tra i familiari che spesso lo
vivono con senso di colpa, prevale un senso di impotenza e di grande disagio
nell'analizzare il fenomeno. Colpisce a volte la determinazione con cui il suicida
aveva pianificato e messo in atto la sua decisione. E' naturale che nel trattare il
fenomeno si faccia riferimento a persone che si erano conosciute in modo più o
meno approfondito . Appare opportuno allora parlare caso per caso. Anche se il
suicidio è la conclusione comune, sembra di poter dire che l'avvicinamento passi
attraverso percorsi e contesti diversi. Si può parlare di diverse concause, forse.
Prevalenti la depressione, la solitudine, la fragilità nell' affrontare ansie,
delusioni, divisioni familiari o affettive, mancanza di prospettiva e di capacità di
cogliere "ragioni" di vita. In questo quadro, il contesto di relazioni piuttosto
limitate nonché l'ambiente un po' chiuso dal punto di vista sociale e morfologico
del territorio possono apparire aggravanti”. (G.Zuccoli, insegnante in pensione
Chiavenna)
Oggi che la povertà è praticamente scomparsa essa non rappresenta più quel
collante sociale, tra i giovani neanche sotto il profilo della memoria collettiva,
che, pur nelle privazioni, fungeva da paracadute sociale e psicologico nei
momenti di fallimento personale.
“il benessere dovrebbe darti il bene. Purtroppo il benessere dà appena
l'essere. Quando si sta bene, tutti abbandonano i valori e guardano solo al
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presente. E quando uno sta bene invece di pensare, gode. E il godere non è che
sia di per sé un male. Però è una cosa superficiale. Non saprei neanche come
tornare indietro”. (Don A. Pegorari, Parroco di Prata C.)
“Io credo che se per qualità della vita s’intende la forza delle ragioni del
vivere era migliore prima la qualità della vita, perché pur nella povertà, pur nella
debolezza della cultura e delle conoscenze c’era maggiore sicurezza, perché c’era
maggiore relazione tra le persone nel loro piccolo nel loro contesto di paesi o di
territorio c’era più sostegno, c’era più condivisione di convinzioni comuni, credo
che in quel senso la qualità della vita era forse migliore. [..] E’ la modernità, lo
sviluppo in Valtellina poi è avvenuto in modo molto affrettato, non assimilato,
che è diventato più uno sviluppo di benessere o di bene avere probabilmente,
dell’avere di più che non un fatto globale, culturale proprio che ha portato quella
che prima ho chiamato confusione”. (Don B.Galli, Vicario Episcopale)
“Al benessere economico non mi sembra corrispondere il benessere
psicologico, di vita ed una maggiore serenità esistenziale; la maggiore serenità
economica non corrisponde a quella del vissuto umano; mi sembra palese. Ciò
che vedo è che nel tempo, dati alla mano, sono veramente molto molto
aumentati gli utenti del servizio. A questo proposito c’è da dire che potrebbe
anche non essere aumentato il disagio psichico, ma che potrebbe esserci una
maggiore sensibilità alla cura”. (C.Dettin, psicologa CPS Bormio)
Oggi il fallimento, sia esso economico o famigliare, ricade quindi quasi
esclusivamente sull’individuo, aspetto che favorisce sia l’autoesclusione, sia
l’acquirsi del senso di deresponsabilizzazione sociale. Come evidenziato dal
Vicario Episcopale nei valtellinesi rimane vivo il valore della vita come dono di
Dio ma si è anche consolidata l’idea che il suicidio a che fare con una dimensione
della fragilità umana che occorre affrontare anche sul piano della responsabilità
sociale e della visione cristiana della vita associata.
“Non credo che in questi anni più recenti sia venuta meno questa convinzione,
nella nostra gente mediamente rimane il senso della dignità della vita e della
vita come dono di Dio, è aumentata la convinzione che ci sia di mezzo un
disturbo che va molto al di là della responsabilità. Ho l’impressione che oggi
sarebbe bello se, pur tra questi due elementi, l’affinità della vita e quindi il
rispetto della vita e la condizione di fragilità della persona e di non colpevolezza,
tra questi due elementi io mi augurerei che maturasse una terza componente. Io
che contributo potrei dare perché il disagio, qualunque sia, non arrivi a questo
sbocco? perché non devo sentirmi in qualche misura responsabile? perché devo
comunque tirarmi fuori? ecco forse questo terzo livello della responsabilità
sociale o comunitaria, particolarmente cristiana, deve ancora maturare”. (Don
B.Galli, Vicario Episcopale)
Non c’è dubbio che molte interviste insistono, benché in tono pacato e meno
allarmato rispetto alle difficoltà che attraversano la famiglia come cellula della
comunità, sulla crisi che attraversa anche la comunità ecclesiastica. Da più parti
ed anche tra gli stessi parroci si segnala come le parrocchie abbiano perso
l’aggancio con la realtà e non incidono più nel profondo come un tempo nella
definizione di valori condivisi.
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“La Chiesa ha sempre gestito il processo evolutivo dei ragazzi, da li passano
quasi tutti, aveva una forza trainante perché era condivisa da tutti, dai piccoli e
dai grandi, oggi c’è una grossissima frattura tra adulti e giovani e anche la
Chiesa fa fatica a mettere assieme le due realtà: fai cose per adulti e i giovani
stanno fuori o viceversa, a parte le attività sportive, dove si mischiano, ma non è
per riflettere o confrontarsi su proposte di linea culturale o di comportamenti
sociali; questa frattura è marcata anche da noi. Anche la chiesa fa fatica a
finalizzare la stessa educazione cristiana, perché tratteniamo i ragazzi fino ad
una certa età”. (Don A. Balatti, Parroco di Chiavenna)
Per altro non si tratta di qualcosa che attiene esclusivamente alla parrocchia
in senso stretto. E’ la comunità cristiana nel suo complesso che viene a trovarsi
sotto scacco dalla modernità. Una modernità che intacca, innanzitutto, la
dimensione valoriale e che si riflette poi sulla capacità delle istituzioni
ecclesiastiche di costituirsi in guida morale. In passato ciò ha permesso di
esercitare un’autorità tale che ogni parrocchia rappresentava la “regia” della
scena comunitaria. Oggi, come afferma qualcuno, ci sono tanti attori che si
agitano senza una direzione, senza condividere un disegno comune.
“La Chiesa intesa come corpo anche presente sul territorio con le parrocchie
con i parroci ecc; che, lo sappiamo benissimo perché ci siamo dentro, perde
terreno; cerca di fare, anche se è un’intuizione di pochi, un ragionamento di
ricostruzione o quantomeno riscoperta di alcuni riferimenti in questo caso etici
morali però mi dà l’impressione che sia più tentativi isolati di poche menti
“illuminate”, rispetto invece ad una consapevolezza complessiva, in questo caso
del clero e dei laici. Non dimentichiamo il clero ha la sua fetta di responsabilità; i
laici hanno la loro, per arrivare ad a costruire un ragionamento culturale di
riferimento culturale di valori che possa valere per tanti e da proporre; su questo
siamo indietro di un bel po’. […] Per quello che percepisco nonostante le critiche
fatte prima, ancora una volta la Chiesa i credenti, le parrocchie secondo me,
nonostante tutto, sono quelli che hanno più attenzione per una serie di
riferimenti ovvi di tipo valoriale; dal punto di vista tecnico ci sono gli addetti ai
lavori, però sono tecnici: Le istituzioni, invece si limitano al ruolo istituzionale;
fatto quello che deve essere fatto, che forse è già qualcosa, poi finisce lì. Diventa
ancora intervento tecnico, non è riempito da quel qualcosa in più che dovrebbe
dare i valori in più a ciò che fai”. (M.De Pedrini, medico Chiavenna)
Le parrocchie, pur indebolite nella loro capacità di fornire una visione di
insieme della vita, sembrano però rappresentare, agli occhi dei più, uno degli
ultimi baluardi culturali contro la disgregazione di quell’insieme di valori che
assicuravano stabilità, senso di appartenenza e solidarietà sociale. Tuttavia non
sono pochi, anche all’interno della comunità ecclesiastica locale, ad individuare in
una religiosità storicamente “troppo impostata su paura, precetti e peccato” il
motivo di una difficoltà ulteriore dei suoi rappresentanti nel compiere la propria
opera pastorale.
“Una volta la Chiesa, magari esagerava però diceva che il suicidio è un
peccato grave. Adesso non si ha più il coraggio di dirlo, non si può giudicare, con
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il risultato che poi nessuno te lo dice che è male”. (Don L.De Petri, Parroco di
Poggiridenti)
“Il venir meno dei valori il diminuire della fede può agevolare, potrebbe anche
essere, perché in una visione cristiana della vita uno non deve neanche pensare
a queste cose, è peccato, ti dà un freno; in una visione più laica, dove l’aspetto
religioso persiste però non è più regolato ragionevolmente, ti può portare anche
a fuorviare e addirittura non ad aiutarti ma ad agevolarti nel suicidio”. (Don A.
Balatti, Parroco di Chiavenna)
Se vogliamo questa stessa dinamica si manifesta anche in rapporto al tema
del suicidio, rispetto al quale tutti gli intervistati tendono a metterne in evidenza
il suo essere segno, insieme a tanti altri comportamento a rischio, di un
diminuito valore dato alla vita. La paura suscitata da questa percezione nella
popolazione, “ora che i buoi sono quasi tutti scappati e quelli rimasti hanno
paura ad uscire dalla stalla” come afferma un parroco, fa impennare le
aspettative verso le istituzioni ecclesiastiche affinché pongano freno a questa
china pericolosa inducendo queste ultime a percorrere due vie altrettanto
complesse: o il ritorno ad una visione del suicidio come peccato grave “senza se
e senza ma”, o l’attivazione di percorsi di riflessione e coinvolgimento attraverso
cui la comunità cristiana si confronta con lo “stato contingente delle cose” e da lì
ne ricava indicazioni per agire, sia in modo individuale che organizzato. Certo, è
un compito difficile dal momento che “in Valtellina, la distinzione fra società
civile e società religiosa non era molto evidente” (Padre C. De Piaz),
testimonianza ne sia che oggi alle difficoltà di quest’ultima fatica ad imporsi una
società civile che pure a quei valori si ispiri nella sua azione quotidiana.
Box. Il sistema della giustizia e dell’ordine pubblico.Se si esclude parzialmente
il periodo del contrabbando la popolazione non ha mai assunto comportamenti
criminali dettati da necessità primarie, ma piuttosto dall’introduzione di
comportamenti devianti importati dall’esterno. D’altra parte la relativa facilità
di controllo del territorio, la possibilità di isolare il deviante dalla comunità, ha
permesso di contenere fenomeni di delinquenza diffusi. Anche la criminalità
legata alla componente di popolazione straniera è assai contenuta, ben al di
sotto della gran parte del Paese. Ciò non toglie che vi sia una crescita della
percezione di insicurezza, che tuttavia non trova riscontro nelle attività di
repressione condotte dalle forze dell’ordine. In ogni caso l’arrivo di stranieri ha
accentuato la tendenza alla chiusura culturale.E’ cresciuta in tempi recenti,
come afferma il presidente vicario del Tribunale di Sondrio, la
microconflittualità tra giovani coniugi che si trasforma troppo facilmente in
rotture irreparabili, nonché la conflittualità giovanile figlia di un abdicazione
delle agenzie educative (scuola e oratori in primis). Crescono anche i sequestri
di sostanze stupefacenti sintetiche che si sposano con un background di alta
tolleranza sociale dell’alcool. Questa tendenza, evidentemente più diffusa tra i
giovani, è spesso rimossa dagli adulti e provoca stupore e disorientamento
quando tocca i propri figli. Il fenomeno tocca maggiormente, dal punto di vista
statistico, soggetti appartenenti ai ceti medio-alti, ritenuti meno capaci di
affrontare i periodi di crisi personale. Cambiano invece le modalità adottate per
togliersi la vita: i giovani prediligono la precipitazione dall’alto, mentre gli adulti
e gli anziani l’impiccagione o lo sparo d’arma da fuoco. Parlare del suicidio è
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utile, non bisogna avere un atteggiamento censorio, purché venga fatto con le
dovute accortezze (possibili effetti emulativi) e senza atteggiamenti
manichei.Per quanto attiene al giudizio relativo agli attori sociali che
dimostrano maggiore capacità di fare prevenzione, non c’è dubbio che
l’associazionsimo volontario presenti maggiori potenzialità, tenuto conto,
d’altra parte, che una buona parte dei suicidi viene intercettato dai servizi
sociali o dalle strutture mediche senza trarne un vantaggio decisivo e che nelle
scuole gli insegnanti non sempre si dimostrano capaci di leggere sintomi di
disagio anche evidente. In relazione alla vita carceraria, ambito nel quale come
noto si registrano in genere i tassi di suicidio più elevati 17, i responsabili della
Casa circondariale di Sondrio affermano di avere contenuto al minimo questi
fenomeni, ben al di sotto della media provinciale. Ciò anche per una particolare
attenzione ai sintomi dei neodetenuti, cosa che evidentemente non può essere
effettuata con i cittadini al di fuori delle mura di un carcere anche in presenza
di un sistema di servizi sociali efficiente e competente.
Le reazioni della comunità tra compassione e rimozione
All’interno di tessuto sociale non abituato ad elaborare collettivamente gli
eventi drammatici che lo riguardano anche il tema del suicidio ricade
sostanzialmente dentro questa logica. Certo, come vedremo, il tema è gravato di
elementi che gli sono propri, quali, ad esempio, il timore che un dibattito
pubblico mal congeniato possa indurre i ben noti fenomeni di emulazione.
“Per la comunità locale questo problema è ancora un tabù. Generalmente crea
disorientamento e non mi pare che ci sia un’elaborazione collettiva,
tendenzialmente non se ne parla e tutta l’angoscia è contenuta all’interno della
famiglia”. (M.Cotelli, Assessore Comune di Sondrio)
“Credo che si tendano a rimuovere i problemi gravi e seri perché sono
disturbanti, richiedono delle riflessioni e quindi magari c’è un impatto emotivo
immediato e pesante ma poi non costituisce, a mio parere, un grossissimo
problema”. (M.Manca, Direttore sanitario ASL Sondrio)
Resta però l’amara constatazione che la dimensione pubblica sia raramente
considerata un ambito nel quale elaborare risposte, o quanto meno per
formulare domande. Così, molto spesso, le famiglie che subiscono una perdita
causata da suicidio rischiano di rimanere, dopo un primo momento di
partecipazione emotiva collettiva più o meno effimera, isolate nella difficile
elaborazione del lutto.
“La percezione sociale mi sembra scarsa come risultati, cioè vi è
un’immediatezza che evapora troppo in fretta; facendo rimanere dopo poco
tempo, molto isolati e soli coloro che sono stati colpiti dall’episodio”. (Don G.
Pini, Tremenda XXL)
17
Più ancora che nei campi di concentramento o nei gulag
105
“È capitato anche ultimamente di dover fare un funerale e dei figli che si
confidavano e dicevano “Facciamo fatica a perdonare perché ci ha abbandonati
così”. (Don L. De Petri, Parroco di Poggiridenti)
“Quando si registra un suicidio io ho notato che, immediatamente, tutti
affermano che non avevano avuto nessun sentore. Successivamente dopo
quattro-cinque mesi i familiari riconoscono che molti fatti avvenuti nei mesi
precedenti potevano essere valutati in modo diverso”. (Don Augusto, Parroco di
Tresivio)
“Confrontandomi con l’ esterno, con le persone che frequento vedo che
quando si affronta il tema del suicidio non si approfondisce, non si vuole andare
oltre a quella che è la prima considerazione: non si capiscono i motivi che
portano ad attuare questi gesti disperati… stiamo bene, viviamo in un bel posto,
abbiamo tutto. Si cerca di vedere questo evento come una cosa estranea che
riguarda gli altri e che non può toccare noi. C’è la partecipazione al momento del
saluto e del distacco con la persona, quindi ci sono giovani se è un giovane…
come succede normalmente in tutte le comunità.E’ importante il momento del
saluto a una persona che ha finito la sua esistenza terrena, però non si va oltre a
questo, non viene letto in modo diverso, non c’è un momento di
approfondimento: il saluto lo sgomento e poi basta, per come lo percepisco io”.
(E. Mazzoni, Sor Optimist)
La compassione che la comunità esprime nel momento dei riti di distacco
tende a trasformarsi il più delle volte in rassegnazione, dal momento che
nessuno si sente esente dal rischio di incorrere nella “tentazione” o di trovarsi in
condizioni di disperazione tali da perdere il lume della ragione.
“Si percepisce il sentimento di pietà anche perché è raro sentir dire ‘a me non
capiterà mai…’. Non mi pare che si percepisca un allarme sociale, ma piuttosto
una rassegnazione all’incapacità di comprendere fino in fondo il problema. Quasi
come se fosse un situazione che nella vita può succedere fatalmente”. (M.R.,
Villa di Chiavenna)
“Se ne parla sottovoce, se ne parla poco e in genere si sottace, per una serie
complessa di cose, perché non si vuole accentuare la cosa, non si vuole incidere
ulteriormente sui parenti, si ha paura, come se potesse capitare anche a me,
come se nessuno potesse essere esente”. (Don A. Balatti, Parroco di Chiavenna)
Fare comunità della cura
Giunti a questo punto del rapporto di ricerca dovrebbe ormai essere evidente
che il suicidio è un comportamento complesso, intriso di problematiche dai
contorni nient’affatto nitidi e a lettura univoca, ma al contrario di problematiche
la cui interpretazione si presta facilmente a più categorie di lettura e
naturalmente a diversi modi di porre rimedio a questo fenomeno distruttivo.
Al contempo dovrebbe ormai essere chiaro che parlarne costituisce una
procedura in qualche modo “delicata”, anch’essa intrisa di problemi e comunque
106
senza un evidente rapporto tra il singolo evento suicidiario e le eventuali
conseguenze in termini di prevenzione o di recupero. In generale, del suicidio si
parla poco e quando lo si fa, si parla sempre con una sorta di pudore, di ritrosia
di fronte al pericolo che possa estendersi senza possibilità di controllo. La
ragione sembra essere quella di un’emulazione insita nello stesso atto di
suicidarsi: chi si suicida, soprattutto parlarne, è sempre suscettibile di imitazione
da parte di quanti ne vengono a conoscenza.
Una sorta di effetto deviante che trova la sua accentuazione in una comunità
dai ristretti confini e composta da una pluralità di piccoli comuni. In questo caso,
a contraddire l’esigenza di far fronte al fenomeno non è tanto la complessità del
tema, non è neanche la pluralità delle linee interpretative che sono state
indicate, è piuttosto la limitatezza della provincia di Sondrio come arena di
propagazione di un fenomeno “trascinante”, facile al contagio.
“Il suicidio è anche contagioso, in situazioni di fragilità, è trascinante, per
imitazione. In condizioni di fragilità è una malattia contagiosa. Quindi è anche
giusto che se ne parli poco; che non si dia la notizia come vediamo a volte, per
vendere, nelle locandine dei giornali. Però non si può neanche non parlarne. Se
non ne parlano i giornali è anche buona cosa, è cattiva cosa se la gente non ne
parla in sedi appropriate con persone adeguate con cui parlare. Non fare delle
assemblee per parlare di questo, magari arrivare ad un passo alla volta
cominciando a coinvolgere settori della comunità; magari la famiglia, gli
educatori, gli operatori ma in gruppo ristretto. Perché da lì poi possono nascere
sicuramente dei suggerimenti per aprire il discorso a tutti. Arrivare passo passo,
acquisendo sempre informazioni e suggerimenti di modo che anche gli indirizzi
sono più mirati e condivisi” (S. Braga, Presidente Casa di Riposo Chiavenna).
Quindi parlarne poco è anche giustificato, soprattutto attraverso gli organi di
stampa; il punto è invece trovare i modi più appropriati per parlarne, quelli in
particolare che riservano un approccio graduale di accostamento al problema.
Infatti, solo un approccio graduale – tramite il coinvolgimento di famiglie,
educatori, ecc. - può consentire di acquisire più informazioni e suggerimenti in
grado di definire indirizzi di intervento appropriati.
Ma la pubblicazione di una notizia di suicidio non è necessariamente negativa;
semmai è il “modo sbagliato” di pubblicare che può ingenerare in coloro che
leggeranno la notizia l’effetto nefasto del “suicidio imitativo”. Ne deriva per i
giornalisti l’impegno a scrivere nel modo più attento e, appunto, delicato, in una
forma di pubblicazione che non riproduca per imitazione il fenomeno suicidiario.
Cosa difficile e comunque dai risultati nient’affatto scontati, specie se si
considera il profilo “contagioso” del fenomeno, ma comunque una sfida dalla
quale la categoria dei giornalisti non può rifuggire.
“Sono diversi gli aspetti di cui bisogna tenere conto quando si divulga la notizia
di un suicidio per la maggior parte collegati all’ effetto imitativo che la
pubblicazione del fatto nel modo sbagliato può provocare. Attenzione: non
arriverei alla conclusione che la notizia del suicidio sia pericolosa in sé, che da
sola basti a scatenare l’ emulazione e che quindi debba essere del tutto
censurata. Direi piuttosto che il giornalista deve porre la massima attenzione a
come comunica l’episodio, per esempio evitando il sensazionalismo e sorvolando
i particolari relativi alla modalità del suicidio, tutti elementi che nella mente di
107
una persona già predisposta possono provocare il cosiddetto suicidio imitativo.
Gli psichiatri erano arrivati già più di due secoli fa a conclusioni di questo tipo e
qui si entra nella storia letteraria : quando nel 1774 fu pubblicato ‘’ I dolori del
giovane Werther’’ (A.Curtoni, Sindaco di Colico).
Quindi, non basta dare la notizia che qualcuno si è suicidato, occorre anche
dare questa notizia in modo “corretto”, esente cioè da qualsiasi tentazione di
sensazionalismo e di versione soltanto dedicata alla vendita dell’organo di
stampa. In effetti, il sensazionalismo è un nemico della notizia, la scorciatoia più
pericolosa e meno densa di informazioni per un giornale. Che poi si tratti di una
notizia locale è secondario, ciò che conta è restituire un’informazione che senza
venir meno alla delicatezza del fenomeno, ne faccia salva insieme la
drammaticità e la veridicità, che faccia giustizia, insomma, del sensazionalismo.
Beninteso, la categoria dei giornalisti non è la sola ad essere coinvolta nel
fenomeno dei suicidi, tutta la società ne è implicata, lo voglia o no. Ed è bene
che lo voglia, perché nessuna comunità può riprodursi se gli abitanti non si
muovono in questo senso, la riproduzione della comunità è ragione della vita
presente della comunità stessa: futuro e presente coincidono.
“Io ho in mente quel film “Il vento fa il suo giro”, che parla di un paese di
montagna che si sta spopolando e resta il matto del paese che alla fine si
suicida, ed è praticamente la metafora della fine di quel paese, in una scena
c’è la Messa del funerale e una persona legge un brano della Bibbia, che
sostanzialmente dice che o è tutta la comunità che si muove per far rivivere
questo paese o il paese lentamente morirà, non serve l’attenzione di 10, 100,
1000 persone, ma di tutta la comunità. Penso che questa riflessione sia
tranquillamente replicabile in un contesto come il nostro” (M.Bevilacqua, Coop
Insieme).
“Ma parlare di comunità non ha senso se non si fa riferimento ai soggetti
concreti, alle persone che concretamente si mobilitano o possono essere
mobilitate per la soluzione dei problemi. Ebbene, per affrontare il problema del
suicidio le persone più indicate sono senz’altro quelle più vicine alla condizione
familiare dei giovani a rischio di suicidio, quindi: padre, madre, nonni, e in
generale tutte le figure che possono dare consigli e suggerimenti in maniera
continuativa.
Figure più formali come il prete, il politico o il sindacalista, a prescindere dalla
loro tenuta come figure leader di comunità, non sono le più indicate per dare
assistenza ai giovani, perché normalmente assenti o viste sporadicamente.
“Penso che gli attori non siano il prete, il politico, il sindacalista, ecc…., ma
ogni persona che fa parte del mondo adulto, che sia padre, madre, professore,
nonno, nonna, perché sono queste figure più presenti che possono fare la
differenza nella vita di tutti i giorni e non quelle persone/attori che si possono
incontrare solo alcune volte” (Don Gigi Pini, San Pietro Samolaco).
“La vedo difficile che uno che ha un certo problema va in un certo posto e
racconta a una persona estranea, per quanto faccia parte di un certo ente, dice
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io ho questo problema, secondo me quindi è più in un secondo tempo, prima
deve parlare, confidarsi tirar fuori, sfogarsi con una persona vicina, poi magari
questa persona, amico, famiglia che può dare magari solo qualche consiglio può
indirizzare verso” (Giovane studente universitario).
Dunque la famiglia riveste un’importanza cruciale per quanti stanno
elaborando l’idea del suicidio, una famiglia che ascolta e assiste i giovani e che
propina consigli e indirizzi per risolvere le situazioni più delicate. Il punto però è
che anche i servizi formali non possono essere dimenticati, servizi che infatti
incorporano competenze che la sola famiglia non può vantare.
La principale competenza è sicuramente la prevenzione, una competenza che
consiste nella capacità di intercettare le persone al momento giusto, quando
ancora stanno maturando la soluzione finale. In questi casi l’esperienza dimostra
che le persone a rischio, una volta curate, si sono riprese e hanno poi condotto
una vita del tutto normale. Al contrario, le persone che si sono suicidate sono
tutte persone le cui famiglie hanno tentato di risolvere il problema al loro
interno, senza rivolgersi a servizi del territorio, quindi senza rivolgersi a persone
competenti.
Anche in questi casi, la famiglia è determinante, seppure in senso negativo; il
punto è che perché sia determinante in senso positivo, la famiglia dovrebbe
aprirsi alle opportunità che offrono i servizi qualificati esistenti sul territorio.
Infatti le famiglie della provincia di Sondrio sono “atavicamente” chiuse in se
stesse, desiderose ma renitenti a chiedere aiuto, ma soprattutto prive della
disponibilità ad ascoltare opinioni estranee al proprio ambiente.
“Concludendo si potrebbe dire che sul territorio le strutture esistono, sono
efficienti ma che per poter essere attivate hanno bisogno che le famiglie, uniche
deputate a farlo, superino l’atavica chiusura, non abbiano vergogna di chiedere
aiuto e soprattutto abbiano la voglia di ascoltare le persone che gli sono vicine.
Tutti i tentativi fatti nel tempo per attuare questo coinvolgimento hanno dato
scarsi risultati, non bisogna scoraggiarsi ma questa credo che sia l’unica via per
arginare il problema” (Capobianco, psichiatra).
Chiedere aiuto è dunque una prerogativa verso cui le famiglie valtellinesi
devono ancora in gran parte aprirsi, forse coscienti, seppure inconsapevolmente,
che chiedere aiuto è già una “mezza soluzione”, quindi che qualsiasi concorso
alla soluzione del problema costituisca di fatto una esplicitazione di ciò che si
vorrebbe comunque mantenere nel privato.
La realtà è che mancano “punti di problematizzazione”, punti cioè che
consentano di problematizzare la paura dell’indifferenza e l’allarmismo che
potrebbe scaturire da una divulgazione incontrollata dei problemi familiari:
problematizzare significa non trovare da subito le soluzioni, ma limitarsi a
indicare quello che sta succedendo, le opportunità di intervento verranno dopo.
Quale che sia il momento in cui si verificheranno le opportunità di intervento,
certo è che l’architrave è costituito dalla necessità di creare punti di
aggregazione cui sono deputati Enti pubblici, che però devono emanciparsi dalla
loro condizione di attendismo e di sostanziale inattività. Enti pubblici,
certamente, ma, come si è detto, tutta la comunità, con le sue organizzazioni e
profili professionali specialistici, come psicologi, medici e sacerdoti: tutti ne sono
coinvolti e i servizi ne sono solo una parte.
109
“Forse sarebbe il caso di affrontare maggiormente queste tematiche, sarebbe il
caso di magari portare avanti degli approfondimenti comunitari cioè metter in
comune le proprie riflessioni e le riflessioni anche di psicologi, di medici di
sacerdoti, di tutte quelle persone che possono avere a che fare con le persone
anche più disagiate, più a rischio, diciamo così… e quindi portare avanti un
discorso di sensibilizzazione e poi un’altra cosa chiaramente è lavorare sui
giovani, perché mi risulta che molto spesso i suicidi siano giovani, non sono
anziani” (C. Dell’Oca, avvocato).
Due aspetti sono da sottolineare di questa citazione: anzitutto la mobilitazione
della comunità deve avvenire tramite la messa in comune di riflessioni, e poi che
i casi di suicidio riguardano soprattutto i giovani. Su questo secondo aspetto non
c’è granchè di nuovo rispetto a quanto già si sapeva: i giovani compongono la
fascia di popolazione più direttamente interessata dal fenomeno dei suicidi; più
interessante, ma anche più difficile, il discorso della messa in comune delle
proprie riflessioni. In questo caso la comunità si concretizza nella sedimentazione
di vere e proprie istanze collettive, di contributi che non possono essere lasciati
solo a intuizioni e aspettative individuali. Perché questo possa avere successo è
necessaria una sensibilizzazione che convinca delle maggiori prerogative che un
progetto collettivo ha rispetto a interventi condotti in forma individuale.
Naturalmente si tratterà anche di vincere gli interessi particolari, le resistenze
sempre all’opera nei casi di difesa dei propri interessi, ma questa è la sfida che
attende l’edificazione di una comunità compiuta.
Resta comunque il fatto che l’opera di sensibilizzazione potrà avere successo
se il fenomeno del suicidio viene ricondotto alla sua vera radice: il “senso della
vita”. Educare i giovani al senso della vita è la vera scommessa sulla quale
puntare per far fronte con cognizione di causa al suicidio.
“Secondo me il problema non è tanto risolvere il problema del suicidio, ma
quanto risolvere il problema di un senso alla vita. Per cui secondo me tutto
quello che può servire a educare, a far riflettere i ragazzi sulla vita, sul senso
delle vita, anche non direttamente ma può influire sull’affrontare questo
problema” (Don Livio De Petri, parroco a Poggiridenti).
In ogni caso, la gravità del problema non è cosa di tutti, se ne occupano
principalmente gli addetti ai lavori e quindi una competenza che dovrebbe essere
accresciuta è proprio la conoscenza del problema: la tendenza a coprire le cose
certamente è rispettosa della ritrosia a mettere in piazza i problemi, ma a lungo
andare comporta al contempo una generalizzata indifferenza nella popolazione:
parlare è comunque utile, anzi necessario.
Se poi a parlare sono soltanto i componenti dei servizi di assistenza, si finisce
per avvalorare il pregiudizio secondo cui questi “scaricano” sulle famiglie il peso
di problemi troppo gravi, conclusione giudicata quanto meno eccessiva.
A proposito, infine, di sensibilizzazione e di apprendimento, una istituzione su
cui far leva per porre mano al fenomeno da noi indagato, è la scuola. Ebbene, la
scuola si mostra sensibile a occuparsi di molti problemi del disagio sociale,
mentre del suicidio è molto meno sensibile. Il motivo dichiarato è che si tratta di
un tema difficile, funesto e che fa paura, ma soprattutto che non incontra
l’interesse dei giovani, i quali ormai hanno introiettato lo stereotipo secondo cui
110
“la morte riguarda sempre gli altri”. Tema difficile, dunque, inserito pienamente
nella gamma dei temi relativi al disagio sociale e che non può che riguardare
anche i compiti degli insegnanti. I quali sono direttamente a contatto con
famiglie che vivono tante situazioni di disagio, alcune eclatanti, altre sommerse
ma che poi potrebbero emergere e creare problemi altrettanto difficili da
affrontare.
In questo caso, ritorna il problema di famiglie su cui facilmente grava il
pregiudizio secondo cui esse dovrebbero essere i protagonisti di una formazione
a tutto tondo per i giovani. Dimenticando la necessità che venga operata una
vera e propria “divisione del lavoro” tra famiglie e scuola.
“Sicuramente si riscontra un notevole disagio sociale che viene scaricato sulla
scuola. Si pretende che la scuola si sostituisca a tutto. Alle famiglie che a volta
non sono presenti. All’educazione che dovrebbe essere impartita in famiglia in
primis.
All’osservazione che spesso si ascolta: ‘ma spetta alla scuola educare’, mi sento
di rispondere: “un momento, prima le famiglie, l’educazione a scuola deve
essere un complemento”. Alla famiglia spetta il compito di educare a noi quello
di formare.
Noi gli dobbiamo dare gli strumenti morali, culturali per poter affrontare i
problemi che incontreranno quando entreranno nella società. La scuola non deve
sostituirsi né alle famiglie né allo stato” (L. De Gaetano, Preside Liceo scientifico
di Sondrio).
Dunque, alla famiglia spetterebbe il compito di educare, alla scuola quello di
formare. Nulla di più sbagliato che confondere le due funzioni, ne andrebbe del
significato e del ruolo delle due istituzioni. In ogni caso, essendo il suicidio un
problema sociale non servirebbe a nulla, anzi sarebbe pericoloso, nasconderlo e
non parlarne in assoluto, diventerebbe un problema sociale irto di nuovi
problemi. A quel punto un problema sociale pressoché irrisolvibile.
Come già detto questo lavoro di ricerca ha inteso dare rappresentazione della
percezione sociale di una questione drammatica come il suicidio. L’approccio era
orientato a porre in evidenza gli elementi di connessione tra la natura sociale del
suicidio e le trasformazioni che attraversano la comunità locale ormai da qualche
decennio. Non è stato invece compiuto un lavoro specifico finalizzato a ricostruire
la rete di intervento sociale di prevenzione, ancorché, come abbiamo cercato di
evidenziare, il tema riguardi tutta la società locale. Il problema, come spesso
accade, è che quando un tema riguarda tutti, c’è il rischio che, di fatto, non
riguardi nessuno. E ciò a maggior ragione nel caso del suicidio, che di per sé non
ammette specifiche politiche di prevenzione, come può essere nel caso delle
tossicodipendenze e dell’alcoolismo, né, tanto meno, politiche di cura come nel
caso del disagio psichiatrico.
Rimane però il dato che il suicidio rientri, per i valtellinesi, nel novero degli
allarmi sociali, perciò, in prima istanza, è opportuno che ognuno prenda atto
della natura relazionale del suicidio, a prescindere dalla cause o dalle
motivazioni che ne stanno alla base. Da questo punto di vista l’allarme sociale
riguarda allora la qualità delle relazioni sociali, di cui la rottura tramite suicidio
è tragico sintomo. Ora, come testimoniato dalle interviste, la problematica
sottesa alla qualità delle relazioni sociali evidenzia una pluralità di punti di
111
vista che hanno in comune due aspetti: l’idea di una discontinuità forte tra
passato e presente, la difficoltà ad immaginarsi un futuro che non sia
connotato da paura e tentazioni di rinserramento nei fondamenti della
comunità originaria.
Gli intervistati sembrano assistere all’affermarsi di un’egemonia
dell’individualismo proprietario che mina con determinazione tutti i patti
sociali ereditati dal Novecento e oltre, che non siano quelli di una prossimità
tutta conservativa, senza riuscire in modo efficace a costruire una comunità
della cura capace di porre al centro il tema dell’identità come prodotto di
relazioni.
In questo quadro si inserisce poi quella che la rappresentazione dell’apparato
dei servizi sociali e sanitari che, da una parte, sembra godere di una
complessiva fiducia, come erogatore di servizi specializzati, dall’altra dimostra
una innegabile ma ambigua capacità di connettersi con un privato sociale e un
associazionismo volontario pur diffusi, ma non di rado sussunti dentro le
logiche procedurali della pubblica amministrazione 18 che ne indeboliscono il
potenziale di innovazione.
Non c’è dubbio che tuttavia i servizi psichiatrici territoriali si trovino oggi al
centro di una domanda crescente da parte di una popolazione che sempre
ritiene opportuno affrontare, seppure secondo modalità di “semiclandestinità”, il proprio disagio psicologico.
“Ciò che vedo è che nel tempo, dati alla mano, sono veramente molto molto
aumentati gli utenti del servizio. A questo proposito c’è da dire che potrebbe
anche non essere aumentato il disagio psichico, ma che potrebbe esserci una
maggiore sensibilità alla cura. Le persone hanno davvero maggiore sensibilità;
mentre un tempo affluivano a questi servizi solamente le persone psicotiche,
molto disturbate nel rapporto con la realtà, ore invece c’è una richiesta di cura
più diffusa. Certo, c’è un costo umano molto forte. La persona con problemi ha
gravissimi pudori nei confronti della società e della famiglia, però sente il dovere
di curarsi, spesso per i propri cari. Penso, ad esempio, a tante mamme che mi
dicono: ”ho bisogno di occuparmi adeguatamente dei miei figli, perciò sento il
bisogno di curarmi” ; questo però è un processo sempre molto solitario, al punto
che spesso neppure il coniuge viene informato, anche per paura che si dimostri
contrario a questo tipo di cura e che pertanto diventi un ostacolo; si teme anche
la disistima della famiglia. “ Guai se la suocera o la famiglia sa che il proprio caro
si sta curando per ragioni di tipo psicologico”. C’è ancora questa difficoltà.”
(C.Dettin, psicologa CPS Bormio)
Del resto la comunità originaria, nelle sue fenomenologie più estreme, e
sempre stata chiusa ed autoreferenziale, è stata fucina di follia, non solo nelle
sue manifestazioni di endogamia. Anzi, nel matto del paese, al di là di ogni
visione romantica, si manifestava, magari attraverso una poetica cruda,
quell’elemento irriducibile alla conformità, di diversità umana non riconciliabile
di quelli che vivono o sentono con “troppa” intensità, sensazioni, emozioni e
18
A questo proposito si veda l’indagine di LAVOPS del 2008 “Il volontariato in Provincia di Sondrio:
trama o rammendo della rete?”
112
per questo sono insieme fragili, eccessivi, inquieti e instabili. Così la comunità
originaria è stato il primo soggetto, soprattutto quando essa si è percepita più
come “soggetto” che come “relazione”, a cercare di disciplinare la follia,
dibattendosi in una contraddizione ontologica da cui non è mai,
fortunatamente, uscita. In ogni caso la follia è sempre esplosa come paura
sociale quando la comunità tocca i due estremi, cioè sia quando eccede nel
conformismo ai valori comunitari, sia quando questi valori si dissolvono
nell’anomia, cioè nell’incapacità di elaborare un codice di norme sociali
condivise.
Al processo di invidualizzazione corrisponde, quindi, un accrescimento dei
rischi che non interessano esclusivamente la sfera economica, quindi quelli
eventualmente connessi ad uno stato di povertà materiale, ma ingloba l’intera
persona, esponendo a rischi di disintegrazione una personalità che deve
elaborare individualmente, senza un contesto di relazione e di decantazione
delle esperienze. A questo mutamento ne corrisponde un altro sul piano del
trattamento della follia, che nel nuovo contesto diventa più diffusa, a basso
voltaggio, magari intermittente nella biografia di ognuno di noi, ma comunque
compagna di un viaggio che rischiamo sempre più di compiere in solitudine.
Ma il problema del lavoro sulla cultura delle relazioni non interessa solo servizi
sociali, volontariato. Interessa anche le scuole e le parrocchie,
tradizionalmente vocate a questo ruolo, così come dovrebbe interessare le
organizzazioni sindacali, nonché un associazionismo delle imprese orientato
alla passioni civiche, oltre che alla pura rappresentanza degli interessi.
Infine dovrebbe interessare gli enti locali, se non fosse che questi ultimi sono
percepiti per lo più come uffici tecnici dediti all’amministrazione dei suoli e
dell’urbanizzato, che attivano tanti piccoli interessi e poche passioni per le
relazioni sociali o per la cultura in senso generale. Gli enti locali sono infatti
raramente identificati dagli intervistati come soggetti riconducibili ad una
comunità della cura.
113
Il focus group con gli operatori Caritas
1. Un momento di approfondimento importante è stato l’incontro “di
consuntivo” organizzato a Tresivio con gli operatori volontari di Caritas che
hanno svolto il prezioso lavoro di territorio. L’incontro ha assunto volutamente le
sembianze di focus group, cioè di un’intervista di gruppo, attraverso cui sono
stati affrontati i temi connessi al fenomeno del suicidio.
Di seguito riportiamo i principali risultati dell’incontro, avvertendo però che i
singoli interventi saranno condensati nei temi principali, non quindi in
dichiarazioni individuali con relativi nominativi degli intervenuti. La motivazione
di questa scelta risiede nella necessità di restituire una visione complessiva dei
lavori, una visione che pur non sacrificando il punto di vista individuale, intende
riproporre il carattere di approfondimento del focus group. Un approfondimento,
si badi bene, non basato su punti di vista di operatori professionisti nel campo
della ricerca sociale, ma di operatori che in ogni caso hanno condotto interviste
sul campo a tutti i soggetti che in qualche modo si occupano del disagio che
conduce al suicidio (amministratori pubblici, responsabili di associazioni del terzo
settore, responsabili di parti sociali,…). Naturalmente tali interviste non si
basavano sulla ricognizione delle “cause” che porta una persona a suicidarsi, più
coerentemente con l’impostazione di questa ricerca si basavano sugli
atteggiamenti che un comportamento di questo tipo ingenera nella società e,
cosa di non poco conto, sulle misure che dovrebbero servire a contrastare il
fenomeno. Ovviamente l’incontro si è tenuto dopo la fase di interviste, nel corso
delle quali sono stati riportati gli aspetti principali del pensiero degli interlocutori,
e che in questa sede riportiamo a nostra volta in quanto espressione di quanto
raccontato dagli operatori Caritas.
I lavori dell’incontro sono stati coordinati da Aldo Bonomi, Direttore del
Consorzio AASTER, il quale ha aperto la discussione e con cui noi ora apriamo la
restituzione dei risultati.
2. Il primo problema da affrontare riguarda il territorio. Questo significa che il
fenomeno del suicidio non è più acuto in alta valle rispetto all’area intermedia o
alla bassa valle, significa inoltre che i luoghi della crisi non sono i piccoli comuni
con un’identità tradizionale né le aree territoriali di quella dimensione “media” in
cui è ormai passata la modernizzazione.
I luoghi del disagio sono invece la “dimensione intermedia in transizione”, cioè
i luoghi nei quali i comuni non sono più il paese né la medietà. In sostanza,
questo fenomeno diventa allarme sociale nei luoghi dove non c’è più l’identità del
passato né c’è ancora la nuova identità della modernizzazione.
Del resto ne sono conferma i dati sulla bassa scolarità e sulla stessa tradizione
agro-silvo-pastorale, dati di tale consistenza da giustificare l’espressione secondo
cui “l’ignoranza protegge”. Al contempo però, in base ai dati sulla scolarità
pubblica, anche la professione terziaria protegge, anzi è molto utile sia per ciò
che riguarda i servizi, sia dal punto di vista del committente di questa ricerca,
Caritas. Dunque, i soggetti a rischio non stanno nei poli opposti della società
tradizionale e della bassa scolarità da un lato e della terziarizzazione dall’altro,
stanno invece nel territorio di mezzo, a Villa di Chiavenna più che a Chiavenna, a
Villa di Tirano più che a Tirano.
114
Il secondo punto attiene alle tipologie di atteggiamenti che abbiamo
riscontrato nel corso della ricerca, tipologie che coincidono in gran parte con
altrettanti interlocutori. Gli atteggiamenti, quindi gli interlocutori, non riguardano
solo il suicidio, ma anche il rapporto con la società, con le istituzioni, con la
religione e con il sentire comune.
Ebbene, possiamo riscontrare, meglio, la ricerca riscontra, tre tipi di
interlocutori. Il primo tipo si potrebbe definire dei “tradizionalisti”. Sono coloro
(circa il 32% dei valtellinesi) che hanno maturato una concezione “organica”
della comunità, una concezione cioè del tutto coerente con la dimensione
tradizionale dei rapporti sociali.
Il secondo tipo (circa il 42% degli intervistati) potremmo definirlo “sincretico”,
cioè il gruppo di coloro che vivono una fase di transizione tra “ciò che non è più”
e i valori di una comunità che sta cambiando. In pratica, valori e famiglia sono in
fase di transizione e la popolazione che aderisce a questo cambiamento può
essere definita sincretica.
Il terzo tipo di intervistati si compone di quel 24% di soggetti che ormai si
sono secolarizzati, che hanno cioè ormai maturato un individualismo diffuso e
percepito, un individualismo che li ha portati a concepire legami sociali più
deboli, comunque emancipati da una qualche autorità onnicomprensiva.
In questa gamma così diversificata di tipi umani, un occhio di riguardo deve
essere dedicato ai giovani. Non perché costituiscano un altro tipo a sé stante,
ma soprattutto perché sono loro le persone più interessate da episodi di suicidio,
persone che in ogni caso sono influenzate da diversi tipi di atteggiamento tra
quelli che sono stati indicati. In particolare, i giovani sono in qualche misura
“schizofrenici”, perché soprattutto influenzati dal tipo sincretico e dal tipo
secolarizzato. Due tipi umani certamente distinti l’uno dall’altro ma che, una
volta combinati in uno stesso gruppo sociale, non possono che dar luogo ad un
tipo umano appunto schizofrenico. Anche tra i giovani esistono valori di legame,
ma la particolarità è che questi legami tendono ad orientarsi principalmente
verso aggregati di “piccolo gruppo”. Dunque legami sociali tendenzialmente
orientati a gruppi di ridotta entità, ma se proprio dobbiamo individuare una
specifica particolarità dei giovani, questa potrebbe essere trovata nella
preferenza verso il tipo dell’individualismo diffuso e percepito, quindi nel tipo dei
secolarizzati.
In ogni caso, giovani o meno, le politiche pubbliche e le strategie di
comunicazione non possono essere univoche, orientate cioè da un solo tipo di
atteggiamenti e da un solo tipo di approccio all’intervento; devono al contrario
essere diversificate, influenzate quindi da più modelli di comportamento e di
approccio. Non è pensabile che ad un solo disagio corrisponda un unico tipo di
risposta.
Il terzo punto su cui riflettere è costituito dalle interviste in profondità,
interviste tra cui si trovano gli interlocutori più interessanti, principalmente quelli
che operano “sul margine”, cioè su zone nelle quali agiscono non tanto sacerdoti,
volontari o operatori di servizi pubblici, ma gestori di pub e discoteche. Luoghi
insomma interessati da processi di disgregazione ma al contempo di
riaggregazione.
Il punto che accomuna queste interviste è una sorta di passività verso il “non
dirlo”, una dipendenza da un limite ad esplicitare i problemi, quasi che esplicitarli
fosse sinonimo di eccessiva e ridondante puntualizzazione. Il punto è invece
riuscire a superare la soglia del non dirlo, riuscire a superare il limite che
115
impedisce l’elaborazione di una specifica opera di prevenzione. In effetti, il punto
vero è che per adottare una strategia di prevenzione degna di tal nome, occorre
superare la soglia del non dirlo, e quindi riuscire a oltrepassare quella
separazione che affligge i mondi vitali della Valtellina. Infatti non si può dire che
in Valtellina manchino servizi di assistenza, non si può dire nemmeno che
manchino l’attenzione da parte dei parroci o le stesse associazioni di
volontariato; tutto questo esiste, ma la cosiddetta “società di cura” non parla al
proprio interno: tra tutti questi mondi c’è troppa separazione.
Da tutto questo discende che occorrerebbe far proliferare meno servizi e
associazioni e di più la comunicazione tra mondi vitali, una conclusione che
potrebbe tranquillamente riguardare anche le tre tipologie sociali che sono state
sintetizzate; infatti le tre tipologie a loro volta non si parlano reciprocamente: fra
tradizionalisti, sincretici e secolarizzati non c’è una vera e propria “struttura” che
abbia fatto professione. Le strutture esistenti – famiglia, Chiesa e politica – si
mostrano impreparate a istituire un dialogo autentico tra parti della società,
ciascuna di loro essendo più interessata a “lisciare il pelo” alla tipologia sociale
più vicina o a cui è più interessata. Non è azzardato dire che una delle
motivazioni del disagio e del problema che qui ci riguarda di più, è che questa è
una società “a bassa intensità”, intensità di conflitto, soprattutto, ma anche
intensità di comunicazione.
3. Il primo intervento del dibattito sostiene che in Valtellina c’è ormai un gioco
di autentico “scaricabarile”, un gioco nel quale ciascuna istituzione scarica
sull’altra i problemi più gravosi. Ne sono esempi una famiglia che di fatto non
esiste più e il medico di famiglia che, a parte il fatto che si limita a consigliare la
“pasticchetta” quando incontra problemi, è stato sostituito in pratica dal
computer. Lo scaricabarile, insomma, si esercita tra istituzioni che non esistono.
In ogni caso, tutti gli intervenuti al focus group sottolineano che il lavoro di
interviste è stato ampiamente positivo perché ha ampliato la visione su aspetti
che prima non erano stati considerati. Ciascuno degli intervistati –opinione
comune all’incontro - si è soffermato su qualche aspetto particolare, di sicuro
interesse ma specifico di qualche problema: ad esempio, il giovane intervistato
non ha mancato di sottolineare gli elementi “positivi” di una scelta comunque
negativa, il politico non si è diffuso sui problemi della politica ma si è concentrato
sugli aspetti educativi, il professionista si è invece dilungato sui problemi dei
giovani.
Tutte le interviste hanno poi assunto una comune impostazione: la persona
come individuo unico. In sostanza, serve poco soffermarsi sui mali della società,
molto più utile si rivela attribuire al singolo individuo la sua ineludibile autonomia
di pensiero e di comportamento: ogni persona pensa e agisce per conto suo,
quindi l’elemento interno è più importante di quello esterno.
Dalle interviste, dunque, emerge un imprescindibile presupposto di qualsiasi
lavoro sociale, la crucialità della persona come soggetto protagonista di
comportamenti e di opinioni che nessun aggregato sociale potrà mai
rappresentare compiutamente, a meno che non sia un aggregato dal profilo
totalitario. La persona come architrave, dunque, la persona come imprescindibile
bacino di comportamenti che ne fanno al contempo sede di aspettative, di
speranze e di visione del futuro.
Comunque, si può ben dire che la varietà delle figure intervistate ha sì
assunto una chiave di lettura comune (la persona è solo una di queste chiavi di
116
lettura), ma ciascuno ha poi affrontato un aspetto specifico, cosa che ha reso la
fase di interviste in profondità molto interessante.
Tuttavia, nel momento in cui si trattava di cominciare un’intervista, facilmente
si poteva incontrare una certa diffidenza, una sorta di ritrosia da parte
dell’intervistato a trattare compiutamente il fenomeno del suicidio. Forse perché,
oltre ad essere un tema difficile, è anche un tema che spaventa. Certo è che uno
dei temi centrali sembra essere una mancanza di dialogo e di comunicazione tra
associazioni e tra enti (altra chiave di lettura), una mancanza che si è espressa
anche nel corso delle stesse interviste, in cui qualcuno si è ritirato o si è espresso
in maniera eccessivamente sintetica. L’intervista più interessante condotta da
qualche partecipante all’incontro è stata quella fatta a un gestore di bar, il quale
dopo aver sottolineato che il fenomeno esiste e che lui stesso lo riscontra,
evidenzia che il fenomeno è chiaramente connesso alla ricchezza: questo è un
territorio che una volta era povero e poi è diventato ricco.
Peraltro la mancanza di comunicazione si è anche espressa nella resistenza da
parte di qualche intervistato ad esprimere il proprio pensiero per paura di essere
giudicati. Al contempo, tra coloro che erano stati incaricati di condurre le
interviste, forse anche in conseguenza di questo atteggiamento, si è col tempo
raffreddato l’entusiasmo che c’era all’inizio. La paura del giudizio, quindi, non
solo si è rivelato un elemento cruciale della mancanza di comunicazione, ma si è
anche rivelato un elemento che ha messo a rischio l’efficacia delle stesse
interviste.
A parte poi alcune considerazioni ovvie raccolte a proposito di un
cambiamento sociale che ha interessato principalmente le figure di riferimento
della comunità (parroci, sindaci,..), la cosa che ha colpito di più è stata
riscontrare, nelle interviste, che il suicidio non è un argomento da bar: ognuno
aveva impressioni proprie anche se spesso non confrontate. L’esempio più
evidente è quello di colui che ha sperimentato in famiglia un caso di suicidio;
ebbene, nei rapporti intrafamiliari non c’è stata alcuna discussione a questo
riguardo, nonostante l’accaduto riguardasse un parente prossimo. Resta il fatto
che dopo l’effettuazione delle interviste e la somministrazione dei questionari, è
subentrato un certo disagio da parte di qualche intervistato, un disagio connesso
all’intima paura che un fatto del genere potesse accadere anche nella propria
famiglia.
In ogni caso, lavorando in Caritas, si è potuto constatare la validità di un’altra
chiave di lettura: a eventuali difficoltà economiche non corrisponde
necessariamente il suicidio. Il caso di molte famiglie di immigrati lo dimostra:
queste famiglie frequentemente vivono condizioni economiche disagiate ma
questo non necessariamente conduce i membri al suicidio. Del resto, lo dimostra
il fatto che non si abbia notizia di immigrati che si siano suicidati.
In alcune interviste è apparso piuttosto evidente che il solo fatto di
partecipare all’intervista abbia costretto le persone a pensarci su, a riflettere
magari per la prima volta. In particolare i politici e i responsabili di associazione
tendevano a non porsi il problema in termini sociali, in termini cioè di un
problema che riguarda tutti; il suicidio era solo rappresentato come un problema
di pettegolezzo o individuale; la socialità del problema, insomma, veniva
ignorata e con essa la risposta all’interrogativo per cui questa comunità, e non
altre, sia così tanto interessata da casi di suicidio.
La socialità frequentemente cede il passo a una rappresentazione del
fenomeno in termini medici. Una cosa deve invece essere chiara:
117
fondamentalmente, il problema è di carattere sociale, arriva a diventare di
carattere medico quando il vaso trabocca, perché infatti quando esiste un
ambiente sociale che adotta determinate misure anche i comportamenti
riconducibili a patologie mediche vengono contenuti. Alla fine, però, le
conclusioni sono sempre quelle: o si affronta compiutamente il “bisogno di
parlare”, quindi di incentivare la comunicazione anche presso i disagiati (non solo
tra le istituzioni) o c’è la fuga incontrollata verso comportamenti non voluti.
Peraltro, questo bisogno di parlare, anzi di parlare con cognizione di causa, si
è rivelato un problema anche per gli intervistati. Spesso è chiaramente emersa la
difficoltà a parlare del fenomeno, molti tutt’al più ne parlano perchè la cronaca li
costringe a farlo. Comunque si tende ad attribuirlo a casi personali, isolati e
spesso a persone insospettabili, che hanno intrapreso questo comportamento a
causa della famiglia, quindi con poche possibilità di intervenire.
Per la verità, diversi sindaci hanno mostrato interesse a intervenire, il punto è
che non sanno come. Vi è poi il caso di una giovane intervistatrice che ha
confermato la diffusa opinione secondo cui ci si pone domande e ci si fa opinioni
solo quando la cosa tocca da vicino qualcuno che si conosce o che è
parente/amico. Questa giovane ha da poco messo in scena uno spettacolo sul
disagio mentale e ha posto il problema dell’utilità di un appoggio da parte di
amministrazioni che possono utilmente finanziare questo tipo di iniziative.
Scontata la risposta positiva riscontrata da questa rappresentazione, rimane il
fatto che anche le arti possono fare qualcosa per promuovere la sensibilizzazione
attorno a questo fenomeno.
Tra gli intervistati vi sono anche due categorie che meritano qualche
riflessione; anzitutto gli allenatori sportivi. Tra questi si è fatta strada un
paradosso: tutti conoscono la gravità del fenomeno ma loro, vivendo a stretto
contatto con giovani sportivi, tendono a sottovalutare il problema. I medici,
invece, più che curare qualche aspetto più o meno direttamente legato al
fenomeno, tendono a sottolineare qualche elemento particolare come ad
esempio la guida ad alta velocità e da ubriachi dell’automobile. Chiaro esempio
di quella “cultura dell’eccesso” di cui abbiamo già parlato in sede di commento
alle interviste. In sintesi, l’eccesso è quella irreprimibile spinta ad adottare
comportamenti che vanno oltre i limiti del “normale”, comportamenti anzi che
forzano i limiti socialmente accettabili, l’eccesso quindi come pratiche non dovute
e a lungo andare socialmente inaccettabili: guida in stato di ubriachezza, abuso
di sostanze stupefacenti, frequentazione prolungata di compagnie negli orari
notturni,…
Sempre a proposito di categorie professionali, qualche questore ha negato, in
buona sostanza, che esista un problema di suicidio, limitando il fenomeno a
pochi casi di disagiati. Dunque, il suicidio come comportamento marginale e
sostanzialmente catalogabile tra quanti vivono in condizioni di disagio materiale
o psichico. Da parte di qualche amministratore pubblico si è invece registrata
una grande sensibilità e una certa dovizia di informazioni. Ad esempio, negli
ultimi tempi c’è stata una crescita della richiesta di aiuto di servizi sociali da
parte dei meno abbienti, a fianco di un crescente disagio dei ceti medi. Quindi
una richiesta di aiuto nei confronti di servizi sociali che denota una certa
attenzione alle capacità di offerta pubblica, ma anche un rituale richiamo alla
crisi dei ceti medi, quasi a volere per forza onorare il principio della crescente
complessità sociale. A fronte di tutto questo, tuttavia, non si sa come
intervenire, costante di quasi tutte le interviste.
118
I problemi, però, non potevano che emergere anche nei confronti della
categoria sociale più interessata al fenomeno del suicidio: i giovani. Ebbene, tra i
giovani si può facilmente riscontrare la difficoltà a impegnarsi, a darsi una
ragione di vita per la quale coinvolgere tutte le proprie risorse di impegno; il
motivo è elementare: nessuno li educa al sacrificio e all’impegno. Le persone che
si suicidano sono quelle più chiuse e anche più lontane dalla fede (almeno questa
è l’opinione di un parroco).
Occorre dare ai giovani modelli di riferimento positivi attraverso i casi di
concrete persone; questi modelli dovranno documentare esempi di passione e di
impegno, cioè le condizioni attraverso cui riuscire a dare compiutamente una
ragione alla propria esistenza.
Alla base di tutto dovrà però essere posta la necessità di un lavoro in comune
tra istituzioni, parrocchie e associazioni, quindi un impegno anche per la società,
anche perché questo lavoro verosimilmente metterà in luce che da soli non si
può fare niente.
Infine, il problema del suicidio pone in maniera evidente il tema del “che
fare”. Certamente le istituzioni offrono disponibilità alla collaborazione, tuttavia
manca qualcosa di concreto e anche la comunità nel frattempo si è disgregata,
ragion per cui frequentemente nelle interviste si ripropone il riferimento alla
(ri)costruzione della comunità.
Nei paesi di montagna il suicidio più frequente è l’impiccagione; sembrerebbe
che più facile sia un suicidio tramite la voluta caduta da un dirupo, invece no, il
suicidio più frequente tra la gente di montagna è l’impiccagione, secondo quella
retorica della “corda” di cui anche Bonomi ha parlato.
4. Ora, dopo aver illustrato i risultati del focus group, è opportuno
puntualizzare, seppur in chiave sintetica, i principali aspetti che sono emersi.
Certamente non si tratta di fare un riassunto di quanto esposto ma solo di
richiamare i punti che meritano di essere sottolineati in considerazione della loro
importanza.
Anzitutto va detto che essendo stato organizzato soltanto dopo la fase di
interviste in profondità, il focus group è consistito praticamente solo nella
restituzione di quanto emerso nel corso di quella fase. Opinioni e valutazioni,
quindi, sono in buona misura quelle che sono state espresse dagli intervistati.
Questa precisazione è forse ridondante, essendo stata già espressa in occasione
del primo punto di questa relazione. Tuttavia ci è sembrato importante riproporla
perché chiarifica la distinzione dei ruoli tra intervistati e componenti del gruppo
di ricerca: quanto esposto è il pensiero degli intervistati, seppure filtrato dal
linguaggio degli operatori di ricerca.
Apparentemente ne discende una commistione di significati (quelli degli
intervistati e quelli degli intervistatori) più che una distinzione di ruoli, ma anche
a questa commistione siamo costretti a rimanere fedeli: è difficile e talora
impossibile distinguere il punto di vista degli uni da quello degli altri, ma
comunque ambedue i tipi di punti di vista compongono il bacino ideale per
valutare gli atteggiamenti della comunità valtellinese di fronte al suicidio. Se poi
si considera che ciascun intervento del focus group è stato fatto in forma
sintetica (talora eccessivamente sintetica) si spiega anche il di più di
interpretazione che noi abbiamo aggiunto. Certo l’abbiamo fatto cercando di
rispettare il pensiero degli operatori, ma in ogni caso ne è derivata un’altra
commistione, quella tra intervistati, operatori di ricerca e nostro linguaggio.
119
Sembrerebbe che ne sia derivata solo confusione tra significati, anzi almeno in
parte è vero, ma anche a questa relativa confusione abbiamo dovuto rimanere
fedeli; adesso invece ci atterremo esclusivamente al nostro linguaggio e
l’eventuale confusione sarà solo di nostra responsabilità.
Il primo elemento che merita di essere sottolineato da quanto emerso nel
focus group è la crucialità della nozione di persona. In sostanza, quando si
affronta in termini di ricerca sociale un fenomeno, non si può fare a meno di
considerare l’importanza di quella figura che è depositaria di tutti gli
atteggiamenti e i comportamenti umani, la persona, appunto. Se poi il fenomeno
è di elevata drammaticità come il suicidio, è facile osservare come la persona
diventa fondamentalmente il protagonista assoluto del comportamento che si
intende indagare. Pratagonista non solo perché la persona intraprende un
comportamento dagli esiti conclusivi della propria esistenza, ma anche perché
intreccia in quel comportamento una serie di fattori che a tutti gli effetti sono
catalogabili come tentativi, un percorso, quindi, per “prove ed errori”. I cui esiti
normalmente sono quelli desiderati dalla persona che intraprende questo
percorso, ma che nondimeno sono anche intrisi di una complessità tipica di tutti i
comportamenti umani. Una complessità, quindi, ricca di incertezze, di tentativi
non riusciti e di – almeno quando non è troppo tardi – pentimenti. Il suicidio, di
conseguenza, non è affatto un comportamento scontato, è piuttosto un
comportamento “difficile” nella sua stessa preparazione, un comportamento che
non sempre ha i risultati che si voleva ottenere ma che comunque ha come
presupposto una persona che prova e tenta qualcosa che non era così scontato
all’inizio.
Alla persona, quindi, è d’obbligo assegnare tutti i disagi, le incertezze e i
tentativi che sono impliciti nei disegni ad alto rischio che uomini e donne
intraprendono nella loro pratica consuetudinaria, e poco importa se tale pratica
sarà intrapresa una sola volta e la pratica non potrà ovviamente essere tanto
consuetudinaria, la persona rimane l’architrave dell’intero percorso. La persona
come sede di contraddizioni e paure, ma anche di aspettative e speranze, di
istanze, insomma, che parlando di suicidio non possono che apparire fuori luogo,
ma che invece sono anch’esse cariche di quella “umanità” che anche i
comportamenti estremi riservano all’indagine sociale.
Peraltro, tanto importanti sono questi comportamenti che il focus group non
ha mancato di segnalare l’insufficienza della comunità valtellinese dal punto di
vista del dialogo tra forze sociali e tra istituzioni. In Valtellina la comunicazione
tra questi soggetti è piuttosto carente, e quindi tutti i tentativi di prevenzione o
di contrasto al fenomeno sono in buona misura deboli e senza consistenti
possibilità di successo. Per la verità, a tale mancanza di comunicazione
contribuisce anche una sorta di “paura del giudizio” che impedisce talvolta di
esprimere la propria opinione e di assumere un comportamento univoco. La
paura del giudizio, quindi, si è rivelato un atteggiamento che incentiva il
fenomeno attraverso il silenzio e la stessa mancanza di dialogo tra quanti
dovrebbero essere i depositari della pratiche più indicate per contrastare il
fenomeno. A ben vedere, questa mancanza di comunicazione non è solo una
caratteristica di enti, istituzioni ed associazioni della comunità valtellinese, è
stata anche una prerogativa che ha interessato quanti erano stati incaricati di
condurre le interviste. La già menzionata caduta di entusiasmo ha infatti
interessato queste persone una volta che si sono resi conto che gran parte delle
interviste venivano inficiate da un silenzio che traeva appunto origine dalla paura
120
del giudizio. Tale paura, quindi, si è riprodotta in chi doveva condurre le
interviste, non si è limitata ad essere rilevata presso gli intervistati, ha condotto
di conseguenza ad una limitazione dell’efficacia delle stesse interviste,
riproponendo quella mancanza di comunicazione che si vorrebbe contrastare.
Ora, la mancanza di comunicazione certamente costituisce un limite dei
comportamenti istituzionali e associativi più avveduti, ma non è il solo limite di
una corretta visione del fenomeno. Un limite ben più rilevante è quello di una
vera e propria “riduzione” del problema; in pratica, un problema ricondotto
soltanto ai casi più disagiati della società, quelli cioè più bisognosi di assistenza e
comunque coloro che di fatto sono esclusi dai processi di inclusione e di
integrazione sociale. La riduzione del problema costituisce sicuramente un limite
cui va incontro la maggior parte delle politiche sociali, perché limitare i problemi
è comunque una strategia di crescita del consenso e comunque una pratica che
dovrebbe attestare che molto non c’è più da fare essendo già molto quello che è
stato fatto. Magari vero, ma una considerazione che deve fare i conti con un
altro limite delle politiche sociali: la riduzione del problema a una visione medica.
In effetti non c’è problema sociale che non venga ricondotto soltanto o quasi
esclusivamente a cause di carattere medico, quindi a patologie che solo
competenze mediche di carattere specialistico potrebbero “curare”. Ovviamente
tanto più importante è tale riduzione del problema nel momento in cui si deve
affrontare il fenomeno del suicidio. Che poi si tratti di una riduzione del
problema, appare chiaro una volta che si consideri il complesso di fattori sociali
che vi intervengono, talvolta addirittura nelle vesti di “cause”. Ora, non è
compito di questa ricerca indagare le cause del suicidio; a noi basta sostenere
che questo è comunque un fenomeno sociale, un fenomeno quindi cui non sono
estranei quei fattori di disagio, di marginalizzazione, di solitudine che affliggono
larga parte della popolazione valtellinese. Il carattere sociale del fenomeno,
insomma, non può lasciare alcuno spazio al pregiudizio che lo vorrebbe di
carattere medico, perchè in questo caso verrebbero sacrificati tutti i problemi che
sono impliciti nella società e a cui nessuna visione medica potrebbe mai porre
rimedio.
Infine, soltanto un fenomeno che sia ricondotto correttamente alle sue
categorie sociali potrebbe legittimamente riproporre il tema della comunità. E’
infatti il tema su cui ci siamo già soffermati per sottolineare le sue caratteristiche
di prossimità, di comunicazione e di vicinanza tra le persone che invece il
concetto di società ignora o mette in secondo piano.
Ebbene, appare piuttosto drammaticamente evidente che la comunità
valtellinese si è ormai disgregata, le persone non si sentono più così vicine l’una
con l’altra come accadeva un tempo e la comunicazione sembra ormai aver
smarrito i suoi caratteri di fluidità e naturalezza. Forse che la comunità
valtellinese è diventata una società? Interrogativo troppo radicale e ricco di
articolazioni per poter rispondere da parte nostra. A noi è sufficiente richiamare
quanto emerso dal focus group, cioè che occorre (ri)costruire la comunità, porre
su più solide basi un concetto che sembra aver fatto il suo tempo ma che
conserva caratteristiche imprescindibili per una convivenza virtuosa e con
problemi sociali ridotti. Significa, in buona sostanza, incentivare le occasioni e gli
strumenti attraverso cui la comunicazione e il dialogo potrebbero essere
incrementati, riuscire a vincere la paura del giudizio che gli interlocutori
potrebbero farsi nei nostri confronti quando li intervistiamo, oltrepassare una
121
riduzione del problema che finisce fatalmente per indurre la falsa impressione
che poco c’è da fare perché ormai molto si è fatto.
La comunità, quindi, sembra la partita più importante che attende la provincia
di Sondrio, una partita dalla quale non potranno essere escluse le principali
risorse umane di un aggregato sociale che ambisce a diventare affettivamente
dialogante, accogliente e proiettato verso il futuro. In questa partita non potrà
nemmeno essere esclusa una visione complessa del suicidio che avvalori la sua
natura eminentemente sociale e che anteponga a tutto il suo carattere di
percorso problematico e mai concluso una volta per tutte. Difficile sostenere
quest’ultima affermazione quando nel suicidio viene compromessa “una volta per
tutte” proprio la vita umana, ma quanto è stato qui esposto proprio questo
paradosso ha inteso documentare: il suicidio non è semplicemente una forma di
conclusione della vita umana, è piuttosto la dolorosa ricostruzione di un difficile
percorso a cui perfino il futuro non è estraneo.
122
III PARTE
CONVEGNO “LA MALAOMBRA”
Policampus di Sondrio 17 settembre 2009
123
Interventi del mattino
Don Augusto Bormolini. Diamo inizio a questo Convegno sul fenomeno del
suicidio nella nostra Provincia di Sondrio ringraziando tutti voi che avete
partecipato e che siete qui molto numerosi, quasi un numero insperato per noi
questa mattina qui in questa struttura che ci viene gentilmente concessa. Ecco,
direi proprio siccome la giornata è intensa, occorre sentire Aldo Bonomi che
spiegherà un po’ la strutturazione di questa giornata, poi procediamo a sentire
gli interventi.
Aldo Bonomi. Noi abbiamo strutturato questa giornata di confronto della
comunità locale attorno al tema perturbante dei suicidi in tre blocchi. La
mattinata, se posso usare una terminologia da valtellinese, è dedicata alla Cà
Rossa, cioè ai saperi formali che si occupano di questi problemi. Abbiamo il
Professor Borgna che è un punto di riferimento a livello nazionale, abbiamo gli
operatori della psichiatria che operano in valle e abbiamo anche antropologi, etc.
Quindi nella mattinata di oggi discutiamo come i saperi formali affrontano i
problemi. Nel pomeriggio abbiamo messo due blocchi di lavoro che mi paiono
importanti. Abbiamo infatti messo quella che io chiamo la Comunità di Cura, cioè
il mondo del volontariato, dell’associazionismo, delle Cooperative Sociali, cioè
quelli che fanno tessuto orizzontale di tenuta della società. Ovviamente tra loro
ci sono la rete dei Centri di Ascolto Caritas, senza i quali né la ricerca, né questo
lavoro sarebbero stati possibili. Sono quelli che hanno girato la valle e hanno
fatto le cento interviste in profondità, hanno distribuito i mille questionari, hanno
insomma sensibilizzato al tema. Quindi Comunità di Cura, ma sempre nel
pomeriggio l’abbiamo messa assieme in un intreccio con quella che io chiamo la
Comunità Operosa, cioè il mondo dell’economia, il mondo dell’impresa, il mondo
del lavoro e il mondo del Sindacato, ma non solo il Sindacato del lavoro ma
anche il Sindacato dei pensionati, visto che la questione riguarda anche gli
anziani. Quindi il secondo blocco del pomeriggio riguarda le energie della società
locale diffusa in senso economico e in senso sociale rispetto al tema. Chiudiamo
poi inevitabilmente e giustamente con una discussione e un dibattito con le
istituzioni a cui spetta per diritto e per dovere, fondamentalmente, l’indirizzo
delle politiche e l’indirizzo delle politiche sociali. Non nascondo che l’obiettivo di
don Augusto e mio è fondamentalmente che da questa giornata di lavoro, che
per noi è un inizio, scaturisca un gruppo che dialoghi con i saperi, con le
istituzioni, e quindi che si faccia carico collettivamente di quella che io chiamo,
una Coalizione Sociale su questo problema. Quindi io darei inizio ai lavori, il
signor Prefetto non me ne vorrà se faccio fare prima un saluto dalla struttura che
ci ospita, una Cooperativa Sociale che ci dà il benvenuto, poi c’è l’introduzione e i
saluti del Prefetto, che rappresenta da questo punto di vista lo Stato, non
dimentichiamocelo, e quindi anche lo Stato ha il compito di prendersi cura dei
cittadini, con tutto ciò che questo significa, e poi diamo inizio ai lavori con la
ricerca e con il dibattito con quelli della Casa Rossa.
Presidente del Solco. Vi rubo solo qualche istante per porgervi i saluti del
Consorzio Solco Sondrio, Consorzio di Cooperative Sociali che tra le altre cose
gestisce questa struttura che è il Policampus dove terremo oggi i lavori di
presentazione di questa ricerca-azione condotta da Caritas e dal Consorzio
124
AASTER. E’ un momento importante sicuramente per parlare tutti insieme di
questo tema così perturbante come quello dei suicidi in questa vallata alpina che,
per citare parole di Bonomi stesso, spesso nasconde la tristezza di certi dati
sotto il tappeto, e quindi ecco un’occasione per parlarne di più e più
apertamente. Noi vorremmo anche raccogliere un altro invito di Aldo Bonomi,
che è quello rivolto soprattutto a coloro che hanno un po’ il torcicollo, cioè il
dolore che colpisce quanti a furia di guardarsi di qua e di là per cercare di
indagare, di capire i fenomeni tragici che caratterizzano a volte la nostra valle,
quindi l’invito rivolto soprattutto alle Comunità di Cura di mobilitarsi, di agire, di
fare qualcosa, di fare in modo che a questa ricerca ci sia un seguito. Noi delle
Cooperative Sociali questo torcicollo ce l’abbiamo da parecchio tempo, direi che è
nel nostro dna questa voglia di capire e di fare, per cui non possiamo che
raccogliere l’invito di Bonomi a esserci, e a esserci insieme a tutti quelli che
vorranno esserci con noi.
Chiara Marolla, Prefetto di Sondrio. Io ringrazio dell’invito a questa giornata,
una giornata che come è stato detto raccoglie un po’ tutta la realtà della nostra
provincia, una realtà composta non soltanto dalle istituzioni, non soltanto dagli
Enti e dalle associazioni che partecipano a vario titolo all’esame, alla cura di
questo problema, di questa questione, ma anche il privato, anche rappresentanti
di varie entità che sembrano, diciamo, meno coinvolte da un punto di vista
immediato, ma che in realtà credo siano invece tutte molto interessate in termini
reali. Il fenomeno infatti è un fenomeno che a me lascia senza parole, forse
perché non lo capisco. Il gesto, come si dice, “insano” è un gesto che talora forse
nel passato ho quasi considerato come un gesto coraggioso, nel senso di un
gesto che non sarei mai riuscita a fare, mai riuscita a compiere. E poi ho sempre
avuto la sensazione che quando avviene un evento del genere, vuoi che sia
palese, vuoi che sia invece meno evidente - perché purtroppo tante altre azioni
sottendono questo fenomeno, anche se magari apertamente non sembra così –
mi ha lasciato sempre veramente con momenti di grande difficoltà, proprio
perché ripeto è un gesto che mi è estraneo, che difficilmente riesco a
giustificare, a motivare. Che però è un fenomeno che ho visto qui in valle,
purtroppo molto frequente. E’ vero, si dice, che le valli alpine sono più soggette,
ci sono statistiche, ci sono una serie di studi. Ma al di là di quello che può essere
il numero - e questo credo che sia un po’ la ragione anche di questa riflessione
che si vuole fare oggi - un po’ cercare di capire le cause, e un po’ ci hanno
aiutato anche i vari testi che ci sono stati suggeriti, ma direi più che altro il
coinvolgimento che ciascuno di noi può avere in questa materia, su questo
argomento. E su questo credo che veramente il fatto di mettere insieme un po’
tutti possa essere il giusto mezzo attraverso il quale ciascuno di noi, sia come
istituzione, come Ente, ma anche io credo come individuo, può veramente
apportare qualcosa. Qualcosa che è anche, io credo, un gesto a volte semplice, a
volte banale come può essere una risposta più cortese, un interessamento, una
domanda fatta su un certo problema che viene posto. Tutti piccoli atti che
probabilmente, presi noi tutti da questo vortice quotidiano, non notiamo. Ecco, io
credo che ci sia anche un po’ una carenza d’attenzione da parte di tutti oggi, al
di là di quelli che sono i problemi basilari e sui problemi che sono stati anche
esposti in questi scritti, problemi che sicuramente esistono e lo sappiamo. Però
io credo che la società è in continua evoluzione, e quindi attribuire ad alcuni
elementi particolari di questa epoca le uniche cause sia un po’ limitante. Io mi
125
auguro che questa giornata porti a quello che si diceva, una riflessione per
ciascuno di noi come istituzioni, come Enti, come associazioni, sindacati, ma
soprattutto come singoli individui.
Don Augusto Bormolini. Credo che il mio compito sarà abbastanza breve,
perché devo solo dire con che spirito la Caritas ha intrapreso questa ricerca, il
perché di questa ricerca e poi proprio è mio dovere come Responsabile Caritas
anche ringraziare tutti coloro che hanno collaborato alla ricerca. Allora, perché
questa ricerca indetta dalla Caritas? Beh, è chiaro che siamo partiti dalla realtà,
e la realtà era quella del fenomeno suicidale in provincia di Sondrio. Noi
sapevamo che da molti anni la nostra provincia detiene purtroppo un alto tasso
di suicidi, quindi questa è una realtà che non si può negare. E allora il compito
della Caritas, oltre a quello che fa, potremmo dire giornalmente, con l’assistenza,
coi Centri di Ascolto, con l’attenzione alle varie povertà, economiche, materiali,
ma anche di altro tipo, compito della Caritas è anche quello di studiare, di
conoscere, di approfondire e di riflettere sulle cause delle varie povertà. E quindi
pensavamo che era proprio compito della Caritas approfondire il perché di questa
povertà estrema che è il togliersi la vita, che è il non voler vivere, che è il non
dare più valore alla vita. Ecco allora che proprio la Caritas già da anni, Caritas
Italiana, ma anche nella nostra Caritas Diocesana, ha promosso i famosi Centri e
Osservatori Caritas sulle povertà e sulle risorse. Noi qui in provincia di Sondrio,
per la verità nel 2004 sempre con l’aiuto di Aldo Bonomi e di Albino Gusmeroli,
avevamo già fatto una ricerca po’ a volo d’uccello su una fotografia generale
delle varie situazioni di povertà, e quindi avevamo già fatto per così dire una
perlustrazione generale, e già lì c’eravamo impegnati a dire: ”Nel seguito quando
approfondiremo altri aspetti focalizzeremo l’obiettivo su tematiche particolari”.
Ed è stata proprio questa la prima tematica particolare che noi abbiamo voluto
approfondire appunto partendo dalla realtà. Ecco, come forse è già stato detto
questa è stata una ricerca che però non è solo studio, non è solo
approfondimento teorico. E’ stata una ricerca che bisogna mettere insieme con
l’azione, con l’agire. Potremmo dire che la Caritas vuole conoscere meglio la
realtà per operare meglio nella realtà: è questo lo spirito di fondo che ci
proponiamo. E quindi la ricerca è solo un primo passo di un lavoro futuro che
dovremmo progettare insieme, e oggi è anche questo il senso del Convegno:
cercare di progettare insieme un lavoro futuro su questa tematica così
importante. Quindi oggi è sì un punto di arrivo, conosceremo i risultati,
conosceremo un po’ come viene giudicato dalla società valtellinese questo
fenomeno, però oggi è anche un punto di partenza; per creare un gruppo di
lavoro al fine di riuscire almeno a prevenire in parte questo triste fenomeno.
Quindi il suicidio è un fenomeno che non va rimosso, cioè non dobbiamo
dimenticarlo, ma va assunto, bisogna prendere coscienza. Non è solo un fatto
individuale, non è solo un fatto che riguarda la famiglia, è un fatto che riguarda
la comunità, è un fatto sociale, ci riguarda il suicidio che c’è nella nostra
provincia, quindi riguarda tutti noi. Ecco questa era proprio la finalità della
ricerca, quella di scoprire come il suicidio viene percepito nelle nostre comunità:
si nasconde, si rimuove, si mette una parentesi, non se ne vuol parlare, si
censura? Volevamo sapere un po’ questo e dalla ricerca è venuta fuori una
risposta a questo. Quindi non abbiamo voluto approfondire le varie
interpretazioni che ci sono sul suicidio, quelle biologiche, psicologiche, anche
quelle sociali. Per la verità ci sono anche già molti studi fatti anche nella nostra
126
valle, ci sono tesi di laurea fatte sul suicidio in Valtellina che analizzano queste
interpretazioni. Non volevamo neanche dare valutazioni morali, valutazioni etiche
su questo fenomeno. Volevamo proprio solo renderci conto di come le nostre
comunità assorbono, riflettono, percepiscono il fenomeno, e credo che sia pure
indirettamente lo scopo ultimo era di arrivare a dare un contributo per prevenire
il fenomeno del suicidio responsabilizzando però la coscienza di tutti. Ecco questo
era un po’ lo spirito di fondo. Ed ora qualche ringraziamento. Innanzitutto
ringrazio i collaboratori Caritas, circa quaranta, che per vari mesi si sono
sparpagliati un po’ in tutta la Valtellina distribuendo circa mille questionari
quantitativi e circa cento interviste un po’ più approfondite, che noi abbiamo
chiamato questionari qualitativi. Un ringraziamento va certamente ai sociologi
Aldo Bonomi e Albino Gusmeroli, che col loro studio hanno fatto un po’ da
trascinatori, da coordinatori di questo lavoro, l’hanno diretto, l’hanno analizzato
e hanno sintetizzato anche il lavoro delle ricerche fatte dai volontari Caritas.
Devo ringraziare anche il nostro Segretario Severino Diamanti, che ha sempre
sollecitato e aggiornato tutti sugli incontri di formazione sull’andamento dei
lavori. Credo sia stata una persona molto utile per tenere unito e sollecitato il
gruppo. Ringrazio anche coloro che hanno risposto ai questionari, specialmente
quelle cento persone che si sono rese disponibili per una intervista anche molto
impegnativa. E poi ringrazio tutti gli ospiti che abbiamo invitato oggi a questo
Convegno e che hanno accettato di intervenire a dare un po’ il loro contributo, e
che noi ascolteremo volentieri. Un grazie anche alla stampa, alla giornalista
Marsetti, la quale ha fatto un servizio che credo andrà in onda nei prossimi
giorni; sulla Televisione Svizzera al programma Falò ci sarà un’intervista proprio
su questo fenomeno. Quindi anche la stampa ha dato un contributo e un aiuto
per renderci coscienti di questo problema. E poi ringrazio veramente tutti voi che
avete voluto partecipare al Convegno. Certo, è un Convegno impegnativo, ma
credo che sia molto importante per la nostra società valtellinese, che oggi viene
un po’ rappresentata nelle sue varie funzioni. Quindi io direi, questo per
terminare, che se da questo Convegno si riuscirà a prendere maggiore coscienza
di questo grave disagio del vivere che molte persone delle nostre comunità
stanno sentendo, e porteremo un po’ di speranza in più, magari anche solo a
poche persone, vorrà dire che questo Convegno è stato positivo.
Albino Gusmeroli, ricercatore Consorzio AASTER. A me il compito di parlare
della tristezza dei numeri all’inizio e poi dare il risultato molto sinteticamente
della ricerca. Allora, partiamo appunto dai numeri che riguardano le nostre valli,
la Valtellina e la Valchiavenna. Il fenomeno del suicidio è almeno negli ultimi
venticinque anni, per i dati che ho potuto recuperare con l’aiuto dell’Istat e
dell’Azienda Locale Ospedaliera della Valtellina e Valchiavenna, molto più alto
della media nazionale. Allora, i dati ci danno un po’ l’andamento di quello che è il
tasso di suicidi ogni 100.000 abitanti nelle nostre valli, che ha una leggera
tendenza alla discesa fortunatamente e che è molto oscillante però nel corso del
tempo. E’ un fenomeno, come del resto in tutta l’Italia, che interessa
prevalentemente la popolazione maschile, quei ¾ dei suicidi sono maschi e ¼
grosso modo sono femmine. Questo accade in provincia di Sondrio, in Italia e in
Europa la percentuale è sempre quella, e infatti la linea di tendenza ci porta ad
una leggera discesa, teniamo comunque presente che il dato 2008 (12,7) pone
la provincia di Sondrio al quarto posto in Italia, insieme ad altre province alpine e
alle zone interne della Sardegna. Quindi è un fenomeno che nelle Alpi è diffuso,
127
appunto negli ultimi venticinque anni quantomeno sia sul versante Sud sia sul
versante Nord, perché se andiamo in Svizzera, in Slovenia, in Austria o sul
versante francese i dati non cambiano. Quindi abbiamo un’area europea, che è
quella delle Alpi, che assomiglia molto all’area scandinava e baltica, che sono le
altre due aree a grande diffusione di questo fenomeno, storicamente a grande
diffusione. Altri dati ci danno un’idea appunto semplicemente della differenza tra
l’andamento del fenomeno in provincia di Sondrio e quello in Lombardia e in
Italia, e vediamo appunto che ci sono tassi, anche solo andando sotto Colico, che
sono praticamente 1/3 di quello che succede qui in Valtellina sostanzialmente.
Vado veloce giusto per dare un’idea di quello che è. Allora abbiamo detto che il
tasso di suicidi tende leggermente a scendere mentre invece il tasso di tentativi
di suicidio tende a salire, e anche in questo caso siamo su numeri notevolmente
più alti della media lombarda e di quella italiana. Sempre con grandi oscillazioni,
perché è indubbio che bastano pochi casi per cambiare molto l’andamento, la
proporzione sui 100.000 abitanti sostanzialmente. Qui ho cercato un po’ di
collocare appunto la provincia di Sondrio utilizzando i dati del 2006 e
confrontandoli con alcuni stati europei. La Svizzera assomiglia molto come
distribuzione alla nostra, specialmente l’area ticinese, nell’area dei Grigioni
presenta dati anche ben peggiori di quelli della provincia di Sondrio, e comunque
siamo molto lontani sia dalla media italiana sia dalla media dell’Unione Europea.
Invece è l’area baltica e poi la Cina e la Russia in particolare, a rappresentare dei
dati molto alti. Tra il ’90 e il 2000 abbiamo avuto 281 casi di suicidi, quindi
abbiamo un suicidio ogni 1,6 morti sulle strade, e solo che i morti sulle strade
fanno molto più effetto e abbiamo più notizie di quanto non sia per i 281 suicidi.
Ci sono quattro casi di suicidio ogni morto sul lavoro e un caso di omicidio ogni
14 suicidi. Quindi la proporzione che nel Mezzogiorno d’Italia sarebbe
completamente ribaltata, perché poi di fatto l’Italia ha un bassissimo tasso di
suicidi rispetto all’Europa, perché nel Mezzogiorno è bassissimo, è 2 ogni
100.000 abitanti mentre qui è 13 appunto. La provincia di Napoli è la provincia
dove ci si suicida di meno, ma probabilmente è anche una delle province dove si
ammazza di più, quindi è una violenza rivolta verso l’altro e non verso se stessi.
Abbiamo realizzato 102 interviste con l’aiuto di 60 volontari della Caritas, a
sindaci, assessori, presidi, insegnanti, imprenditori, professionisti di tutti i generi,
dagli psichiatri, ai medici, agli avvocati, ai giornalisti, poi operatori sociali,
parroci, cooperatori, studenti, volontari, sindacalisti e rappresentati di categoria.
Quindi abbiamo toccato uno spettro notevole, l’impegno dei volontari è stato
notevole devo dire, perché poi era sempre un lavoro volontario anche questo. Gli
stessi volontari sono andati a somministrare gli 872 questionari con un
campionamento stratificato, quindi voleva dire che uno doveva andare a Berna,
trovare la persona che aveva tra i 60 e i 70 anni, maschio, possibilmente con un
titolo di studio basso, quindi era uno sforzo anche da questo punto di vista
notevole per i volontari che hanno preso parte alla ricerca. E qui due dati sulle
risultanze, sulle evidenze, diciamo così. Dei nostri 872, 2/3 hanno dichiarato di
essere a conoscenza nella loro cerchia delle amicizie o familiari o delle
conoscenze in senso più lato di casi di suicidio, quindi è indubbiamente una
questione che riguarda il “noi”, è chiaramente nella cerchia dei conoscenti che è
prevalente, però il fatto che almeno il 25% abbia tra gli amici un caso di suicidio
e il 16,5 uno tra i familiari, mi sembra suggerisca che il fenomeno quantomeno
nel privato tocca parecchio. E infine arriviamo un po’, e questo credo che servirà
forse più al dibattito dopo, alle tre categorie che sono venute fuori in termini
128
statistici facendo l’analisi dei cluster, di tutte le risposte e cercando di tirar fuori
tre tipologie da tutte le domande che abbiamo fatto agli 872. Allora, siccome lo
scopo era non tanto di capire perché le persone si suicidano, cioè la ricerca dei
motivi, ma piuttosto di capire se gli 872 considerano che ci sia un legame tra lo
stato della comunità, la salute della comunità e il suicidio, cioè quanto la
comunità è in grado di proteggere l’individuo, pur sapendo che non dipende solo
dalla comunità evidentemente, ecco, da questo punto di vista abbiamo
individuato queste tre categorie: Tradizionalisti, Secolarizzati e Sincretici.
Brevemente, i Tradizionalisti ci dicono che sì c’è un legame molto forte tra
suicidio e comunità, ma è proprio perché non abbiamo più la comunità di un
tempo che oggi la comunità non è più in grado di proteggere l’individuo e quindi
bisognerebbe tornare indietro. Aldo direbbe appunto, “bisogna guardare
indietro”. E quindi l’ambito di riferimento per loro è così la comunità originaria,
cioè tornare alla comunità di un tempo che aveva quei valori in grado di rendere
coeso il legame sociale. Come ho scritto, i Tradizionalisti sono più maschi,
teniamo presente che sono quelli che si ammazzano anche di più, sono soggetti
tendenzialmente col titolo di studio basso, non appartengono ad una fascia di età
particolare, abitano in comuni medio-piccoli, quindi sotto i 3.000 abitanti e sono
per lo più operai, casalinghe, pensionati o studenti delle superiori e sono
leggermente più rappresentati nell’area di Morbegno. Ma l’area di Morbegno è
rappresentata in tutte e tre le categorie perchè è proprio quella dove si vede di
più il cambiamento in atto nella società. Aggiungo anche, visto che avevamo
fatto delle domande sulla fiducia a tutta una serie di attori delle cerchie sociali,
che sono i Tradizionalisti a sentirsi più soddisfatti dalle relazioni di prossimità,
anche se poi sono i più diffidenti verso l’altro in genere. I Sincretici sono quelli
che ha richiamato anche il Presidente del Solco all’inizio, quelli che sì ritengono
che effettivamente ci sia un legame con la Comunità, cioè il suicidio ha a che
fare con la qualità del legame sociale, ma oggi non possiamo più pretendere di
ritornare a quei valori di un tempo, cioè bisogna pensare a un nuovo tipo di
comunità. Sincretici perché tengono appunto insieme quel torcicollo a cui
abbiamo fatto più volte riferimento. Sono Sincretici che però sono anche
Spaesati, perché in effetti allo stato attuale non sanno molto dove andarla a
cercare questa comunità e quindi è questo uno dei compiti sui quali magari
riflettere anche oggi. E qui infatti ho indicato comunità assente allo stato attuale.
Qui invece prevalgono le femmine, che sono sempre più problematiche dei
maschi, però con età superiore ai 50 anni, titolo di studio medio-alto, sono un
pochino più rappresentate Chiavenna, Morbegno e Tirano. Anche qui vado alla
fine dicendo: sono soggetti non molto soddisfatti delle relazioni sociali che
hanno, che pure però ritengono importanti. L’ultima categoria che abbiamo
individuato, e che rappresenta più o meno ¼ dei nostri intervistati - i
Secolarizzati - non considera che ci sia un legame tra comunità e suicidio, cioè il
suicidio è un fatto totalmente individuale. Ed è un costo, la libertà dalla
comunità, perché la comunità qui è percepita come un vincolo, come qualcosa di
chiuso, anzi come qualcosa che probabilmente favoriva il suicidio perché
espelleva il diverso. Allora per queste persone, per questa cluster, “fortuna che
non c’è più ‘sta comunità, così siamo liberi, ognuno per sé e Dio per tutti”.
Questa libertà conquistata, diciamo così, ha un costo che sono la solitudine e i
rischi che derivano dalla libertà, ma ha un costo che tutto sommato si può
sopportare, che la società può sopportare. E qui uso il termine post-comunità
perché la comunità in qualche modo viene liquidata come concetto. Sono maschi
129
e femmine, qui prevalgono di nuovo i giovani invece, questa tendenza è molto
viva tra i giovani rispetto a categorie più mature, titolo di studio medio-alto e
l’evidenza è che qui sono Morbegno e in particolare Sondrio ad essere
rappresentate, perché Sondrio è molto forte. Qui non trovate mai Bormio perché
l’unica cluster, cioè l’unica area sulla quale non siamo riusciti a soddisfare il
campione era proprio l’area di Bormio, e quindi mi sono soffermato sempre sugli
altri quattro mandamenti.
E’ molto rappresentato il lavoro autonomo qui dentro, quindi commercianti,
artigiani, molto i liberi professionisti, gli imprenditori, e gli studenti appunto
under trenta. E qui concludo dicendo che sono i meno soddisfatti delle relazioni
di prossimità, che però non sono neanche ritenute molto importanti, proprio
perché in fondo appunto prevale più l’idea dell’individualità, diciamo, sull’aspetto
del legame sociale, nella loro psicologia non è importante il legame sociale. Io
credo di aver finito dicendo solo che i ¾ dei nostri intervistati ci dicono che il
suicidio è comunque un allarme sociale, checché se ne voglia dire, solo ¼ per
qualche ragione ci dice che non è un allarme sociale. Ovviamente qui le due
classi principali sono quelle che, sì ci dicono, è un allarme sociale ma non
sappiamo cosa fare, oppure sì è un allarme sociale ma la gente non ne è
consapevole sostanzialmente. L’ultima cosa è quello che si vorrebbe che si
facesse per affrontare il problema. Ebbene, secondo gli intervistati occorre
potenziare i servizi sociali e dare più ruolo all’associazionismo. Questo è venuto
fuori molto anche nelle interviste in profondità. In effetti i servizi sociali sono
comunque un soggetto di cui si ha fiducia, pur con tutti i limiti. Mentre invece la
promozione di campagne informative, che è sostanzialmente tutta concentrata
sui Secolarizzati, appunto l’informazione individuale e basta, è molto più bassa
sostanzialmente. Quindi sono questi poi i due attori sui quali fare leva. Gli
insegnanti sono molto più indietro, e anche il dibattito pubblico, il coinvolgimento
dei personaggi pubblici sul tema men che meno, probabilmente perché non
sanno quali sono questi personaggi pubblici che hanno titolo a parlarne.
Aldo Bonomi. Alcune battute di commento a quello che abbiamo capito dal
lavoro di ricerca. Inizierò con due frasi molto banali. Un mio amico economista
ragionando della grande crisi economica, della crisi globale, ha scritto un libro
titolandolo “Il posto dei calzini”, volendo dire con questa metafora che
l’economia non è solo finanza, non è solo grandi banche, ma l’economia è anche
quotidianità. Se posso fare una battuta rispetto a questo lavoro che abbiamo
fatto in Valtellina e con la Caritas, che ringrazio dell’opportunità di averci aiutato
a capire e a ricercare, io credo che a fronte di un indicatore di crisi sociale,
perché è un dato di fatto, la battuta che mi viene è quella che ho scritto
ripetutamente e ho scritto anche oggi: dire alla società valtellinese di ”non
nascondere quei numeri come polvere sotto il tappeto di casa”. Andrei un po’
oltre, direi di non nascondere quei numeri sotto altri numeri, di cui andiamo
molto orgogliosi, perché ogni volta che verso Natale escono le classifiche del Sole
24 Ore, queste ci vedono sempre al primo, al secondo, al terzo o al quarto posto
degli indicatori del reddito e del benessere. Apro una parentesi, ci sarebbe molto
da dire su quelle classifiche perché poi gli indicatori lasciano fuori qualcosa,
perché se a un certo momento quel punto di disagio non entra dentro e c’è solo
il PIL e non il PIQ, cioè il Punto di Qualità della vita e non solo quello del dato
economico, allora c’è una certa tendenza nella mia gente a nascondere sotto i
numeri del benessere, dell’operosità, della grande dimensione del sacrificio
130
anche i numeri di questa crisi sociale. Quindi io dico in primo luogo che è
compito della ricerca, che ha preso il testimone di un lavoro che era già stato
fatto anni fa per sensibilizzare il territorio dall’Associazione degli Infermieri - non
riesco mai a capire come si deve dire IPASVI o qualcosa di simile che abbiamo
conosciuto durante il lavoro - e quindi io dico rimandiamo a chi ha già fatto
questo percorso, ne pigliamo il testimone e lo mandiamo avanti pensando di
andare avanti ancora, allora il primo punto è “parliamone”. E dico parliamone
perché in questo lavoro di ricerca è successa anche una cosa buffa che poi tanto
buffa non è, che un Sindaco tra virgolette, per di più medico, che non cito, a
fronte del fatto che dovevamo mettere i manifesti in cui si diceva che c’era il
Convegno sulla Malaombra ha detto: ”No, di questi problemi è meglio che non
affiggiamo i manifesti pubblici”. Beh, quindi io credo che fin quando i sindaci, e
dico ancora di più, i medici di base, ragioneranno in questi termini non ci siamo,
lo dico in maniera molto chiara. E quindi siccome questo è successo lo cito solo
per carità di patria e non dico chi. E quindi questo è il primo punto: parliamone.
Parliamone senza vergogna, discutiamone, affrontiamo il tema e mettiamolo
dentro il capitale relazionale di questa società. Secondo punto, e lo dico
soprattutto agli esperti, a quelli che Foucault avrebbe chiamato quelli della
clinica. Con questa ricerca noi non ci siamo permessi, né vorremmo farlo, di
spiegare il perché dell’estremo gesto, questo è compito di chi si inoltra nei
meandri della mente. C’è un bellissimo pezzo nella rivista che avete appena
preso di Borgna che entra dentro e dice quanto questo problema dei suicidi è
psico-patologia del soggetto oppure psico–dinamica sociale. E’ l’intreccio tra
queste due cose. Ragionando su questo tema io credo che tanto il sociologo che
lo psichiatra - seguendo la scomposizione della società l’uno e i meandri della
mente l’altro - arrivano ovviamente al malessere dell’essere del soggetto. Quindi
noi non abbiamo cercato di spiegare il perché dell’estremo gesto, però abbiamo
cercato di capire il perché si rimuove l’insano gesto, questo sì, in questo rapporto
complesso tra Io e Noi, e in questo devo dire che c’è un primo dato per cui il Noi
entra in maniera prepotente dentro questo ragionamento. Il 65% dei valtellinesi
ha avuto nelle sue relazioni di prossimità un caso di suicidio. Molti erano
conoscenti, ma molti erano amici o familiari. E da questo punto di vista devo dire
che chi ci ha aiutato di più a lavorare socialmente, posso citare, è la Navicella,
ma perché la Navicella cosa fa? Ha organizzato anche le famiglie che hanno
avuto il lutto. Ha messo assieme quelli che hanno bisogno di elaborare il lutto e
quindi sapere sociale, dramma sociale portato all’interno. Devo ringraziare Del
Barba per quello che mi ha insegnato in questo lavoro. Quindi il 65% dei
valtellinesi è stato toccato da questo fenomeno. E lo dico a quelli che si occupano
dell’Io ovviamente, quindi c’è una disponibilità dei soggetti. Lo dico a Ballantini,
se il 65% della popolazione è stata toccata da questo basta che le istituzioni
preposte si mettano in contatto. Succede quello che è successo a noi quando
andavamo a chiedergli l’intervista, e lui dice:”Ma perché lo chiedi a me?” Poi
quando incominciavamo a discutere dice: ”Ah, sì, mi ricordo, E’ successo al mio
parente, è successo al mio amico”. E quindi ovviamente si torna fuori da quel
profondo della memoria in cui ovviamente si viene avanti e si discute del
problema. Quindi c’è una disponibilità a mettere in connessione la sensibilità
sociale, il dramma sociale con i saperi che devono occuparsi e produrre cura.
Che cosa abbiamo capito, molto telegraficamente? Punto primo, le polarità a
rischio: sono due. Voi direte avete scoperto l’acqua calda! Gli anziani e i giovani.
Cioè, lo dico al Sindacato Pensionati, all’amico Fassin che interverrà oggi
131
pomeriggio. Il problema del Sindacato Pensionati è un problema di farsi carico
anche di questo, non solo di pensioni, reddito e senso. Perché quella polarità
degli anziani arriva al gesto estremo? Perché c’è, come diceva Peter Andke,
“felicità senza desiderio”, cioè non si hanno più desideri, e si è pervasi dalla
nostalgia di cui parlava prima Gusmeroli di una comunità che non c’è più.
Nostalgia di una comunità che non c’è più. Poi sappiamo tutti che questa storia
del “Com’era bello!” non è vera, che è un immaginario collettivo. Sappiamo tutti
che in quel “Com’era bella!” o “Com’era bello!” c’è tutto un meccanismo di
ricordo, c’erano le brutture, c’erano anche dentro le famiglie patriarcali le
violenze, in particolare le violenze alle donne, tutti problemi di questo tipo, lo
sappiamo, ma la nostalgia la dipinge come un quadro bucolico. E uno che ha
molta nostalgia e non ha più desiderio di vivere cosa fa? Si toglie la vita! Bisogna
lavorare in questa sezione degli anziani. Lo dico a Fassin, lo dico all’Università
delle Terza Età che abbiamo coinvolto, molto importante ragionare con loro
rispetto a questo. Seconda polarità i giovani, che invece di essere “felicità senza
più desideri” sono “l’infelicità desiderante”, questa grande voglia di star dentro
questo mondo moderno, ipermoderno, pieno di opportunità, da Internet che ti
porta nel mondo alle discoteche, ai problemi del piacere e della realizzazione
dell’essere che può tutto. Il vero problema è che poi quando tu hai uno stipendio
da precario e non trovi lavoro non riesci ad afferrare niente di quella che è
l’opportunità, e siccome non afferri più niente ovviamente ti rendi conto che ti
rimane in mano un pugno di sabbia che si disperde. Questo discorso
dell’“infelicità desiderante” è importante. L’amico Van de Sfrooss, che arriverà
oggi a discuterne, ha detto “la ruota del criceto”, cioè quelli che son dentro
quella ruota in cui devi venir giù la sera e iniziare alle 9, andare al tennis fino alle
11 e mezza-mezzanotte, poi andare alla Moia, e poi arrivare più tardi, e poi arrivi
sfinito e dici: ”Ma cosa m’è rimasto in mano?” E questa è l’infelicità desiderante,
quel circuito per cui ad esempio, lo dico di nuovo a Ballantini, a Baruffini, a quelli
che operano su questo territorio, abbiamo detto che quelli che io ho chiamato “i
mercanti di liquore”, quelli che gestiscono i pub e le discoteche, diventano i
confessori di questa solitudine. Perché quelli sono i luoghi, si pensa, dei desideri
e della loro realizzazione. I giovani, e non mi dimentico che questa ricerca in
parte è partita perché tornando a casa a Tresivio, quando si è suicidato un
nostro compaesano giovane, e non si capiva perché, ho detto a don Augusto:
”Ma perché non ce ne occupiamo?” Questa è la motivazione, semplice: “Perché
non ce ne occupiamo e cerchiamo di capire?” Quindi anziani per “spaesamento” e
giovani “ruota del criceto”. Con le tre polarità territoriali; i problemi, facendo
degli esempi, ci sono soprattutto tra Spriana, Tresivio e Sondrio. Allora succede
meno a Spriana perché Spriana è rimasta una comunità originaria, in cui ci sono
un po’ di vecchi che stanno lentamente morendo mantenendo la comunità
originaria. Sondrio una polarità invece ormai terziarizzata, simil-Bolzano come la
chiamo io, in cui però tutti ormai sono un po’ bancari, un po’ fanno i servizi, etc.,
pensano che Sondrio debba, virgolette, competere ed essere dentro ad una
dimensione di città, quelli che stanno in mezzo sono in quella dimensione di
comuni intermedi che non sono più né paese né città. Se penso a Tresivio, che è
il mio Comune, la mia comunità originaria, è un luogo emblematico. Ma forse
perché non conosco più metà di quelli che arrivano, perché metà di quelli che
arrivano sono da fuori, perché è diventato un luogo di residenza. Sono quei
Comuni dove bisogna concentrare fondamentalmente la perdita dell’identità. Con
due dimensioni del tempo: una dimensione del tempo del “non più”, cioè quindi
132
molti dicono: ”Non c’è più quello che abbiamo lasciato”, e nello stesso tempo non
si è ancora entrati nella modernità del “non ancora”, ciò che non è ancora
arrivato. Con tre polarità che sono quelle che ha presentato Gusmeroli: la
Nostalgia di quello che c’era, l’Ansia di quello che non c’è ancora e quelli che
hanno il “torcicollo”. Io ho scritto facendo una battuta, se passasse l’angelo di
Benjamin in Valtellina che è “l’angelo che cammina con la testa rivolta
all’indietro, ma cammina verso il futuro”, si potrebbe dire che rispetto a questo
tema i valtellinesi sono divisi tra quelli che guardano indietro con nostalgia e
dicono: ”Com’era bella la mia valle! E allora lì non ci si suicidava”, quelli che
dicono: ”Come fa schifo la mia valle!” e il punto di riferimento è Milano, la
metropoli, che sono quelli del “non ancora”, e poi per fortuna, e sono quelli su
cui potete contare nell’azione sociale, nel rapporto, quelli che hanno il
“torcicollo”. Quelli che si guardano indietro, guardano avanti, però dicono: ”Qui
stiamo, qui viviamo, qui dobbiamo ricostruire una società e una Comunità
Operosa”. Questo è il punto, e quindi puntare sui Sincretici, che sono tanti, che
sono disponibili, perché attenzione! altro dato importante della ricerca: più del
70% dei valtellinesi ha detto: ”Occupiamoci di questo problema”. Quindi, lo dico
per le istituzioni, se uno se ne occupa ottiene consenso, che sappiamo essere “la
merce” che le istituzioni e la politica hanno bisogno per alimentare la loro azione.
E lo dico anche alle istituzioni preposte da questo punto di vista. Cioè c’è
consenso nella valle se ci si occupa di questo problema. E se posso fare una
battuta, lo dimostra anche il fatto che su un tema triste si è riusciti a discutere di
questo con giovani, etc. Cioè, la gente sente questo problema, non dobbiamo
aver paura, sente questo problema e si può andare avanti rispetto a questo.
Finisco dicendo un altro punto di “crisi”, la crisi della famiglia. Questo è un dato
che riguarda tutti. Cioè la famiglia è un luogo della “guerra civile molecolare”,
termine pesante in sociologese, però fondamentalmente la famiglia non riesce
più a tenere assieme gli anziani e i giovani. E le figure preposte, l’autorevolezza
del padre, e la dolcezza e l’autorevolezza della madre sono legate, e su questo
bisogna lavorare. Su questo non voglio arrivare alla sociologia spicciola di mia
mamma, che ho richiamato nel testo che ho scritto. Perché la mia mamma mi
dice ogni volta: ”Se guardiamo la via dove io son nata 82 anni fa non c’è più una
famiglia che sia uguale a quella che c’era un tempo”. Perché è cambiato, la
modernizzazione è arrivata, è cambiato tutto. Bisogna rilavorare su questo
nucleo centrale, questo tondino di ferro della comunità, ragionare su questo,
perché la famiglia è importantissima rispetto a questo, non ci fosse lei
rimarrebbe solo fare il sindacalismo del disagio. Dalle interviste abbiamo capito
una cosa, anche questa per gli operatori, molto spesso le famiglie dicono: ”Ma
perché non se ne occupa la scuola?” E lo dico per chi qui rappresenta la scuola.
“Perché non se ne occupa la scuola? Se ne deve occupare la scuola”. Famiglie e
scuola dicono: ”Se ne devono occupare i servizi!” Tutti quanti assieme dicono:
”Perché non se ne occupano le istituzioni pubbliche?”. Il problema è che bisogna
occuparsene tutti, senza fare il sindacalismo del disagio. Questo è il punto. E
quindi, per chiudere, io credo che ci sia una crisi del soggetto, una crisi del
sociale, però finisco con un dato di speranza. Nel lavoro di ricerca abbiamo
capito che la Valtellina, per fortuna intessuta da saperi, competenze,
volontariato, associazionismo, Cooperative Sociali che fanno una forte Comunità
di Cura, non è una società debole. Per capirci, io nella Comunità di Cura ci
metto: gli psichiatri, gli psicologi, gli infermieri, tutti quanti quelli che operano in
questo settore, gli insegnanti, i presidi, quelli che per funzione del Welfare si
133
occupano della cura, assieme all’associazionismo, al volontariato, alle
Cooperative Sociali. Questa è la Comunità di Cura. E in Valtellina c’è una forte
Comunità di Cura, molto spesso non parlano tra loro, ecco questo è il punto,
però metterli in connessione è importante. Forte Comunità di Cura che però deve
mettersi in rete con le altre, in particolare con la Comunità Operosa, quella
dell’economia. Per questo abbiamo invitato imprenditori. E devo dire che sono
rimasto molto soddisfatto quando avendo chiesto agli imprenditori valtellinesi di
venire, hanno risposto: ”Veniamo”. Perché il problema della coesione sociale non
è un problema solo delle istituzioni, del sindacato, del volontariato e
dell’associazionismo, il problema della coesione sociale è anche un valore
economico. E quindi chi fa banca, chi fa impresa, chi vende energia elettrica
deve occuparsi della coesione sociale del territorio. E quindi lo sforzo è quello di
“fare intreccio” tra una Comunità di Cura, una Comunità Operosa e mettere in
piedi una coalizione sociale rispetto alla quale muoversi. E lo anticipo, lo diremo
in conclusione dei lavori: nasce questo gruppo informale che dall’esperienza di
un anno di lavoro tra l’Associazione Navicella, la Caritas, le Cooperative Sociali,
l’Associazione degli Infermieri, etc. dice: ”Mettiamoci assieme per lavorare in
questa direzione”, assieme a progetti istituzionali che verranno presentati
stamane, progetti della Cà Rossa che vengono da lì. Per chi non lo sapesse, la Cà
Rossa era il Manicomio di Sondrio, almeno quando io ero bambino. Oggi credo
che sia la sede del CPS. Ecco, quelli della Cà Rossa devono mettersi in
connessione con i saperi informali, e rispetto a questo se ci sono, lo dico in
maniera molto chiara, un po’ di soldi “privati” rispetto a questa cosa, non fanno
schifo. E’ compito anche delle Fondazioni bancarie, delle A2A, etc., e mi pare
piacevole poter dire che ne parleremo oggi pomeriggio con Van De Sfrooss, che
rappresenta quell’antropologia anomala che canta la società come la cantano i
sociologi, infatti lui ha detto: ”Se fate ‘ste cose, siccome io canto la Valtellina,
sono disponibile a venire a fare un concerto e i soldi di quel concerto darli per
incominciare a lavorare rispetto a questo tema”.
Possiamo continuare. Allora, chiamo l’amico Bonacina che è il Direttore di Vita a
coordinare la tavola rotonda. Ci sono tutti: il Professor Eugenio Borgna, Mario
Ballantini, Tiziana Baruffini, la Cà Rossa insomma. Enrico Del Barba, la Navicella
che ho appena citato, Claudio Marcassoli, Nicola Montrone, Michele Rigamonti e
Annibale Salsa, Presidente del CAI nonché antropologo insigne. All’una
presenteremo il video che abbiamo realizzato rispetto a questo ed è molto
importante perché la figura di riferimento non siamo noi che abbiamo fatto le
interviste, ma è Mauro Parolini, il poeta schizofrenico, come si definisce lui, che
ce l’ha fatta. E’ un buon esempio.
Riccardo Bonacina, Direttore di Vita. Continuiamo sulla strada tracciata da
Aldo Bonomi in apertura con i saperi dedicati all’Io come ha detto lui, la Cà
Rossa, cioè il Manicomio di Sondrio che adesso invece è sede del Centro Psico
Sociale, e di altre strutture connesse. Quindi il compito di questa tavola rotonda
stamattina è ascoltare molti tra coloro che hanno anche preso parola sul numero
di Communitas che vi è stato distribuito, e però lo facciamo dal vivo, lo facciamo
“vis à vis” cercando di fare quindi un ulteriore approfondimento, guardandoci in
faccia e parlando a un pubblico così numeroso. Quindi il tema di questa mattina
è capire gli esperti, coloro che praticano i saperi che riguardano la cura della
mente, la cura della persona, l’educazione della persona per capire cosa è
possibile fare, per capire, per continuare a cercare i motivi, come titolano le
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sezioni di Communitas, e per capire cosa è possibile fare. Io credo che sia
importante dare subito la parola al Professor Eugenio Borgna, che ringraziamo
particolarmente di essere qui perché il viaggio non è stato breve, Eugenio
Borgna è un maestro della riflessione psichiatrica in Italia, vi segnalo due libri
che io ho amato tantissimo, un libro che sono “Le emozioni ferite” e l’ultimo che
non ho ancora letto, che però mi dicono che è altrettanto importante, che sono
“I luoghi perduti della follia”, e su Communitas commentando la ricerca, ha
scritto una bellissima riflessione che abbiamo titolato “Fare Comunità ed aprirsi
al mistero”. Quindi gli chiediamo oggi di riproporla magari arricchita anche da
altre cose che nascono dall’ascolto di questa prima parte della giornata.
Eugenio Borgna, libero docente in malattie nervose e mentali. Grazie
intanto dell’invito che mi è stato fatto e delle parole troppo generose che ho
ascoltato, delle quali sono comunque infinitamente grato. Quali parole uno
psichiatra può avere nel momento in cui si confronta con questa che è
l’esperienza “limite” della vita, l’esperienza più sconvolgente, più oscura, più
immersa nelle ombre del mistero, sulla quale filosofi, psichiatri, psicologi, hanno
scritto libri senza fine, ma anche senza cogliere fino in fondo che cosa determina
in quel momento quella persona, al di là delle sue condizioni psicologiche, al di là
delle condizioni sociali, al di là delle sue povertà, al di là della sua cultura, a
spegnere questa torcia, questa fiamma che non si spegne nei nostri cuori, che è
la fiamma della vita e della speranza. In ogni esperienza di suicidio certo la
speranza si oscura, anche se non sempre. Come Leopardi ha scritto, penso che
tutti lo conosciate, “una goccia, una scintilla di speranza si nasconde anche nel
suicidio”, anche in questa scelta che sembra essere proprio “la tomba della
speranza”, cioè la chiusura di ogni possibile sguardo al futuro. Parole dunque, le
mie, che vorrebbero essere, tentano di essere, parole di rispetto innanzitutto, di
comprensione, mai di condanna. Non pensiate che nella insorgenza, nella genesi,
nello svolgimento dell’attuazione di un suicidio la libertà, cioè la consapevolezza,
sia mantenuta fino in fondo. Nelle esperienze che ho potuto fare sia nel
Manicomio di Novara sia poi nell’Ospedale Psichiatrico, nel Servizio Psichiatrico
dell’Ospedale Maggiore di Novara, c’è comunque una zolla, un’area di libertà
“assediata”, e quindi non inevitabile, e quindi curabile, e quindi arginabile, e in
questa mancanza a volte di soccorso, di parole che aiutano, siamo tutti
corresponsabili nel suicidio di chiunque, qui o al di fuori di qui, giovane o
anziano, se giunge alla morte muore anche qualcosa in noi. Senza retorica,
abbiamo ascoltato le parole meravigliose di Aldo Bonomi; ebbene, l’esperienza
della morte volontaria è anche un’esperienza sociale, non è mai comunque una
sola esperienza medica, non sono i medici e non sono gli psichiatri che possono
risolvere questo problema, perché se il suicidio fosse il problema in qualche
modo lo si risolverebbe. Ma il suicidio ha proprio in sé queste connotazioni
essenziali del mistero e il mistero come sapete è qualcosa che possiamo solo
intravedere quando l’ombra dell’infinito viene in noi, almeno come traccia,
almeno come speranza, almeno come orizzonte di vita. Temo di non destare
inquietudini se dico che non di rado chi sceglie la morte è fra i migliori fra noi,
perché chi sceglie la morte, al di là ripeto della sua illibertà, della sua coscienza
colpita, e anche ferita, è certo non colpevole, come non sono colpevoli le
depressioni, le tristezze, le angosce, le inquietudini che a volte scendono su di
noi, su di voi. Perché, come ha scritto una volta un grande psichiatra tedesco,
Kurt Schneider, “Spaventiamoci non dell’ansia, dell’angoscia, della tristezza, che
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in determinati momenti nascono, e non possono non nascere in noi, ma
spaventiamoci quando questa angoscia, questa disperazione a volte non
l’abbiamo mai conosciuta”. In una splendida poesia di Emily Dickinson e anche in
parole altrettanto belle - era del resto un triduo di poesie di Don Giussani - c’è
questa che mi sembra essere una delle pietre che fondano, che partecipano, sia
pure attraverso sentieri che non sono quelli che abbiamo ascoltato prima, che
rientrano in questa utopia. Ma come sapete non si vive senza utopia, non si salva
il destino di una persona che magari cammina sull’orlo dell’abisso e che si
salverebbe se almeno una goccia di utopia vivesse in noi. Senza contare poi che
questo grande scrittore e poeta tedesco, Robert Musil, ha scritto una volta che
l’utopia è la vera realtà perché c’è questa dimensione dell’indicibile che vive in
noi, e che comunque entra sempre in gioco quando abbiamo a che fare con
questa esperienza, della quale, ripeto, soprattutto uno psichiatra non può se non
parlare con timore e con tremore, anche perché non dico nelle cause certo, che è
una parola anche così dura, che va nell’ambito della medicina, ma non della
psichiatria, ma nel campo delle motivazioni per le quali questa o quella persona,
giovane
o
anziana,
magari
dominata,
divorata,
sommersa
dalla
tossicodipendenza, oppure da una depressione, va alla morte. Per la verità, non
si tratta semplicemente delle “infinite depressioni” di cui parlano i giornali, che in
realtà sono depressioni delle quali appunto ciascuno di noi non può fare a meno,
ma di quelle depressioni certo taglienti, crudeli, che possono portare anche a
rimettere in discussione fino in fondo con asprezza, ma anche con quella
“divisione” che conosce soltanto chi soffre. E appunto, sia don Giussani come
Emily Dickinson hanno scritto, e forse una delle immagini che dovrebbe vivere
magari nei loro cuori, come rivive nel mio cuore, è questa: se state male, se
avete bisogno di qualcuno che vi dia una mano, guardate che molta parte della
psichiatria che cura è fatta soltanto di gesti banalissimi, semplicissimi, come
quelli ai quali appunto anche Aldo Bonomi accennava, cioè al coraggio di dare la
mano, di guardare negli occhi, di cogliere quel dolore che talora si manifesta
soltanto attraverso gli sguardi delle persone. Perché le parole che le persone ci
dicono, anche di quelle che magari hanno già deciso di morire, sono parole che
possiamo cogliere nel loro significato più vero e più profondo soltanto se anche il
nostro cuore è aperto a cogliere il linguaggio, a cogliere le espressioni appunto
degli sguardi, dei volti, della fatica e della fragilità. Queste cose rientrano in molti
sentieri, sia pure attraverso sentieri diversi da quelli praticati da questa
splendida indagine, che mi ha anche commosso per questa altezza di linguaggio,
ma anche per in un discorso di delicatezza e gentilezza; e non pensiate che la
gentilezza sia soltanto un elemento del carattere perchè a volte è la sola sonda
che ci consente di cogliere voi in un vostro compagno, e tutti coloro che si
occupano di psichiatria oppure che hanno a che fare con relazioni umane
possono cogliere qualcosa che ci metta accanto a chi soffre, ma soltanto se la
sofferenza è stata una nostra compagna di strada, ecco che allora possiamo
salvare anche una persona che ha meditato il suicidio. Che poi non esiste il
suicidio, ma esistono infiniti modi di realizzare il suicidio. C’è un suicidio, certo,
che è legato anche ad una condizione se vogliamo di “deserto emozionale”, che è
quello determinato essenzialmente dal dilagare di queste droghe, leggere o
pesanti, e anche dall’alcolismo, che svuotano le sorgenti e le fonti creative delle
emozioni per spegnerle, per trasformare ciascuno di noi in robot. Come sapete,
in Germania stanno creando robot che parlano, che ascoltano, per i quali
addirittura arrivano a ipotizzare che possano avere una coscienza. Ora, questo
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suicidio, e forse queste mie intuizioni, che sono nate dalla lettura di questa
splendida Communitas, ecco forse è qui che si può trovare la ragione per la
quale è più alta l’incidenza di suicidio in Valtellina. Perché entrano in gioco altre
due grandi motivazioni nel suicidio, la prima riconducibile ad una condizione
depressiva, alla depressione grave, la seconda legata alla solitudine, intesa non
solo e non tanto come isolamento, perché come sapete c’è una solitudine
negativa ma c’è anche la solitudine positiva. Si può essere soli nel deserto
eppure avere dinanzi a sé la nostalgia, l’ansia, il desiderio della relazione, del
dialogo. Senza contare poi - per chi abbia la fede - che è una delle poche
certezze che ci inducono a guardare ad una persona che magari ci viene a
parlare del suicidio come ad un baluardo, su questo siamo d’accordo tutti. E
infine il suicidio che nasce dal dissolversi, dal bruciare, dal consumarsi di
relazioni umane, di affetti sui quali grandissimo è stato l’investimento. Per chi
abbia letto le poesie di Antonia Pozzi, delle quali ho scritto e continuo a scrivere,
coglierebbe istantaneamente questa ombra e questo rischio. Perché appunto
giungere al suicidio a 26 anni, essendo immerso in una rete di relazioni, ma
anche quando le relazioni umane sono state intensissime e significative, ha
sempree a che fare con l’ombra e il rischio. Chiunque di noi se leggesse oggi
queste poesie, basterebbe una, infatti tutti quelli che le stavano intorno, dai
genitori a questi famosi professori filosofi: Antonio Banfi, Remo Cantoni, poeti
grandissimi, come Vittorio Sereni, nulla avevano capito delle poesie, di quelle
poche che aveva fatto leggere loro, delle lettere strazianti. L’ultima mia
considerazione: come ci cambia, noi che abbiamo letto questa straordinaria
ricerca, come cambiate voi, quali nuove percezioni nascono non solo sul piano
della conoscenza, che è già un piano estremamente importante, ma sul piano
dell’interiorizzazione, da fare vostre e nostre le tesi che muovendo da un’ottica
sociologica certo sfiorano la interiorità. Come sapete, “in interiore homine abitat
veritas”. S. Agostino è anche quello che ha detto rivolgendosi al Signore: “Tu
che conosci il numero dei capelli che noi abbiamo, non ci fai però conoscere gli
orizzonti sconfinati dei moti del cuore che vivono in noi”. Anche questa bellissima
immagine si lega a quella del mistero. E allora che cosa cambia leggendo questa
ricerca senza “portare vasi a Samo”, certo anch’io ho colto, ho riflettuto su
aspetti che non conoscevo, ma la vera metamorfosi, la vera trasformazione è
proprio questa utopia della Comunità di Cura, che se volesse Aldo Bonomi
accompagnare con una definizione più “mia”, anche mia, è quella di Comunità di
Destino. Perché la Comunità di Cura ha un senso proprio nella misura in cui
diventi una Comunità di Destino, per cui il destino di chi muore è anche in
qualche modo il destino di noi, che magari non conoscendo nulla della persona,
magari non riconoscendo la timidezza di alunni che a scuola falliscono, che a
scuola sembrano incapaci di riflettere, e che sono i migliori, ebbene tutto questo
accade però per “intendere la voce silenziosa che grida nel deserto”, come ha
detto Simone Weil, che può a volte salvare anche giovani più fragili, i migliori fra
noi.
Riccardo Bonacina. Grazie davvero al Professor Borgna per la ricchezza di
spunti e di riflessioni. Questo della Comunità di Destino mi sembra un tema che
si potrà sviluppare magari nei prossimi numeri di Communitas, e quindi grazie.
Continuiamo il nostro giro di riflessioni, e darei la parola ora a Mario Ballantini
che è Direttore del Dipartimento di Salute Mentale, e che tra l’altro anche lui ha
scritto una riflessione su Communitas, in cui ho trovato molti spunti. Tra l’altro a
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proposito della Comunità di Destino lui nelle sue riflessioni parlava di educazione
alla positività rileggendo lo scandalo anche dell’idea del peccato cattolico. Perché
era un peccato il suicidio? Lui lo ribalta e dice: forse perché bisogna educare alla
positività, nell’epoca delle opportunità infinite è sparita l’educazione alla
positività, al fatto che la vita è fatta per te in qualche modo, è sempre fatta per
te. Quindi sentiamo anche la sua riflessione.
Mario Ballantini, Direttore del Dipartimento di Salute Mentale. Ho affidato
qualche riflessione al volume che avete letto, ma venendo qui oggi riflettevo fra
me e me: “Vorrei parlare con voi o dare un contributo alle riflessioni che
facciamo da un altro punto di vista.…” Non parlerò di suicidio, deludendo forse
alcuni di voi. Voglio vedere le cose da un altro punto di vista, più specifico, il
punto di vista del mio ruolo, perché è vero che io appartengo alla Comunità della
Cura, alla Cà Rossa. Però vi appartengo in un ruolo un po’ particolare.
Contrariamente a com’era forse in passato, la funzione del Direttore del
Dipartimento di Salute Mentale non è più principalmente o esclusivamente una
funzione di eccellenza clinica, ma anche e soprattutto fa da cerniera tra chi sta in
trincea quotidianamente, nei CPS, nei Pronto Soccorso, nei reparti di psichiatria,
nelle comunità, tra chi sta sulla strada insomma e il Sistema. Il Sistema che
organizza, che detta le regole, che finanzia la loro attività. E’ da questo punto di
vista che mi interessa riflettere sul problema per cogliere la provocazione che
inizialmente, e con l’artiglieria pesante direi, Bonomi ha fatto, di chiamata a
raccolta, di patto, etc. Non da oggi, e non sono certo il solo a dirlo, abbiamo
sentito chi ben più di me lo ha detto chiaramente, il Professor Borgna, e tanti
altri. Non da oggi io ritengo, insieme a tanti altri, che il problema del tasso dei
suicidi non sia sicuramente un problema che può essere esclusivamente limitato
alla clinica psichiatrica, è un problema che riguarda un’intera comunità, le sue
credenze, i suoi assetti di vita, le relazioni che si svolgono all’interno. Non ho il
linguaggio né gli strumenti dei sociologi, l’abbiamo letto e visto, a me basta però
dire questo: la salute mentale non riguarda che per un consistente tratto la
medicina e la psichiatria, ma il grosso della partita, gran parte della partita si
gioca su ben altri tavoli, che sono quelli delle relazioni all’interno di una
comunità, sono quelli della società. Ma è qui che si innesta secondo me la
provocazione di Bonomi, quando chiama il Patto di Cura, quando chiama a
raccolta le forze sociali. Ma è qui che si innesta anche ciò che ci ripete ad ogni
piè sospinto il Piano Sanitario di Salute Mentale della Regione Lombardia quando
richiama e declina il principio di sussidiarietà, quando ci chiede, e cito
testualmente, "un ancoraggio forte del Progetto di Cura che noi facciamo
attraverso il legame fondamentale con la rete territoriale primaria naturale e
secondaria, i servizi”. Lo fa quando enfatizza il ruolo dell’organismo di
coordinamento di salute mentale, che chiama un po’ a raccolta a gestire la
psichiatria tutti i diversi attori sociali. Allora capite che il problema oggi per me
diventa come declinare operativamente tutto questo, come far diventare i
protocolli e i documenti, i principi scritti e firmati pratica quotidiana e cultura dei
servizi, come far diventare rintracciabile nel lavoro di tutti i giorni questa
apertura e questa saldatura sociale. Questo secondo me è fare prevenzione e
lavorare insieme. Io credo che un po’ di strada in questa direzione sia stata fatta
da parte della Comunità della Cura, credo che molto sia ancora da fare. Vorrei
dare un ponte dal punto di vista del Dipartimento all’altra parte, alla Comunità
Operosa, e agli altri attori della Comunità di Cura, citandovi alcune iniziative che
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ci vedono impegnati. Ormai da diversi anni si è intrapresa un’iniziativa, che
sottoforma di progetto innovativo si è radicata in Bassa Valle con un nome
emblematico, il nome di Familiari Benvenuti. Il Dottor Patrizi e i suoi collaboratori
incontrano i familiari dei pazienti, vanno nelle scuole, promuovono una maggior
conoscenza dei servizi, della malattia mentale, delle possibilità di intervento e
della lotta allo stigma. La Regione ha finanziato e promosso questa iniziativa
riconoscendone in qualche maniera il valore, e il significato è quello di costruire e
tenere aperto un dialogo. Non è una strada facile, né per le persone che
incontriamo, ma neanche per gli stessi servizi. Con il progetto Tempo Zero qualcuno di voi sicuramente ne ha sentito parlare - si tenta dapprima, almeno
nell’ambito di Sondrio, una modalità flessibile e informale ma rigorosa nel
metodo, di incontrare il mondo dei ragazzi, di intervenire prima possibile sugli
esordi psicotici, sui ragazzi che cominciano a star male. All’interno dei nostri
servizi si vive sempre con maggior disagio la presa in carico, l’incontro con un
paziente schizofrenico, un paziente psicotico che incontriamo dopo mesi, qualche
volta anni, di più o meno ovattata sofferenza, magari in occasione di un grave
tentativo di suicidio o con la drammaticità di un trattamento sanitario
obbligatorio. Ma come possiamo porci questo fine, questa possibilità di entrare in
contatto con questo mondo se non vengono sensibilizzati e coinvolti i medici di
medicina generale, i consultori, i Sert, la scuola e tutti gli ambiti di aggregazione
giovanile? Se non incidiamo su questa mentalità? Come potremmo intervenire se
non si incide sul pregiudizio che ritarda la richiesta dell’intervento per la paura di
una stigmatizzazione? Ci stiamo muovendo in questo senso. E’ stata per me una
grossa soddisfazione non soltanto vedere voi oggi qui, ma anche la serata di
presentazione del Servizio Tempo Zero. Il Cinema Excelsior era pieno e il
dibattito è stato ricchissimo. Sono questi i passi nella direzione giusta. Anche la
proposta che abbiamo fatto, e che abbiamo trovato anche difficile da proporre e
da realizzare della cosiddetta residenzialità leggera, che propone delle forme di
residenzialità psichiatrica più emancipate, meno protette, con un maggior
coinvolgimento degli Enti Locali, del privato sociale, del volontariato, la stiamo
proponendo e vediamo la fatica che facciamo per tessere un dialogo con gli altri,
anche con gli Enti Locali, con le istituzioni. Ma è un dialogo che riteniamo
doveroso perché va in questa direzione. L’ultima sfida che tentiamo di cogliere è
quella sul lavoro. Abbiamo accettato una sfida importante su questo problema
del lavoro dei pazienti psicotici gravi. Il lavoro non è soltanto un modo per
guadagnarsi da vivere come sapete, ma soprattutto garantisce un ruolo e un
senso di cittadinanza che altrimenti è difficile da conquistare. Con un
finanziamento della Fondazione Cariplo abbiamo fatto nascere un progetto con
un percorso specifico e rigoroso su questo problema, che ha messo a tema in
modo forte anche nei nostri servizi, dove è stato sempre presente ma qualche
volta marginale, il tema del lavoro, ma soprattutto ha chiamato a raccolta il
mondo degli imprenditori, le associazioni di categoria, il mondo della
cooperazione sociale, il volontariato intorno a un tavolo tecnico per ridurre lo
stigma e lo svantaggio che i nostri pazienti incontrano quando si affacciano al
mondo del lavoro. Ora voi direte: cosa c’entra tutto questo con il suicidio? Cosa
c’entra con la riflessione filosofica e antropologica che facciamo oggi? Io dico che
c’entra perché sono iniziative che vanno nella direzione dell’affermazione di un
concetto di fondo che vale anche per il suicidio. Ci sono cose per la salute
mentale e per i nostri pazienti che non può fare la psichiatria da sola, direi anzi,
non deve fare la psichiatria da sola, e che sono determinanti per il benessere
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della gente, al pari delle medicine e della psicoterapia. Con queste iniziative che
noi lanciamo tentiamo di “aprirci” e di chiamare a raccolta un po’ tutti, la
Comunità Operosa la chiamerebbe Bonomi, perché ognuno faccia la sua parte. Io
penso che insieme al grande patrimonio tecnico che ci viene dalla medicina, dalle
neuroscienze, dalla psicologia, e anche dalle scienze umane, quest’apertura ci
aiuterà a fare meglio il nostro lavoro, che è quello di prenderci cura della
sofferenza mentale, farsi carico di queste persone che incontriamo ogni giorno,
anche nell’area così “critica” della prevenzione delle condotte suicidali. Riflettevo
che nell’incontro col “paziente a rischio”, il nostro compito, con l’accoglienza,
l’ascolto, i farmaci, è quello di dare spazio e rappresentare, come dicevamo
prima con Bonacina, la positività della vita, la speranza, cioè uno sguardo capace
di cogliere nelle condizioni date la possibilità reale e forte di un’evoluzione
buona. Mi ha colpito appunto la lettura del bel libro di Groopman, che è un
oncologo, “Anatomia della speranza”, che questa inizi ad essere una parola
sempre più presente in medicina, prima non lo era mentre adesso comincia a
diventare anche tecnicamente presente. Ma diventa un punto irrinunciabile
quando parliamo appunto dell’incontro con la sofferenza mentale e con le
condizioni suicidali. Vi lascio con una citazione di Chesterton, che riassume un
po’ questa riflessione, una citazione tratta dalla sua autobiografia. “Questo fu il
mio primo problema, quello di indurre gli uomini a capire la meraviglia e lo
splendore dell’essere vivi”.
Riccardo Bonacina. Grazie a Mario Ballantini, anche perché ha provato a
esplicitare come praticare nella quotidianità, nella gestione dei servizi, la
saldatura tra cura e comunità, quindi anche con gli esempi delle iniziative in
corso, e anche per quella riflessione che ha fatto sul finire, quando ha
sottolineato che ci sono cose che la psichiatria non può e non deve fare da sola.
Credo che su questo Tiziana Baruffini, che a quanto ho capito “abita” proprio
nella Cà Rossa, essendo psichiatra del Centro psicosociale di Sondrio, ripropone
la domanda che emerge sempre “Ma il sapere, la pratica della psichiatria sino a
quanto può aiutare?”
Tiziana Baruffini, psichiatra del Centro psicosociale di Sondrio. Molti di voi
immagino che mi conoscano perché sono più di vent’anni che lavoro come
psichiatra nei servizi della zona, e negli ultimi cinque anni lavoro appunto al CPS,
al Centro psicosociale di Sondrio, che è, o dovrebbe essere comunque “il cuore
dell’assistenza psichiatrica territoriale”. Ho partecipato alle riunioni organizzate
dalla Caritas che hanno accompagnato lo svolgimento della ricerca, e devo dire
che per me è stata un’occasione importante per riflettere un po’ sul senso di
quello che si fa quotidianamente, perché poi purtroppo in servizi sempre più
pressati da richieste con risorse non sempre adeguate, con ritmi di lavoro
sempre più incalzanti, a volte si rischia un po’ di perdere il senso di quello che si
fa, ed è importante appunto trovare un momento in cui fermarsi e pensare. E
credo che così la considerazione più positiva che mi è venuta da questa
riflessione sia stata proprio l’accorgermi che per me, e spero per molti altri
operatori psichiatrici, ma in particolare colleghi medici, è avvenuto negli ultimi
anni il salto di qualità. Un salto di qualità che è quello che ci ha fatto passare,
venendo anche da una formazione medica tradizionale, quindi da una concezione
anche un po’ presuntuosa, come se noi fossimo gli unici addetti ai lavori, i veri
depositari di un sapere tecnico che si occupasse della salute mentale, un salto di
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qualità che si esprime nell’interiorizzazione del fatto che la salute mentale è
qualcosa di molto più complesso e che va oltre la disciplina medica e la
psichiatria, e però nello stesso tempo questo fa sì che anziché indebolire
l’“identità” nostra di medici, di operatori della psichiatria, addirittura il fatto di
accettare che da soli non ce la possiamo fare, ha rinforzato anche la
consapevolezza di avere delle competenze specifiche, la nostra “identità”, e
ovviamente pensando poi di metterle in rete, in relazione con altri saperi e con
altri settori della società. Io sono un operatore di trincea, e quindi come tale
leggerei le riflessioni che ho fatto sul volume di Communitas dedicato a questo
Convegno e alla ricerca. Sono un po’ fatte proprio da operatore di trincea, sono
delle riflessioni su questi “numeri shock”, come ha intitolato la Provincia sabato
scorso, cioè su questi quasi 500 morti in vent’anni, quindi io lavoro da 25 anni in
provincia di Sondrio, e quindi un cercare di individuare tre tipologie all’interno di
questa casistica, tre tipologie di persone, non direi di pazienti perché non tutti
erano tali. Quindi leggerei qualche pezzo partendo un po’ dalla definizione del
mio lavoro, dalla concezione che ho del mio fare psichiatria, un lavoro fatto di
incontri con l’altro, con intrecci di storie e racconti di vita, che nei colloqui si
dipanano fino a condurre attraverso la capacità di ascolto e di accoglienza, ai
limiti della mente e delle sue infinite potenzialità, sane o malate che siano. Un
percorso che amo definire come “un affacciarsi sull’anima dell’altro”, se per
anima, in un’accezione laica, intendiamo la vita interiore nella sua straordinaria
complessità, e la soggettività, che elabora i dati oggettivi e che trasforma i fatti
in significati. Questo è al tempo stesso il grande limite e il grande fascino della
psichiatria come scienza umana, e non solo come neuroscienza, che come tale è
una disciplina complessa e densa di contraddizioni. Quindi in pratica si tratta di
mettersi in gioco ogni volta con quella persona, che ti racconta quella sua storia,
ponendoti a contatto con quel suo dolore. E nell’unicità di ogni incontro col
paziente, che inevitabilmente ripropone la fragilità della condizione umana, e
quindi anche la tua, sta la fatica per non abdicare al ruolo di cura ed alle
responsabilità che ti sono state assegnate. Significa accettare di non avere
certezze né ricette preconfezionate, di non saper dispensare buoni consigli, e di
non sentirsi sviliti nel ruolo se gli strumenti principali che il medico può mettere a
disposizione del paziente sono l’ascolto empatico e la capacità di condivisione,
certo arricchiti di un sapere tecnico che consente di alleviare la sofferenza e
ridurre i sintomi della malattia. La condivisione come potente strumento
terapeutico per vincere la paura di dirlo, come si diceva già all’inizio. Allora,
come emerge anche dalla ricerca, la nostra è una comunità a bassa intensità di
comunicazione, non solo tra i vari servizi che proliferano, ma che come si dice
nella ricerca rimangono dei mondi vitali spesso troppo separati tra loro, ma
anche a livello dei singoli soggetti. Noi sappiamo che lo stereotipo culturale
dominante del montanaro è, diciamo, l’uomo introverso, poco capace di
esplicitare le proprie emozioni, che sente come debolezze, e quindi diciamo
gente più abituata al silenzio delle montagne che al brusio delle parole. E questo
in parte è vero, anche se nelle fasce di età più giovani forse sempre di meno.
Però, proprio per questo, nei nostri luoghi diventa fondamentale competenza
dello psichiatra mettere a disposizione uno spazio relazionale in cui il paziente si
senta libero di dire il suo disagio, e spesso la vergogna che deriva dalla paura del
giudizio, affinché in quello spazio possa trovare il sollievo di riconoscere nella sua
disperazione non “un sentimento alieno” ma solo un grado estremo di ciò che
appartiene a tutti in quanto persone. Se penso quindi alle persone che ho
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conosciuto, che abbiamo conosciuto negli anni e che purtroppo abbiamo perso,
devo dire che per fortuna non ci si abitua mai, e quindi questi sono una prima
tipologia della casistica. Sono pazienti che erano seguiti dai servizi, che a un
certo punto se ne sono andati, ed ogni volta mettere una diagnosi, un codice su
una cartella clinica non è bastato per contenere lo sgomento, l’impotenza, cioè la
crisi di senso del nostro operare. Però alla fine si impara a ricollocare dentro di
noi anche il senso di un limite di una professione che spesso ci pone in bilico tra
vissuti di “onnipotenza” oppure al contrario sentimenti di “fallimento totale”. E
quindi credo che nella maggior parte dei casi ci siano proprio delle situazioni in
cui la patologia psichiatrica è tale da sovrastare le possibilità di cura. Mentre ci
sono invece tutta una serie di persone che si sono suicidate, di cui ricostruendo
un po’ la storia per sentito dire, coi conoscenti, coi familiari, etc., la sensazione è
che non sono mai arrivati ai servizi, molti non sono arrivati mai neanche dal
medico di medicina generale, però la sensazione è che alcuni almeno, se
avessero avuto la capacità di arrivare, forse si sarebbero potuti salvare. E in
questo senso è importante, quindi rimanendo ancora in un ambito in cui si
immagina che alla base del gesto ci possa essere stato un problema di malattia,
spesso di depressione, è proprio importante il discorso della prevenzione, di
educare la popolazione, i medici di base a riconoscere proprio quei “segnali” che
possono denotare un problema di tipo depressivo o un’altra patologia sottostante
ed inviarli correttamente dallo specialista. Dopo di che, la parte finale della
riflessione, che poi mi ha portato a riflettere più in generale su quello che sta
accadendo negli ultimi anni nei nostri servizi, derivava proprio da una serie di
numeri che riguardano per lo più soggetti giovani tendenzialmente, che sembra
siano poi arrivati al “gesto estremo” senza passare attraverso una condizione di
malattia psichiatrica, del resto lo si è detto fino ad ora, non è una condizione
indispensabile perché ci si possa suicidare. E allora la riflessione più in generale
era proprio sul tipo di “nuova richiesta” su una situazione di malessere e di
inquietudine generale che sta attraversando la nostra società. Poi io mi rifaccio
sempre a un libricino secondo me bellissimo, che è “L’epoca delle passioni tristi”,
che appunto descrive soprattutto per le nuove generazioni questo vivere in una
società che è pervasa e attraversata da sentimenti di cupezza, di paura, di
inquietudine, proprio perché il futuro non rappresenta più una speranza, come
dicono gli autori che sono due psichiatri francesi, ma una minaccia. E quindi
partendo proprio da questo testo, che riflette sull’apparente aumento massiccio
delle patologie psichiatriche tra i giovani, gli adolescenti, perché di questi si
occupano loro, in effetti trasportando la stessa inquietudine all’interno dei nostri
servizi ci si accorge che ultimamente siamo sempre più “sommersi da richieste di
aiuto e di intervento”, che spesso una volta decodificate hanno anche poco a che
fare con la malattia psichiatrica. Che hanno comunque come “denominatore
comune” il fatto che c’è qualcuno che soffre, che quindi noi siamo i tecnici della
crisi, i tecnici della sofferenza, quindi dobbiamo in qualche modo occuparcene, e
che spesso siamo abbastanza “disarmati” di fronte a questo tipo di richiesta, che
è sempre più “in aumento”. Quindi è il rischio di avere o un atteggiamento di
“negazione”, nel senso di rinchiuderci dietro le nostre competenze, dicendo:
”Non ci compete, e quindi se ne dovranno occupare altri”, oppure al contrario di
“creare illusioni” o “assumerci posizioni un po’ onnipotenti”, di dire: ”Va beh, ci
pensiamo noi a raccogliere tutta questa cosa”. Perché in effetti la sensazione
dominante è che ormai ci sia proprio questa tendenza a non avere più la capacità
di gestire da soli, o comunque con altri, legami di comunità, quella che è “la
142
complessità naturale del vivere”, quindi c’è proprio questa tendenza a
trasformare delle “storie di vita” in “casi clinici” che poi arrivano ai servizi e ci
obbligano a dare una risposta. Quindi per concludere io penso proprio che è
necessario che il clinico partecipi appunto alla riflessione delle altre scienze
umane, che si metta in rete, in relazione con altri pezzi della società, della
società di cura, e che riesca a collocarsi proprio all’incrocio di questi diversi
percorsi d’indagine per poter appunto raccogliere almeno un pezzo di questa
sofferenza e restituire in qualche modo una risposta di aiuto.
Riccardo Bonacina. Colpisce che i due interventi della Cà Rossa, Ballantini
come Direttore e poi Tiziana Baruffini, psichiatra del CPS, sottolineino una cosa
importante, cioè l’interiorizzazione da parte del sapere che cura, che dovrebbe
curare la sofferenza, del fatto che questo sapere non è “onnipotente”, ecco “non
può bastare”, ed entrambi l’hanno detto. Però questo di far “svaporare” la
professionalità, le tecniche, tutto ciò che mettono in campo, hanno in qualche
modo “ridefinito i contorni di un’identità”, un’identità che però deve stare dentro
una rete di cura e di accompagnamento della sofferenza più grande. Mi sembra
che entrambi questo l’hanno sottolineato in maniera molto chiara. Sentiamo un
altro psichiatra, Claudio Marcassoli, uno di base, quindi ha il sapere della Cà
Rossa, ma sta fuori i luoghi.
Claudio Marcassoli. In effetti io provengo dalla Cà Rossa, sono un ex, e la mia
formazione psichiatrica è maturata lì. Io vi proporrò in questo intervento alcune
riflessioni sul tema del rapporto tra i mezzi di comunicazione e il suicidio, tra i
media e il suicidio, cercando di problematizzare il fatto se e come i mezzi di
comunicazione parlando del suicidio possano influenzarlo. E partiamo da un
episodio noto credo a molti di voi. Nella notte fra sabato 1° settembre e
domenica 2 settembre 1990 a Prato dello Stelvio, e quindi un posto
geograficamente molto vicino a noi, 3 ragazzi si uccidono insieme convogliando i
gas di scarico nell’abitacolo dell’auto e lasciano un biglietto con scritto: “Questa
vita non ha prospettive”. Il fatto ha una vasta eco, i giornali ne parlano in modo
“sensazionalistico”, e nelle settimane seguenti noi osserviamo che quasi
quotidianamente ci sono dei suicidi con la medesima tecnica, 14 suicidi in poche
settimane, tutti con la stessa tecnica, al punto che il Corriere della Sera parlerà
di “epidemia di suicidi”. E questo è un fatto che colpisce. Ci sono altri suicidi che
sono stati oggetto di studi dei criminologi, per esempio nel 2003 un famoso
cantante di Hong Kong, che noi non conosciamo, ma che era molto famoso
nell’Asia, nell’Estremo Oriente, si suicida lanciandosi da un grattacielo. La cosa
crea una vasta eco sensazionalistica e si osserva un incremento significativo dei
suicidi dopo la morte di questo cantante, particolarmente marcato nel
sottogruppo dei maschi da 25 a 40 anni, molti dei quali con lo stesso metodo, e
il nome di questo cantante è spesso menzionato nelle note lasciate da suicidi. Un
altro fatto, sempre in Estremo Oriente e studiato dai criminologi: un famoso
attore televisivo di Taiwan si suicida per impiccagione nel 2005, grande
copertura mediatica nel giorno della scoperta del suo corpo e nelle settimane
successive, e questo è seguito da un incremento dei suicidi connotato da un
notevole effetto “modello”. Somiglianza tra modello e imitatori, maschi, metodo
e impiccagione è lo stesso. Del resto questo problema è stato molto studiato
nella storia. Se torniamo indietro noi ricordiamo che il precedente più famoso è
costituito dall’ “epidemia di suicidi” che si è verificata in Germania dopo la
143
pubblicazione del romanzo di Ghoete “I dolori del giovane Werther” nel 1774, al
punto che si è coniato il termine “effetto Werther” e che viene tuttora usato.
Adesso è stato dagli anglosassoni sostituito dal termine “suicide copycade”, ma
rimane storicamente valido l’effetto Werther, al punto che i Governi di molti
Paesi Europei hanno proibito la diffusione del libro del giovane Werther. E un
effetto analogo l’abbiamo visto in Italia nel 1802 dopo la pubblicazione delle
“Ultime lettere di Jacopo Ortis” di Foscolo, c’è stato un notevole incremento di
suicidi. Già prima ancora, nel 1844 Brigham, che è il fondatore dell’attuale
“American Journal of Psichiatry” scriveva: ”Che i suicidi siano particolarmente
frequenti nel nostro Paese è evidente a tutti. Come misura di prevenzione noi
suggeriamo alle testate giornalistiche di non pubblicare i dettagli di tali
avvenimenti. Non c’è nulla di scientificamente meglio dimostrato del fatto che il
suicidio è spesso portato a compimento per effetto dell’imitazione. Un semplice
paragrafo di cronaca giornalistica può suggerire il suicidio a 20 persone. Alcuni
particolari della descrizione sono in grado di accendere l’immaginazione dei
lettori fino al punto che la disposizione a ripetere quel comportamento può
diventare irresistibile”. Cito altri due esempi, che poi riprenderò alla fine quando
cercherò di delineare alcune linee guida che si potrebbero suggerire ai giornalisti.
Il suicidio di Marilyn Monroe nel ’62, con i dubbi che ci sono - ufficialmente è un
suicidio - ha determinato un aumento dei suicidi del 12%. Al contrario, studi
basati su storie con una sottolineatura “negativa” del suicidio hanno riportato un
effetto copycade inferiore. Per esempio nel ’94 si è suicidato il leader dei
Nirvana, Kurt Cobain, i giornali hanno parlato in termini molto negativi di questa
persona e del suicidio e si è verificato un effetto imitativo estremamente basso e
limitato. Ora, è chiaro che il suicidio è un fenomeno con una causalità
multifattoriale, quindi non possiamo pensare ad un nesso causa-effetto, però
dobbiamo riflettere su questa cosa. Alcuni famosi sociologi-antropologi come
Archeim hanno contestato dal punto di vista sociologico questa teoria, però
importante per esempio è riassumere quella che è la “social learning theorie”,
cioè la teoria dell’apprendimento sociale, che potremmo sintetizzare così. ”Esiste
un gruppo di soggetti a rischio suicidale nella società. L’effetto copycade
coinvolge il gruppo di persone a rischio, l’impatto dei media fa superare la soglia
suicidale”. E potremmo anche qui dire questo, che il parlare in termini molto,
diciamo così, “positivi” del suicidio, quindi grande copertura mediatica,
glorificazione del defunto, il focus puntato sugli aspetti positivi, razionalizzare i
motivi a scapito di quelli negativi, per esempio parlare del dolore, parlare dello
sfiguramento della persona, può avere un impatto sulla popolazione. Del resto
noi tutti psichiatri nella pratica clinica osserviamo queste cose; noi impariamo sul
suicidio parlando con i mancati suicidi, che è un po’ l’unico mezzo con cui
possiamo imparare qualcosa, è una cosa molto importante e che tutti gli
psichiatri dovrebbero fare. E noi notiamo che poi (noi curiamo i depressi per
esempio) c’è un profondissimo turbamento quando si parla del suicidio di
qualcuno. Io mi ricordo quando ero in Ospedale Psichiatrico, i casi di suicidio
erano rarissimi, però scattava l’allarme rosso. Appena si suicidava una persona
aumentavano, raddoppiavano i controlli per il timore di questo possibile effetto di
“stimolo”. Quindi dobbiamo tener presente che un “effetto imitativo” può essere
indotto, anche se ovviamente noi sappiamo, ripeto, che può essere uno degli
elementi di una “causalità multifattoriale”. Però così come il parlare in un certo
modo del suicidio potrebbe, diciamo così, “far male”, parlarne in un modo
diverso potrebbe al contrario “far bene”, potrebbe essere utile da un punto di
144
vista psico-educativo, perché anche i giornali, i media, possono fare psicoeducazione. I codici di comportamento dei giornalisti nei vari paesi sono i più
diversi. Per esempio in Norvegia vi è il divieto di comunicare le notizie dei suicidi.
Gli altri paesi non hanno codici così rigidi, per cui ognuno si regola come può. Io
ricordo una discussione che ho avuto con un giornalista di una testata locale un
po’ di anni fa, perché su questo giornale erano usciti due trafiletti vicini, da un
lato “suicidio con nome, cognome e tutto”, di fianco “cade col parapendio, si
rompe un piede, con le iniziali”. E questa a me era sembrata una cosa
assolutamente scorretta, mettere il nome del suicida e le iniziali dello sportivo
che si era forse distorto una caviglia cadendo col parapendio. Proviamo allora a
dare delle “linee guida”, che potremmo discutere poi con gli operatori dei media,
che io ho tratto dall’”American Journal of Psichiatry” e ho tradotto in questo
modo. Non “romanticizzare” il suicidio, non scriverne come di un gesto eroico,
coraggioso, comprensibilmente risultante da una amore non corrisposto, dalla
perdita di un amore, da un dolore cronico, da un’avversità o dall’avere una
malattia inguaribile. Evitare una sottolineatura degli aspetti positivi, tra
virgolette, grande copertura mediatica, glorificazione del defunto, coraggio, gli
Americani dicono “brave”, grande copertura mediatica, focus sugli aspetti
“positivi”, a scapito di quelli “negativi”, per esempio il dolore, la sofferenza che
c’è dietro, il dolore della famiglia anche, anziché indulgere su particolari, si
potrebbe per esempio parlare del dolore, della sofferenza che c’è nei suicidi, una
critica sul suicidio e una discussione sulle “alternative” Questo potrebbe avere un
valore psicopedagogico. Non piantare alberi commemorativi nella scuola del
deceduto, “memorial gardens” dicono gli Americani, non ritirare la sua maglia
dalla squadra sportiva che frequentava, perché questo rappresenterebbe un
gesto di “simbolo”, non ridurre un gesto così “complesso” e multifattoriale come
il suicidio in una spiegazione facile e semplicistica. Vi cito il titolo di un giornale
americano: “Il cuoco si è ucciso dopo aver perso una delle tre stelle Michelin”.
Spesso i media presentano troppo gli “eventi precipitanti” di un suicidio come gli
“eventi decisivi”. Per esempio c’era stato un suicidio nello staff del Presidente
Clinton, si sono citate miriadi di possibili cause, tranne la depressione, che era
stata l’“evento causale”. Non tralasciare assolutamente la menzione della
depressione e di un’altra malattia mentale; è positivo per i lettori capire che le
depressioni non curate o malcurate possono “uccidere”. David Scheffer ha scritto
che dovremmo impegnarci per togliere lo stigma alla malattia mentale, così che
la popolazione sia incoraggiata a chiedere aiuto, ma impegnarci a “non togliere”
lo stigma al suicidio descrivendolo come la logica conclusione di una depressione.
Non mettere le storie di suicidio sulle prime pagine dei giornali o sulle copertine
dei rotocalchi; meno si “sensazionalizza” l’evento meglio è. Infine, non fornire
dettagli sulle metodiche e le dinamiche del suicidio; basta dire “deceduto per
suicidio”.
Riccardo Bonacina. Grazie a Claudio Marcassoli, e magari anche oggi ci sarà
occasione di parlare sui colleghi giornalisti. Certamente la modalità con cui s’è
fatta la ricerca, oggi si parla sui giornali di suicidio, è un modo problematizzante
e che sta sulle coordinate del cercare di capire e continuare a cercare le ragioni,
quindi non è su un caso o sulla storia singola. E già magari qualcosa può anche
dire Enrico Del Barba, che è Presidente dell’Associazione Navicella, di cui ha
parlato già in sede di introduzione Aldo Bonomi, che è un’Associazione che lavora
145
sul territorio, e che ha lavorato con coloro che sono stati vicini o coinvolti da casi
di suicidio, quindi ci facciamo raccontare anche il suo lavoro.
Enrico Del Barba, Presidente dell’Associazione Navicella. Innanzitutto
grazie alla Caritas che ci ha permesso di evidenziare questo problema che nella
realtà provinciale sicuramente ha un grosso impatto. La nostra Associazione da
subito si è sentita interpellata sulla proposta di Caritas di mettersi in cammino in
questa ricerca-azione sulla problematica del suicidio nella nostra provincia con i
vari compagni di viaggio. Secondo noi è stato un valore aggiunto questo
muoversi assieme, perché diciamo sempre che tante volte come Associazione ci
siamo trovati a lavorare da soli. Invece questa proposta fatta dalla Caritas di
muoversi assieme a tante persone, e anche a tante realtà anche
geograficamente distanti, ci ha uniti in questo progetto con scopi condivisi.
Navicella è un’Associazione di volontariato pro salute mentale dal ’97, a
rappresentanza provinciale e attiva con dei gruppi in ogni mandamento. Nasce
come un’Associazione di familiari di persone con disagio psichico, il suicidio è una
realtà che essa incontra non di rado, vissuta e raccontata nella trama della vita
associativa, e questo incontro chiede sempre a Navicella un impegno in prima
persona il più possibile concreto. Ma un problema così complesso non può avere
che dei tentativi di risposta pensati e portati avanti in tanti, per questo è grata
alla Caritas di questa mobilitazione, se non si vuole che rassegnazione e senso di
impotenza prevalgano. Navicella su questo tema, lo dicevo già prima, “c’è e ci
crede”, è determinata a dare il suo contributo-azione per quello che essa è,
espressione di cittadinanza. Diciamo sempre che crede nelle competenze che
crescono e si organizzano nella “partecipazione dal basso” e vuole offrire ciò che
ha imparato in questi 12 anni di esperienza. Alcune persone dell’Associazione si
sono adoperate per raccogliere questionari e interviste previsti nella ricerca ora
conclusa, e che pone sotto i nostri occhi un quadro complessivo ricco di opinioni
e valutazioni. Ma che cosa tra i risultati emersi e le piste identificate dalla ricerca
ha maggiormente colpito la sensibilità di Navicella? Che cosa nel suo piccolo
valuta particolarmente rilevante e utile per il nostro territorio? Innanzitutto,
dobbiamo dire, una consonanza tra la vocazione sociale e uno scopo-quesito tra i
principali del progetto, cioè l’interesse a comprendere se e quanto siano
importanti dei legami solidali per favorire ed incrementare uno star bene diffuso,
un agio individuale e sociale che possa contrastare quel disagio che si percepisce
come palpabile, ma anche sfuggente e indefinito, che potrebbe generare
sofferenza e solitudine tale da sfociare nell’atto suicidale. Navicella è
un’Associazione che nasce per aiutarci tutti a guardare in faccia la ferita e il
dolore dell’esperienza umana del disagio psichico, e persegue obiettivi pro salute
mentale, non ha in tasca naturalmente nessuna ricetta preconfezionata, ma
crede che tutti, sani, malati, in quanto accomunati dal desiderio di benessere,
siano interessati a pensare, parlare, e costruire assieme una salute intesa come
“una dimensione sociale, mentale, morale, spirituale e affettiva, oltre che fisica,
un bene instabile che bisogna acquisire, difendere e incrementare costantemente
durante tutto l’arco dell’esistenza”. E questo è un deliberato del Comitato dei
Ministri del Consiglio d’Europa dell’88. Navicella, che vuole stare accanto a chi fa
una gran fatica a stare bene, e qui vi assicuro che sono tanti, ha maturato una
convinzione profonda sul valore dei legami sociali improntati alla solidarietà.
Come spesso accade, le situazioni di mancanza e di fatica mettono spesso in luce
in modo più evidente e rendono consapevoli della preziosità e del potere di
146
strumenti che fanno parte della nostra vita di tutti i giorni e che sono a portata di
mano. Parliamo dei legami sociali generatori di attenzione, accoglienza, ascolto e
rispetto, reciproci e valorizzanti, credendo nel loro valore non in modo salvifico e
ideologico, ma fortemente realistico, cioè provando a farne pratica con un
volontariato di vicinanza, e questa è un’esperienza che Navicella sta portando
avanti, del “sono qui… perché sono qui”. Se ne avverte un gran bisogno
sottolineato dal desiderio dei “se” (se fossimo in tanti, se ci guardassimo di più
senza gli occhiali del pregiudizio) che costellano spesso i nostri pensieri e
discorsi. La visione di un “possibile” che si intravede e che, per fortuna “si
concretizza” con progetti, soluzioni positive in tanti casi problematici, orienta
l’azione di sensibilizzazione-informazione di Navicella alla popolazione, e che
contiene come primo e inesauribile intento quello di “parlare del disagio
mentale”, fenomeno che ci impaurisce e che tendiamo a “rimuovere”
scantonando. Una ricerca sulla “percezione sociale del suicidio” pensiamo
richiami alla medesima presa di coscienza e al coraggio di guardarci negli occhi,
parlarne e rimboccarci le maniche per provare a trasformare le considerazioni
espresse dalle persone che hanno aderito alla ricerca in presupposti di una
progettualità concreta e in azioni verificabili. Ma quali tra le riflessioni quelle
maggiormente significative? Vi è una ricchezza tale che rende difficile la scelta di
priorità. Ne sottolineiamo alcune vicine all’“identità” di Navicella e alla sua
“esperienza”. Sono ricche di spunti e argomentazioni le riflessioni della
stragrande maggioranza degli intervistati, che segnalano il suicidio come “un
allarme sociale”. Il fatto di interrogarsi su un comportamento così complesso,
tentare qualche spiegazione senza rimuoverlo, e definirlo nelle interviste con
“una partecipazione empatica” ben visibile, come un segnale doloroso di
qualcosa che si è “rotto” nel nostro territorio, fa ben sperare che si sia aperta
una pista che conduca a valorizzare spazi di riflessione e parole comunitarie, e
che produca “una breccia” nel pregiudizio valtellinese, che svaluta
presentemente la parola e la messa in comune delle problematiche a favore dei
“fatti”, del “tener duro” e del “cavarsela da soli”. Il sentimento della solitudine è
spesso nominato dagli interlocutori intervistati; colpisce soprattutto la solitudine
dei giovani, che risentono più degli adulti di uno sviluppo avvenuto in modo
molto affrettato, complesso, non assimilato, globale. Come Associazione
conosciamo bene come il disagio psichico sia “emarginante” e deprivante dal
punto di vista sociale, ma qui si racconta di un disagio sociale senza etichetta,
che ha come substrato una condizione di confusione, fragilità, una difficoltà a
sviluppare un senso critico e capace di operare scelte di peso significative e
progettuali per dare un senso compiuto alla vita. La sofferenza insita in questo
disagio, che viene espressa con modalità eclatanti, gli eccessi, disordine
emotivo-mentale, marginalizzazione e ritiro sociale, che può sfociare nella
decisione suicidale, pensiamo che ci debba “mettere in crisi” come adulti, ma
anche come Associazione. Non è anche questa un’ “emergenza sociale”?. Anche
in questo caso pensiamo che potremo mettere in atto qualche tentativo di
rimedio solo se proveremo a cercarlo insieme. Su questa riflessione si innesta
un’altra “criticità” descritta da alcune interviste, la difficoltà tante volte ad
ammettere di avere un problema di questo tipo e di chiedere aiuto. Questo è un
argomento che sta molto a cuore all’Associazione. Fa parte dei suoi compiti
contrastare i pregiudizi che pongono ancora sul disagio mentale o altro “un
marchio di vergogna indelebile” e rendono ancora più irto di ostacoli il percorso
della ricerca di aiuto. Sono particolarmente efficaci in quest’opera alcuni
147
familiari, fondatori dell’Associazione, testimoni credibili e autentici del fatto che
chiedere aiuto e uscire allo scoperto è un comportamento umano di grande
coraggio, dignità, presa di potere personale, e degno del massimo rispetto. Ogni
persona sul loro esempio, e con un bagaglio di conoscenze adeguato, può
pensarsi efficace in un ruolo di accoglienza, facilitazione e accompagnamento
nelle situazioni di sofferenza psico-emotiva ed esistenziale, da indirizzare verso
le opportunità di cura professionali presenti nel nostro territorio. Il percepirsi una
comunità in crisi, quindi incompiuta, è desiderare una costruzione partecipata di
una Comunità di Cura, è coerente con la ricerca che vuol trovare rimedio a
questo tragico fenomeno. Navicella ritiene “in piena sintonia” con questa visione
la dimensione relativa alla salute prima descritta, un bene collettivo, che prevede
un lavoro di mantenimento dinamico e costante, che trova nelle relazioni umane
un elemento sostanziale. Ancora una considerazione cara ai nostri “familiari
storici”, é illuminante e saggia, ancora più se è espressa in dialetto, prima ve la
dico in italiano, poi ve la dico in dialetto, che dice ”noi abbiamo bisogno di tutti”,
“num ghem bisogn de tuch”. Questa limpida affermazione è stata ed è d’aiuto
all’Associazione nello sforzo di crearsi una mentalità aperta, una sorta di
antivirus contro le nostre resistenze al confronto, contro l’autoreferenzialità, lo
scoordinamento e la dispersione di energie, contro “il tirare a campare”. Ed è un
aiuto per l’identificazione di valori e visioni relativi ad un’idea condivisa per
lavorare insieme all’identificazione di un progetto di comunità compiuta. Le
premesse ci sono per un lavoro proficuo, noi ci siamo.
Riccardo Bonacina. Grazie a Enrico Del Barba che ha rappresentato qui il punto
di vista di chi esercita una pratica, la pratica dell’essere vicino,
dell’accompagnare, e quindi il sapere ben riassunto dal “noi abbiamo bisogno di
tutti”. E questo indica il percorso verso una Comunità Compiuta, come l’ha
chiamata Del Barba. Andiamo avanti nella nostra carrellata di riflessioni e
commenti, e do la parola a Nicola Montrone che è dirigente dell’Ufficio Scolastico
Provinciale; indubbiamente già sono stati “evocati” più volte questa stamattina
gli insegnanti, che sono dei protagonisti della Comunità di Cura, perché educare
è forse la prima cura che si può mettere in campo. Educare, insomma, quindi
considerare i giovani esseri degni di imparare il mondo e di imparare a stare al
mondo come diceva qualcuno.
Nicola
Montrone,
Dirigente
dell’Ufficio
Scolastico
provinciale.
Permettetemi di ringraziare la Caritas, il sociologo Bonomi e il cooordinatore
Bonacina. Dispiace che proprio in questo momento le esigenze di trasporto
abbiano indotto i dirigenti scolastici e gli accompagnatori docenti purtroppo a
fare rientro. Ammirevole la loro partecipazione e anche il coraggio dei docenti a
presentare questa tematica, perché è molto delicata. La scuola è stata chiamata
molto spesso in causa stamattina perché giustamente è uno degli elementi del
sistema che ha in cura, in custodia, il potenziale candidato. Purtroppo alcune
volte la persona suicida era anche studente. Questo ha dato la possibilità a noi
dell’amministrazione scolastica di cominciare a porre l’accento su come avere il
rapporto, su come presentare alcune tematiche. Pensavo innanzitutto alla molla
che può essere il giudizio negativo dato durante l’anno o addirittura alla fine
dell’anno scolastico. Ecco, sono state prese delle misure idonee proprio per non
lasciarlo solo in quel momento delicato, quello della notifica, della presa d’atto di
una notizia negativa, di un giudizio negativo, che può essere una delle molle che
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può far scattare questo tragico evento. Siamo intervenuti con iniziative. La
filosofia seguita dalla nostra amministrazione è quella di riempire la giornata
dello studente. Personalmente sono convinto che non esiste persona al mondo
portata al suicidio. Se quel gene che è arrivato sulla terra e ha resistito a
cataclismi, ere glaciali, miliardi di anni, e ce l’ha fatta ad arrivare fino ad ora,
vuol dire che ha innato in sé quell’istinto di conservazione, quell’“egoismo sano”
che lo porta a sopravvivere. Quindi non esiste persona, se vediamo, portata al
suicidio per propensione. Quando abbiamo visto un po’ la carrellata delle sedi, si
parlava di Nord Est, Alpi, Finlandia, il centro della Sardegna, mi è sembrato
chiaro che è una pura “casualità” il concentrarsi di questi fatti lì. Allora la causa
dove va trovata? Sicuramente nell’ambiente. Ve lo dice uno che, parafrasando
un po’ la definizione data da Bonomi nell’introduzione del libro che abbiamo
avuto in lettura, “ha varcato la linea ideal-filosofica dell’olio”. Provengo da una
zona del Sud e Sud vuol dire sterminate estensioni, pensiamo al Tavoliere delle
Puglie. Dopo alcuni anni di lavoro al Sud sono giunto in Valtellina. Il Tavoliere
delle Puglie era stato scelto da Federico II di Svevia proprio come luogo di
meditazione perché aveva questa immensa estensione. Si è ispirato a Castel del
Monte, che è sul Tavoliere delle Puglie, si ispira al concetto dell’8: l’8 capovolto è
l’infinito. Quindi ciò che dà spazialità dà all’uomo fiducia. Non peraltro Giacomo
Leopardi aveva scritto “L’infinito”, però ispirandosi alla siepe. Ecco, io sono
andato proprio sul posto, dove è stata messa anche un’insegna con i primi versi
“Sempre caro mi fu quest’ermo colle…”, ma evidentemente Leopardi non è
venuto tra le Alpi. Perché effettivamente la barriera delle Alpi “isola” e fa creare
nel giovane, nella persona che si sta formando e sta trasformando le sue
“potenzialità” in “attualità”, l’idea che al di là c’è qualcosa di meglio, c’è qualcosa
di attraente, e se non riesco ad arrivarci sto male. Il luogo può condizionare e
dobbiamo capovolgere questa situazione. Noi ci impegniamo in che modo?
Spiegando nel concetto più ampio di educazione alla salute che c’è questa
prevenzione, prevenzione dalle tossicodipendenze, cura della propria vita e del
proprio benessere psico-fisico, ma soprattutto riempiamo la giornata degli
studenti con progetti di scuola aperta, la scuola non deve chiudersi alle 14 e
rimanere lì come un immobile sottoutilizzato. Abbiamo elaborato con il Consiglio
Scolastico Provinciale, che purtroppo non si riunisce da vari anni, dei criteri per
l’utilizzo in orario extrascolastico di tutte le strutture. Finanziamo progetti e
iniziative che vengono proposte dalle scuole, il che vuol dire dagli Organi
Collegiali, per fare in modo che al di fuori dell’orario scolastico le strutture
vengano utilizzate al meglio. Non compariva l’Alta Valle nelle interviste, noi
proprio sull’Alta Valle abbiamo fatto dei forti investimenti istituendo il Liceo
Sportivo. Molti ragazzi hanno questa possibilità di seguire gli allenamenti in
particolari ore. Benissimo, rivoluzioniamo addirittura l’ordinamento scolastico, il
quadro orario per consentire di coltivare queste passioni. L’importante è riempire
la loro giornata, l’importante è riempire quel sacco vuoto che secondo gli
esistenzialisti è la vita umana. Scuole aperte, progetti per scuole aperte. Questo
per i giovani. Ma per gli adulti? Chi interviene per gli adulti? Viviamo in una
realtà dove manca il concetto di “agorà”, di piazza. Si diceva “il mercante di
liquori è quello che poi alla fine raccoglie tutte le confessioni” di chi non è più
studente, di chi ormai passa la giornata anche oziando perché già oltre l’età
pensionabile. Per ragioni climatiche evidentemente, non perché non c’è la
volontà, per ragioni climatiche bisogna trovare dei luoghi chiusi, mancano Centri
di Aggregazione. Istituiamoli questi Centri, ma facciamo in modo che ci siano
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luoghi anche per gli anziani. Oggi pomeriggio ci sarà chi rappresenta l’età adulta,
diamo la possibilità a queste persone di sentirsi ancora “attive”, noi lo facciamo
anche accogliendoli come “vigilantes” all’uscita delle scuole, nessuno è inutile da
0 a 100 anni, bisogna almeno sentirsi “utili” nella società. Utili a favore dei
nipoti, anche se non sono nipoti a favore della collettività. Questo è molto
importante: riuscire ad aprire questi centri, questi gruppi, questi luoghi di ritrovo
può dare aiuto. Una volta c’era la Colonia a Borghetto S. Spirito, era il luogo
dove la Provincia mandava i bambini piccoli a trascorrere le settimane al mare,
ma contemporaneamente senza perdere lezioni. Ecco questo deve essere fatto.
Adesso è stato chiuso per i bambini perché ormai è diffuso per i bambini, per le
famiglie portarli al mare, mare che vuol dire iodio, iodio-tiroide, non sono un
medico, ma so che può avere una funzione anche benefica per la salute. Per l’età
adulta ci abbiamo anche pensato, i Centri E.D.A. sono i Centri dove, superata
l’attività scolastica, superata l’attività lavorativa, o in fase di licenziamento, c’è la
possibilità di ritornare tra i banchi per apprendere informatica, per apprendere
lingua straniera, per apprendere un corso qualunque che dia la possibilità di
“sentirsi utili” da capo e reinsersi nella società. Finora questi Centri sono stati
istituiti a Delebio e Sondrio, pensavo di estendere questa iniziativa anche in Alta
Valle perché ce n’è bisogno. Sono proprio gli anziani che, superata una certa età,
cominciano a sentire “la deriva della mancanza di desideri” si diceva poco fa, “la
deriva del sentirsi inutili”, noi dobbiamo fare in modo che si sentano utili. Utili nel
trasmettere le loro esperienze, già lo fanno alcune scuole, dove nell’autonomia
organizzano le settimane delle tradizioni. E chi meglio di un anziano può
“tramandare” le conoscenze, le tradizioni di una volta. Ecco, l’impegno nostro è
quello di estendere questo Centro EDA, che attualmente viene frequentato
soprattutto da extracomunitari che vogliono acquisire titolo di studio italiano,
dobbiamo fare in modo che sia rivolto anche ai residenti, coloro che hanno più
tempo libero. Si citava stamattina l’Università delle Tre Età, giustamente è stato
cambiato il nome, non della Terza Età perché ci deve essere un’intesa tra giovani
e meno giovani. Insieme è possibile organizzare e dare un senso più alto alla
vita, non soltanto vegetativo. Il rischio c’è, dopo l’abbandono dell’età lavorativa,
visto che adesso con le conquiste della medicina c’è un lungo periodo dopo l’età
lavorativa, c’è bisogno che questo tempo venga “valorizzato”. Noi lo faremo
istituendo possibilmente, se riusciamo ad avere altre risorse umane come posti
di insegnamento, questo Centro EDA, un’altra sede sull’Alta Valle. Vedremo di
migliorare anche noi per dare un apporto per la riduzione di questo triste
fenomeno.
Riccardo Bonacina. Sentiamo ora un altro sapere, il sapere dell’antropologo,
diamo la parola ad Annibale Salsa, che tra l’altro, Bonomi nell’editoriale lo
introduce con queste parole: “l’immagine delle terre dell’olio e delle terre del
burro”. Una formula che spiega che il suicidio è un fenomeno che ha maggiore
densità nell’ambiente alpino, nel Nord Europeo o Mitteleuropeo, quindi le terre
del burro, e non quelle dell’olio, le regioni meridionali. In quanto antropologo
Salsa è direttamente coinvolto in quello “spaesamento antropologico” che anche
stamattina in qualche modo è emerso. E Salsa è anche Presidente del CAI, del
Club Alpino Italiano, quindi è doppiamente titolato a proporci una riflessione che
mi sembra importante.
150
Annibale Salsa, Presidente del Club Alpino Italiano. Il tema è quanto mai
suggestivo perché fa in qualche modo interagire il tema dell’ambiente alpino,
nella sua specificità valtellinese in questo caso, con le problematiche legate al
“disagio esistenziale e sociale”, che spesso danno luogo, come in questa area, ai
fenomeni suicidali che sappiamo. E’ noto agli studiosi della materia che la cultura
in senso antropologico ha un ruolo importante come “fattore pato-plastico” della
malattia e di converso della salute. Allora il fattore culturale “etno-antropologico”
ha un ruolo rilevante come “fattore esogeno”, quindi non endogeno “biogenetico”, ma come fattore legato all’ambiente sociale nella genesi delle
“patologie del disagio”, e di altre. Questo è un elemento su cui bisogna riflettere
e che ci consente di uscire dalle generalizzazioni, e quindi di chiederci: ”Perché in
Valtellina accade questo? Perché accade questo in Valle d’Aosta, in Val Venosta,
nel Vallese, nell’Alta Valle dell’Inn?” Tutte valli longitudinali delle Alpi, che hanno
un versante simile a quello retico valtellinese, e hanno un versante in ombra
come quello orobico. Certamente questi sono elementi sui quali bisogna
riflettere, altrimenti avremmo in Italia un livello di generalizzazione che invece
non c’è. Abbiamo visto che anche in un’altra regione come la Liguria, dove ci
sono le Alpi e c’è il mare c’è un fattore molto elevato di suicidi. Questo ci dice
che quella regione guarda più alle Alpi che al mare contrariamente a uno
stereotipo diffuso che vede quella regione come soltanto proiettata verso il mare.
Allora questi sono elementi sui quali gli antropologi credo debbano riflettere, così
come gli psichiatri. Non dimentico che Sondrio ha avuto un eminente psichiatra
come Cargnello, che è stato oltre che un clinico anche un grande teorico, a livello
teoretico e filosofico, della psichiatria. E quindi questi sono i temi sui quali
bisogna riflettere per capire perché accade questo. E’ stato detto che le Alpi sono
una barriera; in realtà “sono diventate” una barriera, perché le Alpi sono nate
come “cerniera di popoli”. Allora la “chiusura” delle Alpi è un fatto recente,
quando dico recente mi riferisco a un tempo cronologico di due-tre secoli fa,
quando le Alpi si sono “chiuse” per effetto degli Stati Nazione. Qui siamo in una
realtà che si chiamava Rezia Superiore, dove i rapporti tra i popoli di qua e di là
della catena retica erano più frequenti di oggi. Poi sono arrivati gli Stati Nazione,
che hanno messo le dogane, i gendarmi, la posizione di frontiera. E il confine dei
popoli è diventato una frontiera, cioè è diventato una linea chiusa. Quindi la
montagna non è “il luogo della chiusura”, la montagna è diventata per effetto di
un processo storico-culturale e storico-politico il luogo della chiusura. E proprio a
partire da questi momenti cominciano i problemi. Voi sapete che la sindrome
degli svizzeri, “fernwek”, la nostalgia, nasce proprio in questo momento, nel
momento in cui inizia il processo di modernizzazione e gli svizzeri vanno a fare “i
mercenari” nel resto d’Europa, e cominciano ad ammalarsi di “nostalgia”. Sono
gli svizzeri di montagna, grigionesi e abitanti del Cantone di Uri, i Cantoni più
“montani” della Svizzera. Quindi questo è un elemento sul quale bisogna
riflettere. E poi c’è il problema appunto che, soprattutto negli anni ’50 in alcune
zone delle Alpi, si sono generati fenomeni di suicidio senile, perché è “la frattura
del mondo di ieri” rispetto al mondo di oggi. Quello che Nuto Revelli, il grande
uomo della resistenza cuneese ha chiamato “Il mondo dei vinti”. Ecco, se i
montanari sono “vinti” lo sono per un processo che in qualche modo li ha
scavalcati e li ha trasformati da “attori” in “agiti”. Ha trasformato le Comunità
delle Alpi da “centro” dell’Europa medievale e tardo-medievale in “periferia”
dell’Europa. Questo sentimento di “perifericità”, questo concetto di “marginalità”
della montagna alpina, che non è riconducibile a un fattore geofisico, geografico-
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fisico, ma è riconducibile a un fattore psico-socio-culturale, è un tema sul quale
dobbiamo riflettere. Oggi si parla anche a livello di economisti di “marginalità
della montagna”, ma la marginalità della montagna è qualcosa che è stato
“indotto” dal processo di modernizzazione. Oggi siamo nel post-moderno; nel
post-moderno convivono l’iper-moderno e l’arcaico. L’arcaico si colora di
“folklorizzazione”. E allora si dice: “Per far rivivere la montagna mettiamo in
scena la folklorizzazione”. Allora vediamo tante parate, saghe, montanari in
costume e quant’altro. Non è così che si risolvono i problemi del “malessere della
montagna”. La “messa in scena” è qualcosa che non è più “autoreferenziale”,
cioè riferito ai montanari, ma è qualcosa di “messo a disposizione dei turisti”, e
quindi non cura la malattia, anzi in molti casi la aggrava. La aggrava perché
rischia di veicolare un concetto di “identità montanara ed alpina” che è falso, che
è giocato appunto sulla “stereotipizzazione del montanaro”. E questo genera dei
conflitti notevoli, i conflitti che negli anni ’50 interessavano il mondo senile, negli
anni ’70-’80 hanno cominciato a interessare il mondo giovanile. Un mondo
giovanile che da un punto di vista antropologico-culturale si sente sempre più
“colonizzato da modelli urbani e metropolitani”, che nella fattispecie valtellinese
sono quelli milanesi, e d’altra parte vive il territorio quasi come “una condanna”,
vive il territorio quasi come una forma di “malessere”, vive il territorio come una
“costrizione”. C’è questa “ambivalenza” dell’“apertura” e della “chiusura”,
dell’uscire e del rientrare, la nostalgia del paese natio, della valle, ma che non è
più una nostalgia perché si ammanta di “spaesamento”. E spaesamento vuol dire
in chiave psico-antropologica una cosa fondamentale, vuol dire “non riconoscersi
più nel paese natio”. Vuol dire che quel paesaggio familiare domestico non può
più essere interiorizzato, ma viene espulso, come l’espulsione pavesiana è
l’ambivalenza pavesiana nei confronti delle colline del Piemonte. E allora io credo
che proprio in un’accezione di tipo più squisitamente antropologico questi
problemi vanno tirati fuori. Questo è un disagio che non tocca l’aspetto appunto
organico e genetico delle popolazioni, ma tocca l’aspetto socio-culturale. Un
tempo si diceva che c’era anche “la patologia del fohn”, “la sindrome favonica” di
cui parlano i ticinesi o i vallesani, perché si sapeva che durante i giorni di fohn,
aumentavano le situazioni di irritabilità, e quindi di depressione. Ecco, questi
sono altri elementi su cui bisogna riflettere. Ma io credo che per restituire alla
montagna alpina il ruolo che aveva e che ha bisogna “aprire la montagna”, non
chiuderla, aprirla. Aprirla a quella “dimensione ultramontana”, “transalpina”, che
questa valle ha nel suo dna, ma che “ha dimenticato” per tutta una serie di
ragioni, in una visione “euro-regionale”, non più nazionale, dei problemi della
montagna, perché le Alpi sono una cerniera tra i popoli, tra il Nord e il Sud, tra
l’Est e Ovest dei popoli. Allora che cosa c’entra il Club Alpino Italiano, che
nell’immaginario collettivo viene visto come un’associazione ludico-ricreativa?
C’entra eccome! Rileggendo le carte dei nostri padri fondatori io ho avuto modo
di riflettere su temi e problemi che molti oggi neppure immaginano. Il Club
Alpino Italiano è nato come impegno non solo per la frequentazione della
montagna “consapevole”, quindi “la conoscenza”, ma per una frequentazione
anche degli ambiti naturali e sociali. Un grande sacerdote valdostano, l’abate
Aimèe Gorè in un Congresso Nazionale del Club Alpino Italiano tenutosi in
Valsesia, e precisamente a Varallo, diceva che “guai se il Club Alpino Italiano
dovesse dimenticare il fatto di essere un’Associazione della montagna a 360
gradi”. Perché saremmo caduti nel tecnicismo, nel luddismo, nell’eccesso di
sportivizzazione competitiva e agonistica nella quale ci troviamo oggi. Un altro
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grande alpinista inglese John Tindall, il cui nome è legato alla salita del Cervino,
diceva la stessa cosa, quando ha visto che nel Club Alpino Inglese prevaleva la
componente sportiva ha restituito la tessera di appartenenza al sodalizio. Vi cito
due casi significativi, ma io credo che dopo il Congresso Nazionale, che io ho
voluto avviare in Trentino, a Predazzo, in Valle di Fiemme, ci sia stato “un
passaggio epocale”, di “ritorno alle origini”, ma in una visione aperta, moderna
dei problemi. E cioè un associazionismo che passi dall’ambito strettamente
ludico-ricreativo allo spazio sociale: la montagna è un grande spazio sociale. Ho
sentito parlare di Comunità di Destino, e la Comunità di Destino è legata a che
cosa? E’ legata al rapporto vis a vis, è legata al rapporto di prossimità, alle
“relazioni di prossimità”. Ma oggi abbiamo quello che io amo definire “l’esotismo
di prossimità”, la prossimità è il nuovo esotico. La società di oggi è la società
della “morte del viaggio”, in cui “tutti viaggiano ma nessuno viaggia”, perché
come diceva Marc Augé, il grande antropologo francese, “tutti si sono fatti
passeggeri e nessuno è più viaggiatore”, cioè tutti ambiscono arrivare più
velocemente alla meta, ma non si occupano più dell’itinerario. Allora noi
dobbiamo essere di nuovo “viandanti”, dobbiamo essere di nuovo attenti
all’itinerario, dobbiamo recuperare questa prossimità esotica, a differenza di una
lontananza che non è più esotica, perché lontano da noi oltre Oceano si
riproducono gli stessi cliché, gli stessi schemi, gli stessi stereotipi. Allora la
grande sfida culturale, politica, amministrativa è questa: “recuperare l’esotismo
di prossimità”. Questo è il messaggio che io voglio portare. E credo che anche il
rapporto antropologia-psichiatria vada approfondito, nel senso che ci sono delle
sindromi ben definite, dove “il fattore culturale”, cioè i modelli di comportamento
hanno un ruolo determinante, senza cadere nel determinismo beninteso, ma
hanno un ruolo determinante in questa “patogenesi culturale del disagio”. Ecco,
credo che il mio messaggio vada proprio in queste due direzioni: gli abitanti della
montagna devono recuperare “un senso di fierezza e di orgoglio” che hanno
perduto, proprio per un processo di “colonizzazione” e di interiorizzazione di
modelli “alieni”. Diceva Cargnello “alterità” e “alienità”. Queste due parole-chiave
credo che siano ancora spendibili e riproponibili. Io ho lanciato un progetto che si
chiama “Montagna, terapia e psichiatria”, che ha avuto grandi risultati in molti
ambiti dell’arco alpino, ma anche della dorsale appenninica, con partecipazione
di psichiatri, di operatori del sociale, di psicologi. E questo è un tema sul quale
bisogna andare avanti. La montagna non può più essere vista soltanto come
luogo dove accadono incidenti, la “montagna assassina”, ma c’è anche una
“montagna benefica” alla quale bisogna guardare con occhio meno tecnicistico e
di virtuosismo performativo, ma con un occhio più aperto alle problematiche
socio-culturali.
Riccardo Bonacina. Grazie ad Annibale. Credo che questa riflessione sulla
cultura come fattore esogeno delle patologie sociali sia importantissima, e anche
tutte le varie sottolineature che ha fatto, dalle Alpi diventate da “centro” a
“periferia”, dell’“esotismo di prossimità”, fino al rapporto tra antropologia e
psichiatria, tutte cose che poi sarebbe bello riprendere. E l’ultimo intervento ci
serve già a lanciare il pomeriggio, perché Michele Rigamonti, è un industriale e
anche Presidente dei Giovani Industriali di Sondrio, fa parte di quella Comunità
Operosa che oggi pomeriggio piglierà parola assieme alla Comunità della Cura.
Nell’ottica della Comunità di Destino, che forse può aiutare l’unirsi della
Comunità Operosa e della Comunità della Cura, la Comunità di Destino nominata
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stamattina da Borgna ed evocata adesso da Salsa e che nel pomeriggio verrà
rilanciata ancora.
Michele Rigamonti, Presidente Giovani Industriali di Sondrio. Innanzitutto
parlo magari più come trentenne che come giovane imprenditore, perché come
imprenditore c’è poco da dire su queste cose. La nostra gente è la nostra forza, e
noi come imprenditori abbiamo il dovere comunque di sostenerli. Io tra l’altro in
azienda ho avuto diversi casi di questo tipo di malessere, dunque mi sento anche
coinvolto. Mi ricollegherei subito al discorso della montagna. Il discorso della
montagna io, a differenza di Salsa, lo vedo un po’ diverso. Per me queste Alpi,
pur belle che siano, sono un pelino “opprimenti”. Credo che la mattina, se uno ha
due problemini quando si alza e vede queste montagne, rispetto a un orizzonte
di mare, si accorge che è un orizzonte del tutto diverso. Questo è un mio parere
personale. Io sono di Sondrio, però vedo che quando ho qualche piccolo
problema, se vedo Lecco mi si apre il cuore. Dunque le montagne secondo me
sono molto belle quando sei in alto, ma non quando sei in basso. Leggendo poi la
ricerca di Bonomi, che secondo me è molto interessante ed era ora che qualcuno
facesse qualcosa di questo genere, mi chiedo anche perché in Brasile o nel Sud
America ci si suicida di meno. L’altro giorno guardavo un documentario e vedevo
queste popolazioni che effettivamente non dico che morissero di fame, ma poco
ci mancava, e ridevano. E ho detto: ”Ma perché ridono questi? e tra l’altro si
suicidano di meno”. Cosa voglio dire? Che a questo punto magari c’è anche un
problema sociale, e mi ricollego a quello che diceva prima Bonomi, la
“globalizzazione”, questa globalizzazione che alla fine fa molta “solitudine”, e
penso che quando qualcuno ha questo tipo di problemi, la solitudine, è la fine.
Poi un altro dato che mi ha abbastanza inquietato è il fatto che il 60% delle
persone che si suicidano non abbiano mai visto uno psicologo o uno psichiatra. E
questo è effettivamente preoccupante, anche perché mi dico: ”Ma allora come si
fa la prevenzione per la prostata a 50 anni piuttosto che…, non si può fare una
prevenzione già a partire dai 15, dai 12, dai 18 anni?” Penso che sia il minimo,
anche perché io credo che un ragazzo quando arriva a 15 anni ormai è formato,
quindi secondo me queste cose andrebbero fatte molto prima. Poi questa è una
considerazione che probabilmente farà piacere agli psicologi e agli psicanalisti, io
sono dell’idea che si può andare anche dallo psichiatra senza avere dei particolari
problemi, perché lo psichiatra può essere una persona che ti dà fiducia, lo
psicoterapeuta in generale, che sia psicologo o psichiatra. Dunque non bisogna
vergognarsi di questa cosa, ma penso che sia una cosa che, voglio dire, aiuta a
trovare una persona che ti dà fiducia, e nel momento che qualcuno parla dei
propri problemi, secondo me, li dimezza. Dunque, inviterei la comunità a
spingere a non vergognarsi se qualcuno ha qualche problema e poi a spingersi
da uno psicoterapeuta. Secondo me l’imprenditore comunque ha il dovere di
aiutare il sociale, io personalmente lo faccio già in diverse cose, sto cercando di
spingere i miei colleghi, perché comunque aiutare il sociale vuol anche dire star
bene. Cioè è anche un discorso diciamo un po’ egoistico, nel senso che far del
bene fa anche star bene, e dunque si fanno due cose allo stesso tempo. Per il
resto ho letto un’intervista molto bella di Davide Van De Sfrooss sulla Provincia
sabato, che mi ha colpito, e soprattutto quando diceva che se ti rompi un braccio
tutti ti chiedono “Come stai poverino” e così, se è un problema di tipo psicologico
dicono “L’è piu lu”, cioè in dialetto dicono così, e questa è una cosa secondo me
preoccupante, anche perché, ripeto, non bisogna vergognarsi a mio parere, e
154
bisogna nell’opinione pubblica far capire che parlare, e parlare di queste cose
non è un delitto o un dramma, ma è una cosa normale. Per il resto appunto direi
che nel pomeriggio ci saranno i miei colleghi, che poi affronteranno il discorso
industriale magari in maniera diversa, io l’ho affrontato più in maniera
psicologica.
Interventi del pomeriggio
Aldo Bonomi. Iniziamo il pomeriggio con un tavolo un po’ anomalo, visto e
considerato che c’è un sociologo, un cantautore antropologo e un vescovo che
discutono del problema: sì, ci sono un po’ di variazioni di programma, nel senso
che Van de Sfroos deve raggiungere Milano stasera, quindi non sarà alla tavola
rotonda di chiusura con Don Colmegna. Devo dire che abbiamo le garanzie che ci
sono più o meno tutti, quindi andremo avanti fino a stasera, tutti quanti hanno
confermato, anche questo rivela un’attenzione e una sensibilità al problema.
Quindi inizieremo il pomeriggio con una prolusione del Vescovo Coletti alla cui
organizzazione, la Chiesa, dobbiamo questo Convegno. In effetti, la Chiesa è
organizzazione di comunità e al contempo organizzazione di territorio, e quindi lo
dobbiamo anche a loro questo lavoro, una prolusione del Vescovo Coletti,
dopodiché faremo un dialogo fra me e Van de Sfroos sul tema, che lo trovate
anche nella rivista, ormai ci siamo incontrati ripetutamente, richiude il Vescovo
salutandoci, e immagino, benedicendoci e poi iniziamo il lavoro del pomeriggio
che, come ricordo e ho detto stamattina, è “una macedonia” per usare il termine
di Van de Sfroos, e non “un frullato”. Una macedonia tra la Comunità di Cura e la
Comunità Operosa, cioè mettendo assieme sul tema del disagio sociale economia
e soggetti che per sapere, per volontariato e associazionismo si occupano del
tema. Poi è confermata la tavola rotonda con le istituzioni, e poi chiudiamo con
Don Colmegna e una novità: mi sono permesso di aggiungere una struttura che
è una grande Onlus che si occupa di sucidi, l’Amico Charlie, e quindi discuteremo
anche con loro rispetto a questo. Ricordo che obiettivo della giornata di lavoro,
oltre che confrontarci sul tema, è quello di arrivare a costruire una rete tra
Comunità di Cura e Comunità Operosa che possa affiancare le istituzioni
preposte ad occuparsi del tema ed andare avanti. Quindi do la parola al Vescovo
Coletti.
Mons. Diego Coletti, Vescovo di Como. Devo dire che la parola “prolusione”
mi ha messo in qualche imbarazzo perché evocatrice di un discorso paludato e
ricco di approfondimenti e di analisi documentate, mentre io credo di potervi
offrire non molto di più di quanto ho già avuto occasione di scrivere nella
prospettiva di questo incontro. Voglio anzitutto anticipare un mio riconoscimento
ed una mia gratitudine. Il riconoscimento di un lavoro splendido, fatto veramente
bene, che ci aiuta ad entrare nella conoscenza di un fenomeno, e quello che sto
per dire mi pare che sia la sua caratteristica differenziale forse più interessante,
ci aiuta a entrare, a esaminare e a capire un fenomeno che suscita in tutti noi
tante domande non soltanto esaminando il fenomeno stesso, ma cercando di
capire qual è l’ambiente culturale e sociale che lo recepisce, lo giudica, lo valuta,
lo metabolizza in qualche modo nella propria esperienza personale comunitaria.
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Questa dimensione dell’analisi, dell’indagine fatta sul fenomeno suicidale in
Valtellina mi sembra forse la più interessante; sono molto interessanti anche le
statistiche, che ci fanno vedere questo fenomeno un po’ da tutti i punti di vista,
ma questo aspetto della rilevazione della sua “risonanza” nel modo di pensare
della gente, cercando anche di differenziare le risposte e di intuirne l’evoluzione
progressiva nel tempo, mi pare l’aspetto forse più interessante. Comunque già
dalle cose che vi dirò, ripeto, riassumendo un po’ quanto mi è stato chiesto di
scrivere, voi potete capire come affrontare insieme come comunità l’analisi di
questo fenomeno, può essere fonte di alcune precise prese di coscienza e di
alcune precise prospettive per il futuro. Io credo che questo sia lo scopo che noi
dobbiamo prefiggerci: non tanto la curiosità del sapere come vanno le cose, ma
lasciarci interpellare dalle caratteristiche di questo fenomeno per cavarne
qualche riflessione progettuale, per assumercene insieme una rinnovata
responsabilità. Allora io per brevità cercherò di rileggere con voi rapidamente le
tre componenti che presenterò in termini soprattutto negativi, problematici, per
fare emergere poi da queste tre componenti altrettante attenzioni educative e
sociali. La domanda alla quale cerco di rispondere è appunto questa. Il fenomeno
che stiamo esaminando, a parte alcune sue radici che affondano in terreni molto
lontani, che fanno parte di un elemento quasi “endemico” e continuamente
presente nell’esperienza umana (basta pensare alla tragedia greca, basta
pensare al caso di Giuda) perché non è che noi guardiamo un fenomeno che
parte da zero, che va esaminato soltanto nelle circostanze temporanee attuali e
geografiche della Valtellina, è un fenomeno che fa parte dell’ Umano, e che come
tale va considerato. Ma a parte questo, cioè queste “radici generali nel disagio e
nella fatica del vivere”, e nel “fascino” che a un certo punto può assumere la
chiusura della propria esperienza umana comunque appesantita da difficoltà, io
sottolineerei tre esperienze che oggi, per lo più nella cultura media del nostro
paese, o diciamo dell’Occidente, e in particolare in Valtellina, possono essere
significative. Da queste tre radici provengono appunto tre sottolineature preziose
per il nostro futuro, per l’assunzione delle nostre responsabilità come donne e
uomini dotati di una “cittadinanza attiva”, quindi di fronte alla responsabilità,
soprattutto per le nuove generazioni, ma in genere sulla “qualità della vita”.
Quali sono queste tre radici? Le enuncio rapidamente e poi dico qualche parola
su ciascuna di queste. La prima radice è “la fatica del trasmettere e la
dismissione diffusa, la rinuncia diffusa al trasmettere i valori”, quello che forse in
termini più semplici si chiama “la crisi dell’educare”. Stento a usare subito questo
termine perché l’educazione o l’educare rischia di suggerire soprattutto una serie
di fenomeni molto problematici di “indottrinamento” piuttosto che di
“addestramento”, piuttosto che di “incanalamento dell’umano”. Io vorrei che
quando si parla di educazione invece si facesse subito riferimento a “ampie
trasmissioni dei valori complessivi di una vita bella”, capace di suscitare “un
desiderio di vivere” molto forte e talmente resistente da superare anche i
momenti più drammatici di crisi. Questo è l’“educare” nel senso più vero e più
alto del termine. Mi viene in mente l’espressione di un poeta francese che amo
molto, non è molto conosciuto in Italia, si chiama Christian Bobin, che ha scritto
un librettino delizioso intitolato “L’uomo che cammina”, nel quale non si cita mai
il nome di quest’uomo, ma dopo quattro pagine si capisce che si sta parlando di
Gesù, e verso la fine di questo librettino, che ripeto è delizioso, questo scrittore
francese dice:”Chi era Gesù? Chi era quest’uomo che camminava qua e là?” “Era
uno che si convinceva che si potesse assaporare un tale valore, una tale qualità
156
della vita da inghiottire anche la morte”. Mi piace questa immagine perché è
l’immagine della “proposta educativa” che educa un desiderio tale di vita capace
di inghiottire anche la morte, quando questa dovesse avvenire per fattori esterni,
figuratevi poi il desiderio di procurarsela. Ed è quello che è stato suggerito anche
nel titolo del mio contributo, “Dalla morte del desiderio nasce il desiderio della
morte” e questa morte del desiderio è dovuta al fatto che in mancanza di
un’educazione globale ricca di grandi prospettive, di grandi valori, di grandi
speranze e di grandi desideri, in mancanza di questo “il desiderio pian piano
ridotto a brevi momenti e a brevi percorsi non regge e muore”, e una volta che è
morto il desiderio entro l’umano nasce inevitabilmente il desiderio di farla finita,
il desiderio della morte. Sullo sfondo di questo fenomeno, ripeto, c’è una diffusa
difficoltà oggettiva e soggettiva “rinuncia al difficile e impegnativo processo
dell’educare”. E questo è soprattutto a carico della generazione adulta e anziana.
Discutendo in Conferenza Episcopale Italiana l’anno scorso nel mese di maggio
sulla “condizione giovanile”, la battuta che più frequentemente è risonata si
potrebbe ridurre in questi termini. Qual è il vero problema dei giovani? Qual è il
vero problema che assilla la condizione giovanile? Sono gli adulti. Cioè “la
mancanza di punti di riferimento validi, creativi, liberanti, non dominanti, non
possessivi, non ricattanti, e non addestranti, ma liberanti” di vite adulte che
esprimano la forza del desiderio talmente forte, di una vita talmente
sovrabbondante da inghiottire anche il pensiero della morte. Da questa prima
radice viene fuori evidentemente quanto i Vescovi italiani hanno anche
recentemente scelto nell’ultima Assemblea, di dedicare addirittura un decennio di
riflessione pastorale della Chiesa Italiana, dal 2010 al 2020, al tema
dell’educazione. Il Papa per primo già un paio d’anni fa parlando alla Diocesi di
Roma diceva di quest’“emergenza educativa”, io non riesco a convincermi a
parlare di “catastrofe educativa” come qualcuno ha fatto, mi piace di più parlarne
come di “una sfida”, come di un impegno da rinnovare, come di “una
provocazione” che ci viene dalle condizioni difficili della nostra cultura e dei nostri
stili di vita per un supplemento di fantasia, di intelligenza, di capacità educativa.
E questa è la prima cosa. Rapidamente la seconda radice, che ho trovato
confermata in una recente lettura che ho fatto grazie a un amico che mi ha
regalato questo libretto (è importante avere degli amici che ci regalano i libri
“giusti”). Un amico mi ha regalato questo libretto, Edizioni Einaudi, di Luigi Zoia,
che è intitolato “La morte del prossimo”, una lettura molto vivace, molto
interessante, con alcuni approfondimenti anche che non esiterei a definire
“geniali”, dove, come dire, la tesi fondamentale del libro dice questo. Il secolo
scorso è stato il secolo della “morte di Dio”, partito con Nietsche, arrivato poi
addirittura ai Teologi della Morte di Dio, Arvey Cox ed altri. Allora, metà
dell’Antico Comandamento, della Tradizione Giudeo-Cristiana, che diceva “amerai
Dio con tutte le tue forze e il prossimo come te stesso”, metà di questo
Comandamento è finito per mancanza dell’oggetto, e si è detto da molti che in
questo modo finiva l’Epoca Religiosa, l’Epoca del Divino. Ma Zoia, che non è un
Padre della Chiesa, è uno psichiatra junghiano, dice: ”Ma qui, in questa
condizione nella quale noi viviamo oggi, sta sparendo la prossimità! Siamo
sempre più estranei, sempre più isolati, sempre più lontani e indifferenti, nelle
nostre condizioni di lavoro, nelle nostre condizioni abitative, nei nostri stili di
vita. Incontriamo un’infinità di persone e siamo sempre meno significativi l’uno
per l’altro!” E qui lo dimostra anche ampiamente. Qual è il risultato? Il risultato è
che salta la seconda parte dell’Antico Comandamento, e quindi non abbiamo più
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nessuno da amare, Dio perché è morto e il Prossimo perché non c’è più. Se
questo è vero, sono battute, come dire slogan che ci fanno pensare, non sono la
fotografia della realtà, però pensiamoci seriamente, perché nella misura in cui
questo è vero cosa succede? dice Zoia che la morte di Dio contraddiceva un
bisogno presente nella cultura degli uomini, la morte del prossimo invece lascia
senza risposta un bisogno ancora più essenziale, una necessità non soltanto della
cultura, come la religione, ma anche della natura, “una necessità biologica”.
“L’uomo”, dicono la zoologia, l’etologia umana, la sociologia, l’antropologia e
persino le neuroscienze, “è un essere sociale”, gli altri uomini gli sono sempre
stati necessari in ogni senso. Oggi la loro funzione può essere in gran parte
sostituita da macchine, per esempio il computer, non hai più bisogno di andare a
uno sportello, guardare una signorina che ti sorride, domandare un’informazione.
Stai a casa tua, schiacci dei tasti, trovi una finestra e hai l’informazione. Per
dirne una, ma per citarne un’altra: io quando studiavo giovane prete nel 1966
prendevo il treno da Roma a Milano e da Milano a Roma. Non c’era verso di fare
un viaggio senza far venir fuori una chiacchierata infinita con le prime persone
che c’erano nel vagone. Oggi voi avete un treno nel quale ciascuno ha il suo
schermino davanti, o legge quando legge. Ma l’episodio che volevo farvi notare
era quello di un bambino di credo 10-11 anni, con la sua mamma, salito sul
treno, che da Milano a Roma non ha tolto gli occhi dal suo videogioco. Ce l’aveva
in mano e spippolava per cinque ore, quasi ininterrottamente. Che prossimità si
stabiliva tra questo bimbo e sua madre, in quel periodo dentro a quello
scompartimento, tra questo bimbo e quello che aveva seduto di fronte, che ero
io, non penso di essere particolarmente scostante…? Zero. La loro funzione, la
funzione della prossimità umana può essere in gran parte sostituita da macchine,
per esempio il computer, ma quel che non può essere sostituito è la prossimità
umana, la presenza umana. La lontananza dagli altri causa una privazione che è
“un vero danno psichico”, l’uomo solo incontra la depressione. E, a circolo
vizioso, l’uomo depresso è un uomo a cui mancano la forza e la spinta per
andare incontro al prossimo. Io penso a tanti dei nostri bambini, figli unici, o al
massimo in due, con i genitori che lavorano. Se non hanno la grazia della
sopravvivenza fisica dei nonni rischiano di passare la giornata da soli. Se la
comunità civile, o ecclesiale, o di qualsiasi altro tipo non riesce a proporre loro
dei momenti di condivisione e di fraternità crescono nevrotici. E quindi certi
elementi tipici della nostra vita, del nostro modo di vivere sono “patologici”,
producono psicopatie. Se questo è vero, abbiamo qui un’altra radice per spiegare
il fenomeno suicidale fra i tanti, perché ce ne sono anche altri, ma abbiamo
anche un’altra radice per “sentirci invitati, stimolati a ricostruire il più possibile
prossimità”. Già nella famiglia, qualunque sia la sua storia, anche quando per
motivi che nessuno dovrebbe permettersi di giudicare, si sfascia o si ricompone
in un altro modo, ma anche nei rapporti normali, di vicinato. E poi, come
chiamiamo noi le case delle nostre abitazioni nei grandi condomini? Le
chiamiamo “appartamenti”, sarà casuale? Appartamenti, quando uno è
“appartato” non è in una condizione di prossimità, ha preso le distanze.Terza e
ultima osservazione, io sono molto preoccupato e vado; sto cercando di
verificare questa cosa anche conoscendo un po’ le persone che intercetto, che
incontro, etc.; ebbene, sono molto preoccupato di capire “il concetto di libertà”.
Noi siamo in una condizione nella quale viene sottolineato, con motivi anche
positivi, ma in una maniera unilaterale ed esagerata, l’idea di libertà come la
possibilità dell’individuo, badate bene, non della persona!, ma dell’individuo di
158
fare ciò che vuole purché non porti danno agli altri. So che in questo modo evoco
scenari piuttosto complessi di discussione anche culturale e civile in Italia, tanto
per non far nomi pensate al problema della delicatissima definizione del confine
tra accanimento terapeutico e eutanasia. E come su questo punto, come su tanti
altri, si dice “la tua libertà”: Cosa vuol dire la tua libertà? Come aumenta la tua
libertà? Con l’aumento della tua capacità di fare quello che vuoi. Quando
diminuisce la tua libertà? Quando qualsiasi tuo tipo di comportamento o di scelta
viene regolamentato dall’esterno! Ora è assolutamente fuori discussione per me
che l’incremento della libertà fa parte della promozione dell’umano, ma quello sul
quale io vorrei attirare la vostra attenzione è che se la libertà è cercata
dall’individuo come “una dimensione fine a se stessa”, cioè finalizzata all’essere
sempre più liberi, “produce mostri”, e davanti ai mostri “uno si lascia morire”
anche facilmente. Qual è il rimedio? Ed ecco anche qui la terza possibilità nostra
di reagire, “ridare alla libertà umana un fine ad essa adeguato”. E’ un elemento
certo della libertà quello di poter fare in autonomia, ma questa autonomia è da
cercare dentro il fine della libertà, che è appunto “lo stabilirsi libero,
assolutamente non relativo, assolutamente non contrattuale, in qualche misura
gratuito, della relazione tra le persone”. La libertà per questo ci è stata donata;
la libertà trova il suo “sfogo giusto”, esce nella sua “turgida ricchezza giusta”,
quando è orientata in questo modo. Altrimenti è come “compressa”, e invece di
uscire e andare nei campi a fecondare la nostra vita, esce come “un getto
distruttore di una potenza travolgente”. Tutte le volte che noi comprimiamo una
realtà fisica in movimento la costringiamo a esplodere da qualche parte, a far
danni. Mi pare che anche qui allora l’educazione alla libertà vera, l’educazione
alla finalizzazione della libertà, sia uno degli elementi oggi da tenere presente se
vogliamo non soltanto capire, e in qualche modo affrontare in maniera matura
questo fenomeno, ma cercare in qualche misura di risolverlo.
Aldo Bonomi. Avevo ragione, di prolusione si trattava più che di una predica,
quella del signor Vescovo.
L’imbarazzo adesso è tutto mio e di Van de Sfroos, che dobbiamo fare un po’ di
commenti alla sua prolusione. Lo dico all’amico Davide, con cui abbiamo
chiacchierato molto di questo tema in questi giorni, ma io mi son segnato
quattro punti su cui incomincerei a discutere con te. La prima, il Vescovo ha
usato e ha posto il problema sulla “crisi dell’educare”, e su questo torno a un
percorso che tu hai fatto mi pare un anno fa nella scuole della Valtellina.
Soprattutto nelle scuole elementari, e una prima cosa che tu mi hai detto e che ti
ha colpito è che fondamentalmente il mito principale era quello delle “veline”,
senza nulla togliere a questa professione, e poi invece hai dovuto dialogare
molto con i giovani valtellinesi per rimettergli in testa il mito del minatore, “pica”
insomma, o di colui che lavora rispetto al territorio. E quindi una prima
domanda, è: tu che sei in parte “un simbolo” (perché poi quando uno entra
dentro la Società dello Spettacolo diventa inevitabilmente un simbolo) se ti senti
nelle tue canzoni di avere una funzione tra virgolette “educativa”, “maieutica”
rispetto ai giovani che sono a rischio in questo dramma. Questa è la prima
domanda partendo dal tema dell’educazione. Seconda domanda, il Vescovo ha
detto con “la morte del desiderio” che rimanda al “desiderio della morte”, che se
vogliamo entrare dentro il dramma, si evita il gesto estremo nella misura in cui
alimentiamo il nostro desiderio, la nostra voglia di “mangiare futuro” per usare
un mio gergo. Ecco su questo abbiamo ragionato sempre nei dialoghi che
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appaiono anche sulla rivista che abbiamo distribuito. Quello che noi abbiamo
capito nella ricerca è che ci sono due morti del desiderio che portano a desiderio
della morte. “La felicità senza desiderio” degli anziani, ne abbiamo parlato molto
stamattina con coloro che si occupano della mente, e devo dire che tu nelle tue
canzoni, per questo dico che sei un cantautore-antropologo, molto spesso
rappresenti i nostri anziani. Non solo storie di laghée, ma storie di territorio. E
l’altra tipologia di “morte dei desideri” è quella dell’ “infelicità desiderante” dei
giovani, quello che tu hai chiamato “la ruota del criceto”. Stamattina ne ho già
parlato con loro e quindi “Le passioni tristi”. Ma soprattutto nella Società
“ipermoderna” tu puoi andare in Internet da Sondrio a Singapore, a Shangai, o a
New York attraversando usi, costumi e culture, puoi pensare che tutto quel
mondo è tuo e poi “non riesci a prenderlo in mano”, e quando non riesci a
prenderlo in mano ovviamente c’è l’“infelicità desiderante”, c’è “la passione
triste”. E quindi da questo punto di vista (seconda domanda che faccio a Davide)
come vedi tu, che tra parentesi li frequenti, non dico che tu sei un mercante di
liquori, non gestisci né un Pub né una Discoteca, però tanto per capirci tu sei uno
che è “dentro”, con i tuoi Concerti dialoghi con quel mondo. E addirittura hai
avuto anche la capacità di dialogare con quel mondo mettendo assieme la
tradizione, la memoria, il dialetto con la modernità. Io cito sempre un pezzo di
una tua canzone che mi pare affascinante per un sociologo, quando tu dici “quelli
che…”, la mia mamma dice “quelli che vanno giù a Milano perché pensano che ci
siano i cani legati con le salsicce”, per capirci, ma tu dici che i laghée partono,
vanno giù a Milano “nella valle dei semafori dove crescono i telefoni” e poi
tornano indietro delusi per il gratta e vinci. Grande rappresentazione di questa
“follia desiderante” che non riesce mai ad arrivare. E hai colto l’antropologia dei
giovani, quindi seconda domanda. Terza domanda, il Vescovo ci sfida sulla
filosofia, sul tema del “prossimo”, sulla “morte del prossimo”, e quindi mi rifugio
in un ragionamento del mio amico Cacciari. Al Festival della filosofia di Modena
Cacciari dice: ”Guardate che il prossimo non è ciò che ci è vicino, ma è il
Samaritano”, che per capirci tra chi ne sa qualcosa di letture, era ciò che era più
lontano dalla tradizione giudaica, e nella tradizione ebraica, era l’eretico. Quindi
Cacciari dice: ”Guardate che quella parabola ci insegna che ciò che ci è prossimo
non è ciò che ci è vicino ed uguale, ma ciò che ci è lontano e ci sembra
incommensurabilmente incompatibile con noi”. Se questo è il concetto di
prossimo, che il moderno ovviamente aumenta, fa esplodere con la sua velocità
e con le sue reti, la domanda per Van de Sfroos è molto chiara e molto diretta,
perché sembrerebbe che tu quando canti nella nostra lingua della comunità
originaria, nel nos dialet, hai in mente solo la prossimità. Poi ho discusso con te
e rispetto a questo è venuto fuori questo concetto fra frullato e macedonia, che
vorrei che tu sviluppassi, cioè ciò che è prossimo vuol dire “rapportarsi con gli
altri mantenendo l’identità”, vorrei discutere con te di questo, terza domanda. E
la quarta ed ultima, il problema della solitudine, tutto lo sforzo di questa giornata
organizzata dalla Caritas è quello di mettere in piedi “una coalizione del sociale”
della Comunità di Cura che poi si occupi di “rompere il meccanismo della
solitudine”, e quindi la domanda che ti faccio è secca: ti ho chiesto e ti chiedo se
eri e se sei disponibile a mettere a disposizione la tua immagine di società dello
spettacolo e di venire qui tra noi a fare uno spettacolo con i giovani in cui
discutiamo di queste cose. Ti abbiamo dato le poesie di Mauro Parolini, e se mi
posso permettere, guardale perché in quelle poesie c’è molto di quella poetica
che tu racconti, che tu rappresenti, e quindi se devi fare delle canzoni che vanno
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dentro questa profondità questo libro è molto utile. E quindi se ci darai una mano
successivamente, perché poi sai i sociologi possono solo far vedere i problemi,
poi quelli che li devono accompagnare e cantare siete voi, i preti, gli psichiatri, i
soggetti del volontariato e andare avanti. Poi se il Vescovo ci dà la benedizione
siamo ancora più forti.
Davide Van de Sfroos, Cantautore. Allora “educazione”, “portare fuori”,
“accompagnare fuori”, conducere (esattamente: educere). E’ chiaro che noi ci
troviamo di fronte ad una di quelle gallerie, di quei tunnel dei quali è
difficilissimo veder la fine. Potremmo parlarne veramente per giorni e allo stesso
modo non avremmo detto nulla. Sappiamo, almeno a parole, cos’è la vita, ce
l’hanno spiegato e ognuno con una propria concezione o convinzione, con dei
dubbi del tutto personali al riguardo. Lo stesso per la morte, sappiamo che ad un
certo punto la vita di qualcuno si completa, oppure si interrompe, oppure si
modifica in qualcos’altro. Ma sappiamo benissimo che alla base di vita e morte
c’è comunque un grande mistero. Figuriamoci nel momento in cui queste due
entità si mescolano, ovvero la vita va a cercare la morte. Riflettendo forse anche
troppo, come ognuno di voi a modo suo avrà sicuramente fatto nella sua vita, in
alcuni giorni più è passato tempo e più ho visto cose accadere, mi sono perfino
permesso di “curvare” tutte le realtà, tutte le cose che conoscevo e di arrivare
una sera, nella quale probabilmente la cena è stata particolarmente lunga e i
bicchieri di vino sono stati magari più di quelli concessi dall’etilometro, per cui
ero arrivato perfino a fare una sparata, anche un po’ sopra le righe, dicendo che
alla fin dei conti probabilmente non è la morte ad ucciderci, ma è comunque
sempre la vita stessa, che tanto ti dà ma ad un certo punto è proprio lei, è il suo
“attrito”, è la sua continuità, è un’incidenza su di essa che arriva a renderla poi
“non più vita”, arriva insomma al limite. La morte è come se fosse “uno spazzino
finale”, che arriva e porta via, è “la parola punto”, tanto per dire, che il periodo,
la frase è finita. Quindi ci troviamo di fronte alla domanda: ”Di cosa è morto?”
“Mah, è morto di…” E’ stato come ha mangiato? E’ stato come ha bevuto nella
sua vita? Quanto ha fumato? quanto forte è arrivato contro il muro?” Tutte cose
che non ha portato lì la morte, questa entità “fantomatica”, che abbiamo
raffigurato in mille modi, col manto nero, con la falce, con lo scheletro, e a volte
potrebbe essere anche essere la faccia come una siringa, potrebbe aver la faccia
come una sigaretta, potrebbe aver la faccia del volante di un’automobile, però
sono tutte cose della vita. Sono tutte cose del vivere, allora uno potrebbe
arrivare al punto di dire: ”Ma è la vita che è pericolosa, cribbio, non la morte”. La
morte arriva quando non ci sei già più, oppure è la parola “punto”. Però capiamo
bene che questo discorso ci porterebbe fuori strada, e uno che cosa fa allora?
Non vengo al mondo perché altrimenti poi mi tocca anche morire e non ho
tempo! E allora noi è lì che cominciamo a ragionare, figuriamoci la complessità
del capire come mai un ragazzo magari anche molto giovane - quindi non sto
parlando di Virginia Wolf, che dopo una vita fatta di visioni, di poesie, di
depressioni sue, di chiaroscuri - ad un certo punto decide di togliersi la vita,
piuttosto che un disperato che ha vissuto dentro realtà estremamente “tragiche”,
ma di ragazzi normalissimi, senza grossissimi problemi, dico grossissimi
problemi, quindi senza quei problemi “vistosi”, lì l’educazione è soltanto: il
barboncino imparerà a saltare tre ostacoli, comportati bene quando siamo fuori,
non metterti le dita nel naso? O questo “educare”, condurre fuori, vuol dire
portarti fuori da quella “massa incandescente originaria della vita” appena tu
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compari sul pianeta, che è la libertà nel suo stato proprio “vulcanico”? La libertà,
di cui giustamente s’è parlato un momento fa, presa di per sé, nel suo stato
puro, equivale alla “massa del Sole”, poi se tu sei in grado di convogliarla dentro
un raggio laser allora fai i miracoli, allora la sai pilotare, se no tu metti un
bambino di sei anni su una moto da strada di 1.200 di cilindrata e lo mandi a
tutta velocità su un’autostrada. Anche quella è libertà se vogliamo, ma
“sconsiderata”. Allora educare non è forse provare a prendere la libertà di una
persona che non è ancora in grado di gestirsi, e di gestirla, e insegnargli, per
quanto poi si è capaci, ad incanalare questa energia? A capire che non può
entrare in un negozio, prendere una roba e uscire? A capire che non può colpire
uno che passa per strada soltanto perché, che ne so io, non gli piace la sua
faccia? Ma non sono solo queste cose di “forma”, perché il percorso è anche
molto difficile. Quando noi su di un giornale troviamo la notizia del suicidio di un
giovane, o il notiziario “La morosa lo lascia e salta giù dal ponte”. E la causa
semplicistica è “tragedia per una crisi d’amore”. “Muore il cagnolino, ed ecco che
si butta sotto un treno”, il dispiacere della morte del cagnolino, archiviata così.
“Prende brutto voto a scuola, salta dalla finestra”, il problema è che il ragazzo
non andava bene a scuola e questo per lui era troppo e si è impiccato oppure è
saltato giù da una finestra. “Ascolta una canzone di Ozi Osbourne che incita al
suicidio e si suicida”, “Fa un gioco di ruolo con le carte, entra troppo nella parte,
il suo personaggio muore e si butta dal terzo piano”. Tutte notizie vere, che
abbiamo sentito. Ma sono davvero queste le motivazioni? Andiamo poi a casa di
ognuna di queste persone e cominciamo a vedere come vivevano, che rapporto
avevano coi genitori, che rapporto avevano col vicinato, che vita facevano, che
interessi avevano, che tipo di “desiderio”, ecco la parola-chiave, che tipo di
desiderio-carburante dell’aspettare pazientemente il domani avevano queste
persone? Molto probabilmente troveremmo tante, tante cose che ci farebbero
capire che non possiamo “archiviare” tutto con “Ha preso un brutto voto, e
guarda te, chi l’avrebbe mai detto? Ha fatto una scelta così disperata”. E’ molto
facile premere un grilletto, è molto facile saltare dalla sedia, o dalla rupe nel
momento in cui hai fatto questa scelta incomprensibile, e che è comprensibile
per gli altri, che non ci hanno mai pensato, soltanto nel momento in cui “ti
piomba addosso”, e allora ti diventa “comprensibile” quando è troppo tardi. Ecco
la gravità della cosa, quando arrivi a capire la velocità con cui puoi affrontare
questa cosa, è troppo tardi se qualcuno non ti è vicino subito. Perché è “una
maturazione lenta”, ma poi quando “stappi”, pam, parte d’improvviso, è il
momento giusto. Il secondo marito di mia zia arrivato ad un certo punto decise
di suicidarsi, dopo aver educato comunque anche in modo come dire “sostenuto”
i tre figli, che non erano probabilmente tutti e tre suoi, era un avvocato
rispettato, però a un certo punto, dopo la morte di mia zia, dopo molti anni, ha
deciso di annullarsi, di sparire, e con tutta tranquillità ha preparato nel garage
tutto il corredo di quello che serviva. Con la scusa che avrebbe dovuto pitturare,
con tranquillità lui ha preparato l’automobile coperta in un certo modo, perché si
sarebbe poi “gasato” col gas di scarico, e la sera, prima di scendere in garage
dopo aver salutato la donna di servizio, è andato avanti, ha finito anche il libro
che stava finendo di leggere, ha mangiato, ha bevuto, ha pranzato, come uno
che va a dormire, ha preso la foto di mia zia, se l’è messa in mano, si è messo in
macchina ed è partito per un viaggio che non era quello dell’autostrada. Tutta
questa tranquillità, tutta questa serenità nell’affrontare la cosa che più temiamo,
che meno conosciamo nell’Universo, da che ingranaggi può essere mossa? Una
162
“determinazione” tale, perché la difficoltà non è capire quanto è veloce, o le
statistiche, che purtroppo le abbiamo di fronte e vediamo, è capire “quando il
meccanismo comincia a girare la sua chiave”, a tirare quella corda. Viviamo in
un’epoca in cui senza un’educazione, parlo di educazione che deve essere “un
abbraccio”, parlo di educazione che deve essere “un doverci essere”. Io mi rendo
conto quando sono a casa con tre figli per tanti giorni che comincio a “fare
dell’educazione” anche se non m’ascoltano, anche se devo gridare, anche se
devo qualche volta perfino usar parole che non vorrei nemmeno sentissero,
qualche pugno alla porta, qualche sberla anche a loro, perché non ce la fai
davvero più, sono tre, sono piccoli, e lottano. Però mi rendo conto di quanto io
sono “in fase di educazione”, mentre ci sono e di quanto invece la mia
educazione non è presente quando io sono via per parecchi giorni. Ecco perché
quando torno a casa ho bisogno di “recuperare il tempo perduto”, e
“reinventarmi qualcosa”. Pensiamo a quelle società tribali che hanno sempre
vissuto nel segno del “circolare”. Per un nativo americano, per un eschimese, per
un aborigeno, il mondo, la natura è nell’insegna del cerchio, del circolare, dello
sferico, non c’è niente di quadrato in natura. Tutto quello che i nativi americani
vedevano era circolare; gli occhi di un uomo, tondeggianti per lo meno, le
curvature del tuo corpo, possono essere spigolose in alcuni punti, però tu sei
comunque “sferico”, “circolare”, “convesso”. La base su cui vengono piantate
queste loro capanne è una base circolare, così l’igloo, così il vikramm, il tamburo
è qualcosa di circolare, il digeridu è qualcosa di circolare, la luna, le pietre son
comunque circolari. Ma ecco che arriva l’uomo bianco che porta nel loro mondo,
nella vita, “il quadrato”. “Quadra il cerchio” addirittura. I libri dell’uomo bianco
sono quadrati, le finestre dell’uomo bianco sono quadrate, le case sono
quadrate, le automobili sono comunque quadrate, le gomme no per fortuna, ma
a volte sì, quando stanno lì parcheggiate parecchio, è quadrato il modo di dover
stabilire il giorno, il tempo, il muoversi, l’ “implotonarsi”. Gli scudi degli indiani
sono circolari, gli scudi dell’uomo bianco, pensiamo ai romani, molto, cominciano
a essere anche loro “quadratizzati”, rettangolari. Tutto il computer è quadrato, la
televisione è quadrata, fateci caso, è solo “simbologia” o è qualcosa di
“antropologicamente più profondo”? Mi vien da chiederlo. E l’educazione è ancora
questo “cerchio”? Una volta c’erano gli anziani, stimati nelle culture antiche, e
anche nei nostri paesi, si andava dal nonno a sentire che il nonno “è saggio”,
“Andiamo dal nonno a chiedere del tempo!”. Oggi gli anziani sono dentro
“parcheggi per anziani” quadrati, guardano televisioni quadrate, giornali di
cronaca quadrata, e nei casi di alta tecnologia ascoltano un’Ipod quadrato e
fanno un Videogame quadrato con nipotini che hanno un Gameboy quadrato.
L’anziano oggi lo vai a trovare stando attento a non compiangerlo per non
rattristarlo, ma con l’idea di andare a commiserare qualcuno perché è “vecchio”.
Un volta l’anziano era il Sachem, era lo sciamano, era il sapiente, era il saggio,
era “l’albero sacro da cui arrivava la tua famiglia”. E’ cambiato e hanno
“quadratizzato” anche l’anziano. Quindi l’educazione non potrà mai essere
efficace se non torna ad essere qualcosa di “corale”, di “circolare”, di “tribale” a
partir dalla famiglia, ad arrivare al condominio, gli appartamenti quadrati. E cos’è
la cosa che ci terrorizza di più, dopo la malattia e la guerra, nella vita?
L’assemblea condominiale. L’assemblea condominiale dove tutti gli appartamenti,
gli “appartati” si trovano “disabituati assolutamente a discutere”, parlano tutti
del proprio prurito, del proprio “disagio”, e arrivano poi a non andare d’accordo
su niente, a farsi causa. A Milano, anzi a Saronno addirittura, c’è un condominio
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molto grosso dove, quando c’è l’assemblea condominiale, noleggiano un teatro,
e vanno dentro lì, perché devono gridare talmente tanto tutti che debbono per
forza isolarsi per non disturbare il quartiere. Quindi la mia risposta, un po’ lunga,
poi cercherò di essere più breve, però qua era importante dirlo, è che
l’educazione o torna a essere un qualcosa di “tribale”, che parte dalla famiglia, e
si estende poi al quartiere e al mondo in modo “corale”, “circolare”, di
“protezione”, attorno a un “centro”, tutti “accudiscono”, una tavola rotonda, o
altrimenti se un ragazzo viene lasciato comunque da solo, anche con mille
gadget molto funzionali che lo tengono impegnato, è comunque una persona che
potrebbe “non avere guide”, senza guide spirituali, sociali, politiche, culturali, il
ragazzo potrà imparare veramente a usare qualsiasi cosa rapidamente e a
comunicare con telefoni che magari funzioneranno anche sott’acqua con uno che
sta a Tokio, ma “se non avrà niente da dire” dentro quei telefoni, comincerà la
chiave della ruggine a girare, la corda comincerà a tirarsi e davanti a una
difficoltà apparentemente stupida come un voto, una morosa o il motorino che
s’è rotto, “la scelta potrebbe essere fatale”.
Aldo Bonomi. Allora educazione e anziani li abbiamo affrontati. Adesso vediamo
gli altri punti.
Davide Van de Sfroos. “La ruota del criceto” è una cosa che m’ha sempre
terrorizzato. Una volta io volevo tanto un criceto, la mia amica m’ha detto: ”Ti do
un porcellino d’India perché i criceti non li ho più ”, e io ho risposto: ”Va bene”.
Me li ha fatti vedere piccoli e poi m’ha fatto vedere come diventavano, s’è messa
un guanto come quello dell’amaro Petrus Bonekamp per prenderlo e io ho detto:
“No, non lo voglio assolutamente”. Non è uno scherzo, il topolino che non sta
mai fermo. L’ho messo nella gabbia e correva sulla ruota, alla sera, non è una
battuta, è morto d’infarto. La mia amica mi ha detto: ”Guarda, a volte capita”.
Adesso stiamo parlando di un argomento tutt’altro che comico, però questo
criceto, che non era un criceto, ha un nome, “topo ballerino”, perché si agita
molto, questo topo. E’ uno di quei casi in cui anche loro non nascono tutti con lo
stesso cuore, non tutti con la stessa forza, e allora sulla ruota lui va perché non
ha nessuna valvola che gli dica: ”Adesso devi fermarti, sei stanco”. Mi è rimasta
impressa ‘sta cosa. Andando avanti io in prima persona mi sono trovato a volte a
trascorrere le mie giornate insieme ad altri che come me pedalavano su questa
ruota del criceto verso non so cosa, arrivare, produrre, distruggere, comprare,
sprecare, ricomprare, gridare, cantare, suonare, lettera, testamento, su le mani,
giù le mani, televisione, guardare, musica, inglobar cose, corri e corri, e mi sono
reso conto che sicuramente nella storia, ad ogni periodo, c’è stato qualcosa di
sicuramente difficile, di depressivo, sicuramente il Medioevo non era certo un
periodo di “allegroni”. Basti vedere i disegni delle Danze Macabre anche a
Clusone, non è che vivevamo in un periodo tutto: ”Hiuhuu, oh, che bella giornata
di sole!”. Pam, arrivava quello delle Bande Nere e servi della gleba giù in mezzo,
cioè stiamo ben contenti della nostra epoca, però veloce, sempre di più. La
bevuta, il vino rosso si beve perché sei da solo, si beve perché sei in due e “Che
bello vedersi!”, si beve perché sei in troppi. E una volta sembrava quello il
grande oppio, la grande droga. Poi quelle droghe storiche, tipo l’oppio, la
marijuana, questa grande calma, questo volare, questo cercare di ispirarsi. Ad
un certo punto l’eroina, quando proprio andavo da bambino a Verona quand’era
la capitale dell’eroina, non era un suicidio, era una sorta di anticamera “in
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standby”, era un Purgatorio prima di scendere giù o di andare chissà dove. Come
dire: ”Non mi uccido, però mi assento da questa realtà. Chimicamente io mi
assento, mi allontano perché non c’entro niente con questo mondo di cose”.
Quindi non più “la ruota del criceto”, ma comunque “la fossa del criceto”, quella
dove star dentro, in isolamento, a fare questa cosa. E dove si drogavano? A volte
in appartamento giustamente, e volte sotto il ponte, per strada, proprio per dire:
”Quello che mi è intorno mi è indifferente”. Allora cosa succede oggi?, e sul lago,
attenzione, c’è più cocaina che in una puntata di Miami Vice, quindi non stiamo
parlando di cose che riguardano l’America, stiamo parlando di cose nostre. “La
droga ufficiale” è diventata la cocaina, quella della “velocità”. Le bibite sono la
Redbull, adesso ce n’è una che ha anche un nome che non si può dire, però è
punteggiato comincia con fi-, finisce con –ga, perché sarebbe fiore del guaranà,
hanno barattato anche su una vocale, sicuramente qualcuno la prenderà anche
solo per la copertina. Però voglio dire tutte “cose per star su di giri”, per non
dormire la notte, caffeina, stimolanti, corri di più, come dire una giornata non ti
basta, non può avere 25-26 ore, allora comprimiamola, andiamo più veloce,
lavora tanto, produci, e stasera se non ce la fai più ti offro questa striscia, che ti
permette di inventarti un’altra giornata compressa in tot ore, dove tu vai e hai
esperienze, anche dal punto di vista sessuale, più spinte, più veloci, per arrivare
a un certo punto quando si rompe il topolino ballerino e crac in senso di rottura e
non di droga. A questo punto io mi chiedo: ”Ma tutti questi ragazzi a cui stiamo
dando in eredità ‘la ruota del criceto’ a questa velocità non sono un po’ come
quei bambini che devono salire sulla Giostra al Parco Giochi quando la Giostra
sta andando a una velocità che neanche gli astronauti si allenano così, quando
va in velocità e: ”Dai, salta su!” “E fermatela un attimo!” “No dai salta su!”, e tu
devi saltar su giusto come la moto in corsa. “Salta su Zorro, cavalca!” Devi
saltare su questa cosa in corsa. Ma tutti saranno pronti a questa velocità?” Il
fatto è che questi ragazzi hanno tante pretese, anche quando si è saliti sulla
corriera così piena, così zeppa, così piena di problemi, anche di gente che ha già
viaggiato a lungo. Questi ragazzi hanno l’aspetto di essere dei “vulcaniani”, ma
sono comunque ancora ragazzi, e qualche volta devono saltar di pari passo il
periodo dell’infanzia diventando subito adolescenti solo perché a 11 o a 7 anni,
sono già bravi col computer. Un conto è essere bravi col computer, ad
accenderlo, a spegnerlo e a navigare, un conto è capire da soli tutto quello che si
trovano davanti. E così fuori dal computer, quadrato, nelle strade, quadrate,
trovare delle persone verso le quali non è più così scontato concedere la fiducia
che si concedeva un tempo. Oggi c’è anche il problema che quando un adulto,
come ai tempi i vecchi saggi, si avvicinavano al ragazzo per dirgli una cosa, per
spiegargli come doveva fare con la barca piuttosto che con la bicicletta, o per
chiedere semplicemente: “Va a crompam un pachet de Alfa, che dopo te paghi ‘l
gelato”, questi correvano. Adesso si avvicina un uomo coi soldi in mano, è un
pedofilo, scappa, perché c’è comunque anche “il terrore” di quello che ci
circonda, perché ci hanno comunque spiegato tutto subito, perché tutto si è
velocizzato, anche la notizia, anche il dover spiegare e fare. E io mi chiedo:
”Sulla ruota del criceto non è che tutta questa ‘superpressione’ mette la persona,
paradossalmente, in una condizione di mancanza di pressione, in una condizione
cioè sufficiente per continuare dentro questa vita a diventare immancabilmente
un problema, un diverso, un disadattato, un outsider?”. Ultimo esempio, se due
giorni prima dell’11 settembre, fosse arrivato un ragazzo nello studio di uno
psichiatra, e avesse detto: “Guardi, ho l’ossessione che arrivino due aeroplani e
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che vadano addosso al Duomo di Como, o al mio edificio, perché vogliono fare
magari un attacco terroristico a noi”, lo psichiatra avrebbe detto:”Guarda, le
gocce sono queste qua, le prendi tre alla mattina, tre al pomeriggio e tre alla
sera, e laddove senti che proprio c’è un po’ di sbalzo le correggi con uno Xanax
0,25”. Perché avrebbe detto così, ma due giorni dopo invece questo è successo
davvero. Allora è davvero così fuori di testa uno che ha paura di determinate
cose in questo mondo? Pensiamoci!
Macedonia e frullato. E’ molto semplice, il mondo è sempre stato il mondo,
l’abbiamo conosciuto in un certo modo, integro, andando avanti siamo riusciti a
creare miracoli e cazzate spaventose. Visto dall’aereo il mondo in alcuni punti,
laddove è arrivata la civiltà, sembra essere attaccato da virus e da malattie
molto gravi, che cominciano a crescere a dismisura, costruendo cose laddove
prima c’era un altro tipo di vita, un altro tipo di natura. In alcuni punti l’uomo
sembra un virus, in alcuni altri sembra l’antibiotico. E’ sufficiente stare sul ponte
dell’autostrada per vedere questi “globuli” rispetto ai quali noi siamo avanti e
indietro, che vanno ognuno da qualche parte e nessuno sa perché, un motivo ce
l’avrà, però chissà. Tutto si mescola: le culture, le razze, le spiritualità, le
religioni, tutto può essere, o almeno alcuni casi possono essere, grazie a Dio, “in
convivenza”. Alcune persone hanno imparato a pregare in modo differente nella
stessa città, in alcuni altri posti questo sarà impossibile credo ancora per
moltissimi anni. Alcuni hanno imparato a lavorare, a fare lavori che non
conoscevano, hanno imparato lingue che non erano le loro, si sono “integrati”, e
comunque abbiamo visto che “la macedonia”, ovvero l’insieme di frutti diversi
dentro una scodella potrebbe essere questa civiltà, che si mescola mantenendo
però ben presente, per colui che la sta assaggiando, dove comincia il pezzo di
mela, dove finisce il pezzo di kiwi, di pera, di banana o di fragola. Quindi una
società “multietnica”, “multirazziale”, “multispirituale” che convive ha il doverediritto di trasformarsi nella macedonia, cioè “stare insieme mantenendo la
propria identità”, perché non è giusto che una persona, solo perché per motivi di
lavoro, o di impossibilità di vita, o altri motivi, deve andare in un altro paese,
ripudi la propria identità. Del resto, la nostra storia lo dimostra: noi siamo gli
italiani d’Argentina, gli italiani minatori del Belgio, che andavano su e venivano
trattati molto male; ecco, non siamo costretti a “ripudiare” tutto il nostro essere,
la nostra cultura, la nostra religione soltanto perché dobbiamo andare in un altro
punto del pianeta. Rimaniamo quel pezzo di frutta e ci mettiamo dentro “Salve,
io sono il kiwi”, “Salve, io sono la fragola”. La cosa che invece mi spaventa, e
spaventa inconsciamente anche tutti gli altri, è “il frullato”. Allora, tutto questo
viene frullato, mescolato, appiattito dentro un qualcosa di informe liquido, dove il
colore vincente probabilmente è quello della fragola o del lampone se ci sono, e
l’odore dominante è quello della banana perché è chimicamente più forte degli
altri. E quando lo bevi riconosci che ci sono dentro tante cose, però non sai più
che forma avevano, non sai più da che albero venivano, e loro stessi non si
ricordano più la forma, la sostanza di cui erano fatti; rimane un alone generale in
mezzo a tutto questo. E’ stata una metafora così gastronomica, nata
casualmente, che ha molto appassionato Aldo, tra ruote del criceto e lavatrice. Io
sono il primo a mettermi in discussione, non c’è giorno nella mia vita in cui non
abbia frequentato un santo, se non il principale, con una preghiera o una
richiesta per qualcuno, per qualcosa, per me stesso, o una protezione da
qualcuno, da qualcosa, o un consiglio su come fare, non c’è stato giorno in cui io
non abbia pensato, pregato, o non mi sia rivolto a questo “punto focale” da dove
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“il grande mistero” parte, però mi sono reso conto, sia per me, sia per tanti altri,
di come facciamo, capiamo cosa va fatto, cosa non va fatto, poi facciamo
comunque quello che non andrebbe fatto. E nel nome del fatto che Lui è grande
e magnanimo, abbiamo l’idea di questa Chiesa “lavatrice”, dove tu salti dentro
una domenica e vieni fuori pulito com’eri, e per un po’ di tempo puoi fare quello
che vuoi. Ecco, questa è la terza ruota del criceto, il frappé e la macedonia, e la
Chiesa lavatrice, che a volte fa molto comodo.
Ora la Valtellina attende, scusate, devo andare.
Aldo Bonomi. Bene, ora di nuovo la parola al Vescovo.
Mons. Diego Coletti, Vescovo di Como. La mia non è una conclusione, per
carità, io non ho la pretesa di concludere nulla! Faccio soltanto un po’ di
“controcanto”. Con un autore di musica tento di fare controcanto. Il primo
controcanto è per dichiarare che non devo correggere, ma soltanto esprimere la
mia profonda “sintonia”, tanto che con sorpresa devo dire che il cerchio del
criceto e la differenza tra la macedonia e il frullato, sono due immagini che ho
usato un anno e mezzo fa andando a trovare i giovani in giro per la Diocesi zona
per zona. Ci sono testimoni e può darsi che forse sentendo in macchina il Vicario
Generale, che è praticamente innamorato di Van de Sfroos, può darsi che l’abbia
tirata fuori anche da lì. Ma devo dire la mia piena sintonia, anche per quanto
riguarda “la lavatrice”, la Chiesa lavatrice. Un’immagine forse più appropriata
riguardo certe nostre comunità religiose, non oso dire Cristiane, è sì quella della
“lavatrice”, ma quella di quelle grandi lavatrici che ci sono nelle grandi città,
dove ciascuno va rigorosamente a fare il proprio personale bucato, degli altri
posti se ne frega. E durante il lavaggio si occupa di leggere qualcosa per sé. Mai
una conversazione, mai una condivisione, mai un dire: ”Mah, mettiamo tutta la
nostra biancheria di qui e tutto il nostro colorato di là”. Per carità! Oggi poi, con
la peste suina, figuratevi! Quindi io credo di essere proprio “in profonda
sintonia”, e vorrei non concludere, ma “rilanciare il discorso” condividendo con
voi tre domande, alle quali cercherò di avviare una risposta, anche se non ho la
risposta in tasca, e sono domande che continuamente “rivivono” anche dentro di
me, e che è bello tenere vive dentro di noi. Sono domande un po’ “forti”, un po’
“formidabili”. La prima domanda è “cos’è la vita?” Se noi siamo qui a parlare
della morte, del suicidio, sarà bene che, siccome San Tommaso d’Aquino diceva
che “una est scientia contrariorum”, cioè che noi comprendiamo una cosa
quando abbiamo compreso bene anche il suo contrario, perché la conoscenza dei
contrari è una sola, allora se vogliamo capire com’è la prospettiva della “scelta
della morte” domandiamoci che cosa vuol dire “scegliere di vivere”. Perché il
busillis sta lì. La risposta che io cerco in una botta di avviare è la cura e la
crescita di relazioni positive con gli altri, compreso tutto il resto, il mangiare, il
bere, il digerire, il passeggiare, il prendere l’aspirina, finalizzato a quello. Provate
a pensarci, provate a trovarmi un’altra definizione del “nocciolo fondamentale del
vivere”. Perché se ci mettiamo in questa ottica probabilmente comprendiamo
come si riesca a “venir fuori dal relativo”. E’ da questo punto di vista che io
ancora una volta, perché molti di voi me l’avranno già sentito dire, cito con
orrore, e con sdegno, quella “maledetta reclame della Vodafone”, che diceva
“tutto intorno a te”. L’abbiamo bevuta tutti per settimane e per mesi, senza che
nessuno si alzasse a dire: ”Vergogna!”. Perché tutto intorno a te è una delle
definizioni più geniali e sintetiche che io abbia mai udito di ciò che mi pare di
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avere capito essere l’”inferno”. Tutto intorno a te è la fine della vita, e se per
venderti un telefonino io devo farti vedere che trasformi il tutto del mondo in
qualcosa che ha te come centro, deve essere capitato qualcosa di molto brutto
all’umanità, tanto brutto che appunto nessuno se n’è accorto. Caso tipico di
questa prima risposta è quello che gli psicologi riconoscono quando dicono che il
bambino, il cucciolo d’uomo, arriva a riconoscere in maniera cosciente, riflessa,
la propria identità solo quando incontra sul volto di un altro, normalmente la
madre, un atteggiamento di “dedizione gratuita” a lui, che è il “top della
relazione”, la qualità massima della relazione è quella che appunto “sfugge al
patto di dare ed avere”, sfugge alla dimensione commerciale della garanzia e
dell’assicurazione delle parti, e va invece verso l’orizzonte aperto del dire ”Io
sono qui per te gratis” punto e stop, “Io sono pronto a morire per te”. Lo chiedo
alle mamme che incontro, non ne ho trovata ancora una che mi abbia detto di
no, quando le ho chiesto se le circostanze lo richiedessero, se sono pronte a
morire, per i loro figli. Perché questo fa parte dell’amore! E se manca questo
nelle dimensioni delle relazioni interpersonali diventiamo “ingranaggi di una
macchina che ci stritola” prima o poi, e perdiamo “il senso della vita”. Che è
paradossale, perché è come dire che il senso della vita è quando tu sei pronto a
morire per qualcosa. E se non c’è nulla e nessuno per il quale tu sei pronto a
morire, cioè sei pronto a perdere, sei pronto a “vivere in perdita”, la tua morte è
dietro l’angolo, che tu la scelga o non la scelga. E così vengo alla seconda
domanda. Secondo voi chi è il prossimo? Questa è la domanda che è stata fatta
a Gesù un giorno. “Chi è il mio prossimo?” Come è stato giustamente detto “né
vicino, né lontano”, anzi Gesù racconta - fantastica questa faccenda - dell’uomo
che scendeva da Gerusalemme a Gerico e va a prendere “un lontano”. Allora il
prossimo è una “categoria determinata” o è “un progetto”? E’ “un dato”, che io
devo cercare di misurare intorno a me, o è “un compito” che io mi devo
assumere? Difatti la parabola finisce con: ”Vai e fai anche tu lo stesso!” Cioè lo
stesso che cosa? “Fatti prossimo!” Bisogna investire nelle relazioni, non
considerarle come un dato. Tenendo presente quella cosa che disse
Shakespeare, che era un cantautore del suo tempo. Rispondendo ad un amico
che gli aveva detto come mai da quando era stato abbandonato dalla moglie e
dai figli non aveva più il coraggio di prendere in mano la chitarra, che invece gli
piaceva continuamente suonare, Shakespeare gli risponde con un sonetto, e gli
dice, traduco in concreto: ”Caro amico, è chiaro che tu non hai più voglia di
suonare, perché? Perché guarda come sono le note, guarda come vibrano le
corde della tua chitarra, richiamandosi l’una all’altra e facendo soltanto nel loro
insieme quella melodia che ti dà pace. Invece nella tua condizione attuale, se tu
suoni la tua chitarra, da quella emerge soltanto una nota, che ti dice che essere
solo è come essere nessuno”. Non so se voi avete letto “La solitudine dei numeri
primi”, un romanzo di una tristezza agghiacciante. Ed è appunto la descrizione
letteraria di come si può crescere, maturare, incontrarsi, e sperimentare in
qualche modo almeno il desiderio dell’amore e trovarsi isolati come due numeri
primi, che possono essere divisi solo per uno e solo per se stessi. Il prossimo non
è un dato, ma un progetto. Allora, come è stato detto, il bambino che si butta
dalla finestra perché è stato bocciato a scuola è il bambino che ha formulato
questo semplice teorema: ”Io di fronte ai miei genitori tornando a casa con la
bocciatura non sono più nessuno, perché i miei genitori mi considerano qualcuno
solo a patto delle prestazioni che io posso loro garantire”. E quando il bambino,
l’adolescente si sente “solo”, avverte che è come essere “nessuno”, e siccome “la
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vita è essere qualcuno per qualcuno”, nel senso forte del termine, “non ha più
senso” essere soli. Terza e ultima domanda. Se i virus di cui abbiamo parlato,
soprattutto quello della “morte della prossimità”, sono reali, quale umanità
stiamo preparando nei nipoti dei nostri nipoti se si va avanti di questo passo? Io
non voglio essere catastrofico. Voglio però soltanto aprire uno scenario, per lo
meno possibile. Il Luigi Zoia scrive in questo libro una cosa che mi è sembrata
“inquietante”, e con questo concludo, dice: ”Vedete, quando Nietsche ha
proclamato ‘la morte di Dio’ è finito un secolo, nel quale abbiamo detto basta,
siamo in una umanità post-religiosa”, se davvero muore anche il prossimo come
potremmo chiamare le nuove generazioni, in quale tipo di umanità vivranno le
nuove generazioni? E lui dice: ”Forse l’unica cosa che mi viene in mente è che,
come allora è cominciata un’epoca post-religiosa, il rischio è che con questo
fenomeno cominci un’epoca post-umana”. Il solo pensare che questo è un
lontanissimo, ipotetico “rischio” dovrebbe mobilitare tutte le nostre forze per far
sì che questo non avvenga.
Pierluigi Comerio. Mi ha già presentato il professor Bonomi, per cui non ho
bisogno di dire altro. Devo soltanto fare una brevissima introduzione al tema. Io
“gioco in casa” in quello che vi dico, ma la mia è anche una sorta di “autocritica”
ed è la seguente. Noi operatori dell’informazione spesso siamo criticati per quello
che scriviamo e per quello che non scriviamo, e nella fattispecie il tema è molto
delicato. Il professor Bonomi adesso non mi sente, però mi piacerebbe che mi
sentisse, perché io vorrei chiedere a lui: “Qual è il comportamento “giusto” che
deve tenere un giornale, una televisione, un sito Web, di fronte a tragedie di
questo tipo?” Noi oggi ne stiamo parlando, e quindi vuol dire che ne dobbiamo
parlare, però scriverlo sul giornale è un’altra cosa. Io sono stato educato e
cresciuto in un certo modo, e devo dire che tendenzialmente la mia scelta è
quella di non pubblicare notizie di questo tipo. Altri giornali lo fanno in maniera
anche direi parecchio “devastante” delle volte, e però c’è sempre questa “linea di
confine” difficile, che non si riesce a sciogliere e a chiarire. Che cosa sarebbe
meglio che facesse un giornale? Che pubblicasse queste notizie, e che quindi ne
parlasse come stiamo facendo noi tutti oggi, oppure che tacesse perché dietro
c’è una tragedia, c’è una famiglia che soffre, c’è “il pericolo di uno spirito di
emulazione”? Ecco, io butto lì questa piccola osservazione, che faccio facilmente
perché la faccio soprattutto per il mio lavoro, però direi è un’altra faccia della
stessa medaglia, che mi piacerebbe magari approfondire anche successivamente,
se sarà il caso, in un incontro successivo. Ho finito. Allora, chiamo
immediatamente Cecco Bellosi dell’Associazione Il Gabbiano Onlus, che si occupa
di recupero di giovani e persone genericamente “in difficoltà”.
Cecco Bollosi, Associazione Il Gabbiano. Cercherò di essere sintetico, nel
caso dimmi se sforo, anche perché a noi tocca concretamente poi andare a
cercare di realizzare le indicazioni uscite dal dibattito e dalle suggestioni anche
molto interessanti uscite stamattina e oggi. Allora, io credo che in questa ricerca
noi abbiamo incontrato degli “attori involontari” e degli “attori parzialmente
mancati”, e che ambedue questi tipi vadano messi in rete. Nel senso che tra gli
attori involontari ci metto due categorie di persone, ad esempio i gestori dei
locali del divertimento, quelli che Aldo Bonomi ha descritto come “il distretto del
divertimento”. Noi abbiamo trovato delle osservazioni molto interessati ad
esempio da parte della proprietaria di una discoteca, che è una discoteca di
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confine, che potrebbe essere un materiale interessante anche sulle “differenze
antropologiche”, che lei ha descritto tra, ad esempio, i lecchesi, i valtellinesi, i
valchiavennaschi e i laghée. Modestia a parte noi laghée siamo stati definiti come
i migliori, però questo è un altro tipo di discorso, la seconda categoria di attori
involontari. In ogni caso il problema grosso, importante, che va rimandato per
alcuni aspetti a tutti, è che comunque il gestore, il proprietario di una discoteca,
con la quale noi collaboriamo perché facciamo “attività di prevenzione rispetto
agli abusi alcolici”, è di fatto oggi “un confessore”, un confessore di “disagio”, un
confessore di “stati d’animo”, un confessore dello “star male” delle persone. E io
chiamo “attori involontari” questi nel senso che “non è il loro mestiere”. Fanno
parte della Comunità Operosa. Però questa Comunità Operosa è oggi
particolarmente “sensibile” allo star male di queste persone. Poi esistono degli
“attori parzialmente mancati”; io non voglio criticare la scuola, è come sparare
sulla Croce Rossa. Ho insegnato per molti anni e quindi non voglio fare critiche
“saccenti”, ma sicuramente gli insegnanti oggi si trovano a “dover essere in
pratica qualcosa di più che degli insegnanti”, a sforare in una qualche misura
rispetto al discorso della psicologia, rispetto al discorso dell’educatore; pensate
quanto è impegnativo quello che ha detto il Vescovo prima rispetto all’essere
educatori a 360 gradi e all’essere assistenti sociali. E’ evidente che rispetto a
questo impegno molti insegnanti non possono che “cercare una via di fuga”, ma
cercare una via di fuga significa a questo punto “abbandonare la scuola a se
stessa”, quello che sta avvenendo in questi anni. Teniamo conto che lavorare coi
“minori” è una delle cose più difficili che ci siano. Noi abbiamo una comunità
minori che è sicuramente la comunità più problematica che abbiamo, perché non
è facile interloquire con loro. Brevemente, noi su questa ricerca ci siamo stati, ci
saremo sul proseguo e ci siamo per tre motivi. Il primo motivo è comunque che
purtroppo, per tutta una serie di ragioni, negli ultimi anni la sfera della
tossicodipendenza “ha incrociato pesantemente” la sfera della sofferenza
mentale. E quindi noi oggi abbiamo ad esempio nelle nostre comunità almeno un
terzo delle persone che sono entrate con problemi di tossicodipendenza, ma che
hanno anche problemi di sofferenza mentale. Quindi è un problema anche di
interesse a una questione che sta diventando sempre più “spessa”, come si
dovrebbe dire. Non lo facciamo per “gratificazione”, credo che in questo tipo di
lavoro, nel lavoro sociale, ho fatta mia molti anni fa l’intervista di una suora del
Beato Cottolengo di Torino, che ha risposto a una domanda: ”Ma lei che gusto ci
trova in un lavoro che non dà nessuna gratificazione?”, “Proprio il fatto di non
avere gratificazioni!” Ecco, credo che questo debba essere come dire “il
traguardo” di chi lavora nel sociale. Ultima considerazione, il sociale oggi è “un
centro”, “uno snodo fondamentale per arginare la società del rancore”. Allora
tutto quello che abbiamo detto a me è piaciuto molto stamattina, nella relazione
di Borgna il discorso della Comunità del Destino, perché noi abbiamo sempre di
più delle persone nelle comunità che ci chiedono di rimanere a vivere in
comunità, cioè si torna a un discorso delle comunità di vita, quindi questo vuol
dire che la gente, le persone che chiedono aiuto e che sono sole hanno “bisogno
di stare con gli altri”. Ecco, questo io credo che possa essere un argine rispetto
alla società del rancore, una cosa che la società politica non è in grado di fare,
perchè la società politica, dico spesso, “va contro”. Dico “queste cose”, ma noi
abbiamo bisogno di farle queste cose.
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Pierluigi Comerio. Grazie Bellosi. Restiamo nel mondo dell’assistenza e del
volontariato e chiamo Massimo Bevilacqua della Cooperativa Insieme.
Massimo Bevilacqua, Cooperativa sociale Insieme. Grazie. Sono un
cooperatore sociale Presidente di una Cooperativa Sociale di Morbegno, la
Cooperativa Sociale Insieme e amministratore del Consorzio SolCo di Sondrio,
che è anche l’Ente che ci ospita oggi. Io ringrazio chi ha promosso questa ricerca
perché in un certo senso “si è messo in ascolto”, e si è messo in ascolto anche di
me, che sono stato un intervistato e ha consentito anche a me stesso di
ascoltare, riascoltare e rivedere anche per iscritto le riflessioni che avevo fatto
su questo tema. La mia esperienza lavorativa, velocemente, è quella di
operatore e coordinatore di progetti di sviluppo di comunità, sui temi della
formazione degli adulti e delle attività di prevenzione con i giovani e di
promozione delle politiche giovanili. Quindi sono una “figura operativa” che si
trova spesso dentro le comunità locali, in particolare in diversi progetti che
abbiamo nell’area del morbegnese e non solo, dove si fanno molti interventi a
contatto proprio con le persone, con gli adulti significativi, i genitori, i ragazzi, gli
adolescenti, i bambini, gli insegnanti, i parroci, i catechisti, etc., e mi piacerebbe
poter parlare di questo termine, “comunità”, che è un termine molto utilizzato
dentro la ricerca e anche nei titoli degli interventi di questo seminario. Si parla
infatti di comunità locale, di Comunità della Cura, di Comunità Operosa. Il mio
approccio con il lavoro di comunità, quindi con “la pancia” di quelli che sono i
paesi della nostra realtà, è particolare, nel senso che da diversi anni rifletto,
ragiono, anche con i miei colleghi all’interno della mia realtà, su come stanno
“cambiando” questi paesi, su come si stanno modificando queste comunità locali.
Innanzitutto il termine comunità è un termine che la cooperazione sociale ha nel
suo dna, nel senso che da Statuto “la prima nostra finalità è quella di
promuovere il benessere delle Comunità Locale nella quale siamo inseriti”.
Spesso però la cooperazione sociale è vista soltanto come assistenza
caritatevole, sono quelle realtà che gestiscono servizi, che fanno attività, che
fanno proposte, ma poco come realtà che hanno un pensiero da portare sulla
propria realtà, sul proprio territorio. Specialmente le cooperative del territorio,
che hanno testa, cuore, braccia, mani dentro le comunità locali spesso “hanno
molto da dire” perché lavorano con “casi di marginalità”, con persone deboli, in
stato di fragilità, inserite al lavoro, con minori e famiglie in stato di difficoltà, con
extracomunitari, con tutta una serie di soggetti che riguardano “i bisogni sociali
emergenti”. La cooperazione sociale è quindi vicina a questa parola, comunità, e
in rapporto al fenomeno dei suicidi mi sono appuntato alcune parole-chiave
legate al tema della comunità, “il rapporto tra comunità e atti suicidali”. Mi sono
scritto parole tipo “spavento”, “allarmismo”, “nascondimento”, e sono parole che
mi hanno interrogato molto. Vi porto alcuni esempi. Ci è capitato diverse volte in
alcuni Comuni, che sono i comuni intermedi, quelli che vengono citati nella
ricerca, quindi non i paesini o i comuni grossi vicini alla città, di fare degli
interventi e delle serate di formazione interattive con genitori e adulti, e mi è
capitato spesso, lo cito come esempio interessante, di vedere dall’intervento di
alcune persone che hanno espresso “il proprio malessere, le proprie fatiche”, di
vedere gli adulti significativi di quella comunità che proponevano le serate, di
“mettere in discussione” questi interventi perché ritenuti “troppo forti” per la
platea in cui sono stati promossi, perché ritenuti “non da situazione pubblica”,
ma da situazione diciamo “più privata”, “da presa in carico più privata”. Questa
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cosa mi ha molto colpito perché attiene un po’ al tema della sfera del
“nascondimento”, e “all’incapacità”, secondo me un po’ tipica delle persone
valtellinesi, di avere una cultura dell’elaborazione emotiva di ciò che avviene, del
“confronto emotivo” di ciò che succede anche di “tragico” nelle Comunità, nel
senso che, cito la frase di un professore locale, che dice che il “nodo”, la difficoltà
di un valtellinese è quella di “essere stretto tra due polarità molto definite, che
sono l’orgoglio e la timidezza”, che portano a mio avviso spesso la persona “a
schiacciarsi troppo tra il mentale e il corporeo”, cioè “tra il pensare e il fare”, un
po’ collegandomi anche alla “ruota del criceto”, un po’ collegandomi all’esempio
della casa che bisogna per forza costruire e deve essere di tua proprietà, un po’
collegandomi a tutta una serie di aspetti che “non afferiscono tanto alla parte
emotiva”. Invece questa “parte emotiva” dal mio punto di vista è un corpo sul
quale la nostra popolazione in particolare ha bisogno di essere educata, perché
mi sono sempre chiesto nei casi di suicidio, anche per esempio legati al luogo in
cui io vivo, che cosa passa tra il momento in cui la persona si toglie la vita e la
vita della comunità stessa. Che cosa succede in quel “solco”? Spesso ci sono dei
vuoti molto profondi e dei vuoti molto segmentati, nel senso che la mia
immagine spesso è quella di pensare ad “un vuoto che debba essere il più
possibile colmato da tutti”, perché è responsabilità di tutti, “è della comunità
quello che avviene nell’atto suicidale”, e in realtà spesso questo vuoto spesso è
segmentato e coperto solo “a pezzi” perché la famiglia magari in cui succede
l’atto “lo fa per sé”, visto che le altre realtà lo fanno per sé, ma non esiste
questo mettere insieme, questo “mettere in comune”. Non esiste, usando una
parola che usa un poeta che mi piace molto, il termine “magone”, “il magone
della comunità”, io non lo vedo spesso venir fuori, non lo vedo rielaborato, vedo
questi atti e vedo un grande silenzio vicino. C’è un luogo fisico molto particolare
nel distretto in cui vivo io, il distretto di Morbegno, che è il Ponte della Val
Tartano, che è un ponte dal quale credo si siano buttate tante persone
togliendosi la vita, è un luogo simbolicamente molto triste, molto brutto. E mi
capita spesso di ripensare a questo luogo, “è un luogo di fine” praticamente, è
un luogo di taglio con la vita per tante persone. Parlando del tema dei giovani,
visto che lavoriamo anche con le fasce giovanili, ci tengo a citare il fatto che ci
sono diversi progetti sperimentali nel territorio che stanno lavorando con i
giovani e nei quali gli operatori, gli educatori del territorio si chiedono chi
realmente ha voglia di stare con i giovani, e chi sa come e cosa i giovani sono
oggi, nel senso di “quali linguaggi”, quali aspettative e desideri maturano i
giovani proprio di questi territori, che tra l’altro spesso esprimono anche
positività particolari. E secondo me è nello scontro tra queste tre tipologie
individuate nella ricerca, Tradizionalisti, Secolarizzati e Sincretici, che spesso si
fa fatica, i giovani sono un po’ sballottati, rimbalzati in questo triangolo di
categorie dei nostri adulti. Come ultima cosa cito alcune riflessioni legate al
rapporto tra la Comunità della Cura, quella a cui io appartengo, e la Comunità
Operosa, che appunto attiene al titolo di questi interventi. Dal mio punto di vista,
la Comunità della Cura che riguarda la cooperazione sociale “c’è”, “ci vuole
essere”, e vuole in un certo senso confrontarsi con questa Comunità Operosa, ci
deve essere un desiderio, ci deve essere un allontanarsi, e faccio un po’ una
critica anche al mio mondo, da questi “recinti” in cui magari gli operatori del
sociale o del volontariato, sono quelli “belli”, “bravi”, “buoni”, “solidali” e
sostanzialmente no-profit. In realtà dobbiamo forse rompere questo recinto e
riuscire a imparare a dialogare, a costruire fiducia e a mettere insieme proprio
172
dall’inizio un pensiero, una visione sul nostro territorio, che credo sia una cosa
fondamentale.
Pierluigi Comerio. Grazie. Allora, restiamo nel mondo dell’associazionismo e
del volontariato. Chiamo Massimo Pinciroli della LAVOPS di Sondrio.
Massimo Pinciroli, LAVOPS di Sondrio. Sarò molto breve. Porto il saluto della
mia Presidente Gabriella Bertazzini che per problemi familiari non può
partecipare oggi. Io quindi rappresento un po’ il mondo del volontariato. LAVOPS
offre servizi alle organizzazioni e all’associazionismo presenti nella Provincia di
Sondrio. Quindi lo strumento che il volontariato mette soprattutto a disposizione
è la propria persona, il proprio “capitale umano” e la propria relazione, e di
conseguenza, avendo come caratteristiche quelle della spontaneità, della
gratuità, io credo che tante volte di fronte a situazioni di malessere e di disagio
si trova in una posizione privilegiata perché la persona che è vicina si sente
predisposta a parlare con qualcuno che è lì senza nessun interesse, se non
proprio quello di essere vicino a questa persona. Per cui quante volte mi è stato
detto da volontari che hanno ricevuto da persone in situazione di difficoltà certe
confidenze anche abbastanza pesanti, certi segreti che magari nessuno dice a un
assistente sociale, piuttosto che ad altre figure magari un po’ più professionali.
Quindi credo molto nell’importanza di questa funzione di ascolto del volontariato,
un ascolto che in questo mondo iper-tecnologico, dove siamo effettivamente tutti
un po’ criceti, avere due orecchie che ti ascoltano, due occhi che ti guardano
mentre stai parlando, e magari anche due braccia che sono disposte ad
abbracciarti, forse è una cosa importante, magari anche una mano che poi ti
prende e un po’ ti accompagna. Cioè in poche parole, è un po’ quel calore umano
che forse aiuta a scaldarti l’animo che sente il freddo delle montagne valtellinesi
e il freddo che s’è fatto dentro di te, che puoi diventare gelido e a volte poi può
portare magari al gesto insano di cui si diceva. Credo però anche che l’ascolto a
volte non è sufficiente, perché ci sono tante persone che non stanno bene, non
hanno voglia di parlare, non hanno voglia di confidarsi, vogliono restare nel loro
mondo. Ecco che però secondo me un buon volontario è anche una persona che
è capace di leggere il bisogno del territorio, di interpretarlo e di conseguenza
anche di farlo emergere. E quindi si tratta anche di attivare delle strategie per
riuscire ad agganciare queste persone che sono un po’ più emarginate e isolate,
magari anche in un modo indiretto, e siccome i volontari sono molto vicini e
aderenti ai bisogni, comunque possono anche avere una funzione indiretta di
“segnalazione” ai servizi sociali preposti, ai servizi sanitari, piuttosto che per quei
volontari che si vogliono cimentare, proprio anche attivarsi. Adesso c’è una
nuova forma di volontariato che si sta diffondendo e di cui c’è un bisogno
incredibile, che non è tanto formalizzato all’interno di associazioni, ma è più
individuale: è il volontariato dell’amministratore di sostegno. Cioè di una persona
che si mette al fianco di un’altra, quindi c’è proprio “una presa in carico”, e lo
accompagna nella sua vita quotidiana, magari anche prevenendo poi anche quei
fenomeni che possono degenerare. Credo che oggi sono stati toccati tanti ambiti,
tante categorie, dai giovani, agli anziani, alla psichiatria, alla dipendenza, etc.,
non vorrei però trascurarne una che peraltro è molto soggetta a questo
fenomeno del suicidio, che è quella dei carcerati. Anche qui, a Sondrio ce
l’abbiamo un carcere, ma direi ancora di più gli ex-carcerati, perché sono
persone che, dopo una vita di detenzione, escono sul territorio, c’è magari
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inizialmente un momento di euforia perché riassaporano la libertà, privata da
tanto tempo, ma poi cadono nella depressione, nella sterilità, nell’aridità dei
rapporti sociali che ci sono e a volte possono arrivare anche a compiere i gesti
insani. Ecco, questo lo cito anche perché, non per farmene vanto, ma attraverso
le organizzazioni di volontariato che operano all’interno del carcere di Sondrio,
s’è fatta già un’azione di accompagnamento all’integrazione sociale quando poi la
persona esce dal carcere. Chiudo dicendo che l’obiettivo un po’ ambizioso - ci
proviamo come Centro Servizi LAVOPS, che gestisce il Centro Servizi
Volontariato - è quello di cui ha parlato chi mi ha preceduto, anzitutto il Vescovo,
della cittadinanza attiva. Io credo che ciascuno di noi ovviamente ha provato il
malessere e il disagio. Io lavoro a Sondrio, abito a Morbegno, vengo a Sondrio
per lavoro con il treno, di conseguenza ogni giorno passo nella galleria di Desco,
e a me piacciono molto le montagne, diversamente da quello che si diceva
stamattina, a me invece che “essere opprimenti”, a me rigenerano, mi danno
forza, mi danno coraggio, magari anche sicurezza, io dal finestrino me le guardo
sempre, sono lì incollato, così che me le guardo, poi improvvisamente entro in
questo tunnel, il buio che mi si cala, mi viene addosso un gelo veramente, cioè
dico tutti siamo “papabili”, soggetti al malessere e al disagio, che può sfociare
nei casi più gravi, degenerare nel suicidio. Quindi il nostro proposito come Centro
Servizi Volontariato è quello di trasformare tutti questi soggetti potenziali di
malessere al contrario in soggetti che stanno bene e che sono in grado di dare
benessere. Cito un ultimo esempio, sto pensando ai no-pensionati, i pensionati
che dopo tutta una giornata impegnata adesso affrontano un nuovo ciclo di vita
dove si apre lo spettro di come impiegare il tempo, quindi quello di essere inutili.
Ecco, il nostro tentativo è quello di riuscire ad agganciarle queste persone, in
modo tale che da soggetti a possibile pericolo, a rischio, attraverso azioni di
orientamento al volontariato, si aggancino magari ad associazioni di volontariato,
piuttosto che individualmente, quindi per fare stare bene loro, e dare del bene,
del benessere agli altri.
Pierluigi Comerio. Grazie Pinciroli. Allora, cambiamo scenario, andiamo in un
mondo diverso rispetto al volontariato, un mondo che è stato chiamato in causa
da Cecco Bellosi nel suo intervento, mi riferisco a quello della scuola.
Maria Alessandra Agostini. Io abito in Valtellina da 45 anni e ho insegnato per
oltre 30 anni all’Istituto Tecnico De Simoni, quindi come insegnante ho avuto
modo di conoscere tanti ragazzi, tante personalità, tanti caratteri e anche di
capire che una persona che non è del luogo all’inizio viene un po’ considerata con
un certo sospetto dai ragazzi valtellinesi, e poi quando si crea un certo rapporto
piuttosto positivo e di dialogo loro cambiano e si aprono di più. Però, per me che
sono umbra e che quando sono venuta in Valtellina con tutta la mia famiglia
avevo già 11 anni, e quindi ero in quel passaggio critico da adolescente e stavo
per entrare nella giovinezza, devo dire la verità: ho notato molta differenza tra
chi vive in collina, come me, e chi vive in montagna. Io dico questo come
introduzione al problema che hanno poi i ragazzi, perché secondo me tante volte
c’è il problema di avere gravi difficoltà nella scelta della vita. Una persona che ho
conosciuto, che aveva tentato il suicidio, m’ha detto: ”Guarda che è molto più
coraggioso vivere che tentare il suicidio”. E io l’ho guardata un po’ come se mi
avesse detto una cosa impossibile a cui credere e poi col tempo invece ho
cambiato idea; aveva ragione. E devo dire la verità, quando si parla ai ragazzi
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valtellinesi e si chiede loro: ”Se tu dovessi trovare un lavoro fuori dalla Valtellina
andresti fuori dalla Valtellina oppure no?” “No, no, assolutamente no”. Dico:”Ma
guarda che potrebbe capitarti”. “Ah, no, io fuori dalla mia valle non vado!” Poi un
altro problema. “Se hai dei problemi dimmeli, così almeno ne parliamo”. “Ah,
non lo so, io veramente, sa, non me la sento, mi sembra una cosa troppo
intima”. “Ma” – dico – “guarda che sono un’insegnante, ho avuto le mie
esperienze, so che cosa vuol dire essere scolaro anche, ho fatto la ragioneria
come te, poi va beh, ho fatto studi universitari, però ho fatto più o meno il
percorso tuo, quindi cerca di confidarti”. Ho trovato un’unica persona che si è
confidata e devo dire che noi dobbiamo rizzare proprio le orecchie, e tenerle
belle dritte, proprio appuntite noi insegnanti, perché tante volte i ragazzi che ti
confidano un tentativo di suicidio che hanno in mente, non bisogna prenderli
sottogamba, secondo me c’è sempre qualcosa di cui avere paura, è un segnale
d’allarme, una specie di lancio di una fune che ti lanciano e che tu dovresti
essere in grado di prendere e cercare di tirare a riva questa persona che sta per
affondare. Il ragazzo in questione mi ha confidato, guarda caso, perché
veramente è difficile tirar fuori delle confidenze ad “un valtellinese puro”, dico
puro perché alcune volte non sono puri, e allora magari sono un po’ più aperti. E’
la mia esperienza quarantennale di vita in valle. Questo ragazzo m’ha fatto
capire che aveva proprio bisogno d’aiuto. Allora, devo dir la verità, io scrivo
poesie e mi è venuta, avevo per caso un’ora buca, ho scritto una cosa per lui,
però dicendo “Alessandra ai suoi alunni”, nel senso non a te in particolare, che ti
dovresti sentire “chiamato in causa”, ma a tutti i miei alunni, nel senso “Voi così
giovani non dovete pensare soltanto alle cose negative” Come dicevo in una
lettera, che poi fortunatamente mi hanno pubblicato su La Provincia, dicevo “Uno
stillicidio che deve finire”, e mi riferivo ai numerosi suicidi, perché ne ho avuti
anche tra gli alunni miei, e agli incidenti stradali che sono “una specie di
suicidio”. Perché molto spesso, non dobbiamo nasconderci dietro un dito, ma
molti incidenti stradali avvengono perché i ragazzi bevono, “bevono
smodatamente”, birra soprattutto, perché li ho visti alle cene coi professori e
quindi bere smodatamente può portare al coma etilico addirittura, sono figlia di
medico e quindi so benissimo a che cosa si può arrivare. Ma senza arrivare al
coma etilico si arriva facilmente ad avere un incidente stradale e chi beve
smodatamente di solito ha dei problemi gravi, seri, non ha un rapporto giusto né
con la scuola né con la famiglia. Io dico solo questo, poi mi ritiro, perché tra
l’altro, non era neanche previsto il mio intervento, però io dicevo in fondo alla
lettera “Dobbiamo fare qualcosa! Dobbiamo muoverci!” Bellissima questa
Conferenza, dove finalmente qualcuno ascolta.
Pierluigi Comerio. Ci stiamo provando ad ascoltare. Passo all’ospite successivo,
che è Catry Mingardi, psicologa e rappresentante dell’ASIS.
Catry Mingardi, Psicologa, Associazione ASIS. Innanzitutto desidero
ringraziare gli organizzatori della giornata per l’occasione che hanno dato
all’Associazione, all’ASIS, Associazione per lo Studio e l’Informazione sul
Suicidio, di presentare in sintesi le attività della stessa. Saluto la Presidente,
signora Giovanna Bellandi, che è qui con noi, perché è grazie anche a lei se
l’Associazione da più di 10 anni è presente sul nostro territorio. Sarò breve,
quindi seguirò alcuni spunti di questa traccia in modo da rimanere nei tempi.
ASIS, nata nel ’97 a seguito di un convegno organizzato il 4 e il 5 aprile del ’97
175
dal Collegio degli Infermieri, IPASVI di Sondrio dal titolo “Il suicidio riguarda
ognuno di noi. Quale speranza?” grazie alla raccolta di fondi proprio in quelle due
Giornate l’ASIS ha potuto partire con i suoi lavori. Associazione di volontariato, il
gruppo è eterogeneo, nel senso che fanno parte operatori quali psichiatri,
psicologi, infermieri, assistenti sociali, ma non solo, nel senso che partecipano a
questo gruppo anche insegnanti, educatori, genitori, comunque persone che
sono interessate a vario titolo all’argomento e che hanno deciso di approfondirlo.
Il primo passo infatti è stato proprio quello di raccogliere delle informazioni, dei
dati già presenti sul tema per capire che cosa succede non solo da noi, nel nostro
territorio, ma anche a livello nazionale e in altri paesi del mondo. Quindi, a
partire da questo, poi c’è stato un percorso di confronto e di formazione, che ha
permesso di individuare alcuni aspetti fondamentali del nostro lavoro.
Innanzitutto un elemento è stato quello di cercare di formare, di sensibilizzare
soprattutto la popolazione e gli amministratori pubblici sulla necessità appunto di
campagne di prevenzione del disagio psichico in generale, e anche del suicidio,
oltre che appunto sostenere iniziative di studio, di ricerca e di aggiornamento.
Quindi si è ritenuto poi in particolare, col passare degli anni, di diffondere una
corretta informazione sul suicidio, sulla prevenzione e sulla depressione anche,
oltre che appunto promuovere tra la gente “il metter fuori di sé i propri
problemi”, anche perché come già detto dai numerosi relatori, più volte anche
noi abbiamo riscontrato “la difficoltà della nostra gente a richiedere aiuto”, e
quindi condividere con altri dei momenti di difficoltà e disagio. Un altro elemento
è il tentativo di fare “un lavoro in rete”, cioè fare sì che di questi argomenti non
ne parlino solo gli addetti ai lavori, quindi non si deleghi questo approfondimento
soltanto alle agenzie specialistiche e quindi ritorna il concetto molto citato in
questa giornata, la comunità. Proprio per questo negli ultimi anni siamo andati a
parlare alla gente, abbiamo organizzato delle serate in cui il messaggio generale
era quello di far passare il suicidio come un comportamento innanzitutto umano,
un fenomeno di natura e di salute pubblica. Questo perché ciascuno di noi ha
bisogno, di fronte a un comportamento così drammatico, di cercare appunto
delle spiegazioni, di darsi un senso e un perché. Quindi, al di là della complessità
di questo comportamento, che rimanda ad una pluralità di fattori, sicuramente si
tratta anche di un comportamento umano che rimanda ad una “sofferenza
esistenziale”. Quello che come Associazione abbiamo voluto dimostrare è che se
ne può parlare, così come si parla di altri eventi che creano disagio, che possono
essere appunto le alluvioni e i terremoti, o l’abuso di sostanze o gli incidenti
stradali. Un altro aspetto è quello di considerarlo appunto “un problema di salute
pubblica”, questo comportamento, perché non riguarda il singolo individuo, ma
coinvolge l’intera famiglia e gli amici, una rete di conoscenze, quindi la comunità.
Allora un atteggiamento personale di vicinanza e di ascolto, anche se non facile
perché poi la tendenza è, presi dall’ansia, spesso di dare delle risposte e delle
soluzioni. Ma un atteggiamento che rispetta la storia, rispetta quelli che sono gli
equilibri e i legami della persona, e di chi rimane, può essere un atteggiamento
che comunque si può diffondere. Quindi sicuramente non è realistico e questo
noi lo diciamo, pensare di prevenire tutti i suicidi, quello che è realistico e si può
fare, è che ciascuno di noi, indipendentemente dalle competenze che ha, può
dare una mano alla speranza. Spesso infatti non è tanto un dire o un fare, ma
essere presenti, e quindi “un essere”. E’ proprio per questo motivo che, a
conclusione delle serate, vengono distribuiti dei pieghevoli in cui sono sintetizzati
appunto i concetti fondamentali in tema di educazione e di prevenzione del
176
suicidio e della depressione. Per concludere un’attenzione particolare viene
rivolta ai sopravvissuti, vale a dire alle persone che sono vicine a chi ha deciso di
togliersi la vita. “Un tentativo di aiuto” appunto “nel processo di elaborazione del
lutto”, un ascolto rispetto a tutta quella moltitudine di emozioni che chiaramente
vive la persona che rimane, con lo scopo di far sì che riprendano, queste
persone, un certo senso di speranza, di sicurezza e di fiducia.
Pierluigi Comerio. Grazie per l’intervento.e ora chiamo il dottor Francesco
Guicciardi, Presidente della Fondazione Creval, che se ben ricordo ha varato negli
anni parecchie iniziative soprattutto a favore dei giovani. E non mi riferisco solo
a borse di studio, ma anche a tante altre cose. Ce le illustrerà lui nel suo
intervento.
Francesco Guicciardi, Presidente Fondazione Creval. Abbiamo sentito il
Vescovo di Como Coletti parlare tra l’altro di “crisi dell’educare”, e Davide Van de
Sfroos della “difficoltà dell’educare”. Quello di cui vorrei parlarvi io è il tema della
possibilità dell’educare. Tema che la nostra Fondazione ha voluto affrontare fin
dall’inizio, quando è stata investita da parte della Banca Piccolo Credito, 12 anni
fa, della “funzione di attenzione al sociale”, che è propria delle due Banche
Popolari Cooperative valtellinesi, distaccando questa funzione e, diciamo,
impersonandola nella nostra Fondazione. E la prima cosa che la nostra
Fondazione ha ritenuto importante fare fin dall’inizio è stata la creazione di un
Centro Informativo e Formativo a disposizione di tutti i valtellinesi, che li
collegasse in rete con i principali Centri Nazionali ed Esteri per quanto riguarda le
opportunità formative e di arricchimento personale e professionale. E’ stato
quindi creato, e tutti lo sapete perché immagino che ne siate anche stati
“utenti”, il Quadrivio, con sede in Sondrio nell’omonima piazza, che è collegato
alla città dei mestieri e delle professioni di Milano, che a sua volta ha alle sue
spalle le varie Università milanesi e i vari centri culturali del capoluogo lombardo
e che a sua volta è collegato all’Association des Métiers di Parigi e attraverso
l’Association des Métiers con tutto il mondo. E quindi è sostanzialmente uno
strumento che mette la Valtellina e i valtellinesi a contatto con tutte quelle che
sono le possibilità formative che sono disponibili in tutto il mondo. Il suo accesso
è stato costantemente a disposizione gratuita di tutti i giovani valtellinesi, ma la
difficoltà in realtà si è rivelata quella di far conoscere questa grande opportunità
a tutti i giovani dispersi nei 77 Comuni della valle. Tuttavia il Centro ha
funzionato egregiamente, lo scorso anno ha registrato 12.400 presenze di
giovani che mi pare che sia un numero abbastanza interessante, tenuto conto
della popolazione della Valtellina, e credo veramente che abbia risposto a quelle
che sono le funzioni che noi gli avevamo attribuito. L’altra direzione formativa e
orientativa è stata rivolta alle scuole provinciali con la piena collaborazione dei
dirigenti scolastici provinciali e regionali, e degli insegnanti, e tale attività è
giunta a un livello diciamo di qualità così elevato che il Ministero della Pubblica
Istruzione in una sua pubblicazione l’ha indicata come “buona prassi” da portare
ad esempio per tutte le scuole italiane. E questa è l’attività di orientamento che
costituisce il Progetto Cometa, che è rivolto a tutti gli studenti delle terze classi
secondarie inferiori della Provincia di Sondrio, e che praticamente raggiunge tutti
gli studenti della provincia, perché ormai da diversi anni è stato esteso a tutti gli
studenti della provincia con effetti di carattere formativo e orientativo
particolarmente importanti, di cui abbiamo avuto riscontri; anch’io
177
personalmente ho avuto genitori che mi hanno detto di avere poi deciso la scelta
della futura attività di perfezionamento di studio dei figli proprio sulla base di
questo “profilo orientativo”, che è stato individuato, è stato “restituito” dagli
esperti dell’Università Cattolica. Restituzione che avviene consegnando il profilo
dello studente alla presenza dei genitori e degli Insegnanti, quindi con la
massima trasparenza. Questo tipo di orientamento formativo si è esteso anche
alle 4 classi secondarie superiori della Provincia di Sondrio, quindi ci sono due
momenti, un momento nelle scuole secondarie inferiori, le ex scuole medie, e un
momento invece in quelli che sono i vari licei o i vari istituti ed i riscontri che
abbiamo avuto sono estremamente positivi. Infine nelle quinte classi superiori,
cioè nelle ultime classi, vengono organizzati gli incontri dei diplomandi con i
docenti delle diverse Università milanesi al fine di offrire ai giovani che intendono
accedervi tutti gli elementi per una scelta universitaria motivata e consapevole. E
tenuto conto della distanza veramente notevole purtroppo - perché non si è
abbassata da quando io ero giovane, le due ore di distanza in treno che c’erano
nel 1950 sono diventate due ore e 20, due ore e mezza, quindi Milano casomai si
è allontanata, non si è avvicinata a Sondrio - tenuto conto di questa distanza e
delle difficoltà che i giovani troverebbero vagando per Milano alla ricerca delle
varie sedi universitarie per fare delle domande, il fatto che i docenti universitari
vengano in Valtellina e facciano ciascuno per il proprio settore queste lezioni e
consultazioni con gli studenti, adesso, dicevo, è possibile che gli studenti, dopo
avere avuto tutte queste informazioni, decidano di iscriversi a Giurisprudenza o a
Ingegneria. Hanno un’équipe che in quei determinati giorni viene a Sondrio, in
modo da evitare anche il disagio di dover andare a Milano, dover cercare
l’Università, chiedere e informarsi e questo è veramente qualcosa che ha
avvicinato dal punto di vista dello studio moltissimo la nostra città a quello che è
il centro, naturalmente Milano, degli studi superiori. Un altro punto è “allo
studio”, e noi lo presenteremo in un Convegno che si terrà il 29 prossimo, il
mattino qui e il pomeriggio presso la nostra Sala Vitali, ed è il raccordo tra
domanda e offerta di risorse lavorative in Provincia di Sondrio. Abbiamo avuto la
percezione da nostre indagini che molti giovani non siano sufficientemente
informati circa le reali possibilità di lavoro nella Provincia di Sondrio, con la
conseguenza, che è veramente per loro seria, di una forzata emigrazione
lavorativa laddove vi sarebbe la loro possibilità di impiego invece per le loro
professionalità nell’ambito della Provincia di Sondrio, ma non c’è diciamo il
collegamento, non c’è la possibilità per il tiranese di sapere che c’è un posto
disponibile a Chiavenna, e viceversa, ed è allora stato messo allo studio e verrà
appunto come dicevo presentato la prossima settimana, questo progetto di
orientamento denominato “Job Match”, che consentirebbe sostanzialmente, con
la collaborazione naturalmente degli Enti Locali e delle categorie professionali, di
effettuare questo “collegamento” per il collocamento lavorativo dei diplomati e
dei laureati in materie tecniche nella Provincia di Sondrio. E c’è la certezza che
questo contatto avrebbe l’effetto praticamente di “trovare lavoro per tutti i
valtellinesi che abbiano queste specialità”. Va invece detto che, per quanto
riguarda gli altri tipi di laurea, questa possibilità non è presente se non in misura
notevolmente inferiore all’attuale numero di aspiranti. Però anche questo è
importante conoscerlo, è importante saperlo, perché molti giovani forse
eviterebbero di frequentare un’Università, che per un valtellinese comporta tutta
una serie di problemi, di spese, etc., sapendo che le probabilità di lavoro e di
impiego in Valtellina in quel tipo di specializzazione sono ridotte, o sono
178
addirittura estremamente ridotte. Quindi è anche molto importante che ci sia
questa conoscenza, questa possibilità di accedere a questo tipo di notizie, che fa
sì che poi non ci siano delle frustrazioni veramente spiacevoli. Quest’ultima
ricerca, avevo detto, sarà presentata il 29. A questo punto potreste obiettarmi
che queste attività della Fondazione Gruppo Credito Valtellinese sono interessanti
e utili, ma che cosa c’entra tutto questo con il tema del suicidio in Valtellina?
Ebbene io penso che c’entri, e anche che c’entri moltissimo, perché risulta chiaro
che fare leva sui sentimenti positivi di crescita della personalità, soprattutto dei
più giovani, che sono più delicati e vulnerabili, ma anche più aperti, può
costituire un valido argine con elevate valenze positive per il futuro, di contrasto
efficace nei confronti del triste fenomeno che rappresenta il tema del nostro
incontro. Si tratta certamente di una penetrazione lenta di valori di impegno e di
realizzazione personale, che abbiamo tuttavia potuto constatare che hanno una
grande capacità di diffusione, generando entusiasmo, solidarietà, che è “la
maggiore medicina dello spirito”, il suicidio è infatti innanzitutto una malattia
dello spirito. Esaminando le attività di orientamento e di formazione che vi ho
esposto ci si può chiedere ad esempio per i progetti della Scuola Secondaria
Cometa ed Argo, che valore ha la serenità e la sicurezza che può dare agli
studenti e ai genitori “un profilo attitudinale corretto e affidabile”, che consenta
di guardare al futuro con serenità. Per quanto riguarda il Progetto Teseo, ci si
può chiedere che valore ha per studenti di un’area periferica, lontana dalle sedi
universitarie, poter avere in Valtellina un quadro chiaro della varie facoltà, le
relative difficoltà e sbocchi professionali, quanta ansia, incertezza e quante scelte
errate e frustranti può evitare; per il Progetto Job Match, ci si può chiedere che
valore ha l’assicurare il pieno impiego dei diplomati in Provincia di Sondrio,
evitando “uno sradicamento”, date le distanze, che spesso si estende all’intero
gruppo familiare, e soprattutto evitando all’intera famiglia l’ansia della
disoccupazione. So bene che sono domande senza risposta, nessuno potrà mai
misurare quale effetto deterrente ciascuna iniziativa possa avere effettuato
rispetto a questa scelta estrema, ma è altresì vero che soprattutto l’insieme di
queste iniziative di crescita positiva della società valtellinese, unitamente alle
altre meritoriamente realizzate dagli altri componenti della Comunità Operosa
può darci la speranza, e qualcosa di più, che in un futuro non lontano questo
“trend negativo” possa arrestarsi ed invertire la sua triste marcia.
Pierluigi Comerio. Abbiamo affrontato diversi ambiti, il volontariato, la scuola,
la formazione, tuffiamoci ora nel mondo del lavoro, e quindi dell’economia,
cominciamo dal sindacato con il sindacalista, l’uomo che ci parlerà dal suo
osservatorio privilegiato della situazione, e chiamo quindi Ivan Fassin,
chiedendogli per quanto possibile, di fare un po’ di sintesi perchè non abbiamo
moltissimo tempo.
Ivan Fassin, sindacalista e antropologo. Ringrazio la Caritas e AASTER per
l’invito, che tra le altre cose, ha permesso di sentire un Vescovo che enuncia i
principi di un’etica laica e un cantore-poeta esprimersi in termini diciamo così di
un’antropologia un po’ rapida ma di straordinaria efficacia. Mi sarebbe piaciuto
insistere un po’ su alcune di queste cose, lo dovrò fare molto lateralmente.
Apparentemente il Sindacato appartiene a questa Comunità Operosa, ma non è
tanto riconosciuto come tale, di questi tempi poi non ci sono così troppi
incoraggiamenti. Io sono stato incaricato di parlare a nome unitario dei tre
179
Sindacati, e per di più sono sindacalista dei pensionati in questo momento, come
avrete sentito, chiamato anche in causa stamattina da Bonomi, forse in una
maniera un po’ eccessiva e non del tutto giustificata. Non mi dilungo sulla
ricerca, però sulla presenza e gravità del fenomeno, l’abbiamo capito e forse si
sapeva un poco anche prima, abbiamo sentito molte voci parlare della gravità del
suicidio dei giovani, che è quello che crea probabilmente l’allarme sociale più
grave; io dovrei accennare al fatto che anche per gli anziani, anche per il lavoro
che sto svolgendo, il suicidio è un fenomeno che, se fossimo in una sana società,
dovrebbe creare altrettanto allarme. Come è stato detto, ogni anziano che
muore è un pezzo di esperienza che se ne va, anzi adesso arriveremo a 120 anni
di vita, come dice qualcuno, pensate un anziano che muore a 120 anni, sono 120
anni di storia, una storia piccola, una storia parziale, una storia locale che va
persa. Peccato. Beh, dicevo, il suicidio come “rivelatore di non coesione”, era
chiarissimo nella ricerca, oggi si direbbe “carenza di capitale sociale”, io non
posso parlare di tutto, ma ricordo che ci sono delle ricerche che vedono la
Provincia di Sondrio, insieme alla provincia di Vercelli e poche altre, come “punte
di diamante” nel Nord di scarsità di capitale sociale. E il capitale sociale è
esattamente quella cosa lì, cioè la coesione in alcune forme, tutte le ricerche
hanno dei limiti, perché studiano sempre degli aspetti parziali, però è alquanto
inquietante scoprire che ci sono queste “isole infelici” nel Nord, e la nostra
Provincia purtroppo è una di queste, e siccome parliamo di Sindacato devo dire
anche dei limiti dell’attività del Sindacato e più in generale della comunità
politica. Giacché non abbiamo parlato tanto di politica, io devo dirvi che però è
emerso il discorso sulla cittadinanza e mi pare ovvio che è questa la politica di
cui dobbiamo parlare. La “periodizzazione” tracciata dentro la ricerca, l’avrete
vista, tra “una società arcaica” caratterizzata da una comunità solidale e una
società moderna, caratterizzata dall’emersione dell’individuo, da una graduale
secolarizzazione e disincanto, descrive dove si colloca esattamente il Sindacato;
paradossalmente si collocherebbe esattamente proprio qui. Il Sindacato è uno
degli agenti modernizzatori, porta una cultura negoziale, contrattuale, una
cultura del “do ut des”, detto un po’ in parole molto sommarie e però di questi
tempi si trova in difficoltà paragonabili a quelle di tutti gli altri operatori della
società, tutti gli altri agenti della società nella fase postmoderna nella quale
siamo e dalla quale la ricerca cerca con fatica di immaginare vie d’uscita. Io mi
sento collocato nella schiera dei Sincretici, quelli del “torcicollo”, che vorrebbero
ritrovare una comunità adeguata ai tempi, di cui non sappiamo neanche il nome,
una nuova comunità, sono tutti termini usati nella ricerca, una comunità
artificiale, dice Bonomi nel saggio, quindi non la comunità per dir così naturale,
che metterei tra quattro virgolette perché forse non è mai esistita davvero una
comunità naturale, visto che l’uomo è un animale culturale, e dunque visto che
vediamo un Vescovo tirare fuori un libro dell’Editore Einaudi, tiro fuori un libro
dell’Editore Einaudi anch’io, Aldo Schiavone, un grande storico della storia di
Roma che si avventura. “Storia” e “destino” sono termini che sono ritornati in
questa platea. “La tecnica, la natura, la specie. Esercizi di futuro e di speranza
per prepararsi al tempo che ci aspetta. Il manifesto di un nuovo Umanesimo”. Io
lo farei leggere nelle scuole. Naturalmente occorrono 4 o 5 anni di scuola
superiore per riuscire a “macinarlo”, ma magari servirebbe a qualcosa. Alcuni
approfondimenti sul termine “comunità” prima di arrivare alle misure per
contrastare il fenomeno, quel poco che posso raccontare dal mio punto di vista e
di quello che stiamo facendo. Dobbiamo porci alcuni interrogativi. E’ già stato
180
detto da un intervento che abbiamo usato la nozione di comunità qua dentro in
diverse accezioni e in effetti si usa con un’accezione diciamo così
consuetudinaria, si dice comunità locale anche se non è affatto una comunità,
ma è soltanto un apparato burocratico e un insieme di gente che vive di vita
propria, separata, voglio dire bisognerebbe discutere sul termine, discuterne
come prospettiva sociale, discuterne come processo. Allora come termine, vi dico
subito che propenderei per un’idea di vocabolo comunità usato come “metafora”,
cioè la comunità è una tensione, che dentro i meccanismi sociali li anima e li
tiene vivi. Questo bisogna pensare oggi rispetto all’antitesi moderna, cioè della
fase moderna della storia descritta anche nella ricerca, comunità o società, una
contro l’altra, o una dopo l’altra, o dobbiamo passare tutti per la fase del
Moderno, che dopo potremmo ricominciare, non è detto! C’è un bellissimo studio
di Gallino che parla dell’Italia com’è fatta, di formazioni sociali che si accavallano
come ondate una sull’altra esattamente; forse il problema non è di aspettare
l’ultima ondata, è invece cominciare a rimboccarsi le maniche, è il senso di tutto
l’Incontro, quindi non occorre che insista. Quindi dicevo non una palingenesi, che
nasce chissà dove, chissà quando, non una sostituzione, ma “un processo che
comincia”, un processo ispirato a una logica personalizzante, relazionale, l’hanno
detto tutti, ma voglio dire “dobbiamo convincercene con forza”, convincercene
bene, e ancora che tutto questo comporta un vero e proprio cambiamento di
paradigma culturale. Cioè noi veniamo da una cultura di opposizione, sappiamo
le dicotomie, appunto, società o comunità, nostalgia della comunità, difficoltà
della società, che però presenta anche “le magnifiche sorti e progressive”, e noi
siamo lì appunto che non sappiamo, e ci viene il torcicollo. Per evitare il torcicollo
cominciamo ad eliminare la presenza ossessionante di queste dicotomie,
“arcaico”, o “moderno”, o “post-moderno”, e ancora economia o società, prevale
l’economia, prevale la società, ma sono “mischiate”, l’economia non vivrebbe un
minuto senza una capacità sociale di reggere diciamo in maniera non meccanica
ai meccanismi dell’economia. Non insisto su questo, l’antropologo-cantante mi
risparmia la fatica, è il bellissimo discorso del “pensiero quadrato” e del
“pensiero rotondo”; è un po’ semplificato, ma rende bene l’idea. Il pensiero del
moderno è un pensiero quadrato, forse non dobbiamo tornare al pensiero
rotondo dell’“eterno ritorno del tempo antico”, ma certo qualche cosa di un
pensiero rotondo che viene a confliggere” e ad incontrarsi, non necessariamente
a combattere, ma a “sintetizzarsi” col pensiero quadrato forse dovremmo
considerarlo, sarà la quadratura del cerchio, comunque il progetto è qualche
cosa che sta “tra il quadrato e il cerchio” insomma. Un progetto aperto, una cura
dei contesti, una capacità di persuasione, non a caso si è insistito, anche l’ultimo
intervento, sulla pedagogia. Abbiamo una società in cui si fa molta politica, molta
sociologia, poca pedagogia sociale, pedagogia degli adulti, pedagogia dell’Uomo
Adulto che non sa come gestire e come vivere la sua condizione di adulto. E
forse è l’ABC della Politica, non so, domando anche a voi, insomma. E poi tenere
i due poli, quello dell’individuo, o forse meglio “della persona come soggetto”, e
quello della comunità come momento di relazione, intesa in quel senso, cioè la
comunità come un traguardo remoto che sta tutto dentro la società, non fuori
della società, ma che va guadagnato giorno per giorno. Allora, vengo
velocissimamente al Sindacato. Per la prima volta il Sindacato in questi ultimi
anni si trova di fronte a un problema; è il problema di un suo ruolo sulla materia
del Welfare, dello Stato sociale, di fronte ai limiti istituzionali bisogna fare
qualche cosa. Sta già facendo molto, senza quasi saperlo, è quasi antitetico alla
181
sua “vocazione originaria”, quella che dicevo, quella “modernizzatrice”, in realtà
è insieme modernizzatore e medico dei suoi stessi processi, insomma. I suoi
processi “tendono a monetizzare il disagio della gente”, ma poi deve mettere
anche l’olio benefico della comunità sopra l’inutilità dello sforzo di rincorrere che
cosa? Rincorrere il PIL, rincorrere l’inflazione, rincorrere i processi dell’economia.
Allora, velocissimamente. Tentativo di praticare una contrattazione sociale, che
vuol essere una cosa molto diversa dalla contrattazione dei soldi. E’ la
contrattazione per conto della gente e, si spera, insieme alle gente, la
contrattazione di servizi sociali più avanzati, anzi non la contrattazione di servizi
sociali più avanzati, “più invasivi o più pervasivi”, ma “servizi sociali condivisi”,
condivisi anche dal Sindacato, ma condivisi soprattutto dalla gente, aiutare ad
aiutarsi, un nuovo modo se volete anche di fare politica. Facendo questo
abbiamo scoperto quante istituzioni, associazioni ed Enti si occupano di alcuni
temi, per esempio di residenze per anziani e la scoperta è che o “si fa rete”, o
“lavoriamo a una politica di rete” oppure dovremo correre come dannati da un
Ente all’altro, da un’Associazione all’altra, da un’istituzione all’altra senza riuscire
a stringere i fenomeni. Mi sembra abbastanza chiaro. Poi, chiudo velocemente,
abbiamo delle Associazioni legate al mondo degli anziani che già lavorano in
varie pieghe del sociale, in forme di assistenza e di aiuto agli anziani, trasporto
di parenti di ammalati, trasporto di ammalati e altre cose di questo genere, e per
di più in Provincia di Sondrio anche due importanti scuole per anziani, guarda
caso a Morbegno e Chiavenna; peraltro Sondrio e Tirano come sapete hanno
un’Università della Terza, o se preferite, delle Tre Età, e sono degli importanti
momenti di circolazione di un modo di pensare, che vorrebbe essere quello che
ho cercato anche di illustrare qui.
Pierluigi Comerio. Grazie Fassin. Adesso restiamo nel mondo economico, nel
mondo della Comunità Operosa, abbiamo in scaletta rappresentanti di due
aziende floride e sane della Valtellina, due fiori all’occhiello. Io comincerei da
Aldo Rainoldi, titolare della Casa Vinicola Rainoldi di Chiuro.
Aldo Rainoldi, Casa Vinicola Rainoldi. Io non potevo mancare questo invito
per riconoscenza, e anche profonda stima per la persona che mi ha invitato, ma
anche perché poi la tematica che oggi trattiamo, è fondamentale. Io non posso
dimenticarmi di essere, oltre che un imprenditore, anche un padre di famiglia e
un marito, quindi la cosa mi riguarda. Chiaramente io non sono una persona che
può portare in questa sede un contributo scientifico, non sono un medico, né un
sociologo, né tantomeno mi occupo di cooperazione sociale. Il contributo che
posso fornire è quello di “un percorso di vita umano”, particolarmente come
imprenditore, anche se poi a me piace comunque definirmi di più “un piccolo
artigiano del vino”. E anzi devo dire che forse così il mio percorso personale è
quello piccolo imprenditoriale, perché io sono figlio di due valtellinesi emigrati nei
primi anni ’70, e quindi sul finire degli anni ’90 io ho fatto il percorso inverso.
Quindi questo mi dà un punto di vista che forse è privilegiato. Così per venire un
po’ ai contenuti del mio intervento vi posso raccontare di difficoltà che ho
riscontrato nell’inserimento nella comunità valtellinese e, perché no, anche
dentro la mia azienda, perché, benché porti il nome dell’azienda, non era tutto
così facile e scontato. La prima problematica, che ho sentito veramente forte,
perché ero anche un ragazzo giovane, un neo-laureato, era un po’ “la povertà
dell’offerta culturale”. Questo per me è un problema grosso, e visto che poi la
182
tematica che trattiamo oggi è “fortemente polarizzata”, anziani e giovani, io
penso che non possiamo ignorare questa cosa. Io veramente tante volte avevo
l’impressione che, nel fine settimana quando finiva il lavoro, poi, l’unico rifugio
fosse il bar, non dobbiamo negarcelo. Vengo invece poi all’altra tematica, che è
forse quella che sento di più e che mi sembra ancora più importante, è un po’
quella sorta di staticità e di difficoltà nella società valtellinese di lasciare spazio ai
giovani. Lascio per ultimo questo punto, ma veramente mi sta molto a cuore. Io
ho come l’impressione, da esterno, che i giovani in Valtellina veramente facciano
più fatica che altrove ad affermarsi. Quindi ho veramente l’impressione che i
nostri giovani escano dalla Valtellina, vanno a Milano, si formano, poi però per
qualche motivo non rientrano in Valtellina. E’ vero, per certi c’è la scusante
dell’attività professionale, della formazione, che magari può essere fortemente
vincolante, però ho come l’impressione tante volte che qualcuno non continui
l’attività di famiglia, o comunque non trovi lavoro, non lo cerchi nemmeno in
Valtellina perché comunque hanno visto qualcosa fuori che forse è più
interessante e più dinamico. Io dico sempre che non si può chiedere ai giovani di
ragionare come i vecchi, e allora mi domando: ”Questo non è un impoverimento
della società?” E’ chiaramente una perdita demografica, chiaramente una società
che invecchia, ma è comunque questa una società che tendenzialmente secondo
me tende un po’ a impoverirsi. Quindi io non so quanto queste tematiche siano
connesse con il suicidio, però queste per me sono tematiche sociali sulle quali
veramente val la pena di riflettere. Detto questo, io in Valtellina ci sono venuto,
ci sto, ho fatto una famiglia, conduco un’azienda che anche nei prossimi anni
investirà, quindi, voglio dire, non rinnego la mia scelta, anzi la rifarei. Sono forse
uno di quelli sicuramente fortunati, perché fa nella vita quello che più gli piace,
quello per cui ha studiato, quello che voleva fare, ma forse ho avuto un po’
anche la fortuna, magari la forza, anche di auto-impormi. Quindi è un po’
l’auspicio che faccio alla Valtellina, e anche ai giovani valtellinesi: avere la forza
di sapersi imporre nella società, ma anche dentro le proprie aziende e dentro le
proprie famiglie.
Aldo Bonomi. Allora, il pomeriggio, dopo i fuochi d’artificio che ci han tenuti
tutti svegli, tra il Vescovo e Van de Sfroos, c’è stata una lunga carrellata della
rappresentazione della Comunità di Cura valtellinese, la Comunità di Cura dal
punto di vista dei saperi e delle professioni era già stata illustrata stamattina,
una rete di volontariato, di associazionismo, di Fondazioni in grado di mobilitarsi
intorno al tema, e anche un po’ di imprese e un po’ di economia per tenere
assieme queste due dinamiche che “fanno società”, economia da una parte e
“tensione alla comunità” dall’altra. Ma adesso, considerato che il problema non è
solo una questione sociale, ma è anche una questione culturale, inviterei a
intervenire l’Assessore alla Cultura del Comune di Sondrio Marina Cotelli.
Marina Cotelli, Assessore alla Cultura del Comune di Sondrio. Difficile il
compito che avete dato a noi che dobbiamo concludere. Non tanto per il tema,
che ora viene rilanciato, ma quanto perché credo che abbiamo lavorato un po’
“in estemporanea”, cioè appuntandoci quegli spunti che, interessantissimi,
abbiamo potuto cogliere degli interventi che ci hanno preceduto, e lavorando, un
po’ come ad un quadro, “all’impronta”. Io posso definirmi, mutuando
un’espressione che viene usata più volte nel volume che raccoglie gli esiti della
ricerca, “un attore involontario” della Comunità Operosa. Forse anche per il ruolo
183
amministrativo che ricopro, ma anche per la professione che svolgo, faccio
l’avvocato. Come esperienza professionale ho percepito fin dal primo momento
con stupore sempre crescente quello che poi è diventata una prassi che quasi
non stupisce più: ho visto crescere quei “momenti di intimità forzata” che il
cliente arriva quasi ad importi. Quante volte ho visto crollare le persone davanti
a me di fronte ad una domanda apparentemente banale: ”Come stai?”, oppure di
fronte ad una affermazione come ”Vedo che non stai tanto bene”, ecco di fronte
ad un’affermazione di questo genere quante volte ho visto in crisi, un’estranea,
un professionista al quale si dà dei lei ed al quale ci si rivolge per tutt’altra
ragione; mi sono chiesta perché questo avvenisse. E poi, proprio in occasione
dell’incontro di oggi, mi sono chiesta se questo avvenga più nella nostra realtà
che non altrove. Da un lato mi sono detta che il professionista ha
necessariamente uno sguardo non giudicante, chiedere a qualcuno, aprirsi di
fronte a qualcuno che non ha lo sguardo giudicante verso di te, a cui tutto
sommato non cambi la vita anche nel momento in cui rendi note le tue fragilità.
Diverso ovviamente se ciò avviene all’interno di una famiglia, soprattutto per gli
uomini che si sentono ancora investiti di un ruolo forte, di un ruolo di guida,
perché questo poi è il paradigma sociale nella famiglia da noi, ma anche nella
famiglia italiana. Ecco, lo sguardo non sarà giudicante, però aprirsi davanti a un
professionista che si occupa d’altro significa fare anche una “rinuncia
preventiva”, significa fare una rinuncia a uno sguardo d’amore, a quel po’ di
calore umano che in quanto esseri umani si può dare. Ma quell’abbraccio
continuato, quella mano che ti prende e ti porta, c’è anche in coloro che nella
società civile si occupano del disagio, coloro che se ne occupano sotto il profilo
medico, sotto il profilo del volontariato. Questo da noi forse è più vero perché è
nella tipologia del valtellinese una certa “emotività contratta”, e quindi mi
riaggancio poi al tema della cultura, delle relazioni sociali. Le dimostrazioni di
benvolere, le dimostrazioni d’affetto sono tutt’altro che frequenti all’interno delle
famiglie, ma anche all’esterno. C’è un’emotività frenata, ci sono “abbracci
contenuti”; già l’abbraccio è qualcosa di impudico, qualcosa che viola la privacy
dell’altro, la fisicità stessa è contratta, c’è una fortissima introversione. E quindi
questo si riaggancia poi al discorso che faceva il rappresentante della
Cooperativa Insieme sul “nascondimento della emotività”, sull’ incapacità quindi
di aprirsi. E’ come se il valtellinese in questo paradigma fosse una sorta di “homo
faber” alla Max Frisch, che peraltro era uno svizzero, quindi anche contiguo
territorialmente alla nostra terra, cioè un uomo che per definizione non prova dei
sentimenti, è produttivo, è proiettato verso il facere, non prova, o crede di
riuscire a trascorrere l’intera vita senza provare dei sentimenti. Poi come l’homo
faber, nel momento della malattia, nel momento della morte di una persona
cara, certo rivede tutte le proprie posizioni, ma lì ha acquisito nel frattempo le
competenze per la vita, cioè le competenze per far fronte a quel momento, e
allora queste competenze si possono imparare, forse non sono naturali.
L’avvocato Guicciardi, che ha richiamato l’attenzione sul momento della
pedagogia e sulla possibilità di educare, mi ha fatto sorgere anche un’altra
riflessione. La conoscenza di sé, la conoscenza dei meccanismi del proprio
animo, delle proprie emozioni, l’individuazione dei nodi irrisolti, lo scioglimento di
ciò che rimane sopito e poi a un certo punto si scatena, quello dovrebbe
veramente essere un oggetto d’insegnamento. Cioè pensare che la psicologia e
la psichiatria non siano solo delle terapie, ma siano dei percorsi individuali che ti
insegnano un metodo che ti consente di capire perché determinate dinamiche
184
improvvisamente si scatenano. E quindi la psicologia, la psicoterapia, la
psicanalisi forse sono davvero gli strumenti per il benessere che dovremmo
mettere a disposizione, oso dirlo, anche dei giovani, quindi anche nelle scuole.
Da ultimo voglio ricordare, perché mi ha colpita molto l’intervento di Ivan Fassin
quando invoca una nuova comunità, una logica relazionante e relazionale che
superi la cultura dell’opposizione, che superi la cultura della chiusura. Ecco,
un’espressione molto bella e molto vera tragicamente che usa Aldo Bonomi nel
suo scritto è quella che definisce la Comunità del Rancore. Quanto è vero questo
per quanto concerne la nostra realtà. E’ una comunità che si fa sempre più
chiusa, se volete ci può essere anche una ragione di tipo orografico, certo essere
nati con delle montagne che si ergono con pareti così alte e così strette non aiuta
ad aprire la mente. La montagna nasce invalicabile e il passo alpino è un
momento di pietà della montagna, che ti consente di superarla, ma il passo
alpino è anche una conquista recente. Ecco, noi di questa “chiusura orografica”
siamo anche un pochino vittime, non solo perché siamo ai margini dell’impero
per quanto concerne la possibilità di raggiungere tutti i luoghi del mondo, ma
anche perché è una chiusura orografica che diventa chiusura culturale, abbiamo
paura, del “diverso”, abbiamo paura dell’”altro”. In questa Comunità Operosa e
pratica l’identità sembra data dalla perimetrazione “fisica”, perimetrazione che
un po’ ci viene dalle “barriere”, dalla perimetrazione culturale e linguistica che si
traduce in questa ossessione per i micro-dialetti, i 150, i 500 dialetti che ci
sarebbero in ogni provincia e che ciascuno dovrebbe salvaguardare, che poi
diventa anche perimetrazione di tipo razziale. A furia di ergere recinzioni poi si
arriva al giardinetto di casa perché la recinzione finisce lì. Questi sono “pensieri
in libertà”, sul tema che è stato dato grazie alle riflessioni. Mi viene però
spontanea una riflessione che forse non si colloca esattamente in linea con gli
esiti e con le risultanze di questa ricerca; è una riflessione che mi proviene da
altri dati. Noi lamentiamo, e certamente ciò corrisponde al vero, una carenza di
socialità, intesa anche come carenza di relazioni legate al Welfare, eppure
sappiamo un’altra cosa, che i Paesi dove più si concentra la percentuale di suicidi
spesso sono i Paesi dove il Welfare è più diffuso, è conclamato, e vi è sicurezza
sociale per tutti, e comunque sto pensando ai Paesi del Nord Europa. Questa è
un’idea, è un dubbio, è una domanda che io ho nella mente.
Aldo Bonomi. Io credo che questo “dubbio” che lei ha sollevato, della “tematica
del Welfare”, che poi è un tema che discuteremo anche con gli Assessori
regionali e con le istituzioni, è un tema per cui vale la pena di sentire la
provocazione di Johnny Dotti. Non vorrei essere frainteso, non è che lui voglia
demolire il Welfare, semplicemente ripropone una forma moderna di autoorganizzazione e di mutualismo, sentiamo quindi cosa dice.
Johnny Dotti. Il mio grazie ad Aldo non è di forma, perchè ho avuto a che fare
varie volte col suicidio. Poi Aldo, siccome fa sempre “salti logici”, dice: ”Tu non
vieni a parlare di quello, devi venire a parlare di Welfare Italia”. Allora, siccome
non vengo qua a fare una marchetta e a vendere un’impresa che sto costruendo,
mi sono detto: ”Probabilmente ci sono alcuni elementi, che Aldo individua, che
hanno a che fare col ricostruire contesti di relazione”. Perché il tema grande è
questo. Qui abbiamo sentito tantissimi testi bellissimi, l’Associazione sui suicidi,
l’imprenditore molto illuminato, l’Assessore bravo, cioè io credo che il nostro
mondo, malgrado tutto, sia pieno di brave persone, il problema è che sono tutti
185
“testi”, “non contesti”, scusate il gioco di parole, e qui ci si pone invece un
problema di tentare di costruire un po’ di trame di contesto, e la comunità, lo
diceva Van de Sfroos, è questa cosa, non è né il punto né il raggio, è questa
cosa. Allora siccome questo tema mi assilla già dai tempi della Presidenza del
Consorzio nazionale delle Cooperative Sociali, che certamente fanno grandi cose,
ma anche loro – anche noi – sono (siamo) diventati in fondo delle “nicchie
specializzate”, chi più o meno bravo, chi più o meno intelligente a rapportarsi
con l’Ente Pubblico piuttosto che con l’imprenditore, siamo tutti delle nicchie. E’
questo il problema. Allora, nell’esperienza che stiamo cercando di costruire,
usando i termini di Bonomi, la Comunità Operosa e quella della Cura “si fanno
uno, non due”, pur rimanendo ognuno a fare il proprio lavoro, rispetto ad
esempio al tema della “cura”. Mi piacerebbe ad esempio parlare anche della
scuola, io sono per la scuola pubblica, non per la scuola di Stato, che sono due
cose molto diverse, così come sono per la “cura pubblica”, ma non per “la cura di
Stato”. Sono chiaro anche davanti a miei amici sindacalisti, ai politici, perché il
problema vero è che Stato non coincide con pubblico. Basterebbe fare molte
analisi oggi, da quella dei partiti a quella di come funzionano le ASL, tante storie.
Ma il mio problema è che nel frattempo succedono cose, mentre noi ci
accaparriamo a trovare un fondo in più da mettere nel Fondo Sociale, piuttosto
che due lire in più della Regione Lombardia, nel frattempo succedono cose. Che
succede? Che nessuno è in grado di fermare il grande vento del mercato, la
libertà oggi, volenti o nolenti, non è un’opzione pro-mercato, non sono un
“mercatista”, però coincide col mercato. L’esperienza che la gente fa della
propria libertà purtroppo è quella della “libertà del consumatore”, questo è il
dato di realtà, piaccia o meno. Ho fatto il lago prima, l’immagine che mi è venuta
è che noi dobbiamo, se vogliamo ricostruire contesti, “andare di bolina”, non
possiamo andare contro questo vento, è un vento troppo forte, possiamo
sfruttare il vento a favore della barca. Il gioco secondo me non è contrastare
ergendo della barriere di difesa del Welfare State, che non c’è già più in Italia
secondo me, a ben vedere, non c’è neppure mai stato, perché quello svedese noi
non l’abbiamo neanche mai visto, gli svedesi da 10 anni puntano all’“autoorganizzazione”, tutti gli asili nido in Svezia sono gestiti da Cooperative di
genitori, tutti gli asili nido statali. Vuol dire che ci si è accorti che il benessere
non può essere semplicemente una cosa che uno eroga e l’altro prende, prende
gratis o prende pagando, ma deve coinvolgere la persona che lo costruisce,
l’essere, soprattutto se è un essere collettivo e comunitario. Le Mutue dell’‘800,
le Banche Popolari, le Banche di Credito Cooperativo, nascono così; allora il
problema era “il credito”, che era un pezzo fondamentale del benessere, oggi il
problema è “noi”, sono “le nostre relazioni”, lo dicevano molto bene il Vescovo e
Van de Sfroos. Siccome credo che l’educazione e anche l’ “auto-educazione” sia
essere delle “persone generative”, se l’educazione non s’incontra con la
generatività, resta morta. Allora il problema che ho, anche con altri amici, è
“come si fa a rigenerare questi contesti di relazione”. E non è la risposta al
problema gigante che state trattando qui, vuol essere una modesta, però
sincera, “proposta laterale”. Allora mentre noi tutti difendiamo il Welfare State,
circa il 50% delle visite specialistiche, dai dentisti allo psicoterapeuta, se n’è già
andato fuori del Welfare State. Sto parlando di un mercato al 2005 che vale circa
35 miliardi di Euro. Quello “in bianco”, perché poi, io che sono bergamasco, c’è
quello “in nero”, bisognerebbe aggiungere un altro 25 miliardi. E non sono dati
miei, Mackenzie ha fatto per me gratuitamente un certo lavoro e questi dati sono
186
venuti fuori. Chiederò all’Assessore alla Regione Lombardia quanti soldi ha da
gestire. Bene, ogni anno escono su questo mercato cifre che valgono dai 2 ai 4
punti che aumentano quella cifra. Chi di voi ha la possibilità di leggersi “Il Sole
24 Ore” troverà ogni tre mesi che gli analisti mondiali considerano ad esempio la
sanità come uno dei grandi mercati del futuro; i Fondi Pensioni americani vanno
lì. Adesso hanno finito coi Centri Commerciali, ci hanno stancato tutti con l’aria
condizionata per un po’, c’è da aspettarsi che i Centri Commerciali, com’è
successo in Australia, in America nel giro di 10 anni non ci saranno più e ci
saranno invece altre cose molto legate alla salute. Un concorrente Welfare Italia
è la Virgin ad esempio, che arriverà l’anno prossimo in Italia. Allora, il primo
pensiero è stato perché noi, che ci siamo sempre interessati dei disabili, dei
malati di mente, dei tossicodipendenti, abbiamo costruito delle modeste ma
significative imprese, le abbiamo capitalizzate, perché noi non ci occupiamo di
quel mercato? Se venite dalle mie parti sotto i 60 Euro non si va dallo
psicoterapeuta. Trattasi di 120.000 delle vecchie Lire. Una badante dalle mie
parti va dal ginecologo privato, spesso “in nero”. Nel frattempo non ce l’ho con le
cliniche realizzate con le cose buone che fa la Regione, cose bellissime, ma nel
frattempo quella roba lì se ne va. Se ne va sostenuta anche dalle Corporazioni.
Che sono molto brave a far finta di niente, perché poi le Corporazioni sono brave
a difendere gli individualismi. Allora prima cosa, andiamo sul mercato della
salute, questo è il vento. Come ci andiamo? Cercando di metterci la vela del
senso, che è “alla bolina”. Cioè bisogna beccarlo e prenderlo a favore della
barca. Per me la “barca” è la comunità. Non possiamo farlo solo noi del terzo
settore, non è possibile, io ci ho provato a suo tempo col Forum, ma venivo
sempre preso per matto. Non lo facciamo con le Fondazioni Bancarie, ma con le
Banche. Io voglio le Banche non le Fondazioni Bancarie. Che ormai fanno
bellissimi Report di Bilancio Sociale, basta marchette, un po’ più di concretezza.
Investi credendo che questo progetto ha del capitale sociale dentro? Io ho già
trovato due grandi Banche che sono state disponibili, non in una Cooperativa
Sociale, ma una S.r.L., anche qui “super-eresia”, che purtroppo quella attuale
legge sull’impresa sociale non può essere ancora un’impresa sociale, ma lo è, si
son pagati un sovrapprezzo circa del 600%. Non comandano, sono in minoranza;
io adesso sto cercando altre Banche per fare l’operazione, e apriremo 130 Centri
sul territorio tenendo insieme il dentista, il ginecologo, lo psicoterapeuta e
cercando di costruire dei luoghi “a domanda pagante”, non voglio in mezzo né
Regioni, né Comuni, né ASL, io voglio che a un certo punto le ASL vengono a
vedere come si fa. Si costa meno perché si è partecipati, si costa meno perché
c’è un interesse immediato cui tu rispondi agli altri. Non è “alternativo”, tanto le
ASL hanno tante cose da fare, devono funzionare bene, cioè nessuno porta via il
lavoro agli altri. Questa è una piccola cosa, ma io sono convinto che questo può
valere su una serie di altre vicende. Perché? Qual è il trait d’union? Che il tema è
inizialmente ragionare in termini di consumatori, ma aiutare la domanda ad
aggregarsi. Ecco qui il tema delle Mutue. Lo stanno già facendo i Fondi Pensione.
Dal 2005 a oggi la quantità di adesione ai Fondi Pensione è salita da 2 a 4 milioni
e mezzo. Allora il problema è che quelli ragionano tutti in verticale dal punto di
vista appunto corporativo, se l’Azienda tiene è in grado di staccare al dottor
Bonomi un pezzettino di fondo in più, però quelli che non ce la fanno, ad
esempio tutte le piccole imprese, voglio vedere io come faranno a staccare. Io
questo a Sacconi gliel’ho detto. E’ il pezzo debolissimo del libro bianco, questo.
Allora serve qualcuno che la mette in orizzontale, ma in Italia si mette
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orizzontale solo se stai sul territorio. Non c’è “l’orizzontalità astratta” in Italia,
non siamo in Francia, non siamo in Svezia. Allora io posso immaginare di aver
già creato, fatto con altri, una realtà nazionale fatta in quel modo, ma poi
servono “tante realtà territoriali” che tengono insieme uno sforzo, visto che qui ci
sono anche parlamentari, di domanda aggregata, e bisogna rifare la Legge della
fine ‘800, che è una buona legge, quella sul mutualismo, ma banalmente gli va
inserito che si possono aggregare più Mutue tra loro fornendosi i servizi a
vicenda, perché il vento è un vento finanziario, quindi non posso far stare in
piedi tante piccole Mutue da 1.000 persone. Queste 1.000 persone devono avere
poi un Fondo più grande, un Fondo che c’è già, la vecchia Mutua dei Ferrovieri
ha già lì ad esempio 80 milioni, che è un buon inizio per cominciare. Voi direte:
”Mah, trovi dei Medici disponibili a guadagnare di meno?” Io ne sto trovando
tanti. Primo perché molti, soprattutto i dentisti, hanno fatto tanti soldi, e i soldi
non bastano a dare significato alla vita, secondo perché non è vero che si
guadagna di meno in assoluto, terzo perché il bene, finché ti viene dal lavoro, è
fatto di tante cose, non è fatto solo del reddito. Sto trovando tantissime persone
disponibili tra i medici, tantissime, io credo che qualcosa del genere lavorando
sulla ricerca, dove “il tema comunità” continua ad uscire, vada un po’ pensato.
Qual è il tema forte? La modernità è anche “struttura” e “funzione”, purtroppo In
Italia non è neanche quello perché non abbiamo neanche un capitalismo decente
insomma, però questo tema c’è. Allora vanno bene i momenti in cui ci si mette
assieme, ma poi c’è un problema di far precipitare dentro qualcosa che
quotidianamente sia in grado di avere cura della cura. Non funzionano più i
Coordinamenti Generali, tutte cose che davanti al grande vento della modernità
vengono spazzati via da un giorno all’altro, perché la gente fa fatica già a tenersi
insieme da sé, dentro di sé”. Allora, io non vi posso far vedere ad esempio
questo Statuto che è un po’ “eretico”, però l’ho fatto col più grande Studio di
Avvocati d’Italia, e gratuitamente, come la Mackenzie m’ha fatto questo studio.
Perché non ci sono “i buoni” che stanno da una parte e “i cattivi” che stanno da
un’altra. Provate a pensare a qualche cosa che riguarda “il contesto della valle”,
tra l’altro voi siete in 180.000. Cioè si può fare davvero qualcosa come contesto,
che non nega le tante individualità perché la questione della macedonia ha del
succo in mezzo, quindi ha un legante dentro e il legante è secondo me “l’andar di
bolina”, certamente un tema culturale ma girare la questione culturale richiederà
anni. Anche perché stiamo dentro il mondo, voi non è che qua siete fuori, vi
potete chiudere, e ci ragioniamo su un po’, cioè nel frattempo qui passa di tutto
e di più. E’ certamente “cultura”, ma è anche “forme generative nuove di
economia e di socialità”, perché questo è un linguaggio oggi, è il linguaggio del
vento che tira. Servono interpretazioni nuove su cui secondo me c’è spazio per
tutti, anche per le istituzioni che hanno voglia di ripensarsi, siamo in una Regione
dove lo sforzo, almeno mentale, da questo punto di vista si fa. Non basta avere
la libertà di scelta, bisogna ricostituire un senso della libertà.
Aldo Bonomi. Bravo, sono sempre più convinto che ho fatto bene a invitare
Johnny Dotti a discutere di queste cose. Adesso do la parola a Ercole Piani, del
Collegio degli Infermieri, uno verso cui i temi di questa giornata interrogano sul
“dopo”.
Ercole Piani, Collegio degli Infermieri. Vorrei tornare all’essenziale, perchè
mi piace dedicare gli interventi a qualcuno e a qualcosa. Vorrei dedicare questo
188
intervento ai volontari della Caritas, che in assoluto disinteresse impiegando
tempo e giornate hanno svolto un’indagine che per la nostra Provincia è
preziosissima. Questo non sarebbe stato possibile da nessuna istituzione se non
con delle spese enormi. Per cui un primo concetto che vorrei ribadire, e ringrazio
don Augusto che rappresenta la Caritas, un primo concetto importante sul “da
farsi dopo” è “la gratuità”. Ci sono già delle persone e delle Associazioni che si
stanno muovendo con impegno, c’è Navicella, c’è Gabbiano, c’è il Collegio degli
Infermieri, che mi onoro di rappresentare, c’è l’ASIS, che sono impegnati su un
progetto che andrà a svilupparsi, ma c’è bisogno del contributo, soprattutto del
contributo di coloro che verranno a parlare dopo di me, delle persone che sono
impegnate, perché hanno il preciso dovere di rappresentare questa società nelle
istituzioni, negli Organismi di Salute Mentale come il Coordinamento di Salute
Mentale ma, come diceva il professor Borgna nel Convegno del ’97 che abbiamo
organizzato qui a Sondrio, “i veri interlocutori delle persone che vogliono
suicidarsi sono il vicino di casa, sono una società che si deve muovere, non sono
solo i professionisti della salute mentale, sarebbe un grave errore delegare solo
alla psichiatria questo problema”. Anche perché è da sfatare il concetto
importante secondo cui le persone che decidono di porre fine alla propria vita
non sempre soffrono di conclamati disturbi mentali, ma soffrono, come è stato
sperimentato e dichiarato oggi, di sofferenza, di isolamento e di altri problemi
che la vicina di casa può aiutare a risolvere. ASIS nella sua esperienza di
vicinanza a queste persone ha dimostrato che parlare alla gente di questi
problemi vuol dire “portarli alla ribalta”, permettere alle persone di tirare fuori le
problematiche. Ci sono persone che magari si rivolgono semplicemente perché
vengono a dirti: ”Ma cosa potevo fare io?” “Nulla, perché non conoscevi questo
problema”. Per cui andare fra le persone e parlare potrebbe essere un progetto
che ASIS potrà continuare a fare con il contributo di altre Associazioni che hanno
già un bel progetto, c’è il Gabbiano che vuol parlare di discoteche, avvicinare i
giovani nelle discoteche, c’è Navicella che ha già vicino i problemi di persone che
arrivano magari dopo per elaborare un lutto. Cari Amministratori, cari politici,
500 persone nell’arco temporale così limitato non sono 500 persone che non ci
sono più, ci sono mogli, fratelli, figli che non hanno ancora capito cosa è capitato
loro. Il dramma più pesante è che la ricorrenza a volte di queste date porta ad
altri suicidi all’interno della stessa famiglia. “Spezzare le catene del suicidio è un
preciso dovere che noi tutti abbiamo”, ma voi che ci rappresentate avete il
preciso dovere di un impegno, una solidarietà nei confronti di persone e di
Associazioni che hanno già proclamato di farlo a disinteresse economico, per cui
questo potrà continuare, ma è indubbio che ci vuole solidarietà, impegno,
partecipazione e quel contributo alle spese delle iniziative pure che serviranno ad
abbassare questo tasso che pesa così enormemente sulla nostra società.
Ringrazio la Provincia di Sondrio allora perché aveva nell’Osservatorio del Disagio
un obiettivo importantissimo, “il suicidio è trasversale a tutti noi”, fra quelle 500
persone ci sono sicuramente persone che conosciamo, di qualunque
appartenenza politica. Non importa se l’allora Presidente della Provincia era Dioli
o qualcun altro, ma allora la Provincia attraverso l’Osservatorio del Disagio, per
lo meno andava a monitorare un problema. E’ bene tenere aperto questo, è bene
che ci sia. Il Presidente della Conferenza dei Sindaci, il Sindaco di Sondrio, anche
lui si era impegnato allora e sono certo continuerà ad impegnarsi su questo
progetto. L’Osservatorio del Disagio della Regione Lombardia “si è suicidato”, il
Dottor Ballantini e il sottoscritto partecipavano all’Osservatorio del Suicidio in
189
Regione Lombardia. Peccato che se n’è andato il dottor Riva, che era un buon
catalizzatore di tante iniziative. Ma al di là di tutto, ritornando all’essenziale, io
credo che ognuno di noi abbia questo preciso compito, credo che le persone che
si sono fermate sinora dimostrino questo interesse e vi ringrazio tutti per
l’attenzione.
Aldo Bonomi. Beh, credo che i lavori siano lunghi, ma so che l’abitudine
valligiana è quella che per le 19.30 più o meno, bisogna mettere le gambe sotto
il tavolo. Cercherò di condurre i lavori fino alla fine in maniera tale che ce la
facciamo. Adesso c’è una tavola rotonda di conclusioni con le istituzioni. Quindi
chiamo l’Assessore Giulio Boscagli, Assessore alla Famiglia e alla Solidarietà
Sociale della Regione Lombardia, l’Assessore Gianni Salvadori, Assessore alle
Politiche Sociali della Regione Toscana, lo ringrazio per il viaggio perché poi deve
tornarsene in Toscana, poi Enrico Borghi Presidente dell’UNCEM, che vuol dire le
Comunità Montane, poi l’Onorevole Benedetto Della Vedova, comunque
valtellinese come noi, Alcide Molteni, Sindaco di Sondrio e già Presidente della
Conferenza dei Sindaci, poi l’Assessore al Sociale della Provincia di Sondrio. E poi
in rappresentanza dell’Azienda Sanitaria Locale, Giuseppina Ardemagni. Allora,
siccome occupandomi di questo problema mi sono chiesto se c’erano delle
Politiche Pubbliche che prendevano in considerazione questa cosa, ebbene le
Politiche Pubbliche ci sono, quella della Regione, etc., però m’è parso di trovare
un Protocollo fatto tra l’UNCEM e la Regione Toscana, un Protocollo che diceva
che siccome nelle aree interne e montane della Regione Toscana il problema del
disagio, e anche dei suicidi, è più alto, occorreva appunto un Protocollo e hanno
incominciato a lavorare. Mi pare che la cosa funzionava da due punti di vista.
Punto primo, dare al mio amico Borghi e alle Comunità Montane una funzione
anche di Ente che si occupa del sociale, seconda cosa, la Regione come attore
rispetto a questo. Inoltre non nascondo che, visto e considerato che abbiamo
lavorato sul territorio valtellinese, non sarebbe male se si riuscisse a fare un
Protocollo. Quindi la prima domanda e il primo giro di risposte è questo. E mi
interessa molto anche capire come l’Azienda Sanitaria Locale, che ha i suoi
servizi, ne abbiamo discusso stamattina, può andare in questa direzione, può
cioè utilmente accompagnare questa capacità della società, per dirla con Johnny
Dotti, di incominciare ad auto-organizzarsi e a lavorare con ovviamente i saperi e
le istituzioni. Quindi io spero che, a chiusura di questi ragionamenti, perché poi
con don Colmegna e con l’Associazione Amico Charlie vedremo due casi di Onlus
e Fondazioni - perché la Casa della Carità è una Fondazione che si occupa sul
territorio – chiuderemo i lavori. Però un giro di tavolo rispetto a quelli che sono
gli orientamenti della politica, gli orientamenti delle istituzioni rispetto a questo
problema mi pare importante. Allora partirei per dovere di ospitalità e di
lontananza da Salvadori. Prego Salvadori.
Gianni Salvadori, Assessore alle politiche sociali Regione Toscana. Grazie
soprattutto perché non capita tutti i giorni di sentire le cose che ho sentito oggi e
gli stimoli che sono arrivati. Ma sul Protocollo e sugli obiettivi che ci siamo dati...,
intanto il primo motivo che ci siamo detti fra di noi è che era indispensabile
cominciare a parlare di suicidi in maniera chiara e trasparente, perché
drammaticamente neghiamo l’esistenza di questi drammi, anzi ci giriamo
intorno, tante volte facciamo finta di nulla, come veniva detto. E allora il fatto
che due istituzioni affrontino in maniera esplicita questo problema vuol dire
190
cominciare a parlarne. Ed è il primo elemento di prevenzione, perché come l’OMS
diceva durante la Giornata Mondiale del Suicidio fatta il 10 settembre a Roma, “il
suicidio si può prevenire”. Allora dobbiamo lavorare perché questa cosa accada.
Quindi innanzitutto “parlarne”, seconda cosa “agire”, prima di agire abbiamo
deciso di “capire” che cosa stia accadendo in queste realtà. Guardate, noi
abbiamo preso ad approfondire 3 Zone Montane, 2 nella zona del grossetano, e
don Virginio in una ci sta arrivando, dove il tasso di suicidi è 4 punti superiore
alla “media toscana”, la Toscana di media è 6,9 ogni 100.000 abitanti, nella zona
delle Colline Metallifere e dell’Amiata, altra realtà a vocazione iniziale, storica,
mineraria,
il
tasso
di
suicidi
va
all’11
ogni
100.000
abitanti.
Contemporaneamente abbiamo preso un’altra zona montana, che ha una
vocazione diversa, il Casentino, dove invece il tasso dei suicidi è sotto la media
regionale. Noi stiamo ragionando e lavorando non soltanto sulle problematiche di
carattere medico, psicologico, psichiatrico che hanno avuto queste persone,
perché stiamo ricostruendo i loro casi dal 2000 ad oggi con i medici che li
avevano in carico, ma andiamo a ricostruire anche il contesto sociale in cui
queste persone vivevano. E devo dire che il contesto sociale è un contesto
particolare, di cui dobbiamo tener conto, perché per esempio lì è una zona, con
la chiusura delle miniere, avvenuta ormai più di 30 anni fa, dove vi è stato uno
Stato assistenziale, non di Welfare, ma assistenziale, che per quarant’anni ha
garantito a queste persone di vivere senza lavorare, per esempio con la chiusura
delle miniere. Lì abbiamo ormai una società di vecchi, dove la presenza di
giovani è strettamente limitata alla permanenza a scuola e poi scappano, quindi
ancora una zona di forte emigrazione, pur essendo in una Regione a grande
attrazione di immigrati. Abbiamo un dato che conferma un dato abbastanza
generalizzato, cioè che il tasso di suicidi aumenta in maniera rilevantissima per i
maschi sopra i 65 anni. Quindi questo è un po’ il contesto, un contesto di
“isolamento”, un contesto dove la comunità, intesa anche nelle sue espressioni
più importanti, viene a cadere. Io non so se don Virginio ha fatto dei giri lì, ma
insomma si registra una diminuzione dell’entusiasmo a partecipare alla vita
comunitaria, quindi questo è un fatto che conferma tutte le tesi sui suicidi che ho
sentito poco prima, e cioè che il suicidio non ha una patologia particolare, ma
occorre affrontare la sua multi-dimensionalità. Per cui l’azione successiva è
“agire”, e devo dire che lì cominciano i problemi, perché la prima cosa che noi
vogliamo fare è dire ai medici di stare attenti a quei sintomi particolari che
apparentemente non si notano, ma che in ogni caso conducono a dire: “Ho
voglia di morire” “Sono un perdente nella vita, non ho fatto nulla di positivo”,
tutte quelle cose che paiono banali, ma che sono un sintomo, per alcuni, di
grande disagio e problematicità interna. L’altro compito è tentare con difficoltà di
rimettere in moto un po’ la comunità locale. La cosa più semplice è quella di
educare i medici a stare attenti, cosa di per sé già complicata e difficile, ma
andare a rimettere in moto una comunità è una cosa complicatissima e credo che
sia il compito essenziale della politica e il compito essenziale di coloro che si
impegnano nella realtà sociale. Io la dico in una battuta: “noi ormai
drammaticamente viviamo più in un consorzio di egoismi che in una società”, e
quindi dobbiamo in tutti i modi rimettere in moto questo. La domanda che veniva
posta, dice: ”Cosa possono fare le Istituzioni?” Io parto da questo presupposto,
se è sbagliato me l’auguro, ma purtroppo in questi anni di esperienza
istituzionale ho trovato conferme: l’idea di responsabilità, che è il cemento, la
radice da cui parte poi la solidarietà, è l’altra faccia delle libertà, è l’idea della
191
partecipazione, è tutto quello che fa comunità sostanzialmente. Dobbiamo
rimettere in moto questo presupposto perché da solo non riparte. E’ un processo
culturale, antropologico profondo che da solo non riparte. E’ allora compito delle
istituzioni riaccendere, rifar scattare questo interruttore. E ripeto, questo
“trasversalmente”, perché non è un problema di chi è al Centro Sinistra o di chi è
al Centro Destra, questo è un problema che ci riguarda tutti, drammaticamente e
in maniera eccezionale. E allora noi su questo abbiamo cominciato un lavoro
delicato, abbiamo lanciato un’idea nei confronti dei giovani. Prima ho sentito il
Vescovo e l’antropologo cantante dire una cosa giusta: parlando di “questione
giovanile”, che noi vogliamo rimettere al centro della discussione, parliamo in
realtà di noi adulti. Parliamo di noi adulti mettendo al centro della nostra
proposta l’idea della corresponsabilizzazione rispetto alle azioni, alla vita di tutti i
giorni. Noi abbiamo periodicamente una Settimana Giovani che si stanno
incontrando su queste tematiche. Devo dire, riscontro entusiasmo e stupore nel
loro agire, chiedono speranza di futuro, hanno la convinzione che questo mondo
si può cambiare. Questo a mio avviso è “fare comunità”, tentare come istituzioni
di dare il click, riaccendere questa luce o, come diceva l’antropologo-cantante, il
laser, perché se non facciamo questo noi veniamo meno a un compito che credo
sia d’obbligo per noi, quello di tener conto del bene comune, che significa non la
sommatoria dei beni di ognuno, ma un qualcosa che va oltre e che li riassume.
Allora io penso questo: difficilissimo perché su questa cosa abbiamo
probabilmente la necessità di chiarirci su quale visione abbiamo di futuro, noi
dobbiamo cominciare a dirci come prefiguriamo la società fra quarant’anni.
Dobbiamo cominciare uscendo dagli “slogan”, uscendo dalle facili affermazioni e
facendo tesoro degli insegnamenti più avveduti: dobbiamo cominciare a parlare
serenamente, fuori dagli slogan, fuori da una retorica elettoralistica, del tema dei
migranti, parlare in maniera vera, perché questo è un altro nodo su cui o ci
misuriamo, o noi tra quarant’anni, quando ci sarà qualcun altro a Sondrio a
discutere su queste cose, dirà: quanto abbiamo sbagliato quarant’anni fa a
fermarci agli slogan.
Aldo Bonomi. Do subito la parola a Boscagli, anche perché così si possono
vedere molti intrecci su quello che è stato detto.
Giulio Boscagli, Assessore a famiglia e solidarietà sociale Lombardia. Il
punto è che la questione che avete posto col Convegno è innanzitutto “una
questione antropologica”, cioè di “senso di sé”, di “significato della vita”. Io
cercherei di affrontare questa questione intanto con un dato di speranza, non
voglio dire di “ottimismo”, parola che si presta a delle ambiguità, speranza e non
con la tristezza di chi non vede soluzione. E ve lo dico da vicino di casa, cioè da
lecchese. E vi garantisco che alcune cose che io da lecchese vedo qui sono ben
lontano da vederle nel mio territorio. L’esempio è l’imprenditore che poco fa ha
parlato quando ha detto che lui si è stupito della “povertà culturale” che ha
trovato qui. Io non ho mai sentito un imprenditore a Lecco - vi garantisco che
sono molti anni che faccio il politico, ho frequentato assemblee e frequento
tuttora - non ho mai sentito un imprenditore lecchese che avesse questo tipo di
sensibilità. Nella mia Provincia di Lecco non ho due Banche che hanno un’offerta
culturale così ricca come quella delle due Banche che avete qua, tra l’altro
radicatissime col territorio come ormai non c’è più da quasi nessun’altra parte.
Allora partiamo anche dal “positivo”. Se la questione fondamentalmente
192
antropologica, di senso, richiama la responsabilità degli adulti sul fronte
dell’educazione, allora il primo da guardare, la prima domanda che uno si deve
fare è su se stesso genitore. Io ho un certo numero di figli e ogni volta che c’è
qualcosa che non va m’interrogo su di me, sapendo che gioca la libertà delle
persone, ma gioca anche la responsabilità che ognuno mette nel rapporto, quindi
partirei da questo. Sul fronte della politica, Johnny Dotti punzecchiando come
sempre, dice: ”Non basta la libertà di scelta”. Io sono totalmente d’accordo,
intanto perché “libertà di scelta” è secondo me il livello minimo, ma poi c’è il
gioco delle responsabilità. Se abbiamo cercato di fare qualche cosa nella politica
in questi anni come Regione Lombardia, è stata quella di valorizzare chi fa, poi
c’è anche l’intervento dell’Amico Charlie; la Regione Lombardia ha sostenuto
l’Officina dei Giovani che è un’iniziativa piuttosto importante, come abbiamo
sostenuto altre iniziative nei diversi settori, nei diversi campi. Perché qui la
politica deve essere capace di far crescere, raccogliere e sostenere. Quando
faremo le elezioni, ormai tra sei mesi, non sarà neanche due anni che mi è stato
affidato questo Assessorato, quindi non ho lunga esperienza, ho fatto altre cose,
ho fatto anche il Sindaco della mia città, conosco nel concreto alcune cose, ma la
sensazione che ho riportato è che il nostro Welfare ha bisogno di un radicale
ripensamento, a tutti i livelli. La settimana scorsa c’era su “Sole 24 Ore” la media
delle pensioni che ci sono nelle Province Italiane, in Lombardia si va dal massimo
di Milano, dove la media è 1.000 Euro, alle Province agricole dove siamo sui 6700 Euro di media. La retta di una Casa di Riposo costa alla famiglia due volte
tanto. Allora qui c’è qualcosa che non va! Vi faccio un altro esempio, noi ci siamo
dati come obiettivo del Piano Socio-sanitario regionale di avere posti nelle RSA
del 7% di ultrasettantacinquenni. In Lombardia questi aumentano a ritmo di
2.800, cioè il 7% vuol dire 2.800 anziani ultrasettantacinquenni in più ogni anno,
impensabile pensare di affrontarlo così! Allora c’è veramente “una rivoluzione” da
fare su questo, che non può che partire dal prendersi carico di questa sanità “low
cost”, chiamiamola così, comunque è una provocazione interessantissima proprio
anche per le istituzioni. La cosa che ho visto in questi due anni scarsi, e che però
è assolutamente affascinante, è la grandissima quantità di persone che, pur
dentro questa modernità che taglia le relazioni, si prende carico dell’altro, con
molti limiti e difetti, qualche volta anche con concorrenze banali, si prende
carico. C’è una ricchezza di iniziativa che nasce dal basso e che noi cerchiamo di
valorizzare. Per darvi un flash, quando 10 anni fa facemmo la Legge sulla
famiglia, i contributi che quella legge prevedeva venivano come dire incanalati
verso Associazioni appunto di famiglie che si attrezzassero, si ricostituissero per
fare determinate cose, dal Micronido ad altre forme di accoglienza, etc.. Sono
nate migliaia di Associazioni nei 10 anni, qualcuna è nata ed è morta, altre sono
rimaste e continuano, come dire che io credo che il compito della politica sia
quello di favorire questa creatività del sociale. E’ chiaro che poi ci sono dei gravi
disagi, le gravi disabilità dove assolutamente l’intervento deve essere diretto
perché nessuno può portare da solo, e neanche con la sua famiglia, un certo tipo
di disabilità. Abbiamo fatto in questi giorni un intervento per gli stati vegetativi
custoditi a domicilio, perché sono delle situazioni che distruggono fisicamente e
spiritualmente le famiglie, però c’è dentro in questa nostra società lombarda,
una grandissima ricchezza, ebbene, quando ce la siamo inventata? Viene da
lontano, vuol dire far riferimento a cose come la Baggina o i Martinitt, realtà che
sono nate nei secoli dalla buona volontà di qualcuno e che oggi hanno degli eredi
nelle Cooperative e nelle Associazioni, nella capacità di prendersi cura. Quindi io
193
credo che occorra investire su queste relazioni, raccontare, c’è infatti anche il
tema della narrazione. Finisco con una banalità: quando ci sono stati gli Stati
Generali di Expo a Milano io non sono andato, avevo altri impegni e mi sono
guardato dei pezzi sul computer. E vedendo queste persone qui riunite, dopo
alcuni interventi mi son detto: ”Ma guarda, quanto tempo è che non si parla
direttamente ...”, mi sono chiesto a proposito del Presidente della Regione che
era lì “…quanto tempo è che il mio Presidente non ascolta centinaia di voci in
presa diretta? Quante occasioni abbiamo dal basso di interloquire con
l’istituzione?”. Abbiamo oggi centomila strumenti elettronici con cui sopperiamo a
questo, ma il sentire direttamente “persona a persona” vuoi il disagio, vuoi la
proposta o il suggerimento, io credo che sia uno spazio da ricostituire e da
riscoprire.
Aldo Bonomi. Grazie. Ora do la parola a Enrico Borghi che ci illustrerà cosa
fanno le Comunità Montane o se siano un altro Ente inutile e da abolire.
Enrico Borghi, Presidente UNCEM. Vorrei iniziare esplicitando che i politici
dovrebbero cominciare a parlare di contenuti e smetterla di parlare di
contenitori, perché se continuiamo in questa sterile diatriba su “chi deve fare
cosa” e non cominciamo a discutere invece di “come fare” e di “cosa fare”,
rischiamo veramente di mettere in corto circuito il sistema, che non a caso da
quindici anni o giù di lì, mi pare che sia abbastanza ben avviato verso il corto
circuito. Vorrei fare un’osservazione da osservatore esterno e un ringraziamento.
L’osservazione è che quando Aldo mi ha dato i dati per i quali si fa questa
iniziativa la prima reazione è stata: ”Accidenti, ma cosa sta succedendo?” La
seconda osservazione vedendo come state reagendo è: ”Accidenti, ma qui c’è
sostanza!”. Cioè di fronte ad un fenomeno che potrebbe indurre ai luoghi comuni
o alla fuga, siamo un territorio in cui si può benissimo dire: prendiamone atto,
chi ha ancora i mezzi si acconci e chi non lo può più si attrezzi, c’è la costruzione
di una rete di orizzontalità, di una rete di comunità per fornire una risposta.
Questa parola “comunità” io l’ho sentita in parecchi interventi e devo dire che
rispetto a questo tema, visto che è stata fatta anche una osservazione in questo
senso, siamo assolutamente disponibili nei confronti di questa realtà, per cercare
di sperimentare, di trasferire, di collaborare con le realtà istituzionali e sociali di
questo territorio per portare un trasferimento di conoscenze e di competenze che
si possono essere compiute in altre realtà simili del territorio nazionale. Però
attenzione, il concetto di comunità oggi è una parola maledetta. Perché dico
questo? Perché la comunità, sotto il profilo istituzionale, è una realtà che si fonda
su due presupposti, il concetto di uguaglianza dei soggetti, che sono tenuti
insieme da una rete identitaria, cioè nelle vallate non si fa comunità perché lo ha
dichiarato scendendo dal Sinai un Signore al quale era stato dato un certo
Decalogo. Si è fatta comunità storicamente perché si capiva che stare insieme in
ragione di una identità comune era il modo con il quale si rispondeva alle
problematiche di un dato momento storico. E non mi addentro negli esempi
perché sono facilmente intuibili da tutti. Ora la domanda è: di fronte ai temi e al
prorompere delle questioni del moderno e del post-moderno questo concetto,
che stiamo insieme ancora, che ce la caviamo insieme, che ne usciamo insieme,
sapendo che non ci dobbiamo omologare, che non dobbiamo delegare a qualcun
altro la bacchetta magica per la risposta e che non dobbiamo in qualche misura
stemperarci in una realtà, quella del frullato a cui si faceva riferimento prima, la
194
domanda è: è ancora un modello valido? Bene, si deve aver la consapevolezza
che questo tema non è una questione neutra, perché significa in diversi aspetti
contrapporsi alle correnti culturali prevalenti, che fanno invece della
“verticalizzazione”, della omologazione, dell’individualismo gli elementi chiave su
cui si costruisce la nostra società. E quindi su questo evidentemente bisogna
sapere che le risposte non sono verticali, ma sono orizzontali. Il problema dei
suicidi in Valtellina, o nella mia valle, che si chiama Val di Vedro, che sta al
confine con la Svizzera, la battuta che si fa dalle nostre parti è: “Per abitare lì
bisogna per forza di cose essere vocati al suicidio!”, è capire che questi temi non
li risolverà qualcuno arrivando dall’alto con un colpo di bacchetta magica, ma li
risolverà una collettività che costruisce, come si diceva giustamente prima, che
affronta la realtà vera e non la nasconde. Per quanti decenni nelle nostre realtà
montane questi temi sono stati esclusi dalla dimensione della relazione
individuale e sociale perché attorno a questo c’era vergogna, abbandono,
ignoranza? sembrava quasi che avere un suicida in famiglia fosse una sorta di
maledizione divina. Innanzitutto il fatto che c’è la consapevolezza di affrontare il
problema e di affrontarlo insieme, credo sia un primo elemento importante
“orizzontale” e poi sapere che dentro questo sforzo la risposta istituzionale deve
essere una risposta che si costruisce con le caratteristiche di un dato territorio.
Io guarderei con sospetto se venisse qualcuno a spiegare che questi problemi si
risolvono allo stesso modo in Valtellina piuttosto che in Toscana piuttosto che
nelle Serre Calabre, lo vedrei con grande sospetto. C’è invece la necessità di
scavare dentro una collettività, per capire quali sono le difficoltà “endogene” di
quella realtà ed intervenire puntualmente, quasi con un lavoro da certosino
insomma. In fin dei conti i lavori più belli, fatti con pazienza, con tenacia, con
silenzio, sono quelli fatti con la consapevolezza che questi lavori funzionano
quando non ce ne si accorge che funzionano, quando non emergono all’impatto
quotidiano. Su questo cosa possono fare le istituzioni? E’ uno sforzo consistente
perché su questi temi la polverizzazione amministrativa, che in queste montagne
è uno degli elementi strutturali, e che Cattaneo già ci spiegava qualche secolo fa,
è uno degli elementi caratterizzanti di una identità. Io non credo sia un caso che
se mettiamo insieme le montagne della Lombardia e del Piemonte, facciamo la
metà dei comuni montani d’Italia, o giù di lì. Il problema è come mettere a
fattore positivo questo dato ed evitare che questa polverizzazione amministrativa
sia invece un meccanismo che inceppa il sistema. Perché spesso il Sindaco,
laddove non esiste più neanche il prete, fa anche da Confessore, e nelle sue
azioni da confessione, se è capace e comprende, magari si rende conto anche di
una situazione di disagio, ma poi si guarda attorno e si rende conto che non può
confidarsi con un Segretario Comunale, che c’è un pomeriggio la settimana, o
con un impiegato che è lì che fa il protocollo e poco più, e quindi deve scattare “il
meccanismo della rete”, della “coesione istituzionale”, della capacità di stare
dentro un meccanismo di integrazione che sappia declinare, un concetto che
credo sia l’elemento chiave di questo aspetto, e cioè “il tema della sussidiarietà”.
Io credo che noi dovremmo sempre di più abituarci a de-ideologizzare il
confronto su questi temi, a evitare che rispetto a queste questioni ci si attorcigli
attorno a problemi che poco hanno a che vedere con la risoluzione, ma spesso
hanno più a che vedere con la riproposizione di schemi spesso logorati, che di
volta in volta appaiono sul mercato della politica. Se noi mettiamo al centro il
tema della sussidiarietà verticale con quello della sussidiarietà orizzontale, e di
come ci può essere un mutuo contatto, una positiva osmosi, credo che abbiamo
195
iniziato un percorso corretto su questo aspetto. Le comunità intese come
soggetti sociali possono trovare in questo senso nelle istituzioni un livello che è
in grado di dare delle risposte adeguate. Il piccolo comune in questa prospettiva
può essere un soggetto di interfaccia, un primo elemento di confronto e di
rapporto. Il tema della costruzione di reti fra i Comuni, ecco il tema della
Comunità Montana, cioè un soggetto che integra le municipalità in rapporto con
una identità territoriale, può essere un tema che consente di svolgere quella
azione sinergica cui si faceva riferimento in precedenza. Del resto non vengo ad
inventare nulla, la Lombardia su questo aspetto da più di vent’anni, con la
delega affidata dalla Regione alle Comunità Montane sul sociale ha sperimentato
punte anche avanzate di carattere nazionale lungo questo versante, credo che ci
sia la possibilità di fare un passo in più rispetto a questi temi, e cioè sfruttare
positivamente il dibattito oggi presente nel Paese sul riassetto delle istituzioni e
sul dimensionamento delle medesime per costruire degli Enti Locali a misura di
territorio. A me piacerebbe, e su questo concludo, che questi temi e riflessioni
fossero alla base delle riflessioni che andranno a compiere i legislatori nei
prossimi mesi e nei prossimi anni sul riordino delle istituzioni, perché se così si
farà ci si renderà conto che lungo questo percorso non ci sarà più una legge
nazionale, con una istituzione nazionale, con un pensiero unico nazionale e con
un concetto statale che fa discendere dai rami la risoluzione dei problemi, ma
che finalmente inverte il meccanismo e fa nascere dal basso la capacità di dare
delle risposte, dando in questo senso piena attuazione a quei presupposti di
libertà cui si faceva riferimento in precedenza e che pure sono stati dentro le
esperienze migliori di queste valli.
Aldo Bonomi. Grazie. Ora la Provincia, il Comune, l’Azienda Sanitaria Locale, e
poi il Parlamento.
Rappresentante della Provincia. Per quanto riguarda la Provincia un
intervento telegrafico. Prima di tutto le Province si stanno interessando non
soltanto dei problemi sociali, com’è tradizione, ma anche si stanno affacciando al
mondo della sanità e quindi possono affrontare le tematiche come quelle odierne
a 360 gradi, dando evidentemente un contributo significativo e intervenendo su
richiesta degli altri Enti e del territorio. Poi io introdurrei un brevissimo inciso,
essendo io un medico anestesista rianimatore e avendo un passato significativo
in questo settore. Qui si è parlato molto di prevenzione, ricorderei anche l’opera
che viene svolta dai medici rianimatori nelle terapie intensive, strutture fredde,
tecnologiche e sulle ramificazioni territoriali, che sono la rete di emergenzaurgenza per salvare le vite. Basta che oggi una persona abbia un margine
minimo di vita perché i rianimatori riescano a costruire su di essa il recupero.
Grazie.
Alcide Molteni, Sindaco di Sondrio. L’approccio mio alla questione, non dico
che è il più corretto, però è utile. Lo sanno tutti che faccio il medico, anche se
non sono quel Medico-Sindaco cui ha fatto riferimento Aldo Bonomi, dotato di
scarsa sensibilità, stamattina ha detto che un medico di base nonché Sindaco ha
impedito di affiggere i manifesti, e tutti han detto: ”E’ l’Alcide, è l’Alcide!”. Non
sono io. Al di là di questa battuta, io credo che anche il lavoro che è stato
presentato, e ancora di più gli interventi di oggi in realtà pongono delle questioni
tante volte contrapposte e anche dicotomiche. Si diceva “Ma questa Valle non ha
196
una forte attività culturale, ne sento la mancanza”. Ebbene, riuscire a tenere qui
300 persone tutta la giornata costituisce una forte attività culturale, le
Associazioni ci sono. Mi ha molto colpito in realtà quanto ha detto Dotti,
affermare qui che i Piani di Zona sono un ottimo strumento credo che sia
assolutamente doveroso ed è anche utile segnalare che esistono i Piani di Zona
in cui i Comuni sono finalmente protagonisti del Welfare, che non è più tanto
statale, è un po’ più regionale e dovrebbe essere più locale. Quello che ha detto
in realtà è vero, ma questo Welfare sociale comunale oggettivamente manca di
quello che Dotti ha detto, manca del “protagonismo dei testi”. E quindi, visto che
da domani al Sindaco è richiesto di lavorare su questa questione dandole
un’impostazione diversa, credo doveroso, e solleciteremo anche la Regione,
affinchè questa autonomia istituzionale che gli Enti Locali hanno nella
preparazione dei Piani di Zona tenga conto del suggerimento che arriva dal
territorio. La presenza del terzo settore è diventata un’enunciazione
evidentemente, che però manca di alcuni elementi, credo che questo sia lo
sforzo che dobbiamo fare insieme da domani, perché oggettivamente mi si sono
aperti orizzonti diversi rispetto al mio concetto “Benissimo, abbiamo i Piani di
Zona”. Però dico anche che noi viviamo in questo territorio da molti anni, io
arrivo dalla Brianza, noi siamo “emblematici”, rappresentiamo il contrario di
quello che magari affermiamo il giorno prima, nello sviluppo del territorio, sul
sistema infrastrutturale, sul sistema sanitario,…, siamo capaci di uscire da una
Sala di Convegno per sottoscrivere lo Statuto proposto dalla S.E.V. su alcune
questioni che sono secondo me da condividere sullo sviluppo del nostro
territorio, sul sistema del nostro territorio, e il giorno dopo, anzi, il pomeriggio,
vedere che uno degli elementi cardine su cui si fondava quello Statuto condiviso
da tutti veniva sconfessato. Però è chiaro che noi rappresentiamo tra le tante
realtà anche una realtà che non ha ancora definito nel suo contesto un progetto,
che deve essere oggi ancora più affinato. Perché nel confronto del Federalismo
Istituzionale è assolutamente necessario che ci si raffronti con il soggetto a cui si
chiede l’intervento sussidiario con un progetto condiviso. La sussidiarietà è
questa, non è una sussidiarietà dall’alto che impone criteri sui Piani di Zona, che
impone criteri sui servizi che gli Enti Locali sono chiamati a dare ai cittadini, in
realtà è il contrario. E l’ultima questione è questa, che non è una questione
politica. Avverto come Sindaco alcune questioni che sono state sollevate, l’essere
visto, mi si permetta questo termine, come il Principe al quale ogni singolo
individuo si deve rapportare per chiedere un beneficio o un diritto; credo che sia
una cosa da eliminare e il primo che deve farlo è il Principe, che deve dire al
cittadino: “Non sono, e non devi essere tu un interlocutore-individuo che si
rapporta col Principe di turno, ma devi essere colui il quale assieme ad altri pone
questioni al Principe perché questo ne diventi il soggetto che li coordina”. C’è un
po’ di sudditanza, io credo che però questa sia anche una questione di comodo,
perché: “Io ho diritto di avere questo!” e non voglio citare frasi celebri, che avrei
difficoltà a ricordare perfettamente nelle parole, ma è utile che il cittadino si
chieda: “Cosa posso fare io per la comunità in cui vivo?” Per fortuna questo
quadro, che apparentemente io ho rappresentato così negativo, invece vede una
serie di Associazioni, di mondo del volontariato, di impegno, che in realtà
sconfessano questa mia affermazione, quindi vuol dire che la nostra comunità,
come più volte richiamato, ha al suo interno una serie di testi che hanno già
scelto di stare insieme con i quali bisogna fare lavoro di coordinamento, e c’è
una gran parte di individui che non sono nella comunità e che attendono anche
197
una comunicazione, che affermano delle volte concetti che assolutamente non
conoscono e molte volte per sentito dire. “A Sondrio manca questo” E dico:
“Scusa, guarda che io ieri sera ho dovuto andare a tre iniziative”. Oggi c’erano
tre iniziative a Sondrio, domani ce ne sono almeno due. E credo che questo
elemento di comunicazione avvenga attraverso tutte le Radio, le TV, e poi la
gente non legge, non guarda i giornali, guarda probabilmente qualche titolo, e se
il titolo in genere non corrisponde poi all’articolo diventa un elemento fuorviante,
i manifesti ormai sono talmente tanti e la gente non li guarda, evidentemente “la
possibilità di comunicare con la tua Comunità avviene solamente attraverso una
partecipazione”. Certo che i modelli che ti portano a dire: “Cerca di realizzarti nel
modo più veloce, i tuoi obiettivi sono fuori della tua comunità, ci sono modelli
che vengono rappresentati ben oltre la tua comunità”, come se la tua comunità
fosse qualche elemento così poco significativo, insomma il Grande Fratello non
ce l’hai nella tua comunità, ce l’hai molto lontano. E’ chiaro che di fronte a
questo segnale, a questo indirizzo così lontano, probabilmente coloro i quali
hanno qualche strumento in meno rispetto agli altri si racchiudono ulteriormente
e scelgono gesti eclatanti come quelli di cui si è discusso molto oggi. Quindi sono
tante questioni che non sono mai risolte, bene diceva Dotti: “abbiamo discusso
oggi, ma domani mattina per il Sindaco e per la comunità c’è un nuovo
problema, che tu non hai neanche affrontato, che devi affrontare e non hai più
tempo per organizzarti sulle grandi questioni”. Insomma, quando si faceva la
pianificazione nell’arco di anni, domani mattina c’è una questione che è nuova,
non pensavamo esistesse, ce ne sono già tante che sono emergenze, che sono
difficoltà, io credo che l’Ente Locale debba avere la possibilità assieme ai
cittadini, a me non piace che il cittadino arriva: “Siccome ti ho votato pensec ti”.
Questo sistema di delega credo che sia una questione di comodo. Sì, anche il
modo di dare responsabilità a figure che magari vengono individuate come
“capaci”, ma non è questa la questione. Io credo che il voto debba essere
accompagnato con una partecipazione più diretta, e questa partecipazione
diretta diventa un segnale. Io nell’intervista ho espresso “c’è indifferenza”, “c’è
noia”, oggettivamente quei soggetti che hanno indifferenza, che hanno noia
presentano problemi, però dall’altra parte mi si dice: “Studia tanto” e poi leggo
che Pavese ha studiato e letto tanto, e ha combinato anche lui quello di cui
stiamo discutendo, questo secondo me non è per concludere, o anzi è per
concludere, evidentemente la soluzione non c’è neanche in questa questione.
Bisogna evidentemente dare una mano al Sindaco per le poche competenze che
ha, per la grande ignoranza che ogni volta riesce a dimostrare, ha bisogno del
lavoro degli altri e credo che la Sala e altre occasioni siano l’espressione migliore
per dare fiducia alla comunità intera.
Aldo Bonomi. Grazie Sindaco. Devo dire che io stamattina ho iniziato il mio
intervento con una battuta e tutti quanti avete pensato che era il Sindaco di
Sondrio che corrispondeva allo stereotipo che vi avevo detto. No, non era il
Sindaco di Sondrio, non vi dico chi è il Sindaco che non ha appeso i manifesti,
ma comunque non è il Sindaco di Sondrio, anche se corrispondeva, perché è un
medico di base, Sindaco, etc. Detto questo, prima di dare la parola a Della
Vedova e poi dopo arriviamo alle funzioni di quelle che Weber diceva ”le
burocrazie”, io faccio solo una constatazione. Oggi qui abbiamo discusso della
“crisi del soggetto”, “crisi dell’io”, abbiamo discusso della “crisi della società”, io
credo che con questa tavola rotonda abbiamo a che fare anche con “la crisi della
198
politica” nelle sue varie forme. Io credo che il passaggio epocale che dobbiamo
fare è che le tre fenomenologie che esaminiamo devono ricominciare a “fare
racconto”, poi ognuno di noi ha le sue interpretazioni rispetto a questo, c’è
bisogno di “un racconto dell’io malato” o “dell’io col disagio”, c’è bisogno di un
racconto sociale che oggi abbiamo sentito “con la crisi”, anche di quelle che
erano le rappresentanze. Abbiamo parlato di crisi del Sindacato, crisi delle forme
di rappresentanza degli interessi, crisi delle istituzioni,…Oggi abbiamo
incominciato a raccontarci. Questa crisi riguarda anche ovviamente il
Parlamento, la statualità e la politica, che rimanda alla dimensione dello Stato, e
soprattutto, più che dello Stato, del meccanismo legislativo. Della Vedova è, mi
par di capire, l’unico parlamentare che c’è rimasto dal punto di vista della
comunità di origine, non dal punto di vista delle elezioni, perché lui è stato eletto
a Torino, quindi con la Valtellina non c’è radicamento nè appartenenza dal punto
di vista politico, ma questo rimanda al sistema elettorale, di cui dovremo
discutere. Però come valtellinese, lo ringrazio di essere qua e gli chiedo l’ultimo
intervento politico, mentre invece dalla burocrazia, che non è un termine
negativo perché Max Weber diceva che la burocrazia è l’anima della politica,
voglio un ultimo giudizio, cioè se l’Azienda Sanitaria Locale questa capacità e
questa effervescenza sociale che oggi si è manifestata la vede con buon occhio
oppure no, la domanda è chiara. Quindi, prego Della Vedova di intervenire, poi a
lei la conclusione.
On. Benedetto Della Vedova. Naturalmente ringrazio molto Aldo Bonomi per
l’occasione che mi dà e la Caritas per il lavoro che è stato fatto, splendido. Io ho
una certa dimestichezza a parlare anche in pubblico in qualsiasi sede,
caratteristica dei politici, poi, in qualche misura, di sapere sempre quello che c’è
da dire e quello che va detto. Oggi onestamente no, non riesco a dare un
contributo, o a trovare una chiave politica, perché mi sono letto, anche se
velocemente, la ricerca, i dati iniziali e anche la parte di approfondimento, con le
testimonianze dei parroci, dei presidi, degli insegnanti, etc., e parto da due
riferimenti diciamo autobiografici, che mi servono, nella brevità dell’intervento,
per fare qualche considerazione. La prima: siamo sotto le insegne del SolCo, di
cui io, senza merito, sono stato uno tra i fondatori, e poi presidente vent’anni fa
di una delle prime Cooperative Sociali, che era la Cooperativa Il Prisma di Tirano,
che poi da quando me ne sono andato io è diventata una cosa molto più seria di
quella iniziale, e poi assieme alle altre Cooperative che già c’erano avevamo
fondato il SolCo. Dico quello che penso, poi sta al sociologo tirare le fila, pensavo
alla realtà di Tirano, e obiettivamente adesso c’è Ercole Piani che è intervenuto
prima e che la conosce meglio di me nell’attualità, però mettevo in fila le sigle
delle Associazioni e Organizzazioni e allora c’è: la realtà delle Cooperative, ma
poi la parrocchia, il CAI, l’oratorio che poi ha le sue diramazioni, per cui c’è
un’Associazione Mato Grosso a Tirano, che è importante e che aggrega un sacco
di gente, poi c’è, o c’era, la Croce Rossa, che era un altro elemento di
aggregazione, ci sono le società sportive, calcio, basket….E poi il coro, c’è una
banda, c’è lo sci club, insomma, quindi avendo vissuto e vivendo poi altre realtà,
io ho vissuto per tanti anni a Milano e adesso di fatto vivo a Roma, se uno mette
in fila questa trama di associazioni sui vari interessi deduce che sicuramente non
è quello che manca il problema, cioè “questa è una realtà che c’è”, poi insomma,
tante cose piccole per di più in un comune di soli 10.000 abitanti.. Un secondo
elemento che volevo introdurre è questo. La mia esperienza diretta coi suicidi
199
valtellinesi io ce l’ho negli anni ’70, mi ricordo un ragazzo che giocava bene a
calcio, di qualità, di sensibilità umane, che aveva qualche anno più di me,
studiava, frequentava l’Università, si tolse la vita, insomma. Poi invece un mio
coetaneo, pochi anni dopo, si tolse la vita a grossomodo 18 anni, una cosa che ci
aveva lasciato basiti, inspiegabile, almeno apparentemente, per quello che lo
potevamo conoscere. Perché dico questo? Perché io non so se negli anni ’70 il
fenomeno aveva questa dimensione rapportato al resto del Paese. In Svizzera,
se noi siamo il doppio della media nazionale italiana, nei Grigioni sono addirittura
il triplo, perché sono 22 ogni 100.000 abitanti. Dico questo perché secondo me
bisogna stare attenti, quando parliamo della comunità e delle relazioni, a leggere
la realtà attuale con la chiave del rimpianto, perché io non credo che ci serva,
non ci serve cioè rimpiangere un’ “età dell’oro” della coesione sociale e della
comunità solidale, io non credo che ci serva nemmeno dire che siccome il dato
sembra declinante il problema si risolverà da solo. Poi io non sono un medico,
non sono un sociologo, da tanti anni faccio un mestiere per cui incontro campioni
selezionati di gente e quando incontro altre persone è per un incontro fugace;
siccome noi dobbiamo guardare al futuro, io non credo che abbiamo alle spalle
un passato migliore, e probabilmente sul tema specifico io ho due ricordi degli
Anni ’70, magari erano gli unici, o erano molto meno, io non credo che l’identità
della comunità vada ricostruita su quella del passato, anche perché il rischio è
che la chiave identitaria finisca per essere una chiave che esclude al margine,
esclude i diversi, come aspirazione, come modo di vivere, etc., dalla comunità.
Perché io prima citavo questa ricchezza di esperienze associative a Tirano?
Perché è chiaro che una quantità così significativa di realtà e di esperienze
associative è come una rete con le maglie abbastanza strette, per cui è facile che
le persone si ritrovino. Però io credo che un dato così generale, che investe
anche la politica, riguardi questo, cioè di non dare il messaggio, che invece
spesso si dà, che la nostra prospettiva sia il passato, sia recuperare identità, reti
sociali, etc. Rispetto al tema specifico i dati ci dimostrano che non è così, perché
tutti i fenomeni di disgregazione che vediamo oggi, all’inizio degli anni ’80
sicuramente non c’erano in quella dimensione, eppure il problema era lì. Per cui
non vuol dire che quello che voi avete affrontato oggi non sia un tema forte, di
richiamo per la politica a tutti i livelli però, e poi vado a chiudere, credo che la
nostra prospettiva debba essere non sradicata dal passato, che sarebbe una
fesseria, ma debba essere una prospettiva che guarda avanti, che guarda alle
nuove dimensioni della comunità, della vita sociale. Questo vale a livello
generale normativo, ma vale molto anche a livello di Regione e di Comune;
sicuramente su questo bisogna investire per il futuro perché può essere una
straordinaria opportunità di relazioni e anche per chi magari non riesce a trovare
il proprio spazio, quello può essere uno strumento straordinario per avere
relazioni, etc.; ma su questo secondo me bisogna investire in termini di
educazione, di conoscenza, perché credo che in prospettiva, poi potrà sempre
cambiare tutto e se noi stiamo a quello che sta succedendo oggi ai ragazzini, e
non solo ai ragazzini,…. E’ chiaro che quella è una dimensione che ci deve
occupare, e in parte anche preoccupare, ma è uno strumento, una dimensione
su cui bisogna investire anche in termini educativi. E poi, e chiudo, io penso ci
siano esperienze interessanti anche dal punto di vista della normativa. Questa
cosa che ha tirato fuori il nostro conterraneo Tremonti del 5 per Mille per
esempio, sia nello specifico dello strumento una cosa da coltivare, cioè l’idea che
noi siamo direttamente investiti della destinazione di una quota minima di risorse
200
fiscali da devolvere ad Associazioni, ricerca, etc., questo è anche un senso di
responsabilizzazione che andrebbe recuperato molto: Poi ognuno fa le scelte che
crede, può appoggiare le cause mondiali, ma può anche appoggiare, far crescere
e finanziare le realtà locali. E poi su questo io sono molto d’accordo con le cose
che sono state dette prima, la questione va molto de-ideologizzata e depoliticizzata, con l’unica postilla che facevo all’inizio, perché se poi la politica
cavalca la retorica dei tempi passati, della ricostruzione di un’identità chiusa, il
rischio è che sempre più lasciamo fuori persone. Però, ed è corretto, credo che
l’ultima parola spetti a chi sta sul campo, perché è vero quello che veniva detto
prima, che ASL e i servizi sanitari non possono occuparsi di tutto, ma è chiaro
che a loro vanno dati strumenti, responsabilità, autonomia dalla politica, perché
poi alla fine loro restano e noi passiamo, sia sul dato soggettivo e individuale,
che rispetto alla questione dei suicidi. Ogni storia è una storia a sé, stiamo
attenti a non pensare che il 100% delle responsabilità siano della società, ci sono
percorsi individuali da seguire e i segni possono essere premonitori. Questo è un
insegnamento sul lavorare giorno per giorno, senza guardare al passato, senza
pensare che abbiamo da ricostruire, ma abbiamo, questo sì, molto da costruire
in termini di relazioni, di libertà di espressione a tutti i livelli delle persone; su
questo credo che sia giusto che l’ultima parola vada a chi poi sta sul campo,
lavora e noi abbiamo innanzitutto da ascoltare.
Aldo Bonomi. Grazie Benedetto. Io sono totalmente d’accordo che il problema
dal punto di vista della politica è “evitare la nostalgia, i populismi, le retoriche”,
ma questa è una questione che riguarda più te. Ed è la questione aperta, anche
in questa valle per essere chiari, poi dopo ne discuteremo, non è qui il luogo
dove discuterne ovviamente, però questa è la mia posizione. Prego.
Giuseppina Ardemagni, Azienda Sanitaria Locale. Buonasera. Dopo questa
presentazione di un’ASL che è burocratica, pur con tutta la positività di questa
nota, mi viene da dire che l’ASL è piuttosto un’azienda che fa programmazione e
controllo e che ha nella propria mission di agire sulla prevenzione e sulla
promozione della salute. La prevenzione intesa come “sensore” all’interno del
territorio delle problematiche emergenti, e quindi poi dello sforzo di rielaborarle e
di riproporle in modo da poterle per lo meno controllare, guidare e coordinare.
L’ASL sul tema della salute mentale sta lavorando da parecchio tempo su
mandato della Regione anche in maniera coordinata con le strutture sociali, col
privato sociale, con le Cooperative, con le Associazioni dei familiari, con le
Associazioni dei pazienti e con gli Uffici di Piano, sia nell’ambito della psichiatria
“adulta”, dell’uomo adulto, sia da quest’anno anche per quanto riguarda “l’età
evolutiva” cosìddetta, quindi sui bambini e sui ragazzi. Lavoro da fare ce n’è
sicuramente molto, però anche lavoro fatto ce n’è molto, voglio parlare di cose
concrete che sono state fatte da questa ASL, che è radicata sul territorio, perché
è fatta per la gran parte da dipendenti che sono abitanti di questa valle, della
Valtellina e della Valchiavenna, non è fatta per la gran parte da persone che
vengono da fuori, e quindi. In quanto abitanti della valle, lavorano per i loro
concittadini, seguendo ovviamente il Mandato e i percorsi regionali. Penso a quel
lavoro che è stato fatto, e che continua ad essere fatto, per esempio sul
sostegno alla maternità e sul sostegno nella fase di allattamento. Voi sapete
come sono sconvolgenti, quando si parla di un suicidio, i suicidi soprattutto di
questa condizione e di queste situazioni e quindi credo che questo lavoro
201
importante, fatto in collaborazione con l’Azienda Ospedaliera per favorire
l’attaccamento tra la madre e il bambino e quindi poi l’amore e la relazione,
quello di cui si è parlato oggi, tra una madre e il figlio, sia l’avvio fondamentale
di una vita nuova che nasce e lo sviluppo della vita di una donna, della sua
famiglia, del suo compagno, degli altri suoi figli. In breve il dottor Ballantini
stamattina ha già presentato alcuni progetti anche preventivi sul tema del
disagio, della fatica a vivere, perché a volte il suicidio è anche questo. Proprio in
questo mese di settembre, noi presenteremo i dati sulle morti violente, quindi
anche su questo tipo di morte per suicidio, ai nostri medici di medicina generale,
quindi ai medici del territorio, perché insieme a loro vogliamo iniziare una
riflessione-prevenzione. Questo dato lo riprenderemo anche nella Conferenza
territoriale per la salute mentale che abbiamo già programmato per il 29
settembre, un’intera giornata in cui tratteremo questo tema, e ovviamente il
suicidio rientra, non sarà certo solo patologia psichiatrica, così non va trattato,
ma anche questo aspetto credo che vada approfondito e sviluppato, studiato.
Quindi, per concludere, mi sento di dire che l’ASL c’è su questo tema ed è
disponibile a confrontarsi con tutti, a lavorare con tutti per portare avanti questo
argomento. Mi sento di dire che anche l’Azienda Ospedaliera c’è, perché sta già
lavorando fattivamente su questo argomento in collaborazione con la rete di
solidarietà, che credo sia bene espressa da questo pubblico che a quest’ora è
ancora qui che ascolta. Io vi ringrazio per quest’opportunità e saluto tutti.
Dott.ssa Zanaboni, Amico Charlie. No, era meglio che a questo punto
intervenisse don Colmegna. Comunque io ringrazio don Colmegna, Aldo Bonomi
e tutti voi che siete qui ancora a quest’ora. Sarò molto veloce. Io ho seguito i
lavori del pomeriggio, ma ho avuto il tempo, stanotte, anche di leggere questo
studio, e devo dire che mi sono ritrovata molto nelle parole, non ho potuto
sentire stamattina il professor Eugenio Borgna, il quale da psichiatra afferma che
il suicidio non è soltanto un fatto psichiatrico, è anche un fatto psichiatrico ma
non solo. L’Amico Charlie è nato esattamente otto anni fa, io non sono psicologa,
non sono psichiatra e non sono un medico; sono una Grecista e dopo 37 anni di
insegnamento al Liceo Classico mi sono licenziata. Il Ministro mi ha chiamato per
dirmi se ero impazzita perché mi mancavano due anni al pensionamento data la
mia età, ma la mia famiglia era stata colpita nel profondo con la morte violenta
per suicidio di mio nipote, fra l’altro figlio unico, a sedici anni. Questo ragazzo a
sedici anni, senza che nessuno se ne accorgesse si è sparato. A questo punto è
stato il momento veramente della disperazione, in particolare per noi la sera
successiva alla morte di Charlie, si chiamava Carlo, Carlo Colombo, ma la
mamma aveva deciso che Carlo era un nome un po’ banale e allora era di moda
di più Charlie, ma comunque Carlo proprio alla maniera brianzola, noi siamo di
Milano, e la famiglia è una famiglia tutta di imprenditori, io no, ma la famiglia è
questo. Io proprio da me, vista la disperazione di suo padre, al quale io sono
legata da un rapporto fraterno, ho capito che a un imprenditore io non riuscivo a
toccare il cuore solo con le parole di una fede ritrovata in quel momento. Me lo
ricordo ancora scendere dall’ascensore con il rosario in mano e chiedermi, lui che
da tempo non andava in Chiesa: “Maria, dimmi le preghiere dei morti, perché
non me le ricordo più”. Non potevo toccare il suo cuore con altre parole, allora è
come se avessi avuto un’illuminazione, io così la definisco molto semplicemente,
e gli ho detto: “Facciamo qualcosa per i giovani” E lui ha risposto “Maria,
diciamolo a tutti che è morto per suicidio. Non fingiamo che sia morto per una
202
caduta in motorino”. Così siamo partiti “alla garibaldina”, però con la
consapevolezza di avere un sapere scientifico alle spalle che in questi anni è
cambiato. E’ cambiato perché oggi abbiamo istituito un’équipe multidisciplinare
con psichiatri, psicologi, tecnici della riabilitazione, ma anche con la presenza di
un pedagogista, perché al centro c’è proprio la persona, il volere per tutti i
ragazzi che non muoiono, un senso alla loro esistenza. E per coloro che invece ci
lasciano, ridare un senso all’esistenza dei loro familiari, amici, genitori. Quindi
siamo partiti e dico una parola, “fare”, questo fare sembrava non essere mai
sufficiente a colmare il dolore, perché coniugato a una forte passionalità, nel
vero senso etimologico della parola, al pathos, alla sofferenza che noi avevamo e
anche al desiderio profondo di tentare di aiutare gli altri. Ecco, allora tutto quello
che è stato detto oggi io lo condivido, crisi della società, crisi dei modelli, anche
se a questa parola io non do un significato in senso negativo, perché “crisi” è una
parola che in greco significa “momento acuto, che però si può superare”, e
questa è la nostra “bussola”, l’ago verso il quale noi ci muoviamo. Certo io vi
devo dire che oggi noi siamo presenti con il nostro Centro, siamo già venuti a
Sondrio due anni fa, abbiamo fatto anche formazione per la prevenzione, poi i
rapporti si sono un po’ sfilacciati anche per la lontananza. Siamo presenti in
Lombardia e la
Regione Lombardia ci ha accolto, accompagnato, ci ha
sostenuto; oggi abbiamo inaugurato la prima Grande Città dei Giovani,
all’interno della quale c’è anche una Sezione dedicata proprio al Suicidio, che si
chiama “Crisys Center”, servizio totalmente gratuito, tempestivo, collegato con
un’Azienda Ospedaliera della città, con un Protocollo della Regione Lombardia.
Quindi vedete che ripercorro molti dei temi che abbiamo trattato. Siamo presenti
in Sicilia, che è la seconda Regione italiana per tentati suicidi giovanili. Se in
Lombardia arriviamo a 20.000 tentati suicidi con Milano e Provincia che la fa da
padrona con 500 casi l’anno, la Sicilia viaggia sui 17.000. E poi il Veneto, che
viaggia sui 15.000, quindi sono numeri grandi e che vanno dichiarati, noi
l’abbiamo dichiarato anche al Ministro degli Interni, e c’è un dato, che vorrei dire
a voi e che mi sconvolge ogni giorno, “l’abbassamento dell’età”. Quando noi
abbiamo cominciato questo servizio gratuito, tempestivo, notte, giorno, sempre
presenti, anche negli Ospedali con il 118, 14-15 erano gli anni. L’ultimo che si è
ucciso, di cui ho avuto notizia, 9 anni, a Truccazzano, che è a 4 kilometri da
Melzo, 9 anni, 10 anni l’anno scorso, 11 anni, l’età si abbassa, e muoiono questi
bambini! Quello di 9 anni si è impiccato l’ultimo giorno di scuola. Io ho contatti
con la famiglia, con il Sindaco, con tutta la comunità. Questo è un dato che io
non ho sentito emergere, ma io ve lo pongo come un dato problematico. Ecco,
per il resto, noi lavoriamo con al centro la persona, nella filosofia della
sussidiarietà, facendo della prevenzione il punto di forza con degli specialisti che
non sono solo psichiatri, sono anche educatori e soprattutto io devo dire questo
da vecchia insegnante, “i veri malati siamo noi, i ragazzi sono sani” e a parte
alcune patologie particolari oggi in aumento, siamo noi adulti ad essere malati.
Io sono nella Commissione Nazionale del Disagio del Ministero della Pubblica
Istruzione, ma cosa fa la scuola? E lo dico col cuore, con la passione che ho
messo in 37 anni di insegnamento, la scuola non deve mai tacere di fronte al
minimo segnale e soprattutto genitori, insegnanti, educatori, i sacerdoti che
molte volte raccolgono anche nei loro colloqui il disagio dei ragazzi… Tutti noi
adulti abbiamo un compito fondamentale, quello di ascoltare, non banalizzare
mai e cominciare a dare regole di comportamento di cui i nostri ragazzi, i più
fragili soprattutto, anche quelli destinati magari proprio anche a delle scelte così
203
tragiche, hanno bisogno. Ci stanno chiedendo aiuto e ci chiedono soprattutto di
dare loro alcune regole, che vuol dire alcuni valori. Detto questo, ultimo e
chiudo, do la parola molto più saggia e sapiente certamente a Don Colmegna. La
solitudine, non possiamo rimanere soli, noi cerchiamo e vogliamo entrare in rete
con tutti, l’ho scritto anche più volte, basta tavoli, agiamo insieme, creiamo
sinergie. L’Officina dei Giovani, lo ricordava poco fa l’Assessore Boscagli, che è
un’operazione grandiosa in Regione Lombardia, io personalmente ho raccolto in
un anno 5 milioni di Euro e non so come ho fatto, evidentemente il Buon Dio ha
messo la mano sulla mia testa, per ristrutturare un’area di 12.000 metri quadri,
prima Città dei Giovani”, aperta anche a tutti gli adulti di riferimento, con
all’interno questo Centro, laterale, separato, che stiamo accreditando con l’ASL,
e poi con la Regione. Ecco, noi vorremmo che diventasse “un punto di
riferimento”, da cui partono o arrivano anche tante altre realtà ed esperienze,
non vogliamo l’orticello. Così come, mi rivolgo al Settore Profit, il settore
bancario, non solo le Fondazioni, aveva ragione Dotti, devono essere nostri
partner, perché loro rappresentano, insieme alle istituzioni, così come la Regione
Lombardia, la Regione Sicilia, la Regione Veneto, rappresentano la risorsa in più,
“il qualcosa in più”, che serve anche a loro, e che permette a questo punto
veramente di fare rete.
Don Virginio Colmegna, Casa della Carità. Anch’io ringrazio, e a quest’ora
sarebbe da suicidio continuare ad andare avanti a ragionare in termini concreti, e
quindi accenno solo alcuni “nodi”. L’altro giorno, proprio venerdì, ero a Ginevra,
all’Organizzazione Mondiale della Sanità con l’amico Benedetto Saraceno, era la
Giornata Mondiale del Suicidio. Ci ha dato i dati, evidentemente questo
fenomeno è un fenomeno in una dimensione globale, i numeri sono enormi,
stasera in Casa Carità mi arriva uno psichiatra che sta governando la psichiatria
in Cile, in tutte le sue situazioni soprattutto del “togliersi la vita” in età giovane,
che è evidentemente esplosiva in termini quantitativi: età giovane, differenza di
genere, soprattutto le donne, perché ad esempio in Cina la percentuale più
grande di suicidi è delle donne, anzi nelle donne la causa di mortalità è legata ai
suicidi. E questo fa intravedere come questa tematica del suicidio mette in moto
una serie di riflessioni in una società globale come la nostra; lo dico perché nelle
esperienze in Casa della Carità ho lì il Mondo. Ho lì Mohamed che è arrivato da
noi perché non si è suicidato solo perché il ramo si è rotto, e adesso è un
protagonista invece di un percorso serio, ho lì gente che ti butta addosso la sua
sofferenza, che non ha dei canali poi per riesploderla in una debolezza di
relazioni. Ma ho lì alcuni interrogativi che ritornano a noi, nel senso che “il
suicidio ha il volto della normalità”, come il tema del consumo, della distruzione,
dell’alcol, dell’abuso di sostanze, sta prendendo insomma il volto della normalità,
quindi “riguarda la nostra condizione del vivere urbano, e del vivere anche a tutti
i livelli”. E quindi ben venga affrontare questo tipo di fenomeno, e ben venga
tutta una riflessione complessiva che va fatta. Non è questo il momento, ma
credo che si tratti di un fenomeno differenziato: nelle zone montane, l’Assessore
Salvadori ne parlava, per la mia esperienza che sto facendo anche lì in
Maremma, evidentemente, c’è il tema della solitudine, dell’abbandono, di un
cambiamento strutturale. A me che sono cittadino, venire su queste valli vuol
dire respirare, e finalmente ho la solitudine che cerco. Quelli che invece sono qui
dicono: “Vigliacca solitudine, non ne posso più!”. E allora “c’è un problema di
comunicazione, di orientamento, di diversità, che entra dentro anche a tutti i
204
livelli”. C’è “un problema di comunicazione”, lo accennava Della Vedova, ma
credo che in una società globale come la nostra c’è un cambiamento profondo
della soggettività di tutti. Il globale, il Facebook, la comunicazione virtuale entra
dentro a tutti i livelli, con una debolezza rispetto al tema della fisicità, della
corporeità, dell’irrilevanza anche della propria identità anche molto forte. Io non
faccio quello che dice che va distrutto tutto quello che c’è, dico che bisogna
aumentare la capacità critica per vedere come ridare alla soggettività una
capacità di relazione e di comunicazione. Questa credo che sia una riflessione
educativa anche molto forte. Uno dei temi che abbiamo è che siamo “limitati”: il
delirio, l’inconscio di onnipotenza che circola in una soggettività che vuole
conquistare il mondo, sostanzialmente entra dentro, spacca e dilania. Uno si
scontra dentro di sé sul tema del limite, e il limite è uno degli elementi molto
forti, che va consegnato come risorsa, il limite complessivamente, anche nella
propria avventura individuale nelle dimensioni anche territoriali e nelle
dimensioni politiche più grandi. Fare i conti col limite è evidentemente uno degli
elementi che non deve far paura. Un altro tipo di riflessione certamente è “la
paura”, il tasso di utilizzo degli ansiolitici è certamente uno dei tassi più alti e noi
stiamo chimicizzando anche la paura. Sull’abuso di sostanze, poi, credo vada
fatta una riflessione non moralistica perché fa intravedere anche “il vuoto”.
Penso all’abuso di alcol, agli incidenti automobilistici col consumo di sostanze, di
alcol e altro, non solo del sabato sera normalmente, che è evidentemente
un’altra ventata di distruzione della vita, o di irrilevanza della vita (non sono
suicidi in senso stretto). Allora di fronte a questi fenomeni, o di fronte a queste
realtà, che si collocano in situazioni diverse, ritorna fortemente “il tema dei
mondi vitali”. Io sono convinto che non è un problema di fare i “laudoratores
tempores acti”, ai miei tempi sì, però di fatto “il rivitalizzare i mondi vitali”, come
si lavora, come si sviluppa una relazione, diventa ancor più fondamentale.
Chiamatelo famiglia, chiamatelo mondo vitale, chiamatelo comunità locale,
chiamatelo condominio non di estranei, questo è uno degli elementi
fondamentali. Per noi che siamo in Casa della Carità, ho lì persone di 80
nazionalità diverse, abbiamo lì un piccolo mondo, prevalentemente giovani
stranieri e prevalentemente giovani con una laurea, perché l’immagine dello
straniero identificato col povero è un’immagine usurata e sostanzialmente
sbagliata, abbiamo invece giovani con una domanda di futuro, di relazioni, di
mondo, magari con le incrostazioni dell’apparenza, ma tutto questo c’è. Queste
cose hanno bisogno di capacità culturali nuove, di un intervento con una grande
domanda, e questa riflessione che voi fate pone una serie di interrogativi, cioè il
silenzio,
la
domanda,
l’inquietudine
non
vanno
tradotti
soltanto
sociologicamente, vanno invece attraversati per capire come fare a comunicare e
come fare a riottenere risposte possibili e mantenere la pazienza del limite.
L’Assessore parlava prima di consorzi di egoismi; è chiaro che qualche volta
l’illimitata vertenzialità legata al tema prestazionistico per noi è diventato uno
degli elementi fondamentali nel sistema socio-sanitario. Tutto deve essere una
prestazione che va richiesta, per cui se il vicino di casa ha bisogno di fare la
spesa, esaspero, si va in Comune a chiedere il servizio di assistenza domiciliare.
La dimensione dell’“informale”, che butta dentro il senso della risorsa di relazioni
si abbassa. Lo dico perché il confronto che stiamo facendo nel network mondiale
sul tema delle metropoli mostra un abbassamento dell’informalità (si tenga
presente che il 50% della popolazione mondiale andrà ad abitare nelle metropoli)
e allora stiamo vedendo proprio con Saraceno tutto quello che sta succedendo
205
sul tema della salute mentale e della sofferenza urbana nelle grandi città. San
Paolo ha uno psichiatra per 25 milioni di abitanti, che certo ha tutte le
articolazioni, mette dentro una risposta evidentemente sociale di relazioni, di
invenzione sociale, che non è la prestazione singola, è l’animazione, la cura,
anche una capacità di inventiva che va ricondotta in una cultura di
accreditamento che abbiamo portato anche molto forte, dentro la capacità di
sperimentare. Noi abbiamo una paura di contenere il disagio, cioè una paura di
renderlo ancora chiuso; non è vero che il processo di de-istituzionalizzazione è
passato culturalmente, adesso abbiamo piccole realtà che contengono
sostanzialmente, abbiamo da fare i conti con le risorse economiche che
scarseggiano, abbiamo bisogno di rivedere continuamente le risposte, abbiamo
bisogno di integrare fortemente sociale e sanitario, con una prospettiva anche
ideale e etica, che sta dentro in questo bisogno di confronto e abbiamo bisogno,
anche qui, di abbassare l’aggressività come elemento decisivo. Che non vuol dire
abbassare il conflitto, vuol dire semmai sapere che ci sono i conflitti, quindi
gestirli e saperli gestire continuamente, questo senza identificare la propria
identità perché compare un nemico o un capro espiatorio, perché attorno a te c’è
il vuoto. Il vuoto esistenziale è “la malattia di esistere”, voi pensate un fenomeno
come “l’anoressia”, che ha dentro evidentemente un’invasione di messaggi a
tutti i livelli. Allora, abbiamo bisogno di riprendere i processi educativi, i processi
relazionali forti, il gusto della partecipazione. Noi, e chiudo su questo, a Milano
anche con Aldo e così via, ci stiamo interrogando sulla Casa della Carità, perché
il Cardinal Martini quando la volle disse: “Voglio un luogo dove sostanzialmente
ospitando le persone gratuitamente, senza volto, senza storia, quelli che
capitano, italiani, stranieri, donne, rom, ma che diventi un laboratorio di cultura,
di orientamento e di sguardo sulla città per superare l’assistenzialismo, il
pietismo, quello che si chiama buonismo, che ha accompagnato molto una serie
di attività di carattere assistenziale”. Tanto è vero che stiamo pensando per il
quinquennio insieme di porre una serie di domande a tutti, nei luoghi classici di
una istituzione, che sono il carcere, il tribunale, l’Assolombarda, le forze sociali, il
Policlinico, noi stessi e alcune domande per dire: ”Possiamo ragionare insieme
giovani, operatori sanitari, specialisti?”, perché gli specialismi sono importanti,
ma noi abbiamo bisogno sostanzialmente di riunificare. La nostra psichiatra ha
usato spesso una cosa che è uscita anche su Communitas, “rischiamo di essere
flipper”, che tradotto significa che oggi c’è un caso di questi, che “ rimbalza”: è
andato al CPS, aveva il 40% di disabilità, han detto: “Non è un caso mio, è un
caso sociale!” Siamo andati dall’Assistente Sociale che ha detto: “No, questo ha
una valenza psichiatrica, è del CPS”, gira e rigira, poi ci mancava che avesse la
sieropositività, doveva andare al SERT, e si gira continuamente: insomma, la
sofferenza che hanno è stata così tanto “parcellizzata” che ha bisogno di un
servizio che lo separa dall’altro. Non manca culturalmente perché nella Regione
Lombardia per correttezza questo c’è, va ritradotto con una forza nuova di porre
al centro la persona complessivamente, “qui abbiamo bisogno di innovare”, io lo
dico sempre, lo dico anche qui, lo dico anche al terzo settore, lo diceva Johnny
Dotti, il grande errore anche del terzo settore è stato quello comunque di aver
tradotto la sussidiarietà solamente in un elemento gestionale. In questo
momento si va a gestire servizi, noi abbiamo bisogno sostanzialmente di fare
quell’aspetto di innovazione, di inventiva, di sperimentazione che poi ha le
esigenze di tradursi in servizio, ma anche di rivitalizzare l’informale. Questo
serve anche in queste zone perché se si aumenta la partecipazione si trattiene
206
anche un po’ il gusto di vivere, è chiaro che anche qui, e chiudo, è inevitabile che
di fronte a un fenomeno come questo, si ritorna alle domande sul senso del
vivere e sul tema della morte, che non può diventare solo uno spettacolo, una
rimozione, ma è un dramma, un interrogativo, un’inquietudine che sta dentro
ognuno di noi. Lo affronta il credente come il non credente, il non credente che è
dentro di me si interroga su certi fenomeni dicendo: “Dio dove sei?”, ma questa
domanda esistenziale va ricomposta in un periodo dove addirittura la religione
qualche volta viene utilizzata come armamentario utile per altri progetti, vi è una
domanda radicale in questo, che senso ha vivere e come facciamo i conti col
limite che abbiamo. A questa domanda non sa risponde nessuno, ma è una
domanda che sta dentro di noi e non la possiamo allontanare.
Aldo Bonomi. Grazie a tutti. Io finisco dicendo che ci rivediamo il 19-20-21
novembre a Milano alla “Tre Giorni del Sociale” organizzata dalla Casa della
Carità. Grazie.
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