L Iran dice s alle gioie del talamo, no al dissenso
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L Iran dice s alle gioie del talamo, no al dissenso
Supplemento al numero odierno de la Repubblica Sped. abb. postale art. 1 legge 46/04 del 27/02/2004 — Roma LUNEDÌ 17 SETTEMBRE 2007 Copyright © 2007 The New York Times E ora la lotta per il trono dell’air guitar di SARAH LYALL OULU, Finlandia — Ripensandoci a mente fredda, forse Guillaume de Tonquédec avrebbe fatto meglio a non cercare di tuffarsi sopra il pubblico, al culmine della sua performance ai Campionati mondiali di air guitar (la disciplina di quelli che imitano, senza avere niente in mano, gli strimpellamenti di un chitarrista). Invece di avvolgerlo in un caldo abbraccio, la folla si è scostata spaventata e de Tonquédec, il campione nazionale francese (nome d’arte: Moche Pitt), ha dato una panciata per terra. Rock on! L’episodio ha rammentato, sempre che fosse necessario, che l’air guitar non è come suonare la chitarra. Non ci sono strumenti, né competenze da acquisire per cimentarsi nella disciplina. E si corrono ottime probabilità di coprirsi di ridicolo, a cominciare da quando, per usare le parole del concorrente britannico, Gabi Matzeu, “un sacco di gente ti dice: ‘Sei uno sfigato. Vatti a comprare una chitarra vera’”. I campionati, nati nell’ambito dell’annuale Festival della musica e del video di Oulu, si svolgono da 12 anni in questa piccola città sulla costa occidentale della Finlandia. Quest’anno hanno preso parte alla fase finale, il 7 settembre, 19 uomini e una donna provenienti da 17 Paesi, tutti impegnati a cercare di dimostrare ai giurati il loro carisma, la loro abilità tecnica e la loro “airness”. “A essere sinceri, airness è un termine americano, e non ho idea di cosa significhi”, dice il concorrente neozelandese, John Gerrand. Sforzandosi di rispondere alla domanda sul perché gli piacesse l’air guitar, un altro concorrente ha detto: “Per me è come una chitarra, solo che è fatta di aria, e quindi non la puoi vedere. Pressappoco è questo”. Petros Stathatos, 16 anni, il concorrente greco, era un neofita nel mondo dell’air guitar agonistico, avendo cominciato solo dopo che un amico lo aveva iscritto al Forgiare l’identità di una famiglia Morteza Nikoubazl/Reuters Le famiglie devono far convivere uno stile di vita moderno e le regole imposte dal governo. Una sposa iraniana aspetta lo sposo. L’ Iran dice sì alle gioie del talamo, no al dissenso di MICHAEL SLACKMAN John McConnico per The New York Times Guillaume de Tonquédec si getta anima e occhiali nell’air guitar. campionato nazionale greco all’ultimo minuto, e lui, non si sa perché, è riuscito a vincere. Wes Roe, il campione australiano, dice che pratica la disciplina “fin da quando ha cominciato a bere birra”, quindi un bel po’ di anni fa, considerando che ora ne ha 30. Il suo nome d’arte è Tommy Air Manuel, omaggio al chitarrista (vero) Tommy Emmanuel, suo connazionale; nell’altra sua vita, Roe lavora nel dipartimento per la sicurezza dei trasporti pubblici. “La gente dice che siamo dei mostri, degli assassini”, dice David Moreno Gil, il concorrente spagnolo, che si presenta sul palco come Moreno del Metal e che per vivere doppia film porno in spagnolo. “Io dico, All you need is air”. I concorrenti suonano le chitarre immaginarie dietro la schiena, incastrate tra le gambe e saltando per aria. Si mettono le mani sul pacco, si leccano le labbra, agitano la lingua verso il pubblico. “Non si tratta di scimmiottare i chitarristi veri”, dice Cedric Devitt, produttore esecutivo del film Air Guitar Nation e concorrente nel corso di una passata edizione. “Il concetto è che la tua imitazione è talmente bella da trascendere in una forma d’arte”. Il campione dello scorso anno, il giapponese Ochi Yosuke, ce l’ha fatta anche stavolta. I 1.100 spettatori accorsi allo spettacolo hanno invece votato come vincitore il concorrente austriaco, Max Heller. Yosuke e Heller hanno vinto delle chitarre. Non che ne avessero bisogno. Un rifugio a Cuba I rivoluzionari vanno sull’isola a rilassarsi e a cercare la pace. MONDO II Visioni caraibiche Una mostra cerca di definire l’arte contemporanea dell’isola. ARTI E TENDENZE VIII TEHERAN — L’insegnante mostra un preservativo verde srotolato a una decina di future spose durante una lezione di pianificazione familiare. Ma il controllo delle nascite è soltanto uno degli argomenti del corso, che viene offerto dal governo ed è obbligatorio per le coppie prossime al matrimonio. L’altro tema riguarda il sesso e il messaggio diffuso dallo Stato è che le donne devono provare piacere tanto quanto gli uomini, i quali devono saper pazientare perché nella donna il piacere ha tempi più lunghi. Questa non è l’immagine dell’Iran che filtra all’estero, fra donne avvolte nel severo chador e religiosi in turbante. Eppure è parte integrante del complesso amalgama politico e sociale della società iraniana, e dell’incessante impegno dello Stato, ormai da trent’anni, nel formare l’identità del popolo. In Iran, la cultura e le tradizioni edonistiche persiane si mescolano e contrastano con la dottrina dell’Islam sciita, nonché con più di una decina di altri retaggi etnici e tribali. L’educazione sessuale non è una novità in questo Paese, ma di recente i contenuti sono stati aggiornati con l’intento di favorire una sessualità appagante nei giovani, e raffor- zare matrimoni e famiglie in un periodo in cui la vita quotidiana è già stressante a sufficienza. L’accento che viene posto dal corso sul piacere sessuale, al di là degli aspetti sanitari, equivale ad ammettere che nella Repubblica islamica qualcosa non va. L’elasticità dimostrata dal governo serve anche a plasmare il comportamento e i costumi della società. Al giorno d’oggi però rappresenta un’eccezione. Infatti l’attuale regime è più noto per l’adozione di una strategia opposta: la richiesta, pressante, che la società e l’individuo si pieghino alla sua definizione di cittadino. In realtà entrambi gli approcci condividono un obiettivo più ampio: salvaguardare la Repubblica islamica riformando l’immagine che la popolazione ha di se stessa. In questo senso torna alla mente il vano tentativo in Unione Sovietica di costruire un’identità nazionale basata sul Nuovo Uomo sovietico. Per riuscirvi ricorsero ai campi giovanili e allo strumento del terrore. Chiunque mettesse in discussione la nuova identità, in quel caso atea, veniva considerato una minaccia per lo Stato. A partire dal 1979, i chierici iraniani hanno tentato di forgiare una nuova identità nazionale fondata in- continua a pagina IV I padri lontani mantengono uno ‘stato modello’ in India di JASON DePARLE TRIVANDRUM, India — Si dice che questa verdeggiante striscia costiera dell’India meridionale sia un buon posto per vivere, se si è poveri. L’aspettativa di vita media nello Stato del Kerala è all’incirca pari a quella dei Paesi occidentali sviluppati, benché il reddito sia di gran lunga inferiore. L’abitudine alla lettura è altrettanto diffusa. Visti gli imponenti investimenti nella sanità e nell’istruzione voluti dai governi di sinistra nella capitale dello Stato, un’intera generazione di studiosi ha esaltato il “modello Kerala” come alternativa umana allo sviluppo regolato dalle leggi del mercato: un progetto di eguaglianza sociale in un mondo capitalista di disuguaglianze. Tuttavia oggi quel modello è sotto accusa, ogni volta che un lavoratore è costretto a emigrare. La vita di Laly Mohan ne è un esempio. Suo marito Ramakrishnan, 39 anni, da quindici lavora nel Golfo: nato in una famiglia povera, dopo due anni di università non aveva visto alcuna prospettiva di lavoro. Facendo l’autista in Qatar, oggi guadagna 375 dollari al mese, circa il quintuplo dello stipendio medio da queste parti, però vede la famiglia una volta l’anno per tre settimane. I guadagni di Mohan hanno assicurato ai suoi gli agi della classe media: cucina nuova e moto fiammante, l’iscrizione a scuola delle due figlie Blessy ed Elsa. Nonostante telefoni a casa ogni giorno, la moglie Laly si “sente molto sola” e le bimbe lo supplicano di tornare a casa. “Vogliono il papà ma anche i soldi”, dice Laly. “Non si possono avere entrambe le cose”. Riflettendo, aggiunge: “Qui la gente istruita è tanta, ma il lavoro poco. E questo è davvero un grande problema”. Piagati dalla disoccupazione cronica, gli abitanti del Kerala emigrano in quantità sempre maggiore: 1,8 milioni, spesso occupati in duri mestieri sotto il sole implacabile del Golfo Persico, pagati un dollaro al- Tyler Hicks/The New York Times Lo stipendio del marito, che lavora in Qatar, ha permesso a Laly Mohan di acquistare un motorino, ma lei si sente sola. l’ora, lontani da casa per anni. Il denaro inviato in patria contribuisce a mantenere un terzo della popolazione. Per questo motivo alcuni studiosi hanno cominciato a riscrivere la storia del Kerala: altro che alternativa al capitalismo, sostengono; quest’angolo tanto citato del mondo in via di sviluppo è tragicamente dipendente da quel sistema. “Le rimesse dal capitalismo globale trainano l’intera economia del Kerala”, dice S. Irudaya Rajan, demografo al Centro per gli studi continua a pagina IV Repubblica NewYork II LUNEDÌ 17 SETTEMBRE 2007 MONDO Imparare lezioni di vita dal deserto dell’Egitto di MICHAEL SLACKMAN IL CAIRO — “L’Egitto è una zona franca per la logica”, dice Amr Shannon, una guida del deserto che accompagna i turisti in alcune delle destinazioni più belle e remote del deserto dell’Egitto. Dopo aver guidato migliaia di turisti per oltre 30 anni facendo provare loro il brivido di questi luoghi unici, Shannon medita di andare in pensione. Avventuriero e filosofo, oggi insegna a una nuova generazione di guide non solo come mostrare le bellezze naturali dell’Egitto ma anche come comportarsi da maestri di vita. Le guide devono sapere quando intervenire e quando rimanere in disparte, così che i visitatori possano sperimentare il silenzio del deserto. “Se ci si aspetta che sia la logica a avere la meglio, la propria intelligenza sarà frustrata almeno 200 volte al giorno”, dice Shannon. L’Egitto è per buona parte desertico, formato al 94 per cento da dune di sabbia e roccia. I suoi 80 milioni di abitanti vivono sul restante 6 per cento di territorio, essenzialmente nella Valle del Nilo. Di norma gli egiziani non amano il deserto, e in pochi cercano sollievo sulle alture del Sinai e nello scenario da altro mon- do del Deserto Bianco, che si estende a occidente. Per molti versi Shannon è un mix unico di Oriente e Occidente. Dice che la sua filosofia di vita è sempre stata “lascia che sia”, una mentalità molto diffusa in Egitto. Ma Shannon presta attenzione ai dettagli e ha un’incredibile etica professionale, valori che, come è risaputo, gli egiziani non sembrano apprezzare. “Quando accompagno i miei clienti”, dice Shannon, “non mi pagano perché mostri loro delle cose. Mi pagano per il loro tempo. Il mio compito è di renderlo quanto migliore possibile”. Shannon ha avuto un’infanzia fortunata. Suo padre, Mohsen, era un generale dell’esercito che aveva avuto il privilegio di frequentare l’accademia militare nello stesso corso di Gamal Abdel Nasser, che sarebbe diventato presidente. Anche se il suo cognome può sembrare irlandese, Shannon dice di essere egiziano al 100 per cento e di essere entrato in contatto con il deserto per la prima volta a dieci anni, quando suo padre iniziò a portarlo a fare delle escursioni durante il fine settimana. Shannon ha 59 anni, si è sposato sei anni fa e da allora lui e sua moglie Maria si spingono nel deserto “Gli uomini affrontano situazioni difficili e pericolose continuamente, ma non imparano mai”. AMR SHANNON Guida del deserto egiziano Shawn Baldwin per The New York Times a bordo di due Jeep Cherokee gemelle. Una volta rimase bloccato quattro giorni nel deserto, era convinto che vi sarebbe morto insieme a suo cugino. I due invece sopravvissero senza bere niente altro che la loro urina e grazie alla determinazione a non perdere la calma. Era il 1989 e Shannon stava prendendo parte a un rally nel deserto. Quando il suo mez- zo a quattro ruote si ruppe, accese un segnalatore di emergenza, immaginando che di lì a poco sarebbe stato soccorso insieme al cugino. Erano rimasti senza acqua – avendo preso la decisione sbagliata di versare l’ultimo goccio di acqua potabile che avevano nel radiatore dell’auto – e avevano dato per scontato di raggiungere presto il traguardo. Ma gli organizzatori della corsa non arrivarono a salvarli: fu soltanto quando lo zio di Shannon, governatore della regione di Suez, chiamò l’esercito che furono tratti in salvo. “Gli eventi non cambiano le persone”, dice Shannon, “ma tirano fuori ciò che già c’è dentro di loro. Gli uomini affrontano situazioni difficili e pericolose continuamente, ma non imparano mai”. Ma allora, che cosa gli insegnò quell’esperienza? “Ce ne stemmo calmi, molto calmi. Forse basandoci sulla convinzione che niente avesse davvero importanza”. Nel deserto nulla ha importanza e allo stesso tempo tutto è importante. Il denaro non ha alcun significato. In quei quattro giorni, ricorda Shannon, vide migliaia di banconote egiziane volar via dall’automobile e sparire nel vento del deserto. In simili circostanze, le decisioni sbagliate possono portare alla morte. Questo ha imparato: che è il viaggio a essere importante non la destinazione. Shannon dice che la cosa più importante da portare nel deserto è l’atteggiamento giusto. Prima di tutto, accettare l’Egitto per quello che è. E poi il “lascia che sia”, un insegnamento che si può applicare al deserto come alla vita di un uomo che in passato prima desiderò essere militare, poi artista, e di fatto ha finito col fare la guida nel deserto. “La gente vuole andare dal Punto A al Punto B”, dice Shannon. “Ma talvolta il destino riserva un itinerario diverso”. Nemici giurati a Bogotà negoziano la pace a Cuba Il Congo sta cercando di rinnovare il suo sistema ferroviario decrepito. Commercianti caricano dei beni su un vagone. Lionel Healing per The New York Times DIARIO DAL COLOMB EXPRESS Il Congo visto dal treno: ressa, sporcizia e pericoli di WILL CONNORS A BORDO DEL COLOMB EXPRESS, Congo — Il treno vibra e sobbalza, sballottando Mwepu Miesha. Con una mano si ripara gli occhi dal sole e dal vento, e con l’altra tiene strette le sue stampelle, usando equilibrio e fortuna per non farsi sbalzare dal vagone. Miesha, colpito dalla poliomielite durante l’infanzia, sta seduto, insieme ad altri 20, sul tetto del treno. Il vagone merci su cui sta appollaiato è pieno di gente, Direttore responsabile: Ezio Mauro Vicedirettori: Mauro Bene, Gregorio Botta, Dario Cresto-Dina Massimo Giannini, Angelo Rinaldi Caporedattore centrale: Angelo Aquaro Caporedattore vicario: Fabio Bogo Gruppo Editoriale l’Espresso S.p.A. • Presidente onorario: Carlo Caracciolo Presidente: Carlo De Benedetti Consigliere delegato: Marco Benedetto Divisione la Repubblica via Cristoforo Colombo 90 - 00147 Roma Direttore generale: Carlo Ottino Responsabile trattamento dati (d. lgs. 30/6/2003 n. 196): Ezio Mauro Reg. Trib. di Roma n. 16064 del 13/10/1975 Tipografia: Rotocolor, v. C. Colombo 90 RM Stampa: Rotocolor, v. C. Cavallari 186/192 Roma; Sage, v. N. Sauro 15 - Paderno Dugnano MI ; Finegil Editoriale c/o Citem Soc. Coop. arl, v. G.F. Lucchini - Mantova Pubblicità: A. Manzoni & C., via Nervesa 21 - Milano - 02.57494801 • Supplemento a cura di:Paola Coppola, Francesco Malgaroli, Raffaella Menichini • Traduzioni: Emilia Benghi, Anna Bissanti, Antonella Cesarini, Fabio Galimberti, Guiomar Parada, Marzia Porta e anche se potesse permettersi un posto nel vagone passeggeri, è già tutto occupato. “Questo è il Congo”, dice Miesha alzando le spalle. “Che ci posso fare?”. In ampi settori del Paese, che è grande quanto l’Europa Occidentale, le strade sono invalicabili o inesistenti, i battelli fluviali non viaggiano più e il trasporto aereo ha costi proibitivi: a molti non resta altra scelta che affidarsi a una rete ferroviaria sempre più pericolosa. Dopo aver celebrato le prime elezioni democratiche da quasi 50 anni, e mentre cerca faticosamente di emergere dalla guerra civile, il Paese centrafricano sta cercando di rimettere in sesto la sua rete ferroviaria. La strada da fare è ancora tanta. Il 1° agosto, un treno merci è deragliato, uccidendo più di 100 persone. Incidenti che diventano più frequenti man mano che i mezzi invecchiano. Costruita dai belgi nel 1902 per trasportare minerali come il rame fino all’Atlantico, la rete ferroviaria congolese, un tempo efficiente, si è deteriorata al punto che deragliamenti e rotture dei freni sono ricorrenti. “La rete ferroviaria è grande e costosa; soffre di carenza di investimenti, ha un mucchio di problemi e ha bisogno di soldi per essere rimessa in sesto”, dice Arno Hart, consulente che ha lavorato a uno studio di fattibilità per l’Agenzia statunitense per il commercio e lo sviluppo, un organismo pensato per offrire consulenza agli investitori americani. Nel corso di un viaggio di otto giorni, su una distanza di 850 chilometri, nel Congo sudorientale, ci sono stati due deragliamenti, decine di ritardi, un’avaria del sistema elettrico e un numero sempre maggiore di persone e merci ammassate in corridoi, scompartimen- ti e bagni stracolmi e maleodoranti. I problemi sono infiniti. Su 80 locomotive, solo 15 sono in funzione. A volte, i binari sono vecchi di 80 anni, e così deformati e piegati che i treni ci rimbalzano sopra, con pezzi del veicolo che vanno perduti o si allentano e devono essere aggiustati o sostituiti a ogni fermata. Anche l’interno dei vagoni è un disastro. I bagni di prima classe diventano sporchissimi poco dopo l’inizio del viaggio. In seconda e in terza classe sono usati per stipare la roba. In una vettura, la gente usava dei secchi o si sporgeva dai finestrini per soddisfare i bisogni corporali. Nelle ferrovie lavorano oltre 13.000 persone, ma è da maggio che i dipendenti non vedono lo stipendio e le mazzette sono diffuse. “Alle volte è difficile resistere alle tentazioni”, dice Augustin (ha dato solo il suo nome), il capo della polizia alla stazione di Kamina. “Faccio cose brutte”. Poi aggiunge: “Non mi pagano da 29 mesi. Come faccio a mandare i miei figli a scuola?”. Léon (anche lui dà solo il nome di battesimo), che lavora come bigliettaio e macchinista è convinto che il problema nasca a Kinshasa, la capitale. “Questa è una società controllata dallo Stato”, dice. “Se è ridotta alla bancarotta, la colpa è del governo. Così come stanno andando le cose, non resisteremo neanche due anni”. Le persone più colpite sono forse commercianti e contadini. Twite Kabuya, un contadino di Kabono, di 43 anni, dice di aver perso tutto il suo raccolto di mais per colpa di un vagone che è rimasto fermo per quattro mesi. “Ora il mio granturco è pieno di insetti. È tutto marcito”. di SIMON ROMERO dell’isola. Il presidente colombiano Alvaro L’AVANA — La cena con i guerriglieri è un avvenimento mondano. Una Uribe, che è il più fedele alleato delMercedes con autista, gentilmente l’amministrazione Bush in America, concessa dal governo cubano, porta ha migliorato i suoi rapporti con Cuba gli ospiti nella villa dove i capi di uno nonostante permangano delle differendei più tenaci gruppi ribelli colombiani ze politiche tra i due paesi. Oggi, i capi dell’ELN si recano a Curisiedono spesso quando sono in città. Prima di sedersi per consumare una ba più per ragioni di carattere pratico cena a base di pesce, un trattamento che ideologico. A volte ci sono andati che solitamente viene riservato ai vi- in gran segreto per sottoporsi a tratsitatori muniti di valuta forte, Pablo tamenti medici. E poi ci sono state le Beltrán, il principale negoziatore del varie fasi dei negoziati per il cessate-ilNational Liberation Army ( o ELN), fuoco, che sono terminati l’anno scorpropone un brindisi: “A Cuba!”. E’ un so con risultati non del tutto soddisfaomaggio adeguato a una nazione che centi. L’ELN ha respinto la proposta ha protetto la ribellione fin dalle sue di trasferire i suoi dirigenti al di fuori origini, negli anni Sessanta, e che da allora è diventata una sorta di rifugio per i ribelli ormai invecchiati. Paradossalmente Cuba è anche il luogo dove i rivoluzionari cercano pacificamente di porre fine al loro movimento, dopo decenni di lotta violenta contro una serie di governi favorevoli all’America. Questo è uno dei pochi posti in cui l’ELN si sente sufficientemente al sicuro da impegnarsi in un negoziato con il governo colombiano per arrivare a un cessate-il-fuoco. “In confronto ad altre città, L’Avana è un luogo in cui le cose vanno al rallentatore”, dice Beltrán, 53 anni, un uomo che dagli studi universitari in ingegneria petrolifera è passato a bombardare gli oleodotti e a rapire i dipendenti delle compagnie straniere. “E’ il luogo perfetto per negoziare con tranquillità e pensare a che fare dopo”. Una volta finita la giornata Jose Goitia per The New York Times di trattative, i ribelli sembrano contenti di recarsi nei locali Pablo Beltrán, leader dei ribelli, è andato in cui si suona il jazz o di pas- a L’Avana per i negoziati sul cessate-ilseggiare sul lungomare senza fuoco con il governo colombiano. doversi guardare alle spalle. I capi dell’ELN, compreso Beltrán, sono uomini sui 55 anni, che hanno trascorso gran parte della Colombia. Nel frattempo, il futuro ruolo di Cuba della loro vita a fare la guerra, accampati tra le montagne o nella cella di una come base per i negoziati, resta incerto. Il gruppo, che gli Stati Uniti tacciaprigione. Tra i vari movimenti di guerriglia no di terrorismo, si finanzia ancora stranieri, questo gruppo è il preferito grazie alle estorsioni e ai rapimenti da Castro. Per anni, Cuba ha fatto il (si calcola che i suoi prigionieri siano possibile per esportare in Colombia il circa 200) e sostiene che vi fanno parte 5.000 persone anche se gli esperti di suo modello rivoluzionario. In anni più recenti, l’isola ha assunto eserciti privati ritengono che questa un ruolo di supporto differente, man sia un’esagerazione. A volte, dopo aver cenato nella loro mano che le battaglie con i ribelli paramilitari della destra o con altre or- villa, i guerriglieri passeggiano intorganizzazioni ribelli di sinistra hanno no a un lago che si trova nelle vicinancominciato ad erodere la forza del- ze. Alle volte anche i negoziatori del governo colombiano, alloggiati nello l’ELN. La Colombia, che nei primi anni Ot- stesso complesso, hanno la stessa idea tanta ha interrotto le relazioni con Cu- e le due delegazioni si incontrano caba a causa del sostegno dato da Castro sualmente. “Ci salutiamo con molta ai gruppi ribelli, ha cambiato il suo at- cordialità”, dice Beltrán. “Poi ognuno teggiamento nei confronti del governo va per la sua strada”. Repubblica NewYork LUNEDÌ 17 SETTEMBRE 2007 III MONDO Proteste e giornalisti tormentano Hamas di STEVEN ERLANGER GAZA — Il mese scorso, durante la prima manifestazione di protesta di Fatah, nel venerdì di preghiera, la polizia di Hamas ha picchiato alcuni giornalisti palestinesi che cercavano di seguire l’evento. Alcuni sono stati arrestati e le loro macchine fotografiche sequestrate: questo ha scatenato proteste del sindacato dei giornalisti palestinesi di Gaza. Il giorno dopo, alle 10 di sera, alcuni agenti della polizia di Hamas sono entrati nel cortile di Saker Abu El Oun, pronti ad arrestarlo. Abu El Oun, reporter della Agence France Press e capo del sindacato locale, ha chiamato un collega. “Ho chiamato una giornalista che ha mandato un sms”, ha detto, “e nel giro di pochi minuti a casa mia sono arrivati una settantina tra giornalisti e attivisti dei diritti umani, impedendo che mi portassero via. I miei figli piangevano. E’ stata una scena bruttissima”. La polizia, ha raccontato, gli ha detto “che avevano avuto istruzioni di arrestarmi, e che avendo opposto resistenza sarei stato ritenuto responsabile” di qualsiasi conseguenza. Hamas sembra confusa su come schiacciare le proteste di Fatah e, al tempo stesso, trattare con la stampa. Da quando ha conquistato Gaza, a giu- gno, con una sanguinosa battaglia, tenta di coltivarsi una fama di onestà e legalità promettendo ai giornalisti libertà di azione ma la polizia li intimidisce. Tra le conseguenze di questa situazione, dicono i reporter locali, c’è una sorta di autocensura che supera quanto è stato tradizionalmente praticato sotto Fatah — che pure cercava di fare pressioni, manipolare o mettere le mani sulla stampa palestinese. Il caso di Abu El Oun, 42 anni, è un esempio. Per lui la crisi è finita quando un rappresentante del governo di Hamas ed ex giornalista, Taher el-Nounou, è arrivato a casa sua con un messaggio di Ismail Haniyeh, ex primo ministro di Hamas, che diceva alla polizia di andarsene. Più tardi, parlando a nome del sindacato, Abu El Oun ha discusso dei problemi che i giornalisti devono affrontare. “Chiediamo la libertà di seguire le proteste”, dice. “Possono impedire le manifestazioni ma non il diritto dei giornalisti di seguirle. Viviamo in una condizione di autocensura perché non sappiamo cos’è permesso e cosa non lo è. Non esiste una linea di condotta chiara. I giornalisti sono tutti preoccupati, spaventati”. In un’intervista Mahmoud Zahar, uno dei leader di Hamas, ha definito Abu el Oun “cattivo”, accusandolo di “presentarsi come leader di Fatah”, in parte per il ruolo svolto all’interno del sindacato. Ma nel 2001, Abu El Oun perse quasi la vita per le gravi percosse subite, con una sbarra di ferro, dalla Forza di sicurezza preventiva guidata da Fatah. I giornalisti palestinesi descrivono una situazione confusa, nella quale Hamas, organizzazione fondamentalmente religiosa poco avvezza alla politica e abituata all’obbedienza, sta sottoponendo a indebite pressioni tutti i media. Hamas è coinvolta in una battaglia politica contro Fatah, e le due fazioni si servono dei media a loro disposizione — la televisione ufficiale palestinese e la radio di Fatah, che conta inoltre media e giornali propri, e i giornali, la radio e il canale televisivo, Al Aksa (ispirato ad Al Minar, diretto da Hezbollah) per Hamas. Fatah dice che Hamas è al servizio dell’Iran; Hamas dice che Fatah è a servizio di Israele e dell’America. In Cisgiordania, Fatah ha chiuso alcuni mezzi di comunicazione e delle associazioni di beneficienza affiliate ad Hamas e ha impedito la circolazione di giornali sostenuti da Hamas o la diffusione di programmi della televisione di Hamas. Sei giornalisti di Hamas sono Hatem Moussa/Associated Press Hamas cerca di tenere sotto controllo le proteste e i media. A Gaza, alcuni sostenitori palestinesi di Fatah hanno distrutto un posto di guardia di Hamas. stati arrestati, dice Nounou, e altri 12 picchiati. Ma qui a Gaza, Hamas ha fatto altrettanto con Fatah e con i mezzi di comunicazione controllati dall’Autorità palestinese. Almeno sei di questi sono stati chiusi. Da giugno, dice un giornalista, Gaza vive in una sorta di regime militare e tutti sono in allerta. “La gente non è sicura di quali siano i limiti. Hamas cerca di riassicurarli, ma la gente ha un po’ paura”, dice. “L’autocensura è più devastante della censura ufficiale. E, soprattutto per i giornalisti, l’autocensura è più deprimente e complicata di prima”. Una legge per cancellare i Tutankamen del Sol G L I O RO LO G I T U D O R S O N O D I S P O N I B I L I P R E S S O I R I V E N D I TO R I A U TO R I Z Z AT I RO LE X . di SIMON ROMERO CARACAS, Venezuela — Addio ai Tutankamen del Sol. Bye Bye agli Hengelberth, Maolenin, Kerbert Krishnamerk, Githanjaly, Yornaichel, Nixon e Yurbiladyberth. Il prolifico e inventivo mondo dei nomi con cui in Venezuela si battezzano i bebè ora potrebbe tramontare. Se i funzionari elettorali ce la faranno, un disegno di legge passato recentemente potrebbe impedire ai genitori di dare molti dei nomi più strani ai figli. La misura non sarà retroattiva. Impedirà, però, ai genitori di chiamare i neonati con i 100 nomi elencati in una lista stilata dal governo, con l’eccezione di indios e stranieri. Il disegno di legge è stato accolto con scetticismo dall’Assemblea nazionale. “Vorrei sapere come individueranno questi 100 nomi”, dice Jhonny Owee Milano Rodríguez, deputato dello Stato di Cojedes. “Perché non 120, per esempio? Mi sembra arbitrario”. Milano, che ha 55 anni, spiega che il suo primo nome, Jhonny, scritto proprio così, fu ispirato dall’ambiente internazionale della città petrolifera nell’Ovest dove è nato. E Owee, dice, doveva essere Oved, ma fu trascritto erroneamente nel registro delle nascite. L’obiettivo del disegno di legge, secondo la bozza in discussione, è “di preservare l’equilibrio e lo sviluppo integrale dei bambini”, evitando che i genitori chiamino i neonati con nomi che potrebbero renderli ridicoli e che sono “stravaganti o difficili da pronunciare nella lingua ufficiale”, lo spagnolo. La proposta mira anche a prevenire che si utilizzino nomi che possono “creare dubbi” sul sesso di chi li porta. Alcuni dei colleghi di Milano all’Assemblea nazionale, nella quale i sostenitori del presidente Hugo Chávez hanno la maggioranza, sono Iroshima Jennifer Bravo Quevedo, Earle José David Rochkind/Polaris, per The New York Times Herrera Silva e Grace Da sinistra, Kleiderman Jesús, Nagarith Lucena RoYureimi Klaymar, Yusneidi Alicia, sendy. Questi legislaYusmary Shuain, Kleiderson Klarth tori devono approvare il disegno di legge e Yusmery Sailing Vargas. prima che possa trasformarsi in una vera e propria legge. I nomi stravaganti sono frequenti anche in altri paesi dell’America Latina. In Honduras, secondo El Heralda ci sono dei Ronald Reagan, delle Transfiguración e Compañía Holandesa. A Panama, quest’anno, i media hanno riportato il tentativo di cambiare il proprio nome a un Esthewoldo, un Kairovan e un Max Donald. Nella passione per i nomi stravaganti, però, il Venezuela supera tutti, come dimostra una lista stilata dal romanziere Roberto Echeto, dove si annoverano degli Haynhect, degli Olmelibey, dei Yan Karll e degli Udemixon. Alcuni nomi obbligano chiaramente a una pronuncia inglese, come Kennedy o John Wayne, o russa, come Pavel o Ilich, e ricordano la Guerra fredda. I nomi stravaganti suscitano spesso sgomento o ilarità, ma la questione è diventata politica per la passione del presidente Chávez di cambiare il nome alle cose, e chi critica questo disegno di legge sostiene che potrebbe dare più potere al governo sulla questione dei nomi, in un ambito dove domina il capriccio di genitori. Non tutti sono contro la proposta. Temutchin del Espíritu Santo Rojas Fernández, di 25 anni, programmatore di computer, spiega che il suo primo nome si ispira a Genghis Khan, a volte in inglese Temujin. E aggiunge di dover frequentemente farlo correggere nei documenti ufficiali. In Venezuela, dove serve il nome e il numero del documento di identità per fare ogni acquisto che richieda una ricevuta, pronunciare e sillabare ogni volta Temutchin del Espíritu Santo è stancante, dice. “Questi nomi creano anche dei problemi sociali”, continua. “Nei rapporti con gli altri, succede spesso che le persone non riescano a pronunciare il mio nome. Mi tocca ripeterlo cinque volte e sillabarlo più di una”. CLASSIC Movimento meccanico a carica automatica. Lunetta con 62 diamanti. Vetro zaffiro, corona di carica a vite. Impermeabile fino a 50 m. Cassa in acciaio Ø 39 mm. Repubblica NewYork IV LUNEDÌ 17 SETTEMBRE 2007 MONDO Vita in famiglia alla russa, risate all’americana di CLIFFORD J. LEVY MOSCA — Può darsi che dal Cremino, negli ultimi tempi, spiri un vento fortemente anti-Usa, ma tutta la Russia va matta per un genere televisivo squisitamente americano: la sitcom. Tra gli spettatori, specialmente tra i più giovani, sta riscuotendo un grande successo la versione russa di “Married with Children” (in Italia, “Sposati con figli”). “Con la sua satira sul ceto medio americano, si adatta bene allo stile del nostro canale”, dice Dmitri Troitsky, dirigente di TNT, una rete di proprietà della Gazprom con una programmazione paragonabile negli Stati Uniti, a quella della Fox di Rupert Murdoch. “Ci è sembrato interessante e attuale proporre una parodia del ceto medio russo”. In questi giorni, i turisti americani che dovessero recarsi in Russia avrebbero probabilmente l’impressione di essere finiti in uno strano regno delle repliche. Da queste parti stanno riscuotendo molto successo anche gli adattamenti di altri due programmi molto noti: “Who’s the Boss?” (in Italia, “Casalingo Superpiù”) e “The Nanny” (“La Tata”). Tutti e tre sono distribuiti dalla Sony Pictures Television International, che ha creato gli adattamenti di questi e altri programmi americani destinati a tutto il mondo, spesso in collaborazione con i produttori locali. Un portavoce della Sony, Rod Sato, dice che “The Nanny”, trasmesso qui per la prima volta nel 2004, ha riscosso un tale successo che una volta terminati gli episodi da copiare, gli sceneggiatori americani sono stati incaricati di crearne altri 25. “Married with Children”, trasmesso negli Stati Uniti dal 1987 al 1997, nella versione russa si chiama “Schastlivy Vmeste” (“Insieme Felici”). Da Chicago, l’ambientazione è stata trasportata nella metropoli di Ekaterinburg, nella Russia centrale. La litigiosa coppia formata da Al e Peg Bundy è diventata quella composta da Gena e Dasha Bukin. L’obiettivo è lo stesso: fare una parodia della vita familiare del ceto medio, presentandola nel modo più eccentrico possibile. Una scena tipica: in soggiorno, Gena chiede improvvisamente a Dasha di spogliarsi. Dasha è felice all’idea che Gena voglia infine fare sesso con lei, ma poi Gena dice: “No, Dasha, sto semplicemente morendo di fame e spero che questo mi farà passare l’appetito”. Natalya Bulgakova, portavoce della TNT, dice che il programma, che ha debuttato l’anno scorso, oggi è uno dei più amati dai giovani tra i 18 e i 30 anni. La TNT è di proprietà della GazpromMedia, controllata dalla Gazprom, il gigante energetico russo a sua volta controllato dal governo. Interrogati sul programma televisivo, alla Gazprom-Media hanno rilasciato una dichiarazione in cui si afferma che la società non interferisce nelle decisioni sulla programmazione assunte dalla sua rete televisiva. La TV russa ha fatto molta strada dai tempi in cui offriva soltanto il noioso menù, condito di politica, del Partito Comunista. Oggi ci sono molti canali che trasmettono film, commedie, giochi a quiz, soap opera e reality show. In Russia le sitcom sono state trasmesse per la prima volta negli anni Novanta, quando il paese era sull’orlo del collasso economico, ma sia le sitcom originali che le copie di quelle americane ottennero scarso successo. La gente attraversava un momento difficile e, verosimilmente, non era dell’umore adatto per ridere della vita di chi stava meglio di loro. I russi, per i quali era impossibile identificarsi con i personaggi proposti dalle sitcom, preferivano le soap opera sudamericane doppiate in russo. Soltanto di recente, con la svolta economica, la sitcom ha preso piede. “Questo, probabilmente, è l’ultimo genere televisivo da adottare in Rus- In Russia un adattamento della sitcom americana “Married with Children”, parodia della vita del ceto medio, sta riscuotendo successo. TNT Network sia”, dice Elena Prokhorova, che studia la televisione russa e che attualmente è visiting professor presso il College of William and Mary, in Virginia. Prima non hanno funzionato, dice, perché “le sitcom richiedono una vita sociale molto stabile”. Sebbene “Married with Children” sia stato uno shock quando è apparso la prima volta negli Stati Uniti, provocando addirittura il boicottaggio da parte degli sponsor, vent’anni più tardi la versione russa non ha scatenato una reazione analoga. I critici televisivi osservano che, come in gran parte del mondo, anche qui la te- levisione ospita molti programmi relativamente triviali. Daniil B. Dondurei, direttore della rivista Cinema Art, dice di aver trovato un significato più sinistro nel successo di un programma come “Schastlivy Vmeste”. “Oggi la gente si è abituata a non pensare alla propria vita”, dice. “La televisione li sta addestrando a non pensare a quale partito ci sia in Parlamento, quali leggi vengono approvate, chi sarà al potere domani. La gente si è abituata a vivere come bambini, all’interno di una famiglia con un padre molto forte e potente. Tutto viene deciso al posto loro’’. I padri lontani sostengono l’economia del Kerala continua dalla prima pagina Hasan Sarbakhshian/Associated Press Il governo cerca di avere influenza anche nella sfera personale. Uomini e donne in un caffè di Teheran. L’ Iran invita alle gioie del sesso, ma non tollera il dissenso continua dalla prima pagina nanzitutto sul connubio fra la dottrina islamica sciita e l’ideologia rivoluzionaria. I primi tempi alcuni leader tentarono di stemperare le tradizioni zoroastriche pre-islamiche, ma l’impresa si rivelò ben presto impossibile e fu in gran parte abbandonata. Successivamente altri governi hanno anche cercato di adattarsi alla modernità: tentativi che ogni volta si sono rivelati effimeri. Il presidente Ali Akbar Hashemi Rafsanjani aveva tentato di allentare la presa dello Stato sull’economia; il suo successore, Mohammad Khatami, voleva ammorbidire il codice dell’abbigliamento, del comportamento in pubblico, e concedere la libertà di parola. Queste iniziative sono state tutte frenate dai leader integralisti, i quali anziché confidare nel fatto che la Repubblica islamica e le sue istituzioni sopravvivono già da trent’anni, temono ancora oggi la fragilità del sistema. E così il braccio di ferro all’interno della leadership prosegue. “Da un presidente all’altro l’orientamento del Paese muta”, dice un illustre politologo di Teheran, che ha scelto di restare anonimo a causa del clima di sospetto prevalente oggi in Iran. “E questo perché non esiste un consenso sulla nostra identità di popolo e sui nostri obiettivi. Se ne può facilmente dedurre che l’ordine rivoluzionario ideologico è un’occupazione di élite, non della massa”. Per chi è nato dopo la rivoluzione, la religione è divenuta obbligatoria: non ha più un carattere rivoluzionario. Ad esempio, c’era un tempo in cui indossare l’hijab, il velo islamico, era considerato un atto di ribellione. Adesso il velo è d’obbligo e toglierlo significa sfidare lo Stato. “I ragazzi che sono nati dopo la rivoluzione sono meno religiosi della generazione precedente”, dice Mohammad Ali Abtahi, a suo tempo vice presidente del governo riformista di Khatami. “La religiosità infatti era una scelta volontaria”. Per otto anni Abtahi ha affiancato il presidente Khatami nell’intento di smorzare la retorica ufficiale, e di concedere qualche libertà sociale in più, soprattutto come sfogo per i giovani. Teheran sta combattendo per mantenere il controllo sui giovani. Stando a chi oggi è al governo, gli anni di Kathami hanno rischiato di destabilizzare il sistema. Ma Abtahi sorride, e il suo è un sorriso di liberazione, quando si riferisce alla realtà della natura umana. “Noi abbiamo lasciato il potere due anni fa”, dice. “In teoria non si dovrebbero più vedere prostitute in giro, né abiti trasgressivi, né omosessuali. E invece in due anni l’attuale governo non ha vinto la battaglia”. Funziona di più la carota o il bastone? Abtahi e altri sostenitori del sistema islamico come lui, concordano nel preferire la strategia della persuasio- ne, perché la forza, sono convinti, aliena le persone. “Succede così in tutti i governi religiosi: alla maggiore pressione non corrisponde una maggiore religiosità del popolo”, dice Abtahi. L’Iran non smette di sorprendere. Per una larga fetta della popolazione, la vita va avanti, nella ricerca di un compromesso con le imposizioni che vengono dall’alto. Basta fare una passeggiata nella zona nord di Teheran, che è quella più occidentalizzata e meno religiosa di altri quartieri. Le donne indossano il velo, ma metà del capo è scoperto. I giovani hanno i capelli irti di gel. Tutti segni di ribellione, aspramente criticati dal governo. Emad Afrough, parlamentare conservatore, invita a leggere nell’attuale repressione un segno che la Repubblica islamica è ancora uno Stato in fasce, che la formula del governo religioso è un esperimento senza precedenti, e che perciò non è ancora riuscito a coniugare le esigenze della società e quelle dell’individuo. A suo giudizio, il governo Khatami non ha prestato sufficiente attenzione alla responsabilità dell’individuo nei confronti della società. Oggi invece, dice, il presidente Mahmoud Ahmadinejad non bada abbastanza ai diritti individuali. Le poche eccezioni, come il corso di educazione sessuale, sono emblematiche di quanto sia difficile trovare quella via di mezzo che a detta di Afrough è necessaria. “Dobbiamo imparare a bilanciare sia i diritti sia le responsabilità, individuali e sociali”, dice. “E siamo soltanto all’inizio di questo percorso’’. sullo sviluppo, un ente di ricerca locale. “Senza gli emigranti, molti sarebbero morti per fame. Il ‘modello Kerala’ è interessante sulla carta, ma in pratica è irrealizzabile ovunque, a cominciare da qui”. Per gli ottimisti, le difficoltà del Paese sono quelle endemiche nel mondo in via di sviluppo, ma i suoi successi sono unici. Con un guadagno pro-capite annuo di 675 dollari, rispetto ai 730 dollari del resto del Paese, il Kerala è uno Stato povero, perfino per gli standard indiani. Eppure l’aspettativa di vita è di circa 74 anni: 11 più della media indiana e più anche dell’Europa (73 anni). Il tasso di alfabetizzazione, del 91 per cento, non ha eguali rispetto alla media indiana del 65 per cento, e s’avvicina al 99 per cento di Stati Uniti ed Europa. Questi invidiabili risultati scaturiscono, secondo i sostenitori del modello locale, da precise scelte politiche: il Kerala spende il 36 per cento in più nell’istruzione rispetto agli altri Stati indiani e il 46 per cento in più nella sanità. “Che un intervento del governo possa migliorare la qualità della vita anche in società molto povere a me pare importante”, dice Prabhat Patnaik, vicepresidente del comitato di pianificazione statale. L’esperienza del Kerala, aggiunge, dimostra che “la qualità della vita non è da mettere in relazione unicamente al tasso di crescita dell’economia”. “Se si traccia un paragone con qualsiasi altro luogo del mondo in via di sviluppo, i risultati sono notevoli”, concorda Richard Franke, antropologo all’Università statale Montclair del New Jersey. “I bambini sopravvivono al primo anno di vita, maschi e femmine godono di più o meno eguali opportunità nella vita, ricevono un’istruzione e vivono a lungo”. In conclusione: “Il modello Kerala con o senza emigrazione è una conquista importante”. La cultura locale mirata sull’investimento umano ha almeno due secoli di vita; deve molto ai primi missionari e ai maharajah che diedero grande peso alla scuola. All’inizio del XX secolo, i keraliani più istruiti emigravano nel resto del Paese: assunti come impiegati a Delhi e a Bombay, mandavano a casa i loro guadagni. Negli anni il Kerala si è meritato la fama di un luogo difficile per gli affari, gravato da pesanti normative, sindacati militanti e scioperi frequenti. Il governo è il primo datore di lavoro. Proliferano le piccole imprese, soprattutto botteghe di tè e negozietti. Negli Anni Ottanta il numero degli emigranti oltreoceano è raddoppiato, ed è triplicato nei Novanta. In uno Stato di 32 milioni di abitanti, con una disoccupazione vicina al 20 per cento, un lavoratore su sei si guadagna il pane oltreoceano. La maggior parte è occupata nell’edilizia in Arabia, benché l’alto tasso di alfabetizzazione serva a ottenere in certi casi anche un impiego in ufficio. Senza le rimesse dall’estero, ribattono i detrattori, il miracolo del Kerala sarebbe insostenibile. I cinque miliardi di dollari inviati a casa dai keraliani aumentano del 25 per cento il gettito economico dello Stato. Ma fra gli scotti da pagare ce n’è uno, dolorosissimo: l’alto tasso di suicidi, il quadruplo della media nazionale. Ad esempio, la famiglia di Shirley Justus, 45 anni, una mamma che fatica, come tante altre, a crescere da sola tre figlie mentre il marito fa l’autista di camion a Muscat e Dubai. L’anno scorso la figlia maggiore Suji, finito il liceo, considerava due sbocchi diversi agli studi: il primo in Inghilterra, il secondo a Mumbai. La madre glielo ha negato. La figlia ha obbedito, mesta, poi si è impiccata. “Se mio marito fosse stato qui, questo non sarebbe successo”, dice la signora Justus nel salotto di casa trasformato in un sacrario in onore della figlia. “Lui avrebbe trovato una soluzione”. Con quasi un quarto delle rimesse INDIA Mar Arabico Golfo del Bengala KERALA Trivandrum SRI LANKA CINA PAK. Nuova Delhi Mumbai INDIA Area ingrandita Oceano Indiano Km 160 The New York Times Le rimesse dall’estero sono il 25 per cento dell’economia del Kerala. degli emigrati investito nell’istruzione, certi keraliani finiscono per trovarsi in un circolo vizioso: l’emigrazione consente l’istruzione, che a sua volta produce ulteriore emigrazione. I più istruiti, e i più esigenti nella scelta di un lavoro, hanno maggiori probabilità di rimanere disoccupati. Nella famiglia di James John Pereira, cultura e emigrazione si coniugano da circa un secolo, cioè da quando partì suo padre a fare il cameriere in una piantagione dello Sri Lanka. Coi suoi guadagni permise al figlio di frequentare una scuola privata. Anche Pereira ha lavorato all’estero come impiegato per 49 anni e così ha mantenuto agli studi cinque figli, che oggi sono tutti laureati. Eppure tre di loro sono emigrati all’estero, come il marito della quarta figlia, Jacqueline, rimasta da sola ad allevare la figlia di dieci anni. “Come vede il livello d’istruzione qui è molto alto”, dice la donna. “Peccato che il tasso di disoccupazione lo sia ancora di più”. Repubblica NewYork LUNEDÌ 17 SETTEMBRE 2007 V EC O N O M I A E S O C I E TÀ In Cina gli operai giovani sono troppo pochi e i salari aumentano di KEITH BRADSHER SHENZHEN, Cina — Nella fabbrica di biciclette Dahon, Zhang Jingming muove le dita in modo veloce e metodico: afferra il sellino, lo avvolge nel cartone, e lo fissa senza difficoltà al telaio. Lavorando 45 ore alla settimana guadagna l’equivalente di 263 dollari al mese; fino a febbraio scorso ne prendeva appena 197. Questo aumento è in parte un incentivo per aver lavorato in modo più efficiente. “Quando ho iniziato non ero così veloce”, dice Zhang. Ma in parte dipende da aumento reale: da 1,32 centesimi per ogni sellino montato a 1,45. E’ una piccola differenza, ma indica un grande cambiamento. I salari dei cinesi stanno crescendo. Non esistono cifre attendibili sulla media degli stipendi. I dati economici forniti dal governo sono spesso inattendibili. Ma i proprietari delle fabbriche e gli esperti che controllano l’andamento del mercato del lavoro sostengono che ci sono difficoltà a reperire bravi operai per lavori pagati molto meglio. Paghe migliori in Cina, verosimilmente, comportano prezzi più elevati per l’Occidente: nei centri commerciali, nei negozi di alimentari, persino nelle stazioni di servizio. Le aziende stanno già facendo pagare ai clienti esteri parte dell’aumento dei costi. Secondo i dati dello United States Labor Department, a partire da febbraio i prezzi delle merci provenienti dalla Cina, dopo anni di diminuzione graduale, sono aumentati dell’1, 2 per cento. Le società e gli imprenditori cinesi stanno facendo pagare alla clientela estera anche il costo dell’apprezzamento della loro valuta, lo yuan, che negli ultimi due anni ha guadagnato l’8,8 per cento sul dollaro. Per decenni gli economisti hanno pensato che la popolazione cinese avrebbe fornito un potenziale di manodopera quasi illimitato. Invece, fin dal 2003, si è occasionalmente manifestata una penu- La fabbrica di biciclette Dahon di Shenzhen, in Cina, è una delle tante dove gli operai vengono pagati di più. Ariana Lindquist per The New York Times ria di manodopera nelle fabbriche lungo il delta del fiume delle Perle, nel Sud-est della Cina. Oggi, dicono gli esperti, questa carenza si è diffusa anche in molte fabbriche disseminate lungo la fascia costiera. I dirigenti si lamentano di essere stati obbligati a concedere aumenti a due cifre per poter trovare e conservare al loro posto giovani operai a tutti i livelli di specializzazione. Tre o quattro anni fa, dice Zhong Yi, vice direttore di una fabbrica di giubbotti in pelle situata a Hangzhou, nel centro della Cina orientale, un salario tra gli 800 e i 1000 yuan al mese (da 105 a 145 dollari) “era considerato un buono stipendio. Oggi, 1.500 yuan è il minimo (198 dollari)”. Dicono, però, che non c’è una scarsità generalizzata di manodopera, questo piuttosto è dovuto alla difficoltà di trovare giovani operai disposti ad accettare i salari bassi degli anni Novanta. Le fabbriche che si trovano in città come Guangzhou sono alla ricerca di giovani operai, mentre gli uffici di collegamento considerano un successo se un lavoratore sopra i 40 anni riesce a tro- vare un posto di lavoro in meno di un anno. “Oggi si assumono operai che hanno intorno ai 30 anni”, dice Johnathan Unger, direttore del Contemporary China Center alla Australian National University di Canberra, “ma nessuno che abbia un’età superiore e che pensano che non sia in grado di accettare condizioni di lavoro che prevedono 11 ore al giorno”, i week-end al lavoro e la noiosa vita nei dormitori di proprietà delle fabbriche. Il rifiuto dei proprietari di assumere manodopera che abbia più di 35 o 40 si scontra in Cina con la realtà demografi- ca della politica del figlio unico. I lavoratori che hanno tra i 20 e 24 anni si stanno già riducendo, mentre molti, dopo aver finito le scuole superiori, preferiscono andare all’università piuttosto che lavorare. L’International Labor Organization valuta che i lavoratori in questa fascia d’età continueranno a diminuire almeno fino al 2020. E’ impressionante constatare quanto siano pochi i giovani che restano a vivere nei villaggi dalla regione tropicale del Gaoya, nell’estremità Sud-orientale, fino a quella di Houxinqiu, nella zona Nordorientale, dopo che tanti si sono trasferiti nelle città. Secondo l’agenzia giornalistica ufficiale Xinhua, una recente indagine del governo effettuata su 2.749 villaggi di 17 province e regioni autonome ha evidenziato che nel 74 per cento dei casi non c’era manodopera adatta ad andare a lavorare in città lontane. Questa scarsità di forza lavoro non fa della Cina un paradiso dei lavoratori. I salari di chi lavora in fabbrica restano bassi per i criteri occidentali: circa 1 dollaro all’ora per gli operai pagati meglio, che vivono nelle zone costiere, in confronto ai 50 centesimi di dieci anni fa. E i salari sono fermi per la fascia centrale di lavoratori, quelli che si considerano troppo istruiti per un posto di lavoro poco qualificato in una fabbrica di abbigliamento, ma a cui mancano le competenze o l’esperienza per esigere altrove uno stipendio più alto. “E’ facile trovare un lavoro con un salario basso”, dice Chen Zheng, un operaio metalmeccanico di 24 anni che ha frequentato le scuole superiori a Ningbo. “Quello che è difficile è trovare uno stipendio migliore”. La politica delle ferie flessibili: vai in vacanza quando vuoi L’immagine dei brasiliani come persone belle e sane contribuisce alla domanda di cosmetici, molti sono ricavati da piante dell’Amazzonia. Adriana Zehbrauskas per The New York Times La risorsa naturale del Brasile si chiama bellezza di ANDREW DOWNIE SAN PAOLO, Brasile — La tradizionale attenzione dei brasiliani per la bellezza del corpo — sia che si spendano fortune in profumi e cosmetici o in cure snellenti che permettono di indossare costumi da bagno minuscoli o di spalmare il corpo con il gel per esaltarne le forme — sta dando i suoi frutti. Le esportazioni di prodotti cosmetici continuano a crescere da qualche anno a questa parte. Nel 2006, il Brasile ha esportato 484 milioni dollari in cosmetici, prodotti per la cura del corpo e profumi, dice João Carlos Basilio da Silva, presidente dell’Associazione brasiliana dei produttori di profumi e cosmetici, con un incremento dal 2001 del 152 per cento. In un mercato che ama la parola “naturale”, anche l’abbondanza di materie prime come oli, frutti ed estratti di piante è stata determinante per incrementare le vendite. Secondo l’Agenzia per la ricerca in agricoltura, Embrapa, l’Amazzonia brasiliana conta circa 13.000 specie di piante. Solo una minuscola frazione di queste, dicono gli esperti, è stata studiata in maniera approfondita e meno dell’1 per cento è attualmente usato nella produzione dei cosmetici. I frutti del guaraná, per esempio, sono conosciuti come stimolanti. Dal frutto dell’albero del cupuaçu, invece, si ricava un olio molto idratante. L’açai, un altro frutto, è ricco di antiossidanti ed energizzanti. Tutti questi frutti sono usati per produrre cosmetici. I dirigenti del settore in Brasile fanno notare che i prodotti vengono percepiti come più naturali. “Se si raccoglie una rosa nell’Amazzonia e una nel centro della Francia, quella brasiliana sarà meno inquinata”, dice Eduardo Rauen, direttore commerciale di Amazonia Natural, una società le cui esportazioni potrebbero crescere quest’anno tra Il segreto di un aspetto attraente e del benessere si trova in Amazzonia. il 35 e il 50 per cento. “L’Amazzonia è più naturale e questo è il nostro punto di forza”. Alle vendite, dicono alcuni dirigenti, ha contribuito certamente l’immagine dei brasiliani sani e belli. “Qui associamo la bellezza alla sensualità, al gusto”, dice Artur Grynbaum, vicepresidente esecutivo della Boticario, la più importante iniziativa di franchising del mondo nel settore. Un altro fattore altrettanto importante è la varietà di origini dei brasiliani. La combinazione di sangue europeo, in- digeno, africano e giapponese ha creato una popolazione che ha ogni possibile sfumatura di pelle, tipo di capelli e forma del corpo. Dovendo soddisfare una domanda talmente varia, i produttori di prodotti di bellezza avranno sempre un prodotto valido indipendentemente dalla fascia di mercato a cui si punta. La principale destinazione dei prodotti brasiliani è ancora l’America latina, che rappresenta il 61 per cento delle esportazioni del Paese. Tuttavia sotto la presidenza di Luiz Inácio Lula da Silva gli orizzonti delle esportazioni si sono allargati e anche paesi come Russia, Cuba e Angola, si sono rivelati clienti importanti. Questo sforzo è stato sostenuto dall’Agenzia per la promozione del commercio e degli investimenti, un organismo creato nel 2003 per individuare mercati per le merci brasiliane. Con quest’assistenza, Veronika Rezzani, per esempio, è riuscita a promuovere la sua linea di prodotti basata sulla caipirinha, il drink preparato con acquavite di canna da zucchero e lime. “L’aiuto dell’Apex è stato determinante per me”, dice la signora Rezzani. “Mi hanno finanziato la prima partecipazione a una fiera internazionale a Bologna e se non fosse stato per loro non avrei mai potuto esser presente. Aiutano le piccole imprese a partecipare agli eventi internazionali con costi contenuti”. di KEN BELSON giorni liberi quando si voleva, in realtà SOMERS, New York — E’ il sogno di non si poteva. L’Ibm tende a essere una tutti i lavoratori: prendersi una vacanza società di veri maniaci del lavoro”. ogni volta che si desidera, con un preavL’Ibm è con ogni probabilità la più viso minimo, senza preoccuparsi di un grande società ad aver eliminato del tutrimprovero del capo. Lasciare l’ufficio to il controllo delle ferie, anche se qualpresto, fare un weekend lungo, attaccare che società più piccola e più giovane ha due settimane di vacanza, come meglio introdotto politiche simili. ti pare. Vai pure, nessuno tiene conto di Best Buy, una catena di negozi di eletniente. tronica, ha introdotto per i quattromila Questo sta accadendo all’Ibm, una del- dipendenti un programma chiamato le pietre miliari delle società americane, Results Oriented Work Environment, nella quale ciascuno dei 355.000 impie- nel quale concede agli impiegati la masgati ha diritto a tre settimane di ferie o sima libertà per svolgere il lavoro senza più. La società non prende nota di quanto tenere conto delle ore di lavoro quotidiatempo ciascun dipendente si prende per ne. Netflix, che vende dvd online, non asle vacanze o di quando lo fa, non assegna segna più giorni di ferie prestabiliti. i periodi di ferie a scelta procedendo per Luis H.Rodriguez,direttore delmarkegrado di anzianità e non consente di ac- ting nel gruppo software dell’Ibm, dice cumulare i giorni di ferie inutilizzati da di andare in ufficio a Somers, qui a New un anno all’altro. Negli ultimi anni, al contrario, i dipendenti di qualsiasi livello hanno preso accordi informali con i loro capi, spinti soprattutto dalla capacità di fare il proprio lavoro rispettando le scadenze. Molti dipendenti inseriscono i programmi di ferie in calendari elettronici ai quali i colleghi hanno accesso online, e lasciano sempre indicazioni specifiche su come essere contattati nei casi di Joyce Dopkeen/The New York Times emergenza. “Ai dipendenti piace che li rendiamo maggiormente La flessibilità dell’Ibm permette a Luis H. responsabili”, dice Mark L. Han- Rodriguez di trascorrere più tempo a casa. ny, vicepresidente dell’Ibm per le associazioni di commercianti indipendenti di software. York, una volta alla settimana e di lavoSull’altro piatto della bilancia della rare il resto del tempo mentre viaggia opflessibilità, quanto meno all’Ibm, c’è la pure nella sua casa di Ridgefield in Conpressione esercitata dei colleghi. I dipen- necticut. Dice che chiamare i colleghi o denti dicono di controllare frequente- controllare l’e-mail mentre va a trovare i mente la posta elettronica e le segreterie suoi parenti in Texas o in Illinois è giusto, telefoniche quando sono in ferie. Spesso i vista la possibilità di lavorare da casa e capi chiedono ai dipendenti di cancella- passare con i suoi figli, Alec di 5 anni ed re alcuni giorni di ferie per rispettare le Evia di 2, il resto nel tempo. scadenze di lavoro. “Godo di un’incredibile flessibilità che Frances Schneider, che l’anno scorso mi è stata concessa dall’Ibm ma si tratta dopo 34 anni di lavoro è andata in pensio- di un’arma a doppio taglio. In effetti le ne dalla divisione vendite, ha detto che tabelle di marcia e le necessità dei sinuna cosa sola non è mai cambiata: non goli sono così strutturate che sul lavoro c’è stato neppure un anno nel quale sia si ha bisogno di flessibilità”. riuscita a prendersi l’intero periodo di Richard Calo, vicepresidente delle referie al quale aveva diritto. lazioni globali dei dipendenti, dice che la “Non capitava sette giorni alla setti- flessibilità ha aiutato l’Ibm a competere mana, ma si finiva sempre col fare ore con società concorrenti del mondo tecnodi straordinario per compensare tutta logico. “È risaputo che non siamo trendy questa flessibilità, senza quasi render- come Google o Netflix”, dice. “Non si sene conto”, ha detto. “Anche se si aveva deve essere i più all’avanguardia, ma la straordinaria libertà di prendere dei neppure i più stacanovisti”. Repubblica NewYork VI LUNEDÌ 17 SETTEMBRE 2007 SCIENZA E TECNOLOGIA Le video-telefonate entrano in salotto di JOHN BIGGS Qualche anno fa il telefono era l’unico strumento per contattare rapidamente parenti lontani. Di loro ci arrivava solo la voce, e poco importava se il nonno era ancora in vestaglia e pantofole. Ma adesso che abbinare immagini video alle telefonate è facile e costa poco, il nonno potrebbe aver bisogno di una squadra di guardarobieri. Molti novizi del video conversano on line con i parenti grazie a un pc e qualche prodotto disponibile nei negozi. Le videoconferenze da casa, un tempo limitate all’ambito del lavoro, hanno raggiunto oggi livelli sofisticati e, in molti casi, sono gratuite. Se in casa vivono dei ragazzi, per iniziare una videoconferenza forse non bisognerà andare troppo lontano: la Xbox 360 della Microsoft permette di fare videoconferenze gratuite con la telecamera Xbox Live Vision - che richiede un account “Gold” a XboxLive, oltre a costringere a interrompere l’ennesimo videogame per farsi una bella video- Nuove tecnologie mettono gli utenti in collegamento attraverso il mondo. chiacchierata con i cugini. Tutti i servizi di videoconferenza assicurano in qualche modo la privacy delle chiamate, in modo che non siano accessibili a chiunque. Per iniziare una videconferenza con un pc, il modo più semplice è usare un servizio come Skype (skype.com) o Aol Instant Messenger (aim.com) e un paio di webcam. Il programma iChat – di cui sono muniti tutti i computer Apple – si collega via voce o video a altri pc attraverso la rete Aim. Sia Skype che Aim permettono collegamenti video abbastanza scorrevoli tra due o più parenti. Tutta la famiglia Sigur, di Bruxelles – Brandon, Sylwia e Adrian e il loro bambino di 3 anni – parla con i genitori di Brandon, che vivono ad Albuquerque, in New Mexico, attraverso Skype e il ser- vizio di messaging della Microsoft, un tempo conosciuto come Msn messenger e oggi chiamato Windows Live Messenger. “Parliamo almeno un’ora ogni settimana e possono vedere Adrian che salta per la stanza, suona la chitarra e mostra le sue creazioni Lego”, dice Brandon. “Per chiamare non usiamo più il telefono. Il solo fatto di sapere che possiamo vederci ogni volta che lo desideriamo ci ha fatto dimenticare la distanza che ci separa”. I servizi permettono chiacchierate via video tra Macs e Pc, e generalmente richiedono una connessione veloce a Internet. Skype, ad esempio, per le chiamate vocali richiede una velocità di connessione di almeno 33,6 kilobit al secondo (kbps) - ma Vincent Oberle, un ingegnere di Skype, suggerisce almeno 128 kbps per le chiamate video, e considera 256 kbps la velocità ideale. Solitamente la connessione veloce e la qualità del video di questi servizi seguono il criterio “vince il peggiore”, nel senso che una conversazione tra una persona che ha una connessione Internet veloce e una che ne ha una lenta o congestionata procede alla velocità inferiore, riducendo il numero di fotogrammi al secondo. Durante le chiamate video l’ultima versione di Skype per Windows e altri servizi chat mostrano un indicatore della velocità di trasmissione. Stephanie Cottrell Bryant, che scrive di tecnologia ed è l’autrice di Videoblogging per dummies, suggerisce di procurarsi un laptop con videocamera incorporata. Per chi desidera portare le conversazioni tra parenti a nuovi livelli, esistono degli strumenti online che permettono di diffondere spettacoli dal vivo con più partecipanti. Uno dei più semplici siti di videotrasmissioni è Operator11 (operator11.com), che permette di creare spettacoli dal vivo che vengono poi registrati e possono essere rivisti on line. E’ una sorta di sala-riunioni on line, con tanto di video e audio. Ustream.tv è un altro sistema di trasmissione che permette lo streaming di video dal vivo con una webcam. Chiunque può crearsi un account e trasmettere tutto il giorno. Il fondatore di Ustream, John Ham, dice che sul sito appaiono sempre più frequentemente video di famiglie. “Quando Jim Haynes non riescono a essere insieme fisicamente, comunicano con Upstream”, dice. “Su Upstream abbiamo visto matrimoni, feste di compleanno e lauree”. BlogTV.com è un sito di streaming che permette a due persone di parlare su finestre separate - come accade nelle interviste televisive. Una chat room di testo aggiunge un po’ di interattività e permette ai comunicanti di rivolgersi domande e scambiarsi commenti nel corso della conversazione. Se questi strumenti e servizi sostituiranno le chiamate da casa o la perio- dica letterina alla famiglia non è dato sapere. Ma un mondo aperto al video potrebbe richiedere una qualche preparazione. Magari delle lezioni di recitazione e di trucco – e forse sarebbe bene indossare qualcosa, prima di rispondere al telefono. Televisioni come opere d’arte dentro la cornice per arredare Illustrazione The New York Times L’ azione è troppo veloce e la tv fatica a seguirla di JOE HUTSKO Accomodandosi di fronte a una tv ad alta definizione sintonizzata su un documentario trasmesso in HD (alta definizione), la reazione è quasi sempre la stessa: meraviglia. Se invece si segue uno sport o si è appassionati di videogiochi, la stessa tv provoca una reazione completamente differente: lo schermo sembra non riuscire a star dietro all’azione. I movimenti rapidi creano una sfocatura indistinta, quella che l’industria del settore chiama “ghosting”, ovvero l’insufficiente capacità dello schermo di rinnovare l’immagine. Gli spettatori a cui interessa l’azione devono prestare attenzione sia a come vengono elaborate le immagini veloci sia alle dimensioni dello schermo. Ora che il prezzo dei grandi televisori ad alta definizione continua a scendere, sempre più persone sostituiscono le tv a tubo catodico con quelle piatte al plasma o a cristalli liquidi. “I prezzi degli apparecchi piatti si sono già abbassati del 25 per cento quest’anno e continueranno a scendere per tutta la stagione delle feste”, ha detto James L. McQuivey, analista di mercato della Forrester Research. “I grandi negozi specializzati ormai hanno in catalogo solo pochi televisori non ad alta definizione”. La penuria di apparecchi televisivi con tubo catodico è una sfortunagli appassionati di sport. Queste televisioni ad alta definizione riproducono meglio le immagini e hanno un tempo di risposta più veloce. Matthew Jones, 29 anni, assistente di informatica al Somerset Community College, in Kentucky, ha scoperto i vantaggi della tecnologia della passata generazione quando ha acquistato un apparecchio Sony XBR da 76 centimetri. Da appassionato di videogiochi ha detto: “La qualità dell’immagine è ottima e non ho riscontrato alcun problema per quello che riguarda i tempi di reazione. L’unico difetto? Pesa quasi 90 chili”. In effetti, quanto più aumentano le dimensioni dello schermo, tanto più aumentano profondità e peso. Poiché è difficile trovare tv con tubo catodico ad alta definizione e uno schermo grande, la scelta si riduce a trovare l’apparecchio a schermo piatto che sfoca meno possibile. Alcuni produttori vendono televisori che definiscono adatti alle console dei videogame. Sharp, ad esempio, offre due apparecchi concepiti appositamente per i videogiochi che si distinguono per il “Vyper Drive”, che Tony Flavia, senior product manager dell’azienda, dice che è stato messo a punto “per ridurre a un livello impercettibile il tempo di reazione tra l’imput della console e l’immagine sullo schermo”. David Carnoy, direttore esecutivo di Cnet.com che recensisce televisori, di- ce invece che i produttori usano definizioni di questo tipo per confutare l’idea che gli apparecchi televisivi a cristalli liquidi non siano buoni per giocare. I patiti della console e gli appassionati di sport sono solleciti nell’adottare le nuove tecnologie televisive, quindi i produttori cercano di soddisfarli. “Migliorare la fluidità del movimento per le scene d’azione e gli sport è stato l’obiettivo primario dei produttori di televisori quest’anno”, ha detto Ross Rubin, che segue i trend tecnologici dei consumatori per l’Npd Group. “Toshiba, Philips, Sony, Samsung e altri costruttori hanno usato tecnologie che offrono refresh rate di 120 hertz, una bella differenza rispetto ai precedenti 60 hertz, soprattutto quando si collocano i due modelli fianco a fianco”. Carnoy, di Cnet, concorda: “La maggior parte dei produttori di televisori a cristalli liquidi sta iniziando a distribuire televisori ad alta definizione con refresh rate di 120 hertz che garantiscono tempi di reazione di 4 millisecondi”. E aggiunge: “Chi ama giocare, chi è appassionato di film ed esige da un apparecchio a cristalli liquidi l’immagine migliore e un’ottima performance è disposto a spendere qualcosa di più per avere il meglio del meglio”. di ANNE EISENBERG zione di un modello disegnato dall’architetto Stanford White. Un televisore a schermo piatto appeso Adesso, quando i suoi ospiti guardaal muro piace a molti: quando è acceso, no la cornice dorata e il suo contenuto però. Per tutti quelli che vorrebbero che azzurro, spesso non si accorgono che la tv sparisse quando non la guardano, lo quello è un televisore. Pensano che sia schermo spento è un pugno nell’occhio. un’opera d’arte contemporanea, dice Per questi consumatori ora ora c’è Douglass. “Mi chiedono: ‘Di chi è queuna via d’uscita: il mercato offre un mosto dipinto?’”. do estetico per camuffare quell’enorme Le cornici di Wilmer, che ha fra i suoi schermo al plasma o a cristalli liquidi, clienti anche il Metropolitan Museum e riuscendo magari a migliorare l’arredala Casa Bianca, costano molto. “Per un mento della stanza. I produttori di cornici per specchi e dipinti stanno creando modelli per televisori a muro. Le cornici artistiche, che in molti casi sono riproduzioni dei classici modelli dorati, possono ingannare chi guarda, inducendolo a pensare che non si trova di fronte a un televisore spento ma a uno specchio antico fumé, o addirittura a un’opera di arte contemporanea. Donald J. Douglass può confermarlo: presidente del consiglio d’amministraAlan S. Orling per The New York Times zione dell’Alamo Group, una società che produce Donald J. Douglass dice che molti ospiti ora tosaerba e altre attrezza- scambiano la sua tv per un’opera d’arte. ture, è un collezionista di quadri degli impressionitelevisore da 50 pollici”, dice lo stesso sti americani e più in generale di opere Wilner, “puoi spendere 85.000 dollari d’arte, in parte esposte nella sua casa di per una cornice d’epoca e 30.000 per una New Canaan, nel Connecticut. riproduzione”. (Una selezione delle sue In una stanza c’è un dipinto a olio di cornici è pubblicata sul sito www.eliwilJohn Singer Sargent e un televisore a ner.com) schermo piatto montato sul muro. L’eletEdward C. Balfour, comproprietario trodomestico, sostiene Douglass, si intedella galleria newyorchese Balfour & gra bene nella stanza, soprattutto perBankston, dice che le cornici per tv hanché ha chiesto a Eli Wilner, un commerno un successo assicurato. “La gente imciante di cornici antiche e riproduzioni piega un mucchio di tempo per arredare di New York, di realizzare una cornice la sua casa”, dice. “Ma un televisore può che lo facesse notare meno. alterare la percezione di una abitazione. Wilner ha deciso di inserire il televisoLa cornice elimina almeno in parte quere, che quando è spento ha uno schermo sto effetto”. blu cielo, in una cornice dorata, riprodu- Repubblica NewYork LUNEDÌ 17 SETTEMBRE 2007 VII A L I M E N TA Z I O N E Sbronze memorabili nei ristoranti di classe di FRANK BRUNI NEW YORK — Il Bordeaux scorreva a fiumi e il foie gras abbondava: nel ristorante Daniel, buogustai d’alto bordo si stavano divertendo in grande stile quando, all’improvviso, tutti gli sguardi si voltarono in direzione di un tavolo contro il muro, e la conversazione cessò. Persino Jean-Luc Le Dû, il sommelier del ristorante, si girò. E vide una donna che si atteggiava a ballerina di un locale di spogliarelli. Se ne stava in piedi, davanti alla sala. Per prima cosa, a quanto ricorda Le Dû, si tolse un gilet o una giacca. Poi passò alla camicetta, e proprio quando era sul punto di togliersi il reggiseno venne raggiunta dal direttore di sala, che pose fine al suo barcollante, ebbro exploit da spogliarellista. E alla sua cena. La donna e il suo accompagnatore, un uomo sorridente e anche lui sbronzo che pare l’avesse incoraggiata, furono accompagnati alla porta. “Non era esattamente carina, o gio- Storie di comportamenti troppo disinibiti nei locali più esclusivi. vane, per questo disturbava”, si è lamentato Le Dû, che da diversi anni ha lasciato Daniel e oggi è proprietario di un’enoteca. “Fosse stata bella, forse sarebbe stato diverso, la gente avrebbe potuto incoraggiarla”. In un tempio da quattro stelle, così come in un locale che di stelle non ne ha nessuna, ci sono clienti che bevono troppo. Davvero, davvero troppo. E quando lo fanno, assumono tutti i comportamenti esuberanti, scatenati e umilianti del caso, in luoghi dove proprio non è il caso. La sbornia costa di più, ma i sintomi sono gli stessi: è sciatta e — come dire — stomachevole. “Al limite se si ha un bel conto in banca è più facile ignorare i normali livelli di decoro, perché non ci sono conseguenze”, dice Rocky Cirino, direttore del ristorante Cru, che prima lavorava da Daniel. Joseph Bastianich, tra i maggiori proprietari di ristoranti italiani di Manhattan (che ha, tra gli altri, Del Posto, Babbo e Felidia), ha il tono di voce annoiato e distaccato di chi afferma una cosa ovvia: “Accade di continuo”, dice a proposito dei clienti che non riescono a tenere sotto controllo la propria cena. Persino fuori dalla privacy dei bagni? “Oh sì. Nella sala da pranzo, sul tavolo, sui commensali”, dice Bastianich. Altre scene sono forse più divertenti, come l’episodio piuttosto noto accaduto al Four Seasons nel tardo pomeriggio di molti anni fa, quando alla fine di un lungo pasto tre donne sulla ventina — prima ben vestite, poi svestite — decisero che la piscina di marmo al centro della sala da pranzo principale fosse il luogo ideale per svagarsi, dice Julian Niccolini, uno dei proprietari del ristorante. Così vi si lanciarono, indossando nient’altro che le mutandine. Cosa le abbia spinte, dice Niccolini: “Non voglio usare il termine ubriache. Erano allegre, erano eccitate”. Tutti gli chef, sommelier, direttori e camerieri dei migliori ristoranti di New York hanno storie piccanti da raccontare che attribuiscono alla perdita di inibizione dovuta all’ebrezza. Da Bouley un uomo e una donna si sono chiusi in un bagno, costringendo il personale del ristorante a trattenersi sino alle 2 del mattino. Dai suoni che emettevano si capiva che non erano svenuti. Forse New York si presta a questo genere di cose più di altre grandi città d’America. I ristoratori dicono che qui i clienti bevono spesso più che altrove perché è più probabile che tornino a casa in taxi o in metropolitana. Questo non significa che città come Philadelphia non possano competere. Stando alle notizie di cronaca, al ristorante Le Bec-Fin un cliente sbronzo e panciuto ingaggiò uno scambio di battute con alcune persone che si erano raccolte sul marciapiede davanti al locale per protestare contro il fegato d’oca. L’uomo si mise a saltellare su e giù, il che pare abbia causato molti tremolii e tante risate. “Guardate cosa mi è successo mangiando il fegato d’oca!”. Poi entrò nel ristorante, dove si abbassò i pantaloni spingendosi contro una porta a vetri, in modo da farsi vedere dai manifestanti. L’ essenza di ogni cosa, goccia a goccia Fotografie di Peter DaSilva per The New York Times I ricercatori stanno mettendo a punto rivestimenti invisibili e insapori capaci di uccidere i microrganismi nocivi. La ricercatrice Tara McHugh usa una pellicola di zenzero e carota come rivestimento per un sushi. di KIM SEVERSON di HAROLD McGEE Molte idee che nascono nelle cucine dei ristoranti non tornano granché utili a chi cucina a casa propria e non dispone degli strumenti adeguati e di ettari di banconi da lavoro. Alcune, tuttavia, sono semplici e flessibili per chiunque voglia cimentarsi. E, nel caso di una semplice tecnica chiamata “filtraggio della gelatina”, arriverebbero lentamente a tutti. Il filtraggio della gelatina è un sistema che consente di ottenere liquidi cristallini e brillanti, intensamente profumati per carni, frutta, verdure, formaggi, pane, e qualsiasi altra combinazione possibile. Perché uno dovrebbe voler preparare una cosa simile? Provate a pensare a questi liquidi come essenze, semplici fragranze senza fibre, polpa, grassi, senza niente di niente. Si tratta solo di sapori in forma liquida, forse con un tocco appena di colore, al pari di un classico consommè di carne. In effetti gli chef chiamano queste essenze “consommè” e le adoperano spesso come brodi o salse. Oltretutto possono anche rivelarsi straordinariamente sorprendenti, in quanto il loro aspetto spesso non lascia presagire il piacevole sapore che conferiranno al palato. Un consommè tradizionale è reso trasparente e cristallino mescolando e schiumando via degli albumi sbattuti a neve che intrappolano le particelle solide. Questa nuova tecnica, invece, si affida alla gelatina. Il processo, che dura due o tre giorni, è semplice. Prima si prepara una spremuta o un brodo insaporito e lo si filtra per rimuoverne qualsiasi particella. Poi si dissolve nel Le superpellicole per i cibi del futuro Scott Menchin liquido la gelatina, poca, una frazione minima di quella che si userebbe per preparare un dessert. Si congela il composto per una notte, lo si sistema quando è ancora congelato in un colino con un filtro sopra una ciotola e lo si lascia scongelare in frigorifero lentamente, per un giorno o due. Poco alla volta il liquido riempie la ciotola: quello è il consommè. Di sicuro è ingegnoso: quando la gelatina congela, l’acqua contenuta inizia a formare dei cristalli solidi di ghiaccio, mentre la gelatina, le particelle di cibo, le goccioline di grasso e gli aromi si concentrano nel liquido restante. Il blog “Ideas in Food” (ideasinfood.typepad.com), scritto da due chef, H. Alexander Talbot e Aki Kamozawa, è pieno zeppo di consigli, come quelli per preparare consommè al parmigiano, al roquefort, al foie gras, all’olio di oliva, alla banana con il caramello, alla salsina “ranch”, al burro di noci pecan, al coreano kimchi, al pane tedesco e alla patata arrosto. “Sono meravigliosi con i frutti di mare e gli asparagi, o con qualsiasi altra cosa, ogni volta che si desidera l’aroma di qualcosa senza averne il grasso”, ha scritto Talbot in una e-mail . “Usiamo i consommè anche per marinare e brasare. I carciofi cotti nel consommè di rafano sono straordinari”. NEW BRUNSWICK, New Jersey — Lasciamo le varietà tradizionali di pomodoro ai coltivatori biologici e la pancetta di maiale agli chef. Nel dipartimento di chimica dell’Università Rutgers, e in altri laboratori simili, la ricerca si concentra su ingredienti meno trendy, come l’origano, il carapace del granchio e il latte. In una manciata di laboratori di bromatologia (scienza che studia la composizione, le alterazioni e la conservabilità degli alimenti) sparsi per gli Stati Uniti, ricercatori che parlano di cibo in termini di microbi e polimeri sono impegnati a trasformare gli antipatogeni naturali presenti negli alimenti in pellicole e polveri commestibili. Se le loro ricerche avranno successo, potremmo vedere sottili pellicole imbevute di un derivato del timo, capace di uccidere l’escherichia coli, usate per imbustare gli spinaci freschi. Lo stesso materiale, ridotto in polvere, potrebbe essere spruzzato sulle confezioni di carne di pollo per impedire la formazione della salmonella. Le fragole potrebbero essere immerse in una zuppa a base di proteine delle uova e gusci di gambero: la pellicola che ne risulterebbe — invisibile, commestibile e insapore — combatterebbe la muffa, ucciderebbe gli agenti patogeni e conserverebbe il frutto maturo più a lungo. Per il commensale medio il cibo rivestito di pellicole invisibili che attirano i microrganismi cattivi in una trappola mortale è qualcosa alla stregua della fusione nucleare. Secondo i bromatologi, però, queste ricerche presentano potenzialità straordinarie. “Oggi si fa un gran parlare di pellicole naturali”, dice Michael Chikindas, uno dei bromatologi che lavorano nel laboratorio della Rutgers. “Il ventaglio di applicazioni è sterminato, dai cibi più delicati alle razioni dell’esercito e alle missioni spaziali”. Queste pellicole sono una sorta di involucro di plastica fatto di componenti commestibili e idrosolubili. Possono contenere molecole di chiodi di garofano, timo o altri alimenti in grado di impedire la crescita dei batteri nocivi. Naturalmente una cosa che funziona in laboratorio non sempre funziona fuori. Dicono gli scienziati che nessun cibo esistente in commercio usa queste nuove pellicole e queste polveri antimicrobiche commestibili. Ma il momento sta per arrivare. Le richieste di brevetto sono già Con la scienza alimentare spinaci, fragole e carne di pollo saranno più sicuri. state presentate, e diverse grandi aziende, gruppi merceologici e il governo stanno investendo soldi nelle ricerche. Ogni volta che c’è un’innovazione nell’industria alimentare è fondamentale scegliere il momento giusto, sia per i consumatori che per i produttori, per lanciarla, e il momento giusto potrebbe essere proprio questo. Le notizie di emergenze sanitarie provocate dal cibo, negli Stati Uniti, si susseguono a intervalli regolari. Ad agosto, sono stati ritirati, in 12 Stati, stock di carotine infettate dal batterio della shigella. A luglio, 86 marche di salsa chili in barattolo e altri prodotti a base di carne sono stati ritirati per timore di un’epidemia di botulino. A giugno i consumatori sono stati invitati a gettare via le confezioni di uno snack chiamato Veggie Booty, dopo che in 17 Stati erano stati riscontrati casi di salmonella, per colpa del condimento (realizzato in Cina). La maggior parte dei rivestimenti usati oggi sono a base di glutine, cellulosa, amido e varie proteine approvate dalla Food and Drug Administration. Sono presenti sui coni dei gelati e nei cibi surgelati. In alcune pizze surgelate, uno strato di pellicola impedisce all’umidità della salsa di filtrare nella crosta. Le mele fresche tagliate a spicchi e altri prodotti agricoli sono rivestiti con acido ascorbico per non farli diventare marroni. Molti dolci dall’aria invitante sono rivestiti con una sostanza che farebbe storcere il naso, visto che il più delle volte viene ricavata da una specie di acaro che vive in India e Thailandia. Un altro componente di questi rivestimenti è l’etanolo, il cui uso è regolamentato dall’Agenzia per la protezione dell’ambiente, dice John Krochta, bromatologo dell’Università della California di Davis. Le glasse commestibili di ultima generazione potrebbero rendere superfluo l’uso dell’etanolo, afferma lo scienziato. Secondo i ricercatori, usare le pellicole invece dei raggi per uccidere gli agenti patogeni ha più probabilità di aggirare le resistenze delle associazioni per la sicurezza alimentare. Nonostante l’entusiasmo degli ambienti scientifici per queste nuove polveri e pellicole, però, gli stessi scienziati si affrettano a puntualizzare che questi prodotti non sono delle panacee. “Questi rivestimenti non possono supplire a carenze nella fase di coltivazione, di manipolazione, di pulizia e di lavorazione del prodotto”, dice Krochta. Repubblica NewYork VIII LUNEDÌ 17 SETTEMBRE 2007 ARTI E TENDENZE “Architectural Elements II” (2004) di Alexandre Arrechea, a sinistra, e un particolare di “Tropical Night” di Christopher Cozier, dalla mostra “Infinite Island: Contemporary Caribbean Art”. Visioni dell’Eden, fantasmi di protesta NEW YORK — Nell’evidente, continuo, sforzo di essere meno Manhattan possibile, il Brooklyn Museum sta organizzando una serie di mostre che l’establishment artistico, con la sua fissazione per tutto ciò che è di moda, troverà certamente poco interessanti. Dopo le mostre sull’hip-hop, su Star CRITICA Wars, e sul femminismo, D’ARTE cosa c’è in arrivo? La mostra Infinite Island: Contemporary Caribbean Art. Si tratta di una mostra in grande: 45 artisti, oltre ad un gruppo di designer, fotografi e architetti provenienti dalla Repubblica Dominicana. La mostra, organizzata da Tumelo Mosaka, curatore associato del Brooklyn Museum, sarà aperta fino al 27 gennaio ed è il frutto di un lavoro interno, fatto di passione. E’ anche la prova ulteriore che Manhattan e l’Europa occidentale non dettano più legge su quale genere d’arte sia da vedere. Qui, come altrove, sempre più spesso, gli artisti locali si esprimono attraverso le forme d’arte che sono loro più congeniali. In questa mostra, esplorare l’identità culturale altrui sembra un imperativo. Cosa HOLLAND COTTER che non sorprende, se si considera il prodotto medio che esce da Chelsea, la fabbrica di artisti di Manhattan: bianco, maschio, ceto medio, nato negli Stati Uniti e diplomato in una delle quattro o cinque scuole d’arte che contano. E’ un operatore del settore che ha ricevuto una sorta di approvazione preventiva, come i suoi mercanti d’arte di riferimento, i suoi collezionisti e i suoi critici che, perlopiù, rientrano tutti nello stesso modello demografico. Ma se sei un artista proveniente da uno dei 14 Paesi caraibici rappresentati in questa mostra, le tue radici potrebbero essere africane, asiatiche oppure indigene. E molto probabilmente quello che ti ha plasmato sono storie di colonialismo, schiavitù e sradicamento. Queste storie, nel presente, possono influenzare la tua condizione sociale e le tue prospettive economiche. Il problema è in che modo questo genere d’arte possa essere presentato in modo convincente. Le categorie tematiche che Mosaka applica alla mostra — religione, politica, ricordo, cultura popolare — sono già state usate miglialia di volte. Sono stereotipi. Come modelli concettuali vanno ripensati, e così il modello che alcune forme d’arte seguono. Dopo l’arte complessa e sottile che affronta il tema delle razze e della storia, realizzata da artisti come Kara Walker e Yinka Shonibare, ora non ha molto significato appendere alla parete di una galleria diagrammi che riproducono, con un bel disegno, navi piene di schiavi. Oppure esporre fotografie dai colori sgargianti che fissano immagini di vita vissuta e che devono l’interesse soltanto Storia d’amore con le parole dei Beatles Israele riscopre il suo porno nazista di ISABEL KERSHNER di SYLVIANE GOLD Quasi tutti quelli che nel 1964 avevano dai 12 ai 30 anni hanno impressa indelebilmente nella memoria la musica dei Beatles. Con l’uscita del nuovo film di Julie Taymor, Across the Universe, molti di quei ricordi riceveranno un altro scossone. Chiamatelo jukebox musical, rock opera, o video musicale lungo, sono tutte definizioni che corrispondono a metà al film della Taymor, che sostanzialmente non può essere ricondotto ad alcuna categoria e che mette le canzoni dei Beatles in bocca, e talvolta in testa, a personaggi inventati che vivono semplicemente la loro vita. Una studentessa delle superiori, Lucy aspetta che il suo ragazzo torni dall’addestramento reclute e canta It Won’t Be Long. Il fratello Max, studente universitario, fa baldoria con Jude, un nuovo amico di Liverpool — chiaro, no — al ritmo di With a Little Help From My Friends. Poi Jude conosce Lucy: I’ve Just Seen a Face. Quarant’anni dopo l’Estate dell’Amore, la Taymor mette in campo la musica dei Beatles per fare una carrellata di un periodo storico, raccontare una storia d’amore e — qui arriva lo scossone — liberarsi dei profili familiari di quei successi di tanto tempo fa. Non che non le piacciano così come sono. “I brani dei Beatles sono perfetti”, dice la regista intervistata nel suo loft nel centro di Manhattan. “L’arrangiamento è perfetto, l’esecuzione perfetta”. Ecco perché le versioni presenti nel film devono distaccarsi completamente dagli originali. Così Let It Be diventa un inno gospel, I Want to Hold Your Hand si trasforma in una ballata e I Am the Walrus è il nome di un libro occupato. Gran parte delle opere politiche che Mosaka ha scelto possiedono un tocco leggero e allusivo. Jennifer Allora e Guillermo Calzadilla trasformano delle impronte di scarpa impresse sulla sabbia in arte di protesta. Una serie di fotografie di Quisqueya Henrìquez propone immagini di paradisi caraibici del folklore turistico accanto ad altre di un Eden attuale, contaminato dalle lotte sociali ed economica, senza rendere però immediatamente evidente il contrasto. Una delle finalità dichiarate della mostra è di chiedere se vi sia un’entità culturale — o un genere di arte contemporanea — che possa identificarsi con certezza come caraibica. E giunge a dare una risposta, negativa, attraverso l’esibizione di una varietà assoluta. Potrebbe esserci un collegamento essenziale tra i disegni diaristici di Trinidad Christopher Cozier, le banane placcate in platino del portoricano Miguel Luciano e un video triste e pieno di suspense del giovane artista cubano Alex Hernandez Dueñas. Ma se c’è, qui non è rilevabile. Il pezzo forte, tuttavia, è Magnan Projects, New York; in alto a sinistra, Brooklyn Museum una scultura di un artista inal cartellino appeso alla parete. glese di origine caraibica, Hew Locke. L’opera più bella della mostra è anche L’opera, intitolata El Dorado, consila più astratta. La fotografia di un uomo ste in un monumentale busto della redalla pelle scura che trasporta una pila gina Elisabetta II, assemblato usando di mattoni bianchi che gli nasconde il vi- migliaia di giocattolini da pochi soldi so, opera dell’artista cubano Alexandre — armi di plastica dorata, spade, lucerArrechea, potrebbe riferirsi all’ormai tole e scorpioni di gomma — con una fatiscente architettura modernista cuspecie di guarnizione di fiori finti che bana oppure a qualcos’altro. Evitando le fa da corona e da acconciatura. Che di rivelare troppo, l’immagine dà al visi tratti di un omaggio o di un insulto, è sitatore molto materiale con cui tenersi sensazionale. Abbot Genser/Revolution Studios Attori del cast di “Across the Universe”, il film di Julie Taymor che inserisce 31 brani dei Beatles in una storia degli anni ’60. scritto da un proto-hippie. La Taymor, 54 anni, non ha mai avuto scrupoli nel lasciare la sua impronta sulle opere altrui. Tra i classici analizzati e reinventati dalla regista per il palcoscenico o per lo schermo si contano il Tito Andronico di Shakespeare, il Flauto magico di Mozart, e i dipinti di Frida Kahlo. Nel suo più noto atto di trasformazione, Il Re Leone, ha fatto della fiaba animata disneyana una spettacolare produzione di Broadway. Ma perché andare in cerca di guai con i Beatles? “E’ rischioso”, ammette. “Ciascuno interpreta a modo suo”. Un analogo tentativo di associare la musica dei Beatles ad una trama, il film Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band del 1978, si rivelò imperfetto. Tuttavia, quando la regista fu contattata dalla Revolution Studios (casa di produzione controllata dalla Sony, coproprietaria del catalogo dei Beatles), l’idea le parve irresistibile. Chiamò al suo fianco due sperimentati collaboratori, il compositore Elliot Goldenthal (con il quale convive) e il coreografo Daniel Ezralow. Ed è riuscita ad avere Bono, Salma Hayek (protagonista del film Frida), Joe Cocker e Eddie Izzard per una serie di cameo. Nella scelta dei brani da inserire in Across the Universe, la regista ha seguito due criteri diversi: “Mi sono chiesta: ‘Quali sono le mie canzoni preferite?’ e ‘Quali brani non possono mancare?’”. La trama del film ruota attorno a Max e Lucy, interpretati da Joe Anderson e Evan Rachel Wood. I due ragazzi approdano all’East Villane di New York e si immergono nel calderone di sesso, politica e rock ’n’ roll tipico degli anni ’60. Ringo Starr, Paul McCartney, Yoko Ono e Olivia Harrison hanno visto il film, dice la Taymor, ma la regista era presente solo alla proiezione organizzata per Paul McCartney. “Non ero mai stata così tesa in vita mia ”, ricorda. E aggiunge: “Nella peggiore delle ipotesi almeno sono riuscita a girare il film e a sedermi accanto a Paul”. GERUSALEMME — E’ uno dei piccoli segreti sporchi di Israele. Nei primi anni ’60, mentre gli israeliani si trovavano per la prima volta esposti, al processo contro Adolf Eichmann, alle scioccanti testimonianze dei sopravvissuti dell’Olocausto, una serie di libri pornografici tascabili, gli Stalag, basati su temi nazisti, diventarono dei bestseller in tutto il Paese. Letti in segreto da una generazione di israeliani adolescenti, spesso figli di sopravvissuti, gli Stalag erano così chiamati per il nome dei campi di prigionia della Seconda guerra mondiale dove erano ambientati. Raccontavano storie perverse di sadici ufficiali donne delle SS, con tanto di fruste e stivali, che abusavano di piloti americani o inglesi. In genere finivano con la vendetta del protagonista maschile che violentava e uccideva le sue aguzzine. Rimasti nascosti per decenni negli sgabuzzini e nei ripostigli, gli Stalag, miscuglio di nazismo, sesso e violenza, ora stanno riemergendo, suscitando un rinnovato dibattito sulla rappresentazione che il Paese ha del nazismo e dell’Olocausto e se questi non siano indebitamente stati mescolati a una sorta di perversione sessuale e di voyeurismo che ha permeato persino i corsi di studio. “Mi sono reso conto che le prime immagini dell’Olocausto che ho visto, crescendo qui, sono state immagini di donne nude”, dice Ari Libsker, il cui documentario Stalag: Holocaust and Pornography in Israel è stato presentato a luglio al Jerusalem Film Festival. “Frequentavamo ancora le elementari”, fa notare. “Ricordo il grande imbarazzo”. Gli Stalag sono stati praticamente la sola pornografia disponibile nella società israeliana nei primi anni ’60. Sparirono in fretta tanto quanto in fretta erano comparsi. Due anni dopo che la prima edizione I tascabili pornografici, noti come Stalag, furono scritti da israeliani. era andata a ruba dai giornalai intorno alla stazione centrale dei bus di Tel Aviv, un tribunale israeliano condannò gli editori per diffusione della pornografia. Il più famoso Stalag, I Was Colonel Schultz’s Private Bitch, fu giudicato oltre ogni limite e la polizia cercò di rintracciarne ogni copia. Gli Stalag andarono al macero. Fino all’inizio del processo a Eichmann, nel 1961, le voci dell’Olocausto non si erano sentite quasi per niente in Israele. In questo documentario, l’editore del primo Stalag, Ezra Narkis, riconosce che fu il processo a dare una spinta al filone. Libsker, che ha 35 anni, nipote di alcuni sopravvissuti all’Olocausto, sostiene che il misto di “orrore, sadismo e pornografia” ha contribuito a perpetuare la memoria dell’Olocausto nella coscienza degli israeliani fino al giorno d’oggi. Repubblica NewYork