Inchiesta San Marino
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1 | ottobre 2012 | narcomafie Inchiesta San Marino 35 6 Canada, il ritorno di Vito Rizzuto Ricordare Giovanni Spampinato 24 60 La santa dei Narcos 2 | ottobre 2012 | narcomafie numero 10 | ottobre 2012 Il giornale è dedicato a Giancarlo Siani simbolo dei giornalisti uccisi dalle mafie Fondatore Luigi Ciotti Direzione Manuela Mareso (direttore responsabile) Livio Pepino (condirettore) Redazione Stefania Bizzarri, Marika Demaria, Davide Pati (Roma), Matteo Zola Comitato scientifico Enzo Ciconte, Mirta Da Pra, Nando dalla Chiesa, Daniela De Crescenzo, Alessandra Dino, Sandro Donati, Lorenzo Frigerio, Tano Grasso, Leopoldo Grosso, Monica Massari, Diego Novelli, Stefania Pellegrini Collaboratori Fabio Anibaldi, Pierpaolo Bollani, Ferdinando Brizzi, Maurizio Campisi, Gian Carlo Caselli, Stefano Caselli, Elena Ciccarello, Rinaldo Del Sordo, Stefano Fantino, Jole Garuti, Andrea Giordano, Gianluca Iazzolino, Piero Innocenti, Alison Jamieson, Alain Labrousse, Bianca La Rocca, Davide Mazzesi, Giovanna Montanaro, Marco Nebiolo, Dino Paternostro, Davide Pecorelli, Antonio Pergolizzi, Osvaldo Pettenati, Guido Piccoli, Francesca Rispoli, Lillo Rizzo, Pierpaolo Romani, Adriana Rossi, Peppe Ruggiero, Paolo Siccardi, Elisa Speretta, Lucia Vastano, Monica Zornetta Progetto grafico Avenida grafica e pubblicità (Mo) Impaginazione Acmos adv In copertina Foto San Marino Fotolito e stampa Giunti Industrie Grafiche S.p.A. 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Basta leggere le prime pagine dei giornali: c’è il pubblico funzionario o il parlamentare che riceve case, denaro e persino lavoro «a sua insaputa» da soggetti in attesa di commesse dalla pubblica amministrazione, c’è chi incassa mazzette senza alcun pudore o riservatezza (così ostentando il proprio potere) e chi ricorre a conti esteri, ci sono politici che considerano impegni istituzionali (da pagare con denaro pubblico) i viaggi propri e dei propri partner e amministratori pubblici che non disdegnano vacanze pagate da amici in affari con i propri uffici, c’è chi redige veri e propri tariffari delle percentuali su appalti e opere pubbliche e chi vende interventi chirurgici, permessi di soggiorno, titoli di studio o licenze edilizie, c’è chi distribuisce incarichi ai propri familiari (naturalmente per la loro bravura...) e chi ricorre a maldestri artifici finanche per lucrare rimborsi spese di pochi euro e via seguitando potenzialmente all’infinito. È un fenomeno eterogeneo che nel linguaggio comune viene definito, in modo onnicomprensivo, corruzione. Ed è un fenomeno di proporzioni spropositate giunto, in Italia, ai massimi storici. La Corte dei conti ha calcolato, con riferimento al 2011, che la sola corruzione in senso proprio (quella consistente nello scambio di denaro e favori) sottrae alle casse dello Stato 70 miliardi di euro, pari al decuplo di quanto veniva sottratto venti anni fa, nel 1992. Parallelamente Transparency International ci colloca, sempre con riferimento al 2011, al sessantanovesimo posto nella classifica dei Paese meno corrotti. Eppure un secolo fa le indagini di Mani pulite sembravano avere “girato l’Italia come un calzino”. Ma, nonostante le indagini, gli arresti, i dibattimenti, le condanne, la mobilitazione della piazza e della stampa, i processi di allora non sembrano aver lasciato tracce durature nel sistema. A poco a poco, i fattori extragiudiziari che avevano favorito indagini e processi si sono modificati e i promessi interventi istituzionali tesi a prevenire e disincentivare la di Livio Pepino corruzione non hanno avuto seguito. E, alla fine, il cuneo aperto con Mani pulite si è rinchiuso confermando la regola secondo cui la giustizia può colpire alcuni forti ma alla lunga, senza cambiamento politico, è impotente di fronte alla categoria dei forti complessivamente considerati. Accade così che, a pochi lustri da Mani puliti, due suoi protagonisti concludano amaramente che «Mani pulite è stata inutile, ma anche controproducente: inutile perché non mi pare che abbia causato un contenimento della corruzione; controproducente perché ha confermato il senso di impunità che già prima accompagnava questo tipo di reati» (Gherardo Colombo) e che «per l’attività di contrasto alla corruzione in Italia potrebbe rivelarsi addirittura profetico quanto Joseph Roth scriveva a proposito della protagonista di uno dei suoi racconti: “Nessuno aveva desiderato che restasse in vita e perciò era morta”» (Piercamillo Davigo). È in questo contesto – e con queste implicazioni, anche culturali – che si colloca la scandalosa vicenda del pluriennale ritardo nella approvazione del disegno di legge sulla corruzione (destinato, tra l’altro, a recepire delle convenzioni europee vincolanti...). È sotto gli occhi di tutti l’incapacità (meglio, la mancanza di volontà) del Parlamento di licenziare il pur modesto testo in discussione. Ed è una responsabilità di tutte le forze politiche nessuna delle quali mostra, al riguardo, la determinazione necessaria. Da mesi in Parlamento è in atto una melina per tentare di differire, ancora una volta, l’approvazione della legge ovvero per renderla inoffensiva nel caso in cui l’indignazione popolare, provocata dal ripetersi degli scandali, ne imponga l’approvazione. Addirittura c’è chi propone emendamenti per agevolare ulteriormente la corruzione o assicurate l’impunità ai corrotti passati e futuri. Esattamente l’opposto di ciò che chiedono – anche con specifiche iniziative – milioni di cittadini (da quelli che hanno aderito all’iniziativa di Libera per la confisca dei beni dei corrotti a quelli che, in questi giorni, stanno sottoscrivendo richieste e appelli nella stessa direzione). Ancora una volta la politica si mostra incapace di cogliere che la misura è colma e che i rischi per la tenuta delle istituzioni sono sempre più elevati. Se la situazione dovesse degenerare sarà inutile e fuorviante attribuirne la responsabilità a chi protesta (magari in modo maldestro). Alessando Robecchi ha ricordato qualche giorno fa su «Il Manifesto» la risposta di Picasso agli ufficiali nazisti che, avendo visto Guernica gli chiedevano se l’avesse fatto lui: «No, questo l’avete fatto voi». Difficile trovare un richiamo più puntuale! ERRATA CORRIGE. Per un errore, nello scorso numero la frase nell’articolo “La Metro che verrà” di Manlio Melluso «l’ingegner Galluzzo [...] che non è iscritto nel registro degli indagati» è stata pubblicata come «è iscritto nel registro degli indagati». Sebbene dal contesto si deduca che si è trattato di un refuso, ce ne scusiamo con l’interessato, con il giornalista e con i lettori. 6 | ottobre 2012 | narcomafie Mafie in Canada La mattanza di Montréal La seconda guerra di mafia in Québec aveva relegato il clan Rizzuto a un ruolo da comprimari. Adesso la famiglia potrà contare sulla scarcerazione del padrino Vito, pronto a vendicarsi contro i Bonanno e a riconquistare il potere con il sangue. Ma nell’ombra si muove la ’ndrangheta che potrebbe diventare il terzo incomodo della faida Foto Le Studio 1 di Saul Caia 7 | ottobre 2012 | narcomafie Nell’immaginario collettivo il Canada è legato alla florida vegetazione, alle catene montuose, ai grandi laghi. Descrivendo il paese non vengono in mente la parola mafia, i giochi di potere, gli attentati, i conflitti a fuoco. Eppure a Montréal, nella regione del Québec, la seconda città per numero di abitanti e per italiani residenti, tutto questo lo conoscono bene. In questi giorni, in molti, aspettano il ritorno di Vito Rizzuto, l’ultimo padrino del Nord America, scarcerato il 6 ottobre, dopo aver scontato una condanna di 10 anni nel penitenziario di Florence, in Colorado. Considerato il “Teflon Don”, letteralmente il “don impermeabile”, per la sua capacità di essere prosciolto da ogni accusa, era finito in manette grazie alla ricostruzione di Joe Pistone (l’agente Fbi passato alle cronache anche cinematografiche per le sue importanti operazioni da infiltrato, meglio noto come Donnie Brasco), e al pentimento di Salvatore Vitale, che racconta nel 2004 come si erano svolti tre diversi omicidi commessi ai danni del clan Bonanno. Philip “Philly Lucky” Giaccone, Dominick “Big Trin” Trinchera e Alphonse “Sonny Red” Indelicato vennero freddati nel 1981 con la complicità di Vito. Con l’accusa di triplice omicidio, gli Stati Uniti chiedono al Canada l’estradizione del boss, ma bisognerà attendere 31 mesi di battaglie legali prima che venga concessa. Adesso che Rizzuto è tornato in libertà molti sono convinti che il padrino desideri riprendersi, anche con il sangue, quello che gli antagonisti gli hanno tolto negli ultimi anni. Alle origini dell’impero. La storia dei Rizzuto ha come inizio la Sicilia. A Cattolica Eraclea, piccolo comune in provincia di Agrigento, nasce nel 1924 Nicolo Rizzuto. Figlio di contadini, inizia da ragazzo come “campiere”, ovvero guardiano dei latifondi terrieri, guadagnandosi la stima e il rispetto del suo padrone, il barone Agnello. In seguito sposa Libertina Manno, figlia di Antonino, boss del paese. L’Italia è appena uscita dalla seconda guerra mondiale. Per molti il sogno è l’America. Nicolo insieme alla moglie e i due figli decide di emigrare a Montréal nel 1954. All’epoca la mafia del Nord America era un’altra cosa. Calabresi, campani, pugliesi e siciliani univano le forze sotto lo stesso tetto per controllare il territorio. Nick, come venne ribattezzato nel nuovo continente, entrò ben presto nella “succursale canadese” dei Bonanno guidata dal boss calabrese Vic “The Egg” Cotroni. Nel 1975, però, il padrino scelse di farsi da parte e lasciare il comando al suo uomo di fiducia, Paul Violi, anche lui calabrese. Ma Nick non è più il giovane “campiere” di un tempo. L’esperienza canadese lo ha cambiato, il suo carisma lo ha trasformato in un leader e i suoi contatti lo spingono a non accettare la decisione di Controni. Sceglie di intraprendere un’altra strada, quella del sangue. La mattanza di Montréal. Lentamente inizia una guerra fredda fra le due famiglie che si contendevano il potere. I porti del Canada sono fondamentali per il commercio dell’eroina, e per questo entrambe le fazioni sono disposte a tutto. Da una parte ci sono i siciliani, guidati da Rizzuto e legati al clan agrigentino dei Cuntrera-Caruana, noti come i “banchieri di Cosa nostra”, già ampiamente inseriti nel commercio degli stupefacenti che dal Sud America transitava in Canada per poi essere commercializzato in America ed Europa. Dall’altra ci sono i calabresi capeggiati dai Violi, vicini alla famiglia dei Bonanno di New York, coinvolti nell’operazione “French Connection” per il commercio di eroina dagli Stati Uniti alla Francia. Per sfuggire alla morte, Nick lascia il Canada insieme alla famiglia e si rifugia in Venezuela, ma con l’ausilio del cognato Domenico Manno orchestra da lì la prima guerra di mafia che sconvolgerà Montréal. La faida si apre il giorno di San Valentino del 1976 quando Pietro Sciara, considerato uno dei consiglieri del boss Violi, viene freddato in strada insieme alla moglie, guarda caso aveva appena visto al cinema il “Padrino II”. L’anno successivo cade, crivellato da colpi di pistola e fucile da caccia, Francesco Violi, fratello minore del boss e garante economico della famiglia. Poi a gennaio ’78 è la volta del padrino, Paul Violi, ucciso da un colpo di fucile alla testa mentre giocava a carte nel suo bar nella Little Italy di Montréal. La mattanza Nick Rizzuto amministra gli affari come un uomo d’onore d’altri tempi. Niente pizzini o messaggi scritti, solo poche parole, come si faceva nelle tradizionali famiglie mafiose dei vari Greco e Badalamenti Il ritorno del Padrino 8 | ottobre 2012 | narcomafie Intervista ad Antonio Nicaso di S.C. Antonio Nicaso, giornalista e scrittore calabrese, autore di diversi libri sulla criminalità organizzata, tra i quali Fratelli di sangue e La malapianta pubblicati insieme al procuratore Nicola Gratteri. Dopo l’esecuzione del padrino Nicola Rizzuto senior, il clan aveva subito un pesante indebolimento dovuto anche all’arresto di Vito. Qual è la situazione attuale? La sfida ai Rizzuto coinvolge vecchi nemici e nuovi rivali. Con l’estradizione di Vito, si è creato un vuoto di potere, e tutti hanno cercato di trarre vantaggio. C’è un’ipotesi investigativa, che dietro questa sfida ci sia la ’ndrangheta, che però in questi anni non è mai apparsa, non è mai stata coinvolta direttamente in nessun omicidio. C’è chi sostiene che abbia ispirato e motivato tutti coloro che avevano risentimenti e rancori verso Vito Rizzuto. La ’ndrangheta della Locride si era guardata bene dallo spingersi fino a Montréal, lo ha fatto adesso visto che c’è questo vuoto di potere, perché sta cercando nuove rotte per il traffico di cocaina. Spesso chi controlla Montréal controlla il mercato della cocaina negli Stati Uniti, in quanto è facile far sparire un container dal “Port de Montréal” e poi trasferire il contenuto passando attraverso riserve cuscinetto che sorgono proprio a confine tra Canada e Stati Uniti. Quindi la ’ndrangheta potrebbe essere il terzo incomodo nella faida Rizzuto e Bonanno, ma questi ultimi resteranno a guardare? Gli omicidi dei due leader delle gang locali (Big Dupuy e Lamartine dei Bo-Gars, ndr.) sembrano una chiara indicazione di un tentativo di rivalsa dei Rizzuto, che potrà contare sulla scarcerazione di molti esponenti del clan che erano stati coinvolti nell’operazione “Colosseo”. I Bonanno vorrebbero riguadagnare il potere su Montréal ma non hanno i mezzi per poterlo fare. Montagna è stato vittima di questo scontro che si è creato con Raynald Desjardins, braccio destro di Rizzuto: probabilmente anche lui ha cercato di trarre vantaggio dalla situazione, e suppongo che i due non si siano messi d’accordo e alla fine si sono fatti la guerra. Secondo me l’unica vera organizzazione capace di controllare la situazione, e indirizzarla in un modo o nell’altro, è la ’ndrangheta che in Canada ha grossi investimenti, potenzialità e risorse. Su chi potrà contare Vito al momento del suo ritorno a Montréal? Principalmente sui giovani che sono stati recentemente scarcerati dopo le condanne per l’operazione “Colosseo”, quindi penso a Giordano, e bisognerà capire cosa farà Francesco Arcadi, uno degli stretti alleati dei Rizzuto: pare che si sia allontanato dalla famiglia e sia uno di quelli che sta favorendo l’ingresso della ’ndrangheta nel Québec. In questo momento la cosa più difficile è definire le strategie, le alleanze. Cambiano continuamente. Quello che sta succedendo è il chiaro sintomo di una situazione senza controllo: prima queste cose non succedevano a Montréal, quindi il fatto che adesso ci siano tutte queste schegge impazzite, tutta questa violenza, questa lunga scia di sangue, chiaramente dimostra che non c’è un’organizzazione capace di controllare il territorio come avveniva ai tempi dei Rizzuto. Montréal è una sorta di polveriera, pronta ad esplodere. Penso che un boss del carisma e della potenza criminale come Vito Rizzuto non possa accettare così passivamente le perdite subite senza fare niente, quindi io mi aspetto un incremento del livello di violenza e conflittuale su Montréal. Montréal e il Canada sono molto di più che il semplice controllo della droga. Quali erano le principali attività della famiglia Rizzuto? La storia della famiglia Rizzuto è una storia di relazioni, adesso noi ci soffermiamo sull’ala militare o nel coinvolgimento di quest’organizzazione nel traffico di droga, ma spesso non si tiene conto delle loro relazioni con la politica, con l’imprenditoria. Chi sta cercando di prendere il posto dei Rizzuto non dovrà soltanto mettere le mani sul territorio e controllarlo, ma dovrà anche entrare in contatto con quelle realtà che hanno contribuito a rafforzare il potere dei Rizzuto. La famiglia era molto forte nell’ambito politico, imprenditoriale e nel settore delle costruzioni. 9 | ottobre 2012 | narcomafie si concluse con l’esecuzione di Rocco, ultimo dei fratelli Violi, freddato da un cecchino mentre si trovava seduto al tavolo da pranzo in cucina insieme alla famiglia. Un potere incontrastato. Con lo sterminio dei Violi nessuno mette più in discussione il volere dei Rizzuto. Nick rientra a Montréal per prendere il pieno possesso degli affari canadesi. Inizia così l’impero incontrastato della famiglia, che con i suoi tentacoli controlla il territorio e il traffico della droga, orchestrando estorsioni, riciclaggio e racket. Nick Rizzuto amministra gli affari come un uomo d’onore d’altri tempi. Niente pizzini o messaggi scritti, solo poche parole, come si faceva nelle tradizionali famiglie mafiose dei vari Greco e Badalamenti. Al “Club Social Cosenza”, un modesto bar dove si riunivano frequentemente emigrati meridionali per passare il tempo giocando a carte e chiacchierando, il padrino detta gli ordini. Negli scantinati c’è il quartier generale del clan Rizzuto. Tutto viene diretto nell’ombra, per lui il rispetto e l’omertà valgono più di ogni cosa. Al suo fianco emerge piano piano la figura del figlio Vito, decisamente più innovativo del padre. Conosce quattro lingue, veste alla moda e frequenta gli ambienti di classe. Gioca a golf e ama viaggiare. La visione di Vito è quella di una mafia globale, allargata a ogni ambito. La droga serve per ottenere i soldi, che poi vengono velocemente reinvestiti nei mercati finanziari, nell’edilizia e in attività commerciali. A supporto ci sono specialisti, figure preparate per riciclare il denaro velocemente e senza intoppi. Commercialisti, avvocati, giudici, broker e prestanome servono per garantire benzina alla macchina. In breve tempo Montréal diventa il centro di un mercato dove lecito e illecito si fondono senza che si sappia dove finisca uno e inizi l’altro. Vito instaura numerosi rapporti d’affari con imprenditori e politici. Tra questi c’è Antonio “Tony” Magi, proprietario della Construction Ftm. Si è spesso sospettato del legame, seppure mai confermato, con Pietro Rizzuto, anche lui nato a Cattolica Eraclea ed emigrato in Canada negli anni 50. Primo cittadino italocanadese a essere eletto al senato, nonché proprietario della “Stato Inter Pavimenti Inc.”, passata alla storia per il crollo del cavalcavia “Concorde” nel 2006, dove persero la vita 5 persone. Il potere dei Rizzuto pian piano aumenta sempre di più, mentre la Royal Canadian Mounted Police, ovvero le giubbe rosse, prova in tutti modi a contrastare il loro impero. Nel 1990 la polizia canadese s’infiltra nel sistema del riciclaggio ammanettando diversi affiliati della famiglia, ma non basta per assicurare alla giustizia i boss. Vito Rizzuto è decisamente più innovativo del padre. Conosce quattro lingue, veste alla moda e frequenta gli ambienti di classe. Gioca a golf e ama viaggiare. La visione di Vito è quella di una mafia globale, allargata a ogni ambito. La droga serve per ottenere i soldi, che poi vengono velocemente reinvestiti nei mercati finanziari, nell’edilizia e in attività commerciali 10 | ottobre 2012 | narcomafie Grazie all’operazione “Brooklyn”, condotta dalla Dda di Roma nel 2005, emerge il tentativo d’infiltrazione dei Rizzuto nella realizzazione del Ponte sullo Stretto. La famiglia di Montréal era pronta ad investire 5 milioni di euro per diventare partner ufficiali dello Stato italiano Scacco matto al padrino. Grazie all’operazione “Brooklyn”, condotta dalla Dda di Roma nel 2005, emerge il tentativo d’infiltrazione dei Rizzuto nella realizzazione del pon ponte sullo Stretto di Messina. La famiglia di Montréal era pronta a investire 5 milioni di euro per diventare partner ufficiale dello Stato italiano, per quell’opera sponsorizzata politicamente da Silvio Berlu Berlusconi. Il contatto tra Canada e Italia lo gestiva Giuseppe Zappia, un 80enne ingegnere italocanadese, che viaggia viaggiava tra Montréal e Roma con il compito di reinvestire gli ingenti capitali della mafia nella realizzazione di nuove infrastrutture. Un anno più tardi è ancora l’Italia a chie chiedere l’estradizione dei boss per l’operazione “Orso Bruno Gold”, condotta dalla Dia di Roma e dalla Guardia di fi finanza di Milano, che stabiliva come i Rizzuto riciclassero oltre 600 milioni di dollari attraverso una società made in Italy. I Rizzuto continuano a incassare colpo su colpo fino all’estradizione negli Stati Uniti di Vito, che indebolisce definitivamente il clan. A complicare le cose sarà l’operazione “Colosseo”, che per la prima volta vedrà trionfare le giubbe rosse contro la famiglia di Cattolica Eraclea. Nonostante in Canada non sia presente nel codice giudiziario la voce «associazione per delinquere di stampo mafioso», vennero arrestati 90 affiliati del clan, compresi i vertici della cupola. I reati contestati andavano dal traffico di droga alle scommesse clandestine comprese quelle sul web, passando per il possesso di beni ottenuti illegalmente e il reato di gangsterism. Le numerose vicende giudiziarie avevano messo in ginocchio i Rizzuto, eppure i problemi non erano ancora finiti. Nell’agosto 2009 viene ucciso Federico Del Peschio, affiliato del clan. Da quel momento saltano gli equilibri e inizia una sequen- za di omicidi che segnerà la seconda strage di sangue. Nel dicembre dello stesso anno viene freddato Nick Rizzuto jr., figlio di Vito, sepolto in una bara placcata in oro, mentre nel maggio 2010 scompare misteriosamente Paolo Renda, cognato del padrino Nicolo. Un mese più tardi vengono assassinati Agostino Cuntrera e il suo guardaspalle Liborio Sciascia. A Siculania, terra d’origine di Cuntrera, si terrà persino una messa in memoria del boss, con don Leopoldo Argento, prete della chiesa del Santissimo Crocifisso, che nell’omelia parlerà della «bontà e generosità» del vecchio mafioso. Tre mesi più tardi è la volta di Ennio Bruni. In meno di un anno sei omicidi, tutti ai danni del clan Rizzuto, tutti elemento di spicco della famiglia ormai in evidente declino, culminati con l’ultimo eccellente tassello, quello del padrino Nicolo. A Cartierville, in uno dei vecchi distretti di Montréal, a due passi dal ParcNature du-Bois-du-Saraguai in un’ampia area residenziale viene consumato lo scacco finale. Nella sua casa di Avenue Antoine Berthelet, mentre si trovava nel suo salotto, viene ucciso da un killer l’86enne boss. Un omicidio che trova delle similitudini con quello di Rocco Violi. La resa dei conti. In molti sospettano che la seconda guerra di mafia sia stata orchestrata dalla famiglia Bonanno desiderosa di riconquistare Montréal. La supposizione è legata al nome di Salvatore Montagna, detto anche “Ironworker” (il fabbro, per via della ferramenta che possedeva a Brooklyn). Nato in Canada da genitori siciliani si trasferì in seguito nel Bronx. A New York entra in contatto con la famiglia dei Bonanno, diventando il braccio destro di Salvatore Vitale detto “il Bello”. Dalle relazioni dell’Fbi, si legge che nel 2005, quando viene arrestato Vincent “Vinny Gorgeous” Basciano, diventa action boss” e caporegime della famiglia Bonanno, conquistandosi il nomignolo di “boss bambino”, per aver ricevuto l’investitura a soli 36 anni. Per essersi rifiutato di collaborare con la giustizia, dopo aver trascorso 5 anni di carcere, e non possedendo la cittadinanza americana, viene espulso dal paese e fa ritorno a Montréal. Secondo le autorità canadesi, era stato Montagna a colmare il vuoto lasciato dai Rizzuto in Québec, fino al 24 novembre 2011, quando il suo corpo fu ritrovato, nel giorno del Ringraziamento, immerso nel fiume Assomption, a Charlemagne, nel nord-est della città, segnato da diversi colpi di arma da fuoco. Un mese prima era stato ucciso Lorenzo Lo Presti mentre fumava una sigaretta sul balcone di casa. Quest’ultimo era il braccio destro di Antonio Pietrantonio detto “Suzuki”, per via della sua concessionaria, uomo di Montagna e dei Bonanno, sfuggito a un attentato il 13 dicembre 2011. Tutti segnali che aggiunti agli omicidi di Big Chenier Dupuy e Lamertine Severe Paul, capi delle gang locali dei “Bo-Gars” e vicini a Joseph Ducarme e ai Bonanno, hanno fatto pensare a una possibile vendetta dei Rizzuto, che nel frattempo ha però perso altri due uomini: Giuseppe “Clorure” Colapelle e Salvatore Silletta, freddati a marzo. Nell’ombra della ‘ndrangheta. Ma l’escalation di sangue che ha definitivamente rotto gli equilibri che vigevano in Canada, potrebbe avere un terzo incomodo. Il sospetto è che dietro la nuova faida possa esserci la mano nera della ’ndrangheta, il temuto “Siderno Group” della Locride, che in Ontario ha una sua base e per la prima volta sembra spingersi verso Montréal. Ampiamente inserita nel circolo del narcotraffico internazionale, grazie agli stretti rapporti con i cartelli sudamericani, la ’ndrangheta avrebbe deciso di cambiare i suoi piani e puntare verso la conquista del Québec, per controllare i porti che favorirebbero il commercio della cocaina negli Stati Uniti. Al padrino Rizzuto potrebbero non bastare gli aiuti dei fidati Sabatino Niccolucci, Pietro “Peter” Scarcella e degli altri affiliati scarcerati recentemente, Vito avrà bisogno di riorganizzare le forze e stringere nuove alleanze prima del possibile scontro finale, sperando sempre che le autorità canadesi riescano a evitare una nuova mattanza. È una federazione di ’ndrine provenienti dalla costa tirrenica della Calabria, che comprende le famiglie di Roccella Ionica, Marina di Gioiosa e appunto Siderno, dalla quale prende il nome. Un panettiere, tale Michele Racco, negli anni 50 emigra in Canada per volere di Antonio Macrì, meglio noto come “Zi ’ntoni”, il boss della Locride. L’obiettivo era quello d’instaurare dei proficui rapporti con il nuovo continente e aumentare il giro d’affari delle famiglie. L’espansione del gruppo ha il suo culmine a cavallo tra gli anni 70 e 90, con il passaggio di consegne da Macrì a Giuseppe Coluccio di Gioiosa Marina, che avvalendosi di Roberto Pannunzi e dei suoi contatti con i cartelli colombiani controlla parte del narcotraffico. In una maxioperazione del 1993 coordinata tra Canada, Stati Uniti, Italia e Australia, la Dia di Reggio Calabria evidenziò come le cosche joniche spedissero l’eroina nel nuovo continente per scambiarla con la cocaina colombiana. Gli stupefacenti erano pagati con il denaro proveniente dai sequestri di persona e dalle estorsioni, che a sua volta veniva cambiato in valuta canadese da un’agenzia affiliata di Toronto. Il circolo si completava con il reinvestimento del denaro nella Bank America International di Manhattan che permetteva l’acquisto della cocaina. La “Coluccio Group”, come l’ha successivamente ribattezzata il giornalista Giovanni Tizian, ha subito un indebolimento nel 2005 in seguito all’operazione “Nostromo” condotta dal pm della Dda di Reggio Calabria Nicola Gratteri. In quell’occasione è stato emesso il mandato di cattura per il boss Coluccio, considerato uno dei 30 latitanti più pericolosi d’Italia. Solo nel 2008 è stato arrestato all’interno del suo lussuoso appartamento in un grattacielo di Toronto, in possesso di un milione di dollari in travel cheques. Il Siderno Group 11 | ottobre 2012 | narcomafie 12 | ottobre 2012 | narcomafie brevi di mafia Condannata per truffa la vedova Fortugno Maria Grazia Laganà (nella foto, ndr.), vedova di Franco Fortugno, il vicepresidente del Consiglio regionale della Calabria ucciso a Locri il 16 ottobre del 2005, è stata condannata a due anni di reclusione (pena sospesa) per truffa, falso e abuso. L’inchiesta riguarda fatti del 2005, quando la parlamentare del Pd (che si è autosospesa dal gruppo parlamentare, da ogni incarico di partito, da iscritta al Pd, ma non dal suo ruolo di deputato) era vicedirettore sanitario all’ospedale di Locri, e riguarda una commessa da 135mila euro per l’acquisto di prodotti ospedalieri per il pronto soccorso – di cui Fortugno era il primario –, affidata senza indire una pubblica gara. L’azienda con cui Maria Grazia Laganà aveva trattato privatamente era la Medinex di Pasquale Rappoccio, già in carcere dall’ottobre 2011 – a seguito dell’operazione Reggio Nord condotta dal Ros dei Carabinieri guidato da Giampaolo Ganzer (il generale condannato in primo grado a 14 anni per narcotraffico internazionale) – con l’accusa di essere un prestanome del sistema ’ndranghetistico costituito da Bruno Tegano per conto dell’ex superlatitante Domenico Condello (arrestato lo scorso 10 ottobre dopo vent’anni di ricerche). Anche Rappoccio – finanziatore della pallavolo, conosciuto come “il Berlusconi del volley” per le cifre che era capace di immettere nelle campagne acquisti – è stato condannato dai giudici del tribunale di Locri, presieduti da Alfredo Sicuro, per falso e abuso a un anno e quattro mesi, così come Maurizio Marchese, ex dirigente dell’Asl di Locri. Il Centro Pio La Torre si appella ai candidati alle primarie Vito Lo Monaco, presidente del Centro Pio La Torre, sulle pagine dell’«Unità» ha scritto una lettera ai candidati alle primarie per ribadire la priorità dei temi dell’antimafia nell’agenda politica. «Al movimento antimafia, già ampiamente articolato sul piano culturale, sociale e territoriale – scrive Lo Monaco –, manca un’elaborazione autonoma del centrosinistra sul ruolo che la mafia (o le mafie) ha assunto in modo sempre più marcato nel corso di questi ultimi decenni di finanziarizzazione del sistema economico nazionale e internazionale. Continuare a parlare di infiltrazioni è riduttivo rispetto al ruolo da essa esercitato quale braccio strutturale e illegale di una parte della classe dirigente che ha sempre storicamente preferito sfuggire alle regole della democrazia e del mercato veramente libero. Non considerare questo [...] limita la vista rispetto alla complessità del fenomeno mafioso, sia delle sue compenetrazioni istituzionali, politiche, economiche, sociali che della corruzione. E inoltre impedisce l’analisi delle contraddizioni: una di queste è che tutti si dichiarano antimafiosi, ma se la repressione raccoglie successi, la prevenzione politica e istituzionale tentenna, col risultato che le organizzazioni mafiose sono rafforzate dall’attuale crisi. [...] Il contrasto non può essere delegato solo alla magistratura e alle forze di polizia o alla cosiddetta società civile [...]. La questione della lotta alla mafia è prima di tutto una questione politica [...]. La lotta alla mafia per il centrosinistra del futuro deve essere più di sostanza programmatica e meno di apparenza mediatica». In merito alle elezioni amministrative del 28 ottobre per l’Assemblea regionale siciliana, invece, pesanti intercettazioni confermano le intenzioni di Cosa nostra di inquinare la politica. Il neo avvocato generale dello Stato Ignazio De Francisci aveva dichiarato che «Cosa nostra darà i propri voti solo a chi si impegna a ricambiare con concreti favori». Ai seggi, che hanno assegnato la presidenza della Regione all’ex sindaco antimafia di Gela e parlamentare europeo Rosario Crocetta (Pd), si è registrato un forte astensionismo, ancora da decifrare. a cura di Manuela Mareso Napoli, bandito l’obelisco della camorra: “Più potente di un arsenale” Molto più che una semplice torre di legno e cartapesta per sfilare nelle strade e celebrare la “festa dei gigli”. Come non di rado accade nelle ricorrenze religiose (anche se questa secondo i vescovi campani è esclusivamente pagana), l’obelisco di Barra, quartiere di Napoli, era in realtà lo strumento per rendere omaggio ai boss e riconfermare il loro potere. «L’Insuperabile non è un giglio qualsiasi, è il simbolo oscuro della famiglia Cuccaro, di una camorra che ha bisogno di mostrarsi, più potente di un intero arsenale» scrive il gip Antonella Terzi nel provvedimento che, su richiesta del pm Vincenzo D’Onofrio, ne ha disposto il sequestro. I carabinieri avevano infatti acclarato che il clan Cuccaro vessava i commercianti dietro il paravento dell’acquisto di gadget del giglio, e che quest’anno l’area di influenza era non solo il quartiere Barra, ma anche il comune di Cercola, nel vesuviano, controllato dal clan Sarno fino a che il gruppo è stato smantellato. I Cuccaro-ApreaAlberto, avendo allargato il loro dominio fino a questo territorio, avrebbero confermato il loro status facendo esporre ai commercianti di Cercola i gadget del giglio. A Barra la consueta festa di fine settembre è stata comunque onorata: i fan della paranza hanno sfilato con la sola maglietta rossa e blu, i colori tradizionali del rione. 13 | ottobre 2012 | narcomafie brevi di mafia ‘Ndrangheta in Piemonte, le operazioni continuano Con 22 arresti, l’operazione “Colpo di coda”, condotta all’alba del 23 ottobre dai Carabinieri del comando provinciale di Torino, prefigura l’esistenza in Piemonte di altre due locali di ’ndrangheta, a Livorno Ferraris (Vc) e Chivasso (To), comune che a settembre il ministro Cancellieri, alla luce della relazione della commissione prefettizia d’accesso, aveva deciso di non sciogliere per mafia e in cui dalla nuova operazione una pista politica è emersa, sebbene in relazione alle amministrative del maggio 2011, quando le cosche sarebbero state in grado di manovrare circa 300 elettori chivassesi, risultati decisivi per l’elezione del sindaco del Pd, Gianni De Mori (non indagato), dimissionario lo scorso gennaio per motivi di salute. Secondo quanto riportato nell’ordinanza, l’organizzazione ha consentito «l’elezione di un sindaco che assicurasse al sodalizio criminale non solo appalti e commesse pubbliche, ma anche di entrare “fisicamente” nella giunta e di ampliare il proprio giro di affari e di influenze nelle attività economiche direttamente (o indirettamente) gestite e ciò con l’avallo delle istituzioni anche sopracomunali o con il connivente silenzio di non penale rilevanza ma di certa censura». La ’ndrangheta si sarebbe presentata a entrambi i candidati al ballottaggio con una proposta di sostegno, quando ad affrontarsi erano Gianni De Mori (Pd) e Bruno Matola (Pdl). Il Pdl, tramite il senatore Andrea Fluttero, rifiutò per ragioni di opportunità politica, mentre De Mori accettò e vinse. Tra gli arrestati figurano anche personalità che hanno ricoperto rilevanti cariche pubbliche, come Nicola Marino, consigliere fino allo scorso giugno della Chind spa, società partecipata dal comune di Chivasso per il 55%, insieme alla provincia di Torino (15%), l’Unione industriale Torino (2%), l’Api Torino (2%), e la Cna (1%). Intanto si è aperto lo scorso 18 ottobre nell’aula bunker del carcere Lo Russo-Cotugno di Torino il processo per l’operazione Minotauro, che nel giugno 2011 ha portato all’arresto di oltre 150 presunti affiliati alla ’ndrangheta operanti da anni in Piemonte. La procura di Torino chiamerà a testimoniare sindaci, consiglieri regionali, deputati, i cui nomi sono comparsi nell’ordinanza di custodia cautelare, al fine di dimostrare il potere delle cosche nel condizionamento politico locale. Hanno fatto richiesta di costituzione come parte civile la regione Piemonte, la Provincia, i comuni di Torino, Leinì (richiesta rigettata per vizi di forma: l’avvocato scelto dall’allora commissario Francesco Provolo – Vittorio Giaquinto, del foro di Santa Maria Capua Vetere, noto penalista nel casertano per essere il difensore del boss di Scampia Paolo Di Lauro – ha mandato in udienza un sostituto senza procura speciale), Volpiano, Chivasso e Moncalieri e l’associazione Libera. Il processo riguarda 75 imputati: gli altri 73 hanno scelto il rito abbreviato (che garantisce lo sconto di un terzo della pena), nel quale sono già state comminate il 2 ottobre condanne per un totale di 370 anni di carcere; 12 le assoluzioni, tra cui risultano i figli di alcuni ’ndranghetisti di rango. La condanna più alta è per Bruno Iaria (13 anni e 6 mesi), capolocale di Cuorgnè e nipote di Giovanni, fino agli anni 90 referente locale del Psi, condannato a 7 anni. Nella lettura del dispositivo della sentenza da parte del gup Cristiano Trevisan si parla anche della confisca definitiva di un patrimonio di circa 50 milioni di euro: da immobili di scarso valore a imprese, anche finanziarie. L’8 ottobre per il processo Maglio-Albachiara del basso Piemonte, invece, operazione effettuata poco tempo dopo Minotauro, il gip Massimo Scarabello ha assolto i 17 imputati. Tra questi Bruno Pronestì, che aveva ammesso la sua affiliazione alla ’ndrangheta (condannato a un anno e sei mesi per detenzione di arma non denunciata), e Giuseppe Caridi, il consigliere comunale del Pdl di Alessandria accusato di aver creato un clima di pesante intimidazione. Gian Carlo Caselli (nella foto, ndr.) – procuratore della Repubblica di Torino ha dichiarato: «Lette le motivazioni, la procura di Torino farà certamente ricorso. Siamo infatti serenamente convinti della fondatezza dell’accusa. Il procedimento denominato “Albachiara” ha dimostrato ampiamente ed univocamente l’esistenza della ’ndrangheta nel basso Piemonte e le relative responsabilità dei singoli imputati. Le prove raccolte si basano su imponenti riscontri nei fatti e sulle dichiarazioni rese da associati al sodalizio criminoso. Una copiosa giurisprudenza della Corte di cassazione avvalora le valutazioni dell’accusa». 14 | ottobre 2012 | narcomafie brevi di mafia Sciolto il comune di Reggio Calabria. Scopelliti accusa i giornalisti È il primo consiglio comunale di città capoluogo a subire lo scioglimento, il cui fantasma è stato contestato settimane prima che si presentasse, con discusse raccolte firme per appelli a tutela della “Reggio-bene” e manifestazioni di studenti a difesa del buon nome della propria città. Il provvedimento che porterà Reggio Calabria a essere amministrata per i prossimi diciotto mesi da una commissione di tre membri (il prefetto di Crotone Vincenzo Panico, il viceprefetto Giuseppe Castaldo e il dirigente dei Servizi ispettivi di finanza pubblica della Ragioneria generale dello Stato Dante Piazza) è stato deciso all’unanimità dal Consiglio dei ministri e annunciato dal ministro dell’Interno Anna Maria Cancellieri. Lo scioglimento non è per infiltrazioni mafiose, ma “per contiguità”: «Un atto preventivo e non sanzionatorio, una decisione sofferta, documentata, studiata e approfondita», ha spiegato Cancellieri riferendosi all’analisi della corposa relazione che ha documentato lo stato dell’amministrazione, che risulta in continuità con quella precedente – guidata da Giuseppe Scopelliti (nella foto, ndr.), ora presidente della Regione – dal momento che «su nove assessori ben quattro erano componenti delle precedenti giunte; due attuali consiglieri facevano parte della compagine che ha amministrato l’ente dal 2007». Il ministro ha voluto sottolineare che non si tratta di «un atto contro la città», ma «di rispetto per la città». Di diverso parere il sindaco Demetrio Arena, che in un comunicato ha parlato di «ingiusta criminalizzazione dell’intera comunità reggina»: «Il provvedimento, di carattere “preventivo” e “non sanzionatorio”, presuppone che l’amministrazione “abbia posto in essere alcune azioni che potrebbero portare a contiguità con alcuni ambienti della criminalità organizzata”. Emerge inoltre che consiglio, amministrazione e sindaco, non abbiano, nel contempo, posto in essere efficaci attività preventive nei confronti della stessa. Mi lascia perplesso la circostanza che tutto ciò si sarebbe configurato nell’arco temporale dei primi sei mesi di attività presi in considerazione dalla commissione d’accesso. Nel merito si contesta quindi al sindaco, all’amministrazione e al consiglio comunale di non essere riusciti a contrastare efficacemente un cancro che attanaglia da secoli il Meridione e che si è esteso ormai a tutto il territorio nazionale». Dello stesso avviso anche il governatore Giuseppe Scopelliti, attualmente impegnato su diversi fronti giudiziari (è indagato nell’ambito del cosiddetto “Caso Sarlo”, rinviato a giudizio nel processo sul “Caso Fallara”, in attesa del processo d’appello per la mancata bonifica della discarica di Longhi Bovetto e indagato in qualità di commissario ad acta per l’attuazione del piano di rientro della sanità). Il presidente della regione Calabria ha parlato di un complotto da parte dei media: «Esiste un sistema che vede in campo una cerchia ristretta di giornalisti che non hanno interesse per il bene della Calabria». Arrestato Di Caterino, ultimo boss dei Casalesi È stato scovato mentre si trovava nascosto nel bunker realizzato dietro il box doccia di un appartamento di Francolise (Caserta) apparentemente ano- nimo, in realtà vero e proprio covo dotato di strumentazione anti-intercettazioni e di un impianto di videosorveglianza per il controllo del rione. Senza opporre resistenza agli agenti della squadra mobile di Caser Caserta, coordinati dal procuratore aggiunto Federico Cafiero De Raho e dal pm Catello Maresca, è finita così la latitanza di Massimo Di Caterino, braccio destro di Michele Zagaria, superboss dei Casalesi arrestato il 7 dicembre 2011 dopo 16 anni di indagini. Al momento della cattura Di Caterino aveva in tasca 10mila euro e una pistola calibro 7.65. A lui gli agenti sono arrivati pedinando la moglie, Marianna Zara. Prete coraggio inchioda gli uomini di Zagaria. E le vittime collaborano La sua omelia ha dato impulso a indagini che hanno portato all’arresto di sette uomini legati a Michele Zagaria, super boss il cui arresto aveva determinato un aumento nel casertano di estorsioni a danno di imprenditori, costretti a versare ai casalesi decine di migliaia di euro. «Questo paese non cambierà mai», aveva pronunciato dall’altare don Vittorio Cumerlato, vice parroco della chiesa di Santa Croce di Casapesenna, che aveva raccolto le dolorose testimonianze di alcune vittime. Le sue parole hanno sollevato l’interesse degli inquirenti, che lo hanno ascoltato come persona informata sui fatti riuscendo poi a risalire al racconto di alcuni suoi fedeli, che, sebbene non avessero denunciato spontaneamente le vessazioni subite, una volta interrogati hanno chiarito le modalità di pagamento e fatto i nomi di mandanti ed esattori. Alla domanda postagli dal «Mattino» “Qual è il suo messaggio agli imprenditori e alla gente per bene?”, don Cumerlato risponde: «Più che a loro parlerei ai politici, alla magistratura e al mondo mediatico. Direi loro: “Fateci crescere, non bastonateci: dateci il tempo per cambiare e indicateci le vie per risanare le nostre terre”». 15 | ottobre 2012 | narcomafie Donne di mafia Cosa nostra in rosa Amministravano le piazze dello spaccio di stupefacenti e reggevano le fila della cosca con la complicità di un’insospettabile dottoressa. Le donne del clan Cappello, arrestate a Catania lo scorso luglio, confermano l’importanza del ruolo femminile dentro Cosa nostra Foto di Fazen, Mathias Dalheimer di Dario De Luca 16 | ottobre 2012 | narcomafie Storie di donne e Cosa nostra Le due donne avevano assunto un ruolo verticistico al punto da poter minacciare un membro dello stesso clan per un debito non pagato dopo una fornitura di droga andata perduta Onorata società, mammasantissima, famiglia, cosca, mafia, tutti termini accomunati dall’essere di genere femminile, una costante grammaticale così come il ruolo delle donne dentro Cosa nostra. Una posizione viscerale, quasi sempre nascosta ma determinante nelle dinamiche storiche della mafia siciliana. A fare notizia normalmente sono i padrini, gli uomini d’onore, i latitanti e i picciotti morti ammazzati, a migliaia ad esempio in quella che negli anni 80 e 90 è stata una vera e propria guerra civile. La donna in quegli anni veniva raffigurata secondo quelli che poi diventarono luoghi comuni: inerme, vestita in segno di lutto, chinata e in lacrime sopra i corpi privi di vita di figli e mariti, con volti ridotti in brandelli di carne, vittime incapaci di uno “stile di vita” tutto maschile, quello dell’uomo d’onore. Negli anni “l’aspetto maschilista di Cosa nostra”, come lo definisce il magistrato Antonio Ingroia, è venuto sempre meno, in modo particolare nella gestione delle piazze dello spaccio di droga, rendita proficua e costante per ogni famiglia mafiosa. Utili irrinunciabili per pagare avvocati, sostenere le carcerazioni degli affiliati e benefit per potersi spostare in giro per l’Italia in un continuo alternarsi di penitenziari. Questi i tratti salienti che accomunano anche le donne appartenenti al clan dei “Cappello”, tratte in arresto dalla squadra mobile di Catania il 19 luglio, dopo una lunga attività investigativa coordinata dal sostituto procuratore della Dda etnea Pasquale Pacifico. Le cronache degli ultimi 40 anni hanno visto emergere a più riprese la presenza femminile nelle dinamiche della mafia siciliana, nella maggior parte dei casi legata al narcotraffico, come quella delle donne di Torretta, comune di quasi 3 mila anime a 18 km dalla città di Palermo che negli anni 80 entrò al centro di una maxi indagine (Iron Tower) condotta dai giudici Giovanni Falcone e Ignazio De Francisci sul traffico internazionale di eroina dalla Sicilia verso gli Stati Uniti. In quel periodo a catturare l’attenzione della procura di Palermo furono le cosiddette “signore della mafia”, insospettabili casalinghe e massaie con i capelli coperti da scuri foulard residenti in uno sperduto sobborgo siciliano che si mettevano a disposizione come corrieri della droga di Cosa nostra palermitana, prima dell’emergere dei “villani”, i corleonesi di Totò Riina. Viaggiavano a decine dall’aeroporto di Punta Raisi verso gli Stati uniti con reggiseni, panciere e mutande imbottite con chili di eroina pronta a invadere il mercato americano gestito dai Gambino. In cambio in Sicilia arrivavano un flusso continuo di denaro, miliardi di lire e chili di cocaina. Donne reggenti. La cocaina continua a scorrere a fiumi a Catania e il suo mercato principe è quello del rione di San Zia Callina, “capa” di Cosa nostra a 81 anni. La mafia non ha età anagrafica, a reggere le fila di Cosa nostra a Gela dal 2007 al 2009 era un’anziana signora, certo non una casalinga qualunque, ma Cristoforo. Lo stesso dove operava Bruna Strano, moglie di Alessandro Bonaccorsi, condannato con sentenza passata in giudicato a 16 anni e due mesi di reclusione per associazione mafiosa. Una pena talmente lunga nel tempo che non consentiva al marito di gestire gli affari, ecco quindi, secondo le indagini della Procura, emergere il ruolo della moglie che si occupava attivamente e a 360 gradi della gestione del traffico di stupefacenti. Si passava quindi dalla contabilità fino al taglio e alla consegna ai vari pusher. Proventi per migliaia di euro che la donna utilizzava per sostenere la detenzione dei membri del clan con la complicità della sorella Daniela. Un ruolo verticistico, quello assunto dalle due donne dentro una delle famiglie più attive nella mappa criminale di Catania, in un legame così solido da poter avere addirittura la la madre di Daniele Emmanuello, capo-mafia nella città del petrolchimico, latitante per 15 anni poi ucciso. Zia Callina, che di nome faceva Calogera Pia Messina, impartiva gli ordini agli affiliati, gestiva le estorsioni e i proventi dello spaccio. Una gestione così complessa che da sola “la signora” non poteva portare avanti tutto, ecco perché ad aiutarla c’era Virginia Di Fede, nuora di Callina e moglie del boss, curatrice della latitanza del marito e dei suoi summit con gli altri affiliati. «Donne di mafia», come le definì la Dda di Caltanissetta, che di Cosa nostra avevano recepito tutto, anche il bisbiglio nelle conversazioni con gli affiliati per evitare di essere intercettate. 17 | ottobre 2012 | narcomafie poliziotti nelle corsie del Vittorio Emanuele, nonostante però avesse già ricevuto denaro e regalie varie. Uno sgarbo questo, che fece andare su tutte le furie la moglie di Bonaccorsi. forza di minacciare un membro dello stesso clan per un debito non pagato dopo una fornitura di droga andata perduta. La dottoressa complice. Il ruolo delle donne in questa storia viene tratteggiato non solo nella gestione puramente mafiosa del traffico di stupefacenti, ma anche nella figura di una insospettabile dottoressa, Maria Costanzo, in servizio, prima di essere arrestata, presso il reparto di chirurgia di urgenza dell’ospedale Vittorio Emanuele di Catania. La professionista negli anni, secondo gli investigatori, avrebbe volutamente, su indicazione di Bruna Stano, cercato di falsificare il quadro clinico del marito, il condannato Alessandro Bonaccorsi, vittima nel 1997 di un agguato mafioso in cui riuscì a sfuggire alla morte, ma non a una ferita all’addome che gli causò una pancreatite. Una patologia questa compatibile con il regime carcerario ma che venne utilizzata come espediente, proprio grazie al medico compiacente per poter assaporare più volte la libertà. Si passò quindi da accertamenti clinici falsi che consentivano al condannato temporaneamente di uscire dal carcere fino al piano più ambizioso. Operare il detenuto, dopo la simulazione di un finto malessere legato all’aggravarsi della pancreatite, per procurargli tramite un intervento in sala operatoria una lacerazione del pancreas che accertata successivamente lo avrebbe reso totalmente incompatibile con la detenzione. Un piano che non riuscì a concretizzarsi, nonostante l’avvenuto ricovero legato al finto malanno: il medico, infatti, preferì desistere preoccupata dalla continua presenza dei Madri emissarie. Anche e soprattutto nel ruolo di madri, le donne di mafia sono emissarie. Come quella di Orazio Finocchiario, boss di primo piano del clan dei Cappello e aspirante a un ruolo di esponente di primo piano nel sodalizio mafioso catanese. Nonostante lo status di detenuto nel carcere di Udine sotto il regime del 41bis, nei mesi scorsi, tramite tre pizzini filtrati verso l’esterno con la complicità di un detenuto, Finocchiaro cercò di dare l’ordine di uccidere il sostituto procuratore della Dda di Catania Pasquale Pacifico, lo stesso che in diversi anni tramite molteplici indagini ha portato all’arresto di centinaia di elementi del clan. Un piano gestito interamente tramite pizzini che non riuscì a compiersi poiché le missive vennero intercettate. I contatti con l’esterno venivano garantiti, secondo le indagini, grazie al supporto della madre Maria Bonnici, definita il trait d’union fra il figlio e gli affiliati in libertà. I suoi compiti erano principalmente quelli di recare ordini, affermando che sarebbe stata lei a riferire eventuali risposte al figlio, suggerendo addirittura l’uso di un frasario criptico e nello stesso tempo discutendo della gestione delle “piazze” di spaccio. Sempre le stesse, piene di acquirenti quotidianamente pronti a rifocillare le casse della mafia con fiumi di euro. Il piano in cui era complice la dottoressa era ambizioso: operare il detenuto per procurargli una lacerazione del pancreas che, accertata successivamente, avrebbe reso il suo stato totalmente incompatibile con la detenzione In Francia l’antimafia si traduce... Ethicando di Marika Demaria, foto di Giada Connestari l’antimafiacivile cosenostre 18 | ottobre 2012 | narcomafie Pizza, mafia e mandolino. Pasta, mare e mafia. Gli stereotipi della nostra penisola che si esportano all’estero sono svariati e nella stragrande maggioranza dei casi alla bellezza delle arti, al clima mite, all’ospitalità delle persone si associa anche il termine “mafia”. Una sorta di equazione trasformatasi, nel corso degli anni, in un’etichetta. Un marchio che Ludovica Guerreri e Caterina Avanza hanno deciso di cancellare, accendendo in- vece un’insegna: quella della loro bottega “Ethicando”, al civico 6 di Rue de la Grange aux Belles che affaccia sul Canal Saint Martin di Parigi. Un luogo di 65 metri quadri dove l’etica dell’acquisto si coniuga con la bontà e la qualità di prodotti made in social, frutto del lavoro di quindici cooperative italiane. «Sui nostri scaffali – spiega Ludovica – si possono trovare non solo prodotti qualitativa- mente buoni, ma che raccontano una storia. Quella dei beni confiscati alle mafie, del lavoro all’interno delle carceri, delle cooperative che lavorano con i malati psichiatrici. Ecco perché il nostro motto è “Chi non può vedere un altro mondo è cieco”». Ludovica e Caterina, la prima romana e la seconda bresciana, ma parigine d’adozione, si sono incontrate poco più di un anno fa: entrambe impegnate nel una bassa manovalanza dei detenuti in netta contrapposizione con il lavoro riabilitativo praticato in Italia». “Ethicando” è anche un allegro bistrot nel quale si possono degustare una serie di specialità italiane come dolci fatti in casa, caffè e cappuccini, seduti intorno a comodi tavolini. La bottega però non è solo espressione del made in social, ma anche della divulgazione della cultura antimafia, come ha ben dimostrato trasformandosi in tappa della kermesse “Libero cinema in Libera terra” e catturando l’attenzione di oltre 150 persone che hanno guardato il film su Placido Rizzotto. Per l’occasione, era presente anche il regista Ettore Scola, presidente onorario di Cinemovel, fondazione promotrice dell’evento. Il 23 maggio, invece, il magistrato Mario Vaudano ha letto delle lettere private che gli scrisse Giovanni Falcone, mentre la giornalista Marcelle Padovani ha presenziato ad un incontro per presentare la ristampa del suo Cose di Cosa Nostra, una raccolta di interviste rilasciate dal magistrato ucciso nella strage di Capaci. Queste sono solo alcune delle iniziative che Caterina e Ludovica hanno archiviato con successo. E per il futuro? «Abbiamo davvero moltissimi progetti in cantiere – confida Ludovica –, come l’organizzazione di una due giorni avente come fulcro le donne che si impegnano nella lotta alle mafie nella società civile; in quell’occasione avremo tra gli ospiti Rita Borsellino. Attualmente stiamo promuovendo una mostra di Clemente Martin che ha immortalato l’altra faccia dell’isola di Linosa, fatta di clandestini, di persone prive di arti e di vittime della tratta degli esseri umani». l’antimafiacivile settore della comunicazione, sono entrate subito in sintonia, decidendo di tuffarsi in quest’avventura. «Aprire questa bottega non è stato facile – ricorda Ludovica – sia dal punto di vista burocratico sia perché la cultura dei francesi è quella di nascondere la polvere sotto il tappeto, di non ammettere che le mafie sono un problema che riguardano anche la loro nazione. Tuttavia, bisogna anche riconoscere che abbiamo molti sostenitori e persone che ormai si sono fidelizzate, aprendosi al confronto. Per la comunità italiana che vive in queste zone, inoltre, siamo diventati un punto di riferimento, un luogo di ritrovo». Chi entra all’interno di “Ethicando” può dunque trovare la pasta e il vino di Libera ma anche i prodotti alimentari del consorzio Goel, così come la cioccolata realizzata nel carcere di Busto Arsizio. Dalle case circondariali di Padova provengono i biscotti e da quella di Venezia le borse confezionate con materiale di riciclo. Ci sono anche le borse che provengono dalla sezione femminile del carcere di Torino, le magliette e i gioielli frutto della manodopera di persone affette da disturbi psichiatrici prese in carico da delle cooperative sociali. Creazioni apprezzate dalle persone che, abbandonando l’iniziale scetticismo, entrano nella bottega, sorprendendosi «per la normativa all’avanguardia che vige in Italia. Qui in Francia ci sono beni confiscati per 300 milioni di euro ma si tratta di una confisca personale repressiva, non esiste il concetto di riutilizzo sociale. Parimenti, all’interno delle carceri esiste cosenostre 19 | ottobre 2012 | narcomafie 20 | ottobre 2012 | narcomafie Normativa antimafia Il Veneto prende coscienza Dopo Emilia Romagna, Liguria e Lombardia, anche l’“isola felice” del nord-est vuol dotarsi di una legge preventiva per contrastare il dilagare delle mafie. Prime misure: codice di comportamento per il Consiglio regionale e recupero dei beni confiscati Foto di Fulvio Varone, Loris Zecchinato di Maurizio Bongioanni 21 | ottobre 2012 | narcomafie Il Veneto è diventato terra ad alto interesse per le mafie italiane e straniere; una terra dove la criminalità organizzata continua a far affari riciclando denaro sporco, trafficando droga o armi. Sono fatti che trovano riscontro in documenti ufficiali e articoli di cronaca reperibili all’ufficio stampa della regione Veneto oppure contenuti nel dossier-inchiesta “Mafie in Veneto”, pubblicato ad aprile da «Narcomafie». A partire proprio da queste fonti, il consigliere regionale Roberto Fasoli (Pd) si è accorto che era arrivato il momento di costituire uno strumento legislativo per prevenire le infiltrazioni mafiose nella sua terra. Per questo ha lavorato a fianco di colleghi e di Avviso pubblico, l’associazione per la formazione civile contro le mafie, per realizzare un testo diventato una proposta di legge che ora è in discussione in Commissione.Si intitola “Misure per l’attuazione coordinata delle politiche regionali a favore della prevenzione del crimine organizzato e mafioso, nonché la promozione della cultura della legalità e della cittadinanza responsabile” ed è stata presentata pubblicamente già in diverse occasioni, l’ultima delle quali al seminario “L’onda grigia del cemento”, organizzato da Legambiente e Avviso Pubblico a Calalzo di Cadore (Bl). Approvare non è applicare. «Questa legge è stata firmata da tutti i presidenti e i capigruppo in modo unitario. Questo a riprova che l’argomento andava trattato con urgenza e al di sopra delle divisioni politiche», racconta Fasoli. «Abbiamo con- frontato molte altre leggi tra cui quella dell’Emilia Romagna, della Liguria, della Lombardia, della provincia autonoma di Trento, del comune di Merlino e altre ancora. Abbiamo preso il meglio di queste leggi e lo abbiamo assemblato in una unica: credo che abbiamo fatto un ottimo lavoro». «Questa legge è importante perché innanzitutto la regione Veneto ne era priva», dichiara Pier Paolo Romani, coordinatore nazionale di Avviso pubblico e capofila del gruppo tecnico che ha seguito i lavori di questa legge. «Finalmente il Veneto prende coscienza che quella della mafia è una minaccia seria nei confronti dell’economia locale e che non bastano le forze dell’ordine per fermarla. Ma una delle cose più significative contenute nel testo è l’impegno a dotare il Consiglio regionale di un codice di comportamento, recependo la Carta di Pisa redatta proprio da Avviso pubblico. Questo significa dare responsabilità alla politica senza aspettare l’azione risolutiva da parte della magistratura». È necessario poi vedere applicare questa legge: «Il problema non è approvarla ma renderla eseguibile», riprende Fasoli. «È necessario che la Giunta stanzi le risorse operative necessarie». I settori più esposti. Nel 1994, la Commissione parlamentare antimafia ha inserito il Veneto nella sua relazione sulla presenza mafiosa nelle regioni del centro-nord Italia, affermando che nel nostro paese «non esistono isole felici». Situazione che ha trovato riscontro anche dalle recenti inchieste giudiziarie svolte dalla Direzione distrettuale antimafia di Venezia e nella relazione di inaugurazione dell’anno giudiziario del procuratore generale della Repubblica presso la Corte d’appello di Venezia, Pietro Calogero. In quell’occasione, Calogero ha indicato quali situazioni favoriscono l’infiltrazione mafiosa: stati di insolvenza di piccoli imprenditori, eccessive restrizioni nell’erogazione del credito, le diffuse violazioni nei controlli bancari, la mancata trasparenza contabile delle società. A ulteriore conferma di questo pericolo ci sono i dati allarmanti del 2011: 1.518 operazioni finanziarie sospette segnalate dall’Ufficio informazione finanziaria della Banca d’Italia (+9,4% rispetto all’anno precedente); 3,5 denunce al mese per reato di riciclaggio (12% sul totale nazionale); 83 immobili e 4 aziende confiscate in un anno; centinaia di imprenditori veneti finiti in un circuito usuraio gestito da soggetti collegati al clan dei casalesi (indagine “Serpe”); 387 denunce per estorsione (secondo i dati della Dia). «L’infiltrazione mafiosa – commenta Fasoli – interessa il settore economico perché il Veneto è una regione ricca: il fine è quello di appropriarsi di imprese e controllare il mercato». «I mercati più a rischio sono certamente quelli dell’edilizia, inteso come appalti pubblici e privati, quello dei trasporti, del turismo, dello smaltimento dei rifiuti, della grande distribuzione compresi i centri commerciali, i mercati ortofrutticoli, la manodopera, il gioco d’azzardo e la contraffazione di merci». «L’infiltrazione mafiosa – commenta Fasoli – interessa il settore economico perché il Veneto è una regine ricca: il fine è quello di appropriarsi di imprese e controllare il mercato» 22 | ottobre 2012 | narcomafie È stato creato anche un osservatorio per il contrasto alla criminalità organizzata e la promozione della trasparenza nell’azione amministrativa Una legge di tutti. In questo panorama instabile è stata pensata la legge di prevenzione «a partire da un seminario svolto da Avviso pubblico il 23 gennaio 2012», racconta Fasoli. «Da lì è iniziata la mia collaborazione con l’associa l’associazione fino ad arrivare a una legge definitiva ad agosto, che poi è quella che abbiamo presentato. In quei mesi la legge è stata pubblicata sul sito della Regione affinché i cittadini potessero presentare modifiche, consigli, perples perplessità. L’idea era di dare alla legge una forma quanto più possibile “allargata” perché fosse recepita come una legge di tutti. Il metodo in questo caso voleva dire anche essere sostanza». Un punto forte è l’avvicinamento dei temi prevenzione e sistema educativo: «La sola attività di repressione della mafia – aggiunge Fasoli – è necessaria ma non sufficiente per debellare il fenomeno criminale. Accanto a questa va coinvolto in particolar modo il mondo scolastico e della formazione». Con formazione si intende anche quella della polizia locale. Inoltre viene creato un osservatorio “per il contrasto alla criminalità organizzata e la promozione della trasparenza”. L’osservatorio avrà vari compiti, dalla raccolta e diffusione di documenti e analisi sul fenomeno all’elaborazione di azioni di contrasto con particolare attenzione alle misure di trasparenza nell’azione amministrativa. Un capitolo a parte riguarda le azioni finalizzate al recupero dei beni confiscati. La Regione contribuisce ad assicurare un «proficuo riutilizzo a fini sociali» dei beni confiscati alla criminalità organizzata, l’assistenza agli enti locali assegna- tari dei beni con concessione di contributi per il restauro o ristrutturazione al fine di recuperare i beni sequestrati e lo stanziamento di contributi per sostenere la continuità lavorativa delle aziende confiscate, salvaguardando così il patrimonio occupazionale e produttivo esistente. Per questi fini sarebbero istituiti i fondi di garanzia e di rotazione: il primo sopperirebbe all’estinzione delle ipoteche che in molti casi gravano sul bene confiscato e che non ne permettono un effettivo riutilizzo; il secondo faciliterebbe l’accesso al credito dei soggetti assegnatari dei beni in questione. Insieme alle attività finalizzate alla prevenzione e le politiche a sostegno delle vittime, la legge stabilisce una norma finanziaria per lo stanziamento di 500mila euro l’anno per gli anni 2013 e 2014 (più 300mila per il 2012). La parte finanziaria di questa legge è un’altra novità importante rispetto ad altre proposte di questo tipo: «La Regione metterebbe a disposizione risorse e strutture a scuole e imprese – commenta Romani –.Va a creare un fondo per le vittime e si occupa di non vendere i beni confiscati ma di riutilizzarli. Se pensiamo che l’86% dei beni sequestrati vengono affidati ai Comuni, si capisce quanto è centrale il ruolo dell’Ente locale nel processo di riutilizzo di questi beni». «Insomma questa legge è finalmente un fatto concreto, necessaria per una società che si voglia definire civile e soprattutto significativa per una politica più responsabile». 23 | ottobre 2012 | narcomafie del sindaco mi ha messo in allarme e ha affermato di conoscere persone che potevano farmi del male. La mia paura era per la famiglia». Un timore fondato. Pochi giorni dopo, infatti, tocca al figlio dodicenne di Gino: «La prima volta che hanno fermato mio figlio andava a scuola. Gli hanno detto: “Tuo padre non vi vuole bene”. Appena mi ha detto questa cosa sono andato a denunciare, ma gli strozzini non si placavano. Un pomeriggio, mia moglie lo accompagna a mangiare con gli amici. Al ritorno aveva la faccia bianca come la morte. Avevano preso mio figlio per il braccio dicendogli: “Dì a quel coglione di tuo padre di non fare avanti e indietro dalla caserma dei Carabinieri”. La settimana di Pasqua, mi hanno mandato un biglietto di auguri dicendomi di ritrattare. Ma io sono andato avanti. Se tornassi indietro, denuncerei subito». Da quelle denunce nel luglio 2011 è scaturita un’importante operazione antiusura condotta dal comando provinciale di Lecce denominata “Shylock”, il cui nome ricorda il più celebre degli usurai, quello creato dalla penna di William Shakespeare ne Il mercante di Venezia. L’inchiesta ha portato allo smantellamento di un’associazione per delinquere finalizzata all’usura, all’estorsione, all’esercizio abusivo di attività finanziaria e al riciclaggio. Il processo è ancora in corso a Lecce. nuoveresistenze resistenze me l’avrebbe fatta pagare e mi avrebbe fatto perdere il posto al comune. Il mio ex socio è stato poi ricevuto dal legale dello strozzino. Sono stati firmati 36 assegni da 3 milioni e mezzo di vecchie lire. Da quel momento abbiamo fatto di tutto per saldare il debito, ma l’arrivo di una cartella esattoriale dell’attuale Equitalia per mancati versamenti Inps ci ha fatto risprofondare nel baratro dei debiti». I due si rivolgono allora a un altro usuraio, un collega del comune in cui lavorava Gino, e all’autista del sindaco – attualmente sotto processo – per chiedere un ulteriore prestito. «Ero in una spirale da cui pensavo non sarei mai uscito. Fino a quando un altro imprenditore denuncia, vittima dello stesso giro di usurai. Così vengo interrogato dagli inquirenti. Decido di raccontare tutta la mia storia, dei sette canali di usurai in mano ai quali ero finito». Ma la storia non finisce qui. «Il mio ex socio, in prima istanza nega e, cosa altrettanto pericolosa, racconta tutto agli strozzini. Questi iniziano a minacciarmi: telefonate in cui mi insultavano e mi dicevano che dovevo morire, che avrei perso il posto di lavoro. Un mese dopo ho trovato una cartuccia di una pistola sulla macchina, tre giorni dopo un foglio con altre minacce, poi ancora un portachiavi a forma di bara nell’antenna della macchina. Come se non bastasse, l’autista Storie di chi si ribella ogni giorno Gino ha 50 anni ed è dipendente comunale nel foggiano, in Puglia. In passato, insieme ad altri colleghi, aveva creato una piccola impresa che si occupava di infissi in alluminio. «La mia storia parte da lontano, tra il ’98 e il ’99. La nostra impresa andava bene, ma per un periodo ci siamo ritrovati con forti debiti. Dovevamo circa 40mila euro a un nostro fornitore. Il mio ex socio propone di parlargli e chiedergli una rateizzazione. Non potevo immaginare che lo stesso fornitore sarebbe diventato lo strozzino che ci avrebbe condotto sul lastrico». La storia di Gino comincia con un piccolo prestito con un interesse del 10 per cento, fino ad arrivare a un debito di 160mila euro. «Il mio ex socio – continua – mi diceva che ci dovevamo fidare, ma i conti non tornavano. L’usuraio si faceva rinnovare gli assegni ogni mese, con una maggiorazione del 10 per cento. Per chiudere questa faccenda mi sono rivolto a un avvocato. Le vie erano due: continuare a pagare, oppure denunciare, ma purtroppo non avevamo fatture. Così abbiamo continuato a pagare il debito gonfiato. Ci faceva firmare un assegno con l’importo a matita, così poteva modificare come meglio credeva». A un certo punto Gino chiede un ridimensionamento dell’incasso. «Appena gli è arrivata la lettera – spiega –, lo strozzino ha chiamato il mio ex socio minacciando che di Laura Galesi Gino, imprenditore foggiano vittima di usura 24 | ottobre 2012 | narcomafie Quarantesimo anniversario Spampinato, l’ora del ricordo Non è stato un delitto esplicitamente di mafia, ma una commistione di eversione, servizi deviati, collegamenti con ambienti oscuri. Proprio per questo l’omicidio di Giovanni Spampinato, uno dei nove giornalisti uccisi nel nostro paese, per anni non è stato affrontato. E la verità resta da scrivere di Elisa Latella 25 | ottobre 2012 | narcomafie Ragusa, 27 ottobre 1972. Sono passati quarant’anni. Quarant’anni sono una vita. Giovanni Spampinato, cronista siciliano, di anni ne aveva solo 25, quando, in quel lontano 27 ottobre del ’72, veniva assassinato. Oggi è considerato una vittima della mafia. E non solo della mafia. Il suo nome è stato ricordato nel corso della Giornata mondiale della libertà di stampa svoltasi il 3 maggio scorso a Palermo. Per gran parte di questi quarant’anni, però, di Giovanni Spampinato non si è parlato. E, come disse un giorno il fratello Alberto “il suo stava diventando un nome senza storia”. Scomodo a tante coscienze. Una morte decisa da qualcuno, ma voluta anche da qualcun altro, da qualcun altro ancora accettata, da molti altri ignorata. Giornalista di razza. Giovanni Spampinato fa il corrispondente da Ragusa per «l’Ora» di Palermo e per «l’Unità» tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta, e si afferma con un’inchiesta sul neofascismo che coinvolge anche gli ambienti di Catania e di Siracusa. Giovanni aveva documentato i rapporti tra le organizzazioni locali di estrema destra, gli esponenti di primo piano del fascismo eversivo nazionale e internazionale e la criminalità organizzata, che controllava i traffici di opere d’arte, di armi, di sigarette e di droga. Non aveva dato fastidio solo alla mafia locale. La notte del 27 ottobre del 1972 viene ucciso mentre era nella sua Cinquecento dai colpi di pistola sparati da un personaggio di un certo livello: Roberto Campria, figlio del presidente del tribunale di Ragusa, uno degli indiziati di un altro omicidio, quello del commerciante di antiquariato e oggetti d’arte Angelo Tumino, avvenuto otto mesi prima, il 25 febbraio. A rivelare il coinvolgimento di Campria in quelle indagini era stato proprio Spampinato. L’inchiesta avrebbe dovuto essere trasferita ad un giudice di un’altra città, ma così non fu: a distanza di quarant’anni il delitto Tumino è senza esecutori, senza mandante, senza movente. Spampinato aveva rivelato anche la presenza a Ragusa di Stefano delle Chiaie (all’epoca ricercato per le bombe del 12 dicembre 1969 all’Altare della Patria) e di altri fascisti romani legati a Junio Valerio Borghese. Sembrava che i contatti fra Campria e Tumino e fra questi e i trafficanti di estrema destra fossero frequenti. Un riconoscimento tardivo. Nel 2007, alla memoria di Giovanni Spampinato fu assegnato il premio Saint-Vincent, il premio di giornalismo più prestigioso d’Italia. Un riconoscimento importante, certo. Ma arrivato tardi, troppo tardi. Perché per i primi due decenni successivi all’omicidio, di questa morte non si parla. Solo subito dopo l’evento, come riporta il sito dell’associazione Giovanni Spampinato, diverse personalità laiche e religiose di Ragusa diffusero un volantino e, qualche giorno dopo, una “lettera aperta alla società e alla stampa ragusana”. Un ciclostilato di 4 pagine a 37 firme: tra le prime ci sono quelle dei docenti Giorgio Flaccavento e Luciano Nicastro, dei parroci Giorgio Accetta e Giorgio Colombo, di sei sacerdoti, di insegnanti e studenti. «Mentre Giovanni era in vita – si legge nella lettera ai giornalisti ragusani – avremmo potuto salvarlo, se fossimo stati più impazienti seguaci della verità, meno amanti della nostra tranquillità, meno amanti del buon senso che ci fa sempre e comunque conniventi con l’autorità… La stampa ragusana si mantiene fedele ad un suo cliché da cui non si era discostata neanche durante le vicende del caso Tumino (…) Si può facilmente immaginare come ben diverso sarebbe stato l’atteggiamento della stampa se fosse stato il figlio di un povero diavolo ad essere sospettato. Il timore reverenziale ha fatto dimenticare alla stampa il dovere principale di riportare la voce dell’opinione pubblica che pure volgeva con insistenza i sospetti proprio nella direzione dell’ambiente più insospettabile. (…) La stampa locale ha col suo comportamento avallato che vi sia nella società una classe intoccabile, da difendersi comunque finché è possibile, per il bene di tutti ma soprattutto di chi gravita attorno. (…) È un delitto di classe, in questo senso veramente un delitto politico, senza bisogno di dover scomodare squadristi e piste nere. (…) Certa stampa ha dimenticato che non siamo più sotto il regime, o meglio ha rispettato la legge non scritta ma ben più viva in loro della Costituzione repubblicana». Seguono anni di silenzio, interrotti da voci isolate, da brevi ricordi. Mio fratello, Giovanni. Del delitto si occupa nel 1992 il giornalista catanese Gianni Bonina, con il libro dal provocatorio titolo Il triangolo della morte. Tumino, Campria, Spampinato. Sette anni dopo Luciano Mirone ne ricostruisce lo sfondo in Gli insabbiati, storie di giornalisti uccisi dalla mafia e sepolti dall’indifferenza . Nel 2004 ci ritorna Carlo Ruta con Morte a Ragusa: vengono chiarificati i nessi causali tra i delitti Tumino e Spampinato, e nel 2007 Roberto Rossi e Danilo Schininà raccontano la vicenda con Il caso Spampinato. Inchiesta drammaturgica, un documentario teatrale ispirato alle carte giudiziarie, agli articoli, a video e a testimonianze dell’epoca. C’erano bei cani ma molto seri. Storia di mio fratello Giovanni ucciso per aver scritto troppo è infine il titolo dell’opera pubblicata nel 2009 dalla casa editrice Ponte alle Grazie del fratello di Giovanni, anche lui giornalista, Alberto Spampinato. E sono forse le parole di Alberto (di cui pubblichiamo un ricordodel fratello a p. 26, ndr.), rese note attraverso un video accessibile a tutti su youtube, realizzato per la presentazione del testo, che meglio di tutte descrivono la difficoltà di far luce su quell’omicidio: «Mio fratello è una delle vittime più dimenticate di questi anni Ottanta… Non è stato un delitto esplicitamente di mafia, Io, Giovanni e Ragusa 40 anni dopo 26 | ottobre 2012 | narcomafie di Alberto Spampinato Ogni volta che torno a Ragusa, la città in cui sono nato, in cui ho vissuto fino all’età di vent’anni, in cui quaranta anni fa fu ucciso mio fratello, in cui sono tornato a trovare i miei genitori finché ci sono stati, provo un senso di smarrimento. È quella sensazione che ho cercato di descrivere, tre anni fa, nel libro C’erano bei cani ma molto seri. Mi colpisce, scrissi, la disinvolta smemoratezza di questa città e dei suoi abitanti. L’ho detto per scuotere quell’apatia, sapendo di urtare qualche suscettibilità. Qualcuno mi ha compreso e mi ha manifestato lo stesso sgomento, ma certamente non sono riuscito a smuovere le radici di quella smemoratezza, e forse non ci riuscirò mai. «Lascia perdere», mi hanno consigliato le persone che mi vogliono bene, «convinciti che è più facile sfondare un muro a testate». Ragusa è fatta così. Bisogna prenderla per quel che è. Capisco, ma non riesco a rassegnarmi. Penso che Ragusa abbia tante buone qualità da vantare e, con poco, se solo recuperasse la memoria, potrebbe diventare una comunità con buone carte da giocare, e io potrei tornarci senza avvertire quel senso di vuoto e di estraneità. Perciò provo e riprovo e cerco di fare capire cosa sento e cosa sogno. Immaginate lo smarrimento di una persona che torna nel luogo in cui ha vissuto a lungo, in cui ha sofferto un grande dolore, una grande ingiustizia, a causa di una tragedia di dimensione pubblica, e scopre che i fatti che lo hanno segnato profondamente non hanno lascitato tracce. «Com’è possibile», mi dico? Quell’anno a Ragusa successe la fine del mondo. Quando mai a Ragusa sono stati commessi due omicidi, uno più efferato dell’altro, nel giro di sei mesi? E quel che è successo dopo? Il primo delitto, quello dell’ingegnere Angelo Tumino, è stato archiviato ad opera di ignoti. Non si è tenuto neppure un processo. Quando ci penso mi sembra di vedere il corpo insanguinato, orrendamente sfigurato, di quell’omone di bell’aspetto steso sulla via del passeggio. E quando penso a come è maturato l’assassinio di mio fratello, mi torna in mente l’angoscioso romanzo di Garcia Marquez Cronaca di una morte annunciata, o il povero e sperduto villaggio messicano in cui Guillermo Arriaga ha ambientato il racconto ancor più angosciante Un dolce odore di morte in cui tutto il paese, per quieto vivere, assiste senza muovere un dito alla preparazione e all’esecuzione dell’omicidio di un innocente. Quando percorro la strada che costeggia il carcere che recentemente è stata rinominata, quel tratto in cui mio fratello fu attirato in trappola ed eliminato come un cane rabbioso, cerco invano una traccia di quel lontano evento, un appiglio per la mia memoria. Non c’è. A Ragusa la vita di Giovanni è evaporata come acqua sul marmo. Non sono rimaste tracce visibili. Non so se sia giusto cancellare le tracce di eventi che hanno segnato profondamente la vita di una città. Io non le cancellerei. Io il nome di Giovanni Spampinato e quello di Angelo Tumino li scriverei come monito all’entrata di Ragusa e sulle guide turistiche della città, affinché chi arriva a Ragusa sappia che qui, dopo il tremendo terremoto del 1693 che distrusse case, chiese e palazzi, nel 1972 c’e stato un altro terremoto che ha sconvolto la coscienza di tanta brava gente. Io metterei nella Biblioteca Comunale, a disposizione di tutti, gli articoli di Giovanni e le carte giudiziarie che parlano della sua morte e di quella ancor più oscura e misteriosa dell’ingegnere Tumino. Quando dico queste cose ai miei concittadini, alcuni mi guardano come se volessi andare sulla luna, altri come se fossi matto, altri ancora reagiscono come se avessi detto qualcosa di sconveniente. Pazienza. Ormai ci ho fatto l’abitudine. Come dicono i miei amici, Ragusa è così, devo prenderla per quel che è, anche se la sua smemoratezza, la sua indifferenza, mi fanno dubitare di me. A volte penso che io e Giovanni siamo nati qui per sbaglio, siamo pacchi consegnati all’indirizzo sbagliato. Penso che in un’altra città, in una città più grande, in una città di mare con un grande porto, con gente che va e viene e mescola idee, esperienze e ricordi, in una città in cui basta cambiare strada per cominciare un’altra vita, in una città con redazioni di giornali che si rubano le notizie e non fanno a gara a nasconderle, Giovanni si sarebbe trovato più a suo agio. I suoi articoli impertinenti, i suoi interrogativi sul comportamento non proprio ortodosso della magistratura, della stampa locale, della politica, delle istituzioni e della stessa comunità sociale, avrebbero trovato estimatori e non credo che avrebbero determinato una reazione così sanguinaria. Chissà se le cose sarebbero andate veramente così. Io immagino che in una città fatta così Giovanni sarebbe vissuto e le sue capacità sarebbero state apprezzate. Non lo sapremo mai. La cosa più triste è che Giovanni non fece in tempo a capire che Ragusa non era la sua città. 27 | ottobre 2012 | narcomafie ma un impasto di tante cose: eversione, servizi deviati, collegamenti con ambienti oscuri… Proprio per questo, perché non si poteva classificare chiaramente, è stato “scartato” in questi anni… Non sono riuscito per tanti anni a parlare di questa storia. Aspettavo che qualcuno la raccontasse, ma nessuno lo faceva, gli anni passavano e quello di Giovanni Spampinato stava diventando un nome senza storia… Poi il flusso dei risvegli anche grazie a Libera… Un giorno nel corso di una manifestazione al Campidoglio mentre venivano chiamati i nomi delle vittime della mafia ho sentito il nome di mio fratello. Non sapevo che avessero inserito il suo nome, per me è stata una grande emozione. E allora ho cominciato a raccogliere lettere, articoli, a ricostruire e a scrivere». L’ora di Spampinato. Oggi si parla di Giovanni Spampinato anche all’estero. Sarah Vantorre ha iniziato una ricerca di dottorato in lettere presso l’Università di Anversa sulla letteratura contemporanea in memoria dei giornalisti uccisi dalle mafie e dal terrorismo e sulla forza della letteratura nella lotta contro la criminalità organizzata in Italia. È’ lei che racconta, sul sito dell’associazione Giovanni Spampinato, costituita in ricordo del cronista ucciso, di come questa storia è stata narrata, attraverso una rappresentazione, in cinque Università del Belgio: manifestazioni nel corso delle quali è emersa una notevole volontà del pubblico di essere informato. A distanza di quarant’anni, la verità sul caso Spampinato ancora non è stata detta. La memoria allora deve essere un imperativo categorico: da qui la denuncia dell’associazione Giovanni Spampinato, che in una nota critica nei mesi scorsi ha evidenziato: «A Ragusa è stata chiusa la Sala Stampa “Giovanni Spampinato” inaugurata nel 1995 dall’amministrazione provinciale di Ragusa e dedicata, in segno di omaggio, al giornalista corrispondente dell’«Ora» e dell’«Unità», assassinato 40 anni fa, il 27 ottobre 1972». In seguito una breve polemica, poi una riapertura da parte della Provincia, con l’allestimento di una nuova sala intitolata a Giovanni. L’omaggio più recente è il documentario “L’ora di Spampinato”, prodotto dalla società Extempora e dall’associazione “Teatro a margine” che hanno lanciato una sottoscrizione popolare per finanziare la produzione dal basso e presentare l’opera il 27 ottobre, per la ricorrenza del 40° anniversario dell’assassinio del giornalista di Ragusa. Il progetto ha il patrocinio della provincia di Ragusa, della società Argo Software, del centro studi Feliciano Rossitto, della Casa Memoria Felicia Impastato, della Fondazione Fava, di Avis Ragusa, del «Clandestino» di Modica e di altri. «Il nostro obiettivo – hanno spiegato i due registi Vincenzo Cascone e Danilo Schininà nella nota di presentazione – è quello di restituire la drammatica vicenda italiana in cui perse la vita Giovanni Spampinato. Attraverso le deposizioni effettuate durante le indagini e il successivo processo racconteremo i luoghi e le persone coinvolte in questo fatto di cronaca ed effettueremo interviste alle persone che conobbero Spampinato». Un comune senza mafia? Il comune di Ragusa è considerato fra i venti più sicuri d’Italia e secondo l’Istat «non si riscontrano fenomeni di criminalità organizzata». Un dato che sorprende. Ma il verbo “non si riscontrano” non vuol dire necessariamente che “non ci sono”. Forse un riscontro diverso lo aveva fatto Giovanni. E le parole che meglio descrivono a quarant’anni di distanza quella verità non detta, quel silenzio che ha fatto da colonna sonora alla fine di un’esistenza sono le parole scritte da Antonio Franchini nel libro L’abusivo dedicato ad un altro cronista venticinquenne ucciso dalla criminalità organizzata, Giancarlo Siani. Due casi paurosamente simili, due città rimaste in silenzio: «Ma che cos’è la coscienza di una città? Esiste la coscienza di una città? Quale senso di colpa c’è nell’acqua di un golfo, nei cubi di cemento frangiflutti, nel tufo della costa, nell’asfalto di strada; quanto rimorso c’è in chi ci cammina? Si può ammettere che paesaggio e pietre abbiano una loro ottusa rilevante memoria, certo non rimorsi. Il senso di colpa sta solo in alcuni e grava diversamente a seconda del momento. È normale che nei giorni qualunque pesi quanto una piuma; è normale che quando ci invitano a ricordarlo, pesi di più». «Non sono riuscito per tanti anni a parlare di questa storia – racconta Alberto Spampinato, fratello del giornalista ucciso –. Aspettavo che qualcuno la raccontasse, ma nessuno lo faceva; gli anni passavano e quello di Giovanni stava diventando un nome senza storia» 28 | ottobre 2012 | narcomafie Caso Rostagno Trapani doveva dimenticare Le denunce, l’impegno e la memoria di Mauro Rostagno dovevano essere rimossi. Trapani doveva tornare alla normalità. In fretta. Ecco perché sono trascorsi 22 anni per arrivare al processo. E per quelle stesse ragioni, anche oggi, sulle udienze si vorrebbero tenere spenti i riflettori di Rino Giacalone 29 | ottobre 2012 | narcomafie Occupandomi della cronaca nera e giudiziaria della provincia di Trapani, la mia terra sporcata dalla mafia, sono tante le persone che ho dovuto imparare a conoscere leggendo gli atti giudiziari riguardanti le loro morti violente. Purtroppo in questo elenco c’è anche Mauro Rostagno, ucciso a Lenzi di Valderice, provincia di Trapani, il 26 settembre del 1988. Rostagno andava “mascariato”. Ci sono cose che accomunano questi delitti: il fatto che si trattava di persone oneste, la cui coscienza civile è stata dopo la morte offesa. Ci sono stati i depistaggi, le indagini sporcate (mascariate); c’è stato, nel tempo, un coro sociale composto da chi sosteneva che tra mafia e antimafia esistesse una posizione terza: risultata utile a nascondere la mano degli assassini mafiosi e, quindi, a stare dalla loro parte. Altro che terzietà. Tutto questo è successo tante volte a Trapani, per il magistrato Ciaccio Montalto, per il giudice Alberto Giacomelli, è successo per le vittime di Pizzolungo (Barbara Asta e i suoi gemellini di 6 anni ndr.): dinanzi ai corpi straziati dal tritolo di Cosa nostra, a Trapani, il sindaco andava dicendo che la mafia non esisteva. Nel caso del delitto di Mauro Rostagno quel coro sociale è andato anche oltre, impedendo per anni di fare luce sul delitto. Mauro Rostagno non ha nemmeno conquistato l’aureola di eroe. Non doveva essere considerato tale a Trapani: doveva essere dimenticato e più in fretta degli altri morti ammazzati, doveva risultare ucciso per qualche schifezza: droga, tradimenti, gelosie. Per il suo passato che non era oscuro, ma lo si fece diventare buio. Ecco perché sono trascorsi 22 anni per arrivare al processo, perché la sua morte celebrata con quei funerali affollati doveva sparire presto dalla memoria della gente, e nella memoria della gente doveva entrare altro sul conto di Rostagno, andava anche lui “mascariato”. Perché tutto questo? Perché Trapani, ucciso Rostagno, doveva tornare alla normalità, perché Trapani doveva riprendere a essere tranquillo crocevia di intrecci tra mafia, massoneria deviata, servizi segreti italiani e di mezzo mondo e traffici di droga, armi. D’altra parte stiamo parlando della terra che oggi risulta molto accogliente per Matteo Messina Denaro, qui è super protetto il latitante che impersona la barbara violenza assassina e stragista, ma anche la capacità di fare impresa e di tenere i legami con la politica che conta: fu lui a dire nel 1993 a Leoluca Bagarella di abbandonare il progetto di fondare un partito e di votare Forza Italia. La notizia non è di oggi, in cui tanto si parla di trattative e inciuci, ma del 1997, quando un pentito parlò in un maxi processo a Trapani; eppure restò relegata nelle classiche quattro righe di cronaca, perché nella marginalità cui doveva essere relegata Trapani ha responsabilità anche l’informazione. “Accendere i riflettori sulle periferie”: un appello che rivolgo a nome di «Articolo 21» e «LiberaInformazione». Rostagno fu ucciso perché c’erano riflettori spenti, ha rischiato di essere dimenticato per la stessa ragione: il suo processo non è nelle cronache come dovrebbe essere. Il lavoro che si sta facendo a Trapani non è noto, perché non ci sono accesi i “giusti” riflettori, oggi non è la mafia che perde ma l’antimafia e se l’antimafia viene battuta saranno sconfitti democrazia e libertà. La mappa impronunciabile. Trapani doveva restare ed è rimasta qualcosa di marginale nel panorama criminale, Trapani doveva riprendere la sua normalità in quel 1988 “tur-bato” dagli editoriali a Rtc di Mauro Rostagno e oggi sappia-mo il perché. Oggi ai mafiosi che restano latitanti Procure e forze dell’ordine riescono a infliggere duri colpi, sequestri e confische di beni, con somme incredibili, si sono scoperte casseforti piene di denaro sporco di sangue, casseforti in mano ai super fidati del boss Messina Denaro, l’ultimo dei colpiti si chiama Carmelo Patti, patron della Valtur uno che a Castelvetrano, la città del boss, cominciò a lavorare facendo cablaggio per la Fiat, oggi il suo patrimonio da 5 miliardi di euro è uno dei patrimoni dei quali ha beneficiato Matteo Messina Denaro e per questo la Dda vuole confiscarlo, così come è stato del patrimonio di altri imprenditori, come per esempio quello del re dei supermercati Despar della Sicilia occidentale, Giuseppe Grigoli, uno che nel 1988 gestiva una bottega di frutta e verdura e oggi è magnate del commercio. Ecco in quel 1988 la mafia cominciava a cambiare pelle per arrivare a riempire lo scenario che vi ho detto. Trapani era ed è in Sicilia una delle città con i più alti tassi Mauro Rostagno è morto perché dava fastidio a Cosa nostra, hanno raccontato i pentiti. I suoi interventi dagli schermi di Rtc erano carichi di sfida contro la mafia, di ironia e anche disprezzo: irrideva un sistema politico che si faceva facilmente corrompere 30 | ottobre 2012 | narcomafie di disoccupazione, ma che riceveva e riceve tanti di quei finanziamenti che invece di produrre ricchezza producono altra povertà, una città dove molti sono costretti a lavorare in nero, dove le imprese non pagano il pizzo ma la “quota associativa” a Cosa nostra, perché la mafia non fa danni ma vive di consenso sociale, dove la delegittimazione arriva puntuale per chi non ci sta alle regole del sistema illegale che è così radicato da essere diventato la regola, dove la politica compra i voti dalla mafia e ricambia i favori, dove i colletti bianchi e i borghesi, da decenni, siedono allo stesso tavolo con i mafiosi e i massoni. Questa realtà oggi è provata, questo è lo scoop che a Rostagno non fu permesso fare. La trasmissione “Avana”, per la quale aveva già registrato la sigla e che doveva partire in quell’autunno 1988, aveva il menabò pronto. Nel processo in corso a Trapani dal 2 febbraio 2011 davanti alla Corte di Assise, è entrata una mole di carte, appunti, fotocopie di articoli: gli argomenti evidenziati erano relativi a mafie e mafiosi, ai traffici di armi, agli intrighi della massoneria, in quelle carte Rostagno aveva scritto la mappa impronunciabile di Cosa nostra trapanese, c’erano nomi che già dicevano qualcosa o altri allora sconosciuti e che si scopriranno essere stati nel gotha della mafia anni dopo. Tra le carte, reportage sul conto di Licio Gelli, articoli sullo scandalo della ricostruzione post terremoto nel Belice, articoli su un faccendiere diventato in seguito, Aldo Anghessa, socio in traffici di armi con mafiosi trapanesi e su un imprenditore palermitano blasonato, il conte Cassina, il cui cognome evoca Ciancimino, e poi sulle banche e sui “soldi della mafia”. A Trapani regnava la Banca Sicula dei D’Alì, il sottosegretario all’Interno che aveva i Messina Denaro come campieri. C’era segnato il nome di un ministro, Vittorino Colombo con un trattino e poi scritto Castelvetrano. Ancora il nome di un altro ministro Aristide Gunnella, di massoni trapanesi e palermitani come Pino Mandalari il commercialista di Riina. Fatti circostanziati, nomi mai usciti dalla cronaca giudiziaria della Sicilia. Rileggendo editoriali e appunti di Rostagno sembra di leggere la cronaca di oggi sulla mafia di Matteo Messina Denaro. Non è un caso che l’ordine di morte partì proprio da Castelvetrano, da un giardino di aranci in un terreno di Francesco Messina Denaro dove si svolse il summit per decidere la morte di Rostagno. Il processo una cosa l’ha già assodata, questo patrimonio di conoscenza per 22 anni è stato ignorato e calpestato, si è perso tempo a cercare chiavi di casseforti, una cassaforte, un fax, ci si è chiesti perché Rostagno avrebbe dovuto avere dei dollari dentro la sua borsa al momento del delitto (i dollari non c’erano), c’era una agenda che, invece, non si è più trovata. La verità, i depistaggi. Il processo è iniziato con due testimonianze perfettamente discordanti. Da una parte l’ex capo della Mobile, oggi questore, Rino Germanà che dinanzi alla corte ha messo insieme tutti gli elementi che nel dicembre 1988 lo avevano portato a presentare un rapporto alla Procura di Trapani indicando la pista mafiosa, sia perché il lavoro di Rostagno era rivolto a contrastare la mafia sia perché l’esecuzione del delitto aveva seguito pedissequamente il rituale mafioso. Dall’altra parte il generale Nazareno Montanti, ex comandante del nucleo operativo dei carabinieri venuto a dirci che l’attività giornalistica di Rostagno dapprima era pari a quella di altri cronisti, poi entrando nel particolare ha affermato che di fatto era un lavoro sconosciuto, non si sapeva quello che Rostagno diceva in tv. Ha raccontato che le cartucce sovraccaricate erano un’abitudine dei cacciatori e che andando a Saman i suoi sottufficiali avevano trovato un’aria strana: viene da chiedersi che aria volevano trovare dopo quel barbaro delitto? Disse che la pista di mafia mai era stata seguita, senza un perché, che le videocassette dei suoi interventi televisivi mai furono viste, che quello era un delitto commesso da balordi perché un fucile era esploso. Il processo, iniziato il 2 febbraio 2011, è giunto alla sua trentacinquesima udienza. Come le ultime sarà una udienza breve, il tempo sufficiente ad affidare a nuovi periti la perizia balistica, stavolta l’incarico arriverà direttamente dalla Corte di Assise. È il processo contro due imputati giudicati mafiosi, Vito Mazzara, killer mafioso e Vincenzo Virga, capo mafia di Trapani, che tra le sue malefatte avrebbe avuto anche quella di avere ordinato la morte di Rostagno, quando lui a Trapani era un insospettabile, ma non per tutti, frequentava i salotti buoni della borghesia, e governava la cupola mafiosa cittadina, mandava a dire di volere uccidere persone a destra e a manca. C’è la mafia potente alla sbarra, Virga alleato di Provenzano, e poi Vito Mazzara uno che andava a sparare con Matteo Messina Denaro. Il processo in corso non è un processo che individua gli imputati per via del movente. Il movente non c’è a dibattimento, c’è su questo una indagine stralcio in corso. Ci sono imputazioni che derivano da circostanze precise. Contro Vincenzo Virga le accuse di collaboratori di giustizia che dicono che l’ordine di uccidere Rostagno arrivò a Virga da Francesco Messina Denaro, il patriarca della mafia belicina, un ordine che arrivò a Trapani da Castelvetrano. Contro Vito Mazzara la comparazione del modus operandi dei killer che, a cominciare dall’uso di cartucce sovracaricate e prodotte in modo artigianale, si sovrappone alle scene di altri delitti di mafia per i quali Vito Mazzara sconta condanne definitive all’ergastolo. Ma il movente si può scorgere lo stesso. Mauro Rostagno è morto perché dava fastidio a Cosa nostra hanno raccontato i pentiti. Perché i suoi interventi dagli schermi della tv locale Rtc erano carichi di sfida contro la mafia, di ironia, ma non solo, anche disprezzo, irrideva un sistema politico che si faceva facilmente corrompere e che lasciava le città in abbandono. Politica che parlava con la mafia e con la massoneria che funzionava da stanza di compensazione. E invece il delitto 31 | ottobre 2012 | narcomafie Rostagno per 22 anni è rimasto qualcosa di vago, la pista della mafia è finita «sbeffeggiata», gli interventi in tv di Rostagno contro mafia, massoneria, politici corrotti. Non considerati. Anzi, solo a processo in corso sono entrati nel fascicolo due verbali di interrogatorio di Rostagno come testimone, sentito proprio dai carabinieri dove riferiva di quello che aveva appreso su mafia e massoneria, sulla presenza non rara di Gelli a Trapani circostanza confermata dai pentiti, quei due verbali solo dopo 23 anni sono stati presi in considerazione, i carabinieri sono venuti a dire che se ne erano dimenticati. Chi decise di ucciderlo. Lo racconta Angelo Siino, il cosidetto “ministro dei lavori pubblici” di Totò Riina. Stiamo parlando di verbali del 1997. Don Ciccio Messina Denaro era parecchio arrabbiato: Puccio Bulgarella, imprenditore ed editore di Rtc, non solo era in «debito» nel pagamento del «pizzo» per alcuni lavori ottenuti in appalto, «la classica messa a posto», spiegò Siino, ma era pure il proprietario dell’emittente televisiva che «ospitava gli interventi di Rostagno». Siino parla a Bulgarella, questi si difende dicendo che Rostagno era un cane sciolto, difficilmente controllabile. Il progetto va avanti e quando il delitto viene commesso accadde che, durante una riunione di mafia a Mazara, quando qualcuno chiese a Mariano Agate perché Rostagno fosse stato ucciso, la risposta fu “questione di corna” e da allora il movente per tutti doveva essere questo. Rostagno fu ucciso con due o tre colpi di fucile sparati dalla parte posteriore della Fiat Duna da lui guidata, sono colpi che lo colpiscono alla spalla destra, alla schiena, una “rosata” lo raggiunse alla nuca, alla mano sinistra, poi due colpi esplosi da un’arma corta, una calibro 38, che raggiunsero alla testa Rostagno, uccidendolo. Il fucile però esplose, fatto questo dovuto al sovraccarica mento delle cartucce. È vero è questa una abitudine dei cacciatori ma era il modus operandi di Vito Mazzara, il perito dell’accusa ha raccontato poi che con quel fucile certo non si va a caccia di cinghiali perché di solito il sovraccaricamento i cacciatori lo fanno per questo genere di caccia. E quel fucile è esploso proprio perché a usarlo era un esperto che pensava di potere raggiungere un certo limite. La firma di Cosa nostra e di Mazzara sulle cartucce è poi dovuta a delle striature a freddo, circostanza che accomuna le cartucce di diversi delitti quelli firmati proprio da Vito Mazzara. «È una operazione che si può fare questa delle striature a freddo – ha risposto alla Corte il perito dell’accusa Milone – per verificare l’efficienza dell’arma, per renderla pronta all’uso, e cioè con le cartucce già in canna. Certo – ha aggiunto – è difficile che possa essere questa opera di un cacciatore che di solito non va sul terreno di caccia con l’arma pronta e carica». Vito Mazzara durante le indagini si è quasi autoaccusato; è stato intercettato in carcere preoccupato dopo avere letto sui giornali che le indagini sul delitto Rostagno erano state riaperte, a dire a moglie e figli di cercare in un determinato posto nella casa di campagna e aprire un buco nel muro e vedere se c’era ancora qualcosa. I poliziotti arrivarono prima, ispezionarono il luogo, non c’era nulla dentro, ma la conformazione di quel buco era preciso, poteva nascondere un’arma. Mazzara è uno dei boss ai quali Cosa nostra tiene particolarmente: in altre intercettazioni si è ascoltata la preoccupazione dei boss che possa pentirsi, e allora questi sono stati sentiti a ripromet-tersi di non fargli mancare mai nulla anzi un giorno volevano farlo fuggire dal carcere dove si trovava addirittura usando un elicottero. “È un pezzo di storia e se si pente sono guai”, così dicevano di lui altri mafiosi. Nel processo poi le difese mo-strano una strategia chiara: non difendono gli imputati ma la mafia. Virga e Mazzara sono mafiosi conclamati, le strate-gie difensive non inducono i giudici a guardare verso altri soggetti della stessa congrega mafiosa, ma fuori da questa, non c’entra la mafia col de-litto sembrano dire, e forse lo dicono, c’entrano le corna, le gelosie, il malaffare, c’entra tutto quello su cui alcuni in-vestigatori si sono impegnati in questi 24 anni e va detto, «non hanno cavato un ragno dal buco». Mauro era circondato da lupi. Non sono tra coloro i quali vedono dietro il delitto trame oscure, intrighi, spie, traffici di armi e droga, speculazioni internazionali. Non li vedo, ma non dico che questi traf traffici e queste commistioni nel trapanese non siano esistiti. Anzi, probabilmente, esistono Fu Matteo Messina Denaro a dire nel 1993 a Leoluca Bagarella di abbandonare il progetto di fondare un partito e di votare Forza Italia. La notizia è del 1997, ma restò relegata in cronaca locale 32 | ottobre 2012 | narcomafie Mauro faceva il giornalista in una città che conviveva con la mafia e forse convive ancora, considerato che qui si nasconde Matteo Messina Denaro ancora. Sostengo che Rostagno è stato ucciso perché non era a cento passi dalla mafia, come Impastato a Cinisi, ma era a cinque passi dalla mafia. Il suo editore, Puccio Bulgarella, è stato dimostrato, aveva in quegli anni contatti con Angelo Siino. Puccio Bulgarella, deceduto di recente, indagato anche lui nel delitto per false dichiarazioni al pm (procedimento poi archiviato), sarebbe stato uno di quelli che aveva consigliato prudenza alla redazione guidata da Rostagno. In quel 1988 la mafia aveva fatto balzi in avanti enormi: nel processo questo è venuto a dirlo l’ex capo della mobile Giuseppe Linares, che nel 2008 riaprì le indagini fermando la richiesta di archiviazione che i pm a Palermo erano pronti a firmare, individuando quel clamoroso buco della comparazione balistica mai fatta. Nel 1988, ha ricordato Linares, era libero il gotha non solo trapanese ma anche siciliano di Cosa nostra e i gruppi di fuoco erano operativi, mentre crescevano affari e alleanze. La mafia diventava tutt’uno con l’imprenditoria e la politica, il territorio veniva assalito dalle speculazioni che nessuno ostacolava, la gestione dei rifiuti, il mercato dell’acqua sono diventati e restano affari per fare grande lucro. A Trapani si parlava poco di mafia. Rostagno ruppe l’andazzo, «era un giornalista fuori del coro» ha detto l’ex capo della Mobile. «Rostagno era circondato dai lupi e i lupi lo hanno azzannato». Linares ha ricordato come già «nel rapporto della Mobile del 1988 venivano citati gli editoriali di Rostagno sui cavalieri del lavoro di Catania, interessati a lavori pubblici eseguiti a Trapani, lui ne parlava senza che ancora la magistratura avesse fatto nulla, i riscontri giudiziari arriveranno anni dopo il suo assassinio». Mauro faceva il giornalista in una città che conviveva con la mafia e forse convive ancora considerato che qui si nasconde Matteo Messina Denaro. Ci sono uomini come Linares che essendo a Trapani pagano anche loro la marginalità, meglio che non lavorino bene come potrebbe fare, a Trapani può accadere che lui, uno dei più esperti conoscitori della strategia dentro la quale si nasconde Matteo Messina Denaro, oggi non faccia parte del gruppo che cerca il boss. E, badate bene, questa non è un’altra storia rispetto a quella di Rostagno. Anche qui ci sono poteri forti e depistaggi. Poteri forti e depistaggi che proteggono il super latitante e non lo dice un giornalista, ma un magistrato della Dda di Palermo, il procuratore aggiunto Teresa Principato. Tra gli editoriali finiti nel processo ce ne è uno emblematico: «Qualche mio caro amico mi ha consigliato di abbassare i toni perché questo lavoro rischia di fare male alla Sicilia e alla comunità, io continuo a pensare e a dire che la migliore pubblicità che si può fare alla Sicilia è quella di affermare che la mafia va abbattuta». Quando fu ucciso Rostagno ci furono sindaci che non ne volevano sapere di occuparsi dei funerali, la sera del 26 settembre 1988 il Consiglio comunale di Trapani era riunito e il delitto non fermò i lavori. Oggi una realtà diversa? Mauro Rostagno è stato ucciso dalla mafia trapanese il 26 settembre del 1988: 14 giorni dopo l’omicidio a Trapani di un giudice, in pensione, che anni prima aveva confiscato una proprietà di Riina (Alberto Giacomelli, ndr). Rostagno fu ucciso 24 ore ndr dopo il delitto di un altro giudice, a Caltanissetta, Antonio Saetta, che doveva presiedere il maxi processo di appello. Rostagno è stato ucciso mentre dinanzi a quelle e altre morti si diceva che la mafia non c’era. Ma non era così e oggi la mafia si è trasformata e si è infiltrata dentro la vita di ogni giorno. Oggi ci sono sindaci condannati per favoreggiamento a imprenditori mafiosi che si vestono di inesistenti verginità e ricordano Rostagno, o altri sindaci che di recente hanno detto che di mafia a scuola non se ne deve parlare. Per fortuna c’è una realtà diversa rispetto a quel 1988 i segni della rivolta sociale si scorgono, grazie a Libera che fa un grande lavoro. Sono segnali ancora deboli. Come in una partita di calcio tra mafiosi e antimafiosi, il pubblico, però, comincia a tifare per questi ultimi. Le cose non le mandava a dire Rostagno e per questo, il 26 settembre del 1988, trovò i sicari di Cosa nostra ad attenderlo per ucciderlo. I sicari che poi hanno cercato in tutti i modi di cancellare la memoria e anche dentro l’aula di giustizia è arrivato il passa parola voluto da Marianino Agate, “delitto di corna fu”, ma sappiamo che non è vero, e oggi a saperlo siamo ancora di più. dialogo tra antimafia virtuale e antimafia reale a cura di Marcello Ravveduto 34 | ottobre 2012 | narcomafie «Chi te lo ha detto» Questo mese non avrei voluto scrivere di musica e criminalità, ma le notizie apparse re recentemente sul web, in rapida sequenza, mi spingono a rimar rimarcare nuovamente l’ambiguità di alcuni cantanti neomelodici. Una sequenza che ha dell’in dell’incredibile: il 26 luglio Raffaello, alla fine del suo concerto alla Kalsa (Palermo), omaggia il boss Luigi Abbate (Gino ‘u mitra), che controlla il quartiere e dunque è tra gli sponsor della festa, invian inviandogli «un bacione forte»; il 27 luglio Rosario Miraggio (che ha avuto in passato – 2007 – qual qualche problema con la giustizia e che può vantare una parentela con Gigi D’Alessio) al termine della esibizione canora, avve avvenuta a Gragnano (Na) nell’am nell’ambito dei festeggiamenti per la Madonna del Carmelo, augura un’imminente scarcerazione al boss Nicola Carfora (Nicola ‘o Fuoco), condannato all’ergastolo; infine il 28 luglio, durante una session neomelodica a Catania, conclusa dai “big” Gianni Celeste e Gianni Vezzosi, si sprecano i saluti agli amici degli amici e ai carcerati. Apriti cielo! Blogger e giornali locali online si sono scatenati in una ridda di osservazioni sui rapporti tra musica neomelodica e criminalità organizzata. Tutti hanno tirato in ballo il caso di Tony Marciano, cantante di Torre Annunziata (Na), arrestato per traffico e spaccio di stupefacenti. Questo caso, in realtà, è il più interessante non tanto perché, come è stato ricordato, ha messo in musica i testi di Aldo Gionta, fratello del più noto Valentino (boss di “Fortàpasc”), e neanche per aver interpretato con Anthony una canzone contro i pentiti (Nun c’amme arrennere), piuttosto perché, se le accuse degli inquirenti fossero confermate, saremmo di fronte ad un “narcomelodico”. Un neologismo che ho coniato per definire una correlazione tra musica neomelodica e narcotrafficanti. Ovvero sarebbe il primo esempio di cantante che reinveste i suoi guadagni nel traffico della droga. Il che aprirebbe un’altra questione: quanti operatori del mondo neomelodico (cantanti, musicisti, manager, accompagnatori, organizzatori di feste, ecc…) utilizzano soldi dei cachet per acquistare droga o vengono pagati con dosi di cocaina da rivendere, con l’assenso del clan, allo scopo di moltiplicare il reddito artistico (in buona parte sommerso come dimostra l’indagine per evasione fiscale avviata dalla Guardia di finanza di Napoli nei confronti di due noti cantanti neomelodici)? Non solo si accerterebbe giuridicamente che alcuni cantanti partecipano attivamente alla vita delle organizzazioni criminali, rispettando una precisa gerarchia, ma si svelerebbe l’esistenza di un doppio ruolo: all’interno del clan si svolgono le mansioni tipiche dell’affiliato, all’esterno si esercita un ruolo pubblico grazie al quale si influenzano gli ascoltatori giustificando, con testi intrisi di pauperismo, l’operato delle mafie. Incuriosito dai fatti sono andato a osservare il repertorio di Marciano e sono rimasto colpito non dalla canzone in cui attacca i collaboratori di giustizia, ma da un’altra che si intitola “Chi te l’ha detto”. È un duetto con Enzo Caradonna. I due si rivolgono a un immaginario ragazzo della malavita per spiegargli che, nonostante gli errori commessi, è sempre possibile tornare indietro. Così canta Tony Marciano: «Pure io sono stato un ragazzo che nella vita ha sbagliato/ bruciando la mia identità. Avevo il mondo nelle mani/ mi sentivo importante e lo credevo sempre più./ Ma poi una sera maledetta/ mi disse un amico/ forza provala anche tu./ Da quella sera per vent’anni/ mi è piaciuta questa vita./ Droga, sesso e rock ‘n roll./ Ora sono cambiato/ anche tu puoi farcela […] Io mi ricordo/ sono cresciuto con tanti amici/ e ora non li vedo più./ Quante madri ogni giorno piangono per i figli/ che hanno perso la vita o la libertà. Devi cambiare strada/ anche tu puoi farcela». Leggendo i versi viene da pensare che Marciano sta compiendo un’opera meritoria usando la sua musica per rivolgersi ai ragazzi di malavita e convincerli a modificare atteggiamenti arroganti e soprattutto ad uscire dal vortice della droga. Ma dopo l’arresto come cambia l’interpretazione del testo? Forse quel ragazzo è lo stesso Marciano diventato adulto che, nonostante fosse cosciente degli errori compiuti, non è riuscito a cambiare strada. Da esempio positivo diventa stereotipo di una condanna: chi entra nel giro ne esce solo con la galera o con la morte. E allora potremmo rivolgere a lui le parole del ritornello: «Non piangere è inutile./ Ti devi solo ribellare. Devi crederci/ questo diavolo non è più forte di te./ Guardati intorno/ e vedi come sono belli la luna e il mare./ Questo cielo pieno di stelle/ e la ragazza che è rimasta ad aspettarti/ si chiamano Amore». 35 | ottobre 2012 | narcomafie San Marino inchiesta Un’economia destabilizzata da scudo fiscale, obblighi di trasparenza e antiriciclaggio; inchieste che stanno evidenziando l’infiltrazione delle mafie, camorra in primis: San Marino appare come un paradiso in crisi, a causa di un’emorragia di imprenditori privati e delle fazioni della sua classe politica, che stenta ad adeguarsi alle normative sui controlli fiscali dell’Ue. Prendere tempo potrà servire a evitare inchieste scottanti, ma non l’aggressione della criminalità organizzata foto di Giorgio Minguzzi, Asgeir Pedersen, Izaks, Xiquinhosilva San Marino 36 | ottobre 2012 | narcomafie Collisione o collaborazione? Nonostante abbia abolito il segreto bancario e cancellato le società anonime, l’antica Repubblica resta nella lista nera italiana dei paradisi fiscali per non aver ratificato gli accordi siglati con il governo del Belpaese. Per qualcuno è guerra fredda tra Italia e Titano. Eppure procrastinare la firma significa evitare di scavare nel passato del microstato. E ad approfittarne non ci sarebbero solo i sammarinesi di David Oddone 37 | ottobre 2012 | narcomafie L’offensiva di Tremonti. Sul monte Titano, 30mila anime per 60 km quadrati, almeno un quarto degli abitanti è dipendente della pubblica amministrazione. Ciò significa che ogni famiglia sammarinese vanta al suo interno un dipendente pubblico. Percentuali, in proporzione, lontane anche dalle realtà italiane meno virtuose. Come si è potuta mantenere in piedi questa mastodontica struttura così dispendiosa? Pagare le prebende elettorali fornendo posti sicuri sotto l’egida dello Stato è una pratica ben nota in Italia, alla quale San Marino – specchio dell’Italia – ricorre con altrettanta maestria. Sul Titano è il sistema bancario a distribuire benessere. In principio furono 72 “soggetti autorizzati”: 12 banche e 60 tra finanziarie, fiduciarie, società di gestione, compagnie d’assicurazioni. Campavano nella migliore delle ipotesi con “il nero”. Una economia “virtuale” che garantiva entrate all’intera comunità, che dunque non si è mai chiesta la provenienza di tutto quel danaro. “Pecunia non olet”: una massima che ha trovato diversi estimatori in Repubblica. Tutto procede per il meglio a San Marino, con tanto di “benedizione” dei vari governi italiani che accettano questo sistema di cose perché – evidentemente – fa comodo a tutti. C’è tuttavia una data spartiacque nella storia recente sammarinese. Il “Giulio Alberoni” del terzo millenio ha un cognome con minor aura di “santità”, ma che incute ancora oggi preoccupazione e irritazione nei sammarinesi: Giulio Tremonti. La data è quella del 2009, ovvero quella dell’ennesimo scudo fiscale. La crisi fa sentire i primi effetti, l’Italia ha necessità di reperire risorse fresche e lo scudo è la strada più semplice, ma anche quella meno virtuosa. Si punta a fare emergere i capitali nascosti e a minare l’operatività dei paradisi. Alla fine nessuno dei due obiettivi verrà centrato. Ma per San Marino l’offensiva tremontiana ha rappresentato l’inizio di un declino economico ancora oggi in corso. In definitiva lo scudo fiscale varato dal governo italiano ha avuto un impatto devastante per le banche biancoazzurre drenando 5 miliardi di euro. Lo ha rivelato, a suo tempo, nel corso di una conferenza stampa il segretario di Stato (ministro) per le finanze Pasquale Valentini: più di un terzo della raccolta delle banche di San Marino. E San Marino è sotto scacco. Per la prima volta nella storia deve affrontare un deficit da 20 milioni di euro (è come se l’Italia avesse un buco da 80 miliardi). Deficit sul quale oggi non si hanno dati precisi ma che potrebbe essersi ulteriormente aggravato. Lo scudo ha svuotato i forzieri delle banche che hanno perso il 50 per cento dei depositi e oggi non superano i 7 miliardi di raccolta. Accordo mai ratificato. Dal 2009 si passa al 2010, quando viene introdotto l’obbligo di comunicare all’Agenzia delle entrate ogni operazione commerciale con i paesi nella lista nera dei paradisi fiscali. San Marino ancora oggi lo è. L’effetto sugli scambi con l’Italia, che assorbe il 90 % dell’export, è devastante. I dati odierni registrano addirittura 453 imprese chiuse in un anno. Nonostante questo bollettino di guerra i rapporti fra i due vicini rimangono freddi. Nel giro di poco tempo – ripetono dal governo sammarinese – abbiamo abolito il segreto bancario e cancellato le società anonime. L’aspetto positivo della crisi è stato di creare consapevolezza nel Paese. I sammarinesi hanno cominciato a chiedersi per quale motivo è bastata una manovra economica dei propri vicini per destabilizzare l’andamento economico del Monte. Nello stesso momento dalle procure italiane partono le prime grosse indagini sulla criminalità organizzata che hanno tutte un comune denominatore: San Marino. Una parola comincia a farsi largo anche se nessuno la vuole sentire: mafia. I sammarinesi aprono finalmente gli occhi e si rendono conto che il loro benessere fondava le basi in molti casi sul malaffare, su una economia drogata, su triangolazioni fittizie fatte al solo scopo di evadere e riciclare, su aziende San Marino San Marino è, o non è, un paradiso fiscale? Se non lo è da un bel pezzo, come sostiene la politica locale, perché resta nella “black list” italiana? L’attualità racconta di un paese in ginocchio a causa della crisi e della “guerra fredda” con il Belpaese. Aziende chiuse, disoccupazione in aumento: in soldoni ciò significa che l’"Antica terra della Libertà" sta gradualmente perdendo il proprio benessere. È proprio cercando di capire su che cosa si fondasse la ricchezza sammarinese che oggi si può dare una chiave di lettura degli eventi. In tribunale servono professionalità, mezzi e leggi adeguate San Marino 38 | ottobre 2012 | narcomafie Leggendo l’ultima relazione sullo stato della Giustizia (2011) del magistrato dirigente del tribunale di San Marino, Valeria Pierfelici, emerge chiaramente come la macchina giudiziaria sammarinese sia carente di uomini e mezzi. Si fa anche un accenno all’impossibilità nel concreto di fare intercettazioni telefoniche. Viene poi sottolineata la difficoltà per i giornalisti a fare il proprio lavoro d’inchiesta a causa della legge bavaglio che punisce chi viola il segreto istruttorio. Le rogatorie In merito alle rogatorie si legge: «Con le disposizioni del 1º dicembre 2010 si è confermato che i Giudici assegnatari delle rogatorie internazionali passive sono tenuti ad aprire i procedimenti penali per i fatti di reato che emergono dalle stesse e per i quali sussiste la giurisdizione sammarinese, che sono attribuiti secondo le vigenti regole sulla distribuzione del lavoro; rilevata la necessità di realizzare il coordinamento delle indagini disposte dai singoli Giudici inquirenti, per assicurare l’efficacia delle stesse, anche e soprattutto per consentire l’utile contrasto della criminalità organizzata, del riciclaggio, dei reati finanziari e tributari, nonché del finanziamento del terrorismo, e per tutelare i singoli Giudici interessati, è stata istituita la Commissione di coordinamento, composta dai Giudici inquirenti e dal Magistrato dirigente, con il compito di esaminare i casi e le questioni che emergono nei singoli procedimenti penali e nelle rogatorie internazionali, e assicurare lo scambio puntuale delle informazioni tra i Giudici, ed a tal fine, è stato fatto obbligo anche ai Giudici che non sono membri della Commissione di fornire indicazioni e notizie acquisite attraverso i procedimenti per rogatoria a loro assegnati, relazionando al Magistrato dirigente, mantenendo il più rigoroso riserbo, necessario per non pregiudicare l’esito delle indagini in corso». Aumentati i numeri dei sequestri Venendo ai sequestri: «Come risulta dalle statistiche predisposte dagli uffici di Cancelleria e dai singoli Giudici, nel 2011 sono stati effettuati sequestri di somme pari ad euro 19.011.860,85, mentre sono state disposte confische per 5.526.218,17 euro, con un decisivo trend in aumento rispetto agli anni precedenti». Veniamo dunque alle note dolenti, ovvero all’impossibilità concreta per il Titano di combattere le mafie, situazione questa sottolineata più volte: «Per quanto riguarda nello specifico l’attività del Tribunale – puntualizza la Pierfelici – si deve rilevare che la complessità di alcuni procedimenti penali, conseguente anche all’aumento dell’attività da parte delle autorità preposte alla vigilanza ed ai controlli, richiede l’apporto di professionalità diverse, in grado di cogliere le dinamiche economiche e operazionali, che sono propedeutiche alle scelte di indirizzo degli accertamenti volti ad acquisire le prove dell’attività criminale, e un confronto costante tra i Giudici, che travalica le usuali modalità operative». Necessità di maggiore coordinamento La necessità di un maggior coordinamento delle indagini relative ai procedimenti penali complessi assegnati ai diversi Giudici e di condivisione dei dati e delle informazioni è stata già oggetto di valutazione, e si è affrontata con le disposizioni del 1º dicembre 2010. L’applicazione di tali modalità operative ha consentito la riorganizzazione dei procedimenti relativi ad alcune indagini per oggetto delle stesse, e lo scambio di informazioni rilevanti, evitando duplicazioni degli atti. «È peraltro evidente che la responsabilità della gestione delle indagini rimane individuale e la condivisione è affidata alle sensibilità individuali, ciò costituisce un limite obiettivo per un efficace coordinamento, attesa l’impossibilità attuale sia di acquisizione e condivisione tra i vari Giudici di notizie in via autoritativa, sia di trattazione congiunta tra più Giudici inquirenti dei procedimenti complessi, ovvero di quelli che investono in maniera trasversale e senza alcuna apparente connessione il medesimo fenomeno, che richiedono molteplici attività ed anche il contributo di professionalità ed esperienze diverse». Manca la figura del Pubblico ministero «Attualmente tale modalità non è consentita, in ragione della natura e delle funzioni del Giudice inquirente, che non possono essere assimilate a quelle del Pubblico ministero, atteso che il modello di ordinamento giudiziario e processuale penale sammarinese non è equiparabile a quello italiano, come, invece, sovente si tende a proporre. Il Giudice inquirente non è magistrato requirente, organo dell’accusa, e dunque parte del processo, ma è, nello stesso tempo, colui che intraprende l’inquisizione, da intendersi quale “ricerca diligente e coscienziosa che viene assunta dal Giudice inquirente, appena giunge a di lui cognizione la notizia di un reato, per iscoprirne l’autore” (art. 20 c.p.p.), e colui che assicura la tutela dei diritti dell’indagato e la legalità del procedimento, per cui esercita funzioni giurisdizionali, e gode delle guarentigie previste dalle disposizioni costituzionali, quali l’indipendenza e l’autonomia, ciò che esclude sia la possibilità di ricerca della notitia criminis, sia l’applicazione del principio gerarchico (tipico dell’organizzazione dell’ufficio del Pubblico ministero in altri ordinamenti), con gli istituti 39 | ottobre 2012 | narcomafie Bisogna riformare la procedura penale «La soluzione ottimale – rileva ancora la Dirigente –, ferma restando la necessità di intervenire in maniera sollecita con interventi tempestivi per tamponare le emergenze, è naturalmente costituita dalla riforma del codice di procedura penale: solo un intervento organico, che rispecchi la riflessione globale sul modello di giustizia penale adatto alla attuale realtà, può evitare compromessi perniciosi per le garanzie costituzionali, e può consentire di dare risposte adeguate alle istanze di modernizzazione e di efficienza». E ancora: «Il rapporto di Moneyval insiste particolarmente su questo punto: si richiede, infatti, che lo Stato assicuri che l’Autorità giudiziaria prenda parte regolarmente a corsi di formazione specializzati sul riciclaggio e sui reati presupposti». Le carenze della polizia giudiziaria «Deve essere ribadito con chiarezza che la Magistratura non ricerca le notizie di reato, attività che spetta alle forze di polizia e alle altre autorità deputate alla prevenzione: i processi non nascono se le Forze di polizia non sono in grado di svolgere attività investigativa; i processi radicati non vanno avanti se manca una polizia giudiziaria adeguata per numero e formazione. Mi rammarica pertanto il fatto che a fronte di tale chiaro e semplice dato, tutte le inefficienze vengano scaricate sul Tribunale, in quanto autorità terminale, e nel contempo deve preoccupare, perché una tale rappresentazione finisce per compromettere la fiducia dei cittadini». Responsabilità civile dei magistrati «Devo ripetere nuovamente che anche l’assenza del Giudice per la responsabilità civile dei Magistrati – a seguito delle dimissioni del prof. Lamberto Sacchetti, di cui si è dato diffusamente conto nella Relazione per l’anno 2005 – sta creando sempre maggiori problemi al “sistema giustizia”. Infatti, oltre alle questioni già più volte evidenziate (derivanti dalla pendenza di n. 3 cause nelle quali vi sono istanze in relazione alle quali nessuno provvede), si ricorda nuovamente che nel corso del 2008 è pervenuta una nuova istanza di citazione, che rimane ferma all’iscrizione a ruolo, senza alcuna possibilità per la parte convenuta di venirne a conoscenza, e, a maggior ragione, di iniziare la trattazione: ripeto che si tratta di una situazione frustrante sia per la parte attrice, che per il Magistrato interessato, che si trova ad avere pendente una causa nella quale viene in considerazione un suo provvedimento o un suo comportamento senza alcuna prospettiva di arrivare sollecitamente alla definizione, e sono evidenti i riflessi in sede internazionale, aprendosi la possibilità di ricorsi giurisdizionali alla Corte Europea per i diritti dell’uomo». Esame Moneyval «È anche doveroso segnalare che il rapporto di Moneyval (Comitato di esperti del Consiglio d’Europa Anti-Money Laundering Measures and Financing of Terrorism, ndr.) ha positivamente valutato il percorso verso la trasparenza delle informazioni sulle società intrapreso da San Marino a partire dal 2009, dimostrando la consapevolezza del sistema in ordine al rischio sotteso dagli abusi della personalità giuridica per occultare i reali beneficiari, e consentire il riciclaggio di proventi illeciti, raccomandando di proseguire gli sforzi per assicurare che le informazioni rilevanti sulle persone giuridiche siano incluse in maniera adeguata e tempestiva nel registro e che siano applicate adeguate sanzioni nei casi di mancato adempimento ai rispettivi obblighi legali». Società in flessione «Con riferimento alle società si conferma in sensibile flessione il numero delle nuove costituzioni (n. 191) ed in rilevante aumento il numero delle liquidazioni (n. 368 solo nel 2011 sul totale di n. 1067), che, assieme a quelle radiate (n. 243), danno il quadro complessivo della crisi. Molte delle società che si sono poste in liquidazione erano effettivamente operative, mentre continua a sfuggire il numero sommerso di quelle che hanno chiuso San Marino conseguenti, quali l’avocazione del procedimento, sia, infine, la possibilità di incidenza sulla composizione dell’organo giudiziario, che è prestabilita dalla legge». Insomma è la struttura stessa del Tribunale a prestare il fianco. Altra nota dolente è quella rappresentata dalla polizia giudiziaria, incapace nei fatti a contrastare i fenomeni malavitosi: «Le nuove emergenze stanno evidenziando anche la necessità di riforme concernenti la procedura penale, per evitare che le indagini possano essere frustrate da meccanismi pensati per il contemperamento dei diritti a fronte di reati diversi da quelli di cui si discute: mi riferisco, in primo luogo, ai termini per la definizione dell’istruttoria, che, per i fatti delittuosi di cui ci stiamo occupando, non dipende solo dall’attività dei giudici, ma anche dalle investigazioni della Polizia giudiziaria, e che per le indagini spesso si intrecciano con quelle delle omologhe autorità estere; all’escussione, in contraddittorio con la difesa, dei testimoni ed alla protezione degli stessi; alla riflessione sui collaboratori di giustizia, alla estensione delle tecniche investigative speciali, già previste per le indagini che riguardano il riciclaggio, l’usura ed il terrorismo». 40 | ottobre 2012 | narcomafie San Marino l’attività senza passare attraverso questa fase, che, comunque, si percepisce rilevante, attesa la difficoltà di effettuare le notifiche nelle cause civili ed in considerazione delle cause da parte del locatore o della società di leasing per ottenere la restituzione dell’immobile adibito a sede». Una moderna legge a favore dei media «Parimenti elevato è il numero dei procedimenti per reati contro l’onore, soprattutto commessi a mezzo delle comunicazioni di massa: l’assenza di una moderna normativa sull’informazione, capace di coniugare il diritto della collettività ad essere informata con i diritti della personalità nel quadro delle garanzie costituzionali, esalta la sensibilità dei soggetti coinvolti, che sempre più spesso hanno la percezione di una onorabilità violata dalla divulgazione di notizie che li riguardano; la concorrenzialità tra le diverse testate, d’altro canto, rende spasmodica la ricerca di informazioni, sempre più spesso ai limiti della legalità, con riflessi negativi anche sulla qualità. A tal proposito si rileva l’opportunità di pervenire alla approvazione di una moderna legge sull’informazione, che tenga conto anche delle nuove tecnologie, e che introduca finalmente lo statuto della professione di giornalista». Le condizioni precarie dei giudici «Le condizioni in cui i giudici devono lavorare incidono pesantemente anche sul carico di lavoro complessivamente assegnato a ciascuno di loro. È evidente che se oltre a preoccuparsi dei provvedimenti e delle sentenze, i Giudici devono anche svolgere l’organizzazione e il coordinamento tra le autorità e le forze di Polizia deputate alle indagini, con gli uffici della pubblica amministrazione e con tutti gli organi ausiliari dell’attività giudiziaria, e attendere direttamente alle incombenze amministrative, la produttività si riduce drasticamente. Quasi tutti i Giudici trascorrono la maggior parte del loro tempo per appianare le questioni relative all’esecuzione dei provvedimenti, per sopperire a carenze organizzative dei delegati ecc.». I danni provocati dallo sciopero degli avvocati «Nella decisione penale la situazione risulta normalizzata. Non vi sono sentenze da depositare e la celebrazione dei dibattimenti prosegue in maniera ordinata, con la trattazione e decisione di processi importanti. In particolare, è stato azzerato l’arretrato pendente relativo agli infortuni sul lavoro; sono state depositate n. 3 sentenze per il reato di riciclaggio, n. 1 per il reato di ostacolo alla vigilanza. L’avv. Battaglino (nota del 12 gennaio 2012) ha ritenuto di svolgere alcune osservazioni sul lavoro complessivamente svolto, che meritano di essere riportate soprattutto con riferimento al dibattimento: “Agli 81 dibattimenti assegnati nel 2011 (oltre ai 99 in materia di emissione di assegni a vuoto) devono aggiungersi un numero significativo di procedimenti assegnati nell’anno 2010 ma non definiti in conseguenza dello sciopero proclamato dall’Ordine degli avvocati. In altre parole nell’anno 2012 dovranno svolgersi dibattimenti in ben 200 procedimenti penali (90 in procedimenti per reati anche di una certa rilevanza, 110 in procedimenti per il misfatto di emissione di assegni a vuoto), numero questo quasi corrispondente a quello delle sentenze complessivamente emesse in un anno dai vari giudici penali (sia di primo che di secondo grado). Indubbiamente lo sciopero proclamato dall’Ordine degli avvocati ha fortemente rallentato lo svolgimento dei vari dibattimenti. Basti dire che nell’anno 2011 a fronte delle 32 giornate in cui si sono celebrati dibattimenti, in ben 15 giornate si è dovuto procedere a rinvii per l’adesione allo sciopero (che complessivamente ha riguardato 34 procedimenti oltre ai 39 per il reato di assegni a vuoto)”». Il problema delle notifiche Si deve infine aggiungere la proposta di modificare il regime delle notifiche degli atti giudiziari in materia penale alle banche e alle società finanziarie. Il responsabile del Gruppo Interforze ha infatti evidenziato che «l’attività di notifica degli atti giudiziari, con particolare riferimento a quelli destinati a tutti gli istituti di credito e alle società finanziarie, rappresenta una parte consistente dell’attività quotidiana della Polizia giudiziaria. Le indagini bancarie disposte dagli inquirenti infatti, sia nell’ambito di procedimenti per rogatoria internazionale che di procedimenti penali, negli ultimi anni si sono particolarmente intensificate e l’attività di notifica che ne consegue di fatto assorbe molto tempo ed energie del Gruppo. Atteso che ad oggi, solo tale attività comporta di volta in volta l’esecuzione della notifica a mano presso almeno settanta diversi soggetti dislocati sul territorio, […] (evidenzia) la possibilità che si possa promuovere l’adozione di procedure che ne consentano l’esecuzione in maniera più agevole, eventualmente mediante l’utilizzo di strumenti telematici (se del caso, con il coinvolgimento degli organi di controllo sui soggetti vigilati). Quanto sopra al fine di poter ottimizzare risorse umane, tempo e mezzi a disposizione rispetto all’attività complessivamente svolta dal Gruppo». Insomma l’ennesima chiave di lettura delle cause per cui le associazioni criminali abbiano spesso scelto il Titano come propria meta. 41 | ottobre 2012 | narcomafie ratifica della firma da una parte normalizzerebbe i rapporti fra i due Stati e bloccherebbe l’emorragia di imprenditori dal Monte; dall’altra per San Marino comporterebbe tutta una serie di oneri nello scambio di informazioni. Giornalisti e analisti di fama si sono scervellati per capire e provare a fornire risposte sul perché i due Paesi non hanno ancora, in tutti questi anni, portato a regime un accordo che almeno sulla carta dovrebbe garantire benefici per entrambi i soggetti in campo. E i due Stati interessati si sono sempre ben guardati dallo spiegare le reali motivazioni alla base dello stallo nei rapporti. Questo tira e molla verte sulla volontà sammarinese di ottenere il più possibile da questa firma. Dall’Italia invece prima di mettere nero su bianco l’accordo si chiede l’effettività delle norme approvate. Il tempo cancella tutto: anche le prove. Infine c’è una “parola magica” che stuzzica la politica del microstato: retroattività. Nella recente storia economica sammarinese fatta di esempi non proprio virtuosi sono stati in tanti – sammarinesi e italiani – ad avere le mani in pasta. Compresi soggetti di primo piano che oggi non vorrebbero pagare il prezzo del nuovo corso. Così, come spiega il dottor Giovagnoli, capo della Procura riminese (cfr. intervista pag. 55, ndr.): più la situazione si tira per le lunghe, più si aspetta a fare entrare in vigore determinate norme, meno si può scavare indietro. Supponendo una retroattività di 5 anni, per appurare le magagne di questo San Marino fantasma e complesse operazioni finanziarie atte a occultare il danaro sporco. Dietro a gran parte di questa situazione si celava la mano delle associazioni criminali. Un brusco risveglio per il Titano che, dall’oggi al domani, si è ritrovato spoglio delle sue maggiori fonti di reddito e costretto a reinventarsi e riproporsi sul mercato passando da una economia fittizia a una reale. Messa con le spalle al muro, l’antica repubblica è stata altresì costretta a prevedere tutta una serie di norme sulla trasparenza su modello europeo. Così a oggi, nonostante il 13 giugno 2012 sia arrivata la firma con l’Italia siglata dal governo Monti, San Marino resta sulla black list perché non si è ancora proceduto con la ratifica e di conseguenza gli accordi non sono entrati in vigore. La San Marino 42 | ottobre 2012 | narcomafie o quell’altro soggetto, un conto sarebbe stato accordarsi nel 2009, un altro – come facilmente comprensibile – sarebbe farlo nel 2013. Evidentemente ognuno ha da guadagnarci, perché indubbiamente tutti hanno i propri scheletri nell’armadio. Oggi la Repubblica di San Marino è impegnata su diversi fronti, in particolare quello della criminalità organizzata. Come spiegato poc’anzi, in numerose indagini che riguardano il monte Titano si intravede la mano delle mafie. Così nell’ultimo anno spunta una commissione politica di inchiesta (della quale parleremo in seguito) sulle mafie e un osservatorio. È il frutto della collaborazione con la Fondazione Caponnetto di Salvatore Calleri. Quest’ultimo, invano, ha provato a dotare San Marino di un pacchetto normativo adeguato e di un ufficio preposto alle indagini sulla scorta delle procure italiane. Tutto bloccato dalla crisi di governo che porterà a nuove elezioni ai primi di novembre. Il vulnus più grande è rappresentato dall’impossibilità nel concreto di poter effettuare intercettazioni telefoniche e ambientali che rappresentano, come sanno gli addetti ai lavori, lo strumento principe nella lotta alle associazioni mafiose. In concreto quindi si sta facendo poco e niente nella lotta sul campo alle mafie. Non esistono infatti uomini, mezzi e strumenti adeguati per un reale contrasto e la lotta oggi risulta impari. Nel concreto tutto questo si traduce in sporadiche indagini interne, scaturite solo ed esclusivamente grazie allo zelo di qualche commissario della legge (giudice) locale. Unione Europea, la via possibile. Proprio per la sua organizzazione, che non lo rende completamente indipendente dal potere politico, il tribunale sammarinese rappresenta uno strumento “spuntato” nella lotta alle mafie (cfr. box p. 38, ndr.). Non esiste infatti una sorta di procura della Repubblica indipendente dal tribunale che possa effettuare indagini autonome con gli strumenti idonei. Al contrario esiste un tribunale unico dove la parte dell’accusa è recitata dal cosiddetto “procuratore del fisco” che tuttavia non ha alcun concreto potere investigativo e nella pratica si limita ad una semplice lettura degli atti che gli vengono sottoposti, dando parere favorevole o negativo ad una archiviazione. Lo stesso codice penale e di procedura penale risultano obsoleti per un reale contrasto alle mafie che al contrario dispongono di mezzi all’avanguardia. L’impressione dunque è che non siano state messe in campo dalla politica le necessarie risorse. Difficile poter dire se questo accada con dolo. La soluzione più logica, proposta anche dall’ex segretario agli esteri socialista Fiorenzo Stolfi, appare quella di avvalersi della collaborazione italiana. Si potrebbero dunque individuare alcuni reati ben definiti per i quali prevedere la possibilità delle forze dell’ordine italiane di operare direttamente in territorio sammarinese. Si eviterebbe da un lato di duplicare gli strumenti organizzativi e conseguentemente si avrebbe un risparmio per il Titano. Dall’altro ci si potrebbe avvalere di una macchina rodata nel campo del contrasto alle mafie. L’Italia poi sarebbe ben lieta di potersi riprendere da sola soggetti e capitali scappati oltre confine. Insomma sarebbero tutti contenti, almeno quelli dalla parte degli onesti. Nella pratica però non si va oltre le proposizioni di intenti. Il quadro che ne emerge appare desolante e fornisce una ulteriore chiave di lettura sui motivi che stanno bloccando le trattative fra Italia e San Marino per normalizzare i rapporti. Da certi ambienti non si può e non si vuole accettare l’idea che un’epoca è finita e che, a causa della crisi mondiale e dell’11 settembre, i paradisi fiscali e i paesi che rendono più agevole l’elusione non possono e non hanno più motivo di esistere. In questo cammino l’eventuale adesione all’Unione Europea potrebbe rappresentare per il Titano una svolta e una opportunità. Di questo avviso sono numerosi esponenti del tessuto connettivo sammarinese che riunitisi in un comitato hanno permesso alla domanda di referendum sulla richiesta di adesione all’Unione Europea di essere sottoposta al Collegio garante (un sorta di Corte costituzionale) per il giudizio di ammissibilità. I Garanti hanno risposto affermativamente, dunque nei prossimi mesi i sammarinesi potranno decidere se entrare o meno in Europa. In definitiva è indubbio che l’antica repubblica in questi anni abbia fatto passi da gigante per imboccare la strada della trasparenza, ma ci sono ancora fortissime resistenze a intraprendere un cammino virtuoso non solo nella politica, ma anche e soprattutto nel mondo economico e fra i professionisti. La cassaforte dei colletti bianchi Dai Casalesi, alla Sacra corona unita, fino alle più potenti ’ndrine: i collegamenti con alcuni rappresentanti degli istituti di credito della Repubblica di San Marino hanno messo in luce una permeabilità al riciclaggio di proventi illeciti di ogni natura. Ecco come è stato possibile per le mafie insinuarsi così agevolmente sul Titano di David Oddone San Marino 43 | ottobre 2012 | narcomafie San Marino 44 | ottobre 2012 | narcomafie A San Marino in molti erano a conoscenza di fatti e persone ma hanno preferito tacere. Altri non sono stati messi in condizione di vedere. Sul Monte non si registrano crimini che creino allarme sociale, stragi o esecuzioni. Si tratta con una mafia silente: quella dei colletti bianchi. Una mafia virtuale, ma anche molto concreta nei suoi obiettivi e nelle sue azioni. Con mafie intendiamo le organizzazioni criminali storiche (mafia siciliana, camorra, ’ndrangheta), ma anche quella forma mentis tipica di chi vede, ma non parla, di chi fa affari con una realtà di tangenti e prebende. Una mafia dei bottoni, delle operazioni bancarie e delle triangolazioni. Una mafia che ha agito con il silenzio e l’omertà. In una parola: con l’impenetrabile segreto bancario, grande peculiarità di San Marino, con la benedizione di un’Italia che vi ha letteralmente sguazzato. Nessuno è immune dalle mafie, tanto meno le regioni del Nord. E a San Marino, nella migliore delle ipotesi, vi è stata una sottovalutazione dei fenomeni di criminalità organizzata. Una realtà intoccabile. Addetti ai lavori sono concordi nel ritenere che fino al 2005 il Titano era una realtà silente e nascosta dal “protettorato” italiano. La storia attuale è figlia di numerosi fattori e passa da episodi cardine. Il primo grande cambiamento vi è indubbiamente stato con la nomina al vertice della Banca d’Italia di Mario Draghi. La prima diretta conseguenza sono state alcune inchieste da parte della Procura di Forlì. A queste sono seguite normative antirici- claggio stringenti emanate dalla Comunità europea e recepite nell’ ordinamento del Titano dal 2007 in avanti. Basti pensare che quando la Guardia di finanza fece un verbale nel 2005, su un movimento di contanti di 100mila euro dall’Italia a San Marino, venne annullato dalla Banca d’Italia in quanto ritenuto contrario all’accordo tra i due stati siglato nel 1939. Questo era il quadro di una realtà intoccabile anche e soprattutto per la connivenza dell’Italia alla quale andava bene avere un paradiso fiscale come enclave. Sono diverse e variegate le categorie di investimenti che San Marino attrae. Tra queste figurano i soldi sporchi derivanti dalle frodi carosello all’Iva. Nelle varie frodi scoperte nel tempo dai finanzieri si trova spesso e volentieri San Marino con una o più società filtro che compaiono nell’articolato meccanismo. Per quanto riguarda poi l’evasione fiscale, San Marino ha sempre costituito una roccaforte dei soldi dell’evasione perpetrata dai furbetti italiani di un po’ tutte le categorie: dal piccolo commerciante (fruttivendolo, macellaio, salumiere, parrucchiere) al ristoratore, al proprietario o gestore di hotel, al bagnino per arrivare all’imprenditore di medie e grandi dimensioni. La “cassaforte” sammarinese ha permesso la commissione di reati a diverse etnie: cinesi (lavoro nero ed evasione fiscale), albanesi (traffico di droga), rumeni e macedoni (prostituzione). Si arriva, infine, alle associazioni mafiose. Uno dei vantaggi per tali organizzazioni è di movimentare i flussi finanziari senza che questi siano visti dall’Italia. Si pensi ai bonifici effettuati in entrata ed in uscita da San Marino verso i paradisi fiscali nel mondo. Uno dei nodi irrisolti fra Italia e Titano e che rappresenta oggi l’oggetto di numerosi contenziosi e indagini da parte delle polizie fiscali italiane è quello della cosiddetta “doppia imposizione”. Spesso e volentieri la delocalizzazione di un’impresa a San Marino che ha il suo mercato di riferimento in Italia è artatamente effettuata per avvantaggiarsi di una tassazione più favorevole nel citato stato estero. In questo modo diventa agevole vincere la concorrenza delle imprese italiane che hanno un regime fiscale più sfavorevole. Il mercato in questo caso diventa drogato. Gli esempi citati fino ad ora trovano attuazione nel concreto delle operazioni che andiamo ad analizzare. Camorra: la spartizione del terreno. Per quanto riguarda la camorra, si stanno sempre più riscontrando collegamenti con rappresentanti degli istituti di credito della Repubblica di San Marino, che si sono dimostrati permeabili al riciclaggio dei proventi illeciti del sodalizio in argomento. Tutto questo emerge non solo dalle operazioni delle forze dell’ordine e dagli articoli dei giornali, ma anche dallo stesso report ad hoc della Fondazione Caponnetto. Ecco alcuni esempi degli interessi dei clan camorristici sul Titano e in Emilia Romagna. Si parte con l’operazione “Vulcano” del 22 febbraio 2011, a seguito della quale i Carabinieri del Ros di Bologna hanno eseguito un decreto di fermo di indiziato di delitto per estorsione aggravata dal metodo mafioso nei confron- ti di dieci soggetti collegati a tre clan della camorra, i Vallefuoco di Brusciano (Na), i Mariniello di Acerra (Na) e i Casalesi legati alla fazione Schiavone, attivi a Rimini, Riccione e San Marino, uniti da una sorta di “patto” (mai riscontrato in precedenza in Emilia Romagna) per dividersi i proventi dell’estorsione. Una vera e propria “pietra miliare” della presenza mafiosa sul Monte e in Riviera. Le indagini hanno, infatti, evidenziato che dopo aspri confronti sul campo i tre clan sono pervenuti ad accordi pacificatori su mandato dei “capi”campani. Per la prima volta in EmiliaRomagna, le vittime non sono risultate essere imprenditori originari delle aree di provenienza dei clan poi trapiantati al nord, ma della zona. Le vittime sono imprenditori in difficoltà economica che svolgevano la loro attività tra Rimini, Riccione e San Marino e che venivano avvicinati da personaggi disposti ad offrire liquidità immediata; un modo per instaurare un rapporto confidenziale che in poco tempo sfociava in estorsione ed usura. Il 21 settembre 2011, la Dia, a conclusione dell’operazione “Staffa”, ha eseguito diversi provvedimenti restrittivi nei confronti di esponenti di clan camorristici e di Cosa nostra, per associazione per delinquere di stampo mafioso e riciclaggio. Nello specifico, l’attività ha riguardato anche una rete di soggetti dediti al riciclaggio nel centro e nord Italia, che si sarebbe avvalsa della collaborazione di colletti bianchi residenti nella Repubblica di San Marino. L’organizzazione criminale, secondo l’ipotesi di accusa, si sarebbe avvalsa per il riciclaggio e reimpiego dei profitti illeciti, della collaborazione attiva di Livio Bacciocchi e di Oriano Zonzini, cittadini della Repubblica di San Marino, che avrebbero agito quali promotori per essere uno il maggiore azionista e l’altro il direttore generale della Fincapital S.A., società finanziaria con sede nella Repubblica di San Marino impiegata per il perseguimento dei predetti fini illeciti. Secondo l'indagine un terzo cittadino sammarinese, Roberto Zavoli, era preposto ai rapporti tra Vallefuoco Francesco e la Fincapital S.A., ed era socio (insieme a Vallefuoco) della Za.Va. Group. L’operazione ha permesso di riscontrare l’operatività di due associazioni ben distinte ma complementari, rispettivamente promosse e dirette da Raffaele Stolder e Francesco Vallefuoco. Gli affiliati al clan Stolder hanno operato prevalentemente nella cosiddetta rapina col buco mentre il gruppo riconducibile a Francesco Vallefuoco, operativo sul territorio nazionale ed estero, è risultato strutturato per riciclare denaro proveniente da gruppi camorristici campani e recuperare crediti con metodi violenti. Tale gruppo, avvalendosi di istituti finanziari della Repubblica, ha anche reinvestito, per circa 5 milioni di euro, il denaro dell’organizzazione degli Stolder e di altri gruppi camorristici campani compreso quello dei Casalesi, attraverso rapporti con il gruppo di Giuseppe Setola. Inoltre è lo stesso Vallefuoco, in un’intercettazione ambientale, a riferire che Giuseppe Setola, San Marino 45 | ottobre 2012 | narcomafie Direzione investigativa antimafia: attenzione ai “reati-spia” San Marino 46 | ottobre 2012 | narcomafie Nove attentati denunciati (in Calabria sono 10 e in Sicilia 7), 118 estorsioni denunciate, 221 danneggiamenti seguiti da incendio, 301 incendi denunciati e 1.149 rapine. Questi i numeri di mafia, camorra e ’ndrangheta in Emilia-Romagna tratti dal rapporto della Dia sul secondo semestre del 2011. Si tratta di cosiddetti “reati-spia”, a cui gli investigatori prestano attenzione perché «ritenuti maggiormente indicativi di dinamiche riconducibili alla supposta presenza di aggregati di matrice mafiosa». I valori di questi reati, esaminati nelle regioni del Centro-Nord Italia, confermano che l’infiltrazione della criminalità organizzata non costituisce più un fattore di vulnerabilità per il solo Meridione. Infatti «il livello raggiunto da taluni reati-spia nel Nord Italia non è di minor peso rispetto a quanto rilevato nei territori di elezione delle singole matrici mafiose». Secondo gli investigatori della Dia, per quanto riguarda il numero degli attentati, che nel secondo semestre sono stati complessivamente 160, il caso dell’Emilia-Romagna non è da sottovalutare. Un altro reato che allarma gli investigatori Antimafia è il danneggiamento seguito da incendio, «in costante aumento» (il numero più alto si registra in Sicilia: 1.186 negli ultimi sei mesi del 2011). Per la Dia è un reato «associabile ad intenti punitivi della criminalità nei confronti delle vittime non disposte a soddisfare le richieste estorsive». A livello nazionale, i danneggiamenti seguiti da incendio sono stati 4.881 nel primo semestre 2011 e 5.194 nel secondo. In Emilia, come già scritto, sono stati 221: «valori non trascurabili – si legge nel rapporto – a fronte di quelli, talvolta poco discosti o addirittura inferiori che si registrano in Calabria, Campania e Puglia», dove ce ne sono stati rispettivamente 606, 317 e 753. Anche il numero delle estorsioni denunciate (128) viene considerato “significativo”, mentre quello degli incendi “di assoluto rilievo”. Il rapporto della Dia prosegue con l’analisi di mafia, camorra e ’ndrangheta, prima nelle regioni d’origine poi nelle proiezioni extraregionali. Per quanto riguarda la mafia in Emilia-Romagna, nel secondo semestre 2011, «la Dda ha eseguito accertamenti finalizzati alla prevenzione delle infiltrazioni mafiose negli appalti». Gli investigatori ricordano che «sono emersi elementi di interesse nei confronti di un’impresa operante nella provincia di Ferrara, con sede legale a Palermo, collegata a un esponente delle famiglie mafiose di Partinico e San Giuseppe Jato». Per questa impresa è scattata una «misura interdittiva antimafia emessa dal Prefetto l’8 luglio 2011». Quanto alla criminalità calabrese, gli uomini della Dia confermano la «presenza e operatività di elementi contigui alla ’ndrangheta», specificando che «sono interessate in particolare le città di Bologna, Modena e Ravenna». 'Ndrangheta in Emilia Romagna. Gli investigatori ricordano la sentenza con cui il gup di Reggio Calabria del 24 ottobre 2011 ha condannato un gruppo criminale (dedito allo spaccio di stupefacenti) riconducibile alla famiglia Gallo di Gioia Tauro. Durante le indagini (che risalgono al 2010), è emerso che uno dei condannati, residente a Finale Emilia, nel modenese, curava l’approvvigionamento di stupefacenti direttamente dalla Calabria, utilizzando per il trasporto un autobus di linea. Ma “l’attivismo” della criminalità organizzata calabrese in regione è evidente anche dalle attività sviluppate dalla forze di Polizia. Tra queste, spicca l’operazione “Due torri connection” della Squadra mobile di Bologna, che ha scoperto che uomini della ’ndrina calabrese Mancuso (di Vibo Valentia) si erano radicati a Bologna e da qui facevano affari con narcotrafficanti colombiani, di stanza in Spagna e in Colombia, negoziando l’acquisto di ingenti partite di cocaina. Non solo, i calabresi si riunivano in una sontuosa villa a Bentivoglio, proprietà di un sodale. La camorra e le propaggini sul Titano. «Sono operativi sodalizi criminali dediti al reimpiego di capitali illeciti, al racket dell’usura e dell’estorsione, ma anche alla commissione di reati di carattere predatorio». Anche in questo caso spiccano operazioni, come quella condotta dalla Dia che il 21 settembre ha portato all’arresto di 28 persone, alcune delle quali operanti in Emilia-Romagna e nella Repubblica di San Marino, specializzate nel reimpiegare-riciclare il denaro di varie organizzazioni: ne avevano riutilizzati cinque milioni. Il 3 novembre 2011, poi, è stato arrestato un esponente dei Casalesi a Carpi (Modena), ricercato da mesi per estorsione e truffa. Mafia cinese. Particolare attenzione merita la criminalità cinese che, secondo acquisizioni informative, ha recentemente manifestato il proprio interesse ad “operare” con intermediari della Repubblica del Titano. Emblematica è l’Operazione Cian Lu, condotta nel 2010 dalla Guardia di Finanza di Firenze, che ha permesso di eseguire un’ordinanza di cusodia cautelare nei confronti di 24 soggetti, dei quali 17 di nazionalità cinese e 7 italiani. I reati contestati sono stati associazione a delinquere di stampo mafioso finalizzata al riciclaggio di proventi illeciti i cui reati presupposto erano la contraffazione, la frode in commercio e la vendita di prodotti industriali con segni mendaci o in violazione delle norme a tutela del “made in Italy” , l’evasione fiscale, il favoreggiamento dell’ingresso e della permanenza nel territorio dello stato di cittadini cinesi clandestini per il successivo sfruttamento nell’impiego al lavoro, lo sfrutta- mento della prostituzione e la ricettazione. Il riciclaggio in questione sarebbe avvenuto sia attraverso una agenzia italiana di money transfer sia tramite una società finanziaria avente sede centrale e legale a San Marino. È noto l’incremento della comunità cinese in quasi tutte le provincie dell’Emilia Romagna. A evidenziare questa espansione è la continua apertura di nuove imprese i cui titolari sono cittadini cinesi. Acquisizioni investigative evidenziano che le aziende a conduzione cinese, per mantenere basso il loro costo di produzione, si avvalgono di manodopera in nero composta da connazionali immigrati clandestinamente (costretti a lavorare in condizioni disumane per poter restituire il debito contratto per arrivare in Europa). Molte di queste aziende si dedicano alla produzione di merce contraffatta. L’assoluta mancanza di rispetto delle regole favorisce fatturati rilevanti, rendendo dette imprese appetibili ai gruppi criminali cinesi che sempre più si stanno evolvendo in vere e proprie organizzazioni criminali e che lottano tra loro per accaparrarsi il controllo del territorio. Se si guarda il dato nazionale delle persone denunciate o arrestate per associazione di stampo mafioso nel corso del 2011, si nota che il numero degli stranieri è in aumento (+25%, dai 52 del primo semestre ai 65 del secondo), mentre quello degli italiani in calo (-23%, dai 1.029 del primo semestre 2011 ai 791 dei successivi sei mesi). Altro dato di sicuro interesse per l’EmiliaRomagna riguarda la criminalità sudamericana: il 10,4% dei sudamericani segnalati in Italia per associazione di stampo mafioso, arriva dalla regione emiliano-romagnola. I sudamericani si dedicano soprattutto alla droga e al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Si cita quale esempio l’inchiesta “Babado” dell’ottobre scorso, fatta a Reggio Emilia e Forlì). grazie al suo aiuto, aveva trovato rifugio nel territorio di San Marino all’indomani della strage degli extracomunitari, avvenuta a Castelvolturno (Ce) nell’ottobre del 2008. Di particolare interesse è il collegamento del gruppo di Francesco Vallefuoco con esponenti mafiosi di Palermo, la cui organizzazione è risultata prevalentemente dedita al traffico di stupefacenti e con ramificazioni sul territorio nazionale, sempre con il medesimo fine di riciclare i proventi di tale attività delittuosa. La ‘ndrangheta scala il Titano. Per quanto riguarda la mafia calabrese si riscontra non solo un crescente mimetismo (con l’interposizione di prestanome al fine di celare la radice delittuosa dei patrimoni), ma anche uno spostamento degli interessi economici, dall’acquisizione di beni immobili a una sempre più estesa attività d’impresa, peraltro funzionale all’infiltrazione nell’economia legale. Altro innovativo settore ritenuto sensibile alle attenzioni di questi sodalizi è lo sfruttamento delle fonti energetiche alternative, quali l’eolico e il fotovoltaico. Anche in Emilia Romagna è stata riscontrata l’operatività di soggetti affiliati a diverse ’ndrine. Al riguardo si evidenziano le seguenti operazioni: “Decollo Ter”, in cui il 26 gennaio 2011 i Carabinieri del Ros hanno eseguito ordinanze di custodia cautelare nei confronti dei componenti di una associazione finalizzata al traffico internazionale di stupefacenti, estorsione, intestazione fittizia di beni e reimpiego di capitali illeciti, con l’aggravante mafiosa prevista dalla normativa italia- na. Si cita anche l’operazione “Golden Jail” del 7 aprile 2011, a seguito della quale la Polizia di Bologna ha denunciato 25 persone responsabili di associazione per delinquere finalizzata alla fittizia intestazione di beni per eludere le disposizioni di legge in materia di misure di prevenzione patrimoniali. In precedenza erano stati arrestati due soggetti affiliati alla ’ndrina Mancuso di Limbadi (Vv), già raggiunti da ordinanza di custodia cautelare nell’ambito della “Decollo Ter” (Francesco Ventrici e Vincenzo Barbieri, quest’ultimo ucciso il 12.3.2011 a San Calogero (Vv) durante un agguato in stile mafioso); il 30 giugno 2011, il Gico della Guardia di finanza di Bologna e i Carabinieri di Modena, a conclusione dell’operazione “Point Break”, hanno eseguito sette provvedimenti restrittivi nei confronti di altrettante persone ritenute affiliate o contigue alla ’ndrina degli Arena di Isola Capo Rizzuto (Kr). Le accuse nei confronti degli indagati sono, a vario titolo, di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture per operazioni inesistenti, di bancarotta fraudolenta, di detenzione illegale e porto abusivo di armi, di impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita e di tentata estorsione. L’attività investigativa ha evidenziato che, con il denaro proveniente dagli affari illeciti della ’ndrina Arena, sono stati effettuati investimenti a Modena e create società, anche fittizie, di cui poi è stato gonfiato il fatturato con giri di false fatture e attraverso l’effettuazione di frodi “carosello”. Il 29 luglio 2011, i Carabinieri del Ros di Catanzaro, San Marino 47 | ottobre 2012 | narcomafie San Marino 48 | ottobre 2012 | narcomafie a termine dell’operazione “Decollo money”, hanno arrestato dieci soggetti, in quanto ritenuti responsabili di far parte di un’organizzazione criminale, legata alla ’ndrina Mancuso operante, prevalentemente, nella provincia di Vibo Valentia, e dedita al narcotraffico e al riciclaggio dei proventi illeciti. Le attività investigative hanno evidenziato che parte dei proventi sono stati riciclati attraverso la mediazione di soggetti originari dell’Emilia Romagna e della Repubblica di San Marino, presso istituti di credito del Titano. In particolare, è stata evidenziata la stretta collaborazione del sodalizio con il Credito sammarinese. L’intermediario nei rapporti banca-’ndrangheta sarebbe stato il citato Barbieri Vincenzo che, secondo gli accertamenti svolti, oltre a disporre di diversi conti correnti presso il Credito sammarinese, avrebbe avuto contatti personali con l’ex direttore generale dell’istituto di credito della Repubblica del Titano, arrestato l’8 luglio, su richiesta del commissario della legge (giudice) Rita Vannucci. La ’ndrangheta, oltre alla pervasività del controllo criminale in Calabria, esprime significative proiezioni extra regionali tese all’inquinamento dell’economia legale e all’infiltrazione nella pubblica amministrazione. Tali caratteri sono evidenti anche nell’operazione “Black Hawks”. L’operazione condotta dalla Guardia di finanza di Milano è iniziata nel 2007 per reprimere un traffico di droga e si è poi sviluppata in due filoni d’indagine molto diversi tra loro. Il primo (nell’ambito del quale sono state riscontrate situazioni di estremo interesse per la Repubblica) ha fatto luce sulle attività illecite dei cugini Vincenzo e Giuseppe Facchineri, dediti all’usura ed al riciclaggio. I due si servivano di due mediatori (Orlando Purita e Gianluca Giovannini) che operavano a Milano e di un broker nautico che operava a Bologna e nella Repubblica: le indagini hanno portato all’arresto di 9 indagati. In particolare, i cugini Facchineri utilizzavano la loro fama criminale per riscuotere, con i classici metodi mafiosi, crediti contratti con diversi imprenditori in difficoltà economiche. Di estrema attualità i contatti, emersi nell’ambito di un più ampio contesto investigativo del centro operativo Dia di Reggio Calabria, di alcune ’ndrine con esponenti della Lega Nord. Nel dettaglio, attraverso società sammarinesi sarebbero state avviate operazioni in triangolazione con Cipro e Madeira in dumping fiscale. Gli interessi di Cosa nostra. A tal proposito, il 15 dicembre 2011 la Guardia di finanza (Scico e Gico di Caltanissetta), nel corso dell’operazione “Repetita iuvant”, ha proceduto, in numerose città del territorio nazionale, alla notifica del decreto di sequestro nei confronti di un soggetto italiano. Le indagini patrimoniali hanno consentito di appurare come l’indagato ha di fatto accumulato illegalmente un patrimonio, valutato in 40 milioni di euro circa, suddivisi in beni immobili, auto, disponibilità finanziarie e numerose società con sedi a Roma, Catania, Messina, Napoli, Modena e Massa Carrara, tutte operanti nel settore dei giochi e della raccolta di scommesse sportive. Per quanto riguarda la Repubblica di San Marino si rimanda a quanto riscontrato con l’operazione “Staffa” ovvero il collegamento del gruppo di Francesco Vallefuoco con esponenti mafiosi di Palermo, al fine di riciclare i loro proventi illeciti anche sul Titano. Soggetti riconducibili alla criminalità organizzata siciliana sono risultati attivi soprattutto nel riciclaggio di denaro attuato attraverso l’acquisizione di beni immobili. È iniziato il dibattimento relativo a un caso che risale al gennaio 2008 che diede vita ad un fascicolo processuale per riciclaggio. Imputato è Rosario Sofia, di Catania, che, recatosi presso una banca di San Marino, prelevò una somma cospicua dal conto del fratello Giuseppe. Per farlo utilizzò un modalità singolare: si fece accendere 68 libretti al portatore per 12.550 euro ciascuno. Secondo gli inquirenti tale condotta era finalizzata ad occultare e trasferire da un soggetto all’altro denaro di provenienza illecita, il tutto ostacolando la verifica sulla effettiva origine di quella ricchezza. Una provenienza che le indagini hanno poi attestato essere chiara: infatti grazie a una rogatoria inviata alla Procura della Repubblica di Catania, si è riscontrato che la somma depositata sul conto di Giuseppe Sofia era provento, almeno per una parte cospicua, di usura. I collegamenti con la Sacra corona unita. L’operazione “Animal House” condotta dai Carabinieri di Lecce ha consentito di arrestare 13 persone per associazione e traffico illecito di stupefacenti. Gli indagati fanno parte di due gruppi contigui alla Sacra corona unita, collegati tra loro, operanti nelle province di Lecce e Brindisi, con ramificazioni in Albania e nella Repubblica di San Marino. L’elemento di collegamento tra i due gruppi (uno incaricato dell’approvvigionamento di cocaina e marijuana e l’altro che si occupava dello spaccio) era Luciano Perfetto, 47 anni, domiciliato nella Repubblica di San Marino, deceduto il 23 agosto 2010 in seguito a uno “strano” e “chiacchierato” incidente sul lavoro sul quale pendono tuttora indagini. Perfetto da San Marino intratteneva rapporti a distanza e disponeva spostamenti e strategie; inoltre, sul Titano sono stati effettuati incontri operativi e organizzativi. Interessante l’operazione “Criminal minds” della Guardia di finanza di Rimini, nell’ambito di un’indagine coordinata dalla Procura della Repubblica riminese. Le persone coinvolte sono accusate a vario titolo della sistematica commissione di delitti di corruzione, divulgazione di notizie riservate, calunnia, estorsione, ricettazione, trasferimento fraudolento di valori, favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione, detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti e dopanti. Gli attuali approfondimenti delle condotte contestate (che delineano un inquietante scenario di diffusa corruzione, usura ed estorsioni realizzate anche ricorrendo a modalità violente di recupero credito quali il ricorso a esponenti del clan camorristico Gallo-Cavalieri, operante a Torre Annunziata (Na), e a soggetti albanesi particolarmente violenti e dediti al traffico di droga e allo sfruttamento della prostituzione) stanno fornendo uno spaccato informativo importante. Allo stato tutta la vicenda Criminal minds sembra ruotare attorno alla finanziaria Fingestus. Non si può non citare infine la relazione annuale della Direzione nazionale antimafia che ha esaminato anche le dinamiche criminali che riguardano San Marino. Con riferimento alle segnalazioni di operazioni sospette, «(…) si osserva in proposito che non sono certo mancate le segnalazioni pervenute all’Uif concernenti flussi in contropartita con soggetti e/o intermediari aventi sede nella Repubblica di San Marino. Le operatività anomale segnalate appaiono finalizzate, da un lato, al trasferimento di fondi verso la Repubblica di San Marino tramite operazioni di natura societaria e, dall’altro, al reinvestimento presso banche e istituti finanziari italiani dei fondi accumulati all’estero, spesso occultati tramite schermi fiduciari e societari. L’effettiva applicazione delle nuove disposizioni in materia di adeguata verifica della clientela con riguardo, in particolare, all’identificazione del titolare effettivo è stata sovente vanificata dal comportamento degli intermediari sammarinesi. Infatti, a fronte delle richieste di informazioni provenienti dagli intermediari italiani, quelli sammarinesi, al fine di eludere la norma, hanno spesso dichiarato di operare in nome e per conto proprio, ovvero hanno disposto il trasferimento dei fondi presso istituti insediati in paesi off shore senza fornire i dati richiesti». Un passaggio chiave per comprendere appieno il perché del forte interesse delle associazioni criminali che possono così trovare una sponda importante sul Monte. San Marino 49 | ottobre 2012 | narcomafie San Marino 50 | ottobre 2012 | narcomafie I furbetti di San Marino Rapporti tra politici, professionisti e mafiosi: la vicenda Fincapital e i presunti legami con i Vallefuoco sono al vaglio della Commissione antimafia della Repubblica del Titano, la cui relazione ha ricevuto attacchi durissimi e diviso il Paese tra sostenitori e detrattori di David Oddone 51 | ottobre 2012 | narcomafie Risultati potenzialmente dirompenti La nomina della Commissione consiliare sul fenomeno delle infiltrazioni della criminalità organizzata, sostenuta dal convinto conferimento alla stessa – da parte del Consiglio grande e generale (il Parlamento della Repubblica, ndr.) – delle funzioni d’inchiesta sulla vicenda “Fincapital”, ha rappresentato nettamente un punto di svolta. Dopo l’ondata mediatica, avvenuta a seguito dell’apertura dell’indagine da parte della procura della Repubblica di Napoli, il Consiglio grande e generale ha reagito prontamente – attraverso una deliberazione unanime – segnando una serie di passaggi istituzionali e politici ispirati a quelle esigenze (e urgenze) di trasparenza e verità tanto auspicate dalla cittadinanza sammarinese. La Commissione ha agito, nel corso di questi mesi, nel pieno e assoluto rispetto delle funzioni attribuitele per «appurare le eventuali responsabilità politiche di coloro che hanno interagito in maniera diretta o indiretta nei fatti emersi dall’indagine relativa alla vicenda Fincapital». Con la consapevolezza però della straordinarietà dell’oggetto della vicenda in quanto – diversamente dalle altre Commissioni costituitesi negli anni scorsi – è strettamente legata al mondo della criminalità organizzata. In questo senso l’ana- lisi svolta dalla Commissione, rivolta a comprendere le vicende (non solo giudiziarie) della società finanziaria “Fincapital”, ha permesso di mostrare – con elementi circoscritti e dettagliati – un quadro di riferimento politico, sociale e culturale da non sottovalutare. La “galassia” Fincapital si è, infatti, intrecciata con alcune delle tappe che hanno contrassegnato lo sviluppo economico sammarinese negli ultimi venti anni. Uno sviluppo che, per taluni aspetti estremamente evidenti, si è mosso fuori controllo rispetto a quel percorso che dal 2008 – con l’approvazione della legge antiriciclaggio – il nostro Stato ha dovuto intraprendere a tappe forzate e, per questo, oggettivamente traumatiche. Dalla lettura degli stralci delle audizioni, riportati nei vari capitoli della relazione, emerge come un certo sottobosco politico e affaristico abbia prosperato all’interno di questo perimetro. Il periodo pre-elettorale, in riferimento alle elezioni politiche generali del 2008, è lo sfondo all’interno del quale si gioca una serie di passaggi che confermano questa situazione. L’avvicendamento politico tra le due coalizioni in campo è nell’aria e gli attori della vicenda si muovono per garantire una continuità e, soprattutto, una protezione da parte della politica nei confronti dell’intero circuito che ruota attorno a Fincapital. Siamo, inoltre, in un momento in cui il mercato immobiliare e finanziario interno inizia a dare i primi forti segnali di crisi; crisi che peraltro si mostrerà in seguito – nella sua massima evidenza – con l’attuazione, da parte del Governo Italiano, di un nuovo scudo fiscale. Per questo anche il gruppo gui- dato da Francesco Vallefuoco si pone il problema di come, in un nuovo contesto politico ed economico, si sarebbe potuta sostenere la portata degli affari di Livio Bacciocchi. Concreta lotta alla mafia o solita gazzarra politica? Questo il punto di vista dei commissari. Tra i punti salienti della ricostruzione della commissione vi sono inoltre gli assetti proprietari di Fincapital, gli incontri al Mod’s Kafé, abituale luogo di ritrovo per Vallefuoco e i suoi “ragazzi”, le presunte richieste di tangenti, i rapporti fra i politici e Bacciocchi, la “processione” nello studio del notaio. Sono più di dieci i politici che a vario titolo entrano nel documento di 112 pagine. Se da una parte chi non è stato toccato dalla relazione e gli stessi commissari parlano di svolta storica per la Repubblica di San Marino, c’è chi dall’altra vede dietro la commissione più che un reale strumento per la lotta alle mafie, un modo per sbarazzarsi degli avversari politici più ingombranti. Nessuno degli accusati infatti è mai stato sentito per potersi difendere e fornire la propria versione dei fatti, vedendo così violati in maniera palese i più elementari diritti costituzionalmente garantiti. Inoltre, lamentano gli accusati, nella relazione non ci sarebbero prove documentali ma solo testimonianze: i testi in alcuni casi avrebbero curricula criminali importanti, tanto da non essere credibili. Per di più la stessa relazione vedrebbe l’omissione di alcune testimonianze a favore di altre e sarebbe per questo, sempre secondo gli accusati, parziale e di parte. Infine a coloro che vengono accusati non San Marino Martedì 18 settembre la Commissione parlamentare sammarinese antimafia sul caso Fincapital (cfr. pag. 45, ndr.) ha letto in parlamento la propria relazione: 112 pagine che hanno tenuto impegnato l’organismo per 73 sedute, con 54 audizioni e una trasferta a Napoli. Un’unica relazione, secretata fino all’ultimo. Trasparenza e sicurezza finanziaria San Marino 52 | ottobre 2012 | narcomafie La parola magica è segreto bancario, il cui superamento è, da sempre, al centro del dibattito relativo all’attuazione delle misure della trasparenza. Sul punto si rileva un costante processo di revisione normativa dei modelli di agreement multilaterali e bilaterali, rilevato dalla stessa Fondazione Caponnetto nel suo report su San Marino. Per quanto riguarda l’art. 26 del “Modello di convenzione contro le doppie imposizioni elaborato dall’Ocse”, ove sono contenute le regole base della cooperazione internazionale in materia fiscale, al fine di contrastare le pratiche scorrette e dannose, nella sua originaria formulazione non conteneva alcuna disposizione in merito all’acquisizione dei dati bancari. Il 15 luglio 2005, il Consiglio dell’Ocse, a seguito dei lavori iniziati nel 2002 ad opera del Comitato per gli affari fiscali, ha inserito un nuovo paragrafo 5, con il quale lo scambio di informazioni si è reso operante anche qualora i dati richiesti siano posseduti da banche, istituzioni finanziarie ovvero da soggetti fiduciari, in guisa tale da impedire che il segreto bancario possa essere utilizzato per negare lo scambio di informazioni. La consapevolezza che l’effettività dell’interscambio informativo si fondi soprattutto sulla possibilità di ottenere dati bancari e finanziari è stata altresì rimarcata nell’ambito del summit del G20 del 2009 tenutosi a Londra. In quella sede i capi di Stato e di Governo hanno affermato che «l’era del segreto bancario è finita», dando, così, un notevole impulso al processo di adeguamento ai principi di trasparenza e scambio di informazioni elaborati dall’Ocse. Questo quadro costituisce la base sulla quale la Repubblica di San Marino ha riconosciuto la necessità di adeguare il proprio assetto normativo agli standard internazionali, soprattutto riguardo allo scambio di dati bancari e finanziari. Infatti, con il D.L. 29 novembre 2010, nr. 190, ratificato dal D.L. 24 febbraio 2011, nr. 36 recante “Misure urgenti di adeguamento agli standard internazionali in materia di trasparenza e scambio di informazioni” sono state emanate disposizioni che hanno agito su tre distinti livelli. Innanzitutto si è proceduto alle modifiche della normativa esistente. Il Legislatore sammarinese ha rielaborato l’art. 1 della l. 18 giugno 2008, nr. 95, che disciplina i servizi di vigilanza sulle attività produttive, nonché la collaborazione amministrativa e lo scambio di informazioni in materia fiscale. Le novazioni apportate hanno ampliato il campo di applicazione della norma anche a tutte le attività con- template dalla Legge sulle imprese e sui servizi bancari, finanziari e assicurativi del 17 novembre 2005, nr. 165, che prima erano soggette alla sorveglianza di “specifici organismi di controllo e vigilanza”. Conseguentemente, sono stati ridefiniti, agli artt. 11 e 12 della L. nr. 95/2008, i compiti dell’Ufficio centrale di collegamento (Clo), elevato ad autorità competente per implementare e dare seguito alla collaborazione amministrativa e scambio di informazioni in materia fiscale conformemente agli accordi internazionali in vigore fra la Repubblica di San Marino e gli altri Stati, nonché i rapporti del citato ufficio con le altre autorità sammarinesi. Al Clo, nell’esercizio delle sue funzioni, non sono opponibili né il segreto bancario, né quello d’ufficio e professionale. Sono stati, altresì, rivisitati gli artt. 36, 103 e 156 della citata L. nr. 165/2005 prevedendo che l’eventuale comunicazione di dati bancari relativi ad una società sammarinese alla capogruppo, anche estera (purché con sede in uno Stato con il quale si è stipulato un accordo di cooperazione), non configura violazione del segreto bancario. In seconda istanza, si è proceduto a raccordare l’assetto regolamentare emendato con il sistema giuridico di riferimento. Con gli artt. 13 bis, 15 bis L. 18 giugno 2008, nr. 95 sono state previste, rispettivamente: - specifiche sanzioni amministrative per chiunque ostacoli l’attività del Clo (irrogabili dalla medesima Autorità); - le modalità di accesso alle informazioni e ai dati da parte del Clo. Il successivo art. 17 bis ha, conseguentemente, stabilito che vengano adottati, tramite appositi accordi e in regime di reciprocità, adeguati strumenti di cooperazione fra il Clo e gli uffici di vigilanza sulle attività economiche, la Banca Centrale e l’A.I.F. Da ultimo, il D.L. nr. 36/2011 ha: - introdotto specifiche sanzioni amministrative per le violazioni in tema di tenuta ed istituzione dei libri sociali e delle scritture contabili obbligatorie; - rafforzato i poteri dell’Ufficio Tributario; - previsto l’obbligo per le società fiduciarie sammarinesi, che detengono tramite mandato fiduciario partecipazioni in società estere, di fornire, su specifica richiesta del Clo, tutte le informazioni riguardanti le generalità dei fiducianti, la misura della partecipazione a ciascuno ascrivibile nonché, ove diversi da persone fisiche, le generalità dei loro titolari effettivi, così come dovrà formare oggetto di comunicazione ogni eventuale successiva variazione alla compagine dei propri fiducianti o dei loro titolari effettivi. Gli organismi internazionali Greco «San Marino è ancora allo stadio preliminare nella lotta contro la corruzione. È necessario, quindi, aumentare i controlli, soprattutto nel settore pubblico perché ci siano maggiore integrità e trasparenza». Così inizia il primo rapporto su San Marino del Greco (gruppo di Stati del Consiglio d’Europa contro la corruzione). Riconoscendo i risultati che la Repubblica ha ottenuto nella lotta al riciclaggio del denaro sporco e al finanziamento del terrorismo, il Greco invita San Marino – che ha aderito al gruppo di controllo nel 2010 – a «sviluppare ancora di più le misure specifiche contro la corruzione». Il rapporto su San Marino comprende 16 raccomandazioni: il Greco ne valuterà l’attuazione nel 2013. Si suggerisce di incrementare le indagini nel settore della corruzione e, se necessario, inasprire le pene; sviluppare gli strumenti per prevenire il conflitto di interesse; migliorare i meccanismi di controllo sulla pubblica amministrazione. Per quanto riguarda il settore privato 53 | ottobre 2012 | narcomafie Fondo monetario internazionale La delegazione del Fondo monetario internazionale dopo la conclusione dei lavori a San Marino ha tracciato un bilancio della situazione. L’economia non si è ancora ripresa da una lunga recessione. Le crescenti incertezze riguardanti la situazione esterna e il ruolo futuro del settore finanziario sammarinese potrebbero determinare una recessione prolungata e maggiori vulnerabilità del settore finanziario. Una persistente diminuzione delle dimensioni dei bilanci delle banche sammarinesi e dei profitti stanno avendo ripercussioni sulla posizione della finanza pubblica. Gli incontri con le autorità si sono concentrati su come diminuire le difficoltà del sistema finanziario, compresa l’istituzione di riserve di capitale, e sulle misure volte a contenere il disavanzo pubblico e incrementare la flessibilità dell’economia. Vi è stata ampia condivisione con le autorità sul fatto che costruire un modello di business sostenibile, che sia in linea con il nuovo assetto normativo e che non sia basato sul segreto bancario e sullo status di paradiso fiscale, è una fondamentale sfida a lungo termine. Inoltre, la normalizzazione delle relazioni economiche e finanziarie con l’Italia sarà di cruciale importanza per facilitare un riposizionamento efficace dell’economia. Il governo del Titano dal canto suo si è impegnato a trasformare le rac- comandazioni del Fmi in un preciso piano d’azione che integrerà il piano strategico di sviluppo e che sarà oggetto di confronto con gli esperti del Fondo prima che essi redigano il rapporto finale su San Marino. Commissione antimafia europea Da poco il Parlamento europeo ha istituito la prima Commissione speciale sulla criminalità organizzata, la corruzione e il riciclaggio riconoscendo, pertanto, tali fenomeni quali minaccia comunitaria. «Analizzare e valutare l’entità della criminalità organizzata, della corruzione e del riciclaggio di denaro e il loro impatto sull’Unione e sui suoi Stati membri, nonché proporre misure adeguate che consentano all’Unione di prevenire e contrastare tali minacce, a livello internazionale, europeo e nazionale» è quanto recita l’art. 1/A del testo approvato. La Commissione speciale, quindi, avrà poteri investigativi per capire qual è l’impatto delle mafie sui paesi dell’Unione e sull’Unione, concentrandosi sui crimini economici (in particolar modo riciclaggio e frodi comunitarie). Di recente su San Marino è intervenuto il vicepresidente della Commissione, onorevole Rosario Crocetta, che sul quotidiano sammarinese «L’Informazione» ha dichiarato: «Economia e finanza. Qui è necessario mettere dei paletti. Deve essere rivista la questione del segreto bancario. Mi auguro, anzi sono sicuro che questa sarà una discussione che San Marino saprà fare con calma, ma che verrà da sé alla luce della strada che ha imboccato prevedendo l’introduzione del pacchetto Antimafia». In tal senso l’art. 1/E stabilisce che la Commissione può «effettuare visite e organizzare audizioni con le istituzioni dell’Unione Europea, con le istituzioni internazionali, europee e nazionali, con i parlamenti nazionali e i governi degli Stati membri e dei paesi terzi, e con i rappresentanti della comunità scientifica, del mondo delle imprese e della società civile, come pure con gli operatori di base, le organizzazioni delle vittime, i soggetti impegnati quotidianamente nella lotta contro la criminalità, la corruzione, il riciclaggio di denaro, quali le autorità incaricate dell’applicazione della legge, i giudici e i magistrati e con gli attori della società civile che promuovono una cultura della legalità in aree difficili». Adesione all’Unione Europea Una delegazione del Comitato promotore del referendum propositivo sulla richiesta di adesione all’Unione Europea, composta da Patrizia Busignani, Claudia Mularoni, Gilberto Piermattei e Antonio Valentini ha consegnato 553 firme che hanno permesso alla domanda di referendum sulla richiesta di adesione all’Unione Europea di essere sottoposta al Collegio garante per il giudizio di ammissibilità. Quest’ultimo ha dato parere positivo, dunque a breve verrà fissata la data del referendum dando così la possibilità ai cittadini di pronunciarsi su una questione tanto importante per il futuro del paese. Sono molti gli osservatori che vedono in una futura adesione all’Unione Europea una concreta possibilità di svolta verso la trasparenza per la Repubblica di San Marino. Accordo San Marino-Italia per una collaborazione sulle forze di polizia San Marino e l'Italia hanno firmato l’Accordo sulla cooperazione per la prevenzione e la repressione della criminalità. L’Accordo, che nasce dalla collaborazione dei due paesi in ambito Interpol, riguarda più settori afferenti alla criminalità, secondo un quadro giuridico definito e modalità concordate, che si baseranno soprattutto su un proficuo scambio di informazioni, nel rispetto dei limiti previsti dagli ordinamenti interni dei due Paesi. San Marino (commercialisti, avvocati e tutti i professionisti del settore) «dovrebbero essere coinvolti più specificamente sia nella ricerca sia nelle indagini relative ai reati di corruzione e conflitto di interesse». «Nessuno degli strumenti anticorruzione del Consiglio d’Europa – specifica il rapporto del Greco – è stato finora ratificato da San Marino, né la Convenzione penale, né la Convenzione civile sulla corruzione». San Marino 54 | ottobre 2012 | narcomafie è stato nemmeno dato modo di sapere da chi proviene l’accusa, visto che i testi sono stati secretati dietro alcuni omissis. Resta al contrario l’ipocrisia di una classe politica che da un lato non dota il tribunale degli uomini e dei mezzi per indagare (su tutti l’impossibilità di effettuare intercettazioni telefoniche) e dall’altra vorrebbe arrivare a dare sentenze. La relazione comunque ha diviso il Paese tra chi la vede come un vero punto di svolta col passato e chi invece sostiene sia il solito fumo negli occhi. Del resto non si può non rilevare come dalla stessa Italia e da diversi addetti ai lavori, le “rilevazioni” della commissione siano state accolte in maniera tiepida. L’ombra del dossieraggio. “Parapolizia” o forze di polizia deviate. A San Marino gli ultimi due anni in particolare sono stati caratterizzati da una sistematica opera di “dossieraggio” che ha investito tutti i personaggi più in vista. Lettere anonime, pedinamenti, addirittura pestaggi. Dietro si celerebbe la mano di persone in divisa. Una situazione conosciuta in tribunale perché denunciata da diversi soggetti. Alcuni fatti inoltre starebbero emergendo in maniera chiara. L’obiettivo sarebbe quello di acquisire notizie, intimidire i testi, estorcere testimonianze e fare aprire procedimenti ad hoc, mirati a screditare l’obiettivo. Una situazione comunque non nuova per il Titano, ma che sta riportando il paese indietro di anni, all’epoca della famosa valigetta di uranio e del cosiddetto caso “Scaramella” (Mario Scaramella, ex consulente della commissione parlamentare Mitrokhin nel 2006, ndr.). Le forze di polizia sammarinesi (Gendarmeria, Guardia di Rocca e Polizia civile) sono in costante contrasto e mancano oggi di un coordinamento. Inoltre vere e proprie guerre fra “bande” rivali all’interno dei Corpi, che rispondono a questa o a quella fazione politica, non solo limitano un reale contrasto alle associazioni criminali non rendendo possibili indagini autonome, ma stanno creando nel paese un clima di caccia alle streghe nel quale diventa difficile operare. Il rischio reale è quello di vedere importanti indagini inquinate o orientate in maniera strumentale. Tutto questo senza che la magistratura possa in concreto intervenire. Mazzette per omettere i controlli nei cantieri edili. Di sicuro interesse, qualora dovessero esserci i riscontri, sono quelle rivelazioni della commissione che inchioderebbero l’ex Servizio igiene ambientale sammarinese, oggi Dipartimento di prevenzione. Spettava a questo organismo, infatti, in funzione della legge 31 del 1998, quella sulla sicurezza e salute nei luoghi di lavoro, effettuare i controlli nei cantieri. Ed è proprio per le verifiche sui luoghi di lavoro delle imprese immobiliari riconducibili a Livio Bacciocchi che è emerso, dalla relazione della Commissione antimafia, un giro di mazzette mirato a fare chiudere un occhio agli ispettori preposti agli accertamenti. Dalla relazione emerge, con tanto di tariffario dai 500 euro in su, quello che viene indicato come un malcostume diffuso di cui molti operatori del settore sapevano. Il passaggio della testimonianza ritenuta attendibile dalla com- missione è emblematico: «La Commissione chiede al teste se corrisponde al vero che sui cantieri di Bacciocchi non c’erano controlli. Il teste risponde affermativamente. Si pagava per non avere controlli; ogni mese anche lui consegnava una busta chiusa contenente tra i 500-800 euro che in un primo tempo veniva lasciata a (omissis) e poi alla Investimenti Immobiliari, e che tramite questa o altri veniva poi consegnata ai destinatari che non sa chi fossero, ma certamente erano quelli della sicurezza sul lavoro. In 8-9 anni non ha mai avuto un controllo. I destinatari finali li conosceva Livio Bacciocchi. Era (omissis) a consegnare le buste a coloro che dovevano poi provvedere a trasmetterle ai destinatari finali. Osserva che in tale ambito c’era la corruzione più totale e che i soldi di cui sopra venivano prelevati in contanti sui conti correnti aziendali». «Tali compensi venivano consegnati mensilmente in contanti dalle imprese agli ispettori che in cambio evitavano di recarsi nei cantieri interessati e di “creare problemi», aggiunge la Commissione. Sono evidenziate, quindi, gravi responsabilità e sotto gli “omissis” i nomi dei responsabili che hanno pagato le tangenti e quelli di chi le ha riscosse, le cui generalità in chiaro sono presenti nella documentazione completa». Tutte le carte e la documentazione raccolta dalla commissione saranno passate al Tribunale che inevitabilmente dovrà aprire un fascicolo e dovrà vagliare la sussistenza di reati, le responsabilità e le condizioni per procedere. Solo allora, forse, si potrà sapere se e chi sono davvero i politici, i professionisti e i personaggi che intrattenevano rapporti con i mafiosi. Nel santuario della segretezza Tra Italia e San Marino non si è ancora raggiunto un accordo sullo scambio di informazioni, a discapito di indagini, trasparenza e controlli. Se il piccolo Stato non si adeguerà alle normative Ue, il rischio di occultamento di capitali sporchi si aggraverà, compromettendo la sua economia. Come evidenziano le inchieste, sempre più numerose intervista a Paolo Giovagnoli di David Oddone San Marino 55 | ottobre 2012 | narcomafie 56 | ottobre 2012 | narcomafie San Marino Paolo Giovagnoli è procuratore capo presso il tribunale di Rimini, dopo essere stato pubblico ministero a Bologna. Esperto di criminalità organizzata, è grande conoscitore della realtà sammarinese e in generale dell’Emilia-Romagna, dove ha condotto numerose indagini con al centro San Marino. Procuratore Giovagnoli, qual è la situazione a San Marino per quanto riguarda le infiltrazioni mafiose? Da qualche tempo e in particolare attraverso l’operazione “Vulcano” abbiamo notizie di infiltrazioni di criminalità non solo a San Marino ma anche a Rimini. Parlo soprattutto di criminalità campana e in misura minore calabrese. La repubblica del Titano rappresenta un luogo dove occultare capitali e sottrarli alle autorità di polizia. Questa peculiarità ha fatto naturalmente da calamita per un certo tipo di attività non legali. Spero che il processo di riavvicinamento delle normative sammarinesi a quelle in vigore nell’Unione Europea, possa portare a risultati positivi. Pur essendo in divenire, non posso non notare una certa difficoltà da parte di San Marino a recepire normative più virtuose. Di positivo c’è, invece, che più indagini si fanno, più queste portano le autorità di polizia a conoscenza di fatti e persone che inducono la criminalità a spostarsi in ragione del fatto che essa è naturalmente portata a muoversi nell’ombra. Forse guardando la situazione in quest’ottica possiamo dire che un certo tipo di attività è diminuita. Sono numerose le operazioni che hanno messo in evidenza come le associazioni criminali abbiano diversi interessi sul Monte. L’ultima in ordine di tempo è “Criminal Minds”, coordinata proprio dalla procura di Rimini. A che punto sono le indagini? Quali le evidenze? La fase principale delle indagini è ormai vicina alla conclusione e la maggior parte degli accertamenti è stata eseguita. Ciò che ci sta un po’ rallentando è l’analisi dei computer degli indagati, una procedura abbastanza macchinosa. Le nostre ipotesi di accusa hanno retto a tutti i vagli del tribu- nale del riesame e ai ricorsi presentati. Non abbiamo avuto alcuna smentita nelle nostre ipotesi investigative. Siamo soddisfatti del lavoro fatto. Ciò che è emerso, a livello di ipotesi di accusa, è l’immagine di una società commerciale e imprenditoriale che si avvaleva di metodi banditeschi per gestire i propri affari. Così come ci si avvaleva nella propria attività di corruzione, di soggetti in forza alla polizia tributaria italiana per fare attività di contro investigazione sulle indagini che stavano portando avanti gli stessi finanzieri. Non solo. Esisteva un sistema di occultamento delle notizie interno all’azienda per impedire la conoscenza di dati e situazioni alle autorità fiscali italiane. Erano posti in essere metodi violenti per condizionare i dipendenti e farli magari rinunciare ai trattamenti di fine rapporto piuttosto che ad altre richieste. Le persone erano intimidite con metodi violenti. Un modo di fare utilizzato anche contro soggetti con i quali magari sorgevano contrasti commerciali. Venivano impiegati malavitosi campani per intimidire dipendenti, concorrenti e persone con cui si avevano controversie. Malavitosi che vivevano della continua commissione di reati e che erano inseriti nell’organizzazione dell’azienda. Uno di questi verosimilmente lucrava ingannando il capo stesso dell’azienda facendogli credere che grazie alla sua intercessione sarebbe stato introdotto in associazioni massoniche ed esoteriche che gli avrebbero garantito molteplici privilegi. Qual è il grado di collaborazione fra la procura di Rimini e il tribunale sammarinese? I magistrati penali sammarinesi, ovvero i commissari della legge, sono sempre molto collaborativi nei nostri confronti e cercano a propria volta la nostra collaborazione per sviluppare le indagini, visto che la loro polizia giudiziaria è inidonea a gestire indagini su criminalità organizzata e denaro di provenienza illecita. Il sistema organizzativo del tribunale sammarinese è carente e alcune norme rendono difficoltosa la collaborazione. Per esempio ci sono delle indagini frammentate fra una moltitudine di commissari della legge, che hanno persino difficoltà a comunicare fra di loro. Così non è facile indagare. A oggi che cosa impedisce la normalizzazione nei rapporti fra Italia e Titano e l’uscita dalla black list? Non sono dentro la trattativa Italia e San Marino, ma quello che so è che non si è mai raggiunto un accordo sullo scambio di informazioni. In pratica per uscire dalla black list, il Titano deve fare controlli così come previsto dalla normativa dell’Unione Europea. Non so che cosa si sta contrattando e quali accordi si faranno. Ad oggi i risultati non si sono ancora visti. Fare San Marino 57 | ottobre 2012 | narcomafie Fondazione Caponnetto: verso un pacchetto antimafia per il Titano San Marino 58 | ottobre 2012 | narcomafie Salvatore Calleri è il Presidente della Fondazione Caponnetto. Quest’ultima è stata la prima associazione ad accorgersi e interessarsi della situazione sammarinese, prendendo per mano il Paese e provando a guidarlo verso una concreta lotta alle mafie. Se il Titano sta intraprendendo un percorso verso la trasparenza, lo si deve in larga parte al suo impegno. Presidente, come è iniziata la collaborazione tra la Fondazione e la Repubblica di San Marino? La collaborazione è iniziata a prescindere dal colore dei governi nel 2006, quando l’allora segretario alla Giustizia Ivan Foschi è venuto a trovarci a un vertice contro la mafia. Da lì la Fondazione ha cominciato a interessarsi al Titano attraverso gli altri segretari (ministri) che si sono succeduti e continuerà ad occuparsi delle vicende sammarinesi. Cosa avete trovato a San Marino? Da che cosa siete partiti? Abbiamo iniziato a conoscere un territorio di cui avevamo sentito parlare solo in modo generico. Una volta arrivati sul Monte Titano ci siamo resi conto di come il fenomeno mafioso si evolveva sul territorio. Attraverso alcuni incontri abbiamo formato le forze dell’ordine e la magistratura, in questo modo siamo riusciti a cambiare le cose in modo importante e in concreto con il pacchetto Vigna-Caponnetto. Si tratta in estrema sintesi di quattro normative, una già approvata. Al termine della integrale approvazione ed esecuzione, il Titano avrà la normativa migliore al mondo. In seguito è stato creato un osservatorio che monitora con continuità gli accadimenti su territorio. E quella che viene monitorata è una situazione grave: i soldi continuano a passare per San Marino. La Fondazione ha trovato resistenze nel suo lavoro di cambiamento? Come in tutte le situazioni in cui ci si muove, si trovano sia appoggi che resistenze. La maggior parte delle persone è perbene e quindi ci appoggia. Nel corso degli anni chi resiste al cambiamento è sempre stato storicamente una minoranza. Quella intrapresa è una via che permetterà a San Marino di non essere divorato dalla mafia e avere rapporti normali con gli altri paesi Ocse. Per il futuro sono moderatamente ottimista. Che cosa pensa del referendum che consentirà a San Marino se decidere o meno di aderire all’Unione Europea? Sono europeista convinto. A prescindere da questo, è necessario per San Marino mantenere rapporti con l’Unione Europea. L’obbligo è quello di combattere contro la mafia se non si vuole soccombere. Il problema vero di San Marino è che è circondata dall’Emilia Romagna, una delle regioni a più alta densità mafiosa. Può descrivere i punti salienti del vostro pacchetto antimafia? È articolato in quattro punti, quello approvato riguarda le prime norme antimafia. La seconda parte è il proseguimento relativamente ai sequestri. La terza è quella dell’Aisa (Agenzia investigativa sammarinese antimafia), che rappresenta la parte più corposa e più importante della normativa che metterà il Titano davanti a tutti come qualità di leggi in Europa. La quarta integra l’operatività del tribunale con le normative antimafia. Il procuratore nazionale antimafia Grasso, proseguendo la visita di Vigna, ha rappresentato un notevole interesse per l’applicazione di questa normativa. Il cuore della normativa è l’Aisa. Quali compiti avrà? Agirà, di norma, in stretto collegamento con gli uffici e le strutture delle forze di polizia che forniranno ogni possibile cooperazione, anche di tipo tecnico operativo, al personale investigativo per lo svolgimento dei compiti affidati. Nell’azione di contrasto del riciclaggio e, se ritenuto opportuno, del finanziamento del terrorismo, profondamente diversi tra loro, ma pure intimamente connessi per tecniche, metodologie, processi e canali di trasmissione utilizzati. L’analisi e l’approfondimento delle segnalazioni concernenti le transazioni sospette rappresentano altrettanti strumenti investigativi, indispensabili quanto preziosi, in vista dell’individuazione, sequestro e confisca dei patrimoni illeciti accumulati dalle organizzazioni criminali. In particolare, l’Aisa svilupperà un’attività di intelligence, di ricerca informativa, di osservazione e controllo, al fine di acquisire elementi di valutazione in ordine al profilo soggettivo e a quello oggettivo della segnalazione, con l’obiettivo di perseguire penalmente il reato di riciclaggio e pervenire all’aggressione dei patrimoni illecitamente acquisiti dalle consorterie mafiose. Non si tratta di una nuova forza di polizia ma di un supporto a quelle esistenti. Qual è oggi la situazione a San Marino? È di pausa e stallo in attesa delle elezioni di novembre e da un certo punto di vista è un momento pericoloso perché le mafie fruiscono sempre di questi momenti, parlo in generale e non solo per la realtà sammarinese. Che cosa si aspetta dal futuro governo? Che venga approvato in fretta il pacchetto antimafia. Quali sono oggi i problemi più stringenti e i rischi maggiori? Dove arriva la mafia, le zone ricche diventano povere, il rischio per San 59 | ottobre 2012 | narcomafie È preoccupato per il sistema bancario sammarinese e per le aziende sane del paese? La preoccupazione c’è sempre perché siamo in piena crisi economica, un momento propizio per un certo tipo di affari poco puliti. Il Titano al contrario potrebbe rappresentare per l’Italia una possibilità di delocalizzazione intelligente. L’importante è che le ditte non siano quelle mafiose. San Marino deve e può rappresentare perfettamente una lecita valvola di sfogo per l’Italia. Io credo che l’approvazione del pacchetto antimafia potrà attirare a San Marino investitori da tutto il mondo. Per uno sviluppo sano la lotta alla mafia conviene. Come vede una possibile adesione della Repubblica di San Marino all’Unione Europea? Molto positivamente perché l’adesione impone l’introduzione di norme comuni che potrebbero fare solo bene sia al Titano sia all’Italia. Qual è la sua opinione sul recente accordo raggiunto fra Italia e Titano sulle forze di polizia? L’accordo fra le forze di polizia dovrebbe favorire lo scambio di informazioni. Il problema è che esso non riguarda le informazioni giudiziarie che sono le più importanti. Se ci si ferma qui non si va da nessuna parte. Non crede che, se si è arrivati a questo punto e se il Titano è diventato un covo di malavitosi, vi siano forti e grandi responsabilità da parte dell’Italia? Le rispondo dicendole che è giusto e doveroso garantire l’indipendenza formale tra Italia e Titano ma quest’ultimo non può essere un santuario per i delinquenti. C’è stata negli anni passati effettivamente poca attenzione in Italia ai rischi della malavita collegati al far west in atto a San Marino. D’altra parte, nella pratica dei fatti, il Titano non può essere visto come uno Stato estero alla luce della fortissima integrazione con l’Italia. Abbiamo la stessa moneta, guardiamo la stessa tv, parliamo la stessa lingua: le due realtà sono entrate in collisione quando l’Italia è stata chiamata dalla Ue a rispondere di quello che accadeva a due passi. Le banche sammarinesi infatti pur operando nella zona Ue, hanno rappresentato un santuario di segretezza che non doveva rispondere alle norme sull’antiriciclaggio. Dopo l’11 settembre gli Usa hanno premuto sulla Ue per evitare che i denari circolassero in maniera incontrollata. Pensi che gli stessi svizzeri erano preoccupati dalla concorrenza sammarinese e che per questa ragione avevano chiesto che se la Svizzera era chiamata a collaborare, avrebbe dovuto farlo anche San Marino. San Marino Marino è concreto. Il pacchetto rappresenta il vaccino. passare il tempo, del resto, può essere utile per evitare che le indagini risalgano a un tot di anni indietro. altarisoluzione 60 | ottobre 2012 | narcomafie La Santa dei narcos La notte del 31 ottobre di ogni anno, a Città del Messico, migliaia di persone si raccolgono attorno ai circa 1.500 altari intitolati alla Santa Muerte. Il più noto è quello fondato da Donna Queta, nel quartiere popolare di Tepito. La Santa Muerte, o Niña Blanca (bambina bianca), è considerata la santa dei narcos e di tutti quelli che non sono accolti nella Chiesa Cattolica, ma in realtà il suo culto è molto più esteso: secondo la stampa locale, è venerata da un numero di persone stimato tra i 5 e i 10 milioni. Quando gli spagnoli conquistarono l’America per depredarla e cattolicizzarla, le religioni indigene vennero proibite. Per non perdere del tutto la propria cultura, i popoli nativi crearono un’interessante forma di sincretismo religioso: mischiando i simboli cristiani con quelli pagani, trovarono il modo di venerare i propri idoli “travestendoli” da santi. In Messico, il culto della morte risale al 1600 ed ha Foto e testo di Orsetta Bellani 61 | ottobre 2012 | narcomafie altarisoluzione 62 | ottobre 2012 | narcomafie incrementato il numero dei suoi adepti soprattutto negli ultimi anni, forse a causa del trauma collettivo che ha imposto un nuovo modo di relazionarsi con essa: la guerra al narcotraffico portata avanti dal governo, che in sei anni ha causato più di 50mila vittime. A Tepito i fedeli si mettono in fila per toccare l’altare di Donna Queta accompagnati dalla musica dei mariachi, i tradizionali gruppi messicani composti da trombe e chitarre. Si scambiano pareri sui miracoli compiuti dalla Santa Muerte e portano con loro statue, fiori, sigarette e liquori da offrirle. Alcuni raggiungono l’altare percorrendo il quartiere in ginocchio, e sono molti i fedeli che arrivano da lontano. La signora Ana di Hidalgo, città che si trova a circa tre ore dalla capitale, racconta: «Hanno sparato nove colpi a mio figlio e i dottori dicevano che sarebbe morto. Una mia amica mi ha portato una statua della Niña Blanca e da allora mio figlio ha iniziato a guarire. La Santa Muerte è buona ed è una donna bellissima». 63 | ottobre 2012 | narcomafie rassegna stampa internazionale a cura di Stefania Bizzarri 64 | ottobre 2012 | narcomafie Tentato omicidio di Giorgio Sale? Bogotà Il 26 settembre scorso Giorgio Sale ha denunciato l’esistenza di un piano per assassinarlo in carcere. A divulgare l’accaduto è stata Victoria Eugenia Gamboa Gamboa, sedicente sposa dell’imprenditore ita italiano, rinchiuso nel carcere colombiano di La Modelo dallo scorso febbraio. La Gamboa ha riferito di un’aggressione da parte di un uomo «alto e magro», entrato nella cella con un coltello. Sale si sarebbe difeso con una sedia. L’aggressore non è stato catturato, nonostante Sale stesso abbia denunciato che si tratta di un detenuto confinato nel suo stesso pa padiglione. «Lo vogliono zittire per i suoi legami con giudici, magistrati e politici», ha affermato la Gamboa. L’italiano, gestore di ristoranti di lusso in Colombia, salì alla ribalta mediatica nel pieno dello scandalo che nel 2008 vide coinvolti l’ex presidente Alvaro Uribe, magistrati della Corte suprema di Giustizia e paramilitari di estrema destra. Particolare clamore suscitò la vicenda in cui Sale affermò di aver ricevuto la visita dell’ex ministro dell’Interno, divenuto ambasciatore in Italia, Saba Pretelt de la Vega, quando si trovava a Rebibbia per scontare una pena per traffico di droga con l’intento di estorcergli dichiarazioni per infangare alcuni giudici colombiani. Sale è indagato anche per i suoi legami con l’ex capo para- militare narcotrafficante Salvatore Mancuso. Recentemente la magistratura colombiana lo ha rinviato a giudizio per il delitto di “riciclaggio aggravato”. L’Inpec (Instituto Nacional Penitenciario y Carcelario, ndr.) ha avviato un’inchiesta per stabilire le eventuali responsabilità del personale carcerario. Secondo il direttore del centro penitenziario la porta blindata che conduce alla cella di Sale non era stata chiusa. Le telecamere hanno registrato il passaggio di un detenuto, entrato nella cella dell’imprenditore e uscitone immediatamente con il pasto destinato a Sale. «Questi elementi saranno tenuti da conto nell’indagine avviata per stabilire se si trattasse o meno di un attentato contro la vita di Sale». Al momento, nonostante il direttore abbia affermato che il recluso non rappresenta un soggetto pericoloso, sono state rafforzate le misure di sicurezza dell’imprenditore romano. Ritorno in Uruguay Montevideo L’amministrazione statunitense per la lotta alla droga (Dea) ha riaperto il proprio ufficio in Uruguay, chiuso oltre 15 anni fa, per monitorare la crescente attività di traffico e riciclaggio di fondi delle organizzazioni internazionali di trafficanti di droga nel paese sudamericano. La rivista, citando fonti americane anonime, sottolinea che la Dea – che rese possibile il sequestro di due tonnellate di cocaina, il piú grande nella storia dell’Uruguay, nel 2009 – ha deciso la riapertura del suo ufficio «in base all’aumento delle operazioni e dei processi contro boss del narcotraffico internazionale da parte della giustizia uruguayana». 65 | ottobre 2012 | narcomafie Caos e violenza al potere Tirana Da qualche mese un’ondata di violenza senza precedenti si è abbattuta in Albania. Omicidi di stampo mafioso, violenza privata e vendette di sangue legate alla “legge” del kanun formano statistiche da bollettino di guerra. Il Centro affari europei e di sicurezza afferma che nell’ultimo trimestre 2012, 158 persone sono state uccise e 220 ferite, cifre che portano l’Albania al primo posto dei paesi balcanici per violenza. A titolo comparativo si contano 1,2 morti per 1.000 abitanti in Serbia, 1,9 in Macedonia, contro i 4 in Albania. Tra il 2010 e il 2011 il crimine è aumentato del 40%. Nel paese delle Aquile crimine e politica sono strettamente legate. Un fenomeno che si spiega attraverso un indebolimento generalizzato dello Stato e delle sue istituzioni, l’inefficacia della sua giustizia e della sua forza coercitiva, incapaci di punire gli assassinii e prevenire le violenze. È opinione comune tra la cittadinanza che la politica usi il crimine per raggiungere i propri scopi e, in periodi elettorali, anche per manipolare il processo di voto. Combattere la criminalità è un’urgenza nazionale. E se lo stato non controlla più il suo territorio, il vuoto favorirà l’anarchia. L’autostrada della ‘ndrangheta Washington Nulla incarna i fallimenti dello stato italiano più nettamente dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria. I lavori per la costruzione della cosiddetta A3 cominciarono negli anni 70: ad oggi non sono ancora conclusi. L’arteria è una sorta di percorso a ostacoli, con cantieri aperti da decenni. Molti la considerano il frutto di una cultura del voto di scambio, alimentata dalla criminalità organizzata che ha sistematicamente truffato lo stato, lasciando la Calabria geograficamente ed economicamente ai margini. L’autostrada è anche simbolo di ciò che alcuni paesi del nord Europa dicono di temere di più riguardo la zona euro: il suo sviluppo è basato in un sistema di welfare in cui il nord sostiene un pigro sud Europa e dove le sovvenzioni e sussidi troppo spesso “scompaiono”, con i governi locali che non sembrano in grado – o non vogliono – sfruttare. E l’A3 è l’esempio di come il finanziamento fino ad ora ha prodotto relativamente poco in investimenti produttivi, i quali dovrebbero ora essere d’aiuto al sud Europa nel tentativo di riemergere dal fossato economico in cui si trova. Dal 2000 al 2011, l’Italia ha ricevuto oltre 46 miliardi di euro di finanziamenti dell’Unione europea, a seguito della presentazio- ne di una vasta gamma di programmi in settori quali l’agricoltura e le infrastrutture (la maggior parte diretti a sud) e di questi una parte per la costruzione della A3. In Spagna che di euro ne ha ricevuti 80 miliardi hanno, almeno, costruito una competitiva rete ferroviaria ad alta velocità. La Grecia ha ricevuto 39 miliardi, ma con quali esiti è ancora ignoto. Nella morsa della cocaina Tegucigalpa Il tasso di omicidi in Honduras supera quello del Salvador e della Costa d’Avorio. È il più alto nel mondo anche a causa della crescente presenza del narcotraffico. Secondo lo studio dell’Onu “Criminalità organizzata transnazionale in Centroamerica e nei Caraibi”, la media delle morti violente nel paese centroamericano era di 51 ogni 100mila abitanti nel 2001; oggi è salita a 92 mentre nei due paesi presi per la com- parazione è, rispettivamente, di 69 e 57. L’inasprimento della lotta al narcotraffico in Messico ha causato un aumento del transito di cocaina verso gli Stati uniti attraverso l’Honduras, dove è da tempo segnalata la presenza di bande alleate dei principali cartelli della droga messicani, che si disputano ampie fette del territorio con l’uso della forza. Con la caduta di Zelaya (nel 2009), insiste il documento, la violenza si è aggravata e il narcotraffico si è esteso: «Le autorità incaricate di applicare la legge caddero nel caos, furono dirottate risorse per mantenere l’ordine e fu sospesa l’assistenza anti-droga degli Stati Uniti», primo consumatore regionale di stupefacenti.«Il risultato – continua il rapporto – è stato una sorta di “febbre dell’oro” della cocaina. Si sono moltiplicati i voli diretti dalla frontiera del Venezuela con la Colombia alle piste di atterraggio in Honduras ed è cominciata una lotta violenta per il controllo di questo corridoio della droga». 66 | ottobre 2012 | narcomafie Narcos in trasformazione Città del Messico Probabilmente sarà l’evento più importante dell’anno nel mondo clandestino. Los Zetas, il cartello più sanguinario del Messico, in vertiginosa espansione negli ultimi tre anni, è in guerra anche al proprio interno e i morti si contano a decine. È una notizia che circola da alcuni mesi, confermata recentemente dalla procura generale della Repubblica. I due capi dell’organizzazione criminale, Heriberto Lazcano, alias El Lazca (ucciso lo scorso 9 ottobre, ndr.), e Miguel Treviño Morales, detto Z-40, dall’inizio dell’estate stanno conducendo una battaglia per il controllo dell’organizzazione e del territorio che, per il momento, comprende gli Stati di San Luis Potosí, Zacatecas, Nuevo León, Tamaulipas e Coahuila, nel nord-est del paese. La rottura della banda implica una nuova spirale di sangue e potrebbe completamente cambiare lo scenario della lotta al narcotraffico, che è stata causa di 55 mila morti dal 2006 fino alla vigilia del ritorno al potere del Partido revolucionario institucional (Pri). I primi segnali della rottura nella cupola del gruppo, fondato da militari disertori che divennero il braccio armato prima del Cartello del Golfo e, a partire da gennaio del 2010, della brutale organizzazione di narcotrafficanti che si estende da Tejas fino al Guatemala. Il giornalista britannico Ioan Grillo, autore del libro Nel cuore della insurrezione criminale messicana, crede che «la rottura si generalizzerà e produrrà moltissima violenza». «Lo sbandamento dei suoi membri a causa della guerra interna ha creato delle cellule orfane, gruppi criminali locali che non sono più alleati con la cupola e operano per proprio conto». La frammentazione del gruppo, ottenuta grazie ai colpi assestati dalle forze di sicurezza, sarà un incubo per le autorità locali, che dovranno confrontarsi con «molteplici gruppi di delinquenti, piccoli e medi, con capacità e obiettivi diversi, che si uniscono in coalizioni instabili». Una nuova mappa del crimine organizzato in Messico che può trasformarsi in un forte mal di testa per il futuro presidente, Enrique Pena Nieto, e che potrebbe tornare a beneficio di El Chapo Guzman. Il volto della ricchezza Città del Messico La rivista «Forbes» manterrà il boss del narcotraffico Joaquin “El Chapo” Guzman, latitante, nella lista dei piú ricchi del Messico, nonostante le polemiche. Lo ha annunciato oggi il direttore della pubblicazione, Miguel Forbes, specificando che le polemiche sono ingiustificate, visto che «noi ci limitiamo a valutare la fortuna delle persone, e lasciamo il resto alla giustizia». Il direttore della rivista ha anche ricordato che l’inclusione di un narcotrafficante nelle sue liste non è una novità, visto che già nel 1998 il colombiano Pablo Escobar si era conquistato un posto tra i piú ricchi del Sudamerica. Farc, nuovi negoziati Bogotà Il 18 ottobre scorso sono cominciati i negoziati di pace tra le Farc (Forze armate rivoluzionarie di Colombia) e il governo di Juan Manuel Santos. Questo potrebbe significare la fine di un conflitto che dura da oltre cinquanta anni. Nata nel 1964, a seguito di insurrezioni di matrice contadina, la guerriglia marxista, diretta da Rodrigo Londoño detto “Timochenko”, conta circa 9.000 membri. Nel 1982, sotto la presidenza di Belisario Betancur, e nel 1998, sotto quella di Andres Pastrana, erano stati avviati negoziati ufficiali, falliti in breve tempo. «Come uno dei leader dello Stato maggiore negoziatore, ribadisco con enfasi il desiderio delle Autodifese di partecipare attivamente al processo congiunto per costruire la pace»: lo afferma in una lettera inviata al presidente Juan Manuel Santos e ai vertici delle Farc, l’ex comandante delle smantellate Autodifese unite della Colombia (Auc), Salvatore Mancuso, recluso per narcotraffico e terrorismo in un carcere degli Stati Uniti dove fu estradato nel 2008. 67 | ottobre 2012 | narcomafie Riciclaggio Usa-Messico Lavatrici a stelle e strisce I confini statunitensi si dimostrano tanto impenetrabili con i migranti quanto permeabili ai flussi di denaro derivati dal narcotraffico. Un affare calcolato lo scorso anno intorno agli 85 miliardi di dollari, corroborato dal sistema bancario e dalle casas de cambio messicane di Simone Bauducco 68 | ottobre 2012 | narcomafie Per nove anni la Hbmx ha considerato il Messico un paese a “basso rischio di riciclaggio”, permettendo ai narcos di riciclare almeno 7 miliardi di dollari tra il 2007 e il 2008 attraverso le casas de cambio Tra il Messico e gli Stati Uniti scorre una delle frontiere più lunghe al mondo: 3.365 chilometri di barriera impenetrabile per le migliaia di migranti che provano a costruirsi un futuro negli Stati Uniti, ma permeabile ai flussi di denaro provenienti dal traffico di droga. Miliardi di dollari che ogni anno vengono trasportati attraverso corrieri da nord a sud per poi essere cambiati in valuta statunitense e reinvestiti nel mercato più grande al mondo. Secondo il Dipartimento di giustizia degli Stati Uniti, nell’ultimo anno il sistema finanziario americano avrebbe ospitato 85 miliardi di dollari provenienti dal narcotraffico. Una cifra equiparabile al flusso di rimesse che ogni anno i migranti messicani rimandano nei loro luoghi d’origine e che negli ultimi anni si è accresciuta sempre di più grazie al ruolo crescente dei cartelli messicani nello scacchiere criminale dell’area. Protagonisti di questo flusso sono oltre ai cartelli dei narcos, le casas de cambio messicane e le grandi banche d’investimento americane ed europee che in passato hanno preferito chiudere gli occhi sulle legislazioni anti riciclaggio ospitando diversi conti sospetti. Leggerezze inconsapevoli? L’ultima banca in ordine di tempo finita nel centro delle indagini del Dipartimento di stato americano è stata la Hsbc Group attraverso la sua filiale messicana Hbmx. Per nove anni la banca ha considerato il Messico come un paese “a basso rischio di riciclaggio”, permettendo ai narcos di riciclare almeno 7 miliardi di dollari tra il 2007 e il 2008 attraverso i rapporti con le casas de cambio messicane come la Casa de Cambio Puebla, già al centro di numerosi altri scandali in passato. Una mancanza che si è trascinata negli anni nonostante i numerosi richiami dell’autorità di vigilanza. In attesa delle sanzioni che potrebbero venir comminate alla banca, l’inchiesta portata avanti dalla Commissione d’inchiesta del senato americano ha provocato in estate le dimissioni dell’ex dirigente Sandy Flockart e di David Bagley, responsabile Compliance del gruppo dal 2002. L’accusa principale è che i dirigenti della Hbmx fossero a conoscenza dei rischi legati ai conti messicani, ma non abbiano agito per evitare il riciclaggio; a testimoniare questa consapevolezza ci pensano gli scambi di mail private tra di loro rese pubbliche dalla commissione d’inchiesta. In seguito allo scandalo, l’attuale direttore del gruppo bancario, in una lettera ai dipendenti, ha ammesso che «tra il 2004 e il 2010 le nostre misure anti riciclaggio avrebbero dovuto essere più forti e noi abbiamo fallito nel controllare transazioni inaccettabili», annunciando in seguito l’adozione di nuove misure di prevenzione «non perché i regolatori ce lo stanno chiedendo, ma perché lo dobbiamo domandare a noi stessi». Una frase che nei dieci anni precedenti è stata ripetuta troppo spesso dai vertici del gruppo bancario senza però trovare mai applicazione. La Hbmx nasce nel novembre 2002, quando i vertici di una delle maggiori banche mondiali decidono di perfezionare l’acquisto del messicano Grupo Financiero Bital, già coinvolto in casi di riciclaggio come l’operazione Casa Blanca che aveva colpito il traffico di droga e il riciclaggio di denaro lungo il confine Usa-Messico. Un “account executive” della Bital era stato accusato di aver favorito transazioni criminali e per questo la banca fu condannata a una sanzione di 150 mila euro nel 1998. Tra i dirigenti americani che avallarono l’operazione, consapevoli dei rischi legati all’assenza di un sistema di prevenzione del riciclaggio di denaro sporco, vi è anche David Bagley che un mese prima dell’acquisizione in una mail privata fa notare che «non ci sono misure di prevenzione del denaro sporco». Eppure, fin dal 2001, l’organo di controllo bancario messicano, la Cnbv, aveva invitato i vertici dell’istituto bancario ad adottare misure di prevenzione. Ma con il passaggio agli americani, gli allarmi continuano a cadere nel vuoto. Un audit interno del luglio 2002 riconosce la necessità di ampliare le procedure di controllo delle transazioni dei clienti poiché l’attività di monitoraggio viene definita come “molto limitata” e l’organizzazione consente transazioni di conti di individui o organizzazioni considerate ad alto rischio o addirittura vietate da altre banche. Due anni dopo, lo stesso audit accerta che «la Hbmx ha sistemi di controllo insufficienti per quanto riguarda il riciclaggio di denaro e persistono ampi rischi 69 | ottobre 2012 | narcomafie di riciclaggio che non sono stati monitorati». Secondo l’audit «le misure preventive per questo fenomeno sono sotto gli standard e si raccomanda con urgenza l’adozione di misure necessarie per evitare che reti criminali utilizzino i conti del Gruppo per riciclare i soldi provenienti dal narcotraffico. Una necessità resa ancora più urgente dall’aumento dei traveller cheque effettuati in dollari attraverso le filiali della Hbmx». Nel corso degli anni il volume dei proventi dei traffici illegali non ha continuato a crescere adottando anche altri strumenti bancari come i traveller cheque il cui utilizzo subisce una rapida quanto sospetta impennata nella prima metà del Duemila. Lo fa notare nel 2004 uno dei dirigenti del gruppo in una mail ai suoi colleghi: in quell’anno, «nelle filiali messicane della Hsmx sono stati venduti 110 milioni di dollari in traveller cheque», una cifra che rappresenta un terzo del totale scambiato dal gruppo bancario internazionale. I vertici della banca sembrano non preoccuparsi di tutto ciò nonostante gli allarmi degli organismi internazionali. Ancora nel 2008, la dirigente della Hbmx Susan Wright, scrive ai suoi superiori di essere preoccupata dei rischi legati alle casas de cambio sospette e al riciclaggio, ma la banca aspetterà altri dodici mesi prima di cambiare repentinamente il livello di rischio. Transazioni sospette. Oltre alle banche, protagoniste di questo movimento di denaro lungo il confine statuniten- se sono dunque le casas de cambio messicane, istituti finanziari che si occupano di cambiare valute, ricevere denaro dall’estero o inviarlo a istituti finanziari in altri paesi, in particolare gli Stati Uniti. Tra queste, la Casa de cambio puebla, cliente di lungo corso della Hbmx, è stata considerata a lungo come una delle “lavatrici” del cartello di Sinaloa. Fino al 2007, la direzione è stata affidata a Pedro Alfonso Alatorre Damy detto “el Piri”, uomo di fiducia di “el Chapo” Guzmàn, finito in carcere nello stesso anno. Gli inquirenti americani la colpiscono nel maggio 2007, sequestrando a Miami 11 milioni di dollari provenienti dal narcotraffico sui conti di un’altra grande banca americana, la Wachovia, che viene accusata di mancato rispetto delle norme antiriciclaggio e sanzionata con una maxi multa. Il caso finisce sulle prime pagine di tutti i giornali e viene commentato anche nelle mail dei dirigenti della Hbmx. Nonostante la decisione del dirigente, Paul Thurston, di chiudere i rapporti con Puebla, Hbmx impiegherà quattro mesi, permettendo a quest’ultima di effettuare transazioni con la banca americana. In quell’arco di tempo, 650 transazioni sospette sono state effettuate dalla casa de cambio per un totale di 7 milioni di dollari. Con l’aumento delle rimesse dei migranti, le casas de cambio hanno rappresentato un cliente sempre più appetibile per le grandi banche. I casi Hbmx e Wachovia rappresentano solamente la punta dell’iceberg di un fenomeno sempre più diffuso nel sistema bancario ufficiale. Un fenomeno destinato a crescere, specialmente nei momenti di crisi di liquidità. 70 | ottobre 2012 | narcomafie criminalità e dintorni cronachesommerse di Andrea Giordano Nuovi fuochi in Irlanda del Nord Un potente ordigno esplosivo, pronto per essere lanciato con una sorta di mortaio orizzontale, è stato rinvenuto all’inizio di questo mese in un quartiere cattolico di Belfast nord. A Derry, invece, la polizia ha disinnescato in settembre una bomba e una carica esplosiva fissata a una bicicletta, forse preparate per tendere una trappola agli uomini della polizia nordirlandese. In entrambe le località gli ordiordi gni erano stati approntati con il chiaro intento di uccidere. I ritrovamenti di materiale dinamidinami tardo fanno seguito all’annuncio, dato in luglio, con cui gruppi armati contrari al dominio britannico in Ir Irlanda del Nord hanno comunicato la loro fusione operativa. La nuova coalizione del terrore include: la Real Ira (Rira), autrice di numerosi attentati sin dal 1998 (dopo una scissione dall’Ira Provisional, o Ira maggioritaria, che in quell’epoca aveva aderito al processo di pace e avrebbe in seguito abbandonato le armi); dissidenti repubblicani indipendenti – tra cui vi sarebbero alcuni ex veterani della stessa Ira Provisional – responsabili dell’omidell’omi cidio del poliziotto cattolico Ronan Kerr avvenuto l’anno scorso, ed implicati nell’uccisione di due soldati britannici nel 2009, rivendicata in un primo tempo dalla Rira; ed infine la Raad (Republican Action Against Drugs), che prende di mira, con ferimenti punitivi ed omicidi, quanti accusa arbitrariamente di spaccio di droga o di presunte “attività antisociali”. Messi al bando dal gruppo, oltre duecento giovani avrebbero lasciato Derry negli ulti- mi tre anni. Alcuni genitori sono stati addirittura costretti ad accompagnare i figli, giudicati “colpevoli” dalla Raad, a farsi gambizzare dai sicari dell’organizzazione, per evitare ritorsioni ancora peggiori. La formazione criminale è contigua al terrorismo repubblicano, ed è attiva soprattutto a Derry e nelle zone circostanti – incluse, oltre frontiera, cittadine irlandesi come Letterkenny. I tre gruppi di fuoco hanno annunciato di volersi unire sotto il semplice nome di Ira, rivendicando così l’eredità storica dell’ormai disciolta organizzazione armata. Oltre che nell’Ulster, la Real Ira è presente anche sul territorio irlandese, dove è dedita a omicidi, rapine e al racket su locali notturni e spacciatori di droga. Da anni è in guerra con gruppi criminali irlandesi ai quali ha imposto il pagamento della sua “protezione”. Una parte dei malviventi si è però coalizzata per resisterle. Si sono così innescate sanguinose faide, culminate nell’uccisione di esponenti di entrambe le parti. L’ultimo a morire, in settembre, a Dublino – trucidato da un killer ingaggiato dalla criminalità organizzata locale – è stato proprio un giovane capo della Rira, Alan Ryan. Il suo funerale è stato presenziato da un “picchetto d’onore” di uomini e donne dal volto coperto e in tenuta paramilitare, nel classico stile dell’Esercito repubblicano irlandese, nonché da centinaia di simpatizzanti della Real Ira. Ryan era anche legato a esponenti del ter terrorismo nordirlandese. E nel 1999, appena diciannovenne, era stato arrestato per la sua partecipazione ad un campo di addestramento della Rira situato a nord di Dublino, dove militanti veterani stavano for formando un gruppo di giovanissimi all’uso delle armi. Ventenni, o addirittura teenager, sarebbero presenti anche nel gruppo capeggiato, sino alla sua morte, da Alan Ryan. Nella gang milita anche suo fratello Anthony, che in diverse occasioni ha fotografato apertamente poliziotti e giornalisti per intimidirli. La “schedatura” di individui da colpire ricalca la matrice classica del terrorismo nordirlandese, e testimonia quanto sia elevato il potere della Rira a Dublino. Proprio nella capitale sono stati arrestati in settembre due presunti appartenenti all’organizzazione, che spiavano e fotografavano con equipaggiamento hi-tech, dalla loro camera d’albergo, gli uffici della squadra speciale antiterrorismo della polizia, situati sul lato opposto della strada. Anche dietro al furto, avvenuto il mese scorso in un’armeria irlandese ad Ashford, di una trentina di fucili di precisione (a lungo raggio e dotati di mirino telescopico) pare esservi il pressante bisogno di armi dei dissidenti repubblicani, dopo i tentativi infruttuosi di procurarsele in Slovacchia, in Francia e in Portogallo. Il nuovo terrorismo nordirlandese ha importanti centri logistici – divenuti una minaccia sociale anche sul mero piano criminale – nella repubblica d’Irlanda, e qui andrebbe colpito con maggiore decisione per scongiurare, o almeno limitare, ulteriori atti di violenza. 72 | ottobre 2012 | narcomafie Ripensare Danilo Dolci Segnali di Elisa Latella foto Centro per lo sviluppo creativo Danilo Dolci Nell’economia agricola della Sicilia del secondo dopoguerra, “l’affare” della criminalità organizzata era l’acqua. Indispensabile per coltivare, per sopravvivere, strumento eccezionale per esercitare un potere sulla collettività. Parlare di gestione democratica dell’acqua a Partinico, in Sicilia, vuol dire parlare di una rivoluzione pacifica che ha il nome di Danilo Dolci. Sono passati quindici anni dal 30 dicembre 1997, il giorno della morte dell’attivista triestino di nascita e siciliano d’adozione, avversario non violento della mafia in una terra in cui la violenza era praticamente l’unico linguaggio conosciuto. Nel 2010 la casa editrice Melampo ha pubblicato “Il potere e l’acqua”, una raccolta degli scritti inediti di Dolci, curata da Giusy Giani e Giordano Bruschi, con prefazione di Nando dalla Chiesa. Un libro che dà l’idea di quanto fosse stretto il legame tra il controllo della risorsa idrica ed il potere politico-mafioso in Sicilia. Oggi a Palermo è ancora atti- vo il Centro che porta il suo nome. L’associazione nasce dall’esperienza di Danilo Dolci e dei suoi collaboratori, portata avanti fin dal 1952 nella Sicilia occidentale. Un’esperienza fatta di digiuni, di marce per la pace, di denunce del sistema mafioso-clientelare, del cosiddetto sciopero “alla rovescia”, di una radio libera, di manifestazioni e laboratori “maieutici”. Da queste attività nascono realtà attive ancora oggi: la diga sul fiume Jato, le cooperative agricole, il centro di formazio- ne “Borgo di Dio”, il Centro educativo sperimentale di Mirto. Attualmente il Centro per lo Sviluppo Creativo ‘Danilo Dolci’ è un’associazione noprofit che coinvolge giovani e adulti a livello sia locale che internazionale, per tenere viva la memoria. Per non dimenticare la vita di un uomo che si è intrecciata con quella di molti altri. Miriam Dolci, sorella di Danilo, lo scorso anno, in occasione dell’anniversario della morte lo ha ricordato raccontando un colloquio avuto a Latina, con un giovane ingegnere siciliano. «Gli chiesi: “Quando non ci sarà più Danilo sarà tutto perduto?” Lui mi rispose: “Noi siciliani delle province di Palermo, Agrigento e Trapani, ci chiediamo cosa sarebbe stato di noi, se non ci fosse stato Danilo Dolci”». Danilo Dolci era nato lontano dall’Isola, anzi quasi fuori dall’Italia: a Sesana, una cittadina che allora, nel 1924, era in provincia di Trieste, ma che oggi si trova in territorio sloveno. La madre infatti era slovena, ma il Sud è nei geni paterni: il padre è un ferroviere di origine siciliana. Durante gli anni del fascismo, Danilo sostiene l’esame di maturità, ascolta musica classica, legge Tolstoj, Voltaire, Seneca e si oppone alla dittatura, strappando manifesti propagandistici del regime, rifiutando di indossare la divisa repubblichina e tentando di attraversare la linea del fronte (verrà arrestato a Genova dai nazifascisti, ma poi riuscirà a fuggire). Dopo la guerra insegna in una scuola serale e contemporaneamen- te frequenta la facoltà di architettura, ma, poco prima di finire, interrompe per aderire all’esperienza di Nomadelfia, comunità animata da don Zeno Saltini a Fossoli, per offrire assistenza agli orfani di guerra. Nel 1952 si trasferisce nella Sicilia Occidentale: a Trappeto e Partinico promuove lotte nonviolente contro il crimine e il sottosviluppo, per i diritti e il lavoro. È il 14 ottobre del 1952 il giorno in cui inizia a Trappeto la prima delle sue proteste: il digiuno sul lettino di Benedetto Barretta, un bambino morto per fame. Se anche Dolci fosse morto di denutrizione, lo avrebbero sostituito, in accordo con lui, altre persone, fino a quando le istituzioni italiane non si fossero interessate alla povertà della zona. La protesta, dopo aver attirato l’attenzione della stampa, viene interrotta con l’impegno delle autorità a eseguire alcuni interventi urgenti, tra cui la costruzione di un impianto fognario. L’acqua è il più importante dei problemi da affrontare in Sicilia e Danilo Dolci per risolverlo intende partire da una profonda conoscenza del territorio e della gente. Contadini e pescatori, donne e uomini del posto, vittime dei soprusi della mafia e dei politici corrotti, conoscono fin troppo bene i responsabili di quei soprusi e i meccanismi con cui le vessazioni vengono attuate. La diga sullo Jato deriva dall’idea di uno di quei contadini. La successiva realizzazione di questo progetto toglierà un’arma importante alla mafia, il controllo delle ridotte risorse idriche disponibili. L’irrigazione delle terre consente lo sviluppo di numerose aziende e cooperative, ed è l’occasione di un cambiamento economico, sociale, civile. Toti Costanzo, segretario del Prc di Partinico, nel dicembre 2011, ricordando questa figura ha evidenziato che a distanza di tanti anni la cooperativa per la gestione dell’acqua esiste ancora, anche se in Sicilia la situazione degli invasi, dei consorzi di bonifica e della distribuzione resta assolutamente negativa. Nel 1953 Dolci sposa la vedova di una vittima dei banditi, Vincenzina, con cinque figli, dalla quale avrà altri cinque figli: Libera, Cielo, Amico, Chiara e Daniela. Nel gennaio del 1956 a San Cataldo, oltre mille persone partecipano ad uno sciopero della fame collettivo per protestare contro la pesca di frodo, che, tollerata dallo Stato, priva i pescatori dei mezzi di sussistenza. Ma la manifestazione è presto sciolta dalle autorità, con la singolare motivazione secondo cui «un digiuno pubblico è illegale». Lo spettacolo “È vietato digiunare in spiaggia - ritratto di Danilo Dolci”, prodotto dal Teatro della Cooperativa di Renato Sarti e Franco Però, andato in scena nel 2007, tratta anche del famoso processo che Dolci subì per aver organizzato lo sciopero alla rovescia il 2 febbraio 1956. Alla base c’è l’idea che, se un operaio, per protestare, si astiene dal lavoro, un disoccupato può scioperare lavorando. Così centinaia di disoccupati si organizzano per riattivare pacificamente una Segnali 73 | ottobre 2012 | narcomafie Segnali 74 | ottobre 2012 | narcomafie strada comunale abbandonata. L’azione nonviolenta non viene portata a termine per l’intervento delle forze dell’ordine. Dolci viene incarcerato, processato e, nonostante l’arringa di Calamandrei, condannato. Per aver cercato di sistemare una strada. Un paradosso. Nel 1957 in Unione Sovietica viene attribuito al giovane attivista il Premio Lenin per la pace. Lo accetta, pur dichiarando di «non essere comunista». Se ne serve per costituire a Partinico il “Centro studi e iniziative per la piena occupazione”. In quegli anni siciliani pubblica alcune delle sue opere più importanti: Fare presto (e bene) perché si muore, Banditi a Partinico, Processo all’articolo 4, Una politica per la piena occupazione. Si intensifica, intanto, l’attività di denuncia del fenomeno mafioso e dei suoi rapporti col sistema politico, fino alle accuse rivolte a esponenti di primo piano della vita politica siciliana e nazionale, tra cui i deputati Calogero Volpe e Bernardo Mattarella (Democrazia cristiana), allora ministro. I due parlamentari querelano per diffamazione Dolci e Franco Alasia (coautore della denuncia), che verranno condannati dopo un processo durato sette anni; eviteranno la detenzione grazie ad un’amnistia. Su Danilo Dolci piovono giudizi contrastanti: c’è chi ne parla come di un pericolo sovversivo, ma intanto arrivano attestati di stima da Norberto Bobbio, Carlo Levi, Ignazio Silone, Aldous Huxley e molti altri. A distanza di quindici anni dalla sua scomparsa che cosa resta di lui? Il metodo maieu- tico, come lo definiva lui, di matrice socratica, secondo cui nessun vero cambiamento può prescindere dal coinvolgimento, dalla partecipazione diretta degli interessati. A partire dagli anni Settanta Dolci avvia l’esperienza del Centro educativo di Mirto, frequentato da centinaia di bambini, successivamente gira l’Italia per animare laboratori maieutici in scuole, associazioni, centri culturali. Contemporaneamente la radio libera voluta da Dolci dà voce ai terremotati del Belice: è una rivoluzione, un mezzo che trasmette l’oralità e non la scrittura, e che trasmette in diretta. Le radio libere fanno paura: sia a destra che a sinistra. Danno voce a mille silenzi. E quelle voci risuonano ancora oggi. Come vere, autentiche, in un mondo in cui si fa strada a grandi passi invece una televisione che funziona sempre più spesso come mac- china della non-verità. Negli anni Ottanta e Novanta partendo dalla distinzione tra trasmettere e comunicare e tra potere e dominio, Dolci evidenzia i rischi di involuzione democratica legati al controllo sociale esercitato dai massmedia. Una riflessione questa, nel 2012, più che mai attuale. Per Dolci l’obiettivo era portare la realtà all’ideale, attraverso una forma di sviluppo endogeno, e non viceversa. Ogni volta che il percorso è inverso infatti, attraverso qualsiasi strumento di comunicazione o di educazione, scatta un’involuzione. Un pensiero riassunto negli ultimi versi di una delle sue poesie più significative: «C’è pure chi educa, senza nascondere/ l’assurdo ch’è nel mondo, aperto ad ogni/ sviluppo ma cercando/ d’essere franco all’altro come a sé,/ sognando gli altri come ora non sono:/ciascuno cresce solo se sognato». 75 | ottobre 2012 | narcomafie L’inumanità del fine pena mai Come contributo al dibattito sulla pena dell’ergastolo, in particolare sul cosiddetto “ergastolo ostativo” – una pena senza fine che nega misure alternative al carcere e benefici penitenziari a chi è stato condannato per reati associativi, in mancanza di una collaborazione processuale – pubblichiamo la prefazione di don Luigi Ciotti al libro collettivo di 36 ergastolani “Urla a bassa voce, dal buio del 41 bis e finepenamai”, edito da Stampalternativa, curato da Francesca De Carolis di don Luigi Ciotti Urla a bassa voce, con le sue voci dal buio, è un libro importante e necessario. Ci costringe ad aprire gli occhi di fronte a una realtà che non ci piace. Ci obbliga a conoscere ciò che non vorremmo sapere, realtà che vorremmo tenere distanti dalla nostra vita e che – di fatto – ci riguardano, Urla a bassa voce è anche un libro di non facile lettura perché documenta e informa anche su che cosa significa – per il nostro ordinamento – “ergastolo ostativo”. Il termine, di per sé duro e respingente, significa che qualsiasi riduzione di pena decisa dalla legge per chi è in carcere, è negata a chi vive la condizione dell’ergastolo. Per chi è condannato all’ergastolo – detto in altri termini – non ci sono benefici di legge possibili sulla pena. Vale a dire che l’ergastolo è totale, effettivo e senza termine. Non è una facile lettura perché in contesti di reati, di delitti, di difesa sociale e di torti subiti non è possibile attivare il pensiero semplice. Le ragioni (sacrosante e legittime) di chi dal delitto è stato ferito nella vita e negli affetti non possono essere negate, così come non può essere dimenticato che ci è chiesto di muoverci nella direzione di una giustizia che sappia riparare, essendo in realtà impossibilitata a risarcire davvero, poiché alla perdita di un bene supremo qual è la vita non c’è rimedio possibile. Impedire alla giustizia di diventare vendetta è la vera sfida a cui siamo chiamati. Impedire che la giustizia “chiuda” chi ha sbagliato nel suo errore (e gli neghi le possibilità del cambiamento) è l’altra faccia della stessa medaglia. Per questi motivi la Corte Costituzionale aveva sentenziato che la pena dell’ergastolo era da considerarsi legittima solo in quanto effettivamente non perpetua, potendo il condannato fruire di benefici e misure che la trasformavano in pena a termine. In questo caso la Corte affermava che si poteva essere condannati al “fine pena mai”, purché quel “mai” non fosse davvero tale. Una decisione salomonica, tesa a scongiurare l’abolizione per via legislativa di questa pena che, a differenza dell’Italia, molti Paesi hanno eliminato dal proprio codice penale, ritenendola incivile e inumana. Nel clima attuale può sembrare incredibile, ma, per la verità, il Parlamento provò egualmente ad abolire l’ergastolo: nell’aprile 1998 il Senato approvò un disegno di legge in tal senso con 107 voti a favore, 51 contrari e 8 astenuti, ma la riforma si arenò 76 | ottobre 2012 | narcomafie Francesca De Carolis UrLa a bassa voce Dal buio del 41 bis e del fine pena mai Eretica Speciale pagine 192 euro 15,00 poi alla Camera. Si trattò di un tentativo controcorrente e di un atto di coraggio non frequente da parte dei partiti politici; eppure erano passati solo pochi anni dalle terribili stragi di mafia di Capaci e di Palermo. Oggi la situazione è decisamente peggiorata da molti punti di vista. Vari e successivi interventi legislativi hanno irrigidito il sistema delle pene; la situazione penitenziaria è costantemente al limite del tracollo, con un sovraffollamento record e con condizioni interne insostenibili, sia per quanto riguarda la vita dei reclusi sia per il lavoro degli operatori e degli agenti. Soprattutto sono cambiati il clima sociale e la cultura generale, assai poco inclini a considerare la necessità di riforme e di aperture. Anche per queste ragioni il libro risulta opportuno: un piccolo contributo a provare a cambiare una cultura della pena che, come ebbe a dire nell’anno del Giubileo papa Giovanni Paolo II, somiglia troppo spesso alla ritorsione sociale. Urla a bassa voce costringe a delle domande scomode, che consuetamente si cercano di evitare poiché non lasciano tranquilli e poiché le risposte non sono a portata di mano, comportando approfondimento e un coinvolgimento anche emotivo. Provo a porne qualcuna. La prima: se lo scopo prevalente della pena detentiva è la rieducazione come può farlo quella perpetua? La seconda: questo “fine pena mai” aggravato (come a dire: anche il peggio può essere peggiorato in una rincorsa senza fine verso l’annichilimento della speranza), questa «pena di morte viva», come la definisce la curatrice del volume, ha fondamento e legittimità costituzionale? Tra i tanti altri possibili, vi è poi un interrogativo ulteriore, forse il più scomodo di tutti: possiamo rimanere indifferenti e inerti di fronte a questi uomini sepolti nel buio, dopo avere qui letto le loro storie, percepito le loro sofferenze e osservato il loro cambiamento? Le pagine che seguono possono e debbono aiutare a trovare risposte, ma non servirebbe leggerle se non si è disponibili a esserne interpellati e scossi, se non si è capaci di abbandonare facili giudizi e stereotipi correnti, perché mai come in questo caso puntare il dito equivale a rinunciare preventivamente all’ascolto. Questo libro curato dalla giornalista Francesca De Carolis può essere letto in tanti modi diversi: come spaccato di vita e di problematiche carcerarie, come trattato critico di criminologia, come rassegna di delitti e di pene, come stimolo all’impegno civile. Per me è, anzitutto, una raccolta di testimonianze che “gridano” la loro fatica e la loro sofferenza . Le prime pagine, con le note autobiografiche degli autori, dicono già gran parte di quel che c’è da sapere. Vite bruciate dal carcere e nel carcere. E prima dal e nel delitto. O almeno così si è portati, quasi istintivamente, a ritenere. Perché uno dei tanti meriti di questo libro è di ricordarci che di fronte a un uomo incarcerato, tanto più se condannato all’ergastolo, occorre sempre aprirsi al dubbio, oltre che all’ascolto: «E se fosse innocente?». Non per sfiducia nell’operato dei giudici, ma per la consapevolezza che l’errore è umano. E quando quell’errore può portare a tanta sofferenza non riuscire a riparare all’errore è, obiettivamente, disumano. Il carcere, e questo libro lo dimostra ancora una volta e con più forza, però può anche essere recupero dell’umano. E con esso, grazie a esso, del rispetto per sé e per l’altro e per le regole che consentono alla relazione tra sé e l’altro di essere improntata alle necessità comuni, dunque alla costruzione e alla manutenzione della comunità. “Bene comune”, un concetto oggi giustamente diffuso, è anche questo: senso della regola e della sua osservanza da parte di tutti. Tutti, naturalmente, vuol dire anche e forse prima chi le regole è tenuto a definirle (il legislatore e il potere politico) e ad amministrarle (l’ordine giudiziario, le istituzioni in generale e, in questo particolare, quelle preposte all’esecuzione della pena). Occorre infatti dire ad alta voce – non lo si fa abbastanza, anzi, spesso non lo si fa per nulla – che il carcere assume paradossalmente tratti di illegalità. Non è legale il sovraffollamento, non è legale la mancata applicazione del Regolamento penitenziario, varato nel 2000 e rimasto per lo più lettera morta. Non sono legali la mancanza di cure, l’insufficienza dell’assistenza o la lunghezza dei processi. Le Corti europee hanno censurato l’Italia numerose volte per queste e altre croniche mancanze. Eppure, nulla sembra cambiare, nonostante l’impegno degli operatori. Si tratta di interrogativi le cui risposte, però, non sono scontate. 77 | ottobre 2012 | narcomafie Ma da qui occorre cominciare: dal coraggio civile di porsi e porre domande. Dal non dare per scontato che il carcere e la pena – e tanto più quelli senza fine e senza speranza – siano sempre la risposta giusta e necessaria. Dal provare almeno a immaginare alternative, e poi provare a liberarsi dalla necessità del carcere, come invitava a fare un movimento di illuminati riformatori (Mario Tommasini e Franco Rotelli tra i primi) negli anni Ottanta del secolo scorso. E come, in tempi più recenti, ci ha invitato a fare il cardinal Carlo Maria Martini, secondo il quale non ci si può limitare a pensare a “pene alternative” (peraltro, di questi tempi, concesse con il contagocce) ma è necessario immaginare “alternative alle pene”. Il carcere, insomma, è un prodotto dell’uomo e in quanto tale ha avuto un inizio ma può dunque anche avere una fine, per lasciare il posto a qualcosa di meno distruttivo, che sappia difendere la collettività ma senza annichilire chi da essa si è chiamato fuori attraverso il delitto. Al quale nella comunità deve però essere concesso di rientrare, avendo compreso i propri errori e avendone pagato le conseguenze; le quali, tuttavia, devono essere tali da lasciare sempre aperta la speranza. Giudicare insensato il carcere senza fine non è, del resto, asserzione ideologica o radicalismo astratto, ma semplice constatazione. Tenere una persona imprigionata significa, letteralmente, tenerla in cattività. Non c’è positività, non c’è il buono possibile nell’uomo in catene; c’è la sua mortificazione e semmai una spinta a essere peggiore. Quell’alberello nel cortile della prigione, tagliato per ragioni di sicurezza, cui accenna in queste pagine uno dei condannati all’ergastolo, ci racconta, più di tanti saggi o ricerche, come e perché il carcere non è un rimedio ma un male ulte ulteriore, un danno che si aggiunge al danno, un dolore che non risarci risarcisce altri dolori. Il cardinal Mar Martini, richiamando le Sacre scritture, è stato categorico: «Il cristiano non potrà mai giustificare il carcere, se non come momen momento di arresto di una gran grande violenza». Naturalmente, talvolta il car- cere appare e diviene necessario. Ma entro limiti precisi. Scrive ancora Martini: «La carcerazione deve essere un intervento funzionale e di emergenza, quale estremo rimedio temporaneo ma necessario per arginare una violenza gratuita e ingiusta» (“Sulla giustizia”, Mondadori 1999). Rimedio estremo e temporaneo. Vale a dire che il carcere deve essere considerato l’“extrema ratio”, l’ultima possibilità, non la prima, non la scorciatoia. E che la pena deve essere a termine, non perpetua. Invece, alla fine del 2011 il totale dei reclusi che scontavano l’ergastolo ammontava a 1.528. Oltre mille e cinquecento persone che trovano indicato nel proprio fascicolo l’anno 9999 come fine della propria pena. Una pena infinita non può essere considerata vera giustizia. Da questa considerazione si può e si deve ripartire per una riflessione equilibrata a livello culturale, sociale e politico che tenga in adeguato conto le parti lese, le vittime dei reati, ma sapendo anche che una riforma della pena perpetua ostativa è necessaria. Non è materia che riguarda solo i giuristi e i tecnici o i diretti interessati. Urla a bassa voce ci ricorda che siamo tutti chiamati in causa, nella società e davanti alle nostre coscienze. Come scrive Maria dopo la morte di Aziz, un giovane suicida nel penitenziario di Spoleto: «Ogni uomo che si toglie la vita in carcere lo fa anche per causa mia, per un qualcosa che io non ho fatto, per un’attenzione a una sofferenza che non ho voluto o saputo vedere». università Napoli, master dell’antimafia “Analisi dei fenomeni di cricri minalità organizzata e strastra tegie di riutilizzo sociale dei beni confiscati” è il titolo del Master di II livello organizorganiz zato dalla facoltà di Scienze Politiche dell’ateneo parteparte nopeo “Federico II”. L’obietL’obiet tivo del corso post laurea è di formare amministratori, dipendenti delle pubbliche amministrazioni, operatori volontari nel mondo dell’associazionismo ed esponenti delle forze dell’ordine su tematiche inerenti all’infiltrazione delle mafie, alla loro espansione e alle modalità di contrasto. Cinquanta i posti disponibili, l’ammissione è subordinata al superamento di un concorso pubblico per titoli. La scadenza del termine di presentazione delle domande di ammissione è fissata al 30 novembre. Per informazioni www.libera.it La corruzione si studia in ateneo L’Università di Pisa, l’assol’asso ciazione Libera e Avviso PubPub blico propongono, per il terzo anno consecutivo, i Master di primo e secondo livello di durata annuale in “Analisi, prevenzione e contrasto della criminalità organizzata e della corruzione”, denominato MaMa SHARE le segnalazioni del mese a cura di Marika Demaria 78 | ottobre 2012 | narcomafie ster Apc. Il master si prefigge come obiettivo la promozione della cultura della legalità e dell’efficacia delle politiche di contrasto contro i fenomeni criminali. I titoli di accesso richiesti sono la laurea triennale, specialistica o di vecchio ordinamento per il master di primo livello, mentre per il secondo livello non sono ammessi i candidati in possesso della laurea triennale. Le domande dovranno essere presentate entro il 22 novembre. Per informazioni: [email protected]. teatro Orme in movimento L’associazione di promozione culturale per il teatro di impegno civile “Orme” organizza anche per l’anno 2012-2013 i corsi di teatro, violino e danza. I partecipanti potranno così cimentarsi con diverse discipline artistiche applicate all’impegno civile e potranno poi calcare i palcoscenici nell’ambito delle iniziative di Libera e Acmos e del cartellone di Teatrimpegnocivile. Tra i successi più riusciti dell’associazione “Orme” ricordiamo lo spettacolo “Picciridda” dedicato a Rita Atria, la giovanissima testimo- ne di giustizia che si procurò la morte il 26 luglio 1992, dopo aver visto, a seguito della strage di via D’Amelio, svanire tutte le speranze che aveva riposto nel giudice Paolo Borsellino. Il progetto è promosso dalle associazioni Acmos e Viartisti in collaborazione con il Gruppo Abele, Libera e We Care. Per informazioni è possibile: visitare il sito www.orme-teatro.it, inviare una mail a [email protected] o telefonare allo 011 3841081 79 | ottobre 2012 | narcomafie libri Le gesta del Costa Rei Le edizioni “Agenda” lanciano una nuova collana, esordendo con “Costa del Rei F.C.” dove la seconda lettera puntata non indica il Club ma il Clan, a firma di Claudio Metallo. Il libro racconta la storia di un piccolo club calcistico di una serie minore. Un gruppo di criminali macedoni, originari della città di cui la squadra è portacolori, decide di acquistarla, traghettandola, ovviamente non in maniera lecita, verso la Champion’s League. Claudio Metallo, Costa del Rei F.C., Edizioni Agenda Bologna, 2012 Fedeli nei secoli Spesso sono definiti “angeli”. Sono i rappresentanti delle forze dell’ordine: carabinieri, poliziotti, finanzieri, militari. Impegnati a far rispettare le leggi, a debellare la microcriminalità come a contrastare le mafie. Angelo Jannone, in servizio nell’Arma dei Carabinieri fino al 2003, ha voluto raccontare la sua carriera che si è intrecciata con le vite di altri colleghi, con la storia di chi ha combattuto in prima linea, con la cronaca degli ultimi trent’anni di storia italiana. L’autore racconta emozioni, gioie e dolori di quegli anni, con il piglio di chi resta “Carabiniere sino in fondo”. La prefazione è affidata a Luigi Federici, comandante generale dell’Arma tra il 1993 e il 1997. Non ce ne voglia l’autore, ma un piccolo appunto va fatto: nelle pagine iniziali un ricordo particolare è dedicato al dottor Giovanni Falcone, a sua moglie Francesca Morvillo e agli uomini della scorta, “in particolare Vito Schifani e Antonio Montinaro”. Noi aggiungiamo che il terzo agente si chiamava Rocco Dicillo: doveroso ricordarlo parimenti ai suoi colleghi. Quando la mafia è donna Nell’immaginario collettivo sono dimesse, vestite a lutto, che si battono il petto gridando l’innocenza dei propri uomini, siano i mariti, i padri, i figli o i fratelli. Nella realtà però le donne di mafia sono organiche al sistema malavitoso, capaci persino di sostituirsi al capofamiglia quando questi viene incarcerato, assumendo un ruolo di primo rilievo. La ricerca di Alice De Toni si prefigge l’obiet- tivo di documentare come tre testate italiane – «Il Corriere della Sera», «L’Ora» e «Il Giornale di Sicilia» – abbiano più o meno contribuito ad alimentare gli stereotipi delle donne di mafia mute e infagottate in pesanti e lunghi vestiti neri. Il lasso di tempo preso in esame è compreso tra il 1963, anno dell’istituzione della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla mafia in Sicilia, e il 1982, caratterizzato dagli efferati omicidi di Pio La Torre e di Carlo Alberto dalla Chiesa. La parte conclusiva del libro ci regala un’analisi a campione compiuta esaminando altri sei quotidiani: «La Stampa», «L’Uni «L’Unità», «Il Messaggero», «Il Giorno», «La Nazione», «Il Mattino». Alice De Toni, “Dolentissime donne. La rappresentazione giornali giornalistica delle donne di mafia” Clueb, 2012 Il prefetto mandato a morire «Certamente all’uccisione del generale dalla Chiesa, insieme col quale fu sacrificata la vita della giovane moglie e dell’autista Russo, contribuirono fattori diversi e concomitanze d’interessi». Angelo Jannone, Eroi silenziosi, Datanews, 2012 Così i giudici si espressero nella sentenza di primo gra grado relativa all’eccidio di via Carini del 3 settembre 1982. Nell’anno del trentennale dell’omicidio, un libro per ripercorrere la carriera del Carabiniere “con gli alama alamari cuciti sulla pelle” soffer soffermandosi sugli ultimi periodi della sua vita, inseriti nel contesto storico e politico dell’Italia e della Sicilia di quel periodo. Un libro docu documentato con interventi, tra l’altro, del procuratore Gian Carlo Caselli che con dalla Chiesa condivise la lotta al terrorismo, del giornalista Riccardo Orioles e di Nando, sociologo e figlio di Carlo Alberto dalla Chiesa. Luciano Mirone, “A Palermo per morire” Castelvecchi Editore, 2012 80 | ottobre 2012 | narcomafie Reggio Calabria: la democrazia sepolta Da qualche anno vado ripetendo che non viviamo in un paese “normale”. Intendendo riferirmi, con questa locuzione, al nostro assetto politico-democratico-istituzionale, centrale e periferico, che è gravemente compromesso dagli inquinamenti delle mafie. Siamo l’unico paese dell’Unione europea che subisce, da decenni, i pesanti condizionamenti nella vita pubblica e nell’economia di almeno tre potenti, radicate e ramificate organizzazioni criminali, tra cui la ’ndrangheta, inserita dal governo americano, da oltre un paio di anni, tra le mafie più pericolose al mondo (con la ya- kuza giapponese, la mafia russa e i cartelli messicani). Si rimane, dunque, sconcertati a leggere ancora oggi che «...per condannare un imputato dobbiamo sempre prima provare che la mafia calabrese è una realtà» (Alessandra Cerreti, sostituto procuratore della Repubblica presso la Dda di Reggio Calabria, su «Io Donna» del 13 ottobre scorso in un’intervista di Emanuela Zuccalà). Lo sconcerto diventa indignazione e avvilimento quando, a poche ore dallo scioglimento del Comune di Reggio Calabria per contiguità mafiose, avvenuto il 9 ottobre scorso con provvedimento del di Piero Innocenti Consiglio dei Ministri, leggiamo sui giornali lo “sfogo” verbale del presidente della Regione Calabria, Scopelliti, che accusa «sulla mia città è rivolta una ferocia incredibile», invitando la gente «a scendere in piazza». I rapporti tra attività “tradizionali” della vita politica calabrese (clientelismo, elettoralismo etc.) e le collusioni con la delinquenza organizzata a Reggio Calabria non sono affatto una novità. Suggerisco ai più giovani e a chi, comunque, voglia avere una conoscenza adeguata sul punto un’attenta lettura delle ventidue pagine della relazione del 1989 del gruppo di lavoro della Commissione parlamentare sullo stato della lotta alla mafia nella provincia di Reggio Calabria. Da sottolineare che l’intervento della Commissione fu sollecitato proprio dalla Giunta regionale (altri tempi). Il documento, approvato dalla Commissione nella seduta del 16 marzo 1989 e comunicato subito ai presidenti del Senato (Giovanni Spadolini) e della Camera (Nilde Iotti), è illuminante di una situazione, già allora, di una «gravità eccezionale». Un quadro complessivo in cui «appaiono sempre più intricati i rapporti tra delinquenza organizzata, amministrazioni pubbliche, potere politico. Nel 1988 gli amministratori di enti locali che sono stati denunciati arrivano al numero di 170». Ancora: «La delinquenza organizzata influisce sulla politica degli appalti e dei subappalti (…). È assolutamente necessario invertire una tendenza pericolosa alla sfiducia totale nella democrazia e nella politica che sembra oggi dominare l’opinione pubblica nella provincia. Se questo non avvenisse, la situazione complessiva in quella parte d’Italia potrebbe diventare incontrollabile». Una partita disperata già da allora perché eravamo già perdenti sul piano economico, politico, culturale, educativo, etico. Ci sono voluti ventitrè anni prima che un Governo decidesse di provare a scrostare il malaffare nel capoluogo di provincia calabrese. Un tentativo estremo di ridare vita ad una democrazia già sepolta. numero 10 | 2012 | 3 euro Mensile | Anno XX | Poste italiane S.p.A | SPED. IN A.P. D.L. 353/2003 (conv. in L.27/02/2004 n. 46) art. 1 comma 1 DCB | To. ISSN 1127-9117 numero 10 | 2012 SAN MARINO, L’AGGRESSIONE DELLA CRIMINALITà ORGANIZZATA CHI BALLA SUL TITANO SOMMARIO 3 | L’EDITORIALE La politica e la lezione di Picasso di Livio Pepino 6 | MAFIE IN CANADA La mattanza di Montréal di Saul Caia 12 | I GIORNI DELLA CIVETTA Brevi di mafia a cura di Manuela Mareso 15 | DONNE DI MAFIA Cosa nostra in rosa di Dario De Luca 18 | COSE NOSTRE In Francia l’antimafia si traduce... ethicando di Marika Demaria 20 | NORMATIVA ANTIMAFIA Il Veneto prende coscienza di Maurizio Bongioanni 35 | SAN MARINO Collisione o collaborazione? di David Oddone La cassaforte dei colletti bianchi di D. O. I furbetti di San Marino di D. O. Il santuario della segretezza intervista a Paolo Giovagnoli di D. O. 60| ALTARISOLUZIONE La santa dei narcos testo e foto di Orsetta Bellani 64 | OCCIDENTI Rassegna stampa internazionale a cura di Stefania Bizzarri 67 | RICICLAGGIO USA-MESSICO Lavatrici a stelle e strisce di Simone Bauducco 70 | CRONACHE SOMMERSE Nuovi fuochi in Irlanda del Nord di Andrea Giordano 23 | NUOVE RESISTENZE Gino, imprenditore foggiano vittima di usura di Laura Galesi 72 | SEGNALI Ripensare Danilo Dolci di Elisa Latella 24 | QUARANTESIMO ANNIVERSARIO Spampinato, l’ora del ricordo di Elisa Latella 75 | SEGNALIBRO L’inumanità del fine pena mai di Luigi Ciotti 28 | CASO ROSTAGNO Trapani doveva dimenticare di Rino Giacalone 78 | SHARE Le segnalazioni del mese a cura di Marika Demaria 34 | STROZZATECI TUTTI «Chi te lo ha detto» di Marcello Ravveduto 80 | L’OPINIONE Reggio Calabria: la democrazia sepolta di Piero Innocenti
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