La danza - Nova Humanitas
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La danza - Nova Humanitas
In scena…passo dopo passo 1. <<C’è chi dice che la danza sia antica quanto il mondo: gli ebrei danzarono dopo il passaggio del mar Rosso e attorno al vitello d’oro; Socrate danza ancora in tarda età; i soldati spartani danzavano all’assalto, ritmando passi di danza sul battito di scudi>>: così Fertiault, in un suo saggio , riconosceva l’universalità della danza come suprema –ed insieme indefinita- forma espressiva, indicandone, attraverso esempi significativi, quelle che saranno le funzioni e le occasioni specifiche presso i diversi popoli e le rispettive civiltà. Ma per comprendere il ruolo della danza occorre partire da un passato più lontano, dalle radici remote della storia dell’umanità. Forme organizzate di danza si rinvengono, difatti, già presso popoli primitivi, legate a occasioni probabilmente sacrali: a suggerirlo le figure elementari di passi e movenze secondo schemi lineari o circolari, al pari della disposizione dei danzatori intorno a pietre sacre, intese come templi ed altari. A uno stadio più avanzato, i movimenti, i passi, perdettero a poco a poco la loro funzione "imitativa", divenendo più composti e ordinati: dal primitivo cerchio si passò alla fila, alla serpentina, alla spirale, ai gruppi di tre, alla coppia e alle esibizioni singole. Lo schema circolare, già presente nel paleolitico, costituì probabilmente il precedente di quella che più tardi, già in epoca ellenica, si affermerà col nome di “carola”; quello lineare, più recente ed aperto a rielaborazioni, si impose, col tempo, in occasioni di sacre o profane celebrazioni. Al Paleolitico risalgono, altresì, le danze astrali, di fertilità, falliche e funebri; a epoche più tarde e prevalentemente al neolitico danze profane di corteggiamento, del fuoco, guerriere e del ventre. Generi e sottogeneri che vedranno una contemporanea fioritura nelle diverse civiltà storiche che si andranno ad esaminare. EGITTO 2. Nell'Antico Egitto la danza fu un'attività tanto rituale quanto celebrativa, o semplicemente ludica, che accompagnava banchetti, feste e cerimonie religiose. Le prime testimonianze di danza risalgono al Periodo Predinastico (VI-IV millenio a.C.): si tratta di vasi con figure femminili con le braccia alzate sopra la testa, e statuine in terracotta nella medesima posizione. Per i periodi successivi numerose scene di danza, maschile e femminile, vengono raffigurate sulle pareti delle tombe. Particolarmente frequenti sono le rappresentazioni di danzatrici: il più delle volte sono raffigurate ragazze che danzano a coppie o in gruppo, compiendo movimenti delle gambe con il busto piegato in avanti e la testa inclinata. In numerose raffigurazioni le danzatrici compiono movimenti acrobatici e ginnici. In un "ostrakon" del Nuovo Regno (1543-1069 a.C.) conservato al Museo Egizio di Torino è ritratta una giovane che si flette all'indietro toccando il suolo con la punta delle dita, mentre nelle raffigurazione della tomba di Kheti, a Beni Hasan, un gruppo di fanciulle svolge una serie di salti e capriole. A ravvivare il ritmo, era di solito il battito di mani; corone di giunco, pesi oscillanti attaccati alle trecce esaltavano le armoniose movenze di flessuose danzatrici, nude o coperte da abiti succinti (a volte trasparenti) con nastri e catenelle avvolte intorno al ventre. Figurazioni acrobatiche egiziane, espressività indiana, visione morale cinese influenzarono a pari titolo, già alla fine del II millennio a.C., l’arte rappresentativa europea, dando vita così alla danza teatrale. Con canti di guerra (pirriche), ma, soprattutto, con danze in cerchio (cicliche) si accompagnavano le varie forme della lirica corale, mentre in quadrato (tetragonali) si cantavano, in Grecia, gli intermezzi della tragedia (stasimi) e della commedia. LA DANZA GRECA 3.1 Un nesso indissolubile legò la lirica, dunque la magia della parola e del suono, all’armonia e all’espressività di gesti e movimenti, tanto che i poeti greci che recitavano o cantavano i loro versi danzando furono chiamati "danzatori"1. Pindaro, del resto, definisce “danzatore”lo stesso Apollo e Forme di danza, seppure non codificate, sono attestate indirettamente da racconti mitologici e storici. Tra i primi, la storia delle figlie di Preto, che divennero folli e salirono sui monti, abbandonandosi con altre donne a danze frenetiche. Tra i secondi,la testimonianza di Aristosseno di Taranto (IV sec. a. C.), secondo cui alcune donne, tra Locri e Crotone, colte da un impeto di follia, corsero fuori dalla città senza che nessuno potesse trattenerle. Solo più tardi 1 Omero narra nell'Iliade2 che Vulcano, il divino zoppo, cesellò sullo scudo di Achille una danza simile a quella che Dedalo aveva inventato per Arianna. Vi erano rappresentati delle fanciulle e dei giovani intrecciati in un passo cadenzato, a imitazione del moto circolare di una ruota. Le fanciulle, coperte con un velo leggerissimo, e i giovani, lucenti per l'olio di cui si erano cosparsi, vestivano una tunica e portavano la spada con l'impugnatura d'oro e pendagli d'argento. Mitologia a parte, attestazioni sulla danza e del suo ruolo in Grecia ci vengono sia da storici e trattatisti sia dagli stessi poeti lirici. Platone parla della danza nelle Leggi e nella Repubblica (IV sec. a.c.) e ritiene che abbia origine dal desiderio spontaneo del corpo dei giovani di muoversi; istinto tipico degli animali, ma che solo nell’uomo assume una forma ordinata e consapevole, grazie al ritmo e all’armonia. Il filosofo distingue, infatti, tra danze “buone” e “cattive”: le prime sono le danze armoniose, severe e gravi, che hanno come loro fine la bellezza e la bontà (ciò che è buono è anche bello); le seconde sono danze deformi e indecenti, che imitano il brutto e il ridicolo.3 Analogamente per Luciano da Samosata, autore di un trattato su questa disciplina, la danza non entrò a far parte dei giochi olimpici solo perchè i Greci temevano di non trovare premi degni di essa. Lo stesso attribuisce la sua origine all’intento di imitare i moti armoniosi degli astri e dei corpi celesti. Essa è, dunque, un dono delle divinità perché il kosmos, ovvero l’equilibrio e l’armonia, si diffondi nel mondo, ne informi passioni, sentimenti, che il danzatore ha il dono di illustrare, a sua volta, tramite gesti e movimenti4. Così, in una scena da lui descritta5, il giovanetto danza col vigore della gioventù e il suo ballo consiste in passi militari, preludio dei movimenti che dovrà poi fare quando sarà questo delirio collettivo venne curato organizzando danze e forme musicali. Per ulteriori approfondimenti, cfr. G. Guidorizzi, “Letteratura greca”, 2, Einaudi, pp. 248 s.). Cfr. Hom., Il. XVIII, 494 s. e 570 s.: le danze effigiate da Vulcano sullo scudo di Achille sembrano in parte corrispondere alla cosiddetta “dedalea”, così denominata in riferimento al labirinto di Creta. Ancora, nell’Odissea (VIII, v. 265), si narra come Odisseo, ospitato alla corte dei Feaci, ne ammirasse il ”balenio dei piedi”. Infine, come sottolinea Luc., “De saltatione” 23, Omero (Il. XIII, 637) include la danza, definendola “irreprensibile” tra le cose più belle insieme al sonno, al canto e all’amore. 3 Particolare interesse in questo senso è il passo contenuto nelle “Leggi” di Platone ( 771e-772a), dove il filosofo si dice favorevole a organizzare feste <<dove danzeranno ragazzi e ragazze, che, in modo ragionevole e in un’ età che 2 offre pretesti verosimili, al contempo osserveranno e si faranno osservare nudi e nude, fino ai limiti imposti a ciascuno da un saggio pudore>>. 4 Una posizione simile, qualche secolo più tardi, è quella del retore antiocheno Libanio, che, in polemica con Elio Aristide; difende la pratica della danza -come della pantomima-, riconoscendone, al di là di possibili deviazioni (enfasi eccessiva, comportamenti effeminati), il valore educativo improntato sull’impegno e sull’equilibrio. Si legga, a proposito, il saggio on line di Nicola Savarese, “L'orazione di Libanio in difesa della pantomima”, al sito www.dass.uniroma1.it:81/pdf/dispense/quarenghi. 5 Cfr. Luciano, “De saltatione”, 10. 4. Così, ad es., Saffo nel fr. 16 L.P.:<<Piena sorgeva la luna/e intorno all’aria le fanciulle stettero intorno all’amabile ara/Le fanciulle muovendo>>. in cadenza con molli piedi danzavano, leggermente sul terreno, fiore dell’erba 5. Nota la definizione del poeta lirico Simonide (VI-V sec. a.C.), variata più tardi in relazione alla pittura: <<La danza è una poesia muta, la poesia una danza parlante>>. 6. Pare che già il re ateniese Teseo festeggiasse con la danza la sua vittoria sul Minotauro, così come, dopo la vittoria a Salamina, Sofocle danzò, accompagnandosi con la lira. Alla danza si dedicò in prima persona anche Epaminonda, il generale tebano vincitore a Mantinea, mentre Filippo II di Macedonia ne fu un grande estimatore, al punto da sposare una ballerina. al campo; la ragazza, invece, indica alle sue compagne come danzare, in modo che la danza risulta nel complesso una unione di forza e modestia. Su tale concezione insiste anche Erodoto a proposito del banchetto dato dal tiranno Clistene con lo scopo di scegliere un futuro sposo per sua figlia, la bella Agariste. In tale occasione, tutti i pretendenti dovevano esibire le loro qualità musicali e sociali; Ippoclide, il favorito di Clistene, racconta Erodoto, che si esibì proprio in una danza che in questo caso fu talmente lasciva da costargli la sposa. Attestazioni sulla danza, nel suo duplice valore etico ed estetico, ci vengono altresì dai lirici, sia che si tratti di fuggevoli visioni di balli festivi 6 sia che si sintetizzi la sua intima essenza in incisive definizioni7. Gli Elleni, dunque, godevano di tali spettacoli, accogliendoli come espressione artistica associata ad esibizioni ludiche, non mancando l’elemento di stravaganza e provocazione nonché quello erotico. Va però precisato che essi non conoscevano la danza di società nel senso in cui la intendiamo noi: inizialmente si danzava in gruppo o da soli, mai in coppia, e solitamente ragazzi e ragazze, reclutati soprattutto dall’Arcadia, si esibivano separati. Ancora pitture e bassorilievi di bronzo e di marmo ci informano di gesti, occasioni, costumi e valenze simboliche delle tre principali tipologie: la danza sacra, la profana, la danza militare parenetica o con funzioni di celebrazione8. Se ne offre qui una sintetica ma esaustiva descrizione: Danze militari 3.2 Tra le danze militari, la pirrica fu adottata dagli Spartani che la trasformarono in vera e propria danza di preparazione al combattimento. Platone, partendo dall’etimologia del nome (“pyrrìchios”: danza rossa)9 , ne attribuisce l’origine alla dea Atena.. La danza pirrica ebbe però il più grande sviluppo nella città di Lacedemone (Sparta), capitale della Laconia. Probabilmente derivata dai riti organizzati per celebrare le vittorie di guerra, veniva eseguita da giovani, sia individualmente che in gruppo, con armi e armature, che simulavano le posizioni di attacco e di difesa, accompagnati dalla musica del flauto. Questa danza aveva però anche lo scopo di esercitare i combattenti aumentandone l'agilità prima della battaglia stessa in cui dovevano confrontarsi con il nemico. Il capo dei guerrieri era infatti anche il capo dei danzatori. Più tardi divenne una pantomima di imitazione del combattimento, più vicina a una forma di spettacolo. Platone nelle “Leggi” descrive questa danza come una mimica guerriera che rappresenta i differenti momenti del combattimento; iniziava con alcune parate eseguite sia tornando indietro lateralmente, sia indietreggiando, sia saltando, sia abbassandosi. Era eseguita sia da danzatori singoli, sia da due danzatori che si opponevano l'uno all'altro, sia in gruppo numeroso. In questa forma si trattava di una danza schermata, o meglio, di una scherma organizzata coreuticamente che introduceva una nota di virile bellezza nelle feste spartane dei Dioscuri e in altre feste come le Gimnopedie e le Grandi e Piccole Panatenaiche. Gli storici raccontano che gli eserciti spartani entrassero in battaglia con un tipo di marcia che corrispondeva ad una danza. Fra le danze guerriere, si ricordano ancora la “xiphismòs” (danza con la spada) e la “thermastrìs” (danza dai movimenti convulsi). In parallelo alla civiltà ellenica, la danza militare trovò inoltre notevole riscontro in aree geografiche, per lo più dell’Asia, con cui la Grecia ebbe contatti non soltanto culturali. Nell’ ”Anabasi” di Senofonte (VI, 1, 2-13) si legge, ad esempio, di uno spettacolo improvvisato che danzatori greci offrirono, per sancire la pace, a dignitari Paflagoni sulla costa del Mar Nero. Tra le danze descritte, quella “delle spade”, ancora oggi comune nel mondo balcanico e medio-orientale, in cui le spade, virtuosamente volteggiate, Ci sono molte fonti per l'attribuzione del nome: secondo alcuni deriverebbe dal nome dell'inventore, un tale Pirrico che veniva proprio dalla città di Sparta. La fonte più seguita dagli storici è tuttavia quella di Louis Séchan, che ne fa derivare il nome dall'aggettivo πυρρός (= rosso), che è poi il colore delle tuniche dei danzatori. La pirrica sarebbe allora la " danza rossa", ovvero la danza dei guerrieri, il cui costume è caratterizzato - fin dalla più lontana antichità e presso i popoli più disparati - dal colore vermiglio del sangue. 9 fendevano l’aria tra canti militari. Al termine di un mimico duello, il ballerino “morto” era condotto via, spogliato delle armi. Più vivaci e originali le danze successive, come ad esempio la “carpea”, propria della Tessaglia, con due attori-ballerini nelle parti rispettive di un ladro astuto e di un soldato contadino. La danza poteva essere conclusa con la vittoria del ladro che imbavagliava e depredava il contadino (finale presentato con successo in quella occasione) o con la cattura, al contrario, del malfattore, colto in flagrante nell’atto di rubare i buoi. A concludere il gradito spettacolo, un ballo misio con scudi, fatto di salti, piroette e movenze difensive, altre danze militari, dell’Arcadia e di Mantinea, al ritmo di flauti e battiti di scudi, e l’improvvisa apparizione di un’agghindata ballerina, che suscitò tra i compiaciuti Paflagoni un’entusiastica ammirazione! Danze profane 3.3 Legate a occasioni svariate, che vanno dalle feste alle rappresentazioni teatrali, le danze non legate in esclusiva a vincoli sacri riconducono le loro origini e caratteristiche a vicende mitologiche nonché ad aspetti della natura e della quotidianità. Tra le danze cosiddette “allegre” si ricorda la “diploia”, in cui le cadenze erano sostenute con la voce; l’ “ephilema”, costituita da una specie di girotondo cantato e accompagnato dalla musica. Una struttura più articolata presentava la “Niobe”, una vera e propria coreografia divisa in cinque atti (preludio, sfida, combattimento, tregua e vittoria). Particolari per l’originalità dei temi, la “chreon apokopè”, in cui veniva rappresentato il taglio delle carni; le “Hypogones”, imitazione di vecchi curvi sui loro bastoni; il “nibadismos” , con movenze simili ai balzi delle capre. Ogni città greca aveva, inoltre, la “danza Bucolica” e la “danza dei Fiori.” Fra le più rinomate vi erano poi la “danza delle Ninfe”, la “danza del Giavellotto”, la “danza degli Elementi” e quella “delle Vergini schiave”. Una danza rustica molto particolare era quella dedicata a Bacco, in cui i ballerini dovevano saltare su otri pieni d'aria e unti con l'olio, affinché scivolassero. Ancora agli animali si ispiravano la danza “degli uccelli migratori” (a inventarla fu forse Teseo ) e singole movenze che ne imitavano l'andatura, come il passo del gufo, dell'avvoltoio, della civetta, della volpe. Coloro che accompagnavano le danze dando il tempo ai ballerini battendo i piedi (accelerandolo o rallentandolo a seconda delle situazioni) erano muniti di sandali di legno o di ferro, più o meno pesanti a seconda dell'effetto che si voleva ottenere. Per le cadenze leggere invece battevano le mani una contro l'altra, con gusci d'ostriche o conchiglie. Ricordi di queste e simili tipologie di danza si riscontrano anche in attuali balli popolari. L’attuale “sousta”, per esempio, deriverebbe dalla danza eseguita da Achille intorno alla pira del defunto Patroclo, per quanto, eseguita nelle piazze dei villaggi, si connoti piuttosto come ballo d’amore. Lo “tsakonikos” , ovvero “ danza del labirinto”, sembra invece conservare il legame originario col mito di Teseo e del Minotauro, mentre la “mirologhia” mira essenzialmente, in un contesto funebre, al ricordo e alla celebrazione. Il tutto in un gioco di piedi battuti a terra o strusciati, salti, contorsioni, e ritmo che si fa sempre più serrato. Danze sacre 3. 4 A partire dalla nota definizione nietzschiana, una prima categorizzazione delle danze cultuali vede da un lato le danze “apollinee”, severe, composte, legate in esclusiva ad un contesto cultuale, dall’altro quelle dionisiache, dal ritmo concitato, satiriche, orgiastiche talora, molto spesso improvvisate. Le danze apollinee più famose furono: la “gheranos”10, danza degli Ateniesi a Delo, l’ “emmèleia”, danza usata nella tragedia, il “peana”, danza magica eseguita dal coro, e infine la danza “ipochermatica”, accostabile, per la vivacità del ritmo, a quelle dionisiache11. Di particolare interesse, e forse tra le più antiche, la “gheranos”, che, come suggerisce il nome, imitava i movimenti di Tèseo nel Labirinto. E fu proprio all’eroe ateniese che se ne attribuì l’origine, quando, appunto sbarcava a Dèlos di ritorno da Creta12. A offrircene un’idea l’immagine ritratta sul vaso François, con uomini e donne alternativamente che sfilano, rivolti verso l’altare, in pose rigide, tenendosi per mano. Un richiamo alla civiltà cretese (a cui si ascrive, del resto, la provenienza delle danze apollinee) è nell’abbigliamento femminile, costituito da lunghe tuniche aderenti, alla maniera della “Dea dei serpenti”, vivacizzati da stilizzate geometrie. Corti mantelli di forma triangolare caratterizzano invece le figure maschili, con ridotti copricapi e le gambe scoperte e divaricate. Danza per eccellenza della tragedia, eseguita nelle pàrodo, negli stàsimi e negli esodi finali, l’ emmelèia, come tale, si caratterizzava per atteggiamenti (o schemi) composti, coordinati in passaggi (phorài) distinti e compiuti. “Grave e dignitosa”, come la definivano già antichi commentatori, essa poteva adattarsi tuttavia agli argomenti delle singole tragedie. Si deve a Polluce la trasmissione di alcuni nomi di passi di danza (tra questi “panierino”, “doppia”, “capriola”, “mano concava”, ecc.), ma ciò non basta a evocare la dinamica del passo che designano. Si può anzi ritenere che appartengano alla danza greca in generale e non all’emmeleia in particolare. Tra le danze afferenti al culto di Dioniso, le più famose erano il “kordax”, danza tipica della commedia, l’“oklasma”, danza persiana con caratteristiche acrobatiche, la “sikinnis”, propria del dramma satiresco, a contenuto scurrile. A caratterizzare la prima, movimenti grossolani e grotteschi, ascrivibili al suo legame con i culti di varie divinità e in particolare di Dioniso; si pensava infatti che fosse riprovevole danzare il cordace da sobri e che Dioniso si fosse servito di esso, come di bevande inebrianti, per ridurre in proprio potere intere popolazioni refrattarie. 10 Vedi immagine a fine paragrafo. Rispetto al peana, anch’esso eseguito in onore di Apollo (il cui culto sostituì a Creta quello dell’antico dio della medicina Paiaon), l’iporchema presentava una struttura più complessa, non esclusivamente innodica. Grande importanza veniva infatti attribuita alla danza, oltre che al canto, secondo almeno due modalità di esecuzione: nella prima, era una sola persona a cantare e suonare, mentre il resto del coro si esibiva nella danza; nella seconda, attestata da Luciano (De salt., 16), e praticata già in antico a Delo, più persone suonavano, mentre il resto del coro, con movimenti lenti e pacati, dava plastica espressione alla musica ed alla poesia. 12 Alla cultura cretese sembrano ricondurre diversi particolari, dalla postura rigida e frontale delle figure, pur ritratte in movenze di danza, al generale abbigliamento, comune ai personaggi degli affreschi (ad es., il “Principe dei gigli”) o dell’arte statuaria. Origini persiane o comunque asiatiche si ipotizzano, invece, per le danze dionisiache. 11 Risulta purtroppo impossibile ricostruirne i passi, anche se alcuni studiosi hanno creduto di ravvisarli in talune rappresentazioni di danza sui vasi antichi. In particolare, in un cratere di Tarquinia, si scorgono tre ballerini, uno dei quali con la veste sollevata sul ginocchio, nell’atto di schernire, forse, il satiro centrale, che ha a sua volta, verso di lui, una gamba sollevata; simile alla prima, per un effetto di simmetria, la terza figura, priva, come le altre, di copricapo e calzare. Una scena simile compare su vasi laconici e corinzi, della fine del VII sec. a.C., ma in relazione, più probabilmente, alla “danza dei comasti”, cui sembra ispirarsi in origine lo stesso cordace. Anche in questo caso, i danzatori sembrano interagire tra loro, disposti frontalmente o di spalle, procedendo a saltelli e toccandosi talora con le punte dei piedi.13 Scena di danza, su un vaso a Tarquinia. Taluni studiosi hanno supposto trattarsi di passi del cordace Più nota, invece, la struttura della sicìnnide, la cui mìmica si fonda soprattutto su rapidi movimenti delle mani, come lo “skops” (mano a solecchio), la “kéir simé” (mano con palmo all’infuori, piegata di 90 gradi al polso), la “kéir kataprenés” (palmo rivolto a terra). Contemporaneamente, i danzatori piegano alternativamente le due gambe all’altezza del ginocchio, ruotando vorticosamente su se stessi o procedendo a salti in avanti con le mani tese. Da citare, infine, la “tribasia”, ovvero la danza del ditirambo14, eseguita intorno all’altare di Dioniso, da un coro di 50 coreuti, al suono della cetra e del flauto. Una probabile scena di questa danza, opera del cosiddetto “Pittore di Pan”, è ritratta su un cratere a Basilea, custodito all’ “Antikenmuseum”: ivi tre coppie di danzatori, con le braccia levate in avanti e il corpo piegato in opposta direzione, avanzano verso sinistra al simulacro di Dioniso. Motivi geometrici, soprattutto “greche”, vivacizzano, oltre alla “nebris” (ossia la benda di pelle leopardata15), i corti mantelli frangiati ; da notare, inoltre, l’assenza di calzari16. Così, ad es., nella coppa laconica n. inv. 3879 , Firenze, di cui è illustrazione nel saggio on line “Canto, musica e danza nel teatro antico”, a cura della Soprintentendenza Archeologica Toscana e del Ministero per i Beni culturali, p.5. 14 In una iscrizione frigia, figura la parola “ dithrera” col significato di “sepolcro”, e ciò lascia supporre che il ditirambo sia stato, all’origine, un canto epitombale. L’ipotesi è supportata dal confronto fra Iliade, XXIV 721 e un passo della “Poetica” di Aristotele (IV 1449a9): i threnon exarchoi, “coloro che intonano il lamento”, di cui parla Omero, altri non sarebbero infatti che gli exarchontes ton dithyrambon, “coloro che intonano il ditirambo”, ritenuti da Aristotele, come accennato, i precursori della tragedia, nata, forse, da canti cultuali in onore di Dioniso prima e di eroi poi. 15 La “nebris” era una pelle ferina, indossata dai seguaci di Dioniso come una tunica, ricavata di solito dal cerbiatto ma anche dalla pantera, dal capro, dalla lince o dalla volpe, animali legati in vario modo alle vicende e al culto del 13 Probabile scena di tribasia, su un cratere a Basilea (Antikenmuseum), attribuito al Pittore di Pan. Si noti il simulacro di Dioniso. Al culto di Dioniso, si ricollegano anche le danze delle Menadi, invasate dalla carismatica potenza del dio. La loro danza, di rapimento e di istintività, fu effigiata dalla nota scultura di Scopa, nonché codificata come genere artistico, con la precisa corrispondenza tra gestualità e moti dell'animo. Si ricollegherebbe, invece, al culto di Afrodite e degli Amori – invocati, a detta di Luciano, perché partecipino anch’essi al tripudio e ala gioia- la cosiddetta “collana” (όρμός), in cui fanciulli e giovinetti si inseguono in u intreccio di grazia e virilità. Ancora figure femminili sono le protagoniste della danza “cariathide”, così denominata da Carya, una fanciulla di nobile stirpe spartana, ed eseguita in onore di Artemide. Il ritmo concitato e l’intenso pathos che ne è sostrato si evincono da alcuni movimenti e posture, come il busto in avanti e la testa rovesciata. Raffigurazione medievale della “gheranos” LA DANZA ETRUSCA dio. La simbologia legata alla nebride è quella di una animalità ferina e selvaggia, di una forza bestiale, tale da infondere il desiderio di varcare i confini del mondo civilizzato per immergersi nella selvaggia naturalità. 16 L’immagine, al pari di quella del cordace, è riprodotta nel saggio on line “Canto, musica, danza…”, cit., p. 3. 4. La danza etrusca ci è nota soprattutto dalle figurazioni funerarie del VI e del V secolo a. C.. Sembra eseguita da ballerini professionali: danzatrici singole accompagnate da un suonatore di doppio flauto; danzatori a coppia; ma soprattutto cori di uomini e donne procedenti in fila distaccati e con movimenti individuali, guidati da musici (suonatori di cetra o lira e flautisti), anch’essi partecipi ai passi della danza. Qualche volta si colgono nell'atto di ballare anche personaggi della famiglia del defunto, ma il più delle volte si tratta di una coppia disposta frontalmente, intenta ad eseguire simmetrici e armoniosi movimenti17. LA DANZA ROMANA 5. La razionalità, come parca e moderata continenza, giustifica la mancata accettazione, da parte dei Romani, delle danze dionisiache, esaltate e talora lascive, ma anche lo scarso spazio accordate alle apollinee, associate alle prime. Un prezioso documento ci è offerto da un affresco della tomba del Triclinio (480-470 a.C.), custodito al Museo Archeologico di Viterbo: su uno sfondo naturalistico, suggerito da sottili alberelli su cui si posano, in una sorta di “coro”, dei piccoli uccelli, danzano, sollevandosi sulle punte e levando in alto le braccia, un uomo e una donna in pose estatiche e aggraziate. Ricca la decorazione delle vesti (un mantello azzurro con bordi dorati per l’uomo, una vestis translucida tra il mattone e il rosato per l’ispirata danzatrice, simile, col capo rovesciato all’indietro a una Menade invasata. Somiglianze effettive tra manifestazioni culturali o influenza di artisti greci (soprattutto ceramisti a figure rosse) sulla pittura etrusca, intesa ad esaltare, con la danza, gioie conviviali per poco riservate? 17 Non mancarono di certo forme di danza (Plutarco cita al riguardo, sottolineandone la grazia, quella dei sacerdoti di Marte, così come Luciano definisce il tripudium come una “danza maestosa”), ma le finalità, almeno nella fase originaria, furono in prevalenza pratiche, come proprio di un popolo guerriero e produttivo18. Del resto già gli antichi Romani, per quanto non si dedicassero con interesse particolare alla danza, amavano assistere a spettacoli coreutici, inclusi in più ampie rappresentazioni o di per sé costituenti un genere autonomo. L’arte coreutica, sia greca che etrusca, cominciò infatti a diffondersi a Roma attorno al 200 a.C e, nonostante lo scetticismo iniziale, tutte le famiglie nobili presero l'abitudine di avviare i propri figli al suo studio per una più completa e raffinata formazione. Le danze più antiche danze romane furono, come accennato, guerresche e religiose: si ricordano la “bellicrepa”, danza armata che si fa risalire a Romolo, e il “tripudium”, danza encomiastica di derivazione etrusca. In seguito la danza costituì quasi esclusivamente un complemento spettacolare dei ludi circensi e fu sostituita in breve da una chiassosa pantomima. Il tripudium divenne invece una danza sacerdotale, legata alla scadenze della coltivazione delle terre. Come indica il nome stesso (derivante da “tres” e “pedes”), consisteva nel battere tre volte il piede a terra, secondo un ritmo che si ispirava all'anapesto (due sillabe brevi e una lunga). Una discreta fortuna incontrò soprattutto la pantomima greca, vivace rappresentazione drammatica, affidata unicamente al gesto, senza l'uso delle parole. Quanto al contenuto, tuttavia, ci si ispirava, più che alla vita quotidiana, alla storia degli eroi e alla mitologia. Per il resto la danza romana fu una rielaborazione di temi già esistenti, quali combattimenti, morte, fertilità, iniziazione, nozze, ricalcando gli schemi greci copiati a loro volta, però, da quelli asiatici e 18 Da ricordare, ad esempio, le danze funerarie, i cui partecipanti, nel corso del corteo, erano vestiti di bianco e coronati da rametti di cipresso; quindici fanciulle, circondate da un gruppo di giovani, precedevano il defunto danzando e il corteo era chiuso dalle "prefiche" coperte da lunghi mantelli neri. Per un certo periodo vigeva l'usanza che una persona precedesse il corteo vestito con gli abiti del defunto e alle sue lodi costui alternasse la satira. africani: danze animali, mascherate e imitative, eseguite in circolo, in coppia, in processione o su fronti contrapposti maschi/femmine. Famose furono, ad esempio, le “Danze del Gioco di Troia”19, praticate da giovani patrizi a partire dai primi anni dell'impero, a rievocare l'origine troiana del popolo romano. Di origine asiatica o forse esistente, come attesta Plinio il Vecchio, già presso i Latini, era simile, comunque, alla danza labirintica cretese, a prescindere dal riferimento mitologico non più a Teseo ma al peregrinare di Enea. Nelle campagne il fenomeno fu un pò diverso: la diffusione della danza divenne una sorta di fenomeno di “massa”, legato ai riti propiziatori o alle grandi festività in onore di un Dio. Caso emblematico, i Saturnalia. danze di folla, sfrenate e promiscue, con cui il popolo si liberava dal peso della povertà o da un’esistenza difficile; giorni e giorni di festeggiamenti dove il corpo, il movimento e quindi la danza erano libertà del corpo e dell'istinto per tutto l'anno controllati o negati. Chiara ripresa dalle tradizioni greche, i “Baccanali” erano all'inizio riservati alle sacerdotesse e ai sacerdoti di Bacco ma furono poi estesi al popolo con danze lascive e sfrenate. Schemi iconografici, già risalenti all’età greco-romana, ci mostrano le donne, come invasate dal dio, intente ad una danza dal ritmo concitato: succinti gli abiti, i capelli scarmigliati, impugnano nelle mani dei sonagli, mentre le gambe sono protese in avanti o divaricate. Come le “Menadi”, con cui sono identificate20, hanno di solito la testa e le braccia rovesciate all’indietro o piegate di lato, sono talvolta accucciate a terra, ma pronte a sollevarsi col busto flesso e in torsione. Di matrice religiosa anche le danze dei Lupercalia, celebrate alle calende di marzo in onore del dio Pan. In questa occasione, i sacerdoti del dio, completamente nudi, percorrevano le vie di Roma danzando e, armati di un frustino, percuotevano la folla. I giovani potevano sostenere anche parti femminili ma in epoca imperiale, con la liberazione della donna operata da Augusto, le donne, che in Grecia non potevano recitare nemmeno nella commedia e nella tragedia, entrarono a far parte della pantomima. Un riferimento al suddetto gioco è nel poemetto epico di G. Pascoli, dal titolo “Rufio Crispino”, quando Poppea, osservando il figlio che gioca “alla guerra di Troia”, ha un tragico presentimento del destino che non tarda a realizzarsi (il bambino sarà infatti ritrovato morto da un servo, sul lido di Ostia). 20 Non a caso, il loro nome deriva dal verbo μαίνω, la cui radice, a sua volta, si ricollega a μανία (= sacra follia). 19 Le danze prendevano spesso il nome dal metro che ne regolava i passi (si dissero così “Dattile”, “Spondaiche” o “Giambiche”), ma si preferì, in ogni caso, distinguerle in base al contenuto in quattro tipi sommari: sacre, guerriere, teatrali e domestiche. Quelle teatrali si suddivisero a loro volta in: tragiche, comiche, satiriche e pantomimiche. Sembra che le danze teatrali presero piede in Grecia, e di conseguenza poi a Roma, da quando Euripide, nelle “Coefore”e poi nelle “Eumenidi”, terrorizzò gli spettatori facendo danzare intorno a Oreste matricida, fin quasi ad avvinghiarlo, le Furie vendicatrici. Oltre alle danze licenziose del teatro e delle feste pubbliche, imperversarono le danze per rallegrare i banchetti. Le celebri saltatrici di Cadice, le Gaditane, appassionarono gli antichi Romani con le loro danze focose e molti autori ne hanno fatto menzione, come Marziale nei suoi epigrammi 21 e Plinio il Giovane in una lettera a Septicius Clarus22. A Roma le nacchere o castagnette accompagnavano il ritmo delle danze popolari, dette “crotalia”, talvolta di bronzo. Nei teatri si usava dare la cadenza con zoccoli di legno o di ferro, chiamati dai Latini, e poi dai Romani, “scabilla”. Interessante, al riguardo, una lekhitos apula della seconda metà del IV secolo a. C., con su ritratto un acrobata, coperto dal petaurum (uno stretto pantalone che arrivava alla caviglie), che presso il tavolo circolare proprio dei saltimbanchi si esibisce in un esercizio complicato, in compagnia di una suonatrice munita di doppio flauto. Dunque, anche per le pantomime si richiedeva un esercizio fisico sia che si mimassero scene quotidiane sia che si affrontassero grottesche parodie. Ma la “pantomima romana” fu piuttosto diversa dalla greca: un solo attore-danzatore, infatti, mimava la vicenda, connotando la danza e la recitazione gestuale di una marcata funzione di satira sociale, degenerando infine in una esibizione deliberatamente erotica e non di rado volgare. All’insegna del macabro, vanno infine citate le danze che i cristiani, al tempo delle persecuzioni (II sec.d.C.), erano costretti ad eseguire: ai condannati venivano fatte indossare tuniche sontuose e mantelli purpurei (Marziale parla di “tunica 21 22 Cfr. Mart., epigr. XIV, 203. Cfr. Plinio il Giov., epist. IX, 35. molesta”), probabilmente cosparsi di sostanze infiammabili., sicché gli spettatori vedevano mutarsi in drammatiche contorsioni i movimenti degli sventurati23 . Già Luciano, nel trattato citato, associava alla danza dei suoi tempi, oggetto di frequente di scettiche stigmatizzazioni, pratiche esotiche come quelle di Indi e di Etiopi che, a ritmo di gesti e movenze coreutiche accompagnavano i secondi il lancio di dardi, i primi il saluto al dio Sole. E ancora ne sottolineava il valore educativo, in tema di equilibrio ed armonia, la varietà delle sue forme espressive, la completezza e chiarezza di messaggi e di stati interiori più che nel canto e nella stessa poesia. Osservazioni che risultano quanto mai attuali, pur nella evoluzione di singoli generi e tradizioni. A dimostrazione di ciò, si offre di seguito una sintetica trattazione comparativa sulla danza orientale, a sottolinearne eventuali analogie casuali o ascrivibili a influenze reciproche. 20 Cfr. Mart., epigr. X, 25. Similmente in “Lib. de spect”, 7, dove si descrive il supplizio del criminale Laureolo, crocifisso a una rupe dell’anfiteatro e sbranato da un orso a ricordo di Prometeo. LA DANZA INDIANA 6. In India anche la danza, come tutte le forme d’arte, affonda le sue origine in una dimensione sacrale. Ad attestarlo il primo capitolo del “Natya Sastra”24, opera attribuita al saggio Bharata25 e considerata forse il più antico trattato di drammaturgia: <<Brahma –vi si legge- ordinò all’architetto degli dei di costruire un teatro, e, affinché le rappresentazioni non fossero disturbate, fece in modo che ogni parte dell’edificio fosse collocata sotto la protezione di un Dio : Chandra, la luna, doveva proteggere la costruzione principale ; i Guardiani dello Il “Natyashastra”, attribuito al mitico Bharata , è una delle maggiori fonti sulla rappresentazione teatrale e sulla danza. E’ in lingua sanscrita e si presenta nella forma di apprendimento tradizionale in cui lo studente, seduto ai piedi del suo maestro, ne riceveva l’insegnamento. Le informazioni contenute in esso sono numerosissime, suddivise in ben 3600 “shokla”(versetti) e spaziano in molti campi del sapere. Nel testo è Bharata stesso che espone una storia, in cui si narra la nascita della danza e del dramma, la loro pratica, gli effetti e l’impiego. La storia racconta che tanto tempo fa i grandi saggi Atri e altri, dotati di autocontrollo e saggezza, visitarono l’eremitaggio di Bharatamuni, esperto nella drammaturgia. Il saggio Bharata era seduto sotto un albero circondato dai suoi discepoli. Lì, accolse rispettosamente i suoi ospiti, offrendo loro dell’acqua per rinfrescare le loro mani e i loro piedi, della mistura di latte, frutta e miele come ristoro; quindi i saggi chiesero al sommo Bharata di svelare loro l’essenza del Natyaveda avendo egli ricevuto tale sapienza direttamente da Brahma, il Creatore. Accolta la richiesta degli dei il sommo Brahma meditò profondamente sull’essenza dei quattro veda e da una loro sintesi elaborò il Natyaveda. Quando il “quinto veda” fu compiuto, Brahma incaricò Devendra di diffondere questa sapienza alle altre divinità e agli uomini. La sua formulazione risultò però di difficile comprensione e così Devendra convocò il saggio Bharata e lo incaricò di trasmettere questa sapienza in forma semplificata, a tutta l’umanità. Questa teoria dell’origine non può certo avere pretese di storicità, tuttavia lascia supporre che potesse trovare formulazione solo in una società in cui la danza e il dramma godevano di un grande prestigio. Secondo un’ipotesi più accreditata, il trattato sarebbe il frutto di diversi autori e sarebbe stato composto in un lasso di tempo molto ampio raggiungendo la stesura attuale all’incirca all’epoca di Bhamaha (IV-V secolo d.C.) e Dandin (fine VII- inizi dell’VIII secolo) o forse anche prima. Altri studiosi, come ad esempio M. Gosh, propongono delle date ancora anteriori fino al 500 a.C.; H.P. Shastri lo colloca nel II secolo d.C. Insomma, nell’impossibilità di stabilirne una data esatta, si accetta un lasso di tempo che va dal I secolo d.C. al VIIVIII. 24 25 Il nome Bharata si incontra già in testi del periodo vedico; tuttavia, non essendo citato in nessun altro testo e non essendoci chiari riferimenti all’autore del Natyaveda, non è possibile stabilirne una precisa identità storica.. Bharata è il nome dell’eroe eponimo dell’India e dell’autore del Natyashastra; dal suo nome potrebbe derivare il termine “bharata”per indicare l’attore. In questa chiave di lettura, il Natyashastra risulterebbe essere una guida alle attività inerenti alla sua professione. spazio, i lati ; Marut, il dio della tempesta, i quattro angoli ; Varuna, Dio dello spazio illimitato e sovrano della notte, l’interno ; a Mitra, signore del giorno, fu affidato il palco ; ad Agni, Dio del Fuoco, la scena ; alle Apshara, le danzatrici celesti ; alla Nimphee, l’intera residenza. Yama, Dio della morte, doveva proteggere la porta ; i due re serpenti Ananta e Vasuki, gli stipiti ; il tridente di Shiva, Trishula, l’apice della porta, e così via.....Lo stesso Brahma, avendo il ruolo di impedire gli ostacoli, occupava il centro della scena>>. Iniziò, dunque, l’insegnamento specifico della danza pura “Nritta” : l’aspetto dinamico, potente e virile della danza "Tandava”, mostrata da Shiva, e l’aspetto grazioso, delicato e incantevole, "Lasya", esposto dalla sua consorte Parvati. Brahma mise dunque l’accento sul valore educativo del teatro-danza26 con finalità di armonia nell’ordine cosmico : <<Quest’arte di spettacolo - disse - insegna la rettitudine a chi cerca le regole etiche, dà godimento a chi attende ai piaceri dell’amore, dona il dominio di se stessi agli indisciplinati, sapienza alle persone colte"27.>>. Quanto affermava, come detto, ad opposte latitudini, Luciano di Samosata. E proprio come in Grecia e in ambienti influenzati dalla cultura ellenica, non mancarono differenziazioni tra danza colta (“margi”) e danza popolare (“deshi”), danza profana, legata a feste agricole, e danza sacra, eseguita nei templi da “devadasi” o “schiave della divinità”28. Il legame tra danza e parola, espressioni ambedue di moti dell’anima e di cosmica armonia, impone all’ attore-danzatore regole codificate molto precise, dallo spostamento nello spazio alla capacità di raggiungere una fissità scultorea raramente ricercata nelle danze occidentali. Diviene così <<una sorta di pennello per dipingere disegni ben precisi, forniti ciascuno di ricchi significati spirituali>>, dai triangoli e dalle linee rette tracciati con le braccia e le gambe piegate e sollevate nell’ antichissima “Bharatanatyam“ ai quadrati e rettangoli nel più noto “kathakali” , dove la mimica facciale acquista una maggiore espressività; all’interno di queste figure, tuttavia, il danzatore può 26 Senza voler entrare nelle accese controversie relative alla nascita della danza e quindi se essa emerse dal teatro o viceversa, è sufficiente osservare che queste due forme artistiche si svilupparono parallelamente, integrandosi l’una nell’altra. 27 Un passo del “Vishnudharmottarapurana” afferma a tale proposito: <<Quando qualcuno danza questo è considerato un atto rituale di adorazione della divinità; gli dei sono compiaciuti di tale atto più delle offerte di fiori e delle oblazioni. Colui che adora dio con nritya ottiene la realizzazione di tutti i desideri e il sentiero del moksa>>. 28Ad attestare queste ed altre forme di danza già antichissimi dipinti murali e il torso acefalo rinvenuto a Harappa. Da notare, circa l’abbigliamento delle “devadasi”, l’uso di tinture rosse per mani e piedi per dare forse alla loro danza una maggiore visibilità. Èra credenza comune, inoltre, che, durante una rappresentazione di “Kathakali”, dèi ed eroi, demoni e spiriti giungessero sul palco direttamente da altre dimensioni, ciascuno con un trucco, un costume e un copricapo, in relazione alla sua indole e alla sua funzione. tracciare diagonali o disegnare degli 8 con le mani, con ciò alludendo all’infinito e ad una cosmica universalità. Vale la pena, allora, di concludere con la meravigliosa descrizione di quella che era intesa, come il teatro greco, una sublime esperienza emotiva: <<Fiori di loto sbocciano nelle mani della danzatrice, uccelli prendono GIAPPONE il volo dalle sue dita>>. 7. Dal nome “Sliihai” ( =prati, luoghi erbosi) dato ai teatri giapponesi, parrebbe che le più antiche rappresentazioni si facessero all' aperto, in forma di cori e danze religiose, a partire dall'anno 805 dell’ èra volgare. In quell’anno, infatti, fu inventata la danza “sambaso”, al fine di stornare i vapori pestilenziali che si levarono a Nara, nella provincia di Yamato. La propizia fortunata azione mimica di scongiuro fu anche in seguito conservata, sotto forma di preludio alle rappresentazioni drammatiche. Protagonista un attore vestito da vecchio, augurante lunga vita e felicità. A questa leggenda se ne aggiunge un'altra, databile all’incirca tre secoli dopo, secondo cui una donna di nome Iso-no-Zengi, travestita da cortigiana, avrebbe inaugurato la danza scenica “Otoko-mai” o “Danza d'uomo”, ribaltando così la tradizione che accordava ad attori di sesso maschile anche parti femminili. Forme di danza, finalizzate a culti shintoisti e all’ intrattenimento alle corti imperiali, compariranno infine negli spettacoli “kabuki”, di lunga durata (circa dodici ore), con ruoli vari nelle parti recitate. Quanto ai passi e ai movimenti previsti, imprescindibile, accanto a canoni estetici, una più o meno esplicita simbologia. Tra i principali: Hakushu, ovvero il “battere le mani”, in segno di gioia e come forma di inno e acclamazione; Nagasu, movimento delle braccia, a indicare lo scorrere dell'acqua purificatrice; Yamabiraki, apertura delle braccia, a rappresentare la sagoma del sacro monte Fuji; Musubi, ovvero fare un nodo o con una cordicella rossa e una bianca intorno ad un pacco (a significare la cura di chi fa un dono) o con una benda intorno alla testa, ad indicare in generale impegno e attenzione; Ashibumi e Suriashi, pestare i piedi e camminare facendoli strisciare senza sollevarli dal suolo, per stornare spiriti malefici. Spettacoli all’aperto uniti a rituali scintoisti si sarebbero fusi in qualche caso con rappresentazioni “no, dando origine al cosiddetto “Okina Makiuta”, illustrato dall’immagine sottostante: La musica di accompagnamento era eseguita con strumenti a fiato (“fue”, flauto) e a percussione (“otsuzumi”, “kotsuzumi”, tamburi). I tamburi sono strumenti per indurre la trance, il flauto per evocare la discesa degli spiriti. Un ruolo particolare spetta infine ai “kakegoe” (strani suoni gutturali dei percussionisti) come invito agli dei a rendersi manifesti. IN CINA 8. In un paese essenzialmente agricolo, quale l’area mongola-cinese, cerimonie e originari spettacoli coreutica erano in genere legati al ritmo delle stagioni e al calendario lunare: come testimonia il classico “Libro delle Odi” (Shijing), si cantava e si danzava per la semina, per un buon raccolto, per la pioggia benefica, infine per propiziarsi il favore degli dei, allontanare gli spiriti maligni e le calamità. Ma si cantava e si danzava anche per rendere omaggio agli antenati, nonché nei matrimoni e funerali, a sancire la continuità tra presente e passato; non mancavano neppure occasioni ricreative, ad esempio nei mercati, dove si esibivano, improvvisando, acrobati e cantastorie itineranti, o propriamente cultuali, nei templi, quando erano le gesta degli dei ad essere rappresentate. L’affermazione di una classe aristocratica agiata, in conseguenza di un notevole sviluppo degli agglomerati urbani, segnò la fortuna di compagnie itineranti, invitati ormai nelle corti e in dimore private. A conferma di un riconoscimento ormai ufficiale, l'imperatore Xuan Zong, nel 714 a.C., istituì una scuola per la preparazione di cantanti, ballerini e attori. Con la dinastia Han (206 a.C.), fiorirono, infine, le prime forme teatrali, in cui alla danza si affiancavano mimi, giochi vari anche di prestigio, mimi, acrobazie e arti marziali (erano queste le “baixi”, ovvero le “cento rappresentazioni teatrali”). Statua di danzatrice di epoca Han, con le caratteristiche “maniche d'acqua”29 Stampa ottocentesca con la tipica “danza delle mani” TIBET 9. Un profondo afflato religioso caratterizza, come ogni tradizione tibetana, i cosiddetti “cham”, le danze rituali eseguite dai monaci buddhisti e da quelli appartenenti al Bon, antica religione autoctona del Tibet. La policromia di costumi, maschere e ornamenti, i sottofondi sonori profondi ed espressivi fanno da contorno a “storie meravigliose” istoriate da gesti dalle valenze archetipiche. La maggior parte delle danze viene eseguita pubblicamente nei cortili dei monasteri davanti a un gran pubblico che, a volte, giunge da luoghi distanti settimane o mesi di cammino. Un’importante distinzione vige tra i ruoli maschili e femminili: i movimenti che compiono gli uomini sono più ampi di quelli eseguiti dalle donne. Solo i primi, difatti, alzano le mani al di sopra del capo, mentre le seconde si limitano a ruotare i polsi per esprimere energia. Tutte le fasi del cham sono scandite dal suono di un’orchestra monastica, la cui composizione può variare da cinque-sei elementi a oltre una ventina. Ogni danzatore esegue la danza di un ben preciso personaggio del pantheon tantrico e con esso stabilisce un legame profondo, che ne purifica l’ intera struttura psico29 Per la simbologia, si veda al paragrafo precedente, riguardo all’affine movimento, nella danza giapponese, del “nagasu”. fisica e “protegge” quelle che vengono chiamate le tre basi: corpo, parola e mente. Proteggere il corpo significa assumere le varie attitudini della divinità, in modo da rimuovere l’apparenza “ordinaria” del corpo30. “Proteggere la parola” vuol dire che il danzatore, mentre esegue il cham, deve continuamente ripetere un “mantra” (formula di preghiera) della divinità o, se canta, deve essere in accordo con la particolare melodia ad essa associata. Infine, con protezione della mente, si intende quello stato di consapevolezza interiore che mette in grado il danzatore, mentre esegue i differenti movimenti rituali, di non essere distratto da nulla, di essere pienamente concentrato sulla dignità che il suo “ruolo” comporta. INDONESIA 10. Il folklore indonesiano vanta altresì l’antica tradizione della “bedaja”, una danza eseguita a gruppi da nobili fanciulle, in genere nel numero di nove (tante le ninfe della Dea del Mare del Sud), con l’esclusione delle figlie del re. Se alcuni movimenti risentono dell’influenza induista, come il “sembah”, il saluto rispettoso, e la “simba”, la posizione seduta per la meditazione, in altre forme di danza, come ad esempio la “kiprah”, si drammatizzano con grazia e compostezza scene desunte dai “walang” : esaltazione del monarca per la vittoria riportata, l’imbellettarsi di un principe prima dell’incontro con la sua amata. 30 Il corpo umano, secondo credenze buddiste, è da intendersi come una sorta di microcosmo, che rappresenta le forze cosmiche benigne nella parte superiore e quelle maligne nella parte inferiore, entrambe comunque giudicate ) necessarie per la vita. L’accompagnamento musicale, dato da colpi di gong, segna l’inizio e la fine di una strofa di danza, mentre figure di cavalli, ottenute con strisce di bambù, sostituiscono animali reali. L'evento drammatico rappresentato nel corso della danza è la rappresentazione della lotta tra Barong (dio teriomorfo, simbolo del Bene e della Fertilità), raffigurato da grande maschera di drago animata da almeno due uomini, e Rangda (una strega simbolo del Male), con episodi finali di trance tra i numerosi partecipanti. La lotta non ha alcuna soluzione perché la popolazione considera fondamentali sia il Bene che il Male nell'esistenza umana; tant’è che a Bali, come in altre regioni, vi sono templi dedicati alle forze del Bene e templi degli Inferi consacrati alla Morte e alle forze del Male. Il Barong si mescola con molti altri generi spettacolari durante le occasioni festive balinesi; per esempio, con il “Ketyak” (la “danza delle scimmie”, dove tutti gli uomini del villaggio creano un esercito di scimmie dai poteri soprannaturali ispirandosi al “Ramayana”) o con il “Legong-Keraton”, danza femminile più nobile che deriva da danze di corte eseguite da bambine tra i sette e i dieci anni dopo un durissimo addestramento. Si offre di seguito una serie di tabelle comparative, inclusive di notazioni aggiuntive, allo scopo di sintetizzare le rilevate (e relative) analogie tra le produzioni teatrali prese in esame, a livello sia contenutistico che formale: Struttura architettonica Grecia Roma India Cina Giappone Tibet Passaggio da strutture lignee provvisorie a edifici stabili in muratura Passaggio da strutture lignee provvisorie a edifici stabili in muratura, ampliati, nei secoli, con un velarium e corpi aggettanti Presenza di uno spazio orchestrale, nonostante la diminuita importanza del coro. Sale teatrali di differenti dimensioni, convenzionalmente strutturate Utilizzo di strutture stabili prevalentemente lignee, anche su palafitte; sale apposite nelle corti imperiali. Utilizzo di strutture stabili prevalentemente lignee. Utilizzo di strutture prevalentemente lignee, in spazi comuni, allestiti per le singole occasioni Distinzione tra spazi scenici per gli attori e quelli dei suonatori (posto“dei nove dragoni” (jiulongbi) Separazione dal palco del Jiutaiza, riservato ai Jiutai , ovvero i componenti del coro Divisione tra scena e spazio orchestrale, semicircolare, riservato a spettatori con il ruolo anche di cantori Presenza di un pino, albero sacro, reale e/o dipinto. Altare centrale dedicato al maestro buddhista Thonthong Gyalpo; palo centrale, simbolo dell’axis mundi Suddivisione di spazi tra attori (σκηνή) e coro (όρχήστρα) Presenza, al centro della scena, della θυμέλη, ovvero dell’altare di Dioniso Entrate laterali (πάροδοι) per il coro Pennone al centro della scena, a ricordo della bandiera del dio Indra imposta da Brahma contro il dominio dei demoni Cinque entrate, di cui tre come ingressi delle case e due corrispondenti alle“parodoi” Due porte con tende, ai lati del palcoscenico, per l’entrata e per l’uscita degli attori. Makuguchi, entrata principale al palcoscenico; passerella a sinistra (“ponte dei fiori”) per il passaggio degli attori; Kirido-guchi, entrata per cantanti assistenti di scena Primi posti riservati a figure di rilievo, secondo il diritto di “proedria” Prisma, sullo sfondo, per il cambiamento di scena; sfondi dipinti e porticati nelle forme più tarde Aggiunta di un προσκήνιον Oggetti scenografici convenzionali (a indicare perlopiù il tempo dell’azione) Primi posti riservati a imperatori, autorità politiche (soprattutto senatori) “Periaktoi “ rotabili , con scene dipinte (sia tragiche che comiche e satiresche) sui tre lati; scenae frons, fondale dipinto; sipario, con effetti prospettici Presenza fissa di un proscenium, nella porzione di palcoscenico in legno più vicina al pubblico, raffigurante in genere un via o una piazza Oggetti scenografici convenzionali (a indicare perlopiù il tempo dell’azione) Suddivisione della platea con quattro colonne, a indicare i punti cardinali e le caste sociali Panche in prima fila per le autorità religiose e politiche Tendone sul fondo con immagini variamente interpretabili Oggetti scenografici convenzionali e movimenti di danza, in funzione metaforica o metonimica Tenda (Agemaku), dipinta con tre o cinque colori. Oggetti scenografici convenzionali e gesti codificati, in funzione metaforica o metonimica Stoffe dipinte con immagini e simboli per lo più naturalistici Oggetti scenografici convenzionali, variamente interpretabili Costumi e forme organizzative Grecia Roma India Cina Giappone Tibet Uso di maschere, legato in origine al culto dionisiaco Maschere fisse o caratterizzanti, in sostituzione del semplice colore sul viso, a seconda di ruoli e tipologie comiche Maschere identificative di ruoli ed entità soprannaturali Maschere e accessori caratterizzanti, uso di dipingere il viso con colori simbolici Maschere identificative di ruoli ed entità soprannaturali Maschere fisse, tra cui la “Maschera Blu”, e costumi rappresentativi di classi sociali Coturno per gli attori di tragedie, ma anche stivali bianchi Coturno per gli attori di tragedie “cothurnate” “Coreghi” addetti all’allestimento del coro “Dominus gregis”, rappresentante e coordinatore del gruppo di attori, preposto, con gli edili, all’ allestimento pubblico di spettacoli Sūtradhāra, “colui Diversi responsabili, in origine anche privati, con varie e specifiche mansioni Responsabili pubblici e, in origine, privati Coinvolgimento e partecipazione dell’intera comunità Accompagnamento musicale con strumenti a fiato ( in particolare, la tibia) Accompagnamento musicale con strumenti a fiato e a percussione, quali il gong Utilizzo di tamburi, nacchere nelle scene di combattimento, e dello huegin, mandolino a forma di luna Utilizzo di flauti e tamburi di diversa dimensione, oltre a suoni gutturali (kakegoe) Accompagnamento musicale con strumenti per lo più a percussione, quali il gong Accompagnamento musicale con strumenti a fiato ( syrinx, salpingx, aulòs), crotali e timpani; introduzione successiva di più varie modulazioni e della paracathalogé, recitata e cantata nel corso della parodos Stivali neri con grosse suole bianche (a prescindere dalle ridotte calzature dei “danera”) che regge i fili”, regista, impresario e attore; allestimento a cura anche di sovrani, mercanti e autorità religiose Personaggi e motivi topici Grecia Tre attori: “protagonista”, “deuteragonista”, “tritagonista”, con l’aggiunta al più di una o più comparse mute Caratterizzazione, nelle commedie, di personaggi quali il parassita e la concubina, anche sul piano lnguistico Roma Caratterizzazione riabilitativa di personaggi quali il servo astuto e la concubina India Ruolo del buffone, vidūṣaka, o del parassita, spesso deforme e trasgressivo, amico del protagonista, la cui inferiorità di rango è sancita dall’uso della lingua pracrita Cina Giappone Tibet Massimo di 28 attori, di cui quattro fissi i funzione antitetica Tre attori principali , di cui un solo protagonista Caratterizzazione positiva di personaggi quali la vedova, la nuora devota e la concubina; ruolo del buffone o del mercante (o artigiano) astuto nelle farse Rilievo di personaggi soprattutto femminili, indagati nella loro psicologia Personaggi e categorie sociali, protagonisti dell’azione principale e di intermezzi dialogici Caratterizzazione e confronto, attraverso battute dialogiche, di rappresentanti di più classi sociali. “Deus ex machina”, “Deus ex machina”, rappresentato da una divinità o da un personaggio allegorico Prologo espositivo recitato da divinità o personificazioni identificato in genere con il protagonista Interazione tra attori e coro (commi, nella tragedia) e tra attori e pubblico (parabasi, nella commedia antica) Ricerca di una Prologo espositivo recitato da divinità o personificazioni, dapprima espositivo o (con Terenzio) di argomento metateatrale Prologo espositivo recitato dal Prologo espositivo recitato in genere da un eroe o dall’imperatore Sūtradhāra, spesso affiancato dalla prima attrice Dialoghi Prologo espositivo recitato in genere da un’autorità religiosa Interazione tra gruppi di attori e coinvolgimento del pubblico (diverbia) tra attori e coro Scopi ricreativi, “Deus ex machina”, identificato con un maestro spirituale Rappresentazione Finalità Ricerca di un Ricerca di un “catarsi” finale nella tragedia; scopi ricreativi e parodistici (commedia “antica” e “di mezzo”), invito alla riflessione su sentimenti e situazioni quotidiane (commedia “nuova”) invito alla riflessione su sentimenti e situazioni quotidiane (Terenzio) di situazioni paradigmatiche, cui conformare il proprio comportamento in vista di una purificazione spirituale31 ricreative; importanza di valori quali la giustizia e gli affetti familiari equilibrio spirituale32 e raggiungimento di un ideale estetico (Yugen), improntato alla sottigliezza e alla profondità equilibrio spirituale secondo i principi del buddhismo Dal mito alla storia, dalla storia alla vita 1. La lettura comparata di drammi classici e orientali, con la conseguente rilevazione di analogie contenutistiche e formali, ha indotto diversi studiosi a ipotizzare una diretta influenza del teatro –come di altre manifestazioni culturali- della Grecia in regioni asiatiche già in parte “ellenizzate”. L’ipotesi, già sostenuta da Weber33 nel 1851 e da Windisch nel Congresso degli Orientalisti tenutosi a Berlino nel 188134, appare suffragata da diversi indizi storico-archeologici come letterari, in particolare per quel che Le trasformazioni dell’attore che indossa più costumi e interpreta diversi ruoli vengono assimilate alle trasmigrazioni dell’ātman, l’anima, che riveste svariate forme nel suo peregrinare nella materia. Cfr. il saggio on line <<Introduzione al teatro indiano “classico”>>, 1, AsiaTeatro – India. 32 Va osservato che la “catarsi” nel teatro giapponese, nonché cinese, viene raggiunta non già con 31 l’argomentazione verbale, come nel teatro greco e più in generale occidentale, bensì attraverso mezzi visivi (gesti, espressioni), che comunichino emozioni. Il saggio è pubblicato sulla rivista on line “Zetesis”, 2008. A negare in toto o parzialmente questa ipotesi, Renou L.-Filliozat J.(<<L’Inde classique. Manuel des études indiennes>>) , Paris, École Française d'Extrême Orient, 2005 (ristampa) vol. II, p. 259. Tarn W.W. (<<The Greeks in Bactria and India, Cambridge University Press, 1951 pur non negando l’esistenza di contatti tra teatro greco e teatro indiano, nega un diretto rapporto tra contatto e influenza. 33 34 concerne la produzione indiana. In un saggio dal titolo “I Greci in India” 35, Moreno Morani parte da dati storici - quali la presenza di una comunità greca nella città indiana di Nisa36 o ancora il ritrovamento a Peshawar di un frammento di vaso (oggi conservato nel museo di Lahore) fabbricato in loco, sul quale è rappresentata una scena dell’ “Antigone” (Emone che prega Creonte di non condannare a morte la fanciulla da lui amata) - per ipotizzare la diffusione della tragedia in territorio indiano, a partire soprattutto dall’età alessandrina e romana. Plutarco 37 narra, ad esempio, che la testa di Crasso, dopo la battaglia di Carre poté essere usata a Susa come attrezzo scenico per una rappresentazione delle Baccanti, senza contare, in precedenza, la presenza nell’esercito di Alessandro di attori, mimi, ballerini, che favorissero l’ellenizzazione nei vasti territori d’Oriente. I supposti contatti con la tradizione teatrale greca si riflettono, del resto, come già accennato, in numerose consonanze contenutistiche sia con la Commedia Nuova che con la tragedia. Morani, nel citato saggio, sottolinea, ad esempio, la presenza delle “yavanī”, raffinate danzatrici greche (o forse rinomate etere) nei drammi di Kālidāsa, senza contare che “yavanikā” è il nome dato al tendaggio, decorato con “greche”, che fa da sfondo alla scena. Singolari affinità con la “Nea” si colgono nella formulazione degli intrecci: le vicende amorose di una coppia, che per un qualunque motivo si separa, le peripezie che portano allo scioglimento dell’azione e al ritrovarsi dei due amanti, e soprattutto, il riconoscimento dell’identità dell’altro per mezzo di un oggetto, ad esempio un anello, che era stato smarrito38. Caratteristiche somiglianti connotano altresì i personaggi fissi (p.es. lo schiavo della commedia greco-romana e il vidūṣaka, un brahmano compagno di sollazzi, e soprattutto di pranzi, del protagonista). Parimenti ipotizzata l’influenza del dramma ellenico nella presenza, in inni vedici, di parti dialogate, così come nell’affermazione di generi teatrali cosiddetti “minori” (da spettacoli di mimi o marionette al teatro d’ombre). Indizi, insomma, che lascerebbero pensare a contatti anche reciproci tra produzioni in fasi evolutive, ma che non sembrano escludere gli apporti, anche in più epoche, endogeni o di diversa tradizione. Resta allora da vedere, come conclude Morani, in che misura il teatro greco si è posto come catalizzatore di preesistenti ma informali tradizioni -destinate, a loro volta, ad espandersi in più direzioni- e quale è stato viceversa il loro apporto in una produzione tra passato ed attualizzazione. Weber A., <<Die Griechen in Indien, Berlin, Sitzungsberichte der Berliner Akademie>>, 1890. Comunità buddhiste erano presenti, viceversa, in centri ellenistici, per es. ad Alessandria d'Egitto, e presso ordini monastici pre-cristiani, come quello dei Therapeutae. Clemente Alessandrino ( Stromata, I,15), nel II secolo, riconosceva l’influenza dei buddhisti battriani e dei gymnosofisti indiani sul pensiero greco (<<Così la filosofia, una cosa della più alta utilità, fiorì nell'antichità tra i barbari, diffondendo la sua luce sulle nazioni. E dopo di questo venne in Grecia. Dapprima nei suoi ranghi erano i profeti egiziani; e i caldei tra gli assiri; e i druidi tra i galli; e gli sramana tra i battriani e i filosofi dei celti; e i magi dei persiani, che predissero la nascita del Salvatore, e vennero nella terra di Giudea guidati da una stella. Anche i gymnosofisti indiani sono nell'elenco, e gli altri filosofi barbari. E di questi ci sono due classi, alcuni di loro sono chiamati “sramana”e altri “brahmini”>>). Il sincretismo religioso, conseguente a tale coesistenza, si riflette in interessanti testimonianze archeologiche, quali pietre tombali buddhiste, rinvenute ad Alessandria, con raffigurazioni della ruota del Dharma; una statua del Buddha con imation greco, del III secolo a.C., proveniente da Gandhara e attualmente custodita nel Museo di Tokyo; e una moneta del 120 d. C. circa dell’ imperatore Kanishka, con il Buddha sul retro e un’ incisione con il suo nome in greco (ΒΟΔΔΟ). 37 Cfr, Plut., Vita Crassi, 33. 38 Così, ad es., come accennato, nella “Sakuntala” di Khalidasa e negli “Epitrepontes” di Menandro. 35 36 2. Le rilevate consonanze contenutistiche, al pari delle suggestive rese interpretative, non potevano lasciare indifferenti scrittori del passato, specie se imbevuti, come il Goethe, di spirito romantico39. La visione di spettacoli inusuali al pubblico occidentale poteva suggerire accostamenti con generi più noti, come accadeva, ad esempio, al vescovo francese J.B. Bossuet (1627-1704), in viaggio per il Giappone, chiamato ad assistere ad una tipica manifestazione (« In una notte d' estate io passavo a una ventina di leghe da Yedo, presso uno di quei luoghi sacri, quando fui attirato verso il centro d' un bosco di abeti da una musica bizzarra. Delle ombre andavano e venivano, ed una folla mormorante sembrava correre a non so quale notturna tregenda. Era una festa che si celebrava al lume di faci accese in onore di Fudosama, quasi che l’antichità greca, col carro di Thespi, sfilasse all’improvviso, tra i ricordi di un’antica civiltà »). Ma al di là delle apparenze spettacolari, come di analoghi principi ed intenti di comunicazione, non sfuggiva allo stesso Bossuet la differenza di fondo tra le due tradizioni (<<L' estremo Oriente non conobbe la semplice ed ignuda bellezza dei Greci, Credette di creare il bello, tentando 1'enorme, e ottenere ammirazione, destando stupore, e commuovere spaventando. Gli attori rincarano ancora la dose degli autori; non basta che gli eroi versino i loro lamenti o le loro furie in monologhi che non hanno fine; bisogna che gli interpreti li recitino con un'enfasi ed una esagerazione insopportabili. La voce, ora enfiata, ora cavernosa, ora s'alza, scoppia, rimbomba, ora si abbassa e si perde in note sorde, gutturali, quasi impercettibili. Non si tratta tanto di una declamazione quanto di una melopea, nella quale una malintesa armonìa imitativa vorrebbe tener posto della elocuzione>>), per quanto riconoscesse alla commedia, più che al genere tragico, una più “classica” compostezza ideativa e un più maturo equilibrio di espressione. Viceversa, l’argentino Jorge Louis Borges, esprimeva, a distanza di secoli, il suo coinvolgimento emotivo alla vista di uno spettacolo teatrale recitato in greco antico: <<Come chi vede da lontano una battaglia, come chi ode l’affanno delle onde e già presentisce il mare, come chi entra in un paese o in un libro, così due notti fa mi fu concesso di assistere ad una rappresentazione del “Prometeo incatenato” nell’antico teatro di Epidauro. La mia ignoranza del greco era completa[..]. Pensai al mito, che è ormai parte della memoria universale degli uomini. Senza propormelo e senza prevederlo, venni carpito dalle due musiche, quella degli strumenti e quella delle parole, il cui senso miera vietato ma non la loro antica passione. Più in là dei versi, che gli attori, credo, non scandivano, e della illustre “fabula”, quel profondo fiume, nella profonda notte, fu mio>> (“Epidauro”, da “Atlante”). Accanto a suggestioni estemporanee, non sono inoltre mancate, da parte di qualche critico, analisi comparative in merito a modalità interpretative e a sottese teorie teatrali. Rosanna Pilone, nel suo saggio on line40, individua gli elementi divergenti, nel teatro cinese, rispetto a tradizioni in parte simili del teatro occidentale, anche in epoche più moderne: 39 Lo scrittore tedesco, se da un lato riconosceva l’universalità paradigmatica del dramma classico ellenico (<<La tragedia nasce da una sorta di interpretazione, ad opera del poeta, del mito, in modo che esso assuma un valore universale e possa rappresentare al meglio la tragicità della vita di ogni uomo. Il mito diventa così paradigma della condizione umana e, parallelamente, l'eroe mitico, che prima era statico e fisso nella sua dimensione eroica, ora diventa poliedrico, ambiguo, in preda a passioni che lo sconvolgono e soggetto a forze superiori che ne tracciano il destino>>), rinveniva caratteristiche analoghe nelle opere, dapprima epiche e poi teatrali, di provenienza orientale. 1) La fluidità: non vi è alcun sipario che si alzi o si abbassi né alcun cambiamento di scena, come di prassi nel teatro occidentale; le scene si susseguono l’una dopo l’altra secondo tempi, ritmi e montaggio appropriati. 2) La plasticità: la scena cinese è estremamente duttile e non ha alcuna limitazione di tempo e di spazio (siamo dunque ben distanti dalle unità aristoteliche di tempo, spazio e azione). 3) La statuarietà: mentre su di un palcoscenico occidentale i personaggi sono limitati a due dimensioni, come in un quadro, nel teatro tradizionale cinese essi vi appaiono tridimensionalmente. 4) La convenzionalità, anche in presenza di scene di drammatico realismo 41. Tali distinzioni, più o meno marcate, non escludono comunque una complementarietà di fondo, nelle idee come nei modi interpretativi. Quella che ha appunto portato, in epoche recenti, a interessanti progetti innovativi42, intesi a ridurre o a modificare, nei drammi rappresentati, particolari strettamente legati a precisi ambiti contestuali43. In questa chiave Ariane Mnouchkine ha messo in scena negli anni ’90, con il “Théatre du Soleil” a Parigi, il ciclo intitolato “Les Atrides”, tratto dall’ “Orestea” ma anche da altri miti antichi, con costumi ispirati al Kathakali indiano e ad altre forme di teatro orientale e abiti zoomorfi (pelose guaine complete di muso che trasformano gli attori in orsi o cinghiali) per il coro delle “Eumenidi”. Altrettanto frequente l’adozione di costumi extratemporali, che indirizzino gli spettatori, senza alterare l’impianto classico, verso episodi politici recenti o verso un’etica globale. Tra gli esempi, “Le Troiane” di Thierry Salmoni, con costumi che richiamano da un lato ad una stilizzata età arcaica ed elementi di modernità, come l’uso della tela jeans. Simile, per l’impostazione e il messaggio sotteso la versione “post-atomica” del regista Tadashi Suzuki44, nel 1974, dove i protagonisti sono i sopravvissuti a tutte le guerre, da Troia a Nagasaki e Hiroshima. In “Mithos” , messo in scena nel ’98 all’ “Odin Teatret”, figure del teatro classico quali Edipo, Cassandra e Medea si confrontano col soldato brasiliano Guilhermo Barbosa in merito a tematiche etico-esistenziali, dal destino al potere a nuove forme di giustizia 40 Cfr. R. Pilone, “Teatro in Cina, documenti di teatro”, Cappelli 1966. Così Bertold Brecht, vicino per la sua teoria di “straniazione” al sostrato ideativo del teatro cinese, descriveva una scena prettamente convenzionale del dramma “La vendetta del pescatore”, interpretata da Mei fen lang.: <<‘Una ragazza, la figlia di un pescatore, è in piedi su di una barca immaginaria e rema, servendosi di un remo che le arriva a malapena alle ginocchia. La corrente diventa più forte e la ragazza a fatica si mantiene in equilibrio. Poi la barca imbocca un’insenatura ed essa rema più lentamente. questa sequenza ha un qualcosa di pittorico, come se fosse stata cantata in molte ballate, come se fosse conosciuta da tutti. Ognuno dei movimenti della ragazza è familiare come un ritratto; ogni curva del fiume è una avventura nota; ed anche la prossima è già conosciuta, ancora prima di giungervi>>. 42 Sul fenomeno della rinascita del teatro antico in epoca moderna e contemporanea, vanno segnalati diversi archivi, tra cui l’”European Network of Research and Documentation of Ancient Greek Drama”, nato nel 1995 grazie alla collaborazione tra Oliver Taplin (Magdalen College, Oxford University) e Platon Mavromoustakos (Department of Theatre Studies, University of Athens), e l’”Archive of Performances of Greek and Roman Drama” (APGRD), creato nel 1996 a Oxford per iniziativa di Oliver Taplin e di Edith Hall (Research Professor in Classics and in Drama & Theatre at Royal Holloway University, London). Per approfondimenti, si legga il saggio on line di Anna Banfi, “Ritorno a Dioniso. The Archive of Performances of Greek and Roman Drama” su “Engramma”, n. 101, 2012. 43 Per questa trattazione ci si è avvalsi del saggio di Martina Treu, “Il dramma antico oggi: tra la scena e lo schermo” (sintesi rivista e rielaborata dei capitoli 4 e 5 del volume: M. Treu, “Il teatro antico nel Novecento”, Roma, Carocci, 2009), consultabile on line al sito stel.ub.edu/literatura-grega/webfm_send/77. 44 Del medesimo regista va ricordato il dramma “Clitennestra”, rappresentato nel 1986, come proposta di riflessione sulla disgregazione della famiglia in Giappone e sull’isolamento spirituale dell’uomo contemporaneo, incarnato da Oreste. 41 universale. Notevole, per il forte impatto emotivo, il costume di Euristeo negli “Eraclidi”, andati in scena a Roma nell’ autunno 2002, con la regia di Peter Sellars: «Euristeo viene introdotto sotto scorta al cospetto del pubblico, che dovrà giudicarlo con indosso la tuta arancione dei prigionieri di Guantanamo, bendato e con le catene ai piedi». All’insegna dell’attualizzazione, sebbene da un punto di vista patriotticamente divergente, anche un altro dramma eschileo, ovvero i “Persiani”, rappresentato nel 1571 nell’isola di Zacinto, per celebrare la vittoria veneziana sui Turchi. Ancora, nel 1993, il regista americano Peter Sellars ne mette in scena un adattamento, a cura di Robert Auletta, con impliciti riferimenti al conflitto iracheno, mentre ci si sposta in una apocalittica New York, all’indomani dell’ 11 settembre, nella versione del “Lincoln Theatre” del 2003. Decisamente all’avanguardia anche l’“Orestea: una commedia organica?”, a cura della “Societas Raffaello Sanzio”, rappresentata nel ’95, dove corpi, oggetti e materiali, più ancora che degli attori in costume, alludono, provocano disgusto o terrore, simulano affetti o violenze. Suona, infine, come un inno alla pace, oltre le tragedie che connotano da sempre la storia, lo spettacolo corale, diretto dal regista greco Theodoros Terzopoulos, tenutosi –nonostante precedenti censure- nel maggio del 2006 nella chiesa sconsacrata di Sant’Irene ad Istanbul, con attori sia greci che turchi recitanti in ambedue le lingue, con un film documentario di argomento metateatrale. Si ritorna così, paradossalmente, come nota la Treu, a un’essenzialità scenografica sganciata dai singoli contesti, avulsa da un passato definito e accademico, aperta agli scenari di simili e distanti realtà. Il passato, dunque, si proietta e rivive nel presente: nello spazio della scena, nel sipario della vita. Connessioni invisibili si intrecciano lungo il nastro del tempo, quelle che, scoperte con sguardo lucido, rendono trasparente l’opacità del mondo. (G. C. Roscione)