L Iran dice s alle gioie del talamo, no al dissenso

Transcription

L Iran dice s alle gioie del talamo, no al dissenso
Supplemento al numero
odierno de la Repubblica
Sped. abb. postale art. 1
legge 46/04 del 27/02/2004 — Roma
LUNEDÌ 17 SETTEMBRE 2007
Copyright © 2007 The New York Times
E ora la lotta
per il trono
dell’air guitar
di SARAH LYALL
OULU, Finlandia — Ripensandoci a mente fredda,
forse Guillaume de Tonquédec avrebbe fatto meglio
a non cercare di tuffarsi sopra il pubblico, al culmine della sua performance ai Campionati mondiali di
air guitar (la disciplina di quelli che imitano, senza
avere niente in mano, gli strimpellamenti di un chitarrista). Invece di avvolgerlo in un caldo abbraccio,
la folla si è scostata spaventata e de Tonquédec, il
campione nazionale francese (nome d’arte: Moche
Pitt), ha dato una panciata per terra. Rock on!
L’episodio ha rammentato, sempre che fosse necessario, che l’air guitar non è come suonare la chitarra. Non ci sono strumenti, né competenze da acquisire per cimentarsi nella disciplina. E si corrono
ottime probabilità di coprirsi di ridicolo, a cominciare da quando, per usare le parole del concorrente britannico, Gabi Matzeu, “un sacco di gente ti dice: ‘Sei
uno sfigato. Vatti a comprare una chitarra vera’”.
I campionati, nati nell’ambito dell’annuale Festival della musica e del video di Oulu, si svolgono da 12
anni in questa piccola città sulla costa occidentale
della Finlandia. Quest’anno hanno preso parte alla fase finale, il 7 settembre, 19 uomini e una donna
provenienti da 17 Paesi, tutti impegnati a cercare di
dimostrare ai giurati il loro carisma, la loro abilità
tecnica e la loro “airness”.
“A essere sinceri, airness è un termine americano, e non ho idea di cosa significhi”, dice il concorrente neozelandese, John Gerrand. Sforzandosi di
rispondere alla domanda sul perché gli piacesse
l’air guitar, un altro concorrente ha detto: “Per me
è come una chitarra, solo che è fatta di aria, e quindi
non la puoi vedere. Pressappoco è questo”. Petros
Stathatos, 16 anni, il concorrente greco, era un neofita nel mondo dell’air guitar agonistico, avendo cominciato solo dopo che un amico lo aveva iscritto al
Forgiare l’identità
di una famiglia
Morteza Nikoubazl/Reuters
Le famiglie devono far convivere uno stile di vita moderno e le regole imposte dal governo. Una sposa iraniana aspetta lo sposo.
L’ Iran dice sì alle gioie del talamo, no al dissenso
di MICHAEL SLACKMAN
John McConnico per The New York Times
Guillaume de Tonquédec si getta
anima e occhiali nell’air guitar.
campionato nazionale greco all’ultimo minuto, e lui,
non si sa perché, è riuscito a vincere.
Wes Roe, il campione australiano, dice che pratica
la disciplina “fin da quando ha cominciato a bere birra”, quindi un bel po’ di anni fa, considerando che ora
ne ha 30. Il suo nome d’arte è Tommy Air Manuel,
omaggio al chitarrista (vero) Tommy Emmanuel,
suo connazionale; nell’altra sua vita, Roe lavora nel
dipartimento per la sicurezza dei trasporti pubblici.
“La gente dice che siamo dei mostri, degli assassini”, dice David Moreno Gil, il concorrente spagnolo,
che si presenta sul palco come Moreno del Metal e
che per vivere doppia film porno in spagnolo. “Io dico, All you need is air”.
I concorrenti suonano le chitarre immaginarie
dietro la schiena, incastrate tra le gambe e saltando
per aria. Si mettono le mani sul pacco, si leccano le
labbra, agitano la lingua verso il pubblico.
“Non si tratta di scimmiottare i chitarristi veri”,
dice Cedric Devitt, produttore esecutivo del film Air
Guitar Nation e concorrente nel corso di una passata edizione. “Il concetto è che la tua imitazione è
talmente bella da trascendere in una forma d’arte”.
Il campione dello scorso anno, il giapponese Ochi
Yosuke, ce l’ha fatta anche stavolta. I 1.100 spettatori accorsi allo spettacolo hanno invece votato come
vincitore il concorrente austriaco, Max Heller.
Yosuke e Heller hanno vinto delle chitarre.
Non che ne avessero bisogno.
Un rifugio a Cuba
I rivoluzionari vanno sull’isola
a rilassarsi e a cercare la pace.
MONDO
II
Visioni caraibiche
Una mostra cerca di definire l’arte
contemporanea dell’isola.
ARTI E TENDENZE
VIII
TEHERAN — L’insegnante mostra un preservativo verde srotolato
a una decina di future spose durante
una lezione di pianificazione familiare.
Ma il controllo delle nascite è soltanto uno degli argomenti del corso,
che viene offerto dal governo ed è
obbligatorio per le coppie prossime
al matrimonio.
L’altro tema riguarda il sesso e
il messaggio diffuso dallo Stato è
che le donne devono provare piacere tanto quanto gli uomini, i quali
devono saper pazientare perché
nella donna il piacere ha tempi più
lunghi.
Questa non è l’immagine dell’Iran
che filtra all’estero, fra donne avvolte nel severo chador e religiosi in
turbante. Eppure è parte integrante
del complesso amalgama politico e
sociale della società iraniana, e dell’incessante impegno dello Stato,
ormai da trent’anni, nel formare
l’identità del popolo.
In Iran, la cultura e le tradizioni
edonistiche persiane si mescolano e contrastano con la dottrina
dell’Islam sciita, nonché con più di
una decina di altri retaggi etnici e
tribali.
L’educazione sessuale non è una
novità in questo Paese, ma di recente i contenuti sono stati aggiornati
con l’intento di favorire una sessualità appagante nei giovani, e raffor-
zare matrimoni e famiglie in un periodo in cui la vita quotidiana è già
stressante a sufficienza.
L’accento che viene posto dal
corso sul piacere sessuale, al di là
degli aspetti sanitari, equivale ad
ammettere che nella Repubblica
islamica qualcosa non va.
L’elasticità dimostrata dal governo serve anche a plasmare il comportamento e i costumi della società. Al giorno d’oggi però rappresenta un’eccezione. Infatti l’attuale
regime è più noto per l’adozione di
una strategia opposta: la richiesta,
pressante, che la società e l’individuo si pieghino alla sua definizione
di cittadino.
In realtà entrambi gli approcci
condividono un obiettivo più ampio: salvaguardare la Repubblica
islamica riformando l’immagine
che la popolazione ha di se stessa.
In questo senso torna alla mente il
vano tentativo in Unione Sovietica
di costruire un’identità nazionale
basata sul Nuovo Uomo sovietico.
Per riuscirvi ricorsero ai campi giovanili e allo strumento del terrore.
Chiunque mettesse in discussione
la nuova identità, in quel caso atea,
veniva considerato una minaccia
per lo Stato.
A partire dal 1979, i chierici iraniani hanno tentato di forgiare una
nuova identità nazionale fondata in-
continua a pagina IV
I padri lontani mantengono
uno ‘stato modello’ in India
di JASON DePARLE
TRIVANDRUM, India — Si dice
che questa verdeggiante striscia costiera dell’India meridionale sia un
buon posto per vivere, se si è poveri. L’aspettativa di vita media nello
Stato del Kerala è all’incirca pari a
quella dei Paesi occidentali sviluppati, benché il reddito sia di gran
lunga inferiore. L’abitudine alla lettura è altrettanto diffusa.
Visti gli imponenti investimenti
nella sanità e nell’istruzione voluti
dai governi di sinistra nella capitale
dello Stato, un’intera generazione
di studiosi ha esaltato il “modello
Kerala” come alternativa umana
allo sviluppo regolato dalle leggi del
mercato: un progetto di eguaglianza sociale in un mondo capitalista di
disuguaglianze. Tuttavia oggi quel
modello è sotto accusa, ogni volta
che un lavoratore è costretto a emigrare.
La vita di Laly Mohan ne è un
esempio. Suo marito Ramakrishnan, 39 anni, da quindici lavora nel
Golfo: nato in una famiglia povera,
dopo due anni di università non aveva visto alcuna prospettiva di lavoro. Facendo l’autista in Qatar, oggi
guadagna 375 dollari al mese, circa
il quintuplo dello stipendio medio da
queste parti, però vede la famiglia
una volta l’anno per tre settimane.
I guadagni di Mohan hanno assicurato ai suoi gli agi della classe
media: cucina nuova e moto fiammante, l’iscrizione a scuola delle
due figlie Blessy ed Elsa.
Nonostante telefoni a casa ogni
giorno, la moglie Laly si “sente molto sola” e le bimbe lo supplicano di
tornare a casa. “Vogliono il papà
ma anche i soldi”, dice Laly. “Non
si possono avere entrambe le cose”.
Riflettendo, aggiunge: “Qui la gente
istruita è tanta, ma il lavoro poco.
E questo è davvero un grande problema”.
Piagati dalla disoccupazione cronica, gli abitanti del Kerala emigrano in quantità sempre maggiore:
1,8 milioni, spesso occupati in duri
mestieri sotto il sole implacabile del
Golfo Persico, pagati un dollaro al-
Tyler Hicks/The New York Times
Lo stipendio del marito, che lavora in Qatar, ha permesso a Laly
Mohan di acquistare un motorino, ma lei si sente sola.
l’ora, lontani da casa per anni. Il denaro inviato in patria contribuisce
a mantenere un terzo della popolazione. Per questo motivo alcuni studiosi hanno cominciato a riscrivere
la storia del Kerala: altro che alternativa al capitalismo, sostengono;
quest’angolo tanto citato del mondo
in via di sviluppo è tragicamente dipendente da quel sistema.
“Le rimesse dal capitalismo globale trainano l’intera economia
del Kerala”, dice S. Irudaya Rajan,
demografo al Centro per gli studi
continua a pagina IV
Repubblica NewYork
II
LUNEDÌ 17 SETTEMBRE 2007
MONDO
Imparare lezioni di vita
dal deserto dell’Egitto
di MICHAEL SLACKMAN
IL CAIRO — “L’Egitto è una zona franca per la logica”, dice Amr Shannon, una
guida del deserto che accompagna i turisti in alcune delle destinazioni più belle
e remote del deserto dell’Egitto. Dopo
aver guidato migliaia di turisti per oltre
30 anni facendo provare loro il brivido
di questi luoghi unici, Shannon medita di
andare in pensione.
Avventuriero e filosofo, oggi insegna a
una nuova generazione di guide non solo
come mostrare le bellezze naturali dell’Egitto ma anche come comportarsi da
maestri di vita. Le guide devono sapere
quando intervenire e quando rimanere
in disparte, così che i visitatori possano
sperimentare il silenzio del deserto. “Se
ci si aspetta che sia la logica a avere la
meglio, la propria intelligenza sarà frustrata almeno 200 volte al giorno”, dice
Shannon.
L’Egitto è per buona parte desertico,
formato al 94 per cento da dune di sabbia
e roccia. I suoi 80 milioni di abitanti vivono sul restante 6 per cento di territorio,
essenzialmente nella Valle del Nilo. Di
norma gli egiziani non amano il deserto,
e in pochi cercano sollievo sulle alture
del Sinai e nello scenario da altro mon-
do del Deserto Bianco, che si estende a
occidente.
Per molti versi Shannon è un mix unico di Oriente e Occidente. Dice che la sua
filosofia di vita è sempre stata “lascia
che sia”, una mentalità molto diffusa in
Egitto. Ma Shannon presta attenzione
ai dettagli e ha un’incredibile etica professionale, valori che, come è risaputo,
gli egiziani non sembrano apprezzare.
“Quando accompagno i miei clienti”,
dice Shannon, “non mi pagano perché
mostri loro delle cose. Mi pagano per il
loro tempo. Il mio compito è di renderlo
quanto migliore possibile”.
Shannon ha avuto un’infanzia fortunata. Suo padre, Mohsen, era un generale
dell’esercito che aveva avuto il privilegio
di frequentare l’accademia militare nello stesso corso di Gamal Abdel Nasser,
che sarebbe diventato presidente.
Anche se il suo cognome può sembrare
irlandese, Shannon dice di essere egiziano al 100 per cento e di essere entrato in
contatto con il deserto per la prima volta
a dieci anni, quando suo padre iniziò a
portarlo a fare delle escursioni durante
il fine settimana. Shannon ha 59 anni, si
è sposato sei anni fa e da allora lui e sua
moglie Maria si spingono nel deserto
“Gli uomini affrontano
situazioni difficili e pericolose
continuamente, ma non
imparano mai”.
AMR SHANNON
Guida del deserto egiziano
Shawn Baldwin per The New York Times
a bordo di due Jeep Cherokee gemelle.
Una volta rimase bloccato quattro giorni
nel deserto, era convinto che vi sarebbe
morto insieme a suo cugino. I due invece
sopravvissero senza bere niente altro
che la loro urina e grazie alla determinazione a non perdere la calma. Era il
1989 e Shannon stava prendendo parte a
un rally nel deserto. Quando il suo mez-
zo a quattro ruote si ruppe, accese un segnalatore di emergenza, immaginando
che di lì a poco sarebbe stato soccorso
insieme al cugino. Erano rimasti senza
acqua – avendo preso la decisione sbagliata di versare l’ultimo goccio di acqua
potabile che avevano nel radiatore dell’auto – e avevano dato per scontato di
raggiungere presto il traguardo.
Ma gli organizzatori della corsa non
arrivarono a salvarli: fu soltanto quando lo zio di Shannon, governatore della
regione di Suez, chiamò l’esercito che
furono tratti in salvo.
“Gli eventi non cambiano le persone”,
dice Shannon, “ma tirano fuori ciò che
già c’è dentro di loro. Gli uomini affrontano situazioni difficili e pericolose continuamente, ma non imparano mai”.
Ma allora, che cosa gli insegnò quell’esperienza? “Ce ne stemmo calmi,
molto calmi. Forse basandoci sulla convinzione che niente avesse davvero importanza”.
Nel deserto nulla ha importanza e
allo stesso tempo tutto è importante. Il
denaro non ha alcun significato. In quei
quattro giorni, ricorda Shannon, vide
migliaia di banconote egiziane volar via
dall’automobile e sparire nel vento del
deserto. In simili circostanze, le decisioni sbagliate possono portare alla morte.
Questo ha imparato: che è il viaggio a
essere importante non la destinazione.
Shannon dice che la cosa più importante
da portare nel deserto è l’atteggiamento
giusto.
Prima di tutto, accettare l’Egitto per
quello che è. E poi il “lascia che sia”, un
insegnamento che si può applicare al deserto come alla vita di un uomo che in
passato prima desiderò essere militare,
poi artista, e di fatto ha finito col fare la
guida nel deserto. “La gente vuole andare dal Punto A al Punto B”, dice Shannon. “Ma talvolta il destino riserva un
itinerario diverso”.
Nemici giurati a Bogotà
negoziano la pace a Cuba
Il Congo sta
cercando di
rinnovare il suo
sistema ferroviario
decrepito.
Commercianti
caricano dei beni
su un vagone.
Lionel Healing per The New York Times
DIARIO DAL COLOMB EXPRESS
Il Congo visto dal treno: ressa, sporcizia e pericoli
di WILL CONNORS
A BORDO DEL COLOMB EXPRESS, Congo — Il treno vibra e sobbalza, sballottando Mwepu Miesha. Con
una mano si ripara gli occhi dal sole e
dal vento, e con l’altra tiene strette le
sue stampelle, usando equilibrio e fortuna per non farsi sbalzare dal vagone.
Miesha, colpito dalla poliomielite durante l’infanzia, sta seduto, insieme ad
altri 20, sul tetto del treno. Il vagone merci su cui sta appollaiato è pieno di gente,
Direttore responsabile: Ezio Mauro
Vicedirettori: Mauro Bene,
Gregorio Botta, Dario Cresto-Dina
Massimo Giannini, Angelo Rinaldi
Caporedattore centrale: Angelo Aquaro
Caporedattore vicario: Fabio Bogo
Gruppo Editoriale l’Espresso S.p.A.
•
Presidente onorario: Carlo Caracciolo
Presidente: Carlo De Benedetti
Consigliere delegato: Marco Benedetto
Divisione la Repubblica
via Cristoforo Colombo 90 - 00147 Roma
Direttore generale: Carlo Ottino
Responsabile trattamento dati (d. lgs.
30/6/2003 n. 196): Ezio Mauro
Reg. Trib. di Roma n. 16064 del 13/10/1975
Tipografia: Rotocolor, v. C. Colombo 90 RM
Stampa: Rotocolor, v. C. Cavallari 186/192
Roma; Sage, v. N. Sauro 15 - Paderno
Dugnano MI ; Finegil Editoriale c/o Citem
Soc. Coop. arl, v. G.F. Lucchini - Mantova
Pubblicità: A. Manzoni & C.,
via Nervesa 21 - Milano - 02.57494801
•
Supplemento a cura di:Paola Coppola,
Francesco Malgaroli, Raffaella Menichini
•
Traduzioni: Emilia Benghi, Anna Bissanti,
Antonella Cesarini, Fabio Galimberti,
Guiomar Parada, Marzia Porta
e anche se potesse permettersi un posto
nel vagone passeggeri, è già tutto occupato. “Questo è il Congo”, dice Miesha
alzando le spalle. “Che ci posso fare?”.
In ampi settori del Paese, che è grande
quanto l’Europa Occidentale, le strade
sono invalicabili o inesistenti, i battelli
fluviali non viaggiano più e il trasporto
aereo ha costi proibitivi: a molti non
resta altra scelta che affidarsi a una rete
ferroviaria sempre più pericolosa.
Dopo aver celebrato le prime elezioni
democratiche da quasi 50 anni, e mentre cerca faticosamente di emergere
dalla guerra civile, il Paese centrafricano sta cercando di rimettere in sesto
la sua rete ferroviaria. La strada da
fare è ancora tanta.
Il 1° agosto, un treno merci è deragliato, uccidendo più di 100 persone. Incidenti che diventano più frequenti man
mano che i mezzi invecchiano.
Costruita dai belgi nel 1902 per trasportare minerali come il rame fino
all’Atlantico, la rete ferroviaria congolese, un tempo efficiente, si è deteriorata al punto che deragliamenti e rotture
dei freni sono ricorrenti. “La rete ferroviaria è grande e costosa; soffre di
carenza di investimenti, ha un mucchio
di problemi e ha bisogno di soldi per essere rimessa in sesto”, dice Arno Hart,
consulente che ha lavorato a uno studio
di fattibilità per l’Agenzia statunitense
per il commercio e lo sviluppo, un organismo pensato per offrire consulenza
agli investitori americani.
Nel corso di un viaggio di otto giorni,
su una distanza di 850 chilometri, nel
Congo sudorientale, ci sono stati due deragliamenti, decine di ritardi, un’avaria del sistema elettrico e un numero
sempre maggiore di persone e merci
ammassate in corridoi, scompartimen-
ti e bagni stracolmi e maleodoranti.
I problemi sono infiniti. Su 80 locomotive, solo 15 sono in funzione. A volte, i
binari sono vecchi di 80 anni, e così deformati e piegati che i treni ci rimbalzano sopra, con pezzi del veicolo che vanno perduti o si allentano e devono essere
aggiustati o sostituiti a ogni fermata.
Anche l’interno dei vagoni è un disastro. I bagni di prima classe diventano
sporchissimi poco dopo l’inizio del
viaggio.
In seconda e in terza classe sono usati
per stipare la roba. In una vettura, la
gente usava dei secchi o si sporgeva
dai finestrini per soddisfare i bisogni
corporali.
Nelle ferrovie lavorano oltre 13.000
persone, ma è da maggio che i dipendenti non vedono lo stipendio e le mazzette sono diffuse. “Alle volte è difficile
resistere alle tentazioni”, dice Augustin
(ha dato solo il suo nome), il capo della
polizia alla stazione di Kamina. “Faccio cose brutte”. Poi aggiunge: “Non mi
pagano da 29 mesi. Come faccio a mandare i miei figli a scuola?”.
Léon (anche lui dà solo il nome di battesimo), che lavora come bigliettaio e
macchinista è convinto che il problema
nasca a Kinshasa, la capitale.
“Questa è una società controllata
dallo Stato”, dice. “Se è ridotta alla
bancarotta, la colpa è del governo. Così
come stanno andando le cose, non resisteremo neanche due anni”.
Le persone più colpite sono forse commercianti e contadini.
Twite Kabuya, un contadino di Kabono, di 43 anni, dice di aver perso tutto
il suo raccolto di mais per colpa di un
vagone che è rimasto fermo per quattro
mesi. “Ora il mio granturco è pieno di
insetti. È tutto marcito”.
di SIMON ROMERO
dell’isola.
Il presidente colombiano Alvaro
L’AVANA — La cena con i guerriglieri è un avvenimento mondano. Una Uribe, che è il più fedele alleato delMercedes con autista, gentilmente l’amministrazione Bush in America,
concessa dal governo cubano, porta ha migliorato i suoi rapporti con Cuba
gli ospiti nella villa dove i capi di uno nonostante permangano delle differendei più tenaci gruppi ribelli colombiani ze politiche tra i due paesi.
Oggi, i capi dell’ELN si recano a Curisiedono spesso quando sono in città.
Prima di sedersi per consumare una ba più per ragioni di carattere pratico
cena a base di pesce, un trattamento che ideologico. A volte ci sono andati
che solitamente viene riservato ai vi- in gran segreto per sottoporsi a tratsitatori muniti di valuta forte, Pablo tamenti medici. E poi ci sono state le
Beltrán, il principale negoziatore del varie fasi dei negoziati per il cessate-ilNational Liberation Army ( o ELN), fuoco, che sono terminati l’anno scorpropone un brindisi: “A Cuba!”. E’ un so con risultati non del tutto soddisfaomaggio adeguato a una nazione che centi. L’ELN ha respinto la proposta
ha protetto la ribellione fin dalle sue di trasferire i suoi dirigenti al di fuori
origini, negli anni Sessanta, e
che da allora è diventata una
sorta di rifugio per i ribelli ormai invecchiati.
Paradossalmente Cuba è
anche il luogo dove i rivoluzionari cercano pacificamente di
porre fine al loro movimento,
dopo decenni di lotta violenta
contro una serie di governi
favorevoli all’America. Questo è uno dei pochi posti in cui
l’ELN si sente sufficientemente al sicuro da impegnarsi in
un negoziato con il governo
colombiano per arrivare a un
cessate-il-fuoco.
“In confronto ad altre città,
L’Avana è un luogo in cui le cose vanno al rallentatore”, dice
Beltrán, 53 anni, un uomo che
dagli studi universitari in ingegneria petrolifera è passato
a bombardare gli oleodotti e a
rapire i dipendenti delle compagnie straniere. “E’ il luogo
perfetto per negoziare con
tranquillità e pensare a che
fare dopo”.
Una volta finita la giornata
Jose Goitia per The New York Times
di trattative, i ribelli sembrano contenti di recarsi nei locali Pablo Beltrán, leader dei ribelli, è andato
in cui si suona il jazz o di pas- a L’Avana per i negoziati sul cessate-ilseggiare sul lungomare senza
fuoco con il governo colombiano.
doversi guardare alle spalle.
I capi dell’ELN, compreso
Beltrán, sono uomini sui 55
anni, che hanno trascorso gran parte della Colombia.
Nel frattempo, il futuro ruolo di Cuba
della loro vita a fare la guerra, accampati tra le montagne o nella cella di una come base per i negoziati, resta incerto. Il gruppo, che gli Stati Uniti tacciaprigione.
Tra i vari movimenti di guerriglia no di terrorismo, si finanzia ancora
stranieri, questo gruppo è il preferito grazie alle estorsioni e ai rapimenti
da Castro. Per anni, Cuba ha fatto il (si calcola che i suoi prigionieri siano
possibile per esportare in Colombia il circa 200) e sostiene che vi fanno parte 5.000 persone anche se gli esperti di
suo modello rivoluzionario.
In anni più recenti, l’isola ha assunto eserciti privati ritengono che questa
un ruolo di supporto differente, man sia un’esagerazione.
A volte, dopo aver cenato nella loro
mano che le battaglie con i ribelli paramilitari della destra o con altre or- villa, i guerriglieri passeggiano intorganizzazioni ribelli di sinistra hanno no a un lago che si trova nelle vicinancominciato ad erodere la forza del- ze. Alle volte anche i negoziatori del
governo colombiano, alloggiati nello
l’ELN.
La Colombia, che nei primi anni Ot- stesso complesso, hanno la stessa idea
tanta ha interrotto le relazioni con Cu- e le due delegazioni si incontrano caba a causa del sostegno dato da Castro sualmente. “Ci salutiamo con molta
ai gruppi ribelli, ha cambiato il suo at- cordialità”, dice Beltrán. “Poi ognuno
teggiamento nei confronti del governo va per la sua strada”.
Repubblica NewYork
LUNEDÌ 17 SETTEMBRE 2007
III
MONDO
Proteste e giornalisti tormentano Hamas
di STEVEN ERLANGER
GAZA — Il mese scorso, durante la
prima manifestazione di protesta di Fatah, nel venerdì di preghiera, la polizia
di Hamas ha picchiato alcuni giornalisti palestinesi che cercavano di seguire
l’evento. Alcuni sono stati arrestati e le
loro macchine fotografiche sequestrate:
questo ha scatenato proteste del sindacato dei giornalisti palestinesi di Gaza.
Il giorno dopo, alle 10 di sera, alcuni
agenti della polizia di Hamas sono entrati nel cortile di Saker Abu El Oun, pronti
ad arrestarlo. Abu El Oun, reporter della Agence France Press e capo del sindacato locale, ha chiamato un collega.
“Ho chiamato una giornalista che ha
mandato un sms”, ha detto, “e nel giro
di pochi minuti a casa mia sono arrivati
una settantina tra giornalisti e attivisti
dei diritti umani, impedendo che mi portassero via. I miei figli piangevano. E’
stata una scena bruttissima”.
La polizia, ha raccontato, gli ha detto
“che avevano avuto istruzioni di arrestarmi, e che avendo opposto resistenza sarei stato ritenuto responsabile” di
qualsiasi conseguenza.
Hamas sembra confusa su come
schiacciare le proteste di Fatah e, al
tempo stesso, trattare con la stampa.
Da quando ha conquistato Gaza, a giu-
gno, con una sanguinosa battaglia, tenta
di coltivarsi una fama di onestà e legalità promettendo ai giornalisti libertà di
azione ma la polizia li intimidisce.
Tra le conseguenze di questa situazione, dicono i reporter locali, c’è una sorta
di autocensura che supera quanto è stato
tradizionalmente praticato sotto Fatah
— che pure cercava di fare pressioni,
manipolare o mettere le mani sulla
stampa palestinese.
Il caso di Abu El Oun, 42 anni, è un
esempio. Per lui la crisi è finita quando
un rappresentante del governo di Hamas ed ex giornalista, Taher el-Nounou,
è arrivato a casa sua con un messaggio
di Ismail Haniyeh, ex primo ministro di
Hamas, che diceva alla polizia di andarsene.
Più tardi, parlando a nome del sindacato, Abu El Oun ha discusso dei problemi che i giornalisti devono affrontare.
“Chiediamo la libertà di seguire le proteste”, dice. “Possono impedire le manifestazioni ma non il diritto dei giornalisti
di seguirle. Viviamo in una condizione di
autocensura perché non sappiamo cos’è
permesso e cosa non lo è. Non esiste una
linea di condotta chiara. I giornalisti sono tutti preoccupati, spaventati”.
In un’intervista Mahmoud Zahar, uno
dei leader di Hamas, ha definito Abu el
Oun “cattivo”, accusandolo di “presentarsi come leader di Fatah”, in parte per
il ruolo svolto all’interno del sindacato.
Ma nel 2001, Abu El Oun perse quasi la
vita per le gravi percosse subite, con una
sbarra di ferro, dalla Forza di sicurezza
preventiva guidata da Fatah.
I giornalisti palestinesi descrivono
una situazione confusa, nella quale Hamas, organizzazione fondamentalmente
religiosa poco avvezza alla politica e abituata all’obbedienza, sta sottoponendo a
indebite pressioni tutti i media.
Hamas è coinvolta in una battaglia
politica contro Fatah, e le due fazioni si
servono dei media a loro disposizione
— la televisione ufficiale palestinese e la
radio di Fatah, che conta inoltre media
e giornali propri, e i giornali, la radio e
il canale televisivo, Al Aksa (ispirato
ad Al Minar, diretto da Hezbollah) per
Hamas.
Fatah dice che Hamas è al servizio
dell’Iran; Hamas dice che Fatah è a servizio di Israele e dell’America.
In Cisgiordania, Fatah ha chiuso alcuni mezzi di comunicazione e delle
associazioni di beneficienza affiliate ad
Hamas e ha impedito la circolazione di
giornali sostenuti da Hamas o la diffusione di programmi della televisione di
Hamas. Sei giornalisti di Hamas sono
Hatem Moussa/Associated Press
Hamas cerca di tenere sotto controllo le proteste e i media. A Gaza, alcuni
sostenitori palestinesi di Fatah hanno distrutto un posto di guardia di Hamas.
stati arrestati, dice Nounou, e altri 12
picchiati. Ma qui a Gaza, Hamas ha fatto altrettanto con Fatah e con i mezzi di
comunicazione controllati dall’Autorità
palestinese. Almeno sei di questi sono
stati chiusi.
Da giugno, dice un giornalista, Gaza
vive in una sorta di regime militare e
tutti sono in allerta.
“La gente non è sicura di quali siano i
limiti. Hamas cerca di riassicurarli, ma
la gente ha un po’ paura”, dice. “L’autocensura è più devastante della censura
ufficiale. E, soprattutto per i giornalisti,
l’autocensura è più deprimente e complicata di prima”.
Una legge per cancellare
i Tutankamen del Sol
G L I O RO LO G I T U D O R S O N O D I S P O N I B I L I P R E S S O I R I V E N D I TO R I A U TO R I Z Z AT I RO LE X .
di SIMON ROMERO
CARACAS, Venezuela — Addio ai Tutankamen del Sol. Bye Bye
agli Hengelberth, Maolenin, Kerbert Krishnamerk, Githanjaly,
Yornaichel, Nixon e Yurbiladyberth. Il prolifico e inventivo mondo dei nomi con cui in Venezuela si battezzano i bebè ora potrebbe
tramontare.
Se i funzionari elettorali ce la faranno, un disegno di legge passato recentemente potrebbe impedire ai genitori di dare molti dei
nomi più strani ai figli.
La misura non sarà retroattiva. Impedirà, però, ai genitori di
chiamare i neonati con i 100 nomi elencati in una lista stilata dal
governo, con l’eccezione di indios e stranieri. Il disegno di legge è
stato accolto con scetticismo dall’Assemblea nazionale.
“Vorrei sapere come individueranno questi 100 nomi”, dice
Jhonny Owee Milano Rodríguez, deputato dello Stato di Cojedes.
“Perché non 120, per esempio? Mi sembra arbitrario”.
Milano, che ha 55 anni, spiega che il suo primo nome, Jhonny,
scritto proprio così, fu ispirato dall’ambiente internazionale della città petrolifera nell’Ovest dove è nato. E Owee, dice, doveva
essere Oved, ma fu trascritto erroneamente nel registro delle
nascite.
L’obiettivo del disegno di legge, secondo la bozza in discussione,
è “di preservare l’equilibrio e lo sviluppo integrale dei bambini”,
evitando che i genitori chiamino i neonati con nomi che potrebbero renderli ridicoli e che sono “stravaganti o difficili da pronunciare nella lingua ufficiale”, lo spagnolo.
La proposta mira anche a prevenire che si utilizzino nomi che
possono “creare dubbi” sul sesso di chi li
porta.
Alcuni dei colleghi
di Milano all’Assemblea nazionale, nella
quale i sostenitori
del presidente Hugo
Chávez hanno la maggioranza, sono Iroshima Jennifer Bravo
Quevedo, Earle José
David Rochkind/Polaris, per The New York Times
Herrera Silva e Grace
Da sinistra, Kleiderman Jesús,
Nagarith Lucena RoYureimi Klaymar, Yusneidi Alicia,
sendy. Questi legislaYusmary Shuain, Kleiderson Klarth tori devono approvare il disegno di legge
e Yusmery Sailing Vargas.
prima che possa trasformarsi in una vera
e propria legge.
I nomi stravaganti sono frequenti anche in altri paesi dell’America Latina. In Honduras, secondo El Heralda ci sono dei Ronald
Reagan, delle Transfiguración e Compañía Holandesa. A Panama, quest’anno, i media hanno riportato il tentativo di cambiare
il proprio nome a un Esthewoldo, un Kairovan e un Max Donald.
Nella passione per i nomi stravaganti, però, il Venezuela supera tutti, come dimostra una lista stilata dal romanziere Roberto
Echeto, dove si annoverano degli Haynhect, degli Olmelibey, dei
Yan Karll e degli Udemixon. Alcuni nomi obbligano chiaramente
a una pronuncia inglese, come Kennedy o John Wayne, o russa,
come Pavel o Ilich, e ricordano la Guerra fredda.
I nomi stravaganti suscitano spesso sgomento o ilarità, ma
la questione è diventata politica per la passione del presidente
Chávez di cambiare il nome alle cose, e chi critica questo disegno
di legge sostiene che potrebbe dare più potere al governo sulla
questione dei nomi, in un ambito dove domina il capriccio di genitori.
Non tutti sono contro la proposta. Temutchin del Espíritu Santo
Rojas Fernández, di 25 anni, programmatore di computer, spiega
che il suo primo nome si ispira a Genghis Khan, a volte in inglese
Temujin. E aggiunge di dover frequentemente farlo correggere
nei documenti ufficiali.
In Venezuela, dove serve il nome e il numero del documento di
identità per fare ogni acquisto che richieda una ricevuta, pronunciare e sillabare ogni volta Temutchin del Espíritu Santo è
stancante, dice.
“Questi nomi creano anche dei problemi sociali”, continua.
“Nei rapporti con gli altri, succede spesso che le persone non riescano a pronunciare il mio nome. Mi tocca ripeterlo cinque volte
e sillabarlo più di una”.
CLASSIC
Movimento meccanico a carica automatica. Lunetta
con 62 diamanti. Vetro zaffiro, corona di carica a vite.
Impermeabile fino a 50 m. Cassa in acciaio Ø 39 mm.
Repubblica NewYork
IV
LUNEDÌ 17 SETTEMBRE 2007
MONDO
Vita in famiglia alla russa, risate all’americana
di CLIFFORD J. LEVY
MOSCA — Può darsi che dal Cremino,
negli ultimi tempi, spiri un vento fortemente anti-Usa, ma tutta la Russia va
matta per un genere televisivo squisitamente americano: la sitcom.
Tra gli spettatori, specialmente tra i
più giovani, sta riscuotendo un grande
successo la versione russa di “Married
with Children” (in Italia, “Sposati con
figli”). “Con la sua satira sul ceto medio
americano, si adatta bene allo stile del
nostro canale”, dice Dmitri Troitsky, dirigente di TNT, una rete di proprietà della Gazprom con una programmazione
paragonabile negli Stati Uniti, a quella
della Fox di Rupert Murdoch. “Ci è sembrato interessante e attuale proporre
una parodia del ceto medio russo”.
In questi giorni, i turisti americani che
dovessero recarsi in Russia avrebbero
probabilmente l’impressione di essere
finiti in uno strano regno delle repliche.
Da queste parti stanno riscuotendo molto successo anche gli adattamenti di altri due programmi molto noti: “Who’s
the Boss?” (in Italia, “Casalingo Superpiù”) e “The Nanny” (“La Tata”).
Tutti e tre sono distribuiti dalla Sony
Pictures Television International, che
ha creato gli adattamenti di questi e
altri programmi americani destinati a
tutto il mondo, spesso in collaborazione con i produttori locali. Un portavoce
della Sony, Rod Sato, dice che “The Nanny”, trasmesso qui per la prima volta nel
2004, ha riscosso un tale successo che
una volta terminati gli episodi da copiare, gli sceneggiatori americani sono stati incaricati di crearne altri 25.
“Married with Children”, trasmesso
negli Stati Uniti dal 1987 al 1997, nella
versione russa si chiama “Schastlivy
Vmeste” (“Insieme Felici”). Da Chicago, l’ambientazione è stata trasportata
nella metropoli di Ekaterinburg, nella
Russia centrale. La litigiosa coppia formata da Al e Peg Bundy è diventata quella composta da Gena e Dasha Bukin.
L’obiettivo è lo stesso: fare una parodia della vita familiare del ceto medio,
presentandola nel modo più eccentrico
possibile.
Una scena tipica: in soggiorno, Gena
chiede improvvisamente a Dasha di
spogliarsi. Dasha è felice all’idea che
Gena voglia infine fare sesso con lei, ma
poi Gena dice: “No, Dasha, sto semplicemente morendo di fame e spero che
questo mi farà passare l’appetito”. Natalya Bulgakova, portavoce della TNT,
dice che il programma, che ha debuttato
l’anno scorso, oggi è uno dei più amati
dai giovani tra i 18 e i 30 anni.
La TNT è di proprietà della GazpromMedia, controllata dalla Gazprom, il
gigante energetico russo a sua volta controllato dal governo. Interrogati sul programma televisivo, alla Gazprom-Media hanno rilasciato una dichiarazione
in cui si afferma che la società non interferisce nelle decisioni sulla programmazione assunte dalla sua rete televisiva.
La TV russa ha fatto molta strada
dai tempi in cui offriva soltanto il noioso menù, condito di politica, del Partito
Comunista. Oggi ci sono molti canali che
trasmettono film, commedie, giochi a
quiz, soap opera e reality show.
In Russia le sitcom sono state trasmesse per la prima volta negli anni Novanta,
quando il paese era sull’orlo del collasso
economico, ma sia le sitcom originali che
le copie di quelle americane ottennero
scarso successo. La gente attraversava
un momento difficile e, verosimilmente,
non era dell’umore adatto per ridere della vita di chi stava meglio di loro. I russi,
per i quali era impossibile identificarsi
con i personaggi proposti dalle sitcom,
preferivano le soap opera sudamericane
doppiate in russo.
Soltanto di recente, con la svolta economica, la sitcom ha preso piede.
“Questo, probabilmente, è l’ultimo
genere televisivo da adottare in Rus-
In Russia un
adattamento
della sitcom
americana
“Married with
Children”,
parodia della
vita del ceto
medio, sta
riscuotendo
successo.
TNT Network
sia”, dice Elena Prokhorova, che studia
la televisione russa e che attualmente
è visiting professor presso il College of
William and Mary, in Virginia. Prima
non hanno funzionato, dice, perché “le
sitcom richiedono una vita sociale molto
stabile”.
Sebbene “Married with Children” sia
stato uno shock quando è apparso la prima volta negli Stati Uniti, provocando
addirittura il boicottaggio da parte degli sponsor, vent’anni più tardi la versione russa non ha scatenato una reazione
analoga.
I critici televisivi osservano che, come
in gran parte del mondo, anche qui la te-
levisione ospita molti programmi relativamente triviali.
Daniil B. Dondurei, direttore della rivista Cinema Art, dice di aver trovato un
significato più sinistro nel successo di un
programma come “Schastlivy Vmeste”.
“Oggi la gente si è abituata a non pensare alla propria vita”, dice.
“La televisione li sta addestrando a
non pensare a quale partito ci sia in Parlamento, quali leggi vengono approvate,
chi sarà al potere domani. La gente si è
abituata a vivere come bambini, all’interno di una famiglia con un padre molto
forte e potente. Tutto viene deciso al posto loro’’.
I padri lontani sostengono
l’economia del Kerala
continua dalla prima pagina
Hasan Sarbakhshian/Associated Press
Il governo cerca di avere influenza anche nella sfera personale. Uomini e donne in un caffè di Teheran.
L’ Iran invita alle gioie del sesso, ma non tollera il dissenso
continua dalla prima pagina
nanzitutto sul connubio fra la dottrina
islamica sciita e l’ideologia rivoluzionaria.
I primi tempi alcuni leader tentarono
di stemperare le tradizioni zoroastriche pre-islamiche, ma l’impresa si rivelò ben presto impossibile e fu in gran
parte abbandonata.
Successivamente altri governi hanno
anche cercato di adattarsi alla modernità: tentativi che ogni volta si sono rivelati effimeri.
Il presidente Ali Akbar Hashemi
Rafsanjani aveva tentato di allentare
la presa dello Stato sull’economia; il
suo successore, Mohammad Khatami,
voleva ammorbidire il codice dell’abbigliamento, del comportamento in
pubblico, e concedere la libertà di parola. Queste iniziative sono state tutte
frenate dai leader integralisti, i quali
anziché confidare nel fatto che la Repubblica islamica e le sue istituzioni
sopravvivono già da trent’anni, temono
ancora oggi la fragilità del sistema. E
così il braccio di ferro all’interno della
leadership prosegue.
“Da un presidente all’altro l’orientamento del Paese muta”, dice un illustre
politologo di Teheran, che ha scelto di
restare anonimo a causa del clima di
sospetto prevalente oggi in Iran. “E
questo perché non esiste un consenso
sulla nostra identità di popolo e sui nostri obiettivi. Se ne può facilmente dedurre che l’ordine rivoluzionario ideologico è un’occupazione di élite, non della
massa”.
Per chi è nato dopo la rivoluzione, la
religione è divenuta obbligatoria: non
ha più un carattere rivoluzionario.
Ad esempio, c’era un tempo in cui
indossare l’hijab, il velo islamico, era
considerato un atto di ribellione.
Adesso il velo è d’obbligo e toglierlo
significa sfidare lo Stato.
“I ragazzi che sono nati dopo la rivoluzione sono meno religiosi della generazione precedente”, dice Mohammad
Ali Abtahi, a suo tempo vice presidente
del governo riformista di Khatami. “La
religiosità infatti era una scelta volontaria”.
Per otto anni Abtahi ha affiancato
il presidente Khatami nell’intento di
smorzare la retorica ufficiale, e di concedere qualche libertà sociale in più,
soprattutto come sfogo per i giovani.
Teheran sta combattendo
per mantenere il
controllo sui giovani.
Stando a chi oggi è al governo, gli anni
di Kathami hanno rischiato di destabilizzare il sistema.
Ma Abtahi sorride, e il suo è un sorriso di liberazione, quando si riferisce
alla realtà della natura umana.
“Noi abbiamo lasciato il potere due
anni fa”, dice. “In teoria non si dovrebbero più vedere prostitute in giro, né
abiti trasgressivi, né omosessuali. E
invece in due anni l’attuale governo non
ha vinto la battaglia”.
Funziona di più la carota o il bastone? Abtahi e altri sostenitori del sistema islamico come lui, concordano nel
preferire la strategia della persuasio-
ne, perché la forza, sono convinti, aliena
le persone.
“Succede così in tutti i governi religiosi: alla maggiore pressione non corrisponde una maggiore religiosità del
popolo”, dice Abtahi.
L’Iran non smette di sorprendere.
Per una larga fetta della popolazione,
la vita va avanti, nella ricerca di un
compromesso con le imposizioni che
vengono dall’alto.
Basta fare una passeggiata nella zona nord di Teheran, che è quella più occidentalizzata e meno religiosa di altri
quartieri.
Le donne indossano il velo, ma metà
del capo è scoperto. I giovani hanno i
capelli irti di gel. Tutti segni di ribellione, aspramente criticati dal governo.
Emad Afrough, parlamentare conservatore, invita a leggere nell’attuale
repressione un segno che la Repubblica
islamica è ancora uno Stato in fasce,
che la formula del governo religioso è
un esperimento senza precedenti, e che
perciò non è ancora riuscito a coniugare le esigenze della società e quelle dell’individuo.
A suo giudizio, il governo Khatami
non ha prestato sufficiente attenzione
alla responsabilità dell’individuo nei
confronti della società.
Oggi invece, dice, il presidente Mahmoud Ahmadinejad non bada abbastanza ai diritti individuali.
Le poche eccezioni, come il corso di
educazione sessuale, sono emblematiche di quanto sia difficile trovare quella
via di mezzo che a detta di Afrough è
necessaria.
“Dobbiamo imparare a bilanciare
sia i diritti sia le responsabilità, individuali e sociali”, dice. “E siamo soltanto
all’inizio di questo percorso’’.
sullo sviluppo, un ente di ricerca locale.
“Senza gli emigranti, molti sarebbero
morti per fame. Il ‘modello Kerala’ è
interessante sulla carta, ma in pratica
è irrealizzabile ovunque, a cominciare
da qui”.
Per gli ottimisti, le difficoltà del Paese sono quelle endemiche nel mondo in
via di sviluppo, ma i suoi successi sono
unici. Con un guadagno pro-capite annuo di 675 dollari, rispetto ai 730 dollari
del resto del Paese, il Kerala è uno Stato
povero, perfino per gli standard indiani.
Eppure l’aspettativa di vita è di circa 74
anni: 11 più della media indiana e più
anche dell’Europa (73 anni). Il tasso di
alfabetizzazione, del 91 per cento, non ha
eguali rispetto alla media indiana del 65
per cento, e s’avvicina al 99 per cento di
Stati Uniti ed Europa.
Questi invidiabili risultati scaturiscono, secondo i sostenitori del modello locale, da precise scelte politiche: il Kerala spende il 36 per cento in più nell’istruzione rispetto agli altri Stati indiani e il
46 per cento in più nella sanità. “Che un
intervento del governo possa migliorare la qualità della vita anche in società
molto povere a me pare importante”,
dice Prabhat Patnaik, vicepresidente
del comitato di pianificazione statale.
L’esperienza del Kerala, aggiunge, dimostra che “la qualità della vita non è
da mettere in relazione unicamente al
tasso di crescita dell’economia”.
“Se si traccia un paragone con qualsiasi altro luogo del mondo in via di sviluppo, i risultati sono notevoli”, concorda
Richard Franke, antropologo all’Università statale Montclair del New Jersey. “I bambini sopravvivono al primo
anno di vita, maschi e femmine godono
di più o meno eguali opportunità nella vita, ricevono un’istruzione e vivono a lungo”. In conclusione: “Il modello Kerala
con o senza emigrazione è una conquista
importante”.
La cultura locale mirata sull’investimento umano ha almeno due secoli di
vita; deve molto ai primi missionari e ai
maharajah che diedero grande peso alla
scuola. All’inizio del XX secolo, i keraliani più istruiti emigravano nel resto del
Paese: assunti come impiegati a Delhi e
a Bombay, mandavano a casa i loro guadagni. Negli anni il Kerala si è meritato
la fama di un luogo difficile per gli affari,
gravato da pesanti normative, sindacati
militanti e scioperi frequenti. Il governo
è il primo datore di lavoro. Proliferano le
piccole imprese, soprattutto botteghe di
tè e negozietti.
Negli Anni Ottanta il numero degli
emigranti oltreoceano è raddoppiato, ed
è triplicato nei Novanta.
In uno Stato di 32 milioni di abitanti,
con una disoccupazione vicina al 20 per
cento, un lavoratore su sei si guadagna il
pane oltreoceano.
La maggior parte è occupata nell’edilizia in Arabia, benché l’alto tasso di alfabetizzazione serva a ottenere in certi
casi anche un impiego in ufficio.
Senza le rimesse dall’estero, ribattono
i detrattori, il miracolo del Kerala sarebbe insostenibile. I cinque miliardi di dollari inviati a casa dai keraliani aumentano del 25 per cento il gettito economico
dello Stato.
Ma fra gli scotti da pagare ce n’è uno,
dolorosissimo: l’alto tasso di suicidi, il
quadruplo della media nazionale. Ad
esempio, la famiglia di Shirley Justus,
45 anni, una mamma che fatica, come
tante altre, a crescere da sola tre figlie
mentre il marito fa l’autista di camion a
Muscat e Dubai. L’anno scorso la figlia
maggiore Suji, finito il liceo, considerava
due sbocchi diversi agli studi: il primo
in Inghilterra, il secondo a Mumbai. La
madre glielo ha negato. La figlia ha obbedito, mesta, poi si è impiccata. “Se mio
marito fosse stato qui, questo non sarebbe successo”, dice la signora Justus nel
salotto di casa trasformato in un sacrario in onore della figlia. “Lui avrebbe
trovato una soluzione”.
Con quasi un quarto delle rimesse
INDIA
Mar
Arabico
Golfo
del
Bengala
KERALA
Trivandrum
SRI
LANKA
CINA
PAK.
Nuova
Delhi
Mumbai
INDIA
Area
ingrandita
Oceano
Indiano
Km
160
The New York Times
Le rimesse dall’estero sono il 25
per cento dell’economia del Kerala.
degli emigrati investito nell’istruzione,
certi keraliani finiscono per trovarsi in
un circolo vizioso: l’emigrazione consente l’istruzione, che a sua volta produce
ulteriore emigrazione.
I più istruiti, e i più esigenti nella scelta
di un lavoro, hanno maggiori probabilità
di rimanere disoccupati.
Nella famiglia di James John Pereira, cultura e emigrazione si coniugano
da circa un secolo, cioè da quando partì
suo padre a fare il cameriere in una piantagione dello Sri Lanka. Coi suoi guadagni permise al figlio di frequentare una
scuola privata.
Anche Pereira ha lavorato all’estero
come impiegato per 49 anni e così ha
mantenuto agli studi cinque figli, che oggi sono tutti laureati. Eppure tre di loro
sono emigrati all’estero, come il marito
della quarta figlia, Jacqueline, rimasta
da sola ad allevare la figlia di dieci anni.
“Come vede il livello d’istruzione qui è
molto alto”, dice la donna. “Peccato che
il tasso di disoccupazione lo sia ancora
di più”.
Repubblica NewYork
LUNEDÌ 17 SETTEMBRE 2007
V
EC O N O M I A E S O C I E TÀ
In Cina gli operai giovani sono troppo pochi e i salari aumentano
di KEITH BRADSHER
SHENZHEN, Cina — Nella fabbrica di
biciclette Dahon, Zhang Jingming muove le dita in modo veloce e metodico: afferra il sellino, lo avvolge nel cartone, e
lo fissa senza difficoltà al telaio.
Lavorando 45 ore alla settimana guadagna l’equivalente di 263 dollari al mese; fino a febbraio scorso ne prendeva
appena 197. Questo aumento è in parte
un incentivo per aver lavorato in modo
più efficiente. “Quando ho iniziato non
ero così veloce”, dice Zhang. Ma in parte
dipende da aumento reale: da 1,32 centesimi per ogni sellino montato a 1,45.
E’ una piccola differenza, ma indica un
grande cambiamento.
I salari dei cinesi stanno crescendo.
Non esistono cifre attendibili sulla media
degli stipendi. I dati economici forniti dal
governo sono spesso inattendibili. Ma i
proprietari delle fabbriche e gli esperti
che controllano l’andamento del mercato del lavoro sostengono che ci sono difficoltà a reperire bravi operai per lavori
pagati molto meglio. Paghe migliori in
Cina, verosimilmente, comportano prezzi più elevati per l’Occidente: nei centri
commerciali, nei negozi di alimentari,
persino nelle stazioni di servizio.
Le aziende stanno già facendo pagare
ai clienti esteri parte dell’aumento dei
costi. Secondo i dati dello United States
Labor Department, a partire da febbraio
i prezzi delle merci provenienti dalla Cina, dopo anni di diminuzione graduale,
sono aumentati dell’1, 2 per cento.
Le società e gli imprenditori cinesi
stanno facendo pagare alla clientela
estera anche il costo dell’apprezzamento della loro valuta, lo yuan, che negli
ultimi due anni ha guadagnato l’8,8 per
cento sul dollaro.
Per decenni gli economisti hanno pensato che la popolazione cinese avrebbe
fornito un potenziale di manodopera
quasi illimitato. Invece, fin dal 2003, si è
occasionalmente manifestata una penu-
La fabbrica di biciclette
Dahon di Shenzhen, in Cina,
è una delle tante dove gli
operai vengono pagati di più.
Ariana Lindquist per The New York Times
ria di manodopera nelle fabbriche lungo
il delta del fiume delle Perle, nel Sud-est
della Cina.
Oggi, dicono gli esperti, questa carenza si è diffusa anche in molte fabbriche
disseminate lungo la fascia costiera.
I dirigenti si lamentano di essere stati obbligati a concedere aumenti a due
cifre per poter trovare e conservare al
loro posto giovani operai a tutti i livelli di
specializzazione. Tre o quattro anni fa,
dice Zhong Yi, vice direttore di una fabbrica di giubbotti in pelle situata a Hangzhou, nel centro della Cina orientale, un
salario tra gli 800 e i 1000 yuan al mese
(da 105 a 145 dollari) “era considerato
un buono stipendio. Oggi, 1.500 yuan è il
minimo (198 dollari)”.
Dicono, però, che non c’è una scarsità
generalizzata di manodopera, questo
piuttosto è dovuto alla difficoltà di trovare giovani operai disposti ad accettare i
salari bassi degli anni Novanta.
Le fabbriche che si trovano in città
come Guangzhou sono alla ricerca di
giovani operai, mentre gli uffici di collegamento considerano un successo se un
lavoratore sopra i 40 anni riesce a tro-
vare un posto di lavoro in meno di un anno. “Oggi si assumono operai che hanno
intorno ai 30 anni”, dice Johnathan Unger, direttore del Contemporary China
Center alla Australian National University di Canberra, “ma nessuno che abbia
un’età superiore e che pensano che non
sia in grado di accettare condizioni di
lavoro che prevedono 11 ore al giorno”,
i week-end al lavoro e la noiosa vita nei
dormitori di proprietà delle fabbriche.
Il rifiuto dei proprietari di assumere
manodopera che abbia più di 35 o 40 si
scontra in Cina con la realtà demografi-
ca della politica del figlio unico. I lavoratori che hanno tra i 20 e 24 anni si stanno
già riducendo, mentre molti, dopo aver
finito le scuole superiori, preferiscono
andare all’università piuttosto che lavorare. L’International Labor Organization valuta che i lavoratori in questa
fascia d’età continueranno a diminuire
almeno fino al 2020.
E’ impressionante constatare quanto
siano pochi i giovani che restano a vivere nei villaggi dalla regione tropicale del
Gaoya, nell’estremità Sud-orientale, fino
a quella di Houxinqiu, nella zona Nordorientale, dopo che tanti si sono trasferiti nelle città. Secondo l’agenzia giornalistica ufficiale Xinhua, una recente
indagine del governo effettuata su 2.749
villaggi di 17 province e regioni autonome ha evidenziato che nel 74 per cento
dei casi non c’era manodopera adatta ad
andare a lavorare in città lontane.
Questa scarsità di forza lavoro non fa
della Cina un paradiso dei lavoratori. I
salari di chi lavora in fabbrica restano
bassi per i criteri occidentali: circa 1 dollaro all’ora per gli operai pagati meglio,
che vivono nelle zone costiere, in confronto ai 50 centesimi di dieci anni fa.
E i salari sono fermi per la fascia
centrale di lavoratori, quelli che si considerano troppo istruiti per un posto di
lavoro poco qualificato in una fabbrica
di abbigliamento, ma a cui mancano le
competenze o l’esperienza per esigere
altrove uno stipendio più alto.
“E’ facile trovare un lavoro con un
salario basso”, dice Chen Zheng, un operaio metalmeccanico di 24 anni che ha
frequentato le scuole superiori a Ningbo.
“Quello che è difficile è trovare uno stipendio migliore”.
La politica delle ferie flessibili:
vai in vacanza quando vuoi
L’immagine
dei brasiliani
come persone
belle e sane
contribuisce
alla domanda di
cosmetici, molti
sono ricavati
da piante
dell’Amazzonia.
Adriana Zehbrauskas per The New York Times
La risorsa naturale del Brasile si chiama bellezza
di ANDREW DOWNIE
SAN PAOLO, Brasile — La tradizionale attenzione dei brasiliani per la bellezza del corpo — sia che si spendano
fortune in profumi e cosmetici o in cure
snellenti che permettono di indossare
costumi da bagno minuscoli o di spalmare il corpo con il gel per esaltarne le
forme — sta dando i suoi frutti.
Le esportazioni di prodotti cosmetici
continuano a crescere da qualche anno
a questa parte. Nel 2006, il Brasile ha
esportato 484 milioni dollari in cosmetici, prodotti per la cura del corpo e profumi, dice João Carlos Basilio da Silva,
presidente dell’Associazione brasiliana
dei produttori di profumi e cosmetici,
con un incremento dal 2001 del 152 per
cento.
In un mercato che ama la parola “naturale”, anche l’abbondanza di materie prime come oli, frutti ed estratti di
piante è stata determinante per incrementare le vendite.
Secondo l’Agenzia per la ricerca in
agricoltura, Embrapa, l’Amazzonia
brasiliana conta circa 13.000 specie di
piante. Solo una minuscola frazione di
queste, dicono gli esperti, è stata studiata in maniera approfondita e meno
dell’1 per cento è attualmente usato nella produzione dei cosmetici.
I frutti del guaraná, per esempio,
sono conosciuti come stimolanti. Dal
frutto dell’albero del cupuaçu, invece,
si ricava un olio molto idratante. L’açai,
un altro frutto, è ricco di antiossidanti
ed energizzanti. Tutti questi frutti sono
usati per produrre cosmetici.
I dirigenti del settore in Brasile fanno
notare che i prodotti vengono percepiti
come più naturali. “Se si raccoglie una
rosa nell’Amazzonia e una nel centro
della Francia, quella brasiliana sarà
meno inquinata”, dice Eduardo Rauen,
direttore commerciale di Amazonia
Natural, una società le cui esportazioni potrebbero crescere quest’anno tra
Il segreto di un aspetto
attraente e del benessere
si trova in Amazzonia.
il 35 e il 50 per cento. “L’Amazzonia è
più naturale e questo è il nostro punto di
forza”. Alle vendite, dicono alcuni dirigenti, ha contribuito certamente l’immagine dei brasiliani sani e belli.
“Qui associamo la bellezza alla sensualità, al gusto”, dice Artur Grynbaum, vicepresidente esecutivo della
Boticario, la più importante iniziativa
di franchising del mondo nel settore.
Un altro fattore altrettanto importante è la varietà di origini dei brasiliani.
La combinazione di sangue europeo, in-
digeno, africano e giapponese ha creato
una popolazione che ha ogni possibile
sfumatura di pelle, tipo di capelli e forma del corpo. Dovendo soddisfare una
domanda talmente varia, i produttori
di prodotti di bellezza avranno sempre
un prodotto valido indipendentemente
dalla fascia di mercato a cui si punta.
La principale destinazione dei prodotti brasiliani è ancora l’America
latina, che rappresenta il 61 per cento
delle esportazioni del Paese. Tuttavia
sotto la presidenza di Luiz Inácio Lula
da Silva gli orizzonti delle esportazioni si sono allargati e anche paesi come
Russia, Cuba e Angola, si sono rivelati
clienti importanti.
Questo sforzo è stato sostenuto dall’Agenzia per la promozione del commercio e degli investimenti, un organismo creato nel 2003 per individuare
mercati per le merci brasiliane.
Con quest’assistenza, Veronika
Rezzani, per esempio, è riuscita a promuovere la sua linea di prodotti basata
sulla caipirinha, il drink preparato con
acquavite di canna da zucchero e lime.
“L’aiuto dell’Apex è stato determinante per me”, dice la signora Rezzani.
“Mi hanno finanziato la prima partecipazione a una fiera internazionale
a Bologna e se non fosse stato per loro
non avrei mai potuto esser presente.
Aiutano le piccole imprese a partecipare agli eventi internazionali con costi
contenuti”.
di KEN BELSON
giorni liberi quando si voleva, in realtà
SOMERS, New York — E’ il sogno di non si poteva. L’Ibm tende a essere una
tutti i lavoratori: prendersi una vacanza società di veri maniaci del lavoro”.
ogni volta che si desidera, con un preavL’Ibm è con ogni probabilità la più
viso minimo, senza preoccuparsi di un grande società ad aver eliminato del tutrimprovero del capo. Lasciare l’ufficio to il controllo delle ferie, anche se qualpresto, fare un weekend lungo, attaccare che società più piccola e più giovane ha
due settimane di vacanza, come meglio introdotto politiche simili.
ti pare. Vai pure, nessuno tiene conto di
Best Buy, una catena di negozi di eletniente.
tronica, ha introdotto per i quattromila
Questo sta accadendo all’Ibm, una del- dipendenti un programma chiamato
le pietre miliari delle società americane, Results Oriented Work Environment,
nella quale ciascuno dei 355.000 impie- nel quale concede agli impiegati la masgati ha diritto a tre settimane di ferie o sima libertà per svolgere il lavoro senza
più. La società non prende nota di quanto tenere conto delle ore di lavoro quotidiatempo ciascun dipendente si prende per ne. Netflix, che vende dvd online, non asle vacanze o di quando lo fa, non assegna segna più giorni di ferie prestabiliti.
i periodi di ferie a scelta procedendo per
Luis H.Rodriguez,direttore delmarkegrado di anzianità e non consente di ac- ting nel gruppo software dell’Ibm, dice
cumulare i giorni di ferie inutilizzati da di andare in ufficio a Somers, qui a New
un anno all’altro.
Negli ultimi anni, al contrario,
i dipendenti di qualsiasi livello
hanno preso accordi informali
con i loro capi, spinti soprattutto
dalla capacità di fare il proprio
lavoro rispettando le scadenze.
Molti dipendenti inseriscono i
programmi di ferie in calendari elettronici ai quali i colleghi
hanno accesso online, e lasciano
sempre indicazioni specifiche su
come essere contattati nei casi di
Joyce Dopkeen/The New York Times
emergenza. “Ai dipendenti piace
che li rendiamo maggiormente La flessibilità dell’Ibm permette a Luis H.
responsabili”, dice Mark L. Han- Rodriguez di trascorrere più tempo a casa.
ny, vicepresidente dell’Ibm per
le associazioni di commercianti
indipendenti di software.
York, una volta alla settimana e di lavoSull’altro piatto della bilancia della rare il resto del tempo mentre viaggia opflessibilità, quanto meno all’Ibm, c’è la pure nella sua casa di Ridgefield in Conpressione esercitata dei colleghi. I dipen- necticut. Dice che chiamare i colleghi o
denti dicono di controllare frequente- controllare l’e-mail mentre va a trovare i
mente la posta elettronica e le segreterie suoi parenti in Texas o in Illinois è giusto,
telefoniche quando sono in ferie. Spesso i vista la possibilità di lavorare da casa e
capi chiedono ai dipendenti di cancella- passare con i suoi figli, Alec di 5 anni ed
re alcuni giorni di ferie per rispettare le Evia di 2, il resto nel tempo.
scadenze di lavoro.
“Godo di un’incredibile flessibilità che
Frances Schneider, che l’anno scorso mi è stata concessa dall’Ibm ma si tratta
dopo 34 anni di lavoro è andata in pensio- di un’arma a doppio taglio. In effetti le
ne dalla divisione vendite, ha detto che tabelle di marcia e le necessità dei sinuna cosa sola non è mai cambiata: non goli sono così strutturate che sul lavoro
c’è stato neppure un anno nel quale sia si ha bisogno di flessibilità”.
riuscita a prendersi l’intero periodo di
Richard Calo, vicepresidente delle referie al quale aveva diritto.
lazioni globali dei dipendenti, dice che la
“Non capitava sette giorni alla setti- flessibilità ha aiutato l’Ibm a competere
mana, ma si finiva sempre col fare ore con società concorrenti del mondo tecnodi straordinario per compensare tutta logico. “È risaputo che non siamo trendy
questa flessibilità, senza quasi render- come Google o Netflix”, dice. “Non si
sene conto”, ha detto. “Anche se si aveva deve essere i più all’avanguardia, ma
la straordinaria libertà di prendere dei neppure i più stacanovisti”.
Repubblica NewYork
VI
LUNEDÌ 17 SETTEMBRE 2007
SCIENZA E TECNOLOGIA
Le video-telefonate entrano in salotto
di JOHN BIGGS
Qualche anno fa il telefono era l’unico
strumento per contattare rapidamente
parenti lontani. Di loro ci arrivava solo
la voce, e poco importava se il nonno era
ancora in vestaglia e pantofole. Ma adesso che abbinare immagini video alle telefonate è facile e costa poco, il nonno
potrebbe aver bisogno di una squadra di
guardarobieri.
Molti novizi del video conversano on line con i parenti grazie a un pc e qualche
prodotto disponibile nei negozi. Le videoconferenze da casa, un tempo limitate
all’ambito del lavoro, hanno raggiunto
oggi livelli sofisticati e, in molti casi, sono gratuite.
Se in casa vivono dei ragazzi, per iniziare una videoconferenza forse non bisognerà andare troppo lontano: la Xbox
360 della Microsoft permette di fare
videoconferenze gratuite con la telecamera Xbox Live Vision - che richiede
un account “Gold” a XboxLive, oltre a
costringere a interrompere l’ennesimo
videogame per farsi una bella video-
Nuove tecnologie mettono
gli utenti in collegamento
attraverso il mondo.
chiacchierata con i cugini.
Tutti i servizi di videoconferenza assicurano in qualche modo la privacy delle
chiamate, in modo che non siano accessibili a chiunque.
Per iniziare una videconferenza con
un pc, il modo più semplice è usare un
servizio come Skype (skype.com) o Aol
Instant Messenger (aim.com) e un paio
di webcam.
Il programma iChat – di cui sono muniti tutti i computer Apple – si collega via
voce o video a altri pc attraverso la rete
Aim. Sia Skype che Aim permettono collegamenti video abbastanza scorrevoli
tra due o più parenti.
Tutta la famiglia Sigur, di Bruxelles – Brandon, Sylwia e Adrian e il loro
bambino di 3 anni – parla con i genitori di
Brandon, che vivono ad Albuquerque, in
New Mexico, attraverso Skype e il ser-
vizio di messaging della Microsoft, un
tempo conosciuto come Msn messenger
e oggi chiamato Windows Live Messenger.
“Parliamo almeno un’ora ogni settimana e possono vedere Adrian che salta
per la stanza, suona la chitarra e mostra
le sue creazioni Lego”, dice Brandon.
“Per chiamare non usiamo più il telefono. Il solo fatto di sapere che possiamo
vederci ogni volta che lo desideriamo ci
ha fatto dimenticare la distanza che ci
separa”.
I servizi permettono chiacchierate
via video tra Macs e Pc, e generalmente richiedono una connessione veloce
a Internet. Skype, ad esempio, per le
chiamate vocali richiede una velocità
di connessione di almeno 33,6 kilobit al
secondo (kbps) - ma Vincent Oberle, un
ingegnere di Skype, suggerisce almeno
128 kbps per le chiamate video, e considera 256 kbps la velocità ideale.
Solitamente la connessione veloce e
la qualità del video di questi servizi seguono il criterio “vince il peggiore”, nel
senso che una conversazione tra una
persona che ha una connessione Internet
veloce e una che ne ha una lenta o congestionata procede alla velocità inferiore, riducendo il numero di fotogrammi
al secondo. Durante le chiamate video
l’ultima versione di Skype per Windows
e altri servizi chat mostrano un indicatore della velocità di trasmissione.
Stephanie Cottrell Bryant, che scrive di tecnologia ed è l’autrice di Videoblogging per dummies, suggerisce di
procurarsi un laptop con videocamera
incorporata.
Per chi desidera portare le conversazioni tra parenti a nuovi livelli, esistono
degli strumenti online che permettono
di diffondere spettacoli dal vivo con più
partecipanti. Uno dei più semplici siti di
videotrasmissioni è Operator11 (operator11.com), che permette di creare spettacoli dal vivo che vengono poi registrati
e possono essere rivisti on line. E’ una
sorta di sala-riunioni on line, con tanto
di video e audio.
Ustream.tv è un altro sistema di trasmissione che permette lo streaming di
video dal vivo con una webcam. Chiunque può crearsi un account e trasmettere tutto il giorno.
Il fondatore di Ustream, John Ham, dice che sul sito appaiono sempre più frequentemente video di famiglie. “Quando
Jim Haynes
non riescono a essere insieme fisicamente, comunicano con Upstream”,
dice. “Su Upstream abbiamo visto matrimoni, feste di compleanno e lauree”.
BlogTV.com è un sito di streaming
che permette a due persone di parlare
su finestre separate - come accade nelle
interviste televisive. Una chat room di
testo aggiunge un po’ di interattività e
permette ai comunicanti di rivolgersi
domande e scambiarsi commenti nel
corso della conversazione.
Se questi strumenti e servizi sostituiranno le chiamate da casa o la perio-
dica letterina alla famiglia non è dato
sapere. Ma un mondo aperto al video
potrebbe richiedere una qualche preparazione. Magari delle lezioni di recitazione e di trucco – e forse sarebbe bene
indossare qualcosa, prima di rispondere al telefono.
Televisioni come opere d’arte
dentro la cornice per arredare
Illustrazione The New York Times
L’ azione è troppo veloce e la tv fatica a seguirla
di JOE HUTSKO
Accomodandosi di fronte a una tv
ad alta definizione sintonizzata su un
documentario trasmesso in HD (alta
definizione), la reazione è quasi sempre la stessa: meraviglia. Se invece si
segue uno sport o si è appassionati di
videogiochi, la stessa tv provoca una
reazione completamente differente:
lo schermo sembra non riuscire a star
dietro all’azione. I movimenti rapidi
creano una sfocatura indistinta, quella
che l’industria del settore chiama “ghosting”, ovvero l’insufficiente capacità
dello schermo di rinnovare l’immagine.
Gli spettatori a cui interessa l’azione
devono prestare attenzione sia a come
vengono elaborate le immagini veloci
sia alle dimensioni dello schermo.
Ora che il prezzo dei grandi televisori
ad alta definizione continua a scendere,
sempre più persone sostituiscono le tv
a tubo catodico con quelle piatte al plasma o a cristalli liquidi. “I prezzi degli
apparecchi piatti si sono già abbassati
del 25 per cento quest’anno e continueranno a scendere per tutta la stagione
delle feste”, ha detto James L. McQuivey, analista di mercato della Forrester
Research. “I grandi negozi specializzati ormai hanno in catalogo solo pochi televisori non ad alta definizione”.
La penuria di apparecchi televisivi
con tubo catodico è una sfortunagli appassionati di sport. Queste televisioni
ad alta definizione riproducono meglio
le immagini e hanno un tempo di risposta più veloce.
Matthew Jones, 29 anni, assistente di
informatica al Somerset Community
College, in Kentucky, ha scoperto i vantaggi della tecnologia della passata generazione quando ha acquistato un apparecchio Sony XBR da 76 centimetri.
Da appassionato di videogiochi ha detto: “La qualità dell’immagine è ottima
e non ho riscontrato alcun problema per
quello che riguarda i tempi di reazione.
L’unico difetto? Pesa quasi 90 chili”.
In effetti, quanto più aumentano le
dimensioni dello schermo, tanto più
aumentano profondità e peso. Poiché è
difficile trovare tv con tubo catodico ad
alta definizione e uno schermo grande,
la scelta si riduce a trovare l’apparecchio a schermo piatto che sfoca meno
possibile.
Alcuni produttori vendono televisori
che definiscono adatti alle console dei
videogame. Sharp, ad esempio, offre
due apparecchi concepiti appositamente per i videogiochi che si distinguono
per il “Vyper Drive”, che Tony Flavia,
senior product manager dell’azienda,
dice che è stato messo a punto “per ridurre a un livello impercettibile il tempo di reazione tra l’imput della console
e l’immagine sullo schermo”.
David Carnoy, direttore esecutivo di
Cnet.com che recensisce televisori, di-
ce invece che i
produttori usano definizioni
di questo tipo per confutare l’idea che gli apparecchi televisivi
a cristalli liquidi non siano buoni per
giocare.
I patiti della console e gli appassionati di sport sono solleciti nell’adottare
le nuove tecnologie televisive, quindi
i produttori cercano di soddisfarli.
“Migliorare la fluidità del movimento
per le scene d’azione e gli sport è stato
l’obiettivo primario dei produttori di
televisori quest’anno”, ha detto Ross
Rubin, che segue i trend tecnologici dei
consumatori per l’Npd Group. “Toshiba, Philips, Sony, Samsung e altri costruttori hanno usato tecnologie che offrono refresh rate di 120 hertz, una bella differenza rispetto ai precedenti 60
hertz, soprattutto quando si collocano i
due modelli fianco a fianco”. Carnoy, di
Cnet, concorda: “La maggior parte dei
produttori di televisori a cristalli liquidi
sta iniziando a distribuire televisori ad
alta definizione con refresh rate di 120
hertz che garantiscono tempi di reazione di 4 millisecondi”. E aggiunge: “Chi
ama giocare, chi è appassionato di film
ed esige da un apparecchio a cristalli
liquidi l’immagine migliore e un’ottima performance è disposto a spendere
qualcosa di più per avere il meglio del
meglio”.
di ANNE EISENBERG
zione di un modello disegnato dall’architetto Stanford White.
Un televisore a schermo piatto appeso
Adesso, quando i suoi ospiti guardaal muro piace a molti: quando è acceso,
no la cornice dorata e il suo contenuto
però. Per tutti quelli che vorrebbero che
azzurro, spesso non si accorgono che
la tv sparisse quando non la guardano, lo
quello è un televisore. Pensano che sia
schermo spento è un pugno nell’occhio.
un’opera d’arte contemporanea, dice
Per questi consumatori ora ora c’è
Douglass. “Mi chiedono: ‘Di chi è queuna via d’uscita: il mercato offre un mosto dipinto?’”.
do estetico per camuffare quell’enorme
Le cornici di Wilmer, che ha fra i suoi
schermo al plasma o a cristalli liquidi,
clienti anche il Metropolitan Museum e
riuscendo magari a migliorare l’arredala Casa Bianca, costano molto. “Per un
mento della stanza.
I produttori di cornici per specchi e dipinti
stanno creando modelli
per televisori a muro. Le
cornici artistiche, che in
molti casi sono riproduzioni dei classici modelli
dorati, possono ingannare chi guarda, inducendolo a pensare che non si
trova di fronte a un televisore spento ma a uno
specchio antico fumé, o
addirittura a un’opera di
arte contemporanea. Donald J. Douglass può confermarlo: presidente del
consiglio d’amministraAlan S. Orling per The New York Times
zione dell’Alamo Group,
una società che produce Donald J. Douglass dice che molti ospiti ora
tosaerba e altre attrezza- scambiano la sua tv per un’opera d’arte.
ture, è un collezionista di
quadri degli impressionitelevisore da 50 pollici”, dice lo stesso
sti americani e più in generale di opere
Wilner, “puoi spendere 85.000 dollari
d’arte, in parte esposte nella sua casa di
per una cornice d’epoca e 30.000 per una
New Canaan, nel Connecticut.
riproduzione”. (Una selezione delle sue
In una stanza c’è un dipinto a olio di
cornici è pubblicata sul sito www.eliwilJohn Singer Sargent e un televisore a
ner.com)
schermo piatto montato sul muro. L’eletEdward C. Balfour, comproprietario
trodomestico, sostiene Douglass, si intedella galleria newyorchese Balfour &
gra bene nella stanza, soprattutto perBankston, dice che le cornici per tv hanché ha chiesto a Eli Wilner, un commerno un successo assicurato. “La gente imciante di cornici antiche e riproduzioni
piega un mucchio di tempo per arredare
di New York, di realizzare una cornice
la sua casa”, dice. “Ma un televisore può
che lo facesse notare meno.
alterare la percezione di una abitazione.
Wilner ha deciso di inserire il televisoLa cornice elimina almeno in parte quere, che quando è spento ha uno schermo
sto effetto”.
blu cielo, in una cornice dorata, riprodu-
Repubblica NewYork
LUNEDÌ 17 SETTEMBRE 2007
VII
A L I M E N TA Z I O N E
Sbronze memorabili
nei ristoranti di classe
di FRANK BRUNI
NEW YORK — Il Bordeaux scorreva a fiumi e il foie gras abbondava:
nel ristorante Daniel, buogustai d’alto
bordo si stavano divertendo in grande
stile quando, all’improvviso, tutti gli
sguardi si voltarono in direzione di un
tavolo contro il muro, e la conversazione cessò.
Persino Jean-Luc Le Dû, il sommelier del ristorante, si girò. E vide una
donna che si atteggiava a ballerina di
un locale di spogliarelli.
Se ne stava in piedi, davanti alla sala. Per prima cosa, a quanto ricorda Le
Dû, si tolse un gilet o una giacca. Poi
passò alla camicetta, e proprio quando
era sul punto di togliersi il reggiseno
venne raggiunta dal direttore di sala,
che pose fine al suo barcollante, ebbro
exploit da spogliarellista. E alla sua
cena.
La donna e il suo accompagnatore,
un uomo sorridente e anche lui sbronzo
che pare l’avesse incoraggiata, furono
accompagnati alla porta.
“Non era esattamente carina, o gio-
Storie di comportamenti
troppo disinibiti nei
locali più esclusivi.
vane, per questo disturbava”, si è lamentato Le Dû, che da diversi anni ha
lasciato Daniel e oggi è proprietario di
un’enoteca.
“Fosse stata bella, forse sarebbe
stato diverso, la gente avrebbe potuto
incoraggiarla”.
In un tempio da quattro stelle, così
come in un locale che di stelle non ne
ha nessuna, ci sono clienti che bevono troppo. Davvero, davvero troppo.
E quando lo fanno, assumono tutti i
comportamenti esuberanti, scatenati
e umilianti del caso, in luoghi dove proprio non è il caso.
La sbornia costa di più, ma i sintomi
sono gli stessi: è sciatta e — come dire
— stomachevole.
“Al limite se si ha un bel conto in banca è più facile ignorare i normali livelli
di decoro, perché non ci sono conseguenze”, dice Rocky Cirino, direttore
del ristorante Cru, che prima lavorava
da Daniel.
Joseph Bastianich, tra i maggiori
proprietari di ristoranti italiani di
Manhattan (che ha, tra gli altri, Del
Posto, Babbo e Felidia), ha il tono di voce annoiato e distaccato di chi afferma
una cosa ovvia: “Accade di continuo”,
dice a proposito dei clienti che non riescono a tenere sotto controllo la propria cena.
Persino fuori dalla privacy dei bagni? “Oh sì. Nella sala da pranzo, sul
tavolo, sui commensali”, dice Bastianich.
Altre scene sono forse più divertenti,
come l’episodio piuttosto noto accaduto
al Four Seasons nel tardo pomeriggio
di molti anni fa, quando alla fine di un
lungo pasto tre donne sulla ventina —
prima ben vestite, poi svestite — decisero che la piscina di marmo al centro
della sala da pranzo principale fosse il
luogo ideale per svagarsi, dice Julian
Niccolini, uno dei proprietari del ristorante. Così vi si lanciarono, indossando
nient’altro che le mutandine.
Cosa le abbia spinte, dice Niccolini:
“Non voglio usare il termine ubriache.
Erano allegre, erano eccitate”.
Tutti gli chef, sommelier, direttori
e camerieri dei migliori ristoranti di
New York hanno storie piccanti da raccontare che attribuiscono alla perdita
di inibizione dovuta all’ebrezza.
Da Bouley un uomo e una donna si
sono chiusi in un bagno, costringendo
il personale del ristorante a trattenersi
sino alle 2 del mattino. Dai suoni che
emettevano si capiva che non erano
svenuti.
Forse New York si presta a questo
genere di cose più di altre grandi città
d’America. I ristoratori dicono che qui
i clienti bevono spesso più che altrove
perché è più probabile che tornino a casa in taxi o in metropolitana.
Questo non significa che città come
Philadelphia non possano competere.
Stando alle notizie di cronaca, al ristorante Le Bec-Fin un cliente sbronzo e
panciuto ingaggiò uno scambio di battute con alcune persone che si erano
raccolte sul marciapiede davanti al
locale per protestare contro il fegato
d’oca.
L’uomo si mise a saltellare su e giù, il
che pare abbia causato molti tremolii e
tante risate. “Guardate cosa mi è successo mangiando il fegato d’oca!”.
Poi entrò nel ristorante, dove si abbassò i pantaloni spingendosi contro
una porta a vetri, in modo da farsi vedere dai manifestanti.
L’ essenza
di ogni cosa,
goccia a goccia
Fotografie di Peter DaSilva per The New York Times
I ricercatori stanno mettendo a punto rivestimenti invisibili e insapori capaci di uccidere i microrganismi nocivi.
La ricercatrice Tara McHugh usa una pellicola di zenzero e carota come rivestimento per un sushi.
di KIM SEVERSON
di HAROLD McGEE
Molte idee che nascono nelle cucine dei ristoranti non tornano granché
utili a chi cucina a casa propria e non
dispone degli strumenti adeguati e di
ettari di banconi da lavoro. Alcune,
tuttavia, sono semplici e flessibili per
chiunque voglia cimentarsi. E, nel caso
di una semplice tecnica chiamata “filtraggio della gelatina”, arriverebbero
lentamente a tutti. Il filtraggio della
gelatina è un sistema che consente di
ottenere liquidi cristallini e brillanti,
intensamente profumati per carni,
frutta, verdure, formaggi, pane, e qualsiasi altra combinazione possibile.
Perché uno dovrebbe voler preparare una cosa simile? Provate a pensare
a questi liquidi come essenze, semplici
fragranze senza fibre, polpa, grassi,
senza niente di niente. Si tratta solo di
sapori in forma liquida, forse con un
tocco appena di colore, al pari di un
classico consommè di carne. In effetti
gli chef chiamano queste essenze “consommè” e le adoperano spesso come
brodi o salse. Oltretutto possono anche
rivelarsi straordinariamente sorprendenti, in quanto il loro aspetto spesso
non lascia presagire il piacevole sapore che conferiranno al palato.
Un consommè tradizionale è reso
trasparente e cristallino mescolando
e schiumando via degli albumi sbattuti a neve che intrappolano le particelle
solide. Questa nuova tecnica, invece,
si affida alla gelatina. Il processo, che
dura due o tre giorni, è semplice. Prima si prepara una spremuta o un brodo
insaporito e lo si filtra per rimuoverne
qualsiasi particella. Poi si dissolve nel
Le superpellicole
per i cibi del futuro
Scott Menchin
liquido la gelatina, poca, una frazione
minima di quella che si userebbe per
preparare un dessert.
Si congela il composto per una notte,
lo si sistema quando è ancora congelato
in un colino con un filtro sopra una ciotola e lo si lascia scongelare in frigorifero
lentamente, per un giorno o due. Poco
alla volta il liquido riempie la ciotola:
quello è il consommè. Di sicuro è ingegnoso: quando la gelatina congela,
l’acqua contenuta inizia a formare dei
cristalli solidi di ghiaccio, mentre la gelatina, le particelle di cibo, le goccioline
di grasso e gli aromi si concentrano nel
liquido restante. Il blog “Ideas in Food”
(ideasinfood.typepad.com), scritto da
due chef, H. Alexander Talbot e Aki
Kamozawa, è pieno zeppo di consigli,
come quelli per preparare consommè al parmigiano, al roquefort, al foie
gras, all’olio di oliva, alla banana con
il caramello, alla salsina “ranch”, al
burro di noci pecan, al coreano kimchi,
al pane tedesco e alla patata arrosto.
“Sono meravigliosi con i frutti di mare e gli asparagi, o con qualsiasi altra
cosa, ogni volta che si desidera l’aroma
di qualcosa senza averne il grasso”, ha
scritto Talbot in una e-mail . “Usiamo i
consommè anche per marinare e brasare. I carciofi cotti nel consommè di
rafano sono straordinari”.
NEW BRUNSWICK, New Jersey
— Lasciamo le varietà tradizionali di
pomodoro ai coltivatori biologici e la
pancetta di maiale agli chef. Nel dipartimento di chimica dell’Università
Rutgers, e in altri laboratori simili, la ricerca si concentra su ingredienti meno
trendy, come l’origano, il carapace del
granchio e il latte.
In una manciata di laboratori di bromatologia (scienza che studia la composizione, le alterazioni e la conservabilità
degli alimenti) sparsi per gli Stati Uniti,
ricercatori che parlano di cibo in termini di microbi e polimeri sono impegnati
a trasformare gli antipatogeni naturali
presenti negli alimenti in pellicole e polveri commestibili.
Se le loro ricerche avranno successo,
potremmo vedere sottili pellicole imbevute di un derivato del timo, capace
di uccidere l’escherichia coli, usate per
imbustare gli spinaci freschi. Lo stesso
materiale, ridotto in polvere, potrebbe
essere spruzzato sulle confezioni di carne
di pollo per impedire la formazione della
salmonella. Le fragole potrebbero essere
immerse in una zuppa a base di proteine
delle uova e gusci di gambero: la pellicola
che ne risulterebbe — invisibile, commestibile e insapore — combatterebbe la
muffa, ucciderebbe gli agenti patogeni
e conserverebbe il frutto maturo più a
lungo.
Per il commensale medio il cibo rivestito di pellicole invisibili che attirano i
microrganismi cattivi in una trappola
mortale è qualcosa alla stregua della
fusione nucleare. Secondo i bromatologi, però, queste ricerche presentano potenzialità straordinarie. “Oggi si fa un
gran parlare di pellicole naturali”, dice
Michael Chikindas, uno dei bromatologi
che lavorano nel laboratorio della Rutgers. “Il ventaglio di applicazioni è sterminato, dai cibi più delicati alle razioni
dell’esercito e alle missioni spaziali”.
Queste pellicole sono una sorta di involucro di plastica fatto di componenti
commestibili e idrosolubili. Possono
contenere molecole di chiodi di garofano, timo o altri alimenti in grado di impedire la crescita dei batteri nocivi.
Naturalmente una cosa che funziona
in laboratorio non sempre funziona fuori. Dicono gli scienziati che nessun cibo
esistente in commercio usa queste nuove
pellicole e queste polveri antimicrobiche
commestibili. Ma il momento sta per arrivare. Le richieste di brevetto sono già
Con la scienza alimentare
spinaci, fragole e carne di
pollo saranno più sicuri.
state presentate, e diverse grandi aziende, gruppi merceologici e il governo
stanno investendo soldi nelle ricerche.
Ogni volta che c’è un’innovazione nell’industria alimentare è fondamentale
scegliere il momento giusto, sia per i consumatori che per i produttori, per lanciarla, e il momento giusto potrebbe essere
proprio questo. Le notizie di emergenze
sanitarie provocate dal cibo, negli Stati
Uniti, si susseguono a intervalli regolari.
Ad agosto, sono stati ritirati, in 12 Stati,
stock di carotine infettate dal batterio
della shigella. A luglio, 86 marche di salsa chili in barattolo e altri prodotti a base
di carne sono stati ritirati per timore di
un’epidemia di botulino. A giugno i consumatori sono stati invitati a gettare via le
confezioni di uno snack chiamato Veggie
Booty, dopo che in 17 Stati erano stati riscontrati casi di salmonella, per colpa del
condimento (realizzato in Cina).
La maggior parte dei rivestimenti
usati oggi sono a base di glutine, cellulosa, amido e varie proteine approvate
dalla Food and Drug Administration.
Sono presenti sui coni dei gelati e nei cibi
surgelati.
In alcune pizze surgelate, uno strato
di pellicola impedisce all’umidità della
salsa di filtrare nella crosta. Le mele
fresche tagliate a spicchi e altri prodotti
agricoli sono rivestiti con acido ascorbico per non farli diventare marroni.
Molti dolci dall’aria invitante sono
rivestiti con una sostanza che farebbe
storcere il naso, visto che il più delle volte viene ricavata da una specie di acaro
che vive in India e Thailandia.
Un altro componente di questi rivestimenti è l’etanolo, il cui uso è regolamentato dall’Agenzia per la protezione dell’ambiente, dice John Krochta, bromatologo
dell’Università della California di Davis.
Le glasse commestibili di ultima generazione potrebbero rendere superfluo l’uso
dell’etanolo, afferma lo scienziato.
Secondo i ricercatori, usare le pellicole invece dei raggi per uccidere gli agenti
patogeni ha più probabilità di aggirare le
resistenze delle associazioni per la sicurezza alimentare. Nonostante l’entusiasmo degli ambienti scientifici per queste
nuove polveri e pellicole, però, gli stessi
scienziati si affrettano a puntualizzare
che questi prodotti non sono delle panacee. “Questi rivestimenti non possono
supplire a carenze nella fase di coltivazione, di manipolazione, di pulizia e di
lavorazione del prodotto”, dice Krochta.
Repubblica NewYork
VIII
LUNEDÌ 17 SETTEMBRE 2007
ARTI E TENDENZE
“Architectural
Elements II” (2004)
di Alexandre
Arrechea, a sinistra,
e un particolare di
“Tropical Night” di
Christopher Cozier,
dalla mostra “Infinite
Island: Contemporary
Caribbean Art”.
Visioni dell’Eden,
fantasmi di protesta
NEW YORK — Nell’evidente, continuo, sforzo di essere meno Manhattan
possibile, il Brooklyn Museum sta
organizzando una serie di mostre che
l’establishment artistico, con la sua
fissazione per tutto ciò
che è di moda, troverà
certamente poco interessanti. Dopo le mostre
sull’hip-hop, su Star
CRITICA
Wars, e sul femminismo,
D’ARTE
cosa c’è in arrivo? La
mostra Infinite Island: Contemporary
Caribbean Art.
Si tratta di una mostra in grande: 45
artisti, oltre ad un gruppo di designer,
fotografi e architetti provenienti dalla
Repubblica Dominicana. La mostra, organizzata da Tumelo Mosaka, curatore
associato del Brooklyn Museum, sarà
aperta fino al 27 gennaio ed è il frutto di
un lavoro interno, fatto di passione.
E’ anche la prova ulteriore che
Manhattan e l’Europa occidentale
non dettano più legge su quale genere
d’arte sia da vedere. Qui, come altrove,
sempre più spesso, gli artisti locali si
esprimono attraverso le forme d’arte
che sono loro più congeniali. In questa
mostra, esplorare l’identità culturale
altrui sembra un imperativo. Cosa
HOLLAND
COTTER
che non sorprende, se si considera il
prodotto medio che esce da Chelsea, la
fabbrica di artisti di Manhattan: bianco, maschio, ceto medio, nato negli Stati
Uniti e diplomato in una delle quattro o
cinque scuole d’arte che contano. E’ un
operatore del settore che ha ricevuto
una sorta di approvazione preventiva,
come i suoi mercanti d’arte di riferimento, i suoi collezionisti e i suoi critici
che, perlopiù, rientrano tutti nello stesso modello demografico.
Ma se sei un artista proveniente da
uno dei 14 Paesi caraibici rappresentati
in questa mostra, le tue radici potrebbero essere africane, asiatiche oppure
indigene. E molto probabilmente quello
che ti ha plasmato sono storie di colonialismo, schiavitù e sradicamento.
Queste storie, nel presente, possono
influenzare la tua condizione sociale e
le tue prospettive economiche.
Il problema è in che modo questo
genere d’arte possa essere presentato
in modo convincente. Le categorie
tematiche che Mosaka applica alla
mostra — religione, politica, ricordo,
cultura popolare — sono già state usate
miglialia di volte. Sono stereotipi. Come
modelli concettuali vanno ripensati, e
così il modello che alcune forme d’arte
seguono.
Dopo l’arte complessa e sottile che affronta il tema delle razze e della storia,
realizzata da artisti come Kara Walker
e Yinka Shonibare, ora non ha molto
significato appendere alla parete di una
galleria diagrammi che riproducono,
con un bel disegno, navi piene di schiavi. Oppure esporre fotografie dai colori
sgargianti che fissano immagini di vita
vissuta e che devono l’interesse soltanto
Storia d’amore
con le parole
dei Beatles
Israele riscopre il suo porno nazista
di ISABEL KERSHNER
di SYLVIANE GOLD
Quasi tutti quelli che nel 1964 avevano dai 12 ai 30 anni hanno impressa indelebilmente nella memoria la musica
dei Beatles. Con l’uscita del nuovo film
di Julie Taymor, Across the Universe,
molti di quei ricordi riceveranno un altro scossone.
Chiamatelo jukebox musical, rock
opera, o video musicale lungo, sono
tutte definizioni che corrispondono a
metà al film della Taymor, che sostanzialmente non può essere ricondotto ad
alcuna categoria e che mette le canzoni
dei Beatles in bocca, e talvolta in testa,
a personaggi inventati che vivono semplicemente la loro vita. Una studentessa delle superiori, Lucy aspetta che il
suo ragazzo torni dall’addestramento
reclute e canta It Won’t Be Long. Il
fratello Max, studente universitario,
fa baldoria con Jude, un nuovo amico
di Liverpool — chiaro, no — al ritmo di
With a Little Help From My Friends.
Poi Jude conosce Lucy: I’ve Just Seen
a Face.
Quarant’anni dopo l’Estate dell’Amore, la Taymor mette in campo la
musica dei Beatles per fare una carrellata di un periodo storico, raccontare
una storia d’amore e — qui arriva lo
scossone — liberarsi dei profili familiari di quei successi di tanto tempo fa.
Non che non le piacciano così come
sono. “I brani dei Beatles sono perfetti”, dice la regista intervistata nel suo
loft nel centro di Manhattan. “L’arrangiamento è perfetto, l’esecuzione perfetta”. Ecco perché le versioni presenti
nel film devono distaccarsi completamente dagli originali. Così Let It Be
diventa un inno gospel, I Want to Hold
Your Hand si trasforma in una ballata
e I Am the Walrus è il nome di un libro
occupato.
Gran parte delle opere politiche che Mosaka ha scelto
possiedono un tocco leggero
e allusivo. Jennifer Allora
e Guillermo Calzadilla trasformano delle impronte
di scarpa impresse sulla
sabbia in arte di protesta.
Una serie di fotografie di
Quisqueya Henrìquez propone immagini di paradisi
caraibici del folklore turistico accanto ad altre di un
Eden attuale, contaminato
dalle lotte sociali ed economica, senza rendere però
immediatamente evidente il
contrasto.
Una delle finalità dichiarate della mostra è di chiedere
se vi sia un’entità culturale
— o un genere di arte contemporanea — che possa
identificarsi con certezza
come caraibica. E giunge a
dare una risposta, negativa,
attraverso l’esibizione di una
varietà assoluta. Potrebbe
esserci un collegamento
essenziale tra i disegni diaristici di Trinidad Christopher
Cozier, le banane placcate
in platino del portoricano
Miguel Luciano e un video
triste e pieno di suspense del
giovane artista cubano Alex
Hernandez Dueñas. Ma se
c’è, qui non è rilevabile.
Il pezzo forte, tuttavia, è
Magnan Projects, New York; in alto a sinistra, Brooklyn Museum
una scultura di un artista inal cartellino appeso alla parete.
glese di origine caraibica, Hew Locke.
L’opera più bella della mostra è anche
L’opera, intitolata El Dorado, consila più astratta. La fotografia di un uomo ste in un monumentale busto della redalla pelle scura che trasporta una pila
gina Elisabetta II, assemblato usando
di mattoni bianchi che gli nasconde il vi- migliaia di giocattolini da pochi soldi
so, opera dell’artista cubano Alexandre
— armi di plastica dorata, spade, lucerArrechea, potrebbe riferirsi all’ormai
tole e scorpioni di gomma — con una
fatiscente architettura modernista cuspecie di guarnizione di fiori finti che
bana oppure a qualcos’altro. Evitando
le fa da corona e da acconciatura. Che
di rivelare troppo, l’immagine dà al visi tratti di un omaggio o di un insulto, è
sitatore molto materiale con cui tenersi
sensazionale.
Abbot Genser/Revolution Studios
Attori del cast di “Across the Universe”, il film di Julie Taymor che
inserisce 31 brani dei Beatles in una storia degli anni ’60.
scritto da un proto-hippie.
La Taymor, 54 anni, non ha mai avuto scrupoli nel lasciare la sua impronta
sulle opere altrui. Tra i classici analizzati e reinventati dalla regista per il
palcoscenico o per lo schermo si contano il Tito Andronico di Shakespeare, il
Flauto magico di Mozart, e i dipinti di
Frida Kahlo.
Nel suo più noto atto di trasformazione, Il Re Leone, ha fatto della fiaba
animata disneyana una spettacolare
produzione di Broadway.
Ma perché andare in cerca di guai
con i Beatles? “E’ rischioso”, ammette.
“Ciascuno interpreta a modo suo”. Un
analogo tentativo di associare la musica dei Beatles ad una trama, il film Sgt.
Pepper’s Lonely Hearts Club Band del
1978, si rivelò imperfetto.
Tuttavia, quando la regista fu contattata dalla Revolution Studios (casa di
produzione controllata dalla Sony, coproprietaria del catalogo dei Beatles),
l’idea le parve irresistibile. Chiamò al
suo fianco due sperimentati collaboratori, il compositore Elliot Goldenthal
(con il quale convive) e il coreografo
Daniel Ezralow. Ed è riuscita ad avere
Bono, Salma Hayek (protagonista del
film Frida), Joe Cocker e Eddie Izzard
per una serie di cameo.
Nella scelta dei brani da inserire
in Across the Universe, la regista ha
seguito due criteri diversi: “Mi sono
chiesta: ‘Quali sono le mie canzoni
preferite?’ e ‘Quali brani non possono
mancare?’”.
La trama del film ruota attorno a
Max e Lucy, interpretati da Joe Anderson e Evan Rachel Wood. I due ragazzi approdano all’East Villane di New
York e si immergono nel calderone di
sesso, politica e rock ’n’ roll tipico degli
anni ’60.
Ringo Starr, Paul McCartney, Yoko
Ono e Olivia Harrison hanno visto il
film, dice la Taymor, ma la regista era
presente solo alla proiezione organizzata per Paul McCartney. “Non ero mai
stata così tesa in vita mia ”, ricorda. E
aggiunge: “Nella peggiore delle ipotesi
almeno sono riuscita a girare il film e a
sedermi accanto a Paul”.
GERUSALEMME — E’ uno dei piccoli segreti sporchi di Israele. Nei primi
anni ’60, mentre gli israeliani si trovavano per la prima volta esposti, al processo
contro Adolf Eichmann, alle scioccanti
testimonianze dei sopravvissuti dell’Olocausto, una serie di libri pornografici tascabili, gli Stalag, basati su temi
nazisti, diventarono dei bestseller in
tutto il Paese.
Letti in segreto da una generazione
di israeliani adolescenti, spesso figli di
sopravvissuti, gli Stalag erano così chiamati per il nome dei campi di prigionia
della Seconda guerra mondiale dove
erano ambientati.
Raccontavano storie perverse di sadici ufficiali donne delle SS, con tanto di
fruste e stivali, che abusavano di piloti
americani o inglesi. In genere finivano
con la vendetta del protagonista maschile che violentava e uccideva le sue
aguzzine.
Rimasti nascosti per decenni negli
sgabuzzini e nei ripostigli, gli Stalag, miscuglio di nazismo, sesso e violenza, ora
stanno riemergendo, suscitando un rinnovato dibattito sulla rappresentazione
che il Paese ha del nazismo e dell’Olocausto e se questi non siano indebitamente stati mescolati a una sorta di perversione sessuale e di voyeurismo che ha
permeato persino i corsi di studio.
“Mi sono reso conto che le prime immagini dell’Olocausto che ho visto,
crescendo qui, sono state immagini di
donne nude”, dice Ari Libsker, il cui documentario Stalag: Holocaust and Pornography in Israel è stato presentato a
luglio al Jerusalem Film Festival.
“Frequentavamo ancora le elementari”, fa notare. “Ricordo il grande imbarazzo”.
Gli Stalag sono stati praticamente la
sola pornografia disponibile nella società israeliana nei primi anni ’60. Sparirono in fretta tanto quanto in fretta erano
comparsi.
Due anni dopo che la prima edizione
I tascabili pornografici, noti come
Stalag, furono scritti da israeliani.
era andata a ruba dai giornalai intorno
alla stazione centrale dei bus di Tel Aviv,
un tribunale israeliano condannò gli editori per diffusione della pornografia. Il
più famoso Stalag, I Was Colonel Schultz’s Private Bitch, fu giudicato oltre ogni
limite e la polizia cercò di rintracciarne
ogni copia. Gli Stalag andarono al macero.
Fino all’inizio del processo a Eichmann, nel 1961, le voci dell’Olocausto
non si erano sentite quasi per niente in
Israele. In questo documentario, l’editore del primo Stalag, Ezra Narkis, riconosce che fu il processo a dare una spinta
al filone.
Libsker, che ha 35 anni, nipote di alcuni sopravvissuti all’Olocausto, sostiene
che il misto di “orrore, sadismo e pornografia” ha contribuito a perpetuare la
memoria dell’Olocausto nella coscienza
degli israeliani fino al giorno d’oggi.
Repubblica NewYork