Rassegna stampa 8 febbraio 2011
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Rassegna stampa 8 febbraio 2011
RASSEGNA STAMPA di martedì 8 febbraio 2011 SOMMARIO L’Osservatore Romano di sabato scorso ha pubblicato un intervento del Patriarca card. Angelo Scola sull’iniziativa di Papa Benedetto XVI di istituire il Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione. Lo riprendiamo oggi: “«Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, ebbe compassione di loro, perché erano come pecore che non hanno pastore, e si mise a insegnare loro molte cose» (Marco, 6, 34). Un’intensa partecipazione allo struggimento di Gesù traspare dal motu proprio Ubicumque et semper, quando il Papa, citando Giovanni Paolo II, considera la situazione di «interi Paesi e Nazioni ora messi a dura prova e talvolta perfino radicalmente trasformati dal continuo diffondersi dell’indifferentismo, del secolarismo e dell’ateismo». La Chiesa, infatti, ogni giorno mendica dal Signore Gesù il suo sguardo sul mondo. Quello che, nel Canone romano, a conclusione del momento più importante della celebrazione eucaristica, ci fa pregare con queste parole: «Per Cristo nostro Signore tu, o Dio, crei e santifichi sempre, fai vivere, benedici e doni al mondo ogni bene». Questo sguardo di autentica com-passione non solo mette i cristiani al riparo dalla tentazione, sempre incombente, di pensarsi separati dal «fratello uomo», ma al contrario li spinge a cercare ogni strada percorribile per condividere l’umana condizione. Oggi in particolare tutti i battezzati sono chiamati dal Papa a riconoscere e ad affrontare l’inedito frangente in cui Nazioni e popoli di antica tradizione cristiana sono immersi. Possiamo descriverne in estrema sintesi i contorni? L’espressione «dura prova» a cui sia Giovanni Paolo II sia Benedetto XVI hanno fatto ricorso per delineare la situazione attuale è molto eloquente. L’occidente, che un tempo si poteva dire cristiano, si trova oggi a fare i conti con quello che Henri de Lubac chiamò «il dramma dell’umanesimo ateo». Queste parole ci aiutano a diagnosticare il nucleo centrale della dura prova: «Non è vero che l’uomo, come sembra che talvolta si dica, non possa organizzare il mondo terreno senza Dio. È vero, però, che, senza Dio, non può alla fine dei conti che organizzarlo contro l’uomo. L’umanesimo esclusivo è un umanesimo disumano». L’indifferentismo, il secolarismo e l’ateismo che, in modi e versioni diversi, si sono imposti lungo il XX secolo e fino ai nostri giorni come strade per la liberazione dell’uomo e per il raggiungimento della sua piena statura, si sono rivelati spesso fallaci. E quella che si annunciava come un’aurora piena di promesse, si presenta ora con i tratti di una «dura prova». Lo vediamo nell’incidenza che, almeno in Europa, l’abbandono della fede cristiana ha avuto sulle forme di vita personale - basti pensare a quanto oggi si afferma e si pratica nell’ambito degli affetti e del lavoro - e comunitaria, come mostrano le precarie soluzioni offerte ai problemi più urgenti, per esempio quello della crisi economica, dell’immigrazione e dello sviluppo integrale dei popoli. Il crudo realismo della diagnosi proposta dai due Pontefici è lontano dal negare il carattere di affascinante anche se contraddittoria adventura proprio dei nostri tempi. Ha come scopo di stimolare i cristiani a non vivere da «uomini impagliati» (Eliot). Davanti alla «prova» il cristiano è sempre chiamato a decidere per una rinnovata sequela sulle orme del suo Signore che con fermezza «camminava davanti a tutti salendo verso Gerusalemme» (Luca, 19, 28) per vivere la sua pasqua di morte e risurrezione. Innumerevoli testimoni lungo la storia della Chiesa ci hanno documentato la possibilità reale di vivere la prova come occasione privilegiata perché si manifesti la potenza del crocifisso risorto. E l’hanno fatto sostenuti dallo Spirito che ha donato loro fortezza e speranza. Nella bimillenaria avventura del popolo cristiano non c’è stato un solo momento in cui non si sia potuto far conto sulla consolante convinzione di san Paolo (Filippesi, 1, 6): «Sono persuaso che colui il quale ha iniziato in voi quest’opera buona, la porterà a compimento fino al giorno di Cristo Gesù». E così l’iniziativa del Papa di creare il Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione, si rivela come una preziosa decisione per condividere la prova degli uomini e delle donne in travaglio entro una società in drammatica transizione. È una testimonianza di «speranza affidabile» (Spe salvi, n. 1). Poiché Dio si è reso familiare agli uomini, egli è a tutti vicino. Per questo il cuore di ogni uomo, lo sappia o meno, ha sempre nostalgia di Dio e desidera incontrare Colui che - si legge nella Gaudium et spes (n. 22) - «svela pienamente l’uomo a se stesso e gli manifesta la sua altissima vocazione»” (a.p.) 1 - IL PATRIARCA L’OSSERVATORE ROMANO di sabato 5 febbraio 2011 Pag 1 Di fronte alla dura prova di Angelo Scola Riflessioni su «Ubicumque et semper» 3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Pag 1 Il sale, la luce, la vita All’Angelus Benedetto XVI ricorda che il malato è anzitutto una persona Pag 1 Una sfida sempre nuova di Lucetta Scaraffia Riflessioni su “Ubicumque et semper” Pag 7 Internet in seminario per formare il sacerdote del futuro Benedetto XVI ai partecipanti alla plenaria della Congregazione per l’Educazione Cattolica. L’insegnamento della religione cattolica nelle scuole favorisce l’educazione in una società multiculturale AVVENIRE Pag 19 L’Eucaristia ci chiama. Andiamo ad Ancona Dai vescovi italiani l’invito al Congresso eucaristico in programma a settembre: “Una sosta preziosa per tutti” CORRIERE DELLA SERA Pag 26 Bagnasco: “Mondo femminile? Da ragazzo ebbi una simpatia” di Gian Guido Vecchi Genova: il cardinale risponde a una domanda di un liceale Pag 41 Se la chiesa è come un palasport di Paolo Valentino Ravasi e Portoghesi: ci si perde. Galantino e Mandara: no, esprimono il sacro IL FOGLIO Pag 2 Così 143 teologi vogliono svegliare la chiesa dalla “tomba” del celibato di Paolo Rodari 4 – MARCIANUM / ASSOCIAZIONI, MOVIMENTI, ISTITUTI E GRUPPI LA NUOVA Pag 36 Teologia e cultura nella Divina Commedia 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA / LAVORO CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Gli invisibili che sfuggono all’aiuto degli altri di Dario Di Vico Welfare e paradossi. L’esperienza della diocesi di Milano Pag 1 Facebook, sì al dialogo con i prof ma senza pacche sulle spalle di Paolo Di Stefano Pag 29 “Prof, vuoi diventare un mio amico?”. I dubbi degli insegnanti su Facebook di Lorenzo Salvia Contatti con gli alunni via Internet. “Un’opportunità”. “No, confusione di ruoli” AVVENIRE Pag 2 Per crescere più famiglia di Giuseppe Pennisi Il passato, l’oggi e la sfida del futuro Pag 12 Un minore su 4 meno imbarazzato se “parla “ on-line di Giovanna Sciacchitano Con internet si evita il confronto diretto. Via di fuga per chi non lega coi coetanei 6 – SERVIZI SOCIALI / SANITÀ CORRIERE DEL VENETO Pag 10 Bocciato il centro anti-tumori: “Ci guadagnano solo i privati” di Michela Nicolussi Moro Padoan: se non firmo, penale da 50 milioni di euro LA NUOVA Pag 9 Centro protonico verso la bocciatura. Ispezione secretata di Renzo Mazzaro I costi della sanità: lente sul project di Mestre IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag XXXV All’Ospedale San Camillo elevati livelli di assistenza per tutti i pazienti del Veneto (intervento del commissario straordinario Pietro Gonella) 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA LA NUOVA Pag 12 Il decreto Calderoli resta un giallo di Alberto Vitucci Canal Grande: il ministro ha veramente sbagliato, la competenza è passata allo Stato Pag 17 Pm10 alle stelle da una settimana di Mitia Chiarin La Regione convoca i sindaci. A Mestre blocco del traffico il 20 febbraio Pag 21 Trovati i vandali di Villa Elena di Giorgio Cecchetti E’ la stessa banda che ha agito in Regione e alo Iuav Pag 22 Lettera dell’Unità, fotocopie in chiesa di Marta Artico Il parroco di Dese: “Messaggio valido”. La Onisto non ci sta: “Strumentalizzazione” IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag V Reagiamo da grande città di Pieralvise Zorzi Pag IX Una forcola speciale da regalare al Papa di L.M. Pag XIII Rubygate, parrocchiani “contro” di Alberto Francesconi e Alvise Sperandio Contestati i sacerdoti per le loro esternazioni sulla vita privata del premier Berlusconi: “Usate la stessa veemenza con i pedofili”. Don Angelo Favero: “Politica? No, solo un richiama morale” CORRIERE DEL VENETO Pag 2 L’asfalto dei futuristi, i dogi e il moto ondoso. Di chi è il Canal Grande? di Sara D’Ascenzo Comune, Stato, architetti: storia della “strada magica” 8 – VENETO / NORDEST IL GAZZETTINO Pag 1 Immigrazione, per il 70% del Nordest è necessaria di Giancarlo Corò Pagg 18 – 19 Gli immigrati a Nordest, per il 70% sono necessari di Natascia Porcellato e Annamaria Bacchin Ma il 27% li vede in competizione con gli italiani (giovani soprattutto) per il lavoro. Pittau (dossier Caritas): “I veneti hanno capito il valore degli stranieri” CORRIERE DEL VENETO Pag 2 Unità, Regione assente a Roma. Il Quirinale chiede spiegazioni di Marco Bonet Zaia non aderisce al Comitato statale, Ruffato pronto a sostituirlo Pag 3 Abrogata per errore dal governo l’annessione del Veneto all’Italia di Alessio Antonini Nel “taglianorme” finisce anche il decreto regio del 1866 … ed inoltre oggi segnaliamo… L’ESPRESSO di giovedì 10 febbraio 2011 Pag 13 Una realtà inventata di Massimo Cacciari Il politico deresponsabilizzato non produce più né analisi, né programmi. Solo narrazioni fantastiche PANORAMA di giovedì 10 febbraio 2011 Pag 19 La triste parabola del Pd, l'unico partito d'opposizione al mondo che sceglie l'Aventino e non vuole discutere di nulla di Giuliano Ferrara CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Una debole appartenenza di Giovanni Belardelli Dietro le polemiche sul 17 marzo Pag 1 Cultura al femminile, le occasioni perdute di Antonio Polito Pag 19 La vita dietro un cellophane dei quattro piccoli fantasmi di Goffredo Buccini Pochi giochi, niente scuola. Così si cresce nelle baracche Pag 40 Rom, una questione di responsabilità di Mauro Magatti Dopo la morte dei 4 fratellini LA REPUBBLICA Pag 1 Il fantasma azionista di Ezio Mauro Pag 1 Sneja la zingara e le baracche della morte: "Ecco come vivono gli invisibili di Roma" di Francesco Merlo Pag 56 Riscopriamo l'etica di Marco Aldi Agamben: "Provate a vivere secondo le vostre idee" LA STAMPA La vera partita comincia soltanto ora di Gian Enrico Rusconi AVVENIRE Pag 1 Crudele e ingiusta di Lucia Bellaspiga L’ira di Englaro contro le suore di Lecco Pag 2 In Sud Sudan vittoria senza ombre ma la partita resta da giocare di Giulio Albanese Il “contagio” egiziano e il ruolo delle grandi potenze Pag 5 I conti non tornano Pag 27 Atei e credenti, insieme oltre la crisi di Lorenzo Fazzini Parla il prete psicoanalista Bellet LA NUOVA Pag 1 Federalismo, in troppi danno i numeri di Mario Bertolissi AVVENIRE di domenica 6 febbraio 2011 Pag 2 L’Europa orfana ritrovi la sua memoria di Carlo Cardia Torna al sommario 1 - IL PATRIARCA L’OSSERVATORE ROMANO di sabato 5 febbraio 2011 Pag 1 Di fronte alla dura prova di Angelo Scola Riflessioni su «Ubicumque et semper» «Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, ebbe compassione di loro, perché erano come pecore che non hanno pastore, e si mise a insegnare loro molte cose» (Marco, 6, 34). Un’intensa partecipazione allo struggimento di Gesù traspare dal motu proprio Ubicumque et semper, quando il Papa, citando Giovanni Paolo II, considera la situazione di «interi Paesi e Nazioni ora messi a dura prova e talvolta perfino radicalmente trasformati dal continuo diffondersi dell’indifferentismo, del secolarismo e dell’ateismo». La Chiesa, infatti, ogni giorno mendica dal Signore Gesù il suo sguardo sul mondo. Quello che, nel Canone romano, a conclusione del momento più importante della celebrazione eucaristica, ci fa pregare con queste parole: «Per Cristo nostro Signore tu, o Dio, crei e santifichi sempre, fai vivere, benedici e doni al mondo ogni bene». Questo sguardo di autentica com-passione non solo mette i cristiani al riparo dalla tentazione, sempre incombente, di pensarsi separati dal «fratello uomo», ma al contrario li spinge a cercare ogni strada percorribile per condividere l’umana condizione. Oggi in particolare tutti i battezzati sono chiamati dal Papa a riconoscere e ad affrontare l’inedito frangente in cui Nazioni e popoli di antica tradizione cristiana sono immersi. Possiamo descriverne in estrema sintesi i contorni? L’espressione «dura prova» a cui sia Giovanni Paolo II sia Benedetto XVI hanno fatto ricorso per delineare la situazione attuale è molto eloquente. L’occidente, che un tempo si poteva dire cristiano, si trova oggi a fare i conti con quello che Henri de Lubac chiamò «il dramma dell’umanesimo ateo». Queste parole ci aiutano a diagnosticare il nucleo centrale della dura prova: «Non è vero che l’uomo, come sembra che talvolta si dica, non possa organizzare il mondo terreno senza Dio. È vero, però, che, senza Dio, non può alla fine dei conti che organizzarlo contro l’uomo. L’umanesimo esclusivo è un umanesimo disumano». L’indifferentismo, il secolarismo e l’ateismo che, in modi e versioni diversi, si sono imposti lungo il XX secolo e fino ai nostri giorni come strade per la liberazione dell’uomo e per il raggiungimento della sua piena statura, si sono rivelati spesso fallaci. E quella che si annunciava come un’aurora piena di promesse, si presenta ora con i tratti di una «dura prova». Lo vediamo nell’incidenza che, almeno in Europa, l’abbandono della fede cristiana ha avuto sulle forme di vita personale - basti pensare a quanto oggi si afferma e si pratica nell’ambito degli affetti e del lavoro - e comunitaria, come mostrano le precarie soluzioni offerte ai problemi più urgenti, per esempio quello della crisi economica, dell’immigrazione e dello sviluppo integrale dei popoli. Il crudo realismo della diagnosi proposta dai due Pontefici è lontano dal negare il carattere di affascinante anche se contraddittoria adventura proprio dei nostri tempi. Ha come scopo di stimolare i cristiani a non vivere da «uomini impagliati» (Eliot). Davanti alla «prova» il cristiano è sempre chiamato a decidere per una rinnovata sequela sulle orme del suo Signore che con fermezza «camminava davanti a tutti salendo verso Gerusalemme» (Luca, 19, 28) per vivere la sua pasqua di morte e risurrezione. Innumerevoli testimoni lungo la storia della Chiesa ci hanno documentato la possibilità reale di vivere la prova come occasione privilegiata perché si manifesti la potenza del crocifisso risorto. E l’hanno fatto sostenuti dallo Spirito che ha donato loro fortezza e speranza. Nella bimillenaria avventura del popolo cristiano non c’è stato un solo momento in cui non si sia potuto far conto sulla consolante convinzione di san Paolo (Filippesi, 1, 6): «Sono persuaso che colui il quale ha iniziato in voi quest’opera buona, la porterà a compimento fino al giorno di Cristo Gesù». E così l’iniziativa del Papa di creare il Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione, si rivela come una preziosa decisione per condividere la prova degli uomini e delle donne in travaglio entro una società in drammatica transizione. È una testimonianza di «speranza affidabile» (Spe salvi, n. 1). Poiché Dio si è reso familiare agli uomini, egli è a tutti vicino. Per questo il cuore di ogni uomo, lo sappia o meno, ha sempre nostalgia di Dio e desidera incontrare Colui che - si legge nella Gaudium et spes (n. 22) - «svela pienamente l’uomo a se stesso e gli manifesta la sua altissima vocazione». Torna al sommario 3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Pag 1 Il sale, la luce, la vita All’Angelus Benedetto XVI ricorda che il malato è anzitutto una persona Un appello perché l’Egitto ritrovi «la pacifica convivenza, nell’impegno condiviso per il bene comune» è stato lanciato dal Papa all’Angelus di domenica 6 febbraio. Ai fedeli riuniti in piazza San Pietro il Pontefice ha anche richiamatola necessità di accogliere la vita di ogni essere umano, tanto più - ha sottolineato - «quando la persona stessa è debole, invalida e bisognosa di aiuto». Cari fratelli e sorelle! Nel Vangelo di questa domenica il Signore Gesù dice ai suoi discepoli: «Voi siete il sale della terra... Voi siete la luce del mondo» (Mt 5, 13.14). Mediante queste immagini ricche di significato, Egli vuole trasmettere ad essi il senso della loro missione e della loro testimonianza. Il sale, nella cultura mediorientale, evoca diversi valori quali l’alleanza, la solidarietà, la vita e la sapienza. La luce è la prima opera di Dio Creatore ed è fonte della vita; la stessa Parola di Dio è paragonata alla luce, come proclama il salmista: «Lampada per i miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino» (Sal 119,105). E sempre nella Liturgia odierna il profeta Isaia dice: «Se aprirai il tuo cuore all’affamato, se sazierai l’afflitto di cuore, allora brillerà fra le tenebre la tua luce, la tua tenebra sarà come il meriggio» (58,10). La sapienza riassume in sé gli effetti benefici del sale e della luce: infatti, i discepoli del Signore sono chiamati a donare nuovo «sapore» al mondo, e a preservarlo dalla corruzione, con la sapienza di Dio, che risplende pienamente sul volto del Figlio, perché Egli è la «luce vera che illumina ogni uomo» (Gv 1,9). Uniti a Lui, i cristiani possono diffondere in mezzo alle tenebre dell’indifferenza e dell’egoismo la luce dell’amore di Dio, vera sapienza che dona significato all’esistenza e all’agire degli uomini. Il prossimo 11 febbraio, memoria della Beata Vergine di Lourdes, celebreremo la Giornata Mondiale del Malato. Essa è occasione propizia per riflettere, per pregare e per accrescere la sensibilità delle comunità ecclesiali e della società civile verso i fratelli e le sorelle malati. Nel Messaggio per questa Giornata, ispirato ad una espressione della Prima Lettera di Pietro: «Dalle sue piaghe siete stati guariti» (2,24), invito tutti a contemplare Gesù, il Figlio di Dio, il quale ha sofferto, è morto, ma è risorto. Dio si oppone radicalmente alla prepotenza del male. Il Signore si prende cura dell’uomo in ogni situazione, condivide la sofferenza e apre il cuore alla speranza. Esorto, pertanto tutti gli operatori sanitari a riconoscere nell’ammalato non solo un corpo segnato dalla fragilità, ma prima di tutto una persona, alla quale donare tutta la solidarietà e offrire risposte adeguate e competenti. In questo contesto ricordo, inoltre, che oggi ricorre in Italia la «Giornata per la vita». Auspico che tutti si impegnino per far crescere la cultura della vita, per mettere al centro, in ogni circostanza, il valore dell’essere umano. Secondo la fede e la ragione la dignità della persona è irriducibile alle sue facoltà o alle capacità che può manifestare, e pertanto non viene meno quando la persona stessa è debole, invalida e bisognosa di aiuto. Cari fratelli e sorelle, invochiamo la materna intercessione della Vergine Maria, affinché i genitori, i nonni, gli insegnanti, i sacerdoti e quanti sono impegnati nell’educazione possano formare le giovani generazioni alla sapienza del cuore, perché raggiungano la pienezza della vita. Pag 1 Una sfida sempre nuova di Lucetta Scaraffia Riflessioni su “Ubicumque et semper” «Affrontare con rinnovate forze la sfida dell’annuncio del Vangelo nel mondo, impiegare tutte le nostre forze perché vi giunga - ha detto Benedetto XVI rispondendo alle domande di Peter Seewald - fa parte dei compiti programmatici che mi sono stati assegnati». Il Papa lo afferma con parole chiare, anche se è ben consapevole che non si tratta di una novità: come è scritto nel motu proprio Ubicumque et semper, «tale missione ha assunto nella storia forme e modalità sempre nuove a seconda dei luoghi, delle situazioni e dei momenti storici». Non è da oggi che il problema di inventare nuove forme di evangelizzazione costituisce una sfida per la Chiesa. Una costante nel tempo, che ha accompagnato l’attività apostolica cristiana, e nei momenti di più forte crisi religiosa e istituzionale ha rappresentato una sfida fondamentale e vitale. La storia ci insegna che proprio in questi frangenti Gesù ha donato alla Chiesa le donne e gli uomini necessari al rinnovamento; persone eccezionali che hanno saputo capire sino in fondo il loro momento storico e trovare le risposte giuste, cioè vie, modalità e linguaggi nuovi per far comprendere e vivere il messaggio evangelico. Certamente, possiamo considerare che sia stata un segno della grazia divina l’esistenza quasi contemporanea dei grandi santi che hanno rinnovato la Chiesa in crisi dopo la Riforma: Teresa d’Avila, Giovanni della Croce, Ignazio di Loyola, Filippo Neri, Carlo Borromeo, che hanno dato contributi diversi e decisivi per il rinnovamento del cattolicesimo. Un modello di vita monastica e mistica per le donne è stata Teresa, che fu anche una delle prime e più grandi scrittrici in lingua spagnola, mentre l’autobiografia di Ignazio costituì un classico su cui si formarono tanti cristiani, così come i suoi Esercizi spirituali, rivoluzionari in una società adagiata in una religiosità che si era impoverita. La poesia di Giovanni, il mistico che ha saputo riconoscere Dio anche nella notte dello scoramento e della depressione, viene a concludere questo grande trittico spagnolo. Nuovi ordini dinamici e creativi, come i gesuiti, innovative proposte di vita monastica e di esperienza mistica che hanno trovato subito accoglienza nella Chiesa ferita dalla Riforma, così come l’Oratorio di Filippo Neri, e le importanti iniziative nate al suo interno, tra cui gli Annales ecclesiastici di Baronio. Ed è interessante notare come in questo periodo così fecondo di novità il rinnovamento culturale sia andato di pari passo con la riforma della vita e dell’esperienza religiosa. Meno fervido sul piano della cultura, forse, ma altrettanto positivo su quello del rinnovamento della vita religiosa, è stato il periodo successivo alla rivoluzione francese e al conseguente attacco subito dagli ordini contemplativi. Le nuove congregazioni di vita attiva, femminili e maschili, avevano infatti creato le condizioni per assistere materialmente e spiritualmente le masse stravolte dalla rivoluzione industriale, aiutandole a non perdere le radici religiose sull’onda della secolarizzazione. I ragazzi di strada educati da don Bosco, gli immigrati assistiti da madre Cabrini ritrovavano, nella mano che li accoglieva con amore, anche la ragione per non allontanarsi dalla fede. Nel difficile, e per molti versi drammatico, secolo appena trascorso dobbiamo ammettere che molti tentativi di rendere il cristianesimo più attuale si sono rivelati sbagliati, e non hanno avuto esiti positivi: pensiamo per esempio ad alcune forme di teologia della liberazione, o all’avvicinamento a esperienze di multireligiosità, anche a costo di mettere in secondo piano la verità cristiana. Oggi ci troviamo davanti a una strada ancora poco chiara, a un compito che la sovrabbondanza di voci mediatiche contrarie rende molto difficile. Ma è anche vero che, dopo decenni, ci troviamo in un momento di nuovo aperto all’ascolto del Vangelo. Le grandi utopie secolari che hanno cercato di sostituire la religione nel mondo occidentale si sono rivelate illusioni pericolose: dopo il crollo del comunismo, oggi assistiamo a una crisi del modello di vita incentrato sull’autorealizzazione individuale, a un fallimento della rivoluzione sessuale che doveva assicurare a tutti la felicità e invece ha portato solo solitudine e dolore, e quindi a una più reale possibilità di essere ascoltati. Ci sono settori, come l’educazione, in crisi drammatica, e altri, come la sanità, dove si vivono nella concreta emergenza quotidiana gravi problemi bioetici, che richiedono attenzione da parte della Chiesa, e offrono occasioni di evangelizzazione che bisogna imparare a cogliere. In attesa di nuovi santi e pregando perché arrivino - bisogna tutti lavorare su questo progetto che segna un altro inizio per la trasmissione del messaggio cristiano. Una sfida, che si presenta sempre sotto vesti diverse, da affrontare e vincere ancora una volta. Pag 7 Internet in seminario per formare il sacerdote del futuro Benedetto XVI ai partecipanti alla plenaria della Congregazione per l’Educazione Cattolica. L’insegnamento della religione cattolica nelle scuole favorisce l’educazione in una società multiculturale L’emergenza educativa; internet in seminario; l’educazione interculturale; il ruolo educativo dell’insegnamento della religione cattolica nelle scuole: sono alcuni degli argomenti proposti dal Papa ai partecipanti alla plenaria della Congregazione per l’Educazione Cattolica, ricevuti lunedì mattina, 7 febbraio, nella Sala del Concistoro. Signori Cardinali, Venerati fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio, cari fratelli e sorelle. Rivolgo a ciascuno di voi il mio cordiale saluto per questa visita in occasione della riunione plenaria della Congregazione per l’Educazione Cattolica. Saluto il Cardinale Zenon Grocholewski, Prefetto del Dicastero, ringraziandolo per le sue cortesi parole, come pure il Segretario, il Sottosegretario, gli Officiali e i Collaboratori. Le tematiche che affrontate in questi giorni hanno come denominatore comune l’educazione e la formazione, che costituiscono oggi una delle sfide più urgenti che la Chiesa e le sue istituzioni sono chiamate ad affrontare. L’opera educativa sembra diventata sempre più ardua perché, in una cultura che troppo spesso fa del relativismo il proprio credo, viene a mancare la luce della verità, anzi si considera pericoloso parlare di verità, instillando così il dubbio sui valori di base dell’esistenza personale e comunitaria. Per questo è importante il servizio che svolgono nel mondo le numerose istituzioni formative che si ispirano alla visione cristiana dell’uomo e della realtà: educare è un atto d’amore, esercizio della «carità intellettuale», che richiede responsabilità, dedizione, coerenza di vita. Il lavoro della vostra Congregazione e le scelte che farete in questi giorni di riflessione e di studio contribuiranno certamente a rispondere all’attuale «emergenza educativa». La vostra Congregazione, creata nel 1915 da Benedetto XV, da quasi cento anni svolge la sua opera preziosa a servizio delle varie Istituzioni cattoliche di formazione. Tra di esse, senza dubbio, il seminario è una delle più importanti per la vita della Chiesa ed esige pertanto un progetto formativo che tenga conto del contesto sopra accennato. Varie volte ho sottolineato come il seminario sia una tappa preziosa della vita, in cui il candidato al sacerdozio fa l’esperienza di essere «un discepolo di Gesù». Per questo tempo destinato alla formazione, è richiesto un certo distacco, un certo «deserto», perché il Signore parla al cuore con una voce che si sente se c’è il silenzio (cfr. 1 Re 19, 12); ma è richiesta anche la disponibilità a vivere insieme, ad amare la «vita di famiglia» e la dimensione comunitaria che anticipano quella «fraternità sacramentale» che deve caratterizzare ogni presbiterio diocesano (cfr. Presbyterorum ordinis, 8) e che ho voluto richiamare anche nella mia recente Lettera ai seminaristi: «Sacerdoti non si diventa da soli. Occorre la “comunità dei discepoli”, l’insieme di coloro che vogliono servire la comune Chiesa». In questi giorni studiate anche la bozza del documento su Internet e la formazione nei seminari. Internet, per la sua capacità di superare le distanze e di mettere in contatto reciproco le persone, presenta grandi possibilità anche per la Chiesa e la sua missione. Con il necessario discernimento per un suo uso intelligente e prudente, è uno strumento che può servire non solo per gli studi, ma anche per l’azione pastorale dei futuri presbiteri nei vari campi ecclesiali, quali l’evangelizzazione, l’azione missionaria, la catechesi, i progetti educativi, la gestione delle istituzioni. Anche in questo campo è di estrema importanza poter contare su formatori adeguatamente preparati perché siano guide fedeli e sempre aggiornate, al fine di accompagnare i candidati al sacerdozio all’uso corretto e positivo dei mezzi informatici. Quest’anno, poi, ricorre il LXX anniversario della Pontificia Opera per le Vocazioni Sacerdotali, istituita dal Venerabile Pio XII per favorire la collaborazione tra la Santa Sede e le Chiese locali nella preziosa opera di promozione delle vocazioni al ministero ordinato. Tale ricorrenza potrà essere l’occasione per conoscere e valorizzare le iniziative vocazionali più significative promosse nelle Chiese locali. Occorre che la pastorale vocazionale, oltre a sottolineare il valore della chiamata universale a seguire Gesù, insista più chiaramente sul profilo del sacerdozio ministeriale, caratterizzato dalla sua specifica configurazione a Cristo, che lo distingue essenzialmente dagli altri fedeli e si pone al loro servizio. Avete avviato, inoltre, una revisione di quanto prescrive la Costituzione apostolica Sapientia christiana sugli studi ecclesiastici, riguardo al diritto canonico, agli Istituti Superiori di Scienze Religiose e, recentemente, alla filosofia. Un settore su cui riflettere particolarmente è quello della teologia. È importante rendere sempre più solido il legame tra la teologia e lo studio della Sacra Scrittura, in modo che questa ne sia realmente l’anima e il cuore (cfr. Verbum Domini, 31). Ma il teologo non deve dimenticare di essere anche colui che parla a Dio. È indispensabile, quindi, tenere strettamente unite la teologia con la preghiera personale e comunitaria, specialmente liturgica. La teologia è scientia fidei e la preghiera nutre la fede. Nell’unione con Dio, il mistero è, in qualche modo, assaporato, si fa vicino, e questa prossimità è luce per l’intelligenza. Vorrei sottolineare anche la connessione della teologia con le altre discipline, considerando che essa viene insegnata nelle Università cattoliche e, in molti casi, in quelle civili. Il beato John Henry Newman parlava di «circolo del sapere», circle of knowledge, per indicare che esiste un’interdipendenza tra le varie branche del sapere; ma Dio e Lui solo ha rapporto con la totalità del reale; di conseguenza eliminare Dio significa spezzare il circolo del sapere. In questa prospettiva le Università cattoliche, con la loro identità ben precisa e la loro apertura alla «totalità» dell’essere umano, possono svolgere un’opera preziosa per promuovere l’unità del sapere, orientando studenti ed insegnanti alla Luce del mondo, la «luce vera che illumina ogni uomo» (Gv 1, 9). Sono considerazioni che valgono anche per le Scuole cattoliche. Occorre, anzitutto, il coraggio di annunciare il valore «largo» dell’educazione, per formare persone solide, capaci di collaborare con gli altri e di dare senso alla propria vita. Oggi si parla di educazione interculturale, oggetto di studio anche nella vostra Plenaria. In questo ambito è richiesta una fedeltà coraggiosa ed innovativa, che sappia coniugare chiara coscienza della propria identità e apertura all’alterità, per le esigenze del vivere insieme nelle società multiculturali. Anche a questo fine, emerge il ruolo educativo dell’insegnamento della Religione cattolica come disciplina scolastica in dialogo interdisciplinare con le altre. Infatti, esso contribuisce largamente non solo allo sviluppo integrale dello studente, ma anche alla conoscenza dell’altro, alla comprensione e al rispetto reciproco. Per raggiungere tali obiettivi dovrà essere prestata particolare cura alla formazione dei dirigenti e dei formatori, non solo da un punto di vista professionale, ma anche religioso e spirituale, perché, con la coerenza della propria vita e con il coinvolgimento personale, la presenza dell’educatore cristiano diventi espressione di amore e testimonianza della verità. Cari fratelli e sorelle, vi ringrazio per quanto fate con il vostro competente lavoro al servizio delle istituzioni educative. Tenete sempre lo sguardo rivolto a Cristo, l’unico Maestro, perché con il suo Spirito renda efficace il vostro lavoro. Vi affido alla materna protezione di Maria Santissima, Sedes Sapientiae, e di cuore imparto a tutti la Benedizione Apostolica. AVVENIRE Pag 19 L’Eucaristia ci chiama. Andiamo ad Ancona Dai vescovi italiani l’invito al Congresso eucaristico in programma a settembre: “Una sosta preziosa per tutti” 1. “Signore, da chi andremo?” (Gv 6,68) è l’icona biblica scelta per illuminare il nostro cammino personale e comunitario in vista della celebrazione del Congresso Eucaristico Nazionale, che si terrà ad Ancona dal 3 all’11 settembre prossimi. “Signore, da chi andremo?” è la confessione che l’apostolo Pietro rivolge a Gesù, a conclusione del discorso sulla Parola e sul pane di vita, nel sesto capitolo del Vangelo di Giovanni. È anche la provocazione che, dopo duemila anni, ritorna come questione centrale nella vita dei cristiani. In un contesto di pluralismo culturale e religioso, il problema fondamentale della ricerca di fede si traduce ancora nell’interrogativo: “La gente chi dice che sia il Figlio dell’uomo?… Ma voi, chi dite che io sia?” (Mt 16,13.15). Riscoprire e aiutare a riscoprire l’unicità singolare di Gesù di Nazaret era già l’intento del Giubileo dell’Incarnazione del 2000, come pure degli Orientamenti pastorali per il primo decennio del Terzo millennio. Ha accompagnato la scelta di ripartire dal giorno del Signore, che ha caratterizzato il Congresso Eucaristico Nazionale di Bari (2005), ed è stato riproposto con forza ed efficacia dal Santo Padre Benedetto XVI al IV Convegno Ecclesiale Nazionale di Verona (2006), quando ci ha invitato a far emergere nei diversi ambiti di testimonianza quel “grande ‘Sì’ che in Gesù Cristo Dio ha detto all’uomo e alla sua vita, all’amore umano, alla nostra libertà e alla nostra intelligenza; come, pertanto, la fede nel Dio dal volto umano porti la gioia nel mondo”. Sullo stesso cardine dell’unicità singolare di Gesù deve svilupparsi la nostra azione pastorale nella catechesi, nella liturgia, nella spiritualità e nella cultura: occorre ripartire sempre dalla salvezza cristiana nel suo preminente carattere di avvenimento, che è l’incontro con il Risorto, Gesù il Vivente. Anche il prossimo Congresso Eucaristico Nazionale intende collocarsi in questo cammino: riscoprendo e custodendo la centralità dell’Eucaristia e la stessa celebrazione eucaristica come il “culmine verso cui tende l’azione della Chiesa e, insieme, la fonte da cui promana tutta la sua virtù” , le nostre Chiese particolari potranno diventare autentiche comunità di testimoni del Risorto. Preparato e vissuto così, il Congresso Eucaristico non sarà certo una “distrazione” o una “parentesi” nella vita quotidiana delle comunità, ma una “sosta” preziosa per metterci di fronte al Mistero da cui la Chiesa è generata, per riprendere con rinnovato vigore e slancio la missione, confidando nella presenza e nel sostegno del Signore. 2. Anche il Santo Padre Benedetto XVI, nell’Esortazione postsinodale Sacramentum caritatis, avverte la necessità di insistere sull’efficacia dell’Eucaristia per la vita quotidiana. “In quanto coinvolge la realtà umana del credente nella sua concretezza quotidiana, l’Eucaristia rende possibile, giorno dopo giorno, la progressiva trasfigurazione dell’uomo chiamato per grazia ad essere ad immagine del Figlio di Dio (cfr Rm 8,29s). Non c’è nulla di autenticamente umano - pensieri ed affetti, parole ed opere - che non trovi nel sacramento dell’Eucaristia la forma adeguata per essere vissuto in pienezza”. Il Papa fa così suo il proposito dei Padri sinodali: “i fedeli cristiani hanno bisogno di una più profonda comprensione delle relazioni tra l’Eucaristia e la vita quotidiana”. È questo il punto focale del prossimo Congresso Eucaristico e il senso della proposta tematica e di approfondimento che si svilupperà sull’arco della settimana congressuale. Quale pastorale e quale spiritualità fluiscono dall’Eucaristia per la vita quotidiana? Quali sono i luoghi della testimonianza che il cristiano è chiamato a dare di Gesù Parola e pane di vita negli ambiti del vissuto quotidiano? Quest’ultima sottolineatura non rimanda a un livello mediocre di esistenza, bensì mette a fuoco la concretezza e la profondità della vita, che ogni giorno ci è chiesto di rispettare e amare come dono e promessa e, insieme, di onorare con impegno e responsabilità. In questo modo, viene ripresa e completata la tematica del precedente Congresso di Bari, Senza la domenica non possiamo vivere. È l’invito a non dare per scontato il nucleo essenziale della fede, a tenere aperto il senso del Mistero che si celebra lungo l’anno nella pratica della domenica, “giorno del Signore”, da custodire anche come giorno della comunità cristiana e giorno dell’uomo, del riposo e della festa, tempo per la famiglia e fattore di civiltà. È forte, infatti, il rischio che una pratica religiosa assidua resti rigorosamente circoscritta entro spazi e tempi sacri, senza incidere davvero sui momenti quotidiani della vita familiare, del lavoro e della professione e più in generale della convivenza civile. È doveroso preoccuparsi dei molti fedeli che non partecipano alla Messa domenicale, ma dobbiamo anche chiederci come escano dall’Eucaristia domenicale quanti vi hanno preso parte. 3. “Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna”. Il testo giovanneo rivela che Gesù è pane disceso dal cielo per la vita secondo una doppia modalità: non solo come pane eucaristico, ma anche come pane della Parola di Dio. Nella celebrazione eucaristica, questi due modi di presenza del Signore prendono la forma di un’unica mensa, intrecciandosi e sostenendosi mutuamente. È una sinergia che già i Padri sottolineavano nei loro commenti alla preghiera evangelica del Padre nostro, meditando l’invocazione: “Dacci oggi il nostro pane quotidiano” (Mt 6,11; cfr Gv 6,32.34-35). Basti qui citare sant’Agostino, che così si rivolgeva ai “catecumeni” o iniziandi alla preghiera: “L’Eucaristia è il nostro pane quotidiano, ma dobbiamo riceverlo non tanto per saziare il nostro stomaco, quanto per sostentare il nostro spirito… Anche quello che vi predico, è pane; e le letture che ogni giorno ascoltate nella chiesa, sono pane quotidiano, e gli inni sacri che ascoltate e recitate, sono pane quotidiano”. Con la Costituzione conciliare Dei Verbum, ripresa dalla recente Esortazione postsinodale Verbum Domini, la Chiesa si è prodigata perché la Parola di Dio fosse portata con abbondanza al cuore delle celebrazioni liturgiche e in una lingua percepita dal popolo con immediatezza, raccomandando al tempo stesso di incrementare la pastorale biblica non in giustapposizione ad altre forme della pastorale, ma come animazione biblica dell’agire ecclesiale, avendo a cuore l’incontro personale con Cristo, che si comunica a noi nella sua parola. Aiutare a scorgere in Gesù, Parola e pane per la vita quotidiana, la risposta alle inquietudini dell’uomo d’oggi, che spesso si trova di fronte a scelte difficili, dentro una molteplicità di messaggi: è questo l’obiettivo posto al cuore del cammino verso il Congresso Eucaristico. L’uomo ha necessità di pane, di lavoro, di casa, ma è più dei suoi bisogni. È desiderio di vita piena, di relazioni buone e promettenti, di verità, di bellezza e di amicizia, di santità. Si apre qui un prezioso campo di lavoro, affinché, nel cammino verso il Congresso Eucaristico e nelle stesse giornate congressuali si promuovano iniziative di ascolto della Parola, di meditazione e di preghiera. A questo scopo, è stato preparato il sussidio Signore, da chi andremo?, dove vengono proposte alcune tracce destinate a sostenere la lettura orante e una più profonda conoscenza del capitolo sesto del Vangelo di Giovanni. Prima delle tante iniziative, che spesso affaticano e frammentano l’azione pastorale, è necessario ricuperare anzitutto l’andare e lo stare con Gesù, credendo nella sua Parola e mangiando il pane dato da lui stesso. Troviamo qui il punto nevralgico del movimento di attrazione che il Risorto esercita dall’interno della celebrazione eucaristica. Qui anche noi veniamo attirati nel dinamismo della donazione che Gesù ha fatto di sé al Padre, animando la sua intera esistenza fino alla morte in croce per i suoi e per tutti, e manifestando la sua bellezza e forza di trasfigurazione nella nostra esistenza quotidiana. Non è un caso che Benedetto XVI richiami il rapporto tra liturgia e bellezza del Mistero celebrato: “La bellezza della liturgia è parte di questo Mistero; essa è espressione altissima della gloria di Dio e costituisce, in un certo senso, un affacciarsi del Cielo sulla terra… La bellezza, pertanto, non è un fattore decorativo dell’azione liturgica; ne è piuttosto elemento costitutivo, in quanto è attributo di Dio stesso e della sua Rivelazione”. Dall’unità di Parola di Dio ed Eucaristia nasce così un atteggiamento contemplativo, in grado di dare “forma eucaristica” ai contenuti della vita quotidiana: il senso di gratitudine per i doni di Dio, la coscienza umile della propria fragilità, la capacità di accoglienza e di relazioni positive con le persone, il senso di responsabilità nei confronti degli altri nella vita personale, familiare e sociale, l’abbandono in Dio come attesa e speranza affidabile. 4. Riscoprire l’unità di Parola ed Eucaristia significa tenere aperta la celebrazione alla vita quotidiana, tanto nella contemplazione quanto nell’azione. L’agire che ne consegue è soprattutto la testimonianza, l’evangelizzazione, la missione. Usciamo dalla Messa cresciuti nella fede e più responsabili. Scopriamo così il volto missionario della tematica congressuale. Sappiamo quanto i cristiani siano riconosciuti e apprezzati come uomini e donne di carità, esperti di umanità, socialmente solidali, anche da quelli che non frequentano la vita della comunità cristiana. Nello stesso tempo, la presenza cristiana nella società rischia di non essere presa in considerazione, quando addirittura non viene contestata, come testimonianza di Dio, di Cristo Risorto, di vita eterna e di valori soprannaturali. Siamo consapevoli e preoccupati del fatto che oggi si sperimenti una “distanza culturale” tra la fede cristiana e la mentalità contemporanea in tanti ambiti della vita quotidiana. Tuttavia, abbiamo compreso che questa distanza non ha da essere considerata con fatalismo, ma al contrario come sollecitazione per scelte incisive nel nostro modo di essere cristiani. Rientra in questa prospettiva l’opzione di coltivare in modo nuovo e creativo la caratteristica popolare del cattolicesimo italiano. “Popolarità” non significa una soluzione di basso profilo, ma la scelta di una fede che si fa presente sul territorio, capace di animare la vita quotidiana delle persone, attenta alle esigenze della città, pronta a orientare le forme della coscienza civile. Una sfida in particolare confermata negli Orientamenti pastorali per il decennio, Educare alla vita buona del Vangelo, - intende raccomandare e incoraggiare la declinazione del tema eucaristico: l’agire pastorale deve concorrere a suscitare nella coscienza dei credenti l’unità delle esperienze della vita quotidiana, spesso frammentate e disperse, in vista di ricostruire l’identità della persona. Essa, infatti, si realizza non solo con strategie di benessere individuale e sociale, ma con percorsi di vita buona, capaci di stabilire una feconda alleanza tra famiglia, comunità ecclesiale e società, promuovendo tra i laici nuove figure educative, aperte alla dimensione vocazionale della vita. 5. L’Eucaristia per la vita quotidiana diventa così anche il luogo di germinazione delle vocazioni. La storia della Chiesa è la grande prova di questa affermazione: in ogni stagione, l’Eucaristia è stata il luogo di crescita silenziosa di splendide vocazioni al dono di sé e all’amore. La ricchezza delle vocazioni a servizio dell’edificazione comune trova nell’Eucaristia il luogo di espansione nella dedizione incondizionata al ministero ordinato, alla vita religiosa e monastica, alla consacrazione secolare, al matrimonio e all’impegno missionario. Riscoprire l’Eucaristia come “grembo vocazionale” è compito della comunità cristiana, della famiglia – valorizzando non solo i genitori ma anche i nonni –, di quanti si dedicano all’educazione dei giovani, dei credenti impegnati nel lavoro, nella professione e nella politica. Ritroviamo qui un invito implicito a impegnarci a dare forma e valore all’idea della “santità popolare”, che si manifesta nella vitalità del costume cristiano, nell’unità della famiglia, nella qualità educativa della scuola e degli oratori, nella ricchezza della proposta cristiana rivolta a tutti nelle parrocchie e offerta nelle associazioni e nei movimenti. Ciò di cui oggi si sente più bisogno è proprio rendere visibile giorno per giorno la vita credente, che è altro rispetto al modo corrente con cui si esprime il sentire diffuso nella gestione del tempo, degli affetti e della presenza sociale. Nel cammino verso il Congresso Eucaristico vogliamo impegnarci perché cresca e sia condivisa una rinnovata spiritualità della vita quotidiana. È questa la sfida che abbiamo di fronte: lo stile di vita nuovo dei credenti deve trasparire in tutta la sua bellezza e piena umanità. La nostra confessione di fede diviene persuasiva e promettente tutte le volte in cui noi, discepoli del Signore, testimoniamo con i fatti e non solo a parole la gioia, la bellezza e la passione di seguire Gesù passo dopo passo. 6. A dare volto a questo obiettivo contribuirà anche la dimensione territoriale del Congresso Eucaristico, che coinvolgerà direttamente le diocesi che compongono la metropolìa di Ancona-Osimo: Fabriano-Matelica, Jesi, Loreto e Senigallia. Sarà l’occasione nello stesso tempo di evidenziare il rapporto tra l’Eucaristia e i “cinque ambiti” della vita quotidiana, individuati a Verona: affettività, lavoro e festa, fragilità, tradizione, cittadinanza. Non sarà trascurata la prospettiva ecumenica: oltre alle ragioni storiche che legano Ancona al vicino Oriente, a dare attualità al dialogo tra Chiesa d’Occidente e Chiese d’Oriente è il fenomeno dell’immigrazione, con la crescente presenza di comunità ortodosse nelle nostre terre. 7. Facendo nostre le parole di Benedetto XVI, affidiamo il cammino di preparazione al Congresso Eucaristico Nazionale e la sua celebrazione alla protezione della Vergine Maria, venerata con particolare fervore a Loreto, la cui statua le Chiese delle Marche hanno accolto lungo un anno nella peregrinatio Mariae: “La Chiesa vede in Maria, Donna eucaristica – come l’ha chiamata il Servo di Dio Giovanni Paolo II –, la propria icona meglio riuscita, e la contempla come modello insostituibile di vita eucaristica”. Ancona, 27 gennaio 2011 PERMANENTE IL CONSIGLIO EPISCOPALE CORRIERE DELLA SERA Pag 26 Bagnasco: “Mondo femminile? Da ragazzo ebbi una simpatia” di Gian Guido Vecchi Genova: il cardinale risponde a una domanda di un liceale Roma - «Eminenza, ma lei nella sua vita si è mai innamorato di una donna?» . Se sei il presidente della conferenza episcopale italiana, va da sé, ti devi rassegnare a sentire una quantità di domande d’ogni genere. Tra conferenze stampa e interviste, però, mai nessuno gli aveva fatto una domanda così: i ragazzi sanno essere più imprevedibili dei giornalisti. E il cardinale Angelo Bagnasco, uomo di poche parole, riservato e schivo fino alla timidezza, ha accennato a un sorriso mentre dialogava, ieri mattina, con i ragazzi del liceo Martin Luther King di Genova. Un attimo di silenzio, e poi: «Nella scuola media mi sono accorto di una simpatia nei confronti del mondo femminile. Erano gli anni Cinquanta e frequentavo una scuola mista». Una «simpatia» che poi «è rimasta così», ha raccontato, perché già dalle elementari aveva sentito la vocazione a diventare sacerdote «e poi sono entrato in seminario e ho seguito la mia strada» . Erano stati i genitori, entrambi cattolici - il papà Alfredo lavorava in una fabbrica di pasticceria, la mamma, Rosa era casalinga - a decidere di iscriverlo alla scuola pubblica, prima che il ragazzo decidesse di frequentare il ginnasio e il liceo classico al seminario arcivescovile di Genova e proseguisse la sua formazione fino ad essere ordinato sacerdote a ventitré anni, il 29 giugno 1966, dal cardinale Giuseppe Siri, tra l’altro senza poter sospettare che proprio lui sarebbe stato il prossimo genovese a diventare arcivescovo di Genova. Nulla di strano, in fondo. I sacerdoti non arrivano dall’iperuranio, tanto più che le vocazioni si fanno sempre più mature e nell’ultimo secolo l’età media delle ordinazioni è progressivamente salita fino a superare la soglia dei trent’anni. Che un giovane prima di diventare prete abbia potuto innamorarsi - o provare un sentimento di «simpatia», se era un ragazzino che stava ancora alle medie - è una cosa normale. Del resto, come ha raccontato pochi mesi fa lo stesso cardinale Bagnasco, si tratta di una scelta libera e consapevole: «Accogliere liberamente il dono del celibato e percorrerne il sentiero non implica alcuna mutilazione psicologica o spirituale, né tradisce visioni inadeguate o immature della sessualità umana». Anche diventare preti, d’altra parte, è «una risposta d’amore ad una dichiarazione d’amore», ha spiegato il presidente della Cei l’anno scorso, durante l’anno sacerdotale: «In realtà, vissuto con lo sguardo fisso in Gesù e con cuore indiviso per il bene della comunità, il celibato richiesto dalla Chiesa latina è un’esperienza di amore realizzante che fa fiorire l’umanità del sacerdote e la trasforma in una dedizione incondizionata, che in maniera decisiva contribuisce alla responsabilità della comunione, alla possibilità dunque che i fratelli "si aggrappino alla cordata", in ultima istanza alla bellezza divina della Chiesa stessa». Pag 41 Se la chiesa è come un palasport di Paolo Valentino Ravasi e Portoghesi: ci si perde. Galantino e Mandara: no, esprimono il sacro Se diciamo chiesa, il pensiero corre ai grandi templi cristiani del passato, luoghi deputati della nostra memoria. Ma chi ha modellato le maestose cattedrali del ricordo? Potremmo citarne una, da San Pietro a Notre-Dame, pensata, eseguita e portata a termine da un solo architetto? «No - dice Francesco Dal Co, direttore di "Casabella" - a modellarle è stato il tempo. E noi, oggi, non possiamo più permetterci di avere il tempo come modello». Forse sta tutto in questa semplice verità la chiave del rebus, che da anni lacera il colto e l’inclita, la comunità religiosa e quella degli architetti: cos’è o come dev’essere oggi una chiesa? È solo un luogo di culto, ovvero, per usare le parole di padre Enzo Bianchi, priore di Bose, la «trasformazione in realtà dell’idea che ogni chiesa è metafora della presenza della Chiesa di Dio nella città degli uomini» ? E quali sono i canoni estetici e funzionali, attraverso cui le nuove chiese possono arricchire la polis, dandole un contributo di solidarietà, aiutandola a integrare il nuovo e il diverso? Curata da Carlotta Tonon e Massimo Ferrari, aperta dal 21 marzo al 3 aprile al Casabella Laboratorio di Milano (via Marco Polo 13), la mostra «Quattro chiese italiane» cade nel mezzo di un dibattito che negli ultimi mesi ha avuto impennate polemiche e curiose torsioni dialettiche. I progetti scelti per l’allestimento sono la chiesa di San Giovanni a Ponte d’Oddi, Perugia, di Paolo Zermani; il complesso parrocchiale di San Pio da Pietrelcina a Malafede, nella periferia sud di Roma, dello studio Anselmi & Associati; la chiesa di San Carlo Borromeo a Tor Pagnotta, altra marca romana, firmata da Monestiroli Associati e la chiesa di Gesù Redentore a Modena, realizzata da Mauro Galantino. È stata proprio quest’ultima a innescare la più recente fiammata della controversia sull’architettura religiosa: a tre anni di distanza dall’inaugurazione, ancorché accolto dall’apprezzamento dei fedeli, il tempio emiliano è stato oggetto di forte critica nientemeno che da Paolo Portoghesi, uno dei padri del movimento postmoderno, per di più ospitato sulle pagine dell’ «Osservatore Romano»: quella di Modena, sarebbe «la dimostrazione lampante del fatto che la qualità estetica dell’architettura non basta per fare di uno spazio una vera chiesa, un luogo in cui i fedeli siano aiutati a sentirsi pietre viventi». L’attacco mirato di Portoghesi ha spalle poderose, all’interno della gerarchia ecclesiastica, su cui poggiare. Pochi giorni prima, infatti, era stato il cardinale Gianfranco Ravasi, in una lectio magistralis alla facoltà di Architettura di Roma, a lanciare l’allarme, stigmatizzando «l’inospitalità, la dispersione, l’opacità di tante chiese... dove ci si trova sperduti come in una sala per congressi, distratti come in un palazzetto dello sport, schiacciati come in uno sferisterio, abbrutiti come in una casa pretenziosa e volgare». Chiamato in causa, Galantino rimanda alle riflessioni maturate intorno al concorso, indetto nel 1989 dall’allora arcivescovo di Milano, il cardinale Carlo Maria Martini, e da lui vinto con il progetto della chiesa di Sant’Ireneo a Cesano Boscone: «Non ci s’inventa una chiesa ogni cinque anni. Il principio dello spazio liturgico nasce dalla ricerca sulle indicazioni del Concilio Vaticano II che sancivano l’indissolubilità tra celebrante e assemblea, cambiando una tradizione secolare». A Portoghesi, che pur lodando la qualità dell’opera, lo accusa di mettere in crisi la «tradizionale unità della comunità orante» e si domanda «perché ci si guarda in faccia?», l’architetto milanese risponde che nel «recinto sacro della chiesa di Modena, declinato come spazio esterno, terra-acqua-luce-sole che attorniano l’assemblea, i fedeli si dispongono, su specifica richiesta della comunità parrocchiale, come intorno al tavolo, ricostruendo idealmente l’ultima cena». È però dall’interno stesso di Santa Romana Chiesa, che salgono voci e opinioni dissonanti da Ravasi, a difesa appassionata del vasto programma di costruzione dei nuovi edifici sacri lanciato dalla Cei e rivelatosi una straordinaria opportunità urbanistica, non ultimo per la puntigliosa assegnazione degli incarichi attraverso concorsi d’architettura tutti andati a buon fine, autentica anomalia positiva nel panorama italiano. «Probabilmente, se guardiamo al passato, troviamo esempi d’interventi non riusciti, che danno ragione al cardinale Ravasi - ammette monsignor Ernesto Mandara, vescovo ausiliario responsabile dell’edilizia di culto nella diocesi di Roma - ma dei risultati degli ultimi anni io sono profondamente soddisfatto. Le chiese realizzate esprimono molto bene sia il senso del sacro sia quello dell’accoglienza». Mandara rivendica il rigore dei criteri con cui seleziona gli architetti, soprattutto «il rispetto del legame tra liturgia e edificio» che si aspetta da ogni progetto, anche se è poi «l’architetto, in piena autonomia e secondo la sua sensibilità, a doverlo leggere nel modo più appropriato». E quanto all’obiezione, sollevata da alcuni, secondo cui le chiese dovrebbero farle i progettisti credenti, il monsignore sorride: «Resto perplesso, mi sembra un visione talebana della fede». Dal Co prende spunto dal concetto dell’accoglienza: «Si guarda solo all’oggetto, ma nessuno si preoccupa di ricordare se ciò che sta intorno sia bello o brutto». È un fatto che i nuovi edifici di culto sorgano tutti dove ce n’è più bisogno, cioè in luoghi sperduti, nelle aree disagiate, degradate o abbandonate dei centri urbani: «Così come le chiese anticamente erano non solo i luoghi del culto, ma anche il posto dove le persone s’incontravano, cercavano rifugio e protezione, così oggi le nuove chiese nelle periferie emarginate affrontano anche il problema della comunità, rispondono cioè al bisogno d’integrazione delle nuove moltitudini, sono luoghi d’incontro che si esprimono nelle forme e nei linguaggi del nostro tempo». Che non sono poi forme e linguaggi così esecrabili. In fondo, ricorda Dal Co, se c’è stato un secolo attraversato dall’architettura religiosa, questo è stato il Novecento. «Il secolo nato all’insegna della morte di Dio, proclamata da Nietzsche, è quello che ne ha visto una straordinaria fioritura, dalla Sagrada Família a Ronchamp, visitate ogni anno da milioni di persone. La cattedrale gotica era il frutto della Scolastica. Ma di fronte a un pensiero che escludeva la presenza di Dio, mentre rimaneva forte il bisogno del sacro, l’architettura moderna ha saputo mobilitare muscoli e tendini in cerca di una risposta». IL FOGLIO Pag 2 Così 143 teologi vogliono svegliare la chiesa dalla “tomba” del celibato di Paolo Rodari Roma. Quando Judith Könemann, pedagoga delle religioni di Münster, ha scritto assieme ad altre otto persone un appello per. una "profonda riforma della chiesa cattolica" (s'intitola "Chiesa 2011: una svolta necessaria'') non pensava di riscuotere tanto successo. Dice: "Evidentemente abbiamo colpito nel segno". Infatti, in pochi giorni, i teologi firmatari dell'appello sono diventati 143, per la maggior parte tedeschi, austriaci e svizzeri: "Le adesioni sono state tante e molti sono quelli che in privato hanno espresso il proprio consenso ma non hanno firmato per timore di ritorsioni da parte del loro vescovo". Insomma, si tratta di un agguerrito gruppo di persone che grazie al grande spazio che hanno dato loro i principali quotidiani tedeschi è riuscito a fare arrivare la propria voce fino a Roma. Chiedono la fine dell'obbligo del celibato, l'ordinazione di donne prete, più partecipazione del popolo nella scelta dei vescovi, la fine del "rigorismo morale" che attanaglia Roma, il Vaticano, le gerarchie. Sull'agenzia di stampa cattolica della diocesi di Vienna, Kath.net, è Guido Horst, direttore in Germania di Vatican Magazine, a dire che i cattolici non si scompongono perché si tratta semplicemente di richieste di "stampo protestante che nulla hanno a che vedere con la vita della chiesa", Eppure, lo scrive lo stesso Horst, qualcuno Che si scompone c'è. Sono i vescovi tedeschi, le gerarchie di una chiesa che dopo l'annus horribilis delle rivelazioni sulla pedofilia nel clero di Germania - i casi verificatisi nel collegio Canisius di Berlino sono una ferita che 'ancora sanguina - sembrano incapaci di reagire. L’origine della protesta è qui: la pedofilia nel clero. E' nello sconquasso che ha investito la chiesa tedesca nei mesi trascorsi che i 143 trovano lo spunto per chiedere che tutto cambi. Forti del montare dell'indignazione in molti fedeli, i teologi affondano il coltello nella carne dei vescovi, trovandola particolarmente molle. E, infatti, è principalmente a loro, ai vescovi della Germania, che il Papa sembra si sia voluto rivolgere due giorni fa. L’occasione è stata l'ordinazione episcopale di cinque presbiteri nella basilica di San Pietro. Benedetto XVI ha tenuto un'omelia dedicata alla figura del vescovo il cui testo, non a caso, è stato diffuso da subito in tedesco. Fatto inusuale, che dice della volontà del Papa di dire qualcosa ai confratelli del suo paese. Che cosa? Una chiamata il non cedere allo spirito del mondo. "Il pastore non deve essere una canna di palude che si piega secondo il soffio del vento, un servo dello spirito del tempo", ha detto il Papa. E ancora: "L’essere intrepido, il coraggio di opporsi alle correnti del momento appartiene in modo essenziale al compito del pastore". Erano ventidue anni che in Germania non c'era una "rivolta" di teologi comparabile a questa dei 143: nel 1989 più di 220 studiosi protestarono nella "Kölner Erklärung" (la "Dichiarazione di Colonia'') contro lo stile direttivo di Giovanni Paolo II, che tra le sue "colpe" aveva la nomina del cardinale Joachim Meisner ad arcivescovo di Colonia nonostante il parere contrario delle anime liberai della chiesa. Allora come oggi il tema è generale. Non si tratta soltanto del celibato dei preti. Si tratta di una riforma che investa tutta la chiesa, il suo governo, la sua organizzazione, l'esercizio del potere. Certo, il celibato è uno dei temi forti. Anche perché, come hanno ricordato sempre i media tedeschi, negli anni Settanta diversi teologi (tra loro anche Joseph Ratzinger, Karl Lehmann e Walter Kasper) firmarono un documento nel quale consideravano l'abolizione del celibato per i preti una delle possibili risposte alla scarsità di vocazioni. Nell'ultimo libro con Peter Seewald "Luce del mondo", Ratzinger torna sull'argomento: non chiude alla possibilità che vi siano sacerdoti sposati. Ma dice: "Il difficile viene quando bisogna dire come una simile coesistenza dovrebbe configurarsi". Ciò che chiedono i 143 è che sul tema non vi sia silenzio. Scrivono: "Dopo la tempesta dello scandalo pedofilia non può seguire la quiete, perché sarebbe solo la quiete della tomba. Ora c'è bisogno di cercare soluzioni in uno scambio di opinioni libero e onesto, per tirare' fuori la chiesa dalla sua paralizzante autoreferenzialità". Torna al sommario 4 – MARCIANUM / ASSOCIAZIONI, MOVIMENTI, ISTITUTI E GRUPPI LA NUOVA Pag 36 Teologia e cultura nella Divina Commedia Oggi alle 18, al centro Pattaro (S. Marco 2760), primo dei tre appuntamenti del ciclo «Teologia, spiritualità e cultura nella Divina Commedia»: Ylenia Venzo parla su «Contemplazione e azione nella Divina Commedia: come realizzare la propria umanità nel pensiero dantesco». Torna al sommario 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA / LAVORO CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Gli invisibili che sfuggono all’aiuto degli altri di Dario Di Vico Welfare e paradossi. L’esperienza della diocesi di Milano I sociologi li definiscono «i vulnerabili» e sono coloro che hanno subito più di altri i contraccolpi della Grande crisi. Prima che scoppiasse la recessione non vivevano in condizione di povertà o marginalità assoluta, ora però vi sono precipitati a causa di una sorta di mobilità sociale alla rovescia. Sono operai ed ex operai generici o specializzati delle piccole imprese della subfornitura, lavoratori e piccoli imprenditori del terziario debole o del sommerso. I motivi della retrocessione che ricorrono con maggiore frequenza sono il licenziamento, la fine del contratto a termine o della cassa integrazione, la riduzione dell’orario di lavoro oppure il fallimento dell’attività indipendente che con tanti sacrifici avevano messo su e poi la crisi ha spazzato via. Messi tutti assieme potremmo definirli «il popolo del cardinale» , perché sono proprio quelli che si sono rivolti al Fondo famiglia lavoro, lanciato dall'arcivescovo di Milano Dionigi Tettamanzi nella notte di Natale del 2008, come concreta iniziativa di secondo welfare per un target preciso: le famiglie di lavoratrici e lavoratori colpiti dalla crisi. Alle quali il Fondo ha erogato da un minimo di 500 euro a un massimo di 4 mila. A due anni di distanza grazie alla mappa degli interventi siamo in grado di avere una fotografia estremamente aggiornata dei guasti e del disagio sociale che la crisi ha creato in una delle zone più ricche del Paese, perché il perimetro dell'arcivescovado di Milano - che comprende Varese, Lecco, Monza e Sesto San Giovanni - coincide de facto con il distretto numero uno dell'economia italiana. Laddove si incrociano il capitalismo delle reti e la piccola/piccolissima impresa manifatturiera. Una fotografia che dobbiamo al sociologo Aldo Bonomi, che prima ha collaborato con l'arcivescovo per far conoscere il Fondo ai potenziali sottoscrittori e poi con la sua «Aaster» ha raccolto tutti i dati che via via emergevano. Complessivamente il Fondo ha erogato aiuti per 10 milioni, uno è stato inizialmente donato direttamente da Tettamanzi, un altro dalla Fondazione Cariplo, il resto è stato raccolto con sottoscrizioni e aste organizzate sul territorio (un esempio: il Golf Club di Carugate) oppure direttamente dalle parrocchie. Tra il marzo 2009 e il giugno 2010 sono arrivate al Fondo 6.500 domande di sostegno al reddito delle quali oltre 4.600 sono state accolte. Il picco di richieste si è avuto tra aprile e luglio 2009 e nell'autunno dello stesso anno, successivamente l'intensità è diminuita non perché fosse venuto meno nel frattempo il bisogno ma per l'assottigliarsi del Fondo che ha costretto il consiglio di gestione ad adottare criteri più restrittivi. Alla fine comunque sono state 18 mila le persone che in totale hanno goduto del welfare del cardinale. Un dato spicca da subito: il 56,5%è di nazionalità straniera a conferma di come le strutture ecclesiastiche, a cominciare dalla Caritas, rappresentino lo sportello ordinario a cui si rivolgono gli extracomunitari. Se le nazionalità più numerose tra gli stranieri residenti in Lombardia sono la rumena e l'albanese, la mappa del disagio segnala nettamente in testa la componente africana dell'immigrazione con Marocco, Egitto e Tunisia. Un dato che proprio in questi giorni segnati dall'instabilità politica e sociale dei paesi del Nord Africa non può che far riflettere. Esaminando la quota degli italiani che si sono rivolti al fondo, un’annotazione dei ricercatori dell'«Aaster» ci dice che la presenza di un 30%di beneficiari nati nelle regioni del Mezzogiorno di età inferiore ai 40 anni segnala un fenomeno di cui non si era mai parlato: le difficoltà di inserimento nella zona di Milano (anche) dell'immigrazione più recente proveniente dal Sud d'Italia, da dove non dobbiamo dimenticare negli anni scorsi si è mossa una quantità annua pari a una città di provincia come Reggio Calabria. C'è dunque nell'area più ricca del Paese una larga fascia di lavoro vulnerabile che sta passando dalla disoccupazione di breve durata a quella di lunga e che in assenza di adeguati sostegni e appropriate politiche sociali rischia l'ingresso nell'area della povertà assoluta e dell'esclusione sociale cronica. Due terzi dei beneficiari del Fondo infatti sono operai dell' industria e dell'edilizia, in buona parte generici (49,5%) ma talvolta specializzati (15,4%). Annota Bonomi: «Si può intuire come dietro questi numeri vi sia soprattutto la popolazione operaia emersa con la destrutturazione delle grandi concentrazioni manifatturiere fordiste che avevano scritto la storia di Milano». Ma il nuovo lavoro vulnerabile non è fatto di sole tute blu. È presente anche una robusta componente di lavoro dequalificato dei servizi, spesso organizzato da non meglio precisate cooperative di lavoro che prestano braccia all'edilizia, alla distribuzione commerciale e alla logistica. È un terziario fragile e fragilissimo che non conosce regole e che cresce soprattutto attorno alle grandi realtà urbane. Appartiene all'area del lavoro debole l'occupazione femminile nelle attività di pulizia e in quelle di cura e assistenza alle persone. Non è tutto. Sommando i dati di chi svolgeva o svolge professioni impiegatizie (4,4%) e che era o è titolare di attività commerciale o artigianale in proprio (5,7%), si può concludere che almeno un 10%del popolo del cardinale sia tradizionalmente identificabile con la piccola borghesia. Se poi depuriamo dalla componente straniera questo dato vediamo che tra i soli italiani che si sono rivolti al Fondo impiegati, commercianti e artigiani vulnerati arrivano almeno al 15%mentre fa capolino anche un drappello pari all'1,5%composto di imprenditori, dirigenti e professionisti. È facile pensare, suggerisce Bonomi, che quest'area sia decisamente più vasta perché impiegati e commercianti sono meno propensi a chiedere l'intervento delle strutture di sostegno in virtù di una certa «vergogna della miseria» che ancora influenza i loro comportamenti sociali. Colpisce che il 44%del totale di coloro che si è rivolta al Fondo dopo aver subito un provvedimento di licenziamento non abbia inoltrato domanda per ottenere il sussidio di disoccupazione, a dimostrazione di una sfiducia preventiva verso le istituzioni e di una conseguente lontananza dalle strutture territoriali del welfare. Solo il 27%dei beneficiari del Fondo ha presentato domanda per il sussidio post licenziamento, solo il 9,2%ha richiesto la social card e una fetta ridottissima, il 2,5%, il bonus famiglia della Regione Lombardia. «La limitata efficacia di questi strumenti - dicono i ricercatori - si accompagna spesso alla scarsa tempestività delle risposte. Oltre il 40%di coloro che hanno richiesto aiuti pubblici ha ottenuto una risposta positiva ma al momento della presentazione della domanda al Fondo il numero di coloro ancora in attesa di una risposta era ancora superiore». E particolarmente lunghi si sono rivelati i tempi di risposta per il sussidio di disoccupazione. Se scomponiamo i dati di cui sopra secondo le varie tipologie del territorio dell’arcivescovado possiamo vedere come per Milano prevalgano le richieste di intervento del Fondo tra gli impieghi dei settori a basso reddito del mercato del lavoro metropolitano, mentre a Varese o Lecco la componente operaia raggiunga percentuali tra il 75 e l'80%. Le cause del disagio/retrocessione sono principalmente il licenziamento (36,7%) e la fine del contratto a termine (28,1%), seguiti dalla cassa integrazione per il 12,6. Secondo i ricercatori la Grande crisi ha fatto sì che si combinassero due fattori di vulnerabilità, l'irregolarità dell'impiego e il basso reddito, per cui coloro che si sono trovati in difficoltà per la perdita del lavoro non avevano risparmi o addirittura erano indebitati, anzitutto per l'acquisto dell'abitazione. I dati provenienti dal Fondo ci sono utili anche per analizzare la destrutturazione dei nuclei familiari tradizionali che sta mutando profondamente la composizione della famiglia italiana. Il trend sembra essere più pronunciato di quanto ci si potesse aspettare visto che la maggior parte dei beneficiari del welfare del cardinale vive in famiglie mononucleari tipiche (75%), ma è anche vero che spicca un 17%di famiglie mono genitoriali nella larga maggioranza dei casi imperniate sulla madre. Ma, fatta la fotografia, quali considerazioni si possono metter giù «oltre il Fondo» ? Forse l'iniziativa dell'arcivescovo e i dati di Bonomi ci segnalano una nuova composizione sociale di Milano e un pezzo della Lombardia. Mostrano una nuova questione operaia, l'esigenza di capire meglio dove stia andando il terziario urbano, l'inconsistenza per i vulnerabili degli ammortizzatori sociali ereditati dal Novecento, i ritardi nell'aggiornare il welfare. Bonomi aggiunge che «i mercati del lavoro secondari nel nostro Paese sono sempre esistiti però ora i confini sono divenuti troppo sottili». E la stessa distinzione tra insider e outsider sembra perdere consistenza, per sfumare in un'articolazione di posizioni concatenate. Pericolosamente concatenate, viene da aggiungere. Pag 1 Facebook, sì al dialogo con i prof ma senza pacche sulle spalle di Paolo Di Stefano Perché no? Del resto, come potrebbe la scuola ignorare le nuove tecnologie? E soprattutto: perché dovrebbe? Dunque, che gli allievi dialoghino sempre più con i loro prof via Facebook non è in sé una cattiva notizia. Anzi. Inutile sposare l’anacronismo di una scuola che imponga steccati insormontabili manco fossimo al tempo di De Amicis: come se nulla fosse successo, come se le case fossero sempre senza riscaldamento, come se l’aria fosse quella salubre cantata da Parini, come se fossimo costretti a muoverci ancora in carrozza per la città. Se il computer rende più facile la comunicazione, nel lavoro come a scuola, ben venga. Se aiuta a tenere vivo il dialogo tra le generazioni, se contribuisce a dissipare le ansie in ragazzi sin troppo ansiosi, sia il benvenuto. In fondo non c’è niente di più simile a una classe scolastica che un sito sociale: non per nulla, Facebook nacque proprio nell’ambito dei college americani per semplificare la comunicazione all’interno dei campus. Purché il dialogo non si accontenti di passare attraverso l’iperspazio per rimanere sospeso nel vuoto pneumatico della quotidianità scolastica: ma chi lo dice che lo spiraglio del web non apra varchi più ampi, face to face, per un sano scambio tra maestro e allievo? Certo, le distanze (gerarchiche) tra un quindicenne e il suo insegnante non si possono (non si devono) cancellare neanche nel 2011, ci mancherebbe. I rischi sono lì che incombono. Primo tra tutti, che l’uso di Facebook, così per definizione friendly, autorizzi l’allievo a una sorta di confidenza da pacche sulle spalle con il prof. Si sa che il canale non è mai neutro, e spesso e volentieri finisce per incidere sul linguaggio e persino sui comportamenti. È in quel limite impercettibile che si nasconde il pericolo che la familiarità del mezzo assecondi la sciatteria della comunicazione. E a complicare le cose, non mancheranno gli insegnanti che nel social network ci tengano a mostrarsi cyber amicissimi più del lecito per presentarsi tutti d’un pezzo in cattedra il mattino dopo. E poi. E poi, c’è la solita minaccia della dipendenza da automatismo compulsivo: «Non ricordo... non so... Già, chiedo al prof! Anche se è mezzanotte, io sono collegato e sicuramente lo sarà anche lui». E così avanti, dalle elementari fino all’università. Pag 29 “Prof, vuoi diventare un mio amico?”. I dubbi degli insegnanti su Facebook di Lorenzo Salvia Contatti con gli alunni via Internet. “Un’opportunità”. “No, confusione di ruoli” Roma - Ricordate il professor Talarico, l’insegnante del film «La scuola è finita» che vuole fare il giovane, suona la chitarra e durante un’occupazione organizza pure un concerto sul tetto del disastrato Istituto Pestalozzi? Il professor Gianni Fibbi non c’entra nulla. Ha 60 anni, non suona la chitarra e insegna grafica al Professionale Datini di Prato. È su Facebook, per chi non lo sapesse è il secondo sito internet più visitato al mondo, quello dove si può chiacchierare con l’aggiunta di foto e video. E tra i 200 amici in lista una trentina sono suoi studenti. «Chi insegna deve conoscere gli allievi - dice ed è su quelle pagine che loro parlano davvero. È una grandissima opportunità per motivarli allo studio». Non è un caso isolato questo simpatico professore toscano. Qualche settimana fa il portale skuola. net ha organizzato un sondaggio. «Oltre ai tuoi coetanei chi hai tra gli amici su Facebook?». Ha risposto «professori» l’8% dei quasi mille partecipanti. Normale evoluzione della chiacchiera post campanella, oppure c’è qualcosa di più, qualcosa di diverso e magari di sbagliato? Ieri sul tema si interrogava Libération, il quotidiano della sinistra francese: è un modo per accendere l’interesse dei ragazzi oppure si rischia di confondere i ruoli, un po’ come quei genitori che pensano di essere i migliori amici dei figli? Torniamo al Datini di Prato. Adriano Bolognesi insegna italiano, di anni ne ha 37, potrebbe essere figlio del suo collega formato internet. Ma la pensa all’opposto: «Su Facebook neanche ci sono e penso sia sbagliato usarlo con gli studenti. Il professore deve essere vicino allo studente, per carità. Ma deve rimanere professore senza trasformarsi in amico. Gli amici loro li hanno già». Chi ha ragione? Tra pochi giorni negli Stati Uniti, in Virginia, voteranno un documento che raccomanda agli insegnanti di evitare scambi via sms e via internet con gli studenti. C’è chi teme che il contatto diretto e «segreto» possa portare a pericolose degenerazioni, peraltro possibili anche dal vivo. «Non sono mai io a chiedere l’amicizia - dice ancora il professor Fibbi ma se me la chiedono loro perché dovrei dire di no?». Lui racconta che proprio grazie a Facebook è riuscito a riportare a scuola un ragazzo che aveva deciso di smettere di studiare. «Non lo vedevo più da giorni, l’ho trovato sulla rete e dopo una settimana è tornato in classe. Vi sembra poco?». Qualche rischio, ma solo scolastico, lo vede anche Caterina Grimaldi, docente di italiano allo Scientifico Newton di Roma. A lei, su Facebook, gli studenti hanno dedicato addirittura un fan club. Ma non l’ha nemmeno voluto vedere: «Possono nascere simpatie, mettendo a rischio la serenità di giudizio e l’imparzialità che noi dobbiamo avere ogni giorno. Se c’è qualcosa da dire, parliamoci al mattino». «È vero - ribatte Antonio, docente in un liceo torinese che invece su Facebook ha 20 amici studenti - ma i favoritismi sono possibili anche senza internet. E infatti ci sono sempre stati». Il punto è che Facebook non è per forza un buco della serratura. In realtà molti insegnanti lo usano come bacheca, certi che quella virtuale sarà controllata molto più spesso di quella reale in fondo al corridoio. Giulia Marcedda, 18 anni, è una delle studentesse amiche su Facebook del professore di Prato: «Ma cosa pensate? La maggior parte dei messaggi sono rivolti al gruppo in cui c’è tutta la classe. Roba di servizio: domani interrogo, studiate questo, ripassate quest’altro. E funziona». Funziona? Giuseppe Bertagna, ordinario di Pedagogia all’Università di Bergamo, premette che «dipende da caso a caso». Ma poi molla il colpo: «I professori parlino con i loro studenti, costruiscano una scuola che non sia distante e burocratica invece di fare i confidenziali a distanza. Il rischio è che siano amiconi su Facebook solo per avere un alibi e farsi i fatti propri in classe. E invece l’educazione ha bisogno di inflessioni della voce, movimenti delle mani, corrugamenti della fronte...». AVVENIRE Pag 2 Per crescere più famiglia di Giuseppe Pennisi Il passato, l’oggi e la sfida del futuro Da quindici anni, l’Italia è piatta: il tasso di crescita del Pil è rasoterra. Siamo l’unico Paese del G7 in cui dal 2001 al 2010 il reddito procapite ha segnato una riduzione dello 0,4% rispetto ad aumenti dell’1% in quasi tutti gli altri. Le prospettive per l’avvenire, poi, non sono incoraggianti. Venerdì scorso, venti istituti econometrici internazionali hanno stimato una crescita media attorno all’1,5% per l’eurozona nei prossimi ventiquattro mesi, ma non superiore all’1% per l’Italia. Ora il Piano nazionale di riforme (Pnr) varato dal governo a fine 2010 (e all’esame dell’Ue in aprile) propone un programma di liberalizzazioni per portare al 2% il tasso di crescita entro 2013. In realtà i primi passi – con le ulteriori concessioni all’oligopolio dei taxi – non sono stati compiuti nella direzione indicata nel Pnr, ma la decisione di imprimere un’accelerata alla crescita sembra portare a riforme, anche costituzionali, che rendano fattibili liberalizzazioni (e vantaggi per i consumatori) là dove più sono necessarie: al livello degli enti locali. Sarebbe un’illusione, però, pensare che i 'lacci e i lacciuoli' siano il vincolo principale alla crescita. Le diagnosi sull’appiattimento e il declino, infatti, tengono conto di determinanti importanti – le restrizioni finanziarie per entrare nell’euro, la recessione internazionale – ma non della principale: la mancanza di una politica per la famiglia che ha portato a riduzione della natalità, invecchiamento delle popolazione, contenimento dei consumi familiari, scelte d’investimento molto prudenziali. Oggi con il 14% degli italiani in età scolare, e il 20% ultra65enne, solo due terzi della popolazione è in età da lavoro e l’età media del lavoratore italiano supera i 45 anni. Se le tendenze in atto non muteranno – e in demografia il cambiamento richiede tempi lunghi – nel 2050 meno del 14% della popolazione sarà in età scolare e il 34% circa avrà più di 65 anni. Per fare un confronto, nel periodo del 'miracolo economico', il 24% degli italiani era in età scolare e appena il 9% aveva superato i 65 anni. Due studiosi – uno americano di scuola liberal-liberista, Charles Kindleberger, e uno ungherese, rigorosamente marxista, Ferenc Jannossy – esaminando negli anni 70 le determinanti del miracolo economico italiano giunsero alla medesima conclusione: a determinarlo furono una forza lavoro giovane e ben preparata, assieme a una famiglia coesa e forte non solo come rete di sicurezza ma come nucleo in cui veniva sviluppata l’etica del lavoro (e l’etica più in generale). Sia Kindleberger sia Janossy arrivarono a risultati analoghi per un altro 'miracolo economico', quello del Giappone, un Paese da 15 anni in ristagno a ragione dell’invecchiamento. Tanto in Italia quanto in Giappone – aggiungevano i due studiosi – la famiglia era pure il principale elemento di controllo sociale su scuola e università. Dalla fine degli anni 60, però, quel poco che c’era, in Italia, di politica per la famiglia è stato via via sbriciolato (svuotando perfino le poste di bilancio per gli assegni familiari per finanziare le pensioni di anzianità). La famiglia si è di fatto indebolita, diventando più precaria (anche se la si descrive con lessico espansivo 'multipla' e 'allargata'). Ha perso il ruolo che aveva in molti comparti. Primo tra tutti la scuola, leva della buona preparazione della forza lavoro giovane, motore della crescita, anzi del 'miracolo'. Nonostante i miglioramenti nell’ultimo lustro, gli studenti italiani di 15 anni d’età, nel 2009 erano ventiquattresimi in classifica (su 30 Paesi Ocse) nell’indice aggregato del test Pisa di comprensione di lettura, di scienze e di matematica. L’analisi Ocse precisa che una delle cause è da attribuirsi al diminuito ruolo della famiglia nell’istruzione. Nel mettere a punto una strategia di crescita, dunque, occorre fare attenzione a non soffermarsi secondarie tralasciando la principale. sulle determinanti Pag 12 Un minore su 4 meno imbarazzato se “parla “ on-line di Giovanna Sciacchitano Con internet si evita il confronto diretto. Via di fuga per chi non lega coi coetanei Per un quarto dei ragazzi italiani dagli 11 ai 16 anni è più facile essere se stessi su internet piuttosto che di persona. Il dato sconcertante che dovrebbe indurre a riflettere genitori ed educatori emerge dal progetto europeo "Eu kds on-line II" che ha raccolto le interviste di un campione di oltre 25mila studenti e altrettanti genitori. In occasione della giornata mondiale della sicurezza on-line cerchiamo di capire come viene percepita e utilizzata la rete dai più giovani e quali sono i pericoli a cui sono esposti. In base alla ricerca emerge che i ragazzi italiani usano internet per svolgere attività utili e divertenti, allacciare nuovi legami di amicizia e di intimità o coltivare quelli vecchi. Un terzo di loro riesce a parlare di più cose su internet rispetto a quando si trovano con qualcuno di persona. Mentre il 19% parla on-line di cose private che non condivide di persona con altri. Internet un pericoloso surrogato dei rapporti personali diretti? Secondo la ricerca non è così. Per "Eu kids on-line" opportunità e rischi della rete sono fortemente connessi. Perciò quello che può essere divertente per qualcuno può risultare rischioso per un altro. Bisogna considerare che sperimentare ed esprimere la propria personalità è un po’ l’essenza dell’adolescenza. Dunque i ragazzi che dicono che è "abbastanza vero" che è più facile esprimere se stessi on-line (20%) potrebbero semplicemente sfruttare le opportunità offerte dalla rete. Magari perché discutere di questioni personali on-line è meno imbarazzante. È invece fonte di qualche preoccupazione il fatto che per il 5% dei ragazzi italiani è "molto vero" che è più facile essere se stessi on-line. La risposta potrebbe essere che hanno qualche problema nelle relazioni interpersonali faccia a faccia oppure perché passano molto, troppo tempo al computer. In base alla ricerca emerge che non tutti hanno buoni rapporti con i coetanei. Così l’11% non si sente ben accettato, mentre il 38% solo in parte (dichiarando un "abbastanza"). Sono i ragazzi che hanno maggiori difficoltà relazionali a sentirsi più se stessi on-line. Proprio per questo secondo gli esperti questi soggetti sembrano essere i più vulnerabili e quindi più esposti a pratiche rischiose. In effetti il 57% di coloro secondo cui è più facile essere se stessi online che di persona ha cercato negli ultimi dodici mesi nuovi amici in rete, il 40% ha aggiunto alla lista degli amici o dei contatti persone mai incontrate off-line, il 16% ha inviato informazioni personali a persone che non ha mai visto, il 14% ha finto di essere un’altra persona e il 16% è stato in contatto su internet con persone mai incontrate offline. Dunque secondo gli esperti è importante discutere dei rischi delle relazioni on-line soprattutto con i ragazzi che hanno problemi con i propri coetanei. Detto questo, resta il fatto che i ragazzi, per la maggior parte, hanno relazioni positive, si sentono più liberi di esprimere se stessi on-line, ma evitano a esporsi a situazioni o rapporti di comunicazione rischiosi su internet. L’82% dei ragazzi italiani è in contatto su internet con persone che ha conosciuto off-line, il 43% comunica on-line con "amici di amici", mentre solo il 16% è entrato in contatto con persone mai incontrate off-line. La percentuale dei ragazzi che hanno un profilo in un sito di social network e che sono in contatto con "sconosciuti" è del 10%. Il 35% dei ragazzi che usano i siti di "social network" ha un profilo pubblico, ma solo il 16% pubblica nel profilo il proprio indirizzo o numero di telefono e solo il 20% dichiara un’età diversa on-line. Il consiglio dei ricercatori per i ragazzi è molto semplice: mano sul mouse e piedi per terra. Perché con le vite virtuali si mette in gioco la propria vita. In Europa i ragazzi trascorrono molto tempo on-line. Il 93% di quelli di età compresa fra i 9 e i 16 anni navigano almeno una volta alla settimana, mentre il 60% tutti i giorni o quasi. La ricerca effettuata nei 25 Paesi dell’Unione registra che i bambini cominciano a usare internet sempre prima. L’età media in cui si inizia a familiarizzare con la rete è 7 anni in Danimarca e Svezia, 8 negli altri Paesi nordici e 10 in Grecia, Italia,Turchia, Cipro, Germania, Austria e Portogallo. In tutti i Paesi europei un terzo dei bambini di 9 e 10 anni e più dei due terzi (l’80%) dei quindici-sedicenni usano internet ogni giorno. In Italia il 60% dei ragazzi naviga in rete tutti i giorni o quasi. Non tutto quello che si fa on- line è negativo. Molte attività sono potenzialmente utili. I ragazzi europei dai 9 ai 16 anni usano internet per i compiti (85%), per giocare (83%), per guardare video (76%) e comunicare con i propri amici nei programmi di messaggistica istantanea (62%). Una percentuale più bassa condivide immagini (39%) o messaggi (31%), usa una webcam (31%), accede ai siti di condivisione di file (16%) o blog (11%). Il 59% dei ragazzi fra i 9 e i 16 anni ha un profilo su un sito di social network, percentuale che in Italia scende al 57%. Di questi in Italia il 35% ha un profilo pubblico. Molto spesso i genitori europei non sono consapevoli dei rischi sperimentati dai propri bambini. Basti pensare che il 40% dei genitori i cui figli hanno dichiarato di aver visto immagini a sfondo sessuale esclude che i piccoli si siano imbattuti in simili situazioni. In Italia, ma anche in Portogallo, la percentuale sale al 54% e risulta la più alta tra tutti i Paesi dell’Unione. Il 56% dei genitori europei i cui bambini hanno ricevuto messaggi offensivi on-line non ne è a conoscenza. Anche in questo caso in Italia la percentuale supera la media europea con un 81%. Se si guarda al caso di ragazzi destinatari di messaggi sessuali, il 52% dei genitori esclude che la navigazione on-line dei propri figli sia stata disturbata da questo tipo di esperienze. In questa tipologia di rischi l’abitudine della condivisione dell’esperienza risulta più diffusa in Italia e la percentuale di genitori inconsapevoli non supera in questo caso il 48%. C’è poi un altro dato che fa riflettere: il 61% dei genitori di ragazzi che hanno incontrato faccia a faccia persone conosciute online ignora quanto sperimentato in prima persona dai propri figli. In Italia la percentuale di genitori inconsapevoli sale al 67%. «Anche quando si è diffusa la telefonia mobile dalle ricerche emergeva una maggiore facilità degli adolescenti a comunicare tramite sms e a sentirsi più sicuri, quando erano 'protetti' dal cellulare». Questo il commento di Giovanna Mascheroni, ricercatrice dell’Osservatorio sulla comunicazione dell’Università Cattolica e referente nazionale del Progetto 'Eu kids on-line'. «I ragazzi usano i media anche per sperimentare con la propria identità e le relazioni sociali in un modo che li espone meno rispetto ai contesti faccia a faccia». Non è una fuga dalla realtà? Analizzando i dati ci siamo resi conto che i ragazzi più a proprio agio on-line sono quelli che hanno difficoltà relazionali faccia a faccia con i coetanei. Per loro l’uso di internet potrebbe essere un rischio perché sarebbero esposti rispetto agli altri coetanei in misura maggiore a situazioni comunicative potenzialmente rischiose. Però non farei dell’allarmismo. I dati incoraggianti sono per esempio che pochissimi ragazzi divulgano on-line informazioni personali, quali numero di telefono e indirizzo. Non solo, rari quelli che danno un’età falsa. Quali sono in generale i pericoli? Fortunatamente i rischi che sono percepiti come più pericolosi e più dannosi sono anche quelli meno diffusi. Pensiamo al bullismo che è un’esperienza che i ragazzi considerano molto dolorosa e negativa e che però riguarda solo il 2% dei ragazzi italiani. O quello di incontrare off-line persone conosciute on-line, che interessa solo il 4% dei ragazzi italiani. Senza contare che spesso si tratta di coetanei e non di persone adulte. Il rischio di esposizione a contenuti pornografici, immagini sessuali e a contenuti generati da utenti potenzialmente pericolosi (informazioni su pratiche autolesionistiche o anoressia o bulimia) sono quelli più comuni, ma verso cui i ragazzi sembrano avere più difese. Come proteggere i ragazzi? Si deve cercare di bilanciare le opportunità e i rischi. Cioè rendendoli più consapevoli, educandoli a essere cittadini digitali. Spiegare loro cosa si può trovare e quali rischi si corrono. Cosa possono fare i genitori? Hanno un ruolo molto importante. I genitori perché il contesto domestico è il contesto d’uso più diffuso. Se il 49% degli europei ha un computer in camera, in Italia si sale al 62%. Ai genitori italiani bisogna ricordare che è importante condividere e discutere con i figli quello che fanno on-line. Ma non si può trascurare il contesto scolastico perché internet è uno strumento che viene usato per socializzare e quindi si deve sensibilizzare a usi sicuri e responsabili della rete. Ci sono differenze fra maschi e femmine? Le ragazze sono più vittime di bullismo e di messaggi a sfondo sessuale. Ai maschi piacciono i giochi di ruolo e sono più esposti al contatto con sconosciuti. Torna al sommario 6 – SERVIZI SOCIALI / SANITÀ CORRIERE DEL VENETO Pag 10 Bocciato il centro anti-tumori: “Ci guadagnano solo i privati” di Michela Nicolussi Moro Padoan: se non firmo, penale da 50 milioni di euro Venezia - Nuova mazzata per l’Usl 12 e per il suo dg Antonio Padoan, già nel mirino della Regione perché responsabile del maggiore disavanzo veneto, accumulato anche a causa del project financing relativo all’ospedale di Mestre. Gli ispettori guidati da Egidio Di Rienzo e inviati dalla V commissione su richiesta del segretario della Sanità, Domenico Mantoan, hanno bocciato l’altro progetto di finanza sottoscritto nel 2005 dall’azienda lagunare con l’autorizzazione della giunta Galan e riguardante il centro protonico per la cura del cancro. Tale struttura comporta per il privato (la cordata composta da Varian, Hideal srl PPP, Gemmo spa, Medipass spa e Impresa società italiana per condotte d’acqua spa) una spesa di 159.575.000 euro, che in 19 anni e 6 mesi Usl e Regione rimborseranno con 738.685.200 euro, comprensivi dei servizi di gestione. La relazione dei tecnici si apre con una bordata: «Allo stato attuale gli studi pubblicati in letteratura non hanno riscontrato evidenze scientifiche che provino la maggior efficacia clinica della terapia protonica rispetto alla terapia con acceleratore lineare convenzionale. Sebbene la terapia protonica susciti grandi aspettative, gli investimenti in questa costosa tecnologia, soprattutto in un sistema pubblico, non devono quindi seguire l’onda dell’entusiasmo emotivo ma dovrebbero essere basati sui dati solidi che dimostrino il reale beneficio. Non è da escludere in via assoluta l’opportunità di una futura acquisizione, tuttavia vista la contingente situazione economico finanziaria della Regione è opportuno chiedersi se sia corretto in questo momento investire capitali di ampia portata, sapendo che detto investimento toglie inevitabilmente risorse ad attività mediche di efficacia ed appropriatezza già accertate». La mancanza di certezza scientifica rende poi «impossibile definire un corretto bacino di utenza, quindi non risulta sussistere un numero di pazienti sufficienti a garantire la produttività ed economicità del centro di Mestre», nonostante la stima potenziale di 1900 all’anno provenienti dal Veneto più altri 2100 di fuori regione. Ma c’è da considerare la concorrenza di Trento e Pavia, con relativo «forte rischio» che l’obbligo di raggiungere i 4 mila malati crei domanda inappropriata, cioè l’utilizzo di terapia protonica su pazienti «che avrebbero potuto essere curati con acceleratore lineare» . Infine la convenienza. Acquistare adesso una tecnologia appena uscita comporta una spesa maggiore: in un secondo momento il prezzo potrebbe scendere. Secondo gli ispettori inoltre il project «tutela particolarmente il privato, che comunque raggiungerà l’equilibrio finanziario riversando sul pubblico i maggiori rischi», dunque suggeriscono l’esame di formule alternative. Ora la palla passa all’assessore Luca Coletto: l’orientamento della giunta è di rescindere il contratto. «Sono costernato - ammette Padoan - ho agito per nome e per conto della Regione che ha voluto questo centro, esigendo tutte le garanzie del caso e senza alcuna fretta di firmare il contratto. Che comunque sottoscriverò, altrimenti dovremo pagare 50 milioni di danni. Come fanno gli ispettori a dire che non esiste certezza scientifica per una cura adottata in tutto il mondo, riconosciuta dalla Ue e meno costosa della chemio, pagata 100/150 mila euro a ciclo contro i 22 mila della terapia protonica? Sono sbigottito, i tecnici sono arrivati a tali conclusioni non parlando nemmeno con me e non valutando i guadagni per l’Usl di Venezia, che già ora conta 20 mila malati di tumore. Altro che 4 mila all’anno. E la concorrenza con Trento e Pavia? Il primo centro deve ancora aprire, il secondo è di nicchia. E’ vergognoso mettere in dubbio un lavoro di 5 anni». LA NUOVA Pag 9 Centro protonico verso la bocciatura. Ispezione secretata di Renzo Mazzaro I costi della sanità: lente sul project di Mestre Venezia. Arriva il rapporto del servizio ispettivo sul futuro Centro di Terapia Protonica dell’ospedale di Mestre ed è subito giallo. Come un regista di film polizieschi Leo Padrin, presidente della commissione sanità, «secreta» il rapporto spiegando ai colleghi che preferisce parlarne prima con l’assessore Luca Coletto, perché la questione è delicata. Talmente delicata, parole sue, che «le ricadute potrebbero mettere in discussione la stessa valenza strategica del Centro». Come urlare in un megafono che gatta ci cova. Si mette in moto il controspionaggio, tutti si lanciano a caccia del rapporto. Padrin spegne il telefono e si dà alla macchia. I giornalisti tartassano i commissari in ordine alfabetico. Quelli del centrosinistra protestano: il servizio ispettivo in sanità è appena passato dalla competenza della giunta a quella del Consiglio. «Dovrà essere la commissione a decidere cosa fare - insorge Pietrangelo Pettenò, Rc - ma se tu Padrin te la vedi prima con loro che con noi, abbiamo azzerato il cambiamento, introdotto peraltro con una legge». La pensa uguale il Pd: «Con un rapporto ispettivo non si gioca a nascondino», avverte Claudio Sinigaglia, vicepresidente della commissione. Tutti sono decisi a metterci le mani a stretto giro. Compreso Dario Bond, capogruppo del Pdl, che peraltro aveva già visto il rapporto giovedì scorso. Ma solo da fuori: «E’ un malloppone di un centinaio di pagine, poco più grandi del formato A4 - dice -. Padrin me ne stava parlando ma ero occupato a fare un’altra cosa». Magari la pubblicità della tisana bunga-bunga che ha messo in vendita nel suo negozio? «Eh, hanno scritto che è andata a ruba - informa Bond - invece ne ho venduto solo un centinaio di pezzi». Per forza, la tisana rilassa, il bunga-bunga eccita, la combinazione è eccentrica, chi la beve a fare? Gira voce che ci sarebbero «irregolarità sul piano giuridico-aministrativo»: parole che Pettenò ha sentito pronunciare da Padrin. «No, questa è una sua interpretazione» dice Sandro Sandri, leghista, ex assessore alla sanità. La dietrologia ricostruisce così le irregolarità: 1) il Centro realizzato in project financing costa un occhio della testa rispetto a prezzi praticati altrove; 2) ma non si può più fare marcia indietro perché ormai è affidato e le penali sono ancora peggiori. «Se è così è l’ultimo attacco al direttore generale Padoan», commenta Sinigaglia. Ecco allora Toni Padoan, dg dell’Usl 12 di Mestre: «Escludo nel modo più assoluto irregolarità o scorrettezze, chi ne parla non sa niente di diritto né di procedura e ne renderà conto, perché ci sono anche le querele». - Minaccioso? «No, ma queste discussioni tediose mi hanno scocciato. Tutti parlano di questa vicenda e nessuno mi ha mai interpellato». - Neanche il segretario regionale alla sanità? «Nessuno. Con Mantoan ne ho parlato casualmente e quando ho finito di spiegargli la situazione era d’accordo con me». - Ma non è lui che ha avviato l’ispezione? «Il nuovo segretario viene da fuori, non sapeva nulla, ha acquisito informazioni come suo diritto. Ma l’ispezione è un’attività ordinaria della giunta. Non è vero che il Centro di Mestre sarà in concorrenza con quello di Trento: a Trento hanno bandito una gara per trovare chi lo costruisce non chi lo gestisce, come noi. Saranno senza il know-how mentre noi l’avremo. Hanno una sola postazione contro 4 di Mestre. Neanche Pavia regge il confronto, lì trattano ioni pesanti, non protoni, terapia meno invasiva. In Italia non c’è niente di uguale, siamo unici in Europa con Monaco di Baviera. La realizzazione ci è stata proposta dalla Regione, ne stiamo parlando dal 2005 e io ho così tanta fretta di concludere che sono ancora all’inizio». Mestre. Il nome in sigla è Ptc, Proton therapy center: ospiterà una macchina che utilizza fasci di protoni per curare i tumori, in particolare quelli pediatrici, del cervello, dell’occhio, della prostata. Il fascio punta alla zona tumorale senza coinvolgere tessuto circostante, senza gli effetti invasivi di chemioterapia e radioterapia. Il centro è progettato su 4 piani, collegati con l’ospedale all’Angelo. La realizzazione è in projet financing (finanziamento privato), costo 160 milioni di euro. IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag XXXV All’Ospedale San Camillo elevati livelli di assistenza per tutti i pazienti del Veneto (intervento del commissario straordinario Pietro Gonella) Torna al sommario 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA LA NUOVA Pag 12 Il decreto Calderoli resta un giallo di Alberto Vitucci Canal Grande: il ministro ha veramente sbagliato, la competenza è passata allo Stato Il ministro ha sbagliato decreto. Nuovo giallo sull’abolizione della norma del 1904 che assegna al Comune in concessione la giurisdizione sul Canal Grande. «E’ stato un equivoco, quel decreto non può essere abrogato perché è un Testo unico», aveva tranquillizzato il ministro per la Semplificazione Roberto Calderoli. Peccato che il Regio decreto a cui si riferiva non sia quello incriminato. La norma abrogata con un colpo di penna dal ministro è infatti il decreto 721 del 1904. Quello a cui fa riferimento lo stesso Calderoli nella smentita è invece il 523, sempre del 1904, che parla di «opere idrauliche in laguna». Dunque il problema esiste. Dal 15 dicembre scorso il Canal Grande non è più sotto la competenza del Comune. In teoria i vigili urbani non potrebbero più contestare multe, Ca’ Farsetti non potrebbe decidere sui limiti di velocità e sulle concessioni di spazi acquei. «E’ stata commessa una grave leggerezza, speriamo siano in buona fede», rincara la dose l’assessore alla Mobilità e Traffico acqueo Ugo Bergamo, «e il ravvedimento deve essere operoso, nero su bianco. Occorre rimediare alla svelta». Non bastano insomma, secondo l’assessore, le rassicurazioni fatte avere a voce al sindaco Orsoni. Bisogna agire, «abrogando l’abrogazione» e risolvendo il problema. Un fatto è certo. Mentre si parla di federalismo e di nuova Legge Speciale viene cancellata una norma che assegnava al Comune la competenza sulla principale via d’acqua della città. Proteste generali in città, da destra e da sinistra, categorie economiche, politici e intellettuali. «Un errore madornale, da dilettanti allo sbaraglio», attacca il senatore del Pd Felice Casson, primo firmatario della proposta di riforma di Legge Speciale depositata in Parlamento, «e non è la prima volta che succedono questi guai: anche nella proposta di legge Brunetta sono state cancellate le due Leggi del 1963 e 1966, qyelle che prevedevano sanzioni a chi inquina la laguna». Occorre invece, insiste Casson, invertire la rotta, e riportare il controllo delle acque lagunari sotto un organismo unico presieduto dal sindaco della città più importante, cioè Venezia. «Certo non si può delegare tutto a Roma: in questo modo si darebbe ancora spazio ai grandi consorzi e a opere discutibili, portando via lavoro alle imprese locali». All’attacco del ministro leghista anche Italia dei Valori. «Calderoli è un ministro centralista e antifederalista», dice il consigliere dell’Idv Gennaro Marotta, «e ha fatto un bel pasticcio: o è un incompetente oppure prova a fare qualche porcata, come lui stesso aveva definito la sua riforma elettorale. Non sarebbe la prima volta, visto che aveva provato ad abolire la legge che puniva le sofisticazioni alimentari». Comunque finisca la vicenda del Canal Grande, Venezia intende dare una «svolta» all’intero sistema del dominio statale sulle acque della città. «Al Porto devono restare solo i canali navigabili», dice Bergamo, «non esiste che il Comune paghi centinia di migliaia di euro le concessioni al Porto e al Magistrato alle Acque a San Marco». Linea condivisa anche dai gondolieri. «Le acque e le rive devono essere governate dal Comune», dice il presidente Aldo Reato. Pag 17 Pm10 alle stelle da una settimana di Mitia Chiarin La Regione convoca i sindaci. A Mestre blocco del traffico il 20 febbraio A Mestre siamo al settimo giorno consecutivo di valori oltre misura per le polveri sottili e al 21esimo sforamento da inizio anno. Ancora due settimane così e avremo esaurito il «bonus» di 35 giornate sopra il limite dei 50 microgrammi per metrocubo, previsti dall’Unione Europea. Smog alle stelle in tutto il Veneto. Dopo il primo allarme lanciato agli enti locali venerdì scorso, ieri l’Arpav, agenzia regionale per la prevenzione ambientale, ha confermato che l’aria è pessima. L’alta pressione che mantiene il cielo sereno su tutto il Veneto «determina condizioni sfavorevoli per la qualità dell’aria». Conte convoca i sindaci. La lettera partita dal Comune di Venezia più di una settimana ha prodotto un risultato. E’ di ieri l’annuncio della convocazione del tavolo regionale da parte dell’assessore regionale all’Ambiente Maurizio Conte. Presidenti di provincia e sindaci delle città capoluogo sono convocati a palazzo Balbi il 16 febbraio, dicono dalla segreteria dell’assessore, «per decidere assieme come agire». Bettin: il 20 blocco. «Sì, è arrivata la convocazione - conferma l’assessore comunale Gianfranco Bettin - speravamo arrivasse prima. A Mestre il 20 febbraio ci sarà la prima domenica ecologica dell’anno, con un blocco del traffico. Ci aspettiamo che si prendano decisioni tutti assieme, per una vera politica di area vasta. Targhe alterne e blocchi se riguardano solo noi sono inutili, se si agisce su un’area vasta invece no. Mi aspetto una decisione che veda la Regione assumersi un ruolo forte di coordinamento. Comunque noi di idee e iniziative ne abbiamo già molte». I dati allarmano. Da mercoledì previsto un miglioramento della ventilazione sulla costa ma la situazione resta preoccupante nel resto della Regione, dicono da Arpav. Le centraline anti-smog di Mestre parlano chiaro. Sette giorni consecutivi di sforamento per la centralina urbana del parco Bissuola, in costante aumento da una settimana fino al valore di domenica di 129 microgrammi, più del doppio del limite di 50 microgrammi. Da inizio anno è il 21esimo sforamento, ancora 14 giornate con i valori del Pm10 oltre misura ed esauriremo il bonus di 35 giornate concesso dall’Unione Europea. A Venezia, la centralina di Sacca Fisola ha calcolato anch’essa per una settimana di seguito valori oltre misura del Pm10: ultimo dato, sempre 129 microgrammi. Spenta la centralina di via Fratelli Bandiera a Marghera che a breve, spiegano dall’Arpav, si trasferirà in via Da Verrazzano per misurare lo smog da traffico. La protesta. L’associazione Veneto Radicale oggi a Mestre in Municipio presenta la costituzione come parte civile, con un atto di azione popolare, di un gruppo di cittadini, a nome delle amministrazioni locali di Venezia, Padova, Treviso, Verona e Vicenza nel processo contro l’ex assessore regionale Giancarlo Conta, indagato per omissioni in atti d’ufficio per non aver impedito l’emergenza smog in Veneto, tra il 2005 e il 2010. La «torta» dello smog. E’ bene rilevare come lo smog sia un problema in città ma anche nel resto della Provincia. 23 sforamenti da inizio anno a Mira, 22 a Spinea (vicino al nuovo Passante), 18 a Chioggia. L’emergenza coinvolge tutto il territorio. Secondo dati del 2007 sulla qualità dell’aria che respiriamo incidono per il 31% le centrali elettriche, per il 21% le attività produttive e per il 17% il traffico su strada. In questi ultimi anni, complice la crisi, si è notevolmente ridotta l’attività delle centrali e molte aziende dalle forti emissioni, come Vynils e Montefibre, hanno chiuso i battenti. Nonostante ciò, il problema delle polveri sottili continua a riproporsi in tutta la sua gravità. Malattie polmonari e asma sono fortemente correlati con l’inquinamento delle città. Pag 21 Trovati i vandali di Villa Elena di Giorgio Cecchetti E’ la stessa banda che ha agito in Regione e alo Iuav Cipressina. Gli investigatori del Commissariato di Venezia avrebbero dato un nome e un volto ai ladri e vandali che in gennaio hanno devastato villa Elena e hanno portato via tubi di rame, rubinetti e impianti, provocando un danno per circa un milione di euro. Si tratta di una banda di Favaro Veneto composta da cinque elementi: i poliziotti non cercavano gli autori di quella devastazione, bensì i ladri che avevano compiuto due furti in centro storico, quello della notte del 9 gennaio nella sede degli uffici della Sanità della Regione, a due passi da San Giovanni Evangelista, e il secondo alla facoltà di Architettura dei Tolentini la notte del 23 gennaio. I sospettati sono stati perquisiti e nelle loro case sono stati trovati centinaia di buoni mense spariti dagli uffici della Regione (ne erano stati rubati ben 2500 per un valore di circa 225 mila euro), prova evidente che gli inquirenti avevano individuato i responsabili. In una delle case perquisite, però, è spuntato un oggetto in rame che lega la banda anche al colpo a villa Elena. Muri in cartongesso sfondati, impianti elettrici spariti, rubinetti strappati, stanze allagate, pavimenti lordati. Da rifare gli spazi pronti per ospitare l’hospice, stanze per i malati di Alzheimer e altre strutture gestite dall’Opera Santa Maria della Carità. Questo hanno trovato coloro che sono entrati il 24 gennaio scorso. La devastazione sarebbe durata poco meno di un mese. Infatti, il responsabile dell’Opera Santa Maria Della Carità c’era entrato il mese scorso. Non c’erano guardiani, nonostante fosse tutto già pronto per l’inaugurazione e quindi per ospitare i malati terminali oncologici, chi soffre di Alzheimer, un centro di riabilitazione e i parenti dei ricoverati. Eppure la Regione, attraverso l’Asl, aveva speso parecchi milioni di euro per ristrutturare parte dell’ex villa e renderla operativa. I ladri, all’interno, avevano anche bivaccato, lavorando in grande tranquillità. Al gruppo di Favaro, gli investigatori del Commissariato veneziano sono arrivati quasi per caso. Ritenevano di aver individuato alcuni extracomunitari che spacciavato sostanze stupefacenti in centro storico e avevano messo alcuni cellulari sotto controllo. Un giorno uno dei telefonini passa di mano e ascoltano una voce di donna che parla di refurtiva di uno dei due furti di Venezia. Tra l’altro, anche allo Iuav, i ladri avevano devastato cinque uffici prima di andarsene con 200 euro e alcune merendine. La perquisizione ha poi confermato i sospetti, quelli di aver individuato non solo gli autori dei colpi a Venezia, ma anche quello di villa Elena. Pag 22 Lettera dell’Unità, fotocopie in chiesa di Marta Artico Il parroco di Dese: “Messaggio valido”. La Onisto non ci sta: “Strumentalizzazione” Dese. Non lo vuole neanche nominare, il signor B, il parroco di Dese, don Enrico Torta. Per il pastore della comunità della Natività di Maria il caso Ruby è solo la punta dell’iceberg. Per questo domenica mattina, a fianco al bollettino parrocchiale, i fedeli hanno trovato anche le fotocopie della lettera di Concita De Gregorio, direttrice de L’Unità, dal titolo «Le altre donne». Un articolo nel quale la giornalista parla dell’esistenza di un altro genere di donne, che non sono piegate al dio denaro. Don Enrico cassa il signor B e non vuole neppure essere etichettato: «Giudico gli articoli e le persone, dobbiamo smetterla di catalogare la gente: non ci sono sacerdoti rossi, gialli, verdi. Quello del prete comunista è un refrain morto da vent’anni. Ho sentito Concita De Gregorio in tivù: è una donna di grande valore, non sapevo che giornale dirigesse e non mi interessa neanche. Si tratta esclusivamente di una questione di valori. “B” si arrangerà con il Padre eterno, il fatto grave è che ci stiamo degradando, non ci sono punti di riferimento etici, la morale non esiste, tutto è mercificabile, anche le cose più sacre della vita. Urge il rispetto dell’uomo per la donna e della donna per l’uomo: invece per il denaro e il piacere si svende tutto. Questo messaggio può venire da chiunque, da un vescovo o da una giornalista, non c’è nulla di ideologico nella fotocopia che ho messo a fianco al foglietto parrocchiale: è un problema antropologico, stiamo discutendo del tipo d’uomo che vogliamo adesso. Non è una battaglia contro Berlusconi, lui è solo il rappresentante di un malcostume generale, ma per una nuova moralità contro lo smarrimento etico». Qualcuno però non l’ha presa bene. Deborah Onisto, parrocchiana ed esponente del Pdl, in una lettera aperta al sacerdote lancia una frecciatina a don Enrico. «Nell’invettiva dei parroci di questi giorni - scrive - vedo sicuramente indignazione ma anche tanta insidiosa strumentalizzazione: la vedo nel preciso momento in cui alle parole del Signore si affianca la distribuzione di un articolo di una giornalista di una precisa collocazione politica che interroga gli italiani su personalissime scelte politiche. Caro don Enrico, partecipo alla tua messa per la grande capacità che hai di trasferirmi la parola del Signore contestualizzandola, ma ognuno faccia il suo». «Non sposo alcuna ideologia - ribatte il parroco - tantomeno quella di un giornale di una parte politica. Concita De Gregorio per quel che mi riguarda è solo una persona per bene, che scrive cose condivisibili. “B” è il rappresentante di un malcostume generale, al quale i cristiani debbono rispondere con una proposta forte: oggi l’unica garanzia di serietà arriva dal presidente della Repubblica Napolitano». Mogliano. Non è il primo, non sarà l’ultimo don Enrico Torta a cercare di far riflettere i propri fedeli sul senso della vita e sull’importanza dei valori. Anche don Giorgio Morlin, parroco della chiesa del Cuore Immacolato a Mazzocco-Torni, due domeniche fa ha affisso fuori della chiesa e reso disponibile con qualche fotocopia il pezzo della De Gregorio, intitolato «Le altre donne», dove si parla del caso Ruby e dell’esistenza di un genere femminile diverso da quello che frequenta certi palazzi del potere. «Ritengo sia fonte d’ispirazione e di riflessione sullo stato attuale delle cose in Italia, su un certo esempio - da non imitare - che ci arriva da una classe politica sbandata - ha spiegato don Giorgio - Non era certo impeto politico il mio, ma spunto costruttivo per una lettura intelligente, come faccio molte altre volte con altri articoli di quotidiani diversi. Di Berlusconi, sinceramente, poco mi importa, se non quando coi suoi comportamenti fornisce un esempio poco gradevole e ancor meno edificante per i giovani e per il Paese». Nei giorni scorsi anche il parroco della Santissima Trinità, don Angelo Favero, per molti anni preside del liceo Franchetti, sul foglietto parrocchiale della comunità di villaggio Sartori, ha pubblicato una discussione colorita che ha per tema i festini di Arcore. IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag V Reagiamo da grande città di Pieralvise Zorzi Pag IX Una forcola speciale da regalare al Papa di L.M. Pag XIII Rubygate, parrocchiani “contro” di Alberto Francesconi e Alvise Sperandio Contestati i sacerdoti per le loro esternazioni sulla vita privata del premier Berlusconi: “Usate la stessa veemenza con i pedofili”. Don Angelo Favero: “Politica? No, solo un richiama morale” CORRIERE DEL VENETO Pag 2 L’asfalto dei futuristi, i dogi e il moto ondoso. Di chi è il Canal Grande? di Sara D’Ascenzo Comune, Stato, architetti: storia della “strada magica” Venezia - Nemmeno i futuristi (quelli doc: Marinetti, Boccioni, Russolo e Carrà, non gli uomini del presidente Fini) erano arrivati a tanto. Nemmeno loro, nella follia visionaria con la quale avevano ridisegnato Venezia togliendola dalle sabbie mobili di un’immagine cristallizzata per trasformarla nell’avamposto di una modernità industriale e operosa, avevano osato formulare il pensiero che per ogni veneziano è un tabù: togliere il Canal Grande a Venezia. Certo, fosse stato per loro l’avrebbero scavato e allargato per farne un porto commerciale con tutti i crismi e avremmo perso cent’anni esatti (il manifesto «Contro Venezia passatista» è dell’aprile del 1910) di serenate in gondola al chiaro di luna, di motoscafi che sfrecciavano ((ora molto meno) lungo la «s» più famosa del mondo, di ristoranti dai conti a tre zeri che devono la loro fortuna all’affaccio sul «canalazzo». Ne abbiamo goduto per secoli, per millenni: quel Canale che attraversa la città lambendo come un serpente il pesce di case e palazzi è molto più antico di Venezia e la costruzione della città sulle sponde ha dovuto adattarsi al percorso del canale, senza mai violarlo. Ora che quelle acque, che non sono certo più «chiare e fresche» come quelle di Petrarca, ma sono sicuramente l’arteria attraverso cui scorre il sangue della città, potrebbero - ma solo sulla carta! - passare dal Comune allo Stato, Venezia non può non reagire ferocemente anche solo all’idea che Roma possa mettere le mani su acque che da sempre è la città a gestire, ad amministrare. A difendere, anche. A vederla da fuori, pigramente adagiati su un tavolino a godersi il chiaro di luna riflesso nel «canalazzo», a qualcuno potrebbe pure apparire - provocatoriamente - come una bella liberazione. Quanto tempo passa il sindaco a dirimere questioni di moto ondoso? Quante beghe nascono all’ombra degli spruzzi che vaporetti, motoscafi e taxi alzano in Canal Grande? All’epoca delle riprese ad alto tasso d’azione del film The italian job con Donald Sutherland e Charlize Theron - era il 2003 - l’allora sindaco Paolo Costa fu accusato di aver dato alla troupe licenza di moto ondoso per aver concesso ai motoscafi del set, per esigenze di scena, di sfrecciare indisturbati sollevando tutta l’acqua vietata ai mezzi nostrani: «Portano indotto e ricchezza», fu la giustificazione. Il film si girò e quelle scene furono la sola cosa emozionante del remake. Idem per le tariffe degli stazi, i controlli dell’autovelox, le rive che si rompono, la polizia locale che perderebbe la sua competenza su chi esagera in Canale, chi corre come un matto, chi entra senza averne il permesso. Via, tutto dello Stato. Mah... Anche se il parallelo può sembrare azzardato, è un po’ come nella disfida tra Stato e Regione quando, dopo l’apertura del Passante, il governo centrale tentò di riacciuffare la riscossione dei pedaggi che aveva affidato alla Cav. Adesso, per dire, bisognerebbe creare una società statale ad hoc controllata dall’Anas: semplice, la Canal Grande spa! Perché è indubbio a tutti che quella veneziana più che una strada semplice è un’autostrada. Non più per la velocità - negli anni ’70 si correva tre volte tanto - ma per il traffico e l’importanza strategica e storica che il canale ha da sempre. Basti pensare alla fatica che si è fatta nei secoli solo per costruire i ponti che permettevano di passare da una riva all’altra dell’acqua. Il primo e più simbolico fu certamente il ponte di Rialto, che riunì una città fino ad allora letteralmente divisa in due: de citra una città, de ultra un’altra, come ricorda nel suo I segreti del Canal Grande Alberto Toso Fei, due mondi affacciati uno nell’altro. Per convincere le autorità a sostituire il ponte di legno con uno di pietra ci vollero più di tre secoli e i lavori furono conclusi solo alla fine del ’500: pur essendo sicuri della fedeltà del proprio popolo, i Dogi ritenevano fosse meglio tenere la città divisa o tutt’al più unita da un ponte malfermo che era già crollato diverse volte, piuttosto che da un ponte in pietra destinato a durare fino ai nostri giorni. Le rivoluzioni in acqua, si sa, non riescono bene. Ancora. Provate a chiedere all’architetto catalano Santiago Calatrava quanto bene vuole a quel progettino che tanto generosamente regalò a Venezia per fare il sospirato "Quarto Ponte sul Canal Grande": nemmeno nei suoi incubi peggiori avrebbe immaginato che la burocrazia gli avrebbe appiccicato un’ovovia per disabili fonte di innumerevoli polemiche. È la vis veneziana, sempre pronta ad alzare polveroni se si tocca l’acqua «sacra» alla città. L’acqua della Regata Storica e delle nuotate estenuanti di lord Byron, che amava misurare se stesso e le sue abilità natatorie in quel canale tanto fascinoso. L’acqua che vide l’ultimo giorno da uomo libero di Giordano Bruno e l’acqua che appariva più bella che in tutta la città vista dalle finestre di palazzo Foscari, tanto che i Dogi, quando avevano ospiti stranieri, domandavano ospitalità ai Foscari. O ancora, e infine, l’acqua lugubre che scortò l’ultimo viaggio di Wagner nel finale del Fuoco di Gabriele D’Annunzio. E oggi? Oggi è l’acqua che bagna incessante i palazzi in restauro con le maxi-pubblicità: dove un tempo il tour in vaporetto regalava le facciate di quel tipico stile veneto-barocco che ha reso immortale la città, oggi spesso è un fiorire di tacchi a misura di Kong Kong e dettagli fetish a coprire l’Accademia, o il Ponte dei Sospiri. I turisti, che a Venezia tornano bambini, ci restano male. Ma che deve fare la città per sopravvivere? E se davvero il problema passasse allo Stato? Stiamo al gioco: i tassisti smetterebbero di andare in corteo a Ca’ Farsetti e prenderebbero la strada di palazzo Chigi per protestare contro nuove licenze. E pagare una multa per eccesso di velocità nel Canalazzo vorrebbe dire mettere la famiglia su un treno e farsi tutti una bella gita a Roma. Neanche male, tutto sommato. Torna al sommario 8 – VENETO / NORDEST IL GAZZETTINO Pag 1 Immigrazione, per il 70% del Nordest è necessaria di Giancarlo Corò Testo non disponibile Pagg 18 – 19 Gli immigrati a Nordest, per il 70% sono necessari di Natascia Porcellato e Annamaria Bacchin Ma il 27% li vede in competizione con gli italiani (giovani soprattutto) per il lavoro. Pittau (dossier Caritas): “I veneti hanno capito il valore degli stranieri” CORRIERE DEL VENETO Pag 2 Unità, Regione assente a Roma. Il Quirinale chiede spiegazioni di Marco Bonet Zaia non aderisce al Comitato statale, Ruffato pronto a sostituirlo Venezia - Due sedie vuote, in prima fila. Un brutto colpo d’occhio, visto che si tratta della presentazione in pompa magna delle celebrazioni dei 150 anni dell’Unità e certo un buco in platea non è esattamente l’immagine che meglio richiama alla mente i Fratelli d’Italia. La prima sedia destinata a rimanere orfana, giovedì al Vittoriano, è quella del presidente della Provincia di Bolzano, Luis Durnwalder, che ieri ha avvertito: «I 150 anni ci ricordano la separazione dalla nostra madrepatria austriaca. Non volevamo l’Unità nel 1919 non la volevamo nel 1945. Successivamente abbiamo solo accettato il compromesso dell’autonomia amministrativa» . La seconda, invece, verrà occupata in extremis dal presidente del consiglio regionale Clodovaldo Ruffato, visto che il governatore Luca Zaia non ha mosso un dito per far sì che il Veneto aderisse al Comitato nazionale per le celebrazioni. Un’inerzia che ha fatto del Veneto l’unica Regione del Paese a rimanere ai margini della festa, provocando l’irritazione del Quirinale, che difatti ha chiamato chiedendo spiegazioni. La telefonata, partita venerdì dalla presidenza della Repubblica, è stata dirottata sulla cornetta di Ruffato, caduto letteralmente dalle nuvole. L’adesione al Comitato interministeriale, infatti, era questione di competenza dell’esecutivo ed anzi, a voler essere precisi, del governatore in persona. I funzionari del Colle hanno chiesto per quale ragione, a meno d’una settimana dall’appuntamento nella capitale dove verrà presentata la mostra delle Regioni delle eccellenze territoriali allestita al Vittoriano e a Castel Sant’Angelo, il Veneto risultava l’unica Regione d’Italia mancante all’appello non solo all’evento ma pure nel board del Comitato presieduto da Giuliano Amato. Errore? Dimenticanza? Precisa volontà politica? «Non ne ho idea» ha risposto Ruffato, prendendo tempo visto che l’idiosincrasia di Zaia per l’Unità è nota ed arcinota ed è bastato fare un giro di telefonate per aver conferma che l’inquilino di palazzo Balbi, semplicemente, fino a quel momento aveva fatto spallucce, se n’era infischiato. A quel punto, pare sia stato lo stesso Quirinale a suggerire a Ruffato di farsi attribuire i poteri sostituitivi, così da risolvere lo spiacevole inconveniente e così stamani si riunirà l’ufficio di presidenza del consiglio per approvare la delibera che sancirà l’adesione della Regione al Comitato, «così da garantire la presenza del Veneto a queste importanti celebrazioni, alle quali davvero non possiamo e non vogliamo mancare» dice Ruffato. Il Pdl, dietro di lui, va giù piatto: «Stavamo rischiando una figuraccia galattica. Con che faccia andiamo poi a Roma a chiedere più soldi per le Usl, più aiuti per l’alluvione, più autonomia?». Zaia però non si scompone: «E’ vero, non mi sono mosso ma la mia inerzia era dovuta al rispetto che nutro per il consiglio. Abbiamo fatto una legge che, istituendo il Comitato regionale per le celebrazioni, dà pieni poteri all’assemblea ed al presidente Ruffato su questa materia, compresi, per quel che ne so, quelli necessari per partecipare al Comitato interministeriale di Amato». Poi il governatore non rinuncia al contropiede: «Ciò chiarito e rispettando le idee e le sensibilità di tutti, a cominciare dal presidente Napolitano, mi auguro che non si trasformi l’Unità nell’ennesima ricorrenza dei dibattiti infiniti, come accadde per i 100 anni, i 120 anni e via discorrendo. L’Italia ha ben altri problemi e la gente lo sa. Evitiamo per cortesia la paralisi delle elucubrazioni». Pag 3 Abrogata per errore dal governo l’annessione del Veneto all’Italia di Alessio Antonini Nel “taglianorme” finisce anche il decreto regio del 1866 Venezia - Ci hanno provato raccogliendo firme per complessi referendum separatisti, ci hanno riprovato processando la Repubblica italiana in piazza -e condannandola ovviamente -e hanno perfino comprato terreni su terreni alle pendici dei monti per dichiarare indipendente un'intera vallata del bellunese. Hanno perfino costituito bande armate e hanno sfidato la prigione arrampicandosi sulla cima del campanile di San Marco, entrando in piazza con un carro armato. Mai nessun indipendentista però avrebbe pensato che fosse proprio Roma a regalare l'indipendenza al Veneto. Eppure è andata così: per una leggerezza di qualche tecnico romano -che verrà probabilmente santificato da una certa porzione di veneti e crocifisso dai vertici politici -nel decreto «ammazzanorme» entrato in vigore il 16 dicembre 2010 con la firma del ministro per la Semplificazione normativa Roberto Calderoli, del ministro della Giustizia Angelino Alfano e perfino del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi è finito anche il Regio Decreto 3300 del 4 novembre del 1866 con il quale «le provincie della Venezia e quelle di Mantova fanno parte integrante del Regno d'Italia». Insomma, con una mano Roma ha tolto il Canal Grande alla città lagunare abrogando il trasferimento delle competenze e con l'altra ha restituito alla Serenissima i confini della antica Repubblica di Venezia con tanto di dominio sulle provincie lombarde fino a Mantova. «Per un momento abbiamo avuto la fortissima tentazione di dichiararci astro-ungarici - scoppia a ridere il direttore generale del Comune di Venezia Marco Agostini - ma adesso i tecnici del ministero stanno lavorando per rimettere le cose a posto». Innanzitutto per scrivere un nuovo decreto che restituisca il Canal Grande a Venezia che, anche se Calderoli ha tranquillizzato tutti è, secondo i giuristi del Comune, effettivamente passato a Roma, poi un secondo decreto per evitare che gli indipendentisti intasino i tribunali combattendo la loro battaglia per l'indipendenza con la possibile beffa delle vie legali. D'altra parte i giuristi - dopo essersi ripresi da una lunga serie di risate incredule - concordano sul fatto che non basta abrogare un Regio Decreto del 1866 per cancellare centocinquanta anni di storia scritti a chiare lettere sulla Costituzione (la Repubblica resta «una e indivisibile ») e slegare così il Veneto dal resto d'Italia. Anche alcuni leghisti potrebbero in effetti restarci male a sapere che l'eventuale -molto eventuale -indipendenza del Veneto cancellerebbe con un colpo di spugna anche l'istituzione della Regione mettendo fuori legge lo stesso Luca Zaia e tutta la Giunta a maggioranza verde-Carroccio. E non c'è dubbio che la mossa di Calderoli abbia ben poco di volontario visto che insieme a un pezzo dell'Italia con il decreto «taglianorme» del 2009 erano sparite anche le leggi che fondavano il Comune di Follonica, di Sabaudia, di Aprilia e di Carbonia (già reintegrati con un decreto salvanorme fatto d'urgenza) e il Tribunale dei minori per cui il ministero ha dovuto emanare un decreto abrogativo del decreto abrogativo. Mal di testa giuridici a parte, la confusione generata dal taglio legislativo di Calderoli è destinata ad avere conseguenze anche sul piano economico. «Indipendenza del Veneto a parte, se il ministero non chiarirà bene la vicenda sulle competenze sul Canal Grande -ammette l'assessore veneziano ed ex cassazionista Ugo Bergamo -Il primo ricorso contro una contravvenzione avrà conseguenze spiacevoli per tutti». Basta pensare che dal 16 dicembre, i vigili non hanno teoricamente più poteri sul controllo del moto ondoso e sulla velocità delle imbarcazioni che attraversano i quattro chilometri di strada acquea più famosa del mondo. La «svista» ministeriale sul Canal Grande infatti ha messo a nudo la giungla intricata di norme che regola le competenze veneziane. Solo per fare un esempio, l'area del bacino acqueo di fronte a piazza San Marco è divisa tra quattro enti di competenza - Magistrato alle Acque, Autorità Portuale, Autorità Marittima e Comune di Venezia - che non sempre si coordinano tra loro per gli interventi. Non solo: sul bacino San Marco il Comune paga un affitto di seicentomila euro all'anno per avere il controllo degli stazi e delle rive dove sostano le gondole e i taxi acquei. «E' obiettivo dell'amministrazione comunale - conclude il consigliere comunale Beppe Caccia che è da sempre a fianco del sindaco Giorgio Orsoni su questa battaglia - ottenere il trasferimento di tutta la sovranità e delle risorse che riguardano le acque lagunari. Speriamo che la "porcata"del ministro Calderoli sia l'occasione per farla finita con il groviglio di poteri e interessi che complicano ogni giorno la vita di chi voglia vivere, lavorare e difendere la Laguna di Venezia» . Torna al sommario … ed inoltre oggi segnaliamo… L’ESPRESSO di giovedì 10 febbraio 2011 Pag 13 Una realtà inventata di Massimo Cacciari Il politico deresponsabilizzato non produce più né analisi, né programmi. Solo narrazioni fantastiche Tutto sommato potremmo dire che dalla vera tragedia della fine della prima Repubblica siamo giunti alla farsa-pochade che conclude la mai nata seconda, e così consolarci. Per apprezzare il "salto d'epoca" basterebbe paragonare il discorso in Parlamento di Craxi alle autodifese televisive di Berlusconi. Non c'entra nulla. Appunto. Lì un politico di razza, nel bene e nel male, che denuncia una crisi di sistema e, indirettamente, si appella ad un generale discorso" di verità", che avrebbe forse anche potuto aprire una nuova fase della Repubblica; oggi un privato, che vuole giustificare vizi privati, e che con ogni mezzo difende affari e interessi soltanto suoi. Lì partiti, organizzazioni di massa, radicati nella vita e nella storia del Paese, che vivevano la propria catastrofe nel destino dei loro leader; oggi una moltitudine di cortigiani, favoriti, cooptati che non possono (ancora) abbandonare il padrone per quanta voglia ne abbiano, e che trasformano il Parlamento non, come si diceva una volta, nell'anticamera dei partiti, ma nell'alcova di Arcore. É tuttavia temo che le squallide vicende che siamo costretti a vivere abbiano un significato per certi aspetti ancora più drammatico di quelle di allora. Sarebbe forse utile alzare lo sguardo per coglierlo. So che è difficile farlo quando attraversi un pantano, o qualcosa di peggio. So che si corre il rischio di passare per quelli che vogliono parlar d'altro. Ma bisogna anche scommettere che questo Paese saprà tornare a ragionare di politica e sul proprio futuro. Il berlusconismo, depurato da tutte gli evidenti "disturbi" di ordine psicologico che caratterizzano chi lo incarna, rappresenta la fase estrema di un processo generale di de-responsabilizzazione dell'agire politico. Il principio di responsabilità implica il "primato" dell'analisi, della definizione razionale di obiettivi e programmi, che si ritengono rispondenti, appunto, all'interesse comune, sulla base di trasparenti "calcoli" costi-benefici, e la messa tra parentesi di ogni altra finalità. Ma questo modello è in radicale crisi da molto tempo. E di questa crisi il berlusconismo è un prodotto, non certo la causa. Le sue ragioni sono diverse, ma tutte radicate nell'attuale sistema: dalla formazione di blocchi economicopolitici, dentro i quali è inevitabile collocarsi se si vuoi competere sul mercato politico, alla fisiologica autoreferenzialità dei grandi apparati tecnocratici, dall'organizzazione della stessa ricerca, all'economia e alla finanza globali. Di fronte a queste potenze, quella dell'agire politico tradizionale decade di minuto in minuto. E in proporzione diretta si accresce la funzione dell'annuncio, della promessa, della ricerca a breve del consenso, che può essere garantita solo dal possesso di importanti mezzi di informazione e manipolazione dell'opinione pubblica. L'immaginazione va allora "al potere". Il politico de-responsabilizzato non produce più né analisi, né programmi, e neppure utopie, ma narrazioni fantastiche, "spettacoli", "irresponsabili" per natura. Non si tratta di "bugie", ma di invenzioni. La scena ha realmente sostituito la realtà. Il mondo si è trasformato davvero in "volontà e rappresentazione". Chi ne è più intimamente convinto, saprà essere anche il più convincente nel trasmetterne l'immagine. Nessun "piano", nessun complotto, nessun "grande fratello" a dirigere la partita. Si tratta di processi intimamente connessi a questa fase del mondo occidentale e dei regimi democratici. È in gioco lo stesso principio della rappresentanza, poiché l'eliminazione di ogni "principio di realtà" ha come conseguenza logica l'idea di una "simbiosi" tra il politico e il suo rappresentato - idea che sta al fondamento di ogni demagogia e di ogni populismo. Il potere politico tende allora a farsi immanente alla vita dell'individuo. Come il sistema produttivo è anzitutto produzione dello stesso consumo, così l'agire politico si fa mera produzione di consenso. Ogni altra finalità tramonta. Berlusconi, a modo suo, interpreta questo drammatico passaggio. Non ne è né inventore, né regista, ma piuttosto il perfetto burattino - quello ontologicamente legato alla sua scena, incapace anche solo di concepirsi fuori di essa. Qualunque sia la parte che è chiamato a recitarvi (e infatti le vorrebbe tutte per sé), per lui si tratta di vita, non di finzione. I costumi degli italiani erano forse i più disposti al mondo a condividere questo processo di deresponsabilizzazione dell'agire politico. Anche per questo non sarà affatto né semplice né breve risalire la china. E non raccontiamoci che basterà pensionare il signore di Arcore. PANORAMA di giovedì 10 febbraio 2011 Pag 19 La triste parabola del Pd, l'unico partito d'opposizione al mondo che sceglie l'Aventino e non vuole discutere di nulla di Giuliano Ferrara Il Partito democratico è oggi l'unico partito di opposizione al mondo a non avere un candidato per la guida del governo. O, meglio, ad averne due e tutti e due membri dell'esecutivo in carica: Giulio Tremonti e Roberto Maroni. Il Partito democratico è l'unico partito di opposizione al mondo che pratica una specie di aventinismo istituzionale, dedicandosi alle raccolte di firme e alla mobilitazione di piazza senza trovare la voglia e il tempo per discutere in Parlamento le proposte del governo sull'economia, il lavoro, il Sud, il debito pubblico e la cresciti, in totale spregio degli appelli al ripristino della normalità istituzionale fatti a più riprese da Giorgio Napolitano, capo dello Stato. Non so fino a che punto il segretario dei democratici, Pier Luigi Bersani, afferri questi concetti politici semplici e li padroneggi. Bersani è intelligente e duttile, di sua natura, ma il curriculum personale è quello di un amministratore di regione e di un ministro, due ruoli politici eminenti ma diversi dalla leadership di un partito. Finché il capo del Pd raccoglie firme, corteggia in piazza il moralismo postfemminista delle nuove ideologhe del puritanesimo, e discute di scandali sessuali, sulla scia dell'incredibile e pretestuosa incursione nella vita privata del premier realizzata con brutalità dalla procura di Milano; il suo personale ruolo di leader e di possibile candidato a un'alternanza di governo non si costruirà, piuttosto continuerà a disfarsi nella diaspora politica del tutti contro tutti, e delle discussioni limacciose sul sì o sul no a un'imposta patrimoniale che espropri la ricchezza sociale italiana a vantaggio di un rigurgito statalista. Quanto a Tremonti e Maroni, che fanno con rigore ed efficacia il loro mestiere di badare ai conti pubblici e alla sicurezza, Bersani non può non capire che le ambizioni sono le ambizioni, questo è vero, ma prima di un passaggio elettorale, e comunque in una posizione di slealtà verso Silvio Berlusconi e il suo Pdl, nessuno dei due potrebbe e vorrebbe formalmente o informalmente prestarsi al tipo di manovra di palazzo auspicata da quanti nel Pdl li indicano come perfetti successori sicari di Berlusconi e interlocutori credibili. Ernesto Galli della Loggia ha impeccabilmente scritto, nel Corriere della sera, che quest'incapacità del Pd di darsi una leadership di partito e di governo, questa sua subalternità organica alla propaganda e al circuito vizioso dell'antiberlusconismo fondamentalista sono anch'esse un'anomalia italiana. All'origine di tutto c'è l'attivismo giustizialista dei pm d'assalto. Un attivismo che ammazza i governi (anche quello di Romano Prodi, fatto fuori da un'indagine che mise in galera la famiglia del ministro della Giustizia); un attivismo che abbaglia e trascina nel suo gorgo le opposizioni. Senza di quello, è dal tempo della «vocazione maggioritaria» bipolarista di Walter Veltroni che sarebbe nata una dialettica virtuosa capace di dare all'Italia la più elementare delle normalità: un governo in grado di governare, un'opposizione in grado di controllarlo e di definire una convincente alternativa. CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Una debole appartenenza di Giovanni Belardelli Dietro le polemiche sul 17 marzo Poteva sembrare una decisione scontata quella che ha istituito per il prossimo 17 marzo, e solo per quest’anno, una festa per celebrare i 150 anni dalla nascita dello Stato italiano. Invece, le critiche sollevate da Emma Marcegaglia e da vari dirigenti confindustriali hanno mostrato che così, evidentemente, non è. Indirettamente hanno dunque confermato la capacità che abbiamo nel nostro Paese di dividerci quasi su tutto, perfino sul festeggiare (e come) una data così particolare e unica. C’è stato anche chi ha proposto di cancellare semmai il 25 aprile, chi ha proposto di riunificare 2 giugno e 17 marzo (ma qui i pareri si sono divisi tra chi collocherebbe la riunificazione il 17 marzo, chi preferisce invece spostarla al 2 giugno). Per un estremo paradosso, perfino il presidente del Comitato dei garanti per le celebrazioni del centocinquantenario, Giuliano Amato, ha sostenuto che la data del 17 marzo andrebbe ricordata «in modo operoso», e cioè senza fare vacanza a scuola o al lavoro. Resta inspiegabile perché analoghi festeggiamenti operosi non siano mai stati fin qui proposti per altre giornate festive. Il punto non è stabilire se le singole motivazioni dei contrari alla festa (non contrari però, aggiungo a scanso di equivoci, all’unità nazionale in sé) siano o meno da buttar via. Il punto è che quelle motivazioni e perplessità sembrano non cogliere che, se gli Stati non vivono certo solo di feste, bandiere e inni, di simboli insomma, non possono nemmeno vivere senza queste cose. Una nazione, sostenne più di un secolo fa il francese Ernest Renan, è fatta di due elementi: una «ricca eredità di ricordi» e la volontà attuale di vivere insieme. Festeggiare, per una volta sola, il 17 marzo ha a che fare evidentemente con la prima delle due cose. E colpisce che nessuno dei contrari all’istituzione di un giorno festivo abbia apprezzato come - in un Paese abituato a dividersi non poco sulla propria storia - alla fine la Lega abbia accettato la decisione del governo di cui fa parte di istituire una festa per ricordare l’Unità d’Italia. È evidente che i festeggiamenti del 17 marzo non avranno (e come potrebbero avere?) la capacità di dare o restituire agli italiani quella consapevolezza delle ragioni del vivere insieme che sembra da tempo appannata. Cos’altro indicano le altissime percentuali di evasione fiscale (e dunque il mancato rispetto di un principio base della moderna democrazia rappresentativa: no taxation without representation) se non che molti sentono di non appartenere davvero al loro Paese? Cosa indica il rapporto conflittuale e problematico di milioni di italiani con l’autorità dello Stato nelle sue varie forme se non una percezione assai debole (almeno rispetto ad altri Stati europei) della loro appartenenza a una comunità nazionale? Certamente non sarà l’alzabandiera disposto in tutta Italia per il 17 marzo, non saranno gli inni e i discorsi di quel giorno, non saranno i fuochi d’artificio finali, non sarà insomma il semplice giorno di festa a rafforzare un sentimento di appartenenza nazionale da tempo indebolito e in crisi. Ma che Paese sarebbe - anzi, in un certo senso, esisterebbe davvero - un’Italia che non ritenesse il 150° anniversario della propria nascita meritevole di un’apposita festa? Pag 1 Cultura al femminile, le occasioni perdute di Antonio Polito Le invereconde notti di Arcore sollecitano molte riflessioni sul Drago (per usare la metafora di Veronica Lario) ma ancor più ne stanno provocando sulle vergini, o presunte tali, che gli si offrivano. Soprattutto da parte del movimento delle donne, resuscitato dallo scandalo eppure già diviso tra chi vuol far la morale e chi teme il moralismo. L’incertezza deriva dal silenzio talvolta complice con cui una parte delle donne ha accettato in questi anni il diffondersi di stili di vita e modelli culturali che sono apparsi moderni e avanzati, e in realtà altro non erano che l’accettazione di una cultura porno e machista, un trionfo per l’immaginario maschile. Le protestanti scrivono oggi sui loro striscioni: «L’Italia non è un bordello». Ma ne siamo così sicuri? Tra le donne emergono posizioni diverse, e il dibattito in corso sul Corriere ne è testimonianza di grande interesse. Cominciamo col dire che l’uso dell’avvenenza femminile per avere successo nella vita è stato sdoganato da una messe di messaggi culturali. Le cosiddette teen comedy al cinema, per esempio. Qualche anno fa ne vidi una che mi lasciò allibito: una specie di favola di Cenerentola in cui l’adolescente bruttina ma studiosa e onesta decideva di trasformarsi in una pantera su tacco 12, che rubava per comprarsi i vestiti giusti e partecipare alla feste dove si sniffa la cocaina, e riusciva così a conquistarsi un fidanzato e a strappare un posto di assistente all’anziano e sbavante professore. Non provocò molto scandalo tra le donne. Così come ottenne solo qualche sciovinista alzata di spalla quel povero giornalista inglese il quale si permise di segnalare che in nessun posto del mondo civile, nemmeno in luoghi più moderni e laici di questo, la pubblicità e la tv fanno uso del corpo femminile con la stessa compiaciuta e pornografica evidenza. Neanche la linea di confine tra chi si prostituisce e chi no è ormai tanto chiara. Un tempo c’era un solo modo di vendere il proprio corpo, e una generale riprovazione sociale per chi lo faceva. Oggi trans ed escort sono figure tollerate e ben frequentate, le accompagnatrici sono usate dagli uomini d’affari nei viaggi di lavoro e i giovani leoni della City si incontrano nei locali di lap dance, dove si esibiscono studentesse non professioniste. Né la condanna della società, che si abbatteva un tempo sulle donne di strada, né a quanto pare quella delle famiglie, sempre più conniventi, colpisce più le multiformi e moderne incarnazioni del sesso a pagamento, alcune delle quali sono anzi ormai considerate un modo come un altro per guadagnare e - come direbbe qualcuno «concedersi un po’ di relax». La stessa chiave interpretativa classica della cultura progressista nei confronti della prostituzione - lo fanno per bisogno economico, perché sfruttate, e se emancipate e liberate dal bisogno non lo farebbero più - non regge di fronte a quello che leggiamo. Le ragazze protagoniste delle notti di Arcore, talvolta laureate, spesso occupate, sempre fidanzate, sono libere dal bisogno ma non dalla bramosia del denaro, e sembrano emancipate fino al punto di sfruttare il loro anfitrione più che farsene sfruttare. Naturalmente non imputo al movimento delle donne la radicale trasformazione dei costumi dell’ultimo trentennio, anche perché un movimento delle donne ormai non c’è più (e bisognerebbe chiedersi perché non c’è più e perché le ragazze di oggi sembrano così lontane e diverse, e così ostili ai valori che avrebbero dovuto emanciparle). Ma imputo alla cultura progressista una timidezza nel contrastare questa presunta modernizzazione. Per farlo, avrebbe dovuto riconoscere che c’erano aspetti della tradizione che sarebbe stato meglio conservare, avrebbe dovuto sforzarsi di comprendere la morale sessuale della Chiesa, avrebbe dovuto ammettere la necessità di un’etica privata, dopo essere diventata la paladina dell’etica pubblica; perché, come si diceva un tempo, il privato è pubblico. Non pretendo che un novello Berlinguer indichi alle nostre figlie il modello di Santa Maria Goretti, ma francamente non si può fare una battaglia sulla morale dopo aver esaltato l’indifferentismo morale di chi ripete che «ognuno sotto le lenzuola fa quello che vuole», Roman Polanski compreso. Qualcuno avrebbe dovuto dire prima, anche quando il satiro non era il presidente del Consiglio, che quello che vedeva non era libertà ma licenza, non liberalismo ma libertinaggio, non società aperta ma casa chiusa. La sinistra liberal non l’ha fatto per paura di apparire bacchettona, e perché è ormai schiava di una cultura dei diritti che è stata declinata soprattutto in chiave di libertà sessuale. Solo se comincerà a farlo adesso, la sua campagna contro il bordello-Italia potrà evitare l’accusa di ipocrisia e di strumentalismo. Pag 19 La vita dietro un cellophane dei quattro piccoli fantasmi di Goffredo Buccini Pochi giochi, niente scuola. Così si cresce nelle baracche Roma - C’è l’orsetto rosso di Raoul, c’è la finta Barbie di Patrizia. Dettagli buttati su un materasso sopravvissuto alle fiamme, in mezzo al prato stento e al fango secco, sotto il sole del mattino che da queste parti illumina di contraggenio persino quando risplende. Sempre ci sono, in ogni strage, bambolotti e peluche per i taccuini, a raccontare in due righe e una foto com’era la vita dei bambini morti. Ed è così anche qui, anche oggi, in fondo all’Appia Nuova, dietro un recinto verde sbarrato dalle catene, in una campagna che fu deposito Stefer e poi Cotral, trasporti e oblio ai bordi di periferia e ai confini della buona coscienza dei romani che s’offusca un po’ oltre il civico 800, accanto al concessionario Volkswagen e di fronte al green di un esclusivo campo da golf. È così pure per queste vite e per questi bambini: benché fossero nascoste da tende di cellophane e tettoie d’amianto, le vite; benché fossero poco più che fantasmi, i bambini; e benché stavolta il racconto dell’orsetto e della bambola suoni falso, «taroccato» come un’istantanea di pietà tardiva. Nella notte un disperato delle baracche accanto ringhia ai cronisti cruda rabbia e nuda verità, «venite adesso che bimbi bruciano, bastardi, prima ve ne fregavate!», per poi sparire nel nulla perché con tanti sbirri nei paraggi non si sa mai. E in effetti pure al mattino continua l’assurdo balletto sui nomi e le storie dei quattro piccoli ammazzati dall’incendio della loro catapecchia: chissà se Raoul era il figlio o il nipote di mamma Liliana, chissà se la bambina si chiamava Patrizia o Elena, chissà se Fernando e Eldeban sono lo stesso ragazzino di sette anni col nome tradotto o storpiato, chissà se Sebastian coi suoi undici anni è il fratello maggiore di Raul o un suo giovanissimo zio; tra questura, Nono municipio e associazioni, nonostante le migliori intenzioni di tutti, il rompicapo di identità e parentele sta lì a raccontare ciò che nessuno dice: che a dispetto di censimenti e regolarizzazioni promesse, di questi spettri infossati nella campagna di Roma sud nessuno sa e sapeva un accidente. Sicché le vite dei bambini, quelle degli adulti, le esistenze di sette gruppi familiari, venti o venticinque persone stipate quaggiù nella borgata di Tor Fiscale, in mezzo al parco dell’Appia e a una manciata di metri dall’acquedotto romano e dai tesori archeologici della zona, bisogna svelarle per immagini. Quella della Barbie e dell’orsetto è vera per metà, perché i bambini non erano bambini come i loro coetanei fuori dalle baracche, il gioco era forse un angolo dove nascondersi dagli incubi. «Li mandavano in giro a chiedere l’elemosina», dice una voce malevola e da prendere con cautela perché per certa gente tutti i bambini rom vanno a chiedere l’elemosina, e questa può essere un’infamia postuma. Però la vita era dura. «Non andavano a scuola», racconta Susi Fantino, la vendoliana presidente del municipio che ha duellato l’altra notte con Alemanno davanti alla scena dell’orrore. Ora di quella scena resta un largo spiazzo dopo il cancello verde e gli uomini della Scientifica chini tra i reperti: sullo stendino di plastica bianca, un giaccone, un vestito da donna, forse di mamma Liliana; una sedia e una bombola col tubo ancora attaccato; gli strumenti di sopravvivenza in cucina, un bacile, due pentole di ferro, una teglia, un flacone di detersivo, una grande brocca. Non c’era luce e per scaldarsi si riempivano d’alcol scatole di tonno e s’accendeva la fiamma. Non c’era acqua e il bagno è un riquadro di assi di legno smangiucchiate con un buco in mezzo e un’altra tenda di cellophane a simulare mura inesistenti. Qui le baracche ci sono sempre state da quarant’anni, sono cambiati gli occupanti e tutti se sono infischiati. Vecchi capannoni sono stati abbattuti come per esorcismo, dopo una storiaccia di pedofilia. Tanti disperati di un tempo hanno adesso la casetta abusiva in zona, si intuisce una specie di assurdo ascensore sociale in questi viottoli dove officine, casupole e vestigia della Roma antica si mescolano ciabattando sciatte come solo nella Roma postmoderna è possibile. I tuguri anche adesso s’assomigliano tutti - quattro travi, due tende da campeggio comunicanti, un po’ di eternit per tettoia, sacchi a pelo e materassi, bagni rifiuti: sicché, dodici ore dopo il rogo e la strage, ci si affaccia nella baracca di Mia, la vicina, a nemmeno cento metri, per sbirciare senza pudore brandelli della vita degli altri, di quelli che non possono più raccontare. Mia è gentile, spaventata, parla male l’italiano, meglio il romanesco. Dice che per l’acqua c’è il «nasone» due vicoli qua dietro. Dice che si campa svuotando cassonetti, «rovistiamo, puliamo e rivendiamo al mercatino»: e ci fa vedere un lampadario sgarrupato che per cinque euro verrebbe via. Dice che i volontari di Madre Teresa di Calcutta le portano da mangiare ogni settimana, la sede sta proprio vicino al «nasone» dell’acqua, la più antica aperta in Europa da Madre Teresa che coi suoi occhi da santa capiva e vedeva prima di chiunque. Di assistenti sociali o vigili, quaggiù, «manco l’ombra». E anche adesso, mentre telecamere, poliziotti e carabinieri rivoltano zolla per zolla il terreno della strage qui accanto, nessuno degna Mia e la sua baracca di un’occhiata: si resta invisibili fino alla morte in certe vite. Della sua vita, metà sta fuori dalla tenda, la dispensa è un ammasso di pacchi di pasta e barattoli di pomodoro sotto un ombrello viola sdrucito. Per traslocare basta un carrello. Per morire basta una scintilla che schizza dalla scatola del tonno. Mia sospira: «Quattro bambini piccoli, non ho dormito, stanotte... poveretti, quattro bambini». Poi giura di non conoscerne i genitori: «I bambini erano abituati a stare soli». Venivano da lontano Raoul e la sua famiglia disgraziata. Dal sud della Romania alla Roma della Caffarella, altro rifugio, altro ghetto, altro incubo fino agli sgomberi e alla storiaccia di uno stupro che nel 2009 fece traballare l’immagine della città. Ancora sballottati, appresso a quelli di Action al Regina Elena occupato, di nuovo alla Caffarella e infine fuori, a Colleferro: «Volevamo stare in campagna ma ci hanno cacciato anche da quella casa perché eravamo troppi», ha detto ieri piangendo disperata mamma Liliana. In certe vite si è sempre troppi, in certe vite si fugge sempre. Di queste vite restano infine due grandi dalie, una arancione e una rosa, nella rete di recinzione. Ma deve averle infilate lì qualche fotografo furbo per ricavarne un bello scatto: chi amava Raoul e i suoi è già scappato lontano e forse non aveva il tempo per deporre fiori. Pag 40 Rom, una questione di responsabilità di Mauro Magatti Dopo la morte dei 4 fratellini D avanti al laconico ripetersi di notizie terribili che riguardano i campi rom - negli ultimi due anni, ci sono stati almeno 5 casi di incendi di baracche con morti e feriti, senza contare sgomberi e violenze - non ci si può nascondere dietro al dito della fatalità: una sequela così impressionante di incidenti può avvenire solo laddove esiste un terreno di coltura adatto. Al di là dell’emergenza, e persino al di là dell’indignazione, c’è qualche cosa di più profondo che deve essere messo in discussione, perché alla base di questa impressionante sequela di eventi non ci sono semplicemente problemi di inefficienza tecnica o burocratica. Chi sostiene questo, come il sindaco Alemanno, sbaglia. Dietro alla morte dei quattro fratellini rom del campo di Roma sta il fallimento nella costruzione delle condizioni idonee a forme di convivenza civile. Le polemiche pretestuose che su un tema come questo vengono quotidianamente rilanciate paiono fermarsi solo di fronte a 4 corpicini senza vita: come sempre, sono il dolore e la morte a costringerci a prendere atto della realtà che ci pone il problema. In questi frangenti, per un momento almeno, risulta chiaro ciò che non solo il buon senso, ma anche le migliori esperienze straniere suggeriscono: la via da seguire per modificare le condizioni su cui questi incidenti hanno luogo è quella di non tollerare il dato di fatto. Occorre, piuttosto, prendere l’iniziativa e lavorare per definire i termini di uno scambio che, nel rispetto reciproco, punti a fissare diritti e doveri reciproci. La costruzione di condizioni minime (abitative, scolastiche, lavorative) corrispondenti ai nostri criteri di civiltà è ciò che le istituzioni possono mettere in campo; in cambio, la comunità rom (ma qualcosa di simile si potrebbe dire anche per altre minoranze quali i cinesi o gli arabi fondamentalisti) deve essere chiamata a riconoscere e rispettare una serie di regole che valgono per tutti coloro che vivono all’interno della comunità politica circostante. Il problema è: perché, superata l’indignazione, questa strada viene regolarmente abbandonata? La ragione di fondo sta nel fatto che, per poter sussistere, uno scambio di questo tipo necessita di condizioni pre-istituzionali che lo rendono possibile. Prima di tutto c’è bisogno di fiducia - un bene sistematicamente distrutto dall’uso polemico che in questi anni è stato fatto dell’idea di straniero. Come una profezia che si autoavvera, una volta che vengono distrutte le condizioni di un’intesa, l’altro non può che diventare un problema intrattabile. In secondo luogo, c’è bisogno di comunicazione. Uno scambio di questo tipo deve sempre scontare zone d’ombra e difficoltà, dato che l’alterità reciproca non potrà mai essere superata, pena l’omologazione completa della minoranza alla maggioranza. Ciò comporta una grande flessibilità, che è possibile solo quando si dispone di buoni canali di comunicazione. Condizione, però, del tutto irrealistica quando si ha a che fare con le istituzioni del nostro Paese (basti guardare l’indecoroso palleggio di responsabilità tra chi avrebbe dovuto intervenire in una situazione più volte segnalata). Tutto ciò mi porta ad una conclusione: provare ad affrontare la questione dei campi rom nell’Italia contemporanea significa mettere al lavoro i soggetti che siano in grado di costruire una mediazione tra minoranze marginali, soggetti istituzionali e comunità locali. È curioso che in un Paese che dispone di una società civile intraprendente e qualificata non si riesca a comprendere che la relazione diretta tra le istituzioni e questo tipo di comunità è impraticabile per una serie di ragioni. Non ultima il fatto che le istituzioni si trovano a trattare una materia - quella della irregolarità - che è del tutto estranea alla loro cultura e quindi di principio rifiutata. Riconoscere e introdurre una terza parte mediatrice potrebbe rivelarsi un buon suggerimento e aiutarci nel giro di qualche anno a trovare soluzioni concrete a problemi concreti. Senza limitarci, di fronte alle prossime morti, all’urlo di indignazione, fugace e, come tale, sterile. LA REPUBBLICA Pag 1 Il fantasma azionista di Ezio Mauro L'unica cosa su cui vale la pena ragionare, nell'attacco furibondo di Giuliano Ferrara a Gustavo Zagrebelsky, dopo la manifestazione di "Libertà e Giustizia" 1 di sabato scorso a Milano, non sono gli insulti - di tipo addirittura fisico, antropologico - e nemmeno la rabbia evidente per il successo di quell'appuntamento pubblico che chiedeva le dimissioni di Berlusconi: piuttosto, è l'ossessione permanente ed ormai eterna della nuova destra nei confronti della cultura azionista, anzi dell'"azionismo torinese", come si dice da anni con sospetto e con dispetto, quasi la torinesità fosse un'aggravante politica misteriosa, una tara culturale e una malattia ideologica invece di essere semplicemente e per chi lo comprende, come ripeteva Franco Antonicelli, una "condizione condizionante". Eppure la storia breve del Partito d'Azione è una storia di fallimenti, che nel sistema politico ha lasciato una traccia ormai indistinguibile. Gli ultimi eredi di quell'avventura, nata prima nella Resistenza e proseguita poi più nelle università e nelle professioni che nella politica, sono ormai molto vecchi, o se ne sono andati, appartati com'erano vissuti, in case piene di libri più che di potere. Ma l'idea dev'essere davvero formidabile se ha attraversato sessant'anni di storia repubblicana diventando il bersaglio dell'intolleranza di tutte le destre che il Paese ha conosciuto, vecchie e nuove, mascherate e trionfanti, intellettuali e padronali: fino ad oggi, quando si conferma come il fantasma d'elezione, fisso e ossessivo, persino di questa variante tardo-berlusconiana normalmente occupata in faccende ben più impegnative, personali ed urgenti. È un'ossessione che ritorna, periodicamente: la stessa destra si era già segnalata nel rifiutare pochi anni fa il sigillo civico di Torino ad Alessandro Galante Garrone, uno dei pochi che non aveva mai giurato fedeltà al fascismo, come se questa fosse una colpa nell'Italia berlusconiana. Oppure nel trasformare la lettera di supplica al Duce firmata da Norberto Bobbio in gioventù in un banchetto politico, moralista, soprattutto ideologico: tentando, dopo che il filosofo rifece pubblicamente i conti della sua esistenza (proprio sul "Foglio" di Ferrara) di rovesciarne la figura nel suo contrario, annullando la testimonianza di una vita per quell'errore iniziale, in modo da poter affermare una visione del fascismo come orizzonte condiviso o almeno accettato da tutti, salvo pochi fanatici, una sorta di natura debole italiana, nulla più. Oggi, Zagrebelsky, e si capisce benissimo perché. Quando la cultura si avvicina alla politica e la arricchisce di valori e di ideali, cerca il nesso tra politica e morale, si rivolge allo spirito pubblico, invita alla prevalenza dell'interesse comune sul particolare, scatta il vero pericolo, in un'Italia che si sta adattando al peggio per disinformazione, per convenienza o per pavidità. Quando ritorna la cifra intellettuale dell'azionismo, che è il tono della democrazia classica, e si avverte che quell'impronta culturale forte, quasi materiale, non si è dissolta con la piccola e velleitaria organizzazione nel '47, ecco l'allarme ideologico. Parte l'invettiva contro il "gramsciazionismo" torinese, considerato due volte colpevole perché troppo severo a destra, nel suo antifascismo intransigente, troppo debole a sinistra, nei suoi rapporti con il comunismo. Anche questa destra è in qualche modo una rivelazione degli italiani agli italiani, con un patto sociale ridotto ai minimi termini e la tolleranza che diventa connivenza, purché la leadership carismatica possa contare su una vibrazione di consenso, assumendo in sé tutto il discorso pubblico, mentre il cittadino è ridotto a spettatore delegante, ma liberato dall'impaccio di regole e leggi. Un'Italia dove il peggio non è poi tanto male, dove si relativizza il fascismo, un'Italia in cui tutti sono uguali nei vizi e devono tacere perché hanno comunque qualcosa da nascondere, mentre le virtù civiche sono fuori corso e insospettiscono perché lo Stato è un estraneo se non un nemico da cui guardarsi, le istituzioni si possono abitare da alieni, guidare con il sentimento dell'abusivo. Un Paese abituato e anche divertito ad ascoltare l'elogio del malandrino, in cui l'avversario viene schernito, il suo tono di voce deriso, il suo accento additato come una macchia, il suo aspetto fisico denunciato come una colpa, o una vergogna. Mentre gli ideali sono abitualmente messi alla berlina, e la delegittimazione diventa una cifra della politica attraverso un giornalismo compiacente di partito: una delegittimazione insieme politica, morale, estetica, camuffata da goliardia quando serve, da avvertimento - nel vero senso della parola - quando è il caso. Fino al punto, come diceva già una volta Moravia, di "vantare come qualità i difetti e le manchevolezze della nazione". Bobbio non si spiegava perché nei suoi ultimi anni avesse ricevuto più attacchi che in tutta la sua vita. Ma non era cambiato lui, era cambiata la destra. E per questa nuova destra che cresceva tra reazione di classe e crisi morale, quell'azionismo residuale e tuttavia irriducibile nella sua testimonianza nuda e antica, disarmata, rappresentava il vero ultimo ostacolo per realizzare il cambio di egemonia culturale di quest'epoca, attraverso la destrutturazione del sistema di valori civili su cui si è retta la repubblica per sessant'anni. Un sistema coerente con il patto di cultura politica che sta alla base della Costituzione, con le istituzioni che ne discendono, con quel poco di antifascismo italiano organizzato nella Resistenza che ne rappresenta la fonte di legittimazione, e rende la nostra libertà democratica almeno in parte riconquistata, e non octroyée, concessa dagli alleati. Un obiettivo tutto politico, anzi ideologico, che doveva per forza attaccare tre punti fermi della cultura repubblicana: l'antifascismo (Vittorio Foa diceva che la Resistenza era la vera "matrice" della repubblica), il Risorgimento, nella lettura di Piero Gobetti, il "civismo", come lo chiamava Ferruccio Parri, cioè un impegno morale e politico a vincere lo scetticismo e il cinismo nazionale. È chiaro che l'azionismo era il crocevia teorico di questi tre aspetti, soprattutto la variante torinese così intrisa di gobettismo, e che tradisce la presunta neutralità liberale, anzi compie il sacrilegio di coniugare il metodo e i valori liberali con la sinistra italiana, rifiutando l'anticomunismo. Proprio per questo, gli azionisti sono pericolosi due volte. Perché non portano in sé il peccato originale del comunismo, che contrassegna gran parte della sinistra italiana, e perché non scelgono l'anticomunismo, come dovrebbe fare ogni buon liberale. Anzi, questo liberalismo di sinistra rifiuta l'equidistanza tra fascismo e comunismo, che porta il partito del Premier e i suoi giornali addirittura a proporre la cancellazione della festa della Liberazione, come se il 25 aprile non fosse la data che celebra un accadimento nazionale concreto e storico, la fine della dittatura, ma solo una sovrastruttura simbolica a fini ideologici. Così, Bobbio denuncia come la nuova equidistanza tra antifascismo e anticomunismo finisca spesso ormai per portare ad un'altra equidistanza, "abominevole": quella tra fascismo e antifascismo. Ce n'è abbastanza per capire. Debole e lontana, la cultura azionista è ancora il nemico ideologico, se propone un'Italia di minoranza intransigente, laica, insofferente al clericalismo cattolico e comunista, praticante della religione civile che predica una "democrazia di alto stile". Si capisce che nell'Italia di oggi, dove prevale una politica che quando trova "un Paese gobbo - come diceva Giolitti - gli confeziona un abito da gobbo", quella cultura sia considerata "miserabile". Guglielmo Giannini, d'altra parte, sull'"Uomo Qualunque" derideva gli azionisti come "visi pallidi", Togliatti chiamava Parri "quel fesso". Ottima compagnia, dunque. Soltanto, converrebbe lasciar perdere Gobetti. Perché a rileggerlo, si scoprirebbe che sembra parlare di oggi quando scrive degli "intona-rumori, della grancassa, di un codazzo di adulatori pacchiani e di servi zelanti che facciano da coro", che diano "garanzia di continuità nella mistificazione", "armati gregari" che sostituiscono "la fede assente", perché "corte e pretoriani furono sempre consolatori e custodi dei regimi improvvisati con arte e difesi contro i pretendenti". Pag 1 Sneja la zingara e le baracche della morte: "Ecco come vivono gli invisibili di Roma" di Francesco Merlo Roma - "Hai mai visto - mi dice Sneja - un funerale di bimbi celebrato in slavo antico? Gettano fiori lungo la strada, e nelle bare ci mettono di tutto, anche l'Efferalgan e il Vicks Vaporub perché non si sa mai, ci si può raffreddare durante il viaggio verso il paradiso". Sneja è magra e non somiglia allo stereotipo della fattucchiera, quella che Walt Disney fa vivere ai piedi del Vesuvio. Il suo pessimismo allegro è contagioso: «Cosa credi? Anche noi zingari abbiano i nostri zingari» e quei bimbi sono morti «perché non avevano soldi sotterrati nelle pentole» ai piedi di quegli alberi solitari e scarni lungo le sterpaie dell´Appia Nuova. «Sono morti perché erano i nostri barboni» dice Sneja e ride, ma senza rumore. «Non ci sono tra di voi famiglie povere che muoiono perché esplodono le stufe, perché il fuoco li assale di notte?». Le racconto che sono stato lì dove c´era il campo e adesso non c´è più nulla, una sedia, una bottiglia vuota, i sigilli su un reticolato che delimita una distesa brulla e la polizia scientifica che ancora esamina - mi pare - ciuffi solitari di erbacce selvatiche. Sneja mi conferma che per scaldarsi riempiono di alcol la solita, immancabile pentola di ferro e incendiano carta, stracci, legno, plastica, «e perciò i bambini d´inverno hanno sempre addosso delle ustioni, ma quelli del tribunale dei minori non vogliono capire che non si tratta di maltrattamenti». E mi dice che c´è una preghiera bellissima che finisce così: «Dio che non sei di pietra, Dio che non sei di marmo, ti scongiuro apri le porte del carcere». Nella notte una ruspa benedetta ha distrutto quelle quattro baracche che ospitavano una ventina di disperati e su Youtube al mattino presto c´erano già le immagini che ora guardo insieme a Sneja: «Per chiedere l´elemosina bisogna sapere piangere a comando e uno storpio o un cieco possono essere una ricchezza, ma qui è tutto vero, il lamento della madre, le coperte bianche sulle spalle, le autobotti dei pompieri, il fumo, mi vengono i brividi». E a me vengono in mente le deportazioni e l´ultimo bel libro di Roberto Calasso ("L´ardore") dedicato alla cultura indù, ai Veda: « I nazisti hanno perseguitato e assassinato a centinaia di migliaia proprio gli unici veri Ariani d´Europa, gli zingari, Rom, Sinti. È ben noto che parlano una lingua arcaica neo indiana, che è strettamente imparentata con il dardi, il panjabi e lo hindi moderni». Qui invece si parla romanesco. Mi avvicino a un vigile urbano che si mette a fare sociologia: «A dotto´, te auguro d´avercelo sotto casa un bel campo rom». I corpicini sono all´obitorio del Verano, per i genitori non c´è pena che la giustizia possa loro infliggere paragonabile a quella che hanno già subito. «Che posso fare io senza i miei figli?» ripete la mamma a cantilena e subito arriviamo noi giornalisti che sogniamo le lacrime dei lettori. Sneja mi ha accolto e mi porta in giro perché in Sicilia abbiamo un caro amico comune che mi ha molto raccomandato. Ha trent´anni ma ne dimostra cinquanta, la camminata è davvero elegante, si vanta di conoscere tutti i Rom di Roma. E mi racconta che c´è un giostraio che li cerca così, giovani e poveri come quei bimbi che sono morti, li arruola, li alleva e li addestra «topi per infilarsi negli appartamenti, serpenti per sgusciare nelle metropolitane, rane per…». Ehi, Sneja, sei più razzista di un´italiana dei Parioli!, reagisco senza crederci. Mi dice che il giostraio ha un dente d´oro, «è bellissimo». A Roma i denti d´oro li mette un certo Dragan che di mestiere fa il pentolaio e l´allevatore di cavalli. «È un grande capo. Ma scordati di incontrare Dragan, è alto due metri, se vuoi te lo faccio vedere da lontano». Sono circa le 15 e questo campo Rom, a cento metri dalla pista d´atterraggio di Ciampino, è quello che gli urbanisti chiamano un non luogo, che sarebbe credo un "dove" che sta tra l´essere e il non essere e nel quale non vorresti mai entrare e dal quale temi di non potere uscire. Sneja mi dice di non fare domande: «Vedi, quello si chiama Gringo» e scopro l´integrazione dei western all´italiana. Quell´altro col cappello con la piuma di pavone si chiama Idriz: « Riscuote gli affitti». E quanto costa una baracca con la porta di cartone rosso? «Duecento euro al mese, e ti danno pure forchette e coltelli». Quell´altro che mastica tabacco «è Stevo, ed è nobile, porta l´anello con lo stemma, nessuno si permetterebbe di farlo lavorare, il Re lo vuole sempre nelle cerimonie più solenni». E dove vive il re, in una roulotte? Ogni tanto sbuca dal nulla un mozzicone di arredamento che sembra abbandonato, un divano, una lavatrice, un carrello di supermercato. A quest´ora ci sono soprattutto uomini, quasi tutti disoccupati, e pochissime donne, conto in totale sei bambini, fumano Marlboro, tre sono senza scarpe e corrono tra l´immondizia, non ci sono gabinetti. Il campo non sembra organizzato secondo un´estetica, ho visitato in passato campi mongoli, le favelas in Brasile e le baraccopoli sulla sabbia tra Catania e Siracusa. Erano meno brutti di questi. Qui c´è armonia solo nelle corde che qualche volta reggono le casupole, forse perché è una perizia da allevatori di cavalli. E ci sono tutti i rottami della modernità, asciugacapelli, telefoni cellulari, un apparecchio per l´aerosol... Capisco che mi sfugge il codice, che c´è un cifrario che forse non si vede. «Le cose belle qui sono nascoste. I vestiti con lo strascico, i gioielli... A mio zio Halija, quando è morto, da solo, accanto ad un bidone che usava come stufa, gli hanno trovato addosso un sacco di soldi cuciti dentro un nastrone di cotone che portava attorno alla vita, sotto la camicia». Non c´è l´acqua corrente ma ci sono il caravan, le automobili, e davanti ad ogni baracca c´è un odore diverso e non mi pare che siano profumi di cucina. Con Sneja vado al campo di via del Salone e poi mi porta in una piccolissima baraccopoli sulla Pontina, una ventina di casupole, è un campo abusivo come quello dei quattro bimbi morti «eccoli, i nostri barboni» mi dice. «Ma non pensare che i più poveri siano i più buoni, la povertà rende feroci, spesso sono i genitori che cercano il giostraio, per i bimbi è il debutto in società, l´ingresso nella vita che è durissima, ma tutti hanno una chance di diventare come Dragan. Eccolo, è quello lì». Vedo un ometto solido, panzuto, baffi neri, un caffettano nero sino ai piedi... «Ma non mi avevi detto che era alto due metri? Sarà si e no un metro e sessanta». «Che c´entra. Solo noi possiamo misurarne la vera altezza» e ride. E questa volta sta ridendo di me. LA STAMPA La vera partita comincia soltanto ora di Gian Enrico Rusconi In Egitto siamo alla vigilia di una transizione quasi-istituzionale verso la democrazia? Oppure ad un tentativo di normalizzazione che elude la richiesta di dimissioni di Mubarak con conseguenze imprevedibili? Siamo al punto di svolta della crisi. La questione delle dimissioni del presidente autocratico diventa decisiva, non solo simbolicamente ma politicamente. Dietro a lui infatti c’è un’intera classe dirigente, intimidita, ma decisa a giocare la sua partita. La posta in gioco ora è il consenso di milioni di egiziani che non dispongono ancora di strumenti di espressione democratica salvo la protesta. Lo spettacolo straordinario di centinaia di migliaia di persone che coraggiosamente e pacificamente hanno messo in ginocchio un regime, è stata una grande lezione di spontaneità politica. Ma ha tenuto nascosto l’altro spettacolo di quartieri impauriti, di negozi sbarrati, di mercati deserti - l’altra città che stava a guardare - verosimilmente con simpatia. Ma adesso aspetta la soluzione. Ecco perché è diventato decisivo governare questa fase di transizione. E’ facile per i governi occidentali dare agli egiziani saggi consigli per una strategia graduale. In fondo è una nuova versione della raccomandazione per l’unica cosa che sembra stare a cuore all’Occidente: la stabilità nella regione. Si tratta di una giusta preoccupazione, naturalmente. Ma non è per questo che sono in piazza migliaia di uomini e di donne. Loro vogliono cambiare radicalmente. Per loro la parola «democrazia» ha ancora il sapore esplosivo della rivoluzione. Non è quindi per testardaggine poco diplomatica che esigono l’allontanamento di Mubarak E’ il loro modo di dire un chiaro no ad una classe politica complice con il regime mubarakiano che ora pretende di gestire il passaggio verso una democrazia, di cui non sa tracciare alcun profilo convincente, Nessuno sa esattamente che cosa succederà. E’ un momento sospeso tra voglia di normalizzazione della vita quotidiana e attesa di innovazione politica ancora tutta da inventare. Protagonisti speciali di questo momento sono due soggetti che per ragioni diversissime sono ancora un po’ misteriosi: i giovani e il movimento dei «Fratelli musulmani». Parlare dei giovani come di soggetto collettivo è un’abitudine che abbiamo preso in occidente e che sembra confermata dalla vicenda egiziana. Anzi questa ha inventato un nuovo pezzo di mito quella della irresistibile forza espressiva e comunicativa dei nuovi mezzi Internet, Facebook ecc. assurti a indicatori dell’identità giovanile. Ma la dura sostanza della questione giovanile va ben più in profondità del nuovo mito Facebook. La contraddizione tra la maturità espressiva della gioventù egiziana e la sua miseria materiale - la mancanza di futuro - ha innescato una rivolta che non si fermerà tanto facilmente. Chi saprà incanalare, governare e guidare le aspettative giovanili oltre una provvisoria transizione istituzionale? A proposito di espressione e comunicazione, non ci è sfuggita l’insistenza con cui le televisioni occidentali hanno mostrato e intervistato, durante le manifestazioni di protesta, donne e ragazze con il corpo e il volto coperto dal velo nero. Sembravano del tutto a loro agio nella folla a fianco degli altri manifestanti. Accostate magari intenzionalmente dai cameramen a barbuti giovani copti con un crocifisso sul petto. Vuol essere un segnale rassicurante all’Occidente: la domanda di democrazia politica, la libertà religiosa e l’adesione ai precetti più rigorosi dell’Islam sono compatibili. Così si afferma in Tunisia. Cosi è accaduto in Turchia. Ebbene questo ruolo davvero rivoluzionario - di movimento di ispirazione islamica che si fa interprete delle libertà democratiche viene ora assegnato in Egitto ai Fratelli musulmani. In realtà sulla natura effettiva e soprattutto sull’orientamento strategico di questo movimento le opinioni sono molto controverse. In Egitto e in Occidente. Non è chiaro quindi se l’aspettativa di un suo contributo alla democratizzazione sia un augurio o non piuttosto uno scongiuro. Molti temono che si tratti di mero tatticismo, ma altri ricordano esperienze di altri movimenti radicali che hanno attraversato felicemente fasi di trasformazione. E’ presto per saperlo. La storia politica del nuovo Egitto incomincia appena ora. IL GIORNALE La strage dei fratellini. Non tutti possono piangere i bimbi rom di Paolo Granzotto La colpa di questa "tragedia orribile"? Per i buonisti di professione è del governo e di una società razzista nemica del multiculturalismo. Ma chi rifiuta l'integrazione sono gli zingari che del disprezzo della legge hanno fatto una cultura La morte dei bambini nel campo nomadi alle porte di Roma è davvero «una tragedia veramente orribile», come ha detto il sindaco Gianni Alemanno. Ma non più orribile di altre di identica, drammatica portata solo perché le vittime sono quattro piccoli rom. Però è questo, il voler dare alla tragedia una portata esorbitante addossandone poi la responsabilità a una parte politica e alla società «razzista» in generale, ciò che si propongono le prefiche della sinistra col loro vile, ipocrita piagnisteo. In casi simili deve prevalere la partecipazione e il sentimento di pietà, su questo non si discute. Ma escludere a priori una anche marginale responsabilità di «mamma Liliana» e «papà Mirko» che per recarsi al fast food lasciarono i quattro bambini soli - in una baracca di legno, cartone e lamiera dove ardeva una stufetta se non addirittura un falò -, escluderla per poter addossare l’intera colpa della tragedia alla «latitanza delle istituzioni» (cioè del governo, cioè di Berlusconi) e a un sindaco «incapace di gestire la politica dell’accoglienza» (così Vannino Chiti, commissario del Pd nel Lazio), è né più né meno che sciacallaggio. La politica dell’accoglienza: diciannove anni di amministrazione capitolina della sinistra di Vannino Chiti hanno forse mostrato, nella pratica, non a parole, quale sia la retta politica dell’accoglienza? O si vuol far credere che migliaia e migliaia di zingari si sono accampati a Roma solo a partire dal 28 aprile 2008, data dell’insediamento di Gianni Alemanno? Esempio di esemplare politica dell’accoglienza è forse il rogo nel campo nomadi a Livorno, città saldamente in mano alla sinistra, dove nell’agosto 2007 morirono tra le fiamme quattro fratellini? Non è la «maledetta burocrazia» denunciata da Alemanno la sola responsabile del persistere dell’«emergenza nomadi». Conta, in modo preminente, l’ipocrisia buonista e solidarista, gli sdilinquimenti salottieri per il multietnico e il multiculturale che precludono, agitando lo spauracchio del razzismo, ogni iniziativa. La Germania di Angela Merkel e l’Inghilterra di David Cameron hanno, quasi all’unisono, annunciato l’abbandono delle aspirazioni alle società multiculturali dimostrando che il multiculturalismo si risolve in un danno, grave, per la società essendo deleterio sia per la comunità ospite sia per quella ospitante. La Merkel e Cameron, non certo eredi di Goebbels o di Oswald Mosley, hanno dovuto ammettere ciò che era un’evidenza lampante, e cioè che il multiculturalismo rappresenta il più serio ostacolo all’integrazione. Eppure, affrontando il problema e, anzi, l’emergenza rom, da noi si seguita a insistere sulle bellurie del contrasto culturale. «È nella loro cultura», si dice degli zingari, e dobbiamo non solo rispettarla, ma anche apprezzarla e amarla. È nella loro cultura l’accampamento e dunque la baraccopoli; è nella loro cultura lo scansare il lavoro continuativo; è nella loro cultura la mendicità (aggiungendo, come non bastasse, che essa rappresenta il retaggio della antica e virtuosa cultura della condivisione dei beni, chiedi e ti sarà dato); è nella loro cultura, che non contempla il concetto - ovviamente culturale - della proprietà privata, l’appropriazione indebita; è nella loro cultura di cittadini del mondo, liberi come il Mistral, non adattarsi a leggi, regole e consuetudini che non siano le loro. È evidente che con questi presupposti non dico risolvere, ma dare un ordine alla migrazione e al conseguente soggiorno continuativo dei rom diventa difficile, molto difficile. Perché lo smantellamento dei campi abusivi diventa un oltraggio anticulturale e c’è subito chi ricorre al Tar. E così la richiesta di affidamento di bambini cenciosi, sballottati da madri questuanti allo scopo di impietosire il passante. O la semplice pratica del censimento, subito denunciata (al Tar) come violenta intromissione nella privatezza di gente che al solito, libera come il vento, non conosce il concetto culturale dell’anagrafe. Ruspe. Di questo si ha bisogno per far fronte all’emergenza. Ruspe e ferme richieste al governo romeno di collaborare nei rimpatri perché non ci son santi: non abbiamo - e non avevano i governi Prodi o D’Alema o Amato o Ciampi - risorse e strutture per dare accoglienza alle decine di migliaia di zingari che sciamano in una Italia che grazie alle sue pulsioni e isterie multiculturaliste è evidentemente ritenuta - sennò starebbero a casa loro - Paese della cuccagna. AVVENIRE Pag 1 Crudele e ingiusta di Lucia Bellaspiga L’ira di Englaro contro le suore di Lecco “Me l’hanno violentata per quindici anni”. Lo disse subito, Beppino Englaro, non appena da Udine gli arrivò la telefonata che Eluana era morta, il 9 febbraio di due anni fa. A violentarla – intendeva – non era stato chi le aveva tolto la vita, ma le suore Misericordine di Lecco, cui lui stesso l’aveva affidata due anni dopo l’incidente, nel 1994, quando ormai il futuro di sua figlia si presentava come un’immensa incognita senza spazi e soprattutto senza tempi prevedibili. Un anno? Dieci? Venti? Quanto sarebbe durata la grande incognita? Nella sua mente – ormai lo sappiamo, ce lo ha raccontato decine di volte in conferenze e convegni, e lo ha scritto nei suoi libri – c’era già la determinazione a spegnere quella vita disabile, così diversa dalla sua bellissima figlia, ma nel frattempo chi si sarebbe preso cura di lei? Lo ricorda lo stesso Englaro, nella lunga intervista apparsa sul "Corriere" di domenica: «Ce la lasci, ce ne occupiamo noi», gli avevano subito aperto le braccia le suore di Lecco. Ma persino questo nelle sue parole ha il tono aspro dell’accusa. Come se quel «ce la lasci» non fosse stato un gesto affettuoso di accoglienza, come se quella figlia le suore gliel’avessero presa con la forza, per assisterla – anche per tutta la vita – al posto suo. Non racconta, Englaro, che in quella clinica di Lecco l’aveva condotta lui stesso, dopo due anni di ricovero a Sondrio, che non è dietro l’angolo, ma dove quotidianamente sua moglie si recava pur di stare con Eluana. E lì, per la seconda volta, la vita fragile della sua unica figlia veniva raccolta dalle stesse mani: perché proprio alla "Talamoni" ventun anni prima Eluana era venuta al mondo. Ora al mondo continuavano a tenercela, con amore infinito, finalmente a due passi da casa, consentendo a mamma Saturna di poter accudire la sua creatura come lei sapeva e voleva fare. Ma così la racconta Englaro dalle pagine del "Corriere": «Le suore avevano visto consumarsi anche la mamma di Eluana accanto al suo letto. Volendola lì con loro, erano state un po’ crudeli con Eluana e con sua madre. E io invece dovevo difendere mia figlia e mia moglie». Crudele – è ora di dirlo – è la pervicacia con cui Englaro all’amore risponde col disprezzo, continuando a riversare sulle Misericordine una rabbia incomprensibile. Descrivere come crudeli quelle mani è sconvolgente e ingiusto. Sarebbero state crudeli con la madre e con la figlia: obbligando l’una a una tenerezza di mamma che lui non capiva più, e l’altra a un attaccamento di figlia, forse la sola forza ancora in grado di tenere acceso il lumino di una coscienza ben nascosta, ma che a volte faceva capolino (i neurologi conoscono bene il fenomeno e lo chiamano appunto "effetto mamma"). Lo scrissero chiaro i medici di Sondrio osservando l’andamento della giovane paziente: se a stimolarla era la madre, Eluana sembrava «rispondere», obbediva cioè «a ordini semplici». Una notte, appuntano, pronunciò più volte e in modo inconfondibile la parola «mamma»… È vero, finché grazie alle Misericordine ne ha avuto la forza, mamma Saturna ha potuto restare accanto a sua figlia, senza che nessuno la costringesse. È vero, le suore le hanno dato tutto, assolutamente tutto ciò che in genere manca ad altre persone in stato vegetativo a causa dei costi economici, e ad ammetterlo è ancora Englaro nella sua intervista, quando dice che «Eluana ha avuto le cure migliori», anche se poi cade nella sua contraddizione: tutto era «inutile». Come la vita di Eluana, inutile perché ormai imperfetta. «Dipendeva in tutto da mani altrui», specifica, di nuovo con orrore per quelle mani, ben diverse dalle sue, mani di un padre che per «rispettarla» avevano scelto di «non toccarla con un dito». Mai. E invece sono ancora i neurologi a dircelo: toccateli, accarezzateli, parlate con loro, non sappiamo quanto ci ascoltano, sappiamo però che poco o tanto ci percepiscono. E allora, almeno in questo, ha detto bene Englaro, spiegando al giornalista perché a differenza di sua moglie lui con Eluana non parlava più: «Sapevo di parlare a me stesso». Sua figlia è morta, spiega, da quando non ha più potuto «percepirla». Lui. Pag 2 In Sud Sudan vittoria senza ombre ma la partita resta da giocare di Giulio Albanese Il “contagio” egiziano e il ruolo delle grandi potenze Uno spirito euforico, marcato da una profonda sensazione di libertà mai provata prima, ha riempito i cuori e le menti della popolazione sud sudanese. Sono innumerevoli gli slogan che, ostentati con fierezza sui cartelloni stradali, si trovano sparsi per tutto il Paese: «Benvenuti nel 193esimo Stato del mondo», oppure, «Siamo il 54esimo Paese dell’Unione Africana», e ancora, «Benvenuti nella più giovane nazione dell’Africa». Con l’ufficiale conferma dell’indipendenza del Sud Sudan, e l’accettazione dei risultati del referendum da parte del governo di Khartum, ieri sera è terminato uno dei processi di pace più lunghi della moderna storia africana. Nella cittadina di Bor, capitale dello stato di Jonglei, a sud-est del Governo del Sud Sudan (Goss), le radio continuano a trasmettere musica di vario genere basandosi su un’unica regola: «Che sia allegra e vivace – afferma Joseph, un sorridente ragazzo di trent’anni, e proprietario di un negozio di cd musicali, – Questo è un giorno di festa, la nostra festa!». Con il 98,83% dei voti a favore della totale indipendenza dal nord, il Sud Sudan ha quindi scelto la separazione, avvenuta grazie a un processo elettorale che, secondo gli osservatori elettorali, «ha registrato pochissime irregolarità». A Bor, località polverosa e che rimane irraggiungibile via terra durante gran parte dell’anno per via della stagione delle piogge, l’umore, sebbene rilassato, non tradisce il sentimento di gioia che si sentirà ancor di più con la cerimonia ufficiale del 9 luglio. «Sono felicissimo, da troppo tempo non aspettavamo altro», ammette Juma Andrew, logista dell’organizzazione non governativa italiana Intersos, una delle pochissime agenzie umanitarie che riesce ad operare in questa zona. «Solo chi ha sofferto per tutti questi anni non può che essere contento dei risultati. Abbiamo avuto pazienza e ce l’abbiamo fatta – continua Juma – e nonostante tutte le sfide che dovremo affrontare, sono più che fiducioso riguardo al nostro futuro». Il conflitto civile tra Nord e Sud Sudan, durato cinquant’anni, con una pausa a cavallo degli anni Settanta e Ottanta, e terminato con la firma dell’Accordo di pace comprensivo (Cpa) nel 2005, ha ucciso e disperso milioni di persone. La miscela esplosiva fatta di enormi quantità di petrolio e un apparente accesso illimitato alle armi da fuoco, ha causato continui conflitti inter-etnici, epidemie, e un numero imprecisato di sfollati e rifugiati. Ed è questa la parte più oscura del Sud Sudan, spesso ignorata sia dalle autorità sudanesi sia dalla comunità internazionale. «Abbiamo bisogno di forti cambiamenti, soprattutto a livello sanitario», afferma Philip Alier, uno dei pochi infermieri che lavorano all’ospedale di Bor, e che da settimana scorsa ha in cura tre bambini di etnia dinka con ferite da proiettile causate da un attacco dei murle, un’altra etnia presente nella zona. «Spero quindi che l’indipendenza spinga il nostro governo a migliorare la sicurezza del Paese, affinché si riesca a dimostrare che la pace, come l’indipendenza, è un obiettivo possibile», aggiunge. Anche Martha Deng, ragazza di trent’anni, ha molte speranze per il futuro di quello che ora può chiamare, senza fraintendimenti, il «suo Paese»: «Sono sempre stata la prima a ballare e battere le mani ogni volta che il tema dell’indipendenza veniva discusso», afferma con un sorriso, «Ora che siamo liberi di decidere del nostro destino senza dover trattare prima con il nord, farò pressione affinché il settore educativo sia una delle priorità di questo governo. Non lo faccio solo per me ma anche per i miei figli e i miei nipoti». Ci vorrà però ben più che un voto elettorale per fare del Sud Sudan uno Stato indipendente a tutti gli effetti. Nelle principali negoziazioni si affronteranno il tema della condivisione dei proventi petroliferi, presenti soprattutto al sud, ma finora gestiti soprattutto dal nord. Oltre alla definitiva demarcazione del confine tra nord e sud, che comprende anche la volatile regione centrale di Abyei. La nascita del più nuovo Stato al mondo è il risultato di una realtà molto difficile. La sua crescita, probabilmente, lo sarà ancora di più. Pag 5 I conti non tornano Duemila; tre milioni; quattro: i conti non tornano. Eppure il programma era chiaro fin dall’insediamento della prima giunta Alemanno: smantellare i campi abusivi e sostituirli con aree attrezzate, sorvegliate, dotate di servizi, con abitanti censiti per impedire che delinquenti comuni cerchino (e trovino) rifugio nell’intrico di baracche e roulotte spuntate negli anni ai bordi o nel cuore delle periferie romane. Quel piano, che adesso anche il presidente della Repubblica chiede di completare in fretta, è partito senza decollare. Con la sacrosanta chiusura del "Casilino 900" (una ferita alla dignità umana che le precedenti amministrazioni lasciarono ingigantirsi fino alla setticemia) e del "La Martora", si è proceduto allo sgombero di oltre trecento campi abusivi e alla realizzazione di sette villaggi attrezzati. Ora i nomadi che a Roma vivono in condizioni del tutto "abusive" sono poco più di duemila. Non dubitiamo degli ostacoli burocratici lamentati dal sindaco: sussistono. Ci chiediamo però se, per trovare una soluzione sicura e decorosa, in una capitale europea di circa tre milioni di abitanti (stando solo ai residenti) non ci siano altre strade da percorrere, magari provvisorie, in attesa che i nodi della burocrazia finalmente si sciolgano o vengano tagliati. La morte orribile di quattro innocenti ne fa (anche) una questione, urgente, di proporzioni. I numeri reali del problema sono esigui, le tragedie che produce sono enormi. Pag 27 Atei e credenti, insieme oltre la crisi di Lorenzo Fazzini Parla il prete psicoanalista Bellet Non confinarsi nella mistica meditativa, ma interrogarsi (e agire) insieme sull’umanità comune e l’amore vero. Acuto come suo solito, sferzante nella critica vista come occasione di crescita, Maurice Bellet, filosofo e teologo francese, chiede al prossimo «Cortile dei gentili» di Parigi un soprassalto di umanesimo. Nel suo «Dio? Nessuno l’ha mai visto», lei ha scritto che credenti e non credenti «sono sullo stesso cammino». Eppure constata ancora «ripartizioni classiche: fede e ragione, religione e laicità, teologia e filosofia». Perché tale contrapposizione? «La mia idea è che tale distinzione sia ambigua. Certo, credenti e non credenti sono diversi. Ma parlare di opposizione significare sostenere una falsità. In realtà, su certe questioni importanti, si trovano non credenti più vicini alla fede di quanti si dicono uomini di religione. E incontro atei molto più vicini al Vangelo di chi si proclama cristiano». Un esempio? «Il criterio fondamentale del cristianesimo è l’amore, "amatevi gli uni gli altri come io vi ho amato". Qualche giorno fa ho incontrato un medico, ateo: la sua concezione della medicina, rispettosa e umanistica, lo avvicina parecchio al cristianesimo. Non voglio dire che basta essere generosi per diventare cristiani. Affermo solo che l’esperienza ci interroga su cosa sia il credere. La mia proposta non vuol dissipare l’idea di fede bensì cercare un discorso più rigoroso sul cristianesimo. Se Dio è Dio, egli deve stare al suo posto e ogni relazione cambia. Il nodo è far ordine nel cuore della modernità. Il punto da cui iniziare, il più necessario, è non divaricare i cammini dell’uomo». Oggi – cito una sua espressione – siamo davanti al «crollo della speranza». Ad essa Benedetto XVI ha dedicato la sua prima enciclica. Quale speranza può offrire il cristiano al mondo? «Penso sia necessaria un’esperienza di speranza capace di superare la caduta delle speranze. È crollata la fiducia nel progresso e nel pensare di essere in cammino verso il meglio. Per questo vi è necessità di un’esperienza che vada più lontano di ogni orizzonte. Il credente deve indicare le realtà che stanno oltre l’orizzonte della storia. In teologia parliamo di escatologia, cioè il cristianesimo quale portatore di una speranza che supera ogni scoraggiamento. Tutto ciò trae origine dalla resurrezione di Cristo. Dopo il Calvario i discepoli erano disperati; quando parlano a Gesù sulla via di Emmaus, i due dicono: "Pensavamo fosse lui il messia". "Pensavamo": un verbo all’imperfetto, eccezionale, che parla della disperazione che provavano verso Cristo. Oggi siamo in una fase creatrice in cui il cristiano deve annunciare all’uomo la non rassegnazione. Tale annuncio deve avvenire in tutti i luoghi, ma il più fondamentale, affinché l’uomo resista alla follia, riguarda il creare luoghi di accoglienza. Nella vita sociale, nella politica, nella crisi economica, c’è sempre un lavoro da fare per migliorare la situazione. Mi piace parlare dell’uomo di fede come di un lavoratore incrollabile. La radice del suo impegno è quel Vangelo che suscita in lui un risveglio. Questa capacità di futuro non è presente in altre saggezze religiose: nel Vangelo esiste un’incrollabile volontà di vita». Lei è psicoanalista: quest’ultima può offrire un contributo positivo allo scambio fra atei e credenti? «Bisogna intendersi su cosa significhi psicoanalisi. In Francia coloro che la praticano sono praticamente tutti atei. Ma fondamentalmente la psicoanalisi è un’esperienza: si tratta di fare ordine nella propria vita per essere nella verità, e non vivere secondo le costruzioni moralistiche che ci diamo. Perciò la psicoanalisi può stare a fianco di quella Parola che parla alla realtà e non alla teoria». Lei ha dedicato molto del suo impegno intellettuale al tema dell’idolatria. «La relazione con Dio non è mai definita: può capitare che diventi alienante. Io posso arrivare a sottomettere Dio e imporgli le mie idee: questa è l’idolatria. Qui interviene la psicoanalisi: Cristo stesso ha lottato con le ideologie religiose. Ho scritto un libro sul "Dio perverso": si può affermare che Dio sia amore, ma arrivare a considerarlo crudele in nome della colpevolezza umana e così giungere alla perversione. Bisogna purificare la nostra relazione su Dio». Lei considera l’impegno per la giustizia (ad esempio, la Resistenza contro il nazismo) come una possibilità per unire credenti e atei. Il giusto però crea divisioni. In che modo uscire da tale confusione? «Un tempo il dibattito si svolgeva su fede e ateismo. Oggi si attesta su chi, per dirla con Marx, lavora a favore dell’umanità e chi si preoccupa del guadagno in nome dell’egoismo. Di recente ho incontrato alcuni atei i quali mi hanno ricordato come il centro del cristianesimo sia l’agàpe. Ma il nodo è capire cosa vi sia dentro questa espressione, che vale molto più dei diritti umani o della giustizia retributiva. Occorre ripartire dalla comunione fra gli uomini per arrivare a Dio. Bisogna iniziare da Cristo e dal suo rapporto verso la violenza da lui subita dalla religione e politica del suo tempo. A chi dichiara: "Preferisco parlare di Dio, occuparmi di mistica, interessarmi della meditazione…", io dico: "Sbagli! Esiste un’altra possibilità, ripartire dalla nostra umanità e da quella di Cristo". La più forte tentazione d’oggi consiste nel cercare un cristianesimo del tutto compatibile con la mentalità moderna. Serve una fede che parli alla nostra società, ma che non piaccia ad ogni costo». Su quali aspetti la fede cristiana dovrebbe sfidare la società moderna? «La riduzione di ogni cosa ai propri umori e voglie. Ovvero la questione della trascendenza di Dio. Feuerbach denunciava l’immanenza del cristianesimo: se Dio è amore, allora l’amore è Dio. Egli invitava a far senza Dio perché inutile. Tanti cristiani hanno un Dio a loro somiglianza, e poi non ne hanno bisogno. Però bisogna avere rispetto per quanto nato dal cristianesimo (tutt’altro rispetto al tradizionalismo): non dobbiamo abbattere nulla della tradizione. Al contempo serve la capacità di innovare, purificare il linguaggio e superare il dottrinarismo (altra cosa è la dottrina)». LA NUOVA Pag 1 Federalismo, in troppi danno i numeri di Mario Bertolissi Un campetto di periferia. Pomeriggio di un sabato. Ultimi bagliori di un’infuocata contesa calcistica. Da strapaese. Una voce, nel silenzio. È quella di un arzillo vecchietto. Allenatore di una tra le squadre contendenti. «Gigi, mona, alza la testa e cerca di ragionare!». «Mona» è una parola sublime. Stempera anche gli ardimenti estremi e li piega alla razionalità. Esprime una visione del mondo e la materializza nel candore. Il mio è, appunto, il candore del «mona», che non comprende quel che sta accadendo in tema di federalismo fiscale. Che ho sempre accompagnato al termine «cosiddetto», perché dà visibilità a istituti che hanno a che fare con la più tradizionale autonomia finanziaria. Lo ha sottolineato - da ultimo - pure il Presidente della Corte costituzionale Ugo De Siervo. Tutto questo significa una cosa soltanto: riprendiamo possesso di una nostra facoltà fondamentale. Della ragione. E, per darne prova, procedo sinteticamente per punti. 1) Cominciamo dalla saggezza popolare, che è una sorta di precondizione per lavorare. «Presto e bene non vanno insieme». «La fretta è cattiva consigliera». Traduco: capisco che la politica abbia le sue esigenze, ma, al pari dell’economia e di mille altre componenti della vita, le istituzioni hanno le loro. Hanno i loro tempi. Dunque, per attuare la legge n. 42/2009, bisogna procedere non con ritmi forsennati, ma secondo il preoccupato suggerimento di Ferrer: «Adelante, Pedro, con juicio». 2) La materia è non complessa, ma complessissima. Almeno per due ordini di ragioni. Perché, da un lato, ha a che fare con le risorse di cui uno Stato ha bisogno per mantenersi e progredire, risorse che ottiene mettendo le mani nelle tasche dei cittadini, molti dei quali non hanno nessuna voglia di essere contribuenti: preferiscono l’evasione fiscale all’imposizione. Perché, d’altro lato, è intimamente avviluppata con l’insieme dei capisaldi sui quali si regge l’intero ordinamento della vita associata: con famiglie, imprese, pubblica amministrazione e via dicendo. 3) Oggi, in Italia, abbiamo due questioni, non una, da risolvere, che sono strettamente correlate al federalismo fiscale. La questione Meridionale e la questione Settentrionale. Solo per impostarle correttamente ed avere un’idea almeno approssimativa su come procedere, con l’obiettivo di edificare sulla roccia e non sulla sabbia, si sarebbe dovuto programmare un impegno dannatissimo per l’intera legislatura. Non se ne sono accorti, ma il problema è, innanzi tutto, di educazione civica e di cultura. Come si può pensare di risolverlo se non si parte dalla scuola? Dare in mano il federalismo fiscale a chi non è in grado di comprenderne il senso - per lo più risuonano parole vuote - è come mettere un’auto in mano a chi non ha la patente di guida. 4) Danno i numeri. Quanti numeri circolavano prima della crisi planetaria del 2007? Sosteneva Wiston Churchill di credere solo nelle statistiche che aveva direttamente manipolato. Ciascuno sa, riflettendo sul giorno dopo giorno, quanti ostacoli si frappongono tra il dire e il fare. E quanti danni possono seguire a una decisione sbagliata. C’è chi afferma che la pressione fiscale non aumenterà e chi il contrario. Tutti hanno ragione, tutti hanno torto. 5) Certo, il torto e la ragione si possono sottoporre a verifica e stabilire, alla fine, chi ha l’uno e chi l’altra. Ma come si fa quando sono stati presentati - nella materia dell’autonomia finanziaria locale - quattro testi diversi in sei mesi, ed è accaduto che dall’articolato presentato alla Commissione parlamentare per l’attuazione del federalismo fiscale il 3 febbraio sia scomparsa la compartecipazione all’Irpef sostituita con quella all’Iva? Irpef e Iva sono tributi analoghi oppure no e che cosa hanno a che fare con la responsabilità dell’amministratore locale? 6) La prova provata che così non va è stata offerta, poi, dal flop della procedura, troncata dal Presidente della Repubblica con una dichiarazione di «irricevibilità» del decreto legislativo approvato dal Consiglio dei ministri. Scrive Manzoni che «non si può spiegare quanto sia grande l’autorità d’un dotto di professione, allorché vuol dimostrare agli altri le cose di cui sono già persuasi». Il Consiglio dei ministri era persuaso. I suoi consulenti erano, quindi, persuasi... Ma io non ero e non sono persuaso! 7) Sostiene Jean Paul Fitoussi - illustre economista e collega in un prestigioso consiglio che, quando non si comprende il significato di una proposta, si vota contro. È un ottimo, salutare insegnamento. Al pari di quello dato dall’on. Bubbio alla Costituente, a proposito del tema in esame, il quale suggeriva la «gradualità» e di attendere sempre «il collaudo dell’esperienza». Era il 3 giugno 1947! 8) Infine, qui non c’è spazio per la polemica, anche perché ho sempre apprezzato chi lavora: con chiunque e per chiunque. Ed anche perché siamo sulla stessa barca. Cerchiamo, tutti insieme, di non affogare. Non vorrei fosse la sola, vigorosa manifestazione di unità della Repubblica nel 150º anniversario dell’unità d’Italia. AVVENIRE di domenica 6 febbraio 2011 Pag 2 L’Europa orfana ritrovi la sua memoria di Carlo Cardia L’Europa torna ad interrogarsi criticamente sulla propria identità e futuro, in rapporto all’immigrazione e alla multiculturalità. Dopo Angela Merkel, che nell’ottobre scorso aveva dichiarato fallita l’ideologia multiculturalista perché favorisce la separazione tra popolazioni e culture diverse, oggi è la volta di David Cameron che, proprio incontrando la cancelliera tedesca, ha sostenuto che bisogna cambiare strada. Per il premier inglese, «con la dottrina del multiculturalismo di Stato abbiamo incoraggiato culture differenti a vivere vite differenti, separate l’una dall’altra e da quella maggioritaria. Non siamo riusciti a fornire una visione della società in grado di far desiderare loro di appartenervi». Più chiaramente, lo Stato non può «compiacere gruppi e associazioni islamiche che sono ambigue e passive verso gli estremisti, non condividono valori fondamentali come l’uguaglianza tra i sessi, la democrazia, l’integrazione». Esistono organizzazioni che «sono inondate di denaro pubblico, ma fanno molto poco per combattere l’estremismo al loro interno. Giudichiamole adeguatamente. Credono nei diritti umani universali? Anche per le donne e per chi crede in un’altra religione? Credono nell’eguaglianza delle persone davanti alla legge?» La Gran Bretagna dovrà riflettere sulle parole di Cameron, che seguono quelle recentissime dell’ex arcivescovo di Canterbury, lord Carey of Clifton, che ha denunciato la tendenza a considerare il cristianesimo una cosa vecchia, inutile, dannosa, e mentre si accettano i simboli di altre religioni, quelli cristiani sono nascosti quasi se ne provi vergogna. Facilitata dal sistema di common law, ha adottato un multiculturalismo senza limiti, fino a respingere semplici e legittime espressioni della tradizione cristiana. Da tempo la sharia si è insinuata nelle pieghe dell’ordinamento attraverso l’attività di tribunali islamici in materie delicate come quelle familiare e personale. Domina una strisciante e maniacale ostilità verso i simboli cristiani, come catenine e crocifissi, se portati da un insegnante o da un’infermiera. Addirittura, pochi giorni fa, la Gran Bretagna di Cameron – che dovrebbe rendersi conto della contraddizione – si è distinta perché dal documento dell’Unione Europea sulla libertà religiosa fosse eliminato il riferimento alle persecuzioni dei cristiani. Oggi i più grandi Paesi democratici comprendono che il rischio del multiculturalismo è quello della perdita di identità dell’Europa e di nuove lacerazioni sociali, e che occorre cambiare rotta. Ma come, in che modo, quale strada intraprendere, non è del tutto chiaro. Dopo l’autocritica, è necessaria una riflessione che coinvolga anche un Paese come l’Italia, sul futuro dei nostri ordinamenti e delle nostre società. Nel settembre del 2010, al bureau dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, Benedetto XVI ha ricordato che nel «contesto della società attuale, nella quale si incontrano popoli e culture differenti, è imperativo sviluppare sia la validità universale di questi diritti, sia la loro inviolabilità, inalienabilità e indivisibilità». Questo è il primo punto cardine di ogni politica di integrazione: far sì che gli immigrati fruiscano effettivamente dei diritti umani e le loro comunità accettino e rispettino la libertà di religione, l’eguaglianza delle persone, il diritto di ciascuno a vivere con gli altri, respingendo ogni forma di estremismo, comunque motivata. Ma c’è poi l’altra faccia della medaglia. Un’Europa che nasconda se stessa, i valori cristiani che l’hanno formata e che sono alla base dei diritti umani, non realizzerà mai una vera politica di accoglienza e di integrazione. Offrirà, come dice Cameron, ospitalità materiale, magari tanto «denaro pubblico», ma non una concezione dello Stato e della società rispettosi della dimensione spirituale e morale dell’uomo. Quando le comunità di immigrati sono inserite in una società anonima e povera, priva di identità e princìpi nobili, si chiudono inevitabilmente in un’identità propria, separata, ostile, terreno di conquista dei fondamentalismi. Se la società che le accoglie si dimostra aperta, rispettosa dei loro diritti, ma anche ricca e orgogliosa dei propri valori civili e spirituali, l’estremismo cede, nasce la voglia di confrontarsi, prendere il meglio di sé e degli altri. Credere nei propri valori è una condizione pregiudiziale perché siano rispettati e riconosciuti dagli altri. Torna al sommario